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Lewis Carroll

Le avventure di Alice
nel Paese delle Meraviglie
~
Attraverso lo Specchio
(e cosa Alice ci trovò)

Introduzione di Bianca Tarozzi

Traduzione di

Bianca Tarozzi
(Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie)

Margherita Bignardi
(Attraverso lo Specchio)

LA BIBLIOTECA DELL'ESPRESSO
I GRANDI ROMANZI
Seconda serie

28

LEWIS CARROLL
Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie

Titolo originale: Alice’s Adventures in Wonderland

Attraverso lo Specchio (e cosa Alice ci trovò)

Titolo originale: Through the Looking-Glass, and what Alice found there

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Introduzione
di Bianca Tarozzi

Quando l’irreprensibile Charles Lutwidge Dodgson, professore al Christ


Church College di Oxford, cominciò a scrivere versi comici per la rivista
diretta dall’amico Edmund Yates, volle ricorrere a uno pseudonimo e
propose al direttore varie possibilità. Dopo la scelta di quest’ultimo
l’autore volle distinguere il più rigorosamente possibile le sue due identità:
Lewis Carroll fu esclusivamente l’autore di filastrocche e libri bizzarri,
Dodgson il severo compilatore di scritti scientifici.

In questa scissione quasi sempre conservata (tanto che Dodgson, offeso


nella sua dignità accademica, respingeva al mittente le numerose lettere
indirizzate a “Lewis Carroll, Christ Church College, Oxford”), ci si
potrebbe chiedere quale dei due personaggi fosse il signore che frequentava
tanto assiduamente i teatri ed era amico dell’attrice Ellen Terry. I due
erano forse un’unica persona nel breve periodo dell’amicizia di Dodgson
con la famiglia di Alice Liddell. Quest’amicizia si interruppe per l’appunto
nel 1862, anno della pubblicazione di Alice in Wonderland. Le cause
dell’allontanamento risultano oscure ma si possono pur sempre fare delle
ipotesi. Quella di Morton Cohen (in Lewis Carroll: a Biography, Londra,
Heinemann, 1996) riguarda una possibile richiesta della mano di Alice da
parte di Dodgson. Richiesta respinta da Mrs Liddell, donna molto
ambiziosa, per l’irrilevanza economica e sociale del pretendente. Dodgson
se ne vendicò in un trasparente libello contro le madri che vogliono
maritare le figlie con personaggi altolocati. Contro il decano Liddell
riversò invece le accuse di cattivo gusto architettonico a causa della
costruzione del campanile e di un’ala del College.

L’amore e l’amicizia che i genitori Liddell non ebbero da lui, Dodgson li


riversò sui bambini Liddell, ma in generale non perdeva occasione di
intrecciare amabili chiacchiere con i bambini incontrati per caso in treno o
in spiaggia, ai quali, dopo la pubblicazione di Alice, regalava
generosamente copie del suo libro.
La divisione in due personalità distinte è certo soltanto una facile
semplificazione, e ormai un luogo comune della critica, eppure c’è chi
continua a chiedersi se Dodgson e Carroll si incontrassero mai – se
Dodgson fosse del tutto consapevole di quel che combinava il suo
inquietante doppio, o alter ego. Nei libri di questo autore (di questi
autori?), siano essi scientifici o fantastici, si possono rintracciare le decise
opposizioni che resero complessa quella personalità. Nelle numerose
biografie, con il variare dei resoconti, incontriamo un signore timido e
balbuziente, eremitico e riservato – oppure un uomo socievole e
gradevolissimo, dedito ai flirt. Secondo alcuni si tratta di un pio e devoto
vittoriano, una specie di santo dotato di un forte autocontrollo; secondo
altri egli è invece un irriverente e tormentato rappresentante della crisi
moderna. Immaturo o posato, cordialissimo o gelido: cosa scegliere tra
tante figurazioni? Dodgson/Carroll era forse tutte queste cose, come noi
siamo diversi in momenti diversi: il suo sdoppiamento si riflette in quello di
Alice, garbata e avventurosa, vittoriana e nostra contemporanea. Dodgson
stesso, del resto, si chiede chi sia quella Alice di cui si dichiara padre
adottivo. Il professore di matematica a Oxford, autore di numerosi scritti di
geometria e di logica, si meravigliava della spontanea nascita delle idee
che lo avevano portato a scrivere dei libri fantastici. Per il lettore moderno
Carroll è dunque l’inconscio di Charles Dodgson, la sua antitesi, il suo
doppio onirico; i due nomi, scritti insieme e separati da una sbarra,
sembrano non andare d’accordo ma in realtà sono, oltre che antitetici,
anche eguali: Carlo Luigi (Charles Lutwidge Dodgson) e Luigi Carlo
(Lewis Carroll); l’uno riflette l’altro in un immaginario specchio. Gianni
Celati, in un suo saggio, interpreta questo sdoppiamento come inevitabile
contrasto tra uomo pubblico e privato, tra “personalità della vacanza” e
figura professorale. Tra i due ci sarebbe però un rapporto di cortese
amicizia: conscio e inconscio coesisterebbero in un miracoloso equilibrio.
Conviene in ogni caso cominciare dall’inizio e tentare una breve summa
biografica tenendo presente che i libri, i diari, le lettere di Dodgson/Carroll
sono stati accuratamente vivisezionati, e che ogni minimo documento è
stato trafugato e contestato, riabilitato e sfruttato a dimostrazione di tesi
opposte. Cerchiamo di attenerci ai fatti.

Charles Dodgson, nato a Daresbury, nel Cheshire, il 27 gennaio 1832,


aveva due sorelle maggiori ed era il primo figlio maschio di una famiglia
che contava undici figli. La madre, Frances Jane Lutwidge, cugina del
proprio marito, affettuosa e di carattere dolce (così almeno ce la descrive il
nipote Stuart Dodgson Collinwood), era soddisfatta dei successi scolastici
di Charles. Il padre, assai fantasioso, anche per quel che si può ricavare da
una sua lettera al figlio (citata da Jean Gattégno in Lewis Carroll, Une vie,
1974, p. 174), ecclesiastico stimato e rispettabile, consigliava il figlio in
tutte le questioni importanti: i suoi consigli venivano attentamente valutati
e a volte scartati da Charles Dodgson. La famiglia vantava una solida
tradizione di ecclesiastici e qualche parentela con la nobiltà ma un reddito
modesto. Nel suo ruolo di primogenito dei maschi Charles Dodgson fu
estremamente compreso delle proprie responsabilità e dopo la morte del
padre, nel 1870, si occupò attivamente della sistemazione delle proprie
sorelle a Guilford, e del benessere di fratelli e nipoti. In generale i suoi
rapporti con i familiari furono assai stretti.

Nel 1843 i Dodgson si spostarono a Croft, nello Yorkshire, dove Charles


cominciò a organizzare i divertimenti familiari inventando recite e giuochi,
scrivendo parodie e filastrocche. L’anno successivo prese a frequentare la
Richmond Grammar School, a dieci miglia da Croft; fino a quel momento
era stato il padre a occuparsi della sua istruzione insegnandogli soprattutto
la matematica. Le altre tappe di una eccellente carriera di studioso si
svolsero a Rugby, famosa scuola privata inglese, dove il nostro si distinse
anche per una decisa avversione agli sport violenti, e a Christ Church, il
più prestigioso College di Oxford, dove aveva studiato anche il padre e
dove nel 1852 Charles ottenne un posto di insegnante di matematica. A
Christ Church resterà fino alla morte, nel gennaio 1868. Una delle
condizioni per restarvi era il celibato: e a questa condizione Dodgson si
attenne per tutta la vita. Sua madre era morta nel 1851, quando lui aveva
vent’anni. In scritti di molto posteriori a quella data C.L. Dodgson la
ricorda con affetto e nostalgia. A partire dal 1854 comincia a tenere un
diario: si manterrà fedele a questa abitudine fino a due settimane prima
della morte. Nello stesso anno comincia la sua collaborazione a vari
periodici umoristici.

La nomina di Henry George Liddell a decano di Christ Church lo mette


in contatto con la famiglia di questi, costituita da moglie e da quattro figli:
Harry, Lorina, Alice ed Edith. Alice aveva quattro anni quando Dodgson la
incontrò il 25 aprile 1856; conosceva già le sue cugine e il suo fratello
maggiore. Di questo stesso anno è la scelta dello pseudonimo Lewis
Carroll, che riformula i due nomi propri – Charles e Lutwidge – dello
scrittore, e l’inizio del suo lavoro di fotografo dilettante. Un’altra sua
grande passione è il teatro: farà molti ritratti fotografici a teatranti e
uomini famosi del suo tempo. Incontra John Ruskin, Tennyson, D.G.
Rossetti ed Ellen Terry, celebre e bellissima attrice.

Nel 1861 diventa diacono ma pur restando un anglicano apparentemente


devoto e nonostante le occasionali omelie non prenderà mai gli ordini.
Dell’anno successivo è la famosa gita in barca del 4 luglio sul fiume Isis
con le tre bambine Liddell. Alice ha ora dieci anni e Dodgson inventa per
lei una prima versione delle avventure di Alice. La bambina lo prega poi di
mettere quella storia per iscritto, e sarà accontentata.

Nasce così Alice’s Adeventures under Ground, titolo significativo, che


pare indicare il tuffo in un abisso onirico all’interno del quale non valgono
le regole della realtà. La stessa storia, rivista e ampliata, è pronta nel
1863: è il libro che ora conosciamo come Alice’s Adventures in
Wonderland. Ma tra il giugno e l’ottobre di quell’anno si interrompe
inspiegabilmente il rapporto di amicizia con i Liddell. Del 12 maggio
dell’anno successivo è l’annotazione nel diario “In questi ultimi giorni ho
tentato invano di ottenere il permesso di accompagnare i bambini al fiume
(…) ma Mrs Liddell non vuole concedere alcun permesso né per ora né per
il futuro – una precauzione alquanto superflua”. Nel frattempo però l’assai
noto illustratore del “Punch”, John Tenniel, aveva acconsentito a illustrare
il volume. Il 28 giugno Dodgson sceglie il nuovo titolo e il novembre
successivo Alice Liddell riceve come regalo di Natale il primo manoscritto
Alice’s Adventures under Ground illustrato e rilegato dall’autore. Il
fascicolo, venduto nel 1928 per 50.000 dollari, si trova ora alla British
Library di Londra. Alice’s Adventures in Wonderland è stampato in 2000
copie dalla Clarendon Press e il mese successivo una speciale copia del
volume rilegata in velluto bianco viene offerta ad Alice Liddell tre anni
esatti dopo la famosa gita immortalata da Carroll. L’illustratore Tenniel
lamenta però la cattiva qualità delle riproduzioni dei disegni di questa
edizione e il libro viene ristampato: la seconda edizione ha come data 1866
ma esce di fatto nel novembre del 1865; sia Dodgson che Tenniel se ne
dichiarano soddisfatti.

Fin dall’inizio il libro si rivelò un successo e quando nel 1871 uscì la sua
continuazione, Through the Looking-Glass, Lewis Carroll era già
famosissimo. A questo primo entusiasmo inglese corrispose una vasta
popolarità tra il pubblico dei lettori americani; le traduzioni furono poi
numerosissime.

I motivi di questo successo riguardano soprattutto la libertà fantastica


del racconto e il fatto che esso fosse esente dai tetri moralismi dei libri
considerati “per l’infanzia”. Ma anche in alcuni grandi capolavori
dell’Ottocento – pensiamo alla dickensiana piccola Nell di The Old
Curiosity Shop, un romanzo del 1840, al lacrimoso e infreddolito Paul
Dombey in Dombey and Son (1846-48) – i bambini spesso eccessivamente
angelici e devitalizzati assomigliavano assai poco alla tipologia infantile
proposta da Dodgson-Carroll.

Alice non è né angelica né esemplare, e la sua vitalità non ha paragoni


nella lunga serie di bambine maltrattate e malaticce della letteratura
vittoriana. Alice non si lascia maltrattare, e anzi le sue numerosissime gaffe
riguardano creature del tutto inferiori a lei stessa. In genere sembra
rappresentare una sicumera messa alla prova: frequenti sono le sue lacrime
e il suo stato di allarme, ma ancor più frequente l’intensa curiosità che la
caratterizza. Mano a mano che il racconto procede sembra farsi
maggiormente coraggio e alla fine, come vedremo, sbotterà in difesa del
giusto procedere giuridico con una decisa esclamazione. La bambina esce
dunque indenne dalle sue avventure: nemmeno un re e una regina possono
dettarle legge.

Quasi centocinquanta anni dopo esser stato inventato questo


personaggio non ha affatto perso il suo fascino. Secondo la critica recente
“Alice vive ancora perché è diventata un mito, perché incarna l’eterno
personaggio della bambina” (J. Lecercle, Alice, Parigi, Editions
Autrement, 1998, p. 7). È la prima bambina della letteratura, sostiene
Lecercle, e tutte le altre discendono da lei. Questo è certamente vero per la
Dorothy di The Wizard of Oz (Sul rapporto tra Alice e la Dorothy di Frank
Baum vedi, di Alison Lurie, nell’interessante Boys and Girls
forever/Reflections on Childrens Classics, Londra, Chatto & Windus, 2003,
p. 43 del capitolo “The Oddness of Oz”) e per le nordiche Bibi e Pippi
Calzelunghe – ragazzine “in gamba”, capaci di viaggiare per conto
proprio e di trarsi d’impiccio da sole. In tutt’altro contesto anche la
Matilde di Roald Dahl è capace di iniziative coraggiose quanto quelle di
questa sua antenata. Ed è anche da ricordare l’intrepida e onirica Ida di
Outside Over There (HarperCollins, 1981), un libro meravigliosamente
illustrato e scritto da Maurice Sendak. In realtà dopo Alice non esistono più
in letteratura bambine prive di vivacità e d’iniziativa, vittime designate dei
malvagi o dei genitori, malatine (come la languida Eveline di Uncle Tom’s
Cabin – romanzo pubblicato nel 1851-52) da santificare.

L’agonia prolungata di bambine innocenti sembra essere un caposaldo


della letteratura popolare ottocentesca di lingua inglese; Ann Douglas
dedica un intero capitolo a questo argomento nel suo studio della cultura
popolare americana (Ann Douglas, The Feminization of American Culture,
New York, Knopf, 1977, il capitolo “The Domestication of Death”, pp. 200-
226). Certamente in quel secolo la mortalità infantile vantava percentuali
spaventose, tuttavia l’accanimento di queste descrizioni mortuarie non può
non far pensare a una certa dose di sadismo. Da un punto di vista
puramente letterario quelle morti infantili sono forse anche metafore della
fine dell’infanzia e della nascita di un altro sé, ma dal 1866 in poi la morte
della bambina angelica non è più così frequente in letteratura, e quando
accade, come in The Power and the Glory (1940) di Graham Greene, essa
avviene fuori scena e il pathos di quella scomparsa risiede in un enigmatico
non detto.

I personaggi infantili femminili che seguono il modello di Alice in


Wonderland sono innumerevoli, come si è detto, ma altrettanto significativo
è vedere quanto spesso quella figura sia ricreata e sfruttata nelle forme più
diverse di comunicazione; una versione teatrale elaborata dallo stesso
Dodgson/Carroll risale al 1887, ed è seguita da numerosissime variazioni;
più tardi il cinema ci dà varie versioni tra cui quella di Walt Disney,
ennesima prova della popolarità della protagonista; ma questa
straordinaria bambina compare più volte a teatro anche nel ’900 e dove
meno si potrebbe immaginarla: per esempio anche nell’atto unico di Susan
Sontag – Alice in Bed – (1991) che ripercorre le tappe di una identità
femminile americana mettendo a confronto Alice James (sorella
infelicissima dei più famosi William e Henry James), Margaret Fuller,
Emily Dickinson e – archetipo delle capacità femminili di decisioni
operative – l’immortale Alice inglese.

Non solo: sono usciti dei testi di divulgazione scientifica che utilizzano
Alice per spiegare e rendere appetibile la teoria dei quanti e altre
complicate nozioni di fisica! È il caso di Alice in Quantum Land, di Robert
Gilmore, un libro del 1996. Alice risorge e si trova a suo agio tanto
nell’Ottocento che nel Novecento: non le sarà certo difficile conquistare
nuovi lettori nel presente millennio.

Se il vampirismo fotografico di Dodgson/Carroll denuda e guarda


carezzevolmente le bambine, la sua contemplazione letteraria è più
misurata e sobria, ma non meno affascinata. L’oggetto privilegiato – la
bambina – è ricreato a rispettosa distanza con una leggerezza che non
sembra essere faticato punto d’arrivo. Ciò che l’autore ammira e riesce a
ricreare per iscritto è una lingua colloquiale e parlata di grande
naturalezza linguistica che non pare in contrasto con le formule di cortesia
perfettamente acquisite di questa bambina per molti versi prodigio. Il
prodigio è naturalmente quello della scrittura innovativa (perché mai ovvia
o paludata) di Dodgson/Carroll: a una libertà narrativa esente da impicci
didattici si accompagna la rigorosa eleganza dello stile. Una vera bambina
dunque, questa Alice, che parla come parlerebbe per l’appunto una
fanciullina sveglia e passabilmente esperta nelle buone maniere: una
bambina a volte in imbarazzo ma spesso già socialmente abile e a tratti,
specialmente in Through the Looking-Glass, perfino diplomatica.

La bambina inventata da questo autore si trova, almeno


temporaneamente, per la durata delle sue avventure, libera
dall’oppressione di genitori, governanti e sorelle maggiori. Ignora ogni
regola vittoriana: non è dunque volontariamente trasgressiva ma
oniricamente libera. I tabù della sua epoca storica e della sua classe
sociale (una upper class vicina all’aristocrazia) sono annullati; eppure ce
n’erano molti allora, e alcuni valgono anche adesso: le bambine non
devono uscire da sole, né girovagare senza scopo, né parlare agli
sconosciuti, o mangiare dolci o sorseggiare bevande di incerta provenienza,
la loro curiosità può avere gravi conseguenze… Ma Alice non sembra
essere a conoscenza di questi divieti, non esita più di un istante: ciò che la
guida è il libero impulso. Come avviene nei sogni, il procedere non segue
sentieri previsti, ma disegna un itinerario psichico. Perciò le interpretazioni
freudiane si sono accanite su questo testo fin dal 1933 quando Anthony
Goldschmidt pubblicò una Alice in Wonderland Psycho-Analised. Le
avventure di Alice sotto terra possono essere comprese come espressione di
una paura primordiale di estinzione, del timore della separazione e
dell’abbandono: il linguaggio non procede nella classificazione di un
universo fisico, ma è mezzo che crea un universo psichico (vedi A. Baum,
“Carroll’s Alice: the Semeiotics of Paradox” in American Imago 34,
settembre 1977, pp. 86 e seguenti; e il recentissimo libro di Annarosa
Scrittori, Alice e dintorni, Venezia, Supernova, 2003, p. 87).

Alice in Wonderland, a differenza di Through the Looking-Glass, è privo


di un disegno strutturale complessivo; il racconto si affida all’invenzione
estemporanea di Dodgson/Carroll, sollecitato, come ci viene detto nella
poesia iniziale, dalle imperiose richieste infantili. Anche in altri scritti
l’autore ha confessato di aver inizialmente spedito Alice sotto terra senza
avere la più pallida idea di dove sarebbe finita. A differenza di altri viaggi
di ricerca, di esplorazione o di semplice fuga, quello di Alice in questo
primo volume procede di tappa in tappa senz’altro scopo se non quello di
fornire qualche interessante incontro che definisca l’identità della
protagonista; ma non esistono programmi o punti di arrivo, destinazioni
definite: che si vada a destra o a sinistra, il percorso è indifferente e i pazzi
sono ovunque (vedi, al Capitolo VI, le informazioni del Bruco); tanto vale
quindi seguire l’ispirazione del momento. La prima meta, il lontano
meraviglioso giardino, quando è raggiunto si rivela piuttosto
destabilizzante. Alice si spaventa, a volte piange, ma da ogni crisi si
risolleva; spesso ha paura, ma bisogna pur notare che è fornita di alcune
armi, tipiche della classe alta inglese: un esercitato pragmatismo e un
linguaggio notevolmente affilato che le serve a stabilire relazioni. Ma il
nonsense, inserito nel racconto, rovescia e interrompe la comunicazione,
destabilizza il dialogo: come spesso accade nel comico, l’intento aggressivo
e critico che si cela dietro lo scherzo e lo humour è anche la segreta molla
del nonsense (Vedi, oltre alla teorie freudiane sul motto di spirito e alla
Theory of Speech Acts di J. Searle, S. Stewart, Nonsense Aspects of
Intertexuality in Folklore and Literature, Baltimore, Johns Hopkins
University Press, 1978, e M. Tarozzi Goldsmith, Nonrepresentational Forms
of the Comic, New York, Bern, Peter Lang, 1991). Gli interlocutori trattano
Alice con risentimento o sussiego, le fanno una quantità di domande e la
obbligano a spiegarsi nel più intelligentemente elaborato dei modi. “Chi
sei tu?” chiede lo straffottente bruco. Ma la risposta è più complessa della
domanda: l’identità è in continua trasformazione. Ci si può rassicurare:
“Non sono Mabel”, ma l’incertezza permane.

Questa bambina si diparte da un mondo abituale fornito di regole


precise, e come l’esploratore che nel cuore dell’Africa chiedeva
cortesemente “Mr Livingstone, I presume?”, si rivolge a chi incontra con
impeccabile buona grazia, certa che troverà ovunque creature bene educate
secondo i metodi della nursery inglese. Dovrà invece notare che non sempre
le sue piacevoli chiacchiere sono ben accolte, o la sua presenza rilevata col
dovuto garbo. In breve, si accorgerà che il mondo da esplorare è ben
diverso dalla nursery room. Nel vasto mondo del sogno e dell’avventura
non ci sono regole certe: chi beve il tè è capace di non offrirtene nemmeno
un goccio, le partite di croquet sono impossibili, si rischia la decapitazione
per un nonnulla e la prepotenza e l’insensatezza prevalgono. I personaggi
che incontra non sono affatto benevoli: il Topo è didascalico e sentenzioso,
il Coniglio non fa che dare ordini, il Cucciolo sembrerebbe affettuoso ma è
pericolosamente enorme, il Bruco la apostrofa villanamente… Per non
parlare poi del Piccione, o peggio, della Duchessa insinuante e moralistica
(secondo Lecercle è lei il vero e unico pedofilo del racconto), dei pazzi e dei
sovrani. Soltanto il Gatto del Cheshire, per quanto enigmatico e dai denti
affilati, non pare del tutto avverso e il Due di Cuori sembra
ragionevolmente disposto a spiegarsi con Alice. Ma nonostante tutto costei
intende farsi valere, e ci riuscirà con le sue sole forze. La solitudine che la
caratterizza e la isola da un mondo ostile non è alleviata da alcuna
premurosa fata o vecchietta, come può accadere nelle favole. Perfino
Pinocchio ha degli amici – seppur falsi amici – coi quali spesso si
accompagna. La Dorothy del Wizard of Oz (1900) viaggia sempre in
gruppo – certo, la compagnia è bizzarra, ma è pur sempre meglio dell’esser
soli –. Peter Pan si avvale addirittura di una specie di corte di
ammiratori… Alice invece sembra non aver bisogno di nessuno: si tratti di
Wonderland, dell’Africa o dell’Asia l’esploratore inglese – qui
l’esploratrice – ce la farà. L’assoluta libertà di quel percorso, la sua totale
imprevedibilità sono ciò che più conta: il mondo esterno, tutto intero, vale
quanto lei: e Alice gliela farà vedere!

In conclusione, Alice non si arrende agli adulti: fatta esperienza diretta


delle relazioni di autorità nell’incontro scontro con il re e la regina, si
ribella all’ingiustizia di costoro, sfugge ai rapporti di seduzione della
Duchessa e alle tremende lagne della Tartaruga e del Grifone. Poiché,
come pensa lei stessa, un libro senza figure e senza dialoghi non serve a
niente, nel libro delle sue avventure dialoghi e illustrazioni tenderanno alla
costruzione della sua identità, fondando la particolare individuazione del
personaggio.

Le illustrazioni di Tenniel mostrano una bambina bionda e ben piantata,


del tutto diversa da Alice Liddell, che era invece bruna e delicata. Ma già
nelle illustrazioni fatte dall’autore le immagini non corrispondevano: Alice
non è dunque semplicemente Alice Liddell ma piuttosto l’archetipo della
bambina alla ricerca del proprio futuro. In questa specifica ottica le poesie
che escono involontariamente deformate dalla bocca di Alice e in genere il
nonsense che percorre tutto il libro criticano e contraddicono la seriosità
vittoriana, il suo sinistro utilitarismo, le sue banalità moralistiche, la
sentimentale melensaggine delle canzoncine d’epoca, mentre il gioco di
parole, sempre più frequente mano a mano che si procede nel primo e poi
nel secondo libro di avventure, serve a confondere i paladini delle certezze
linguistiche.

***

In Through the Looking-Glass (1871) gli elementi costitutivi del


nonsense – le poesie e i giuochi di parole – si accampano con frequenza
ancora maggiore rispetto al primo libro delle avventure di Alice ma i due
testi si differenziano soprattutto per la loro costruzione strutturale. Mentre
in Alice in Wonderland la bambina va bighellonando senza meta, qui esiste
un punto d’arrivo e una struttura, oltre alle regole fisse del giuoco degli
scacchi: Alice, giungendo al traguardo diventa “Regina”: vale a dire,
matura e responsabile. In Alice in Wonderland invece non ci sono regole:
nella gara di corsa tutti vengono dichiarati vincitori; nella partita di
croquet regna il caos. È perciò poco accettabile l’idea di Humphrey
Carpenter (espressa in Secret Gardens, Londra, Unwin Hyman, 1985, nel
capitolo “Alice and the mockery of God”) secondo la quale i due libri di
Alice sarebbero una sorta d’intenzionale sfida alle idee religiose e morali
del tempo: essi sono una sfida a ogni moralismo, ma non a ogni morale.
Come si è detto, il rovesciamento del moralismo vittoriano è attuato in
entrambi i volumi di Alice anche per mezzo della tradizione inglese del
nonsense. Questa preesisteva ad Alice e si accampava nelle filastrocche
popolari e nei meravigliosi esiti del Book of Nonsense di Edward Lear
(1846) collegandosi a una comicità sovvertitrice delle gerarchie. Come il
Carnevale spodesta il sovrano e pone al suo posto il temporaneo Re del
Carnevale, così il nonsense in Alice in Wonderland trasforma le didattiche
poesiole di Isaac Watts o di Southey in allegre e impertinenti variazioni: al
posto dell’“ape operosa” e delle sagge esortazioni rivolte agli indolenti
compaiono un vanitoso coccodrillino e la strana canzone dell’aragosta; la
filastrocca di Father William rovescia ogni sensato agire distorcendo i versi
di Southey, le canzonette in voga sono anch’esse modificate e irrise. In
Through the Looking-Glass questo rovesciarsi del senso nelle rime e nei
versi continua con maggiore frequenza e questa volta ha addirittura come
bersaglio anche un celeberrimo testo di William Wordsworth, Resolution
and Independence, che diventa la bislacca e malinconica canzone del
Cavaliere Bianco. Ma, dentro o fuori dalle rime, il sovvertimento è onirico
e indiretto, come dimostra l’accenno al “pensare in coro” nella scena del
treno: è il sogno a fornire una critica del conformismo e dell’utilitarismo
vittoriano ma in entrambi i libri di Alice il ritorno al vittorianesimo è
ratificato dal risveglio. Resta, nella poesia che chiude l’avventura dello
specchio, la nostalgia di una vita e di una libertà impossibili: “Cos’è mai
la vita se non un sogno?”.

Se in Alice in Wonderland si raffigurava il sogno di una bambina


piccola, minacciata da un mondo ostile, Through the Looking-Glass svolge
il motivo del sogno di una psiche più matura, che può contare su una
maggiore consapevolezza: la protagonista ha sette anni e mezzo ma la
vicenda la mostra in un percorso di evoluzione. Il libro procede dunque in
modo lineare verso un esito definito con un’eroina efficentemente in moto
verso una meta. Perfino nel bosco dove le cose non hanno nome, quando la
minaccia si fa più sinistra, Alice non vuole affatto tirarsi indietro: afferma
la propria volontà pur agendo secondo le immutabili regole di un giuoco
complesso, procede oltre il rispecchiamento del narcisismo infantile
(Donald Rackin, Alice’s Adventures in Wonderland and Through the
Looking-Glass – Nonsense, Sense and Meaning, New York, Twayne, 1991,
p. 73).

Il motivo pervasivo del doppio regna incontrastato in Through the


Looking-Glass: i personaggi si rispecchiano a vicenda; le due squadre
degli scacchi giuocano la loro partita con mosse obbligate ma anche con
una certa noncuranza mentre alcuni dei personaggi evocati servono a
evidenziare le fasi regressive e precedenti della esistenza di Alice. Lo spazio
in ogni caso si allarga: “È una grande partita di scacchi quella che si sta
giuocando in tutto il mondo” afferma la protagonista. E Dodgson/Carroll
ha tracciato su una vera scacchiera la partita che si giuoca nel corso del
libro. (Per un commento in proposito vedi The Annotated Alice a cura di
Martin Gardner, nella edizione italiana curata da Masolino d’Amico,
Milano, Longanesi, 1971, pp. 170 e seguenti). Nel mondo dello specchio i
personaggi si presentano generalmente in coppia e molto spesso il loro
destino è segnato poiché essi sono figurazioni tratte da filastrocche e
nursery rhymes preesistenti: è questo il caso di Tweedledum e Tweedledee,
del Tricheco e del Falegname, del Leone e dell’Unicorno, oltre che del
povero irritabile single Humpty Dumpty. Spetta però a quest’ultimo,
comprensibilmente di cattivo umore e volutamente deciso a ignorare la sua
prossima fine, la celebre battuta: “The question is, which is to be master –
that’s all”.

Through the Looking – Glass si differenzia dal libro precedente anche


per una maggiore insistenza sulla invenzione lessicale: il primo esempio di
questo autogenerarsi delle parole è la poesia Jabberwocky, spiegata poi
con molta precisione da un Humpty Dumpty filologo. Questa invenzione di
nuove parole, che avrà un grande seguace nel James Joyce di Finnegan’s
Wake, contribuisce tuttavia all’astrattezza del libro e alla difficoltà della
sua decifrazione per un lettore italiano.

Ma ciò che accomuna entrambe le storie di Alice è senza dubbio lo


sguardo che il narratore rivolge alla bambina sognata e impossibile. Non
occorre avere prove precise del fatto che Dodgson/Carroll avrebbe chiesto
alla signora Liddell la mano di sua figlia per cogliere nei due romanzi lo
sguardo amoroso dell’autore verso la propria eroina. Questo sguardo
sembrava del tutto innocente a Dodgson, che chiedeva formalmente il
permesso dei genitori per la sua frequentazione dei bambini che lo
affascinavano. Soprattutto le lettere ribadiscono la purezza dei suoi intenti:
le fotografie dei bambini nudi hanno esclusivamente uno scopo artistico,
sostiene Dodgson/Carroll; e sembra voler pubblicamente ignorare la
doppiezza del suo stesso sguardo. Le fotografie sono oggetti d’arte e l’arte
è creata dalla luce ma – questa è l’opinione di Robert Mappelthorpe – la
loro artisticità non preclude a chi ritrae e guarda la possibilità di
desiderare i corpi ritratti. Dodgson/Carroll ha un bel proclamare
pubblicamente la propria innocenza: ma allora perché nel 1880 decise di
rinunciare per sempre alla fotografia? Forse c’era chi non riusciva a
credergli? Tra i critici c’è chi lo accusa di non aver compreso a fondo le
implicazioni dello sguardo amoroso che rivolge ad Alice. Dunque
l’unificazione tra Dodgson e Carroll non sarebbe avvenuta? L’uno non
sapeva quel che l’altro desiderava? È più probabile invece che i due si
conoscessero bene, come sembrano attestare anche i diari recentemente
pubblicati (Private Journals, a cura di E. Wakeling, The Lewis Carroll
Society Publication Unit, 1993-99, 5 volumi) con le frequenti annotazioni e
riflessioni sul mondo onirico.

Il lettore postfreudiano e contemporaneo dei suoi libri può vedere in


Alice la libertà onirica di un essere contemporaneamente innocente e
istintivo, mitologico e concretamente individualizzato, ma non si fa illusioni
sul proprio sguardo adulto. Vladimir Nabokov si soffermerà sulle ragioni di
quello sguardo, che l’Ottocento inglese voleva forse ignorare, producendo
un nuovo capolavoro: Lolita, un’Alice trasposta nella degradata America
degli anni Cinquanta: alla fine di un lungo viaggio è diventata adulta e
muore di parto ma conserva, della prima Alice, l’espressiva efficacia e
naturalezza linguistica.
Cronologia della vita

1832 – Charles Lutwidge Dodgson, che prenderà in seguito il nome


d’arte di Lewis Carroll, nasce il 27 gennaio in Inghilterra, a Daresbury nel
Cheshire. È il terzo degli undici figli di Charles Dodgson, sacerdote
anglicano, e di Frances Jane Lutwidge, casalinga.

1843 – Il padre ottiene la carica di rettore, e si trasferisce con la famiglia


a Croft, nello Yorkshire.

1844 – Charles viene iscritto alla Richmond School, presso Croft, dove si
segnala subito per le sue capacità in matematica.

1846 – Passa alla Rugby School, dove risulta un alunno esemplare.

1850 – Si iscrive al college di Christ Church, a Oxford. Collabora ai


giornali parrocchiali del padre (“The Rectory Magazine”, “The Rectory
Umbrella”) con brevi testi sia in prosa che in versi.

1851 – Il 26 gennaio muore la madre. A Oxford Charles intraprende gli


studi di matematica. Frequenta spesso i teatri e le gallerie d’arte londinesi.

1852 – Diviene student, un ruolo accademico che avvia agli ordini


ecclesiastici anglicani, e che comporta l’obbligo del celibato.

1854 – Consegue il diploma di Bachelor of Arts, ottenendo il massimo


dei voti in matematica.

1855 – Viene nominato professore di matematica al Christ Church, e


insieme ottiene l’incarico di addetto alla biblioteca del college. Durante
l’estate un amico gli fa scoprire le prime macchine fotografiche, dalle quali
Charles rimane affascinato.

1856 – In marzo conosce la famiglia del nuovo decano del Christ Church,
Henry George Liddell, famoso grecista con tre figlie: Charlotte, Alice ed
Edith. Charles rimane molto colpito dalle bambine, alle quali scatta
numerose fotografie con una macchina appena acquistata. Comincia intanto
a collaborare alla rivista “The Train”, per la quale adotta per la prima volta
lo pseudonimo di Lewis Carroll.

1857 – Consegue il diploma di Master of Arts. La passione per la


fotografia lo impegna sempre di più: i suoi soggetti preferiti restano le
bambine, ma realizza anche ritratti fotografici di personaggi famosi, fra i
quali il poeta Alfred Tennyson con la sua famiglia, John Ruskin e Dante
Gabriel Rossetti.

1858 – Pubblica il suo primo volume, un libro di testo di matematica per


gli studenti del Christ Church. Intanto i rapporti con Liddell, insospettito
dall’eccessivo interesse dimostrato da Carroll per le sue figlie, cominciano a
incrinarsi.

1859-1860 – Pubblica altri due libri di testo di matematica.

1861 – Il 22 dicembre è ordinato diacono. Pubblica un quarto libro di


testo di matematica.

1862 – In luglio con un amico porta le tre bamibine Liddell a fare una
gita in barca sul Tamigi. In quell’occasione inventa per Alice una storia che
la vede protagonista di un lungo viaggio sotto terra dove incontra creature
molto strane. Alla bambina il racconto orale piace molto, e spinge Carroll a
metterlo per iscritto.

1864 – A novembre regala ad Alice Liddell un volume manoscritto, con


alcuni disegni di suo pugno, intitolato Alice’s Adventures Under Ground (Le
avventure di Alice sotto terra). Si tratta del racconto fatto alla bambina due
anni prima, ora sviluppato e arricchito. Ancora incoraggiato da Alice,
decide di pubblicarlo, e per le illustrazioni contatta John Tenniel,
caricaturista del “Punch”. Probabilmente Carroll concepisce nei confronti di
Alice una sorta di innamoramento, al punto che secondo alcune voci medita
addirittura di sposarla.

1865 – In luglio il racconto esce, col titolo Alice’s Adventures in


Wonderland (Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie) e con le
illustrazioni di John Tenniel. Il libro ha un immediato e vastissimo
successo.

1867 – In estate compie il suo unico viaggio all’estero: è in Russia da


luglio a settembre, con l’amico Henry Parry Liddon.

1868 – Muore il padre, e lo scrittore si trasferisce con vari fratelli a


Guildford, nel Surrey. Continua a scrivere libri di matematica.

1869 – Pubblica una raccolta di poesie, intitolata Phantasmagoria and


Other Poems (Fantasmagoria e altre poesie).

1871 – A dicembre pubblica la seconda parte delle avventure di Alice,


Through the Looking-Glass, and What Alice Found There (Attraverso lo
Specchio, e ciò che Alice vi trovò), ottenendo anche questa volta un grande
successo. Anche in questo caso le illustrazioni sono di John Tenniel.

1872-1875 – Continua a insegnare al Christ Church e a dilettarsi di


fotografia, perseverando nel ritrarre bambine.

1876 – In marzo esce The Hunting of the Snark, an Agony in Eight Fits
(La caccia allo Snark, un’agonia in otto scene), un poemetto in otto canti
illustrato da Henry Holiday.

1877 – Trascorre per la prima volta le vacanze estive a Eastbourne, sulla


Manica, che diverrà meta fissa di tutte le sue villeggiature.

1879 – Pubblica il trattato Euclid and his Modern Rivals (Euclide e i suoi
rivali moderni), nel quale sostiene la superiorità del testo euclideo rispetto a
tutti i moderni manuali di geometria.

1880 – Decide di rinunciare alla fotografia, probabilmente per porre fine


alla crescente disapprovazione generale riguardo alla sua predilezione per le
bambine, che ritraeva spesso nude, anche se col consenso dei genitori.

1881 – Chiede il pensionamento dall’insegnamento per dedicarsi a tempo


pieno alla scrittura.
1882 – In novembre assume l’incarico di curatore della Senior Common
Room, la sala dei professori del Christ Church.

1883 – Pubblica la raccolta di poesie Rhyme? And Reason? (Capo? E


coda?).

1886 – Viene pubblicato il manoscritto originario di Alice’s Adventures


Under Ground, con le illustrazioni dell’autore.

1887 – Esce The Game of Logic (Il gioco della logica), un libro che
spiega la logica formale in modo divertente e adatto ai bambini.

1889 – Pubblica Sylvie and Bruno (Sylvie e Bruno), una raccolta di


racconti in versi che hanno per protagonisti due bambini in viaggio nel
Paese delle Fate. L’opera non ottiene però il successo sperato.

1890 – Pubblica una versione per bambini più piccoli di Alice’s


Adventures in Wonderland, intitolata The Nursery Alice (Alice per l’asilo).

1892 – Si dimette dalla carica di curatore della Senior Common Room.

1896 – Esce Symbolic Logic, Part I (Logica simbolica. Parte I), che
persegue il progetto di rendere accessibile al grande pubblico la logica
formale.

1898 – Il 14 gennaio muore di polmonite a Guildford. Nello stesso anno


viene pubblicata postuma la raccolta Three Sunsets and Other Poems (Tre
tramonti e altre poesie).
Cronologia delle opere

Narrativa

1865 – Alice’s Adventures in Wonderland [Le avventure di Alice nel


Paese delle Meraviglie]

1871 – Through the Looking-Glass, and What Alice Found There


[Attraverso lo Specchio, e ciò che Alice vi trovò]

1886 – Alice’s Adventures Under Ground [Le avventure di Alice sotto


terra]

1890 – The Nursery Alice [Alice per l’asilo]

Poesia

1869 – Phantasmagoria and Other Poems [Fantasmagoria e altre poesie]

1876 – The Hunting of the Snark, an Agony in Eight Fits [La caccia allo
Snark, un’agonia in otto scene]

1883 – Rhyme? And Reason? [Capo? E coda?]

1889 – Sylvie and Bruno [Sylvie e Bruno]

1898 (postumo) – Three Sunsets and Other Poems [Tre tramonti e altre
poesie]
Traduzioni italiane

Si segnalano qui di seguito alcune fra le principali traduzioni italiane


delle singole opere di Lewis Carroll. Sono state inserite soltanto le
traduzioni integrali.

Narrativa

Alice nel Paese delle Meraviglie, tr. E. Bossi, Bompiani, Milano 1961; tr.
A. Busi, Mondadori, Milano 1988 (poi Feltrinelli, Milano 1993); tr. E.
Cagli, Studio Tesi, Pordenone 1988.

Alice nel Paese delle Meraviglie – Attraverso lo Specchio e quello che


Alice vi trovò, tr. M. D’Amico, Longanesi, Milano 1971 (poi Mondadori,
Milano 1978).

Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio, tr. R. Carano,


G. Pozzo, G. Almansi e C. Pennati, Einaudi, Torino 1978.

Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Al di là dello


Specchio, tr. A. Ceni, Einaudi, Torino 2003.

Poesia

Fantasmagoria e altre poesie e Tre tramonti e altre poesie, tr. R. Bianchi,


Mursia, Milano 1992.

La caccia allo Snark, tr. L. Mazzi, Moby Dick, Faenza 1992; col titolo
La caccia allo snualo, tr. M. Graffi, Studio Tesi, Pordenone 1985 (ried.
1990).

Sylvie e Bruno, tr. F. Cordelli, Garzanti, Milano 1978.


Note dei traduttori

Il poeta inglese Philip Larkin sosteneva che quel che più conta in una
poesia è ciò che non si può tradurre. Lo stesso si potrebbe dire dei libri di
Alice scritti da Lewis Carroll: la loro intraducibilità è garanzia di valore ma
costituisce una sfida a cui molti non hanno saputo resistere. La straordinaria
mistura di eleganza e naturalezza, la costante invenzione lessicale e ritmica,
l’irrefrenabile componente ludica delle sue costruzioni linguistiche hanno
tentato i traduttori di ogni parte del mondo, spesso scrittori in proprio come
Nabokov (sua è una traduzione in russo), ma anche accademici e poeti,
traduttori di professione o semplici dilettanti di talento. Quanto a me,
soltanto un’inspiegabile e temporanea perdita del senno può avermi indotto
a tale faticosa impresa. Ma consiglio ai presenti lettori di cimentarsi al più
presto con l’originale inglese. È un invito a rendersi conto di persona, a
esplorare il meraviglioso spazio liberatorio a cui ci introduce Carroll, uno
spazio diverso dal nostro. Le bizzarrie linguistiche pur esistenti nella nostra
tradizione riguardano soprattutto il pastiche, gli impasti dialettali o
latineggianti – uno spazio franco ma poco frequentato. Il nonsense da noi è
forse più una tradizione musicale, quella dello scherzo e del capriccio.
Altrove la seriosità accademica o il culto della realtà permettono raramente
stravolgimenti nonsensical.

È noto che la battuta di spirito, la barzelletta, lo scherzo che implica una


deformazione linguistica, la parola con doppio significato sono tra le cose
più difficili da capire in una lingua straniera – tanto che Weaver, notissimo
traduttore americano di classici italiani, raccontava di essersi messo a
piangere di felicità quando, nella Napoli del dopoguerra, aveva per la prima
volta compreso una spiritosaggine italiana. Fino ad allora, quando tutti
ridevano, lui, unico straniero del gruppo, era il solo a non capire di che si
trattasse. Questa felicità può essere di chiunque impari l’inglese tanto da
poter leggere i libri di Alice in lingua originale.

Ma per chi voglia tradurli sono dolori.


I patiti di Dodgson/Carroll sono numerosissimi in tutto il mondo; i libri
di Alice sono stati tradotti in tutte le lingue esistenti; innumerevoli pagine
critiche hanno ovunque minuziosamente commentato ogni frase e ogni
traduzione; sapienti tesi di laurea e di dottorato sono state scritte in
proposito. Non è possibile, in questo breve spazio, tirare le fila
dell’immenso intrico di teorie, atteggiamenti e opinioni diversissime. È
possibile a chi visita il web aggiornarsi sulle traduzioni italiane – una
quarantina attualmente in commercio – nelle pagine di Adele Cammarata
che ha dedicato anche una tesi di laurea (1997) al modo in cui sono stati
tradotti in italiano i giuochi di parole di Carroll. Ma questa è soltanto una
delle difficoltà di traduzione dei libri di Alice. Il problema non è soltanto
quello di tradurre i puns: si tratta anche di fornire al lettore italiano un tono
convincente e omogeneo, la vivacità di quei dialoghi.

Sono molte le traduzioni italiane in cui risulta evidente lo sforzo


competitivo di chi si pone in concorrenza con Carroll quanto a sottigliezze e
invenzioni linguistiche, ma a volte i giuochi di parole in italiano risultano
così sottili da diventare incomprensibili. A chi scrive creativamente
conviene inventare di sana pianta, più che tradurre: e qui la versione di
Aldo Busi è certamente un successo. Dal lato opposto si situa la meticolosa
traduzione di Sperpieri. In mezzo l’elegante italiano di Masolino d’Amico,
idiomatico e divertente. La mia versione non ha ambizioni creative né un
maniacale interesse per le sciarade; ho cercato semplicemente di seguire la
strada della naturalezza linguistica sia nella prosa che nei versi. Mi ha
aiutato in quest’impresa la strada già segnata e percorsa da molti illustri
predecessori.

Un’oziosa nostalgia mi ha fatto tornare a questo libro: l’avevo letto a


voce alta a Richard, Sarah e Helen Morgan-Wynne, rispettabilissimi
bambini del Cheshire di sei, cinque e due anni in epoca ormai lontana.
Helen – la minore – era distratta e zampettava qua e là per la nursery.
Richard ascoltava con aria sonnolenta. Ma Sarah seguiva con gran cipiglio
il tutto e poi andò a lamentarsi da sua madre: “It’s a very silly book!”.

“Sciocchino”, ecco cos’era quel libro per lei. Ma non perdeva una sola
parola, e ogni tanto correggeva la mia pronuncia.
Dedico a Sarah, e a mia figlia Martina – un’altra attenta ascoltatrice
dell’originale inglese – questa traduzione.

Bianca Tarozzi

***

Il Mondo dello Specchio di Carroll, al pari del Paese delle Meraviglie, è a


mio parere il regno letterario dei più ingegnosi e spassosi giochi di parole,
che sbeffeggiano educatamente convenzioni e pigrizie linguistiche,
mettendo a nudo la pochezza logico-filosofica che sta sotto frasi fatte e
senso comune. In un match amichevole tra il buonsenso e il nonsenso,
assunti correnti e paradossi, Carroll si diverte a piegare senza ritegno la sua
duttile lingua madre, e, quando questa non basti, a coniare termini
“insensati”, con esiti sempre intellettualmente stuzzicanti, brillanti o
esilaranti.

Come osare riproporre tutto ciò in italiano, specie se si è votati al culto


della fedeltà? Pura, temeraria hybris. È mai possibile trasferire
integralmente il senso dei puns in un’altra lingua così diversa? Non lo è,
infatti. Non integralmente. Occorre talvolta abbassare o alzare il tiro, senza
rinunciare a tradurne la modalità, l’oggetto e la misura dell’umorismo.
Eppure, con sforzi d’immedesimazione sconfinanti nel paranormale, mi
sono calata nei panni di Carroll e dei suoi personaggi (almeno un po’, come
direbbero loro), provando e riprovando a smontare e ricombinare i miei
giocattoli linguistici secondo le regole e nello spirito carrolliano. Ho
esultato quando mi è parso di far centro con un riottoso pun e di fronte
all’autentico, inesorabile nonsense; costretta a inventare – ma mai a ruota
libera – ho sofferto, sudato e gioito ancora di più. Non rinuncerò quindi a
illustrare come ho affrontato la sfida delle sfide, la madre delle fatiche
traduttorie: la celebre poesia Jabberwocky, monumento al nonsense, da me
ribattezzata “Blablambulante” (che Alice dichiara giustamente
incomprensibile):

‘Twas brillig, and the slithy toves


Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
‘Beware the Jabberwock, my son!
The jaws that bite, the claws that catch!
Beware the Jubjub bird, and shun
The frumious Bandersnatch!’

He took his vorpal sword in hand:


Long time the manxome foe he sought –
So rested he by the Tumtum tree,
And stood awhile in thought.

And as in uffish thought he stood,


The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!

One, two! One, two! And through and through


The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back.

‘And has thou slain the Jabberwock?


Come to my arms, my beamish boy!
O frabjous day! Callooh! Callay!’
He chortled in his joy.

‘Twas brillig, and the slithy toves


Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.

La maggior parte delle parole sono inesistenti e l’insieme è più che


misterioso. Di certo c’è solo che “qualcuno ha ucciso qualcosa” (ancora
Alice). Eppure, anziché approfittarne per buttarmi a capofitto nella gratuità,
ho rovistato lungamente alla ricerca di spunti ed echi nella lingua inglese e
accettato di mediare con le saccenti dissertazioni di Humpty Dumpty; per
approdare, tra una suggestione e l’altra, un rimuginio e una folgorazione, a
una sorta di contesto coerente, si fa per dire, come un puzzle dove inserire i
pezzi.
Lo scenario che ho immaginato è un villaggio a dir poco stravagante ai
margini di un bosco, messo a rumore dall’avanzare di un villain molto
speciale, il Blablambulo, che affabula tutto il tempo e caracolla nel turbinio
di vischiosi cernecchi e strascichi, o nel corteo di altre assurde e poco
raccomandabili creature, attraverso un bosco di tulle stillante, affondando i
piedi nel prato acquitrinoso.

L’acqua, d’altronde, è il leitmotiv ambientale del romanzo, dalla prima


poesia all’ultima, dallo specchio che si trasforma in nebbia alla gita con la
Pecora, alle ostriche, agli onnipresenti pesci ecc. (Forse Humpty Dumpty su
questo dissentirebbe. Ma il bello del nonsense è che tutto torna comunque: e
ai “viscioli strusci” possono appendersi i miei significati tanto quanto quelli
del nostro Uovo).

Per le invenzioni lessicali, ho cercato di incrociare questi criteri:

1) affinità sonora (dove possibile)

2) affinità di senso (dove c’è)

3) affinità o meglio ri-creazione di nonsense, ambiguità, polisemie,


portmanteau e simili.

Veniamo ora al processo di elaborazione delle scelte che ho “salvato” nel


vociante guazzabuglio delle alternative possibili. Anzitutto Jabberwocky e
Jabberwock, il protagonista. Tutti i traduttori sembrano concordare
sull’aspetto ciarliero della creatura; solo io, ho l’impressione, la immagino
che parlotta camminando (Jabberwocky come walkie-talkie), da cui
“Blablambulante” e “Blablambulo”. Su questo Humpty Dumpty non mi è di
alcuno aiuto perché non si pronuncia, mentre sulla prima e più che mai
oscura quartina è fin troppo loquace. Ma vediamo.

– “It was brillig…”, “Era brilliggio…”; a sentir lui, significa le quattro


del pomeriggio… ora in cui si comincia a mettere sul fuoco (broiling) la
roba per la cena. Il mio “brilliggio…” si adegua, fondendo il brillio dei
fuochi, delle griglie, delle pentole, col pomeriggio, e conservando l’affinità
sonora con l’originale.
– Provo a sbrogliare l’intricatissima matassa degli “slithy toves” che “did
gyre and gymble in the wabe”, (“i viscioli strusci/givan girel nel traguado
eufori”). Per Humpty Dumpty, l’aggettivo è una crasi di slimy e active,
viscido e vivace. Nel mio “viscioli”, il viscidume prevale anche nel suono,
come nell’inglese. Sui toves invece – tassi/lucertole/cavatappi, secondo
Humpty Dumpty – c’è da perdere la testa: tow, la forma che più s’avvicina,
vuol dire rimorchio, cose trascinate nella scia di qualcosa o qualcuno,
stoppa e cordame… In questo pelago mi sono aggrappata agli “strusci”, una
specie di compromesso per servire insieme il senso, la metrica e la rima, a
spese della somiglianza sonora. Poi, con mia grande gioia, arrivano i “did
gyre” e “gymble”, (“givan girel”); il primo verbo appare nel dizionario
(Random House) come forma arcaica e proprio nel senso citato da Humpty
Dumpty, il che mi ha permesso di anticheggiare a mia volta. Il secondo va a
integrare il significato del primo. L’ho sdoppiato in “girel” ed “eufòri”,
composto da eu, bene, bello, e da fori di succhiello: i buchi per compiacere
Humpty Dumpty, il tutto per lumeggiare l’allegria che sprigiona dal
gymbling – girotondo o giostra – e riflettere in parte le sonorità
dell’originale. La parola coniata “wabe”, poi, ricorda da vicino l’inglese
wade, “guado, attraversamento a guado”; su questa scorta ho foggiato
“traguado”, che ha una pur vaga parentela di suono con l’originale.

I “borogoves” li ho immaginati “bifalchi”, perché tali pennuti, se pur non


somigliano a scope, come pretende Humpty, per lo meno sono due volte
falchi (magri e puntuti) e bifolchi (dato l’andazzo villico). E hanno la
bellezza di una B e di una O in comune con l’originale.

– I “raths” hanno finito per diventare “bisbocci”– e pazienza se non c’è


assonanza. All’inizio pensavo che fossero dei topastri (rats) veloci, violenti
e canaglie (rath). Ma se Humpty Dumpty ha detto che sono maiali verdi,
devo credergli. Allora mi son vista degli animaletti rotondi (…-bocci) e
gaudenti (fanno bisbocce) al quadrato (-bis), un po’ stupidi, criticoni e
mammoni, perché sono pure mome, che è traducibile con “tonto”, ma con
una certa forzatura di pronuncia, può suonare come mom, mamma. Questi
porcellini sarebbero allora dei cocchi di mamma un po’ sperduti, secondo la
congettura di Humpty Dumpty. Anche l’italiano “momo”, che in realtà è
voce colta e arcaica per “maldicente”, potrebbe prestarsi allo stesso uso.
– Infine “Outgrabe”, che ho reso con “slusciavan”. Mi è parsa una
discreta onomatopea per descrivere tutti quei fischi e starnuti acquosi che ci
vede – sente – il Nostro. Ho aggiunto “fuori” per ragioni di rima, ma anche
per movimentare la scena: bifalchi sulle soglie, maiali verdi che sgusciano
all’aperto emettendo strani versi.

Il seguito della poesia, libera dall’autorità cogente di Humpty Dumpty, è


stato, al confronto, un percorso tutto in discesa. Per esempio, la Vorpal
Sword è apparsa quasi subito come la spada “Fidafrulla” perché è una fida
compagna (pal) che frulla e vortica (da vortex), mentre il nemico
“manxome” è avanzato baldanzosamente verso l’“ominoso”; questo perché
è virile/umano (da man, uomo), parla e cammina, e ha giocoforza l’aspetto
minaccioso dell’uccellaccio del malaugurio che già si sapeva che era:
“ominoso” ricalca “ominous”, che ricorda l’omen latino, il sinistro presagio,
che contiene il “-min” di “minaccia”… E così via.

Un po’ come nella partita a scacchi dello Specchio, le mie mosse non
sono state sempre rigorose, e poi chi può dire come è finita? Ma la partita è
stata lunga, emozionante, esaltante, e dal morbo di Carroll, con le sue
croci&delizie e risate sotto i baffi, non credo guarirò mai più.

Margherita Bignardi
LE AVVENTURE DI ALICE
NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
Insieme nel dorato pomeriggio
Senza fretta sull’acqua scivoliamo;
Poiché i remi, con scarsa perizia,
Sono affidati a minuscole braccia;
E a manine che fan finta di guidare
Il nostro languido vagabondare.

Ah, crudele Terzetto di bambine!


In una così placida stagione
Esigere una storia da chi ha il fiato
Tanto corto, che non smuove una foglia!
Ma cosa può una voce sola replicare
A tre voci che insieme protestano?

Imperiosa la prima decreta:


– Subito si cominci! –
In toni più gentili la seconda si augura
Di ascoltare simpatici nonsense!
Mentre la terza interrompe ad ogni istante
Questo racconto con le sue domande.

Si smorzano le voci all’improvviso,


E trascinate dalla fantasia
Seguono la bambina in un paese
Di nuove e inesplorate meraviglie,
In cui con bestie e uccelli sa parlare…
E quasi credono il vero di ascoltare.

E sempre quando la storia si avvia


A prosciugare la fantasia
Del narratore, che stanco pensa a come
Deporre l’argomento e la canzone
– Il resto alla prossima volta! – le voci
Rispondono: – Adesso! – gridando felici.

Così avvenne che la storia del Paese


Meraviglioso, un poco per volta
Arricchita di strane vicende, fu estorta…
Ed ora è finito il racconto,
E andiamo verso casa, allegra ciurma,
Mentre il sole è al tramonto.

Alice! Accetta una storia infantile,


E con mano gentile
Riponila coi sogni dell’infanzia
Dove intrecciati nella mistica ghirlanda
Della Memoria, stanno i fiori appassiti
Che lontano hanno raccolto i pellegrini.
Capitolo I
Nella Tana del Coniglio

Alice cominciava a essere stanca di starsene seduta insieme a sua sorella


lungo la riva del fiume, senza niente da fare: una volta o due aveva lanciato
un’occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure
né dialoghi, “e a cosa serve un libro senza figure e dialoghi?” pensava
Alice.

Stava perciò riflettendo tra sé (meglio che poteva, perché la giornata


afosa le dava una gran sonnolenza e la faceva sentire alquanto stupida) se il
piacere di mettere insieme una catenella di margherite valesse lo sforzo di
alzarsi e raccogliere le margherite, quando improvvisamente un Coniglio
Bianco con gli occhi rosa le passò accanto di corsa.

In questo non c’era niente che fosse davvero speciale; e Alice non trovò
particolarmente strano il fatto che il Coniglio dicesse a sé stesso, “Povero
me! Povero me! Arriverò in ritardo!” (quando in seguito ci ripensò, le
venne in mente che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma al momento la
cosa le parve del tutto naturale); ma quando il Coniglio arrivò al punto di
tirar fuori un orologio dal taschino del panciotto, e di guardare l’ora, per
poi correr via, Alice balzò in piedi, perché le balenò il pensiero che in vita
sua non aveva mai visto né un coniglio con il taschino del panciotto, né con
un orologio da tirar fuori di lì, e pazza di curiosità, gli corse dietro
attraverso il campo, e arrivò giusto in tempo per vederlo saltare dentro una
grande tana sotto la siepe.

Subito Alice gli andò dietro, senza riflettere un secondo su come poi
avrebbe fatto a uscire di lì.

La Tana del Coniglio per un po’ procedeva orizzontalmente, dritta come


una galleria, ma poi sprofondava all’improvviso, così all’improvviso che
Alice non ebbe il tempo di pensare a fermarsi e rotolò giù per un pozzo
assai profondo.
O il pozzo era molto profondo, o lei cadeva molto lentamente, perché
ebbe tutto il tempo, mentre cadeva, di guardarsi intorno, e di chiedersi cosa
stava per succedere. Dapprima cercò di guardare in giù per capire dove
sarebbe arrivata, ma era troppo scuro e non si vedeva niente; poi guardò i
lati del pozzo, e notò che erano ricoperti di mensole e scaffali: qua e là vide
carte geografiche e figure appese a dei ganci. Mentre passava tirò giù un
vasetto da uno degli scaffali: sull’etichetta c’era scritto “MARMELLATA
D’ARANCE”, ma con suo grande disappunto era vuoto: non voleva far
cadere il vasetto per paura che uccidesse qualcuno, così riuscì a infilarlo in
una mensola mentre cadendo vi passava accanto.

“Bene!” si disse Alice. “Dopo una caduta come questa, ruzzolare giù per
le scale sarà una vera sciocchezza! A casa tutti penseranno che sono molto
coraggiosa! Non mi sfuggirebbe un lamento nemmeno se cadessi giù dal
tetto!” (E molto probabilmente diceva il vero).

Giù, giù e ancora più giù. Sarebbe mai finita quella caduta? “Chissà per
quante miglia sono precipitata finora!” si disse a voce alta. “Devo essere
arrivata vicino al centro della terra. Vediamo: sarebbe a quattromila miglia
di profondità, credo…” (perché, sappiatelo, Alice aveva imparato parecchie
cose del genere a scuola, e sebbene quello non fosse proprio il momento
ideale per fare sfoggio della sua scienza, anche perché non c’era nessuno
che potesse ascoltarla, ripetere il tutto era pur sempre un buon esercizio)
“… sì, quella è la distanza, più o meno, ma mi chiedo a quale latitudine o
longitudine sono arrivata” (Alice non aveva la più pallida idea di cosa
fossero la latitudine e la longitudine, ma era convinta che fossero bei
paroloni che valeva la pena di usare).

A questo punto ricominciò. “Mi chiedo se attraverserò tutta la terra!


Come sarà buffo sbucare dove la gente cammina a testa ingiù! Credo che si
chiamino gli antipatici” (adesso non le dispiaceva che nessuno fosse lì ad
ascoltare, perché non le sembrava che quella fosse la parola giusta) “… ma
di certo dovrò chiedere come si chiama il paese. Signora, scusi: questa è la
Nuova Zelanda o l’Australia?” (mentre parlava cercò di fare un inchino –
pensate un po’: come si può fare un inchino mentre si sta cadendo nel
vuoto? Ci riuscireste voi?) “E la signora penserà che sono una bambina
ignorantissima! No, non sarebbe bello chiederlo: ci sarà un cartello da
qualche parte”.

Giù, giù e ancora più giù. Non si poteva far altro, e dunque Alice riprese
a parlare. “Credo che Dinah sentirà molto la mia mancanza questa sera!”
(Dinah era la gatta). “Spero che si ricorderanno della sua scodellina di latte
all’ora del tè. Mia cara Dinah, vorrei che tu fossi qui con me! Ho paura che
non ci siano topi qui a mezz’aria, ma potresti acchiappare un pipistrello, che
non è molto diverso da un topo, o magari una blatta. Chissà se le gatte
mangiano le blatte?”. E qui Alice cominciò a sentire un gran sonno, e
continuò a dire a se stessa, in tono sognante, “Le gatte mangiano le blatte?
Le gatte mangiano le blatte?” e a volte: “Le blatte mangiano le gatte?”
perché, vedete, siccome non era in grado di rispondere a nessuna di queste
domande, il modo in cui le formulava non aveva molta importanza. Sentì
che si appisolava, e aveva appena cominciato a sognare che stava
passeggiando mano nella mano con Dinah, e le diceva con grande serietà:
“Su Dinah, dimmi la verità: hai mai mangiato una blatta?” quando d’un
tratto, paf!, atterrò su un mucchio di rami e foglie secche, e la caduta ebbe
fine.
Alice non si era fatta alcun male e in un attimo balzò in piedi: guardò in
alto, ma era tutto buio; davanti a lei si trovava un altro lungo corridoio, e in
fondo si vedeva ancora il Coniglio Bianco che filava di gran carriera. Non
c’era un minuto da perdere: Alice corse via come il vento e fece appena in
tempo a sentirlo dire, mentre svoltava l’angolo: “Per i miei baffi e per le
mie orecchie, com’è tardi!”. Lo aveva quasi raggiunto ma, svoltato
l’angolo, del Coniglio non c’era più traccia: si trovò in un lungo atrio dal
soffitto basso, illuminato da una fila di lampadari appesi al soffitto.
A ogni lato c’erano delle porte, ma erano tutte chiuse a chiave; e quando
Alice ebbe fatto il giro e le ebbe provate tutte, si mise tristemente a
camminare al centro della sala, chiedendosi come sarebbe mai potuta uscire
di lì.

A un tratto s’imbatté in un tavolino a tre gambe, tutto fatto di vetro; sopra


c’era soltanto una minuscola chiave d’oro, e il primo pensiero di Alice fu
che fosse la chiave di una delle porte della sala; ma, ahimé!, o il lucchetto
era troppo grande, o la chiave era troppo piccola: in ogni caso non apriva
nessuna di quelle porte. Tuttavia, al secondo giro, si trovò davanti a una
tenda bassa che prima non aveva notato, e dietro scoprì una porticina alta
forse quaranta centimetri: cercò di far entrare la chiavetta d’oro nella
serratura, e, con sua grande gioia, vide che ci riusciva!

Alice aprì la porta e vide che dava su un piccolo corridoio, non molto più
largo della tana di un topo: si inginocchiò e scorse oltre il corridoio il più
bel giardino che avesse mai visto. Quanto desiderava uscire da quella sala
buia, e passeggiare tra quelle aiuole di fiori variopinti e quelle fresche
fontane! Ma non riusciva a infilare nella porta neppure la testa; “E anche se
riuscissi a infilarci la testa”. pensò la povera Alice, “non servirebbe a molto
se non ci passano le spalle. Oh, quanto vorrei accorciarmi come un
cannocchiale! Ce la farei, se solo sapessi da che parte cominciare”. Perché,
vedete, ultimamente erano successi fatti così straordinari che Alice aveva
cominciato a pensare che pochissime cose fossero davvero impossibili.

Aspettare accanto alla porticina sembrava del tutto inutile, perciò Alice
ritornò accanto al tavolino, sperando quasi di trovarci un’altra chiave, o se
non altro un libriccino di istruzioni per accorciare le persone così come si fa
con i cannocchiali: questa volta trovò una bottiglietta (“sono sicura che
prima non c’era” si disse Alice) che aveva intorno al collo un’etichetta, con
la scritta “BEVIMI” magnificamente stampata a grandi caratteri.

Si fa presto a dire “Bevimi”, ma la piccola e saggia Alice non aveva


nessuna intenzione di lasciarsi abbindolare. “No, prima voglio vedere,” si
disse, “se per caso c’è anche scritto ‘veleno’ oppure no”; perché aveva letto
parecchie belle storielline a proposito di bambini che si erano bruciati, o
erano stati divorati da bestie feroci, e ai quali erano capitate una quantità di
cose spiacevoli, tutto perché non avevano voluto tenere bene in mente le
semplici regole a loro insegnate dagli amici: per esempio, che un attizzatoio
rovente ti può fare una bruciatura se lo tieni in mano troppo a lungo; e che,
se ti fai un taglio molto profondo al dito, di solito il dito sanguina; e
ricordava perfettamente che se bevi da una bottiglia con la scritta “veleno”,
è quasi certo che prima o poi non ti sentirai troppo bene.

Su questa bottiglia però non c’era scritto “veleno”, e quindi Alice si


arrischiò ad assaggiarne il contenuto, e trovandolo molto gradevole (in
effetti era un sapore misto di torta alle ciliegie, crema, ananas, tacchino
arrosto, caramello e perfino toast col burro) se lo bevve d’un fiato.
***

“Che strana sensazione!” si disse Alice. “Mi sembra di accorciarmi come


un cannocchiale”.

Ed era proprio così: adesso era alta soltanto venticinque centimetri, e il


viso le si illuminò al pensiero che ormai era della misura giusta per passare
dalla porticina ed entrare in quel grazioso giardino. Prima però attese
qualche minuto per vedere se si accorciava ancora: l’eventualità la
innervosiva; “perché, non si sa mai, potrei anche scomparire del tutto, come
una candela. E allora come diventerei?”. E cercò di immaginare a cosa
assomiglia la fiamma di una candela dopo che si è spenta, perché non
ricordava di aver mai visto una cosa simile.

Poco dopo, vedendo che non succedeva niente, decise di andare subito
nel giardino; ma, povera Alice!, quando arrivò alla porta si accorse di aver
dimenticato la chiavetta d’oro, e quando tornò al tavolo per prenderla,
scoprì che non ci arrivava in nessun modo: la vedeva molto distintamente
attraverso il vetro, e fece del suo meglio per arrampicarsi su una gamba del
tavolo, ma era troppo scivolosa; e quando si fu stancata di provarci, la
poverina si mise a sedere per terra e scoppiò a piangere.

“Su, è inutile piangere così!” disse Alice a sé stessa, piuttosto


aspramente. “Ti consiglio di smetterla all’istante!”. Di solito si dava degli
ottimi consigli (sebbene li seguisse molto di rado), e talvolta si sgridava
così severamente che le venivano le lacrime agli occhi; e una volta
ricordava di essersi tirata le orecchie per aver barato in una partita di
croquet che giocava contro se stessa, perché a questa bizzarra bambina
piaceva molto far finta di essere due persone. “Ma ora è inutile”, pensò la
povera Alice, “fingere di essere due persone! Di me è rimasto così poco che
è già molto se riesco a essere una sola persona come si deve!”.

Ben presto lo sguardo le cadde su una scatolina di vetro che si trovava


sotto il tavolo: la aprì, e ci trovò dentro un dolcetto sul quale la parola
“MANGIAMI” era magnificamente scritta con lettere formate da chicchi di
ribes. “Bene, lo mangerò”, disse Alice, “e se mi farà diventare più grande,
potrò prendere la chiave; se mi farà diventare più piccola potrò scivolare
sotto la porta; dunque in ogni modo entrerò nel giardino, e non m’importa
cosa succederà!”.

Ne mangiò un pezzetto, e si chiese con ansia, “Da che parte? Da che


parte?” tenendosi la mano sulla testa per sentire da che parte cresceva, e fu
assai sorpresa nel notare che restava delle stesse dimensioni: certo, questo è
quel che succede di solito quando si mangia un dolce, ma Alice si era così
abituata ad aspettarsi soltanto cose straordinarie, che ormai le pareva
assolutamente noioso e sciocco che la vita procedesse nel solito modo.

Perciò si mise d’impegno e in un baleno si mangiò tutto il dolce.


Capitolo II
La Pozza di Lacrime

“Sempre più stranissimo!” gridò Alice (era così meravigliata che per un
attimo si dimenticò di parlare secondo le regole della grammatica); “ora mi
sto allungando come il più gran cannocchiale mai esistito! Addio, piedi!”
(perché quando guardò in giù verso i propri piedi, quasi le parve di perderli
di vista, tanto si stavano allontanando). “O poveri piedini miei, mi chiedo
chi mai vi infilerà scarpe e calze ora, miei cari? Io no di sicuro! Sarò
davvero troppo lontana per occuparmi di voi: dovrete arrangiarvi da soli –
ma devo essere gentile con loro,” pensò Alice, “magari non vorranno più
camminare nella direzione scelta da me! Vediamo: gli regalerò un paio di
stivaletti nuovi ogni Natale”.
E continuò a progettare tra sé come avrebbe fatto. “Dovrebbero essere
spediti per posta,” pensò; “questa sì che è bella: mandare regali ai propri
piedi! E come suonerà strano l’indirizzo!

Egregio Piede Destro di Alice


Tappeto davanti al Caminetto,
Vicino al Parafuoco
(con affetto, Alice)

Povera me, che sciocchezze sto dicendo!”.


Proprio allora la testa le andò a sbattere contro il soffitto della sala: in
effetti ora era alta quasi tre metri, e subito afferrò la chiavetta d’oro e si
diresse verso la porta del giardino.

Povera Alice! Tutto quel che riuscì a fare fu starsene sdraiata su un


fianco, per guardare con un occhio solo attraverso la serratura; ma andare al
di là era più che mai impossibile: si mise seduta e si rimise a piangere.

“Dovresti vergognarti,” disse Alice, “una ragazza grande e grossa come


te,” (poteva ben dirlo) “che non la smette di piagnucolare! Smettila
immediatamente, ti dico!”. Invece continuò, versando litri e litri di lacrime
fino a che intorno a lei si formò una gran pozza, profonda più di dieci
centimetri e che arrivava fino a metà della sala.

Poco dopo sentì un leggero scalpiccìo in lontananza, e si asciugò in fretta


le lacrime per vedere chi stava arrivando. Era il Coniglio Bianco che
tornava, splendidamente vestito, con un paio di guanti di capretto bianchi in
una mano e un gran ventaglio nell’altra: veniva avanti trottando di gran
carriera, e borbottava tra sé: “Oh, la Duchessa, la Duchessa! Oh, sarà
furibonda se la faccio aspettare!”. Alice era così disperata che avrebbe
volentieri chiesto aiuto a chiunque; così, quando il Coniglio le fu vicino,
cominciò a voce bassa, timidamente, – Per piacere, signor… – Il Coniglio
ebbe un brusco soprassalto, fece cadere i guanti di capretto bianchi e il
ventaglio, e sgambettò via nel buio più in fretta che poté.

Alice raccolse il ventaglio e i guanti, e siccome nella sala faceva molto


caldo, si mise a sventagliarsi mentre continuava a discorrere: “Povera,
povera me! Com’è tutto strano oggi! E ieri le cose erano tutte come al
solito. Mi chiedo se sono cambiata questa notte! Fammi pensare: ero la
stessa quando mi sono alzata stamattina? In effetti, ora che ci penso, mi
sentivo un poco diversa. Ma se non sono la stessa, l’altra domanda è: e chi
sarò mai allora? Ah, ecco il grande enigma!”. E cominciò a pensare a tutte
le bambine della sua stessa età che conosceva, per capire se si era
trasformata in una di loro.
“Sono sicura di non essere Ada,” si disse, “perché ha dei boccoli tanto
lunghi e io non ne ho neanche uno; e sono sicura di non essere Mabel,
perché io so una quantità di cose mentre lei, oh! lei ne sa pochissime!
Inoltre, lei è lei, e io sono io, e – oddio, che pasticcio! Voglio vedere se so
tutte le cose che sapevo. Vediamo: quattro per cinque fa dodici, e quattro
per sei fa tredici e quattro per sette fa… oddio! Di questo passo non arriverò
mai a venti! Ma le tabelline non contano: proviamo con la geografia.
Londra è la capitale di Parigi, e Parigi è la capitale di Roma, e Roma – no, è
tutto sbagliato, ne sono sicura! Devo esser diventata Mabel! Cercherò di
dire ‘Come fa il…’” e qui Alice incrociò le mani in grembo come se stesse
dicendo la lezione, e cominciò a ripeterla, ma la voce le veniva fuori
arrocchita e strana, e le parole che le uscivano di bocca non erano le solite:

Come fa il coccodrillino
A lustrare il suo codino?
Verserà le acque del Nilo
Sulle scaglie tutte d’oro!

Com’è allegra la sua smorfia,


Quando allarga i lindi artigli,
Ed accoglie nelle fauci
Lietamente i pesciolini!

“Sono sicura che queste non sono le parole giuste,” disse la povera Alice,
e gli occhi le si riempirono di lacrime mentre continuava, “devo essere
diventata Mabel, dopo tutto, e mi toccherà andare a vivere in quella
catapecchia, e non avere uno straccio di giocattolo e sempre tutti quei
compiti da fare! No, ho deciso; se sono Mabel preferisco star qui. È inutile
che infilino la testa nella tana e mi vengano a dire: ‘Torna su, carina!’, io
guarderò in alto e dirò ‘Allora chi sono? Prima ditemelo, e poi, se mi va di
essere quella persona, verrò fuori; se non mi va me ne starò qui e sarò
un’altra… ma, oddio!” gridò Alice, scoppiando improvvisamente in
singhiozzi, “vorrei tanto che infilassero la testa nella tana! Sono tanto
stanca di starmene qui tutta sola!”.

Detto questo, si guardò le mani e fu sorpresa di vedere che mentre


parlava si era infilata uno dei guanti di capretto bianchi del Coniglio.
“Come posso aver fatto una cosa simile?” si chiese. “Devo esser diventata
di nuovo piccola”. Si alzò e andò vicino al tavolo per misurarsi, e scoprì
che, a occhio e croce, ora era alta all’incirca sessanta centimetri, e
continuava a restringersi rapidamente: ben presto capì che ciò accadeva per
via del ventaglio che aveva in mano, e lo lasciò andare all’istante, appena in
tempo per non scomparire del tutto.

“Per un pelo!” disse Alice, molto spaventata dal cambiamento


improvviso, ma anche contentissima di scoprire che esisteva ancora; “e ora
in giardino!” e ritornò correndo a gran velocità verso la porticina: ma,
ahimé!, la porticina era di nuovo chiusa, e la chiavetta d’oro si trovava
sempre sul tavolo. “Le cose vanno di male in peggio,” pensò la povera
bambina, “perché non sono mai stata così piccola, mai! Ed è un vero
disastro, ecco!”.

Mentre diceva queste parole scivolò, e un attimo dopo, paf!, si trovò


nell’acqua salata fino al mento. La prima cosa che le venne in mente fu che,
senza saper come, era caduta in mare “nel qual caso posso tornare a casa in
treno”, si disse. (Alice era andata al mare una volta sola in vita sua, ed era
arrivata alla conclusione che ovunque sulla costa inglese ci fossero delle
cabine con le ruote nell’acqua, dei bambini che scavano sulla spiaggia con
palette di legno, poi una fila di pensioni e dietro la stazione ferroviaria).
Tuttavia Alice capì ben presto che si trovava nella pozza di lacrime che
aveva versato quando era alta quasi tre metri.
“Vorrei non aver pianto tanto!” disse Alice, mentre nuotava alla meglio,
in cerca di una via d’uscita. “Ora mi sa che come punizione annegherò nelle
mie stesse lacrime! Quella sì che sarà una cosa strana! Ma oggi tutto è
strano!”.

Proprio allora sentì qualcosa che sguazzava nell’acqua poco più in là, e si
avvicinò nuotando per capire cosa fosse: dapprima le sembrò un tricheco o
un ippopotamo, ma poi si ricordò di quanto era piccola, e ben presto si rese
conto che si trattava soltanto di un topo scivolato lì dentro come lei.

“Servirebbe a qualcosa,” pensò Alice, “se parlassi a questo topo? È tutto


così insolito qui, che molto probabilmente sa parlare: in ogni caso, tentar
non nuoce”. Così cominciò: – O Topo, sai come si fa a uscire da questa
pozzanghera? Sono molto stanca di nuotare qui intorno, O Topo! – (Alice
pensava che questo fosse il modo di rivolgersi a un topo: non le era mai
successo prima, ma si ricordava di aver visto nella grammatica latina di suo
fratello, “Un topo – di un topo – a un topo – un topo – O topo!”). Il topo la
guardò con aria alquanto interrogativa e a lei parve che le facesse
l’occhiolino, ma non disse niente.

“Forse non capisce la mia lingua,” pensò Alice. “Oserei dire che è un
topo francese, arrivato qui con Guglielmo il Conquistatore”. (Perché,
nonostante tutte le sue nozioni di storia, ad Alice non era chiaro in quale
epoca fossero accadute tutte quelle cose). Dunque ricominciò: – Où est ma
chatte? – che era la prima frase del suo libro di francese. Il topo fece un
improvviso balzo fuori dall’acqua, e sembrò che tremasse tutto di paura. –
Oh, scusami tanto! – gridò Alice in fretta, temendo di aver offeso il povero
animale. – Avevo dimenticato che a te non piacciono i gatti.

– Non mi piacciono i gatti! – strillò il Topo con una voce acuta e


angosciata – A te piacerebbero i gatti, se tu fossi me?

– Mmm, forse no, – disse Alice tentando di calmarlo: – non ti arrabbiare.


Eppure vorrei tanto farti conoscere la nostra gatta Dinah: credo che i gatti
comincerebbero a piacerti se solo tu potessi vederla. È talmente carina e
tranquilla, – continuò Alice, quasi parlando a se stessa, mentre nuotava
pigramente nella pozza, – se ne sta buona buona a fare le fusa accanto al
fuoco, si lecca le zampe e si pulisce il musetto… è così graziosa e soffice
quando la prendi in braccio… e poi è così brava a dar la caccia ai topi… oh,
scusami ancora! – gridò Alice di nuovo perché questa volta al Topo si era
rizzato il pelo, e lei si rese conto che doveva essersi veramente offeso. –
Non parliamone più se non ti va.

– Chi non ne parlerà più? – gridò il Topo, che tremava fino alla punta
della coda. – Come se fossi io a voler parlare di un simile argomento! La
nostra famiglia ha sempre odiato i gatti: esseri schifosi, abbietti, volgari!
Non voglio più sentirli nominare!

– Non lo farò più, davvero! – disse Alice affrettandosi a cambiare


argomento. – Ti… ti piacciono i… i cani? – Il Topo non rispose, e dunque
Alice proseguì con foga: – C’è un cagnolino così simpatico vicino a casa
nostra, vorrei tanto fartelo vedere! Un piccolo terrier, dagli occhi vispi, sai,
con un pelo marrone lungo e riccio! Corre a prendere tutto quel che gli
butti, e se ne sta accucciato ad aspettare la pappa, e sa fare tante altre
cose… non me le ricordo neanche tutte… e il suo padrone, sai, ha una
fattoria, e dice che quel cane è utilissimo, vale cento sterline! Dice che
uccide i topi e… oddio! – gridò Alice affranta, – ho paura di averlo offeso
di nuovo! – Il Topo infatti si allontanava da lei a tutta velocità, provocando
una gran tempesta nella pozzanghera.

Allora Alice lo chiamò sommessamente: – Caro Topo! Ritorna qui, e non


parleremo più di gatti e nemmeno di cani, se non ti piacciono! – Sentito
questo, il Topo si voltò e nuotò lentamente verso di lei: era molto pallido
(per la collera, pensò Alice), e disse con voce bassa e tremante: – Andiamo
a riva, poi ti racconterò la mia storia, e tu capirai perché odio i gatti e i cani.

Ormai bisognava davvero andar via, perché la pozzanghera si stava


affollando di uccelli e altri animali che ci erano caduti dentro: c’erano
un’Anatra e un Dodo, un Lorichetto e un Aquilotto, e diverse altre strambe
creature. Alice si mise in testa e tutto il gruppo nuotò verso la riva.
Capitolo III
Una Gara Elettorale e un lungo racconto

Era davvero una stramba compagnia quella che si era riunita sulla riva: gli
uccelli con le penne inzaccherate, gli animali con il pelo appiccicato e tutti
gocciolanti, arrabbiati e a disagio.

Il primo problema da affrontare era naturalmente come asciugarsi: si


consultarono a questo proposito, e dopo alcuni minuti ad Alice sembrò del
tutto naturale trovarsi a parlare familiarmente con loro, come se li
conoscesse da una vita. In effetti, ebbe una lunga discussione con il
Lorichetto che alla fine, di pessimo umore, disse soltanto: – Sono più
vecchio e ne so più di te. – Questo Alice non voleva ammetterlo senza venire
a sapere quanti anni avesse e, poiché il Lorichetto si rifiutava con decisione
di rivelare la propria età, non ci fu nient’altro da dire.

Alla fine il Topo, che tra di loro sembrava la persona più autorevole,
gridò: – Mettetevi tutti quanti a sedere, e ascoltatemi! Vi asciugherò tutti al
più presto, vi seccherò ben bene! – Tutti si sedettero immediatamente,
formando un gran cerchio, col Topo in mezzo. Alice teneva gli occhi fissi su
di lui con una certa ansia, perché era sicura che si sarebbe presa un brutto
raffreddore se non si fosse asciugata al più presto.

– Ehm! – disse il Topo, con aria d’importanza. – Siete tutti pronti? Questa
è la cosa più seccante che conosca. Silenzio voialtri, per favore! “Guglielmo
il Conquistatore, la cui causa era appoggiata dal Papa, ben presto si
sottomise agli inglesi, che volevano dei capi, e si erano di recente abituati
all’usurpazione e alla conquista. Edwin e Morcar, i conti di Marcia e
Nurthumbria…”.

– Brr! – disse il Lorichetto, con un brivido.

– Mi scusi tanto – disse il Topo accigliandosi, ma molto cortesemente. –


Ha forse detto qualche cosa? –

– Io no! – si affrettò a dire il Lorichetto.


– Mi era parso che lei avesse parlato, – disse il Topo. – Andiamo avanti.
“Edwin e Morcar, i conti di Marcia e Northumbria, si schierarono con lui: e
perfino Stigand, il patriottico arcivescovo di Canterbury, trovò
opportuno…”.

– Trovò cosa? – disse l’Anatra.

– Trovò opportuno – rispose il Topo alquanto infastidito: – Naturalmente


lei sa cosa vuol dire ‘opportuno’.

– So benissimo cosa vuol dire ‘opportuno’ quando io trovo qualcosa, –


disse l’Anatra: – generalmente si tratta di una rana o di un vermetto. Ma il
problema è: che cosa trovò l’arcivescovo?

Il Topo non badò alla domanda, ma accelerò la parlantina:

– “Trovò opportuno andare con Edgar Atheling incontro a Guglielmo per


offrirgli la corona. La condotta di Guglielmo fu dapprima moderata. Ma
l’insolenza dei suoi normanni…”. Va meglio, mia cara? – continuò,
rivolgendosi ad Alice mentre parlava.

– Più bagnata che mai, – disse Alice in tono afflitto: – Non mi sto affatto
asciugando.

– In questo caso, – disse il Dodo con sussiego, alzandosi in piedi –


propongo l’aggiornamento dell’assemblea e l’adozione dei rimedi più
energici…

– Parla chiaro! – disse l’Aquilotto. – Non so cosa vogliano dire quelle


parolone, e secondo me non lo sai neanche tu! – E l’Aquilotto abbassò la
testa per nascondere un sorrisetto: si sentì distintamente che qualcuno degli
altri uccelli ridacchiava.

– Quel che stavo per dire, – disse il Dodo in tono offeso, – era che la cosa
migliore per asciugarsi sarebbe una Gara Elettorale.

– Che cos’è una Gara Elettorale? – chiese Alice; non che le importasse
granché saperlo, ma il Dodo si era fermato come se pensasse che qualcuno
avrebbe dovuto parlare e pareva che nessun altro avesse voglia di farlo.
– Ecco, – disse il Dodo, – la cosa migliore per spiegarlo è farla. – (E,
poiché forse vi piacerebbe sperimentare la cosa di persona in una giornata
invernale, vi racconterò quel che fece il Dodo.)

Per prima cosa disegnò il tracciato della gara, in una specie di cerchio,
(“la forma esatta non è importante” disse) e poi tutto il gruppo fu sistemato
lungo il percorso, qua e là. Non ci fu nessun “Uno, due, tre, via”, ma
ciascuno cominciava a correre quando gli pareva, e la smetteva quando
voleva smettere, così che non era facile capire quando finiva la gara.
Tuttavia, dopo che ebbero corso per circa mezz’ora, e furono finalmente
asciutti, il Dodo improvvisamente gridò: – Fine della gara! – Tutti gli si
affollarono intorno ansimando e chiedendo: – Ma chi ha vinto?

A questa domanda il Dodo rispose soltanto dopo averci pensato su un bel


po’; se ne restò a lungo immobile premendosi la fronte con un dito (tipica
posizione nella quale è raffigurato Shakespeare), mentre gli altri attendevano
in silenzio. Alla fine il Dodo disse: – Tutti hanno vinto, e tutti devono avere
un premio.

Si sentì allora un coro di voci: – Ma chi consegnerà i premi?

– Ma lei, naturalmente, – disse il Dodo, indicando Alice con un dito; e


subito tutta la compagnia le si affollò intorno, gridando confusamente: – I
premi! I premi!

Alice non sapeva che pesci pigliare; disperata, si mise la mano in tasca e
ne tirò fuori una scatola di confetti (per fortuna l’acqua salata non vi era
entrata dentro), e li distribuì a tutti come premi. Ce n’era esattamente uno a
testa.

– Ma scusate, anche lei deve avere un premio, – disse il Topo.

– Certo, – rispose il Dodo con gran solennità. – Cos’altro hai in tasca? –


continuò, rivolgendosi ad Alice.

– Solo un ditale, – disse Alice tristemente.

– Consegnamelo, – disse il Dodo.


Allora le si affollarono tutti intorno di nuovo, mentre il Dodo consegnava
solennemente il ditale, dicendo: – Ti preghiamo di accettare questo elegante
ditale; – e, appena ebbe terminato il suo breve discorso, tutti applaudirono.

Ad Alice la cosa pareva del tutto assurda, ma tutti gli altri avevano un’aria
così compunta che non osò mettersi a ridere; e, non sapendo cosa dire, fece
semplicemente un inchino e prese il ditale, con l’aria più solenne possibile.

Non restava che mangiare i confetti, il che causò un certo rumore e


parecchia confusione: gli uccelli più grandi si lamentavano perché non
riuscivano nemmeno a sentirne il sapore, mentre a quelli piccoli i confetti
andavano di traverso e si doveva dar loro grandi pacche sulla schiena. Ma
poi la confusione ebbe fine, tutti si disposero in cerchio e pregarono il Topo
di raccontare qualcos’altro.

– Avevi promesso di raccontarmi la tua storia, ti ricordi? – disse Alice, – e


dirmi come mai detesti i G e i C, – aggiunse sottovoce, temendo di
offenderlo ancora una volta.

– La mia storia ha una coda lunga e triste! – disse il Topo rivolgendosi ad


Alice con un sospiro.

– Per esser lunga è lunga, – disse Alice guardando meravigliata la coda


del Topo; – ma perché dici che è triste? – E continuava a chiederselo mentre
il Topo parlava, tanto che si raffigurò la storia pressappoco così:
– Ti sei distratta! – disse severamente il Topo ad Alice. – A cosa stai
pensando?

– Ti prego di scusarmi, – disse Alice con grande umiltà: – Sei arrivato alla
quinta curva della coda, non è così?

– Niente affatto! – gridò il Topo arrabbiatissimo.

– Niente affetto? – chiese Alice, sempre pronta a rendersi utile,


guardandosi ansiosamente intorno. – Posso aiutarti in qualche modo?
– Nemmeno per sogno, – disse il Topo, alzandosi e andandosene. – Le tue
stupidaggini mi offendono!

– Non l’ho fatto apposta! – supplicò la povera Alice. – Certo che ti offendi
molto facilmente.

Il Topo le rispose soltanto con un grugnito.

– Per piacere, torna qui e finisci la tua storia! – gli gridò dietro Alice. E
tutti gli altri si unirono al coro, – Sì, per piacere, torna qui! – Ma il Topo si
limitò a scuotere la testa con impazienza e accellerò il passo.

– Che peccato che non sia voluto restare! – sospirò il Lorichetto non
appena quello fu scomparso, e una vecchia Granchia colse l’occasione per
dire a sua figlia: – Ah, mia cara, che questo ti serva di lezione: non perdere
mai la pazienza! – Sta’ zitta mamma! – disse la Granchietta con una certa
impertinenza. – Tu faresti perdere la pazienza anche a un’ostrica!

– Vorrei che Dinah fosse qui, oh quanto lo vorrei! – disse Alice a voce
alta, senza rivolgersi a nessuno in particolare. – Lei sì che lo riporterebbe
subito indietro!

– E chi è Dinah, se mi è concesso fare questa domanda? – chiese il


Lorichetto.

Alice rispose con sollecitudine, perché era sempre disposta a parlare della
sua bestiola: Dinah è la nostra gatta. Non puoi nemmeno immaginare quanto
sia brava ad acchiappare i topi! Ah, vorrei che tu la vedessi quando corre
dietro agli uccelli! Non fa in tempo a vedere un uccellino che se l’è già
mangiato!

Questo discorso provocò un notevole trambusto nel gruppo. Alcuni degli


uccelli volarono immediatamente via: una vecchia Gazza cominciò a coprirsi
ben bene e osservò: – Devo proprio andare a casa; l’aria della notte non mi
fa bene alla gola! – E una Canarina chiamò i suoi piccoli con voce tremante:
– Venite, miei cari! A quest’ora dovreste essere già a letto! – Con varie scuse
se ne andarono tutti via, e ben presto Alice rimase sola.
“Non avrei dovuto parlare di Dinah!” disse a se stessa in tono dispiaciuto.
“A quanto pare non piace a nessuno qui e invece per me è il miglior gatto del
mondo! Oh mia cara Dinah! Chissà se ti rivedrò mai!”. E qui la povera Alice
ricominciò a piangere, perché si sentiva molto sola e scoraggiata. Dopo un
poco tuttavia le parve di udire nuovamente uno scalpiccìo di passi in
lontananza e alzò ansiosamente lo sguardo, sperando quasi che il Topo
avesse cambiato idea e fosse ritornato a finire il suo racconto.
Capitolo IV
Il Coniglio dà ordini

Era il Coniglio Bianco, che ritornava lentamente al trotto, guardandosi


ansiosamente intorno mentre procedeva, come se avesse perso qualcosa; e
Alice lo sentì borbottare tra sé: “La Duchessa! La Duchessa! Oh povere le
mie zampe! Povero pelo mio e baffi miei! Mi farà decapitare, come è vero
che un furetto è un furetto! Dove posso averli lasciati, mi chiedo!”. Alice
indovinò subito che stava cercando il ventaglio e il paio di guanti bianchi di
capretto, e cominciò a cercarli qua e là premurosamente, ma non c’era
modo di vederli da nessuna parte – tutto sembrava esser cambiato dopo la
sua nuotata nella pozza, e la grande sala con il tavolino dal ripiano di vetro
e la porticina erano definitavamente scomparsi.

Ben presto il Coniglio si accorse che Alice andava cercando i guanti qua
e là, e la chiamò rabbiosamente: – Ehi, Mary Ann, cosa ci fai qui? Corri a
casa all’istante, e vammi a prendere un paio di guanti e un ventaglio! Su,
sbrigati! – Alice si prese un tale spavento che corse immediatamente nella
direzione indicata senza cercare di spiegargli che si era sbagliato.

“Mi ha preso per la cameriera,” disse tra sé correndo. “Come si


meraviglierà quando scoprirà chi sono! Ma sarà meglio che gli porti i guanti
e il ventaglio… sempre che riesca a trovarli”. Mentre diceva queste parole
si imbatté in una linda casetta, sulla cui porta c’era una lucente targa di
ottone con la scritta “W. CONIGLIO”. Entrò senza bussare e si precipitò al
piano di sopra con una gran paura di incontrare la vera Mary Ann, e di
essere cacciata fuori di casa prima di aver trovato il ventaglio e i guanti.

“Com’è strano,” disse Alice tra sé, “fare delle commissioni per un
coniglio! Andrà a finire che anche Dinah mi spedirà a far commissioni!” E
cominciò a immaginare come sarebbe andata: “‘Signorina Alice! Venga
immediatamente qui e si prepari a fare la sua passeggiata!’. ‘Vengo subito
tata! Ma devo sorvegliare questa tana di topi finché non torna Dinah, e
impedire che escano.’ Ma non credo,” continuò Alice, “che lascerebbero
entrare Dinah in casa se cominciasse a dar ordini alla gente in quel modo!”.
A questo punto era riuscita a entrare in una stanzetta ordinata, con un
tavolo accanto alla finestra, e sul tavolo (come aveva sperato) un ventaglio
e un paio di piccolissimi guanti bianchi di capretto: prese il ventaglio e un
paio di guanti, e proprio quando stava per uscire dalla stanza, il suo sguardo
si soffermò su una bottiglietta che si trovava accanto allo specchio. Questa
volta non c’era l’etichetta con la scritta “BEVIMI!”; ciò nonostante Alice
tolse il tappo e si portò la bottiglietta alle labbra. “Tutte le volte che mangio
o bevo,” si disse, “succede qualcosa di interessante. Voglio proprio vedere
che effetto mi fa questa bottiglia. Spero molto che mi faccia ridiventare
grande; perché sono davvero stufa di essere così minuscola!”.

E così avvenne infatti, e molto prima di quanto Alice si aspettasse; prima


di aver bevuto metà della bottiglia, vide che la sua testa premeva contro il
soffitto e dovette chinarsi per non rompersi l’osso del collo. Mise via la
bottiglia in tutta fretta, dicendo tra sé: “Basta così… spero di non crescere
più… Già così non riesco a uscire dalla porta… Vorrei non aver bevuto
tanto!”.

Ahimé! Era troppo tardi per augurarselo! Continuò a crescere, a crescere,


e ben presto dovette piegarsi sul pavimento: dopo un minuto non c’era
nemmeno più spazio per stare in quella posizione e Alice cercò di sdraiarsi
con un gomito contro la porta e l’altro braccio dietro alla testa. Ma
continuava a crescere e, come ultima risorsa, infilò un braccio fuori dalla
finestra e un piede su per il caminetto, e disse a se stessa: “Più di così non
posso fare, succeda quel che deve succedere. Cosa mi succederà?”.

Fortunatamente per Alice, la bottiglietta magica aveva raggiunto il suo


massimo effetto, e lei smise di crescere: ma si trovava pur sempre in una
posizione molto scomoda, e siccome non pareva ci fosse modo di uscire da
quella stanza, nessuna meraviglia che si sentisse infelice.
“Si stava tanto meglio a casa mia,” pensò la povera Alice, “quando non ci
si allargava o restringeva sempre, e non si ricevevano ordini da topi e
conigli. Vorrei quasi non essere entrata nella tana del coniglio… eppure…
eppure… è piuttosto curiosa, sapete, un’esistenza simile! Mi chiedo cosa mi
sia succcesso! Quando leggevo le favole, mi immaginavo che quel tipo di
cose non succedesse mai, e ora eccomi nel bel mezzo di una favola!
Dovrebbero scrivere un libro su di me, ecco cosa dovrebbero fare! E
quando diventerò grande ne scriverò uno… ma sono già grande,” aggiunse
in tono afflitto; “per lo meno qui dentro di spazio per poter crescere non ce
n’è più”.

“Ma poi,” pensò Alice, “diventerò più vecchia di così? Sarebbe una
consolazione, in un certo senso… non diventare mai vecchia… ma però
dover sempre studiare le lezioni! No, non mi piacerebbe!”.
“Sei proprio una sciocca, Alice!” rispose poi a se stessa, “Come puoi
studiare qui dentro? Quasi non c’è posto per te, figurarsi poi per i libri di
scuola!”.

E continuò così, dibattendo le cose tra sé e sé, e mettendo insieme una


bella conversazione; ma dopo qualche minuto sentì una voce fuori, e si mise
ad ascoltare.

– Mary Ann! Mary Ann! – diceva la voce. – Vammi subito a prendere i


guanti! – Poi si sentì uno scalpiccìo di passi sulle scale. Alice capì che il
Coniglio veniva a cercarla, e tremò fino a far scuotere la casa, dimenticando
del tutto che ora era all’incirca mille volte più grande del Coniglio, e non
c’era motivo di averne paura.

In quel momento il Coniglio giunse alla porta e tentò di aprirla; ma


siccome la porta si apriva verso l’interno, e il gomito di Alice le premeva
contro, il tentativo fallì. Alice lo sentì dire tra sé: – Farò il giro ed entrerò
dalla finestra.

“Questo poi no!” pensò Alice, e dopo aver aspettato finché non le parve
di sentire il Coniglio proprio sotto la finestra, improvvisamente aprì la
mano e la richiuse di scatto. Non afferrò niente, ma sentì un gridolino e un
tonfo, e il rumore di vetri rotti, dal che concluse che forse il Coniglio era
caduto in una serra per cetrioli o qualcosa di simile.

Poi si sentì una voce irritata, quella del Coniglio: – Pat! Pat! Dove sei? –
E poi una voce che Alice non aveva mai sentito prima: – Sono qui! Sono
qui! Sto scavando in cerca di mele, vostro onore!

– Scavando in cerca di mele, bella roba! – disse il Coniglio infuriato.

– Qui! Vieni a tirarmi fuori di qui! – (altro rumore di vetri rotti).

– Dimmi, Pat, cosa c’è dentro la finestra?

– Mi sa che è un braccio, vostr’onore! – (pronunciava ‘abbraccio’).

– Un braccio, scimunito che sei! Ne hai mai visto uno così grosso? Ti
dico che riempie tutta la finestra!

– Proprio così, vostro onore: eppure è un braccio.

– Beh, in ogni caso cosa ci fa qui? Portalo via! –

Al che ci fu un lungo silenzio, e Alice riuscì a sentire solamente dei


mormorii di tanto in tanto, come per esempio: – No, non mi piace, vostro
onore, non mi piace per niente, per niente!

– Fa’ come ti dico, fifone! – Alla fine Alice aprì di nuovo la mano e fece
ancora il gesto di chi afferra qualcosa. Questa volta si sentirono due
gridolini, e rumore di altri vetri rotti. “Ma quante serre per cetrioli hanno?”
pensò Alice. “Voglio vedere cosa combinano adesso! E quanto a tirarmi
fuori dalla finestra, vorrei davvero che ci riuscissero! Di certo io qui non ci
resto!”.

Aspettò un poco senza che si sentisse altro: alla fine ci fu uno sferragliare
di ruote di carro, e una quantità di voci che parlavano tutte insieme: riuscì a
capire le parole: – ‘Dov’è l’altra scala?’. ‘Ah, io ne dovevo portare una
sola; l’altra ce l’ha Bill’. ‘Bill! Ehi tu, portala qui!’. ‘Qui, appoggiatela a
quest’angolo’. ‘No, prima legatele insieme’ ‘Non sono abbastanza alte’.
‘Macché, vanno benissimo, poche storie’.
– ‘Ecco, Bill! Prendi questa corda’ ‘Il tetto reggerà?’ ‘Attento a quella
tegola rotta’ ‘Ehi, sta cadendo! Occhio alla testa! – (un gran tonfo).

– ‘Allora, chi era?’. ‘Mi sa che era Bill’ ‘Chi scende giù per la cappa?’.

– ‘No, io non ci vado! Vacci tu!’. ‘Allora non ci vado neanch’io!’.

– ‘Deve andarci Bill’. ‘Ehi, Bill! Il padrone dice che devi scendere tu per
la cappa del camino!’.

“Ah! È così? Tocca a Bill scendere giù per la cappa del camino?” disse
Alice tra sé. “Insomma, pare che facciano fare tutto a Bill! Non vorrei
essere al posto di Bill per niente al mondo: certo che la cappa è stretta; ma
un calcio posso sempre darglielo!”.

Infilò più su che poté il piede per il camino, e aspettò finché non sentì un
animaletto (non riusciva a indovinare di che specie fosse) che grattava e si
dimenava dentro la canna sopra di lei: poi, dicendo tra sé “Questo è Bill”,
sferrò un gran calcio e aspettò di vedere cosa sarebbe successo.

La prima cosa che sentì fu un coro generale di: – Ecco Bill! – Poi
soltanto la voce del Coniglio: – Prendetelo al volo, lì vicino alla siepe! – poi
silenzio e un altro vociare indistinto. – ‘Sollevagli la testa’. ‘Dagli del
brandy’. ‘Vacci piano! Lo soffochi!’. ‘Com’è andata, vecchio mio? Cosa ti è
successo? Dicci tutto!’.

Alla fine si sentì una vocina flebile, stridula, (“Questo è Bill”, pensò
Alice) – Mah, non so proprio – Basta, grazie; sto meglio ora – sono troppo
agitato per poter parlare – tutto quel che so è che qualcosa mi è venuto
addosso come un fantoccio a molla e sono saltato in aria come un razzo!

– Proprio così, vecchio mio! – dissero gli altri.

– Dobbiamo bruciare la casa! – disse la voce del Coniglio. E Alice gridò


più forte che poté, – Se lo fate, vi sguinzaglierò dietro Dinah!

Subito si fece un silenzio di tomba, e Alice pensò tra sé, “Chissà cosa
faranno adesso! Se hanno un briciolo di cervello scoperchieranno il
soffitto”. Dopo un minuto o due quelli ricominciarono a muoversi, e Alice
sentì che il Coniglio diceva: – Una carriola piena basterà, tanto per
cominciare.

“Una carriola piena di cosa?” pensò Alice. Ma non se lo chiese a lungo,


perché un attimo dopo piovve contro la finestra con gran fracasso una
grandinata di ghiaia, e alcuni sassolini la colpirono in faccia. “È ora di
finirla,” disse tra sé, e gridò: – Vi consiglio di non continuare! – Che
provocò un altro silenzio di tomba.

Alice notò con una certa sorpresa che i sassolini si trasformavano in


dolcetti nel momento esatto in cui toccavano il pavimento, ed ebbe un’idea
brillante. “Se mangio uno di questi dolcetti,” pensò, “certamente cambierò
di statura; e siccome diventare più grande di così mi sembra impossibile,
suppongo che diventerò più piccola”.

Perciò inghiottì un dolcetto e fu felicissima di notare che cominciava


immediatamente a rimpicciolirsi. Non appena fu abbastanza piccola da
passare per la porta, corse fuori di casa e là trovò ad aspettarla parecchi
animaletti e uccellini. Il povero Lucertolino, Bill, era in mezzo a loro,
sorretto da due porcellini d’India che gli stavano accostando una boccetta
alle labbra. L’apparizione di Alice portò grande scompiglio; ma lei corse via
a gambe levate, e ben presto si trovò al sicuro in un fitto bosco.

“La prima cosa da fare,” si disse Alice mentre camminava per il bosco,
“è ridiventare della mia solita statura; e la seconda è ritrovare la strada per
quel leggiadro giardino. Mi sembra un ottimo piano”.
Sembrava un piano eccellente, senza dubbio, e predisposto con ordine e
semplicità, il solo inconveniente era che Alice non aveva la minima idea di
come eseguirlo; mentre stava scrutando ansiosamente gli alberi, un brusco
abbaiare proprio sopra la sua testa la spinse ad alzare in gran fretta lo
sguardo.

Un cucciolo enorme la stava guardando dall’alto in basso con i suoi


grandi occhi rotondi, e tendeva prudentemente in avanti una zampa,
cercando di toccarla. – Poverino! – disse Alice in tono carezzevole, e tentò
di fargli un fischio; ma intanto la spaventava molto l’idea che potesse aver
fame, nel qual caso molto probabilmente l’avrebbe mangiata nonostante
tutte le sue moine.

Senza quasi sapere quel che faceva, raccolse uno stecco e lo porse al
cucciolo; al che il cucciolo fece un salto per aria con tutte e quattro le
zampe, con un guaito di gioia, e corse dietro allo stecco come se volesse
addentarlo; poi Alice si riparò dietro un gran cardo, per non finire
schiacciata, e non appena si fece vedere dall’altra parte, il cucciolo fece
un’altra corsa verso lo stecco, e ruzzolò a testa in giù nella gran fretta di
acchiapparlo; poi Alice, pensando che era come giocare con un cavallo da
tiro, e temendo di finire sotto le zampe del cucciolo da un momento
all’altro, corse di nuovo dietro al cardo; allora il cucciolo cominciò una
serie di attacchi allo stecco, correndo ogni volta un poco in avanti e
arretrando poi di parecchio, abbaiando sempre raucamente, finché alla fine
si accucciò a una buona distanza, ansimando, con la lingua penzoloni, e i
grandi occhi socchiusi.

Sembrò dunque ad Alice che quello fosse il momento buono per


scappare; e così se la filò via, e corse fino a quando, ormai esausta e senza
fiato, i latrati del cane non le parvero abbastanza flebili e lontani.

“Eppure com’era carino quel cucciolo!” disse Alice, appoggiandosi a un


ranuncolo per riposare, e facendosi vento con una delle foglie. “Mi sarebbe
piaciuto moltissimo insegnargli dei giochetti, se… se soltanto fosse stato
delle dimensioni adatte! Oh povera me! Avevo quasi dimenticato che devo
ancora crescere! Vediamo un poco, come si può fare? Credo che dovrei
mangiare o bere qualcosa, ma il problema è, che cosa?”.

Il gran problema era per l’appunto, che cosa? Alice guardò bene tutto
intorno tra i fiori e i fili d’erba, ma non vide niente che si potesse mangiare
o bere e che fosse adatto all’occasione. C’era un grosso fungo lì accanto a
lei, all’incirca della sua stessa altezza; e, dopo aver ben guardato sotto il
fungo, da un lato, dall’altro, e di dietro, le venne in mente che poteva ben
guardare anche cosa ci fosse sopra.

Si alzò in punta di piedi, e sbirciò sopra l’orlo del fungo, e i suoi occhi
incontrarono immediatamente quelli di un grande bruco blu, che se ne stava
seduto là in cima con le braccia incrociate, fumando tranquillamente un
lungo narghilè, senza degnare né lei né qualsiasi altra cosa della minima
attenzione.
Capitolo V
I consigli di un Bruco

Alice e il Bruco si fissarono per qualche istante in silenzio: alla fine il


Bruco si tolse il narghilè di bocca e si rivolse a lei con una voce languida e
assonnata.

– Chi sei? – le chiese il Bruco.

Come inizio di conversazione non era incoraggiante. Alice rispose


alquanto timidamente: – Non… non saprei dirglielo, in questo momento…
sapevo chi ero quando mi sono alzata questa mattina, ma credo di essere
cambiata parecchie volte da allora.

– Cosa vuoi dire? – disse il Bruco severamente. – Spiegati meglio!

– Temo di non riuscire a spiegarmi, signore, – disse Alice, – perché,


vede, non sono me stessa.

– Io non vedo cosa c’è da vedere, – disse il Bruco.

– Temo di non riuscire a essere più chiara, – rispose Alice molto


educatamente, – perché, tanto per cominciare, nemmeno io ci capisco
qualcosa; e cambiare tante volte dimensioni in un giorno mi ha confuso le
idee.

– Ma va’, – disse il Bruco.

– Insomma, forse a lei non è ancora capitato, – disse Alice; – ma quando


dovrà trasformarsi in crisalide – le succederà prima o poi – e in seguito in
una farfalla, lo troverà un po’ strano, no?

– No, per niente – disse il Bruco.

– Può darsi che lei sia diverso da me, – disse Alice; – quel che so è che io
mi sentirei molto strana.
– Tu! – disse sdegnoso il Bruco. – Ma chi sei tu?

Il che li riportò all’inizio della conversazione. Alice trovava un po’


irritante che il Bruco facesse delle osservazioni tanto concise, perciò si
inalberò e disse, con molta serietà: – Credo che per prima cosa toccherebbe
a lei dirmi chi è.

– Perché? – chiese il Bruco.

Era un’altra domanda imbarazzante; e siccome Alice non riuscì a trovare


nessuna buona ragione, e siccome il Bruco sembrava davvero di cattivo
umore, se ne andò.

– Torna indietro! – le gridò il Buco. – Devo dirti una cosa importante!

Questo sì che sembrava promettente: Alice si voltò e tornò indietro.

– Porta pazienza, – disse il Bruco.

– Tutto qui? – disse Alice, trattenendo a stento la sua rabbia.

– No, – disse il Bruco.

Alice pensò che tanto valeva aspettare, visto che non aveva niente da
fare, e forse magari il Bruco avrebbe potuto dirle qualcosa che valeva la
pena di sentire. Per qualche minuto quello soffiò nuvolette di fumo senza
parlare, ma alla fine allargò le braccia, si tolse di nuovo il narghilè di bocca,
e disse: – E così, tu pensi davvero di essere cambiata?

– Temo proprio di sì, signore, – disse Alice; – non ricordo le cose come
prima… e continuo a cambiare di statura ogni dieci minuti!

– Cosa non riesci a ricordare? – chiese il Bruco.

– Per esempio, volevo recitare Come fa l’ape operosa, ma mi sono


venute delle parole completamente diverse! – rispose Alice con voce molto
malinconica.

– Ripeti con me Così vecchio come sei, – disse il Bruco.


Alice incrociò le braccia e cominciò:

– Così vecchio come sei,


così bianco di capelli,
Perché stai a testa in giù?
– disse il figlio al suo papà.
– Non va bene alla tua età!
Ma ti pare che sia bello?
Non ti fa male al cervello?

– Quando avevo la tua età,


– disse il padre al giovanotto,
– Mi pareva che la cosa
fosse in sé pericolosa.
Ora invece che il cervello
mi è del tutto evaporato
Stare sempre a testa in giù
non mi pare un gran peccato.

– Tu sei vecchio, come ho detto,


– disse allora il giovanotto,
– Aumentato sei di peso,
diventato alquanto obeso;
Come mai adesso fai
tutte queste capriole
E la schiena non ti duole?
Prego, dimmi, come fai?

– Da ragazzo, – disse il saggio,


aggiustandosi le ciocche
grigie, – ho usato
un certo unguento
che mantiene agilità
alle membra, eccolo qua,
Te lo vendo a uno scellino,
o mio caro figliolino.

– Tu sei vecchio, caro mio,


hai mascelle fragiline
Buone solo per il grasso,
o per semola e pappine.
Come hai fatto ad inghiottire
tutto il pollo con le ossa,
Con il becco e con la pelle?
Come fai a digerire?

– Da ragazzo, – disse il padre, –


feci studi di diritto.
Con mia moglie ho litigato,
e mi sono esercitato;
E la forza muscolare
che ho dovuto utilizzare
Le mascelle ha rafforzato,
e tenute in buono stato.

– Tu sei vecchio, – disse il figlio, –


si potrebbe anche pensare
Che la vista tua non sia
come quella di una lince.
Mi puoi dire come mai
ora riesci a bilanciare
sul tuo naso quell’anguilla
senza tema di cadere?
– Ho risposto a tre domade
e per oggi può bastare. –
Disse il padre, – non ti dare
troppe arie, non strafare!
Le tue stupide domande
non ho voglia di ascoltare.
Gira l’angolo, sparisci
o ti butto dalle scale!

– Non è come la ricordavo, – disse il Bruco.

– Già, mi suona un po’ diversa, – disse Alice timidamente; – alcune


parole sono cambiate.
– Sono sbagliate dall’inizio alla fine, – disse il Bruco con aria decisa, e ci
fu qualche minuto di silenzio.

Il Bruco fu il primo a parlare.

– Di che statura vorresti essere? – chiese.

– Oh, non sono schizzinosa riguardo alla statura – rispose in fretta Alice.
– Solo che non mi piace cambiare tanto spesso, ecco.

– Non mi chiamo ‘ecco’ – disse il Bruco.

Alice non disse niente: in tutta la sua vita non le era mai successo di
essere tanto contraddetta, e sentiva che stava per perdere la pazienza.

– Sei contenta di come sei adesso? – chiese il Bruco.

– Veramente, se lei non ha niente in contrario, mi piacerebbe essere un


poco più alta, – disse Alice: – otto centimetri è una statura davvero misera.

– Invece è una bellissima statura! – disse il Bruco infuriato, mettendosi


dritto mentre parlava (era alto esattamente otto centimetri).
– Ma io non ci sono abituata! – protestò pietosamente la povera Alice. E
tra sé pensava, “Vorrei che quella creatura non si offendesse così
facilmente!”.

– Col tempo ti ci abituerai, – disse il Bruco; si mise in bocca il narghilè e


ricominciò a fumare.

Questa volta Alice attese pazientemente finché quello non si decise a


parlare. Dopo un minuto o due il Bruco si tolse il narghilè dalla bocca,
sbadigliò una o due volte e si stirò. Poi scese dal fungo, strisciò via in
mezzo all’erba, e osservò soltanto mentre se ne andava: – Un lato ti farà
crescere, e l’altro lato diminuire.

“Un lato di cosa? L’altro lato di cosa?” pensò Alice tra sé.
– Del fungo, – disse il Bruco, proprio come se Alice avesse parlato a
voce alta; e un attimo dopo era scomparso.

Alice rimase a guardare pensosamente il fungo per un po’, cercando di


capire quali fossero i suoi due lati; ma siccome era perfettamente rotondo,
le parve che non fosse possibile venirne a capo. Alla fine tuttavia allargò
più che poté le braccia intorno al fungo e con ciascuna delle mani staccò un
pezzetto di cappello.

“Ma ora come faccio a sapere quale dei due mi occorre?” disse tra sé, e
sgranocchiò qualcosa dal pezzetto della mano destra per provarne l’effetto:
un momento dopo sentì un colpo violentissimo al mento; aveva sbattuto
contro il piede!

Si spaventò molto per il cambiamento improvviso, ma capì anche che


non c’era tempo da perdere, perché stava diventando sempre più piccola;
così si mise a mangiare in gran fretta un po’ dell’altro pezzo. Aveva il
mento così vicino al piede che c’era appena lo spazio per aprire la bocca;
ma alla fine ce la fece, e riuscì a inghiottire un boccone del pezzetto che
teneva nella mano sinistra.

***

“Ecco, finalmente ho la testa libera!” disse Alice in un tono gioioso che


subito si fece allarmato, quando scoprì che non vedeva più le proprie spalle:
tutto quel che riusciva a vedere se guardava giù era un collo immensamente
lungo, che sembrava spuntare come un gambo da un mare di lontane foglie
verdi sotto di lei.

“Cosa sarà mai tutta quella roba verde?” si chiese Alice. “E dove sono
finite le mie spalle? E aiuto, mie povere mani, com’è che non vi vedo?”. Le
stava muovendo mentre parlava, ma senza risultato, salvo un lieve agitarsi
delle foglie verdi laggiù in basso.

Poiché non sembrava ci fosse modo di far arrivare le mani fino alla testa,
tentò di abbassare la testa fino alle mani e fu ben felice di scoprire che
poteva facilmente piegare il collo in ogni direzione, come un serpente. Era
appena riuscita a curvarlo in un aggraziato zig-zag e stava per fargli fare un
tuffo tra le foglie, che scoprì non esser altro che le cime degli alberi sotto i
quali aveva vagato, quando un sibilo acuto le fece fare rapidamente un
balzo all’indietro: un grosso piccione le era volato in faccia e le stava
sbattendo addosso le ali.

– Serpente! – gridò il Piccione.

– Non sono un serpente! – disse indignata Alice. – Lasciami in pace!

– Te lo ridico: serpente! – ripeté il Piccione, questa volta in tono più


sommesso, e poi aggiunse, con una specie di singhiozzo, – Ho tentato in
tutti i modi ma a quanto pare a loro non va bene niente!

– Non so davvero di cosa tu stia parlando, – disse Alice.

– Ho provato con le radici degli alberi, ho provato con le rive e ho


provato con le siepi!, – continuò il Piccione senza badarle; – ma quei
serpenti sono davvero incontentabili!

Alice era sempre più stupita, ma pensò che fosse inutile dire altro fino a
che il Piccione non avesse finito.

– Come se non fosse già abbastanza faticoso covare le uova, – disse il


Piccione; – devo anche stare di guardia notte e giorno perché non arrivino i
serpenti! Pensare che non chiudo occhio da tre settimane!

– Mi dispiace moltissimo che ti abbiano infastidito, – disse Alice, che


cominciava a capire.

– E proprio quando mi sono rifugiato nell’albero più alto del bosco, –


continuò il Piccione, alzando la voce e cominciando a strillare, – e proprio
quando pensavo di essermi finalmente liberato di loro, eccoli strisciare giù
dall’alto! Via! Brutto serpente!

– Ma io non sono un serpente, ti dico! – disse Alice. – Io sono… sono


una…

– Allora? Cosa sei? – chiese il Piccione. – A quanto pare stai tentando di


inventare qualcosa!
– Sono… sono una bambina, – disse Alice, con aria alquanto incerta,
ricordando tutte le trasformazioni che aveva subite quel giorno.

– Davvero verosimile! – disse il Piccione nel tono del più profondo


disprezzo. – Ho visto moltissime bambine ai miei tempi, ma mai una con un
collo simile! No, no! Sei un serpente; è inutile negarlo. Adesso non mi
verrai a dire che non hai mai assaggiato un uovo!

– Certo che ho assaggiato delle uova, – disse Alice, che era una bambina
molto sincera; – ma le bambine mangiano le uova così come le mangiano i
serpenti, si sa.

– Non ci credo, – disse il Piccione; – ma se le mangiano, allora, vuol dire


che sono una specie di serpente, ecco tutto quel che posso dire.

Quest’ idea le risultò talmente nuova, che Alice restò in silenzio per un
minuto o due, il che diede al Piccione il modo di aggiungere: – So
benissimo che stai cercando delle uova; e cosa vuoi che m’importi se sei
una bambina o un serpente?

– Importa molto a me, – disse Alice in gran fretta; – ma si dà il caso che


non stia cercando delle uova; e ti assicuro che se le stessi cercando, non
vorrei le tue. Non mi piacciono crude.

– Bene, allora vattene via! – disse il Piccione d’umor nero, mentre si


risistemava nel suo nido. Alice si rannicchiò tra gli alberi come poté, perché
il collo le si impigliava tra i rami, e ogni tanto le toccava fermarsi a
districarlo. Dopo un po’ le venne in mente che aveva ancora in mano i
pezzetti di fungo e cominciò, facendo molta attenzione, a mordicchiare
prima un pezzetto e poi l’altro, diventando ora più alta e ora più bassa,
finché riuscì a diventare della sua solita altezza.

Da così tanto tempo non le succedeva di essere di statura quasi normale


che sulle prime si sentì strana; ma in pochi minuti si abituò, e cominciò a
parlare da sola come al solito: “Su, ora siamo a buon punto! Come mi
confondono tutti questi cambiamenti! Non so mai di preciso cosa potrei
diventare da un minuto all’altro! In ogni caso sono ridiventata della mia
statura normale; ora bisognerà entrare in quel bellissimo giardino… Come
si può fare, mi chiedo?”. Mentre lo diceva, improvvisamente si trovò in una
radura dove si trovava una casina alta all’incirca un metro e venti. “A
chiunque abiti lì,” pensò Alice, “non posso presentarmi con questa statura:
li spaventerei a morte!”. Così cominciò a mordicchiare il pezzetto di fungo
che teneva nella mano destra e non si azzardò ad avvicinarsi alla casa finché
non ebbe ridotto la sua statura a circa venti centimetri.
Capitolo VI
Pepe e porcello

Alice stava guardando la casa da qualche minuto, riflettendo sul da farsi,


quando improvvisamente un valletto in livrea uscì correndo dal bosco
(pensò che fosse un valletto perché era in livrea: altrimenti dalla faccia
avrebbe detto che era un pesce) e bussò con energia alla porta. Ad aprire
venne un altro valletto in livrea, con una faccia tonda e grandi occhi da
rana; e Alice notò che entrambi questi valletti avevano i capelli incipriati
piegati in riccioli su tutta la testa. Le venne una gran curiosità di sapere di
che cosa si trattava, e avanzò un poco fuori dal bosco, furtivamente, per
ascoltare.

Il Valletto-Pesce cominciò a tirar fuori da sotto il braccio una gran lettera,


grande quasi quanto lui stesso, e la porse all’altro dicendo in tono solenne:
– Per la Duchessa. Un invito da parte della Regina per una partita di
croquet. Il Valletto-Ranocchio ripeté, con lo stesso tono solenne, cambiando
soltanto un poco l’ordine delle parole: – Dalla Regina. Un invito alla
Duchessa per una partita di croquet.

Poi entrambi si inchinarono profondamente, e i loro riccioli si


impigliarono tra di loro.

Al che Alice rise tanto che dovette tornare di corsa nel bosco per non
farsi sentire; e quando fece di nuovo capolino, il Valletto-Pesce se ne era
andato, e l’altro era seduto per terra vicino alla porta e fissava il cielo con
aria imbambolata.

Alice si avvicinò timidamente alla porta, e bussò.

– Non c’è bisogno di bussare – disse il Valletto – e questo per due


ragioni. Primo, perché sono qui accanto alla porta dalla stessa tua parte;
secondo, perché là dentro fanno un baccano tale, che nessuno potrebbe
sentirti. – In effetti all’interno c’era uno straordinario e continuo baccano:
uno strillare e uno sternutire, e ogni tanto un gran fracasso, come se un
piatto o un bricco fossero andati in pezzi.

– Allora, per piacere – chiese Alice, – può dirmi come faccio a entrare?

– Bussare avrebbe un senso, – continuò il Valletto senza badarle, – se tra


di noi ci fosse una porta. Per esempio, se tu fossi dentro, potresti bussare, e
io potrei farti uscire, ecco. – Mentre parlava continuava a guardare il cielo e
questo, pensò Alice, era proprio una cosa da maleducati.
“Ma forse non può farne a meno,” si disse; “ha gli occhi davvero quasi in
cima alla testa. In ogni caso potrebbe rispondere alle domande”. – Come
faccio a entrare? – ripeté a voce alta.

– Me ne starò qui seduto, – osservò il Valletto, – fino a domani…

In quel momento la porta della casa si aprì, e ne schizzò fuori un gran


piatto, che per poco non colpì il Valletto in testa: gli sfiorò il naso, e finì in
pezzi contro uno degli alberi poco lontano.

– … o magari fino a dopodomani, – continuò il Valletto nello stesso tono,


proprio come se non fosse successo niente.

– Come faccio a entrare? – chiese nuovamente Alice, a voce ancora più


alta.

– Ma devi proprio entrare? – chiese il Valletto. – Questo, vedi, è il primo


problema da risolvere.

Lo era, senza dubbio: solo che Alice non voleva sentirselo dire. “È
veramente tremenda,” mormorò tra sé, “la voglia di discutere che hanno
tutte queste creature. Ce n’è abbastanza per far impazzire chiunque!”.

Il Valletto pensò di approfittare dell’occasione per ripetere quanto aveva


osservato prima, con delle varianti. – Me ne starò qui seduto, – disse, –
tranne qualche pausa, per giorni e giorni.

– Ma io cosa devo fare? – chiese Alice.

– Fa’ quel che ti pare, – disse il Valletto, e cominciò a fischiettare.

– Uffa, è del tutto inutile parlare con lui, – disse Alice disperata; – è un
perfetto idiota! – Aprì la porta ed entrò.

La porta dava su una vasta cucina, piena di fumo da un’estremità


all’altra: la Duchessa era seduta in mezzo, su un sedile a tre gambe, e
cullava un bambino; la cuoca era china davanti al fuoco, e mescolava una
gran pentola che sembrava piena di zuppa.
“C’è di sicuro troppo pepe in quella zuppa!” disse Alice tra sé, tra uno
sternuto e l’altro.

Ce n’era certamente troppo anche nell’aria. Perfino la Duchessa ogni


tanto sternutiva; e il bebè sternutiva e strillava a turno senza un attimo di
pausa. Chi non sternutiva, in quella cucina, erano soltanto la cuoca e un
grosso gatto accovacciato accanto al focolare e che aveva un sorriso che gli
andava da un orecchio all’altro.

– Vorrebbe per favore dirmi, – disse Alice un poco timidamente, perché


non era del tutto sicura che fosse buona educazione parlare per prima, –
perché il suo gatto sorride così?

– È un gatto del Cheshire – disse la Duchessa, – ecco perché. Porcello!

Disse quest’ultima parola con una tale improvvisa violenza che Alice
ebbe un soprassalto; ma vide subito che essa era rivolta al bebè, e non a lei,
e quindi si fece coraggio e continuò:

– Non sapevo che i gatti del Cheshire sorridessero sempre; in effetti non
sapevo che i gatti potessero sorridere.

– Tutti i gatti possono sorridere, – disse la Duchessa; – e per lo più lo


fanno.

– Non so di nessun gatto che lo faccia, – disse Alice molto cortesemente,


alquanto soddisfatta di aver avviato la conversazione.

– Ci sono molte cose che non sai, – disse la Duchessa; – questo è certo.

Ad Alice non piacque affatto il tono di questa osservazione, e pensò che


era meglio passare a un altro argomento. Mentre stava cercandone uno, la
cuoca tolse la pentola dal fuoco e subito cominciò a scagliare tutti gli
oggetti che le capitavano sotto mano contro la Duchessa e il bebè: per prima
cosa l’attizzatoio; poi seguì una pioggia di piatti, piattini e tegami. La
Duchessa faceva finta di niente anche quando la colpivano; e il bambino
strillava già tanto prima, che era del tutto impossibile dire se fosse stato
colpito o no.
– Ehi, per piacere, stia attenta a quel che fa! – gridò Alice in preda al
terrore, abbassandosi e scostandosi per schivare i proiettili. – Ecco che se ne
va il suo adorabile nasino; – e infatti un tegame insolitamente grande
sfiorava il naso del bambino, e quasi glielo portava via.

– Se ciascuno badasse agli affari suoi, – disse la Duchessa con un rauco


grugnito, – il mondo girerebbe molto più in fretta.

– Il che non sarebbe un vantaggio, – disse Alice, molto contenta di poter


sfoggiare un po’ del suo sapere. – Pensi che fatica sarebbe con il giorno e la
notte. Vede, la terra ci mette ventiquattro ore a girare intorno al proprio
asse…
– A proposito di asce, – disse la Duchessa, – tagliatele la testa!

Alice guardò piuttosto ansiosamente la cuoca, per vedere se intendesse


cogliere il suggerimento, ma la cuoca era molto impegnata a mescolare la
zuppa, e non sembrava aver sentito, perciò Alice osò dire di nuovo: –
Ventiquattro ore, credo; o sono dodici?

– Ah, non mi seccare, – disse la Duchessa; – Non mi sono mai piaciuti i


numeri! – E con ciò riprese a cullare il bambino, cantandogli una specie di
ninna-nanna, e scuotendolo con violenza alla fine di ogni verso:

Parla sgarbatamente al tuo bambino,


Picchialo se sternuta:
Lo fa soltanto per infastidire
Perché sa di irritare.

CORO.

(Al quale partecipavano la cuoca e il bambino):

Uè! Uè! Uè!

Mentre la Duchessa cantava il secondo verso della canzone, continuava


ad agitare violentemente il bambino su e giù, e il poverino strillava tanto,
che Alice riuscì a malapena a sentire le parole:

Parlo severamente al mio bambino,


Lo picchio se sternuta;
Il pepe può piacere
Basta solo volere!

CORO,

Uè! Uè! Uè!

– Tieni! Puoi cullarlo un po’ tu se ti va! – disse la Duchessa ad Alice,


lanciandole il bambino mentre parlava. – Devo andare a prepararmi per la
partita di croquet con la Regina – e si precipitò fuori dalla stanza. La cuoca
le tirò una padella dietro mentre usciva, e la mancò di poco.
Alice afferrò il bambino con difficoltà, perché la creaturina aveva una
forma strana e tendeva le braccia e le gambe in tutte le direzioni, “proprio
come una stella marina”, pensò Alice. Il poverino grugniva e sbuffava come
una locomotiva, e continuava a contorcersi e a dimenarsi, tanto che, tutto
sommato, per i primi due minuti fu già un miracolo che Alice riuscisse
semplicemente a tenerlo in braccio.

Non appena le fu chiaro come riuscire a cullarlo (bisognava torcerlo in


una specie di nodo, e poi tenergli ben fermi l’orecchio destro e il piede
sinistro, per impedire che il nodo si sciogliesse) lo portò fuori all’aperto.
“Se non porto via con me questo bambino” pensò Alice, “questi me lo
uccidono di sicuro in un paio di giorni: non sarebbe un delitto lasciarlo lì?”.
Aveva detto queste ultime parole a voce alta, e il poverino grugnì a mo’ di
risposta (a quel punto aveva smesso di sternutire). – Non grugnire – disse
Alice; – non è affatto un modo educato di esprimersi.

Il piccolo grugnì di nuovo e Alice, molto allarmata, gli guardò la faccia


per vedere che problema aveva. Senza dubbio aveva un naso molto all’insù,
molto più simile al muso di un porcello che non a un vero naso; inoltre gli
occhi gli si rimpicciolivano più di quanto non succeda a un bambino; tutto
sommato ad Alice non piacque affatto quel che vide. “Ma forse stava solo
singhiozzando,” pensò, e lo guardò nuovamente negli occhi, per vedere se
c’erano delle lacrime.

No, non c’erano lacrime. – Se stai per trasformarti in un porcello, caro


mio, – disse Alice severamente, – io non voglio aver più niente a che fare
con te. Stai bene attento! – Il poverino singhiozzò di nuovo (o grugnì, era
impossibile capirlo), e per qualche tempo proseguirono in silenzio.

Proprio mentre Alice cominciava a pensare tra sé, “Insomma, cosa me ne


faccio di questa creatura quando arrivo a casa?” quello grugnì di nuovo, con
tale violenza che lei lo guardò allarmata. Questa volta non ci poteva essere
alcun dubbio: non era altro che un porcello, né più né meno, e le parve che
sarebbe stato del tutto assurdo continuare a portarlo in braccio.

Posò dunque a terra la creaturina, e si sentì molto sollevata nel vedere


che trotterellava via tranquillamente verso il bosco. “Se fosse cresciuto,”
disse tra sé, “sarebbe diventato un bambino bruttissimo: ma come porcello
non era male.” E cominciò a pensare ad altri bambini che conosceva, che
come porcelli erano perfetti, e stava proprio dicendo tra sé, “se almeno si
sapesse come trasformarli…” quando trasalì impaurita nel vedere il Gatto
del Cheshire accovacciato sul ramo di un albero poco distante.

Quando vide Alice il Gatto si limitò a sorridere. Le sembrava pacioso,


ma aveva lunghissimi artigli e moltissimi denti, perciò pensò che era meglio
trattarlo con rispetto.

– Micino del Cheshire, – cominciò, alquanto timidamente, perché non


sapeva se l’appellativo gli sarebbe piaciuto: ma quello allargò un poco il
sorriso, “Sì, per ora sembra contento”. pensò Alice e continuò: – Mi vorresti
dire, per piacere, da che parte si va da qui?

– Dipende soprattutto da dove vuoi andare, – disse il Gatto.

– Per me fa lo stesso – disse Alice.

– Allora non ha importanza la strada che prendi, – disse il Gatto.

– … purché arrivi da qualche parte, – aggiunse Alice come spiegazione.


– Arriverai di sicuro da qualche parte, – disse il Gatto, – se cammini
abbastanza a lungo.

Ad Alice la cosa parve innegabile, e dunque tentò un’altra domanda. –


Che tipo di persone abitano qui intorno?

– In quella direzione, – disse il Gatto, alzando la zampa destra, – abita un


Cappellaio: e in quella direzione, – alzò l’altra zampa, – abita una Lepre
Marzolina. Vai pure a far visita a chi vuoi: tanto sono matti tutti e due.

– Ma io non voglio andare tra i matti, – osservò Alice.

– Ma qui non se ne può fare a meno, – disse il gatto: – siamo tutti matti.
Io sono matto. Tu sei matta.

– Come fai a sapere che sono matta? – chiese Alice.

– Devi esserlo per forza, – disse il Gatto, – altrimenti non saresti venuta
qui.

Alice pensò che quella non era affatto una prova; tuttavia continuò:

– E come fai a sapere che sei matto?

– Tanto per cominciare, – disse il Gatto, – un cane non può essere matto.
Su questo sei d’accordo?

– Suppongo di sì, – disse Alice.

– Dunque, un cane ringhia quando è arrabbiato, e scodinzola quando è


contento. Ora io invece ringhio quando sono contento, e scodinzolo quando
sono arrabbiato. Dunque sono matto.

– Di un gatto io direi che fa le fusa, non che ringhia, – disse Alice.

– Dì quello che ti pare, – disse il Gatto. – Oggi vai a giocare a croquet


con la Regina?
– Mi piacerebbe moltissimo andarci, – disse Alice, – ma non sono ancora
stata invitata.

– Mi vedrai là, – disse il Gatto, e scomparve.

Alice non se ne meravigliò molto, si stava abituando alle cose più strane.
Mentre fissava ancora il punto in cui era scomparso, quello comparve di
nuovo.

– E a proposito, cos’è successo al bambino? – chiese il Gatto. – Quasi mi


dimenticavo di chiedertelo.

– È diventato un porcello, – disse Alice tranquillamente, come se fosse


stata una cosa del tutto naturale.

– Me lo immaginavo, – disse il Gatto, e scomparve di nuovo.

Alice aspettò un poco, pensando che sarebbe ricomparso, ma quello non


si fece più vedere, e dopo un minuto o due Alice riprese a camminare verso
la casa della Lepre Marzolina. “Di cappellai ne ho già visti prima d’ora” si
disse; “la Lepre Marzolina sarà molto più interessante, e magari, visto che
siamo in maggio, non darà fuori di matto… per lo meno non sarà pazza
furiosa come lo sarebbe in marzo”. Mentre lo diceva guardò in alto, e vide
di nuovo il Gatto, accovacciato sul ramo di un albero.

– Hai detto porcello o zimbello? – chiese il Gatto.

– Ho detto porcello, – rispose Alice; – e vorrei che tu la smettessi di


comparire e scomparire così all’improvviso: mi fai girare la testa.

– Va bene, – disse il Gatto; e questa volta scomparve molto lentamente,


cominciando dalla punta della coda, per finire con il sorriso, che rimase per
qualche tempo a mezz’aria dopo che il resto era scomparso.

“Di gatti senza sorriso ne ho visti parecchi,” pensò Alice; “ma un sorriso
senza gatto è la cosa più curiosa che mi sia mai capitata di vedere!”.
Non aveva fatto molta strada quando vide la casa della Lepre Marzolina:
pensò che fosse la casa di destra, perché aveva i comignoli a forma di
orecchie e il tetto era ricoperto di pelliccia invece che di paglia. Era una
casa così grande, che non volle avvicinarsi senza aver prima sboconcellato
un altro pezzetto del fungo di sinistra, alzandosi così a un’altezza di circa
sessanta centimetri: ma anche così si avvicinò alla casa con una certa
soggezione, dicendo a se stessa, “E se fosse pazza furiosa? Quasi quasi
vorrei essere andata dal Cappellaio!”.
Capitolo VII
Un tè con i matti

Davanti alla casa c’era una tavola apparecchiata sotto un albero, e la


Lepre Marzolina e il Cappellaio stavano prendendo il tè: in mezzo a loro era
seduto un Ghiro, profondamente addormentato, e gli altri due se ne
servivano come di un cuscino, appoggiando i gomiti su di lui e parlando tra
di loro sulla sua testa. “Molto scomodo per il Ghiro” pensò Alice; “ma
siccome è addormentato, forse non ci bada”.

Il tavolo era grande, ma i tre se ne stavano tutti appiccicati insieme in un


angolo. – Non c’è posto! Non c’è posto! – gridarono tutti insieme quando
videro arrivare Alice. – C’è posto a volontà! – disse indignata Alice, e si
sedette in una grande poltrona a capo tavola.

– Prendi un po’ di vino, – disse la Lepre Marzolina in tono incoraggiante.

Alice si guardò intorno, ma sul tavolo non c’era che tè. – Di vino non ne
vedo, – osservò.

– Non ce n’è, – disse la Lepre Marzolina.

– E allora non è stato molto cortese da parte vostra offrirlo, – disse Alice
indignata.

– Non è stato molto cortese da parte tua metterti a sedere senza essere
stata invitata, – disse la Lepre Marzolina.

– Non sapevo che il tavolo fosse vostro, – disse Alice, – è apparecchiato


per molte persone, non tre soltanto.

– Dovresti tagliarti i capelli, – disse il Cappellaio. Era un po’ che


guardava Alice con grande curiosità, e questa era la prima volta che apriva
bocca.
– Non dovresti fare osservazioni così personali, – disse Alice con una
certa severità; – è da maleducati.

Il Cappellaio spalancò gli occhi nel sentire queste parole ma tutto quel
che disse fu: – Che cos’hanno in comune un corvo e una scrivania?

“Bene, ora ci divertiamo!” pensò Alice. “Mi piace giocare agli


indovinelli”. – Credo di poter indovinare, – soggiunse ad alta voce.

– Vuoi dire che tu saresti in grado di trovare la risposta? – Chiese la


Lepre Marzolina.

– Proprio così, – disse Alice.

– Allora dovresti dirci cos’hai in mente, – continuò la Lepre Marzolina.


– Certo che ve lo posso dire, – rispose in fretta Alice – per lo meno… per
lo meno ho in mente quel che dico… il che è la stessa cosa, come ben
sapete.

– Neanche per sogno! Non è la stessa cosa! – disse il Cappellaio. – Allora


tanto varrebbe dire che “vedo quel che mangio” e “mangio quel che vedo”
sono la stessa cosa!

– Tanto varrebbe dire, – aggiunse la Lepre Marzolina, – che “mi piace


quel che ho” è la stessa cosa di “ho quel che mi piace”!

– Tanto varrebbe dire – aggiunse il Ghiro che sembrava parlasse nel


sonno, – che “respiro quando dormo” equivale a “dormo quando respiro”!

– Per te è la stessa cosa, – disse il Cappellaio, e qui la conversazione si


interruppe, e tutti restarono in silenzio per un minuto, mentre Alice cercava
di ricordare tutto quel che sapeva dei corvi e delle scrivanie, che non era
molto.

Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. – Quanti ne abbiamo oggi?


– chiese, rivolgendosi ad Alice: aveva estratto l’orologio dal taschino, lo
stava guardando con aria preoccupata, e ogni tanto lo scuoteva,
accostandolo all’orecchio.

Alice ci pensò un momento poi disse, – Quattro.

– È indietro di due giorni! – sospirò il Cappellaio. – Te l’avevo detto che


il burro non andava bene per le rotelle dell’orologio! – aggiunse infuriato,
guardando la Lepre Marzolina.

– Era un burro di prima qualità, – rispose con aria mite la Lepre


Marzolina.

– Sì, ma devono esserci finite dentro anche delle briciole, – borbottò il


Cappellaio: – Non avresti dovuto spalmarlo con il coltello del pane.

La Lepre Marzolina prese l’orologio e lo guardò cupamente: poi lo fece


scivolare nella sua tazza di tè e lo guardò di nuovo: ma non gli venne in
mente niente di meglio da dire e ripeté la prima osservazione, – Era un
burro di prima qualità, lo sai bene.

Alice lo aveva guardato di sottecchi con una certa curiosità. – Che buffo
orologio! – osservò. – Segna il giorno del mese e non segna le ore!

– E perché dovrebbe segnare le ore? – mormorò il Cappellaio. – Il tuo


orologio ti dice che anno è?

– Certo che no, – rispose Alice con grande prontezza: – Ma questo è


dovuto al fatto che un anno ci mette tanto tempo prima di cambiare.

– È proprio quel che succede anche al mio, – disse il Cappellaio.

Alice si sentiva spaventosamente confusa. Le osservazioni del Cappellaio


sembravano insensate, eppure parlavano la stessa lingua. – Non capisco, –
disse più educatamente che poté.

– Il Ghiro si è riaddormentato, – disse il Cappellaio, e gli versò un poco


di tè caldo sul naso.

Il Ghiro scosse la testa con impazienza, e disse senza aprire gli occhi, –
Naturalmente, naturalmente; proprio quel che stavo per dire anch’io.

– Hai risolto l’indovinello? – chiese il Cappellaio, rivolgendosi


nuovamente ad Alice.

– No, ci rinuncio, – rispose Alice: – qual è la soluzione?

– Non ne ho la più pallida idea, – disse il Cappellaio.

– Neanch’io, – disse la Lepre Marzolina.

Alice sospirò stancamente. – Penso che potreste impiegare meglio il


vostro tempo, – disse, – invece di sprecarlo con indovinelli senza soluzione.

– Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, – disse il Cappellaio, –


non parleresti di lui così senza riguardo. È una persona.
– Non so cosa cosa vuoi dire, – disse Alice.

– Lo credo bene! – disse il Cappellaio, scuotendo la testa con disprezzo.


– Ho l’impressione che tu con il Tempo non ci abbia mai nemmeno parlato!

– Forse non gli ho mai parlato, – rispose Alice con una certa cautela: –
ma so di dover battere il tempo quando studio musica.

– Ah, questo spiega tutto, – disse il Cappellaio. – Non sopporta di essere


battuto. Ma vedi, se tu ci andassi d’accordo, lui farebbe quasi tutto quel che
vuoi con l’orologio. Per esempio, mettiamo che siano le nove di mattina,
proprio l’ora di cominciare le lezioni: basterebbe soltanto che tu gli dicessi
una parolina sottovoce, e il Tempo farebbe correre la lancetta dell’orologio
in un batter d’occhio! L’una e mezza, ora di pranzo!

(“Fosse vero!,” mormorò tra sé la Lepre Marzolina.)

– Sarebbe davvero magnifico, – disse Alice pensosamente; – ma sai,


allora non avrei fame,

– Non subito, forse, – disse il Cappellaio: ma potresti tenerlo fermo


all’una e mezza finché ti pare.

– È così che fai tu? – chiese Alice.

Il Cappellaio scosse la testa tristemente. – No, io no! – rispose. –


Abbiamo litigato lo scorso marzo… sai, poco prima che lei impazzisse – (e
puntò il cucchiaio verso la Lepre Marzolina). – è successo al gran concerto
offerto dalla Regina di Cuori, e io dovevo cantare

Luccica, luccica, pipistrello!


Cosa combini ora di bello?
Forse tu conosci questa canzone?

– Ho sentito qualcosa che ci assomiglia, – disse Alice.

– Poi fa così, sai, – continuò il Cappellaio, – così:

Voli in alto nel cielo lassù


Come un vassoio che non cade giù.
Luccica, luccica…

Qui il Ghiro si scosse, e cominciò a cantare nel sonno – Luccica, luccica,


luccica, luccica… – continuando così a lungo che dovettero dargli un
pizzicotto per farlo smettere.

– Insomma, avevo appena detto il primo verso, – disse il Cappellaio, –


quando la Regina saltò su e si mise a strillare: “Lo fa per ammazzare il
Tempo! Tagliategli la testa!”.

– Una cosa da selvaggi! – esclamò Alice.

– E da allora – continuò il Cappellaio in tono tetro – non vuole far più


niente di quel che gli chiedo! Ora fa sempre le sei.

Alice ebbe un’idea brillante: – È per questo che qui ci sono tanti servizi
da tè? – chiese.

– Sì, è per questo, – disse il Cappellaio con un sospiro: – è sempre l’ora


del tè, e non abbiamo nemmeno il tempo di lavare le tazze tra un tè e l’altro.

– Quindi, se ho capito bene, continuate a spostarvi intorno al tavolo? –


disse Alice.

– Proprio così, – disse il Cappellaio, – dopo aver usato le tazze ci


spostiamo di un posto.

– Ma cosa succede quando ritornate nel punto iniziale? – si azzardò a


chiedere Alice.

– E se cambiassimo argomento? – interruppe la Lepre Marzolina


sbadigliando. – Mi sto stancando di questo. Propongo che la signorina ci
racconti una storia.

– Temo di non saperne neanche una, – disse Alice, piuttosto allarmata


dalla proposta.

– Allora ce la racconterà il Ghiro! – gridarono insieme gli altri due. –


Svegliati, Ghiro! – E subito gli diedero dei pizzicotti, ciascuno dalla propria
parte.

Il Ghiro aprì lentamente gli occhi. – Non stavo dormendo, – disse con
una voce roca e flebile. – Ho sentito tutto quello che avete detto, parola per
parola.

– Raccontaci una storia! – disse la Lepre Marzolina.

– Sì, per piacere, raccontacela! – supplicò Alice.

– E sbrigati, – aggiunse il Cappellaio, – o ti addormenterai di nuovo


prima di finirla.

– C’erano una volta tre sorelline, – cominciò in gran fretta il Ghiro; – che
si chiamavano Elsie, Lacie e Tillie; e che vivevano in fondo a un pozzo.

– Di cosa vivevano? – chiese Alice, che si interessava sempre molto a


cibi e bevande.

– Vivevano di melassa, – disse il Ghiro, dopo averci pensato su per un


minuto o due.

– No, è impossibile, sai, – disse educatamente Alice; se avessero


mangiato soltanto melassa si sarebbero ammalate.

– E infatti erano malate, – disse il Ghiro; – molto malate.

Alice tentò di immaginare come si potesse vivere in un modo tanto fuori


dal comune, e la cosa la rendeva tanto perplessa che domandò: – Ma perché
vivevano in fondo a un pozzo?

– Di tè non ne vuoi più? – disse la Lepre Marzolina ad Alice con molta


serietà.

– Ma se finora non ne ho avuto nemmeno un goccio! – rispose Alice


irritata. – Come faccio a non volerne più?

– Vuoi dire che non puoi prenderne meno, – disse il Cappellaio; –


prenderne di più è più facile che prenderne di meno.

– Nessuno ha chiesto la tua opinione, – disse Alice.


– Chi è che fa delle osservazioni di carattere personale ora? – chiese il
Cappellaio trionfante.

Alice non sapeva cosa replicare: dunque si versò un poco di tè e prese del
pane e burro, poi si rivolse al Ghiro e ripeté la sua domanda: – Perché
abitavano in fondo al pozzo?

Il Ghiro ancora una volta si concesse un minuto o due per pensare alla
risposta e poi disse: – Era un pozzo di melassa.

– Non esistono pozzi di melassa! – cominiciò a dire Alice; era molto


arrabbiata ma il Cappellaio e la Lepre Marzolina fecero: – Sss! Sss! – e il
Ghiro osservò con aria imbronciata, – Se non riesci a comportarti da
persona educata, la storia finiscila tu.

– No, per piacere, continua! – disse Alice. – Non ti interromperò più. Un


pozzo di melassa potrebbe anche esistere, uno soltanto però.

– Uno soltanto, figurarsi! – disse il Ghiro indignato. Tuttavia acconsentì a


continuare. – E così queste tre sorelline che imparavano a disegnare…

– Cosa disegnavano? – chiese Alice dimenticando completamente la


promessa.

– Melassa, – disse il Ghiro, questa volta senza riflettere.

– Voglio una tazza pulita, – interruppe il Cappellaio. – Spostiamoci tutti


di un posto.

Si spostò mentre parlava, e il Ghiro lo seguì: la Lepre Marzolina si spostò


sul posto del Ghiro e Alice piuttosto malvolentieri prese il posto della Lepre
Marzolina. Il Cappellaio era il solo a risultare avvantaggiato dal
cambiamento: la situazione di Alice era assai peggiorata, perché la Lepre
Marzolina aveva appena versato il bricco del latte sul piattino.

Alice non voleva offendere nuovamente il Ghiro, e quindi cominciò con


molta cautela: – Ma non capisco. Da dove veniva tutta questa melassa?
– L’acqua la puoi prendere da un pozzo d’acqua, – disse il Cappellaio; –
dunque direi che si può prendere la melassa da un pozzo di melassa –
capito, stupida?

– Ma loro erano dentro il pozzo, – disse Alice al Ghiro, sorvolando su


quell’ultima osservazione.

– Naturalmente erano dentro, – disse il Ghiro; – dentro fino al collo.

Questa risposta la confuse talmente, che la povera Alice lasciò parlare il


Ghiro per un po’ senza interromperlo.
– Stavano imparando a disegnare, – continuò il Ghiro, sbadigliando e
sfregandosi gli occhi, perché gli era venuto un gran sonno; – e disegnavano
ogni sorta di cose… tutte cose che cominciano con la M…

– Perché con una M? – chiese Alice.

– Perché no? – disse la Lepre Marzolina.

Alice restò in silenzio.

Il Ghiro a questo punto aveva chiuso gli occhi, e si stava appisolando, ma


dopo un pizzicotto del Cappellaio si risvegliò con un gridolino e continuò: –
Che cominciano con una M, per esempio mattarello, muro, memoria,
moltitudine… come quando si dice “Moltissima moltitudine”… Hai mai
visto il disegno di una moltitudine?

– Ora che me lo chiedi, – disse Alice nella più grande confusione, – non
credo di…

– Allora stai zitta, – disse il Cappellaio.

Quest’ultima sgarberia fu più di quel che Alice potesse sopportare: si


alzò disgustata, e se ne andò; il Ghiro si addormentò all’istante, e nessuno
degli altri due mostrò di notare che lei se ne andava, sebbene si voltasse
indietro una volta o due, quasi sperando che la richiamassero: l’ultima volta
che li vide stavano cercando di mettere il Ghiro nella teiera.

– In ogni caso là non ci torno! – disse Alice infilando la strada del bosco.
– In tutta la mia vita non ho mai preso il tè in compagnia di gente più
stupida!

Proprio mentre lo diceva, si accorse che uno degli alberi aveva una
porticina in mezzo al tronco. “Che stranezza!” pensò. “Ma oggi è tutto così
strano. Tanto vale entrarci subito”. Ed entrò.

Ancora una volta si trovò nella lunga sala, accanto al tavolino di vetro.
“Questa volta me la caverò meglio”, disse tra sé, e presa la chiavetta d’oro,
aprì la porta che dava sul giardino. Poi si mise al lavoro e mordicchiò il
fungo (ne aveva conservato un pezzetto in tasca) finché non fu alta
all’incirca trenta centimetri: poi attraversò il breve corridoio e poi… si
ritrovò finalmente in quel bellissimo giardino, tra le aiuole variopinte e le
fresche fontane.
Capitolo VIII
Il croquet della Regina

All’entrata del giardino si trovava un grande rosaio: le sue rose erano


bianche, ma tre giardinieri molto indaffarati le stavano dipingendo di rosso.

Alice trovò la cosa molto bizzarra e si avvicinò per osservarli. Proprio


quando fu accanto a loro sentì che uno dei tre diceva: – Sta’ attento,
Cinque! Non mi schizzare di vernice in questo modo!
– Non l’ho fatto apposta, – disse Cinque di cattivo umore. – Sette mi ha
urtato il gomito.

Al che Sette guardò in alto e disse, – Bravo, Cinque! Da’ pur sempre la
colpa agli altri!

– Senti chi parla! – disse Cinque. – Giusto ieri ho sentito la Regina dire
che ti dovrebbero tagliare la testa!

– E perché? – disse quello che aveva parlato per primo.

– Non sono affari tuoi, Due! – disse Sette.

– Sì che sono affari suoi! – disse Cinque. – E glielo voglio dire io… è
perché ha portato alla cuoca, invece delle cipolle, dei bulbi di tulipano.

Sette buttò a terra il pennello, e aveva appena cominciato a dire: – Ecco,


di tutte le ingiustizie… – quando il suo sguardo cadde per caso su Alice,
che stava ferma a osservarli. Sette cercò subito di darsi un contegno: anche
gli altri si guardarono intorno e poi fecero un inchino.

– Potreste dirmi, – Alice chiese un po’ timidamente, – perché dipingete


queste rose?

Cinque e Sette non dissero niente ma guardarono Due. Due cominciò a


voce bassa: – Ecco, il fatto è, vede Signorina, che questo doveva essere un
rosaio di rose rosse, e noi ne abbiamo piantato per sbaglio uno di rose
bianche; e se la Regina lo scopre, ci fa tagliare la testa a tutti quanti.
Dunque vede, Signorina, stiamo facendo del nostro meglio, prima che
arrivi, per… – In quel momento Cinque, che non aveva mai smesso di
guardare ansiosamente oltre il giardino, gridò: – La Regina! La Regina! – e
i tre giardinieri si buttarono all’istante con la faccia a terra. Si sentì uno
scalpiccìo di molti passi, e Alice si voltò, ansiosa di vedere la Regina.

In testa al corteo avanzavano dieci soldati armati di picche; costoro erano


come i tre giardinieri, di forma piatta e oblunga, con le mani e i piedi agli
angoli; seguivano dieci cortigiani; questi ultimi, tutti ornati di diamanti,
procedevano due a due, come i soldati. Dietro a questi venivano i
principini; ce n’erano dieci, e quei tesorini saltellavano allegramente mano
nella mano, in coppia: erano tutti ornati di cuori. Poi venivano gli ospiti, per
lo più Re e Regine, e tra di loro Alice riconobbe il Coniglio Bianco: parlava
in fretta, nervosamente, sorrideva a tutto quel che si diceva, e passò senza
notarla. Seguiva poi il Fante di Cuori che recava la corona del Re su un
cuscino cremisi; e, alla fine di questo grandioso corteo, incedevano IL RE E
LA REGINA DI CUORI.

Alice era in dubbio se stendersi con la faccia a terra come i tre


giardinieri, ma non ricordava di aver mai sentito dire che questa fosse la
regola nei cortei; “e inoltre, a cosa servirebbe un corteo,” pensò, “se la
gente si mettesse faccia a terra senza vederlo?”. Perciò rimase ferma in
piedi dov’era, e aspettò.

Quando il corteo arrivò davanti ad Alice, tutti si fermarono e la


guardarono, e la Regina chiese con aria severa: – E questa chi è? – Lo
chiese al Fante di Cuori che per tutta risposta si inchinò e sorrise.
– Idiota! – disse la Regina, scuotendo il capo con impazienza, e
rivolgendosi ad Alice, continuò: – Come ti chiami, bambina?

– Mi chiamo Alice, se così piace a Sua Maestà, – disse Alice molto


educatamente; ma aggiunse tra sé: “Insomma, dopo tutto sono soltanto delle
carte da gioco, non devo aver paura di loro!”

– E questi, chi sono? – chiese la Regina, accennando ai tre giardinieri


stesi a terra intorno al rosaio; perché dato che erano faccia a terra, e il
disegno che avevano sulla schiena era uguale a quello di tutte le altre carte
del mazzo, era impossibile capire se si trattasse di giardinieri, o soldati, o
cortigiani, o tre dei suoi bambini.

– E io come faccio a saperlo? – disse Alice, meravigliandosi del proprio


coraggio. – Non sono affari miei.

La Regina si fece rossa di rabbia, e dopo averle lanciato un’occhiataccia


da belva, gridò: – Tagliatele la testa! Tagliatele…

– Sciocchezze! – disse Alice, con voce molto alta e decisa, e la Regina


restò in silenzio.

Il Re le appoggiò una mano sul braccio, e disse timidamente: – Rifletti,


mia cara: è soltanto una bambina!

La Regina, furiosa, gli voltò le spalle, e disse al Fante, – Voltali dall’altra


parte!

Il Fante, molto cautamente, con un piede solo, fece quanto ordinato.

– In piedi! – disse la Regina con voce altissima e stridula, e i tre


giardinieri scattarono in piedi all’istante, e cominciarono a fare inchini al
Re, alla Regina, ai bambini della famiglia reale e a tutti gli altri.

– Smettetela! – strillò la Regina. – Mi fate girare la testa. – E poi,


voltandosi verso il rosaio, continuò, – Cosa stavate facendo qui?

– Se così piace a Sua Maestà, – disse Due molto umilmente, piegando un


ginocchio mentre parlava, – stavamo cercando…

– Ho capito! – disse la Regina, che nel frattempo aveva esaminato le


rose. – Tagliategli la testa! – e il corteo procedette, mentre tre soldati
restavano indietro a eseguire la condanna a morte degli sfortunati
giardinieri, che corsero da Alice in cerca di protezione.

– Non vi taglieranno la testa! – disse Alice e li nascose in un gran vaso da


fiori che si trovava lì accanto. I tre soldati si misero alla loro ricerca per un
minuto o due, e poi marciarono via tranquillamente dietro agli altri.
– Gli avete tagliato la testa? – gridò la Regina.

– La loro testa è andata, a Sua Maestà piacendo! – gridarono in risposta i


soldati.

– Benissimo! – gridò la Regina. – Sai giocare a croquet?

I soldati non aprirono bocca e guardarono Alice, dato che la domanda era
evidentemente rivolta a lei.

– Sì! – gridò Alice.

– E allora vieni! – ruggì la Regina e Alice si unì al corteo, curiosa di


sapere cosa sarebbe successo.

– Che… che bella giornata! – disse una timida voce al suo fianco. Stava
camminando vicino al Coniglio Bianco che la guardava ansiosamente di
sottecchi.

– Molto bella, – disse Alice: – dov’è la Duchessa?

– Ssss! Ssss! – disse il Coniglio sottovoce e precipitosamente. Si guardò


preoccupato dietro le spalle, e poi, mettendosi in punta di piedi, accostò la
bocca all’orecchio di Alice, e sussurrò: – Sulla Duchessa pende una
condanna a morte.

– Che ha fatto?

– Hai detto “Che peccato!”? – chiese il Coniglio.

– No, per niente, – disse Alice. – Non penso che sia un peccato, ho detto
“Che ha fatto?”.

– Ha dato uno schiaffo alla Regina… – cominciò il Coniglio. Alice si


fece una bella risatina sonora. – Zitta! – sussurrò il Coniglio
spaventatissimo. – Se ti sente la Regina! Vedi, era arrivata piuttosto tardi, e
la Regina ha detto…
– Ai vostri posti! – gridò la Regina con voce tonante, e tutti si misero a
correre in ogni direzione inciampando gli uni sugli altri; tuttavia dopo un
paio di minuti si erano sistemati, e la partita cominciò. Alice pensò che non
aveva mai visto in vita sua un campo da croquet così strambo; era pieno di
buche e di solchi; le palle erano porcospini vivi, le mazze erano fenicotteri,
e i soldati dovevano piegarsi in due appoggiandosi sulle mani e sui piedi,
per fare gli archetti.

La cosa più difficile, per Alice, era maneggiare il fenicottero: riusciva a


sistemarselo sottobraccio abbastanza agevolmente, lasciando le zampe
penzoloni, ma in genere, proprio quando gli faceva tendere il collo per
bene, e stava per colpire con la testa il porcospino, quello si torceva e la
guardava in faccia con un’espressione così meravigliata che Alice non
poteva fare a meno di ridere: e quando gli faceva abbassare la testa, e stava
per ricominciare, era molto frustrante vedere che il porcospino aveva
smesso di rannichiarsi a palla e se la filava via: inoltre di solito c’era un
solco o una buca là dove lei voleva far rimbalzare il porcospino, e siccome i
soldati piegati in due continuavano a rialzarsi e se ne andavano via verso le
altre parti del campo, Alice ben presto giunse alla conclusione che si
trattava di un gioco molto, ma molto difficile.

I giocatori giuocavano tutti insieme senza aspettare il loro turno, e non


facevano che litigare e lottare tra di loro per impossessarsi dei porcospini; e
poco dopo l’inizio della partita la Regina, già in preda a una collera furiosa,
pestava i piedi e gridava in continuazione: – Tagliate la testa a quello lì! –
oppure – Tagliate la testa a quella là!

Alice cominciò a sentirsi molto a disagio: certo non aveva ancora avuto
una discussione con la Regina, ma la cosa poteva succedere da un momento
all’altro, “e allora,” pensava, “cosa mi succederà? A questi signori piace da
pazzi decapitare la gente; mi meraviglio che ci siano ancora tante teste in
giro!”.

Si guardò intorno per trovare il modo di fuggire, chiedendosi se fosse


possibile andarsene alla chetichella, quando notò per aria una bizzarra
apparizione che dapprima la stupì molto, ma dopo aver guardato bene per
qualche minuto, scoprì che era un sorriso, e disse tra sé: “È il Gatto del
Cheshire! Finalmente potrò parlare con qualcuno”.

– Come ti va? – chiese il Gatto, non appena ebbe abbastanza bocca per
parlare.

Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi gli fece un cenno col capo.
“È inutile parlargli, – pensò, fino a che non compaiono le orecchie, o
almeno una delle orecchie”. Dopo un altro minuto comparve tutta la testa, e
allora Alice posò a terra il fenicottero e, molto contenta di avere qualcuno
che l’ascoltava, cominciò a fare un resoconto della partita. Il Gatto
sembrava pensare di essersi fatto vedere a sufficienza, e non mostrò altre
parti di sé.
– Non credo che giochino in modo leale, – cominciò Alice, in tono
alquanto lamentoso – e litigano sbraitando a tal punto che non si sente
nemmeno la propria voce… e sembra che non seguano nessuna regola; o
almeno, se anche ci sono delle regole, nessuno le osserva… e non hai idea
di come sia complicato dato che tutte le cose sono vive: per esempio,
l’archetto a cui dovrei mirare si sposta dall’altra parte del campo… e
proprio adesso avrei dovuto colpire il porcospino della Regina, ma quello è
scappato quando ha visto arrivare il mio!

– Ti piace la Regina? – chiese il Gatto a bassa voce.

– Non mi piace per niente, – disse Alice: – è estremamente… – In quel


momento si accorse che la Regina era dietro a lei e stava ascoltando:
dunque continuò: – Probabile che vinca, non vale nemmeno la pena di finire
la partita.

La Regina fece un sorrisino e passò oltre.

– Si può sapere con chi stai parlando? – chiese il Re avvicinandosi ad


Alice e guardando la testa del Gatto con molta curiosità.

– È un mio amico: un Gatto del Cheshire – disse Alice – mi permetta di


presentarglielo.

– Ha un’aria che non mi piace per niente, – disse il Re: – ma può


baciarmi la mano se vuole.

– Preferirei di no, – osservò il Gatto.

– Non essere impertinente, – disse il Re, – e non fissarmi in quel modo! –


Mentre parlava si nascose dietro ad Alice.

– Un gatto può ben guardare un Re, – disse Alice. – L’ho letto in un libro
ma non ricordo quale.

– In ogni caso bisogna toglierlo di mezzo, – disse il Re in tono molto


deciso, e chiamò la Regina che passava di lì proprio in quel momento. –
Mia cara! Vorrei che tu facessi allontanare questo gatto!
La Regina conosceva un solo modo per risolvere le difficoltà, grandi o
piccole. – Tagliategli la testa! – disse, senza nemmeno voltarsi a guardare.

– Vado io stesso a chiamare il boia, – disse il Re prontamente, e si


allontanò in fretta.

Alice pensò che tanto valeva ritornare a vedere come stava andando la
partita perché sentiva in lontananza la voce infuriata della Regina. L’aveva
già sentita condannare a morte tre giocatori che avevano perso il loro turno,
e non le piaceva affatto come si stavano mettendo le cose; la partita era in
un tale stato di confusione che lei non sapeva mai se era il suo turno o no.
Perciò andò in cerca del suo porcospino.

Il porcospino era impegnato in una furiosa lotta contro un altro


porcospino, il che parve ad Alice una buona occasione per colpirne due in
un sol colpo: l’unica difficoltà era che il suo fenicottero se n’era andato
dalla parte opposta del campo e di là cercava inutilmente di volare su uno
degli alberi.

Quando Alice riuscì finalmente a catturare il fenicottero e a riportarlo


indietro, la lotta era terminata e i porcospini erano spariti: “Ma non ha
molta importanza,” pensò Alice, “visto che in questa zona del campo se ne
sono andati via anche tutti gli archetti”. Così prese il fenicottero sotto
braccio, perché non scappasse di nuovo, e tornò indietro per fare due
chiacchiere con il suo amico.
Quando ritornò dal Gatto del Cheshire, fu sorpresa di vedergli una gran
folla intorno: c’era una discussione tra il boia, il Re e la Regina, che
parlavano tutti insieme, mentre gli altri tacevano e sembravano sulle spine.

Nel momento in cui comparve Alice tutti le chiesero di risolvere la


faccenda, e le ripeterono le proprie ragioni, anche se, dato che parlavano
tutti insieme, era davvero molto difficile capire cosa esattamente dicessero.

La tesi del boia era che non si poteva tagliare la testa se non c’era un
corpo da cui tagliarla: che non aveva mai dovuto fare una cosa simile prima
di allora, e che non avrebbe cominciato proprio adesso, alla sua età.
La tesi del Re era che se una testa c’è, la si può anche tagliare, e senza
tante storie.

La tesi della Regina era che se non si faceva qualcosa più che subito, lei
avrebbe condannato tutti a morte, nessuno escluso. (Era stata quest’ultima
osservazione a rendere gli astanti così seri e ansiosi).

Ad Alice non venne in mente nient’altro da dire che: – Il Gatto è della


Duchessa: sarà meglio che chiediate a lei.

– La Duchessa è in prigione, – disse la Regina al boia: – Portatela qui. –


E il boia filò via come una freccia.

Proprio in quel momento la testa del Gatto cominciò a scomparire, e


quando il boia fu di ritorno con la Duchessa era già scomparsa del tutto;
dunque il Re e il boia, correndo come pazzi qua e là, si misero alla ricerca
del Gatto, mentre il resto della compagnia riprendeva a giocare.
Capitolo IX
Storia della Finta Tartaruga

– Non puoi immaginare quanto sia contenta di rivederti, vecchia mia! –


disse la Duchessa, prendendo affettuosamente Alice sottobraccio e
avviandosi con lei.

Alice era molto contenta di trovarla di umore così gradevole, e pensò tra
sé che forse era stato soltanto il pepe a renderla così feroce quando si erano
incontrate in cucina.
“Quando sarò Duchessa io” – disse tra sé (non che ci sperasse molto),
non voglio avere nemmeno un granello di pepe nella mia cucina. La
minestra è buonissima anche senza pepe…” – Forse è proprio il pepe a
rendere nervose le persone, – continuò, molto soddisfatta di aver scoperto
una nuova teoria, – e l’aceto le rende acide… e… la camomilla le rende
amare… e lo zucchero d’orzo e altre cose simili tengono tranquilli i
bambini. Peccato che gli adulti non lo sappiano: non sarebbero così avari di
zucchero.

A questo punto aveva completamente dimenticato la Duchessa e trasalì


sentendone la voce sussurrarle all’orecchio. – A cosa stai pensando, carina?
Perché ti dimentichi di parlare? In questo momento non so dire quale
morale si ricavi da tutto questo, ma tra poco mi verrà in mente.

– Forse non c’è una morale, – azzardò Alice.

– Macché, macché, bambina! – disse la Duchessa. – C’è sempre una


morale, basta trovarla. – E mentre parlava si strinse ancora di più al fianco
di Alice.

Ad Alice non piaceva che le stesse così vicina: primo perché la Duchessa
era molto brutta; e secondo perché la sua altezza era tale che il suo mento
poggiava esattamente sulla spalla di Alice, ed era un mento scomodo e
aguzzo. Ad Alice tuttavia non piaceva essere sgarbata, perciò sopportò la
cosa meglio che poté. – Sembra che la partita stia andando meglio ora, –
disse.

– Proprio così, – disse la Duchessa; – la morale è questa… “È l’amore,


l’amore, che fa girare il mondo!”.

– C’è chi sostiene, – sussurrò Alice, – che il mondo gira se ciascuno bada
agli affari suoi!

– Mah, è più o meno la stessa cosa, – disse la Duchessa, conficcando il


mento puntuto e aguzzo nella spalla di Alice mentre aggiungeva, – e questa
volta la morale è… “Bada al senso e i suoni si aiuteranno da soli”.
“Come le piace trovare una morale nelle cose!” pensò Alice tra sé.

– Forse ti stai chiedendo perché non ti metto il braccio intorno alla vita, –
disse la Duchessa dopo una pausa: – la ragione è che ho dei dubbi riguardo
all’umore del tuo fenicottero. Debbo fare l’esperimento?

– Potrebbe pizzicarla, – rispose Alice prudentemente, per niente


desiderosa di un tale esperimento.

– Giustissimo, – disse la Duchessa, – i fenicotteri e la mostarda


pizzicano. E la morale è… “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

– Però la mostarda non è un uccello, – osservò Alice.

– Giusto, anche questo, – disse la Duchessa: – che bel modo chiaro hai di
dire le cose! –

– È un minerale, mi sembra – disse Alice.

– Giustissimo, – disse la Duchessa che sembrava pronta a dar ragione ad


Alice in tutto: – c’è una miniera di mostarda qui vicino. E la morale è…
“Più ce n’è per te meno ce n’è per me”.

– Adesso mi ricordo! – esclamò Alice, che non aveva sentito


quest’ultima osservazione. – È un vegetale. Non sembrerebbe, dall’aspetto,
ma lo è.

– Sono assolutamente d’accordo con te, – disse la Duchessa, – e la


morale è… “L’abito fa il monaco”… o per dirla più semplicememte…
“Non immaginarti mai di non essere diversa da quel che potrebbe sembrare
agli altri che tu fossi, o di esser diversa da quel che avresti potuto essere se
fossi sembrata diversa a loro”.

– Credo che capirei meglio questa frase – disse Alice educatamente, – se


la vedessi scritta: ma temo di non poter capire quel che lei dice mentre lo
dice.

– Questo è niente rispetto a quel che potrei dire se volessi, – rispose la


Duchessa in tono compiaciuto.
– Prego, non si disturbi a farla più lunga, – disse Alice.

– Oh, nessun disturbo! – disse la Duchessa. – Ti regalo tutto quel che ho


detto finora.

“Un regalo che non costa molto!” pensò Alice. “Per fortuna non mi fanno
di questi regali per il mio compleanno!”. Ma non si arrischiò a dirlo a voce
alta.

– Stai ancora pensando? – chiese la Duchessa con un altro affondo del


suo mento aguzzo.

– Ho il diritto di pensare, – disse Alice stizzosamente, perché cominciava


a essere un poco preoccupata.

– Tanto quanto – disse la Duchessa, – i porcelli han il diritto di volare; e


la mo…

Ma qui, con gran sorpresa di Alice, la voce della Duchessa si affievolì


proprio in mezzo alla sua parola preferita, “morale”, e il braccio allacciato
al suo cominciò a tremare. Alice alzò gli occhi: la Regina era davanti a loro,
con le braccia incrociate e un cipiglio tempestoso.

– Bella giornata, Sua Maestà! – cominciò la Duchessa con una vocina


flebile.

– Dunque, ti avverto, – gridò la Regina, battendo i piedi per terra mentre


parlava; – o tu o la tua testa dovete togliervi di torno, e in meno di un
secondo! Scegli pure!

La Duchessa scelse subito, e in men che non si dica se n’era andata.

– Continuiamo a giocare, – disse la Regina ad Alice, e Alice, troppo


spaventata per poter dire una parola, la seguì verso il campo da gioco.

Gli altri ospiti avevano approfittato dell’assenza della Regina per


riposarsi all’ombra: ma appena la videro si affrettarono a riprendere la
partita mentre la Regina si limitava a osservare che un minuto di ritardo
sarebbe costato la vita a tutti.
Per tutta la durata del gioco la Regina non smise mai di litigare con gli
altri giocatori, e di gridare “Tagliategli la testa!” oppure “Tagliatele la
testa!”. Chi era condannato veniva messo in guardina dai soldati, che
naturalmente dovevano smettere di fare gli archetti, cosicché in capo a
mezz’ora non c’era più un archetto, e tutti i giocatori, tranne il Re, la
Regina e Alice, erano sotto sorveglianza e in attesa di essere giustiziati.

Allora la Regina, ormai quasi senza fiato, smise di giocare e chiese ad


Alice, – Hai già visto la Finta Tartaruga?

– No, – disse Alice. – Non so nemmeno cosa sia una Finta Tartaruga.

– Serve per fare il brodo di Finta Tartaruga, – disse la Regina.

– Mai vista e mai sentita. – disse Alice.

– Allora vieni con me – disse la Regina, – e lei stessa ti racconterà la sua


storia.

Mentre si avviavano insieme, Alice sentì che il Re diceva a voce bassa,


rivolgendosi alla compagnia: – Siete tutti graziati. – “Questa sì che è una
buona cosa!” disse Alice tra sé, perché si era molto dispiaciuta per il
numero di esecuzioni ordinate dalla Regina.

Ben presto incontrarono un Grifone, che se la dormiva sdraiato al sole.


(Se non sapete cos’è un Grifone, guardate la figura). – Tirati su, pigrone! –
disse la Regina. – Accompagna questa signorina a vedere la Finta Tartaruga
e ad ascoltare la sua storia. Io devo tornare indietro per occuparmi di certe
esecuzioni che ho ordinato – e se ne andò, lasciando Alice da sola con il
Grifone. Ad Alice non piaceva granché l’aspetto di quella creatura, ma tutto
sommato pensò che restare in sua compagnia non sarebbe stato più
pericoloso che seguire quella spietata Regina: dunque rimase.
Il Grifone si tirò su e si sfregò gli occhi, poi seguì con lo sguardo la
Regina fino a quando questa non fu scomparsa. Dopo di che ridacchiò: –
Divertente! – disse il Grifone, per metà a se stesso e per metà ad Alice.

– Cosa c’è di tanto divertente? – chiese Alice.

– Lei, – rispose il Grifone. – È tutta una sua fantasia, quella: non


eseguono mai le condanne. Su, sbrigati!

“Tutti dicono: ‘Su sbrigati!’ da queste parti” pensò Alice, mentre lo


seguiva lentamente, “non ho mai ricevuto tanti ordini in vita mia, mai!”.

Non si erano allontanati di molto quando videro in distanza la Finta


Tartaruga, triste e solitaria, su una sporgenza degli scogli; mentre si
avvicinavano, Alice la sentì sospirare come se le si spezzasse il cuore. Le
fece molta pena. – Che dispiaceri ha? – chiese al Grifone, e il Grifone
rispose, quasi con le stesse parole di prima, – È tutta una fantasia, non ha
nessun dispiacere. Sbrigati!

Così andarono dalla Finta Tartaruga, che li guardò con i suoi grandi occhi
lacrimosi, ma non disse niente.

– Questa signorina qui, – disse il Grifone, – vuol sapere la tua storia,


sissignore.
– Ora gliela racconto, – disse la Finta Tartaruga, in tono cavernoso e
profondo: – sedetevi tutti e due, e non dite una parola finché non avrò
finito.

Così si sedettero, e nessuno disse niente per qualche minuto. Alice pensò
tra sé, “Non vedo come questa storia potrà mai finire, se non la comincia”.
Ma restò pazientemente in attesa.

– Un tempo, – disse infine la Finta Tartaruga con un profondo sospiro, –


ero una Vera Tartaruga.

Queste parole furono seguite da un lunghissimo silenzio, solo interrotto


di tanto in tanto dall’esclamazione del Grifone: – “Hjckrrh!” – e dai
continui forti singhiozzi della Finta Tartaruga. Alice stava quasi per alzarsi
e dire, – Grazie tante, cara signora, per la sua interessante storia, – ma non
poté fare a meno di pensare che ci doveva essere una storia in arrivo, così se
ne restò seduta e non disse niente.

– Quando eravamo piccoli, – continuò finalmente la Finta Tartaruga, più


calma, sebbene singhiozzasse ancora ogni tanto, – andavamo a scuola in
mare. Il maestro era una vecchia Tartaruga – noi lo chiamavamo
Testuggine…

– Perché lo chiamavate Testuggine, se non lo era? – chiese Alice.

– Lo chiamavamo Testuggine perché era molto testarda e ci spiegava i


testi, – disse la Finta Tartaruga in collera: – sei proprio tonta!

– Dovresti vergognarti di fare delle domande così stupide, – aggiunse il


Grifone; e poi se ne restarono entrambi zitti a guardare la povera Alice, che
avrebbe voluto sprofondare. Finalmente il Grifone disse alla Finta
Tartaruga, – Vai avanti, vecchia mia! Non metterci un giorno intero! – e la
Tartaruga continuò con queste parole:

– Sì, andavamo a scuola in mare, sebbene tu non ci voglia credere…

– Non ho mai detto che non ci credevo! – interruppe Alice.


– Sì che l’hai detto, – disse la Finta Tartaruga.

– Sta’ zitta! – aggiunse il Grifone, prima che Alice potesse dire un’altra
parola. La Finta Tartaruga continuò:

– Era una delle migliori scuole… in effetti, andavamo a scuola tutti i


giorni…

– Anch’io sono stata a scuola simile, – disse Alice; – non c’è bisogno di
darsi tante arie.

– Con gli extra? – chiese la Finta Tartaruga con una certa ansia.

– Sì, – disse Alice, – c’erano lezioni di francese e di musica.

– E di bucato? – chiese la Finta Tartaruga.

– No di certo! – replicò Alice indignata.

– Ah! Allora la tua non era veramente una buona scuola, – disse la Finta
Tartaruga con grande sollievo. – Invece nella nostra, alla fine del conto
c’era scritto, “Francese, musica e bucato – extra”.

– Non ci sarà stato un gran bisogno di bucato, se abitavate in fondo al


mare.

– Gli extra non me li sono potuta permettere, – disse la Finta Tartaruga


con un sospiro. Seguivo soltanto le lezioni regolari.

– E quali erano? – si informò Alice.

– Reggere e Stridere, tanto per cominciare, – rispose la Finta Tartaruga; e


poi i diversi rami dell’Aritmetica – Ambizione, Distrazione, Bruttificazione
e Derisione.

– Non ho mai sentito parlare della “Bruttificazione”, – si arrischiò a dire


Alice. – Cos’è?
Il Grifone alzò tutte e due le zampe per la sorpresa. – Come! Non hai mai
sentito parlare della Bruttificazione! – esclamò. – Ma sai cosa vuol dire
abbellire, suppongo?

– Sì, – disse Alice con aria dubbiosa: – vuol dire… rendere… più bella…
una cosa.

– Allora, – continuò il Grifone, – se non sai cosa vuol dire bruttificare,


devi essere proprio una sempliciotta.

Alice non si sentì incoraggiata a fare altre domande in proposito, perciò


si rivolse alla Finta Tartaruga, e chiese: – Cos’altro dovevate studiare?

– Beh, c’era Mistero, – rispose la Finta Tartaruga contando le materie


sulle pinne, – Mistero, antico e moderno, con Geografia marina; poi
Disimpegno… il maestro di Disimpegno era un vecchio grongo, che veniva
una volta alla settimana: ci insegnava Disimpegno, Schizzo, e Svenimento a
Spirale.

– Che roba è quella? – chiese Alice.

– Be’, non posso fartelo vedere, – disse la Finta Tartaruga. – Sono troppo
rigida. E il Grifone non l’ha mai imparato.

– Non avevo tempo, – disse il grifone; – però sono andato dal maestro di
Materie Classiche. Quello sì che era un vecchio granchio…

– Io da lui non ci sono mai andata, – disse la Finta Tartaruga con un


sospiro: – Insegnava Riso Latino e Pianto Greco, così dicevano.

– Proprio così, proprio così, – disse il Grifone, sospirando a sua volta, e


qui entrambe le creature si nascosero il viso tra le zampe.

– E quante ore di lezione avevate al giorno? – chiese Alice, ansiosa di


cambiare argomento.

– Dieci ore il primo giorno, – disse la Finta Tartaruga: – nove il


successivo, e così via.
– Che strano orario! – esclamò Alice.

– Per questo sono chiamate lezioni, – osservò il Grifone: – Perché ogni


giorno vengono lesinate.

Quest’idea le risultò del tutto nuova e Alice rifletté un poco prima di fare
un’altra osservazione: – Allora l’undicesimo giorno era vacanza?

– Certo che era vacanza. – disse la Finta Tartaruga.

– E cosa facevate il dodicesimo giorno? – continuò Alice, molto


interessata.

– Basta così sulle lezioni, – interruppe il Grifone in tono molto deciso: –


ora raccontale qualcosa dei giochi.
Capitolo X
La Quadriglia delle Aragoste

La Finta Tartaruga sospirò profondamente, e si coprì gli occhi con il


dorso di una pinna. Guardò Alice e tentò di parlare, ma per qualche minuto
i singhiozzi le soffocarono la voce. – Sta’ a vedere che le è rimasta una
spina in gola. – disse il Grifone, e si mise subito a scuoterla e a darle dei
colpi sulla schiena. Alla fine la Finta Tartaruga recuperò la voce e mentre le
lacrime le rigavano le guance, riprese a parlare: – Può darsi che tu non
abbia vissuto a lungo in fondo al mare… – (– Non ci ho vissuto mai, – disse
Alice) – e forse non ti hanno mai presentato un’aragosta… – (Alice stava
per dire: – Una volta ne ho assaggiata una… – ma si corresse in fretta, e
disse: – No, mai). – … dunque non avrai idea di quanto sia deliziosa una
Quadriglia di Aragoste!

– No, davvero, – disse Alice. – Che tipo di ballo è?

– Ecco, – disse il Grifone, – prima di tutto bisogna mettersi in fila lungo


la riva del mare…

– Due file! – gridò la Finta Tartaruga. – Foche, tartarughe, salmoni e così


via; poi, quando ci si è liberati delle meduse…

– Di solito ci vuole parecchio tempo, – la interruppe il Grifone.

– … si fanno due passi in avanti…

– Ciascuno in coppia con un’aragosta! – gridò il Grifone.

– Naturalmente, – disse la Finta Tartaruga: – si fanno due passi in avanti,


in coppia…

– … ci si scambia la ballerina, e ci si ritira nello stesso ordine, – continuò


il Grifone.

– Dopo di che, ecco, – continuò la Finta Tartaruga, – si lanciano le…


– Le aragoste! – gridò il Grifone, con un balzo per aria.

– … in mare il più lontano possibile…

– Si nuota all’inseguimento! – strillò il Grifone.

– Si fa un salto mortale nell’acqua! – urlò la Finta Tartaruga, facendo


folli capriole qua e là.

– Ci si scambia di nuovo le aragoste! – sbraitò il Grifone.

– Si torna a terra e… sì, questa è la prima figura, – disse la Finta


Tartaruga, abbassando improvvisamente la voce: e le due creature, che fino
ad allora avevano saltellato qua e là come pazze, si sedettero nuovamente
molto calme e tristi, e guardarono Alice.

– Dev’essere un ballo graziosissimo, – disse Alice, timidamente.

– Ti piacerebbe vederne un po’? – chiese la Finta Tartaruga.

– Mi piacerebbe moltissimo, – rispose Alice.

– Allora proviamo la prima figura! – disse la Finta Tartaruga al Grifone.


– Possiamo fare a meno delle aragoste, vero? Chi canta?

– Oh, canta tu, – disse il Grifone. – Non mi ricordo le parole.


Così cominciarono solennemente a danzare intorno ad Alice, pestandole i
piedi ogni tanto quando erano troppo vicini, e battendo il tempo con le
zampe davanti, mentre la Finta Tartaruga cantava molto lentamente e
tristemente questa canzone:

– Puoi andare un po’ più in fretta? – fa il merluzzo alla lumaca.


– C’è un delfino che ci insegue, e che mi pesta la coda.
Guarda come audaci danzano aragoste e tartarughe!
Tu che attendi sulla riva – vuoi unirti a questa danza?
Vuoi o non vuoi, vuoi o non vuoi, danzare con noi?
Vuoi o non vuoi, vuoi o non vuoi, danzare con noi?
– Tu non puoi sapere quanto delizioso sia danzare,
esser spinti in alto e poi, con le aragoste, esser gettati in mare!
La lumaca allor rispose ringraziando gentilmente
il merluzzo e poi aggiunse: – Ma è lontano, troppo, il mare!
– No, – gli disse, – no, non posso, no, non voglio, non mi sento di
danzare.
– No, – gli disse, – no, non posso, no, non voglio, non mi sento di
danzare.

– Non importa se è lontano – disse a lei quello squamoso


amichevole merluzzo, – c’è una riva qui vicino.
L’Inghilterra è assai lontana, ma la Francia è più vicina.
Amatissima lumaca, non avere più paura, vieni pure qui a danzare.
Vuoi, non vuoi, vuoi non vuoi, anche tu danzar con noi?
Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, anche tu danzar con noi?

– Grazie, è un ballo molto interessante da vedere, – disse Alice, molto


contenta che fosse finalmente finito: – e mi piace moltissimo quella strana
canzone del merluzzo!

– Oh, quanto ai merluzzi, – disse la Finta Tartaruga, – tu ne hai visti,


vero?

– Sì, – disse Alice, – li ho visti spesso a cen… – subito si trattenne.

– Non so dove possa essere Cen, – disse la Finta Tartaruga, – ma se li hai


visti spesso naturalmente saprai come sono fatti.

– Credo di sì, – rispose Alice pensosamente. – Hanno la coda in bocca…


e sono impanati.

– Ti sbagli, non sono impanati, – disse la Finta Tartaruga: – l’impanatura


si disferebbe nell’acqua. Ma è vero che hanno la coda in bocca; e il motivo
è che… – qui la Finta Tartaruga sbadigliò e chiuse gli occhi. – Dille il
motivo e tutto il resto – disse al Grifone.

– Il motivo è, – disse il Grifone, – che i merluzzi a ballare con le aragoste


ci andavano davvero. E così venivano lanciati in mare. Facevano dei gran
voli tenendosi la coda in bocca. E poi non riuscirono più a toglierla di lì.
Ecco tutto.

– Grazie, – disse Alice, – è molto interessante. Non sapevo molte cose


sui merluzzi prima.

– Te ne posso dire molte altre, se vuoi, – disse il Grifone. – Sai perché si


chiama merluzzo?

– Non ci ho mai pensato, – disse Alice. – Perché?

– Perché merlucida le scarpe e gli stivali, – rispose il Grifone con aria


d’importanza.

Alice era estremamente perplessa. – Merlucida le scarpe e gli stivali? –


ripeté in tono interrogativo.

– A te le scarpe con cosa le puliscono? Cosa le rende così lucide? – Alice


se le guardò e rifletté un momento prima di rispondere: – Le lustrano col
lucido nero, mi sembra.

– Le scarpe e gli stivali che si trovano in fondo al mare, – proseguì il


Grifone con voce profonda, – si lustrano col bianchetto. Ora lo sai.

– Scarpe e stivali laggiù di cosa sono fatti? – chiese Alice con grande
curiosità.

– Di sogliole e tacchigliole, naturalmente, – rispose il Grifone


spazientito, – questo te lo può dire qualsiasi gamberetto.

– Se fossi stata al posto del merluzzo, – disse Alice, i cui pensieri


riandavano alla canzone, – avrei detto al delfino: “Fatti in là, non ti
vogliamo con noi!”.

– Dovevano per forza portarlo con loro, – disse la Finta Tartaruga: –


inoltre nessun pesce intelligente andrebbe da nessuna parte senza un pro.

– Veramente? – chiese Alice molto sorpresa.


– Ma certo, – disse la Finta Tartaruga: – per esempio, se un pesce venisse
da me e mi dicesse che va a fare un viaggio, io gli chiederei: “A che pro?”.

– Ma forse volevi dire “a che scopo”?

– Voglio dire quel che dico, – rispose la Finta Tartaruga in tono offeso. E
il Grifone aggiunse: – Su, sentiamo qualcuna delle tue avventure.

– Potrei raccontarvi le mie avventure… cominciando da stamattina, –


disse Alice un po’ intimidita, – ma è inutile riandare a ieri perché allora ero
un’altra persona.

– Spiegaci tutto, – disse la Falsa Tartaruga.

– No, no! Prima le avventure, – disse il Grifone con impazienza, – le


spiegazioni non finiscono mai.

Così Alice cominciò a raccontare le sue avventure dal momento in cui


aveva visto il Coniglio Bianco. Dapprima era un po’ nervosa, perché le due
creature le stavano così vicino, una da un lato e l’altra dall’altro, e
spalancavano tanto gli occhi e la bocca, ma andando avanti si fece coraggio.
I suoi ascoltatori restarono in perfetto silenzio fino a quando si arrivò al
punto in cui Alice recitava Così vecchio come sei al Bruco, con le parole
che venivano fuori tutte diverse; la Finta Tartaruga tirò un gran sospiro e
disse: – È una storia molto curiosa.

– È la storia più curiosa che ci sia, – disse il Grifone.

– Le parole venivano fuori tutte diverse! – ripeteva pensosamente la Finta


Tartaruga. – Mi piacerebbe che provasse a recitare qualcosa a memoria
adesso. Dille di cominciare. – Guardò il Grifone come se costui avesse una
qualche autorità su Alice.

– Alzati in piedi e recita È la voce del fannullone – disse il Grifone.


“A queste creature piace molto comandare e far ripetere le lezioni!”
pensò Alice. “Tanto varrebbe essere a scuola”. Tuttavia si alzò e cominciò a
recitare, ma aveva ancora in mente la Quadriglia delle Aragoste e lei stessa
non sapeva cosa andasse dicendo, le parole erano davvero strambe:

– È la voce dell’Aragosta; l’ho sentita dichiarare,


“Tu mi hai cotta troppo al forno, ho bisogno di un contorno”.
Come un’anatra si fa bella, così l’Aragosta si lustra,
Allo specchio si aggiusta la cintura, si mostra.
Se asciutta è la sabbia diventa estroversa e allegra conversa
E in tono sdegnoso accenna allo squalo, ma invece con timido suono
Tremante si esprime allorquando con l’alta marea vede intorno
A sé tutta una schiera di squali a darle il buon giorno.

– È diversa da come la sapevo io da piccolo, – disse il Gri-fone.

– Non l’ho mai sentita prima d’ora, – disse la Finta Tartaruga; – ma


sembra decisamente assurda.

Alice non disse niente; si era seduta con il viso tra le mani, chiedendosi
se le cose sarebbero mai ritornate a essere nel solito modo.

– Mi piacerebbe avere una spiegazione, – disse la Finta Tartaruga.

– Non è in grado di dare spiegazioni, – disse in fretta il Grifone. –


Continua coi versi successivi.

– Ma come faceva a dire che era troppo cotta? – insistette la Finta


Tartaruga.

– Può succedere a volte, – disse Alice, ma lei stessa era tremendamente


perplessa, e avrebbe voluto cambiare argomento.

– Va avanti coi versi successivi, – ripeté impaziente il Grifone: –


Comincia con le parole “Vidi nel suo giardino”.

Alice non osò disubbidire, benché fosse sicura che le pa-role non
sarebbero state quelle giuste, e continuò con voce tremante:

Vidi nel suo giardino, con una sola occhiata


Il Gufo e la Pantera davanti a una torta salata;
La Pantera sceglieva la crosta, il ripieno e il condito,
Mentre al Gufo toccava soltanto il piatto sguarnito.
Finita la torta, al Gufo fu in premio concesso con gran cortesia
Di mettersi in tasca il cucchiaio e portarselo via:
La Pantera ringhiando si tenne coltello e forchetta,
E concluse il banchetto in gran fretta…

– Che senso ha ripetere tutta quella lagna, – interruppe la Finta Tartaruga,


– se non ce la spieghi a mano a mano che vai avanti? È in assoluto il più
gran pasticcio che io abbia mai sentito!

– Sì, faresti meglio a lasciar perdere, – disse il Grifone: e Alice fu ben


contenta di smettere.

– Vogliamo tentare un’altra figura della Quadriglia dell’Aragosta? –


continuò il Grifone. – O preferisci che la Finta Tartaruga ti canti una
canzone?

– Una canzone, per piacere, se la Finta Tartaruga volesse essere così


gentile, – rispose Alice, con tanto entusiasmo che il Grifone disse in un tono
alquanto offeso: – Mm! Tutti i gusti son gusti! Cantale Zuppa di Tartaruga,
vuoi, vecchia mia?

La Finta Tartaruga fece un profondo sospiro, e cominciò, con voce spesso


soffocata dai singhiozzi, a cantare così:

Zuppa meravigliosa, così verdina e sostanziosa,


Dentro la calda zuppiera!
Chi non vorrebbe mangiarsela tutta?
Zuppa serale, meravigliosa Zuppa!
Zuppa serale, meravigliosa Zuppa!
Me-ra-viglio-sa Zuppa!
Me-ra-viglio-sa Zuppa!
Zu-ppa della se-e-ra!
Meravigliosa, meravigliosa Zuppa!

Meravigliosa Zuppa! No, io non amo affatto


Né pesce, né cinghiale, né qualsiasi altro piatto!
Chi non darebbe qualsiasi altra cosa per
Due soldi della Zuppa Meravigliosa aver?
Due soldi della Meravigliosa Zuppa?
Me-ra-viglio – sa Zuppa!
Me-ra-viglio – sa Zuppa!
Zu-ppa della se-ra,
Meravigliosa, Meraviglio-SA ZUPPA!
– Coro, ancora una volta! – gridò il Grifone, e la Finta Tartaruga aveva
appena cominciato a ripetere il ritornello, quando si sentì gridare in
distanza: “Comincia il processo!”.

– Sbrigati! – gridò il Grifone, e trascinando Alice per mano, se ne andò


via in gran fretta, senza aspettare la fine della canzone.

– Che processo è? – chiese ansimando Alice mentre correva; ma il


Grifone rispose soltanto: – Sbrigati! – e si mise a correre sempre più forte
mentre, portate dalla brezza che li seguiva e sempre più flebili, giungevano
le malinconiche parole:

– Zu-ppa della se-e-ra,


Meravigliosa, meravigliosa Zuppa!
Capitolo XI
Chi ha rubato le crostate?

Al loro arrivo il Re e la Regina di Cuori erano seduti sul trono, circondati


da una gran folla: c’erano uccellini e animaletti di ogni specie, più l’intero
mazzo di carte. Davanti a tutti se ne stava il Fante, incatenato tra due soldati
che lo sorvegliavano; e vicino al Re si trovava il Coniglio Bianco, con una
tromba in una mano e un rotolo di pergamena nell’altra. Proprio in mezzo
all’aula c’era un tavolo con sopra un gran piatto di crostatine: avevano
un’aria così appetitosa che ad Alice venne fame solo a guardarle. “Vorrei
che si sbrigassero col processo”, pensò, “e servissero i rinfreschi!” Ma non
pareva probabile che questo avvenisse, e dunque cominciò a guardarsi
intorno, per passare il tempo.

Alice non era mai stata in un tribunale, ma aveva letto qualcosa in merito
nei libri e fu molto soddisfatta di vedere che conosceva i nomi di quasi tutte
le cose che vi si trovavano. “Quello è il giudice,” disse tra sé e sé, “lo
riconosco da quella gran parrucca”.

Il giudice, a proposito, era il Re; e siccome teneva la corona sopra la


parrucca (se vuoi vedere come faceva guarda il frontespizio) non aveva
l’aria di sentirsi a suo agio, e certamente la cosa non gli donava.

“E quello è il banco della giuria,” pensò Alice, “e quelle dodici creature”


(eh sì, doveva per forza dire “creature”, perché alcune di loro erano animali,
e alcune erano uccelli) “devono essere i giurati”. Ripeté tra sé quest’ultima
parola due o tre volte, essendone assai fiera: perché pensava, a ragione, che
pochissime bambine della sua età ne sapessero il significato. In ogni caso le
parole “membri della giuria” sarebbero andate altrettanto bene.

I dodici giurati erano tutti indaffaratissimi a scrivere su certe lavagnette.


– Cosa fanno? – sussurrò Alice al Grifone. – Non dovrebbero aver niente da
annotare ora che il processo non è ancora cominciato.
– Scrivono il proprio nome, – le rispose sussurrando il Grifone, – per
paura di dimenticarlo prima che finisca il processo.

– Che stupidi! – cominciò a dire Alice a voce alta e indignata, ma si


fermò subito, perché il Coniglio Bianco aveva gridato: – Silenzio in aula! –
e il Re si era messo gli occhiali guardandosi ansiosamente intorno, per
vedere chi stava parlando.

Alice vide chiaramente, come se si trovasse alle loro spalle, che tutti i
giurati stavano scrivendo “Che stupidi!” sulle loro lavagnette e riuscì a
vedere che uno di loro non sapeva come si scrive “stupido” e che doveva
rivolgersi al vicino perché glielo dicesse. “Saranno piene di scarabocchi
quelle lavagne, prima che finisca il processo!” pensò Alice.
Uno dei giurati aveva un gessetto che strideva. Ovviamente quel rumore
era insopportabile: perciò Alice fece il giro dell’aula, gli si mise alle spalle
e ben presto trovò il modo di prendergli il gessetto. Lo fece così in fretta
che il povero piccolo giurato (era Bill, il Lucertolino) non riuscì a capire
cosa fosse successo; così, dopo averlo cercato dappertutto, fu costretto a
scrivere con un dito per il resto della giornata; e la cosa era di scarsa utilità,
perché il dito non lasciava segni sulla lavagna.

– Araldo, leggi l’accusa! – disse il Re.

Al che il Coniglio Bianco diede fiato alla tromba facendone uscire tre
squilli, poi dispiegò la pergamena, e lesse quel che segue:

La Regina di Cuori ha fatto le crostate


Un bel giorno d’estate:
Il Fante di Cuori ha rubato le crostate
E via se le è portate!

– Formulate il verdetto! – disse il Re alla giuria.

– Non ancora, non ancora! – lo interruppe in fretta il Coniglio. – Ci sono


molte altre cose da fare prima!

– Chiamate il primo testimone, – disse il Re; e il Coniglio Bianco fece


risuonare tre squilli di tromba e chiamò con voce stentorea: – Primo
testimone!

Il primo testimone era il Cappellaio. Entrò con una tazza di tè in una


mano e un pezzetto di pane e burro nell’altra. – La prego di scusarmi,
Maestà, – attaccò, – se mi presento così, ma non avevo finito di prendere il
tè quando mi hanno convocato.

– Avresti dovuto finire, – disse il Re. – Quando avevi cominciato?

Il Cappellaio guardò la Lepre Marzolina, che lo aveva seguito in


tribunale, a braccetto con il Ghiro. – Credo che fosse il quattordici di
marzo. – disse.

– Il quindici, – disse la Lepre Marzolina.

– Il sedici, – aggiunse il Ghiro.

– Mettete a verbale, – disse il Re ai giurati, e i giurati si affrettarono a


scrivere tutte e tre le date sulle lavagnette, poi le sommarono e convertirono
il risultato in pence e scellini.

– Togliti il cappello, – disse il Re al Cappellaio.

– Non è mio, – disse il Cappellaio.

– Rubato! – esclamò il Re rivolgendosi ai giurati, che subito presero nota


della faccenda.

– Li tengo per venderli, – aggiunse il Cappellaio come spiegazione: – non


ne ho di miei. Faccio il cappellaio.

Qui la Regina inforcò gli occhiali, e cominciò a guardare fissamente il


Cappellaio, che impallidì e cominciò a innervosirsi.
– Fai la tua deposizione, – disse il Re; – e non ti innervosire, o ti farò
giustiziare seduta stante.

Questo non parve affatto incoraggiare il testimone: continuava ad


appoggiarsi ora su un piede ora sull’altro, e pareva a disagio; guardava la
Regina, e nella sua confusione diede un morso alla tazza invece che al pane
e burro.

Proprio in quel momento Alice sentì una strana sensazione, che la rese
molto perplessa fino a che non comprese di cosa si trattava: stava
ricominciando a diventare grande, e sulle prime pensò di alzarsi e di uscire
dall’aula; ma ripensandoci decise di restare dov’era fino a che ci fosse stato
posto per lei.

– Vorrei che tu non mi schiacciassi in questo modo, – disse il Ghiro, che


le sedeva accanto. – Non riesco quasi a respirare.

– Non posso farci niente, – disse Alice in tono assai mite: – sto
crescendo.

– Non hai il diritto di crescere proprio qui, – disse il Ghiro.

– Non dire sciocchezze, – disse Alice con maggiore energia: – anche tu


cresci, lo sai bene.

– Sì, ma io cresco a un ritmo ragionevole, – disse il Ghiro: – non in quel


modo ridicolo. – E si alzò molto incupito spostandosi dalla parte opposta
dell’aula.

Durante tutto questo tempo la Regina non aveva mai smesso di fissare il
Cappellaio e, proprio mentre il Ghiro attraversava l’aula, disse a uno degli
usceri del tribunale: – Portami la lista dei cantanti dell’ultimo concerto! –
Al che il malcapitato Cappellaio si mise a tremare a tal punto che perse
tutt’e due le scarpe.

– Fai la tua deposizione, – ripeté irosamente il Re, – o ti farò giustiziare,


che tu sia nervoso o no.

– Sono un pover’uomo, Maestà, – cominciò il Cappellaio, con voce


tremante, – e avevo appena cominciato a bere il mio tè… non più di una
settimana fa, all’incirca… e in parte perché il pane e burro scarseggiava… e
il tè tremolava…

– Il tè faceva cosa? – chiese il Re.

– Tremolava, – rispose il Cappellaio.

– Dico bene, avevo capito temolava! – disse il Re bruscamente. – Pensi


che sia ebete? Continua!
– Sono un pover’uomo, – continuò il Cappellaio, – e quasi tutte le cose
cominciarono a tremolare dopo quel momento, soltanto la Lepre Marzolina
ha detto…

– Non è vero! – lo interruppe subito la Lepre Marzolina.

– È vero! – disse il Cappellaio.

– Lo nego! – disse la Lepre Marzolina.

– Lo nega, – disse il Re: – non trascrivete questa parte.

– Insomma, in ogni modo, il Ghiro ha detto… – continuò il Cappellaio,


guardandosi ansiosamente intorno per vedere se anche il Ghiro lo avrebbe
smentito: ma il Ghiro non negò niente, essendo profondamente
addormentato.

– Dopo di che, – continuò il Cappellaio, – mi tagliai qualche altra fetta di


pane e burro…

– Ma cosa aveva detto il Ghiro? – chiese uno della giuria.

– Questo non me lo ricordo, – disse il Cappellaio.

– Devi ricordartelo, – osservò il Re, – o ti farò giustiziare.


L’infelice Cappellaio lasciò cadere la tazza e il pane e burro, e piegò un
ginocchio a terra. – Sono un pover’uomo Maestà, – cominciò.

– Come oratore sei poverissimo, – disse il Re.

A questo punto uno dei porcellini d’India applaudì, e fu immediatamente


messo a tacere dagli uscieri del tribunale. (Poiché questa è un’espressione
abbastanza vaga, vi spiegherò come fecero. Avevano un gran sacco di tela
che si chiudeva in cima con dei lacci: ci infilarono dentro il porcellino
d’India a testa in giù, e poi ci si sedettero sopra).
“Sono contenta di aver visto come si fa”, pensò Alice. “Ho letto così
spesso nei giornali, alla fine dei processi: ‘Ci fu un tentativo di applauso,
che fu immediatamente messo a tacere dagli uscieri del tribunale’, e non
avevo mai capito, fino a ora, cosa volesse dire”.

– Se questo è tutto quello che sai in merito, puoi metterti giù, – continuò
il Re.

– Non posso andare più giù di così, – disse il Cappellaio: – Sono già a
terra.

– Allora puoi sederti, – rispose il Re.

Qui l’altro porcellino d’India applaudì, e fu messo a tacere.

“Ecco sistemati i porcellini d’India!” pensò Alice. “Ora andrà meglio”.

– Vorrei finire il mio tè, – disse il Cappellaio, guardando angosciato la


Regina, che stava leggendo la lista dei cantanti.

– Puoi andare, – disse il Re; e il Cappellaio lasciò in gran fretta l’aula del
tribunale, senza nemmeno fermarsi a rimettersi le scarpe.

– … e tagliategli la testa là fuori, – aggiunse la Regina a uno degli


uscieri; ma del Cappellaio non c’era già più traccia ancor prima che
l’usciere arrivasse alla porta.

– Chiamate il secondo testimone! – disse il Re.

Il secondo testimone era la cuoca della Duchessa. Teneva in mano il


portapepe, e Alice indovinò chi stava arrivando ancor prima che entrasse in
aula, per il modo in cui tutta la gente accanto alla porta cominciò a
sternutire.

– Fai la tua deposizione, – disse il Re.

– No – disse la cuoca.
Il Re guardò ansiosamente il Coniglio Bianco, che disse a bassa voce: –
Sua Maestà deve sottoporre questa teste al contro interrogatorio.

– Insomma, se devo, devo, – disse il Re con un’aria malinconica, e dopo


aver incrociato le braccia e guardato la cuoca con la fronte aggrottata fin
quasi a far sparire gli occhi, disse con voce profonda: – Di cosa son fatte le
crostate?

– Di pepe, per lo più, – disse la cuoca.

– Di melassa, – disse una voce assonnata dietro di lei.

– Prendete per il collo quel Ghiro, – strillò la Regina. – Tagliate la testa a


quel Ghiro! Scacciatelo dall’aula! Mettetelo a tacere! Acchiappatelo!
Tagliategli i baffi!

Per qualche minuto ci fu una gran confusione in aula; il Ghiro fu espulso,


e quando ciascuno ritornò al suo posto, la cuoca era sparita.

– Non importa! – disse il Re, con un’espressione di sollievo. – Chiamate


il terzo teste. – E aggiunse sottovoce alla Regina: – Scusami cara, ma al
terzo teste il contro interrogatorio lo fai tu. A me viene il mal di testa!

Alice osservò il Coniglio Bianco che armeggiava con la lista, molto


curiosa di vedere chi sarebbe stato il testimone successivo. “Non hanno
raccolto molte prove finora,” disse tra sé. Immaginatevi la sua sorpresa
quando il Coniglio Bianco proclamò, con vocina stridula e con tutta
l’energia di cui era capace, il nome di: – Alice!
Capitolo XII
La testimonianza di Alice

– Eccomi! – gridò Alice, dimenticando nella furia del momento quanto


fosse diventata grande negli ultimi minuti; balzò in piedi con tale fretta che
con l’orlo della gonna rovesciò il banco della giuria, seminando lo
scompiglio tra tutti i giurati che finirono sulle teste della folla sottostante, e
lì restarono distesi qua e là, ricordandole molto la boccia dei pesci rossi che
aveva accidentalmente rovesciato la settimana prima.

– Oh, vi prego di scusarmi! – esclamò in tono assai dispiaciuto, e


cominciò a raccoglierli più in fretta che poteva perché aveva ancora in
mente l’episodio del vaso dei pesci e le pareva vagamente che bisognasse
raccoglierli subito e rimetterli sul banco dei giurati, o sarebbero morti.

– Il processo non può continuare, – disse il Re con voce molto grave, –


fino a che tutti i giurati non saranno ritornati ai loro posti… tutti – ripeté
con grande enfasi, guardando severamente Alice.

Alice guardò il banco della giuria, e vide che, nella fretta, aveva messo il
Lucertolino a testa in giù: il poverino muoveva maliconicamente la coda
qua e là, ed era del tutto incapace di muoversi.

Lo tirò subito fuori di nuovo e lo mise a posto. “Non che questo cambi
gran che le cose”, disse tra sé; “credo che la sua utilità per il processo sia
più o meno la stessa, in un modo o nell’altro”.

Non appena i giurati si furono un poco ripresi dallo spavento di essere


stati rovesciati, e dopo che ciascuno riebbe le lavagnette e i gessetti che
erano stati ritrovati, tutti si misero al lavoro con grande diligenza per
scrivere il resoconto dell’incidente; tutti eccetto il Lucertolino, che
sembrava sopraffatto e incapace di fare alcunché se non starsene seduto a
bocca aperta, a guardare il soffitto dell’aula.
– Cosa sai tu di questa faccenda? – chiese il Re ad Alice.

– Niente, – disse Alice.

– Niente di niente? – insistette il Re.

– Niente di niente, – disse Alice.

– Questo è molto importante, – disse il Re rivolgendosi alla giuria. I


giurati stavano proprio cominciando a scrivere sulle loro lavagnette, quando
il Coniglio Bianco proruppe: – Sua Maestà voleva dire molto poco
importante, naturalmente. – Lo disse in tono molto rispettoso, ma
aggrottando la fronte e facendo gli occhiacci al Re mentre parlava.

– Naturalmente, volevo dire poco importante, – disse in fretta il Re, e


continuò sottovoce tra sé: “Importante… poco importante… poco
importante… importante…” come se stesse tentando di capire quale delle
due parole suonava meglio.

Alcuni giurati scrissero “importante” e alcuni “poco importante”. Alice


se ne accorse perché era abbastanza vicina da scorgere le lavagnette. “Ma
non ha nessun rilievo,” pensò tra sé.

A questo punto il Re che da qualche tempo era indaffarato a scrivere nel


suo taccuino, esclamò: – Silenzio! – e lesse a voce alta dal suo libro –
Articolo Quarantadue: Tutte le persone alte più di un miglio devono
lasciare l’aula.

Tutti guardarono Alice.

– Non sono alta un miglio, – disse Alice.

– Sì che lo sei, – disse il Re.

– Alta quasi due miglia, – aggiunse la Regina.

– Bene, in ogni caso non me ne andrò, – disse Alice. – Inoltre questa non
è una vera legge: te la sei inventata ora.

– È l’articolo più antico del codice, – disse il Re.

– Allora dovrebbe essere il Numero Uno, – disse Alice.

Il Re impallidì, e chiuse in fretta il suo taccuino. – Formulate il verdetto,


– disse alla giuria, con voce bassa e tremante.

– Ci sono altre prove da esaminare, se così piace a Sua Maestà, – saltò su


a dire in gran fretta il Coniglio Bianco, – è appena stato trovato questo
documento.
– Cosa c’è scritto? – chiese la Regina.

– Non l’ho ancora aperto, – disse il Coniglio Bianco, – ma sembrerebbe


una lettera, scritta dall’imputato a… a qualcuno.

– Deve’essere così, – disse il Re, – a meno che non sia stata scritta a
nessuno, il che solitamente non succede.

– A chi è indirizzata? – chiese uno dei giurati.

– Non ha indirizzo, – disse il Coniglio Bianco; – in effetti non c’è scritto


niente all’esterno. – Dispiegò la carta mentre parlava, e aggiunse: – Non è
una lettera, dopo tutto: sono dei versi.

– La calligrafia è quella dell’imputato? – chiese un altro dei giurati.

– No, – disse il Coniglio Bianco, – e questa è la cosa più strana. – (I


giurati assunsero un’aria perplessa).

– Deve aver imitato la scrittura di un altro, – disse il Re. (I giurati si


rasserenarono).

– Se così piace a Sua Maestà, – disse il Fante, – non l’ho scritta io, e non
potranno dimostrare che l’ho scritta io: non c’è nessuna firma alla fine.

– Se non l’hai firmata, – disse il Re, – questo non fa che peggiorare le


cose. Devi aver escogitato qualche birbanteria, altrimenti avresti firmato col
tuo nome come fanno le persone per bene.

Al che ci fu un generale battimani: era la prima cosa davvero intelligente


che il Re avesse detto quel giorno.

– Questo dimostra la sua colpevolezza naturalmente, – disse la Regina.

– Non dimostra un bel niente! – disse Alice. – Ma se non sapete


nemmeno di cosa trattano quei versi!

– Leggili, – disse il Re.


Il Coniglio Bianco inforcò gli occhiali. – Da dove comincio, Maestà? –
chiese.

– Comincia dal principio, – disse il Re gravemente, – e vai avanti fino


alla fine, poi fermati.

Si fece un gran silenzio nell’aula mentre il Coniglio Bianco leggeva


questi versi:

Mi hanno detto che sei stato da lei,


e che di me avevi parlato con lui:
lei ha parlato bene di me,
ma ha detto che non so nuotare.

Lui disse loro che non ero andato,


(sappiamo che è sincero):
de lei insiste nel voler sapere,
di te cosa potrebbe avvenire?

A lei ne ho data una, a lui ne han date due,


tu ce ne hai date tre o più;
sono tutte tornate da lui a te
sebbene prima fossero per me.

Se io o lei per caso finiamo


coinvolti in questa faccenda,
egli confida che li lascerai
liberi come noi.

La mia opinione è che tu


(ben prima della crisi famosa)
costituivi un ostacolo tra
lui e noi e la cosa.

Non fargli sapere che a lei può piacere,


perché questo deve restare
un segreto, a tutti nascosto fuorché
a te e a me.
– Questa è la prova più importante che abbiamo ascoltato finora, – disse
il Re, fregandosi le mani; – e ora lasciamo che i giurati…

– Se qualcuno di loro riesce a spiegarmeli, – disse Alice (negli ultimi


minuti era così cresciuta che non aveva affatto paura di interromperlo) – gli
darò sei centesimi. Non credo che ci sia un minimo di senso in quei versi.

Tutti i giurati scrissero sulle lavagne, “Non crede che ci sia un minimo di
senso in quei versi”, ma nessuno di loro tentò di spiegarli.

– Se non hanno un senso, – disse il Re, – questo ci risparmia una quantità


di seccature, perché allora non c’è bisogno di cercarlo. Eppure non saprei, –
continuò dispiegando il foglio sulle sue ginocchia, e guardandolo con un
occhio solo; – mi sembra che dovrebbe esserci un significato, dopo tutto…
“Ma ha detto che non so nuotare…”. Tu sai nuotare, vero? – aggiunse
rivolgendosi al Fante.

Il Fante scosse tristemente la testa. – Le sembra che io sappia nuotare? –


disse. (Di sicuro non ne sarebbe stato capace, essendo fatto interamente di
cartone).

– Tutto bene fin qui, – disse il Re e continuò borbottando tra sé i versi: –


“sappiamo che è sincero”… Questo dev’essere un giurato, naturalmente…
“Se lei insiste nel voler sapere”… Questa dev’essere la Regina. “Di te cosa
potrebbe avvenire?”… eh, già… “A lei ne ho data una, a lui ne han date
due…”. Queste devono essere le crostate…
– Ma continua dicendo “Sono tutte tornate da lui a te”, – disse Alice.

– E infatti, eccole! – disse il Re con aria trionfante, indicando le crostate


che erano sul tavolo. – Non potrebbe essere più chiaro di così. E poi
ancora… “Ben prima della crisi famosa…” tu non hai mai avuto crisi, mia
cara, vero? – disse alla Regina.

– Mai! – disse la Regina infuriata, lanciando un calamaio d’inchiostro


addosso al Lucertolino. (Il malcapitato piccolo Bill aveva smesso di
scrivere sulla sua lavagna con il dito, avendo visto che non restava il segno,
ma ora si rimise in gran fretta a scrivere, usando l’inchiostro che gli
gocciolava sulla faccia, fin tanto che ce ne fu).

– Allora non si riferisce a te – disse il Re, guardando uno per uno i giurati
con un sorriso. Ci fu un silenzio di gelo.

– È un giuoco di parole! – aggiunse il Re in tono offeso, e tutti risero.

– Lasciamo che la giuria formuli il verdetto, – disse il Re, per circa la


dodicesima volta in quel giorno.

– No! No! – disse la Regina. – Prima la sentenza, poi il verdetto.

– Aria fritta e stupidaggini! – disse Alice a voce alta. – Che idea, voler
cominciare dalla sentenza!

– Bada a come parli! – disse la Regina, facendosi paonazza.

– No e poi no! – disse Alice.

– Tagliatele la testa! – gridò la Regina con tutta la voce che aveva.


Nessuno si mosse.

– Che m’importa di voi? – disse Alice (ora aveva riacquistato la sua


piena statura). – Non siete altro che un mazzo di carte da giuoco!
Al che tutto il mazzo di carte si sollevò per aria, e ricadde volando su di
lei: Alice lanciò un breve grido, per metà di paura e per metà di rabbia, e
tentò di liberarsene ma si ritrovò, invece, distesa sulla riva, con la testa in
grembo a sua sorella, la quale stava delicatamente togliendo di torno le
foglie secche che staccandosi dagli alberi le erano cadute sul viso.

– Svegliati, Alice cara! – le diceva sua sorella. – Ehi, hai dormito


abbastanza!

– Ho fatto un sogno così curioso! – disse Alice, e raccontò a sua sorella,


così come riusciva a ricordarle, tutte le strane Avventure che avete appena
letto; e quando ebbe finito, sua sorella la baciò e disse: – È stato un sogno
strano, cara, davvero: ma ora corri a prendere il tè; si sta facendo tardi. –
Così Alice si alzò e corse via, pensando mentre correva, per quel che le
riusciva di pensare correndo, che il sogno era stato meraviglioso.

Ma sua sorella se ne restò seduta proprio dove Alice l’aveva lasciata, la


testa appoggiata sulla mano, a osservare il tramonto del sole, pensando alla
piccola Alice e a tutte le sue meravigliose Avventure, finché non cominciò
anche lei a sognare a sua volta, e questo fu il suo sogno:

Dapprima sognò proprio la piccola Alice e ancora una volta le minuscole


mani le abbracciarono le ginocchia, e quegli occhi luminosi, pieni di
curiosità, incontrarono i suoi: sentiva il tono della sua voce, e vedeva quel
suo modo bizzarro di scrollare il capo per ricacciare all’indietro i capelli
che le andavano sempre a finire sugli occhi. E sempre mentre ascoltava, o le
sembrava di ascoltare, intorno a lei si affollavano tutte le strane creature del
sogno della sorellina.

L’erba alta frusciava ai suoi piedi mentre il Coniglio Bianco le passava


davanti di corsa; il Topo spaventato diguazzava facendosi strada nella
vicina pozzanghera: sentiva il tintinnìo delle tazze della Lepre Marzolina e
dei suoi amici intenti al loro interminabile spuntino, e la voce stridula della
Regina che ordinava di giustiziare i suoi malcapitati ospiti. Ancora una
volta il porcellino sternutiva sulle ginocchia della Duchessa, mentre i piatti
e le scodelle si fracassavano tutt’intorno. Ancora una volta risuonavano
nell’aria il grido del Grifone, lo stridere del gessetto del Lucertolino sulla
lavagna, e la voce fioca e soffocata del porcellino d’India, e si sentivano in
lontananza i singhiozzi della sfortunata Finta Tartaruga.

Restò dunque seduta con gli occhi chiusi, quasi credendo davvero al
Paese delle Meraviglie, sebbene sapesse che le sarebbe bastato riaprire gli
occhi, e tutto sarebbe ritornato com’era nella noiosa realtà: l’erba che
semplicente frusciava al vento, lo stagno che si increspava all’ondeggiare
delle canne; il tintinnìo delle tazze sarebbe diventato il richiamo delle
campanelle delle pecore e gli strilli acuti della Regina la voce del pastorello,
e lo sternutire del bambino, il grido del Grifone, e tutti gli altri bizzarri
rumori si sarebbero mutati (lo sapeva) nel confuso frastuono dell’aia,
mentre in distanza i muggiti della mandria avrebbero sostituito i forti
singhiozzi della Finta Tartaruga.

Infine, immaginò che la sua sorellina, col tempo, sarebbe diventata una
donna capace di serbare, negli anni più maturi, il cuore semplice e
affettuoso della sua passata infanzia; una donna che avrebbe riunito intorno
a sé altri bambini facendo brillare di curiosità i loro occhi con molti strani
racconti e forse anche con il sogno del Paese delle Meraviglie di tanto
tempo prima, e avrebbe condiviso i loro semplici dispiaceri, e goduto delle
loro semplici gioie, nel ricordo della sua infanzia e di quei felici giorni
d’estate.
ATTRAVERSO LO SPECCHIO
(E COSA ALICE CI TROVÒ)
Bimba dal ciglio terso senza affanni,
E occhi tondi incantati, sognanti!
Sebbene il tempo fugga e tanti anni,
Mezza vita, ci facciano distanti,
Il tuo amoroso sorriso accoglierà
La fiaba dono d’amore che verrà.

Io non ho visto il tuo allegro visino


Né sentito la tua risata pura,
Né un pensiero per me avrà un posticino
Nella tua giovane vita futura –
Basta solo che oggi tu dia ascolto
Alla storia che ora ti racconto.

Storia nata in giorni remoti, pare,


Quando ardenti erano i soli d’estate –
Una semplice arietta per ritmare
I battiti delle nostre remate –
E l’eco vive ancor di nostalgia
Benché l’Ora invidiosa chieda: “oblia”.

Su, ascolta dunque, prima che alzi il dito


La paura, con le amare notizie,
Per richiamare a un letto non gradito,
Una fanciulla piena di mestizie!
Noi non siam che vecchi bimbi, piccina,
Crucciati che la nanna s’avvicina.

Fuori: il gelo e la neve accecante,


E l’impazzare del vento in tempesta.
Dentro: il focolare rosseggiante,
Ed il nido d’infanzia d’ogni festa.
Le parole magiche ti terran su,
Al tempo furioso non baderai più.

E se pur tremolerà nella storia


L’ombra d’un sospiro, intenerita
Dai “giorni felici” della memoria
E la gloria dell’estate svanita –
Mai sfiorerò, con respiro di pena,
Della nostra fiaba l’anima amena.(1)
Il Pedone Bianco (Alice) muove e vince in undici mosse

1. Alice incontra la R.R. p.183

2. Alice attraversa il III scacco della R. (in ferrovia) p.192 e passa nel IV
(Tweedledee e Tweedledum) p.206

3. Alice incontra la R.B. (con scialle) p.225

4. Alice nel V scacco della R. (bottega, fiume, bottega) p.232


5. Alice nel VI scacco della R. (Humpty Dumpty) p.241

6. Alice nel VII scacco della R. (foresta) p.257

7. Il Cavaliere Bianco cattura il Cavaliere Rosso p.273

8. Alice nell’VIII scacco (incoronazione) p.290

9. Alice diventa Regina p.291

10. Alice arrocca (banchetto) p.303

11. Alice cattura la R.R. e vince p.311

1. la R.R. nel IV scacco del Re R. p.186

2. La R.B. nel IV scacco (inseguendo lo scialle) p.225

3. La R.B. nel V scacco (diventa pecora) p.232

4. La R.B. nell’VIII scacco del Re B. (lascia un uovo sullo scaffale)


p.256

5. La R.B. nell’VIII scacco (fuggendo dal Cavaliere Rosso) p.264

6. Il Cavaliere Rosso nel II scacco del Re (scacco) p.271

7. Il Cavaliere Bianco nel V scacco p.290

8. La R.R. nello scacco del Re (esame) p.296

9. Arrocco di Regina p.304

10. La R.B. nel VI scacco della R.R. (zuppa) p.311


Dato che il problema scacchistico presentato nella pagina precedente ha
lasciato perplessi alcuni dei miei lettori, è il caso di spiegare che è stato
elaborato correttamente, per quanto riguarda le mosse. L’alternanza del
Rosso e del Bianco non è forse osservata così rigorosamente come si
potrebbe, e l’“arrocco” delle Tre Regine è semplicemente un modo per dire
che sono entrate nel palazzo, ma chiunque si prenda la briga di disporre i
pezzi sulla scacchiera e di eseguire le mosse indicate, troverà che lo
“scacco” al Re Bianco alla sesta mossa, la cattura del Cavaliere Rosso alla
settima e lo “scaccomatto” finale al Re Rosso, sono strettamente conformi
alle regole del gioco.

Natale 1896
Lewis Carroll
Capitolo I
La Casa dello Specchio

Una cosa era sicura, che la gattina bianca non c’entrava proprio – era
tutta colpa della gattina nera. Perché nell’ultimo quarto d’ora la gattina
bianca era stata impegnata a farsi lavare il muso dalla vecchia gatta
(sopportando la cosa piuttosto bene, tutto sommato): perciò vedete bene che
non avrebbe potuto avere alcuna parte nella birichinata. Il modo in cui
Dinah lavava il muso alle sue creature era questo: prima teneva giù per
l’orecchio la povera bestiola con una zampa, poi con l’altra le strigliava il
muso da cima a fondo, contropelo, incominciando dal naso; e proprio ora,
come ho detto, era intenta a lavorare energicamente sulla gattina bianca, che
stava distesa quasi immobile e cercava di fare le fusa – sentendo senza
dubbio che tutto ciò era fatto per il suo bene.

Con la nera, invece, la mamma aveva finito prima, nel pomeriggio, e


così, mentre Alice sedeva raggomitolata in un angolo della grande poltrona,
un po’ parlando tra sé, un po’ sonnecchiando, la gattina si era divertita
come una pazza a giocare col gomitolo di lana pettinata che Alice aveva
cercato di avvolgere, e l’aveva fatto rotolare su e giù finché non si era
disfatto di nuovo – e ora era lì, sparso sul tappeto davanti al focolare, tutto
nodi e grovigli, col micio che si rincorreva la coda in mezzo.
– Oh, brutta cattiva di una bestiolina! – gridò Alice, acciuffando la
micina, e dandole un bacino per farle capire che era caduta in disgrazia. –
Davvero, Dinah avrebbe dovuto insegnarti a comportarti un po’ meglio!
Avresti dovuto, Dinah, lo sai che avresti dovuto! – aggiunse, lanciando uno
sguardo di rimprovero alla vecchia gatta, e facendo la voce più grossa che
le riusciva; e poi s’arrampicò di nuovo nella poltrona, portando con sé il
gatto e la lana, e incominciò a riavvolgere daccapo il gomitolo. Ma non
procedeva molto velocemente, perché parlava di continuo, a volte al gatto, a
volte a se stessa. Kitty le sedeva con fare contegnoso sulle ginocchia,
fingendo di osservare il progredire dell’avvolgimento, e di tanto in tanto
allungava una zampa e toccava delicatamente il gomitolo, come a
significare che l’avrebbe aiutata volentieri se ne fosse stata in grado.

– Lo sai che giorno è domani, Kitty? – attaccò Alice. – L’avresti


indovinato se fossi stata con me alla finestra… solo che Dinah ti stava
facendo bella, perciò non potevi. Guardavo i ragazzi che raccoglievano gli
stecchi per il falò: erano tantissimi, Kitty! Solo che è venuto un freddo tale,
e nevicava così forte, che hanno dovuto smettere. Pazienza, andremo a
vedere il falò domani. – A questo punto Alice avvolse due o tre giri di lana
attorno al collo della micina, giusto per vedere come le stava: ciò diede
luogo a una zuffa, la palla rotolò giù sul pavimento, e metri e metri di filo si
srotolarono un’altra volta.

– Sai, ero così arrabbiata, Kitty, – riprese Alice, non appena si furono
rimesse comode, – quando ho visto il disastro che mi hai combinato. C’è
mancato poco che aprissi la finestra e ti mettessi fuori nella neve! E te lo
saresti meritato, adorabile monella! Cos’hai da dire in tua difesa? Ora non
interrompermi! – continuò, alzando un dito. – Ti farò l’elenco delle tue
colpe. Numero uno: hai squittito due volte mentre Dinah ti lavava il muso
stamattina. Questo non puoi negarlo, Kitty, ti ho sentito! Come dici? –
(fingendo che la micina stesse parlando). – Ti è finita la sua zampa
nell’occhio? Be’, colpa tua, perché tenevi gli occhi aperti… se li avessi
chiusi bene, non sarebbe successo. Adesso non inventare altre scuse, ascolta
invece! Numero due: hai tirato via Bucaneve per la coda appena le avevo
posato davanti il piattino col latte! Cosa, avevi sete? Come sai che non ne
aveva anche lei? E infine, la numero tre: hai disfatto completamente il
gomitolo mentre non guardavo!

– Fa tre colpe, Kitty, e ancora non sei stata punita per nessuna. Lo sai che
sto tenendo da parte tutte le tue punizioni per mercoledì prossimo …
Supponi che loro abbiano tenuto da parte tutte le mie punizioni, – continuò,
rivolta più a se stessa che al gatto. – Cosa farebbero, loro, in capo a un
anno? Finirei in prigione, suppongo, quando arrivasse quel giorno. Oppure
– vediamo – supponiamo che il castigo fosse di andare a letto senza cena:
quindi, in quell’infelice giorno, io dovrei saltare cinquanta pasti in un colpo
solo! Beh, questo non dovrebbe importarmi molto! Preferirei di sicuro farne
a meno che mangiarli!
– La senti la neve contro i vetri della finestra, Kitty? Che bel suono, così
delicato! Proprio come se qualcuno, da fuori, stesse coprendo di baci la
finestra. Mi domando se la neve ama gli alberi e i campi, dato che li bacia
così dolcemente! E poi li mette a nanna, sai, sotto una trapunta bianca, e
forse dice “Dormite, tesorini, finché torna l’estate”. E quando si svegliano
in estate, Kitty, si vestono tutti di verde, e danzano – ogni volta che soffia il
vento – oh, è bellissimo! – gridò Alice, facendo cadere la palla di lana per
battere le mani. – E vorrei tanto che fosse vero! Sono sicura che i boschi
hanno l’aria assonnata in autunno, quando le foglie diventano marroni.

– Kitty, sai giocare a scacchi? Su, non sorridere, mia cara, te lo sto
chiedendo seriamente. Perché, quando giocavamo poco fa, guardavi come
se capissi: e quando ho detto “Scacco!”, hai fatto le fusa! Bene, era proprio
un bello scacco, sì, Kitty, e avrei potuto vincere sul serio, se non fosse stato
per quell’odioso Cavaliere, che è riuscito sgusciare in mezzo ai miei pezzi.
Kitty, cara, facciamo finta che… – e qui vorrei potervi dire metà delle cose
che Alice era solita dire, cominciando con la sua locuzione preferita
“Facciamo finta”. Aveva avuto una discussione piuttosto lunga con sua
sorella proprio il giorno prima – tutto perché Alice aveva cominciato con
“Facciamo finta di essere i re e le regine”; e sua sorella, che ci teneva a
essere precisa, aveva obiettato che non potevano, perché erano solo in due,
e alla fine Alice si era ridotta a dire: – E va bene, allora tu puoi fare uno di
loro, e io farò tutti gli altri. – E una volta aveva spaventato veramente la sua
vecchia tata gridandole nell’orecchio all’improvviso; – Facciamo finta che
io sia una iena affamata, e tu un osso!

Ma questo ci sta portando lontano dal discorso di Alice al gatto. –


Facciamo finta che tu sia la Regina Rossa, Kitty! Sai, io credo che se ti
mettessi seduta diritta e incrociassi le braccia, sembreresti uguale identica a
lei. Dai, provaci, amore! – E Alice tolse la Regina Rossa dal tavolo e la
mise davanti alla gattina come modello da imitare; la cosa però non ebbe
successo, principalmente, disse Alice, perché la gattina non voleva
incrociare le zampe come si deve. Così, per punirla, la sollevò e la mise
davanti allo Specchio, affinché vedesse che aria torva aveva. – E se non fai
la brava immediatamente, – aggiunse, – ti faccio passare di là nella Casa
dello Specchio. Che ne diresti di questo?
– Ora, se ti limiterai a startene buona, Kitty, e non parlerai così tanto, ti
dirò tutte le mie idee sulla Casa dello Specchio. Anzitutto, c’è la stanza che
puoi vedere attraverso il vetro… è esattamente uguale al nostro salotto, solo
che le cose vanno nel senso contrario. Riesco a vederla tutta quando monto
su una sedia – tutta tranne il pezzetto proprio dietro il camino. Oh, vorrei
tanto poter vedere quel pezzetto! Muoio dalla voglia di sapere se accendono
il fuoco d’inverno: non si può mai dire, sai, tranne quando il nostro fuoco fa
fumo, e allora il fumo sale anche in quella stanza… ma quella potrebbe
essere nient’altro che una finzione, per far sembrare che ci sia un fuoco
acceso anche da loro. Be’ insomma, i libri somigliano proprio ai nostri, solo
che le parole vanno nel senso sbagliato: questo io lo so, perché ho sollevato
uno dei nostri libri e l’ho tenuto davanti al vetro, e allora ne hanno tirato su
uno anche di là nell’altra stanza.
– Ti piacerebbe vivere nella Casa dello Specchio, Kitty? Chissà se ti
darebbero il latte lì. Forse il latte dello Specchio non è tanto buono… ma,
oh, Kitty, ora veniamo al corridoio. Puoi vedere solo un piccolo spiraglio
del corridoio che porta nella Casa dello Specchio, se lasci spalancata la
porta del nostro salotto: e somiglia molto al nostro corridoio per quanto si
può vedere, solo è chiaro che può essere del tutto diverso più avanti. Oh,
Kitty, come sarebbe bello se solo potessimo entrare nella Casa dello
Specchio! Sono sicura che là dentro ci sono, oh!, delle cose bellissime!
Facciamo finta che ci sia un passaggio per entrarci in qualche modo, Kitty.
Facciamo finta che lo specchio sia diventato morbido come tulle, in modo
che possiamo passarci. Ehi, si sta trasformando in una specie di nebbia,
questa poi! Sarà abbastanza facile entrare… – Mentre diceva questo, era già
sulla mensola del camino, anche se non sapeva bene in che modo ci fosse
arrivata. E il vetro stava davvero incominciando a sciogliersi, proprio come
una luminosa nebbia d’argento.
Un attimo dopo, Alice aveva attraversato lo specchio, ed era saltata giù
con leggerezza nella stanza dello Specchio. La primissima cosa che fece fu
di guardare se c’era un fuoco nel caminetto, e fu molto contenta di
constatare che ce n’era uno vero, e ardeva con vive fiamme come quello
che si era lasciata dietro. “Così starò al caldo come nella stanza di prima,”
pensò Alice: “più al caldo, anzi, perché qui non ci sarà nessuno a gridarmi
di star lontana dal fuoco. Oh, come mi divertirò quando mi vedranno qua
dentro attraverso lo Specchio, e non riusciranno a prendermi!”.

Poi incominciò a guardarsi in giro, e notò che ciò che si vedeva dalla
vecchia stanza era del tutto comune e privo d’interesse, mentre il resto era
quanto di più diverso si possa immaginare. Per esempio, i quadri sulla
parete vicino al focolare sembravano animati e lo stesso orologio sulla
mensola del camino (nello Specchio si può vederne solo il dorso) aveva la
faccia di un vecchietto, e le sorrideva.

“Questa stanza non è tenuta in ordine come l’altra,” commentò tra sé


Alice, notando parecchi pezzi degli scacchi in mezzo alla cenere sul tappeto
del focolare; ma un istante dopo, con un piccolo “Oh!” di sorpresa, era giù
per terra, carponi, che li osservava. I pezzi stavano andando a spasso, a due
a due!

– Ecco il Re Rosso e la Regina Rossa, – disse Alice (in un sussurro, per


paura di spaventarli), – ed ecco il Re Bianco e la Regina Bianca seduti
sull’orlo della paletta… e qui ci sono due Torri che camminano a
braccetto… non penso che possano sentirmi, – continuò, avvicinando
ancora di più la testa, – e sono quasi sicura che non possono vedermi. Ho
l’impressione di stare diventando invisibile…

A questo punto qualcosa incominciò a strillare sul tavolo dietro ad Alice,


facendole voltare la testa, appena in tempo per vedere uno dei Pedoni
Bianchi andare a gambe all’aria e mettersi a scalciare: lo osservò con
grande curiosità per vedere cosa sarebbe successo.

– È la voce della mia bambina! – gridò la Regina Bianca, mentre


superava di corsa il Re e lo urtava con un tale impeto da buttarlo tra i
tizzoni inceneriti. – La mia preziosa Lily! La mia gattina imperiale! – E
incominciò ad arrampicarsi come una furia sul fianco del parafuoco.

– Stupidaggine imperiale! – disse il Re, strofinandosi il naso, che si era


schiacciato cadendo. Aveva diritto di essere un po’ seccato con la Regina,
dato che era coperto di cenere dalla testa ai piedi. Alice era molto ansiosa di
rendersi utile, e, poiché la piccola Lily si stava quasi facendo venire le
convulsioni a forza di urlare, tirò su in fretta la Regina e la mise sul tavolo
accanto alla sua rumorosa figlioletta.

La Regina annaspò e si sedette: quasi non respirava dopo quel rapido


viaggio per aria, e per un paio di minuti non riuscì a fare altro che
abbracciare in silenzio la piccola Lily. Non appena ebbe ripreso un po’ il
fiato, gridò al Re Bianco, che stava seduto con aria imbronciata tra le
ceneri: – Attento al vulcano!

– Quale vulcano? – disse il Re, alzando gli occhi e guardando


ansiosamente nel fuoco, come se pensasse che fosse quello il posto dov’era
più probabile trovarne uno.

– Mi ha… sparato su…, – ansimò la Regina, che era ancora un po’ a


corto di fiato. – Bada di venire su… nel modo normale… senza farti…
sparare!
Alice guardò il Re Bianco che saliva arrancando di sbarra in sbarra,
finché finalmente disse: – Insomma, ci metterai ore e ore per raggiungere il
tavolo, di questo passo. Farei molto meglio ad aiutarti, non credi? – Ma il
Re non raccolse la proposta: era evidente che non poteva né sentirla né
vederla.

Così Alice lo prese con grande delicatezza, e lo sollevò più lentamente di


quanto avesse fatto con la Regina, in modo da non farlo restare senza fiato;
ma, prima di posarlo sul tavolo, pensò che avrebbe fatto meglio a dargli una
spolveratina: era coperto di cenere dalla testa ai piedi.
In seguito disse di non aver mai visto in tutta la sua vita una faccia come
quella che fece il Re quando si trovò tenuto in aria da una mano invisibile
che lo spolverava: era troppo, troppo stupefatto per gridare, ma gli occhi e
la bocca gli diventarono sempre più grandi, e più rotondi, finché la mano di
Alice non prese a tremare così forte dal ridere che per poco non lo lasciò
cadere sul pavimento.

– Oh, ti prego, non fare queste smorfie, mio caro! – gridò,


dimenticandosi completamente che il Re non poteva sentirla. – Mi fai
talmente ridere che non riesco quasi a reggerti! E non tenere la bocca
spalancata a quel modo! Ci finirà dentro tutta la cenere… ecco qua, ora mi
pare che tu sia abbastanza in ordine! – aggiunse, ravviandogli i capelli, e lo
posò sul tavolo vicino alla Regina.

Subito il Re cadde lungo disteso sulla schiena, e lì restò perfettamente


immobile; Alice era un po’ spaventata per quello che aveva fatto, così andò
in giro per la stanza per vedere se riusciva a trovare dell’acqua da versargli
addosso. Ma non trovò altro che una boccetta d’inchiostro, e quando tornò
con l’inchiostro, scoprì che lui si era già riavuto; il Re e la Regina parlavano
tra loro con dei bisbigli terrorizzati – così bassi che Alice riusciva a
malapena a udire cosa dicevano.

Il Re diceva: – Ti assicuro, mia cara, mi sono sentito gelare fino alla


punta dei basettoni!
Al che la Regina ribatté: – Ma tu non hai i basettoni.

– L’orrore di quel momento, – continuò il Re, – non potrò mai, mai,


dimenticarlo!

– Invece lo dimenticherai, – disse la Regina, – se non ti prendi un


appunto.

Alice continuò a guardare con grande interesse il Re che estraeva un


enorme taccuino dalla tasca e cominciava a scrivere. Le venne un’idea
improvvisa: afferrò l’estremità della matita, che gli spuntava per un tratto
sopra la spalla, e cominciò a scrivere al posto suo.

Il povero Re aveva un’aria perplessa e infelice, e lottò per qualche tempo


con la matita senza dire nulla; ma Alice era troppo forte per lui, così alla
fine disse ansimante: – Mia cara, devo veramente procurarmi una matita più
fine. Questa non riesco a controllarla neanche un po’: scrive delle cose che
io non ho intenzione di…

– Che genere di cose? – domandò la Regina, esaminando attentamente il


quaderno (nel quale Alice aveva messo “Il Cavaliere Bianco sta scivolando
giù per l’attizzatoio. Si tiene malissimo in equilibrio”). – Questo non è un
appunto sulle tue impressioni!

C’era un libro posato sul tavolo lì vicino, e mentre Alice stava seduta
tenendo d’occhio il Re Bianco (perché era sempre un po’ in ansia per lui, e
aveva l’inchiostro pronto per versarglielo addosso, in caso svenisse di
nuovo), sfogliava le pagine per trovare una parte che riuscisse a leggere,
“perché è tutto scritto in una lingua che non conosco,” disse tra sé e sé.

Era così.

Restò lì a spremersi le meningi per un bel po’, ma alla fine le venne


un’idea luminosa. “Ma sì, è un libro dello Specchio, naturalmente! E se lo
tengo sollevato davanti a uno specchio, le parole si rimetteranno tutte nel
senso giusto.”
Questa era la poesia che lesse Alice:

Blablambulante

Era brilliggio ed i viscioli strusci


givan girel nel traguado, eufòri:
misbetici erano i bifalchi agli usci.
e i momi bisbocci sblusciavan fuori.

“Guardati, figlio mio, dal Blablambulo


mordon le ganasce, l’artiglio strappa!
guardati dall’uccellaccio Giablogo,
dal frufruttoso Gagliogoffo scappa!”

E lui la fidafrulla spada impugnò,


a lungo cercò il nemico ominoso –
così presso l’albero Tomtom restò
per un po’ a riposare pensieroso.

E, come soprappenfiero lui s’alzò,


il Blablambulo, con occhi fiammanti,
sbuffando il bosco stullante attraversò
e barbugliava nel venire avanti.

Un, due! Un, due! E zac, zac! Come un bue


la fida lama lo tranciò a spuntino!
lì lo lasciò morto e con la sua testa
scammellò a casa esultante il bambino.

“Sicché il Blablambulo hai accoppato tu?


fatti abbracciare, su, stella di papà!
giorno prodigioioso! Hehé! Huhù!”.
ridacchiò, chiocciante di felicità.

Era brilliggio ed i viscioli strusci


givan girel nel traguado, eufòri,
misbetici erano i bifalchi agli usci.
e i momi bisbocci sblusciavan fuori.

– Sembra molto carina, – disse, quando l’ebbe finita, – ma è piuttosto


difficile da capire! – (Vedete bene che non le andava di confessare, neppure
a se stessa, che non ci si raccapezzava proprio). – In qualche modo mi
sembra che mi riempia la testa di idee – solo non so esattamente quali
siano! Comunque, qualcuno ha ucciso qualcosa; questo è chiaro, in ogni
caso…

“Ma… oh!” pensò Alice, saltando in piedi all’improvviso, “se non mi


sbrigo, dovrò ritornare attraverso lo Specchio prima di aver visto com’è il
resto della casa! Diamo un’occhiata al giardino, innanzitutto!”. In un lampo
uscì dalla stanza e fece di corsa le scale – o meglio, non era esattamente una
corsa, ma un nuovo sistema per scendere le scale rapidamente e
agevolmente, come Alice disse a se stessa. Si limitò a tenere le punte delle
dita sul corrimano, e arrivò giù fluttuando dolcemente senza neppure
toccare le scale coi piedi: poi, sempre fluttuando, attraversò l’anticamera, e
avrebbe infilato dritta la porta nello stesso modo se non si fosse afferrata
allo stipite. Cominciava a girarle un po’ la testa dopo tutto quel fluttuare
nell’aria, e fu piuttosto contenta di ritrovarsi a camminare di nuovo nel
modo naturale.
Capitolo II
Il giardino dei fiori viventi

“Vedrei il giardino molto meglio,” disse Alice tra sé, “se potessi arrivare
in cima a quella collina; ed ecco qui un sentiero che porta dritto lassù –
anzi, no, dritto proprio no”. – (dopo aver percorso alcuni metri sul sentiero
e fatto parecchie curve a gomito) – “ma suppongo che alla fine mi ci
porterà. Ma come s’attorciglia bizzarramente! Somiglia più a un
cavaturaccioli che a un sentiero! Be’, questa curva va alla collina, suppongo
– no, invece! Questa riporta dritta alla casa! Beh, allora proverò nell’altra
direzione”.

E così fece: vagando su e giù, e provando curva dopo curva; ma ritornava


sempre alla casa, qualunque cosa facesse. Anzi, una volta che girò un
angolo più velocemente del solito, andò a sbatterci contro prima di riuscire
a fermarsi.

– Non se ne parla proprio, – disse Alice, levando gli occhi sulla casa e
fingendo di discutere con lei. – Io non ci torno ancora. So che dovrei
riattraversare lo Specchio – ritornare nella vecchia stanza – e sarebbe la fine
di tutte le mie avventure!

Così, girando le spalle risolutamente alla casa, ripartì ancora una volta
per il sentiero, decisa ad andare sempre dritta finché non fosse arrivata alla
collina. Per qualche minuto tutto andò bene, e stava proprio dicendo
“Questa volta sì che ce la faccio”, quando il sentiero ebbe un improvviso
contorcimento e diede uno scrollone (come descrisse la cosa in seguito), e
un attimo dopo Alice si ritrovò effettivamente alla porta, nell’atto di entrare.

– Oh, questo è troppo! – gridò. – Non ho mai visto una casa starti sempre
tra i piedi in questo modo! Mai!
Tuttavia la collina era sempre là in piena vista, perciò non c’era altro da
fare che ricominciare. Questa volta s’imbatté in una grande aiuola, con una
bordura di margherite, e un possente albero esotico nel mezzo.

– O Giglio Tigrino! – esclamò Alice, rivolgendosi a un fiore che


ondeggiava con grazia nel vento. – Come vorrei che tu potessi parlare!

– Noi possiamo parlare, – disse il Giglio Tigrino, – se c’è qualcuno con


cui vale la pena di parlare.
Alice era così stupita che non riuscì ad articolare per un minuto: era, o
sembrava, letteralmente senza fiato. Alla fine, dato che il Giglio Tigrino
continuava a oscillare e basta, lei parlò di nuovo, con voce esitante, quasi
un sussurro. – E tutti i fiori possono parlare?

– Tanto quanto te, – rispose il Giglio Tigrino. – E molto più forte.

– Non sta bene che siamo noi a incominciare, sai, – disse la Rosa, – e io
mi stavo proprio chiedendo quando avresti parlato! Mi sono detta: “La sua
faccia denota un certo buonsenso, anche se non è proprio una cima!”. Però,
hai il colore giusto, e questo è molto importante.

– Non m’interessa il colore – osservò il Giglio Tigrino. – Se solo i suoi


petali fossero un po’ più arricciati all’insù, andrebbe benissimo.
Ad Alice non piaceva essere criticata, così si mise a fare domande. – Non
avete paura, qualche volta, di essere piantate qua fuori, senza nessuno che si
prenda cura di voi?

– C’è l’albero al centro, – disse la Rosa. – A cos’altro serve?

– Ma cosa potrebbe fare, se arrivasse qualche pericolo? – chiese Alice.

– Potrebbe abbaiare, – disse la Rosa.

– Fa “baobao!” – gridò una Margherita. – Per questo si chiama “baobab”!


(2)
– Non lo sapevi? – gridò un’altra Margherita. E a questo punto
incominciarono a strillare tutte insieme, finché l’aria non fu satura di vocine
acute. – Zitte, tutte quante! – gridò il Giglio Tigrino, ondeggiando
impetuosamente da una parte all’altra e tremando di agitazione. – Sanno
che non arrivo ad acchiapparle! – ansimò, piegando il capo fremente verso
Alice, – o non oserebbero!

– Non importa! – disse Alice in tono conciliante, e, abbassandosi verso le


margherite, che accennavano a ricominciare, sussurrò: – Se non frenate la
lingua, vi colgo!

Subito calò il silenzio, e diverse margherite rosa sbiancarono.

– Ben detto! – esclamò il Giglio Tigrino. – Le margherite sono le più


pestifere. Quando uno parla, loro attaccano tutte insieme, e non la smettono
più. Basta quello per farti appassire!

– Com’è che sapete parlare così bene? – chiese Alice, sperando di fargli
cambiare umore con un complimento. – Sono stata in molti giardini, ma in
nessuno di quelli che ho visto i fiori erano capaci di parlare.

– Metti giù la mano e tasta il terreno, – disse il Giglio Tigrino. – Capirai


il perché.

Alice eseguì. – È molto duro, – disse, – ma non vedo cosa c’entri.

– Nella maggior parte dei giardini – spiegò il Giglio Tigrino, – fanno le


aiuole troppo morbide… e così i fiori sono sempre addormentati.

Questo sembrava un ottimo motivo, e Alice fu molto contenta di venirlo


a sapere. – Non ci avevo mai pensato! – disse.

– A mio parere tu non pensi proprio, – disse la Rosa, in tono alquanto


severo.

– Non ho mai visto nessuno con una faccia più stupida, – disse una
Violetta, così all’improvviso che Alice trasalì; perché finora quella non
aveva aperto bocca.
– Sta’ zitta, tu! – gridò il Giglio Tigrino. – Come se tu avessi mai visto
qualcuno! Tieni la testa sotto le foglie, e passi la vita lì a ronfare, e di quello
che succede nel mondo non ne sai più di un germoglio!

– E ci sono altre persone nel giardino oltre a me? – domandò Alice,


decidendo di ignorare l’ultimo commento della Rosa.

– C’è solo un altro fiore nel giardino che può muoversi e andare in giro
come te – disse la Rosa. – Mi domando come fate… – (“Ti domandi sempre
qualcosa”, interruppe il Giglio Tigrino) – ma lei è più cespugliosa di te.

– È come me? – chiese eccitata Alice, come il pensiero le attraversò la


mente: – C’è un’altra bambina nel giardino, da qualche parte!

– Be’, ha la stessa figura goffa che hai tu, – disse la Rosa; – ma è più
rossa… e i suoi petali sono più corti, direi.

– Li porta raccolti fitti fitti, come una dalia – disse il Giglio Tigrino: –
non sparsi e ciondolanti come i tuoi.

– Ma non è colpa tua, – aggiunse la Rosa in tono gentile. – Stai


cominciando ad appassire, capisci… e allora non ci si può fare niente se i
petali diventano un po’ disordinati.

Ad Alice questa idea non garbava affatto; così, per cambiare argomento,
domandò: – Viene mai, qui?

– Direi che la vedrai presto, – disse la Rosa. – È di quella specie che ha


nove spine, sai.

– Dove le porta? – chiese Alice con una certa curiosità.

– Che diamine, tutt’intorno alla testa, naturalmente, – rispose la Rosa. –


Mi domandavo come mai non ne hai qualcuna anche tu. Pensavo che fosse
la regola regolare.

– Sta arrivando! – gridò la Speronella. – Sento il suo passo, tump, tump,


sul vialetto di ghiaia!
Alice si guardò intorno ansiosamente e scoprì che era la Regina Rossa. –
È cresciuta parecchio! – fu il suo primo commento. E in effetti lo era:
quando Alice l’aveva trovata la prima volta nella cenere, era alta solo tre
pollici… e ora eccola qui, più alta di Alice di mezza testa.

– È l’effetto dell’aria fresca, – disse la Rosa – c’è un’aria


meravigliosamente pura, qui.

– Penso che le andrò incontro, – disse Alice, perché, anche se i fiori


erano abbastanza interessanti, sentiva che sarebbe stato molto più
emozionante conversare con una vera Regina.

– Ma non puoi farlo, nel modo più assoluto, – disse la Rosa: – Io ti


consiglierei di andare dalla parte opposta.

Ad Alice questo sembrò assurdo, perciò non disse nulla, ma s’avviò


immediatamente in direzione della Regina Rossa. Con sua grande sorpresa
la perse di vista in un secondo e si ritrovò di nuovo alla porta, nell’atto di
entrare.

Un po’ seccata, indietreggiò, e, dopo aver cercato ovunque con lo


sguardo la Regina (che riuscì finalmente a localizzare, lontano lontano),
pensò di provare, per questa volta, il sistema di camminare nella direzione
opposta.

Funzionò a meraviglia. Camminava da neanche un minuto quando si


trovò faccia a faccia con la Regina Rossa, e la collina alla quale mirava da
tanto tempo era in piena vista.

– Da dove vieni? – chiese la Regina Rossa. – E dove vai? Alza gli occhi,
parla bene, e non giocherellare con le dita tutto il tempo.

Alice eseguì tutti questi ordini, e spiegò, meglio che poteva, che aveva
perso la strada.

– Che strada sarebbe?… Non vedo come tu possa aver perso la strada,
qualunque essa sia – disse la Regina, – dal momento che qui tutte le strade
appartengono a me – ma perché, poi, sei venuta qui? – aggiunse con un tono
più gentile. – Fa’ la riverenza mentre pensi a cosa dire. È tutto tempo
risparmiato.

Alice trovò la cosa un po’ strana, ma aveva troppa soggezione della


Regina per non crederci. “Ci proverò quando sarò tornata a casa”, pensò tra
sé, “la prossima volta che farò un po’ tardi per la cena”.

– È ora che tu risponda, – disse la regina, guardando l’orologio. – Apri un


po’ di più la bocca quando parli, e di’ sempre “Vostra Maestà.”

– Volevo solo vedere com’era il giardino, Vostra Maestà.

– Così va bene, – disse la Regina, facendole pat-pat sulla testa, cosa che
Alice non gradì affatto. – Però, quando dici “giardino” – io ho visto dei
giardini al cui confronto questo sarebbe una landa selvaggia.
Alice non osò discutere l’argomento, ma continuò: – E ho deciso di
trovare la strada che porta in cima a quella collina…

– Quando dici “collina”, – la interruppe la Regina, – io potrei farti vedere


delle colline al cui confronto questa la chiameresti una valle.

– No, io no di certo, – disse Alice, che, colta di sorpresa, riuscì


finalmente a contraddirla. – Una collina non può essere una valle, capite.
Sarebbe un nonsenso.

La Regina Rossa scosse la testa. – Puoi anche chiamarlo “nonsenso”, se


vuoi, – disse, – ma io ho sentito certi nonsensi al cui confronto questo
sarebbe sensato quanto un dizionario!

Alice s’inchinò di nuovo, poiché dal tono della Regina temeva che fosse
un po’ offesa: poi s’incamminarono in silenzio finché non giunsero in cima
alla collinetta.

Per qualche minuto Alice restò lì zitta a guardare la campagna in ogni


direzione – ed era una campagna veramente curiosa. C’erano tanti
minuscoli ruscelletti che correvano diritti e l’attraversavano da una parte
all’altra, e il terreno in mezzo era diviso in quadrati da una serie di piccole
siepi verdi, che andavano da un ruscello all’altro.

– Oh bella, è tutta segnata come una grande scacchiera! – disse


finalmente Alice. – Dovrebbero esserci degli uomini che si muovono qua e
là da qualche parte – e infatti è così! – aggiunse con tono deliziato, e il
cuore prese a batterle veloce mentre proseguiva. – È una grandiosa,
immensa partita a scacchi che stanno giocando… in tutto il mondo…
sempre che questo sia il mondo, certo. Oh, com’è divertente! Come vorrei
essere uno di loro! Non m’importerebbe di essere un Pedone pur di
partecipare … anche se ovviamente mi piacerebbe di più essere una
Regina!

Dicendo questo, lanciò un’occhiata timida alla vera Regina, ma la sua


compagna si limitò a sorridere affabilmente e disse: – Questo si può
combinare facilmente. Puoi fare il Pedone della Regina Bianca, se vuoi,
dato che Lily è troppo giovane per giocare; adesso tu sei nel Secondo
Scacco, per cominciare: quando avrai raggiunto l’Ottavo, diventerai una
Regina… – Proprio in quel momento, per un motivo o per l’altro,
incominciarono a correre.

Alice non riuscì mai a capire veramente, ripensandoci in seguito, come fu


che incominciarono: tutto ciò che ricorda è che correvano tenendosi per
mano, e la Regina andava così veloce che quello era l’unico modo per
tenerle dietro: e malgrado ciò la Regina continuava a gridare: – Più veloce!
Più veloce! – ma Alice sentiva che non poteva andare più veloce, anche se
non aveva più fiato per dirlo.

La parte più curiosa della faccenda era che gli alberi e le altre cose
intorno a loro non cambiavano mai di posto: per quanto veloci andassero,
sembrava che non superassero mai niente. “Mi domando se tutte le cose si
muovono assieme a noi,” pensò, perplessa, la povera Alice. E la Regina
sembrò indovinare i suoi pensieri, perché gridò: – Più veloce! Non cercare
di parlare!
Non che Alice avesse alcuna intenzione di farlo.

Le sembrava che non sarebbe mai più riuscita a parlare, tanto le mancava
il fiato; e la Regina continuava a gridare: – Più veloce! Più veloce! – e se la
trascinava dietro. – Siamo quasi arrivate? – riuscì a esalare Alice,
ansimando.

– Quasi! – ripeté la Regina. – Che diamine, ci siamo passate davanti dieci


minuti fa! Più veloce! – E continuarono a correre per un po’ in silenzio, col
vento che fischiava nelle orecchie di Alice, e quasi le strappava via i capelli
dalla testa – questa era l’impressione che aveva.

– Forza! Forza! – gridò la Regina. – Più veloce! Più veloce! – E corsero


così veloci che alla fine sembravano fendere l’aria in volo radente,
sfiorando appena il terreno coi piedi, finché all’improvviso, proprio quando
ormai Alice non ce la faceva più, si fermarono, e lei si ritrovò seduta per
terra, senza fiato e con la testa che le girava.

La Regina si appoggiò contro un albero e le disse gentilmente: – Ora puoi


riposarti un po’.

Alice si guardò intorno sbalordita. – Ma come! Mi sa che siamo rimaste


sempre sotto quest’albero! Tutto è esattamente com’era prima!

– Certo che lo è, – disse la Regina. – Tu come vorresti che fosse?

– Be’, nel nostro paese – rispose Alice, sempre un po’ trafelata, – in


genere arrivi da qualche altra parte… se corri molto veloce e per tanto
tempo come abbiamo fatto noi.

– Ma che paese lento! – disse la Regina. – Qui, vedi, devi correre più
forte che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra
parte, devi correre almeno due volte più veloce.

– Preferirei non provarci, vi prego! – disse Alice. – Sono più che contenta
di restare qui… solo che ho tanto caldo e tanta sete!
– So cosa fa al caso tuo! – disse la Regina con tono bonario, tirando fuori
dalla tasca una scatoletta. – Vuoi un biscotto?

Alice pensò che non sarebbe stato educato rispondere “No”, anche se non
era affatto ciò che desiderava. Perciò lo prese, e fece del suo meglio per
mandarlo giù: era molto secco, pensò che in tutta la sua vita non era mai
stata così vicina a strozzarsi.

– Mentre tu ti rinfreschi, – disse la Regina, – io prenderò le misure. – E


tirò fuori dalla tasca un nastro, sul quale erano segnati i pollici, e
incominciò a misurare il terreno e a infilare dei piccoli pioli qua e là.

– Tra due iarde, – disse, piantando un piolo per segnare la distanza, – ti


darò le istruzioni – vuoi un altro biscotto?

– No, grazie, – replicò Alice. – Uno mi basta davvero!

– Passata la sete, spero? – domandò la Regina.

Alice non sapeva cosa dire in proposito, ma fortunatamente la Regina


non aspettò la risposta, e continuò. – Dopo tre iarde le ripeterò… per paura
che te le dimentichi. Dopo quattro, ti saluterò. Dopo cinque, me ne andrò.

A questo punto aveva già piantato tutti i pioli, e Alice continuò a


guardarla con grande interesse mentre tornava all’albero e poi cominciava a
camminare lentamente lungo la fila.

All’altezza del piolo che indicava le due iarde, si girò e disse: – Un


pedone avanza di due scacchi alla prima mossa, sai. Così attraverserai molto
velocemente il Terzo Scacco – in treno, direi – e ti troverai nel Quarto
Scacco in men che non si dica. Bene, quello scacco appartiene a
Tweedledum e Tweedledee… il Quinto è acqua, perlopiù… il Sesto
appartiene a Humpty Dumpty… Ma non fai nessuna osservazione?

– Io… non sapevo di doverne fare… adesso, – balbettò Alice.

– Avresti dovuto dire, – continuò la Regina con un tono di grave


rimprovero, – “È estremamente gentile da parte vostra dirmi tutte queste
cose”… comunque, facciamo conto che tu l’abbia detto… Il Settimo Scacco
è tutto foresta… comunque, uno dei Cavalieri ti mostrerà la strada… e
nell’Ottavo Scacco saremo Regine insieme, e ci sarà una gran festa e ci
divertiremo un mondo! – Alice si alzò e fece una riverenza, poi si sedette di
nuovo.

Al piolo seguente, la Regina si girò di nuovo, e questa volta disse: – Parla


in francese quando non ti viene il termine inglese per una cosa… gira in
fuori le dita dei piedi mentre cammini… e ricordati chi sei! – Non aspettò
che Alice facesse un inchino, questa volta, ma andò spedita al piolo
successivo, dove si voltò per un attimo per dire “Arrivederci” e poi si
affrettò verso l’ultimo.

Come successe, Alice non lo seppe mai, ma nel preciso istante in cui
raggiunse l’ultimo piolo, la Regina scomparve. Se fosse svanita nell’aria o
fosse corsa velocemente dentro il bosco (“ed è capace di correre molto
forte!” pensò Alice), non c’era modo di saperlo, ma era scomparsa, e Alice
cominciò a ricordarsi di essere un Pedone, e che presto per lei sarebbe
arrivato il momento di muoversi.
Capitolo III
Gli insetti nello Specchio

Naturalmente la prima cosa da fare era di studiare nelle linee generali il


paese per il quale si accingeva a viaggiare. “È quasi come imparare la
geografia”, pensò Alice, alzandosi sulle punte dei piedi nella speranza di
vedere un po’ più lontano. “Fiumi principali – non ce ne sono proprio.
Montagne principali… questa su cui sto è l’unica, ma non credo abbia un
nome. Città principali – toh!, cosa sono quelle creature, che fanno il miele
laggiù? Non possono essere api… nessuno ha mai visto delle api da un
miglio di distanza, figuriamoci…” e per un po’ restò lì in silenzio, a
osservare una di loro che s’affaccendava qua e là in mezzo ai fiori,
immergendovi la proboscide, “proprio come se fosse un’ape normale,”
pensò Alice.

Invece era tutto fuorché un’ape normale: infatti era un elefante – come
scoprì ben presto Alice, anche se sulle prime l’idea le mozzò il fiato. “E che
fiori enormi devono essere!” fu il pensiero che seguì. “Un po’ come delle
casette a cui sia stato tolto il tetto e messo un gambo… e chissà la quantità
di miele che fanno! Penso che scenderò e… no, non ancora,” continuò,
fermandosi proprio quando stava incominciando a correre giù per la collina,
e cercando di trovare qualche scusa per la sua improvvisa timidezza. “Non è
proprio il caso di andare giù in mezzo a loro senza un bel ramo lungo per
scacciarli… e come sarà divertente quando mi chiederanno se mi è piaciuta
la passeggiata. Io dirò: Oh sì, mi è piaciuta abbastanza” – (e qui scrollò
appena la testa, il suo vezzo preferito), “solo che c’era una gran polvere e
un caldo terribile, e gli elefanti erano veramente dispettosi!”.

– Credo che andrò dall’altra parte, – disse dopo una pausa; – e forse
potrei andare a vedere gli elefanti più tardi. E poi muoio dalla voglia di
arrivare al Terzo Scacco!

Così, con questa scusa, corse giù per la collina, e superò con un salto il
primo dei sei ruscelletti.
– Biglietti, prego! – disse il Controllore, infilando la testa nel finestrino.
Un attimo dopo tutti gli porgevano un biglietto: erano grandi all’incirca
come le persone, e sembravano riempire la carrozza.

– Su, avanti! Fa’ vedere il tuo biglietto, bambina! – continuò il


Controllore, guardando Alice con aria arrabbiata. E una miriade di voci
dissero tutte insieme (“come il ritornello di una canzone”, pensò Alice): –
Non farlo aspettare, bambina! Diamine, il suo tempo vale mille sterline al
minuto!

– Temo di non averlo, – disse Alice con tono spaventato. – Non c’era la
biglietteria nel posto dove sono salita. – E di nuovo riattaccò il coro di voci.
– Non c’era posto per una biglietteria nel posto dov’è salita. La terra lì vale
mille sterline al pollice!

– Non accampare scuse, – disse il Controllore. – Avresti dovuto


comprarlo dal macchinista. – E ancora una volta il coro delle voci attaccò
così: – L’uomo che fa andare la macchina. Che diamine, solo il fumo vale
mille sterline allo sbuffo!

Alice disse tra sé: “Allora è inutile parlare”. Le voci non si levarono,
questa volta, perché lei non aveva parlato, ma con sua grande sorpresa, tutte
pensarono in coro (spero capiate cosa significa pensare in coro… perché io
no, lo confesso). “Meglio non dire niente. Il linguaggio vale mille sterline a
parola!”.

“Sognerò mille sterline stanotte, questo è sicuro!”, pensò Alice.

Per tutto questo tempo il Controllore era rimasto a guardarla, prima con
un cannocchiale, poi con un microscopio, e poi con un binocolo da teatro.
Alla fine disse: – Stai viaggiando nella direzione sbagliata – poi chiuse il
finestrino e se ne andò.

– Una bambina così piccola, – disse il signore seduto davanti a lei (era
vestito di carta bianca), – dovrebbe sapere in che direzione sta andando,
anche se non sa neppure come si chiama!
Una Capra, che era seduta accanto al signore in bianco, chiuse gli occhi e
disse a voce alta: – Dovrebbe sapere come andare alla biglietteria, anche se
non sa l’alfabeto!

C’era uno Scarafaggio seduto accanto alla Capra (l’assortimento dei


passeggeri di quella carrozza era molto eccentrico), e, poiché sembrava
vigere la regola di parlare a turno, lui continuò così: – Dovrà tornare
indietro da qui come bagaglio!

Alice non riusciva a vedere chi era seduto accanto allo Scarafaggio, ma
ecco che una voce bassa ed esangue parlò. – Cambiate locomotive… –
disse, e qui si strozzò e fu costretta a smettere.
“Sembra un purosangue,” pensò Alice fra sé. Una vocina piccolissima,
vicino al suo orecchio, sussurrò: – Potresti farci un gioco di parole…
qualcosa su “esangue” e “purosangue”, capisci?

Poi una voce dolcissima, in lontananza, disse: – Bisogna metterle


un’etichetta: “Fanciulla, maneggiare con cura”, non vi pare…

E dopo quella, altre voci si levarono (“Ma quanta gente c’è in questa
carrozza!”, pensò Alice), dicendo: – Intestata com’è,(3) va spedita per posta
…; – Visto che ha la testa per aria, va spedita come telegramma…; – Deve
mettersi in testa di mettersi in testa al treno e tirarlo lei per il resto del
viaggio… – e così via.

Ma il signore vestito di carta bianca si sporse in avanti e le sussurrò


nell’orecchio: – Non far caso a quello che dicono questi qua, mia cara, ma
prendi un biglietto di andata e ritorno ogni volta che il treno si ferma.

– Ma neanche per sogno! – disse Alice alquanto spazientita. – Io non


c’entro niente con questo viaggio in treno… ero in un bosco un momento
fa… e vorrei poter tornare laggiù!

– Potresti costruire un gioco di parole su questo, – disse la vocina nel suo


orecchio: – qualcosa come “volere è potere”, capisci.

– Non tormentarmi così, – disse Alice, guardandosi intorno invano per


vedere da dove veniva la voce. – Se smani così per i giochi di parole,
perché non te ne inventi uno tu?

La vocina tirò un profondo sospiro. Era molto infelice, evidentemente, e


Alice le avrebbe detto qualcosa di compassionevole per consolarla, “se
soltanto sospirasse come tutti gli altri!” pensò. Ma questo era un sospiro
così meravigliosamente piccolo che non l’avrebbe sentito proprio se non le
fosse arrivato vicinissimo all’orecchio. E come conseguenza le venne un
gran prurito all’orecchio, il che distolse i suoi pensieri dall’infelicità della
povera creaturina.

– So che sei un’amica, – continuò la vocina. – Una cara amica, e una


vecchia amica. E tu non mi farai del male, anche se sono un insetto.
– Che tipo d’insetto? – chiese Alice, con una certa apprensione. Ciò che
desiderava veramente sapere era se poteva pungere o no, ma pensò che non
era una domanda molto gentile da farsi.

– Come, allora tu non… – continuò la vocina, ma fu sommersa da un


fischio acuto della locomotiva, e tutti saltarono su allarmati, Alice
compresa.

Il Purosangue, che aveva sporto la testa dal finestrino, la ritirò con calma
e disse: – È soltanto un ruscello che dobbiamo saltare. – Tutti parvero
soddisfatti della spiegazione, anche se la sola idea che i treni saltassero
rendeva Alice un po’ nervosa. “A ogni modo, ci porterà nel Quarto Scacco,
questa è già una consolazione!” disse tra sé. Un attimo dopo sentì il treno
sollevarsi dritto in aria, e terrorizzata afferrò la cosa più vicina alla sua
mano, che si dà il caso fosse la barba della Capra.

***

Ma la barba parve dissolversi appena la toccò, e Alice si ritrovò seduta


tranquillamente sotto un albero… mentre la Zanzara (perché questo era
l’insetto col quale aveva parlato) si teneva in equilibrio su un ramoscello
proprio sopra la sua testa, e le faceva vento con le ali.

Certo era una Zanzara molto grossa: “Grande più o meno come una
gallina”, pensò Alice. Però non poteva sentirsi inquieta con lei, dopo tutto il
parlare che avevano fatto.

– … ma allora non tutti gli insetti ti piacciono? – riprese la Zanzara,


tranquillissima, come se non fosse successo niente.

– Mi piacciono quando sanno parlare, – disse Alice. – Nessuno di loro


parla mai, al mio paese.

– Che tipo d’insetti ti mette allegria, al tuo paese? – s’informò la Zanzara.

– A me gli insetti non mettono allegria per niente, – spiegò Alice, –


perché mi fanno un po’ paura… almeno quelli grossi. Ma posso dirti il
nome di alcuni di loro.
– Naturalmente rispondono, quando li chiami per nome – commentò la
Zanzara con aria distratta.

– Non ho mai saputo che lo facciano.

– A che cosa serve che abbiano dei nomi – disse la Zanzara – se poi non
rispondono quando li chiami?

– A loro non serve – ribatté Alice; – ma è utile per le persone che li


nominano, suppongo. Se no, perché le cose avrebbero un nome?

– Non saprei, – rispose la Zanzara. – Più avanti, nel bosco laggiù, niente
ha un nome… comunque, avanti, attacca la tua lista di insetti: stai perdendo
tempo.

– Beh, c’è la Mosca Cavallina, – cominciò Alice, contando i nomi sulle


dita.
– Perfetto, – disse la Zanzara. – A metà di quel bosco, vedrai una Mosca
Cavallina-a-Dondolo, se guardi. È fatta interamente di legno, e si muove
dondolandosi da un ramo all’altro.

– Di cosa vive? – chiese Alice, molto incuriosita.

– Di linfa e segatura, – rispose la Zanzara. – Va avanti con la lista.

Alice guardò la Mosca Cavallina – a – Dondolo con grande interesse e


decise che doveva essere stata appena riverniciata, tanto era brillante e
appiccicosa a vedersi; e poi continuò.

– E c’è la Mantide Religiosa.

– Guarda sul ramo sopra la tua testa, – disse la Zanzara, – e ci troverai


una Mantide Religiosa-Ardente.(4) Il corpo è fatto di budino di Natale, le ali
sono di agrifoglio e la testa è un chicco d’uva che brucia nel Vin Santo.

– E di cosa vive? – chiese Alice, come prima.

– Di Pane dei Morti e di Denti di Sant’Antonio, – rispose la Zanzara. – E


fa il nido nella cassetta delle offerte natalizie.
– E poi c’è l’Ape da Miele – continuò Alice, dopo aver dato una lunga
occhiata all’insetto con la testa ardente, e aver pensato tra sé: “Mi domando
se è questa la ragione per cui gli insetti hanno la passione di volare sulle
candele accese – perché vogliono trasformarsi in Mantidi Religiose-
Ardenti!”.

– Qui, strisciante ai tuoi piedi, – disse la Zanzara (Alice ritrasse i piedi un


po’ allarmata) – puoi osservare un’Ape da Pane-Burro-e-Miele. Le sue ali
sono sottili fette di pane imburrato spalmato di miele, il corpo è di crosta e
la testa è una zolletta di zucchero.

– E di cosa vive?

– Di tè leggero con la panna.


Ad Alice venne in mente una nuova difficoltà. – Supponiamo che non
riesca a trovarne? – suggerì.

– Allora morirebbe, naturalmente.

– Ma questo deve succedere molto spesso, – osservò Alice, pensierosa.

– Succede sempre, – disse la Zanzara.

Dopo di che, Alice restò a riflettere in silenzio per un paio di minuti. Nel
frattempo la Zanzara si divertiva a ronzarle continuamente intorno alla
testa: alla fine si posò di nuovo e osservò: – Suppongo che tu non voglia
perdere il tuo nome, vero?

– No davvero, – rispose Alice, un po’ ansiosa.


– Eppure, non so, – continuò la Zanzara con tono noncurante. – Pensa
soltanto come sarebbe comodo per te se potessi tornare a casa senza nome!
Per esempio, se la governante volesse chiamarti per farti lezione, ti
griderebbe: “Vieni qui…”, ma a quel punto dovrebbe lasciar perdere,
perché non avrebbe nessun nome con cui chiamarti, e naturalmente tu non
dovresti andare, capisci.

– Questo non funzionerebbe mai, ne sono sicura, – disse Alice. – La


governante non la considererebbe mai una buona scusa per perdere le
lezioni. Se non riuscisse a ricordare il mio nome, proverebbe coi suoi nomi
preferiti, cominciando con “Marina”, e poi…(5)

– Bene! – interruppe la Zanzara. – Se dicesse: “Marina” senza


aggiungere altro, ovviamente tu dovresti marinare le lezioni. È un gioco di
parole, vorrei che l’avessi inventato tu.

– Perché vorresti che l’avessi inventato io? – chiese Alice. – È pessimo.

Ma la Zanzara fece solo un profondo sospiro, mentre due grosse lacrime


le scivolarono giù sulle guance.

– Non dovresti inventare dei giochi di parole, – disse Alice, – se ti


rendono così infelice.

Allora si udì un altro di quei piccoli sospiri malinconici, e questa volta la


povera Zanzara sembrò davvero essersi consumata a forza di sospirare,
perché quando Alice guardò in su, non c’era rimasto niente di niente da
vedere sul ramoscello; e poiché, a star seduta e ferma per tanto tempo,
cominciava ad avere freddo, si alzò e riprese il cammino.

Ben presto arrivò in un campo aperto, con un bosco in fondo: sembrava


molto più scuro del precedente, e Alice si sentiva un po’ impaurita all’idea
di entrarci. Tuttavia, ripensandoci, decise di proseguire: “Perché certo
indietro io non torno,” si disse, e quella era l’unica via per arrivare
all’Ottavo Scacco.

“Questo deve essere il bosco,” disse, meditabonda, tra sé, “dove le cose
non hanno nome. Mi domando che cosa ne sarà del mio, se ci entro. Non mi
andrebbe proprio di perderlo… perché dovrebbero darmene un altro, e quasi
sicuramente sarebbe brutto. Ma allora sai come sarebbe divertente cercare
di trovare la creatura che ha il mio vecchio nome! È proprio come negli
annunci, sapete, quando la gente perde un cane…: ‘Risponde al nome di
Dash, portava un collare di ottone’; immaginate di chiamare ogni cosa che
s’incontra ‘Alice’, finché una non risponde! Solo che non dovrebbero
rispondere proprio, se fossero furbe”.

Stava divagando in questo modo quando raggiunse il bosco: sembrava


molto fresco e ombroso. – Be’, in ogni caso è un gran conforto, – disse,
come fu sotto gli alberi, – dopo aver patito tutto quel caldo, entrare nel…
nel… nel cosa? – continuò, piuttosto sorpresa di non riuscire a trovare la
parola. – Voglio dire, di andare sotto il… sotto il… sotto questo qui,
insomma! – e mise la mano sul tronco dell’albero. – Ma come si chiama,
vorrei sapere? Credo proprio che non abbia un nome… anzi, sicuramente
non ce l’ha!
Restò zitta per un minuto a pensare: poi all’improvviso ricominciò. –
Allora è successo veramente, dopo tutto! E ora, chi sono io? Io voglio
ricordarmelo, se sono capace! Sono decisa a farlo! – Ma il fatto di essere
decisa non le servì molto, e tutto ciò che riuscì a dire, dopo essersi spremuta
il cervello, fu: – Elle, so che comincia per elle!

Proprio in quel momento passò di lì per caso un Cerbiatto: guardò Alice


coi suoi grandi occhi buoni, ma non sembrò per nulla spaventato. – Qui!
Qui! Su! – disse Alice, tendendogli la mano per cercare di carezzarlo; ma
quello fece un piccolo scarto all’indietro, poi si fermò a guardarla di nuovo.
– Qual è il tuo nome? – disse finalmente il Cerbiatto. Che voce dolce e
vellutata aveva!

“Vorrei tanto saperlo!” pensò la povera Alice. Rispose, con tono assai
triste: – Nessuno, ora come ora.

– Pensaci di nuovo, – disse lui. – Quello non va bene.

Alice pensò, ma non le venne niente. – Per piacere, vorresti dirmi come ti
chiami tu? – chiese timidamente. – Credo che questo potrebbe aiutarmi un
po’.

– Te lo dirò se verrai con me… un po’ più lontano, – disse il Cerbiatto. –


Qui non riesco a ricordarmelo.

Così proseguirono insieme attraverso il bosco, Alice con le braccia


amorosamente allacciate attorno al morbido collo del Cerbiatto, finché
giunsero a un’altra vasta radura, e qui il Cerbiatto fece un balzo improvviso
in aria e si liberò dal braccio di Alice. – Sono un Cerbiatto! – gridò, con
voce esultante – E povero me: tu sei una bambina!

Di colpo un’espressione di paura apparve nei suoi splendidi occhi


marroni, e un attimo dopo lui balzò via, scappando a tutta velocità.

Alice restò lì a seguirlo con lo sguardo, quasi pronta a piangere di rabbia


per aver perduto così all’improvviso il suo caro, piccolo compagno di
viaggio. – Se non altro, ora so come mi chiamo, – disse. – E questo un po’
mi consola. Alice… Alice… Non lo dimenticherò più. E ora, quale di questi
cartelli devo seguire, mi domando?

Non era una domanda molto difficile cui rispondere, dato che c’era una
sola strada nel bosco, ed entrambi i cartelli indicavano quella direzione. “Lo
deciderò”, disse Alice tra sé, “quando la strada si dividerà e i cartelli
indicheranno direzioni diverse”.

Ma non sembrava molto probabile che questo avvenisse. Alice andò


ancora avanti per un bel po’, ma ogni volta che la strada si divideva,
c’erano immancabilmente due cartelli che indicavano la stessa direzione;
uno portava scritto: “PER LA CASA DI TWEEDLEDUM”, e l’altro: “PER
LA CASA DI TWEEDLEDEE”.

– Sono sicura, – disse finalmente Alice, – che abitano nella stessa casa!
Mi domando come mai non ci ho pensato prima… Ma non posso
trattenermi molto. Farò giusto un salto, dirò “piacere!”, e chiederò loro la
strada per uscire dal bosco. Se solo riuscissi ad arrivare all’Ottavo Scacco
prima che venga buio! – Così proseguì, continuando a parlare tra sé mentre
camminava, finché, passata una curva brusca, s’imbatté in due grassi
ometti, così all’improvviso che non poté evitare di fare un balzo
all’indietro, ma un attimo dopo si riprese, perché era sicura che si trattava di
loro.
Capitolo IV
Tweedledum e Tweedledee

Stavano fermi in piedi sotto un albero, ciascuno con un braccio attorno al


collo dell’altro, e in un attimo Alice capì qual era l’uno e qual era l’altro,
perché uno di loro aveva ricamato sul colletto “DUM” e l’altro “DEE”.
“Immagino che dietro, sul colletto, tutti e due abbiano “TWEEDLE,” disse
tra sé.

Stavano talmente fermi che Alice si dimenticò completamente che erano


vivi, e proprio quando decise di andare a vedere se sul di dietro di ciascun
colletto c’era scritta la parola “TWEEDLE”, una voce proveniente da quello
contrassegnato con “DUM” la fece trasalire.

– Se credi che siamo delle statue di cera, – disse, – dovresti pagare, sai.
Le statue di cera non sono state fatte per essere ammirate gratis. Nossignori!

– Viceversa, – aggiunse quello con la scritta “DEE”, – se pensi che siamo


vivi, dovresti parlare.

– Sono davvero molto spiacente, – fu tutto quello che Alice riuscì a dire;
perché le parole della vecchia canzone continuavano a risuonarle nella testa
come il ticchettio di un orologio, e riuscì a malapena a trattenersi dal dirle
ad alta voce:

“Tweedledum e Tweedledee
sono d’accordo su un duello:
perché per Tweedledum, Tweedledee
gli ha rotto il sonaglio suo bello.

Ma un corvo mostruoso, nel mentre,


nerissimo, come il catrame,
spaventa i nostri eroi talmente
ch’essi abbandonano il certame.

– So cosa stai pensando, – disse Tweedledum. – Ma non è così,


nossignori.

– Viceversa, – continuò Tweedledee, – se potesse essere così, potrebbe


anche esserlo; e se fosse così, lo sarebbe e basta; ma dato che non lo è, non
lo è no. Questa è logica.

– Stavo pensando, – disse Alice con aria molto compita, – qual è la strada
migliore per uscire da questo bosco: sta venendo buio. Vorreste dirmelo, per
cortesia?

Ma i grassi omettini si limitarono a guardarsi e a sorridere.


Somigliavano talmente a una coppia di scolaretti più cresciuti che Alice
non poté fare a meno di puntare il dito su Tweedledum, dicendo: – Rispondi
tu!

– Nossignori! – gridò con tono vispo Tweedledum, e richiuse la bocca


con uno scatto.

– Allora tu! – disse Alice, passando a Tweedledee, anche se era


sicurissima che avrebbe detto solo: “Viceversa!”, e infatti lo fece.

– Hai cominciato male! – gridò Tweedledum. – La prima cosa quando si


va a trovare qualcuno è dirgli “Piacere” e stringergli la mano! – E su questo
i due fratelli si abbracciarono e poi tesero le due mani libere per stringere la
mano di Alice.

Alice non voleva stringere la mano a uno dei due per primo, per paura di
urtare la sensibilità dell’altro; così, per cavarsi dall’impiccio meglio che
poteva, afferrò entrambe le mani contemporaneamente: un attimo dopo
stavano ballando tutti in cerchio. Questo le parve del tutto naturale (ricordò
in seguito), e non fu neppure stupita di sentire della musica: sembrava
provenire dall’albero sotto il quale stavano ballando, ed era prodotta (a
quanto poté capire) dai rami che si sfregavano gli uni contro gli altri di
traverso, a mo’ di violini e archetti.

– Certo che era buffo – (disse in seguito Alice, quando fece a sua sorella
la cronistoria di quest’episodio), – ritrovarsi a cantare: “Qui noi facciam il
girotondo attorno al cespuglio di more”. Non so quando ho cominciato, ma
in qualche modo avevo la sensazione di cantarlo da molto, molto tempo!

Gli altri due ballerini erano grassi, e molto presto restarono senza fiato. –
Quattro giri sono abbastanza per un ballo solo, – disse Tweedledum
ansimando, e i due smisero di ballare all’improvviso così come avevano
cominciato: la musica cessò nello stesso istante.

Poi lasciarono andare le mani di Alice e rimasero fermi a guardarla per


un minuto: ci fu una pausa alquanto imbarazzata, e Alice non sapeva come
iniziare una conversazione con delle persone con le quali fino a un attimo
prima stava ballando. “Non sarebbe opportuno dire ‘piacere’ adesso” disse
tra sé. “Mi sembra che quello l’abbiamo già superato, in qualche modo!”.

– Non siete troppo stanchi, spero? – disse finalmente Alice.

– Nossignori. E molte grazie per averlo domandato, – disse Tweedledum.

– Obbligatissimo! – aggiunse Tweedledee. – Ti piace la poesia?

– Sì-ì, abbastanza… certa poesia, – rispose Alice dubbiosa. – Vorreste


dirmi quale strada porta fuori dal bosco?

– Che cosa devo recitarle? – disse Tweedledee, girandosi a guardare


Tweedledum, con occhi grandi e solenni, e senza badare alla domanda di
Alice.

– Il Tricheco e il Carpentiere è la più lunga, – rispose Tweedledum,


dando al fratello un abbraccio affettuoso.

Tweedledee iniziò immediatamente:

Il sole brillava

A questo punto Alice s’azzardò a interromperlo. – Se è molto lunga, –


disse, nel modo più educato che poté, – vorreste dirmi prima che strada…

Tweedledee sorrise gentilmente, e ricominciò:

“Il sole brillava sul mare


e brillava di gran lena
con ardore l’onda lustrava,
ne levigava ogni vena.
il che era strano, perché, sai,
era notte, e notte piena.

La luna brillava incupita,


perché il sole era ancora lì,
e il giorno era bell’e finito
“con che diritto, poi? Ma sì!”.
disse. “È proprio un gran villano!
chi si diverte più, così?”.

Il mare era umido, altroché,


l’arenile secco secco.
non vedevi nubi in ciel perché
non ce n’eran proprio, ecco.
né un uccello volava lassù –
d’uccelli non c’era il becco.

Quel dì il Tricheco e il Carpentiere


camminavan fianco a fianco,
sciolti in lacrime nel vedere
della sabbia il mare bianco.
‘se solo spazzassero via tutto,
“qui sarebbe un vero incanto”!

“Se sette donne e sette scope


spazzassero un anno o metà,
tu credi che, – disse il Tricheco, –
verrebbe ben pulito qua?”.
“dubito”, pianse il Carpentiere,
d’un pianto amaro, in verità.
“O Ostrica”, pregò il Tricheco,
suvvia, vieni a passeggiare.
due ameni passi e conversari,
lungo la spiaggia del mare:
ma non più di quattro di voi
per mano possiam portare”.

L’Ostrica Anziana non disse ‘bah’,


ma un lungo sguardo gli lanciò;
l’Ostrica Anziana strizzò l’occhio,
la testolona lei scrollò –
come a dire che preferiva
non lasciare il banco: no, no!
Ma quattro piccole accorsero
entusiaste e assai giulive,
i manti e i visi immacolati,
lustre le scarpette a ogive –
il che era strano, perché, sai,
di piedi loro eran prive.

Altre quattro le seguirono


e quattro ancora, a ruota,
e infine, leste, vennero a frotte,
lasciando la casa vuota,
saltando tra l’onde schiumose
fin su sulla riva ignota.

Così il Tricheco e il Carpentiere


percorsero un miglio e passa
poi sedettero su una roccia
opportunamente bassa:
e alt! In fila le ostrichette
attesero buone in massa.

Disse il Tricheco: “È giunta l’ora


di parlar di cose attuali:
di scarpe – navi – ceralacca –
di cavoli – e di reali –
del perché scotta così il mare –
e se i porci hanno le ali”.

“Ma aspetta un attimo a iniziare!”.


Gridò l’Ostrica: “Affrante
sono alcune e senza più fiato;
grasse, poi, siam tutte quante!”.
E il Carpentiere: ‘Non c’è fretta!’
E loro: “Oh! Grazie tante!”.
“Quel che serve,’ disse il Tricheco,
è il pane, principalmente:
poi il pepe e l’aceto di vino,
un condimento eccellente.
Ora, se siete pronte, care,
ci abbuffiamo immantinente!”.

“Ma non di noi!’ Strillaron quelle,


pallide e bluastre in faccia.
“Dopo tanta cortesia, be”,
la diremmo un’azionaccia!”.
“Che notte!” sospirò il Tricheco.
“Mirate, e buon pro vi faccia!

Siete state brave a venire,


e siete amabili assai!”.
Il Carpentiere disse solo:
“Taglia un’altra fetta, dai!
Vorrei non fossi tanto sordo –
L’ho chiesto due volte, ormai!”.

Disse il Tricheco: “È molto brutto


Fargli ’Sto tiro birbone,
dopo averle portate fin qui,
fatte trottar col fiatone.”.
E il Carpentiere: “Troppo burro,
ce n’è un’esagerazione!”.

“Piango per voi”, disse il Tricheco,


“provo profonde emozioni”.
E singhiozzando forte scelse
quelle di gran dimensioni;
con il foulard davanti agli occhi…
grondanti di lacrimoni.
Disse il Carpentiere: “O Ostriche!
Bella corsa, convenite?
Se filassimo a casa insieme?”.
Ma eran tutte ammutolite –
il che strano non era, perché
tutte in pancia eran finite.

– Io preferisco il Tricheco, – disse Alice: – perché un po’ gli dispiaceva


per le povere ostriche.

– Ne ha mangiate di più del Carpentiere, però, – osservò Tweedledee. –


Vedi che si teneva davanti il foulard, in modo che il Carpentiere non potesse
contare quante ne prendeva: viceversa.

– Ma che cosa ignobile! – esclamò Alice, indignata. – Allora preferisco il


Carpentiere… se non ne ha mangiate quante il Tricheco.

– Ma ha mangiato tutte quelle che ha potuto, – disse Tweedledum.

Era un bel dilemma. Dopo una pausa, Alice cominciò: – Be’, erano tutti e
due dei personaggi molto sgradevoli… – Qui s’interruppe un po’ allarmata,
sentendo provenire dal bosco lì vicino a loro qualcosa che somigliava allo
sbuffare di una grande locomotiva, anche se temeva fosse più probabile che
si trattasse di una belva. – Ci sono leoni o tigri da queste parti? – chiese
esitante.

– È solo il Re Rosso che russa, – disse Tweedledee.

– Vieni a vederlo! – gridarono i fratelli, e presero ciascuno una mano di


Alice, e la condussero fino al posto dove il Re stava dormendo.

– Non è una visione incantevole? – disse Tweedledum.


In tutta onestà, Alice non poteva dire che lo fosse. Portava un lungo
berretto da notte rosso, con una nappina, e se ne stava tutto appallottolato in
una specie di mucchietto disordinato, e russava forte, così forte “da farsi
saltar via la testa!” come osservò Tweedledum.

– Ho paura che prenderà il raffreddore a stare sdraiato sull’erba umida, –


disse Alice, che era una bambina molto premurosa.

– Ora sta sognando, – disse Tweedledee. – E cosa pensi che stia


sognando?

– Nessuno può saperlo.


– Che diamine! Sta sognando te! – esclamò Tweedledee, battendo le mani
con aria di trionfo. – E se smettesse di sognare te, dove pensi che saresti?

– Dove sono adesso, naturalmente, – rispose Alice.

– No, tu no! – ribatté Tweedledee in tono di disprezzo. – Non saresti in


nessun posto. Diamine, tu sei soltanto una sorta di oggetto nel suo sogno!

– Se il Re si dovesse svegliare, – aggiunse Tweedledum, – tu ti


spegneresti di colpo – puf! – come una candela!

– Neanche per sogno! – Esclamò indignata Alice. – E poi, se io sono


soltanto una sorta di oggetto del suo sogno, tu cosa sei, vorrei sapere?

– Idem! – gridò Tweedledum.

– Idem, idem! – gridò Tweedledee.

Lo gridò così forte che Alice non poté fare a meno di dire – Zitto! Lo
sveglierete, temo, se fate tutto questo rumore.

– Be’, è inutile che tu parli di svegliarlo, – disse Tweedledum, – quando


sei solo uno degli oggetti del suo sogno. Sai benissimo di non essere vera.

– Io sono vera! – disse Alice, e si mise a piangere.

– Non è che piangendo diventerai più vera, neanche un pochino, –


osservò Tweedledee. – Non c’è nessun motivo di piangere.

– Se non fossi vera, – ribatté Alice, un po’ ridendo tra le lacrime, perché
tutto le sembrava così ridicolo, – non sarei capace di piangere.

– Spero non crederai che quelle siano lacrime vere? – interruppe


Tweedledum con tono sprezzante.

“So che stanno dicendo delle assurdità,” pensò Alice tra sé: “ed è sciocco
piangere per questo”. Così si asciugò rapidamente le lacrime, e continuò
con l’aria più allegra che poteva. – In ogni caso farei bene a uscire dal
bosco, perché sta venendo davvero molto buio. Pensate che pioverà?
Tweedledum aprì un grande ombrello a coprire se stesso e suo fratello,
alzò gli occhi e guardò dentro. – No, non credo, – disse. – Almeno, non qui
sotto. Nossignori.

– Ma può piovere fuori?

– Può sì, se vuole, – disse Tweedledee. – Noi non abbiamo obiezioni.


Viceversa.

“Che razza di egoisti!” pensò Alice, e stava proprio per dire


“Buonanotte” e andarsene, quando Tweedledum balzò fuori da sotto
l’ombrello e l’afferrò per il polso.

– Lo vedi quello? – disse, con la voce soffocata dall’ira, e in un


battibaleno gli occhi gli diventarono grandi e gialli, mentre indicava con un
dito tremante un piccolo oggetto bianco laggiù sotto l’albero.
– È solo un sonaglio, – disse Alice, dopo un attento esame del piccolo
oggetto bianco. – Non un serpente a sonagli, sai, – aggiunse in fretta,
credendo che si fosse spaventato. – Solo un vecchio sonaglio… molto
vecchio e anche rotto.

– Lo sapevo! – gridò Tweedledum, cominciando a pestare


selvaggiamente i piedi di qua e di là e a strapparsi i capelli. – È rovinato,
naturalmente! – A quel punto guardò Tweedledee, che immediatamente si
sedette per terra e cercò di nascondersi sotto l’ombrello.

Alice gli mise la mano sul braccio e disse, con tono dolce: – Non c’è
bisogno che ti arrabbi così per un vecchio sonaglio!

– Ma non è vecchio! – gridò Tweedledum, più furente che mai. – È


nuovo, ti dico… l’ho comprato ieri… il mio bel SONAGLIO NUOVO! – e
la sua voce crebbe fino a diventare un urlo.

Nel frattempo, Tweedledee stava cercando in tutti i modi di chiudere


l’ombrello, con se stesso dentro: il che era un’operazione talmente
straordinaria che distrasse l’attenzione di Alice dal fratello irato. Ma non gli
riuscì molto bene, e andò a finire che si ribaltò, tutto avvoltolato
nell’ombrello, con solo la testa fuori: e ora era lì disteso in terra, che apriva
e chiudeva la bocca e i grandi occhi – “più simile a un pesce che a qualsiasi
altra cosa,” pensò Alice.

– Naturalmente sei d’accordo che ci battiamo a duello? – disse


Tweedledum in tono più calmo.

– Direi di sì, – rispose imbronciato l’altro, mentre strisciava fuori


dall’ombrello. – Solo che lei ci deve aiutare a vestirci, capisci.

Così i due fratelli entrarono mano nella mano nel bosco, e tornarono un
attimo dopo con le mani cariche di roba: cuscini a rullo, coperte, tappetini,
tovaglie, coperchi e ceste di carbone. – Spero tu sia brava a puntare gli spilli
e a legare i lacci, – osservò Tweedledum. – Ognuna di queste cose deve
essere indossata, in un modo o nell’altro.
Alice avrebbe detto in seguito che in vita sua non aveva mai visto
sollevare un simile polverone per qualcosa… come s’affaccendavano quei
due… e la quantità di oggetti che si mettevano addosso… e il daffare che le
davano a stringere lacci e ad abbottonare… “Davvero sembreranno più che
altro dei fagotti di vestiti vecchi, quando saranno pronti!” disse tra sé,
mentre sistemava un cuscino attorno al collo di Tweedledee, per “impedire
che gli venisse tagliata la testa,” come disse lui.

– Sai, – aggiunse con tono molto serio, – è una delle cose peggiori che ti
possano mai accadere in combattimento: che ti taglino la testa.

Alice rise forte: ma riuscì a trasformare il riso in tossetta, per paura di


urtare la sua sensibilità.

– Sono molto pallido? – chiese Tweedledum, avvicinandosi per farsi


legare l’elmo. (Lui lo chiamava “elmo”, anche se in effetti somigliava più a
una pentola.)

– Beh… sì… un pochino, – rispose gentilmente Alice.

– In genere io sono molto coraggioso, – continuò lui a voce bassa. – Solo


oggi il caso vuole che abbia mal di testa.

– E io ho mal di denti! – esclamò Tweedledee, che aveva sentito di


sfuggita quella dichiarazione. – Sto molto peggio di te!
– Allora fareste meglio a non battervi oggi, – disse Alice, pensando fosse
una buona occasione per mettere pace.

– Un pochino dobbiamo batterci, ma non m’interessa andare avanti a


lungo. – Che ore sono, adesso?

Tweedledee diede un’occhiata al suo orologio e disse: – Quattro e mezza.

– Combattiamo fino alle sei, e poi si cena, – propose Tweedledum.

– Benissimo, – disse l’altro con aria tristissima. – E lei può guardarci,


solo è meglio che non t’avvicini molto, – aggiunse. – In genere io colpisco
ogni cosa che riesco a vedere, quando mi scaldo veramente.
– E io colpisco ogni cosa che è a tiro, – gridò Tweedledum, – che riesca a
vederla o no!

Alice rise. – Allora devi colpire spesso gli alberi, immagino, – disse.

Tweedledum si guardò intorno con un sorriso soddisfatto. – Non penso, –


disse, – che ci sarà un solo albero ancora in piedi in tutto il circondario,
quando avremo finito!

– E tutto per un sonaglio! – disse Alice, sempre sperando di farli


vergognare almeno un po’ di battersi per una simile inezia.

– Non mi sarebbe importato così tanto – disse Tweedledum, – se non


fosse stato nuovo.

“Vorrei che arrivasse il corvo mostruoso!” pensò Alice.

– C’è solo una spada, sai, – disse Tweedledum al fratello, – ma tu puoi


prendere l’ombrello: è altrettanto affilato. Solo, dobbiamo incominciare
presto. Sta facendosi buio come più non può.

– O non vuole, – disse Tweedledee.

Stava venendo buio così in fretta che Alice pensò che fosse in arrivo un
temporale. – Ma guarda che nuvolone nero! – esclamò. – E come viene
avanti veloce! Accipicchia! Credo proprio che abbia le ali!

– È il corvo! – gridò con voce stridula per lo spavento Tweedledum; e i


due fratelli alzarono i tacchi e in un baleno scomparvero alla vista.

Alice corse un poco dentro il bosco e si fermò sotto un grande albero.


“Non potrà mai prendermi qui,” pensò: “è decisamente troppo grande per
riuscire a infilarsi tra gli alberi. Ma vorrei che non battesse le ali a questo
modo… sta scatenando un tornado nel bosco – ecco, ha già strappato via lo
scialle a qualcuno!”.
Capitolo V
Lana e acqua

Mentre parlava, afferrò lo scialle e si guardò intorno alla ricerca della


proprietaria: un attimo dopo arrivò correndo all’impazzata per il bosco la
Regina Bianca, con le braccia aperte e tese all’infuori, come se stesse
volando, e Alice, con grande cortesia, le andò incontro con lo scialle.

– Sono molto lieta di essermi trovata per caso sulla vostra strada, – disse
Alice, aiutandola a rimettersi lo scialle.

La Regina Bianca si limitò a guardarla con aria spaventata, e continuò a


ripetere tra sé, sussurrando qualcosa che suonava come “Pane-e-burro,
pane-e-burro”, e Alice pensò che se una qualche conversazione doveva
esserci, spettava a lei condurla. Così esordì, un po’ esitante: – Siete la
Regina Bianca, vero? Perdonatemi se vi investo così.

– Se questo lo chiami in-vestire, – disse la Regina Bianca. – Non è affatto


la mia idea della cosa.

Alice pensò che non sarebbe servito a niente litigare proprio all’inizio
della conversazione, perciò sorrise e disse; – Basta che la vostra Maestà mi
dica il modo giusto per cominciare, io lo farò meglio che posso.

– Ma io non voglio affatto che tu lo faccia! – gemette la povera Regina. –


Sono due ore che mi sto in-vestendo.

Sarebbe stato decisamente meglio, pensò Alice, che si fosse fatta vestire
da qualcun altro, dato il disordine spaventoso del suo aspetto. “Non c’è una
cosa che non sia messa di storto,” commentò tra sé Alice, “ed è coperta da
cima a fondo di spilli!”. – Posso mettervi dritto lo scialle? – aggiunse a voce
alta.

– Non so cosa gli ha preso! – disse la Regina in tono malinconico. – Ha


la luna di traverso, credo. L’ho puntato qui, ma non c’è modo di farlo
contento!
– Ma non posso metterlo dritto, sapete, se voi lo puntate tutto da un lato,
– disse Alice, mentre glielo sistemava. – E santo cielo! in che stato sono i
vostri capelli!

– Ci è rimasta impigliata la spazzola! – disse la Regina con un sospiro. –


E ieri ho perso il pettine.

Alice liberò con cautela la spazzola e fece del suo meglio per aggiustarle
i capelli. – Oooh! Così va meglio! – esclamò, dopo aver spostato quasi tutte
le forcine. – Però avreste davvero bisogno di una cameriera personale!
– Sì, certo, prenderò te con piacere! – disse la Regina. – Due pence alla
settimana, e marmellata ogni due giorni.

Alice non poté fare a meno di ridere, mentre diceva: – Ma io non voglio
che prendiate me, e la marmellata non m’interessa.

– È una marmellata squisita, – disse la Regina.

– Be’, non ne ho proprio voglia oggi, in ogni caso.

– Non potresti averla se anche ne avessi una gran voglia, – disse la


Regina. – La regola è: marmellata domani e marmellata ieri – ma
marmellata oggi, mai.

– Ma prima o poi si dovrà pure arrivare alla “marmellata oggi”, – obiettò


Alice.

– No, non si può, – rispose la Regina. – La marmellata è a giorni alterni:


oggi non è un giorno alterno, è chiaro no?

– Io non vi capisco, – disse Alice. – È una cosa da perderci la testa!

– È l’effetto del vivere all’indietro, – disse gentilmente la Regina. – Sì, fa


sempre girare un po’ la testa, all’inizio.

– Vivere all’indietro! – ripeté allibita Alice. – Non ho mai sentito parlare


di una cosa simile!

– Ma ha un grande vantaggio, che la memoria funziona in entrambi i


sensi.

– Sono sicura che la mia funziona solo in un senso, – rimarcò Alice. –


Non posso ricordare le cose prima che succedano.

– È una ben misera memoria quella che funziona solo all’indietro, –


osservò la Regina.

– Voi che genere di cose ricordate meglio? – s’azzardò a chiedere Alice.


– Oh, cose che sono successe tra due settimane, – rispose la Regina con
noncuranza. – Adesso per esempio, – continuò, appiccicandosi un grosso
pezzo di cerotto sul dito mentre parlava, – ecco: il Messaggero del Re. In
questo momento è in prigione, a scontare la pena: e il processo non
comincia neppure prima di mercoledì prossimo, e naturalmente il delitto
viene per ultimo.

– Supponiamo che non commetta mai quel delitto? – domandò Alice.

– Meglio così, no? – rispose la Regina, fissando il cerotto attorno al dito


con un pezzetto di nastro.

Alice pensò che questo non si poteva negare. – Certo che è meglio così, –
ribatté. – Ma non è meglio per niente che intanto lo puniscano.

– Qui ti sbagli, invece, – disse la Regina. – Tu sei mai stata punita?

– Solo per delle marachelle, – rispose Alice.

– Ed è stato meglio così per te, te lo dico io! – esclamò trionfante la


Regina.

– Sì, ma io avevo fatto le cose per cui venivo punita, – replicò Alice. –
C’è una bella differenza!

– Ma se tu non le avessi fatte, – disse la Regina, – sarebbe stato ancora


meglio: meglio, meglio, sempre meglio! – La sua voce continuò a salire a
ogni “meglio”, fino a diventare uno strillo acutissimo.
Alice stava incomiciando a dire: – C’è un errore da qualche parte… –
quando la Regina si mise a gridare così forte che dovette lasciare la frase a
metà. – Ohi! Ohi! Ohi! – gridò la Regina, scuotendo la mano come se
volesse scrollarla via. – Il mio dito sanguina! Ohi! Ohi! Ohi!

I suoi strilli erano talmente simili al fischio di una locomotiva che Alice
fu costretta a mettersi le mani sulle orecchie.

– Ma cosa c’è? – domandò, appena ebbe la possibilità di farsi sentire. –


Vi siete punta il dito?
– Non l’ho ancora punto, – rispose la Regina, – ma lo farò presto, ohi,
ohi, ohi!

– Quando prevedete di pungervi? – chiese Alice, che aveva una gran


voglia di ridere.

– Quando mi legherò di nuovo lo scialle, – gemette la povera Regina, – la


broche si sgancerà immediatamente. Ohi, ohi! – Come disse queste parole
la broche si aprì di colpo, e la Regina l’afferrò con violenza e cercò di
richiuderla.

– Attenta! – gridò Alice. – La state tenendo tutta storta! – E allungò la


mano per prenderla; ma era troppo tardi: la spilla era scivolata e la Regina
si era punta il dito.

– Questo spiega perché sanguinavo, vedi – disse ad Alice con un sorriso.


– Ora capisci come vanno le cose qui.

– Ma perché adesso non gridate? – domandò Alice, tenendo pronte le


mani per rimetterle sulle orecchie.

– Che diamine, ho già gridato a dovere. A che servirebbe ricominciare


tutto da capo?

Nel frattempo si stava facendo chiaro. – Il corvo deve essere volato via,
mi sa, – disse Alice. – Sono così contenta che se ne sia andato. Credevo che
stesse venendo notte.

– Vorrei anch’io poter essere contenta! – esclamò la Regina. – Solo che


non riesco mai a ricordare la regola. Devi essere molto felice tu, che vivi in
questo bosco e sei contenta quando ti pare!

– Solo che è talmente solitario, questo posto! – disse Alice con voce
malinconica; e, al pensiero della sua solitudine, due lacrimoni le rotolarono
giù per le guance.

– Oh, su, non fare così! – gridò la povera Regina, torcendosi le mani
disperata. – Considera che grande bambina sei. Considera quanta strada hai
fatto oggi. Considera che ore sono. Considera quello che ti pare, ma non
piangere!

Alice non riuscì a trattenersi dal ridere, persino tra le lacrime. – E voi,
potete impedirvi di piangere considerando delle cose? – domandò.

– È così che si fa, – rispose la Regina con grande decisione. – Nessuno


può fare due cose insieme, capisci. Consideriamo la tua età, per cominciare:
quanti anni hai?

– Sette e mezzo, esattamente.

– Non c’è bisogno che tu dica “esattualmente”, – osservò la Regina. – È


evidente che è la tua età attuale, non stento a crederlo. Ora ti do io qualcosa
a cui credere. Io ho cento e un anno, cinque mesi e un giorno.

– No! Non posso crederci! – esclamò Alice.

– Non puoi? – disse la Regina in tono di compassione. – Prova di nuovo:


fai un lungo respiro e chiudi gli occhi.

Alice rise. – Non serve riprovare, – ribatté. – Non si può credere alle cose
impossibili.

– Oserei dire che non hai fatto molto esercizio, – disse la Regina. –
Quando avevo la tua età, io lo facevo sempre per mezz’ora al giorno.
Figurati che a volte arrivavo a credere fino a sei cose impossibili prima di
colazione. Ecco, ci risiamo con lo scialle!

La broche si era staccata di nuovo mentre lei parlava, e un improvviso


colpo di vento aveva fatto volare lo scialle della Regina al di là di un
ruscelletto. La Regina distese di nuovo le braccia all’infuori e gli volò
dietro, e questa volta riuscì ad acchiapparlo da sola. – L’ho preso! – gridò
con aria di trionfo. – Ora mi vedrai appuntarlo di nuovo, tutta da sola!

– Allora spero che il vostro dito vada meglio adesso – disse Alice molto
educatamente, mentre attraversava il ruscelletto per seguire la Regina.

***
– Oh, molto meglio! – gridò la Regina, con la voce che diventava sempre
più stridula man mano che proseguiva. – Molto me-eglio! Me-eglio! Me-e-
ehh! – L’ultima parola finì in un lungo belato, così simile a quello di una
pecora che Alice trasalì.

Guardò la Regina, che improvvisamente sembrava essersi coperta da


capo a piedi di lana. Alice si strofinò gli occhi e guardò di nuovo. Non
riusciva a capire proprio che cosa fosse successo. Si trovava in una bottega?
E quella era veramente – era veramente una pecora quella che sedeva
dall’altra parte del banco? Per quanto strofinasse, non riusciva a capirci
niente di più: si trovava in una botteguccia buia, con i gomiti appoggiati sul
banco, e di fronte a lei c’era una vecchia Pecora, seduta su una poltrona, che
faceva la maglia e ogni tanto smetteva per guardarla attraverso un grosso
paio di occhiali.

– Che cosa vuoi comprare? – disse finalmente, alzando un attimo gli


occhi dal suo lavoro.

– Ancora non so esattamente, – rispose Alice con tono gentile. – Vorrei


guardarmi intorno, prima, se posso.

– Puoi guardare davanti a te, e ai lati, se vuoi, – disse la Pecora; – ma non


puoi guardarti intorno, a meno che tu non abbia gli occhi dietro la testa.

Ma quelli si dava il caso che Alice non li avesse: così si accontentò di


girare in tondo, guardando gli scaffali man mano che vi si avvicinava.

La bottega sembrava piena di ogni sorta di oggetti curiosi – ma la parte


più strana di tutta la faccenda era che, ogni volta che guardava attentamente
uno scaffale qualunque, per capire esattamente cosa c’era sopra, quello
scaffale era sempre completamente vuoto, mentre gli altri intorno erano
stipati di roba fino all’inverosimile.

– Ma qui le cose si spostano di qua e di là! – disse infine in tono


lamentoso, dopo aver passato un minuto circa a inseguire invano un grande
oggetto lucente, che a volte sembrava una bambola e altre volte una scatola
da lavoro, ed era sempre sullo scaffale immediatamente sopra quello che
stava guardando. – E questa è la più esasperante di tutte, ma aspetta un po’!
– aggiunse, colta da un’illuminazione. – L’inseguirò fino all’ultimo scaffale
in alto. Avrà i suoi problemi a passare attraverso il soffitto, immagino!

Ma anche questo piano fallì: la “cosa” passò attraverso il soffitto in tutta


tranquillità, come se ci fosse abituata.

– Sei una bambina o una trottola? – domandò la Pecora, prendendo un


altro paio di ferri da calza. – Presto mi farai venire le vertigini, se continui a
girare così. – Ora stava lavorando con quattordici paia di ferri
contemporaneamente, e Alice non poté fare a meno di guardarla con aria
stupefatta.
“Come farà a lavorare con tutti quei ferri?” pensò tra sé la bambina,
perplessa. “Ogni minuto che passa somiglia sempre di più a un
porcospino!”.

– Sai remare? – chiese la Pecora, porgendole un paio di ferri da calza


mentre parlava.

– Sì, un po’, ma non sulla terra… e non coi ferri… – stava cominciando a
dire, quando all’improvviso i ferri si tramutarono in remi nelle sue mani, e
si ritrovò con la compagna su una barchetta che scivolava tra le rive di un
fiume: perciò non le restava che fare del suo meglio.

– Qua! Qua! – gridò la Pecora, prendendo un altro paio di ferri.

Questa non sembrava un’osservazione che richiedesse risposta: così


Alice non disse nulla, e continuò a remare. Quell’acqua aveva qualcosa di
molto strano, perché ogni tanto i remi ci entravano veloci e poi venivano
fuori a stento.

– Qua! Qua! – gridò di nuovo la Pecora, afferrando degli altri ferri. –


Così prenderai subito un granchio.

“Un caro granchiolino!” pensò Alice. “Magari!”.

– Non mi hai sentito dire “Qua! Qua!”? – gridò la Pecora in tono


arrabbiato, raccogliendo un bel mazzo di ferri.

– Certo che ho sentito, – rispose Alice: – l’avete detto continuamente… e


a voce molto alta. Ma, vi prego, dove sono i granchi?

– Nell’acqua, naturalmente! – disse la Pecora, infilandosi qualche ferro


nei capelli, poiché aveva le mani piene. – Qua, Qua, ti dico!

– Perché continuate a dirmi “Quàquà”? – domandò finalmente Alice,


piuttosto seccata. – Non sono una papera!

– Be’! – disse la Pecora, – ma un’ochetta sì.


Alice si offese un po’, così la conversazione cessò per un minuto o due,
mentre la barca scivolava dolcemente sull’acqua, a volte tra banchi di alghe
(dove i remi restavano bloccati nell’acqua, peggio che mai) e a volte sotto
gli alberi, ma sempre con le stesse alte sponde incombenti sopra le loro
teste.

– Oh, vi prego! Ci sono dei giunchi profumati! – gridò Alice in un moto


improvviso di gioia. – Lo sono davvero e sono di una tale bellezza!

– Non devi dire “vi prego” a me per quelli, – disse la Pecora, senza alzare
gli occhi dal suo lavoro a maglia. – Non ce li ho messi io lì, e non ho
intenzione di toglierli.

– No, ma io volevo dire… vi prego possiamo fermarci a raccoglierne


qualcuno? – implorò Alice. – Se non vi dispiace fermare la barca un
minuto.

– Come faccio a fermarla, io? – disse la Pecora. – Se smetti di remare, si


fermerà da sola.

Così la barca fu lasciata andare con la corrente come le pareva, finché


scivolò dolcemente in mezzo ai giunchi ondeggianti. E poi le piccole
maniche vennero arrotolate con cura, e le piccole braccia immerse
nell’acqua fino al gomito per afferrare i giunchi il più in basso possibile
prima di strapparli – e per un po’ Alice dimenticò completamente la Pecora
e il lavoro a maglia mentre stava piegata sopra il fianco della barca, con le
punte dei capelli aggrovigliati immerse nell’acqua – mentre con occhi
splendenti di desiderio afferrava un mazzo dopo l’altro degli adorabili
giunchi profumati.

“Spero solo che la barca non si capovolga!” disse tra sé. “Oh, quanto è
bello quello! Solo che non riesco proprio a prenderlo”. E in effetti sembrava
un po’ una provocazione (“quasi come se lo facessero apposta”, pensò) il
fatto che, sebbene lei riuscisse a cogliere una gran quantità di bellissimi
giunchi mentre la barca scivolava via, ce n’era sempre uno ancora più
incantevole che non riusciva a raggiungere.
– I più carini sono sempre più in là! – disse finalmente con un sospiro per
quei giunchi che si ostinavano a crescere così lontano, mentre, con le
guance arrossate e i capelli stillanti, tornava in fretta al suo posto, e
cominciava a sistemare i suoi nuovi tesori.

Che le importava in questo momento che i giunchi avessero cominciato


ad appassire e a perdere tutto il loro profumo e la loro bellezza dal preciso
istante in cui li aveva colti? Anche i veri giunchi profumati, comunque,
durano pochissimo – e questi, essendo giunchi di sogno, si dissolsero quasi
come neve, mentre erano ammucchiati ai suoi piedi – ma Alice se ne
accorse sì e no, c’erano tante altre cose curiose a cui pensare.

Non erano andate molto più avanti quando la pala di un remo restò
incastrata nell’acqua e non voleva più venir fuori (così Alice spiegò la cosa
in seguito), e conseguenza ne fu che l’impugnatura del remo la colpì sotto il
mento e, nonostante una serie di piccoli strilli di “Ohi! Ohi! Ohi!” della
povera Alice, la strappò dal suo posto e la scaraventò giù in mezzo al
mucchio di giunchi.
Tuttavia, Alice non si fece male neanche un po’, e si rialzò subito: la
Pecora aveva continuato a sferruzzare tutto il tempo, come se non fosse
successo niente. – Un bel granchio hai preso! Visto? – commentò, mentre
Alice tornava al suo posto, molto sollevata di trovarsi ancora nella barca.

– Davvero? Io non l’ho visto, – disse Alice, sbirciando con circospezione


oltre il bordo della barca dentro l’acqua scura. – Vorrei che non mi fosse
scappato… mi piacerebbe tanto un granchiolino da portarmi a casa!

Ma la Pecora si limitò a fare una risatina sarcastica e continuò a


sferruzzare.
– Ci sono molti granchi qui? – chiese Alice.

– Granchi e ogni genere di cose, – rispose la Pecora. – C’è tutta la scelta


che vuoi, basta solo che ti decida. Allora, che cosa vuoi comprare?

– Comprare! – fece eco Alice, con un tono che era un misto di stupore e
di paura, perché i remi, e la barca, e il fiume, tutto era svanito in un istante,
e lei si trovava di nuovo nella botteguccia buia.

– Vorrei comprare un uovo, per piacere, – disse timidamente. – Quanto


vengono le uova?

– Cinque pence e rotti per uno… due pence per due, – rispose la Pecora.
– Ma allora due costano meno di uno? – chiese Alice sorpresa, tirando fuori
il borsellino.

– Solo che le devi mangiare tutt’e due, se ne compri due, – rispose la


Pecora.

– Allora ne prenderò uno, prego, – disse Alice, mettendo i soldi sul


banco. Perché pensava tra sé: “Potrebbero anche non essere affatto buone,
non si sa mai”.

La Pecora prese i soldi e li mise in una scatola; poi disse: – Non metto
mai le cose direttamente in mano alla gente… non va bene … devi
prenderlo da sola. – E così dicendo, andò all’altro capo della bottega e
sistemò l’uovo dritto in verticale su uno scaffale.

“Chissà perché non va bene”. pensò Alice, mentre si faceva strada a


tastoni tra i tavoli e le sedie, dato che la bottega era molto buia verso il
fondo. “Mi sembra che più io mi avvicino, più l’uovo si allontana.
Vediamo, non è una sedia, quella? Ma ha i rami, questa poi! Che cosa
assurda trovare degli alberi qui! E c’è anche un piccolo ruscello! Be’,
questa è veramente la bottega più bizzarra che abbia mai visto!”.

Così continuò ad avanzare, meravigliandosi sempre di più a ogni passo,


perché ogni cosa si trasformava in un albero nel momento in cui lei si
avvicinava, e pensava proprio che l’uovo avrebbe fatto lo stesso.
Capitolo VI
Humpty Dumpty

Invece, l’uovo si limitò a diventare sempre più grande, e sempre più


umano: quando Alice fu arrivata a pochi metri da lui, vide che aveva occhi
e naso e bocca; e quando fu vicina, vide chiaramente che era HUMPTY
DUMPTY in persona. “Non può essere nessun altro!” disse tra sé. “Ne sono
sicurissima, come se il nome ce l’avesse scritto in faccia”.

Avrebbe potuto starci scritto cento volte, comodamente, su quell’enorme


faccione. Humpty Dumpty era seduto, con le gambe incrociate come un
turco, in cima a un muro alto – così stretto che Alice si domandava come
facesse a mantenere l’equilibrio – e poiché teneva gli occhi fissi nella
direzione opposta e non aveva dato il minimo segno di accorgersi della sua
presenza, Alice pensò che dopo tutto doveva trattarsi di un fantoccio
imbottito.

– E come somiglia a un uovo, è preciso! – disse a voce alta, tenendo le


mani pronte ad afferrarlo, perché si aspettava che cadesse da un momento
all’altro.

– È molto irritante, – disse Humpty Dumpty dopo un lungo silenzio,


senza guardare Alice mentre parlava, – essere chiamato “uovo”, molto!

– Ho detto che somigliate a un uovo, signore, – spiegò gentilmente Alice.


– E certe uova sono molto carine, sapete, – aggiunse, sperando di
trasformare la sua osservazione in una specie di complimento.

– Certa gente, – disse Humpty Dumpty, come al solito senza guardarla, –


non ha più giudizio di un bebè!

Alice non sapeva cosa replicare. Questa non somigliava affatto a una
conversazione, pensò, dato che lui non diceva mai niente a lei: in realtà, la
sua ultima osservazione era visibilmente rivolta a un albero; così si fermò e
recitò sottovoce fra sé:
Humpty Dumpty era seduto su un muro
Humpty Dumpty cascò e batté sul duro,
E tutti i cavalli e gli uomini del Re

Rimettere su Humpty Dumpty non seppero, ahimè.

– Quest’ultimo verso è decisamente troppo lungo per la poesia, –


aggiunse, quasi a voce alta, dimenticando che Humpty Dumpty l’avrebbe
sentita.

– Non startene lì a cianciare con te stessa a questo modo, – disse Humpty


Dumpty, guardandola per la prima volta, – ma dimmi il tuo nome e lo scopo
della tua visita.

– Il mio nome è Alice, ma…

– È un nome proprio stupido! – la interruppe Humpty Dumpty con tono


insofferente. – Che cosa significa?

– Un nome deve per forza significare qualcosa? – domandò Alice,


dubbiosa.

– Certo che deve, – disse Humpty Dumpty con una breve risata: il mio
nome significa(6) la forma che ho – una gran bella forma, tra parentesi. Con
un nome come il tuo, potresti avere qualsiasi forma, o quasi.

– Perché ve ne state seduto quassù tutto solo? – chiese Alice, che non
voleva cominciare a litigare.

– Oh bella, perché non c’è nessuno con me! – gridò Humpty Dumpty. –
Pensavi che non sapessi rispondere a questo? Fammi un’altra domanda.

– Non credete che sareste più al sicuro per terra? – proseguì Alice, non
perché avesse in mente di proporgli un altro indovinello, affatto, ma
semplicemente perché, nella sua premurosità, era in ansia per la strana
creatura. – Quel muro è talmente stretto!
– Che indovinelli tremendamente facili fai! – grugnì Humpty Dumpty. –
Certo che non lo credo! Che diamine, se mai dovessi cadere, – continuò, –
cosa che non ha la minima probabilità di succedere… ma se dovessi… –
Qui arricciò le labbra e prese un’aria così solenne e pomposa che Alice si
trattenne a stento dal ridere. – Se cadessi, – continuò, – il Re mi ha
promesso – ah, puoi impallidire, se vuoi! – non pensavi che avrei detto
questo, vero? Il Re mi ha promesso… con la sua stessa bocca… di, di…

– Di mandare tutti i suoi cavalli e i suoi uomini, – lo interruppe Alice,


alquanto sconsideratamente.

– Questo è troppo, è il colmo! – gridò Humpty Dumpty, colto da un


improvviso accesso di collera. – Sei stata a origliare dietro le porte, e dietro
gli alberi, e alla bocca dei comignoli, altrimenti non potresti saperlo!
– Ma no, non è così, in realtà – disse Alice con grande gentilezza. – È
scritto in un libro.

– Ah, beh! Può darsi che scrivano cose di questo genere in un libro, –
disse Humpty Dumpty in tono più calmo. – È quello che si chiama una
Storia d’Inghilterra, appunto. Ora, guardami bene! Io sono uno che ha
parlato con un Re, io, capisci? Forse non ti capiterà mai più di vederne un
altro: e, per dimostrarti che non sono altezzoso, puoi stringermi la mano! –
E fece un gran sorriso che andava quasi da un orecchio all’altro,
sporgendosi all’infuori (e nel far questo per un pelo non cadde dal muro) e
tendendo la mano ad Alice. Lei lo guardò leggermente preoccupata mentre
la prendeva. “Se ridesse appena un po’ di più, gli angoli della bocca
potrebbero incontrarsi dietro,” pensò. “E poi non so cosa succederebbe alla
sua testa! Ho paura che si staccherebbe!”.

– Sì, tutti i suoi cavalli e tutti i suoi uomini, – continuò Humpty Dumpty.
– Mi tirerebbero su di nuovo in un attimo, loro! Però questa conversazione
sta andando un po’ troppo veloce; torniamo alla penultima osservazione.

– Temo di non riuscire a ricordarla più, – disse Alice molto


educatamente.

– In tal caso ricominciamo daccapo, – disse Humpty Dumpty, – e questa


volta tocca a me scegliere un argomento – (“Ne parla come se fosse un
gioco!” pensò Alice). – Perciò, ecco una domanda per te. Quanti anni hai
detto che hai?

Alice fece un breve calcolo, e disse: – Sette anni e sei mesi.

– Sbagliato! – esclamò Humpty Dumpty con aria di trionfo. – Non hai


mai detto una cosa simile!

– Pensavo che intendeste dire “Quanti anni hai?”, – spiegò Alice.

– Se avessi inteso dire questo, l’avrei detto, – ribatté Humpty Dumpty.

Alice non voleva imbarcarsi in un’altra discussione, perciò non disse


nulla.

– Sette anni e sei mesi! – ripeté con aria meditabonda Humpty Dumpty. –
Un’età piuttosto spiacevole. Ora, se tu avessi chiesto consiglio a me, ti avrei
detto “Ai sette, smetti”, ma ormai è troppo tardi.

– Non chiedo mai consigli a proposito della mia crescita, – disse Alice
sdegnata.

– Troppo orgogliosa? – chiese l’altro.

Alice fu ancora più sdegnata da quell’insinuazione. – Voglio dire, –


rispose, – che uno non può fare a meno di crescere.
– Uno non può, forse, – disse Humpty Dumpty; – ma due possono. Con
un aiuto adeguato avresti potuto smettere di crescere a sette anni.

– Che bella cintura avete! – osservò improvvisamente Alice. (Ne avevano


avuto più che a sufficienza dell’argomento dell’età, pensò: e se davvero
dovevano fare a turno nello scegliere gli argomenti, adesso era il suo turno).
– Cioè, – si corresse, ripensandoci, – una bella cravatta, avrei dovuto dire…
no, una cintura, voglio dire – vi chiedo scusa! – aggiunse sgomenta, e
incominciò a desiderare di non aver scelto quell’argomento. “Se solo avessi
capito,” pensò tra sé, “qual era il collo e qual era la vita!”

Evidentemente Humpty Dumpty era molto arrabbiato, anche se non disse


niente per un paio di minuti. Quando poi parlò, lo fece con un basso
brontolio.

– È… estremamente… irritante, – disse infine, – quando una persona non


sa distinguere una cravatta da una cintura!

– So che è un’ignoranza imperdonabile, la mia, – disse Alice, con un


tono così umile che Humpty Dumpty si raddolcì.

– È una cravatta, bambina, e una bellissima cravatta, come hai detto tu. È
un regalo del Re Bianco e della Regina. Ecco!

– Veramente? – disse Alice, assai soddisfatta di scoprire che aveva scelto


un buon argomento, dopo tutto.

– Me l’hanno data, – continuò Humpty Dumpty, pensoso, mettendo un


ginocchio sopra l’altro e stringendovi intorno le dita intrecciate, – me
l’hanno data… come regalo di non-compleanno.

– Chiedo scusa? – disse Alice con aria perplessa.

– Non sono offeso, – rispose Humpty Dumpty.

– Voglio dire, cos’è un regalo di non-compleanno?

– Un regalo che ti è dato quando non è il tuo compleanno, naturalmente.


Alice ci pensò su un momento. – Preferisco i regali di compleanno, –
disse finalmente.

– Non sai quello che dici! – gridò Humpty Dumpty. – Quanti giorni ci
sono in un anno?

– Trecentosessantacinque, – rispose Alice.

– Quanti compleanni hai?

– Uno.

– E se togli uno da trecentosessantacinque quanto resta?

– Trecentosessantaquattro, naturalmente.

Humpty Dumpty aveva un’aria dubbiosa. – Preferirei vederlo sulla carta,


– disse.

Alice non poté fare a meno di sorridere mentre estraeva il suo taccuino e
gli faceva il calcolo:

365 –
1=
364

Humpty Dumpty prese il taccuino e lo guardò attentamente. – Sembra


giusta… – cominciò.

– Lo state tenendo al contrario! – lo interruppe Alice.

– Eh sì, è vero! – disse allegramente Humpty Dumpty mentre Alice glielo


rimetteva dritto. – Ho pensato che fosse un po’ strana. Come stavo dicendo,
sembra giusta – anche se non ho avuto il tempo di esaminarla bene al
momento – e dimostra che ci sono trecentosessantaquattro giorni in cui
potresti ricevere dei regali di non-compleanno…

– Certo, – disse Alice.


– E uno solo per i regali di compleanno, capisci. Ed eccoti un motivo di
vanto!

– Non capisco cosa intendete con “motivo di vanto”, – disse Alice.

Humpty Dumpty sorrise con aria di disprezzo. – Certo che no, finché non
te lo dirò io. Intendevo: “Eccoti un argomento che taglia la testa al toro!”.

– Ma “motivo di vanto” non significa “un argomento che taglia la testa al


toro”, – obiettò Alice.

– Quando io uso una parola, – disse Humpty Dumpty, in tono piuttosto


sprezzante, – questa significa esattamente ciò che io voglio che significhi,
né più né meno.

– Il problema è, – disse Alice, – se potete costringere le parole a


significare tante cose diverse.

– Il problema è, – ribatté Humpty Dumpty, – chi deve essere il padrone:


ecco tutto.

Alice era troppo confusa per dire qualcosa; perciò dopo un minuto
Humpty Dumpty ricominciò: – Hanno un caratterino. Alcune di loro,
specialmente i verbi: sono i più arroganti, con gli aggettivi puoi fare quello
che ti pare, ma coi verbi, no – però io riesco a tenerle a bada tutte quante!
Impenetrabilità! Te lo dico io!

– Volete spiegarmi, per piacere, – disse Alice – che cosa significa?

– Ora parli come una bambina ragionevole, – rispose Humpty Dumpty,


con aria molto compiaciuta. – Con “impenetrabilità” intendevo dire che ne
abbiamo avuto abbastanza di questo argomento, e tanto varrebbe che tu mi
dicessi cosa pensi di fare dopo, dato che immagino tu non intenda fermarti
qui per il resto della tua vita.

– Certo sono un bel po’ di cose da far significare a una parola sola, –
disse Alice in tono meditabondo.
– Quando faccio fare a un parola un superlavoro come in questo caso, –
disse Humpty Dumpty, – le pago sempre gli straordinari.

– Oh! – fece Alice. Era troppo sconcertata per fare qualsiasi altro
commento.

– Ah, dovresti vederle venirmi intorno il sabato sera, – continuò Humpty


Dumpty, dondolando la testa con aria grave da un lato all’altro, – per avere
la paga, capisci.

(Alice non osò chiedergli con che cosa le pagasse; perciò vedete bene che
non posso riferirlo a voi).

– Sembrate molto bravo a spiegare le parole, signore, – disse Alice. –


Vorreste cortesemente dirmi il significato della poesia chiamata
“Blablambulante”?

– Sentiamola, – disse Humpty Dumpty. – Io so spiegare tutte le poesie


che sono mai state inventate, e un bel po’ di quelle che ancora non sono
state inventate.

Suonava molto incoraggiante, così Alice recitò la prima strofa.

Era brilliggio ed i viscioli strusci


givan girel nel traguado eufòri,
Misbetici erano i bifalchi agli usci.
I momi bisbocci sblusciavan fuori.
– Basta così, per cominciare, – interruppe Humpty Dumpty. – Ci sono un
mucchio di parole difficili qui. “Brilliggio” significa le quattro del
pomeriggio… l’ora in cui le pentole già brillano sul fuoco e si comincia a
grigliare la roba per la cena.

– Questo va benissimo, – dire Alice. – E “viscioli”?

– Be’, visciolo significa “agile e scivoloso”. “Agile” è la stessa cosa di


“attivo”. Vedi, è come un porta-abiti… ci sono due significati riposti in una
parola sola.
– Ora capisco, – commentò Alice con aria meditabonda. – E cosa sono
gli “strusci”?

– Beh, gli “strusci” sono un po’ come i tassi… un po’ come le


lucertole… e anche come i cavatappi.

– Devono essere delle creature dall’aspetto molto bizzarro.

– Lo sono sì, – confermò Humpty Dumpty. – Fanno anche i nidi sotto le


meridiane… e poi si cibano di formaggio.

– E cosa vuol dire “givan girel” e “eufòri”?

– “Gire girel” vuol dire semplicemente girare su se stessi come un


giroscopio. “Eufòri” vuol dire come dei bei buchi allegri fatti col succhiello.

– E il “traguado” è il terreno erboso che circonda la meridiana,


immagino? – chiese Alice, sorpresa lei stessa dalla propria ingegnosità.

– Naturalmente. Si chiama “traguado”, sai, perché va avanti per un bel


pezzo sul davanti e anche di dietro…

– E anche un bel pezzo anche sui due lati, – aggiunse Alice.

– Esattamente. Bene, allora, “misbetico” è “misero e bisbetico” (eccoti


un altro porta-abiti). E il “bifalco” è un uccello magro e sparuto con le
penne ispide che stanno dritte in fuori, una specie di scopa vivente.

– E i “momi bisbocci”? – chiese Alice. – Sto dandovi molto disturbo,


temo.

– Beh, un “bisboccio” è una specie di maialino verde: ma su “momo”


non sono sicuro. Penso che sia un “moh!” al quadrato, per dire che sono
molto, ma molto perplessi e sperduti, non sapendo come tornare a casa,
capisci.

– E che significa “sblusciare”?


– Be’, “sblusciare” è qualcosa che sta tra lo “sbraitare” e il “fischiare”
con in mezzo una specie di starnuto: comunque lo sentirai, forse, laggiù in
quel nel bosco, e quando l’avrai sentito una volta, sarai più che soddisfatta.
Ma chi ti ha recitato questo rompicapo?

– L’ho letto in un libro, – rispose Alice. – Invece ho sentito una poesia


molto più facile di questa, recitata per me da qualcuno, da… Tweedledee,
mi pare fosse.

– Quanto alle poesie, sai, – disse Humpty Dumpty, tendendo una delle
sue manone, – io le so recitare bene proprio come chiunque altro, se c’è
bisogno…

– Oh no, non c’è bisogno! – si affrettò a dire Alice, sperando di


impedirgli di cominciare.

– Il pezzo che ti reciterò – continuò senza rilevare la sua osservazione, –


è stato scritto esclusivamente per il tuo divertimento.

Alice sentì che in questo caso doveva davvero ascoltarlo; così si mise
seduta e disse “Grazie” con tono alquanto mesto.

In inverno, quando ogni campo è bianco


>per allietarti una canzone canto…

– Solo che io non la canto – aggiunse, a mo’ di spiegazione.

– Lo vedo, – disse Alice.

– Se riesci a vedere se io canto o no, hai una vista più acuta della maggior
parte della gente, – osservò Humpty Dumpty con aria severa. Alice tacque.

In primavera, coi boschi a inverdire,


proverò a dirti cosa voglio dire:

– Molte grazie, – disse Alice.

In estate, che il giorno dura tanto,


forse avrai compreso infine questo canto:
In autunno, che le foglie cadon giù,
prendi penna e inchiostro e scrivitela tu.

– Lo farò di sicuro, se riuscirò a ricordarla per tutto questo tempo, – disse


Alice.

– Non è il caso che tu continui a fare commenti di questo genere. Non


sono per niente sensati e mi disturbano.

Io mandai ai pesci un messaggio serio,


che diceva: ‘Questo è il mio desiderio.’

E i piccoli pesciolini del mare


una risposta provvidero a dare.

E sapete quale fu la risposta?


“Non possiamo, signor, perché la vostra…”.

– Temo di non capirci molto, – disse Alice.

– Vedrai che poi diventa più facile, – replicò Humpty Dumpty.

Io mandai loro un’altra volta a dire


“Guardate che vi conviene obbedire”.

Risposero i pesciolini con scherno:


“Cielo, ma abbiamo un umore d’inferno!”.

Due volte lo dissi, insistendo molto:


non vollero al consiglio dare ascolto.

Presi una pentola nuova di pacca,


all’opera da farsi più che adatta.

E col cuore che batte in gola e zompa,


andai a riempir la pentola alla pompa!

Poi venne da me qualcuno come messo;


disse: “I pesciolini sono già a letto”.
Io gli dissi, semplicemente:
“Allora va’ a svegliarli nuovamente”.

Glielo dissi forte e chiaro a quel vecchio,


glielo gridai persino nell’orecchio.

Recitando questo verso, Humpty Dumpty alzò la voce fino quasi a urlare,
e Alice pensò, con un brivido, “Non vorrei essere stata nei panni di
quell’ambasciatore per niente al mondo!”

Ma lui era molto sostenuto e fiero


disse: “non serve urlare così, vero?”.

E lui era molto fiero e sostenuto,


disse: “Andrò a svegliarli, ma: un minuto”.

Io presi un cavatappi dal cassetto:


andai io a tirarli giù dal letto.

E quando la porta chiusa trovai,


io spinsi e tirai calci e bussai.

E poiché la porta sbarrata restò,


cercai di girar la maniglia, però…

Ci fu una lunga pausa.

– È tutto? – chiese timidamente Alice.

– È tutto, – disse Humpty Dumpty. – Arrivederci!

Ciò era piuttosto inaspettato, pensò Alice; ma dopo un’allusione così


esplicita al fatto che doveva andarsene, sentì che non sarebbe stato affatto
educato restare. Perciò si alzò e gli tese la mano. – Arrivederci, alla
prossima volta che ci incontreremo! – disse più allegramente che poté.

– Non ti riconoscerei se dovessimo incontrarci, – replicò Humpty


Dumpty con aria scontenta, dandole un dito da stringere: – Sei talmente
uguale alle altre persone.
– È sulla faccia che ci si basa, in genere, – osservò Alice con aria
pensierosa.

– È proprio su questo che ho da ridire, – disse Humpty Dumpty. – La tua


faccia è uguale identica a quella di tutti gli altri, i due occhi, così – (ne
segnò il posto nell’aria con il pollice), – il naso in mezzo, la bocca sotto. È
sempre uguale. Se almeno tu avessi i due occhi sullo stesso lato del naso,
per esempio… o la bocca in alto… questo aiuterebbe un pochino.

– Non sarebbe carino da vedere, – obiettò Alice. Ma Humpty Dumpty si


limitò a chiudere gli occhi e disse: – Tu prova, poi vedi.

Alice aspettò un minuto per vedere se avrebbe parlato di nuovo, ma, dato
che non apriva più gli occhi e non le prestava più attenzione, disse
“Arrivederci!” ancora una volta e, non ottenendo risposta, se ne andò via in
silenzio: ma non poté fare a meno di dire tra sé, mentre se ne andava: “Di
tutte le persone inconcludenti” (lo ripeté a voce alta perché le era di gran
conforto avere una parola così ricercata da scandire)… “di tutte le persone
inconcludenti che ho mai conosciuto…”. Non finì mai la frase, perché in
quell’istante un grande schianto fece tremare la foresta da un capo all’altro.
Capitolo VII
Il Leone e l’Unicorno

Un istante dopo giunsero correndo attraverso il bosco dei soldati, prima a


due e a tre, poi dieci o venti insieme, e infine in gruppi così numerosi che
sembravano riempire l’intera foresta. Alice si riparò dietro un albero, per
paura di essere travolta, e li guardò passare.

Pensò che in tutta la sua vita non aveva mai visto dei soldati così incerti
sui piedi: inciampavano sempre in una cosa o nell’altra, e ogni volta che
uno cadeva, molti altri gli cadevano addosso, così che ben presto il terreno
fu coperto di piccoli mucchi di uomini.

Poi vennero i cavalli. Avendo quattro zampe, questi se la cavavano molto


meglio dei fanti; ma persino loro inciampavano di tanto in tanto; e
sembrava essere una regola fissa che, ogni volta che un cavallo inciampava,
il cavaliere cadesse giù all’istante. La confusione cresceva di minuto in
minuto, e Alice fu molto contenta, uscendo dal bosco, di sbucare in una
radura, dove trovò il Re Bianco seduto per terra, tutto affaccendato a
scrivere sul suo taccuino.

– Li ho mandati tutti! – gridò il Re con aria deliziata, vedendo Alice. –


Hai visto per caso dei soldati, cara, mentre attraversavi il bosco?

– Sì, – rispose Alice: – parecchie migliaia, direi.

– Quattromiladuecentosette, questo è il numero esatto, – disse il Re,


consultando il suo quaderno. – Non ho potuto mandare tutti i cavalli, vedi,
perché due di loro sono necessari per la partita. E non ho mandato neanche i
due Messaggeri. Sono andati entrambi in città. Guarda laggiù lungo la
strada, e dimmi se riesci a vedere uno di quei due.
– Vedo… nnn… nessuno! – disse Alice.

– Magari li avessi io degli occhi così, – osservò con tono stizzito il Re. –
Riuscire a vedere Nessuno! E a questa distanza, per giunta! Figurati, è già
tanto se riesco a vedere le persone reali, con questa luce!

Ma tutto ciò non venne raccolto da Alice, che stava ancora scrutando la
strada, schermandosi gli occhi con una mano a mo’ di visiera. – Adesso
vedo qualcuno! – esclamò infine. – Ma viene avanti molto lentamente… e
che strani atteggiamenti del corpo prende! – (Perché, mentre avanzava, il
Messaggero continuava a saltellare su e giù e a contorcersi come
un’anguilla, le grandi mani aperte come ventagli ai lati).

– Niente affatto, – disse il Re. – È un Messaggero anglosassone… e


questi sono atteggiamenti anglosassoni. Li prende solo quando è felice. Il
suo nome è Foriero (e lo pronunciò con regale enfasi sulla “E” aperta).

– Amo il mio amore con una F, – non poté fare a meno d’attaccare Alice,
– perché è Felice, lo odio con una F perché è un Forsennato. Lo nutro con…
con… Fette di pane e prosciutto e con Fieno. Il suo nome è Foriero, e
vive…

– Vive lassù sul Falsopiano, – osservò semplicemente il Re, senza


rendersi minimamente conto che si stava unendo al gioco, mentre Alice
esitava ancora, cercando il nome di una città che iniziasse con F. – L’altro
Messaggero si chiama Foresto. Devo averne due, capisci, – per andare e
venire. Uno per venire, e l’altro per andare.

– Prego? – disse Alice.

– Non sta bene pregare la gente, – rispose il Re.

– Intendevo solo dire che non ho capito, – disse Alice. – Perché uno per
andare e uno per venire?

– Te lo sto dicendo, no? – ripeté il Re con aria spazientita. – Devo averne


due. Per evitare l’andirivieni. Uno va e l’altro viene.

In quel momento arrivò il Messaggero: era veramente troppo trafelato per


dire una parola, e poté solo sventolare le mani e fare le smorfie più
spaventose al povero Re.

– Questa signorina ti ama con una F, – disse il Re, presentandogli Alice


nella speranza di distogliere l’attenzione del Messaggero dalla sua persona,
ma era inutile: gli atteggiamenti anglosassoni si facevano a ogni istante più
singolari, mentre i grandi occhi roteavano forsennatamente da una parte
all’altra.
– Mi spaventi! – esclamò il Re. – Mi sento svenire… Dammi…

Al che il Messaggero, con grande divertimento di Alice, aprì una borsa


che aveva appesa al collo e porse un panino al prosciutto al Re, che lo
divorò avidamente.

– Un altro panino!

– È rimasto solo del fieno, ormai, – disse il Messaggero, spiando dentro il


sacco.

– Vada per il fieno allora, – mormorò il Re con un filo di voce.


Alice fu lieta di vedere che il cibo lo rianimava molto. – Non c’è niente
come mangiare del fieno… quando uno sta per svenire, – le spiegò il Re,
masticando rumorosamente.

– Mi pare che sarebbe meglio versarvi addosso dell’acqua fredda. –


suggerì Alice. – Oppure i sali.

– Io non detto che non c’é niente di meglio, – rispose il Re. – Ho detto
che non c’è niente come. – Cosa che Alice non osò negare.

– Chi hai superato sulla strada? – continuò il Re, tendendo la mano al


Messaggero per farsi dare dell’altra biada.

– Nessuno, – rispose il Messaggero.

– Esatto, – disse il Re. – Anche questa signorina l’ha visto. Così,


naturalmente, Nessuno cammina più lento di te.

– Faccio del mio meglio, – rispose il Messaggero con aria accigliata. –


Sono sicuro che Nessuno cammina molto più veloce di me.

– Questo non può farlo, – disse il Re, – altrimenti sarebbe arrivato qui per
primo. Comunque, ora che hai ripreso fiato, puoi raccontarci che cosa è
successo in città.

– Ve lo dirò sottovoce, – fece il Messaggero, mettendosi la mano davanti


alla bocca a mo’ di tromba e chinandosi così da avvicinarsi all’orecchio del
Re. Alice ci restò male, dato che voleva sentire anche lei le notizie.
Tuttavia, invece di sussurrare, il Messaggero gridò, semplicemente, a gola
spiegata: – Ricominciano!

– E tu questo lo chiami sottovoce? – gridò il povero Re, saltando su in


piedi e scuotendosi tutto. – Se provi a rifare una cosa del genere, ti faccio a
fette e poi t’imburro! Mi ha squassato la testa come un terremoto!

“Deve essere stato un terremotino minuscolo!” pensò Alice. – Chi sono


questi che ricominciano? – s’azzardò a chiedere.

– Ma come! Il Leone e l’Unicorno, naturalmente, – disse il Re.


– Che combattono per la Corona?

– Sì, certamente, – disse il Re. – E la cosa più comica è che si tratta


sempre della mia corona! Corriamo a vederli. – E trottarono via, mentre
Alice, correndo, recitava tra sé le parole della vecchia canzone:

Il Leone e L’Unicorno per la Corona si batton già:


il Leone all’Unicorno le suona per tutta la città.
Chi pane bianco, chi pane nero dona, chi pancake, qua e là,
con gran rullare di tamburi li cacciano dalla città.

– Ma… quello che… vince… ottiene la corona? – chiese, meglio che


poteva, perché era quasi senza fiato per la corsa.

– Santo cielo, no! – disse il Re. – Che idea!

– Vorreste… essere così buono… – disse Alice, boccheggiando, dopo


aver corso un altro po’, – da fermare un minuto… questa corsa… il tempo
di riprendere… fiato?

– Io sono così buono, – ribatté al volo il Re, come udì la parola “minuto”.
– Solo che non sono così forte. Capisci, il tempo passa a una velocità
spaventosa: un minuto, dici! Tanto varrebbe cercare di fermare un
Gagliogoffo!

Alice non aveva più fiato per parlare; così continuarono a trottare in
silenzio, finché arrivarono in vista di una gran folla, in mezzo alla quale
stavano combattendo il Leone e l’Unicorno. Erano avvolti da una tale
nuvola di polvere che sulle prime Alice non riuscì a capire qual era l’uno e
qual era l’altro; ma presto riuscì a individuare l’Unicorno per via del corno.

Si misero vicino al punto dove si trovava Foresto, l’altro Messaggero,


che stava in piedi a guardare il duello, con una tazza di tè in una mano e un
pezzo di pane imburrato nell’altra.

– È appena uscito di prigione e non aveva ancora finito il suo tè, quando
l’hanno messo al fresco, – sussurrò Foriero ad Alice. – Danno solo gusci di
ostriche là dentro… perciò capirai che ha una gran fame e una gran sete.
Come stai, figliolo? – continuò, mettendo affettuosamente il braccio attorno
al collo di Foresto.

Foresto si guardò intorno e scosse la testa, e continuò a mangiare il suo


pane e burro.

– Eri felice in prigione, figliolo? – domandò Foriero.

Foresto si guardò intorno di nuovo, e questa volta un paio di lacrime gli


scivolarono giù per le guance; ma non disse una parola.

– Parla, sei capace o no? – gridò Foriero spazientito. Ma Foresto


continuò imperterrito a masticare e a bere un altro po’ di tè.

– Parla, vuoi obbedire o no? – gridò il Re. – Come sta andando il


combattimento?

Foriero fece uno sforzo disperato e inghiottì un grosso pezzo di pane e


burro. – Sta andando molto bene, – disse con voce soffocata: – ognuno di
loro è finito per terra circa ottantasette volte.

– Allora suppongo che porteranno presto il pane bianco e quello nero! –


s’azzardò a dire Alice.
– È lì pronto che li aspetta, – rispose Foriero; – questo che sto mangiando
è un pezzo di quel pane.

Ci una pausa nel duello proprio in quel momento, e il Leone e l’Unicorno


si sedettero, ansanti, mentre il Re disse a gran voce: – Sono concessi dieci
minuti per i rinfreschi! – Foriero e Foresto si misero al lavoro
immediatamente, girando con dei vassoi di pane bianco e pane nero. Alice
ne prese un pezzo per assaggiarlo, ma era molto secco.

– Non credo che oggi combatteranno ancora, – disse il Re a Foresto. –


Va’ e ordina ai tamburi di cominciare. – E Foresto si allontanò saltellando
come una cavalletta.
Per un paio di minuti Alice restò in silenzio a guardarlo. All’improvvisò
s’illuminò. – Guardate, guardate! – gridò, puntando il dito tutta eccitata. –
C’è la Regina Bianca che sta attraversando di corsa la campagna! È sbucata
come un razzo da quel bosco laggiù – ma quanto veloci possono correre
queste Regine?

– Sarà inseguita da qualche nemico, senza dubbio, – disse il Re, senza


neppure guardarsi intorno. – Il bosco ne è pieno.

– Ma voi non correte ad aiutarla? – domandò Alice, molto sorpresa che la


prendesse con tanta calma.

– È inutile, è inutile! – rispose il Re. – Corre a una velocità spaventosa.


Tanto varrebbe cercare di prendere un Gagliogoffo! Ma mi scriverò un
appunto su di lei, se vuoi… È una creatura buona e gentile, – ripeté a se
stesso a voce bassa, aprendo la sua agenda. – “Creatura” si scrive con due
“t”?

In quel momento l’Unicorno, che andava a zonzo con le mani in tasca,


passò vicino a loro. – Ho avuto io la meglio questa volta? – disse al Re,
dandogli appena un’occhiata mentre passava.

– Sì… per così dire, – rispose il Re, alquanto nervoso. – Non avresti
dovuto trafiggerlo da parte a parte con il corno, sai.

– Non gli ho fatto male, – disse con tono noncurante l’Unicorno, e stava
per proseguire quando gli cadde l’occhio su Alice: si girò immediatamente
e restò un po’ a guardarla con aria di profondo disgusto.

– Cosa… è… questa? – disse infine.

– Questa è una bambina! – rispose con entusiasmo Foriero, mettendosi di


fronte ad Alice per presentargliela, e tendendo le mani aperte verso di lei in
atteggiamento anglosassone. – L’abbiamo trovata solo oggi. È a grandezza
naturale, ma è due volte più naturale che in natura!

– Io ho sempre pensato che fossero dei mostri fiabeschi! – esclamò


l’Unicorno. – È viva?
– Sa parlare, – disse in tono solenne Foriero.

L’Unicorno guardò Alice con aria sognante e disse: – Parla, bambina.

Alice non poté impedire che sue labbra si increspassero in un sorriso


mentre cominciava: – Sapete che anch’io ho sempre pensato che gli
unicorni fossero dei mostri fiabeschi? Non ne avevo mai visto uno in carne
e ossa prima d’ora!

– Bene, ora che ci siamo visti, – disse l’Unicorno, – se tu crederai a me,


io crederò a te. Affare fatto?

– Sì, se vuoi, – rispose Alice.


– Su, tira fuori il pancake, vecchio mio! – continuò l’Unicorno,
dimenticando Alice per rivolgersi al Re. – Il vostro pane nero io non lo
voglio!

– Certo, certo! – borbottò il Re, e fece un cenno col capo a Foriero. –


Apri la borsa! – sussurrò. – Presto! Non quella… quella è piena di fieno!

Foriero prese una grande torta dalla borsa e la diede da tenere ad Alice,
mentre tirava fuori un piatto e un coltello da scalco. Alice non riusciva a
capire come facesse tutta quella roba a venir fuori di lì. Era come un gioco
di prestigio, pensò.

Il Leone li aveva raggiunti mentre si svolgeva questa scena: aveva l’aria


molto stanca e assonnata, e gli occhi erano semichiusi. – Cos’è questa! –
esclamò, guardando pigramente di sottecchi Alice, e parlando con una voce
cupa e profonda che somigliava al rintocco di una grande campana.

– Ah, cos’è questa, dici? – gridò eccitato l’Unicorno. – Non l’indovinerai


mai! Io non ci sono riuscito.

Il Leone guardò stancamente Alice. – Sei animale… o vegetale… o


minerale? – domandò, sbadigliando ogni due parole.

– È un mostro fiabesco! – gridò l’Unicorno, prima che Alice potesse


rispondere.

– Allora fa girare il plumcake, Mostro, – disse il Leone sdraiandosi per


terra e appoggiando il mento sulle zampe. – E sedetevi, tutti e due, – (al Re
e all’Unicorno): – e niente scherzi con la torta, chiaro?

Il Re era visibilmente inquieto all’idea di doversi sedere tra quelle due


enormi creature, ma non c’era altro posto per lui.

– Sai che lotta potremmo fare per la corona, adesso! – disse l’Unicorno,
guardando con occhio sornione la corona, che il rischiava di essere sbalzata
via dalla testa del Re, tanto tremava il poveretto.

– Vincerei facilmente, – disse il Leone.


– Non ne sarei tanto sicuro, – disse l’Unicorno.

– Quest’è bella, ma se te le ho suonate per tutta la città, donnicciola! –


rispose rabbioso il Leone, alzandosi a metà mentre parlava.

A questo punto il Re s’intromise, per impedire che il litigio continuasse:


era nervosissimo, e gli tremava molto la voce. – Per tutta la città? – disse. –
È un bel po’ di strada. Siete passati per il ponte vecchio o per il mercato?
Dal ponte vecchio si gode la vista migliore.

– Non ne ho la più pallida idea, – ruggì il Leone tornando a sdraiarsi. –


C’era troppa polvere per poter vedere qualcosa. Ma quanto ci mette il
Mostro a tagliare questa torta?

Alice si era seduta sulla riva di un ruscelletto, con il grande piatto sulle
ginocchia, e stava segando diligentemente col coltello. – È molto irritante! –
disse, rispondendo al Leone (si stava abituando a essere chiamata “il
Mostro”). – Ho già tagliato parecchie fette, ma si riattaccano sempre!

– Non ci sai fare con le torte dello Specchio, – osservò l’Unicorno. –


Prima falla girare, poi tagliala.
Sembrava un’assurdità, ma Alice, obbediente, si alzò e portò in giro il
piatto, e mentre lo faceva, la torta si divise in tre pezzi. – Adesso tagliala, –
disse il Leone, mentre lei tornava al suo posto col piatto vuoto.

– Ehi, ma non è giusto! – gridò l’Unicorno, mentre Alice si sedeva col


coltello in mano, più che mai perplessa su come cominciare. – Il Mostro ha
dato al Leone il doppio che a me!

– Non ha tenuto niente per sé, in compenso, – disse il Leone. – Ti piace il


plumcake, Mostro?
Ma prima che Alice potesse rispondergli, i tamburi cominciarono a
rullare.

Da dove venisse il rumore, non riusciva a capirlo: l’aria ne sembrava


piena, e quel suono continuò a trafiggerle la testa finché non ne fu
completamente assordata. Balzò in piedi e, in preda al terrore, attraversò in
un lampo il ruscello;

***

e fece appena in tempo a vedere il Leone e l’Unicorno alzarsi con aria


arrabbiata per l’interruzione del loro festino prima di cadere in ginocchio e
tapparsi le orecchie con entrambe le mani, nel vano tentativo di isolarsi da
quel terrificante fragore.

“Se questo rullare di tamburi non li caccia dalla città,” pensò tra sé,
“niente ci riuscirà mai”.
Capitolo VIII
“È una mia invenzione”

Dopo un po’ il rumore sembrò morire pian piano, finché non subentrò un
silenzio di tomba, e Alice alzò la testa un po’ allarmata. Non si vedeva
anima viva, e il suo primo pensiero fu che doveva avere sognato il Leone e
l’Unicorno e tutti quei bizzarri Messaggeri anglosassoni. Però, lì per terra,
ai suoi piedi, c’era ancora il grande piatto sul quale aveva cercato di tagliare
il plumcake. “Allora, dopo tutto, non stavo sognando,” disse tra sé e sé, “a
meno che… a meno che non facciamo tutti parte dello stesso sogno. Solo,
spero vivamente che sia il mio sogno e non quello del Re! Non mi va di
appartenere al sogno di un’altra persona”, continuò in tono piuttosto
lamentoso: “Ho ferma intenzione di andare a svegliarlo, e vedere che
succede!”.

In quel momento i suoi pensieri furono interrotti da un alto grido di –


Ehi! Ehi! Scacco! – e un Cavaliere, vestito di un’armatura cremisi, venne al
galoppo verso di lei, brandendo una grande mazza. Appena la raggiunse, il
cavallo si fermò improvvisamente. – Sei mia prigioniera! – gridò il
Cavaliere, e ruzzolò giù.

Per quanto spaventata, al momento Alice aveva più paura per lui che per
se stessa, e lo guardò rimontare a cavallo con una certa ansia. Non appena si
fu sistemato comodamente in sella, quello ricominciò: – Sei mia… –, ma
un’altra voce lo interruppe: – Ehi! Ehi! Scacco! – e Alice si voltò, sorpresa,
a guardare il nuovo nemico.

Questa volta era un Cavaliere Bianco. Questo si fermò di fianco ad Alice


e cadde giù dal cavallo proprio come aveva fatto il Cavaliere Rosso: poi
rimontò e i due Cavalieri restarono fermi a guardarsi senza parlare per un
po’. Alice guardava ora l’uno ora l’altro un po’ sconcertata.

– È mia prigioniera, capito! – disse finalmente il Cavaliere Rosso.


– Sì, ma poi sono venuto io e l’ho liberata! – replicò il Cavaliere Bianco.

– Bene, allora dobbiamo batterci per lei, – disse il Cavaliere Rosso,


mentre prendeva il suo elmo (che era appeso alla sella ed era vagamente a
forma di testa di cavallo) e lo indossò.

– Rispetterai le Regole del Combattimento, naturalmente, – osservò il


Cavaliere Bianco, indossando anche lui il suo elmo.

– Lo faccio sempre, – rispose il Cavaliere Rosso, e i due cominciarono a


scontrarsi con una tale furia che Alice si rifugiò dietro un albero per
mettersi al riparo dai colpi.

“Mi domando quali sono le Regole del Combattimento,” disse tra sé,
mentre osservava il duello, spiando timidamente fuori dal suo nascondiglio.
“Una regola sembra essere quella che, se un Cavaliere colpisce l’altro, lo
butta giù dal cavallo; e se lo manca, cade giù lui… e un’altra Regola sembra
essere che tengono le mazze con le braccia, come se fossero delle
marionette… Che rumore fanno quando cascano! Proprio come i ferri del
camino quando cadono tutti insieme sul parafuoco! E come sono tranquilli i
cavalli! Li lasciano salire e scendere come se fossero dei tavoli!”.

Un’altra Regola del Combattimento, che Alice non aveva notato,


sembrava essere quella che cadevano sempre sulla testa; e il combattimento
finì quando entrambi caddero in questo modo, l’uno accanto all’altro.
Quando si rialzarono, si strinsero la mano e poi il Cavaliere Rosso montò in
sella e se ne andò al galoppo.

– È stata una vittoria gloriosa, vero? – chiese il Cavaliere Bianco, mentre


le si avvicinava ansante.

– Non saprei, – rispose Alice, dubbiosa. – Io non voglio essere la


prigioniera di nessuno. Io voglio essere una Regina.

– E lo sarai, quando avrai attraversato il prossimo ruscello, – disse il


Cavaliere Bianco. – Ti porterò sana e salva fino alla fine del bosco… e poi
dovrò tornare, capisci. Lì finisce la mia mossa.

– Molte grazie, – disse Alice. – Posso darvi una mano a togliervi l’elmo!
– Era evidente che non ce l’avrebbe mai fatta da solo; mentre lei, a furia di
scuoterlo, alla fine riuscì a liberarlo.

– Ora si può respirare più agevolmente, – disse il Cavaliere, tirando


indietro i capelli ispidi con entrambe le mani e rivolgendo ad Alice il viso
gentile e i grandi occhi buoni. E lei pensò che non aveva mai visto in vita
sua un soldato dall’aspetto così bizzarro.

Portava un’armatura di latta, che sembrava stargli molto larga, e aveva


una strana scatoletta di abete legata a tracolla, alla rovescia, col coperchio
che penzolava aperto. Alice la guardò con grande curiosità.

– Vedo che ammiri la mia scatoletta, – disse il Cavaliere con tono


cordiale. – È una mia invenzione… per tenerci i vestiti e i sandwich. Come
vedi la porto capovolta, così non ci può piovere dentro.

– Ma la roba può venire fuori, – osservò gentilmente Alice. – Lo sapete


che il coperchio è aperto?

– Non lo sapevo, – rispose il Cavaliere, mentre un’ombra d’irritazione gli


passava sul viso. – Allora tutta la roba deve essere caduta fuori! E la scatola
così non serve a niente. – Dicendo questo, la slegò, e stava per gettarla nei
cespugli, quando sembrò venirgli un’idea improvvisa e l’appese con cura a
un albero. – Sapresti dirmi perché l’ho fatto? – chiese ad Alice.

Alice scosse la testa.

– Nella speranza che qualche ape ci faccia il nido… così poi avrei del
miele.

– Ma avete un alveare… o qualcosa del genere… legato alla sella, – disse


Alice.

– Sì, è un ottimo alveare, – disse il Cavaliere con aria scontenta. – Del


tipo migliore che c’è. Ma finora non ci si è avvicinata nemmeno un’ape. E
l’altro arnese è una trappola per topi. Suppongo che i topi tengano lontano
le api… o che le api tengano lontani topi, non so quale delle due cose.

– Mi stavo chiedendo a cosa serve la trappola per topi, – disse Alice. –


Non è molto probabile che ci siano dei topi sul dorso del cavallo.

– Non molto probabile, forse, – ribatté il Cavaliere; – ma, se poi


vengono, non mi va che scorrazzino dappertutto.

– Vedi, – continuò dopo una pausa, – tanto vale essere preparati per
qualsiasi cosa. È per questo motivo che il cavallo ha tutte quelle cavigliere
attorno ai piedi.

– Ma a cosa servono? – chiese Alice con aria molto incuriosita.


– Per proteggere dai morsi dei pescecani, – rispose il Cavaliere. – È una
mia invenzione. E adesso aiutami a montare. Verrò con te fino in fondo al
bosco. A cosa serve quel piatto?

– È per il plumcake.

– Meglio che lo portiamo con noi, – disse il Cavaliere. – Ci tornerà utile


se troviamo del plumcake. Aiutami a metterlo in questa borsa.

La manovra richiese un bel po’ di tempo per riuscire, benché Alice


tenesse aperta la borsa con molta attenzione, perché il cavaliere era
talmente maldestro nell’infilare il piatto: le prime due o tre volte che provò,
ci cadde dentro lui, invece del piatto. – Ci sta un po’ stretto, – disse, quando
finalmente ce lo fecero entrare. – Ho un mucchio di candelieri nella borsa!
– E l’appese alla sella, che era già carica di mazzi di carote, ferri per il
camino, e molte altre cose.

– Spero che tu abbia i capelli fissati bene, – continuò, mentre partivano.

– Be’, come al solito, – rispose Alice, sorridendo.

– Così non basta, – disse lui, con tono ansioso. – Vedi, il vento, qui, è
forte come il roquefort.

– Avete inventato un sistema per impedire che i capelli volino via?

– Non ancora, – rispose il Cavaliere. – Ma ho un sistema per impedire


che cadano.

– Mi piacerebbe molto sentire com’è, davvero.

– Per prima cosa metti un bastone dritto in verticale, – spiegò il


Cavaliere. – Poi ci fai arrampicare su i capelli, come su un albero da frutto.
Ora, la ragione per cui i capelli cadono è che pendono all’ingiù – le cose
non cadono mai all’insù, capisci. È un sistema che ho inventato io. Puoi
provarlo, se vuoi.
Non sembrava un sistema molto pratico, pensò Alice, e per qualche
minuto continuò a camminare in silenzio, lambiccandosi il cervello su quel
concetto, e fermandosi ogni tanto per aiutare il povero Cavaliere, che
sicuramente non era un buon cavallerizzo.

Ogni volta che il cavallo si fermava (cosa che faceva molto spesso), lui
cadeva sul davanti; e ogni volta che rimontava (cosa che in genere faceva in
modo alquanto improvviso), cadeva di dietro. Per il resto se la cavava
benino, a parte che aveva l’abitudine di cadere di tanto in tanto di lato; e
poiché in genere lo faceva dal lato dove camminava Alice, questa scoprì
presto che il sistema migliore era di non camminare troppo vicino al
cavallo.

– Temo che non abbiate fatto molta pratica di equitazione, – osò dire,
mentre lo stava aiutando a risalire dopo il quinto capitombolo.

Il Cavaliere apparve molto stupito, e anche un po’ offeso da questa


osservazione.

– Ho fatto moltissima pratica, – disse con tono molto grave: – moltissima


pratica!

Alice non trovò niente di meglio da dire che “Davvero?” ma lo disse nel
modo più affettuoso possibile. Dopodiché fecero un altro po’ di strada in
silenzio, il Cavaliere con gli occhi chiusi, borbottando fra sé, e Alice con gli
occhi ben aperti in ansiosa attesa del prossimo capitombolo.

– La grande arte dell’equitazione, – incominciò all’improvviso il


Cavaliere, con voce sonora, agitando il braccio destro mentre parlava, – sta
nel tenere… – E qui la frase s’interruppe bruscamente così come era
cominciata, mentre il Cavaliere cadeva pesantemente a testa in giù proprio
sul sentiero dove Alice stava camminando. Questa volta lei si spaventò
davvero e, tirandolo su, disse con tono preoccupato: – Non ci sono ossa
rotte, spero?

– Niente di cui valga la pena di parlare, – rispose il Cavaliere, come se


non gli importasse di rompersene due o tre. – La grande arte
dell’equitazione, come stavo dicendo, sta nel… tenersi bene in equilibrio.
Così, vedi…

Lasciò andare le briglie, e stese in fuori entrambe le braccia per mostrare


ad Alice cosa intendeva, e questa volta cadde piatto sulla schiena, proprio
sotto la zampa del cavallo.

– Moltissima pratica! – continuò a ripetere, per tutto il tempo in cui Alice


lo aiutò a rimettersi in piedi.
– È troppo ridicolo! – gridò Alice, che questa volta perse completamente
la pazienza. – Dovreste avere un cavallo di legno con le ruote, quello
dovreste avere!

– Quel tipo di cavallo ha un’andatura regolare? – chiese il Cavaliere con


grande interesse, stringendo tra le braccia il collo del suo destriero mentre
parlava, appena in tempo per risparmiarsi un’altra caduta.

– Molto più regolare di un cavallo vivo, – rispose Alice con una risatina
acuta, malgrado avesse fatto tutto ciò che era in suo potere per evitarlo.

– Me ne prenderò uno, – disse il Cavaliere tra sé e sé con aria


meditabonda. – Uno o due… diversi.

Ci fu un breve silenzio, e poi il Cavaliere riprese. – Io sono bravissimo a


inventare le cose. Ora, immagino tu l’abbia notato, l’ultima volta che mi hai
tirato su, che avevo un’aria piuttosto pensierosa?

– Eravate un po’ serio, in effetti, – rispose Alice.

– Be’, proprio in quel momento stavo inventando un nuovo modo di


superare una cancellata… ti piacerebbe sentire qual è?

– Sì, moltissimo, – disse educatamente Alice.

– Ti dirò come ci sono arrivato, – disse il Cavaliere. – Vedi, mi sono


detto: “La sola difficoltà sta nei piedi: la testa è già abbastanza alta”. Ora,
per prima cosa metto la testa in cima alla cancellata… quindi la testa è
abbastanza in alto… poi mi metto dritto a testa in giù… quindi i piedi sono
abbastanza in alto da superarlo, capisci… e… sono già di là, capisci.

– Be’, suppongo che se lo faceste sareste più di là che di qua, – disse


Alice con aria meditabonda. – Non credete che sia molto dura?

– Non ci ho ancora provato, – rispose serissimo il Cavaliere, – perciò non


posso dirlo con certezza… ma temo che, sì, sarebbe un po’ dura.

Pareva così seccato all’idea, che Alice s’affrettò a cambiare argomento. –


Che curioso elmo avete! – disse con tono allegro Alice. – Anche questo è
una vostra invenzione?

Il Cavaliere guardò con aria orgogliosa il suo elmo, che pendeva dalla
sella. – Sì, – disse, – ma ne avevo inventato uno migliore di questo… a pan
di zucchero. Quando lo usavo, se cadevo da cavallo, l’elmo toccava sempre
direttamente il terreno. Così cadevo per un tratto molto breve, capisci… Ma
c’era il pericolo di caderci dentro, a dire il vero. Una volta mi è successo…
e l’aspetto peggiore della cosa fu che, prima che riuscissi a venirne fuori di
nuovo, arrivò l’altro Cavaliere Bianco e se l’infilò. Pensava che fosse il suo
elmo.

Il Cavaliere lo raccontava con un’aria così solenne che Alice non osò
ridere. – Temo che gli abbiate fatto male, – disse con voce tremula, –
standogli in cima alla testa.

– Ho dovuto scalciare, naturalmente, – disse il Cavaliere, serissimo. – E


così si è tolto di nuovo l’elmo… ma ci sono volute ore e ore per tirarmi
fuori di lì, tanto ero incastrato. E sì che ero svelto come… come una
colonna, capisci.

– Ma quello è un altro tipo di sveltezza, – obiettò Alice.

Il Cavaliere scosse la testa. – Si trattava di ogni tipo di sveltezza nel mio


caso, te lo posso assicurare! – protestò. Dicendo questo alzò le mani con
aria un po’ agitata, e rotolò all’istante dalla sella cadendo a capofitto in un
fosso profondo.

Alice corse a cercarlo sul bordo del fosso. Si era piuttosto spaventata per
quella caduta, dato che per un po’ il cavaliere si era tenuto molto bene in
equilibrio, e temeva che questa volta si fosse fatto male davvero. Però,
sebbene non riuscisse a vedere altro che le piante dei suoi piedi, fu molto
sollevata sentendolo parlare nel suo tono abituale.
– Ogni tipo di sveltezza, – ripeté, – ma è stato sconsiderato da parte sua
indossare l’elmo di un altro uomo… e con l’uomo dentro, per giunta.

– Come fate a continuare a parlare così tranquillamente, a testa in giù? –


chiese Alice, mentre lo trascinava fuori per i piedi, e lo scaricava a mo’ di
sacco sulla riva.

Il Cavaliere sembrò stupito dalla domanda. – Che cosa importa dov’è o


dove non è il mio corpo? – disse. – La mia mente continua a funzionare
ugualmente. In realtà, più sono a testa in giù, più continuo a inventare
nuove cose.

– Ora, la cosa più ingegnosa del genere che abbia mai fatto, – riprese
dopo una pausa – è stata d’inventare un nuovo budino mentre era servita la
portata della carne.

– In tempo perché venisse pronto per la portata seguente? – domandò


Alice. – Be’, questa si chiama “sveltezza”, senza dubbio!

– Eh no, non la portata seguente, – disse il Cavaliere con tono lento e


pensoso: – no, certo non la portata seguente.

– Va be’, allora era destinato al giorno seguente. Suppongo che non si


servano due portate di budino in una cena sola.

– Eh, no, non destinato al giorno seguente, – ripeté il Cavaliere come


prima: – non il giorno seguente. Anzi, – continuò, tenendo giù la testa, con
la voce che si faceva sempre più bassa, – non credo proprio che quel budino
sarà mai cucinato! Eppure era un budino così ingegnoso da inventare.

– Di che cosa doveva essere fatto, nelle vostre intenzioni? – chiese Alice,
sperando di tirarlo su d’umore, perché il povero Cavaliere sembrava
piuttosto depresso riguardo a questa faccenda.

– Per cominciare di carta assorbente, – rispose con un gemito il


Cavaliere.

– Non sarebbe molto gradevole, temo…

– Non molto gradevole da sola, – la interruppe, con grande ardore. – Ma


tu non hai idea di che differenza fa se la mischi con delle altre cose… come
la polvere da sparo e la ceralacca. E qui ti devo lasciare. – Erano appena
arrivati alla fine del bosco.

Alice non poteva evitare di avere l’aria perplessa: stava pensando al


budino.

– Sei triste, – disse il Cavaliere con tono ansioso. – Lascia che ti canti
una canzone per consolarti.

– È molto lunga? – chiese Alice, perché aveva già sentito un bel po’ di
poesie quel giorno.
– È lunga, – rispose il Cavaliere, – ma è molto, molto bella. Chiunque mi
senta cantarla… o gli vengono le lacrime agli occhi, oppure…

– Oppure cosa? – domandò Alice, poiché il Cavaliere aveva fatto una


pausa improvvisa.

– Oppure no, capisci. Il nome della canzone è chiamato Occhi di


Merluzzo.

– Ah, quello è il nome della canzone, è così? – chiese Alice, cercando di


provare interesse.

– No, non capisci, – rispose il Cavaliere, con aria un po’ seccata. –


Quello è il modo in cui viene chiamato il nome. In realtà il nome è Il
Vecchio Vecchissimo.

– Allora dovevo dire: “È così che è chiamata la canzone?” – si corresse


Alice.

– No che non dovevi: quella è tutt’altra cosa! La canzone è chiamata


Modi e mezzi: ma è solo il modo in cui è chiamata, capisci!

– Be’, com’è questa canzone, allora? – chiese Alice, che a questo punto
era completamente disorientata.

– Ci stavo arrivando, – rispose il Cavaliere. – In realtà la canzone è


Seduto su un Cancello: e la melodia è di mia invenzione.

Dicendo questo, fermò il cavallo e lasciò cadere le redini sul collo


dell’animale: poi, battendo il tempo lentamente con una mano, mentre un
debole sorriso gli illuminava il dolce viso stolido, come se stesse godendo
la musica della sua canzone, incominciò.

Di tutte le cose strane che Alice aveva visto nel suo viaggio Attraverso lo
Specchio, era questa che ricordava sempre più chiaramente. Ad anni di
distanza riusciva a ricostruire l’intera scena come se fosse accaduta solo il
giorno prima… i miti occhi azzurri e il sorriso gentile del Cavaliere… il
sole del tramonto che baluginava attraverso i suoi capelli e splendeva sulla
sua armatura con un fulgore abbacinante… il cavallo che girava lì intorno
tranquillo, con le redini penzolanti sul collo, brucando l’erba ai suoi piedi…
e le ombre nere della foresta dietro di loro… tutto questo le si incise nella
mente come un quadro, mentre, riparandosi gli occhi con una mano,
appoggiata a un albero, guardava la strana coppia, e ascoltava, come in un
sogno che sembra realtà, la musica malinconica di quella canzone.

“Ma la melodia non l’ha inventata lui,” disse tra sé. “È Ti darò tutto, di
più non posso”. Restò ad ascoltare con grande attenzione, ma non le spuntò
neanche una lacrima.

Ti racconterò tutto ciò che posso,


ma c’è poco da dire, pochissimo:
seduto su un cancello sopra un fosso
vidi un uomo vecchio, anzi vecchissimo.
“Chi sei tu, vecchio?” io feci all’omino.
“Di che vivi?” La domanda fu questa.
E come l’acqua attraverso un colino,
la risposta filtrò nella mia testa.

Disse lui: “Cerco un tipo di farfalla


Che abita nei campi di frumento:
Ne faccio pasticci di carne a palla,
che vendo per la strada, sul momento.
Li vendo a degli uomini,” lui continuò,
“Che vanno per il mare procelloso.
In tal modo procacciarmi il pane io so –
due spiccioli, prego, niente di esoso”.

Ma più modi stavo passando al vaglio


Per tingersi i baffi in verde serpente,
usando sempre un’enorme ventaglio
perché siano invisibili alla gente.
E, non avendo risposta da dare
a ciò che aveva detto il vecchio, “Su, su,
di’ come vivi!” mi misi a gridare,
e poi lo feci cadere a testa in giù.
Riprese il racconto con mite accento:
“Io vado per la strada che ho segnata;
se trovo sul monte un rivolo lento,
gli faccio fare una bella fiammata;
e loro ci fanno un intruglio detto
olio di Macassar, marca Oltremare…
Bene, due pence e mezzo in tutto: ecco
cosa mi danno per il mio penare”.

Ma il modo ancor cercavo nella mente


per cibarsi soltanto di battuto
e così ogni giorno costantemente,
diventar ognuno un po’ più cicciuto.
Lo scossi ben bene da parte a parte,
finché la faccia non gli diventò blu:
“su, dimmi come vivi,” gridai forte,
“ma si può mai sapere che fai tu?”.
Disse: “Stano gli occhi di merluzzo che
stan nascosti tra l’erica radiosa,
e li trasformo in bottoni da gilet,
nella notte silenziosa.
E questi non li vendo in cambio d’oro
o monete sfavillanti d’argento,
no! Ma per un mezzo penny di rame,
e ne valgono nove, se non cento.
A volte scavo in cerca di pan molle,
pianto stecchi impaniati per i granchi
a volte cerco tra le erbose zolle
ruote di carrozzelle, e anche fianchi.
E questo è il modo in cui”, (l’occhio strizzò)
“Io mi procuro di che essere ricco:
Di Vostro Onor… mi be… e… rò…”(7) (biascicò)
“L’esimia salute… augurar mi picco”.

L’ascoltai, benché un piano mi si fosse


formato in mente ormai per impedire
che il ponte del Menai arrugginisse,
col farlo a lungo nel vino bollire.

Lo ringraziai di aver detto in verità


come faceva a esser così abbiente,
ma più di tutto per la sua volontà
di bersi la mia salute eccellente.

E oggi, se per puro caso io caccio


le dita d’una mano nella colla,
o il piede destro strizzo come un pazzo
nella scarpa sinistra che non molla,
o se distratto sull’alluce faccio
cadere un peso, e proprio su una bolla,

Io piango perché questo mi rammenta


quel vecchio che conobbi un tempo breve
con l’aria mite, la parlata lenta,
coi capelli più bianchi della neve,
col viso di cornacchia ed incolore,
Con gli occhi, come braci, rosseggianti,
che sembrava impazzito dal dolore,
che dondolava il corpo indietro e avanti.

E in un brontolio basso borbottava


Come con la bocca piena di grano,(8)
Che proprio come un bufalo sbuffava
Quella sera estiva d’un dì lontano,
Seduto su un cancello”.
Mentre il Cavaliere cantava le ultime parole della ballata, raccolse le
redini e girò la testa del cavallo verso la strada dalla quale erano venuti. –
Hai solo pochi metri da percorrere, – disse, – giù per la collina e oltre quel
ruscelletto, e poi sarai una Regina… Ma prima resti qui a vedermi partire,
vuoi? – aggiunse, mentre Alice si voltava con aria ansiosa nella direzione
che indicava il Cavaliere. – Non ci metterò molto. Aspetta a sventolare il
fazzoletto quando mi vedrai andar giù per quella svolta della strada! Penso
che mi darà coraggio, capisci!

– Certo che aspetterò, – disse Alice: – e molte grazie per essere venuto
fin qua… e per la canzone… Mi è piaciuta molto.
– Lo spero, – fece il Cavaliere, dubbioso: – ma non hai pianto quanto mi
aspettavo.

Così si strinsero le mani e poi il Cavaliere s’avviò cavalcando lentamente


nella foresta. “Immagino che non ci vorrà molto per vederlo partire e
andare giù!” disse tra sé Alice, mentre restava lì a guardarlo. “Eccolo là!
Dritto sulla testa, come al solito! Però si rialza abbastanza facilmente… è
perché ha tante cose appese da ogni parte al cavallo…”. Continuò a
parlottare tra sé in questo modo, mentre guardava il cavallo proseguire
calmo e tranquillo lungo la strada e il Cavaliere ruzzolare giù, prima da un
lato e poi dall’altro. Dopo il quarto o il quinto capitombolo, questi arrivò
alla curva, e allora Alice gli sventolò il fazzoletto e aspettò finché non fu
scomparso alla vista.

– Spero che questo gli abbia dato coraggio, – disse, voltandosi per
avviarsi di corsa giù per la collina. – E adesso, via! L’ultimo ruscello, e poi
sarò Regina! Come suona solenne! – Pochi passi la portarono sull’orlo del
ruscello. – L’Ottavo Scacco, finalmente! – gridò, mentre lo superava con un
balzo, e si buttò a riposare su un prato morbido come muschio, punteggiato
qua e là da piccole aiuole. – Oh, come sono contenta di essere qui! E che
cos’è questa cosa che ho sulla testa? – esclamò con voce sgomenta,
mettendo le mani su un oggetto molto pesante, che le aderiva a pennello
alla testa.

“Ma come può esserci arrivata senza che me ne accorgessi?” disse tra sé,
mentre se la toglieva e la posava in grembo per capire che cosa mai potesse
essere.

Era una corona d’oro.


Capitolo IX
La regina Alice

– Be’, ma è fantastico! – disse Alice. – Non mi sarei mai aspettata di


diventare regina così presto… e voglio dirvi questo, Maestà, – continuò,
con tono severo (la divertiva sempre molto rimproverarsi), – non va bene,
no, che ve ne stiate così in panciolle nell’erba! Le Regine devono essere
dignitose, sapete!

Si alzò e si mise a gironzolare, piuttosto rigida all’inizio, perché temeva


di far cadere la corona: ma si consolò riflettendo che non c’era nessuno che
potesse vederla, – E se sono davvero una regina, – disse, rimettendosi a
sedere, – col tempo riuscirò a portarla senza problemi.

Tutto succedeva in modo così strano che Alice non fu affatto sorpresa nel
trovare la Regina Rossa e la Regina Bianca sedute vicino a lei, una per
parte: le sarebbe piaciuto molto domandare loro come avevano fatto ad
arrivare fin lì, ma temeva che non sarebbe stato molto educato. In ogni
caso, non c’era niente di male, pensò, a chiedere se la partita era finita. –
Per piacere, vorreste dirmi… – cominciò, guardando timidamente la Regina
Rossa.

– Parla quando ti si rivolge la parola! – la interruppe bruscamente la


Regina.

– Ma se tutti obbedissero a quella regola, – ribatté Alice, che era sempre


pronta per una piccola discussione, – e se tu parlassi solo quando ti si
rivolge la parola, e gli altri aspettassero sempre che fossi tu a incominciare,
vedete bene che nessuno direbbe mai niente, sicché…

– Ridicolo! – gridò la Regina. – Oh, insomma, non capisci, bambina… –


e qui s’interruppe aggrottando le sopracciglia, e, dopo aver riflettuto un
attimo, cambiò improvvisamente argomento di conversazione. – Che cosa
vuoi dire con “Se sono davvero una Regina”? Che diritto hai di chiamarti
così? Non puoi essere una Regina, sai, finché non avrai passato l’apposito
esame. E prima cominciamo, meglio è.

– Ho solo detto “se”! – si giustificò Alice con tono lacrimevole.

Le due Regine si scambiarono uno sguardo, e la Regina Rossa osservò,


con un’alzatina di spalle: – Dice che ha detto solo “se”…

– Ma ha detto molto di più! – gemette la Regina Bianca, torcendosi le


mani. – Oh, molto, molto più!

– Questo hai fatto, sai, – disse la Regina Rossa ad Alice. – Tu di’ sempre
la verità… pensa prima di parlare… e dopo scriviti quello che hai detto.

– Sono sicura che non volevo dire…– stava cominciando Alice, ma la


Regina Rossa la interruppe con tono spazientito.

– È proprio questo che deploro! Tu avresti dovuto voler dire una cosa o
un’altra! A cosa credi che serva una bambina che non vuol dire niente?
Persino una barzelletta dovrebbe voler dire qualcosa… e una bambina è più
importante di una barzelletta, spero. Questo non potresti negarlo, anche se
ci provassi con tutte e due le mani.
– Ma io nego le cose con le mani, – obiettò Alice.

– Nessuno ha detto che tu l’abbia fatto, – replicò la Regina Rossa. – Ho


detto che non potresti farlo neppure se ci provassi.

– È in quello stato d’animo, – disse la Regina Bianca, – in cui si ha


voglia di negare qualcosa… solo che non sa cosa negare!

– Ha un brutto carattere, pestifero, – commentò la Regina Rossa; poi


seguì un silenzio imbarazzato per un minuto o due.

La Regina Rossa ruppe il silenzio dicendo alla Regina Bianca: – Ti invito


alla festa di Alice questo pomeriggio.
La Regina Bianca sorrise debolmente e disse: – E io invito te.

– Non avevo la minima idea di dover dare una festa, – intervenne Alice.
– Ma se ci deve essere una festa, allora credo che dovrei essere io a fare gli
inviti.

– Ti abbiamo dato la possibilità di farlo, – osservò la Regina Rossa, – ma


oserei dire che non hai ancora ricevuto molte lezioni di buone maniere.

– Non si danno lezioni di buone maniere, – disse Alice. – Le lezioni ti


insegnano a fare i calcoli e cose di questo genere.

– Sai fare le Addizioni? – chiese la Regina Bianca. – Cosa fa uno più uno
più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno?

– Non lo so, – rispose Alice. – Ho perso il conto.

– Non sa fare le Addizioni, – interruppe la Regina Rossa. – Sai fare le


Sottrazioni? Fai nove meno otto.

– Nove meno otto, non lo so, – rispose Alice con grande prontezza: –
ma…

– Non sa fare le Sottrazioni, – disse la Regina Bianca. – Sai fare le


Divisioni? Dividi una pagnotta per una colazione… sai rispondere a questo?

– Credo… – stava incominciando a dire Alice, ma la Regina Rossa


rispose per lei. – Pane e burro, naturalmente. Proviamo con un altro
esempio di Sottrazione. Hai un cane e gli sottrai un osso. Cosa resta?

Alice rifletté. – L’osso non resterebbe, naturalmente, se lo sottraessi… e


anche il cane non resterebbe: correrebbe a mordermi… e di sicuro io non
resterei!

– Allora pensi che non resterebbe niente? – chiese la Regina.

– Penso che questa sia la risposta.


– Sbagliato, come al solito, – disse la Regina. – Resterebbero le staffe del
cane.

– Ma non vedo come…?

– Andiamo, rifletti! – gridò la Regina. – Il cane perderebbe le staffe, no?

– Forse sì, – rispose cauta Alice.

– Allora anche se il cane se ne andasse, le sue staffe resterebbero! –


esclamò trionfante la Regina.

Alice disse, più seriamente che poté: – Potrebbero andare in direzioni


diverse. – Ma non poté evitare di pensare: “Che terribili assurdità stiamo
dicendo!”.

– Non sa fare i calcoli, proprio zero! – dissero insieme le Regine, con


gran enfasi.

– E voi li sapete fare i calcoli? – chiese Alice, rivolgendosi


improvvisamente alla Regina Bianca, perché non le andava di essere
criticata a quel modo.

La Regina annaspò e chiuse gli occhi. – Io so fare le Addizioni, – rispose.


– Se mi dai il tempo… ma non so fare le Sottrazioni in nessun caso.

– Naturalmente sai l’alfabeto? – disse la Regina Rossa.

– Certo che lo so, – rispose Alice.

– Anch’io, – sussurrò la Regina Bianca. – Lo ripeteremo spesso insieme,


cara. E ti dirò un segreto… so leggere parole di una lettera! Non è
fantastico? Ma non scoraggiarti. Ci arriverai anche tu col tempo.

A questo punto la Regina Rossa ricominciò. – Sai rispondere a domande


utili? – domandò. – Come si fa il pane?

– Questo lo so! – gridò entusiasta Alice. – Si prende del fior di farina…(9)


– E dove si coglie?… In un giardino o sulle siepi?

– Non si coglie affatto… il primo mulino…(10)

– Perché dev’essere piccolo, il mulo? E perché il primo e non l’ultimo?


Spiega, non devi tralasciare tutte queste cose.

– Falle vento sulla testa! – interruppe con voce ansiosa la Regina Rossa.
– Le verrà la febbre a furia di pensare! – Così le Regine si misero al lavoro,
e la sventolarono con dei mazzi di foglie, finché Alice fu costretta a
pregarle di smettere, perché i capelli le volavano da tutte le parti.

– Ora sta di nuovo bene, – disse la Regina Rossa. – Conosci le lingue?


Come fa in francese fiddle-de-dee?(11)

– Fiddle-de-dee non è inglese, – rispose seria Alice.

– E chi ha mai detto che lo fosse? – chiese la Regina Rossa.

Alice credette di aver intravisto una via d’uscita dalla difficoltà, questa
volta. – Se mi dite che lingua è fiddle-de-dee, vi dirò come fa in francese! –
esclamò trionfante.

Ma la Regina Rossa si drizzò con aria impettita e disse: – Le regine non


fanno mai contrattazioni.

“Vorrei che le Regine non facessero mai domande”, pensò Alice tra sé.

– Non litighiamo, – disse la Regina Bianca con tono ansioso. – Qual è la


causa del lampo?

– La causa del lampo, – rispose Alice decisa, perché si sentiva più che
sicura su questo, – è il tuono… no, no! – si corresse precipitosamente. –
Volevo dire il contrario.

– È troppo tardi per correggersi, – decretò la Regina. – Una volta che hai
detto una cosa, quella resta, e devi subirne le conseguenze.
– Il che mi fa venire in mente, – disse la Regina Rossa, stringendo e
rilasciando nervosamente le mani, – che abbiamo avuto un tale temporale
martedì scorso… voglio dire, una delle ultime serie di martedì, capisci.

Alice era perplessa. – Nel nostro paese, – osservò, – c’è solo un giorno
per volta.

La Regina Rossa disse: – È un modo ben misero, piccino, di fare le cose.


Qui da noi, invece, per lo più abbiamo i giorni e le notti a due o tre per
volta, e talora d’inverno mettiamo insieme fino a cinque notti… per il
caldo, capisci.

– Allora cinque notti sono più calde di una? – osò chiedere Alice.

– Cinque volte più calde, naturalmente.

– Ma dovrebbero essere cinque volte più fredde, secondo la stessa


regola…

– Proprio così! – gridò la Regina Rossa. – Cinque volte più calde e


cinque volte più fredde… proprio come io sono cinque volte più ricca di te
e cinque volte più intelligente!

Alice sospirò e si arrese. “È esattamente come un indovinello senza


risposta!” pensò.

– Anche Humpty Dumpty l’ha visto, – continuò la Regina Bianca a voce


bassa, più come se stesse parlando tra sé. – Si è presentato alla porta con un
cavatappi in mano…

– Che cosa voleva? – chiese la Regina Rossa.

– Ha detto che voleva entrare, – continuò la Regina Bianca, – perché


stava cercando un ippopotamo. Ora, si dà il caso che non ci fosse una cosa
del genere in casa, quella mattina.

– Di solito c’è? – chiese Alice con aria stupita.

– Be’, solo di giovedì, – rispose la Regina.


– Io so perché è venuto, – disse Alice, – voleva punire i pesci, infatti…

Qui la Regina Bianca ricominciò. – È stato un tale temporale, non puoi


pensare! – (“Non potrebbe mai pensare, lo sai,” disse la Regina Rossa). –
Ed è venuta via una parte del tetto, ed è entrato tanto di quel tuono… e ha
preso a roteare rimbombando per la stanza in blocchi grossi così… e a
rovesciare i tavoli e gli oggetti… e a un certo punto ero così spaventata che
non riuscivo a ricordarmi il mio nome!

Alice pensò tra sé: “Io non proverei mai a ricordare il mio nome nel bel
mezzo di un disastro! A che servirebbe?”, ma non lo disse a voce alta, per
timore di ferire la sensibilità della povera Regina.

– Vostra Maestà deve scusarla, – disse la Regina Rossa ad Alice,


prendendo una mano della Regina Bianca nella sua, e carezzandola
dolcemente: – è buona d’animo, ma non può fare a meno di dire delle
sciocchezze, come regola generale.

La Regina Bianca guardò con aria timida Alice, che sentì di dover dire
qualcosa di gentile, ma davvero non riusciva a farsi venire in mente niente
sul momento.

– Non ha mai ricevuto veramente una buona educazione, – continuò la


Regina Rossa, – ma è incredibile com’è buona di carattere! Falle delle
carezzine sulla testa e vedi come sarà contenta! – Ma questo era più di
quanto Alice avesse il coraggio di fare.

– Un po’ di gentilezza… e qualche bigodino nei capelli… farebbero


miracoli con lei…

La Regina Bianca emise un profondo sospiro, e posò la testa sulla spalla


di Alice, – Ho tanto sonno! – gemette.

– È stanca, poverina! – disse la Regina Rossa. – Ravviale i capelli…


prestale la tua cuffia da notte… e cantale una ninnananna distensiva.

– Non ho una cuffia da notte con me, – rispose Alice, cercando di


obbedire alla prima istruzione. – E non conosco nessuna ninnananna
distensiva.

– Allora devo farlo io, – disse la Regina Rossa, e incominciò:

Fa’ la nanna, signora, nel grembo d’Alice!


Prima della festa, ci sta una pennichella.
Finita la festa, si va al ballo felice
tutte e tre noi Regine e compagnia bella!

– E ora che sai le parole, – aggiunse, appoggiando la testa sull’altra spalla


di Alice, – cantala tutta per me. – Un attimo dopo entrambe le Regine già
dormivano come dei sassi, e russavano forte.
– Cosa devo fare? – esclamò Alice, guardandosi intorno molto perplessa,
mentre prima una testolotta, poi l’altra, le rotolava giù dalla spalla per
posarsi nel suo grembo, pesante come un masso. – Non credo sia mai
capitato prima d’ora che qualcuno abbia dovuto prendersi cura di due
Regine addormentate nello stesso momento! No, certo non in tutta la storia
d’Inghilterra… Non avrebbe potuto succedere, sapete, perché non c’è mai
stata più di una regina per volta. Svegliatevi, pesantissime creature! –
continuò con tono spazientito, ma non ci fu altra risposta che un ronfare
sommesso.

Quel ronfare diventava sempre più distinto di minuto in minuto e sempre


più somigliante a una melodia: alla fine Alice riuscì persino ad afferrare le
parole, ed era così presa dall’ascolto che, quando le due grosse teste
scomparvero all’improvviso dal suo grembo, non ne sentì molto la
mancanza.

Ora lei si trovava davanti a un grande portone ad arco, sopra il quale


erano scritte a grandi lettere le parole “Regina Alice” e da ogni lato
dell’arco c’era un tirante di campanello; su uno c’era scritto: “Campanello
dei Visitatori,” e sull’altro: “Campanello della Servitù”.
“Aspetterò che finisca la canzone,” pensò Alice, “e poi suonerò il… il…
quale campanello devo suonare?”, continuò, completamente sconcertata da
quei nomi. “Io non sono un visitatore, e non sono un servitore. Ce ne
dovrebbe essere uno con la scritta ‘Regina’, direi…”.

Proprio in quel momento la porta si aprì un poco, e una creatura con un


lungo becco mise fuori la testa un attimo e disse: – Non si può entrare per
due settimane! – e richiuse la porta sbattendola con fragore.

Alice bussò e suonò a lungo invano; ma alla fine un Rospo vecchissimo,


che sedeva sotto un albero, si alzò e saltellò lentamente verso di lei: era
vestito di giallo brillante, e portava degli enormi stivali.

– Cosa c’è, adesso? – disse il Rospo in un profondo, roco sussurro.

Alice voltò la testa, pronta a prendersela con chiunque. – Dov’è il


servitore incaricato di rispondere alla porta? – incominciò con tono
arrabbiato.

– Quale porta? – domandò il Rospo.

Alice pestò quasi i piedi per l’irritazione di fronte alla pronuncia lenta e
strascicata con cui parlava il Rospo. – Questa porta, naturalmente!

Il Rospo guardò la porta coi suoi grandi occhi ottusi per un attimo; poi
s’avvicinò e la strofinò col pollice, come per vedere se veniva via la
vernice: quindi guardò Alice.

– Rispondere alla porta? – disse. – Che cos’è che ha chiesto? – Era così
roco che Alice riusciva a malapena a sentirlo.

– Non capisco cosa vuoi dire, – fece lei.

– Parlo inglese, o cosa? – continuò il Rospo. – Sarai mica sorda? Che


cos’è che ti ha chiesto?

– Niente! – rispose spazientita Alice. – Sono io che ci ho bussato e


ribussato!

– Non dovevi farlo… non dovevi farlo… – borbottò il Rospo. – Quello le


dà ai nervi. – Poi s’avvicinò e diede un calcio alla porta con uno dei suoi
grandi piedi. – Tu lasciala in pace, – disse ansimando, mentre tornava
balzelloni al suo albero, – e io lascerò in pace te, capisci.

In quella la porta si spalancò di colpo, e si udì una voce acuta che


cantava:

Al mondo dello Specchio, Alice così parlò: “Udite!


Ho uno scettro in mano e una corona in testa, lo vedete.
Che dunque ogni creatura dello Specchio, che sia quel che è, ceni con
la Regina Rossa e la Regina Bianca e me!”.

E centinaia di voci si unirono in coro per il ritornello:

Poi riempite le coppe più celermente che potete


e la tavola di bottoni e di crusca cospargete,
mettete dei gatti nel caffè e dei topini nel tè,
e salutate la Regina Alice trenta volte tre.

Seguì poi un confuso rumore di applausi, e Alice pensò tra sé: “Trenta
volte tre fa novanta. Vorrei sapere se qualcuno sta contando!”. Dopo un
minuto si fece di nuovo silenzio, e la stessa voce acuta cantò un’altra strofa.

“O Creature dello Specchio”, disse Alice, “su, venite!


È un onore vedermi, una grazia ascoltarmi, capite:
è un privilegio sedersi attorno al desco e prendere il tè
assieme alla Regina Rossa, alla Regina Bianca e me!”.

Poi venne di nuovo il coro:

Poi riempite bene i bicchieri di melassa e d’inchiostro,


o d’ogni altra cosa gradevole a bersi, a parer vostro,
mischiate sabbia e sidro, lana e vin rosso, in varia dose
e salutate Regina Alice novanta volte nove!

– Novanta volte nove! – ripeté Alice disperata. – Oh, ma ci vorrà una


vita! Farei meglio a entrare subito… – e così fece, e c’era un silenzio di
tomba nel momento in cui apparve.

Alice gettò un’occhiata nervosa lungo la tavola, mentre avanzava nella


grande sala, e notò che c’erano circa cinquanta commensali, di tutti i tipi:
alcuni erano animali, altri uccelli, e c’erano persino dei fiori tra loro. “Sono
contenta che siano venuti senza aspettare il mio invito,” pensò. “Non avrei
mai saputo chi erano le persone giuste da invitare!”.

C’erano tre sedie a capotavola: la Regina Rossa e la Bianca ne avevano


già occupate due, ma quella di mezzo era vuota. Alice ci si sedette,
piuttosto imbarazzata da quel silenzio, e impaziente che qualcuno parlasse.

Finalmente la Regina Rossa incominciò. – Ti sei persa la zuppa e il


pesce, – disse. – Introducete l’arrosto! – E i camerieri posarono un cosciotto
di montone davanti ad Alice, che lo guardò piuttosto preoccupata, perché
non aveva mai dovuto tagliare della carne con l’osso prima d’ora.

– Mi sembri un po’ timida: lascia che ti presenti a quel cosciotto di


montone, – disse la Regina Rossa. – Alice-Montone-Montone-Alice. – Il
cosciotto di montone di alzò in piedi nel piatto e fece un piccolo inchino ad
Alice; e Alice ricambiò l’inchino, non sapendo se doveva essere spaventata
o divertita.

– Posso darvi una fetta? – domandò, prendendo il coltello e la forchetta, e


guardando prima l’una e poi l’altra Regina.

– No di certo, – rispose con tono reciso la Regina. – Il galateo vieta di


tagliare qualcuno a cui si è stati presentati. Portate via il cosciotto! – Così i
camerieri lo portarono via, e al suo posto servirono un grande budino di
prugne.

– Non voglio essere presentata al budino, vi prego, – disse Alice in fretta,


– o non mangeremo niente. Posso darvene un po’?

Ma la Regina Rossa, con aria accigliata, brontolò: – Budino-Alice, Alice-


Budino. Portate via il budino! – e i camerieri lo portarono via così in fretta
che Alice non poté ricambiare il suo inchino.

Però non capiva perché la Regina Rossa dovesse essere l’unica a dare
ordini: così, per fare un esperimento, gridò: – Cameriere! Riportate il
budino! – ed ecco che quello riapparve, come in un gioco di prestigio. Era
così grande che Alice non poté evitare di sentirsi un po’ intimidita di fronte
a lui, come lo era stata col montone; tuttavia, con grande sforzo, vinse la
sua timidezza, ne tagliò una fetta e la porse alla Regina Rossa.

– Che impertinenza! – esclamò il Budino. – Mi domando come la


prenderesti se io tagliassi via una fetta di te, creatura!
Parlò con una voce roca e grassa, e Alice non riuscì a trovare una sola
parola per ribattere; poté solo restare lì a guardarlo a bocca aperta.

– Fa’ un’osservazione, avanti, – disse la Regina Rossa. – È ridicolo


lasciare tutta la conversazione al budino!

– Sapete, oggi mi hanno recitato tantissime poesie, – incominciò Alice,


un po’ spaventata nello scoprire che, come aprì le labbra, si fece un silenzio
di tomba e tutti gli occhi si fissarono su di lei. – Ed è una cosa molto
curiosa, credo… ogni poesia aveva a che fare coi pesci, in un modo o
nell’altro. Sapete perché hanno tutti la mania dei pesci, da queste parti?
Parlò alla Regina Rossa, la cui risposta non fu quel che si dice pertinente.
– Quanto ai pesci, – disse, con grande lentezza e solennità, mettendo la
bocca vicino all’orecchio di Alice. – Sua Maestà Bianca conosce un
indovinello delizioso… tutto in versi… e tutto sui pesci. Deve recitartelo?

– Sua Maestà Rossa è molto gentile ad accennarvi, – mormorò la Regina


Bianca nell’altro orecchio di Alice, con una voce che somigliava al tubare
di un piccione. – Sarebbe un tale godimento! Posso?

– Ve ne prego, – rispose con grande cortesia Alice.

La Regina Bianca rise per la contentezza, e carezzò la guancia di Alice.


Poi incominciò:

“Primo, il pesce va pescato”.


È facile: un bebè lo pescherebbe.
“Poi, il pesce va comperato”.
È facile: un penny basterebbe.

“Cuocimi il pesce, suvvia!”.


È facile: un minuto mi ci vorrà.
“E che in un bel piatto stia!”.
È facile: quel pesce là già ci sta.

“Porta qui! Fammi cenare!”.


È facile un tal piatto intavolare.
“Togli la copertura, va’!”.
Ah, ma è dura! Non son capace, mi sa.

Perché come la colla fa


sigillata la tien, mentre in mezzo sta:
cosa più facile sarà,
scoprir il pesce o l’indovinello… chissà?(12)

– Prenditi un minuto per pensare e poi prova a indovinare, – disse la


Regina Rossa. – Intanto noi berremo alla tua salute… Evviva la Regina
Alice! – gridò con tutta la voce che aveva in corpo, e tutti gli invitati
incominciarono subito a bere, e lo fecero in modo veramente bizzarro:
alcuni si misero i bicchieri sulla testa a mo’ di spegnimoccoli e bevvero
tutto ciò che colava loro sulla faccia… altri rovesciarono le caraffe e
leccarono il vino che gocciolava dall’orlo del tavolo… e tre di loro (che
sembravano dei canguri) si buttarono sul piatto del montone arrosto, e
incominciarono a lappare bramosamente il sugo, “proprio come i maiali nel
truogolo”, pensò Alice.

– Dovresti ricambiare i ringraziamenti con un bel discorso, – disse la


Regina Rossa, lanciando un’occhiata di rimprovero ad Alice.

– Dobbiamo sostenerti, capisci, – sussurrò la Regina Bianca, quando


Alice si alzò per fare il discorso, obbediente, ma un po’ impaurita.

– Grazie molte, – rispose lei sussurrando, – ma posso farne benissimo a


meno.

– Questo non sarebbe affatto opportuno, – disse la Regina Rossa con tono
molto deciso: così Alice cercò di sottomettersi alla cosa con buonagrazia.

(“E come mi spingevano!” disse in seguito, mentre raccontava la storia


della festa a sua sorella. “Si sarebbe detto che volessero spiaccicarmi!”).
In effetti fu piuttosto difficile per lei restare al suo posto mentre faceva il
discorso: le due Regine la spingevano talmente, da un lato e dall’altro, che
per poco non la sollevarono in aria. – Mi alzo per ricambiare i
ringraziamenti, – cominciò Alice: e si alzò davvero mentre parlava, di
parecchi centimetri; ma si afferrò all’orlo del tavolo, e riuscì a rimettersi
giù.

– Abbiti cura! – gridò la Regina Bianca, afferrando i capelli di Alice con


entrambe le mani. – Sta per accedere qualcosa!
E poi (come raccontò in seguito Alice), in un attimo ne successero di tutti
i colori. Le candele crebbero tutte quante fino al soffitto, prendendo
l’aspetto di un’aiola di giunchi con dei fuochi d’artificio in cima. Quanto
alle bottiglie, afferrarono ciascuna un paio di piatti, che si sistemarono in
fretta a mo’ di ali, e così, con le forchette al posto delle gambe, si misero a
svolazzare in tutte le direzioni: “e sembravano proprio degli uccelli,” pensò
tra sé Alice, come meglio poté nella terribile confusione che stava
scoppiando.

In quel momento udì una risata roca accanto a lei, e si voltò per vedere
che cosa stava succedendo alla Regina Bianca; ma, al posto della Regina, su
quella sedia c’era il cosciotto di montone. – Eccomi qua! – gridò una voce
dalla zuppiera, e Alice si voltò di nuovo, giusto in tempo per vedere il
bonario facciotto della Regina sorriderle per un attimo sopra il bordo della
zuppiera prima di scomparire nella minestra.

Non c’era un minuto da perdere. Già parecchi degli ospiti erano sdraiati
nei piatti e il mestolo avanzava sulla tavola verso la sedia di Alice,
invitandola con gesti spazientiti a togliersi di mezzo.

– Non ne posso più! – gridò lei, saltando in piedi e afferrando la tovaglia


con entrambe le mani: un bello strattone e piatti di portata, scodelle, ospiti e
candele, tutti andarono a fracassarsi insieme sul pavimento in un sol
mucchio.

– Quanto a te, – continuò, apostrofando furibonda la Regina Rossa, che


considerava la causa di quel pandemonio… ma la Regina non era più al suo
fianco… si era improvvisamente rimpicciolita riducendosi alle dimensioni
di una bambolina, e ora era sul tavolo, e correva allegramente in tondo
inseguendo il suo scialle, che le correva dietro. In qualunque altra
occasione, Alice si sarebbe stupita di questo, ma ora era troppo eccitata per
stupirsi di qualsiasi cosa. – Quanto a te, – ricominciò, afferrando la piccola
creatura proprio mentre scavalcava d’un balzo una bottiglia che si era
appena posata sulla tavola, – ti scrollerò finché non diventerai un gattino,
ecco cosa ti farò!
Capitolo X
Scrolloni

Mentre parlava, la tolse dal tavolo e la scosse avanti e indietro con tutta
la sua forza.

La Regina Rossa non oppose la minima resistenza: ma la faccia le


diventò piccolissima, e gli occhi grandi e verdi: e intanto, mentre Alice
continuava a scuoterla, quella diventava più bassa… e più grassa… e più
morbida… e più tonda… e…
Capitolo XI
Risveglio

… ed era veramente un gattino, dopo tutto.


Capitolo XII
Chi l’ha sognato?

– Vostra Maestà la Regina Rossa non dovrebbe ronfare così forte, – disse
Alice, stropicciandosi gli occhi e rivolgendosi alla micina con rispetto,
anche se con una certa severità. – Mi hai svegliato da un… oh, un sogno
così bello! E tu sei stata sempre con me, Kitty… nel mondo dello Specchio.
Lo sapevi, cara?

Un’abitudine molto fastidiosa dei gattini (aveva osservato una volta


Alice), è quella di fare sempre le fusa, qualunque cosa tu dica. – Se almeno
facessero le fusa solo per dire “sì” e miagolassero per dire “no”, o
seguissero una regola qualsiasi di questo genere, – aveva detto, – si
potrebbe fare un minimo di conversazione! Ma come si può parlare con una
persona che dice sempre la stessa cosa?

In quest’occasione il micio si limitò a fare le fusa: ed era impossibile


capire se volesse dire “sì” oppure “no”.

Così Alice frugò tra i pezzi degli scacchi sul tavolo finché non ebbe
trovato la Regina Rossa: poi si inginocchiò sul tappeto davanti al focolare e
mise il gatto e la Regina di fronte in modo che si guardassero. – Su, Kitty! –
esclamò trionfante. – Confessa che è in questa qui che ti eri trasformata!

(– Ma Kitty non voleva guardarla, – disse, mentre spiegava la cosa a sua


sorella: – girava la testa dall’altra parte e faceva finta di non vederla; ma
aveva l’aria di vergognarsi un po’, perciò, credo proprio che sia stata la
Regina Rossa).

– Sta’ seduta un po’ più impettita, cara! – gridò Alice con un’allegra
risata. – E fa’ la riverenza mentre pensi a cosa… a cosa dire con le fusa. È
tutto tempo risparmiato, ricordati! – E la prese su e le diede un piccolo
bacio, – Solo in onore del fatto che siamo state una Regina Rossa!

– Bucaneve, coccola! – continuò, guardando sopra la spalla la Gattina


Bianca, che stava ancora subendo pazientemente la sua toilette, – ma
quando la finirà Dinah con Vostra Maestà, vorrei sapere? Deve essere per
questo motivo che eri così arruffata nel mio sogno. Dinah! Lo sai che stai
strigliando una Regina Bianca? Davvero, è molto irrispettoso da parte tua!

– E in cosa si sarà trasformata Dinah, mi domando? – continuò a


cianciare, mentre si sistemava comodamente per terra, con un gomito sul
tappeto, a osservare i gattini. – Dimmi, Dinah, ti sei trasformata in Humpty
Dumpty? Io credo proprio di sì… però farai meglio a non raccontarlo
ancora ai tuoi amici, perché non son sicura.
– A proposito, Kitty, se sei stata veramente con me nel sogno, c’era cosa
una cosa che dovresti aver apprezzato molto: mi hanno recitato tantissime
poesie, e tutte sui pesci! Domani mattina ti farò un vero regalo. Per tutto il
tempo che farai colazione, io ti reciterò Il Tricheco e il Carpentiere; e così
potrai far finta di mangiare ostriche, cara!

– Ora, Kitty, vediamo di stabilire chi è stato a sognare tutto ciò. È una
questione seria, mia cara, e non dovresti continuare a leccarti la zampa a
quel modo, come se Dinah non ti avesse già lavata questa mattina! Vedi,
Kitty, o sono stata io o è stato il Re Rosso, per forza. Lui faceva parte del
mio sogno, naturalmente, ma anch’io, d’altronde, facevo parte del suo! È
stato il Re Rosso, Kitty? Tu eri sua moglie, mia cara, perciò dovresti
saperlo… Oh, Kitty, dài, aiutami a decidere! Sono sicura che la tua zampa
può aspettare! – Ma la dispettosa gattina si limitò ad attaccare l’altra zampa,
e finse di non aver sentito la domanda.

E voi, chi pensate sia stato?

Poesia finale (acrostico(13))

Alla deriva, in un cielo assolato,


lo scafo come in sogno era portato,
in una sera d’un luglio passato

C’eran tre bimbe, strette e accoccolate,


eccitate – occhi ardenti, orecchie alzate –
per una semplice storia, appagate

Lungo tempo è andato, sbiadito è il cielo,


echi e ricordi son morti o hanno un velo:
autunno ha ucciso luglio col suo gelo

Sempre, com’un fantasma, m’assilla questo:


alice che va sotto un cielo vasto
non visto mai da occhio aperto e desto

Ci saranno altri bimbi che vorranno


estatici ascoltare, un altro anno,
la fiaba, accoccolati, come fanno

In un Paese delle Meraviglie


dormono e sognano, sciolte le briglie
danzan via intanto giorni, estati, foglie

Lungo il fiume sempre andando – infinita


laggiù, in quell’oro, sognando la gita…
e cos’è se non un sogno, la vita?
(1) Pleasance, ‘amenità’ nel testo, corrisponde al secondo nome di Alice Liddell. [««]

(2) Il gioco di parole nell’originale è così: “Fa bough wough!” (Bau Bau!)… È per questo che i suoi
rami sono detti boughs (rami d’albero, specie se grosso). [««]

(3) Nella doppia accezione di “testarda” e provvista di intestazione. [««]

(4) L’insetto in questione è il dragonfly, la Libellula, cui nel mondo dello Specchio corrisponde lo
Snap-Dragon-fly. L’intraducibile gioco di parole si riferisce a un gioco natalizio che non ha notorietà
né equivalenti da noi: lo Snapdragon, consiste nell’afferrare delle uvette da un vassoio di brandy
acceso. Creandone un altro, incentrato sull’ardore religioso, ho potuto conservare una certa analogia
con l’originale. [««]

(5) In realtà il pun della Zanzara si origina da un diverso scambio di battute ed è basato sul duplice
significato di miss, sostantivo, e di to miss, verbo. Infatti Alice dice: … mi chiamerebbe ‘signorina’
(Miss), come fanno i domestici; e la Zanzara: “… se dicesse ‘signorina’… perderesti (you’d miss) le
lezioni”. [««]

(6) Individuo piccolo e tozzo, tappo. [««]

(7) In inglese “bere alla salute di qualcuno” (to drink somebody’s health) letteralmente significa
“bersi la salute” di qualcuno. Per rendere in qualche modo l’ambiguità, mi sono presa la libertà di
introdurre qui il biascicamento del Vecchio, di cui si parla nell’ultima strofa. Grazie a questo
espediente, i due versi si possono “leggere” anche in questo modo: “Mi berrò l’esimia salute di
Vostro Onore – mi picco d’augurar (intransitivo)”. [««]

(8) Dough significa “pasta” di pane e anche grano, o grana, nel senso di quattrini. [««]

(9) “Flour”, farina, si pronuncia come “Flower”, fiore. [««]

(10) Nel testo, Alice dice che la farina non viene colta, bensì “ground”, cioè macinata; ma “ground”
significa anche “terra”. Così la Regina domanda: “quanti acri di terra?”. [««]
(11) Parola inesistente, che fonde fiddle (violino) e tweedle (suono di violino, strimpellio), e richiama
il nome di Tweedledee. [««]

(12) Il pesce dell’indovinello (secondo Annotated Alice di Martin Gardner) è l’ostrica, perché: anche
un bimbetto può pescarla; nell’Inghilterra di quei tempi costava pochissimo; cuoce velocemente; il
guscio fa da piatto di portata e la valva superiore è tenuta con forza dal mollusco che sta in
mezzo. [««]

(13) Le lettere iniziali di ogni verso, lette dall’alto verso il basso, compongono il nome completo
della Alice originaria: ALICE PLEASANCE LIDDELL. [««]

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