Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Le avventure di Alice
nel Paese delle Meraviglie
~
Attraverso lo Specchio
(e cosa Alice ci trovò)
Traduzione di
Bianca Tarozzi
(Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie)
Margherita Bignardi
(Attraverso lo Specchio)
LA BIBLIOTECA DELL'ESPRESSO
I GRANDI ROMANZI
Seconda serie
28
LEWIS CARROLL
Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie
Titolo originale: Through the Looking-Glass, and what Alice found there
l’Espresso
Direttore Responsabile: Bruno Manfellotto
Reg. Trib. Roma n. 4822 del 16/09/1955
Fin dall’inizio il libro si rivelò un successo e quando nel 1871 uscì la sua
continuazione, Through the Looking-Glass, Lewis Carroll era già
famosissimo. A questo primo entusiasmo inglese corrispose una vasta
popolarità tra il pubblico dei lettori americani; le traduzioni furono poi
numerosissime.
Non solo: sono usciti dei testi di divulgazione scientifica che utilizzano
Alice per spiegare e rendere appetibile la teoria dei quanti e altre
complicate nozioni di fisica! È il caso di Alice in Quantum Land, di Robert
Gilmore, un libro del 1996. Alice risorge e si trova a suo agio tanto
nell’Ottocento che nel Novecento: non le sarà certo difficile conquistare
nuovi lettori nel presente millennio.
***
1844 – Charles viene iscritto alla Richmond School, presso Croft, dove si
segnala subito per le sue capacità in matematica.
1856 – In marzo conosce la famiglia del nuovo decano del Christ Church,
Henry George Liddell, famoso grecista con tre figlie: Charlotte, Alice ed
Edith. Charles rimane molto colpito dalle bambine, alle quali scatta
numerose fotografie con una macchina appena acquistata. Comincia intanto
a collaborare alla rivista “The Train”, per la quale adotta per la prima volta
lo pseudonimo di Lewis Carroll.
1862 – In luglio con un amico porta le tre bamibine Liddell a fare una
gita in barca sul Tamigi. In quell’occasione inventa per Alice una storia che
la vede protagonista di un lungo viaggio sotto terra dove incontra creature
molto strane. Alla bambina il racconto orale piace molto, e spinge Carroll a
metterlo per iscritto.
1876 – In marzo esce The Hunting of the Snark, an Agony in Eight Fits
(La caccia allo Snark, un’agonia in otto scene), un poemetto in otto canti
illustrato da Henry Holiday.
1879 – Pubblica il trattato Euclid and his Modern Rivals (Euclide e i suoi
rivali moderni), nel quale sostiene la superiorità del testo euclideo rispetto a
tutti i moderni manuali di geometria.
1887 – Esce The Game of Logic (Il gioco della logica), un libro che
spiega la logica formale in modo divertente e adatto ai bambini.
1896 – Esce Symbolic Logic, Part I (Logica simbolica. Parte I), che
persegue il progetto di rendere accessibile al grande pubblico la logica
formale.
Narrativa
Poesia
1876 – The Hunting of the Snark, an Agony in Eight Fits [La caccia allo
Snark, un’agonia in otto scene]
1898 (postumo) – Three Sunsets and Other Poems [Tre tramonti e altre
poesie]
Traduzioni italiane
Narrativa
Alice nel Paese delle Meraviglie, tr. E. Bossi, Bompiani, Milano 1961; tr.
A. Busi, Mondadori, Milano 1988 (poi Feltrinelli, Milano 1993); tr. E.
Cagli, Studio Tesi, Pordenone 1988.
Poesia
La caccia allo Snark, tr. L. Mazzi, Moby Dick, Faenza 1992; col titolo
La caccia allo snualo, tr. M. Graffi, Studio Tesi, Pordenone 1985 (ried.
1990).
Il poeta inglese Philip Larkin sosteneva che quel che più conta in una
poesia è ciò che non si può tradurre. Lo stesso si potrebbe dire dei libri di
Alice scritti da Lewis Carroll: la loro intraducibilità è garanzia di valore ma
costituisce una sfida a cui molti non hanno saputo resistere. La straordinaria
mistura di eleganza e naturalezza, la costante invenzione lessicale e ritmica,
l’irrefrenabile componente ludica delle sue costruzioni linguistiche hanno
tentato i traduttori di ogni parte del mondo, spesso scrittori in proprio come
Nabokov (sua è una traduzione in russo), ma anche accademici e poeti,
traduttori di professione o semplici dilettanti di talento. Quanto a me,
soltanto un’inspiegabile e temporanea perdita del senno può avermi indotto
a tale faticosa impresa. Ma consiglio ai presenti lettori di cimentarsi al più
presto con l’originale inglese. È un invito a rendersi conto di persona, a
esplorare il meraviglioso spazio liberatorio a cui ci introduce Carroll, uno
spazio diverso dal nostro. Le bizzarrie linguistiche pur esistenti nella nostra
tradizione riguardano soprattutto il pastiche, gli impasti dialettali o
latineggianti – uno spazio franco ma poco frequentato. Il nonsense da noi è
forse più una tradizione musicale, quella dello scherzo e del capriccio.
Altrove la seriosità accademica o il culto della realtà permettono raramente
stravolgimenti nonsensical.
“Sciocchino”, ecco cos’era quel libro per lei. Ma non perdeva una sola
parola, e ogni tanto correggeva la mia pronuncia.
Dedico a Sarah, e a mia figlia Martina – un’altra attenta ascoltatrice
dell’originale inglese – questa traduzione.
Bianca Tarozzi
***
Un po’ come nella partita a scacchi dello Specchio, le mie mosse non
sono state sempre rigorose, e poi chi può dire come è finita? Ma la partita è
stata lunga, emozionante, esaltante, e dal morbo di Carroll, con le sue
croci&delizie e risate sotto i baffi, non credo guarirò mai più.
Margherita Bignardi
LE AVVENTURE DI ALICE
NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
Insieme nel dorato pomeriggio
Senza fretta sull’acqua scivoliamo;
Poiché i remi, con scarsa perizia,
Sono affidati a minuscole braccia;
E a manine che fan finta di guidare
Il nostro languido vagabondare.
In questo non c’era niente che fosse davvero speciale; e Alice non trovò
particolarmente strano il fatto che il Coniglio dicesse a sé stesso, “Povero
me! Povero me! Arriverò in ritardo!” (quando in seguito ci ripensò, le
venne in mente che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma al momento la
cosa le parve del tutto naturale); ma quando il Coniglio arrivò al punto di
tirar fuori un orologio dal taschino del panciotto, e di guardare l’ora, per
poi correr via, Alice balzò in piedi, perché le balenò il pensiero che in vita
sua non aveva mai visto né un coniglio con il taschino del panciotto, né con
un orologio da tirar fuori di lì, e pazza di curiosità, gli corse dietro
attraverso il campo, e arrivò giusto in tempo per vederlo saltare dentro una
grande tana sotto la siepe.
Subito Alice gli andò dietro, senza riflettere un secondo su come poi
avrebbe fatto a uscire di lì.
“Bene!” si disse Alice. “Dopo una caduta come questa, ruzzolare giù per
le scale sarà una vera sciocchezza! A casa tutti penseranno che sono molto
coraggiosa! Non mi sfuggirebbe un lamento nemmeno se cadessi giù dal
tetto!” (E molto probabilmente diceva il vero).
Giù, giù e ancora più giù. Sarebbe mai finita quella caduta? “Chissà per
quante miglia sono precipitata finora!” si disse a voce alta. “Devo essere
arrivata vicino al centro della terra. Vediamo: sarebbe a quattromila miglia
di profondità, credo…” (perché, sappiatelo, Alice aveva imparato parecchie
cose del genere a scuola, e sebbene quello non fosse proprio il momento
ideale per fare sfoggio della sua scienza, anche perché non c’era nessuno
che potesse ascoltarla, ripetere il tutto era pur sempre un buon esercizio)
“… sì, quella è la distanza, più o meno, ma mi chiedo a quale latitudine o
longitudine sono arrivata” (Alice non aveva la più pallida idea di cosa
fossero la latitudine e la longitudine, ma era convinta che fossero bei
paroloni che valeva la pena di usare).
Giù, giù e ancora più giù. Non si poteva far altro, e dunque Alice riprese
a parlare. “Credo che Dinah sentirà molto la mia mancanza questa sera!”
(Dinah era la gatta). “Spero che si ricorderanno della sua scodellina di latte
all’ora del tè. Mia cara Dinah, vorrei che tu fossi qui con me! Ho paura che
non ci siano topi qui a mezz’aria, ma potresti acchiappare un pipistrello, che
non è molto diverso da un topo, o magari una blatta. Chissà se le gatte
mangiano le blatte?”. E qui Alice cominciò a sentire un gran sonno, e
continuò a dire a se stessa, in tono sognante, “Le gatte mangiano le blatte?
Le gatte mangiano le blatte?” e a volte: “Le blatte mangiano le gatte?”
perché, vedete, siccome non era in grado di rispondere a nessuna di queste
domande, il modo in cui le formulava non aveva molta importanza. Sentì
che si appisolava, e aveva appena cominciato a sognare che stava
passeggiando mano nella mano con Dinah, e le diceva con grande serietà:
“Su Dinah, dimmi la verità: hai mai mangiato una blatta?” quando d’un
tratto, paf!, atterrò su un mucchio di rami e foglie secche, e la caduta ebbe
fine.
Alice non si era fatta alcun male e in un attimo balzò in piedi: guardò in
alto, ma era tutto buio; davanti a lei si trovava un altro lungo corridoio, e in
fondo si vedeva ancora il Coniglio Bianco che filava di gran carriera. Non
c’era un minuto da perdere: Alice corse via come il vento e fece appena in
tempo a sentirlo dire, mentre svoltava l’angolo: “Per i miei baffi e per le
mie orecchie, com’è tardi!”. Lo aveva quasi raggiunto ma, svoltato
l’angolo, del Coniglio non c’era più traccia: si trovò in un lungo atrio dal
soffitto basso, illuminato da una fila di lampadari appesi al soffitto.
A ogni lato c’erano delle porte, ma erano tutte chiuse a chiave; e quando
Alice ebbe fatto il giro e le ebbe provate tutte, si mise tristemente a
camminare al centro della sala, chiedendosi come sarebbe mai potuta uscire
di lì.
Alice aprì la porta e vide che dava su un piccolo corridoio, non molto più
largo della tana di un topo: si inginocchiò e scorse oltre il corridoio il più
bel giardino che avesse mai visto. Quanto desiderava uscire da quella sala
buia, e passeggiare tra quelle aiuole di fiori variopinti e quelle fresche
fontane! Ma non riusciva a infilare nella porta neppure la testa; “E anche se
riuscissi a infilarci la testa”. pensò la povera Alice, “non servirebbe a molto
se non ci passano le spalle. Oh, quanto vorrei accorciarmi come un
cannocchiale! Ce la farei, se solo sapessi da che parte cominciare”. Perché,
vedete, ultimamente erano successi fatti così straordinari che Alice aveva
cominciato a pensare che pochissime cose fossero davvero impossibili.
Aspettare accanto alla porticina sembrava del tutto inutile, perciò Alice
ritornò accanto al tavolino, sperando quasi di trovarci un’altra chiave, o se
non altro un libriccino di istruzioni per accorciare le persone così come si fa
con i cannocchiali: questa volta trovò una bottiglietta (“sono sicura che
prima non c’era” si disse Alice) che aveva intorno al collo un’etichetta, con
la scritta “BEVIMI” magnificamente stampata a grandi caratteri.
Poco dopo, vedendo che non succedeva niente, decise di andare subito
nel giardino; ma, povera Alice!, quando arrivò alla porta si accorse di aver
dimenticato la chiavetta d’oro, e quando tornò al tavolo per prenderla,
scoprì che non ci arrivava in nessun modo: la vedeva molto distintamente
attraverso il vetro, e fece del suo meglio per arrampicarsi su una gamba del
tavolo, ma era troppo scivolosa; e quando si fu stancata di provarci, la
poverina si mise a sedere per terra e scoppiò a piangere.
“Sempre più stranissimo!” gridò Alice (era così meravigliata che per un
attimo si dimenticò di parlare secondo le regole della grammatica); “ora mi
sto allungando come il più gran cannocchiale mai esistito! Addio, piedi!”
(perché quando guardò in giù verso i propri piedi, quasi le parve di perderli
di vista, tanto si stavano allontanando). “O poveri piedini miei, mi chiedo
chi mai vi infilerà scarpe e calze ora, miei cari? Io no di sicuro! Sarò
davvero troppo lontana per occuparmi di voi: dovrete arrangiarvi da soli –
ma devo essere gentile con loro,” pensò Alice, “magari non vorranno più
camminare nella direzione scelta da me! Vediamo: gli regalerò un paio di
stivaletti nuovi ogni Natale”.
E continuò a progettare tra sé come avrebbe fatto. “Dovrebbero essere
spediti per posta,” pensò; “questa sì che è bella: mandare regali ai propri
piedi! E come suonerà strano l’indirizzo!
Come fa il coccodrillino
A lustrare il suo codino?
Verserà le acque del Nilo
Sulle scaglie tutte d’oro!
“Sono sicura che queste non sono le parole giuste,” disse la povera Alice,
e gli occhi le si riempirono di lacrime mentre continuava, “devo essere
diventata Mabel, dopo tutto, e mi toccherà andare a vivere in quella
catapecchia, e non avere uno straccio di giocattolo e sempre tutti quei
compiti da fare! No, ho deciso; se sono Mabel preferisco star qui. È inutile
che infilino la testa nella tana e mi vengano a dire: ‘Torna su, carina!’, io
guarderò in alto e dirò ‘Allora chi sono? Prima ditemelo, e poi, se mi va di
essere quella persona, verrò fuori; se non mi va me ne starò qui e sarò
un’altra… ma, oddio!” gridò Alice, scoppiando improvvisamente in
singhiozzi, “vorrei tanto che infilassero la testa nella tana! Sono tanto
stanca di starmene qui tutta sola!”.
Proprio allora sentì qualcosa che sguazzava nell’acqua poco più in là, e si
avvicinò nuotando per capire cosa fosse: dapprima le sembrò un tricheco o
un ippopotamo, ma poi si ricordò di quanto era piccola, e ben presto si rese
conto che si trattava soltanto di un topo scivolato lì dentro come lei.
“Forse non capisce la mia lingua,” pensò Alice. “Oserei dire che è un
topo francese, arrivato qui con Guglielmo il Conquistatore”. (Perché,
nonostante tutte le sue nozioni di storia, ad Alice non era chiaro in quale
epoca fossero accadute tutte quelle cose). Dunque ricominciò: – Où est ma
chatte? – che era la prima frase del suo libro di francese. Il topo fece un
improvviso balzo fuori dall’acqua, e sembrò che tremasse tutto di paura. –
Oh, scusami tanto! – gridò Alice in fretta, temendo di aver offeso il povero
animale. – Avevo dimenticato che a te non piacciono i gatti.
– Chi non ne parlerà più? – gridò il Topo, che tremava fino alla punta
della coda. – Come se fossi io a voler parlare di un simile argomento! La
nostra famiglia ha sempre odiato i gatti: esseri schifosi, abbietti, volgari!
Non voglio più sentirli nominare!
Era davvero una stramba compagnia quella che si era riunita sulla riva: gli
uccelli con le penne inzaccherate, gli animali con il pelo appiccicato e tutti
gocciolanti, arrabbiati e a disagio.
Alla fine il Topo, che tra di loro sembrava la persona più autorevole,
gridò: – Mettetevi tutti quanti a sedere, e ascoltatemi! Vi asciugherò tutti al
più presto, vi seccherò ben bene! – Tutti si sedettero immediatamente,
formando un gran cerchio, col Topo in mezzo. Alice teneva gli occhi fissi su
di lui con una certa ansia, perché era sicura che si sarebbe presa un brutto
raffreddore se non si fosse asciugata al più presto.
– Ehm! – disse il Topo, con aria d’importanza. – Siete tutti pronti? Questa
è la cosa più seccante che conosca. Silenzio voialtri, per favore! “Guglielmo
il Conquistatore, la cui causa era appoggiata dal Papa, ben presto si
sottomise agli inglesi, che volevano dei capi, e si erano di recente abituati
all’usurpazione e alla conquista. Edwin e Morcar, i conti di Marcia e
Nurthumbria…”.
– Più bagnata che mai, – disse Alice in tono afflitto: – Non mi sto affatto
asciugando.
– Quel che stavo per dire, – disse il Dodo in tono offeso, – era che la cosa
migliore per asciugarsi sarebbe una Gara Elettorale.
– Che cos’è una Gara Elettorale? – chiese Alice; non che le importasse
granché saperlo, ma il Dodo si era fermato come se pensasse che qualcuno
avrebbe dovuto parlare e pareva che nessun altro avesse voglia di farlo.
– Ecco, – disse il Dodo, – la cosa migliore per spiegarlo è farla. – (E,
poiché forse vi piacerebbe sperimentare la cosa di persona in una giornata
invernale, vi racconterò quel che fece il Dodo.)
Per prima cosa disegnò il tracciato della gara, in una specie di cerchio,
(“la forma esatta non è importante” disse) e poi tutto il gruppo fu sistemato
lungo il percorso, qua e là. Non ci fu nessun “Uno, due, tre, via”, ma
ciascuno cominciava a correre quando gli pareva, e la smetteva quando
voleva smettere, così che non era facile capire quando finiva la gara.
Tuttavia, dopo che ebbero corso per circa mezz’ora, e furono finalmente
asciutti, il Dodo improvvisamente gridò: – Fine della gara! – Tutti gli si
affollarono intorno ansimando e chiedendo: – Ma chi ha vinto?
Alice non sapeva che pesci pigliare; disperata, si mise la mano in tasca e
ne tirò fuori una scatola di confetti (per fortuna l’acqua salata non vi era
entrata dentro), e li distribuì a tutti come premi. Ce n’era esattamente uno a
testa.
Ad Alice la cosa pareva del tutto assurda, ma tutti gli altri avevano un’aria
così compunta che non osò mettersi a ridere; e, non sapendo cosa dire, fece
semplicemente un inchino e prese il ditale, con l’aria più solenne possibile.
– Ti prego di scusarmi, – disse Alice con grande umiltà: – Sei arrivato alla
quinta curva della coda, non è così?
– Non l’ho fatto apposta! – supplicò la povera Alice. – Certo che ti offendi
molto facilmente.
– Per piacere, torna qui e finisci la tua storia! – gli gridò dietro Alice. E
tutti gli altri si unirono al coro, – Sì, per piacere, torna qui! – Ma il Topo si
limitò a scuotere la testa con impazienza e accellerò il passo.
– Che peccato che non sia voluto restare! – sospirò il Lorichetto non
appena quello fu scomparso, e una vecchia Granchia colse l’occasione per
dire a sua figlia: – Ah, mia cara, che questo ti serva di lezione: non perdere
mai la pazienza! – Sta’ zitta mamma! – disse la Granchietta con una certa
impertinenza. – Tu faresti perdere la pazienza anche a un’ostrica!
– Vorrei che Dinah fosse qui, oh quanto lo vorrei! – disse Alice a voce
alta, senza rivolgersi a nessuno in particolare. – Lei sì che lo riporterebbe
subito indietro!
Alice rispose con sollecitudine, perché era sempre disposta a parlare della
sua bestiola: Dinah è la nostra gatta. Non puoi nemmeno immaginare quanto
sia brava ad acchiappare i topi! Ah, vorrei che tu la vedessi quando corre
dietro agli uccelli! Non fa in tempo a vedere un uccellino che se l’è già
mangiato!
Ben presto il Coniglio si accorse che Alice andava cercando i guanti qua
e là, e la chiamò rabbiosamente: – Ehi, Mary Ann, cosa ci fai qui? Corri a
casa all’istante, e vammi a prendere un paio di guanti e un ventaglio! Su,
sbrigati! – Alice si prese un tale spavento che corse immediatamente nella
direzione indicata senza cercare di spiegargli che si era sbagliato.
“Com’è strano,” disse Alice tra sé, “fare delle commissioni per un
coniglio! Andrà a finire che anche Dinah mi spedirà a far commissioni!” E
cominciò a immaginare come sarebbe andata: “‘Signorina Alice! Venga
immediatamente qui e si prepari a fare la sua passeggiata!’. ‘Vengo subito
tata! Ma devo sorvegliare questa tana di topi finché non torna Dinah, e
impedire che escano.’ Ma non credo,” continuò Alice, “che lascerebbero
entrare Dinah in casa se cominciasse a dar ordini alla gente in quel modo!”.
A questo punto era riuscita a entrare in una stanzetta ordinata, con un
tavolo accanto alla finestra, e sul tavolo (come aveva sperato) un ventaglio
e un paio di piccolissimi guanti bianchi di capretto: prese il ventaglio e un
paio di guanti, e proprio quando stava per uscire dalla stanza, il suo sguardo
si soffermò su una bottiglietta che si trovava accanto allo specchio. Questa
volta non c’era l’etichetta con la scritta “BEVIMI!”; ciò nonostante Alice
tolse il tappo e si portò la bottiglietta alle labbra. “Tutte le volte che mangio
o bevo,” si disse, “succede qualcosa di interessante. Voglio proprio vedere
che effetto mi fa questa bottiglia. Spero molto che mi faccia ridiventare
grande; perché sono davvero stufa di essere così minuscola!”.
“Ma poi,” pensò Alice, “diventerò più vecchia di così? Sarebbe una
consolazione, in un certo senso… non diventare mai vecchia… ma però
dover sempre studiare le lezioni! No, non mi piacerebbe!”.
“Sei proprio una sciocca, Alice!” rispose poi a se stessa, “Come puoi
studiare qui dentro? Quasi non c’è posto per te, figurarsi poi per i libri di
scuola!”.
“Questo poi no!” pensò Alice, e dopo aver aspettato finché non le parve
di sentire il Coniglio proprio sotto la finestra, improvvisamente aprì la
mano e la richiuse di scatto. Non afferrò niente, ma sentì un gridolino e un
tonfo, e il rumore di vetri rotti, dal che concluse che forse il Coniglio era
caduto in una serra per cetrioli o qualcosa di simile.
Poi si sentì una voce irritata, quella del Coniglio: – Pat! Pat! Dove sei? –
E poi una voce che Alice non aveva mai sentito prima: – Sono qui! Sono
qui! Sto scavando in cerca di mele, vostro onore!
– Un braccio, scimunito che sei! Ne hai mai visto uno così grosso? Ti
dico che riempie tutta la finestra!
– Fa’ come ti dico, fifone! – Alla fine Alice aprì di nuovo la mano e fece
ancora il gesto di chi afferra qualcosa. Questa volta si sentirono due
gridolini, e rumore di altri vetri rotti. “Ma quante serre per cetrioli hanno?”
pensò Alice. “Voglio vedere cosa combinano adesso! E quanto a tirarmi
fuori dalla finestra, vorrei davvero che ci riuscissero! Di certo io qui non ci
resto!”.
Aspettò un poco senza che si sentisse altro: alla fine ci fu uno sferragliare
di ruote di carro, e una quantità di voci che parlavano tutte insieme: riuscì a
capire le parole: – ‘Dov’è l’altra scala?’. ‘Ah, io ne dovevo portare una
sola; l’altra ce l’ha Bill’. ‘Bill! Ehi tu, portala qui!’. ‘Qui, appoggiatela a
quest’angolo’. ‘No, prima legatele insieme’ ‘Non sono abbastanza alte’.
‘Macché, vanno benissimo, poche storie’.
– ‘Ecco, Bill! Prendi questa corda’ ‘Il tetto reggerà?’ ‘Attento a quella
tegola rotta’ ‘Ehi, sta cadendo! Occhio alla testa! – (un gran tonfo).
– ‘Allora, chi era?’. ‘Mi sa che era Bill’ ‘Chi scende giù per la cappa?’.
– ‘Deve andarci Bill’. ‘Ehi, Bill! Il padrone dice che devi scendere tu per
la cappa del camino!’.
“Ah! È così? Tocca a Bill scendere giù per la cappa del camino?” disse
Alice tra sé. “Insomma, pare che facciano fare tutto a Bill! Non vorrei
essere al posto di Bill per niente al mondo: certo che la cappa è stretta; ma
un calcio posso sempre darglielo!”.
Infilò più su che poté il piede per il camino, e aspettò finché non sentì un
animaletto (non riusciva a indovinare di che specie fosse) che grattava e si
dimenava dentro la canna sopra di lei: poi, dicendo tra sé “Questo è Bill”,
sferrò un gran calcio e aspettò di vedere cosa sarebbe successo.
La prima cosa che sentì fu un coro generale di: – Ecco Bill! – Poi
soltanto la voce del Coniglio: – Prendetelo al volo, lì vicino alla siepe! – poi
silenzio e un altro vociare indistinto. – ‘Sollevagli la testa’. ‘Dagli del
brandy’. ‘Vacci piano! Lo soffochi!’. ‘Com’è andata, vecchio mio? Cosa ti è
successo? Dicci tutto!’.
Alla fine si sentì una vocina flebile, stridula, (“Questo è Bill”, pensò
Alice) – Mah, non so proprio – Basta, grazie; sto meglio ora – sono troppo
agitato per poter parlare – tutto quel che so è che qualcosa mi è venuto
addosso come un fantoccio a molla e sono saltato in aria come un razzo!
Subito si fece un silenzio di tomba, e Alice pensò tra sé, “Chissà cosa
faranno adesso! Se hanno un briciolo di cervello scoperchieranno il
soffitto”. Dopo un minuto o due quelli ricominciarono a muoversi, e Alice
sentì che il Coniglio diceva: – Una carriola piena basterà, tanto per
cominciare.
“La prima cosa da fare,” si disse Alice mentre camminava per il bosco,
“è ridiventare della mia solita statura; e la seconda è ritrovare la strada per
quel leggiadro giardino. Mi sembra un ottimo piano”.
Sembrava un piano eccellente, senza dubbio, e predisposto con ordine e
semplicità, il solo inconveniente era che Alice non aveva la minima idea di
come eseguirlo; mentre stava scrutando ansiosamente gli alberi, un brusco
abbaiare proprio sopra la sua testa la spinse ad alzare in gran fretta lo
sguardo.
Senza quasi sapere quel che faceva, raccolse uno stecco e lo porse al
cucciolo; al che il cucciolo fece un salto per aria con tutte e quattro le
zampe, con un guaito di gioia, e corse dietro allo stecco come se volesse
addentarlo; poi Alice si riparò dietro un gran cardo, per non finire
schiacciata, e non appena si fece vedere dall’altra parte, il cucciolo fece
un’altra corsa verso lo stecco, e ruzzolò a testa in giù nella gran fretta di
acchiapparlo; poi Alice, pensando che era come giocare con un cavallo da
tiro, e temendo di finire sotto le zampe del cucciolo da un momento
all’altro, corse di nuovo dietro al cardo; allora il cucciolo cominciò una
serie di attacchi allo stecco, correndo ogni volta un poco in avanti e
arretrando poi di parecchio, abbaiando sempre raucamente, finché alla fine
si accucciò a una buona distanza, ansimando, con la lingua penzoloni, e i
grandi occhi socchiusi.
Il gran problema era per l’appunto, che cosa? Alice guardò bene tutto
intorno tra i fiori e i fili d’erba, ma non vide niente che si potesse mangiare
o bere e che fosse adatto all’occasione. C’era un grosso fungo lì accanto a
lei, all’incirca della sua stessa altezza; e, dopo aver ben guardato sotto il
fungo, da un lato, dall’altro, e di dietro, le venne in mente che poteva ben
guardare anche cosa ci fosse sopra.
Si alzò in punta di piedi, e sbirciò sopra l’orlo del fungo, e i suoi occhi
incontrarono immediatamente quelli di un grande bruco blu, che se ne stava
seduto là in cima con le braccia incrociate, fumando tranquillamente un
lungo narghilè, senza degnare né lei né qualsiasi altra cosa della minima
attenzione.
Capitolo V
I consigli di un Bruco
– Può darsi che lei sia diverso da me, – disse Alice; – quel che so è che io
mi sentirei molto strana.
– Tu! – disse sdegnoso il Bruco. – Ma chi sei tu?
Alice pensò che tanto valeva aspettare, visto che non aveva niente da
fare, e forse magari il Bruco avrebbe potuto dirle qualcosa che valeva la
pena di sentire. Per qualche minuto quello soffiò nuvolette di fumo senza
parlare, ma alla fine allargò le braccia, si tolse di nuovo il narghilè di bocca,
e disse: – E così, tu pensi davvero di essere cambiata?
– Temo proprio di sì, signore, – disse Alice; – non ricordo le cose come
prima… e continuo a cambiare di statura ogni dieci minuti!
– Oh, non sono schizzinosa riguardo alla statura – rispose in fretta Alice.
– Solo che non mi piace cambiare tanto spesso, ecco.
Alice non disse niente: in tutta la sua vita non le era mai successo di
essere tanto contraddetta, e sentiva che stava per perdere la pazienza.
“Un lato di cosa? L’altro lato di cosa?” pensò Alice tra sé.
– Del fungo, – disse il Bruco, proprio come se Alice avesse parlato a
voce alta; e un attimo dopo era scomparso.
“Ma ora come faccio a sapere quale dei due mi occorre?” disse tra sé, e
sgranocchiò qualcosa dal pezzetto della mano destra per provarne l’effetto:
un momento dopo sentì un colpo violentissimo al mento; aveva sbattuto
contro il piede!
***
“Cosa sarà mai tutta quella roba verde?” si chiese Alice. “E dove sono
finite le mie spalle? E aiuto, mie povere mani, com’è che non vi vedo?”. Le
stava muovendo mentre parlava, ma senza risultato, salvo un lieve agitarsi
delle foglie verdi laggiù in basso.
Poiché non sembrava ci fosse modo di far arrivare le mani fino alla testa,
tentò di abbassare la testa fino alle mani e fu ben felice di scoprire che
poteva facilmente piegare il collo in ogni direzione, come un serpente. Era
appena riuscita a curvarlo in un aggraziato zig-zag e stava per fargli fare un
tuffo tra le foglie, che scoprì non esser altro che le cime degli alberi sotto i
quali aveva vagato, quando un sibilo acuto le fece fare rapidamente un
balzo all’indietro: un grosso piccione le era volato in faccia e le stava
sbattendo addosso le ali.
Alice era sempre più stupita, ma pensò che fosse inutile dire altro fino a
che il Piccione non avesse finito.
– Certo che ho assaggiato delle uova, – disse Alice, che era una bambina
molto sincera; – ma le bambine mangiano le uova così come le mangiano i
serpenti, si sa.
Quest’ idea le risultò talmente nuova, che Alice restò in silenzio per un
minuto o due, il che diede al Piccione il modo di aggiungere: – So
benissimo che stai cercando delle uova; e cosa vuoi che m’importi se sei
una bambina o un serpente?
Al che Alice rise tanto che dovette tornare di corsa nel bosco per non
farsi sentire; e quando fece di nuovo capolino, il Valletto-Pesce se ne era
andato, e l’altro era seduto per terra vicino alla porta e fissava il cielo con
aria imbambolata.
– Allora, per piacere – chiese Alice, – può dirmi come faccio a entrare?
Lo era, senza dubbio: solo che Alice non voleva sentirselo dire. “È
veramente tremenda,” mormorò tra sé, “la voglia di discutere che hanno
tutte queste creature. Ce n’è abbastanza per far impazzire chiunque!”.
– Uffa, è del tutto inutile parlare con lui, – disse Alice disperata; – è un
perfetto idiota! – Aprì la porta ed entrò.
Disse quest’ultima parola con una tale improvvisa violenza che Alice
ebbe un soprassalto; ma vide subito che essa era rivolta al bebè, e non a lei,
e quindi si fece coraggio e continuò:
– Non sapevo che i gatti del Cheshire sorridessero sempre; in effetti non
sapevo che i gatti potessero sorridere.
– Ci sono molte cose che non sai, – disse la Duchessa; – questo è certo.
CORO.
CORO,
– Ma qui non se ne può fare a meno, – disse il gatto: – siamo tutti matti.
Io sono matto. Tu sei matta.
– Devi esserlo per forza, – disse il Gatto, – altrimenti non saresti venuta
qui.
Alice pensò che quella non era affatto una prova; tuttavia continuò:
– Tanto per cominciare, – disse il Gatto, – un cane non può essere matto.
Su questo sei d’accordo?
Alice non se ne meravigliò molto, si stava abituando alle cose più strane.
Mentre fissava ancora il punto in cui era scomparso, quello comparve di
nuovo.
“Di gatti senza sorriso ne ho visti parecchi,” pensò Alice; “ma un sorriso
senza gatto è la cosa più curiosa che mi sia mai capitata di vedere!”.
Non aveva fatto molta strada quando vide la casa della Lepre Marzolina:
pensò che fosse la casa di destra, perché aveva i comignoli a forma di
orecchie e il tetto era ricoperto di pelliccia invece che di paglia. Era una
casa così grande, che non volle avvicinarsi senza aver prima sboconcellato
un altro pezzetto del fungo di sinistra, alzandosi così a un’altezza di circa
sessanta centimetri: ma anche così si avvicinò alla casa con una certa
soggezione, dicendo a se stessa, “E se fosse pazza furiosa? Quasi quasi
vorrei essere andata dal Cappellaio!”.
Capitolo VII
Un tè con i matti
Alice si guardò intorno, ma sul tavolo non c’era che tè. – Di vino non ne
vedo, – osservò.
– E allora non è stato molto cortese da parte vostra offrirlo, – disse Alice
indignata.
– Non è stato molto cortese da parte tua metterti a sedere senza essere
stata invitata, – disse la Lepre Marzolina.
Il Cappellaio spalancò gli occhi nel sentire queste parole ma tutto quel
che disse fu: – Che cos’hanno in comune un corvo e una scrivania?
Alice lo aveva guardato di sottecchi con una certa curiosità. – Che buffo
orologio! – osservò. – Segna il giorno del mese e non segna le ore!
Il Ghiro scosse la testa con impazienza, e disse senza aprire gli occhi, –
Naturalmente, naturalmente; proprio quel che stavo per dire anch’io.
– Forse non gli ho mai parlato, – rispose Alice con una certa cautela: –
ma so di dover battere il tempo quando studio musica.
Alice ebbe un’idea brillante: – È per questo che qui ci sono tanti servizi
da tè? – chiese.
Il Ghiro aprì lentamente gli occhi. – Non stavo dormendo, – disse con
una voce roca e flebile. – Ho sentito tutto quello che avete detto, parola per
parola.
– C’erano una volta tre sorelline, – cominciò in gran fretta il Ghiro; – che
si chiamavano Elsie, Lacie e Tillie; e che vivevano in fondo a un pozzo.
Alice non sapeva cosa replicare: dunque si versò un poco di tè e prese del
pane e burro, poi si rivolse al Ghiro e ripeté la sua domanda: – Perché
abitavano in fondo al pozzo?
Il Ghiro ancora una volta si concesse un minuto o due per pensare alla
risposta e poi disse: – Era un pozzo di melassa.
– Ora che me lo chiedi, – disse Alice nella più grande confusione, – non
credo di…
– In ogni caso là non ci torno! – disse Alice infilando la strada del bosco.
– In tutta la mia vita non ho mai preso il tè in compagnia di gente più
stupida!
Proprio mentre lo diceva, si accorse che uno degli alberi aveva una
porticina in mezzo al tronco. “Che stranezza!” pensò. “Ma oggi è tutto così
strano. Tanto vale entrarci subito”. Ed entrò.
Ancora una volta si trovò nella lunga sala, accanto al tavolino di vetro.
“Questa volta me la caverò meglio”, disse tra sé, e presa la chiavetta d’oro,
aprì la porta che dava sul giardino. Poi si mise al lavoro e mordicchiò il
fungo (ne aveva conservato un pezzetto in tasca) finché non fu alta
all’incirca trenta centimetri: poi attraversò il breve corridoio e poi… si
ritrovò finalmente in quel bellissimo giardino, tra le aiuole variopinte e le
fresche fontane.
Capitolo VIII
Il croquet della Regina
Al che Sette guardò in alto e disse, – Bravo, Cinque! Da’ pur sempre la
colpa agli altri!
– Senti chi parla! – disse Cinque. – Giusto ieri ho sentito la Regina dire
che ti dovrebbero tagliare la testa!
– Sì che sono affari suoi! – disse Cinque. – E glielo voglio dire io… è
perché ha portato alla cuoca, invece delle cipolle, dei bulbi di tulipano.
I soldati non aprirono bocca e guardarono Alice, dato che la domanda era
evidentemente rivolta a lei.
– Che… che bella giornata! – disse una timida voce al suo fianco. Stava
camminando vicino al Coniglio Bianco che la guardava ansiosamente di
sottecchi.
– Che ha fatto?
– No, per niente, – disse Alice. – Non penso che sia un peccato, ho detto
“Che ha fatto?”.
Alice cominciò a sentirsi molto a disagio: certo non aveva ancora avuto
una discussione con la Regina, ma la cosa poteva succedere da un momento
all’altro, “e allora,” pensava, “cosa mi succederà? A questi signori piace da
pazzi decapitare la gente; mi meraviglio che ci siano ancora tante teste in
giro!”.
– Come ti va? – chiese il Gatto, non appena ebbe abbastanza bocca per
parlare.
Alice aspettò che apparissero gli occhi, e poi gli fece un cenno col capo.
“È inutile parlargli, – pensò, fino a che non compaiono le orecchie, o
almeno una delle orecchie”. Dopo un altro minuto comparve tutta la testa, e
allora Alice posò a terra il fenicottero e, molto contenta di avere qualcuno
che l’ascoltava, cominciò a fare un resoconto della partita. Il Gatto
sembrava pensare di essersi fatto vedere a sufficienza, e non mostrò altre
parti di sé.
– Non credo che giochino in modo leale, – cominciò Alice, in tono
alquanto lamentoso – e litigano sbraitando a tal punto che non si sente
nemmeno la propria voce… e sembra che non seguano nessuna regola; o
almeno, se anche ci sono delle regole, nessuno le osserva… e non hai idea
di come sia complicato dato che tutte le cose sono vive: per esempio,
l’archetto a cui dovrei mirare si sposta dall’altra parte del campo… e
proprio adesso avrei dovuto colpire il porcospino della Regina, ma quello è
scappato quando ha visto arrivare il mio!
– Un gatto può ben guardare un Re, – disse Alice. – L’ho letto in un libro
ma non ricordo quale.
Alice pensò che tanto valeva ritornare a vedere come stava andando la
partita perché sentiva in lontananza la voce infuriata della Regina. L’aveva
già sentita condannare a morte tre giocatori che avevano perso il loro turno,
e non le piaceva affatto come si stavano mettendo le cose; la partita era in
un tale stato di confusione che lei non sapeva mai se era il suo turno o no.
Perciò andò in cerca del suo porcospino.
La tesi del boia era che non si poteva tagliare la testa se non c’era un
corpo da cui tagliarla: che non aveva mai dovuto fare una cosa simile prima
di allora, e che non avrebbe cominciato proprio adesso, alla sua età.
La tesi del Re era che se una testa c’è, la si può anche tagliare, e senza
tante storie.
La tesi della Regina era che se non si faceva qualcosa più che subito, lei
avrebbe condannato tutti a morte, nessuno escluso. (Era stata quest’ultima
osservazione a rendere gli astanti così seri e ansiosi).
Alice era molto contenta di trovarla di umore così gradevole, e pensò tra
sé che forse era stato soltanto il pepe a renderla così feroce quando si erano
incontrate in cucina.
“Quando sarò Duchessa io” – disse tra sé (non che ci sperasse molto),
non voglio avere nemmeno un granello di pepe nella mia cucina. La
minestra è buonissima anche senza pepe…” – Forse è proprio il pepe a
rendere nervose le persone, – continuò, molto soddisfatta di aver scoperto
una nuova teoria, – e l’aceto le rende acide… e… la camomilla le rende
amare… e lo zucchero d’orzo e altre cose simili tengono tranquilli i
bambini. Peccato che gli adulti non lo sappiano: non sarebbero così avari di
zucchero.
Ad Alice non piaceva che le stesse così vicina: primo perché la Duchessa
era molto brutta; e secondo perché la sua altezza era tale che il suo mento
poggiava esattamente sulla spalla di Alice, ed era un mento scomodo e
aguzzo. Ad Alice tuttavia non piaceva essere sgarbata, perciò sopportò la
cosa meglio che poté. – Sembra che la partita stia andando meglio ora, –
disse.
– C’è chi sostiene, – sussurrò Alice, – che il mondo gira se ciascuno bada
agli affari suoi!
– Forse ti stai chiedendo perché non ti metto il braccio intorno alla vita, –
disse la Duchessa dopo una pausa: – la ragione è che ho dei dubbi riguardo
all’umore del tuo fenicottero. Debbo fare l’esperimento?
– Giusto, anche questo, – disse la Duchessa: – che bel modo chiaro hai di
dire le cose! –
“Un regalo che non costa molto!” pensò Alice. “Per fortuna non mi fanno
di questi regali per il mio compleanno!”. Ma non si arrischiò a dirlo a voce
alta.
– No, – disse Alice. – Non so nemmeno cosa sia una Finta Tartaruga.
Così andarono dalla Finta Tartaruga, che li guardò con i suoi grandi occhi
lacrimosi, ma non disse niente.
Così si sedettero, e nessuno disse niente per qualche minuto. Alice pensò
tra sé, “Non vedo come questa storia potrà mai finire, se non la comincia”.
Ma restò pazientemente in attesa.
– Sta’ zitta! – aggiunse il Grifone, prima che Alice potesse dire un’altra
parola. La Finta Tartaruga continuò:
– Anch’io sono stata a scuola simile, – disse Alice; – non c’è bisogno di
darsi tante arie.
– Con gli extra? – chiese la Finta Tartaruga con una certa ansia.
– Ah! Allora la tua non era veramente una buona scuola, – disse la Finta
Tartaruga con grande sollievo. – Invece nella nostra, alla fine del conto
c’era scritto, “Francese, musica e bucato – extra”.
– Sì, – disse Alice con aria dubbiosa: – vuol dire… rendere… più bella…
una cosa.
– Be’, non posso fartelo vedere, – disse la Finta Tartaruga. – Sono troppo
rigida. E il Grifone non l’ha mai imparato.
– Non avevo tempo, – disse il grifone; – però sono andato dal maestro di
Materie Classiche. Quello sì che era un vecchio granchio…
Quest’idea le risultò del tutto nuova e Alice rifletté un poco prima di fare
un’altra osservazione: – Allora l’undicesimo giorno era vacanza?
– Scarpe e stivali laggiù di cosa sono fatti? – chiese Alice con grande
curiosità.
– Voglio dire quel che dico, – rispose la Finta Tartaruga in tono offeso. E
il Grifone aggiunse: – Su, sentiamo qualcuna delle tue avventure.
Alice non disse niente; si era seduta con il viso tra le mani, chiedendosi
se le cose sarebbero mai ritornate a essere nel solito modo.
Alice non osò disubbidire, benché fosse sicura che le pa-role non
sarebbero state quelle giuste, e continuò con voce tremante:
Alice non era mai stata in un tribunale, ma aveva letto qualcosa in merito
nei libri e fu molto soddisfatta di vedere che conosceva i nomi di quasi tutte
le cose che vi si trovavano. “Quello è il giudice,” disse tra sé e sé, “lo
riconosco da quella gran parrucca”.
Alice vide chiaramente, come se si trovasse alle loro spalle, che tutti i
giurati stavano scrivendo “Che stupidi!” sulle loro lavagnette e riuscì a
vedere che uno di loro non sapeva come si scrive “stupido” e che doveva
rivolgersi al vicino perché glielo dicesse. “Saranno piene di scarabocchi
quelle lavagne, prima che finisca il processo!” pensò Alice.
Uno dei giurati aveva un gessetto che strideva. Ovviamente quel rumore
era insopportabile: perciò Alice fece il giro dell’aula, gli si mise alle spalle
e ben presto trovò il modo di prendergli il gessetto. Lo fece così in fretta
che il povero piccolo giurato (era Bill, il Lucertolino) non riuscì a capire
cosa fosse successo; così, dopo averlo cercato dappertutto, fu costretto a
scrivere con un dito per il resto della giornata; e la cosa era di scarsa utilità,
perché il dito non lasciava segni sulla lavagna.
Al che il Coniglio Bianco diede fiato alla tromba facendone uscire tre
squilli, poi dispiegò la pergamena, e lesse quel che segue:
Proprio in quel momento Alice sentì una strana sensazione, che la rese
molto perplessa fino a che non comprese di cosa si trattava: stava
ricominciando a diventare grande, e sulle prime pensò di alzarsi e di uscire
dall’aula; ma ripensandoci decise di restare dov’era fino a che ci fosse stato
posto per lei.
– Non posso farci niente, – disse Alice in tono assai mite: – sto
crescendo.
Durante tutto questo tempo la Regina non aveva mai smesso di fissare il
Cappellaio e, proprio mentre il Ghiro attraversava l’aula, disse a uno degli
usceri del tribunale: – Portami la lista dei cantanti dell’ultimo concerto! –
Al che il malcapitato Cappellaio si mise a tremare a tal punto che perse
tutt’e due le scarpe.
– Se questo è tutto quello che sai in merito, puoi metterti giù, – continuò
il Re.
– Non posso andare più giù di così, – disse il Cappellaio: – Sono già a
terra.
– Puoi andare, – disse il Re; e il Cappellaio lasciò in gran fretta l’aula del
tribunale, senza nemmeno fermarsi a rimettersi le scarpe.
– No – disse la cuoca.
Il Re guardò ansiosamente il Coniglio Bianco, che disse a bassa voce: –
Sua Maestà deve sottoporre questa teste al contro interrogatorio.
Alice guardò il banco della giuria, e vide che, nella fretta, aveva messo il
Lucertolino a testa in giù: il poverino muoveva maliconicamente la coda
qua e là, ed era del tutto incapace di muoversi.
Lo tirò subito fuori di nuovo e lo mise a posto. “Non che questo cambi
gran che le cose”, disse tra sé; “credo che la sua utilità per il processo sia
più o meno la stessa, in un modo o nell’altro”.
– Bene, in ogni caso non me ne andrò, – disse Alice. – Inoltre questa non
è una vera legge: te la sei inventata ora.
– Deve’essere così, – disse il Re, – a meno che non sia stata scritta a
nessuno, il che solitamente non succede.
– Se così piace a Sua Maestà, – disse il Fante, – non l’ho scritta io, e non
potranno dimostrare che l’ho scritta io: non c’è nessuna firma alla fine.
Tutti i giurati scrissero sulle lavagne, “Non crede che ci sia un minimo di
senso in quei versi”, ma nessuno di loro tentò di spiegarli.
– Allora non si riferisce a te – disse il Re, guardando uno per uno i giurati
con un sorriso. Ci fu un silenzio di gelo.
– Aria fritta e stupidaggini! – disse Alice a voce alta. – Che idea, voler
cominciare dalla sentenza!
Restò dunque seduta con gli occhi chiusi, quasi credendo davvero al
Paese delle Meraviglie, sebbene sapesse che le sarebbe bastato riaprire gli
occhi, e tutto sarebbe ritornato com’era nella noiosa realtà: l’erba che
semplicente frusciava al vento, lo stagno che si increspava all’ondeggiare
delle canne; il tintinnìo delle tazze sarebbe diventato il richiamo delle
campanelle delle pecore e gli strilli acuti della Regina la voce del pastorello,
e lo sternutire del bambino, il grido del Grifone, e tutti gli altri bizzarri
rumori si sarebbero mutati (lo sapeva) nel confuso frastuono dell’aia,
mentre in distanza i muggiti della mandria avrebbero sostituito i forti
singhiozzi della Finta Tartaruga.
Infine, immaginò che la sua sorellina, col tempo, sarebbe diventata una
donna capace di serbare, negli anni più maturi, il cuore semplice e
affettuoso della sua passata infanzia; una donna che avrebbe riunito intorno
a sé altri bambini facendo brillare di curiosità i loro occhi con molti strani
racconti e forse anche con il sogno del Paese delle Meraviglie di tanto
tempo prima, e avrebbe condiviso i loro semplici dispiaceri, e goduto delle
loro semplici gioie, nel ricordo della sua infanzia e di quei felici giorni
d’estate.
ATTRAVERSO LO SPECCHIO
(E COSA ALICE CI TROVÒ)
Bimba dal ciglio terso senza affanni,
E occhi tondi incantati, sognanti!
Sebbene il tempo fugga e tanti anni,
Mezza vita, ci facciano distanti,
Il tuo amoroso sorriso accoglierà
La fiaba dono d’amore che verrà.
2. Alice attraversa il III scacco della R. (in ferrovia) p.192 e passa nel IV
(Tweedledee e Tweedledum) p.206
Natale 1896
Lewis Carroll
Capitolo I
La Casa dello Specchio
Una cosa era sicura, che la gattina bianca non c’entrava proprio – era
tutta colpa della gattina nera. Perché nell’ultimo quarto d’ora la gattina
bianca era stata impegnata a farsi lavare il muso dalla vecchia gatta
(sopportando la cosa piuttosto bene, tutto sommato): perciò vedete bene che
non avrebbe potuto avere alcuna parte nella birichinata. Il modo in cui
Dinah lavava il muso alle sue creature era questo: prima teneva giù per
l’orecchio la povera bestiola con una zampa, poi con l’altra le strigliava il
muso da cima a fondo, contropelo, incominciando dal naso; e proprio ora,
come ho detto, era intenta a lavorare energicamente sulla gattina bianca, che
stava distesa quasi immobile e cercava di fare le fusa – sentendo senza
dubbio che tutto ciò era fatto per il suo bene.
– Sai, ero così arrabbiata, Kitty, – riprese Alice, non appena si furono
rimesse comode, – quando ho visto il disastro che mi hai combinato. C’è
mancato poco che aprissi la finestra e ti mettessi fuori nella neve! E te lo
saresti meritato, adorabile monella! Cos’hai da dire in tua difesa? Ora non
interrompermi! – continuò, alzando un dito. – Ti farò l’elenco delle tue
colpe. Numero uno: hai squittito due volte mentre Dinah ti lavava il muso
stamattina. Questo non puoi negarlo, Kitty, ti ho sentito! Come dici? –
(fingendo che la micina stesse parlando). – Ti è finita la sua zampa
nell’occhio? Be’, colpa tua, perché tenevi gli occhi aperti… se li avessi
chiusi bene, non sarebbe successo. Adesso non inventare altre scuse, ascolta
invece! Numero due: hai tirato via Bucaneve per la coda appena le avevo
posato davanti il piattino col latte! Cosa, avevi sete? Come sai che non ne
aveva anche lei? E infine, la numero tre: hai disfatto completamente il
gomitolo mentre non guardavo!
– Fa tre colpe, Kitty, e ancora non sei stata punita per nessuna. Lo sai che
sto tenendo da parte tutte le tue punizioni per mercoledì prossimo …
Supponi che loro abbiano tenuto da parte tutte le mie punizioni, – continuò,
rivolta più a se stessa che al gatto. – Cosa farebbero, loro, in capo a un
anno? Finirei in prigione, suppongo, quando arrivasse quel giorno. Oppure
– vediamo – supponiamo che il castigo fosse di andare a letto senza cena:
quindi, in quell’infelice giorno, io dovrei saltare cinquanta pasti in un colpo
solo! Beh, questo non dovrebbe importarmi molto! Preferirei di sicuro farne
a meno che mangiarli!
– La senti la neve contro i vetri della finestra, Kitty? Che bel suono, così
delicato! Proprio come se qualcuno, da fuori, stesse coprendo di baci la
finestra. Mi domando se la neve ama gli alberi e i campi, dato che li bacia
così dolcemente! E poi li mette a nanna, sai, sotto una trapunta bianca, e
forse dice “Dormite, tesorini, finché torna l’estate”. E quando si svegliano
in estate, Kitty, si vestono tutti di verde, e danzano – ogni volta che soffia il
vento – oh, è bellissimo! – gridò Alice, facendo cadere la palla di lana per
battere le mani. – E vorrei tanto che fosse vero! Sono sicura che i boschi
hanno l’aria assonnata in autunno, quando le foglie diventano marroni.
– Kitty, sai giocare a scacchi? Su, non sorridere, mia cara, te lo sto
chiedendo seriamente. Perché, quando giocavamo poco fa, guardavi come
se capissi: e quando ho detto “Scacco!”, hai fatto le fusa! Bene, era proprio
un bello scacco, sì, Kitty, e avrei potuto vincere sul serio, se non fosse stato
per quell’odioso Cavaliere, che è riuscito sgusciare in mezzo ai miei pezzi.
Kitty, cara, facciamo finta che… – e qui vorrei potervi dire metà delle cose
che Alice era solita dire, cominciando con la sua locuzione preferita
“Facciamo finta”. Aveva avuto una discussione piuttosto lunga con sua
sorella proprio il giorno prima – tutto perché Alice aveva cominciato con
“Facciamo finta di essere i re e le regine”; e sua sorella, che ci teneva a
essere precisa, aveva obiettato che non potevano, perché erano solo in due,
e alla fine Alice si era ridotta a dire: – E va bene, allora tu puoi fare uno di
loro, e io farò tutti gli altri. – E una volta aveva spaventato veramente la sua
vecchia tata gridandole nell’orecchio all’improvviso; – Facciamo finta che
io sia una iena affamata, e tu un osso!
Poi incominciò a guardarsi in giro, e notò che ciò che si vedeva dalla
vecchia stanza era del tutto comune e privo d’interesse, mentre il resto era
quanto di più diverso si possa immaginare. Per esempio, i quadri sulla
parete vicino al focolare sembravano animati e lo stesso orologio sulla
mensola del camino (nello Specchio si può vederne solo il dorso) aveva la
faccia di un vecchietto, e le sorrideva.
C’era un libro posato sul tavolo lì vicino, e mentre Alice stava seduta
tenendo d’occhio il Re Bianco (perché era sempre un po’ in ansia per lui, e
aveva l’inchiostro pronto per versarglielo addosso, in caso svenisse di
nuovo), sfogliava le pagine per trovare una parte che riuscisse a leggere,
“perché è tutto scritto in una lingua che non conosco,” disse tra sé e sé.
Era così.
Blablambulante
“Vedrei il giardino molto meglio,” disse Alice tra sé, “se potessi arrivare
in cima a quella collina; ed ecco qui un sentiero che porta dritto lassù –
anzi, no, dritto proprio no”. – (dopo aver percorso alcuni metri sul sentiero
e fatto parecchie curve a gomito) – “ma suppongo che alla fine mi ci
porterà. Ma come s’attorciglia bizzarramente! Somiglia più a un
cavaturaccioli che a un sentiero! Be’, questa curva va alla collina, suppongo
– no, invece! Questa riporta dritta alla casa! Beh, allora proverò nell’altra
direzione”.
– Non se ne parla proprio, – disse Alice, levando gli occhi sulla casa e
fingendo di discutere con lei. – Io non ci torno ancora. So che dovrei
riattraversare lo Specchio – ritornare nella vecchia stanza – e sarebbe la fine
di tutte le mie avventure!
Così, girando le spalle risolutamente alla casa, ripartì ancora una volta
per il sentiero, decisa ad andare sempre dritta finché non fosse arrivata alla
collina. Per qualche minuto tutto andò bene, e stava proprio dicendo
“Questa volta sì che ce la faccio”, quando il sentiero ebbe un improvviso
contorcimento e diede uno scrollone (come descrisse la cosa in seguito), e
un attimo dopo Alice si ritrovò effettivamente alla porta, nell’atto di entrare.
– Oh, questo è troppo! – gridò. – Non ho mai visto una casa starti sempre
tra i piedi in questo modo! Mai!
Tuttavia la collina era sempre là in piena vista, perciò non c’era altro da
fare che ricominciare. Questa volta s’imbatté in una grande aiuola, con una
bordura di margherite, e un possente albero esotico nel mezzo.
– Non sta bene che siamo noi a incominciare, sai, – disse la Rosa, – e io
mi stavo proprio chiedendo quando avresti parlato! Mi sono detta: “La sua
faccia denota un certo buonsenso, anche se non è proprio una cima!”. Però,
hai il colore giusto, e questo è molto importante.
– Com’è che sapete parlare così bene? – chiese Alice, sperando di fargli
cambiare umore con un complimento. – Sono stata in molti giardini, ma in
nessuno di quelli che ho visto i fiori erano capaci di parlare.
– Non ho mai visto nessuno con una faccia più stupida, – disse una
Violetta, così all’improvviso che Alice trasalì; perché finora quella non
aveva aperto bocca.
– Sta’ zitta, tu! – gridò il Giglio Tigrino. – Come se tu avessi mai visto
qualcuno! Tieni la testa sotto le foglie, e passi la vita lì a ronfare, e di quello
che succede nel mondo non ne sai più di un germoglio!
– C’è solo un altro fiore nel giardino che può muoversi e andare in giro
come te – disse la Rosa. – Mi domando come fate… – (“Ti domandi sempre
qualcosa”, interruppe il Giglio Tigrino) – ma lei è più cespugliosa di te.
– Be’, ha la stessa figura goffa che hai tu, – disse la Rosa; – ma è più
rossa… e i suoi petali sono più corti, direi.
– Li porta raccolti fitti fitti, come una dalia – disse il Giglio Tigrino: –
non sparsi e ciondolanti come i tuoi.
Ad Alice questa idea non garbava affatto; così, per cambiare argomento,
domandò: – Viene mai, qui?
– Da dove vieni? – chiese la Regina Rossa. – E dove vai? Alza gli occhi,
parla bene, e non giocherellare con le dita tutto il tempo.
Alice eseguì tutti questi ordini, e spiegò, meglio che poteva, che aveva
perso la strada.
– Che strada sarebbe?… Non vedo come tu possa aver perso la strada,
qualunque essa sia – disse la Regina, – dal momento che qui tutte le strade
appartengono a me – ma perché, poi, sei venuta qui? – aggiunse con un tono
più gentile. – Fa’ la riverenza mentre pensi a cosa dire. È tutto tempo
risparmiato.
– Così va bene, – disse la Regina, facendole pat-pat sulla testa, cosa che
Alice non gradì affatto. – Però, quando dici “giardino” – io ho visto dei
giardini al cui confronto questo sarebbe una landa selvaggia.
Alice non osò discutere l’argomento, ma continuò: – E ho deciso di
trovare la strada che porta in cima a quella collina…
Alice s’inchinò di nuovo, poiché dal tono della Regina temeva che fosse
un po’ offesa: poi s’incamminarono in silenzio finché non giunsero in cima
alla collinetta.
La parte più curiosa della faccenda era che gli alberi e le altre cose
intorno a loro non cambiavano mai di posto: per quanto veloci andassero,
sembrava che non superassero mai niente. “Mi domando se tutte le cose si
muovono assieme a noi,” pensò, perplessa, la povera Alice. E la Regina
sembrò indovinare i suoi pensieri, perché gridò: – Più veloce! Non cercare
di parlare!
Non che Alice avesse alcuna intenzione di farlo.
Le sembrava che non sarebbe mai più riuscita a parlare, tanto le mancava
il fiato; e la Regina continuava a gridare: – Più veloce! Più veloce! – e se la
trascinava dietro. – Siamo quasi arrivate? – riuscì a esalare Alice,
ansimando.
– Ma che paese lento! – disse la Regina. – Qui, vedi, devi correre più
forte che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra
parte, devi correre almeno due volte più veloce.
– Preferirei non provarci, vi prego! – disse Alice. – Sono più che contenta
di restare qui… solo che ho tanto caldo e tanta sete!
– So cosa fa al caso tuo! – disse la Regina con tono bonario, tirando fuori
dalla tasca una scatoletta. – Vuoi un biscotto?
Alice pensò che non sarebbe stato educato rispondere “No”, anche se non
era affatto ciò che desiderava. Perciò lo prese, e fece del suo meglio per
mandarlo giù: era molto secco, pensò che in tutta la sua vita non era mai
stata così vicina a strozzarsi.
Come successe, Alice non lo seppe mai, ma nel preciso istante in cui
raggiunse l’ultimo piolo, la Regina scomparve. Se fosse svanita nell’aria o
fosse corsa velocemente dentro il bosco (“ed è capace di correre molto
forte!” pensò Alice), non c’era modo di saperlo, ma era scomparsa, e Alice
cominciò a ricordarsi di essere un Pedone, e che presto per lei sarebbe
arrivato il momento di muoversi.
Capitolo III
Gli insetti nello Specchio
Invece era tutto fuorché un’ape normale: infatti era un elefante – come
scoprì ben presto Alice, anche se sulle prime l’idea le mozzò il fiato. “E che
fiori enormi devono essere!” fu il pensiero che seguì. “Un po’ come delle
casette a cui sia stato tolto il tetto e messo un gambo… e chissà la quantità
di miele che fanno! Penso che scenderò e… no, non ancora,” continuò,
fermandosi proprio quando stava incominciando a correre giù per la collina,
e cercando di trovare qualche scusa per la sua improvvisa timidezza. “Non è
proprio il caso di andare giù in mezzo a loro senza un bel ramo lungo per
scacciarli… e come sarà divertente quando mi chiederanno se mi è piaciuta
la passeggiata. Io dirò: Oh sì, mi è piaciuta abbastanza” – (e qui scrollò
appena la testa, il suo vezzo preferito), “solo che c’era una gran polvere e
un caldo terribile, e gli elefanti erano veramente dispettosi!”.
– Credo che andrò dall’altra parte, – disse dopo una pausa; – e forse
potrei andare a vedere gli elefanti più tardi. E poi muoio dalla voglia di
arrivare al Terzo Scacco!
Così, con questa scusa, corse giù per la collina, e superò con un salto il
primo dei sei ruscelletti.
– Biglietti, prego! – disse il Controllore, infilando la testa nel finestrino.
Un attimo dopo tutti gli porgevano un biglietto: erano grandi all’incirca
come le persone, e sembravano riempire la carrozza.
– Temo di non averlo, – disse Alice con tono spaventato. – Non c’era la
biglietteria nel posto dove sono salita. – E di nuovo riattaccò il coro di voci.
– Non c’era posto per una biglietteria nel posto dov’è salita. La terra lì vale
mille sterline al pollice!
Alice disse tra sé: “Allora è inutile parlare”. Le voci non si levarono,
questa volta, perché lei non aveva parlato, ma con sua grande sorpresa, tutte
pensarono in coro (spero capiate cosa significa pensare in coro… perché io
no, lo confesso). “Meglio non dire niente. Il linguaggio vale mille sterline a
parola!”.
Per tutto questo tempo il Controllore era rimasto a guardarla, prima con
un cannocchiale, poi con un microscopio, e poi con un binocolo da teatro.
Alla fine disse: – Stai viaggiando nella direzione sbagliata – poi chiuse il
finestrino e se ne andò.
– Una bambina così piccola, – disse il signore seduto davanti a lei (era
vestito di carta bianca), – dovrebbe sapere in che direzione sta andando,
anche se non sa neppure come si chiama!
Una Capra, che era seduta accanto al signore in bianco, chiuse gli occhi e
disse a voce alta: – Dovrebbe sapere come andare alla biglietteria, anche se
non sa l’alfabeto!
Alice non riusciva a vedere chi era seduto accanto allo Scarafaggio, ma
ecco che una voce bassa ed esangue parlò. – Cambiate locomotive… –
disse, e qui si strozzò e fu costretta a smettere.
“Sembra un purosangue,” pensò Alice fra sé. Una vocina piccolissima,
vicino al suo orecchio, sussurrò: – Potresti farci un gioco di parole…
qualcosa su “esangue” e “purosangue”, capisci?
E dopo quella, altre voci si levarono (“Ma quanta gente c’è in questa
carrozza!”, pensò Alice), dicendo: – Intestata com’è,(3) va spedita per posta
…; – Visto che ha la testa per aria, va spedita come telegramma…; – Deve
mettersi in testa di mettersi in testa al treno e tirarlo lei per il resto del
viaggio… – e così via.
Il Purosangue, che aveva sporto la testa dal finestrino, la ritirò con calma
e disse: – È soltanto un ruscello che dobbiamo saltare. – Tutti parvero
soddisfatti della spiegazione, anche se la sola idea che i treni saltassero
rendeva Alice un po’ nervosa. “A ogni modo, ci porterà nel Quarto Scacco,
questa è già una consolazione!” disse tra sé. Un attimo dopo sentì il treno
sollevarsi dritto in aria, e terrorizzata afferrò la cosa più vicina alla sua
mano, che si dà il caso fosse la barba della Capra.
***
Certo era una Zanzara molto grossa: “Grande più o meno come una
gallina”, pensò Alice. Però non poteva sentirsi inquieta con lei, dopo tutto il
parlare che avevano fatto.
– A che cosa serve che abbiano dei nomi – disse la Zanzara – se poi non
rispondono quando li chiami?
– Non saprei, – rispose la Zanzara. – Più avanti, nel bosco laggiù, niente
ha un nome… comunque, avanti, attacca la tua lista di insetti: stai perdendo
tempo.
– E di cosa vive?
Dopo di che, Alice restò a riflettere in silenzio per un paio di minuti. Nel
frattempo la Zanzara si divertiva a ronzarle continuamente intorno alla
testa: alla fine si posò di nuovo e osservò: – Suppongo che tu non voglia
perdere il tuo nome, vero?
“Questo deve essere il bosco,” disse, meditabonda, tra sé, “dove le cose
non hanno nome. Mi domando che cosa ne sarà del mio, se ci entro. Non mi
andrebbe proprio di perderlo… perché dovrebbero darmene un altro, e quasi
sicuramente sarebbe brutto. Ma allora sai come sarebbe divertente cercare
di trovare la creatura che ha il mio vecchio nome! È proprio come negli
annunci, sapete, quando la gente perde un cane…: ‘Risponde al nome di
Dash, portava un collare di ottone’; immaginate di chiamare ogni cosa che
s’incontra ‘Alice’, finché una non risponde! Solo che non dovrebbero
rispondere proprio, se fossero furbe”.
“Vorrei tanto saperlo!” pensò la povera Alice. Rispose, con tono assai
triste: – Nessuno, ora come ora.
Alice pensò, ma non le venne niente. – Per piacere, vorresti dirmi come ti
chiami tu? – chiese timidamente. – Credo che questo potrebbe aiutarmi un
po’.
Non era una domanda molto difficile cui rispondere, dato che c’era una
sola strada nel bosco, ed entrambi i cartelli indicavano quella direzione. “Lo
deciderò”, disse Alice tra sé, “quando la strada si dividerà e i cartelli
indicheranno direzioni diverse”.
– Sono sicura, – disse finalmente Alice, – che abitano nella stessa casa!
Mi domando come mai non ci ho pensato prima… Ma non posso
trattenermi molto. Farò giusto un salto, dirò “piacere!”, e chiederò loro la
strada per uscire dal bosco. Se solo riuscissi ad arrivare all’Ottavo Scacco
prima che venga buio! – Così proseguì, continuando a parlare tra sé mentre
camminava, finché, passata una curva brusca, s’imbatté in due grassi
ometti, così all’improvviso che non poté evitare di fare un balzo
all’indietro, ma un attimo dopo si riprese, perché era sicura che si trattava di
loro.
Capitolo IV
Tweedledum e Tweedledee
– Se credi che siamo delle statue di cera, – disse, – dovresti pagare, sai.
Le statue di cera non sono state fatte per essere ammirate gratis. Nossignori!
– Sono davvero molto spiacente, – fu tutto quello che Alice riuscì a dire;
perché le parole della vecchia canzone continuavano a risuonarle nella testa
come il ticchettio di un orologio, e riuscì a malapena a trattenersi dal dirle
ad alta voce:
“Tweedledum e Tweedledee
sono d’accordo su un duello:
perché per Tweedledum, Tweedledee
gli ha rotto il sonaglio suo bello.
– Stavo pensando, – disse Alice con aria molto compita, – qual è la strada
migliore per uscire da questo bosco: sta venendo buio. Vorreste dirmelo, per
cortesia?
Alice non voleva stringere la mano a uno dei due per primo, per paura di
urtare la sensibilità dell’altro; così, per cavarsi dall’impiccio meglio che
poteva, afferrò entrambe le mani contemporaneamente: un attimo dopo
stavano ballando tutti in cerchio. Questo le parve del tutto naturale (ricordò
in seguito), e non fu neppure stupita di sentire della musica: sembrava
provenire dall’albero sotto il quale stavano ballando, ed era prodotta (a
quanto poté capire) dai rami che si sfregavano gli uni contro gli altri di
traverso, a mo’ di violini e archetti.
– Certo che era buffo – (disse in seguito Alice, quando fece a sua sorella
la cronistoria di quest’episodio), – ritrovarsi a cantare: “Qui noi facciam il
girotondo attorno al cespuglio di more”. Non so quando ho cominciato, ma
in qualche modo avevo la sensazione di cantarlo da molto, molto tempo!
Gli altri due ballerini erano grassi, e molto presto restarono senza fiato. –
Quattro giri sono abbastanza per un ballo solo, – disse Tweedledum
ansimando, e i due smisero di ballare all’improvviso così come avevano
cominciato: la musica cessò nello stesso istante.
Il sole brillava
Era un bel dilemma. Dopo una pausa, Alice cominciò: – Be’, erano tutti e
due dei personaggi molto sgradevoli… – Qui s’interruppe un po’ allarmata,
sentendo provenire dal bosco lì vicino a loro qualcosa che somigliava allo
sbuffare di una grande locomotiva, anche se temeva fosse più probabile che
si trattasse di una belva. – Ci sono leoni o tigri da queste parti? – chiese
esitante.
Lo gridò così forte che Alice non poté fare a meno di dire – Zitto! Lo
sveglierete, temo, se fate tutto questo rumore.
– Se non fossi vera, – ribatté Alice, un po’ ridendo tra le lacrime, perché
tutto le sembrava così ridicolo, – non sarei capace di piangere.
“So che stanno dicendo delle assurdità,” pensò Alice tra sé: “ed è sciocco
piangere per questo”. Così si asciugò rapidamente le lacrime, e continuò
con l’aria più allegra che poteva. – In ogni caso farei bene a uscire dal
bosco, perché sta venendo davvero molto buio. Pensate che pioverà?
Tweedledum aprì un grande ombrello a coprire se stesso e suo fratello,
alzò gli occhi e guardò dentro. – No, non credo, – disse. – Almeno, non qui
sotto. Nossignori.
Alice gli mise la mano sul braccio e disse, con tono dolce: – Non c’è
bisogno che ti arrabbi così per un vecchio sonaglio!
Così i due fratelli entrarono mano nella mano nel bosco, e tornarono un
attimo dopo con le mani cariche di roba: cuscini a rullo, coperte, tappetini,
tovaglie, coperchi e ceste di carbone. – Spero tu sia brava a puntare gli spilli
e a legare i lacci, – osservò Tweedledum. – Ognuna di queste cose deve
essere indossata, in un modo o nell’altro.
Alice avrebbe detto in seguito che in vita sua non aveva mai visto
sollevare un simile polverone per qualcosa… come s’affaccendavano quei
due… e la quantità di oggetti che si mettevano addosso… e il daffare che le
davano a stringere lacci e ad abbottonare… “Davvero sembreranno più che
altro dei fagotti di vestiti vecchi, quando saranno pronti!” disse tra sé,
mentre sistemava un cuscino attorno al collo di Tweedledee, per “impedire
che gli venisse tagliata la testa,” come disse lui.
– Sai, – aggiunse con tono molto serio, – è una delle cose peggiori che ti
possano mai accadere in combattimento: che ti taglino la testa.
Alice rise. – Allora devi colpire spesso gli alberi, immagino, – disse.
Stava venendo buio così in fretta che Alice pensò che fosse in arrivo un
temporale. – Ma guarda che nuvolone nero! – esclamò. – E come viene
avanti veloce! Accipicchia! Credo proprio che abbia le ali!
– Sono molto lieta di essermi trovata per caso sulla vostra strada, – disse
Alice, aiutandola a rimettersi lo scialle.
Alice pensò che non sarebbe servito a niente litigare proprio all’inizio
della conversazione, perciò sorrise e disse; – Basta che la vostra Maestà mi
dica il modo giusto per cominciare, io lo farò meglio che posso.
Sarebbe stato decisamente meglio, pensò Alice, che si fosse fatta vestire
da qualcun altro, dato il disordine spaventoso del suo aspetto. “Non c’è una
cosa che non sia messa di storto,” commentò tra sé Alice, “ed è coperta da
cima a fondo di spilli!”. – Posso mettervi dritto lo scialle? – aggiunse a voce
alta.
Alice liberò con cautela la spazzola e fece del suo meglio per aggiustarle
i capelli. – Oooh! Così va meglio! – esclamò, dopo aver spostato quasi tutte
le forcine. – Però avreste davvero bisogno di una cameriera personale!
– Sì, certo, prenderò te con piacere! – disse la Regina. – Due pence alla
settimana, e marmellata ogni due giorni.
Alice non poté fare a meno di ridere, mentre diceva: – Ma io non voglio
che prendiate me, e la marmellata non m’interessa.
Alice pensò che questo non si poteva negare. – Certo che è meglio così, –
ribatté. – Ma non è meglio per niente che intanto lo puniscano.
– Sì, ma io avevo fatto le cose per cui venivo punita, – replicò Alice. –
C’è una bella differenza!
I suoi strilli erano talmente simili al fischio di una locomotiva che Alice
fu costretta a mettersi le mani sulle orecchie.
Nel frattempo si stava facendo chiaro. – Il corvo deve essere volato via,
mi sa, – disse Alice. – Sono così contenta che se ne sia andato. Credevo che
stesse venendo notte.
– Solo che è talmente solitario, questo posto! – disse Alice con voce
malinconica; e, al pensiero della sua solitudine, due lacrimoni le rotolarono
giù per le guance.
– Oh, su, non fare così! – gridò la povera Regina, torcendosi le mani
disperata. – Considera che grande bambina sei. Considera quanta strada hai
fatto oggi. Considera che ore sono. Considera quello che ti pare, ma non
piangere!
Alice non riuscì a trattenersi dal ridere, persino tra le lacrime. – E voi,
potete impedirvi di piangere considerando delle cose? – domandò.
Alice rise. – Non serve riprovare, – ribatté. – Non si può credere alle cose
impossibili.
– Oserei dire che non hai fatto molto esercizio, – disse la Regina. –
Quando avevo la tua età, io lo facevo sempre per mezz’ora al giorno.
Figurati che a volte arrivavo a credere fino a sei cose impossibili prima di
colazione. Ecco, ci risiamo con lo scialle!
– Allora spero che il vostro dito vada meglio adesso – disse Alice molto
educatamente, mentre attraversava il ruscelletto per seguire la Regina.
***
– Oh, molto meglio! – gridò la Regina, con la voce che diventava sempre
più stridula man mano che proseguiva. – Molto me-eglio! Me-eglio! Me-e-
ehh! – L’ultima parola finì in un lungo belato, così simile a quello di una
pecora che Alice trasalì.
– Sì, un po’, ma non sulla terra… e non coi ferri… – stava cominciando a
dire, quando all’improvviso i ferri si tramutarono in remi nelle sue mani, e
si ritrovò con la compagna su una barchetta che scivolava tra le rive di un
fiume: perciò non le restava che fare del suo meglio.
– Non devi dire “vi prego” a me per quelli, – disse la Pecora, senza alzare
gli occhi dal suo lavoro a maglia. – Non ce li ho messi io lì, e non ho
intenzione di toglierli.
“Spero solo che la barca non si capovolga!” disse tra sé. “Oh, quanto è
bello quello! Solo che non riesco proprio a prenderlo”. E in effetti sembrava
un po’ una provocazione (“quasi come se lo facessero apposta”, pensò) il
fatto che, sebbene lei riuscisse a cogliere una gran quantità di bellissimi
giunchi mentre la barca scivolava via, ce n’era sempre uno ancora più
incantevole che non riusciva a raggiungere.
– I più carini sono sempre più in là! – disse finalmente con un sospiro per
quei giunchi che si ostinavano a crescere così lontano, mentre, con le
guance arrossate e i capelli stillanti, tornava in fretta al suo posto, e
cominciava a sistemare i suoi nuovi tesori.
Non erano andate molto più avanti quando la pala di un remo restò
incastrata nell’acqua e non voleva più venir fuori (così Alice spiegò la cosa
in seguito), e conseguenza ne fu che l’impugnatura del remo la colpì sotto il
mento e, nonostante una serie di piccoli strilli di “Ohi! Ohi! Ohi!” della
povera Alice, la strappò dal suo posto e la scaraventò giù in mezzo al
mucchio di giunchi.
Tuttavia, Alice non si fece male neanche un po’, e si rialzò subito: la
Pecora aveva continuato a sferruzzare tutto il tempo, come se non fosse
successo niente. – Un bel granchio hai preso! Visto? – commentò, mentre
Alice tornava al suo posto, molto sollevata di trovarsi ancora nella barca.
– Comprare! – fece eco Alice, con un tono che era un misto di stupore e
di paura, perché i remi, e la barca, e il fiume, tutto era svanito in un istante,
e lei si trovava di nuovo nella botteguccia buia.
– Cinque pence e rotti per uno… due pence per due, – rispose la Pecora.
– Ma allora due costano meno di uno? – chiese Alice sorpresa, tirando fuori
il borsellino.
La Pecora prese i soldi e li mise in una scatola; poi disse: – Non metto
mai le cose direttamente in mano alla gente… non va bene … devi
prenderlo da sola. – E così dicendo, andò all’altro capo della bottega e
sistemò l’uovo dritto in verticale su uno scaffale.
Alice non sapeva cosa replicare. Questa non somigliava affatto a una
conversazione, pensò, dato che lui non diceva mai niente a lei: in realtà, la
sua ultima osservazione era visibilmente rivolta a un albero; così si fermò e
recitò sottovoce fra sé:
Humpty Dumpty era seduto su un muro
Humpty Dumpty cascò e batté sul duro,
E tutti i cavalli e gli uomini del Re
– Certo che deve, – disse Humpty Dumpty con una breve risata: il mio
nome significa(6) la forma che ho – una gran bella forma, tra parentesi. Con
un nome come il tuo, potresti avere qualsiasi forma, o quasi.
– Perché ve ne state seduto quassù tutto solo? – chiese Alice, che non
voleva cominciare a litigare.
– Oh bella, perché non c’è nessuno con me! – gridò Humpty Dumpty. –
Pensavi che non sapessi rispondere a questo? Fammi un’altra domanda.
– Non credete che sareste più al sicuro per terra? – proseguì Alice, non
perché avesse in mente di proporgli un altro indovinello, affatto, ma
semplicemente perché, nella sua premurosità, era in ansia per la strana
creatura. – Quel muro è talmente stretto!
– Che indovinelli tremendamente facili fai! – grugnì Humpty Dumpty. –
Certo che non lo credo! Che diamine, se mai dovessi cadere, – continuò, –
cosa che non ha la minima probabilità di succedere… ma se dovessi… –
Qui arricciò le labbra e prese un’aria così solenne e pomposa che Alice si
trattenne a stento dal ridere. – Se cadessi, – continuò, – il Re mi ha
promesso – ah, puoi impallidire, se vuoi! – non pensavi che avrei detto
questo, vero? Il Re mi ha promesso… con la sua stessa bocca… di, di…
– Ah, beh! Può darsi che scrivano cose di questo genere in un libro, –
disse Humpty Dumpty in tono più calmo. – È quello che si chiama una
Storia d’Inghilterra, appunto. Ora, guardami bene! Io sono uno che ha
parlato con un Re, io, capisci? Forse non ti capiterà mai più di vederne un
altro: e, per dimostrarti che non sono altezzoso, puoi stringermi la mano! –
E fece un gran sorriso che andava quasi da un orecchio all’altro,
sporgendosi all’infuori (e nel far questo per un pelo non cadde dal muro) e
tendendo la mano ad Alice. Lei lo guardò leggermente preoccupata mentre
la prendeva. “Se ridesse appena un po’ di più, gli angoli della bocca
potrebbero incontrarsi dietro,” pensò. “E poi non so cosa succederebbe alla
sua testa! Ho paura che si staccherebbe!”.
– Sì, tutti i suoi cavalli e tutti i suoi uomini, – continuò Humpty Dumpty.
– Mi tirerebbero su di nuovo in un attimo, loro! Però questa conversazione
sta andando un po’ troppo veloce; torniamo alla penultima osservazione.
– Sette anni e sei mesi! – ripeté con aria meditabonda Humpty Dumpty. –
Un’età piuttosto spiacevole. Ora, se tu avessi chiesto consiglio a me, ti avrei
detto “Ai sette, smetti”, ma ormai è troppo tardi.
– Non chiedo mai consigli a proposito della mia crescita, – disse Alice
sdegnata.
– È una cravatta, bambina, e una bellissima cravatta, come hai detto tu. È
un regalo del Re Bianco e della Regina. Ecco!
– Non sai quello che dici! – gridò Humpty Dumpty. – Quanti giorni ci
sono in un anno?
– Uno.
– Trecentosessantaquattro, naturalmente.
Alice non poté fare a meno di sorridere mentre estraeva il suo taccuino e
gli faceva il calcolo:
365 –
1=
364
Humpty Dumpty sorrise con aria di disprezzo. – Certo che no, finché non
te lo dirò io. Intendevo: “Eccoti un argomento che taglia la testa al toro!”.
Alice era troppo confusa per dire qualcosa; perciò dopo un minuto
Humpty Dumpty ricominciò: – Hanno un caratterino. Alcune di loro,
specialmente i verbi: sono i più arroganti, con gli aggettivi puoi fare quello
che ti pare, ma coi verbi, no – però io riesco a tenerle a bada tutte quante!
Impenetrabilità! Te lo dico io!
– Certo sono un bel po’ di cose da far significare a una parola sola, –
disse Alice in tono meditabondo.
– Quando faccio fare a un parola un superlavoro come in questo caso, –
disse Humpty Dumpty, – le pago sempre gli straordinari.
– Oh! – fece Alice. Era troppo sconcertata per fare qualsiasi altro
commento.
(Alice non osò chiedergli con che cosa le pagasse; perciò vedete bene che
non posso riferirlo a voi).
– Quanto alle poesie, sai, – disse Humpty Dumpty, tendendo una delle
sue manone, – io le so recitare bene proprio come chiunque altro, se c’è
bisogno…
Alice sentì che in questo caso doveva davvero ascoltarlo; così si mise
seduta e disse “Grazie” con tono alquanto mesto.
– Se riesci a vedere se io canto o no, hai una vista più acuta della maggior
parte della gente, – osservò Humpty Dumpty con aria severa. Alice tacque.
Recitando questo verso, Humpty Dumpty alzò la voce fino quasi a urlare,
e Alice pensò, con un brivido, “Non vorrei essere stata nei panni di
quell’ambasciatore per niente al mondo!”
Alice aspettò un minuto per vedere se avrebbe parlato di nuovo, ma, dato
che non apriva più gli occhi e non le prestava più attenzione, disse
“Arrivederci!” ancora una volta e, non ottenendo risposta, se ne andò via in
silenzio: ma non poté fare a meno di dire tra sé, mentre se ne andava: “Di
tutte le persone inconcludenti” (lo ripeté a voce alta perché le era di gran
conforto avere una parola così ricercata da scandire)… “di tutte le persone
inconcludenti che ho mai conosciuto…”. Non finì mai la frase, perché in
quell’istante un grande schianto fece tremare la foresta da un capo all’altro.
Capitolo VII
Il Leone e l’Unicorno
Pensò che in tutta la sua vita non aveva mai visto dei soldati così incerti
sui piedi: inciampavano sempre in una cosa o nell’altra, e ogni volta che
uno cadeva, molti altri gli cadevano addosso, così che ben presto il terreno
fu coperto di piccoli mucchi di uomini.
– Magari li avessi io degli occhi così, – osservò con tono stizzito il Re. –
Riuscire a vedere Nessuno! E a questa distanza, per giunta! Figurati, è già
tanto se riesco a vedere le persone reali, con questa luce!
Ma tutto ciò non venne raccolto da Alice, che stava ancora scrutando la
strada, schermandosi gli occhi con una mano a mo’ di visiera. – Adesso
vedo qualcuno! – esclamò infine. – Ma viene avanti molto lentamente… e
che strani atteggiamenti del corpo prende! – (Perché, mentre avanzava, il
Messaggero continuava a saltellare su e giù e a contorcersi come
un’anguilla, le grandi mani aperte come ventagli ai lati).
– Amo il mio amore con una F, – non poté fare a meno d’attaccare Alice,
– perché è Felice, lo odio con una F perché è un Forsennato. Lo nutro con…
con… Fette di pane e prosciutto e con Fieno. Il suo nome è Foriero, e
vive…
– Intendevo solo dire che non ho capito, – disse Alice. – Perché uno per
andare e uno per venire?
– Un altro panino!
– Io non detto che non c’é niente di meglio, – rispose il Re. – Ho detto
che non c’è niente come. – Cosa che Alice non osò negare.
– Questo non può farlo, – disse il Re, – altrimenti sarebbe arrivato qui per
primo. Comunque, ora che hai ripreso fiato, puoi raccontarci che cosa è
successo in città.
– Io sono così buono, – ribatté al volo il Re, come udì la parola “minuto”.
– Solo che non sono così forte. Capisci, il tempo passa a una velocità
spaventosa: un minuto, dici! Tanto varrebbe cercare di fermare un
Gagliogoffo!
Alice non aveva più fiato per parlare; così continuarono a trottare in
silenzio, finché arrivarono in vista di una gran folla, in mezzo alla quale
stavano combattendo il Leone e l’Unicorno. Erano avvolti da una tale
nuvola di polvere che sulle prime Alice non riuscì a capire qual era l’uno e
qual era l’altro; ma presto riuscì a individuare l’Unicorno per via del corno.
– È appena uscito di prigione e non aveva ancora finito il suo tè, quando
l’hanno messo al fresco, – sussurrò Foriero ad Alice. – Danno solo gusci di
ostriche là dentro… perciò capirai che ha una gran fame e una gran sete.
Come stai, figliolo? – continuò, mettendo affettuosamente il braccio attorno
al collo di Foresto.
– Sì… per così dire, – rispose il Re, alquanto nervoso. – Non avresti
dovuto trafiggerlo da parte a parte con il corno, sai.
– Non gli ho fatto male, – disse con tono noncurante l’Unicorno, e stava
per proseguire quando gli cadde l’occhio su Alice: si girò immediatamente
e restò un po’ a guardarla con aria di profondo disgusto.
Foriero prese una grande torta dalla borsa e la diede da tenere ad Alice,
mentre tirava fuori un piatto e un coltello da scalco. Alice non riusciva a
capire come facesse tutta quella roba a venir fuori di lì. Era come un gioco
di prestigio, pensò.
– Sai che lotta potremmo fare per la corona, adesso! – disse l’Unicorno,
guardando con occhio sornione la corona, che il rischiava di essere sbalzata
via dalla testa del Re, tanto tremava il poveretto.
Alice si era seduta sulla riva di un ruscelletto, con il grande piatto sulle
ginocchia, e stava segando diligentemente col coltello. – È molto irritante! –
disse, rispondendo al Leone (si stava abituando a essere chiamata “il
Mostro”). – Ho già tagliato parecchie fette, ma si riattaccano sempre!
***
“Se questo rullare di tamburi non li caccia dalla città,” pensò tra sé,
“niente ci riuscirà mai”.
Capitolo VIII
“È una mia invenzione”
Dopo un po’ il rumore sembrò morire pian piano, finché non subentrò un
silenzio di tomba, e Alice alzò la testa un po’ allarmata. Non si vedeva
anima viva, e il suo primo pensiero fu che doveva avere sognato il Leone e
l’Unicorno e tutti quei bizzarri Messaggeri anglosassoni. Però, lì per terra,
ai suoi piedi, c’era ancora il grande piatto sul quale aveva cercato di tagliare
il plumcake. “Allora, dopo tutto, non stavo sognando,” disse tra sé e sé, “a
meno che… a meno che non facciamo tutti parte dello stesso sogno. Solo,
spero vivamente che sia il mio sogno e non quello del Re! Non mi va di
appartenere al sogno di un’altra persona”, continuò in tono piuttosto
lamentoso: “Ho ferma intenzione di andare a svegliarlo, e vedere che
succede!”.
Per quanto spaventata, al momento Alice aveva più paura per lui che per
se stessa, e lo guardò rimontare a cavallo con una certa ansia. Non appena si
fu sistemato comodamente in sella, quello ricominciò: – Sei mia… –, ma
un’altra voce lo interruppe: – Ehi! Ehi! Scacco! – e Alice si voltò, sorpresa,
a guardare il nuovo nemico.
“Mi domando quali sono le Regole del Combattimento,” disse tra sé,
mentre osservava il duello, spiando timidamente fuori dal suo nascondiglio.
“Una regola sembra essere quella che, se un Cavaliere colpisce l’altro, lo
butta giù dal cavallo; e se lo manca, cade giù lui… e un’altra Regola sembra
essere che tengono le mazze con le braccia, come se fossero delle
marionette… Che rumore fanno quando cascano! Proprio come i ferri del
camino quando cadono tutti insieme sul parafuoco! E come sono tranquilli i
cavalli! Li lasciano salire e scendere come se fossero dei tavoli!”.
– Molte grazie, – disse Alice. – Posso darvi una mano a togliervi l’elmo!
– Era evidente che non ce l’avrebbe mai fatta da solo; mentre lei, a furia di
scuoterlo, alla fine riuscì a liberarlo.
– Nella speranza che qualche ape ci faccia il nido… così poi avrei del
miele.
– Vedi, – continuò dopo una pausa, – tanto vale essere preparati per
qualsiasi cosa. È per questo motivo che il cavallo ha tutte quelle cavigliere
attorno ai piedi.
– È per il plumcake.
– Così non basta, – disse lui, con tono ansioso. – Vedi, il vento, qui, è
forte come il roquefort.
Ogni volta che il cavallo si fermava (cosa che faceva molto spesso), lui
cadeva sul davanti; e ogni volta che rimontava (cosa che in genere faceva in
modo alquanto improvviso), cadeva di dietro. Per il resto se la cavava
benino, a parte che aveva l’abitudine di cadere di tanto in tanto di lato; e
poiché in genere lo faceva dal lato dove camminava Alice, questa scoprì
presto che il sistema migliore era di non camminare troppo vicino al
cavallo.
– Temo che non abbiate fatto molta pratica di equitazione, – osò dire,
mentre lo stava aiutando a risalire dopo il quinto capitombolo.
Alice non trovò niente di meglio da dire che “Davvero?” ma lo disse nel
modo più affettuoso possibile. Dopodiché fecero un altro po’ di strada in
silenzio, il Cavaliere con gli occhi chiusi, borbottando fra sé, e Alice con gli
occhi ben aperti in ansiosa attesa del prossimo capitombolo.
– Molto più regolare di un cavallo vivo, – rispose Alice con una risatina
acuta, malgrado avesse fatto tutto ciò che era in suo potere per evitarlo.
Il Cavaliere guardò con aria orgogliosa il suo elmo, che pendeva dalla
sella. – Sì, – disse, – ma ne avevo inventato uno migliore di questo… a pan
di zucchero. Quando lo usavo, se cadevo da cavallo, l’elmo toccava sempre
direttamente il terreno. Così cadevo per un tratto molto breve, capisci… Ma
c’era il pericolo di caderci dentro, a dire il vero. Una volta mi è successo…
e l’aspetto peggiore della cosa fu che, prima che riuscissi a venirne fuori di
nuovo, arrivò l’altro Cavaliere Bianco e se l’infilò. Pensava che fosse il suo
elmo.
Il Cavaliere lo raccontava con un’aria così solenne che Alice non osò
ridere. – Temo che gli abbiate fatto male, – disse con voce tremula, –
standogli in cima alla testa.
Alice corse a cercarlo sul bordo del fosso. Si era piuttosto spaventata per
quella caduta, dato che per un po’ il cavaliere si era tenuto molto bene in
equilibrio, e temeva che questa volta si fosse fatto male davvero. Però,
sebbene non riuscisse a vedere altro che le piante dei suoi piedi, fu molto
sollevata sentendolo parlare nel suo tono abituale.
– Ogni tipo di sveltezza, – ripeté, – ma è stato sconsiderato da parte sua
indossare l’elmo di un altro uomo… e con l’uomo dentro, per giunta.
– Ora, la cosa più ingegnosa del genere che abbia mai fatto, – riprese
dopo una pausa – è stata d’inventare un nuovo budino mentre era servita la
portata della carne.
– Di che cosa doveva essere fatto, nelle vostre intenzioni? – chiese Alice,
sperando di tirarlo su d’umore, perché il povero Cavaliere sembrava
piuttosto depresso riguardo a questa faccenda.
– Sei triste, – disse il Cavaliere con tono ansioso. – Lascia che ti canti
una canzone per consolarti.
– È molto lunga? – chiese Alice, perché aveva già sentito un bel po’ di
poesie quel giorno.
– È lunga, – rispose il Cavaliere, – ma è molto, molto bella. Chiunque mi
senta cantarla… o gli vengono le lacrime agli occhi, oppure…
– Be’, com’è questa canzone, allora? – chiese Alice, che a questo punto
era completamente disorientata.
Di tutte le cose strane che Alice aveva visto nel suo viaggio Attraverso lo
Specchio, era questa che ricordava sempre più chiaramente. Ad anni di
distanza riusciva a ricostruire l’intera scena come se fosse accaduta solo il
giorno prima… i miti occhi azzurri e il sorriso gentile del Cavaliere… il
sole del tramonto che baluginava attraverso i suoi capelli e splendeva sulla
sua armatura con un fulgore abbacinante… il cavallo che girava lì intorno
tranquillo, con le redini penzolanti sul collo, brucando l’erba ai suoi piedi…
e le ombre nere della foresta dietro di loro… tutto questo le si incise nella
mente come un quadro, mentre, riparandosi gli occhi con una mano,
appoggiata a un albero, guardava la strana coppia, e ascoltava, come in un
sogno che sembra realtà, la musica malinconica di quella canzone.
“Ma la melodia non l’ha inventata lui,” disse tra sé. “È Ti darò tutto, di
più non posso”. Restò ad ascoltare con grande attenzione, ma non le spuntò
neanche una lacrima.
– Certo che aspetterò, – disse Alice: – e molte grazie per essere venuto
fin qua… e per la canzone… Mi è piaciuta molto.
– Lo spero, – fece il Cavaliere, dubbioso: – ma non hai pianto quanto mi
aspettavo.
– Spero che questo gli abbia dato coraggio, – disse, voltandosi per
avviarsi di corsa giù per la collina. – E adesso, via! L’ultimo ruscello, e poi
sarò Regina! Come suona solenne! – Pochi passi la portarono sull’orlo del
ruscello. – L’Ottavo Scacco, finalmente! – gridò, mentre lo superava con un
balzo, e si buttò a riposare su un prato morbido come muschio, punteggiato
qua e là da piccole aiuole. – Oh, come sono contenta di essere qui! E che
cos’è questa cosa che ho sulla testa? – esclamò con voce sgomenta,
mettendo le mani su un oggetto molto pesante, che le aderiva a pennello
alla testa.
“Ma come può esserci arrivata senza che me ne accorgessi?” disse tra sé,
mentre se la toglieva e la posava in grembo per capire che cosa mai potesse
essere.
Tutto succedeva in modo così strano che Alice non fu affatto sorpresa nel
trovare la Regina Rossa e la Regina Bianca sedute vicino a lei, una per
parte: le sarebbe piaciuto molto domandare loro come avevano fatto ad
arrivare fin lì, ma temeva che non sarebbe stato molto educato. In ogni
caso, non c’era niente di male, pensò, a chiedere se la partita era finita. –
Per piacere, vorreste dirmi… – cominciò, guardando timidamente la Regina
Rossa.
– Questo hai fatto, sai, – disse la Regina Rossa ad Alice. – Tu di’ sempre
la verità… pensa prima di parlare… e dopo scriviti quello che hai detto.
– È proprio questo che deploro! Tu avresti dovuto voler dire una cosa o
un’altra! A cosa credi che serva una bambina che non vuol dire niente?
Persino una barzelletta dovrebbe voler dire qualcosa… e una bambina è più
importante di una barzelletta, spero. Questo non potresti negarlo, anche se
ci provassi con tutte e due le mani.
– Ma io nego le cose con le mani, – obiettò Alice.
– Non avevo la minima idea di dover dare una festa, – intervenne Alice.
– Ma se ci deve essere una festa, allora credo che dovrei essere io a fare gli
inviti.
– Sai fare le Addizioni? – chiese la Regina Bianca. – Cosa fa uno più uno
più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno?
– Nove meno otto, non lo so, – rispose Alice con grande prontezza: –
ma…
– Falle vento sulla testa! – interruppe con voce ansiosa la Regina Rossa.
– Le verrà la febbre a furia di pensare! – Così le Regine si misero al lavoro,
e la sventolarono con dei mazzi di foglie, finché Alice fu costretta a
pregarle di smettere, perché i capelli le volavano da tutte le parti.
Alice credette di aver intravisto una via d’uscita dalla difficoltà, questa
volta. – Se mi dite che lingua è fiddle-de-dee, vi dirò come fa in francese! –
esclamò trionfante.
“Vorrei che le Regine non facessero mai domande”, pensò Alice tra sé.
– La causa del lampo, – rispose Alice decisa, perché si sentiva più che
sicura su questo, – è il tuono… no, no! – si corresse precipitosamente. –
Volevo dire il contrario.
– È troppo tardi per correggersi, – decretò la Regina. – Una volta che hai
detto una cosa, quella resta, e devi subirne le conseguenze.
– Il che mi fa venire in mente, – disse la Regina Rossa, stringendo e
rilasciando nervosamente le mani, – che abbiamo avuto un tale temporale
martedì scorso… voglio dire, una delle ultime serie di martedì, capisci.
Alice era perplessa. – Nel nostro paese, – osservò, – c’è solo un giorno
per volta.
– Allora cinque notti sono più calde di una? – osò chiedere Alice.
Alice pensò tra sé: “Io non proverei mai a ricordare il mio nome nel bel
mezzo di un disastro! A che servirebbe?”, ma non lo disse a voce alta, per
timore di ferire la sensibilità della povera Regina.
La Regina Bianca guardò con aria timida Alice, che sentì di dover dire
qualcosa di gentile, ma davvero non riusciva a farsi venire in mente niente
sul momento.
Alice pestò quasi i piedi per l’irritazione di fronte alla pronuncia lenta e
strascicata con cui parlava il Rospo. – Questa porta, naturalmente!
Il Rospo guardò la porta coi suoi grandi occhi ottusi per un attimo; poi
s’avvicinò e la strofinò col pollice, come per vedere se veniva via la
vernice: quindi guardò Alice.
– Rispondere alla porta? – disse. – Che cos’è che ha chiesto? – Era così
roco che Alice riusciva a malapena a sentirlo.
Seguì poi un confuso rumore di applausi, e Alice pensò tra sé: “Trenta
volte tre fa novanta. Vorrei sapere se qualcuno sta contando!”. Dopo un
minuto si fece di nuovo silenzio, e la stessa voce acuta cantò un’altra strofa.
Però non capiva perché la Regina Rossa dovesse essere l’unica a dare
ordini: così, per fare un esperimento, gridò: – Cameriere! Riportate il
budino! – ed ecco che quello riapparve, come in un gioco di prestigio. Era
così grande che Alice non poté evitare di sentirsi un po’ intimidita di fronte
a lui, come lo era stata col montone; tuttavia, con grande sforzo, vinse la
sua timidezza, ne tagliò una fetta e la porse alla Regina Rossa.
– Questo non sarebbe affatto opportuno, – disse la Regina Rossa con tono
molto deciso: così Alice cercò di sottomettersi alla cosa con buonagrazia.
In quel momento udì una risata roca accanto a lei, e si voltò per vedere
che cosa stava succedendo alla Regina Bianca; ma, al posto della Regina, su
quella sedia c’era il cosciotto di montone. – Eccomi qua! – gridò una voce
dalla zuppiera, e Alice si voltò di nuovo, giusto in tempo per vedere il
bonario facciotto della Regina sorriderle per un attimo sopra il bordo della
zuppiera prima di scomparire nella minestra.
Non c’era un minuto da perdere. Già parecchi degli ospiti erano sdraiati
nei piatti e il mestolo avanzava sulla tavola verso la sedia di Alice,
invitandola con gesti spazientiti a togliersi di mezzo.
Mentre parlava, la tolse dal tavolo e la scosse avanti e indietro con tutta
la sua forza.
– Vostra Maestà la Regina Rossa non dovrebbe ronfare così forte, – disse
Alice, stropicciandosi gli occhi e rivolgendosi alla micina con rispetto,
anche se con una certa severità. – Mi hai svegliato da un… oh, un sogno
così bello! E tu sei stata sempre con me, Kitty… nel mondo dello Specchio.
Lo sapevi, cara?
Così Alice frugò tra i pezzi degli scacchi sul tavolo finché non ebbe
trovato la Regina Rossa: poi si inginocchiò sul tappeto davanti al focolare e
mise il gatto e la Regina di fronte in modo che si guardassero. – Su, Kitty! –
esclamò trionfante. – Confessa che è in questa qui che ti eri trasformata!
– Sta’ seduta un po’ più impettita, cara! – gridò Alice con un’allegra
risata. – E fa’ la riverenza mentre pensi a cosa… a cosa dire con le fusa. È
tutto tempo risparmiato, ricordati! – E la prese su e le diede un piccolo
bacio, – Solo in onore del fatto che siamo state una Regina Rossa!
– Ora, Kitty, vediamo di stabilire chi è stato a sognare tutto ciò. È una
questione seria, mia cara, e non dovresti continuare a leccarti la zampa a
quel modo, come se Dinah non ti avesse già lavata questa mattina! Vedi,
Kitty, o sono stata io o è stato il Re Rosso, per forza. Lui faceva parte del
mio sogno, naturalmente, ma anch’io, d’altronde, facevo parte del suo! È
stato il Re Rosso, Kitty? Tu eri sua moglie, mia cara, perciò dovresti
saperlo… Oh, Kitty, dài, aiutami a decidere! Sono sicura che la tua zampa
può aspettare! – Ma la dispettosa gattina si limitò ad attaccare l’altra zampa,
e finse di non aver sentito la domanda.
(2) Il gioco di parole nell’originale è così: “Fa bough wough!” (Bau Bau!)… È per questo che i suoi
rami sono detti boughs (rami d’albero, specie se grosso). [««]
(4) L’insetto in questione è il dragonfly, la Libellula, cui nel mondo dello Specchio corrisponde lo
Snap-Dragon-fly. L’intraducibile gioco di parole si riferisce a un gioco natalizio che non ha notorietà
né equivalenti da noi: lo Snapdragon, consiste nell’afferrare delle uvette da un vassoio di brandy
acceso. Creandone un altro, incentrato sull’ardore religioso, ho potuto conservare una certa analogia
con l’originale. [««]
(5) In realtà il pun della Zanzara si origina da un diverso scambio di battute ed è basato sul duplice
significato di miss, sostantivo, e di to miss, verbo. Infatti Alice dice: … mi chiamerebbe ‘signorina’
(Miss), come fanno i domestici; e la Zanzara: “… se dicesse ‘signorina’… perderesti (you’d miss) le
lezioni”. [««]
(7) In inglese “bere alla salute di qualcuno” (to drink somebody’s health) letteralmente significa
“bersi la salute” di qualcuno. Per rendere in qualche modo l’ambiguità, mi sono presa la libertà di
introdurre qui il biascicamento del Vecchio, di cui si parla nell’ultima strofa. Grazie a questo
espediente, i due versi si possono “leggere” anche in questo modo: “Mi berrò l’esimia salute di
Vostro Onore – mi picco d’augurar (intransitivo)”. [««]
(8) Dough significa “pasta” di pane e anche grano, o grana, nel senso di quattrini. [««]
(10) Nel testo, Alice dice che la farina non viene colta, bensì “ground”, cioè macinata; ma “ground”
significa anche “terra”. Così la Regina domanda: “quanti acri di terra?”. [««]
(11) Parola inesistente, che fonde fiddle (violino) e tweedle (suono di violino, strimpellio), e richiama
il nome di Tweedledee. [««]
(12) Il pesce dell’indovinello (secondo Annotated Alice di Martin Gardner) è l’ostrica, perché: anche
un bimbetto può pescarla; nell’Inghilterra di quei tempi costava pochissimo; cuoce velocemente; il
guscio fa da piatto di portata e la valva superiore è tenuta con forza dal mollusco che sta in
mezzo. [««]
(13) Le lettere iniziali di ogni verso, lette dall’alto verso il basso, compongono il nome completo
della Alice originaria: ALICE PLEASANCE LIDDELL. [««]