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Massimo D’Alema
Controcorrente
Intervista sulla sinistra
al tempo dell’antipolitica
a cura di Peppino Caldarola
Editori Laterza
© 2013, Gius. Laterza & Figli
www.laterza.it
Edizione
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Anno
2013 2014 2015 2016 2017 2018
Questo libro esce nel vivo di una crisi drammatica, alla vi-
gilia di un voto che certamente segnerà la storia del Paese,
chiudendo tutta una fase della vita nazionale.
Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza
delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leader-
ship di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta
politica in grado di rispondere all’esigenza di una rico-
struzione democratica. Con il confronto delle primarie,
questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro
del dibattito pubblico.
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno del-
la politica alla guida del Paese.
Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è le-
gittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche
per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza
di questi ultimi venti anni.
Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione “Seconda
Repubblica”, che è carica di ambiguità e contiene, forse,
un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude
oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta.
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo
segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi,
dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di
forze sociali e di interessi intorno a lui.
Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di inter-
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pretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di
là delle sue personali capacità e della forza del suo potere
mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una
sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti ani-
mali della società civile contro la “Repubblica dei partiti”,
la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro
i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista
hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di mo-
dernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lon-
tano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una
versione italiana di quella più generale egemonia di una
visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine
del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva
resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del
Novecento.
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese,
i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di
eventi internazionali. La crisi della “Repubblica dei parti-
ti” nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della
Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita
nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo
finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno
dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde,
accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il diva-
rio tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione,
l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammen-
tazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i
problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un
centrosinistra che non è stato in grado di completare la
sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni
di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti
pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pub-
blica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema
politico-democratico.
Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, an-
che se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere
vi
questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel
ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato
chiamato dal capo dello Stato.
Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso
misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre
attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva,
il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese
ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia
stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia
sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di
marginalità o di profonda umiliazione.
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti
noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia con-
sentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo
da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la
probabile conquista anticipata del governo.
Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese,
ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e
credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del
consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida
del governo.
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il
ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici,
come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della po-
litica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di
incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è
solo una campagna contro la politica, è una campagna con-
tro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere
governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra.
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto
gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una
rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tec-
nocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause.
Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e
della politica sulla società e sull’economia. Al contrario,
ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da
lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha
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caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’an-
ni. In Italia, dopo la caduta del sistema dei partiti all’inizio
degli anni Novanta, si sono succeduti diversi tentativi di
rifondazione del sistema politico, ma viviamo tuttora una
fase di tumultuosa e drammatica transizione.
Davvero non siamo sotto il tallone di una partitocrazia
oppressiva, né di pesanti apparati che non esistono pres-
soché più, se non nei commenti improbabili dei media.
Abbiamo assistito a un processo di trasformazione che
potrebbe intitolarsi, in modo generico, “americanizzazio-
ne della vita politica europea”, con una crescita impres-
sionante della personalizzazione, dell’influenza dei media
e dell’ingerenza dei poteri economici e finanziari. A ciò ha
corrisposto una perdita di autonomia dei partiti e una loro
permeabilità crescente a interessi particolari che pesano
sui sistemi politici.
I partiti si presentano, così, più come insiemi di comita-
ti elettorali che come associazioni di cittadini uniti intorno
a valori, programmi, visioni del mondo. Un processo che
ha avuto un effetto particolarmente disgregante in Italia
e l’unica forza che in qualche misura fa argine a questa
tendenza è il Pd.
Dunque, si è fortemente erosa la capacità della politica
organizzata di formare e selezionare la classe dirigente, men-
tre una sorta di neo-borghesia, un notabilato diffuso, privo
di idealità, di senso dello Stato, di attenzione all’interesse ge-
nerale, è penetrato largamente nelle istituzioni. Berlusconi è
stato il riferimento culturale e antropologico di questo mon-
do, ben al di là del suo ruolo di leader politico.
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di
perdita di credibilità del sistema politico e istituzionale,
ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione
pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una
ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizza
zione della politica. Quindi verso un aggravamento dei
guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è per-
sino più grave, verso un restringimento delle basi sociali
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dell’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei
partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e
finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo
meno dominata dai ricchi.
È possibile un’altra strada? C’è una via per la ricostru-
zione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza
per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passato?
Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il
centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente
impegnativa e complessa.
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimen-
to al contesto internazionale e particolarmente all’Europa,
un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’u-
scita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi.
È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attra-
versata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi
casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il
nostro Paese.
Tutti noi constatiamo con quanta lentezza e quanta
fatica l’Europa si muova di fronte alla crisi, come se ci
fosse una difficoltà strutturale a decidere, non solo una
fragilità delle leadership. La politica europea tradizionale
che si è costruita con gli Stati nazionali appare spiazzata
di fronte alla globalizzazione. Le decisioni (cioè le policies)
si sono spostate a livello europeo o, peggio, a livello delle
istituzioni finanziarie sovranazionali, in sedi che appaiono
inaccessibili al controllo popolare, con procedure opache
e sostanzialmente dominate dalla razionalità economica di
quello che è stato chiamato “pensiero unico”.
Il cittadino americano può scegliere tra un presidente
che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri
e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanita-
ria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle
agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre
potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere.
In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la
percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione,
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che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di
obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non
resta che fare “i compiti a casa”, cioè eseguire le direttive
che la razionalità economica dominante impone. La poli-
tica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali,
ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione.
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel
nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando
l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e
l’integrazione europea.
Così, la democrazia europea rischia di essere schiaccia-
ta tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più atten-
ta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti
compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre
più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle
identità culturali che si sentono minacciate dalla globa
lizzazione.
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze
politiche che hanno dominato la scena europea negli ulti-
mi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della
destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla
storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri
economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevo-
le alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, popu-
lista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati
dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale.
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà.
Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che
hanno condiviso con le élite economiche una visione so-
stanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più
tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso so-
cialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato,
nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protet-
to anche nei nuovi scenari della competizione mondiale.
L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta.
Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per
accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in
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Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata
per il “no” nel referendum sulla nuova Costituzione euro-
pea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di
appannamento ideale e di subalternità.
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella sta-
gione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre
in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia.
Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressi-
sti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande,
ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di
ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di
questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno
oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà
in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modi-
ficare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente
una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte
appaiono estremamente impegnative.
Al centro della crisi europea vi è l’esigenza di crea-
re lavoro per masse crescenti di milioni di disoccupati,
innanzitutto giovani. E ciò in un contesto che è ancora
quello di economie in media scarsamente competitive,
potendo contare su risorse pubbliche limitate per il peso
dell’indebitamento degli Stati e su un ridotto afflusso degli
investimenti privati, crescentemente attratti dalle econo-
mie cosiddette emergenti. Davvero un compito non facile.
Anche perché, come sta avvenendo in Francia, la sinistra
che torna al governo suscita aspettative ben comprensibili
in società dove l’aumento di ingiustizie, povertà ed esclu-
sione si fanno insostenibili.
È evidente che occorre una svolta profonda nel senso
della crescita economica e della giustizia sociale. Ma non
ci si illuda che per produrla sia semplicemente possibile
tornare alle politiche che hanno caratterizzato la sinistra
nel secolo scorso e che furono possibili in un contesto
mondiale ed europeo totalmente diverso, che non tornerà.
Non nego che sia giusto riflettere sul prezzo pagato a
una certa acquiescenza culturale al pensiero dominante
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neoliberista. Nessuno può negare, oggi, dopo anni in cui si
è teorizzato che bisognava lasciar fare soltanto al mercato,
che non può esservi crescita senza la guida di una azione
pubblica intelligente ed efficace.
Ma per corrispondere davvero a questa necessità, non
si potrà non operare per ridurre il peso burocratico de-
gli apparati, tagliando in modo selettivo la spesa, e quindi
ammodernando il welfare per contrastare efficacemente la
povertà e garantire diritti essenziali, combattendo sprechi
e rendite corporative. Insomma, il rigore è un vincolo reale,
da cui la sinistra non potrà prescindere. E se si vorrà, come
si deve, spostare risorse verso l’innovazione e la formazione
per crescere in competitività, altri aspetti dovranno esse-
re sacrificati. E giustizia sociale e crescita non si potranno
garantire a debito, ma spostando il peso della fiscalità dal
lavoro e dalle imprese verso la rendita e i patrimoni.
La grande sfida per la sinistra è quella di innovare senza
gettare via ciò che è vivo della stagione neoliberale: buttar
via l’acqua sporca dell’ingiustizia e delle disuguaglianze,
ma mantenere la spinta verso un’economia più aperta e
competitiva.
Per questo ci vuole una sinistra europea che sia anche
– finalmente – europeista.
È, forse, il contributo più importante che il centrosini-
stra italiano può dare, tornando al governo, ai progressisti
europei: portare nell’Unione, con coerenza e con forza, il
peso di una visione politica, europeista e federalista, ne-
cessaria per uscire dalla crisi e per compiere un salto di
qualità nel processo di integrazione. È ormai chiaro che, se
non c’è questo deciso passo in avanti, il rischio è che tutta
la costruzione divenga fragile e che le conquiste fonda-
mentali realizzate nel dopoguerra, inclusi il Mercato unico
e l’euro, vengano rimesse in discussione.
Dal conflitto paralizzante tra un’Europa lontana, che
appare dominata da una tecnocrazia neoliberista, e i po-
pulismi regressivi che si affermano in diversi Paesi, si esce
con una Unione più forte, legittimata dal consenso dei
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cittadini con rinnovate procedure democratiche, capace
nello stesso tempo di mettere in campo politiche nuove.
Nessun Paese ce la farà, neppure quelli più forti, senza
una politica comune, attiva e solidale, per ridurre il peso
del debito e abbattere i tassi di interesse, senza una strate-
gia per la crescita e una interpretazione ragionevolmente
flessibile del Patto di stabilità.
Ormai tutti i nodi da sciogliere, compresi quelli appa-
rentemente tecnici, come i meccanismi di controllo per
l’Unione bancaria o per gli strumenti anti-spread, rinviano
a una questione politica più di fondo, che riguarda la so-
vranità e la legittimazione. Si fa sempre più evidente, nella
crisi di oggi, quanto sia ormai storicamente superato il di-
battito sulla cessione di sovranità da parte degli Stati. Per
molti aspetti, di fronte all’economia e alla finanza globali,
la sovranità nazionale è ormai di fatto fortemente ridotta
e rafforzare i poteri democratici dell’Europa appare come
l’unica via per riguadagnare sovranità e non per cederla.
Naturalmente a condizione che le istituzioni europee tro-
vino una legittimazione più diretta e forte nel rapporto
con i cittadini e non solo nei trattati tra gli Stati.
Questo è il terreno su cui si misureranno le ambizioni
di una nuova sinistra riformista e anche la possibilità di
un patto con le forze moderate più aperte e consapevoli.
Altrimenti il rischio è quello di una regressione, persino
sul terreno della democrazia e dei diritti fondamentali, co-
me ci appare chiaro in alcuni Paesi della cosiddetta “nuo-
va Europa”, in particolare l’Ungheria.
Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo
Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una sto-
ria di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo
che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una
delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi popu-
lismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la
consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento
più significativo di continuità con il suo governo che il
centrosinistra dovrà assicurare.
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L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non
potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come
due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova
classe dirigente. Anche per questo è così importante che
a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la
sua originale identità – è parte integrante, autorevole e
riconosciuta del riformismo europeo.
Nel momento in cui scriviamo, non sappiamo che esito
avrà il tentativo di reclutare Monti per candidarlo, come
è stato detto, contro la sinistra. Certo, sarebbe un esito
sconcertante dello sforzo che abbiamo compiuto per so-
stenerlo e risanare il Paese attraverso duri sacrifici.
Quella che ci sta davanti è una nuova frontiera, certa-
mente; ma credo la si affronti meglio se non si smarrisce il
senso di una vicenda storica segnata da errori e sconfitte,
ma anche carica di passione politica, visione, battaglie e
risultati importanti per l’Italia.
La spinta decisiva verso il futuro – occorre sottolinear
lo – è venuta da milioni di cittadini, che sono scesi in
campo con una forza che nessun partito e nessun leader
solitario avrebbero potuto esprimere. Bersani ha mostrato
di saper raccogliere questa spinta. La speranza ora è che
il vizio antico delle divisioni non torni a rendere fragile la
forza che ha il compito di rinnovare l’Italia.
Se la politica è l’azione intelligente per cambiare il cor-
so delle cose, se la politica è passione e responsabilità, mai
come ora l’Italia e l’Europa ne hanno bisogno. Mai come
ora c’è bisogno di una classe dirigente capace di non ab-
bandonarsi alla corrente della demagogia e del populismo
e di ritrovare la rotta del cambiamento e delle riforme.
Massimo D’Alema
D. Nel luglio del 1994, appena eletto segretario del Pds,
hai esordito dicendo: «Il compito della mia generazione è
portare la sinistra italiana al governo del Paese. Altre gene-
razioni hanno fatto cose fondamentali: hanno riconosciuto
la democrazia, hanno rinnovato il Paese. Ora, per noi, il
problema è il governo: vogliamo essere messi alla prova».
Una generazione, la tua, di dirigenti che, in effetti, si sono
portati oltre il Pci, hanno fondato un nuovo partito e ce
l’hanno fatta a portare la sinistra al governo. Ma è anche
la stessa che si è divisa, che ha perso alcuni appuntamenti
importanti. Non pensi che per capire meglio questo percorso
bisogna partire da quella svolta che, insieme alla caduta del
Muro di Berlino, cambiò la sinistra e la politica italiana?
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le Occhetto. A suo modo, Occhetto è stato il Gorbaciov
italiano: come lui, ha avuto il grande coraggio di tagliare i
ponti, ma ha anche avuto la sua stessa fragilità nel costruire
le fondamenta della nuova stagione.
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te: si era iscritto nel ’37, era stato uno dei protagonisti
della Resistenza, aveva dedicato l’intera vita al partito e
alla lotta politica. E da pensionato continuava a seguire
con grande passione le nostre vicende. Mi colpì l’estrema
determinazione con cui si espresse subito a favore della
“svolta”. Gli manifestai anche alcune mie perplessità sui
modi con cui era stata presentata, su un eccesso di legge-
rezza, ma lui non le giudicò essenziali. Nonostante la sua
abitudine al rigore delle discussioni interne al partito, mio
padre mi disse che Occhetto aveva fatto bene ad agire in
modo irrituale, perché altrimenti si sarebbe impantanato.
E non era il solo a pensarla così tra gli anziani del partito:
molti di loro videro nella “svolta” un vero e proprio atto
salvifico.
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R. Una sola volta sono stato sul punto di lasciare il parti-
to. Fu quando venne espulso il gruppo del Manifesto, nel
’69. Ero a Pisa e, dopo una drammatica notte di discussio-
ne con il mio amico Fabio Mussi, decidemmo insieme di
restare. Penso che Rossana Rossanda non me l’abbia mai
perdonato. Ma io non immaginavo possibile un mio im-
pegno altrove. Eravamo comunisti, ma lo eravamo a modo
nostro. A 19 anni mi trovai per caso a Praga con un ami-
co il giorno dell’invasione russa: non avemmo la minima
esitazione a mescolarci con i giovani che si ribellavano e
nell’incoscienza del pericolo anch’io disegnai una svastica
con il gesso su uno dei carri armati. Ci sentivamo forti
delle nostre idee, ma anche delle radici nazionali e popo-
lari che il Pci aveva sviluppato e della scelta democratica
sancita dal patto rappresentato dalla Costituzione italiana.
Poi, sul finire degli anni Ottanta, mutò rapidamente l’oriz-
zonte. La verità è che tutti noi ci accorgemmo in ritardo
che potevamo far vivere le risorse della sinistra italiana
solo fuori dal perimetro del comunismo.
D. Il Pci che stava diventando Pds doveva fare i conti con
una crisi acuta del sistema politico, con un rapporto molto
conflittuale con il Psi, con un movimento referendario che
cresceva e talvolta sembrava prendere la guida dell’opposi-
zione.
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Pci. Un sistema dove la questione morale, intesa in chiave
non moralista, era plasticamente incarnata dal declino del
ruolo propulsivo dei partiti e da una loro progressiva, si-
stematica occupazione dello Stato. La trasformazione del
Pci e la costruzione di un partito nuovo era una necessità,
ma anche una grande occasione. Tuttavia, all’epoca, non
pochi polemizzarono con noi, sostenendo che parlavamo
della crisi italiana per sottrarci all’autocritica sul fallimen-
to del comunismo o per attutirne gli effetti. In realtà, di
lì a poco, assistemmo al crollo del nostro sistema politico.
E la causa non fu certo un complotto: erano marcite le
strutture portanti.
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mini di fondazione del Pds, mi richiamò dall’«Unità» per
affidarmi l’incarico di coordinatore della segreteria. Non
sarebbe potuto accadere se fossi stato un frenatore.
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dovesse servire anzitutto a un rapido approdo nella famiglia
socialista. Avevano torto o ragione?
D. Nel marzo del ’90, tra il congresso della “svolta” e quel-
lo fondativo del Pds, tu e Walter Veltroni avete incontrato
Craxi nel camper dell’assemblea organizzativa del Psi a Ri-
mini. Fu il vostro primo faccia a faccia? Cosa vi siete detti?
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Craxi ne occupava uno per intero, con il corpo parzial-
mente reclinato e il gomito poggiato su un bracciolo. Vel-
troni ed io eravamo affiancati, e piuttosto stretti, nell’altro
divanetto. Giuliano Amato, il quarto partecipante all’in-
contro, sedeva su uno sgabello alto. Noi due avevamo una
missione precisa: chiedere a Craxi di non interrompere la
legislatura. Infatti, le elezioni anticipate avrebbero colto il
nostro partito in mezzo al guado: ci eravamo avventurati
nella macchinosa procedura dei due congressi e sareb-
be stato un guaio presentarci agli elettori nell’incertezza
persino sulla nostra identità. Craxi acconsentì e prese un
impegno che poi mantenne. Penso che l’abbia fatto anche
per altre ragioni, a cominciare dal suo buon rapporto con
il gruppo dirigente della Dc, che da poco aveva messo in
minoranza Ciriaco De Mita. Va detto, tuttavia, che Craxi
non ci fu ostile in quel frangente. Non ostacolò neppure
il nostro avvicinamento all’Internazionale socialista. For-
malmente avrebbe potuto porre il veto all’ingresso del Pds
nell’Internazionale. Non gli sarebbe stato facile, viste le
nostre positive relazioni con i maggiori partiti socialisti
europei e soprattutto con Willy Brandt, ma comunque va
dato atto a Craxi di essersi sempre espresso favorevolmen-
te nelle sedi ufficiali. Nel colloquio dentro il camper rimasi
colpito da alcune sue parole amare, addirittura sprezzanti,
rivolte verso il suo partito. Disse qualcosa come: se aves-
si avuto la possibilità di dirigere un partito vero, come il
vostro, forse avremmo cambiato l’Italia. Craxi si sentiva
uno sconfitto, ma aveva ancora una carta da giocare: il
suo disegno politico era tornare alla guida del governo,
nella legislatura successiva, con una maggioranza nuova
che comprendesse anche noi. A questo serviva l’unità so-
cialista. Craxi, al di là delle sue discutibili scelte e delle
responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra. E,
proprio perché si sentiva di sinistra, sono sempre stato
convinto che non sarebbe mai finito nel melting pot della
destra poi costruito da Silvio Berlusconi. Il suo ultimo di-
segno naufragò all’indomani del voto del ’92: il quadripar-
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tito che reggeva il governo Andreotti subì un duro colpo
elettorale, il Pds rifiutò il sostegno a un eventuale governo
Craxi e la sconfitta definitiva per il segretario socialista fu
l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale.
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La replica di Cossiga è immediata e straordinaria: «Sì, ma
il maresciallo che ci ascolta sa benissimo cosa dico, non è
mica un coglione come voi». Insomma, Cossiga non si ras-
segnava al conflitto con noi. Ci chiamava «i ragazzi della
via Pál», ma, pur in modo confuso, cercava di strattonarci
per riportarci su un terreno di confronto. Personalmente,
con Cossiga ho sempre avuto un buon rapporto, anche
perché è stato amico di mio padre. Col tempo gli ho voluto
bene e sono convinto che lui ne volesse a me. Tuttavia, in
quegli anni non mi risparmiò nulla.
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la segreteria di Gorbaciov. Gli risposi che, dal momento
che eravamo spiati, avrebbe dovuto sapere che noi all’ope-
razione non avevamo partecipato e che, anzi, ci eravamo
adoperati per sventarla. Ma Cossiga incalzò: «Perché non
ha denunciato tutto alla Procura?». Replicai: «Perché in
Italia non è stato consumato nessun reato». La conclusione
fu che il presidente della Repubblica presentò un esposto
alla Procura di Roma contro di me.
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R. Quello di Rimini fu un congresso carico di passioni
e di emozioni. Si consumò il trauma della scissione, ma la
nave era giunta all’approdo. Ero molto contento del sim-
bolo della Quercia: eravamo stati Veltroni ed io a concepir-
lo e realizzarlo con l’aiuto del disegnatore Bruno Magno.
Purtroppo la mancata elezione finale di Occhetto fu una
catastrofe d’immagine per il nuovo partito. Ma nulla fu
organizzato. Fu banalmente il combinato disposto di un
congresso gestito in modo caotico e di una norma sbagliata
dello statuto, che fissava alla metà più uno dei componenti
del Consiglio nazionale il quorum per eleggere il segreta-
rio. A Rimini, al voto si presentò circa il 60% degli aventi
diritto, dal momento che molti erano partiti perché non
sapevano neppure di far parte del Consiglio nazionale.
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R. Iniziò allora la malattia degli staff, che accentuano i
difetti del leader anziché attenuarli. Lo dico in modo au-
tocritico, perché quella malattia in seguito ha contagiato
anche me. Allora, comunque, lo staff mi disse: non possia-
mo permetterci di creare un pericoloso vuoto di potere. E
così è successo il patatrac.
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storia repubblicana la Dc si fermò al di sotto del 30%. Con
un exploit, la Lega balzò al 9%. Mentre le cose andarono
male al Psi di Craxi e la delusione fu grande anche per il
neonato Pds, appena sopra il 16%. Quali furono le valuta-
zioni e le scelte?
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per il nuovo partito, ma nello stesso tempo giudicava il
Psi di Craxi un interlocutore impossibile per la sua com-
promissione con il sistema di potere declinante e per il
ripiegamento moderato degli ultimi anni. Sapevamo che
il nostro no a Craxi avrebbe avuto conseguenze pesanti.
Ma una scelta diversa sarebbe stata rovinosa, riducendo il
Pds a stampella di un quadro politico ormai logoro. Craxi
rispose che, essendoci chiamati fuori, saremmo stati anche
esclusi dalla Presidenza della Camera. A Montecitorio fu
così eletto Oscar Luigi Scalfaro, con il sostegno del qua-
dripartito e con l’apporto, tutt’altro che ininfluente in quel
contesto, del Partito radicale che aveva fatto di Scalfaro la
bandiera del parlamentarismo.
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Chigi a un democristiano. E a favore di Spadolini si sta-
va coagulando un’area influente dell’opinione pubblica:
da un lato Eugenio Scalfari e «la Repubblica», dall’altro
quell’asse laici-cattolici che era in auge, appunto, ai tempi
del governo De Mita, ma che poi era stato costretto a subi-
re l’egemonia del cosiddetto “Caf”. Anche all’interno del
Pds non mancavano i sostenitori di Spadolini.
18
elenco alcune. Ci fu una trattativa? Se ci fu, era espressione
di una cultura politico-investigativo-istituzionale che cerca-
va di trovare strade per fermare il crescendo delle stragi o
sono stati commessi reati da uomini dello Stato, ministri e
investigatori? E poi, perché si è voluto coinvolgere l’attuale
presidente della Repubblica in questa vicenda?
19
La confusione e il conflitto tra magistrati sono elementi
che accrescono l’incertezza della giustizia, facendole per-
dere credibilità. E non voglio neppure accennare al fatto
che il modo di funzionare del sistema giudiziario compor-
ta anche un enorme spreco di denaro pubblico... Trovo,
infine, singolare la pretesa di attribuire a taluni magistrati,
magari in polemica con altri, un compito salvifico di rico-
struzione della storia patria. La magistratura persegue i
reati, si occupa della ricerca dei responsabili in un Paese
in cui la responsabilità è personale. La magistratura non
può essere protagonista di una sorta di processo storico a
una classe dirigente. Questo compito spetta alla politica e,
appunto, agli storici.
20
invece nella discussione politica né penso lo debba fare il
magistrato, che non è chiamato a giudicare il tasso di etici-
tà esistente nella storia del Paese. Questo rivela un aspetto
della crisi italiana, una sua anomalia, e cioè che in determi-
nati momenti alcuni corpi dello Stato assumono un ruo-
lo diverso da quello che istituzionalmente compete loro.
Può diventare una forzatura dell’ordine democratico, non
è compito dei sostituti procuratori giudicare la coerenza
morale dei comportamenti politici. Nelle democrazie sono
i cittadini che giudicano con il voto.
21
cioè Gerardo D’Ambrosio, è stato di gran lunga l’uomo
più prudente e moderato della Procura.
22
nostro Paese. Non credo che si possa parlare di complot-
to, e comunque è curioso che lo si faccia da parte di chi
milita nel partito di Berlusconi, perché, in definitiva, il
maggior beneficiario della demolizione dei partiti fu pro-
prio Silvio Berlusconi, che non a caso vinse le elezioni
del 1994. E forse non a caso propose a Di Pietro di fare
il ministro dell’Interno nel suo governo. In ogni caso, l’i-
deologia antipolitica non investì soltanto il nostro Paese,
ma, in modi diversi, caratterizzò dopo il 1989 in tutto
l’Occidente i Paesi più avanzati. Proprio questo è il pun-
to: comprendere in quale misura questa ideologia abbia
condizionato, in Italia, la stessa stagione delle inchieste
di Tangentopoli. L’origine di ogni male era individuata
nella corruzione dei partiti e si chiedeva di colpire solo
i partiti, attenuando invece le responsabilità dei vertici
economici e imprenditoriali, che pure erano partecipi dei
reati e di quell’intreccio perverso tra economia e politica
che Tangentopoli metteva in luce. Qualche mese più tar-
di, Antonio Di Pietro mi disse chiaramente: «Volevamo
colpire tutti i partiti». Poi aggiunse: «Ma voi siete stati
l’osso più duro. Eravate bene organizzati».
23
largamente diffusa nei partiti di governo, che ormai orien-
tava la corruzione verso fini di corrente o di gruppo, se
non addirittura di arricchimento privato.
D. Craxi, nel discorso alla Camera del ’93, invitò tutti i
partiti a confermare di aver partecipato al sistema illegale di
finanziamento.
24
R. Nel discorso di Craxi mancò la necessaria riflessio-
ne autocritica. Si difese sostenendo che i finanziamenti
illeciti fossero un peccato veniale e che la pratica fosse
largamente diffusa: dunque, tutti colpevoli nessun colpe-
vole. Ma la pretesa di uscire da Tangentopoli senza una
seria analisi sulle ragioni della degenerazione del sistema
era velleitaria. E infatti il tentativo fallì. Il leader sociali-
sta, purtroppo, ebbe una grave responsabilità nella crisi
che determinò Tangentopoli. Fu lui l’artefice del modello
vincente degli anni Ottanta: il modello del rampantismo
individuale, della politica trasformata in scalata di potere.
Osteggiò, lui per primo, i grandi partiti popolari. Utiliz-
zò con spregiudicatezza il potere di coalizione. E sul suo
carro salì una borghesia che aveva voglia di arricchirsi,
ma spesso era priva di solidi principi. Questi ingredienti
furono essenziali all’impasto di Tangentopoli. Bisognava
denunciarli apertamente per poter difendere il ruolo dei
partiti davanti all’onda dell’antipolitica. Ma Craxi non lo
fece. E la strategia socialista presto si esaurì, anche per
ragioni interne al sistema: c’era troppa disparità tra il po-
tere conquistato e la legittimazione democratica. Appena
i consensi calarono, il Psi non resse.
25
svalutazione della lira e la sua uscita dalla banda stretta
di oscillazione dello Sme. Tuttavia, con il governo Ama-
to cominciò il primo risanamento e si avviarono anche le
privatizzazioni. Detto questo, non c’è dubbio che la crisi
fiscale e finanziaria contribuì al crollo del sistema. E la
preoccupazione per le sorti dell’economia nazionale pe-
sò, eccome, sugli orientamenti degli imprenditori italiani.
Mai la loro critica alla politica si era spinta così avanti. Si
convinsero persino che, bastonando la politica, si sareb-
bero ottenuti risultati migliori. L’esecutivo Amato, benché
espressione di una maggioranza incerta e fragile, diventò
in pochi mesi un “governo del presidente”. Dopo le stragi
di Capaci e di via D’Amelio, anche la guerra a Cosa Nostra
ebbe una svolta che portò alla cattura di Totò Riina e di
altri componenti della Cupola mafiosa. Insomma, nel ca-
pitalismo italiano come in parte dell’opinione pubblica si
fece strada l’idea che senza politica si potesse stare meglio,
che le soluzioni “tecniche” potessero offrire performance
altrimenti impossibili...
26
organizzò un incontro tra delegazioni, sia pure riservatis-
simo. Per la Dc, oltre al segretario, erano presenti i capi-
gruppo Gerardo Bianco e Gabriele De Rosa. Per il Pds
con Occhetto eravamo Giuseppe Chiarante, presidente
del nostro gruppo in Senato, ed io. Il discorso di Marti-
nazzoli fu molto chiaro: propose la più ampia collabora-
zione tra le forze democratiche che volevano guidare la
transizione istituzionale.
27
D. Quali furono la reazione di Occhetto e la tua?
28
la porta alla vittoria di Berlusconi. Eppure, in quella con-
sultazione, anche Scalfaro ci chiese cosa pensavamo di un
ipotetico incarico a Prodi. E colsi lo stupore del presidente
nell’ascoltare la diversità dei miei toni rispetto a quelli del
segretario. Quel tentativo comunque fallì. Scalfaro allora
decise di giocare in extremis la carta di Ciampi, senza con-
sultazioni preventive con i partiti. Era l’ultima spiaggia. E
Ciampi formò il suo governo.
29
di Occhetto, secondo il quale il governo Ciampi aveva le
caratteristiche di un governo tecnico e non politico, quindi
era più congeniale alla nostra linea. Penso che sia figlia di
questa discussione interna la favola, raccontata in seguito,
di un D’Alema che fa dimettere i ministri. Il voto a scru-
tinio segreto della Camera che bloccò le autorizzazioni a
procedere contro Craxi fu uno shock, oltre che un atto
di rivalsa contro il referendum e l’avvio della transizione
istituzionale. Successivamente si venne a sapere che nel
segreto dell’urna anche i leghisti votarono a favore di Cra-
xi, con lo scopo di scaricare le colpe sul Parlamento cor-
rotto e agitare il cappio. La direzione del Pds, che si riunì
immediatamente dopo l’esito della votazione, durò pochi
minuti ed espresse un parere unanime: nessuno ebbe la
minima esitazione a chiedere ai nostri ministri di dimet-
tersi dal governo.
31
intensità e drammaticità. La nascita del Partito popolare in
campo democristiano, ad esempio, fu un’operazione im-
portante, ma tutta politica. La nostra svolta, invece, si era
accompagnata a una trasformazione più incisiva: il gruppo
dirigente storico del Partito comunista lasciava il campo a
una nuova generazione.
32
D. Quale fu la carta vincente che giocò Silvio Berlusconi?
33
R. Fece anche questo. E la nostra debolezza di analisi fu
di non vedere in profondità i movimenti della società ita-
liana, che non erano stati affatto cancellati dal mutamento
dello scenario politico. C’era un’Italia che non aveva rap-
presentanza ed era completamente illusorio pensare che la
sinistra da sola potesse prevalere sormontando difficoltà,
ostilità, avversione profonda e storicamente radicata. Qui
ci fu un limite culturale del “dopo-svolta”: il nuovismo
portò a cancellare categorie fondamentali di interpreta-
zione della storia nazionale e della realtà.
34
tutte le categorie di interpretazione della realtà, come se i
problemi sociali, gli interessi, le culture tradizionali fosse-
ro svaniti nella crisi degli anni Novanta.
35
D. Torniamo indietro, al primo Berlusconi: vince e rapi-
damente cade. In quegli anni, Massimo D’Alema diventa il
playmaker della politica italiana.
36
e di visione del futuro. Naturalmente, tra noi vi erano di-
versità abbastanza profonde, ma avevamo un forte punto
in comune: l’idea che si dovesse costruire un centrosinistra
di governo, di tipo nuovo rispetto a quello tradizionale,
anche dal punto di vista delle forme politiche che avrebbe
dovuto assumere. Le premesse dell’Ulivo erano già larga-
mente contenute nel dibattito che portò al cambiamento
di vertice del nostro partito.
37
motivo di conflitto. Allora, Veltroni ed io lavorammo in-
sieme per aprire una nuova prospettiva e gettare le basi di
quel centrosinistra che poi governò il Paese. Da parte mia,
eletto segretario, mi mossi innanzitutto sul piano politico
per agganciare il Partito popolare, l’altra forza di opposi-
zione, e per aprire un dialogo con la Lega in vista di una
controffensiva anti-Berlusconi. In quella fase, non ci muo-
vevamo solo noi: basta ricordare la pressione di Berlusconi
sul Partito popolare, che fu molto forte, tanto è vero che
portò a una frattura e a una crisi drammatica del Ppi.
38
con il tentativo di un governo Maccanico. Si tratta di pas-
saggi che non furono facilmente compresi, anzi, a volte
furono visti con diffidenza persino da Prodi. Ma si rivela-
rono fondamentali per vincere le elezioni. E le vincemmo
perché non seguimmo la via dell’ulivismo radicale. C’era
chi voleva che andassimo alle elezioni solo come Ulivo, ma
così le avremmo perse. Invece Veltroni ed io, muovendoci
in sintonia, stringemmo sia l’accordo con Rifondazione
comunista – che gli ulivisti radicali non volevano – sia con
Lamberto Dini. Intesa, quest’ultima, che fu considerata il
massimo tradimento dell’Ulivo. Al contrario, ci portò alla
vittoria.
39
ci hanno accompagnato nel corso degli anni fino a oggi,
muove da un’analisi, a mio parere molto superficiale, della
società italiana. Da una parte si dipinge una mitica società
civile, dall’altra partiti corrotti e privi di idealità. Ma la
società italiana è quella stessa che ha fatto più volte vin-
cere le elezioni a Berlusconi. E i partiti, con tutte le loro
contraddizioni, sono lo specchio della società. Dunque,
questa contrapposizione tra politica cattiva e società buo-
na si presenta, a volte, in forme grottesche e caricaturali.
Prendiamo un altro tema, quello del rapporto tra magi-
stratura e politica. La magistratura viene presentata come
depositaria di tutte le virtù e custode dell’etica pubblica
ben al di là del suo compito costituzionalmente stabilito.
I politici, al contrario, sono il male. Ma come è possibile
questa divaricazione antropologica tra persone che pro-
vengono dalle stesse famiglie, dalla stessa borghesia, dalle
stesse università? E quando un pubblico ministero diventa
deputato, cosa che accade sempre più spesso, rimane buo-
no o diventa cattivo? È evidente che questa visione è pro-
fondamente influenzata da un pregiudizio qualunquista e
antidemocratico contro la politica, il quale, d’altro canto,
risulta essere un tratto radicato della cultura italiana che
condiziona anche la sinistra. Il dibattito di allora fu forte-
mente ideologico e la realtà concreta dei rapporti di forza
fu totalmente rimossa.
40
R. Non sottovaluto l’apporto innovativo di forze intellet-
tuali, non inquadrate nella politica tradizionale, alla svolta
che si determinò con i governi dell’Ulivo. È evidente che
la qualità delle personalità che scesero in campo fu impor-
tante. D’altro canto non abbiamo mai avuto una visione
chiusa e autoreferenziale del ruolo dei partiti. Insomma,
partiti e società civile sono state due componenti essenziali
dell’esperienza dell’Ulivo, anche se spesso in un rapporto
problematico tra di loro.
41
Tuttavia, l’alleanza tra Berlusconi e la Lega fu l’elemento
chiave del quinquennio successivo, l’evento che ha cam-
biato lo scenario politico nazionale.
42
del sabotatore, del pugno di ferro dei partiti rispetto alla
nuova politica e al primato della società civile.
43
costituzionale per dare una base condivisa alla cosiddet-
ta Seconda Repubblica. Erano le tre direttrici del nostro
lavoro. Insisto sull’ultimo obiettivo, perché è decisivo per
la democrazia italiana. Ricondurre la destra, quella destra
che si andava aggregando in quegli anni, in un quadro di
compromesso democratico per definire le nuove regole,
le regole della Seconda Repubblica, rappresentava il ter-
reno per la legittimazione reciproca, per creare un bipola-
rismo normale. Aggiungo che il confronto con Berlusconi
e Gianfranco Fini nella ricerca di un nuovo accordo sulle
regole fu un modo per aiutare Prodi. E infatti, nella fa-
se iniziale, il suo governo poté sviluppare con pienezza e
senza ostacoli la propria opera, che era molto complessa.
L’Italia era impegnata a non perdere l’aggancio con l’Eu-
ropa, si parlava di euro e di scelte difficili sotto il profilo
dell’austerità. Tutto ciò fu possibile anche grazie al fatto
che l’esistenza della Bicamerale aveva creato un clima, nei
rapporti politici, in cui noi vincitori non ci mostravamo
con il pugnale fra i denti.
44
Insomma, non avremmo fatto come la destra, che avrebbe
imposto le proprie regole. Anche qui è stato rimosso tutto
nelle ricostruzioni successive e nella battaglia politica. La
verità è agli atti: la Bicamerale, se avesse avuto successo,
sarebbe stata un’operazione positiva per il Paese. Basta
pensare al superamento del bicameralismo perfetto, alla
riduzione del numero dei parlamentari, al riordino della
giurisdizione e a tanti altri nodi tuttora irrisolti, che ancora
pesano sulla vita istituzionale e sociale del Paese. Il para-
dosso fu che, alla fine, anziché polemizzare con Berlusconi
che impedì le riforme, anche nel centrosinistra si preferì
criticare chi quelle riforme aveva cercato di farle.
45
a fare la legge sul conflitto di interessi non corrisponde
alla verità e bisogna domandarsi come mai alcune leg-
gende siano diventate verità rivelata, attraverso un’azione
politico-propagandistica che è stata fortissima e che ha av-
velenato la vicenda politica italiana. La Bicamerale, invece,
trattò temi importanti, nessuno dei quali favorì Berlusco-
ni. Io non mi occupai della legge sul conflitto di interessi,
che seguì il suo iter alla Camera e venne approvata in una
versione, secondo me, troppo blanda. Quando formai il
mio governo, nel ’98, mi tenni a stretto contatto con Ste-
fano Passigli, che, come relatore al Senato, si adoperò per
rendere il testo arrivato dalla Camera più severo. Nel ’99
lo chiamai come sottosegretario per chiudere in maniera
efficace e decisiva il problema del conflitto di interessi,
provvedimento tanto più necessario dopo che era caduta
la riforma costituzionale. Su questa base ci fu una dura
battaglia al Senato, che si prolungò per l’ostruzionismo
del centrodestra. Poi, dopo le elezioni regionali del 2000,
cadde il governo e la riforma fu abbandonata. Insomma,
se è certamente vero che non aver approvato una legge per
il conflitto di interessi è stato un errore del centrosinistra
e della sua classe dirigente, è certamente falso che questo
sia avvenuto per colpa mia. Anzi, io sono quello che ci ha
provato più seriamente di tutti.
46
che accettando le regole del gioco, e contribuendo a ri-
scriverle, avrebbe rischiato di perdere una parte del suo
elettorato e così cambiò repentinamente la sua posizio-
ne. Approvò il progetto della Bicamerale, rivendicando-
lo come “prova di responsabilità e di senso dello Stato”.
E concluse con parole retoriche che restano scolpite: «È
stato bello e importante esserci». Dopo due mesi passò
all’attacco e buttò tutto per aria.
47
sondaggi dell’epoca, la caduta di Prodi avvenne nel mo-
mento in cui ci fu una tendenza alla perdita di consen-
si nel Paese. Esaurita la fase dei sacrifici e dell’euro, che
aveva visto una grande mobilitazione e l’emergere di un
sussulto di orgoglio nazionale, i cittadini si aspettavano
dei risultati, c’era una forte sofferenza. Se non si ricorda
questo, non si capisce la reazione di Fausto Bertinotti, che
cominciò, proprio in quel momento, a prendere le distan-
ze dal governo, perché avvertì un cambiamento di umore
nell’elettorato popolare. Chiusa la Bicamerale, sul piano
politico si aprì uno scontro aspro con la destra, mentre, dal
punto di vista sociale, emerse la domanda di un Paese che
dopo i sacrifici chiedeva più occupazione e più benessere.
Di fronte a tutto ciò si percepiva una grande incertezza. In
questo contesto, si aprì un dibattito sulla necessità di una
“fase due” nell’azione di governo.
48
un confronto serrato. Bertinotti stesso, prima di rompere,
profilò la possibilità di un cambiamento di fase, addirit-
tura con la sostituzione del presidente del Consiglio. Ne
parlai con Franco Marini e insieme gli dicemmo che la sua
era una mossa completamente sbagliata. Fu un periodo di
accese discussioni, ma noi ci battemmo per tenere Prodi
lì dov’era. Ogni altra interpretazione è falsa. Falsa e con
aspetti carogneschi. Il dato politico era evidente: non era
più possibile andare avanti con l’alleanza con Rifondazio-
ne, perché Bertinotti era pronto a pagare un prezzo molto
alto, quello di una scissione interna, pur di rompere con
il governo. La coalizione che aveva vinto le elezioni non
c’era più. Si poteva andare avanti solo allargando al centro
la maggioranza parlamentare per sostituire quella parte di
Rifondazione che non intendeva più appoggiare l’esecuti-
vo. Nel frattempo, infatti, si era determinata una crisi della
parte più moderata del centrodestra. Intorno a Cossiga era
nato l’Udr, un movimento di parlamentari che si erano di-
staccati da quello schieramento, che volevano collaborare
con il governo, che avevano votato a favore del Documen-
to di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef), e si
erano espressi a sostegno della missione “Alba” promossa
da Prodi in Albania. Erano atti parlamentari impegnati-
vi, bisognava registrare l’esistenza di un soggetto politico
nuovo, un nuovo raggruppamento apertamente disponi-
bile a collaborare con il governo.
49
R. Ristabilire la verità comporta il racconto di una vicen-
da personale difficile. Quei giorni furono molto compli-
cati, perché fui costretto ad allontanarmi dai miei compiti
istituzionali. Mia moglie Linda dovette sottoporsi a un
delicato intervento chirurgico e la ricostruzione falsificata
di quel periodo la trovo tuttora dolorosa e irritante. Starle
accanto, in quei giorni, è stata la mia priorità. A quello mi
dedicai per tutto il tempo. Chi ha avuto esperienze di vita
simili, sa di cosa parlo e quanto queste vicende ti coinvol-
gano, stravolgendo le tue giornate. Per sdrammatizzare,
oggi posso dire che, paradossalmente, il fatto di non aver
potuto “complottare” probabilmente è una delle ragio-
ni per cui cadde il governo, visto che avrei complottato
a favore di Prodi. Ma torniamo alla politica. Quando il
governo decise di porre la fiducia, sapeva di non avere i
numeri. Ci fu tutto un tourbillon di calcoli improvvisati,
che ruotavano attorno al fatto che il cognato di Di Pietro,
che era dell’Udc, avrebbe votato a favore, che Irene Pivetti
avrebbe fatto lo stesso.... C’erano in attività strateghi che
costruivano scenari sulla conquista di singoli deputati che
avrebbero potuto garantire la sopravvivenza al governo
senza negoziati e cambi di maggioranza.
50
oltre la dimensione di una democrazia parlamentare. Una
sorta di presidenzialismo di fatto senza regole e senza ga-
ranzie: una prospettiva che a me parve immediatamente
avventurosa. Per di più, gli strateghi del governo dicevano
di aver fatto bene i conti, anche in vista delle elezioni, non
accorgendosi che la destra aveva la maggioranza del Paese.
Questo mondo radical-ulivista con i conti ha sempre avuto
un rapporto singolare... Io, quando tornai in piena attività
dopo quei giorni interamente dedicati alla mia famiglia,
mi preoccupai di salvare il governo Prodi. Un anno prima,
quando Bertinotti aveva già minacciato di non votare la
finanziaria del ’97, ci fu una forte protesta nel Paese, lui
rimase completamente isolato e fu costretto a rimettersi in
riga. Ricordo che eravamo insieme alla Marcia della Pace
Perugia-Assisi e che Fausto fu oggetto di pesanti contesta-
zioni da parte di alcuni manifestanti. In quella situazione
le elezioni le avremmo stravinte. Ma nel ’98 la situazione
politica era diversa e, soprattutto, la prospettiva elettorale
non era neppure plausibile per ragioni internazionali. In
seguito alla crisi nei Balcani, infatti, lo stesso governo Pro-
di aveva emanato l’“Activation Order”, ossia la decisione
con la quale un governo membro dell’Alleanza atlantica
mette a disposizione del comando generale le proprie
Forze armate. Insomma, eravamo in una condizione di
grave crisi internazionale, in una possibile fase prebellica,
durante la quale il presidente Scalfaro, con cui ho sem-
pre avuto un ottimo rapporto, non avrebbe mai sciolto
le Camere. Oltretutto Scalfaro, convinto parlamentarista,
aveva già negato a Berlusconi le elezioni anticipate nel ’95,
imponendogli il governo Dini. Non avrebbe, quindi, mai
concesso a Prodi ciò che aveva negato a Berlusconi, anche
per ragioni di coerenza.
51
ziativa politica possibile, in grado di liberarci da trattative
private, quelle con i singoli deputati. L’Udr, come ho detto
prima, aveva sostenuto il Dpef, dunque non ci sarebbe
stato neppure da stupirsi se avesse appoggiato il governo.
Parliamoci chiaro: Cossiga aveva una forte avversione nei
confronti di Prodi e non ne faceva mistero. Inizialmente
resistette alle nostre richieste e mandai come emissario,
per convincerlo, Marco Minniti. Alla fine raggiungemmo
un accordo. Cossiga e i suoi ci fecero sapere che per loro
sarebbe stato sufficiente che Prodi chiedesse il voto delle
forze politiche parlamentari a favore del Dpef. Insomma,
serviva un atto politico, non una grande dichiarazione.
Non scordiamoci che tutto ciò avveniva in una condizione
di emergenza. Ci eravamo mossi tardi, adesso bisognava
rapidamente trovare una via di uscita. Si decise di chiedere
a Luciano Violante, che presiedeva la Camera, di consen-
tire al presidente del Consiglio, nella fase finale, a conclu-
sione del voto, di fare una breve dichiarazione. Questa
avrebbe dovuto essere la dichiarazione con cui Prodi chie-
deva al Parlamento il voto di fiducia. Ma nel frattempo
Prodi consultò i suoi collaboratori che, evidentemente, lo
sconsigliarono di prendere la parola. E così fece. Ho visto
recentemente le immagini televisive dell’Aula, nelle quali
c’è il presidente della Camera che chiede a Prodi: «Lei in-
tende fare una dichiarazione?». E lui, dando le spalle alla
Presidenza, senza neanche voltarsi, fa segno con la mano
di no. Il governo cadde, nonostante avessimo “complotta-
to” fino all’ultimo per salvarlo. Tutto questo è noto e non
dovrebbe essere un segreto per i protagonisti di allora.
52
del bipolarismo inteso come democrazia diretta e presi-
denzialismo di fatto. Ma noi non siamo mai usciti dalla
democrazia parlamentare e il cambio della legge eletto-
rale non toccava la forma di governo né, quindi, il po-
tere del Parlamento di cambiare governo e maggioran-
za. Questo è un punto di fondo della vicenda italiana
di questi vent’anni, perché, paradossalmente, l’idea che
la Seconda Repubblica si fondasse su una sorta di pre-
sidenzialismo basato sulla legge elettorale maggioritaria
ha accomunato Berlusconi e l’ulivismo radicale, e ha in-
fluenzato profondamente il modo di pensare di una larga
parte dell’opinione pubblica. Anche Berlusconi, quando
si costituì il mio governo, scelse subito la via di una cam-
pagna di delegittimazione, nonostante l’esecutivo fosse
pienamente legittimo dal punto di vista costituzionale.
Insisto, il contrasto tra la Costituzione vigente e la co-
siddetta Costituzione materiale interpretata in chiave
presidenzialistica è stato uno degli elementi fondamen-
tali di fragilità del sistema democratico della Seconda
Repubblica. Ed è tuttora un nodo irrisolto dell’assetto
istituzionale del Paese.
Capitolo 3
Le cose buone di un governo
che non dovevo fare
R. Nel momento in cui il capo dello Stato era sul punto
di dare l’incarico a Ciampi, Prodi lo chiese per sé, e lo ot-
tenne. Cossiga approfittò di questo passaggio per lancia-
re un siluro contro Ciampi con dichiarazioni micidiali sui
giornali. Fu a quel punto che Cossiga andò verso l’unica
ipotesi di governo che, dichiarò, avrebbe sostenuto: un
governo presieduto da me. Scalfaro, a sua volta, fu molto
54
netto e ci disse: se non siete in grado di formare un gover-
no di centrosinistra, do l’incarico a Nicola Mancino, pre-
sidente del Senato, di formare un governo istituzionale,
perché c’è il rischio della guerra ed è impensabile andare
a elezioni in queste condizioni. Fu questa la vera scelta
che avevamo di fronte. Si riunì il gruppo dirigente del
centrosinistra e Veltroni, con l’appoggio di Prodi, si fece
protagonista di questa operazione. La verità storica, dun-
que, è che i dirigenti dell’Ulivo sostennero che l’unico
modo per salvare il bipolarismo ed evitare di precipitare
in un governo di tutti, istituzionale, fosse dare l’incarico
a D’Alema come segretario del principale partito della
maggioranza. Il mio incarico, così, fu dato su richiesta
dell’Ulivo.
55
tovalutato l’elemento di frattura e di logoramento che ci sa-
rebbe stato all’interno del centrosinistra con la mia nomina
a premier. Fu un impatto fortissimo, che proseguì nel corso
degli anni, indebolendo il nostro partito, il quale pagò quella
scelta. Lo ripeto: non avrei dovuto formare il governo in quel
momento, avrei dovuto insistere per un’altra soluzione.
56
D. E come andò la trattativa?
57
R. Il primo compito che il governo ebbe di fronte, a parte
la difficile crisi internazionale, fu quello di aprire una “fase
due”, quel passaggio che si era presentato allo stesso go-
verno Prodi dopo l’entrata nell’euro e la dura stagione dei
sacrifici. Dovevamo mettere l’accento sulla crescita econo-
mica, in particolare imprimere una svolta per far compiere
al Paese un salto di qualità. Una delle questioni cruciali
era il rapporto tra le forze sociali. Partivo dall’idea che il
patto tra Ciampi e i sindacati contro l’inflazione e per il
risanamento avesse dato buoni risultati, ma entravamo in
una fase in cui la sfida vera era su competitività e crescita.
In quest’ottica, bisognava aggiornare anche il sistema delle
relazioni sociali, puntando a un sistema aperto, più flessibi-
le. E, infatti, furono introdotte alcune forme di flessibilità,
si parlò di lavoro interinale e di altri temi impegnativi che
sono ancora oggi al centro del dibattito politico. In quel
momento proposi anche una riforma del sistema contrat-
tuale. Il problema, oggi, è che sono stati toccati equilibri
senza una visione d’insieme. Accanto a forme di flessibilità,
necessarie per rispondere a una grande crisi occupazionale,
che investiva e investe in particolare le nuove generazioni,
non sono state introdotte forme di tutela adeguate. E que-
sta è una mancanza a cui bisogna far fronte con urgenza.
58
ziasse con Agnelli e Andreotti che votavano a favore del
mio governo! Così, un altro grande personaggio con cui
io e il mio mondo ci eravamo scontrati, Francesco Cossi-
ga, era parte della maggioranza. Il vecchio presidente si
avvicinò al banco del governo e mi regalò un bambolotto
di zucchero, dicendomi: «Così non interromperai la tra-
dizione dei comunisti che mangiano i bambini». Questo
era il clima!
59
si era manifestato apertamente il contrasto con Sergio Cof-
ferati. Questa resta, a mio giudizio, una responsabilità del
gruppo dirigente sindacale, che avrebbe potuto favorire
per tempo cambiamenti che, successivamente, ha dovuto
subire in condizioni ben più negative per i lavoratori e
per il Paese. Ma quello che voglio descrivere è un quadro
assai articolato di proposte e di iniziative che, se accettate,
avrebbero cambiato il nostro dibattito pubblico di quegli
anni e di quelli successivi. Pensammo, in modo particola-
re, a una serie di misure per favorire la crescita dimensio-
nale delle imprese. Ad esempio la proposta, per quelle che
avessero superato i 15 dipendenti, di poter mantenere lo
status giuridico precedente per uno o due anni, ivi com-
presa la non applicazione dell’articolo 18. L’idea era quel-
la che, se l’impresa si fosse consolidata, crescendo come
dimensione e come numero di occupati, sarebbe potuta
passare ad altro regime.
60
Recentemente è uscito un rapporto Bloomberg sull’an-
damento del debito pro capite degli italiani. Ebbene lo
studio, che parte dal ’95, dimostra che esso è cresciuto
del 4,8% con il primo governo Berlusconi, del 2,1% con
il governo Dini e del 3,8% con il primo governo Prodi.
Quando ero presidente del Consiglio, invece, il debito
pro capite è calato dello 0,7%. Poi con il governo Amato
è aumentato di nuovo dello 0,8%, fino ad arrivare a +2%
sotto il governo Berlusconi. Con Padoa Schioppa alle
Finanze tornò a scendere (-0,4%). Infine, nel secondo
governo Berlusconi si è registrata una risalita che toccò
il 6,9%. Questa è stata la storia più recente del debito
italiano. Nulla è più ingiusto di una condanna indifferen-
ziata della politica e l’analisi dei dati dimostra che il cen-
trosinistra ha saputo garantire in modo incomparabile il
rigore finanziario e il rispetto degli impegni internazio-
nali del Paese. E Bloomberg è certamente un osservatore
che non è sospettabile di avere simpatie per la sinistra.
61
R. Quel governo ha sofferto per la debolezza politica
della sua genesi. Fu messa immediatamente in discussione
la sua legittimità, non solo da Berlusconi, che su questo
fece una campagna propagandistica, ma anche all’interno
del centrosinistra.
D. Non ti ponesti il problema che una parte del tuo mon-
do, del nostro mondo, non avrebbe capito?
62
R. Fu una scelta molto sofferta, alla quale mi arresi pro-
prio alla fine. Chiara Ingrao, figlia di Pietro, è stata una
leader del movimento pacifista. In quel periodo mi faceva
da interprete e mi ha sempre rimproverato, dopo quella
stagione, di non aver mai rivendicato verso i pacifisti tutti i
tentativi fatti per cercare di evitare che si arrivasse alla guer-
ra. Ad esempio, ricordo che, dopo una serie di incontri con
inglesi e americani, organizzai un appuntamento riservato
con Milan Milutinović. Approfittai del fatto che avevamo
lo stesso dentista che ha una storia che si intreccia con quel-
la dei due Paesi. Il nostro dentista, infatti, è figlio di un
antifascista che era scappato in Jugoslavia, era cresciuto lì
ed era molto legato a quel mondo. Sapevo che Milutinović
veniva di nascosto a Roma per curarsi e così feci in modo
di incontrarlo dal dentista. Ebbi con lui una lunga conver-
sazione. Era presidente della Serbia nel momento in cui
Slobodan Milosević era presidente della Federazione. Non
c’era, da parte sua, nessuna volontà di trovare un compro-
messo e mi resi conto che non restava che l’intervento mili-
tare. E mi presi le mie responsabilità. La guerra è qualcosa
che mai un uomo politico deve augurarsi di dover fare, ma
– quando c’è – si deve assumere le proprie responsabilità.
Non può dire “non volevo”, “mi hanno costretto”, come
ha fatto Berlusconi per l’Iraq o con la Libia.
63
della forza è sempre una scelta estrema e dolorosa, può
essere ammesso solo in casi eccezionali, quando si tratta
di difendere la vita, la sicurezza, i diritti umani di migliaia,
se non milioni di persone. È un principio molto delicato
da maneggiare. E, in questo senso, non può essere negato
o escluso in via pregiudiziale. Naturalmente, vi si può ri-
correre solo quando siano stati esperiti senza successo tutti
gli strumenti e le sanzioni previsti dalla Carta dell’Onu per
la risoluzione pacifica dei conflitti. In quella situazione si
aprì un dibattito molto importante sul concetto di “Re-
sponsibility to protect”, e cioè sul diritto della comunità
internazionale a intervenire anche violando il principio
di sovranità degli Stati. Io credo che questo diritto vi sia,
ma è chiaro che occorre valutare l’entità della minaccia
e, quindi, misurare la proporzionalità nell’uso della forza.
In secondo luogo, rimane fondamentale la legittimazione
internazionale, che in linea di principio dovrebbe venire
dalle Nazioni Unite. Purtroppo nel caso del Kosovo ciò
non fu possibile e purtroppo l’incapacità di decidere da
parte dell’Onu si manifesta spesso, perché paralizzata dai
veti delle potenze. Infine, è molto importante che possa
applicarsi un unico standard, il che non è sempre agevole,
soprattutto quando si ha a che fare con grandi potenze
che, ad esempio, dispongano di armi nucleari. Come si ve-
de, si tratta di una questione molto complessa, che non si
presta a facili e retoriche semplificazioni. In definitiva, c’è
una responsabilità della politica, che è quella di valutare le
situazioni concrete e di scegliere le vie realisticamente pra-
ticabili. Si deve poter accettare di dover utilizzare la forza
quando è in gioco la vita di un gran numero di persone e
non c’è altro modo per salvarle.
64
la coscienza tranquilla, ma che loro si sarebbero illusi se
avessero pensato di risolvere tutto dopo qualche ora di
bombardamento perché i serbi avrebbero rapidamente
ceduto. In gioco c’erano la storia e i sentimenti sedimen-
tati nei secoli in quel conflitto atroce. Il Kosovo, infatti,
toccava qualcosa di molto profondo della identità e della
radice nazionale dei serbi: era la culla della loro civiltà.
Poi furono costretti ad andare a nord, perché persero la
battaglia con i turchi. Gli americani hanno una civiltà in
cui il rapporto tra storia millenaria, sangue e territorio non
è così forte come nel nostro continente. Forse per questo
quella storia a loro sembrava antica e lontana, e tende-
vano a minimizzare. Certo, è vero che oggi il Kosovo è
abitato dagli albanesi, ma tanto tempo fa quegli albanesi
erano i musulmani che venivano da sud come invasori.
Ecco perché, a mio giudizio, i serbi non se ne sarebbe-
ro andati facilmente. Nei Balcani era accaduto qualcosa
di incredibile: le linee di demarcazione tra cattolici, or-
todossi e musulmani, che erano state per secoli i confini
delle guerre balcaniche, tornavano a esserlo alla fine del
secondo millennio. Popoli riprendevano ad ammazzarsi
per ragioni etnico-religiose, come se centinaia di anni di
storia fossero passati invano. Era un fatto impressionante
ed era prevedibile che sarebbe stato un conflitto lungo e
sofferto. Così si aprì, fin dal primo momento, una delicata
discussione sui possibili esiti. Fu presente sin dall’inizio
un’opzione esclusivamente militare, secondo la quale bi-
sognava vincere la guerra. Un’altra parte, noi compresi,
si opponeva invece a questa ipotesi, sostenendo che bi-
sognasse sviluppare una pressione militare per indurre i
serbi a ritirarsi dal Kosovo.
65
cruciale. I bombardamenti duravano oramai da quasi due
mesi senza che si intravedesse una via d’uscita. Fu a que-
sto punto che venne avanzata la proposta di un’invasione
di terra. Il generale Wesley Clark, a capo della missione
“Allied Force”, precisò subito che l’operazione militare
avrebbe dovuto portare a una vera e propria invasione del-
la Serbia, perché impegnare i militari della Nato a combat-
tere sulle montagne del Kosovo sarebbe stato rischioso e
non risolutivo.
66
R. Gli americani sono partner invadenti. Un atteggia-
mento che deriva loro dal fatto di essere i più forti. Però
sono anche disposti a discutere con chi non è d’accordo.
Quello che non accettano è che si cerchi di ingannarli e
raggirarli. Se vai su questa strada si arrabbiano. In questo
sono davvero moralisti. Se rispondi “no” puoi avere con
loro un’interlocuzione leale, ma lo deve essere davvero,
perché per loro la lealtà è un punto di principio molto
importante. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con
gli americani in una collaborazione piena ed efficace. Un
merito particolare nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, in
questi anni tormentati della cosiddetta Seconda Repub-
blica, ha avuto l’ambasciatore Reginald Bartholomew, re-
centemente scomparso. Egli, infatti, ha aperto il dialogo
con i nuovi protagonisti della politica italiana, ben oltre i
limiti dei tradizionali interlocutori con cui gli Usa erano
abituati a discutere. E lo ha fatto con apertura e anche
con autentico interesse a una transizione democratica in
Italia. Questo è stato molto utile per gettare le basi di un
rapporto che è stato serio, nel consenso e nel dissenso, sia
quando sono stato presidente del Consiglio, sia quando
sono stato ministro degli Esteri e avevo a che fare con
l’amministrazione repubblicana di George Bush e Con-
doleezza Rice.
D. Ma gli americani si resero conto che per noi fare una
guerra sull’uscio di casa era cosa complicata...
67
loro e per noi stessi, perché ci consentì, durante la diffici-
lissima fase successiva, di non essere considerati soltanto
una piattaforma per gli aerei, ma di svolgere un ruolo at-
tivo anche politicamente. In questo senso, la mediazione
russa fu l’operazione forse più ambiziosa che riuscimmo
a portare a termine: ottenemmo da Milosević il rilascio di
Ibrahim Rugova, che era agli arresti domiciliari, con l’in-
tenzione di preparare il dopo conflitto. Noi non volevamo
che, a operazioni terminate, a gestire la situazione fosse
l’estremismo islamico dell’Uck, che stava richiamando
nel Kosovo tutto quel mondo radicale islamico che poi
ritroveremo in Al Qaeda. Puntavamo su Rugova come
uomo della pace, un cattolico impegnato da sempre per
la convivenza religiosa. Gli americani e gli inglesi, inve-
ce, lo consideravano una personalità non spendibile. Ma
noi, con Milosević, facemmo questo ragionamento: avete
interesse ad avere l’Uck come forza leader dell’altra parte
dei confini o è preferibile avere un uomo di pace? Loro
si convinsero. Portammo Rugova in Italia e alle elezioni,
subito dopo la guerra, prese la maggioranza assoluta dei
voti. Purtroppo è morto prematuramente di tumore. Da
parte loro, gli americani erano spaventati dalla prospetti-
va Rugova, non si fidavano e temevano che lui, venendo
in Italia, convocasse una conferenza stampa e attaccasse
la Nato. Al contrario, Rugova sottolineò che sì, era per
la pace, ma che in quel momento era grato all’Alleanza
perché stava difendendo il suo popolo. Alla fine Clinton
telefonò per ringraziarci.
68
il Mar Nero, attraversasse il territorio turco e prendesse il
gas dalla Russia. Gli americani erano contrari. Avevano un
progetto alternativo, in competizione con la Russia: vole-
vano che il gas arrivasse attraverso una delle repubbliche
del Caucaso. In questo scenario, il rapporto con la Tur-
chia era fondamentale, in quanto rappresentava lo snodo
di tutti e due i progetti. Nel mezzo di questa situazione
arriva Öcalan in Italia.
69
mo a lasciare il Paese, spiegandogli l’impossibilità di dare
asilo politico a qualcuno accusato di omicidio in un altro
Paese dell’Unione europea. La sua partenza fu ben gestita,
perché non se ne accorse nessuno. Poi, in un intreccio di
diversi Servizi segreti, fra cui quello greco e, mi fu detto,
quello israeliano, venne catturato in Kenya e consegnato
ai turchi. Alla fine, in ogni caso, con gli americani non ci
furono grandi tensioni, anche se sono tuttora convinto che
essi non fossero del tutto estranei alla dinamica che portò
Öcalan in Italia.
D. Sei tuttora molto fiero di quella stagione vista dal lato
della politica internazionale dell’Italia?
70
R. L’evento fu senza precedenti: il presidente degli Stati
Uniti accettò l’invito a venire a Firenze per partecipare
a un dibattito politico. Lo dico perché, generalmente, i
presidenti compiono visite ufficiali, invece Clinton decise
di prendere parte a un confronto con i leader della sinistra
europea. La discussione sulla Terza via, che era il tentativo
di tenere insieme i valori propri della tradizione social-
democratica con una visione più liberale della società e
dell’economia, era del tutto aperta. Il tema che avevamo di
fronte era l’idea che essa non potesse rappresentare un’o-
perazione divisiva del socialismo europeo. Al contrario,
avrebbe dovuto essere un passaggio di rinnovamento per
coinvolgere le forze fondamentali del socialismo europeo.
C’era stato un primo incontro a New York con inglesi,
svedesi, americani e italiani. Ma io chiesi un momento di
discussione al quale partecipassero anche il primo mini-
stro francese e il cancelliere tedesco. Non mi piaceva l’idea
che solo una parte dell’Europa progressista discutesse con
il presidente degli Stati Uniti, volevo un confronto a tutto
campo.
71
mocratico, al quale erano presenti anche Blair e Schroeder,
il sindaco di Chicago, Richard Daley, ci esortò a mettere
a confronto le esperienze degli amministratori su come si
organizzano i servizi urbani, il welfare cittadino, aggiun-
gendo che non bastavano solo i dibattiti a livello di gover-
no. Io risposi che facevamo abitualmente tutto questo in
un “club” di cui siamo soci, che si chiama Internazionale
socialista. L’aggettivo creò un certo sconcerto in sala. In-
tervenne Clinton e disse che la parola “socialista” nel suo
Paese non era pronunciabile. Si volse verso di me e dis-
se: «Non vorrei proprio avere sul palco della campagna
elettorale uno che si dichiara socialista e porta il saluto
dell’Internazionale socialista». Ma disse anche che da gio-
vane, quando era governatore dell’Arkansas, aveva visita-
to insieme a Hillary la Toscana, dove avevano incontrato
persone che ragionavano come i democratici americani,
che affrontavano le cose con lo stesso spirito, che amavano
la democrazia. «Pensate – disse alla platea – quelli non si
chiamavano neanche socialisti, quelli si chiamavano ad-
dirittura comunisti!». Insomma, concluse: «Ho imparato
allora che non bisogna avere paura delle parole».
72
persuasi che sarebbe stato possibile ripensare il rappor-
to tra individuo e welfare in una chiave in cui la crescita
della ricchezza avrebbe consentito di uscire dalla logica
statalista del compromesso socialdemocratico. Ti ricordo
che quelli di Clinton sono stati otto anni di crescita so-
stenuta, senza inflazione, e che la crescita americana fu
alimentata sia dalla ricchezza finanziaria sia dagli investi-
menti, dall’innovazione, dalla new economy. Quindi, era
una visione ottimistica della globalizzazione molto forte,
che alla lunga si è rivelata fallace. Infatti, abbiamo visto co-
me quella deregulation abbia poi portato l’accumularsi di
contraddizioni, di conflitti, di bolle speculative di cui an-
cora adesso paghiamo in pieno le conseguenze. Lo stesso
Bill Clinton ha recentemente riconosciuto, nel suo ultimo
libro Back to Work. Why We Need Smart Government for
a Strong Economy, che l’errore nei suoi anni di governo e,
più in generale, nella cultura neoliberista della Terza via,
fu quello di avere sottovalutato e addirittura demonizzato
il ruolo dello Stato. Rispetto a questo, la crisi – dice Clin-
ton – impone una correzione.
D. Questo volto della Terza via era un volto molto bri-
tannico?
73
accentuando le ragioni del contrasto per sottolineare l’in-
dipendenza del sindacato dalla politica.
74
D. Ma che cosa ti colpì in questa scalata interamente nuo-
va?
75
controllo dei grandi gruppi fosse contendibile e che noi
eravamo un’economia di mercato come le altre, rispettosa
delle regole europee. Quello che si voleva da me, invece,
era un’evidente forzatura. Quando annunciai che la quota
dello Stato non si sarebbe pronunciata né a favore né con-
tro l’Opa, fui accusato di non aver fatto partecipare il Te-
soro all’assemblea convocata per resistere all’offerta. An-
cora oggi Cesare Romiti, nel suo recente libro-intervista,
mi critica per questo. Ma perché il Tesoro avrebbe dovuto
partecipare? In definitiva, noi seguimmo la linea della più
assoluta neutralità. E su questo il ministro dell’Economia
Ciampi ed io fummo d’accordo. Il punto è che molti vo-
levano che mi schierassi a tutela degli Agnelli e non lo
feci. Un atteggiamento che venne interpretato come un
autentico atto di lesa maestà. Non mi fu perdonato e da
qui nascono le leggende su quella vicenda.
76
tormentato. C’è l’immagine di D’Alema dominato da uno
staff esorbitante, quello staff che all’inizio di questa conver-
sazione tu hai descritto come una delle cose dannose della
politica negli anni della Seconda Repubblica...
77
tale, non certo un finanziere o uno speculatore, ma uomo
che gestisce le imprese, le trasforma e le rende produttive.
L’ha fatto con la Piaggio, non so se ci riuscirà con l’Alitalia,
lo spero. Il caso Telecom è un altro esempio del mio modo
di leggere i fatti del Paese secondo criteri di autonomia
della politica e di indipendenza dalle logiche dei poteri
più forti.
78
D. Al di là del caso Unipol, ci sono più recenti vicende
– penso ad alcune clamorose assoluzioni – che sollevano la
questione della responsabilità dei magistrati.
79
che si è svolta su giornali e tv. Nessuno ha mai pagato per
questo, in un Paese in cui si vantano i pregi dell’obbliga-
torietà dell’azione penale. Ci sono cittadini che sono stati
rovinati attraverso processi mediatici che hanno rivelato
un rapporto spesso improprio, e non di rado illegittimo,
tra informazione e settori della macchina giudiziaria. Di-
ciamo la verità: dopo questa terribile trafila, l’assoluzione
non è un risarcimento sufficiente. Se va bene, al malcapi-
tato si dedica un trafiletto, un piccolo titolo di giornale in
pagina interna. Sono contrario al carcere per i giornalisti e,
in generale, a perseguire sul piano penale i cosiddetti reati
a mezzo stampa. Il vero problema non è punire i giorna-
listi, ma riparare il torto subito dalla vittima con rettifica
evidente e risarcimento adeguato. Al di là dei casi che ri-
guardano la politica o la finanza, ci sono state vicende cla-
morose. Pensiamo solo a quello che è successo a Rignano
Flaminio... Ecco, la caduta del castello accusatorio ha in
genere sui giornali spazi assolutamente insufficienti.
80
R. È stata una decisione inevitabile. Semmai, come ti ho
già detto, mi sono pentito di aver accettato l’incarico a pre-
mier. Detto questo, i risultati che l’esecutivo ottenne furo-
no decisamente positivi per il Paese, anche se non furono
difesi, perché non c’era una maggioranza vera, non c’era
una solidarietà politica, c’era persino una parte della mag-
gioranza che contestava la legittimità del governo. Le mie
dimissioni, dopo le elezioni regionali, non furono sollecita-
te da nessuno. Decisi io di dimettermi per due ragioni, che
mi sembrarono serie: una fu un atto di responsabilità nei
confronti del Paese, perché non sentivo più le condizioni
di forza necessarie per governare con efficacia. L’efficacia,
infatti, richiede una maggioranza coesa. In secondo luogo,
fu un atto di responsabilità verso il centrosinistra. Nel ’95
conquistammo nove regioni, nel 2000 ne perdemmo due.
Il risultato elettorale, dunque, non rappresentò una scon-
fitta disastrosa, ma certo non fu positivo. Per questo mi
parve evidente che il centrosinistra dovesse essere messo
in condizione di prepararsi alle elezioni politiche di lì a
un anno, e dunque pensai che fosse giusto portare alla
guida del governo una personalità che ci avrebbe potuto
condurre all’appuntamento elettorale.
81
Quella di Rutelli fu una scelta dettata dall’idea che un vol-
to più giovane avrebbe attirato consensi.
82
sullo spirito pubblico che in altri Paesi europei non sarebbe
pensabile: a causa del fatto che, in Italia, l’antipolitica ha
il sostegno di una parte del ceto economico e intellettuale
dominante.
83
di militanti, non uno scontro di apparati. Al termine di
quel percorso, Piero Fassino andò alla guida del partito e
io ne diventai il presidente. E questa fu la premessa per il
ritorno al governo del Paese. Se fosse a ndata diversamen-
te, chissà dove saremmo andati a finire.
84
D. L’ha capito in una notte? Come è possibile? Pratica-
mente si fece da parte in pochissimo tempo.
R. Non credo si sia trattato di una notte, credo che abbia
sempre saputo che, alla fine, non avrebbe potuto contrap-
porsi al gruppo dirigente del partito. C’è in noi, in tutti
noi, il senso di una disciplina che riconosce il primato di
una visione comune rispetto alle istanze, pur legittime, di
carattere personale. E Cofferati si comportò esattamente
come avrebbe dovuto ragionevolmente comportarsi un di-
rigente che viene dalla tradizione del Pci. Da quella vicen-
da traggo anche una convinzione profonda. Forse il tempo
porterà a logorare quel patrimonio di cultura democratica
che noi rappresentiamo. Io spero di no, spero che si rin-
novi, ma non si consumi, perché ha reso la sinistra italiana
una forza utile al Paese. Ma fino a che quel patrimonio re-
sterà, nel nostro mondo continueranno a prevalere questi
comportamenti e queste regole.
D. In quella stagione c’è tutta una cultura che per la prima
volta diventa di massa, parlo di quella cultura che hai più
volte citato, quella espressa dalle élite, raccontata e divul-
gata dai media, sostenuta dai gruppi ristretti. Ebbene, in
quei mesi quella cultura sembra attecchire in una parte del
nostro mondo, è in quella stagione che inizia a dilagare il
giustizialismo. Voglio dire che un parte del nostro mondo si
trasforma, come vediamo ancora di questi tempi.
85
che si giocò all’inizio del 2001, dopo le elezioni politiche,
fu molto importante. In quell’occasione, infatti, gettammo
le premesse per la vittoria successiva. Non ci contrappo-
nemmo a quel movimento, cercammo di tradurlo in poli-
tica. Io andai a Firenze a discutere con Paul Ginsborg, in
una assemblea molto combattuta, e portai i nostri buoni
argomenti. Una parte di quella campagna era basata an-
che su elementi non veri, su falsità anche autorevolmente
sostenute, che noi potevamo contrastare con dovizia di ar-
gomenti. Ho ancora qui la lettera, pubblicata dall’«Unità»
nel novembre del 2001, a Paolo Sylos Labini sulla questio-
ne del conflitto di interessi. Raccontai quello che era vera-
mente successo in Parlamento a proposito della Bicame-
rale. Scrissi che «l’Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle
resistenze conservatrici, finì per lasciar sbiadire via via il
suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terre-
no costituzionale. Resta in me la convinzione che ci abbia
danneggiato di più, anche elettoralmente, non aver fatto
le riforme che aver cercato di farle». Sylos aveva prospet-
tato persino l’ipotesi di “dimettersi da italiano” pur di non
fare le riforme con la destra e io gli risposi: «Questa via è
preclusa a chi ha scelto l’impegno politico, ha l’ambizione
di tornare a governare questo Paese e intanto ha il dovere
di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». E
conclusi: «Con questa destra, sulla quale il mio giudizio
non differisce molto dal suo, bisogna discutere, continuo
a pensare che tra ‘l’inciucio’ (che non ci fu, ma apparve) e
la demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi)
possa esserci una terza via capace di unire la nettezza della
contrapposizione politica, programmatica, etica (quando
ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando
siano in gioco le istituzioni e il bene dell’Italia». Questa fu
la mia posizione e questi i miei argomenti.
86
e quella campagna, anche nei suoi aspetti più velenosamen-
te moralistici, personali, prese le mosse da una sostanziale
rimozione dei fatti e della verità. Noi rispondemmo, cer-
cammo di ricostruire una prospettiva politica per il Paese.
Lavorammo per un centrosinistra più largo, per ritessere le
fila di un rapporto che via via ci portò a rivincere le ammi-
nistrative, le regionali, fino a tornare al governo.
88
D. Nella prima parte della nostra conversazione, quella
dedicata al dopo Bolognina, hai detto che non potevamo co-
struire un partito socialista perché già c’era e lo stesso nome
“socialista” era stato danneggiato irrimediabilmente da Ma-
ni Pulite. Ora, molti anni dopo, porti un diverso argomento
a suffragio della tesi della impossibilità di creare una social-
democrazia classica. Spiegami meglio.
89
vince di poco e decide comunque di governare, iniziando una
nuova e non felice avventura.
90
so? Quando ha affrontato il tema delle tasse, il dovere e
l’obbligo di pagarle. In altri Paesi accadrebbe il contrario.
91
quindi, in cui ci si trovò anche a dover decidere il candidato
alla Presidenza della Repubblica, dopo la conclusione del
mandato di Carlo Azeglio Ciampi.
92
se sembrava logico che se un cattolico era stato designato
alla guida del governo, uno di noi potesse andare al Qui-
rinale. Comunque, la somma di queste ostilità influì sulla
mia candidatura. Si rischiava di creare un clima pesante
dal punto di vista istituzionale. Il rischio era un brac-
cio di ferro. Alla fine avrei potuto anche essere eletto,
ma in una situazione che non mi sembrava giusta. Avevo
proposto all’inizio della legislatura un accordo di tipo
istituzionale, non potevo diventare protagonista di una
rottura.
93
D. E facesti il ministro degli Esteri, che era il mestiere che
ti piaceva fare.
94
merito divergono da tempo, ma non sono io il protagonista
di questa chiacchierata. Qui mi interessa che i lettori sappia-
no qual è il tuo pensiero e poi si facciano la loro opinione.
95
R. Il mio atteggiamento è dettato dalla constatazione che
Israele è un Paese civile e democratico. Ecco perché preten-
do che sia meglio di Hamas. In quei giorni sono diventato
amico dell’allora ministro degli Esteri Tzipi Livni, che poi,
nel marzo 2012, ha perduto il congresso di Kadima ed è
stata sostituita alla guida del partito dall’ex capo di Stato
maggiore ed ex ministro della Difesa generale Shaul Mo-
faz. Sono convinto che Israele non stia facendo quello che
dovrebbe fare per ottenere la pace. Eppure la pace sarebbe
possibile se si offrisse una prospettiva negoziale seria all’at-
tuale leadership palestinese. Invece, si corre il rischio di li-
quidarla, malgrado sia la più aperta e disponibile che vi sia
mai stata. In questo modo, Israele correrebbe il serio rischio
di lasciare campo libero alla pressione di tipo islamista e di
cancellare l’opzione dei due Stati, alla quale molti ormai
non credono più, né tra i palestinesi né tra gli israeliani. E
anche il conflitto dello scorso novembre a Gaza ha avuto
l’effetto paradossale di rafforzare politicamente la posizione
di Hamas. È evidente che, se si vuole ancora uno Stato pale-
stinese e quindi si vuole evitare un esito di tipo sudafricano,
l’unica prospettiva è quella di favorire una riconciliazione
tra i palestinesi sotto la guida delle componenti più modera-
te. Da questo punto di vista, il voto dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite è stato positivo e importante. Personal-
mente sono convinto che, al di là delle posizioni ufficiali, lo
comprendano anche molti in Israele e certamente tutti quel-
li che si oppongono alla politica del primo ministro Benja-
min Netanyahu. Inoltre, nessuno può farmi credere che,
in cuor suo, il presidente americano Barack Obama non
abbia considerato quel voto come un’opportunità per una
amministrazione che avverte l’intransigenza della destra
israeliana come un peso sempre più insostenibile anche per
gli stessi Stati Uniti. Una volta Clinton mi disse: «Ci sono
scelte che noi non possiamo compiere, ma che l’Europa de-
ve saper compiere perché, in realtà, è anche nostro interesse
che ciò avvenga». Sono stato molto contento, inoltre, che
l’Italia alla fine abbia votato “sì”, e voglio aggiungere che,
96
in questa decisione, ha pesato in modo particolare anche
l’intelligenza politica del presidente Monti. Il problema è
che una concezione esclusivamente militare della sicurezza
senza una coerente strategia per la pace, quale fu quella di
Yitzhak Rabin, rischia di offrire un avvenire difficile agli
israeliani e anche a tutti noi.
97
palestinesi. Io sto dalla parte della pace tra israeliani e
palestinesi. Una pace vera, giusta e stabile. E sto con gli
europei. Tutti abbiamo il diritto di avere la tranquillità
nell’area del Mediterraneo.
98
essa può cercare di spingere nella direzione giusta. Per
quanto riguarda il Libano, è evidente che io non ho nes-
suna simpatia verso il fondamentalismo sciita, ma in gene-
rale fare politica comporta il coraggio di dialogare anche
con chi è molto diverso da te. Se devi mandare migliaia
di soldati in Libano la scelta è netta: o lavori per costruire
condizioni positive per arrivare alla pace o fai la guerra.
99
parte ci sono i buoni e dall’altra parte solo terroristi. È una
guerra: ciascuno si batte a modo suo, e nelle condizioni
date, per la propria indipendenza. Se parti dall’idea che
dall’altra parte ci sono solo terroristi, non c’è più spazio
per costruire la pace. In verità quel conflitto è lo scontro
tra due ragioni ed è proprio questo che lo rende così radi-
cale e così difficile da risolvere.
100
D. L’Islam è anche fra di noi, nel cuore dell’Europa?
101
R. In verità, la nascita del Pd, come ti ho già detto, è il
punto di arrivo di un processo politico avviato da tempo:
il progetto del nuovo partito era già in qualche modo scrit-
to all’inizio della legislatura del 2006, con la decisione di
presentare la lista unitaria dell’Ulivo alla Camera. Già alle
europee avevamo presentato la lista “Uniti nell’Ulivo”,
in cui fummo candidati, fra gli altri, Pier Luigi Bersani,
Enrico Letta ed io. Fu un’operazione politica intesa a te-
stare elettoralmente il processo di costruzione del nuovo
soggetto. Alle politiche del 2006 ripetemmo l’esperienza.
A questo punto decidemmo di accelerare la costruzione
del partito, soprattutto perché il governo era in difficoltà
sia per l’esiguità della maggioranza al Senato, sia per il
condizionamento massimalista che essa subiva. Mi riferi-
sco alle polemiche e alle tensioni che si ebbero con l’ala
più a sinistra della coalizione, ad esempio sul tema delle
pensioni. Nel frattempo, registravamo anche il lavorio di
Berlusconi per erodere la nostra maggioranza. L’opera-
zione De Gregorio, il parlamentare dipietrista che passò
con la destra, era chiaramente parte di questo disegno. La
condizione di difficoltà del governo e il rischio di dover
andare rapidamente a nuove elezioni ci spinsero a intro-
durre un elemento di innovazione, accelerando l’avvio
della nascita del Pd. Su Veltroni registrammo una larga
convergenza. Io stesso andai a proporgli di assumere la
segreteria. Lui appariva meno logorato di altri per non
aver partecipato alle vicende politiche nazionali e si pre-
sentava come un antesignano del processo di costruzione
del partito. Era un dirigente dei Ds, ma era riconosciuto e
accettato anche nella Margherita. In sostanza, sotto tutti i
punti di vista, era la personalità intorno alla quale si poteva
intraprendere un nuovo percorso. Il vero problema che
si pose da subito al nuovo partito fu quello della tenuta
del governo e della sua maggioranza. Era molto difficile
pensare che l’esecutivo potesse reggere su una base parla-
mentare, al Senato, così ristretta. L’unico modo di portare
avanti la legislatura, secondo me, era quello di aprire una
102
prospettiva politica nuova, prendendo atto che un certo
tipo di bipolarismo si era esaurito e chiedendo all’Udc un
coinvolgimento in un processo che mettesse al centro un
accordo istituzionale per la riforma della legge elettorale.
Fu questa la mia proposta, per la quale indicai come mo-
dello il sistema tedesco. Lanciai l’idea in un’intervista al
«Riformista» qualche giorno dopo che, a palazzo Mada-
ma, il governo non raggiunse la maggioranza richiesta nel
voto sulla politica estera. Era il 21 febbraio del 2007. Non
trovai né in Veltroni né in Prodi una condivisione e si avviò
molto rapidamente il logoramento della maggioranza, che
poi precipitò, con l’operazione giudiziaria su Clemente
Mastella, verso la crisi e le elezioni, senza nessuna possi-
bilità di scampo.
103
Non c’è, infatti, un sistema che possa produrre bipartiti-
smo se questo non appartiene alla tradizione politica di
un Paese. E in Italia non c’è una cultura bipartitica, anzi.
Per di più, in tutta Europa assistevamo a una tendenza ge-
nerale verso la frammentazione dei sistemi politici, anche
in relazione ai profondi mutamenti sociali di quella fase.
Persino nel Regno Unito era entrato in crisi il bipartiti-
smo. Non si capiva perché l’Italia avrebbe dovuto anda-
re in controtendenza rispetto a questi scenari europei. Il
risultato elettorale fu positivo per il Pd, tuttavia segnò la
più ampia distanza tra centrodestra e centrosinistra che si
sia mai rimarcata in tutta la Seconda Repubblica. La vitto-
ria più netta di Berlusconi fu esattamente frutto di questa
impostazione bipartitica, perché lo scontro fra due con-
tendenti da sempre è terreno meno favorevole al centro-
sinistra. Nell’alternativa secca destra-sinistra, l’opinione
pubblica del nostro Paese, per ragioni profonde, storiche,
tende a far prevalere il fronte cosiddetto “moderato”. Il
centrosinistra è una costruzione politica che comporta la
ricerca di alleanze e che non è certamente favorita in un
confronto di tipo referendario.
104
facile prevedere che questo schema producesse, al con-
trario, la proliferazione di molti centri di comando, con
personalità che tendevano nella propria realtà ad andare
per conto proprio. Il partito del leader, così concepito,
favoriva la nascita di tanti piccoli partiti. Il centrosinistra,
infatti, è un’area densamente abitata. Per usare un’imma-
gine, non è l’Australia, con terre immense e popolazione
scarsa. Siamo immersi nel bel mezzo dell’Europa, in un
territorio più ristretto, con tanti abitanti che vivono in ca-
stelli, case di campagna e altri rifugi. Il centrosinistra è
un’area dove ci sono storie, culture, personalità diverse
che devono essere amalgamate, appunto. Se si crea, in-
vece, un partito che pretende di ridurre questa ricchezza
ad unum, si va verso la destrutturazione e il fallimento. Se
non si crea progressivamente un senso di appartenenza
a una comunità, non si può costruire un partito politico
né ci si può illudere che questo si formi quasi miraco-
losamente, in una sorta di effetto catartico attorno alla
figura del leader. C’è il rischio che il leader diventi come
l’imperatore chiuso nella sua tenda, con i suoi armati a
difenderlo, mentre intorno a lui e al suo accampamento
ci sono l’arcivescovo di Magonza, il duca di Borgogna, il
conte di Guastalla e altri feudatari, ciascuno con i suoi
colori, le sue truppe, stretti a tutela dei propri interessi.
Ecco come nasce un amalgama malriuscito. E, per usare
un’altra immagine, non ho mai condiviso l’illusione che il
Partito democratico si potesse formare così come si scio-
glie il sangue di San Gennaro, miracolosamente, di fronte
a un popolo in estasi e apprensione.
105
della leadership sia una condizione per garantire la coe-
sione di un partito o di un’alleanza politica e sia anche un
vantaggio competitivo in un sistema elettorale così forte-
mente personalizzato. Tuttavia, la forza della leadership
nel nostro campo dipende, e continuerà a dipendere, non
soltanto dalle qualità personali del leader, ma anche dalla
disponibilità di una diffusa classe dirigente a riconoscere
e a sostenere la personalità scelta per guidare il centro-
sinistra. Anche un leader legittimato dalle primarie, che
pure rappresentano uno strumento straordinario di coin-
volgimento e mobilitazione tanto più prezioso in un mo-
mento così difficile nel rapporto tra cittadini e politica,
dovrà poi comunque misurarsi con il compito faticoso
di riaffermare la sua funzione giorno per giorno. D’altro
canto, al di là di ogni funzione presidenzialistica, non
possiamo dimenticare che nel nostro Paese il candidato
scelto con le primarie non diventa poi il presidente all’a-
mericana, ma resta il capo di un governo parlamentare
e, se non è in grado di tenere insieme la sua maggioran-
za, rischia, pur avendo vinto primarie e “secondarie”, di
tornare a casa.
106
primarie. Inoltre, non capisco le primarie per le cariche
di partito. Le primarie hanno un senso per le candidature
per responsabilità di governo ed è ragionevole regolarle
anche considerando l’esperienza di altri Paesi. Lo abbia-
mo fatto perché nell’ultima campagna che ha avuto tanto
successo, superando inutili polemiche, ci siamo ispirati
al modello americano, che prevede l’albo degli eletto-
ri. Insomma, la mia idea delle primarie è che servono
a rafforzare il rapporto tra cittadini e politica, e non a
liquidare i partiti.
107
R. Certo, ma l’eccesso di personalizzazione e l’eletto-
ralismo non sono un rimedio al degrado dei partiti. Al
contrario, possono peggiorare la situazione. Il problema
essenziale è rilanciare le ragioni ideali della militanza po-
litica, ricostruire i partiti nella società come comunità di
persone unite da valori condivisi. Nello stesso tempo, è
fondamentale riconoscere i diritti di chi si iscrive a un par-
tito e dedica a esso risorse umane, intellettuali, compien-
do anche sacrifici finanziari per sostenere questa forma di
partecipazione. Parlo di oltre 600.000 persone che sono
iscritte al nostro partito. Quanto contano? In che modo
possono incidere sulle scelte politiche del Pd? Non sot-
tovaluto il valore dell’apertura alla società, ai movimenti
civici, alle associazioni, ma mettere in piedi un partito si-
gnifica costruirne le forme organizzate, di partecipazione
democratica, di consultazione, definendo con maggiore
efficacia i diritti di quelli che decidono di farne parte. Bi-
sogna pensare di ridare senso a una appartenenza che in
passato aveva motivazioni diverse, di natura ideologica,
addirittura con speranze escatologiche.
108
D. E quando lo chiedono a te, quali sono le radici che
proponi?
109
zione, curiosa di conoscere il passato per capire da dove
veniamo. I giovani si rendono conto che è determinante
avere delle radici.
111
pire cosa farebbe il giorno in cui dovesse avere il governo
del Paese nelle sue mani. Da quella parte sento arrivare
le proposte più stravaganti e provocatorie. A parte l’idea
inquietante di un nuovo processo di Norimberga che do-
vrebbe portare alla sbarra le donne e gli uomini che oggi
rappresentano i cittadini nelle istituzioni, sento parlare di
uscita dall’euro, di decisione di non pagare il debito pub-
blico e altre idee del genere, in un confuso intrecciarsi di
smentite e conferme. Ho l’impressione che questi annun-
ci stiano già rendendo più difficile la riconquista di una
credibilità internazionale del nostro Paese. Figuriamoci
se questa dovesse diventare la base di un nuovo gover-
no... Sarebbe la rovina. C’è davvero un elettorato pronto
a distruggere se stesso pur di distruggere i partiti? L’ho
detto più volte: siamo un Paese dalla democrazia fragile
e il rischio che settori dell’opinione pubblica passino da
populismo a populismo senza curarsi del destino dell’Ita-
lia esiste, ma non voglio credere che possa trattarsi di una
maggioranza. Gian Enrico Rusconi, in un articolo pubbli-
cato sulla «Stampa» nel giugno 2012, ha messo a fuoco il
tema della cosiddetta società civile dipinta come fonte di
virtù salvifiche, raccontandone invece i limiti e i pericoli.
La sua proposta è di non chiamarla più “società civile”, ma
semplicemente società italiana. Esaltare la gente comune
in contrapposizione ai partiti significa non vedere che sia-
mo immersi in una crisi che taglia trasversalmente società
e partiti. L’irrompere del populismo in un momento così
drammatico indebolisce la coesione del Paese e il senso
dello Stato. In quello stesso articolo, Rusconi ha indicato
la necessità – e lo ha fatto in modo critico – di una politica
forte, capace di parlare alla società il linguaggio della veri-
tà e, nello stesso tempo, capace di raccogliere una doman-
da di cambiamento. Questo è il terreno su cui accettare la
sfida di un movimento come quello di Grillo, rispondendo
alla domanda di partecipazione e di innovazione politica
che lì si esprime. In questo senso, la Rete può certamente
allargare le possibilità di dialogo e di coinvolgimento dei
112
cittadini anche nelle scelte politiche e programmatiche.
Questo, però, a condizione di non elaborare un nuovo
mito della democrazia diretta, come se la Rete possa sosti-
tuirsi alle istituzioni rappresentative. Mi ricordo il tempo
lontano in cui si pensava di governare con le assemblee
studentesche... Sono forme di assemblearismo che hanno
sempre un forte rischio antidemocratico. Pensiamo a una
democrazia basata sull’assemblearismo cibernetico: taglie-
rebbe fuori quei tantissimi italiani, la grande maggioranza,
che non hanno accesso e non navigano su Internet. A parte
il rischio, che vedo spesso in qualche esponente politico,
di farsi condizionare dall’umore di diverse decine di uten-
ti della Rete, arrivando al punto di diventare seguace dei
seguaci.
113
della mutualizzazione di una parte del debito per abbat-
tere i tassi di interesse e contrastare la speculazione, o le
misure anti-spread, approvate ma non ancora utilizzate
dai governi. Però, ciò che occorre con urgenza è una stra-
tegia per la crescita basata su investimenti europei e sulla
possibilità di investimenti nazionali, anche attraverso una
interpretazione più flessibile del Patto di stabilità. Inoltre,
sono favorevole a un impegno per il completamento del
mercato interno, superando barriere e situazioni di mono-
polio. Se l’errore del liberismo estremo è stato quello di
coltivare l’illusione che la crescita potesse venire esclusiva-
mente da riforme dal lato dell’offerta, sarebbe altrettanto
illusorio pensare che da questa crisi si possa uscire con
un puro ritorno alle politiche keynesiane. Ci sono giovani
compagni che ci criticano per essere stati negli anni No-
vanta subalterni all’egemonia neoliberista. In realtà, come
ha ben scritto Livia Turco sull’«Unità» a settembre 2012,
i nostri governi «non solo risanarono i conti pubblici e ci
portarono nell’euro, non solo seppero costruire una lun-
gimirante politica estera, ma si contraddistinsero per una
saldatura tra rigore e giustizia sociale». Non facciamo qui
l’elenco, ma molte sono state le riforme, dall’introduzione
del credito d’imposta, che guardava al Sud e ai giovani,
agli investimenti sulla sanità, alle misure per la sicurezza
sul lavoro. Certo, riconosco che a volte è mancata una vi-
sione d’insieme, una capacità di incidere su alcuni mecca-
nismi sociali per imprimere quel cambiamento che avrem-
mo voluto per uno Stato sociale più equo e inclusivo. E
questo anche a causa del carattere della maggioranza che
di volta in volta ha sostenuto i governi dell’Ulivo. Sono sta-
to il primo a parlare dei limiti del riformismo dall’alto, del
riformismo senza popolo: non basta avere un pacchetto di
buone riforme, avanzate, se a queste non si unisce la par-
tecipazione della società, se non hai un largo consenso che
ti sostiene. Questo non lo abbiamo avuto, questo lo dob-
biamo avere. In ogni caso, nella critica che ci avanzano vi
sono elementi di verità che riguardano, con diversi gradi,
114
l’insieme della sinistra europea e americana. Certamente
occorre una svolta, ma non bisogna buttare via il bambi-
no con l’acqua sporca, e cioè non vedere che l’apporto di
una cultura liberale, senza gli eccessi della deregulation,
può arricchire la visione di una sinistra moderna. In realtà
c’è bisogno di un mix di riforme che creino condizioni
maggiori di competitività e sviluppo, ma allo stesso tempo
grandi programmi d’investimento guidati dall’autorità po-
litica. In particolare, in un Paese come il nostro, in cui le
capacità di investimento privato sono limitate, il pubblico
deve fare la sua parte. Del resto, il miracolo italiano fu so-
stenuto da grandi investimenti pubblici, non dalle piccole
imprese, che arrivarono dopo.
115
riduzione delle disuguaglianze sociali. Da questo punto
di vista, i dati sono impressionanti: calo del potere d’ac-
quisto dei salari, aumento della disoccupazione, allargarsi
della forbice sociale, che non solo disgrega la coesione, ma
spinge una parte del lavoro dipendente verso una margi-
nalità culturale che può diventare massa di manovra del
populismo. Guardiamo i numeri: nel gennaio del 2012,
la differenza tra inflazione e aumento delle retribuzioni
ha toccato il punto più alto (+1,9%) dall’agosto del 1995
(fonte: Istat) e il divario stenta a colmarsi (sempre secondo
l’Istat, alla fine di novembre è dell’1,1%). Nel novembre
2012, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello re-
cord dell’11,1% partendo dal 6,1% del 2007, mentre la
disoccupazione giovanile è arrivata al 36,5%, il dato peg-
giore dal 1992 (fonte: Istat). Nel 2011, il 20% delle fami-
glie italiane deteneva il 37,2% del reddito totale, mentre
al 20% più povero restava l’8,2% (fonte: Istat).
116
grande incertezza nel futuro sia per un impoverimento ge-
nerale delle famiglie, in particolare di chi vive del proprio
lavoro. Anche qui il dato è impressionante, se pensiamo
che, alla fine del 2012, si è registrato il peggior calo dei
consumi privati che il Paese abbia conosciuto dalla Secon-
da guerra mondiale: –3,2% rispetto all’anno precedente
(fonte: Ocse).
117
tradizionali. Occorre un’alleanza che, per essere forte e
stabile, comprenda tutta la sinistra, e cioè coloro che cre-
dono nei valori dell’uguaglianza e del lavoro. Un’alleanza
che coinvolga anche una parte del mondo moderato. Al
contrario, non vedo spazio per quel giustizialismo popu-
lista che è estraneo alla sinistra italiana, un corpo che si è
intromesso alterandone i connotati. A me interessa, piut-
tosto, ritrovare la sinistra. Oggi il conflitto non è tra la
casta e la società civile, ma tra la destra e la sinistra, come
in tutti i Paesi civili. Quando si arriva in momenti in cui la
lotta per il potere tocca gli interessi forti del nostro Paese,
avviene sempre questa operazione di camuffamento, per
cui destra e sinistra scompaiono e viene in campo un’altra
raffigurazione del conflitto. In tutta Europa, lo scontro è
tra destra e sinistra su temi come crescita, giustizia sociale
o difesa dal dominio del capitale finanziario, monetarismo
e austerità. Parallelamente c’è un conflitto tra europeismo
e populismo, cioè tra forze che puntano sull’integrazione
politica dell’Europa come risposta alla crisi, e forze che
puntano sulla crisi per ritornare indietro e rimettere in di-
scussione le conquiste europee degli ultimi cinquant’an-
ni. Anche in Italia è intorno a queste due discriminanti
che deve formarsi una maggioranza di governo capace di
essere rigorosamente a favore dell’Europa e, nello stesso
tempo, capace di essere coraggiosa nel puntare su innova-
zione sociale ed economica. È totalmente artificioso e pe-
ricolosamente regressivo raffigurare la crisi italiana come
se la sfida si debba giocare tra la casta e la società civile,
quando è evidente che la crisi attraversa sia la politica che
la società. Il rischio che corriamo è rimanere ai margini
della battaglia politica per il futuro dell’Europa, il che sa-
rebbe drammatico soprattutto per le nuove generazioni.
118
R. Non si tratta di pazienza o impazienza, ma di avere
la capacità di rappresentare la forza che faccia da collega-
mento con il centrosinistra europeo in movimento. Noi
possiamo giovarci del rilancio dei progressisti in Europa,
che avviene in parte su basi nuove. E la novità sta in una
maggiore propensione europeista rispetto alla stagione de-
gli anni Novanta, quando, su questo punto, socialismo e
riformismo europeo fallirono, perché non furono capaci
di imprimere il salto di qualità al processo di costruzione
politica dell’Ue. Eravamo noi al governo, guidammo noi
l’entrata nell’euro, ma non avemmo la capacità di promuo-
vere una vera governance economica. Prevalse una visione
ottimistica della globalizzazione e una sottovalutazione
dell’esigenza di un governo politico dei processi. Oggi,
invece, ci si rende conto che, nel tumultuoso cambiamento
di questa epoca, gli Stati nazionali, divisi, da soli, non pos-
sono andare da nessuna parte. C’è la consapevolezza della
necessità di un campo più ampio, che comprenda compo-
nenti democratiche, liberaldemocratiche, ambientaliste. E
c’è una forte spinta europeista che la accompagna. Socia-
listi e socialdemocratici sanno di non essere in condizione
di poter governare senza altre forze. François Hollande
non avrebbe vinto se non avesse avuto il sostegno del cen-
tro democratico. In altri Paesi questo si traduce in logiche
di coalizione: in Germania, l’Spd punta a tornare al go-
verno. È certamente possibile che, se Angela Merkel e la
Spd mantengono un forte primato, alla fine si torni a una
Große Koalition. Ma, se vi fosse la possibilità di un’alter-
nativa alla Cdu, questa sarebbe impensabile senza i Verdi,
che, in quel Paese, rappresentano una delle componenti
più europeiste. Ancora una volta, la nostra forza è essere
il partito che può portare l’Italia dentro questo processo.
119
dei rapporti di forza. Il cuore, il motore dello sviluppo si
sposta dall’Occidente verso l’Oriente. È avvenuto in altre
epoche in senso inverso. In questo scenario, l’Europa per-
de progressivamente peso, anche demografico. Per questo
mi convinco sempre di più che dobbiamo guardare all’im-
migrazione come a una risorsa, anche perché è la stessa Eu-
ropa a dirci che, per mantenere un equilibrio tra lavoratori
e pensionati nel Vecchio continente, avremo bisogno di
milioni di nuovi cittadini nei prossimi dieci anni. In questo
senso, dobbiamo fare come gli Stati Uniti d’America, che
hanno reso l’immigrazione un loro punto di forza, attiran-
do e coltivando talenti. È il contrario di quello che faccia-
mo noi che, grazie a una politica miope, finiamo per re-
spingere i migliori. È naturale che l’immigrazione di qualità
non si diriga verso un Paese che nega i diritti fondamentali,
a partire dalla cittadinanza. Va altrove. Quello che manca
ancora è la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida
inevitabile e che la nostra unica prospettiva è quella di stare
in mezzo al cambiamento, cercando di mescolarci, non di
rinchiuderci come se fossimo in una fortezza assediata. In
questa partita abbiamo da giocare grandi risorse di storia,
cultura e civilizzazione. Dobbiamo studiare il mondo che
verrà, dobbiamo sapere che avremo meno privilegi rispet-
to al passato, di cui abbiamo goduto anche perché basati
sull’emarginazione e la miseria di enormi masse umane. Ma
forse avremo più opportunità. Adesso abbiamo di fronte
centinaia di milioni di consumatori che chiedono progres-
sivamente standard di vita europei. L’Europa deve puntare
a offrire loro risposte di qualità. È un processo che va go-
vernato, non possiamo affidarci alla spontaneità, altrimenti
il rischio è che generi ulteriori disuguaglianze insostenibili,
conducendo a nuovi disastri.
120
a livello europeo una serie di poteri fondamentali. Fare
dell’Europa una grande potenza, integrata, in grado di
agire in quanto tale su molte delle questioni che oggi sono
di fronte a noi. C’è il terreno della governance moneta-
ria, perché non ha senso che l’area dell’euro non abbia
una rappresentanza unitaria nelle istituzioni finanziarie
mondiali. Portando avanti, fino alle estreme conseguenze,
il processo di costruzione in senso federale, con un tra-
sferimento effettivo di poteri, l’Europa potrebbe anche
aiutare a contenere la spesa pubblica dei singoli Paesi.
Sul piano della difesa, penso alla progressiva messa in
comune delle risorse militari, che consentirebbe una
razionalizzazione e un sollievo per i bilanci nazionali.
Stesso effetto avrebbe l’introduzione di un sistema di
diplomazia integrata. In questi anni, l’Europa è andata
indietro. È impressionante vedere come, di fronte alla
crisi, le istituzioni comunitarie siano apparse indeboli-
te. Solo il Parlamento ha avuto una maggiore visibilità
politica, per il resto è apparso dominante l’elemento in-
tergovernativo, anche se totalmente inefficace, incapa-
ce di superare gli egoismi nazionali, prigioniero di veti,
affaticato e tardivo come nella vicenda greca. Si tratta
di un aspetto cruciale, che rappresenta un progetto do-
tato di forza di trascinamento, perché porta con sé una
carica di idealità, un’idea di futuro. Andare contro que-
sti processi riflette un nazionalismo che nel passato era
arrogante, adesso è patetico. Se si lasciano le cose come
stanno, la tendenza sarà opposta: la debolezza dell’Eu-
ropa accentuerà nell’opinione pubblica un sentimento
antieuropeo che costituirà, paradossalmente, proprio la
leva per indebolire ancor più l’Unione. Si affermerà con
più forza l’illusione nazionalistica, che però è la via del
declino delle nazioni. È un circolo vizioso. Spero che un
centrosinistra europeista sia capace di svolgere un ruolo
propulsivo, incarnando il progetto e la forza per ridare
forma e sostanza a una nuova Europa. E con la sua unità
politica, l’Europa diventerebbe un formidabile fattore di
121
riforma della governance mondiale, di riorganizzazione
delle istituzioni internazionali, tuttora ispirate a rapporti
di forza usciti dalla Seconda guerra mondiale, che non
sono più né attuali né rappresentativi.
122
D. C’è un grande lavorio al centro che riguarda non solo
Casini, ma Montezemolo ed esponenti del mondo cattolico
come Andrea Riccardi e Andrea Olivero.
123
no moderati e così li assumiamo noi per indicare il loro
ruolo nella vicenda politica italiana. Negarne l’esistenza
significa non vedere non solo una componente politica
decisiva nella dialettica democratica del nostro Paese, ma
anche ignorare il suo referente sociale, che è in gran parte
espresso dal ceto medio italiano. Significa ignorare le di-
verse anime culturali che la percorrono, fra cui, decisiva,
quella di matrice cattolica. Il rigetto del tema dei mo-
derati, che è anche espressione del rifiuto delle alleanze
politiche e sociali, rivela la persistente tentazione della
sinistra a rinchiudersi in una posizione di opposizione,
non come congiuntura, ma come scelta di vita, come trat-
to identitario.
124
a trarsi sdegnosamente da parte, ricoprendo il ruolo dei
puri lontani dalla politica.
125
partiti come strumento di emancipazione della parte più
debole ed esclusa della popolazione. Penso che l’antipo-
litica ci metta di fronte al riemergere di alcuni nodi di
fondo, che rappresentano aspetti della debolezza relativa
del nostro Paese rispetto alla maggiore coesione che han-
no altri Paesi in Europa. Naturalmente, anche lì si affac-
ciano movimenti di contestazione della politica, ma essi
si confrontano con sistemi statali più robusti. E quando
dico “Stato” non intendo parlare solo di una struttura, ma
anche di un sentimento condiviso, di un senso di apparte-
nenza a una comunità. Da questo punto di vista affiorano
tutte le nostre fragilità. Anche per questo, la prospettiva
del centrosinistra, così come accadde nei primi anni No-
vanta, si potrebbe riassumere nell’idea di rimanere forte-
mente agganciati al processo europeo come chiave della
nostra modernizzazione, della trasformazione dell’Italia
in un Paese normale, pienamente parte della democrazia
europea. Ancora una volta, la risposta alla crisi italiana
non può che ritrovarsi nel nesso nazionale-internazionale.
Senza questa dialettica, il nostro Paese regredirebbe in
una collocazione provinciale, marginale, diventerebbe
terreno di conquista di grandi gruppi finanziari e indu-
striali internazionali.
R. Sì, c’è una più ridotta capacità della Chiesa di essere
un elemento coesivo del Paese. In una certa misura, sia
la fragilità del senso di appartenenza alla comunità sia la
scarsa presa del senso dello Stato sono state sostituite dal
ruolo coesivo che ha avuto la Chiesa e che hanno avuto,
nel Dopoguerra, i partiti popolari. L’indebolirsi di questa
funzione della Chiesa, contemporaneamente alla crisi dei
partiti di massa, accresce il rischio di una disgregazione del
tessuto collettivo, favorisce l’emergere di particolarismi,
126
di spinte corporative che tanto abbiamo visto fiorire nel
corso di questi anni.
127
ze e sono state colpite alcune casematte democratiche. Ad
esempio il modello sociale europeo dalla crisi esce molto
indebolito.
128
che, in quella parte di mondo, con l’industrializzazione
cresceranno anche i sindacati e le rivendicazioni operaie.
Noi dovremmo essere all’avanguardia di questo processo,
preparandoci a difendere i diritti di quei lavoratori e creare
al tempo stesso un nuovo habitat per un progetto di svilup-
po che guardi all’avvenire e sia radicalmente innovativo.
129
della Fiat. La questione che avevamo di fronte, e che io
– devo dire – avevo cercato di affrontare quando ero al
governo, era quella di scrivere un nuovo patto sociale, un
patto per la produttività. La questione è ancora sostanzial-
mente irrisolta, malgrado l’accordo del novembre 2012. Il
problema è che da una parte il tema della produttività vie-
ne interpretato solo in termini di flessibilità e adattamento
da parte dei lavoratori. Dall’altra, si oppone una rigidità
che scarica esclusivamente sulle imprese il compito di in-
vestire per favorire innovazione di processo e di prodotto.
Cercare una sintesi sarà uno dei compiti più importanti
e impegnativi di un nuovo governo di centrosinistra. Più
che mai, su questioni del genere, si misura il fatto che non
può essere un governo tecnico a scrivere un nuovo patto
sociale. Questo è davvero un compito irrinunciabile della
politica.
130
viva ancora con difficoltà e in maniera problematica il tema
della sua collocazione, nel tempo della democrazia dell’al-
ternanza. Da un lato, la frammentazione e la divisione del
mercato del lavoro hanno ridotto la sua capacità di rappre-
sentanza e hanno via via spinto il sindacato verso una di-
mensione economico-corporativa in modo quasi esclusivo,
indebolendo la sua funzione di rappresentanza generale. È
stata una vera rivoluzione, che avrebbe dovuto far riflette-
re sul ruolo nuovo dell’organizzazione sindacale e sui suoi
limiti. Al di fuori del lavoro sindacalizzato, è cresciuto un
universo del lavoro precario, saltuario, ma anche flessibile
e altamente qualificato, che non ha avuto rappresentanti
né organizzazione. Milioni di lavoratori atipici sono stati
lasciati completamente soli. Il sindacato fatica a radicarsi
tra i nuovi lavoratori e rischia di rimanere un’organizzazio-
ne che rappresenta una fascia intermedia del mondo del
lavoro e che tende, nel tempo, a ridursi irrimediabilmente.
Nell’indebolirsi della sua funzione generale – ed ecco qui
l’altro elemento di novità che citavo al principio di questo
ragionamento – c’era l’arroccamento su un’idea tradizio-
nale di autonomia sindacale, che non teneva conto che
eravamo immersi nella stagione bipolare, con l’alternarsi
delle maggioranze di governo, mentre il vecchio sindacato
sapeva per certo chi avrebbe governato e chi no.
131
Giorgio Squinzi si muove in maniera differente e, se guar-
diamo più in profondità, di fronte alla crisi nella realtà di
molte aziende c’è stato uno sforzo di cooperazione, di tu-
tela dell’occupazione, anche rinunciando a margini di gua-
dagno. Purtroppo restano casi di grandi imprese che, per
mantenere alti i profitti, colpiscono i lavoratori, dal punto
di vista dell’occupazione, delle tutele e dei diritti. In que-
sto momento il punto da cui bisognerebbe ripartire è che il
lavoro e le imprese produttive hanno l’esigenza comune di
ridurre lo spazio della speculazione finanziaria, hanno un
nemico comune. Gramsci scriveva, in Americanismo e for-
dismo, che il mercato finanziario nel quale il risparmio non
corre l’alea del mercato, perché tutelato dallo Stato, finisce
per creare un’economia nella quale la rendita finanziaria
è privilegiata, e la produzione e il lavoro sono penalizzati.
Ebbene, oggi siamo in una fase in cui sono stati colpiti con-
temporaneamente gli interessi del lavoro e delle imprese. Il
tema torna a essere quello delle nuove sfide sui mercati, che
si sono fatti più esigenti, difficili, affollati di concorrenti vec-
chi e nuovi, innovativi sul prodotto o risparmiosi sul lavoro.
Bisogna quindi riguadagnare competitività e ciò comporta
un patto sociale, oltre a una capacità di ridisegnare una po-
litica industriale, concertata, naturalmente, e non imposta
dall’alto. Occorre individuare i settori in cui il Paese può
essere ancora competitivo, mentre dobbiamo sapere che
ve ne sono altri in cui saremo inevitabilmente destinati a
vedere ridimensionato il nostro ruolo. Ed è proprio dove
possiamo essere competitivi che è necessario concentrare
le risorse pubbliche e private con programmi di ricerca e
di formazione professionale. Oggi questa azione coordinata
non esiste ed è un enorme elemento di debolezza del siste-
ma Paese. Una strategia di crescita pretenderebbe una vera
e propria guida politica, una capacità integrata di indivi-
duare i settori, di concentrare l’impegno in un mix di azio-
ne pubblico-privato. Nessun ritorno al vecchio statalismo.
Penso infatti che le privatizzazioni siano state una necessità
132
del Paese e andranno ancora avanti, anche se l’esistenza di
alcune grandi imprese pubbliche è una risorsa per l’Italia.
133
non sono stati rari, anche in questi anni, casi del gene-
re, che difficilmente sarebbero pensabili in qualsiasi altro
grande Paese europeo.
134
distribuzione più equa della pressione fiscale che eviti che
il peso dell’imposizione si scarichi esclusivamente sul la-
voro e sulle imprese, dobbiamo sapere che lo possiamo
ottenere soltanto con una fiscalità internazionale, con una
tassa sulle transazioni finanziarie. Altrimenti, la volatilità
dei capitali renderà impossibile l’intervento. Insomma, i
progressisti europei devono misurarsi con queste sfide.
Come si rimette in movimento un processo di sviluppo?
Che condizione attuare per ridare forza alla democrazia?
Queste sono le domande di oggi, che comportano la cen-
tralità del progetto europeo. La vera grande svolta cultu-
rale della sinistra è di diventare la forza più coerentemente
europeista, liberandosi sia dall’idea che bisogna ridurre lo
spazio della politica perché la globalizzazione provvede-
rà da sola, sia dall’idea del “socialismo nazionale”, cioè
dall’illusione dell’onnipotenza dello Stato-nazione. Una
sfida che riguarderà soprattutto Hollande e il socialismo
francese.
Capitolo 6
Monti e oltre
136
facce della crisi della democrazia europea. Si specchiano
l’una nell’altra. Il populismo è la dimensione della politica
ridotta a pulsioni, è una politica che non è più in grado di
decidere, fatta di annunci, portatrice anche di speranze e
di sogni, che alimenta e si alimenta di paure, ma non ha
più in sé un progetto di trasformazione della realtà. Non ha
più gli strumenti neppure per poter esercitare la sua forza
di persuasione e di consenso. È una politica capace di rac-
contare storie, ma incapace di deliberare, in pratica conta
meno, sempre meno. Invece, la tecnocrazia diventa gestione
dell’esistente. In Italia abbiamo vissuto questa tensione su-
scitata dal binomio populismo-tecnocrazia ai massimi gradi.
Il populismo, in una democrazia che è sempre stata fragile,
è un rischio permanente. E si ripropone quasi negli stessi
termini, a ogni passaggio di crisi, a ogni cambio d’epoca. In
questa situazione, Monti ha rappresentato in modo fonda-
mentale l’uscita dal berlusconismo e ha interpretato la ca-
pacità dell’Italia di tornare a parlare il linguaggio delle forze
dirigenti in Europa. Se non sei in grado di essere accettato
nel consesso dei grandi e dei potenti, se non hai i requisiti
minimi, infatti, diventi un Paese minore, direi irrilevante.
137
D. A questo punto, qual è il destino di Monti?
138
tando un politico a tempo pieno. Monti, che pure ha alle
spalle un’esperienza politica di grande rilievo come quella
rappresentata dal decennio nella Commissione europea,
non è, tuttavia, un uomo politicamente schierato. Ernesto
Galli Della Loggia, mesi fa, mi ha accusato sul «Corriere
della Sera» di voler arruolare Monti nella sinistra. Non l’ho
detto, non lo penso. Penso che la visione di Monti, il suo
liberalismo, non siano incompatibili con il nostro progetto.
Del resto, se non lo avessimo ritenuto compatibile con noi,
non lo avremmo sostenuto, come abbiamo fatto con lealtà.
In particolare, vedo il suo pensiero e il suo agire politico
non incompatibile con il progetto del nuovo centrosinistra
europeo: sui temi della crescita e della solidarietà, di fron-
te al debito, Monti si è trovato a fianco di Hollande, non
dalla parte dei conservatori. Detto questo, è evidente che
noi dobbiamo delineare una prospettiva che vada oltre il
governo tecnico e di unità nazionale. In Europa e in Ita-
lia sono in campo due discriminanti politiche, come ho già
detto: quella tra europeismo e populismo, ma anche quella
tra una destra monetarista e un centrosinistra in grado di
rimettere in primo piano strategie per il lavoro e la crescita.
Sono profondamente convinto che c’è un nesso tra questi
due aspetti, e cioè che il processo europeo, ma anche una ri-
nascita del nostro Paese non potranno ripartire con succes-
so se non attraverso un profondo rinnovamento nel senso
della giustizia sociale, della dignità del lavoro, dell’apertura
di nuove opportunità. Non si potrà che andare oltre il tipo
di riforme e di interventi che hanno delineato l’orizzonte
del governo Monti.
139
già dimostrato di essere affidabile. Bisogna andare oltre
l’emergenza e deve tornare la politica, da intendersi non
come la pretesa di un ceto di tornare a comandare, bensì
come confronto tra progetti e valori. E questo, dal nostro
punto di vista, vuol dire che c’è bisogno di un governo di
centrosinistra che assuma con forza, e con una prospettiva
non breve, il governo del Paese. Le grandi trasformazioni a
cui penso sono processi di lungo periodo, che hanno biso-
gno di mandati parlamentari esercitati da una maggioran-
za riformista. Occorre contrapporre al decennio berlusco-
niano un decennio riformista. E se vogliamo mettere mano
a una trasformazione così profonda della società italiana,
c’è bisogno di una forte e coesa maggioranza politica di
centrosinistra. Detto questo, non condivido l’idea, avan-
zata da una certa area della sinistra, secondo cui Monti, in
quanto liberale, è naturalmente di destra. Come accenna-
vo prima, infatti, la destra italiana non è mai stata liberale,
ma populista e statalista, e fondamentalmente Monti non
appartiene a questa cultura. È straniero in quella patria. Il
paradosso è che l’esperienza di centrosinistra è stata più
liberale di quella immaginata e proposta dalla destra ita-
liana. È stata liberale nel modo in cui può essere liberale
la sinistra, ma le liberalizzazioni, l’apertura dei mercati,
sono state misure perseguite dal centrosinistra, non dalla
destra. Anche per questo, non ci si deve stupire di fronte al
fatto che abbiamo potuto sostenere Monti senza reticenze.
Nello stesso tempo, ripeto, il governo tecnico non è mai
stato il nostro approdo e con il ritorno in campo di Berlu-
sconi appare chiaro che il Paese è di fronte a scelte radicali
che non contemplano più ipotesi di governi tecnici di uni-
tà nazionale. Oltre questo governo c’è una prospettiva di
giustizia sociale, di crescita, di valorizzazione del lavoro: è
questo il ritorno della politica che mi interessa.
140
di due aree che sono decisive nell’appesantire il clima nel
centrosinistra. Una è quella che ricorrentemente abbiamo
chiamato radicale e di sinistra e l’altra, su cui mi pare che il
tuo giudizio sia più severo, è quella giustizialista. Il centro-
sinistra può fare a meno di una delle due?
141
sistema elettorale. Si tratta di una evidente distorsione in
senso presidenzialistico, senza che vi siano le istituzioni, le
garanzie, i contrappesi di quel sistema. È quel “presiden-
zialismo parlamentare” che Giovanni Sartori ha descritto
come disastroso. Oltretutto, l’esperienza ormai ventenna-
le ha dimostrato che queste coalizioni elettorali, che danno
al cittadino l’illusione di decidere, poi, il più delle volte,
non sono in grado di funzionare come coalizioni di go-
verno. Inviterei a tornare alla politica fuori dalla pretesa
ingegneristica di sciogliere i nodi politici con marchinge-
gni elettorali. La politica sta nel ruolo di un grande partito
riformista in grado di collaborare sia con quella sinistra
più attenta ai temi del pacifismo e dell’ambientalismo, sia,
al centro, con quelle forze moderate e democratiche che
hanno rappresentato un argine importante in senso eu-
ropeista al populismo di Berlusconi. Credo che si debba
apertamente contrastare quella diffidenza, che si manife-
sta nelle nostre fila e all’interno del cosiddetto popolo del-
la sinistra, verso la prospettiva di una collaborazione con
l’Udc e, più in generale, con le forze e le personalità del
centro. È evidente che ci sono questioni che ci dividono
e sulle quali occorrerà discutere argomentando le nostre
ragioni, come per esempio i temi dei diritti civili. Ma se
vogliamo dirci la verità, la necessità di un confronto su
tali argomenti non deriva dall’esistenza dell’Udc, ma dal
rilievo che nella società italiana ha la questione cattolica e
la presenza della Chiesa. D’altro canto, ricordo quanto fu
complesso trovare nel governo Prodi un punto di compro-
messo sul tema del riconoscimento delle coppie di fatto,
anche senza l’Udc. Dunque, non si può fare di queste que-
stioni una pregiudiziale per impedire il dialogo e la ricerca
di una comune prospettiva di governo tra progressisti e
moderati. Né si può negare la coerenza con cui, in questi
anni, le personalità che si sono raccolte nel cosiddetto Ter-
zo polo hanno condotto insieme alla sinistra una battaglia
contro il populismo di Berlusconi, anche rinunciando a
posizioni di potere e a ruoli di governo. Credo che dobbia-
142
mo uscire da una disputa schematica tra di noi. È chiaro
che il Pd è una forza che aspira a raccogliere i consensi an-
che di un elettorato democratico moderato e che noi non
deleghiamo questo compito a nessuno. Ma questo non
può essere interpretato in termini di autosufficienza o di
rinuncia al principio di realtà, come a dire “dato che siamo
per il bipartitismo, Casini e Nichi Vendola non dovrebbe-
ro esistere e quindi non ci parliamo”. I fatti sono testardi
ed è con la realtà che un grande partito deve misurarsi.
Questo vale anche per il rapporto con Sel. Ricordo che essi
volevano raccogliere la sfida di governo portandovi una
parte di quella sinistra radicale che si era condannata alla
marginalità e che aveva determinato la disfatta delle ultime
elezioni politiche. Non c’è incompatibilità fra loro e noi.
143
sinistra, la discriminante è diventata Europa sì o Europa
no. Se noi dovessimo avere una sinistra radicale di questo
tipo, attratta da una prospettiva populista antieuropea,
per l’Italia sarebbe un danno. In un simile contesto, infat-
ti, il Pd sarebbe schiacciato nella logica dell’emergenza e
costretto, per salvare il Paese e garantire l’attuazione del-
le politiche europee, a una collaborazione politicamente
innaturale anche nella prossima legislatura. È merito di
Vendola essersi sottratto a questa prospettiva. In verità,
anche Bertinotti contribuì alle difficili scelte che ci por-
tarono nell’euro. Purtroppo, dopo, egli non fu in grado
di mantenere la coerenza di una sinistra di governo, e ciò
contribuì all’esito disastroso – per loro – delle elezioni po-
litiche del 2008. Sono fiducioso che Sel, anche tenendo
conto dell’esperienza passata, avrà maggior forza e coe-
renza. Naturalmente, questo impegna anche noi a un’azio-
ne di governo che segni effettivamente una svolta verso la
giustizia sociale e la riduzione delle diseguaglianze.
144
rigenerazione morale della politica. Questo è ciò che noi
vogliamo promuovere. Il qualunquismo e il giustizialismo
sono estranei alla nostra cultura e alla nostra civiltà, e non
credo debbano esserci cedimenti.
145
sensibili. Non avremmo potuto evitarlo: stiamo parlando
della riforma del lavoro, sulla quale abbiamo avuto le no-
stre posizioni, della revisione della spesa pubblica, dove
contrastiamo i tagli lineari alla spesa sociale, in particolare
su sanità e istruzione. È ovvio: abbiamo sostenuto questo
governo con il nostro profilo. Oltre Monti, però, non vuol
dire contro Monti, soprattutto se consideriamo qual è sta-
to il suo impegno per tenere l’Italia agganciata all’Europa.
Questa sarebbe stata una logica suicida. Ora siamo in un
passaggio delicato, dobbiamo ricomporre l’universo di
centrosinistra per costruire una prospettiva per il futuro
del nostro Paese. Chi vuole contribuire a questo progetto
deve sfuggire alla sfera populista.
146
contro le personalità più simboliche della sinistra e non è
stata percepita dai nostri elettori come una minaccia ver-
so un ceto politico piuttosto datato. Il quale, oltretutto, in
particolare in diverse zone del Mezzogiorno, ha in realtà
finito paradossalmente per sostenere proprio il sindaco di
Firenze. Questo fatto lo ha danneggiato, determinando in
molte aree del nostro elettorato una reazione di rigetto che
si è manifestata chiaramente nel ballottaggio.
147
senza avere il senso della continuità. Noi possiamo accom-
pagnare questa fase di trasformazione, lo start up di una
nuova classe dirigente, fornendo, come avviene ovunque,
occasioni ed esperienza. Ci vuole un ragionevole mix tra
innovazione ed esperienza per evitare di fare la fine della
scimmietta della famosa favola di Gadda: la scimmietta
che, trovato un elmo da pompiere, se lo mette in testa ma
rimane al buio. Invece, devi trovare le persone in grado di
mettersi l’elmo da pompiere e continuare a guardarsi in-
torno. Non è vero che la classe dirigente del nostro partito
è, come viene detto, la più vecchia in Europa. Al contrario,
l’età media del nostro gruppo parlamentare è più bassa di
quella dei parlamentari dell’Spd e dei socialisti francesi.
Con ciò non voglio certamente dire che non si debba pro-
seguire coraggiosamente sulla via del rinnovamento della
classe dirigente. Ma dobbiamo farlo partendo dalla realtà,
non da campagne prive di verità.
148
sono serviti per far eleggere qualcun altro. Spesso ho fatto
da traino ad altri candidati.
149
R. Lo statuto stabilisce il limite di tre mandati parla-
mentari, ma prevede la possibilità di deroghe. La volontà
del legislatore è che si consideri che ci sono delle per-
sonalità che, per la loro storia, o per il loro consenso,
o per le loro competenze, sono necessarie alla battaglia
del partito nelle assemblee parlamentari. La via maestra
è rispettare lo statuto. È il Pd che deve discutere e deve
decidere quali sono i criteri delle deroghe e i criteri delle
deroghe sono importanti per capire che cos’è il Partito
democratico. Se è un partito che ha rispetto della sua
storia, se ritiene di dover portare in Parlamento perso-
ne che hanno consenso e competenze per governare,
oppure se è un partito che vuole assomigliare al movi-
mento dell’“Uomo qualunque”. Come ti ho già detto,
al secondo punto del suo programma, Giannini aveva la
non reteirabilità degli incarichi. L’Uomo qualunque non
è certo una novità inventata da Renzi, è una storia antica
dell’Italia, di quando si teorizzava che la politica dovesse
essere l’impegno amatoriale della borghesia. Da qui l’in-
sofferenza verso i politici di professione. Sono stato in un
partito, il Pci, in cui vigeva la regola della rotazione. Però
a Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Giorgio Amendola,
Nilde Jotti e ad altre personalità e dirigenti non veniva
applicata, perché rappresentavano la storia, erano il sim-
bolo del partito. La regola della rotazione non riguar-
dava neanche figure come Giorgio Macciotta o Mario
Pochetti, perché essi incarnavano competenze essenziali:
Macciotta sapeva leggere il bilancio dello Stato, Pochetti
sapeva governare il gruppo parlamentare. Questo per di-
re che il Pci aveva un’idea di sé, della sua storia, dei suoi
simboli, delle sue competenze: li proteggeva compiendo
scelte politiche. Sta tutto qui il tema delle deroghe. Per
me non ne chiedo, ma personalmente ritengo che alcune
deroghe debbano esserci. È evidente, infatti, che vi sono
esperienze, competenze e personalità che è giusto che
trovino spazio anche nel futuro Parlamento.
150
D. Hai detto che si può fare politica fuori dal Parlamento.
Mi puoi spiegare dove e come?
151
volmente possibile e, dopo che Prodi ha smesso di fare il
presidente del Consiglio, ho lavorato affinché diventasse
presidente della Commissione europea, non certo per can-
cellarlo dall’arena politica italiana. Semmai il contrario.
Ho avuto uno scontro duro con Veltroni, ma poi l’ho pro-
posto vicepresidente del Consiglio. Questa raffigurazione
di un D’Alema manovriero è falsa e nasce da stereotipi
culturali di matrice reazionaria. C’è tutta la diffidenza ver-
so il togliattismo, verso la doppiezza comunista, che è stata
una chiave interpretativa della mia persona e che è stata
anche introiettata da una parte della sinistra. Posso fare
bene o male, posso sbagliare, ma sono una persona leale,
persino ingenuo negli aspetti personali della lotta politica.
Questa accusa mi ha danneggiato, tuttavia non c’è nulla di
irrimediabile, come vedi sono sempre qui.
152
D. Il tema dell’antipatia del gruppo dirigente della sini-
stra esiste anche nella vulgata popolare. Ho raccontato in
altre occasioni un episodio dei giorni successivi alla chiusura
dell’«Unità». Mi telefonò Sandra Mondaini per dirmi che
lei e suo marito, Raimondo Vianello, seguivano Berlusconi,
ma lei era in angoscia per il nostro giornale e per la sua sorte
e poi mi parlò della sinistra e della sua diffidenza verso la
sinistra. Fra gli argomenti che usò c’era quello dell’antipa-
tia della classe dirigente di sinistra. So che non si riferiva
a te, fece altri nomi, però come vedi il tema è interamente
politico.
D. All’inizio del libro dici che da ragazzo una volta sola
hai pensato di fare a meno della politica...
153
tempo e poi se ne fa un altro. La politica ti prende, è una
passione, o se si vuole una malattia da cui non si guarisce
mai. La puoi fare in tanti altri modi, attraverso il giorna-
lismo o l’impegno civile nell’associazionismo. Ma quella
che fai è sempre politica. Naturalmente, non significa fare
sempre il parlamentare o il funzionario di partito. Se la po-
litica è il tentativo di cambiare il corso delle cose secondo
una visione e valori e convinzioni forti, è una dimensio-
ne di vita dalla quale, secondo la mia esperienza, non si
esce più, se non in modo totalmente traumatico, quando
ti capita di essere sbalzato via. So bene che per molti citta-
dini l’impegno politico può durare anche lo spazio di un
mandato, ed è giusto e importante che sia così. Ma perché
molti possano compiere questa esperienza, è necessario e
utile, io credo, che ci sia un certo numero di persone che
si dedicano alla politica in senso professionale. Certo, è
fondamentale che chi fa questo non pretenda il monopolio
della vita pubblica, ma sappia mettersi al servizio degli
altri, dei cittadini. Questa è una delle condizioni della de-
mocrazia moderna e su questo equilibrio si sono fondati
i partiti e il funzionamento delle istituzioni. Non vedo in
campo un modello alternativo e più avanzato, ma solo il
rischio di una pericolosa regressione.
154
anonimi. Scompare quel metterci la faccia che è l’essenza
della partecipazione democratica.
155
governo Monti ha compiuto, noi siamo in una situazione
ancora molto complicata. Ormai anche i mercati si inter-
rogano se questo Paese abbia o no una prospettiva politica
di fronte a sé e se essa sia in grado di garantire la serietà
e il rigore dell’azione di governo da una parte, e di ave-
re respiro e tempo per promuovere la crescita dall’altra.
Questo è il grande problema italiano oggi: restituire una
prospettiva politica, rimettendo al centro la sua vocazione
europea. Contro questo progetto si scatena un’offensiva
da vari fronti: c’è Berlusconi, che vuole sbriciolare tut-
to e gettare il Paese nel caos. Vuole gestire, così, una sua
rendita di posizione nel sistema politico. C’è l’antipolitica,
che appare con forme e leader sempre diversi, ma è un fe-
nomeno ricorrente nella storia italiana, non solo di questo
secondo Dopoguerra. Ci sono, infine, forze che vogliono
cogliere l’occasione della crisi per spostare il potere dalle
istituzioni democratiche e dalla politica verso altri corpi,
verso altri poteri. Non voglio criminalizzare alcuno, ma
a me pare evidente che questa sia oggi la partita: ci sono
forze che puntano allo sfascio, a colpire, a delegittimare in
profondità le istituzioni democratiche per aprire la stra-
da a commissariamenti di lunga durata. Siamo un Pae-
se che, proprio per la sua fragilità attuale, attira su di sé
diversi interessi. Ci sono tanti pezzi pregiati della nostra
economia che fanno gola. Se questo Paese non è più in
grado di difendersi, se si disgregano le sue istituzioni, se
la politica perde di credibilità, è più facile impadronirsi
dell’Eni, dell’Enel e di tante altre aziende che hanno mo-
strato grande vitalità e sanno stare sul mercato mondiale.
Se mi guardo attorno, se osservo il dibattito politico, a
volte anche all’interno del Pd, non vedo la percezione del
passaggio straordinario che stiamo attraversando. Rispet-
to a coloro che giocano allo sfascio, chi, come noi, vuole
costruire una prospettiva deve dar prova di autodiscipli-
na, di responsabilità, di forza. Ci sono momenti in cui si
discute, si disputa la leadership, ci si confronta su certe
issues programmatiche, si analizza il rapporto di forza tra
156
le correnti interne, si lascia correre anche l’ambizione per-
sonale. Ci sono momenti in cui tutto questo è normale,
fisiologico e comprensibile. Ma adesso è diverso: siamo
in una crisi drammatica, che non è solo italiana, ma che
in Italia ha un suo epicentro. Rappresentiamo uno degli
anelli deboli della catena, per questo penso che un par-
tito come il Pd, che è il maggior partito italiano, debba
spendersi per salvare il Paese, accantonando problemi che
potranno essere affrontati dopo, quando, proprio grazie
al nostro contributo, saremo finalmente fuori dalla bufe-
ra. Ora è il momento di chiamare a raccolta chi è pronto
a condividere le responsabilità di governare il Paese per
invertire la deriva del declino e rimettere in movimento le
energie migliori della società italiana.
Gli Autori
163
Cuccia, Enrico, 75. Ingrao, Chiara, 63.
Ingrao, Pietro, 5, 63, 150.
Daley, Richard, 72. Ingroia, Antonio, 144.
D’Ambrosio, Gerardo, 22.
De Benedetti, Carlo, 22. Jotti, Nilde, 150.
De Castro, Paolo, 55, 57.
De Gregorio, Sergio, 102. Keynes, John Maynard, 117.
Del Pennino, Antonio, 22. Krugman, Paul, 117.
Del Vecchio, Mauro, 70.
de Magistris, Luigi, 144. Lama, Luciano, 130.
De Mita, Ciriaco, 10, 17. Letta, Enrico, 102.
De Rosa, Gabriele, 27. Livni, Tzipi, 96.
Diliberto, Oliviero, 57.
Dini, Lamberto, 39, 51, 138. Macaluso, Emanuele, 8.
Di Pietro, Antonio, 23, 50, 144. Macciotta, Giorgio, 150.
Di Vittorio, Giuseppe, 130. Magno, Bruno, 14.
Draghi, Mario, 77. Mancini, Marco, 76.
Mancino, Nicola, 55.
Falcone, Giovanni, 17. Marchionne, Sergio, 129, 131.
Fanfani, Amintore, 101. Marini, Franco, 49.
Fassino, Piero, 84, 87, 92-93. Martinazzoli, Mino, 26-29, 37.
Ferrara, Giuliano, 92. Martini, Carlo Maria, 99.
Fini, Gianfranco, 39, 44, 46, 92. Mastella, Clemente, 56, 103.
Forlani, Arnaldo, 16, 17. Mattarella, Sergio, 37.
Fossa, Giorgio, 58. Merkel, Angela, 117, 119.
Micheli, Enrico, 55, 57.
Gadda, Carlo Emilio, 148. Milosević, Slobodan, 63, 68.
Galli Della Loggia, Ernesto, Milutinović, Milan, 63.
139. Minniti, Marco, 52.
Gallino, Luciano, 123, 144. Misserville, Romano, 57.
Gardini, Raul, 24. Mofaz, Shaul, 96.
Geremicca, Federico, 4. Mondaini, Sandra, 153.
Giannini, Guglielmo, 125, 150. Monti, Mario, vii, xiii, 70, 90, 97,
Ginzborg, Paul, 144. 113, 122, 136-140, 145-146.
Giuva, Linda, 50. Moratti, Letizia, 57, 58.
Gorbaciov, Michail, 5, 12-13. Morsi, Mohamed, 98.
Gramsci, Antonio, 107, 109, Mosca, Gaetano, 125.
132, 136. Mussi, Fabio, 6.
Greganti, Primo, 23.
Grillo, Beppe, 31, 111-112, 122, Napolitano, Giorgio, 8, 19, 28,
144. 93, 147.
Grossman, David, 99. Netanyahu, Benjamin, 96.
164
Occhetto, Achille, 3-8, 13-17, Salvato, Ersilia, 57.
22, 24, 27-30, 34, 37. Sartori, Giovanni, 142.
Olivero, Andrea, 123. Scalfari, Eugenio, 18.
Orlando, Leoluca, 18. Scalfaro, Oscar Luigi, 11, 17-18,
28-29, 51.
Padoa Schioppa, Tommaso, 61, Schroeder, Gerhard, 66, 69, 72,
110. 77.
Pajetta, Giancarlo, 150. Segni, Mario, 27-28.
Pannella, Marco, 18, 57. Shevardnadze, Eduard, 24.
Panzavolta, Lorenzo, 23. Spadolini, Giovanni, 17-18.
Parisi, Arturo, 43.
Squinzi, Giorgio, 132.
Passigli, Stefano, 46.
Stefanini, Marcello, 23.
Petruccioli, Claudio, 14.
Pillitteri, Paolo, 22. Sylos Labini, Paolo, 86.
Pivetti, Irene, 50.
Talabani, Jalal, 94.
Pochetti, Mario, 150.
Tavaroli, Giuliano, 76.
Porcari, Leo, 24.
Prodi, Romano, xiii, 27-29, 38- Tognoli, Carlo, 22.
39, 41, 44, 47-52, 54-55, 57, Tremonti, Giulio, 110.
70, 87-92, 94, 101, 103, 138, Trentin, Bruno, 130.
143, 147, 151-152. Tronchetti Provera, Marco, 58.
Turco, Livia, 114.
Rabin, Yitzhak, 97.
Reichlin, Alfredo, 29. Urbani, Giuliano, 33.
Renzi, Matteo, 146, 148, 150.
Riccardi, Andrea, 123. Veltroni, Walter, 9-10, 14, 36-
Rice, Condoleezza, 67. 39, 42, 55, 87, 93, 101-104,
Riina, Totò, 26. 148-149, 152.
Romiti, Cesare, 76. Vendola, Nichi, 143-144.
Rossanda, Rossana, 6. Vertone, Saverio, 33.
Rugova, Ibrahim, 68. Vianello, Raimondo, 153.
Rusconi, Gian Enrico, 112. Violante, Luciano, 52.
Russo Jervolino, Rosa, 57. Visani, Davide, 22.
Rutelli, Francesco, 81-82, 92. Visco, Vincenzo, 29, 77.
Indice del volume
Introduzione v