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Saggi Tascabili Laterza

379
Massimo D’Alema

Controcorrente
Intervista sulla sinistra
al tempo dell’antipolitica
a cura di Peppino Caldarola

Editori Laterza
© 2013, Gius. Laterza & Figli

www.laterza.it

Prima edizione gennaio 2013

Edizione
1 2 3 4 5 6
Anno
2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa,
Roma-Bari
Questo libro è stampato
su carta amica delle foreste
Stampato da
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-9612-2
Introduzione

Questo libro esce nel vivo di una crisi drammatica, alla vi-
gilia di un voto che certamente segnerà la storia del Paese,
chiudendo tutta una fase della vita nazionale.
Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza
delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leader-
ship di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta
politica in grado di rispondere all’esigenza di una rico-
struzione democratica. Con il confronto delle primarie,
questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro
del dibattito pubblico.
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno del-
la politica alla guida del Paese.
Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è le-
gittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche
per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza
di questi ultimi venti anni.
Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione “Seconda
Repubblica”, che è carica di ambiguità e contiene, forse,
un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude
oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta.
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo
segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi,
dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di
forze sociali e di interessi intorno a lui.
Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di inter-

­v
pretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di
là delle sue personali capacità e della forza del suo potere
mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una
sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti ani-
mali della società civile contro la “Repubblica dei partiti”,
la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro
i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista
hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di mo-
dernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lon-
tano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una
versione italiana di quella più generale egemonia di una
visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine
del comunismo, ma anche la fine della storia e la definitiva
resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del
Novecento.
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese,
i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di
eventi internazionali. La crisi della “Repubblica dei parti-
ti” nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della
Guerra Fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita
nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo
finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno
dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde,
accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il diva-
rio tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione,
l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammen-
tazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i
problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un
centrosinistra che non è stato in grado di completare la
sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni
di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti
pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pub-
blica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema
politico-democratico.
Il Paese era veramente giunto sull’orlo del collasso, an-
che se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere

­vi
questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel
ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato
chiamato dal capo dello Stato.
Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso
misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre
attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva,
il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese
ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia
stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia
sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di
marginalità o di profonda umiliazione.
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti
noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia con-
sentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo
da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la
probabile conquista anticipata del governo.
Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese,
ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e
credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del
consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida
del governo.
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il
ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici,
come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della po-
litica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di
incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è
solo una campagna contro la politica, è una campagna con-
tro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere
governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra.
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto
gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una
rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tec-
nocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause.
Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e
della politica sulla società e sull’economia. Al contrario,
ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da
lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha

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caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’an-
ni. In Italia, dopo la caduta del sistema dei partiti all’inizio
degli anni Novanta, si sono succeduti diversi tentativi di
rifondazione del sistema politico, ma viviamo tuttora una
fase di tumultuosa e drammatica transizione.
Davvero non siamo sotto il tallone di una partitocrazia
oppressiva, né di pesanti apparati che non esistono pres-
soché più, se non nei commenti improbabili dei media.
Abbiamo assistito a un processo di trasformazione che
potrebbe intitolarsi, in modo generico, “americanizzazio-
ne della vita politica europea”, con una crescita impres-
sionante della personalizzazione, dell’influenza dei media
e dell’ingerenza dei poteri economici e finanziari. A ciò ha
corrisposto una perdita di autonomia dei partiti e una loro
permeabilità crescente a interessi particolari che pesano
sui sistemi politici.
I partiti si presentano, così, più come insiemi di comita-
ti elettorali che come associazioni di cittadini uniti intorno
a valori, programmi, visioni del mondo. Un processo che
ha avuto un effetto particolarmente disgregante in Italia
e l’unica forza che in qualche misura fa argine a questa
tendenza è il Pd.
Dunque, si è fortemente erosa la capacità della politica
organizzata di formare e selezionare la classe dirigente, men-
tre una sorta di neo-borghesia, un notabilato diffuso, privo
di idealità, di senso dello Stato, di attenzione all’interesse ge-
nerale, è penetrato largamente nelle istituzioni. Berlusconi è
stato il riferimento culturale e antropologico di questo mon-
do, ben al di là del suo ruolo di leader politico.
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di
per­dita di credibilità del sistema politico e istituzionale,
ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione
pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una
ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizza­
zione della politica. Quindi verso un aggravamento dei
guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è per-
sino più grave, verso un restringimento delle basi sociali

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del­l’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei
partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e
finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo
meno dominata dai ricchi.
È possibile un’altra strada? C’è una via per la ricostru-
zione democratica, per uscire dal berlusconismo, senza
per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passato?
Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il
centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente
impegnativa e complessa.
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimen-
to al contesto internazionale e particolarmente all’Europa,
un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’u-
scita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi.
È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attra-
versata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi
casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il
nostro Paese.
Tutti noi constatiamo con quanta lentezza e quanta
fatica l’Europa si muova di fronte alla crisi, come se ci
fosse una difficoltà strutturale a decidere, non solo una
fragilità delle leadership. La politica europea tradizionale
che si è costruita con gli Stati nazionali appare spiazzata
di fronte alla globalizzazione. Le decisioni (cioè le policies)
si sono spostate a livello europeo o, peggio, a livello delle
istituzioni finanziarie sovranazionali, in sedi che appaiono
inaccessibili al controllo popolare, con procedure opache
e sostanzialmente dominate dalla razionalità economica di
quello che è stato chiamato “pensiero unico”.
Il cittadino americano può scegliere tra un presidente
che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri
e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanita-
ria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle
agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre
potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere.
In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la
percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione,

­ix
che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di
obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non
resta che fare “i compiti a casa”, cioè eseguire le direttive
che la razionalità economica dominante impone. La poli-
tica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali,
ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione.
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel
nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando
l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e
l’integrazione europea.
Così, la democrazia europea rischia di essere schiaccia-
ta tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più atten-
ta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti
compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre
più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle
identità culturali che si sentono minacciate dalla globa­
lizzazione.
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze
politiche che hanno dominato la scena europea negli ulti-
mi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della
destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla
storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri
economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevo-
le alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, popu-
lista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati
dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale.
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà.
Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che
hanno condiviso con le élite economiche una visione so-
stanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più
tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso so-
cialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato,
nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protet-
to anche nei nuovi scenari della competizione mondiale.
L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta.
Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per
accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in

­x
Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata
per il “no” nel referendum sulla nuova Costituzione euro-
pea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di
appannamento ideale e di subalternità.
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella sta-
gione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre
in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia.
Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressi-
sti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande,
ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di
ispirazione socialista e laburista. E non si tratta soltanto di
questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno
oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà
in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modi-
ficare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente
una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte
appaiono estremamente impegnative.
Al centro della crisi europea vi è l’esigenza di crea-
re lavoro per masse crescenti di milioni di disoccupati,
innanzitutto giovani. E ciò in un contesto che è ancora
quello di economie in media scarsamente competitive,
potendo contare su risorse pubbliche limitate per il peso
dell’indebitamento degli Stati e su un ridotto afflusso degli
investimenti privati, crescentemente attratti dalle econo-
mie cosiddette emergenti. Davvero un compito non facile.
Anche perché, come sta avvenendo in Francia, la sinistra
che torna al governo suscita aspettative ben comprensibili
in società dove l’aumento di ingiustizie, povertà ed esclu-
sione si fanno insostenibili.
È evidente che occorre una svolta profonda nel senso
della crescita economica e della giustizia sociale. Ma non
ci si illuda che per produrla sia semplicemente possibile
tornare alle politiche che hanno caratterizzato la sinistra
nel secolo scorso e che furono possibili in un contesto
mondiale ed europeo totalmente diverso, che non tornerà.
Non nego che sia giusto riflettere sul prezzo pagato a
una certa acquiescenza culturale al pensiero dominante

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neoliberista. Nessuno può negare, oggi, dopo anni in cui si
è teorizzato che bisognava lasciar fare soltanto al mercato,
che non può esservi crescita senza la guida di una azione
pubblica intelligente ed efficace.
Ma per corrispondere davvero a questa necessità, non
si potrà non operare per ridurre il peso burocratico de-
gli apparati, tagliando in modo selettivo la spesa, e quindi
ammodernando il welfare per contrastare efficacemente la
povertà e garantire diritti essenziali, combattendo sprechi
e rendite corporative. Insomma, il rigore è un vincolo reale,
da cui la sinistra non potrà prescindere. E se si vorrà, come
si deve, spostare risorse verso l’innovazione e la formazione
per crescere in competitività, altri aspetti dovranno esse-
re sacrificati. E giustizia sociale e crescita non si potranno
garantire a debito, ma spostando il peso della fiscalità dal
lavoro e dalle imprese verso la rendita e i patrimoni.
La grande sfida per la sinistra è quella di innovare senza
gettare via ciò che è vivo della stagione neoliberale: buttar
via l’acqua sporca dell’ingiustizia e delle disuguaglianze,
ma mantenere la spinta verso un’economia più aperta e
competitiva.
Per questo ci vuole una sinistra europea che sia anche
– finalmente – europeista.
È, forse, il contributo più importante che il centrosini-
stra italiano può dare, tornando al governo, ai progressisti
europei: portare nell’Unione, con coerenza e con forza, il
peso di una visione politica, europeista e federalista, ne-
cessaria per uscire dalla crisi e per compiere un salto di
qualità nel processo di integrazione. È ormai chiaro che, se
non c’è questo deciso passo in avanti, il rischio è che tutta
la costruzione divenga fragile e che le conquiste fonda-
mentali realizzate nel dopoguerra, inclusi il Mercato unico
e l’euro, vengano rimesse in discussione.
Dal conflitto paralizzante tra un’Europa lontana, che
appare dominata da una tecnocrazia neoliberista, e i po-
pulismi regressivi che si affermano in diversi Paesi, si esce
con una Unione più forte, legittimata dal consenso dei

­xii
cittadini con rinnovate procedure democratiche, capace
nello stesso tempo di mettere in campo politiche nuove.
Nessun Paese ce la farà, neppure quelli più forti, senza
una politica comune, attiva e solidale, per ridurre il peso
del debito e abbattere i tassi di interesse, senza una strate-
gia per la crescita e una interpretazione ragionevolmente
flessibile del Patto di stabilità.
Ormai tutti i nodi da sciogliere, compresi quelli appa-
rentemente tecnici, come i meccanismi di controllo per
l’Unione bancaria o per gli strumenti anti-spread, rinviano
a una questione politica più di fondo, che riguarda la so-
vranità e la legittimazione. Si fa sempre più evidente, nella
crisi di oggi, quanto sia ormai storicamente superato il di-
battito sulla cessione di sovranità da parte degli Stati. Per
molti aspetti, di fronte all’economia e alla finanza globali,
la sovranità nazionale è ormai di fatto fortemente ridotta
e rafforzare i poteri democratici dell’Europa appare come
l’unica via per riguadagnare sovranità e non per cederla.
Naturalmente a condizione che le istituzioni europee tro-
vino una legittimazione più diretta e forte nel rapporto
con i cittadini e non solo nei trattati tra gli Stati.
Questo è il terreno su cui si misureranno le ambizioni
di una nuova sinistra riformista e anche la possibilità di
un patto con le forze moderate più aperte e consapevoli.
Altrimenti il rischio è quello di una regressione, persino
sul terreno della democrazia e dei diritti fondamentali, co-
me ci appare chiaro in alcuni Paesi della cosiddetta “nuo-
va Europa”, in particolare l’Ungheria.
Il centrosinistra italiano, da Giuliano Amato, Carlo
Azeglio Ciampi e Romano Prodi sino ad oggi, ha una sto-
ria di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo
che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una
delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi popu-
lismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la
consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento
più significativo di continuità con il suo governo che il
centrosinistra dovrà assicurare.

­xiii
L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non
potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come
due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova
classe dirigente. Anche per questo è così importante che
a guidare il Paese sia una forza come il Pd, che – con la
sua originale identità – è parte integrante, autorevole e
riconosciuta del riformismo europeo.
Nel momento in cui scriviamo, non sappiamo che esito
avrà il tentativo di reclutare Monti per candidarlo, come
è stato detto, contro la sinistra. Certo, sarebbe un esito
sconcertante dello sforzo che abbiamo compiuto per so-
stenerlo e risanare il Paese attraverso duri sacrifici.
Quella che ci sta davanti è una nuova frontiera, certa-
mente; ma credo la si affronti meglio se non si smarrisce il
senso di una vicenda storica segnata da errori e sconfitte,
ma anche carica di passione politica, visione, battaglie e
risultati importanti per l’Italia.
La spinta decisiva verso il futuro – occorre sottolinear­
lo – è venuta da milioni di cittadini, che sono scesi in
campo con una forza che nessun partito e nessun leader
solitario avrebbero potuto esprimere. Bersani ha mostrato
di saper raccogliere questa spinta. La speranza ora è che
il vizio antico delle divisioni non torni a rendere fragile la
forza che ha il compito di rinnovare l’Italia.
Se la politica è l’azione intelligente per cambiare il cor-
so delle cose, se la politica è passione e responsabilità, mai
come ora l’Italia e l’Europa ne hanno bisogno. Mai come
ora c’è bisogno di una classe dirigente capace di non ab-
bandonarsi alla corrente della demagogia e del populismo
e di ritrovare la rotta del cambiamento e delle riforme.

Massimo D’Alema

Roma, 14 dicembre 2012


Controcorrente
Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica
Capitolo 1
L’addio al Pci e alla Prima Repubblica

D.  Nel luglio del 1994, appena eletto segretario del Pds,
hai esordito dicendo: «Il compito della mia generazione è
portare la sinistra italiana al governo del Paese. Altre gene-
razioni hanno fatto cose fondamentali: hanno riconosciuto
la democrazia, hanno rinnovato il Paese. Ora, per noi, il
problema è il governo: vogliamo essere messi alla prova».
Una generazione, la tua, di dirigenti che, in effetti, si sono
portati oltre il Pci, hanno fondato un nuovo partito e ce
l’hanno fatta a portare la sinistra al governo. Ma è anche
la stessa che si è divisa, che ha perso alcuni appuntamenti
importanti. Non pensi che per capire meglio questo percorso
bisogna partire da quella svolta che, insieme alla caduta del
Muro di Berlino, cambiò la sinistra e la politica italiana?

R.  La caduta del Muro colse il Pci in pieno declino. Do-


po i momenti più alti nella metà degli anni Settanta e do-
po il picco di consensi alle europee dell’84, condizionato
dall’emozione per la scomparsa di Enrico Berlinguer, il
Pci appariva un partito privo di prospettiva. Era evidente
la decadenza dell’intero sistema politico italiano, ma il Pci
non si mostrava capace di offrire al Paese una proposta
alternativa. Insomma, una ricollocazione strategica era ne-
cessaria già prima dell’89. In questo senso, il cambiamento
fu tardivo. Quando avvenne fu liberatorio e costituì, oltre
ogni altra considerazione, un merito indiscutibile di Achil-

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le Occhetto. A suo modo, Occhetto è stato il Gorbaciov
italiano: come lui, ha avuto il grande coraggio di tagliare i
ponti, ma ha anche avuto la sua stessa fragilità nel costruire
le fondamenta della nuova stagione.

D.  Occhetto annunciò il cambio del nome del Pci il 12


novembre dell’89 alla sezione della Bolognina. Ne aveva
parlato con voi, cioè con il gruppo dirigente del Pci?

R.  Da settimane discutevamo sulla necessità di un


cambiamento radicale. Eravamo concentrati soprattutto
sull’adesione all’Internazionale socialista, che avrebbe do-
vuto segnare il nostro passaggio a pieno titolo nel campo
del socialismo democratico. Niente di più. La decisione di
forzare i tempi fu una scelta personale di Occhetto. A dire
il vero, alla Bolognina non fece un vero e proprio annun-
cio: alla domanda di un giornalista sul cambio del nome
del partito, si limitò a non escluderlo. Ricordo che quel 12
novembre ’89, era domenica, ero riuscito a ritagliarmi una
mezza giornata per un giro in barca a vela. Mi trovavo tra
Ponza e il Circeo insieme a Federico Geremicca, cronista
politico dell’«Unità», di cui ero direttore. A fine mattinata
mi riferirono le dichiarazioni della Bolognina. Non avem-
mo dubbi sul fatto che ormai il passo era compiuto e non
sarebbe stato più possibile tornare indietro. Per questo an-
che «l’Unità» diede alla dichiarazione di Occhetto il valore
di un annuncio, come gli altri quotidiani. E quella domeni-
ca l’emozione e la tensione non ci lasciarono. Il giorno suc-
cessivo si riunì la segreteria. Occhetto si presentò con un
testo scritto, battuto a macchina. Non era mai accaduto.
Quella riunione, solitamente informale, divenne solenne.

D.  Tu che cosa dicesti?

R.  Parlammo tutti poco, perché prendemmo atto della


decisione del segretario. Dopo la riunione, andai da mio
padre. Il suo legame con la storia del Pci era molto for-

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te: si era iscritto nel ’37, era stato uno dei protagonisti
della Resistenza, aveva dedicato l’intera vita al partito e
alla lotta politica. E da pensionato continuava a seguire
con grande passione le nostre vicende. Mi colpì l’estrema
determinazione con cui si espresse subito a favore della
“svolta”. Gli manifestai anche alcune mie perplessità sui
modi con cui era stata presentata, su un eccesso di legge-
rezza, ma lui non le giudicò essenziali. Nonostante la sua
abitudine al rigore delle discussioni interne al partito, mio
padre mi disse che Occhetto aveva fatto bene ad agire in
modo irrituale, perché altrimenti si sarebbe impantanato.
E non era il solo a pensarla così tra gli anziani del partito:
molti di loro videro nella “svolta” un vero e proprio atto
salvifico.

D.  Vi aspettavate un fronte del no così robusto? Avevate


messo in conto una scissione?

R.  La speranza di rinnovamento democratico del movi-


mento comunista dall’interno, che il Pci aveva coltivato
nelle varie fasi della sua storia e che la stagione di Michail
Gorbaciov aveva alimentato, si era infranta nella durezza e
nella irreversibilità della crisi dei regimi dell’Est europeo.
Ma non era questo il giudizio di tutti. La contestazione di
Armando Cossutta ci allertò sulla possibilità di una scis-
sione. Mi sorprese, invece, la posizione di Pietro Ingrao.
Non era scontata. Ingrao, in fondo, era espressione di una
sinistra che già si pensava oltre la tradizione comunista.
E con la sua cultura, Ingrao avrebbe potuto benissimo
diventare l’anima di sinistra del nuovo partito. In lui ci
fu, invece, un’ostilità immediata alla “svolta” e un ripie-
gamento identitario, di cui tuttora non riesco a ricostruire
per intero le ragioni.

D.  Nell’89 tu avevi quarant’anni. Nella tua vita avevi mai


pensato a un impegno politico fuori dal Pci?

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R.  Una sola volta sono stato sul punto di lasciare il parti-
to. Fu quando venne espulso il gruppo del Manifesto, nel
’69. Ero a Pisa e, dopo una drammatica notte di discussio-
ne con il mio amico Fabio Mussi, decidemmo insieme di
restare. Penso che Rossana Rossanda non me l’abbia mai
perdonato. Ma io non immaginavo possibile un mio im-
pegno altrove. Eravamo comunisti, ma lo eravamo a modo
nostro. A 19 anni mi trovai per caso a Praga con un ami-
co il giorno dell’invasione russa: non avemmo la minima
esitazione a mescolarci con i giovani che si ribellavano e
nell’incoscienza del pericolo anch’io disegnai una svastica
con il gesso su uno dei carri armati. Ci sentivamo forti
delle nostre idee, ma anche delle radici nazionali e popo-
lari che il Pci aveva sviluppato e della scelta democratica
sancita dal patto rappresentato dalla Costituzione italiana.
Poi, sul finire degli anni Ottanta, mutò rapidamente l’oriz-
zonte. La verità è che tutti noi ci accorgemmo in ritardo
che potevamo far vivere le risorse della sinistra italiana
solo fuori dal perimetro del comunismo.

D.  Il Pci che stava diventando Pds doveva fare i conti con
una crisi acuta del sistema politico, con un rapporto molto
conflittuale con il Psi, con un movimento referendario che
cresceva e talvolta sembrava prendere la guida dell’opposi-
zione.

R.  Nell’impostazione di Occhetto e di tutti coloro che


sostenevano la “svolta”, il tema della nuova identità della
sinistra non è mai stato separato da quello della crisi del
sistema politico italiano e del suo possibile sblocco. Se la
nostra discussione fosse stata solo ideologica, concentrata
sulla natura e sulle sorti del comunismo, avrebbe prodotto
chissà quale risultato. Il problema che stavamo affrontan-
do, invece, era l’impatto della caduta del Muro e della fine
della Guerra Fredda sul nostro sistema malato. Un sistema
nel quale era abortito, negli anni Settanta, un atteso ricam-
bio di classi dirigenti, ovviamente anche per incapacità del

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Pci. Un sistema dove la questione morale, intesa in chiave
non moralista, era plasticamente incarnata dal declino del
ruolo propulsivo dei partiti e da una loro progressiva, si-
stematica occupazione dello Stato. La trasformazione del
Pci e la costruzione di un partito nuovo era una necessità,
ma anche una grande occasione. Tuttavia, all’epoca, non
pochi polemizzarono con noi, sostenendo che parlavamo
della crisi italiana per sottrarci all’autocritica sul fallimen-
to del comunismo o per attutirne gli effetti. In realtà, di
lì a poco, assistemmo al crollo del nostro sistema politico.
E la causa non fu certo un complotto: erano marcite le
strutture portanti.

D.  D’Alema fu presentato allora, ma anche dopo, come un


frenatore della “svolta”. Era vero?

R.  In quei mesi, due erano i miei obiettivi principali: dare


basi solide al processo che si apriva e coinvolgere la mag-
gior parte possibile delle nostre forze. Altro che frenatore!
Ero un sostenitore convinto della “svolta” e non volevo
che sbandassimo alla prima curva. Per il nostro popolo la
fine del Pci fu un dramma. Un giorno, in una riunione di
partito, dissi che l’errore più grande che avremmo potuto
fare sarebbe stato dare l’impressione che la nostra scelta
fosse una mossa politica. Ero refrattario all’ideologia della
“svolta”, quasi che il cambiamento bastasse di per sé a de-
finire un progetto. Mi infastidivano le battute superficiali e
sferzanti di alcuni dirigenti, le frasi del tipo “il comunismo
è un bambolotto di pezza”, che avevano l’effetto di bana-
lizzare il travaglio di tante persone. In realtà, quel passaggio
provocò sofferenze vere: la divisione passò per le famiglie,
molti si interrogarono sul senso della propria vita. Temevo
il rischio di una separazione di natura etica tra un gruppo
dirigente e un popolo. E penso di aver contribuito per la
mia parte, da uomo dell’istituzione-partito, ad allargare il
consenso alla proposta di Occhetto. Tanto che lui stesso,
tra il primo congresso della “svolta” e il congresso di Ri-

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mini di fondazione del Pds, mi richiamò dall’«Unità» per
affidarmi l’incarico di coordinatore della segreteria. Non
sarebbe potuto accadere se fossi stato un frenatore.

D.  Con Occhetto però ci furono subito contrasti.

R.  Mi apparve via via come un limite la fragilità delle basi


culturali della “svolta”. Il difetto vero era il “nuovismo”,
le cui conseguenze negative divennero evidenti negli anni
successivi e culminarono nella sconfitta politica alle ele-
zioni del ’94. Mancò allora un’approfondita riflessione sul
Pci, su ciò che era morto e ciò che era vivo del comuni-
smo italiano. L’ideologia del nuovo tendeva a considerare
il passato, tutto il passato, come qualcosa da cui fuggire.
Anche la fiducia verso un’indistinta società civile conte-
neva il giudizio di una sostanziale inutilità dei partiti. Il
nostro problema non era solo quello di salvare la parte ono-
revole della storia del Pci. Il problema ben più grande era
radicare la nuova sinistra che stava nascendo nella storia
nazionale. Allora la rete dei rapporti politici fu demoniz-
zata con l’uso della categoria del “consociativismo”, ossia
una sorta di patto di potere occulto tra i grandi partiti che
avrebbe irretito per decenni la società italiana e impedito
una sua possibile modernizzazione. In realtà, ci fu anche il
consociativismo nella Prima Repubblica, ma ci furono in-
sieme conflitti ideali e politici di straordinaria intensità e un
sistema democratico che nella sua dialettica favorì grandi
trasformazioni sociali e positivi cambiamenti per il Paese.
Il partito che stava per nascere sarebbe stato più forte se
avesse avuto coscienza maggiore del suo radicamento nella
nostra storia democratica. Il nuovismo, invece, ha fondato
l’illusione di una Seconda Repubblica senza storia, che sta
ancora producendo effetti nefasti nel Paese.

D.  L’area migliorista del Pci, penso a Giorgio Napolitano,


Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte e Emanuele Maca-
luso, sostenne il cambiamento, ma pensava che la “svolta”

­8
dovesse servire anzitutto a un rapido approdo nella famiglia
socialista. Avevano torto o ragione?

R.  Per una forza di sinistra come la nostra, l’ancoraggio


all’esperienza socialista sarebbe stato certamente l’esito
più corretto dal punto di vista della grammatica politica.
Ma, purtroppo, da noi l’obiettivo era allora irrealistico.
Lo spazio socialista era occupato da un partito, il Psi, che
faceva parte a pieno titolo del sistema di potere che stava
declinando. Insomma, non avremmo potuto presentare
il nuovo partito che stavamo fondando come l’autentico
Partito socialista italiano. Né potevamo aderire alla parola
d’ordine dell’“unità socialista” che Bettino Craxi ci pro-
poneva. Sono stato, negli anni precedenti alla “svolta”, un
duro oppositore della politica di Craxi e con i dirigenti del
Psi ce le siamo date di santa ragione. Mi consideravano un
colonnello berlingueriano, ma non mi sono mai sentito un
antisocialista. Non condividevo la tentazione “oltrista”,
che pure stava prendendo piede al nostro interno: non
aveva senso un distacco dal socialismo europeo in termini
di valori e non si poteva fondare il Pds immaginando che
la sinistra liberale o un’immersione nei movimenti fossero
sufficienti a definirne l’identità. Quando Craxi lanciò l’u-
nità socialista, scrissi che la prospettiva era in sé giusta, ma
che, tuttavia, i proponenti non erano credibili per l’impre-
sa. Avvertivamo acutamente la crisi del sistema politico e
intendevamo preservare il nuovo partito dal suo crollo, an-
ziché spenderlo per tamponare provvisoriamente le falle.

D.  Nel marzo del ’90, tra il congresso della “svolta” e quel-
lo fondativo del Pds, tu e Walter Veltroni avete incontrato
Craxi nel camper dell’assemblea organizzativa del Psi a Ri-
mini. Fu il vostro primo faccia a faccia? Cosa vi siete detti?

R.  Con Craxi avevo avuto sporadici incontri. Quella fu


la prima volta in cui parlammo distesamente. Lo spazio
del camper era angusto, ricordo che c’erano due divanetti.

­9
Craxi ne occupava uno per intero, con il corpo parzial-
mente reclinato e il gomito poggiato su un bracciolo. Vel-
troni ed io eravamo affiancati, e piuttosto stretti, nell’altro
divanetto. Giuliano Amato, il quarto partecipante all’in-
contro, sedeva su uno sgabello alto. Noi due avevamo una
missione precisa: chiedere a Craxi di non interrompere la
legislatura. Infatti, le elezioni anticipate avrebbero colto il
nostro partito in mezzo al guado: ci eravamo avventurati
nella macchinosa procedura dei due congressi e sareb-
be stato un guaio presentarci agli elettori nell’incertezza
persino sulla nostra identità. Craxi acconsentì e prese un
impegno che poi mantenne. Penso che l’abbia fatto anche
per altre ragioni, a cominciare dal suo buon rapporto con
il gruppo dirigente della Dc, che da poco aveva messo in
minoranza Ciriaco De Mita. Va detto, tuttavia, che Craxi
non ci fu ostile in quel frangente. Non ostacolò neppure
il nostro avvicinamento all’Internazionale socialista. For-
malmente avrebbe potuto porre il veto all’ingresso del Pds
nell’Internazionale. Non gli sarebbe stato facile, viste le
nostre positive relazioni con i maggiori partiti socialisti
europei e soprattutto con Willy Brandt, ma comunque va
dato atto a Craxi di essersi sempre espresso favorevolmen-
te nelle sedi ufficiali. Nel colloquio dentro il camper rimasi
colpito da alcune sue parole amare, addirittura sprezzanti,
rivolte verso il suo partito. Disse qualcosa come: se aves-
si avuto la possibilità di dirigere un partito vero, come il
vostro, forse avremmo cambiato l’Italia. Craxi si sentiva
uno sconfitto, ma aveva ancora una carta da giocare: il
suo disegno politico era tornare alla guida del governo,
nella legislatura successiva, con una maggioranza nuova
che comprendesse anche noi. A questo serviva l’unità so-
cialista. Craxi, al di là delle sue discutibili scelte e delle
responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra. E,
proprio perché si sentiva di sinistra, sono sempre stato
convinto che non sarebbe mai finito nel melting pot della
destra poi costruito da Silvio Berlusconi. Il suo ultimo di-
segno naufragò all’indomani del voto del ’92: il quadripar-

­10
tito che reggeva il governo Andreotti subì un duro colpo
elettorale, il Pds rifiutò il sostegno a un eventuale governo
Craxi e la sconfitta definitiva per il segretario socialista fu
l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale.

D.  Un’altra personalità con cui il neonato Pds ha dovuto


fare i conti è stato l’ex presidente della Repubblica Francesco
Cossiga. Fu lui a riaprire al Pds, ma con la vicenda Gladio
fu azzoppato. Il Pds chiese allora l’impeachment. Sparaste
sulla Croce Rossa?

R.  Fu Giulio Andreotti a svelare Gladio. E Cossiga si


scagliò contro di lui con grande violenza. Ma togliere il
segreto su Gladio era una scelta che andava nel senso di
liberare la Repubblica dai condizionamenti del passato,
cioè dal peso della Guerra Fredda, di cui l’organizzazione
segreta “Stay Behind”, predisposta d’intesa con gli ame-
ricani in funzione anticomunista in diversi Paesi europei,
fu una delle espressioni più inquietanti. Su Gladio ci
battemmo con energia e organizzammo una grande mo-
bilitazione. La posizione del capo dello Stato ci apparve
decisamente contraddittoria. L’aver formalizzato, alla fine
del ’91, la richiesta di impeachment è stata probabilmente
una forzatura, ma il conflitto politico aveva la sua ragion
d’essere.

D.  Il Pds si schierò, dunque, dalla parte di Andreotti con-


tro Cossiga?

R.  Così pensava Cossiga... Una mattina, alle sette o forse


prima, squilla il telefono di casa mia. È il centralino del
Quirinale, che mi passa il presidente. Parla Cossiga: «Se-
gnalo a voi del grande partito della sinistra che il vostro
eroe, l’onorevole Andreotti, è il capo della mafia». Sono
colto di sorpresa, un po’ assonnato, e provo a cavarmela
con una risposta spiritosa: «Benché sia illegittimo control-
lare il telefono di un deputato, lei sa che sono intercettato».

­11
La replica di Cossiga è immediata e straordinaria: «Sì, ma
il maresciallo che ci ascolta sa benissimo cosa dico, non è
mica un coglione come voi». Insomma, Cossiga non si ras-
segnava al conflitto con noi. Ci chiamava «i ragazzi della
via Pál», ma, pur in modo confuso, cercava di strattonarci
per riportarci su un terreno di confronto. Personalmente,
con Cossiga ho sempre avuto un buon rapporto, anche
perché è stato amico di mio padre. Col tempo gli ho voluto
bene e sono convinto che lui ne volesse a me. Tuttavia, in
quegli anni non mi risparmiò nulla.

D.  Che cosa non ti risparmiò?

R.  C’è un’altra vicenda, per me inquietante. Si svolse tra


la primavera e l’autunno del ’91, a cavallo del golpe di Mo-
sca. Un commercialista romano avvicinò un funzionario
importante del Pds per dirgli che alcuni suoi clienti a Mo-
sca erano intenzionati a esportare capitali fuori dalla Russia
e si sarebbero volentieri serviti di vecchie linee di credito su
conti esteri, da anni ormai inutilizzate, per i finanziamenti
del Pcus al Pci. Se avessimo acconsentito, avremmo avuto
un compenso del 10% che, ci fu detto, corrispondeva allo-
ra a 400 miliardi di lire. Ero il coordinatore della segreteria
e il funzionario mi riferì immediatamente dell’incontro. Gli
dissi non solo che l’offerta era assolutamente da respingere,
ma che bisognava avvertire subito Gorbaciov. Chi poteva
conoscere quelle linee di credito se non ristrettissimi ap-
parati, probabilmente dei Servizi segreti? Cosa stava ac-
cadendo in Russia se qualcuno meditava di trasferire di
nascosto all’estero somme così ingenti? Il funzionario andò
a Mosca a parlare con il capo della segreteria di Gorbaciov.
E dopo poche settimane, ad agosto, ci fu il tentativo di
golpe. Ma l’aspetto inquietante di questa storia fu che, un
paio di mesi dopo, Cossiga mi convocò al Quirinale e mi
chiese, a brutto muso, perché avessi partecipato a un’o-
perazione per esportare fondi neri provenienti da Mosca.
Era a conoscenza dell’incontro del nostro funzionario con

­12
la segreteria di Gorbaciov. Gli risposi che, dal momento
che eravamo spiati, avrebbe dovuto sapere che noi all’ope-
razione non avevamo partecipato e che, anzi, ci eravamo
adoperati per sventarla. Ma Cossiga incalzò: «Perché non
ha denunciato tutto alla Procura?». Replicai: «Perché in
Italia non è stato consumato nessun reato». La conclusione
fu che il presidente della Repubblica presentò un esposto
alla Procura di Roma contro di me.

D.  Che seguito giudiziario ebbe quell’esposto?

R.  Fui convocato dalla Procura. Al magistrato, che era


titolare di un’inchiesta parallela sui finanziamenti esteri di
Pci e Dc, riferii ogni cosa e fu tutto archiviato. C’è un altro
episodio, accaduto qualche tempo dopo, nel ’93, che dà
la misura dell’intensità dello scontro politico e, al tempo
stesso, delle difficoltà interpretative che il giovane gruppo
dirigente del Pds incontrava. Subito dopo aver ricevuto
l’avviso di garanzia per concorso esterno in associazione
mafiosa, Andreotti chiese di incontrarmi nel suo studio.
Non c’era una conoscenza personale tra noi. Mi disse po-
che parole: «Volevo farle sapere che io non sono un ma-
fioso». Dopo una pausa di silenzio, aggiunse: «Ho avuto la
certezza che vogliono farmi fuori quando ho letto sul ‘New
York Times’ un editoriale che aveva i toni degli editoriali
di ‘Repubblica’». Secondo Andreotti, era partita dagli Sta-
ti Uniti l’offensiva contro di lui e in Italia se n’erano fatte
strumento le forze più filoamericane. Tra queste, collocava
sicuramente Cossiga. Se questo era lo scontro, si può ca-
pire perché il Pds cercò innanzitutto di salvaguardare se
stesso, evitando di farsi travolgere dai detriti del terremoto
che stava scuotendo la Repubblica.

D.  Intanto dopo due congressi, a Rimini, nasce il Pds. Ma


Occhetto mancò il quorum per l’elezione a segretario. Fu
uno sgambetto organizzato? Quale fu il tuo ruolo?

­13
R.  Quello di Rimini fu un congresso carico di passioni
e di emozioni. Si consumò il trauma della scissione, ma la
nave era giunta all’approdo. Ero molto contento del sim-
bolo della Quercia: eravamo stati Veltroni ed io a concepir-
lo e realizzarlo con l’aiuto del disegnatore Bruno Magno.
Purtroppo la mancata elezione finale di Occhetto fu una
catastrofe d’immagine per il nuovo partito. Ma nulla fu
organizzato. Fu banalmente il combinato disposto di un
congresso gestito in modo caotico e di una norma sbagliata
dello statuto, che fissava alla metà più uno dei componenti
del Consiglio nazionale il quorum per eleggere il segreta-
rio. A Rimini, al voto si presentò circa il 60% degli aventi
diritto, dal momento che molti erano partiti perché non
sapevano neppure di far parte del Consiglio nazionale.

D.  Io ero fra questi...

R.  Appunto... Insomma, non era tecnicamente possibile


che Occhetto raggiungesse il quorum in quelle condizioni.
Con quel disastro io non c’entro nulla. Avevo chiesto a Oc-
chetto, prima del congresso, di presiedere la commissione
elettorale, ma lui non si fidava di me e preferì Claudio
Petruccioli. La commissione faticò a tal punto a compila-
re la lista del Consiglio nazionale, che la sera prima della
conclusione ancora non si sapeva quanti e quali sarebbero
stati i componenti. Temendo l’esito del voto in Consiglio,
proposi a Occhetto di rinviare in extremis di tre giorni
l’elezione del segretario. Ma, benché il mio suggerimento
fosse molto ragionevole, Occhetto disse no. È probabile
che in seguito a questa mia proposta si sia poi costruito un
sospetto nei miei confronti. Tuttavia, sono convinto che in
quella occasione fu la cerchia di chi gli stava più vicino a
far sbagliare Occhetto.

D.  Attorno a Occhetto si era costituito uno staff assai in-


fluente, una vera novità nel modello organizzativo tradizio-
nale...

­14
R.  Iniziò allora la malattia degli staff, che accentuano i
difetti del leader anziché attenuarli. Lo dico in modo au-
tocritico, perché quella malattia in seguito ha contagiato
anche me. Allora, comunque, lo staff mi disse: non possia-
mo permetterci di creare un pericoloso vuoto di potere. E
così è successo il patatrac.

D.  Dopo il mancato raggiungimento del quorum, fosti


però invitato all’hotel Ambasciatori di Rimini, dove buo-
na parte del vecchio gruppo dirigente ti propose di fare il
segretario al posto di Occhetto. Come andò quell’incontro?

R.  Durò pochi secondi. Aprii la porta della sala riunioni


e vidi, appunto, tanti nostri dirigenti storici. C’erano quasi
tutti. Fu Bufalini ad accogliermi: «Dobbiamo pensare a
cosa fare ora», disse. Risposi immediatamente: «Dobbia-
mo pensare a una cosa sola: come eleggere al più presto
Occhetto. E siccome ci sono difficoltà, vado subito a la-
vorare». Se mi fossi soltanto messo a sedere, chissà quali
dinamiche si sarebbero innescate. Alcuni di loro, chiara-
mente, volevano che facessi il segretario. Ma non diedi
loro il tempo di proporlo. E, in effetti, mi misi subito al
lavoro per ricucire. Dopo una riunione con i capi corrente,
andai a Capalbio per convincere Occhetto ad accettare
la ricandidatura, visto che in un primo momento si era
detto indisponibile. Anche quell’incontro fu molto diffi-
cile. Occhetto capiva che la sua posizione si era comunque
indebolita e credo che lo infastidisse il ruolo di cerniera
che di fatto io stavo svolgendo. Alla fine, però, prevalse
la ragione e il Pds lo elesse segretario, sia pure con una
settimana di ritardo. Poco tempo dopo, Occhetto mi disse
che alla legislatura successiva avrei fatto il capogruppo alla
Camera. Non mi voleva nel “palazzo”.

D.  Le elezioni del ’92 provocarono un terremoto politico.


Il quadripartito che sosteneva il governo Andreotti raggiun-
se a stento la maggioranza dei seggi. Per la prima volta nella

­15
storia repubblicana la Dc si fermò al di sotto del 30%. Con
un exploit, la Lega balzò al 9%. Mentre le cose andarono
male al Psi di Craxi e la delusione fu grande anche per il
neonato Pds, appena sopra il 16%. Quali furono le valuta-
zioni e le scelte?

R.  Il voto del ’92 portò al livello delle istituzioni la gran-


de crisi del sistema politico italiano. Era una crisi generale,
che già aveva scavato nella società prima di essere con-
clamata nelle rappresentanze parlamentari. Il risultato del
Pds fu modesto, ancor più se messo a confronto con l’ar-
retramento dei partiti di governo. Tuttavia avevamo delle
attenuanti: la novità del simbolo, la ferita della scissione,
la scarsa sedimentazione della “svolta” in un elettorato po-
polare come quello che proveniva dalla storia comunista.
Ma se le elezioni ci avevano ridimensionato, comunque
eravamo convinti di aver visto giusto sulla profondità della
crisi di sistema e sull’impraticabilità di risposte consociati-
ve. Proprio questa convinzione determinò il nostro com-
portamento quando Craxi tentò la sortita più importante
all’indomani del voto: chiamò Occhetto e ci offrì un patto
con il Psi e la Dc. Il patto comprendeva l’elezione alla
Presidenza della Repubblica di Arnaldo Forlani o di An-
dreotti, il ritorno di Craxi a palazzo Chigi e l’ingresso del
Pds nell’area di governo. Il leader socialista, insomma, si
propose come traghettatore e al tempo stesso come garan-
te di un nuovo equilibrio.

D.  Il no del Pds a Craxi fu scontato oppure ci fu dibattito?

R.  Occhetto non ebbe esitazioni e negli organi ristretti


del partito la sua scelta fu unanimemente condivisa. La
diversità al nostro interno era piuttosto un’altra: c’era chi,
come Occhetto, considerava la stessa prospettiva sociali-
sta un intralcio alla costruzione di quella nuova sinistra
che il Pds avrebbe dovuto incarnare, e c’era chi, come me,
vedeva nella cultura socialista un ancoraggio ragionevole

­16
per il nuovo partito, ma nello stesso tempo giudicava il
Psi di Craxi un interlocutore impossibile per la sua com-
promissione con il sistema di potere declinante e per il
ripiegamento moderato degli ultimi anni. Sapevamo che
il nostro no a Craxi avrebbe avuto conseguenze pesanti.
Ma una scelta diversa sarebbe stata rovinosa, riducendo il
Pds a stampella di un quadro politico ormai logoro. Craxi
rispose che, essendoci chiamati fuori, saremmo stati anche
esclusi dalla Presidenza della Camera. A Montecitorio fu
così eletto Oscar Luigi Scalfaro, con il sostegno del qua-
dripartito e con l’apporto, tutt’altro che ininfluente in quel
contesto, del Partito radicale che aveva fatto di Scalfaro la
bandiera del parlamentarismo.

D.  Poi ci fu il dramma della strage di Capaci con la morte


di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta e poco dopo
fu ucciso Borsellino.

R.  Anche la mafia, cogliendo la portata della crisi dei po-


teri della Repubblica, volle dire la sua nel modo più spie-
tato e sanguinario. La strage di Capaci fu uno shock per
le coscienze civili e un colpo tremendo per le istituzioni
democratiche. Bisognava reagire con fermezza, anzitutto
concludendo l’ormai troppo lunga sequenza delle votazio-
ni senza esito per la Presidenza della Repubblica, a parti-
re dalla bocciatura della candidatura di Forlani, che aprì
una drammatica crisi nella Dc. E così, due giorni dopo
l’assassinio di Giovanni Falcone, il Parlamento in seduta
comune elesse a larga maggioranza Oscar Luigi Scalfaro.
Ma la scelta non fu facile. Anche perché quell’alternativa
era in realtà già sul tavolo da giorni, almeno dall’indomani
del ritiro di Forlani e del conseguente annuncio delle sue
dimissioni da segretario della Dc. Fu De Mita a guidare
le prime consultazioni riservate e a porre a Occhetto la
questione, sostenendo che ormai la scelta era limitata alle
due cariche istituzionali. De Mita preferiva Giovanni Spa-
dolini, anche perché avrebbe aperto la porta di palazzo

­17
Chigi a un democristiano. E a favore di Spadolini si sta-
va coagulando un’area influente dell’opinione pubblica:
da un lato Eugenio Scalfari e «la Repubblica», dall’altro
quell’asse laici-cattolici che era in auge, appunto, ai tempi
del governo De Mita, ma che poi era stato costretto a subi-
re l’egemonia del cosiddetto “Caf”. Anche all’interno del
Pds non mancavano i sostenitori di Spadolini.

D.  Tu preferivi Scalfaro...

R.  Sì, e lo dissi da subito, già prima della strage di Capaci.


A mio giudizio, Scalfaro rappresentava un segnale più for-
te di cambiamento e di novità rispetto all’establishment,
perché aveva fronteggiato con energia il presidenzialismo
di Cossiga, perché non solo Marco Pannella ma anche la
Rete di Leoluca Orlando lo preferiva, e questo avrebbe of-
ferto al Pds spazi maggiori di interlocuzione. Occhetto per
qualche giorno ancora mantenne la sua linea di netta sepa-
razione: temeva una compromissione nel gioco politico e
non voleva desistere dalla candidatura di Giovanni Conso.
L’attentato di Capaci travolse ogni strategia. Nessuno po-
teva più sottrarsi alla responsabilità nazionale. E quando
ci riunimmo per decidere tra Scalfaro e Spadolini, ritengo
che la mia posizione prevalse anche perché era stata più
compiutamente esposta e sostenuta nei giorni precedenti.
Il sì del Pds a Scalfaro costrinse, di fatto, Dc e Psi ad ade-
guarsi. E, guardando indietro alla nostra storia, mi sento
di dire che fu una scelta quanto mai indovinata: Scalfaro
si mostrò in quegli anni drammatici un presidente solido
e un uomo di grandi qualità politiche e morali.

D.  Fermiamoci un attimo su quello che è accaduto dopo


la strage di Capaci e dopo l’uccisione di Paolo Borsellino.
Secondo le polemiche di questi ultimi mesi, quella non so-
lo fu una stagione di stragi mafiose ma anche di trattative
fra pezzi dello Stato e cosche. È una storia per tanti aspetti
confusa. Molte sono le domande che sono state poste. Ne

­18
elenco alcune. Ci fu una trattativa? Se ci fu, era espressione
di una cultura politico-investigativo-istituzionale che cerca-
va di trovare strade per fermare il crescendo delle stragi o
sono stati commessi reati da uomini dello Stato, ministri e
investigatori? E poi, perché si è voluto coinvolgere l’attuale
presidente della Repubblica in questa vicenda?

R.  Non confonderei i diversi piani. Una cosa, infatti,


è la questione che investe il capo dello Stato. Partiamo
da un dato di realtà: Napolitano non c’entra nulla con
l’eventuale trattativa che sarebbe avvenuta vent’anni fa.
Napolitano è stato coinvolto in questa storia sulla base di
intercettazioni telefoniche. Anche qui occorre essere mol-
to netti. Non si intercetta il presidente della Repubblica,
lo vieta la Costituzione. Se lo si fa indirettamente, bisogna
distruggere le intercettazioni. E la Corte costituzionale ha
confermato esattamente questa interpretazione della nor-
ma. Napolitano, sollevando il conflitto di attribuzione, ha
fatto un gesto utile e doveroso a difesa delle prerogative
dell’istituzione Presidenza della Repubblica. L’indagine
sulla trattativa Stato-mafia è un’altra cosa. Essa procede
in modo confuso, perché vi sono più procure che stanno
indagando: quella di Caltanissetta sulla strage di via D’A-
melio e quella di Palermo sulla cosiddetta trattativa. Ades-
so si è giunti alla conclusione delle indagini a Palermo e
alla fase dibattimentale. Speriamo che questo apra la stra-
da a un necessario chiarimento. In queste indagini sono
emerse valutazioni molto diverse circa l’attendibilità delle
dichiarazioni rese dal pentito Massimo Ciancimino. Come
cittadino sono sconcertato, perché vedo che magistrati di
uffici distinti indagano sulle stesse vicende e valutano dif-
ferentemente le stesse testimonianze. Questo è caos, non
è giustizia. L’esigenza di un coordinamento tra le procure,
che è stata sollevata dalla lettera di Napolitano, era quindi
del tutto fondata. Invece è nato un clamore mediatico esa-
sperato e si sono costituite vere e proprie tifoserie intorno
a questa o a quella procura. Questa è la fine della giustizia.

­19
La confusione e il conflitto tra magistrati sono elementi
che accrescono l’incertezza della giustizia, facendole per-
dere credibilità. E non voglio neppure accennare al fatto
che il modo di funzionare del sistema giudiziario compor-
ta anche un enorme spreco di denaro pubblico... Trovo,
infine, singolare la pretesa di attribuire a taluni magistrati,
magari in polemica con altri, un compito salvifico di rico-
struzione della storia patria. La magistratura persegue i
reati, si occupa della ricerca dei responsabili in un Paese
in cui la responsabilità è personale. La magistratura non
può essere protagonista di una sorta di processo storico a
una classe dirigente. Questo compito spetta alla politica e,
appunto, agli storici.

D.  Che idea ti sei fatto della trattativa? Ci fu o no?

R.  Non voglio entrare nel merito, non voglio sostituirmi


al lavoro dei magistrati. Vedremo quel che accerteranno
sulla base dei fatti. Non credo proprio che lo Stato e la
mafia si siano messi intorno a un tavolo per trattare, ma
non posso escludere che qualcuno, penso a persone che
hanno avuto responsabilità dal punto di vista della sicurez-
za, abbia avuto la percezione che se si fossero prese certe
misure si sarebbe potuto allontanare un pericolo. Non mi
sorprenderebbe se vi fosse stato chi avesse pensato o de-
ciso di attenuare il carcere duro nella convinzione che in
questo modo si sarebbero evitate ritorsioni omicide. Se è
stato fatto, si è trattato di una valutazione politica. Certo,
moralmente assai impegnativa. Per quanto mi riguarda, la
mia formazione politica mi porta a una posizione di intran-
sigenza. Anche nel caso Moro ci fu una contrapposizione
di questo tipo. C’era, infatti, lo ricorderai, chi era favo-
revole a una trattativa. Noi sostenemmo la fermezza. In
queste vicende sono possibili scelte diverse, ma di fronte
a questo caso specifico bisogna capire se e in che cosa
questi comportamenti trattativisti costituiscano un rea-
to. C’è reato? Il tema di fondo è solo questo. Non entro

­20
invece nella discussione politica né penso lo debba fare il
magistrato, che non è chiamato a giudicare il tasso di etici-
tà esistente nella storia del Paese. Questo rivela un aspetto
della crisi italiana, una sua anomalia, e cioè che in determi-
nati momenti alcuni corpi dello Stato assumono un ruo-
lo diverso da quello che istituzionalmente compete loro.
Può diventare una forzatura dell’ordine democratico, non
è compito dei sostituti procuratori giudicare la coerenza
morale dei comportamenti politici. Nelle democrazie sono
i cittadini che giudicano con il voto.

D.  La questione del rapporto fra etica, politica, informa-


zione e magistratura la ritroviamo negli anni di Tangento-
poli. Per riprendere il nostro racconto ripartiamo dall’esplo-
sione di Mani Pulite, che fu un tornado che travolse tutto.
In poche settimane quasi l’intera classe dirigente venne rag-
giunta da avvisi di garanzia e fu chiamata a rispondere di
pesanti accuse di corruzione. Alcuni parlarono e parlano di
“rivoluzione italiana”: fu vera rivoluzione?

R.  Appena Amato insediò il suo governo, scoppiò la


bufera. La progressione dell’inchiesta Mani Pulite fu im-
pressionante: le accuse di corruzione colpivano a raffica
e a ritmo quotidiano. Tutta la classe dirigente politica
sembrava indistintamente coinvolta, indagini parallele si
espandevano da una procura all’altra, diversi ministri fu-
rono costretti alle dimissioni, come se gli avvisi di garanzia
fossero già sentenze di condanna. Ma il sistema politico
crollò perché le sue basi erano ormai marce. I partiti po-
polari non svolgevano più il ruolo di raccolta del consenso
e della partecipazione e c’era stata una progressiva occu-
pazione dello Stato. Mani Pulite nacque da questa crisi e
non certo da un fantomatico complotto. Tantomeno da
un complotto di magistrati di sinistra, se non altro perché
nel pool di Mani Pulite non mi pare ci fosse molta simpa-
tia per la sinistra. Il solo che in quel gruppo poteva forse
prendere in considerazione il voto personale per il Pds,

­21
cioè Gerardo D’Ambrosio, è stato di gran lunga l’uomo
più prudente e moderato della Procura.

D.  Berlusconi, e recentemente anche Carlo De Benedetti,


hanno detto che il Pds fu risparmiato dai magistrati mila-
nesi. È vero?

R.  No, il Pds non fu risparmiato. Nostri dirigenti e am-


ministratori vennero indagati, il partito ispezionato, sot-
toposto a processi. Assistemmo a drammi personali, ad
arresti di nostri compagni, seguiti il più delle volte da pro-
scioglimenti e assoluzioni. Tra noi, in quei mesi, serpeg-
giò la paura, quantomeno la paura che imprudenze nella
gestione contabile potessero travolgere l’intera struttura.
Ricordo che una notte, mentre mi trovavo a Napoli, mi
chiamò al telefono un allarmatissimo Davide Visani, capo
della segreteria di Occhetto: «Massimo – disse – domani
i giornali scriveranno che sono stati trovati i conti del Pds
in Svizzera. Siamo nei guai». «Scusa Davide – risposi – ma
noi abbiamo conti in Svizzera?». «Certo che no», replicò
a sua volta Visani. Provai a sdrammatizzare: «Tranquillo,
per gli innocenti il massimo della pena è cinque anni».
Ma in quella stagione si sorrideva poco. A Montecitorio
la prima importante richiesta di autorizzazione a proce-
dere riguardò i socialisti Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, il
repubblicano Antonio Del Pennino e un dirigente storico
del Pci come Gianni Cervetti. Davvero la tesi del com-
plotto, imperniata su una complicità tra Pds e magistrati,
è totalmente priva di ogni fondamento. Piuttosto, è vero
che l’inchiesta su Tangentopoli fu sostenuta da un’ideo-
logia anti-partito, supportata da una parte del ceto eco-
nomico e intellettuale dominante del Paese e che trovò
la sua espressione sui principali organi di informazione.
Compresi i giornali e le tv dell’impero berlusconiano. La
spinta fu a utilizzare le inchieste di Tangentopoli per li-
quidare il sistema dei partiti e ridimensionare drastica-
mente il ruolo della politica nell’equilibrio dei poteri nel

­22
nostro Paese. Non credo che si possa parlare di complot-
to, e comunque è curioso che lo si faccia da parte di chi
milita nel partito di Berlusconi, perché, in definitiva, il
maggior beneficiario della demolizione dei partiti fu pro-
prio Silvio Berlusconi, che non a caso vinse le elezioni
del 1994. E forse non a caso propose a Di Pietro di fare
il ministro dell’Interno nel suo governo. In ogni caso, l’i-
deologia antipolitica non investì soltanto il nostro Paese,
ma, in modi diversi, caratterizzò dopo il 1989 in tutto
l’Occidente i Paesi più avanzati. Proprio questo è il pun-
to: comprendere in quale misura questa ideologia abbia
condizionato, in Italia, la stessa stagione delle inchieste
di Tangentopoli. L’origine di ogni male era individuata
nella corruzione dei partiti e si chiedeva di colpire solo
i partiti, attenuando invece le responsabilità dei vertici
economici e imprenditoriali, che pure erano partecipi dei
reati e di quell’intreccio perverso tra economia e politica
che Tangentopoli metteva in luce. Qualche mese più tar-
di, Antonio Di Pietro mi disse chiaramente: «Volevamo
colpire tutti i partiti». Poi aggiunse: «Ma voi siete stati
l’osso più duro. Eravate bene organizzati».

D.  Solo più furbi, non più immacolati?

R.  La verità è che nel nostro partito i casi di corruzione


personale erano molto limitati. Con questo non nego che
ci siano stati anche nelle nostre fila episodi di illegalità e
di grave mal costume. Qualcuno ha commesso reati e per
questo ha pagato. Ma la misura fu assai limitata rispetto
agli altri partiti. Marcello Stefanini, il nostro segretario
amministrativo, morì difendendosi dalle accuse legate alla
vicenda di Primo Greganti e del manager Lorenzo Panza-
volta. Dopo la sua morte, fu accertato, in sede processuale,
che il fatto non sussisteva e che egli non aveva compiuto
alcun reato. Il Pds non era parte, se non in modo margi-
nale e periferico, di quella degenerazione del sistema. E,
soprattutto, non aveva subito quella mutazione genetica,

­23
largamente diffusa nei partiti di governo, che ormai orien-
tava la corruzione verso fini di corrente o di gruppo, se
non addirittura di arricchimento privato.

D.  Anche tu fosti indagato e poi prosciolto da diverse ac-


cuse, penso alla vicenda Raul Gardini. Durante il processo
Cusani per la maxitangente Enimont, un collaboratore di
Gardini, Leo Porcari, sostenne di aver accompagnato il suo
principale a Botteghe Oscure con una valigia contenente
un miliardo di lire e che questi poi uscì dalla sede del Pds
senza valigia, dopo aver incontrato te e Occhetto. Che cosa
accadde?

R.  Si tratta di un episodio totalmente falso, di pura in-


venzione. Effettivamente il collaboratore di Gardini disse
queste cose in tribunale. Dichiarò che Gardini venne ri-
cevuto da me e che poi, insieme, andammo nell’ufficio di
Occhetto. Indicò anche un giorno preciso. Quel giorno,
però, non mi trovavo neppure in Italia. Da direttore del-
l’«Unità» ero a Mosca per un’intervista al ministro degli
Esteri russo Eduard Shevardnadze, come è documentato
in modo inequivocabile. Scrissi immediatamente al presi-
dente del Tribunale di Milano, chiedendo di essere ascol-
tato per dimostrare l’infondatezza di quella ricostruzione
e per affermare che l’incontro non avvenne né allora né
mai. Mi fu risposto che l’episodio era estraneo all’oggetto
del processo, che gli atti sarebbero stati trasmessi alla Pro-
cura e che sarebbe toccato semmai ad essa aprire un’inda-
gine. La Procura, però, non fece nulla. Penso che avesse
capito immediatamente che si trattava di accuse infondate.
Ma la conclusione per me sgradevole è che questo falso
sia rimasto senza sanzione e che talvolta la calunnia venga
riesumata per alimentare la macchina del fango.

D.  Craxi, nel discorso alla Camera del ’93, invitò tutti i
partiti a confermare di aver partecipato al sistema illegale di
finanziamento.

­24
R.  Nel discorso di Craxi mancò la necessaria riflessio-
ne autocritica. Si difese sostenendo che i finanziamenti
illeciti fossero un peccato veniale e che la pratica fosse
largamente diffusa: dunque, tutti colpevoli nessun colpe-
vole. Ma la pretesa di uscire da Tangentopoli senza una
seria analisi sulle ragioni della degenerazione del sistema
era velleitaria. E infatti il tentativo fallì. Il leader sociali-
sta, purtroppo, ebbe una grave responsabilità nella crisi
che determinò Tangentopoli. Fu lui l’artefice del modello
vincente degli anni Ottanta: il modello del rampantismo
individuale, della politica trasformata in scalata di potere.
Osteggiò, lui per primo, i grandi partiti popolari. Utiliz-
zò con spregiudicatezza il potere di coalizione. E sul suo
carro salì una borghesia che aveva voglia di arricchirsi,
ma spesso era priva di solidi principi. Questi ingredienti
furono essenziali all’impasto di Tangentopoli. Bisognava
denunciarli apertamente per poter difendere il ruolo dei
partiti davanti all’onda dell’antipolitica. Ma Craxi non lo
fece. E la strategia socialista presto si esaurì, anche per
ragioni interne al sistema: c’era troppa disparità tra il po-
tere conquistato e la legittimazione democratica. Appena
i consensi calarono, il Psi non resse.

D.  Nel ’92 non ci fu solo Tangentopoli, ci fu il collasso


economico in un Paese, il nostro, che aveva appena firmato
il Trattato di Maastricht. Fu allora che le grandi forze dell’e-
conomia scoprirono la necessità di divorziare dal sistema
politico?

R.  La crisi finanziaria fu terribile. La speculazione co-


strinse il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio
Ciampi, a bruciare una parte delle riserve per sostenere la
lira. Ci furono aste dei Bot, nell’autunno del ’92, in cui si
tratteneva il respiro. Amato dimostrò, in quei mesi dram-
matici, grandi capacità e senso dello Stato. Fu costretto a
una manovra pesantissima e impopolare, che arrivò fino
al prelievo forzoso sui conti correnti. Ciò non impedì la

­25
svalutazione della lira e la sua uscita dalla banda stretta
di oscillazione dello Sme. Tuttavia, con il governo Ama-
to cominciò il primo risanamento e si avviarono anche le
privatizzazioni. Detto questo, non c’è dubbio che la crisi
fiscale e finanziaria contribuì al crollo del sistema. E la
preoccupazione per le sorti dell’economia nazionale pe-
sò, eccome, sugli orientamenti degli imprenditori italiani.
Mai la loro critica alla politica si era spinta così avanti. Si
convinsero persino che, bastonando la politica, si sareb-
bero ottenuti risultati migliori. L’esecutivo Amato, benché
espressione di una maggioranza incerta e fragile, diventò
in pochi mesi un “governo del presidente”. Dopo le stragi
di Capaci e di via D’Amelio, anche la guerra a Cosa Nostra
ebbe una svolta che portò alla cattura di Totò Riina e di
altri componenti della Cupola mafiosa. Insomma, nel ca-
pitalismo italiano come in parte dell’opinione pubblica si
fece strada l’idea che senza politica si potesse stare meglio,
che le soluzioni “tecniche” potessero offrire performance
altrimenti impossibili...

D.  Dopo la vittoria dei “sì” nel referendum sul maggiori-


tario e dopo le dimissioni di Amato, cominciò la trattativa
per la formazione di un nuovo governo in cui non era più
esclusa la partecipazione del Pds.

R.  Il referendum segnò la fine del governo Amato. Ben-


ché la legislatura fosse cominciata da appena un anno,
appariva già compromessa. Il compito principale era dar
seguito al pronunciamento popolare e scrivere una nuova
legge elettorale che consentisse l’approdo a una demo-
crazia dell’alternanza. Ma, ovviamente, gravava sul Paese
la responsabilità di proseguire sulla via del risanamento
appena cominciato e nella battaglia contro la mafia e la
criminalità. Mino Martinazzoli, segretario della Dc, rup-
pe subito gli indugi e ci propose una collaborazione di
governo. Fu da parte sua un atto di coraggio. Noi non
fummo, invece, all’altezza della situazione. Martinazzoli

­26
organizzò un incontro tra delegazioni, sia pure riservatis-
simo. Per la Dc, oltre al segretario, erano presenti i capi-
gruppo Gerardo Bianco e Gabriele De Rosa. Per il Pds
con Occhetto eravamo Giuseppe Chiarante, presidente
del nostro gruppo in Senato, ed io. Il discorso di Marti-
nazzoli fu molto chiaro: propose la più ampia collabora-
zione tra le forze democratiche che volevano guidare la
transizione istituzionale.

D.  Compare Romano Prodi per la prima volta come can-


didato premier?

R.  Sì. Martinazzoli ci propose Prodi come presidente


del Consiglio. Era l’aprile del ’93 e fu quella la prima
volta che il suo nome venne fatto per la carica di capo
del governo. La Dc era la maggiore forza parlamenta-
re – aggiunse Martinazzoli – e dunque aveva titolo per
indicare il presidente del Consiglio. Prodi, peraltro, era
stato accanto a Mario Segni nel movimento referendario
e la sua designazione non avrebbe contrastato l’orien-
tamento espresso dal corpo elettorale. Martinazzoli si
disse disponibile alla nomina di un vicepresidente del
Consiglio indicato dal Pds, ovviamente non un uomo di
partito, ma una figura simile a quella di Prodi. A me an-
drebbe bene – spiegò – una personalità come Augusto
Barbera, anch’egli personaggio di spicco del movimento
referendario, ma si disse pronto a valutare anche altre
soluzioni. Ci pose però una condizione politica, e lo fece
in modo esplicito, netto: il Pds dovrà recedere da cam-
pagne e iniziative di delegittimazione della Dc. Il primo
atto concreto che ci chiese fu quello di non indicare nelle
consultazioni al Quirinale il nome di Segni per l’incarico
di governo. Segni, pochi giorni prima del referendum,
aveva polemicamente lasciato la Dc e un sostegno del Pds
sarebbe stato percepito come un atto di rottura verso il
partito di Martinazzoli.

­27
D.  Quali furono la reazione di Occhetto e la tua?

R.  In quel passaggio, si aprì tra me e Occhetto una frat-


tura politica che pesò nelle nostre relazioni future. La sua
risposta a Martinazzoli, fin da quella riunione riservata, fu
negativa. Occhetto temeva una compromissione del Pds,
temeva di finire in una palude e soprattutto non voleva di-
stanziarsi da Segni, perché, all’indomani della vittoria dei
“sì”, intendeva evitare la minima incomprensione con il
movimento referendario. Occhetto escludeva un governo
politico e proponeva l’incarico a una figura istituzionale.
In particolare, in quel momento, si pensava (anche senza
proporlo apertamente) a Giorgio Napolitano, che era stato
eletto presidente della Camera dei deputati. Erano ragioni
non banali. Ricordo che Martinazzoli ci disse: «Napolita-
no sarebbe certamente il miglior presidente del Consiglio,
ma la Dc, proprio perché sotto attacco di fronte all’opi-
nione pubblica, non può rinunciare ora alla Presidenza
del Consiglio». Fu un passaggio cruciale. Comprendevo le
ragioni di Occhetto, ma la mia opinione era che non ci si
potesse tirare indietro rispetto alla proposta di Martinaz-
zoli. Ricordo che nella riunione provai a sdrammatizzare:
con Prodi e Barbera – dissi – potremmo chiamarlo il go-
verno del tortellino e spostare la sede a Bologna. Sostenni
anche che di fronte a un governo Prodi il nostro atteggia-
mento parlamentare sarebbe stato comunque più aperto,
pure nel caso in cui non vi fossimo entrati a pieno titolo.
La rottura drammatica con la Dc avvenne, però, due o
tre giorni più tardi, durante le consultazioni al Quirinale.
Davanti al presidente Scalfaro, Occhetto fece soltanto il
nome di Giorgio Napolitano per la guida del governo. Ma
poi, davanti ai giornalisti, disse che anche Segni avrebbe
avuto il nostro pieno sostegno. Per Martinazzoli fu un ve-
ro e proprio affronto, il segno di una nostra irriducibile
ostilità o inaffidabilità. Da allora Martinazzoli ruppe defi-
nitivamente le relazioni con Occhetto e ciò fu la premessa
della divisione tra il centro e i progressisti che nel ’94 aprì

­28
la porta alla vittoria di Berlusconi. Eppure, in quella con-
sultazione, anche Scalfaro ci chiese cosa pensavamo di un
ipotetico incarico a Prodi. E colsi lo stupore del presidente
nell’ascoltare la diversità dei miei toni rispetto a quelli del
segretario. Quel tentativo comunque fallì. Scalfaro allora
decise di giocare in extremis la carta di Ciampi, senza con-
sultazioni preventive con i partiti. Era l’ultima spiaggia. E
Ciampi formò il suo governo.

D.  Il tuo contrasto con Occhetto nei giorni della crisi è


certamente meno conosciuto di un altro contrasto, che av-
venne il giorno dopo la nascita del governo Ciampi, quando
la Camera bocciò a scrutinio segreto quattro autorizzazioni
a procedere contro Craxi e la direzione del Pds decise di
ritirare i ministri Vincenzo Visco, Augusto Barbera e Luigi
Berlinguer dal neonato esecutivo. Secondo molti, fosti tu a
spingere per il non ingresso nel governo. Non ritieni oggi che
anche quello fu un errore?

R.  Il governo Ciampi nacque in un rapporto molto for-


te con il presidente della Repubblica. La scelta del go-
vernatore della Banca d’Italia fu, a modo suo, una scelta
istituzionale. L’ingresso al governo di tre tecnici di area
Pds avvenne in zona Cesarini, dopo una visita di Alfredo
Reichlin a Ciampi, che già lavorava da un paio di giorni
alla sua squadra. Erano amici da tempo e Reichlin svolse,
in quella occasione, un vero e proprio ruolo di ambascia-
tore politico. Dopo la rottura tra Martinazzoli e Occhetto,
credo che Ciampi ritenesse il Pds indisponibile in via pre-
giudiziale a entrare al governo. Nella discussione interna
alla segreteria del partito, che precedette il via libera alla
nomina di Visco, Barbera e Berlinguer, segnalai l’incon-
gruenza del nostro atteggiamento: ci eravamo rifiutati di
entrare al governo dalla porta principale e ora entravamo
da quella di servizio, per di più in posizioni di secondo
piano, quando i ruoli chiave dell’esecutivo erano stati già
definiti. Le mie osservazioni non modificarono la scelta

­29
di Occhetto, secondo il quale il governo Ciampi aveva le
caratteristiche di un governo tecnico e non politico, quindi
era più congeniale alla nostra linea. Penso che sia figlia di
questa discussione interna la favola, raccontata in seguito,
di un D’Alema che fa dimettere i ministri. Il voto a scru-
tinio segreto della Camera che bloccò le autorizzazioni a
procedere contro Craxi fu uno shock, oltre che un atto
di rivalsa contro il referendum e l’avvio della transizione
istituzionale. Successivamente si venne a sapere che nel
segreto dell’urna anche i leghisti votarono a favore di Cra-
xi, con lo scopo di scaricare le colpe sul Parlamento cor-
rotto e agitare il cappio. La direzione del Pds, che si riunì
immediatamente dopo l’esito della votazione, durò pochi
minuti ed espresse un parere unanime: nessuno ebbe la
minima esitazione a chiedere ai nostri ministri di dimet-
tersi dal governo.

D.  Insisto nel chiederti una risposta precisa: fu una scelta


giusta o errata?

R.  Guardando indietro, ritengo che fu un errore non


essere saliti sul treno di un nuovo esecutivo che, probabil-
mente, con il nostro apporto, avrebbe potuto rendere più
rapida e sicura la transizione italiana. Ma l’errore non fu-
rono le dimissioni dal governo Ciampi, che poi sostenem-
mo lealmente per tutto il corso residuo della legislatura.
L’errore fu piuttosto quello di non aver lanciato il governo
Prodi con tre anni d’anticipo. Forse il corso della politica
italiana sarebbe stato diverso.
Capitolo 2
Vince Berlusconi e si prepara Prodi

D.  Ci avviciniamo al periodo che più assomiglia a quel-


lo attuale. Il ’94 e quel che lo precede sono caratterizzati
dalla crisi drammatica dell’economia, dalla presenza di un
governo tecnico, dallo spappolamento di un’area politica e di
governo, dall’affermazione definitiva di un nuovo soggetto
politico come la Lega, dal successo della sinistra nelle am-
ministrative, per tacere delle tensioni sociali e delle stragi
di mafia. Molte cose parlano dell’oggi. Tuttavia, allora tutti
si aspettavano che vincesse la sinistra, ma all’improvviso è
spuntato Berlusconi.

R.  Ci sono delle possibili analogie rispetto alla situazione


attuale. Penso al rischio di credere che il Partito democra-
tico sia l’unica forza in campo, mentre vediamo già che
da questa crisi emergono nuovi protagonisti come Beppe
Grillo e il Movimento 5 Stelle. E, inoltre, osserviamo il
lavorio per ricostituire una forza di centrodestra che tenga
conto della crisi del Pdl e della Lega. E poi c’è Berlusco-
ni, che non è uscito di scena e tenta di rilanciare il suo
progetto, anche se con meno chance rispetto al passato.
Ma torniamo alla crisi di allora. Come abbiamo visto, era
in atto una vera e propria caduta dei partiti tradizionali,
dalla quale emergeva solo il Pds, nato in gran parte dalla
trasformazione del Pci. Nessun altro partito aveva dato
vita a un cambiamento così radicale, che avesse la stessa

­31
intensità e drammaticità. La nascita del Partito popolare in
campo democristiano, ad esempio, fu un’operazione im-
portante, ma tutta politica. La nostra svolta, invece, si era
accompagnata a una trasformazione più incisiva: il gruppo
dirigente storico del Partito comunista lasciava il campo a
una nuova generazione.

D.  Il mondo politico ufficiale, e anche il Pds, non vide


però quel che accadeva sul lato destro dello schieramento
politico né percepiva gli umori dell’elettorato, orfano dei
suoi partiti ormai defunti...

R.  Indubbiamente, c’era un mutamento in atto nella de-


stra, che cercava di rimettersi in gioco come forza di gover-
no. Lega e Movimento sociale, in particolare, non accet-
tavano di essere considerati come forze marginali. Invece,
prevalse nel nostro dibattito una visione esclusivamente
politica, persino politicista, con un’analisi delle forze po-
litiche nella chiave della contrapposizione fra vecchio e
nuovo. Era vero che il Paese aveva bisogno di qualcosa di
nuovo e che noi dovevamo mettere l’accento sulla novità.
Ma dietro questo scontro agivano rilevanti interessi socia-
li, se non nettamente ostili, comunque preoccupati dell’av-
vento della sinistra al governo. C’erano correnti culturali
profonde che non avevano più rappresentanza politica,
ma non per questo cessavano di esistere. Ricordo che feci
un raffronto fra le amministrative di Roma, che avevamo
vinto, e le elezioni politiche, che avevamo perso. Da questa
analisi risultò che alle politiche votarono 800.000 romani
in più rispetto al ballottaggio Rutelli-Fini per il Comune.
Moltissimi elettori, in questo caso, erano rimasti a casa, in
particolare tutto quel mondo che si era riconosciuto nelle
forze politiche moderate e di governo, che non si sentiva
rappresentato da un sistema politico in cui emergevano
come protagonisti il Pds, la Lega e Alleanza nazionale. In-
somma, c’era un vuoto, come disse con intelligenza Craxi.
E qualcuno lo riempì.

­32
D.  Quale fu la carta vincente che giocò Silvio Berlusconi?

R.  Berlusconi seppe combinare bene due elementi. Da


una parte fu in grado di presentarsi come un fattore di
novità e cavalcare l’antipolitica, dall’altra seppe coagulare
gli scontenti del nuovo corso, gli orfani dei vecchi partiti.
La sua campagna fu impostata – e qui c’è un’analogia con
quel che accade oggi – contro i politici di professione e
fu imperniata sul primato della società civile, chiamata ad
affidarsi a un grande imprenditore che, avendo avuto suc-
cesso nella vita, sarebbe stato capace di guidare lo Stato.
L’appello al popolo contro le élite e il primato dell’eco-
nomia sulla politica furono gli ingredienti molto moderni
dell’operazione Forza Italia, in linea con il populismo e il
neoliberismo estremo che avrebbero prevalso, poi, in tanti
Paesi dell’Occidente. A rafforzare quel progetto, inoltre,
vi fu la straordinaria capacità di Berlusconi di mettere in
campo il potenziale mediatico accumulato sia dal punto
di vista del controllo dei mezzi di comunicazione, sia dal
punto di vista della capacità di utilizzarli. In più, riemerse
allora un senso comune, che non è mai stato cancellato del
tutto nella storia nazionale: siamo uno di quei Paesi in cui
la democrazia è più fragile, meno radicata nella coscienza
del ceto intellettuale, della borghesia. Proprio questo fu
il capolavoro di Berlusconi: presentarsi come nuovo, ma
nello stesso tempo chiamare a raccolta quel mondo an-
ticomunista e moderato che comprendeva anche il ceto
politico sconfitto. E così Forza Italia nacque utilizzando
la struttura dell’azienda, con l’ossatura di Publitalia, ma
reclutò anche sul territorio esponenti del mondo impren-
ditoriale e delle professioni, e una parte del ceto politico
democristiano e socialista.

D.  Il primo Berlusconi attirò molti intellettuali di area li-


berale come Giuliano Urbani, ma anche legati alla sinistra
come Lucio Colletti e Saverio Vertone...

­33
R.  Fece anche questo. E la nostra debolezza di analisi fu
di non vedere in profondità i movimenti della società ita-
liana, che non erano stati affatto cancellati dal mutamento
dello scenario politico. C’era un’Italia che non aveva rap-
presentanza ed era completamente illusorio pensare che la
sinistra da sola potesse prevalere sormontando difficoltà,
ostilità, avversione profonda e storicamente radicata. Qui
ci fu un limite culturale del “dopo-svolta”: il nuovismo
portò a cancellare categorie fondamentali di interpreta-
zione della storia nazionale e della realtà.

D.  Quale fu il dibattito all’interno del Pds dell’epoca? Si


pensò davvero che l’alleanza dei progressisti, in fondo l’asse
Occhetto-Orlando, potesse esaurire tutto l’arco delle allean-
ze politico-sociali?

R.  Durante la campagna elettorale, in un’intervista al


«Corriere della Sera», lanciai l’idea che, in caso di nostra
vittoria, restasse al governo Ciampi. Infatti, durante la mia
campagna elettorale nel collegio di Gallipoli, c’era ancora
chi si chiudeva in casa per timore che arrivassero i comu-
nisti. Vinsi con il 34%, ma gli altri due candidati presero
il 32% e il 31%. Insomma, mi parve evidente che il mon-
do a noi ostile c’era e non potevamo non tenerne conto.
Con l’idea di Ciampi premier tentai di gettare un ponte
verso un’area moderata. Ma questa non era la visione di
Occhetto.

D.  Prevalse l’idea del “nuovo” contro “nuovo”. Il nuovo


Occhetto contro il nuovo Berlusconi...

R.  Era una visione illusoria della realtà. Nella coscienza


del Paese era profondamente insediata una costituzione
materiale anticomunista. L’anticomunismo ha continuato
a operare come collante di un sentimento diffuso ben oltre
la fine del comunismo. Venne avanti tra di noi, invece,
l’idea che il conflitto tra vecchia e nuova politica esaurisse

­34
tutte le categorie di interpretazione della realtà, come se i
problemi sociali, gli interessi, le culture tradizionali fosse-
ro svaniti nella crisi degli anni Novanta.

D.  Questo collante anticomunista sopravvive alla conclu-


sione della stagione berlusconiana oppure termina con la
sua caduta?

R.  Credo che questi vent’anni non siano passati invano.


La memoria si stempera, cambiano le generazioni, ma esi-
ste una parte del Paese che resta pregiudizialmente ostile
alla sinistra.

D.  Che cosa temono della sinistra?

R.  Innanzitutto, uno degli elementi di diffidenza nei


confronti della sinistra è il sentimento antistatale di una
parte della borghesia italiana. La sinistra è vista come sino-
nimo di Stato. Uno Stato che, per di più, nel nostro Paese
appare come invadente e inefficiente. Ma io non ho mai
compreso fino in fondo se è l’inefficienza che dà fastidio o
se, invece, non vi sia insofferenza verso l’idea stessa della
legalità. Non a caso, Berlusconi ha cavalcato con molta
efficacia questo senso comune. C’è un’idea di società che
fa da collante al berlusconismo, un’idea del rapporto fra
individuo e collettività che ha trovato espressione in un
modo egoistico di interpretare la domanda di libertà, inte-
sa come individualismo che tende a sfuggire alle regole. È
un dato culturale di fondo di una certa borghesia italiana,
che persiste tuttora. Berlusconi lo ha incarnato e oggi pos-
siamo dire che quando questa cultura si afferma come cul-
tura di governo porta il Paese alla rovina. È quel che stava
accadendo con il governo Berlusconi. Ma questo concetto
di “rovina comune” è estraneo alla sensibilità di un parte
del Paese. Non interessa quella parte di opinione pubblica
italiana che reinterpreta tutto in chiave individualistica,
ponendosi una domanda di fondo: «A me cosa ne viene?».

­35
D.  Torniamo indietro, al primo Berlusconi: vince e rapi-
damente cade. In quegli anni, Massimo D’Alema diventa il
playmaker della politica italiana.

R.  Dopo la sconfitta elettorale del ’94, si aprì una crisi


nel nostro partito e ci fu un dibattito molto importante.

D.  Crisi e dibattito che ti portano a diventare segretario


del Pds. Fu il primo successo del “diabolico” D’Alema?

R.  Si tratta di vecchi schemi giornalistici che non spiega-


no quel che accadde. In quei mesi si sviluppò un dibattito
molto interessante, sul quale voglio mettere l’accento. Vel-
troni ed io leggemmo allo stesso modo la sconfitta e la ne-
cessità di una nuova fase politica: entrambi partivamo dal
bisogno di rompere l’isolamento della sinistra e costruire
un centrosinistra di governo. Fu una novità dal punto di vi-
sta politico-culturale e dal punto di vista dell’analisi sociale.

D.  Come vi venne in mente di chiamarlo centrosinistra?


In fondo, per il vecchio elettorato comunista, questa deno-
minazione poteva apparire bizzarra, visti gli anni della con-
trapposizione a quell’esperienza di governo...

R.  In verità fu Veltroni a sdoganare, con un articolo


sull’«Unità», quella espressione, dicendo che c’era biso-
gno di un nuovo centrosinistra. Nuovo, perché questo era
il centrosinistra del bipolarismo, non era più quello delle
origini, nato per tagliare fuori una parte della sinistra dal
governo del Paese. Si trattava, piuttosto, di una alleanza
inclusiva verso la sinistra che puntava a conquistare anche
il centro, attraverso una politica impostata su larghe ag-
gregazioni elettorali. Era un ragionamento perfettamente
bipolare, ma nella mia visione non c’era il bipartitismo. In-
somma, vi fu una discussione di alto livello. I due discorsi
con cui Veltroni ed io ci candidammo alla guida del Partito
furono molto impegnativi, di analisi della società italiana

­36
e di visione del futuro. Naturalmente, tra noi vi erano di-
versità abbastanza profonde, ma avevamo un forte punto
in comune: l’idea che si dovesse costruire un centrosinistra
di governo, di tipo nuovo rispetto a quello tradizionale,
anche dal punto di vista delle forme politiche che avrebbe
dovuto assumere. Le premesse dell’Ulivo erano già larga-
mente contenute nel dibattito che portò al cambiamento
di vertice del nostro partito.

D.  Il Pds voleva sanare la frattura con il centro e soprat-


tutto con i Popolari che, come hai raccontato, era stata creata
dallo scontro fra Martinazzoli e Occhetto sul nome del can-
didato premier da proporre al capo dello Stato.

R.  Sergio Mattarella è stato uno dei testimoni di questa


rottura drammatica tra Occhetto e Martinazzoli, che si
riverberò anche sulla legge elettorale, con il rifiuto dei Po-
polari di accedere al doppio turno. Comunque, il dato di
rilievo fu che noi, all’indomani della sconfitta elettorale, ci
ponemmo la questione del centro. Nella visione di Veltro-
ni, questa ricerca era molto forte e si poneva soprattutto in
termini politico-culturali. Forse nella mia adesione al pro-
getto era prevalente il tema della costruzione di un’alleanza
politica e sociale. La mia impostazione era più tradizionale,
maggiormente legata alla politica delle alleanze, com’era
nella nostra cultura. In ogni caso, ci fu una convergenza
e ciò spiega perché, malgrado la contrapposizione per la
guida del partito, fu possibile tra Veltroni e me stabilire
subito una collaborazione. Non c’era un dissenso politico
sulla prospettiva. Anche per questo ritenni che Veltroni
ed io avremmo potuto operare in modo complementa-
re. Fu un lavoro importante per gli sviluppi politici che
seguirono. Non c’è nulla di più falso della raffigurazione
delle vicende del nostro partito – almeno per quanto mi
riguarda – in termini di conflitti personali. Per me l’unico
criterio è sempre stato ed è la politica. Gli aspetti personali
sono sempre stati secondari e non hanno mai costituito

­37
motivo di conflitto. Allora, Veltroni ed io lavorammo in-
sieme per aprire una nuova prospettiva e gettare le basi di
quel centrosinistra che poi governò il Paese. Da parte mia,
eletto segretario, mi mossi innanzitutto sul piano politico
per agganciare il Partito popolare, l’altra forza di opposi-
zione, e per aprire un dialogo con la Lega in vista di una
controffensiva anti-Berlusconi. In quella fase, non ci muo-
vevamo solo noi: basta ricordare la pressione di Berlusconi
sul Partito popolare, che fu molto forte, tanto è vero che
portò a una frattura e a una crisi drammatica del Ppi.

D.  Quale era la riflessione che si aprì nel mondo cattolico?

R.  Su iniziativa di un gruppo di intellettuali e di dirigenti


cattolici – tra i protagonisti c’era Beniamino Andreatta –
venne avanti l’idea di costruire in modo nuovo la prospet-
tiva di un centrosinistra. La linea guida era quella di un
movimento capace di federare diverse forze. Anche qui,
dunque, vi era l’idea dell’Ulivo: mettere insieme la sinistra
con la parte del mondo cattolico-democratico che si op-
poneva a Berlusconi. Questa operazione si mosse su due
piani: quello dei rapporti politici, dunque del dialogo fra
noi e il Ppi, e quello dell’innovazione, cioè dell’Ulivo come
nuova forma federativa. All’origine, i due piani non erano
contrapposti, perché era evidente che i partiti avrebbe-
ro concorso a essere loro stessi i soggetti che entravano
nell’Ulivo e davano ad esso una forma di governo.

D.  Questo, però, costituirà un punto di sofferenza. Con


Prodi si vincono le elezioni, nasce il suo governo, si va verso
l’euro, vengono prese misure positive per il Paese, ma viene
avanti l’idea di un centrosinistra come formazione politi-
ca diversa da come la stai descrivendo. E D’Alema diventa
punto di riferimento ostile di una parte di ulivisti radicali.

R.  Facciamo un passo indietro. Noi arrivammo all’ap-


puntamento elettorale attraverso un processo tormentato,

­38
con il tentativo di un governo Maccanico. Si tratta di pas-
saggi che non furono facilmente compresi, anzi, a volte
furono visti con diffidenza persino da Prodi. Ma si rivela-
rono fondamentali per vincere le elezioni. E le vincemmo
perché non seguimmo la via dell’ulivismo radicale. C’era
chi voleva che andassimo alle elezioni solo come Ulivo, ma
così le avremmo perse. Invece Veltroni ed io, muovendoci
in sintonia, stringemmo sia l’accordo con Rifondazione
comunista – che gli ulivisti radicali non volevano – sia con
Lamberto Dini. Intesa, quest’ultima, che fu considerata il
massimo tradimento dell’Ulivo. Al contrario, ci portò alla
vittoria.

D.  Un anno dopo, nel marzo del ’97, tu fosti “processato”


dagli intellettuali di area prodiana riuniti a Gargonza come
portatore di una logica partitista contro la nuova cultura
ulivista.

R.  C’è un modo leggendario di ricostruire quei passaggi


politici. La discussione di Gargonza fu molto interessante
e significativa. Si partì sulla base di un’affermazione ideo­
logica: “l’Ulivo ha vinto contro i partiti”. Ora, anche se
certamente i candidati dell’Ulivo nei collegi uninominali
avevano ricevuto più voti di quelli avuti dai partiti nel pro-
porzionale, l’assunto di fondo proposto a Gargonza era in-
fondato e privo di verità. Avevamo vinto grazie all’accordo
politico di desistenza con Rifondazione e all’accordo con
Dini. Tuttavia, neppure questa strategia delle alleanze sa-
rebbe stata sufficiente a darci la prevalenza se non fossimo
riusciti, con un’operazione di altissima chirurgia politica, a
indurre la Lega a rompere con Berlusconi. Tutti dimenti-
cano la ferrea logica dei numeri: il 54% degli italiani votò
per Berlusconi, Fini e Bossi, che non vinsero esclusiva-
mente perché erano divisi. Nel ’96, quindi, loro ebbero
un risultato elettorale superiore a quello che ottennero nel
2001, quando, effettivamente, vinsero le elezioni perché
uniti. Il dibattito di Gargonza, come molte discussioni che

­39
ci hanno accompagnato nel corso degli anni fino a oggi,
muove da un’analisi, a mio parere molto superficiale, della
società italiana. Da una parte si dipinge una mitica società
civile, dall’altra partiti corrotti e privi di idealità. Ma la
società italiana è quella stessa che ha fatto più volte vin-
cere le elezioni a Berlusconi. E i partiti, con tutte le loro
contraddizioni, sono lo specchio della società. Dunque,
questa contrapposizione tra politica cattiva e società buo-
na si presenta, a volte, in forme grottesche e caricaturali.
Prendiamo un altro tema, quello del rapporto tra magi-
stratura e politica. La magistratura viene presentata come
depositaria di tutte le virtù e custode dell’etica pubblica
ben al di là del suo compito costituzionalmente stabilito.
I politici, al contrario, sono il male. Ma come è possibile
questa divaricazione antropologica tra persone che pro-
vengono dalle stesse famiglie, dalla stessa borghesia, dalle
stesse università? E quando un pubblico ministero diventa
deputato, cosa che accade sempre più spesso, rimane buo-
no o diventa cattivo? È evidente che questa visione è pro-
fondamente influenzata da un pregiudizio qualunquista e
antidemocratico contro la politica, il quale, d’altro canto,
risulta essere un tratto radicato della cultura italiana che
condiziona anche la sinistra. Il dibattito di allora fu forte-
mente ideologico e la realtà concreta dei rapporti di forza
fu totalmente rimossa.

D.  Tu non solo sei un politico di lunga esperienza, ma an-


che un analista e un intellettuale. Mi spieghi che cosa tiene
assieme queste forze della sinistra radicale e dà loro anche
la capacità di imporre una lettura ideologica del processo
politico, modificando i dati della realtà?

R.  Non li modifica, li rimuove.

D.  Però queste idee si affermano in una parte del popolo


dell’Ulivo...

­40
R.  Non sottovaluto l’apporto innovativo di forze intellet-
tuali, non inquadrate nella politica tradizionale, alla svolta
che si determinò con i governi dell’Ulivo. È evidente che
la qualità delle personalità che scesero in campo fu impor-
tante. D’altro canto non abbiamo mai avuto una visione
chiusa e autoreferenziale del ruolo dei partiti. Insomma,
partiti e società civile sono state due componenti essenziali
dell’esperienza dell’Ulivo, anche se spesso in un rapporto
problematico tra di loro.

D.  La novità è che questi gruppi di intellettuali non si


muovevano alla cieca, ma trovavano una sponda in palazzo
Chigi. La vittoria mutilata diventerà un refrain anche del
prodismo.

R.  Il ruolo di Prodi nella vittoria è indiscutibile. Tra


diversi candidati ci apparve subito come la personalità
maggiormente in grado di mettere insieme la sinistra e il
mondo cattolico. La sua candidatura fu un indubbio valo-
re aggiunto in tutta questa operazione di rilancio del cen-
trosinistra. Prodi fu una novità, ma anche un elemento di
rassicurazione per il Paese in virtù del suo passato. Non
dimentichiamo che la sua forza fu l’essere stato ministro
dei governi del vecchio centrosinistra e presidente dell’Iri.
Sicuramente non era un uomo compromesso con il vec-
chio sistema, ma rappresentava un elemento di garanzia,
di rassicurazione, proprio per la sua storia personale. La
sua indicazione non fu un salto nel buio: era un uomo della
classe dirigente del Paese e si sapeva che sarebbe stato in
grado di rappresentare e di governare l’Italia. La nostra,
tuttavia, fu un’operazione complessa, che dimostrò anche
punti di fragilità, in particolare nel rapporto con Rifonda-
zione comunista. Berlusconi li colse e capì che condizione
per tornare a vincere sarebbe stata riallacciare i rapporti
con la Lega, anche pagando il prezzo della rottura con una
componente moderata, di matrice democristiana, che in-
fatti si separò, raccogliendosi intorno a Francesco Cossiga.

­41
Tuttavia, l’alleanza tra Berlusconi e la Lega fu l’elemento
chiave del quinquennio successivo, l’evento che ha cam-
biato lo scenario politico nazionale.

D.  Pensi che quello che mancò al centrosinistra fu una po-


litica verso la Lega? Si poteva, nel 2001, ripetere il miracolo
di separare questo partito da Berlusconi come era accaduto
nel ’96?

R.  Il centrosinistra non andò male alle elezioni del 2001.


Anzi, in termini di voti andò meglio rispetto al ’96. Otte-
nemmo più voti alle elezioni perse che a quelle vinte. È
singolare, ma la spiegazione è tutta politica. Infatti, ciò che
mutò nel 2001 fu il rapporto di forza tra i due schieramen-
ti, che cambiò lo scenario politico italiano e caratterizzò
gli anni a venire fino ai giorni nostri: per noi si trattò del-
la rottura con Rifondazione, per Berlusconi dell’accordo
con la Lega. Noi cercammo di intercettare il sentimento
federalista della Lega con la riforma del Titolo V della Co-
stituzione, voluta da Veltroni. D’altra parte, anche noi ci
ponevamo alcuni problemi di riforma dello Stato in senso
federale, dunque si trattò di un tentativo che aveva una
sua logica. Ma non fu sufficiente a convincere la Lega ad
aprire un dialogo e a rinunciare all’asse con Berlusconi. E
questo a dimostrazione che in realtà non è tanto il federa-
lismo a caratterizzare l’identità leghista, quanto piuttosto
un sentimento antistatale e una insofferenza nei confronti
del regime fiscale e della solidarietà verso il Mezzogiorno.
In più, il peso crescente della protesta contro l’immigra-
zione ha progressivamente radicalizzato verso destra il
“popolo leghista”, ponendolo in contrapposizione con i
valori propri della sinistra.

D.  Eravamo partiti da Gargonza, e tu stavi dicendo che


quel gruppo di politici e di intellettuali non coglieva i pro-
cessi che si stavano già costruendo contro il centrosinistra.
Prevalse invece nella discussione l’idea del nemico interno,

­42
del sabotatore, del pugno di ferro dei partiti rispetto alla
nuova politica e al primato della società civile.

R.  A Gargonza, e Arturo Parisi lo ripete ancora oggi, si


processarono i partiti e il confronto tra i partiti. L’ossessione
era combattere la cosiddetta pretesa arrogante dei partiti e
della politica professionale di escludere i cittadini dalla vita
politica. Io provengo da un grande partito che ha educato
i cittadini a fare politica, certo non li ha esclusi. È proprio
vero il contrario: attraverso i grandi partiti popolari i citta-
dini sono stati incitati alla partecipazione. Il tema vero di
Gargonza era quella cultura nuovista che ci aveva porta-
to alla sconfitta del ’94. Tutta l’analisi della società italiana
si esauriva nella enfatizzazione dell’Ulivo e del nuovo che
avanzava in contrapposizione ai vecchi partiti, che andava-
no messi da parte perché impedivano l’irruzione salvifica
della società civile, forma considerata più nobile della po-
litica. Era una chiave di lettura distorta della società, che,
per avvalorarsi, doveva mettere da parte i risultati elettorali,
cioè la fotografia concreta di quel che pensavano gli italiani.
Ma così non funziona. In ogni caso, quell’analisi fu all’ori-
gine di una lunga discussione che, purtroppo, dura tuttora.

D.  Tu eri nella trincea dello scontro fra l’idea di un Ulivo


che soppiantasse i partiti e l’idea di un Ulivo che vivesse
anche grazie a forti partiti popolari. Perché, durante il gover-
no Prodi, lasciasti Botteghe Oscure per la presidenza della
Bicamerale invece di dare alla sinistra il suo nuovo partito
di massa?

R.  Oggi penso che non aver privilegiato, in quella fase,


l’esigenza della costruzione del partito sia stato l’errore
principale che ho commesso. Perché la Bicamerale? Ero
convinto che noi dovessimo fare tre cose: consolidare l’e-
sperienza del centrosinistra, costruire un grande partito
riformista di tipo europeo, quello che in Italia non c’era
mai stato, e coinvolgere la destra in un accordo di tipo

­43
costituzionale per dare una base condivisa alla cosiddet-
ta Seconda Repubblica. Erano le tre direttrici del nostro
lavoro. Insisto sull’ultimo obiettivo, perché è decisivo per
la democrazia italiana. Ricondurre la destra, quella destra
che si andava aggregando in quegli anni, in un quadro di
compromesso democratico per definire le nuove regole,
le regole della Seconda Repubblica, rappresentava il ter-
reno per la legittimazione reciproca, per creare un bipola-
rismo normale. Aggiungo che il confronto con Berlusconi
e Gianfranco Fini nella ricerca di un nuovo accordo sulle
regole fu un modo per aiutare Prodi. E infatti, nella fa-
se iniziale, il suo governo poté sviluppare con pienezza e
senza ostacoli la propria opera, che era molto complessa.
L’Italia era impegnata a non perdere l’aggancio con l’Eu-
ropa, si parlava di euro e di scelte difficili sotto il profilo
dell’austerità. Tutto ciò fu possibile anche grazie al fatto
che l’esistenza della Bicamerale aveva creato un clima, nei
rapporti politici, in cui noi vincitori non ci mostravamo
con il pugnale fra i denti.

D.  Berlusconi era convinto della Bicamerale?

R.  Berlusconi era convinto di poter diventare un padre


della Patria, che la Bicamerale lo legittimasse. Anche Fini
pensava per sé la stessa cosa. E nella mia visione era lo
strumento per garantire un passaggio ordinato alla costru-
zione della Seconda Repubblica...

D.  Sintetizzando: a chi parla di quegli anni come gli anni


dell’“inciucio”, tu rispondi: ma che inciucio, volevo costitu-
zionalizzare la destra.

R.  Certo, questa era l’operazione. Oltretutto, applicavo


il programma dell’Ulivo, nel quale, al primo punto, si so-
steneva che noi, se avessimo vinto le elezioni, avremmo
governato il Paese, ma avremmo scritto le regole insieme,
attraverso una Bicamerale per le riforme costituzionali.

­44
Insomma, non avremmo fatto come la destra, che avrebbe
imposto le proprie regole. Anche qui è stato rimosso tutto
nelle ricostruzioni successive e nella battaglia politica. La
verità è agli atti: la Bicamerale, se avesse avuto successo,
sarebbe stata un’operazione positiva per il Paese. Basta
pensare al superamento del bicameralismo perfetto, alla
riduzione del numero dei parlamentari, al riordino della
giurisdizione e a tanti altri nodi tuttora irrisolti, che ancora
pesano sulla vita istituzionale e sociale del Paese. Il para-
dosso fu che, alla fine, anziché polemizzare con Berlusconi
che impedì le riforme, anche nel centrosinistra si preferì
criticare chi quelle riforme aveva cercato di farle.

D.  La polemica di allora, come quella di oggi, dice che la


Bicamerale sarebbe dovuta servire a impedire il varo di una
legge sul conflitto di interessi per favorire una sorta di patto
di stabilità con Berlusconi.

R.  È falso. Durante i lavori della Bicamerale e sotto l’im-


pulso del governo, che nominò Ernesto Bettinelli sotto-
segretario delegato a occuparsi di conflitto di interessi, la
Camera discusse e approvò la legge nell’aprile del ’98. La
Bicamerale non se ne occupò affatto, mentre si occupò
del tema cruciale delle incompatibilità, che era la vera
questione. E propose che i ricorsi di incompatibilità non
fossero più affrontati dal Parlamento attraverso una pro-
pria giurisdizione interna, come è ancora oggi, ma fossero
demandati alla Corte costituzionale. Quella sarebbe stata
la norma che avrebbe affrontato alla radice la “questio-
ne Berlusconi”. Avrebbe evitato quello che accadde nel
’94, quando, di fronte al problema della sua eleggibilità,
il Parlamento a maggioranza deliberò che Berlusconi fos-
se eleggibile, perché bisognava considerare ineleggibile il
presidente del consiglio d’amministrazione di Fininvest,
Fedele Confalonieri. Berlusconi, dunque, fu salvato per-
ché non era il titolare di concessioni pubbliche, bensì l’a-
zionista. Il racconto secondo cui la Bicamerale rinunciò

­45
a fare la legge sul conflitto di interessi non corrisponde
alla verità e bisogna domandarsi come mai alcune leg-
gende sia­no diventate verità rivelata, attraverso un’azione
politico-propagandistica che è stata fortissima e che ha av-
velenato la vicenda politica italiana. La Bicamerale, invece,
trattò temi importanti, nessuno dei quali favorì Berlusco-
ni. Io non mi occupai della legge sul conflitto di interessi,
che seguì il suo iter alla Camera e venne approvata in una
versione, secondo me, troppo blanda. Quando formai il
mio governo, nel ’98, mi tenni a stretto contatto con Ste-
fano Passigli, che, come relatore al Senato, si adoperò per
rendere il testo arrivato dalla Camera più severo. Nel ’99
lo chiamai come sottosegretario per chiudere in maniera
efficace e decisiva il problema del conflitto di interessi,
provvedimento tanto più necessario dopo che era caduta
la riforma costituzionale. Su questa base ci fu una dura
battaglia al Senato, che si prolungò per l’ostruzionismo
del centrodestra. Poi, dopo le elezioni regionali del 2000,
cadde il governo e la riforma fu abbandonata. Insomma,
se è certamente vero che non aver approvato una legge per
il conflitto di interessi è stato un errore del centrosinistra
e della sua classe dirigente, è certamente falso che questo
sia avvenuto per colpa mia. Anzi, io sono quello che ci ha
provato più seriamente di tutti.

D.  E perché Berlusconi cambiò idea sulla Bicamerale e la


affossò?

R.  A un certo punto, Berlusconi si convinse che per lui


la Bicamerale avrebbe potuto rappresentare una trappo-
la. Questo fu un elemento di divisione con Fini, che vo-
leva una destra politica e dunque aveva interesse a una
sua costituzionalizzazione. Berlusconi, invece, realizzò
che il compromesso costituzionale con il centrosinistra lo
avrebbe evirato di quella carica antipolitica, anticostitu-
zionale, antistatale che era la sua forza soprattutto al Nord,
rischiando di indebolire il suo rapporto con la Lega. Capì

­46
che accettando le regole del gioco, e contribuendo a ri-
scriverle, avrebbe rischiato di perdere una parte del suo
elettorato e così cambiò repentinamente la sua posizio-
ne. Approvò il progetto della Bicamerale, rivendicando-
lo come “prova di responsabilità e di senso dello Stato”.
E concluse con parole retoriche che restano scolpite: «È
stato bello e importante esserci». Dopo due mesi passò
all’attacco e buttò tutto per aria.

D.  Insomma la tua tesi è che la Bicamerale faceva bene al


governo e non conveniva al Berlusconi di lotta in vista della
sua rivincita.

R.  Sì. Berlusconi si rilanciò con la rottura della Bicame-


rale. I suoi consiglieri gli dissero che la Bicamerale lo stava
soffocando. Anzi, gli dissero: «Ti sta soffocando D’Ale-
ma». In quei mesi, durante i lavori della Commissione, ci
fu la massima espansione del centrosinistra con la vittoria
delle amministrative e l’affermarsi, anche nei sondaggi, del
governo Prodi, che visse il momento più alto di popolarità.
I nostri teorici dello scontro frontale, allora come adesso,
dovrebbero tener conto sia del fatto che con quella rot-
tura Berlusconi si sarebbe rilanciato, sia del fatto che con
lui c’era la maggioranza del Paese. Costituzionalizzare la
destra non era un’idea politicista, ma era un problema di
tenuta del sistema democratico. Si trattava di misurarsi
con la maggioranza del Paese. Con il venir meno della Bi-
camerale, e dopo il passaggio all’euro, ci fu comunque un
cambiamento di fase politica, un brusco cambiamento...

D.  Infatti cadde Prodi. Fu un errore suo, una naturale con-


seguenza dell’esaurimento di una fase politica, un complotto
che ti vide protagonista?

R.  Procediamo con ordine. Eravamo in un momento di


cambiamento del clima politico e cominciava a manife-
starsi una difficoltà per il governo. Se si vanno a vedere i

­47
sondaggi dell’epoca, la caduta di Prodi avvenne nel mo-
mento in cui ci fu una tendenza alla perdita di consen-
si nel Paese. Esaurita la fase dei sacrifici e dell’euro, che
aveva visto una grande mobilitazione e l’emergere di un
sussulto di orgoglio nazionale, i cittadini si aspettavano
dei risultati, c’era una forte sofferenza. Se non si ricorda
questo, non si capisce la reazione di Fausto Bertinotti, che
cominciò, proprio in quel momento, a prendere le distan-
ze dal governo, perché avvertì un cambiamento di umore
nell’elettorato popolare. Chiusa la Bicamerale, sul piano
politico si aprì uno scontro aspro con la destra, mentre, dal
punto di vista sociale, emerse la domanda di un Paese che
dopo i sacrifici chiedeva più occupazione e più benessere.
Di fronte a tutto ciò si percepiva una grande incertezza. In
questo contesto, si aprì un dibattito sulla necessità di una
“fase due” nell’azione di governo.

D.  La caduta di Prodi, quindi, era scritta? Ci fu una sua


responsabilità nella gestione infelice della crisi del suo go-
verno?

R.  Guarda, la caduta di Prodi, dal punto di vista politico,


è una vicenda semplice...

D.  Non dimenticare che sei indicato come il responsabile


principale del decesso, mi dovresti dare una risposta con-
vincente.

R.  La caduta di Prodi nasce dalla decisione della rottura


da parte di Bertinotti.

D.  Sulle 35 ore...

R.  Le 35 ore furono un pretesto. La decisione di rom-


pere fu presa a monte. Bertinotti era convinto che il suo
mondo e il suo elettorato non comprendessero più le ra-
gioni del sostegno al governo e che il suo partito si stesse
consumando in un ruolo che non gli era proprio. Ci fu

­48
un confronto serrato. Bertinotti stesso, prima di rompere,
profilò la possibilità di un cambiamento di fase, addirit-
tura con la sostituzione del presidente del Consiglio. Ne
parlai con Franco Marini e insieme gli dicemmo che la sua
era una mossa completamente sbagliata. Fu un periodo di
accese discussioni, ma noi ci battemmo per tenere Prodi
lì dov’era. Ogni altra interpretazione è falsa. Falsa e con
aspetti carogneschi. Il dato politico era evidente: non era
più possibile andare avanti con l’alleanza con Rifondazio-
ne, perché Bertinotti era pronto a pagare un prezzo molto
alto, quello di una scissione interna, pur di rompere con
il governo. La coalizione che aveva vinto le elezioni non
c’era più. Si poteva andare avanti solo allargando al centro
la maggioranza parlamentare per sostituire quella parte di
Rifondazione che non intendeva più appoggiare l’esecuti-
vo. Nel frattempo, infatti, si era determinata una crisi della
parte più moderata del centrodestra. Intorno a Cossiga era
nato l’Udr, un movimento di parlamentari che si erano di-
staccati da quello schieramento, che volevano collaborare
con il governo, che avevano votato a favore del Documen-
to di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef), e si
erano espressi a sostegno della missione “Alba” promossa
da Prodi in Albania. Erano atti parlamentari impegnati-
vi, bisognava registrare l’esistenza di un soggetto politico
nuovo, un nuovo raggruppamento apertamente disponi-
bile a collaborare con il governo.

D.  Prodi però non era convinto.

R.  La situazione precipitò. Con una iniziativa inopina-


ta, il governo Prodi scelse di andare al braccio di ferro
parlamentare ponendo la fiducia su un emendamento alla
finanziaria.

D.  Ma non mi hai detto quale fu il tuo ruolo in quei giorni


che, secondo la leggenda metropolitana, passasti a complot-
tare contro Prodi...

­49
R.  Ristabilire la verità comporta il racconto di una vicen-
da personale difficile. Quei giorni furono molto compli-
cati, perché fui costretto ad allontanarmi dai miei compiti
istituzionali. Mia moglie Linda dovette sottoporsi a un
delicato intervento chirurgico e la ricostruzione falsificata
di quel periodo la trovo tuttora dolorosa e irritante. Starle
accanto, in quei giorni, è stata la mia priorità. A quello mi
dedicai per tutto il tempo. Chi ha avuto esperienze di vita
simili, sa di cosa parlo e quanto queste vicende ti coinvol-
gano, stravolgendo le tue giornate. Per sdrammatizzare,
oggi posso dire che, paradossalmente, il fatto di non aver
potuto “complottare” probabilmente è una delle ragio-
ni per cui cadde il governo, visto che avrei complottato
a favore di Prodi. Ma torniamo alla politica. Quando il
governo decise di porre la fiducia, sapeva di non avere i
numeri. Ci fu tutto un tourbillon di calcoli improvvisati,
che ruotavano attorno al fatto che il cognato di Di Pietro,
che era dell’Udc, avrebbe votato a favore, che Irene Pivetti
avrebbe fatto lo stesso.... C’erano in attività strateghi che
costruivano scenari sulla conquista di singoli deputati che
avrebbero potuto garantire la sopravvivenza al governo
senza negoziati e cambi di maggioranza.

D.  Preferirono un negoziato obliquo a un negoziato aper-


to...

R.  Questo accadde. Non si voleva fare un’operazione


politica con Cossiga, perché la si considerava snaturante.
Il ragionamento era molto simile al modo in cui Berlusco-
ni, successivamente, concepì il rapporto con il Parlamen-
to. Mi riferisco all’idea secondo cui il capo del governo,
in quanto eletto dal popolo, dovesse ingaggiare una sfida
continua con il Parlamento. Questa era la cultura, l’idea
istituzionale che era alla base di quel ragionamento: se il
capo del governo è eletto dalla volontà popolare, se il bipo-
larismo è questo, quando il governo non ha più la fiducia si
va a elezioni anticipate. Prendeva corpo l’idea che fossimo

­50
oltre la dimensione di una democrazia parlamentare. Una
sorta di presidenzialismo di fatto senza regole e senza ga-
ranzie: una prospettiva che a me parve immediatamente
avventurosa. Per di più, gli strateghi del governo dicevano
di aver fatto bene i conti, anche in vista delle elezioni, non
accorgendosi che la destra aveva la maggioranza del Paese.
Questo mondo radical-ulivista con i conti ha sempre avuto
un rapporto singolare... Io, quando tornai in piena attività
dopo quei giorni interamente dedicati alla mia famiglia,
mi preoccupai di salvare il governo Prodi. Un anno prima,
quando Bertinotti aveva già minacciato di non votare la
finanziaria del ’97, ci fu una forte protesta nel Paese, lui
rimase completamente isolato e fu costretto a rimettersi in
riga. Ricordo che eravamo insieme alla Marcia della Pace
Perugia-Assisi e che Fausto fu oggetto di pesanti contesta-
zioni da parte di alcuni manifestanti. In quella situazione
le elezioni le avremmo stravinte. Ma nel ’98 la situazione
politica era diversa e, soprattutto, la prospettiva elettorale
non era neppure plausibile per ragioni internazionali. In
seguito alla crisi nei Balcani, infatti, lo stesso governo Pro-
di aveva emanato l’“Activation Order”, ossia la decisione
con la quale un governo membro dell’Alleanza atlantica
mette a disposizione del comando generale le proprie
Forze armate. Insomma, eravamo in una condizione di
grave crisi internazionale, in una possibile fase prebellica,
durante la quale il presidente Scalfaro, con cui ho sem-
pre avuto un ottimo rapporto, non avrebbe mai sciolto
le Camere. Oltretutto Scalfaro, convinto parlamentarista,
aveva già negato a Berlusconi le elezioni anticipate nel ’95,
imponendogli il governo Dini. Non avrebbe, quindi, mai
concesso a Prodi ciò che aveva negato a Berlusconi, anche
per ragioni di coerenza.

D.  Qui c’è l’intervento di Cossiga...

R.  Cercammo di salvare il governo Prodi chiedendo a


Cossiga di votare a favore dell’esecutivo. Era l’unica ini-

­51
ziativa politica possibile, in grado di liberarci da trattative
private, quelle con i singoli deputati. L’Udr, come ho detto
prima, aveva sostenuto il Dpef, dunque non ci sarebbe
stato neppure da stupirsi se avesse appoggiato il governo.
Parliamoci chiaro: Cossiga aveva una forte avversione nei
confronti di Prodi e non ne faceva mistero. Inizialmente
resistette alle nostre richieste e mandai come emissario,
per convincerlo, Marco Minniti. Alla fine raggiungemmo
un accordo. Cossiga e i suoi ci fecero sapere che per loro
sarebbe stato sufficiente che Prodi chiedesse il voto delle
forze politiche parlamentari a favore del Dpef. Insomma,
serviva un atto politico, non una grande dichiarazione.
Non scordiamoci che tutto ciò avveniva in una condizione
di emergenza. Ci eravamo mossi tardi, adesso bisognava
rapidamente trovare una via di uscita. Si decise di chiedere
a Luciano Violante, che presiedeva la Camera, di consen-
tire al presidente del Consiglio, nella fase finale, a conclu-
sione del voto, di fare una breve dichiarazione. Questa
avrebbe dovuto essere la dichiarazione con cui Prodi chie-
deva al Parlamento il voto di fiducia. Ma nel frattempo
Prodi consultò i suoi collaboratori che, evidentemente, lo
sconsigliarono di prendere la parola. E così fece. Ho visto
recentemente le immagini televisive dell’Aula, nelle quali
c’è il presidente della Camera che chiede a Prodi: «Lei in-
tende fare una dichiarazione?». E lui, dando le spalle alla
Presidenza, senza neanche voltarsi, fa segno con la mano
di no. Il governo cadde, nonostante avessimo “complotta-
to” fino all’ultimo per salvarlo. Tutto questo è noto e non
dovrebbe essere un segreto per i protagonisti di allora.

D.  Ma Prodi scelse di aprire subito un fronte interno


all’Ulivo con un vibrante discorso a Bologna...

R.  Lui riteneva che noi lo avessimo logorato, che non


avessimo spalleggiato la sua volontà di andare alle ele-
zioni, ma la sua polemica non aveva fondamento. Prodi
rifiutò ogni compromesso nel nome di una concezione

­52
del bipolarismo inteso come democrazia diretta e presi-
denzialismo di fatto. Ma noi non siamo mai usciti dalla
democrazia parlamentare e il cambio della legge eletto-
rale non toccava la forma di governo né, quindi, il po-
tere del Parlamento di cambiare governo e maggioran-
za. Questo è un punto di fondo della vicenda italiana
di questi vent’anni, perché, paradossalmente, l’idea che
la Seconda Repubblica si fondasse su una sorta di pre-
sidenzialismo basato sulla legge elettorale maggioritaria
ha accomunato Berlusconi e l’ulivismo radicale, e ha in-
fluenzato profondamente il modo di pensare di una larga
parte dell’opinione pubblica. Anche Berlusconi, quando
si costituì il mio governo, scelse subito la via di una cam-
pagna di delegittimazione, nonostante l’esecutivo fosse
pienamente legittimo dal punto di vista costituzionale.
Insisto, il contrasto tra la Costituzione vigente e la co-
siddetta Costituzione materiale interpretata in chiave
presidenzialistica è stato uno degli elementi fondamen-
tali di fragilità del sistema democratico della Seconda
Repubblica. Ed è tuttora un nodo irrisolto dell’assetto
istituzionale del Paese.
Capitolo 3
Le cose buone di un governo
che non dovevo fare

D.  Caduto Prodi, su quale ipotesi lavoraste prima di arri-


vare all’indicazione del tuo nome?

R.  Si aprì una fase complicata. La mia idea era quella


di un governo presieduto da Ciampi. Cercai di portare
avanti questo progetto e ne parlai con lui. Discutemmo
lungamente dell’impostazione da dare al nuovo esecutivo,
anche perché c’erano da mettere in pratica le misure per
l’entrata in vigore dell’euro.

D.  Ciampi ha recentemente dichiarato che gli parlasti ma


poi non lo cercasti più...

R.  Non c’è stata alcuna incomprensione con Ciampi, al


punto che quando formai il governo accettò di farne parte.

D.  Prodi intanto?

R.  Nel momento in cui il capo dello Stato era sul punto
di dare l’incarico a Ciampi, Prodi lo chiese per sé, e lo ot-
tenne. Cossiga approfittò di questo passaggio per lancia-
re un siluro contro Ciampi con dichiarazioni micidiali sui
giornali. Fu a quel punto che Cossiga andò verso l’unica
ipotesi di governo che, dichiarò, avrebbe sostenuto: un
governo presieduto da me. Scalfaro, a sua volta, fu molto

­54
netto e ci disse: se non siete in grado di formare un gover-
no di centrosinistra, do l’incarico a Nicola Mancino, pre-
sidente del Senato, di formare un governo istituzionale,
perché c’è il rischio della guerra ed è impensabile andare
a elezioni in queste condizioni. Fu questa la vera scelta
che avevamo di fronte. Si riunì il gruppo dirigente del
centrosinistra e Veltroni, con l’appoggio di Prodi, si fece
protagonista di questa operazione. La verità storica, dun-
que, è che i dirigenti dell’Ulivo sostennero che l’unico
modo per salvare il bipolarismo ed evitare di precipitare
in un governo di tutti, istituzionale, fosse dare l’incarico
a D’Alema come segretario del principale partito della
maggioranza. Il mio incarico, così, fu dato su richiesta
dell’Ulivo.

D.  Come ti spieghi che questa designazione è unanime e


poi, nel centrosinistra, parte subito, appena tu cominci a fare
il presidente del Consiglio, la campagna su D’Alema che ha
usurpato il posto di Prodi?

R.  Sì, partì una campagna di questo tipo, anche se alcuni


dei principali collaboratori di Prodi entrarono nel governo
con funzioni importanti, penso a Enrico Micheli e Paolo
De Castro. Nonostante questo, cominciò un’azione sotter-
ranea che ha lasciato una traccia profonda.

D.  Ripeto la domanda che ti ho fatto a proposito della Bi-


camerale. Hai riflettuto su quella tua scelta: facesti bene o
fu un errore?

R.  Penso di avere sbagliato. Ho sbagliato ad aver accet-


tato di formare il governo.

D.  Che cosa avresti dovuto fare?

R.  Avrei dovuto puntare i piedi per un governo Ciampi che


non aprisse il varco a tutta la storia del complotto. Ho sot-

­55
tovalutato l’elemento di frattura e di logoramento che ci sa-
rebbe stato all’interno del centrosinistra con la mia nomina
a premier. Fu un impatto fortissimo, che proseguì nel corso
degli anni, indebolendo il nostro partito, il quale pagò quella
scelta. Lo ripeto: non avrei dovuto formare il governo in quel
momento, avrei dovuto insistere per un’altra soluzione.

D.  Ma il governo lo facesti e mi interessa capire che cosa ti


spinse ad accettare: il senso di responsabilità, una legittima
ambizione o che altro?

R.  Ebbi molte pressioni, anzitutto dalle grandi forze so-


ciali, i sindacati e Confindustria, che ci dicevano: occorre
un governo forte, è il vostro momento. E poi sì, volli anche
mettermi alla prova. In più giocò il dato storico che affasci-
nava Cossiga, e cioè il fatto che per la prima volta un uomo
politico del gruppo dirigente del Pci formasse il governo
del Paese. A cose viste, fu certamente un errore e l’idea di
avere sbagliato mi ha condizionato. È una delle ragioni per
cui, dopo le elezioni regionali, me ne andai.

D.  Giusta o sbagliata sia stata la tua scelta di guidare il


governo, quella scelta hai compiuto, ed è stata una stagione
breve, ma ricca di importanti fatti politici sia interni che
internazionali. Anche in questa fase vi sono stati passaggi
difficili di cui, a volte, è stata data una lettura controversa.
A cominciare dalla composizione dell’esecutivo.

R.  La formazione del governo fu un’operazione abba-


stanza rapida. Si presentarono subito significative difficol-
tà, ma, nel complesso, riuscii a costituire un governo in
gran parte sulla base delle mie scelte personali. Insomma,
l’iniziativa fu mia. A Clemente Mastella spiegai le ragioni
per cui non avrebbe fatto parte della compagine governa-
tiva e lui non fece una piega. Addirittura accettò l’idea,
che sembrò eccentrica, dell’entrata nel governo di Letizia
Moratti come ministra delle Telecomunicazioni.

­56
D.  E come andò la trattativa?

R.  Lei rifiutò. Devo dire che fu molto corretta, perché


mi spiegò che era una donna di destra e non poteva ac-
cettare di entrare in un governo di centrosinistra. Mi sa-
rebbe piaciuto fare un governo con un numero di donne
pari a quello degli uomini, ma non mi riuscì. Nonostante
questo, ne fece parte il numero più alto nella storia della
Repubblica: sette. Oltre a Letizia Moratti, pensai a Emma
Bonino, ma Marco Pannella si oppose dicendo che se i
radicali avessero deciso di entrare al governo, il candidato
naturale sarebbe stato lui. Gli risposi che non era questo
lo spirito della mia proposta, perché non pensavo ai partiti
e ai loro leader, ma alle personalità, soprattutto a quelle
femminili. Proposi anche il nome di Ersilia Salvato come
ministra della Giustizia, ma Armando Cossutta non volle
e dovetti accettare l’ingresso nell’esecutivo di Oliviero Di-
liberto. Anche l’indicazione di Rosa Russo Jervolino come
ministra dell’Interno fu una mia idea, non mi fu imposta
dal Partito popolare. Ti ho già detto che volli cercare i
ministri anche nell’area prodiana e feci i nomi di Micheli
e di De Castro. C’è anche un episodio divertente a pro-
posito di De Castro, perché telefonai al suo cellulare per
chiedergli se volesse entrare nel governo mentre lui era
con Prodi e altri prodiani a cena per una sorta di incontro
di commiato. De Castro rispose al telefono, ma credette di
essere vittima di uno scherzo e riattaccò. Dovetti chiamare
e richiamare per convincerlo che ero proprio io, che non si
trattava di uno scherzo e che veramente volevo nominarlo
ministro. Poi ci fu l’episodio del sottosegretario che veni-
va dal Movimento sociale, Romano Misserville, una bra-
vissima persona, che si dimise dopo il clamore provocato
dalla sua nomina. Il governo fu costituito così. Fu una mia
ricerca, furono scelte mie.

D.  Quale fu il primo compito che ti assegnasti?

­57
R.  Il primo compito che il governo ebbe di fronte, a parte
la difficile crisi internazionale, fu quello di aprire una “fase
due”, quel passaggio che si era presentato allo stesso go-
verno Prodi dopo l’entrata nell’euro e la dura stagione dei
sacrifici. Dovevamo mettere l’accento sulla crescita econo-
mica, in particolare imprimere una svolta per far compiere
al Paese un salto di qualità. Una delle questioni cruciali
era il rapporto tra le forze sociali. Partivo dall’idea che il
patto tra Ciampi e i sindacati contro l’inflazione e per il
risanamento avesse dato buoni risultati, ma entravamo in
una fase in cui la sfida vera era su competitività e crescita.
In quest’ottica, bisognava aggiornare anche il sistema delle
relazioni sociali, puntando a un sistema aperto, più flessibi-
le. E, infatti, furono introdotte alcune forme di flessibilità,
si parlò di lavoro interinale e di altri temi impegnativi che
sono ancora oggi al centro del dibattito politico. In quel
momento proposi anche una riforma del sistema contrat-
tuale. Il problema, oggi, è che sono stati toccati equilibri
senza una visione d’insieme. Accanto a forme di flessibilità,
necessarie per rispondere a una grande crisi occupazionale,
che investiva e investe in particolare le nuove generazioni,
non sono state introdotte forme di tutela adeguate. E que-
sta è una mancanza a cui bisogna far fronte con urgenza.

D.  Il rapporto con il sindacato fu alterno e complesso, ma


quello con gli imprenditori?

R.  Con Giorgio Fossa, allora presidente di Confin-


dustria, avevo un rapporto normale. Non notai ostilità
preconcette da quel mondo, dal quale mi vennero anche
significativi incoraggiamenti. Marco Tronchetti Provera,
ad esempio, dichiarò in un’intervista l’interesse per la fase
che si stava aprendo e lo stesso Gianni Agnelli votò al Se-
nato la fiducia. Fu, quello, uno dei passaggi più incredibili
della mia vita, perché nei miei anni giovanili mai avrei
potuto immaginare di fare il presidente del Consiglio,
tantomeno che “la chiama” del Senato per la fiducia ini-

­58
ziasse con Agnelli e Andreotti che votavano a favore del
mio governo! Così, un altro grande personaggio con cui
io e il mio mondo ci eravamo scontrati, Francesco Cossi-
ga, era parte della maggioranza. Il vecchio presidente si
avvicinò al banco del governo e mi regalò un bambolotto
di zucchero, dicendomi: «Così non interromperai la tra-
dizione dei comunisti che mangiano i bambini». Questo
era il clima!

D.  Sempre geniale Cossiga. Torniamo invece alle cose che


iniziasti a fare come premier...

R.  Il tentativo più ambizioso, che riuscì solo in parte


per molte opposizioni di carattere sociale, fu quello di
completare la riforma delle pensioni con un passaggio
accelerato al sistema contributivo. In verità si oppose so-
prattutto la Cisl, ma con pari determinazione anche Con-
findustria, che fu posta di fronte alla necessità di bilan-
ciare il cambiamento del sistema di calcolo delle pensioni
con lo svincolo del trattamento di fine rapporto (tfr), per
creare i fondi pensione. Le imprese resistettero all’idea
di intervenire drasticamente sulla disponibilità del tfr e,
quindi, si opposero. L’altro campo di iniziativa riguardava
la contrattazione. Noi lavoravamo sull’idea di ridurre il
peso del contratto nazionale a vantaggio della contrat-
tazione decentrata, in funzione di un nuovo sistema di
relazioni che favorisse l’articolazione e la competitività
delle imprese. Secondo me, così avremmo assicurato una
migliore tutela dei salari legandoli alla produttività e al
territorio, e non vincolandoli solo allo schema dei con-
tratti nazionali, che avevano funzionato benissimo nella
fase della lotta all’inflazione.

D.  Qui avesti il no della Cgil...

R.  Sì, ci fu l’opposizione della Cgil. D’altro canto, su


questi temi, un anno prima, al Congresso dell’Eur del Pds,

­59
si era manifestato apertamente il contrasto con Sergio Cof-
ferati. Questa resta, a mio giudizio, una responsabilità del
gruppo dirigente sindacale, che avrebbe potuto favorire
per tempo cambiamenti che, successivamente, ha dovuto
subire in condizioni ben più negative per i lavoratori e
per il Paese. Ma quello che voglio descrivere è un quadro
assai articolato di proposte e di iniziative che, se accettate,
avrebbero cambiato il nostro dibattito pubblico di quegli
anni e di quelli successivi. Pensammo, in modo particola-
re, a una serie di misure per favorire la crescita dimensio-
nale delle imprese. Ad esempio la proposta, per quelle che
avessero superato i 15 dipendenti, di poter mantenere lo
status giuridico precedente per uno o due anni, ivi com-
presa la non applicazione dell’articolo 18. L’idea era quel-
la che, se l’impresa si fosse consolidata, crescendo come
dimensione e come numero di occupati, sarebbe potuta
passare ad altro regime.

D.  Cofferati ti sbarrò la strada?

R.  Non è esatta questa rappresentazione. Ci fu certa-


mente una rigidità della Cgil sulla riforma del sistema
contrattuale, ma su differenti aspetti furono altre forze
sociali a porre ostacoli e problemi. In ogni caso, alla fine
del ’98, si raggiunse un accordo con tutte le forze sociali
che è considerato tuttora molto avanzato e che contene-
va scelte importanti a sostegno della crescita. Credo che
quel periodo sia stato positivo anche da altri punti di
vista. Ad esempio, secondo i dati Istat, è stata toccata la
soglia minima di spesa pubblica dell’ultimo quaranten-
nio. In particolare, la spesa pubblica corrente si attestò
a un livello pari al 46,2% del Pil. Nello stesso tempo, la
quota di spesa per investimenti nel Mezzogiorno è stata
la più alta di tutto il Dopoguerra, con una crescita, secon-
do i dati del ministero del Tesoro, del 25% tra il 1998 e la
metà del 2000. Insomma, raggiungemmo buoni risultati
in termini di crescita dell’economia e dell’occupazione.

­60
Recentemente è uscito un rapporto Bloomberg sull’an-
damento del debito pro capite degli italiani. Ebbene lo
studio, che parte dal ’95, dimostra che esso è cresciuto
del 4,8% con il primo governo Berlusconi, del 2,1% con
il governo Dini e del 3,8% con il primo governo Prodi.
Quando ero presidente del Consiglio, invece, il debito
pro capite è calato dello 0,7%. Poi con il governo Amato
è aumentato di nuovo dello 0,8%, fino ad arrivare a +2%
sotto il governo Berlusconi. Con Padoa Schioppa alle
Finanze tornò a scendere (-0,4%). Infine, nel secondo
governo Berlusconi si è registrata una risalita che toccò
il 6,9%. Questa è stata la storia più recente del debito
italiano. Nulla è più ingiusto di una condanna indifferen-
ziata della politica e l’analisi dei dati dimostra che il cen-
trosinistra ha saputo garantire in modo incomparabile il
rigore finanziario e il rispetto degli impegni internazio-
nali del Paese. E Bloomberg è certamente un osservatore
che non è sospettabile di avere simpatie per la sinistra.

D.  Qualcuno ti ha fatto i complimenti per questo?

R.  Agnelli mi disse una volta: «Lei ha fatto benissimo


il presidente del Consiglio, ma non glielo riconosceran-
no mai. L’establishment non ha simpatia per lei, perché la
percepisce ostile».

D.  Era vero?

R.  È vero anche oggi. Il ceto economico dominante non


ha simpatia per l’idea dell’indipendenza e persino del pri-
mato della politica. A questo si aggiunge una storica dif-
fidenza verso la sinistra. È evidente che in me questi due
aspetti si sommano e ciò crea un grande fastidio.

D.  Però, malgrado l’accordo di fine anno, il governo sem-


brò ansimare...

­61
R.  Quel governo ha sofferto per la debolezza politica
della sua genesi. Fu messa immediatamente in discussione
la sua legittimità, non solo da Berlusconi, che su questo
fece una campagna propagandistica, ma anche all’interno
del centrosinistra.

D.  Poi ci fu la ferita della guerra. Tu applicasti una deci-


sione già presa?

R.  La decisione presa dal governo Prodi fu una sorta di


preallarme: come ho spiegato prima, l’“Activation Order”
consiste nella messa a disposizione delle Forze armate nei
confronti della Nato. La decisione di agire militarmente e
di impegnare l’Italia fu politica e venne presa successiva-
mente. Infatti, non c’era unanimità nelle diverse Cancel-
lerie europee. Vi fu indubbiamente una grande pressione
americana e inglese, una certa resistenza dei francesi, e
soprattutto la resistenza dei tedeschi e nostra. Ma la scena
cambiò, perché le notizie sugli eccidi si susseguivano con
le immagini terribili delle sofferenze che pativano le popo-
lazioni civili. A quel punto divenne chiaro che un’azione
militare diretta da parte della Nato non era più evitabile.
E non poteva che essere la Nato a guidarla, perché in sede
Onu persisteva il blocco russo-cinese, ostile all’interven-
to. Poi fummo messi di fronte all’invasione massiccia del
Kosovo da parte delle forze armate serbe, che provocò un
esodo di massa per sfuggire alla pulizia etnica. La situazio-
ne precipitò. Ricordo che andai tra l’Albania e il Kosovo,
dove l’Italia era impegnata in iniziative di solidarietà, e
vidi questo fiume di persone che si riversava oltre il con-
fine, con la gente ferita e smarrita che chiedeva aiuto. Si
percepiva la tragedia di tutto un popolo. Fu allora che mi
convinsi che non si poteva far altro che intervenire.

D.  Non ti ponesti il problema che una parte del tuo mon-
do, del nostro mondo, non avrebbe capito?

­62
R.  Fu una scelta molto sofferta, alla quale mi arresi pro-
prio alla fine. Chiara Ingrao, figlia di Pietro, è stata una
leader del movimento pacifista. In quel periodo mi faceva
da interprete e mi ha sempre rimproverato, dopo quella
stagione, di non aver mai rivendicato verso i pacifisti tutti i
tentativi fatti per cercare di evitare che si arrivasse alla guer-
ra. Ad esempio, ricordo che, dopo una serie di incontri con
inglesi e americani, organizzai un appuntamento riservato
con Milan Milutinović. Approfittai del fatto che avevamo
lo stesso dentista che ha una storia che si intreccia con quel-
la dei due Paesi. Il nostro dentista, infatti, è figlio di un
antifascista che era scappato in Jugoslavia, era cresciuto lì
ed era molto legato a quel mondo. Sapevo che Milutinović
veniva di nascosto a Roma per curarsi e così feci in modo
di incontrarlo dal dentista. Ebbi con lui una lunga conver-
sazione. Era presidente della Serbia nel momento in cui
Slobodan Milosević era presidente della Federazione. Non
c’era, da parte sua, nessuna volontà di trovare un compro-
messo e mi resi conto che non restava che l’intervento mili-
tare. E mi presi le mie responsabilità. La guerra è qualcosa
che mai un uomo politico deve augurarsi di dover fare, ma
– quando c’è – si deve assumere le proprie responsabilità.
Non può dire “non volevo”, “mi hanno costretto”, come
ha fatto Berlusconi per l’Iraq o con la Libia.

D.  Tu racconti una scelta sofferta, ma ci fu una componen-


te del centrosinistra che si mostrava più entusiasta, esaltan-
do la guerra etica...

R.  Sono sempre stato contrario, in generale, all’esalta-


zione della guerra e trovo il concetto di “guerra etica”
controverso e ambiguo. Non bisogna dimenticare, per
essere precisi, che noi non abbiamo scatenato un conflit-
to. La guerra c’era. Anzi, se consideriamo la guerra civi-
le balcanica nel suo complesso, bisogna dire che questa
aveva già seminato 300.000 morti. Noi siamo intervenuti
militarmente per porre fine al massacro. Il ricorso all’uso

­63
della forza è sempre una scelta estrema e dolorosa, può
essere ammesso solo in casi eccezionali, quando si tratta
di difendere la vita, la sicurezza, i diritti umani di migliaia,
se non milioni di persone. È un principio molto delicato
da maneggiare. E, in questo senso, non può essere negato
o escluso in via pregiudiziale. Naturalmente, vi si può ri-
correre solo quando siano stati esperiti senza successo tutti
gli strumenti e le sanzioni previsti dalla Carta dell’Onu per
la risoluzione pacifica dei conflitti. In quella situazione si
aprì un dibattito molto importante sul concetto di “Re-
sponsibility to protect”, e cioè sul diritto della comunità
internazionale a intervenire anche violando il principio
di sovranità degli Stati. Io credo che questo diritto vi sia,
ma è chiaro che occorre valutare l’entità della minaccia
e, quindi, misurare la proporzionalità nell’uso della forza.
In secondo luogo, rimane fondamentale la legittimazione
internazionale, che in linea di principio dovrebbe venire
dalle Nazioni Unite. Purtroppo nel caso del Kosovo ciò
non fu possibile e purtroppo l’incapacità di decidere da
parte dell’Onu si manifesta spesso, perché paralizzata dai
veti delle potenze. Infine, è molto importante che possa
applicarsi un unico standard, il che non è sempre agevole,
soprattutto quando si ha a che fare con grandi potenze
che, ad esempio, dispongano di armi nucleari. Come si ve-
de, si tratta di una questione molto complessa, che non si
presta a facili e retoriche semplificazioni. In definitiva, c’è
una responsabilità della politica, che è quella di valutare le
situazioni concrete e di scegliere le vie realisticamente pra-
ticabili. Si deve poter accettare di dover utilizzare la forza
quando è in gioco la vita di un gran numero di persone e
non c’è altro modo per salvarle.

D.  Avesti una piena sintonia con gli americani?

R.  Il conflitto fu una vicenda complessa. Rendemmo


chiaro agli americani che l’Italia si sarebbe assunta le sue
responsabilità, che lo avrebbe fatto con convinzione e con

­64
la coscienza tranquilla, ma che loro si sarebbero illusi se
avessero pensato di risolvere tutto dopo qualche ora di
bombardamento perché i serbi avrebbero rapidamente
ceduto. In gioco c’erano la storia e i sentimenti sedimen-
tati nei secoli in quel conflitto atroce. Il Kosovo, infatti,
toccava qualcosa di molto profondo della identità e della
radice nazionale dei serbi: era la culla della loro civiltà.
Poi furono costretti ad andare a nord, perché persero la
battaglia con i turchi. Gli americani hanno una civiltà in
cui il rapporto tra storia millenaria, sangue e territorio non
è così forte come nel nostro continente. Forse per questo
quella storia a loro sembrava antica e lontana, e tende-
vano a minimizzare. Certo, è vero che oggi il Kosovo è
abitato dagli albanesi, ma tanto tempo fa quegli albanesi
erano i musulmani che venivano da sud come invasori.
Ecco perché, a mio giudizio, i serbi non se ne sarebbe-
ro andati facilmente. Nei Balcani era accaduto qualcosa
di incredibile: le linee di demarcazione tra cattolici, or-
todossi e musulmani, che erano state per secoli i confini
delle guerre balcaniche, tornavano a esserlo alla fine del
secondo millennio. Popoli riprendevano ad ammazzarsi
per ragioni etnico-religiose, come se centinaia di anni di
storia fossero passati invano. Era un fatto impressionante
ed era prevedibile che sarebbe stato un conflitto lungo e
sofferto. Così si aprì, fin dal primo momento, una delicata
discussione sui possibili esiti. Fu presente sin dall’inizio
un’opzione esclusivamente militare, secondo la quale bi-
sognava vincere la guerra. Un’altra parte, noi compresi,
si opponeva invece a questa ipotesi, sostenendo che bi-
sognasse sviluppare una pressione militare per indurre i
serbi a ritirarsi dal Kosovo.

D.  Questa era la tua posizione. Mi puoi raccontare questo


confronto strategico con gli americani?

R.  In occasione del cinquantesimo anniversario della


Nato, celebrato a Washington, si arrivò a un confronto

­65
cruciale. I bombardamenti duravano oramai da quasi due
mesi senza che si intravedesse una via d’uscita. Fu a que-
sto punto che venne avanzata la proposta di un’invasione
di terra. Il generale Wesley Clark, a capo della missione
“Allied Force”, precisò subito che l’operazione militare
avrebbe dovuto portare a una vera e propria invasione del-
la Serbia, perché impegnare i militari della Nato a combat-
tere sulle montagne del Kosovo sarebbe stato rischioso e
non risolutivo.

D.  Era questa anche la tesi di Bill Clinton?

R.  Questa tesi fu sostenuta da Blair e da Aznar. Clinton


disse: «C’è quest’ipotesi, discutiamone apertamente». Ci
opponemmo Schroeder, Chirac ed io stesso, facendolo
con molta veemenza, perché ci sembrò subito una pro-
spettiva folle. Clinton concluse la riunione dicendo che si
sarebbe fatto solo quello che saremmo stati disposti a fare
tutti insieme e che non sarebbe stato certo il presidente
degli Stati Uniti a dividere l’Europa. Ho ripensato dopo a
questa sua posizione...

D.  Fece il contrario di Bush junior...

R.  Sì, ci ho ripensato proprio perché quello è stato uno


dei momenti in cui Clinton mostrò saggezza e visione po-
litica. In ogni caso, restava il problema di come indurre la
Serbia a ritirarsi, il che comportava negoziare con loro, e
gli americani accettarono anche questo. Si creò un conte-
sto nel quale noi giocammo il ruolo di mediatori. Il nostro
Paese ebbe un ruolo attivo, la mediazione russa passò at-
traverso l’Italia, ma noi mantenemmo sempre un rapporto
estremamente trasparente con gli americani.

D.  Com’era il rapporto con gli americani sapendo che era-


no affascinati da una tesi diversa da quella che emergeva?

­66
R.  Gli americani sono partner invadenti. Un atteggia-
mento che deriva loro dal fatto di essere i più forti. Però
sono anche disposti a discutere con chi non è d’accordo.
Quello che non accettano è che si cerchi di ingannarli e
raggirarli. Se vai su questa strada si arrabbiano. In questo
sono davvero moralisti. Se rispondi “no” puoi avere con
loro un’interlocuzione leale, ma lo deve essere davvero,
perché per loro la lealtà è un punto di principio molto
importante. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con
gli americani in una collaborazione piena ed efficace. Un
merito particolare nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, in
questi anni tormentati della cosiddetta Seconda Repub-
blica, ha avuto l’ambasciatore Reginald Bartholomew, re-
centemente scomparso. Egli, infatti, ha aperto il dialogo
con i nuovi protagonisti della politica italiana, ben oltre i
limiti dei tradizionali interlocutori con cui gli Usa erano
abituati a discutere. E lo ha fatto con apertura e anche
con autentico interesse a una transizione democratica in
Italia. Questo è stato molto utile per gettare le basi di un
rapporto che è stato serio, nel consenso e nel dissenso, sia
quando sono stato presidente del Consiglio, sia quando
sono stato ministro degli Esteri e avevo a che fare con
l’amministrazione repubblicana di George Bush e Con-
doleezza Rice.

D.  Ma gli americani si resero conto che per noi fare una
guerra sull’uscio di casa era cosa complicata...

R.  Clinton mi disse: «Noi dobbiamo fare la guerra alla


Serbia, che è lì, ai vostri confini. Non chiediamo la parte-
cipazione diretta dell’Italia, perché capiamo che per voi
può essere un problema. Chiediamo solo l’uso delle basi
militari». Io risposi di no. «Non siamo una portaerei. Ho
dei dubbi – ribadii – ma il giorno in cui ci si deciderà di
compiere un’azione militare, noi faremo la nostra parte.
Siamo un Paese con una sua dignità». E così facemmo.
Un atteggiamento, il nostro, che fu molto importante per

­67
loro e per noi stessi, perché ci consentì, durante la diffici-
lissima fase successiva, di non essere considerati soltanto
una piattaforma per gli aerei, ma di svolgere un ruolo at-
tivo anche politicamente. In questo senso, la mediazione
russa fu l’operazione forse più ambiziosa che riuscimmo
a portare a termine: ottenemmo da Milosević il rilascio di
Ibrahim Rugova, che era agli arresti domiciliari, con l’in-
tenzione di preparare il dopo conflitto. Noi non volevamo
che, a operazioni terminate, a gestire la situazione fosse
l’estremismo islamico dell’Uck, che stava richiamando
nel Kosovo tutto quel mondo radicale islamico che poi
ritroveremo in Al Qaeda. Puntavamo su Rugova come
uomo della pace, un cattolico impegnato da sempre per
la convivenza religiosa. Gli americani e gli inglesi, inve-
ce, lo consideravano una personalità non spendibile. Ma
noi, con Milosević, facemmo questo ragionamento: avete
interesse ad avere l’Uck come forza leader dell’altra parte
dei confini o è preferibile avere un uomo di pace? Loro
si convinsero. Portammo Rugova in Italia e alle elezioni,
subito dopo la guerra, prese la maggioranza assoluta dei
voti. Purtroppo è morto prematuramente di tumore. Da
parte loro, gli americani erano spaventati dalla prospetti-
va Rugova, non si fidavano e temevano che lui, venendo
in Italia, convocasse una conferenza stampa e attaccasse
la Nato. Al contrario, Rugova sottolineò che sì, era per
la pace, ma che in quel momento era grato all’Alleanza
perché stava difendendo il suo popolo. Alla fine Clinton
telefonò per ringraziarci.

D.  Qualche tempo prima c’era stata invece una frattura


con gli americani sul caso Öcalan, il leader del Pkk che si era
rifugiato in Italia e che la Turchia voleva arrestare.

R.  Il caso Öcalan va collocato all’interno di un contesto


particolare, altrimenti non se ne capiscono i contorni. In
quella fase, noi stavamo discutendo con la Turchia su un
progetto per una grande infrastruttura che passasse sotto

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il Mar Nero, attraversasse il territorio turco e prendesse il
gas dalla Russia. Gli americani erano contrari. Avevano un
progetto alternativo, in competizione con la Russia: vole-
vano che il gas arrivasse attraverso una delle repubbliche
del Caucaso. In questo scenario, il rapporto con la Tur-
chia era fondamentale, in quanto rappresentava lo snodo
di tutti e due i progetti. Nel mezzo di questa situazione
arriva Öcalan in Italia.

D.  E come arrivò?

R.  Ho sempre pensato che fosse giunto in Italia per l’im-


prudenza di qualcuno. Ci furono alcuni parlamentari molto
attivi e ci fu una raccolta di firme di esponenti politici di
vari schieramenti intorno a un appello a favore di Öcalan. Il
leader del Pkk arrivò in Italia e gli americani impugnarono
immediatamente la bandiera della Turchia. Noi ci trovammo
subito in una situazione molto difficile, perché lui era colpito
da un mandato di cattura tedesco per omicidio e, sulla base
degli accordi di Schengen, eravamo tenuti a eseguirlo. E così
facemmo. Tuttavia, la Germania ci comunicò che non ave-
va nessuna intenzione di chiederne l’estradizione, per non
aprire un conflitto micidiale fra curdi e turchi sul proprio
territorio. Il cancelliere Schroeder era molto determinato in
questo, perché vedeva il pericolo incombere sulla conviven-
za civile del suo Paese. Una situazione molto complicata.
Decisi allora di evitare le polemiche con la Germania e che
il nostro Paese si facesse carico di questa situazione.

D.  E lo mandaste via...

R.  C’è un vincolo costituzionale secondo cui non si può


estradare una persona in un Paese dove vige la pena di
morte, per questo facemmo muro nei confronti della Tur-
chia, con cui vi fu una grande tensione che si rifletté sui
rapporti economici e commerciali. Nel frattempo, Öcalan
era agli arresti domiciliari all’Infernetto. Lo convincem-

­69
mo a lasciare il Paese, spiegandogli l’impossibilità di dare
asilo politico a qualcuno accusato di omicidio in un altro
Paese dell’Unione europea. La sua partenza fu ben gestita,
perché non se ne accorse nessuno. Poi, in un intreccio di
diversi Servizi segreti, fra cui quello greco e, mi fu detto,
quello israeliano, venne catturato in Kenya e consegnato
ai turchi. Alla fine, in ogni caso, con gli americani non ci
furono grandi tensioni, anche se sono tuttora convinto che
essi non fossero del tutto estranei alla dinamica che portò
Öcalan in Italia.

D.  Sei tuttora molto fiero di quella stagione vista dal lato
della politica internazionale dell’Italia?

R.  In quel momento, l’Italia si trovò ad avere un grande


riconoscimento internazionale che culminò con la presi-
denza della Commissione europea a Romano Prodi e con
Mario Monti commissario alla Concorrenza. In definitiva,
si trattò di una posizione che mai nessun Paese europeo
aveva avuto. Per Prodi rappresentò un altissimo e meritato
riconoscimento per la sua azione a favore dell’Europa. A
questi importanti ruoli, dobbiamo aggiungere il comando,
per la prima volta, di una parte della missione militare in
Kosovo: entrammo nel gruppo ristretto dei Paesi che ebbe-
ro la responsabilità di gestire quella regione. Un quarto del
territorio fu sotto diretto comando italiano, ma entrammo
a far parte anche del comando, a rotazione, della missione
internazionale. Fu il generale Mauro Del Vecchio il primo
comandante che andò in Kosovo alla guida dei bersaglie-
ri della brigata Garibaldi. Li incontrai in Macedonia alla
vigilia dell’inizio della missione. Nella lunga storia della
Seconda Repubblica, si è trattato di uno dei momenti più
alti del ruolo internazionale dell’Italia.

D.  In questa stagione in cui sei premier nasce anche l’idea


dell’Ulivo mondiale...

­70
R.  L’evento fu senza precedenti: il presidente degli Stati
Uniti accettò l’invito a venire a Firenze per partecipare
a un dibattito politico. Lo dico perché, generalmente, i
presidenti compiono visite ufficiali, invece Clinton decise
di prendere parte a un confronto con i leader della sinistra
europea. La discussione sulla Terza via, che era il tentativo
di tenere insieme i valori propri della tradizione social-
democratica con una visione più liberale della società e
dell’economia, era del tutto aperta. Il tema che avevamo di
fronte era l’idea che essa non potesse rappresentare un’o-
perazione divisiva del socialismo europeo. Al contrario,
avrebbe dovuto essere un passaggio di rinnovamento per
coinvolgere le forze fondamentali del socialismo europeo.
C’era stato un primo incontro a New York con inglesi,
svedesi, americani e italiani. Ma io chiesi un momento di
discussione al quale partecipassero anche il primo mini-
stro francese e il cancelliere tedesco. Non mi piaceva l’idea
che solo una parte dell’Europa progressista discutesse con
il presidente degli Stati Uniti, volevo un confronto a tutto
campo.

D.  Non stiamo dimenticando Tony Blair?

R.  Forse Blair aveva in mente di creare una constituency


filobritannica nel socialismo europeo. Comunque l’incon-
tro si tenne e non riguardò solo capi di governo, perché
parteciparono anche intellettuali di grande prestigio inter-
nazionale. Fu un dibattito di rilievo e quella di Clinton fu
una scelta coraggiosa. Egli si mostrò cooperativo. Poi ci
ritrovammo a Washington a un dibattito al club dei leader
del Partito democratico...

D.  Parli ancora con grandi lodi per il presidente america-


no...

R.  Lo ritengo un uomo di grande intelligenza politica.


Ricordo che nell’incontro di Washington con il Partito de-

­71
mocratico, al quale erano presenti anche Blair e Schroeder,
il sindaco di Chicago, Richard Daley, ci esortò a mettere
a confronto le esperienze degli amministratori su come si
organizzano i servizi urbani, il welfare cittadino, aggiun-
gendo che non bastavano solo i dibattiti a livello di gover-
no. Io risposi che facevamo abitualmente tutto questo in
un “club” di cui siamo soci, che si chiama Internazionale
socialista. L’aggettivo creò un certo sconcerto in sala. In-
tervenne Clinton e disse che la parola “socialista” nel suo
Paese non era pronunciabile. Si volse verso di me e dis-
se: «Non vorrei proprio avere sul palco della campagna
elettorale uno che si dichiara socialista e porta il saluto
dell’Internazionale socialista». Ma disse anche che da gio-
vane, quando era governatore dell’Arkansas, aveva visita-
to insieme a Hillary la Toscana, dove avevano incontrato
persone che ragionavano come i democratici americani,
che affrontavano le cose con lo stesso spirito, che amavano
la democrazia. «Pensate – disse alla platea – quelli non si
chiamavano neanche socialisti, quelli si chiamavano ad-
dirittura comunisti!». Insomma, concluse: «Ho imparato
allora che non bisogna avere paura delle parole».

D.  Tu, intanto, in Italia eri impegnato a ricostruire la si-


nistra, ma con questi interlocutori alludevi a un altro sche-
ma di relazioni che superasse le vecchie appartenenze. Oggi
questo corpo di idee appare prigioniero del neoliberismo, tu
stesso hai fatto delle considerazioni autocritiche.

R.  Innanzitutto, vorrei ricordare che Clinton è stato il


presidente della deregulation finanziaria. E poi non parle-
rei di prigionieri del neoliberismo così, tout court. È vero,
però, che nella nostra impostazione ci fu anche l’illusione
che la globalizzazione fosse un grande fenomeno di cresci-
ta della ricchezza, che la fine del comunismo avesse scon-
gelato le energie del mondo e che si sarebbe aperto un
periodo nel quale il nostro compito sarebbe stato quello
di spiegare le vele a un vento del cambiamento. Eravamo

­72
persuasi che sarebbe stato possibile ripensare il rappor-
to tra individuo e welfare in una chiave in cui la crescita
della ricchezza avrebbe consentito di uscire dalla logica
statalista del compromesso socialdemocratico. Ti ricordo
che quelli di Clinton sono stati otto anni di crescita so-
stenuta, senza inflazione, e che la crescita americana fu
alimentata sia dalla ricchezza finanziaria sia dagli investi-
menti, dall’innovazione, dalla new economy. Quindi, era
una visione ottimistica della globalizzazione molto forte,
che alla lunga si è rivelata fallace. Infatti, abbiamo visto co-
me quella deregulation abbia poi portato l’accumularsi di
contraddizioni, di conflitti, di bolle speculative di cui an-
cora adesso paghiamo in pieno le conseguenze. Lo stesso
Bill Clinton ha recentemente riconosciuto, nel suo ultimo
libro Back to Work. Why We Need Smart Government for
a Strong Economy, che l’errore nei suoi anni di governo e,
più in generale, nella cultura neoliberista della Terza via,
fu quello di avere sottovalutato e addirittura demonizzato
il ruolo dello Stato. Rispetto a questo, la crisi – dice Clin-
ton – impone una correzione.

D.  Questo volto della Terza via era un volto molto bri-
tannico?

R.  Anglosassone, direi: l’egemonia era americana e non


britannica.

D.  Il meeting di Firenze è stato però anche il momento in


cui si è aperto un conflitto con il sindacato sulla questione
delle pensioni.

R.  Come ci siamo già detti, vi fu un’incomprensione e un


dissenso sulla questione delle pensioni. Sì, penso che nella
Cgil vi fosse l’idea che il sindacato dovesse soprattutto di-
mostrare la propria autonomia rispetto a un governo ami-
co, guidato da chi era stato dirigente della sinistra, quasi

­73
accentuando le ragioni del contrasto per sottolineare l’in-
dipendenza del sindacato dalla politica.

D.  Maliziosamente si potrebbe dire che fosse arrivato il


momento per affermare un’altra leadership nella sinistra,
come accadde qualche anno dopo...

R.  Non so se ci fosse un disegno di questo tipo. Tendo a


interpretare in maniera meno dietrologica quel contrasto.
Piuttosto, penso che prevalse la linea che fosse arrivato il
momento per affermare definitivamente l’autonomia sinda-
cale. In quell’occasione, però, venne alla luce anche la crisi
di un modello di relazioni fra forze politiche e sindacato.
Non è per caso che nelle socialdemocrazie il dibattito non
verta tanto sul tema dell’autonomia sindacale, perché altro-
ve la regola è il patto fra politica e sindacato. È questo, infat-
ti, il modello nei Paesi dove la sinistra è sinistra di governo.

D.  Il tuo governo però fu accusato anche di voler mettere


le mani sulla struttura del capitalismo italiano. Mi riferisco
alla vicenda Telecom, altro passaggio da chiarire...

R.  Quale fu la grande responsabilità del governo? Quel-


la di mettere le mani su un’azienda? No. In realtà, tutta la
vicenda Telecom è caratterizzata dalla accanita resistenza
del governo a mettere le mani sull’affare. Da noi si vole-
va che utilizzassimo la golden share per bloccare l’Opa,
così tutelando la proprietà Telecom per come si era ve-
nuta definendo. Ricordo che la proprietà dell’azienda era
parcellizzata e gestita dalla famiglia Agnelli, da Umberto
in particolare, che ne possedeva lo 0,6%. Da questa po-
stazione, tuttavia, nominava l’amministratore delegato,
il presidente e via di seguito. Questo era lo stato della
Telecom quando scattò l’Opa di Roberto Colaninno, che
peraltro non conoscevo personalmente.

­74
D.  Ma che cosa ti colpì in questa scalata interamente nuo-
va?

R.  Mi attrasse l’idea che, per la prima volta nella storia


del Paese, un’impresa nazionale potesse passare di mano
sulla base della legge del mercato. Non erano più i tempi in
cui l’assetto delle principali proprietà industriali in Italia si
decideva in ristretti circoli, sia pure illuminati come quello
di Mediobanca di Enrico Cuccia, dove, per anni, si erano
stabilite le sorti dell’economia italiana. Ma qui eravamo in
una situazione diversa, c’era una competizione vera, per
cui la sfida per il controllo di Telecom doveva essere con-
dotta sul mercato. La mia posizione era semplice: che il
governo non prendesse posizione, che non dovesse usare
la propria forza per intervenire e piegare l’operazione agli
interessi di una parte, sia pure di quella che rappresentava
la più nobile tradizione del capitalismo italiano. Questo
mondo si aspettava che il potere politico si muovesse a suo
sostegno, trovando inconcepibile che non agisse immedia-
tamente a sua difesa. E tanta parte della politica preme-
va in quella direzione. Dall’altro lato, c’era un gruppo di
sconosciuti che aveva messo sul tavolo una montagna di
soldi, offrendoli agli azionisti. Il vero “scandalo”, quindi,
era che per la prima volta si facesse una operazione di
mercato, con vantaggio per tutti gli azionisti Telecom, che
avrebbero guadagnato molto denaro in una competizione
aperta. L’establishment, come mi disse Gianni Agnelli, mi
percepiva ostile. Io non ero ostile a nessuno. Semplice-
mente pensai che attraverso quella vicenda avremmo po-
tuto avere un capitalismo più aperto e competitivo.

D.  Non ti attrasse l’idea che da questa vicenda venisse


fuori un altro gruppo di comando nel gotha del capitalismo
italiano?

R.  Questo era un aspetto secondario. Per quanto mi


riguarda, era decisivo dimostrare che anche in Italia il

­75
controllo dei grandi gruppi fosse contendibile e che noi
eravamo un’economia di mercato come le altre, rispettosa
delle regole europee. Quello che si voleva da me, invece,
era un’evidente forzatura. Quando annunciai che la quota
dello Stato non si sarebbe pronunciata né a favore né con-
tro l’Opa, fui accusato di non aver fatto partecipare il Te-
soro all’assemblea convocata per resistere all’offerta. An-
cora oggi Cesare Romiti, nel suo recente libro-intervista,
mi critica per questo. Ma perché il Tesoro avrebbe dovuto
partecipare? In definitiva, noi seguimmo la linea della più
assoluta neutralità. E su questo il ministro dell’Economia
Ciampi ed io fummo d’accordo. Il punto è che molti vo-
levano che mi schierassi a tutela degli Agnelli e non lo
feci. Un atteggiamento che venne interpretato come un
autentico atto di lesa maestà. Non mi fu perdonato e da
qui nascono le leggende su quella vicenda.

D.  La leggenda dice che avevi costituito una vera mer-


chant bank a palazzo Chigi.

R.  Innanzitutto, ora sappiamo che il dossier sul famoso


conto “Oak Fund”, che è alla base di tutte le infamie dette
e scritte su quella storia, fu opera dei servizi di sicurezza
della Telecom insieme a personaggi dei Servizi segreti. È
un fatto emerso nel processo in corso a Milano, in cui noi
Ds siamo parte civile e di cui forse non si verrà a capo,
perché il governo Berlusconi ha confermato il segreto di
Stato opposto dai cospiratori, per proteggerli. Adesso si
sa già qualcosa di più: il dossier fu fabbricato da Giuliano
Tavaroli, Emanuele Cipriani e Marco Mancini. Altro che
merchant bank! Lì scattò un’operazione tipicamente itali-
ca, di vendetta. Si è costruita la menzogna che noi avessi-
mo chissà quanti e quali interessi in questa vicenda e per
supportarla è stata elaborata e portata avanti negli anni
un’operazione di avvelenamento.

D.  Togliamoci le ultime spine dal cuore su quel periodo

­76
tormentato. C’è l’immagine di D’Alema dominato da uno
staff esorbitante, quello staff che all’inizio di questa conver-
sazione tu hai descritto come una delle cose dannose della
politica negli anni della Seconda Repubblica...

R.  Quella dello staff nasce come un’idea innovativa che


avrebbe potuto ottimizzare il lavoro e aiutare l’immagine
del premier. Non è stato sempre così. Anzi, a volte sono
apparso distante e distaccato dalla realtà, altre volte all’inse-
guimento di una modernità esteriore. Peccato. In ogni caso,
non era certo lo staff a fare le scelte politiche. Ad esempio, la
riunione su Telecom si fece con Ciampi, Mario Draghi e gli
altri ministri competenti. D’altra parte, quella era una vicen-
da emblematica che ruotava attorno all’idea che l’Italia po-
tesse essere un Paese capitalistico normale. Si arrivò al pun-
to che nel vertice italo-tedesco a Bari, Schroeder venne da
me con un progetto di fusione tra Telecom Italia e Telekom
Germania, concordato con Franco Bernabè. Gli risposi che
non volevo neanche entrare nel merito. Loro insistettero,
dicendo che avremmo creato il più grande gruppo di teleco-
municazione europeo. «Non creiamo nulla – dissi –. Questa
è una società sotto Opa, vedremo chi sarà il proprietario e
tratterete con lui». Davvero non trovavo opportuno che il
premier potesse intervenire in una vicenda di mercato attra-
verso un accordo tra governi.

D.  Non conoscevi Colaninno, che però altri parlamentari


del centrosinistra, come Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani,
conoscevano bene. Era giusto favorire la sua ascesa?

R.  La debolezza dell’operazione Colaninno era nella


fragilità della cordata finanziaria che stava dietro, perché
molti compagni di scalata successivamente non lo sosten-
nero. Non appena si ripresentò l’occasione di rivendere a
un prezzo vantaggioso ciò che avevano comprato, finì il
loro interesse nell’impresa. Colaninno l’ho conosciuto in
quella occasione come un industriale serio. Si è rivelato

­77
tale, non certo un finanziere o uno speculatore, ma uomo
che gestisce le imprese, le trasforma e le rende produttive.
L’ha fatto con la Piaggio, non so se ci riuscirà con l’Alitalia,
lo spero. Il caso Telecom è un altro esempio del mio modo
di leggere i fatti del Paese secondo criteri di autonomia
della politica e di indipendenza dalle logiche dei poteri
più forti.

D.  L’altra grande questione che, dopo la vicenda Telecom,


ha riguardato il rapporto fra politica ed economia e in cui sei
stato coinvolto è il caso Unipol. Avvenne anni dopo e sollevò
un grande clamore, anche nel centrosinistra. Ricordo che io
fui tra i più critici. A distanza di tanti anni c’è ormai una
verità giudiziaria del tutto opposta a quella che apparve nel
pieno fragore dello scandalo. Avevamo torto noi che critica-
vamo l’affare Unipol e soprattutto coloro che ne parlavano
come di una storia oscura e illecita?

R.  La vicenda Unipol è stata molto significativa. Ormai


è evidente a tutti che non c’era un nostro coinvolgimento.
Nostro, intendo, come forza politica, come dirigenti della
sinistra. È normale che ne fossimo informati, così come
ne erano informati diversi protagonisti della politica, non
solo quelli che erano intercettati. Ed è comprensibile che
molti di noi guardassero a questa operazione con simpatia.
Continuo a ritenere che sarebbe stato un fatto positivo per
l’economia italiana l’acquisizione, da parte del movimento
cooperativo, di una grande e storica banca per farne uno
strumento utile alla piccola impresa e all’impresa sociale,
come era del resto nella sua vocazione originaria. Era un
bel progetto per il Paese, con il difetto, se si vuole, di es-
sere portato avanti con una certa disinvoltura. Una parte
degli interlocutori scelti, infatti, si sono rivelati fragili, non
all’altezza del compito. Hanno creato più problemi al buon
fine dell’operazione che non rappresentato un’opportuni-
tà. Una disinvoltura emersa anche nel corso delle indagini
giudiziarie.

­78
D.  Al di là del caso Unipol, ci sono più recenti vicende
– penso ad alcune clamorose assoluzioni – che sollevano la
questione della responsabilità dei magistrati.

R.  Bisogna stare attenti nell’affrontare questo problema,


anche per evitare di trovarsi di fronte a proposte che limi-
tino l’autonomia della magistratura che, invece, è cardine
fondamentale del nostro ordinamento costituzionale. È
ovvio che un magistrato può anche sbagliare, e nel caso
in cui la sua responsabilità comporti una colpa, ne deve
rispondere. Dall’altra parte, è altrettanto ovvio che lo Sta-
to deve risarcire il cittadino che patisce la malagiustizia.
Il problema che voglio sollevare è come funziona l’auto-
governo dei magistrati e cioè se queste condotte, queste
performance professionali, anche nel caso di buona fede
assoluta del magistrato, siano o no elemento di riflessione
e di valutazione ai fini del progresso professionale. Non
pongo il tema della responsabilità personale del magistra-
to che sbaglia senza colpa, ma quello della sua attendibilità
professionale.

D.  Qualunque altro professionista subisce una sanzio-


ne professionale se sbaglia, penso al medico, all’avvocato,
all’ingegnere. Il magistrato no. La sua carriera va avanti
anche di fronte a clamorosi insuccessi.

R.  Nel funzionamento della macchina della giustizia pe-


sano condizionamenti corporativi. Le logiche spartitorie
delle correnti della magistratura non sono molto diverse
da quelle della politica. Anche per questo non sempre pre-
vale la valutazione professionale legata a fatti e dati indi-
scutibili. C’è, poi, il rapporto improprio tra molte procu-
re e il sistema dei media, uno degli aspetti più devastanti
della questione giudiziaria nel nostro Paese. Pensa a un
cittadino comune, e di esempi ce ne sono purtroppo molti,
che dopo diversi anni viene assolto da accuse terribili e nel
frattempo è stato distrutto da una campagna accusatoria

­79
che si è svolta su giornali e tv. Nessuno ha mai pagato per
questo, in un Paese in cui si vantano i pregi dell’obbliga-
torietà dell’azione penale. Ci sono cittadini che sono stati
rovinati attraverso processi mediatici che hanno rivelato
un rapporto spesso improprio, e non di rado illegittimo,
tra informazione e settori della macchina giudiziaria. Di-
ciamo la verità: dopo questa terribile trafila, l’assoluzione
non è un risarcimento sufficiente. Se va bene, al malcapi-
tato si dedica un trafiletto, un piccolo titolo di giornale in
pagina interna. Sono contrario al carcere per i giornalisti e,
in generale, a perseguire sul piano penale i cosiddetti reati
a mezzo stampa. Il vero problema non è punire i giorna-
listi, ma riparare il torto subito dalla vittima con rettifica
evidente e risarcimento adeguato. Al di là dei casi che ri-
guardano la politica o la finanza, ci sono state vicende cla-
morose. Pensiamo solo a quello che è successo a Rignano
Flaminio... Ecco, la caduta del castello accusatorio ha in
genere sui giornali spazi assolutamente insufficienti.

D.  È cambiato il governatore della Banca d’Italia, molte


teste sono cadute, molte carriere interrotte, il dibattito poli-
tico è stato largamente influenzato...

R.  Quella vicenda fu anche pesantemente usata per col-


pire il gruppo dirigente della sinistra alla vigilia della nasci-
ta del Partito democratico. Fu un’operazione complessa.
Ma noi viviamo in un Paese in cui spesso avvengono ope-
razioni di questo genere, che pesano nei rapporti di forza
politici ed economici, e che sono condotte con mezzi non
sempre limpidi.

D.  Torniamo al tuo governo, che finisce in modo trauma-


tico: dopo le elezioni regionali, decidi di dimetterti. È stata
una decisione improvvisa, ma mi chiedo se sia stata solleci-
tata da qualcuno, se fosse inevitabile e, infine, se ti penti di
averla presa.

­80
R.  È stata una decisione inevitabile. Semmai, come ti ho
già detto, mi sono pentito di aver accettato l’incarico a pre-
mier. Detto questo, i risultati che l’esecutivo ottenne furo-
no decisamente positivi per il Paese, anche se non furono
difesi, perché non c’era una maggioranza vera, non c’era
una solidarietà politica, c’era persino una parte della mag-
gioranza che contestava la legittimità del governo. Le mie
dimissioni, dopo le elezioni regionali, non furono sollecita-
te da nessuno. Decisi io di dimettermi per due ragioni, che
mi sembrarono serie: una fu un atto di responsabilità nei
confronti del Paese, perché non sentivo più le condizioni
di forza necessarie per governare con efficacia. L’efficacia,
infatti, richiede una maggioranza coe­sa. In secondo luogo,
fu un atto di responsabilità verso il centrosinistra. Nel ’95
conquistammo nove regioni, nel 2000 ne perdemmo due.
Il risultato elettorale, dunque, non rappresentò una scon-
fitta disastrosa, ma certo non fu positivo. Per questo mi
parve evidente che il centrosinistra dovesse essere messo
in condizione di prepararsi alle elezioni politiche di lì a
un anno, e dunque pensai che fosse giusto portare alla
guida del governo una personalità che ci avrebbe potuto
condurre all’appuntamento elettorale.

D.  Però andammo alle elezioni con un candidato diverso,


Francesco Rutelli. Insomma, non venne scelto nessuno dei
tre premier che avevano governato.

R.  Quando si arrivò al cambiamento del premier e ven-


ne scelto Amato, io fui d’accordo. A mio parere, poteva
essere il candidato con il quale andare alle elezioni. Inve-
ce si decise diversamente, valutando che Rutelli potesse
portare un elemento di novità e freschezza. Ci fu una for-
te pressione per quella candidatura che venne anche da
«Repubblica». Non ebbi nessuna responsabilità in quella
scelta. Dopo aver lasciato palazzo Chigi, non ricoprii nes-
sun particolare ruolo. Non avevo un ufficio nella sede del
nostro partito e mi ritirai nella Fondazione Italianieuropei.

­81
Quella di Rutelli fu una scelta dettata dall’idea che un vol-
to più giovane avrebbe attirato consensi.

D.  Perché il gruppo editoriale «l’Espresso», in particolare


«la Repubblica», e gli ambienti che ruotano intorno, spin-
sero per questo radicale cambio?

R.  Quel mondo ha un’idea fissa: dirigere la sinistra. Con-


tò in maniera particolare quella cultura nuovista che tut-
tora persiste. Alla base di questa convinzione e di questa
pressione c’era e c’è un’aspirazione di fondo: liquidare la
sinistra storica. In alcuni, forse, permane un desiderio di
rivincita nei confronti dei partiti, cioè dei protagonisti della
storia della Repubblica. Parlo di un misto di sentimenti
diversi, ma costanti nel tempo, che si sono manifestati in
tanti momenti della nostra vita pubblica e quasi sempre,
secondo me, in modo negativo. Non contesto, ovviamente,
il ruolo che questo giornale ha avuto nella battaglia contro
Berlusconi, nel rappresentare un punto di vista democra-
tico e progressista, ma non voglio ignorare che, in questo
protagonismo, si riflette in modo non molto nascosto una
sorta di pretesa di sostituirsi alle forze politiche del centro-
sinistra, di svolgere un ruolo di supplenza rispetto a una
pretesa inadeguatezza. In definitiva, se pur si riconosce ai
partiti un loro ruolo ineliminabile, li si considera tuttavia
come una struttura di supporto a una leadership che spetta
alle élite economiche e intellettuali. Questo atteggiamento
riflette una diffidenza più generale verso i partiti e il loro
ruolo nella società italiana. Altrove non è così. Vorrei ag-
giungere che in nessun Paese come in Italia i giornali e i
media in generale sono allo stesso tempo così fortemente
connessi con il potere finanziario e industriale, e così forte-
mente implicati nella politica. Berlusconi, d’altro canto, ha
portato questa connessione al massimo livello di anomalia.
Tutto ciò rivela una particolare fragilità della democrazia
italiana e ci fa capire meglio perché l’antipolitica si possa
manifestare da noi con una forza e una capacità di influenza

­82
sullo spirito pubblico che in altri Paesi europei non sarebbe
pensabile: a causa del fatto che, in Italia, l’antipolitica ha
il sostegno di una parte del ceto economico e intellettuale
dominante.

D.  Questo atteggiamento lo ritroviamo all’indomani della


sconfitta elettorale del 2001, quando si aprì nei Ds un duris-
simo scontro politico e la parte che chiedeva una linea più
radicale, quella dei girotondi e del protagonismo della Cgil
di Cofferati, ebbe una buona stampa, mentre i riformisti
nuotavano controcorrente...

R.  Nel 2001 si aprì una discussione molto profonda nei


Ds, perché, come spesso avviene nella storia della sinistra,
la sconfitta rimette in campo posizioni di tipo identitario.
In questo caso, di tipo identitario-moralistico, nel senso
che la colpa della mancata vittoria fu indicata nel cosiddet-
to “inciucio”, nel politicismo, nell’aver perduto l’autenti-
cità dei nostri valori più profondi. Si scatenò un grande
movimento, che fu insieme di reazione e di resistenza di
fronte alla vittoria di Berlusconi, ma rappresentò anche
un tentativo di imprimere un corso diverso alla sinistra
italiana. Noi fummo impegnati in una battaglia politica
per difendere una prospettiva riformista.

D.  Di questo movimento tu eri il bersaglio grosso...

R.  Partiamo dal congresso dei Ds: noi lo vincemmo e


fu un evento. Quella che divenne opposizione, infatti, il
cosiddetto “correntone”, aveva il sostegno della segre-
teria dei Ds, della segreteria della Cgil e di quasi tutti i
principali organi di stampa. Fu un congresso fortemente
partecipato, che rivelò i cromosomi del partito, il suo sen-
tire profondo. Non solo prevalse largamente la prospetti-
va riformista, ma emerse anche un giudizio, a mio parere
corretto, sulla vicenda politica che avevamo alle spalle. Fu
una battaglia politica vera, aperta, con decine di migliaia

­83
di militanti, non uno scontro di apparati. Al termine di
quel percorso, Piero Fassino andò alla guida del partito e
io ne diventai il presidente. E questa fu la premessa per il
ritorno al governo del Paese. Se fosse a­ ndata diversamen-
te, chissà dove saremmo andati a ­finire.

D.  Di quella stagione, un personaggio incuriosisce tut­tora:


è il segretario della Cgil Cofferati. Si mise a capo, lui, di cul-
tura riformista, di un movimento radicale. Ebbe un grande
successo e un grande seguito. Poi all’improvviso uscì di sce-
na. Come ti spieghi l’entrata in campo e la fuga?

R.  Cofferati divenne il simbolo della reazione del nostro


mondo al successo di Berlusconi. Simbolo di un’opposi-
zione che tornava in campo. In questo senso, giocò un
ruolo molto importante. Ma non ho mai pensato che egli
rappresentasse un’alternativa politica per la guida della
sinistra. E non credo che lo pensassero neppure molti di
quelli che, nel 2002, si strinsero intorno a lui nella grande
manifestazione al Circo Massimo. C’è nella cultura del no-
stro popolo, in modo profondamente radicato, la convin-
zione di un primato della politica che nei momenti decisivi
prevale su ogni spinta di tipo movimentista o moralista.
Ogni qual volta si è arrivati a un confronto democratico,
la politica ha sempre prevalso.

D.  Lo ricordo bene, in quel congresso ero portavoce della


mozione Fassino...

R.  Noi rappresentiamo anche la forza di una tradizione.


La suggestione di Cofferati di dirigere la sinistra dalla po-
stazione della Cgil, per esempio, urtava profondamente
con la tradizione dell’autonomia sindacale e anche dell’au-
tonomia del partito, che reagì alla sensazione di essere po-
sto in una posizione subalterna. E Cofferati, che è uomo
intelligente, capì che su quella strada si sarebbe arrivati a
una rottura.

­84
D.  L’ha capito in una notte? Come è possibile? Pratica-
mente si fece da parte in pochissimo tempo.

R.  Non credo si sia trattato di una notte, credo che abbia
sempre saputo che, alla fine, non avrebbe potuto contrap-
porsi al gruppo dirigente del partito. C’è in noi, in tutti
noi, il senso di una disciplina che riconosce il primato di
una visione comune rispetto alle istanze, pur legittime, di
carattere personale. E Cofferati si comportò esattamente
come avrebbe dovuto ragionevolmente comportarsi un di-
rigente che viene dalla tradizione del Pci. Da quella vicen-
da traggo anche una convinzione profonda. Forse il tempo
porterà a logorare quel patrimonio di cultura democratica
che noi rappresentiamo. Io spero di no, spero che si rin-
novi, ma non si consumi, perché ha reso la sinistra italiana
una forza utile al Paese. Ma fino a che quel patrimonio re-
sterà, nel nostro mondo continueranno a prevalere questi
comportamenti e queste regole.

D.  In quella stagione c’è tutta una cultura che per la prima
volta diventa di massa, parlo di quella cultura che hai più
volte citato, quella espressa dalle élite, raccontata e divul-
gata dai media, sostenuta dai gruppi ristretti. Ebbene, in
quei mesi quella cultura sembra attecchire in una parte del
nostro mondo, è in quella stagione che inizia a dilagare il
giustizialismo. Voglio dire che un parte del nostro mondo si
trasforma, come vediamo ancora di questi tempi.

R.  Il fenomeno a cui ti riferisci proviene da più lontano,


comincia all’inizio degli anni Novanta e irrompe con la cri-
si dei partiti. In tutti questi anni, c’è sempre stata una dia-
lettica tra queste posizioni nuoviste e la cultura riformista.
Ma quelle posizioni non hanno mai portato a una nuova
egemonia, non hanno mai espresso un gruppo dirigente,
non hanno mai rappresentato una cultura di governo.
Piuttosto, sono un’importante forza di condizionamento,
ma non arrivano a travolgere la linea riformista. La partita

­85
che si giocò all’inizio del 2001, dopo le elezioni politiche,
fu molto importante. In quell’occasione, infatti, gettammo
le premesse per la vittoria successiva. Non ci contrappo-
nemmo a quel movimento, cercammo di tradurlo in poli-
tica. Io andai a Firenze a discutere con Paul Ginsborg, in
una assemblea molto combattuta, e portai i nostri buoni
argomenti. Una parte di quella campagna era basata an-
che su elementi non veri, su falsità anche autorevolmente
sostenute, che noi potevamo contrastare con dovizia di ar-
gomenti. Ho ancora qui la lettera, pubblicata dall’«Unità»
nel novembre del 2001, a Paolo Sylos Labini sulla questio-
ne del conflitto di interessi. Raccontai quello che era vera-
mente successo in Parlamento a proposito della Bicame-
rale. Scrissi che «l’Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle
resistenze conservatrici, finì per lasciar sbiadire via via il
suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terre-
no costituzionale. Resta in me la convinzione che ci abbia
danneggiato di più, anche elettoralmente, non aver fatto
le riforme che aver cercato di farle». Sylos aveva prospet-
tato persino l’ipotesi di “dimettersi da italiano” pur di non
fare le riforme con la destra e io gli risposi: «Questa via è
preclusa a chi ha scelto l’impegno politico, ha l’ambizione
di tornare a governare questo Paese e intanto ha il dovere
di concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». E
conclusi: «Con questa destra, sulla quale il mio giudizio
non differisce molto dal suo, bisogna discutere, continuo
a pensare che tra ‘l’inciucio’ (che non ci fu, ma apparve) e
la demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi)
possa esserci una terza via capace di unire la nettezza della
contrapposizione politica, programmatica, etica (quando
ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando
sia­no in gioco le istituzioni e il bene dell’Italia». Questa fu
la mia posizione e questi i miei argomenti.

D.  Non li convincesti...

R.  Prevalse la cultura del sospetto, la verità venne rimossa

­86
e quella campagna, anche nei suoi aspetti più velenosamen-
te moralistici, personali, prese le mosse da una sostanziale
rimozione dei fatti e della verità. Noi rispondemmo, cer-
cammo di ricostruire una prospettiva politica per il Paese.
Lavorammo per un centrosinistra più largo, per ritessere le
fila di un rapporto che via via ci portò a rivincere le ammi-
nistrative, le regionali, fino a tornare al governo.

D.  Ma si tornò a Prodi.

R.  È vero, non fu facile compiere un’operazione di ri-


cambio della leadership, anche perché non avemmo il
coraggio di promuovere un confronto chiaro tra diverse
ipotesi che erano possibili. Fu per questo che richiamam-
mo Prodi, che generosamente si mise a disposizione. Pro-
babilmente, se in quel momento avessimo avuto la forza
di imprimere un cambiamento, le cose sarebbero andate
diversamente. Invece, a ostacolare la scelta di un nuovo
candidato pesarono le divisioni che si erano create tra noi,
anche di natura personale.

D.  C’era questo candidato o c’erano questi candidati?

R.  C’erano dei possibili candidati. In casa nostra si po-


teva pensare almeno a due personalità: Fassino e Veltroni.
Fassino era il segretario del partito e Veltroni, nel frat-
tempo diventato sindaco di Roma, aveva guadagnato una
forte credibilità esterna. Non ci fu il coraggio di scegliere.
Penso che nella Margherita non fossero pregiudizialmente
ostili alla prospettiva che noi prendessimo la guida della
coalizione. Furono tra noi le maggiori perplessità.
Capitolo 4
Pd, amalgama malriuscito?

D.  Il ritorno di Prodi coincise con l’avvio della discussione


sulla nascita del Partito democratico...

R.  Stava maturando questa nuova idea. Mi resi conto,


con una riflessione autocritica sulle fragilità del passato,
che bisognava trovare una sintesi tra le due anime che
avevano segnato la vicenda del centrosinistra, cioè l’ulivi-
smo e il cosiddetto “partitismo”. Dovevamo superare sia
l’idea del primato dell’Ulivo, della coalizione aperta alla
società civile, nella quale i partiti erano al massimo una
struttura servente, sia l’idea di un primato dei partiti che
rischiava di ridurre l’Ulivo semplicemente a una sigla. Se
vuoi, tutte e due queste idee erano incompiute, nel senso
che l’Ulivo era qualcosa di più che non una coalizione
di partiti e i partiti non potevano essere considerati solo
come una struttura di servizio. Mi ero convinto, nel corso
di quegli anni, e lo scrissi sulla rivista «Italianieuropei»,
che dovevamo avviare una riflessione nuova, perché la
prospettiva di dare vita in Italia a una forza riformista di
tipo europeo, di impianto socialista e socialdemocratico,
non era realistica in relazione alla storia italiana. La pos-
sibilità di creare un grande partito riformista in Italia,
invece, doveva passare anche attraverso un rapporto con
la tradizione cattolica.

­88
D.  Nella prima parte della nostra conversazione, quella
dedicata al dopo Bolognina, hai detto che non potevamo co-
struire un partito socialista perché già c’era e lo stesso nome
“socialista” era stato danneggiato irrimediabilmente da Ma-
ni Pulite. Ora, molti anni dopo, porti un diverso argomento
a suffragio della tesi della impossibilità di creare una social-
democrazia classica. Spiegami meglio.

R.  La riflessione deve partire da un dato storico: una


parte del riformismo italiano è stata dentro la Democrazia
cristiana. La storia italiana non è stata la storia di riformisti
contro conservatori, come in Germania e in altri Paesi.
La nostra storia è più complicata. Da un lato, per il ruolo
svolto dal più grande partito interclassista di matrice cat-
tolica, il quale aveva in parte assorbito in sé quella dialet-
tica tra riformisti e conservatori sviluppatasi altrove nella
forma del bipartitismo. Dall’altro, per la presenza di un
grande Partito comunista. Mi sembrava difficile, e ne so-
no convinto tuttora, che fosse destinata al successo l’idea
di un grande partito riformista maggioritario che avesse
una radice culturale solo laica e socialista, e non includes-
se il mondo cattolico realmente presente nella cultura e
nella politica italiana. Ne ero convinto anche dopo l’esito
della cosiddetta “Cosa 2”, quando cercammo di radunare
tutte le forze socialiste, non riuscendovi. Ritenni dunque
che quel tipo di incontro culturale che era stato alla base
dell’Ulivo potesse in effetti diventare il background di un
nuovo partito: il Partito democratico come sintesi, come
tentativo di superare la contraddizione tra ulivismo e par-
titismo, che aveva segnato negativamente la storia recente
del centrosinistra. Fu per questo che con Prodi decidem-
mo di presentare la lista unitaria alle elezioni europee, pre-
messa di quel che avvenne dopo.

D.  Si arriva al 2006, che è un anno strano, perché il cen-


trosinistra sembra avviato a un clamoroso successo e invece

­89
vince di poco e decide comunque di governare, iniziando una
nuova e non felice avventura.

R.  Ottenemmo un grande risultato, toccando il numero


di voti più alto mai raggiunto dal centrosinistra: poco me-
no di 17 milioni. Nello stesso tempo, dall’altra parte, come
contrappeso al nostro prevedibile successo, si concentrò
un elettorato di destra, conservatore, che si raccolse intor-
no a Berlusconi. Egli si dimostrò da subito una specie di
maestro delle campagne elettorali, riprendendo in mano
tutti i temi del populismo. L’ultimo balzo elettorale lo fece
nel nome dell’abrogazione dell’Ici e tutti noi ora dobbia-
mo saldare quel conto pagando l’Imu.

D.  Ma ci sono stati anche degli errori nella parte finale


della campagna elettorale, con le incertezze di Prodi e il pau-
perismo di Bertinotti...

R.  Può darsi. Sicuramente vennero alla luce le debolezze


di una coalizione che era molto vasta, ma anche precaria
nella sua struttura. Al di là di questo, anche quelle elezioni
ci dicono qualcosa di interessante sul nostro Paese, ovvero
quanto sia fortemente radicata nella società nazionale la
destra. Persino davanti a tutti i danni che Berlusconi ave-
va prodotto, infatti, la sua capacità di recupero fu dovuta
alla forza del richiamo antistatale, alla rivolta contro le
tasse, a quell’“ognuno può fare a modo suo” che ha radici
molto profonde nella coscienza dell’Italia, nel substrato
più profondo della società. Ogni qual volta qualcuno fa
appello a questi sentimenti, trova terreno fertile. Guai a
sottovalutare questo dato. Dicono che questa mia anali-
si appartenga a una visione pessimistica. Magari è così.
Penso che la sinistra sia certamente nelle condizioni di
vincere, lo abbiamo dimostrato, siamo andati due volte
al governo. Ma la vittoria della sinistra si ottiene sempre
remando controcorrente. Quando l’attuale presidente del
Consiglio, Mario Monti, ha visto decrescere il suo consen-

­90
so? Quando ha affrontato il tema delle tasse, il dovere e
l’obbligo di pagarle. In altri Paesi accadrebbe il contrario.

D.  Elezioni vinte, ma gestione confusa e per tanti aspetti


anche sbagliata, con quel muro contro muro.

R.  La gestione di quel risultato fu sbagliata. Lo dissi


allora, in un’intervista al «Corriere della Sera» che fece
arrabbiare Prodi. Il mio ragionamento era questo: siamo
al governo perché nei Paesi democratici basta un voto in
più per vincere le elezioni, legittimamente. Ma dobbiamo
chiedere all’opposizione una comune responsabilità nella
gestione del funzionamento delle istituzioni. E così avan-
zai l’ipotesi che la Presidenza del Senato fosse assegnata
all’opposizione. L’idea fu respinta con una certa durezza.
Bisogna tener conto, per amore di verità, che Berlusconi
era su tutt’altra linea, tanto è vero che contestava persino
il risultato elettorale. In ogni caso, la mia proposta non fu
apprezzata nel nostro campo, dove Prodi si fece alfiere
di un’idea bipartitista, su questa base: abbiamo vinto, ora
governiamo, siamo autosufficienti. Fu un punto di debo-
lezza del governo, perché il nostro arroccamento ci mise
di fronte a gravi difficoltà nella tenuta parlamentare della
maggioranza. Anche in altri Paesi capita che si governi con
maggioranze molto ristrette. In Germania, ad esempio, c’è
stata una legislatura in cui le forze di governo potevano
contare solo su un voto in più, e quando un parlamentare
della maggioranza era costretto ad assentarsi l’opposizione
faceva uscire uno dei suoi. Da noi non funziona così, è un
atteggiamento che non fa parte della cultura democratica
e istituzionale del nostro Paese. Per questo, dopo il voto ci
trovammo in una condizione di evidente fragilità, sia per
ragioni numeriche sia per la presenza di frange estremiste
nelle nostre fila.

D.  Avevamo di fronte la classica maggioranza fatta per


vincere le elezioni, ma non per governare. Inizio difficile,

­91
quindi, in cui ci si trovò anche a dover decidere il candidato
alla Presidenza della Repubblica, dopo la conclusione del
mandato di Carlo Azeglio Ciampi.

R.  L’avvio della legislatura fu molto tormentato. L’idea


di Fassino, che pensava di potersi impegnare nel governo,
era che io dovessi fare il presidente della Camera. Una
prospettiva che personalmente trovavo interessante. Ma
anche Bertinotti aspirava alla guida dell’Assemblea e ave-
va ottenuto un impegno di Prodi in quel senso. Sarebbe
stato meglio, ne sono ancora convinto, chiamare Bertinotti
a far parte della compagine di governo, perché assumesse
pienamente le proprie responsabilità, rendendo così più
forte il coinvolgimento e l’impegno di Rifondazione co-
munista. Si scelse un’altra strada e io rispettai il volere del
leader della coalizione. In ogni caso, sono stato un uomo
fortunato, perché sono entrato al governo come ministro
degli Esteri: un lavoro che considero stimolante, appassio-
nante, dinamico. Un’esperienza piena, importante.

D.  Ma la questione del dopo Ciampi e la tua candidatura


al Quirinale come andarono?

R.  Il passaggio del Quirinale venne dopo. L’idea della


mia candidatura maturò nel centrosinistra, non fui io a
proporla. In particolare, fu Fassino a pensare che fosse
giunto il momento che un esponente del nostro partito
potesse andare alla Presidenza della Repubblica. Si ma-
nifestò, soprattutto attraverso Giuliano Ferrara, un inte-
resse di Berlusconi, il quale aveva riconosciuto il taglio
istituzionale che avevo dato alla Presidenza della Bica-
merale. Più precisamente, Berlusconi manifestò una non
ostilità a questa prospettiva, che invece incontrò la forte
opposizione di Fini, Casini e Rutelli, per varie ragioni.
Secondo me, c’era anche un fastidio generazionale. La
politica è fatta anche di questo. La contrarietà di Rutelli
metteva in difficoltà la coesione del centrosinistra, anche

­92
se sembrava logico che se un cattolico era stato designato
alla guida del governo, uno di noi potesse andare al Qui-
rinale. Comunque, la somma di queste ostilità influì sulla
mia candidatura. Si rischiava di creare un clima pesante
dal punto di vista istituzionale. Il rischio era un brac-
cio di ferro. Alla fine avrei potuto anche essere eletto,
ma in una situazione che non mi sembrava giusta. Avevo
proposto all’inizio della legislatura un accordo di tipo
istituzionale, non potevo diventare protagonista di una
rottura.

D.  Venne a te l’idea di candidare Giorgio Napolitano?

R.  Lo decidemmo insieme. Dopo averne parlato con


Fassino, gli telefonai io. Napolitano aveva il grande van-
taggio che, essendo stato nominato senatore a vita, non
aveva partecipato alla campagna elettorale, non era il
candidato di nessuno, era già in qualche modo in una di-
mensione super partes ed era una personalità autorevole e
stimata. Quindi lo candidammo. Tutti furono d’accordo,
anche la destra, che successivamente decise di non votar-
lo. Fu un’operazione condotta bene, e dovendo fare un
bilancio devo dire che non mi dispiace di aver fatto quel
passo indietro. Ci sono situazioni in cui ci si può trovare o
meno in prima linea, ma quello che conta è vincere la bat-
taglia. Dopo queste complesse vicende, Fassino fu molto
corretto. Disse: «A questo punto D’Alema va al governo
come vicepresidente del Consiglio». E lui restò segreta-
rio del partito. Con Fassino ho vissuto alcuni momenti
di scontro politico: fu lui, ad esempio, a organizzare la
campagna per Veltroni nella battaglia del luglio del ’94
per la segreteria del Pds. Ma Fassino è una persona che,
oltre alle doti politiche, ha sempre avuto senso del partito
e una grande correttezza personale, aspetti che ne fanno
uno dei personaggi positivi di questa lunga e complicata
storia. Così io andai al governo.

­93
D.  E facesti il ministro degli Esteri, che era il mestiere che
ti piaceva fare.

R.  Ebbi davvero una buona collaborazione con Prodi,


che aveva anche lui passione per la politica estera. Ave-
vamo un comune sentire sulle varie issues. Qualche volta
ero più filoamericano di lui, come era già emerso in occa-
sione della vicenda del Kosovo. Sì, quella alla Farnesina è
stata un’esperienza interessante, anche perché nella con-
giuntura internazionale avevamo da gestire delle partite
veramente complicate. Avevamo vinto le elezioni dicendo
che ci saremmo ritirati dall’Iraq, prospettiva che eviden-
temente non era apprezzata dall’amministrazione Bush. Il
primo atto di politica estera fu attuare quella decisione,
cercando di evitare forti tensioni con gli americani. Scelsi
di non trattare con loro il tema del ritiro, ma di andare
a negoziare direttamente con il governo iracheno. Detto
così può sembrare l’uovo di Colombo, però questa mossa
spiazzò gli americani. Trattai con il presidente Jalal Talaba-
ni, che come me faceva parte dell’Internazionale socialista,
e raggiunsi un accordo sulle modalità del ritiro italiano,
sul passaggio dei poteri, su quello che noi avremmo fatto
sul piano della cooperazione economica e della solidarietà.
L’accordo diretto con gli iracheni mise gli americani nella
posizione più difficile per alzare la voce. A differenza degli
spagnoli, gestimmo un ritiro ordinato in modo tale da ren-
dere molto più complicata la reazione americana: erano
indispettiti e arrabbiati, ma non erano nella condizione di
dire nulla. E poi ci immergemmo nel conflitto tra Libano
e Israele.

D.  Tutti, o quasi, ti riconoscono di essere stato un ottimo


ministro degli Esteri, che si è mosso bene, come nella vicen-
da libanese, facendo la scelta giusta, tempestiva. C’è una
parte di mondo ebraico che, viceversa, ritiene che tu sia pre-
giudizialmente ostile a Israele oppure, se preferisci, pregiu-
dizialmente favorevole ai palestinesi. Le nostre opinioni in

­94
merito divergono da tempo, ma non sono io il protagonista
di questa chiacchierata. Qui mi interessa che i lettori sappia-
no qual è il tuo pensiero e poi si facciano la loro opinione.

R.  Considero le posizioni attuali della politica israeliana


dannose anche per Israele, come lo sono per gli interes-
si dell’Europa e del nostro Paese, e questo è un criterio
fondamentale a cui ispirare la nostra politica estera. In
questo momento, persino il presidente degli Stati Uniti
guarda con grande preoccupazione alla politica israeliana.
All’epoca dei fatti di cui parliamo, l’intervento in Libano
del 2006, dicemmo che bisognava fermare la guerra, che
bisognava lavorare non per il ritorno allo status quo ante,
cioè al conflitto continuo, ma costruire una situazione di
sicurezza per Israele e per il Libano attraverso un accor-
do internazionale. Il governo israeliano si oppose: hanno
sempre sostenuto che la sicurezza del Paese è affar loro,
non fidandosi neppure dell’Onu. Quando organizzammo,
a Roma, la Conferenza per la pace con gli americani, Israe-
le non partecipò. Avevano immaginato un rapido blitz mi-
litare, che si rivelò essere un’operazione molto più compli-
cata, anche per gli armamenti di cui disponeva Hezbollah.
A questo punto Israele si trovò davanti a un’alternativa
drammatica: ritirarsi, dopo aver avuto perdite rilevanti di
uomini e di mezzi, dando la sensazione di una sconfitta,
oppure occupare il sud del Libano, infilandosi in una si-
tuazione internazionale disastrosa. Allora recuperarono il
nostro piano precedentemente rifiutato, che rappresentò
la loro ancora di salvezza. Offrimmo un’uscita dignitosa
agli israeliani da una situazione complicata in cui si era-
no cacciati e dimostrammo loro che quel dispositivo di
sicurezza era valido. Passò un anno prima che ci ringra-
ziassero.

D.  Anche in questa ricostruzione sento riemergere una


severità nel giudizio su Israele che non hai mostrato verso
i loro nemici...

­95
R.  Il mio atteggiamento è dettato dalla constatazione che
Israele è un Paese civile e democratico. Ecco perché preten-
do che sia meglio di Hamas. In quei giorni sono diventato
amico dell’allora ministro degli Esteri Tzipi Livni, che poi,
nel marzo 2012, ha perduto il congresso di Kadima ed è
stata sostituita alla guida del partito dall’ex capo di Stato
maggiore ed ex ministro della Difesa generale Shaul Mo-
faz. Sono convinto che Israele non stia facendo quello che
dovrebbe fare per ottenere la pace. Eppure la pace sarebbe
possibile se si offrisse una prospettiva negoziale seria all’at-
tuale leadership palestinese. Invece, si corre il rischio di li-
quidarla, malgrado sia la più aperta e disponibile che vi sia
mai stata. In questo modo, Israele correrebbe il serio rischio
di lasciare campo libero alla pressione di tipo islamista e di
cancellare l’opzione dei due Stati, alla quale molti ormai
non credono più, né tra i palestinesi né tra gli israeliani. E
anche il conflitto dello scorso novembre a Gaza ha avuto
l’effetto paradossale di rafforzare politicamente la posizione
di Hamas. È evidente che, se si vuole ancora uno Stato pale-
stinese e quindi si vuole evitare un esito di tipo sudafricano,
l’unica prospettiva è quella di favorire una riconciliazione
tra i palestinesi sotto la guida delle componenti più modera-
te. Da questo punto di vista, il voto dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite è stato positivo e importante. Personal-
mente sono convinto che, al di là delle posizioni ufficiali, lo
comprendano anche molti in Israele e certamente tutti quel-
li che si oppongono alla politica del primo ministro Benja-
min Netanyahu. Inoltre, nessuno può farmi credere che,
in cuor suo, il presidente americano Barack Obama non
abbia considerato quel voto come un’opportunità per una
amministrazione che avverte l’intransigenza della destra
israeliana come un peso sempre più insostenibile anche per
gli stessi Stati Uniti. Una volta Clinton mi disse: «Ci sono
scelte che noi non possiamo compiere, ma che l’Europa de-
ve saper compiere perché, in realtà, è anche nostro interesse
che ciò avvenga». Sono stato molto contento, inoltre, che
l’Italia alla fine abbia votato “sì”, e voglio aggiungere che,

­96
in questa decisione, ha pesato in modo particolare anche
l’intelligenza politica del presidente Monti. Il problema è
che una concezione esclusivamente militare della sicurezza
senza una coerente strategia per la pace, quale fu quella di
Yitzhak Rabin, rischia di offrire un avvenire difficile agli
israeliani e anche a tutti noi.

D.  Israele si difende anche perché ha sfiducia, giustamen-


te, nell’Occidente, nella solidarietà occidentale per la tutela
della propria sicurezza.

R.  Se ragioniamo sui processi reali, vediamo che c’è


una grande tensione tra l’Occidente e il mondo islamico
che investe la sicurezza europea. Quando noi europei co-
minceremo a realizzare che anche la politica di Israele ha
un effetto negativo per la sicurezza dell’Occidente, len-
tamente crescerà un sentimento di ostilità nei suoi con-
fronti. Lo dico con preoccupazione e le analisi che fanno
le minoranze pacifiste, e a mio giudizio illuminate, del
mondo politico e intellettuale israeliano sono ancora più
gravi e allarmanti. Esse, infatti, ci raccontano di una si-
tuazione interna in continuo peggioramento, ad esempio
con episodi di razzismo contro i neri, e della crescita degli
ortodossi con forme di intolleranza che si riflettono sulla
società civile. Ci dicono che anche in Israele sta montando
un fondamentalismo religioso speculare a quello dell’altra
parte e che molti problemi culturali e politici sono creati
dalla forte immigrazione russa. Insomma, c’è un impasto
di fenomeni che sta influendo negativamente sulla società
israeliana. Eppure la soluzione sarebbe vicina e per mol-
ti aspetti è già scritta: basterebbe riprendere in mano i
testi della Conferenza per la pace di Ginevra. Se non si
agisce, il rischio è che il conflitto prenda sempre di più
un carattere religioso e allora davvero non ci saranno più
soluzioni. Questa è la verità e, tra l’altro, è largamente
condivisa nel mondo occidentale. Io mi sono stufato di
difendermi dall’accusa di stare pregiudizialmente con i

­97
palestinesi. Io sto dalla parte della pace tra israeliani e
palestinesi. Una pace vera, giusta e stabile. E sto con gli
europei. Tutti abbiamo il diritto di avere la tranquillità
nell’area del Mediterraneo.

D.  Devo dire la verità. Ho l’impressione che tu, rispetto


a Israele e al mondo ebraico italiano, almeno in una sua
significativa parte, hai tirato su un muro. Non vai a discute-
re, sembra che non vuoi dialogare, come hai fatto con altri
contraddittori, come abbiamo raccontato finora...

R.  Ma non è vero! Abbiamo parlato, ci siamo incon-


trati molte volte, ma c’è una prevenzione di una parte
dei nostri interlocutori. E in più c’è anche una manipo-
lazione delle mie posizioni, una strumentalizzazione che
viene usata nella vita politica italiana. Guarda come, del
mio viaggio a Beirut, è stato montato un caso. In quel-
la occasione feci un’operazione preziosa, perché creai le
condizioni affinché una forza di pace potesse mettersi fra
i due contendenti, Israele e Libano. Mi hanno accusa-
to di parlare con Hezbollah, ma Hezbollah era uno dei
principali partiti di governo del Libano e io ero ministro
degli Esteri. Con chi avrei dovuto parlare? E domando:
ora che i partiti islamisti prevalgono anche nei Paesi della
Primavera araba, che dovremmo fare? Non parlare con
nessuno? Chiudere le porte a tutto un mondo? Certo, i
movimenti islamici e, innanzitutto, i Fratelli Musulmani,
che con Mohamed Morsi hanno assunto la guida dell’E-
gitto, sono di fronte a una prova di laicità e di spirito
democratico e pluralista. Se resteranno prigionieri dell’in-
tegralismo, credo che alla fine si troveranno contro quegli
stessi giovani che con la loro coraggiosa rivolta contro le
dittature li hanno portati al potere. L’Egitto di Morsi è un
Paese che avrà un peso fondamentale. È un Paese in bilico
e i rischi di una drammatica lacerazione interna vi sono
certamente. Ma per l’Europa non c’è alternativa: solo at-
traverso il confronto e il dialogo amichevole e rispettoso,

­98
essa può cercare di spingere nella direzione giusta. Per
quanto riguarda il Libano, è evidente che io non ho nes-
suna simpatia verso il fondamentalismo sciita, ma in gene-
rale fare politica comporta il coraggio di dialogare anche
con chi è molto diverso da te. Se devi mandare migliaia
di soldati in Libano la scelta è netta: o lavori per costruire
condizioni positive per arrivare alla pace o fai la guerra.

D.  Perché non hai fatto un gesto di solidarietà verso gli


israeliani colpiti dal terrorismo?

R.  Anche questa è una menzogna. Prima di andare a


Beirut, mi recai in Israele per incontrare i familiari dei mi-
litari che si pensava fossero stati rapiti da Hezbollah. E da
Beirut scrissi una lettera a David Grossman perché perse
il figlio Uri l’ultima notte di quella guerra sciagurata. Gli
scrissi che mi dispiaceva per il fatto di essere arrivati tardi,
che avremmo voluto arrivare prima, fermare il conflitto
e salvare suo figlio. Grossman venne all’aeroporto di Tel
Aviv ad abbracciarmi. Credo che sia giusto provare un
sentimento di solidarietà verso chi è colpito dalla violen-
za da una parte e dall’altra. E comunque questo è il mio
sentimento. Ma se vado tra le macerie di un quartiere di
Beirut distrutto dai bombardamenti, questo diventa uno
scandalo, se incontro i parenti delle vittime israeliane, i
giornali non lo scrivono. In quel momento, sentivo che era
giusto, soprattutto per qualcuno che vuole guidare un’o-
perazione di pace, cercare di gettare un ponte tra senti-
menti divisi. Un atteggiamento che ho imparato dal car-
dinale Carlo Maria Martini, che ho incontrato più di una
volta a Gerusalemme e che organizzava i “dialoghi della
riconciliazione”, riunendo i familiari di palestinesi uccisi
dagli israeliani e i familiari di israeliani uccisi dai palesti-
nesi. Questo, a mio parere, è lo spirito con cui dobbiamo
guardare a quella situazione. Ciò comporta la capacità di
sentirsi vicini alle ragioni degli uni e alle ragioni degli altri.
Non si può accettare lo schema israeliano per cui da una

­99
parte ci sono i buoni e dall’altra parte solo terroristi. È una
guerra: ciascuno si batte a modo suo, e nelle condizioni
date, per la propria indipendenza. Se parti dall’idea che
dall’altra parte ci sono solo terroristi, non c’è più spazio
per costruire la pace. In verità quel conflitto è lo scontro
tra due ragioni ed è proprio questo che lo rende così radi-
cale e così difficile da risolvere.

D.  Seguendo il tuo schema, allora bisogna legittimare i


talebani...

R.  Mi pare, in realtà, che in questo momento si stia


cercando proprio la possibilità di un negoziato con i ta-
lebani, o comunque con una parte di essi. Quando, nel
2007, proponemmo una Conferenza di pace in Afgha-
nistan, fummo al centro di polemiche e attacchi. Oggi,
con cinque anni di ritardo, forse questa prospettiva sta
prendendo forma. È evidente che in guerra, se una parte
è delegittimata in partenza, non c’è altra soluzione possi-
bile che continuare fino a uccidere tutti i nemici. Oppure
c’è il difficile tentativo di costruire una convivenza. Un
problema, quest’ultimo, che il mondo islamico ci porrà
con forza sempre maggiore. Intanto, perché abbiamo già
sperimentato che la pretesa ideologica e neoconservatri-
ce che la democrazia si possa esportare con le armi non
funziona. E poi perché stiamo assistendo al fatto che la
democrazia che va affermandosi sull’onda dei moti popo-
lari della Primavera araba premia l’Islam, non il modello
occidentale. Allora che facciamo? Conviene discutere con
il mondo islamico, cercare di incoraggiare le spinte verso
un Islam politico che si concili con il pluralismo, come in
Turchia, anziché verso una repubblica islamica, sul mo-
dello iraniano. L’unica via è quella del dialogo e della tol-
leranza reciproca, una strada da percorrere con realismo,
invece di arrischiarsi sul terreno dello scontro tra civiltà,
che alla fine determina solo insicurezza.

­100
D.  L’Islam è anche fra di noi, nel cuore dell’Europa?

R.  Ci sono oltre 20 milioni di musulmani nell’Unione


europea, si tratta della seconda comunità religiosa. In
questo contesto l’Italia, se avesse il senso della sua au-
tonomia e della sua funzione, potrebbe giocare un ruolo
importante in politica estera. Bisognerebbe riprendere
la migliore tradizione della cultura democristiana e so-
cialista, che ha promosso una grande politica estera nel
Mediterraneo. Penso ad esempio ad Amintore Fanfani,
quando si propose come interlocutore dei movimenti
di liberazione nazionale del Maghreb in polemica con
la Francia. E, se guardiamo al ruolo dell’Eni, vediamo
come quella politica estera andò di pari passo con una
grande politica di sviluppo. In questi quindici anni solo il
centrosinistra è stato in grado di avere momenti significa-
tivi di protagonismo italiano nella politica internazionale.
Pensiamo ai Balcani, in particolare con il contributo alla
stabilità in Albania e alla soluzione della crisi in Kosovo,
al Medio Oriente, in particolare con la missione in Liba-
no, e alle Nazioni Unite, con il voto per la moratoria per
le esecuzioni capitali, che ha messo in minoranza sulla
pena di morte Stati Uniti e Cina. È un po’ curioso che,
a fronte di questi risultati, ci fossero frange della sinistra
che ci mettevano sotto accusa, anche in Parlamento, con
parole d’ordine agitatorie e velleitarie. Eppure, il ritiro
dall’Iraq e l’iniziativa per la pace in Libano sono state tra
le iniziative più di sinistra della politica estera italiana, se
ha un senso la parola “sinistra”.

D.  Parliamo della nascita del Pd. Fin dall’inizio sembra


un processo complesso, anche con la difficile individuazione
del suo primo segretario. Poi la scelta cade su Veltroni. È un
evento che avrebbe dovuto segnare il rafforzamento del go-
verno Prodi, invece si rivela l’inizio di un difficile rapporto
fra il nuovo partito e l’esecutivo. Sbaglio?

­101
R.  In verità, la nascita del Pd, come ti ho già detto, è il
punto di arrivo di un processo politico avviato da tempo:
il progetto del nuovo partito era già in qualche modo scrit-
to all’inizio della legislatura del 2006, con la decisione di
presentare la lista unitaria dell’Ulivo alla Camera. Già alle
europee avevamo presentato la lista “Uniti nell’Ulivo”,
in cui fummo candidati, fra gli altri, Pier Luigi Bersani,
Enrico Letta ed io. Fu un’operazione politica intesa a te-
stare elettoralmente il processo di costruzione del nuovo
soggetto. Alle politiche del 2006 ripetemmo l’esperienza.
A questo punto decidemmo di accelerare la costruzione
del partito, soprattutto perché il governo era in difficoltà
sia per l’esiguità della maggioranza al Senato, sia per il
condizionamento massimalista che essa subiva. Mi riferi-
sco alle polemiche e alle tensioni che si ebbero con l’ala
più a sinistra della coalizione, ad esempio sul tema delle
pensioni. Nel frattempo, registravamo anche il lavorio di
Berlusconi per erodere la nostra maggioranza. L’opera-
zione De Gregorio, il parlamentare dipietrista che passò
con la destra, era chiaramente parte di questo disegno. La
condizione di difficoltà del governo e il rischio di dover
andare rapidamente a nuove elezioni ci spinsero a intro-
durre un elemento di innovazione, accelerando l’avvio
della nascita del Pd. Su Veltroni registrammo una larga
convergenza. Io stesso andai a proporgli di assumere la
segreteria. Lui appariva meno logorato di altri per non
aver partecipato alle vicende politiche nazionali e si pre-
sentava come un antesignano del processo di costruzione
del partito. Era un dirigente dei Ds, ma era riconosciuto e
accettato anche nella Margherita. In sostanza, sotto tutti i
punti di vista, era la personalità intorno alla quale si poteva
intraprendere un nuovo percorso. Il vero problema che
si pose da subito al nuovo partito fu quello della tenuta
del governo e della sua maggioranza. Era molto difficile
pensare che l’esecutivo potesse reggere su una base parla-
mentare, al Senato, così ristretta. L’unico modo di portare
avanti la legislatura, secondo me, era quello di aprire una

­102
prospettiva politica nuova, prendendo atto che un certo
tipo di bipolarismo si era esaurito e chiedendo all’Udc un
coinvolgimento in un processo che mettesse al centro un
accordo istituzionale per la riforma della legge elettorale.
Fu questa la mia proposta, per la quale indicai come mo-
dello il sistema tedesco. Lanciai l’idea in un’intervista al
«Riformista» qualche giorno dopo che, a palazzo Mada-
ma, il governo non raggiunse la maggioranza richiesta nel
voto sulla politica estera. Era il 21 febbraio del 2007. Non
trovai né in Veltroni né in Prodi una condivisione e si avviò
molto rapidamente il logoramento della maggioranza, che
poi precipitò, con l’operazione giudiziaria su Clemente
Mastella, verso la crisi e le elezioni, senza nessuna possi-
bilità di scampo.

D.  Fu in quella stagione che molti pensarono di passare


dal bipolarismo al bipartitismo. La segreteria Veltroni si ca-
ratterizzò per l’opzione bipartitista.

R.  Veltroni muoveva da una valutazione giusta della


crisi della logica delle coalizioni elettorali, su cui si era
fondato il bipolarismo italiano. E, in particolare, da
una incontestabile valutazione negativa dell’esperienza
dell’Unione. Egli puntò a una radicale semplificazione del
quadro politico nel senso del rilancio del bipolarismo in
chiave sostanzialmente bipartitica. In questo senso, l’in-
terlocutore naturale fu Berlusconi, che voleva riprendere
una posizione dominante all’interno del campo del cen-
trodestra: una visione del tutto speculare. Dopo le elezio-
ni del 2008, quasi tutti i giornali sostennero che dal voto
erano usciti due vincitori, appunto Veltroni e Berlusconi.
Da una parte e dall’altra dello schieramento politico era
avvenuta un’operazione di semplificazione: il cosiddetto
“porcellum” era stato utilizzato per arrivare a un quadro
fondamentalmente bipartitico. Non mi convinse quella
interpretazione, che mi sembrò illusoria, prodotta da una
lettura superficiale del voto e della stessa legge elettorale.

­103
Non c’è, infatti, un sistema che possa produrre bipartiti-
smo se questo non appartiene alla tradizione politica di
un Paese. E in Italia non c’è una cultura bipartitica, anzi.
Per di più, in tutta Europa assistevamo a una tendenza ge-
nerale verso la frammentazione dei sistemi politici, anche
in relazione ai profondi mutamenti sociali di quella fase.
Persino nel Regno Unito era entrato in crisi il bipartiti-
smo. Non si capiva perché l’Italia avrebbe dovuto anda-
re in controtendenza rispetto a questi scenari europei. Il
risultato elettorale fu positivo per il Pd, tuttavia segnò la
più ampia distanza tra centrodestra e centrosinistra che si
sia mai rimarcata in tutta la Seconda Repubblica. La vitto-
ria più netta di Berlusconi fu esattamente frutto di questa
impostazione bipartitica, perché lo scontro fra due con-
tendenti da sempre è terreno meno favorevole al centro-
sinistra. Nell’alternativa secca destra-sinistra, l’opinione
pubblica del nostro Paese, per ragioni profonde, storiche,
tende a far prevalere il fronte cosiddetto “moderato”. Il
centrosinistra è una costruzione politica che comporta la
ricerca di alleanze e che non è certamente favorita in un
confronto di tipo referendario.

D.  Tuttavia l’avvio del Pd è pieno di problemi, sarebbe


troppo lungo raccontarli tutti. Ci sono crisi successive, con
tre segretari di partito eletti in un breve lasso di tempo. Tu
hai dato del Pd, a un certo punto, una definizione che è
sembrata realistica e tremenda: un “amalgama malriuscito”.

R.  L’elemento di insoddisfazione più profonda verso i


primi passi di questa esperienza è stato la mancata costru-
zione del soggetto politico. Il Pd, sotto la guida di Veltroni,
nacque con una impronta plebiscitaria. Non ho mai con-
diviso questa scelta e il suo fallimento segnò la crisi della
segreteria Veltroni, portando alle sue dimissioni. Si imma-
ginava il Pd come il partito del leader, le primarie come la
sua investitura popolare e intorno al capo si voleva creare
un gruppo dirigente composto dai suoi collaboratori. Era

­104
facile prevedere che questo schema producesse, al con-
trario, la proliferazione di molti centri di comando, con
personalità che tendevano nella propria realtà ad andare
per conto proprio. Il partito del leader, così concepito,
favoriva la nascita di tanti piccoli partiti. Il centrosinistra,
infatti, è un’area densamente abitata. Per usare un’imma-
gine, non è l’Australia, con terre immense e popolazione
scarsa. Siamo immersi nel bel mezzo dell’Europa, in un
territorio più ristretto, con tanti abitanti che vivono in ca-
stelli, case di campagna e altri rifugi. Il centrosinistra è
un’area dove ci sono storie, culture, personalità diverse
che devono essere amalgamate, appunto. Se si crea, in-
vece, un partito che pretende di ridurre questa ricchezza
ad unum, si va verso la destrutturazione e il fallimento. Se
non si crea progressivamente un senso di appartenenza
a una comunità, non si può costruire un partito politico
né ci si può illudere che questo si formi quasi miraco-
losamente, in una sorta di effetto catartico attorno alla
figura del leader. C’è il rischio che il leader diventi come
l’imperatore chiuso nella sua tenda, con i suoi armati a
difenderlo, mentre intorno a lui e al suo accampamento
ci sono l’arcivescovo di Magonza, il duca di Borgogna, il
conte di Guastalla e altri feudatari, ciascuno con i suoi
colori, le sue truppe, stretti a tutela dei propri interessi.
Ecco come nasce un amalgama malriuscito. E, per usare
un’altra immagine, non ho mai condiviso l’illusione che il
Partito democratico si potesse formare così come si scio-
glie il sangue di San Gennaro, miracolosamente, di fronte
a un popolo in estasi e apprensione.

D.  Ma questa situazione che descrivi, questa stessa ricchez-


za del centrosinistra, non è stata fin qui un ostacolo alla
nascita di una forte leadership? E non è questo, in realtà, un
momento di debolezza nell’epoca del “partito personale”?

R.  Certamente è un problema, e lo è stato nel corso


di tutti questi anni. Sarebbe sciocco negare che la forza

­105
della leadership sia una condizione per garantire la coe-
sione di un partito o di un’alleanza politica e sia anche un
vantaggio competitivo in un sistema elettorale così forte-
mente personalizzato. Tuttavia, la forza della leadership
nel nostro campo dipende, e continuerà a dipendere, non
soltanto dalle qualità personali del leader, ma anche dalla
disponibilità di una diffusa classe dirigente a riconoscere
e a sostenere la personalità scelta per guidare il centro-
sinistra. Anche un leader legittimato dalle primarie, che
pure rappresentano uno strumento straordinario di coin-
volgimento e mobilitazione tanto più prezioso in un mo-
mento così difficile nel rapporto tra cittadini e politica,
dovrà poi comunque misurarsi con il compito faticoso
di riaffermare la sua funzione giorno per giorno. D’altro
canto, al di là di ogni funzione presidenzialistica, non
possiamo dimenticare che nel nostro Paese il candidato
scelto con le primarie non diventa poi il presidente all’a-
mericana, ma resta il capo di un governo parlamentare
e, se non è in grado di tenere insieme la sua maggioran-
za, rischia, pur avendo vinto primarie e “secondarie”, di
tornare a casa.

D.  Sei stato descritto come un avversario delle primarie,


ovvero come uno che le vuole regolare fino a snaturarle...

R.  Sono favorevole alle primarie e penso, in genera-


le, che bisogna promuovere tutte le forme possibili di
partecipazione dei cittadini e di coinvolgimento nelle
scelte della politica. Ma le primarie sono una procedura
democratica, non un rito salvifico. La democrazia è un
insieme di regole, altrimenti si cede il passo al caos e allo
spontaneismo. Le primarie promosse da un partito per
la candidatura a cariche istituzionali monocratiche come,
per esempio, il sindaco o il presidente di una regione
sono certamente utili e importanti. Capisco già meno le
primarie di coalizione, perché la competizione per il pri-
mato tra diversi partiti avviene nelle elezioni e non nelle

­106
primarie. Inoltre, non capisco le primarie per le cariche
di partito. Le primarie hanno un senso per le candidature
per responsabilità di governo ed è ragionevole regolarle
anche considerando l’esperienza di altri Paesi. Lo abbia-
mo fatto perché nell’ultima campagna che ha avuto tanto
successo, superando inutili polemiche, ci siamo ispirati
al modello americano, che prevede l’albo degli eletto-
ri. Insomma, la mia idea delle primarie è che servono
a rafforzare il rapporto tra cittadini e politica, e non a
liquidare i partiti.

D.  Il problema è che c’è una vasta area di opinione che


sostiene che i partiti devono morire, che hanno esaurito la
loro funzione storica e sono, anzi, sentine di tutti i vizi. È
un’opinione assai diffusa anche a sinistra...

R.  Non è così in nessuna parte del mondo democra-


tico, dove i partiti rappresentano la forma principale di
organizzazione della partecipazione politica. Certo, c’è
una trasformazione in atto, che nasce anche dai profondi
mutamenti sociali e delle forme di comunicazione, e sono
convinto che occorre un grande sforzo di innovazione. Mi
riferisco, in particolare, all’uso della Rete come strumento
di dialogo con la comunità degli iscritti e degli elettori.
Ma senza partiti in grado di costruire una mediazione tra
i diversi interessi sociali e i diversi particolarismi, tutto il
sistema democratico sarebbe più debole e gli interessi più
forti sarebbero dominanti. Non è un caso che lo spirito
antipolitico venga, nel nostro Paese, dalla parte social-
mente più forte e sia un’espressione di quello che Antonio
Gramsci chiamava il «sovversivismo delle classi dirigenti».
Oltretutto, queste posizioni non sono una novità, ma, in
modi diversi, si ripropongono in tutti i momenti di crisi
della società italiana.

D.  Però il loro punto di forza è senza dubbio il degrado


dei partiti...

­107
R.  Certo, ma l’eccesso di personalizzazione e l’eletto-
ralismo non sono un rimedio al degrado dei partiti. Al
contrario, possono peggiorare la situazione. Il problema
essenziale è rilanciare le ragioni ideali della militanza po-
litica, ricostruire i partiti nella società come comunità di
persone unite da valori condivisi. Nello stesso tempo, è
fondamentale riconoscere i diritti di chi si iscrive a un par-
tito e dedica a esso risorse umane, intellettuali, compien-
do anche sacrifici finanziari per sostenere questa forma di
partecipazione. Parlo di oltre 600.000 persone che sono
iscritte al nostro partito. Quanto contano? In che modo
possono incidere sulle scelte politiche del Pd? Non sot-
tovaluto il valore dell’apertura alla società, ai movimenti
civici, alle associazioni, ma mettere in piedi un partito si-
gnifica costruirne le forme organizzate, di partecipazione
democratica, di consultazione, definendo con maggiore
efficacia i diritti di quelli che decidono di farne parte. Bi-
sogna pensare di ridare senso a una appartenenza che in
passato aveva motivazioni diverse, di natura ideologica,
addirittura con speranze escatologiche.

D.  Bersani una volta utilizzò un’espressione per indicare


i militanti del Pd mai iscritti prima ad alcun partito e parlò
di «nativi» come di creature da privilegiare rispetto a chi ha
storie antiche. In che rapporto vedi i nativi con quelli che
vengono da altre storie? Cosa hanno in comune?

R.  I nativi sono i più giovani e non viene da loro la spinta


a liquidare la storia del centrosinistra e il gruppo dirigente
che ne è espressione. I giovani, quelli di 20 anni, hanno, al
contrario, molto interesse a ricercare le radici del Partito
democratico. Hanno curiosità verso le storie passate da
cui veniamo, non soltanto verso le grandi questioni futu-
re. Tanto è vero che ho un ottimo rapporto con i Giovani
democratici, con cui ho spesso occasioni di incontro e di
discussione.

­108
D.  E quando lo chiedono a te, quali sono le radici che
proponi?

R.  Le radici del Pd sono nelle grandi tradizioni culturali


e democratiche del Paese, quelle che hanno segnato la
storia d’Italia, in particolare nel Dopoguerra. È in atto da
tempo un’operazione di sradicamento, che ha teso a met-
tere in discussione la legittimità di queste componenti. Il
Pci è stato raffigurato come una sorta di propaggine di
Mosca, di accampamento cosacco, negando la sua storia
nazionale. Pensa al dibattito su Gramsci: da una parte c’è
chi sostiene che Gramsci sia una versione italiana dello
stalinismo, dall’altra c’è chi lo vede come un eretico, vit-
tima del suo partito, che avrebbe addirittura nascosto un
Quaderno. In realtà, si vuole negare il fatto che, sia pure
attraverso drammatici contrasti, il comunismo italiano ha
nutrito la sua eresia con il pensiero di Gramsci. Questa
delegittimazione non riguarda soltanto la storia del Pci.
Anche la Dc è stata vista come una emanazione della
Chiesa cattolica che avrebbe rallentato la modernizzazio-
ne del Paese. Lo stesso Partito socialista viene ridotto da
alcuni all’immagine del partito di Tangentopoli. Ma in
questo modo si fa tabula rasa di cinquant’anni di storia
democratica. Oggi, il Pd è la forma moderna e attuale,
proiettata nel futuro, di un partito, di una formazione ri-
formista, che ricava la sua ragion d’essere proprio nell’a-
vere radici in quella storia democratica del Paese. Se non
c’è questo elemento di continuità, non ha senso il Partito
democratico. Noi abbiamo una storia, siamo il punto di
arrivo, di incontro di grandi tradizioni che hanno costruito
la democrazia, trasformando un Paese in rovina in una
delle maggiori potenze del mondo. È fallimento? Ma di
cosa stiamo parlando? Certo, nessuno può negare che
questa tradizione sia andata in declino negli anni Ottanta.
Abbiamo vissuto una grande crisi, ma senza il senso della
storia il Pd non ha fondamento. L’aspetto interessante è
che i nativi del partito rappresentano una nuova genera-

­109
zione, curiosa di conoscere il passato per capire da dove
veniamo. I giovani si rendono conto che è determinante
avere delle radici.

D.  Mentre questo accade a sinistra, il mondo di destra,


che sembrava vincitore assoluto, comincia a vivere il suo
declino...

R.  Berlusconi ha fallito la prova del governo. La destra


non ha prodotto significative riforme, ha esasperato i con-
flitti di interesse, ha paralizzato il confronto politico intor-
no al tema della giustizia, ma soprattutto non ha retto la
sfida con la crisi economica e finanziaria. Con Berlusconi
e Giulio Tremonti abbiamo assistito all’annullamento della
politica di Ciampi e Padoa Schioppa. Il centrosinistra, in-
fatti, aveva avviato una politica di rigore, di contenimento
della spesa, di riduzione del debito pubblico, ottenendo
risultati positivi. Nel 2006 la spesa della Pubblica Ammi-
nistrazione era pari al 50,5% del Pil; nel 2007, primo anno
del governo Prodi, è diminuita fino al 47,9%, per risalire,
nel 2009, al 51,6% (fonte: Banca d’Italia). Per quanto ri-
guarda, invece, il debito pubblico, quando noi lasciammo
il governo, nel 2008, esso era pari al 103,6% del Pil, mentre
arrivò, nel 2009, al 116% (Istat). Naturalmente, sappiamo
che negli anni del governo Berlusconi è scoppiata la crisi
finanziaria internazionale. Ma è anche vero che la destra è
stata totalmente impreparata ad affrontarla e che noi ab-
biamo vissuto la paradossale condizione di essere l’unico
Paese al mondo che ha attraversato la crisi internazionale
con un governo che sosteneva che la crisi non ci fosse. Nel-
la vicenda della destra italiana non c’è solo il populismo
delle facili promesse, c’è anche un’impressionante impre-
parazione a governare.
Capitolo 5
La destra, la sinistra e Beppe Grillo

D.  Ma questo non ti pone anche degli interrogativi su


quella parte di società italiana che ha seguito Berlusconi
senza preoccuparsi di quel che accadeva tutto intorno? Cosa
pensi del voto a Grillo, sul quale converge anche una parte
dell’elettorato deluso dal centrodestra?

R.  Il Movimento 5 Stelle rappresenta certamente una re-


altà per molti aspetti interessante. Anzitutto per il modo
in cui è venuto costituendosi, per molto tempo nella di-
sattenzione dei partiti e dei media tradizionali, sostanzial-
mente attraverso la Rete. Ma anche per l’indubbia capacità
di mobilitare molti giovani e di offrire un’opportunità di
partecipazione diretta e di protagonismo. È anche vero che
la forza di Grillo e del suo movimento si alimenta della cri-
si dei partiti e dei troppi episodi di corruzione e di incapa-
cità amministrativa che caratterizzano la vicenda di questa
Seconda Repubblica. D’altro canto, il voto siciliano, dal
quale emerge come unica proposta politica quella del cen-
trosinistra, ha tuttavia reso evidente quanto sia profonda la
crisi democratica, con l’astensionismo e l’exploit di Grillo.
Detto questo, continuo a non capire quella parte più con-
sapevole dell’elettorato che sceglie Grillo senza valutarne
le conseguenze per il Paese. Quando un movimento viene
rilevato dai sondaggi come il secondo o il terzo partito, è
obbligatorio, per un elettore consapevole, cercare di ca-

­111
pire cosa farebbe il giorno in cui dovesse avere il governo
del Paese nelle sue mani. Da quella parte sento arrivare
le proposte più stravaganti e provocatorie. A parte l’idea
inquietante di un nuovo processo di Norimberga che do-
vrebbe portare alla sbarra le donne e gli uomini che oggi
rappresentano i cittadini nelle istituzioni, sento parlare di
uscita dall’euro, di decisione di non pagare il debito pub-
blico e altre idee del genere, in un confuso intrecciarsi di
smentite e conferme. Ho l’impressione che questi annun-
ci stiano già rendendo più difficile la riconquista di una
credibilità internazionale del nostro Paese. Figuriamoci
se questa dovesse diventare la base di un nuovo gover-
no... Sarebbe la rovina. C’è davvero un elettorato pronto
a distruggere se stesso pur di distruggere i partiti? L’ho
detto più volte: siamo un Paese dalla democrazia fragile
e il rischio che settori dell’opinione pubblica passino da
populismo a populismo senza curarsi del destino dell’Ita-
lia esiste, ma non voglio credere che possa trattarsi di una
maggioranza. Gian Enrico Rusconi, in un articolo pubbli-
cato sulla «Stampa» nel giugno 2012, ha messo a fuoco il
tema della cosiddetta società civile dipinta come fonte di
virtù salvifiche, raccontandone invece i limiti e i pericoli.
La sua proposta è di non chiamarla più “società civile”, ma
semplicemente società italiana. Esaltare la gente comune
in contrapposizione ai partiti significa non vedere che sia-
mo immersi in una crisi che taglia trasversalmente società
e partiti. L’irrompere del populismo in un momento così
drammatico indebolisce la coesione del Paese e il senso
dello Stato. In quello stesso articolo, Rusconi ha indicato
la necessità – e lo ha fatto in modo critico – di una politica
forte, capace di parlare alla società il linguaggio della veri-
tà e, nello stesso tempo, capace di raccogliere una doman-
da di cambiamento. Questo è il terreno su cui accettare la
sfida di un movimento come quello di Grillo, rispondendo
alla domanda di partecipazione e di innovazione politica
che lì si esprime. In questo senso, la Rete può certamente
allargare le possibilità di dialogo e di coinvolgimento dei

­112
cittadini anche nelle scelte politiche e programmatiche.
Questo, però, a condizione di non elaborare un nuovo
mito della democrazia diretta, come se la Rete possa sosti-
tuirsi alle istituzioni rappresentative. Mi ricordo il tempo
lontano in cui si pensava di governare con le assemblee
studentesche... Sono forme di assemblearismo che hanno
sempre un forte rischio antidemocratico. Pensiamo a una
democrazia basata sull’assemblearismo cibernetico: taglie-
rebbe fuori quei tantissimi italiani, la grande maggioranza,
che non hanno accesso e non navigano su Internet. A parte
il rischio, che vedo spesso in qualche esponente politico,
di farsi condizionare dall’umore di diverse decine di uten-
ti della Rete, arrivando al punto di diventare seguace dei
seguaci.

D.  Tu, nel corso di questa intervista, hai fatto ripetuta-


mente riferimento all’esistenza di una maggioranza eletto-
rale potenziale di centrodestra. Eppure questa destra, dopo
la Dc, che non era un partito definibile semplicemente di
destra, non ha più trovato “un centro di gravità permanen-
te”. Fallito Berlusconi, non si capisce da che parte deve ri-
cominciare. Come può andare avanti un Paese dove uno dei
due poli si frantuma così clamorosamente?

R.  La destra si riorganizzerà. È chiaro che l’uscita dalla


lunga stagione del berlusconismo richiede tempo. Ma il
problema di oggi è quello di dar vita a un asse di governo
del Paese che sia credibile. Noi abbiamo bisogno di serie-
tà, di una politica di rigore, di contare di più in Europa.
Con Monti certamente abbiamo compiuto un passo in
avanti molto importante in questa direzione. È chiaro che
l’Italia non ce la farà senza una svolta vera nelle politiche
europee, il che vuol dire uscire dai dogmi monetaristi. C’è
un centrosinistra europeo che ha indicato misure concre-
te. L’Europa è il centro di tutte le possibili vie d’uscita
dalla crisi, ma abbiamo bisogno di una vera governance
economica. In questo senso vanno proposte come quelle

­113
della mutualizzazione di una parte del debito per abbat-
tere i tassi di interesse e contrastare la speculazione, o le
misure anti-spread, approvate ma non ancora utilizzate
dai governi. Però, ciò che occorre con urgenza è una stra-
tegia per la crescita basata su investimenti europei e sulla
possibilità di investimenti nazionali, anche attraverso una
interpretazione più flessibile del Patto di stabilità. Inoltre,
sono favorevole a un impegno per il completamento del
mercato interno, superando barriere e situazioni di mono-
polio. Se l’errore del liberismo estremo è stato quello di
coltivare l’illusione che la crescita potesse venire esclusiva-
mente da riforme dal lato dell’offerta, sarebbe altrettanto
illusorio pensare che da questa crisi si possa uscire con
un puro ritorno alle politiche keynesiane. Ci sono giovani
compagni che ci criticano per essere stati negli anni No-
vanta subalterni all’egemonia neoliberista. In realtà, come
ha ben scritto Livia Turco sull’«Unità» a settembre 2012,
i nostri governi «non solo risanarono i conti pubblici e ci
portarono nell’euro, non solo seppero costruire una lun-
gimirante politica estera, ma si contraddistinsero per una
saldatura tra rigore e giustizia sociale». Non facciamo qui
l’elenco, ma molte sono state le riforme, dall’introduzione
del credito d’imposta, che guardava al Sud e ai giovani,
agli investimenti sulla sanità, alle misure per la sicurezza
sul lavoro. Certo, riconosco che a volte è mancata una vi-
sione d’insieme, una capacità di incidere su alcuni mecca-
nismi sociali per imprimere quel cambiamento che avrem-
mo voluto per uno Stato sociale più equo e inclusivo. E
questo anche a causa del carattere della maggioranza che
di volta in volta ha sostenuto i governi dell’Ulivo. Sono sta-
to il primo a parlare dei limiti del riformismo dall’alto, del
riformismo senza popolo: non basta avere un pacchetto di
buone riforme, avanzate, se a queste non si unisce la par-
tecipazione della società, se non hai un largo consenso che
ti sostiene. Questo non lo abbiamo avuto, questo lo dob-
biamo avere. In ogni caso, nella critica che ci avanzano vi
sono elementi di verità che riguardano, con diversi gradi,

­114
l’insieme della sinistra europea e americana. Certamente
occorre una svolta, ma non bisogna buttare via il bambi-
no con l’acqua sporca, e cioè non vedere che l’apporto di
una cultura liberale, senza gli eccessi della deregulation,
può arricchire la visione di una sinistra moderna. In realtà
c’è bisogno di un mix di riforme che creino condizioni
maggiori di competitività e sviluppo, ma allo stesso tempo
grandi programmi d’investimento guidati dall’autorità po-
litica. In particolare, in un Paese come il nostro, in cui le
capacità di investimento privato sono limitate, il pubblico
deve fare la sua parte. Del resto, il miracolo italiano fu so-
stenuto da grandi investimenti pubblici, non dalle piccole
imprese, che arrivarono dopo.

D.  Ma quando ci fu quel grande miracolo sostenuto dal


pubblico, si sapeva dove andare a investire. Nel dibattito
attuale, invece, non vedo emergere la stessa visione.

R.  Anche adesso si sa su cosa investire. In particolare,


sulle infrastrutture, un settore che vede il nostro Paese
soffrire un gap molto serio rispetto agli altri. E poi sull’i-
struzione, sulla formazione e sulla ricerca, sull’innovazio-
ne nel senso dello sviluppo sostenibile. E, ancora, su quei
settori in cui siamo maggiormente competitivi, come la
meccanica e le nanotecnologie. Bisogna potenziare i no-
stri punti di forza. Tutto questo non richiede un piano
quinquennale di antica memoria, ma il confronto fra le
forze produttive e un impegno del potere politico che at-
tivi la mano pubblica. All’origine della crisi attuale c’è il
prevalere di un estremismo liberista che ha dominato la
globalizzazione, soprattutto nel campo finanziario. Per
uscirne, occorre recuperare anche valori e idee forti del-
la tradizione riformista della sinistra: rilanciare la capa-
cità regolativa delle istituzioni nazionali e internazionali,
e riproporre in maniera moderna ed efficace il ruolo del
pubblico come elemento di orientamento e sostegno. Con
un obiettivo di fondamentale importanza: operare per la

­115
riduzione delle disuguaglianze sociali. Da questo punto
di vista, i dati sono impressionanti: calo del potere d’ac-
quisto dei salari, aumento della disoccupazione, allargarsi
della forbice sociale, che non solo disgrega la coesione, ma
spinge una parte del lavoro dipendente verso una margi-
nalità culturale che può diventare massa di manovra del
populismo. Guardiamo i numeri: nel gennaio del 2012,
la differenza tra inflazione e aumento delle retribuzioni
ha toccato il punto più alto (+1,9%) dall’agosto del 1995
(fonte: Istat) e il divario stenta a colmarsi (sempre secondo
l’Istat, alla fine di novembre è dell’1,1%). Nel novembre
2012, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello re-
cord dell’11,1% partendo dal 6,1% del 2007, mentre la
disoccupazione giovanile è arrivata al 36,5%, il dato peg-
giore dal 1992 (fonte: Istat). Nel 2011, il 20% delle fami-
glie italiane deteneva il 37,2% del reddito totale, mentre
al 20% più povero restava l’8,2% (fonte: Istat).

D.  Forse bisognerebbe cominciare da una critica di alcune


categorie usate in questi anni: l’idea del primato del privato,
del mercato, della piccola impresa...

R.  Non c’è dubbio che bisogna puntare a una nuova


sintesi. Questo non significa tornare alle nazionalizzazio-
ni, come pure è avvenuto in alcuni Paesi con le banche.
La questione è rimettere al centro un ruolo di indirizzo e
di regolazione del potere pubblico, ivi compresi i grandi
programmi di stimolo, di credito di imposta, di sostegno
alla creazione di lavoro e di ricchezza. Gli americani, e non
parliamo della Russia sovietica, hanno messo in campo
centinaia e centinaia di miliardi di dollari in programmi di
sviluppo e di stimolo all’economia. L’Europa delle destre
si rifiuta di farlo e rappresenta, infatti, un gigantesco freno
all’economia mondiale. E, se guardiamo al nostro Paese,
vediamo che senza una politica fiscale e sociale più giusta
non si rilancia neanche il mercato interno. Una delle ra-
gioni della crisi è proprio la caduta dei consumi, sia per la

­116
grande incertezza nel futuro sia per un impoverimento ge-
nerale delle famiglie, in particolare di chi vive del proprio
lavoro. Anche qui il dato è impressionante, se pensiamo
che, alla fine del 2012, si è registrato il peggior calo dei
consumi privati che il Paese abbia conosciuto dalla Secon-
da guerra mondiale: –3,2% rispetto all’anno precedente
(fonte: Ocse).

D.  Leggevo in un recente libro di Paul Krugman una bella


frase di John Maynard Keynes: «L’austerità va praticata nel-
le fasi di espansione, non in quelle di crisi». Cioè bisogna,
come sostieni anche tu, spingere sulla domanda.

R.  Non c’è dubbio. Ha ragione Krugman e hanno torto


i guru del monetarismo europeo, come la signora Merkel.
Naturalmente bisogna ridurre la spesa corrente e aumen-
tare le risorse per gli investimenti, operazioni attuate dai
governi di centrosinistra. Tra l’altro, penso che una delle
ragioni del dilagare senza controllo della spesa, quando
a governare era il centrodestra, risieda anche nel modo
in cui si è realizzato il federalismo, che ha mancato i suoi
principali obiettivi: non ha portato all’efficienza della
Pubblica Amministrazione né alla vicinanza del cittadino
alle istituzioni. Anzi, nel decennio berlusconiano-leghista
il Paese è retrocesso da tutti i punti di vista: crescita della
spesa pubblica, perdita di competitività, aumento delle
disuguaglianze sociali, allentamento del vincolo comuni-
tario, del senso dello Stato e della soglia di legalità. Basti
l’esempio della spesa pubblica corrente, che, al netto de-
gli interessi, è passata dal 37,5% del 2001 al 42,6% del
2010 (Banca d’Italia). Oppure il dato sulla competitività:
secondo il World Economic Forum, in dieci anni abbiamo
perduto 13 posizioni nella classifica mondiale, passando
dal 30º del 2000 al 43º posto del 2011. Tanto per dire,
siamo dopo Porto Rico ed Estonia. Per questo c’è un’o-
pera di ricostruzione profonda da fare da parte di una
coa­lizione di centrosinistra che vada oltre i propri confini

­117
tradizionali. Occorre un’alleanza che, per essere forte e
stabile, comprenda tutta la sinistra, e cioè coloro che cre-
dono nei valori dell’uguaglianza e del lavoro. Un’alleanza
che coinvolga anche una parte del mondo moderato. Al
contrario, non vedo spazio per quel giustizialismo popu-
lista che è estraneo alla sinistra italiana, un corpo che si è
intromesso alterandone i connotati. A me interessa, piut-
tosto, ritrovare la sinistra. Oggi il conflitto non è tra la
casta e la società civile, ma tra la destra e la sinistra, come
in tutti i Paesi civili. Quando si arriva in momenti in cui la
lotta per il potere tocca gli interessi forti del nostro Paese,
avviene sempre questa operazione di camuffamento, per
cui destra e sinistra scompaiono e viene in campo un’altra
raffigurazione del conflitto. In tutta Europa, lo scontro è
tra destra e sinistra su temi come crescita, giustizia sociale
o difesa dal dominio del capitale finanziario, monetarismo
e austerità. Parallelamente c’è un conflitto tra europeismo
e populismo, cioè tra forze che puntano sull’integrazione
politica dell’Europa come risposta alla crisi, e forze che
puntano sulla crisi per ritornare indietro e rimettere in di-
scussione le conquiste europee degli ultimi cinquant’an-
ni. Anche in Italia è intorno a queste due discriminanti
che deve formarsi una maggioranza di governo capace di
essere rigorosamente a favore dell’Europa e, nello stesso
tempo, capace di essere coraggiosa nel puntare su innova-
zione sociale ed economica. È totalmente artificioso e pe-
ricolosamente regressivo raffigurare la crisi italiana come
se la sfida si debba giocare tra la casta e la società civile,
quando è evidente che la crisi attraversa sia la politica che
la società. Il rischio che corriamo è rimanere ai margini
della battaglia politica per il futuro dell’Europa, il che sa-
rebbe drammatico soprattutto per le nuove generazioni.

D.  C’è quel vecchio rapporto fra pazienza e impazienza


che affligge da sempre la sinistra. Oggi ci vuole pazienza
per organizzare il campo, però i compiti ci spingono a essere
impazienti.

­118
R.  Non si tratta di pazienza o impazienza, ma di avere
la capacità di rappresentare la forza che faccia da collega-
mento con il centrosinistra europeo in movimento. Noi
possiamo giovarci del rilancio dei progressisti in Europa,
che avviene in parte su basi nuove. E la novità sta in una
maggiore propensione europeista rispetto alla stagione de-
gli anni Novanta, quando, su questo punto, socialismo e
riformismo europeo fallirono, perché non furono capaci
di imprimere il salto di qualità al processo di costruzione
politica dell’Ue. Eravamo noi al governo, guidammo noi
l’entrata nell’euro, ma non avemmo la capacità di promuo-
vere una vera governance economica. Prevalse una visione
ottimistica della globalizzazione e una sottovalutazione
dell’esigenza di un governo politico dei processi. Oggi,
invece, ci si rende conto che, nel tumultuoso cambiamento
di questa epoca, gli Stati nazionali, divisi, da soli, non pos-
sono andare da nessuna parte. C’è la consapevolezza della
necessità di un campo più ampio, che comprenda compo-
nenti democratiche, liberaldemocratiche, ambientaliste. E
c’è una forte spinta europeista che la accompagna. Socia-
listi e socialdemocratici sanno di non essere in condizione
di poter governare senza altre forze. François Hollande
non avrebbe vinto se non avesse avuto il sostegno del cen-
tro democratico. In altri Paesi questo si traduce in logiche
di coalizione: in Germania, l’Spd punta a tornare al go-
verno. È certamente possibile che, se Angela Merkel e la
Spd mantengono un forte primato, alla fine si torni a una
Große Koalition. Ma, se vi fosse la possibilità di un’alter-
nativa alla Cdu, questa sarebbe impensabile senza i Verdi,
che, in quel Paese, rappresentano una delle componenti
più europeiste. Ancora una volta, la nostra forza è essere
il partito che può portare l’Italia dentro questo processo.

D.  In questa prospettiva politica che idea di mondo ti sei


fatto?

R.  Stiamo attraversando una burrascosa trasformazione

­119
dei rapporti di forza. Il cuore, il motore dello sviluppo si
sposta dall’Occidente verso l’Oriente. È avvenuto in altre
epoche in senso inverso. In questo scenario, l’Europa per-
de progressivamente peso, anche demografico. Per questo
mi convinco sempre di più che dobbiamo guardare all’im-
migrazione come a una risorsa, anche perché è la stessa Eu-
ropa a dirci che, per mantenere un equilibrio tra lavoratori
e pensionati nel Vecchio continente, avremo bisogno di
milioni di nuovi cittadini nei prossimi dieci anni. In questo
senso, dobbiamo fare come gli Stati Uniti d’America, che
hanno reso l’immigrazione un loro punto di forza, attiran-
do e coltivando talenti. È il contrario di quello che faccia-
mo noi che, grazie a una politica miope, finiamo per re-
spingere i migliori. È naturale che l’immigrazione di qualità
non si diriga verso un Paese che nega i diritti fondamentali,
a partire dalla cittadinanza. Va altrove. Quello che manca
ancora è la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida
inevitabile e che la nostra unica prospettiva è quella di stare
in mezzo al cambiamento, cercando di mescolarci, non di
rinchiuderci come se fossimo in una fortezza assediata. In
questa partita abbiamo da giocare grandi risorse di storia,
cultura e civilizzazione. Dobbiamo studiare il mondo che
verrà, dobbiamo sapere che avremo meno privilegi rispet-
to al passato, di cui abbiamo goduto anche perché basati
sull’emarginazione e la miseria di enormi masse umane. Ma
forse avremo più opportunità. Adesso abbiamo di fronte
centinaia di milioni di consumatori che chiedono progres-
sivamente standard di vita europei. L’Europa deve puntare
a offrire loro risposte di qualità. È un processo che va go-
vernato, non possiamo affidarci alla spontaneità, altrimenti
il rischio è che generi ulteriori disuguaglianze insostenibili,
conducendo a nuovi disastri.

D.  Qual è la principale riforma politica che può dare inci-


sività a questo ragionamento a livello europeo?

R.  La principale riforma politica è quella di trasferire

­120
a livello europeo una serie di poteri fondamentali. Fare
dell’Europa una grande potenza, integrata, in grado di
agire in quanto tale su molte delle questioni che oggi sono
di fronte a noi. C’è il terreno della governance moneta-
ria, perché non ha senso che l’area dell’euro non abbia
una rappresentanza unitaria nelle istituzioni finanziarie
mondiali. Portando avanti, fino alle estreme conseguenze,
il processo di costruzione in senso federale, con un tra-
sferimento effettivo di poteri, l’Europa potrebbe anche
aiutare a contenere la spesa pubblica dei singoli Paesi.
Sul piano della difesa, penso alla progressiva messa in
comune delle risorse militari, che consentirebbe una
razionalizzazione e un sollievo per i bilanci nazionali.
Stesso effetto avrebbe l’introduzione di un sistema di
diplomazia integrata. In questi anni, l’Europa è andata
indietro. È impressionante vedere come, di fronte alla
crisi, le istituzioni comunitarie siano apparse indeboli-
te. Solo il Parlamento ha avuto una maggiore visibilità
politica, per il resto è apparso dominante l’elemento in-
tergovernativo, anche se totalmente inefficace, incapa-
ce di superare gli egoismi nazionali, prigioniero di veti,
affaticato e tardivo come nella vicenda greca. Si tratta
di un aspetto cruciale, che rappresenta un progetto do-
tato di forza di trascinamento, perché porta con sé una
carica di idealità, un’idea di futuro. Andare contro que-
sti processi riflette un nazionalismo che nel passato era
arrogante, adesso è patetico. Se si lasciano le cose come
stanno, la tendenza sarà opposta: la debolezza dell’Eu-
ropa accentuerà nell’opinione pubblica un sentimento
antieuropeo che costituirà, paradossalmente, proprio la
leva per indebolire ancor più l’Unione. Si affermerà con
più forza l’illusione nazionalistica, che però è la via del
declino delle nazioni. È un circolo vizioso. Spero che un
centrosinistra europeista sia capace di svolgere un ruolo
propulsivo, incarnando il progetto e la forza per ridare
forma e sostanza a una nuova Europa. E con la sua unità
politica, l’Europa diventerebbe un formidabile fattore di

­121
riforma della governance mondiale, di riorganizzazione
delle istituzioni internazionali, tuttora ispirate a rapporti
di forza usciti dalla Seconda guerra mondiale, che non
sono più né attuali né rappresentativi.

D.  Mi colpiscono alcuni ritorni nei ragionamenti sulla


politica italiana: c’è il centrosinistra europeo che prende il
posto della Terza via; i tecnici che tornano al governo del
Paese, dopo Ciampi c’è infatti Monti; torna il tema del rap-
porto con i moderati, ieri Cossiga oggi Casini; siamo sempre
alle prese con il populismo, questa volta è Grillo a dominare
la scena; c’è il mondo radical che non sa scegliere tra sinistra
di governo e pulsioni giustizialiste. È troppo semplicistico
dire che ci sono dei ritorni? Le analogie sono inferiori alle
differenze oppure è vero che c’è un passato che non passa?

R.  Alcuni degli elementi a cui fai riferimento sono dati


permanenti, nodi irrisolti della situazione italiana. Pren-
diamo uno solo dei temi che hai richiamato, quello del
rapporto con i moderati, a cui il Pd ha cercato di fornire
una risposta costituendo un partito che potesse avere in
sé le diverse anime del centro e della sinistra. In que-
sto modo, abbiamo cercato di dare al centrosinistra una
identità nuova, che facesse cadere quel trattino sulla cui
presenza tanto ci siamo divisi nel passato. Questa ope-
razione ha indubbiamente rappresentato una novità, un
punto di partenza fondamentale per una nuova stagione
politica, ma non è riuscita a chiudere in sé l’esigenza di
ricomporre il rapporto fra progressisti e moderati. Così,
accade ancora oggi che il tema del dialogo con i moderati
debba essere declinato anche guardando all’esterno del
Partito democratico. Un dato è certo: il rapporto con
i moderati resta una questione nodale della prospettiva
italiana, per molte ragioni che riguardano la composi-
zione sociale del Paese, il peso della Chiesa cattolica, i
caratteri del ceto medio.

­122
D.  C’è un grande lavorio al centro che riguarda non solo
Casini, ma Montezemolo ed esponenti del mondo cattolico
come Andrea Riccardi e Andrea Olivero.

R.  È evidente che anche in questa area politica si avverte


un bisogno di novità e si muovono forze e personalità che
non accettano di farsi rappresentare dall’Udc, che appare
per molti aspetti una espressione della politica tradizio-
nale. L’impegno di personalità del mondo economico e
associativo è certamente un fatto positivo, purché ci si
confronti con la politica e cioè con la ricerca del consen-
so e delle alleanze. Inoltre, non credo che sia auspicabile
una ulteriore frammentazione e quindi, in definitiva, per
quanto in questo mondo si possa essere critici verso l’Udc
e le forze tradizionali, alla fine è auspicabile che con esse
si trovi un’intesa. Altrimenti, il rischio è che si aggravino
elementi di confusione e incertezza politica.

D.  Mi colpisce che alcuni intellettuali radical sostengano,


invece, che i moderati in Italia non esistono. Penso ai saggi
recenti di Piero Bevilacqua o di Luciano Gallino sull’estre-
mismo sociale dei cosiddetti “moderati”, che toglierebbe sen-
so al tema del rapporto con loro. Insomma, si affaccia l’idea
che quello dei moderati sia un falso problema della sinistra
più tradizionale, quasi una invenzione politica...

R.  È vero che si è fatto anche un uso propagandistico


e distorto della parola “moderato”, cercando di racco-
gliere sotto questa insegna tutti quelli che si oppongono
alla sinistra, compresi i più estremisti e faziosi. Tuttavia,
la cattiva propaganda altrui non deve trarre in inganno.
Parlando di moderati, intendo un’area in cui si collocano
forze politiche, intellettuali, sociali che si costituiscono
come centro democratico. È certamente un’espressione
carica di un’ambiguità congenita, ma non si può sfuggire
al dato innegabile della sua esistenza, né si può negare
che essa si autodefinisca in questo modo. Si dichiara-

­123
no moderati e così li assumiamo noi per indicare il loro
ruolo nella vicenda politica italiana. Negarne l’esistenza
significa non vedere non solo una componente politica
decisiva nella dialettica democratica del nostro Paese, ma
anche ignorare il suo referente sociale, che è in gran parte
espresso dal ceto medio italiano. Significa ignorare le di-
verse anime culturali che la percorrono, fra cui, decisiva,
quella di matrice cattolica. Il rigetto del tema dei mo-
derati, che è anche espressione del rifiuto delle alleanze
politiche e sociali, rivela la persistente tentazione della
sinistra a rinchiudersi in una posizione di opposizione,
non come congiuntura, ma come scelta di vita, come trat-
to identitario.

D.  Potresti ricordare la storia di quella vecchia compagna...

R.  Proprio quella. Avevamo appena vinto le elezioni, nel


’96, e lei mi venne incontro e mi disse tutta felice: «Ab-
biamo vinto, ora finalmente possiamo fare un’opposizione
dura!». È chiaro che quella vecchia compagna pensava al
Pci, per il quale la prospettiva di andare al governo non
era neppure ipotizzabile. Tuttavia, c’è un minoritarismo
della sinistra che ne rappresenta un limite persistente ben
oltre l’esperienza del Pci. Perché l’essere all’opposizione
era considerato, e talvolta è ancora così, una condizione
di natura che ha anche una connotazione etico-ideologica,
accompagnata dall’idea di rappresentare una minoranza
sana in un Paese malato. È il mito dell’“altra Italia”, che
percorre tutti i movimenti etico-politici e affascina tan-
ti intellettuali. È stato declinato in questo senso il tema
berlingueriano della “diversità”, banalizzandolo. La sua
concezione della diversità, infatti, non alludeva all’antro-
pologia, ma costituiva il centro di una polemica sulla de-
generazione della politica, sull’occupazione del potere e
quindi sulla necessità che il suo partito, il Pci, si tenesse
fuori da questo sistema. Era un invito a fare più politica,
non meno politica, a mescolarsi di più con la società, non

­124
a trarsi sdegnosamente da parte, ricoprendo il ruolo dei
puri lontani dalla politica.

D.  L’altro dato che ritorna è l’antipolitica, di cui ci siamo


lungamente occupati raccontando i primi anni Novanta e
che ritroviamo trionfante all’inizio del secondo decennio del
Duemila.

R.  Sì, è il ritorno del sempre uguale. Non ci sono solo


gli slogan popolari, ci sono anche gli scritti di grandi in-
tellettuali. Penso alle pagine che Gaetano Mosca dedicava
alla critica della democrazia, ho in mente la polemica an-
tiparlamentare del primo fascismo. Molto di quello che
abbiamo vissuto ieri torna nei toni e negli argomenti della
polemica attuale. Penso alla matrice antipartitocratica del-
l’«Uomo qualunque» di Guglielmo Giannini, ivi compre-
so l’obiettivo di non rendere replicabile il mandato parla-
mentare, che fu un punto qualificante del suo programma
e che aveva un’idea di fondo: impedire la formazione di
un ceto politico, perché la politica doveva essere appan-
naggio esclusivo della borghesia. Il borghese, meglio se il
grande borghese, per qualche anno faceva il parlamentare,
poi tornava a fare l’avvocato, il medico, il redditiere. La
critica al parlamentarismo e alla politica come professione
era espressione di una difesa di ceto di fronte all’irrompere
di nuovi soggetti sociali.

D.  C’è anche un antiparlamentarismo di sinistra, una po-


lemica contro il professionismo politico che viene da una
parte del nostro mondo, che ha dimenticato, o non sa, che
la remunerazione dei parlamentari, ad esempio, fu una ri-
chiesta imperativa del movimento cartista per aprire le porte
delle assemblee ai rappresentanti dei ceti popolari.

R.  Molti dimenticano proprio quelle che sono le radi-


ci dei movimenti democratici europei. La democrazia si
afferma come democrazia di massa e quindi emergono i

­125
partiti come strumento di emancipazione della parte più
debole ed esclusa della popolazione. Penso che l’antipo-
litica ci metta di fronte al riemergere di alcuni nodi di
fondo, che rappresentano aspetti della debolezza relativa
del nostro Paese rispetto alla maggiore coesione che han-
no altri Paesi in Europa. Naturalmente, anche lì si affac-
ciano movimenti di contestazione della politica, ma essi
si confrontano con sistemi statali più robusti. E quando
dico “Stato” non intendo parlare solo di una struttura, ma
anche di un sentimento condiviso, di un senso di apparte-
nenza a una comunità. Da questo punto di vista affiorano
tutte le nostre fragilità. Anche per questo, la prospettiva
del centrosinistra, così come accadde nei primi anni No-
vanta, si potrebbe riassumere nell’idea di rimanere forte-
mente agganciati al processo europeo come chiave della
nostra modernizzazione, della trasformazione dell’Italia
in un Paese normale, pienamente parte della democrazia
europea. Ancora una volta, la risposta alla crisi italiana
non può che ritrovarsi nel nesso nazionale-internazionale.
Senza questa dialettica, il nostro Paese regredirebbe in
una collocazione provinciale, marginale, diventerebbe
terreno di conquista di grandi gruppi finanziari e indu-
striali internazionali.

D.  In questa fragilità del sistema politico italiano non si


riflette anche la crisi del cattolicesimo democratico e del rap-
porto fra Chiesa e società italiana?

R.  Sì, c’è una più ridotta capacità della Chiesa di essere
un elemento coesivo del Paese. In una certa misura, sia
la fragilità del senso di appartenenza alla comunità sia la
scarsa presa del senso dello Stato sono state sostituite dal
ruolo coesivo che ha avuto la Chiesa e che hanno avuto,
nel Dopoguerra, i partiti popolari. L’indebolirsi di questa
funzione della Chiesa, contemporaneamente alla crisi dei
partiti di massa, accresce il rischio di una disgregazione del
tessuto collettivo, favorisce l’emergere di particolarismi,

­126
di spinte corporative che tanto abbiamo visto fiorire nel
corso di questi anni.

D.  Come se ne esce?

R.  Ripeto, perché ne sono profondamente convinto: la


via d’uscita è nel rapporto con il processo europeo. Credo
che per pochi Paesi come per l’Italia il progetto nazionale
e quello europeo tendono a coincidere, a sovrapporsi e
integrarsi. In questo senso mi interessa, qui e ora, ricor-
dare il ruolo che ebbe il centrosinistra italiano nel ricollo-
care il Paese in un contesto europeo e internazionale. Sia
la Terza via, sia il rapporto con i democratici americani
rappresentarono la prospettiva nella quale, anche in mo-
do creativo, si collocò il centrosinistra. Questo fu il no-
stro progetto per l’Italia, questo significò l’introduzione
dell’euro, questo fu l’obiettivo che ci ponemmo quando
immaginammo di trasformare il nostro sistema politico se-
guendo modelli continentali. Un traguardo raggiunto solo
in parte, perché ci siamo fermati a metà strada, in una
situazione abbastanza ambigua e anomala. Oggi bisogna
ripartire e una nuova prospettiva non può che muoversi
nella stessa direzione, naturalmente facendo i conti con
quel che è cambiato, perché ormai viviamo nell’Europa
della grande crisi. Non abbiamo più, di fronte a noi, come
negli anni Novanta, l’Europa dell’ottimismo, quella che si
aspettava soluzioni positive ai suoi problemi dal procedere
della globalizzazione. L’Europa, in questa fase, deve rico-
struire un processo democratico, di sviluppo, ha bisogno
di una forte cultura critica della globalizzazione. Per molti
aspetti, usando un’espressione tradizionale, direi che l’Eu-
ropa ha bisogno di un moderno centrosinistra, capace di
criticare la globalizzazione neoliberista e di correggerne
le distorsioni.

D.  Dobbiamo sapere che di fronte a noi cominciano a ve-


dersi anche le tracce di uno sfaldamento di antiche certez-

­127
ze e sono state colpite alcune casematte democratiche. Ad
esempio il modello sociale europeo dalla crisi esce molto
indebolito.

R.  Fortemente indebolito, su questo non c’è dubbio. E


rischia di essere travolto se non ci sarà un nuovo processo
di sviluppo, senza il quale l’arretramento investirà diret-
tamente le condizioni di vita delle persone. L’Europa di
oggi vede confrontarsi due scelte nettamente contrappo-
ste: una fondata su politiche di sola austerità e dominate
dai soli interessi dei mercati finanziari, l’altra su una forte
ripresa di politiche di sviluppo e di innovazione. Se non si
punta su questa seconda scelta, è impossibile immaginare
un nuovo Rinascimento europeo. Non mi riferisco a una
politica di investimenti pubblici senza criterio, ma – co-
me ho detto prima – a interventi orientati a una crescita
in cui forte sia la presenza dell’innovazione. Il deficit di
innovazione, infatti, è stato una delle ragioni della crisi eu-
ropea. Abbiamo visto come la disponibilità di manodopera
a basso costo nei Paesi emergenti del mondo abbia fatto
diminuire la spinta all’innovazione nell’economia, che era
stata molto forte fino agli anni Novanta, con la rivoluzio-
ne informatica e delle telecomunicazioni. Molta parte del
capitale ha inseguito il lavoro dove costava meno e non
ha accettato la sfida dell’innovazione. Eppure, è su questo
fronte che noi europei dobbiamo puntare. Il vecchio mo-
dello produttivo non basta a garantire una nuova stagione
di crescita e di sviluppo, né l’Europa può arrendersi a una
prospettiva di delocalizzazione delle potenzialità produtti-
ve e diventare semplicemente il luogo della finanza. Se il
capitale speculativo, finanziario e industriale scappa alla
ricerca di lavoratori meno costosi, noi dobbiamo immagi-
nare politiche pubbliche in grado di accettare questa sfida
con un’accelerazione dell’innovazione che renda più con-
veniente tornare a investire qui, in Europa. La corsa verso
mercati del lavoro maggiormente deregolati è anche una
scelta priva di lungimiranza, perché è facile immaginare

­128
che, in quella parte di mondo, con l’industrializzazione
cresceranno anche i sindacati e le rivendicazioni operaie.
Noi dovremmo essere all’avanguardia di questo processo,
preparandoci a difendere i diritti di quei lavoratori e creare
al tempo stesso un nuovo habitat per un progetto di svilup-
po che guardi all’avvenire e sia radicalmente innovativo.

D.  In questo senso, l’Italia si presenta come un Paese stra-


no, con forti handicap. Mentre in Germania e in Francia
la tutela dell’industria che c’è, penso a quella dell’auto, ha
portato anche a scelte coraggiose delle imprese e del sinda-
cato, in Italia siamo molto indietro. Qui ci sono due poli da
analizzare, il polo del sindacato e quello costituito da Sergio
Marchionne, che vuole sradicare il sindacato dalla sua fab-
brica. È una delle stranezze italiane...

R.  Non c’è dubbio che la Germania sia riuscita, nella


logica di un patto sociale, a preservare il suo apparato pro-
duttivo industriale meglio di come abbiamo fatto noi. È
anche vero, però, che l’Italia resta uno di quei Paesi con
le potenzialità produttive più significative. Una parte del
nostro Paese sta dentro l’area produttiva europea più ro-
busta e che ha, in questo contesto, le maggiori possibilità.
Da noi sono mancati una politica industriale e un patto
sociale in grado di rilanciare il sistema produttivo nazio-
nale, mentre in Germania ci sono stati l’una e l’altro. E il
rilancio tedesco sia della politica industriale sia del patto
sociale è stato portato avanti in contrapposizione con una
visione che da noi, viceversa, ha privilegiato la conflittuali-
tà sociale e di fabbrica, la rottura del patto con i sindacati.

D.  Tu non sei entusiasta, come lo sono stati tuoi compagni


di partito, di Marchionne...

R.  No. Non voglio mettere in discussione i risultati che


ha raggiunto negli Stati Uniti, ma nel nostro Paese non
vedo quali benefici abbia portato lo stile del nuovo leader

­129
della Fiat. La questione che avevamo di fronte, e che io
– devo dire – avevo cercato di affrontare quando ero al
governo, era quella di scrivere un nuovo patto sociale, un
patto per la produttività. La questione è ancora sostanzial-
mente irrisolta, malgrado l’accordo del novembre 2012. Il
problema è che da una parte il tema della produttività vie-
ne interpretato solo in termini di flessibilità e adattamento
da parte dei lavoratori. Dall’altra, si oppone una rigidità
che scarica esclusivamente sulle imprese il compito di in-
vestire per favorire innovazione di processo e di prodotto.
Cercare una sintesi sarà uno dei compiti più importanti
e impegnativi di un nuovo governo di centrosinistra. Più
che mai, su questioni del genere, si misura il fatto che non
può essere un governo tecnico a scrivere un nuovo patto
sociale. Questo è davvero un compito irrinunciabile della
politica.

D.  Nella prima parte di questa intervista hai ricordato


come il sindacato, nei Paesi di più forte tradizione socialde-
mocratica, non si pone in termini di autonomia ma in ter-
mini di corresponsabilità con la politica. Il sindacato italiano
questo ragionamento l’ha fatto fino a Luciano Lama e Bruno
Trentin, mescolando autonomia e responsabilità. Dopo ha
smesso di farlo...

R.  Il sindacato italiano, rispetto ai principali sindacati


europei, ha fatto un ragionamento in parte diverso, incar-
dinato sul concetto di responsabilità nazionale. Il sindacato
era portatore dell’interesse nazionale e lo poneva al di so-
pra dello stesso interesse corporativo. Questo veniva dalla
tradizione antifascista e democratica. Era questa, infatti,
l’ispirazione che portò Giuseppe Di Vittorio a formulare il
Piano del lavoro, e Lama fu il continuatore di questa gran-
de tradizione. Le difficoltà sono venute successivamente,
sia per le modificazioni della società e dello stesso mondo
dei lavori, declinato al plurale, sia per il mutamento radica-
le della politica. In questo contesto, credo che il sindacato

­130
viva ancora con difficoltà e in maniera problematica il tema
della sua collocazione, nel tempo della democrazia dell’al-
ternanza. Da un lato, la frammentazione e la divisione del
mercato del lavoro hanno ridotto la sua capacità di rappre-
sentanza e hanno via via spinto il sindacato verso una di-
mensione economico-corporativa in modo quasi esclusivo,
indebolendo la sua funzione di rappresentanza generale. È
stata una vera rivoluzione, che avrebbe dovuto far riflette-
re sul ruolo nuovo dell’organizzazione sindacale e sui suoi
limiti. Al di fuori del lavoro sindacalizzato, è cresciuto un
universo del lavoro precario, saltuario, ma anche flessibile
e altamente qualificato, che non ha avuto rappresentanti
né organizzazione. Milioni di lavoratori atipici sono stati
lasciati completamente soli. Il sindacato fatica a radicarsi
tra i nuovi lavoratori e rischia di rimanere un’organizzazio-
ne che rappresenta una fascia intermedia del mondo del
lavoro e che tende, nel tempo, a ridursi irrimediabilmente.
Nell’indebolirsi della sua funzione generale – ed ecco qui
l’altro elemento di novità che citavo al principio di questo
ragionamento – c’era l’arroccamento su un’idea tradizio-
nale di autonomia sindacale, che non teneva conto che
eravamo immersi nella stagione bipolare, con l’alternarsi
delle maggioranze di governo, mentre il vecchio sindacato
sapeva per certo chi avrebbe governato e chi no.

D.  Mi ha molto colpito che Marchionne si sia abbattuto


sul sindacato, ma anche sulla propria organizzazione pro-
fessionale, senza che il mondo dell’impresa reagisse adegua-
tamente. Hanno accettato la sua “secessione” da Confindu-
stria, forse ne hanno ammirato la volontà iconoclasta, hanno
avvertito il pericolo di relazioni sociali fondate su continue
prove muscolari, ma il mondo dell’impresa non ha discusso
il fenomeno Marchionne. L’anti-Marchionne non è nato.

R.  Il sentimento prevalente dentro Confindustria ap-


pare piuttosto diverso da quello di Marchionne. Non c’è
lo spirito della contrapposizione. L’attuale leadership di

­131
Giorgio Squinzi si muove in maniera differente e, se guar-
diamo più in profondità, di fronte alla crisi nella realtà di
molte aziende c’è stato uno sforzo di cooperazione, di tu-
tela dell’occupazione, anche rinunciando a margini di gua-
dagno. Purtroppo restano casi di grandi imprese che, per
mantenere alti i profitti, colpiscono i lavoratori, dal punto
di vista dell’occupazione, delle tutele e dei diritti. In que-
sto momento il punto da cui bisognerebbe ripartire è che il
lavoro e le imprese produttive hanno l’esigenza comune di
ridurre lo spazio della speculazione finanziaria, hanno un
nemico comune. Gramsci scriveva, in Americanismo e for-
dismo, che il mercato finanziario nel quale il risparmio non
corre l’alea del mercato, perché tutelato dallo Stato, finisce
per creare un’economia nella quale la rendita finanziaria
è privilegiata, e la produzione e il lavoro sono penalizzati.
Ebbene, oggi siamo in una fase in cui sono stati colpiti con-
temporaneamente gli interessi del lavoro e delle imprese. Il
tema torna a essere quello delle nuove sfide sui mercati, che
si sono fatti più esigenti, difficili, affollati di concorrenti vec-
chi e nuovi, innovativi sul prodotto o risparmiosi sul lavoro.
Bisogna quindi riguadagnare competitività e ciò comporta
un patto sociale, oltre a una capacità di ridisegnare una po-
litica industriale, concertata, naturalmente, e non imposta
dall’alto. Occorre individuare i settori in cui il Paese può
essere ancora competitivo, mentre dobbiamo sapere che
ve ne sono altri in cui saremo inevitabilmente destinati a
vedere ridimensionato il nostro ruolo. Ed è proprio dove
possiamo essere competitivi che è necessario concentrare
le risorse pubbliche e private con programmi di ricerca e
di formazione professionale. Oggi questa azione coordinata
non esiste ed è un enorme elemento di debolezza del siste-
ma Paese. Una strategia di crescita pretenderebbe una vera
e propria guida politica, una capacità integrata di indivi-
duare i settori, di concentrare l’impegno in un mix di azio-
ne pubblico-privato. Nessun ritorno al vecchio statalismo.
Penso infatti che le privatizzazioni siano state una necessità

­132
del Paese e andranno ancora avanti, anche se l’esistenza di
alcune grandi imprese pubbliche è una risorsa per l’Italia.

D.  Pensi a Finmeccanica...

R.  Anche, ma ci sono Enel, Eni che sono tra le poche


grandi imprese che stanno sul mercato mondiale. Il pro-
blema non è l’espansione della gestione pubblica. Anzi,
affrontare il problema del debito comporterà una politica
di dismissioni di patrimonio pubblico. Non c’è dubbio,
però, che senza un’alleanza pubblico-privato e lavoro-
impresa, che dovrebbe essere garantita dal centrosinistra,
non si può pensare di creare sviluppo con una strategia
per la crescita affidata esclusivamente alle riforme che gli
economisti anglosassoni indirizzano solo sul lato dell’of-
ferta, con una forte flessibilità del lavoro. Il ruolo del
centrosinistra sta in una concezione attiva delle politiche
pubbliche, altrimenti non c’è crescita. Un Paese come l’I-
talia ha un problema in più: noi rischiamo che progressi-
vamente le parti più pregiate del nostro sistema produttivo
e finanziario passino sotto il controllo di gruppi stranieri.
Naturalmente, non credo che abbia senso un arroccamen-
to nazionalistico, ma è assai discutibile che chi opera a
casa propria, in un mercato protetto, possa assumere il
controllo di attività determinanti per il futuro del nostro
Paese. Liberalizzazioni e privatizzazioni devono anche
essere intese come un’occasione per far crescere grandi
imprese italiane in grado di competere sul mercato inter-
nazionale e questo richiede una qualche collaborazione tra
poteri pubblici, imprese private e finanza, o per lo meno
l’assunzione di una comune responsabilità per l’avvenire
dell’Italia. Anche qui ci misuriamo con un male antico del
nostro Paese: sembriamo a volte essere ancora quell’Italia
di qualche secolo fa, dove, quando un esercito straniero
assediava una città, trovava subito un alleato nella città
vicina pronto a prestare le scale per scavalcare le mura di
cinta e favorire il successo dell’assalto nemico. Purtroppo

­133
non sono stati rari, anche in questi anni, casi del gene-
re, che difficilmente sarebbero pensabili in qualsiasi altro
grande Paese europeo.

D.  Intanto sono cresciute le disuguaglianze sociali e la


povertà...

R.  L’altro aspetto della strategia di sviluppo da affronta-


re è proprio il tema gigantesco del modello sociale, che in-
veste tutti. È chiaro che la riduzione delle disuguaglianze
sociali è condizione per far ripartire lo sviluppo in Euro-
pa, per riattivare il mercato interno del nostro continen-
te. Siamo immersi in una involuzione dei rapporti sociali
che vede crescere la quantità di persone messe ai margini
della società, che vivono sempre peggio. Questo fenome-
no riguarda non solo i tradizionali ceti popolari, la stessa
classe operaia, ma anche settori della piccola borghesia.
È un processo che produce frustrazioni, sentimenti di ri-
volta, alimenta antipolitica e xenofobia, e tutto ciò può
cambiare anche i processi politici europei. L’Europa deve
rendersi conto che sta perdendo il ruolo di potenza glo-
bale che esporta in tutto il mondo, che non è neppure
più in grado di attirare investimenti come un tempo. La
quota di investimenti mondiali che vengono verso di noi si
è pressoché dimezzata negli ultimi quindici anni. La strada
privilegiata, adesso, è quella che porta verso Cina, India e
Brasile, come è naturale che sia. Insomma, la sua posizione
è destinata a ridimensionarsi inesorabilmente, non è un
fatto congiunturale. L’Europa deve sapere che non può
neanche far leva sulle proprie risorse, ad esempio sul mer-
cato interno come volano di sviluppo. Il mercato interno
europeo, infatti, si è inceppato a causa della distribuzione
ineguale della ricchezza, uno degli effetti della globalizza-
zione che non ha portato a una redistribuzione più ragio-
nevole. Spontaneamente questo processo non è accaduto
e, senza il ruolo attivo della mano pubblica, le disugua-
glianze si sono moltiplicate. Inoltre, se vogliamo avere una

­134
distribuzione più equa della pressione fiscale che eviti che
il peso dell’imposizione si scarichi esclusivamente sul la-
voro e sulle imprese, dobbiamo sapere che lo possiamo
ottenere soltanto con una fiscalità internazionale, con una
tassa sulle transazioni finanziarie. Altrimenti, la volatilità
dei capitali renderà impossibile l’intervento. Insomma, i
progressisti europei devono misurarsi con queste sfide.
Come si rimette in movimento un processo di sviluppo?
Che condizione attuare per ridare forza alla democrazia?
Queste sono le domande di oggi, che comportano la cen-
tralità del progetto europeo. La vera grande svolta cultu-
rale della sinistra è di diventare la forza più coerentemente
europeista, liberandosi sia dall’idea che bisogna ridurre lo
spazio della politica perché la globalizzazione provvede-
rà da sola, sia dall’idea del “socialismo nazionale”, cioè
dall’illusione dell’onnipotenza dello Stato-nazione. Una
sfida che riguarderà soprattutto Hollande e il socialismo
francese.
Capitolo 6
Monti e oltre

D.  Per il centrosinistra italiano, che deve affrontare questa


transizione e questa rivoluzione culturale, c’è la risorsa, o
l’ingombro, decidi tu, rappresentato da Mario Monti, il “tec-
nico” che guida il governo e che rinnova i fasti e le gesta di
altri tecnici chiamati a supplire le défaillances della politica.
La sua presenza nella politica italiana sarà una meteora o do-
vremo abituarci a pensare a lui come a un attore permanente
del dibattito politico?

R.  Il fondo della crisi della democrazia in Europa è in que-


sta perdita di ruolo delle istituzioni politiche, che è anche
una perdita di potenza, di capacità di incidere sulla realtà.
Si è realizzato una sorta di divorzio tra politics e policies.
Politics, come la definiscono gli anglosassoni, ovvero la po-
litica, prigioniera di una dimensione nazionale (ricordo che
Gramsci parlava di cosmopolitismo dell’economia e di ca-
rattere nazionale della politica), e policies, le politiche, cioè
quelle decisioni che si sono spostate in gran parte in Euro-
pa. Accade così che la politica, quella con la “P” maiuscola,
sia svuotata della sua capacità di incidere sui processi eco-
nomici, degradando verso il populismo, mentre la gestione
dell’economia, separata dalla politica, diventa tecnocrazia.
Abbiamo descritto la coppia vincente della crisi, la cui af-
fermazione tuttavia condurrebbe l’Europa alla rovina: tec-
nocrazia e populismo sono, in modo complementare, le due

­136
facce della crisi della democrazia europea. Si specchiano
l’una nell’altra. Il populismo è la dimensione della politica
ridotta a pulsioni, è una politica che non è più in grado di
decidere, fatta di annunci, portatrice anche di speranze e
di sogni, che alimenta e si alimenta di paure, ma non ha
più in sé un progetto di trasformazione della realtà. Non ha
più gli strumenti neppure per poter esercitare la sua forza
di persuasione e di consenso. È una politica capace di rac-
contare storie, ma incapace di deliberare, in pratica conta
meno, sempre meno. Invece, la tecnocrazia diventa gestione
dell’esistente. In Italia abbiamo vissuto questa tensione su-
scitata dal binomio populismo-tecnocrazia ai massimi gradi.
Il populismo, in una democrazia che è sempre stata fragile,
è un rischio permanente. E si ripropone quasi negli stessi
termini, a ogni passaggio di crisi, a ogni cambio d’epoca. In
questa situazione, Monti ha rappresentato in modo fonda-
mentale l’uscita dal berlusconismo e ha interpretato la ca-
pacità dell’Italia di tornare a parlare il linguaggio delle forze
dirigenti in Europa. Se non sei in grado di essere accettato
nel consesso dei grandi e dei potenti, se non hai i requisiti
minimi, infatti, diventi un Paese minore, direi irrilevante.

D.  Hai detto “forze dirigenti”, Monti che parla il linguag-


gio delle forze dirigenti. È l’immagine di lui che hanno e
danno i suoi critici...

R.  Sì, certo, parlo di forze dirigenti perché parlo dei


grandi Paesi, delle leadership europee. Noi abbiamo avuto
un capo del governo in grado di rivolgersi a queste, com-
prese le tecnocrazie di Bruxelles. Da questo punto di vista,
Monti ha svolto la grande funzione nazionale di riportare
l’Italia in un contesto europeo con una sua voce e una sua
forza negoziale. Se non fosse riuscito in questo compito,
avremmo avuto di fronte a noi una catastrofe di tipo greco.
Secondo me, dobbiamo interpretare questo passaggio e la
guida di Monti come una fase, una transizione, non come
un approdo della crisi italiana.

­137
D.  A questo punto, qual è il destino di Monti?

R.  Innanzitutto dipenderà da lui, se egli si sottrarrà ai


tentativi di chi vorrebbe usarlo come un leader politico
per contrapporlo al centrosinistra. È evidente che sarebbe
un ruolo innaturale. Monti non è un uomo di sinistra, è un
liberale, ma credo sappia bene che nella particolare vicen-
da italiana il centrosinistra è stato assai più liberale della
destra, che ha avuto, e non da ora, una matrice statalista
e populista. Se Monti manterrà una posizione estranea a
ogni strumentalizzazione di parte e un dialogo aperto con
il centrosinistra, sono convinto che per tutti noi, e innanzi-
tutto per Bersani, egli continuerà a essere un interlocutore
prezioso e una personalità importante per la credibilità
internazionale del nostro Paese.

D.  Non ti colpisce che negli ultimi vent’anni tre tecnici


siano entrati nel gotha della politica con diversi destini e
fortune? Parlo di Ciampi, Dini e Prodi. Tre volte la politica
ha dovuto far ricorso a tre tecnici. Un caso? Se è un caso, è
strano!

R.  Sono casi abbastanza diversi, perché Ciampi e Pro-


di, pur essendo personalità di formazione più tecnica che
politica, indubbiamente rappresentavano culture politiche
del centrosinistra. Ciampi è un uomo dell’azionismo de-
mocratico, Prodi del mondo politico cattolico democrati-
co. Da questo punto di vista, non rappresentano una vera
novità in rapporto alla scacchiera europea, perché anche i
grandi partiti europei, compresi i socialisti, governano con
personaggi che sono stati formati o si sono allenati a gover-
nare nelle grandi tecnostrutture, penso alla francese Ena.
La vicenda di Dini, invece, è particolare. Era ministro di
Berlusconi dopo una carriera nel mondo bancario inter-
nazionale e in Bankitalia, e fu indicato da Berlusconi come
proprio successore dopo la caduta del suo governo. Poi si
spostò nel centrosinistra e dopo nel centrodestra, diven-

­138
tando un politico a tempo pieno. Monti, che pure ha alle
spalle un’esperienza politica di grande rilievo come quella
rappresentata dal decennio nella Commissione europea,
non è, tuttavia, un uomo politicamente schierato. Ernesto
Galli Della Loggia, mesi fa, mi ha accusato sul «Corriere
della Sera» di voler arruolare Monti nella sinistra. Non l’ho
detto, non lo penso. Penso che la visione di Monti, il suo
liberalismo, non siano incompatibili con il nostro progetto.
Del resto, se non lo avessimo ritenuto compatibile con noi,
non lo avremmo sostenuto, come abbiamo fatto con lealtà.
In particolare, vedo il suo pensiero e il suo agire politico
non incompatibile con il progetto del nuovo centrosinistra
europeo: sui temi della crescita e della solidarietà, di fron-
te al debito, Monti si è trovato a fianco di Hollande, non
dalla parte dei conservatori. Detto questo, è evidente che
noi dobbiamo delineare una prospettiva che vada oltre il
governo tecnico e di unità nazionale. In Europa e in Ita-
lia sono in campo due discriminanti politiche, come ho già
detto: quella tra europeismo e populismo, ma anche quella
tra una destra monetarista e un centrosinistra in grado di
rimettere in primo piano strategie per il lavoro e la crescita.
Sono profondamente convinto che c’è un nesso tra questi
due aspetti, e cioè che il processo europeo, ma anche una ri-
nascita del nostro Paese non potranno ripartire con succes-
so se non attraverso un profondo rinnovamento nel senso
della giustizia sociale, della dignità del lavoro, dell’apertura
di nuove opportunità. Non si potrà che andare oltre il tipo
di riforme e di interventi che hanno delineato l’orizzonte
del governo Monti.

D.  C’è un orizzonte oltre Monti?

R.  Su questo non c’è dubbio. Tuttavia, è evidente che


nessuna prospettiva di trasformazione potrà esservi se non
nel rispetto dei vincoli europei e dunque di quella politica
di rigore alla quale Monti ci ha riportato dopo le avventure
berlusconiane. Ma su questo terreno il centrosinistra ha

­139
già dimostrato di essere affidabile. Bisogna andare oltre
l’emergenza e deve tornare la politica, da intendersi non
come la pretesa di un ceto di tornare a comandare, bensì
come confronto tra progetti e valori. E questo, dal nostro
punto di vista, vuol dire che c’è bisogno di un governo di
centrosinistra che assuma con forza, e con una prospettiva
non breve, il governo del Paese. Le grandi trasformazioni a
cui penso sono processi di lungo periodo, che hanno biso-
gno di mandati parlamentari esercitati da una maggioran-
za riformista. Occorre contrapporre al decennio berlusco-
niano un decennio riformista. E se vogliamo mettere mano
a una trasformazione così profonda della società italiana,
c’è bisogno di una forte e coesa maggioranza politica di
centrosinistra. Detto questo, non condivido l’idea, avan-
zata da una certa area della sinistra, secondo cui Monti, in
quanto liberale, è naturalmente di destra. Come accenna-
vo prima, infatti, la destra italiana non è mai stata liberale,
ma populista e statalista, e fondamentalmente Monti non
appartiene a questa cultura. È straniero in quella patria. Il
paradosso è che l’esperienza di centrosinistra è stata più
liberale di quella immaginata e proposta dalla destra ita-
liana. È stata liberale nel modo in cui può essere liberale
la sinistra, ma le liberalizzazioni, l’apertura dei mercati,
sono state misure perseguite dal centrosinistra, non dalla
destra. Anche per questo, non ci si deve stupire di fronte al
fatto che abbiamo potuto sostenere Monti senza reticenze.
Nello stesso tempo, ripeto, il governo tecnico non è mai
stato il nostro approdo e con il ritorno in campo di Berlu-
sconi appare chiaro che il Paese è di fronte a scelte radicali
che non contemplano più ipotesi di governi tecnici di uni-
tà nazionale. Oltre questo governo c’è una prospettiva di
giustizia sociale, di crescita, di valorizzazione del lavoro: è
questo il ritorno della politica che mi interessa.

D.  Questo mandato largo per il centrosinistra, a cui tu


pensi, deve fare i conti con le miserie del centrosinistra, con
i nominalismi, i veti incrociati; e poi c’è l’azione politica

­140
di due aree che sono decisive nell’appesantire il clima nel
centrosinistra. Una è quella che ricorrentemente abbiamo
chiamato radicale e di sinistra e l’altra, su cui mi pare che il
tuo giudizio sia più severo, è quella giustizialista. Il centro-
sinistra può fare a meno di una delle due?

R.  Credo che la condizione per cui il centrosinistra pos-


sa tornare a essere una forza di governo in modo serio e
duraturo sia il rafforzamento del Partito democratico. Un
centrosinistra che si proponga come un insieme di pezzet-
ti, di segmenti, rischia di essere incapace di garantire un
asse di governo. Da questo punto di vista, l’impegno prio-
ritario è creare un pilastro centrale, una forza garante. Lo
dico apertamente: in questo momento penso che dovrem-
mo proporre noi stessi come grande forza di governo. Io
penso che una nuova fase della vita democratica del Paese
comporti una valorizzazione del ruolo dei partiti. Questo
non significa ridurre il peso della leadership, ma, come
avviene nelle democrazie parlamentari europee, conside-
rare i leader come espressione di un progetto collettivo,
di un programma e di un’identità politica radicata nella
società. Questa è stata, d’altro canto, la caratterizzazione
che Bersani ha voluto dare alla sua candidatura, che ap-
punto per questo rappresenta la cesura più netta rispetto
alla stagione berlusconiana.

D.  In Germania c’è il candidato cancelliere e ci sono le


coalizioni...

R.  Ci sono i partiti e poi le coalizioni.

D.  Persino in Inghilterra c’è una coalizione...

R.  Sì, ma in tutti i Paesi i cittadini votano per un partito


che ha un suo profilo ideale e un suo programma. Solo
in Italia si vota per una coalizione che viene identifica-
ta attraverso un candidato, mentre l’indicazione di una
preferenza a un partito appare un aspetto secondario del

­141
sistema elettorale. Si tratta di una evidente distorsione in
senso presidenzialistico, senza che vi siano le istituzioni, le
garanzie, i contrappesi di quel sistema. È quel “presiden-
zialismo parlamentare” che Giovanni Sartori ha descritto
come disastroso. Oltretutto, l’esperienza ormai ventenna-
le ha dimostrato che queste coalizioni elettorali, che danno
al cittadino l’illusione di decidere, poi, il più delle volte,
non sono in grado di funzionare come coalizioni di go-
verno. Inviterei a tornare alla politica fuori dalla pretesa
ingegneristica di sciogliere i nodi politici con marchinge-
gni elettorali. La politica sta nel ruolo di un grande partito
riformista in grado di collaborare sia con quella sinistra
più attenta ai temi del pacifismo e dell’ambientalismo, sia,
al centro, con quelle forze moderate e democratiche che
hanno rappresentato un argine importante in senso eu-
ropeista al populismo di Berlusconi. Credo che si debba
apertamente contrastare quella diffidenza, che si manife-
sta nelle nostre fila e all’interno del cosiddetto popolo del-
la sinistra, verso la prospettiva di una collaborazione con
l’Udc e, più in generale, con le forze e le personalità del
centro. È evidente che ci sono questioni che ci dividono
e sulle quali occorrerà discutere argomentando le nostre
ragioni, come per esempio i temi dei diritti civili. Ma se
vogliamo dirci la verità, la necessità di un confronto su
tali argomenti non deriva dall’esistenza dell’Udc, ma dal
rilievo che nella società italiana ha la questione cattolica e
la presenza della Chiesa. D’altro canto, ricordo quanto fu
complesso trovare nel governo Prodi un punto di compro-
messo sul tema del riconoscimento delle coppie di fatto,
anche senza l’Udc. Dunque, non si può fare di queste que-
stioni una pregiudiziale per impedire il dialogo e la ricerca
di una comune prospettiva di governo tra progressisti e
moderati. Né si può negare la coerenza con cui, in questi
anni, le personalità che si sono raccolte nel cosiddetto Ter-
zo polo hanno condotto insieme alla sinistra una battaglia
contro il populismo di Berlusconi, anche rinunciando a
posizioni di potere e a ruoli di governo. Credo che dobbia-

­142
mo uscire da una disputa schematica tra di noi. È chiaro
che il Pd è una forza che aspira a raccogliere i consensi an-
che di un elettorato democratico moderato e che noi non
deleghiamo questo compito a nessuno. Ma questo non
può essere interpretato in termini di autosufficienza o di
rinuncia al principio di realtà, come a dire “dato che siamo
per il bipartitismo, Casini e Nichi Vendola non dovrebbe-
ro esistere e quindi non ci parliamo”. I fatti sono testardi
ed è con la realtà che un grande partito deve misurarsi.
Questo vale anche per il rapporto con Sel. Ricordo che essi
volevano raccogliere la sfida di governo portandovi una
parte di quella sinistra radicale che si era condannata alla
marginalità e che aveva determinato la disfatta delle ultime
elezioni politiche. Non c’è incompatibilità fra loro e noi.

D.  Nella prima parte del libro, quando ricordi la crisi


del primo Prodi, dici che a un certo punto Bertinotti pa-
tì il rapporto con il proprio mondo e non riuscì a rendere
compatibile il sostegno al governo con il proprio mondo che
lo voleva all’opposizione. Ma secondo te Vendola è andato
oltre Bertinotti?

R.  Se la prospettiva oggi è quella di un centrosinistra eu-


ropeo, Sel può trovare una propria collocazione compati-
bile. Loro avevano due scelte difficili da compiere: la sfida
del governo nel solco di un centrosinistra europeo, oppure
volgersi verso una prospettiva di tipo populista. In fon-
do, l’esperienza greca è lì a dimostrare che ci sono diverse
alternative: la sinistra radicale, con Syriza, ha puntato a
svuotare i riformisti, usciti sconfitti dall’esperienza di go-
verno, e a cavalcare un populismo antieuropeo sostanzial-
mente velleitario. La sinistra si è rotta e il risultato è stato
che la destra ha vinto le elezioni e ha formato il governo,
assumendo anche il tema del rapporto con l’Europa, men-
tre la sinistra riformista ed europeista si è trovata, volente o
nolente, a doversi acconciare in una posizione di secondo
piano. Non c’è stata più una discriminante destra versus

­143
sinistra, la discriminante è diventata Europa sì o Europa
no. Se noi dovessimo avere una sinistra radicale di questo
tipo, attratta da una prospettiva populista antieuropea,
per l’Italia sarebbe un danno. In un simile contesto, infat-
ti, il Pd sarebbe schiacciato nella logica dell’emergenza e
costretto, per salvare il Paese e garantire l’attuazione del-
le politiche europee, a una collaborazione politicamente
innaturale anche nella prossima legislatura. È merito di
Vendola essersi sottratto a questa prospettiva. In verità,
anche Bertinotti contribuì alle difficili scelte che ci por-
tarono nell’euro. Purtroppo, dopo, egli non fu in grado
di mantenere la coerenza di una sinistra di governo, e ciò
contribuì all’esito disastroso – per loro – delle elezioni po-
litiche del 2008. Sono fiducioso che Sel, anche tenendo
conto dell’esperienza passata, avrà maggior forza e coe-
renza. Naturalmente, questo impegna anche noi a un’azio-
ne di governo che segni effettivamente una svolta verso la
giustizia sociale e la riduzione delle diseguaglianze.

D.  Non c’è solo Vendola, c’è un fiorire di gruppi e di per-


sonalità, penso alla lista arancione di Luigi de Magistris, al
ruolo di Antonio Ingroia, alle posizioni di intellettuali come
Gallino o Paul Ginzborg...

R.  Se è per questo, c’è anche, su un versante di sinistra


più tradizionalista, ciò che resta di Rifondazione comuni-
sta. Personalmente non credo che dall’insieme di questi
gruppi e di queste personalità possa scaturire una propo-
sta politica unitaria. Continuo a sperare che almeno chi
ha un ruolo istituzionale significativo, come il sindaco
di Napoli, voglia sostenere la prospettiva del governo di
centrosinistra. Mi pare, inoltre, che un ipotetico raggrup-
pamento di questo tipo finirebbe per spingersi in un’area
elettorale nella quale già Grillo e, ancora per certi versi,
Di Pietro hanno una posizione preminente. Penso che il
centrosinistra che stiamo costruendo abbia la forza per
parlare agli elettori che chiedono rinnovamento e anche

­144
rigenerazione morale della politica. Questo è ciò che noi
vogliamo promuovere. Il qualunquismo e il giustizialismo
sono estranei alla nostra cultura e alla nostra civiltà, e non
credo debbano esserci cedimenti.

D.  Ci stiamo girando attorno, ma il tema centrale è il Pd,


la sua storia, il suo ruolo. Anche Bersani, nel suo discorso
dopo la vittoria alle primarie, ha detto che ora la sfida è met-
tere in campo una proposta credibile per il Paese, governare
“senza raccontare favole”. Qual è lo stato dell’arte nel Pd?

R.  Il Partito democratico è emerso dalla prova delle pri-


marie assai più forte e credibile di quanto non lo fosse
prima. La candidatura di Bersani a governare l’Italia ci
appare oggi come la prospettiva più accreditata per l’av-
venire del nostro Paese. È stato giusto promuovere la sfi-
da delle primarie e riconosco che le mie perplessità erano
sbagliate, riflettevano una visione tradizionalista del ruolo
dei partiti... D’altro canto, ognuno è figlio della sua storia.
Il Pd si propone, oggi, come insostituibile forza centrale
per il governo del Paese. Ma proprio nel momento in cui
è naufragata l’ipotesi di un Monti-bis, che era stata pro-
posta quasi come il frutto di una rinnovata pregiudiziale
nei confronti della sinistra, è tuttavia importante defini-
re con chiarezza il nostro rapporto con l’esperienza del
governo presieduto da Monti. Sarebbe stata sbagliata la
nostra contrapposizione a Monti, che non avrebbe avuto
alcun senso nella condizione vissuta dall’Italia. E sarebbe
stato altrettanto sbagliato considerare il suo governo come
la fine della storia. Esso ha rappresentato una fase impor-
tante e positiva perché costituisce il riscatto dalla stagione
berlusconiana, ma il compito della sinistra è delineare una
politica che vada oltre questa fase, il che significa costruire
una sinistra di governo. Se noi veniamo meno a questa fun-
zione, facciamo un errore grave. Dunque – come da subito
ho sostenuto – con Monti, oltre Monti. Certo, abbiamo
criticato alcune scelte dell’esecutivo su punti per noi molto

­145
sensibili. Non avremmo potuto evitarlo: stiamo parlando
della riforma del lavoro, sulla quale abbiamo avuto le no-
stre posizioni, della revisione della spesa pubblica, dove
contrastiamo i tagli lineari alla spesa sociale, in particolare
su sanità e istruzione. È ovvio: abbiamo sostenuto questo
governo con il nostro profilo. Oltre Monti, però, non vuol
dire contro Monti, soprattutto se consideriamo qual è sta-
to il suo impegno per tenere l’Italia agganciata all’Europa.
Questa sarebbe stata una logica suicida. Ora siamo in un
passaggio delicato, dobbiamo ricomporre l’universo di
centrosinistra per costruire una prospettiva per il futuro
del nostro Paese. Chi vuole contribuire a questo progetto
deve sfuggire alla sfera populista.

D.  Il Pd oggi ha un leader consacrato con le primarie, vi-


ve un dibattito interno molto ricco e vede farsi avanti una
nuova generazione di dirigenti – e non penso solo a Matteo
Renzi – che possano condividere la guida del partito e la sfi-
da del governo. Ti vorrei chiedere un bilancio di questi mesi
di discussione anche aspra, di parole forse talvolta eccessive,
ma anche di festa democratica...

R.  Bersani ha vinto anche perché è apparso credibile


sotto il profilo del rinnovamento del partito. Innanzitutto
aveva già in parte promosso una nuova classe dirigente di
giovani, che abbiamo visto impegnata in prima fila nelle
primarie. E poi per il modo in cui ha affrontato la sfida con
Renzi, nel senso che non ne ha negato il valore dirompente
e innovativo. Certamente, per vincere, il centrosinistra de-
ve farsi carico di una forte spinta, che effettivamente c’è, al
ricambio della classe dirigente. Si tratta, però, di depurare
questa carica innovativa dagli elementi che il nostro eletto-
rato ha in parte respinto, e cioè da quella “rottamazione”
che è apparsa molto di più che non il ragionevole venire
avanti di una generazione più giovane. È apparsa come un
tentativo di liquidare una storia e un patrimonio di valori.
Anche per questo la campagna di Renzi si è concentrata

­146
contro le personalità più simboliche della sinistra e non è
stata percepita dai nostri elettori come una minaccia ver-
so un ceto politico piuttosto datato. Il quale, oltretutto, in
particolare in diverse zone del Mezzogiorno, ha in realtà
finito paradossalmente per sostenere proprio il sindaco di
Firenze. Questo fatto lo ha danneggiato, determinando in
molte aree del nostro elettorato una reazione di rigetto che
si è manifestata chiaramente nel ballottaggio.

D.  La vostra generazione quale obiettivo può darsi ora che


è messa in discussione anche la sua presenza nella guida del-
la sinistra, nei ruoli di rappresentanza e di governo...

R.  Gran parte di ciò che potevamo fare l’abbiamo fatto,


nel corso della prossima legislatura avverrà un passaggio di
consegne e questo mi pare giusto e inevitabile. Credo che
alla nostra generazione debba essere acquisita la costru-
zione di un rapporto tra la sinistra italiana e la sinistra eu-
ropea. Attenzione, perché questo tema oggi torna a essere
un punto nodale della prospettiva italiana. Ecco, credo che
forse questo sia proprio il contributo maggiore che possia-
mo dare a un centrosinistra di governo per sostenere una
nuova classe dirigente autorevole e credibile sulla scena in-
ternazionale. Ciò vale anche nel rapporto con gli apparati
dello Stato. Ad esempio, quando noi andammo al governo
per la prima volta, con Prodi presidente del Consiglio, era
giusto che alla sinistra andasse il ministro dell’Interno. Io
mi rivolsi a Giorgio Napolitano... È ovvio che se devi rico-
prire una carica istituzionale di tale importanza, devi pro-
porre una personalità autorevole e indiscussa. Non pensai
che Napolitano fosse “scaduto” perché aveva fatto più di
tre mandati, sarebbe stata una follia.

D.  Si torna al rinnovamento nella continuità...

R.  Siamo nell’ambito della ragionevolezza, della norma-


lità più assoluta. Non c’è partito che abbia rispetto di sé

­147
senza avere il senso della continuità. Noi possiamo accom-
pagnare questa fase di trasformazione, lo start up di una
nuova classe dirigente, fornendo, come avviene ovunque,
occasioni ed esperienza. Ci vuole un ragionevole mix tra
innovazione ed esperienza per evitare di fare la fine della
scimmietta della famosa favola di Gadda: la scimmietta
che, trovato un elmo da pompiere, se lo mette in testa ma
rimane al buio. Invece, devi trovare le persone in grado di
mettersi l’elmo da pompiere e continuare a guardarsi in-
torno. Non è vero che la classe dirigente del nostro partito
è, come viene detto, la più vecchia in Europa. Al contrario,
l’età media del nostro gruppo parlamentare è più bassa di
quella dei parlamentari dell’Spd e dei socialisti francesi.
Con ciò non voglio certamente dire che non si debba pro-
seguire coraggiosamente sulla via del rinnovamento della
classe dirigente. Ma dobbiamo farlo partendo dalla realtà,
non da campagne prive di verità.

D.  Il dibattito sul cosiddetto rinnovamento ruota attorno


al tema della non candidatura di molti dirigenti di lungo
corso. Fra questi c’era il tuo nome. Matteo Renzi l’ha det-
to esplicitamente chiedendo a te, a Veltroni e a Rosy Bindi
di non candidarvi, di applicare la regola del limite dei tre
mandati.

R.  Non mi sono mai candidato, è sempre stato il partito a


chiedermelo. Come nell’ultima campagna elettorale, quan-
do Veltroni mi chiese di fare il capolista anche a Napoli. Era
il 2008 e il segretario del Pd era molto preoccupato per la
situazione politica in quella città, letteralmente sommersa
dai rifiuti. Una condizione drammatica, invivibile. Perché
ti racconto questo episodio? Perché ho sempre pensato,
immodestamente, di venire candidato alle elezioni non per
fare un favore a me, ma perché la mia candidatura era utile
al partito e alla coalizione. Ho sempre preso tanti voti, e
in qualche caso talmente tanti che, oltre alla mia elezione,

­148
sono serviti per far eleggere qualcun altro. Spesso ho fatto
da traino ad altri candidati.

D.  Sono testimone della tua scelta nel 2001 di affrontare il


rischio della corsa nel collegio di Gallipoli senza il paracadu-
te dell’elezione certa nel proporzionale pugliese, che lasciasti
a me... Adesso hai annunciato che non torni in Parlamento.

R.  Personalmente ho sempre pensato che si possa da-


re un contributo anche in collocazioni diverse da quella
parlamentare. Anche per questo, prima dell’inizio della
campagna delle primarie, avevo parlato con Bersani, pro-
spettandogli la possibilità e la mia propensione a non essere
candidato alle elezioni politiche. Poi, come ha detto anche
Pier Luigi, “mi hanno tirato per la giacchetta”. Insomma,
siamo stati posti di fronte a una campagna di delegittima-
zione che ha messo al centro il tema dell’accantonamento
di una intera generazione, senza distinguere e senza ragio-
nare. Ecco perché, per un periodo, sono stato incerto sul
da farsi, ma poi ho ritenuto che la cosa migliore fosse quella
di confermare il mio orientamento iniziale e di annunciar-
lo pubblicamente. Ero convinto, così, di dare una mano a
Bersani, depotenziando la campagna sulla rottamazione e
contribuendo a rimettere al centro del confronto politico i
veri problemi del Paese. Ero anche convinto che, in questo
modo, mi sarei tolto dal ruolo scomodo di bersaglio e avrei
fermato le polemiche di chi mi raffigurava in una posizione
davvero innaturale, se si considera la mia esperienza: una
persona arroccata nella difesa di una posizione di potere.
Credo che il mio annuncio abbia funzionato nel senso che
avevo auspicato. Inoltre, in tempi in cui la politica non
gode di una buona immagine, il fatto che Veltroni ed io
abbiamo detto che si può fare politica anche fuori dal Par-
lamento è stato un messaggio controcorrente.

D.  Ma in fondo i rottamatori chiedevano solo l’applicazio-


ne dello statuto...

­149
R.  Lo statuto stabilisce il limite di tre mandati parla-
mentari, ma prevede la possibilità di deroghe. La volontà
del legislatore è che si consideri che ci sono delle per-
sonalità che, per la loro storia, o per il loro consenso,
o per le loro competenze, sono necessarie alla battaglia
del partito nelle assemblee parlamentari. La via maestra
è rispettare lo statuto. È il Pd che deve discutere e deve
decidere quali sono i criteri delle deroghe e i criteri delle
deroghe sono importanti per capire che cos’è il Partito
democratico. Se è un partito che ha rispetto della sua
storia, se ritiene di dover portare in Parlamento perso-
ne che hanno consenso e competenze per governare,
oppure se è un partito che vuole assomigliare al movi-
mento dell’“Uomo qualunque”. Come ti ho già detto,
al secondo punto del suo programma, Giannini aveva la
non reteirabilità degli incarichi. L’Uomo qualunque non
è certo una novità inventata da Renzi, è una storia antica
dell’Italia, di quando si teorizzava che la politica dovesse
essere l’impegno amatoriale della borghesia. Da qui l’in-
sofferenza verso i politici di professione. Sono stato in un
partito, il Pci, in cui vigeva la regola della rotazione. Però
a Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Giorgio Amendola,
Nilde Jotti e ad altre personalità e dirigenti non veniva
applicata, perché rappresentavano la storia, erano il sim-
bolo del partito. La regola della rotazione non riguar-
dava neanche figure come Giorgio Macciotta o Mario
Pochetti, perché essi incarnavano competenze essenziali:
Macciotta sapeva leggere il bilancio dello Stato, Pochetti
sapeva governare il gruppo parlamentare. Questo per di-
re che il Pci aveva un’idea di sé, della sua storia, dei suoi
simboli, delle sue competenze: li proteggeva compiendo
scelte politiche. Sta tutto qui il tema delle deroghe. Per
me non ne chiedo, ma personalmente ritengo che alcune
deroghe debbano esserci. È evidente, infatti, che vi sono
esperienze, competenze e personalità che è giusto che
trovino spazio anche nel futuro Parlamento.

­150
D.  Hai detto che si può fare politica fuori dal Parlamento.
Mi puoi spiegare dove e come?

R.  Sono presidente della Fondazione Italianieuropei e


sono particolarmente orgoglioso di un organismo cultu-
rale che non è mai stato la segreteria di un leader politico
ma ha sempre rappresentato – ormai sono quindici anni
– un punto di riferimento per il riformismo italiano. Sono
attualmente presidente della Feps, la Fondazione europea
per gli studi progressisti. Non si tratta soltanto dell’istitu-
zione culturale dei socialisti e dei progressisti europei: par-
liamo di una parte di quel sistema politico, fatto di partiti,
gruppi parlamentari, fondazioni culturali, che deve diven-
tare sempre più importante, se vogliamo compiere un salto
di qualità nell’integrazione politica e nel consolidamento
di una democrazia europea. Sono nella presidenza del Pse
e credo di svolgere un ruolo importante nel raccordo tra
il centrosinistra italiano e le principali forze del centrosi-
nistra europeo. D’altro canto, alla presidenza della Feps
mi hanno portato i maggiori partiti socialisti e non il Pd,
che di questi organismi ancora non fa parte. Dunque, non
sono una persona in cerca di occupazione. Se il Pd e il
centrosinistra hanno bisogno di me, sanno dove trovarmi.

D.  Hai ricevuto in questi anni molte critiche assieme a


tanti consensi: qual è la critica che più ti è stata rivolta in
tutti questi anni e che ti ha particolarmente ferito?

R.  L’accusa di essere un intrigante sleale. Sono una per-


sona leale, non ho fatto mai complotti contro nessuno.
Questa raffigurazione continua di quello che complotta
di qua o di là, mi urta. Perché non è vero, anzi. Ho avuto
una certa durezza nella lotta politica, ma ho sempre avuto
un grande rispetto verso le persone. Non ho mai tramato
nell’ombra, semmai ho combattuto alla luce del sole. Se in
qualche momento ho sacrificato qualcuno, ho sacrificato
me stesso. Ho difeso Prodi fino a quando è stato ragione-

­151
volmente possibile e, dopo che Prodi ha smesso di fare il
presidente del Consiglio, ho lavorato affinché diventasse
presidente della Commissione europea, non certo per can-
cellarlo dall’arena politica italiana. Semmai il contrario.
Ho avuto uno scontro duro con Veltroni, ma poi l’ho pro-
posto vicepresidente del Consiglio. Questa raffigurazione
di un D’Alema manovriero è falsa e nasce da stereotipi
culturali di matrice reazionaria. C’è tutta la diffidenza ver-
so il togliattismo, verso la doppiezza comunista, che è stata
una chiave interpretativa della mia persona e che è stata
anche introiettata da una parte della sinistra. Posso fare
bene o male, posso sbagliare, ma sono una persona leale,
persino ingenuo negli aspetti personali della lotta politica.
Questa accusa mi ha danneggiato, tuttavia non c’è nulla di
irrimediabile, come vedi sono sempre qui.

D.  Comunque è leggendario il tuo cattivo carattere. Io un


po’ ti conosco e ho visto le tue asprezze ma anche l’atteggia-
mento che hai verso i compagni di base. Sono testimone di
un doppio D’Alema, amabile con i compagni di sezione e
respingente in alcuni rapporti personali. Non ti pesa questa
cattiva fama di uomo difficile, intrattabile, supponente?

R.  No, anzi. Sono totalmente favorevole ad avere un cat-


tivo carattere. Oltretutto è un’ottima difesa nei confronti
dei seccatori. Ma la realtà è che il mio cattivo carattere
è molto selettivo, e in particolare non si rivolge contro
le persone più semplici o verso le tantissime persone che
apprezzo e che stimo. Verso un certo potere, invece, non
nascondo la mia ostilità, anche se so che questo comporta
il pagamento di un prezzo.

D.  Parlo di altro, parlo di un tuo atteggiamento che tende


a mettere in condizione di inferiorità il tuo interlocutore...

R.  Se accade chiedo scusa, perché effettivamente è un


atteggiamento che non piace neppure a me.

­152
D.  Il tema dell’antipatia del gruppo dirigente della sini-
stra esiste anche nella vulgata popolare. Ho raccontato in
altre occasioni un episodio dei giorni successivi alla chiusura
dell’«Unità». Mi telefonò Sandra Mondaini per dirmi che
lei e suo marito, Raimondo Vianello, seguivano Berlusconi,
ma lei era in angoscia per il nostro giornale e per la sua sorte
e poi mi parlò della sinistra e della sua diffidenza verso la
sinistra. Fra gli argomenti che usò c’era quello dell’antipa-
tia della classe dirigente di sinistra. So che non si riferiva
a te, fece altri nomi, però come vedi il tema è interamente
politico.

R.  Giusto. Ma questo mio apparire talvolta spocchioso


non corrisponde veramente al mio animo. Quando mi ca-
pita di andare a fare la spesa al mercato la mattina, incon-
tro signore che mi dicono che non ho quell’aria che sem-
bra trasparire dalla televisione. La verità, la mia verità, è
che sono una persona normale con le persone normali.

D.  Rivendichi l’antipatia.

R.  Rivendico le mie ragioni.

D.  All’inizio del libro dici che da ragazzo una volta sola
hai pensato di fare a meno della politica...

R.  No, mai. Mi capitò di pensare che si potesse uscire dal


Pci, non dalla politica. In quel tempo avrei cercato di par-
tecipare alla costruzione di un altro partito. E comunque
mi convinsi subito che non era il caso.

D.  Adesso non riusciresti a immaginarti fuori dalla po-


litica?

R.  La politica è una scelta di vita, come è stato autore-


volmente scritto da Giorgio Amendola. È qualcosa che
ti rimane addosso, non è un lavoro che si fa per un certo

­153
tempo e poi se ne fa un altro. La politica ti prende, è una
passione, o se si vuole una malattia da cui non si guarisce
mai. La puoi fare in tanti altri modi, attraverso il giorna-
lismo o l’impegno civile nell’associazionismo. Ma quella
che fai è sempre politica. Naturalmente, non significa fare
sempre il parlamentare o il funzionario di partito. Se la po-
litica è il tentativo di cambiare il corso delle cose secondo
una visione e valori e convinzioni forti, è una dimensio-
ne di vita dalla quale, secondo la mia esperienza, non si
esce più, se non in modo totalmente traumatico, quando
ti capita di essere sbalzato via. So bene che per molti citta-
dini l’impegno politico può durare anche lo spazio di un
mandato, ed è giusto e importante che sia così. Ma perché
molti possano compiere questa esperienza, è necessario e
utile, io credo, che ci sia un certo numero di persone che
si dedicano alla politica in senso professionale. Certo, è
fondamentale che chi fa questo non pretenda il monopolio
della vita pubblica, ma sappia mettersi al servizio degli
altri, dei cittadini. Questa è una delle condizioni della de-
mocrazia moderna e su questo equilibrio si sono fondati
i partiti e il funzionamento delle istituzioni. Non vedo in
campo un modello alternativo e più avanzato, ma solo il
rischio di una pericolosa regressione.

D.  Torna, intanto, lo scontro fra la democrazia ateniese e


quella romana, il primato della democrazia diretta rispetto
al sistema della delega anche breve...

R.  L’assemblearismo e la democrazia diretta li abbiamo


conosciuti anche nella nostra giovinezza. Quando si sono
contrapposti ai partiti e alla democrazia rappresentativa,
hanno prodotto l’estremismo e la negazione della demo-
crazia. E, come abbiamo già detto, questo rischio si ri-
propone oggi con una certa mitizzazione della democrazia
della Rete.

D.  A volte la democrazia della Rete è una democrazia di

­154
anonimi. Scompare quel metterci la faccia che è l’essenza
della partecipazione democratica.

R.  In generale, con qualsiasi forma di espressione, l’a-


nonimato eccita ogni forma di violenza verbale e di radi-
calismo.

D.  Mentre l’altra forma di democrazia presuppone la re-


sponsabilità.

R.  Dobbiamo tener conto che l’uso di Internet oggi è


nella disponibilità solo di una parte della popolazione. C’è
tutto un mondo che non partecipa alla Rete e, d’altronde,
dobbiamo recuperare tutta una fascia di persone deluse e
sfiduciate. Una democrazia vera deve saper sollecitare la
partecipazione di tutti. E poi c’è un altro aspetto: la Rete
non annulla i fenomeni di leaderismo, anzi li accentua,
rendendoli spesso più oscuri. Preferisco una democrazia
fatta di uomini e donne in carne e ossa che decidono di
partecipare e che si assumono rischi e responsabilità. Dun-
que, sono convinto che la Rete può aiutare questa crescita
democratica, ma non può esaurirla del tutto.

D.  La nostra chiacchierata è terminata. Si è svolta durante


giornate difficilissime per l’economia del nostro Paese. È
probabile che queste difficoltà saranno le stesse che i lettori
avranno di fronte mentre maneggeranno questo libro. Tu
fai riferimento al tema della responsabilità della politica,
agli obblighi che ha una classe dirigente. Qual è la cosa più
urgente che è di fronte a noi?

R.  È urgente dare una prospettiva politica forte e convin-


cente al nostro Paese. Una prospettiva in grado anche di
rimotivare i cittadini e di offrire un orizzonte di speranza.
È l’unico modo per uscire dalla crisi, è questo il compito
per il quale abbiamo indicato Bersani come nostro candi-
dato, con l’obiettivo, in alleanza con altri, di imprimere
una svolta all’Italia. Perché, malgrado tutti gli sforzi che il

­155
governo Monti ha compiuto, noi siamo in una situazione
ancora molto complicata. Ormai anche i mercati si inter-
rogano se questo Paese abbia o no una prospettiva politica
di fronte a sé e se essa sia in grado di garantire la serietà
e il rigore dell’azione di governo da una parte, e di ave-
re respiro e tempo per promuovere la crescita dall’altra.
Questo è il grande problema italiano oggi: restituire una
prospettiva politica, rimettendo al centro la sua vocazione
europea. Contro questo progetto si scatena un’offensiva
da vari fronti: c’è Berlusconi, che vuole sbriciolare tut-
to e gettare il Paese nel caos. Vuole gestire, così, una sua
rendita di posizione nel sistema politico. C’è l’antipolitica,
che appare con forme e leader sempre diversi, ma è un fe-
nomeno ricorrente nella storia italiana, non solo di questo
secondo Dopoguerra. Ci sono, infine, forze che vogliono
cogliere l’occasione della crisi per spostare il potere dalle
istituzioni democratiche e dalla politica verso altri corpi,
verso altri poteri. Non voglio criminalizzare alcuno, ma
a me pare evidente che questa sia oggi la partita: ci sono
forze che puntano allo sfascio, a colpire, a delegittimare in
profondità le istituzioni democratiche per aprire la stra-
da a commissariamenti di lunga durata. Siamo un Pae-
se che, proprio per la sua fragilità attuale, attira su di sé
diversi interessi. Ci sono tanti pezzi pregiati della nostra
economia che fanno gola. Se questo Paese non è più in
grado di difendersi, se si disgregano le sue istituzioni, se
la politica perde di credibilità, è più facile impadronirsi
dell’Eni, dell’Enel e di tante altre aziende che hanno mo-
strato grande vitalità e sanno stare sul mercato mondiale.
Se mi guardo attorno, se osservo il dibattito politico, a
volte anche all’interno del Pd, non vedo la percezione del
passaggio straordinario che stiamo attraversando. Rispet-
to a coloro che giocano allo sfascio, chi, come noi, vuole
costruire una prospettiva deve dar prova di autodiscipli-
na, di responsabilità, di forza. Ci sono momenti in cui si
discute, si disputa la leadership, ci si confronta su certe
issues programmatiche, si analizza il rapporto di forza tra

­156
le correnti interne, si lascia correre anche l’ambizione per-
sonale. Ci sono momenti in cui tutto questo è normale,
fisiologico e comprensibile. Ma adesso è diverso: siamo
in una crisi drammatica, che non è solo italiana, ma che
in Italia ha un suo epicentro. Rappresentiamo uno degli
anelli deboli della catena, per questo penso che un par-
tito come il Pd, che è il maggior partito italiano, debba
spendersi per salvare il Paese, accantonando problemi che
potranno essere affrontati dopo, quando, proprio grazie
al nostro contributo, saremo finalmente fuori dalla bufe-
ra. Ora è il momento di chiamare a raccolta chi è pronto
a condividere le responsabilità di governare il Paese per
invertire la deriva del declino e rimettere in movimento le
energie migliori della società italiana.
Gli Autori

Massimo D’Alema è presidente della Fondazione di cultura poli-


tica Italianieuropei e della Foundation for European Progressive
Studies (Feps). Nel gennaio 2010 è stato eletto presidente del
Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica
(Copasir). Dal 2006 al 2008 è stato vicepresidente del Consiglio
dei ministri e ministro degli Esteri del governo Prodi. Dal 2004
al 2006 è stato parlamentare europeo e ha ricoperto l’incarico
di presidente della Delegazione permanente per le relazioni tra
l’Unione europea e il Mercosur. È stato eletto alla Camera dei
deputati a partire dal 1987. Dall’ottobre 1998 all’aprile 2000 è
stato presidente del Consiglio dei ministri. Dal 2003 al 2012 è
stato vicepresidente dell’Internazionale socialista, nel dicembre
2000 è stato eletto presidente dei Democratici di Sinistra e dal
1994 è stato segretario del Pds. Ha fatto parte del Comitato cen-
trale, della Direzione e della Segreteria del Pci. È stato segretario
nazionale della Federazione giovanile comunista italiana.

Peppino Caldarola, giornalista, è stato inviato a Mosca, ca-


poredattore, condirettore con Veltroni e due volte direttore
dell’«Unità». Ha fondato e diretto Italiaradio e negli anni di
Berlinguer è stato vicedirettore del settimanale di politica e cul-
tura del Pci «Rinascita». Ha collaborato al «Riformista». Per
sette anni è stato parlamentare dei Ds-Ulivo.
Indici
Indice dei nomi

Agnelli, Gianni, 58-59, 61, 75. Borsellino, Paolo, 17-18.


Amato, Giuliano, xiii, 10, 21, Bossi, Umberto, 39.
25. Brandt, Willy, 10.
Amendola, Giorgio, 150, 153. Bufalini, Paolo, 8, 15.
Andreatta, Beniamino, 38. Bush, George W., x, 66-67.
Andreotti, Giulio, 11, 13, 16, 59.
Aznar, José María, 66. Casini, Pier Ferdinando, 92,
122-123, 143.
Barbera, Augusto, 27, 29. Cervetti, Gianni, 22.
Bartholomew, Reginald, 67. Chiarante, Giuseppe, 27.
Berlinguer, Enrico, 3. Chiaromonte, Gerardo, 8.
Berlinguer, Luigi, 29. Chirac, Jacques, 66.
Berlusconi, Silvio, v-vi, viii, 10, Ciampi, Carlo Azeglio, xiii, 25,
22-23, 29, 31, 33-36, 38-42, 29, 34, 54, 58, 76-77, 92, 110,
44-47, 50-51, 53, 62-63, 82- 122, 138.
84, 86, 90-92, 102-104, 110- Ciancimino, Massimo, 19.
111, 113, 138, 140, 142, 153, Cipriani, Emanuele, 76.
156. Clark, Wesley, 66.
Bernabè, Franco, 77. Clinton, Bill, 66-68, 71-73, 96.
Bersani, Pier Luigi, v, vii, ix, xiv, Clinton, Hillary, 72.
77, 102, 108, 138, 141, 145- Cofferati, Sergio, 60, 84-85.
146, 149, 155. Colaninno, Roberto, 74, 77.
Bertinotti, Fausto, 48-49, 51, 90, Colletti, Lucio, 33.
92, 143-144. Confalonieri, Fedele, 45.
Bettinelli, Ernesto, 45. Conso, Giovanni, 18.
Bevilacqua, Piero, 123. Cossiga, Francesco, 11-13, 41,
Bianco, Gerardo, 27. 51-52, 54, 56, 59, 122.
Bindi, Rosy, 148. Cossutta, Armando, 5, 57.
Blair, Tony, x, 66, 71-72. Craxi, Bettino, 9-11, 16-17, 24-
Bonino, Emma, 57. 25, 29-30, 32.

­163
Cuccia, Enrico, 75. Ingrao, Chiara, 63.
Ingrao, Pietro, 5, 63, 150.
Daley, Richard, 72. Ingroia, Antonio, 144.
D’Ambrosio, Gerardo, 22.
De Benedetti, Carlo, 22. Jotti, Nilde, 150.
De Castro, Paolo, 55, 57.
De Gregorio, Sergio, 102. Keynes, John Maynard, 117.
Del Pennino, Antonio, 22. Krugman, Paul, 117.
Del Vecchio, Mauro, 70.
de Magistris, Luigi, 144. Lama, Luciano, 130.
De Mita, Ciriaco, 10, 17. Letta, Enrico, 102.
De Rosa, Gabriele, 27. Livni, Tzipi, 96.
Diliberto, Oliviero, 57.
Dini, Lamberto, 39, 51, 138. Macaluso, Emanuele, 8.
Di Pietro, Antonio, 23, 50, 144. Macciotta, Giorgio, 150.
Di Vittorio, Giuseppe, 130. Magno, Bruno, 14.
Draghi, Mario, 77. Mancini, Marco, 76.
Mancino, Nicola, 55.
Falcone, Giovanni, 17. Marchionne, Sergio, 129, 131.
Fanfani, Amintore, 101. Marini, Franco, 49.
Fassino, Piero, 84, 87, 92-93. Martinazzoli, Mino, 26-29, 37.
Ferrara, Giuliano, 92. Martini, Carlo Maria, 99.
Fini, Gianfranco, 39, 44, 46, 92. Mastella, Clemente, 56, 103.
Forlani, Arnaldo, 16, 17. Mattarella, Sergio, 37.
Fossa, Giorgio, 58. Merkel, Angela, 117, 119.
Micheli, Enrico, 55, 57.
Gadda, Carlo Emilio, 148. Milosević, Slobodan, 63, 68.
Galli Della Loggia, Ernesto, Milutinović, Milan, 63.
139. Minniti, Marco, 52.
Gallino, Luciano, 123, 144. Misserville, Romano, 57.
Gardini, Raul, 24. Mofaz, Shaul, 96.
Geremicca, Federico, 4. Mondaini, Sandra, 153.
Giannini, Guglielmo, 125, 150. Monti, Mario, vii, xiii, 70, 90, 97,
Ginzborg, Paul, 144. 113, 122, 136-140, 145-146.
Giuva, Linda, 50. Moratti, Letizia, 57, 58.
Gorbaciov, Michail, 5, 12-13. Morsi, Mohamed, 98.
Gramsci, Antonio, 107, 109, Mosca, Gaetano, 125.
132, 136. Mussi, Fabio, 6.
Greganti, Primo, 23.
Grillo, Beppe, 31, 111-112, 122, Napolitano, Giorgio, 8, 19, 28,
144. 93, 147.
Grossman, David, 99. Netanyahu, Benjamin, 96.

Hollande, François, xi, 119, Obama, Barack, 96.


135, 139. Öcalan, Abdullah, 69-70.

­164
Occhetto, Achille, 3-8, 13-17, Salvato, Ersilia, 57.
22, 24, 27-30, 34, 37. Sartori, Giovanni, 142.
Olivero, Andrea, 123. Scalfari, Eugenio, 18.
Orlando, Leoluca, 18. Scalfaro, Oscar Luigi, 11, 17-18,
28-29, 51.
Padoa Schioppa, Tommaso, 61, Schroeder, Gerhard, 66, 69, 72,
110. 77.
Pajetta, Giancarlo, 150. Segni, Mario, 27-28.
Pannella, Marco, 18, 57. Shevardnadze, Eduard, 24.
Panzavolta, Lorenzo, 23. Spadolini, Giovanni, 17-18.
Parisi, Arturo, 43.
Squinzi, Giorgio, 132.
Passigli, Stefano, 46.
Stefanini, Marcello, 23.
Petruccioli, Claudio, 14.
Pillitteri, Paolo, 22. Sylos Labini, Paolo, 86.
Pivetti, Irene, 50.
Talabani, Jalal, 94.
Pochetti, Mario, 150.
Tavaroli, Giuliano, 76.
Porcari, Leo, 24.
Prodi, Romano, xiii, 27-29, 38- Tognoli, Carlo, 22.
39, 41, 44, 47-52, 54-55, 57, Tremonti, Giulio, 110.
70, 87-92, 94, 101, 103, 138, Trentin, Bruno, 130.
143, 147, 151-152. Tronchetti Provera, Marco, 58.
Turco, Livia, 114.
Rabin, Yitzhak, 97.
Reichlin, Alfredo, 29. Urbani, Giuliano, 33.
Renzi, Matteo, 146, 148, 150.
Riccardi, Andrea, 123. Veltroni, Walter, 9-10, 14, 36-
Rice, Condoleezza, 67. 39, 42, 55, 87, 93, 101-104,
Riina, Totò, 26. 148-149, 152.
Romiti, Cesare, 76. Vendola, Nichi, 143-144.
Rossanda, Rossana, 6. Vertone, Saverio, 33.
Rugova, Ibrahim, 68. Vianello, Raimondo, 153.
Rusconi, Gian Enrico, 112. Violante, Luciano, 52.
Russo Jervolino, Rosa, 57. Visani, Davide, 22.
Rutelli, Francesco, 81-82, 92. Visco, Vincenzo, 29, 77.
Indice del volume

Introduzione v

1. L’addio al Pci e alla Prima Repubblica 3

2. Vince Berlusconi e si prepara Prodi 31

3. Le cose buone di un governo che non


dovevo fare 54

4. Pd, amalgama malriuscito? 88

5. La destra, la sinistra e Beppe Grillo 111

6. Monti e oltre 136

Gli autori 159

Indice dei nomi 163

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