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270/04)
Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22
Titolo: Lngue pidgin e lingue creole
Attività n°: 1
Facoltà di Psicologia
© 2007 Università degli studi e-Campus - Via Isimbardi 10 - 22060 Novedrate (CO) - C.F. 08549051004
Tel: 031/7942500-7942505 Fax: 031/7942501 - info@uniecampus.it
Corso di Laurea: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE (D.M. 270/04)
Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22
Titolo: Lngue pidgin e lingue creole
Attività n°: 1
Facoltà di Psicologia
quello specialistico, del commercio), il pidgin cambia in creolo, lingua più complessa
grammaticalmente. Esempi di lingue creole sono quelle parlate nei Caraibi, ma anche il Gullah
parlato dagli Afroamericani nelle isole prospicienti la costa della Carolina del Sud e la Georgia. A
sostenere l’idea che i creoli siano basati sulla Grammatica Universale è il fatto che tutti i creoli
condividono certe caratteristiche sintattiche. Ad esempio tutti usano ausiliari (ad es. will, shall in
inglese) per formare il futuro, la doppia negazione nelle frasi negative (cfr. l’italiano “non ho
niente”) e formano le interrogative con l’intonazione senza cambiare l’ordine della frase (cfr. ingl.
“Do you speak?” ma “You speak” [nelle affermative] vs. l’italiano “Tu parli?” e “Tu parli” [l’italiano
ha certi tratti tipici delle lingue creole]).
Così l’ebonics, la lingua parlata dagli Afroamericani, ha dei tratti creoli. In realtà oggi la distinzione
tra le due “tipologie” è stata rivista; ma soprattutto, sia i parlanti di un pidgin che quelli di un
creolo sviluppano tutti i tratti pragmatici, extralinguistici ed etnopragmatici (ad es. l’eteroglossia
vista sopra) tipici delle lingue “normali”. Insomma, si tratta solo di lingue costrette a trasformarsi
più velocemente per la necessità di “negoziare il significato” tra parlanti con culture diverse alle
spalle, non di lingue “imperfette” o “anormali” come troppo spesso si è pensato in un passato
antropologico figlio dell’etnocentrismo coloniale e neo-coloniale.
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Corso di Laurea: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE (D.M. 270/04)
Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22/S1
Titolo: Pensare per prototipi.
Attività n°: 1
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Corso di Laurea: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE (D.M. 270/04)
Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22/S1
Titolo: Pensare per prototipi.
Attività n°: 1
Facoltà di Psicologia
in una classe a sé, ci fa capire che evidentemente anche i prototipi, come i fonemi che
distinguono una parola da un’altra in una determinata lingua, sono culturali. Allo stesso modo le
esperienze condotte dagli antropologi con orientamento psicologico in Africa, in cui informatori
abituati alla vita nella foresta fitta dove le distanze massime sono di pochi metri si rifiutavano di
ammettere che i puntolini neri che vedevano da un’altura sovrastante un altopiano erano bufali e
non insetti, mettono in luce come anche le percezioni sensoriali possono essere influenzate dalle
concezioni (cioè da ciò che conosciamo) di un individuo. Il punto è che la realtà esperienziale si
presenta come un continuum indistinto se vista ad un livello puramente fisico, percettivo.
E qui tornano i paralleli proprio con la lingua, strumento culturale fondamentale tra quelli che
l’essere umano usa per discriminare la realtà in parti più o meno significanti e significative (si
ricordi la teoria del relativismo linguistico, che vede nella lingua e nei modi di pensare la realtà
due fattori che si influenzano a vicenda). Se io non conosco il finlandese e sento due finlandesi
parlare non ho nessuna percezione “prototipica” da applicare per comprendere ciò che dicono;
tanto che non riesco neppure ad isolare quegli elementi prototipici che sono le parole di una
lingua.
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Corso di Laurea: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE (D.M. 270/04)
Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22/S2
Titolo: Pensare per prototipi.
Attività n°: 1
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Insegnamento: DISCIPLINE DEMOETNOANTROPOLOGICHE
Lezione n°: 22/S2
Titolo: Pensare per prototipi.
Attività n°: 1
Facoltà di Psicologia
finlandese dall’esterno avrò delle informazioni diverse da quelle che avrò analizzandolo
dall’interno, cioè come un parlante finlandese. Proprio mutuando dai due termini linguistici, gli
antropologi chiamano etic (cfr. fonetico) la prima delle due prospettive (quella “dall’esterno”) ed
emic (cfr. fonemico) la seconda. Ciò che vale per le parole vale anche per gli oggetti della
percezione. Così, tornando all’interpretazione dell’esperienza, un certo oggetto può risultare
significativo o meno a seconda del contesto: si pensi ancora al famoso esempio dell’occhiolino e
del tic nervoso. Solo in una cultura in cui fare l’occhiolino è prototipizzato come gesto di
ammiccamento, cioè come schema di comportamento non casuale ma significativo, io mi troverò
imbarazzato appena lo sconosciuto/a affetto dal “tic” mi ferma per strada per chiedermi che ore
sono...
Eppure, se per un individuo l’occhiolino è etic (ovvero non imbarazzante) per un altro è emic
(imbarazzante), vuol dire che la percezione deve dipendere dalla cultura: in altre parole, se è vero
che per interpretare una situazione mai vista prima, cercherò i prototipi da applicare ad essa che
mi aiutino a ricondurre quello che sto vivendo per la prima volta a qualcosa che ho già vissuto,
allora, data una stessa esperienza, due membri di culture diverse cercheranno di selezionare solo
certi elementi, quelli significativi per loro, escludendone degli altri. Ecco perché i test
d’intelligenza non hanno senso: oltre al fatto che in uno stesso individuo esistono vari tipi di
intelligenze(o meglio competenze) diverse e quindi non si può assolutizzare “l’intelligenza”
misurandola in assoluto, culture diverse selezionano come significativi elementi diversi.
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