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|65| Fabio Frosini

Università degli Studi di Urbino


Istituto di Filosofia

Il lessico filosofico di Leonardo


in tre stazioni dello “spirito”*

Premessa
Quella del rapporto di Leonardo con la filosofia è una questione aperta e
difficilmente definibile, sia per il carattere storicamente variabile dei confini
della filosofia propriamente detta rispetto alle scienze e alle arti, sia per il
margine ineliminabile di arbitrarietà presente in ogni discorso sulla filosofia
e sulla sua genealogia. Pur tenendo in conto questa difficoltà intrinseca alla
questione che ci interessa, un esame del lessico filosofico di Leonardo può
comunque essere un modo per contribuire a definirla, proprio perché essa ci
mette direttamente a contatto per cosí dire con il pensiero di Leonardo nel
suo strutturarsi a contatto e nel confronto con la tradizione filosofica.
Esaminando il suo lessico filosofico saremo, in altre parole, direttamente
introdotti anche al rapporto di Leonardo con la filosofia, e potremo seguire
da vicino l’articolarsi del suo pensiero. Di piú: nel lessico filosofico
leonardiano, proprio perché esso è l’esito di un confronto con un campo del
sapere, e non l’iscrizione interna a una tradizione, si depositano tensioni,
fratture e contraddizioni che sono l’espressione delle tensioni, delle fratture
e delle contraddizioni che animano dall’interno quello che si potrebbe
definire il programma scientifico di Leonardo.
Evidentemente, affrontando il tema da questa angolazione non sto
imboccando una strada del tutto nuova. Per fare un solo ma rappresentativo
esempio, le ricerche vinciane di Martin Kemp – sia quelle sull’anatomia, sia
quelle sulla prospettiva e l’opera figurativa1 – hanno da tempo documentato

*
Rinvierò ai codici secondo l’edizione della Commissione Nazionale Vinciana, pubblicata
dall’editore Giunti di Firenze, eccezion fatta per i due codici di Madrid, disponibili per ora
solo nell’edizione curata nel 1974 da Ladislao Reti per le edizioni MacGraw Hill
(Maidenhead), Taurus (Madrid) e Giunti (Firenze). Per la datazione dei codici e dei singoli
fogli vinciani mi servirò delle indicazioni ricavabili dalle edizioni e, nel caso dell’Atlantico,
del volume di C. Pedretti, Codex Atlanticus. A Catalogue of its newly restored Sheets, 2
Vols., New York 1978-1979.
1
M. Kemp, Dissection and Divinity in Leonardo’s Late Anatomies, in “Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes”, XXXV (1972), pp. 200-25, Id., Il concetto dell’anima
in Leonardo’s Early Skull Studies, ivi, XXXIV (1971), pp. 115-34, poi rifluito, riveduto in
Id., From ‘mimesis’ to ‘fantasia’, in “Viator”, VIII (1977), pp. 347-98, Id., Leonardo and
the Visual Pyramid, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XL (1977), pp.
Il lessico filosofico di Leonardo in tre stazioni dello «spirito»
in Carlo Vecce (a cura di) I mondi di Leonardo. Arte, scienza, filosofia
Edizioni Università IULM, Milano 2003, pp. 65-92

il |66| modo in cui una serie di pregiudizi teorici intervenga pesantemente


nell’influenzare ciò che Leonardo nelle sue concrete indagini sperimentali
“vede” o “non vede”2. Vorrei richiamare l’attenzione sulla potenza euristica
di un simile approccio, che sposta il fuoco da una ricostruzione della storia
della scienza fondata sui criteri della verità e dell’errore definiti sulla base
degli standard attuali; a una incentrata invece sul rapporto tra l’indagine e il
suo alone ideologico, dove la verità e l’errore non sono astrattamente
definiti, ma si ritrovano di volta in volta nell’interazione con la tradizione
entro la quale l’indagine si muove, a cui fa riferimento e con la quale si
confronta. Di qui deriva l’attenzione per i momenti di reale trasformazione
del quadro complessivo del rapporto tra corso dell’indagine e sfondo
ideologico tradizionale in cui essa è situata, come accade – per restare a
Kemp – nel saggio da lui dedicato alla crisi del sapere tradizionale
nell’ultimo Leonardo (1982), o in quello che mette a tema il rapporto tra
analogia e osservazione nel Codice Hammer (1986)3.
È questa la direzione nella quale tenterò di muovermi in questo contributo,
prendendo in esame il modo in cui alcuni termini filosofici entrano
attivamente nella pagina vinciana, influenzandola e venendone al contempo
riqualificati. A questo scopo sarà opportuno individuare alcuni termini-
chiave, nei quali cioè questa presenza della tradizione, e del confronto con
essa, si fa particolarmente sentire, e può essere, per cosí dire, sorpresa nel
suo accadere. In questa ricerca ci soccorre una particolarità del metodo di
lavoro di Leonardo che mi pare non abbia finora ricevuto dagli interpreti la
dovuta considerazione4: essa consiste in quelli che chiamerò fogli-
laborato|67|rio. Se infatti è vero che – come sostiene Augusto Marinoni –
Leonardo lavora prevalentemente dentro lo spazio di una singola pagina, o
di un bifoglio piegato di cui sfrutta consecutivamente le quattro facciate5, è
anche vero che entro questo spazio materiale sono possibili modi di lavorare
anche molto diversi, che rimandano a ben diversi gradi di consapevolezza
metodologica. Nella fattispecie, in alcuni fogli, collocati a degli snodi teorici
cruciali della propria ricerca, Leonardo organizza una sorta di confronto che
ricorda, ma da lontano, le quaestiones disputatae. Questo confronto gli è

128-49, Id., Leonardo da Vinci. Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo (1981),
trad. it. di F. Saba Sardi, Milano 1982.
2
Qui Kemp riprende evidentemente, e sviluppa a modo suo, un modulo interpretativo ben
presente già negli importanti saggi di Ernst H. Gombrich sulla Forma di movimento
nell’acqua e nell’aria (1969) e su Le teste grottesche (1954), entrambi raccolti in Id.,
L’eredità di Apelle. Studi sull’arte del Rinascimento (1976), trad. it. di M. L. Bassi, Torino
1986, pp. 51-79 e 80-106.
3
M. Kemp, The Crisis of Received Wisdom in Leonardo’s Late Thought, in AA. VV.,
Leonardo e l’età della ragione, a cura di E. Bellone e P. Rossi, Milano 1982, pp. 27-39, Id.,
Analogy and observation in the Codex Hammer, in AA. VV., Studi vinciani in memoria di
Nando de Toni, Brescia 1986, pp. 103-34.
4
Essa non viene neppure menzionata nel pur pregevole testo di K. H. Veltman, Leonardo’s
Method, Brescia 1993.
5
A. Marinoni, Introduzione a Codice A, Firenze 1990, pp. XI e XIII.

2
Il lessico filosofico di Leonardo in tre stazioni dello «spirito»
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indispensabile per prendere posizione e scegliere una direzione, tra due


possibili, nella quale far procedere la ricerca su di un tema dato; dove,
evidentemente, la scelta che di volta in volta si impone è tra due opzioni
teoriche e comporta pertanto un confronto attivo con la tradizione. In tutti
questi casi, alcuni termini filosofici subiscono un esame critico e una
ridefinizione.
Propongo di considerare tre fogli, di cui ecco i dati essenziali: Codice
Hammer, 8A (29v), c. 1508-10, in cui si pone l’alternativa tra una
concezione meccanicistica e una energetica della potenza; Codice Atlantico
729r-v (olim 270rb-vb), c. 1490, dove l’alternativa è tra estromissione e
intromissione nella concezione della prospettiva, ma piú in generale tra
magia e prospettiva; Codice Arundel, P 1v (156v), c. 1480, dove
l’alternativa è tra naturalismo e spiritualismo nella concezione della natura.
L’elenco da me proposto è organizzato in forma temporalmente regressiva.
Non è solo un omaggio alle sequenze retrorse presenti nei codici vinciani,
ma una scelta il cui senso si chiarirà, spero, nel corso dell’esposizione6.

1. Tra meccanicismo ed energetismo (Hammer,


29v)
Il trattamento da Leonardo riservato ai concetti di forza e di impeto appare
|68| a prima vista sconcertante. Da una parte, infatti, la forza è definita, in
testi del 1492-95, come una «potenza spirituale», cioè come qualcosa che è
ad un tempo incorporeo e fenomenologicamente equivalente alla presenza
nel corpo di «vita attiva»7; ed è quindi responsabile del moto locale violento
del corpo pesante in quanto «infusa» in esso, ad un tempo, come un tutto
presente nel tutto e in ciascuna delle sue singole parti. La forza finisce cosí –

6
A questa serie va idealmente aggiunta la coppia di fogli Codice Atlantico, 189v (olim
68va), c. 1498-1500, e Codice Arundel, P 60r-v (131 & 132), c. 1500-5, dove l’alternativa è
tra opposti modi di concepire l’«essere del nulla». Mi sono soffermato estesamente su
questi fogli in un precedente contributo, a cui rinvio: Leonardo da Vinci e il ‘Nulla’.
Stratificazioni semantiche e complessità concettuale, relazione al conv. internaz. Il volgare
come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento, organizzato dal Centro Studi “Leon
Battista Alberti”, Mantova, 18-20 ottobre 2001, in corso di stampa negli Atti. Ma sul
“nulla” nel f. 189 dell’Atlantico cfr. l’acuta interpretazione di C. Pedretti nel suo A Proem
to Sculpture, in “Achademia Leonardi Vinci”, II (1989), pp. 11-39 (= 17 ss.).
7
Ms. B, 63r (c. 1487): «in essa forza è vita attiva»; Codice Atlantico, 681r (c. 1492):
«Forza è una potenzia spirituale, incorporea e impalpabile [...]. Spirituale dico, perché
perché in essa è vita invisibile»; Ms. A, 34v (c. 1492): la forza, «per accidentale, esterna
violenza è causata dal moto e collocata e infusa ne’ corpi, i quali sono dal loro naturale uso
retratti e piegati, dando a quelli vita attiva di maravigliosa potenzia»; Codice Atlantico,
826r (c. 1490): «Forza non è altro che una virtú spirituale, una potenza invisibile, la quale è
creata e ’nfusa per accidental violenza da’ corpi sensibili nelli insensibili, dando a essi
corpi similitudine di vita; la qual vita è di maravigliosa operazione». Quando non
diversamente indicato, i corsivi nei testi vinciani sono miei.

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in Carlo Vecce (a cura di) I mondi di Leonardo. Arte, scienza, filosofia
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come è stato notato da Carlo Pedretti nel suo Commentary al Richter – per
essere un equivalente del concetto scolastico di virtus impressa o impetus8.
Viceversa, il termine impeto (o empito) viene usato da Leonardo, in un
primo momento (ultimo decennio del Quattrocento), come sinonimo di
quella “onda d’aria” o “d’acqua” che viene generata dalla furia del mobile
nel medio, e che da una parte cede al suo moto, dall’altro lo favorisce e
potenzia9; quindi, nei primi anni del Cinquecento, Leonardo passa a
definirlo come una potenza specificamente acquisita da un corpo per il fatto
di essere in moto, e lo identifica tendenzialmente con il moto del corpo
medesimo. In questa maniera Leonardo finisce per recuperare un aspetto del
concetto medievale di impetus, tenendolo però sempre sganciato, almeno
fino a questa altezza cronologica, dall’altro aspetto che è quello della virtus
motiva.
Questa distinzione è anche esplicitamente posta in Arundel, P 16r (181r), un
testo del 1495-97: «La gravità e lla forza[,] le quali sono scambievolmente
figliuole e madre del moto e sorelle dell’impeto e della percussione, senpre
com|69|battono la loro cagione; la qual vinta, esse10 sé vincano e ocidano»11.
Qui si vede come, nel contesto di una riflessione sulla natura unitaria delle
potenze meccaniche, emerga – almeno come tendenza – una distinzione tra
due gruppi di potenze entrambi in rapporto col moto: rispettivamente la
coppia di opposti forza-gravità e quella percussione-impeto, che in altri fogli
dell’Arundel vengono poste in rapporto di causazione (l’impeto è causa del
colpo)12.
Non è possibile soffermarsi adeguatamente su questo punto, anche
temporalmente cruciale, della riflessione di Leonardo sul mondo della
meccanica. Non si può però evitare di osservare che la distinzione tra i due
gruppi di potenze passa attraverso la diversità di statuto della forza rispetto
all’impeto. La forza, infatti (e con essa il peso, anche se con alcuni non
trascurabili distinguo), in quanto «spirituale», è assimilata a un fluido
incorporeo, e dunque pensata a partire dal modello offerto delle
enérgeiai/dunámeis di matrice neoplatonica. Per avere un termine di
confronto preciso prendiamo il commento alla Fisica di Giovanni Filopono.
Esponendo IV.8 – in cui Aristotele discute criticamente il concetto di vuoto
tra i corpi in relazione al movimento, toccando di passaggio anche la

8
C. Pedretti, The Literary Works of Leonardo da Vinci compiled and edited from the
original Manuscripts by Jean Paul Richter. Commentary, 2 Vols., Oxford and Los Angeles
1977, Vol. II, p. 217 (che sviluppa un’annotazione di E. A. Moody, Foreword, in I. B. Hart,
The Mechanical Investigations of Leonardo da Vinci (1925), Berkeley and Los Angeles
1963, p. VIII). Prima ancora però questo punto era stato notato da P. Duhem, Etudes sur
Léonard de Vinci. Seconde série, Paris 1909, pp. 225 s.
9
Mi permetto di rinviare su questo punto al mio Leonardo da Alberti a Bacone (e oltre), in
AA. VV., ‘Tutte le opere non son per istancarmi’. Raccolta di scritti per i settant’anni di
Carlo Pedretti, a cura di F. Frosini, Roma 1998, pp. 145-158 (= 151 s.).
10
forza e gravità perde suo essere canc.
11
Lo stesso elenco è presente anche in Codice Atlantico, 340r, c. 1497-1500.
12
Cfr. Arundel, P 50v (92r, 80v), P 53v (90r), P 59r (133v), P 62r (226r).

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questione della causa del moto violento – Filopono nega che di quest’ultimo
sia responsabile il medio, e che «è necessario piuttosto che una qualche
kinetikè dúnamis asómatos sia trasmessa dal motore nel mosso»; e per
chiarire questo concetto fa l’esempio della «enérgeia tis asómatos kinetiké»
rappresentata da un raggio di sole che, passando per un vetro colorato, si
tinge di quel colore, precisando che questa teoria ottica è accettata anche da
Aristotele. E conclude, in linea generale: «è chiaro dunque che determinate
energie [enérgeiai tines] sopraggiungono in modo incorporeo [asomátos] da
alcuni corpi in altri»13.
Se però Filopono non è un autore presente a Leonardo (e forse nemmeno ai
|70| trecenteschi teorici dell’impetus14), lo stesso non si può dire del
Pimander, cioè della porzione di ciò che è attualmente noto come Corpus
Hermeticum tradotta in latino da Marsilio Ficino nel 1463, e nello stesso
anno volgarizzata da Tommaso Benci15, dove l’equivalenza di enérgeia e
dúnamis, e la possibilità di declinare questi concetti al plurale (trattandoli
pertanto come delle sostanze), è testimoniata in modo addirittura
ossessivo16. Certo, qui non si trova un riflessione sulla fisica, però si
potevano leggere frasi come questa:
Le energie sono come i raggi di Dio, e le energie della natura come i raggi del mondo, e le
arti e le scienze come i raggi dell’uomo. Le energie agiscono attraverso il mondo, e
giungono all’uomo attraverso i raggi fisici del mondo; le forze della natura agiscono
mediante gli elementi, gli uomini attraverso le arti e le scienze.17

13
J. Philoponi in Aristotelis Physicorum libros quinque post. commentaria, in
Commentaria in Aristotelem Graeca, Vol. XVII (in Phys., IV-VII), ed. H. Vitelli, Berlin
1888, p. 642, rr. 3-20. Su Filopono si veda l’apparato presente in Johannes Philoponos
Grammatikos von Alexandrien. Ausgewählte Schriften übers., eingel. u. komm. v. W.
Böhm, München ecc. 1967. Inoltre: Duhem, Etudes…, II, cit., pp. 189-91 e Id., Le système
du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Paris 1914-1959,
Vol. I, pp. 380 ss., A. Maier, Zwei Grundprobleme der scholastischen Naturphilosophie,
Roma 1951, pp. 120-22, M. Clagett, La scienza della meccanica nel Medioevo (1959), trad.
di L. Sosio, Milano 1972, pp. 534-36, M. Wolff, Geschichte der Impetustheorie, Frankfurt
am Main 1978, pp. 67-160.
14
La tesi della trasmissione diretta, sostenuta da Duhem, Etudes…, II, cit., p. 191, fu
confutata in modo convincente dalla Maier, Zwei Grundprobleme…, cit., pp. 127-29,
seguíta da Clagett, La scienza della meccanica…, cit., p. 541 e n. Cfr. anche Wolff,
Geschichte…, cit., pp. 163-69.
15
Si veda in generale E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli 1994, pp. 67-77.
16
Cfr. Corpus hermeticum, texte ét. par A. D. Nock et trad. par A.-J. Festugière, deuxième
éd., 4 Voll., Paris 1960, trattato I.24 (enérgeiai in cui si dissolvono i corpi dopo la morte),
X.22 (raggi divini come enérgeiai =dunámeis), XI.2 e XII.21-22 (energie cosmiche di
Dio); inoltre Stobeo (ivi, III) estratti IIA (p. 5), III (pp. 17 s.) e IV (p. 24) (dúnamis =
enérgeia). Su questo uso terminologico cfr. ivi, Vol. I, pp. 140-42; e Vol. III, n. a pp. 9 s.,
dove tra l’altro si rinvia a J. Röhr, Der okkulte Kraftbegriff im Altertum, in “Philologus”,
Supplementband XVII, Leipzig 1924 (di cui si vedano in partic. pp. 7-19) e a M. P.
Nilsson, Religiosità greca (1946), trad. it. di C. Diano, Firenze 1961, p. 100.
17
Corpus Hermeticum, X.22, cit., Vol. I, p. 124. Sulla centralità di questo trattato (Clavis)
nel Pimander ficiniano, e in esso del passo qui cit., si sofferma Garin, Il ritorno…, cit., pp.
72 s. Questa impostazione torna nel De radiis di al-Kindi (cap. 3), un autore di cui è

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Ma si deve dire di piú. Infatti, in quanto la forza è anche detta da Leonardo,


ripetutamente, tutta nel tutto e tutta nella parte, assume su di sé un tratto
ancor piú estraneo al mondo della meccanica e della filosofia naturale: un
modo tradizionale (e diffusissimo) di designare il modo di essere dell’anima
nel corpo dell’essere umano, o anche l’essere di Dio nel mondo18. Se dunque
il collegamento con l’idea di enérgeiai e di dunámeis contiene ancora dentro
|71| di sé un nesso storico (anche se tenue e indiretto) con quella che nel
Trecento sarà la teoria dell’impetus, in quest’ultimo caso siamo molto
distanti dalla filosofia naturale. Infatti, trattando del comportamento e degli
effetti della forza, Leonardo trascura gli aspetti specificamente meccanici,
concentrandosi su ciò che è comune al campo della meccanica (in cui è
assorbita anche l’idraulica) e della prospettiva, in quanto la forza da una
parte, la luce dall’altra, condividono lo statuto di potenze presenti ad un
tempo nel tutto e nella parte, condividono cioè una spiritualità che fa di
esse le energie per eccellenza. Ne segue che il mondo fisico viene studiato
come capace di accogliere senza imperfezioni la logica infallibile di cui
queste energie sono portatrici (di qui una forte semplificazione degli aspetti
corporei e una altrettanto forte analogia tra meccanica e prospettiva)19.
In questo periodo (l’ultimo decennio del Quattrocento) lo studio della
meccanica nei suoi aspetti specifici viene invece affidato al rapporto tra la
coppia impeto-colpo e il peso, come potenze che si contrastano

attestata in Leonardo la conoscenza del solo Libellum sex quantitatum (Codice Atlantico,
611Ar, c. 1490), ma del quale non è improbabile avesse una conoscenza piú estesa. Sulla
diffusione del pensiero di al-Kindi nella Milano sforzesca cfr. E. Solmi, Le fonti dei
manoscritti di Leonardo da Vinci. Contributi (1908), in Id., Scritti vinciani, Firenze 1976,
p. 59.
18
K. H. Veltman (Leonardo and the camera obscura, in AA. VV., Studi vinciani…, cit., pp.
81-92 = 83 s.) ha notato che l’espressione compare in L. Pacioli, De divina proportione, 5,
f. 13r, a proposito di Dio. F. Fehrenbach, Licht und Wasser. Zur Dynamik
naturphilosophischer Leitbilder im Werk Leonardo da Vincis, Tübingen 1997, pp. 132 s.)
rinvia alla genealogia ‘plotiniana’ di questa espressione. Tuttavia questo percorso era stato
additato, anche se non completamente svolto, da P. Duhem. Cfr. il suo Nicolas de Cues et
Léonard de Vinci, in Id., Etudes…, II, cit., pp. 115 e 147-49 (raffronto tra Cusano e
Anassagora: quodlibet in quolibet), 128 s. (Dio, ovvero l’anima del mondo, è per Cusano,
rispettivamente Plotino, tutto in sé stesso e tutto nelle singole cose, rispettivamente anime),
150-61 (raffronto Cusano/Leonardo su massimo e minimo, “essere del nulla”), 222-38
(concetto di “virtú spirituale” nella dinamica e raffronto con il concetto cusaniano
dell’anima). Cfr. ora C. Pedretti, scheda a La ‘testa fallica’, in Leonardo in Casentino.
L’‘angelo incarnato tra archeologia e leggenda’. Mostra ideata e curata da C. Starnazzi.
Catalogo a cura di C. Pedretti, Firenze [2001], p. 40. Sull’enorme diffusione
dell’espressione, senza riferimento a Leonardo, cfr. R. B. Waddington, ‘All in All’:
Shakespeare, Milton, Donne and the Soul-in-Body Topos, in “English Literary
Renaissance”, XX (1990), pp. 40-68, e sopratutto il dettagliatissimo Th. Leinkauf, Mundus
combinatus. Studien zur Struktur der barocken Universalwissenschaft am Beispiel
Athanasius Kirchers SJ (1602-1680), Berlin 1993, pp. 56-66 (Plotino, Agostino, ps.-
Dionigi, Bruno, ecc., fino al Seicento inoltrato).
19
Peculiarità di approccio ampiamente rilevate dalla critica. Cfr. Kemp, Leonardo…, cit.,
pp. 107 e 125-30, e Fehrenbach, Licht und Wasser…, cit., pp. 140 s.

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reciprocamente, e che nella loro varia interazione dànno luogo a diversi


generi di moto. Qui siamo però in presenza di un altro approccio, basato
sulla tradizione meccanica: Leonardo riprende una certa lettura medievale di
Aristotele (derivata dal commento di Averroè alla Fisica), che aveva
attribuito alla undatio in medio la responsabilità della prosecuzione del moto
violento20. Il suo ragionamento è qui tutto basato su di un modello
percussivo, indipendente da |72| quello prospettico dominante nel concetto
di forza, in quanto, a differenza di quanto accade in Aristotele (attivazione
del medio per strati successivi) e nella teoria dell’impetus (trasmissione di
una potenza incorporea dal motore al mosso), dove si è in presenza di un
concetto di energia distinta dal corpo; in questo caso è proprio il moto del
mezzo che meccanicamente provoca, per trascinamento e spinta, il moto del
mosso. L’energia è qui espressa dalla percussione, di cui l’impeto è causa
ed effetto allo stesso tempo.
Ne seguono alcune tensioni e contraddizioni, che occupano i primi anni del
Cinquecento, e giungono a comporsi solamente quando il concetto di impeto
viene emancipato dall’identificazione con il medio in quanto corpo
meccanico. Ma a questo punto Leonardo si trova di fronte a una situazione
ancor piú delicata e paradossale, perché il concetto di impeto, in questa
nuova formulazione, non giunge a sovrapporsi a quello di forza, ma se ne
differenzia radicalmente. Quella infatti era una potenza che si impadroniva
dei corpi riducendoli alla propria logica, mentre l’essere l’impeto una
potenza significa al contrario proprio che l’ambito del corporeo si comporta
in un modo che non corrisponde mai perfettamente a quello in cui si
comportano le potenze, e che i due piani sono essenzialmente distinti. In
Codice Atlantico 679r (c. 1515-16) Leonardo distingue due tipi di onde
circolari:
L’onde circulari son di 2 nature, delle quali l’una è solamente creata dal moto dell’impeto
sanza moto locale d’acqua; l’altra si genera dal moto dell’acqua e dall’impeto.
Sempre l’onda dell’impeto move l’impeto e non l’acqua, come far si vede a’ creator della
percussione in loco distante, che quanto è piú distante dall’ulditore il sito della percussione,
tanto è maggiore il tempo del conducersi all’orecchio.
In altri termini, non è per lo spostamento dell’aria che ci giunge il suono
all’orecchio, ma solo per lo spostamento della potenza in essa; e lo stesso
vale per l’acqua. Ancora piú chiaramente il principio era stato espresso in
Hammer, 14B (23r), c. 1508-10: «Penetrano l’onde superfiziali e circulari
l’una nell'altra per potenzia ma non per quantità d’acqua, ché l’acque per
tale onde non si movan di lor primo sito, ma sol penetra la predetta
potenzia»; e viene confermato da Codice Atlantico 227r (c. 1515): «Tutte le
impressioni delle percussioni fatte sopra dell’acqua possono penetrare l’una
l’altra sanza lor destruzione. Mai l’una onda penetra l’altra, ma sol si
refrettano dal loco della lor percussione».

20
Cfr. ancora il mio Leonardo da Alberti a Bacone (e oltre), cit., p. 152 e n. 22.

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Sono dunque le impressioni delle percussioni, che si interpenetrano21, e non


|73| le percussioni in quanto incorporate in moti materiali d’acqua – cioè in
onde sottoposte a moto di traslazione –, e nemmeno in quel «certo
riscotimento, che si po piú tosto dimandare tremore che movimento» (cioè
in una sorta di versione meccanica della multiplicatio baconiana), a cui
Leonardo aveva pensato ai tempi del Ms. A, 61r, attorno al 1492.
A una riflessione chiarificatrice sull’alternativa tra modello meccanico ed
energetico delle potenze è consacrato appunto Hammer, 8A (29v), intitolato
Provasi come l’aria non spigne il mobile, po’ ch’el è separato dalla
potenzia del suo motore. Ciò che qui interessa non è però tanto l’argomento
contro la teoria del medio come motore (indicato nel titolo e svolto con
sicurezza nel testo), su cui Leonardo non sembra nutrire piú dubbi (egli
osserva che una pallotta sparata dentro un otre pieno d’acqua mantiene il
proprio moto, quindi non può essere l’aria il suo motore), e nemmeno il
fatto che l’onda d’aria o acqua è riconosciuta come resistenza al moto
(mentre pochi anni prima era trattata come motore o coadiutore di esso).
Conta invece notare che Leonardo è in difficoltà quando deve indicare
un’alternativa a questa teoria. Eppure gli basterebbe ricorrere all’idea di una
virtus motiva pensata come la forza, potenzia spirituale o accidentale, tutta
nel tutto e tutta nella parte del mobile in cui s’incorpora, cui comunica una
similitudine di vita correndo con furia a sua disfazione. E invece egli mette
in scena un avversario che non gli concede questa posizione, con
l’argomento – che potremmo chiamare “di Münchhausen” – secondo cui
«nessun mobile per sé si move, se le sua membra non fan forza in altri corpi
for di lui» (la sottolineatura è di Leonardo), corredato dall’esempio della
barca che non si sposta se si tira una fune fissata alla sua stessa poppa. È –
come si vede – un argomento meccanico (il moto si esercita per contatto:
trazione o spinta), che Leonardo considera però decisivo. Infatti prosegue:
Adunque, la potenzia non essendo nell’aria, la quale spigne la detta pallotta, egli è
necessario che essa sia inella pallotta infusa; e s’ell’è infusa, e’ ne resulta quel che di sopra
si dette per esemplo [cioè il “caso di Münchhausen”: dunque l’assurdità anche di questa
soluzione]; e oltre a di questo – prosegue Leonardo – essa potenzia infusa sarebbe d’equal
forza per tutti i sua lati, perché equalmente, con equal quantità, per tutta |74| quella
pallotta sarebbe sparsa; adunque questa non è, e quell’altra non mi conciedi: cerchiano
adunque d’una terza, la qual non abbia eccepzione.
Si noti che con «e oltre a di questo» viene introdotto un argomento distinto
dal primo, che si riduce a dire che, se la potenza fosse indifferentemente e
uniformemente in tutto il corpo della pallotta, essa sarebbe sospinta in tutte
le direzioni. Perché questa conseguenza? Credo che la risposta possa essere

21
Nella stessa direzione cfr. Codice Atlantico, 1047r (c. 1513-14): «Il tronito della
bombarda fa 2 moti per l’aria di varie velocità. Delli quali il piú veloce è quel che porta la
’mpressione del sonito suo, l’altro, piú tardo, è quel che porta l’onda generata dalla
percussione della fiamma, e – aggiunge all’ultimo momento Leonardo – ’l terzo è il moto
della ballotta da lei gittata». Accanto al testo si trova un disegno raffigurante una serie di
cerchi che hanno lo stesso centro ma si vanno dilatando a velocità differenti.

8
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trovata proprio in quella terza soluzione, «la qual non abbia eccepzione»,
che Leonardo poco piú avanti propone riformulando l’argomento usatissimo
dagli scolastici del moto violento della ruota che si rivolge attorno a un polo
immobile. Egli aggiunge a questi elementi anche una «furia di vento» che
investe trasversalmente la ruota, e che pertanto favorisce solo la metà della
rivoluzione, mentre ostacola l’altra metà, e quindi né favorisce il moto, né lo
ostacola. Però, dato che la causa del moto non può nemmeno essere la «virtú
del motore […] dentro a lei [alla ruota] infusa», ne segue che è necessario
che sia tale virtú in quanto «impressa alli termini della rota»22. Perché la
virtú non può essere interna alla ruota? Perché (mi pare si possa arguire) in
questo caso la ruota non avrebbe una direzione in cui volgersi, ed
esattamente come nel caso del vento esterno, la spinta interna in tutte le
direzioni neutralizzerebbe sé stessa. Ma questo argomento è al contempo
una risposta al “caso di Münchhausen”, perché la virtú impressa ai termini
di un corpo fa forza «in altri corpi for di lui», e cioè proprio nel medio che
lo circonda (è come se la ruota si aggrappasse a – e spingesse su – le parti
dell’aria circostante).
Evidentemente questa soluzione resta ancora a metà strada, perché concede
un punto importante all’impostazione meccanica. Eppure non si tratta
nemmeno di un semplice passo all’indietro provvisorio, perché l’argomento
meccanico richiama l’attenzione proprio sulla necessità di considerare il
piano dei moti materiali nella sua logica specifica, che è appunto quella del
moto per |75| contatto. Leonardo sa insomma qual è la soluzione errata (il
motore come spinta meccanica del medio), ma non per questo torna all’idea
opposta (il motore come spinta energetica interna al mosso). Sceglie una
soluzione evidentemente provvisoria (il motore come spinta/trazione
meccanica esercitata dal mosso sul medio circostante), e questo segnala a
mio avviso la sua insoddisfazione per un’eventuale equiparazione
dell’impeto alla forza senz’altro.
Tuttavia in questo stesso foglio è presente anche un cenno a una possibile
soluzione ancora diversa rispetto alle tre proposte, perché basata sul
concetto di impressione – già incontrato nel testo citato sopra del Codice
Atlantico, 227r (c. 1515) –, concetto che viene qui proposto come momento
che equipara la persistenza della spinta meccanica alla persistenza dello
splendore solare nell’occhio e del suono nell’orecchio anche dopo la
rispettiva cessazione:

22
Hammer, 8A (29v): «Ma se tu voi dire ancora che l’aria riservi la potenzia del motore,
c[h]e la accompagnia e spignie il suo mobile, come accomodereno noi a questo la rota che
dentro a una furia di vento volgie lungamente, poi che ’l suo motore da lei si divide? Questa
non è l’aria, che la move, perché, essendo col suo termine e peso equalmente partito intorno
al suo polo, il vento, che per un sol verso l’abbracc[i]a, e se favorisce la metà della rota che
da lu[i] si fugge, esso diffavorisce e contrasta all’altra metà della rota che contra lui si
move, e per questo il vento, che tanto noce, quanto e’ giova al moto, non fa a essa rota
alcuna utilità o nocimento; adunque, la virtú del motore fu lasciata impressa alli termini
della rota e non dentro a lei infusa, né nell’aria di quella circundatrice».

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La virtú del motore si separa integralmente da lui e s’applica al corpo da esso mosso, e si va
con tempo consumando nella penetrazion dell’aria, che dinanti al mobile sempre si
condensa. E questo accade perché ogni impressione si riserva lungamente nello obbietto
ove s’impreme, come si vede ne’ circuli, che dentr’alla superfizie dell’acqua si creano per
la percussion di quella, che per lungo spazio infra l’acqua si movano, e ne’ retrosi e onde,
creati ’n un loco e pell’empito dell’acqua portati ’n un altro, sanza distruzion di quelli; e ’l
medesimo fa lo sprendor nell’occhio e la voce nell’orecchio. (Hammer, 8A [29v])
È questa, in effetti, l’impostazione che Leonardo adotterà stabilmente dopo
il 1510, come si può constatare, tra l’altro, nel Ms. G, 73r:
Impeto è impressione di moto trasmutato dal motore al mobile.
Impeto è una potenzia impressa dal motore al mobile. Ogni impressione attende alla
permanenzia, ovvero desidera permanenzia. Provasi dalla impressione fatta dal sole
nell’occhio d’uno risguardatore e nella impressione del sono fatto dal martello di tal
campana percussore.
Ogni impressione desidera permanenzia, come ci mostra il simulacro del motore impresso
nel mobile.
Ora, cos’è che rende questa impostazione capace di reggere all’obiezione di
Münchhausen? Evidentemente il fatto che, se pensato come impressione,
l’impeto è sí distinto dal corpo, ma non è tuttavia realmente esistente al di
fuori del corpo stesso. È, giusta la definizione aristotelica23, una «qualità» o
«affezione del corpo», anzi è un determinato «movimento», kínesis (anche
se all’apparenza si produce «tutto insieme», come l’acqua che ghiaccia) e
non enérgeia, come è invece il caso della luce. Qui evidentemente Aristotele
|76| intende per enérgeia qualcosa di differente rispetto al senso in cui il
termine può essere usato per Leonardo, ma che con quello coincide per lo
meno in quanto la luce, in quanto enérgeia, per Aristotele non si trasmette
consecutivamente. L’impressione è per Leonardo qualcosa che implica moto
e alterazione, ma che non rende necessario far ricorso all’idea di una
sostanza incorporea, di una “cosa” spirituale pensata in analogia con
l’anima; anzi l’impressione è – nel suo comportamento – radicalmente
distinta dal corpo proprio perché ne è una mera affezione priva di realtà
autonoma, che si distribuisce consecutivamente in tutte le parti del corpo cui
inerisce senza restarne distinta. Cosí, nel Ms. G, 85v (1510-15) Leonardo
può affermare che «l’impeto impresso dal motore al mobile è infuso in tutte
le sue parte unite d’esso mobile», cioè senza restare alla superficie di esso,
perché non si tratta piú di una “presenza” pensata come enérgeia, al modo
della luce nell’aria o della voce nella stanza, ma come kínesis, al modo di un
calore che si diffonde consecutivamente in tutte le parti di un corpo secondo
una direzione precisa, cioè la direzione del moto.
A questo punto Leonardo può lasciar cadere anche l’ultimo riferimento al
meccanicismo e pensare in modo compiutamente energetico i fenomeni
dinamici. È come se egli avesse progressivamente depurato la forza del suo
retroterra magico-neoplatonico, riducendola però (e questo è da notare) non
tanto al concetto di actio per speciem diffuso tra i teorici dell’impetus e tra i

23
Aristotele, De sensu et sensibilibus, VI, 446b 25-447a 4.

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perspectivi di provenienza baconiana24 (per i quali continua a sussistere il


problema dell’essere proprio delle species), quanto piuttosto a quella
radicalizzazione del concetto di specie rappresentata dalle posizioni di
Biagio Pelacani da Parma, un autore a Leonardo non ignoto25. Nelle sue
Quaestiones perspectivae Biagio sostiene che le species «non sono res o
forme sostanziali, ma qualità, o proprietà naturali dei corpi, esistenti
realmente in essi, che hanno la capacità di agire o di ‘impressionare’ il
soggetto perci|77|piente»26, e che, come qualitates, non sono delle entitates
distinte dagli oggetti cui ineriscono27, sono materiali e persistenti per un
determinato tempo28, cioè soggette a intensio e remissio29, ciò che spiega la
persistenza della specie di un oggetto dopo la cessazione della visione30
(analogamente ragiona Leonardo paragonando la visione all’udito e a tutti i
tipi di “impressione”):
Unde species impressae in humore glaciali ab obiecto tendunt ad evanescentiam, et ad
tantam remissionem perveniunt ut non possint in visione conservari.31
Ora è necessario però notare un fatto curioso. Nel presentare la
trasformazione del concetto di impeto ho fatto notare come ciò non voglia
dire una sua assimilazione alla forza, come questa nozione viene
formalizzata verso il 1490-92. Curiosamente, l’esito ultimo, posteriore al
1510, del pensiero di Leonardo sulla fisica è però – con la messa al centro
della nozione di impressione – un ritorno a un’impostazione ancora
anteriore al 1490 (cioè al tentativo di unire fisica e prospettiva)32. A questo
proposito è significativo un passo del Trivulziano (c. 1487), 43r,
singolarmente analogo a quello appena ricordato del Ms. G:
Esemplo

24
Cfr., sui primi, Maier, Zwei Grundprobleme…, cit., pp. 143 ss., e Clagett, La scienza
della meccanica…, cit., pp. 544 s., sui secondi G. Federici Vescovini, Studi sulla
prospettiva medievale, Torino 1965, capp. IV, IX-X, e D. C. Lindberg, Theories of Vision
from Al-Kindi to Kepler, Chicago and London 1976, cap. 7, part. pp. 132 ss. e 144.
25
In Codice Atlantico, 917Ar (c. 1495) Leonardo trascrive la volgarizzazione di un passo
del suo De ponderibus (in The medieval science of weights. Scientia de ponderibus, ed. by
M. Clagett and E. A. Moody, Madison/Wisconsin 1960, pp. 238-40), e quest’opera è
richiamata anche in Madrid I, 133v (c. 1493-97). Cfr. (evidentemente solo sul passo
dall’Atlantico) Solmi, Le fonti…, cit., p. 228, e A. Uccelli, Introduzione a Leonardo da
Vinci, I libri di meccanica, Milano 1940, pp. CXXXIX-CXLII.
26
Federici Vescovini, Studi…, cit., p. 245.
27
«[…] et sic patet quod in visione causanda non est ponenda tertia entitas diffusa per
medium, distincta ab oculo et ab obiecto». Cito dalle Questioni inedite di ottica di Biagio
Pelacani da Parma [quest. I.1-10] a cura di F. Alessio, in “Rivista critica di storia della
filosofia”, XVI (1961), pp. 79-110 e 188-221; qu. I.1 (p. 85). Questo trattato è un
commento alla Perspectiva communis di Pecham.
28
Cfr. ivi, qu. I.1 (pp. 83 e 87 s.) e I.2 (p. 89).
29
Ivi, I.6 (p. 190).
30
A ciò è dedicata la qu. I.2.
31
Ivi, qu. I.2 (p. 92).
32
Sulla nozione di “impressione” fino all’altezza del Ms. A cfr. Fehrenbach, Licht und
Wasser…, cit., pp. 132-37.

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Vedi un colpo dato in una campana quanto riserva in sé il romore della percussione. Vedi
una pietra uscita della bombarda quanto riserva la natura del movimento. Il colpo dato in un
corpo denso: durerà piú il sono che in corpo raro, e quello arà piú durata che fia in corpo
sospeso e sottile. L’occhio riserva in sé le imagine de’ corpi luminosi per alquanto spazio.
Questo apparente ritorno all’indietro induce a riflettere: si tratta infatti di
«una restaurazione di fatto della fisica qualitativa»33 derivante dalla
con|78|statata impossibilità di procedere oltre, nella ricerca, sulla base del
modello ottico-prospettico rappresentato dalle «potenzie spirituali». Il
terreno dello «spirituale» viene infatti, nel corso del primo decennio del
Cinquecento, radicalmente trasformato da Leonardo, proprio perché, se
s’intende porlo come lato attivo dei corpi e dei fenomeni realmente esistente
in re, esso, in quanto obbediente a una logica a sé (la logica dell’anima, cioè
la logica dell’infinito), non solo rende incomprensibili i fenomeni, ma
anzitutto resta incomprensibile in sé stesso, perché si annulla nel momento
in cui s’intende afferrarlo positivamente. Questo tratto peculiarmente legato
all’idea di infinito Leonardo lo rende anche esplicito, in un appunto databile
a c. il 1508, vale a dire al momento in cui questa crisi giunge a una svolta:
Qual è quella cosa che non si dà, e s’ella si dessi, non sarebbe? Egli è lo infinito, il quale se
si potessi dare, e’ sarebbe terminato e finito, perché ciò che si po dare, ha termine colla cosa
che lo34 circuisce ne’ sua stremi, e ciò che non <si> po dare, è quella cosa che non ha
termini (Codice Atlantico, 362r).
Il paradosso dell’infinito – il suo possedere una realtà che nega la realtà –
verrà affrontato da Leonardo con il ricorso all’idea di un «essere del nulla»,
un essere cioè la cui peculiarissima realtà sta appunto nel non essere35. E in
questa sfera del nulla precipiteranno proprio quelle nozioni – gli enti
geometrici e in particolare il punto – che, posti come realmente esistenti in
natura, erano il luogo in cui matematica, fisica e prospettiva si incontravano,
e come tali costituivano il fulcro del progetto scientifico di Leonardo. Il
riemergere di un approccio qualitativo dopo il 1510 è dunque non un
ripiegamento su posizioni anteriori, ma una radicalizzazione del
naturalismo, la presa d’atto della separazione tra sensibile e intellettuale,
cioè l’emancipazione del sensibile dal retroterra magico ben vivo, invece,
nella nozione di «impressione» presente all’altezza del Trivulziano. Tra il
1487 e il 1510 c’è, insomma, una differenza decisiva, data dalla presenza
prima, poi dall’assenza – dello spirito.

33
P. Galluzzi, Leonardo e i proporzionanti. XXVIII Lettura vinciana (1988), Firenze 1989,
p. 23.
34
Ms. la.
35
Cfr. ancora il mio Leonardo da Vinci e il ‘Nulla’, cit.

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2. Tra prospettiva e magia (Atlantico, 729)


Nel corso dell’esposizione che precede ho fatto piú volte riferimento alla
nozione di energie o virtú spirituali, e al loro carattere problematico. Ora,
noi abbiamo la possibilità di cogliere in statu nascendi questa nozione nel
|79| foglio 729 (c. 1490) dell’Atlantico, in cui Leonardo, proprio al
momento di impostare le proprie ricerche di prospettiva (siamo al tempo del
Ms. C e del Ms. A), riflette sulla natura dell’occhio in contrasto con quelli
che egli chiama «matematici», cioè gli autori di perspectiva, nella
convinzione che l’occhio possieda una natura attiva analoga a quella della
luce, e che anzi questi siano solo due casi, tra moltissimi, delle «potenzie»
operanti in natura. L’esempio riportato per mostrare l’esistenza di questa
energia è analogo a quello presente nel commento di Filopono ad Aristotele:
Esemplo
Se torrai un lume e quello metterai in una lanterna tinta in verde o altri colori trasparenti,
vedrai per isperienza che tutte quelle cose che fieno illuminate da esso lume, parere d’esso
colore della lanterna (Codice Atlantico, 729r).
Seguono altri due esempi (la luce colorata per il colore dei vetri delle
finestre delle chiese e il rosseggiare dell’orizzonte al tramonto), con la
conclusione:
Openioni
Tutti questi esempli sono fatti per provare come tutte o veramente molte cose sono, che
insieme colla similitudine della forma, mandano le spezie delle potenzie sanza lesione di sé;
e questo medesimo po accadere della potenzia dell’occhio.
Il tema che sia nel recto sia nel verso del f. 729 viene a lungo dibattuto è,
come si vede, duplice e intrecciato: da un lato il fatto che ogni cosa («o
veramente molte cose»: l’indecisione non è priva di valore) emette
continuamente e attivamente per l’aria una «virtú spirituale» (le «spezie
delle potenzie») capace di agire sugli altri corpi (come si vedrà subito);
dall’altro la teoria della visione, cioè l’alternativa (certo non inventata da
Leonardo ma risalente all’Antichità) tra estromissione dei raggi visivi e
intromissione delle specie o similitudini36. L’accenno alla «potenzia
dell’occhio» viene sviluppato nel verso:
Dico la virtú visivale astendersi per li razzi visuali in sino alla superfizie de’ corpi non
trasparenti e la virtú d’essi corpi astendersi in sino alla virtú visivale e ogni simile corpo
empiere tutta la antiposta aria della sua similitudine. Ogni corpo per sé e tutti insieme fanno
il simile, e non solamente l’empiano della similitudine della forma, ma eziandio della
similitudine della potenzia (729v).
Gli esempi che vengono addotti sono da un lato il sole, il quale non
solamente invia «le spezie della sua forma per tutte le parte dove si
dimostra», |80| ma anche «la similitudine della potenza del calore» (con una
precisazione relativa alla forma di propagazione: «tutte queste potenzie
36
Sull’ottica antica cfr. V. Ronchi, Storia della luce. Da Euclide a Einstein, Roma-Bari
1983, pp. 3-40, e Lindberg, Theories of Vision…, cit., pp. 1-17.

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discendano dalla sua causa per linie radiose, nate nel suo corpo e finite ne li
obietti oppachi sanza diminuzione di sé»); dall’altro la «tramontana» (cioè il
Nord, la stella polare), che «sta continuamente colla similitudine della sua
potenzia astesa e incorporata non che ne’ corpi rari, ma ne’ densi,
transparenti e oppachi, e non diminuisce però di sua figura» (729v). Il
riferimento alla «tramontana» torna anche in un foglio coevo, il 380v
dell’Atlantico: «La tramontana dimostra per la calamita fare questo
medesimo [cioè come il sole], e luna e altri pianeti sanza diminuzione di sé
fa il simile. Infra le cose terrestre è fatto il simile dal moscado e altri odori».
L’esempio del muschio è presente anche in 729v, dove è accompagnato da
una serie di altri «esempli» di stampo decisamente magico, tutti rivolti alla
dimostrazione dell’esistenza di una «potenza» peculiare dell’occhio, di un
«moto spirituale» che ha origine in esso:
Non si ved’elli tutto il giorno pe’ villani quella tal biscia, chiamata lamia 37, attrarre a sé il
lusignolo, come calamita il ferro, per lo fisso sguardo [...]?
Ancora si dice il lupo avere potenzia col suo sguardo di fare alli omini le voce rauche 38.
Del bavalischio si dice avere potenzia di privare di vita ogni cosa vitale col suo vedere.
Lo struzzo, il ragno si dice covare le ova colla vista 39.
Le pulzelle si dice avere potenzia nelli occhi di attrarre a sé l’amore delli omini 40.
Il pescio detto linno41 [...] non è elli visto da li pescatori alluminare co’ li sua occhi a modo
di due candele una grande quantità d’acqua, e tutti li pesci che si trovano in detto splendore,
subito vengon sopra all’acqua, rovesci e morti?
È dunque un fatto che per Leonardo la sfera delle potenze spirituali e quella
delle specie visive sono perfettamente equivalenti: egli può dare esempi di
|81| vari tipi per ambedue i dominii, tanto che l’uno serve a dimostrare
l’altro. Inoltre, la stessa questione estromissione vs. intromissione si
presenta come ‘inscatolata’ dentro quella delle «potenze spirituali» e viene a
quella subordinata, dato che è grazie alla plausibilità dell’idea che tutti i
corpi (o molti) emettono virtú spirituali, che si può affermare che l’occhio fa
lo stesso (che, cioè, non è meramente recettivo). Ma nella stessa premessa è
contenuta un’ulteriore determinazione: se infatti tutti i corpi – occhio
compreso – emettono specie delle forme e specie delle potenze, la visione
non potrà avvenire per un atto unilaterale, ma solo dall’incontro delle specie
37
Lamia è il nome della biscia in toscano.
38
L’esempio è tratto da Plinio, Historia naturale tradocta di lingua latina in fiorentino per
Cristoforo Landino, Venezia 1476, VIII, 34, 80 (cfr. Leonardo da Vinci, Scritti, a cura di C.
Vecce, Milano 1992, p. 93n.).
39
Cfr. il cosidetto “bestiario” (Ms. H, 5r-27v), con esempi tratti dal Fiore di virtú attribuito
a Franco Sacchetti (Venezia 1471), dall’Acerba di Cecco d’Ascoli (Venezia 1476) e da
Plinio, Historia, cit. (cfr. Leonardo, Scritti, cit., p. 89n., e Leonardo, Scritti letterari, a cura
di A. Marinoni, nuova edizione accresciuta, Milano 1974, p. 248): in esso sono presenti –
con le stesse caratteristiche – sia il basilisco che lo struzzo.
40
Palese riferimento alla teoria degli “spiriti” variamente modulata dagli stilnovisti. Cfr. le
bellissime pagine di R. Klein, Spirito peregrino (1965), in Id., La forma e l’intelligibile.
Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna (1970), trad. it. di R. Federici, Torino 1975, pp. 5-
44.
41
«Tipo fantastico di cefalo» (Vecce in Leonardo, Scritti, cit., p. 93n.).

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delle cose e delle specie dell’occhio (come viene infatti affermato nel citato
729v). Tra estromissione e intromissione, l’idea dell’irradiazione universale
fa propendere Leonardo per una via di mezzo, cioè per una doppia azione
dei corpi sull’occhio e dell’occhio sui corpi.
Evidentemente i punti di riferimento polemici di Leonardo sono qui gli
autori di perspectiva, e in particolare John Pecham, che nella Perspectiva
communis aveva dimostrato che «i raggi uscenti dall’occhio e cadenti sopra
un oggetto visibile non bastano a spiegare la visione»42. Infatti, si domanda
Pecham, «in che modo la virtú dell’occhio si potrebbe estendere fino alle
stelle, anche se l’intero corpo si risolvesse in spirito?». Pecham ripete qui,
in forma ellittica, un argomento di Alhazen contro la tesi estromissiva,
secondo il quale, se fosse una «sostanza corporea» quella costituente il cono
visivo che fuoriesce dall’occhio per raggiungere l’oggetto veduto (e non
potrebbe essere altrimenti)43, l’atto di guardare gli astri – che dovrebbe
riempire l’enorme spazio tra la terra e i cieli – distruggerebbe l’occhio
stesso. Di conseguenza «la visione non accade mediante raggi emessi dalla
facoltà visiva»44.
E proprio a Pecham è rivolto un passaggio polemico nel f. 729v, che segue
immediatamente quello sul sole e sulla stella polare:
Confutare adunque questi matematici che dicano l’occhio non avere virtú spirituale che
s’astenda fori di lui, imperò che se cosí fussi, non sarebbe sanza gran sua diminuzione |82|
ne l’usare la virtú visiva, e che se l’occhio fussi grande, quant’è il corpo della terra,
converrebbe ne’ risguardare alle stelle che si consumassi, e per questa ragione assegnano
l’occhio ricevere e non mandare niente di sé.
Il riferimento è alla citata proposizione I.45 della Perspectiva di Pecham,
ma anche alla I.44: «I matematici che assumono che la vista accada
mediante raggi nascenti dall’occhio, si adoperano senza bisogno»45. Qui – si
noti – Pecham afferma di seguire l’«autore della Prospettiva», cioè Alhazen,
mentre avverte che al-Kindi, i «platonici» e Agostino erano di altra
opinione, dato che (possiamo aggiungere) affermavano la tesi
dell’estromissione del raggio visivo. Ma si tenga conto di ciò, che lo stesso
Pecham, nella vicina proposizione I.46 afferma, riprendendo Aristotele 46,
che «il lume naturale dell’occhio contribuisce alla visione con la sua
radiosità»47, e che quindi «in qualche modo ha luogo un’emissione di raggi,

42
J. Pecham, Perspectiva communis, I.45, ed. with an Introduction, Engl. Transl and
Commentary by D. C. Lindberg, Madison/Wisconsin 1976, p. 128. La stessa posizione è in
Witelo, Opticae libri decem, Instaurati ... a Federico Risnero, III.5, in Opticae thesaurus.
Alhazeni Arabis libri septem, nunc primum editi a Federico Risnero, Basileae 1572, p. 87:
«Impossibile est visum rebus visis applicari per radios ab oculis egressos».
43
Alhazen assume qui la dottrina, di origine stoica, secondo cui i raggi devono essere
materiali affinché abbia luogo la sensazione (cfr. Federici Vescovini, Studi…, cit., p. 116).
44
Alhazen, De aspectibus, I.5 (23), in Opticae thesaurus…, cit., p. 14.
45
Perspectiva communis, cit., p. 126.
46
De generatione animalium, V.1, 780a 5-15.
47
Pecham, Perspectiva communis, cit., p. 128.

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ma non al modo platonico», bensí come espressione della «virtú


moltiplicativa» derivante da detto «lume degli occhi».
Perché allora, se il testo che ha sottomano accetta, pur se con restrizioni, una
certa attività dell’occhio, Leonardo vuole cosí recisamente «confutare [...]
questi matematici»?48 Ora, a me pare che il punto su cui Leonardo pone
l’accento sia proprio l’alternativa (posta decisamente anche da Pecham) tra
un’impostazione à la Alhazen-Bacone, fondamentalmente intromissiva, e
una à la al-Kindi, fondamentalmente estromissiva, ma (qui è il punto) che
questa alternativa venga da lui subordinata alla dimostrazione che tutte (o
moltissime) cose emettono «virtú spirituali» e con esse agiscono sui corpi
irradiati; che insomma esiste un’universale (o quasi-universale) rete di
azioni reciproche tra tutti i corpi – e massimamente gli astri, come si è visto
– di cui la luce e quindi la visione, il rapporto occhio/oggetto, è un caso
particolare. Dire «virtú spirituali» equivale a mettere fuori gioco
l’obiezione pechamiana della “risoluzione in spirito” del corpo, in quanto gli
effetti fisici di queste energie nulla hanno a che vedere con l’azione
meccanica prodotta con dispendio di forza: i corpi le emettono «sanza
diminuzione di sé», |83| perché esse sono l’espressione della loro natura,
sono i loro influssi magici.
Eppure, questa accezione dell’irradiazione luminosa è il punto di passaggio
logico di Leonardo dalla magia alla prospettiva, il punto in cui un caso
particolare tra tanti – la luce – viene isolato e, sulla base del manuale
standard allora in circolazione (la Perspectiva di Pecham) approfondito.
Vediamo allora Leonardo iniziare a fare i conti con una complessità – quella
propria della teoria della visione, oltretutto in un testo che raccoglie il
meglio delle tradizioni alhazeniana e baconiana – che, considerata dal punto
di vista dell’influsso magico universale, è assolutamente impensabile,
perché le domande che su questi piani vengono poste non sono le stesse.
Intanto sussiste già un dubbio sull’universalità dell’influsso, dubbio privo di
senso sulla base della teoria magico-astrologica della simpathia et
antipathia rerum. Inoltre, se torniamo a esaminare il f. 729r-v del Codice
Atlantico sotto questo angolo visuale, possiamo constatare che si tratta,
come si è detto, di un laboratorio in cui quel passaggio logico sta avendo
luogo. Leonardo organizza anche in questo caso l’esposizione secondo
l’usanza della quaestio scolastica, con opinioni ed esempi pro e contra.
Cosí, accanto ai passi citati, se ne può leggere uno, intitolato «Prova
contraria», contenente una descrizione della struttura anatomica dell’occhio
(«il circolo della luce che appare in mezzo al bianco dell’occhio è di natura
apprensiva delli obbietti») che rinvia inequivocabilmente alla sua funzione
di recettore delle specie visive: al centro dell’occhio è il terminale di «uno

48
Ad Eugenio Garin va il merito di aver individuato il legame dei testi del f. 729v con la
Perspectiva communis (e dietro di essa con Bacone). Cfr. il suo Il problema delle fonti del
pensiero di Leonardo (1953), in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze
1961, pp. 400-1n. Cfr. anche Kemp, Leonardo and the Visual Pyramid, cit., pp. 133 s.

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nervo forato che va dentro alle intrinsiche virtú, il quale è pieno della virtú
imprensiva e giudiziale che capita al comun senso» (729r). Non importa
che, come tutti, Leonardo sbagli nell’immaginare un nervo cavo (che
permettesse il passaggio degli spiriti visivi: eredità galenica): è un fatto che
questo abbozzo di discussione – tutto basato su Pecham – si colloca su di un
piano diverso dagli altri «esempli», in quanto ricava la funzione dell’occhio
dalla sua struttura, e non invece postula la funzione (evitando di discutere la
struttura) sulla base di una metafisica precostituita. È un fatto, in ogni modo,
che in quel foglio è questo l’unico passaggio contrario alla tesi estromissiva
e che è ancora a quest’ultima che va la preferenza di Leonardo. Non è un
caso che nel verso si trovi un’altra descrizione della funzione dell’occhio,
articolata anch’essa sul piano di discussione dei «matematici» (e non dei
maghi), ma chiaramente finalizzata a sostenere la plausibilità
dell’estromissione. Leonardo cerca di spiegare «come le linie radiose
portano con sé la virtú visiva insino alla loro repercussione»:
|84| Questa nostra anima ovvero senso comune, il quale i filosafi affermano fare sua
risiedenza nel mezzo del capo, tiene le sue membra spirituali per lunga distanzia lontane
da sé, e chiaro si vede nelle linie de’ razzi visuali, i quali, terminati nell’obietto, immediate
dànno alla lor cagione la qualità della forma del lor rompimento (729v).
Qui emerge con chiarezza non solo la subordinazione della ricerca ottica a
un’idea filosofica piú generale, ma anche il fatto che questa poggia sull’idea
di spirito. Le virtú spirituali, sulle quali si fonda la ricerca di Leonardo negli
anni Novanta, e che dopo il 1500 si trasformeranno in «nulla», sono a questa
altezza – all’inizio dell’ultimo decennio del Quattrocento – attingibili al
momento della loro genesi da un’idea piú generale di spirito: le «membra
spirituali» – di cui l’occhio è solo un caso – sono organo dell’anima e suo
legame operativo con la sfera corporea. In questo momento prevale dunque
ancora, almeno in parte, l’idea che le potenze presenti in natura siano
riconducibili a un’unica radice, lo spiritus, e che di conseguenza l’intervento
di queste nozioni nelle varie indagini equivalga alla riaffermazione
dell’universale validità di questa tesi filosofica (che poi è anche quella di
Marsilio Ficino e di tanti filosofi quattrocenteschi). E, si può aggiungere, di
questa tesi magica, dato che lo spiritus phantasticus o imaginarius è il
veicolo grazie al quale l’anima agisce a distanza sul corpo e
sull’immaginazione altrui49. Ma è chiaro, al contempo, che ci troviamo su di

49
Su questo punto la bibliografia è ingente. Mi limito a rinviare a C. Luporini, La nozione
di ‘spirito’ e le sue implicazioni nella tradizione giunta a Leonardo, in Id., La mente di
Leonardo, Firenze 1953, pp. 81-106, D. P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from
Ficino to Campanella, London 1958, L. Thorndike, Imagination and Magic. The Force of
Imagination on the Human Body and of Magic on the Human Mind, in AA. VV., Mélanges
Eugène Tisserant, Vol. VII.2, Città del Vaticano 1964, pp. 353-58, P. Zambelli,
L’immaginazione e il suo potere. Desiderio e fantasia psicosomatica e transitiva (1985), in
Ead., L’ambigua natura della magia. Filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Milano 1991,
pp. 53-75, E. Garin, Il termine ‘spiritus’ in alcune discussioni fra Quattrocento e

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un crinale: infatti anche soltanto con l’accettare il confronto con «questi


matematici» Leonardo si è già posto nella condizione di dover argomentare
la propria posizione secondo una determinata tavola di criteri di validità, ciò
che lo condurrà di lí a poco a rinunciare a qualsiasi ricorso allo spirito, che
si trasformerà – conservando però alcuni suoi tratti fondamentali – nella
nozione di virtú spirituali e ancora piú in là – perdendo anche questi – in
quella di nulla.

|85| 3. Tra naturalismo e spiritualismo (Arundel, P


1v)
Il crinale tra spirito e virtú spirituali, tra magia e prospettiva, sul quale
Leonardo si muove circa il 1490, rappresenta un momento di svolta molto
importante nel suo itinerario intellettuale, dato che è in questo momento che
egli sceglie consapevolmente di diventare un “filosofo” e un “matematico”.
In ciò che resta del corpus vinciano le tracce anteriori a questa data sono
molto poche – il Trivulziano, il Ms. B, alcuni fogli dell’Atlantico e un
importante foglio dell’Arundel, che nella recente nuova edizione ha ricevuto
la propria collocazione in apertura del codice. Pedretti data questo foglio a
c. il 1480, ed è su di esso che vorrei infine soffermarmi, perché abbiamo
anche qui una discussione tra due posizioni alternative, che si riferiscono
proprio allo spirito in sé e nel suo rapporto con la natura.
Il testo di P 1v (156v) a cui mi riferisco sembra prima facie un’esercitazione
letteraria, e non per caso esso è stato accolto in tutte le piú importanti
selezioni di scritti letterari vinciani sotto il titolo di «La legge di natura» o
simili50. D’altronde la sua collocazione materiale, nel Codice Arundel,
accanto ai famosi passaggi sulla caverna e sul mostro marino ha
probabilmente rafforzato questa impressione. Mia convinzione – che è
possibile argomentare leggendo con attenzione il testo – è che, al contrario,
si sia qui in presenza di una drammatica riflessione teorica e che in essa
nulla venga concesso all’eleganza. In questa riflessione, messa in scena
anche qui al modo della quaestio disputata, Leonardo tenta di chiarirsi un
punto della propria ricerca, uno snodo che aveva urgenza di rendere
teoricamente perspicuo per poter procedere oltre.
Leggiamo il testo. L’inizio è una riflessione sui «nicchi», cioè le conchiglie
fossili. Leonardo ne ricerca l’origine e la «cagione»: «Per le 2 linie de’
nicchi bisognia dire che lla tera per issdegnio s’attuffassi sotto ’l mare, e ffè
il primo suolo, poi il diluvio fè il secondo». C’è dunque una morte collettiva
degli animali procurata dalla terra. È questa l’unica spiegazione possibile
della presenza di conchiglie fossili.

Cinquecento, in Id., Umanisti artisti scienziati, Roma 1989, pp. 295-303, Id., ‘Phantasia’ e
‘imaginatio’ fra Ficino e Pomponazzi, ivi, pp. 305-17.
50
Cfr. Leonardo, Scritti, cit., p. 165 e Scritti letterari, cit., pp. 169 s.

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Qui si inserisce un’obiezione: «Contra: Perché la natura non ordinò che


ll’uno animale non vivessi della morte dell’altro?». Doppia negazione, e
quindi: perché la natura ha bisogno che gli animali si uccidano
reciprocamente per poter vivere? Il nesso tra questa obiezione e il passo che
precede non è immediatamente evidente, ma l’implicito in esso contenuto si
chiarisce subito dalla risposta del sostenitore del pro:
|86| Pro: La natura, essendo vaga e pigliando piacere del creare e fare continue vite e
fforme, perché cogniosscie che ssono accresscimento della sua terrestre materia, è
volonterosa e piú presta col suo creare, che ’l tempo col consumare, e però à ordinato che
molti animali sieno cibo l’uno de l’altro. E non sodisfaciendo quessto a ssimile desidero,
ispesso manda fuora certi avelenati vapori e pestillenti e continua pesste sopra le gran
moltiplicazioni e congregazioni d’animali, e massime sopra gli omini, che fanno grande
acresscimento, perché altri animali non si cibano di loro. E tolto via le cagioni,
mancheranno li effetti.
Ora si può afferrare il senso dell’obiezione: il sostenitore del contra aveva
insinuato che, ordinando la natura nel proprio seno una vita animale
pacifica, la logica catastrofica dei diluvi dovesse poi essere quella
ordinariamente usata per riequilibrare la vita stessa. Gli si risponde che le
pestilenze – come lo sprofondamento della terra e il diluvio – sono solo un
mezzo straordinario che raramente la terra è costretta a mettere in atto per
contenere la moltiplicazione degli animali, un mezzo che non può sostituire
quello ordinario, perché inscritto nella stessa logica della vita, che è il
rapporto tra vita e morte. Pertanto se noi togliamo via la morte, togliamo
anche il suo effetto principale, cioè il suo produrre sempre nuova e piú
abbondante vita. Dunque la morte non è distruzione della vita che in
apparenza, essendo nella realtà funzione del suo esserci e della sua
abbondanza. C’è un senso, una logica provvidenziale nella morte degli
animali, e questa logica provvidenziale si identifica con la continuità
rappresentata dal circuito vita/morte in quanto contrapposto alla logica
catastrofica prospettata dall’avversario.
Questi riformula allora la propria obiezione:
Contra: Adunque questa terra cierca di mancare di sua vita, desiderando la continua
moltiplicazione per la tua assegnata e mosstra ragione. Spesso li effetti somigliano le loro
cagioni. Gli animali sono esenplio de la vita mondiale.
Il sostenitore del contra rovescia abilmente l’argomento: se la morte porta
vita, allora si può anche – e allo stesso titolo – dire che la vita porta morte, e
che la terra, moltiplicando la vita, corre verso la morte, per la stessa ragione
che tu, avversario, hai addotto per dimostrare che mantiene la vita. Quello
tra cause ed effetti viene insomma trattato come un nesso reciproco, tale che
i termini possono scambiarsi le parti («spesso li effetti somigliano le loro
cagioni»); esattamente come si scambiano le parti gli animali (il mezzo) e la
«vita mondiale», cioè la vita universale (il fine). In altri termini: se la morte
degli animali è causa della vita del mondo, si può anche rovesciare il
ragionamento, e dire che la vita degli animali è causa della morte del

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mondo. Si tratta di un’obiezione |87| insinuante, perché rovescia


dall’interno la posizione avversaria iniziando con l’accettarne i presupposti.
A essa risponde il sostenitore del pro:
Pro: Or vedi, la ssperanza e ’l desidero del ripatriarsi e ritornare nel primo chaos fa a
ssimilitudine de la farfalla a’ lume, dell’uomo che con continui desideri senpre con fessta
asspetta la nuova primavera, senpre la nuova state, senpre e’ nuovi mesi e nuovi anni,
parendogli che le desiderate cose, venendo, sieno troppo tarde. E non s’avede che desidera
la sua dissfazione. Ma questo desidero ène in quella quintessenza spirito degli elementi,
che, trovandosi rinchiusa per anima dello umano corpo, desidera senpre ritornare al suo
mandatario. E vo’ che ssappi che questo medesimo desiderio è ’n quella quinta esenza
conpagnia della natura, e ll’uomo è modello dello mondo.
Cosa accade a questo punto? C’è uno scarto netto, un sottrarsi alla disputa,
perché il sostenitore del pro ricerca un punto di inizio assoluto, non piú
suscettibile di precipitare nel vortice dialettico di cause ed effetti che si
scambiano le parti: l’inizio assoluto è la quinta esenza, perché essa è un
punto esterno al ‘gioco’ vita mondiale/animali (perché è esterno al circuito
del mondo elementare). La quintessenza-anima è la causa assoluta, non
relativizzabile, della morte dell’uomo, perché è la spinta al ritorno verso il
suo mandatario, e dunque è la causa assoluta, non mediabile, della
sensatezza della morte.
Abbiamo qui, da parte di Leonardo, un passo indietro, il ricorso a una
spiegazione tradizionale dinnanzi ai problemi posti da un ragionamento in
cui il rinvio reciproco mondo/animali rischiava di eliminare qualsiasi punto
d’avvio assoluto e stabile. La conclusione: «l’uomo è modello del mondo»
significa in questo contesto qualcosa di diverso da quanto era implicito
nell’altra affermazione, precedente, dell’avversario: «gli animali sono
esenplio della vita modiale». Qui è proprio l’uomo a essere modello, perché
possiede (ma meglio sarebbe dire: è abitato da) un’anima, mentre gli
animali erano modello della vita mondiale non in quanto punto d’avvio
assoluto, ma al contrario proprio in quanto ‘presi’ nel rimando reciproco
individuo/universale.
Tra quali posizioni filosofiche si dibatteva Leonardo scrivendo queste righe?
Non è difficile dare un nome al sostenitore del pro: egli fa una mescolanza
di neoplatonismo, stoicismo e pitagoreismo attorno ai temi del tempo
consumatore, delle forme come transito instabile, del corpo come caduta
nella materia e dello spirito come energia provvidenziale che anima la
materia dall’interno restandone però distinto: tutti elementi culturali
rinvenibili anche in altri testi del giovane Leonardo, dai quali pertanto
questa lettura esce confermata. Meno facile è invece dare un volto
all’avversario, che all’apparenza esce soccombente dal confronto. Possiamo
intanto dire che egli non condivi|88|de nessuna delle certezze elencate, ma
fa mostra di un atteggiamento scetticheggiante, e anche vagamente irrisorio,
dato che cura di mostrare al proprio avversario che proprio assumendo
seriamente i suoi stessi argomenti, questi non possono che rovesciarsi nel
loro opposto, facendo naufragare quelle certezze metafisiche sulle quali si

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basavano e denunciandole nella loro natura di semplici presupposti


indiscussi. Anzi, il movimento che egli fa compiere alla discussione va
proprio nella direzione di incalzare progressivamente l’avversario, fino a
costringerlo a dichiarare apertamente la metafisica che si nasconde dietro
gli argomenti di volta in volta sostenuti. Inoltre la sua posizione rifiuta
conseguentemente qualsiasi concessione a una logica provvidenziale: è un
pensatore disposto ad accettare l’idea che l’avvicendarsi di vita e morte, il
susseguirsi delle forme non sia documento o manifestazione di un qualche
senso, ma è semplicemente un fatto, in quanto tale indeducibile. Infine,
accetta la possibilità che le catastrofi – i diluvi, le pestilenze, insomma le
fratture traumatiche e le discontinuità – siano il vero regolatore della vita
sulla terra, e che quindi l’ordine poggi sopra il disordine.
Questi tratti sembrano convergere nel tratteggiare una posizione assimilabile
a certe tesi dell’atomismo antico: Democrito «che ’l mondo a caso pone»,
Epicuro, autori che, sebbene non attestati nel corpus vinciano, erano
presentissimi nella Firenze in cui Leonardo crebbe e dove ancora si trovava
quando scriveva questa pagina51. D’altra parte non manca in |89| Leonardo
qualche cenno, probabilmente di seconda mano, al piú importante mediatore
dell’atomismo nell’Occidente latino. Il nome di Lucrezio è forse implicito
nel rinvio alla massima «Anassagora. Ogni cosa vien da ogni cosa e d’ogni
cosa si fa ogni cosa e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli
elementi, è fatto da essi elementi», trascritta nel Codice Atlantico, 1067r (c.
1505-10), dato che Leonardo potrebbe averla tratta dal De rerum natura

51
Sullo scenario rimando in generale a E. Garin, Ricerche sull’epicureismo del
Quattrocento (1959), in Id., La cultura filosofica…, cit., pp. 72-86, ma anche al suo La
letteratura ‘solare’ e l’orazione al Sole di Giuliano (1957), in Id., Studi sul platonismo
medievale, Firenze 1958, pp. 190-215, in partic. p. 195, dove si parla di «una curiosa
contaminazione di naturalismo presocratico e di misticismo neoplatonico» a proposito della
«teologia» dei «nuovi filosofi».
Chi ha suggestivamente sostenuto che la morale di Leonardo, legata alle coppie di contrari
(vita/morte ecc.) e non al nesso materia/forma, non sia stoico-provvidenzialistica, ma
democritea, è G. De Santillana (Léonard de Vinci et ceux qu’il n’a pas lus, in AA. VV.,
Léonard de Vinci et l’expérience scientifique au seizième siècle, Paris 1953, pp. 43-59 =
50), senza peraltro addurre prove documentali, e trascurando il volgarizzamento Vita de’
filosofi (pubblicato a Venezia nel 1480) che compare sia (al n. 27) nella lista del Codice
Atlantico, 559r (c. 1490-91), sia (al n. 61) in quella del Madrid II, 2v-3v (c. 1503), dove
Leonardo avrebbe potuto pur sempre leggere la vita di Democrito (IX.7), con l’esposizione
delle sue tesi fondamentali. Piú recentemente il tema del ‘Leonardo presocratico’ è stato
ripreso da J. O. Fleckenstein, che ha però concluso per il suo sostanziale platonismo
(Lionardo und die Kosmologie der Antike, in AA. VV., Leonardo nella scienza e nella
tecnica, Firenze 1975, pp. 31-35 = 32).
Leonardo non poteva, comunque, ignorare il Democrito dantesco, tra gli «spiriti magni» del
Limbo (Inferno, IV.136) accanto, tra gli altri, ad Eraclito; e si noti che Democrito ed
Eraclito conobbero – come raffigurazione dell’opposizione pianto/riso – una fortunata
tradizione iconografica nella quale Leonardo ebbe un ruolo non secondario: cfr. F. Paliaga,
Riflessioni a margine su ‘Eraclito e Democrito’ di Bramante e l’influenza di Leonardo, in
AA. VV., ‘Tutte le opere non son per istancarmi’…, cit., pp. 323-36.

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(I.830-42, 875-79)52. Ma esso compare esplicitamente in un testo


notevolmente anteriore, solo di qualche anno piú tardo di Arundel, P 1: nel
Ms. B, c. 1487, si legge: «Lucrezio nel terzo delle cose naturale: le mani
unghie e denti furono le armi de li antichi» (8v). È molto probabilmente un
rinvio indiretto, mediato dal De re militari di Roberto Valturio53, e oltretutto
contiene una svista54. Resta però che il frammento lucreziano trascritto da
Leonardo è portatore di una concezione naturalistica della storia del genere
umano, e contiene un’allusione alla tecnica come momento propriamente
inventivo del rapporto col mondo, che sono due aspetti fortemente legati alla
mente di Leonardo, in special modo a quegli aspetti di essa che andranno
progressivamente affermandosi nel corso degli anni.
Per concludere, vediamo quale sia la traiettoria percorsa nel corpus vinciano
dal termine quinta essenzia, attestato solo in pochissimi altri passi. In
Atlantico, 1090v (c. 1495-97) si legge:
La quinta essenza è infusa per l’aria, sí come è il foco elemento, benché ciascun di questi
abbia in sé ovvero per sé la sua regione; e mediante che a ciascuna lor particula è dato
materia notritiva, essa piglia forma accrescitiva e aumentativa; e se ’l notrimento fia lor
tolto, essi subito abbandonano tal corpo e tornano alla sua prima natura.
Il passo non è linguisticamente chiaro, tuttavia mi sembra di potervi
riconoscere un’attribuzione alla «quinta essenza» del ruolo di messa in
movimen|90|to del mondo elementare, con la formazione di composti;
laddove la mancanza di nutrimento corrisponde al disfacimento dei
composti e quindi alla morte: la quale però compare qui (circa quindici anni
dopo il passo dell’Arundel) in modo del tutto diverso, semplicemente come
ristabilimento di un ordine-equilibrio naturale perfettamente statico, che si
lega evidentemente alle idee di Leonardo sulla fine della «terreste natura»
da una parte55, e i passi tardi sulla ricostituzione della sfericità perfetta
dell’acqua, dall’altra56.
Un altro luogo in cui il termine compare è Atlantico, 197v (c. 1505). Qui, al
recto e al verso, ci sono esperimenti mentali sul peso dei 4 elementi. Quindi
al verso, in margine, Leonardo aggiunge: «Ogni elemento resiste per quanto
è il suo peso, piú quel che sopra a lui si sostiene. Qui bisogna aggiungere la

52
Questa tesi in Solmi, Le fonti…, cit., pp. 202 s. (e Leonardo da Vinci, Frammenti letterari
e filosofici, a cura di E. S., Firenze 1979, p. 295).
53
Cfr. Solmi, Le fonti…, cit., p. 289, che rinvia a p. 211 dell’edizione parigina 1534 del
Valturio. Cfr. anche C. Vecce, Leonardo, Roma 1998, p. 84.
54
Il testo sulle «prime armi» non è nel terzo, ma nel quinto libro. Cfr. De rerum natura,
V.1283: «arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt».
55
Arundel, P 1r (155v).
56
Cfr. ad es. Ms. F, 52v (c. 1508): «Se la terra fussi sperica nessuna parte di quella sarebbe
scoperta dalla spera dell’acqua […] Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare e il
contrario son le cime dei monti. Seguita che la terra si farà sperica e tutta coperta
dall’acque, e sarà inabitabile». Cfr. anche ivi, 84r: «Del mondo. Ogni grave attende al basso
e le cose alte non resteran in loro altezza, ma col tempo tutte discenderanno; e cosí col
tempo il mondo resterà sperico e per conseguenza fia tutto coperto dell’acqua, e le vene
sotterranee resteranno immobili».

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levità della quinta essenzia». Dunque ogni elemento, in rapporto al proprio


grado di peso, ha anche un corrispondente grado di resistenza. Peso e
resistenza sono qualità correlative dei corpi: il piú pesante resiste al piú
leggero, ma non viceversa. La terra è in basso non perché “desideri” esservi,
o perché qui sia il suo luogo naturale, ma perché non ci sono elementi che le
resistano, mentre essa resiste a tutti gli altri. Il peso non è piú una qualità
interna del corpo, ma un comportamento che esprime una determinata
densità della sua materia. Ebbene, se questo è vero, conclude Leonardo, sarà
necessario anche riqualificare la quinta essenza, e cioè la sua «levità», in
termini fisici di resistenza e di densità.
A questo passo si lega evidentemente Atlantico, 214Ar (c. 1508-1057), in cui
Leonardo ragiona sul peso relativo dei quattro elementi, e poi vi aggiunge la
«quinta essenzia» come il piú leggero e l’«oro fuso» come il piú pesante.
Qui siamo molto distanti dal passo del 1480: non solo la quinta essenza è
diventata un elemento tra gli altri, ma è la stessa nozione di “elementi” che
ha subi|91|to una trasformazione: il corrispettivo, dal lato della pesantezza,
della quinta essenza, è un metallo, per cui, se gli elementi sono sei, non si
vede perché non debbano diventare dodici o trentasei. Una cosa è certa: il
loro numero non è dato in partenza, e infatti al verso dello stesso foglio
Leonardo scrive:
Che cosa sia elemento. La difinizione di nessuna quiddità delli elementi non è in potenzia
dell’omo, ma gran parte de’ loro effetti sono noti. E porreno a nostro beneplacito li gradi di
lor gravità e levità, benché si po dare la verità, ma non de’ semplici elementi, perché infra
noi non si trovano.

Sguardo retrospettivo
Proviamo, in conclusione, a ripercorrere rapidamente le tappe che ho tentato
di scandire. Esse sono tutte alimentate, orientate e attraversate dalle tensioni
interne e dalle conseguenti metamorfosi di una nozione dominante: quello
«spirito» che si definisce in questo foglio del 1480 come l’ultimo bastione
metafisico di chi sostiene la presenza in natura di una provvidenzialità e di
una legalità sensata. Si potrebbe quindi dire che tutto l’itinerario intellettuale
di Leonardo è una meditazione attorno alle aporie presenti in questo
concetto, e che tutta la sua terminologia filosofica, afferente agli ambiti piú
diversi, come si è visto, della filosofia naturale – potenze, forza, impeto,
termine, nulla, ecc. – va compresa a partire da queste aporie e a partire dalle
trasformazioni continue da esse innescate. Ma proprio il fatto che lo spirito
da una parte viene appropriato da Leonardo, dall’altra viene sentito come

57
Pedretti, Codex Atlanticus…, cit., ad loc., aveva datato questo foglio c. 1505-6, ma è ora
incline (sua comunicazione epistolare) «a spostarlo verso il 1508-10, anche per il rapporto
con il 197 v, che si presenta con analogo ductus e che contiene simile riferimento alla
quintessenza».

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aporetico e sottoposto a trasformazione, implica la presenza, nel suo


itinerario intellettuale, anche della posizione dell’avversario 58. La presenza
del naturalismo radicale dell’avversario nella ricerca vinciana si ritrova
proprio nel fatto che, accanto a un’influente presenza di temi metafisici forti,
si ha |92| anche un incessante movimento di rimessa in discussione di essi,
fino a farli diventare qualcosa di profondamente diverso da ciò che erano.
La tensione tra magia e prospettiva, come quella tra accettazione e rifiuto
del «nulla», come quella tra un approccio meccanicistico e la nozione di
«impressione», è ad un tempo momento dell’indagine scientifica di
Leonardo e della sua riflessione filosofica, esprime al contempo un
confronto con la natura e con la metafisica, dove questa duplicità è sorretta
dal duplice impulso – che per comodità chiamerò spiritualistico e
naturalistico – fin dall’inizio presente in Leonardo59.
Se si tiene presente questo tratto, unitario nella sua duplicità, sarà forse
possibile accostare il riemergere, nell’ultimo Leonardo, della nozione di
«impressione», al parallelo riemergere dell’interesse per una natura
catastrofica nei disegni e nei testi tardi sui diluvi60, e vedere in ciò una tarda
anche se non tardiva rivincita dell’avversario, cioè il prevalere della natura
nella sua infinita e inanticipabile apertura.

58
Se questo è vero, nonostante le apparenze anche in Arundel, P 1v, come negli altri fogli-
laboratorio, la tensione viene lasciata aperta e non c’è una scelta per una delle due
posizioni.
59
Carlo Dionisotti ha sottolineato con forza e ampiezza di argomenti il naturalismo
radicale e l’anti-umanesimo di Leonardo: entro i limiti che ho tentato di segnare, questa
caratterizzazione può qui essere accolta. Cfr. il suo Leonardo uomo di lettere, in “Italia
medievale e umanistica”, V (1962), pp. 183-216 (= 187, 198 s.).
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Sui diluvi cfr. ora l’ottima ricostruzione di Fehrenbach, Licht und Wasser…, cit., pp. 291-
331.

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