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Nato nel 1907 in Polonia e morto nell’agosto 1967 a Roma, Isaac

Deutscher, era destinato a una carriera religiosa dalla lunga


tradizione della sua famiglia, che aveva vissuto a Cracovia sin dal
1900 fornendo molti rabbini alla comunità. Si dedicò invece allo studio
della filosofia e dell’economia. Divenuto comunista a diciannove anni,
nel 1932 venne espulso dal partito per aver espresso coraggiosamente
critiche violente. Era già noto allora come critico letterario,
economista e scrittore politico a Varsavia, dove si specializzò negli
affari russi viaggiando nell’Unione Sovietica e soggiornando a lungo in
Ucraina. Nell’aprile del 1939 si recò a Londra come corrispondente
dei giornali polacchi, in quello stesso anno cominciò a collaborare all’«
Economist ». Dal ’42 entrò a far parte delia redazione della famosa
rivista, passando poi a quella dell’« Observer » come specialista di
affari diplomatici, corrispondente in Europa, e adottò il « nom de
piume » Peregrine. Altri giornali, compreso il « Times » e il « New
York Times », richiesero più tardi la sua collaborazione. La Oxford
University Press pubblicò la sua insuperata biografia di Stalin,
tradotta e aggiornata dalla Longanesi & C., alla quale fece seguire più
tardi i tre volumi su Trotzky (« Il profeta armato », « Il profeta
disarmato », « Il profeta esiliato ») che rimarranno testi definitivi per
gli storici di tutti i tempi, e che hanno certo contribuito al sorgere di
certi processi di revisionismo e di certe « nuove vie al socialismo ». In
questo volume che onora la collezione « Studio », Deutscher rivela con
maestria eccezionale le varie contraddizioni contenute nella storia
della rivoluzione russa, gli errori di una burocrazia rivoluzionaria
rimasta senza base, del sacro egoismo di Stalin con tutte le sue
grossolanità, e della cieca politica condotta dall'Unione Sovietica
prima verso l’occidente e poi nei confronti della Cina.

L’editore
Scansione, Ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche

PER IL CENTENARIO DELLA RIVOLUZIONE RUSSA

1917-2017
»STUDIO«

Collana diretta da Enzo Bettiza

VOLUME 2
PRESENTAZIONE DELLA COLLANA

Si avverte che qualcosa in Europa, sia dell’Est sia dell’Ovest, è


finito. Le tare mitologiche che ci portiamo dietro dalla Resistenza,
dallo stalinismo, da un velleitario radicalismo di paleosinistra, stanno
cedendo a qualcosa di nuovo e di ancora informe. Il linguaggio
che usano gli ultimi mitomani di un’Europa già vecchissima, benché
uscita dal 1945, è estraneo alle più giovani generazioni. È tempo, per
ambedue le Europe, di revisione, di rimeditazione, di controllo severo
sulle dottrine, di realismo nell’azione politica e
nell’osservazione storica.
La revisione di tutto ciò che è stato detto, scritto, pensato, sperato
negli ultimi vent’anni, è uno dei compiti essenziali che questa collana
si propone. Essa è perciò, o perlomeno vuole esserlo nel senso
culturalmente più intimo del termine, una collana europea alla
quale dovranno partecipare le voci dell’Oriente e dell’Occidente.
Uno degli scopi che essa infatti si prefigge è di porre su uno stesso
piano di discussione e di confronto i fermenti di revisione culturale più
lucidi tanto di questa quanto dell’altra Europa. È arrivato per esempio
il momento in cui gli intellettuali dell’Est non possono essere più
considerati come infermi da sorreggere, come sognatori estemporanei
da « ridimensionare » secondo schemi occidentali, oppure come puri
esempi di fallimento di una infelice esperienza storica. Perché la
lezione che ci viene dall’altra Europa è, più che mai ora, delle più
stimolanti : proprio nell’attrito con l’illibertà gli intellettuali dell’Est
stanno difatti scoprendo valori di libertà spesso nuovissimi, inediti per
gli occidentali stessi. Molti intellettuali dell’Ovest, che usano la libertà
formale di cui godono solo per negarla, hanno da imparare diverse
cose dai loro colleghi orientali. La sofferenza storica, il pensiero
pagato col carcere o con la vita, il ripudio anche autobiografico dei
miti, una più completa e più reale visione globale del mondo sono, in
questo momento, gli attributi intellettivi e morali che fanno
dell’intelligencija critica dell’Est il sale della ricerca culturale in
Europa. Siamo del parere che russi, polacchi, cechi, slovacchi,
ungheresi, croati, serbi, comunisti o no, stiano vivendo un
rinascimento culturale di cui non si vedono per adesso che alcune
antenne premonitrici; l’esplosione è ancora da venire.
La collana registrerà e insieme interverrà, entro i possibili limiti
informativi, nel travaglio di disinfestazione che oggi contrassegna, in
modo sempre più accelerato, l’ansia di realismo e di verità degli
ingegni e degli spiriti più vigili delle due Europe. Non vi saranno
perciò esclusioni di generi. Il filosofo, l’economista, il romanziere, il
saggista, il giornalista, il politico intellettuale, si ritroveranno qui
insieme, impegnati in una discussione i cui presupposti comuni
saranno la critica del già noto, il rifiuto del falso, la verifica
dell’esistente, la condanna della mistificazione.
Riteniamo che tale scambio di opinioni e d’informazione tra le
intelligencije delle due Europe non possa non partire dalla
considerazione che, per il nostro continente, è finita l’epoca delle
eccitazioni astratte. L’energia culturale dell’Europa di oggi è nella
revisione di se stessa, cioè nella moderazione critica di tutti
quegli impulsi di pensiero, di fede, di ideologia, che nel passato ci
hanno precipitato nel crimine e che nel presente portano confusione
fra popoli più acerbi e culturalmente più disarmati di noi. Il ripudio di
ogni esotismo politico, di ogni tentativo di trasferire altrove, in climi
estranei alla nostra realtà, la chiave dei problemi del tempo, è uno
degli elementi di fondo che orienteranno la collana.
Per l’Europa è tempo di revisioni più che di rivoluzioni. È tempo di
smantellamenti, di correzioni, più che di gratuite esplosioni eversive.
Chiunque si ponga al di fuori di questo clima riflessivo è condannato
a perpetuare in astratto velleità, anche oneste ma futili, che
conservano il marchio dei grandi ricatti subiti da tutti gli europei in
anni umilianti e ancora recenti: la guerra fredda, la malafede
staliniana, il neocapitalismo puramente economicistico e privo di una
coscienza politica europea, il vitello d’oro del benessere di massa
quale alternativa al fallimento delle fedi di massa.
Se c’è una cosa che la collana « Studio » desidera diffondere fra i
suoi lettori è, non importa il prezzo, la chiarezza, il senso della realtà,
la riconsiderazione analitica dell’evidenza. A studi tecnici si potranno
alternare romanzi, nella scia di quella totalità di adesione culturale al
reale che è uno dei segni operativi dell’intelligencija europea degli
ultimi cinquant’anni: conterà la linea di condotta e di strategia
intellettuale comune.
In definitiva, la collana vorrà essere il progetto per una nuova
dinamica culturale, per una nuova coscienza insieme ottica e morale
del mondo in cui operiamo.

e. b.
LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA

] 1917-1967 [

Le conferenze del ciclo George Macaulay Trevelyan


tenute all’università di Cambridge
] gennaio-marzo 1967 [

di ISAAC DEUTSCHER

PREFAZIONE DI ENZO BETTIZA

TRADUZIONE DI CAMILLO PELLIZZI

LONGANESI & CO.


PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Longanesi & C., © 1968, Milano, via Borghetto, 5

Traduzione dall’originale inglese


The unfinished Revolution 1917-1967
di Camillo Pellizzi
Indice

PREFAZIONE

LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA

CAPITOLO PRIMO. LA PROSPETTIVA STORICA

CAPITOLO SECONDO. ROTTURE NELLA CONTINUITÀ


RIVOLUZIONARIA

CAPITOLO TERZO. LA STRUTTURA SOCIALE

CAPITOLO QUARTO. LA STASI NELLA LOTTA DI CLASSE

CAPITOLO QUINTO. L’UNIONE SOVIETICA E LA RIVOLUZIONE


CINESE

CAPITOLO SESTO. CONCLUSIONI E PREVISIONI

NOTE
RINGRAZIAMENTI
PREFAZIONE

ISAAC DEUTSCHER, a un anno dalla sua scomparsa, ci appare


ormai un classico della sovietologia. Questi scritti, che pubblichiamo
postumi, sono estratti da un ciclo di conferenze tenute all’Università di
Cambridge nel gennaio-marzo 1967: in forma perciò più diretta del
saggio elaborato a tavolino, rappresentano i dubbi, le speranze, il
pensiero intimo dello scrittore sul destino della « rivoluzione
incompiuta » nel momento in cui essa raggiungeva il mezzo secolo
d’età. Sono non soltanto un congedo di Deutscher dalla vita, ma
dall’oggetto della sua passione, il cataclisma rivoluzionario russo,
osservato e descritto da lui con rara onestà per oltre trent’anni.
Va detto che l’onestà di Deutscher è stata anche il suo limite. Ebreo
nato nelle province polacche dell’impero zarista, membro in gioventù
del partito comunista polacco, poi espulso da questo per le sue
simpatie trotzkiste, Deutscher aveva continuato sempre a considerarsi
marxista; e lo è stato con la fermezza messianica, con la lucidità di
stile, con l’acutezza analitica proprie ai suggestivi rivoluzionari usciti,
nella prima metà del secolo, dall’ambito di quell’aristocrazia
intellettuale ebraica che ebbe il suo centro di condensazione
cosmopolita fra la Polonia, la Lituania e la Russia.
Ma questa coerenza costante alle origini, se da un lato ha concesso
a Deutscher di sviscerare il fenomeno bolscevico dall’interno,
dall’altro gli ha spesso impedito di porsi all’esterno di esso : lui ha
sempre creduto nella validità dell’esperimento leninista, ne ha
giustificato tutte le aberrazioni con la spiegazione sociologica di un
partito rivoluzionario che si sostituisce a una classe
operaia inesistente, ha in definitiva inquadrato il fatto rivoluzionario
russo nella cornice cara a un bolscevico arcaico. Il suo distacco dalle
tradizioni mensceviche e socialrivoluzionarie del movimento russo è
costantemente percettibile nelle opere che ha scritto. Le sue stesse
simpatie per Trotzki, nel cui personaggio si è quasi identificato,
non gli hanno mai impedito di vedere la grandezza di Stalin e di «
comprenderla » anche nei lati più mostruosi.
Si vedrà anzi che, in questi suoi ultimi scritti, Deutscher tende ad
accentuare un ritorno alle origini. Come il suo Trotzki, difende il fatto
rivoluzionario in sé, crede nell’esistenza esemplare dell’Unione
Sovietica, al di là e quasi contro lo stalinismo. Rifiuta le conclusioni cui
giunse Djilas con la teoria della « nuova classe », benché tale teoria
non sia altro al fondo che un’esasperazione aggiornata dell’analisi
trotzkista sulla degenerazione burocratica del sistema
sovietico. Deutscher seguita a vedere il futuro della Russia nella
prospettiva di uno sviluppo che parte dal presupposto di
un’interruzione temporanea della rivoluzione incompiuta. L’idea che
fra i ranghi ribelli della nuova intelligencija in Russia stia maturando
l’inizio di una rivoluzione nuova, una rivoluzione di rottura col
leninismo, valevole di per sé, di tipo democratico, non lo sfiora.
Per queste contraddizioni, una lettura critica di Deutscher è
appunto interessante. Una volta accolte le sue conclusioni con riserva,
non si può non riconoscere un valore stimolante al movimento
analitico della sua ricostruzione storica nei particolari. Il bolscevico
ch’egli, nonostante Stalin, ha sognato di essere, punta ostinatamente a
visioni di fede soggettiva; ma il marxista ch’egli è stato, giunge
malgrado ciò a constatazioni di verità oggettiva. Deutscher resterà il
primo marxista che abbia applicato con spregiudicatezza e acutezza il
metodo marxista al sondaggio di una realtà rivoluzionaria.
Un’ultima parola va detta sul suo stile mirabile. Lo contrassegnano
l’estrema chiarezza, la grande concisione, la forza a tratti poetica
del linguaggio: insomma tutto ciò che manca alle esposizioni involute,
sature di formule scientifizzanti, che rendono così sciatti e noiosi gli
scritti di tanti marxisti. Questo suo apporto alla demistificazione
lessicale del vocabolario marxista, quanto alla demolizione del mito
staliniano, è degno della massima considerazione. Scongelare il
marxismo dalle sue pietrificanti formule esoteriche è già un atto di
libertà : è già, in sede linguistica, un involontario superamento
dell’ingranaggio a scatola del marxismo.
In sostanza lo stile dello scrittore e l’osservazione dello storico sono
risultati, in Deutscher, più robusti dell’onestà del credente.
e. b.
LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA

]1917-1967[
CAPITOLO PRIMO

LA PROSPETTIVA STORICA

CHE cosa significa la rivoluzione russa per la nostra generazione e


per il nostro tempo? La rivoluzione ha soddisfatto le speranze che ha
suscitate o le ha deluse? È naturale che ci poniamo di nuovo tali
domande in quest’anno, a mezzo secolo dalla caduta dello zarismo e
dall’andata al potere del primo governo sovietico. La distanza che ci
separa da quegli avvenimenti sembra abbastanza grande per
consentire una prospettiva storica. Tuttavia noi sentiamo anche che la
distanza potrebbe essere troppo breve. Quest’epoca è stata la più
densa di cataclismi della storia moderna. La rivoluzione russa ha
sollevato problemi di gran lunga più profondi, ha agitato conflitti più
violenti e ha scatenato forze molto più grandi di quelle che erano state
coinvolte nei più vasti sommovimenti sociali del passato. Eppure
questa rivoluzione non si è conclusa. È ancora in movimenti. Ci può
ancora sorprendere con svolte secche e improvvise. Ha ancora la
capacità di ridisegnare le proprie prospettive.
Stiamo entrando in un campo che gli storici o trattano con timore o
temono di trattare.
Per cominciare, è un dato di fatto che tutti accettiamo per
dimostrato, che gli uomini che governano in questo momento l’Unione
Sovietica si definiscono come i legittimi eredi del partito bolscevico
del 1917. Questa circostanza, tuttavia, difficilmente si può dare per
dimostrata. Non ci sono precedenti, in nessuna delle rivoluzioni
moderne, che possano paragonarsi con la rivoluzione in Russia.
Nessuna di esse è durata mezzo secolo. Nessuna ha mantenuto una
continuità, sia pure relativa, ad essa comparabile nelle istituzioni
politiche, nei sistemi economici, negli atti legislativi e nelle tradizioni
ideologiche. Pensate soltanto al quadro che presentava l’Inghilterra
circa cinquanta anni dopo l’esecuzione di Carlo I. In quell’epoca gli
inglesi, dopo aver vissuto sotto il governo del Commonwealth,
del Protettorato, della Restaurazione, e avendo lasciato dietro di sé la
« gloriosa rivoluzione », cercavano sotto il regno di Guglielmo III e di
Mary di scegliere tra gli elementi di tutta quella ricca e tempestosa
esperienza e perfino di dimenticarla. E nei cinquantanni che seguirono
la distruzione della Bastiglia, i francesi rovesciarono la loro vecchia
monarchia, vissero sotto la repubblica giacobina, il Termidoro, il
Consolato e l'Impero. Videro il ritorno dei Borboni e ancora una volta
li cacciarono per mettere sul trono Luigi Filippo, il cui regno borghese
alla fine degli anni trenta aveva consumato esattamente metà della
sua vita. La rivoluzione del 1848 gettava già la sua ombra davanti a sé.
La rivoluzione russa, per la sola ragione della sua durata, sembra
rendere impossibile la ripetizione di qualcosa di simile a questo
classico ciclo storico. È inconcepibile che la Russia possa richiamare i
Romanov, anche soltanto per cacciarli una seconda volta. Né possiamo
immaginare il ritorno dell’aristocrazia terriera russa, come tornò
quella francese sotto la Restaurazione, a reclamare le proprietà o il
risarcimento delle proprietà che le erano state confiscate. I
grandi proprietari francesi di terre erano stati in esilio soltanto per
circa venti anni; nondimeno il paese nel quale ritornarono era tanto
cambiato ch’essi vi si ritrovarono come stranieri e non
potevano ricollegarsi alle glorie del passato. I proprietari agrari russi
e i capitalisti che andarono in esilio dopo il 1917 sono scomparsi; ed è
certo ormai che i loro figli e nipoti devono essersi separati dalle loro
proprietà avite perfino nei sogni. Le fabbriche e le miniere che furono
dei padri o dei nonni sono una piccolissima frazione dell’industria
sovietica che è stata fondata dopo di allora e sviluppata come
proprietà comune. La rivoluzione sembra aver là vissuto più a lungo di
ogni possibile forza di restaurazione. Non solo i partiti dell’ancien
regime, ma perfino i menscevichi e i rivoluzionari sociali, che
dominarono la scena politica tra il febbraio e l’ottobre 1917, da
lungo tempo non esistono più nemmeno in esilio, nemmeno come
ombre di se stessi. Soltanto il partito che ha conquistato la vittoria
nell’insurrezione di ottobre è ancora là in tutto il suo potere
proteiforme, al governo del paese, e tiene alti la bandiera e i simboli
del 1917.
Ma è ancora lo stesso partito? Possiamo veramente parlare di
continuità della rivoluzione? Gli ideologi ufficiali sovietici assicurano
che la continuità non è mai stata interrotta. Altri dicono che è stata
conservata soltanto come una forma esteriore, come un guscio
ideologico che nasconde realtà che non hanno nulla in comune con le
alte aspirazioni del 1917. La verità mi sembra più complessa e
ambigua di quanto non lo indichino queste contrastanti
affermazioni. Ma supponiamo per un momento che la continuità sia
stata soltanto apparente. Dobbiamo ancora chiederci che cosa ha fatto
sì che l’Unione Sovietica rimanesse attaccata ad essa così
ostinatamente. E come può durare così a lungo una vuota forma, non
sostenuta da nessun contenuto che le corrisponda? Quando i capi e i
governanti sovietici che sono venuti dopo riaffermano la loro fedeltà ai
compiti e agli scopi ch’erano all’origine della rivoluzione, non
possiamo prendere le loro dichiarazioni come oro colato, ma nemmeno
possiamo scartarle come totalmente irrilevanti.
Anche in questo caso i precedenti storici sono istruttivi. In Francia,
a una distanza simile dal 1789, non sarebbe nemmeno venuto in
mente agli uomini in carica di presentarsi come i discendenti di Marat
e di Robespierre. La Francia aveva quasi dimenticato la grande
funzione creativa che il giacobinismo aveva avuto nelle sue fortune, e
ricordava il giacobinismo solo come il mostro che in altri tempi era
stato dietro la ghigliottina e l’aveva manovrata nei giorni del Terrore.
Soltanto alcuni dottrinari socialisti, uomini come Buonarroti (che era
stato anche lui una vittima del Terrore) lavorarono alla riabilitazione
della tradizione giacobina. L’Inghilterra fu a lungo nella morsa della
revulsione contro tutto ciò che Cromwell e i puritani avevano
rappresentato. G. M. Trevelyan, al cui nobile lavoro storico
sto esprimendo qui il mio rispettoso tributo, descrive come questa «
passione negativa » abbia tiranneggiato le menti inglesi perfino
durante il regno della regina Anna. Dalla fine della Restaurazione, egli
dice, la paura di Roma si era risvegliata; tuttavia « gli eventi dei
precedenti cinquant’anni erano la causa di una reazione di timore
nei confronti del puritanesimo. La sconfitta della Chiesa e
dell’aristocrazia, la decapitazione del re e il rigido governo dei
puritani aveva lasciato un’impressione negativa; quasi altrettanto
potente e duratura quanto il ricordo di ’ Maria la Sanguinaria e di
Giacomo II ». La forza della reazione antipuritana si rivelò, secondo il
Trevelyan, nel fatto che durante il regno della regina
Anna « il punto di vista dei cavalieri e degli anglicani sulla guerra
civile teneva il campo; i Whig la schernivano in privato, ma solo
occasionalmente osavano contraddirla in pubblico ».1 È vero che i
Tory e i Whig continuavano a discutere sulla « rivoluzione »; ma gli
avvenimenti ai quali si riferivano erano quelli del 1688 e del 1689, non
quelli del 1640. Dovevano passare due secoli prima che gli inglesi
cominciassero a cambiare opinione sulla « grande ribellione » e
a parlarne più rispettosamente come di una rivoluzione; e ancor più
tempo doveva trascorrere prima che la statua di Cromwell potesse
essere eretta di fronte alla Camera dei Comuni.
I russi si affollano ancora, ogni giorno, in uno spirito quasi di
venerazione religiosa, davanti alla tomba di Lenin sulla piazza Rossa.
Quando ripudiarono Stalin ed espulsero la sua mummia dal mausoleo,
non la fecero a pezzi come gli inglesi avevano fatto dei resti di
Cromwell e i francesi di quelli di Marat; seppellirono di nuovo
Stalin senza chiasso sotto il muro degli Eroi al Cremlino. E quando i
suoi successori decisero di ripudiare una parte del suo testamento,
essi decisero di tornare alla sorgente spirituale della rivoluzione, ai
princìpi e alle idee di Lenin. Senza dubbio tutto questo fa parte di un
bizzarro ritualismo orientale, ma sotto di esso c’è una forte corrente di
continuità storica. L’eredità della rivoluzione sopravvive in una forma
o nell’altra nella struttura della società e nello spirito della nazione.
Il tempo è, naturalmente, relativo perfino nella storia; mezzo secolo
può significare molto o può significare poco. La continuità è
anch’essa relativa. Può essere, e infatti lo è, per metà reale e per metà
illusoria. Essa è solidamente fondata, eppure è fragile. Ha i suoi
grandi vantaggi, ma anche le sue maledizioni. In ogni caso, dentro la
cornice di quella continuità ci sono state brusche rotture delle quali
spero di trattare più avanti. Ma la cornice è abbastanza massiccia;
e nessuno storico serio può disfarsene alla leggera o non esserne
influenzato quando affronta il tema della rivoluzione. Egli non può
considerare gli avvenimenti di questo mezzo secolo come
una aberrazione della storia, come il prodotto del sinistro disegno di
alcuni uomini perversi. Siamo di fronte a un blocco massiccio e
pulsante di realtà storica, oggettiva, a una crescita
organica dell’esperienza sociale dell’uomo, a un vasto allargarsi degli
orizzonti del nostro tempo. Mi riferisco, soprattutto, all’opera creativa
della Rivoluzione d’Ottobre, e di questo non debbo scusarmi. La
rivoluzione del febbraio 1917 ha il suo posto nella storia solo come il
preludio di quella d’ottobre. La gente della mia generazione ha visto
parecchie altre rivoluzioni di febbraio; le abbiamo vedute, nel 1918, in
paesi diversi dalla Russia, in Germania, in Austria e in Polonia, quando
gli Hohenzollern e gli Absburgo persero il trono. Ma chi parlerebbe
oggi della rivoluzione tedesca del 1918 come di un avvenimento
di principale importanza formativa in questo secolo? Essa lasciò
intatto il vecchio ordine sociale e fu soltanto un preludio all’ascesa del
nazismo. Che ragione c’è di supporre che se in Russia la rivoluzione di
febbraio si fosse arrestata in un modo analogo e avesse prodotto, nel
1917 o nel 1918, una varietà russa di repubbliche di Weimar, che
ragione c'è di supporre che oggi ricorderemmo ancora la rivoluzione
russa?
Nondimeno numerosi teorici e storici considerano ancora la
Rivoluzione d’Ottobre come un avvenimento quasi fortuito. Alcuni
sostengono che la Russia avrebbe potuto risparmiarsi la rivoluzione se
soltanto lo zar fosse stato meno ostinato nel voler mantenere le sue
prerogative assolutiste e se fosse venuto a patti con l’opposizione
liberale realista. Altri dicono che i bolscevichi non avrebbero mai
avuto la loro chance se la Russia non fosse stata coinvolta nella
prima guerra mondiale o se si fosse ritirata in tempo da essa, prima
che la disfatta la riducesse al caos e alla rovina. I bolscevichi, secondo
questo modo di vedere, trionfarono a causa degli errori di calcolo
commessi dallo zar e dai suoi consiglieri, o dagli uomini che assunsero
il governo subito dopo la sua caduta; e ci si chiede di credere
che questi errori e questi sbagli di calcolo avvennero per caso, o
furono effetti accidentali di giudizio e decisioni individuali. Che lo zar
e i suoi consiglieri abbiano commesso sciocchi errori è naturalmente
vero. Ma essi li commisero sotto la pressione della burocrazia zarista e
di quegli elementi delle classi abbienti che avevano interesse a
mantenere la monarchia. Né i governi del regime di febbraio, i governi
del principe Lvov e di Kerenskij, erano liberi delle loro decisioni. Essi
mantennero la Russia nella guerra perché, come i governanti zaristi,
dipendevano da quei potenti gruppi della finanza capitalista russa e
straniera i quali avevano deciso che la Russia rimanesse fino alla fine
un membro belligerante dell’Intesa. Gli « errori e gli sbagli di calcolo »
erano socialmente condizionati. È anche vero che la guerra portò
drasticamente alla ribalta e aggravò la debolezza fatale dell'ancien
régime. Ma è difficile dire che essa fu la causa decisiva di quella
debolezza. La Russia era stata scossa dai tremiti della rivoluzione
proprio alla vigilia della guerra; le strade di Pietroburgo furono
coperte di barricate nell’estate del 1914. Furono proprio lo scoppio
delle ostilità e la mobilitazione che spazzarono la rivoluzione
incipiente e la ritardarono di due anni e mezzo solo per dotarla, al
momento dato, di una maggiore forza esplosiva. Anche se il governo
del principe Lvov o quello di Kerenskij avessero trattato per uscire
dalla guerra, lo avrebbero fatto nelle condizioni di una crisi sociale
così profonda e così grave che il partito bolscevico
probabilmente avrebbe vinto lo stesso, se non nel 1917, certo qualche
tempo dopo. Questa è, naturalmente, solo un’ipotesi, ma la sua
plausibilità è ora avvalorata dal fatto che in Cina il partito di Mao Tse-
tung prese il potere nel 1949, quattro anni dopo la fine della seconda
guerra mondiale. Questa circostanza getta forse una luce
retrospettiva sulla connessione tra la guerra e la rivoluzione russa e
suggerisce che questo rapporto avrebbe potuto essere più relativo di
come apparve a quel tempo.
Non è necessario presumere che il corso della rivoluzione russa fu
predeterminato in tutti i suoi lineamenti o nella sequenza di tutte le
sue maggiori fasi e incidenze. Ma la sua direzione generale non era
stata stabilita dagli eventi di pochi anni o mesi, era stata preparata
dagli sviluppi di molti decenni, anzi di varie epoche. Lo storico che si
affatica per ridurre intellettualmente la montagna della rivoluzione a
pochi fatti occasionali, sta davanti ad essa nel medesimo stato in cui
stettero un tempo i capi politici che cercarono di impedirne l’avvento.
Dopo ogni rivoluzione i suoi nemici ne confutano la legittimità
storica, e qualche volta lo fanno anche due o tre secoli dopo.
Permettetemi di citare la risposta di Trevelyan agli storici che ancora
si chiedevano se la « grande ribellione » era stata davvero necessaria :
« Era dunque impossibile per il potere parlamentare di mettere radici
in Inghilterra a un prezzo minore di questo scisma nazionale e di
questo ricorso alla forza...? È un problema che nessuna profondità di
ricerca o di speculazione può risolvere. Gli uomini erano quello che
erano, non influenzati dalla ritardata saggezza della posterità, e così
agirono. Sia che fosse stato possibile raggiungere lo stesso scopo«per
una via migliore oppure no, sta di fatto che il Parlamento ottenne il
diritto di sopravvivere come la forza dominante della Costituzione
inglese, mediante la spada».2 Trevelyan, che qui segue le orme di
Macaulay, rende una precisa giustizia alla « grande ribellione »
perfino quando sottolinea che per un certo tempo essa lasciò la
nazione « più povera e meno nobile », ciò che in un senso o in un altro
è purtroppo vero anche di altre rivoluzioni, quella russa inclusa. Nel
sottolineare che l’Inghilterra deve la sua costituzione parlamentare in
primo luogo alla « grande ribellione », Trevelyan valuta la funzione
esercitata dai puritani e dalle loro contraddizioni guardandola
dall’alto. Furono Cromwell e i puritani, egli dice, che stabilirono il
principio della supremazia parlamentare; anche e nonostante che essi
stessi fossero in conflitto con detto principio e apparentemente lo
sopprimessero, il principio sopravvisse e trionfò. Le buone azioni della
rivoluzione puritana sopravvissero alle sue follie. Mutatis mutandis, si
può dire lo stesso della Rivoluzione d’Ottobre. « Gli uomini agirono
come agirono perché non potevano agire altrimenti. » Non potevano
copiare i loro ideali dai modelli della democrazia parlamentare
dell’Europa occidentale. Fu con la spada che conquistarono, per i
consigli dei deputati degli operai e dei contadini e per il socialismo, «il
diritto di sopravvivere come forza dominante » nella Costituzione
sovietica. E sebbene loro stessi riducessero poi i consigli dei lavoratori
a un’esistenza fantomatica, quei consigli, i soviet, e le loro aspirazioni
socialiste, rimasero la parte più significativa del messaggio della
rivoluzione russa.
Nel caso della rivoluzione francese, la sua necessità fu messa in
discussione o negata da una lunga serie di pensatori e di storici, da
Burke, timoroso del contagio giacobino, a Tocqueville, diffidente di
ogni moderna democrazia, al Taine, inorridito dalla Comune di Parigi,
fino a Madelin, a Bainville e ai loro discepoli, alcuni dei quali si
affaticarono dopo il 1940 a stendere a terra lo spettro della
rivoluzione, sotto lo sguardo incoraggiante del maresciallo Pétain.
Strano a dirsi, fra tutti questi scrittori è Tocqueville che recentemente
ha goduto della maggior voga nei paesi di lingua inglese. Parecchi dei
nostri uomini di cultura hanno cercato di modellare la loro concezione
della Russia contemporanea sul suo L’Ancien Régime et la Révolution.
Quel che li attrae è la sua affermazione che la rivoluzione non si era
distaccata radicalmente dalla tradizione politica francese, che si era
limitata a riprendere le tendenze fondamentali che avevano agito
durante l'ancien régime, specialmente la tendenza verso la
centralizzazione dello Stato e l’unificazione della vita nazionale. In
modo analogo, secondo questa argomentazione, l’Unione Sovietica, in
quanto abbia a suo credito un qualunque risultato progressivo,
avrebbe soltanto continuato il lavoro di industrializzazione e di
riforma ch’era stato intrapreso dall’ancien régime. Se lo zarismo fosse
sopravvissuto, o se fosse stato sostituito da una repubblica borghese
democratica, quel processo sarebbe continuato; e il progresso sarebbe
stato più ordinato e razionale. La Russia avrebbe potuto diventare la
seconda potenza industriale del mondo senza dover pagare per questo
il terribile prezzo che i bolscevichi hanno riscosso, senza dover
sopportare le espropriazioni, il terrore, il basso livello di vita e la
degradazione morale dello stalinismo.
Sembra a me che i discepoli di Tocqueville facciano un torto al
maestro, perché se egli minimizzò il lavoro creativo e originale della
rivoluzione, non negò la sua necessità o legittimità. Al contrario, nel
situarla entro la tradizione francese, egli cercò di a adottarla » nei
termini del suo pensiero conservatore, e di «incorporarla » nell'eredità
nazionale. I suoi imitatori mostrano uno zelo maggiore nel
minimizzare il lavoro originale e creativo della rivoluzione russa
che non nell’« adottarlo » in qualche maniera. Ma consideriamo
l’argomentazione di Tocqueville più da vicino. È chiaro che nessuna
rivoluzione crea ex nihilo. Ogni rivoluzione lavora nell’ambiente
sociale che l’ha prodotta e sul materiale che trova nell’ambiente. « Noi
costruiamo un nuovo ordine », amava dire Lenin, « con i mattoni che il
vecchio ordine ci ha lasciati. » I tradizionali metodi di governo, le vitali
aspirazioni della nazione, uno stile di vita, i modi di pensare e i vari
fattori messi assieme di forza e di debolezza, questi sono i mattoni. Il
passato si rifrange attraverso il lavoro innovatore della rivoluzione, e
non importa quanto siano coraggiose le innovazioni. I giacobini e
Napoleone continuarono infatti a costruire lo Stato unitario e
centralizzato che l'ancien regime aveva, fino a un certo punto,
promosso. Nessuno ha messo in evidenza questo fatto con maggior
potenza di Carlo Marx nel suo 18 brumaio, che incidentalmente
apparve parecchi anni prima dell'Ancien Régime di Tocqueville. Ed è
anche vero che la Russia si era avviata notevolmente
all’industrializzazione sotto il regno dei suoi due ultimi zar, senza di
che il rapido ingresso delle sue classi lavoratrici dell’industria sulla
scena politica non sarebbe stato possibile. In questo senso,
entrambi questi paesi raggiunsero sotto l'ancien regime un certo
progresso in varie direzioni. Questo non significa che il progresso
avrebbe potuto continuare «ordinatamente» senza il gigantesco «
turbamento » della rivoluzione. Al contrario, ciò che stava
distruggendo l'ancien regime era proprio il progresso raggiunto sotto
di esso. Ben lontano dal rendere la rivoluzione superflua, esso la rese
tanto più necessaria. Le forze del progresso erano così rinserrate
all’interno del vecchio ordine che dovettero farlo esplodere. I francesi
combattendo per lo Stato unitario erano stati, in un conflitto cronico,
con le barriere alzate contro di esso dai particolarismi di origine
feudale. La crescente economia borghese della Francia aveva bisogno
di un solo mercato nazionale, di un libero contado, di un libero
movimento di uomini e di mercanzie; e l'ancien régime non poteva
soddisfare questi bisogni se non dentro limiti molto ristretti. Come si
esprimerebbe un marxista, le forze produttive della Francia avevano
oltrepassato, nel loro sviluppo, i confini dei rapporti feudali di
proprietà e non potevano più essere contenute dentro il guscio della
monarchia borbonica che conservava e proteggeva quei rapporti.
In Russia il problema era analogo ma più complicato. Gli sforzi
compiuti ai tempi dello zarismo per modernizzare il tessuto della vita
nazionale erano bloccati dai massicci residui del feudalismo, del
sottosviluppo e della debolezza della borghesia, dell’autocrazia,
dell’arcaico sistema di governo e, considerazione ultima ma non
meno importante, dalla dipendenza dell’economia russa dal capitale
straniero. Il grande impero era, durante il regno degli ultimi Romanov,
metà impero e metà colonia. Gli azionisti occidentali possedevano il
novanta per cento delle miniere russe, il cinquanta per cento delle
industrie chimiche, più del quaranta per cento degli impianti di
ingegneria, il quarantadue per cento dei capitali bancari. Il capitale
domestico era scarso. Il reddito nazionale era di gran lunga troppo
esiguo per i bisogni di uno Stato moderno. Più della metà di esso
veniva dall’agricoltura ch’era totalmente arretrata e contribuiva poco
all’accumulo di capitale. Entro certi limiti lo Stato provvedeva, con il
reddito delle tasse, a sostenere l’industrializzazione, ad esempio
costruì le ferrovie. Ma per lo più l’espansione industriale
dipendeva dal capitale straniero. Tuttavia gli investitori stranieri non
avevano un interesse costante all’investimento dei loro alti dividendi
nell’industria russa, specialmente quando li spaventavano la
caparbietà di una burocrazia cervellotica e le agitazioni sociali. La
Russia poteva prendere il via, nel suo sviluppo industriale moderno,
solo attingendo alle risorse dell’agricoltura e per mezzo di prestazioni
straordinarie da parte dei propri lavoratori. Nessuna di queste
necessità poteva essere soddisfatta sotto l' ancien régime. I governanti
zaristi dipendevano troppo dal capitale dei paesi occidentali per
sostenere gl’interessi nazionali della Russia contro di esso, ed erano
troppo feudali nel loro intimo, nella loro mentalità e nelle loro
relazioni sociali, per liberare l’agricoltura dalla stretta paralizzante
dell’aristocrazia terriera (da questo ambiente provenne perfino
il primo ministro del primo governo repubblicano del 1917!) E nessuno
dei governanti bolscevichi aveva la forza politica e l’autorità morale
per ottenere dalle classi lavoratrici le prestazioni e i sacrifici che
l’industrializzazione richiedeva in ogni caso. Nessuno di loro ebbe la
larghezza di vedute, la fermezza e la mentalità moderna che il compito
richiedeva. (Il conte Witte, con i suoi ambiziosi progetti di riforma, era
l’eccezione che confermava la regola; ed egli fu, come primo ministro
e come ministro delle Finanze, quasi boicottato dallo zar e dalla
burocrazia.) Sembra inconcepibile che qualunque altro regime
non intrinsecamente rivoluzionario potesse innalzare una nazione di
contadini semianalfabeti fino a qualcosa di somigliante al livello
attuale dello sviluppo dell’economia e dell’istruzione sovietiche. Anche
qui il marxista dirà che le forze produttive della Russia sotto l’antico
regime avevano progredito giusto quel tanto che poteva portare
all’esplosione della vecchia struttura sociale e della sua superstruttura
politica.
Comunque, nessun meccanismo economico produce
automaticamente la disintegrazione di un ordine antico e stabilizzato o
assicura il successo di una rivoluzione. Un sistema sociale antiquato
può decadere nel corso dei decenni e il corpo della nazione può non
esserne consapevole. La consapevolezza sociale è sempre in ritardo
rispetto alla realtà sociale. Le contraddizioni obiettive dell’ ancien
régime devono tradursi in termini soggettivi, nelle idee, nelle
aspirazioni e nelle passioni degli uomini operanti. L’essenza
della rivoluzione, dice Trotski, è «l’intervento diretto delle masse negli
eventi storici ». Fu a causa di questo intervento, un fenomeno così
reale e tuttavia così raro nella storia, che l’anno 1917 fu tanto
memorabile e decisivo. La grande massa del popolo fu presa dalla più
intensa e urgente consapevolezza della decadenza e della
corruzione dell’ordine costituito. La comprensione fu immediata. La
consapevolezza fece un salto in avanti per affiancarsi all’esistente e
per cambiarlo. Ma anche questo salto, questo cambiamento
improvviso nella psicologia delle masse, non venne ex nihilo. Ci vollero
molti decenni di fermento rivoluzionario e di un lento maturare delle
idee, ci vollero la nascita e la fine di molti partiti e gruppi per
produrre il clima politico-morale, i capi, i partiti e i metodi d’azione del
1917. C’era poco o nulla di fortuito in tutto ciò. In realtà,
dietro quest’ultimo mezzo secolo di rivoluzione, si intravede un intero
secolo di sforzi rivoluzionari. La crisi sociale che travagliò la Russia
zarista si manifestò nell’acuto contrasto tra la sua importanza e il suo
prestigio come grande potenza e l’arcaica debolezza della sua
struttura sociale, tra gli splendori del suo impero e la miseria delle sue
istituzioni. Per la prima volta questo contrasto fu messo a nudo dal
trionfo della Russia nelle guerre napoleoniche. I suoi spiriti più arditi
furono allora spronati all’azione. Nel 1825 i decabristi si levarono in
armi contro lo zar. Essi erano una élite aristocratica intellettuale; ma
ebbero il grosso della nobiltà contro di loro. In Russia nessuna classe
sociale era capace di promuovere il progresso della nazione. Le città
erano poche e di carattere medioevale; le classi medie
urbane, mercanti e artigiani di poca cultura, erano politicamente
trascurabili. I servi della gleba si ribellavano sporadicamente; ma
dopo la sconfitta di Pugacev non c’era più stata un’azione su
vasta scala diretta alla loro emancipazione. I decabristi erano dei
rivoluzionari che non avevano una classe rivoluzionaria dietro di loro.
Questa fu la loro tragedia, e questa doveva essere la tragedia di tutte
le generazioni successive di radicali e di rivoluzionari russi quasi fino
alla fine del diciannovesimo secolo, e in forme diverse questa tragedia
doveva proiettarsi anche nell’epoca postrivoluzionaria.
Lasciatemi ricapitolare brevemente le sue principali azioni e i
motivi. Prima della metà del diciannovesimo secolo fecero la loro
apparizione nuovi radicali e rivoluzionari, i raznocinsi. Venivano dalle
classi medie che si stavano formando lentamente, molti erano figli di
impiegati della pubblica amministrazione e di preti. Anch’essi erano
rivoluzionari in cerca di una classe rivoluzionaria. La borghesia era
ancora trascurabile. Gli impiegati della pubblica amministrazione e i
preti erano atterriti dai loro figli ribelli. Il contado era apatico e
passivo. Soltanto una parte della nobiltà era favorevole a qualche
riforma, precisamente i proprietari terrieri che, essendo ansiosi di
adottare i moderni metodi di coltivazione o di impegnarsi
nell’industria e nel commercio, desideravano vedere abolito il
servaggio e liberalizzate l’amministrazione dello Stato e l’istruzione.
Quando Alessandro II, cedendo alle loro istanze, abolì la servitù della
gleba, assicurò con questo alla dinastia la fedeltà inalterata dei
contadini per i decenni a venire. Così l’atto di emancipazione del
1861 isolò di nuovo i radicali e i rivoluzionari, e in effetti ritardò la
rivoluzione per più di mezzo secolo. Eppure il problema agrario era
rimasto irrisolto. I servi erano stati liberati ma non avevano avuto la
terra; e dovevano contrarre debiti e obblighi pesanti e diventare
mezzadri per poter coltivare la terra. Il modo di vivere della nazione
rimaneva anacronistico.
Questo stato di cose e la oppressione esercitata dall’autocrazia
inducevano sempre nuovi uomini della intellighenzia a ribellarsi, a
formulare nuove idee e a sperimentare metodi sempre nuovi di lotta
politica.
Ogni gruppo rivoluzionario ricavava la propria forza solo da se
stesso; e per ciascuno di essi la strada finiva in un vicolo cieco. I
narodniki o populisti, che si ispiravano a Herzen e a Bakunin, a
Cerniscevskij e a Lavrov, erano obiettivamente l’avanguardia militante
dei contadini. Ma quando si appellarono ai mugik e cercarono di aprir
loro gli occhi sulla frode della emancipazione e sulla nuova maniera
con la quale lo zar e i proprietari terrieri li tenevano soggiogati, gli ex
servi si rifiutarono di muoversi e perfino di ascoltarli; non fu raro il
caso che consegnassero i narodniki nelle mani dei gendarmi. In tal
modo una classe sociale oppressa, potenzialmente dotata di grande
forza rivoluzionaria, tradiva la propria élite rivoluzionaria. I successori
dei narodniki, i narodnovolzi, abbandonarono la ricerca
apparentemente disperata di una forza rivoluzionaria popolare nella
società esistente, decisero di agire da soli come fiduciari di un popolo
oppresso e muto. Il loro terrorismo, di ispirazione politica, prese il
luogo del populismo agrario dei predecessori. Il propagandista o
agitatore dell’èra precedente, che « andava verso il popolo » e perfino
cercava di inserirsi tra i contadini, fu sostituito dal cospiratore
solitario, taciturno, eroico, che aveva la suggestione del superuomo e
assumeva su se stesso il compito che la nazione era incapace di
assolvere: vincere o morire. Il gruppo i cui membri assassinarono
Alessandro II nel 1881 era costituito da meno di quaranta uomini e
donne. Sei anni dopo soltanto dodici giovani, tra i quali il fratello
maggiore di Lenin, formarono il gruppo che preparò l’attentato per
uccidere Alessandro III. Questi minuscoli nuclei di cospiratori
tenevano il vasto impero in allarme e facevano storia. Intanto, se il
fallimento dei populisti nel 1860 e nel 1870 aveva
dimostrato l’infondatezza della speranza di fare insorgere i contadini,
il martirio dei narodnovolzi del 1880 mise allo scoperto ancora una
volta l’impotenza di un’avanguardia che agiva senza il sostegno di
qualcuna delle classi sociali di base. Queste esperienze negative
furono lezioni di valore incalcolabile per i rivoluzionari dei decenni
successivi, e in questo senso non rimasero infruttuose. Plekhanov,
Zasulic, Lenin, Martov e i loro compagni ne trassero la morale che non
dovevano agire come un’avanguardia isolata, ma dovevano cercare
sostegno in una classe rivoluzionaria e cercarlo fuori della classe
contadina. Ormai comunque l’industrializzazione della Russia era
cominciata e risolveva il loro problema. I propagandisti marxisti e gli
agitatori della generazione di Lenin trovarono ascolto tra i nuovi
operai delle fabbriche.
Notate la dialettica trasparente di questa lunga lotta.
C’è in primo luogo la contraddizione tra le necessità sociali e la
coscienza sociale. Nessuna necessità, nessun interesse sociale
potevano essere più elementari della fame di terra e di libertà dei
contadini; e nessuna coscienza sociale poteva essere più falsa di quella
che li indusse a contentarsi durante mezzo secolo di una legge, che
mentre li liberava da una schiavitù quasi animalesca negava loro la
terra e la libertà, una coscienza che aveva indotto alcune generazioni
di mugik a sperare che lo zar batiuscka (piccolo padre) rendesse loro
giustizia. La discrepanza tra la necessità di agire e la coscienza di tale
necessità, fu all’origine delle tante metamorfosi del movimento
rivoluzionario. La logica della situazione produsse questi opposti
modelli di organizzazione: da una parte l'élite di cospiratori che
bastava a se stessa, dall’altra il movimento orientato verso la massa, il
tipo di rivoluzionario dittatoriale e il democratico. Notate anche la
parte speciale, esclusiva e storicamente efficace che la intellighenzia
ebbe in tutto questo. In nessun altro paese troviamo niente di simile.
Generazione dopo generazione, questi uomini sconvolsero l’autocrazia
dello zar e si ruppero la testa contro i suoi muri, preparando il terreno
per quelli che sarebbero venuti dopo di loro. Ciò che li ispirava era
una fede quasi messianica nella loro missione rivoluzionaria e in
quella della Russia. Quando finalmente i marxisti vennero in prima
linea, ereditarono una grande tradizione e un’esperienza unica che
vagliarono criticamente e della quale fecero un uso efficace. Ma
ereditarono anche certi problemi e dilemmi. I marxisti partirono, come
dovevano, con la negazione delle tradizioni populiste e
terroristiche. Respinsero il socialismo agrario,
l’idealizzazione sentimentale dei contadini, le versioni radicali della
slavofilia e l’idea quasi messianica della missione rivoluzionaria
attribuita unicamente alla Russia. Ripudiarono il terrorismo, l’auto-
glorificazione dell’intellettuale radicale e l’élite dei cospiratori
autosufficienti. Optarono per l’organizzazione orientata
democraticamente, per il partito e le organizzazioni sindacali, e
per un’azione di massa proletaria condotta con mezzi moderni. Questo
atteggiamento, « rigorosamente » e perfino esclusivamente proletario
e diffidente verso i contadini, fu caratteristico degli inizi di tutto il
partito socialdemocratico russo; esso doveva rimanere tipico dei
menscevichi nel loro periodo migliore. Ma il movimento, quando passò
all’azione, non poteva fermarsi alla negazione astratta delle tradizioni
rivoluzionarie locali, doveva assorbire ciò che in esse c’era di vitale e
trascenderle. Fu il bolscevismo che assolse questo compito e lo fece
molto prima del 1917. I bolscevichi ereditarono dai populisti
la sensibilità verso i contadini, e dai narodnovolzi l’aggressività
concentrata e la determinazione cospiratoria. Senza questi elementi il
marxismo sarebbe rimasto, in Russia, una pianta esotica o tutt’al più
uno sviluppo teorico del socialismo occidentale europeo, com’era nei
brillanti scritti di Plekhanov e in alcuni scritti giovanili di Lenin.
L’acclimatazione del marxismo in Russia fu soprattutto merito di
Lenin. Egli operò la sintesi della dottrina con la tradizione locale.
Insistette sulla necessità per gli operai, la forza dirigente della
rivoluzione, di trovare alleati fra i contadini, e assegnò agli
intellettuali e all’élite rivoluzionaria una pesante funzione educativa e
organizzativa nel movimento di massa degli operai. Questa
sintesi riassume in sé un secolo di sforzi rivoluzionari in Russia.
Se dovessi fermarmi qui, vi darei forse un punto di vista unilaterale
degli elementi che furono gl’ingredienti della rivoluzione. Per quanto
ci sia l’abitudine in Occidente di considerare il bolscevismo come un
fenomeno unicamente russo, non si può certo esagerare sul contributo
offerto al bolscevismo dall’Europa occidentale. Attraverso tutto il
diciannovesimo secolo, il pensiero e l’azione in Russia furono, a ogni
stadio, decisamente influenzati da idee e da movimenti occidentali. I
decabristi appartenevano, non meno, poniamo, dei carbonari, ai tardi
frutti europei della rivoluzione francese. Molti di loro erano stati, dopo
la caduta di Napoleone, giovani ufficiali delle truppe di occupazione
russe a Parigi; e il contatto con la rivoluzione, anche se sconfitta, era
bastato a infiammare i loro spiriti. I petrascevzi, Belinskij e Herzen,
Bakunin e Cerniscevskij e tanti altri, furono maturati dalle vicende del
1830 e del 1848, dal socialismo francese, dalla filosofia tedesca,
specialmente da Hegel e da Feuerbach, e dalla economia politica
inglese. Poi il marxismo, incorporando tutte queste influenze, fece la
sua sorprendente conquista intellettuale della Russia radicale e
perfino di quella liberale.
Nessuna meraviglia che gli apologeti dello zarismo denunciassero il
socialismo e il marxismo come prodotti del « decadentismo »
occidentale. Non soltanto Pobedonozev, il crudo predicatore
dell’oscurantismo e del panslavismo, non solo Dostoevskij, ma perfino
Tolstoi ripudiarono le idee del socialismo in quei termini. E non si
sbagliavano del tutto: che l’Occidente voglia ricordarlo o no, esso ha
investito una gran parte del suo retaggio spirituale nella rivoluzione
russa. Trotski scrisse una volta a proposito del « paradosso » che
mentre l’Europa occidentale « esportava la sua tecnologia più
avanzata negli Stati Uniti... essa esportava la sua ideologia più
avanzata in Russia... » Lenin espone lo stesso concetto in
modo semplice ed efficace: « ...nel corso di circa mezzo secolo, press’a
poco dal 1840 al 1890, il pensiero dei progressisti in Russia andò
avidamente in cerca... della teoria rivoluzionaria più corretta e annotò
con notevole zelo e meticolosità ogni ' ultima parola ' che giungesse
dall’Europa e dall’America. La Russia infatti è giunta al marxismo...
attraverso grandissime sofferenze, ansietà e sacrifici... attraverso
l’istruzione, la verifica critica dei fatti... e impegnandosi nello
studio comparato dell’esperienza europea. Poiché lo zarismo ci ha
costretti a condurre un’esistenza di esiliati, la Russia rivoluzionaria ha
potuto avvalersi di una ricchezza di contatti internazionali e di una
così eccellente informazione su tutte le forme e le teorie dei
movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, quali nessun’altra nazione
possedeva ».
Nel 1917 e negli anni seguenti non solo i capi ma anche la grande
massa dei lavoratori e dei contadini russi vedevano la rivoluzione
non come un fatto che riguardasse soltanto la Russia, ma come parte
di un sommovimento sociale che abbracciava l’umanità intera. I
bolscevichi si consideravano i campioni di una rivoluzione almeno
europea, le cui battaglie si combattevano nei posti avanzati
dell’Oriente europeo. Perfino i menscevichi avevano nutrito questa
convinzione e l’avevano espressa eloquentemente. E non solo i russi
videro se stessi in questa luce. Al principio di questo secolo Karl
Kautsky, il maggior teorico dell’Internazionale socialista, tracciò
questa previsione: « L’epicentro della rivoluzione si è spostato
dall’Occidente all’Oriente. Nella prima metà del diciannovesimo
secolo si trovava in Francia e a volte in Inghilterra. Nel 1848 la
Germania entrò nelle file delle nazioni rivoluzionarie... Ora gli slavi...
si uniscono alle loro file, e il centro di gravità del pensiero e
dell’azione rivoluzionaria si sposta sempre più... verso la Russia ». A
sua volta, « la Russia, dopo aver preso dall’Occidente tanta parte della
sua iniziativa rivoluzionaria, può ora diventare una sorgente di energia
rivoluzionaria per l’Occidente ». Kautsky faceva osservare il contrasto
con la situazione del 1848, quando la « primavera dei popoli »
nell’Europa occidentale era stata stroncata dai « grandi geli » venuti
dalla Russia; ora la tempesta proveniente dalla Russia avrebbe potuto
ambire a schiarire l’aria in Occidente.
Kautsky scriveva queste parole nel 1902 per la Iskra, di cui Lenin
era condirettore; e queste parole fecero tanta impressione a Lenin
che quasi vent’anni dopo egli le citava con ironica soddisfazione
contro il loro autore, quando quest’ultimo si dimostrava infuriato per il
fatto che la sua profezia stava avverandosi. Di fatto, la profezia era
ancor più sorprendente di quanto non vedessero Kautsky e Lenin.
Abbiamo visto come nel tempo nostro l’epicentro della rivoluzione si
sia spostato ancora più a oriente della Russia, in Cina. Uno storico che
avesse il fiuto delle grandi generalizzazioni potrebbe trarre le
conseguenze della previsione delineata da Kautsky e tracciare una
linea ancora più comprensiva, illustrando l’avanzata verso oriente
della rivoluzione, durante tre secoli. La linea potrebbe cominciare
dall’Inghilterra puritana, attraversare tutta l’Europa, spingersi
fino alla Cina, e alla fine toccare i margini sud-orientali dell’Asia.
Tuttavia questo grafico può essere ingannevole. Esso può suggerire
un corso della storia troppo lineare e troppo fortemente
predeterminato. Ma in qualunque misura esso sia stato determinato o
no, ha chiaramente avuto una sua interna logica e una coerenza.
Goethe disse una volta che la storia del sapere è una grande fuga in
cui le voci delle varie nazioni si presentano l’una dopo l’altra. Si
potrebbe dire lo stesso della storia della rivoluzione. Essa non è quella
sinfonia mondiale che avevano sperato alcuni dei grandi rivoluzionari.
E nemmeno quella confusione di « a solo » discordanti, quella
cacofonia che odono i filistei. È piuttosto la grande fuga in cui le voci
delle varie nazioni, ciascuna con le proprie speranze e disperazioni, si
inseriscono l’una dopo l’altra.
CAPITOLO SECONDO

ROTTURE NELLA CONTINUITÀ RIVOLUZIONARIA

NEL millenovecentodiciassette la Russia visse l’ultima delle grandi


rivoluzioni borghesi europee e la prima rivoluzione proletaria della
storia. Le due rivoluzioni si fusero in una. Questa combinazione senza
precedenti conferì al nuovo regime una straordinaria misura di
vitalità e di slancio, ma fu anche la causa di dure tensioni e conflitti e
di convulsioni cataclismiche.
Forse dovrò dare qui, a rischio di dire cose ovvie, una breve
definizione della rivoluzione borghese.
L’opinione tradizionale largamente accettata tanto dai marxisti
quanto dagli antimarxisti è che in simili rivoluzioni, nell’Europa
occidentale, la grande borghesia abbia rappresentato la parte
direttiva, si sia messa alla testa dei popoli insorgenti e si sia
impadronita del potere. Questo modo di vedere è al fondo di molte
discussioni fra gli storici, per esempio nel recente dibattito fra il
professor Hugh Trevor-Roper e il signor Christopher Hill, per sapere
se la rivoluzione cromwelliana abbia avuto o no un carattere borghese.
A me sembra che questa concezione, a qualunque autorità possa
venire attribuita, sia schematica e storicamente irreale. Partendo da
essa si può ben arrivare alla conclusione che la rivoluzione borghese è
quasi un mito e che forse non ce n’è stata mai una, nemmeno in
Occidente. Capitalisti, imprenditori, mercanti e banchieri non
figurarono molto virtuosamente fra i capi dei puritani o i
comandanti degli ironsides, nel club dei giacobini o tra le folle che
presero d’assalto la Bastiglia o invasero le Tuileries. Ed essi non
afferrarono nemmeno le redini del potere durante la rivoluzione e
per molto tempo dopo, in Inghilterra o in Francia. Le classi medio-
inferiori, i poveri delle città, i plebei e i sanculotti costituirono i grandi
battaglioni insurrezionali. I capi erano per lo più « gentiluomini di
campagna » in Inghilterra e avvocati, medici o altri intellettuali in
Francia; e qua e là le insurrezioni finirono con la dittatura militare.
Tuttavia il carattere borghese di queste rivoluzioni non ci sembrerà
affatto mitico se le giudicheremo con un criterio più largo e terremo
conto del loro effetto generale sulla società. La cosa più sostanziale
che esse ottennero fu di spazzar via le istituzioni sociali e politiche che
avevano ostacolato la crescita della ricchezza borghese e dei rapporti
sociali che si accompagnavano ad essa. Quando i puritani negarono
alla corona il diritto di imporre arbitrariamente delle tasse, quando
Cromwell assicurò agli armatori inglesi una posizione monopolistica
nel traffico dell’Inghilterra coi paesi stranieri, quando i giacobini
abolirono le prerogative e i particolarismi feudali, essi crearono
spesso, senza saperlo, le condizioni nelle quali i fabbricanti, i mercanti
e i banchieri avrebbero inevitabilmente raggiunto un predominio
economico e, a lungo andare, una supremazia sociale e persino
politica. La rivoluzione borghese crea le condizioni in cui può fiorire la
proprietà borghese. In questo, piuttosto che negli allineamenti
particolari durante la lotta, è da vedersi la sua differentia specifica.
Appunto in questo senso possiamo caratterizzare la Rivoluzione di
Ottobre come una combinazione di rivoluzione borghese e proletaria,
sebbene entrambe siano state compiute sotto direzione bolscevica.
L’odierna storiografia sovietica descrive la rivoluzione di febbraio
come borghese, e riserva l’etichetta di « proletaria » alla insurrezione
di ottobre. Questa distinzione è fatta anche da molti storici
occidentali; essa è giustificata dal fatto che in febbraio, dopo
l’abdicazione dello zar, la borghesia si impadronì del potere. In verità
la combinazione delle due rivoluzioni appariva già in febbraio, ma solo
in nuce. Lo zar e il suo ultimo governo furono fatti cadere da uno
sciopero generale e da una insurrezione di massa di lavoratori e di
soldati, i quali subito crearono i loro consigli o soviet, ossia gli organi
potenziali di un nuovo Stato. Il principe Lvov e Miliukov assunsero il
potere dalle mani di un soviet di Pietrogrado confuso, che si muoveva
a tentoni e che cedette loro il potere di buon grado; ma essi
e Kerenskij lo esercitarono solo fino a tanto che i soviet li tollerarono. I
loro governi non compirono nessun atto importante di una rivoluzione
borghese. Soprattutto, essi non spezzarono le proprietà terriere
dell’aristocrazia e non dettero la terra ai contadini. Anche come
rivoluzione borghese, la rivoluzione di febbraio fu mancata.
Tutto questo sottolinea la formidabile contraddizione che i
bolscevichi cominciarono ad affrontare quando, in ottobre,
promossero e diressero il duplice rivolgimento. La rivoluzione
borghese cui essi presiedettero creò condizioni che favorirono lo
sviluppo di forme borghesi di proprietà. La rivoluzione proletaria
da essi compiuta mirava all’abolizione della proprietà.
Il primo atto della prima delle due fu la distribuzione delle terre
dell’aristocrazia. Questo creò un’ampia base potenziale per lo sviluppo
di una nuova borghesia rurale. I contadini che erano stati liberati dalla
servitù e dai debiti e avevano ingrandito i loro poderi, avevano
interesse alla costituzione di un sistema sociale che offrisse sicurezza
alle loro proprietà. Né era soltanto in questione un’agricoltura
capitalistica, come diceva Lenin; la Russia rurale era il terreno adatto
allo sviluppo del capitalismo in genere; molti imprenditori industriali e
mercanti della Russia erano stati uomini di ceppo contadino, e col
tempo e in circostanze favorevoli il mondo contadino avrebbe potuto
dare origine a una classe molto più numerosa e moderna di
imprenditori. Tanto maggiore fu l’ironia insita nel fatto che, nel
1917, nessuno dei partiti borghesi e nemmeno i socialisti moderati
osarono approvare la rivoluzione agraria che si andava sviluppando
spontaneamente, con la forza di un fatto di natura, poiché già i
contadini andavano appropriandosi delle terre dell’aristocrazia molto
prima dell’insurrezione bolscevica. Spaventati dai pericoli che
minacciavano la proprietà cittadina, i partiti borghesi si rifiutarono di
distruggere la proprietà nelle campagne. I bolscevichi (e la sinistra
socialrivoluzionaria) si misero alla testa delle rivolte agrarie. Essi
sapevano che senza l’insurrezione nelle campagne la rivoluzione
proletaria sarebbe rimasta isolata delle città e sconfitta. I contadini,
timorosi di una controrivoluzione che avrebbe potuto ripristinare il
dominio dei proprietari agrari, in questo modo vennero a partecipare
attivamente al regime bolscevico. Ma il carattere socialista della
rivoluzione aveva risvegliato in loro fin dal suo nascere
diffidenza, timori e ostilità.
La rivoluzione socialista fu sostenuta fervorosamente dalla classe
operaia urbana. Essa era però una piccola minoranza nella nazione.
In tutto, un sesto della popolazione, venti milioni di persone di vario
tipo, vivevano nelle città, e di queste solo circa metà potevano essere
considerate come proletari. Il nucleo più solido della classe operaia
consisteva tutt’al più di circa tre milioni di uomini e donne impiegati
nella industria moderna. I marxisti avevano contato sui lavoratori
dell’industria come sulla forza più dinamica nella società capitalista,
veri agenti della rivoluzione socialista. I lavoratori russi giustificarono
quest’aspettativa. Nessuna classe della società russa, nessuna classe
lavoratrice in qualsiasi parte del mondo ha mai agito con l’energia,
l’intelligenza politica, la capacità di organizzazione e l’eroismo che i
lavoratori russi dimostrarono nel 1917 (e dopo di allora nella guerra
civile). La circostanza che l’industria moderna russa consistesse di un
piccolo numero di grosse fabbriche, concentrate principalmente
a Pietrogrado e a Mosca, diede alla massa degli operai delle due
capitali una straordinaria potenza per colpire l’ancien régime nei suoi
centri vitali. Due decenni di intensa propaganda marxista, i ricordi
recenti delle lotte del 1905, del 1912 e del 1914, la tradizione di un
secolo di impegno rivoluzionario, l’unicità di intenti del bolscevismo,
avevano preparato gli operai a far la loro parte. Essi davano per
acquisito il fine socialista della rivoluzione. Non erano disposti ad
accontentarsi di qualcosa di meno dell’abolizione dello sfruttamento
capitalista, della socializzazione dell’industria e delle banche, del
controllo operaio sulla produzione e del governo in mano ai soviet.
Voltarono le spalle ai menscevichi, che da principio avevano
seguito, perché i menscevichi dicevano che la Russia « non era matura
per una rivoluzione socialista ». La loro azione, come quella dei
contadini, aveva una sua forza spontanea: gli operai stabilirono il
controllo della produzione al livello di fabbrica molto prima
dell’insurrezione di ottobre. I bolscevichi li appoggiarono e
trasformarono le ribellioni di fabbrica in una rivoluzione socialista.
Tuttavia Pietrogrado, Mosca e pochi altri centri industriali sparsi,
costituivano una base molto ristretta per quest’impresa. Non soltanto
la popolazione di tutta l’immensa Russia rurale si agitava per
acquistare delle proprietà, mentre i lavoratori delle due capitali si
battevano per abolirla; non soltanto la rivoluzione socialista era in
conflitto implicito con la rivoluzione borghese; in più, essa era nella
morsa delle sue stesse contraddizioni interne. La Russia era e non
era matura per la rivoluzione socialista. Era in grado di affrontare i
suoi aspetti negativi piuttosto che i suoi compiti positivi. Guidati dai
bolscevichi, i lavoratori espropriarono i capitalisti e trasferirono il
potere ai soviet; ma non poterono stabilire un’economia socialista e un
modo di vita socialista; non furono in grado di mantenere la loro
posizione politica dominante se non per brevissimo tempo.
Da principio il duplice carattere della rivoluzione fu, come ho detto,
la fonte della sua forza. Se una rivoluzione borghese fosse avvenuta
prima (o se, al tempo dell’emancipazione del 1861, si fosse data della
terra a eque condizioni ai servi della gleba liberati), i contadini
sarebbero diventati una forza conservatrice, e questa si sarebbe
opposta alla rivoluzione proletaria, come è avvenuto nell’Europa
occidentale, e particolarmente in Francia durante tutto il
secolo decimonono. Il conservatorismo dei contadini avrebbe potuto
influenzare anche i lavoratori urbani, molti dei quali avevano ancora
radici nella campagna. Un ordine borghese avrebbe posseduto una
capacità di resistenza molto superiore a quella del regime esistente,
metà feudale e metà borghese. La fusione delle due rivoluzioni rese
possibile l’alleanza tra operai e contadini, e questo consentì ai
bolscevichi di vincere la guerra civile e di resistere
all’intervento straniero. Benché le aspirazioni degli operai fossero in
conflitto implicito con quelle dei contadini, nessuna delle due classi,
allora, ne era consapevole. Gli operai gioivano del trionfo dei mugik
sui proprietari terrieri, e non vedevano nessuna contraddizione tra i
loro sforzi verso un’economia collettivistica e
l’individualismo economico dei contadini. La contraddizione divenne
evidente e acuta solo verso la fine della guerra civile, quando i
contadini, non più frenati dalla paura del ritorno dei proprietari,
affermarono energicamente il loro individualismo. 1
Da allora in poi il conflitto tra città e campagna e lo scontro fra le
due rivoluzioni dominò la scena all’interno dell’URSS per almeno due
decenni, negli anni venti e negli anni trenta, e le sue conseguenze
hanno influenzato l’intera storia sovietica. Le vicissitudini del dramma
sono abbastanza note. Lenin, nei suoi ultimi anni, tentò di risolvere il
dilemma pacificamente, per mezzo della nuova politica economica
(NEP) e di un’economia mista; ma nel 1927 o nel 1928 il tentativo era
già fallito. Stalin cercò allora di risolvere il conflitto con la forza e
s’imbarcò nella cosiddetta collettivizzazione totale dell’agricoltura.
Egli separò la rivoluzione socialista da quella borghese annientando la
seconda.
Carlo Marx e i suoi discepoli avevano sperato che la rivoluzione
proletaria sarebbe stata esente dalle convulsioni febbrili, dalla falsa
coscienza e dagli improvvisi attacchi di irrazionalità che avevano
caratterizzato il corso della rivoluzione borghese. Essi, naturalmente,
pensavano alla rivoluzione socialista nella sua « forma pura »; e
presumevano che questa rivoluzione sarebbe avvenuta nei paesi di
progredita industrializzazione, ad alto livello di sviluppo economico e
culturale della società. È fin troppo facile, ma è anche irrilevante,
mettere a contrasto queste fiduciose speranze col tumulto di cose
irrazionali che si incontrano in questo mezzo secolo di storia sovietica.
L’origine di gran parte della sua irrazionalità si trova nelle
contraddizioni tra le due rivoluzioni russe, perché esse causarono una
lunga serie di crisi che non potevano essere risolte con i normali
metodi dell’arte di governo, compromessi o manovre politiche. La
combinazione delle due rivoluzioni divenne la fonte della debolezza
sovietica. L’irrazionalità delle rivoluzioni puritana e giacobina fu in
gran parte dovuta al conflitto tra le grandi speranze della gente
che insorgeva e i limiti borghesi di quelle rivoluzioni. Per le masse
insurrezionali nessuna rivoluzione è mai borghese. Esse combattono
per la libertà e l’uguaglianza o per la fratellanza degli uomini e la
repubblica. La crisi avviene quando le classi e i gruppi possidenti
diventano impazienti di prendersi tutti i vantaggi che la rivoluzione ha
procurato e di accumulare ricchezze. Poiché in questo la rivoluzione li
ostacola, essi se ne tirano fuori o cercano di arrestarla,
proprio quando le masse plebee, disperate per le privazioni o la fame,
premono per mutamenti sociali più radicali. Questo è ciò che accadde
in Francia, col declino del giacobinismo, quando i noveaux riches
reclamarono l’abolizione del maximum e la libertà di commercio. I
plebei allora scoprirono che le loro conquiste rivoluzionarie erano
delle illusioni, che liberté era soltanto la libertà del lavoratore di
vendere la sua forza lavoratrice, égalité significava che egli
poteva contrattare col suo datore di lavoro, sul mercato del lavoro, in
termini di nominale uguaglianza. In Inghilterra quello fu il momento
in cui i diggers e i levellers scoprirono la potenza della proprietà nel
Commonwealth. La disillusione fu crudele e portò con sé molta
confusione. Nel partito della rivoluzione si manifestarono delle
fratture. I capi furono tormentati da ansie di lealtà in conflitto fra loro.
E l’intensità della passione e dell’azione, che era stata la forza creativa
della rivoluzione nella sua ascesa, si trasformò in una forza distruttiva
nel periodo della stagnazione e del declino. Troviamo in gran parte
questo fenomeno anche in Russia, quando immediatamente dopo la
guerra civile i contadini obbligano il governo di Lenin a proclamare il
rispetto per la proprietà privata, mentre l’opposizione degli operai
denunzia questo fatto come un tradimento del socialismo e chiede a
gran voce l’uguaglianza.
La crisi della rivoluzione russa diventò ancora più grave perché la
Russia fu anche coinvolta nelle contraddizioni inerenti a ogni
rivoluzione socialista che avvenga in un paese sottosviluppato. Marx
parla dell’embrione del socialismo che cresce e matura nel grembo
della società borghese. Si può dire che in Russia la rivoluzione
socialista avvenne a uno stadio molto precoce della gestazione, molto
prima che l’embrione avesse avuto il tempo di svilupparsi. Non venne
alla luce un nato morto, ma nemmeno il corpo vitale del socialismo.
Potreste chiedervi che cosa i marxisti vogliono esattamente dire
con questa metafora. La questione è certamente rilevante per il nostro
tema, e anche per i problemi della società occidentale. Marx fa la
storia dell’industria moderna, che dopo avere sostituito i lavoratori
indipendenti delle arti e dei mestieri, gli artigiani e i coltivatori con
lavoratori salariati, ha cambiato con ciò l’intero processo attraverso il
quale l’uomo sostiene la sua vita, ossia il processo della produzione,
trasformandolo da una massa di iniziative individuali isolate
nell’attività di gruppo e collettiva di un gran numero di produttori
associati. Con il lavoro specializzato e il progresso tecnologico, le
nostre forze produttive diventano sempre più interdipendenti;
diventano o tendono a diventare socialmente integrate su scala
nazionale e perfino internazionale. È precisamente questa la «
socializzazione » del processo produttivo, l’embrione del socialismo
nel grembo del capitalismo. Questo tipo di processo produttivo esige il
controllo sociale e la pianificazione; la proprietà o il controllo privato
fanno a pugni con esso. Il controllo privato, anche se esercitato
dalle grandi corporazioni moderne, divide e disorganizza un
meccanismo sociale essenzialmente integrato che ha la necessità di
essere effettivamente e razionalmente integrato.
Le ragioni addotte dal marxismo contro il capitalismo si basano
largamente anche se non unicamente su questa argomentazione. E
così le sue ragioni a favore del socialismo. Il marxismo vede nel pieno
sviluppo del carattere sociale del processo produttivo la maggiore
condizione storica preliminare del socialismo. Senza di esso il
socialismo sarebbe un castello in aria. Cercare di imporre il controllo
sociale su modi di produzione che non sono intrinsecamente sociali è
altrettanto incongruo e anacronistico come il mantenere il controllo
privato o sezionale di un processo produttivo che è sociale.
In Russia questa condizione preliminare di base del socialismo
mancava, come è inevitabile che manchi in tutti i paesi sottosviluppati.
L’agricoltura, con la quale più di tre quarti della popolazione
guadagnava la sua vita, era suddivisa in ventitré o ventiquattro milioni
di piccole proprietà dominate dalle forze spontanee del
mercato. L’industria nazionalizzata era una piccola
zona completamente circondata da questa economia primitiva ed
anarchica. Questo vuol dire che la Russia non possedeva ancora un
altro requisito preliminare essenziale del socialismo, ossia
quell’abbondanza di beni e di servizi che la società deve avere se vuol
soddisfare a un alto livello di civiltà i bisogni dei propri componenti in
una maniera che, sia pur lontanamente, si avvicini all’eguaglianza.
Non molto tempo fa l’industria russa non poteva nemmeno produrre i
beni di cui qualsiasi nazione moderna ha bisogno per il proprio
normale funzionamento. Ma il socialismo non può venire fondato sul
bisogno e sulla povertà. Contro questi fenomeni, tutte le sue
aspirazioni rimangono impotenti. La penuria fa sorgere
inesorabilmente la disuguaglianza. Dove non c’è abbastanza cibo,
vestiario e alloggio per tutti, una minoranza acciufferà tutto quello
che può, mentre gli altri resteranno con la fame, gli abiti a brandelli e
ammassati in alloggi sordidi. Era inevitabile che tutto questo
accadesse in Russia.
In aggiunta a ciò, il punto di partenza reale fu una situazione di
completo disastro. Dopo gli anni della guerra mondiale, della guerra
civile e dell’intervento straniero, la poca industria che la Russia aveva
posseduto era andata in rovina. Il macchinario e le riserve di materiale
si erano consumati. Economicamente la nazione era come se fosse
stata ributtata indietro di più di mezzo secolo. La gente delle città
bruciava i mobili per riscaldare la casa. Decine di milioni di
contadini erano colpiti dalla carestia e vagavano per il paese in cerca
di cibo. I pochi milioni di lavoratori che si erano battuti sulle barricate
nel 1917 si erano dispersi, e come forza sociale integrata avevano
cessato di esistere. I più valorosi erano morti nella guerra civile; molti
avevano occupato posti nella nuova amministrazione, nell’esercito e
nella polizia; moltissimi erano fuggiti dalle città affamate; i pochi che
erano rimasti impiegavano maggior tempo a barattare che non a
lavorare, diventavano dei declassati e venivano risucchiati dal mercato
nero.
Queste furono le circostanze formative del tempo in cui i
bolscevichi, agli inizi degli anni venti, cercavano di dare forma al loro
regime e di consolidarlo. Ma nel far questo non potevano appoggiarsi
alla classe di cui si erano considerati l’avanguardia, la classe che si
sosteneva fosse quella dirigente nel nuovo Stato, il fondamento della
nuova democrazia, il principale agente del socialismo. Fisicamente e
politicamente quella classe era svanita. Così mentre la rivoluzione
borghese, nonostante la carestia nel paese, sopravviveva nella realtà
tangibile della vita rurale, la rivoluzione socialista era come
un fantasma sospeso nel vuoto.
Queste furono le origini autentiche della cosiddetta degenerazione
burocratica del regime. In quelle circostanze la « dittatura del
proletariato », la « democrazia dei soviet », il « controllo dell’industria
da parte degli operai » erano slogan quasi privi di significato, ai quali
nessuno avrebbe potuto attribuire un contenuto qualsiasi. L’idea della
democrazia dei soviet, come era stata illustrata da Lenin, da Trotski e
da Bukharin, presupponeva l’esistenza di una classe operaia attiva,
sempre vigile, che affermasse se stessa non soltanto contro l'ancien
regime ma anche contro qualsiasi nuova burocrazia che
potesse abusare del potere o usurparlo. Poiché la classe lavoratrice
fisicamente non era là, i bolscevichi decisero di agire come suoi
luogotenenti e fiduciari, fino al momento in cui la vita fosse diventata
più normale e una nuova classe lavoratrice si fosse formata e
sviluppata. Pertanto considerarono loro dovere di esercitare la «
dittatura del proletariato », come rappresentanti di un proletariato
inesistente o quasi. Per questa strada, naturalmente, si giungeva alla
dittatura della burocrazia, al potere incontrollato e alla corruzione
attraverso il potere.
Non che i bolscevichi fossero inconsapevoli del pericolo.
Difficilmente sarebbero stati sorpresi dal detto di Lord Acton a
proposito del potere.2 Sarebbero stati d’accordo con lui. Inoltre
capivano qualcosa che Lord Acton e i suoi discepoli non avevano
afferrato, e cioè che la proprietà è anch’essa potere, potere
concentrato, e che la proprietà quasi monopolistica delle grandi
società di affari è un potere assoluto che agisce tanto più
efficacemente quando è avvolto in una democrazia parlamentare. I
bolscevichi erano anche consapevoli dei pericoli del potere in una
società postcapitalistica. Non per nulla sognavano la dissoluzione dello
Stato. Io almeno non conosco nessun libro che si spinga così addentro
nel problema delle radici della corruzione dovuta al potere, di quanto
lo faccia il volume Stato e Rivoluzione di Lenin (scritto, se vogliamo, in
modo alquanto scolastico e dogmatico). C’era dunque un elemento di
tragedia nelle fortune dei bolscevichi: tutta la loro profonda e acuta
consapevolezza del pericolo non li salvò da esso; e tutto il loro odio
per la corruzione non impedì che essi stessi ne fossero vittime.
Come rivoluzionari non avevano altra scelta, a meno che non
abdicassero e si spogliassero del potere, cedendolo di fatto ai loro
nemici, che avevano sconfìtti proprio allora nella guerra
civile. Soltanto santi o pazzi avrebbero potuto farlo; ma i bolscevichi
non erano né santi né pazzi. Senza aspettarselo, si trovarono in una
posizione che, mutatis mutandis, era paragonabile a quella dei
decabristi, dei populisti e dei narodnovolzi dell’Ottocento, la posizione
di una élite che non ha dietro di sé una classe rivoluzionaria. Ma l’élite
era ora il governo, che occupava una fortezza assediata e
precariamente sottratta ai nemici, ma che doveva ancora difendere,
ricostruire dalle sue rovine e trasformare nella base di un nuovo
ordine sociale. È raro che una fortezza assediata sia governata in
maniera democratica. I vincitori di una guerra civile raramente
possono permettersi di concedere libertà di espressione e di
organizzazione ai vinti, specialmente quando questi sono spalleggiati
da potenti forze straniere. Di regola la guerra civile ha per risultato il
monopolio del potere da parte dei vincitori.3 Il sistema del
partito unico diventò per i bolscevichi una inevitabile necessità.
Dipendeva da ciò la loro sopravvivenza e, senza dubbio, la
sopravvivenza della rivoluzione. Essi non vi avevano mirato con
nessuna forma di premeditazione. Lo stabilirono con molta ansietà,
come un temporaneo espediente. Il sistema del partito unico era
contrario alle inclinazioni, alla logica e alle idee di Lenin, di Trotski, di
Kamenev, di Bukharin, di Lunaciarskij, di Rykov e di tanti altri. Ma poi
la logica della situazione prese il sopravvento e fece scempio delle loro
idee e dei loro scrupoli. L’espediente provvisorio diventò la norma. Il
sistema del partito unico acquistò stabilità e un impeto tutto suo. Per
un processo simile a quello della selezione naturale, la gerarchia del
partito trovò, dopo la morte di Lenin, il suo capo in Stalin il quale, a
causa della sua eccezionale abilità unita a un carattere dispotico e a
una estrema mancanza di scrupoli, era il più adatto a tenere nelle
mani il monopolio del potere. Nella prossima conferenza mi propongo
di illustrare l’uso che egli ne fece per trasformare la struttura sociale
dell’Unione Sovietica, e di mostrare come sia stata proprio questa
trasformazione che, nel mantenere costantemente la società in
un tremendo stato di flusso e riflusso, contribuì a perpetuare il suo
potere. Tuttavia, persino Stalin si considerò come il fiduciario del
proletariato e della rivoluzione. Khrusciov, dopo aver denunciato, nel
1956, i delitti e l’inumanità di Stalin, disse di lui : « Stalin era convinto
che questo fosse necessario per la difesa degli interessi delle classi
lavoratrici... Egli guardava tutto questo dal punto di vista...
dell’interesse del popolo lavoratore... del socialismo e del
comunismo. Non possiamo dire che questi fossero gli atti di un
despota folle... Tutta la tragedia sta in questo ». Tuttavia, se i
bolscevichi a tutta prima si ritennero autorizzati ad agire come i
luogo-tenenti della classe lavoratrice solo nell’intervallo della
dispersione e della virtuale assenza di questa, Stalin continuò nei suoi
sistemi con tutta la sua potenza ben oltre quel punto, e cioè anche
quando ci fu una classe lavoratrice ricostituita e in rapido sviluppo; e
impiegò tutti gli stratagemmi del terrore e dell’inganno per impedire
ai lavoratori e al popolo in generale di reclamare i loro diritti e il
retaggio rivoluzionario.
La coscienza del partito era in perenne conflitto con queste realtà
del monopolio del potere. Già nel 1922 Lenin, dal suo letto di morte,
additando Stalin, mise in guardia il partito contro il « grande tiranno
», il dzerzhymorda, il grande sciovinista russo che tornava ad
opprimere il debole e l’indifeso; e confessò di sentirsi egli stesso «
profondamente colpevole di fronte ai lavoratori russi » per non aver
dato loro prima questo avvertimento. Tre anni dopo Kamenev cercò
invano di ricordare il testamento di Lenin a un tempestoso congresso
del partito. Nel 1926 Trotski, a una sessione del Politbureau, puntando
anche lui il dito su Stalin, gli gettò in faccia le parole : « Affossatore
della rivoluzione ». « Lui è il nuovo Gengis Khan », questo fu il monito
atterrito di Bukharin nel 1928, « lui ci assassinerà tutti... lui affogherà
nel sangue le insurrezioni dei contadini. » E queste non furono
osservazioni fatte a casaccio solo da pochi capi. Dietro questi uomini
sorsero sempre nuove opposizioni che miravano a riportare il partito
alle sue tradizioni democratiche rivoluzionarie e agli impegni
socialisti. Questo è ciò che l’opposizione dei lavoratori e il centro
democratico cercarono di fare fin dal 1921 e 1922, ciò che i trotskisti
fecero dal 1923 in poi, gli zinovievisti dal 1925 fino al 1927, i
bukharinisti nel 1928 e 1929, e gruppi sempre minori e meno
articolati, perfino stalinisti, in vari altri momenti.
Non posso qui entrare nei particolari di queste lotte ed epurazioni
narrati in vari miei libri. È chiaro come a mano a mano che i successivi
scismi venivano soppressi, il monopolio del potere diveniva sempre più
stretto e più rigido. In principio il partito unico lasciò ancora la libertà
di espressione e d’iniziativa politica, almeno ai propri membri. In
seguito l’oligarchia dominante li privò di quella libertà, e il monopolio
del partito unico divenne di fatto il monopolio di una sola fazione, la
fazione stalinista. Nel secondo decennio della rivoluzione prese forma
il blocco monolitico totalitario. Infine il governo della fazione unica
divenne il governo personale del suo capo. Il fatto che Stalin potè
consolidare la sua autocrazia soltanto sui cadaveri della maggior parte
dei capi ch’erano stati all’origine della rivoluzione e dei loro seguaci, e
ch’egli dovette arrampicarsi perfino sui cadaveri di fedeli stalinisti, dà
la misura della profondità e della forza della resistenza ch’egli dovette
spezzare.
Le metamorfosi politiche del regime furono accompagnate dal
deterioramento delle idee del 1917. Alla gente fu insegnato che il
socialismo richiedeva non soltanto la nazionalizzazione della proprietà
e la pianificazione, la rapida industrializzazione, la collettivizzazione e
l’educazione del popolo; ma che in qualche modo il cosiddetto culto
della personalità, il privilegio brutale e un veemente
antiugualitarismo, l’onnipotenza della polizia, erano tutti parte
integrante della nuova società. Il marxismo, la più critica e
spregiudicata delle dottrine, fu svuotato del suo contenuto e ridotto a
una serie di sofismi o di canoni quasi ecclesiastici, ideati per
giustificare tutti i decreti di Stalin e tutti i suoi capricci
pseudoteoretici,
I disastrosi effetti che tutto questo ebbe sulla scienza, sull’arte,
sulla letteratura sovietica e sul clima morale del paese, sono ben
conosciuti. E poiché lo stalinismo fu per tre decenni la dottrina
ufficiale di un’organizzazione mondiale, questo avvilimento del
socialismo e del marxismo ebbe enormi ripercussioni anche nel campo
internazionale, specialmente nel movimento socialista occidentale; mi
propongo di esaminare questi effetti in un altro momento.
La rivoluzione russa ebbe alcuni tratti di irrazionalità in comune
con le rivoluzioni borghesi delle quali fu l’ultima. Questo, in un certo
senso, è l’elemento borghese del suo carattere. Come capo delle
epurazioni, Stalin fu il discendente di Cromwell e di Robespierre. Il
suo terrore fu molto più crudele e repellente, perché egli esercitò il
potere per un periodo molto più lungo, in circostanze più difficili e in
un paese abituato da secoli a una barbara brutalità da parte dei suoi
governanti. Stalin, dovremmo ricordare, fu anche il discendente di
Ivan il Terribile, di Pietro il Grande, di Nicola I e di Alessandro III. In
realtà lo stalinismo può essere descritto come la fusione del
marxismo con l’arretratezza primordiale e selvaggia della Russia. In
ogni caso in Russia le aspirazioni della rivoluzione e la sua realtà
erano molto più distanti fra loro di quanto non lo fossero in qualunque
altro paese; e perciò fu necessario che corresse molto più sangue e
che si impiegasse una forma di ipocrisia molto più spinta, per coprire
questa terribile discrepanza.
E allora, si domanderà, in che cosa consiste la continuità della
rivoluzione? Qual è la sua realtà dopo tutte queste metamorfosi
politiche e ideologiche, dopo tante eruzioni di terrore e altri
cataclismi? Domande simili si sono presentate anche con riferimento
ad altre rivoluzioni. Ad esempio, quando e dove è giunta alla sua
conclusione la rivoluzione francese? Ciò avvenne forse quando i
giacobini soppressero la Comune e gli enragés? O quando Robespierre
salì gli scalini della ghigliottina? O al momento dell’incoronazione di
Napoleone? O alla sua deposizione? La maggior parte di questi
avvenimenti, nonostante il loro carattere drastico, sono avvolti
nell’ambiguità; soltanto la caduta di Napoleone segna
inequivocabilmente la fine del ciclo storico.
In Russia una simile ambiguità avvolge eventi quali l’insurrezione
di Kronstadt nel 1921, la caduta di Trotski nel 1923, la sua
espulsione nel 1927, le purghe degli anni trenta, le rivelazioni di
Khrusciov su Stalin nel 1956, per citare soltanto questi avvenimenti. I
settari politici discuteranno senza fine su queste rotture
nella continuità della rivoluzione, e indicheranno in quale di queste
rotture la rivoluzione fu « definitivamente » tradita e sconfitta.
(Stranamente Trotski stesso, negli anni del suo ultimo esilio, cercò di
convincere alcuni dei suoi più che zelanti sostenitori del fatto che la
rivoluzione non era finita con la sua deportazione.) Queste dispute
settarie hanno il loro significato, specialmente per gli storici che
possono raccogliere da esse parecchi granelli di verità. Gli storici
francesi, i migliori di loro, sono ancora oggi divisi pro e contro i
giacobini, sono dantonisti, robespierristi, hébertisti, difensori della
Comune, termidoriani e antitermidoriani, bonapartisti e
antibonapartisti; e le loro controversie hanno sempre avuto una stretta
relazione con le correnti preoccupazioni politiche dei francesi. Sono
convinto che gli storici sovietici saranno divisi allo stesso modo, per
molte generazioni, proprio come lo eravamo noi partecipando al
movimento comunista negli anni venti e negli anni trenta, in trotskisti,
stalinisti, bukharinisti, zinovievisti, decabristi e così via; e spero che
alcuni di loro saranno capaci, senza paura o vergogna, di elaborare
altresì apologie dei menscevichi e anche dei socialrivoluzionari.
Ma la questione concernente la continuità della rivoluzione non è
risolta in tali dispute, essa le trascende. Deve essere, ed è,
giudicata con altri e più vasti criteri. Non occorre arrivare fino a
Clemenceau, il quale una volta disse che « la rivoluzione era un
amalgama dal quale nulla poteva essere detratto ». Ma qualcosa si può
dire anche in favore di questo punto di vista, sebbene l’amalgama sia
una lega che contiene una grande quantità di metallo vile.
Un modo di affrontare il nostro problema consiste nel dire che i
contemporanei di una rivoluzione riconoscono la sua continuità
attraverso l'atteggiamento da loro assunto verso di essa, attraverso le
loro politiche e le loro opere. Fanno lo stesso anche nel nostro tempo.
Il grande cambiamento del 1917 appare ancora confuso più che mai
nella coscienza dell’umanità. Per i nostri uomini di Stato, per
gl’ideologi e perfino per la gente comune, i problemi posti da esso non
sono ancora risolti. E il fatto che i governanti e i capi dell’Unione
Sovietica non hanno mai cessato d’invocare le loro origini
rivoluzionarie, ha anch’esso avuto la sua logica e le sue conseguenze.
Tutti loro, Stalin compreso, Khrusciov e i successori di Khrusciov,
hanno dovuto coltivare nella mente del loro popolo il senso della
continuità della rivoluzione. Hanno dovuto riconfermare gl’impegni
del 1917, perfino mentre loro stessi li stavano tradendo; hanno dovuto
confermare mille volte la fedeltà dell’Unione Sovietica al socialismo.
Questi impegni e queste dichiarazioni di fede sono stati inculcati in
ciascuna delle nuove generazioni, in ogni gruppo d’età, nelle scuole e
nelle fabbriche. La tradizione della rivoluzione ha dominato il sistema
dell’educazione sovietica. Questo è di per se stesso un potente fattore
di continuità. È ben vero che questo modello di educazione è stato
ideato per nascondere la rottura nella continuità, per falsificare la
storia e per giustificare contraddizioni e irrazionalità. Eppure, a
dispetto di tutto questo, il sistema educativo ha costantemente
risvegliato nella massa del popolo una coscienza della sua eredità
rivoluzionaria.
Dietro questi fenomeni ideologici e politici c’è la reale continuità di
un sistema basato sulla abolizione della proprietà privata e sulla
completa nazionalizzazione dell’industria e della banca. Tutti i
mutamenti nel governo, nella direzione del partito e nella politica, non
hanno intaccato questa fondamentale e inviolabile « conquista
d’ottobre ». Questa è la roccia sulla quale riposa la continuità
ideologica. I rapporti di proprietà o le forme di essa non sono un
fattore passivo o irrilevante nello sviluppo di una società. Sappiamo
quanto profondamente la trasformazione dai sistemi di proprietà
feudale a quelli borghesi abbia alterato il modo di vivere e il profilo
della società occidentale. Ora la totale, piena proprietà statale dei
mezzi di produzione porta con sé una trasformazione a lunga scadenza
ancor più multipla e fondamentale. Sarebbe erroneo pensare che ci sia
solo una differenza quantitativa fra la nazionalizzazione
del venticinque per cento dell’industria e una proprietà pubblica al
cento per cento. La differenza è qualitativa. In una società industriale
moderna la proprietà pubblica totale è destinata a creare un ambiente
essenzialmente nuovo per l’attività produttiva dell’uomo e per i suoi
sviluppi culturali. Poiché la Russia postrivoluzionaria non era una
società industriale moderna, la proprietà statale per sé non poteva
creare quell’ambiente qualitativamente nuovo, ma soltanto alcuni
elementi di esso. Perfino questo fu sufficiente a influenzare in modo
decisivo l’evoluzione dell’Unione Sovietica e a dare una certa unità ai
processi della sua trasformazione sociale.
Ho parlato dell’incongruità del tentativo di stabilire il controllo
sociale in un processo produttivo che non era sociale nel suo
carattere, e anche dell’impossibilità di un socialismo fondato sulla
miseria e sulla carestia. L’intera storia dell’Unione Sovietica in questi
cinquantanni è stata una lotta, in parte vittoriosa e in parte no, per
risolvere questa incongruenza e per vincere la miseria e la carestia.
Questo significò, in primo luogo, l’industrializzazione intensiva, come
mezzo volto a un fine, non un fine in se stesso. I rapporti della
proprietà feudale e perfino di quella borghese possono essere
compatibili con la stagnazione economica o con un ritmo torpido di
sviluppo. La proprietà nazionalizzata non lo può, specialmente quando
è stata instaurata in un paese sottosviluppato, per mezzo di una
rivoluzione proletaria. Il sistema porta in sé l’obbligo di un rapido
progresso, la necessità di sforzarsi per raggiungere l’abbondanza,
l’urgenza di sviluppare quel processo sociale di produzione per il
quale è necessario un controllo sociale razionale. Nel corso del
progresso, che per la Russia fu reso molto più difficile del necessario
dalle guerre, dalla corsa agli armamenti e dagli sprechi burocratici,
sorsero contraddizioni sempre nuove; e i mezzi furono perennemente
confusi con i fini. Mentre si andava accumulando la ricchezza
nazionale, i consumatori, che sono anche i produttori, erano esposti a
una protratta e persino aggravata condizione di miseria; e il controllo
burocratico su ogni aspetto della vita nazionale si sostituì al controllo
e alla responsabilità sociali. L’ordine delle priorità fu come invertito.
Le forme del socialismo erano state forgiate prima che il
suo contenuto, cioè la sostanza economica e culturale, fosse
disponibile; e prima che questo contenuto fosse prodotto le forme si
deterioravano o venivano distorte. In principio le istituzioni sociali e
politiche create dalla rivoluzione torreggiavano sopra il livello effettivo
dell’esistenza materiale e culturale della nazione; poi, mentre quel
livello si innalzava, l’ordine sociale e politico veniva abbassato al di
sotto di esso dal puro e semplice peso della burocrazia e
dello stalinismo. Persino il fine venne abbassato al livello dei mezzi,
l’immagine ideale di una società senza classi fu degradata al livello
delle miserie di questo periodo di transizione e delle crude necessità
di una primitiva accumulazione di ricchezze.
Questa inversione delle priorità sociali, questa confusione di fini e
di mezzi e la risultante disarmonia tra forma e contenuto della vita
nazionale, sono le fonti più profonde delle crisi, dei fermenti e
dell’agitazione dell’èra poststaliniana. Il controllo burocratico che si
sostituisce al controllo sociale è divenuto un freno per l’avanzare del
progresso; e la nazione è impaziente di amministrare la propria
ricchezza e di essere padrona dei propri destini. Non sa molto bene
come dar voce alle proprie aspirazioni e che cosa fare per esse.
Decenni di governo totalitario e di disciplina monolitica hanno
derubato il popolo della sua capacità di autoespressione, di azione
spontanea e di autorganizzazione.
I gruppi al governo si arrabattano con riforme economiche,
perdono la loro influenza sullo spirito della nazione, e tuttavia fanno
quanto possono per mantenere il popolo inarticolato e passivo. Questi
sono i limiti della destalinizzazione ufficiale, dietro la quale c’è una
destalinizzazione non ufficiale, una diffusa attesa di un cambiamento
radicale. La politica ufficiale e gli umori non ufficiali si nutrono delle
memorie conservate o ravvivate del primo eroico periodo della
rivoluzione con la sua libertà, la sua razionalità e la sua umanità molto
più grandi. Questo apparente ritorno al passato, con l’incessante
pellegrinaggio alla tomba di Lenin, probabilmente nasconde una
imbarazzata pausa tra l’èra di Stalin e una qualche nuova ripresa del
pensiero creativo e dell’azione storica dell’Unione Sovietica.
Qualunque possa essere la verità sull’èra poststaliniana, in essa il
disagio, la sfiducia e il procedere a tastoni, testimoniano alla loro
maniera la continuità dell’epoca rivoluzionaria.
CAPITOLO TERZO

LA STRUTTURA SOCIALE

IN questa conferenza intendo esaminare i cambiamenti che sono


avvenuti nella struttura sociale dell’URSS, ossia il bilancio sociologico
di questi cinquant'anni.
La settimana scorsa, trattando del problema della continuità della
rivoluzione, sottolineai il significato della circostanza che lo Stato, e
non l’« iniziativa privata » o i gruppi di grandi capitalisti, ha avuto il
compito dell’industrializzazione dell’Unione Sovietica. Questo fatto
ha determinato la dinamica dello sviluppo economico sovietico e il
carattere della trasformazione sociale. Non mi propongo di dilungarmi
qui sull’aspetto strettamente economico del problema. Tutti sappiamo
che l’Unione Sovietica si è innalzata dalla posizione della più arretrata
tra le grandi nazioni europee al rango di seconda potenza industriale
del mondo: le conseguenze internazionali della sua ascesa sono state
sempre davanti a noi durante questi ultimi decenni.
Tuttavia debbo confessare, essendo uno di coloro che sono stati
testimoni molto vicini delle prime fasi di questa ascesa e delle
tremende difficoltà che l’accompagnarono, che non mi sono assuefatto
a dare per dimostrato e inevitabile il risultato di tutto questo. Non
avrei creduto ad esempio, nel 1930 e nemmeno nel 1950, che l’Unione
Sovietica avrebbe progredito con tanta rapidità e che nel 1967
avrebbe prodotto, per darvi solo un’indicazione, cento milioni
di tonnellate di acciaio all’anno. Questo è più di quanto producono,
tutte assieme, la Gran Bretagna, la Repubblica Federale Tedesca, la
Francia e l’Italia, e soltanto venti milioni di tonnellate meno di quello
che producono le acciaierie degli Stati Uniti. È il presupposto per
un’industria dell’ingegneria e per un’industria pesante grande quasi
quanto quella americana, benché, s’intende, le industrie dei beni di
consumo rimangano ancora molto indietro. Ma vi risparmierò ulteriori
statistiche economiche e mi fermerò piuttosto sui tratti sociologici che
accompagnano e seguono il progresso economico.
Prima di procedere oltre, dobbiamo forse ricordarci che questi
cinquant'anni non sono stati un solo periodo ininterrotto di crescita e
di sviluppo. Dei cinquant’anni, sette o otto sono stati assorbiti da
ostilità belliche, col risultato di gravi arretramenti e di vaste
distruzioni, senza confronto con nessun altro paese belligerante. Altri
dodici o tredici anni sono stati impiegati a rimediare alle perdite. I
periodi effettivi di sviluppo occuparono gli anni dal 1928 al 1941 e dal
1950 in poi, circa trent’anni in tutto. E in questi anni una proporzione
particolarmente alta delle risorse sovietiche, circa un quarto del
reddito nazionale in media, fu assorbito dalla corsa agli armamenti
che precedette e seguì la seconda guerra mondiale. Se si potesse
calcolare il progresso compiuto in termini di unità teoriche di anni
veramente pacifici, si concluderebbe che l’Unione Sovietica ha
realizzato il suo progresso nel giro di venti o al massimo
di venticinque anni. Questo è da tenere a mente quando si cerca di
svalutare l’opera compiuta. Ma naturalmente la presente società
sovietica è il prodotto del tumulto di questo mezzo secolo, e perciò, nel
suo sviluppo, sono inseparabili il guadagno e la perdita, la
costruzione e la distruzione; e la combinazione dello sforzo produttivo,
del lavoro improduttivo e dello sperpero, ha inciso tanto sulla vita
materiale quanto sul clima spirituale dell’URSS. L’aspetto principale e
più impressionante della trasformazione del quadro generale è la
massiccia urbanizzazione dell’URSS. Dopo la rivoluzione la
popolazione cittadina è cresciuta di oltre cento milioni. Anche qui è
però necessaria una rettifica della scala cronologica. Il primo decennio
dopo il 1917 fu caratterizzato dallo spopolamento delle città e da un
lento movimento inverso. L’effetto della seconda guerra mondiale fu il
medesimo, almeno nella Russia europea. I periodi di urbanizzazione
intensa avvennero fra il 1930 e il 1940 e fra il 1950 e il 1965. Furono
costruite circa ottocento città grandi o medie e più di duemila piccoli
agglomerati urbani. Nel 1926 c’erano soltanto ventisei milioni di
abitanti nelle città. Nel 1966 il loro numero era di circa
centoventicinque milioni. Solo negli ultimi quindici anni la popolazione
urbana è cresciuta di cinquantatré o cinquantaquattro milioni di
persone, ossia l’equivalente dell’intera popolazione delle
isole britanniche. Nel corso di una generazione la percentuale degli
abitanti delle città sul totale della popolazione è salita da quindici a
circa cinquantacinque, e sale ancora rapidamente verso sessanta.
Negli Stati Uniti, per prendere un esempio precedente in questo
settore, ci sono voluti più di centosessant’anni perché la popolazione
urbana crescesse di cento milioni di anime; o, se vogliamo fare il
confronto in percentuali più rilevanti, c’è voluto un intero secolo, dal
1850 al 1950, perché la proporzione degli abitanti delle città salisse
dal quindici al sessanta per cento. In tutti quei cento anni,
l’accrescimento fenomenale delle città americane fu stimolato e
facilitato dall’immigrazione in massa, dall’acquisto di capitali e di
tecnici stranieri, dal fatto che il paese fu immune da guerre e
distruzioni, e infine dalle condizioni vantaggiose offerte dal clima.
L’urbanizzazione sovietica è senza confronti nella storia per il suo
ritmo e le sue dimensioni.
Tale cambiamento nella struttura sociale, anche se avesse avuto
luogo in circostanze più favorevoli, avrebbe creato gravi e difficilissimi
problemi per l’insediamento, l’edilizia, la salute pubblica e
l’educazione; e le circostanze della storia sovietica furono tali che
parevano inventate apposta per intensificare e per ingrandire oltre
misura la confusione e gli urti prodotti dal grande fenomeno.
Solo una piccola parte dell’espansione fu dovuta alla crescita
naturale o alla immigrazione della gente nelle città. La massa dei
nuovi abitanti delle città era costituita da contadini, provenienti dai
villaggi anno per anno e avviati al lavoro industriale. Come le antiche
e progredite nazioni occidentali, l’Unione Sovietica trovò la principale
riserva di manodopera industriale tra i contadini. Nelle prime fasi, la
crescita dell’impresa capitalista in Occidente era
spesso accompagnata dalla espropriazione forzata dei coltivatori (dalle
enclosures, in Inghilterra) e da una draconiana legislazione sul lavoro.
Più tardi l’Occidente potè contare di regola sul movimento spontaneo
del mercato del lavoro con le sue leggi della domanda e dell'offerta,
per procurare la mano d’opera richiesta dall’industria. Questo
eufemismo significa che, nel corso di molti decenni se non di secoli,
l’eccesso di popolazione rurale e qualche volta la carestia, spinsero
fuori dalle campagne, verso il mercato del lavoro, grandi masse di
sovrabbondante manodopera. Nell’Unione Sovietica lo Stato si
procurava la manodopera per mezzo della programmazione delle
direttive impartite. La sua dominante posizione economica fu il
fattore decisivo; senza di esso difficilmente sarebbe stato possibile
portare a termine una trasformazione così gigantesca in un periodo di
tempo così breve.
Lo spostamento della popolazione rurale cominciò in grandi
proporzioni soltanto al principio degli anni trenta, e fu strettamente
connesso con la collettivizzazione dell’agricoltura, che diede agli uffici
del governo la possibilità di mettere le mani sull’eccedenza di
manodopera agraria e di spostarla verso l’industria. Gli inizi di questo
processo furono estremamente difficili e comportarono l’impiego di
molta energia e violenza. Le abitudini della vita industriale
stabilizzata, regolata dalle sirene delle fabbriche, che in altri paesi
erano state inculcate nei lavoratori di generazione in generazione da
necessità economiche e dalla legislazione, mancarono in Russia. I
contadini erano stati abituati a lavorare nei loro campi adeguandosi al
ritmo della dura natura della Russia: lavoravano la terra dall’alba al
tramonto durante l’estate, e dormivano sopra le stufe per la maggior
parte dell’inverno. Ora dovevano essere costretti e condizionati a un
metodo di lavoro interamente nuovo.
Facevano resistenza, lavoravano svogliatamente, danneggiavano o
rompevano gli arnesi e si spostavano inquieti da una fabbrica all’altra
e da una miniera all’altra. Il governo impose la disciplina per mezzo di
severi regolamenti del lavoro, di minacce di deportazioni e di vere
deportazioni nei campi di lavoro forzato. La mancanza di case e la
penuria di beni di consumo, dovuti in larga misura all’azione
deliberata di una politica di limitazione dei consumi stessi, dato che il
governo voleva ottenere un massimo di produzione nell’industria
pesante e nelle munizioni, aggravò i disagi e la turbolenza. Era
un fatto comune nelle città, anche molto recentemente, che varie
famiglie condividessero una sola stanza e una cucina; e nei nuovi
centri industriali masse di lavoratori furono ammassate come mandrie
nei baraccamenti per molti anni. La criminalità era in grande
aumento. Allo stesso tempo molti milioni di uomini e donne ricevevano
un’educazione primaria e perfino secondaria, erano addestrati per le
attività industriali e si abituavano al nuovo sistema di vita.
Col procedere del tempo diminuirono l’attrito sociale e i conflitti
generali da tanti mutamenti. E dalla seconda guerra mondiale in poi le
imprese delle armi sovietiche e la produzione delle loro industrie sono
apparse tali da giustificare retrospettivamente anche la violenza,
il dolore, il sangue e le lagrime. Ma si può sostenere, come io ho
sostenuto durante tutti questi decenni, che senza la violenza, il sangue
e le lagrime, la grande opera di costruzione sarebbe stata compiuta in
modo molto più efficiente e con risultati ulteriori (sociali, politici e
morali) molto più sani. Quale che sia la verità su questo punto, la
trasformazione della struttura sociale è tuttora in corso e continua,
senza stimolazioni così violente. Anno dopo anno la popolazione
urbana continua ad espandersi con le stesse proporzioni di prima; e
anche oggi il processo, sebbene programmato e regolato, obbedisce al
suo ritmo. Se negli anni trenta il governo dovette far violenza a una
massa restia di contadini per condurli nelle città, in questo ultimo
decennio o press’a poco esso si è trovato di fronte a un precipitarsi
spontaneo della popolazione dalla campagna verso le città; e ha
dovuto fare sforzi per rendere la vita rurale un po’ più attraente, per
trattenere in campagna i lavoratori. Ma la tendenza attuale del
movimento della popolazione probabilmente continuerà, e in altri dieci
o quindici anni è molto probabile che i tre quarti della popolazione
vivranno in città.
I lavoratori dell’industria, che erano una piccola minoranza nel
1917, oggi costituiscono la classe sociale più numerosa. Lo Stato
impiega circa settantotto milioni di persone nelle officine e negli uffici;
ve ne impiegava ventisette milioni dopo la fine della seconda guerra
mondiale. Più di cinquanta milioni di persone lavorano nelle industrie
primarie e nelle manifatture, nell’edilizia, nei trasporti, nelle
comunicazioni e nelle fattorie di proprietà statale. Gli altri si
guadagnano la vita nei vari servizi: tredici milioni nei servizi sanitari,
nell’istruzione e nella ricerca scientifica. Non è facile distinguere con
qualche precisione il numero dei lavoratori manuali e dei tecnici da
quello degli impiegati d’ufficio, perché le statistiche sovietiche li
mettono tutti insieme. Ora parlerò del significato sociologico di questo
accumulo indiscriminato. Il numero dei lavoratori propriamente detti
può essere fissato fra i cinquanta e i cinquantacinque milioni.
La classe lavoratrice è altamente stratificata. La politica del lavoro
di Stalin era basata su una forte differenziazione dei salari e degli
stipendi, e innalzò l’aristocrazia del lavoro molto accentuatamente, in
confronto alla massa dei lavoratori mal pagati, semiaddestrati o non
addestrati affatto. Fino a un certo punto questo era giustificato dalla
necessità di offrire incentivi alla capacità e all’efficienza; ma le
discrepanze fra i diversi salari si spinsero molto più in là, e fin dove
esse arrivano è cosa che rimane ancor oggi circondata da una
straordinaria segretezza. Dagli anni trenta in poi il governo non ha
pubblicato dati rilevanti sulla struttura nazionale dei salari, e gli
studiosi hanno dovuto accontentarsi di informazioni frammentarie.
In tutta l’epoca di Stalin è continuata una feroce caccia alle streghe
contro i livellatori, ossia « gli ugualitari piccolo-borghesi »; ma essa si
dimostrò meno efficace di quanto apparisse, e certo meno efficace
della caccia alle streghe nella politica.
La soppressione dei dati sulla consistenza degli stipendi e dei salari
è indicativa della coscienza colpevole dei gruppi al governo, sotto
Stalin e dopo di lui, nel perseguire la loro politica antiugualitaria.
Nessuna cattiva coscienza di questo genere impedisce ai nostri
capitani di industria di rendere pubblici i loro profitti o proibisce ai
nostri governi di far conoscere i dati circa le nostre graduazioni di
stipendi e salari. Naturalmente nell’Unione Sovietica non esiste niente
di simile alla nostra « normale » disuguaglianza tra i profitti
guadagnati o non guadagnati. La disuguaglianza è tra i redditi
del lavoro. Tuttavia il rivelarne tutta l’estensione sarebbe
evidentemente un’impresa troppo rischiosa e pericolosa per qualsiasi
governo sovietico. Le discrepanze nelle rimunerazioni dei lavoratori
sembrano essere simili a quelle che si possono vedere in molti altri
paesi; ma appaiono meno ampie per il maggior valore dei servizi
sociali che sono più vasti nell’Unione Sovietica. Negli ultimi anni la
struttura degli stipendi è stata riveduta molte volte. Il primo periodo
della destalinizzazione portò a un’evidente riduzione delle
inuguaglianze, la cui portata è però difficile stabilire. Successivamente
la nuova politica dei salari si è scontrata con la crescente resistenza
da parte dei direttori d’azienda e dell’aristocrazia del lavoro. Tuttavia,
in una economia in continuo e rapido sviluppo, la grande mobilità
sociale non permette alla stratificazione di irrigidirsi fuori misura.
Grandi masse di lavoratori sono istruite continuamente nel lavoro
specializzato e passano dai gruppi a salario più basso a quelli a salario
più alto.
Voglio parlare ora della stratificazione sociale e culturale della
classe dei lavoratori, che qualche volta è più importante persino di
quella economica. Questo argomento non si presta a una descrizione o
a un’analisi sociologica chiaramente delineata, e tutto quello che
posso fare qui è cercare di darne un’idea generale e indicarne la
complessità. La crescita prodigiosa delle classi lavoratrici ha avuto
come conseguenza molte differenziazioni sociali e culturali e
varie incongruenze che riflettono le fasi
successive dell’industrializzazione e il loro sovrapporsi. Ciascuna fase
ha fatto nascere un diverso strato della classe lavoratrice e ha
prodotto distacchi significanti. La maggior parte della classe
dei lavoratori è fortemente caratterizzata dalle sue origini contadine.
Ci sono soltanto pochissime famiglie della classe dei lavoratori che si
sono stabilite in città fin da prima della rivoluzione e che hanno una
lunga tradizione industriale e memorie della lotta di classe
prerivoluzionaria. Praticamente lo strato più vecchio dei lavoratori è
quello che si è formato durante il periodo della ricostruzione, negli
anni venti. Il suo adattamento al ritmo della vita dell’industria è stato
relativamente facile, perché questi operai erano venuti alla fabbrica di
loro spontanea volontà e non erano ancora soggetti a una stretta
irreggimentazione. I loro figli costituiscono l’elemento più stabile e più
tipicamente cittadino della popolazione industriale. Dai loro ranghi
sono venuti i vydvizhentsi, gli elementi direttivi e l’aristocrazia del
lavoro negli anni trenta e quaranta. Quelli che rimasero nei ranghi
furono gli ultimi lavoratori sovietici che si impegnarono liberamente,
sotto la NEP, in attività sindacali e perfino negli scioperi e
che godettero di una certa libertà di espressione politica.
Il contrasto tra questa categoria e quella successiva è
estremamente acuto. Una ventina di milioni di contadini furono
trasferiti nelle città negli anni trenta. Il loro adattamento fu penoso e
convulso. Per lungo tempo rimasero campagnoli sradicati, lavoratori
cittadini contro la loro volontà, disperati, anarchici e indifesi.
Essi furono istruiti nel lavoro di fabbrica e tenuti sotto controllo con
un duro apprendistato e con un’altrettanto dura disciplina. Furono
loro a dare alle città sovietiche il grigio, miserabile, semibarbaro
aspetto che così spesso colpiva i visitatori stranieri. Essi portarono con
sé, nell’industria, il crudo individualismo dei mugik. La politica
ufficiale speculò su questo individualismo, spronando le reclute
dell’industria a competere tra di loro per ottenere dei buoni, dei premi
e dei pagamenti a cottimo. In questo modo al banco della fabbrica
l’operaio era aizzato contro l’operaio; e pretesti di « competizione
socialista » venivano usati per impedire la formazione e la
manifestazione di ogni solidarietà di classe. Il terrore degli anni trenta
lasciò un’impronta indelebile sugli uomini di questa categoria. La
maggior parte di essi, ora sui cinquantanni, sono forse, non per loro
colpa, l’elemento più arretrato tra i lavoratori sovietici, ignoranti,
avidi, possessivi, servili. Soltanto la seconda generazione di questo
strato della classe lavoratrice ha potuto disfarsi del trauma
iniziale dell’urbanizzazione.
Le generazioni di contadini che erano venuti alle fabbriche nel
periodo seguente la seconda guerra mondiale, si trovarono ancora in
penose condizioni di vita, praticamente senza una casa, sottoposti a
una severa disciplina di lavoro e al terrore. Ma i più erano venuti in
città di loro volontà, ansiosi di fuggire dai villaggi devastati e affamati.
Erano stati preparati alla disciplina dell’industria da anni di vita
militare, e trovarono nei loro nuovi posti un ambiente più capace di
assorbire e di assimilare i nuovi venuti, mentre non lo erano le città e
gl’impianti industriali degli anni trenta. Il processo di adattamento fu
meno penoso. Divenne ancora più facile per i gruppi di apprendisti che
successivamente arrivarono alle fabbriche negli anni dopo la caduta di
Stalin, quando i vecchi regolamenti di lavoro furono aboliti, e questi
gruppi si assestarono nelle loro occupazioni relativamente liberi dal
bisogno e dalla paura. I gruppi di età più giovane, gli ultimi immigrati,
e i figli di quelli che erano venuti prima, cresciuti in città, sono arrivati
alle officine con una sicurezza di sé che mancava totalmente ai più
anziani, e hanno avuto una grande parte nelle riforme dei metodi di
lavoro antiquati e nel cambiamento del tono di vita delle fabbriche
sovietiche. Quasi tutti hanno (« completa o incompleta ») un’istruzione
secondaria, e molti seguono dei corsi accademici speciali. Essi si sono
spesso trovati in contrasto con i capi operai e con i capi fabbrica meno
efficienti e meno civili di loro. Questo è probabilmente il gruppo più
progredito della classe lavoratrice sovietica, e include i costruttori
degli impianti nucleari, dei calcolatori e delle navi spaziali, operai
altrettanto produttivi quanto i corrispondenti operai americani, anche
se la media della produttività sovietica per uomo-ora è ancora soltanto
il quaranta per cento della produttività americana e persino meno. La
bassa media è naturalmente dovuta alla grande varietà della
manodopera dell’industria sovietica, ai livelli molto diversi e inuguali
di cultura e di efficienza che ho cercato di tratteggiare. Ma anche così
la media della produttività sovietica è in certo qual modo più avanzata
di quella dell’Europa occidentale; e vale la pena ricordare che negli
anni venti, quando la produttività americana era circa un terzo di
quello che è oggi, la produzione sovietica per uomo-ora era soltanto
un decimo di quella americana.
Questa descrizione troppo rapida ci dà solo un’idea generale della
straordinaria eterogeneità sociale e culturale della classe
lavoratrice sovietica. Il processo di trapianto e di espansione è stato
troppo rapido e tempestoso per favorire la reciproca assimilazione fra
diversi strati, la formazione di una visione comune e lo sviluppo della
solidarietà di classe. Abbiamo visto come, alcuni anni dopo la
rivoluzione, la riduzione e la disintegrazione della classe dei lavoratori
aveva permesso alla burocrazia di consolidarsi come forza sociale
dominante. Ciò che venne dopo le permise di consolidare questa
sua posizione. Il modo con cui venivano reclutati nuovi operai per le
fabbriche e il ritmo travolgente di sviluppo mantennero la classe
operaia in uno stato di permanente disorganizzazione
e frammentazione, incapace di raggiungere coesione, equilibrio, unità,
e di trovare un’identità sociale e politica. Gli operai furono
svantaggiati dallo stesso accrescersi del loro numero. E la burocrazia
fece quel che potè per mantenerli in questo stato. Non soltanto li mise
l’uno contro l’altro al banco della fabbrica, ma alimentò le reciproche
antipatie e gli antagonismi. Negò loro il diritto di reclamare e di
difendersi attraverso i sindacati. Ma questi stratagemmi e il terrore
non sarebbero stati così efficaci come furono, se la classe operaia non
fosse stata lacerata dalle sue stesse forze centrifughe. Questo stato di
fatto fu aggravato dalla costante promozione dei lavoratori più
intelligenti e dinamici a posti di direzione, il che privava la massa dei
suoi possibili rappresentanti e capi. Mentre l’istruzione degli operai
meno qualificati era scarsa, questo rastrellamento dei cervelli ebbe
importanti conseguenze: la mobilità sociale della quale alcuni
lavoratori beneficiavano, condannava tutti gli altri a uno stato di
debolezza sociale e politica.
Se questa mia analisi è corretta, allora le previsioni per il futuro
possono essere più ottimistiche. Un processo obiettivo di
consolidamento e d’integrazione sta avvenendo nella classe dei
lavoratori, ed è accompagnato dallo sviluppo della consapevolezza
sociale. Questo, e anche le esigenze del progresso tecnologico, hanno
costretto il gruppo dei governanti ad abolire nelle fabbriche la vecchia
disciplina e a concedere ai lavoratori un’autonomia maggiore di quella
che avevano nell’èra staliniana. C’è ancora molta strada da percorrere
da questo stato di cose alla libertà d’espressione e all’autentica
partecipazione degli operai al controllo dell’industria. Tuttavia,
mentre la classe dei lavoratori cresce più istruita, omogenea e sicura
di sé, è molto probabile che le sue aspirazioni si concentreranno
su queste richieste. E se questo avverrà, i lavoratori potranno
rientrare nella scena politica come un fattore indipendente, pronto a
sfidare la burocrazia e pronto a riprendere la lotta per
l’emancipazione, nella quale essi ottennero una splendida vittoria nel
1917, ma alla quale per così lungo tempo non hanno potuto dar
seguito.
L’aspetto corrispondente dell’espansione della classe operaia è il
ridursi della classe contadina. Quarant’anni fa i piccoli conduttori
rurali rappresentavano più dei tre quarti della nazione; oggi gli
agricoltori collettivizzati ne costituiscono soltanto un quarto. Come i
contadini si opposero disperatamente a questa direttiva, quale
furibonda violenza fu scatenata contro di loro, come essi vennero
forzati a dare il loro contributo all’ossatura dell’industria e come essi
abbiano coltivato la terra con rancore e svogliatezza sotto il sistema
collettivista, tutto questo è ormai di dominio pubblico. Ma come dice il
professor Butterfield in un contesto alquanto differente : « I
contemporanei tendono a giudicare la rivoluzione troppo
esclusivamente dalle sue atrocità, mentre la posterità sembra
sbagliare sempre per la sua incapacità a tener conto delle medesime o
ad apprezzarle in modo vivo ». 1 Poiché fui testimone della
collettivizzazione nel primo periodo degli anni trenta e fui severo
critico dei suoi metodi costrittivi, vorrei qui esaminare il tragico
destino dei contadini russi. Sotto l’ancien regime le campagne russe
furono periodicamente devastate dalle carestie, come lo erano le
campagne della Cina e come lo sono tuttora quelle dell’India.
Nell’intervallo tra le carestie, milioni di contadini e di figli di contadini
di cui non si può calcolare il numero esatto (non ci sono dati statistici),
morivano di denutrizione e di malattia, come ancora avviene in tanti
altri paesi sottosviluppati. 2 Il vecchio sistema non era forse
meno crudele verso i contadini di quello di Stalin, ma la sua crudeltà
appariva come parte dell’ordine naturale delle cose, che perfino la
coscienza sensibile dei moralisti tende a dare per dimostrato. Questo
non può scusare o ridurre la responsabilità dei crimini della politica di
Stalin, ma pone il problema in una giusta prospettiva storica. Coloro
che affermano che sarebbe bastato lasciare in pace i mugik e tutto
sarebbe andato bene, gli idealizzatori del vecchio modo di vivere
rurale e dell’individualismo dei contadini, descrivono un idillio che è
parto della loro immaginazione. In ogni caso, il vecchio e primitivo
sistema della piccola proprietà era troppo arcaico per sopravvivere
nell’epoca dell’industrializzazione. Il sistema non è
sopravvissuto nemmeno in Inghilterra o negli Stati Uniti; e perfino in
Francia, sua patria classica in questi ultimi anni, abbiamo visto una
drammatica contrazione del mondo contadino. In Russia la piccola
proprietà era un ostacolo formidabile al progresso della nazione: era
incapace di provvedere al nutrimento della crescente
popolazione urbana ed era persino nell’impossibilità di nutrire i figli
nelle campagne sovrappopolate. L’unica alternativa ragionevole alla
collettivizzazione forzata poteva trovarsi in qualche forma di
collettivizzazione o di cooperazione basata sul consenso dei contadini.
Nessuno può dire con qualche certezza, in quale precisa misura
questa alternativa fosse realistica nell’URSS. Quello che è certo è che
la forzata collettivizzazione ha lasciato alla agricoltura un’eredità di
inefficienza e un antagonismo tra città e campagna che l’Unione
Sovietica non è riuscita ancora a superare.
Queste calamità sono state ancora aggravate da un altro colpo che i
contadini hanno sofferto, un colpo che supera tutte le atrocità della
collettivizzazione. La maggior parte dei venti milioni di uomini che
l’Unione Sovietica ha perduto sui campi di battaglia della seconda
guerra mondiale erano contadini. Il vuoto lasciato nella manodopera
rurale è stato così vasto, che alla fine degli anni quaranta e negli anni
cinquanta in quasi tutti i villaggi si vedevano soltanto donne, bambini
e vecchi al lavoro dei campi. Questo fatto fu la causa, in qualche
misura, della stagnante condizione dell’agricoltura e di molte altre
cose ancora: le terribili tensioni nei rapporti familiari, nella vita
sessuale e nell’istruzione rurale; e, in più, un grado di apatia e
d’inerzia nelle campagne che superava la normalità.
Il peso dei contadini nella vita sociale e politica della nazione, in
conseguenza di tutti questi avvenimenti, è diminuito rapidamente. Le
condizioni dell’agricoltura permangono materia di grave
preoccupazione, poiché esse si riflettono sul livello di vita e sullo
spirito della popolazione urbana. Un raccolto misero è tuttora
un fattore di crisi politica; e una serie di cattivi raccolti contribuì alla
caduta di Nikita Khrusciov nel 1964.
Né la popolazione rurale è stata veramente integrata nella nuova
struttura industriale della società. Dietro la facciata del kolkhoz
continua ancora buona parte del vecchio metodo di coltivazione
individualistica, del tipo più meschino e più arcaico. A un tiro di sasso
dalle aziende automatizzate e controllate dai calcolatori, ci
sono ancora miseri bazar orientali affollati di commercianti
campagnoli. È passata tuttavia da lungo tempo l’epoca in cui i
bolscevichi temevano che i contadini potessero essere gli agenti di
una restaurazione capitalista. È vero che ci sono kolkhoz ricchi e altri
poveri; che qua e là un abile mugik riesce, eludendo le leggi e gli
ordinamenti, a prendere in affitto della terra, a impiegare con la frode
dei braccianti e a fare molto denaro. Ma in ogni caso queste
sopravvivenze di un capitalismo primitivo non sono niente di più di un
fenomeno marginale. Se la tendenza attuale della popolazione, cioè la
migrazione dalla campagna alla città, continua com’è probabile
che avvenga, la popolazione contadina continuerà a ridursi; e ci sarà
probabilmente un trasferimento massiccio dalle fattorie di proprietà
collettiva a quelle di proprietà statale. Si può prevedere che, in
seguito, l’agricoltura sarà « americanizzata » e impiegherà soltanto
una piccola parte della manodopera della nazione.
Frattanto, anche se la popolazione delle campagne è in declino, la
tradizione del mugik occupa ancora molto spazio nella vita russa, nel
costume e nei modi, nella lingua, nella letteratura e nelle arti.
Sebbene la maggioranza dei russi viva già in città, il maggior numero
di romanzi russi, forse quattro su cinque, hanno ancora come tema la
vita dei villaggi, e il mugik come personaggio principale. Perfino nel
suo declino, egli getta una lunga ombra malinconica sulla nuova
Russia.
E veniamo ora a quello che in ogni descrizione sociologica è il
problema più complesso e più difficile, il problema della burocrazia,
dei gruppi dirigenti, degli specialisti e dell ’intellighenzia. Il loro
numero, il loro peso specifico sono cresciuti enormemente. Fra gli
undici e i dodici milioni di specialisti e di amministratori sono
impiegati nell’economia nazionale, contro il mezzo milione degli anni
venti, e i meno di duecentomila di prima della rivoluzione. A questo
dobbiamo aggiungere due o tre milioni di membri regolari delle
gerarchie politiche e delle istituzioni militari. Tutti questi gruppi, per
il numero dei loro membri che rappresentano circa un quinto del
totale degli impiegati dello Stato, sono quasi altrettanto numerosi
quanto la popolazione contadina (i kolkhoz hanno solo diciassette
milioni di componenti). La loro importanza sociale è, si capisce,
immensamente più grande. Non dobbiamo tuttavia ammassare
insieme questi gruppi e qualificarli come burocrazia o classe dirigente.
Una netta distinzione dovrebbe essere fatta tra gli specialisti e gli
amministratori che hanno un’istruzione superiore, e quelli che ne
hanno soltanto una secondaria. Gli elementi veramente dirigenti si
trovano nella prima di queste due categorie, sebbene non si
identifichino con essa. Gli specialisti con un’istruzione superiore
costituiscono circa il quaranta per cento del totale, cioè più di quattro
milioni e mezzo di persone o forse cinque milioni e mezzo, se si
includono i quadri del partito e il personale militare.
È questa dunque la burocrazia privilegiata che una volta Trotski
indicò come il nuovo nemico dei lavoratori? O è la classe nuova di
Gilas? (Trotski, come ricorderete, non era dell’opinione che la
burocrazia fosse una classe nuova.) Devo confessare che esito a dare
una risposta troppo categorica a queste domande. Non posso entrare
qui nella semantica del problema e discutere la definizione di classe.
Lasciatemi dire soltanto che faccio distinzione tra
inuguaglianza economica o sociale e antagonismo di classe.
La differenza tra gli operai specializzati ad alto salario e i non
specializzati è un esempio di inuguaglianza che non significa
antagonismo di classe; è una differenza entro la stessa classe
sociale. Credo che l’opinione di Gilas sulla «nuova classe di sfruttatori
» e idee simili a proposito della « classe dirigente » sovietica, siano
delle semplificazioni che lungi dal chiarire il problema lo rendono più
oscuro. La condizione dei gruppi privilegiati nella società sovietica è
più ambigua di quello che suggeriscono l'uina o l’altra etichetta. Essi
sono un elemento ibrido; sono e non sono una classe. Hanno alcuni
elementi in comune con la classe sfruttatrice di altre società
ma mancano di alcune delle caratteristiche essenziali di queste ultime.
Godono di vantaggi materiali e di altro genere che difendono
ostinatamente e brutalmente. Ma anche qui dobbiamo guardarci dalle
perentorie generalizzazioni. Circa un terzo del numero totale degli
specialisti sono insegnanti miseramente pagati, e i giornalisti sovietici
hanno recentemente espresso molte lagnanze circa le loro condizioni
di vita. Lo stesso si dica della maggior parte di mezzo milione
di medici. Molti dei due milioni di ingegneri, agronomi e statistici
hanno stipendi minori di quello di un operaio altamente specializzato.
Il loro livello di vita è paragonabile a quello della nostra classe media
inferiore. Siamo d’accordo che il loro livello di vita è molto al di sopra
di quello degli operai non qualificati o semiqualificati. Ma non sarebbe
buona sociologia, marxista o come che sia, attribuire questo benessere
così modesto allo sfruttamento del lavoro. Soltanto gli strati più alti
della burocrazia e delle gerarchie del partito, i gruppi dirigenti e il
personale militare vivono in condizioni comparabili a quelle godute dai
ricchi e dai nuovi ricchi della società capitalista. È impossibile definire
la dimensione di questi gruppi : debbo ripetere che i dati statistici
relativi al loro numero e ai loro redditi sono accuratamente occultati.
Ciò che hanno in comune con ogni altra classe sfruttatrice (uso qui il
termine nel senso marxista) è che i loro redditi derivano almeno
parzialmente dal plusvalore prodotto dai lavoratori. Inoltre essi
dominano la società sovietica economicamente, politicamente e
culturalmente.
Ma ciò che questa cosiddetta nuova classe non ha è la proprietà.
Non possiede né i mezzi di produzione né la terra. I suoi privilegi
materiali si limitano ai consumi. A differenza degli elementi dirigenti
della nostra società, gli uomini della nuova classe sovietica non
possono trasformare in capitale nessuna parte del loro reddito; non
possono risparmiare, investire e accumulare ricchezza nella forma
durevole ed espansiva della proprietà industriale o dei grandi titoli
finanziari. Non possono trasmettere ricchezza ai loro discendenti;
ossia non possono perpetuare se stessi come classe.3 Trotski predisse
che i burocrati sovietici si sarebbero battuti per il diritto di
trasmettere le loro proprietà ai figli e che avrebbero potuto tentare di
espropriare lo Stato, in modo da acquisire la proprietà azionaria
di aziende e di trust. Questa profezia, pronunciata più di trent’anni fa,
fino a oggi non si è avverata. I maoisti dicono che nell’Unione
Sovietica già si sta per ripristinare il capitalismo; presumibilmente
essi si riferiscono all’attuale decentramento del controllo statale
sull’industria. Le prove di queste affermazioni, fino a oggi, sono
state scarsissime. Teoricamente è possibile che l’attuale reazione
contro il supercentralizzato controllo economico staliniano stimoli
tendenze neocapitalistiche fra i dirigenti industriali. Alcuni segni di
questo fatto possono intravedersi in Iugoslavia, ma non oltre, direi.
Non è probabile che simili tendenze abbiano la meglio in URSS, non
foss’altro perché l’abbandono della pianificazione economica centrale
costituirebbe un colpo molto duro per gl’interessi nazionali e per
la posizione della Russia nel mondo.
Prescindendo da queste congetture non dimostrate, il fatto che la
burocrazia sovietica non abbia finora ottenuto per se stessa la
proprietà dei mezzi di produzione, spiega una certa precarietà e
deperibilità del suo dominio sociale. La proprietà è stata sempre il
fondamento di ogni supremazia di classe. La coesione e l’unità in
ogni classe dipendono da essa. La proprietà è per la classe che la
possiede un fattore formativo del carattere. È anche l’elemento
positivo per la difesa del quale la classe si ritrova unita. Il grido di
battaglia di tutte le classi di possidenti è la « santità della proprietà »
e non il puro e semplice diritto di sfruttare gli altri. I gruppi
privilegiati della società sovietica non sono uniti da alcun legame
paragonabile a questo. Essi sono al comando dell’industria, come i
nostri dirigenti di affari, ed esercitano il comando in maniera assoluta.
Ma dietro i nostri dirigenti di affari ci sono gli azionisti, specialmente
quelli grossi. I dirigenti sovietici non soltanto devono riconoscere che
tutte le azioni appartengono alla nazione, ma devono ammettere che
agiscono per conto della nazione, e in special modo della classe
lavoratrice. Che possano sostenere questa pretesa oppure no, dipende
soltanto dalle circostanze politiche. I lavoratori possono permettere
loro di sostenerla o possono non farlo; possono, come un pigro branco
di azionisti, accettare dei cattivi dirigenti o possono licenziarli. In altre
parole, la dominazione burocratica riposa su niente di più stabile di
uno stato di equilibrio politico. Questo è, a lungo andare, un
fondamento molto più fragile per il dominio sociale che non qualsiasi
struttura stabilita di rapporti di proprietà, santificati dalla legge, dalla
religione e dalla tradizione. Si è fatto un gran parlare recentemente
dell’antagonismo, nell’Unione Sovietica e nell’Europa occidentale, tra
le gerarchie politiche e i tecnocrati; e alcuni giovani teorici trattano
questi due gruppi come perfettamente definite e opposte classi sociali,
parlano della loro « lotta di classe » in modo molto simile a quello da
noi usato quando parlavamo della lotta tra i proprietari terrieri e i
capitalisti. I tecnocrati, si dice, ai quali si possono alleare gli operai,
mirano al rovesciamento delle « gerarchie politiche centrali » che
hanno usurpato il potere dall’avvento della rivoluzione in poi. Tuttavia,
se la « nuova classe » che ha governato l’Unione Sovietica negli ultimi
decenni è consistita soltanto della « gerarchia politica centrale »,
allora la sua identità è davvero molto ingannevole. La sua
composizione è stata ripetutamente e drasticamente cambiata con
un’epurazione dopo l’altra, durante la vita di Stalin e dopo. Questa «
nuova classe » sembra davvero somigliare moltissimo a un Cheshire
cat dei sociologi.4
Invero la burocrazia sovietica ha esercitato un potere maggiore di
quello esercitato da qualsiasi classe di possidenti nei tempi moderni, e
tuttavia la sua posizione è più vulnerabile e più debole della posizione
normalmente tenuta da una qualunque di dette classi. Il suo potere è
così eccezionale perché è economico, politico e culturale allo stesso
tempo. Ed è tuttavia paradossale che ciascuno di questi elementi di
potere abbia avuto la sua origine in un atto di liberazione.
Le prerogative economiche della burocrazia sono derivate
dall’abolizione della proprietà privata nell’industria e nella finanza;
quelle politiche dalla vittoria totale degli operai e dei
contadini sull'ancien regime; e quelle culturali dall’assunzione da
parte dello Stato della piena responsabilità dell’istruzione e dello
sviluppo culturale del popolo. A causa dell’incapacità dei lavoratori
a mantenere la supremazia che ebbero nel 1917, ciascuno di questi
atti di liberazione si mutò nel suo opposto. La burocrazia divenne la
padrona di un’economia senza padrone e stabilì una tutela politica e
culturale sulla nazione. Ma il conflitto tra le origini del potere e il suo
carattere, tra gli scopi di libertà per i quali esso era stato voluto e gli
usi ai quali è stato invece rivolto, ha perpetuamente generato alte
tensioni politiche e ricorrenti epurazioni, che hanno dimostrato
ripetutamente la mancanza di coesione sociale nella burocrazia. I
gruppi privilegiati non si sono consolidati in una nuova classe. Non
hanno sradicato dalla mente del popolo gli atti di liberazione dai quali
derivano il loro potere, né sono stati in grado di convincere le masse, e
nemmeno se stessi, di avere usato il potere in modo conforme a quegli
atti. In altre parole, la « nuova classe » non ha ottenuto per se stessa
la sanzione della legittimità sociale. Essa deve costantemente
nascondere la propria identità, ciò che la borghesia e i proprietari
terrieri non hanno mai dovuto fare. Questa « nuova classe » sente di
essere la bastarda della storia.
Ho già accennato alla cattiva coscienza che costringe i gruppi
dominanti a mantenere il segreto di Stato sulla struttura dei salari, ad
accumulare in un totale statistico unico i « lavoratori » e gli «
impiegati », rendendo molto misteriosa la distribuzione del reddito
nazionale. La « nuova classe », in tal modo, scompare nella massa
vasta e grigia degli « operai e degli impiegati ». Essa nasconde la
faccia e fa un segreto di quale sia la sua parte della torta nazionale.
Dopo tante cacce alle streghe contro i livellatori, non osa affrontare
l’ugualitarismo delle masse. Secondo l’arguta formula di un
osservatore occidentale: « Mentre nelle nostre classi medie la regola è
di tenersi su all’altezza dei Jones, nell’Unione Sovietica i privilegiati
debbono sempre ricordare di tenersi giù in confronto ai Jones
». Questo ci fa intendere qualcosa dell’ethos della società sovietica,
qualcosa della sua sottesa moralità, e ancora qualcosa della vitalità e
della forza imperiosa della tradizione rivoluzionaria.
Inoltre i Jones sovietici crescono in massa, vengono educati in
massa. Dove la stratificazione sociale è fondata unicamente sul reddito
e sulla funzione e non sulla proprietà, il progredire dell’educazione di
massa è una forza potente e in definitiva irresistibile, che opera verso
l’uguaglianza. Abbiamo visto che il numero degli specialisti sovietici
provvisti di un’istruzione superiore e secondaria, in un periodo
relativamente breve, è cresciuto da mezzo milione a dodici milioni.
Questo processo continua. In una società che si espande su scala tanto
vasta e così rapidamente, i gruppi privilegiati debbono costantemente
assorbire sempre nuovi elementi plebei e proletari, e trovano sempre
più diffìcile assimilarli; e questo fatto, a sua volta, impedisce alla «
nuova classe » di consolidarsi socialmente e politicamente. 5
Ho parlato in precedenza di quel drenaggio di cervelli che per un
lungo periodo ha ridotto la classe operaia sovietica a una massa
sottomessa e inerte. Ora sta avvenendo un processo inverso
: l’educazione di massa si diffonde più rapidamente di quanto non si
espandano i gruppi privilegiati, anche più rapidamente di quanto non
lo esiga l’industrializzazione. Di fatto essa si accresce più di quanto lo
consentano le risorse economiche del paese. Secondo i recenti
rendiconti dell’istruzione l’ottanta per cento degli scolari delle scuole
sovietiche, quasi tutti figli di lavoratori, chiedono di essere ammessi
alle università. Le università non li possono accettare. L’espansione
dell’istruzione superiore non può tenere il passo col diffondersi
dell’istruzione secondaria; e l’industria ha bisogno di braccia. Così la
grande massa dei giovani viene respinta dalle porte delle università e
rimandata alle fabbriche. Con tutte le difficoltà che questa situazione
determina, essa si trova ad essere unica. Illustra con toni drammatici
come l’abisso tra cervello e muscoli si venga di fatto restringendo in
URSS. La conseguenza immediata è un relativo eccesso di produzione
di intellighenzia che viene spinta nei ranghi della classe lavoratrice.
Gli intellettuali-lavoratori sono, nel campo politico, un
elemento creativo, ma potenzialmente anche esplosivo. La forza della
tradizione rivoluzionaria è stata abbastanza grande per costringere la
burocrazia a dare ai lavoratori più istruzione di quanta ne
fosse necessaria su basi strettamente economiche, e forse più di
quella che si accorderebbe con la sicurezza dei gruppi privilegiati. Si
potrebbe argomentare che in questo modo la burocrazia alleva i propri
affossatori. È però probabile che questa visione drammatizzi
eccessivamente le previsioni per il futuro. È tuttavia chiaro che la
dinamica della società sovietica si sta arricchendo di nuove
contraddizioni e tensioni le quali, a quel che io penso, non le
permetteranno di stagnare e di consolidarsi sotto il dominio di una
«nuova classe».
CAPITOLO QUARTO

LA STASI NELLA LOTTA DI CLASSE

FINORA abbiamo osservato la scena sovietica soltanto dal punto di


vista interno, senza riferirci ad avvenimenti e influenze internazionali.
Ma è chiaro che l’evoluzione interna dell’Unione Sovietica non può
essere isolata dal contesto dei suoi rapporti col mondo esterno,
dall’equilibrio internazionale delle forze e dalla diplomazia delle
grandi potenze, o dalla situazione del movimento operaio in Occidente
e dalle rivoluzioni nelle colonie dell’Est.
Tutti questi fattori hanno avuto un’influenza quasi continua sugli
sviluppi all’interno dell' URSS, e a loro volta sono stati modificati da
questi ultimi.
« La Rivoluzione di Ottobre », soleva dire Lenin, « ha spezzato in
Russia l’anello più debole della catena dell’imperialismo
internazionale. » Questa suggestiva immagine riassume il pensiero del
primo bolscevismo su se stesso e sul mondo. La Rivoluzione di Ottobre
non è considerata qui come un fenomeno unicamente russo: quel che
accadde « nell’anello più debole della catena » è ovvio che non fu un
atto che si possa spiegare tutto da sé. Nonostante la rottura avvenuta
in Russia, l’imperialismo, cioè l’espansione capitalista dei grandi
complessi industriali e finanziari, ha continuato ad essere la forza
dominante dell’economia e della politica mondiali; le classi lavoratrici
dovevano ancora spezzare vari altri anelli della catena. Dove, come e
quando lo avrebbero fatto? Questi erano i quesiti. Sarebbero stati uno
o più anelli forti nell’Ovest a cedere, oppure sarebbe stato un altro
anello debole nell’Est, in Cina o in India? Quale che fosse la risposta,
la concezione di base era quella dell’universalità della rivoluzione e
del carattere, dello scopo e del destino internazionale del socialismo.
Questa idea era profondamente radicata nel marxismo classico; e
non era soltanto un postulato ideologico, ma una conclusione dedotta
da un’analisi ampia della società borghese. Certo, anche nel 1789
uomini come Condorcet e Cloots e i cosmopoliti fra i giacobini
sognavano la repubblica universale dei popoli. Ma il loro sogno era in
contrasto con le possibilità reali e con i compiti del loro tempo. Tutto
quello che la loro rivoluzione poteva fare era di far uscire la Francia
dall’età del particolarismo feudale e postfeudale, portandola a quella
di uno Stato nazionale moderno. Non poteva andare oltre lo Stato
nazionale. Non esistevano le condizioni materiali per una qualsiasi
organizzazione sovrannazionale della società. Soltanto nel
diciannovesimo secolo il capitalismo industriale cominciò a produrre
quelle condizioni. Con la sua tecnologia meccanica e con la divisione
internazionale del lavoro, esso creò il mercato mondiale, e con questo
la possibilità economica di una società mondiale. Fin dal 1847 Marx ed
Engels scrissero nel Manifesto comunista : « L’industria moderna ha
creato il mercato mondiale... ha dato un immenso sviluppo al
commercio, alla navigazione, alle comunicazioni terrestri... La
necessità di un mercato in continua espansione per i suoi prodotti
incalza la borghesia sull’intera superficie del globo... La borghesia ha
dato... un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo in tutti i
paesi. Con grande disappunto dei reazionari, la borghesia ha tolto, di
sotto ai piedi dell’industria, il terreno nazionale sul quale poggiava...
Al posto del vecchio isolamento e dell’autosufficienza locali e
nazionali, abbiamo ora i complessi rapporti tra le nazioni e la loro
interdipendenza universale ».
Il socialismo doveva cominciare là dove finiva il capitalismo.
Basandosi sui fatti dei « complessi rapporti e dell’interdipendenza
delle nazioni », avrebbe organizzato le forze produttive delle nazioni
stesse su scala internazionale, e avrebbe consentito alla società di
rimodellare il suo modo di vita in conformità. Nel capitalismo la spinta
verso l’interpretazione internazionale opera a casaccio, ciecamente, a
balzi e scossoni, come una delle sue molte tendenze contraddittorie;
sotto l’imperialismo essa trova una espressione distorta nella
conquista e nel dominio economico delle nazioni deboli da parte delle
nazioni forti. Il socialismo, facendo sua quella possibilità che il
capitalismo aveva aperta ma non realizzata, avrebbe creato
coscientemente la società internazionale. Per Marx, Engels e i loro più
vicini amici, queste erano idee elementari, quasi indiscutibili verità
sulle quali non avevano bisogno di sprecar parole. Più di quarant'anni
dopo il Manifesto comunista, nel 1890, Engels scriveva ai socialisti
francesi: « Fu il vostro grande concittadino Saint-Simon a vedere per
primo che l’alleanza delle tre grandi nazioni occidentali, Francia,
Inghilterra e Germania, è la prima condizione internazionale
dell’emancipazione politica e sociale di tutta l’Europa. Io spero di
vedere quest’alleanza, nucleo di quell’alleanza europea che una volta
per tutte porrà fine alle guerre dei governi e delle razze, realizzata dai
proletari di queste tre nazioni ». Il fatto che ci siano voluti tre quarti
di secolo, anzi centoventi anni dopo il Manifesto comunista, perché i
nostri statisti e gli ispiratori della pubblica opinione cominciassero
anche solo a intravedere una simile idea e ne presentassero una
timida e gretta versione, o diremmo meglio una parodia, nel
cosiddetto Mercato Comune, non è forse un riflesso del torpore
dei loro spiriti?
Con quanta insistenza il marxismo classico abbia ripudiato
qualunque pretesa di autosufficienza nazionale nel socialismo, lo si
può giudicare dalle seguenti parole che Engels, poco prima della sua
morte, indirizzò a Paul Lafargue, il famoso socialista francese. Engels
ammonì Lafargue a non cedere alla tendenza di esaltare
indebitamente il socialismo francese e di attribuirgli una qualunque
funzione superiore o eccezionale. « Ma né i francesi », egli scriveva, «
né i tedeschi né gl’inglesi avranno tutta per sé la gloria di avere
schiacciato il capitalismo. La Francia... darà forse il segnale
[della rivoluzione], ma sarà in Germania... che il conflitto verrà risolto;
e persino la Francia e la Germania non potranno ottenere una
definitiva vittoria finché l’Inghilterra rimarrà nelle mani della
borghesia. L’emancipazione del proletariato può essere soltanto un
evento internazionale, e voi lo rendete impossibile se cercate di farne
semplicemente un evento francese. L’esclusivo predominio francese
nella rivoluzione borghese, benché fosse inevitabile a causa della
stupidità e della vigliaccheria delle altre nazioni, ha condotto sapete
voi dove? A Napoleone, alla conquista e all’invasione da parte della
Santa Alleanza. Voler attribuire alla Francia la stessa funzione
nell’avvenire significa volere la degenerazione del movimento
proletario internazionale, e persino... ridicolizzare la Francia, perché
la gente, di là dalle vostre frontiere, si fa beffe delle vostre pretese. »
Ho citato a lungo questi brani, così caratteristici del marxismo
classico, perché mi sembra che forniscano una chiave alla
comprensione del bolscevismo e del rapporto che passa tra la
rivoluzione russa e il mondo. I bolscevichi crebbero nella tradizione di
cui Engels esprimeva la quintessenza; e anche dopo che «
l’epicentro della rivoluzione » era passato dall’Europa occidentale alla
Russia, essi ancora pensavano che l’instaurazione del socialismo
dovesse essere un processo internazionale e non soltanto un « evento
» russo. La loro vittoria, ai loro occhi, era il preludio della rivoluzione
mondiale o quanto meno di un sommovimento socialista europeo. Il
senno del poi ci dice che, per quel tanto che si attendevano
un’imminente rivoluzione internazionale, essi erano in errore. Ma il
senno del poi può non vedere affatto gli eventi più chiaramente che
non una coraggiosa, anche se parzialmente erronea, previsione di essi.
I bolscevichi partivano dalla premessa che la catastrofe del 1914
aveva dato inizio a un’intera epoca di guerre e di rivoluzioni mondiali,
l’epoca del declino capitalista. Questa premessa era storicamente
corretta. I decenni successivi, infatti, furono agitati da un conflitto
gigantesco fra la rivoluzione e la controrivoluzione. Nel 1918
la rivoluzione rovesciò gli imperi degli Hohenzollern e degli Absburgo
e instaurò, anche se soltanto per breve tempo, consigli di deputati
degli operai a Berlino, a Vienna, a Monaco, a Budapest e a Varsavia. E
anche dopo che la rivoluzione fu sconfitta in Germania, in Austria,
in Ungheria e in altri paesi, il sistema capitalista non ritrovò più la sua
antica stabilità. Barcollò da una crisi all’altra, finché la crisi
mondiale (slump) del 1929 non lo portò sull’orlo della rovina. Le classi
possidenti salvarono dapprima il loro predominio accettando riforme
economiche e politiche per le quali generazioni di socialisti avevano
combattuto invano prima della rivoluzione russa. Poi il fascismo e il
nazismo si fecero avanti come i salvatori del capitalismo.
I sommovimenti coloniali e la grande rivoluzione cinese del 1925-27
dettero alla crisi una nuova ampiezza e profondità. E in Europa, dopo
che l’ombra del Terzo Reich era caduta sopra di essa, l’Austria e la
Spagna furono scosse da guerre civili, e la Francia conobbe le
tempestose lotte di classe del periodo del fronte popolare. Tutto
questo indica come fossero vaste le potenzialità rivoluzionarie dei
decenni fra le due grandi guerre. La seconda di esse rivelò di nuovo la
crisi e la disintegrazione del sistema sociale. Nell’Europa occupata dai
nazisti la gente non combatteva soltanto per la propria indipendenza
nazionale. La guerra civile infuriava anche all’interno di molte nazioni
non occupate. I tratti rivoluzionari del dopo guerra in Francia, in Italia
e in Grecia sono chiaramente noti alla storia. L’Europa orientale fu
trasformata da una rivoluzione che veniva dall’alto. Dalle guerre
napoleoniche in poi l’Europa non aveva mai conosciuto nessuna crisi
politica e sociale paragonabile a questa.
I bolscevichi capivano benissimo l’epoca nella quale erano apparsi
sulla scena della storia. Era l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni
mondiali. Il fatto che tanti sforzi rivoluzionari siano stati frustrati o
siano abortiti non invalida la premessa in base alla quale essi agivano.
Chi è impegnato in combattimento non dà per certa la propria disfatta
prima che sia cominciata la battaglia : l’esito della lotta viene deciso
nel combattimento medesimo. Lenin e i suoi compagni, di regola, non
provocavano arbitrariamente le battaglie: più spesso che no le prove
di forza venivano loro imposte. E i rivoluzionari possono aver
l’opinione, tradizionale per i soldati britannici, che potranno perdere
tutte le battaglie tranne l’ultima e che, nel frattempo, potrà accadere
che essi debbano combattere le battaglie che dovranno perdere.
Lenin e i suoi seguaci credevano nell’universalità della rivoluzione
anche per un’altra ragione. Essi vedevano poche o nessuna possibilità
di realizzare il socialismo nella sola Russia. Isolata dai paesi industriali
avanzati e ridotta alle sue sole risorse, la Russia non avrebbe potuto,
anche nel corso di un lungo periodo, superare la scarsità economica, il
basso livello della sua civiltà o la debolezza della sua classe operaia;
essa non avrebbe potuto impedire l'affermarsi della burocrazia. Tutti i
bolscevichi, e questo vale anche per Stalin, si attendevano
dapprincipio che la Russia sarebbe entrata a far parte di una comunità
socialista europea in cui la Germania, la Francia o la Gran Bretagna
avrebbero assunto una funzione di guida per aiutare la Russia a
procedere verso il socialismo in modo razionale e civile, senza niente
che somigliasse ai sacrifici, alla violenza e all’inuguaglianza sociale
che avrebbero accompagnato l’industrializzazione di un’Unione
Sovietica isolata. Già nel 1914 la parola d’ordine di Lenin era « gli
Stati uniti della Europa socialista », sebbene più tardi egli avesse i
suoi dubbi, non sull’idea in sé ma sulla possibilità che venisse
compresa nel modo giusto. Poi, nel 1918, argomentò che il socialismo
«è già una realtà nei nostri giorni, ma le sue due metà sono per così
dire staccate: una metà, ossia le condizioni politiche del socialismo, il
dominio del proletariato esercitato mediante i soviet, è stata creata in
Russia; mentre l’altra metà, cioè i requisiti preliminari industriali
e culturali, esiste in Germania ». Per poter realizzare il socialismo,
queste « due metà » dovevano congiungersi. Se Engels sosteneva
contro Lafargue che né i francesi né i tedeschi « potevano avere tutta
per sé la gloria » di spazzar via il capitalismo, Lenin non aveva
nemmeno l’ombra dell’illusione di Lafargue. Lui e i suoi compagni
sapevano che l’emancipazione dei lavoratori poteva soltanto essere il
risultato degli sforzi congiunti di molte nazioni; e che se lo
Stato nazionale costituiva una cornice troppo ristretta anche per il
moderno capitalismo, il socialismo era del tutto impensabile dentro
una cornice siffatta. Questa convinzione permeò di sé il pensiero e
l’azione dei bolscevichi fino alla fine dell’epoca leniniana.
Poi, a metà degli anni venti, il fatto dell’isolamento della Russia nel
mondo s’impose con veemenza, e Stalin e Bukharin si fecero avanti
a illustrare la tesi del « socialismo in un solo paese ». I bolscevichi
dovevano rendersi conto dell’amara necessità per la Russia di « fare
da sé », fino a tanto che vi fosse costretta dalle circostanze; questo era
il nocciolo razionale della nuova dottrina che ottenne l’adesione di
molti buoni internazionalisti; e contro di esso né Trotski né Zinoviev
né Kamenev avevano niente da dire.
Ma lo speciale significato della nuova dottrina stava altrove, stava
nel fatto che essa faceva di necessità virtù e rappresentava una
reazione contro la concezione universalistica della rivoluzione.
Prendendo argomento dal fatto che l’Unione Sovietica era isolata,
Stalin e Bukharin inventarono la parola d’ordine di una specie di
isolazionismo ideologico. Proclamarono che la Russia, senza l’aiuto e
l’appoggio di altre nazioni, poteva e doveva non soltanto
avanzare verso il socialismo, cosa evidente per tutti i bolscevichi, ma
anche realizzare da sola un socialismo completo, ossia una società
senza classi, libera dal dominio dell’uomo sull’uomo: il che, nel
migliore dei casi, era un sogno di fumatori d’oppio. Essi dicevano in
sostanza che, guerre a parte, il destino della nuova società sovietica
era del tutto indipendente da ciò che accadeva nel resto del mondo; e
che il socialismo poteva essere, e sarebbe stato, su scala nazionale, un
sistema autosufficiente, chiuso, autarchico. Per parafrasare Engels
fecero dell’« emancipazione del proletariato » una faccenda
puramente russa, e già solo per questo fatto la resero impossibile. Le
conseguenze pratiche dovevano presto divenire evidenti. Per più di
trent’anni il socialismo in un solo paese fu il canone ufficiale e
il dogma centrale dello stalinismo, imposto al partito e allo Stato in
modo quasi religioso. Dubitare della sua verità era bestemmia, e per
questo crimine un numero ingente e imprecisato di membri del partito
e di altri cittadini furono puniti con la scomunica, con la prigionia e
con la morte. Fino a oggi, benché il socialismo si sia nel frattempo
esteso a una dozzina di altri paesi, il socialismo in un solo paese non è
stato ancora spogliato del suo carattere dommatico.
Dietro l’idea di un socialismo russo autosufficiente c’era il tacito
convincimento che le possibilità di una rivoluzione in Occidente
fossero svanite per sempre. Era questo senza dubbio un riflesso
dell’umore popolare. Dopo molti anni di lotte, di carestie e di
frustrazioni, la gente era disperatamente stanca e sprezzante delle
solite promesse del partito sull’avvento della rivoluzione
internazionale, la grande forza liberatrice del proletariato occidentale
che sarebbe venuto ben presto in loro soccorso. La nuova dottrina
offriva una possibilità diversa: essa prometteva al popolo che anche se
la rivoluzione russa fosse rimasta isolata per sempre, essa avrebbe
ugualmente mantenuto le sue promesse socialiste e instaurato la
società senza classi entro i propri confini. « Questa è una dottrina di
consolazione », confessò in privato Eugenio Varga, uno dei suoi
eminenti espositori. Questa era anche, possiamo aggiungere noi, una
dottrina di imposizione, poiché in nome del socialismo in un solo
paese, alla gente veniva ora chiesto di rinunciare a tutte le libertà
civili e di sopportare infiniti e gravi sacrifici e privazioni. Gli uomini
del gruppo al potere e la burocrazia in genere avevano in più i loro
personali motivi di Realpolitik e di ragione di Stato. Il pensiero
di qualunque burocrazia è legato allo Stato nazionale, è da esso
foggiato e da esso limitato. La burocrazia bolscevica scendeva ora
dalle vette del periodo eroico della rivoluzione alle basse pianure dello
Stato nazionale; e Stalin la guidava nella discesa. Essi bramavano la
sicurezza propria e della loro Russia. I bolscevichi lottavano per
conservare lo status quo nazionale, ma soprattutto quello
internazionale, e per trovare un modus vivendi stabile con le grandi
potenze capitaliste. Erano convinti di poterlo trovare in una specie di
isolazionismo ideologico e si preoccupavano di disimpegnare l’Unione
Sovietica dalle lotte di classe e dai conflitti sociali che avvenivano nel
mondo di fuori. Nel proclamare il socialismo in un solo paese, Stalin,
in realtà, faceva sapere all’Occidente borghese ch’egli non era
vitalmente interessato al socialismo negli altri paesi. E l’Occidente
borghese lo comprendeva bene, anche se non si fidava troppo di
lui. Durante la grande lotta tra Stalin e Trotski, la maggior parte dei
nostri statisti e degli esponenti dell’opinione pubblica «sostenevano
che l’interesse dell’Occidente sarebbe stato servito meglio dalla
vittoria di Stalin. Egli voleva la moderazione e la coesistenza pacifica.
Ma in ogni caso lo stalinismo non poteva facilmente disimpegnarsi
dalle lotte di classe e dai conflitti sociali del mondo di fuori. Era
gravato da un’eredità rivoluzionaria che non poteva né scartare, né
gettar via. Il quartier generale dell’Internazionale comunista era a
Mosca; e l’Internazionale era l’incarnazione dell’originale fedeltà del
bolscevismo alla rivoluzione universale. Per lunghissimo tempo Stalin
non potè permettersi di sciogliere il Comintern e osò il colpo soltanto
nel 1943. Nel frattempo fece tutto quel che potè per adattarlo ai suoi
fini. Lo domò. Lo trasformò in ausiliario della sua diplomazia o, come
una volta ebbe a dire Trotski, fece dei partiti comunisti stranieri, ossia
delle « avanguardie della rivoluzione mondiale », delle guardie di
frontiera pacifiste dell’Unione Sovietica.
Gli altri partiti comunisti consentirono in effetti a servire
gl’interessi diplomatici e l’egoismo nazionale del « primo Stato dei
lavoratori », proprio perché era il primo Stato dei lavoratori. Non
ebbero il coraggio di insistere sulla loro indipendenza, anche se così
facendo avrebbero salvato la loro dignità politica e la loro efficacia
rivoluzionaria. In tal modo coinvolsero se stessi in un equivoco suicida:
un’Internazionale che operava come un puro e semplice agente del «
socialismo in un solo paese » era una patetica contraddizione in
termini.
La ricerca staliniana della sicurezza nazionale dentro la cornice
dello status quo internazionale avrebbe potuto avere un senso se lo
status quo fosse stato realmente stabile. Ma questo non era il caso.
Nulla avrebbe potuto essere più precario di quello che fu l’equilibrio
sociale e la bilancia del potere internazionale dei decenni fra le due
guerre.
L’equilibrio sociale fu sconvolto catastroficamente dalla grande
crisi del 1929. L’equilibrio militare e diplomatico venne distrutto dal
risollevarsi della Germania dalla disfatta del 1918 e dalla sua
determinazione di rovesciare il sistema basato sul trattato di
Versailles. La Russia non si poteva isolare dalle scosse che questi
sviluppi producevano. Tuttavia ciò che fecero Stalin, la sua diplomazia
e il suo addomesticato Comintern, consistette nel cercare di isolarla,
e persino di prevenire le scosse e di tener lontani o mitigare i conflitti
esterni in cui la Russia potesse venire coinvolta. Il grande spietato
dittatore, il presunto maestro della Realpolitik, fu di fatto il re Canuto
del nostro secolo, che ordinava alle ondate della rivoluzione, della
controrivoluzione e della guerra di rimaner ferme. Considerando la
tremenda autorità che Stalin esercitava sul comunismo mondiale,
un’autorità spalleggiata da tutto il potere e dal prestigio dell’Unione
Sovietica, il suo atteggiamento e la sua politica, ben s’intende, ebbero
una grande parte nel foggiare la storia del mondo in una epoca di
tanta gravità. Nessuno può dire come ci apparirebbero oggi
l’Occidente e il mondo in generale, se il movimento dei lavoratori
fuori dell’Unione Sovietica avesse seguito i propri interessi e le
proprie tradizioni, e non avesse consentito a nessuna influenza
esterna, stalinista o d’altro genere, d’interferire nel ritmo e
nella direzione del proprio sviluppo. Forse le nazioni progredite
dell’Occidente, a quest’ora, potrebbero avere realizzato la loro
rivoluzione socialista; o potrebbero esserci arrivate molto più vicine di
quanto non abbiano fatto.
Non credo che le disfatte della rivoluzione e del socialismo in
Occidente fossero così inevitabili come possono oggi apparire. Non
credo che siano state tutte causate da circostanze oggettive, ossia da
una « sanità » della nostra società occidentale. Almeno alcuni dei
maggiori rovesci del socialismo sono stati dovuti a fattori
soggettivi, cioè alla poca validità delle politiche promosse da uomini e
partiti che venivano considerati i campioni del socialismo. Non credo
che le previsioni marxiste intorno alle lotte di classe del regime
capitalista fossero così lontane dal segno come possono oggi apparire,
se non per quel tanto che Marx, Engels e Lenin non fecero i conti con
lo stalinismo e le sue conseguenze internazionali.
Cercherò di illustrare quello che ho detto mediante un esempio
evidente, uno dei molti che potrebbero venire citati. Qualunque
studioso della storia recente può essere colpito e forse sviato dalla
completa impassibilità e dall’indifferenza con cui, nei primi anni dopo
il 1930, Mosca guardò il sorgere del nazismo. Stalin, i suoi consiglieri
e i suoi propagandisti, a quel tempo, non dimostrarono di avere la
minima consapevolezza di ciò che stava per accadere. Non avevano
nessun sospetto della forza crescente e del dinamismo distruttivo del
movimento nazista. Dal 1929 al 1933 essi suggerirono al partito
comunista tedesco una lunga serie di fatali errori, errori che resero
estremamente facile per Hitler l’assunzione del potere. Ora, era
proprio inevitabile il trionfo di Hitler nel 1933? Lo rendevano tale le
circostanze obiettive? O forse il movimento laburista tedesco avrebbe
potuto prevenirlo? Prima di cercare di dare una risposta a questi
quesiti dobbiamo considerare il fatto che nel 1933 quel movimento
cedette a Hitler, senza combattere, tutte le sue posizioni. Questo è
vero di entrambi i partiti, i socialdemocratici, che dominavano i
sindacati e avevano un seguito elettorale di oltre otto milioni di
persone, e i comunisti, che avevano oltre cinque milioni di aderenti.
Gli elementi più vigorosi e attivi del movimento erano nel partito
comunista. Per il loro peso politico e per l’influenza che la loro
condotta esercitava sulla massa più inerte dei socialdemocratici, il
loro comportamento nella crisi aveva un’importanza estrema.
E tuttavia il partito comunista minimizzò in modo deliberato e
sistematico il pericolo nazista, e disse ai lavoratori che i
socialdemocratici o « socialfascisti », e non i nazisti, erano il
principale nemico sul quale dovevano « concentrare tutto il fuoco ». I
capi di entrambi i partiti, socialdemocratico e comunista, si rifiutarono
perfino di considerare l’idea di qualsiasi azione contro il nazismo. Non
c’era nessuna ragione obiettiva per cui dovessero agire in questo
modo. La loro resa non era inevitabile. Non era inevitabile la facile
vittoria di Hitler nel 1933. Stalin e il partito comunista sovietico non
avevano il minimo interesse a seguire una politica di rinuncia e a
persistere in essa. La loro apatia e la loro indifferenza di fronte al
sorgere del nazismo dipendevano soltanto dal carattere isolazionista
dello stalinismo e dal suo desiderio di tenere l’Unione Sovietica fuori
da qualsiasi partecipazione a ogni grande conflitto che avvenisse al di
fuori della Russia. Avendo di mira soltanto la propria sicurezza, Stalin
escluse qualunque mossa comunista in Germania che avesse potuto
condurre a un conflitto aperto ed eventualmente a una guerra civile
fra la sinistra tedesca e il nazismo.
Perseguendo il miraggio della sicurezza entro lo status quo
internazionale, il miraggio del « socialismo in un solo paese », lo
stalinismo causò la disfatta del socialismo in molti altri paesi ed
espose l’Unione Sovietica a un pericolo mortale. Alcuni di noi
sostenevano in quegli anni, molto prima del 1933, che un governo
nazista significava la guerra mondiale e l’invasione dell’Unione
Sovietica; che la sinistra tedesca aveva il dovere di sbarrare a Hitler la
strada verso il potere; che essa aveva buone probabilità di riuscirvi; e
che, anche se doveva fallire, avrebbe avuto il dovere di cadere
combattendo piuttosto che accettare passivamente la sua distruzione
per opera dei nazisti. Fummo pubblicamente accusati a Mosca come
diffonditori di panico, come guerrafondai e nemici del proletariato
germanico e dell’Unione Sovietica. La resa del 1933 è stata la più
schiacciante sconfitta che il marxismo abbia mai subito, sconfitta che
doveva venire poi aggravata dai successivi eventi e dalle successive
politiche staliniane, una sconfitta dalla quale i movimenti dei
lavoratori tedeschi ed europei non si sono ancora ripresi. Se la sinistra
germanica, e soprattutto il partito comunista tedesco, non si fossero
lasciati spingere alla capitolazione, se avessero avuto il buonsenso di
combattere per la propria sopravvivenza, avrebbero potuto evitare
l‘avvento del Terzo Reich e la seconda guerra mondiale. L’Unione
Sovietica avrebbe potuto risparmiare venti milioni di morti sui campi
di battaglia. Il fumo delle camere a gas di Auschwitz non avrebbe mai
macchiato la storia della nostra civiltà. E nel frattempo la Germania
sarebbe potuta diventare uno Stato di lavoratori.
Si potrebbe dimostrare con altri esempi come l’ossessione
staliniana della sicurezza abbia condotto a un’insicurezza catastrofica,
e come l’isolazionismo ideologico abbia invariabilmente aggravato
l’isolamento dell’Unione Sovietica, isolamento che, naturalmente,
trascinò la politica sovietica a un isolazionismo sempre più profondo. Il
circolo vizioso si è riprodotto quasi a ogni fase della diplomazia
stalinista e persino di quella poststalinista, tutte le volte che la ragion
di Stato sovietica si è imposta alla politica di un importante settore del
movimento operaio occidentale. Questo avvenne col fronte popolare
in Francia, con la guerra civile in Spagna e con le ripercussioni del
patto nazi-sovietico del 1939-1941. In tutti questi casi non fu tanto la
forza del capitalismo occidentale quanto l’egoismo nazionale della
politica di Stalin a infliggere una disfatta dopo l’altra alle forze del
socialismo in Occidente; e ognuna di queste sconfitte rappresentò una
perdita anche per l’Unione Sovietica.
La seconda guerra mondiale e l’invasione nazista trascinarono di
forza l’Unione Sovietica fuori dal suo isolamento. Ancora una volta
l’emancipazione dei lavoratori, e naturalmente la liberazione
dell’Europa dal dominio nazista, potevano « essere soltanto un
avvenimento internazionale ». La guerra non fu soltanto combattuta
dagli eserciti delle grandi potenze. Combatterono anche guerriglieri,
partigiani e resistenti di molte nazioni. Una guerra civile
internazionale, dotata di un’immensa potenzialità rivoluzionaria, si
svolse all’interno della guerra mondiale. Tuttavia lo stalinismo
continuò a rimanere attaccato alla sicurezza convenzionale, alla ragion
di Stato e al sacro egoismo nazionale. Esso combattè la guerra come
una « guerra della patria », un nuovo 1812, non come una
guerra civile europea. Non volle contrapporre al nazismo l’idea del
socialismo internazionale e della rivoluzione. Stalin non riteneva che
tale idea avrebbe stimolato i suoi eserciti al combattimento, o che
avrebbe potuto contagiare e disintegrare le armate nemiche, come
aveva fatto durante le guerre d’intervento. Di più egli indusse i vari
movimenti di resistenza in Europa, capeggiati dai comunisti, a
combattere soltanto per la liberazione nazionale, non per il
socialismo. In parte Stalin era mosso dal desiderio di salvare la grande
alleanza; egli supponeva, giustamente, che se la guerra avesse
minacciato di trasformarsi in una rivoluzione europea, Churchill e
Roosevelt si sarebbero staccati dall’alleanza. In parte però lui stesso
era spaventato dallo sconvolgimento rivoluzionario che avrebbe potuto
rovesciare il precario equilibrio politicosociale all’interno dell’Unione
Sovietica, equilibrio sul quale poggiava la sua autocrazia. Era deciso a
venir fuori da quel gigantesco sommovimento col « socialismo in un
solo paese » e con la sua autocrazia intatta. Tuttavia la logica della
guerra si rivolse contro la sua ideologia isolazionista. Egli dovette
mandare i suoi eserciti in una dozzina di paesi stranieri; e sebbene
questi eserciti marciassero sotto le bandiere della patria, erano pur
sempre armate russe, e non sarebbe stato facile persuaderle che la
loro vittoria, così duramente conquistata, dovesse concludersi con la
restaurazione del capitalismo in tutti i paesi che avevano liberato
dall’occupazione nazista. Il risultato rivoluzionario della guerra era
questo. Come tenerlo sotto controllo e come ridurlo al minimo fu, a
Teheran e a Yalta, la comune preoccupazione di Stalin, Roosevelt e
Churchill. Perciò trattarono i problemi dell’alleanza nello spirito della
diplomazia convenzionale, e divisero e definirono fra loro le rispettive
sfere d’influenza.
Qui non occorre che ci dilunghiamo a parlare dei complicati
conflitti che ebbero luogo anche prima della fine delle ostilità e che
aprirono la strada alla guerra fredda. Basti dire che anche quando
l’Unione Sovietica fu coinvolta come mai lo era stata prima nelle
faccende di tanti paesi, e mentre Stalin doveva assicurarsi i frutti della
vittoria, cioè il predominio della Unione Sovietica nell’Europa
orientale mediante l’impiego di metodi quasi rivoluzionari, lo
stalinismo si manteneva fedele alla sua ristrettezza mentale
nazionalistica. La rivoluzione nell’Europa orientale non doveva essere
« un evento internazionale realizzato con gli sforzi congiunti del
proletariato di molte nazioni ». Essa era imposta dall’alto ad opera
della potenza occupante e dei suoi agenti. E le cosiddette democrazie
popolari dovevano essere soltanto il bastione difensivo del «
socialismo in un solo paese ». Nell’Europa occidentale il regime
borghese, mal ridotto e screditato, veniva restaurato conformemente
ai patti di Yalta e di Teheran; e i partiti comunisti contribuirono
alla restaurazione, partecipando ai governi postbellici di De Gaulle e
di De Gasperi, aiutando a disarmare la resistenza e reprimendo il
radicalismo irrequieto delle classi lavoratrici. In questo modo le
potenzialità rivoluzionarie del periodo postbellico vennero realizzate,
ma distorte nella realizzazione, in tutta l’Europa orientale; e vennero
rese nulle nell’Europa occidentale. Così lo stalinismo lavorò a
produrre un ristagno nella lotta di classe, che consentì alla diplomazia
di assicurare « la coesistenza pacifica degli opposti sistemi sociali ».
Una volta ancora Stalin aveva cercato di ottenere la sicurezza
nazionale sulla base dello status quo internazionale, ossia della
divisione delle zone d’influenza concordata a Teheran e a Yalta. In
ogni caso la diplomazia non potè eliminare tutti i pomi della discordia
che i padroni di Teheran e di Yalta avevano seminato lungo i confini
delle loro rispettive zone; né fu in grado di trattare i mal conosciuti
pericoli dell’èra nucleare. E così il mondo venne lasciato a rabbrividire
sotto i gelidi soffi della guerra fredda, la quale era soltanto una forma
degenere della lotta di classe combattuta dalle grandi potenze. Vien
fatto di ricordare nuovamente l’ammonimento di Engels: « L’esclusiva
direzione francese della rivoluzione borghese condusse sapete a che
cosa? A Napoleone, alla conquista e all’invasione da parte della Santa
Alleanza ». Più di una volta l’esclusiva direzione russa nella
rivoluzione socialista è andata sinistramente vicina a produrre gli
stessi risultati. Comunque, l’epoca della direzione esclusivamente
russa stava avviandosi alla fine.
Il periodo rivoluzionario che seguì alla guerra non fu mai sotto un
controllo completo, dopo tutto. Gli iugoslavi disobbedivano
apertamente alle direttive russe; e la vittoriosa rivoluzione cinese
stava di fronte alla Russia in atto di implicita e imponente sfida.
Tuttavia nemmeno il dilagare della rivoluzione guarì la politica
stalinista del suo egoismo e dell’isolazionismo nazionale; e questi sono
ancora i mali ereditati dalla politica dei successori di Stalin. Anche se
il concetto del socialismo in un solo paese ha perso qualunque rilievo
ormai da molto tempo, sono sopravvissuti l’atteggiamento che gli sta
dietro, il modo di pensare e lo stile dell’azione politica ispirati da esso.
Vorrei qui considerare brevemente un altro aspetto del peso
esercitato dall’Unione Sovietica sulla vita sociale e politica
dell’Occidente. Nei primi anni dopo il 1917, il messaggio della
Rivoluzione di Ottobre suscitò un profondo consenso nel movimento
occidentale dei lavoratori. Non per nulla, ad esempio, nel 1920 i
congressi del partito socialista francese e del partito socialista
indipendente tedesco, che era allora l’elemento più influente della
sinistra tedesca, votarono a larga maggioranza di unirsi
all’Internazionale comunista. Persino nella conservatrice Inghilterra i
portuali di Londra, capeggiati da Ernest Bevin, espressero la loro
simpatia per la nuova Russia rifiutando di caricare munizioni destinate
alle armate polacche che combattevano contro i soviet. Sembrava che
il movimento operaio occidentale, sotto l’ispirazione della rivoluzione
russa, si fosse risollevato dalla palude in cui era affondato nel 1914. Di
nuovo, durante la seconda guerra mondiale, la battaglia di Stalingrado
risollevò l’Europa occupata dai nazisti dal fondo della sua
disperazione, e alla Resistenza ispirò fiducia nella vittoria e nuove
speranze socialiste. Ma nel complesso, in tutto questo mezzo secolo,
l’esempio dell’Unione Sovietica, lungi dallo stimolare i movimenti
operai dell’Occidente, li atterrì all’idea di non poter mai realizzare le
loro aspirazioni socialiste.
In modo paradossale, una delle principali ragioni di questo fatto fu
che i lavoratori videro la rivoluzione russa come la prima grande prova
storica del socialismo. Non erano consapevoli delle tragiche condizioni
di inferiorità da cui era gravata l’Unione Sovietica. A nulla servì che
alcuni teorici marxisti parlassero di quelle condizioni d’inferiorità, a
nulla servì l’efficacia della loro argomentazione, secondo la quale una
società libera e senza classi non poteva fondarsi in un solo paese,
miserabile e semibarbaro; per la massa dei nostri lavoratori
queste erano sottigliezze di teoria astratta. Per loro il socialismo in
Russia era ormai una questione non di speculazione teorica ma di
pratica esperienza. Evidentemente non era nell’interesse sovietico
incoraggiare speranze esagerate. I capi sovietici, consci della loro
responsabilità, avrebbero coscienziosamente spiegato la
situazione, come Lenin era solito fare; e avrebbero messo bene in
chiaro che le stesse grandi realizzazioni dell’Unione Sovietica erano, e
potevano essere, soltanto dei preliminari al socialismo e non la reale
sostanza del socialismo stesso. In tal modo avrebbero potuto evitare di
coltivare illusioni e prevenire le conseguenti disillusioni; e avrebbero
potuto imprimere nello spirito del movimento operaio occidentale la
nozione della sua corresponsabilità per l’isolamento e per le gravi
difficoltà in cui viveva l’Unione Sovietica. Tuttavia Stalin e soci si
preoccupavano troppo dell’orgoglio nazionale e del prestigio
burocratico per agire in questo modo. Essi offrivano la loro « dottrina
consolatoria », il loro mito del socialismo in un solo paese ai
lavoratori, non solo della Russia, ma di tutto il mondo.
Uno degli effetti del diffondersi di questo mito fu quello di
trasformare i comunisti e i socialisti occidentali in puri e semplici
spettatori. Poiché i russi dicevano di poter raggiungere o addirittura
di aver già raggiunto da soli il socialismo, pareva che non rimanesse
nulla da fare per gli occidentali se non guardare in che modo se la
cavavano i russi. Per circa trent’anni la propaganda stalinista parlò dei
miracoli che il socialismo andava facendo nell’URSS. Gli appassionati
e gli ingenui credettero. La grande maggioranza dei lavoratori
occidentali restava dubbiosa, teneva in sospeso il suo giudizio o
si formava opinioni negative. Resoconti sulla povertà sovietica, sulle
carestie e sul terrore alimentavano lo scetticismo. Le grandi purghe
e il culto di Stalin, zelantemente difesi da tutti i partiti comunisti,
suscitavano disgusto. Poi moltitudini di soldati americani, britannici e
francesi vennero a contatto dei loro alleati sovietici nella Germania e
nell’Austria occupate : e ne trassero le loro conclusioni. Finalmente,
nel 1956, ci fu il trauma delle rivelazioni di Khrusciov. Molti milioni di
lavoratori occidentali, un anno dopo l’altro, hanno meditato
queste esperienze e hanno concluso che « il socialismo non funziona »
e che « la rivoluzione non conduce a nulla ». Molti sono piombati in
uno stato di apatia politica; molti si sono riconciliati con lo status quo
sociale dell’Occidente che i boom del dopoguerra e le provvidenze
assistenziali hanno reso un po’ più tollerabile. Gli intellettuali, che
avevano creduto nel socialismo sovietico, hanno finito per denunciare
il « dio che li aveva delusi ». Il mito del « socialismo in un solo paese »
aveva così fatto nascere un mito ancora più ingannevole, un mito
colossale, sul fallimento del socialismo. Questa doppia mistificazione
ha finito per dominare una buona parte del pensiero politico
occidentale e ha grandemente contribuito a quel ristagno ideologico in
cui tuttora vive il mondo, mezzo secolo dopo il 1917.
Tuttavia l’Occidente non ha davvero nessuna ragione di guardare a
questo risultato con qualsiasi soddisfazione di sé. Poiché quando
un russo considera le azioni dell’Occidente verso la Russia, che cosa vi
trova? L’ingorda pace di Brest Litovsk, l’intervento armato degli
alleati contro i soviet, il blocco, il « cordone sanitario », i prolungati
boicottaggi economici e diplomatici; poi l’invasione di Hitler e gli
orrori della occupazione nazista, i lunghi e astuti indugi coi quali gli
alleati della Russia rinviarono l’apertura di un secondo fronte contro
Hitler mentre gli eserciti sovietici subivano il loro olocausto; e dopo il
1945, il subitaneo rovesciamento delle alleanze, i ricatti nucleari e la
frenesia anticomunista della guerra fredda. Davvero un bel record!
Un marxista deve domandarsi perché le classi lavoratrici
dell’Occidente e i loro partiti abbiano concesso tanta libertà
d’iniziativa e di azione ai governi e ai gruppi privilegiati che sono stati
responsabili di questa serie di eventi. Lo storico deve indagare le
circostanze obiettive che nel corso di questi cinquant’anni hanno
impedito al socialismo occidentale di intervenire radicalmente e di far
sì che l’Occidente si ponesse di fronte alla rivoluzione russa in
maniera del tutto diversa. Deve anche tener conto degli effetti nocivi
della prolungata ed esclusiva egemonia russa sulla rivoluzione
socialista. Ma avendo accuratamente considerato tutte le circostanze
obiettive e avendo tenuto conto di tutte le effettive attenuanti, in che
modo lo storico riassumerà le sue conclusioni? Engels,
parlando dell’esclusiva egemonia francese nella rivoluzione borghese
e delle sue disastrose conseguenze, e avendo senza dubbio analizzato
con cura le circostanze obiettive di quell’epoca, riassunse il suo
giudizio in queste poche parole chiare e piene di significato: «Tutto
questo», egli disse, « divenne inevitabile a causa della stupidità e della
vigliaccheria delle altre nazioni ». Forse un futuro Engels dovrà
pronunciare lo stesso verdetto sull’epoca nostra?
CAPITOLO QUINTO

L’UNIONE SOVIETICA E LA RIVOLUZIONE CINESE

IN un primo tempo mi ero proposto di trattare in questa conferenza


dell’influsso esercitato dalla rivoluzione russa sulle popolazioni
coloniali e semicoloniali dell’Oriente. Ma lavorando su questo tema
l’ho trovato così vasto e multiforme da non prestarsi a essere trattato
entro i limiti di una sola conferenza e così limiterò le mie osservazioni
a un solo quesito, quello sul quale in ogni caso il tema è venuto a
centrarsi, cioè il rapporto tra la rivoluzione russa e quella cinese.
La rivoluzione cinese è in un certo senso figlia di quella russa. So
che alcuni sinologi negheranno energicamente questa mia
affermazione; e sono pronto ad ammettere che le loro obiezioni, entro
certi limiti, sono valide. Un fenomeno storico di questa grandezza ha,
naturalmente, le sue radici più profonde nel suo stesso paese e nelle
condizioni della società nella quale è avvenuto. Questo deve essere
fortemente sottolineato specialmente perché, fino a tempi molto
recenti, era abituale nei paesi dell’Occidente trattare il comunismo
cinese come una specie di fantoccio russo. Ma non dovremmo, d’altra
parte, trattarlo come un movimento chiuso in se stesso, che possa
essere capito solo nei termini del suo ambiente nazionale. Non
dobbiamo permettere che la Grande Muraglia domini il nostro
pensiero sulla rivoluzione cinese. Nella mia prima conferenza ho
cercato di tracciare la storia delle molte filiazioni esistenti tra la
rivoluzione russa e la storia intellettuale e politica dell’Europa
occidentale. Ho citato il grande riconoscimento dato da Lenin al
debito dovuto dalla rivoluzione russa all’Occidente e le parole di
Trotski sull’esportazione in Russia dell’« ideologia europea più
avanzata ». Ora l’incitamento che la rivoluzione russa ha dato alla
Cina è stato senza confronto più diretto e più potente di quello dato
alla Russia rivoluzionaria dell’Europa occidentale.
La rivoluzione russa trionfò nel momento in cui la rivoluzione
cinese si trovava in un vicolo cieco. Quando i cinesi rovesciarono la
dinastia Manciù nel 1911, tentarono di risolvere il loro problema
nazionale per mezzo di una rivoluzione puramente borghese. Il
tentativo fallì. In Cina fu proclamata la repubblica; ma i suoi grandi
problemi sociali e politici rimasero insoluti e si aggravarono subito
dopo. La nazione sprofondò sempre più giù nella dipendenza dalle
potenze straniere; i signori della guerra e i compradores la facevano a
pezzi; e i contadini, miseri e oppressi, non avevano nessuna possibilità
di cambiare o di migliorare le loro condizioni di vita. La rivoluzione
puramente borghese aveva dimostrato la sua impotenza, e nessuno ne
era più consapevole di Sun Yat-sen, il suo capo. Allora venne la grande
protesta nazionale contro il trattato di Versailles, il movimento del
maggio 1919 diretto contro il perpetuarsi della soggezione della Cina
alle grandi potenze.
Questo era ancora un tentativo di risvegliare la rivoluzione «
puramente » borghese, benché fosse ispirato da Cen Tu-hsiu, il
futuro fondatore del partito comunista. Anche quel movimento finì in
un vicolo cieco. Nell’anno seguente ci fu un avvenimento cruciale : da
Mosca il secondo congresso dell’Internazionale incitò i popoli coloniali
e semicoloniali dell’Oriente a insorgere o a preparare la rivoluzione.
Cominciò la grande « importazione » dell’ideologia bolscevica in Cina;
e questa sarebbe stata seguita ben presto dall’importazione
dell’efficienza e della tecnica militare russe. Col suo esempio, la
Russia aveva mostrato alla Cina la via per uscire dal vicolo cieco.
Anche la Cina doveva andare oltre la rivoluzione puramente borghese.
L’antimperialismo, la ridistribuzione della terra, la funzione
egemonica dei lavoratori dell’industria nella rivoluzione, la
formazione di un partito comunista e una stretta alleanza con l’Unione
Sovietica, queste erano le nuove possibilità che si aprivano
improvvisamente per i radicali cinesi. Persino Sun Yat-sen approvò
alcune di queste nuove finalità, benché lo facesse non senza
trepidazione.
Fino allora il marxismo non aveva esercitato quasi nessuna
influenza in Cina. Alcune idee sconnesse di un socialismo fabiano e
metodista erano filtrate fino agli intellettuali di Sciangai, di Canton e
di Pechino. Ma fu soltanto nel 1921, settantatré anni dopo la sua
prima pubblicazione, che il Manifesto comunista comparve in cinese
per la prima volta. 1 Il marxismo dell’Occidente europeo, tutto
concentrato sulla lotta di classe nei paesi industriali progrediti,
difficilmente poteva trovare una risonanza fra gl’intellettuali radicali
di un paese contadino e semicoloniale. Fu dai russi, e nella versione
russa, che i cinesi trassero il loro marxismo. Come afferma
giustamente E. H. Carr nella sua grande Storia dell’Unione Sovietica,
fu Lenin che, per la prima volta nella storia, formulò un programma
marxista di azione di immediato rilievo per i popoli dell’Oriente. Egli
potè far questo a causa della sua sensibilità di narodnik verso
i problemi dei contadini e della sua comprensione del tutto originale
del significato della lotta antimperialista.
Il bolscevismo faceva fronte a occidente e a oriente. Abbiamo visto
che per l’Occidente, e considerando le possibilità del socialismo
da quella parte, Lenin insisteva che lo Stato nazionale costituiva una
base troppo ristretta per la trasformazione socialista. Fino al 1924
tutti i grandi manifesti dell’Internazionale comunista culminavano in
un’invocazione degli Stati uniti socialisti d’Europa. In Oriente però la
situazione era diversa. I suoi popoli vivevano ancora in una epoca
preindustriale e persino preborghese, divisi da particolarismi quasi
feudali, da sistemi patriarcali di tribù, da un’organizzazione di caste e
dallo strapotere dei « signori della guerra ». Se per l’Occidente lo
Stato nazionale, grande realizzazione del passato, era già un ostacolo
al progresso, per i popoli dell’Oriente questa realizzazione stava
ancora in grembo all’avvenire ed era una condizione essenziale del
progresso. Ma se in Occidente il moderno Stato nazionale era un
prodotto della rivoluzione borghese, l’Oriente, se voleva raggiungerla,
doveva andare oltre. Questa fu la grande nuova lezione che Mosca
divulgò nei primi anni dopo il 1920. E anche così Mosca non vedeva la
rivoluzione cinese, o qualunque altra rivoluzione orientale, come una
lotta puramente nazionale, ma come parte di un
processo internazionale; e continuava ad attribuire alla rivoluzione
socialista proletaria dell’Occidente la parte direttiva nella lotta
mondiale. Il bolscevismo proiettava la sua esperienza sulla scena
del mondo.
In Russia la rivoluzione aveva avuto luogo così in città come in
campagna; ma l’iniziativa dirigente, l’intelligenza e la volontà erano
venute dalla città; e questo, pensavano i bolscevichi, si sarebbe
ripetuto su scala mondiale. L’Occidente industriale sarebbe stato « la
città » in grande, mentre l’Oriente sottosviluppato sarebbe stato « la
campagna ».
La successiva rivoluzione cinese, che ebbe luogo negli anni 1925-
1927, sembrò confermare questa previsione. In quel tempo la Gran
Bretagna era scossa dalla più grande lotta di classe della sua storia,
dal più lungo e più ostinato sciopero dei minatori che si ricordi e dallo
sciopero generale del 1926. In Cina lo schieramento delle forze sociali
somigliava nelle grandi linee al modello russo : il paese era tutto
infiammato dalla rivolta agraria, ma i lavoratori urbani erano la forza
motrice della rivoluzione. È necessario ricordare questo fatto
importante, ma ora dimenticato o ignorato. Disgraziatamente gran
parte della storia cinese è stata riscritta sia dai maoisti sia
dagli stalinisti; e non soltanto i suoi numerosi personaggi storici sono
stati trasformati in « non-persone » alla Orwell, ma un’intera classe
sociale, il proletariato industriale cinese degli anni dopo il 1920, è
stata cancellata dalla memoria storica e trasformata in una « non-
classe ». Vedremo tra poco perché questo è accaduto.
Il destino della rivoluzione degli anni dopo il 1920 fu molto tragico.
Non soltanto essa venne sconfitta; ma prima della sua disfatta era
stata ricacciata nelle pastoie della rivoluzione puramente borghese
dalle quali il leninismo, poco tempo prima, aveva già mostrato la via di
uscita. Ve la ricacciarono Stalin e i suoi associati e agenti in Cina. Noi,
in Occidente, non abbiamo bisogno di rifarci alle falsificazioni della
storia compiute dagli stalinisti o dai maoisti; do quindi per certo che
siete abbastanza informati sulle grandi linee degli avvenimenti; e qui
ricorderò soltanto che la politica di Stalin aveva come suo
centro l’idea che la rivoluzione cinese dovesse mirare a obiettivi
puramente borghesi e dovesse avere come fondamento il cosiddetto «
blocco delle quattro classi ». Praticamente Mosca forzò i riluttanti
comunisti cinesi a sottoporsi incondizionatamente alla direzione e alla
disciplina del Kuomintang; ad accettare il generale Chang Kai-shek
come il capo e l’eroe nazionale; ad astenersi dall’incoraggiare rivolte
agrarie; e finalmente, nel 1927, a disarmare i lavoratori delle città
che insorgevano. In questo modo la prima grande vittoriosa
insurrezione proletaria in Asia, la Comune di Sciangai, venne
soffocata. A questo fecero seguito un generale massacro di comunisti
e di lavoratori insorti e la aatastrofe della rivoluzione.
È stato detto che, indipendentemente dalla politica di Stalin, la
rivoluzione del 1925-1927 era comunque condannata a causa della sua
intrinseca « immaturità». Lo storico non può, in una necroscopia,
districare le cause oggettive di un simile evento da quelle soggettive,
dalle manovre politiche e dai motivi degli uomini; non può dire quali di
questi fattori abbiano deciso il risultato della lotta. Che la disfatta
della rivoluzione del 1927 fosse inevitabile o no, il fatto è che lo
stalinismo fece quanto era in suo potere per renderla tale. In Oriente,
non meno che in Occidente, la politica staliniana fu ispirata dal timore
di distruggere o di sconvolgere lo status quo e dal desiderio di non
lasciarsi coinvolgere profondamente in gravi conflitti sociali
all’estero che potessero condurre a « complicazioni internazionali ». In
Oriente, non meno che in Occidente, lo stalinismo si dette da fare per
produrre un ristagno della lotta di classe.
In Cina tuttavia un ristagno era impossibile. La rivoluzione era
stata schiacciata nelle città, ma la controrivoluzione non era in grado
di consolidare la sua vittoria. La struttura sociale del paese era a
pezzi. Le rivolte contadine continuavano. Il regime del Kuomintang era
traballante e corrotto. Inoltre, per quindici anni,
l’invasione giapponese inferse colpo su colpo alla struttura sociale e al
regime politico. Niente poteva arrestare il processo di
decomposizione.
Tuttavia la disfatta del 1927 e gli eventi successivi costituirono lo
sfondo di una rivoluzione molto diversa da quella degli anni dopo il
1920, e anche molto diversa dal modello russo del 1905 e del 1917.
Verso la fine degli anni venti, dopo il massacro dei suoi componenti, il
partito comunista ebbe enormi difficoltà a ricostruire le sue
roccheforti urbane. Negli anni trenta i giapponesi, dopo aver
conquistato le coste cinesi, intrapresero il forzato smantellamento
delle industrie nelle città occupate, demolirono le fabbriche, e in
questo modo causarono la dispersione degli operai urbani. Ma ancora
prima che questo avvenisse, Mao aveva raccomandato al partito
comunista di voltare le spalle alle città e di rivolgere tutte le proprie
energie alla guerra partigiana che doveva essere condotta nelle aree
rurali dove i contadini erano in ribellione. La sua strategia politica fu
riassunta, dopo molti anni, nel celebre detto che in Cina la rivoluzione
non doveva essere portata dalla città alla campagna, ma dalla
campagna alla città.
Questa strategia era un colpo di genio politico? O non era forse il
gioco disperato di un avventuriero? Il successo ottenuto in seguito
sembra confermare la prima interpretazione. Ma alla luce delle
circostanze di quel tempo essa appare invece come un molto dubbio
gioco d’azzardo. La Russia stalinista la trattò per lungo tempo come
una innocua aberrazione che non meritava nemmeno di essere
scomunicata come un’eresia. Incidentalmente, Mao contraccambiava
questa indulgenza osservando esteriormente tutti i doveri di devozione
al culto di Stalin. Nel giudizio di Stalin i partigiani di Mao, benché
arrivassero a controllare zone rurali considerevoli, non avevano
assolutamente nessuna probabilità di portare la rivoluzione dalle
campagne alle città e di rovesciare il Kuomintang. Stalin era
contento di usarli come moneta di scambio nelle sue contrattazioni
con Chang Kai-shek : perciò concesse loro un po’ di pubblicità a buon
mercato nei giornali del Comintern ma, a parte questo, non dette loro
nessun aiuto. Stalin vedeva Mao sulla sua scacchiera come una
bizzarra pedina situata in uno degli angoli meno importanti.
E in verità la strategia di Mao necessitava, per il suo successo, di
una straordinaria combinazione o coincidenza di circostanze, che egli
né prevedeva né avrebbe potuto prevedere. Ci vollero quindici anni di
invasione e di occupazione giapponese, quindici anni durante i quali la
Cina fu smembrata e sprofondata nel caos; e ci vollero la guerra
mondiale e la disfatta del Giappone per consentire ai partigiani di Mao
di sopravvivere e di acquistare forza, e di portare il Kuomintang a quel
punto di collasso in cui un esercito contadino poteva cacciarlo via.
Normalmente, nella nostra epoca (ed era stato così perfino nella
Cina sottosviluppata) la città domina il paese economicamente,
amministrativamente e militarmente, in tale misura che ogni tentativo
di portare la rivoluzione dalla campagna alla città è condannato in
partenza. Ma nel 1948 e nel 1949, quando i partigiani entrarono a
Nanchino, a Tientsin, a Sciangai, a Canton e a Pechino, essi
occuparono virtualmente tanti spazi vuoti. La disintegrazione del
Kuomintang era completa. Questo è ciò che Stalin non riuscì a capire
nemmeno nel 1948, quando insistette invano presso Mao perché
facesse pace con Chang Kai-shek e accettasse l’incorporazione dei
partigiani nell’esercito di Chang. Ancora una volta timoroso di «
complicazioni », ossia di un massiccio intervento americano nelle zone
dell’Estremo Oriente adiacenti alle frontiere sovietiche, Stalin
cercava, nel 1948, di ristabilire lo status quo cinese del 1928.
Nel frattempo il carattere della rivoluzione e le mire del comunismo
cinese erano cambiati radicalmente. Il partito di Mao somigliava
ben poco, nell’ideologia e nell’organizzazione, sia al partito di Lenin
sia a quello di Stalin. Il partito di Lenin aveva le sue profonde radici
nella classe dei lavoratori, quello di Mao era fondato quasi
esclusivamente sui contadini. I bolscevichi erano cresciuti in un
sistema pluripartitico che era esistito, a metà sommerso, persino nella
Russia zarista, e si erano abituati alla botta e risposta di un’intensa
controversia coi loro oppositori menscevichi, socialrivoluzionari,
liberali e altri. I maoisti, avendo vissuto per più di venti anni in
completo isolamento, trincerati nelle loro solitudini montane, nelle
caverne e nei villaggi, erano divenuti completamente introversi. Non
avevano menscevichi o socialrivoluzionari cui tener testa in una
discussione diretta. Le loro polemiche contro il Kuomintang avevano il
carattere della propaganda di guerra che doveva essere condotta
contro un nemico, piuttosto che di una controversia ideologica con
un oppositore serio. I quadri del partito costituivano il corpo dei
comandanti dei partigiani. Tutto, nella loro vita, era subordinato alle
esigenze imperative di un conflitto armato. L’organizzazione, la
disciplina, l’abito mentale, la condotta degli affari giorno per giorno,
tutto era militarizzato. Per quanto poco convenzionale e rivoluzionario
fosse il loro militarismo, esso presentava uno stridente contrasto col
carattere prevalentemente civile del partito bolscevico. Se il
bolscevismo era diventato monolitico attraverso una lunga serie di
penosissime crisi politiche e morali, dopo la soppressione di molte
opposizioni interne, il maoismo aveva ben poco da sopprimere nei
propri ranghi; il suo carattere monolitico sorgeva da uno sviluppo
naturale e non forzato, e così, sebbene esteriormente il
maoismo somigliasse allo stalinismo, la somiglianza nascondeva
profonde differenze.
I sinologi spesso confrontano i partigiani di Mao con gli eserciti
contadini cinesi che in tempi passati sorgevano a rovesciare dinastie
per mettere i loro capi sul trono. Senza dubbio i partigiani sono in
qualche maniera i discendenti di quegli eserciti. In Cina, inoltre, la
rivoluzione presenta varie rifrazioni del passato: il passato con le sue
tradizioni di mandarini e di insurrezioni rurali. Se lo stalinismo fu
l’amalgama del marxismo con la barbarie selvaggia della vecchia
Russia, il maoismo può essere considerato come un amalgama del
leninismo con il patriarcalismo primitivo e i culti ancestrali. In
ogni caso il maoismo è molto più profondamente permeato di costumi
e di tradizioni indigene di quanto lo fosse il comunismo urbano degli
anni venti. Persino un confronto letterario fra gli scritti di Mao e quelli
di Cen Tu-hsiu, che era stato il predecessore di Mao nella guida del
partito, rivela la differenza: le forme idiomatiche di Mao sono molto
più arcaiche di quelle di Cen Tu-hsiu, il cui linguaggio era vicino a
quello dei marxisti europei, specialmente russi, dell’èra prestaliniana.
(Non per nulla Mao compone le sue poesie nella classica lingua
mandarina.)
Tuttavia, per quanto grande sia il potere del passato sul presente,
non dobbiamo esagerarlo. In Cina come in Russia, l’amalgama di
un’ideologia rivoluzionaria moderna con tradizioni indigene
primordiali è il fenomeno di un’epoca di transizione. Qui come lì la
società è stata agitata da una trasformazione che riduce o distrugge
addirittura la forza del costume e delle abitudini. Qui e lì i governanti
hanno usato la tradizione per fini che intendevano sradicare il modo di
vita tradizionale. Abbiamo visto come l’industrializzazione,
l’urbanizzazione e l’educazione di massa abbiano reso l’amalgama
stalinista inaccettabile alla società sovietica; e si può supporre che
in questo, se non in altro, l’Unione Sovietica sia una prefigurazione
dell’avvenire non troppo lontano della Cina.
In ogni caso i partigiani di Mao, a differenza dei vecchi eserciti
ribelli dei contadini, non hanno lasciato intatta la struttura
patriarcale della società cinese. Sono stati gli agenti di una rivoluzione
borghese moderna che non poteva essere contenuta entro limiti
borghesi; e hanno dato inizio a una rivoluzione socialista. Di fatto essi
hanno prodotto il secondo grande atto di quel rivolgimento
internazionale che era cominciato in Russia nel 1917.
Come è avvenuto che siano stati capaci di produrlo? In Russia la
doppia rivoluzione fu il risultato di una lotta omerica combattuta
principalmente dai lavoratori dell’industria, guidati dalla loro
autentica avanguardia socialista. Sappiamo che il partito di Mao non
aveva alcun rapporto con qualsiasi proletariato industriale; e
quest’ultimo non ebbe una parte di qualche rilievo negli eventi del
1948-1949. I contadini chiedevano la ridistribuzione della terra e
la proprietà privata. La cosiddetta borghesia nazionale, scoraggiata e
demoralizzata dalla corruzione e dalla disintegrazione del
Kuomintang, sperava che il maoismo non sarebbe andato oltre i limiti
della rivoluzione borghese. Riepilogando, nel 1948-1949 nessuna delle
classi sociali fondamentali in Cina combatteva per instaurare il
socialismo.
Nell’intraprendere la rivoluzione socialista i maoisti assunsero il
ruolo che i bolscevichi avevano assunto soltanto alcuni anni dopo il
1917: quello di fiduciari e di protettori di una classe operaia
industriale quasi inesistente. In quanto godevano del favore dei
contadini, i maoisti non erano un’élite rivoluzionaria isolata, senza
alcuna classe sociale dietro di loro. Ma la classe contadina con il suo
individualismo concentrato sull’economia rurale era, nel migliore dei
casi, indifferente a quello che accadeva nelle città.
Nell’andare molto oltre l’orizzonte dei contadini, i maoisti erano
mossi da almeno tre motivi: a) le posizioni ideologiche da essi assunte
nei loro primi anni formativi; b) considerazioni di interesse nazionale;
c) ragioni imperative di sicurezza internazionale. Nei loro giovani
anni, mentre erano sotto l’influenza del pensiero leninista, avevano
assorbito le idee del socialismo proletario. Durante i decenni in cui si
dedicarono completamente alla Cina rurale, non poterono quasi fare
uso di quelle idee e si identificarono con l’individualismo contadino.
Ma dopo essere rientrati nelle città come governanti della Cina, non
potevano permettersi di continuare a essere guidati proprio da
quell’individualismo, che, tradotto in termini urbani, significava
l’impresa privata nell’industria e nel commercio. Combattevano per
l’unificazione della nazione, per creare un governo centralizzato, per
costruire uno Stato-nazione moderno. Non potevano basarlo su un
capitalismo indigeno scarsamente sviluppato e vulnerabile dagli
attacchi dell’Occidente. L’industria e la banca nazionalizzate fornivano
una base molto più sicura per l’indipendenza nazionale e per uno
Stato unitario, per l’industrializzazione e per risollevare la Cina
al rango di grande potenza. Sebbene, in teoria, questi obiettivi fossero
compatibili con una rivoluzione puramente borghese, una nazione
semicoloniale non poteva, in questo secolo, conseguirli con mezzi
borghesi. (È caratteristico il fatto che Mao non ha espropriato i
capitalisti senza un compenso : egli paga loro un’indennità, fino a
oggi, nella forma di dividendi a lungo termine, e ha accordato loro
posti di direzione nell’economia. Tuttavia questo fatto, per se
stesso, non toglie nulla al carattere socialista della rivoluzione.) Infine,
considerazioni di sicurezza internazionale spinsero la nuova Cina
verso l’Unione Sovietica. Fino al conseguimento della vittoria i maoisti
avevano combattuto gli eserciti del Kuomintang che erano «
consigliati » da generali americani ed equipaggiati con armi
americane; occasionalmente, essi dovettero battersi anche contro i
marines americani. Gli Stati Uniti sostenevano Chang Kai-shek come il
pretendente controrivoluzionario. La guerra fredda raggiungeva il suo
punto massimo e il mondo si andava dividendo in due blocchi. In
queste circostanze la sicurezza della Cina riposava su una stretta
alleanza con l’Unione Sovietica e sull’aiuto economico sovietico; e per
questo era necessario l’adattamento della sua struttura sociale e
politica a quella dell’Unione Sovietica.
Non fu facile per la nuova Cina raggiungere una stretta alleanza
con l’URSS. I rapporti tra le due potenze comuniste furono tesi e
circondati da ambiguità fino dal principio. L’egoismo nazionale del
governo di Stalin era la principale causa di tensione. Anche se Mao e i
suoi compagni erano disposti a dimenticare come Stalin li avesse
maltrattati negli anni venti e come avesse poi trattato i partigiani e
ostacolato il loro sforzo finale verso il potere, essi non
potevano riconciliarsi facilmente con la posizione tenuta dai russi in
Estremo Oriente dopo la sconfitta del Giappone. I russi avevano
ristabilito il loro predominio in Manciuria; erano padroni della ferrovia
dell’Estremo Oriente e di Port Arthur; e avevano smantellato e portato
via come « bottino di guerra » gl’impianti industriali della Manciuria,
quella provincia che era allora l’unica base industriale della Cina e
dalla quale dipendeva il suo sviluppo economico. Né
Mosca dimostrava la minima intenzione di cedere la Mongolia
sovietica, sebbene nel passato tutti i capi sovietici avessero dichiarato,
con molti impegni solenni, che un giorno, quando la rivoluzione fosse
trionfata in Cina, tutta la Mongolia sarebbe stata riunita in una sola
repubblica federata con la Cina. In tutto questo c’erano i presupposti
di un conflitto molto più grave di quello in cui si erano spinti proprio
allora Stalin e Tito; un conflitto altrettanto grave quanto quello
che, un decennio più tardi, avrebbe spinto l’uno contro l’altro
Khrusciov e Mao. Però, nel 1950, né Stalin né Mao potevano
permettersi di lottare fra loro. Stalin era preoccupato di trascinare in
un fronte unico i maoisti e i titoisti; e Mao era così ansioso di ottenere
il favore e l’assistenza dell’URSS che raggiunse un compromesso con
Stalin e firmò l’alleanza. L’Unione Sovietica agì come garante della
rivoluzione cinese e del suo carattere socialista. S’intende che la
rivoluzione cinese era afflitta da tutte le contraddizioni che
avevano turbato la rivoluzione russa: quelle che nascevano dal
contrasto fra i suoi aspetti borghesi e i suoi aspetti socialisti e quelle
inerenti a qualunque tentativo di stabilire il socialismo in un paese non
sviluppato. Circostanze simili producevano risultati simili. Da ciò
l’affinità tra maoismo e stalinismo nonostante le loro differenze.
Entrambi agirono entro un sistema a partito unico come detentori del
monopolio del potere e come guardiani e fiduciari dell’interesse
socialista, sebbene Mao, non avendo avuto nessuna esperienza
reale di qualsiasi sistema pluripartitico, e non avendo traccia dietro di
sé della tradizione del marxismo europeo, recitò quella parte con
senso di colpa molto minore e con maggiore facilità di Stalin. E il
maoismo, come lo stalinismo, rifletté l’arretratezza del suo ambiente
nativo, arretratezza che la rivoluzione avrebbe potuto digerire e
superare soltanto in un lungo periodo di tempo. L’alleanza, pur con
tutta la sua ambiguità, portò benefìci vitali a entrambe le parti.
Stalin non aveva ottenuto soltanto l’adesione cinese al principio
dell’esclusiva supremazia sovietica nel campo socialista; aveva anche
acquisito, mediante speciali società azionarie sovietico-cinesi,
una influenza diretta sulla condotta degli affari economici della Cina.
Era inevitabile che queste società miste urtassero la suscettibilità di
molti cinesi ai quali apparivano come nuove versioni delle antiche
concessioni occidentali. Eppure, grazie all’aiuto sovietico, la nuova
Cina non era così isolata nel mondo come lo era stata la
Russia bolscevica negli anni dopo il 1917. Il blocco occidentale non le
poteva imporre i disagi che aveva imposto alla Russia. La Cina, da
principio, non fu ridotta, come lo era stata la Russia, a dover contare
soltanto sulle sue risorse che erano disperatamente inadeguate.
L’assistenza sovietica in materia di ingegneria e di gestione scientifica
e l’addestramento, da parte dell’URSS, di specialisti e di altri
lavoratori cinesi, facilitò l’avvio dell'industrializzazione della Cina, le
alleviò il gravame dell'accumulo iniziale di beni e affrettò la sua
ripresa. Di conseguenza la Cina non dovette pagare, per avviarsi al
socialismo, l’alto prezzo che aveva pagato la Russia, sebbene i cinesi
partissero da livelli molto più bassi di sviluppo economico e culturale.
Il governo di Mao non fu costretto a incidere così profondamente nel
reddito dei contadini come aveva dovuto fare Stalin, per costituire le
fibre vitali dell’industrializzazione; e nemmeno dovette tenere
i consumatori urbani a razioni così basse. Queste circostanze (e altre
ancora delle quali non posso qui occuparmi) spiegano il fatto che nel
primo decennio della rivoluzione i rapporti sociali e politici,
specialmente quelli fra città e campagna, fossero meno tesi in Cina di
quanto lo fossero stati in Russia.
Non sembrava che ci fosse nulla per impedire una più stretta
associazione fra le due potenze, specialmente quando, dopo la morte
di Stalin, i suoi successori sciolsero le società azionarie miste,
rinunciarono al dominio diretto e soppressero quasi tutte le condizioni
umilianti che Stalin aveva collegate all’aiuto. I tempi sembravano
davvero propizi alla creazione di qualcosa come una grande comunità
politica socialista estendentesi dai mari della Cina all’Elba. In
tale comunità un terzo dell’umanità avrebbe programmato
congiuntamente il proprio sviluppo economico-sociale sulla base di
una larga divisione regionale del lavoro e di un intenso scambio di
beni e di servizi. Il socialismo avrebbe finalmente cominciato a
trasformarsi in un « evento internazionale ».
Senza dubbio un’impresa così ambiziosa avrebbe incontrato un
mare di difficoltà, sorgenti dalle vaste discrepanze tra le strutture
economiche e i livelli di vita, e fra i livelli di civiltà e le tradizioni
nazionali delle molte nazioni partecipanti. Il profondo distacco fra gli
abbienti e i non abbienti, la parte più pesante dell’eredità che la
rivoluzione socialista ha ricevuto dal passato, si sarebbe fatto sentire
in ogni caso. I non abbienti, che da principio sarebbero stati i
cinesi, inevitabilmente avrebbero fatto pressioni per l’uguaglianza dei
livelli economici e degli standard di vita in seno alla comunità. E
inevitabilmente queste loro domande avrebbero urtato contro le
crescenti attese dei consumatori dell’Unione Sovietica, della
Cecoslovacchia e della Germania orientale. Ma non sarebbero stati
ostacoli insuperabili per un serio tentativo socialista di trascendere
economicamente lo Stato nazionale. Un’ampia divisione del lavoro e
scambi intensi avrebbero certamente assicurato
vantaggi considerevoli a tutti i membri della comunità; si sarebbe
potuto economizzare sulle risorse, risparmiare energie, creare nuovi
margini di ricchezza e un più largo spazio economico per tutti.
Non c’era niente che si opponesse a questo programma se non
l'inerzia dell’autosufficienza nazionale e l’arroganza burocratica.
Spiegando come il modo di pensare di ogni burocrazia sia legato allo
Stato nazionale, sia da esso foggiato e limitato, ho detto prima che
nemmeno il diffondersi della rivoluzione avrebbe potuto guarire la
politica stalinista dall’egoismo nazionale e dall’isolazionismo
ideologico; e che di questi mali la politica dei successori di Stalin è
ancora oggi l’erede. Anche se il concetto del « socialismo in un solo
paese » ha ormai perso da molto tempo qualunque rilievo, lo stato
d’animo che lo accompagna, la maniera di pensare e lo
stile dell’azione politica ad esso ispirato ancora oggi sopravvivono. In
nessuna questione questo fatto si è dimostrato vero in modo tanto
impressionante quanto nei rapporti russo-cinesi. Qui farò riferimento
soltanto a una vicenda in quella sfera, e cioè alla sospensione
subitanea da parte del governo di Khrusciov, nel luglio del 1960, di
tutti gli aiuti economici alla Cina e al richiamo dalla Cina di tutti gli
specialisti, i tecnici e gl’ingegneri sovietici. Il colpo che questa
decisione rappresentò per la Cina fu probabilmente molto più crudele
di quanto non sia stato, ad esempio, l’urto breve e violento
dell’intervento armato sovietico in Ungheria. Poiché gli specialisti e gli
ingegneri avevano ricevuto ordine di privare i cinesi di tutti i piani di
costruzione, dei modelli e dei progetti sovietici, in un colpo solo
un grande numero di imprese industriali cinesi fu ridotto
all’immobilità. I cinesi avevano investito forti mezzi nelle fabbriche e
negli impianti che erano in costruzione; questi investimenti
rimanevano congelati. Masse di macchinario installato a metà e di
costruzioni non finite venivano lasciate ad arrugginire e andavano in
rovina. Per una nazione così povera, che solo allora cominciava ad
equipaggiarsi, questa fu una perdita disastrosa. Per quasi cinque anni
l’industrializzazione della Cina fu interrotta; fu rallentata per un
periodo molto più lungo. Milioni di lavoratori furono condannati
all’ozio e alle privazioni, e dovettero riprendere la strada verso i loro
villaggi in un tempo in cui questi soffrivano per le alluvioni, la siccità e
i raccolti scarsi. Non posso fare a meno di ricordare, a questo
proposito, la straordinaria lungimiranza con cui Lenin nel 1922, in uno
dei suoi ultimi scritti, si preoccupava degli effetti che avrebbero
potuto avere un giorno i comportamenti dello dzerzhymorda, lo
sciovinista e il prepotente burocrate della grande Russia, « fra quelle
centinaia di milioni di asiatici che, nel prossimo futuro, si porteranno
sul fronte della scena storica ».
I maoisti hanno ripagato i russi con la stessa moneta, quella
dell’egotismo nazionale. Ciò che abbiamo sentito dalla Cina dopo di
allora è stato sempre meno una discussione razionale intorno ai fini e
ai mezzi del socialismo, e sempre più il grido dell’orgoglio nazionale
offeso e infuriato, il grido dell’umiliazione subita. Il trauma del 1960
ha smosso e portato alla superficie dello spirito maoista tutti gli
antichi e celati risentimenti contro i russi. Esso ha anche portato
in evidenza violentemente alcuni dei suoi tratti più negativi,
specialmente la presunzione orientale e il disprezzo per l’Occidente, di
cui ha finito per vedere come parte integrante l’Unione Sovietica.
Al fondo del conflitto stanno i diversi atteggiamenti delle due
potenze nei confronti dello status quo internazionale. Durante tutti
questi anni i russi hanno continuato, come sempre, a cercare la loro
sicurezza nazionale dentro lo status quo internazionale. Credo che sia
ormai chiaramente dimostrato che questa politica non è stata una
innovazione dei successori di Stalin, non è stata quell’impresa del «
revisionismo khruscioviano » che i maoisti denunciano. Il revisionismo
è di origine stalinista e risale agli anni venti e al « socialismo in un
solo paese ». Da allora in poi la politica sovietica sempre ha cercato di
evitare a tutti i costi qualunque profondo e rischioso impegno nelle
lotte di classe e nei conflitti sociali e politici del mondo esterno.
Questa è stata, fra tutti i vari motivi e fra tutte le mutevoli circostanze
dei tempi, la sua unica costante preoccupazione. A questa politica
Stalin aveva subordinato la strategia e la tattica del Comintern
durante venti anni; e in seguito, nel periodo fra il 1943 e il 1953, tutti
gli interessi di tutti i partiti comunisti. Nei riguardi della Cina, Stalin
batté tutti i record del « revisionismo », prima nel 1927, poi nel 1948.
Nella sua ricerca della sicurezza egli cercò sempre di preservare e
persino di stabilizzare ogni esistente equilibrio internazionale del
potere. Poiché operava in un’epoca di violenti spostamenti e
cambiamenti, Stalin dovette adattare la sua politica a un sempre
nuovo status quo; e questo fece ripetute volte, in una maniera
essenzialmente conservatrice. Negli anni trenta adattò la sua politica
e quella dei fronti popolari, alla difesa del sistema di Versailles,
quando questo fu minacciato dal nazismo. Fra il 1939 e il 1941 « si
adattò » al predominio del Terzo Reich in Europa. E finalmente
ristrutturò la sua politica ai fini della conservazione dello status quo
creato dai patti di Yalta e di Potsdam. È ancora questo status quo, o
ciò che di esso è sopravvissuto, che i successori di Stalin cercano di
rafforzare contro le forze che tentano di infrangerlo dall’interno.
Per la nuova Cina questo status quo è però necessariamente
inaccettabile. Esso risale al tempo che precede la rivoluzione cinese e
si basa sull'implicito riconoscimento del predominio americano
nell’area del Pacifico. Non tiene in considerazione la rivoluzione
cinese e le sue conseguenze. Questo è lo status quo nel quale la
Cina rimane la fuorilegge della diplomazia internazionale; nel quale
essa è esclusa dalle Nazioni Unite, bloccata dalla flotta e dalle forze
aeree americane, circondata dalle basi militari americane e soggetta
al boicottaggio economico. Mosca, appellandosi ai pericoli di una
guerra nucleare, si preoccupa di stabilizzare questo status quo con
l’imporre, se necessario, una tacita tregua della lotta di classe e delle
« guerre di liberazione » antimperialiste. La Cina ha invece tutto
l’interesse a incoraggiare, entro certi limiti, quelle forze, in Asia e
altrove, che sono ostili allo status quo. Non ha nessun interesse a
imporre qualsiasi tregua della lotta di classe e delle guerre di
liberazione. Ne consegue un’incompatibilità fondamentale fra la
politica russa e quella cinese. Di qui l’aperta disputa, in parte vera ma
in parte falsa, sul revisionismo. Di qui l’accusa che i russi, quando
cercano un accomodamento con l’Occidente, si allineano con
l’imperialismo americano contro la rivoluzione cinese e contro i popoli
tuttora oppressi dall’imperialismo. Di qui la finale contestazione
cinese della validità dell’egemonia russa nel campo socialista, e la
pretesa maoista di assumere quella egemonia.
Tuttavia nel maoismo sembra coesistano due anime: una
internazionalista, l’altra apparentemente piena di presunzione
orientale. La loro opposizione allo status quo e alla politica di potenza
della Russia ha indotto i maoisti ad assumere una posizione radicale e
a lanciare contro Mosca le parole d’ordine e gli slogan
dell’internazionalismo rivoluzionario proletario. Ma la loro stessa
tradizione, la loro esperienza, la loro profonda immersione
nell’arretratezza dell’ambiente nazionale, il loro recente ed esaltato
orgoglio dello Stato nazionale, il premio conquistato nella loro lotta
epica, la mancanza di profonde radici nella classe operaia o in una
qualunque autentica tradizione marxista, tutto questo li predispone a
una ristrettezza mentale nazionale e a un sacro egoismo altrettanto
intenso quanto quello stalinista; e così anch’essi tendono a
subordinare gl’interessi dei comunisti o dei movimenti rivoluzionari
stranieri alla loro ragion di Stato e alla loro politica di potenza.
Perfino l’immagine cinese del socialismo porta un’impronta stalinista:
è l’immagine del socialismo in un solo paese, circondato dalla Grande
Muraglia. 2
È ormai chiaro quanto ferocemente il maoismo sia stato lacerato
dalle sue stesse contraddizioni, e come il conflitto con l’Unione
Sovietica abbia fatto esplodere le sue tensioni interne. L’« epicentro
della rivoluzione » cinese propaga nuove convulsioni che scuotono
l’intera società cinese, toccano l'Unione Sovietica, si propagano nel
resto del mondo. Che cosa produrranno queste scosse? Un regime
che, come promettono gli ispiratori delle cosiddette guardie rosse,
sarà più ugualitario, meno burocratico, controllato in modo più diretto
dalle masse popolari, in una parola un regime più socialista di quello
sotto il quale è vissuta l’Unione Sovietica? Una rivoluzione rinascente
e purificata? O forse questo colossale sconvolgimento che
sta avvenendo sotto i nostri occhi, non è che una di quelle convulsioni
irrazionali, tipiche della rivoluzione borghese, quando uomini e partiti
sono incapaci di controllare le oscillazioni violente del pendolo
politico? Le guardie rosse che affollano da molti mesi le piazze e le
strade delle città cinesi, sono i nuovi enragés o « gli scavatori e
livellatori » del nostro secolo? E alla fine vinceranno? Oppure al
termine del lungo parossismo di fervore e di attività utopistica
cadranno esausti e lasceranno il campo a un salvatore militare della
legge e dell’ordine? O forse tutti i nostri precedenti storici sono
insignificanti se riferiti a questo dramma? In ogni caso il conflitto
tra gli aspetti borghesi e quelli socialisti della rivoluzione non è ancora
risolto; è molto più profondo di quanto non lo sia stato in Russia.
Da una parte l’elemento borghese appare più vasto in Cina,
rappresentato com’è dalla classe contadina che ancora rappresenta i
quattro quinti della nazione, e dai numerosi e influenti superstiti del
capitalismo urbano. E d'altra parte la spinta antiburocratica ed
ugualitaria della tendenza socialista sembra più grande di quanto non
sia stata in Russia da molto tempo. Gli antagonismi e le collisioni che
coinvolgono immense masse popolari, si sviluppano con una
spontaneità tempestosa quale l’Unione Sovietica non ha più veduto
dopo i suoi primi giorni, una spontaneità che ci ricorda le folle
turbolente di Parigi nel 1794, nel periodo delle lotte intestine dei
giacobini. Comunque possa concludersi questo spettacolo
impressionante e verso quali nuove svolte possa forzare tanto l’Unione
Sovietica quanto la Cina, una lezione sembra balzar fuori chiaramente
da questi avvenimenti; l’abolizione del dominio dell’uomo sull’uomo
non può più essere un evento esclusivamente cinese, come non poteva
essere un evento unicamente russo. Potrà avvenire, se mai avverrà,
soltanto come un evento veramente internazionale, come un
fatto della storia universale.
CAPITOLO SESTO

CONCLUSIONI E PREVISIONI

PER concludere questa scorsa su mezzo secolo di storia sovietica,


dobbiamo porci nuovamente la domanda che ci siamo fatta in principio
: La rivoluzione russa ha soddisfatto le speranze che ha suscitate? E
qual è il suo significato per il nostro tempo e per la nostra
generazione? Vorrei poter rispondere alla prima di queste domande
con un semplice ed enfatico sì, e concludere le mie osservazioni in un
tono adeguatamente trionfale. Purtroppo non posso farlo. Tuttavia una
conclusione scoraggiante e pessimistica non sarebbe ugualmente
giustificata. La rivoluzione russa è tuttora, e in più di un senso, una
rivoluzione incompiuta. Il suo svolgimento è tutt’altro che semplice. Si
compone di fallimenti e di successi, di speranze frustrate e di speranze
realizzate, e chi può commisurare tutte queste speranze fra
loro? Dov’è la bilancia sulla quale poter pesare le realizzazioni e le
frustrazioni di un’epoca così grande, e stabilire le loro rispettive
proporzioni? Ciò che è evidente è l’immensità e il carattere inaspettato
così del successo come dell’insuccesso, la loro interdipendenza e i
flagranti contrasti. Viene alla mente il detto di Hegel, tuttora valido,
che « la storia non è il regno della felicità »; che « i periodi di felicità
sono le sue pagine vuote », poiché « sebbene nella storia non
manchino le soddisfazioni, le quali derivano dalla realizzazione di
grandi finalità al di là di qualsiasi interesse particolare, queste
soddisfazioni non sono le stesse che d’abitudine vengono descritte
come felicità». Certamente questi cinquantanni non fanno parte delle
pagine vuote della storia.
« La Russia è una grande nave destinata a grandi navigazioni »,
disse Alexander Blok, il poeta, in una famosa frase nella quale
sentiamo adombrato un intenso orgoglio nazionale. Un russo che
osservi la storia di questo mezzo secolo con occhi di nazionalista, che
veda la rivoluzione come un evento soltanto russo, avrebbe
buone ragioni di sentirsi anche più fiero. La Russia è oggi una nave
ancora più grande, salpata per una navigazione molto più lontana. In
termini di semplice potenza nazionale (e molta gente in tutto il mondo
pensa ancora in questi termini), il bilancio, per l’Unione Sovietica, è
del tutto soddisfacente. I nostri governanti e uomini politici non
possono considerarlo altrimenti che con invidia.
Eppure mi sembra che pochi russi di questa generazione lo
contemplino con serena esultanza. Molti sono consapevoli del fatto
che l’ottobre del 1917 non fu un evento soltanto russo; e persino quelli
che non sono di quest’opinione, non vedono necessariamente la
potenza nazionale come l’ultima ratio della storia. Per la maggior
parte i russi sembrano consapevoli tanto delle miserie quanto della
grandezza di questa epoca. Osservano l'impulso straordinario
della loro espansione economica, il sorgere di un grandissimo numero
di vaste e modernissime fabbriche, i crescenti complessi di scuole e di
istituti di educazione, le conquiste della tecnologia sovietica, i voli
spaziali, l’imponente estensione di tutti i servizi sociali e così di
seguito; e hanno il senso della vitalità, dello slancio e della
fiducia della loro nazione. Ma sanno anche che per la maggior parte di
loro la vita di ogni giorno è ancora una logorante schiavitù che irride
agli splendori di una delle superpotenze del mondo.
Per dare una sola indicazione: nonostante si costruiscano abitazioni
su grandissima scala, lo spazio medio di abitazione per persona è
ancora meno di sei metri quadrati. Considerando la prevalente
inuguaglianza, questo significa che per molti è soltanto di quattro o
cinque metri quadrati o anche meno. La media è rimasta quella che
era alla fine dell’èra di Stalin. Questo non sorprende se si tiene a
mente che soltanto negli ultimi quindici anni la massa degli abitanti
delle città in Russia è cresciuta di un numero equivalente all’intera
popolazione dell’Inghilterra. Tuttavia tali statistiche offrono scarso
sollievo o consolazione alla gente che soffre di un così
terribile affollamento; e sebbene la situazione sia destinata a
migliorare gradualmente, questo miglioramento prenderà un
lunghissimo tempo. La sproporzione tra lo sforzo e i risultati
ottenuti, esemplificata dalla disponibilità attuale delle abitazioni, è
caratteristica di molti aspetti della vita sovietica. L’Unione Sovietica
ha dovuto correre molto velocemente in troppi campi, una corsa
davvero senza respiro, per accorgersi alla fine che non aveva fatto un
solo passo avanti e per ritrovarsi immobile.
I viaggiatori occidentali, colpiti dalla preoccupazione intensa e
quasi ossessiva dei russi per le cose materiali e per le comodità della
vita, parlano spesso, a questo proposito, dell’« americanizzazione »
della mentalità sovietica. Eppure, naturalmente, lo sfondo di questa
preoccupazione è diverso. Negli Stati Uniti l’intero « modo di vivere »
e l’ideologia dominante incoraggiano la preoccupazione del possesso
di beni materiali mentre la pubblicità commerciale lavora
furiosamente per eccitarla in modo costante, così da creare o
sostenere un’artificiale domanda di beni di consumo e impedire
un’eccessiva produzione. La gran voglia dei sovietici di beni materiali
riflette decenni di scarsa produzione e di limitati consumi, la
stanchezza per il continuo bisogno e per le privazioni, e il sentimento
popolare che questi mali possono finalmente essere vinti. Quest’umore
popolare obbliga i governanti a occuparsi più di quanto non fossero
abituati a fare delle necessità del popolo e a soddisfarle; in questi
limiti è un fattore di progresso che aiuta a modernizzare e a civilizzare
il livello di vita nazionale e lo « stile » di vita. Ma in quanto il modo di
vivere sovietico non è basato sull’accumulo individuale di ricchezza,
l’« americanizzazione » è superficiale e con molta probabilità riguarda
soltanto la presente fase di lento trapasso dalla penuria
all’abbondanza.
La vita spirituale e politica dell’Unione Sovietica è anche
variamente influenzata dalla grandezza e dalle miserie di questo
secolo. Al confronto di quel regno dell’orrore e del terrore che
l’Unione Sovietica era, diciamo, quindici anni fa, essa è ora quasi un
paese di libertà. Sono scomparsi i campi di concentramento di
una volta, i cui prigionieri morivano come le mosche senza sapere per
che cosa erano stati puniti. È scomparsa quella paura onnipresente
che si era diffusa in tutta la nazione, facendo sì che ogni uomo e ogni
donna temessero di comunicare perfino con amici e parenti, e che
aveva trasformato l’Unione Sovietica in un paese virtualmente
inaccessibile allo straniero. La nazione va ricuperando il suo pensiero
e la sua parola. Il processo è lento. Non è facile liberarsi da abitudini
che si sono formate durante decenni di disciplina monolitica. Ma
anche così il cambiamento è notevole. I periodici sovietici sono
oggi accesi da ogni sorta di controversie drammatiche, anche se
spesso a bassa voce; e la gente ordinaria non è molto inibita
nell’esprimere i propri pensieri e sentimenti politici genuini a gente
completamente sconosciuta e anche a turisti provenienti da paesi ostili
la cui curiosità non è sempre innocua. Tuttavia il cittadino sovietico
spesso si inquieta per la tutela burocratica relativamente mite sotto la
quale oggi vive, mentre non si era mai agitato contro il dispotismo di
Stalin. Egli ha il sentimento che anche la sua libertà spirituale sia
ristretta a qualcosa che somiglia ai suoi miserabili sei metri
quadrati. È uno dei tratti sublimi del carattere umano che gli uomini
non siano mai contenti di ciò che hanno realizzato, specialmente
quando le loro realizzazioni sono dubbie o si riducono a mezzi
guadagni; tale scontentezza è la forza propulsiva del progresso ma
può anche diventare, come talvolta diventa nell’Unione Sovietica, una
fonte di frustrazioni e persino di sterile cinismo.
Anche nella loro vita politica i russi, troppo spesso, hanno la
sensazione di correre molto forte per rimaner sempre fermi. La mezza
libertà che l’Unione Sovietica ha conquistato dopo i giorni di Stalin
può essere anche più esasperante di una completa ed ermetica
tirannia. Recenti scritti sovietici, alcuni pubblicati in URSS e altri
all’estero, hanno espresso la mortificazione causata da questo stato di
cose, il pessimismo cupo che talvolta fa nascere e perfino uno
stato d’animo del tipo «aspettando Godot ». Ma anche qui le
somiglianze fra i fenomeni sovietici e quelli occidentali possono essere
ingannevoli. Molto raramente la disperazione che permea non poche
opere recenti della letteratura sovietica si ispira a un qualsiasi senso
metafisico dell’« assurdità della condizione umana ». Abbastanza di
frequente questa disperazione esprime, in modo allusivo o altrimenti,
una specie di stupefatta irritazione per le sciagurate abnormità della
vita politica sovietica e specialmente per le ambiguità della
destalinizzazione ufficiale. Lo spirito di tali scritti è più attivo, satirico
e militante di quello che ha prodotto le recenti variazioni occidentali
sul vecchio tema della vanitas vanitatum et omnia vanitas.
Il fallimento della destalinizzazione ufficiale è la causa principale
del diffuso malessere. È trascorso più di un decennio dal giorno in
cui Khrusciov, al ventesimo congresso, denunciò le malefatte di Stalin.
Un atto che avrebbe avuto senso soltanto come preludio di
un’autentica chiarificazione dei molti interrogativi sollevati da esso e
di un’aperta discussione a livello nazionale sull’eredità dell’èra
staliniana. Ma non è stato così.
Khrusciov, e in generale il gruppo degli uomini al potere, anziché
aprire il dibattito erano fortemente ansiosi di impedirlo. Volevano che
il prologo fosse anche l’epilogo della destalinizzazione. Le circostanze
li obbligarono a dare inizio al processo; questo era diventato
una necessità imperiosa della vita nazionale. Poiché gli esponenti e
persino i seguaci dell’opposizione antistalinista erano stati sterminati,
soltanto gli uomini della cerchia di Stalin potevano inaugurare la
destalinizzazione. Ma questo compito non andava loro a genio; anzi
era contrario alle loro abitudini mentali e ai loro interessi. Potevano
assolverlo soltanto controvoglia e in modo fittizio. Essi sollevarono un
lembo del sipario sull’epoca di Stalin, ma non poterono sollevare tutto
il sipario. E così la crisi morale aperta dalle rivelazioni di Khrusciov
rimane irrisolta. Le sue rivelazioni causarono sollievo e scandalo,
confusione e vergogna, smarrimento e cinismo. Fu un sollievo per la
nazione essere liberata dall’incubo dello stalinismo; ma fu
sconvolgente constatare quanto profondamente l’incubo avesse
corroso il corpo politico del paese. Certamente molte famiglie avevano
sofferto per il terrore stalinista e lo avevano conosciuto nei suoi più
minuti particolari; ma soltanto ora, per la prima volta, era permesso
dare un’occhiata a tutto il quadro e vedere le sue vere
dimensioni nazionali. Tuttavia una semplice occhiata creava
perplessità. Ed era un’umiliazione per loro penosa dover ricordare
come la nazione fosse caduta sotto il terrore senza reagire, e come
docilmente lo aveva sopportato. Infine, nient’altro che sgomento e
cinismo potevano scaturire dal fatto che le atroci rivelazioni erano
state fatte dai complici e dagli assistenti di Stalin, i quali, dopo aver
mostrato il grande scheletro nascosto nel loro armadio, avevano subito
sbattuto la porta e non volevano dire di più.
La rivelazione era stata troppo grave e importante per poter essere
trattata in questo modo, specialmente in vista delle sue strette
ripercussioni sulla politica corrente. La destalinizzazione ufficiale creò
nuove divisioni e accentuò le vecchie. I « liberali » e i « radicali », i
comunisti di « destra » e di « sinistra », non potevano che insistere per
un regolamento di conti con l’èra di Stalin, non reticente ma su piano
nazionale, e per una completa rottura con essa. I criptostalinisti,
trincerati nella burocrazia, hanno cercato di salvare quanto più
possibile dei metodi di governo stalinisti e della leggenda di Stalin.
Al di fuori della burocrazia, specialmente fra gli operai, un buon
numero di persone sono state così offese dall’ipocrisia della
destalinizzazione ufficiale che si sono quasi riconvertite al culto di
Stalin, oppure non vogliono più sentirne parlare e preferirebbero che
l’intera faccenda fosse sepolta una volta per tutte.
Dietro queste divisioni c’è il fatto che la società sovietica non
conosce se stessa e che ne è intensamente consapevole. La storia di
questo mezzo secolo è un libro chiuso perfino per l’intellighenzia
sovietica. Come chi fosse stato lungamente colpito da amnesia e stesse
appena riprendendosi, la nazione, non conoscendo il suo recente
passato, non capisce il suo presente. Decenni di falsificazioni staliniste
hanno causato quest’amnesia collettiva; e le mezze verità con le quali
il ventesimo congresso ha cominciato a curarla bloccano ogni ulteriore
progresso. Ma presto o tardi l’Unione Sovietica dovrà prendere
conoscenza di questo mezzo secolo, se la sua consapevolezza politica
si dovrà sviluppare e cristallizzare in forme nuove e positive.
Questa è una situazione di speciale interesse per gli storici e per i
teorici della politica; essa offre un raro e forse unico esempio della
stretta interdipendenza fra la storia, la politica e la consapevolezza
sociale. Gli storici spesso discutono se la coscienza del passato
contribuisca in qualche modo alla saggezza degli uomini di Stato e
all’intelligenza politica della gente comune. Alcuni credono di sì; altri
sono dell’opinione espressa una volta da Heine, quando disse che
la storia ci insegna che essa non insegna nulla. In una società classista
il pensiero politico, diretto dagli interessi di classe o di gruppo, si
avvantaggia dello studio del passato soltanto entro i limiti richiesti o
permessi da quell’interesse. Persino i giudizi degli storici sono
condizionati dallo sfondo sociale e dalle circostanze politiche.
D’abitudine « le idee della classe dirigente » tendono ad essere « le
idee dominanti di un’epoca ». In certe epoche queste idee favoriscono
uno studio più o meno obiettivo della storia, e il pensiero politico si
arricchisce di conseguenza; in altre esse agiscono come fattori
potentemente inibitori. Nell’uno e nell’altro caso nessun gruppo
dirigente e nessuna società, se è soltanto poco più che civilizzata a
metà, può funzionare senza possedere qualche forma
di consapevolezza storica che la soddisfi; e questa soddisfazione non ci
sarà senza che la maggior parte dei membri dei gruppi dirigenti e
della società al di fuori di essi siano convinti che la loro visione del
passato, specialmente del passato recente, non è soltanto un tessuto di
falsità, ma corrisponde a fatti e ad avvenimenti autentici. Nessun
gruppo dirigente può vivere di solo cinismo. Statisti, capi politici e
anche la gente comune hanno bisogno di possedere il sentimento
soggettivo della giustizia morale di ciò che essi rappresentano; ciò che
è moralmente giusto non può basarsi su distorsioni o su
falsificazioni storiche. E sebbene le distorsioni e persino le pure
falsificazioni siano penetrate nel modo di pensare di ogni nazione, la
loro reale efficacia dipende dal fatto che la nazione le accetti come
verità.
Nell’Unione Sovietica la crisi morale degli anni seguenti all’èra di
Stalin consiste in un profondo turbamento della consapevolezza
storica e politica della nazione. Dopo il ventesimo congresso la gente
si è accorta di quanta parte di ciò che credeva fosse stata fabbricata
con falsificazioni e miti. I russi vogliono conoscere la verità, ma la via
per raggiungerla viene sbarrata. I loro governanti hanno detto che
l’intera storia della rivoluzione è stata praticamente falsificata; ma non
hanno aperto agli occhi della gente la via della verità. Per dare ancora
qualche esempio: l’ultimo grande scandalo dell’èra di Stalin, la
cosiddetta congiura dei medici, è stata ufficialmente denunciata
dicendo che l’accusa di complotto era fondata su dati falsi. Ma chi
aveva architettato quest’accusa? Stalin ne era il solo responsabile? E a
quale fine mirava? Questi interrogativi sono tuttora senza risposta.
Khrusciov ha fatto capire che all’Unione Sovietica potevano essere
risparmiate le grandi perdite sofferte nell’ultima guerra, se non fosse
stato per gli errori e gli sbagli di calcolo di Stalin. Tuttavia questi «
errori » non sono stati tema di un aperto dibattito. Il patto nazi-
sovietico del 1939, ufficialmente, è ancora tabù. La gente è stata
informata sugli orrori dei campi di concentramento e sulle confessioni
prefabbricate e forzate con le quali le « grandi purghe » erano state
presentate al pubblico. Ma le vittime delle « purghe », tranne poche
eccezioni, non sono state riabilitate. Nessuno conosce con precisione il
numero dei deportati nei campi di concentramento e quanti di loro
morirono, quanti furono massacrati e quanti sono sopravvissuti.
Questa congiura del silenzio nasconde le circostanze della
collettivizzazione forzata. Ciascuna di queste domande è stata posta,
ma nessuna di esse ha ottenuto risposta. Persino in quest’anno di
celebrazioni, la maggior parte dei capi del 1917 non
vengono nemmeno nominati; i nomi della maggior parte dei membri
del Comitato centrale che diresse l’insurrezione d’ottobre sono tuttora
impronunciabili. Alla gente si chiede di celebrare il
grande anniversario, ma non può leggere un solo resoconto, più o
meno fedele, dell’evento che deve celebrare. (Né può procurarsi una
qualsiasi storia della guerra civile.) L’edificio ideologico dello
stalinismo è stato fatto saltare; ma con le sue fondamenta sparse, il
suo tetto scoperchiato e i suoi muri anneriti che minacciano di
crollare di schianto, l’edificio sta ancora in piedi; e si chiede alla gente
di viverci dentro.
Al principio di questa serie di conferenze feci allusione alle
benedizioni e alle maledizioni della continuità del regime sovietico. Ci
siamo intrattenuti con una certa larghezza sui lati positivi; ne vediamo
ora anche i malanni. Gli aspetti irrazionali della rivoluzione, nascosti
dalla sua continuità, sopravvivono e resistono insieme a quelli
razionali. È possibile separarli gli uni dagli altri? È chiaro che sarebbe
interesse vitale dell’Unione Sovietica eliminare le irrazionalità e
liberare le sue forze creative dalla loro morsa. L’attuale assurda
situazione alimenta una disillusione intensa; e a causa di questa le
miserie della rivoluzione, agli occhi del popolo, possono oscurare la
sua grandezza. Quando ciò accadde nelle rivoluzioni del passato,
ne risultò la restaurazione. Ma sebbene la restaurazione fosse un
tremendo ritorno indietro, una vera tragedia per le nazioni che la
subirono, c’erano in essa alcuni elementi di compensazione: la
restaurazione dimostrò ai popoli disillusi dalla rivoluzione quanto
fosse inaccettabile l’alternativa reazionaria. I Borboni e gli Stuart,
tornati sul trono, insegnarono al popolo, molto meglio di quanto
potessero farlo i puritani, i giacobini o i bonapartisti, che non era
possibile ritornare al passato; che il lavoro fondamentale della
rivoluzione era irreversibile; e che doveva essere difeso in avvenire.
Involontariamente, in tal modo, la restaurazione riabilitò la
rivoluzione, o almeno le sue realizzazioni essenziali e razionali.
Nell’Unione Sovietica, come sappiamo, la rivoluzione è
sopravvissuta a ogni possibile agente di restaurazione. Tuttavia essa
sembra gravata da una massa di disillusioni accumulate, e persino
dalla disperazione, che in altre circostanze storiche avrebbe potuto
essere la forza propulsiva di una restaurazione. Certe volte l’Unione
Sovietica si presenta come imbevuta delle potenzialità morali e
psicologiche di una restaurazione, le quali però non riescono a
diventare un’attualità politica. Buona parte degli eventi di questi
cinquant'anni sono totalmente screditati agli occhi della gente; e
nessun Romanov li potrebbe riabilitare. La rivoluzione deve riabilitare
se stessa coi propri sforzi.
La società sovietica non può adattarsi per molto tempo ancora a
rimanere un semplice oggetto della storia e a dipendere dai capricci di
alcuni autocrati o dalle decisioni arbitrarie di qualche oligarchia. Essa
ha bisogno di riacquistare il senso della padronanza di se stessa.
Ha bisogno di ottenere un controllo sui suoi governi e di trasformare
lo Stato, che per tanto tempo ha dominato sulla società, in uno
strumento della volontà e dell’interesse nazionale democraticamente
espressi. Ha bisogno, anzitutto, di ristabilire la libertà di espressione e
di associazione. Questa è un’aspirazione modesta se confrontata con
l’ideale di una società senza classi e senza Stato; ed è paradossale il
fatto che il popolo sovietico debba ora affaticarsi a raggiungere quelle
libertà elementari che già figuravano in tutti i programmi liberali
borghesi, programmi che il marxismo giustamente sottopone a una
critica spietata.
In ogni caso, in una società postcapitalistica, la libertà di
espressione e di associazione deve assolvere una funzione
radicalmente diversa da quella che assolveva nel capitalismo. Non
abbiamo certo bisogno di accentuare l’importanza essenziale che essa
ha avuto per il progresso, perfino sotto il capitalismo. Tuttavia nella
società borghese può essere soltanto una libertà formale. Tale la
rendono i prevalenti rapporti di proprietà, poiché le classi possidenti
esercitano un controllo press’a poco monopolistico su quasi tutti i
mezzi di formazione dell’opinione. Le classi lavoratrici e i loro
esponenti intellettuali riescono a impossessarsi, nel migliore dei casi,
soltanto di strumenti marginali per esprimersi socialmente e
politicamente. La società, essendo già per suo conto controllata dalla
proprietà, non può controllare efficacemente lo Stato; e tanto più
generosamente le si permette di abbandonarsi all’illusione di
controllarlo, purché il mantenimento di tale illusione non sia causa di
troppi imbarazzi e di troppe spese per la borghesia. In una società
come quella sovietica, la libertà di espressione e di associazione non
può avere un carattere così formale e illusorio: essa è reale oppure
non esiste affatto. Essendo stato distrutto il potere della
proprietà, soltanto lo Stato, ossia la burocrazia, domina la società: e il
suo dominio è fondato unicamente sulla soppressione della libertà
popolare di criticare e di fare opposizione. Il capitalismo poteva
permettersi di concedere le franchigie costituzionali alle classi
lavoratrici perché poteva fare assegnamento sul proprio meccanismo
economico per tenerle soggette; la borghesia mantiene la sua
preponderanza sociale anche quando non esercita nessun potere
politico. Nella società postcapitalistica nessun meccanismo economico
automatico mantiene soggette le masse; soltanto la cruda forza
politica può far questo. È ben vero che la burocrazia deriva una parte
della sua forza dalla incontrollata posizione dominante che essa
mantiene nell’economia; ma essa detiene anche questa per mezzo
della forza politica. Senza questa forza non può mantenere la sua
supremazia sociale; e qualunque forma di controllo democratico la
priva di tale forza. Da ciò il nuovo significato e la funzione della libertà
di espressione e di associazione. In altre parole, il capitalismo ha
potuto lottare contro i suoi nemici di classe da molte linee di
difesa, economiche, politiche e culturali, con molte possibilità di
arretramento e di manovra. Una dittatura burocratica postcapitalistica
ha molto minori possibilità; la sua prima linea di difesa, quella politica,
è anche l’ultima. Non fa meraviglia che essa difenda quella linea con
tutta la tenacia di cui è capace.
In ogni caso il rapporto postcapitalistico fra Stato e società è molto
meno semplice di quanto pensino certi critici ultraradicali. A mio
giudizio non si può parlare di nessuna cosiddetta abolizione della
burocrazia. La burocrazia, come lo Stato stesso, non può essere
semplicemente cancellata. L’esistenza di esperti e di gruppi di
impiegati civili di carriera, di amministratori e di dirigenti, fa parte
integrante di una necessaria divisione del lavoro che riflette profonde
differenze e divisioni fra capacità e gradi di educazione diversi, fra
lavoratori qualificati e non qualificati e, fondamentalmente, fra
cervello e muscoli. Queste differenze e queste divisioni stanno
diminuendo, e la loro diminuzione lascia prevedere un tempo in cui
potranno diventare socialmente insignificanti. Ma si tratta di una
previsione ancora relativamente lontana. Ciò che sembra possibile nel
prossimo futuro è che la società possa riacquistare le sue libertà civili
e stabilire un controllo politico sullo Stato. Nello sforzarsi di
raggiungere tale scopo, il popolo sovietico non ripete semplicemente
le vecchie battaglie già combattute dal liberalismo borghese contro
l'assolutismo; piuttosto, riprende e continua la sua grande battaglia
del 1917.
Naturalmente il risultato dipenderà in larga misura dagli
avvenimenti del mondo esterno. L’immensa e per noi tuttora oscura
sollevazione della Cina, non può non riflettersi anche sulla Unione
Sovietica. In quanto concorra a indebolire o a sconvolgere una
struttura burocratica monolitica postrivoluzionaria e liberi forze
popolari emergenti dalle profondità sociali verso una spontanea azione
politica, l’esempio cinese può stimolare analoghi processi attraverso il
confine sovietico. Indubbiamente la Cina, sotto certi aspetti, è più
progredita dell’Unione Sovietica, non foss’altro perché ha potuto
imparare dall’esperienza della Russia e ha potuto evitare qualcuno
degli strambi dirizzoni e delle cantonate di quest’ultima; ed è stata
meno soggetta al consolidamento burocratico. D’altro lato la struttura
sociale ed economica della Cina è primitiva e arretrata; e il maoismo,
nei suoi rituali e nei suoi culti, porta il peso di quest’arretratezza. Di
conseguenza le lezioni che il maoismo si propone di impartire al
mondo, troppo spesso hanno poco o nessun rilievo per i problemi delle
società più altamente sviluppate; e anche quando il maoismo ha
qualcosa di positivo da offrire, lo fa di solito in una maniera
così rigidamente ortodossa e in forme così arcaiche da farci
dimenticare o non vedere troppo facilmente il loro contenuto positivo.
Quando i maoisti cercano di galvanizzare il culto stalinista non fanno
altro che urtare e mettersi contro tutti gli elementi che nell’URSS
sono più aperti all’avvenire. Ma forse il conflitto russo-cinese può
offrirci una lezione importante, ossia che da arroganti oligarchie
burocratiche, incorreggibili nel loro egoismo e nella loro microcefalia
nazionalista, non ci si può attendere che elaborino una soluzione
razionale di questo o di qualsiasi altro conflitto; meno ancora potranno
porre fondamenta stabili per una comunità di popoli socialisti.
Le vicende dell’Occidente hanno contribuito in modo ancora più
decisivo, per il meglio o per il peggio, all’ulteriore evoluzione interna
della Unione Sovietica. Qui possiamo lasciare da parte gli aspetti
diplomatici e militari del problema, frequentemente discussi e più
degli altri evidenti: è infatti abbastanza chiaro quali severe restrizioni
siano state imposte dalla guerra internazionale agli armamenti, allo
sviluppo del benessere e all’ampliamento della libertà nella Unione
Sovietica. Più fondamentale e difficile è il problema della stasi nella
lotta di classe, delle cui origini abbiamo trattato in precedenza. La
stasi è destinata a durare? O è soltanto un fuggevole momento di
equilibrio? L’opinione che sia destinata a durare ha guadagnato molto
terreno recentemente fra i teorici della politica e gli storici
occidentali; molti sono inclini a considerarla come il risultato finale del
conflitto fra capitalismo e socialismo. (Senza dubbio quest’opinione ha
aderenti nell’Unione Sovietica e nell’Europa orientale.)
L’argomentazione viene condotta a diversi livelli sociali, economici e
storici.
Le strutture sociali dell’URSS e degli Stati Uniti, si fa osservare,
partendo da posizioni opposte, si sono sviluppate e mosse l'una verso
fialtra a tal punto che le loro differenze sono sempre più irrilevanti
mentre le somiglianze appaiono decisive. Fra gli altri, il professor John
Kenneth Galbraith espone quest’idea nelle sue Reith Lectures. Egli
parla con molta decisione della « convergenza di struttura nei paesi
di avanzata organizzazione industriale » e passa in rivista i punti
principali di tale convergenza nella società americana. C’è la
supremazia degli elementi direttivi; il divorzio della direzione dalla
proprietà; la continua concentrazione del potere industriale e
l’ingrandimento di dimensioni della sua opera; il graduale estinguersi
del laissez faire e del mercato; la crescente funzione economica dello
Stato; e, di conseguenza, la inevadibile necessità della
programmazione che è richiesta non soltanto per prevenire crisi
e depressioni, ma anche per preservare l’efficienza sociale normale. «
Abbiamo visto », dice il professor Galbraith, « che la tecnologia
industriale ha un imperativo che trascende l’ideologia. » Distruggendo
alcuni malintesi occidentali correnti circa « la rinascita dell’economia
di mercato nell’URSS », il professor Galbraith osserva: « Non c’è
nessuna tendenza da parte dei sistemi sovietico e occidentale a
convergere mediante il ritorno del sistema sovietico al mercato.
Entrambi sono ormai oltre questo punto. Ciò che esiste è una
convergenza percettibile e molto importante verso la stessa forma di
programmazione, sotto l’autorità crescente dell’azienda ».
In questa presentazione la « convergenza » sembra accadere non
tanto a metà strada fra i due sistemi, bensì proprio dentro i confini del
socialismo, e l’immagine che ci si fornisce non rappresenta un
ristagno, ma piuttosto una diagonale risultante dal parallelogrammo
tra le spinte capitalista e socialista. 1
Gli storici trovano un precedente di questa situazione nella lotta fra
la Riforma e la Controriforma.
Il professor Butterfield, uno dei primi espositori di quest’analogia,
fa osservare che all’inizio del loro conflitto il protestantesimo e il
cattolicesimo aspiravano alla vittoria totale; ma che, avendo raggiunto
un punto morto, furono costretti a cercare un accomodamento, a «
coesistere pacificamente » e a contentarsi delle loro rispettive « zone
d’influenza » nella cristianità occidentale.2 Frattanto il loro
antagonismo ideologico iniziale era stato molto ridotto da un processo
di reciproca assimilazione : la Chiesa di Roma accrebbe la sua forza
assorbendo elementi del protestantesimo mentre il protestantesimo,
diventando dogmatico e settario, perdeva molto della sua attrattiva e
somigliava sempre più al suo avversario. In tal modo il ristagno della
lotta diventava infrangibile e definitivo; e tale è anche il punto morto
cui sono giunte le due opposte ideologie del nostro tempo: su questo
punto gli argomenti dei nostri storici e dei teorici politici o economici
convergono.
Quest’analogia storica, pure essendo attraente in alcune delle sue
facce, mostra errori e difetti. Come spesso accade a simili analogie,
essa trascura differenze fondamentali che distinguono fra loro le
epoche storiche. All’epoca della Riforma la società occidentale era
frammentata in una moltitudine di Stati feudali,
semifeudali, precapitalisti e protocapitalisti. La coscienza protestante
svolgeva una parte di primo piano nella formazione dello Stato
nazionale, ma lo Stato nazionale stabilì i limiti estremi delle
sue tendenze unificatrici. L’unificazione della cristianità occidentale
sotto l’egida di una sola Chiesa era un’impossibilità storica. Di fronte
a ciò, la fase tecnologica della società moderna, la sua struttura e i
suoi conflitti, hanno carattere internazionale o addirittura universale;
tendono a soluzioni internazionali o universali. E ci sono pericoli senza
precedenti che minacciano la nostra esistenza biologica. Questi,
soprattutto, premono verso l’unificazione dell’umanità, che non può
essere ottenuta senza un principio integrativo dell’organizzazione
sociale.
Il protestantesimo e il cattolicesimo si affrontavano principalmente
in campo ideologico, ma in fondo c’era il grande conflitto tra il
sorgente capitalismo e il feudalesimo in declino. Il conflitto non si
arrestò in seguito al punto morto raggiunto in sede ideologica e
religiosa. La divisione delle sfere d’influenza fra Riforma e
Controriforma corrispose, molto all’ingrosso, a una divisione fra due
sistemi sociali e a un provvisorio equilibrio fra loro. Col procedere del
contrasto fra i modi di vita feudali e quelli borghesi, la divergenza
assunse nuove forme ideologiche. La più matura coscienza borghese
del diciottesimo secolo si espresse in ideologie secolari, filosofiche e
politiche, non religiose. Il ristagno del conflitto tra protestantesimo e
cattolicesimo si perpetuò, per così dire, ai margini della storia; a tutti i
fini pratici della storia, nella effettiva azione sociale e politica, esso
venne trasceso. Non soltanto il conflitto sociale non si congelò come
facevano le divisioni religiose, ma venne combattuto fino in fondo.
Dopo tutto, il capitalismo ottenne in Europa una vittoria totale. Lo fece
con una grande varietà di mezzi e di metodi, con rivoluzioni dal basso
e rivoluzioni dall’alto, e dopo molti temporanei arresti e parziali
sconfìtte. Perciò, anche nei termini di questa analogia, sembra almeno
prematuro concludere che la presente stasi ideologica fra Oriente e
Occidente significhi la fine del conflitto storico fra capitalismo e
socialismo. Le forme e le espressioni ideologiche dell’antagonismo
possono e debbono variare; ma questo non vuol dire che il suo impeto
sia esaurito o diminuito. Incidentalmente, la storia della Riforma offre
molti avvertimenti contro conclusioni affrettate sui periodi morti delle
ideologie. Quando ci dicono che sono passati centoventi anni dalla
pubblicazione del Manifesto comunista senza che una rivoluzione
socialista abbia vinto in Occidente, volere o no si è costretti a pensare
ai molti avvìi « prematuri » della Riforma e al modo lento in cui
presero forma la sua ideologia e il suo movimento. Più di un secolo
separa Huss da Lutero; e ancora un altro secolo separa Lutero dalla
rivoluzione puritana.
Ma l’analisi marxista della società e le aspirazioni universali della
rivoluzione russa non sono forse state invalidate dalla reciproca
assimilazione degli opposti sistemi sociali? Un certo grado di
assimilazione è innegabile; esso è dovuto alla forza livellatrice
sovrannazionale della tecnologia moderna e alla logica di ogni grande
scontro, che impone ai contendenti identici o simili metodi di azione. I
cambiamenti avvenuti nella struttura della società occidentale
e specialmente in quella americana sono davvero impressionanti. Ma
se li osserviamo attentamente che cosa vediamo? La sempre più
profonda separazione della direzione aziendale dalla proprietà,
l’importanza degli elementi direttivi, la concentrazione del capitale, la
sempre più elaborata divisione del lavoro all’interno di ogni grande
società e tra le società stesse; lo scomparire graduale del mercato e
del laissez faire; l’accrescersi del peso economico dello Stato; la
necessità economica e tecnologica della programmazione. Tutte
queste sono in realtà manifestazioni di quella « socializzazione del
processo produttivo » che, secondo il marxismo, si sviluppa nel
capitalismo. La socializzazione oggi è stata davvero enormemente
accelerata. Nella descrizione di tale processo data da Marx nel
Capitale, egli con grande chiarezza previde precisamente questi
sviluppi e questi rapporti che sembrano così nuovi e così rivoluzionari
agli analizzatori occidentali. Il professor Galbraith non ci ha forse
descritto qualcosa che ci è o dovrebbe esserci familiare, e
precisamente la rapida crescita dell’« embrione del socialismo nel
grembo del capitalismo »? L’embrione sta evidentemente diventando
sempre più grande. Dovremmo perciò concludere che non c’è più
bisogno dell’atto del nascere? I marxisti devono riflettere sul
paradosso che mentre in Russia la levatrice della rivoluzione è
intervenuta prima che l’embrione avesse avuto il tempo di giungere a
maturazione, in Occidente l’embrione può ben crescere anche oltre la
sua maturazione; e le conseguenze possono diventare estremamente
pericolose per l’organismo sociale.
Il fatto è che, nonostante tutte le innovazioni keynesiane, il nostro
processo produttivo così magnificamente socializzato sotto molti
aspetti, non è ancora controllato socialmente. La proprietà, per quanto
profonda possa essere la sua separazione dalla direzione aziendale,
controlla ancora l'economia. Il profitto degli azionisti è ancora il
motivo regolatore, subordinato soltanto alle necessità del militarismo
e della lotta mondiale contro il comunismo. In ogni caso la nostra
esistenza sociale ed economica rimane anarchica e irrazionale.
L’anarchia può non manifestarsi in profondi periodici crolli e
depressioni, benché, a guardar le cose più alla lontana, anche questo
non sia sicuro. In minori proporzioni, dopo la guerra franco-prussiana
del 1870, il capitalismo europeo conobbe una prosperità analoga e
ancora più prolungata, non disturbata da profonde crisi; e ciò
condusse Edward Bernstein e i suoi compagni revisionisti
a concludere che gli eventi avessero smentito la analisi e la prognosi
di Marx. Ma ben presto, dopo di allora, l’economia fu scossa da
convulsioni più violente che mai e l’umanità entrò nell’epoca delle
guerre mondiali e delle rivoluzioni.
Nulla sarebbe più gradito, specialmente al marxista, di sapere che
il peso della proprietà capitalistica è diventato così irrilevante nella
società occidentale che essa non è più di ostacolo alla organizzazione
razionale delle sue forze produttive e della sua potenza creativa.
Tuttavia la riprova di ciò consiste nel vedere se la nostra società può
controllare e dirigere le sue risorse e le sue energie per fini costruttivi
e per il suo generale benessere; e se può organizzarle e programmarle
su scala internazionale oltre che su scala nazionale. Finora, di fronte a
questa riprova, la nostra società ha fallito. I nostri governi hanno
prevenuto crisi e depressioni programmando per la distruzione e la
morte piuttosto che per la vita e il benessere. Non per nulla i nostri
economisti, esperti finanzieri e cacciatori di posti, speculano
cupamente su ciò che accadrebbe all’economia occidentale se, ad
esempio, la amministrazione americana dovesse cessare di spendere
quasi ottanta miliardi di dollari per gli armamenti in un solo anno. Fra
tutte le rappresentazioni fosche del declino del capitalismo che i
marxisti abbiano mai immaginate, non ce n’è una sola che sia più nera
e apocalittica del quadro che la realtà ci sta offrendo. Circa
sessanta anni fa Rosa Luxemburg profetò che un giorno il militarismo
sarebbe diventato la forza propulsiva dell’economia capitalista; ma
perfino la sua profezia impallidisce davanti ai fatti.
Ecco perché il messaggio del 1917 rimane valido per il mondo in
generale. Il presente punto morto ideologico e lo status quo sociale
non possono davvero servire come basi per la soluzione dei problemi
della nostra epoca, e nemmeno per la sopravvivenza dell’umanità.
Naturalmente, sarebbe il supremo disastro se le superpotenze
nucleari dovessero trattare lo status quo sociale come un loro
giocattolo, e se l’una o l’altra cercasse di alterarlo con la forza delle
armi. In questo senso la coesistenza pacifica fra Oriente e Occidente è
una necessità storica assoluta. Ma lo status quo sociale non può venire
perpetuato. Carlo Marx, parlando dei ristagni che si ebbero nelle lotte
di classe del passato, dice che di solito finirono « con la rovina comune
delle classi contendenti ». È certo che un ristagno prolungato
indefinitamente e garantito da un perpetuo equilibrio dei deterrenti
nucleari, condurrebbe le classi e le nazioni contendenti alla loro
comune e finale rovina. L’umanità ha bisogno di essere unita per la
sua pura e semplice sopravvivenza. E dove mai possiamo trovare
quest’unità se non nel socialismo? Per quanto grandi appaiano nel
nostro secolo le rivoluzioni russe e cinesi, l’iniziativa dell’Occidente è
ancora essenziale per l’ulteriore progresso del socialismo.
Hegel ha detto una volta che « la storia del mondo muove da
oriente a occidente » e che « l’Europa rappresenta la conclusione della
storia mondiale » mentre l’Asia ne è stata soltanto il principio. Questa
concezione arrogante era ispirata dal fatto che Hegel vedeva nella
Riforma e nello Stato prussiano il culmine dello sviluppo spirituale
dell’umanità; tuttavia molte persone in Occidente, che non adorano né
lo Stato né la Chiesa, hanno creduto fino a tempi recenti che la storia
del mondo avesse davvero trovato la sua sede definitiva in Occidente e
che l’Oriente, non potendo dare un contributo significativo, potesse
esserne soltanto l’oggetto. Noi la sappiamo più lunga. Abbiamo visto
come la storia si sia mossa decisamente verso Oriente. Tuttavia non
dobbiamo dare per dimostrato che essa finirà laggiù e che l’Occidente
continuerà sempre a parlare con la sua attuale voce conservatrice e a
contribuire agli annali del socialismo soltanto con qualche altra pagina
bianca. Il socialismo ha ancora qualche atto rivoluzionario decisivo da
compiere in Occidente non meno che in Oriente; e la storia
dell’umanità non si concluderà in nessun luogo. L’Oriente è stato
il primo a realizzare il grande principio di una nuova organizzazione
sociale che fu originariamente concepita in Occidente. Cinquant'anni
di storia sovietica ci dicono quali stupendi progressi abbia realizzato
una nazione arretrata, applicando quel principio anche nelle
condizioni più avverse; e già solo per questo suggeriscono gli orizzonti
illimitati che la società occidentale può aprire a se stessa e al mondo,
purché si liberi dai suoi feticci conservatori. In questo senso la
rivoluzione russa si erge ancora di fronte all’Occidente con un grave e
stimolante monito: tua rea agitur.

Londra, 23 febbraio 1967

FINE
NOTE
CAPITOLO PRIMO

1 G. M. Trevelyan, England under Queen Anne, Blenheim, capitolo III.


2 G. M. Trevelyan, A Shortened History of England, libro IV, capitolo II.

CAPITOLO SECONDO

1 Questo fu l'atteggiamento prevalente, anche se i contadini si dividevano a


loro volta in ricchi e poveri, e piccoli gruppi di contadini illuminati, di propria
iniziativa, costituirono cooperative e comunità subito dopo la rivoluzione e nei
primi anni dopo il 1920.
2 Lord Acton (1834-1902), famoso storico liberale, è stato molto citato per
aver detto che « il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente
».
3 La guerra civile americana sembra essere stata un’eccezione. Essa però fu
una guerra civile che non divise la nazione nella sua totalità e non pose una
classe contro l’altra in tutto il paese. Il Nord era virtualmente unito nella sua
determinazione di impedire la secessione degli Stati del Sud. La sua superiorità e
la sua preponderanza non furono mai in pericolo e non ci fu nessun intervento
armato straniero.

CAPITOLO TERZO

1 H. Butterfield, Christianity and History, London 1949, pagina 143.


2 Questo è, ad esempio, ciò che scrisse il corrispondente del Times da Delhi
il 3 febbraio 1967 sotto il titolo: « I contadini del Bihar muoiono lentamente di
fame»: «Notizie dai distretti più colpiti fanno capire che una lenta inedia ha
già colpito le comunità contadine più povere ». Di fatto, « forse venti milioni di
lavoratori senza terra nelle aree colpite dell'Uttar Pradesh orientale e del Bihar »
sono minacciati dalla morte per fame, a meno che l’amministrazione non li
nutra fino all’autunno. L’orrore della situazione fu aggravato dalla simultanea
minaccia della siccità: « ...quando i pozzi del villaggio si prosciugano la gente
parte in cerca d’acqua. Masse di persone che si muovono in cerca di acqua
complicano grandemente il compito di dar loro del cibo ». Nello stesso periodo, il
giornale francese Le Monde riferiva che il cinquanta per cento dei bambini del
Senegai morivano prima dei cinque anni per denutrizione e per malattie. Questi
fatti venivano riferiti come piccole notizie di cronaca nello stesso giorno.
3 Tuttavia possono depositare denaro nelle Casse di Risparmio a un
bassissimo interesse. Nel 1963 quasi quattordici milioni di persone avevano conti
correnti di risparmio; e il deposito medio era di duecentosessanta rubli. Questa
media nasconde Je differenze fra l'ammontare dei depositi dei diversi individui.
Ma poiché è probabile che solo poche persone mettano alla banca risparmi
inferiori ai duecentosessanta rubli, non è da supporre che le differenze siano
socialmente importanti. In URSS la gente che ha alti redditi preferisce
spendere in beni di consumo durevoli, come automobili e dacie, piuttosto che
tenere conti nelle banche controllate dal governo.
4 Cheshire cat è una figura di Alice nel paese delle meraviglie: un gatto di
cui si vede solo la testa e che compare e scompare nei modi più impensati.
(N.d.T.)
5 Nel 1966 sessantotto milioni di scolari furono accolti nelle scuole di tutti i
gradi, in confronto ai dieci o undici milioni di prima della rivoluzione. Per ragioni
demografiche (basso livello delle nascite negli anni della guerra) il numero
degli scolari rimase stazionario tra i quarantasei e i quarantotto milioni negli anni
fra il 1940 e il 1960. Però negli ultimi sette anni è cresciuto di ventidue milioni. Si
ebbero quarantasette milioni di alunni nelle scuole primarie e secondarie; tre
milioni e seicentomila nelle università; tre milioni e trecentomila nelle scuole
superiori tecniche; tredici milioni di persone parteciparono ai corsi per
l’educazione degli adulti, e fra questi circa due milioni di operai e di tecnici che
seguirono corsi universitari senza interrompere il loro lavoro normale. Dopo
il 1950 il numero degli studenti universitari si è triplicato.

CAPITOLO QUINTO

1 Un recensore di un saggio sul maoismo incluso nel mio Ironies of History,


ricorda, nel Times Literary Supplement, che degli estratti del Manifesto
comunista erano stati tradotti in cinese e, a quanto sembra, pubblicati in un
piccolo periodico nel primo decennio di questo secolo. Ma il fatto è che i lettori
cinesi della generazione di Mao Tse-tung e lo stesso Mao non poterono leggere il
Manifesto nella sua integrità prima del 1921.
2 Questa fu la ragione per cui Mao, coltivando un’amicizia diplomatica col
governo del generale Sukarno, per molti anni incoraggiò il partito comunista
indonesiano ad accettare la leadership di Sukarno e a rinunciare a ogni azione
rivoluzionaria indipendente in lavoro di una coalizione con la « borghesia
nazionale ». Così, la parte avuta da Mao nei confronti del comunismo indonesiano
fu molto simile a quella che ebbe Stalin nei confronti del comunismo cinese negli
anni dopo il 1920; e i risultati sono stati anche più disastrosi.

CAPITOLO SESTO

1 Le citazioni si riferiscono alle Reith Lectures quali furono pubblicate in The


Listener (15 dicembre 1966).
2 H. Butterfield, International Conflict in the Twentieth Century. A Christian
View (London 1960), pagine 61-78. La mia critica dell’analogia proposta dal
professor Butterfield non vuole intaccare la ragionevolezza delle coraggiose
argomentazioni in favore di una distensione internazionale che egli rivolse al
pubblico americano negli anni dopo il 1950.
RINGRAZIAMENTI

QUESTE conferenze sono pubblicate qui come furono tenute


all’università di Cambridge nel gennaio-marzo 1967. Mi è grato il
ricordo della calda accoglienza da me ricevuta all’università da parte
di un pubblico straordinariamente attento, dai seguaci delle «
Conferenze Trevelyan » e in particolare dal Master di Peterhouse, e
dal Master, dal vice Master e dai Fellows di Christ’s College.
Sono grato a mia moglie per le idee che mi ha date sul modo di
trattare, nel giro di queste sei conferenze, i grandi e complessi
problemi di mezzo secolo di storia sovietica. Ella mi ha aiutato a
portare della chiarezza nella difficile composizione di questo quadro
sommario; i difetti che i lettori senza dubbio scopriranno sono
interamente miei. Sono riconoscente al mio amico professor E. F. C.
Ludowyk per la comprensione critica e la pazienza con cui ha letto il
manoscritto; e debbo ringraziare anche il signor John Bell e il signor
Dan M. Davin per i loro utili suggerimenti.

i. d.
INDICE
LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA 8
Indice 10
PREFAZIONE 12
CAPITOLO PRIMO. LA PROSPETTIVA STORICA 16
CAPITOLO SECONDO. ROTTURE NELLA CONTINUITÀ RIVOLUZIONARIA 32
CAPITOLO TERZO. LA STRUTTURA SOCIALE 49
CAPITOLO QUARTO. LA STASI NELLA LOTTA DI CLASSE 67
CAPITOLO QUINTO. L’UNIONE SOVIETICA E LA RIVOLUZIONE CINESE 83
CAPITOLO SESTO. CONCLUSIONI E PREVISIONI 99
NOTE 116
CAPITOLO PRIMO 117
CAPITOLO SECONDO 117
CAPITOLO TERZO 117
CAPITOLO QUINTO 118
CAPITOLO SESTO 119
RINGRAZIAMENTI 120

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