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La maledizione scagliata su Lauro e i sussurri del Cristo

Sta assiso sul suo trono, elevato verso l’alto, con lo sguardo rivolto verso ogni
passante. Le sue braccia hanno un movimento indecifrabile: appena posate dopo
un abbraccio, o chissà, dopo il giudizio.
Una vecchia storia narra che i tedeschi, accampati nella terra di Matilde
Schiavone, progettarono di portarlo in Germania, dopo la minaccia delle mine
disseminate per le strade del paese. Egli rimase lì però: non partì. E continuò a
restare, vigilante sull’ultimo viaggio di ogni figlio di questa terra di Lauro.

Lo chiamano Eterno Padre. Ma è un Cristo: folgorante enipostatico, perché come


dice il dogma cattolico, egli è uguale e della stessa sostanza del Padre: talis Filius,
talis Pater. Ed è un Cristo assiso nella gloria della sua ultima venuta, quella del
giudizio e della ricapitolazione di ogni tempo umano che presto diverrà soltanto
tempo divino.
Maestà ed eternità: sono gli echi che quella statua va sussurrando e che
accompagnano gli ultimi passi di ogni Lauretano verso la dimora definitiva.

Difficile indovinare tutti i segreti artistici e la genesi di questo capolavoro che


Gherardo Rega Angelini ideò per la “Cappella votiva” della sua famiglia. Né so se il
suo ideatore sia sepolto nello stesso sacello o a Napoli, dove morì nel 1913.
Resta lì: enigmatico e vigilante, ad aprire appena uno spiraglio sulla religiosità e
sull’arte di questo architetto di cento anni fa. E che svela il suo attaccamento
verso il luogo delle origini, quello dove gli affetti dimorano sacri, nei ricordi preziosi
della memoria.

Sì: quella statua custodisce l’epopea di una geniale famiglia di artisti, i Rega
Angelini, dove i cognomi uniti fino a diventare un tutt’uno, parlano di Lauro
innanzitutto, con Marianna Rega, congiunta della famiglia Pandola, che sposa
l’abruzzese Costanzo Angelini, l’artista di grido della Napoli del primo ‘800.
Epopea che da Costanzo e Marianna passa attraverso i figli Tito, Orazio, Luigi,
Livia, Teresa e Costanza. E sarà Costanza a dare alla luce Gherardo, lì nella Napoli
del 1833. A sua volta Gherardo traghetterà questa famiglia nel XX secolo: con
Cosimo, morto il 2 luglio del 1918 sul campo di battaglia di Aucheben, e poi con
Rosina, e Giovanna e Francesco. E con Francesco arriviamo ai nostri giorni, fino
all’ultima propaggine, quella della famiglia De Pascale.

Ogni opera però è legata al suo creatore, tanto da esserne quasi una biografia
visibile e aperta. Quel Cristo della Cappella così ci svela qualcosa di Gherardo. Non
traccio ora la sua biografia: non è il momento.
Essa parla di quest’uomo così poliedrico e attivo in tanti lavori artistici, da Genova,
a Palermo, a Catania e ovviamente Napoli. Di questo architetto che nei lunghissimi
anni di vita aveva custodito cara la memoria del nonno Costanzo, pubblicandone
anche nel 1905 i bellissimi disegni che egli aveva realizzato nel 1798 trasmettendo
il ricordo della ricca collezione di Vasi archeologici dei Vivenzio.
Soprattutto questo Cristo lauretano dice di una decisione ferma e risoluta del suo
artista; eseguendolo insieme alla cappella, Gherardo Rega stabilì che la sua
famiglia rimanesse per sempre legata a Lauro, il paese delle origini. Pur se
dispersa in ogni dove, qui sarebbe tornata un giorno: a casa, e per sempre.

Gherardo aveva così riparato alla maledizione disperata che il nonno Costanzo
aveva lanciato su Lauro il 19 ottobre del 1816.

Erano i giorni del vaiolo; Costanzo continuava a lavorare nella Napoli appena
ritornata borbonica. Gli premeva solo che la moglie Marianna con il piccolo
Adriano, di un anno e mezzo, si mettessero in salvo. “Torna a Lauro” le avrà
sussurrato. E Marianna tornò nel paese. E volle che il piccolo fosse vaccinato dal
medico del paese. Non tutto funzionò: Adriano aveva già contratto la malattia e
questo medico si ostinava invece a consigliare acqua di Goudar e impiastri di fiori
di sambuco. Finchè la sera di quel 19 ottobre tutto precipitò senza rimedio.
Accanto a Marianna c’erano solo don Alessio Pandola e il “barbiere” Luigi Fiore.

Costanzo non potette tornare a Lauro a salutare per l’ultima vota il piccolo. Aveva
davanti solo un foglio. E disperato maledisse questo paese: “Terra fatal, cagion
d’eterno oblio, in te il nappello e non l’amomo nasce…” . “Terra crudel, fonte di
lutto e di pianto, rendimi il figlio, rendimi il sol…”.

Sì: di quella storia resta solo un sonetto, con una data annotata. Che sembra
ancora sussurrata da un Cristo, il cui sguardo riconciliatore tutto sa, tutto copre e
sopporta e tutto custodisce.
(© Severino Santorelli)

Il Cristo che Gherardo Rega volle per la sua Cappella gentilizia.

Gherardo Rega Angelini, la cui famiglia era originaria di Lauro, visse a Napoli dove
era nato nel 1833, morendovi nel 1913.

Costanzo Angelini, nato presso Amatrice nel 1760, sposò Rega Mariangela. Morì
nwl 1853. Qui lo vediamo in un ritratto eseguito dal nipote Gherardo nel 1853 per il
noto Poliorama Pittoresco, una rivista culturale napoletana.

Il Sonetto della disperazione che Costanzo scrisse per la morte di Adriano, avvenuta a
Lauro il 19 ottobre del 1816.

L'atto di morte di Adriano reca la data del 19 ottobre del 1816. Nelle sue memorie
Costanzo annota invece che la morte avvenne il 14 ottobre.

A Lauro si conserva un'altra opera di Gherardo Rega Angelini: il cenotafio di Emily


Higgins Pandola, nella chiesa abbaziale di San Giacomo in Fontenovella.

Una statua misteriosa e affascinante di Lauro: è il ricordo di un geniale artista,


Gherardo Rega Angelini e della sua famiglia di artisti nella Napoli dell’800… E di
una maledizione che un antenato scagliò su Lauro. Tutta la storia su lla pagina fb di
C’era la Terra di Lauro

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