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Valerio Evangelisti

CARTAGENA.
GLI ULTIMI
DELLA TORTUGA

© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano


Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Ebook ISBN 9788852031540

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER:


MANUELE SCALIA | ILLUSTRAZIONE DI MALLEUS
«L’AUTORE» || FOTO © GILIOLA CHISTÉ

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Il libro

1 6 9 7 L UI G I XIV È I M P E G N AT O N E L L ’ E N N E S I M A G UE R R A ,

N
EL
detta dei Nove Anni. Per rimpinguare le casse ormai vuote del
regno, decide di inviare una flotta imponente contro Cartagena,
nell’attuale Colombia: una delle città più ricche dell’impero
spagnolo d’oltremare, ritenuta imprendibile.
¶  L’ammiraglio De Pointis, per navigare i Caraibi, ha però bisogno
dell’ausilio della Filibusta. Solo che la Tortuga è stata abbandonata, e i
Fratelli della Costa superstiti si sono sparsi sulle montagne dell’isola di
Hispaniola. Chi riesce a radunarli è il governatore Ducasse, ex negriero,
gran farabutto ma d’animo per certi versi nobile, avventuriero impavido.
¶  Martin d’Orlhac è stato ladro, poi soldato, e infine è divenuto il braccio
destro di De Pointis. Fatto imbarcare con i pirati, assiste con progressiva
simpatia alla vita libera e feroce di costoro. Intreccia anche una bizzarra
storia d’amore, che gli costerà parecchio, con una giovane dama spagnola
tanto bella quanto inaccessibile, tanto apparentemente ingenua quanto sottile
e intelligente.
¶  La presa di Cartagena vedrà crescere la tensione tra il nobile De Pointis
e il plebeo Ducasse, tra Fratelli della Costa ed esercito regolare; fino
all’aperta ribellione dei filibustieri contro l’arroganza di un’aristocrazia
che persino in Francia comincia a essere messa in discussione.
¶  Sarà l’ultimo atto della confraternita di fuorilegge che sull’isola della
Tortuga aveva preso forma e terrorizzato i Caraibi per quasi cinquant’anni.
Pochi mesi dopo la conquista di Cartagena le grandi potenze firmeranno un
trattato di pace e si impegneranno, di comune accordo, a combattere la
pirateria.
¶  I Fratelli della Costa tuttavia non spariranno, ma saranno chiamati a un
differente destino. Anticipato, nei capitoli finali, da un colpo di scena che
rallegrerà i lettori di Tortuga e di Veracruz.

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L’autore

Valerio Evangelisti è nato a Bologna nel 1952. Dopo


avere pubblicato volumi e saggi di storia, si è dedicato
interamente alla narrativa. Nel 1994 è uscito il suo primo
romanzo, Nicolas Eymerich, inquisitore, che ha vinto il
premio Urania. Per Mondadori sono seguiti Le catene di
Eymerich (1995), Il corpo e il sangue di Eymerich
(1996), Il mistero dell’inquisitore Eymerich (1996),
Cherudek (1997), Picatrix, la scala per l’inferno
(1998), Magus. Il romanzo di Nostradamus (tre volumi,
1999), Il castello di Eymerich (2001), Mater Terribilis
(2002), La furia di Eymerich (fumetto illustrato da
Francesco Mattioli, 2003), Antracite (2003), Noi saremo tutto (2004), Il
collare di fuoco (2005), Il collare spezzato (2006), La luce di Orione
(2007), Controinsurrezioni (2008, con Antonio Moresco), Tortuga
(2008), Veracruz (2009), Rex Tremendae Maiestatis (2010), One Big
Union (2011).
Per Einaudi ha pubblicato Metallo urlante (1998) e Black Flag
(2002). Le edizioni L’Ancora del Mediterraneo hanno fatto uscire tre sue
raccolte di saggi critici, di cui l’ultima è Distruggere Alphaville (2006).
È tradotto in una quindicina di lingue e in tre continenti. Ha ispirato
fumetti, giochi di ruolo, videogiochi, brani musicali. Ha vinto nel 1998 il
Grand Prix de l’Imaginaire, nel 1999 il Prix Tour Eiffel e, nel 2000, il
prestigioso Prix Italia per la fiction radiofonica. È fondatore e direttore
editoriale della notissima e-zine letteraria Carmilla
(www.carmillaonline.com). Il suo sito personale è www.eymerich.com.

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Mappa 1

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Mappa 2

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1 - La montagna dei pirati

Martin d’Orlhac aveva il fiatone. La montagna era ripida, il calore quasi


insopportabile. La vegetazione, per quanto foltissima, offriva un riparo
insufficiente. Invidiava padre Jean-Baptiste le Pers che, avvezzo a quei climi,
percorreva il sentiero con disinvoltura, tenendo alta la tonaca nera e
riuscendo a schivare i sassi troppo grossi o troppo arrotondati.
«Manca molto?» gli chiese.
«Credo di no» rispose il religioso. «Vedrete che prima o poi si faranno
vivi loro. Li sentiremo arrivare dall’abbaiare dei cani.»
«Cani?»
«Sì. Ogni bucaniere ne ha un bel branco, da cui si separa solo se va per
mare.»
«E i filibustieri?»
«Quelli li vedremo dopo, immagino. Nei boschi è più probabile che ci
imbattiamo nei bucanieri.» Le Pers rise. «Vedrete che gente cordiale!»
Continuarono a salire. D’Orlhac – il cui cognome vero era Dorlhac,
nobilitato per adeguarlo al rango di ufficiale – si chiedeva come il gesuita,
grasso al punto di essere quasi obeso, potesse muoversi con tanta agilità.
Sapeva che viveva da anni nell’isola di Hispaniola, e che lì il barone De
Pointis lo aveva cercato e scovato, per la nota familiarità dell’abate con i
filibustieri fedeli alla Francia. Ma gran parte di Hispaniola era ben più
percorribile di quel selvaggio lembo di Saint-Domingue, la porzione
francese, e non c’erano alte vette da scalare. Eppure Le Pers sembrava
conoscere perfettamente il terreno, come se gli fosse familiare. Trovava
sentieri nascosti, intuiva dove era meglio guadare i ruscelli.
Alla fine disse al frate: «Sembrate di casa qui».
Le Pers rise, finalmente con una traccia di affanno. «Ci sono venuto
diverse volte, sulla Montagne Terrible. Non avete idea di dove mi è toccato
andare a portare la parola di Dio.»
«Questa salita sembra non finire mai.»

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«State tranquillo. Siamo vicini. Non vedete?»
Il gesuita indicava alcune carcasse vuote di tartaruga marina sparse nel
sottobosco. Era impossibile che quegli animali salissero a una tale altezza.
Qualcuno doveva averli catturati sulla spiaggia e portati fin lì per cibarsene.
La carne delle tartarughe di mare era una prelibatezza. Anche le uova, avvolte
in un involucro morbido ma consistenti nel tuorlo, attiravano i buongustai.
Erano numerose le piante di manioca, usate nella cucina isolana in mille
maniere. Troppo folte per essere frutto di disseminazione spontanea. La cima
della montagna era abitata, non c’era dubbio. Lo avevano già fatto capire le
profumatissime coltivazioni di alloro incontrate in prossimità della spiaggia.
Venivano dalla Spagna, non erano vegetazione locale. Invece lo erano gli
alberi contorti, di specie ignota, tra cui si stavano aggirando. Molto più
aggrovigliati delle palme che crescevano sulla riva e sui primi pendii.
I latrati scoppiarono a un tratto e li fecero trasalire. Fra tronchi ricoperti di
gelsomini – segno che non sempre, lassù, la temperatura era tanto elevata –
apparvero cani enormi e schiumanti, tenuti per il collare dai padroni. Questi
non erano, a un primo sguardo, molto distinguibili dai loro animali. Si
trattava di uomini vestiti di pellicce ancora incrostate di sangue rappreso, con
ampi berretti a cono, barbe incolte e capelli lunghissimi.
«Eccoli, i bucanieri» disse Le Pers. Alzò le braccia e avanzò verso quei
mezzi selvaggi. «Salve, amici! Sono padre Jean-Baptiste le Pers, gesuita.
Qualcuno di voi parla bene la mia lingua?»
I bucanieri si arrestarono, ma sulle prime nessuno rispose. Alle loro spalle
erano comparsi degli schiavi, sia neri sia bianchi. Trasportavano fucili di
lunghezza inverosimile, quasi delle colubrine dotate di manico e più sottili
della norma. Ognuno reggeva la forcella necessaria a puntare l’arma.
I cani si calmarono. Un bucaniere parlò in un francese antiquato, zeppo di
parole e locuzioni di cui, nella madrepatria, si era perso l’uso. Era un
individuo di apparenza brutale quanto quella dei compagni, ma sotto la
zazzera brillavano occhi neri e intelligenti. Alla cintura aveva uno sciabolotto.
Due pistole gli pendevano dal petto, appese a una cordella di cuoio.
«Vi aspettavamo, padre Le Pers. Il governatore Ducasse ci aveva fatto
avvertire della vostra visita. Siamo qui per accompagnarvi» (disse “vous
adextrer”) «all’accampamento. Il capitano Godefroy si trova con i suoi
uomini oltre questo boschetto.» (Disse “bosquetel”.) «Ma chi è l’uomo
magro che è con voi?»
Indicava D’Orlhac. Le Pers spiegò: «È Martin d’Orlhac, ufficiale al
servizio del signor barone De Pointis».

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«Dovrebbe mangiare di più.» Il bucaniere accompagnò l’osservazione con
una smorfia di scarsa stima. Evidentemente giudicava gli uomini anche
secondo la loro stazza. «Seguitemi.»
I cani, forse degli alani di Spagna contaminati da accoppiamenti
imprevedibili, avevano smesso di latrare. Il cammino fu breve, benché
tortuoso. In prossimità della vetta si apriva una radura. Attorno a una
sorgente gorgogliante erano state erette molte capanne, di varie dimensioni.
Tra esse si aggiravano donne indigene, circondate da torme di bambini. Forse
erano le spose dei filibustieri. Questi ultimi non erano in vista, e nemmeno
altri bucanieri. Martin suppose che fossero a caccia lungo il dorso della
montagna. Qua e là erano disposti dei cannoni, con monticelli di palle ai
piedi dell’affusto.
Dalla baracca più ampia e pretenziosa, con il tetto di foglie di palma e le
pareti di assi di legno, uscì sbadigliando un uomo piccolo e grasso. Vestiva
con uno sfarzo che persino molti gentiluomini europei, e forse Luigi XIV in
persona, avrebbero trovato esagerato. Un tricorno adorno di un fitto
piumaggio multicolore gli copriva la parrucca, così lunga da arrivargli alla
vita. La marsina che indossava splendeva di ricami d’oro e d’argento, mentre
il gilet riluceva di smeraldi. Le brache erano di velluto verde. Solo le armi –
assieme al viso tondo e volgare – facevano capire la sostanza di quella
mascherata: una sciabola tozza al fianco, che nessun grande di Spagna
avrebbe mai portato, e una pistola di grosse dimensioni appesa al collo, a mo’
di ciondolo. Dovevano avere avuto la loro parte nel procurare al personaggio
vesti così ricche.
«Buongiorno, capitano Godefroy!» lo salutò Le Pers con voce allegra.
L’altro lo guardò con stupore. «Voi, padre? Cosa diavolo... scusate... cosa
vi conduce qui?»
A parlare per primo fu il capo bucaniere. «Li abbiamo scovati nella
foresta, mio capitano» disse, in tono quasi di scusa. «Ho pensato che fossero
i visitatori preannunciati dal governatore Ducasse, per mezzo del signor De
Saint-Vandrille, alla fine dell’anno scorso. Ve li ho portati.»
«Avete fatto bene, Roger. Ora potete andare.» Mentre i bucanieri si
allontanavano, con muta e fucili, Godefroy si chinò, come se volesse baciare
la mano di Le Pers. Con qualche sforzo, data la prominenza del ventre.
Il gesuita si scansò, poi afferrò il pirata e lo strinse a sé. Rise. «Non sono
ancora diventato cardinale, capitano! Posso gustare il piacere di abbracciare
un vecchio amico senza troppe cerimonie.»
Anche Godefroy sembrò divertito. Fissò D’Orlhac. «Chi è questo milite,

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così lungo e poco in carne?»
«È Martin d’Orlhac, parigino. Ufficiale sul Sceptre, l’ammiraglia della
flotta francese. La nave che ospita il signor barone Jean-Bernard-Louis de
Saint-Jean de Pointis, comandante in capo.»
«Dunque la flotta è già qua.» La fronte di Godefroy si rannuvolò.
«Da pochi giorni. Sono salpati il 9 gennaio 1697 da Brest e arrivati a Saint-
Domingue il 1 o marzo. Adesso le navi si trovano ormeggiate presso Cap
Tiburon. Ci hanno mandati qui, sulla Montagne Terrible, per invitare voi e
gli altri comandanti a unirvi alla spedizione. Il signor De Saint-Vandrille ha
detto che avete dato il vostro consenso.»
«Ve lo confermo. La nostra fedeltà al re di Francia è fuori discussione.»
Godefroy cominciava a essere sudato, certo per via degli abiti troppo pesanti.
Indicò un tavolo e due panche sotto un albero, all’ombra del fogliame.
«Andiamo a sederci là. È tempo di bere qualcosa di rinfrescante.»
Appena si furono accomodati, Godefroy chiamò una giovane indigena. A
differenza di quelle della zona costiera, vestite solo di una stretta fascia
attorno ai fianchi, indossava abiti europei, semplici ma puliti.
«Una caraffa del solito» ordinò il capitano.
Martin si guardò attorno. C’era ordine nel villaggio, malgrado fosse
popolato da predoni. Le donne si dedicavano ai vari lavori domestici,
soprattutto a intrecciare foglie di palma secche. Conversavano e ridevano.
Altre impastavano il pane di farina di manioca o di mais davanti alle loro
abitazioni. I bambini, completamente nudi, correvano per ogni dove.
Gli uomini erano pochi, in prevalenza neri o marrone di pelle, ma stavano
aumentando di numero. Le prime squadre che avevano cacciato selvaggina a
sufficienza tornavano dai boschi: filibustieri, qualche bucaniere. Le prede le
portava la servitù, assieme a cesti di legumi e verdure.
Era la prima volta che Martin vedeva dei pirati da vicino. Gli ricordarono
gli amici insediati tra il Pont Neuf e lo Châtelet, all’epoca – non troppo
lontana, aveva solo venticinque anni – in cui frequentava la Corte dei
miracoli, a Parigi. Visi sfrontati, zazzere selvagge, a volte nerboruti e a volte
scheletrici. Con addosso i panni essenziali: una camiciola, una fascia colorata
ai fianchi, delle brache di lino, scarpacce o stivali ai piedi. In testa i pirati
portavano cappelli sformati da contadino, oppure fazzoletti annodati che li
proteggessero dal sole. Alcuni erano anziani, ma la maggioranza dimostrava
dai quarant’anni in giù. Pochissimi erano glabri come Martin: barbe e baffi si
sprecavano.
C’erano poi i bucanieri, ma quelli erano una razza a sé.

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La bevanda che fu servita si chiamava “maby”. Fatta di patate rosse e di
arance spremute, sminuzzate e lasciate fermentare in uno sciroppo
zuccherino. Alcolica ma non troppo, deliziosa da gustare fresca. Godefroy ne
ingollò una lunga sorsata, emise un rutto fragoroso e disse: «Padre Le Pers,
vi aiuteremo, ma siamo ridotti ai minimi termini. I francesi stessi ci hanno
costretti ad abbandonare la Tortuga e a rifugiarci sulla Montagne Terrible.
Non hanno digerito la presa di Campeche. Purtroppo non abbiamo più
condottieri degni di questo nome. Il cavaliere De Grammont è morto,
Laurens de Graaf, “Lorencillo”, è in Francia sotto processo. Il nostro
ammiraglio sarebbe Hubert Macary. È un uomo senza polso, poco adatto al
comando».
Le Pers sorseggiò il maby. «Buono» disse «ma nell’interno se ne fa di
migliore. Dove sono gli altri capitani?»
«Sparsi per la montagna, in villaggi di baracche simili a questo.»
«Siete diventati gente di terra. Raccoglitori di tuberi e cacciatori.»
«No. Abbiamo ancora alcune navi ormeggiate nel porto di Petit-Goâve.»
«Ottimo.» Le Pers inghiottì con voluttà il suo maby. Porse il bicchiere per
chiederne altro. «È a Petit-Goâve che ci si incontrerà, la flotta francese e i
filibustieri, entro pochi giorni. Abbiamo una meta molto ambiziosa.»
«Cartagena?»
«Sì, capitano Godefroy. Proprio Cartagena. L’imprendibile.»

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2 - Gente rude

Martin d’Orlhac provò un certo imbarazzo nel sedere a tavola con alcuni dei
capitani della Filibusta che avrebbero partecipato alla spedizione. L’orata
(detta “dorada”) era ottima, nel suo letto di agrumi, tuttavia la voracità degli
invitati al banchetto sembrava eccessiva. Solo l’ammiraglio pirata Macary, e
in certa misura Le Pers, mantenevano una parvenza di buone maniere. Gli
altri si gettavano sul cibo con sguaiata voracità, mangiavano anche testa, coda
e lische, non trattenevano peti e borborigmi. Quanto al vino verdejo offerto
per l’occasione da Godefroy, veniva versato in gola a sorsate abbastanza
generose da strozzare un cristiano. Le donne negre e indigene dovevano
continuamente portare in tavola nuove bottiglie.
Il passato di Martin non era una garanzia di decenza, e nondimeno il suo
arruolamento forzato nell’esercito e la rapida ascesa a ufficiale, conquistata
sul campo, lo avevano raffinato. Il barone De Pointis non avrebbe mai
accettato al suo desco un commensale volgare, incapace di tenere un discorso
senza infiorettarlo di rutti. A quanto sembrava, tra i filibustieri vigeva la
regola opposta.
Macary era diverso e, malgrado ciò, dava ugualmente fastidio a Martin con
le sue occasionali osservazioni provocatorie.
«La Francia ci riscopre nel 1697, dopo averci fatto guerra per dodici anni e
averci sottratto la Tortuga, la nostra isola» disse fissando proprio Martin. «Se
le sorti del conflitto contro la Lega di Augusta non fossero incerte, dubito che
Luigi XIV si sarebbe ricordato di noi.»
«Non so come rispondervi, signore. Sono un semplice ufficiale, non mi
occupo di politica estera.»
«La mia non era una domanda. Era una constatazione.»
«Ne potrete parlare con l’ammiraglio De Pointis.»
Il capitano Galet si pulì le labbra, che colavano sugo, col dorso della mano
e con il polsino ricamato. Indicò Macary. «Anche lui è ammiraglio!»
Tutti i partecipanti al banchetto scoppiarono a ridere, come se fosse stata

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una battuta irresistibile.
Martin non ne fu sorpreso. Sapeva il motivo di tanta ilarità. Tra i
cosiddetti Fratelli della Costa ogni carica era elettiva e poteva essere revocata
da un momento all’altro. Le Pers lo aveva istruito bene in proposito. Un
capitano, e persino un ammiraglio, era tale per designazione degli equipaggi.
Qualora li avesse scontentati, avrebbe potuto essere destituito. Se poi avesse
commesso errori madornali, c’era il caso che venisse abbandonato, nudo, su
un isolotto deserto, a volte provvisto di una pistola con una sola palla. Facile
preda delle bestie feroci, dei serpenti, dei ragni velenosi e dei cannibali.
Osservò Macary. Era un uomo dall’aspetto triste, come se fosse roso da un
dolore di vecchia data. A differenza dei compagni vestiva in maniera sobria,
con abito nero attillato, camicia a sbuffi e un semplice tricorno senza piume
ora posato di fianco a sé, sulla panca.
Martin aveva appreso da Le Pers che Macary era stato ufficiale al servizio
del celebre cavaliere De Grammont. Era uscito indenne dallo scontro in cui
aveva perso la vita il suo capitano. Sicuramente non ne aveva ereditato il
carisma. I Fratelli della Costa lo avevano eletto ammiraglio solo perché
comandava due velieri, il Brigantin e il Jersé. Doveva rivestire la carica con
molto disagio. Parlava poco, e le sue rare osservazioni non erano mai
particolarmente intelligenti.
Il capitano Colong era invece la sua antitesi, almeno sul piano della
loquacità. Forse un po’ brillo esclamò, rivolto a Martin: «Soldi! Voglio sentire
parlare di soldi!». Sbatté la coppa di peltro sul tavolo, facendone schizzare
metà del contenuto. «La gloria di Francia va bene, ma i miei uomini vogliono
essere pagati!»
«E tu no?» Il capitano François Pierre rise.
«Io per primo!»
Martin parlò senza eccessive cautele, perché era un tema su cui De Pointis
si era dilungato. «Avrete tutti quanti la vostra ricompensa, signori. Gran parte
del bottino, in denaro, merci e schiavi. Cartagena è ricca.»
Il discorso rallegrò la tavolata e la incitò al cibo e alle bevande.
Godefroy però domandò: «E le condizioni di ingaggio? Abbiamo dei
doveri verso i nostri equipaggi».
Si riferiva alla tradizione dei filibustieri di sottoscrivere, prima di
imbarcarsi, una sorta di assicurazione, detta “chasse-partie”. Vi si
prevedevano risarcimenti in oro e in schiavi a chi fosse rimasto ferito. Si
andava dalle menomazioni più inabilitanti – tipo la perdita di un occhio, o di
tutti e due; la recisione di un braccio, di una gamba, di un piede – a quelle

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minori: taglio di uno o più dita della mano, lesioni difficili da ricucire. Ogni
sacrificio personale aveva la ricompensa adeguata. I duelli all’arma bianca,
sui ponti di navi altrui, lasciavano sempre uomini orribilmente mutilati. I
Fratelli della Costa volevano clausole di contratto che garantissero a costoro
una vecchiaia dignitosa, se sopravvivevano, oppure una fine con decoro.
Al corrente del tema, Martin disse, con la solennità di un impegno: «Il
barone De Pointis desidera che le leggi della Filibusta siano rispettate. Non
dubitate, signori. Accetteremo le vostre consuetudini e le asseconderemo. È il
re a promettervi questo».
Pierre mimò un applauso. «Così si ragiona. Qual è il luogo
dell’appuntamento?»
«Petit-Goâve, dove avete le vostre navi. Sono convocati pure i coloni che
vogliono unirsi alla spedizione e i negri liberati. Verrà anche il governatore
Ducasse.»
«Che Dio lo protegga. Ecco un uomo in gamba. Quando dobbiamo essere
là?»
«Tra una settimana circa, se ce la farete.»
«Certo che ce la facciamo.» Pierre riempì il bicchiere e si rivolse agli altri
capitani. «Ragazzi, si torna in mare! Abbiamo finito di fare i contadini!»
Tutti alzarono i calici.
«Viva la Filibusta!» gridò Godefroy. «Viva la Fratellanza della Costa!»
«Viva!» urlò l’intera tavolata. I pirati vuotarono le coppe, con il verdejo
che scendeva a rivoli lungo le barbe.
Solo Le Pers sembrava incerto. Si unì al brindisi, ma chiese subito dopo,
con un’insolita timidezza: «Volete dire, signori, che il pranzo è finito? Che
dopo non ci saranno altre portate?».
Il capitano Colong lo guardò con allegria, ma anche con una punta di
malizia. «Che dite mai, padre! Le doradas erano per farci la bocca buona. Il
pranzo vero comincia adesso. Spero che il prosciutto di cinghiale e la
fricassea di piccioni siano di vostro gradimento... In cambio vi chiediamo
una cosa sola.»
«Quale?»
«Che dopo avere mangiato diciate messa per gli avventurieri. È da un
pezzo che i nostri uomini non ricevono una benedizione. Bisogna che ne
abbiano una prima di salpare per Cartagena.»
«Lo farò volentieri.»
Due ore più tardi, dopo essersi rifocillato fin troppo e avere seguito la
cerimonia religiosa (con varie centinaia di pirati e bucanieri a capo scoperto,

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molti schiavi e moltissime donne), Martin passeggiò per l’insediamento dei
predoni del mare. Aveva alcunché di provvisorio. Gli “avventurieri” – così si
autodefinivano – non sembravano essersi rassegnati troppo a un destino di
agricoltori o di cacciatori, lì, in cima alla Montagne Terrible.
Fra una trentina appena di capanne e baracche esistevano ben due osterie.
Non somigliavano a quelle della Tortuga, che Le Pers aveva descritto a
Martin, sparse per Cayona, la capitale del covo abbandonato. Tuttavia le loro
dimensioni facevano pensare che la notte fossero affollate. Non c’erano
nemmeno prostitute sulla soglia, sotto la frasca pendente che segnalava la
natura del locale. Era però facile immaginare che la folla delle schiave e delle
indigene sopperisse alla carenza.
Martin camminò fino ai muretti che riparavano i cannoni. Vecchi, quasi
arrugginiti. Nessun artigliere li sorvegliava, e il motivo risultava palese solo a
sporgersi appena. Il nido d’aquila di Godefroy dominava le vette attorno.
Nessun corpo armato avrebbe potuto salirvi senza essere notato con ore di
anticipo. Una sorpresa non era pensabile.
Martin scorse, su altre vette, gli arroccamenti di vari capitani della
Filibusta, quelli stessi con cui aveva pranzato. Tornò sui suoi passi. Il maby
bevuto, i sentori pungenti dei boschi, l’aroma lontano del mare e degli
agrumeti lo stavano inebriando.
Nel centro dell’insediamento si imbatté in François Pierre da Dunkerque.
Uno dei comandanti più stimati, a quanto ne sapeva, proprietario e capitano
del brigantino Cerf-Volant. Lo salutò e fece per passare oltre.
Pierre lo trattenne per la manica. «Credo che ci siamo conosciuti in
passato» gli disse.
«Non è possibile, signore» rispose Martin. Non aveva alcun interesse a
rievocare i suoi trascorsi. Fece per allontanarsi in fretta, ma Pierre non
allentava la stretta.
«Eravate uno dei cagous, gli uomini di mano del Grand Coësre. Abitavate
la rue de Reuilly. All’epoca eravate giovanissimo e ferocissimo.»
A quel punto era impossibile negare. «Come lo sapete, capitano?» Martin
era molto preoccupato.
Pierre finalmente lasciò la manica. Non era affatto ostile; al contrario,
appariva cordiale e sorrideva. «Siamo stati assieme su una galea reale. Io, sul
ponte, ero incatenato al remo pochi banchi dietro il vostro.»
A Martin tornò alla mente un passato da incubo, che si era sforzato di
rimuovere. Prima ladro (millard) e sicario per conto del Grand Coësre,
signore della Corte dei miracoli e, almeno in teoria, sovrano di tutti i

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mendicanti di Francia. In seguito, una volta catturato dopo l’ennesimo
delitto, incatenato su una galea e costretto ad attraversare, prigioniero della
voga, gli inferni di fuoco e le battaglie navali del Mediterraneo. Finché il
barone De Pointis, imparentato a un ramo cadetto dei D’Orlhac, non lo aveva
notato e voluto con sé, nella flotta regolare. Il comportamento coraggioso di
Martin durante la presa di Alicante lo aveva riscattato dai trascorsi di ladro e
assassino, fino a portarlo al rango di ufficiale dell’esercito. Ed ecco che ciò
che aveva provato a espellere dal ricordo tornava ad affacciarsi, dietro
parvenze grossolane ma amichevoli. Involontariamente minacciose.
«Ho cambiato vita» balbettò.
«Lo so, lo so, amico mio. Vale anche per me, ed è l’ultima volta che vi
parlo di quei tempi. Vi dico solo una cosa che scoprirete voi stesso, se non
l’avete già scoperta.»
«Quale?»
«Le galee non ci hanno fatto capire il mare. Né ci riuscirebbe il servizio in
una flotta regolare.» Pierre fece un gesto ampio, ad abbracciare le acque blu
scuro visibili oltre le catene montuose. «Al largo esiste un bene insostituibile,
che voi e io, ex galeotti, possiamo apprezzare. Una libertà senza confini.»
Detto questo, il capitano si avviò verso le baracche. Martin restò un attimo
indeciso, poi si diresse al bosquetel e alle sue fragranze, in cerca di Le Pers.

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3 - L’appuntamento

Martin d’Orlhac raggiunse Petit-Goâve, molto vicina, su una delle scialuppe


messe in mare dai filibustieri. Fu questione di poche ore, passate più a
scendere la dorsale della Montagne Terrible che a percorrere la rotta. La
pazienza – minore in Le Pers, che lamentava di avere nuovamente appetito –
fu premiata dallo spettacolo offerto dalla cittadina.
Sorgeva in una baia, contornata quasi per intero da bastioni irti di pezzi di
artiglieria. Un forte sorgeva sulla destra, il molo e le altre strutture portuali
sulla sinistra. Una ventina di navi erano alla fonda, di dimensioni medio
piccole: brigantini, golette, traversieri con un solo albero e semplici barcacce.
Non esibivano bandiere di alcun tipo.
La meraviglia era l’abitato: casette di legno graziose e variopinte quasi
nascoste dalla vegetazione, che le sommergeva. Gli alberi erano in prevalenza
palmizi, tuttavia, a giudicare dagli aromi che raggiungevano il mare, non
dovevano mancare i limoni, gli albicocchi e ogni altra pianta spandesse
profumo. I fiori, lo si vedeva già da lontano, erano enormi e incantevoli.
Dietro l’abitato si elevavano amene collinette.
«Sapete quanti francesi, tra coloni e creoli, abitano qui?» chiese Le Pers a
Martin.
«Non più di sessanta, e per due terzi stanno in collina.»
«Le case sono molte di più!»
«Ci abitano i negri semiliberi, gli affranchis, i bianchi engagés, cioè
schiavi volontari per tre anni, e i francesi poveri. Le classi sociali qui sono
più complesse che in Europa.»
«Esiste dunque una scala di poteri?»
«No. Il potere lo esercitano solo coloni e creoli. Gli altri sono tutti
subalterni, distinti per categorie lavorative.»
Toccata terra presso il molo, Martin aiutò Le Pers a mettere piede sulla
spiaggia. Fu investito da un’afa insopportabile, che il mare e le sue brezze

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avevano fino a quel momento attenuato. Spiò con desiderio l’ombra delle
palme. Slacciò il colletto della camicia, che grondava sudore.
Erano attesi da una folla variegata e vociante, che assediava dall’interno i
bastioni. Negri di ogni sfumatura, venuti a festeggiare lo sbarco. Nugoli di
donne e bambini. Marinai della Filibusta, civili di vario rango, soldati
regolari. Venditori di frutta e di pesce. Ogni nuovo approdo, a Petit-Goâve,
doveva essere il pretesto per una specie di festa.
Le Pers andò a salutare alcuni conoscenti, ma poi fu di nuovo accanto a
Martin, un poco smarrito. Lo prese sottobraccio. «Venite, andiamo alla chiesa
di Nôtre-Dame. Padre Cabasson è un buon amico. È un domenicano. Ci
ospiterà volentieri.»
Mentre fendevano la folla assiepata, Martin osservò: «Molti negri mancano
di un orecchio, e alcuni di tutti e due. Hanno l’abitudine di tagliarseli?».
Le Pers rise. «No! È che quando tentano la fuga la prima volta vengono
mutilati di un orecchio, la seconda dell’altro. La terza volta si recidono loro i
garretti.» Rise più forte. «Schiavi di quest’ultima specie non si vedono in
strada, per ovvie ragioni.» Non attraversarono l’intera città, ma imboccarono
un viottolo fra gli alberi.
Le Pers ne spiegò il motivo. «Quando vedono passare un frate, torme di
bambini gli si mettono dietro e mimano una processione. È fastidiosissimo.»
Giunsero in un piazzale erboso dai contorni irregolari, circondato da
casupole distanti e dominato da una collina boscosa. Nôtre-Dame era una
costruzione ampia, con tre portali, un rosone e un basso campanile
sovrastante l’ingresso. Nel complesso un bell’edificio, lontano per stile da
quelle chiese spagnole imbiancate a calce che Martin aveva potuto vedere a
distanza, durante il viaggio di arrivo.
Le Pers non si diresse al portale di centro, ma camminò verso la canonica,
che sorgeva a lato. Alla terza scampanellata venne ad aprire una donna
anziana, dalla tinta scurissima, con i capelli bianchi raccolti da un fazzoletto.
«Padre Cabasson è qui?» chiese Le Pers.
«Eccomi, eccomi!»
Alle spalle della schiava, che si allontanò, apparve un uomo allampanato,
dal viso energico malgrado l’età. Indossava una tonaca non troppo candida,
senza il mantello nero tipico del suo ordine. Salutò il gesuita con molto calore
e si fece presentare Martin.
«Spero che il vostro ammiraglio De Pointis riesca ad andare d’accordo
con il governatore Ducasse... Venite, stavo per mettermi a tavola. Faccio
preparare anche per voi.»

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«Siamo arrivati al momento giusto» commentò gioviale Le Pers.
La cucina fungeva anche da sala da pranzo. Ai fornelli c’era una schiava
più giovane, forse figlia dell’altra, vista la notevole somiglianza. La donna
anziana aggiunse piatti e bicchieri di stagno alla tavola già imbandita.
Quando tutti ebbero preso posto, padre Cabasson disse: «Dovrete
accontentarvi di anguilla e di qualche sugo, salato con acqua di mare. In
questo periodo il sale scarseggia, e la carne mi deve ancora arrivare. Di
legumi, invece, ce n’è in abbondanza».
«Quanti schiavi ha la parrocchia?» chiese Le Pers.
«Calcolando anche i bambini, una ventina. Conto su un successo a
Cartagena per comperarne cinque o sei. Gli ultimi che ho preso si sono
suicidati tutti quanti... Non che li trattassi male. Erano però arrivati
dall’Africa da poco.»
«È bene non comperare mai dei negri appena sbarcati» commentò Le Pers.
«Non si adattano, cadono nella malinconia e si impiccano. È successo anche
a me diverse volte.» Si interruppe per esclamare: «Ma questa anguilla è
eccellente!».
«Grazie. Assaggia adesso il vino. È uno chablis di qualità. Il siniscalco,
che lo importa, me ne ha riservate cinquanta bottiglie.»
Martin trovò ottimi sia il pesce sia il vino. Ascoltò i due frati parlare dei
loro affari, dei viaggi che avevano fatto, della vita nei conventi antillani e
dell’opera di conversione che conducevano. Era un eloquio fitto. Approfittò
di una pausa per domandare: «Gli indigeni sono facili da convertire?».
Le sopracciglia bianche di padre Cabasson si aggrottarono. «Per niente. I
negri sono facili da portare alla fede. I caribe no, perché non hanno una
religione di base. Né un dio né molti dèi. Credono in uno spirito buono, che
non occorre pregare, perché accorda per generosità quanto si desidera. E in
uno cattivo, che chiamano “Manitou”. Contrasta l’altro, provoca disgrazie. La
loro teologia non si spinge oltre.»
«Concordo» disse Le Pers. «I selvaggi hanno una nozione confusa del
bene e del male. Ho ottenuto alcune conversioni, solo che spesso sono
simulate e durano una settimana o poco più. Inoltre è difficile comunicare
con i caribe. Usano tre lingue: quella degli uomini, quella delle donne e
quella, segreta, dei guerrieri. Uomini e donne si capiscono tra loro, malgrado
il linguaggio differente. Non ha una sintassi particolarmente difficile. Invece,
la lingua dei guerrieri è impenetrabile.»
Cabasson annuì. «È vero. Qui sta il genio del signor Ducasse, influenzato
dagli scritti di Bartolomé de Las Casas. Ignorare i selvaggi, che gli spagnoli

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sfruttano ignobilmente, e importare schiavi negri dall’Africa. I negri, se non
si suicidano, abbracciano volentieri la vera religione. Si sottomettono con
umiltà, diventano obbedienti e fedeli. Ne ho avuto mille prove.»
Martin si distrasse, perché conquistato dal vassoio di frutta appena messo
in tavola. C’erano banane rosse, fette di ananas, manghi, frutti della passione,
albicocche, spicchi d’arancia e bacche misteriose simili a olive. Si servì in
abbondanza, mentre attingeva alla seconda bottiglia di chablis. Un quesito
attizzava la sua curiosità. Lo sollevò. «Mi parlate tutti bene del signor
Ducasse. Eppure mi hanno detto che è ugonotto, non cattolico.»
Le Pers allargò le braccia. «Ci sono casi in cui bisogna passare sopra certi
dettagli. Il governatore non ostacola il cattolicesimo e ha tantissimi altri
meriti. Quando spagnoli e inglesi coalizzati attaccarono il Cul-de-Sac, cioè
l’ansa che comprende Petit-Goâve, Léogâne e L’Hôpital, Ducasse si batté
come un leone, per terra e per mare. Fu sconfitto, a causa della codardia di
De Graaf e del signor De la Boulaye, comandante di Port-de-Paix. Ciò
nonostante inflisse al nemico tali perdite da scoraggiare incursioni future, e
per un pezzo.»
«De Graaf sarebbe Lorencillo?»
«Sì. Laurens Corneille Baldran de Graaf. Si dice nato a Dordt, in Olanda.
In teoria cattolico.»
«Ha fama di coraggioso. Raccontano che dopo la presa di Campeche si
gettò col suo Neptune contro l’intera Armada de Barlovento. Quelli lo fecero
passare, tanto ne avevano paura.»
Cabasson alzò le spalle. «È vero. In seguito si è rammollito. Temo che sia
per colpa della sua nuova moglie, Anne-Dieu-le-Veut, o semplicemente
Anne-Dieu. Attualmente prigioniera degli inglesi in Giamaica, assieme ai loro
figli.»
«Ducasse è molto diverso» aggiunse Le Pers. «Altrettanto duro, ma più
umano. Per esempio, non fa torturare i prigionieri bianchi. Punisce le
violenze contro le donne, incluse certe schiave anziane.» Il gesuita emise un
sospiro di soddisfazione. «Era da tempo che non mangiavo così bene. Anche
il pane di manioca era ottimo e digeribile. Ora, se fossimo in Francia,
chiederei un armagnac.»
«Non occorre essere in Francia» rispose Cabasson, con una strizzata
d’occhio.
Andarono avanti fino a sera. Quando Martin si alzò da tavola, barcollava
un poco sulle gambe. Si lasciò guidare docilmente da uno schiavetto
adolescente alla camera che gli era stata assegnata: poco più di uno

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stambugio, con il tetto basso e spiovente. L’essenziale però c’era: un
pagliericcio pulito, due sedie, un lume a olio protetto dalla sua gabbietta e
diverse coperte di lino affastellate.
Rimasto solo, non dormì subito, malgrado la stanchezza dovuta ai cibi e
all’alcol. Neanche volle uscire: non aveva compiti particolari da sbrigare. Si
avvicinò a una finestrella che dava su un lato del piazzale e guardò fuori. Le
luci di Petit-Goâve si stavano accendendo, in armonia con le stelle, ancora
pallide. Il mare scintillava sotto la luna. Le rane gracidavano lontano, dagli
alberi giungevano profumi delicati e fragranti. Si disse che non aveva mai
visto un luogo più bello in vita sua. Staccarsene sarebbe stato difficile.
Martin si addormentò appena coricato sul pagliericcio, senza nemmeno
spogliarsi né ricorrere alle coperte. Fu un sonno ristoratore, calmo e
profondo. Lo cullò il ritmo monotono della risacca.
Fu svegliato, all’alba, da un grido che risuonò nella canonica: «Sono
arrivati! Sono arrivati i francesi!».

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4 - La flotta del Re Sole

Contemplare la flotta che si stava accostando a Petit-Goâve era uno


spettacolo di potenza dispiegata. Luigi XIV non aveva lesinato sulle risorse
statali, peraltro messe a dura prova dalle guerre ininterrotte, per creare la
forza di mare destinata a colpire duro gli interessi spagnoli in America.
Troneggiavano massicci i velieri a tre ponti e un galeone catturato agli
spagnoli; ma tutte le imbarcazioni che entravano nella rada impressionavano.
Martin d’Orlhac aveva viaggiato da Le Havre su uno di quei vascelli, e il
suo stupore era moderato. Descrisse però al capitano Bouc, uno dei
condottieri della Filibusta, ciò che stavano vedendo.
«La nave che procede davanti alle altre è il Sceptre, l’ammiraglia, agli
ordini del barone De Pointis. Potrebbe portare novanta cannoni, ma ne ha a
bordo sessanta. L’equipaggio è di seicentocinquanta uomini. La segue il
Saint-Louis, comandato dal signor De Lévy, viceammiraglio. Settanta
cannoni, circa cinquecento fra marinai e soldati. Subito dietro il Fort, la
contrammiraglia, guidato dal signor De Coëtlogon. Settanta cannoni e
cinquecentocinquanta imbarcati fra militi e ciurma. Viene poi...»
Le spiegazioni dettagliate di Martin continuarono a lungo, per tutta la
ventina di imbarcazioni. Terminò con il Dieppoise, con soli diciotto cannoni,
destinato a trasportare viveri e a fungere da ospedale. Era agli ordini di un
certo capitan Fauberto.
Bouc, un individuo grossolano quanto i suoi compagni di razzie, solo più
basso e magro, era senza parole. I giganti del mare, mentre ammainavano le
vele e calavano l’ancora, praticamente oscurarono i modesti brigantini e le
tartane dei Fratelli della Costa. Dalle loro fiancate furono calate le scialuppe.
Le prime a raggiungere il molo trasportavano nobili che non avrebbero
sfigurato a Versailles, tanto ricco era il loro abbigliamento. Accostarono poco
dopo soldati e marinai. Soprattutto soldati. Un vero esercito.
Martin intuì lo sconcerto dei pirati e dei civili, che non si attendevano un
simile spiegamento di forze. Approfittò dello stupore per rivolgere a Bouc

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una domanda che gli frullava da tempo per il capo.
«Perché siete chiamati filibustieri?»
L’altro rispose in modo meccanico, incantato com’era dalla scena dello
sbarco. «Deriva dal nome inglese di un tipo di naviglio. Il fly-boat, una nave
leggera e veloce quanto una mosca.»
«Capitano, toglietemi un’altra curiosità. Com’è la Tortuga oggi?»
«Uno scoglio, quale era stato e quale rimarrà in futuro.» Bouc puntò su
Martin occhi ostili. «Ciò lo si deve a gente come voi. Dove non sono riusciti
gli spagnoli, ce l’hanno fatta i francesi. Togliere ai Fratelli della Costa la loro
patria e trasformarla in deserto. In nome di un accordo di pace rinnegato
pochi anni dopo.»
Martin evitò di rispondere. Lasciò anzi il pirata e corse a raggiungere il
barone Jean-Bernard de Pointis, che stava mettendo piede sulla sabbia. Lo
aiutavano due servitori. Si notava subito che il nobile era adirato. O almeno
lo notò Martin, che ormai lo conosceva bene.
«Buongiorno, signore» lo salutò compitamente, a capo scoperto e con un
inchino. «Ho eseguito quanto mi avete chiesto. In città ci sono attualmente
oltre duecento avventurieri e altri arriveranno. Anche i borghesi sono
parecchi, e ognuno si è impegnato a portare con sé almeno un negro.»
«Sì, ma dov’è Ducasse? Non vedo da nessuna parte la sua nave.»
Dunque era Ducasse il problema. La bestia nera di De Pointis.
Martin parlò con voce bassa, per non irritare l’ammiraglio. «Non ne ho
notizie, mio signore. In effetti non è a Petit-Goâve. Immagino che sia in
arrivo.»
«Voi immaginate...» rispose De Pointis, collerico. «Io attraverso l’oceano,
e l’uomo che devo vedere manca all’appuntamento! Quasi una diserzione!»
Il barone era di statura normale, magro, dai lineamenti piacevoli. La sua
testa imparruccata reggeva con qualche difficoltà l’ampio cappello gonfio di
piume di pavone. Aveva il collo lungo immerso tra i merletti e impugnava un
bastone dal pomo d’argento. Non molto utile a reggersi in piedi né a scendere
dalla scialuppa.
Martin sapeva che De Pointis non era affatto un cortigiano, e meno che
mai un bellimbusto. Aveva piuttosto le caratteristiche dell’uomo d’azione. Se
vestiva così era per impressionare. Chi? Ducasse? I filibustieri? Di sicuro ce
l’aveva col governatore.
Martin preferì cambiare argomento. «Il luogo non offre molto a una
persona come voi, signor barone. Gli altri nobili possono trovare alloggio
nella canonica della cattedrale, come ho fatto io, o presso i conventi. A voi

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proporrei quello dei cappuccini, che ha decine di stanze. Sembra semplice ma
confortevole. Oppure una casa di coloni francesi. In parecchi sarebbero
onorati di ospitarvi.»
«Non è compito di vostra spettanza» brontolò De Pointis. «Dove passare
la notte lo deciderò. Adesso occupatevi dei signori che mi accompagnano. Li
voglio tutti a cena stasera. Inclusi i capi dei cosiddetti Fratelli della Costa.»
Martin trascorse alcune ore a facilitare lo sbarco di aristocratici lontani dai
costumi della gente di mare, a parte De Lévy, il viceammiraglio. Presero terra
il visconte De Coëtlogon, contrammiraglio, il signor De la Motte d’Héran, il
signor De Saint-Vandrille, il signor De Gombault e molti altri. Erano scortati
da valletti e camerieri. Alcuni si guardavano intorno come se non sapessero
bene dove si trovavano. Piante che non avevano mai visto suscitavano la
loro curiosità. Altri, già avvezzi ai Caraibi, erano invece colpiti dalla folla dei
filibustieri. Li ricordavano come nemici, cenciosi e crudelissimi, negli anni
recenti in cui il sovrano aveva ordinato di sopprimere la pirateria.
Nel pomeriggio i gabbieri avevano terminato di arrotolare la velatura e una
parte dei soldati stava scendendo sul molo. Martin aveva portato a termine il
compito che gli era stato assegnato, ma ritenne suo dovere svolgerne un altro:
presentare uno dei filibustieri di migliore aspetto a un qualche capitano
francese. Tra i primi pensò inizialmente a Macary, ma finì per scegliere
Godefroy, più celebre. Tra i secondi scelse De la Motte d’Héran, esperto
navigatore. Quando fece incontrare i due, sotto i palmizi, l’esordio non fu
incoraggiante.
Godefroy porse la mano. De la Motte d’Héran ritrasse la sua, col pretesto
di prelevare da una scatolina una presa di tabacco da fiuto. La inspirò, attese
di avere starnutito e disse: «Fa un caldo terribile. È sempre così, da queste
parti?».
Godefroy reagì con un sogghigno. «Chi difende gli interessi del sovrano
nelle Indie Occidentali ci è abituato.»
«Gli interessi del re o quelli propri?»
«Entrambi, quando coincidono.»
«E se non coincidono?»
«Ognuno bada alla sua salvezza e al suo benessere.»
Si stava creando tensione. Martin ritenne di intervenire. «Signori, è
prevista per stasera una cena organizzata dal barone De Pointis, per tutti i
capitani presenti nel porto. Qui il buio cala presto. Vi suggerirei di occuparvi
dello sbarco, per essere in tempo al forte, dove avrà luogo il convivio.»
Fu un’informazione provvidenziale. Il pirata e il gentiluomo, senza

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salutarsi, si avviarono in direzioni diverse, dove i loro navigli erano
ormeggiati. Martin trasse un sospiro di sollievo. Si incamminò verso la città.
Petit-Goâve non sembrava presentare attrazioni di alcun tipo. Un mercato
animatissimo, qualche osteria, tanti indigeni e negri che i francesi
chiamavano “neri”, “marrone” o “rossi” a seconda della tinta della pelle,
senza badare troppo all’etnia. La chiesa di Nôtre-Dame e Fort Royal, piccolo
ma compatto, erano le sole costruzioni degne di nota. O forse lo erano anche,
a loro modo, gli spezzoni di muratura lungo il mare, irti di cannoni. I
conventi sorgevano invece sulle colline adiacenti. C’era una sede della
Compagnia francese delle Indie Occidentali, abbandonata e in rovina. Poche
case in pietra dei coloni, che in maggioranza preferivano abitare in
campagna, a ridosso delle loro tenute.
Accanto ai “negri” di varie sfumature, la presenza più vistosa era quella
dei filibustieri e dei bucanieri, che continuavano a sbarcare. Si aggiravano
chiassosi, allegri, volgari, con la sicumera di chi sa che una città è la loro.
Attorniavano le indigene più graziose, ricompensati da sorrisi invitanti. Si
stravaccavano sulle panche fuori delle taverne, attingendo direttamente dalle
bottiglie portate da osti imbarazzati. Svuotavano la vescica sotto le palme,
senza riguardo per il pudore. Non si vedevano invece né soldati regolari né
marinai della flotta di De Pointis. Acquartierati nella spiaggia dietro il molo,
subivano le costrizioni della disciplina militare. Martin ne sapeva qualcosa.
Mentre bighellonava per fare venire l’ora dell’appuntamento, fu
interpellato da un filibustiere piuttosto anziano. Questi fumava una pipetta,
stretta fra i denti gialli, a un tavolo d’osteria. Era circondato da uomini molto
più giovani, che schiamazzavano, ridevano e, soprattutto, bevevano.
«Dove andate, soldatino?» chiese il vecchio. «Sedetevi con noi, bevete un
bicchiere.»
«Non sono un soldatino!» protestò Martin, piccato. «Sono un ufficiale
dell’esercito di sua maestà!»
L’altro rise. «Lo vedo dalla sciarpa bianca e dal nastro sul cappello, ma
restate un soldatino. Voi non avete idea di quanto abbiamo combattuto noi,
vecchi avventurieri. Scommetto che anche il vostro ammiraglio non ha un
decimo della nostra esperienza. Io sarei dovuto morire dieci volte, e invece
sono ancora qui... Accomodatevi, il vino ve lo offro io.»
Martin fu urtato da quel linguaggio poco formale, tuttavia pensò che un
tempo aveva parlato anche lui in un gergo altrettanto disinibito. Inoltre la
taverna era graziosa, protetta da un grande cipresso centenario che proiettava
ombra sui tavoli. Il vino bianco sembrava fresco. Pensò che, per informarsi

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sui pirati di Saint-Domingue, quel nonnetto dalla barba bianca poteva
rivelarsi più prezioso dei soggetti arroganti e armati fino ai denti che vedeva
aggirarsi per Petit-Goâve. Per l’appuntamento al forte era ancora presto.
Con qualche reticenza residua si accomodò a un’estremità della panca e
accettò che il vecchio gli versasse del vino, in una coppa che pareva pulita.
«Mi chiamo Martin d’Orlhac» disse «aiutante maggiore durante le campagne
nei Paesi Bassi. Attualmente al servizio del barone De Pointis. Io con chi ho il
piacere di parlare?»
«Piacere?» Il vegliardo tolse dalle labbra la pipetta per sghignazzare
meglio. «Figliolo, siete in presenza di François le Bon, già nostromo per il
cavaliere De Grammont e per il capitano Laurens de Graaf, detto Lorencillo.
Prima ero stato con L’Olonnais, con Michel le Basque e con non ricordo
quanti altri. Oggi appartengo anima e corpo, per quanto ne resta, a Ducasse:
un grande combattente, un grande marinaio e un grande governatore. Sì,
proprio quel Ducasse che il vostro ammiraglio odia tanto.»
A quelle parole Martin si rilassò. La conversazione si profilava
interessante, e persino utile.

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5 - A cena con la Filibusta

Le Bon era indubbiamente un chiacchierone, fluviale ma piacevole. I suoi


compagni gli somigliavano nell’aspetto. Nessuno di loro era troppo giovane,
e l’abbigliamento era più o meno lo stesso: ampi cappelli, camicie a sbuffo,
cinturoni, sciabole larghe e corte appese al fianco. Il comportamento era però
diverso. Degnarono il nuovo ospite di una breve occhiata, non troppo
amichevole, e ripresero a bere e a conversare fra loro a bassa voce, in un
francese inselvatichito.
Martin notò le cicatrici che quasi tutti avevano sul viso e sulle mani. Era
capitato in un convivio di reduci. Tanto valeva ignorarli e concentrarsi su ciò
che gli premeva. «Voi avete una straordinaria ammirazione per Ducasse»
disse a Le Bon. «Pare che sia condivisa da molti avventurieri. Eppure è
l’uomo che ha accusato il vostro ex capitano, Lorencillo, di vigliaccheria e lo
ha spedito a Parigi per farlo processare.»
«Solo un equivoco» brontolò l’ex nostromo aggrottando le sopracciglia.
«Sorto da due concezioni diverse della guerra per mare. Ducasse è il tipo che,
nel battersi, è pronto a sacrificare se stesso e un’intera flotta. Lorencillo,
invece, è cresciuto alla scuola dei Fratelli della Costa. Sa che, quando non c’è
modo di avere ragione del nemico, conviene squagliarsela. L’uno è maestro
di coraggio, come lo era De Grammont. L’altro d’astuzia.»
«Quale fu l’episodio che provocò la rottura?»
«Si era nel 1695. Arrivò alle Antille una flotta inglese di venti navi,
comandata dal colonnello Lillingston e dal commodoro Wilmot. Si unirono a
loro gli spagnoli dell’Armada de Barlovento. Puntarono su Guárico, dove
erano alla fonda i vascelli di Lorencillo, praticamente l’unica difesa delle
colonie francesi. Questi, intuita la minaccia, fuggì più in fretta che poté. Così
inglesi e francesi riuscirono a far vela su Port-de-Paix, Port-Margot e
Planemon, che misero a sacco. Ducasse fu costretto a ritirarsi a Léogâne, che
da quel momento diventò la capitale del governatorato.»
«E Lorencillo?»

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«Pareva sparito nel nulla. Quando ricomparve, Ducasse lo fece arrestare
come disertore e lo spedì a Parigi, in catene.»
Martin valutò il vino che stava bevendo. Era gradevole, ma leggero e
molto aromatico. Non era di sicuro prodotto a Saint-Domingue: l’isola non
sembrava adatta alla viticoltura.
Le Bon intuì i suoi pensieri e soddisfece la sua curiosità. «State bevendo
vino delle Canarie. Un altro motivo di gratitudine per Ducasse. Nel 1694 si
impadronì di un galeone inglese, il Falcon, carico di vini pregiati e di brandy
d’ogni tipo. Ne rifornì l’intera colonia, e la qualità del bere aumentò
enormemente. Ne godiamo ancora, tre anni dopo.»
«Non sarà l’unico motivo per cui siete grati a Ducasse. Grati al punto di
sorvolare sul fatto che ha mandato sotto processo il più noto dei vostri
capitani.»
«Oh, no. Le ragioni sono altre.» Le Bon agitò la pipetta. «Ducasse conosce
Hispaniola meglio di chiunque e ne coglie le necessità. Anzitutto sa che l’isola
ha bisogno dei filibustieri. Hanno fondato di fatto la colonia francese e sono
la sua vera forza d’urto. Così ci ha riscattati dall’estromissione dalla Tortuga e
condotti mille volte di persona in battaglia. Inoltre ha capito, da bravo ex
negriero, che sono gli schiavi a mandare avanti l’economia locale. Fece un
poco come Ogeron...»
«Il primo governatore di Saint-Domingue?»
«Esatto. Ogeron ci procurò le donne, che reclutò negli orfanotrofi, nei
bordelli e nelle prigioni di Francia. Ducasse ci ha procurato i negri. Ha
interpretato il desiderio dei coloni, francesi oppure creoli, cioè nati qui da
famiglia francese. Avere quanti più schiavi fosse possibile, anche come
simbolo di ricchezza. Ne importò in quantità, e altri li rubò agli inglesi e agli
spagnoli. Fino a un migliaio alla volta. Fu l’origine della prosperità attuale.»
Martin si accorse che la conversazione si allontanava dall’oggetto che gli
premeva. «Perché De Pointis e Ducasse sono nemici?» chiese. «Non credo
che abbiano scopi molto differenti.»
«Lo scoprirete quando si incontreranno. Qualcosa vi anticipo. Ducasse è
un coloniale, duro come una roccia, portato alla battaglia. Progetta la
conquista dell’intera Hispaniola. De Pointis è senz’altro un combattente
valoroso, solo che viene dal Mediterraneo e punta a vittorie clamorose e a
ricchezze facili da portare a Parigi, per consolidare la sua gloria in patria. Con
quest’isola ha poco a che fare. Quando i due si incontreranno, ne vedremo
delle belle.»
Il sole cominciava a tramontare. Martin vuotò la coppa, si alzò e fece per

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estrarre qualche moneta dalla borsa di cuoio che gli pendeva dalla cintola.
Le Bon lo fermò con un gesto. «Pago io, vi ho detto.»
«Grazie.» Martin si aggiustò cappello, marsina e cinturone. «Un’ultima
curiosità. Avete lodato il sistema schiavistico, eppure tra i filibustieri c’è un
buon numero di negri totalmente liberi.»
Le Bon strizzò l’occhio. «Noi avventurieri siamo più furbi di questi
smidollati di coloni. Sappiamo che uno schiavo liberato, un affranchi, farà le
stesse cose di un negro in catene, ma con più gusto. L’importante è che si
creda libero. Pagato quanto gli schiavi, obbligato allo stesso lavoro, ma con
l’illusione di farlo per sua scelta. Se i francesi di qui lo capiranno, i negri in
catene smetteranno di suicidarsi e la prosperità delle Antille inizierà
davvero.»
Martin non capì molto la riflessione. Si propose di approfondirla.
Camminò verso Fort Royal, rallentato dal calore e dall’umidità opprimenti. Il
vinello profumato delle Canarie, così fluido e gradevole mentre lo beveva, gli
ostacolò la marcia e lo fece inciampare di frequente. Le vie erano sassose,
oltre che polverose. Ogni pietra tonda gli faceva rischiare una scivolata.
Arrivò al forte quando ormai il sole stava tramontando, molto
prematuramente rispetto agli orari a cui era abituato in Francia. Le zanzare
uscivano a nugoli dai cespugli. Il caldo soffocava ancora, l’aria era malsana.
Per proteggere il banchetto, che si svolgeva all’aperto dato il numero degli
invitati, erano state accese molte torce. Servivano ad allontanare gran parte
degli insetti e ad attrarre gli altri fin troppo vicino, così da incenerirli.
Il barone De Pointis, che stava dando ordini ai servitori, vide Martin e gli
si fece incontro. A parte la parrucca incipriata, vestiva ora con relativa
semplicità. Il viso era cordiale, ornato da una barba leggera e da baffi lunghi,
impomatati alle estremità perché non spiovessero. Non aveva altre armi che
la spada che si conveniva al suo rango.
«Vi aspettavo, D’Orlhac. Avete notizie su Ducasse?»
Martin fece un mezzo inchino. «No, signore. Non si sa dove sia.»
«Quel gaglioffo mi fa perdere tempo. E i filibustieri che aspetto, che tipi
sono?»
«Le ciurme mi sono parse composte da mezzi selvaggi, però quelle
nemmeno le vedrete. I capitani che avrete al vostro desco sembrano
comportarsi con una relativa decenza, a parte le manifestazioni di aerofagia di
alcuni. Dovrete ignorare la loro ingordigia.»
«Nomi sicuri?»
«Bouc. Macary. Sono i più civili, entro certi limiti. Macary pare essere

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l’ammiraglio, per così dire, dei Fratelli della Costa. È tuttavia una carica
effimera, che può essergli ritirata.»
De Pointis, con un gesto per lui insolito, mise una mano su una spalla di
Martin. «Amico mio, è necessario che continuiate a seguire da vicino i
filibustieri. So che vi chiedo molto. Mi serve qualcuno che si infiltri nelle
loro file. Ormai vi conoscono. Nessun altro potrebbe assumersi un compito
del genere.»
Martin fu costretto a deglutire. «Lo farò, ammiraglio» disse con voce
insicura. «Su quale nave dovrei imbarcarmi?»
«Sulla stessa di Ducasse, se mai arriverà.» De Pointis alzò le braccia al
cielo. «Quell’imbecille comincia a sfidare la mia pazienza!»
Circa un’ora dopo ufficiali francesi e capitani della Filibusta erano a
tavola, serviti dai negri di ampie porzioni di montone e di maiale abbrustoliti,
con accompagnamento di verdure e legumi. Le forchette fecero sorridere i
pirati, poco abituati a quel tipo di posata: normalmente usavano solo i
coltelli. Ciò malgrado si adeguarono alla meglio, nell’intento di fare una
buona figura. Per il brodo di tartaruga, però, non usarono i cucchiai. Lo
ingurgitarono direttamente dalle tazze, con un rumoroso risucchio. Per
fortuna, i vini di Francia e di Spagna erano passione comune, e tutti fecero
loro un’ottima accoglienza, senza troppo riguardo per le regole dell’etichetta.
Ufficiali dell’armata, aristocratici e capitani irregolari non si erano
mescolati. Nello spartirsi i posti, si erano sistemati per affinità. Faceva
eccezione De Pointis, a centro tavola, che era in un certo senso lo
spartiacque. Alla sua sinistra aveva voluto Martin, che apriva il settore dei
pirati, con qualche disagio. Di fronte stavano Bouc e Macary, e non era un
caso.
Le conversazioni si accendevano a gruppi. Quasi tutti i presenti, però,
prestavano orecchio a ciò che diceva De Pointis. Era logico. Di lì a breve gli
avrebbero affidato le proprie vite e le possibili fortune.
Si fece silenzio, per esempio, quando l’ammiraglio disse: «Cartagena è un
osso duro. Sta dentro una conca ben protetta, circondata da mura in
costruzione e dotata di fortezze. Potremo bombardare dalla baia, ma l’assalto
determinante sarà via terra. Il bastione da prendere è quello di Boca Chica.
Solo dopo avremo accesso alla città».
Macary, molto pensieroso, annuì. «Senz’altro, barone. Gli avventurieri
superstiti sono stati abituati dal defunto cavaliere De Grammont a combattere
al suolo. Così fu presa Campeche. Occorre un’azione di spionaggio
prolungata. Al momento non abbiamo mappe dettagliate né informazioni. So

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che il governatore di Cartagena, don Diego de los Ríos, non brilla per
coraggio. Non viene detto altrettanto del comandante di Boca Chica, don
Sancho Jímeno. È considerato di altra stoffa.»
«Obiezione valida.» De Pointis fece l’occhiolino. «Ma, capitano, non
sottovalutate il potere del denaro.»
«Avreste comperato don Jímeno?» si stupì Macary. «Ha fama di
incorruttibile.»
«Lui no, ma con i suoi uomini non si sa mai.»
Macary infilò goffamente la forchetta in una scaglia di prosciutto tagliata
spessa. «Non esito a credervi. Ciò nonostante vorrei che il signor Ducasse
fosse qui e si occupasse direttamente della faccenda.»
Si sollevò, dal lato dei pirati, un mormorio di consenso.
De Pointis raddrizzò il busto, quasi lo avessero schiaffeggiato. «Ducasse
non è qui, e comunque non ci serve» disse con vero odio. E aggiunse, con
voluta malignità: «Non è lui che ha deportato il vostro capo, Laurens de
Graaf, quale pavido e disertore?».
Macary si alzò, la mano sull’impugnatura della sciabola. «Barone, ritirate
gli epiteti sul capitano Lorencillo, altrimenti sarò costretto...»
In quell’istante un granatiere sbucò dai boschi, trafelato. «Signori» ansimò
«è successo un incidente grave! I filibustieri sono in rivolta! Non c’è verso di
quietarli!»

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6 - Ribellione

Seguirono momenti di confusione, che indussero Martin ad accantonare


eventuali propositi vendicativi. Il granatiere parlò all’orecchio di De Pointis.
Questi si alzò a sua volta. «Signori, è successo un fatto grave» disse ai
filibustieri «ma la situazione è sotto controllo. Uno dei vostri uomini, ubriaco
fradicio, ha pesantemente offeso un guardiamarina di sua maestà. Ciò non è
ammissibile. Il colpevole sarà punito come merita. A voi chiedo di calmare le
ciurme e riportarle alla disciplina.»
Proprio in quel momento apparve sulla strada il capitano del forte. Due
soldati affiancavano un prigioniero saldamente legato per i polsi, che
spingevano avanti. Non doveva essere molto lucido perché inciampava di
continuo.
«Ma è Romain Noly, il mio nostromo!» esclamò Bouc, indignato. «Barone
De Pointis, fatelo liberare subito! A volte beve troppo, è vero. Ciò nonostante
a bordo del Gracieuse è indispensabile.»
L’ammiraglio non gli badò. Gridò al capitano del forte: «Mettete ai ferri
l’ubriacone! Sarà giudicato come merita! Nessuno può permettersi di
insultare un ufficiale della marina reale!».
Ora i pirati erano in piedi. Godefroy disse ai compagni: «Fratelli della
Costa, lasciamo questo banchetto avvelenato e ritiriamoci fra noi.
Decideremo cosa fare». Si rivolse a De Pointis. «Vi ringraziamo per la cena,
barone. Purtroppo non possiamo rimanere. Ci era stata garantita completa
autonomia. Il sequestro di uno dei nostri uomini è una provocazione grave.»
De Pointis sogghignò. «Andate pure, signori. Non so che cosa vi avesse
assicurato Ducasse. La legge di Francia vale qui, nelle Antille, come nella
madrepatria. A chi si ribella si taglia la testa. Prendete con calma le vostre
risoluzioni. Valutate solo le conseguenze di un reato di ammutinamento.»
Dietro Godefroy, tutti i filibustieri si allontanarono.
De Pointis tornò a sedersi e riprese forchetta e coltello. «Accomodatevi,
signori» disse ai suoi commensali venuti dalla Francia. «Adesso abbiamo il

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doppio di vivande e di vino. È il caso di farvi onore. I pirati andranno a
ronfare e per domattina avranno dimenticato tutto quanto. Se non altro, una
di quelle canaglie è in galera.»
Il pasto riprese, meno allegro di prima. Quando furono servite le pernici,
che annunciavano la fine del banchetto, De Pointis sussurrò a Martin:
«Svegliatevi presto e raggiungete la Filibusta. Vostro compito, ve lo ricordo,
è imbarcarvi con gli avventurieri e dirmi cos’hanno in mente. Questo è il
momento».
«Obbedirò, ammiraglio.»
Martin trascorse la notte in canonica e poco dopo l’alba si mise alla ricerca
dei pirati. Fu incantato dal mattino tropicale. Non faceva ancora troppo
caldo, il cielo era trasparente e di un azzurro compatto. Fu la prima volta che
vide dei colibrì: uccellini graziosissimi, capaci di frullare le ali fino a volare
sul posto. Presto si unirono i versi e i canti di una congerie di pennuti, fra
trilli e gorgheggi. Alla fine i galli annunciarono che il giorno era
definitivamente spuntato. Lo sfondo sonoro era quello della risacca lontana.
Martin pensò che quello che vedeva somigliava a un paradiso, non al
teatro di tanti conflitti. Era però di indole realistica; solo, si assopì in lui la
nostalgia per la vita urbana che aveva condotto allo Châtelet e per la seconda
parte, più bellicosa, della sua esistenza. Un simile senso di tranquillità non lo
aveva mai provato.
Quando si imbatté nei filibustieri, l’incontro fu traumatico. Si stavano
disponendo, con diligenza, in ranghi di quattro. In prima fila c’erano alcuni
tamburini e due portabandiera. Uno reggeva i gigli dorati di Francia su
sfondo bianco, l’altro un vessillo rosso su cui erano ricamati un teschio e due
tibie incrociate. Si trattava della Jolie Rouge (per gli inglesi Jolly Roger),
l’insegna della pirateria. Rossa o nera, era un simbolo minaccioso, di lotta
imminente. Ogni uomo era carico d’armi, dalle asce agli sciabolotti, ai
moschetti.
Martin fu subito riconosciuto. Uno degli armati lo additò. «Attenti! C’è
una spia di De Pointis! Un ficcanaso!» Puntò la pistola.
Martin provò un brivido di terrore, ma fu breve. Il vecchio Le Bon, la
pipa in bocca, disse dai ranghi: «Lo conosco. Mi sembra un buon diavolo.
Non credo che sia pericoloso».
François Pierre, che si teneva ai margini del corteo in formazione,
aggiunse: «Confermo. Lo conosco da tanto. Non è uno di quegli effeminati
con la puzza sotto il naso». Disse a Martin: «È il momento di scegliere. Volete
essere dei nostri o dei loro?».

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«Dei vostri.» Martin si affrettò a raggiungere l’ultima delle file di quattro.
Il pirata che lo prendeva di mira abbassò la pistola, con evidente disappunto.
Si fece avanti al corteo Godefroy, i pugni sui fianchi. «Amici, andiamo. È
ora di muoverci. O liberano il nostro compagno, o il forte andrà a fuoco. Noi
non siamo tenuti a obbedire a nessuno. Meno che mai a un barone che, fino a
ieri, non sapeva nemmeno dove fosse l’America.»
I tamburini presero a battere i loro strumenti, e la squadra, di circa
duecento filibustieri, si mosse. La scortava un piccolo manipolo di bucanieri.
Martin fu impressionato dal passo regolare della falange. Non avrebbe
creduto che dei fuorilegge potessero assoggettarsi a disciplina. Solo molto
più tardi venne a sapere che ciò si doveva allo scomparso cavaliere De
Grammont, l’uomo che aveva abituato i Fratelli della Costa alle battaglie di
terra, con tanto di fanteria e cavalleria.
In vista del forte la colonna rallentò il passo. Non c’era più traccia del
banchetto della sera prima. I nobili e i militari si erano ritirati, chi sulle
proprie navi, chi nei conventi vicini, chi presso qualche potente locale che
aveva offerto ospitalità. In compenso, sugli spalti del fortilizio si notavano
una decina di soldati, con moschetti e fucili. Vedendo i filibustieri in
avvicinamento, con la bandiera rossa spiegata, si misero in allarme. Dietro i
grossi merli fu facile scorgere l’agitazione dei difensori.
Godefroy fece segno agli uomini di fermarsi e ai tamburini di cessare di
percuotere i loro strumenti. Si portò sotto le mura. «Voglio parlare con il
capitano della guarnigione!» gridò.
«Eccomi!» A rispondere fu un individuo minuto, protetto da un corpetto
d’acciaio scintillante. «Che cosa volete?»
«L’uomo che avete incarcerato ingiustamente, il nostromo Romain Noly!»
«Impossibile.» Il comandante del forte aveva una voce flebile, ma cercò di
renderla possente. «La detenzione è stata disposta dal barone De Pointis in
persona. Ho un ordine scritto firmato di suo pugno.»
«Sai cosa ci spazzo col tuo ordine scritto, canaglia? Libera subito il nostro
amico!»
«No. E, se non vi allontanate, ordinerò di fare fuoco!»
Godefroy gonfiò il petto e sguainò la sciabola. «Provaci e io ti taglio prima
la testa e poi quelle orecchie da somaro!»
Vi fu un lungo momento di indecisione. Infine dalle merlature piovve
l’eco di un comando che nessuno si sarebbe atteso.
«Fucilieri! Caricate! Puntate! Fuoco!»
Non solo i soldati accesero le micce di fucili e moschetti, ma presero la

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mira. Godefroy fece in tempo a raggiungere la sua schiera un attimo prima
che il bastione si incendiasse in una scarica fragorosa. Tre pirati caddero, due
colpiti al petto, il terzo con la testa spaccata.
«Ah, miserabili!» urlò Godefroy. «Miei prodi, al riparo! Non risparmiate
né la polvere né le palle!»
I filibustieri indietreggiarono fin sotto l’ombra delle palme. Spararono a
loro volta. Erano però distanti e non avevano fucili paragonabili a quelli dei
difensori, bucanieri a parte. Le pallottole più fortunate rimbalzarono sulle
mura del forte.
Anche Martin sparò due colpi di pistola, ben sapendo che non avrebbe
colpito nessuno. L’esito dei tiri fu una fumata opaca che provocava tosse e
infiammava gli occhi degli assalitori.
«Basta, basta!» gridò il capitano Bouc brandendo la spada. «Così non
concludiamo nulla. L’unica cosa che possiamo fare è portarci sotto le mura e
cercare di scalarle. Oppure sfondare il portone di ingresso.»
«Basta lo dico io!»
Tutti si girarono. Era apparso De Pointis, scortato da un buon numero di
granatieri. Aveva il tricorno di traverso, segno che si era vestito in fretta. Il
mantello ricamato gli pendeva dalle spalle come uno straccetto. Marciò diritto
verso Godefroy.
«Cos’è questa follia, capitano?» domandò, fissandolo pieno di collera.
Tossì sommessamente per il fumo. «Fate ritirare subito la vostra orda! Sapete
come si chiama ciò che state facendo? Ammutinamento!»
L’altro era più furioso di lui. «Barone, vogliamo il nostro compagno! Non
siamo disposti a transigere. Se ci volete con voi a Cartagena, dovete
accontentarci.»
I capi filibustieri si erano fatti attorno e mostravano la stessa risolutezza.
De Pointis dovette esserne scosso, perché disse, con voce un po’ incrinata:
«Non equivocate, non dico di no. In fondo si è trattato di un episodio
trascurabile. Mettete via le armi, però. Darò ordine che il prigioniero sia
liberato».
Godefroy si tolse il cappello con un gesto affettato, carico di ironia. «Ve ne
siamo grati, barone. Inoltre ci consegnerete il capitano del forte. Ha ucciso tre
dei nostri.»
«Cosa vorreste fargli?» chiese De Pointis, smarrito.
«Dobbiamo ancora deciderlo. Qualcosa escogiteremo.»
«È un ufficiale! Un soldato del re!»
Godefroy fece un sorriso sinistro. «Lo sappiamo e lo tratteremo secondo il

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suo rango. Dopo vi restituiremo il corpo, in modo che abbia onorata
sepoltura.»
«Siete impazzito?»
La domanda non era delle più felici. Godefroy, che aveva ringuainato la
sciabola, portò la mano all’elsa. Attorno si udirono gli scatti dei cani delle
pistole che si alzavano.
Martin temette una tragedia. Per fortuna, la voce possente di un nuovo
venuto smussò come per miracolo la tensione.
«Non vi si può lasciare soli un momento! Che diavolo succede? Tutto mi
aspettavo di trovare, salvo una specie di tumulto!»
Dalle palme era sbucato un uomo di statura imponente e di corporatura
erculea. La sua massa muscolare non gli impediva di avere un viso
intelligente, ornato da una barbetta a collare, molto curata, e da baffi con le
estremità arricciate. Vestiva in maniera elegante ma sobria. Sul capo portava
un tricorno bianco, privo di piumaggi. Dal fianco gli pendeva la classica
cazoleta toledana, che si guardò dal toccare.
Marciò diritto su De Pointis. Gli sorrise. «Lieto di incontrarvi, ammiraglio,
anche se in circostanze assai originali. Sono Jean-Baptiste Ducasse,
governatore di Saint-Domingue. Sbarcato in tempo per darvi il benvenuto.»
I filibustieri, rasserenati, esplosero in un “evviva” collettivo.

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7 - Rapporti tesi

«Mi hanno detto, mentre venivo qui, che non volete consegnare a questa
brava gente il capitano del forte» esordì Ducasse. «Responsabile della morte
di tre filibustieri e della ingiusta detenzione di un quarto.»
De Pointis alzò il mento. «È esatto. Non posso lasciare massacrare un
ufficiale del re, che si è limitato a eseguire i miei ordini e a difendere la
fortezza da una torma di insubordinati.»
Dalla massa degli avventurieri si sollevò un brusio minaccioso.
Ducasse restò un attimo in silenzio. Quando parlò, ciò che disse colse un
po’ tutti di sorpresa. «Sono d’accordo con voi, barone. Tanto più che avrete
certamente pensato a sollevare il capitano dal suo incarico, per destinarlo a
mansioni più modeste, e ad affidare il forte a qualcuno dotato di lucidità e
autocontrollo. Non è vero?»
De Pointis si impappinò. «In effetti... Pensavo proprio...»
«Saggia decisione.» Ducasse si rivolse ai filibustieri. «Amici, avete avuto
ciò che volevate, mi pare. Il vostro compagno sarà scarcerato e il capitano
omicida perderà il comando.» Sospirò. «Ah, finissero così tutte le vertenze!»
La perplessità durò un attimo, poi i cenni affermativi degli astanti
mostrarono l’ampiezza del consenso.
«Contiamo su voi, governatore, perché ciò che proponete sia eseguito»
disse Godefroy.
«Lo sarà. Ora ritiratevi. Io e il barone dobbiamo discutere della
ripartizione delle ricchezze di Cartagena e dei vostri compensi. Vi fidate di
me?»
«Certo!»
«Allora lasciatemi trattare. Vi riferirò i risultati.»
I pirati si sparpagliarono tra le palme, diretti al cuore di Petit-Goâve o alla
spiaggia.
Martin rimase, trattenuto da un gesto di De Pointis. Aveva ammirato molto
l’eloquio di Ducasse. Nessuna retorica, non una parola superflua. Solo uno

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del suo stampo poteva tenere sotto controllo una massa indisciplinata,
ammiratrice delle proposizioni franche e decise. L’antitesi delle locuzioni
aristocratiche, complicate e noiose. La stoffa del condottiero era evidente.
«Barone, conviene che andiamo a discutere sul mio tre alberi, il
Pontchartrain, ormeggiato nel porto.»
«D’accordo, vi seguo.»
«Ciò mi onora. Avrò il piacere di attendervi finché non avrete disposto per
iscritto la liberazione del filibustiere prigioniero, e la degradazione e
sostituzione del comandante del forte.»
«Non abbiamo tanto tempo!»
«Perché? Io ne ho.» Ducasse incrociò le braccia. «Vi aspetterò finché le
ordinanze non siano redatte e sigillate. Non preoccupatevi di me, barone.
Posso sostare per ore intere. Nel vostro caso, sarà faccenda di minuti.»
Un’ora più tardi, una scialuppa conduceva, a forza di remi, Ducasse, De
Pointis e vari ufficiali al Pontchartrain, ancorato al centro della baia. Era il
tipico vascello da guerra, però con serpa lunga e bassa e castello alto, il che
lo faceva somigliare a un galeone. Non era improbabile che fosse stato in
origine una nave militare spagnola, catturata dai francesi e parzialmente
modificata. Ovviamente le vele erano tutte ammainate, e l’imbarcazione
tonneggiava pigramente nel mare calmo, facendo scricchiolare le gomene.
Della spedizione faceva parte Martin, che De Pointis aveva preteso con sé,
in vista dei suoi piani. Lo aveva presentato come suo luogotenente, e Ducasse
non aveva mosso obiezioni.
Sul ponte l’equipaggio era folto: pochi erano scesi a terra in cerca d’acqua.
Martin notò, dagli ordini impartiti dal governatore una volta a bordo, che le
gerarchie erano le stesse di ogni nave al mondo: primo ufficiale, secondi
ufficiali, nostromo, maestro d’ascia, timoniere, gabbieri, cannonieri eccetera.
Tuttavia esisteva una differenza rispetto alle flotte che lui conosceva. A parte
il colore della pelle di un buon terzo della ciurma, bruna, nera o nerissima,
nessuno degli uomini a bordo aveva un atteggiamento che si potesse definire
marziale. Reagivano con calma ai comandi, strascicavano il passo, si
permettevano di sbadigliare o, addirittura, di sputare in mare. Martin
concluse che si trattasse di filibustieri o di affranchis. Ne fu leggermente
scandalizzato. Si poteva dare una nave da guerra in mano a gente simile?
La riunione avvenne nel quadrato ufficiali, lurido e puzzolente come
l’intero bastimento. Ducasse, fatti accomodare gli ospiti attorno a un tavolo
rettangolare, ordinò a un mozzo di servire della birra e prese la parola per
primo.

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«Barone De Pointis, come sapete avrei voluto che la spedizione riducesse
sotto il nostro controllo l’intera Hispaniola. Sua maestà non ha accondisceso
e ne prendo atto.»
«Le casse del regno non consentono follie» spiegò De Pointis.
«D’accordo. Mi metto al vostro servizio per rimpolparle con la presa di
Cartagena. Ho mobilitato i filibustieri ancora in attività, i borghesi più in vista
del Cul-de-Sac, i loro negri, parecchi indigeni caribe. Fra stanotte e domattina
dovrebbero essere tutti qui. Ciò equivale a millecinquecento combattenti
circa, armati di tutto punto a loro spese.»
«Me ne compiaccio. Avete fatto il vostro dovere di governatore, a parte un
certo ritardo nell’arrivo. Vogliamo ora discutere i dettagli della nostra
missione?»
«Non subito.» Ducasse sorseggiò la birra, come fecero gli altri
commensali. Martin la trovò aspra, però fragrante. «Prima va stabilito il
compenso. Qui nelle Antille non è come in Francia. Gli ideali e l’obbedienza
al sovrano contano meno del profitto. Gli uomini che comando pretendono
di sapere la quota di denaro a loro destinata. Non combattono in cambio di
niente. Non fanno nulla gratis. E ciò vale non solo per Saint-Domingue e per
la filibusteria, ma per tutta l’America.»
De Pointis sollevò il naso, adorno di uno sbuffo di schiuma, dal boccale.
«Non sono abituato a una morale del genere.»
«Lo immagino. Tuttavia qui si ragiona a questa maniera, e ne va tenuto
conto. Hispaniola, come la Martinica, come Guadalupa, è un emporio
galleggiante. Vi si commercia in cose e in uomini. Dunque vorrei sapere in
anticipo come avverrà la ripartizione del bottino, per comunicarlo agli
equipaggi e ai volontari armati.»
«L’interesse della Francia conta così poco?»
«Al contrario. L’interesse del regno è spezzare il monopolio spagnolo e
instaurare il libero mercato. Noi, coloni e filibustieri, siamo le avanguardie di
tale progetto. Ecco perché la questione monetaria è importante. Quale quota è
riservata ai nativi che vi aiuteranno a conquistare Cartagena?»
De Pointis, seccato, fece un cenno al signor De Lévy, viceammiraglio e
comandante del Saint-Louis, che lo aveva accompagnato a bordo.
Questi, un ometto glabro e vivace, frugò tra gli alamari ed estrasse un
foglio ripiegato, bagnato di sudore. «Sua maestà Luigi ha voluto curare di
persona anche questo dettaglio.» Aveva una voce nasale ma gradevole. «Tra
filibustieri e volontari sarà ripartito un decimo del primo milione di corone di

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bottino e il tre per cento di eventuali somme maggiori. Lo stesso premio
riceveranno soldati e marinai regolari.»
«I negri catturati?» chiese Ducasse.
«Divisi equamente.»
«Quale compenso per feriti e mutilati?»
Intervenne De Pointis. «A questo dovrete pensare voi, sulla base del
montante che spetta alle vostre truppe. Il chassepartie non è contemplato
dalle regole dell’esercito francese.»
Ducasse si era notevolmente rilassato. Attinse al boccale di birra, ripulì
con la lingua la schiuma che gli era rimasta sulle labbra e disse: «Sono
condizioni oneste. I miei fidi le accetteranno con gratitudine, barone. Vi
posso assicurare che si batteranno con coraggio».
«Non ne dubito. Quando potrete salpare?»
«Domani stesso. Male che vada domani l’altro, però non penso. In questi
giorni il vento è costantemente favorevole a una partenza.»
Seguì un’ora buona di discussione sulle modalità di attacco a Cartagena, a
cui si associò anche Donon de Galiflet, luogotenente reale dell’isola di
Sainte-Croix: silenzioso, diligente, attento, dai modi notarili, per non dire
impiegatizi. Notoriamente un fedelissimo di Ducasse.
Le difficoltà dell’assalto erano tutte legate alla peculiare localizzazione
geografica di Cartagena: posta in fondo a una baia che era in pratica un
canale delle dimensioni di un lago, con due accessi chiamati l’uno “Bocca
grande”, l’altro “Bocca piccola”. Erano protetti da fortificazioni, per cui era
impossibile piombare a sorpresa sulla città. Quando un uomo valoroso e
spietato come il cavaliere De Grammont vi aveva provato, era stato costretto
a ritirarsi e a saccheggiare le campagne. Da allora Cartagena si era riparata
ulteriormente con una muraglia incompleta, però già robusta.
Martin seguì distrattamente le conversazioni, che non lo riguardavano in
prima persona, e gettò appena un’occhiata alle mappe spiegate sul tavolo. Si
dedicò invece al secondo boccale di birra, mentre cominciava ad avvertire
appetito.
Finalmente la riunione terminò, e fu allora che si sentì chiamare in causa.
De Pointis si era alzato. «Credo che siamo d’accordo su tutto,
governatore» disse. «Perché la sintonia continui nel modo migliore, lascerei
sul vostro vascello un ufficiale che mi rappresenti. È il luogotenente Martin
d’Orlhac, che è stato al mio fianco ad Alicante e in altre battaglie del
Mediterraneo. Farà da tramite fra noi.»
Ducasse guardò Martin senza alcuna traccia di simpatia. «Come lo devo

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considerare, barone? Una specie di commissario?»
«No, no! È un valoroso, in guerra lo ha dimostrato più di una volta. Sarà
prezioso anche a voi.»
«E va bene. Gli destinerò la cabina di un ufficiale che è morto durante
l’ultima incursione inglese... Vi saluto, barone.»
«Chiamatemi ammiraglio» rispose De Pointis con sussiego. Non strinse la
mano a Ducasse. Si limitò a un cenno del capo e uscì, seguito da De Lévy e
dagli ufficiali. Chinò la testa sulla porta: durante l’incontro non si era mai
tolto il cappello.
Ducasse si rivolse a Martin. «Come avete fatto a stare per tanti anni con
quel salopard?»
Ovviamente Martin non rispose. Si limitò a un sorrisetto neutro.

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8 - Per mare

L’attesa fu più lunga del previsto, perché il conte De Boissy Raymé,


comandante del Vermandois, tardava ad arrivare. Finalmente il veliero
apparve. Il 19 marzo 1697 il barone De Pointis salpò, sul suo Sceptre e in
compagnia del grosso della flotta, in direzione di Cap Tiburon, per rifornirsi
d’acqua. Ducasse lo seguì il 23, scortato dagli otto vascelli dei filibustieri.
Settecentoquindici uomini, centosettanta volontari (inclusi schiavi che
volontari non erano affatto). Fu poi denominata la “Brigata Saint-
Domingue”. Il mare era calmo, il vento leggero. Le giornate erano calde, le
notti tiepide. Rare le nubi, pigre, sfrangiate, quasi trasparenti.
Martin si era imbarcato sul Pontchartrain di Ducasse. Costretto
all’inattività, trascorreva la giornata sul ponte, seduto sul cumulo di pennoni
di rispetto, la schiena appoggiata all’impavesata. Ogni tanto Le Bon lo
raggiungeva, la pipa tra i denti, a volte spenta e a volte accesa.
«Mi dicono che in Francia ve la passate male. È vero?» chiese il pirata.
«Sì, soprattutto nelle campagne. Le guerre del re, che Dio lo benedica,
hanno indebitato il paese fino al collo. In casi del genere vengono torchiati i
contadini e il popolo in genere.»
«E chi, se no? Certamente non gli aristocratici.»
«Ci mancherebbe. Sta di fatto che la malattia della miseria comincia a
contagiare anche le città.» Martin ne aveva avuto esperienza diretta molto
prima dei disastri attuali. La Corte dei miracoli era stata il risultato
dell’urbanizzazione, nel tentativo di sfuggire alla fame che attanagliava le
campagne. «Il vescovo di Cambrai, precettore del Delfino, paventa persino
una rivoluzione, nel giro di qualche decennio. Colbert stesso diceva che le
vittime delle guerre sono poca cosa rispetto ai morti per miseria.»
Le Bon scosse la pipa. «La rivoluzione l’avete davanti agli occhi. I Fratelli
della Costa obbediscono a Luigi XIV, nei limiti del possibile, ma di fatto sono
una repubblica. Ducasse non resisterebbe un giorno di più se non godesse di

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un consenso universale. Guardate i filibustieri o i bucanieri. Vi sembrano
servi?»
Martin stava appunto osservando con ammirazione la ciurma del
Pontchartrain. A ogni comando trasmesso dagli ufficiali gli uomini si
arrampicavano sulle sartie con l’agilità di una tribù di scimmie.
Camminavano sulle corde a piedi nudi, dalla pianta ormai dura più del cuoio.
Scioglievano o imbrogliavano le vele, a seconda delle necessità. I più robusti
stavano al collare, cioè al centro del pennone, in equilibrio precario.
Parevano trarre soddisfazione da quell’esercizio di noncuranza per la propria
vita.
«Notate che quelli che vedete non sono marinai fatti e finiti» osservò Le
Bon, tra una pipata e un colpo di tosse. «Odiano l’oceano, rifiutano spesso di
mangiare pesce e in maggioranza non sanno nemmeno nuotare.»
«Che cosa sono, allora?»
«I primi esemplari della popolazione futura dell’America. Rispettano il re,
ma quel tanto. La religione ancora meno, pur fingendosi devoti. Sono quasi
tutti ugonotti come Ducasse e cattolici per convenienza. Sapete cosa diceva
Le Sage?»
«Chi sarebbe Le Sage?»
«Un grande capitano della Filibusta, morto tre anni fa in battaglia...
Diceva: “Le colonie francesi sono nate alla Tortuga. Ce l’hanno portata via,
però sarà l’anima del continente americano”. Voleva dire che la legge degli
avventurieri sarà la legge e basta.»
«Quale legge?»
Quando rideva, Le Bon, la pipa in mano, mostrava una dentatura
disastrata, eppure solida per la sua età. «Nessuna! È chiaro!»
A parte l’ex nostromo, a bordo Martin non aveva altri interlocutori.
Ducasse non si mostrava mai e trasmetteva gli ordini attraverso gli ufficiali.
Pur risiedendo in cabina, i pasti per lui non erano nella sala del quadrato,
bensì sulla tolda. Divideva con l’equipaggio la sbobba preparata dal cuoco,
l’erculeo Guillaume Gnoli, nato in Corsica e convinto che ogni cosa bollita a
sufficienza fosse buona. Martin non era dello stesso parere e tuttavia
giudicava quella brodaglia – in cui convivevano legumi, patate, carne di
porco salata, dadini di formaggio, spezie casuali e gallette sbriciolate –
discretamente corroborante. La sera veniva passato il rum, qualche volta il
brandy. Le sorsate erano generose. Solo i gabbieri se ne astenevano fino alla
conclusione del turno di lavoro.
Non era difficile capire che Ducasse e gli ufficiali diffidavano di Martin e

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lo ritenevano una spia. Lui non se la prendeva. Non aspirava a onori
particolari e in mezzo alla ciurma si muoveva a suo agio. Trovava
affascinanti quegli uomini che vivevano di brutalità, erano avidi senza
ritegno e parlavano una babele di lingue. Avevano appetiti sconfinati. Quello
sessuale, gli parve di capire, lo sfogavano sui disgraziati mozzi, che erano un
poco le femmine di bordo. Tuttavia nessun filibustiere era omosessuale, e la
famiglia, rimasta a terra, costituiva per loro l’unico valore. Quando si
intrattenevano assieme sulla tolda, la sera, amavano raccontarsi le torture a
cui era stato sottoposto uno spagnolo catturato, o da loro stessi o da qualche
capitano del passato. Consideravano gli spagnoli fantocci da sventrare senza
remore. Per gli inglesi – un tempo loro alleati – avevano maggiore rispetto. Il
fatto era che i soldati di Spagna torturavano a morte i pirati caduti nelle loro
mani (malgrado una lettera in cui Ducasse aveva supplicato di sospendere
tale prassi, promettendo di fare lo stesso), gli inglesi meno.
Di tanto in tanto i filibustieri si mettevano a cantare. La canzone preferita
era in castigliano. Riguardava il leggendario Lorencillo, visto con l’occhio
delle sue vittime.
Saqueaste a Campeche,
perro luterano,
no temes a Dios,
no eres cristiano.

Si a la Vera Cruz
saqueaste dormida,
a la Habana no,
que estaba prevenida.

Estas son las oras,


y este el estribillo.
Viva el rey de España
y muera Lorencillo!

Era curioso udire intonare un canto del genere da parte di marinai che, in
gran parte, con Laurens de Graaf avevano navigato e combattuto. Martin
comprese il senso di quei cori. I pirati celebravano il loro capitano perduto e
il terrore che aveva sparso. Una timida sfida a Ducasse – forse amato più di
lui – che lo aveva mandato sotto processo.
Il viaggio fu breve. Martin riuscì a familiarizzare un poco, a parte con Le
Bon, solo con il medico di bordo. Si chiamava Exquemeling ed era un

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veterano delle Antille. Lo si credeva olandese, ma parlava un francese troppo
perfetto. Giunto come engagé alla Tortuga, era stato venduto dalla
Compagnia delle Indie Occidentali in crisi a un bucaniere qualsiasi. Dopo
anni di umiliazioni e di percosse, il governatore Ogeron lo aveva riscattato.
Da quel momento aveva servito come chirurgo sulle navi dei più noti
capitani della Filibusta: L’Olonnais, Henry Morgan, De Grammont e lo stesso
Lorencillo. Era tornato in Francia, però il mar dei Caraibi lo attirava ancora.
Adesso, invecchiato e con la barba bianca, appoggiato a un bastone, serviva
Ducasse e la Brigata Saint-Domingue.
«Secondo me, presa Cartagena oppure no, con questa spedizione finisce la
storia dei Fratelli della Costa» disse nostalgico, mentre con Martin, dal
castello di poppa, osservava i pirati intenti a incatramare le manovre. Una
mansione frequente, specie all’inizio di un viaggio prolungato.
«Perché dite questo?»
«Perché ormai si funge da ausiliari a una flotta regolare, che potrebbe
benissimo fare a meno di noi. Non dico che siamo degli stipendiati, ma il
concetto è simile.»
«Cosa cambia?» chiese Martin. Dal canto suo, seguitava a notare
differenze tra gli irregolari e i marinai del re. Per esempio, su ogni vascello di
sua maestà c’erano, per l’equipaggio, turni di riposo di quattro ore. Sulle navi
della Filibusta, invece, la sera le vele erano ammainate e si andava tutti a
dormire. Facevano eccezione il piccolo corpo di guardia più qualche pirata
che desiderava bere ancora e si tratteneva sulla tolda, dove spesso passava la
notte sotto la barcaccia, avvolto in un telo.
Exquemeling additò lontananze non visibili. «Non avete idea di cosa fosse
la Tortuga prima del crollo. Un’isola ricca e meravigliosa, che produceva il
caffè migliore al mondo. La capitale, Cayona, concentrava ogni vizio, ma
anche ogni piacere. Popolata da uomini forti e pugnaci. Port Royal, sede dei
pirati inglesi, non le somigliava nemmeno un po’. È stata distrutta da un
terremoto e ora giace in gran parte sul fondo del mare. Sin da prima, però,
era una cittadina ammodo, tutta casette e giardini. La Tortuga era il contrario:
un inferno. Adatto per chi avesse venduto l’anima al diavolo.»
«La si può riconquistare.»
«No. Non senza il consenso di re Luigi. La Tortuga era di fatto una
repubblica, composta da agricoltori, contadini, cacciatori e masnadieri.
Troppo autonoma per seguire i risvolti della politica. Andava uccisa, e lo è
stata. I pirati attuali, divenuti contabili, impiegati o ausiliari, sono gli spettri di
un passato trascorso.»

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«E se tornasse Lorencillo? Se fosse assolto?»
«Lo credo improbabile, ma cambierebbe ben poco. Lui stesso, bizzoso
com’era, aveva dovuto assoggettarsi alle leggi dell’esercito regolare, di mare
e di terra. Date retta a me, quelli che avete sotto gli occhi sono gli ultimi della
Filibusta. Il rantolo finale.»
Non si sarebbe detto. La breve rotta del Pontchartrain, favorita dal vento,
vide una confusione di fondo, sul ponte superiore, che non sembrava essere
di impedimento all’esecuzione degli ordini. La flotta dei pirati si ricongiunse
a quella della marina di Francia a Boca Grande. L’accesso a Cartagena era
bloccato da relitti affondati, barche cariche di pietre o di esplosivo, barili
galleggianti legati fra loro con canapi.
«Ci stanno aspettando!» fu il grido che, lanciato dagli ufficiali di De
Pointis, passò di nave in nave. «Si entra per Boca Chica!»
Martin, che aveva visto le carte, sapeva che là si ergeva un forte possente,
capace di respingere ogni aggressione per mare. La disposizione di spirito dei
filibustieri, chiaramente ansiosi di battersi, lo rendeva ottimista.
«Borda e volta a tribordo!» urlò il nostromo, facendo proprio l’ordine dei
superiori.
Il vascello si inclinò brevemente, poi, raccogliendo un po’ di vento di
bolina, con le vele tirate a raso, scivolò verso l’imboccatura più stretta
dell’insenatura. Cartagena era appollaiata oltre il tratto di mare, gonfia di
ricchezze e protetta da buoni cannoni.

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9 - Pioggia di fuoco

L’imponente flotta francese (diciannove navi tra grandi e piccole, con dieci
vascelli da guerra e più di quattromila soldati a bordo), seguita dai navigli
leggeri della Filibusta, apparve davanti agli spalti di Boca Chica, a vele
spiegate, il 13 aprile 1697. Il forte era possente, dotato di mura spesse e di
merli robusti, da cui occhieggiava l’artiglieria. Pensare di prendere una rocca
del genere, o anche solo scorrervi davanti, era pura fantasia.
De Pointis, che aveva i suoi limiti ma di sicuro non era pazzo, decise di
adottare una tattica provata con successo ad Alicante. La più piccola delle
imbarcazioni ai suoi ordini, un traversiere denominato Éclatante, reggeva
solo due mortai di grosso calibro e aveva ottanta uomini d’equipaggio. Era al
comando il signor De Mons, in sostanza un tecnico, privo di titoli
aristocratici, poco avvezzo alle discussioni che non riguardassero operazioni
belliche. De Pointis spinse l’Éclatante sotto le mura, con l’ordine di fare
fuoco senza interruzione, a rischio di sfinire gli artiglieri.
Iniziò il bombardamento più fitto che Martin avesse mai visto, senza che
dal forte si riuscisse a rispondere con un pari volume di fuoco. Intanto, da
una nave all’altra, ci si scambiavano ordini segreti. Ducasse radunò gli
ufficiali sul castello di poppa e fece cenno a Martin di aggregarsi al gruppo.
Tra i presenti c’era anche il tenente di vascello De Mornay d’Ambléville, di
fatto il vero comandante del Pontchartrain.
«A Cartagena si aspettano che arriviamo per mare ed entriamo nella rada»
spiegò Ducasse. «Invece, a mezzanotte, inizieremo a sbarcare le truppe a
terra, per poi marciare attraverso i boschi verso il forte di Boca Chica. È il
presidio più temibile e guarnito, sarà duro da prendere. Se ce la facciamo, la
città cadrà come una pera matura.»
«Chi sbarcherà per primo?» chiese De Mornay.
Ducasse fece un sorrisetto. «I filibustieri, i coloni e i negri. Si comincia
sempre dai più sacrificabili, no?»
Martin non aveva impegni immediati, a quanto pareva. Raggiunse la sua

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stanza e si distese sul letto, in verità un po’ corto, per riposare qualche ora
prima dello sbarco. Il fragore delle cannonate e dei colpi di mortaio gli
impedì di dormire, se non per brevi intervalli. Inoltre faceva un caldo
insopportabile e l’ambiente era pieno di mosche.
Nel suo leggerissimo dormiveglia, comparò il fascino di ciò che stava
vivendo agli evidenti limiti. Doveva tutto al signor De Pointis: lo aveva
liberato dalla prigionia, riscattato dalle passate infamie. Aveva fatto di lui un
soldato, lo aveva condotto a battaglie gloriose, gli aveva permesso di salire di
grado. Ciò nonostante, per un residuo dei vecchi tempi, non poteva fare a
meno di essere sedotto dall’assenza di formalismi in Ducasse e dallo stile
irriguardoso di Godefroy, Bouc, Pierre e degli altri reduci della Tortuga. C’era
molto di immorale nello stile di vita dei filibustieri, ma anche molto di
affascinante. Si sarebbe detto che De Pointis volesse ricostituire Versailles a
Saint-Domingue. Gli irregolari, stando all’interpretazione di Exquemeling,
perseguivano fini completamente diversi. Attraenti oltre il lecito per Martin.
Allontanò quei pensieri e cercò di riposare come meglio poté. A
mezzanotte era sul ponte, tuttavia lo sbarco fu rinviato di ore, tra le
imprecazioni di Ducasse. Il tempo era pessimo, ma non era quella la ragione
del ritardo. De Pointis voleva prima bloccare l’accesso alla rada e mandò il
Saint-Louis del viceammiraglio De Lévy a eseguire l’operazione. Si
moltiplicarono le cannonate inutili, tra frastuono assordante e spreco di
fumo; poi lo stesso barone volle unirsi allo spettacolo, senza risultati degni di
nota. Solo il traversiere carico dei due mortai riusciva a provocare danni
ingenti.
«Cosa perdiamo tempo a fare?» imprecava Ducasse, che si aggirava come
un’anima in pena accanto alla chiesuola della bussola. «L’effetto sorpresa è
già sfumato! È possibile avere a che fare con un simile cretino? Se il mare
agitato lo spaventa, che lasci fare a noi!» Condiva le sue osservazioni con
bestemmie proibite ai cattolici, ma anche agli ugonotti.
Finalmente arrivò l’ordine di sbarcare, per la Filibusta e i volontari. Era
ormai mezzogiorno, gli uomini erano stremati da dodici ore di attesa. Furono
calati canotti, scialuppe e barcacce. Martin, molto stanco, fu comunque lieto
che si passasse all’azione. Era un’opinione condivisa. Sbarcarono su una
spiaggia sottile, circondata da boschi. Non c’era il profumo di agrumi di
Petit-Goâve; piuttosto un sentore di marciume. Era circa mezzogiorno del 14
aprile. I battaglioni di fanteria della marina presero terra più di due ore più
tardi.
Tra filibustieri, coloni e schiavi, oltre a un manipolo di indigeni che si

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erano aggregati per motivi noti solo a loro, il corpo dei volontari assommava
a circa milleduecento armati. Ducasse li fece allineare sotto gli alberi e li
passò in rassegna. Lo affiancavano i capi dei Fratelli della Costa.
«Bene. Ci si mette in marcia. Attenti alle imboscate: basta poco per
annientarci. I caribe vadano avanti e si tengano nel sottobosco. Avete portato
la bandiera?»
«Eccola.» Un colono si fece avanti e mostrò un drappo bianco con i gigli
dorati.
«Intendo la bandiera vera. La nostra.»
«L’ammiraglio De Pointis ha ordinato che non si porti altro vessillo che
quello francese.»
Ducasse sputò sulla rena, con tanta violenza da scavarvi un foro. «De
Pointis le studia tutte per farmi perdere la pazienza. Voglio l’unica bandiera
che faccia paura agli spagnoli. Qualcuno l’ha portata?»
«Eccola!»
Il capitano Galet, comandante del brigantino Pembrock, mostrò un
rettangolo di stoffa nera su cui era cucito il classico teschio bianco con sotto
le tibie incrociate e una clessidra: l’emblema stesso dei Fratelli della Costa, al
tempo del loro fulgore.
«Benissimo» disse Ducasse. «Issatela su un’asta. E adesso in marcia, a due
a due. I sentieri devono essere stretti. State molto attenti ai movimenti
sospetti fra la sterpaglia.»
Gli avventurieri si misero in movimento, preceduti dai negri e dagli
indigeni, più a loro agio in quell’ambiente. Chiudevano il corteo i bucanieri,
rallentati dai fucili pesantissimi. Un mulo trainava un cannone sbarcato dal
Mutine.
Fortezza e città sembravano vicinissime. Un’illusione. Il cammino era
tortuoso, spesso si immergevano i piedi in acquitrini. Ogni tanto il sentore di
marciume toglieva il fiato e rallentava il passo. C’era poi da combattere
contro sciami di insetti, dai mosconi alle zanzare. Aggredivano compatti, e
niente sembrava spaventarli. Sui rami scivolavano serpenti, per fortuna in
maggioranza innocui. Dal folto degli alberi giungevano versi inesplicabili,
che non si sapeva a quale animale attribuire.
Quando la colonna fu esausta, Ducasse ordinò l’alt. Calava la sera, i
pericoli del giorno si sarebbero moltiplicati. Gli avventurieri, al limite delle
forze, si lasciarono cadere sull’erba, comoda quanto un materasso. Quelli che
possedevano ancora energie accesero dei fuochi. Avrebbero attirato gli
insetti, ma tenuto lontane le bestie feroci.

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Martin si trovò sdraiato accanto a Exquemeling.
«Dov’è padre Le Pers?» chiese il chirurgo.
«Credo a bordo. Non è uomo da battaglia. Ci ha benedetti prima dello
sbarco.»
Exquemeling emise un sospiro e sembrò parlare a se stesso. «Una
benedizione non manca mai, si sia cattolici o ugonotti. Esiste sempre un Dio
dalla nostra parte.»
Martin si ribellò a quella semplificazione, vagamente blasfema. «Volete
dire che ogni causa vale l’altra?»
«No. Voglio dire che mai, per una guerra, manca un pretesto dettato dal
cielo. Per questo amo i pirati. Rubano, e arricchirsi è l’unica giustificazione
alle loro imprese. Senza giurare di obbedire a una pretesa teologica. Né
sbandierare ideali scoloriti.»
Il tema era interessante, ma Martin aveva troppo sonno. Si addormentò
mentre Exquemeling ancora parlava. Questa volta i colpi di cannone, attutiti
dagli alberi, non poterono turbare la sua stanchezza.
La mattina successiva fu svegliato da un grande trambusto e da colpi di
armi da fuoco. Passava nella rada, a poca distanza dai francesi, una piroga di
notevoli dimensioni, diretta a Boca Chica. Se chi era a bordo sperava di
passare inosservato rimase deluso. Le scariche abbatterono buona parte
dell’equipaggio. L’imbarcazione fu trascinata a riva con solo quattro
superstiti: due frati cordiglieri e due notabili di Cartagena, probabilmente dei
mercanti. Misero piede nell’acqua rossa del sangue dei loro compagni. Era
l’alba, la temperatura era mite, eppure tremavano. La piroga risultò carica di
viveri.
Durante il sonno di Martin erano sbarcati i soldati dell’esercito regolare
che avevano preso posizione sull’altra costa dell’imboccatura. C’erano i
granatieri del signor De Chevau, quelli di Marolles, quelli di Bresme, quelli di
Simonet; il battaglione del signor De Pimon si stava unendo agli altri.
Milleottocento soldati circa. Fra tutti i capitani spiccava, per il lusso degli
abiti, il barone De Pointis, immobile a braccia conserte davanti alla sua tenda.
Udita la sparatoria e osservata la cattura della piroga, si fece attrezzare una
scialuppa.
Autori della presa erano però stati i filibustieri, così fu Ducasse il primo a
interrogare gli spagnoli, in attesa che l’ammiraglio arrivasse. Erano molto
spaventati, soprattutto i cordiglieri. Dovevano avere saputo che il
governatore era di fede ugonotta. Ignoravano – e lo ignorava anche Martin –
che era contrario al ricorso alla tortura.

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Circondato dai capi dei Fratelli della Costa, in una radura, Ducasse sedette
su un tronco. Fece inginocchiare i due frati e i due maggiorenti di fronte a sé,
sull’erba umida di rugiada. «Cosa andavate a fare, in barca, a Boca Chica?»
chiese severo, in spagnolo. «Non mi parlate di rifornimenti. Troppo scarsi
per la guarnigione di un fortilizio. Voglio la verità.»
Forse Ducasse si era atteso reticenze. Non ve ne furono. Uno dei religiosi,
che rabbrividiva come se avesse la febbre, disse di getto: «Portavamo al
comandante del forte, don Sancho Jímeno, la risposta del governatore di
Cartagena, don Diego de los Ríos. Il governatore è fuori città, don Sancho gli
ha chiesto aiuto».
«Ebbene?»
«Don Diego gli fa sapere che, secondo informazioni certe, la flotta
francese è diretta a Portobello. Si trova qui solo di passaggio. Non servono
truppe ausiliarie.»
Ducasse quasi si mise a ridere. «Chi c’è, dunque, dentro quel forte?»
«Trentacinque soldati veterani dei quattrocento previsti. Una settantina di
schiavi senza addestramento militare.»
Ducasse si alzò. Si rivolse ai comandanti pirati. «Bene. Aspettiamo il
barone De Pointis e andiamo a prendere la fortezza. Non sarà semplicissimo,
perché la via d’accesso è stretta.»
«Posso farvi entrare io, da un ingresso segreto.» A parlare era stato uno
dei due notabili.
Ducasse lo rimirò. «Voi chi diavolo siete?»
«Sono il capitano Francisco Santarém, mercante.»
«Cosa volete in cambio?»
«Commerciare con la Francia, nient’altro. Ho già avuto contatti col barone
De Pointis.»
«D’accordo, ma attento a voi. Un tentativo di tradirci vi costerà la vita.»
«Non vi tradirò.»
Ducasse camminò verso De Pointis, che stava sbarcando. Mentre si
allontanava, sputò ancora una volta sulla sabbia. «Ma che merda di gente mi
tocca frequentare» bofonchiò.

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10 - L’ultimo avamposto

La fortezza, cannoneggiata dal mare, non accennava a piegarsi. Quel don


Sancho doveva avere un coraggio che sfiorava l’incoscienza. Con i pochi
uomini di cui disponeva, e senza possibilità di soccorso, faceva tuonare i
cannoni fino ad arroventarli. Nessuna possibilità di colpire l’Éclatante, fuori
portata. Invece cominciarono a registrarsi perdite tra i filibustieri e l’esercito
regolare. Il barone De Pointis aveva voluto che bianchi vessilli francesi
fossero issati su una collinetta davanti al fortilizio e aveva fatto arrotolare la
bandiera dei pirati. Quel mazzo di stendardi diventò il bersaglio preferito
dell’artiglieria. Gli uomini attorno alle insegne, numerosi, iniziarono a cadere
a grappoli, tra morti e feriti.
Ducasse si sgolò. «Indietro! Indietro!»
I filibustieri si attestarono dietro la collina, e i granatieri fecero lo stesso,
nella zona che dominavano. I bucanieri sistemarono le forcelle capaci di
reggere le loro armi. Contro il forte si abbatté una grandine di pallottole.
A un certo punto Ducasse gridò: «Basta! Cessate il fuoco!».
Dal forte usciva un piccolo corteo a cavallo. Lo guidava uno dei
cordiglieri, liberato poche ore prima. Le truppe obbedirono. I soldati regolari
fecero altrettanto.
Apparve De Pointis, che probabilmente aveva approfittato della battaglia
per schiacciare un giustificato pisolino. Stirò le membra e si rivolse al frate.
«Cosa volete?»
«Ho un messaggio di don Sancho Jímeno, comandante del forte.» La voce
del cordigliere era insicura, il suo turbamento palese. «Dice che l’aggressione
è ingiustificata, e che comunque lui non si arrenderà. Prega di porre fine a un
eccidio senza scopo. Cesserà il fuoco appena voi, signore, lo cesserete.»
Il messaggio era singolare. De Pointis si voltò verso i suoi ufficiali. «Che
insolente» commentò. «Tutti gli spagnoli si somigliano. Arroganti e
vigliacchi.» Riportò l’attenzione sul religioso. «Incarico voi, mio buon frate,
di riferire a Sancho Jímeno la mia risposta. O si arrende subito, o chiunque si

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trovi dietro quelle mura sarà ucciso. Sono informato, e voi sapete bene come
l’ho appreso, che i difensori del forte sono una trentina, più un certo numero
di negri che non sanno nemmeno caricare un’arma. Noi siamo migliaia. Sia
don Sancho ad arrendersi, e forse sarò clemente.»
La risposta era impeccabile. Trovò consenso non solo tra gli ufficiali
francesi, ma anche tra la Filibusta. Il fraticello girò il suo cavallo e tornò alla
rocca, con il suo piccolo seguito di soldati. Di sicuro aveva temuto per la sua
stessa vita. Preoccupazione inutile: né De Pointis né Ducasse avrebbero mai
torto un capello a un messaggero. Per di più un religioso.
Dal forte non arrivò segno di resa e gli assedianti ripresero a sparare. Ciò
durò tutta la giornata, fino alla notte. Intanto, dalle navi, venivano calate scale
a pioli, da appoggiare alle mura. Martin aiutò a trasportarne diverse. Si
sentiva eccitato, ma non esaltato. Era in fondo una battaglia miserabile, quella
che si combatteva, dall’esito scontato. Duellava solo l’artiglieria. La tipica
guerra dei vigliacchi.
Scesa la sera e apparsa la luna, il capitano Santarém indicò il bastione da
scalare. «Lassù c’è solo qualche negro. Forse dorme. Non darà problemi
seri.»
De Pointis annuì. Ducasse trasmise il comando.
Le scale furono appoggiate fra la merlatura, priva di artiglieria e, a quanto
pareva, di difensori. Avevano la base nel fossato della rocca, secco e
sabbioso. Salirono per primi i moschettieri, poi i granatieri, infine pirati e
coloni. Lo scontro vero avvenne sugli spalti. Nessun duello diretto: solo
scambi di pistolettate e fucilate, a distanza, con pochi morti e pochissimi
feriti. Ci si sparava dalle torrette, ma le forze francesi erano soverchianti e
colpivano più spesso.
Quando sorse il sole, il comandante del forte fece issare la bandiera della
resa. Il ponte levatoio si abbassò sul canale asciutto, i battenti si aprirono
cigolando. Ducasse, che era sui bastioni, ordinò di cessare il fuoco. De
Pointis, rimasto a terra, impartì lo stesso comando all’Éclatante. Si fece
avanti da vincitore, il ventre in fuori, un sorriso stampato in volto.
Compitamente, davanti a don Sancho tolse dal capo il tricorno ricco di piume
e mostrò la parrucca incipriata.
Martin aveva fatto in tempo a scendere dagli spalti. Notò l’espressione
affranta di Sancho Jímeno, l’angoscia che lo rodeva.
Lo spagnolo, un sessantenne dal viso affilato, posò la propria spada a
terra, e porse a De Pointis le chiavi della rocca. «Avete vinto. Non posso
resistere oltre. Vi chiedo clemenza non per me stesso, ma per i miei soldati.»

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De Pointis fece un gesto da gran signore, quale in fin dei conti era.
Raccolse di persona la spada e la restituì. «Perdere una battaglia non è
perdere la dignità.» Parlò in spagnolo, con scioltezza. «I vostri uomini ancora
in vita saranno risparmiati... Siamo a Cartagena non per volontà di preda, ma
perché Francia e Spagna sono in guerra. In altre circostanze avremmo potuto
essere persino amici.»
Don Sancho Jímeno accettò la spada e la rinfoderò. «Amicizia a parte,
accettate che vi faccia servire un bicchiere di vino della mia riserva.»
«Molto volentieri.»
Gli uomini attorno avevano le lacrime agli occhi, filibustieri inclusi.
Martin riconobbe il condottiero nobile e generoso della presa di Alicante. Il
De Pointis che aveva ammirato, a suo tempo. Adesso, però, lui obbediva
transitoriamente a un altro capitano.
«Perquisite la rocca» ordinò Ducasse ai suoi. «Disarmate i difensori. E non
datevi alle ruberie. Abbiamo una città intera a portata di mano, qui non
esistono oggetti di valore.»
«No!» ordinò seccamente il barone. «Nessun filibustiere deve entrare nel
forte, e chi c’è esca. Attendatevi all’esterno.»
«Ammiraglio, i Fratelli della Costa hanno avuto una quarantina di morti e
quasi il doppio di feriti. Io stesso ho una piccola ferita a una gamba. Se ci
riparassimo dentro il forte...»
«Voi potete, Ducasse, gli altri no. Avranno un giorno intero di riposo,
sufficiente per le medicazioni e la sepoltura dei caduti. Ora fatevi assegnare
una stanza, oppure ritiratevi.»
Ducasse guardò i capi della Filibusta, stupiti e incerti sul da farsi. «Vado
con loro» disse infine. «Ragazzi, nel bosco. Montiamo le tende. Il dottor
Exquemeling si occuperà di chi ha bisogno di cure.»
Martin esitò, poi gli andò dietro. De Pointis appariva altezzoso e scortese,
eppure lui sapeva che, all’occorrenza, sapeva essere molto diverso. Gli parve
di intuire la ragione di quei comportamenti sgradevoli. Il barone apparteneva
alla classe dell’aristocrazia. Poteva trovare un’intesa con un nobile spagnolo,
con un religioso o con un ufficiale. Gli riusciva difficile con un borghese
come Ducasse, a dispetto dei talenti militari di questi; oppure con i pirati,
appartenenti al popolo o al popolino. Il quadro sociale della Francia si era
trasferito anche lì, nelle Americhe. Martin dubitava che reggesse, in quel
contesto. Si stava deteriorando persino in patria.
I comandanti della Filibusta erano furibondi.
«Che personaggio disgustoso!» gridò Bouc quando furono sul ponte

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levatoio. «Ci tratta come pezze da piedi! Di fronte a uno spagnolo, poi!»
Galet, un colosso, toccò l’impugnatura della sciabola. «Giuro che alla
prima occasione gli stacco la testa dal collo!»
Ducasse alzò le mani. «Calma, amici, calma. Verrà il nostro momento.
Adesso dobbiamo prendere Cartagena, e senza De Pointis non sarebbe
possibile. Più avanti si vedrà cosa fare. Pensiamo alla città.»
Si ritirarono in tende e capanne improvvisate, erette in fretta e furia in una
boscaglia che, bella a vedersi di giorno, di notte risultava malsana e flagellata
da sciami di zanzare. Di tutti i filibustieri, il capitano Godefroy era il più
incollerito.
«Io non accetto ingiurie del genere» disse davanti al fuoco, su cui bolliva
una zuppa fumante di legumi, tuberi e verdure varie, con carne tagliata a
cubetti difficile da identificare. «Sono venuto in questo continente proprio
per sottrarmi al dominio delle parrucche. È assurdo che le ritrovi in una terra
che è più mia che loro, nelle stesse posizioni di comando.»
Ducasse cercava di soffocare, a colpi di smorfie, il dolore che gli causava
la ferita alla gamba. La lesione era bluastra sui bordi. Forse si stava
infettando. Gli ultimi passi in direzione del bivacco li aveva fatti zoppicando
vistosamente. Si era procurato un lungo ramo che gli servisse da bastone.
«Abbiate pazienza» disse, con un leggero rantolo nel timbro. «Regoleremo i
conti, ma a suo tempo.»
Godefroy non si lasciava calmare. «Mi viene voglia di far vela verso la
Francia, dopo avere decapitato De Pointis. E una volta là fare fuori alcune
centinaia di aristocratici.»
Ducasse alzò le spalle. Ebbe un colpo di tosse e sputò un grumo di catarro
biancastro tra i fili d’erba. Respirava con difficoltà. «No, sarebbe un suicidio.
È qui che dobbiamo creare una società diversa. In Europa c’è persino chi
critica il traffico dei negri. Ogni Stato tenta di ostacolare il commercio
dell’altro. Non si tratta solo dell’egemonia spagnola, che qui abbiamo messo
in crisi. È l’intero sistema monarchico che ostacola il libero mercato. Prima o
poi ce ne libereremo, ma non ora.»
Godefroy non era convinto. «Perché aspettare? Perché farci umiliare da
quegli effeminati?»
«Non ne avremmo le forze. Sono quattro volte più numerosi di noi.»
Ducasse emise un gemito. «Qualcuno vada a cercare il dottor Exquemeling.
Comincio a stare davvero male. Temo di avere la febbre.»
Martin si alzò per primo, ma non ci fu bisogno di mettersi alla ricerca del
chirurgo. Questi stava arrivando, in compagnia di padre Le Pers.

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Si inginocchiò a esaminare la ferita, che tastò con precauzione. «La lesione
non si è ancora infettata, però potrebbe accadere da un momento all’altro.
Esistono erbe che possono curarla. Il nostro amico gesuita ne ha un vasto
assortimento.»
Le Pers confermò. «Sì, vado a cercare subito le medicine giuste. Prima,
signor Ducasse, voglio darvi una buona notizia, che vi sarà di conforto. Ho
appena parlato col barone De Pointis. Per ricompensare i filibustieri delle
loro perdite, consente che domani saccheggino il convento di Nôtre-Dame de
la Poupe. In spagnolo lo chiamano Nuestra Señora de la Candelaria de la
Popa. Sorge su una collina poco distante da Cartagena, è ricchissimo.
Naturalmente, ai religiosi non andrà fatto alcun male.»
«Ma che bella ricompensa!» esclamò Godefroy in tono amaro.
«Accontentiamoci» rispose Ducasse. «Domattina spero di essere in grado
di condurre la spedizione.»
Exquemeling scosse il capo. «Non se ne parla nemmeno. Padre Le Pers,
andate a prendere le vostre erbe. Dopo l’applicazione, il paziente avrà
bisogno di un lungo riposo.»
Il gesuita si allontanò in fretta. Ducasse protestò. «Riposo? Quale riposo?
Io voglio combattere!»
«Combatterete molto presto» rispose Exquemeling, con pazienza. «D’altra
parte, non occorrono condottieri per conquistare un convento indifeso.»

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11 - In città

Il convento agostiniano di Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa (così


chiamato perché la sua forma poteva ricordare la poppa di una nave) era
completamente deserto e quasi vuoto di oggetti di un qualche valore. Sorgeva
in cima a una collina conica che sovrastava Cartagena e poggiava su un
dirupo. La costruzione era ampia, tutta imbiancata a calce. Aveva un bel
chiostro ricco di piante variopinte, molti orti, una chiesa col suo campanile
inclusa nel complesso, innumerevoli corridoi, tante celle. Solo che non c’era
alcun frate, e nemmeno schiavi. Dipinti, arredi sacri e calici d’oro erano stati
portati via. Lo stesso per gli animali e le riserve di alimenti. Restavano
coperte, tozzi di pane e pollai che non contenevano nulla.
Il malcontento dei filibustieri crebbe a mano a mano che esploravano la
struttura.
Fu il compassato Macary che diede espressione al malumore generale. «Il
barone De Pointis ci ha ingannato un’altra volta. Ci ha spedito a saccheggiare
un involucro abbandonato. Tanto per liberarsi di noi.»
Comandava la spedizione, in sostituzione di Ducasse, il grigio Donon de
Galiflet. La nomina era stata accolta con malumore da parte dei pirati, e
tuttavia il leguleio cercava di mostrarsi deciso quanto il governatore. Parlò
con saggezza. «Ragionate. De Pointis non poteva sapere che il convento fosse
stato svuotato e abbandonato. Il suo errore è stato un altro: attendere troppo
per piombare su Cartagena. Abbiamo oziato quasi un mese, con una flotta
ben visibile. E, preso il forte principale, il secondo errore: non gettarci subito
sulla città.»
«È vero» disse Godefroy, pur mantenendo la faccia scura degli altri
capitani. «È però innegabile che abbiamo fatto una inutile gita in collina,
senza preda né scopo strategico.»
«Inutile non direi» ribatté De Galiflet. «Se non altro, da qui possiamo
vedere l’intero abitato e scoprire quali altri ostacoli ci attendono.»
Attraversò il chiostro, magnifico e diviso in due navate sovrapposte, e si

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portò all’esterno. I pirati lo seguirono fino al ciglio del dirupo. Cartagena era
ai loro piedi. Una vera metropoli, in quei mari, protetta da barriere naturali e
artificiali. Tantissime case erano di pietra, e avevano tetti di mattone. Quasi
l’intera baia era protetta da muraglie. Si scorgevano affusti di cannone e
pochi uomini – figurine lontane – a servirli. L’affollamento maggiore,
disordinato, era nel centro cittadino.
De Galiflet, che conosceva le mappe, spiegò: «Dopo il forte di Boca Chica,
che è caduto in nostre mani, ecco il forte di Santa Cruz, più a nord. Guardate,
lo si direbbe inavvicinabile. Dal mare lo è: le isolette di fronte e la
vegetazione di mangrovie lo rendono accessibile solo alle scialuppe. Invece
da terra è di facile presa, perché ha una struttura fragile. Il ponte levatoio e il
fossato pieno d’acqua non devono spaventare. Più ostico è invece il quartiere
chiamato “Hihimani”, il termine indigeno per “Getsemani”, fortificato. La
difesa maggiore è il piccolo castello di San Felipe. Lì si tratta di vedere se gli
abitanti decidono di resistere o no. Io credo di sì. Infine, sulle pendici della
montagna, esiste il forte di San Lazaro. Ha anch’esso un fossato. Sarà
un’impressione, però al momento mi pare poco popolato e addirittura in
rovina. I cannoni che vedo sono puntati verso la baia».
Martin osservava l’imboccatura di Boca Chica. Fu il primo a gridare:
«Guardate! Un vascello francese sta superando l’accesso alla rada! Naviga a
vele spiegate!».
«È vero, parbleu!» esclamò De Galiflet. «È il Vermandois! Si dirige verso
il forte di Santa Cruz!»
Il veliero guidato dal conte De Boissy Raymé, carico di uomini e di pezzi
d’artiglieria, stava in effetti navigando rapido verso il centro della laguna.
Iniziò quasi subito un cannoneggiamento terrificante, senza che dal nemico
provenisse risposta comparabile. Il quadro idilliaco si coprì di fumo. Il forte
di Santa Cruz, in particolare, cominciò a cadere a pezzi. Pareva non avere
alcun difensore.
Eppure il Vermandois non era la nave più imponente della flotta, malgrado
l’equipaggio di quattrocentosettanta uomini e i sessanta cannoni. A vele
spiegate, sembrava sciogliere del burro come un coltello incandescente. Ogni
palla che sparava demoliva murate e bastioni, senza ricevere alcun colpo in
risposta. Stava eseguendo una sorta di marcia trionfale.
«I conti non mi tornano» disse De Galiflet. «Perché nessuna difesa?
Scendiamo a vedere.»
A metà della china fu scovato un anziano frate nascosto dietro un
cespuglio. Godefroy propose di bruciargli le piante dei piedi, secondo una

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delle modalità di interrogatorio tipiche dei pirati. Non ce ne fu bisogno.
L’agostiniano, fuggito da Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa, si
mostrò loquace e pronto a collaborare.
«Il governatore don Diego de los Ríos ha lasciato sguarnita la città. Sapeva
della spedizione francese, però era convinto che fosse diretta a Portobello.
Incontrerete pochissima resistenza.»
«Lo notiamo, infatti» osservò De Galiflet. «Qualche difensore ci sarà.
Dove si radunano?»
«Nel quartiere di Hihimani. Lì sono concentrate le truppe superstiti di
Cartagena.»
Il discorso terminò perché, dopo il Vermandois, erano entrate nella rada
altre navi, grandi e piccole. Difficile descrivere spettacolo più possente di
tutte quelle imbarcazioni con ogni vela stesa. Oscillavano minacciose,
fremevano sotto i passi degli equipaggi. Gonfie di cannoni, non facevano
paura per quelli. Intimorivano per la loro mole e per la velocità con cui,
sfruttando venti favorevoli, solcavano le acque. Le prore si alzavano e si
abbassavano, a seconda delle ondate. Era una visione maestosa per gli uni,
paurosa per gli altri.
«Andiamo» disse De Galiflet. «L’ammiraglio non speri di conquistare la
città senza il nostro aiuto.»
I filibustieri scesero il colle. Arrivarono in tempo per congiungersi con le
truppe francesi, che iniziavano a sbarcare: granatieri, fanti, artiglieri. Le
scialuppe minacciavano di affondare sotto carichi così pesanti. Ogni squadra,
raggiunta la sponda, si componeva in ranghi approssimativi, tamburini e
portabandiera all’avanguardia.
Martin, alla fine del pendio, si trovò di fianco il vecchio Le Bon. Con la
pipa in bocca era, malgrado l’età, più abile di lui nel superare le asperità del
terreno.
«Adesso spero che non ci faranno allineare come soldatini» borbottò il
pirata buttando fuori fumo. «Non è così che si combatte.»
«E come, allora?» Martin aveva il fiatone.
«Come una mandria di bufali provenienti da ogni parte. La stessa cosa di
un abbordaggio. Il capitano indica la rotta e le manovre principali, ma
l’assalto è lasciato alla fantasia della Filibusta, senza alcuna regola militare.»
«Gli ufficiali?»
«Servono solo durante la navigazione. Non quando si combatte.»
Martin era un poco sconcertato da quel che udiva. La stessa Corte dei
miracoli, pur non essendo un esercito, aveva una propria gerarchia interna,

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che emanava ordini. I pirati sembravano non averne nessuna. «Che ne
pensate di De Galiflet?» domandò.
«Non bene» rispose Le Bon. «Pare un impiegato, un borghesuccio. Per
comandarci serve una canaglia come noi. Ducasse è l’uomo ideale: gentile di
maniere, ma un gran farabutto. Sul tipo di Lorencillo, di De Grammont, di
Henry Morgan. Avere alla testa un contabile è una scarsa garanzia di ricchezza
collettiva.»
La prima meta della spedizione fu il forte di Santa Cruz, a due leghe da
quello di Boca Chica e collocato a sudovest di Cartagena, quasi
inavvicinabile dal mare e protetto da un ponte levatoio. Massiccio, era però
in cattive condizioni, con le mura sbrecciate in molti punti. Le navi
continuavano a cannoneggiarlo, senza che vi fosse alcuna risposta.
«Avanti!» gridò il barone De Pointis. «Combattete, miei valorosi!»
In realtà non fu necessario combattere. Il forte era completamente
abbandonato, esattamente come il monastero di Nuestra Señora de la
Candelaria de la Popa. La guarnigione aveva rimosso il cannone – pareva
essercene stato uno solo efficiente – e lo aveva trascinato altrove. Gli altri
erano tubi arrugginiti, privi di affusto. All’interno gli arredi erano ridotti al
minimo, di alimenti non c’era traccia.
«Ah, vigliacchi di spagnoli!» urlò De Pointis appena si accorse di avere
conquistato una struttura abbandonata. «Di questo bastione non ne facciamo
nulla!»
«Potrebbe essere utile per accamparci» suggerì il visconte De Coëtlogon,
comandante della fregata Fort e di una divisione di granatieri.
De Pointis ci pensò un minuto intero. «Giusto!» esclamò al termine della
sua riflessione. «Santa Cruz sarà la nostra base, da cui prendere l’intera
Cartagena. Allestite i campi, preparate le armi. L’assalto finale è imminente!»
Non fu tanto imminente, in verità. Occorsero giorni: De Pointis era
prudente. Appariva chiaro che le difese spagnole si erano asserragliate nel
sobborgo di Hihimani, protetto da un corso d’acqua e da un altro ponte
levatoio. I velieri francesi lo bombardavano a tratti, senza gran risultato. Si
tenevano al largo per schivare le cannonate di risposta. L’esito consisteva
principalmente in fumo e in fracasso. Ogni tanto qualche compagnia di
granatieri tentava un’avanzata. Rientrava frettolosamente dopo le prime
perdite.
I pirati trascorrevano il tempo giocando a carte o a dadi. Martin fu
presente a una partita di dadi a cui partecipavano i capi della Filibusta, che
ormai lo consideravano dei loro. C’era anche Exquemeling. Avrebbe voluto

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curare i feriti, solo che gli ufficiali di sua maestà, numerosissimi e senza un
grado ben definito, lo guardavano con sospetto e preferivano rinunciare ai
suoi servigi. Avevano i loro medici personali, grandi analizzatori di
escrementi.
«Sei!» gridò esultante Macary. Fu costretto a correggersi. «Scusate, avevo
visto male. È sette.»
Godefroy raccolse i dadi nel bicchiere e cominciò a scuoterli. Mormorò:
«È assurda, questa situazione. Prendiamo fortezze vuote, evitiamo battaglie
frontali». Guardò Martin. «De Pointis fa sempre la guerra così?»
«Mica sempre. È che non conosce il terreno, o almeno credo.»
«Un vero imbecille. Dovrebbe affidarsi a noi.»
«Non lo farà. Ha i suoi ordini e le sue priorità.»
Exquemeling tolse la pipa di bocca. Scatarrò. «Così vanno le guerre in
Europa. Sono lente. Se non lo sono, non raggiungono nessun risultato,
tranne altre guerre.»
Godefroy gettò i dadi, senza punteggio utile.
In quel momento giunse un messo dello stato maggiore. «Mi dispiace
disturbare le vostre eccellenze. Si sta avvicinando a Boca Chica un galeone
spagnolo. Si direbbe che non sappia che la baia è invasa dalle nostre navi.
L’ammiraglio chiede che sia la Filibusta a occuparsene.»
Tutti i pirati scattarono in piedi. I dadi furono lanciati tra i cespugli.
«Era ora!» disse il quieto Macary, entusiasta.

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12 - L’abbordaggio

Martin, a bordo del brigantino Gracieuse, comandato dal capitano Bouc,


assisteva a scene per lui insolite. L’imbarcazione, a tre alberi ma non molto
grande e affilata quanto una goletta, era stata scelta per affrontare il galeone
spagnolo in arrivo a Boca Chica. La sua virtù era di essere leggera e veloce,
pur avendo una ventina di cannoni e un centinaio di uomini di equipaggio, e
facile da manovrare.
Dato il vento forte, Bouc fece spiegare solo le vele quadre e andò di
bolina. Trasmetteva gli ordini attraverso gli ufficiali, che però non
apparivano tali. Più che comandare, chiedevano. Quando non erano obbediti
in fretta, lanciavano le imprecazioni più colorite, incluse un bel po’ di
bestemmie. La ciurma finiva sempre con l’eseguire, magari di malavoglia.
C’era una parvenza di ordine, sotto il disordine di superficie.
Appena il galeone fu a portata, la maggior parte dei pirati corse ad armarsi,
salvo quelli sulle coffe o aggrappati alle manovre. Sull’albero di maestra
venne issata la classica bandiera nera, adorna di teschio, di tibie incrociate e
di una clessidra. Cominciò un frastuono assordante. I Fratelli della Costa
battevano ritmicamente le spade – corti sciabolotti d’abbordaggio oppure
navajas – contro l’impavesata. Alcuni mostravano il deretano ai nemici, altri
lanciavano grida scimmiesche. Sul ponte inferiore i mozzi facevano rotolare i
barilotti di polvere da sparo verso i cannoni. A poppa, i bucanieri
sistemavano i loro lunghi fucili sulle forcelle.
«Virare a babordo!» gridò Bouc.
Con un colpo di barra e un cambio di orientamento delle velature, il
Gracieuse si mise parallelo rispetto al galeone. Non fu necessaria alcuna
cannonata. Gli spagnoli sembravano come paralizzati. Non reagivano in alcun
modo.
«Grappini d’abbordaggio!» urlò il capitano.
Volarono piccole ancore, aste con ganci acuminati morsero la murata della
nave avversaria. I pirati salirono a grappoli le sartie, si aggrapparono ai

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cordami, si fiondarono con destrezza sul ponte da conquistare. Urlavano
come folli, salvo quelli che stringevano un pugnale fra i denti. Le pistole
pendevano dal collo o erano infilate nella cintola.
Non vi fu nessuna battaglia. Gli spagnoli erano arretrati verso poppa, in
preda a un evidente terrore. Alcuni, in ginocchio, pregavano per le loro vite.
Altri tenevano le mani alzate. Un ufficiale reggeva una bandiera bianca.
Vista la situazione, Bouc si aggrappò a una cima e saltò sul galeone.
Altrettanto fece Martin un attimo dopo.
Il capitano spagnolo era spaventatissimo. Di sua iniziativa consegnò la
propria spada. Farfugliò qualcosa, forse un’implorazione di pietà.
Bouc gettò la spada lontano. «Stai calmo, imbecille. Non ti faremo del
male, né a te né al tuo equipaggio, anche se lo meritereste. Sei la vigliaccheria
fatta persona.»
Bouc era un omaccione, un tipo niente affatto rassicurante. Non si
conoscevano sue grandi imprese, tra i Fratelli della Costa. Solo arrembaggi
riusciti e modesti bottini. Vestiva come gli altri filibustieri: palandrana
sfarzosa con fili d’oro e d’argento, tricorno piumato e collane con monili
pendenti sulla camicia ricamata. Parlava il meno possibile e ciò, nel declino e
nell’eclisse della Tortuga, era considerato un pregio. Su Saint-Domingue, si
dedicava essenzialmente alla caccia. «Frugate la stiva del galeone» disse ai
suoi. «Trovatemi ogni cosa utile. Oro, denaro, alimenti.»
Martin si impegnò con il resto della ciurma. Di prezioso non c’era nulla, e
anche i viveri erano scarsi. Fu però rinvenuta, nel cassetto di un armadio
all’imboccatura del quadrato, una corrispondenza tra il governatore di
Cartagena, don Diego de los Ríos, e il comandante di Boca Chica, don
Sancho Jímeno. Confermava ciò che avevano detto i prigionieri. Don Sancho
chiedeva aiuti, mentre il governatore li negava e lo rassicurava sulle
intenzioni dei francesi, diretti a Portobello.
«Abbiamo a che fare con dei cretini» disse Bouc dopo che ebbe letto le
missive. Si rivolse ai suoi ufficiali. «Forza, sgomberatemi questo galeone.
Passiamo alla guerra seria.»
Gli spagnoli, disarmati e imbarcati sulle lance, erano increduli di essere
ancora in vita. Remarono in fretta verso terra. L’incredulità era anche di
alcuni pirati, veterani della Tortuga non abituati a prese così facili e ad
abbordaggi tanto poco sanguinosi.
Bouc non aveva simili “problemi di coscienza”. Si rivolse a Martin. «Io
torno sul Gracieuse. Passo a voi il comando di questa nave, che non so

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nemmeno come si chiami. Vi lascio un ufficiale e trenta uomini d’equipaggio,
tra cui una decina di cannonieri.»
«Ma non ho nessuna esperienza di navigazione!»
Bouc scoppiò a ridere. «Credete che io ne avessi quando mi imbarcai?
L’Olonnais non era neanche capace di leggere una bussola. Voi sembrate
avere attitudine al comando, e questo è sufficiente.»
«Dove devo andare?»
«Dove si combatte, no? Seguite le cannonate, è la mappa più sicura.
L’ufficiale vi aiuterà per le velature. A voi spetta solo tenere a bada la ciurma,
e non è la cosa più facile.» Divertito, Bouc toccò l’estremità del tricorno.
Prese posto su una scialuppa e si allontanò senza una parola in più.
L’ufficiale si chiamava Philippe Callois. Era stato capitano di goletta, poi,
persa la propria piccola nave, si era imbarcato con Lorencillo. In seguito
aveva servito con Le Sage, prima che questi morisse, nel 1694, e infine con
Bouc. Era un uomo ormai anziano, di grande esperienza, che godeva di
rispetto da parte dell’equipaggio. Il suo viso era solcato dalle cicatrici, segno
di chissà quante battaglie.
«Non ho capito bene dove dobbiamo dirigerci» gli confidò Martin.
Callois gli indicò un luogo collinare, non distante da quello su cui sorgeva
il monastero di Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa e situato tra
questo e la città. «Penso laggiù, al forte di San Lazaro. È là che sta
convergendo la nostra flotta.»
Martin ricordò la costruzione massiccia vista dall’alto. «Allora andiamoci.
Non so che ordini dare.»
«Ci penso io, capitano.»
«Il vento non è troppo forte?»
«Si rimedia.» Callois iniziò a gridare, rivolto alla tolda: «Un uomo sul
trinchetto e uno sul maestro! Ammainate il controvelaccino e il
controvelaccio! Lesti, poltroni, lesti!».
I pirati eseguirono immediatamente, uno si portò alla barra. Le altre vele
furono orientate. Il galeone smise di tonneggiare e di rollare sotto i colpi di
vento. Prese a filare rapido e sicuro.
Martin ne esplorò le viscere con più cura che nella precedente visita. Tutto
era intatto, i cannoni erano armati. La stiva, vuota, aspettava forse un carico
che non sarebbe mai arrivato a bordo. C’erano però una gabbia di polli,
alcuni prosciutti appesi al soffitto, molte gallette e, dietro un pannello che le
nascondeva, numerose bottiglie di vino, circa un centinaio. Be’, era già
qualcosa. Nel ponte inferiore, dove dormivano marinai e soldati, le amache

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erano in ordine, e ognuna aveva ai piedi il suo sacco. Nessuno aveva avuto il
tempo di portarselo dietro.
Martin risalì e visitò il castello di poppa, ornato da tre file di “giardinetti”: i
terrazzini che, nei galeoni spagnoli, erano numerosi. Lì regnava lo sfarzo. La
cabina del comandante aveva arredi degni di una casa nobiliare di Madrid,
con tanto di dipinti appesi alle pareti; quelle adiacenti le somigliavano, meno i
quadri. La sala mensa degli ufficiali era uno splendore: piatti di porcellana,
posate d’argento, bicchieri di cristallo. Da un’incisione sulle stoviglie apprese
il nome del galeone: Cristo.
A Martin tutto ciò ricordò quando era andato a rubare, di notte, in un
grande albergo a Parigi. Il lusso era tale che lo aveva frastornato, e aveva
preso solo un vaso particolarmente bello. Ma non era quello il momento di
perdersi in nostalgie. Esplorò la cucina, dove trovò verdure fresche a loro
modo preziose, e tornò sulla tolda.
Il galeone era ormai nei pressi del forte di San Lazaro. Uno dei traversieri
si era ribaltato sotto le ventate, e i soldati francesi stavano trainando a terra
l’enorme mortaio che trasportava. I vascelli cannoneggiavano di tanto in
tanto.
Martin si rivolse a Callois. «Siamo a tiro. È meglio che gettiamo le ancore
e spariamo anche noi.»
L’ufficiale non se lo fece ripetere. Gridò alla ciurma: «Ammainate tutte le
vele! Giù l’ancora! All’argano!».
Il manipolo di avventurieri intuì bene il senso del comando. Chi era arriva
scese in fretta. Altri gettarono l’ancora fuori bordo e iniziarono a spingere le
assi della ruota. La catena si svolse attorno all’argano. In un attimo il galeone
fu immobile.
L’ordine successivo spettava al solo Martin. Un po’ emozionato, deglutì e
urlò: «Cannonieri, ai pezzi! Puntate sul forte! Quando siete sicuri della mira,
fuoco a volontà!».
Fu obbedito scrupolosamente. Una decina di pirati corsero verso il
boccaporto con la scaletta che conduceva al ponte inferiore. Trovarono i
cannoni già carichi, con i barilotti di polvere e la piramide di palle di ferro a
lato. Pochi minuti dopo il galeone iniziò a sparare con tutte le sue bocche da
fuoco, come stavano facendo anche il Saint-Louis e il Vermandois.
Martin venne a sapere, attraverso i dialoghi tra gli ufficiali di navi tanto
vicine, che il governatore Diego de los Ríos era rientrato in città, finalmente
consapevole della gravità del pericolo. De Pointis gli aveva mandato
un’intimazione di resa, a cui don Diego aveva risposto in termini sprezzanti.

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Si seppe anche che in quel momento l’attacco al forte era condotto da due
colonne guidate da De Lévy e De Pointis, seguite dal resto delle truppe e da
un centinaio di filibustieri al comando del signor De Mornay.
Poco dopo, inaspettato, giunse l’ordine dal Saint-Louis di cessare il
cannoneggiamento. Martin poté capirne a occhio nudo il perché. Incredulo,
vide i soldati spagnoli abbandonare San Lazaro e scendere correndo verso il
quartiere di Hihimani. Dovevano essersi spaventati a morte e avere rinunciato
a combattere.
La fortezza era dei francesi. Era tempo di scendere a terra.

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13 - Lo schiavo Juan

Martin raggiunse il forte di San Lazaro quando ormai i francesi se ne erano


impadroniti. Malgrado le sue dimensioni e l’aspetto poderoso, non era una
roccaforte così formidabile come sembrava da lontano. Gli spagnoli in fuga
avevano abbandonato i sei cannoni senza inchiodarli, e così era stato facile
volgerli contro il quartiere di Hihimani e i suoi bastioni. Gli artiglieri –
filibustieri al comando di De Mornay d’Ambléville – li avevano già attrezzati
ed erano pronti al tiro.
Martin si imbatté nel capitano Pierre, quasi divertito da ciò che stava
accadendo. Gli chiese: «È fuggito anche il comandante della fortezza?».
L’altro rise. «No. È stato ucciso dai suoi stessi uomini. Non voleva che
scappassero. Sono incredibili questi spagnoli!»
«E De Galiflet dov’è finito?»
«Lo abbiamo deposto. Era una mezza calzetta, un impiegatuccio. Per
questo adesso ci comanda De Mornay. Vedremo come si comporta.»
I sei cannoni cominciarono a sparare sulla città, uno dopo l’altro. Non tutti
gli spagnoli dovevano essere così fiacchi, perché l’artiglieria di Hihimani
iniziò un fuoco intenso, continuo. La pioggia di palle danneggiò non tanto il
forte di San Lazaro, solo sbrecciato in alcuni punti, quanto le truppe francesi
assiepate sotto le sue mura. Si sentirono grida strazianti, gemiti, chiaramente
udibili dall’alto degli spalti ogni volta che il frastuono si interrompeva. In
mare, i vascelli tentarono di replicare, ma Cartagena, in quel punto, era
troppo fortificata, e tutti i danni possibili erano già stati fatti. Restavano i sei
cannoni in mano ai filibustieri, che facevano quel che potevano. La disparità
delle artiglierie era evidente.
Arrivò Bouc, sudato. «Chi avete lasciato sul galeone?» chiese a Martin.
«Callois.»
«Bene.» Bouc si rivolse a Pierre. «I soldati stanno arretrando per mettersi
al riparo dietro il forte. I morti sono finora duecento e passa. Lo stesso De

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Pointis è rimasto ferito, anche se in forma leggera. Lo ha sostituito il signor
De Lévy.»
«Ha dato ordini?»
«Solo quello della ritirata dei militari di terra in una zona più riparata.»
«Va bene. Noi continuiamo a tirare... Ma tu cos’hai? Sembri avere la
febbre.»
«È il caldo. Qui si brucia, e non c’è acqua.»
«La poca acqua dolce se la sono accaparrata quasi tutta gli ufficiali
dell’esercito. In mezzo al cortile del forte c’è però un pozzo. Scendi e fattene
dare quanta te ne serve.»
Si continuò in quella maniera per un paio d’ore. Ai sei pezzi spagnoli se
ne aggiunsero altri due francesi, scaricati con gran fatica. I filibustieri
sparavano con i moschetti, i bucanieri con i fucili. Il fuoco restò elevato, poi
cominciò ad attenuarsi un poco. De Mornay era abbastanza abile e faceva
alternare i cannonieri quando erano spossati. Si vedeva che cominciava a
essere stanco a sua volta.
«Cosa succede, qua?» chiese una voce ben nota. «Si batte la fiacca?»
Era Ducasse. Spuntava dalle scale zoppicando un poco e, in assenza di
ringhiere, si appoggiava ai mattoni della muraglia. Aveva il collo fasciato,
tuttavia non appariva più debole del solito. Anzi.
Al solo vederlo tutti i combattenti, Martin incluso, si sentirono rinfrancati.
I visi anneriti dalla polvere da sparo si illuminarono di sorrisi.
De Mornay gli si fece incontro. «Bentornato, governatore. Come state?»
«Exquemeling mi ha ricucito, mi ha obbligato a dormire, mi ha fatto bere
qualche intruglio e adesso sono di nuovo in piedi.»
«Siamo in una situazione di stallo, governatore. Da Cartagena ci
bombardano senza posa, e non siamo in grado di rispondere adeguatamente.»
Invece di commentare, Ducasse chiese brusco: «Chi è quello là?».
Indicava un personaggio che Martin aveva già notato. Era un negro che
passeggiava sugli spalti senza fare nulla. La stranezza era che trascinava una
partesana: una lunga lancia che terminava con una lama a forma di
mezzaluna e due simili a coltelli. Nell’esercito spagnolo era l’insegna dei
capisquadra della fanteria.
De Mornay increspò le labbra. «È Juan, lo schiavo di un certo capitano
Santarém. Dobbiamo a lui il fatto di essere arrivati fin qui con tanta facilità.
Merita gratitudine... Ma racconta tu stesso, Juan.»
«Parla francese?» si meravigliò Ducasse.
«Sì. In passato fu uno dei servi di Maria Teresa d’Austria.»

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Juan si fece avanti. Era un uomo calvo e leggermente curvo, ma con una
buona muscolatura. L’orgoglio brillava nei suoi occhi grandi e tondi. «Il
capitano Santarém mi aveva “prestato” a don Sancho, il comandante di Boca
Chica. Questi, visto che le navi francesi continuavano ad avvicinarsi, mandò
ancora una volta una richiesta di aiuto al governatore di Cartagena. Scrisse
un messaggio che consegnò a un soldato e mi designò per accompagnarlo. Io
offrii al militare di portare in sua vece la partesana. Lui accettò. Appena ebbi
la sua arma in mano feci un fischio. Dei francesi uscirono dai boschi e lo
uccisero all’istante.»
Ducasse aggrottò le sopracciglia. «Dunque un agguato architettato. Chi ne
era l’autore?»
«Il capitano Francisco Santarém, d’accordo con il signor De Pointis.
Erano in contatto da tempo.»
«Continua.»
«Il messaggio originale, che chiedeva aiuto, fu distrutto. Io ne avevo un
altro, sostitutivo.»
Juan porse un foglietto spiegazzato. Vi si leggeva:

Eccellentissimo signore,
è risultato falso l’allarme circa le intenzioni della flotta francese. So per
certo che non cercherà di entrare in Cartagena, ma che continuerà in direzione
di Portobello. Di conseguenza, vostra signoria non deve mandarmi rinforzo
alcuno.
Dal suo devoto servitore, comandante di Boca Chica.

Juan scoppiò in una risata. «Don Diego ci è caduto in pieno quando ha


letto il messaggio. Ha alzato le spalle e detto: “Meglio così. Ne ero pienamente
convinto. Ora torno a dormire”. Io mi sono ricongiunto a voi.»
Questa volta fu Ducasse a sorridere. «Bravo, bravo. Meriti una
ricompensa. Ma smetti di portarti dietro quell’alabarda spagnola. Ti sei
guadagnato una spada francese. Avrai la mia.»
«Grazie!» esclamò Juan, autenticamente commosso. «Sarà un onore usarla
per voi!» Lasciò cadere la partesana, che tintinnò.
Ducasse estrasse la propria cazoleta toledana e la conficcò nel ventre dello
schiavo. La sua vittima lanciò un urlo in cui si fondevano dolore, orrore e
sorpresa. Cadde in un lago di sangue. Ducasse rigirò la lama nella ferita,
finché l’altro non spirò.
A quel punto, il governatore si rivolse agli astanti. «Ci mancherebbe solo

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che ci portassimo dietro un traditore, una canaglia. Su, buttate la carcassa giù
dagli spalti. Puzzava già da vivo, figurarsi da morto.»
Tutti i filibustieri applaudirono, mentre i soldati francesi apparivano
sconcertati.
Ducasse recuperò la sua spada. Due pirati afferrarono il corpo per le
braccia e i piedi, lo fecero oscillare e poi volare oltre la merlatura.
De Mornay era impallidito. Balbettò: «Io non so se l’ammiraglio De
Pointis sarebbe d’accordo».
«Non lo so nemmeno io» rispose Ducasse, sarcastico. «Signore, vi vedo
sudato e affaticato. Andate a prendervi il giusto riposo. Quassù rimango io.»
Ripulì la cazoleta del sangue sfregandola contro la manica, prima di
rinfoderarla.
«Mi state esonerando dal comando?»
«Oh, non mi permetterei mai. Ma De Pointis è ferito, e certamente la
vostra presenza al suo fianco gli sarebbe di grande conforto. Andate, andate.»
De Mornay si allontanò, mogio.
I cannoni continuavano a sparare, con maggior vigore. Ducasse gridò agli
artiglieri: «Basta, cessate il fuoco. Stiamo sprecando colpi. Non è così che
prenderemo Cartagena, con otto cannoni in cima al forte e l’esercito
acquattato dietro le mura. Ci servono molti altri cannoni, e dunque molti più
giorni. Dov’è Godefroy?».
«A bordo del suo brigantino Serpente» rispose Pierre.
«Mandate qualcuno ad avvertirlo. Che le navi sparino ogni tanto, anche se
fuori tiro, così da distrarre l’attenzione. Nel frattempo lui si occupi di far
sbarcare quanti più cannoni possibile, per portarli su questa collina.»
«E se intanto gli spagnoli tentano una sortita?»
«Non lo faranno. Troppo conigli.»
Con il fuoco che diminuiva d’intensità, si ricominciarono a udire i gemiti
dei feriti e dei moribondi rimasti sui fianchi della collina, e che nessuno
aveva osato raccogliere. La sete doveva tormentarli orribilmente.
«So che i morti sono stati centinaia. Qualcuno conosce il nome degli
ufficiali caduti?» chiese Ducasse.
«Solo di alcuni» rispose Bouc. «Il signor De Vezins, il cavaliere Marolles,
il cavaliere Du Rollon, il visconte De Coëtlogon e altri. Persino il cavaliere
De Pointis, nipote dell’ammiraglio.»
Ducasse sogghignò con perfidia. «Dovremmo essere grati agli spagnoli per
averci liberati di questi parrucconi. E ancor di più dovrebbero esserlo i
francesi di Francia. Come direbbe Godefroy, qualche sanguisuga in meno.»

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14 - Lungo assedio

Lo sbarco dei cannoni durò parecchi giorni, dal 23 al 27 aprile. Era un


compito improbo, che fu affidato agli schiavi e ai marinai semplici, non a
caso soprannominati “i negri bianchi”. Frattanto continuava un inutile duello
di artiglieria tra la flotta e la città. Quest’ultima pareva avere dimenticato il
forte di San Lazaro, forse nell’illusione che fosse stato abbandonato.
Il signor De Pointis, che si stava riprendendo, non si oppose agli ordini
impartiti da Ducasse. Al contrario, li approvò. Così, lentamente, fu creata
sotto il forte una batteria di bocche da fuoco capace di sparare su Hihimani
palle da ventisei e trentasei libbre. Un’altra, con palle da diciotto e trentasei,
fu allineata su una collina vicino e puntata su altri bastioni. Il calore
eccessivo rallentava il lavoro, che ciò nonostante fu condotto a termine con
pazienza.
In quei giorni di relativa calma Martin ebbe modo di rivedere padre Le
Pers, che consumava una ciotola di pesce seduto sulle radici nodose di un
cipresso smisurato. Aveva ai piedi un fascio di fogli, tenuto fermo da un
sasso sebbene non vi fosse un alito di vento. Vicino erano posati un calamaio
e una penna.
Martin indicò le carte. «Cosa state scrivendo, padre?»
«Prendo nota degli eventi giornalieri. Inoltre, già che ci sono, appunto le
caratteristiche della flora, della fauna e dei luoghi geografici, come già fece il
domenicano Du Tertre... Ma sedetevi accanto a me.»
«Stavo andando nella fortezza a bere un po’ d’acqua.»
«Non occorre.» Le Pers strizzò l’occhio e scostò la tonaca. Apparve una
bottiglia di vino bianco. «Qualcosa di utile c’era, nei forti abbandonati.»
Martin prese posto sulla radice e ingollò una sorsata. Peccato che il vino
non fosse fresco, ma sarebbe stato chiedere troppo.
«Cosa ne pensate delle battaglie che si sono svolte finora?» domandò al
gesuita.
«Morti eccessivi, eccessiva improvvisazione. Come mai non sono stati

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mandati degli esploratori a rilevare il terreno prima di entrare nella baia?»
«Io credo che il signor De Pointis l’abbia fatto, in segreto» obiettò Martin.
«È grazie ai contatti con uno spagnolo traditore che abbiamo avuto Boca
Chica.»
«Non intendevo quello. Ciò che serviva era una rilevazione dei corsi
d’acqua dolce e potabile e dei sentieri. Una ricognizione all’interno della città
per segnare il numero e la disposizione dei cannoni. Quando Hihimani ha
risposto al fuoco, ha preso tutti di sorpresa con la sua potenza. Michel le
Basque mandò esploratori a Maracaibo, Morgan a Panamá, De Grammont a
Campeche.»
Martin approvò. «Penso che abbiate ragione, padre. Il fatto è che il signor
De Pointis è abituato a un altro genere di battaglie. Coloro che si trovano più
a loro agio mi sembrano i filibustieri. Che però non obbediscono ad altri che
a Ducasse.»
«È uno di loro, in fondo. Vi siete fatto un’opinione di lui?»
«Molto rude, e ciò nonostante a suo modo cavalleresco. Sembra
considerare ogni aristocratico un ostacolo e un perdigiorno.»
Le Pers ingollò una sorsata di vino, schioccò le labbra e fece una risatina.
«Idea assai diffusa, tra la Filibusta. Molti di coloro che si arruolarono tra i
Fratelli della Costa erano stati vittime della nobiltà. O perché oppressi dalla
miseria, o perché soldati e marinai tiranneggiati dai superiori, o perché
colpevoli di lievi delitti contro la proprietà che, in Francia, avrebbero pagato
con la forca. Si dicono fedeli a Luigi XIV, ma di sicuro non rispettano né la
sua corte, né l’aristocrazia.»
«Dubito che sia l’amore per il sovrano a spingerli a battersi.»
«No, infatti. Ve l’avranno ormai ripetuto in tanti. L’unico movente dei
filibustieri è un arricchimento smodato. Non per fare la vita dei nobili ma,
all’opposto, per comportarsi in maniera antitetica ai modelli che costoro
vorrebbero imporre alla plebe.»
Si avvicinò Exquemeling, che li aveva visti da lontano e aveva notato la
bottiglia. «Sbaglio o quello è vino?»
«Non sbagliate.» Le Pers gli allungò la boccia. «Come sta il nostro
ammiraglio?»
«Si è ripreso. La ferita peggiore era quella allo stomaco, ma era
superficiale e si sta rimarginando. Non ha febbre. Ha già presieduto due
consigli di guerra.»
«Con Ducasse?»
«No, senza Ducasse. Che però lo lascia fare.»

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«Altre novità?» chiese Martin.
«Sì. Un vascello spagnolo si è avvicinato a Boca Chica senza accorgersi di
nulla. È stato bloccato dalle fregate Marin e Avenant. Si è subito arreso. A
bordo è stata trovata una lettera per il governatore di Cartagena, scritta dal
generale dei galeoni di Portobello. Assicura don Diego de los Ríos che la
flotta è pronta alla difesa e che l’argento della città è stato portato al sicuro
nei fortilizi dell’interno. Insomma, fino all’ultimo don Diego si è ingannato
sulle nostre intenzioni e ha ingannato altri. Ciò significa che da Portobello
non arriveranno dei rinforzi tanto presto. Abbiamo il tempo di prendere
Cartagena, saccheggiarla e ripartire tranquilli.»
In quei giorni relativamente calmi, mentre si allestivano le batterie, la
maggior parte dei filibustieri si dedicò a saccheggiare i villaggi della zona, a
fare dei prigionieri, a intercettare carichi di viveri diretti in città. Ducasse
aveva proibito qualsiasi violenza sulle donne, e la consegna fu rispettata,
schiave incluse. Qualche volta Martin si unì a squadre in ricognizione,
rimanendo incantato dall’esuberanza della flora e dalle piume multicolori di
uccelli che vedeva per la prima volta. I serpenti erano numerosissimi, tuttavia
fuggivano veloci. Nei corsi d’acqua i pesci erano così fitti che li si poteva
catturare con le mani. Solo che i pirati, abitualmente, non amavano il pesce, e
meno che mai quello di fiume.
Durante una di quelle scorribande Martin fece la conoscenza di un
filibustiere di nome Patrick Whelan, che scambiò per inglese. Un uomo sulla
quarantina, allampanato, altissimo, con i capelli rossicci e lunghe basette. Una
cicatrice diagonale gli attraversava l’intero viso.
«Non sono inglese, sono irlandese» corresse piccato l’altro. Parlava un
francese abbastanza buono. «Il mio vero nome non è Patrick, ma Padraigh.
Ho lasciato il mio paese e sono arrivato fin qui dopo che gli inglesi hanno
rubato il campo della mia famiglia e impiccato mio padre, mia madre e i miei
due fratelli.»
«Su quale nave sei imbarcato?»
«Sul Pembrock del capitano Galet. In precedenza avevo seguito Ducasse e
Lorencillo in tutte le loro imprese. E tu chi sei?»
Martin espose la propria biografia in termini sommari, tacendo con cura il
periodo della Corte dei miracoli e delle ladrerie.
Whelan fece una smorfia. «Un soldato di mestiere, vedo. Non devi esserlo
completamente, se sei con noi e se ti è stato affidato il comando del galeone
catturato. Ci si fida di te, e questo mi fa pensare che tu non mi abbia
raccontato tutto.»

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«Se ti ho nascosto qualcosa, è perché non mi andava di dirtelo.»
«Ottima risposta.» L’irlandese assunse un’espressione cordiale. «Chiunque
tu sia o sia stato, dimostrerai sul campo quanto vali.»
La pattuglia scoprì un piccolo villaggio sepolto fra i palmizi. Era un abitato
povero, fatto di capanne di legno col tetto di paglia. Ci vivevano indigeni e
qualche negro, che lavorava in semilibertà al servizio di uno dei tanti
conventi della regione. Nessuno di costoro dava l’idea di possedere
informazioni interessanti. Se, cosa improbabile, qualche bianco aveva abitato
in una di quelle casupole, si era allontanato per tempo e, comunque, doveva
essere miserabile quanto gli altri abitanti.
Inutile prendere schiavi: i negri erano troppo macilenti per avere un
qualche valore. Quanto agli indigeni, era politica dei filibustieri non ridurli in
schiavitù, per non inimicarsi tribù intere. Fu però scovato un maiale che
trotterellava dentro un piccolo recinto. Fu sgozzato e portato via, tenuto sulle
spalle da un bucaniere. Quello fu l’unico bottino, peraltro non trascurabile,
che fruttò la spedizione.
Il 29 aprile le batterie furono in posizione e cominciò un bombardamento
incessante su Hihimani. Questa volta il fuoco degli assedianti era nettamente
superiore a quello dei difensori e concentrato sulla porta principale del
sobborgo. Le strutture protettive cominciarono a cedere e a sgretolarsi. Nelle
notti precedenti era stata silenziosamente scavata una trincea che conduceva a
un ponte levatoio, detto “della Cappella del Villaggio”. Il 30 vi furono
trascinati dei cannoni, al riparo dai colpi sempre più radi dei nemici. Era netta
l’impressione che gli spagnoli cominciassero ad arrendersi al loro destino.
Nella trincea, abbastanza profonda, si insinuarono curvi cento filibustieri
al comando di Ducasse, alcuni negri e una squadra di granatieri. Arrivati in
vicinanza del ponte, fu ordinato il cessate il fuoco e fu mandato allo scoperto
un negro prigioniero con una bandiera bianca. Anche gli spagnoli smisero di
sparare.
«Che cosa vuoi?» domandò un capitano dalle mura di Hihimani.
«Sono di Cartagena, signore. Vorrei anzitutto notizie della mia famiglia.»
«Non c’è tempo. Comunque qui stiamo benone. C’è altro?»
«Sì, signore. Nessuno può fermare questi francesi. Sono belve. Se li farete
entrare, avrete salva la vita. Altrimenti saremo tutti passati a fil di spada. Vi
consiglio di accettare.»
«Devo sentire il mio comandante. Di’ ai francesi di aspettare.»
Anche le batterie, sia della città sia della collina, avevano smesso di
sparare. Ducasse ne approfittò per uscire dalla trincea, in attesa

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dell’interlocutore. Martin notò che si guardava attorno con cautela. Di certo
valutava mentalmente le difese avversarie.
Apparve il comandante degli spagnoli, di rango indistinto ma con dovizia
di piumaggi. Avanzò fino al bordo del fossato, peraltro povero d’acqua.
Ducasse lo salutò con la sciabola da combattimento, che aveva preso il posto
della spada. L’altro rispose al saluto.
«Cosa desiderate, signore?»
«La resa, comandante. Ciò che vi ha detto il negro è vero. Se ci fate
entrare, tutti voi avrete salva la vita. In caso contrario, saremo costretti a
uccidervi dal primo all’ultimo.»
Il turbamento dell’ufficiale fu palese. «Devo conferire col governatore De
los Ríos.»
«Vi posso concedere mezz’ora, non di più.»
«È un tempo troppo breve.»
«Forse, ma consideratelo un atto di generosità.»
Ducasse tornò nella trincea con un’espressione allegra. «In mezz’ora non
combineranno nulla» disse ai suoi «però le nostre truppe avranno il tempo di
scendere la collina e di ammassarsi qua. Ho potuto vedere dove le mura sono
danneggiate e, dunque, dove puntare i nostri cannoni.»
Ducasse diede rapide istruzioni, poi si arrampicò sul bordo della trincea,
dalla parte opposta alla Cappella del Villaggio.
«Vado da De Pointis» spiegò. «Gli chiederò l’autorizzazione ad attaccare
non domani, come prevedeva, ma subito. È il momento giusto. Vedrete, i
bastioni crolleranno come un castello di carte.»
Fece un gesto di saluto e sparì di corsa tra le palme.

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15 - Il crollo di Cartagena

Trascorsa la mezz’ora di tregua senza che il governatore De los Ríos desse


risposta, giunse il momento dell’attacco. Attorno al ponte della Cappella del
Villaggio e sopra la trincea si erano riuniti migliaia di soldati e centinaia di
filibustieri, di bucanieri, di volontari civili e di negri.
Arrivò anche il signor De Pointis, su una specie di lettiga retta da quattro
schiavi. Contemplò la scena e disse a Ducasse: «È tempo di aprire il fuoco».
«L’ho già ordinato, ammiraglio. Gli artiglieri stanno caricando i pezzi.»
De Pointis inarcò un sopracciglio ma non fece commenti. Si vedeva bene
che era indispettito dall’intraprendenza del governatore. Non poteva tuttavia
censurarne le scelte, che erano le più logiche.
I cannoni tuonarono assieme, aprendo una larga breccia nella cinta e
facendo cadere le catene che alzavano il ponte levatoio. Ducasse si gettò in
avanti, facendo roteare alta la sciabola. Lo seguirono i filibustieri guidati da
Macary, i granatieri della trincea agli ordini del signor De Sorel, il battaglione
di Chesneau e altri corpi condotti da nobili.
Benché il ponte fosse adesso accessibile e lo squarcio nelle mura ampio,
c’era da attraversare una terra di nessuno di centocinquanta tese totalmente
allo scoperto. I caduti e i feriti, in quel tragitto percorso correndo, furono
moltissimi. Ducasse, malgrado ciò, si guardò dall’ordinare la ritirata. Urlava
come un pazzo, imitato dai suoi uomini, altrettanto invasati. Percorse il ponte,
scavalcò gli ultimi ostacoli e si inerpicò sull’arco che delimitava l’accesso,
ormai violato, a Hihimani. Persino i soldati regolari si lasciarono trascinare
dall’euforia. Si abbandonarono a strida animalesche e a imprecazioni. Non
fecero caso ai loro compagni che cadevano a grappoli.
Dopo pochi minuti la bandiera francese sventolava in cima all’arco.
Ma non era finita. Sotto la volta, dalle case adiacenti e da barricate
improvvisate gli spagnoli continuavano a sparare, e il fuoco era fitto.
«Suvvia, miei bravi!» urlò Ducasse. «Offriamo al nostro augusto pubblico
lo spettacolo che si attende!»

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Alludeva al barone De Pointis e al comandante spagnolo di Hihimani, che
si era fatto portare sul luogo del conflitto, a debita distanza, su una poltrona
mobile, retta per le aste da quattro schiavi. I due condottieri, attorniati da un
buon numero di ufficiali, si osservavano reciprocamente attraverso il
cannocchiale e seguivano le fasi del conflitto.
Con i soliti strepiti animaleschi i filibustieri si gettarono sui nemici,
incuranti dei caduti, numerosissimi. Frattanto cominciavano ad attraversare il
ponte altre compagnie di granatieri, guidate dal signor De Lévy, dal signor De
Sorel e da graduati di marina. Seguivano il cammino aperto da Ducasse e non
risparmiavano i colpi. Gruppi di spagnoli furono scoperti asserragliati in
magazzini e dietro monticelli di sabbia, eretti nelle notti precedenti per la
bisogna.
Duecento difensori vennero scovati in una chiesa, scambiata per un
rifugio inviolabile.
«Sgozzateli tutti» ordinò Ducasse. «L’unico spagnolo che voglio vivo è il
damigello in poltrona. Dev’essere un pezzo grosso, può servirci come merce
di scambio.»
I filibustieri non se lo fecero ripetere. Accantonate le armi da fuoco,
misero mano alle scuri, alle sciabole, alle azze, alle picche. La macelleria durò
una ventina di minuti, e alla fine il sangue scorreva fuori dal portale della
chiesa, simile a un ruscello, col suo odore penetrante e sgradevole. Gli
agonizzanti furono uccisi a colpi di pistola.
Per mettere le mani sul comandante spagnolo esisteva però un ultimo
ostacolo: i lanzeros. Erano una specie di corpo d’élite dell’esercito di Spagna,
armato di lance lunghe almeno una decina di piedi. Aspettavano
raggomitolati che gli avversari avessero sparato, poi, mentre ricaricavano, si
drizzavano e li colpivano con le proprie armi a una distanza che non
permetteva un duello. Nessuno spagnolo lo avrebbe mai ammesso, ma si
trattava di una tecnica di combattimento tipicamente araba.
Mentre i filibustieri erano impegnati nei loro eccidi, apparvero una trentina
di lanzeros a protezione del comandante che, senza lasciare la sua poltrona,
cercava di abbandonare la piazza. Andò loro male. Le compagnie di
granatieri francesi erano adesso numerose, e intanto che una sparava l’altra
ricaricava. I lanzeros caddero come mosche, anche se abbastanza
eroicamente. Vollero usare, in un gesto disperato, le loro aste come
giavellotti, ma non colpirono alcunché.
Martin fu tra i primi a portarsi di fianco all’hidalgo in poltrona,
abbandonato dagli schiavi, che se l’erano data a gambe. Stava finalmente

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mettendosi in piedi, con una certa agilità.
«Mi arrendo!» esclamò quando si vide circondato.
«Saggia decisione» rispose il signor De Lévy, non senza ironia. «Qualcuno
accompagni questo valoroso guerriero dall’ammiraglio De Pointis. Gli dica
che, a mio avviso, sarebbe meglio tenerlo sul Vermandois finché la città non
sarà nostra. Ormai è questione di poco.»
Si incaricò della bisogna il marchese De Boury, che era stato ferito al viso
e non poteva rimanere sul campo di battaglia. Lo spagnolo – che poi si seppe
essere il governatore di Hihimani, reduce dalle Fiandre – camminava
benissimo e lo seguì senza fare storie, con due fanti di scorta.
Gli invasori si divisero in due colonne e presero a inseguire i nemici in
ritirata. Vi furono sporadici tentativi di resistenza, subito debellati. Una parte
dei superstiti riuscì a superare la porta principale della cerchia più interna
della città, ma presto i battenti vennero chiusi e molti rimasero fuori. Non se
ne salvò nessuno.
Ducasse valutò la situazione. Disse al signor De Vaujour, un tenente di
vascello e maggiore dei granatieri, che gli era accanto: «Il sole sta calando.
Conviene fare una pausa, anche perché gli uomini sono stanchi. Di fatto
Cartagena è nostra. Non abbiamo nessuna fretta».
L’ufficiale, tenendosi il braccio ferito da una lancia, rispose: «Vado a
sentire il signor De Lévy. Credo che sarà d’accordo».
«Le case dei civili mi sono sembrate tutte vuote.»
«È stata anche la mia impressione. La popolazione deve essere riparata
entro l’ultima cinta di bastioni.»
«Bene. Dite a De Lévy che ci sono alloggi a sufficienza perché i nostri
possano avere una sistemazione confortevole e riposare in modo
conveniente. Soprattutto i feriti.»
Martin, poche ore dopo, riposava sul divano di una casetta in pietra che
doveva essere appartenuta a un piccolo commerciante. Tutto ciò che poteva
rivelarsi utile, se non prezioso, era stato asportato. Rimanevano i mobili e
alcune lampade a olio. Contava di ritirarsi in una delle camere da letto appena
il suo coinquilino fosse rientrato.
Era lo stesso tenente De Vaujour che aveva condotto il governatore di
Hihimani da De Pointis. Quando arrivò, gli doleva ancora il braccio, però la
ferita era stata fasciata con cura. Si gettò su una poltrona.
«Abbiamo avuto molte perdite» annunciò. «Nessuno li ha contati, ma i
caduti di oggi devono essere quasi trecento, e i feriti, tra gravi e meno gravi,

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poco meno di un migliaio. Naturalmente non tengo il conto dei filibustieri,
ricoverati altrove e assistiti da quel loro chirurgo dal nome strano.»
«Perché tenerli separati?» chiese Martin.
De Vaujour strizzò l’occhio. «Non vi risponderei se il barone De Pointis
non mi avesse informato della vostra missione tra i fuorilegge. È evidente
che non possiamo mescolare onesti soldati a puri farabutti, quintessenza della
plebaglia. Ai primi spettano le cure migliori, ai secondi quel che rimane,
come ai negri. Del resto hanno la scorza dura, si ristabiliscono prima degli
altri.»
«Oggi sono stati avanti a tutti in ogni assalto» protestò debolmente Martin.
«È quella la loro funzione. Essere sempre in prima linea e aprire la strada
alle truppe regolari. Un compito riservato anche ai volontari delle colonie e
agli schiavi. È questa la forza dell’esercito francese, e quella della società che
l’ha prodotto. Avere una gerarchia.»
Un po’ disgustato da quanto udiva, Martin preferì interrompere la
conversazione e ritirarsi nella stanza che si era scelto. Il letto era morbido.
Tolse gli stivali, spense la lampada e si adagiò sulle coperte (faceva troppo
caldo, anche a quell’ora, per andarvi sotto). Si addormentò all’istante.
Si svegliò che il sole era già alto. De Vaujour se ne era andato. Trascorsero
alcune giornate senza eventi particolari. Martin andò a visitare De Pointis,
nella villetta che lo ospitava. Si era ripreso e sembrava ottimista. Stava
conversando piacevolmente con tre gentiluomini di Cartagena che, come il
capitano Santarém (che aveva la scusante di essere di origine portoghese), si
erano convertiti alla causa della Francia: don José Márquez, don Pedro
Cañarete e don Juan de Berrío. Tutti mercanti, intenti a vendere la loro città
prima ancora che cadesse in mano straniera.
All’arrivo di Martin, De Pointis congedò i visitatori e lo accolse
cordialmente.
«D’Orlhac, ho avuto belle notizie al vostro riguardo. So che i filibustieri vi
hanno accettato nelle loro file e affidato persino il comando di un galeone
catturato, per un breve tragitto.»
«È gente molto aperta, ammiraglio» rispose Martin, con un mezzo inchino.
Teneva il cappello stretto a due mani contro il petto.
«Molto aperta e molto stupida, come è sempre il popolino.» De Pointis
rise. In un istante tornò serio. «La vostra funzione è preziosa, e lo sarà ancora
di più dopo la vittoria. Che sarà difficilissima, non c’è da farsi illusioni. I
nostri uomini validi sono ridotti a duemilacinquecento. Il nucleo interno della
città è protetto da mura alte e da un fossato, per una volta colmo d’acqua.

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L’artiglieria degli assediati resta potente. Possiedono viveri in abbondanza.
Ma il peggio è che abbiamo un nemico interno, riottoso alla disciplina,
pronto a fare di testa sua.»
«Ducasse?»
«Precisamente. Ducasse e la sua masnada di delinquenti assetati di sangue.
Tenetelo d’occhio, fatevi amici i suoi compari. Voglio poter prevenire ogni
sua mossa.»
Martin si inchinò nuovamente. «Eseguirò i vostri ordini, ammiraglio.»
«Ci conto. Ora andate.» De Pointis raggiunse un divano di stoffa ricamata
gonfio di cuscini. «Devo riflettere su come allestire il prossimo attacco.»
I primi giorni di maggio scorsero tranquilli, a parte la falsa notizia di
undicimila soldati spagnoli giunti per via di terra in soccorso a Cartagena.
Nessuno riuscì a trovarli. Il 2 e 3 maggio furono allineati nuovi cannoni
puntati da Hihimani sulla porta principale. Il 4 maggio il Sceptre e il
Vermandois intensificarono i bombardamenti.
La sorpresa vera giunse il 5 maggio. Martin era accanto a Ducasse quando
questi esclamò: «Non ci posso credere!».
Sui bastioni erano apparse delle bandiere bianche. Simultaneamente una
voce esclamò dagli spalti, prima in spagnolo e poi in un francese zoppicante:
«Cessate il fuoco! Ci arrendiamo! Ci arrendiamo!».
Cartagena era caduta, senza nemmeno tentare un’ultima difesa.

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16 - Nella morsa della paura

«Lui no! Lui non lo vogliamo!»


«È un bandito! Un predone!»
«Non consegneremo la città a quella canaglia! Che venga il barone De
Pointis!»
Gli spagnoli, assiepati dietro le bandiere bianche, indicavano Ducasse, che
aveva mosso alcuni passi sul ponte levatoio abbassato, verso la porta aperta.
«Che cosa facciamo?» domandò il signor De Galiflet, che gli andava dietro
in compagnia del marchese De Boury. I tre erano stati designati per negoziare
la resa degli sconfitti.
Ducasse alzò le spalle. «Parlate spagnolo?»
«Sì.»
«Allora occupatevi voi della trattativa. Siete un uomo di legge, no? Quanto
a me, vado a riposare. Il mio incontro con quelle cornacchie è solo
rimandato.» Si allontanò con calma, le mani intrecciate dietro la schiena.
De Galiflet e De Boury, che aveva il viso mezzo fasciato per via della
deturpazione subita, si accostarono alla porta, senza però varcarla.
«Signori» disse il primo a chi stava oltre le mura «il barone non entrerà
mai, finché non avrete proceduto a un completo disarmo. Nominate dunque
una delegazione, e in fretta. La discussione avrà luogo nel nostro campo. Ora
sbrigatevi. La nostra pazienza non è infinita.»
Martin, che aveva seguito a distanza la scena, decise di tornare a Hihimani.
Si incamminò verso la villetta, ombreggiata da palme altissime, occupata da
De Pointis e dal suo stato maggiore. Fu lasciato entrare senza alcuna
difficoltà. Prima di recarsi dall’ammiraglio passò dalla cucina, dove si fece
servire dai cuochi una colazione abbondante in cui, tra legumi sconosciuti,
troneggiava un’enorme omelette.
Quando ebbe finito il pasto, stava arrivando la delegazione di Cartagena e
non osò entrare nello studio in cui si era insediato De Pointis. Vide passare,
ben scortati, cinque uomini, di cui tre vestiti di nero (probabilmente notai o

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avvocati) e due con gli abiti rutilanti della nobiltà coloniale. Camminavano
un poco curvi, sembravano molto spaventati. Martin attese seduto su un
divano, poi, visto che il dialogo tendeva a dilungarsi, se ne andò a zonzo.
Le trattative si protrassero, con ripetute visite della delegazione. Martin
trascorse il tempo in compagnia dei filibustieri, e soprattutto di padre Le Pers.
La tavola che questi si era fatto sistemare in un angolo ombreggiato
dell’arteria principale di Hihimani era sempre affollata. Il gesuita mandava un
gruppo di schiavi nelle case abbandonate del quartiere a recuperare bottiglie
di vino spagnolo. Dopo le degustava in compagnia, vantandone i meriti,
frequenti, o i demeriti, rari.
“Questo è un ottimo rosso della zona di Castiglia e León” diceva, per
esempio, dopo avere odorato il profumo, valutato il colore e assaggiato un
sorsetto. “Non è la migliore regione vinicola di Spagna, però ci troviamo in
presenza di una fortunata eccezione. Bevetene un poco, ma badate che
picchia.”
A furia di sorsetti, già nel primo pomeriggio i pirati erano mezzo ubriachi.
Divoravano ciò che potevano mettere sotto i denti e, se non avevano
impegni, andavano a dormire, incluso Martin. Il signor De Vaujour non si era
più visto, e la casa che avevano condiviso era tutta sua. L’unico fastidio
erano i nugoli di insetti e l’aria malsana, che rendeva gravosa la respirazione.
Se nascondeva insidie, le celava sotto i profumi di cui era carica quando
spirava un alito di vento.
Finalmente, verso le undici dell’8 maggio, la seduta di assaggio dei vini fu
interrotta dall’arrivo del capitano Galet.
«Le condizioni di resa sono state firmate» annunciò. «Sono sei punti.»
«Cosa dicono?» chiese Le Pers.
«Vado a memoria. Il governatore De los Ríos uscirà dalla città con tutti gli
ex combattenti che vorrà portarsi dietro e quattro cannoni. I tesori del re di
Spagna saranno consegnati al barone De Pointis, assieme alle ricchezze
commerciate dai mercanti, argento in primo luogo. I possidenti potranno
portare con sé il denaro per il viaggio e il numero minimo di schiavi
necessari ad accudirli. Gli abitanti dovranno dichiarare l’oro, l’argento e le
pietre preziose in loro possesso, di cui potranno trattenere la metà. I francesi,
inclusi noi, non toccheranno chiese o conventi. Chiunque voglia lasciare la
città sarà libero di farlo, purché rinunci a tutti i suoi beni. Chi invece vorrà
restare, pagato il dovuto, resterà nella propria casa, in cui i nostri soldati non
metteranno piede.»
Passato un attimo di incredulità, il mite Macary esclamò, rabbioso: «Ma

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siamo impazziti? Qui non si capisce più chi ha vinto e chi ha perso!».
«Mi limito a riferire» rispose Galet. «Questi sono i termini del trattato.»
«E Ducasse che dice?»
«A me ha sussurrato: “L’importante è entrare in Cartagena e prenderla
senza colpo ferire. Dopo vedremo”.»
Sebbene quella frase fosse rassicurante, il malumore dei filibustieri era
tangibile. Si avviarono verso la porta dell’ultima cinta, in tempo per vedere
l’uscita del governatore e dei suoi. Il corteo era atteso da De Pointis, in sella
al suo cavallo malgrado il dolore che ancora gli provocava la ferita. Anche
De los Ríos era a cavallo. Per la prima volta i vincitori potevano vederlo da
vicino. Era un personaggio anziano e corpulento, senza essere grasso.
Calcava sotto il cappello molto largo un’enorme parrucca, ed era vestito con
abiti degni delle statue dei santi di certe cattedrali. Salutò De Pointis con la
spada. L’ammiraglio rispose al saluto. Scambiarono poche frasi di circostanza
che Martin, troppo lontano, non poté udire.
Dietro il governatore veniva un cavaliere che reggeva la bandiera di
Cartagena. Seguivano circa duemilaottocento soldati, gli ultimi dei quali
trascinavano due cannoni, invece dei quattro previsti, forse per sveltire la
marcia. Quindi incedevano i notabili e gli aristocratici della città, con famiglie
e schiavi. Soldati, servitù, borghesi d’alto bordo e aristocratici furono tutti
perquisiti da militi francesi, e con particolare cura le ultime due categorie.
Erano state autorizzate a portare con sé una dotazione massima di duemila
scudi.
«De Pointis è stato ancora una volta troppo generoso.» François Pierre,
che contemplava la scena dietro le spalle di Martin, sghignazzò. «Con i soldi
che abbiamo lasciato asportare, un contadino camperebbe come minimo
cinque anni, e forse più. Ma lasciamo perdere. Forse è la giusta ricompensa
per la loro punizione.»
«Quale punizione?»
«Guardateli bene.»
Martin capì a cosa si riferisse. Mentre camminavano a testa bassa tra due
file di soldati francesi, di filibustieri, di coloni, di marinai comuni e di negri,
gli esiliati erano lividi di terrore. Non pochi di essi consegnarono
spontaneamente, con mani tremanti, le somme eccedenti i duemila scudi che
si erano cuciti in tasche nascoste delle giubbe. Forse temevano che l’esodo
fosse un trucco e che li attendesse chissà quale sorte orrenda. Invece nessuno
torse loro un capello, e poterono abbandonare Cartagena dietro il
governatore e una bandiera che non aveva più senso.

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Appena furono spariti nei boschi, De Pointis scese da cavallo e si
accomodò su una poltrona sorretta da quattro marinai. Fece disporre davanti
a sé un battaglione di granatieri e, ai lati, un folto numero di guardie di
marina. Allora gridò: «Signori, è il momento! Andiamo a prenderci la nostra
città!».
Tra gli “evviva”, tutti gli armati lo seguirono, in completo disordine. Per
prima cosa, il barone si fece accompagnare alla cattedrale, dove fu facile
persuadere un prete del luogo a celebrare un Te Deum. Vi assistettero non
solo i francesi, ma anche parecchi spagnoli, che si fingevano entusiasti.
Al termine del canto (In te Domine speravi: / non confundar in aeternum)
si alzarono le ovazioni al re di Francia, anche in questo caso riprese da non
pochi dei vinti. Molti di essi apparivano sudati. Non per il caldo oppressivo,
ma per il terrore.
De Pointis si fece condurre davanti all’altare maggiore e si rivolse ai
cittadini di Cartagena presenti, in uno spagnolo discretamente corretto. «Chi
porterà spontaneamente il proprio denaro potrà trattenerne un decimo. La
stessa percentuale spetterà a chiunque denunci un vicino che sottrae le
proprie ricchezze. Quanto ai religiosi, chiediamo solo, dalle loro chiese e dai
loro conventi, la consegna degli oggetti d’oro e d’argento. Potranno tenere
tutto il resto e non subiranno oltraggi di sorta. Vedrete: i militari francesi sono
gentiluomini per natura e per educazione.»
«Parla per te!» bisbigliò Pierre, che aveva accompagnato Martin fino alla
cattedrale. «Si sa che i ci-devants sono solidali tra loro. Non a caso De
Pointis ha permesso ai più ricchi e titolati di andarsene. Lui e loro
appartengono alla stessa casta.»
“Ci-devant” (“qui davanti”) era un’espressione diventata comune in
Francia per designare i nobili e i maggiorenti loro complici, da quando le
folli guerre scatenate dalle ambizioni del Re Sole avevano ridotto le classi
popolari a una crescente miseria. La plebe e la piccola borghesia accusavano
la maggior parte del clero di proteggerne gli interessi, fatta eccezione per una
ristretta minoranza. Martin non si aspettava di udire echi di quelle diatribe
anche nelle Americhe. Tra i pirati, poi.
Terminato il Te Deum, aiutò De Pointis a trovare un alloggio degno di lui,
che fu individuato nel palazzo della Contaduría, in cui si contabilizzavano i
tesori da inviare in Spagna. Oltre a essere ampio e lussuoso, si prestava
all’uso che l’ammiraglio voleva farne. Poi Martin cercò una casa per sé, e ne
trovò una abbandonata a breve distanza.
Non erano poche le abitazioni rimaste vuote per l’esodo dei proprietari.

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Non era rimasta in città nessuna donna creola o meticcia, e gli abitanti che
avevano deciso di restare si mostravano, malgrado le assicurazioni ricevute,
terribilmente spaventati e uscivano il meno possibile. Li si vedeva più che
altro in fila davanti al contador a consegnare la loro quota di ricchezze nelle
mani di ufficiali francesi sorridenti.
I tre giorni successivi il Te Deum videro un sostanziale rispetto degli
accordi. De Pointis fece addirittura fucilare, a mo’ di esempio, un carpentiere
che era entrato in una casa privata senza permesso. Drappelli di granatieri
mantenevano l’ordine per le strade.
Il quarto giorno Martin fu interpellato, sulla porta di casa, dal maggiore
Dantzé, militare dal lungo curriculum, già capo delle guarnigioni prima di
Port-de-Paix, poi di Cap François.
«L’ammiraglio vuole vedervi. Ha un incarico da assegnarvi.»
«Se si tratta di qualcosa che riguardi Ducasse, è da tempo che non lo
vedo» replicò Martin. «Vale anche per molti altri capi della Filibusta.
Sembrano spariti.»
L’anziano ufficiale piegò le labbra in un sorrisino enigmatico.
«L’ammiraglio vi dirà dove sono. Finite di vestirvi e venite con me.»

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17 - Missione

Il barone De Pointis era rilassato e divertito. Sorseggiava un bicchiere di


succo di maracuja, o frutto della passione: una squisitezza che la conquista
delle Americhe aveva permesso di conoscere e apprezzare. Se ne stava
semisdraiato, in vestaglia di seta gialla, su un divano, usato a mo’ di triclinio.
Il sole che invadeva già la stanza, sebbene fosse mattina presto, era attenuato
dalle tendine di foglie di paglia secca che proteggevano le finestre.
La prima domanda di Martin solleticò il buonumore dell’ammiraglio.
«Ducasse? È a caccia di fantasmi. Ho fatto circolare la voce che diecimila
indigeni stessero per attaccare Cartagena. Ho incaricato lui e i suoi filibustieri
di fermarli. Adesso stanno battendo le foreste in cerca di nulla. Quasi tutti i
capi a terra e i coloni sono andati con lui. Per qualche giorno non saranno un
problema.»
«Quando torneranno, saranno furiosi.»
«Sì, ma noi saremo sul punto di andarcene, se non già in viaggio. Oro,
argento e monete affluiscono copiosi. Ci serve una settimana, non di più.
Completato il carico, faremo vela per la Francia.»
Martin sospettò che De Pointis, nell’escogitare il trucco, fosse stato mosso,
più che dalla premura per le sorti degli abitanti di Cartagena, dalla volontà di
nascondere a Ducasse e ai suoi l’entità delle somme che affluivano nel suo
palazzo.
Si guardò bene dal formulare quella supposizione e chiese tutt’altro.
«Come mai, signore, non mi avete mandato fra i boschi con i filibustieri?»
«Sarebbe stato tempo perso. Per voi ho un altro incarico. Vi ricordate di
don Sancho Jímeno?»
«Sì. Non era il comandante della fortezza di Boca Chica?»
«Proprio lui.» Con rammarico, De Pointis raccolse il bicchiere e
abbandonò il divano per sedersi dietro un’ampia scrivania. Fece accomodare
Martin di fronte a sé. «Invece di tenerlo in cella, gli ho accordato il permesso
di raggiungere sua moglie Teresa sull’isola di Barú, a sud di Boca Chica.

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Commosso, mi ha dato la sua parola d’onore che sarebbe andato, ma avrebbe
continuato a comportarsi da prigioniero, senza muoversi di là. Lo credevo
una persona leale, gli ho creduto.»
«E invece?»
«Soldati francesi sbarcati a Barú non l’hanno trovato e non sono riusciti a
sapere dove sia.»
«Avrà deciso di darsi alla fuga e adesso sarà chissà dove.»
«Non mi capite» disse De Pointis, leggermente spazientito. «Il governatore
De los Ríos era un insignificante gaglioffo. Jímeno è d’altra pasta. Se rimette
piede in città, o se latita per le campagne, può causarci fastidi seri. È molto
amato e stimato dalla gente di qui. Lui sì che potrebbe reclutare volontari,
indigeni o no, per tentare una rivalsa.»
Martin era perplesso. Che l’ammiraglio volesse distogliere anche lui dal
conteggio del denaro? Scartò subito l’ipotesi: non vi aveva comunque
accesso. Era più probabile che De Pointis, alieno per condizione sociale
all’idea di una rivolta spontanea dei vinti, pensasse davvero che solo un altro
nobile potesse suscitarla con qualche probabilità di successo.
«Dunque devo andare a cercare don Jímeno. È così?»
«Sì. Sceglietevi un paio di compagni di viaggio e partite. Scoprite dov’è
Jímeno e portatelo qua. A Barú troverete altri militari francesi che si
metteranno ai vostri ordini.»
Il colloquio era terminato. Martin si alzò, fece un inchino e uscì dalla
stanza, mentre De Pointis si dedicava nuovamente al suo succo di maracuja.
Non era così facile trovare accompagnatori per la spedizione. Martin
conosceva solo alcuni filibustieri e, tra gli ufficiali regolari, personaggi di
rango troppo elevato per lasciarsi coinvolgere in una spedizione di basso
profilo. Non c’erano osterie aperte, per il momento, e le vie erano presidiate
dai plotoni incaricati di mantenere l’ordine. Fu un caso fortunato se si
imbatté in Patrick Whelan, seduto a cavalcioni di un cannone e intento a
riempire il fornello di una lunga pipa.
«Come mai non sei con gli altri, a inseguire gli indigeni in arrivo?»
«Quando è giunto l’ordine di Ducasse, ero a dormire a bordo del
Pembrock. Sceso a terra, non ho trovato nessuno.»
«Ti sentiresti di seguirmi fino a un’isola vicina?»
«Volentieri. Non ho niente da fare. L’esercito non vuole che noi
avventurieri partecipiamo alle perquisizioni delle case e alla riscossione del
riscatto.» Ecco trovato il primo compagno. Adesso ne occorreva un secondo.
Whelan gli diede un’idea. «Anche quasi tutti i bucanieri sono rimasti a

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Cartagena. Le loro armi, che richiedono un puntamento accurato, non
servirebbero a molto contro indigeni che corrono come lepri.»
Un bucaniere. Ecco il terzo uomo ideale. Certo, erano tipi che
continuavano a ispirare a Martin un vago timore, con il loro fare da selvaggi.
Tuttavia si sapeva che avevano delle doti, dal riserbo all’efficienza sul
campo.
«Non sono risaliti sulle navi?»
«No. Hanno eretto un loro accampamento ai margini di Hihimani. Da là
partono per le loro battute di caccia.»
«Andiamo a trovarli.»
Martin e Whelan uscirono dalla porta semidiroccata di Media Luna,
attraversando strade in cui era in corso una spoliazione tanto sistematica
quanto ordinata. Il campo dei bucanieri, volto verso l’entroterra, sorgeva a
ridosso di uno dei bastioni che i francesi avevano faticato a conquistare,
ormai quasi demolito. Era fatto di tende in tela grezza, spesso sbilenche.
C’erano fuochi accesi e pelli stese ad asciugarsi del sangue.
I bucanieri apparivano in quel momento numerosi. Stavano squartando un
grosso porco selvatico appeso per le zampe di dietro a quattro pali incrociati,
piantati distanti alla base e stretti alla sommità con una corda. L’animale era
ancora vivo mentre i suoi macellai facevano cadere il rotolo delle budella.
Strepitava, si torceva, senza turbare chi era intento a mondarne le carni
inutili. Non fu un’agonia lunga.
Martin scorse, ai margini del gruppo, l’unico bucaniere di cui sapeva il
nome: Roger, incontrato sulla Montagne Terrible. Gli andò incontro, con
Whelan che gli camminava dietro. «Amico, verresti con noi? Dobbiamo
andare su un’isola vicina, su commissione dell’ammiraglio De Pointis. Una
cosa semplice, che richiederà poco tempo.»
«Devo portare il fucile?»
«No, troppo pesante, rovescerebbe la scialuppa. Meglio un semplice
moschetto e le armi bianche.»
«Non mi sento bene. Qui l’aria e l’acqua sono cattive.» (Disse “males”.)
«Ragione in più per allontanarti.»
«Vengo.»
«Ottimo. Vai a prendere la tua roba. Ti aspetteremo.»
Un’ora dopo la piccola lancia che portava Martin e Roger, con Whelan ai
remi, passò sotto Boca Chica. Il sole era prossimo al tramonto, ma artificieri
francesi stavano ancora smantellando pezzo per pezzo, con cariche esplosive,
il fortilizio che era stato la più formidabile difesa di Cartagena. Da quel

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momento la colonia sarebbe stata inerme a ogni assalto, sia di terra sia di
mare.
I tre si fecero riconoscere dai vascelli che presidiavano quell’ingresso alla
baia, poi remarono rasente la costa. Credettero di scorgere alcune luci dietro i
palmizi, ma erano distanti e non li inquietarono. Solo allora Martin spiegò nei
dettagli lo scopo della spedizione.
«Se De Pointis teme tanto Jímeno, avrebbe dovuto accopparlo subito»
commentò Whelan, un po’ affannato per la voga. «Ma conosco già la
risposta: “Sono cose che tra signori non si fanno”. Gli ha persino regalato la
sua spada.»
Martin scosse il capo. «Non sono in grado di giudicare. Tutto quello che
dobbiamo fare è riacciuffare lo spagnolo... La luna è fiacca. Anche se l’isola
di Barú dev’essere vicinissima, propongo di trascorrere la notte sulla spiaggia
e di ripartire domattina.»
«Sono d’accordo.» Era la prima volta, da quando erano partiti, che Roger
apriva bocca. «Non so cos’ho, ma continuo a sentirmi malato.» (Disse
“deshaité”.) «Riposare mi farà bene.»
Non fu facile trovare un approdo, tante erano le mangrovie. Scoprirono
infine un breve tratto sabbioso e pietroso. Trascinarono la barca in secco. Si
erano portati delle coperte. Dovettero avvolgersi completamente in quei
panni, sia per attenuare la ruvidezza del suolo sia per difendersi dalle folate di
insetti che sbucavano dai palmizi.
Martin dormì non certo bene, chiuso nel suo bozzolo, ma a sufficienza.
Fu svegliato all’alba dalla voce di Whelan. Questi stava scuotendo Roger.
«Ehi, amico. Cosa ti succede? Sveglia!»
Il bucaniere rantolava. Il viso era pallidissimo, gli occhi cerchiati.
Sbavava, era scosso dalla febbre. Sussurrò: «Ho bisogno di un mire».
«Cosa intende?» chiese Martin a Whelan.
«Credo che, nel linguaggio dei bucanieri, un mire sia un medico. Non so
se potremmo trovarlo, salvo tornare a Cartagena.»
Un istante dopo Roger vomitò sulla barbaccia che gli invadeva il mento.
Morì dopo pochi minuti.
Whelan gli sentì il cuore e constatò che era fermo. «Se ne è andato» disse.
«È il settimo o ottavo compagno che vedo morire così.»
«Ma di cosa si tratta? Che malattia è?» Martin era allarmato. «Guardagli il
viso! Sta diventando giallognolo!»
«Non lo sa nessuno, a parte Exquemeling, che è troppo impegnato per
dircelo. Forse dipende dal cibo, dall’acqua non pura, dagli insetti, dai

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miasmi. Non siamo abituati a questo clima.»
«Roger lo era, e anche tu vivi qua da tempo.»
«In un’altra zona, però.»
Martin rifletté e disse: «Seppelliamo questo povero diavolo, poi
riprendiamo in fretta il tragitto per Barú. Laggiù l’aria potrebbe essere meno
malsana».
«Non abbiamo pale per scavare.»
«Bastano un mucchietto di sabbia e due bastoni. Questo bucaniere
disgraziato merita almeno un tumulo e una prece. Sarebbe una bestemmia
non dargli una sepoltura appena decente.»
Il sole cominciava ad alzarsi quando la lancia riprese a navigare. Questa
volta Martin stava ai remi e Whelan manovrava il timone. Infine apparve
l’isola di Barú.
Martin restò senza fiato. «È splendida! Sembra un paradiso!»
L’irlandese replicò con scetticismo: «Attento, D’Orlhac! Qui spesso la
bellezza apparente cela i peggiori inferni».

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18 - L’isola di smeraldo

L’isola di Barú si annunciava con una spiaggia larga e incantevole, delimitata


da cortine di palme. Tra il cielo di un azzurro intenso, malgrado l’ora
mattutina, e un mare color turchese e trasparente, ricco di pesci di ogni forma
e colore, lasciava abbagliati e un po’ frastornati da tanta bellezza.
Martin e Whelan avevano già scordato la fine di Roger mentre spingevano
la lancia in secco. Il fulgore di ciò che vedevano li stordiva. Raccolsero le
loro cose e mossero in direzione di alcune capanne avvolte da fiori e liane.
Erano deserte, tuttavia si vedeva che qualcuno le abitava. Poteva trattarsi di
pescatori, in quel momento al largo. L’ipotesi più probabile era però che, alla
notizia dell’arrivo dei francesi, avessero raccolto le cose essenziali e si
fossero trasferiti più all’interno. Erano numerose le piroghe abbandonate.
I due si inoltrarono fra i tronchi snelli di quegli alberi che a Saint-
Domingue erano detti “cedri”, mentre il nome corretto sarebbe stato
“mogani”. Scoperti nelle Americhe, stavano facendo la fortuna dei mobilieri
europei. Il cammino non fu lungo. Individuato un sentiero, lo seguirono
attraverso una coltivazione di canne da zucchero, mentre il calore non faceva
che aumentare. Infine giunsero a un bell’edificio in pietra grigia,
dall’architettura indubbiamente francese. Tre soldati, seduti sui gradini
d’ingresso, si alzarono al loro arrivo.
Martin si fece riconoscere come ufficiale di De Pointis e presentò il
compagno.
«Sappiamo chi siete» disse un soldato. «Vi abbiamo già visto. Noi
apparteniamo al battaglione del maggiore Dantzé e siamo qui per ordine del
viceammiraglio De Lévy.»
«È questa la dimora di don Sancho Jímeno?»
«Sì, ma lui non c’è. Si è trasferito a Villanueva, a qualche miglio più a sud,
dove ha un’altra proprietà e una fabbrica di zucchero.»
«Come mai?»
«Secondo sua moglie Teresa, don Sancho, arrivato a Barú, ha scoperto che

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tutti gli schiavi erano scappati dopo avere ucciso il suo intendente. Allora ha
preferito spostarsi in un luogo più sicuro. Teresa Jímeno stava per
raggiungerlo, quando siamo arrivati noi. Le abbiamo impedito di farlo.»
«Dunque è ancora qua.»
«Sì. La teniamo prigioniera in casa sua, in attesa di istruzioni.»
«Andate a chiamarla.»
Uno dei soldati entrò nella dimora. Mentre attendeva il suo ritorno, Martin
disse a Whelan: «A quanto pare don Sancho non è evaso, come temeva De
Pointis. Ha solo cambiato prigione».
«Ha comunque disobbedito agli ordini ricevuti e violato la sua promessa.»
L’attesa fu breve. Finalmente Teresa Jímeno apparve in cima alla corta
scalinata. Martin trattenne il fiato per la sorpresa. Aveva visto don Sancho.
Dimostrava un’età tra i sessanta e i sessantacinque anni. Sua moglie doveva
essere invece diciassettenne o diciottenne. Alta, molto magra, aveva un viso
graziosissimo, da bambolina. I capelli neri, ornati da una rosa, le scendevano
fluenti dall’acconciatura fino a coprirle le spalle. Indossava abiti semplici, tra
i cui colori prevaleva il verde. I bottoni della camicetta, di seta fina, erano
d’oro. La nascondeva un poco un corpetto di velluto, anch’esso verde. La
scollatura della camicia, per quanto pudica, era celata da un ampio foulard
giallo allacciato sotto il collo.
«Chi ho l’onore di ricevere?» chiese dall’alto dei gradini.
Martin fece un inchino. «Mi chiamo D’Orlhac e sono luogotenente
dell’ammiraglio De Pointis. Non cercavo voi, ma vostro marito, Sancho. Si
era impegnato a rimanere a Barú quale prigioniero. Invece risulta essersi
trasferito altrove. Questo equivale a una violazione della parola data e del
patto a cui deve la vita.»
«È falso.» Teresa scese la scala. Il suo corpo flessuoso aggiungeva fascino
a ogni mossa, naturalmente elegante. Quando Martin se la trovò di fronte,
capì che non era così bella come appariva a distanza. Il naso era gobbo,
l’esilità estrema. Giocavano a favore della giovane gli occhi caldi,
leggermente umidi, e tutte le incertezze di un’età acerba.
«Non potete negare che qui non c’è.»
«Siamo rimasti con solo due schiave anziane e un bambino» spiegò Teresa
in un ottimo francese. «Come saremmo potuti sopravvivere dopo l’assassinio
dell’intendente? C’era il rischio che i negri tornassero e uccidessero anche
noi. Così Sancho è partito per Villanueva... in realtà Pata de Caballo, un
villaggio vicino... assieme a un prete amico di famiglia, per vedere come

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fosse la situazione in quella fattoria. Stavo per andare a raggiungerlo quando
sono arrivati i soldati.»
«Vostro marito aveva dato la sua parola» obiettò Martin.
«Non l’ha mai infranta. Ha solo scelto una prigione meno pericolosa.»
Martin sospirò. «Se è vero quello che dite, dovrebbe esserci un carro
pronto con le vostre cose.»
«C’è. Avevo già caricato tutto.»
«Allora andiamo. Vi farò da scorta, signora. Così constaterò con i miei
occhi l’esattezza del vostro racconto, e interrogherò don Sancho circa le sue
intenzioni.»
Meno di mezz’ora dopo partiva lentamente da Barú un carretto trainato da
un cavallo non troppo in forma. Martin teneva le redini a cassetta, con a
fianco doña Teresa. Sul retro sedevano due negre decrepite e un bambino di
circa sei anni dalla pelle molto meno scura, tanto da sembrare un creolo. Li
divideva un cumulo di fardelli, tra bauletti, pacchi e cappelliere. Seguivano a
piedi Whelan e i tre soldati.
«È vicino Pata de Caballo?» chiese Whelan.
«Non molto» spiegò Teresa. «È nell’interno. Ma la nostra fattoria e lo
zuccherificio sono là. Non avevamo scelta.»
«Posso chiedervi, signora, quanti anni avete?»
«Sì. Ne ho appena compiuti diciotto.»
«Vostro marito sembra molto più anziano.»
«Ha quarantatré anni più di me. A volte ciò rappresenta un problema.»
Meravigliato dalla risposta, Martin fu sul punto di chiedere di quale
problema si trattasse. Non volendo apparire indelicato, ripiegò su una
domanda più neutra. «Avete figli?»
«No, e mai ne avremo. Don Sancho è incapace di generare.»
Anche quell’uscita era sbalorditiva. Martin l’attribuì all’età immatura di
Teresa. Per un po’ smise di conversare.
Attraversavano terre dalla vegetazione fitta ma bassa, lontana dal rigoglio
della zona costiera. Si vedevano ogni tanto piccoli abitati, ma li si sarebbe
detti deserti. A volte cespugli e alberelli cedevano il posto a coltivazioni di
canna da zucchero, estese e ben tenute; poi ricominciava la flora selvaggia,
che spesso invadeva parte del sentiero. Si scorgevano montagne in
lontananza e nubi che si addensavano. Cominciò a piovere piano.
Quando Martin riprese la parola, domandò: «Sapete nulla di una malattia
che si manifesta con febbre, dolore alla testa e al ventre, nausea e diarrea?

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Capace di portare alla morte in poco tempo, e di rendere giallognolo il viso di
chi decede».
L’eccitazione di Teresa fu così palese da svelare il suo auspicio. «Voi
francesi ne siete colpiti?»
«Vi ho fatto una domanda» replicò Martin seccamente.
«È il “vomito nero”. Molto diffuso sulla costa. Chi è nato qui ne è quasi
immune, per gli altri non c’è scampo. Si propaga per contagio.»
«Esiste un rimedio?»
«Certo. Andarsene al più presto.»
Martin ammutolì ancora. Teresa lo urtava, eppure c’era in lei qualcosa che
lo attraeva. Parlava con la disinvoltura e la franchezza delle donne della Corte
dei miracoli, soprattutto delle ragazzine. Non sembrava capace di insincerità:
se c’era avversione da manifestare, lo faceva senza remore. Vestiva gli abiti
della dama, eppure, ogni tanto, si esprimeva come una popolana. Gli
richiamava alla mente i primi amori, all’angolo di una strada, con l’ausilio di
una pioggia battente e di una volta complice.
Già, la pioggia. Le due gocce che erano cadute fino a quel momento si
stavano infittendo. Soffocavano il profumo che dovevano emanare gli alberi
ai bordi, detti “pan di spezie”, in ricordo del famoso dolce: non per essenze
proprie, ma per le piante di vaniglia che ne avviluppavano i tronchi, duri e
ottimi per l’edilizia. La vegetazione odorava di marcio, il sentiero era sempre
più simile a un pantano.
Gli schiavi avevano sollevato un telone, per proteggere se stessi e il carico.
Tuttavia non si poteva continuare così. Il cavallo faticava ad avanzare, le
ruote sprofondavano nella fanghiglia.
«Martin, facciamo una sosta!» propose Whelan dalla retroguardia. «È
quasi sera. La bestia non ce la fa più!»
«Hai ragione. Vedo un albero asciutto alla base, tante sono le fronde.
Portiamo il carro là sotto.»
Spinto dai soldati e trainato dalle poche energie del cavallo, il veicolo fu
messo al riparo di un olmo gravido di fogliame. Qualche goccia arrivava, ma
erano rade. Tutt’attorno il suolo si liquefaceva in acquitrino.
«Durano molto questi fortunali?» chiese Martin mentre aiutava Teresa a
scendere di serpa.
Lei alzò le spalle. «Dipende. Comincia la loro stagione. Dovevate venire in
novembre, non in maggio. Oppure starvene a casa vostra.»
Martin ignorò la provocazione. Fece scendere i negri e aiutò le due
vecchie. «Abbiamo da mangiare e da bere?» chiese a Whelan.

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«Da bere quanto ne vogliamo. Da mangiare un bel po’ di carne di
scimmia.»
«Di scimmia?»
«Guarda che è ottima. Nutriente, saporita e compatta. Accetta qualsiasi
condimento. Una squisitezza.»
Martin si accertò che sull’albero non vi fossero serpenti mentre i soldati
accendevano un fuoco di foglie secche. Dopo la cena, in effetti squisita,
sedettero tutti alla base del tronco. Il cavallo brucava gli sterpi commestibili.
Attorno a loro l’acqua cadeva senza posa. Iniziava a fare freddo.
Martin sedeva vicino a Teresa, spalla contro spalla. Lei si lamentò: «Ehi,
non voglio toccarvi! Fatevi più in là!».
«Non voglio infastidirvi. È per darvi un po’ di calore e per proteggervi.»
«Mi proteggo da sola.»
«Vi confesso che ho un altro scopo. Parlare con voi finché non vi verrà
sonno.»
«A che fine?»
«Voglio sapere di voi, e perché siete così bizzosa.»
Whelan passò a distribuire delle coperte che aveva trovato sul carro.
L’albero reggeva il carico di pioggia. Avrebbero patito il freddo, ma non
l’umidità.

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19 - Timida attrazione

Teresa e Martin passarono la notte stretti l’una all’altro. Sulle prime nessuno
dei due aveva sonno: il freddo lo impediva. I soldati, gli schiavi e Whelan,
avvolti nelle coperte, cominciarono presto a russare. Fu allora che iniziò una
conversazione fitta, pronunciata sottovoce.
«Com’è accaduto che andaste sposa a don Jímeno, voi così giovane?»
esordì Martin.
La giovane rabbrividiva sotto le coperte. La sua voce era stanca. «Don
Sancho è una persona illustre a Cartagena. Gli sono piaciuta e mi ha presa
per moglie.»
«La vostra famiglia come ha reagito?»
«Non è cosa che vi riguardi. Sappiate solo che in città, dopo il
governatore, mio marito è il personaggio più importante. O almeno lo era.
Difficile resistergli.»
«Eravate d’accordo? Lusingata? Attratta da lui o dalle sue ricchezze?»
«Sapete bene che la risposta è no.» Teresa sbuffò leggermente, come se
ricordasse passate noie. «Non è facile per una ragazza condividere il letto con
un vecchio che puzza, ha il corpo grinzoso e lo stomaco che emette rumori
capaci di svegliare un sordo. Senza dire dei peli bianchi fin nella schiena. Per
fortuna don Sancho è innocuo.»
«Innocuo nel senso che...»
«L’avete capito perfettamente.»
«Sareste ancora vergine?»
«Nemmeno questo vi riguarda.»
Martin decise di tacere. La spigliatezza della giovane donna sfidava tutte le
convenzioni sociali. Aveva sentito dire che le dame coloniali erano meno
ritrose di quelle europee, però non si aspettava che lo fossero in quella
misura. La convivenza con le negre e con le indigene, e i loro liberi costumi,
dovevano averle contagiate.
Si sforzò di dormire mentre la pioggia calava di intensità. Il sonno non

97
veniva. Anche il frugoletto stretto a lui tardava a addormentarsi. A un certo
punto gli chiese: «Avete intenzione di uccidere mio marito?».
«Chi, io? No di sicuro!»
«Intendo voi francesi. Gli spagnoli vi considerano assassini nati.»
«Il giudizio è reciproco... Non penso che il barone De Pointis voglia
assassinare vostro marito. Non è il tipo, e il loro incontro è stato rispettoso.
Teme solo che prenda la guida di una ipotetica resistenza. Per questo vuole
tenerlo lontano dalle mura. Non ha altri scopi.»
Teresa emise un sospiro che a Martin sembrò di rammarico. Il commento
della donna fu però neutro. «Mio marito, se si considera prigioniero, lo
rimane, anche senza sbarre o guardie.»
«Me lo auguro» rispose Martin. Cominciava ad avvertire accenni di sonno
e contava che la conversazione, peraltro resa gradevole dal calore del corpo
di Teresa, finisse lì.
Lei, meno assonnata, gli domandò: «Cosa volete fare di Cartagena?
Annetterla?».
«No. Solamente depredarla, il più presto possibile, e poi andarcene.»
«Avete altre navi oltre a quelle che abbiamo visto?»
«No. Non c’è flotta comparabile, né a Saint-Domingue né negli altri
possedimenti della Francia.»
«Quanti uomini avete, tra equipaggi e truppe di terra?»
Martin si ribellò, e ciò malgrado la sua risposta fu gentile. «Mi esprimerò
nei vostri termini, mia signora. Non è faccenda che vi tocchi.» Emise un
grande sbadiglio. «Lasciatemi dormire, vi prego. Credo che sia l’ora giusta.»
La pioggia, diventata pioggerella, cessò del tutto. Quel poco che rimaneva
della notte fu all’insegna della serenità e del buon sonno. Martin, senza
volere, usò Teresa come un cuscino. Si appisolò sul suo ventre, ne assorbì il
calore. Lei non protestò. Fu una nottata breve, ma rilassante.
La mattina successiva brillava il sole. I soldati accesero, in uno dei rari
tratti asciutti, un fuocherello con cortecce del tronco dell’olmo. Attecchì con
difficoltà.
Teresa si rivolse con veemenza alle due schiave anziane. «Cosa aspettate,
poltrone? Preparatemi la cioccolata e il caffellatte! E, se non li zuccherate
abbastanza, finisce come l’ultima volta.»
Le negre corsero alle masserizie raccolte sul carro in cerca degli
ingredienti.
Martin, che si stirava, mormorò: «Non dimostrate molto affetto per la
servitù».

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Teresa alzò le spalle. «Non potete capire. Quelle, in passato, sono state
amanti di mio marito.»
«Prima che voi nasceste, suppongo.»
«E cosa conta? Del resto le tratto bene. Le frusto solo quando se lo
meritano davvero. Nessuno dei nostri schiavi può lamentarsi dei Jímeno.
Sono nutriti a sufficienza, curati quando si ammalano, lasciati ballare quasi
ogni sera. Non fanno che ballare. Malgrado le lamentele del parroco di Pata
de Caballo, don Sancho gli permette di costruire idoletti e praticare le loro
assurde superstizioni. Il venerdì lavorano un po’ meno, dato che è un giorno
che considerano sacro.»
«Però, appena possibile, sono fuggiti quasi tutti.»
«Accade quando agli animali si apre la porta della gabbia. Siete stati voi
francesi che l’avete aperta.»
A Martin sembrò di cogliere nella giovane una sorta di invidia, veramente
paradossale, nei confronti della vita condotta dagli schiavi.
Più tardi, mentre consumava pane di manioca e carne di scimmia, e Teresa
finiva il suo caffellatte tanto zuccherato da parere una crema, le chiese:
«Come vivete a Boca Chica? Avete amicizie, frequentazioni?».
«Niente di tutto ciò. La fortezza è isolata dalla città. Mi piacerebbe danzare,
partecipare a feste. Sono rare, perché le donne creole non hanno molte
attività sociali. Passano il tempo a vigilare sulla fedeltà dei loro mariti, ad
accondiscendere a ogni capriccio dei figli e a sorvegliarsi l’una con l’altra.
Non mi è permesso nemmeno andare alle poche occasioni di svago, tipo il
teatro e i balli ufficiali. Devo starmene chiusa tra quattro mura, circondata da
soldati musoni e negri ignoranti. Ogni tanto organizzo cerimonie religiose per
avere compagnia. Le rare dame che vengono in visita con i mariti mi
guardano dall’alto in basso, sebbene io sia creola come loro e abbia sposato
un aristocratico. Forse è perché sono meno vecchia di loro.»
Era anche più graziosa, pensò Martin. Lungi dall’essere perfetta, Teresa
aveva occhi grandi e vivaci, ora maliziosi, ora improvvisamente attraversati
da un lampo di malinconia. La sua figurina, per quanto esile, era esaltata
dall’abitino che indossava, adatto alle alte temperature. Ogni suo movimento
appariva felino, sia nell’eleganza sia nell’aggressività. Adesso, per esempio,
era rannicchiata in una posa naturale che nessuna matrona, coloniale o no, si
sarebbe concessa. A renderla attraente contribuiva poi l’indole sincera,
spesso spiazzante.
Martin si mise in piedi. «Andiamo» disse a Whelan e ai soldati. «Il
cammino non è lungo, credo, ma prima partiamo meglio è.»

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Il carretto si rimise in moto nella formazione originale, con Martin e
Teresa a cassetta, gli schiavi confusi col mobilio e gli altri dietro, a piedi.
Prima che Martin montasse, Whelan ebbe il tempo di dirgli: «Stai attento a
quella donna. Vedo che ti piace, ma guardatene. È falsa. Non è quello che
sembra».
«Che cosa te lo fa pensare?»
«La mia è una sensazione, però netta.»
Martin replicò con stizza: «Fatti gli affari tuoi, irlandese. Ti assicuro che so
badare a me stesso».
Il sole asciugava rapidamente l’acqua e il sentiero era tornato a essere
percorribile. I lati del sottobosco erano invasi da piante di indaco,
avanguardia delle vaste piantagioni che di lì a breve coprivano la pianura. Più
ci si avvicinava alle montagne, più il terreno era fertile. Adesso si vedevano
negri curvi nei campi, fattorie abitate, piccoli agglomerati di casupole. Seguì
il terreno della canna da zucchero.
Giunti a un bivio, Teresa suggerì: «Prendete a destra. Arriveremo diritto
alla tenuta degli Jímeno».
Martin obbedì. Esisteva un vasto tracciato, fra le canne, idoneo a far
passare due carri che procedevano in direzione opposta. I negri, numerosi,
salutarono. Infine apparve la casa rurale. Ampia, lussuosa nella sua sobrietà,
un incrocio tra una villa e un castello. La fabbrica di zucchero, poco distante,
era rivelata da un alto camino che fumava e sprigionava aromi.
«Tra breve sarete di nuovo un uccello in gabbia» disse Martin. «È
veramente ciò che vi proponete?»
«No, ma preferisco una gabbia nota a una ignota. Che futuro possono
riservarmi francesi e filibustieri?»
Non c’era una risposta plausibile. Martin guidò il carro fin sull’aia,
accompagnato dal mediocre seguito. Attorno gli uomini armati, schiavi per lo
più, erano numerosi. Non manifestavano intenzioni ostili.
Don Sancho Jímeno uscì di casa accompagnato da un religioso. Aiutò la
moglie a scendere e la baciò su una guancia. «Cara, avete avuto noie?»
«Nessuna, don Sancho» rispose Teresa. «Il signor d’Orlhac si è mostrato
compitissimo.»
Jímeno si avvicinò a Martin e gli strinse la mano. Il biancore della sua
capigliatura folta, invece di invecchiarlo, lo ringiovaniva. Indossava abiti di
seta, semplici nella loro eleganza. Non portava cappello. Una parrucca già
incipriata era nascosta nella mano sinistra.
«Signore, questo reverendo padre di San Juan de Dios» indicò il religioso

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«mi ha detto che il barone De Pointis crede che io sia un fuggiasco. Non è
vero. Poiché il rifugio che mi era stato assegnato non era sicuro, mi sono
trasferito in una località meglio guardata. Non ho mai pensato di tornare a
Cartagena. Cosa posso fare per discolparmi?»
«Seguirmi e incontrare di persona l’ammiraglio.»
«Non chiedo di meglio. Posso portare con me la mia signora?»
«Certamente. Cartagena è una città sicura, in cui il rispetto degli accordi di
tregua è assicurato. Il barone De Pointis non transige, su questo.»
«Ne sono felice.» Don Sancho indossò la parrucca. «Ordino di preparare
un pranzo leggero per tutti noi. Subito dopo potremo metterci in viaggio.»
Si diresse all’abitazione. Teresa lo prese sottobraccio, come la più
affezionata delle mogli, e lo accompagnò in casa. Il sole era ormai alto, le
nuvole erano scomparse, a parte poche che ornavano le cime dei monti.
Tutto profumava e brillava di splendore.

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20 - Verso l’oscurità

Martin non aveva mai visto uno zuccherificio. Mentre aspettava di essere
chiamato a tavola, decise di visitare quello di don Jímeno in compagnia di
Whelan. Sorgeva tra una cortina di palme e occupava una superficie piuttosto
vasta. I negri al lavoro erano molti, sorvegliati da una guardia armata di
fucile. La canna tagliata, di colore giallo, era trasportata verso tre grandi
cilindri, uno dei quali, più alto degli altri e coperto da una larga cappa
metallica, era mosso da due buoi, fatti girare in circolo da uno schiavo a colpi
di bacchetta. Il cilindro principale faceva ruotare quelli adiacenti, che
schiacciavano la canna e versavano lo zucchero in un canaletto artificiale.
Il prodotto, liberato delle scorie galleggianti, giungeva attraverso il
canaletto a tre forni a fiamma bassa, con diversi gradi crescenti di calore.
L’espurgo saliva in superficie ed era eliminato. Si aggiungevano gocce d’olio
e di detersivo. Filtrato attraverso teli a trama larga restava lo zucchero, subito
versato in anforette di bronzo.
Gli addetti erano una ventina, non tutti neri di pelle.
«Devono essere il corrispettivo dei nostri engagés» disse Whelan,
indicando due giovani robusti, dall’epidermide abbronzata però rosea.
«Schiavi volontari con ingaggio a termine.»
«Non credo che gli spagnoli seguano quel sistema» rispose Martin. «È più
probabile che si tratti di orfani reclutati nei brefotrofi quando erano ragazzini
e portati qui per lavorare. Di fatto schiavi quanto i negri.»
«È il sistema che usa la Francia per infoltire gli equipaggi delle sue navi da
guerra.»
«Non solo la Francia. Anche l’Inghilterra, l’Olanda, il Portogallo e
naturalmente la Spagna. La fortuna delle colonie sono le mille forme di
lavoro prestato a titolo gratuito. Il commercio dello zucchero o dell’indaco
non sarebbe così redditizio senza la schiavitù.»
«Alcuni preti vorrebbero abolirla.»
«Sì, ma solo quella degli indigeni e dei bianchi. I negri sono merce troppo

102
preziosa perché il papato voglia limitarne il commercio. Valgono più di tutte
le macchine che vedi qui. Il profitto degli zuccherifici nasce dalla differenza
fra i due soldi necessari a mantenere uno schiavo e il prezzo di mercato di ciò
che produce. Chi mai sarebbe così pazzo da alterare le proporzioni?»
Whelan guardò Martin con ammirazione. «Parli come un libro stampato!
Ne leggi, per caso?»
«No. Sono cose che mi ha raccontato padre Le Pers. Nessuno come i preti
sa come vanno le cose del mondo.»
Un valletto appena adolescente, con grandi occhi che foravano per
biancore della cornea la tinta scura, venne ad avvisare che il pranzo era
pronto. Fu un pasto eccellente, a base di pesce luna, gamberetti di fiume e
molte salse e verdure. Non mancò il vino di Spagna, un somontano bianco
fresco di buona qualità. Don Sancho sembrava ansioso di fare bella figura,
forse per stornare gli ultimi sospetti sul suo conto.
Pranzarono in una stanza bene arredata, fra specchiere e tendaggi. Per
tutto il tempo Teresa manifestò verso il marito l’affezione di una gatta,
strusciandosi a lui ogni volta che ne aveva l’occasione. Martin sospettò, da
qualche sguardo nella sua direzione, che la donna cercasse di ingelosirlo.
Naturalmente Whelan e i tre soldati francesi mangiarono nelle cucine. La
tavola era riservata, oltre che a Martin, a don Sancho, alla moglie e al
religioso di San Juan de Dios, un benedettino fin troppo loquace. Si
chiamava Lucero.
«Dobbiamo ringraziare Dio di avere come nemico il signor De Pointis. Un
uomo illuminato e un grande aristocratico. Generoso, cavalleresco.»
«Sì, lo è» confermò Martin. Se aveva qualche perplessità, la tenne per sé.
«Con me si è comportato da autentico gentiluomo» asserì don Sancho.
«Più che un vincitore, sembrava un amico.»
«L’ammiraglio è fatto così. Duro in battaglia, e malgrado ciò urbano e
cavalleresco nei modi. Don Jímeno, un contatto con lui, faccia a faccia, farà
svanire gli ultimi sospetti.»
«Ne sono certo. Non vedo l’ora di incontrarlo di nuovo.»
Martin spremette un mezzo limone, piccolo e verde, su ciò che rimaneva
del pesce luna. Ingurgitò in fretta quella squisitezza. Era impaziente di
ripartire. Fette di melone, manghi, banane e arance gli rinfrancarono lo
stomaco. Cucchiaiate di zucchero appena raffinato, e ancora allo stato
liquido, condivano quei frutti prelibati.
Era il tardo pomeriggio quando la carovana, ora più numerosa, si rimise in
movimento. Teresa era nella carrozza che precedeva, con il marito. La

103
scortava una decina di servi a piedi, armati di alabarde. Padre Lucero
viaggiava in una portantina retta da quattro negri. Martin conduceva da solo
il carro con le vecchie, il bagaglio di Teresa e lo schiavo bambino. Da ultimi
venivano, su cavalli presi dalla fattoria, i soldati francesi e Whelan. Il sole
calava, però lentamente. Non era ancora l’ora delle zanzare e dei mille insetti
che si risvegliavano al crepuscolo. Il suolo era compatto, la fanghiglia era
stata seccata dal calore.
Arrivarono di fronte all’isola di Barú e alla barca. Ne occorrevano altre,
ma non fu difficile trovarne presso le capanne abbandonate.
«Forse ci conviene dormire qui» propose Martin. «È quasi notte.»
«No» rispose don Sancho. «Ho fretta di essere in città. Dormiremo a Boca
Chica.»
Il carico del carro fu trasferito su una delle lance, di cui un marinaio prese
i remi. Le barche erano tre. Martin salì su quella occupata da Teresa e suo
marito, con Whelan alla voga. La minuscola flottiglia si mise silenziosamente
in movimento, su un mare calmo che rifletteva luna e stelle in spirali di
giochi di luce.
Transitarono accanto ai larghi vascelli che presidiavano l’accesso alla baia
senza che nessuno li avvistasse. A bordo del Sceptre e del Vermandois non
c’erano luci accese, come se gli equipaggi stessero dormendo. Eppure la luna,
ormai alta, era abbastanza chiara, e una vedetta avrebbe potuto scorgerli
senza difficoltà. Si vedevano transitare veloci dei lumi dietro i portelli dei
cannoni, ma nessuno era sul ponte.
Martin si sentiva leggermente inquieto quando sbarcarono nei pressi della
fortezza. Lo divenne ancora di più quando si rese conto che della costruzione
non esisteva quasi più traccia. Dove aveva dominato restava solo una collina
di pietre e detriti, con qualche rudere. «Siamo sicuri di avere preso terra nel
posto giusto?» chiese a Whelan.
«Direi di sì. Manca solo il fortilizio.»
Don Sancho era senza parole. Aiutò Teresa a mettere piede sulla battigia,
poi corse verso il colle. Alla sua base allargò le braccia. «Lo hanno fatto
saltare!» esclamò.
In effetti, malgrado la debole luminosità, erano visibili spezzoni di merli,
frammenti di portali, arcate pencolanti, inferriate strappate e contorte. Non si
distinguevano facilmente i detriti dai sassi dell’altura.
«Il forte di Boca Chica non esiste più» disse Whelan a Martin. «Penso che
De Pointis abbia preso la decisione giusta. Cartagena ha perso la sua difesa
più importante.»

104
«E se fossimo noi a essere attaccati? La fortezza poteva tornarci utile.»
«Conta di ripartire presto, è chiaro.»
Don Sancho non si dava pace. Tornò completamente affranto. «È la fine
della città. Proprio la fine.»
Teresa lo abbracciò, premette la guancia contro la sua. «Non vi
preoccupate, caro. Il vostro castello è perduto, ma non la nostra vita.
Ricominceremo.»
Lo spettacolo infastidì Martin. «Qui è impossibile dormire» affermò secco.
«L’unica cosa che possiamo fare è andare a Cartagena. Non abbiamo carri, lo
so, però il carico non è pesante. Se ci stancheremo troppo, dormiremo nei
boschi, sull’erba. Non vedo alternative.» Lui stesso aveva già il fiato grosso.
Così il corteo si rimise in cammino, tra alberi che apparivano spettrali. Le
zanzare erano un flagello. Da dietro la cortina di piante giungevano strida di
gufi e di allocchi, movimenti nel fogliame, rumori indistinguibili. Tutto ciò
che viveva di notte era a caccia. Anche certi uomini. A una svolta del sentiero
briganti armati di sciabole e pistole balzarono fuori dalla vegetazione.
Filibustieri, non c’era dubbio. Facce poco rassicuranti, abbondanza di
cicatrici, vesti raffazzonate, tricorni calcati di sbieco. Baffi, barbe incolte
(talora bianche), camicie aperte sul petto villoso, una quantità di catene
d’oro. Martin ne riconobbe il capo. Si chiamava Bréart ed era stato a lungo
un forban, un pirata indipendente. Si era messo, da poco tempo, al servizio
di Ducasse.
Martin lo interpellò. «Capitano Bréart, penso che vi ricordiate di me. Sono
stato a lungo a fianco dell’ammiraglio De Pointis. Ho anche comandato il
galeone catturato, il Cristo. Sto portando all’ammiraglio dei prigionieri
importanti. Lasciateci passare.»
«Andate pure.» Bréart sputò in una mano e lasciò colare il catarro al suolo.
«Portate i prigionieri dove vi pare. A me basta quello lì.»
Indicava padre Lucero. Questi vacillò, quasi più per la sorpresa che per il
timore.
«Gli arrostiremo i piedi» disse il pirata. «Questi gesuiti hanno nascosto
una quantità di ricchezze e non vogliono rivelare dove sono. Un po’ di fuoco
sotto le piante normalmente li ammorbidisce.»
«Non sono un gesuita, sono un benedettino!» protestò Lucero con
veemenza.
Martin intervenne duramente, per quanto non fosse nelle sue corde.
«Capitano, esistono ordini precisi circa il trattamento degli abitanti di

105
Cartagena, religiosi compresi. L’ammiraglio De Pointis è stato categorico: le
condizioni di resa vanno rispettate, sotto pena di gravi punizioni.»
Bréart guardò l’altro di sottecchi. Parlò con un filo di ironia. «Dovete
mancare da qui da qualche giorno.»
«Sì, è così. Questo cosa significa?»
«Le cose sono un po’ cambiate. De Pointis conta il suo denaro, mentre
l’ordine pubblico è affidato a Ducasse, nominato governatore della città. E
Ducasse ha un punto di vista un po’ diverso da quello dell’ammiraglio.»
Bréart sputò ancora, questa volta sull’erba. «Basta. Andate e portatevi dietro
il corvaccio. Tanto, prima o poi lo riprenderemo, e sentirà l’odore dei suoi
piedi cotti su un falò.»
I filibustieri si ritirarono nella boscaglia. La piccola colonna guidata da
Martin riprese il cammino. Nessuno parlava, oppresso da foschi presagi.
Padre Lucero si appoggiava allo schiavetto per reggersi. Tossiva
furiosamente: una reazione fisica e ritardata al momento più brutto della sua
vita.

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21 - L’inferno

La stanchezza era troppa, e il gruppo non riuscì a percorrere tutto il tragitto


che separava la scomparsa fortezza di Boca Chica da Hihimani. Scelse
dunque di passare il resto della notte in uno dei tanti villaggi deserti che si
trovavano lungo il cammino. Vista la quantità di capanne abbandonate,
Martin se ne scelse una ampia, lasciata quasi intatta dagli abitanti in fuga. Non
ritenne necessario disporre delle sentinelle. Se don Sancho, Teresa e la loro
servitù fossero voluti fuggire, dove sarebbero andati? L’alternativa era tra una
città in mano francese e gli irregolari di Bréart.
«Ci vedremo domattina» disse a commilitoni e ostaggi. «Dormite quanto
vi occorre, non abbiamo fretta. Ci sono acqua e cibo?»
«Carne fredda e gallette» rispose Whelan «più i dolcetti di Madame
Jímeno.»
«Chi ha appetito si serva.»
Martin si ritirò nella capanna. Doveva avere ospitato in un unico ambiente
un’intera famiglia, probabilmente di schiavi liberati o al servizio di qualche
convento. Malgrado la luce scarsa sembrava regnare una certa pulizia, a parte
il disordine di attrezzi agricoli abbandonati dappertutto. Non era tempo di
fare lo schizzinoso.
Martin scelse un pagliericcio di aspetto decente, si liberò delle armi e vi si
gettò sopra, senza nemmeno togliere gli stivali. Non aveva fame, solo sonno.
Si addormentò in pochi istanti.
Quando si svegliò, il sole era alto. I suoi compagni di viaggio erano in
piedi e si stavano dividendo il caffellatte preparato dalle schiave. Padre
Lucero sembrava rasserenato, a meno che l’ingozzarsi di dolcetti non fosse
segno di nervosismo.
Ad apparire agitato era don Sancho. Non faceva che guardare gli alberi
che nascondevano la città, come se avesse voluto penetrarne il fogliame.
«Che cosa aspettiamo a partire?» si lamentò. «Ho bisogno di vedere il signor
De Pointis con urgenza.»

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«Lo capisco» rispose Martin «ma permettete che faccia colazione anch’io.»
Accettò una ciotola che Teresa gli offrì, e alcuni biscotti. La giovane donna
gli rivolgeva premure che, durante il tragitto del giorno e della notte
precedenti, aveva riservato solo al marito. Chiamarle moine era esagerato,
però l’atteggiamento era di quel tipo, in forma blanda.
Martin si chiese se ciò non dipendesse dal fatto che, dopo l’incontro con
Bréart, lui dava l’impressione di essere l’unico possibile difensore del
gruppo. Scartò l’idea. Teresa era troppo semplice per darsi a calcoli del
genere. Congetturò come probabile che lei non riuscisse più a celare la
simpatia nei suoi confronti. Il sole era impietoso: sotto i suoi raggi don
Sancho non poteva nascondere le rughe e non reggeva il confronto con
Martin. Quanto a Teresa, era una meraviglia di giovinezza e di spontaneità.
Terminato il breve pasto, consumato in piedi, Martin disse: «Raccogliete i
bagagli e rimettiamoci in movimento. Dovremmo essere a Cartagena in meno
di un’ora».
La città conquistata, quando fu in vista, presentava ancora tutte le ferite
dell’assedio. Il ponte levatoio che dava accesso a Hihimani era stato
abbattuto, sostituito con assi un po’ precarie rette da pali e corde. Oltre, erano
visibili tetti sfondati, campanili decapitati, torri sul punto di crollare. Si
levavano colonne di fumo sottile. Non vi erano guardie al baluardo della
Media Luna. Solo filibustieri che, stravaccati, pipavano e conversavano
pigramente.
Martin condusse la sua carovana oltre la passerella, degnato appena di uno
sguardo dai pirati accovacciati sotto il rudere della porta. Fu fortunato,
perché il capitano François Pierre si trovava nei paraggi. Lo vide e accorse.
«Mi domandavo dove foste finito!» esclamò. «Venite da fuori?»
«Sì. Ero stato mandato in missione dall’ammiraglio De Pointis. Dovevo
riportargli il comandante di Boca Chica e la sua famiglia. Eccoli qua, con
tanto di schiavi, di scorta e di mercanzia.»
Pierre valutò i membri del corteo. «Avranno un loro valore, immagino.
Specie il prete. Se siete stato assente per giorni, non saprete cos’è accaduto
qui.»
«No, in effetti.»
Pierre fece un sogghigno. «È cambiato tutto. Nei primi due giorni De
Pointis ha fatto fucilare cinque marinai per tentata violenza contro delle
signore di pelle bianca. Dopo è stato immerso nella contabilità delle ricchezze
che gli giungevano a domicilio. Si è accorto che i religiosi erano i più
bugiardi. Ha fatto torturare un paio di gesuiti, con un laccio sottile e tagliente

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stretto al punto di segare i pollici. Niente di grave: un supplizio che
l’Inquisizione spagnola riserva ai minorenni. Da quel momento il clero ha
consegnato i tesori. De Pointis, irritato, ha ordinato una perquisizione
sistematica delle abitazioni. Per Hihimani ha incaricato Ducasse, nominato
governatore di Cartagena. L’esercito regolare mantiene una parvenza di
ordine, anche se precaria. Ha un altro tipo di problemi.»
«Quale?» chiese Martin.
«Qui l’aria è avvelenata.» Pierre non sogghignava più. «Filibustieri,
coloni, negri e indigeni sono tranquilli, salvo eccezioni, però ai francesi
muoiono decine e decine di uomini ogni giorno. Hanno problemi di stomaco,
vomitano, nuotano nella diarrea. Le loro pupille diventano gialle. La febbre li
devasta. Dopo la morte, si ingiallisce tutto il loro corpo.»
A Martin tornò in mente la salma itterica di Roger. «Mi è morto un
bucaniere, in quella maniera. Dunque nessuno è immune, neanche la gente
della costa.»
«C’è chi si ammala con più facilità, e sono quelli appena arrivati dalla
Francia... Dove state andando?»
«Alla Contaduría, dove alloggia De Pointis. Devo condurgli questo
gentiluomo, don Sancho Jímeno.»
Pierre scosse il capo. «Non so se vi farà entrare. Da quando ha cominciato
a contare i soldi, il barone tiene ben chiuso il centro della città, mentre
abbandona ai filibustieri i quartieri periferici e i paraggi. Persino Ducasse fa
fatica ad avere il permesso di accesso. Inutile dire che è furioso.»
«Mi riceverà, ero in missione per suo incarico.»
«Ricordatevi allora di non chiamarlo più “ammiraglio”, bensì “generale”.
De Pointis porta ora il titolo di generale delle truppe francesi d’oltremare e
governatore delle Antille.»
«Chi lo ha nominato?»
«Si è nominato da solo, quale rappresentante del re.» Pierre ridacchiò.
«Troverete il suo decreto affisso in ogni strada.»
Martin si incamminò nel cuore di Hihimani, seguito da don Sancho e dal
suo corteo. Il quartiere era quasi deserto, ma un certo numero di schiavi,
pochi borghesi e alcuni frati, i pirati erano riusciti a scovarli. Gruppi di
filibustieri sciamavano, sfondavano porte, esploravano cantine. Grida acute,
provenienti dalle abitazioni, segnalavano le torture a cui erano sottoposti gli
sventurati cittadini rimasti nel loro sobborgo. Dalle finestre piovevano pezzi
d’argenteria di dubbio valore, vasi e suppellettili fatti cadere in strada per

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pura cattiveria. Precipitò anche un gesuita lordo di sangue. Ebbe la fortuna di
finire su un carretto pieno di paglia e così, forse, di salvarsi la vita.
«Mio Dio, cosa sta succedendo?» esclamò padre Lucero. «Devo
soccorrere quel povero fratello!»
«No, rimanete dietro di me» ordinò Martin. «È l’unica probabilità che
avete di cavarvela.»
In effetti i saccheggiatori non facevano caso al gruppetto, presi com’erano
dalle loro gesta. Qualcuno lanciò un’occhiata a Martin, ma, l’avesse
riconosciuto o no, lo lasciò in pace. La presenza dei soldati conferiva alla
piccola colonna un’aura di ufficialità. Vi fu chi, tra i briganti, salutò Whelan
da lontano prima di entrare in un’altra dimora da “perquisire”.
Il cammino fino alla cinta interna che aveva protetto il cuore di Cartagena
non fu lungo, sebbene paresse interminabile. A difesa degli accessi alle mura
violate era disposta una doppia fila di granatieri armati di moschetto. Davanti
a loro si assiepavano centinaia di filibustieri che sarebbero voluti entrare.
Martin riconobbe all’istante due capitani. Erano Ducasse e Godefroy.
Ducasse schiumava di rabbia. Quando vide Martin, sembrò che volesse
avventarglisi contro. «Quel porco del vostro barone, generale, ammiraglio,
governatore e non so cos’altro! Continua a negarmi un incontro! Si sta
burlando di me e dei miei uomini!» Il sudore gli macchiava a fiotti la camicia
aperta sul petto villoso. «Per chi mi prende? Non sa che rischia il collo?»
«Non sono al corrente, signore» disse Martin, imbarazzato. «Sono stato
via. Davvero De Pointis non vuole vedervi?»
«Mi ha concesso cinque minuti quando mi ha messo a capo di Cartagena e
altri cinque ieri mattina. Il tempo di ascoltare la mia domanda: “Ma quanto
denaro stiamo raccogliendo?”. La risposta è stata da schiaffoni. “Eh, amico
mio, qui la gente è meno ricca di quanto pensavamo. Sto mettendo assieme
due soldi, però a fatica.” “Ditemi delle cifre.” “Non posso, il conteggio è
ancora in corso. Ma poco, poco, poco.”»
«Se fosse vero?» obiettò Martin.
«Vero un corno!» Malgrado la veemenza delle sue parole, Ducasse
gesticolava meno. Forse si stava calmando. Di certo non ce l’aveva con
l’interlocutore né con chi lo accompagnava. Tutta la sua collera era rivolta
oltre i bastioni. «Ho visto io stesso gli spagnoli in fila per offrire il loro
obolo. Intanto il porco piangeva miseria. Mi ha detto: “Jean-Baptiste, frugate
Hihimani alla maniera dei vostri filibustieri. Forse qualcosa mettiamo
assieme”. Dopo mi ha chiuso fuori. Che maledetto ipocrita!»
Martin tossicchiò e parlò sottovoce. «Il permesso di infierire è venuto da

110
De Pointis? Venendo qua ho visto gente innocua sottoposta a prepotenze e
supplizi atroci. Questo non era nei patti.»
«Quali patti? Al secondo giorno di occupazione il barone ha fatto fucilare
dei marinai che avevano molestato alcune donne. La mattina dopo aveva già
cambiato idea e staccava le dita ai frati che non consegnavano oro e argento.
De Pointis è l’ultimo che può venire a farmi la morale.»
«Lo devo incontrare tra poco. Devo dirgli qualcosa?»
«Non vi faranno passare.»
«Penso di sì. Gli porto gente che desidera incontrare.» Martin vide il
maggiore Dantzé che camminava dietro la schiera dei granatieri. Lo chiamò.
«Giudice! Venite qua! Ho i prigionieri attesi dal generale!»
Dantzé accorse e i moschetti puntati sui pirati aprirono uno stretto varco.
«Vi aspettava, in effetti. Entrate, svelto!»
Prima di oltrepassare i ranghi dei granatieri, con nobili, soldati e schiavi
della carovana, Martin tornò a chiedere a Ducasse: «Ho un messaggio da
riferire?».
A rispondere fu Godefroy, il ventre sporto all’infuori, il cappellone
piumato spinto indietro. La cintura, tesa all’estremo, gli scricchiolava sotto
l’addome. Reggeva in mano una sciabola gocciolante il sangue di chissà chi.
«Sì. Dite al generale ammiraglio che vada a farsi fottere.»
«Concordo» assentì Ducasse, divenuto poco loquace.

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22 - La Contaduría

Entro la cinta che proteggeva la Cartagena propriamente detta, la situazione


appariva più calma. C’erano soldati francesi dovunque, suddivisi in plotoni
disciplinati. Nessun filibustiere, nessun colono, negri in condizione di
schiavitù. Gli abitanti non avevano l’aria di temere troppo gli invasori, per
quanto si tenessero a debita distanza. In molti cercavano di riparare le case
danneggiate dai cannoneggiamenti o, fingendo che nulla fosse accaduto, si
dedicavano alle loro attività quotidiane. Qui una ferramenta, lì un siniscalco,
più oltre un falegname. Le panetterie erano però chiuse, e così le macellerie e
i banchetti di frutta e verdura. Non si scorgevano donne, a parte rare servette
negre che passavano correndo con il paniere in testa.
«Avete dei parenti a Cartagena?» chiese Martin a don Sancho.
«Ho un fratello che abita a poca distanza da qui. Sarà fuggito. Forse è
rimasta la servitù.»
«Vi accompagno là. È meglio che, prima di introdurvi, io veda
l’ammiraglio... il generale da solo.»
La dimora, a un unico piano, era bella, secondo i criteri coloniali. Un
porticato, grate in ferro battuto, mattoni imbiancati a calce, tegole marsigliesi,
molti fiori in vaso e molti alberi che spuntavano dal giardino interno.
Martin suonò una campanella. Venne ad aprire uno schiavo in livrea,
pallido per quanto lo permetteva il suo colorito d’ebano.
«I padroni non ci sono e la casa è già stata perquisita due volte» annunciò
con voce rotta.
«Conosci questi signori?» Martin indicò don Sancho e Teresa.
Lo schiavo apparve sorpreso. «Certamente! Non mi aspettavo...» Fece un
inchino. «Si accomodino!»
Mentre la coppia entrava, seguita dalle donne anziane che, con l’aiuto del
bambino, tenevano tra le braccia sacchetti, pacchi e cappelliere, Martin parlò
a Whelan e ai tre soldati francesi. «Rimanete di guardia. Che nessuno entri o

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esca fino al mio ritorno. Fatevi dare del cibo, ma consumatelo qui, sulla
soglia.»
«Stai tranquillo» rispose Whelan «non passerà anima viva.»
Rassicurato, Martin infilò la strada che doveva portarlo alla residenza del
governatore. Percorse un paio di vie, si accorse però di non avere scelto la
direzione giusta. Incappò così in uno spettacolo che lo lasciò senza fiato.
In una piazzetta ombreggiata che aveva al centro una fontana secca
giacevano decine e decine di soldati francesi. Forse centinaia. Erano sdraiati
su panni, coperti alla meglio da lenzuoli macchiati di rigetti. Alcuni parevano
già morti, o in agonia. Puzzavano, ma il tanfo era alleviato dagli alberi
attorno: limoni carichi di piccoli frutti verdi. La pianta, in Europa, fruttificava
una volta l’anno. In Sudamerica due. A maggio si era ancora in piena
stagione.
Martin vide la figura allampanata di Exquemeling aggirarsi tra i malati e
piegarsi ogni tanto su uno o sull’altro. Aveva dietro un intero corteggio di
chirurghi delle navi del re. Non sapevano cosa fare e obbedivano agli ordini.
Andavano, a seconda dei casi, a cercare ampolline o erbe triturate.
Martin si avvicinò al dottore. «Ma che malattia è? L’avete potuta
identificare?»
Exquemeling si raddrizzò, un poco irritato. Subito si distese. «Ah, siete
voi. È un male che qui chiamano “vomito nero”, più noto in Europa come
“febbre del Siam”. Colora di giallo gli occhi e il viso, principalmente dopo la
morte.»
«C’è rimedio?»
«No. A parte le rare guarigioni spontanee, io riesco a prolungare le vite dei
pazienti solo di qualche giorno.»
«Qual è la causa?»
«Magari lo sapessi. Il clima torrido, l’aria malsana, gli acquitrini, le
zanzare, o chissà cos’altro. Chi è nato qui pare praticamente immune, gli altri
no... Dove state andando?»
«A conferire col signor De Pointis, alla Contaduría» disse Martin.
«Allora ditegli di sbrigarsi a finire i conti delle sue rapine. Sta perdendo
quasi la quarta parte del suo esercito. Tra breve sarà la terza. Bisogna salpare
in fretta. E, se mi toglie dai piedi i medici inetti riservati ai nobili, mi farà un
piacere.»
Martin tornò sui suoi passi, questa volta per la via giusta. La Contaduría,
ovverosia la “Camera dei conti”, era un palazzo a tre piani con portico e
terrazze, elegantissimo. Era stato uno dei vari cuori pulsanti della Spagna

113
nelle Americhe. Lì un ampio spiegamento di burocrati e militari soppesava i
tributi, l’oro e l’argento raccolti nella regione, e calcolava la quota destinata
alla monarchia. Ogni errore anche minimo si pagava con la vita, per cui i
conteggi erano scrupolosi.
La piazza antistante l’edificio, ampia e alberata, vedeva ancora cittadini di
Cartagena in fila per consegnare ricchezze, ormai a vari giorni dall’inizio
dell’espropriazione sistematica. Gli abitanti in coda, tra cui numerosi frati,
avevano sacchetti di denaro contante, arredi e posaterie d’argento. Correva
voce che De Pointis offrisse una piccola mancia ai volontari, e persino un
caffè. Ciò ne ingrossava le schiere. A Cartagena rimaneva poco da mangiare,
e quel poco era riservato ai combattenti.
Martin si presentò a uno degli ufficiali di guardia. «Il generale De Pointis
mi aspetta. Rientro da una missione condotta per suo incarico.»
«Attendete. Vado a sentire.»
La Contaduría era sorvegliata quasi più della cinta di Cartagena. Ai lati
dell’ingresso principale – non di quello secondario, da cui entravano i
cittadini che portavano il loro riscatto – erano disposti due cannoni serviti da
manipoli di artiglieri. Granatieri, moschettieri e militi della marina di guerra
formavano una siepe che circondava l’intero edificio. Appariva chiaro che gli
occupanti attribuivano al palazzo, e a ciò che conteneva, un valore ancora
maggiore di quello avuto sotto la Spagna.
«Entrate» disse l’ufficiale, di ritorno. «Il generale vi attende nel suo studio.
Vi accompagno.»
L’ingresso somigliava a un museo, tante erano le argenterie, le statue
dorate e le stoffe preziose che vi si accumulavano. C’erano bauli e bauletti,
tappeti arrotolati, candelabri, orologi da caminetto, dipinti. Alcuni contabili
prendevano nota del materiale via via che veniva raccolto. Pareva che fosse
stata saccheggiata un’intera ala di Versailles.
L’ufficiale notò lo stupore di Martin e sorrise. «Non male, eh? L’inventario
va avanti da giorni, e gli spagnoli continuano ad affluire. Pagherebbero
chissà cosa purché ci togliessimo dai piedi. Ieri una donna anziana è arrivata
addirittura con un cucchiaino argentato avvolto in uno straccio.»
«Si sa la somma raccolta finora?»
«No, e nessuno la saprà mai, a parte il re. La consegna del silenzio è
assoluta.»
De Pointis accolse Martin con vero affetto. «Amico mio, avete viaggiato
veramente in fretta. Mi congratulo con voi. Che fine ha fatto quel bugiardo di
don Jímeno?»

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«Ve lo ho riportato. In realtà non è un bugiardo.»
«Spiegatevi, mentre ordino che vi sia servito del caffè. Non ne avevo mai
assaggiato di così squisito.»
De Pointis occupava ora l’ufficio che doveva essere appartenuto a un alto
funzionario della Contaduría, di norma, tra gli spagnoli, un militare al
culmine della carriera, premiato per i suoi meriti con un alto incarico
burocratico. Nulla di lussuoso: piuttosto carte ovunque, dagli scaffali ai
fascicoli voluminosi poggiati sulla scrivania. Fece accomodare l’ospite su un
divano, di cui occupò l’altra estremità.
Martin iniziò a spiegare: «Don Sancho non era fuggito dalla prigionia per
tornare in città. Aveva lasciato l’isola di Barú perché costretto
dall’insubordinazione degli schiavi e si era ritirato in un’altra proprietà. Non
mostra intenzioni bellicose, tutt’altro. Direi anzi...».
Fu costretto a interrompersi perché un valletto fece capolino dall’uscio
socchiuso. «Signor generale, mi avevate detto di avvertirvi quando il
capitano Francisco Santarém fosse arrivato. È qua.»
De Pointis si alzò. «Rimanete seduto» disse a Martin. «Scusatemi, è
questione di un attimo.» Ricevette con grande cordialità il mercante traditore
che tanto aveva contribuito alla caduta di Cartagena. «Capitano, la vostra
nave è pronta?»
«Sì, carica di stoffe e di sete. Siete stato fin troppo generoso, barone.»
«Ve lo dovevo. Troverete a bordo un mio lasciapassare. E se volete anche
qualche tappeto, servitevi a piacimento.»
«No, grazie, l’imbarcazione affonderebbe.» Santarém rise. «Ma è vero che
avete messo assieme la bellezza di...»
«Sst» disse De Pointis, con un dito verticale sulle labbra. «Lo scoprirà il
re.»
«Sarà una lieta sorpresa.»
«Capitano Santarém, dove intendete andare adesso che siete ricco?»
«Nella mia terra natale, il Portogallo. Gli spagnoli non mi vedranno mai
più.»
«Fate buon viaggio.»
Scambiati gli inchini di rito, De Pointis tornò a sedersi sul divano, mentre
un cameriere bianco serviva il caffè sul piano di marmo di un tavolino.
«Torniamo a noi» disse il generale. «Mio buon D’Orlhac, se mi assicurate
che don Jímeno è innocuo e ha agito in buona fede, non ho motivi di rancore
verso di lui. Dove alloggia?»
«Presso dei parenti, a qualche isolato da qui. Vorrebbe vedervi e scusarsi

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di persona.»
«Non occorre. Del resto sono impegnatissimo.» De Pointis additò le carte
sparse sulla scrivania e un poco in tutta la stanza. «Confermategli la mia stima
e assicurategli che passerò sopra il suo piccolo atto di slealtà... Per ciò che vi
riguarda, tenetelo d’occhio, ma soprattutto tenete d’occhio il mio nemico
principale.»
«Ducasse?» azzardò Martin.
«Proprio lui.» De Pointis si rannuvolò. «Fomenta la canaglia contro di me.
Vorrebbe mettere le mani sul bottino, e non lo nasconde. Ogni incontro con
lui è una pena: non parla che di denaro. È ossessionato dall’idea che i suoi
filibustieri e i coloni cenciosi di Saint-Domingue non guadagnino abbastanza.
Bisogna sorvegliarlo.»
Il caffè era finito. Martin posò la tazza e si alzò. «Sarà fatto, generale. Al
momento Ducasse si è insediato a Hihimani.»
«E resterà lì. Non ho nessuna intenzione di farlo entrare finché la conta del
bottino non sarà terminata. Prima di allora, nessun dialogo.»
Martin fece l’inchino di rito. Sulla soglia disse al barone: «Ho visto morti a
centinaia, per quella che Exquemeling chiama “febbre del Siam”. Pare che
aumentino ogni giorno».
Il viso di De Pointis si atteggiò a un dolore intenso. «Lo so, purtroppo,
amico mio. Tanti ottimi ufficiali se ne sono andati, inclusi nobili di antica
stirpe. Prudenza vorrebbe che lasciassimo Cartagena al più presto. Io, però,
devo concludere la raccolta dei fondi per il mio re. Ci vorranno ancora
diversi giorni. Tenetevi lontano dai luoghi sporchi, dalle pozze d’acqua, dalle
piante di notte. Riparatevi dagli insetti, non toccate i malati. Salperemo entro
breve.»
Martin ringraziò dei consigli, si inchinò ancora una volta e uscì. Restava
incerto nel suo giudizio. De Pointis era un gentiluomo, non esisteva dubbio, e
in quanto tale generoso per indole e per dovere, poco vendicativo. Ciò
nonostante aleggiava l’impressione che fosse un ipocrita consumato. In
questo senso, quasi l’antitesi dell’emotivo e selvatico Ducasse.

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23 - Innamorata, forse

Padre Le Pers spiegò a Martin, che si era imbattuto in lui una volta uscito
dalla Contaduría: «Ciò che mi chiedete è logico. Come mai De Pointis, un
buon cattolico, cerca di proteggere la popolazione ma infierisce sui gesuiti e
sugli altri frati? Come mai io stesso, pure gesuita, non protesto? Eccovi la
risposta. La monarchia spagnola e la Chiesa fanno tutt’uno. Gli ordini
religiosi iberici non sono distinguibili da quelli militari o politici. La
sottomissione della gerarchia cattolica di Spagna a Roma è formale.
L’obbedienza a Carlo II sovrasta quella al papato».
«Si potrebbe dire lo stesso per la Francia» obiettò Martin.
«No. Il clero francese fa i propri interessi, che spesso coincidono con
quelli di Luigi. Ma se un monarca francese tocca il clero, è una sollevazione.
Non è un caso se il nostro re non è mai riuscito a tassare le proprietà
ecclesiastiche. A parte proteste estese a tutte le parrocchie, è sempre
intervenuto il papa in persona a far ritirare il provvedimento.»
«Non avete dunque alcuna compassione verso i vostri confratelli
suppliziati perché cercano di non farsi derubare?»
«Sul piano umano sì. Ma, di fatto, sono religiosi d’altra specie.»
Quasi evocato da quelle parole, vi fu uno scoppio di grida d’avvertimento.
«Fatevi da parte! Fatevi da parte!»
Transitava su un carro, diretto alla Contaduría e trainato da due cavalli,
un enorme sepolcro d’argento, che aveva sul coperchio il bassorilievo di un
uomo in abiti vescovili. Lo seguivano delle donne in lacrime, tenute a
distanza dai soldati.
«Considerate accettabile anche una profanazione?» domandò Martin.
Le Pers restò impassibile. «Sì, se è per la gloria di Francia. Non crediate
che i cattolici spagnoli si comportino diversamente con gli arredi sacri
francesi, quando mettono le mani su una delle nostre chiese.»
Erano diretti verso l’abitazione di don Sancho Jímeno. Le Pers era
intenzionato a portargli conforto, e magari ad assaggiare vini delle sue cantine

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e cibi della sua mensa. Martin doveva riferire le parole di De Pointis, ma –
senza confessarlo a se stesso – moriva dal desiderio di rivedere Teresa. Il
pensiero di lei era cresciuto quasi inavvertitamente nella sua immaginazione,
fino a divenire un impulso irrefrenabile. Non aveva fatto calcoli sulla dama;
solo avvertiva il bisogno di frequentarla, ecco tutto.
La villetta era intatta. Whelan si fece avanti. «Nessun problema, Martin.
Non si sono fatti vivi disturbatori. I padroni sono a tavola. I paraggi sono
tranquilli.»
«A tavola? Giungiamo nel momento giusto!» commentò Le Pers.
«Puoi raggiungere Ducasse a Hihimani» disse Martin all’irlandese. «Qui
avresti poco da fare.» E ai soldati francesi: «Anche voi siete liberi,
raggiungete i vostri battaglioni. Sono assiepati nel centro».
La mensa di don Sancho non era come Le Pers se l’era figurata.
Mancavano le posate in metalli preziosi. Le stoviglie erano di coccio. Le
caraffe contenevano solo acqua. Negri in età avanzata servivano pescetti di
seconda scelta, con sughi rattrappiti e avari di verdure.
Sancho Jímeno accolse gli ospiti con un certo imbarazzo. «Accomodatevi.
Scusate la povertà del desco. Non ho trovato di meglio.» Porse la mano a
Martin. «Che notizie mi recate?»
«Buone. Il generale De Pointis non ha il tempo per ricevervi di persona,
ma vi considera completamente assolto. Continuerete la vostra prigionia qui
dove siete, in condizione di libertà quasi piena. Guardatevi dal tentare gesti di
resistenza. Se lo eviterete, non avrete danni di sorta. Io stesso assicurerò la
vostra protezione.»
Don Sancho era quasi commosso. «Che gentiluomo, De Pointis! Nobile
per comportamento e generosità. Non nascono più aristocratici disinteressati
come lui!»
«In effetti» mormorò Martin, poco convinto.
Appena seduto, rivolse la propria attenzione a doña Teresa. La giovane,
seduta alla sua destra e alla sinistra del marito, sfolgorava. Esuberante,
gentilissima, sorridente, lo riempiva di premure.
«Volete altro pesce? Purtroppo non abbiamo trovato di meglio. Vi faccio
servire quel che resta dei miei dolcetti e del caffè. I negozi sono chiusi,
Cartagena è senza viveri.»
«Non preoccupatevi, signora. Mi accontenterò di quel che c’è.»
Teresa premeva il braccio nudo contro quello di lui e si spostò
gradatamente, fino a toccargli la gamba con la propria. Vestiva uno dei soliti

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abitini leggeri che in quella parte del mondo erano consueti, ma che a Parigi,
e soprattutto a Madrid, sarebbero stati giudicati scandalosi.
Per distrarsi Martin seguì i convenevoli che, dalle due parti del tavolo, si
scambiavano Le Pers e Lucero. I discorsi fatti dal gesuita francese poco
prima erano dimenticati. Fra i religiosi regnava una cordialità persino
esagerata.
«Prima o poi questa guerra finirà, e noi torneremo ai nostri doveri, vale a
dire al pascolo delle anime» diceva Le Pers. «È orribile e sbagliato che ci si
debba combattere fra cattolici.»
Lucero assentì. «Provo un certo disagio nel vedere il mio paese alleato a
eretici e miscredenti. La fede comune dovrebbe prevalere sul resto. Però vi
devo confessare che disapprovo il ricorso del vostro re a canaglie e
avventurieri, con l’appoggio di indigeni e addirittura di negri. Costoro non
hanno alcun rispetto per le cose sacre.»
«Terminato il conflitto, terminerà anche questo.»
Il tocco di Teresa si fece così insistente che Martin si perse nelle fantasie
che cercava inutilmente di respingere. Una domanda di don Sancho diretta a
lui lo ricondusse alla realtà.
«Signor D’Orlhac, quand’è che il barone De Pointis intende ripartire?
Penso che abbia raccolto bottino a sufficienza.»
«Non me l’ha detto. Non dovrebbe mancare molto. Credo anch’io che il
carico sia quasi completo. Più che altro ne stanno contando il valore.»
«Da chiacchiere raccolte tra la servitù di mio fratello, si tratterebbe finora
di circa dieci milioni di pesos, tra denaro liquido, gemme e materiali
preziosi.»
Martin sussultò. «Non è possibile! Sarebbe una cifra superiore alla somma
di quelle acquisite con la conquista di Veracruz e di Campeche! Il ricavo più
favoloso di quelli ottenuti dalla Francia in guerra!»
«Come vi ho detto sono chiacchiere. Dicerie. Sta di fatto che da giorni,
diligentemente, gli abitanti di Cartagena consegnano al vostro generale tutto
ciò che hanno. E ciò che non consegnano viene requisito con la forza.»
«Siamo nel campo delle congetture più assurde.»
Intervenne Lucero. «Voi dite? Solo poco fa è stato sottratto il sepolcro in
argento massiccio che veniva portato in processione il Venerdì santo. Il suo
solo valore è pari a quasi un decimo della cifra appena udita.»
Martin non sapeva come replicare. Fu Teresa a toglierlo dall’imbarazzo.
«Vedo che avete terminato il pasto. Vado a prepararvi il caffè con le mie

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mani, per assicurarmi che sia buono. Rimedierà alle pecche di un pranzo
miserabile.»
Martin si profuse in ringraziamenti, tanto per porre fine a una discussione
che lo metteva a disagio. Nell’alzarsi, Teresa non mancò di fare leva su una
sua gamba, invece che sull’orlo della sedia. Volò in cucina con il garbo di un
uccellino.
«Signori» disse Martin, per schivare il discorso precedente «ho apprezzato
la vostra ospitalità e vi assicuro che non vi sarà torto un capello. Lo dichiaro
anche a nome del generale De Pointis. Io devo allontanarmi, però padre Le
Pers accetterà, immagino, di restare vostro ospite.»
«Volentieri» rispose l’interessato.
«Con lui non dovrete temere angherie di sorta. Solo, don Sancho, vi prego
di non lasciare questa casa. Siete ancora prigioniero, come lo foste a Barú. È
la sola cosa che vi si chiede.»
«Avete la mia parola» rispose l’ex comandante.
Arrivò il caffè. Era in effetti delizioso. Forse un po’ troppo zuccherato, alla
maniera delle isole; ma era un peccato veniale. Martin vuotò la sua tazza in
pochi sorsi e si alzò. «Bisogna che io torni ai miei doveri. Vi sono grato per la
cordiale accoglienza, riservata a chi, oggettivamente, resta un nemico. In
effetti, un amico futuro.»
Vi furono inchini e parole di congedo. Teresa prese Martin sottobraccio.
«Vi accompagno io alla porta.»
Sulla soglia, la donna avvicinò il proprio viso a quello di Martin, tanto da
fargli percepire un alito fragrante che sapeva di agrumi e frutti di bosco.
«Quando tornerete?»
«Non lo so. Non so nemmeno se potrò tornare.»
Teresa sbatté le palpebre. «Dovete farlo. Ho bisogno di voi.»
«Bisogno?»
«Sì. Non mentite, anche voi provate lo stesso impulso.» La giovane, dopo
essersi guardata attorno, premette frettolosamente le labbra su quelle di
Martin. Si ritrasse. «Andate. Sapete dove trovarmi.» Chiuse la porta.
Martin scese dal porticato vacillando leggermente. Non sapeva dare ordine
ai suoi pensieri. Che la dama si fosse davvero innamorata di lui? Del Dorlhac
ladro impenitente, poi soldataccio su mille fronti? Stentava a credervi, eppure
pareva reale.
Si avviò, mezzo ubriaco di pensieri solleticanti e ambigui, verso la porta
diroccata che dava accesso a Hihimani. Il ponte levatoio era stato ricostituito
con assi rette da corde e catene. Uscire fu molto più facile che entrare. La

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prima persona nota che incontrò fu Le Bon, intento a pipare come un
caminetto. Andava a passo veloce ed emetteva ogni espirazione con un
mezzo rantolo.
«Venite» disse asmatico a Martin. «Ducasse ha convocato un’assemblea
dei Fratelli della Costa, o di quel che ne rimane.»
«A che scopo?»
«Ci stanno derubando! Gli aristocratici, dopo averci fatto combattere al
posto loro, vogliono depredarci dei legittimi profitti!»
Era un sospetto che anche Martin nutriva. Seguì Le Bon e il fumo della
sua pipa.

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24 - Il gran consiglio della Filibusta

Per riunire ciò che restava degli antichi Fratelli della Costa, Ducasse aveva
requisito e fatto aprire la più grande taverna vuota di Hihimani e scelto degli
schiavi perché portassero le bevande rimaste nelle botti della cantina.
L’ambiente era ampio e fresco, con una volta a spicchi da cui forse, fino a
poche settimane prima, avevano penzolato prosciutti spagnoli di gran pregio
e collane di aglio. Non ne restava nulla, a parte cordicelle legate alle travi. Il
profumo della carne suina aleggiava ancora.
Ai tavoli sedevano tutti i capitani: Godefroy, Macary, Pierre, Galet, Bouc,
Colong e Le Page, comandante del Mutine. Martin fu avviato accanto a loro
perché figurava al comando del Cristo, preso agli spagnoli. C’erano poi i
capi dei coloni, Lessan, Grenier e Pin; e quelli dei negri, Janor e Guimba,
entrambi ex schiavi rimessi in libertà. Ma ciò non esauriva il quadro delle
tavolate e dei presenti, costretti a stare in piedi per la ressa. Nelle tradizioni
piratesche non esistevano distinzioni gerarchiche troppo nette, e qualsiasi
avventuriero poteva assistere a riunioni di alto livello. In molti ne avevano
approfittato e, anche per via del fumo di pipa, nella taverna si faticava a
respirare.
Ducasse dominava la massa seduto sul bancone, facendo oscillare le
gambe come un bambino. Si vedeva che era nervoso. Per combattere il caldo
non portava cappello, ma aveva in testa il fazzoletto che, a bordo, alcuni
legavano sulla chioma per assorbire il sudore. Palandrana e camicia non
rivelavano più segni di ferite recenti. Era guarito, e la sua stessa vitalità lo
dimostrava.
Quando Martin prese posto, il governatore di Saint-Domingue e, forse, di
Cartagena era impegnato in un preambolo di tipo quasi filosofico: «Qual è il
tratto distintivo degli aristocratici? Non lavorare, non fare nulla. In Francia
occupano tutti i posti di rilievo, bloccano le carriere di chi non ha il sangue
blu. Risultato: non si fa nulla, il paese è paralizzato. Lo stesso vale per
l’esercito. Non ci si capisce un accidente, tanti sono gli ufficiali. Non è

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un’armata: è una specie di orda piumata e piena di stemmi, che se vince le
battaglie è per caso, oppure grazie all’impegno di qualche volonteroso che
non farà mai carriera».
Godefroy osservò, sarcastico, staccando dalle labbra un boccale di birra di
dimensioni abnormi: «Sappiamo che le cose stanno così, ma cosa vorreste?
Una rivoluzione?».
«Non sia mai!» Ducasse alzò le braccia come se dovesse respingere un
pericolo incombente. «Abbiamo visto come vanno le rivoluzioni. Guardate
l’Inghilterra. Prima a scendere nelle strade è la canaglia, ma dopo arrivano i
moralisti, i pretini, quelli vestiti di nero e con il libro sotto il braccio. Possono
tagliare la testa al re, ma è solo per aprire la strada a un altro re.»
«E allora?»
L’eloquenza di Ducasse si fece appassionata. «Abbiamo la fortuna di
essere in un altro continente, lontano dagli europei, sia conservatori sia
rivoluzionari. Queste terre le abbiamo dissodate noi, non i poltroni. Le
abbiamo difese contro inglesi, spagnoli, portoghesi, olandesi. Abbiamo
versato sangue, anche qui a Cartagena. Non è ammissibile che ci piovano
addosso le vecchie parrucche, che ci incitino a combattere e poi che ci
nascondano l’entità del bottino. Loro qui sono stranieri, noi no. Stiamo
fondando da decenni qualcosa di diverso dalla vecchia Europa. Se ci
arricchiamo, il denaro va ripartito, per essere investito dove viviamo.
Vogliamo case, terre, schiavi e, se ci va, soldi da spendere in una buona
osteria. Affari nostri, non dei cidevants con la puzza sotto il naso.»
Scoppiò un applauso fragoroso, che si propagò alla strada, in cui
aumentava la calca. Anche Martin applaudì, ma si interruppe quando si
accorse che Ducasse puntava il dito proprio contro di lui, anche se in modo
amichevole.
«Abbiamo qui qualcuno che sta con noi, ma è bene accetto anche da De
Pointis» disse il governatore. «D’Orlhac, sapete quanto denaro ha raccolto
finora il sedicente generale delle truppe francesi d’oltremare?»
Martin deglutì. Da un lato non voleva tradire il barone; d’altro lato, se
avesse mentito in quella sede, difficilmente l’avrebbe fatta franca. «La cifra
esatta non l’ha detta neanche a me. Tuttavia penso che sia molto. Sono giorni
che gli spagnoli fanno la fila per consegnare fino all’ultimo quattrino. Per
non parlare dei conventi e delle chiese spogliati di qualsiasi cosa abbia
valore.»
«Ed è vero che De Pointis premia la buona volontà dei bravi cittadini di
Cartagena con mance generose?»

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Questo, Martin lo aveva appreso da Le Pers. «È vero, signore. Comunque
si tratta di piccole somme di denaro.»
Ducasse si rivolse all’intera sala. Alzò i pugni, gonfiò il petto. «Capite,
amici? Il barone rifiuta di discutere con me di quattrini, però fa regalini agli
spagnoli per premiarli della loro codardia. La goletta del capitano Santarém,
il portoghese che ha venduto la città, ha appena preso il mare. Ci è passata
sotto il naso carica di merci preziose. Eppure di ricompensare filibustieri,
bucanieri, coloni e negri, in prima fila in tutti i combattimenti, non si parla
ancora. Si conta il denaro in gran segreto. Cosa dovremmo fare?»
Godefroy fu drastico. «Prendere d’assalto Cartagena» disse. Accompagnò
le sue parole con uno dei rutti rimbombanti che erano la sua specialità.
«Tagliare la testa a De Pointis. Caricare le nostre navi e tornarcene a Petit-
Goâve, a Léogâne, alla stessa Tortuga, se è ancora abitabile.»
L’uscita fu accolta da un boato di consenso e da grida bellicose. Interruppe
il clamore Hubert Macary, che si alzò in piedi e riportò la calma. Pronunciò,
come sempre, parole pacate e ragionevoli, intinte della tristezza che gli velava
la voce. «Godefroy interpreta un sentimento comune, ma non possiamo
essere avventati. L’esercito regolare è molto più numeroso del nostro, le loro
navi da sessanta cannoni possono fare un solo boccone delle barchette di cui
disponiamo. Il grosso dell’artiglieria è concentrato entro la cinta interna.
Inoltre non ci conviene ribellarci al re di Francia. Siamo sopravvissuti finora
perché in qualche modo ci proteggeva. Cosa faremmo in caso di rivolta? Da
quanti nemici dovremmo guardarci? Ci piaccia o no, non ne avremmo le
forze.» Era un discorso saggio, anche perché chi lo aveva pronunciato
figurava come ammiraglio dei Fratelli della Costa superstiti. Gli uomini
tacquero.
Solo Godefroy ritorse: «Cosa proponi allora?».
«Un’ultima ambasceria. Mandare gente poco compromessa, come Le Page.
Magari accompagnato da un gentiluomo francese che sia ascoltato. D’Orlhac,
certo, ma anche qualcuno rivestito di incarichi più illustri.»
«Sono d’accordo» disse Ducasse, e questo tagliò la testa al toro.
Dall’espressione corrucciata, era palese che stava facendo violenza sui suoi
sentimenti. «Come si chiamava quel tizio cadaverico che pretendeva di farmi
da vice? Il mezzo impiegato, la scopa vestita di nero.»
«De Galiflet» suggerì qualcuno.
«Ecco, De Galiflet. È rimasto dalla nostra parte della città, non è vero?»
«Sì. Si aggira qua e là come un’anima in pena.»
«Ecco il tipo giusto per discutere del chasse-partie, della ripartizione dei

124
soldi e di tutto ciò che ha valore. Lui, D’Orlhac e Le Page. Che vadano da De
Pointis domattina presto. Al loro ritorno decideremo sul da farsi.»
Il consesso era terminato. Martin avrebbe voluto che la delegazione si
mettesse subito in cammino, nella speranza di rivedere al più presto Teresa.
La giovane gli mancava, sebbene fossero passate poche ore dal loro recente
incontro. Dovette rassegnarsi ad attendere. Bisognava trovare De Galiflet e
poi tenere un’ultima riunione. Ebbe luogo la sera, in un’altra taverna, più
piccola, abbandonata dal padrone e con le ante sfondate.
Ducasse, mentre beveva vino fresco, fissò De Galiflet con severità. «Non
provate a tradirci o vi sgozzo come un pollo.»
«Non ci penso nemmeno» rispose il leguleio, abbastanza sicuro di sé.
«Lo voglio sperare. Il vostro compito è convincere De Pointis a renderci i
conti. Quanto ha incassato, quanto pensa di darci. E che ci spieghi perché
aspettiamo così a lungo a salpare, mentre i suoi uomini, e anche un po’ dei
nostri, muoiono come mosche. Si è sparsa una febbre strana che porta la
gente alla tomba in un paio di giorni. Se tardiamo ancora a partire, quel che
non ha fatto la guerra farà la malattia.»
«Posso confermare» disse Martin. «Ho parlato con Exquemeling e ho visto
centinaia di cadaveri allineati. Si tratta di un morbo chiamato “febbre del
Siam”, oppure “vomito nero”. Non c’è rimedio, e passa da un malato
all’altro.»
«Appunto.» Ducasse vuotò un boccale di birra con un risucchio, però non
ebbe rigurgiti. Quelli erano una specialità di Godefroy, al momento assente.
«Veniamo a voi, Martin. So che siete in confidenza con don Jímeno e
famiglia... Non cercate di negare. Ciò che vi chiedo è di scovarmi un’altra
informazione che De Pointis mi tace. I nemici non stanno facendo nulla? La
notizia della presa di Cartagena dovrebbe ormai essere di dominio comune,
nei Caraibi. Possibile che spagnoli e inglesi se ne stiano passivi? Non ci
credo. Don Sancho deve sapere se si muove qualcosa.»
«È agli arresti domiciliari.»
«Non conta. Le informazioni utili giungono nelle segrete delle peggiori
galere. Se si prepara un’azione, don Jímeno deve esserne a conoscenza.»
«Non me lo direbbe mai.»
«Chiedete a sua moglie, no?» Ducasse fece un sorriso sbieco. «Mi risulta
che siate in grande confidenza.»
“Whelan!” pensò Martin. Solo Whelan poteva avere fatto la spia. Si
propose di trovarlo e di regolare i conti. Stava rovinando l’unica storia
d’amore – sì, d’amore, ammise con se stesso – della sua vita.

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Si imbatté nell’irlandese proprio all’uscita della taverna. Probabilmente
aveva assistito all’assemblea mescolato alla folla. «Sei un maledetto
chiacchierone! Un delatore!» gli gridò.
L’altro rispose, quieto, nel suo francese smozzicato: «No. Io faccio
l’interesse dei Fratelli della Costa. Se Ducasse mi chiede come è andato il
recupero di don Jímeno e famiglia, io gli racconto ogni cosa. È mio dovere.
Inoltre faccio anche gli interessi tuoi».
«Cosa vuoi dire?» chiese Martin, paonazzo per la collera.
«Ti stai infilando in una trappola e non te ne accorgi... Suvvia, non
prenderla così. Non avrebbe senso risolvere la questione a colpi di spada.
Domattina vedrai la tua bella, no? Vieni con me, ho trovato una casa
abbastanza pulita. Dovrai pur dormire da qualche parte, qui a Hihimani!»
Martin si stava chiedendo se trafiggere Whelan con la sciabola o fargli
esplodere il cervello con un colpo di pistola. L’atteggiamento remissivo e
mite dell’altro lo disarmò. Lui, anche da malandrino, non era mai stato
particolarmente violento o vendicativo. Ripose i sentimenti ostili e seguì il
compagno verso il nuovo alloggio.

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25 - Inganni incrociati

Occorsero in realtà alcuni giorni perché l’ambasceria dei Fratelli della Costa
fosse ammessa entro la cinta interna di Cartagena. La scusa con cui De
Pointis rimandava il dialogo era sempre identica. «Qui il vomito nero
continua a fare strage. Non sarebbe prudente mettere a rischio l’incolumità
dei filibustieri. Bisogna che almeno loro restino in buona salute, vista la
scarsa fibra dei soldati.»
Nel frattempo, ogni giorno scialuppe cariche di bottino attraversavano la
rada per rifornire i vascelli della flotta reale. Talora il peso trasportato era tale
da farle galleggiare a filo d’acqua. I viveri scarseggiavano, e a Hihimani solo
le battute di caccia nei boschi vicini, attuate da bucanieri e coloni,
assicuravano gli alimenti di cui nutrirsi. Anche i forbans di Bréart riuscivano
a procurare qualche capo di bestiame rubato nelle campagne e venduto a caro
prezzo. Dalla città giungevano occasionalmente voci che parlavano di carestia
e di una malattia che non accennava a sopirsi.
Tutto ciò metteva Martin in grande agitazione. Pensava a Teresa,
prigioniera della fame e assediata dal morbo. Dovette però aspettare fino al
18 maggio, giorno in cui De Pointis si compiacque di ricevere la delegazione
della Filibusta. Si recò con un’ora di anticipo davanti alle mura, ancora ben
guardate dai granatieri. Assistette al lancio in mare di alcuni cannoni, troppo
pesanti per essere trascinati sulle navi. Gli altri venivano disposti in una fila
ordinata. Tirati o spinti da schiavi e spagnoli prigionieri, erano destinati al
trasbordo sulla flotta del Re Sole.
Le Page, che Martin conosceva solo di vista, non era molto diverso dagli
altri avventurieri. Marsina sgargiante, catene d’oro, gilet ricamato, collo alto,
gran cappello. E una quantità di armi, tra pistole, sciabola, daga e
misericordia (un pugnale lungo e sottile a forma di croce, ideale per
infliggere alla vittima il colpo di grazia), sufficienti a equipaggiare un
plotone. Non era tuttavia pretenzioso; anzi, si mostrò simpatico quanto il
nome della sua nave, Mutine (“ribelle”, “scavezzacollo”).

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Arrivò in compagnia di De Galiflet, al quale stava dicendo: «Suvvia, non
stiamo andando a un funerale. Se vi vede così triste, De Pointis, invece di
darci i nostri soldi, ci caccia a pedate. Non è nemmeno escluso che incolpi
voi di propagare il vomito nero. Avete faccia e vestito da beccamorto».
«Non vedo particolari motivi di allegria» mormorò De Galiflet.
«Ma sì. Passiamo all’incasso. Direi anzi che era ora.» Le Page si arrestò
davanti a Martin. Gli rivolse un sorriso largo e cordiale, da sotto i baffoni
folti e biondastri. «Ecco qui il terzo diplomatico. Parigino, mi dicono. Tutti i
parigini che ho conosciuto erano dei manigoldi. Voi come vi definireste?»
«Manigoldo anch’io.» Per un attimo Martin, divertito, dimenticò le sue
angosce.
«Allora siamo fatti per andare d’accordo. Bene, vediamo cosa ci dice quel
jean-foutre del caporione.»
Forse ad avere ragione era De Galiflet, nella sua cupezza. Ammessi entro
le mura di Cartagena, Martin la trovò irriconoscibile rispetto a ciò che aveva
visto alcuni giorni prima. Strade luride e deserte, facciate affumicate da
principi di incendio. Non pochi cadaveri abbandonati agli angoli delle vie.
Ossa sparse, lordura, fiumiciattoli di liquame puzzolente. Vide tre bambini a
piedi nudi inseguire un cane. Lo raggiunsero e lo stordirono con una
bastonata sul cranio. Dopo – e fu il culmine degli orrori – presero a
mangiarlo. Sputavano il pelame, ma ne addentavano le carni. L’animale, se
era ancora in vita, non sopravvisse a lungo. I tre piccoli ne divorarono anche
le zampe e la coda.
«Cos’è questa porcheria?» chiese Martin, indignato.
«Ducasse direbbe che è la società sognata dagli aristocratici» rispose Le
Page con una smorfia di sarcasmo. «Ha le sue idee, ma io sono bretone, e mi
hanno raccontato le imprese di Guy Éder de La Fontenelle, un secolo fa. La
plebaglia è spesso crudele. La differenza è che i nobili, nell’esserlo
altrettanto, si divertono molto di più. Scommetto che troveremo un De
Pointis di umore eccellente, indifferente a ciò che sta avvenendo sotto i suoi
occhi.»
Fu così. Le vie circostanti la Contaduría erano molto più placide e piene
di soldati impegnati nelle manovre del reimbarco. Trovarono il generale
davanti al palazzo che aveva occupato, cordiale e pronto ad accoglierli. Stava
conteggiando dei barili ben sigillati diretti allo scalo. Il calore liquefaceva,
però De Pointis non sembrava risentirne.
«Benvenuti, signori!» esclamò il barone. «Scusate se vi ricevo per strada,
ma il mio ufficio è troppo caldo. Come state, signor De Galiflet?»

128
«Non bene. Ho visto una città piagata, che sta morendo di fame.»
De Pointis scoppiò a ridere. «Il solito temperamento tetro! In realtà è tutto
sotto controllo, state sicuro... E voi, D’Orlhac? Come ve la passate? Sembrate
in forma.»
«Sì, signore. Ho i miei crucci, signore.»
«So di cosa si tratta. Non vi preoccupate. La dama verso cui mostrate
amicizia è assolutamente incolume. Ho garantito protezione a lei e a suo
marito. Appena terminato il nostro scambio di idee l’andrete a visitare. Le
Pers la nutre a granchi e a pardo rosso. Una pattuglia sorveglia l’abitazione di
don Jímeno.»
Martin si sentì sollevato, Le Page non tanto. Fu lui che si rivolse
finalmente a De Pointis, con voce tanto soave e amichevole da sfiorare la
farsa.
«Non vi conosco di persona, mio buon amico. Permettete che vi chiami
così: si è comandanti tutti e due, voi grande e io piccolo. Vedo attorno una
città che va in malora per dare tempo ai vostri conteggi. Soldati che crepano
di febbre. Fame. Più che giusto, la matematica richiede dedizione. Solo che le
somme finali vogliamo conoscerle anche noi. Parlo di me, Ducasse, Macary,
Godefroy e gli altri. Abbiamo equipaggi e combattenti che reclamano il
soldo. Almeno che sappiano quanto riceveranno.»
L’insolenza del filibustiere superava ogni limite. A Parigi gli sarebbe
costata il collo, con un supplizio della ruota per arricchire lo spettacolo in
Place de l’Estrapade. Eppure De Pointis non ebbe la reazione che ci si
sarebbe attesi. Chinò il capo, come se fosse molto triste. «Mi dispiace
ammetterlo, ma credevo Cartagena più prospera. Perdo giorni perché bisogna
passare gli abitanti al crogiolo, per strappare loro un po’ di scudi. La maggior
parte delle masserizie che mi portano non ha valore commerciale. Ciò
nonostante sono in grado di anticipare ai filibustieri una buona notizia.» Alzò
il viso, mostrò allegria. «I valorosi Fratelli della Costa e i coloni potranno
dividersi, secondo i patti, non meno di quarantamila corone!»
Martin trasalì. Le merci regalate a Santarém valevano quasi quella cifra.
Osservò le reazioni di Le Page. Lo vide prima incredulo e poi ilare.
«Penso di avere capito male, generale. Avete detto quarantamila corone?
Credo di avere frainteso. Io parlavo del compenso per un migliaio di uomini,
che si sono battuti in prima linea e che hanno avuto centinaia di caduti! Per
non parlare di feriti e mutilati.»
De Pointis allargò le braccia. «I calcoli non sono completati, ma il totale
sembra quello. Qualcosa di più, qualcosa di meno. Mi è difficile ammetterlo:

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forse aveva ragione Ducasse quando proponeva di assalire Portobello.
Abbiamo preso una città di pitocchi. Volevo fare contento il re, e invece devo
deluderlo.»
Le Page abbandonò la maschera scherzosa e sfrontata. Parve meditare.
«Questa delegazione non è autorizzata ad assumere iniziative, quindi non
commenterò. Mi autorizzate a riferire a Ducasse ciò che mi avete detto? Che
la quota da ripartire tra i filibustieri sarà di quarantamila corone circa?»
«Forse un poco di più, raccolti gli ultimi contributi. Capisco che è
deludente, ma è in proporzione al bottino» rispose il barone.
«Lo comunicherò.» Le Page fece un inchino e lasciò la piazza,
accompagnato dagli altri due messaggeri.
«Non credevo che Cartagena fosse così in miseria» disse De Galiflet.
Le Page sbuffò. «Tacete, cretino.»
Nei pressi della porta di Hihimani, Martin si fermò. «Io vi lascio qua.
Sapete il perché: pare che lo sappiano tutti. Tornerò con voi dopo essermi
assicurato che le persone a me care stiano bene.»
Sul viso di Le Page tornò l’allegria consueta. «Ma certo, amico mio. Vi
auguro la migliore fortuna. Quanto a me, spedisco De Galiflet oltre le mura,
accompagnato da un paio di ceffi abbigliati alla nostra maniera. Io da
Cartagena non mi muovo. Vado a intrufolarmi nel porto e ad annusare casse
e bauli in partenza. A Ducasse voglio fare un rapporto credibile. Non
l’ammasso di menzogne che abbiamo ascoltato.»
«Un inganno.»
«E con ciò? Ingannano noi. Rendiamo la pariglia.»
De Galiflet si irrigidì alla maniera di certe galline dalle movenze a scatti
quando sono colte di sorpresa da una minaccia. «Questo non era previsto.»
«Certo che no. Riferite a Ducasse tutto ciò che avete visto e udito. Il resto
glielo racconterò io appena tornerò.» Fissò Martin con benevolenza. «Andate
dalla vostra bella. Se vi imbatterete in me, fate finta di non riconoscermi.
L’eventualità è improbabile. Per quanto il luogo sia ameno, mi tratterrò
pochissimo. Ora incamminatevi, signor D’Orlhac, e siate felice. Non sono
molte le persone che, tra queste mura, possano aspirare a tanto.»
Dopo una stretta di mano, Martin si incamminò verso la dimora degli
Jímeno. Ebbe modo di vedere infiniti spettacoli di malattia e di miseria. Sulla
strada venivano cucinati gatti e topi, su fuocherelli improvvisati, con una
folla attorno pronta a divorarli. Soldati francesi rantolanti per la febbre del
Siam erano ormai adagiati ovunque. In un ospedale lo spettacolo più penoso:

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i malati, da dietro le sbarre dei finestroni, reclamavano cibo. Erano
abbandonati a se stessi da due settimane.
Martin incrociò Exquemeling vicino a una fontana senza acqua. Sedeva
sul bordo della vasca ed era esausto. «Non so più come fare» confessò.
«Troppi morti, troppi agonizzanti. Vedo scene di disperazione che resteranno
incise nella mia memoria.»
«La soluzione?»
Exquemeling riacquistò un barlume di vivacità. «Ripartire! Ripartire
subito! Non possiamo trattenerci ancora. Una metà dei nostri soldati se ne è
già andata. Cos’altro pretende, De Pointis? Sacrifici umani?»
Martin batté sulla spalla del medico in segno di simpatia, poi riprese il
cammino verso l’unica abitazione che gli interessasse sul serio.
Dovette farsi strada tra una cerchia di granatieri che avevano costretto due
ragazzine, una bianca e una nera, a mettersi nude. Fra chi assisteva c’era
anche un conte imparentato con la casa reale. Le norme rigorose di
comportamento, impartite da De Pointis al momento dell’occupazione,
risultavano decadute.
Martin aggirò il gruppo e si mise alla ricerca della via a cui teneva.

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26 - Tra sangue e fiori

Il villino di don Jímeno appariva intatto, l’unica costruzione leggiadra nel


generale disfacimento. Al riparo del portico di fronte, appartenente a
un’abitazione bruciata quasi per intero, sostavano alcuni soldati francesi. La
scorta di don Sancho, congetturò Martin. Li squadrò per curiosità e loro
fissarono lui. Nessuno si mosse.
“Niente male, come guardia” pensò tra sé Martin mentre tirava la catena
della campanella. Lo schiavo che aprì lo fece entrare senza nemmeno
chiedergli il nome.
Padre Le Pers venne ad accogliere l’amico. «Di problemi seri non ne
abbiamo avuti, ma la paura è tanta. Riceviamo cibo perché ce lo fa arrivare il
generale De Pointis. Attorno è la carestia: ci si contendono i ratti scovati fra le
rovine. L’acqua scarseggia. Mezzo esercito francese è moribondo. Cartagena
non si aspettava un colpo così duro. E neanch’io, devo dire.»
Accompagnò Martin in un salotto. Un attimo dopo apparve don Jímeno.
Era pallido, smagrito. La causa non poteva essere la fame.
«Finalmente siete tornato, signor D’Orlhac.»
Si lasciò cadere su un divano, di fianco all’ufficiale. Le Pers prese posto
su una poltrona di fronte. Un servo dispose le tende a protezione dal sole.
Sancho Jímeno continuò: «De Pointis non ha mantenuto nessuna delle sue
promesse. Le condizioni di pace erano carta straccia. Sì, ci ha liberato dai
filibustieri, confinati a Hihimani. Però i suoi soldati rubano quanto loro,
spogliano le chiese, saccheggiano i conventi, si accaparrano ogni vettovaglia.
Quanto è grande l’ingordigia di quell’uomo? Cos’altro vuole, ora che ci ha
rubato tutto? L’ultima incursione che ho visto è stata nella casa di fianco a
questa. L’avevano già razziata due volte. Sono tornati una terza perché
avevano scordato delle posate d’argento e alcuni bicchieri di cristallo».
Martin era imbarazzato. Non poteva rivelare le strane ripartizioni a cui si
dedicava De Pointis. «Le guerre sono fatte così. C’è un diritto al saccheggio,
per il vincitore. Se non altro, il sangue è scorso solo in battaglia.»

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Jímeno crollò il capo. «Lo pensate voi. Certo, i morti di fame non stillano
sangue vivo. Neanche i malati di febbre del Siam. Ma esiste il sangue delle
vergini. Dopo tre giorni di disciplina, De Pointis ha chiuso un occhio. Ogni
donna è diventata una possibile preda della libidine dei soldati. Negre in
prevalenza, ma anche bianche, e persino suore. È il premio notturno alle
ruberie del giorno.»
Martin provò turbamento, ma non lo manifestò. «Gli spagnoli si sono
comportati alla stessa maniera nelle loro incursioni nelle Antille francesi. Non
è facile attribuire colpe quando è in corso una lotta a coltello... Spero che
vostra moglie non abbia subito molestie.»
«No. Come vi ho detto siamo stati risparmiati. Siamo nutriti e isolati da un
contesto atroce. Viviamo discretamente, mentre Cartagena ci muore attorno.»
«Vedete quindi che il generale è uomo di parola e in fondo generoso. Non
infierisce sui nemici che rispetta. Ha un fare cavalleresco.»
«Sì, ma quando se ne va? Cosa vuole rubarci ancora, le scarpe? Ha
abbastanza ricchezze da coprire i debiti infiniti del suo re!»
Martin ardeva dalla voglia di rivedere Teresa, ma lei non scendeva, e lui
non trovava pretesti per poterla incontrare. Sperò in un invito a pranzo, ma la
sua speranza fu congelata da don Sancho.
«Vorrei chiedervi di trattenervi con noi per la cena. Purtroppo non sono in
grado di assicurarvi un pasto decente. I viveri arrivano nella stretta misura
necessaria e non permettono convivialità di sorta.»
«Non preoccupatevi, signore, non è importante» mentì Martin. «Cosa
devo dire al generale De Pointis? Riportargli le vostre lamentele?»
«Ditegli che stiamo bene, e di ciò gli sono grato. La mia gratitudine è
minore se penso a come sta infierendo su spagnoli che hanno avuto il solo
torto di resistergli, obbedendo al loro sovrano.»
«Riferirò parola per parola» garantì Martin. Fu una seconda menzogna.
Non aveva la minima intenzione di trattenersi in una città preda di violenze,
morbi incurabili e carestie, né voleva recarsi di nuovo da De Pointis. Teresa
era il solo movente che lo aveva attirato in quella casa. Dato che pareva
impossibile vederla, tanto valeva tornare a Hihimani.
Si congedò e fu accompagnato alla porta. Era già in strada quando, da un
ciuffo di fiori viola che sporgeva dalla cancellata del villino, a un lato del
portico, si sentì chiamare.
«Signore! Signor D’Orlhac! Ve ne andate così? Senza neanche salutarmi?»
Il cuore di Martin ebbe un balzo. Sì, era Teresa. Il suo viso fresco era
incorniciato dalle corolle di quella pianta sconosciuta, le sue dita afferravano

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le sbarre in ferro battuto.
Martin si tolse il cappello, malgrado la violenza del sole, e le si avvicinò.
Non fece caso alle battute salaci dei soldati radunati all’altro capo della via.
«Non credevo di potervi incontrare, signora. Pensavo che foste nelle vostre
stanze.»
«Stavo dando acqua alle piante, assetate per il troppo calore... Mio marito
vi ha detto cosa sta accadendo qui?»
«Sì, e ne sono rammaricato. Mi tranquillizza un poco sapere che siete ben
protetta.»
«Sì, ma fino a quando? I miei protettori si riducono ai quattro soldatacci
sguaiati che stanno ridendo di noi, a mio marito, già anziano, a pochi schiavi
e al gesuita vostro amico. Non ho altri difensori.»
Martin gonfiò il petto, involontariamente. «Vi giuro che nessuno vi torcerà
un capello.» Gli sarebbe venuto spontaneo dire: “Nessuno torcerà un capello
della vostra meravigliosa testolina”, però ritenne che non fosse il caso. Nei
pressi della casa di don Sancho era d’obbligo il ritegno.
«Avete buone intenzioni e ve ne sono grata. Ciò nonostante non sono
sicura che potrete portarle a compimento. Ve ne state andando. Di notte, nelle
strade circostanti, accade l’inferno.»
Martin odiò i fiori che gli impedivano di vedere l’intera figuretta della
giovane. Si rimise il cappello, ma di sbieco, come per dare al suo viso
maggiore determinazione. «Confidate in me. Vi proteggerò.»
«E come? Ve ne state andando. Avrei bisogno di stare con voi, di dirvi
cose che probabilmente ignorate.»
«Signora, non chiederei di meglio.» Martin era profondamente
emozionato. «Non so però come raggiungervi. Non possiamo parlare con i
cespugli e una cancellata di mezzo.»
Teresa indicò una finestra sovrastante il portico. «Io dormo là. Non con
mio marito, ovviamente. Sono sola per tutta la notte.»
Martin osservò l’apertura larga, senza sbarre, chiusa da imposte dipinte di
azzurro. «Signora, è al secondo piano. Ben visibile dalla strada.»
«Chiamatemi Teresa, e anch’io vi chiamerò per nome. Non credo, Martin,
che sia impossibile per un avventuriero come voi salire fin lassù. Magari
verso mezzanotte, quando tutti dormono. Troverete le imposte spalancate e la
finestra aperta.»
In quel momento Teresa era più graziosa che mai. Giovinezza e vivacità
rimediavano alle imperfezioni del suo viso. Aveva occhi caldi, invitanti. Le
corolle di fiori le disegnavano addosso il vestito ideale.

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Martin si arrese. «D’accordo, verrò.»
«Sapevo che avreste fatto la scelta migliore» rispose Teresa prima di
sparire nel villino. Lasciò dietro di sé una scia di profumo, dovuta ai fiori ma
non solo.
Martin marciò verso i soldati, che continuavano a sogghignare piano.
Interpellò il più massiccio di loro. «A quale corpo appartenete?»
Quello rispose con riluttanza: «Siamo moschettieri al servizio del
marchese De Boury. E voi chi sareste, di grazia?».
«Mi chiamo D’Orlhac, luogotenente del generale De Pointis e capitano del
galeone Cristo.» Martin parlò con tutto il sussiego di cui era capace.
La dichiarazione non impressionò più di tanto. «Vestite in maniera un po’
troppo trasandata per essere chi pretendete. Vorrei vedere qualche
credenziale.»
«Eccola qua.» Martin frugò sotto la marsina. Ne trasse una navaja corsa,
che aprì con uno scatto del polso (un gesto che la Corte dei Miracoli gli
aveva reso familiare). Ne spinse la punta contro il ventre del moschettiere.
«Questo documento vi basta? Se volete, ve lo illustro più a fondo.»
Il grassone, che già sudava per conto suo, macchiò con i rivoli il collo
della camicia. I compagni intervennero. Uno di essi disse, mettendo una
mano sulla spalla del commilitone: «Lascia perdere, Gustave. Se non è un
ufficiale, è sicuramente uno dei tagliagole di Ducasse».
«Sono un ufficiale» ribatté duro Martin. «Come tale, vi ordino di
sorvegliare la casa, ma di evitare di molestare chi la abita e chiunque faccia
visita. Penso che le disposizioni di De Boury non fossero differenti.
Sbaglio?»
«No...» mormorò il moschettiere minacciato.
«Dunque eseguitele.» Martin chiuse il lungo coltello con la stessa abilità di
prima, lo ripose sotto la marsina e girò le spalle. Non aveva timore di essere
assalito da dietro. Conosceva i suoi polli: avevano un rispetto reverenziale
per l’autorità, comunque si manifestasse. Erano l’esatto contrario dei
filibustieri.
Ora doveva trovare il modo di passare il tempo, in una città svuotata di
taverne e di attrazioni, e di far venire notte. Si imbatté in Le Page presso le
mura. Il pirata era eccitatissimo.
«Quella carogna di De Pointis ha ammassato un vero tesoro! Milioni e
milioni di scudi! Io sto andando a riferire a Ducasse. Venite con me?»
«Mi fermo ancora. Ho un paio di faccende da sistemare.»
«Ci vediamo domani. Immagino già cosa dirà il capo. C’è un’unica via

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d’uscita: la guerra!»
Martin era distratto da pensieri di tutt’altro genere. Fece un cenno di saluto
e riprese a bighellonare.

136
28 - Trattative scabrose

Martin si sentiva ancora stanco e decise di tornare a letto. Non sarebbe stato
facile dormire: le esplosioni si susseguivano, una più fragorosa dell’altra.
Cercò Whelan ma non lo trovò. Contemplò lo spettacolo dalla finestra della
sua stanza, mentre si spogliava. Era truce e drammatico. Cartagena contava
venti fortilizi, tra maggiori e minori. Impressionava vederli volare a pezzi, per
poi emettere nubi mostruose di polvere e detriti. Calavano sulla città,
oscuravano il sole. Per fortuna, il vento debole non riusciva a trascinarle su
Hihimani, né sui velieri ormeggiati nella baia.
A dispetto del frastuono, Martin prese sonno. Non avrebbe saputo dire
quante ore dormì. Si svegliò che sembrava primo pomeriggio, a giudicare
dalla quantità di luce. Il calore era eccessivo persino per le mosche,
raggruppate sul contorno della bacinella vuota.
Dall’esterno giungevano delle grida. Martin scese al piano inferiore e si
affacciò sulla porta. Una folla di filibustieri, di negri, di bucanieri e di coloni
stava correndo verso le mura centrali, in preda a una sorta di entusiasmo
smodato. Vide Pierre e lo prese per il braccio.
«Cosa sta succedendo?»
«De Pointis ha ritirato i soldati dal ponte levatoio e ci ha dato il permesso
di entrare in città. Finalmente.»
«Dov’è Ducasse?»
«Ha rifiutato di muoversi. Chiedete a Le Page e a De Galiflet. Sono più
indietro.»
Martin rabbrividì al pensiero che una masnada furiosa, affamata e assetata
di bottino si stesse gettando su Cartagena. Che fine avrebbe fatto il villino
degli Jímeno? Fu tentato di unirsi alla calca, ma prima voleva saperne di più.
Le Page lo guardò divertito. «Ma guarda, c’è il seduttore! Arrivate in
tempo! Non sembra, ma io e lui» disse indicando De Galiflet, accaldato e
confuso «siamo una delegazione diplomatica. Mancava il terzo, ed eccovi
qua.»

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«Cosa c’è da trattare?»
«La solita questione. Quattrini. Ducasse è convinto che De Pointis ci apra
la porta perché ormai ha spogliato Cartagena di tutto. Inoltre pare che ci sia
una flotta inglese in avvicinamento. Vuole che discutiamo col furfante
l’eterna faccenda della parte che spetta a Saint-Domingue. Ecco l’incarico
conferito a noi due e al governatore di Boca Chica.»
«Chi sarebbe il governatore di Boca Chica?»
«Ma il nostro amico De Galiflet!» Le Page scoppiò in una delle sue risate.
«Non posso fare a meno di ammirare l’impudenza di De Pointis. La sera
nomina De Galiflet governatore di un rudere e la mattina dopo, senza
neanche preavvisarlo, fa saltare in aria gli ultimi due muri del forte rimasti in
piedi! C’è un certo stile, in tutto ciò!»
L’interessato non condivideva tanto divertimento. Triste e pallido di suo,
aveva aggiunto agli altri attributi un’aria profondamente avvilita.
«Andiamo ora!» esortò Le Page. «Tutti all’albero della cuccagna, per
vedere se è rimasta qualche scheggia di pignatta!»
L’impeto dei filibustieri si quietò non appena varcato il baluardo della
Media Luna. Le case erano involucri aperti e vuoti, la sporcizia si
accumulava, nelle vie c’erano cadaveri coperti di mosche. Scorrevano
liquami, le carcasse dei cavalli erano state spolpate. Agli occhi di gente
superstiziosa, Cartagena sembrava colpita da una maledizione. I forti che
fumavano completavano il quadro sinistro, degno di uno dei trionfi della
morte presenti in tante chiese.
Chi non si lasciò impressionare fu Le Page. «Perdio» esclamò «sembra
che di qui siano passati i Fratelli della Costa. Invece arriviamo solo adesso.»
Fece strada fino alla Contaduría, protetta dalle truppe rimanenti. Attorno
non si vedevano né un uomo né un animale. Solo mucchi di immondizia,
salme canine o feline e una quantità di topi. Il puzzo dava il voltastomaco.
Una campanella regolava l’accesso dei soldati a un barile d’acqua. Chiunque
fosse in possesso di una gamella o di un altro contenitore aveva diritto a un
mestolo ogni sei ore.
De Pointis era nell’atrio dell’edificio, trafelato. Impartiva agli ufficiali
ordini convulsi. Si calmò quando vide la delegazione. Assunse un tono
gentile, e salutò con grazia.
«Signori, e voi, governatore di Boca Chica, cosa posso fare per servirvi?»
Fu Le Page a rispondere. «Generale, vi siamo grati per avere consentito
l’accesso in città alla Filibusta e ai suoi alleati. Purtroppo Cartagena sembra

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un guscio vuoto. Ducasse vorrebbe dare un’occhiata all’entità del bottino.
Tanto per rassicurare i suoi sulle quote di loro spettanza.»
De Pointis allargò le braccia, senza smettere di sorridere nella maniera più
cordiale. «Lo vorrei anch’io. Ahimè, non c’è tempo. Stanno arrivando gli
inglesi. Ducasse stesso mi ha informato. Dunque bisogna imbarcarsi e
allontanarsi in fretta. Sto dando ordini in questo senso.»
«E la ripartizione?»
«La faremo al largo, ora non ce n’è modo. Rassicuratevi. Rispetterò i patti,
e sarà equa.» De Pointis rifletté. «Oggi è il 25 maggio. Diciamo che ci
rivedremo fra tre giorni a bordo del Pontchartrain, per calcolare le quote di
spettanza.»
«Non so se Ducasse sarà tanto contento, generale. Ha il suo da fare per
tenere a bada gli equipaggi di cui è responsabile.»
Il barone sorrise. «Ci riuscirà certamente. Per aiutarlo nel compito, ho già
preparato per lui e per i capi della Filibusta dei regalini, che stanno per essere
recapitati. Sono somme di denaro, gioielli, oggetti d’oro fino. Abbastanza per
assicurare a un valoroso una vecchiaia agiata. Ce n’è anche per voi, Le Page,
e per voi, De Galiflet. Quanto a voi, D’Orlhac, sarete premiato a parte.» Fece
l’occhiolino. «Un regalo ve l’ho già fatto. Ho rafforzato la guardia sulla
sicurezza di una persona che vi sta a cuore. È meglio che andiate a salutarla,
prima di partire.»
Le Page cercò di tornare alla carica. «Generale, qui non è questione di
singoli capitani. Si tratta non dei capi, ma degli equipaggi.»
«Ve l’ho già detto. Fra tre giorni sul Pontchartrain.» I modi di De Pointis,
da cortesi che erano, si fecero soavi. «Ora, signori, vi prego di scusarmi. Sto
procedendo all’imbarco e ho poco tempo. Conviene che anche voi vi
affrettiate. Guai se i nemici ci sorprendessero chiusi nella baia.»
Il timido De Galiflet, a sorpresa, parlò con decisione, a testa alta.
«Un’ultima parola, generale. Lasciatemi un corpo di granatieri, un centinaio
di filibustieri, qualche artigliere e un po’ di cannoni. Dopo la vostra partenza,
potrei tentare di impedire lo sbarco degli inglesi. Tenere le loro navi lontane
dagli approdi.»
«Proposta generosa, da parte vostra, governatore.» De Pointis non
aggiunse “delle rovine”, ma un lampo di ironia nel suo sguardo rese chiaro
che lo pensava. «I forti sono però distrutti, i bastioni anche. Metà degli
effettivi dell’esercito soffre di vomito nero o è già morto. La maggior parte
dei cannoni è stata portata a bordo, gli altri gettati in mare... No, è tempo che
partiamo tutti quanti. Arrivederci, e portate i miei saluti al signor Ducasse.»

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Mentre il terzetto si allontanava dalla Contaduría, Le Page borbottava
imprecazioni. Disse poi, ad alta voce: «De Pointis non è stupido. Forse lo è
troppo poco. Solo che rimane un inguaribile aristocratico. Non capisce nulla
delle regole della Filibusta. Crede che coprire d’oro i capitani basti a
addomesticare questi e le ciurme. Per lui è impensabile concepire come, da
noi, un capo sia un rappresentante, designato per voto e dunque vincolato ai
suoi uomini».
«Come la prenderà Ducasse?» chiese De Galiflet.
«Molto male, credo. Specie se nel frattempo avrà ricevuto il “regalino”
promesso dal gallinaccio.»
Le vie di Cartagena si stavano riempiendo di filibustieri e coloni.
Entravano di forza in case già spogliate, tentavano di rubare qualche oggetto
di valore dimenticato, vessavano famiglie che si credevano al sicuro per
avere già dato tutto. L’orda schiamazzava, cercava vino, dava fuoco alle
abitazioni per puro divertimento. Non trovando ricchezze, puntava agli
schiavi. Li rapiva e li incatenava con i modi più brutali. In qualche caso li
torturava perché dicessero dove i padroni nascondevano l’oro. Stessa sorte
subivano preti e frati. Un disgraziato gesuita subì un trattamento tipico:
impiccato a un ramo per i genitali e fatto oscillare. Quando lo rimisero a
terra, era mezzo castrato. Urlava come se stesse per perdere la ragione.
Martin notò che i pirati si tenevano alla larga dalle vittime giallastre della
febbre del Siam, ammonticchiate qua e là. Ciò gli diede speranza. La casa di
Teresa si trovava presso il lazzaretto all’aperto gestito da Exquemeling. Per
raggiungerla, i filibustieri avrebbero dovuto scavalcare i morti e i morenti che
temevano tanto.
«Ci vediamo più tardi» disse a Le Page.
«D’accordo» rispose il capitano del Mutine. «Questa follia durerà poco. È
come se vi metteste un tappo nel culo e tratteneste la cacca per dieci giorni.
Dopo uscirà a fiotti. Ma se la flotta inglese è vicina, tra breve inizierà il
reimbarco. Forse prima di sera. Anche se c’è qualcosa di strano.»
«Che cosa?»
«Abbiamo sentinelle lungo tutta la costa. Nessuna ci ha segnalato navi in
avvicinamento... Ciò non vuol dire che non esistano. Se tardano, ci lasciano
tutto il tempo per salpare.»
Martin si avviò verso il villino degli Jímeno. Nella piazza dei malati scoprì
che i defunti, disposti a cumuli, erano più numerosi dei vivi. Riuscì a
scambiare due parole con un Exquemeling esasperato, stravolto e imbrattato
di sangue e di vomito.

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«Non ce la faccio più» si lamentò il dottore. «Non ho aiuti, cibo, acqua.
Niente. Poco fa è arrivato l’ordine di imbarcare i sopravvissuti, ma nessuna
barella. Sono giorni che dormo solo qualche ora, quando posso.»
«Le barelle arriveranno» assicurò Martin.
«Vi credo. Meglio, ci conto. Chi se la passa peggio sono i malati spagnoli
ricoverati in ospedale. È ormai da tempo che non toccano cibo.» Sospirò.
«Ho passato una vita con i più famigerati farabutti: L’Olonnais, Morgan,
Lorencillo. Mai una città conquistata è stata trattata a questo modo. Mai. Ci
voleva l’esercito di Luigi XIV per combinare di peggio.»
Martin gli toccò un braccio in segno di solidarietà e corse via. La strada
che gli premeva era come l’aveva lasciata. Non c’era traccia di corpo di
guardia. De Pointis gli aveva mentito, tanto per cambiare.
All’ingresso, sotto il portico, sonnecchiava però padre Le Pers. Le
ginocchia aperte, un moschetto fra le pieghe della tonaca. Nell’udire un
rumore sommesso balzò in piedi e alzò il cane. Subito dopo si rilassò e
appoggiò il calcio dell’arma sull’impiantito di travi. Disse cordiale:
«D’Orlhac, amico mio! Speravamo che arrivaste! Chi crede inutile la
preghiera non sa ciò che dice... Accomodatevi. Doña Teresa Jímeno ha
appena preparato il tè del pomeriggio. Abbiamo persino qualche biscotto».

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27 - Come un ladro di notte

La luna era alta. Ridotta a uno spicchio, ma luminosa. L’abitazione di don


Jímeno si riconosceva per qualche lume acceso, nel deserto della strada. Da
lontano giungeva l’eco di risate, imprecazioni, grida soprattutto femminili,
bestemmie. Ardevano i fuochi di capanne date alle fiamme, e il fumo
offuscava a tratti il cielo. L’esercito francese si stava abbandonando ai piaceri
dopo una giornata di noia.
Martin spiò i moschettieri – non gli stessi del pomeriggio: c’era stato un
cambio – e li vide addormentati. Scavalcò i cancelli del giardinetto, atterrò in
un cespuglio di rose, si districò dalle spine e si guardò attorno. Una colonna
del portico, sconnessa, consentiva una scalata. Non era sicuro di avere le
forze di un tempo, ma non restava che provare. Fece leva, con gambe e
braccia, sui mattoni sporgenti. Arrivò al tetto in laterizio del porticato. Sostò
per riprendere fiato. La finestra a cui puntava aveva le imposte aperte, ma
nessun lume all’interno, salvo il lucore lieve di una candela.
Strisciò fin lì sui coppi, cercando di non fare rumore. Dopo un altro
momento di riposo, sedette sul parapetto e saltò all’interno.
«Oh, voi!» esclamò Teresa. Lo stupore era simulato.
«Proprio io. Ho accolto il vostro invito. Eccomi qui.»
«Parlate piano!» Teresa era sdraiata sul letto e indossava una camicia da
notte. La luce dell’unica candela non permetteva di vedere molto. Restava il
fascino delle sue movenze da gattina. Si mise a sedere sull’orlo del giaciglio e
additò una seggiola. «Mettetevi lì e tenete le distanze. Ho simpatia per voi, ma
ancora non vi conosco. Cos’altro siete, a parte un invasore?»
Martin era ancora affannato, benché l’eccitazione vincesse la stanchezza.
Avvertiva nella stanza molti profumi: forse reali, forse immaginari. «Chi sono
non lo so nemmeno io» ammise con totale sincerità. «Ho avuto una
giovinezza turbolenta. L’esercito mi ha dato degli scopi, che coincidono con
quelli della mia patria. Non ho altre vite, a parte questa, e nessuna
ambizione.»

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«Fatico a sentirvi. Accostatevi un poco. Ma continuate a tenere la voce
bassa, mi raccomando.»
Martin obbedì e spostò la sedia. La conseguenza obbligata fu che venne
ancor più trascinato nell’aura incantata della donna. I profumi furono
sostituiti da umori dall’aroma acuto, misteriosi e più attraenti.
«Signor Martin d’Orlhac, voi mi piacete molto.»
«Il sentimento è condiviso.»
«Per questo devo mettervi in guardia, Martin, a protezione della vostra
vita. Il barone De Pointis conta sui ritardi e sugli equivoci della flotta
spagnola, e ha ragione. Gli inglesi hanno però saputo della presa di Cartagena
e mandato da Barbados una squadra navale imponente, al comando
dell’ammiraglio John Neville. Venticinque navi almeno. Sono appoggiati
anche dagli olandesi. Saranno qui entro pochi giorni.»
Era una notizia importantissima, da comunicare immediatamente sia a De
Pointis sia a Ducasse. Martin, in quel momento, non ne aveva molta voglia.
Si chinò verso la donna. «Teresa, provo un sentimento profondo nei vostri
confronti. Non lo so descrivere bene. Certo, stare con voi mi rende felice.»
Allungò le mani, come per prendere quelle di lei.
Teresa fece lo stesso, ma poi le ritrasse. Le portò sotto le ascelle. «Non
avete sentito un rumore per le scale?»
«Non ho udito nulla.»
«Uno scricchiolio che conosco fin troppo bene. Dev’essere mio marito che
sale. Andatevene! Andatevene subito!»
Martin non si rassegnò a quella situazione da commedia. «Sono armato di
tutto punto. Don Sancho non mi fa paura. È lui che mi deve temere: ho
trent’anni di meno.»
«Vi proibisco di fare del male a quell’uomo.» Teresa giunse le mani. «Vi
prego, andatevene. Non potrei mai amare l’assassino del mio consorte. La
strada per raggiungermi ormai la conoscete. Non sarà il nostro ultimo
incontro.»
Martin, mezzo sollevato dalla sedia, disse: «Teresa, mi parlate di amore.
Datemi un bacio, almeno. Dopo me ne andrò».
La giovane si era alzata a sua volta. Martin le afferrò il mento e premette le
labbra su quelle di lei. Fu il bacio più rapido e più casto della storia dei baci.
Subito dopo Teresa esclamò: «Presto, presto! Sta venendo proprio qua!».
Martin raggiunse la finestra e si mise a cavalcioni. «Tornerò presto» disse.
«Il fatto è che vi amo, Teresa.»
«Anch’io vi amo.»

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Quelle parole diedero a Martin l’energia dei suoi vent’anni. Scivolò lungo
le tegole e si lasciò cadere nel giardino. Lì si acquattò. Nessun pericolo.
Scavalcò la cancellata e si allontanò indisturbato. Cartagena dormiva dopo
l’ennesima notte di umiliazioni.
Martin, ancora un po’ confuso però felice, pensò al da farsi. Era stanco,
ma in città non avrebbe saputo dove riposare. Si incamminò verso le mura
nell’ombra, evitando di incrociare gruppi di soldati schiamazzanti. La porta
era presidiata, suppose per controllare più chi entrava che chi usciva. Aveva
supposto giusto. Una voce assonnata gli domandò: «Chi siete? Dove
andate?».
«Sono un vostro superiore. Vado a Hihimani. Non tornerò indietro.»
Non vi fu risposta. Varcato il ponte levatoio riparato alla meglio, Martin
scoprì che il sobborgo era un modello di ordine rispetto alla Cartagena che
bruciava, fumava e moriva di vomito nero alle sue spalle. Per le strade non
c’era nessuno. Visto che sarebbe stato assurdo disturbare Ducasse a quell’ora,
cercò la casa che aveva condiviso con Whelan. La porta era spalancata,
l’irlandese russava sonoramente. Martin cercò il letto, si liberò di armi e
stivali e vi si adagiò. La luna forniva la luce necessaria. La stanza sembrava
libera da zanzare, forse attratte a sciami dagli incendi lontani.
Non si addormentò subito, tormentato da un quesito che l’ora tarda
amplificava. Lui era un agente di De Pointis. Questo dato e la presenza di
Teresa lo avrebbero dovuto spingere, fin dall’indomani, verso il centro
cittadino. Vi si opponeva il fatto che modi di vita e costumi dei filibustieri lo
attraevano enormemente. Gli ricordavano i tempi in cui, spavaldo, vestiva di
stracci a cavalcioni del ponte dello Châtelet, in attesa del passaggio di un
gentiluomo dalla borsa indifesa. Anche allora le decisioni erano assembleari,
e nemmeno l’autorità del Grand Coësre poteva contrastare la volontà
collettiva. In seguito, la sua vita nell’esercito gli aveva imposto un cammino
contrario. Le poche parole scambiate con Teresa avevano illuminato più lui
che lei. La carriera militare, invece di dargli una nuova identità, gli aveva
tolto l’unica che aveva. Ne valeva la pena, dopo avere scoperto un’intera
comunità capace di vivere secondo i valori della sua giovinezza?
C’era però Teresa di mezzo. Martin di donne ne aveva frequentate tante; di
alcune si era anche quasi innamorato. Nessuna lo aveva però attratto quanto
lei. Merito, probabilmente, dell’effervescenza e dell’anticonformismo di cui
dava prova. La sentiva come appartenente alla sua stessa razza. L’avrebbe
protetta. L’avrebbe rubata, emancipandola dalle costrizioni assurde a cui lui,
e forse anche lei, cominciava a ribellarsi.

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Prima di dormire gli tornò alla mente una citazione biblica udita durante
una qualche predica. La salvezza del Signore sarebbe arrivata, in mezzo alle
rovine del vecchio mondo, “come un ladro di notte”. Lui non era certo il
Signore, ma era – o era stato – un ladro. Avrebbe salvato se stesso e colei che
amava, prospettando un avvenire migliore e non costrittivo per entrambi.
I pensieri si fecero confusi, e a quel punto si addormentò sul serio.
Fu svegliato da Whelan, che lo scuoteva. Si liberò dal sonno, molto
profondo, con difficoltà. Lembi di sogni vividi gli offuscavano la mente
mentre chiedeva: «Che cosa succede?».
«Ducasse ti attende dabbasso. Anche ieri è venuto a cercarti.»
«Tra un attimo sarò da lui.»
Non c’era acqua per lavarsi, se non un poco sul fondo di una bacinella.
Martin la usò, malgrado il velo di polvere che la inquinava. Indossò stivali e
cappello, prese le armi e scese.
Il governatore lo attendeva al piano inferiore, in un salotto sgombro di
ogni mobile o suppellettile. Restavano due divani logori e bruciacchiati. Il
corpo massiccio di Ducasse ne occupava uno per intero. Invitò Martin a
sedersi sull’altro.
«Le Page mi ha detto perché siete rimasto a Cartagena stanotte. Spero che
abbiate avuto le vostre soddisfazioni.»
«Abbastanza, signore.»
«Ecco perché vi vedo rilassato.» Ducasse fece un sogghigno, che spense
subito. «Necessito di una conferma. Secondo Le Page, il bottino di De Pointis
sarebbe favoloso. Almeno quindici milioni di scudi. Esagera?»
Martin ritenne inutile mentire. «No. Semmai è in difetto. Il calcolo è
difficile perché, a parte il denaro liquido, ci sono gioielli e argenterie. Stanno
ancora caricandone le navi del re. Non so se potremo davvero portare in
Francia una simile fortuna.»
«Perché?»
«Una flotta inglese, partita da Barbados, è in avvicinamento. Circa
venticinque navi da guerra, inclusi alcuni galeoni olandesi. Noi francesi, con
gli equipaggi dimezzati dalla febbre del Siam, non potremmo affrontarla.»
Ducasse ebbe un soprassalto. «Ne siete certo?»
«La mia fonte è sicura.»
«Avete avvertito De Pointis?»
«Non ancora.»
«Ci penserò io. Gli mando subito un messaggero.» Ducasse si alzò e
passeggiò nervoso per la stanza. «Voi non avete idea di quanto sta accadendo

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qui. Mentre voi passavate il tempo a coltivare amorazzi, io dovevo
fronteggiare una mezza ribellione. De Pointis si è burlato troppo a lungo della
Filibusta. Ora una parte dei capi, con Godefroy alla testa, vorrebbe che
prendessimo d’assalto i corpi di guardia che ci trattengono all’esterno. Che
dei francesi facessero guerra ad altri francesi. Che ne dite?»
«Sarebbe un suicidio» mormorò Martin. «Tutti i cannoni sono concentrati
nel centro della città. I forti sono sotto il controllo dell’esercito.»
«È il vostro generale che mi ha messo in questa situazione pazzesca. Potrei
tenere a freno gli scalmanati se avessi del denaro da promettere. Purtroppo
non ne ho, perché quell’idiota...»
Ducasse fu interrotto da una sequela di esplosioni potentissime, che,
malgrado l’evidente distanza, fecero tremare i muri. Corse a una finestra.
Martin lo imitò.
Vi furono altri fragori. Ducasse fece una smorfia. «I forti, dicevate? De
Pointis li sta facendo saltare uno dopo l’altro!»
«Era logico che lo facesse.»
«Sì, ma se ci piomba addosso la flotta inglese, noi siamo quasi senza
difesa.» Corse alla porta. «Bisogna che io informi subito l’imbecille delle
notizie che mi avete dato. Altrimenti Cartagena rischia di diventare la nostra
tomba!»
«Un po’ lo è già» disse Martin, pensando alle file di cadaveri allineati.
Ducasse era ormai lontano e non poté udirlo.

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29 - Ultime effusioni

Fu il tè più triste a cui Martin avesse preso parte. Don Sancho Jímeno era
cupo, e anche Le Pers non sprizzava allegria. Padre Lucero, poi, aveva un
colorito cadaverico e un umore adeguato alla tinta. Solo Teresa, la quale
dirigeva il traffico delle schiave che portavano tazze e vassoi, manteneva una
certa vivacità. Molto più fievole di quella che Martin ricordava e che lo aveva
sedotto.
Don Sancho spiegò i motivi di quella malinconia, del resto facilmente
intuibili. «Vedete, signor D’Orlhac» disse mentre versava nella sua bevanda
una punta di zucchero e la rigirava «fino a un mese fa abitavo in una colonia
prospera e fiorente, che commerciava con l’Europa e con il resto
dell’America spagnola. Le strade erano ordinate, le case pulite, anche le più
povere. La popolazione era gentile, la nobiltà ospitale, il clero generoso. Di
questo non rimangono che rovine fumanti, carogne d’animale, castelli
distrutti, morbi inguaribili. Tutto è diventato marcio, infetto. Le vie sono
affollate di predoni ubriachi che biascicano oscenità e bestemmie.»
«Siete uscito di casa?» chiese Martin.
«No, ma è sufficiente affacciarsi alla finestra per scorgere spettacoli
raccapriccianti, o udirne gli echi. Il sangue sparso è tanto che ha inquinato
persino il pozzo di questa abitazione. Basta calarvi un secchio e lo si solleva
colmo di melma dalle striature rossastre.»
Martin guardò con sospetto il proprio tè. «Che acqua usate, dunque?»
«Avevamo dei barili in cantina, anche se ormai sono agli sgoccioli...
Signor D’Orlhac, la Francia ha violato ogni regola civile di condotta bellica.
Invece di ferire la Spagna, le ha inferto una piaga purulenta che ci metterà
secoli a rimarginarsi. La causa è l’uso che fa di briganti del mare, delinquenti,
assassini puri. Reclutati chissà dove e spediti qua a sfogare le loro voglie
bestiali.»
Martin stava per replicare, ma Le Pers lo anticipò. «Se intendete i
filibustieri, don Sancho, non credo che siano la causa dei vostri guai.

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Saranno piuttosto all’origine di quelli a venire. A meno che non piombi qui
la flotta inglese.»
«Quale flotta inglese? Ecco una novità. Confortante, peraltro.»
Martin si era astratto dalla conversazione per seguire i movimenti sinuosi
di Teresa. Attendeva il momento giusto. La vide vacillare sotto il peso di un
vassoio, con cuccuma e tazze vuote, che una schiava le aveva porto.
Subito si alzò e le strappò il carico dalle mani. «Permettetemi di aiutarvi.»
«Ci sono le negre per questo, signore.»
«Per l’occasione farò da negro anch’io. Guidatemi in cucina.»
Lei gli fece strada. Lui abbandonò il vassoio sulla lunga caldaia in pietra
che serviva da fornello e da lavatoio. L’afferrò per le braccia.
«Morivo dalla voglia di rivedervi, Teresa!»
«Non qui! Non qui!» si schermì la donna. «Un servo può entrare da un
momento all’altro.»
«Dove, allora? Noi stiamo per ripartire.»
«Davvero? Ripartite?»
«Sì, ed è merito vostro. Ci avete avvisato della flotta nemica che sta
arrivando. Non ne sapevamo nulla. Anche vostro marito sembra non esserne
al corrente.»
«Potrebbe fingere» disse Teresa con una smorfietta di disprezzo. Sollevò il
mento e guardò Martin con occhi audaci. «Dunque mi lasciate. Perché non
mi portate con voi?»
«Sapete benissimo che non sono ammesse donne a bordo. Né sulle navi
da guerra francesi né su quelle spagnole. Vale anche per i vascelli dei
filibustieri, a meno che non si tratti di prigioniere per cui chiedere un riscatto,
o di semplici schiave... Comunque vi prometto che tornerò e vi libererò da
vostro marito. Voglio però portare con me un ricordo.»
«Quale?»
«Un bacio.»
Teresa guardò rapida verso l’uscio, poi afferrò il viso di Martin. Premette
in fretta le labbra su quelle di lui e lo carezzò col corpo, in un movimento
morbido. Subito si distaccò.
«È tempo che torniamo nel salotto, o qualcuno verrà a vedere cosa stiamo
facendo.» Rassettò la veste. «Quello che avete avuto è solo un anticipo di ciò
che riceverete al nostro prossimo incontro. Sempre che io sia ancora viva.»
«Potete starne sicura.»
«Bene. Mi fido di voi.»
Nel salotto l’atmosfera era rimasta la stessa. Torbida, tesa. Martin sedette

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sul divano, ma non aveva la minima voglia di partecipare alle conversazioni.
Lucero sosteneva che la ferocia dei francesi era dovuta alla presenza, nei loro
ranghi, di tanti ugonotti, soprattutto fra i coloni. A cominciare da Ducasse in
persona. Le Pers negava e assicurava che la maggioranza era composta di
buoni cattolici. Ogni violazione andava attribuita al solo De Pointis, che
aveva finito per credersi il re in persona.
Quando fu servito dell’altro tè, Martin lo rifiutò. Voleva conservare sulle
labbra il sapore che già aveva, premessa a ben altri piaceri. Se ne stette in
silenzio finché uno schiavetto, quello stesso che aveva accompagnato il
convoglio che lasciava Barú, apparve sulla soglia.
«Signor Martin d’Orlhac, un nobile chiede di voi. È accompagnato da
molti soldati.»
Martin trasalì. «Ha detto il suo nome?»
«Sì. È il signor De la Motte d’Héran. Vuole parlarvi.»
Martin si alzò di malavoglia. Chiese scusa ai presenti. «Perdonatemi, vado
a sentire di cosa si tratta.» Lo inquietò il fatto che in tanti sapessero dove si
trovava.
De la Motte era a cavallo davanti alla soglia, scortato da una ventina di
moschettieri. Tolse il cappello in segno di saluto e se lo rimise in testa.
«Signor D’Orlhac, vi prego di seguirmi. Immediatamente.»
Martin balbettò: «Sono in arresto?».
L’altro si mostrò sconcertato. «In arresto? E perché?... No, il generale De
Pointis ha convocato un consiglio di guerra urgente. Desidera la vostra
presenza. Vi ho procurato un cavallo. Uno dei pochi che i nativi non abbiano
mangiato.»
«Saluto i padroni di casa e vi seguo.»
«Li saluterete più tardi. Ora non c’è tempo. Montate in sella e venite con
me.»
Non restava che obbedire. Martin salì su una cavalcatura che un
moschettiere gli porgeva. Infilate le staffe e afferrate le briglie, guardò verso
la casa che stava abbandonando. Teresa era alla finestra della sua stanza, al
secondo piano. Le rivolse un cenno di saluto. Non poté vedere se lei
rispondesse.
La pattuglia, con i cavalli al passo e i moschettieri dietro, traversò un
lembo di geenna che il sole al tramonto rendeva, a un tempo, più vivido e più
livido. Le baracche bruciavano in gran numero, certe stradine somigliavano a
cloache a cielo aperto. Le mosche erano nugoli e presto avrebbero ceduto il
posto alle zanzare. I filibustieri si erano associati ai soldati regolari nelle

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fortunose libagioni. Non c’erano violenze sulle donne: ne mancavano le
forze, a quell’ora. Però un borghese strillava appeso a un albero. Gli avevano
rivestito i piedi di paglia, per poi darle fuoco. Giurava di avere consegnato
ogni suo avere. Magari i presenti – pirati e granatieri – gli credevano. Il fatto
è che apprezzavano lo spettacolo in sé.
Il consiglio di guerra di De Pointis si svolgeva al piano terreno della
Contaduría. Nessun pirata era presente. Il generale parlava con nervosismo,
senza il fare cortese che gli era abituale. Lo attorniavano gentiluomini gonfi
nelle loro marsine e palandrane, madidi di sudore sotto i cappelli amplissimi
calcati sulle parrucche. Martin riconobbe il signor De Lévy, il capitano
Maffiat (che comandava il Mutine, da non confondersi con l’omonimo
brigantino della Filibusta agli ordini di Le Page), Du Buisson, De Sorel e altri
ancora. Alcuni avevano un aspetto malaticcio, come il sottotenente
d’artiglieria De Marville, intabarrato a dispetto del calore.
«Signori, si parte» disse De Pointis. «Lo consigliano varie circostanze.
Oro, argento, denaro e merci pregiate sono a bordo. Pare che inglesi e
olandesi siano in avvicinamento, anche se nessuno dei nostri posti di
osservazione ne ha ancora rilevato la presenza. A causa delle malattie
abbiamo perso ben ottocento effettivi, e urge portare a bordo i malati per
sottrarli agli insetti e all’aria malsana. Ma c’è un quarto motivo,
determinante.»
De Pointis fece una pausa per dare maggiore espressività a ciò che stava
per dire. Guardò fisso Martin, come se, per ragioni misteriose, fosse il diretto
interessato.
«Ciò che accade in questo stesso istante in città è inammissibile.
Intollerabile. Ne va dello stesso onore dell’esercito francese. I filibustieri,
vera plebaglia, si danno al saccheggio e alle peggiori atrocità. Con tanti
malati, non sono in grado di fermarli. Chi potrebbe farlo, Ducasse, non vuole
parlarmi e preferisce spedirmi inutili delegazioni, con incarichi
esclusivamente contabili. Non è interessato all’onore, bensì alla vile moneta.
Stando così le cose, conviene prendere il largo, nella speranza che i predoni
ci seguano. In ogni caso, non possiamo permettere che la gloria di re Luigi
sia contaminata dal banditismo di un’orda di furfanti.»
Martin fu turbato dalla portata della menzogna e dalla disinvoltura con cui
fu enunciata. Era vero, gli uomini di Ducasse si stavano comportando da
barbari, come era nel loro costume. Ma non erano stati loro ad avviare il
sacco di Cartagena, a torturarne per primi gli abitanti, a violare in ogni modo
una delle più belle colonie che la Spagna avesse in quei mari. Tenerli isolati

150
per due settimane, perché non potessero verificare bottino e compensi,
poteva solo incattivirli. Sembrava un calcolo premeditato per spostare ogni
responsabilità sulla componente meno nobile della spedizione.
Il viceammiraglio De Lévy osservò: «Generale, l’imbarco non sarà così
veloce. Il solo trasbordo dei malati richiederà tempo. E così il riassetto dei
plotoni decimati, il trasporto degli schiavi, le manovre per salpare».
«Si cominci stasera stessa e si continui senza interruzione. Domani al
tramonto voglio che siamo lontani dalla baia.» A quel punto De Pointis si
rivolse a Martin. «Signor D’Orlhac, siete ancora il capitano del galeone
Cristo. Raggiungete immediatamente la vostra nave, riprendetene il
comando, radunate i vostri uomini o cercatene di nuovi. Tuttavia non
seguirete il Sceptre, il Vermandois e gli altri miei velieri. Navigherete con la
Filibusta e con le loro barchette. Mi informerete delle loro intenzioni quando,
fra tre giorni, ci rivedremo sul Pontchartrain. È chiaro?»
«Sì, generale. Domattina mi imbarcherò sul galeone.»
«Non domattina. Adesso.»
«Sarà fatto.»
Avvilito, Martin capì che non avrebbe potuto incontrare di nuovo Teresa.
Ciò lo fece soffrire enormemente. Comprese anche che la missione di
spionaggio che svolgeva per conto di De Pointis lo collocava in una
posizione poco sostenibile. Metà corsaro, metà ufficiale. Col risultato che sia
i filibustieri sia gli ufficiali di sua maestà diffidavano di lui.

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30 - Si prende il largo

La sera si profilava calma. Il cielo, privo di nuvole, prometteva luna e stelle,


già visibili oltre la penombra. Il galeone, all’ancora, aveva tutte le vele
arrotolate e oscillava piano.
Martin abbandonò con agilità la scialuppa e salì la scaletta, poi si issò
nell’apertura della battagliola.
Trovò ad aspettarlo, sul ponte del Cristo, il primo ufficiale Philippe
Callois. Un po’ assonnato, ma come sempre irreprensibile. Questi disse, con
la sua voce roca che tradiva l’età: «Quando mi hanno avvisato che una
scialuppa si accostava, ho pensato che foste voi. Dopo il vostro sbarco non
abbiamo avuto altri capitani. Poi, all’improvviso, è arrivato l’ordine di
prepararci alla partenza. Senza comandanti? No di sicuro. Ero certo che vi
avrei rivisto».
«Non siete sceso a terra?»
«Solo i primi giorni. Quando ho visto che ci avevano confinati in un
sobborgo, ho preferito tornare sulla nave.»
«Quanti uomini abbiamo d’equipaggio?»
«Dieci appena. Troppo pochi. Vanno e vengono, ma finora non avevo
motivo per trattenerli. Adesso che si salpa, qualcun altro arriverà.»
Martin fece mentalmente un po’ di conti. «Ci occorrono in fretta almeno
altre venti persone, che recluterete voi stesso. Conoscete un filibustiere di
nome Patrick Whelan?»
Callois rifletté. «Credo di sì. È imbarcato con Galet. Un ex schiavo
irlandese, mi pare.»
«Ex schiavo?»
«Sì. Non vi ha raccontato la sua storia? Gli inglesi hanno schiavi bianchi
pescati in Irlanda. Sono più ricercati dei negri, perché costano meno. Le
donne, soprattutto. Il guaio è che muoiono con facilità, la metà durante la
traversata.»
Martin alzò le spalle. «Mi farò raccontare questa vicenda. Voglio Whelan

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sul Cristo. Sarà il secondo ufficiale.»
«Come desiderate.»
«Inoltre ci serve un nostromo. Vorrei François le Bon.»
Callois sollevò un sopracciglio. «È piuttosto vecchio. Sul Pontchartrain
serve più che altro come ornamento e testimonianza dei tempi che furono.»
«Ha una grande esperienza. Il resto dell’equipaggio lo deciderete voi. La
mia scialuppa è ancora sotto la fiancata. Arriverete a Cartagena prima che la
notte scenda del tutto. Cercate una taverna...»
«Non ci sono taverne aperte, a quanto ne so.»
«Adesso sì, dopo lo sbarco dei filibustieri. Scegliete gente valida, senza
tracce di malattia. Non ho particolari compensi da promettere, a parte il
bottino finale, se e quando sarà ripartito. Sappiano che avranno un buon
trattamento. Resteremo alla fonda fino all’alba.»
«Ai vostri ordini, capitano.» Callois strizzò l’occhio destro. «Vi si direbbe
in mare da vent’anni. Parlate il linguaggio dei Fratelli della Costa.»
«Un tempo appartenevo a qualcosa di molto simile.»
Partito Callois, Martin, rimasto solo, appoggiò il dorso alla chiesuola della
bussola. Osservò la nave, servita da un pugno d’uomini impegnati a prua.
Non avrebbe saputo dire se l’ambiente – non nuovo, ma ora visto con occhi
di capitano – gli piaceva o no. Dall’interno, il galeone appariva imponente,
per dimensioni e alberatura. Davano fastidio l’odore costante di pesce
marcio, che sovrastava quello dei flutti, la sporcizia e lo stridere delle
mandibole dei parassiti che addentavano la chiglia da ogni lato.
Una volta al largo, il Cristo avrebbe perso la sua maestà, smarrito
nell’oceano come un guscio di noce in una vasca ed esposto a tutte le
intemperie, capaci di schiaffeggiarne la velatura e di ribaltarlo. Restava il
fascino del mare, ora calmo e noiosissimo, ora furente e capace di inviare
verso chi lo violava ondate schiumanti, più alte delle fiancate. In
un’alternanza di colori: blu terso, azzurro, rossastro, quasi nero. I filibustieri
detestavano la volubilità dell’elemento che attraversavano. Erano gente di
terra, sostanzialmente. Martin non riusciva a condividere quell’antipatia.
Lasciò la guardiola e penetrò nel quadrato, alla ricerca della sua stanza. Si
gettò sul letto in camicia e pantaloni. Il sonno non giunse rapido. Pensò a
Teresa, che chissà quando avrebbe rivisto. Ma anche riprendere il comando
di un’imbarcazione così ampia era una preoccupazione che lo innervosiva.
Infine la stanchezza ebbe la meglio sulle sue inquietudini.
Lo risvegliarono voci provenienti dal ponte e un rumore di passi. In una
mattinata lucente, in cui il sole era appena sorto e soffiava un filo di vento

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fresco, Callois era tornato e stava facendo salire la ciurma reclutata.
Risultarono essere quarantadue uomini: più di quanti Martin si attendesse.
Andò a salutare Whelan e Le Bon.
«Sapete dei vostri nuovi incarichi?»
L’irlandese sorrise. «Callois ci ha informati. Secondo ufficiale. Non me lo
sarei mai aspettato.»
Anche Le Bon era allegro. «Ottima scelta, capitano. Mi ero ormai
rassegnato a essere utile quanto la polena. È bello scoprire che qualcuno
capisce l’importanza di un nostromo, per dare la sferza a quei poltroni di
marinai. Alla mia età mi manca tutto, ma non l’esperienza. Ed è quella che
conta.»
Callois si intromise. «Capitano, le navi di De Pointis sono già in
movimento. È ora di cominciare i preparativi per salpare. Ci vorranno molte
ore, ma prima di sera, se il vento ci è favorevole, saremo fuori dalla baia.»
«Bene» disse Martin. «Primo ufficiale, ordinate agli uomini di sistemare le
loro cose nella camerata, poi di tornare in coperta. Abbiamo degli artiglieri?»
«Sei appena. Non ne ho trovati di più.»
«Basteranno. Entro mezz’ora li voglio ai pezzi, e i marinai alle vele.
Faranno colazione mentre lavorano. Di pane dovrebbe essercene...»
«Ce n’è. Anche acqua. Non molta.»
«Faremo un pasto più abbondante una volta al largo. Ora eseguite.»
Occorse più tempo del previsto, ma poi Callois poté ordinare: «Lesti a
sciogliere le vele!».
I marinai si inerpicarono sulle sartie e cominciarono a slacciare i gerli. Le
manovre furono alate in pochi minuti.
«Tutto pronto alla maestra!»
«Tutto pronto alla mezzana!»
«Tutto pronto a prua!»
«Abbasso!» si sgolò Callois. «Un uomo solo per amante!» L’amante era la
carrucola principale.
Attese che gli altri fossero scesi.
«Adesso! Mollate le guide!»
I canapi che reggevano le vele furono lasciati, e gli ultimi sulle manovre
scesero abbasso, ad alzare con i compagni le gabbie al colombiere. Presero a
cantare una canzone che Martin aveva già udito. Si trattava del Chant des
corsaires, un inno che celebrava le imprese di Jean Bart. L’uomo che, fino a
pochi anni prima, aveva condotto la guerra da corsa nei mari circostanti
l’Europa, passando di vittoria in vittoria. Una leggenda.

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Sont des hommes de grand courage,
ceux qui partiront avec nous.
Ils ne craindront point les coups,
ni les naufrage,
ni l’abordage.
Du péril seront jaloux
tous ceux qui partiront avec nous.

Ce seront de hardis pilotes,


les gars que nous embarquerons,
fins gabiers et francs lurons.
Je t’escamote
toute une flotte.
Bras solide et coup d’oeil prompt
tous les gars que nous embarquerons.

La melodia era tipicamente celtica, il ritmo lento e tuttavia incalzante.


L’ideale per accompagnare lo sforzo dell’equipaggio.
Lenzuoli bianchi coprirono l’alberatura e il galeone cominciò a fremere
sotto la spinta moderata del vento.
Era il momento di alzare l’ancora. «Salpa!» urlò Callois.
«Subito, signore!» rispose Whelan, che era all’argano. Gridò a sua volta:
«Cappona!».
Il cavo fu disteso lungo il ponte. Gli uomini vi si afferrarono, senza
smettere di cantare. Il ceppo e la cicala affiorarono. Un’ultima fatica e
l’ancora salì al cappone. Il timoniere si mise alla barra. Il Cristo cominciò
lentamente a muoversi, spinto dal venticello a favore.
Martin osservò tutto ciò con ammirazione. Pur avendo navigato su navi da
guerra, non aveva mai fatto troppo caso alle fatiche delle ciurme. Non era lo
stesso sacrificio dei rematori delle galee, destinati per sorte a combattere alla
cieca e a morire senza sapere per quale causa. Qui uomini veri si sfiancavano
per fare avanzare sul mare le loro imbarcazioni, a prezzo di un complicato
sistema di mansioni e di regole, spesso causa di affaticamenti che avrebbero
stroncato un qualsiasi guerriero provetto. L’obiettivo era l’arricchimento
individuale, d’accordo. Sulle navi del re era la pura disciplina, con ogni
violazione punita con fustigazioni, reclusioni arbitrarie, obblighi al digiuno.
Gli piaceva più il mondo in cui aveva finito col trovarsi.
Rientrò nel quadrato e uscì nel giardinetto superiore. Le piante nei vasi
erano secche; molto belle non erano mai state. Cartagena si allontanava.
Pensò a un viso femminile, il ricordo più struggente che gli rimanesse.

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Nient’altro lo legava a quella terra infelice. Sarebbe tornato, in qualche
modo.
Il Cristo si inclinò sotto un vento più sostenuto e acquistò andatura.

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31 - Ammutinati

Sul Pontchartrain, a discutere della ripartizione del bottino, De Pointis non


venne. Il suo veliero Sceptre era già lontano, attorniato da potenti navi da
combattimento come il Vermandois e il Saint-Louis. Vennero invece il signor
De Lévy, che comandava appunto il Saint-Louis, e il signor De Sorel. Due
dei condottieri meno avversati dalla Filibusta. Spiegarono che il generale era
malato e non poteva essere presente di persona. Consegnarono una lettera
indirizzata a Ducasse. Salutarono compitamente e ridiscesero sulle scialuppe,
diretti alle loro navi.
Era il 29 maggio, un giorno dopo l’appuntamento inizialmente fissato. Il
caldo non era eccessivo, però l’umidità era tanta e si sfogava in frequenti e
brevissimi acquazzoni pomeridiani. I capitani della Filibusta, da Macary a
Godefroy, da Pierre a Le Page, sedevano nell’ampio quadrato di poppa del
Pontchartrain, al tavolo a ferro di cavallo che normalmente ospitava gli
ufficiali. Giovani schiave servivano birra fresca in grossi boccali di peltro,
nonché spiedini con gamberi, pescetti e cicale di mare cotti alla griglia. Poco
graditi ai pirati e accettabili solo in mancanza d’altro.
Ducasse lesse la lettera di De Pointis e, via via, la sua espressione si fece
più cupa. Ripiegò il foglio e ne riferì il contenuto ai compagni. La sua voce
vibrava di collera. «Il nostro amato ammiraglio ci dice che, fatti salvi i regali
già ricevuti dai capitani, e qualche scudo per i mutilati, il soldo per
filibustieri, coloni di Saint-Domingue, bucanieri e negri liberi sarà pari alla
paga di un marinaio di sua maestà. Proporzionale a ogni giorno di servizio.»
Martin fu il primo a indignarsi. «Ma è una miseria!»
La collera dei capitani esplose un attimo dopo. Furono bestemmie, parole
irripetibili.
Il quieto Macary scagliò il boccale di birra al centro della cabina. Era
talmente indignato che quasi balbettava. «Come sarebbe a dire? Ci hanno
sempre mandati in prima linea, abbiamo fatto il lavoro più rischioso. I nostri

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sono caduti a grappoli. E adesso ci si vuole ripagare con il salario di un
marinaio semplice? Che magari non è mai sceso a terra?»
Le Page disse, sarcastico: «Forse abbiamo combattuto i nemici sbagliati».
Per una volta non sorrideva, e l’ironia la si percepiva dalle fossette agli angoli
della bocca.
Chi era fuori di sé era Godefroy. Si alzò in piedi. Era piccolo e grasso, ma
in quell’istante sembrava altissimo. «Quanto fa, in tutto?» chiese a Ducasse.
«Meno di quarantamila scudi per millecinquecento uomini. Ridotti a mille
dopo le perdite che abbiamo subito. E un po’ di malati. Meno dei loro, ma ne
abbiamo anche noi.»
Godefroy alzò il pugno. «Fratelli della Costa! Non possiamo sopportare
questo oltraggio alla nostra dignità! Una manciata di aristocratici ci ha fatto
combattere per suo conto, e adesso intende derubarci. Stirpe di canaglie, di
parassiti. Propongo di andare all’abbordaggio del Sceptre, strappargli i tesori
e colarlo a picco. Quanto a De Pointis, avrò un interessante dialogo con la
sua testa, che taglierò di persona.» Sollevò la sciabola.
Scoppiò un applauso scrosciante.
Fu interrotto da Ducasse, che si alzò in piedi, le braccia aperte. «Amici,
capitani, non fate sciocchezze! La vigliaccheria di un ufficiale del re non
autorizza un ammutinamento contro il nostro sovrano!» Il governatore era
sudato, paonazzo. Parlava con passione. «Stiamo parlando di Luigi XIV, il
monarca più potente sulla faccia della terra. Che ne sa delle furberie del
miserabile De Pointis? Una ribellione contro di lui io la pagherei sul patibolo,
ma non crediate che il vostro destino sarebbe diverso. Avreste i giorni contati
pure voi!»
Godefroy sputò in terra. «Sempre così. A ogni scelta decisiva appare
qualcuno che propone la moderazione, la calma, la trattativa...»
«Mi conoscete troppo bene per credermi capace di viltà.» Gli occhi di
Ducasse svelavano il furore che la sua voce cercava di nascondere. «Non sto
proponendo alcun compromesso.»
«Che cosa, allora?»
«Il ricorso alla legge e alla giustizia del re. Col Pontchartrain partirò
immediatamente per la Francia. Denuncerò a corte il furto subito da parte del
verme, reclamerò equità. Siate certi che Luigi mi ascolterà e riparerà al torto
che stiamo subendo.»
Godefroy scosse il capo. «Vi fate un sacco di illusioni, Ducasse. Eppure
siete sempre stato il primo a imprecare contro i nobili.»
«Un conto sono i ci-devants, un altro conto è sua maestà. Pensate a cosa

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accadrebbe se abbordassimo la flotta reale. Saremmo dei paria per la Francia.
A chi ci appoggeremmo? Alla Spagna, all’Inghilterra, all’Olanda, al
Portogallo? Tutti quanti hanno pronto da anni un cappio per noi... La via che
va scelta è più lunga, ma ci consentirà di calpestare il mascalzone in via
definitiva e di riavere in forma ufficiale quel che ci ha tolto di tasca. Dubito
che il sovrano accetti la perdita di Saint-Domingue e della Filibusta. Mi
ascolterà. Oh, se mi ascolterà!» Detto questo, Ducasse ingollò una sorsata di
birra schiumante ed emise un rutto capace di fare vibrare l’intero quadrato.
Quel rigurgito parve avere un effetto risolutivo. I Fratelli della Costa
avevano ascoltato con attenzione le argomentazioni di Godefroy e di
Ducasse. Inizialmente propendevano per il primo, ma poi, ragionando a
freddo, le simpatie si erano spostate. Il rutto colossale, quasi un simbolo di
appartenenza allo stesso canagliume, suggellò lo spostamento d’opinione.
Toccò a Macary, stimato per equilibrio, esprimere ciò che tutti pensavano.
«Avete ragione, governatore. Non possiamo gettarci sulla flotta francese,
specie con il nemico che sta per piombarci addosso in forze. Tuttavia
qualcosa dovremo pur dire ai nostri uomini. Non si aspettano un salario
degno appena di chi lava i ponti e solleva le manovre.»
Probabilmente Godefroy scorse nella frase il modo di uscire dall’angolo in
cui era costretto. «Si torna a Cartagena» enunciò, secco. Ruttò anche lui, però
non poteva competere con lo stomaco di Ducasse. «Si va là e si prende ciò
che De Pointis vuole sottrarci.»
Macary alzò le spalle. «La città è vuota e quasi totalmente distrutta. Che ci
troveremmo? Mangiavano persino topi e cani, per sopravvivere. Non
potremmo rubare che le ossa.»
«Ti sbagli. I borghesi avevano abbandonato Cartagena e si erano ritirati in
campagna. Sono sicuro che, un’ora dopo la nostra partenza, abbiano
cominciato a tornare. Me li vedo. Si sentono sicuri, riprendono a esibire le
ricchezze messe in salvo. Tutto si aspettano, salvo che il nostro ritorno.»
Il discorso di Godefroy suscitò consensi, che sfociarono in un applauso
sentito. Gli sguardi si puntarono su Ducasse. La scelta dipendeva da ciò che
avrebbe detto il capo.
Il governatore afferrò una bacinella piena d’acqua e vi si lavò le dita.
«Come vedete, imito Ponzio Pilato, ma non per ipocrisia. Fate ciò che
credete. A me basta che non vi mettiate contro il re o De Pointis. Da parte mia
confermo: farò subito vela verso la Francia e porterò il caso a Versailles. Se
potrete spolpare una buccia già svuotata, prima che gli inglesi vi piombino

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addosso, buona fortuna.» Detto questo, lasciò il quadrato per predisporre il
veliero alla partenza.
Malgrado il consenso ottenuto da Godefroy, alcuni capitani erano più
perplessi di quanto volessero ammettere. Pesava soprattutto lo spettro della
flotta nemica in arrivo.
Pierre domandò a Martin: «Voi cosa pensate di fare con il Cristo? In
fondo restate un uomo di De Pointis. Andrete con lui, seguirete Ducasse o
verrete con noi a Cartagena?».
Martin non ebbe dubbi. Sebbene non fosse la soluzione più ragionevole,
in città lo attraeva qualcosa che con la ragione aveva poco a che fare. «Vengo
con voi» disse. «Il Cristo è stato catturato dalla Filibusta e le appartiene. Il
mio servizio con De Pointis termina qui. Non voglio essere complice di un
tale disonesto e traditore.»
«Bravo!» esclamò Godefroy. Prese ad applaudire, imitato dai compagni.
Quando tornò il silenzio disse: «Ora si tratta di sottomettere la proposta al
voto degli equipaggi. Io credo che saranno entusiasti. Suggerirei di mandare
a terra alcuni dei nostri indigeni. Si sparpaglieranno lungo la costa e ci
diranno se il nemico appare. Avrebbe dovuto essere già qui. Le notizie che
abbiamo avuto o erano false, o erano inesatte».
Non restava che lasciare il Pontchartrain. In coperta, Ducasse salutò uno
per uno gli avventurieri, incluso Godefroy. A Martin disse, con un sorriso:
«Scommetto che andate a Cartagena anche voi».
«Avete indovinato, governatore.»
«Siete quello che ha il movente più romantico.» Guardò il gruppo dei
compagni, allineati presso lo scalandrone in attesa che le scialuppe
accostassero. «Buona fortuna, amici. Statene certi: perorerò la vostra causa
finché i Fratelli della Costa non avranno avuto giustizia.»
Poco più tardi Martin filava verso la fiancata del Cristo, grazie alle
bracciate potenti di due rematori. Vide che si accostava una barcaccia, con a
prua un granatiere. L’imbarcazione portava un carico talmente pesante,
coperto di tela, da galleggiare a pelo d’acqua. Fortunatamente il tratto di mare
era calmo.
«Cos’avete a bordo?» chiese al militare.
«Un regalo per voi, signore! È una delle campane di Cartagena. Il generale
De Pointis ne fa omaggio al vostro galeone. Vi prega di raggiungerlo sul
Sceptre non appena ne avrete modo.»
«Ma non era malato?»
«A me sembra in ottima salute, signore.»

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Martin fu sul punto di mettersi a ridere. «Bene, granatiere, riportate al
vostro padrone il suo gradito dono. Non ho campanari a bordo.»
«Ma signore! È un manufatto prezioso! Lavorato con cura, cesellato,
pesantissimo!»
«Se è così pesante, vi consiglio di gettarlo in mare, prima che vi rovesci la
barca. E portate a De Pointis i miei saluti. Temo che non ci vedremo mai
più.» Detto questo, Martin fece accostare la scialuppa alla scaletta e si
inerpicò sul suo veliero. Si sentiva felice, chissà perché.

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32 - Torna il terrore

Terminati i preparativi per la partenza, montati i paglietti, orientati i pennoni


di belvedere e verificato lo stato dell’artiglieria, Martin si accostò a Whelan.
«Ho saputo che sei stato schiavo. Non me lo avevi detto.»
«Di solito preferisco non parlarne» rispose l’irlandese, fattosi
d’improvviso impenetrabile. Generalmente il suo volto era molto mobile, per
quanto sorridesse pochissimo.
«Ora però sei secondo ufficiale. Il mio secondo ufficiale. Un rapporto di
fiducia che implica confidenza.»
Whelan fece un gesto di noncuranza. «Non so cosa raccontarti. Sono
faccende che non ti possono interessare... Sappi comunque che nel 1652
Cromwell ordinò che centomila irlandesi cattolici lasciassero le terre più
fertili della loro isola e si stabilissero su quelle più aride e improduttive. Chi
avesse resistito sarebbe stato ridotto in schiavitù e tradotto a forza nelle Indie
Occidentali o in Australia. Ci fu una rivolta, repressa con ferocia. I miei
genitori erano tra i deportati. È così che io sono nato a Barbados. Non porto
il marchio del landlord, impresso a mio padre e a mia madre, solo perché
fuggii da bambino.»
Martin ascoltava la storia di Whelan con interesse, sebbene non
conoscesse alcuni dei personaggi e dei luoghi citati. Nel frattempo il Cristo,
con metà delle vele spiegate, passava oltre le rovine di Boca Chica. Philippe
Callois si occupava della navigazione, resa facile dalla brezza a favore. Ai lati
il galeone aveva il Cerf-Volant di Pierre e il Serpente di Godefroy. Le navi
dei filibustieri erano in tutto nove, snelle, rapide e micidiali. Di sicuro, da
terra qualcuno le avvistò, ma non aveva più campane da suonare per
avvertire la città. La flotta di De Pointis non era più in vista.
«Il fatto di essere bianchi di pelle garantiva agli irlandesi un trattamento
migliore?» chiese Martin.
«Al contrario» rispose Whelan. «Noi eravamo più deboli dei negri, ma
costavamo meno. La passione degli inglesi erano le nostre donne, che

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selezionavano fin dal momento dello sbarco. Le più belle erano destinate al
letto del padrone, come accadde anche a mia madre. Altre erano vendute o
affittate ai bordelli.»
«Dunque tu sei figlio...?»
«Di un inglese? Credo di no. Se ne fossi convinto, mi sarei già suicidato.
Non voglio quel sangue malato nelle vene.»
«Qual era il vostro rapporto con gli schiavi africani?»
Whelan emise un sospiro. Quei ricordi dovevano essergli dolorosissimi.
«Nessuno. In comune avevamo solo la frusta, le mutilazioni, le violenze. A
un certo punto ai landlords venne un’idea. Fare accoppiare donne irlandesi
con negri delle razze migliori. Nascevano così dei mulatti che avevano un
prezzo di mercato molto alto. Solo che nel 1681 la Royal African Company,
che gestiva il commercio di schiavi africani, protestò con la corona: si
trattava di concorrenza sleale. Così la produzione dei mulatti fu proibita.
L’importazione di irlandesi, divenuta meno fruttifera, calò un poco.»
Martin avrebbe voluto chiedere a Whelan come fosse riuscito a fuggire e
che fine avessero fatto i suoi genitori. Rinunciò perché Cartagena era ormai
di fronte a loro. A differenza che nel viaggio di andata, per sbarcare non c’era
che l’imbarazzo della scelta. I bastioni erano a pezzi, i forti anche. Non
esisteva nessun cannone in grado di sparare, né un soldato pronto alla difesa.
Gli abitanti erano sicuramente in preda al terrore. Li si vedeva correre da
ogni lato come impazziti, e non erano nemmeno pochi. Godefroy aveva visto
giusto: molti spagnoli dovevano essere tornati alle loro case non appena
avevano creduto svanita la minaccia.
Il Serpente sparò alcune cannonate, per vedere se da terra giungeva
risposta. Non ve ne fu alcuna. Allora giunse l’ordine di abbassare le vele,
calare le ancore e mettere a mare barcacce e scialuppe. Fu eseguito in meno
di mezz’ora.
Mentre veniva condotto a remi verso l’approdo, Martin fu spaventato da
ciò che vedeva. I filibustieri imprecavano, schiumavano bava, battevano le
sciabole sulle fiancate delle barche. Davano l’idea di volere riscattare sulla
pelle degli spagnoli i torti subiti da De Pointis. Le facce erano feroci,
l’attitudine omicida. Facevano fretta ai rematori perché nessuno degli abitanti
di Cartagena potesse scappare. Persino l’ilare Le Page e il quieto Macary
incitavano alla vendetta. Il più scatenato rimaneva Godefroy, alla prora della
sua imbarcazione.
«Avanti, avanti, fratelli! Si è ucciso troppo poco! Addosso alle canaglie di
Spagna! È ora che soffrano per davvero!»

163
La maggior parte delle scialuppe approdò tra Cartagena e Hihimani, dove
non c’erano mura in piedi, scogli, mangrovie. L’orda scese urlando,
confortata dal fatto che non si udisse un solo colpo di fucile da parte dei
difensori. Valicò di corsa quelli che erano stati ponti levatoi, resi fissi dai
pirati. Scavalcò cadaveri, ne aggirò le pile. Quasi tutti francesi rimasti vittime
del vomito nero. Si arrestò solo davanti a due impiccati che pendevano da un
arco. Avevano lingue violacee totalmente estroflesse e occhi aperti sul punto
di schizzare.
«Chi sono quelli?» chiese Godefroy.
Martin gli era dietro. «Li riconosco. Sono don José Márquez e don Pedro
Cañarete, due mercanti che avevano cercato di entrare in affari con De
Pointis. Probabilmente credevano che i francesi sarebbero rimasti padroni
della città.»
«Anche loro ingannati dal signor generale» rise Godefroy. «Be’, non li
compiango. Andiamo! Andiamo!»
Non vi fu ombra di resistenza, tanto che la stessa avanzata dei filibustieri
perse impeto. Molti rinfoderarono le sciabole o abbassarono i moschetti. Fu
camminando che arrivarono alla Contaduría. Era deserta, o appariva tale.
Proseguirono fino al palazzo del governo. Carte sparse in tutta la piazza,
cadaveri coperti di mosche, voli di avvoltoi nel cielo.
Fu una grande sorpresa vedere apparire Exquemeling. Il medico era
smunto e affaticato. Si appoggiava a un bastone. Aveva perso la parrucca e
mostrava i capelli bianchi e radi. Il suo abito nero era incrostato di sangue
raggrumato. Nessuno lo avrebbe detto un chirurgo. Sembrava piuttosto un
macellaio sul punto di ritirarsi dal mestiere per sfinitezza.
«Come? Eravate rimasto qua?» gli chiese Godefroy, meravigliato.
«Nessuno mi ha avvertito dell’imbarco. Del resto, la gente di Cartagena mi
ha trattato con gentilezza. Non c’erano altri medici in città.»
«Avete l’aria stravolta.»
«Ho assistito a cose che non immaginate. Non arrivava cibo nell’ospedale,
nemmeno ai malati francesi. Quasi tutti i pazienti sono morti di fame. Alcuni,
per cercare di sopravvivere, mangiavano le loro stesse carni. Chi un dito, chi
un avambraccio. Si divoravano vivi da soli. Bevevano urina e il proprio
sangue. Poi anche sangue e urina si sono esauriti.» Exquemeling indicò alle
sue spalle il tetto alto dell’ospedale, sovrastante le case basse. «Laggiù è un
cimitero. Un simile carnaio non lo avevo mai visto in vita mia.»
Godefroy brontolò. «Anche questo va messo in conto a De Pointis.
Dicono tanto degli avventurieri, ma ecco un nobile di Francia che fa persino

164
peggio... Perché siete venuto al governatorato?»
«Cercavo un’autorità disposta ad aiutarmi. Non ce ne sono.»
«I maggiorenti che avevano lasciato la città sono tornati?»
«Alcuni sì. Non tutti. Molti preti.»
«Fatevi trasportare a bordo del Serpente. Nutritevi e dormite. Ormai la
vostra opera sarebbe inutile.» Godefroy attese che Exquemeling si fosse
allontanato zoppicando e si rivolse ai filibustieri. «Fratelli della Costa! Il
dottore ha dimostrato ciò che già sapevamo. Gli aristocratici francesi non
sono migliori di noi, e in crudeltà competono con quelli spagnoli. Abbiamo
fatto bene a ribellarci. Ora vediamo di svuotare per intero le budella della
vacca già sventrata. Capitano Macary!»
«Eccomi.»
«Siete un uomo preciso. Suddividete Cartagena per quartieri e fateli
perquisire casa per casa. Ogni cittadino benestante, uomo o donna, giovane o
anziano, sia fatto prigioniero e interrogato a dovere. Che confessi i
nascondigli dei quattrini. Stesso trattamento per gli schiavi restii a denunciare
i loro padroni. Io ora prenderò il palazzo del governo, con Bouc e con Le
Page. Tutti gli altri a saccheggiare. Subito! Oggi è la festa della plebe. Fiera,
per un giorno almeno, di essere tale.»
Rimbombò un “urrà” così forte da assordare. Godefroy, con un manipolo
di volontari e con i capitani che aveva nominato, marciò verso l’edificio da
occupare. Martin si tenne indietro: aveva in mente la via dove andare. Stava
per recarvisi, indifferente al trambusto, quando qualcosa di imprevisto lo
trattenne.
Sulla soglia del governatorato era apparso don Sancho Jímeno. Malgrado
il caldo indossava un mantello, il tricorno e la parrucca. Aveva la spada al
fianco e una pistola alla cintura. Oppresso dal calore, tentava di muoversi
con tutta la dignità che gli riusciva di simulare.
Godefroy gli si fermò di fronte. «Cosa cercate di fare, burattino? Chi
diavolo siete?»
«In assenza di miei superiori io ho assunto il comando di Cartagena»
rispose don Sancho in buon francese. «Il lignaggio me lo consente. Vi prego
di ritirarvi e di non provocare altri mali alla popolazione. Ci avete derubato di
tutto. Cos’altro volete?»
«Siete solo.»
«Il coraggio non è una qualità comune.»
Godefroy sfoderò lo sciabolotto e ne saggiò la lama tra indice e pollice.
«In segno di ammirazione vi taglierò la testa. Spero con un unico colpo. Non

165
fate così con i vostri tori, in Spagna? Avrete la stessa sorte di uno dei vostri
tori, amico ci-devant. Una morte rapida e dignitosa.»
Era il momento che Martin intervenisse. «Calma, capitano Godefroy.
Costui era il governatore di Boca Chica. L’ho avuto prigioniero e posso
testimoniare della sua lealtà. Al massimo gli si può rimproverare un eccesso
di coraggio. Una virtù non condivisa da molti suoi compatrioti.»
Godefroy esitò un attimo, poi rinfoderò la sciabola. «Peccato, mi sarebbe
piaciuto tagliare un collo che si prestava. Mi fido di voi, D’Orlhac. Prendete
questo povero diavolo che si crede chissà chi e riaccompagnatelo a casa sua.
Sarà governatore del suo letto. Auguriamoci che al risveglio sia più lucido.»

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33 - Pausa effimera

Martin, lungo la strada che conduceva alla villetta tra i fiori, rimarcò la
relativa tranquillità del quartiere rispetto al resto di Cartagena. C’erano
carogne di animali, pozze di sangue, rifiuti di ogni tipo. Ciò nonostante non
aleggiava un clima di paura, e dentro alcune case la vita sembrava continuare,
in forma nascosta. «Tutto sommato, De Pointis vi ha protetto» commentò.
«In certa misura sì. Ci ha risparmiato le requisizioni. Ma che senso ha
vivere in una bomboniera, in una città condannata a morte?»
Martin approvò, però con espressione severa. «Continuerete a essere
risparmiato, purché non insistiate nel fare l’eroe.»
«Cos’altro mi resta? Ho avuto una vita degna. Vorrei che lo fosse anche la
morte.»
Retorica. Martin guardò il cielo che stava scurendo. La luna sorgente era
ogni tanto oscurata da cirri di passaggio. Non erano nubi che
preannunciassero pioggia. Un buon acquazzone avrebbe forse purificato la
città moribonda. Il cielo non lo prometteva.
Un’ora dopo, mentre religiosi e padrone di casa erano in attesa della cena,
Martin colse Teresa curva sul parallelepipedo della cucina, che serviva sia da
stufa sia da lavello. L’assisteva una schiava. Martin prese per un braccio la
negra e la gettò di lato. Alzò di scatto la sottana di Teresa e le abbassò la
biancheria. Curvò in avanti la testa della giovane, slacciò i pantaloni e la
penetrò. Non era vergine, ma lui lo dava per scontato. Sfogò il desiderio
covato per lei. Durò pochissimo. Si ritrasse soddisfatto e rialzò le brache. Si
sentiva stanco, eppure doveva farlo, prima o poi.
Il primo pensiero di Teresa fu per la schiava. «Tu non hai visto nulla» le
intimò. «Altrimenti sono frustate.» La donna fece un cenno di assenso e uscì
in fretta dalla cucina.
Teresa fissò Martin. Non era incollerita, né turbata, né meno che mai
compiaciuta. Un poco sudata, sì, ma era tutto. Non mostrava alcun

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sentimento. Si passò uno straccio tra le gambe, rialzò la biancheria e calò il
vestitino, rassettandone le pieghe.
«Devi essere pazzo» disse poi. «Pensa se fosse entrato mio marito.»
«Dovevo farlo, o avrei perso la ragione sul serio.» Martin era più
imbarazzato di quanto lo sembrasse lei. Riallacciò i pantaloni con un vago
senso di vergogna.
«Non è così che si fanno le cose. Non ho provato assolutamente niente.
Solo la presenza di qualcosa di estraneo e di umidiccio nella mia pancia.»
«Lo capisco. Ti ripeto, il bisogno era più forte di me, e ho perso il
controllo. Ero disperato all’idea che ci rimanesse così poco tempo, e forse
nessuna occasione per amarci.»
«Non pensiamoci più.» Teresa era tornata allegra e vivace. «Aiutami a
scodellare questi uccellini su un vassoio. Sono piccoli, ma non c’è di meglio.
Li ho catturati io stessa in giardino. In fricassea sono quasi buoni.»
Lo sconcerto di Martin era tra i più grandi provati in vita sua. Si era atteso
schiaffi, lacrime, recriminazioni; o, nell’ipotesi migliore, baci e carezze.
Niente di tutto questo. Teresa era gaia come al solito, quasi avesse classificato
ciò che le era accaduto tra gli incidenti prevedibili e insignificanti.
Non vi fu nessuna cena. Don Sancho aveva acceso alcune candele, per
mostrare dove posare i piatti, quando batterono furiosamente alla porta. Il
padrone di casa si alzò. «Scusate. Intanto servitevi.»
Martin lo precedette. «È meglio che vada io. Restate dove siete.»
Fu lui ad aprire l’uscio. Si trovò davanti un manipolo di filibustieri che
non conosceva, armati di picche. Reggevano delle torce, sebbene ci si
vedesse ancora. Alcuni erano ebbri, ma non il capo. Un uomo di media
statura privo di un occhio, con un cappellaccio nero dalla tesa anteriore
sollevata. Sotto il mantello era nudo fino alla cintola ed esibiva fasci di
muscoli istoriati di cicatrici.
Martin capì subito chi fosse l’interlocutore giusto, nella masnada.
Interpellò lui solo. «Sono il capitano D’Orlhac, del Cristo. Avete sbagliato
indirizzo. Questa casa è sotto la mia protezione.»
Il guercio tolse il copricapo. Aveva capelli lunghissimi e biondastri, che si
dipartivano dal cranio calvo. Abbozzò un inchino. «Signore, non abbiamo
intenzione di fare del male agli abitanti. Il capitano Godefroy ci ha assegnato
questa zona perché sia frugata a fondo. Con rispetto, vi chiederei di togliervi
di mezzo.»
«Godefroy è un buon amico!»
«Lo è anche per noi. Dunque, capitano, lasciateci lavorare.»

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A Martin non rimase che farsi di lato. I pirati entrarono nella villetta con
urla adatte a chi avesse conquistato un fortino. In effetti, non esercitarono
violenza su nessuno dei presenti. A padre Le Pers strapparono gli uccelletti
dal piatto che aveva in mano e gli lasciarono un mucchietto d’ossa. Il gesuita
ne fu scandalizzato. Gli incursori bevvero a collo dalle bottiglie di vino e si
sparsero per i piani. Ne scesero portando tappeti arrotolati, vasi, orologi in
campana, dipinti di varia qualità, ammennicoli con dorature.
«La requisizione è fatta» disse il guercio. «Ora, capitan D’Orlhac,
proteggete pure i vostri ostaggi. Ci interessa solo che loro siano poveri, e noi
ricchi.»
Appena la banda fu uscita, Martin si rivolse a don Sancho. «Mi dispiace
per l’incidente. Vado subito a cercare Godefroy. Magari riesco a recuperare
una parte della refurtiva.»
Lo spagnolo non rispose. Si lasciò cadere su una sedia, gli occhi bassi,
l’espressione avvilita. «È ora di pregare» mormorò.
Quando Martin uscì dalla casa, senza nemmeno guardare Teresa, stava
annottando. Non c’erano profumi, solo fetori. La luna appariva e spariva
ogni tanto. Le uniche luci erano quelle delle torce di squadre impegnate nelle
requisizioni. Se ne tenne a distanza. Nei dintorni del governatorato i pirati
avevano riaperto a forza alcune taverne, alimentate dal vino su cui mettevano
le mani nelle case private. Ne uscivano urla sguaiate, oscenità, grandi risate.
Martin evitò anche quei luoghi. Notò che le mosche erano scomparse,
mentre le zanzare calavano a nugoli. Il governatorato non aveva una sola
lampada accesa. Un unico colono francese, armato di moschetto, ne
sorvegliava l’ingresso.
«Mi riconosci?»
«Sì, mio capitano. Comandate il Cristo.»
«Godefroy si trova qui?»
«No. È andato a passare la notte in una villa sequestrata a un riccone, sulla
collina.»
Martin fece un gesto di disappunto. «Deve tornare?»
«Sì, ma solo domattina... Capitano, vi consiglierei di trascorrere la notte
qua, ammesso che abbiate già voglia di coricarvi. Ci sono alcune stanze in
buono stato, con zanzariere sui letti. Volendo, si trova anche un po’ di cibo.
Godefroy sarà sicuramente qui poco dopo l’alba.»
Martin, sfiancato dal breve amplesso con Teresa, seguì il consiglio.
Annaspò fino a uno scalone e a una vetrata che lasciava entrare un bagliore
sufficiente a capire dove mettere i piedi. Dovette aggrapparsi alla ringhiera e

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prendere fiato varie volte. Di sicuro le cucine erano in basso, ma lui non
avvertiva traccia d’appetito. Dopo vari tentativi scoprì una camera da letto,
che forse era stata occupata, se non dal governatore in persona, da qualche
funzionario di alto lignaggio. Il giaciglio pendeva da un lato, il baldacchino
era pencolante, le imposte della finestra erano state divelte. Si gettò sul
pagliericcio, chiuse le cortine strappate della zanzariera e si addormentò
immediatamente.
Lo svegliò la voce tonante di Godefroy, ai piani inferiori. Non c’era acqua
per lavarsi, così scese dabbasso come si trovava. Il filibustiere impartiva
ordini, organizzava squadre. Gli altri capitani dovevano essere già in strada, a
trarre i loro uomini dai postumi della bisboccia e a muoverli al saccheggio.
«Capitano, dovrei parlarvi» disse a Godefroy.
«Non ora. La squadra inglese che avevate annunciato con tanto anticipò è
stata finalmente avvistata. Sarà qui entro tre giorni. Ci resta appena il tempo
di rubare ciò che possiamo e di prepararci alla fuga.»
«Don Sancho Jímeno, questa notte, è stato spogliato di tutto. Ciò è
contrario ai patti di resa stipulati con lui da De Pointis, e in parte rispettati da
Ducasse.»
Godefroy esplose in una risataccia. «Peccato che io non sia né l’uno né
l’altro. Né un gentiluomo né un avventuriero che si è arricchito. Io non ho
sottoscritto patti di sorta, e di quelli altrui me ne fotto... Di conseguenza,
muovete il culo e datevi al saccheggio. I beni di valore vanno accumulati
sulla banchina.»
A Martin non restò che uscire dall’edificio, scostando le frotte di pirati che
entravano a chiedere istruzioni. Era sulla soglia quando Godefroy gli gridò:
«Voi, D’Orlhac, credete Jímeno un santo e me un selvaggio. Sapete che
durante la nostra assenza è stato nominato governatore provvisorio di
Cartagena? Andate sul retro di questo edificio e guardate cos’ha fatto ai suoi
nemici!».
Martin aveva intenzione di dirigersi da tutt’altra parte. La curiosità lo
vinse. Girò attorno alle mura del governatorato fino a una piazzetta spoglia,
con pochi alberelli stentati. La puzza era forte come ovunque, malgrado
l’assenza di carogne animali.
Riconobbe lo strumento al centro della piazza, perché chi lo avesse visto
in azione una volta se lo ritrovava nei peggiori incubi. Era una gogna. Stretto
per il collo e per i polsi, il cadavere sfigurato che imprigionava era tuttavia
ben riconoscibile. Si trattava di don Juan de Berrío, uno dei mercanti

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spagnoli scesi a compromesso con i francesi. I ciottoli insanguinati sparsi
attorno testimoniavano come era avvenuta la sua agonia.
Quel tipo di supplizio, che all’inizio era fatto per irridere ladruncoli e
ubriaconi, aveva perso terreno in Francia, ma ne aveva acquistato in Spagna
e in Inghilterra. Iniziava in maniera derisoria, tirando e storcendo il naso del
condannato, o irrorandolo di secchi di escrementi, di orina, di vernice, di
sostanze abrasive, di acqua bollente. Dopo cominciava la sassaiola.
Normalmente terminava con l’intervento del carnefice, che portava la vittima
sul patibolo. In questo caso era proseguita fino alla lapidazione a morte.
Era un tipo di condanna che solo le autorità cittadine potevano
comminare. Sì, ma cosa importava a Martin dei comportamenti di don
Sancho? Gli interessava solo la moglie di lui. Aveva promesso di proteggerla
e lo avrebbe fatto.

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34 - Nella cattedrale

Fu un trauma, per Martin, scoprire l’abitazione di don Sancho completamente


vuota. Ormai il marciume dilagante aveva assalito anche quell’oasi in città,
rimasta in bilico sull’orlo dell’abisso. Il cancello era divelto, le siepi pure. I
fiori superstiti tenevano strette le loro corolle. La porta d’ingresso, sfondata,
era un intrico di travi facilmente scavalcabili.
Mosse qualche timido passo negli ambienti che aveva cominciato a
conoscere. Divani, tavolini e tappeti erano spariti. La cucina era un deserto di
stoviglie spezzate e di posate sparse al suolo. Ogni camera da letto era stata
liberata da coperte e tendaggi, nonché da ogni suppellettile in ceramica o in
ottone. Un pagliericcio pendeva a metà dall’intelaiatura di una finestra, come
se qualcuno avesse voluto sottrarre anche quello e vi avesse infine
rinunciato. Un mucchietto di escrementi, in un corridoio, testimoniava di una
delle ragioni dell’urgenza degli assalitori. Era coperto di mosche, come le
specchiere in frantumi.
Tornò in strada con un senso di soffocamento che lo faceva tossire.
Ancora non aveva appetito, ma entrò in una taverna rimasta aperta nella notte
perché vi aveva visto confluire una squadra di razziatori. Li trovò intenti a
sbocconcellare semplici pagnotte e a bere acqua, in un contesto di disordine e
sozzura. Si servì senza che gli altri protestassero, malgrado la povertà degli
alimenti.
Erano uomini di Galet, imbarcati sul Pembrock. «Dov’è il vostro
capitano?» domandò.
Fu riconosciuto. Gli rispose un uomo dai lineamenti sottili e dalla
capigliatura riccia, che disse di chiamarsi Philippe Plessis. «Credo che sia
intento a caricare merci, signore.» Indicò alcuni sacchi posati ai piedi della
panca su cui sedeva. «Non è un compito complicato. Le requisizioni ci
stanno fruttando una miseria.»
«E un vostro compagno di nome Patrick Whelan, sapete dov’è?»
«All’inizio era con noi, poi è passato a un’altra squadra. Dev’essere tra

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quelli che stanno sequestrando gli spagnoli per portarli alla cattedrale.»
Martin trasalì. «Alla cattedrale? E perché?»
«Perché si decidano a parlare. Non è possibile che a Cartagena non si
trovino monete, oro e argento se non in quantità risibili. Molti ricchi sono
tornati, eppure si fingono più poveri dei disgraziati che erano rimasti durante
l’occupazione. L’ammiraglio Godefroy ha deciso di passare alle maniere
forti.»
«Godefroy ammiraglio? A me risultava che il comando supremo lo avesse
Macary.»
Un altro dei pirati, un vecchio dalla barba lunga e sporca, rise. Aveva ben
pochi denti ancora attaccati alle gengive. «Tra i Fratelli della Costa le cariche
durano finché si è capaci di portarle. Macary è un uomo buono, fin troppo.
Godefroy è più adatto a spremere i prigionieri.»
Martin pensò a quale potesse essere la cattedrale. La chiesa più grande,
suppose. Era intitolata a santa Caterina d’Alessandria. L’aveva vista solo da
lontano. Finì il suo pane e bevve un sorso d’acqua. Prima di andarsene
chiese: «È per questo che le case delle vie qui attorno sono deserte? Gli
abitanti sono stati rapiti?».
«Sì, tutti» rispose Plessis. «Li abbiamo incolonnati a frustate: uomini,
donne, schiavi, preti, frati, nonnetti. Tutti in marcia verso l’ultima messa.
Qualcuno parlerà, è sicuro. Speriamo che lo facciano in tempo. Conoscendo
Godefroy, scommetterei di sì.»
Martin, mentre camminava verso Santa Caterina, rabbrividì vedendo
all’opera gruppi di pirati che non appartenevano alle squadre intente ai
sequestri. Agli angoli di alcune strade, avevano catturato dei bianchi male in
arnese e degli schiavi trascurati dai compagni. Pieni di inventiva, i filibustieri
non ricorrevano alle torture consuete. Usavano invece i frutti delle
mancinelle che crescevano lungo la costa, in prossimità della spiaggia. Se
spremuti, le loro gocce ustionavano. Se fatti ingurgitare, causavano un
lancinante fuoco interno, superiore a qualsiasi dolore conosciuto. Non si
moriva, a patto di non bere l’acqua di cui si avvertiva il bisogno.
Semplicemente, si continuava a urlare almeno per tre giorni.
Udendo grida assordanti, Martin si avvicinò a un gruppo di filibustieri che
stava spremendo succo di mancinella nella gola di uno schiavo dell’età
apparente di quindici o sedici anni. Lui si contorceva, come in preda a
convulsioni. I pirati gli tenevano ferme braccia e gambe. Il capo dei
torturatori, tenendo il naso del prigioniero per costringerlo ad aprire la bocca,

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gli chiedeva: «Insomma, vuoi dirci dove il tuo padrone ha nascosto i suoi
averi? Lo sai senz’altro, canaglia!».
Il ragazzo urlava e basta. Forse non poteva più parlare.
Martin riconobbe nel caporione Bréart, il forban già incontrato sotto Boca
Chica in via di distruzione.
«Forse vi ricordate di me» gli disse.
«Sì. Siete il capitano di non so cosa. Lasciatemi lavorare.»
«Non è così che ci si rivolge ai superiori. Sapete dirmi dov’è la cattedrale
di Santa Caterina?»
«Andate a farvi fottere.» Furono le ultime parole di Bréart, perché un
attimo dopo la navaja di Martin gli tagliò la gola, da un orecchio all’altro. Il
ragazzo torturato fu irrorato di sangue. Gli altri pirati scattarono in piedi, ma
nessuno di loro osò mettere mano alle armi.
«Insomma, dov’è questa cattedrale?» chiese Martin mentre ripiegava il
coltellaccio.
«È quella là, capitano» rispose uno dei forbans. Indicò un campanile
elaborato che svettava fra i tetti.
Martin si voltò e si incamminò. Non temeva assalti alle spalle. I pirati
“indipendenti” difficilmente avrebbero osato aggredire uno dei Fratelli della
Costa, specialmente dopo averlo visto dar prova di determinazione e
spietatezza. Di Bréart, a Martin non importava nulla. Un miserabile che
sarebbe comunque finito sgozzato. Ancor meno lo interessava il giovane
negro suppliziato con la mancinella, intento a urlare più di prima. Certe
esecuzioni, a Parigi, non erano meno atroci. Semmai più elaborate, come il
supplizio comunissimo della ruota, o lo squartamento di presunti traditori e
aspiranti regicidi. I preti non avevano nulla da obiettare; anzi,
raccomandavano alle madri di condurre i bambini ad assistere ai supplizi, a
scopo di edificazione. Martin aveva passato l’infanzia con l’odore ferroso e
sgradevole del sangue nelle narici. Tutto il secolo in cui viveva era
impregnato di quel lezzo.
Santa Caterina di Alessandria – nome ambiguo, perché c’era chi diceva
che si trattasse di una martire non cristiana, ma pagana – non colpiva per
imponenza. Era soffocata da vie troppo strette, che non permettevano di
coglierne l’estensione autentica. I bombardamenti degli invasori avevano
fatto crollare una porzione del tetto, e una parte della fiancata era stata scurita
dall’incendio di alcune case contigue. Emergeva però, quasi intatto, il
campanile: in realtà doppio, anche se era difficile coglierne le due cime in
una volta. Il mare era vicinissimo, ma oscurato da una fila di casupole. Le

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palle di cannone, demolendone alcune e distruggendo i bastioni, avevano
messo allo scoperto tratti di battigia.
Davanti all’ingresso della chiesa la calca era fitta e vociante. Si trattava di
filibustieri, mescolati a negri armati di moschetto e a non pochi indigeni. Il
portale era stato abbattuto e veniva calpestato di continuo. Sui suoi battenti
istoriati passavano gli ultimi spagnoli condannati alla reclusione nel sacro
edificio, ora oscenamente profanato.
Vicino alla soglia Martin incontrò il capitano Bouc, che fumava una pipetta
dalla canna curva e lunga e intanto regolava l’andirivieni.
«Don Sancho Jímeno è là dentro?» chiese Martin.
«Non l’ho visto ma penso di sì. Tutti gli spagnoli possidenti, e anche
parecchi non possidenti, sono radunati davanti all’altare. Oltre al clero,
ovviamente.»
«E le donne?»
«Nessuno le ha obbligate, ma hanno seguito i mariti... Come è messo il
Cristo?»
«In che senso?»
«Godefroy vuole che, appena raccolti un po’ di quattrini, si sia pronti a
salpare. Abbiamo i fottuti inglesi alle calcagna. Domani i preparativi, domani
l’altro la partenza. E speriamo di fuggire in tempo.»
Erano argomenti che non interessavano a Martin. Passò davanti a Bouc ed
entrò nella cattedrale. Gli mozzò il fiato un sentore acutissimo di orina e di
escrementi. Molti spagnoli, per la paura, non avevano potuto controllare né la
vescica né lo sfintere. Si stringevano, puzzolenti, nella navata centrale. Erano
circa duecento, tra uomini e donne. Si erano portati dietro, con le buone o
con le cattive, gli schiavi più fidati. I filibustieri, insensibili al terrore della
massa, stavano facendo ruzzolare dei barilotti aperti di polvere da sparo,
dall’altare maggiore all’ingresso. Creavano strisce di limatura esplosiva,
capaci di fare crollare la basilica con una sola scintilla. Non c’erano né croci,
né arredi, né candelabri, né dipinti. Persino da alcuni sepolcri era stato
asportato il coperchio, solo perché argentato.
Martin si mosse smarrito tra singhiozzi, colpi di tosse e conati di vomito.
Tutto era in penombra, tanto che faticava a distinguere i volti. Quando si
sentì prendere per il braccio, sussultò.
«Devi portarmi fuori di qua» bisbigliò una voce femminile ben nota.
Martin guardò Teresa. Era stravolta, affaticata, con i capelli in disordine.
Eppure aveva mantenuto una freschezza sconosciuta alle altre donne recluse
lì.

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«Come sei finita qua?» le domandò.
«Sono venuti all’alba. Ci hanno portati via.»
«Anche tuo marito?»
«Sì, è qua. Inginocchiato a pregare. Un prete sta impartendo una
benedizione.»
«Le Pers?»
«No, lui è libero. Lucero si è salvato promettendo tesori che non sa
nemmeno dove siano. Adesso lo staranno torturando... Martin, devi salvare
me e Sancho, prima che ci uccidano.»
«Per tuo marito sarà difficile, Teresa. Non doveva accettare la carica di
governatore. Si è compromesso troppo.»
«Ti prego, ti prego, ti prego!» singhiozzò la giovane.
Martin sospirò. «Farò il possibile. Prendimi sottobraccio. Proveremo a
uscire.»

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35 - Violenze e soprusi

Martin, che reggeva Teresa quasi di peso, riuscì appena a varcare il portone.
Bouc lo bloccò con tutto il corpo e gli agitò in faccia la canna della pipetta.
«Riporta dentro quella donna» gli intimò. «Di qua non esce nessuno.»
«È sotto la mia protezione!» protestò Martin, disperato. «È la moglie di
don Sancho Jímeno!»
«Per l’appunto. Se ne torni con le altre megere.»
Martin fece per portare la mano alla cintola, ma scatti meccanici lo
dissuasero. Almeno una decina di filibustieri aveva alzato il cane di pistole e
moschetti, puntati su di lui. Altri sguainarono le sciabole.
«Aspettami qua» disse Martin a Teresa, con tutta la dolcezza di cui fu
capace. «Vado a parlare con Godefroy. Dissiperò l’equivoco. Ti farò
liberare.» Con dolore, staccò il suo braccio da quello di lei.
Teresa scoppiò a piangere e, con una corsetta, ritornò sotto la navata.
Martin era meno sicuro del fatto suo di quanto volesse far credere.
Godefroy non era Ducasse né Macary e lo aveva già maltrattato una volta.
Non lo trovò né al governatorato né alla Contaduría. Chiedendo in giro,
venne a sapere che si trovava sulla baia. Vi si recò, in preda a un’emozione
che gli mozzava il fiato.
I filibustieri avevano accumulato sulla battigia ciò che erano riusciti ad
asportare: non poco, anche se il bottino non equivaleva nemmeno in minima
parte a quello della prima incursione. Nessuno faceva la guardia a quei
mediocri tesori. I pirati derubavano chiunque, ma non si derubavano tra loro.
Lo stesso valeva per i coloni di Saint-Domingue che si erano aggregati. Ciò
contrastava abbastanza con il comportamento dell’esercito regolare, i cui
soldati e ufficiali facevano a gara per nascondere in tasca anelli, orecchini e
pietre preziose. I rapporti tra i Fratelli della Costa si fondavano invece
sull’equità della ripartizione finale. Era la base stessa della loro solidarietà, e
chi avesse violato questa legge elementare avrebbe lasciato la vita terrena
nella maniera peggiore.

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Martin scorse padre Le Pers che, incuriosito, traeva dal mucchio oggetti
religiosi, li soppesava e poi li rimetteva al loro posto. Di certo meditava su
cosa fosse utile per la sua chiesa, da reclamare al momento di spartire. Vedere
il gesuita lo sollevò. Corse da lui.
«Padre! Per fortuna vi ho ritrovato! Mi serve il vostro aiuto!»
Il gesuita lo guardò con benevolenza. «Ma siete tutto sudato, amico mio!
Cosa vi è successo?»
Martin fu sconcertato dal tono placido del religioso. «Don Sancho Jímeno
e la sua famiglia sono stati chiusi nella cattedrale!» Si guardò dal fare il nome
di Teresa.
«Lo so benissimo. C’ero anch’io quando la squadra ha fatto irruzione,
stamattina. Non c’è motivo di allarmarsi.»
«State scherzando? Siete stato loro ospite, sono nostri amici. In questo
stesso istante la cattedrale viene minata!»
«E con questo?» Le Pers sorrise. «Godefroy imita il comportamento del
cavaliere De Grammont a Veracruz. Non vuole fare saltare la basilica, solo
spaventare un poco gli spagnoli. Che sputino quel che hanno nascosto, se
resta qualcosa. Vedrete che tra breve terrà recluse solo le donne e spedirà gli
uomini a rivelare i nascondigli che contengono denaro e gioie. Di norma
obbediscono.»
Lo sconcerto di Martin aumentava. Pensava al terrore che doveva provare
Teresa in quel momento, ancora maggiore quando fosse stata separata dal
marito.
«Ma come fate a prenderla così alla leggera?» protestò. «Voi, un uomo di
fede! Qui si uccide e si tortura!»
«Capisco la vostra agitazione, ma finora Godefroy non ha fatto uccidere
nessuno. Quanto alla tortura, sono stato io a moderarla. Ho proposto di usare
il succo di mancinella, invece dei ferri e del fuoco. Si soffre l’inferno, però si
sopravvive, se si ha l’accortezza di non bere acqua... D’altra parte, Ducasse
aveva proposto agli spagnoli e agli inglesi di smettere di torturare i
prigionieri. Non ha mai avuto uno straccio di risposta. Se ora soffrono della
stessa medicina, è perché se la sono voluta.»
Martin aveva smesso di ascoltare, o quanto meno di capire. «Dov’è
Godefroy?» domandò.
«Fino a poco fa portava a bordo degli schiavi. È l’unica merce di valore.
Purtroppo abbiamo scafi piccoli, e il carico è limitato. Credo che molti siano
diretti al vostro galeone, il Cristo. Le altre navi della flotta sono brigantini a
basso pescaggio e traversieri dalla stiva troppo piccola per ospitare un carico

178
umano.» Le Pers fece un gesto di disappunto. «Avevo prenotato dieci negri
adolescenti. Non so ancora se li abbiano imbarcati.»
A Martin venne un’idea folle. «Si stivano solo negri?»
«No. Anche donne bianche di condizione peccaminosa. Tanto per
alimentare la Filibusta, una volta raggiunta la base. Tutta Saint-Domingue
necessita di femmine e di figli con la pelle chiara. È un’esigenza antica.»
Martin fece ritorno alla cattedrale, ma prima di raggiungerla incrociò un
corteo vociante. Tra spinte, derisioni e bastonate leggere, gli uomini che
erano stati reclusi in Santa Caterina venivano accompagnati, a gruppetti, in
cerca dei presunti tesori sepolti. Erano padroni con i loro domestici, ma
anche negozianti, artigiani e impiegati di nessun conto. Non ce n’era uno che
non fosse imbrattato di sangue.
Il terrore di quella massa di infelici era palese, con una sola eccezione.
Don Sancho Jímeno, in maniche di camicia, senza parrucca né cappello, si
teneva diritto e incoraggiava i compagni di sventura a sopportare con
coraggio. I filibustieri manifestavano nei suoi riguardi un certo rispetto, che
non mostravano invece verso frati e preti, bastonati e insultati più di
chiunque altro.
Lo sguardo dignitoso di don Sancho incrociò quello smarrito di Martin.
«Signor D’Orlhac!» gridò. «Dite ai vostri capi che non possiedo nulla, a parte
i beni in campagna! E che i disgraziati che ho attorno hanno perso tutto!»
«Tutto ma non la testa» sghignazzò un filibustiere. «È ora di provvedere.»
«Signor D’Orlhac!» ripeté don Sancho. «Vi prego! Vi prego! E salvate
almeno mia moglie! Voi potete!»
Pronunciare assicurazioni ad alta voce sarebbe stato un rischio troppo
grosso in quelle circostanze. Martin si limitò a un cenno impercettibile di
assenso e riparò sotto il terrazzino in legno di una casa, ornato di fiori
appassiti. Attese che la masnada schiamazzante si fosse allontanata, con il suo
carico di vittime, e camminò con fare indifferente fino al portale di Santa
Caterina. Come aveva immaginato, Bouc non c’era più. Gli uomini di guardia
erano cinque o sei. Alcuni, con notevole sprezzo del pericolo, sedevano su
barilotti di polvere da sparo da cui si dipartivano le strisce che si perdevano
all’interno della chiesa. Giocavano a carte, il passatempo preferito della
Filibusta. Probabilmente la posta era costituita dai guadagni ritenuti
imminenti. Per fortuna, nessuno era stato così incosciente da accendere la
pipa.
Martin cercò di riacquistare un portamento marziale. Si mise di fronte a un
pirata barbuto e vigoroso, intento a osservare i giocatori. «Sono il capitano

179
del Cristo» annunciò. «Martin d’Orlhac.»
«Vi conosco di nome. Whelan è il mio compagnon à bon lot.» Era
costume dei filibustieri scegliersi un compagno che avrebbe ereditato, in caso
di morte, i beni dell’amico. A volte anche la moglie.
«Godefroy mi ha mandato a scegliere alcune schiave femmine da portare
con noi quando salperemo. Le vuole regalare a Ducasse per farsi perdonare
l’insubordinazione.»
«Le negre migliori sono già state portate via. Non restano che vecchiacce,
o bambine troppo giovani per servire a qualcosa.»
«Allora gli porterò una spagnola.»
L’altro si grattò la capigliatura arruffata. «Una schiava bianca? Che strane
idee ha Godefroy. Accomodatevi, ma sceglietene una sola. Se ne prendete di
più, i mariti smetteranno di collaborare. Finora sono stati abbastanza
obbedienti.»
Martin non se lo fece ripetere. Attraversò i battenti scardinati ed entrò
nella chiesa. Il lezzo era insopportabile, l’ambiente appariva tetro e infetto.
Decine di donne, forse un centinaio, singhiozzavano ai piedi di un altare
spogliato di ogni decorazione. Alcune erano sdraiate al suolo, troppo deboli
per mettersi in piedi; altre, piegate in due, vomitavano, assistite alla meglio
dalle compagne di sventura. La scena era straziante. Le negre non erano
soccorse da nessuno e, in qualche caso seminude, piangevano in silenzio,
rannicchiate su se stesse.
Non c’erano filibustieri né altri uomini in armi. Non si vedevano preti. La
polvere da sparo, diffusa in strisce irregolari, scorreva lungo le navate laterali
e si ricongiungeva nel coro, dietro l’altare maggiore. Ogni ritratto di santo era
stato lacerato: segno della presenza, tra gli aggressori, di un buon numero di
ugonotti che fingevano di essere cattolici.
Martin scovò Teresa in un gruppetto di donne, intenta ad aiutare una di
loro forse prossima a partorire. La prese per un braccio e la trascinò
all’ingresso di una cappella. Le mise la mano sulla bocca. Ora si sentiva
perfettamente lucido e determinato, come gli accadeva spesso in battaglia.
«Non parlare. Ti avevo giurato che sarei tornato, ed eccomi qua. Non dire
una parola, ti prego. Adesso ti condurrò fuori, e poi verso la salvezza. Ma tu
devi stare zitta. Mi hai capito?»
Teresa accennò di sì con la testa. Martin tolse la mano dalle sue labbra. Le
prese il polso e la trascinò, come se le facesse violenza. La giovane rimase
muta.
Sulla soglia, il pirata barbuto piegò le labbra, divertito. «È quella la

180
schiava bianca per Ducasse, capitano? In effetti è l’unica guardabile, tra quei
mezzi cadaveri che pisciano tutto il tempo. Non fosse che per l’età. Credo che
il governatore apprezzerà il regalo. Lo sanno tutti che è un porco.»
«Fate buona guardia» raccomandò Martin.
«Non dubitate, capitano.»
Martin si insinuò fra le case abbattute fino a raggiungere il mare e le
rovine dei bastioni che lo contornavano. Solo allora lasciò il polso di Teresa.
«Ora ti dico cosa farò. Ti porterò a bordo del galeone che comando, il
Cristo. Non sono ammesse donne sulle navi, ovviamente. Così dovrai
fingere di essere una schiava durante il tragitto. Non sarà lungo. Arrivati a un
qualche rifugio, ti libererò, e da lì comincerà la nostra vita assieme.»
Il viso di Teresa si alterò, sconvolto dall’indignazione. «Fingermi una
schiava? Stare fra le negre?»
«So che è sgradevole, ma è l’unica via per portarti lontano da qua. Per
salvarti la vita.»
Teresa schiaffeggiò Martin con tutta la violenza di cui era capace.
«Miserabile! Fare schiava una dama spagnola! Come hai osato pensare a una
simile bestemmia? Vattene, lasciami qua. Pensa piuttosto a liberare don
Sancho, che soffre senza ragione. Solo così potrai rimediare al tuo oltraggio.
Altrimenti riportami nella cattedrale. Che io muoia come le altre, sotto le
sevizie di voi francesi. Ma schiava, mai!»
Martin si tenne col palmo la guancia dolorante. Non sapeva che dire o che
fare. Se ne andò con passo insicuro. Un solo pensiero gli era di conforto: se
non altro, lei era libera.

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36 - Il nemico incombe

Martin, che non aveva mete precise, entrò in una delle taverne riaperte a
forza dai filibustieri per mangiare un boccone. La trovò quasi deserta: tutti gli
equipaggi erano impegnati nelle razzie. Gli unici “clienti” erano due pirati
troppo ubriachi per alzarsi. Giocavano macchinalmente a dadi, gli occhi
semichiusi, e pronunciavano frasi rare e incoerenti. Dietro il banco, un
arcigno bucaniere, aiutato da un indigeno, sceglieva le poche bottiglie ancora
intatte, che metteva in un sacco. Si preparava a lasciare il locale al suo
destino.
Martin riuscì a ottenere due uova sode, un pezzo di salsiccia e un bicchiere
di vino bianco. L’assieme era freddo, salvo il vino che era caldo. Mentre
consumava quel pasto frugale, notò su una parete un manifesto stampato alla
meglio. Lo aveva già visto in giro, ma non aveva avuto il tempo di leggerlo.
Era l’occasione giusta.

Cittadini di Cartagena, noi sappiamo bene che ci vedete come gente senza fede
e senza religione. In pratica dei diavoli, non degli uomini. Ci coprite di termini
ingiuriosi. Eccoci qua con le armi in mano, in grado di vendicarci, se lo
volessimo. Certo vi aspettate la punizione più crudele. Il pallore dei vostri
volti fa capire che tale è il timore che vi assilla, e che la coscienza vi dice che
meritereste il peggio. Vi dimostreremo nei fatti che gli insulti vanno rivolti
solo al generale che ci ha portati qui, il barone De Pointis. La conquista della
città è stata dovuta solo al nostro coraggio, ma l’aristocratico ha rifiutato di
condividere i frutti della vittoria. Ecco la ragione della nostra seconda visita.
Sperimenterete la nostra moderazione. Vi chiediamo solo di consegnarci
cinque milioni di scudi. La proposta è ragionevole. Se non l’accetterete,
aspettatevi tutto il peggio, e il peggio del peggio. Di ciò che potrà accadere
dovrete rimproverare solo voi stessi e il generale De Pointis. Siete autorizzati
a ricoprirlo di tutti gli insulti che merita.
GODEFROY, ammiraglio della Filibusta

182
Martin sorrise controvoglia. Il manifesto, affisso il giorno prima, era già
datato. In quello stesso istante donne di ogni età tremavano in una chiesa
minata, e la “moderazione” era smentita dalle urla dei torturati.
Quando uscì dalla taverna, si imbatté in un altro espediente escogitato dai
filibustieri: le false fucilazioni. Sceglievano tra i prigionieri due spagnoli alla
volta e li portavano in una piazzetta, dove i compagni non potessero vederli.
Seguiva una raffica di moschetti, e il caposquadra tornava.
“Due vostri amici non hanno voluto dirci dove avessero nascosto il
denaro e sono già morti. Tocca ad altri due.”
Il tratto “umanitario” consisteva nel fatto che l’esecuzione era fasulla e che
i moschetti sparavano in aria. Martin lo scoprì quando entrò nella corte
alberata usata per la bisogna. In ogni caso i presunti fucilati erano sconvolti
dal terrore, e quelli in attesa anche di più.
Fu avvicinato da François Pierre, molto divertito. «Sono stato io a
inventare questo trucco» spiegò il pirata con orgoglio. «Funziona meglio che
i piedi bruciati o le dita tagliate. Al momento siamo a un milione e mezzo di
scudi: più di quanto sperassimo. Arrivare a cinque milioni è impossibile,
calcolando anche gli schiavi. Godefroy lo sa quanto me.»
«Ma davvero nessuno viene ucciso?»
«Non ci conviene. L’ammiraglio Neville ci è addosso... Come mai non
siete a bordo? Non sapete che si salpa domani mattina?»
«Me l’avevano detto, ma l’ordine non ha avuto conferma.»
«Affrettatevi. Io stesso sto per raggiungere il Cerf-Volant. Bisogna
prepararsi a partire. Ci vorrà l’intera notte.»
«Gli spagnoli? Le donne chiuse nella cattedrale?»
«Se la caveranno. Avranno una storia pittoresca da raccontare a figli e
nipotini.»
Martin fu un po’ rassicurato da quelle parole. Andò in cerca di una barca
che lo riportasse al Cristo. Ebbe l’imbarazzo della scelta. La capienza del
galeone aveva suggerito a Godefroy di usarlo per caricare una parte
consistente del bottino. Di continuo partivano scialuppe dirette alla nave e
piene di mercanzia. Martin ne vide una su cui sedeva Le Pers e scelse quella.
Poco dopo viaggiava accanto a lui. La barca trasportava soprattutto arredi
sacri. Il gesuita aveva voluto essere prossimo alle future dotazioni della sua
chiesa.
«Saccheggiare conventi e basiliche, profanare luoghi sacri, mi pare un atto
degno dei protestanti» disse Martin a Le Pers. «Invece voi sembrate trovare
tutto ciò normale.»

183
«Mi avete già interrogato al riguardo, e io vi ho risposto.»
«Non è stata una risposta soddisfacente» obiettò Martin. «Non mi basta
sapere che gli spagnoli hanno una specie di fede nazionale. Io ho visto con i
miei occhi luoghi di culto distrutti e imbrattati, ritratti di santi sconciati, furti
persino di candele. Comportamenti da ugonotti, insomma. Ducasse è
protestante, e tanti della Filibusta ne condividono la fede. Forse l’Editto di
Nantes non ha effetto da questa parte dell’oceano?»
Le Pers sospirò. «La fede cattolica si adatta al contesto, figlio mio. Qui ci
tocca essere tolleranti. Gli ugonotti si spacciano per buoni cattolici, i cattolici
veri fanno finta di niente, il papa non interviene. Quello che conta è che
vinca la causa.»
«Quale causa? Quella di Cristo?»
Le Pers apparve stupito e anche un po’ scandalizzato. «Che c’entra Cristo?
Siamo qui per scalzare un monopolio. Dio non vuole che si mercanteggi con
lui, ma guarda con benevolenza a un commercio ordinato e onesto, che non
contempli l’usura. Gli spagnoli sono usurai per eccellenza, inclusi i loro
preti.»
«Voi giustificate i mercanti nel tempio!»
«Li giustifico fuori dal tempio. Gesù li scacciò dal colonnato, non dalla
città.»
Martin capì che col gesuita non l’avrebbe mai spuntata e lasciò perdere.
Erano ben altri i pensieri che lo inquietavano. Salì sul Cristo accolto da
Callois e da Whelan.
Il primo ufficiale era preoccupato. «Col pretesto che siamo la nave più
grossa, Godefroy ci sta sovraccaricando di merci. Diventeremo lentissimi. In
caso di attacco, non riusciremo a tenere il passo dei brigantini.»
Martin si guardò attorno. In effetti la tolda era piena di ammennicoli che la
ciurma stentava a spostare nelle stive. C’erano anche galline e porcelli liberi
sul ponte. I maiali erano abbastanza graditi, perché prevedevano i mutamenti
climatici. Se caracollavano sghembi, in preda al mal di mare, lasciavano
presagire tempesta. Se invece si aggiravano quieti (come in quel momento), il
tempo sarebbe stato favorevole. Ma le galline non avevano analoghe virtù:
spargevano solo in giro piume ed escrementi, misteriosamente eccedenti il
loro peso.
«Si sa qualcosa della flotta in arrivo?» chiese Martin.
«Sì. Ormai è a due giorni di distanza. Ci sono gli inglesi dell’ammiraglio
Neville e alcuni olandesi. Nel complesso diciannove vascelli da una
sessantina di cannoni ciascuno. Abbastanza da ridurci a pezzi.»

184
«Riusciremo a cavarcela?»
«Sì, se la piantano di infliggerci pesi capaci di rallentarci.»
Martin si impettì. «Da questo momento non imbarchiamo più merci,
piaccia o no a Godefroy. Ogni sforzo va indirizzato alla partenza. Chi è
questo Neville?»
«John Neville, o anche John Nevell, è un viceammiraglio discendente da
tutta una genealogia di uomini di mare, risalente all’anno mille. Ha casa in
Virginia, ma guida una specie di squadra inglese “di pronto intervento”, con
base a Barbados. A volte ha operato assieme alla spagnola Armada de
Barlovento, altre volte con olandesi e portoghesi. Non è di solito ritenuto un
comandante particolarmente abile.»
«È l’assassino dei miei genitori» disse Whelan, quasi sottovoce.
Martin fissò l’irlandese con stupore. «Non mi hai ancora raccontato la loro
fine.»
«Non c’è molto da raccontare. Erano entrambi schiavi in una fattoria dei
Neville, che trattavano come bestie chi veniva dall’Irlanda. Mio padre morì di
stenti. Mia madre fu fatta accoppiare da Sir John con uno schiavo africano,
proprio nell’anno in cui quell’usanza fu proibita. Perse la vita mettendo al
mondo un mulatto. Fu allora che scappai dalla piantagione. Era il 1681.»
Martin era colpito, Callois non tanto. «Quasi ogni irlandese ha alle spalle
storie come questa» commentò con indifferenza. «Ecco perché combattono
contro gli inglesi meglio che contro gli spagnoli... Capitano, iniziamo a
muoverci?»
Martin si riscosse. «Sì. Lesto.» Ormai qualche espressione del linguaggio
dei marinai l’aveva appresa.
Fare salpare un galeone non era un’operazione tanto semplice. Si trattava
di orientare i pennoni di belvedere, inferire i coltellacci, montare i paglietti,
sciogliere le vele necessarie. Infine issare l’ancora, operazione che impegnava
l’intero equipaggio.
Troppo vecchio per montare arriva, il nostromo Le Bon sedette ai piedi
dell’albero di maestra con un violino. Prese a strimpellare le note incalzanti
del Chant des corsaires, mentre la ciurma ne cantava le strofe:
Ils seront de fiers camarades,
ceux qui navigueront à bord,
faisant feu babord, tribord,
dans la tornade
des canonades.
Vainqueurs rentreront au port

185
tous ceux qui navigueront à bord.

Et des prises de tous tonnages


nous ramènerons avec nous.
Et la gloire et les gros sous
feront voyage
dans nos sillage.
Vent arrière ou vent de mou
nous les ramènerons avec nous.

Car c’est le plus vaillant corsaire


qui donna l’ordre du départ.
Vite en mer et sans retard,
faisons la guerre
à l’Angleterre.
Car c’est la fameux Jean Bart
qui nous commandera le départ.

Occorsero alcune ore, ma alla fine scricchiolante, col ponte invaso da


porcelli e galline, il galeone prese l’abbrivio. Ondeggiò verso l’uscita dalla
baia. Affacciato al guardamano, Martin vedeva Cartagena stuprata
allontanarsi nel tramonto, senza che si accendesse alcuna luce. Vi sarebbe
tornato.

186
37 - La Isla de la Vaca

Nella notte, i nove vascelli della Filibusta erano guidati dalle rispettive luci.
Da ultimi navigavano il Cristo e il Cerf-Volant, più lenti delle altre
imbarcazioni per dimensioni e per carico trasportato. Fu anzi necessario
spiegare l’intera velatura per tenere il passo, malgrado il vento a favore e il
mare tranquillo.
Rassicurato, Martin stava per ritirarsi a dormire, come aveva già fatto gran
parte dell’equipaggio, quando Callois lo intercettò all’ingresso del quadrato.
«Vi informo che sono arrivati ordini da Godefroy. Si fa rotta sulla Isla de
la Vaca. Là si dividerà il bottino.»
«Cos’è la Isla de la Vaca?»
«L’Île à Vache. Un antico rifugio dei pirati al tempo della Tortuga.
Prediletto da Henry Morgan. Adesso quasi abbandonato, penso.»
«È distante?»
«No. Si trova a sud di Saint-Domingue» rispose l’ufficiale. «Ci saremo in
due giorni. Avete istruzioni?»
«No. Obbedire a Godefroy e non perdere il contatto con la flotta, se
possibile.»
Martin si ritirò nella sua cabina e soccombette al sonno. Quando si
svegliò, il sole brillava e lui aveva appetito. Il giorno prima aveva mangiato
poco. Si stava lavando quando suonò la campana che annunciava uno dei
due pasti quotidiani. Il primo, alle dieci, era leggero. Il secondo, la sera, era
più consistente e solenne. Gli ufficiali lo consumavano nella sala loro
riservata. Solo in quell’occasione circolavano bevande alcoliche, strettamente
proibite nel resto della giornata.
Martin quasi si scusò con Callois. «Non credevo di dormire tanto. Le
vicende dei giorni scorsi mi hanno affaticato più del previsto.»
«Un capitano può dormire quanto vuole» rispose Callois.
«Ci sono novità?»
«Sì. Vedete quella goletta?» Indicò un due alberi che batteva bandiera

187
francese. «Viene dalla Martinica. Ci avvisa che c’è stato un primo confronto
tra Neville e De Pointis.»
«Chi lo ha vinto?»
«Nessuno. De Pointis è praticamente scivolato via, approfittando di un
banco di nebbia, e ha salvato tutte le sue navi. Adesso naviga verso la
Francia. Neville, deluso, veleggia verso di noi. Non so quando, ma prima o
poi lo avremo addosso. Non può rischiare una figuraccia.»
Martin osservò il mare. Le coste non erano più in vista. A parte il Cerf-
Volant, le altre navi erano distanti, e il Serpente si scorgeva appena. Le Bon
gli disse che due delle imbarcazioni più piccole ospitavano i malati, e che
Exquemeling era su una di esse. Non erano molti, però, i filibustieri caduti
vittime della febbre del Siam, e molti tra essi parevano in via di guarigione.
La familiarità con il caldo umido e con insetti di ogni tipo aveva indurito la
loro fibra.
Martin si fece dare una gamella con legumi e spezzatino di manzo, che
consumò appoggiato al coronamento. Il vento leggero e costante non
richiedeva interventi particolari sulle vele, quasi tutte spiegate e rigonfie, ma
solo leggeri colpi di timone perché il galeone non si inclinasse. Di
conseguenza i pirati trascorsero il resto della mattinata nelle attività
quotidiane: la pulizia del ponte, la caccia ai topi e agli scarafaggi (Martin si
era sempre chiesto come facessero tanti parassiti di terra a infestare scafi
galleggianti), la cucitura delle manovre strappate, la pesca. Soprattutto si
dedicavano alla pulitura delle armi bianche, che la salsedine marina tendeva a
fare arrugginire in fretta, anche nel caso dei migliori acciai.
Il suono della campana che ogni quarto d’ora segnava il tempo fu seguito
da uno sferragliare assordante, in corrispondenza del gavone di prua. Era una
griglia di metallo che veniva sollevata con l’argano.
«Cosa accade?» chiese Martin a Callois.
L’altro sogghignò. «Dimenticate che non trasportiamo solo oggetti. Gli
schiavi vanno nutriti, lavati e rinfrescati, se si vuole che arrivino vivi a
destinazione.»
Martin non aveva pensato che il Cristo aveva a bordo anche schiavi.
Uscirono dal boccaporto tenuti a bada da alcuni filibustieri armati di
moschetto. Erano una ventina di uomini, una quindicina di donne e altrettanti
ragazzetti di entrambi i sessi. Erano nudi e privi di catene. Si guardavano
attorno con occhi spalancati e lacrimosi, ma non si lamentavano. Tutti loro
avevano già fatto almeno un viaggio del genere, sicuramente più lungo e,
forse, più penoso.

188
«Lavatemi questa gente!» ordinò Callois.
I pirati attesero che anche gli ultimi prigionieri fossero sul ponte, poi,
ridendo, iniziarono a bersagliarli con secchiate di acqua insaponata. Gli
schiavi si curvarono, ma probabilmente avevano patito di peggio. In tanti
avevano sulla schiena le cicatrici di passate fustigazioni o i segni di
bruciature. A uno mancava un orecchio.
«Adesso dissetateli» comandò Callois. «Un mestolo a testa, due per i più
piccoli e per le donne.»
Un mozzo reggeva un barilotto, mentre un filibustiere faceva bere i negri.
Arrivato all’altezza di uno schiavo anziano si ritrasse con raccapriccio. «Ehi,
ma questo ha delle pustole! Sembra una qualche malattia della pelle!»
«Sapete cosa fare» disse secco Callois, rivolto agli uomini armati.
Uno di questi estrasse la sciabola, la spinse contro la pancia dello schiavo
fino a un mascone e, con un colpo dell’elsa sul naso, lo fece volare in mare.
Gli altri negri, forniti di una cesta di pane, furono fatti ridiscendere
sottocoperta.
«Se uno è ammalato, possono ammalarsi tutti» spiegò Callois. «La
mercanzia è scadentissima e difficile da vendere. Guai se permettessimo a
un’epidemia di attecchire. Perderemmo il ricavato, misero in sé.»
Martin era rimasto indifferente. «Dov’è padre Le Pers? Magari avrebbe
voluto impartire l’estrema unzione, prima dell’annegamento. Molti africani
sono cattolici ferventi.»
«Quel poltrone di gesuita dorme ancora... Ah, che combinazione: eccolo
che viene. Di solito i preti sono premurosi verso gli indigeni, dopo che un
imbecille credette di scoprire che avevano simboli a forma di croce. Dei
negri, anche se convertiti, si preoccupano di meno... Potrete verificarlo voi
stesso.»
Le Pers avanzava attraverso la tolda sbadigliando. Si mise ad annusare
l’aria. «Sento profumo di carne e verdure. Non ditemi che la colazione è già
stata servita.»
«Era alle dieci e sono quasi le undici» rispose Martin, pensando all’ultimo
tocco di campanella. «Non preoccupatevi. La cucina è presso la cabina in cui
avete riposato. Qualcosa avranno ancora. Pane, brodo, alcuni granchi.»
«Mi piacciono i granchi, se stufati, sgusciati e serviti con salsina di
limone... Ma cosa accade a prua?»
Alcuni pirati vociavano indicando qualcosa in acqua. Parevano divertirsi
molto.
Callois alzò le spalle. «Uno schiavo era infetto e lo abbiamo buttato fuori.

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Deve essere riuscito a tenersi a galla e adesso è alle prese con gli squali. Lo
staranno divorando un poco alla volta.»
Le Pers non volle andare a controllare. «Spero che siano rimasti alcuni
giovanetti sani. Ne ho bisogno per la piantagione che sto allestendo attorno
alla mia parrocchia. Cavoli, tuberi, rape, insalata, avocado, papaya e ogni ben
di Dio. Mi servono braccia giovani, da crescere nell’agricoltura e da
avvicinare alla fede.»
«Quel tipo di negri non manca, il malato era uno solo» assicurò Callois.
«Dovrete però pagarli, perché eccedono la vostra quota di chasse-partie.»
«Sono solvente, ho le mie decime. Ora scusatemi, signori. Vado in cucina
prima che i cibi si raffreddino.»
Le ore successive non conobbero altri momenti vivaci. I cinquanta uomini
dell’equipaggio continuarono con le loro mansioni ordinarie, mentre nel
ponte inferiore gli artiglieri, aiutati dai mozzi, lucidavano le bocche da fuoco
e costruivano sotto l’affusto piccole piramidi di palle d’acciaio. I carpentieri
riparavano ciò che sembrava logoro o indebolito, i cacciatori di topi
gettavano a mare sacchi interi in cui ribolliva la loro selvaggina. Martin, le
mani intrecciate dietro la schiena, stava vicino alla chiesuola o sul castello di
poppa. Pensava ovviamente a Teresa, che gli sembrava lontanissima. Il resto
non lo interessava. D’altra parte, Callois e Whelan si occupavano delle azioni
ordinarie per orientare la velatura.
Le Bon gli si avvicinò, la pipa tra i denti. «Sapete, capitano? Tornare alla
Isla de la Vaca è un poco recuperare la mia gioventù. Non ci metto piede da
tre lustri.»
«Cos’ha di speciale quell’isola?»
«È stata a lungo una riproduzione in piccolo della Tortuga o di Petit-
Goâve. Direi la terza isola in ordine di preferenza. Un buon approdo, ben
protetto e facile da difendere. Acqua e cacciagione. Indigeni arawak nostri
amici. Parecchi cannoni sulla costa. Poi ha cominciato a decadere, non so
perché. I villaggi si sono svuotati. Di tutte le taverne rimase solo quella di un
ex pirata detto “L’Araignée”, tanto era magro. Era già decrepito quindici anni
fa, adesso sarà morto.»
«Perché andiamo proprio lì?»
Il volto grinzoso di Le Bon mostrò un vago divertimento. «Non lo avete
capito? No, non potreste... Godefroy è un nostalgico dei Fratelli della Costa.
Crede che, malgrado tutti i compromessi che abbiamo fatto e la nostra
sottomissione al re di Francia, noi si possa tornare al passato. Quando la
Filibusta era una specie di repubblica indipendente, che obbediva a Parigi se

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le pareva e mostrava un limitato rispetto verso il governatore. Ladro quanto
gli altri.»
«Non lo credete possibile?»
«No.» Il vecchio nostromo mostrò la sua dentatura irregolare, ingiallita dal
tabacco. «Possiamo tornare nei luoghi di un tempo, ma questo non cancellerà
la verità. Ci siamo ribellati perché un furfante mandato da Luigi ci ha
turlupinati. Non sarebbe mai accaduto con Michel le Basque, con Montauban,
con Van Hoorn, con De Grammont e con tutti gli altri. Abbiamo nove
barchette che trasportano chincaglieria e schiavi mezzi morti. Quale riscossa è
possibile, con un simile arsenale?»
«Dunque è la fine di una storia? La Tortuga è perduta per sempre?»
«Ricomincerà, ma non con noi. Con me no di certo.»
Quella sera sulla tolda, prima di andare a dormire, vi furono cori e
qualche danza. Merito degli alcolici distribuiti. Martin presiedette, nel
quadrato, a una cena tra ufficiali (Callois e Whelan) e clero (Le Pers). Solo il
prete parlava, gli altri mangiavano poco e bevevano molto. Vino di Málaga,
principalmente. Dolciastro e inebriante.
Martin andò a coricarsi insicuro sulle gambe. Dormì profondamente,
finché non lo svegliò un grido proveniente dalla coffa.
«Terra in vista! È la Isla de la Vaca!»

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38 - Si spartisce

L’Île à Vache, di modeste dimensioni, appariva completamente ricoperta di


vegetazione, senza traccia di attività umane. Fu necessario circumnavigarla
quasi per intero per trovare un molo smozzicato, una passerella, vari
magazzini ormai divorati e sfondati dalle mangrovie e diversi cannoni
arrugginiti che non sparavano da un ventennio. Bellissimi uccelli multicolori,
principalmente fenicotteri, si alzavano in volo o correvano sull’acqua. Grossi
coccodrilli si tuffavano pigramente e galleggiavano simili a tronchi. Erano
l’unico indice di vita.
Non vi era però dubbio che la baia apparisse sicura. Larga, infossata, era
protetta da scogli e barriere coralline che ne restringevano l’accesso. Il
Serpente penetrò per primo e gettò l’ancora. Il resto della flotta seguì sullo
stesso tracciato. Il Cristo e il Cerf-Volant furono gli ultimi vascelli ad
ammainare le vele e a ormeggiarsi. Il cielo era sgombro, il mare calmo, l’aria
ancora frizzante. Stagnava un aroma di frutti tropicali.
Iniziò la discesa a terra degli uomini autorizzati, mentre schiavi e
mercanzie restavano a bordo. Appena affondati gli stivali nella battigia, ricca
di granchi che scappavano sghembi e invasa dalle conchiglie vuote, Martin si
rese conto che l’isola era meno deserta di quanto apparisse da lontano. Erano
visibili, tra i palmizi, ragazzetti nudi dalla pelle scura che si muovevano da un
cespuglio all’altro nell’ingenua speranza di non essere notati. Godefroy gridò
alla loro volta: «Ero un buon amico dell’Araignée, vostro padre. Non
abbiamo cattive intenzioni. Fatemi parlare con vostra mamma, se è ancora
viva».
Trascorsero alcuni minuti, poi un’indigena arawak molto anziana uscì
zoppicando dalla selva. Si appoggiava a un bastone. Vestiva una sorta di toga
che le scendeva oltre le ginocchia. Aveva piedi nudi dalle dita ritorte
dall’artrite.
Parlò in un buon francese. «Vi riconosco, capitano Godefroy. Se potessi,
vi ospiterei come un tempo. Purtroppo, da quando sono rimasta vedova, qui

192
tutto è andato in malora. Riesco a campare dei prodotti dell’orto e del mare
grazie ai miei figlioli, che sono buoni pescatori e contadini. Qui approda una
nave ogni sei mesi, e solo per rifornirsi di acqua. Non credevo che i Fratelli
della Costa esistessero ancora.»
Godefroy si tolse il cappello e fece un inchino. «Sono appena rinati,
madama. D’ora in avanti saremo ospiti fissi. Avete ancora la vostra locanda?»
La donna indicò la foresta. «La vegetazione ha coperto quasi tutto. Le
capanne sono cadute in rovina, salvo quella in cui abito io. Non c’è alloggio
che sia rimasto in piedi.»
«Potete servirci da mangiare?»
«Non per tanta gente.»
«Mi riferisco ai capitani. Nove soltanto.»
«Mando i miei ragazzi a pescare. Qualcosa troveranno. Non ho però letti
né vino.»
«A quello che manca penseremo noi.»
Poco più tardi i comandanti erano a tavola, mentre i filibustieri scesi a
terra sostavano all’ombra, in attesa che fosse il momento di attuare il chasse-
partie. Il pasto consisteva solo in granchi, il cui guscio andava spezzato con
un martelletto di legno, più qualche foglia di insalata e dei pomodorini vizzi.
Abbondante invece la frutta, servita su stoviglie scheggiate. Il vino veniva
dalle navi e per fortuna era in abbondanza, anche se non sopraffino. Ogni
tanto delle scimmie scendevano dagli alberi e cercavano di rubare qualche
alimento, finché Bouc non ne fulminò una con una pistolettata a bruciapelo.
Da quel momento non se ne videro più.
«Amici» esordì Godefroy, in piedi. Era così basso di statura che sembrava
seduto, se non fosse stato per il ventre prominente che oscurava il cibo che
aveva davanti. «Abbiamo portato a termine un buon colpo. Quel bougre di
De Pointis ci ha derubati di ogni cosa. Noi abbiamo recuperato un poco di
merce, tanto da garantire agli equipaggi una paga minima. Soprattutto a chi
ha perso un occhio, una gamba, una mano. Non potremo rispettare per intero
il chasse-partie concordato all’imbarco, ma fare qualcosa sì.»
Macary non sembrava molto fiducioso. «Trasportiamo merci assortite,
schiavi malaticci, pochissimo denaro liquido. Non so se gli uomini saranno
contenti.»
Godefroy gli lanciò un’occhiata provocatoria. «Sempre pessimista, vero?
Forse ti rode non essere più l’ammiraglio. Se hai una proposta alternativa, è il
momento di dirla.»
«Affidarci a Ducasse, appena rientrerà dalla Francia. Lui ha entrature

193
presso il re. Può fare in modo che ci sia resa giustizia.»
Godefroy alzò le braccia. «Il re! La Francia! L’aristocrazia! Siamo campati
cinquant’anni in questi mari senza fare caso a tutto questo! Una quota di
bottino al governatore, e lì finiva ogni obbligo. L’errore è stato proprio
asservirci a un potere lontano, permettere che ci comandasse. Così siamo
tornati a essere i servi di chi ci governava in patria e a dipendere dalle sue
elemosine.»
Pierre assentì con un gesto vigoroso del capo. «Godefroy ha ragione»
disse ai compagni. «Pensate a chi eravamo prima di arrivare nei Caraibi. Ciò
che la Francia disprezzava. Contadini morti di fame, marinai arruolati a forza
e trattati come servi, gente perseguitata per la religione che professava,
uomini resi schiavi per debiti o per delitti trascurabili. Qui ci siamo
emancipati, finché non abbiamo avuto l’imprudenza di porgere il collo al
nostro antico carnefice. Ben lieto di farci combattere per suo conto e poi di
derubarci.»
Macary non era convinto. «Ducasse non è quel tipo di persona.»
«No, non lo è. Però è pur sempre un funzionario che obbedisce alla
corona. Buon pro gli faccia.» Pierre alzo il bicchiere. «Sapete cosa vi dico,
fratelli? Che Luigi XIV vada a farsi fottere. Non dobbiamo combattere le sue
guerre: abbiamo le nostre a cui pensare. Crepino i De Pointis e tutti gli altri
aristocratici con due o tre cognomi. La Filibusta non ha bisogno né di re, né
di vescovi, né di altre scimmie con la parrucca!»
Esplose un brindisi fragoroso, anche se Martin si accorse che alcuni capi,
come Galet o Le Page, meno allegro del consueto, dovevano nutrire qualche
dubbio. Godefroy proponeva un atto di indipendenza che avrebbe avuto un
senso quando la Filibusta prosperava, disponeva di centinaia di navi e poteva
contare su qualche migliaio di uomini. Ma adesso? Non aveva nemmeno più
una base vera e propria, a meno di non considerare tale l’isolotto in via di
inselvatichimento su cui erano approdati.
Terminato il pasto, avvicinò Le Page. «Che ne pensate di questi progetti?»
L’altro finalmente accentuò le fossette che gli contornavano la bocca.
«Penso che la nostalgia sia il meno affidabile degli esplosivi. E che cannoni
caricati a ricordi non facciano grandi danni.»
«Perché non lo avete detto?»
«Perché non avrei saputo quali alternative proporre. In attesa del ritorno
di Ducasse, tanto vale assecondare i disegni repubblicani di Godefroy. Non
sarò io a cercare di fargli capire quanto spelacchiate siano le piume che porta
sul cappello e quanto si sia ingrossata la sua pancia.»

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Era il momento tanto atteso della ripartizione. I pirati si riunirono in una
radura, accompagnati dai bucanieri, dai negri liberi, dagli indigeni e dai
coloni. Sedettero sotto le palme, capitani inclusi. Godefroy rimase al centro
dello spiazzo, protetto dal sole da un ombrellino.
«Fratelli» disse «sono purtroppo assenti i compagni malati, una
cinquantina circa, e chi è rimasto a bordo per ragioni di servizio. Prego padre
Le Pers di recitare una preghiera per i primi, perché abbiano salva la vita e
continuino la nostra avventura.»
Il gesuita, colto un poco di sorpresa, si alzò in piedi e borbottò in latino
qualcosa che nessuno capì. «Amen» dissero tutti. I cattolici si segnarono.
«Bene» proseguì Godefroy. «Il capitano Colong ha fatto il calcolo del
bottino. Un milione e mezzo di scudi circa, tra merci varie. Un certo numero
di schiavi abbastanza male in arnese. Farina e vino, polli e maiali. Pochissimo
contante. A parte il denaro liquido e gli schiavi, che possono essere distribuiti
anche subito, la cosa migliore è cercare un porto dove provare a vendere la
chincaglieria, e solo dopo provvedere alla suddivisione in base al chasse-
partie.»
«Cosa sarebbe questa “chincaglieria”?» domandò Macary.
«Quadri. Ostensori e arredi sacri. Tele ricamate. Tappeti. Statuette e
orologi. Immagini di santi. Stoviglie di porcellana. Non saprei nemmeno da
dove cominciare per fare un’equa ripartizione di questa roba.»
Un colono alzò la mano. «Signore, non erano questi i patti stipulati col
governatore Ducasse quando ci ha strappato alle nostre case per arruolarci.»
Godefroy ebbe un accesso di collera. «Vedete Ducasse in giro? Del resto,
voi habitants siete gli ultimi a potere parlare. Avete avuto lauti anticipi e li
avete sprecati nei bordelli.» Più calmo, si rivolse ai suoi. «Dove andiamo,
dunque?»
«A Curaçao» rispose Bouc. «Là si commercia in schiavi e si compera
qualsiasi cosa.»
«Impossibile. Sono olandesi. Ci piaccia o no, siamo in guerra col mondo.
Non dovevamo finire in questa trappola.»
«Torniamo a Saint-Domingue, allora» propose Macary. «Qualsiasi
approdo è anche un mercato.»
Godefroy stava per replicare quando, dalla coffa del suo brigantino
Serpente, qualcuno gridò facendosi udire fino a terra: «Flotta nemica in
vista! Almeno venti vascelli! Molti battono bandiera inglese!».
Urla simili rimbombarono da una coffa all’altra delle navi della Filibusta.
Godefroy lasciò cadere l’ombrellino e alzò le braccia. «A bordo! A bordo!

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Dobbiamo lasciare l’isola prima che ci schiaccino entro la baia!»
Martin corse alla sua scialuppa, che fu tra le prime a prendere il largo.
Appena a bordo del Cristo colse l’entità del nemico. Navi da guerra in
perfetta formazione, centinaia di cannoni, vele spiegate. La bandiera inglese,
ma anche quella olandese, che garrivano.
«Quanto tempo abbiamo prima che ci siano addosso?»
«Un’ora circa, forse meno.»
«Levare l’ancora, lesto. I cannoni pronti al tiro entro mezz’ora. Rischiamo
di lasciarci la pelle, su questo fottuto isolotto.»

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39 - Tentativi di fuga

L’Île à Vache ormai alle spalle, il Cristo veleggiò verso il largo, cercando di
tenere dietro al grosso della flotta. Non era facile, a pieno carico e con uno
scafo così voluminoso. I nemici avevano navi altrettanto possenti, ma più
leggere. Si trattava principalmente di corvette fatte per la guerra, meno agili
dei brigantini pirati però meglio manovrabili di un galeone.
Allarmato, Martin disse a Callois: «Fate spiegare ogni vela, incluse quelle
di rinforzo».
L’ordine fu immediatamente trasmesso. Tutti si misero a correre. I
paterazzi furono strattonati per issare controvelacci e controvelaccini. Alla
fine il Cristo somigliava a un’esposizione di biancheria, oscillante a ogni
spirare di vento. Era un rischio, ma cos’altro si poteva fare? Il Cerf-Volant,
l’altro veliero arretrato, stava seguendo l’esempio, pericolosamente inclinato
a tribordo.
Dal cannone di prora di uno dei vascelli inglesi partì una cannonata. Prima
si vide il lampo, poi se ne udì il tuono. La palla finì in acqua, a molta distanza
dal Cristo. Fu l’inizio di un bombardamento sistematico, con un colpo ogni
tre minuti circa. Sparava una nave sola: forse considerava il bersaglio facile.
Questo non spaventò né Martin né la ciurma. «Artiglieri ai pezzi!» gridò
Callois. «Pronti a rispondere al fuoco! Virare di trenta gradi a tribordo!»
Furono riorientate le vele quel tanto che bastava, si navigò di bolina. Nel
ponte inferiore, i cannoni serviti a babordo erano sei soltanto. Pochi, contro
lo spiegamento avversario. Bisognava accontentarsi.
«Fuoco a volontà!» urlò Martin. «Di cannone e di moschetto! Fuoco
celere!»
Da sottocoperta partì una bordata impressionante che scosse il galeone. I
pirati e i bucanieri, curvi dietro le fiancate, spararono con le armi lunghe. Chi
non ne aveva batté le spade alle basi degli alberi, per cominciare la rengaine,
il canto di morte della Filibusta. Erano stati scovati due tamburi che, percossi
furiosamente dai mozzi, diedero il loro contributo al frastuono che saliva.

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Seguirono altre bordate, in successione. Forse non fecero danni gravi:
impossibile dirlo, con il fumo grigio e fittissimo che si era alzato e bruciava
gli occhi. Ma lo scopo non era riuscire ad affondare qualche inglese. Era
piuttosto sfuggire alla morsa, rallentare gli assalitori e cercare di raggiungere
Godefroy e i suoi.
Intanto, il Cerf-Volant stava imitando il Cristo. Curvo a tribordo, sparava
con tutto ciò che aveva. Più che un vascello, pareva una nuvola
fiammeggiante. Quando la caligine si dissipò un poco, Martin constatò che
un piccolo risultato era stato ottenuto. La flotta anglo-olandese, benché
sostanzialmente intatta, era rimasta quasi immobile e non usava le colubrine e
gli altri pezzi di prora. Dava l’idea di aspettare che quell’inferno si calmasse
per infliggere il colpo risolutivo.
Nel frattempo le navi di Godefroy e degli altri avevano ammainato
qualche vela e rallentato di molto la loro andatura. Non si trattava solo di un
gesto fraterno. Il Cristo e il Cerf-Volant trasportavano la maggior parte delle
mercanzie razziate a Cartagena. Perderle avrebbe significato sancire l’inutilità
della seconda incursione, visto che il denaro liquido garantiva alle ciurme un
migliaio di scudi a testa: appena sufficienti per una settimana di bisboccia.
L’oro e i preziosi di maggior valore erano a bordo dei vascelli tardivi e
minacciati. Bisognava approfittare della momentanea esitazione degli inglesi.
«Tutte le vele orientate sottovento!» comandò Martin. «Dobbiamo
correre!»
«Non servirà se non alleggeriamo lo scafo» obiettò Callois.
«D’accordo. A mare statue e campane.»
«Io getterei anche gli schiavi.»
Martin guardò perplesso l’ufficiale. «Perché? Non pesano molto.»
«Sono la merce di minor valore che abbiamo a bordo.»
Dopo un attimo di riflessione, Martin annuì. «E sia. Eseguite.»
L’operazione fu condotta a termine in un tempo brevissimo, perché la
fretta contagiava tutti. Sepolcri di santi, pale d’altare e bronzi finemente
lavorati finirono in acqua.
Padre Le Pers, che fino a quel momento era rimasto in cabina, uscì fuori
angosciato. Raggiunse Martin, che si teneva accanto alla barra del timone, di
quelle a ruota in uso da pochi anni. «Capitano! State distruggendo gli
ornamenti su cui contavo per la mia parrocchia!»
«Lo so, ma non c’è alternativa.»
Fu poi la volta degli schiavi, spinti a frustate fuori dal gavone di prua.
Sembrava che non capissero cosa stava accadendo. Tossivano per il fumo,

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avevano gli occhi colmi di terrore. Si lasciarono spingere fino alla masca
senza elevare proteste. Una folla di filibustieri li circondò, sovreccitata e a
suo modo festante. I primi negri, feriti da colpi di punta, furono costretti a
gettarsi in acqua.
Le Pers portò le mani alla chierica, sconvolto. «Non vorrete ucciderli
tutti?» gridò a Martin. «Ne volevo comperare parecchi! Non potete farmi
questo, capitano!»
Martin, pur intimamente turbato, rimase impassibile. «Faccio ciò che devo
fare per salvare il Cristo.»
Sbarazzatosi di tutti gli schiavi e di altri oggetti pesanti, finalmente il
galeone raggiunse una velocità accettabile. Altrettanto accadde sul Cerf-
Volant, che aveva a sua volta eliminato la zavorra mercantile e umana.
Riuscirono ad avvicinarsi a Godefroy e alle navi leggere tanto da arrivare a
portata di voce.
Peccato che non fossero soli. Il fumo si era ormai dissipato e si poteva
vedere lo spiegamento di forze anglo-olandese che giganteggiava in una
stretta manovra di inseguimento. Dai velieri non si sparava, data la scarsa
efficacia dei cannoni prodieri. Lo scopo vero era piombare sull’assieme dei
filibustieri e regolare i conti una volta per tutte.
Adesso erano le corvette inglesi a fare chiasso. Si udiva un rullare
incalzante di tamburi, destinato a guidare i preparativi di attacco. L’Union
Jack saliva sui pennoni. Torme di fucilieri prendevano posto a ranghi lungo
l’impavesata. Le finestrelle si aprivano per lasciare sporgere centinaia di
bocche da fuoco.
«O cambia il vento o ci sono addosso» disse Martin.
Callois alzò le spalle. «Se cambia, cambia anche per noi. Solo una
tempesta potrebbe salvarci. Qualcosa che li scombinasse. Disgraziatamente,
in cielo non c’è una nuvola.»
Godefroy si sporse dal castello di poppa del Serpente. Portò le mani
aperte ai due lati della bocca. «È bello rivedere il Cristo! Come avremmo
fatto senza la nostra cassaforte?» gridò. Non si era accorto che le navi
arretrate si erano liberate del carico. «Solo che adesso dovremo combattere.
Fuggire ancora è impossibile.»
«Quali sono gli ordini, ammiraglio?» chiese Martin.
«Cercare di abbordare. Una battaglia navale sarebbe una sconfitta sicura.
Invece, su un ponte e con una sciabola in pugno, noi siamo più forti di
chiunque altro.»
«Suggerite dunque di lasciarci abbordare?»

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«Sì, capitano. Riducete la velatura. Li dobbiamo avere a fianco e soffocare
i loro cannoni con i nostri scafi. Sono soldatini, senza artiglieria non valgono
nulla.»
Martin era molto perplesso, tuttavia disse a Callois: «Va bene, vediamo di
eseguire. Abbassiamo le vele di straglio e la randa, poi controvelaccio e
controvelaccino. Infine le vele di trinchetto e di maestra. Appena avremo una
corvetta al fianco, spariamo con i cannoni, ma principalmente cerchiamo di
urtarla. Che intanto si sia pronti ad arrembare».
«È un po’ avventato. Non avremo al fianco una corvetta sola.»
«Così ha deciso Godefroy e così faremo.»
Gli ordini risuonarono per la tolda, sottolineati da Whelan a colpi di
fischietto. Sartie e griselle divennero rosari umani, con gli uomini addetti
all’abbordaggio che si inerpicavano con energia selvaggia per acquattarsi,
carichi di armi, su coffe e pennoni, le cime in pugno. Molti lanciavano grida
scimmiesche, ma altri preferivano stringere i denti sui pugnali che avrebbero
usato di lì a breve.
Martin era sovreccitato, ma anche incerto. Lo consolava il fatto che la
masnada al suo comando pareva conoscere regole tramandate, a lui ignote,
tali da sviluppare una mirabile sincronicità di movimenti. Il caos sul ponte
era apparente, la bolgia nascondeva una disciplina sotterranea. Ognuno
conosceva le proprie mansioni, senza che un ufficiale gliele elencasse in
dettaglio.
La corsa del Cristo decelerò sensibilmente, e a quel punto il nemico sparò.
Dapprima furono le carronate, quei cannoncini corti e tozzi che molte
corvette inglesi avevano a prua. Una parte del castello di poppa del galeone
crollò all’istante. Era solo un antipasto del bombardamento vero e proprio.
Quando cominciò sul serio, si fece sentire.
Martin aveva scarsa esperienza di tecniche navali, però credette di capire le
intenzioni dell’ammiraglio Neville. L’armata anglo-olandese stava formando
una specie di forcone a tre punte. La punta centrale era rappresentata da
vascelli che puntavano direttamente contro il bersaglio, ed era su questi che
le carronate erano in azione. Le altre due ali si stavano disponendo a
semicerchio, in modo da imprigionare il naviglio nemico.
Fu dai vascelli schierati a tenaglia, che ormai presentavano le fiancate, che
partirono le bordate infernali. Martin si rese conto che Godefroy aveva
esagerato in ardimento. I velieri della Filibusta avevano in prevalenza pezzi
da diciotto libbre, ma non mancavano quelli da dodici. Artiglieria troppo
leggera. Per non parlare del numero. Si scatenò una guerra tanto assordante

200
da essere quasi silenziosa. Dopo ogni fiammata veniva un rombo soffocato
simile a una specie di crepitio proveniente dal cielo. Monotono e continuo.
Questa volta il fumo emesso favoriva Neville e i suoi. Diventavano una
minaccia invisibile, marcata da scaturigini di lampi.
«Sparate! Sparate!» gridava Martin, mentre vedeva la sommità dell’albero
di trinchetto spezzarsi di netto e inclinarsi col suo fascio di velaccini.
Era un’esortazione superflua. Dal ponte inferiore gli artiglieri si
sforzavano senza posa di replicare ai colpi. Presto una parte della fiancata fu
sfondata e almeno due dei pezzi caddero in mare, assieme ad alcuni degli
uomini che li servivano.
Non rimaneva che una speranza. Si attuò. Un gigantesco veliero inglese, di
quelli che procedevano diritti, affiancò il Cristo a mancina. Quasi lo coprì.
Callois afferrò il timone e lo fece ruotare a velocità vertiginosa.
«Cozziamo a babordo!» gridò agli uomini. «Forza con i grappini di
arrembo!»

201
40 - Porco diavolo

I filibustieri si lanciarono a grappoli sul vascello inglese con l’impeto bestiale


di sempre. I primi nemici che caddero sotto le loro lame furono sgozzati
come capretti, e il sangue cominciò a scorrere a ruscelli, per poi defluire in
mare attraverso gli ombrinali.
Intanto i due scafi, imprigionati dai rampini per le fiancate, stridevano
l’uno contro l’altro con cigolii acutissimi. I cannoni, resi inutili dall’abbraccio
dei velieri, ormai tacevano. Rombavano invece quelli delle due flotte in lotta.
Sarebbe stato dovere di Martin guidare l’assalto, e stringeva in pugno la
sagola che gli avrebbe permesso di saltare sull’altro legno. Volle prima
controllare la situazione generale, da cui si era distratto.
Non c’era dubbio, la piccola flotta della Filibusta era condannata alla
sconfitta. Alcuni brigantini, come i due di Macary e il Serpente, erano riusciti
ad abbordare e, per il momento, se la cavavano meglio. Altri restavano
esposti al cannoneggiamento furioso degli anglo-olandesi e finivano a pezzi.
Il Gracieuse era inclinato su un fianco, il Mutine aveva perso due alberi su
tre. L’Anglais era in fiamme.
Quando cercò con gli occhi il Cerf-Volant, per controllarne le condizioni,
vide ciò che avrebbe preferito non vedere. La facile profezia di Callois si era
fatta concreta. A tribordo del Cristo era apparsa una fregata olandese dalle
murate alte quanto quelle del galeone. Due file di cannoni erano pronte al
tiro. Si trattava di un fior di vascello, per il quale il nome di “fregata” era
riduttivo. Possedeva batterie dislocate su due ponti, e forse alcuni pezzi erano
da quarantadue libbre. Capaci di distruggere una fortezza, figurarsi una nave
mezzo morta.
Martin capì che la sua partecipazione all’abbordaggio diveniva secondaria.
Era più urgente vedere se, nel ventre del Cristo, vi fosse ancora qualche
cannone utile ad affrontare la nuova minaccia. Scese di corsa al più vicino
boccaporto. Al ponte inferiore trovò il disastro prevedibile. La fiancata
sfondata, stretta a quella del veliero inglese, imbarcava acqua. I cadaveri di

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chi aveva servito ai pezzi galleggiavano in bagni di schiume sanguinee. A
tribordo, solo due cannoni rimanevano in posizione, con palle e barilotti di
polvere a lato dell’affusto. Le altre bocche da fuoco erano rovesciate, oppure
ondeggiavano trattenute dalle corde. Se queste si fossero spezzate, avrebbero
distrutto le fiancate in pochi minuti.
Con sua grande sorpresa, Martin si imbatté in padre Le Pers. Il grosso
gesuita annaspava con l’acqua alle ginocchia. Era in preda al terrore. «Cosa
fate qui?» gli chiese.
«Dove dovrei essere?» piagnucolò il religioso.
«Avete mai sparato con un cannone?»
«No, mai.»
«È tempo di imparare. Seguitemi. E smettetela di singhiozzare.» Spinse Le
Pers verso uno dei cannoni, che cercò di orientare strattonando i cavi per
muovere le rotelline dell’affusto. La polvere c’era già. «Mettete in canna il
tappo di legno, poi un sangrenel.»
«Cosa sarebbe un sangrenel?»
«Una di quelle borse che avete vicino ai piedi. È pesante, contiene
frammenti di metallo. I tappi le sono accanto. Gettate dentro la borsa intera,
premetela con lo scovolo e fatevi da parte.»
Ansimando per lo sforzo, Le Pers eseguì quanto richiesto. Rimaneva il
problema maggiore. Dove trovare la fiamma da accostare al focone? Dio
forse proteggeva Martin, con moderazione. Accorse infatti un ragazzetto con
una fiaccola in mano. Avrà avuto quindici anni, gli occhi azzurri coperti da
un gran ciuffo biondo. Perdeva sangue dal braccio sinistro. Un’aria da
monello infelice.
«Chi sei?» gli domandò Martin mentre prendeva la torcia.
«Mi chiamo Arnaud. Sono un mozzo. Ero ai cannoni di tribordo, a servire
i pezzi. Sono rimasto vivo solo io.»
«Aiutami a spingere questo accidente, da solo non ce la faccio.»
Con fatica disumana il cannone fu fatto sporgere dalla finestrella. Martin
accostò la fiamma al focone. Dopo l’esplosione il rinculo fu violento, frenato
solo dalle corde.
La risposta olandese giunse immediata. Una bordata impressionante che
squarciò la fiancata del Cristo in molti punti. Rimanevano pochi minuti
prima che ne seguisse un’altra. Il colpo non era però stato inutile. La
vicinanza tra le due navi permetteva di udire i lamenti e le grida di chi aveva
avuto il corpo dilaniato da schegge contorte di metallo.
«Arnaud, carica la polvere e schiacciala con lo scovolo» ordinò Martin.

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«Le Pers, cercate due palle unite da una catena. Infilatele nella canna caricata,
questa volta senza tappo di legno.»
«Non so se avrò la forza...»
«Sì che l’avrete. Vi giocate la vita: la vostra e la nostra. Sbrigatevi.»
Il gesuita trovò le palle incatenate, ma erano in effetti troppo pesanti per
lui. Martin corse ad aiutarlo. Dopo che il mozzo ebbe versato la polvere da
sparo e l’ebbe premuta, le lasciarono scivolare dentro il calice dell’arma.
Madido di sudore, Martin corse dietro il pezzo. «Vieni, Arnaud!
Spingiamo ancora fuori l’arnese! Aiutateci anche voi, padre!»
Il cannone fu fatto scorrere in avanti: un’operazione che normalmente
richiedeva l’impegno di quattro o cinque serventi. Eppure bisognava fare di
necessità virtù. Riuscirono nell’intento un uomo magrolino, un ragazzino e
un prete grasso. Fu chiaro che, le braccia rotte, non avrebbero potuto ripetere
l’operazione.
Arnaud aveva appeso la torcia a un anello conficcato nella fiancata. La
porse a Martin. Questi la prese con le dita che gli tremavano e l’avvicinò al
focone un attimo prima che gli olandesi sparassero a loro volta.
Lo scafo malandato del Cristo ebbe una specie di sobbalzo. Il pezzo tuonò
e rinculò, facendo stridere le corde che lo trattenevano. La nube di fumo non
permise di vedere nulla per alcuni istanti, poi Le Pers esclamò, incredulo:
«Ce l’abbiamo fatta! Abbiamo segato alla base l’albero di maestra! Sia lodato
Iddio!».
Martin non credeva alle sue orecchie. La fregata olandese sparò a sua
volta. Solo che la caduta dell’albero l’aveva inclinata un poco, tanto da
rendere l’alzo impreciso. Le palle grandinarono, ma per la maggior parte
finirono sul ponte del Cristo, che devastarono. Solo un paio aprirono nuove
ferite nella fiancata, facendo entrare acqua senza tuttavia sommergerlo.
Martin terse col dorso della mano il sudore che gli bruciava gli occhi.
«Qui non abbiamo più nulla da fare. Torniamo sulla tolda.» Aveva il viso
completamente annerito dalla polvere. Lui e i compagni somigliavano a
spazzacamini. Il difficile fu reggersi in equilibrio, tanto le gambe gli
tremavano. Salì in superficie, dove il venticello salmastro gli diede un poco
di energia. Il ponte superiore offriva uno spettacolo penoso. Cavità, pennoni
abbattuti, intrichi di sartiame, principi di incendi. Lo consolò vedere che la
fregata olandese, trascinata dai rottami del maestro, non teneva la posizione e
sbandava, allontanandosi.
Sul vascello degli inglesi si combatteva ancora spietatamente. Forse i
nemici erano soldatini. Malgrado ciò resistevano. La loro fucileria si era

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attestata a poppa, mantenendo ranghi abbastanza regolari. La prua era però in
mano ai pirati, bercianti come di consueto. Ogni tanto partivano all’attacco
cercando di impegnare i nemici all’arma bianca o in duelli a colpi di pistola.
Dovevano ogni volta arretrare sotto le pallottole dei moschetti.
Martin cercò un lembo volante di sartiame e, impegnando le poche energie
che gli rimanevano, saltò sull’altra nave, all’altezza della serpa, subito sotto il
bompresso. Lì trovò Callois, che lo aiutò ad atterrare in piedi.
«Siete stato voi a disalberare gli olandesi?» gli chiese l’ufficiale. «Un colpo
da maestro che passerà agli annali della Filibusta.»
«Più che altro un caso... Qui come stiamo andando?»
«Siamo in stallo. Abbiamo preso le carronate, ma sono inchiodate. A
poppa non riusciamo ad andare, il fuoco è troppo fitto. Quanto alla
situazione delle nostre navi, la potete vedere anche voi. È tragica.»
Non era difficile capirlo. Avvolte dalla morsa nemica, le imbarcazioni
della Filibusta erano in fiamme o in posizione sghemba, squarciate dalle falle.
Il bombardamento era incessante. Dell’andamento degli abbordaggi non si
scorgevano i dettagli, ma il grosso della flotta anglo-olandese subiva
certamente meno danni di quelli che infliggeva.
Nello scrutare il mare Martin sussultò. «Vedo a molta distanza un legno in
avvicinamento... o almeno mi pare di vederlo, con tutto questo fumo. Avete
un cannocchiale?»
«No» rispose Callois.
Martin chiamò Arnaud, che boccheggiava aggrappato allo straglio.
Il ragazzo si staccò dal suo sostegno e scese nella serpa. «Comandate.»
«Sei stato già eroico abbastanza, ma ti chiedo un ultimo atto di valore.
Dovresti tornare sul Cristo e raggiungere la chiesuola della bussola, che è
intatta. Lì troverai un cannocchiale. Me lo dovresti portare.»
Benché esausto, Arnaud disse: «Vado». Si inerpicò come un gatto sui fasci
di manovre recise e sparì oltre il mascone.
Martin guardò Callois. «Le carronate catturate erano dotate di polvere?»
Dovette ripetere la domanda, tanto era intenso in quel momento il crepitare
della fucileria.
«Sì. Alcuni barilotti.»
«Allora possiamo far saltare in aria un po’ di moschettieri inglesi. Capite
cosa intendo?»
«Ci avevo pensato, capitano. Solo che se l’esplosione si propaga alla
santabarbara saremo tutti quanti a saltare.»
«Credo che valga la pena di rischiare. Magari, per precauzione...»

205
Martin si interruppe. Era tornato Arnaud e gli porgeva il cannocchiale. Lo
snodò e lo puntò verso il mare, in direzione della nave lontana che gli era
parso di vedere.
«Sì, un’imbarcazione si sta avvicinando a vele spiegate» confermò. «Mi
pare che stia segnalando. È un linguaggio che non conosco.»
«Date a me.» Callois accostò la pupilla all’oculare. Ci volle qualche
secondo prima che riuscisse a mettere a fuoco. «Avevate ragione, capitano. È
un brigantino a palo di forma un po’ antiquata. A prora se ne legge il nome:
Neptune.»
«Ne capite i segnali?»
«Sì. POR... CO DIA... VOLO.»
Martin rimase sbalordito. «”Porco diavolo”? Siete sicuro di avere
interpretato bene?»
«Sicurissimo. PORCO DIAVOLO TENE... TE DU... RO STO ARRI...
VANDO.»
«Vedete una qualche bandiera?»
«Aspettate... Sì, in cima all’albero di maestra.» Callois abbassò il
cannocchiale, emozionato. «È la Jolie Rouge.»

206
41 - Salvezza provvisoria

Fu bizzarro, per chi non conosceva i precedenti, l’entusiasmo dei filibustieri


al vedere avvicinarsi un tre alberi malmesso, con una quarantina di cannoni,
di dimensioni modeste. Eppure in molti sembrarono dimenticare la loro
condizione sfavorevole. Sventolarono i cappelli e cominciarono a gridare: «È
Lorencillo! È Lorencillo!».
Il grido ebbe effetto anche sugli assalitori. La fama di invincibilità del
Neptune li intimidiva. Si vide l’ammiraglia inglese sottrarsi all’assedio che
guidava e prendere il largo, scortata da una fregata. Neville aveva paura.
«Occupiamoci dei fucilieri» disse Martin. «La mia idea è di svuotare per
metà un barilotto e lanciarlo tra i loro piedi, con una miccia corta. Dopo sarà
una scommessa. Se esplode la santabarbara, amen. Finisce la nostra
avventura. Se ci va bene, gli inglesi resteranno indifesi.»
Per quanto ancora perplesso, Callois disse: «Sarà fatto, capitano». Uscì
dalla serpa aggrappandosi al bompresso.
Martin osservò quanto stava accadendo attorno. Il Cerf-Volant era ormai
affondato, ne emergeva solo la prua. I sopravvissuti, aggrappati a tavole e a
frammenti di fiancata (a parte i pochi che sapevano nuotare), cercavano di
sfuggire ai mulinelli e di dirigersi verso la carcassa del Cristo.
Più al largo la situazione era confusa. Dopo la fuga dell’ammiraglia, i
vascelli anglo-olandesi cercavano di districarsi dagli abbordaggi e di
allontanarsi. Il Neptune era sopraggiunto e non risparmiava nessuno dei suoi
quarantaquattro cannoni. Rimase anzi l’unica nave a sparare, contrastata da
colpi radi e irregolari. Nella flotta fino a poco prima arrogante e vittoriosa
ogni voglia di resistere era venuta meno. Dominava l’ansia di andare via.
Martin udì Callois gridare: «Uomini, si torna sul Cristo! Lesti!». Whelan
gli fece eco.
Rapidi e agili come erano arrivati, i pirati si gettarono sul loro galeone,
saltando di cima in cima. Martin afferrò una grisella tranciata e fece lo stesso.
I fucilieri inglesi erano impegnati nell’ennesima scarica.

207
«Tagliate i grappini! Tagliate i grappini!» urlò Callois quando atterrò sul
ponte.
Meno di un minuto dopo sulla corvetta inglese ci fu un’esplosione
spaventosa. L’intero castello di poppa fu spazzato via, assieme a buona parte
dei suoi difensori. Si levarono fiamme altissime, che appiccarono fuoco alle
vele, incluse quelle di mezzana del Cristo. La vampata si propagò da una
nave all’altra. Tuttavia il galeone pirata, sfigurato per sempre, era ancora a
galla.
«È scoppiata la santabarbara?» chiese Martin a Callois quando poté
raggiungerlo.
«No, ma è questione di poco.»
«Proviamo ad allontanarci.»
Malgrado gli ordini convulsi trasmessi da Callois alla ciurma, il Cristo era
praticamente ingovernabile. Le vele bruciavano, i cordami erano intricate
ragnatele. Quando Le Bon, con un maestro d’ascia e alcuni volontari, provò a
scendere sottocoperta, dovette arretrare. L’acqua saliva gorgogliando.
«Calate le scialuppe!» comandò Callois.
Proprio in quel momento la fregata inglese scoppiò con fragore, da
un’estremità all’altra. Sul Cristo si abbatté un diluvio di fuoco e di rottami.
Tutto si incendiò, incluse numerose scialuppe. Ne rimasero intatte solo due,
oltre alla barcaccia; ma l’argano che la manovrava era rovente. Decine di
pirati furono avviluppati dalle fiamme e cominciarono a lanciare urla
strazianti. Alcuni riuscirono a gettarsi in mare, altri si contorsero finché non
morirono inceneriti.
«Le scialuppe! Le scialuppe!» Quello di Callois, più che un imperativo,
era una supplica.
Il pugno di superstiti riuscì, per pura forza di volontà, a calare le lance e a
far sì che rimanessero a galla. Gli ultimi della ciurma vi scesero con le cime,
senza badare alle ustioni che continuavano a subire. Martin fu l’ultimo a
seguirli, preceduto da Callois. Moriva di paura, ma la disciplina militare che
gli era stata inculcata diceva che quello era il suo dovere.
I sopravvissuti erano così pochi che le scialuppe poterono accoglierli al
completo. I remi furono alzati e collocati negli scalmi. Iniziò una voga
furiosa, presto interrotta da un imprevisto. I naufraghi del Cerf-Volant
assediavano le lance e cercavano di salire a bordo. Rischiavano di
rovesciarle. Non c’era posto per loro né per nessuno.
«Che si fa?» chiese Martin, angosciato.
A rispondere fu Le Bon. «Ciò che si è sempre fatto, capitano. La polvere

208
delle mie pistole è asciutta.»
Puntò la canna di un’arma contro la fronte di un energumeno che stava
scavalcando il bordo della scialuppa. Fece fuoco e gli devastò il cranio,
ricevendo una doccia di sangue e di frammenti di cervello. Afferrò una
seconda pistola e ripeté l’azione contro un altro naufrago aggrappato alla
fiancata.
A quel punto gli uomini del Cerf-Volant, stretti ai loro mozziconi di
legname, rinunciarono all’assalto e mossero furiosamente i piedi per tentare
di allontanarsi dalle scialuppe.
Furono quasi tutti travolti dall’inabissarsi del Cristo. Il galeone si alzò in
verticale e sparì lentamente in un gorgo in cui ruotavano schegge, barili,
intrichi di cordame, vele strappate e attorcigliate. Restò a galla per un attimo
la prua, poi fu sommersa anch’essa. Le scialuppe furono attratte all’indietro,
e occorse un gran dispendio di energie perché potessero sottrarsi alla presa.
Attorno c’era una calma singolare, lacerata solo dalle grida dei naufraghi.
Le navi inglesi e olandesi non cannoneggiavano più. Avevano abbandonato i
rottami dei filibustieri e alcune di esse erano ormai fuori vista. Una di quelle
rimaste nei pressi ardeva come una fiaccola.
Dove dirigere le imbarcazioni di salvataggio era chiaro. Il Neptune
avanzava trionfante e aveva gli scalandroni abbassati, a prua e a poppa, per
raccogliere i naufraghi. Verso le lance del Cristo fu gettata una cima.
Mentre saliva a fatica i gradini, Martin udì dall’alto una voce che
esclamava, rauca e gioviale: «Boia d’un demonio, De Lussan, dove li
mettiamo tanti passeggeri? Per di più non hanno nemmeno i soldi per pagare
il trasporto, ci scommetterei la punta dei miei baffi!».
Non vide chi aveva pronunciato quelle parole, perché quando raggiunse il
ponte gli fu gettata addosso una coperta umidiccia, che gli coprì anche la
testa, e fu fatto sedere con la schiena appoggiata al bastingaggio.
Udì di nuovo la voce: «Niente meno che il mio amico Le Bon! Che ci fai
ancora al mondo, canaglia? Sei più vecchio del mio bisnonno, morto
trent’anni fa!».
«Me la cavo ancora, capitano» rispose Le Bon, divertito. «Meglio di tanti
giovani. Ho solo bisogno di tabacco per la mia pipa.»
«Avrai il tabacco che ti serve, furfante! Sai che ho già salvato Philippe
Callois? A quanto pare, si ricostituisce la combriccola di un tempo.»
Martin sollevò la coperta sulla fronte e poté vedere, non senza una vaga
emozione, Lorencillo. Laurens de Graaf era un uomo di media taglia, con
carnagione da mulatto eppure con gli occhi azzurri. La sua lunga capigliatura

209
grigia doveva essere stata bionda, così come lo era rimasto il colore dei baffi
e del pizzo. Indossava una casacca sovraccarica di ricami d’argento, dal collo
alto, e alla cintola portava due sciabole, una per lato, e una misericordia. Dal
collo gli pendevano una pistola e una fiasca per la polvere.
«Demonio d’un demonio!» esclamò il pirata. «Chi sono quei tizi che
nuotano verso di noi?»
«Sono i superstiti del Cerf-Volant» spiegò Le Bon. «La nave di François
Pierre, che è colata a picco.»
«E va bene, facciamo salire anche loro» sospirò Lorencillo. «Ma non
prima di avere accolto con tutti gli onori il mio prete preferito... Come va,
padre Le Pers?... De Lussan, aiutatelo!»
Il grasso gesuita salì sbuffante, colante sudore, cianotico per la fatica.
«Lieto di rivedervi, capitano. Avrei bisogno di bere...»
«Vi faccio portare subito dell’acqua.»
«... e di mangiare.»
«Proprio il Le Pers che conoscevo.» Lorencillo rise. «Per il cibo dovete
aspettare. È chiaro che siete invitati a cena, ma prima devo andare in giro a
raccattare i poveracci in acqua. Su che nave eravate imbarcato?»
«Sul Cristo. Il galeone preso agli spagnoli che forse avete visto
affondare.»
«Chi lo comandava?»
Intervenne Le Bon. «Un ufficiale francese, Martin d’Orlhac. È seduto
laggiù, infagottato in una coperta.»
Lorencillo marciò verso Martin. «Potevate ben dire chi eravate, capitano.
Non vi avrei lasciato sul ponte, a tremare come un pulcino... Alzatevi, vi
troverò una sistemazione degna... De Lussan, portatelo nel quadrato e
cercategli un letto.»
Martin seguì la sua guida. Era un uomo dai lineamenti spigolosi, con una
corta barba a punta e baffi sottilissimi. Indossava una marsina di velluto
nero, molto elegante ma senza fronzoli, e una gran cravatta bianca a sbuffo.
Aveva un’unica arma, tra quelle meno gradite ai pirati se non per scopo
decorativo: una spada di Toledo, troppo lunga per essere usata in battaglia e
quasi inutile tra le mani di chi non avesse studiato scherma.
«Siete il primo ufficiale?» gli chiese Martin.
«No, sono il chirurgo di bordo. Il mio nome completo è Ravenau de
Lussan. Non ho titoli accademici, però me la cavo e, ogni tanto, qualche
capitano mi vuole con sé.»
«Avete accompagnato Lorencillo in Francia?»

210
«Vi vedo informato.» Il medico sorrise. Non fu un sorriso rassicurante.
Sarà stato per il taglio della bocca, o per le sopracciglia che terminavano
all’insù, ma quel viso aveva qualcosa di diabolico. L’allegria pareva
completamente soppiantata dallo scherno. «Me ne stavo tranquillo a Portde-
Paix quando Lorencillo, appena tornato, è venuto a cercarmi. Tra me e lui
esiste un’antica familiarità.»
Erano arrivati al quadrato, basso ma arredato con un certo gusto. De
Lussan guardò in una delle stanze. «Qui c’è un letto libero. L’altro ospite
dorme come un ghiro. Spero che non vi dispiaccia avere compagnia...
Entrate, ci vedremo più tardi.»
I letti erano due. Su uno stava dormendo François Pierre. Martin fu
contento che si fosse salvato. Cercò di non fare rumore, ma probabilmente
non lo avrebbe svegliato nemmeno con una cannonata nelle orecchie. Tolse e
gettò al suolo gli stivali. Non appena si sdraiò sul pagliericcio, la stanchezza
accumulata si fece sentire. Cadde in un sonno tra i più profondi della sua
vita.

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42 - L’ultima cena

Quando Martin e François Pierre furono svegliati, era sera ed era ora di
mettersi a tavola. Il marinaio che li destò a scossoni aveva avuto la buona
idea di portare due mastelli d’acqua. Un bagno vero e proprio sarebbe stato
preferibile, ma intanto i due capitani ebbero modo di liberarsi di parte della
sozzura che li imbrattava.
«Come vi siete salvato?» chiese Martin.
«Come tutti gli altri» rispose Pierre. «Aggrappato a un pezzo di legno.
Temevo molto l’arrivo degli squali, visto tutto il sangue versato in mare, ma
non li ho visti. Forse, con tutto quel che avevano da mangiare, erano troppo
sazi per affaticarsi a nuotare. Oppure, chissà, l’odore di morte li disgustava.»
Un secondo marinaio venne a portare loro degli abiti modesti ma puliti,
degni più di un notaio che di un pirata.
«Ecco qua due becchini, giustamente vestiti di nero!» esclamò allegro Le
Page quando i due entrarono nella sala da pranzo, un ambiente basso quanto
il resto del quadrato, con al centro un tavolo ben apparecchiato. La tovaglia
era ricamata con croci e con le lettere “P” e “X” sovrapposte. Proveniva
sicuramente da qualche altare. «La vostra specializzazione ci farebbe molto
comodo, se fossimo a terra!»
Attorno al tavolo, su poltroncine di velluto giallo, sedevano tutti i capi
della Filibusta, forse increduli di essere sopravvissuti. Lorencillo stava a
capotavola, con alla destra Godefroy e alla sinistra Macary. Venivano poi
Colong, Bouc, Galet e il citato Le Page. Erano presenti anche padre Le Pers e
De Lussan. L’unico ufficiale era il compassato Philippe Callois, forse in virtù
della sua annosa familiarità con il “padrone di casa”. Molti commensali
portavano i segni della battaglia recente: ferite sul volto appena rimarginate,
lacerazioni nelle vesti. Ciò malgrado lo stato d’animo prevalente era cordiale,
quasi rilassato. Un domestico negro (non uno schiavo) portò sedie per Martin
e Pierre. Il desco non era ancora completamente apparecchiato e tuttavia già

212
carico di fruttiere ricolme, bottiglie di vino, caraffe di acqua e birra fresca,
boccali di peltro e bicchieri di cristallo.
Lorencillo salutò gli ultimi arrivati e riprese con Godefroy una
conversazione interrotta. «Puoi immaginare quanto bene io voglia a Ducasse.
Quel figlio di un cane scoreggione mi ha fatto mandare a Versailles per farmi
processare, io e il buon La Boulaye. Peccato per lui, siamo stati assolti.
Questo non toglie che Ducasse avesse ragione, e tu torto. Non si
disobbedisce a un sovrano che da decenni copre le nostre malefatte.
Piuttosto, se si è derubati, ci si rivolge a lui per chiedere giustizia.»
Godefroy alzò le spalle. «Non ci ascolterebbe nemmeno.»
«Scherzi? Come tutti i fannulloni, re Luigi ha una grande ammirazione per
gli avventurieri. E non è un’attrazione disinteressata. La Francia, dopo tante
guerre, è sull’orlo della bancarotta. Devi vedere come sono ridotte le
campagne. Noi, che ce ne rendiamo conto o no, siamo una fonte sicura di
entrate. Esattori. Magari piccoli piccoli, però indispensabili.»
«De Pointis ci aveva derubati» si giustificò Godefroy «e gli uomini
avevano diritto a un compenso giusto. Quello pattuito.»
«Sì, ma cosa riportano a casa dopo il tuo colpo di testa? Niente di niente.»
Lorencillo abbassò il pollice destro, come per indicare il mare sotto di loro.
«Ne sono morti la metà, e adesso i pesci stanno allestendo una cena più
appetitosa della nostra. Merci, schiavi, stoffe e oggetti preziosi sono perduti
per sempre. Le nostre navi rimaste a galla sono poveri relitti. Cosa vendiamo,
gli inglesi fatti prigionieri? Nemmeno le loro mogli li pagherebbero un soldo,
boia d’un satana!»
La discussione era tutto sommato pacata, data la soddisfazione generale
per essere ancora al mondo. Vino e birra scorrevano nelle gole, mentre
l’acqua era trascurata. La si riservava per il momento dei liquori, di cui
avrebbe attenuato la secchezza.
Arrivò la cena: fettine sottili di carne di manzo fredda, maiale abbrustolito,
porchetta, prosciutto spagnolo a scaglie, con accompagnamento di verdure
varie, fritture di pescetti, pomodorini. La mensa di Lorencillo avrebbe destato
l’invidia di un governatore. I cattolici si segnarono, su esortazione di Le Pers,
poi tutti si gettarono sul cibo.
Dopo i primi bocconi, Lorencillo batté il coltello sul bicchiere, per attirare
l’attenzione. «Ascoltatemi, amici. Non siamo qui solo per abbuffarci, ma
anche per discutere la situazione. Vi dirò cos’ho in mente.»
Si fece silenzio. Anche prima nessuno parlava, intenti com’erano tutti a
masticare. Si attenuò quel rumore e cessò il tintinnio delle posate contro le

213
stoviglie. Godefroy emise un rutto, ma fu l’ultimo.
«Non dobbiamo pensare che inglesi e olandesi ci abbiano mollati per
sempre» esordì Lorencillo. «Neville, l’ammiraglio nemico, non può tornare a
Barbados reduce da una sconfitta come quella che ha subito. Lo
processerebbero e di lì a poco penzolerebbe da una forca. Tanto più che, a
differenza di ciò che è accaduto a noi, dispone di una flotta quasi integra, con
appena due velieri perduti. Lasciate che riprenda lucidità e ci sarà addosso di
nuovo.»
«Sarebbe molto difficile difenderci stavolta» notò Galet.
«Sì, per questo propongo di disperderci. Andiamo ognuno per conto
nostro, in direzioni diverse. Parlo naturalmente dei legni ancora in grado di
navigare. Cercheremo di sbarcare qui e là sulla costa di Saint-Domingue e,
tra qualche settimana o qualche mese, a seconda delle circostanze, ci
ritroveremo a Léogâne. Non vedo l’ora di esserci, per dire due paroline a
Ducasse. Nome che tra l’altro fa rima con quello di sua madre, pétasse.»
Alcuni risero. Non Godefroy, che era molto serio. «Se ci dividiamo, ci
indeboliamo anche.»
«Al contrario. Le pecore cadono vittime dei branchi di lupi perché stanno
assieme come loro. Se corressero da tutte le parti, molte si salverebbero.»
Il riflessivo Macary disse: «Io credo che Lorencillo abbia ragione».
Si mise ai voti. La proposta fu approvata da tutti, eccetto Godefroy. Subito
dopo i filibustieri si gettarono di nuovo su cibi e bevande con tutta la voracità
di cui erano capaci, ed era tanta.
Ravenau de Lussan rivolse al dissidente isolato uno dei suoi sorrisi
involontariamente sinistri. «Sono convinto, capitano Godefroy, che voi siate
un idealista. Perdonatemi se sbaglio, ma la vostra avversione all’idea che ci
separiamo deriva dalla concezione che avete dei Fratelli della Costa come di
un unico corpo compatto. È anche questo che vi ha spinto a tornare a
Cartagena, non solo il bottino mancato. Ne avevate abbastanza di essere
irreggimentato dai francesi, volevate il ritorno alla vecchia pirateria. Suvvia,
non negate.»
Martin posò il bicchiere di vino verdejo di Rueda che aveva in mano e si
curvò verso Pierre. Gli parlò sottovoce. «Strano tipo, quello.»
«Più che strano» rispose Pierre. «Credo che sia l’unico chirurgo che
esercita non per amore della medicina, ma perché ama vedere soffrire i
pazienti. È l’esatto opposto di Exquemeling. Fa il suo dovere, ma ne trae un
gusto matto.»
Godefroy stava rispondendo. «Io non nego nulla. È vero, vorrei che i

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Fratelli della Costa tornassero forti e uniti come una volta. Anche sulle
montagne abbiamo mantenuto la coesione, finché non abbiamo avuto l’idea
disgraziata di farci comandare dagli aristocratici. Rivoglio l’antica fratellanza,
e possibilmente anche la Tortuga. Che c’è di male?»
«Niente di male, ma molto di sbagliato.» De Lussan assunse un tono fatuo,
volutamente provocatorio. «Non è più tempo di coalizioni e fraternizzazioni.
Tutto l’armamentario quasi morale della Filibusta sta svanendo, ed era ora.
Chassepartie, coppie di copains, compensi per i deboli e gli invalidi.
Zavorra. Il nuovo mondo richiede personalità decise e prive di scrupoli,
capaci di arricchirsi senza remore piagnucolose.»
«In Francia c’è chi comincia a pensare in maniera del tutto opposta»
obiettò debolmente Godefroy.
«Allora andate in Francia a fare la vostra rivoluzione contro i nobili. Qui
in America, se una rivoluzione ci sarà, andrà nel senso che dico io.»
Lorencillo intervenne, forse per timore che la discussione degenerasse.
«Basta, basta. Non stiamo parlando di progetti assurdi come la riconquista
della Tortuga. Parliamo solo di come schivare un possibile attacco inglese. E
poi è il momento dei liquori. Le gare oratorie ci toglierebbero sensibilità al
palato.»
L’ingresso in scena di una decina di bottiglie polverose fu accolto con un
applauso. Per una volta i tradizionali rum e gin furono trascurati: Lorencillo
aveva portato dalla Francia dell’ottimo cognac, segno che il suo soggiorno a
Versailles qualche beneficio lo aveva reso. In pochi minuti tornò l’allegria
che aveva aperto la cena.
Un’ora più tardi, un po’ barcollanti, i capitani uscirono sul ponte a fumare
la pipa. Anche la ciurma aveva fatto festa, per quanto con alimenti meno
raffinati, e chi non era già sceso a dormire cantava canzoni bretoni. Le Bon
suonava il suo violino. Ogni canto era seguito da acclamazioni a Jean Bart.
Le altre navi avevano una sola lampada accesa. Non c’era luna, e
l’orizzonte era inchiostro. Martin approfittò di quel momento di calma per
avvicinare Lorencillo.
«Capitano, come sapete ho perduto il galeone che comandavo, il Cristo.»
«Nessuna difficoltà. Resterete con me.»
«Vi ringrazio, ma non è questo.» Martin era molto imbarazzato. «Vi
chiederei un altro favore. Quello di darmi una scialuppa. Me ne andrò con
quella.»
«Davvero?... Be’, posso darvi la barcaccia. È facile sistemarvi un albero e
un paio di vele.».

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«Veramente preferirei una scialuppa, con due paia di remi e una sola vela
piccola.»
Vi fu un breve silenzio. Lorencillo sospirò e disse: «Volete tornare a
Cartagena, non è vero?».
Martin dovette deglutire. «Come fate a sapere che...»
«Qualcosa ho udito. State tranquillo, la faccenda del pirata innamorato è
un classico, in queste isole. Io stesso sento la mancanza della mia Anne-Dieu-
le-Veut, prigioniera degli inglesi già da due anni. È un incrocio tra un’arpia e
una iena, però la vorrei con me. Se non è amore questo... Ma state in guardia.
Con una storia del genere Macary si è bruciato l’anima e da allora è la
tristezza fatta persona. Siate certo di ciò fate.»
«Ne sono certissimo.»
«Va bene. Domani mattina vi farò mettere a disposizione una scialuppa
attrezzata. Vi serviranno un paio di uomini d’equipaggio.»
«Me ne basta uno. Lo cercherò io.»
«Buona fortuna, allora» disse Lorencillo mentre vuotava il fornello spento
della pipa. «Ne combiniamo di tutti i colori, eppure in fondo abbiamo il
cuore tenero. Ciò dimostra che chi guida davvero le nostre azioni è il porco
demonio. Personalmente non ne ho mai dubitato.»

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43 - La vendetta di Whelan

Sulla scialuppa concessa da Lorencillo finirono per trovarsi in tre: oltre a


Martin, Patrick Whelan e il mozzo Arnaud. Convincere Whelan era stato
semplice.
“Il Neptune fugge dagli inglesi” gli aveva detto Martin “mentre io vado
loro incontro. Se vuoi vendicarti dell’ammiraglio Neville, è più facile che tu
ti imbatta in lui venendo con me, piuttosto che andando con De Graaf.”
L’irlandese non era nemmeno stato a chiedersi come una semplice lancia
potesse affrontare una flotta potente. “Vengo con te” aveva replicato, risoluto.
Invece Arnaud si era presentato volontario mentre l’imbarcazione, caricata
con viveri e armi, stava per essere calata in mare. “Prendetemi con voi,
signore. Vi ho già servito e mi piacerebbe continuare a farlo.”
Martin aveva fissato il ragazzino. “Sei proprio sicuro? Affronteremo molti
pericoli.”
“Ne sono sicurissimo. Per me il pericolo è su questa nave.”
Martin aveva pensato a come venivano trattati i mozzi sui velieri pirati,
non certo dai Lorencillo e dai Godefroy, ma dalle ciurme. “Vieni pure.”
Erano seguiti i saluti e i congedi. Le Bon gli aveva regalato la sua pipa: un
oggetto mordicchiato e affumicato, che Martin non avrebbe messo in bocca
nemmeno dietro compenso. Aveva comunque apprezzato il gesto. “Ci
rivedremo, ne ho la certezza. E fossero passati dieci anni, vi ritroverò in
forma come adesso.”
“Io ne sono un po’ meno sicuro, ma staremo a vedere... Suerte, capitano!”
Ora la lancia navigava ad almeno venti miglia da dove aveva lasciato il
Neptune. Aveva alzato la vela aurica di cui era stata dotata, che richiedeva
frequenti modifiche di orientamento a causa di brezze tenui e capricciose.
Trovata la giusta angolatura, non occorreva remare. Le onde erano tranquille,
la barca filava da sola. La calura infastidiva, tuttavia i barilotti d’acqua a
bordo erano perfino superiori al fabbisogno. La calma era totale. Non durò a
lungo.

217
«Eccoli là!» esclamò Whelan.
«Chi?» chiese Martin.
«Gli inglesi e gli olandesi. La flotta di Neville.»
Martin usò il suo cannocchiale. Erano in effetti i vascelli da guerra nemici,
che si erano rimessi in caccia. Sembravano rinforzati da alcune unità.
Imprecò dentro di sé. Aveva sperato di eludere il naviglio anglo-olandese e
così liberarsi dai propositi vendicativi di Whelan. Adesso era impossibile.
Considerò il da farsi.
«Al momento noi vediamo loro, ma non credo che loro vedano noi.
Abbassiamo subito la vela: saremo ancora meno visibili. Teniamoci a
distanza, remiamo piano. Scesa la notte, mancano circa tre ore, potremo
decidere cosa fare ed eventualmente accostarci in silenzio.»
«Sì, è una buona idea» concordò Whelan. «Il mio piano ce l’ho già. Basta
che mi portiate fin sotto l’ammiraglia. Appena sarò salito, tu e Arnaud potrete
allontanarvi il più in fretta possibile. Il resto riguarda solo me.»
Martin ribatté: «È impossibile che non ci vedano».
«Ti sbagli. Non c’è la luna, e i marinai sulle coffe saranno impegnati a
spiare l’orizzonte in cerca di navi distanti, non di una barchetta.»
«Una volta a bordo ti scopriranno subito, prima che tu arrivi fino a
Neville.»
Whelan sogghignò. «Non esserne tanto sicuro. Gli inglesi mi hanno
insegnato a condurre una vita furtiva e a essere un topo con l’intelligenza di
un gatto. È il modo comune di sopravvivere degli irlandesi in Irlanda.
Scappiamo se c’è da scappare, rosicchiamo quando se ne offre
l’opportunità.»
«Se davvero riesci a uccidere Neville, sarai comunque preso e forse
ammazzato sul posto. Oppure ti porteranno in Giamaica, dove ti tortureranno
a morte.»
«Lo so, e non pretendo di scamparla. Il mio scopo è vendicare la mia
famiglia e un pochino anche il mio popolo disgraziato.»
Martin pensò a soluzioni alternative, ma non ne trovò. Possedevano
troppo poca polvere da sparo per minare il vascello inglese dall’esterno.
Decise di rispettare la volontà di Whelan. L’aurica fu ammainata e si
procedette a remi, tenendosi distanti. Un veliero navigava più veloce di una
lancia, ma una flotta no. Per non scompaginarsi doveva adeguarsi alla
lentezza di fregate e brulotti. Solo una parte della velatura era adoperata.
Scese la sera, e gli anglo-olandesi rallentarono ulteriormente l’andatura.
Della luna apparve solo uno spicchio sottilissimo, insufficiente a illuminare la

218
superficie marina. Uno dopo l’altro, i vascelli accesero le lanterne.
Trascorse altre due ore, Martin disse: «Credo che possiamo avvicinarci».
Il silenzio era profondo, anche se silenzioso del tutto il mare non lo era
mai. La voga di Whelan e di Arnaud si fece quasi concitata.
Martin intervenne a moderare quella spinta. «Calma. L’ideale è arrivare
sotto l’ammiraglia verso mezzanotte. A quell’ora, chi è di vigilanza starà
combattendo contro il sonno.»
Aggirarono una fregata olandese con una curva molto larga. Non furono
notati. Arrivarono sotto la nave a cui puntavano. Martin sobbalzava a ogni
cigolio dei remi negli scalmi. La corvetta, vista dal basso, appariva
imponente. Aveva una lanterna accesa a prua e due a poppa. Non si udivano
voci né altri rumori. Solo lo scricchiolare dello scafo e della velatura.
«Ecco, ci siamo» sussurrò Whelan. «Salirò all’altezza del maestro.»
«Non sarebbero meglio il trinchetto o la mezzana?»
«No. Se c’è qualcuno di guardia, normalmente sta sul castello oppure a
prora. Dal centro della nave non vedrebbe nulla.» L’irlandese passò i remi a
Martin. Si curvò a cercare, sul fondo della lancia, due pistole e un pugnale,
che infilò nella cintura. «Mi raccomando. Appena sarò sul ponte,
allontanatevi quanto più in fretta potete. Vorranno capire da dove sono
sbucato.»
«Te la caverai» disse Martin, senza credere alle proprie parole.
«Non lo so. La mia unica certezza è che porterò a termine quel che mi
sono proposto. Dopo, facciano di me ciò che gli pare.»
La scialuppa sfiorò il corpaccione obeso della nave ammiraglia. Whelan si
aggrappò al parasartie dell’albero di maestra, si inerpicò sulla larga tavola e
scavalcò il bastingaggio. Non si sentirono grida d’allarme.
«Rema, adesso» bisbigliò Martin ad Arnaud. «Con l’energia che ti resta.»
Il ragazzo obbedì. La scialuppa si allontanò dalla corvetta. Solo un quarto
d’ora dopo si udirono degli spari e grida indistinguibili. Dall’ammiraglia
iniziarono a lanciare segnali con una lampada.
«Mi piacerebbe sapere cosa si dicono» disse Martin. «Purtroppo non
conosco quell’alfabeto.»
Arnaud lasciò un istante i remi. «Io l’ho imparato. È inglese. ADMIRAL
NEVILLE HAS BEEN KILLED... THE AGGRESSOR IS DEAD... WATCH THE
SEA. “Neville è stato ucciso... L’assassino è morto... Tenete d’occhio il
mare...”»
«Siamo sottovento. Possiamo lasciare i remi e rialzare la vela. Viaggeremo
più veloci di tutti loro.»

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Fu lo stesso Martin che alzò l’aurica. La scialuppa prese una buona
andatura. Nessuno dei vascelli nemici sembrò notarla. Cercavano navi, non
un legno che pesava quanto un fuscello.
Dieci miglia più avanti Martin chiese ad Arnaud: «Come mai conosci
l’inglese? È insolito per un semplice mozzo. Ti avevano fatto schiavo? Hai
servito a Port Royal o a Barbados?».
Il ragazzo gonfiò il petto. «Ho avuto una buona educazione. Ero di
famiglia nobile. Di cognome faccio De Pontis.»
«Saresti parente di...»
«Ho detto De Pontis, non De Pointis. Mio nonno Louis era un celebre
cavaliere e soldato, famoso in tutta la Francia.»
Martin quasi scoppiò a ridere. «Un giovane aristocratico non finisce a
spalare merda sui legni della Filibusta. Ti chiami De Pontis perché ti hanno
trovato sotto un ponte, come tanti orfanelli.»
«Niente affatto» replicò Arnaud, piccato. «Mio nonno si era inimicato
prima Luigi XIII, poi Luigi XIV. Fu la rovina della mia famiglia, colpita da
ogni genere di soprusi. Fummo persino costretti a pagare le tasse. Mio padre
dovette vendere le terre che avevamo in Provenza e mandare i figli minori in
convento. Io fui affidato ai francescani, che dopo un po’ mi destinarono alle
loro missioni a Saint-Domingue. Fu un frate che mi “regalò” a un pirata, un
tale Andrieszoon.»
Martin aveva abbastanza sensibilità da capire che, su alcuni temi, una
domanda diretta sarebbe risultata cattiva. Chiese quindi, con delicatezza: «È
stata dura la vita a bordo?».
Arnaud aggrottò le sopracciglia. «Non più della vita in convento. Molti
frati e molti filibustieri pretendono da noi ragazzi lo stesso tipo di servizio. I
secondi però pregano meno, anche se puzzano di più.»
Martin non chiese altro, anche perché, sorta l’alba, gli parve di vedere,
molto lontano, un lembo di terra. Appena una striscia più scura
sull’orizzonte. «Credo che possiamo dormire un poco» disse. «La brezza è
costante, la marea uniforme, la vela bene assicurata. Se la lancia comincia a
oscillare, il beccheggio ci sveglierà.»
«Non ci saranno scogli?»
«Ci sono senz’altro, ma più prossimi alla costa. Adesso ci conviene
riposare, Arnaud. Le fatiche della notte non sono nulla paragonate a quelle
che ci aspettano in giornata.»
Lasciò la panca e si raggomitolò su un sacco, in fondo alla barca. La
posizione era scomodissima, e aveva i piedi immersi in due dita d’acqua.

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Spruzzi occasionali gli irroravano il viso. Dormì con un occhio solo, ma
dormì.
Quando riaprì gli occhi, la lancia continuava placida il suo tragitto. Di
fronte a loro si alzava, coperta di vegetazione, una costa scoscesa. Puntando
lo sguardo, si scorgevano sulla sinistra la strettoia di Boca Chica e le rovine
del forte che la sormontavano.
Scosse Arnaud, intento a russare. «Ai remi. Siamo arrivati. Adesso sì che
dobbiamo stare attenti alle scogliere.»
Il fondale era basso e trasparente. Pesci multicolori fuggivano in tutte le
direzioni. Un occhio superficiale avrebbe scambiato la baia per un eden ittico
e vegetale.

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44 - Una camminata pericolosa

«D’ora in avanti dovremo stare in guardia, pronti a nasconderci nella selva al


minimo segnale di pericolo» disse Martin ad Arnaud. «Escludo che in questa
zona si siano dimenticati di noi.»
Erano sbarcati presso l’unico fiume d’acqua dolce, anche per rifornire le
loro borracce. Avevano trascinato la lancia in secco, al coperto della
vegetazione. L’avevano riempita di fogliame e rametti, capaci di nasconderla
ma facili da eliminare in caso di necessità. Dopo, avevano imboccato uno dei
molti sentieri che conducevano alle rovine del forte di Boca Chica. Con
incedere pacato, senza affrettarsi.
«Sarebbe importante cambiare i vestiti, almeno i miei.» Martin indicò
l’abito nero che indossava, con il largo colletto bianco. «Ora sembro un
notaio, anche se Le Page mi definiva un becchino. Preferirei vesti da uomo
del popolo o da villano.»
«Mi sembra di vedere delle capanne, là in fondo» rispose Arnaud. «Sulla
collina, dietro gli alberi.»
Si trattava di uno dei piccolissimi villaggi che i filibustieri avevano trovato
vuoti all’arrivo. Ora segni di vita c’erano. Panni stesi, un filo di fumo,
chiocciare di galline.
Martin pensò a un piano. «Non devono capire che siamo francesi. Tu
conosci l’inglese. Meno parli e meglio è. Se proprio devi farlo, usa quella
lingua. Dal canto mio, mi spaccerò per un portoghese che conosce un po’ di
spagnolo.»
Non fu facilissimo raggiungere il minuscolo abitato. I cannoni trasportati
da aggressori e difensori avevano scavato solchi profondi attraverso le piste,
ora pieni d’acqua, e disastrato il cammino, di per sé impervio.
Terminata la salita, sbucarono in una radura tra i castagni. C’erano cinque
capanne in tutto, dal tetto di paglia e dalle pareti in legno. Gli abitanti erano
indigeni, certamente non schiavi: dopo Bartolomé de Las Casas gli indios
non erano più ridotti in schiavitù, bensì sfruttati in altra maniera.

222
Probabilmente, visto che erano vestiti da capo a piedi, coltivavano gli orti di
uno dei tanti conventi di Cartagena e dintorni.
Vedendo i nuovi arrivati, gli abitanti interruppero ciò che stavano facendo
e li osservarono con estrema curiosità. Erano in prevalenza donne e bambini.
I maschi erano solo tre, di cui uno anziano. Difficile dire a quale etnia
appartenessero.
Fu verso quest’ultimo che camminò Martin. Parlò in uno spagnolo molto
peggiore di quello che conosceva. Sperò che la erre arrotata non lo tradisse.
«Salve. Stiamo andando in città. Avremmo bisogno di vestiti meno sporchi e
strappati di quelli che portiamo. Vestiti qualunque. Li paghiamo bene.»
L’indigeno li guardò senza particolare diffidenza. «Da dove venite?»
«Io sono portoghese, e questo ragazzo è inglese. Eravamo imbarcati con
l’ammiraglio Neville. Da Cartagena ci hanno chiesto un medico. Io lo sono.
Ho portato con me il mio giovane aiutante.»
Seguì un silenzio che durò pochi istanti, ma che parve lunghissimo. Infine
l’indigeno disse: «È strano che non abbiate la valigetta, e invece portiate tante
armi».
Martin aveva previsto l’obiezione. «Della valigetta non c’è bisogno, perché
la città ha i suoi ospedali. Quanto alle armi, la città è stata saccheggiata dai
francesi. Potrebbero essercene ancora nelle foreste.»
«Non credo. Venite con me.» Il vecchio ordinò qualcosa a una delle donne
e fece entrare gli stranieri in una capanna. Era larga e circolare, fatta di un
solo ambiente. Gli arredi erano quelli che c’era da aspettarsi: arazzi
artigianali, suppellettili di coccio, tavolo e sedie di bambù tenuti assieme da
corde e liane, tre pagliericci per dormire. Un grosso crocifisso proveniva
indubbiamente da un monastero. La stanza prendeva luce da un’unica
finestra. «Sedetevi, mentre cercano vestiti. Berremo assieme un poco di
maby.» Mentre versava il liquore disse: «All’inizio ho pensato che foste
francesi, dato l’accento, ma poi lo ho escluso. Sareste stati pazzi a tornare
qua, e fare la fine degli altri prigionieri».
«Ci sono prigionieri?» chiese Martin.
«Sì. Erano filibustieri senza imbarco regolare, sorpresi nei boschi. Dei
banditi, insomma. Una nave inglese ne ha portato altri, raccolti in mare. Circa
duecento, direi.»
«Che fine hanno fatto?» Martin pose la domanda fingendo un interesse
moderato.
«Alcuni sono stati uccisi subito, perché la gente si ricordava di loro.
Bastonati a morte, impiccati, squartati con cavalli, messi alla gogna. Finché

223
don Sancho Jímeno, il nuovo governatore, non ha avuto un’idea migliore. Li
ha messi al lavoro per ricostruire mura e bastioni distrutti. Alcuni tentano di
rimettere in piedi il forte di Boca Chica, qui vicino. Non so se ci riusciranno:
la distruzione è stata quasi totale.»
«Dopo saranno liberi?»
«No, gli spagnoli uccideranno anche loro. Ma i detenuti non lo sanno, e
così si danno da fare.»
Martin rifletté, mentre sorseggiava il liquore, un po’ troppo alcolico a
quell’ora. «Che fine ha fatto il vecchio governatore?»
«Intendete don Diego de los Ríos? È andato alla forca per vigliaccheria.
Don Sancho non ha nemmeno aspettato l’autorizzazione del viceré. La città
intera ha applaudito.»
«Da come parlate, sembrate abbastanza lontano dal modo di vedere degli
spagnoli.»
«Che pretendete?» rispose l’anziano. «Che ci comandi la Francia o la
Spagna, noi resteremo servi. Non schiavi in teoria, ma in pratica non c’è gran
differenza. Questo villaggio ha la fortuna di lavorare per i preti, e dunque i
lavori sono leggeri. Piantare, coltivare, raccogliere. Per chi è troppo lento c’è
la frusta, per chi si ribella c’è la mutilazione. Non viviamo meglio dei negri.
Anzi, subiamo anche il loro odio.»
Arrivò la donna incaricata di trovare panni della giusta misura. Erano
casacche e pantaloni di tela bianca. Molto semplici e pratici. Aveva anche due
cappelli di fibre di paglia intrecciate.
Martin tastò i tessuti. «Andranno benissimo.» Porse al vecchio indigeno
alcune monete e gli disse: «Se volete, possiamo lasciarvi i vestiti che
indossiamo».
L’altro accettò il denaro, ma scosse la testa e ridacchiò. «Se avessi capi di
abbigliamento simili ai vostri, tutti quanti mi prenderebbero in giro.»
«Eppure parlate in maniera colta. Non da ignorante o da selvaggio.»
«Stando con i preti qualcosa si impara. Questo non vuol dire una
promozione sociale.»
Martin e Arnaud andarono nel bosco a indossare le nuove vesti. La taglia,
in effetti, coincideva alla perfezione. Anche i cappelli furono calcati senza
difficoltà.
«Lasciamo qui le armi» consigliò Martin. «Teniamo solo il pugnale. Sarà
facile nasconderlo sotto la blusa.»
Tornarono al villaggio e si congedarono dal vecchio. L’indigeno prese loro
le mani e bisbigliò: «Adieu, les amis. Bonne chance».

224
Un po’ turbati, Martin e il ragazzo si avviarono in basso, verso il sentiero
alla base della collina. Quando lo raggiunsero, Martin imprecò: «Mort Dieu!
Doveva capitarci proprio un indigeno intellettuale! Ne esisterà uno su un
milione».
«Ha detto lui stesso che escludeva che fossimo francesi.»
«Mentiva. Ha capito chi eravamo fin dal primo istante.» Martin si guardò
attorno. «Se al forte di Boca Chica ci sono dei filibustieri ai lavori forzati, ci
conviene tenerci alla larga. Non si sa mai, a qualcuno di loro potrebbe venire
in mente di salutarci. Conosco una via alternativa, anche se tutta in salita.
Seguimi.»
Il cammino che Martin aveva in mente era quello che, aggirando la città,
saliva al convento di Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa. Non
intendeva arrivare fino al colle, bensì scendere prima e cercare un accesso
alla città non troppo sorvegliato.
Il viottolo di campagna che imboccarono era scosceso e, come tutti gli altri
passaggi, rovinato dal trasporto dei cannoni. Trovarono la fonte di un
ruscello d’acqua dolce e vi si abbeverarono. Era però anche ora di mangiare
qualcosa, dopo un digiuno così prolungato.
La collina aveva un aspetto ordinario, sereno. Tale pareva anche la città ai
loro piedi, che cominciavano a vedere. Nella rada tonneggiavano tre navi di
media stazza, sicuramente spagnole o di qualche nazione alleata alla Spagna.
Le barche da pesca erano fitte. Cartagena sembrava tornata alla vita.
«Là c’è una capanna» disse Arnaud. «Ne vedo il fumo.»
«Bene. Stessa recita di prima. Tu inglese, io portoghese. Speriamo che ci
vada meglio, e che ci diano da mangiare.»
Andò meglio. Nella bicocca, poverissima, vivevano due negre, di cui una
molto anziana.
Alla richiesta di cibo, la più giovane rispose: «Carne non ne ho, e
nemmeno pesce. Al massimo posso cucinarvi delle patate e qualche avocado
con cipolle».
«Basta e avanza.» Martin notò la presenza di tre letti contigui; in effetti
semplici materassi informi posati su una stuoia. «Vostro marito non c’è?»
«È andato a pescare. Tornerà solo stanotte. Deve obbedire all’editto del
governatore circa le esecuzioni.»
«Quale editto?»
«Don Sancho Jímeno ha ordinato che chiunque si trovi a Cartagena assista
alla messa a morte dei pirati e dei francesi. Di solito ne uccidono un paio
ogni sera, nella piazza davanti alla Contaduría. Sono i prigionieri addetti alla

225
ricostruzione delle mura e dei forti, divenuti troppo deboli per continuare il
lavoro.»
«Come li ammazzano?»
«Nei modi più vari, per non annoiare gli spettatori. Se si scopre che erano
luterani vengono bruciati vivi. In quel caso la cerimonia è più solenne, e vi
partecipano anche preti e frati.»
Mentre la donna cuoceva la verdura e le patate dentro una pentola
collocata in un piccolo camino, Martin le domandò: «Non avete figli?».
«Sì, tre. Lavorano la canna da zucchero. Disgraziatamente loro sono
ancora schiavi, e ce li hanno portati via. Non li vedo mai.»
«L’invasione dei francesi e dei filibustieri vi ha danneggiato molto?»
La donna si rialzò, il mestolo in mano. Non era bella, al contrario, e
tuttavia mostrava una fierezza a suo modo affascinante. «Quando sono
arrivati, abbiamo nutrito una certa speranza. Ci ingannavamo: erano identici
agli spagnoli. La nostra condizione non cambierà mai. Non tramite invasioni
straniere.»

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45 - Città convalescente

Martin prese in considerazione vari modi per entrare in Cartagena, inclusa


l’ipotesi di farlo via mare, su una barca di pescatori. Ma le alternative erano
scarse. Anche al porto avrebbero trovato pattuglie a guardia delle mura
interne, e forse più d’una.
Decise che conveniva scendere a Hihimani, evitando i luoghi già
frequentati, e dal sobborgo dirigersi alla cinta e ai quartieri principali. Erano
passati troppo pochi giorni perché tutte le cavità aperte dalle palle di cannone
fossero state riparate. Un valico lo si sarebbe trovato.
Mentre scendeva dal pendio con Arnaud, quando ormai era pomeriggio
avanzato, gli disse: «Continueremo con la finzione del falso inglese e del
falso portoghese. Credo che nessuno ti riconoscerà. Se invece qualcuno
riconoscesse me, mettiti a gridare che ti tenevo prigioniero. Potresti cavartela.
Io non negherò».
Il ragazzo guardò Martin. «Perché fareste questo?»
«Perché forse sono meno cattivo di quanto sembro.» Martin rise. «Ma non
temere, non è probabile che ciò accada. In vita mia ho dovuto affrontare
situazioni molto più pericolose, e ogni volta me la sono sbrigata con
successo.»
Non trovarono ostacoli nell’ingresso a Hihimani. Le sentinelle facevano
appena caso a chi passava e, se fermavano qualcuno, si trattava di un
borghese ben vestito. Una mancia abbreviava l’interrogatorio.
Martin e Arnaud si misero dietro un carro vuoto che rientrava dalle
campagne, con un negro in serpa. Contavano sul fatto di essere scambiati per
i padroni dei veicolo, come in effetti avvenne. Erano troppo male in arnese
per suscitare curiosità.
Una volta nel borgo, Martin indicò una viuzza sulla sinistra, ingombra di
detriti. Malgrado la desolazione, alcune taverne stavano accendendo le luci
serali. Rari avventori vi si dirigevano.
«Non sono mai stato in questa zona» disse Martin «e comunque tutti i

227
locali erano chiusi. Non ci conviene tentare di passare entro la Cartagena vera
e propria finché non sarà notte, se vogliamo farlo di nascosto. Possiamo
approfittarne per mangiare qualcosa.»
Entrarono in una piccola osteria con pochi tavoli. Gli avventori erano due
soltanto, con un aspetto da artigiani. Bevevano vino rosso attingendolo da
una caraffa.
La padrona, una mulatta dai fianchi larghi e dal viso butterato, lasciò il
bancone e raggiunse i nuovi venuti. «Volete soltanto bere, o anche
mangiare?»
«Tutte e due le cose. Vino bianco, meglio se fresco, acqua, pane e una
frittura.»
«Posso friggervi dei calamari. Non abbiamo molto altro, finché mio
marito non rientra dalla pesca.»
Martin fece un cenno di assenso. «Andranno benissimo.»
La donna non accennava ad allontanarsi. Gli altri clienti, incuriositi,
seguivano la conversazione.
«Sento dall’accento che siete stranieri. Fate parte degli equipaggi dei
velieri che sono in rada?»
«Sì, siamo con gli inglesi, sebbene io sia portoghese. Il ragazzo, invece,
viene dall’Inghilterra.»
«Avete combattuto i pirati?»
«Sì, nei pressi di Saint-Domingue. State tranquilla, quelli che non sono
morti si sono dispersi. D’ora in avanti Cartagena sarà una città sicura.»
«Speriamo» borbottò la donna e finalmente si avviò verso la cucina, non
prima di avere acceso anche le ultime lampade della taverna.
Più tardi servì prima le bevande, poi gli alimenti. Era tutto pessimo, ma
non era il caso di avanzare rimostranze. Mangiarono e bevvero in silenzio,
tanto da bagnarsi la gola e da riempirsi la pancia. I due avventori del tavolo
accanto avevano ripreso a conversare tra loro. Discutevano dei lavori di
ricostruzione e della sorte da riservare ai mercanti spagnoli che avevano
collaborato con il nemico. A quanto pareva alcuni erano ancora vivi e in
prigione, a parte il capitano Francisco Santarém, che certo non sarebbe più
tornato in quei mari.
Circa un’ora dopo entrò un terzo avventore, che subito ordinò del vino
per sé e per i due artigiani. Sedette con loro. «Come mai non eravate
all’esecuzione? Sapete che è obbligatorio assistervi.»
«Non per noi, Felipe» rispose uno degli amici. «Siamo addetti ai lavori
murari e non abbiamo alcun obbligo, la sera, dato che dobbiamo svegliarci

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all’alba. Come è andata?»
«Spettacolo deludente. Il magistrato Tomás Beltrán ha letto l’atto d’accusa,
e quello è stato il momento più solenne. I due condannati erano ridotti male.
Al più anziano era caduto addosso un muretto, stamattina, e aveva le gambe
spezzate. L’altro era un mozzo che non capiva una parola e tremava di paura.
La gente gridava “a morte”, ma senza convinzione. Sono stati semplicemente
impiccati. Hanno sgambettato un poco. L’agonia è stata breve.»
«Il governatore era presente?»
«Don Sancho, che ormai abita nella Contaduría, guardava dalla finestra,
assieme alla moglie. Si è ritirato con lei poco prima che la sentenza fosse
eseguita.»
Martin dovette posare la forchetta, perché un tremito leggero gli attraversò
le dita. Apprendere dove abitava effettivamente Teresa gli risparmiava molte
ricerche inutili, sebbene non fosse consolante sapere che risiedeva
nell’edificio più sorvegliato della città. Ma la sua emozione derivava
soprattutto dall’udire evocare il nome della donna. Non che l’avesse
dimenticata: era lì proprio per lei. Le difficoltà del viaggio avevano
leggermente appannato il ricordo. Ora tornò vivido, quasi ossessivo. La
voglia di rincontrarla divenne impellente. Ebbe la tentazione di porre
domande dirette ai tre spagnoli. Vi resistette e seguì la conversazione, assetato
di altri indizi.
«Quanto potrà andare avanti questa situazione?» chiese uno degli artigiani.
«Don Sancho si comporta come un governatore effettivo, col consenso della
popolazione, degli inglesi e anche del viceré. Però non credo che sia ancora
arrivata conferma dal re di Spagna. Che ne pensi?»
Felipe aveva un chiaro ascendente sugli altri due, e i panni che indossava,
molto decorosi senza giungere all’eleganza, ne facevano intuire il motivo. Era
di sicuro un artigiano, sì, ma discretamente benestante. Forse un
capocantiere, magari proprietario di qualche barca da pesca o di un piccolo
terreno.
«Penso che una nomina effettiva non arriverà mai, e che anche don
Sancho lo sappia. È che ha contro la Chiesa, a parte padre Lucero e alcuni
altri religiosi di medio rango. La colpa è della moglie. Alcuni l’accusano poco
velatamente di hechicería.»
Ecco una parola del tutto sconosciuta a Martin. Guardò interrogativamente
Arnaud, che fece un segno di diniego. La ignorava anche lui.
«È un’accusa insensata» disse uno degli artigiani. «Doña Teresa tiene
semplicemente degli oratori, in cui si prega davanti a un altare e si esce in

229
corteo per andare a messa. Mia moglie ci va, ogni tanto. Sono ammessi anche
uomini di bassa condizione.»
«Quella della venerazione privata di sant’Antonio è una pratica che
l’Inquisizione vieta» rispose Felipe. «Certo, non ha mai arrestato nessuno per
quel motivo. Ciò non toglie che faccia di tutto per scoraggiarla: ricorda
troppo certe cerimonie ambigue degli indigeni, davanti ad altarini in cui non
si sa se si preghino davvero santi cattolici, oppure chissà quali divinità
proibite.»
Dopo quelle ultime battute, Felipe pagò il vino per i commensali e i tre
uscirono, presumibilmente per andare a cenare in un locale con una cucina
migliore.
Martin attese qualche minuto. «Andiamo» disse ad Arnaud. «Padrona, il
conto!»
Lasciarono la taverna mentre altri clienti entravano. Appena in strada,
lanciò un’esclamazione di disappunto.
«Non ci voleva! Il cielo ci tradisce!»
La luna era brillante, le stelle fittissime. All’illuminazione pubblica,
totalmente mancante, quel lucore diffuso sopperiva benissimo. Permetteva di
scansare i cumuli di detriti, ma anche di vedere in faccia un passante ogni
volta che lo si incontrava.
Per fortuna, in strada la gente non era molta. Martin e Arnaud
imboccarono le vie più deserte, fino ad arrivare a ridosso della cinta che
separava Hihimani da Cartagena. Fu un sollievo notare che il corpo di
guardia che sorvegliava l’accesso principale era di poca utilità, visto che i
lavori di restauro erano appena all’inizio e non mancavano brecce tali da
consentire il passaggio. Il fossato, ingombro di pietrisco, lasciava scorrere
solo un filo d’acqua.
Martin indicò un varco poco visibile, perché coperto da un ciuffo di
palme, alcune delle quali abbattute da palle di cannone vaganti.
«Ecco quello che fa per noi.»
«Dove dormiremo quando saremo di là?» chiese Arnaud. «Comincio ad
avere sonno.»
«Anche se molti abitanti sono tornati, suppongo che altri siano ancora
sparsi nelle campagne. Dovrebbe essere facile trovare una casa deserta.
Anche un rudere, purché non pericolante. Coraggio, ragazzo, un’ultima
fatica.»
Fu abbastanza complicato scavalcare le piante cadute, marciare sulle
macerie che invadevano il fossato, arrampicarsi sul versante opposto, salire

230
sulle pietre dissestate del bastione. Nugoli di zanzare li infastidirono tutto il
tempo. Martin non le temeva. La febbre del Siam era l’ultima delle sue
preoccupazioni.
Misero piede in Cartagena stremati, ma per una volta la buona sorte li
favorì. Si trovarono in una stradicciola in cui le case apparivano abbandonate
e in cattive condizioni. Nessun passante, un grande silenzio. La percorsero in
su e in giù, finché trovarono un’abitazione in mattoni a un solo piano, dal
portone spalancato. Un’ala era caduta, ma un’altra era quasi intatta, a parte
qualche buco nel tetto.
La fortuna sembrò raddoppiare quando, muovendosi nelle stanze intatte
alla luce dei raggi che entravano dalle fessure, scoprirono tre divani. Ne
erano state asportate le fodere, e dalle pareti erano persino stati scorticati tratti
di tappezzeria. Doveva essere il salotto di una dimora appartenuta a un
borghese abbastanza facoltoso.
Senza parlare si tolsero camicia, stivali e pantaloni e andarono a sdraiarsi.
Prima di abbandonarsi al sonno, Martin disse: «Riposa quanto vuoi,
Arnaud. Recupera le forze. Domani sarà la giornata più difficile in assoluto».

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46 - L’oratorio

Martin e Arnaud si svegliarono a mattina inoltrata. Cercarono dell’acqua per


lavarsi, ma non ce n’era. Quella in fondo a un catino era scura e ricoperta da
un velo di polvere. Si rivestirono e si misero a esplorare le stanze che non
sembravano a rischio di crollo, mentre da fuori giungevano i rumori smorzati
delle attività lavorative.
La casa era stata spogliata di tutto ciò che poteva avere un valore anche
minimo. Restavano utensili da cucina, sedie di paglia, panni sporchi dentro
una cesta, bottiglie vuote, giocattoli di legno, sacchi e bicchieri rotti. In un
armadio dalle ante aperte scovarono dei cappellacci di foglie di canna
intrecciate appartenuti a qualche domestico o giardiniere.
«Questi ci saranno utili» disse Martin «e non solo per proteggerci dal sole.
La misura non è proprio quella giusta, ma ci accontenteremo.»
Terminata l’ispezione della casa, tornarono sui divani per decidere il da
farsi.
«Ci conviene non uscire prima che sia passato mezzogiorno. A quell’ora,
nelle colonie spagnole le attività rallentano per il troppo caldo, e di gente in
giro ce n’è poca.»
«Non sarebbe meglio camminare tra una folla numerosa, per passare
inosservati?» obiettò Arnaud.
«Le probabilità di essere scoperti sarebbero comunque alte. È preferibile
ridurle un poco con minori occasioni di contatto diretto.»
Aspettarono seduti che fosse l’una passata, stroncati dal caldo crescente,
da una sete che rinsecchiva le fauci, da un senso di sporcizia corporea e
dall’ansia che faceva capolino. Non avevano modo di misurare l’ora, però
potevano scorgere l’arco percorso dal sole dai buchi nel soffitto.
Quando i rumori della città si furono attenuati per via della canicola,
Martin disse: «Riempiamo due sacchi di oggetti vari. Daremo l’impressione
di svolgere una qualche mansione. E teniamo sempre la tesa del cappello
calata sugli occhi».

232
Usciti dalla casa, con un sacco non troppo pesante in spalla, furono
avvolti dal solleone e si coprirono di sudore. Un certo ristoro lo trovarono in
una strada adiacente, fiancheggiata da alberi dalle foglie ingiallite. Una
fontana danneggiata versava acqua a tutto spiano, tanto che la vaschetta alla
base strabordava. Non c’erano passanti, e ad attingere alla fonte dal getto
esagerato era solo un cane magro e spelacchiato, anche lui sofferente per la
calura. Non era il momento per essere schizzinosi circa le compagnie, umane
o animali. Martin e Arnaud poterono bere e lavarsi viso e braccia. Prima di
ripartire si rilassarono qualche minuto su una panchina di pietra in ombra,
simile a quelle di molte città spagnole. Per colmo di fortuna, si levò una
brezza marina che li rinfrescò.
Si rimisero in marcia entrando, inevitabilmente, in zone più popolose e
centrali. Lì le strade, in cui operai e schiavi erano al lavoro, erano state
ripulite molto meglio che a Hihimani. Non c’erano più cadaveri né carcasse,
pur restando nell’aria, in mezzo a cattivi odori d’ogni sorta, nugoli di
mosche. Forse gli insetti speravano che il ricco banchetto di cui avevano
goduto così a lungo potesse ricominciare. I detriti erano accumulati in
mucchi piramidali sui marciapiedi. Si impalcavano le case di pietra
danneggiate, si asportavano le rovine di quelle in legno.
Martin era sollevato. Non era facile che qualche manovale badasse a loro.
Vestivano all’incirca alla stessa maniera degli operai, presi dalla fatica. Nei
pressi della Contaduría cominciarono a vedersi plotoni di soldati, e anche
religiosi diretti, a coppie, ai loro conventi o alle loro chiese. Più che da
costoro, Martin temeva di essere riconosciuto da filibustieri costretti ai lavori
forzati. Non ne vide, e se c’erano non li conosceva.
Indicò ad Arnaud delle pale abbandonate per il tempo della siesta.
«Prendiamo due di quelle. Dobbiamo trovare un pretesto per rimanere a
lungo davanti al palazzo di Sancho Jímeno e capire cosa avviene
all’interno...» Colto da uno scrupolo, domandò: «Sei sicuro di volere restare
con me? Rischi la vita senza avere le mie stesse motivazioni».
«Dove potrei andare, altrimenti?»
La Contaduría aveva adesso quattro cannoni ai due lati del portone
principale e un nutrito corpo di guardia. Pattuglie di soldati sorvegliavano gli
ingressi secondari. In contrasto con lo scarso passaggio delle strade laterali, lì
era un andirivieni di gentiluomini in lettiga, borghesi ben vestiti, ufficiali,
religiosi di alto rango. Era probabile che andassero a un pranzo. Secondo il
costume spagnolo, il pasto di metà giornata si consumava verso le due o le
tre.

233
Martin e Arnaud puntarono verso una pila di macerie, dall’altro lato della
piazza e, lasciati i sacchi, si misero a scavarla a colpi di badile, per
riaccumularla poco lontano. Un’attività assolutamente idiota, ma chi vi
avrebbe fatto caso? Nessuno.
Erano circa le quattro quando arrivarono alla Contaduría delle carrozze e
delle portantine, per raccogliere gli ospiti che uscivano. Il pranzo era finito.
Martin vide apparire sulla soglia don Sancho, a congedare gli invitati.
Abbassò immediatamente il capo e prese a spalare con maggiore vigore,
finché non fu certo che il gentiluomo fosse rientrato.
Si accorse che una donna li stava guardando dalla soglia di una casa vicina
e ne fu preoccupato.
Lei incrociò la sua occhiata fuggevole ed entrò in casa. Ne uscì dopo poco
con una brocca in mano. Si avvicinò. «È da un po’ che vi osservo. Siete qui
già da due ore, a faticare sotto questo sole rovente. Ho immaginato quale
tormento debba essere. Così ho pensato di portarvi dell’acqua fresca.»
Era una manna dal cielo. «Mille grazie, signora» esclamò Martin. Porse la
brocca ad Arnaud, poi la riprese e bevve a sua volta diverse sorsate. Aveva
voglia di versare l’acqua rimasta sulla camicia, ma vi rinunciò: aderendo al
corpo, la tela avrebbe reso visibile il pugnale che nascondeva.
Nell’udire la “erre” di Martin, la donna aveva assunto un’espressione
incerta. «Siete... francesi?»
«No, signora.» Martin improvvisò lì per lì. «Siamo immigrati qui dalle
Fiandre e siamo sudditi del re di Spagna. Lavoriamo ora come braccianti, ora
come manovali nel cantiere di don Felipe.»
La donna fu soddisfatta dalla spiegazione. «Avrei dovuto capire che non
potevate essere pirati. Lavorate senza catena al piede e senza soldati a
sorvegliarvi... Bene, vi lascio la brocca. Se volete altra acqua, sapete dove
abito.»
Stava per girare le spalle. Martin decise che conveniva approfittare di
quell’incontro. «Signora, toglietemi una curiosità. Quello di fronte è il
palazzo del governatore?»
«No, è una tesoreria. Attualmente vi abita don Sancho Jímeno, che fa le
veci di governatore, assieme a sua moglie Teresa. È una sistemazione
provvisoria, anche se spero che l’incarico di don Sancho sia legittimato dal
re. È una persona nobile e degna, che ha combattuto i francesi con un
coraggio che altri non hanno avuto.»
«Me lo hanno detto in tanti. Circolano brutte voci su doña Teresa. Si parla
di hechicería.»

234
Il viso sereno della donna fu contratto dall’indignazione. «Chi dice
questo?»
«Be’, per esempio don Felipe, il nostro capomastro.»
«Fategli sapere che è un bugiardo e un imbecille, se raccoglie le calunnie
del popolino. Teresa Jímeno è una santa donna, malgrado la giovane età,
fedele e devota al marito e alla religione. I suoi oratori sono quanto di più
innocente esista. Chiunque può constatarlo, dato che sono aperti a tutti... Se
questo don Felipe vuole convincersene di persona, che venga qui stasera,
dopo cena. È sabato, e non ci sono esecuzioni. Doña Teresa tiene l’oratorio,
poi, dopo mezzanotte, andiamo in processione alla messa di padre Lucero.»
«Riferirò, signora. Scusatemi se ho riportato chiacchiere su cose di cui, in
realtà, io non so nulla.»
Appagata, la donna rientrò.
Appena furono soli, Martin disse ad Arnaud: «È inutile che restiamo qui a
spostare sassi. Quello che volevamo sapere lo sappiamo. Persino come
entrare nella Contaduría. È meglio che cerchiamo qualcosa da mettere sotto i
denti... Secondo me, la storiella delle Fiandre funziona meglio delle
precedenti».
«Mentite alla velocità di un fulmine» osservò Arnaud, ammirato.
Martin ridacchiò. «Quando occorre, riappare in me il malandrino che sono
stato.»
Trovarono una taverna poco frequentata, nei pressi dell’ospedale.
Sedettero a un tavolo all’aperto, a dispetto delle mosche, dei cattivi odori e
della vista desolata. La saletta interna era lurida. Se non altro stavano
all’ombra. Clientela e proprietà appartenevano agli strati più bassi della plebe
di pelle bianca. Ordinarono a un giovane scheletrico formaggio, banane (di
pane non ne avevano, nemmeno di manioca), vino bianco e acqua. L’uomo
non manifestò la minima curiosità né fece caso al loro accento. Sembrò anzi
felice di avere avventori non conosciuti, in grado di pagare.
Attesero in quel luogo a suo modo confortevole finché il pomeriggio non
sfumò nel tramonto. Li impegnò molto il tentativo di tenere lontane le
mosche, prima che le zanzare dessero loro il cambio. Infine passeggiarono
con calma, accentuata dal vino bevuto, verso la Contaduría.
«Entro io solo, e tu mi aspetti in piazza» disse Martin. «Se non mi vedi
tornare, va’ nei boschi e allontanati senza guardare indietro.»
Arnaud si irrigidì. «No. A questo punto voglio sapere cos’è un oratorio.»
«Te lo racconterò al mio ritorno.»
«Niente affatto. Che rischi corro? Nessuno mi conosce.»

235
Martin capì che sarebbe stato inutile cercare di convincere il ragazzo. Lo
guidò fino alla Contaduría. Rimasero nascosti sotto gli alberi, non lontani dal
punto in cui avevano scavato a vuoto, finché i lampionai non accesero alcune
lanterne. Poco dopo cominciarono ad arrivare cittadini di ogni condizione,
che formarono una piccola folla. Si accalcarono davanti a uno degli ingressi
secondari, attraverso due ali di guardie indifferenti.
«È il momento» disse Martin.
Si unirono al piccolo assembramento proprio mentre i battenti del portone
venivano aperti. Furono all’interno. Ciò che videro era sbalorditivo, per non
dire assurdo.
La sala, illuminata da molti candelabri e odorante d’incenso, era dominata
da un altare. Lo sovrastava una grande statua di sant’Antonio da Padova,
l’espressione dolorante, la mani tese in avanti. Aveva sotto di sé la più strana
accozzaglia di oggetti: rosari, crocifissi, un teschio umano, una testa di toro
mozzata, cesti di frutta, varie bottiglie di vino e altro ancora.
Di fronte all’altare, inginocchiata, Teresa stava pregando.

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47 - In preda all’ebbrezza

Martin e Arnaud seguirono i comportamenti degli altri presenti, che si


stavano allineando in una lunga fila, a mani giunte. Teresa si alzò in piedi, ma
non si girò. Toccò le dita del santo, si segnò e fece due passi indietro,
seguitando a volgere la schiena.
La coda dei credenti si mosse lentamente. Ognuno di essi sfiorava la statua
– dai colori vivaci, con il saio marrone e una tinta del viso eccessivamente
rosacea – poi abbracciava Teresa. Lo attendevano alcuni domestici, che gli
offrivano boccali di peltro pieni fino all’orlo. Il fedele andava a sedersi su
file di panche con inginocchiatoio e lì consumava la sua pozione.
Martin, oltre che emozionato, era incredulo per ciò che vedeva. Quella
specie di sacerdotessa, vagamente ieratica, non somigliava affatto alla Teresa
che aveva conosciuto. Gli pareva di vivere in un sogno, né gradevole né
sgradevole, ma lontanissimo dalla realtà. Lo scenario contribuiva al suo
straniamento. L’altare assurdo, la distribuzione di bevande, le mille candele, a
cui si aggiunse un forte aroma di incenso. Riconobbe, pochi passi avanti a
lui, la donna che aveva offerto acqua mentre spostava detriti. Lei gli sorrise,
prima di girare il capo. Arnaud taceva. Nuovo a simili spettacoli, era
meravigliato ma non sconvolto.
I fedeli intonarono a bassa voce il Salve Regina. Martin notò che alcuni
recavano doni, che posavano sull’altare del santo prima di baciargli le mani.
Erano paccottiglia disparata, che andava dai cestini di frutta agli ex voto, alle
bottiglie di vino.
Un giovane reggeva una seconda testa di toro. Probabilmente era un
campione dei juegos taurinos cari agli spagnoli, sia della madrepatria sia
delle colonie. Spettacoli selvaggi, in cui un uomo a cavallo, armato di una
lancia dalla punta a mezzaluna, dopo avere ferito un toro imbizzarrito cercava
di finirlo con un colpo preciso alla nuca. Chi vi fosse riuscito sarebbe
divenuto simbolo vivente di virilità e coraggio.
Si avvicinava il momento più temuto, l’altare era vicino. I battiti del cuore

237
di Martin erano fuori controllo. Si calmarono d’improvviso quando venne il
suo turno. Sfiorò le dita della statua e si avvicinò a Teresa a braccia aperte.
«Sono io» bisbigliò. «Sono tornato per te.»
Lei rimase impietrita e sembrò non credere ai suoi occhi. Dopo parecchi
istanti si riscosse e si lasciò abbracciare. Gli sussurrò all’orecchio: «Resta
qua. Non venire alla messa. Ti raggiungerò dopo».
Inebriato, Martin prese la coppa che gli veniva offerta con le mani che gli
tremavano. Raggiunta una panca, assaggiò il liquido. Era una bibita
fortemente alcolica, a base di vino ma con sentori fruttati.
Arnaud lo raggiunse poco dopo, anche lui con una coppa colma fino
all’orlo. «Vi ha parlato?» gli domandò.
«Sì, mi ha anche dato un appuntamento.»
Il ragazzo sorrise. «Sono molto, molto contento per voi.»
Martin era in piena beatitudine, e l’alcol accentuava il suo stato di quiete
interiore. Negli altri presenti, invece, a essere stimolato fu il misticismo.
Presero a pregare e a cantare inni a voce sempre più alta. Una decina di
camerieri si aggirava tra i banchi e sostituiva le coppe vuote con altre piene,
offrendo nel contempo dolcetti; quei dolcetti di cui Teresa andava ghiotta.
Martin non si meravigliò del fatto che don Sancho non presenziasse a
quella specie di rito. Per quanto l’ispirazione cattolica fosse indubbia,
comprendeva una buona dose di trasgressioni e non poteva che allarmare un
fedele rigoroso. La parte più singolare doveva ancora venire.
Teresa si mise a ballare. Non era un ballo conosciuto – non c’era musica –
bensì un ondeggiare i fianchi con le braccia levate, in pose morbide cariche
di sensualità. Molti giovani si unirono a lei imitandone i movimenti.
Danzavano, pregavano e cantavano inni. Alcune coppie afferravano le mani
della statua e si scambiavano baci, atto di per sé contrastante con i costumi
della Spagna. I religiosi, pur senza mescolarsi ai ballerini, scolavano vino e
sorridevano paterni.
«Mi sembrano tutti matti» disse Arnaud. «Non ho mai visto niente di
simile.»
«Nemmeno io.» Lo sconcerto di Martin andava ben oltre quelle parole.
La “cerimonia” durò oltre un’ora. Quando le voci si fecero sguaiate, e il
passo dei danzatori divenne incerto, Teresa si arrestò, si mise davanti
all’altare e batté le mani. Si fece subito silenzio.
«Amici, è ora che usciamo in processione. Padre Lucero ci attende a San
Juan de Dios per la messa.»
La statua di sant’Antonio fu sollevata da quattro domestici robusti e posata

238
su una piattaforma di legno dotata di manici. I quattro si avviarono all’uscita
con il loro carico, che tenevano sulle spalle. Altri servi distribuirono torce,
candele e crocifissi. Il corteo, oscillante, si incamminò, con Teresa alla testa.
Martin restò seduto finché nella sala rimasero solo lui e Arnaud. Alcuni
servitori cominciarono a raccogliere le coppe sparse un po’ ovunque e a
spazzare i rimasugli di cibo. Non guardarono nemmeno i due intrusi. Di certo
avevano ricevuto istruzioni al riguardo. Pulirono le panche tutto attorno, ma
non la loro, e non chiesero che si alzassero.
Appena furono veramente soli, Martin disse ad Arnaud: «Ciò che seguirà
riguarda solo me. Ti ringrazio per essermi stato al fianco, tra innumerevoli
traversie. Adesso ti prego di andartene».
«Ma...»
«Niente ma. Non vorrai assistere a un colloquio tra amanti! Io e Teresa
dobbiamo parlarci nell’intimità. Fai lo stesso percorso di ieri notte, cerca la
stessa casa di Hihimani in cui abbiamo dormito. Ti raggiungerò là appena ci
riuscirò.»
Benché con qualche esitazione, il ragazzo obbedì. Salutò e lasciò la sala.
Ancora un po’ stordito per il vino, i fumi delle candele e la strana
esperienza vissuta, Martin si abbandonò sullo schienale della panca, le
braccia larghe. Era felice, eppure turbato da preoccupazioni. La Teresa che
aveva appena visto e quella che credeva di conoscere avevano in comune
solo spregiudicatezza e sensualità. Per il resto parevano due donne
assolutamente diverse.
Lo consolò il pensiero che sarebbero fuggiti da lì e, in un luogo vergine,
dei tanti che i Caraibi offrivano, avrebbero condotto una vita migliore. Sia lui
sia lei. Se Teresa avesse voluto seguitare a venerare sant’Antonio, per lui non
sarebbe stato un problema.
Fu riscosso dal suo torpore dal rientro di Arnaud.
«Non mi hanno lasciato uscire!»
«Chi te lo ha impedito?»
«Fuori è pieno di soldati. Ho provato un’altra porta, ma la situazione era
uguale.»
Martin si guardò attorno. Tutte le finestre avevano sbarre. «Prova a salire
ai piani superiori, oppure a scendere nelle cantine. Trova un rifugio dove
acquattarti e restaci finché la strada non ti sembra libera. Meglio i sotterranei,
a ben vedere. Adesso va’, senza perdere tempo.»
«E voi non venite?»
«Devo per forza rimanere qui. Non credo di correre pericoli. Ho

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appuntamento con la moglie del governatore, che è la mia amante. Ti prego,
vai. Bisogna essere prudenti.»
Arnaud filò via.
Martin si curvò, i gomiti sulle ginocchia. Gli interrogativi che si poneva
erano innumerevoli. Se Teresa avesse voluto tradirlo e farlo arrestare,
avrebbe potuto farlo nel momento in cui lui si era rivelato, o subito dopo la
partenza della processione. Perché poi, se lo scopo era quello, dargli un
appuntamento e pregarlo di aspettarla? No, le cose dovevano essere più
semplici e più innocue di quanto apparissero. Era lui che non riusciva a
coglierne la logica. Le guardie alle porte forse obbedivano a un semplice
ordine di coprifuoco.
Finalmente la voce squillante di Teresa esclamò, con una certa allegria:
«Eccomi qua!».
Martin si alzò di scatto. Ogni traccia di ubriachezza era scomparsa. Andò
verso di lei a braccia tese.
Teresa gli prese le mani e gliele abbassò. «Non qua» intimò, in un tono
che suonò scherzoso. «Come ti è sembrato l’oratorio?»
«Una cerimonia molto strana... Ho sentito dire che parte della Chiesa non
la approva.»
Lei fece una smorfia. «Quelli sono in primo luogo i domenicani, che della
rigidità fanno una bandiera. Non capiscono nulla. Non capiscono che, se la
religione vuole imporsi nelle colonie, deve in parte far propri aspetti dei riti
locali, soprattutto indigeni, senza per questo rinunciare alla dottrina. Molti
gesuiti, meno tonti, hanno finito per capirlo, e così i preti che vivono a
contatto col popolo.»
Martin fu sconcertato, per l’ennesima volta in quella giornata. Dopo non
averlo visto per tanto tempo, ecco che Teresa, invece di rivolgergli parole
affettuose o interrogarlo sulla sua salute, discettava su come diffondere il
cristianesimo nelle Indie Occidentali. Nemmeno pareva troppo stupita di
vederlo riapparire, redivivo e vestito da manovale, nel cuore della città
nemica.
«Ti trovo cambiata, Teresa. Fino a poche settimane fa non ti occupavi di
argomenti simili.»
«Non puoi saperlo. Non ci siamo frequentati così a lungo.»
«Fatto sta che non me ne hai mai parlato.»
«Ero tua prigioniera. Hai mai sentito di una detenuta che discute di
teologia con il suo carceriere?»
Se non fossero state dette con un fondo di divertimento, quelle parole

240
avrebbero preoccupato Martin. Le addebitò invece all’indole ironica e
imprevedibile della donna. Cambiò approccio. «Sono venuto a portarti in un
mondo tutto nostro, dove potremo rifarci una vita lontano da guerra e
violenze.»
«E perché?» La domanda ebbe l’impatto di un colpo di staffile.
«Per liberarti da un marito che tu non ami e che non ti merita.»
«Meglio sentire il suo parere. Sancho!»
Don Sancho Jímeno apparve, circondato da soldati, e marciò nella sala.
Additò Martin. «Arrestate quel farabutto!»

241
48 - Il confronto finale

La cella era migliore di quelle delle normali prigioni. Non c’erano né umidità
né topi. Scarafaggi e ragni sì, ma a quelle latitudini non mancavano mai. La
finestrella, dotata di sbarre e senza battenti, dava libero accesso alle zanzare.
Non erano numerose, però. In altre parti di Cartagena trovavano più sangue
da succhiare.
Martin aveva la gamba sinistra incatenata al letto di legno, pesantissimo e
privo di pagliericcio e di cuscino: una semplice tavola poggiante su grossi
picchetti. La lunghezza della catena gli consentiva di raggiungere un secchio
che serviva da bugliolo, e nient’altro. Del resto, il letto era l’unico mobile
della stanzetta e il secchio l’unico accessorio.
Era rimasto sveglio a lungo, poi si era addormentato. Un sonno calmo, in
fondo, non turbato dai riflessi di ciò che aveva vissuto. Quando si destò, non
sapeva che ora fosse, ma la luce era abbastanza intensa. Avrebbe voluto
dormire ancora, magari per sempre. Provava una sensazione indefinibile,
simile a un’assenza di sentimenti e di emozioni. Non si arrovellava: i suoi
pensieri erano frammentari, le sue meditazioni si sfrangiavano prima di avere
assunto forma compiuta. Tornò a adagiarsi sul letto e si abbandonò a quel
vuoto.
Più tardi una guardia gli portò una pagnottella e una piccola brocca
d’acqua, senza dire una parola. Martin bevve qualche sorso ma ignorò il
cibo. Trascorse meno di un’ora prima che la guardia tornasse. Ritirò il pane,
la brocca e fece entrare Teresa.
«Come sta il mio presunto amante?» chiese lei, con voce fatua che suonò
sottilmente cattiva.
Martin si riscosse all’istante dal torpore. «Teresa, cosa significa tutto ciò?»
«Lo vedi tu stesso, no? Abbiamo catturato un pirata e lo teniamo in
catene.»
Martin si chiese, e non era la prima volta, se quella che aveva davanti era
la stessa donna da lui conosciuta. Esternamente sì. Teresa Jímeno indossava

242
uno dei suoi soliti abitini semplici, portava quale unico ornamento una
crocetta d’oro al collo, si muoveva con sinuosità da gattina. Tuttavia i suoi
occhi erano ogni tanto attraversati da un lampo scuro. Non di minaccia, ma
di serietà.
«Noi ci amavamo.»
«Tu mi amavi, questo è certo. Ne sono lusingata.»
«È per te che sono tornato a Cartagena.»
«Ero sicura che lo avresti fatto. Sancho diceva di no, ma io gli ripetevo:
“Vedrai che torna, e che lo acciuffiamo”. Avevo ragione io.»
Martin perse ogni energia. «Anche tu mi amavi. Me lo hai detto, me lo hai
dimostrato. Hai cercato di sedurmi fin dal primo momento in cui ci siamo
incontrati.»
Lei rise. «È vero! Un’idea di Sancho. Mi ha raccomandato, nel caso
fossimo caduti prigionieri, di provare a irretire il capo dei nostri aguzzini. Sa
che rientra nei miei talenti. Io mi sono prestata e ho inventato quelle storie sul
marito che mi trascurava e mi opprimeva. In realtà esistono poche coppie
felici come la nostra.»
«Se quel che dici è vero, sei l’immoralità fatta persona.»
«Parli come quei barbogi dei domenicani. Chi si trova in cattività ha diritto
a difendersi come può, non sei d’accordo?»
Martin deglutì. Ripercorse mentalmente le tappe della vicenda. Alcuni
dettagli non collimavano con il quadro che Teresa stava delineando.
«Se io sono un pirata, tu sei mia complice. Sei stata tu ad avvisarmi che
stava arrivando la flotta inglese.»
«Un’altra trovata di Sancho. Dovevamo liberarci dall’incubo dei
filibustieri. Lui sapeva che gli inglesi stavano prendendo il mare, ma che
sarebbero giunti qui solo molti giorni dopo. Io ti ho suggerito che fossero
ormai in vista, e tu lo hai comunicato ai tuoi compari. Così vi siete tolti di
mezzo prima di sottoporci a chissà quali altri supplizi. Non è abitudine della
Filibusta, quando lascia una città saccheggiata, darle fuoco? Questa volta
avete dovuto rinunciarvi, credendo di non averne il tempo. Cartagena è salva
e sta già rinascendo. Merito del genio di Sancho, e un po’ anche merito mio.»
«Ma tuo marito sembrava del tutto all’oscuro dell’arrivo della flotta
nemica!»
«Credi di essere il solo che sa fingere?»
Martin era quasi intontito per la spossatezza, più mentale che fisica.
L’amore si era spento di colpo e non costituiva più argomento di difesa.
Gliene rimaneva uno solo, più convenzionale. «Prima di finire con i

243
filibustieri, ero un ufficiale del re di Francia Luigi XIV. Non si può
assassinare un graduato nemico per avere servito la propria patria. Non
accade in nessun paese civile, nemmeno nelle colonie. Ho quanto meno
diritto a un processo.»
«Lo avrai, oggi pomeriggio. L’imputazione non sarà solo di pirateria, o di
atti di crudeltà.»
«Qual è l’accusa, allora?»
«Violenza carnale. Ai miei danni.»
Martin si ribellò. «Fu un atto d’amore! Un impulso! E tu non gridasti, non
chiedesti aiuto!»
«Considera la situazione.» Per la prima volta, il viso di Teresa si fece
severo. «Dovevo condurre a termine il mio piano, per la salvezza di
Cartagena. Se avessi gridato, avrei coinvolto una quantità di testimoni. A
parte Sancho, i domestici e gli ospiti. Restai in silenzio a soffrire.»
«A soffrire?»
«Sì. Fu una cosa schifosa. Dopo mi sentivo sporca e avevo la nausea.
Sancho, quando gli ho raccontato quel gesto ripugnante, mi ha capito e mi ha
perdonato all’istante. Ora è con la sua collera che dovrai vedertela. Ieri notte
ti ho lasciato due ore davanti all’altare sperando che Dio ti toccasse il cuore.
Sei troppo stupido perché ciò accadesse. Peggio per te. Non ci vedremo mai
più. Che la tua anima riposi in pace.»
Mentre la porta della cella si richiudeva, Martin tornò a stendersi sul letto,
confuso, stranito. Provava sì dolore, ma era tanto forte che si ottundeva da
solo. Vi si univa un senso di umiliazione profonda. Se fosse stato un uomo a
ingannarlo, la reazione sarebbe stata diversa. Avrebbe provato collera, sete di
vendetta. Mai si sarebbe atteso di essere colpito a tradimento da una donna
così giovane e così appassionata. Doveva invece essere fredda e calcolatrice
fino alla spietatezza.
Un paio d’ore dopo la porta si spalancò di nuovo. Questa volta le guardie
erano numerose e armate di picche. Il capo della pattuglia intimò: «Seguiteci
e non provate a opporre resistenza».
Fu condotto attraverso un corridoio disadorno, in cui si aprivano altre tre
celle, vuote e con l’uscio spalancato. Si trovavano nelle soffitte, vicino agli
alloggi dei valletti e degli schiavi. Fu spinto lungo una scala fino a una saletta
del piano inferiore, che probabilmente era stata lo studio di un contabile. Ora
ospitava un tavolo con dietro alcune poltrone, e davanti un’unica sedia. Vi
venne incatenato e gli furono applicate alle mani, tirate dietro lo schienale,
pesanti manette: una barretta con due “U” rovesciate di ferro che si potevano

244
stringere tramite una vita centrale. Il capo della pattuglia le strinse fino a fare
entrare il metallo nella carne.
La “corte”, se così si poteva chiamare, entrò qualche minuto dopo. La
componevano il magistrato Tomás Beltrán, padre Lucero, don Sancho
Jímeno e un notaio che recava pergamena, carta e calamaio. Solo due soldati
rimasero nella stanza, ai lati dell’accusato. Martin cercò di fissarli con
fierezza, ma la luce solare, che entrava da una piccola finestra, lo accecava e
lo obbligava a sbattere gli occhi.
La procedura fu brevissima. A prendere la parola fu Beltrán. «Questo non
è un processo ordinario. Ciò che si dirà qui rimarrà fra noi e sarà reso noto
solo al re di Spagna e al viceré nelle Americhe. I presenti si sono impegnati
con giuramento a mantenere il silenzio. Credo che sia inutile ricordarlo.»
Tutti annuirono, inclusi i due soldati. «È superfluo leggere il capo d’accusa ai
danni di quest’uomo, Martin d’Orlhac o Dorlhac. Include banditismo,
pirateria e atti di crudeltà. Tra questi ultimi, più grave di ogni altro, lo stupro
in forme abbiette della moglie del governatore di Cartagena qui presente, don
Sancho Jímeno.»
«Non c’è stato nulla di abbietto!» protestò Martin, pur sapendo quanto
fosse inutile.
«Tacete! Ho raccolto la testimonianza giurata di doña Teresa Jímeno, e ciò
è sufficiente. In precedenza si era già confidata col marito e con padre
Lucero, ben prima che veniste catturato. Le vostre negazioni non ci
interessano.»
Beltrán, un uomo di corporatura imponente, dai lunghi capelli bianchi e
vestito con grande cura, si rivolse agli altri componenti della giuria. «Credo
che siamo d’accordo. Costui merita la pena di morte e, data l’eccezionalità del
giudizio, non ha diritto alla difesa, come si usa con i filibustieri colti sul fatto.
Siete d’accordo con me?»
«Sì» risposero all’unisono sia Lucero sia don Sancho.
Il notaio verbalizzò il verdetto. «Non occorre altro. Imputato, avete
un’ultima dichiarazione da fare, prima di essere ricondotto in cella in attesa
dell’esecuzione?»
Martin inghiottì quel po’ di saliva che gli restava, per cercare di farsi udire.
Sudava, benché il calore, col pomeriggio che trascorreva, fosse accettabile.
«Sì, ce l’ho. Capisco che ero condannato prima ancora di essere trascinato
alla vostra presenza. Ho una supplica da rivolgervi. Sono stato un ufficiale
che ha servito con valore la sua patria e il suo re, e luogotenente
dell’ammiraglio De Pointis. Mi sono comportato con coraggio in ogni

245
circostanza, attenendomi agli ordini ricevuti. Ho preservato la vita di don
Sancho e della sua famiglia rischiando la mia. E di gesti crudeli o abbietti non
ne ho compiuti. Sono finito tra i filibustieri in mezzo alla confusione seguita
al ritiro da Cartagena, e prima su ordine del mio diretto superiore. Lo stupro
c’è stato, ma ai miei occhi era lo sfogo di una passione. Non sono riuscito a
controllarmi. Alla luce di tutto ciò, vi chiedo di farmi morire con decoro.
L’ho meritato con una vita che ha avuto qualche momento di caduta, ma
anche qualche momento di nobiltà.»
Beltrán ascoltò con pazienza, quindi alzò le spalle. Guardò gli altri giurati.
«Signori, avevo un testimone d’accusa di riserva. Non volevo escuterlo
perché mi sembrava superfluo. Credo però che valga la pena di ascoltarlo,
tanto per dimostrare quanto questo D’Orlhac sia incline alla menzogna.»
Una delle due guardie uscì e rientrò trascinando per il polso un giovane
prigioniero. Tormentato dal sole, Martin ci mise un poco a coglierne appieno
l’immagine. Era Arnaud. Perdeva sangue dal naso e dalle orecchie, aveva
ferite in tutto il corpo. Zoppicava penosamente.

246
49 - Umiliazione

Martin non era più in grado di stupirsi di nulla. Accettò con rassegnazione
l’apparizione del ragazzo. I segni evidenti di tortura lasciavano presagire che
avrebbe detto qualsiasi cosa. Così fu.
«Eri imbarcato come mozzo con i pirati?» chiese Beltrán.
«Sì.» La voce di Arnaud era rauca, le labbra spaccate.
«È tra loro che hai conosciuto il prigioniero?»
«Sì.»
«Era tra i capi che hanno assalito Cartagena dopo il ritiro della flotta
francese? Godefroy e gli altri?»
«Sì.»
«Lo hai visto commettere atti di violenza e crudeltà?»
«Combatteva e dunque...»
«Non voglio chiacchiere ma risposte dirette. Sì o no.»
«In un certo senso, sì.»
Fino a quel momento le repliche dell’adolescente corrispondevano grosso
modo a verità, anche se così semplificate avevano un altro senso. Crudeltà e
violenza facevano parte dell’agire di ogni militare in battaglia, qualunque
fosse il campo di appartenenza. Senza questa precisazione, parevano un mero
esercizio di ferocia.
Beltrán proseguì. «Ci hai detto che siete arrivati fin qui in barca. Da che
nave venivate?»
«Dal Neptune del capitano Lorencillo.»
Il magistrato e don Sancho erano sicuramente al corrente della
partecipazione di Laurens De Graaf alla fase finale dello scontro, ma gli altri
no. Il combattimento in cui era intervenuto si era svolto lontano da
Cartagena. Il notaio, Lucero e persino le guardie trasalirono. Lorencillo era
considerato un mostro, un assassino per vocazione, il peggiore nemico della
Spagna. C’era del vero, ma anche molto di amplificato dalla voce popolare,
fino a conferire al pirata imprendibile dimensioni grottesche.

247
«Basterebbe questo» disse Beltrán «però voglio chiedere alla giovane
canaglia un’ultima cosa. Durante le tue peregrinazioni con Martin d’Orlhac,
questi ti ha mai detto di avere stuprato la consorte del nostro governatore
reggente?»
Arnaud scoppiò a piangere.
Il magistrato intimò: «Non me ne faccio nulla delle lacrime. Esigo una
risposta. Ebbene?».
«Sì.»
Martin si attendeva qualcosa del genere. Non reagì alla menzogna.
«Si vantava del suo gesto?»
«Sì.»
«Raccontava di averlo perpetrato in maniera particolarmente efferata?»
«Sì.»
Beltrán si rivolse agli uomini seduti al tavolo. «Signori, non ci serve
ascoltare altro. L’imputato non ha diritto a una fine particolarmente
onorevole. Morirà come devono morire i criminali della sua specie. E ora
direi che possiamo chiudere la seduta.»
«Un momento!» gridò Martin. «Chiedo ancora una cosa!»
«Non avete il diritto di chiedere nulla.»
«Non è per me. Il ragazzo non c’entra con quel che ho fatto io. Siate
generosi, liberatelo. Ha solo quindici anni. Il cielo ve ne renderà merito.»
«Non è possibile lasciare che...» esordì Beltrán.
Don Sancho Jímeno lo interruppe. «A me pare una richiesta ragionevole.
Il piccolo delinquente ha confessato e non ha commesso direttamente dei
crimini. Di lui non ce ne facciamo nulla. Sia rimesso in libertà.»
Beltrán fece un inchino. «Ammiro la vostra generosità, don Sancho.
Sarete obbedito.»
Arnaud, ancora piangente, fu portato fuori.
Martin venne ricondotto in cella. Non gli misero la catena al piede.
Doveva apparire completamente inoffensivo. Ebbe un pagnotta e una
seconda brocca d’acqua, poi la chiave girò nel catenaccio.
Tornato sul suo giaciglio, Martin invocò il sonno. Fu accontentato. Dormì
placidamente, assaporando benché incosciente quel momento di tregua. Il
legno duro che aveva sotto la schiena gli sembrava, ogni volta che si
svegliava, un letto di piume, e vi si riadagiava. Dalla finestrella, col
trascorrere del pomeriggio, penetrava una brezza sempre più fresca, che
sapeva di mare. La sua carezza morbida lo faceva riaddormentare dopo pochi

248
istanti. Avrebbe voluto che quella situazione paradisiaca si prolungasse in
eterno.
Fu strappato con violenza al suo benessere. La porta si aprì con fracasso.
Si accorse che era quasi sera. Un soldato gli gettò un camicione di canapa.
«Spogliati e indossa questo.»
Martin fece quanto gli veniva comandato. Indossata quella specie di veste
da camera, fu trascinato dalle guardie fino ai piani inferiori. Mentre lo
portavano in strada, si chiese quale supplizio lo aspettava. Impiccagione?
Decapitazione? Addirittura squartamento con cavalli? Escluse l’ultima ipotesi:
quella pena era riservata agli autori di reati molto più gravi dei suoi.
Qualunque fosse stato il modo scelto per ucciderlo, la sua agonia non
sarebbe durata a lungo.
Fu condotto a piedi attorno al palazzo, fino alla piazzetta sul retro, già
gremita di folla. Allora capì quale sorte gli veniva imposta. La gogna. Quanto
di peggio poteva immaginare.
Si ribellò debolmente. «No! Non questo!»
Uno dei soldati gli disse: «Se gridi, sono autorizzato a tagliarti la lingua.
Vedi tu».
Si abbandonò totalmente al volere delle guardie. La tavola superiore fu
sollevata grazie alla cerniera che la univa all’altra. Martin fu fatto
inginocchiare con calci dietro le ginocchia. Il collo e i polsi furono poggiati
negli incavi appositi, e le due parti della berlina vennero chiuse e serrate.
Martin, trasognato, vedeva appena la folla schiamazzante e ridente in attesa
di prendere parte attiva al martirio. Molti avevano torce, secchi, lame. Gruppi
di bambini stavano accumulando pile di sassi, dai più piccoli ai più pesanti.
Un frate cappuccino gli si accostò. «Vuoi confessarti?»
Martin non rispose.
«Ti impartisco lo stesso una benedizione.» Il frate mormorò una breve
formula latina e tracciò nell’aria un segno di croce. Aggiunse: «Consolati,
figliolo, siamo tutti mortali. Se hai fatto qualcosa di buono nella vita, Dio lo
riconoscerà». Si ritirò.
Martin non udì un segnale di inizio, se ve ne furono. Vide solo due gambe
piccole e grassocce che camminavano verso di lui e un braccio che teneva un
secchio. L’uomo caracollava in una specie di danza, facendo piroette e
muovendo il posteriore. Ciò fece scompisciare la folla, che da quel momento
non smise più di ridere.
Quando il personaggio – forse un buffone, visti i colori vistosi a losanghe
delle brache – fu presso la gogna, sollevò il secchio. Il viso di Martin fu

249
innaffiato da un liquido nauseabondo. Feci e orina attinti a qualche pozzo
nero. Il liquame gli fu versato in testa lentamente, fino a coprirgli l’intera
faccia. Non vomitò, ma la nausea gli prese la gola.
Fu l’inizio di altri getti di sostanze immonde. Poi vi fu un cambiamento.
Un uomo avanzò armato di coltello. Aprì una ferita sul cuoio capelluto di
Martin e vi sfregò una polvere granulosa. Era sale. Il bruciore fu intollerabile
e persistente. Martin avvertì il bisogno di urlare, ma non lo fece. Piuttosto
che dare soddisfazione agli spettatori, si sarebbe troncato la lingua fra i denti.
Era uno dei pochi pensieri a cui riusciva a dare forma. Un altro era molto
più inquietante. Tormenti di quel tipo potevano durare giorni. Nei casi di
ubriaconi notori, ladruncoli e bestemmiatori l’esposizione si prolungava
finché il reo, storpio per sempre, veniva liberato e destinato a un’esistenza di
accattone. La sua speranza, se così si poteva chiamare, era che la sua era una
condanna a morte. Forse la fine sarebbe sopraggiunta prima.
Continuò la festa crudele, secondo un identico rituale. Qualcuno si
staccava dalla cerchia degli astanti e, avvicinato il prigioniero, dava sfogo alle
sue invenzioni. Un energumeno gli orinò direttamente in viso. Fu una
paradossale liberazione da una parte del fluido fecale di cui Martin era
imbrattato. Una donna lo afferrò per i capelli e gli ruppe il naso con una
ginocchiata. Il sangue gocciolò sul terreno. Una seconda donna gli spezzò i
denti con la scarpa che si era tolta. Gli applausi furono assordanti. Lui però
non poté udirli. Con un gesto meno coreografico degli altri, un individuo
erculeo lo aveva percosso a mani aperte sulle orecchie con estrema violenza,
lesionandogli i timpani.
Intanto era giunta un’orchestrina, che si mise a suonare canzoni allegre.
Martin non poteva più udirle. Alcuni ballavano. C’era chi cantava.
Circolavano bottiglie di vino.
Sperava di perdere i sensi, ma la provvidenza non lo accontentò. Non
svenne nemmeno quando un borghese armato di coltello gli tagliò di netto un
orecchio e sparse, al solito, sale sulla ferita. Fu intontito dal dolore e avvertì il
sangue che gli colava sul collo a fiotti. Era venuto il turno dei bambini, che
iniziarono a lanciare sassi, prima piccoli, poi sempre più grossi. Miravano al
cranio. La maggior parte delle pietre colpiva il legno della gogna, ma alcune
giungevano a segno, aprendo nuove lesioni. Di rimbalzo, una gli accecò un
occhio.
Martin, con uno sforzo sovrumano, torse la testa e la girò un poco. Voleva
guardare in faccia i suoi aguzzini. Ci vedeva a stento, con l’unico occhio

250
sano, ma uno degli astanti lo riconobbe. Era Arnaud che, unico tra una calca
ridanciana, cercava di asciugare un pianto dirotto.
Lo fissò, sperando che capisse il suo messaggio disperato. Così fu. Il
ragazzo raccolse un sasso più pesante degli altri, tale da piegarlo in due, e
raggiunse incespicando la berlina. Salirono grida di rimprovero.
«Ma che fa quel giovane scemo?»
«Così lo uccide subito!»
Arnaud, con uno sforzo di cui lui stesso non si sarebbe creduto capace,
sollevò la pietra e la lasciò ricadere. Martin, il cranio sfondato, morì
all’istante. Ebbe il tempo di lanciare ad Arnaud, con l’unico occhio buono,
uno sguardo di gratitudine.

251
50 - La repubblica dei furfanti

«Dannato sia il demonio, sarei dovuto entrare qui con la spada in pugno per
forarvi la pancia da una parte all’altra, magari dopo una scarica di calci in
culo!»
Dalla villa bianca in cima a una delle colline che circondavano Léogâne si
dominavano la città e il mare, e si scorgevano nitidamente le coste della
grande isola di Gonâve. Si era alla fine di dicembre del 1697, la stagione delle
piogge era trascorsa e l’aria era limpidissima. Su una terrazza riparata dal sole
da una tenda azzurra sedevano attorno a un tavolino Lorencillo, Ducasse e
Ravenau de Lussan. Stavano bevendo la seconda bottiglia di verdejo fresco.
Ducasse sorrise e posò la pipa. «Ecco che tornate fuori con quella storia,
Laurens. È stato ormai molto tempo fa. Che cosa vi ho fatto, in fondo? Vi ho
consentito di viaggiare in Francia, visitare la corte e fare conoscenze.»
«Bel viaggio! Accusato di codardia e spedito a giudizio. Quanto alle
conoscenze, ho incontrato solo stoccafissi incipriati e vecchie dame piene di
moine. È stato come chiudermi in una gabbia di scimmie. Senza contare che
pioveva sempre.»
«Suvvia, non prendetevela. Alla fine siete stato assolto.»
«Non grazie a voi.»
Intervenne De Lussan, malizioso. «Dovreste essere più allegro, capitano
De Graaf. Grazie al Trattato di Ryswick presto potrete riabbracciare vostra
moglie.» Alludeva all’accordo di pace che aveva posto fine alla guerra,
sottoscritto il 30 settembre da Francia, Spagna, Inghilterra e Olanda. Ai
francesi aveva riconosciuto in via definitiva il possesso della parte
occidentale di Hispaniola, Saint-Domingue.
«Abbraccerò volentieri i miei figli, ma mia moglie gliel’avrei anche
lasciata, quella pestilenza fatta donna.»
«A Parigi cos’avete saputo di De Pointis?» chiese Ducasse.
«Ha passato momenti difficili quando si è sparsa la voce che aveva
derubato i suoi equipaggi. Luigi XIV è tuttavia rimasto incantato dalla somma

252
enorme che aveva portato in patria. Un balsamo per le casse del re, piene più
di ragnatele che di monete. Ha chiuso un occhio sull’oro che il briccone si era
tenuto e gli ha regalato persino uno smeraldo. Ora De Pointis, che il diavolo
gli sforacchi le terga con il tridente, è ricco sfondato e chiamato a incarichi di
prestigio. Quella di Cartagena è considerata bene o male una grande vittoria,
in una guerra avara di successi.»
Ducasse rimise in bocca la pipa. «In un certo senso lo è stata. Anche ai
filibustieri, in fondo, non è andata così male. Di capitani ne sono morti solo
due. Galet, disperso in mare, e Martin d’Orlhac. Un mozzo di nome Arnaud
mi ha raccontato il supplizio del suo capitano. Barbaro, impressionante. È
nota la crudeltà degli spagnoli, ma nel caso di D’Orlhac hanno superato se
stessi.»
«C’è un motivo.» De Lussan sogghignò. «Si era innamorato niente meno
che della moglie dell’attuale governatore di Cartagena. Già l’innamorarsi è un
vizio dello spirito. Per un pirata, poi, equivale a una specie di suicidio.
Checché ne dicano i poetastri.»
Una schiava posò sul tavolino una fruttiera colma di banane a fettine,
cubetti di melone, spicchi di agrumi, papaya e acini d’uva immersi in acqua
fresca. I tre si servirono con le dita.
«Re Luigi ha ammesso indirettamente la colpa di De Pointis quando mi ha
mandato, attraverso De Galiflet, quattrocentomila scudi da ripartire tra i
filibustieri non pagati adeguatamente» disse Ducasse.
«Avete deciso di non distribuirli in liquido» osservò Lorencillo. «Perché?»
«Ho comperato per loro terreni e fattorie, e si sta procedendo alla
distribuzione degli appezzamenti. Dopo centocinquant’anni, la vicenda dei
Fratelli della Costa è finita. Voglio che diventino agricoltori, che mettano su
famiglia. Penso che capiranno. Se tentassero di riprendere il mare, si
troverebbero di fronte tutte le potenze europee coalizzate. Quanto ai
bucanieri, che tornino a essere ciò che erano. Bravi cacciatori. La Spagna non
li perseguita più, e io me ne guardo bene.»
«Certi nostalgici dell’era della Tortuga non si rassegneranno. Godefroy,
per esempio.»
«È tornato in Francia, dove forse continuerà a schiumare contro i nobili e
il clero. Là potrebbe avere successo. Qui non lo rivoglio. Non so quanto
durerà questa pace, ma finché si prolunga desidero avere sudditi tranquilli e
operosi. La difesa sarà affidata alle truppe coloniali e alla marina reale. La
Filibusta non mi serve: procura solo fastidi.»
Vi fu una pausa per riempire i calici di vino, quindi De Lussan notò: «Il re

253
risarcisce almeno in parte gli avventurieri, ma agli abitanti di Cartagena, oggi
suoi virtuali alleati, non dà niente».
«Non è del tutto vero» protestò Ducasse. «Ha mandato alla città, a titolo di
risarcimento, il sepolcro argentato di non so quale santo, che faceva parte del
bottino. Là era oggetto di venerazione.»
«Lo so. La mia impressione è che il re non sapesse cosa farsene. Troppo
ingombrante. Fonderlo ne avrebbe abbassato di parecchio il valore.»
Ducasse rise. «È quello che credo anch’io. Luigi non restituirà mai ciò che
potrebbe avere un peso commerciale. Meglio cavarsela con un simbolo che
nessuno comprerebbe.»
Il terzetto continuò a bere e a mangiare frutta, finché Lorencillo non
introdusse un argomento nuovo.
«Ducasse, non so quanto durerà questa pace. Prima che scoppi una nuova
guerra, qui ci sarà solo da annoiarsi. Voi non siete il tipo. Tempo un anno,
avrete bisogno di tornare in azione.»
«Dimenticate che sono governatore e ho non so quanti incarichi militari.
Passerò i miei giorni a costruire fortificazioni e a fondare nuove città. Del
resto, se rinunciassi a tutto questo, non saprei dove andare.»
«Io e De Lussan abbiamo in mente una spedizione. Salpiamo domattina.
Se voi voleste venire con noi...»
Ducasse mostrò sbalordimento. «Non ditemi che volete tornare in mare a
compiere razzie! Non potrei permetterlo!»
«No, no. Ravenau, spiegate voi.»
Ravenau posò il calice che aveva alle labbra. «Saint-Domingue è sotto
l’influenza diretta della Francia. Subisce la pesantezza dei suoi balzelli e ne
riproduce le gerarchie, anche se in forme un po’ meno farraginose. Quote dei
guadagni di chi esercita un onesto commercio... non mi riferisco,
ovviamente, ai filibustieri... vanno al clero e alla nobiltà. In questo senso,
Godefroy aveva ragione, anche se esagerava. Ma non tutte le colonie francesi
sono così.»
«Vi riferite a quelle africane?» chiese Ducasse.
«No. Alludo alle terre del continente più a nord. La Louisiana, per
esempio. È ancora quasi selvaggia, con rare città, in gran parte inesplorata.
L’amministrazione del re è ridotta ai minimi termini, e niente affatto
soffocante. Gente decisa e di pochi scrupoli potrebbe impiantarvi ogni tipo di
traffico, dal commercio puro e semplice alla tratta degli schiavi, al
contrabbando, senza dover pagare alcun balzello. È il terreno ideale per
arricchirsi in fretta e col minimo di fatica.»

254
«Vorreste trasferirvi in Louisiana?»
«Esatto.»
«E crearvi una specie di repubblica dei furfanti?»
Lorencillo, entusiasta, batté una mano sul tavolo. «Ah, che genio, che
figlio di un demonio! Gran carogna, ma genio!» Alzò un braccio, indicando
non si sa se il cielo o un orizzonte impreciso. «Ecco che ti conia lì per lì una
definizione perfetta. La repubblica dei furfanti. Ducasse, dovete venire con
noi. Abbiamo una nuova patria da costruire, una Tortuga più grande. Dove
chi sia astuto possa fare ciò che gli pare. Non ditemi che vi attira di più
scaldare una sedia.»
Ducasse sorrise. «Non so se mi attira, ma quella sulla sedia sarà la mia
vita, fino al prossimo litigio fra potenti. E non dubitate, non tarderà.»
«Pensateci bene. Adesso la Louisiana è una palude puzzolente e piena di
alligatori. Ciò nonostante vi circolano già fiumi d’oro. Pensate a cosa
potrebbe farne gente come noi.»
«Un giardino?»
«Ma quale giardino, porco diavolo! Una palude tale e quale, però
redditizia. Un centro di smistamento di ciò che si ruba tra Caraibi, Antille e
golfo del Messico. Un mercato vivace di merci e schiavi. Con porti sicuri per
qualsiasi canaglia approdi da quelle parti.»
Ducasse sospirò. «Non posso venire, anche se mi piacerebbe, ma vi
auguro buona fortuna. Magari un giorno vi raggiungerò.»
«Sarete sempre il benvenuto, sebbene siate cattivo quanto il fiele e me ne
abbiate fatte passare di cotte e di crude. Ci terrei che assisteste alla nascita di
una nazione, governatore dei miei stivali. E ora brindiamo alla Louisiana!»
Al primo brindisi ne seguirono altri. I tre si separarono malfermi sulle
gambe.
La mattina successiva Ducasse si recò a salutare il Neptune che partiva. Il
tempo era bello, il mare calmo, il vento a favore. Il vecchio brigantino aveva
un suo decoro, malgrado l’età e le cicatrici di mille riparazioni. Provenienti
dal ponte si udivano i comandi secchi del primo ufficiale Callois. Le vele
erano calate una dopo l’altra, mentre i marinai all’argano sollevavano
l’ancora.
Lorencillo e De Lussan erano appoggiati con i gomiti all’impavesata.
Quando il veliero cominciò a prendere il largo, Ducasse sollevò il tricorno
per salutarli. Lorencillo gli lanciò un involto. Finì tra le braccia di Arnaud, il
domestico preferito dal governatore.
Il ragazzo spiegò quello che sembrava uno straccio arrotolato. Era la Jolie

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Rouge, con il teschio, le tibie incrociate e la clessidra. L’insegna dei Fratelli
della Costa.
Ducasse rimise il tricorno in testa e salutò agitando la storica bandiera.
Ordinò ad Arnaud: «Comanda a nome mio una scarica di cannoni a salve, in
segno di addio».
Il giovane obbedì. Dal Neptune rispose un colpo, anch’esso a salve. Ma
già il brigantino, tarlato e cigolante, era lontano, diretto a nuove imprese. Un
vento frizzante gli gonfiava le vele.

256
Nota bibliografica

Opere generali sulla pirateria nei Caraibi


Sulla pirateria caraibica la bibliografia è sterminata. A volte occorre diffidare
di quella anglosassone, che tiene in considerazione quasi solo i pirati inglesi e
definisce addirittura “età dell’oro della pirateria” quella situata fra il 1700 e il
1730. Così si ignorano i Fratelli della Costa (talora con l’eccezione di Henry
Morgan, inglese sì, però alleato dei francesi della Tortuga) per incentrare
l’attenzione su pirati individuali (Barbanera, Kidd eccetera) dal destino non
troppo brillante. Dopo il 1700, nell’“età dell’oro”, i filibustieri non furono in
grado di conquistare nessuna città, come era avvenuto nel secolo precedente.
Fanno eccezione a tale esclusione “etnica” volumi di facile reperibilità,
alcuni dei quali già citati in appendice a Veracruz: Nigel Cawthorne, Storia
dei pirati, Newton-Compton, Roma 2006; e, non tradotti in italiano,
Benerson Little, The Sea Rover’s Practice. Pirate Tactics and Techniques,
1630-1730, Potomac Books Inc., Washington, DC, 2005; Benerson Little, The
Buccaneer’s Realm. Pirate Life on the Spanish Main, 1674-1688, Potomac
Books Inc., Washington, DC, 2007 (i due libri di Little costituiscono, assieme,
un’impressionante enciclopedia della pirateria); Cruz Apestegui, Piratas en el
Caribe. Corsarios, filibusteros y bucaneros, 1493-1700, Lunwerg Editores,
Barcelona-Madrid 2000 (con un magnifico apparato illustrativo).
L’opera riassuntiva fondamentale è però di origine accademica: Manuel
Lucena Salmoral, Piratas, corsarios, bucaneros y filibusteros, Editorial
Síntesis, Madrid 2005.
Un compendio di tutte le memorie di pirati e loro “amici” (Exquemeling,
Labat, De Lussan eccetera) è in Walter Thornbury, The Monarchs of the
Main, 3 voll., Hurst and Blackett Publishers, London 1855, scaricabile
gratuitamente dal sito www.manybooks.net.

257
Sulla presa di Cartagena
Il mio è un romanzo e non un’opera con pretese di attendibilità storiografica.
Nei limiti del possibile, tuttavia, mi sono attenuto allo svolgimento dei
principali eventi. Ecco le fonti di cui ho fatto maggiormente uso.
Due testi sono fondamentali. Anonimo, Relation de ce qui s’est fait à la
prise de Cartagène, située aux Indes espagnoles, par l’Escadre commandée
par Mr. De Pointis, Jean Fricx, Bruxelles 1698 (solitamente attribuito allo
stesso De Pointis, il libro pare piuttosto redatto, su ispirazione del
condottiero, da uno dei suoi ufficiali; l’edizione conservata presso la
Biblioteca del Congresso di Washington ne reca scritto a mano il nome: Jean-
Bernard Louis d’Esjean); Pierre-François-Xavier de Charlevoix S.J., Histoire
de l’Isle Espagnole ou de S. Domingue, écrite particulièrement sur des
Mémoires manuscrits du P. Jean-Baptiste le Pers, jésuite, missionnaire à
Saint-Domingue, et sur les pièces originales, qui se conservent au Dépôt de
la Marine, vol. IV, Chez François L’Honoré, Amsterdam 1733.
Le date di pubblicazione non spaventino. Entrambi i testi sono liberamente
scaricabili dal sito gallica.bnf.fr e di facile lettura.
La memoria di “Anonimo” è apertamente apologetica nei riguardi di Jean-
Bernard de Pointis, mentre il libro di Charlevoix / Le Pers è duramente critico
e si schiera senza remore per l’avversario del barone, Jean-Baptiste Ducasse
(o Du Casse, secondo alcuni).
Tratta della spedizione contro Cartagena anche Alexandre Olivier
Oexmelin (Exquemeling), Histoire de la Flibuste, vol. II, parte 6, cap. III,
L’Ancre de Marine, Louviers 2005 (esistono numerose edizioni antiche e
moderne dello stesso libro, ma in molte la parte 6 non figura). Le
imprecisioni sono però moltissime, anche nei nomi di luoghi o persone,
come se il racconto fosse di seconda mano.
Ampie trattazioni trova l’impresa di Cartagena in Lucena Salmoral, op.
cit., e in Jean Merrien, Corsaires et flibustiers, L’Ancre de Marine, Louviers
2003.
Il medesimo evento, visto con gli occhi degli abitanti di Cartagena, è in
Soledad Acosta de Samper, Los piratas en Cartagena, cap. III, “Los
filibusteros y Sancho Jímeno”, Editorial Renacimiento, Salamanca 2010. Il
testo originale è del 1886. Vi si narra la vicenda di don Sancho Jímeno e di
sua moglie Teresa, da me molto arbitrariamente “riadattata”.

258
Sui luoghi, le abitudini, il linguaggio, i costumi
Utilissime le memorie di Jean-Baptiste Labat, Voyage aux îles françaises de
l’Amérique, Lefebvre Imprimeur-Libraire, Paris 1831 (un’edizione tra le
tante). Il libro è però in gran parte incentrato sulla Martinica.
Ugualmente utili Jean-Baptiste Du Tertre, Histoire générale des Antilles
habitées par les François, 3 voll., Chez Thomas Jolly, Paris 1667, e Médéric
Louis Élie Moreau de Saint-Méry, Description topographique, physique,
civile, politique et historique de la partie française de l’île Saint-Domingue,
2 voll., L. Guérin et Cie, Paris 1875.
Tutti questi testi sono scaricabili gratuitamente da gallica.bnf.fr.

Varie
La pratica quasi eretica degli oratori e del culto di sant’Antonio da Padova
nelle Indie Occidentali è descritto da Linda A. Curcio-Nagy, La fiesta privada
de Rosa de Escalante, in Mary E. Giles (a cura di), Mujeres en la
Inquisición, Ediciones Martínez Roca, Barcelona 2000.
La nomenclatura marinaresca l’ho tratta principalmente dal Dizionario di
marina medievale e moderno, Reale Accademia d’Italia, Roma 1937. Credo
che resti opera insuperata. Il secentesco Chant des corsaires è ascoltabile a
questo indirizzo web: http://www.youtube.com/watch?v=9zX9Y-rxSJA.

259
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