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Messa latina.

Il problema
di Valerio Ferrua o.p.
in “il nostro tempo” del 15 luglio 2007
Annunciato, atteso, applaudito o criticato prima ancora di esser conosciuto, il motu proprio
Summorum Pontificum ha finalmente visto la luce il 7 luglio insieme alla Lettera di
presentazione all’episcopato. Il motu proprio ha una precisa fisionomia: esso non costituisce un
pronunciamento ex cathedra ma attesta un intervento personale del Pontefice che ne rivendica
l’esclusiva paternità e se ne accolla quindi la piena responsabilità. L’approccio critico esige
perciò un minimo di rispettosa competenza (penso all’ennesima cantonata de «La Stampa»,
sulla quale, proprio il 7 luglio, disinvoltamente si parla di «somministrare (sic!) l’estrema
unzione (sic!)» o del «Sole 24 ore» di domenica 8 che, in perfetta sintonia con Radio24,
trasforma in papesse i predecessori di Benedetto XVI, titolando per due volte:«Summarum
Pontificum»).
Un commento obiettivo sull’intervento pontificio presuppone ovviamente una conoscenza (per
quanto sommaria) sulla genesi e la natura della Messa tridentina. Questa risulta di un supporto
o intelaiatura nella quale venne incastonato l’antico Cànone romano, cioè il testo che inizia col
Prefazio e si conclude prima del Padre nostro: la cosiddetta «Messa di s. Pio V» consiste
sostanzialmente in questo montaggio. Espediente provvidenziale, perché pose fine al pullulare
di formulari eterogenei che avevano ingenerato confusioni ed anche aberrazioni, sia sul piano
devozionale che sul piano teologico.
Il successivo avallo della legislazione canonica, i reiterati richiami dell’episcopato e gl’interventi
dei papi stessi, conferirono poi a questa Messa un crisma di intangibilità che sfiorava quella dei
testi biblici. Quasi non bastasse, a salvaguardia di tale immunità, una colluvie di piccole regole,
emanate della Congregazione dei riti, ne fissava minuziosamente ogni dettaglio verbale o
gestuale: nulla si poteva mutare, omettere o sostituire… Così per quattro secoli, fino al
Vaticano II. Contrariamente a quanto si crede e scrive, tanto nelle fasi preparatorie che in
quella esecutiva, l’approccio dei periti alla Messa tridentina fu di massima stima e riverente
attenzione. In quegli anni l’autorevole Pighi aveva “scoperto” che il cuore della Messa
tridentina, il Cànone appunto, era «un imponente documento di retorica liturgica»: dal Te
igitur al Per Christum, costituiva una raffinata quanto insospettata composizione letteraria,
della quale le nostre orecchie non percepivano più la scansione metrica.
Ma proprio la consapevolezza dei valori (letterario, storico, teologico e spirituale) racchiusi nel
Cànone romano acuì, nelle sessioni preparatorie, il problema della partecipazione: come
rendere questo capolavoro accessibile alla comunità? Di contro alle decine di proposte
(adattamenti, riduzioni, etc.) la voce autorevole del benedettino belga dom Bernard Botte,
amico e consigliere di papa Montini, prevalse: questo gioiello non doveva toccarsi. «Testimone
di una plurisecolare tradizione», ci diceva l’illustre liturgista, «è come un antico arazzo
fiammingo: si dissolverebbe e sfilaccerebbe sotto le dita dei restauratori». D’intesa con Paolo
VI, dom Botte propose quindi che alle esigenze nuove si rimediasse con la creazione di nuove
preghiere eucaristiche: nacquero così i primi tre Cànoni, seguiti poi da un’altra decina, tuttora
in uso nelle nostre celebrazioni.
Due le ragioni che hanno indotto l’oculato Pontefice tedesco a compiere un passo così audace:
arginare abusi giunti «al limite della sopportabilità» e, soprattutto, realizzare «una
riconciliazione interna nel seno della Chiesa» (Lefevre è esplicitamente nominato). Sarebbe
eccessivo parlare di ricatto, ma è lecito chiedersi se il costo di una simile operazione non sia
esorbitante. Papa Ratzinger è ben consapevole dei rischi ai quali espone le comunità: perciò
chiede che si evitino litigi (discordiam vitando) e che si promuova l’unità (unitatem fovendo).
Esistono senza dubbio difficoltà obiettive e sarebbe codardìa nasconderlo, sia da un punto di
vista liturgico che da quello pastorale. Nonostante le reiterate rassicurazioni, lo storico della
liturgia si trova a disagio nel riscontrare la conclamata continuità tra la nuova normativa e i
capisaldi della riforma conciliare. Non si tratta di faziose insinuazioni: l’attenta lettura dei due
documenti (motu proprio e Lettera) scopre affinità, non solo letterali, con asserzioni già
presenti nel libro «Lo spirito della liturgia» (2001) dell’allora card. Ratzinger, che provocarono
severe critiche da parte di autorevoli studiosi del culto (ricordo Gy per Francia e Falsini per
l’Italia). Anche a livello pastorale già affiorano pensose riserve da parte delle conferenze
episcopali e di comunità evangelicamente impegnate.
Gravissimo, per la partecipazione, il problema del latino. Come può il prof. Cardini ritenerla
una «lingua viva»?! Incompreso e sconosciuto alla media popolazione, il latino occupa ormai
un posto marginale nelle nostre Superiori (e nei seminari) mentre nei Paesi francofoni e
anglosassoni è stato eliminato o reso facoltativo. La prassi e il buon senso faranno giustizia
(sempre che la faziosità non abbia a prevalere) e il Papa dichiara di attendere le eventuali
reazioni. Per quanto concerne Torino, gli aficionados si rassicurino: siamo all’avanguardia! Fin
dal 22/9/1989, «tutte le domeniche e solennità festive, alle 11, vi è una Santa Messa in latino
con rito antico e canto cregoriano», come recita un manifesto alla porta della chiesa della
Misericordia, in via Barbaroux 41.
Un solo auspicio: che, per quanto discutibile, questo intervento non alimenti la mentalità
teatrale diffusa nel popolo cristiano, ripresa acriticamente in questi giorni dagli stessi
opinionisti cattolici: «andare a messa, prendere messa, sentire o cantare o ascoltare o
assistere alla messa». Auspicio che, a partire da noi preti, la messa sia finalmente intesa e
presentata non già (mi si perdoni il calembour) come una “messa-in-scena” o una “pia
pratica”, ma come un accadimento, un reale evento al quale i credenti, unendosi al gesto
oblativo di Cristo, vitalmente partecipano. Partecipare: verbo che ricorre una trentina di volte
nella Costituzione conciliare del 1963, ma che non figura una sola volta nel motu proprio
Summorum Pontificum e nella Lettera di presentazione (che totalizzano oltre 3 mila parole).
Peccato.

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