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di Francesca Panzuto
1. Con l’entrata in vigore della legge n. 646/1982 vengono colmate, da un lato, alcune
lacune normative sul piano definitorio, attraverso la esplicita previsione, all’art.416-bis c.p.
del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso e dall’altro vengono introdotte
nuove misure di prevenzione di natura patrimoniale. Tali misure esprimono, per la prima
volta, la prioritaria esigenza di colpire le associazioni mafiose sul terreno della
accumulazione delle ricchezze illecite impedendo, al tempo stesso la immissione di tali
risorse nei mercati legali. Le misure patrimoniali quali il sequestro e la confisca, nonché
quelle interdittive e sospensive, presuppongono necessariamente la previa applicazione della
misura preventiva personale. Tali misure patrimoniali, che si distinguono in provvisorie e
definitive, oltre a richiedere l’accertamento in concreto della pericolosità del soggetto e
dunque l’applicazione della misura personale, hanno ad oggetto i beni e le attività
economiche che, nella disponibilità anche indiretta dell’indiziato, appaiano di illecita
provenienza, ovvero il cui valore risulti sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o
accertato in capo al soggetto (A. MANGIONE, Le misure di prevenzione patrimoniali, in
Enc.giuridica il Diritto, p. 617).
L’art.2- ter comma II della L. n.575/1965 stabilisce che il tribunale a conclusione delle
indagini patrimoniali di cui al previo 2-bis con decreto motivato disponga il sequestro dei
beni dei quali la persona sottoposta al procedimento di prevenzione “risulta poter disporre,
direttamente o indirettamente, quando il valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o
all’attività economica svolta, ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di
ritenere che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”. Accanto
a tale sequestro di prevenzione, che potrebbe definirsi ordinario, la legge 575/1965 rinviene
altre tre figure di sequestro applicabili per ragioni di particolare urgenza ovvero ove sussista
il concreto pericolo di smarrimento dei beni nelle more del procedimento. La dottrina ha
inteso valorizzare il requisito della sproporzione su quello dell’illecita provenienza. Ciò in
quanto le maggiori difficoltà probatorie riguardanti l’individuazione del nesso causale sul
singolo bene sono superabili prendendo in considerazione il parametro economico,
patrimoniale e finanziario della sproporzione. Tale parametro concerne il rapporto tra il
patrimonio disponibile e la capacità di reddito manifestata in un preciso periodo di tempo.
Ne consegue che, essendo la stessa la principale prova nel procedimento per l’applicazione
della misura di prevenzione, la decisione in merito all’applicazione della stessa finiscono col
dipendere esclusivamente dalla perizia contabile, perizia che soprattutto a fronte di imprese
di notevoli dimensioni, risulta di particolare complessità tecnica. Di talchè, la misura di
prevenzione patrimoniale finisce con il basarsi su un indizio di natura soggettiva (ossia
l’appartenenza ex art.1 l. 575/1965) ed un altro di natura oggettiva (ossia la sproporzione ex
art. 2- ter comma II l. 575/1965) che però, non possono costituire una prova. Si pone,
pertanto, il problema relativo alla natura giuridica della confisca di prevenzione. In
particolare la pericolosità sociale che giustifica l’applicazione della misura di sicurezza de
qua non è personale ma reale. L’impostazione tradizionale, oggi superata, prendeva in
considerazione la pericolosità intrinseca della cosa e successivamente la pericolosità reale si
rinvenne nella relazione tra il bene illecito ed il soggetto. Da tempo si è però evidenziata la
contraddittorietà di tale tesi anche in considerazione dell’ipotesi della confisca obbligatoria
in cui al giudice non è richiesto un giudizio prognostico.
Più precisamente si è sostenuto che la finalità della confisca di prevenzione risiede nella
neutralizzazione di una situazione di pericolo per l’ordine pubblico e per i mercati che deriva
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3. Per “profitto” del reato deve intendersi il vantaggio economico che l'autore del reato
realizza per effetto delle commissione delle stesso. Accanto alla nozione di base del profitto
ci si chiede poi quale sia la consistenza del profitto confiscabile e dunque se accanto alla
confiscabilità di un vantaggio immediatamente derivante dalla realizzazione del reato possa
ammettersi una nozione più ampia di profitto confiscabile ossia un profitto indiretto o
mediato riveniente dalla trasformazione che l'autore del reato ottenuto dal profitto
immediatamente conseguito con la realizzazione del reato. Il problema è stato esaminato in
riferimento al reato di concussione oggetto di una rilevante pronuncia resa a Sezioni unite
dalla Suprema Corte con sentenza del 26 marzo 2008 n. 10280. In particolare, la questione si
è posta relativamente alla qualificazione in termini di profitto del provento conseguito con la
commissione del reato di concussione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, i
beni e le utilità che il concessore riceve per effetto della sua attività di costrizione o
induzione costituiscono, a differenza della utilità ricevuta dal corrotto, il profitto e non il
prezzo del reato. Secondo un orientamento minoritario, non condiviso dalle Sezioni unite, il
denaro dato o promesso al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio è qualificato
come prezzo e non come profitto del reato di concussione (in tal senso Cass. Sez. VI, 29
aprile 1998, n. 994). Le Sezioni unite nella sentenza de qua aderiscono ad una
interpretazione estensiva della nozione di profitto del reato, quale beneficio aggiunto di tipo
patrimoniale di diretta derivazione causale dall’attività del colpevole, intesa quale stretta
relazione con la condotta illecita. Pertanto, non è possibile ritenere che le utili trasformazioni
dell’immediato prodotto del reato e gli impieghi redditizi del denaro di provenienza
delittuosa possano impedire che al colpevole venga sottratto ciò che era obbiettivo del
disegno criminoso e da cui sperava di ottenere maggior lucro ed illeciti guadagni. La
nozione di profitto deve essere riguardata in rapporto all’arricchimento complessivo e,
dunque, qualsiasi trasformazione che il denaro illecitamente conseguito subisca per effetto di
investimento dello stesso deve essere considerata profitto del reato quando sia collegabile
causalmente al reato stesso ed al profitto immediato ossia il denaro conseguito e sia
soggettivamente attribuibile all’autore del reato che ha determinato quella trasformazione.
4. Il prodotto del reato consiste, invece, nelle cose materiali che traggono origine dal reato
stesso. Il prezzo è la somma di denaro o qualsiasi altra utilità data o promessa come
corrispettivo del reato. Si è posto il problema di stabilire se la confisca del prezzo del reato
possa essere disposta in caso di estinzione del reato. Sul punto sono intervenute le Sezioni
unite che con sentenza 15 ottobre 2008 n. 38834 ha escluso che la confisca delle cose
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7. L’istituto della confisca per equivalente prevista dall’art.322-ter c.p. comma I ha posto
un ulteriore problema relativo alla applicabilità dello stesso al delitto di peculato. Secondo
un primo orientamento giurisprudenziale la confisca de qua, essendo prevista dal comma I
dell’art.322 ter c.p. solo con riferimento al prezzo non sarebbe applicabile con riguardo alla
fattispecie di peculato il cui autore consegue un profitto e non il prezzo in senso tecnico
(Cass. sez. pen. n.12852/2006) e ciò in quanto le nozioni di prezzo e profitto sono
nettamente distinte già nell’art.240 c.p. per cui non può ritenersi che il legislatore abbia
utilizzato il termine “prezzo”di guisa da includere qualsiasi utilità connessa al reato. Per
quanto poi attiene alla truffa in danno di ente pubblico, per essa è ammissibile la confisca
per equivalente e ciò in quanto l’art.322 ter c.p. è richiamato dall’art.640 quater c.p. e deve
intendersi riferito all’intero testo della norma richiamata e non soltanto al primo comma e
perciò comprensivo sia del prezzo che del profitto del reato entrambi previsti dal comma 2.
Secondo una diversa tesi la confisca per equivalente sarebbe applicabile anche al profitto
del peculato. Le Sezioni unite della Corte di cassazione aderiscono al primo degli
orientamenti (Corte di cass. sez. un. sent. n. 38691/2009) sulla base dell’assunto per cui i due
concetti prezzo e profitto sono nettamente distinti in relazione al disposto dell’art.240 c.p. Il
supremo collegio considera il profitto un vantaggio economico ricavato in via immediata e
diretta dal reato ed il prezzo un compenso dato o promesso ad una determinata persona come
corrispettivo della commissione del reato. In particolare, l’espressione “vantaggio
economico” deve essere intesa come “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” e, dunque,
non può individuarsi in quelle ipotesi, come quella di specie, in cui il comportamento
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8. Di regola, le misure di sicurezza sono ordinate dal giudice nella sentenza di condanna o
di proscioglimento, laddove la confisca può essere disposta anche con il decreto penale di
condanna ai sensi dell’art. 460 comma 2 c.p.p. Per quanto poi attiene l’esercizio del potere
discrezionale del giudice di determinare la durata della misure di sicurezza si individuano
due orientamenti. Inizialmente la giurisprudenza riteneva che il giudice della cognizione
nell’applicare la misura di sicurezza personale non potesse determinarne la durata, essendo
questa già prevista nel minimo dalla legge. In seguito, si è ritenuto non sussistente in capo al
giudice l’obbligo di applicare necessariamente la misura nella durata minima, ben potendo
applicarla in misura maggiore fornendo adeguata motivazione. Le misure di sicurezza
personali sono applicate dal magistrato di sorveglianza previo accertamento della
pericolosità sociale della persona. Alla scadenza del termine minimo della misura, il
magistrato di sorveglianza procede al riesame della pericolosità sociale ed effettua una
nuova prognosi, la c.d. “prognosi di rilascio” (R. GAROFOLI, op. cit. 1310). Occorre inoltre
precisare che l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza ad
eccezione della confisca ex artt. 210 e 236 c.p.. Nelle ipotesi poi di applicazione della pena
su richiesta delle parti ex art.445 c.p.p. si determina una limitazione di operatività delle
misure di sicurezza personali, prevedendo che la scelta del rito impedisca l’applicazione
della misura di sicurezza, ed eccezione delle ipotesi di confisca obbligatoria previste
dall’art.240 c.p.
9. Le Sezioni Unite della Suprema Corte tornano ad occuparsi della tematica della
confisca con la sentenza del 02/07/2008, n.26654, la quale si innesta in un procedimento
penale concernente l'aggiudicazione e l'esecuzione dell'appalto del servizio di smaltimento
dei rifiuti solidi urbani della Campania.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione analizzava, in particolar modo, i presupposti
applicativi del sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto - ai sensi degli art. 19
e 53 del d.lgs. n. 231/2001 - nei confronti dell'ente collettivo, stabilendo che nel caso di
specie il profitto si concretizza nel "vantaggio economico di diretta e immediata derivazione
causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente
conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente". La portata
della pronuncia del Supremo collegio può esser meglio compresa attraverso la disamina
della fattispecie che ha dato origine all'intervento delle Sezioni Unite.
12. Le argomentazioni innanzi esposte consentono alle Sezioni Unite di affermare che
l'individuazione del profitto del reato, inteso in chiave omnicomprensiva, può subire degli
adattamenti, tenuto conto della fattispecie concreta che viene in rilievo. In particolare, può
essere necessario, a tal fine,differenziare, sulla base di specifici accertamenti, il vantaggio
economico derivante direttamente dal reato, inteso come profitto confiscabile, dal
corrispettivo ottenuto per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur
nell'ambito di un affare che trova la sua genesi nell'illecito (profitto non confiscabile).
La Corte, più precisamente osserva che “in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur
acquisito a seguito di aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l'appaltatore
che, nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in
parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in
quanto l'iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la
condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato ed
accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire
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