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Costituisce domanda nuova quella di recesso,


se la parte, nel primo grado di giudizio, abbia
agito solo in risoluzione e in risarcimento,
ovvero abbia domandato la ritenzione della
caparra sulla base di un titolo poi mutato in
appello.

Traccia

Francesca e Paolo, coniugi in regime di comunione legale, residenti a Bari, in data 24 aprile 2008 concludono un contratto
preliminare con il quale promettono di vendere a Gino, anche egli cittadino barese, il loro immobile situato nella centralissima
via Sparano del capoluogo pugliese. Al momento della sottoscrizione del preliminare, il promissario acquirente versa ai
promittenti venditori la somma di euro 90.000,00 a titolo di caparra confirmatoria e, a titolo di acconto, consegna cambiali per
euro 200.000,00.
Francesca e Paolo, però, non accettano i titoli restituendoli a Gino il quale, nel settembre 2008, li cita in giudizio domandando al
Tribunale di Bari la risoluzione per inadempimento del contratto, il risarcimento dei danni, nonché la restituzione della caparra
versata. I coniugi si oppongono e, in via riconvenzionale, domandano la risoluzione per inadempimento dell’attore, non avendo
questi rispettato la loro diffida ad adempiere e altresì la ritenzione della caparra.
Il Tribunale, con sentenza del 15 giugno 2012 dichiara risolto il preliminare per inadempimento di Gino, dovuto al mancato
rispetto della diffida ma condanna i coniugi alla restituzione della caparra ricevuta.
Dieci giorni dopo Francesca e Paolo, non avendo intenzione di restituire la caparra, impugnano la sentenza rinunciando alla
risoluzione di diritto, domandando il recesso dal contratto e la ritenzione della caparra.
Gino, all’esito della predetta impugnazione, decide di rivolgersi ad un avvocato, onde tutelare la propria posizione e far valere
glie effetti del preliminare.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Gino, premessi brevi cenni sugli istituti del recesso e della caparra, formuli sulle
questioni emergenti un motivato parere.

Giurisprudenza

o Cassazione Civile, sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2737, per la quale, in tema di contratti cui acceda la consegna di
una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la
risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello,
quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio),
avuto riguardo - oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed
all'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto - all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la
ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione
anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti
frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro
patrimoniale più cospicuo fosse consentito - in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta
qualsiasi forma di abuso processuale - di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano
alle sue aspettative;
o Cassazione Civile, Sez. Unite, 14 gennaio 2009, n. 553, per la quale, proposta la domanda di risoluzione volta al
riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la
trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perché verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della
caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione
di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di "scommettere" puramente e
semplicemente sul processo, senza rischi di sorta. Tale trasformazione in azione di recesso lascerebbe in astratto aperta
la strada ad una eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della caparra o di conseguimento del suo
doppio, con evidente quanto inammissibile rischio di ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale.

Svolgimento
In ragione di quanto descritto in traccia e, aderendo alla recente giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità,
Francesca e Paolo domandando per la prima volta in appello il recesso, sono incorsi nel divieto di ius novorum: pertanto
Gino, costituendosi in giudizio, potrà opporsi alle loro pretese.
Avviene di frequente che uno dei contraenti, al momento della conclusione del contratto, consegni all'altro una somma di
denaro o una quantità di altre cose fungibili. Ciò può avvenire a vario titolo. Può trattarsi di un acconto, e cioè di un
adempimento parziale preventivo; può trattarsi di una cauzione, e cioè di una somma corrisposta al fine di garantire, in
caso ‘inadempimento, il risarcimento del danno; può trattarsi di una caparra penitenziale, e cioè di una somma
prevista come corrispettivo della facoltà di recesso pattuita; può trattarsi, infine, di una caparra confirmatoria, in tal
caso la somma corrisposta eserciterà una funzione diversa a seconda delle vicende del rapporto: se il contratto viene
adempiuto, la caparra fungerà da anticipo, se l'ha data il contraente che esegue la prestazione di egual natura; dovrà
invece essere restituita se è stato l'altro contraente a darla (art. 1385, comma I, cod. civ.).
Il patto che prevede la caparra ha natura reale, e come tale si perfeziona con la consegna della somma di denaro o altra
quantità di cose fungibili, inoltre ha natura accessoria, vale a dire segue le vicende dell'obbligazione cui accede. È stato
affermato che la caparra può accedere soltanto ad un contratto a prestazioni corrispettive non ancora eseguite. Così si è
escluso, da un lato, che possa accedere ad un patto di opzione, e, dall'altro, ad una vendita definitiva a effetti reali. Può
accedere invece, e ciò avviene di frequente, ad un preliminare di vendita.
In caso d’inadempimento, il contraente non inadempiente può scegliere tra più soluzioni. Può recedere dal contratto, e

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trattenere la caparra (o esigere il doppio della caparra, se è lui ad averla data): in questo caso la caparra ha funzione di
risarcimento (art. 1385, comma II, cod. civ.). Può invece chiedere l'esecuzione del contratto o la risoluzione: in questo
caso la caparra (se è stata data dal contraente inadempiente) ha funzione di garanzia, perché può essere ritenuta fino
alla liquidazione dei danni, che è regolata dalle norme generali (art. 1385, comma III, cod. civ.). L'accertamento se si
tratti di caparra confirmatoria o penitenziale spetta al giudice di merito. Tuttavia la giurisprudenza ha posto una
presunzione: nel dubbio è caparra confirmatoria e non penitenziale, né basta la previsione di una caparra denominata
penitenziale, se non è accompagnata da un patto di recesso. In ogni caso, presupposto necessario è che vi sia
inadempimento: il mero ritardo non è di regola sufficiente. Quanto all'inadempimento, il giudice dovrà stabilire chi sia il
contraente inadempiente, secondo i criteri che si adottano in caso di risoluzione.
Se nel contratto le parti si sono riservate il diritto di recesso, la caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso
(art. 1386 cod. civ.). Può essere che il contratto preveda il diritto di recesso per una parte soltanto, e sarà allora questa
a versare la caparra: nel caso in cui receda, perderà la caparra. Può essere invece che il contratto preveda il diritto di
recesso per entrambe le parti. In questo caso la caparra sarà versata da una sola parte. Se sarà questa a recedere,
perderà la caparra. Se sarà invece la parte che ha ricevuto la caparra a recedere, il recesso avrà effetto soltanto quando
essa avrà versato all'altra parte il doppio della caparra ricevuta. Il versamento di una caparra penitenziale non toglie che
il recesso possa essere esercitato soltanto se il contratto non ha avuto un principio di esecuzione, a termini dell'art.
1373, comma I, cod. civ. Si discute se, venuta meno la possibilità del recesso, la caparra possa essere trattenuta o
imputata quale acconto della prestazione principale o invece debba essere restituita: la diversa soluzione discende dalla
ammissione o dalla negazione dell'applicazione analogica dell'art. 1385, comma I, cod. civ. alla caparra penitenziale.
L'art. 1373 cod. civ., che disciplina il recesso unilaterale convenzionale, fa seguito all'affermazione di principio
secondo cui «il contratto ha forza di legge fra le parti» e «non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause
ammesse dalla legge» (art. 1372 cod. civ.). A prima lettura, ciò significa che se la legge non attribuisce ai contraenti
(espressamente o implicitamente) un diritto di recesso unilaterale, l'unica via per lo scioglimento del contratto è il mutuo
dissenso: a meno che il contratto stesso non attribuisca ad una delle parti (o ad entrambe, si può tranquillamente
aggiungere) «la facoltà di recedere dal contratto» (art. 1373 cod. civ.).
La facoltà di recesso prevista dal contratto si esercita per mezzo di una dichiarazione: non è sufficiente un
comportamento da cui risulti la volontà di non adempiere al contratto. Si tratta di un negozio unilaterale ricettizio, che
deve rivestire la stessa forma prescritta per la conclusione del contratto oggetto di scioglimento.
Se il contratto prevede un patto di recesso, gli effetti naturali sono diversi a seconda che esso acceda ad un contratto
che non sia di durata o invece ad un contratto ad esecuzione continuata o periodica. Nel primo caso, «la facoltà di
recesso può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione» (art. 1373, comma 1, c.c.),
nel secondo caso, «tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le
prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione» (art. 1373, comma 2, c.c.). Nella previsione legislativa, dunque, il
recesso non soltanto non ha efficacia retroattiva, ma non incide neppure sulle prestazioni di cui sia già iniziata
l'esecuzione. Ma si tratta, appunto, di effetti naturali del patto di recesso. L'art. 1373, all'ultimo comma, cod. civ. dispone
che è salvo in ogni caso il patto contrario. Le parti possono perciò atteggiare il patto di recesso nel modo più vario. E così
restringerne la portata, ad esempio, prevedendo che anche per un contratto ad esecuzione continuata o periodica la
facoltà di recesso possa essere esercitata soltanto re adhunc integra; o allargarne la portata, ad esempio prevedendo che
la facoltà di recesso possa essere esercitata, per un contratto che pure non è di durata, anche quando l'esecuzione sia
già iniziata, o prevedendo, per un contratto ad esecuzione continuata o periodica, che il recesso abbia effetto anche per
le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. L'unico limite consiste nell'impossibilità di attribuire al patto di
recesso efficacia retroattiva reale: limite esterno, che deriva dal principio secondo cui la retroattività reale può trovare
fondamento soltanto nella legge, e non invece nella volontà delle parti, le quali non possono porre in essere pattuizioni
in danno dei terzi (arg. ex art. 1372, comma II, cod.civ.). Di fronte alla totale delega conferita all'autonomia delle parti
dall'ultimo comma dell'art. 1373 cod. civ., non pare si possa limitare il recesso convenzionale ad alcune categorie di
contratti, e così, come pure di solito si ritiene, ai soli contratti ad effetti obbligatori.
Sia il recesso convenzionale che quello legale svolgono diverse funzioni: 1) quella di dare un termine a contratti di
durata che ne siano privi (recesso determinativo); 2) quella di consentire alla parte di impugnare il contratto per la
presenza di vizi originari o sopravvenuti (recesso come mezzo di impugnazione); 3) quella di consentire alla parte, nei
contratti di durata perpetui o a lungo termine, di sciogliersi dal rapporto, venuto meno il suo interesse (recesso come ius
poenitendi); 4) quella di consentire alla parte, che ha concluso il contratto a seguito di un approccio aggressivo, di
recedere in limine (recesso iniziale); 5) quella di consentire il recesso alla parte considerata più debole (recesso di
protezione); 6) quella di consentire alla parte, di fronte ad una modificazione importante delle condizioni contrattuali, di
sciogliersi dal vincolo (recesso per modificazione dei presupposti).
Diverse sono le questioni insite nella traccia, oggetto del presente parere.
Una prima problematica, da tempo discussa in giurisprudenza, riguarda la possibilità per il promittente venditore di
domandare in appello il recesso ex art. 1385 cod. civ. trattenendo la caparra, dopo aver domandato in primo grado la
risoluzione e il risarcimento dei danni.
In generale la questione attiene al coordinamento dei due rimedi risarcitori alternativamente riconosciuti dall'art. 1385
cod. civ. alla parte adempiente.
Secondo una parte della giurisprudenza, i due rimedi disciplinati, rispettivamente, dall'articolo 1385, commi II e III, cod.
civ., a favore della parte non inadempiente nell'ipotesi di inadempimento della controparte hanno carattere distinto e non
cumulabile, pertanto, una volta proposta la domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni, non è
più applicabile la disciplina della caparra di cui al comma II dell'art. 1385 cod. civ., con la conseguenza che è da
considerare illegittima la condanna della parte inadempiente a restituire il doppio della caparra ricevuta, stante la non
cumulabilità dei due rimedi (cfr. Cass. Civ., sez. III, 20.09.2004, n. 18850 conf. Cass. Civ., sez. II, 19.10.2000, n.
13828e Cass. Civ., sez. II, 03.07.2000, n. 8881).
Secondo altra parte della giurisprudenza, la parte non inadempiente che, ricevuta una somma di denaro a titolo di
caparra confirmatoria, abbia comunque agito per la risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno
ai sensi dell'art. 1453 cod. civ., potrebbe legittimamente sostituire a tali istanze, in grado di appello, quelle di recesso dal
contratto e di ritenzione della caparra a norma dell'art. 1385 cod. civ., comma II, ciò perché la sostituzione, in sede di

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appello, della originaria domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento con quella di recesso ex art. 1385 cod.
civ. non integrerebbe affatto gli estremi dello ius novorum (vietato), non darebbe luogo cioè a una nuova domanda, ma
si configurerebbe, invece, “come esercizio di una legittima facoltà del richiedente, che assume la forma di una istanza
processuale ridotta rispetto a quella già proposta di risoluzione” (Cass. Civ., sez. II, 06.09.2000, n. 11760, conf. Cass.
Civ., sez. III, 24.01.2002, n. 849 e Cass. Civ., sez. III, 13.05.2006, n. 11356).
Le Sezioni Unite, componendo il contrasto giurisprudenziale hanno ritenuto le due azioni assolutamente incompatibili, sia
dal punto di vista strutturale che funzionale. (cfr. Cass. Civ., Sez. Unite, 23.2.2012, n.2737).
Il Supremo collegio di legittimità, con la pronuncia sopra richiamata, afferma che va condivisa la ricostruzione dottrinaria
secondo la quale il diritto di recesso è un’evidente forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur
sempre l'inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione
giudiziale: esso costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo
accomunano tanto i presupposti (l'inadempimento della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli
effetti del contratto). Esso, al pari della risoluzione, postula l'esistenza di un inadempimento gravemente colpevole, cioè
imputabile (ex art. 1218 e 1256 cod.civ.) e di non scarsa importanza (ex art. 1455 cod.civ.). Secondo la costante
giurisprudenza, la disciplina dettata dall'art. 1385, comma II, cod. civ. in tema di recesso per inadempimento nell'ipotesi
in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per
inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l'inadempimento della controparte sia colpevole e di
non scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altro contraente (cfr. Cass. Civ., sez. II, 23.01.1989 n. 398).
Ciò premesso, costituisce domanda nuova quella di recesso, se la parte, nel primo grado di giudizio, abbia agito solo in
risoluzione e in risarcimento ovvero abbia domandato la ritenzione sulla base di un titolo poi mutato in appello. Anche
l’inverso non è ammissibile, cioè non rientra tra i poteri della parte del processo neppure proporre la domanda di recesso
in primo grado e dopo, nel grado d'appello, agire proponendo domanda di risoluzione e di risarcimento. Dunque:
“proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente
subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perché verrebbe
così a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del
danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non
inadempiente di scommettere puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta”.
Tale trasformazione in azione di recesso “lascerebbe in astratto aperta la strada ad una eventuale, successiva pretesa
(stragiudiziale) di ritenzione della caparra o di conseguimento del suo doppio, con evidente quanto inammissibile rischio di
ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale” (Cass. Civ., sez. II, 23.02.2012, n. 2737; Sez. Un., 14.01.2009,
n.553).
Dunque le Sezioni unite hanno deciso di evitare al debitore l'imbarazzo e il disagio derivanti dalla soggezione alle pretese
del creditore, il quale deve scegliere una strada ben precisa e seguirla sino in fondo senza correre il rischio di mutare
domanda.
Altra questione emergente nel presente parere concerne la possibilità, per il creditore, di proporre nello stesso giudizio,
in via principale, l’azione di recesso e di ritenzione della caparra (o percezione del doppio) e, in subordine, l’azione di
risoluzione e di risarcimento del danno.
L'articolo 1453 cod. civ., dà facoltà al creditore di chiedere la risoluzione subordinatamente all'adempimento, ma non il
contrario, perché, si è da molti notato, non è ragionevole pretendere dal debitore l'esecuzione della prestazione vita
natural durante, date le difficoltà sovente insorgenti, soprattutto a distanza di tempo, in fase di attuazione del
sinallagma. L'articolo 1385 cod. civ., per contro, non dice nulla in merito.
Una prima tesi ammette l'estensione interpretativa o analogica dell'art. 1453 all'art. 1385, equiparando la richiesta di
adempimento – risoluzione (ammissibile in via subordinata) a quella di recesso - risoluzione, e viceversa, ritenendo
possibile proporre le domande subordinate in entrambi i versi, considerando l'azione di recesso “come domanda meno
ampia di quella di risoluzione e risarcimento e, pertanto, non nuova” (Cass. Civ., n. 16221 del 2002).
Altra tesi, invece, afferma che, essendo diversi i due istituti, la loro disciplina legislativa deve rimanere differenziata,
pertanto non è possibile proporre, in via subordinata, la domanda di recesso rispetto a quella di risoluzione e viceversa.
Secondo una terza tesi, individuare la soluzione maggiormente conforme a legge non è facile, tuttavia può ritenersi che
sia sempre possibile, nel rispetto del principio della domanda (art. 99 c.p.c.), proporre, in via subordinata, la domanda di
recesso e quella di risoluzione del contratto, così come è possibile proporre, sempre subordinatamente, la domanda di
risoluzione del contratto e quella di recesso. Senza dubbio si tratta di due azioni diverse che, però, possono
tranquillamente concorrere all'interno dello stesso giudizio, seppur in forma subordinata, senza che si debba seguire un
ordine prestabilito. Ciò non significa, tuttavia, che la parte che intenda avvalersi della proposizione gradata delle
domande possa liberamente decidere di avanzare indifferentemente l'una nel primo grado del giudizio e l'altra nel
secondo. Lo sbarramento fissato dal divieto di ius novorum non consente, infatti, nemmeno alla parte adempiente di
stravolgere le regole processuali (cfr. Cass. Civ., sez. II,05.11.2009, n.23490; Cass. Civ., sez. II, 01.02.2010, n.2323).
Nel caso di specie, dunque, e in conclusione, alla luce dei principi di diritto sopra enucleati, Francesca e Paolo non
possono rinunciare alla risoluzione di diritto del contratto preliminare verificatasi a seguito della disattesa diffida ad
adempiere ed accertata con sentenza in primo grado dal Tribunale di Bari. Pertanto la proposizione in appello della
domanda di recesso costituisce domanda nuova. Né possono domandare la ritenzione della caparra, avendo essi agito in
primo grado con l’azione di risoluzione in tal modo, infatti: “la funzione tipica della caparra, quella cioè di liquidazione
anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe frustrata se
alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più
cospicuo fosse consentito - in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di
abuso processuale - di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative”
(Cass. Civ., sez. II, 23.02.2012, n. 2737).
Pertanto Gino dovrà costituirsi con comparsa in appello e, non essendo più interessato al contratto, non dovrà impugnare
la sentenza nella parte che accerta l’avvenuta risoluzione di diritto, che ormai si è prodotta, ma semplicemente chiedere
il rigetto delle pretese dei ricorrenti, opponendosi al recesso e rivendicando la restituzione della caparra e degli interessi
legali a partire dal giorno della domanda introdotta nel giudizio di primo grado.
(di Giuseppe Potenza)

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