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Il contratto d'opera professionale, perché sia


valido ed efficace tra la P. A. committente e il
professionista, deve sostanziarsi in un apposito
documento, recante la firma del professionista
e del titolare dell'organo che rappresenta l'ente interessato nei confronti dei terzi.

Traccia

Paride è un perito industriale, iscritto al relativo collegio, con studio professionale nel comune di Ravenna, per il quale svolge
attività professionale di progettazione di lavori di ampliamento e rifacimento della rete di illuminazione pubblica.
Nel marzo del 2008 il professionista riceve un incarico con relativa delibera di Giunta Comunale, nella quale gli viene affidata la
progettazione relativa ad una parte dell’abitato del predetto comune.
Dopo quattro anni dalla consegna degli elaborati il Sindaco invia a Paride una lettera datata 22 febbraio 2012 con la quale si
comunica che il progetto non è stato approvato dalla giunta municipale e che l’Amministrazione è pervenuta alla determinazione
di riesaminare l’intervento di rifacimento della rete di illuminazione.
Il Sindaco, quindi, chiede che venga redatto un progetto che tenga conto delle scelte progettuali già effettuate e delle nuove
direttive citate.
Viene conferito pertanto un nuovo incarico, formalizzato con delibera della Giunta in data 10 luglio 2012 che – sebbene non
rechi alcuna previsione di spesa – investe Paride dell’incarico di redigere un nuovo progetto cosicché il professionista
sottoscrive il disciplinare d’incarico, con previsione del compenso a suo favore, da corrispondere entro 180 giorni
dall’approvazione del progetto.
Trascorso molto tempo dalla realizzazione del citato progetto, l’Amministrazione Comunale rimane inerte, non corrispondendo a
Paride il compenso richiesto, sul presupposto della mancata approvazione.
Paride decide di rivolgersi ad un avvocato, al fine di ottenere dal Comune quanto dovutogli, facendogli presente che il
disciplinare di attribuzione dell’incarico di progettazione non reca la firma del Sindaco e che il Comune, nonostante il
comportamento inadempiente, ha comunque utilizzato le sue scelte progettuali in un successivo intervento di rifacimento per
stralci della rete di illuminazione.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Paride, premessi brevi cenni sull’istituti sotteso al caso in esame, rediga motivato
parere.

Giurisprudenza

o Cassazione Civile, sez. I, 4 novembre 2013, n. 24679. Il contratto d'opera professionale, quando ne sia parte
committente una P.A. deve tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la
sottoscrizione del professionista e del titolare dell'organo attributario del potere di rappresentare l'ente interessato nei
confronti dei terzi, dal quale possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni
in ordine alla prestazione da rendere e al compenso da corrispondere.

Svolgimento
In ragione di quanto descritto e, aderendo alla recente giurisprudenza di legittimità, la mancata sottoscrizione da parte
del Sindaco del disciplinare di incarico esclude l’esistenza di un valido contratto fra l’Amministrazione e il professionista
Paride.
Ai fini della trattazione del presente parere è necessario trattare del contratto d’opera, disciplinato dagli artt. 2222 e
ss. cod. civ., con particolare riferimento alla prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 cod. civ.).
Il contratto d’opera è caratterizzato dalla prestazione di un’opera o di un servizio, in cambio di un corrispettivo,
effettuata con il lavoro prevalente o esclusivo di colui che si è obbligato a compiere l’opera e che effettivamente eseguirà
la prestazione, senza però alcun vincolo di subordinazione.
Il contratto d’opera, pertanto, si qualifica come un contratto intuitus personae.
La giurisprudenza ha altresì precisato che si tratta di un contratto bilaterale, essenzialmente oneroso.
Secondo la dottrina dominante, l’inserimento di una particolare e specifica disciplina del lavoro autonomo nel corpus del
codice si ricollega all’esigenza avvertita dal legislastore di differenziare e contrapporre al lavoro nell’impresa una
fattispecie diversa di attività svolte da soggetti in posizione di estraneità e terzietà rispetto alla normale struttura
produttiva dell’impresa stessa.
La tesi giurisprudenziale di gran lunga maggioritaria individua la differenza con il rapporto di lavoro subordinato
nell’assenza, nel lavoro autonomo, di un nesso di dipendenza tra lavoratore e datore: qualora non sia possibile rinvenire
una specifica etero-organizzazione della prestazione finalizzata continuativamente alla realizzazione dell’interesse
dell’impresa, non può infatti parlarsi di subordinazione, cosicché gli eventuali vincoli di spazio, tempo e modo sono diretti
unicamente a rendere concretamente possibile la prestazione attuando il collegamento funzionale con l’attività aziendale.
Al fine della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, occorre aver riguardo, più che al
nomen iuris usato dalle parti, ancorché espressamente enunciato in un atto scritto, all’effettiva natura ed al reale
contenuto del rapporto stesso, nonché alle modalità di espletamento delle mansioni che costituiscono l’oggetto della
prestazione lavorativa; in questa indagine va tenuto presente che, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione
è l’opera, cioè il risultato dell’attività, mentre nel lavoro subordinato l’oggetto della prestazione è rappresentato
dall’energia lavorativa che il prestatore di lavoro pone a disposizione del datore di lavoro, ed esplica con vincolo di
subordinazione, cioè, sotto la vigilanza e secondo le direttive del datore di lavoro medesimo.
Detto requisito della subordinazione, peraltro, va inteso in senso relativo, in quanto non è incompatibile con una certa

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autonomia, iniziativa e discrezionalità del lavoratore, specie quando si tratti di prestazioni professionali. In tale caso, la
subordinazione si attua in termini più funzionali che tecnici, potendosi concretizzare nella sola sistematica inserzione
dell’opera professionale nell’organizzazione unitaria dell’impresa o dell’ente, ancorché senza un’effettiva direzione da
parte del datore di lavoro.
Importante è il rapporto tra il contratto di appalto (art. 1655 cod. civ.) e quello d’opera (art. 2222 cod. civ.). Tali negozi
giuridici si differenziano per il fatto che, nel primo, l’esecuzione dell’opera commissionata avviene mediante una
organizzazione di media o grande impresa in cui l’obbligato è preposto e nel secondo con il prevalente lavoro di
quest’ultimo, pur se coadiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore secondo il modulo
organizzativo della piccola impresa desumibile dall’art. 2083 cod. civ.
La giurisprudenza ha altresì precisato che, per quanto la differenza fondamentale tra contratto d’appalto e contratto
d’opera vada individuata nella qualità di imprenditore commerciale del contraente cui siano stati convenzionalmente
commessi l’esecuzione dell’opera o lo svolgimento di un servizio, la circostanza che questi si sia avvalso di collaboratori,
non si sa se occasionali o fissi, non può, di per sé, dimostrare, nel medesimo, l’esistenza di quella qualità che,
comportando una complessa organizzazione di fattori produttivi, lo contrassegna della titolarità di un’organizzazione
produttiva, incompatibile con la locatio operis.
Quanto ai punti in comune tra le due forme contrattuali, esse hanno entrambe l’obbligazione, verso il committente, di
compiere, a fronte di un corrispettivo, un’opera o un servizio senza vincolo di subordinazione e con assunzione di rischio
da parte di chi li esegue.
Nel contratto di prestazione d’opera autonoma, la pattuizione del prezzo – la quale non costituisce elemento prescritto a
pena di nullità – può anche mancare, con la conseguenza che in tal caso, a norma dell’art. 2225 cod. civ., il corrispettivo
va determinato secondo le tariffe professionali o gli usi o direttamente dal giudice. In tal ultimo caso il corrispettivo deve
essere stabilito dal giudice in relazione alla natura, quantità e qualità delle prestazioni, nonché al tempo ed ai costi
occorrenti per il relativo espletamento, secondo il duplice parametro del risultato per il committente e del lavoro per il
prestatore d’opera. Conseguentemente, qualora nel corso del rapporto le prestazioni d’opera assumano una maggiore
ampiezza, sia qualitativa che quantitativa, con ulteriore dispendio per quest’ultimo e maggiore vantaggio per il primo, è
legittima la determinazione giudiziale del compenso per esse spettanti, in mancanza di accordo tra le parti al riguardo,
sostitutivo di quello originario, non potendo essere perseguiti maggiori vantaggi per il committente attraverso un
maggior sacrificio economico per il prestatore d’opera senza che si determini una disarmonia tra le prestazioni in
sinallagma. In tema di compenso per l’attività svolta dal professionista, la giurisprudenza ha precisato che il giudice,
indipendentemente dalla specifica richiesta del medesimo, a fronte di risultanze processuali carenti sul quantum ed in
difetto di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, assumendo l’omesso
assolvimento di un onere probatorio in ordine alla misura del medesimo, bensì deve determinarlo, ai sensi degli artt.
1709 e 2225 cod. civ., con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo con la natura, quantità e
qualità delle prestazioni eseguite e con il risultato utile conseguito dal committente.
Il contratto d’opera intellettuale, previsto all’art. 2230 cod. civ., si contraddistingue essenzialmente per il carattere
intellettuale della prestazione, che prevale sull’eventuale lavoro materiale; altro elemento caratterizzante è dato
dalla discrezionalità nella prestazione dell’opera intellettuale il cui oggetto è la mera esecuzione dell’attività intellettuale,
indipendentemente dal raggiungimento del risultato. E’ pacifico, in dottrina, infatti che le prestazioni di opere intellettuali
sono, in generale, obbligazioni di mezzi (e non di risultato).
In giurisprudenza, invece, si è parlato talvolta di obbligazioni di risultato, ad es. quando il prestatore d’opera è obbligato
alla consegna di un opus, con conseguente possibilità di ricorrere all’art. 2226, comma II, cod. civ.
Le norme dedicate alle professioni intellettuali costituiscono un’applicazione concreta delle norme in tema di lavoro
autonomo, dal momento che il contratto d’opera professionale altro che non è che una specifica forma di contratto
d’opera, caratterizzato dal tipo di prestazione, che si realizza con il compimento di un’opera intellettuale.
Gli elementi caratteristici del contratto d’opera professionale rispetto al contratto di lavoro autonomo devono essere
individuati nella natura, professionale, della prestazione e nel carattere, intellettuale e tecnico, della medesima;
l’attività del libero professionista è caratterizzata, cioè, da un’ampia discrezionalità nell’esecuzione della prestazione, ed
è proprio l’esigenza di tutelare tale sfera di libertà che giustifica la peculiarità delle norme che disciplinano e qualificano
la posizione di colui che esercita la professione intellettuale, distinguendola rispetto a quella propria del prestatore
d’opera nell’ambito di attuazione del relativo contratto.
Il rapporto di prestazione d’opera professionale la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al
compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare
inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il
pagamento di detto compenso. Ciò comporta che il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui
interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che stipulando il relativo contratto ha conferito
incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo. La prova dell’avvenuto
conferimento dell’incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata
instaurazione di un siffatto rapporto, grava sull’attore.
Quanto al compenso spettante al professionista, l’art. 2233 cod. civ. prevede che le fonti di determinazione dello stesso
sono organizzate gerarchicamente: autonomia negoziale, tariffe, usi, determinazione giudiziale. L’autonomia negoziale
ha ampio margine di operatività e costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso.
L’onerosità costituisce un elemento naturale ma non essenziale dei contratti di prestazione d’opera professionale
essendo consentito alle parti sia di escludere senz’altro il diritto del professionista al compenso, sia di subordinarlo al
verificarsi di una condizione.
Al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari, che possono
consistere in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale e indiretto vantaggio,
e la rinuncia al compenso può essere espressa anche attraverso un comportamento concludente.
Nel caso in questione occorre chiedersi se la manifestazione di volontà espressa dalle parti con gli atti sopra citati,
materialmente e cronologicamente distinti ma inscindibilmente collegati, produca efficacia giuridica tra le stesse, in
adempimento al requisito della forma scritta ad substantiam, nonostante il disciplinare di affidamento dell’incarico al
professionista Paride sia risultato carente della sottoscrizione del Sindaco.

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Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza di legittimità per il contratto d'opera professionale, quando ne sia parte
committente una P.A., e pur ove questa agisca iure privatorum, è richiesta, in ottemperanza al disposto degli artt. 16 e
17 del r. d. 18 novembre 1923, n. 2440, la forma scritta ad substantiam, che è strumento di garanzia del regolare
svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse sia del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia della
collettività, agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e, per tale via, espressione dei principi di imparzialità e
buon andamento della P. A. posti dall'art. 97 Cost. (cfr. Cass. Civ., sez. III del 26 gennaio 2006, , n. 1702, conf. Cass.
Civ., sez. I, 17 gennaio 2013, n. 1167 e Cass. Civ., sez. I, 26 gennaio 2007, n. 1752).
Il contratto deve, quindi, tradursi, a pena di nullità, “nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione
del professionista e del titolare dell'organo attributario del potere di rappresentare l'ente interessato nei confronti dei terzi,
dal quale possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alla
prestazione da rendere e al compenso da corrispondere” (Cass. Civ., sez. I, 4 novembre 2013, n. 24679, conf. Cass. Civ.,
sez. fer., 04 agosto 2011, n. 16997).
Di conseguenza, in mancanza di detto documento contrattuale, ai fini d'una valida conclusione del contratto rimane del
tutto irrilevante l'esistenza di una deliberazione con la quale l'organo collegiale dell'ente abbia conferito un incarico a un
professionista, o ne abbia autorizzato il conferimento, in quanto essa non costituisce una proposta contrattuale, ma un
atto con efficacia interna all'ente avente natura autorizzatoria e quale unico destinatario il diverso organo legittimato ad
esprimere la volontà all'esterno.
Del pari, è escluso che un simile contratto possa essere concluso a distanza, a mezzo di corrispondenza, occorrendo che
la pattuizione sia versata in un atto contestuale, anche se non sottoscritto contemporaneamente; se, infatti, la legge
sulla contabilità generale dello Stato, richiamata dalle norme in tema di contratti degli enti locali, consente che, ferma
restando la forma scritta, il contratto possa essere concluso a distanza, a mezzo di corrispondenza, quando intercorra con
ditte commerciali (art. 17 r. d. 18 novembre 1923, n. 2240, richiamato dall'art. 87 r. d. 3 marzo 1934, n. 383), è
indubbio che detta ipotesi costituisce una deroga rispetto non soltanto alla regola contenuta nel precedente art.16, ma
anche a quella posta dallo stesso art. 17 per cui “i contratti a trattativa privata, oltre che in forma pubblica amministrativa
nel modo indicato al precedente art. 16, possono anche stipularsi per mezzo di scrittura privata firmata dall'offerente e dal
funzionario rappresentante l'amministrazione”; da tale previsione derogativa - invocabile soltanto in quei negozi in cui,
per esigenze di praticità, la definizione del contenuto dell'accordo è rimessa agli usi commerciali - non può, pertanto,
ricavarsi la regola che in qualsiasi contratto della P. A. la forma scritta ad substantiam debba ritenersi osservata anche
quando il consenso si formi in base a atti scritti successivi atteggiatisi come proposta e accettazione tra assenti.
E’ evidente, nel caso de quo, che tali elementi sono mancanti, in quanto al momento della sua proposta contrattuale il
Sindaco non è stato autorizzato a stipulare alcun contratto e non è quindi in grado di esprimere alcuna volontà negoziale
dell'Ente locale. La delibera della giunta del 10 luglio 2012 non richiama la lettera del Sindaco del precedente 22 febbraio
e non prevede la copertura finanziaria, in violazione di quanto previsto all’art. 23 della L. n. 144/1989.
Pertanto, è da escludere che vi sia stata alcuna volontà dell'organo deliberativo del Comune di Ravenna di conferire
validità a un precedente atto invalido del Sindaco: l’accertata inesistenza, nella specie, di un negozio idoneo a far
scaturire l’obbligo dell’Amministrazione di versare il compenso per l’attività di progettazione eseguita, stante l’inidoneità,
in assoluto, di uno scambio di corrispondenza ai fini di una valida conclusione del contratto d’opera professionale, rende
priva di azione causale la pretesa di Paride.
Un ulteriore profilo che emerge nella vicenda in esame riguarda la possibilità per Paride di esperire l’azione di
arricchimento senza causa, ex art. 2041 cod. civ., al fine di ottenere un indennizzo per aver il Comune utilizzato le sue
scelte progettuali, in un successivo intervento di rifacimento della rete di illuminazione.
Sotto quest’ultimo aspetto, in un ipotetico giudizio, Paride dovrebbe dimostrare la patrimonialità dell'arricchimento (c. d.
locupletatio) dell'amministrazione comunale da cui sarebbe derivata l’ingiustizia perpetrata ai suoi danni, depositando gli
elaborati progettuali e specificando le scelte progettuali utilizzate dal Comune: solo in tal maniera sarebbe giustificabile
un’azione di indebito arricchimento verso la P. A.
Pertanto, e in conclusione, nel caso di specie, Paride, nell’instaurato giudizio innanzi il Tribunale competente per
territorio, difficilmente potrà ottenere – a carico del Comune – una condanna al pagamento del compenso per l'attività
professionale di progettazione svolta, in quanto – da un lato – la delibera adottata risulta essere nulla per le ragioni
sopra descritte e – dall’altro – alcun valido rapporto contrattuale si è sostanziato, non essendo stato sottoscritto dal
Sindaco il disciplinare di incarico.
(di Giuseppe Potenza)

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