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RIASSUNTO DELLA LEZIONE 11

ANOMALIA, INTELLIGENZA, OPPORTUNISMO


La proposta che informa la prima parte della lezione è questa: l’intelligenza umana è una funzionalità
che ha due componenti, una analogica e una ‘anomalistica’ (termine che uso in mancanza di meglio
per ‘apertura alle anomalie’, cfr. infra). Cioè una condotta intelligente include un aspetto d’intelligenza
analogica, la capacità di vedere nessi, e un aspetto di passività o apertura passiva: una passività
provvisoria, per la quale propongo di usare la parola opportunismo. ‘Opportunismo’ non va inteso in
senso morale: piuttosto lo prendo a prestito dalla biologia (infezioni opportuniste, ecc.) 1.
Sto parlando ovviamente di intelligenza in senso ‘multiplo’ (cfr. Daniel Goleman su intelligenza
sociale, emozionale, ecc.), ma anche in senso ‘globale’, come condotta di vita. Intelligenza, quindi,
come forma globale del vivere in maniera intelligente, all’interno della quale si possono distinguere
prestazioni localmente intelligenti (pensare, calcolare, relazionarsi, creare, ecc.). In breve, l’intelligenza
è un modo di vivere, non (solo) di pensare. Anzi, il rigonfiamento di una prestazione locale, ad es. la
razionalità, fino a invadere la personalità intera risulterà probabilmente disfunzionale. In questo senso
esiste un uso dell’intelligenza autoreferenziale, fine a sé stesso, che chiamo narcisistico.
Intelligenza quindi è approfittare delle differenze, delle anomalie, e non soltanto trovare il modo di
darsene ragione: e questo richiede appunto una capacità opportunistica. Il comportamento intelligente
di fronte all’anomalia riesce a conservarla e a ripartire da essa, con un linguaggio nuovo. Quando
accade questo allora il dato anomalo dischiude, non ostacola: ci fa passare a un nuovo mondo più
ricco, invece di cercare spiegazioni all’interno del mondo che conosciamo già.
La scelta di cambiare il “paradigma” (Kuhn, Feyerabend) può essere quindi una via più intelligente (in
termini opportunistici, di occasioni da cogliere). Certamente trovare un nuovo linguaggio significa
ridurre l’anomalia, e ritrovare una specie di equilibrio analogico; ma sarà un equilibrio diverso, se non
più ‘vero’ almeno ‘migliore’ (nel senso in cui Protagora parla di ‘migliore e non più vero’ nel Teeteto
platonica), o almeno più nuovo. Quantomeno è da evitare quella patologia della conoscenza che
consiste nell’ignorare l’anomalia, simile a ciò che in psichiatria si chiama disattenzione selettiva.

L’opportunismo è una capacità strana rispetto alle prestazioni epistemologiche tradizionali: è più una
scommessa che una conoscenza. La conoscenza in senso classico (quella ‘dello spettatore’) vede il
proprio oggetto, è frontale: è un rappresentarsi adeguatamente una realtà posta di fronte a noi (si
riparlerà più avanti di rappresentazionalismo e anti-rappresentazionalismo). Ma nel caso
dell’opportunismo l’oggetto non c’è, non è ancora presente. Opportunismo dunque vuol dire non tanto
rappresentarsi adeguatamente una cosa, quanto formarsi una pre-immagine (il termine non è preciso,
ma non ne ho uno migliore) provvisoria, magari imperfetta.
Rispetto a questa pre-immaginazione bisogna essere capaci (1) di non agire subito in base a essa,
ma nemmeno scartarla, bensì conservarla per usi futuri; ma paradossalmente anche (2) di agire come
se avessimo una conoscenza più perfetta di quella che effettivamente abbiamo, quando occorre, cioè
in condizione d’incertezza. È questo l’elemento di scommessa, per il quale ricordo l’espressione
educated guess). Nell’epistemologia classica, per conoscere devo già sapere che cosa sto cercando. È
la domanda di Platone nel Menone: come posso riconoscere che un certo pensiero è vero, se non ce
l’ho già in qualche forma dentro di me? Platone la risolve con la teoria dell’anamnesis, la conoscenza
come reminiscenza. È un’idea interessante anche per la storia culturale, perché si basa su un’idea di
metempsicosi che con ogni probabilità veniva dall’India (con la mediazione del pitagorismo, molto
influente su Platone). Tuttavia, se è così, non si conosce mai qualcosa di veramente nuovo. In
alternativa, bisogna per forza ammettere che noi siamo capaci di aspettarci qualcosa ‘al buio’.
Questa è una capacità umana fondamentale: per es., se l’intelligenza non avesse questo carattere
opportunistico, avremmo bisogno della politica come mezzo di definizione dei rapporti di potere? Le
nostre gerarchie sociali sarebbero determinate in modo abbastanza semplice sulla base della
1
Circa l’uso che faccio del concetto di opportunismo, ho trovato pochi studi specifici nella letteratura antropologica, e
alcuni abbastanza vecchi: H. S. Harrison, “Opportunism and the Factors of Invention”, American Anthropologist, 32, 1,
1930; Christopher E. Parker, “Opportunism and the Rise of Intelligence”, Journal of Human Evolution, 7, 1978; Dario
Maestripieri, Macachiavellian Intelligence: How Rhesus Macaques and Humans have Conquered the World, University
of Chicago Press, 2007. In biologia e zoologia il termine è comunque molto diffuso.
conformazione fisica, come per molte specie di animali gerarchici. Ma negli esseri umani, come ha
compreso Hobbes, tutto il problema politico nasce dal fatto che anche il più forte non è mai al sicuro
(vedi cit. in slide).

Dunque l’intelligenza umana contiene questo elemento che non è esattamente conoscitivo, anzi
include a volte la capacità di agire come se avessimo una conoscenza che non abbiamo (l’ho chiamata
una capacità ‘teatrale’, avendo in mente gli studi di Goffman sulla messa in scena del sé nella vita
sociale, ma non è il momento di parlare di questo).
Consideriamo un frammento di Eraclito: «Chi non si aspetta l’inatteso [o: chi non spera l’insperato],
non potrà mai trovarlo, giacché esso è introvabile e impenetrabile» 2. Si noti il verbo elpomai = sperare,
aspettarsi, supporre, osare. Chi non si aspetta l’inatteso, l’insperato, l’inosabile, il sorprendente, non
potrà mai trovarlo. Qualcuno di voi ha chiesto: ma se me l’aspetto come può essere una sorpresa? Ma
in realtà lo facciamo continuamente. Anzi la nostra esistenza dipende da questa strana capacità:
perché se le sorprese fossero sorprese totali, ne saremmo completamente sopraffatti, e questo forse a
volte può succedere, ma certo non sempre. (Vedi in Gehlen il tema del “profluvio degli stimoli” e il
conseguente bisogno di esonero.) E d’altro canto, se non ci fossero mai sorprese, potrei trovare solo
quel che stavo cercando, dunque non troverei mai il nuovo.
Ma noi a volte troviamo qualcosa di nuovo. Dunque (‘argomento trascendentale’, si chiama in
filosofia) abbiamo questa capacità strana: lo sperare, l’attendersi, che non è un cercare, ma è un
lasciare che ti capiti qualcosa di impensabile, d’incomprensibile. Se non avessimo questa
indeterminazione fondamentale, noteremmo soltanto ciò che rientra nelle nostre categorie (anche
questo è un tema kantiano ripreso in Gehlen). Certo, alla fine lo riconosciamo, lo riduciamo
analogicamente al noto, perché altrimenti non sapremmo nemmeno di averlo incontrato: ma il
riconoscimento è impegnativo, non è ovvio, richiede uno sforzo (cfr. cit. di Kahn in slide).
Perciò la speranza o aspettativa è un’abilità cognitiva vera e propria; viene da chiedersi se altri
animali possono sperare in questo senso (giustamente qualcuno di voi ha ricordato un passo di
Wittgenstein a questo riguardo).

ANTROPOMORFISMO, ANTROPOCENTRISMO, RELATIVISMO ANTROPOLOGICO


Seconda parte della lezione: ho proposto alcune precisazioni sul termine antropomorfismo.
È un atteggiamento di lunghissima durata (nel senso tecnico alla Braudel), che non sempre si
percepisce. Qualcuno di voi ha notato l’antropomorfismo implicito quando mi domandavo, ad es., se
esistono tratti culturali nelle società animali. Ma NB: già il fatto di chiamarle ‘società animali’ è
antropomorfico. Eppure gli scienziati non hanno problemi a usare il termine ‘società’ applicato alle
aggregazioni di formiche o api o scimmie. Come nota Ingold (SLIDE), la scienza occidentale ha
cercato di depurarsi dal linguaggio antropomorfico, ma c’è da chiedersi se ci sia riuscita. Qualche es.:
‘scimmie antropomorfe’; ‘Ominini’.
Ci si potrebbe addirittura chiedere se sia possibile far a meno dell’antropomorfismo. A questo scopo
ho dato una definizione e ho fatto qualche cenno storico.

Antropomorfismo è attribuire caratteri umani a qualcosa che non è umano. Non solo animali e
vegetali, ma anche enti materiali, atmosferici, ecc. Anzi nemmeno solo entità materiali:
l’antropomorfismo religioso è una forma fondamentale (vedi lettura Becker e citazioni da Senofane in
slide). Anche rappresentazioni molto raffinate e astratte del divino devono passare per la percezione
umana: vedi la metafisica della luce (cfr. il teologo medievale Roberto Grossatesta; ho trovato anche il
riferimento all’islam a cui pensavo durante la lezione: Mulla Sadra e la c.d. scuola di Isfahan).
Qualunque nozione di antropomorfismo – in quanto ‘-ismo’, cioè in quanto consapevole proiezione di
tratti umani su qualcosa – ha senso solo a partire dalla demarcazione tra umano e non-umano. Nello
schema della Grande Catena dell’Essere, l’antropomorfismo risulta tipicamente definito come fallacia,
perché prende la differenza specifica di un nodo (l’anthropos), e l’applica arbitrariamente a dei nodi
(taxa) che non si dipartono da quel nodo, e dunque non ne hanno ereditato le specificità (“eredità” in un
senso logico, non biologico).
Notiamo che a generare la fallacia è proprio il fatto di prendere l’essenza, la differenza specifica, e
trasportarla altrove nello schema. Non importa se il carattere dell’onnivorismo è attribuito agli umani e
2
Per chi conosce il greco: ἐὰν μὴ ἔλπηται, ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον (DK B 18).
anche ad altri esseri, perché questo è un carattere accidentale, non essenziale. Ma se si prende invece
la razionalità, o qualche proprietà che è concepita come derivante dalla razionalità, come, per dire, il
linguaggio, o la capacità di calcolo, o la morale, allora il fatto di proiettarla in altri punti del diagramma
diventa un errore vero e proprio. (Naturalmente ho sottolineato in precedenza che questo sistema
cosmologico presenta parecchi problemi, anche all’interno della cultura occidentale. Per es. l’indagine
empirica ha mostrato importanti tratti di intelligenza e forse anche di moralità in animali; e questo non
c’è modo di spiegarlo all’interno dello schema della Grande Catena.)
Ma ci sono esperienze del mondo in cui l’essere persona non coincide coll’insieme degli esseri che
fanno parte della specie Homo sapiens – pensiamo all’ontologia degli Ojibwa di cui parla Ingold. In
queste ontologie, certi caratteri salienti che noi consideriamo umani sono comuni a molte altre entità. Si
potrebbe dire, in un certo senso, che in queste culture l’antropomorfismo è presente3, ma non è una
fallacia. È piuttosto una parte integrante della loro cosmologia, o della loro esperienza ‘educata’ del
mondo.
Ora, in una cultura che risente di tante origini come la nostra, e che oggi ha così tanti ‘discorsi
autorevoli’ al suo interno, così tante ‘fonti di verità’ (dalla scienza alla religione alle ideologie più
diverse), è quasi inevitabile che la rete dell’esperienza che ho chiamato ‘educata’, già culturalizzata,
presenti degli strappi, cioè che non sia perfettamente coerente.
Questa è appunto la situazione in cui ci troviamo oggi. Veniamo da una lunga storia di
discontinuismo tra umano e non-umano; oggi ci sono alcune idee-forza, sia sociali sia scientifiche sia
filosofiche, che ci inducono a mettere in discussione questa continuità; ma non è immediatamente
evidente come bilanciare queste forze contrapposte. Per un verso, ci trasciniamo dietro una mentalità
‘a generi e specie’. Nello stesso tempo abbiamo oggi, per es. in etica, una nuova visione, forse non
ancora prevalente, in cui il rapporto con gli animali è molto diverso: non riusciamo più a considerarli
come automi, come Descartes (animalismo, ecc.)

Precisazione terminologica. Il termine ‘antropocentrismo’ ormai si usa nell’etica ambientale ed


ecologica per riferirsi a quello che più propriamente si dovrebbe chiamare ‘specismo’, speciesism in
inglese, che vuol dire piuttosto il considerare la nostra specie come superiore, e quindi considerare
l’ambiente e in particolare gli animali come a disposizione degli umani, i quali sarebbero quindi titolati a
dominarli o utilizzarli senza limiti, a reificarli, come se fossero cose. Per evitare questa ambiguità userò
invece l’espressione ‘relativismo antropologico’ o ‘relatività antr.’ per indicare piuttosto la limitazione
della nostra prospettiva, l’impossibilità di applicare uno sguardo non umano nel momento in cui
osserviamo fuori di noi.

Probabilmente i primi ad avere la consapevolezza della nostra relatività e anche a esplicitarla, nella
storia del pensiero occidentale, sono stati i sofisti. C’è una famosa affermazione di Protagora (riportata
nel Teeteto) secondo la quale ‘l’anthropos è misura di tutte le cose’ (detta a volte la tesi dell’uomo-
misura, o metron anthropos).
È chiaro che antropomorfismo e relatività antropologica sono due cose concettualmente separate,
ma ciò non implica che siano indipendenti. Per es. Ralf Becker sostiene (in una parte dell’articolo che
non ho inserito in lettura) che tale relatività è il quadro cognitivo in cui si sviluppa l’antropomorfismo.
Potremmo forse parlare di un complesso formato da antropomorfismo/relativismo antropologico. Ci si
può chiedere: se il relativismo antropologico è insuperabile – cioè se siamo misura di ogni cosa –
anche l’antropomorfismo è cognitivamente insuperabile? Cioè, non possiamo che comprendere il
mondo usando le nostre fattezze? E. Visalberghi, nella Lettura, pensa di sì: non possiamo far a meno di
proiettare noi stessi, in partic. sugli animali. Ma credo che la questione resti irrimediabilmente aperta.

L’ANTROPOMORFISMO E LA RELATIVITÀ DEL PUNTO DI VISTA UMANO SONO INSUPERABILI?


NB: questa è all’incirca la parte della lezione che non sono riuscito a svolgere, quindi la
sintesi sarà più dettagliata.

Un esempio interessante della difficoltà di far a meno dell’antropomorfismo è la scienza stessa: il


linguaggio scientifico è ancora sottilmente antropomorfico. Ho accennato prima alle “società animali”:
3
Come sostiene ad es. Descola, ma non Ingold.
ma perfino la "selezione naturale" è una metafora antropomorfica, più esattamente tecnomorfica in
quanto rinvia a un’attività di lavoro umano. Darwin lo sapeva bene quando ha proposto il termine
selezione ricavandolo dalle pratiche tecniche dell’allevamento e dell’agricoltura.
D’altra parte, se è difficile sbarazzarsi dell’antropomorfismo, forse lo è ancora di più sbarazzarsi del
metron anthropos, la relatività intesa come necessità di considerare le cose ‘dal nostro punto di vista’.
Vorrebbe dire poter assumere un p.v. totalmente neutrale, che prescinde da ogni prospettiva, non solo
culturale ma addirittura umana. La scienza in fondo ha sempre mirato a questo, la neutralità completa,
l’universalità. I risultati della scienza dovrebbero essere validi in sé stessi, non in una qualche
prospettiva; rispetto a questo scopo universale, la cancellazione dell’antropomorfismo è solo un
obiettivo accessorio. Da notare che neutralità non significa inclusività, non indica l’ideale di assumere
una prospettiva più ampia dell’umano. Cioè l’epistemologia classica non mira ad allargare la
prospettiva, nel senso di passare da uno sguardo umano a uno che fa centro nell’ecosistema nel suo
complesso, ma che resta pur sempre uno sguardo. Alcuni pensatori o anche scienziati di tendenza
ecologica l’hanno messa in questi termini, di assumere la prospettiva ‘ecocentrica’ (Aldo Leopold:
“pensare come una montagna”; cfr. l’ecocentrismo di Arne Naess, ecc.). Ma non è questo l’ideale
dell’epistemologia classica, che mira piuttosto a liberarsi di qualunque prospettiva, quindi a raggiungere
un piano di discorso impersonale, neutrale, aspecifico. Che in fondo è un non-sguardo, uno ‘sguardo da
nessun luogo’. (L’espressione view from nowhere è del filosofo Tom Nagel, che la usa per criticarla.)
Per questo il mainstream della filosofia occidentale ha reagito in maniera difensiva rispetto alla
relativizzazione del punto di vista che è implicita in una posizione come quella protagorea. Le reazioni
sono state di vari tipi:
(1) Una, che comincia già con Platone, consiste nell’affermare che, viceversa, è possibile una
conoscenza assoluta, uno sguardo dall’alto, simile allo sguardo di Dio. Naturalmente questo ideale non
è mai completamente raggiungibile da noi, ma la conoscenza assoluta esiste, e noi possiamo almeno
tendere verso di essa, possiamo cioè fare philo-sophia (nel senso etimologico della parola). Difatti nel
Teeteto Platone esplicitamente costruisce la figura del filosofo come colui che mira a essere simile a
Dio, quindi a raggiungere una visione piena dell’essenza delle cose. Perché in un certo senso lo
sguardo ‘relativistico’ protagoreo (ma anche l’antropomorfismo stesso) è uno sguardo orizzontale4, cioè
arriva solo fino al proprio orizzonte, ma in questo modo continua a vedere sé stesso dappertutto
(precisamente quella patologia del pensiero analogico a cui accennavo). Invece il sogno
dell’epistemologia platonica, che informerà la filosofia occidentale per secoli, è uno sguardo verticale,
che dall’alto penetra fino in fondo, a cogliere la vera realtà. (Notate la curiosa inversione: il filosofo
dev’essere simile a Dio: è una specie di teomorfismo, un’applicazione all’umano di categorie divine: ma
è sempre una proiezione, allo stesso titolo della precedente.)
(2) Un’altra reazione è quella del meccanicismo moderno, che ha scelto la strada opposta, cioè
negare che ci sia bisogno di comprendere la natura, in quanto nella natura non c’è niente da
comprendere, è un insieme di fenomeni meccanici che devono solo essere spiegati medianti leggi
fisiche.
(3) Il discorso si collega a quello della presunta ‘apertura al mondo’ illimitata della cognizione
umana, teorizzata dall’antropologia filosofica tedesca, quella corrente di cui abbiamo già parlato. In
sintesi l’idea è che, a differenza degli animali, noi non abbiamo un ambiente limitato, da cui possiamo
raccogliere solo una certa gamma di stimoli. Noi saremmo creature epistemologicamente senza limiti di
principio. Questa è una tesi che stranamente accomuna l’ideologia della scienza e la corrente
dell’antropologia filosofica tedesca, quella che fa riferimento a Max Scheler. Per Scheler, mentre gli
animali vivono in un Umwelt, un ambiente, noi viviamo in un Welt, un mondo, le cui dimensioni sono
potenzialmente infinite. In questo senso l’uomo sarebbe un “animale risvegliato” (F. Buytendijk), cioè
capace di fare attenzione a tutto.
Personalmente io sono critico verso tutte queste vie per affermare il potere conoscitivo umano,
compresa quella della linea Scheler-Gehlen. Alla fin fine mi sembra che nell’antropologia filosofica di
questa corrente (e in fondo anche in Tomasello) rimanga un residuo di ‘eccezionalismo’, nel senso di
posizione eccezionale degli umani fra tutti gli animali. Più in partic., credo che la tesi dell’illimitata
apertura al mondo sia semplicemente falsa sul piano empirico. Il nostro sguardo ha dei limiti, addirittura
anche in senso neurofisiologico. In certi casi questi limiti sono attestabili empiricamente, tanto che
abbiamo costruito degli strumenti che li aggirano: microscopi, telescopi, radar, ecografia. E non

4
Prendo questa idea da Ralf Becker.
abbiamo un modo di stabilire in via preliminare se esistano dei limiti invalicabili, che nessun strumento
può aggirare – ma il quesito stesso è mal posto: se sono invalicabili per principio non lo sapremo mai, e
ciascun limite che valichiamo non ci dice niente sul successivo.
Val la pena di riflettere un attimo su queste limitazioni o distorsioni neurofisiologiche. Perché non
dovremmo averne anche noi, come ogni animale? In fin dei conti abbiamo un apparato percettivo che
ha i propri limiti, in gran parte dovuti all’evoluzione. Un moscone va a sbattere contro il vetro perché il
vetro è un prodotto artificiale umano e il moscone si è evoluto in un ambiente che non includeva il vetro.
Però attenzione: il vetro non c’era neanche nel nostro ambiente evolutivo, e infatti un cristallo ad alto
grado di trasparenza spesso trae in inganno anche il nostro occhio, con effetti comici. Abbiamo
limitazioni cognitive come tutti gli animali. E abbiamo anche distorsioni del ragionamento, a volte indotte
dalle nostre stesse conoscenze.

Lasciando da parte questa critica, torniamo a chiederci invece se l’antropomorfismo sia necessario
cognitivamente: cioè fino a che punto possiamo far a meno di prestare fattezze umane a quel che ci sta
intorno.
In sintesi: di quanto antropomorfismo abbiamo bisogno per comprendere il mondo? In questo caso
l’antropomorfismo s’intreccia col fatto che noi guardiamo la realtà dal punto di vista e con categorie
umane. (→ la ‘rivoluzione copernicana’ dello sguardo epistemologico, in Kant.)
Benché non sia possibile una risposta in assoluto, si può congetturare che una qualche forma
bisogna pur attribuirla al mondo non-umano. Prescindere totalmente da ogni ‘messa in forma’ –
un’operazione cognitiva che è stata chiamata ‘amorfismo’5 – potrebbe non essere possibile sul piano
psico-cognitivo. Non sono in grado di prender posizione su questo punto. Di certo, se è inevitabile dare
una forma, è facile intuire che certe attribuzioni antropomorfiche, certi modi di vedere tratti umani
nell’ambiente, potrebbero essere il frutto dell’evoluzione, perché rappresentano un vantaggio. Per es.
noi abbiamo una spiccata capacità di riconoscere un volto, o comunque una figura umanoide con occhi
e bocca, in un quadro di stimoli caotico e ridondante di informazioni. È una capacità che viene sfruttata
in mille giochi e illusioni ottiche (‘scopri dov’è la faccia che ti guarda in questa figura’) e chiaramente
porta con sé un vantaggio evolutivo, perché individuare un nemico o un predatore in agguato è una
prestazione che può fare una notevole differenza, spec. nell’ambiente in cui la nostra specie si è
evoluta. Può darsi quindi che certi modi di percezione antropomorfica siano stati selezionati
evolutivamente.
C’è comunque un altro aspetto che ci interessa particolarmente, ed è in relazione al concetto di
comprensione. Vari autori hanno sostenuto che un certo grado d’antropomorfismo è necessario per
l'immedesimazione, dunque per la possibilità di ‘rivivere’ l’esperienza di altri esseri.
In partic. questo tipo di antropomorfismo sembra essere necessario o quasi per l'immaginazione
poetica e metaforica, forse anche religiosa. – Non potendo approfondire, mi limito a fornirvi due
citazioni molto dense: una da Leopardi, l’altra da Nietzsche (SLIDE).
Nietzsche allude evidentemente a Protagora, e notiamo che per N. l’errore non è quello di servirsi di
una metrica umana come “misura di tutte le cose”, ma di farlo senza consapevolezza, credendo di aver
a che fare con entità naturali, “oggetti puri”.

Questo inserto poetico-letterario ci dice qualcosa su come è fatta la comprensione, nel senso
diltheyano del Verstehen. Noi tendiamo a comprendere tutto in termini di noi stessi; in fondo è questo
l’esito della frase di Dilthey. Se quel che noi possiamo comprendere è la vita psichica, bisogna
ammettere che l’unica vita psichica con cui siamo a contatto è la nostra. Proiettare noi stessi sulla cosa
da comprendere è come minimo un modo molto diretto per ottenere una comprensione, persino
quando la cosa che abbiamo davanti è un fenomeno naturale.
Dilthey limitava la comprensione ai fenomeni umani. Forse però è una limitazione riduttiva: forse
l’antropomorfismo è il tramite per cui estendiamo questa operazione cognitiva ad altre sfere dell’essere.
Noi di fatto tentiamo continuamente di comprendere la natura, di sentirci in comunione. Di fatto non
guardiamo la natura con gli occhi della meccanica fisica. Per Dilthey, avremmo la scelta solo tra il
meccanicismo (che è presunto come neutro) e lo psicologismo; ma non è così che ci accostiamo
realmente al mondo. Per noi le cose della natura assumono un significato, e questo rappresenta già un

5
Cfr. Emanuela Cenami Spada, “Amorphism, Mechanomorphism, and Anthropomorphism”, in R.W. Mitchell, N.
Thompson, J. Miles, eds., Antropomorhism, Anecdotes, and Animals, Albany: SUNY Press, 1997.
modo di comprenderle e non solo di spiegarle. Per questo ci viene da descrivere molte cose come
esseri viventi (una montagna, una tempesta) e alcune cose addirittura come se avessero una vita
psichica, cioè come se fossero “come noi”6.
La mentalità occidentale sconta questa divaricazione tra il modo in cui viviamo quotidianamente il
nostro rapporto col non-umano e ciò che sappiamo, o di cui siamo convinti, per via della nostra
formazione scientifica. Noi sappiamo ‘oggettivamente’ che il tavolo è una collezione di atomi in cui
particelle piccolissime girano intorno ad altre, e c’è enormemente più spazio vuoto che pieno in questa
materia. Ma soggettivamente nessuno di noi ha esperienza di questo e nessuno può dire di percepire o
sentire il tavolo in questo modo. Così sappiamo che la Terra gira su sé stessa e intorno al Sole, ma
nessuno di noi può dire di ‘vivere’ questa esperienza: la nostra fenomenologia è ancora quella della
fisica aristotelica, in cui le cose cadono ‘perché sono pesanti’ e la Terra è fissa. Non so se un qualche
addestramento potrebbe portarci a percepire la materia in accordo con le leggi della fisica, ma di certo
al momento non è così. E questo significa che dobbiamo accettare una frattura tra la nostra esperienza
e il nostro sapere intorno al mondo. (È questa la grande differenza che ci separa da culture come
quelle che Descola chiama ‘animiste’, o quelle descritte da Ingold.)

TIPI DI ANTROPOMORFISMO
(Quest’ultima parte della lezione voleva essere più storico-culturale, come spunto per ulteriori
ricerche.)

Ci sono senza dubbio molti tipi di antropomorfismo. Bisogna almeno tener presente, per ulteriori
riflessioni, che si sono ‘antropomorfizzati’ oggetti di tipo molto diverso. Cioè si è parlato in termini umani
del divino, o del destino, da una parte; e delle realtà naturali, in partic. degli animali, da un’altra. Ma si
umanizzano anche i processi economici, i reagenti chimici, ecc. Si è persino antropomorfizzato l’umano
stesso: infatti a volte la psicologia, sopratt. la psicoanalisi e la psicologia del profondo, descrivono i
processi psichici in termini umanizzati, come se avessero una vita propria, come se agissero per conto
loro (vedi cit. freudiane in SLIDE).
In partic. il senso teologico dell’antropomorfismo è connesso addirittura agli esordi storici del termine
‘antropologia’. Nelle attestazioni originarie, “antropologizzare” voleva dire grosso modo “umanizzare”,
antropomorfizzare. Nelle fonti greche più antiche troviamo solo la forma verbale, anthropologein, che si
applicava ai discorsi sugli dèi e non sugli umani. Anthropologein significava “umanizzare” gli dèi, rap-
presentarli come dotati di qualità tipicamente umane 7. Dunque non “parlare dell’uomo”, ma “parlare dal
punto di vista umano”. Era un termine critico, polemico: stigmatizzava il fatto di avere un paraocchi che
ci spinge a credere ingenuamente che tutto ciò ch’è più elevato debba assomigliare a noi. Questa è
una rappresentazione del divino tipica di molte religioni mitologiche, e nella cultura greca è
esemplarmente tramandata nei poemi omerici e nella Teogonia di Esiodo.
La polemica contro l’antropomorfismo è stata spesso sostanzialmente una contrapposizione tra
mitologia e filosofia. Fin dai primordi la filosofia si costituisce come un sapere più avanzato rispetto al
livello ‘ingenuo’ delle credenze popolari e culturali. C’è un famoso frammento del presocratico
Senofane su questo (SLIDE). Socrate nell’Eutifrone platonico (6a6) fa del sarcasmo quando il bigotto
Eutifrone, come giustificazione del suo rapporto conflittuale con suo padre, gli porta l’esempio di Zeus
che incatena il padre Crono (come Crono aveva sconfitto suo padre Urano). E lo stesso Aristotele, in
un passo della Met. (1000a), prende in giro una teologia che prenda alla lettera le caratteristiche
attribuite dal mito agli dei, come il mangiare nettare e ambrosia.
Anche la tradizione ebraico-cristiana, per certi aspetti, combatte l’antropomorfismo: vedi il divieto di
farsi immagini di Dio, nell’ebraismo e in seguito nell’islam (e nel cristianesimo calvinista-luterano). Però
attenzione: nell’ebraismo questo divieto non riguarda tanto le immagini antropomorfiche, quanto quelle
zoomorfiche, tipiche del politeismo (il vitello d’oro). È paradossale, ma spesso nei politeismi le fattezze
umane in un certo senso sono meno importanti: gli dei possono prendere innumerevoli forme, tra cui
quella umana, ma non è detto che quella umana sia quella centrale – ogni ente naturale può andar
bene. Nel monoteismo ebraico-cristiano c’è almeno una base teologica per la rappresentazione di Dio
con sembianze umane, perché in fondo l’uomo è creato a immagine e somiglianza, e per quanto sia
6
Tra tutti i filosofi che hanno lavorato sulla nostra percezione partecipativa della natura, cito M. Merleau-Ponty e,
ancor prima, John Dewey (Experience and Nature).
7
Cfr. Giulia Sissa, Marcel Detienne, La vita quotidiana degli dei greci, Roma-Bari: Laterza, 1989, p. 18.
una somiglianza lontana non è nulla. E nel cristianesimo Dio si è incarnato in un corpo umano
(l’incarnazione è molto diversa dal semplice ‘prender sembianze di’: a volte nelle visioni dei santi Dio
può apparire in forma di colomba o di altre entità, ma lì si tratta chiaramente di una forma apparente,
assunta solo per rendersi comprensibile dal nostro intelletto limitato).
Non voglio comunque entrare in questo problema teologico molto sottile, che riguarda il carattere
commensurabile o incommensurabile del rapporto uomo/Dio nelle religioni. Sul piano antropologico non
è irrilevante, perché c’è in gioco l'interpretazione della creaturalità dell’umanità: Adamo è creato sì, ma
a immagine e somiglianza del creatore. Qui il pensiero centrato sull’umano non è autonomo, ma
dipende da una certezza teologica: l’essere umano ha una posizione speciale perché è investito di una
missione divina. Nel cristianesimo il tema sarà poi in qualche modo superato dalla teologia
dell’incarnazione, in cui si realizza addirittura la coincidenza di umano e divino nella stessa persona.
Sono temi fuori dal nostro ambito, ma è importante capire che c’è tutta una serie di forme culturali e di
fasi storiche in cui l’antropologia rimane subordinata, rimane in un certo senso instabile rispetto alla
teologia. Non a caso, nella linea di pensiero che va da Platone e Aristotele fino a Tommaso, il termine
‘antropologia’ non è in uso. I termini philosōphia e theolōgia sono più che sufficienti: non c’è bisogno di
una scienza dell’umano in quanto tale. È una teologia che vuole intellettualizzarsi, liberarsi
dall’antropomorfismo; in realtà dell’antropomorfismo non ci si libera tanto facilmente, dato che noi
siamo anthropoi e non abbiamo altra visuale che la nostra. E non sarà un caso che molti filosofi
eterodossi, da Senofane a Feuerbach, hanno ritenuto che ogni religione sia sotterraneamente
antropomorfica.
L’applicazione del termine «antropologia» allo studio degli esseri umani prende forma e forza con
l’umanesimo rinascimentale e poi con l’illuminismo. Il discorso umanistico è largamente ‘teomorfico’, in
quanto afferma l’elemento divino nell’essere umano, e proprio in questo elemento consiste la dignitas
homini. Il carattere fondamentale che avvicina l’uomo al divino non è altro che la libertà, il potere di
scegliere (anche tra bene e male). Con questa stessa mossa – chiamiamola l’invenzione del concetto
di libertà nel senso moderno del termine – si ottiene però anche un altro effetto, in realtà un effetto
fondativo per l’antropologia filosofica: perché nel momento stesso in cui rivendichiamo la nostra libertà
la togliamo al mondo naturale ivi compresi gli animali. Nell’antichità e nel medioevo l’umanizzazione
degli animali è corrente nel discorso comune e addirittura nelle pratiche culturali. Ad Atene, in età
arcaica e ancora in età classica, c’era un tribunale che, fra gli altri delitti di sangue, giudicava e puniva
anche gli animali e addirittura le cose che avessero causato la morte di qualcuno (una trave, ecc.) 8.
Ovviamente in questo caso non si trattava di una questione di giustizia nel senso attuale del termine,
che coinvolge appunto il concetto di libera scelta. Era piuttosto una questione di contaminazione:
l’animale o l’oggetto dovevano essere purificati. Ma la pratica di giudicare gli animali non scomparve
nemmeno dopo che il cristianesimo ebbe introdotto il concetto di libertà, fino a un’età molto recente:
ancora nel Quattrocento sono documentati processi agli animali, in Francia e altre zone d’Europa.
(Interessante il fatto che l’animale catturato venisse vestito con abiti umani per essere giudicato.) 9
Viceversa, la concezione moderna dell’animale è quella della creatura innocente, che non porta colpe
di quel che fa in quanto non ha l’intelletto per scegliere in modo diverso, non ha libertà. Questa svolta
moderna verso il concetto di libertà avrebbe dovuto quindi porre fine all’antropomorfismo come
proiezione di caratteri umani, tanto in teologia quanto in zoologia. Gli animali parlanti, sapienti o astuti,
restano nel patrimonio mitologico dell’umanità, ma escono dalla sfera del sapere (almeno fino alla
teoria dell’evoluzione). (Avrebbe dovuto, ma vi è riuscita? questione aperta)

8
Robert Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle [1959], trad. it. di Maria Grazia Meriggi, Milano:
Rizzoli, 1983, p. 291, citando Glotz, La cité grècque, p. 275.
9
Edward Payson Evans, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals, New York: Dutton, 1906. Trad.
it. Animali al rogo: storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all'Ottocento, Milano: Res Gestae, 2012.

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