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TASCABILI

DELL’AMBIENTE

Stefano Carnazzi
100 DOMANDE SUL CIBO
MANUALE DI SOPRAVVIVENZA TRA IL SUPERMERCATO E LA TAVOLA

REALIZZAZIONE EDITORIALE
Edizioni Ambiente srl
www.edizioniambiente.it

COORDINAMENTO REDAZIONALE
Anna Satolli

PROGETTO GRAFICO: GrafCo3 Milano


IMMAGINE DI COPERTINA: igorkosh/Shutterstock

© 2009, Edizioni Ambiente


via Natale Battaglia 10, 20127 Milano
tel. 02 45487277, fax 02 45487333

ISBN 978-88-96238-19-6

Finito di stampare nel mese di ottobre 2009


presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Stampato in Italia - Printed in Italy


Questo libro è stampato su carta riciclata 100%
Stefano Carnazzi
100 DOMANDE
SUL CIBO
Manuale di sopravvivenza
tra il supermercato e la tavola

1. COS’È IL CIBO?
Gioia. Gola. Cultura, piacere, convivialità. Fecondo argomento di conversazione, serbatoio di
tradizioni. Sfida al supermercato, inviti al ristorante. Il cibo non è soltanto materia che transita nel
corpo. Ci permette di rimanere in vita e di compiere lavoro: crescere, muoversi, rinnovarsi. È la
fonte di energia della nostra esistenza, fucina di materiali con cui il nostro corpo si costruisce e si
ristruttura, fonte d’elementi protettivi per la salute.

Energia. Per svolgere qualunque lavoro, anche solo per rimanere in vita, occorre energia. Ed è il
cibo a fornirla. La si calcola in calorie, che indicano la capacità degli alimenti di sviluppare energia
che può essere utilizzata subito dall’organismo oppure messa da parte come sostanza di riserva
(sotto forma di grassi nei tessuti adiposi o di glicogeno nei muscoli e nel fegato). Tecnicamente una
caloria è la quantità di calore necessaria a innalzare la temperatura di 1 grammo d’acqua da 14,5 a
15,5 gradi. Le sostanze nutritive più caloriche sono i grassi (9 chilocalorie per grammo), seguono
carboidrati e proteine. Ma questa banale valutazione non basta, non serve a comprendere quanto un
cibo sia effettivamente “nutriente”. Il conto meccanico delle calorie indica solo la capacità
energetica del cibo ma non dice nulla sul valore nutritivo in termini di vitamine, sali minerali,
qualità delle proteine, funzionalità biologica, vitalità, gusto, piacevolezza, genuinità. È limitativo e
scorretto definire nutriente un cibo solo perché è molto calorico.

Struttura. Il cibo serve letteralmente a costruire il corpo, ossa, muscoli, tendini, e a rinnovarlo:
ovvero, soddisfa il fabbisogno plastico. Le sostanze necessarie alla costruzione e al continuo
rinnovamento dei tessuti sono moltissime, dalle proteine, di cui sono composti i muscoli, ai sali
minerali necessari per la struttura ossea, all’acqua.

Salute. Il cibo può avere una funzione protettiva e, con qualche accortezza, terapeutica. Fibre,
vitamine, sali minerali e migliaia di micronutrienti, abbondanti nei cibi più sani, contribuiscono in
modo decisivo alla vitalità, alla buona salute, alla giovinezza, a contrastare alcune malattie.

Purtroppo, però, non c’è mai tempo. Siamo stressati. L’inquinamento. Il marketing e la pubblicità, i
pregiudizi e le abitudini errate. Tutto interferisce con queste funzioni base dell’alimentazione. La
mancanza di tempo ci costringe a scelte frettolose e a consumi compulsivi. Lo stress cronico
surriscalda le nostre ghiandole surrenali distruggendo le capacità di rigenerazione. L’inquinamento
appesta i campi e la chimica s’insinua subdolamente in ogni piatto. Tattiche di marketing aggressive
stravolgono le nostre abitudini alimentari, lasciandoci in balìa di preconcetti errati. Gli strumenti a
nostra disposizione per ripristinare gli equilibri e compiere nuove scelte critiche, però, sono
numerosi.

Cominciamo a leggere. Dalle notizie di cronaca degli ultimi vent’anni alle righine microscopiche
degli ingredienti in etichetta, il cibo è una buona fonte di informazioni.

2. DI COSA CI SIAMO ACCORTI, DIECI ANNI FA?
Due ondate di “mucca pazza”, una di prosciutti e uova alla diossina, un’ecatombe di afta epizootica
in Inghilterra e in Cina, ritiri di monumentali quantità di hamburger in America, un paio di influenze
aviarie e una suina. Negli ultimi dieci anni il mondo è stato spazzato da scandali alimentari di
proporzioni mondiali che hanno scosso la nostra tranquillità, il nostro pacifico godimento delle
gioie della tavola. Il primo grande evento europeo s’è registrato nel 1999.

Polli, uova e prosciutti alla diossina. Abbiamo scoperto d’aver mangiato insalata di pollo condita
con olio di macchina usato. Lo scandalo ha inizio il 28 maggio 1999 quando il governo belga
diffonde una comunicazione sulla presenza di Pcb, precursore della diossina, in polli e uova.
C’erano stati precedenti in Usa (350 allevamenti di pollame chiusi nel 1997 per diossina nella
bentonite, additivo dei mangimi) e in Francia (nel 1998 alcuni inceneritori avevano inquinato i
pascoli del Nord del paese). Ma questa volta la contaminazione sembra non essere stata accidentale.
Il Pcb, policloruro bifenile, trovato in livelli pericolosi nei polli allevati in gabbia, le uova e anche
prosciutti provenienti dal Belgio, è un componente degli oli da motore, trasformatori, condensatori e
motori elettrici. Gli animali venivano foraggiati con mangimi contenenti oli minerali usati e residui
di carburanti.
I telegiornali hanno cominciato a mostrare le immagini delle orribili condizioni delle galline
allevate in batteria. Ci siamo trovati bombardati da notizie allarmanti e contraddittorie che hanno
provocato un crollo nel consumo della carne in genere e portato in primo piano il tema della
sicurezza alimentare. Dall’inizio dello scandalo a fine dicembre 1999 il Ministero della Sanità
italiano ha emanato ben 23 provvedimenti tra sequestri di polli vivi, carne e uova dal Belgio,
controlli e restrizioni estese a carni bovine e suine.
A seguito dello scandalo l’Unione Europea è stata nuovamente sollecitata a mettere al bando i
mangimi ottenuti dagli scarti della macellazione e dagli oli esausti. Nel contempo il Comitato
veterinario dell’Unione Europea nell’agosto 1999 decide di raddoppiare, da 100 a 200 nanogrammi
per grammo di grasso, la quantità di diossina consentita nei prodotti alimentari di origine animale.

Otto anni dopo… Arriva una notiziola nell’ottobre 2006. L’autorità belga dell’alimentazione, la
Vwa, trova livelli di diossina 25 volte superiori alla norma in una partita di strutto. La Profat TM,
l’azienda produttrice, si rifiuta di commentare. Secondo la stessa Vwa, “il materiale contaminato è
talmente poco da non costituire allarme diretto per la salute pubblica”.

La messa al bando di mangimi ottenuti da scarti della macellazione e oli esausti è andato a
regime nel 1994, ma, a quanto pare, non è bastato per impedire che si ripresentassero casi di
polli e uova alla diossina e di “mucca pazza”.

3. COS’È LA “MUCCA PAZZA”?
L’encefalopatia è una malattia che fa diventare il cervello come una spugna. L’interesse per queste
patologie causate da particelle proteiche infettive, i prioni, è esploso negli anni Novanta quando si
scoprì una nuova variante umana del morbo di Creutzfeldt-Jakob (nvCJD), e si giunse alla
conclusione che la nvCJD e l’encefalopatia spongiforme bovina (Bse) erano causate dallo stesso
prione. Ciò fece spaventare tutti, avvalorando l’ipotesi che mangiare carne potesse far ammalare,
ipotesi suffragata dalla coincidenza di tempo-luogo-malattia dell’epidemia e dalle caratteristiche
specifiche dell’agente patogeno.
Il rapporto governativo inglese Bse Inquiry, sintetizzato da Le Monde il 28 ottobre 2001, ricapitola
così la questione, per parole chiave: “Mortale – La Bse è causa di una malattia che contagia gli
esseri umani; nell’ora in cui questo rapporto è stato scritto oltre ottanta persone in Inghilterra, in
maggioranza giovani, sono morte o stanno morendo. Industria – È stato stroncato un intero settore
industriale, con grave danno di decine di migliaia di persone. Gli allevatori hanno visto uccidere
170 mila loro capi e altre migliaia in via precauzionale. Intensiva – La Bse ha assunto carattere
epidemico in seguito alla diffusione di una pratica zootecnica intensiva consistente nel riciclaggio di
proteine animali nell’alimentazione dei ruminanti. Questa pratica, non contestata per decine d’anni,
si è rivelata disastrosa. Rischio – Il caso solleva questioni sulla gestione del rischio, conosciuto per
il bestiame, sconosciuto per l’uomo. Variante – Dei casi di una nuova variante di Creutzfeldt-Jakob
si è occupata una commissione indipendente concludendo che l’esistenza di un legame con la Bse
era ragionevole. Il legame tra Bse e variante umana è ben stabilito, anche se le modalità di
trasmissione non sono chiare”. A far impazzire le mucche sono stati i prioni contenuti nei loro
mangimi, ricavati da animali ammalati.

Come ci sono finiti lì, i prioni? Da anni i manuali universitari di zootecnia avevano cominciato a
parlare dell’uso di farine animali come integratori dei mangimi. Da anni ossa, carnicci e scarti non
idonei al consumo umano diventavano mangime dopo aver transitato da diversi impianti di
trasformazione. Dopo anni in circolo, le proteine sono mutate. Sono diventate prioni. I bovini
ammalati di Bse sono rientrati nella catena alimentare, sia come carne sia come mangimi per altri
bovini. I primi casi tra le mucche pare si siano registrati in Gran Bretagna tra il 1989 e il 1994. Ma
nonostante l’embargo europeo imposto sulle carni inglesi “non cambia il menù apparecchiato dai
mangimifici per l’allevamento industriale – fa notare Marco Travaglio su L’Espresso – sangue, ossa,
zoccoli, peli, piume, interiora, animali morti, malati, malformati o inutili come i cavalli da corsa
dopo la selezione degli esemplari migliori, le pecore da lana ormai improduttive o le centinaia di
tonnellate di pulcini macinati giornalmente dalle grandi industrie dell’incubazione (i maschi delle
razze ovaiole e le femmine delle razze da carne vengono scartati) e persino gli escrementi del
pollame, ancora ricchi di elementi nutrizionali, frutta avariata e partite di cereali aggrediti da
parassiti o roditori e contaminati dagli escrementi di questi ultimi… anche i fanghi di depurazione
delle acque di scarico. S’ammanniscono ai bovini, che hanno un apparato digerente in grado di
metabolizzare la cellulosa, anche scarti come segatura, trucioli, giornali, imballaggi (appurato da
un’inchiesta governativa negli Stati Uniti)”. A ciò si sommano lo stato di forzosa immobilità degli
animali, gli ambienti in cui sono ammassati, il trattamento con estrogeni e anabolizzanti vari, i cicli
farmacologici ininterrotti. Ecco l’ambiente nel quale si è riprodotta la proteina incriminata.

Un nuovo embargo. Nel luglio 1997 una seconda ondata d’allarme spazza l’Europa. Si parla di
violazioni dell’embargo, di partite di carni inglesi infette che girano per il continente. I titolari delle
dieci aziende che producevano mangimi alle farine di carne vendendoli a migliaia di allevamenti
italiani vengono rinviati a giudizio per violazione della legge sui mangimi, la numero 281 del 1963.
Alcuni patteggiano, altri vanno a processo, ma per la depenalizzazione del 1999 i produttori
fuorilegge verranno assolti “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Imbottire le
mucche di potenziali agenti della Bse in Italia smette di essere reato. Alcuni poi vengono però
condannati per frode in commercio, e – dopo la scoperta del primo caso umano di “mucca pazza” –
incriminati per commercio di alimenti nocivi per la salute (fino a tre anni di galera).
L’11 gennaio 2000 un comitato scientifico nominato dalla Commissione europea, insediato per
valutare il rischio di contagio attraverso gli alimenti, presenta scenari inquietanti: se nel processo di
produzione industriale di salsicce, pâté, gelatine e ripieni fossero finiti solo 20 chilogrammi di
carne infetta, sarebbero esposte al rischio di contagio da 225 mila a un milione e 125 mila persone.
Secondo un’ipotesi suggerita dagli studiosi di altre encefalopatie umane come la Kuru, diffusa tra le
popolazioni indigene dedite a pratiche di cannibalismo, la nvCJD potrebbe avere un periodo di
incubazione di quarant’anni.

Non si è raggiunta una spiegazione unanime sulla diffusione della Bse. Non si è raggiunta
certezza sul collegamento con la variante umana, il morbo di Creutzfeldt-Jakob. L’unica
certezza è che alle mucche, animali notoriamente erbivori, sono state date da mangiare, per
anni, altre mucche, alcune delle quali malate.

4. QUANTO CI È COSTATA LA “MUCCA PAZZA”?
La prima a essere scoperta è stata la Mucca 103 della Cascina Malpensata di Pontevico, in
provincia di Brescia. Nel gennaio 2001, l’orgoglio dell’italianità fino ad allora esibito da allevatori
e politici si tramuta in un tremore simile a quello che colpisce le mucche malate. Perché poi di
mucche ammalate di Bse se ne sono scoperte parecchie. Una mucca ogni diecimila è stata trovata
positiva dall’Istituto zooprofilattico sperimentale di Torino al test per l’encefalopatia spongiforme
bovina durante i controlli del 2002.
Non poche, considerando che sono otto milioni quelle che finiscono in tavola ogni anno. Di fronte
alle cifre enormi di animali, l’allora ministro Umberto Veronesi ha provato a fare il punto: “nel
Regno Unito, 180.500 casi di Bse bovina e 88 casi umani; in Francia, rispettivamente 233 e 3; in
Irlanda, 487 e 1. In Inghilterra ci sono stati oltre 180 mila casi di ‘mucca pazza’ contro 88 morti
umane. Questo nonostante il fatto che tutti gli inglesi, nel periodo peggiore dell’epidemia animale, si
siano alimentati con carni infette. La misura del rischio è un caso su un milione”. Il 27 marzo, con
un’ordinanza firmata dal ministro della Sanità, l’incubo dei macellai fiorentini diventa realtà. La
carne con l’osso viene bandita dal primo aprile al 31 dicembre, in applicazione a una direttiva
europea.

Il conto, prego. Dopo che nel febbraio 2002 viene reso noto il primo caso di malattia umana
(vittima una giovane donna di Catania) si comincia a parlare di un “ticket” sulla carne. Polemiche,
contrasti, e alla fine, il 20 marzo, le Camere danno il via libera al decreto sull’emergenza “mucca
pazza” per finanziare le misure d’indennizzo degli allevamenti colpiti dal morbo e di ritiro del
materiale di scarto. Quattrocento miliardi di vecchie lire la spesa prevista.
L’Agea, azienda di intervento pubblico sui mercati agricoli, spende i 400 miliardi per comprare
direttamente dalle ditte produttrici e incenerire farine animali. Seicentomila tonnellate di farine
animali bruciate in inceneritori e cementifici. Il governo ha dovuto mettere in bilancio altri miliardi
per finanziare nuovi controlli. Nel nostro paese si consumano circa 18 milioni di tonnellate di
mangime all’anno, cosa che rende impraticabili i controlli a tappeto: chi può apprestare e garantire
la tenuta di un sistema di controllo per cui i costi pubblici sarebbero elevatissimi? Centinaia di
miliardi di vecchie lire da aggiungere a quelli già andati in fumo per test rapidi e controlli anti Bse,
smaltimento delle farine animali, abbattimento delle mucche e finanziamenti agli allevatori in crisi.
Il ministro Gianni Alemanno, nel frattempo subentrato, vara infine un ultimo piano in cinque punti da
altri 300 miliardi di lire per uscire dall’emergenza, destinato soprattutto alla risoluzione dei
problemi legati all’emergenza Bse e allo smaltimento delle parti a rischio: anagrafe zootecnica, una
banca dati con tutte le informazioni sull’animale (come è stato allevato e cosa ha mangiato), un
sistema ramificato di controlli con tre nuclei specializzati dei Carabinieri (Noe, i Nac e i Nas) e il
rafforzamento dell’Ispettorato centrale repressione frodi. In Italia a causa della “mucca pazza” s’è
fatta un’ecatombe di 200 mila capi, i cui costi – non è certa la cifra precisa – sono stati coperti
anche dalla Comunità europea.

In Europa. Gli allevatori inglesi, fiaccati dalle ondate di “mucca pazza” prima, dall’apocalittica
afta epizootica (ricordate le terribili immagini dei roghi di migliaia e migliaia di animali nelle
campagne inglesi, dell’estate 2001?) e ostacolati dalle più rigide misure di controllo, subiscono
ritiri da tutti i mercati europei.
La Francia, nonostante una pronuncia avversa della Corte di Giustizia, mantiene a oltranza
l’embargo contro carni provenienti dall’Inghilterra, ritenendole “non sicure”.
La Germania è stata autorizzata dall’Ue a erogare agli allevatori della Nord Westfalia forti sussidi
economici “riconoscendo l’eccezionalità della crisi del mercato della carne”.
In Belgio i consumatori di carne si vedono caricare sulle spalle i costi necessari per i test che
individuano il morbo della “mucca pazza” nei bovini. La disposizione prevedeva un’imposta sulle
carcasse dei bovini, compresi i vitelli, da percepire al macello con aumenti del prezzo della carne
bovina.
Anche il Portogallo piomba a metà marzo 2002 nel “Gruppo IV” delle zone ad alto rischio
geografico di contaminazione da Bse, dopo un’impennata del numero dei bovini infetti nel 2001. Tra
l’altro, cosa inquietante, lì ben 77 animali infetti erano nati tra il 1994 e il 1997, cioè dopo la messa
al bando di farine di pesce e bovine per i mangimi.

I transiti transfrontalieri di carne a livello mondiale, dopo la “mucca pazza”, sono calati
complessivamente di un terzo. Miliardi di tonnellate di carne in meno in giro per il mondo.
5. COS’È L’INFLUENZA AVIARIA?
Una sera del dicembre 2005 si leggono in tv, a pagina 101 di un media text di un’emittente
nazionale, i seguenti titoli, nell’ordine:

Influenza aviaria, nuovi focolai;


Influenza aviaria, virus per via respiratoria;
Influenza aviaria, casi sospetti in Turchia;
Influenza, a rischio 6 milioni di italiani.


Si strillano dati riguardanti una pandemia aviaria, rilanciando nella stessa cornice, con lo stesso
peso, un’informazione banale e routinaria come le stime del numero di italiani a cui sarebbe venuto
il raffreddore. È una delle trappole in cui sono caduti i media, amplificando allarmi e confusioni tra
l’influenza aviaria da virus H5N1 e la normale, ricorrente influenza stagionale, spingendo così a
un’impennata nel consumo di vaccini.

È solo l’ultima di una serie di falsificazioni. La variante umana del virus dell’influenza aviaria non
ha mai lambito noi europei, ma la sua paura sì, eccome, non appena s’è saputo delle vittime nel
Sudest asiatico. Ma noi viviamo qui, in Italia. I regimi alimentari e le condizioni igieniche medie nei
paesi occidentali fanno sì che il nostro organismo sia inattaccabile da agenti patogeni che al
contrario, in aree depresse del Sud del mondo, sono temibilissimi (lo spaventoso virus Ebola, causa
di sanguinose falcidie in Africa, non è mai nemmeno approdato sulle coste europee). Quando invece
per esempio, in piena influenza aviaria, un paio di gatti in Austria cominciano a starnutire, per un
pelo non si apre anche una caccia al gatto nazionale. “Nessun aumentato pericolo – rassicura il
microbiologo Michele La Placa dell’Università di Bologna – il contagio di un gatto con il virus
H5N1 non rappresenta un segnale di rischio per la salute umana”. Poi i tre gatti, inizialmente
portatori del virus H5N1, guariscono. Come riferito da un portavoce dell’Agenzia per la sicurezza
alimentare austriaca “sono stati contagiati dopo un contatto con degli uccelli, ma il loro organismo
se n’è sbarazzato”. E gli uomini? “Ci possiamo ammalare di aviaria solo in cinque modi – chiosa
dalle colonne de L’Espresso Michele Serra – 1. Leccare un cigno morto; 2. Andare appositamente in
Asia e rotolarsi nudi nella cacca di pollo per un’ora; 3. Inghiottire al volo un tordo crudo; 4. Pulire
con la lingua un cornicione imbrattato dai piccioni; 5. limonare con un barbagianni”.

Allarme commerciale. È l’immunologo Attilio Speciani a suggerire per primo ai microfoni di


LifeGate Radio che “l’aviaria è un’emergenza commerciale. Non sanitaria”. Tra gennaio e settembre
2005 le vendite del farmaco usato per contrastare l’influenza aviaria hanno toccato gli 859 milioni
di franchi svizzeri, pari a 554 milioni di euro. Nei nove mesi dell’emergenza il fatturato del gruppo
svizzero produttore dell’antivirale è cresciuto del 16%, raggiungendo 16,5 miliardi di euro. Le
vendite della divisione farmaceutica sono aumentate del 20%, portandosi a 19,43 miliardi di
franchi.

L’allarme per gli uomini s’è rivelato totalmente sovradimensionato. Non così per gli uccelli. Ne
ha colpiti centinaia di milioni, a partire dal 2003, dall’Asia alla Russia fino alla Turchia, e da qui
nel resto del continente. I polli e i tacchini di centinaia di allevamenti italiani sono stati uccisi e i
loro corpi inceneriti. Andavano a prendere i tacchini per il collo, bardati con scafandri da
guerra batteriologica, per portarli nelle camere a gas. A contribuire ad allontanare i nostri
connazionali dai banchi del pollame anche le immagini televisive con animali morti, con la loro
soppressione. Ma anche gli 80 mila polli e le 7.000 uova sequestrati dai Carabinieri del Nas di
Napoli in Calabria e Sicilia. E quanto la paura abbia attecchito lo ha detto una rilevazione di
Eurobarometro del febbraio 2006 secondo cui l’83% degli italiani erano preoccupati
dall’insorgere dell’influenza aviaria. La nuova reazione emotiva dei mercati ha più che
dimezzato i consumi di carne di pollo per un anno.

6. L’INFLUENZA, CHE C’ENTRA COL CIBO?
L’influenza aviaria è divampata nel 2005, ma c’erano tanti, tanti focolai, tutt’attorno.

Sars. Chiusura degli aeroporti, impossibilità di viaggiare liberamente in tutta l’Asia e di coordinare
direttamente il lavoro che normalmente là veniva svolto… “Dopo i pericoli per gli esseri umani, la
Sars è una minaccia per il nostro stile di vita, il benessere diffuso, il consumismo di massa”,
scriveva Federico Rampini, inviato di Repubblica, nel 2003. Sars (Severe Acute Respiratory
Syndrome) è una forma atipica di polmonite apparsa per la prima volta nel novembre 2002 nella
provincia del Guangdong (Canton) in Cina. Tutto è iniziato da lì. È stato riferito che il primo caso
s’è registrato a Shunde, un allevatore finito al Primo ospedale del popolo di Foshan. Il paziente
poco dopo è morto. La Sars si è diffusa in altri paesi per via di viaggi internazionali di individui
infetti. Una malattia mortale dal 7 al 15% dei casi in cui ha completato il suo corso.
Si ritiene che il virus della Sars fosse originariamente un virus animale che ha attraversato la
barriera della specie per infettare l’uomo. Sembra che l’animale dal quale il virus proveniva fosse
lo zibetto, un piccolo mammifero simile a un gatto, dal muso allungato e spesso appuntito, come
quello di una lontra. Gli zibetti e altri animali simili costituiscono delle pietanze abbastanza
frequenti nei ristoranti in cui si serve selvaggina, e vengono spesso macellati nei mercati di animali
vivi della Cina meridionale. Non appena è stato stabilito questo collegamento, nel 2004, sono stati
abbattuti circa 10 mila zibetti, insieme ad altri animali sospettati di Sars, come tassi e procioni.

Febbre suina. L’allarme più recente sull’epidemia del 2009 di influenza o febbre suina che colpisce
anche gli esseri umani poteva indurre a una contrazione dei consumi di carne di maiale. Il Ministero
del Welfare italiano, come del resto tutti gli esperti e l’Organizzazione mondiale della sanità, sono
stati concordi nel dire che il virus H1N1, responsabile dell’epidemia in Messico, non si trasmette
consumando carne di maiale. La trasmissione della malattia non avviene per via alimentare, ma
attraverso il contagio tra esseri viventi.

Sars, influenza aviaria e febbre suina nascono e si sviluppano nei settori degli allevamenti
animali, nelle condizioni igieniche endemiche in cui si ritrovano i paesi del Terzo mondo.
7. COSA HANNO IN COMUNE TUTTI GLI ULTIMI ALLARMI ALIMENTARI MONDIALI?
Dopo lo scoppio dell’ennesima epidemia di matrice animale, non ci si può non accorgere che “il
problema esiste e la nuova epidemia, dopo la sindrome della ‘mucca pazza’ e l’aviaria, tira in ballo
di nuovo la questione del benessere dell’animale” cerca di sottolineare Silvio Barbero in un
comunicato di Slow Food Italia. “Molti studiosi sospettano uno stretto legame tra il metodo di
allevamento industriale, dove gli animali vivono ammassati l’uno contro l’altro in condizioni che
poco hanno a che fare con la vita naturale, e la febbre suina. Sembra molto probabile infatti che il
contagio, ma soprattutto la mutazione dei virus siano più facili dove vi sia una grande
concentrazione di animali come può avvenire negli allevamenti industriali, dove gli esemplari sono
sottoposti a stress e a continui trattamenti terapeutici, per cui si generano le condizioni migliori per
la trasformazione dell’agente virale”.

Nuovi pericoli. A conforto di questa posizione un nuovo studio della Soil Association del 2009
suggerisce che l’uso eccessivo di antibiotici potrebbe essere un fattore importante nella creazione di
agenti patogeni super-resistenti agli antibiotici. Si sono riscontrati ceppi di batteri resistenti proprio
nelle grandi aziende agricole che allevano suini.

Tutti i più spaventosi e costosi allarmi alimentari internazionali degli ultimi dieci anni:

hanno riguardato animali e prodotti animali;


hanno causato danni economici miliardari e durature contrazioni
dei consumi, nonché un’irreparabile perdita di fiducia e serenità
nell’acquisto;
hanno avuto origine o sono stati aggravati dal sistema di
allevamento intensivo.
8. COME SI DISTINGUE UN FALSO ALLARME DA UNO VERO?
Accanto a queste enormi deflagrazioni causate da storture strutturali del sistema produttivo e
commerciale mondiale, di volta in volta abbiamo anche assistito a tanti diversi scoppiettii di
disturbo.
C’è un pentolone di informazioni, che ribolle e borbotta. Siamo obbligati a nutrirci quotidianamente,
per forza; qualcosa dobbiamo pur sempre mettere sotto i denti. Ma non abbiamo, né noi né i media,
tutti gli strumenti di conoscenza scientifica per decodificare e inquadrare correttamente notizie e
ricerche (i paroloni fanno paura); e, a causa di “mucca pazza” & Co., abbiamo le papille gustative e
i nervi tesi. Tutto ciò costituisce un cocktail esplosivo che ci predispone a reagire con allarme
spropositato a notizie che meriterebbero un’enfasi molto minore.

Anche nella casistica delle bufale sono rintracciabili elementi comuni. Simili falsi allarmi
potrebbero essere riconoscibili per la presenza di tratti di cronaca comuni:

riguardano comparti produttivi specifici e categorie produttive


molto cir-coscritte;
sembrano campagne diffamatorie orchestrate; le perdite
commerciali o d’immagine di quel comparto procurano vantaggio
ad altri;
si esauriscono nel giro di poche settimane, un mese o due al
massimo.

9. I CARTONI DELLA PIZZA SONO VELENOSI?
“Un milione e trecentomila pizze al giorno escono dal forno, entrano in un astuccio di cartone,
pronte per essere portate a casa. Vi restano per molti minuti, il tempo di essere trasportate a
destinazione, e, una volta giunte, di essere mangiate nello stesso contenitore. Sempre che non
finiscano nei forni di casa per essere riscaldate, sempre negli stessi cartoni, prima di finire in
tavola. Un rito, un piacere collettivo per molte famiglie italiane ma, secondo quanto ha scoperto Il
Salvagente, anche una fonte di pericolo alimentare non sottovalutabile”.

L’inchiesta giornalistica. Così s’apre l’articolo pubblicato dal settimanale Il Salvagente nell’aprile
2006, che attraverso due studi specialistici rileva la presenza di sostanze indesiderabili per la salute
umana nei cartoni per la pizza da asporto. Benzene, naftalene, ftalati, fenoli e Dibp. Sostanze che
passerebbero dal cartone alla pizza attraverso il calore di quest’ultima, che deriverebbero – dicono
gli esperti – da collanti e sbiancanti usati per far assomigliare la carta riciclata a quella vergine.
Secondo le analisi condotte nei Laboratori di ricerche analitiche alimenti e ambiente dell’Università
degli studi di Milano, analizzando diversi contenitori di materiale cellulosico destinati al trasporto
di pizza sarebbe stata identificata la presenza di una sostanza (il di-isobutilftalato) “in quantità
altamente preponderante rispetto a tutti gli altri componenti della frazione volatile evidenziabile [...]
già alla temperatura di 60 °C [...] simulante la condizione meno drastica di stoccaggio della pizza in
fase di ‘home delivery’”. La direttiva 2004/14/Ce non contempla questa sostanza tra quelle ammesse
per la fabbricazione di contenitori di cartone destinati a venire a contatto con gli alimenti.

In realtà, l’aggettivo “preponderante” si riferisce agli altri elementi volatili, tutti presenti in
quantità pressoché imponderabili. Essendo questi elementi, appunto, volatili, essi si
volatilizzano in breve tempo. Si tratta di sostanze onnipresenti nelle lavorazioni industriali,
dagli interni dell’auto (in cui viviamo diverse ore al giorno) ai mobili della camera da letto. Non
sono certo i cartoni della pizza a costituirne la prima fonte d’esposizione umana. Il fatto che si
tratti di rilevazioni sporadiche conferma la relativa innocuità di quest’allarme. E soprattutto:
nessun test è stato condotto... sulle pizze!

10. LE PADELLE ANTIADERENTI FANNO MALE?
Nel 2006 le nostre paure sono state fomentate da un altro allarme. Si tratta ancora di veleni, per
puntualizzare una cosa che desta sempre la nostra attenzione, soprattutto quando si parla di cucina.
L’Epa, l’agenzia di protezione ambientale americana afferma che anche livelli molto bassi di una
sostanza chimica usata per produrre il Teflon™ “potrebbero comportare un rischio per la salute”.
Da qui, la semplice (semplicistica) associazione d’idee tra le nostre padelle e il “veleno” che
potrebbe impregnare la nostra frittata.

Si usa negli stabilimenti. Ebbene, si sa da anni che l’acido perfluorottanoico, o Pfoa, ha effetti
negativi sulla salute ed è inquinante (è una sostanza Pop, Persistent Organic Pollutant, estremamente
persistente nell’ambiente e rigidamente limitata dal Trattato di Johannesburg del 2000. Per capirci,
in compagnia di Ddt, diossine e Pcb, fino agli spaventosi policloro-dibenzo-P-diossine – Pcdd,
dibenzofurani – Pcdf e Pcb coplanari – Co-Pcb, usati per decenni in agricoltura). Però, non si tratta
del Teflon™.

Si tratta di una delle molte sostanze impiegate industrialmente nel corso della lavorazione, negli
stabilimenti.
Tutt’al più alcuni micrometrici residui potrebbero forse liberarsi dalle padelle nuove ad alte cotture,
tra i 200 °C e i 350 °C, difficilmente raggiungibili su un normale piano cottura domestico.
Comunque rimane un composto usato a monte, non un componente delle padelle, che quindi non
possono rilasciarlo.

Resta buona norma buttare – nelle isole ecologiche di ogni Comune – le padelle antiaderenti
usurate, e scegliere quelle più resistenti, durature e di qualità garantita.

11. PATATINE E SNACK CON L’ACRILAMIDE SONO CANCEROGENI?
“Una sostanza cancerogena si nasconde tra patatine fritte e snack, l’acrilamide”. Cominciano così gli
articoli pubblicati nel 2002 e basati su uno studio finanziato dall’Organizzazione mondiale della
sanità. Secondo questo studio francese un ragazzino che mangia un sacchetto di patatine industriali
da 25 grammi assorbirebbe oltre 21 microgrammi di acrilamide, quantità ottanta volte superiore alla
dose giornaliera consentita (l’Oms indicava in 0,013 microgrammi per chilo di peso corporeo la
dose limite).

Da dove nasce. L’acrilamide si sviluppa dalla cottura degli amidi, in presenza di particolari
aminoacidi e di particolari zuccheri. Uno degli ingredienti che scatena la reazione, in
compartecipazione con gli zuccheri tipo il glucosio, è l’asparagina, presente in gran quantità nelle
patate, nella farina di grano e nella segale. Il laboratorio della Camera di commercio di Torino
analizza diciassette confezioni di patatine, cornflakes, chips e fette biscottate e i risultati sono
sproporzionatamente allarmanti: patatine e chips superano di migliaia di volte il tetto previsto nel
nostro paese (0,1 microgrammi al chilogrammo). Una confezione “media” (attorno ai 90 grammi) di
patate fritte da fast food, per esempio, contiene circa 50 microgrammi di acrilamide, 500 volte più
del limite. Un “tubo” da 100 grammi di patatine confezionata arriva a 160 microgrammi.

Alcuni studi successivi hanno smentito la pericolosità di questa sostanza. Ma non è solo questo il
punto.

Il fatto che l’acrilamide sia forse causa di tumori nei topi da laboratorio non è la dimostrazione
che questa sostanza possa causare tumori negli esseri umani. Il famigerato acrilamide si forma,
in cottura, a 200 °C, temperatura che quando si tocca raramente si mantiene con le cotture
domestiche. E infine, che la crosta bruciata dei prodotti da forno, della griglia o delle fritture
non fosse salubre, oltreché d’un saporaccio immangiabile, lo sapevano già tutti.

12. L’ALLARME BUFALA ERA UN’ALTRA BUFALA?
Nel marzo 2008, nell’ambito di controlli di routine, emerge che in alcuni campioni di mozzarella di
bufala si riscontrano tracce di diossina superiori alla norma. La bufera scatenatasi è stata
sorprendente. Da anni nel Mezzogiorno si registrano episodi simili, abbastanza ben monitorati, ma
stavolta succede qualcosa di inedito.
La Cina decide di chiudere temporaneamente le frontiere alle importazioni di mozzarella di bufala.

La notizia fa il giro del mondo. Giappone e Corea del Sud seguono a ruota. Una cosa senza
precedenti. L’unica spiegazione a una mossa così drastica e sproporzionata è la psicosi che nel
contempo s’era sviluppata in Cina: il latte alla melamina stava esponendo milioni di cinesi, bambini
compresi, a seri rischi d’avvelenamento. I cinesi hanno avvelenato deliberatamente il loro latte,
mentre per un’ombra di sospetto mettono in ginocchio un comparto essenzialmente sano e basato
sulla tradizione dall’altra parte del mondo.
In Italia la reazione è stata quella di predisporre nuove analisi: hanno trovato tracce di diossina
superiori alla media in 39 campioni su 387, entro i limiti l’85,6% dei test. Il rischio alla salute,
ovviamente, c’è, ma non tale da giustificare un picco di emergenza rispetto alla qualità media delle
produzioni alimentari negli ultimi anni.

A fine aprile 2008, i ministri uscenti della Sanità Livia Turco e delle Politiche agricole Paolo De
Castro illustrano i risultati dei controlli, a Roma, facendo passare tra i banchi vassoi pieni di
fresche e invitanti fettone di mozzarella di bufala.



13. DA LUNEDÌ A DIETA?
Dieta. Una parola che fa schizzare in alto le vendite. Le vendite di pillole, di libri e di click sui siti
Internet. Peccato che l’inventore della dieta Atkins sia morto obeso e per infarto cardiocircolatorio.
La dieta low carb causa scompensi fisiologici. Da un punto di vista nutrizionale, la dieta di Beverly
Hills è totalmente sbilanciata, è tollerabile solo per un brevissimo periodo ed è diseducativa. Un
pod di Current Tv ha ripreso le sofferenze di una volontaria che s’è sottoposta, rischiando gravi
carenze nutrinazionali, alla dieta del limone della cantante Beyoncé. Il nome della dieta di South
Beach è stato scelto in una gara di creatività all’interno della casa editrice americana che poi ha
venduto milioni di copie di quel libro. Questo non vuol dire che qualunque assertore di una nuova
dieta sia sempre un cialtrone. Ma mai deve essere cialtronesco e disattento l’avvicinamento a un
regime alimentare differente, che al contrario deve avvenire con cautela. Troppo delicato
l’argomento per essere trattato con leggerezza. Troppo fragili i meccanismi interiori che queste
scelte vanno a toccare. Vitali.

Cosa non fare. Non tuffarsi immediatamente nel libro più colorato o nel prodotto più intensamente
pubblicizzato. Le pubblicità molto intense e di breve durata sono spia di inaffidabilità o di
insulsaggine. Diffidare delle diete made in Usa: su questo davvero gli americani non possono
pretendere d’avere alcunché da insegnarci.

Cosa fare. Verificare con un parere medico, meglio poi con un secondo parere, l’opportunità di
scegliere un diverso regime alimentare. Attuare controlli incrociati tra diverse fonti d’informazione
sulla sostanziale coerenza dei messaggi. Distinguere con attenzione se ciò che ci interessa è una
dieta, che raduna tabelline di marcia estemporanee, o un metodo, un approccio, che invece
identificano sistemi di elementi interdipendenti di consapevolezza. Linee guida, non (solo) ricette.
Informazioni, non tabelline precompilate. Differentemente dalle diete, diversi nuovi approcci
dietetici sono stati costruiti basandosi su competenze affidabili: riassumono conoscenze scientifiche
rendendole disponibili al fruitore e traducendole in indicazioni da lui interpretabili. Sono completi,
affidabili, esaustivi.
La dieta si comincia il lunedì. Un metodo no: un approccio, uno schema riferentesi alle conoscenze
alimentari non si comincia, semmai lo si studia, lo si analizza e lo si applica modellandolo sulle
proprie personali caratteristiche, le esigenze fisiche e sociali, i ritmi e le capacità; ogni giorno da lì
in poi.
La dieta è una rinuncia, una deprivazione e ha toni e contenuti punitivi, può nuocere alla salute e
intaccare la vitalità. Il metodo è una scelta positiva, volitiva e costruttiva che accresce e arricchisce
l’organismo, ne migliora la salute e i complessi equilibri.
La dieta, quando la si smette, spesso porta a ingrassare nuovamente. Un metodo o un approccio, in
quanto dispensatore di indicazioni culturali, non si smette mai, ma se ne serbano gli elementi per
impiegarli nella costruzione del proprio regime da lì in poi. Il metodo Kousmine, la dieta a Zona e
l’approccio Gift, tra i più noti ed efficaci schemi alimentari, confermano queste indicazioni e
rientrano in pieno in queste caratteristiche.

L’energia vitale, l’entusiasmo, la gratificazione, il gusto del mangiare sono naturali. La


privazione, la rinuncia, la punizione, i calcoli ossessivi delle calorie, no. Ricercare la dimensione
della gioia al momento del pasto, ricominciando ad ascoltare i più autentici stimoli del nostro
corpo, conduce a un equilibrio sano per la mente, la salute e la linea. Ritrovato il regime più
armonico per il corpo, “uno strappo alla regola” non sarà più un delitto.

14. ADDITIVI, COLORANTI, AROMI… CE N’È SOLO UN PIZZICO, CHE MALE FARANNO?
“L’omeopatia è acqua fresca”. La boutade di Silvio Garattini, alfiere della farmacologia italiana, si
riferisce a un atteggiamento alquanto diffuso nella cerchia dei medici, specie i più reazionari.

L’omeopatia nasce ufficialmente agli inizi dell’Ottocento per opera del medico tedesco Christian
Friedrich Samuel Hahnemann. È un approccio medico che utilizza principi attivi in dosi
infinitesimali con l’obiettivo di rinforzare l’organismo e farlo reagire.

Diluizione omeopatica. Secondo il principio della legge dei simili (noto già dai tempi di Ippocrate:
“i simili si curino con i simili”) una sostanza che a certi dosaggi è in grado di provocare in soggetti
sani la comparsa di sintomi è anche in grado di farli regredire se prescritta a dosi infinitesimali. Un
principio rivoluzionario per la nostra mentalità.
Secondo un’indagine Istat diffusa a fine agosto 2007 il 52% degli italiani si definisce tuttora
“scettico” verso le medicine non convenzionali, mentre l’Apo Italia (Associazione pazienti
omeopatici) ribatte che – stando ai dati Doxa – sono quattordici milioni circa (erano undici nel
2005) il totale dei pazienti che utilizzano i rimedi omeopatici. Quindi, in crescita.

Prove d’efficicacia medica. Intanto sono cominciate ad affiorare prove scientifiche sull’efficacia
dei rimedi omeopatici. La più ampia indagine finora condotta, presentata al 23° Congresso di
Omeopatia, omotossicologia e medicina biologica di Milano e Roma nel 2008 (Evidenze
scientifiche dell’efficacia di omeopatia-omotossicologia) raccoglie circa 2.000 studi reperiti nei
database a livello internazionale; per ottenere la sicurezza scientifica sono stati superselezionati 192
lavori. Di questi, 145 (3 su 4) dimostrano che il farmaco omeopatico è sempre superiore al placebo.
Gli altri 41 lavori riguardano il confronto farmaco omeopatico versus farmaco allopatico
corrispondente: quindi, ad esempio, se l’omeopatia propone un antinfiammatorio, lo si è confrontato
con il migliore degli antinfiammatori che esiste in commercio. Anche in questo caso c’è una quota
altissima di risultati positivi. Si può dire non solo che il farmaco omeopatico non è un placebo e ha
un’intrinseca potenzialità terapeutica, ma anche che è uguale o superiore al farmaco allopatico
corrispondente di riferimento.

Ciò significa che il nostro organismo sa reagire anche a dosi infinitesimali di sostanze, a una
diluizione omeopatica (in dimensioni molecolari equivalenti a una goccia in un lago). E il nostro
organismo risponde. Ma quando però il granulino non è di zucchero, bensì di E310?



15. COSA SONO GLI ADDITIVI?
È grazie a loro che i cibi in vendita al supermercato e nei negozi durano più a lungo, sono più
soffici, più gustosi, più rosei e invitanti. Però spesso sono sostanze di sintesi, non presenti in natura,
e sollevano inquietudini e perplessità.

Coloranti, conservanti & Co. Sono circa 400 le sostanze che possiamo trovarci nel piatto senza
saperlo, celate dalle sigle dei “codici E”. La legge li definisce come sostanze naturali o sintetiche
che “si aggiungono intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico”, per favorirne la
conservazione o per renderli più appetibili, modificandone e migliorandone aspetto, sapore, odore,
consistenza, tempo di conservazione. Sono classificati come coloranti (E100-E197), conservanti
(E200-E290), antiossidanti (E296-E321), regolatori di acidità (E325-385), addensanti,
emulsionanti, stabilizzanti (E400-E416), additivi vari, cellulose, esaltatori di sapidità, edulcoranti
(dolcificanti naturali e sintetici). In genere si trovano tra gli ingredienti dopo aver rivoltato qua e là
la confezione, aguzzato la vista, guardato con la lente d’ingrandimento tra le pieghe della confezione
le righine in carattere microscopico.
Si possono usare solo gli additivi autorizzati contenuti in una “lista positiva” (quelli non autorizzati
sono comunque vietati, contrariamente a ciò che accade in Usa), dall’E100 (curcumina, colorante
giallo) all’E1520 (propilene glicolo). I buchi nella numerazione sono dovuti ai codici non ancora
assegnati e agli additivi ritirati dal commercio perché considerati non sicuri (E103, E105, E111...) o
perché superati.

Sicurezza e bugie. Fino a qualche anno fa la commissione congiunta d’esperti Fao-Oms (Jecfa), e
ora l’Efsa (European Food Safety Authority), stilano e aggiornano un rapporto di valutazione degli
additivi, contaminanti e residui di farmaci nel cibo. L’uso (ed eventualmente l’abuso) della chimica
nel piatto è monitorato. Ma una garanzia assoluta è irraggiungibile. Saltano fuori in continuazione
additivi fino a ieri considerati sicuri di cui invece si rivedono le dosi massime o se ne ritira
l’autorizzazione, l’ultimo dei quali, nel 2007, il Rosso G2, colorante di origine industriale utilizzato
per prodotti quali salsicce e hamburger: per l’Efsa “desta potenziali timori per la salute”.
Non è valutabile, inoltre, l’interazione tra un additivo e un altro composto chimico, presente nello
stesso alimento o assunto nel corso dello stesso pranzo; è difficilmente prevedibile anche la loro
reazione durante l’esposizione alle temperature di cottura. Le prove tossicologiche, obbligatorie
prima dell’immissione in commercio, si svolgono prevalentemente su animali, e nell’arco di uno o
due anni: non possono simulare un’assunzione protratta magari per dieci anni.
Non sempre la sola ricerca di laboratorio dà risposte definitive. Da anni sono in corso dibattiti sul
glutammato monosodico, “esaltatore di sapidità” onnipresente nei cibi preparati. Una polverina
bianca presente in natura, ma nelle dosi decuple in cui lo assumiamo è imputato di “sindrome da
ristorante cinese” e neurotossicità, mal di testa, nausee, disturbi del sonno. Da anni sono in corso
dibattiti sugli edulcoranti, ovvero i dolcificanti artificiali. Da anni sono in corso dibattiti
sull’iperattività infantile: scompensi neurologici e difficoltà d’apprendimento nei bambini sono stati
spesso collegati all’assunzione di dosi troppo alte di taluni additivi. Si stenta ad addivenire a
risultati condivisi.
I sospetti sono invece più che accertati per nitrati, nitriti e ciclammato, cancerogeni non in sé, ma in
relazione con altre sostanze presenti nell’organismo, diffuse nell’ambiente o formatesi durante la
cottura (gli idrocarburi policiclici aromatici). Vengono tuttavia consentiti in virtù di una valutazione
danni/benefici. Certo, se il beneficio è impedire le tossine botuliniche è un conto. Se è preservare il
colorito rosso delle carni, è un altro… Infine, c’è tutta una categoria di additivi che si possono
chiamare “bugiardi”. Addensanti, gomme (agar-agar, carragenine, farina di semi di guar) e alginati
vengono usati in conserve di carne e pesce, salse, torte e dolciumi anche in dosi massicce per
mascherare lacune nella qualità delle materie prime, nella pasta, nella lievitazione, nella consistenza
dell’alimento. Rischiamo di mangiare sottilette senza formaggio? Quasi, a giudicare dalla lista
d’ingredienti di questo formaggio filante francese: “Proteine del latte e lattosio reidratati, burro, sali
di fusione E339, E452 (polifosfati), E331, E450 (altri polifosfati), E341 (ortofosfato di sodio),
formaggi, sale di cucina, addensanti E407, E410, E415 (carragenani, gomma, gomma xanthano)”.
Teniamo presente che gli ingredienti sono indicati in ordine decrescente di peso.

Dodici chilogrammi è la quantità di additivi ingerita annualmente da ognuno di noi (aromi,


conservanti, ma soprattutto emulsionanti, addensanti, gomme e cellulose; fonte Adria) di cui 4
chilogrammi annui pro capite solo da bevande e soft drink (BCC-Busines Communication
Company).

16. I CONSERVANTI SONO INEVITABILI?
In futuro si useranno sempre meno additivi chimici, sempre di più nuove tecnologie per la
lavorazione e la conservazione dei cibi. Esistono già delle tecniche di stabilizzazione (per la
conservazione dei cibi) alternative ai trattamenti termici come la pastorizzazione. Si tratta, in
generale, di tecniche “a freddo” nelle quali il minor danno termico ai prodotti trattati produce un
miglioramento qualitativo. Molte di queste sono ancora a livello sperimentale, mentre altre, seppure
approfonditamente studiate, non sono apprezzate dai consumatori (per esempio le radiazioni).

Pressioni elevate. Si può guardare con estremo interesse al trattamento dei prodotti alimentari con
pressioni elevate. La tecnica delle pressioni elevate è stata e continua a essere impiegata nella
produzione di ceramica, acciaio e superleghe. Sebbene i primi lavori sugli effetti delle alte
pressioni sui microrganismi risalgano alla fine del XIX secolo, soltanto negli ultimi venti anni i
ricercatori del settore alimentare hanno cominciato a studiare come applicarle alla conservazione
dei prodotti alimentari. Si è trovato che a pressioni intorno a 4.000-9.000 atmosfere è possibile
inattivare enzimi e batteri senza significative modifiche del gusto e dell’odore dei prodotti
alimentari.
Tuttavia, a oggi nel mondo le aziende che hanno investito nella tecnica si contano sulle dita di una
mano.

Campi elettrici. Un’altra tecnica nella quale si sta indagando riguarda l’applicazione dei campi
elettrici di alta intensità a impulsi. Il campo elettrico può essere applicato agli alimenti allo stato
fluido sotto forma di impulsi di durata variabile da pochi microsecondi ad alcuni millisecondi, a
temperatura ambiente o di frigorifero; gli elettrodi normalmente non sono in contatto diretto con
l’alimento, ma sono separati da esso da membrane conduttrici ioniche e sono immersi in soluzioni
elettrolitiche. I campi elettrici possono inattivare i microrganismi e gli enzimi.

I processi più evoluti “tratteranno” l’alimento in modo mild, evitando gli abusi di processo, cioè
quei trattamenti che possono impoverire il prodotto sotto il profilo sensoriale e nutrizionale;
quest’ultimo aspetto è legato principalmente al fatto che molti elementi nutritivi preziosi sono
termolabili.

17. QUALI SONO I COLORANTI ARTIFICIALI?
In generale – lo ha deciso nel 1989 l’allora Comunità europea – gli additivi alimentari che appaiono
negli appositi elenchi si possono usare solo secondo condizioni di impiego tassative. L’additivo
deve essere necessario per ottenere l’alimento o evitare grossi scarti. Non deve derivarne alcun
rischio di tossicità. Se provoca negli animali o in vitro sospetti di cancerogenesi o mutagenesi va
bandito. Non deve mai reagire con l’alimento. Non deve mascherare alterazioni, né frodi
commerciali.
I coloranti, pur essendo additivi, sembrano sfuggire ad alcuni di questi requisiti. Hanno solo un
misero effetto cosmetico, non certo irrinunciabile. Si dirà, chi sceglierebbe uova di lompo grigiastre
invece che rosse o nere? Chi torte giallognole o caramelle sbiadite? La polemica verte soprattutto
sui coloranti artificiali. Sono molecole di diverse varietà, pigmenti spesso stabili e dai colori
sgargianti e improbabili, ma con caratteristiche vieppiù indesiderabili.

Ritirati dal commercio. I coloranti sono la categoria di additivi con il peggior record di ritiri dal
commercio. Dal 1965 al 2007 ne sono stati ritirati, dopo loro regolare immissione in commercio e
consumo in tutto il mondo, almeno una ventina. S’è via via scoperto che il Verde I causava danni agli
organi, l’Arancio B il cancro, il Rosso I il cancro al fegato, il Rosso 4 ai reni, il Giallo 1 e 2 lesioni
intestinali, il Giallo 3 al cuore, per finire col Violetto cancerogeno (e siamo nel 1973) e il Rosso G2
(2007).

Quelli che rimangono in uso destano comunque vari sospetti. Innanzitutto vengono usati in
alimenti di scarso valore nutritivo, caramelle e dolciumi, bibite, sciroppi, dessert. La loro presenza
può indicare carenza di frutta o ingredienti più pregiati. Sono accusati di essere concausa di
iperattività nei bambini. E su molti di loro, pur con test inadeguati, permangono dubbi: sul blu E131
(blu patent V) per sospetti di interferenze con la tiroide e cancro, come per il blu E132 (in alimenti
per animali, bevande e dolci). Il giallo arancio E110 (usato anche sugli agrumi) potrebbe aumentare
il rischio di cancro. Il giallo tartrazina E102 è allergenico. Il rosso E123 era stato ritirato per
sospetti tumori alla tiroide, ma reintrodotto in commercio durante l’amministrazione Reagan. Giudizi
contrastanti per il verde acido brillante E142 (fortunatamente poco usato).
C’è tutta un’ampia gamma di pigmenti naturali. Il colorante verde E140 è la clorofilla, che si
estrae dall’erba e dall’ortica. Uno degli E160 è l’estratto di paprica, l’E162 viene dalle radici di
barbabietola sciolte in acqua.

18. QUALI ALTRI “CODICI E” È MEGLIO EVITARE?
Alcuni codici E denominano sostanze decisamente indesiderabili.

E210-E219, benzoati. Conservanti antimuffa; possono provocare irritazione gastrica, indurre


disturbi neurologici e reagire con l’E222 (bisolfito di sodio). Possono essere concausa di allergie
da contatto e dermatiti. In un’intervista a Quark nel 2001 l’ideatore del test Dria sulle intolleranze,
Attilio Speciani, ha detto: “Noi che testiamo i benzoati da almeno vent’anni abbiamo visto, rispetto
alla presenza statistica dell’intolleranza, un’impennata dal momento in cui è cominciata
l’immissione di benzene nell’aria, cioè con la diffusione della benzina verde! In questo caso, la
spiegazione è nella somiglianza della molecola del benzene a quella dei benzoati”. Sono nelle
preparazioni a base di frutta, bibite e bevande con frutta (aranciate e chinotto compresi), ma anche in
conserve ittiche, caviale e succedanei.

E220, anidride solforosa e gli altri solfiti (E221-228). Parenti dell’acido solforico, solfiti e
anidride solforosa sono responsabili della distruzione delle vitamine non solo nei cibi, ma anche nel
nostro organismo, quando li ingeriamo. Sconsigliabili alle persone asmatiche, sono accusati di far
perdere calcio, d’aumentare l’incidenza dei tumori e vengono associati a reazioni avverse e
allergiche. Quantità record di solfiti si possono trovare nella carne degli hamburger, in crostacei
freschi o congelati, gamberetti, baccalà e conserve di pesce, nella gelatina di frutta, nella senape e
nel succo di limone confezionato per condimento, frutta secca, sottaceto e sottolio, marmellate e
confetture, aceto, vini, bevande a base di succo di frutta, funghi secchi, uve (trattamento post-
raccolta).

E230-E233, difenile e fenoli, tiabendazolo. Se gli agrumi sono troppo lucidi, significa che sono
stati irrorati di difenile, antimuffa nocivo, oppure ortofenilfenolo, anche sodico, o anche
tiabendazolo (sulle banane). Sono fungicidi di origine petrolchimica e possono penetrare oltre la
buccia. Attenzione, però: se irrorata, la frutta deve riportare sulla confezione, sulla cassa o sul
cartello la scritta: “trattato con E230/E231/E232”. Nel 2004 sono stati espunti dalla direttiva sugli
additivi e regolamentati da quella sui fitofarmaci. Cioè, sono ancora consentiti, ma con maggiori
cautele e restrizioni, in quanto considerati pesticidi. Comunque, diffidare degli agrumi troppo lucidi.

E239-240, formaldeide. È cancerogena. Dovrebbe essere vietata sul cibo. Si trova solo come
trattamento superficiale in alcuni formaggi.

E249-E252, nitrati e nitriti, di sodio e di potassio. A loro carico sono stati osservati effetti
antitiroidei, mutageni, antivitaminici, d’induzione di false allergie alimentari; provocano
metaemoglobinemia. La loro pericolosità è amplificata dal fatto che possono combinarsi con
sostanze chimiche presenti nello stomaco a formare N-nitrosammine, altamente cancerogene. Nitrati
e nitriti si trovano in quasi tutti i salumi e gli insaccati.

E310-312, gallati. Recentemente declassati come “poco sicuri”, possono causare irritazioni
gastriche o cutanee, sono controindicati nelle persone che soffrono d’asma o allergiche all’aspirina.
Si usano come preservanti degli oli vegetali (tranne l’extravergine d’oliva in cui ogni additivo è
vietato per legge), quindi nella margarina e nella carne e derivati per sughi, ragù e minestre
industriali.

E450-452, polifosfati. Controllano il peso e la perdita d’acqua di salumi e formaggi, rendendoli


morbidi, succosi e conferendo un aspetto untuoso. Assunzioni massicce e continue di polifosfati
hanno evidenziato fenomeni di ipocalcemia, lesioni renali e accumulo di fosfati di calcio nei reni.
Pare che alterino il rapporto calcio-fosforo dell’organismo, attenzione specialmente per i bambini.
Potrebbero causare anche disturbi digestivi per l’inattivazione di alcuni enzimi. Si trovano (sempre
di meno, in verità) in formaggini, carne in scatola, insaccati cotti (prosciutto cotto e spalla,
mortadella, wurstel); anche in gamberi e filetti del reparto pescheria.

Ridurre o evitare l’assunzione di questi additivi non è difficile. Basta fotocopiarsi questa pagina
e portarsela, le prime volte, insieme alla lista della spesa al supermercato.

19. C’È UN COLORANTE FATTO CON GLI INSETTI?
La cocciniglia (Dactylopius coccus) è un insetto parassita che prospera sui cactus. Secerne acido
carminico come deterrente verso altri insetti predatori.

D’allevamento. Sono sempre stati alquanto fiorenti gli allevamenti di cocciniglie tra il Messico, il
Perù e le Canarie per la produzione di rosso carminio, pigmento da tempo usato per vari scopi. Nel
secolo scorso l’avvento dei coloranti chimici ha fortemente ridotto il mercato. Ma i sopraggiunti
timori verso coloranti alimentari ottenuti dal catrame e veleni simili ha ridato fiato al settore
dell’allevamento di cocciniglie, che oggi ha un giro d’affari globale stimabile intorno ai 30-40
milioni di dollari annui.

L’acido carminico. Si estrae dal corpo e dalle uova degli insetti femmina. A migliaia questi insetti
vengono raccolti in tele, seccati e tritati, filtrando la polvere ottenuta. Occorrono 15 mila insetti per
ottenere un etto di colorante.
Il pigmento delle cocciniglie si usa non solo come colorante alimentare, ma anche nella cosmesi e
nel tessile. “È uno dei più stabili – spiega Tracy Mattingly della Degussa AG, azienda tedesca
produttrice di pigmenti – e si può anche miscelare per ottenere colori che vanno dall’arancio al
magenta”.

Le industrie alimentari lo usano perché è relativamente sicuro e di origine naturale. I casi di


reazione allergica ci sono, ma rari. Reagiscono invece sempre male i vegetariani, che in
America non possono riconoscerlo in quanto non è chiamato col suo nome. In Europa ce l’ha, un
nome, il rosso carminio usato come colorante alimentare. L’ E120(i) è il Carminio (il colore
raffinato), l’E120(ii) è l’estratto di cocciniglia (l’estratto grezzo). Alcuni produttori lo
chiamano proprio con il suo nome, “colorante: cocciniglia”. Si trova in dolciumi, in alcuni
hamburger, in alcuni salumi, in yogurt e preparazioni per bambini, in alcuni cioccolatini e in un
celeberrimo aperitivo. Basta saperlo.

20. GLI ADDITIVI SONO CATTIVI?
Non si deve aver timore di tutti gli additivi contrassegnati dalla lettera “E”. La maggior parte delle
sostanze così nominate sono definite sicure da diverse fonti.

Clorofilla e bicarbonato. L’E101, colorante giallo, è una molecola identica alla vitamina B2. Non è
certo che con i procedimenti di produzione e i trattamenti che subisce possa svolgere la funzione di
vitamina, ma è quantomeno improbabile che possa far male. Il colorante verde E140 è la clorofilla
che s’estrae dall’erba. L’E160a è il carotene. L’E160c è l’estratto di paprika, gli E161 (coloranti
giallo-arancio) sono estratti di piante e l’E162 viene dalle radici di barbabietola. L’aceto, se usato
come additivo e non come ingrediente, si chiama E260. L’anidride carbonica – la stessa delle
bollicine dell’acqua gassata – E290. Il diffusissimo E300 (acido L-ascorbico) null’altro è che
vitamina C, E301-304 sono i suoi sali. L’antiossidante E306 (tocoferolo) è la vitamina E che si
ottiene dall’olio d’oliva, e fa bene. E322 è l’inerte lecitina di soia. Il “regolatore di acidità” E330 è
l’acido citrico degli agrumi. Tra gli “addensanti, l’E400-404 sono alginati (potrebbero addirittura
far bene); la sigla E406 contrassegna un tipico gelificante per cibi in scatola, dolci e budini: l’agar-
agar, alga ricca di sali minerali. L’E410 è farina di semi di carruba, l’E422 è glicerina. L’E500 è
bicarbonato di sodio; l’E504 – magnesio carbonato – è usato per digerire.

In svariati alimenti in vendita l’impiego di qualunque additivo è comunque vietato per legge:
miele, olio d’oliva, burro, latte e panna, yogurt bianco, acqua minerale naturale, carne fresca,
caffè (in quello granulare-istantaneo invece sono consentiti), tè, zucchero e pasta. Anche i
prodotti biologici certificati sono esenti da qualunque additivo indesiderabile; ne sono permessi
alcuni naturali.
21. GUARDARE LA TV CAMBIA IL MODO DI MANGIARE?
Due terzi dei bambini in sovrappeso o obesi entro il 2050, e le attuali generazioni potrebbero essere
le prime ad avere un’aspettativa di vita inferiore a quella dei genitori, per colpa del cibo. Alcune
statistiche prevedono questi scenari.

Obesità infantile in Usa e in Italia. Negli Usa l’obesità infantile ha già raggiunto livelli epidemici,
un terzo dei bambini tra i 2 e i 5 anni è in sovrappeso. Si punta il dito contro le porzioni supersized
e le troppe calorie nei cibi dei fast food e negli snack. Un supersized extra meal raggiunge tre volte
le calorie di un intero pasto degli anni Cinquanta.
Anche in Italia un bambino italiano su tre è in sovrappeso. Dal 5 all’8% sono obesi, superando il
peso forma più del 20%. Ogni anno la popolazione infantile oltre il peso forma cresce dell’8%. Sul
totale dei bimbi sovrappeso solo il 2-3% lo è a causa di disfunzioni ormonali o meta boliche, gli
altri perché mangiano troppo e male. Secondo gli esperti dall’Istituto auxologico di Milano l’85%
dei piccoli obesi è destinato a divenire un adulto con problemi legati all’alimentazione (la
controprova è che il 70% degli adulti in eccesso di peso aveva problemi già dalle scuole
elementari). Ingrassano di più i bambini che appartengono a fasce sociali più basse. Pare che i
genitori non rivestano un ruolo determinante sull’alimentazione dei figli, mentre scuole, Asl e
Comuni sì: laddove si investe nell’informazione e nell’educazione alimentare la presenza di bambini
in sovrappeso è statisticamente inferiore.
La Società italiana di pediatria ha proposto nell’ottobre 2005 un decalogo contro l’obesità infantile.

1. Controllare peso e statura almeno ogni sei mesi.

2. Proporre al bambino cinque pasti al giorno (colazione, merenda a metà mattina, pranzo, merenda,
cena), opporsi ai “fuoripasto”.

3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno.

4. Bere più acqua, ridurre le bibite zuccherate e gassate.

5. Ridurre salumi, fritti, condimenti, dolci (sono grassi).

6. Non utilizzare il cibo come “premio”.

7. Favorire il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno.

8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili.

9. Praticare uno sport con regolarità, facendo esercizio fisico e divertirsi.

10. Limitare la “videodipendenza” (tv, computer, videogiochi) durante il tempo libero. I bambini che
guardano più tv, ingrassano di più.

Guardare meno tv? L’invito dei pediatri incuriosisce. Stando davanti alla tv si consumano solo 60
calorie all’ora, quasi meno di quelle bruciate mentre riposiamo, perché il cervello lavora al
minimo. Stando lì a sgranocchiare snack e bibite, il nostro corpo consuma pochissimo e le calorie in
eccesso faranno crescere i depositi di grasso. Ma questo non basta. C’è anche il forcing della
pubblicità: una cascata di bibite zuccherate e gassate, snack, patatine, hamburger, caramelle
gommose, popcorn e coloratissimi involucri di plastica con cibi d’ogni genere investe l’inerte
spettatore sul divano. Gli spot reclamizzano incessantemente proprio junk food, e sono i bambini a
essere bersagliati da pressioni affinché reclamino più alimenti zuccherati, più grassi, snack salati e
dolci, fast food.

Le pubblicità di questi prodotti sono la stragrande maggioranza degli spot trasmessi nelle fasce
orarie protette e nei canali televisivi dedicati. Un’analisi condotta in Usa sul contenuto
nutritivo dei prodotti pubblicizzati mostra che il 40% rientra nelle categorie dei grassi, oli e
zuccheri, stessa percentuale per pane, cereali, riso, pasta e prodotti da forno. In Gran
Bretagna le categorie più pubblicizzate sono, nell’ordine: cereali raffinati per la colazione;
dolciumi; bibite; patatine; in quinta posizione fast-food. In Italia, contrariamente ai paesi
anglosassoni, qualche spot su verdura e frutta da consorzi di produttori regionali ogni tanto fa
capolino.
22. RISCHIAMO DI COMPRARE QUALCOSA CHE NON È COME SEMBRA?
“Oggi il bambino americano medio – scrive Juliet B. Schor nel libroinchiesta Nati per comprare – è
immerso nel mercato di consumo con una modalità tale da annichilire qualsiasi raffronto storico. A
un anno guarda Teletubbies e mangia il cibo dei suoi ‘promo partner’ Burger King e McDonald’s. A
18 mesi i bambini sono in grado di riconoscere i loghi commerciali e prima di raggiungere il
secondo anno d’età chiedono i prodotti nominandone la marca. Secondo gli esperti, entro i tre anni o
i tre anni e mezzo i bambini cominciano a credere che la marca sia in grado di conferire loro
caratteristiche uniche, per esempio l’essere in gamba, forti e intelligenti”. Sui bambini si
concentrano tecniche di persuasione sempre più raffinate, differenziate, specifiche e chirurgiche,
afferenti il contenuto dei messaggi pubblicitari, la penetrazione nelle scuole, il marketing
dell’infanzia con tecniche da nomi inquietanti quali age compression e trans toying, l’arruolamento
di bambini in focus group, le nuove formule di ricerca intrusiva, la vendita – anzi, lo spaccio – di
junk food...

Le cinque strategie di vendita. La Food Commission inglese e la British Heart Foundation hanno
condotto nel 2009 uno studio sulle strategie adottate dalle industrie del settore alimentare che,
infilandosi in sottili scappatoie legali, riescono a lanciare messaggi ingannevoli sulla salubrità di
prodotti che invece hanno un elevato contenuto di grassi, zuccheri e sodio. Un dossier espone le
cinque principali tecniche usate per far breccia nelle paure e nelle aspirazioni dei genitori,
interferendo con la loro capacità di operare le scelte migliori.
Una. Esaltare la qualità per nascondere i reali valori nutrizionali. Ad esempio, barrette con cereali e
latte sono definite “la scelta migliore per uno spuntino leggero” con l’immagine dell’uva e di un
sandwich integrale a rafforzare l’idea di uno snack sano. In realtà le barrette hanno un elevato
contenuto di zuccheri – 41 grammi per 100 grammi di prodotto – ma per depistare i genitori viene
riportato il fabbisogno nutrizionale giornaliero di un adulto.
Due. Esaltare un singolo principio nutrizionale e distrarre il genitore dal quadro completo. Ad
esempio, sulla confezione di un formaggio spalmabile si legge “senza coloranti, conservanti e aromi
artificiali”, ma con un morso si arriva a coprire quasi un terzo della quota massima giornaliera di
grassi saturi prevista per un bambino.
Tre. Dichiarare un solo, singolo beneficio per la salute. La pubblicità dei cereali in scatola e dei
brik con cannuccia sostengono che tali prodotti contribuiscono a “mantenere sane e forti le ossa dei
bambini”, regalando un “risveglio pieno di energia”. Non si fa riferimento ai 60 grammi di zucchero
nascosti in 100 grammi di cannucce alla fragola.
Quattro. Sintonizzarsi con le difficoltà quotidiane incontrate dalle madri nella gestione di una
famiglia. Nella pubblicità di un menu a base di filetti di pollo impanati si evoca il problema delle
mamme che chiedono il contributo dei figli nelle faccende domestiche, mostrando alcuni bambini
che riordinano volontariamente dopo aver consumato il pasto pubblicizzato.
Cinque. Utilizzare immagini forti e significative. La pubblicità di un miniburger al formaggio
proposto mostra l’immagine di una mamma possente che dichiara “la battaglia per il pranzo è
terminata”. L’energica madre, ricoperta di utensili da cucina, invia il messaggio di un pasto sano
come quelli fatti in casa, ma in realtà il miniburger al formaggio contiene più di un quinto della
quota massima giornaliera di grassi saturi prevista per un bambino.

Il dossier inglese denuncia le lacune insite nelle normative di cui approfittano le multinazionali
del settore alimentare, riscontrabili però anche qui in Italia. Secondo i codici
d’autoregolamentazione inglesi i prodotti a elevato contenuto di grassi, zuccheri e sodio non
dovrebbero essere pubblicizzati durante la messa in onda di programmi per l’infanzia, ma solo
una delle venti trasmissioni più seguite dai bambini si attiene al divieto. Genitori e figli in
giovane età sono costantemente bombardati da messaggi pubblicitari fuorvianti messi in onda
durante i programmi di prima serata. La British Heart Foundation ha presentato al governo
inglese la proposta di vietare la messa in onda di spot che promuovano cibi simili prima delle 21.

23. C’È SCRITTO “FILIERA CONTROLLATA”, QUINDI È GENUINO?
“Filiera”. Una parola prepotentemente entrata nel nostro parlar comune, un termine sempre più
frequente sia nella cartellonistica dei centri commerciali, sia nelle etichette dei prodotti ivi in
vendita. Un alimento, prima di finirci in bocca, segue un percorso a volte assai lungo per ognuno dei
suoi ingredienti. Questo percorso, schematizzato in fasi produttive, si chiama filiera.

“Filiera qualità”, “filiera controllata”... Dichiarare di conoscere o di poter esibire con trasparenza
la filiera di un prodotto, i luoghi di provenienza e di trasformazione delle materie, dà oggi
evidentemente un vantaggio commerciale. Ma i verdi cartelli bucolici che alcuni supermercati
sfoggiano con simili diciture non garantiscono granché. Significano solo che l’attore commerciale
conosce la filiera di quel prodotto, che a noi però rimane sconosciuta.

Rintracciabilità. Fa il paio con la conoscenza della filiera lo sfoggio della possibilità di


rintracciare la provenienza di ogni porzione del nostro cibo. In particolare per i prodotti animali,
soggetti a più spostamenti, l’indicazione in etichetta dei luoghi dove l’animale è vissuto può
dissipare qualche dubbio. È un ulteriore freno ai traffici delle importazioni illegali di carne da paesi
dell’Est dove i nostri standard su norme igieniche, antibiotici o ormoni non vengono nemmeno tenuti
in considerazione.

Diverso il discorso sulle indicazioni geografiche, di filiera o di rintracciabilità, sui singoli


prodotti, la fettina di carne o l’uovo con la stampigliatura sul guscio. Sapere che l’allevamento
è situato in un paese dove i controlli si fanno e dove se si dichiara il falso in etichetta si incorre
in un reato penale, può rincuorare. Almeno, sappiamo con chi prendercela.


24. QUANTO PESA LA BISTECCA?
Nei negozi e supermercati si trova ogni tipo di frutta e verdura durante tutto l’anno, ogni tipo di
oggetti e vestiti realizzati nei posti più vari. Pomodori e zucchine a dicembre dalle serre spagnole
oppure dalle idrocolture olandesi, ad aprile uva dal Cile, in estate kiwi dalla Nuova Zelanda... Ma
la fragola cresciuta nella “sua” stagione è migliore di una fragola fuori stagione e con uno
spostamento di 1.000 chilometri alle spalle. Un camion che porta una tonnellata di pomodori dalle
serre spagnole fa 3.000 chilometri e produce 582 chilogrammi di anidride carbonica. Se lo stesso
camion li trasportasse solo dal campo al supermercato nella stessa regione, inquinerebbe dodici
volte meno. Il trasporto di frutta, verdura e altri alimenti dai paesi esotici comporta un notevole peso
ambientale. Si calcola che un ananas proveniente dal Centro America pesi nove volte tanto in
emissioni di anidride carbonica.

Intensità energetica. Ogni alimento è fatto di energia. Ogni alimento, per essere prodotto,
trasformato e trasportato in tavola ha avuto bisogno di risorse energetiche e naturali.
Secondo i dati della Global Hunger Alliance (una coalizione internazionale che promuove soluzioni
ecologiche ed equosolidali per il problema della fame nel mondo), ecco quanta acqua viene
consumata per produrre:

1 kg di patate: 500 litri d’acqua;


1 kg di grano: 900 litri d’acqua;
1 kg di mais: 1.400 litri d’acqua;
1 kg di riso: 1.900 litri d’acqua;
1 kg di fagioli di soia: 2.000 litri d’acqua;
1 kg di carne di pollo: 3.500 litri d’acqua;
1 kg di carne bovina: da 25 mila a 100 mila litri d’acqua.
Un ettaro di terra. Un altro esempio. Abbiamo un ettaro di terreno agricolo. Se lo coltiviamo a
patate possiamo produrne in un anno 25 mila chilogrammi. A fagioli e soia, avremo un raccolto di
1.800 chilogrammi. Se lo destiniamo a foraggio da dare agli animali da allevamento, alla fine
otterremo solo 60 chilogrammi di proteine animali.
Quante persone possiamo sfamare? Vediamo, in un fondamentale e pionieristico studio del World
Cancer Research Fund del 1997, il fabbisogno energetico di quante persone può essere soddisfatto
da un ettaro di terra destinato a:

patate: 22 persone;
riso: 19 persone;
mais: 17 persone;
grano: 15 persone;
latte: 2 persone;
pollo: 2 persone;
uova: 1 persona;
carne: 1 persona.


“Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie – incalzano Sandro Pignatti e Bruno Trezza,
autori di Assalto al pianeta, attività produttiva e crollo della biosfera – il manzo deve ricavare
5.000 calorie. Il che vuol dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50 mila. Solo un
centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata durante la digestione,
per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano come ossa
o peli”. Il bestiame è dunque una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora... una
massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. Per nutrire solo il 20% della popolazione
globale del pianeta.

Una bistecca “pesa” da 3.000 a 10 mila litri d’acqua, e almeno 10 chilogrammi di cereali. Tutte
risorse che sarebbe meglio destinare ai consumi umani per una più equa distribuzione. Secondo
Frances Moore Lappé, autrice di Diet for a small planet, le tonnellate di cereali e soia che
nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri
umani per un anno.

25. DIVENTIAMO ECOTARIANI?
Accanto a vegetariani, vegani e crudisti, compare una nuova figura. L’ecotariano. Il concetto è
semplice, è colui che sceglie gli alimenti col minore impatto ambientale. Menu a chilometri zero,
agricoltura sostenibile, minori emissioni di CO2… Nell’ultimo decennio, fra i fattori di scelta del
nostro cibo, se ne sta aggiungendo uno dai risvolti interessantissimi. L’ambiente.
Farsi tentare da una dieta ecologica che aiuti a ridurre le emissioni climalteranti nell’aria, in
un’epoca di riscaldamento globale è una buona idea. Ma, certo, oggi non è facile capire, vedendo un
pomodoro al supermercato, quali sono le sue emissioni di CO2.

Il minore impatto ambientale del cibo. L’impatto ambientale si esprime, secondo i dettami del
Protocollo di Kyoto, in termini di CO2, di Gwp (Global Warming Potential) e si calcola con la Lca
(Life Cycle Assessment), la disciplina scientifica che analizza la provenienza delle materie prime,
l’energia impiegata per trasformarle e l’impatto dello smaltimento. Gli ingegneri Lca prendono un
telefono, lo smontano e, per ognuna delle componenti – il guscio in plastica, i circuiti, le viti –
calcolano la provenienza e il costo energetico di trasporto, trasformazione e montaggio, poi
calcolano l’energia elettrica che consumerà e infine i suoi costi di smaltimento, ottenendo il “costo
ambientale” di quel telefono. A quest’indagine si può sottoporre anche ciò che abbiamo nel piatto,
naturalmente.
Tentiamo alcune generalizzazioni. I cibi che costano meno alla terra sono frutta e verdura. Il più
costoso è la carne rossa. Costano meno alla terra i cibi di stagione, perché gli ortaggi cresciuti in
serra richiedono sperpero di risorse. I prodotti a “chilometro zero” sono ottenuti in zone limitrofe al
consumo per ridurre i trasporti, garanzia di genuinità e qualità nutrizionale: più un alimento arriva da
vicino, più è fresco e ricco di vitamine (al contrario, più si allontana da dove è stato prodotto, più è
difficile sapere da dove viene, chi lo ha prodotto, con quali metodi e trasformazioni). I prodotti da
agricoltura biologica: le aziende “bio emettono solo la metà di gas nocivi per il clima – anidride
carbonica, metano e altri gas – rispetto all’agricoltura tradizionale. Ogni ettaro di terreno “bio”, più
ricco a livello superficiale di sostanze organiche (la terra bruna), assorbe 1,5 tonnellate di CO2
all’anno, fino al 20% in più rispetto a quello coltivato a monoculture intensive.


Studi. Cominciano anche a fioccare studi scientifici dettagliati sui cibi più leggeri (in senso verde).
Alcuni recano dati inaspettati. Per esempio, la caratteristica “chilometro zero” non è un crisma
assoluto. Uno studio tedesco del 2004 comparava il succo di frutta brasiliano con un analogo
prodotto in Europa trovando quest’ultimo più energivoro.
Uno studio svedese su un modello dietetico ecologico suggerisce di ridurre il nostro consumo di
dolciumi del 50%. Sembra che per questi prodotti l’ecozavorra maggiore sia il latte; un buon
ecotariano può quindi probabilmente consolarsi con il cioccolato fondente.
L’ecotariano usa i prodotti surgelati il meno possibile perché, secondo il Wuppertal Institute, la
surgelazione e il mantenimento della catena del freddo li rende tre volte più energivori dell’analogo
fresco. Sembra vero per tutti i surgelati, tranne, secondo un recente studio inglese intitolato
argutamente Give Peas a Chance, per i menu a base di piselli.

Insomma, l’ecotariano fa gli acquisti con cura e consapevolezza, in base alla stagione e alla
provenienza. Così contribuisce alla difesa dell’ambiente, risparmia soldi e guadagna in gusto.
Chissà, forse arriverà un’etichetta energetica, al supermercato, che sul cartellino indichi
accanto al prezzo del prodotto e al suo peso, anche le sue “emissioni di CO2 al chilo”.

26. LA CARNE SI PUÒ PRODURRE IN LABORATORIO?
Sì, allo stesso modo con cui si coltivano già in vitro cellule e tessuti. Sono almeno cinque in tutto il
mondo i grandi centri di ricerca dove si stanno svolgendo ricerche simili, tutte abbondantemente
finanziate da milioni di dollari. Il mercato della carne rossa d’altro canto genera un giro d’affari di
61 miliardi di dollari annui, solo negli Usa.
Cellule di tessuto muscolare possono essere isolate e fatte riprodurre in un dischetto di plastica.
L’avventuroso ecoreporter Leo Hickman ha visitato alcuni laboratori, pubblicando su Wired
dell’agosto 2009 i risultati delle sue investigazioni.
L’olandese Mark Post, professore di angiogenesi e specialista in tissue engineering all’Università
della Tecnologia di Eindhoven, ipotizza che già tra cinque o dieci anni il nostro hamburger potrebbe
essere cresciuto in laboratorio, mostrando una vaschetta di liquido rosa denso come un uovo poco
cotto. Per far sviluppare le cellule occorre un’apparecchiatura simile a un forno che provvede a
elettrostimolarle, proprio come i muscoli di un corpo. La stimolazione potrebbe essere anche
meccanica, per esempio con un meccanismo simile a una pompa che aspira e soffia. Ci vorrà anche,
per farle crescere bene, una dose di ormoni che mimi quelli naturalmente prodotti, aminoacidi,
glucosio, minerali e siero, come medium di crescita. Un gruppo capeggiato da Klaas Hellingwerf
dello Swammerdam Institute for Life Sciences dell’Università di Amsterdam sta studiando un siero
artificiale, non di provenienza animale.
Il muscolo è un tessuto relativamente semplice, una serie di fibre lunghe fatte di proteine chiamate
actina e miosina, avvolte da una membrana di tessuto connettivo. “È fattibile – conclude Post,
incalzato da Hickman – e, in fin dei conti, l’esperienza del mangiare carne si può riassumere in gusto
e testura. Dato che il gusto si può aggiungere alla fine grazie agli aromi, tutti gli sforzi si possono
concentrare sulla testura, sulla consistenza”.
Henk Haagsman, dell’Università di Utrecht, sta occupandosi del ruolo possibile delle cellule
staminali nel business della carne in vitro, nonché del controllo delle infezioni in un’eventuale
produzione di massa, tramite antibiotici naturali. Assicurare la sicurezza igienica sarà una sfida
cruciale. Anche per questo motivo, la strada della modificazione genetica è stata scartata. Bernard
Roelen, assistente nella Facoltà di Veterinaria della stessa università, precisa che le cellule di
partenza è meglio che siano di animali giovani, perché hanno maggiori capacità di proliferare
rispetto a quelle degli animali adulti.
Esperimenti sulla riproduzione delle cellule in vitro risalgono al 1912, quando Alexis Carrel mise
un piccolo tassello di muscolo cardiaco di pollo in una soluzione misteriosa, che pare sopravvisse a
lungo.
Il ricercatore Willem van Eelen può esibire un brevetto del Nederlandsch Octrooibureau datato 3
marzo 1995 che riguarda “la produzione industriale, con tecniche di laboratorio, di cellule di tessuto
di carne e pesce con completa rassomiglianza esteriore, aspetti organolettici e caratteristiche”. “È
vero – ammette – sarà un problema convincere la gente a mangiarne, all’inizio sarà sospettosa se si
dice loro che non proviene da animali vivi. Ma quando l’assaggeranno, diranno ‘wow’. A me piace
andare da McDonald’s, ma non sapere quello che c’è dentro l’hamburger. Quando assaggeranno i
miei hamburger, vedranno che sono buoni, e noteranno che costano meno e sono più salubri”.
A Deventer ha sede una delle maggiori industrie europee di processamento carni, la Stegeman, uno
degli sponsor del progetto carne in vitro, che, a detta del direttore operativo Peter Verstrate, ha un
grande potenziale commerciale: “Entro cinque anni potremmo produrre frammenti di carne o di
tessuto proteico, poi combinarli in un più vasto composto, del tutto simile a un attuale hamburger:
tecnicamente, è realmente fattibile. Con un procedimento simile a quello delle stampanti a getto
d’inchiostro, potremmo avere delle bistecche, ma ci vorranno 30 anni. In dieci o vent’anni
potremmo già ottenere il ragù per gli spaghetti, salse e polpette. I consumatori opteranno per salvare
l’ambiente, risparmiare soldi e sofferenze agli animali. Sarebbe grandioso avere una foto, che so, di
Paul McCartney che mangia una nostra salsiccia così fatta. Non è importante al momento stabilire se
chiamare il prodotto ‘carne’ o se trovare un nome commerciale, come è stato per il Quorn”.
Peter Singer, professore di bioetica a Princeton e padre fondatore del movimento animalista, dà tutto
il suo supporto alle ricerche olandesi. “È una grande idea, potenzialmente, ma anch’io prevedo un
problema di marketing. Mi sto preparando a chiamarla ‘carne’. È etimologicamente un termine
alquanto ampio. Il fatto che la cellula originale provenga da un animale non disturba né interferisce
con le proprie credenze, dato che non è minimamente correlata ad alcuna sofferenza animale. Io
spero che venga comunque il giorno in cui la gente smetterà di mangiare qualcosa che proviene da
animali che hanno sofferto e che contribuisce al cambiamento climatico”.

La velocità con cui si duplicano le cellule è 18 ore. Dopo 18 ore si hanno due cellule, dopo altre
18 se ne hanno quattro, e così via. Occorre tempo, ma in teoria questo consentirebbe di
ottenere, da un maiale, un milione di maiali in 14 giorni.

27. UNA SOFISTICAZIONE ALIMENTARE PUÒ ESSERE LEGALE?
Sofisticare significa adulterare, alterare una sostanza, contraffarla. Un procedimento punito a norma
di legge. Come può essere legale?
Alla definizione di “sofisticazione alimentare” concorrono due componenti. Una, la contraffazione.
Due, il limite di legge.
Contraffare, adulterare, celare sotto mentite spoglie, evocano attività da contrabbandieri o da
ladruncoli con mascherina nera, gesti compiuti di soppiatto, nell’ombra. Nella realtà sono purtroppo
registrabili oggi, da parte di diversi produttori o delle loro lobby a livello europeo, ripetuti tentativi
d’invasione progressiva in diverse zone grigie: o verso l’utilizzo di ingredienti simili a quelli
originali, ma meno costosi approfittando di lacune legislative, o verso la statuizione della facoltà di
commercializzare prodotti truffaldini, anche con scritte, immagini e packaging ingannevoli.

Vino senza uva, aranciate senza arance, formaggio senza latte. Sono già legali l’aroma burro al
posto del burro, l’aroma fumo al posto dell’affumicatura, finta panna di grassi idrogenati in
confezioncine che la ritraggono con un paio di fragole sullo sbruffo, olio di oliva in una bottiglia che
ne contiene solo il 5%, bibite alla frutta senza quel frutto, risotto al tartufo senza tartufo...
In aggiunta a tutto questo, negli ultimi anni l’Europa è venuta all’arrembaggio delle produzioni
agricole nostrane. Solo nell’ultimo lustro hanno avanzato richieste di legalizzare bibite all’arancia
senza arance (nel gennaio 2009, a quattro anni di distanza dal primo tentativo, hanno riprovato a far
passare un progetto di legge in Senato, stoppato alla Camera); sostituire il succo della frutta con
aromi e coloranti; il vino “senza uva” realizzato dalla fermentazione di frutta; il rosé ottenuto
miscelando vini bianco e rosso anziché dalla tradizionale vinificazione in bianco delle uve rosse
(autorizzazione rientrata nel giugno 2009); cioccolato con grassi diversi dal burro di cacao;
formaggio prodotto a partire da caseina e caseinati invece del latte (solo questo ha reso possibile
portare in Italia nove miliardi di chili in equivalente latte nel 2008 da spacciare come made in
Italy).

Gusto e aroma, indizi di colpevolezza. È tuttora illegale smerciare una cosa dicendo che è un’altra,
ma con packaging raffinati ci si può avvicinare molto. C’è però sempre qualche indizio che
smaschera l’autentica natura del prodotto. Questo indizio è da cercare sulla confezione. Le parole
“gusto”, “aroma”: “al gusto di”, “aroma di” vuol dire che non ce n’è, dentro.

100%, indizio di innocenza. Ci sono al contrario indicatori di autenticità del prodotto. Una cifra,
una percentuale, una frase in più.
L’etichetta è ciarliera o reticente? La prima e più grande azienda del biologico in Italia da vent’anni
avvolge i suoi vasetti di yogurt con informazioni eco-culturali nelle etichette. Un produttore di
formaggi grattugiati rivendica con orgoglio, sia sulle pubblicità sia sulle bustine di plastica,
l’integrità delle forme di formaggio d’origine e l’assenza di conservanti. Un produttore di latte di
soia descrive la filiera di controllo di un ente certificatore terzo per evitare contaminazioni. Nel
latte di soia la dicitura “no Ogm” garantisce l’assenza di fagioli transgenici: altrimenti, la soia usata
è probabilmente Ogm. Per il cioccolato, chi esibisce la dicitura “puro” garantisce l’impiego di
burro di cacao e non di altri grassi di qualità deteriore. Per i succhi di frutta la cifra “100% succo” è
chiara: il contenuto di quel brick proviene tutto dalla frutta (anche nel caso di prodotto da
concentrato, il reintegro acquoso rispetta la percentuale d’acqua originaria). Se la scritta a tutto
tondo “100%” non c’è, quella bevanda è acqua e zucchero, anche se l’immagine di fuori ritrae una
cornucopia di frutti variopinti e succosi.

L’abbondanza di informazioni sulla confezione è spesso indice di cura produttiva e attenzioni


da parte del produttore.
28. QUALI SONO STATE LE PIÙ CLAMOROSE SOFISTICAZIONI ALIMENTARI?
Quando una legge del 1953 s’è preoccupata di vietare nella preparazione dei dadi da brodo sostanze
in putrefazione, residui vari e anche “l’uso di crisalidi del baco da seta”, ha svelato – nel negarne la
liceità – l’esistenza di pratiche di produzione alimentare non in linea col comune buon gusto. Anzi,
con il gusto e basta.
Durante il boom economico fanno scalpore in Italia tanti casi di ditte che mettono in atto trucchi e
alterazioni da commedia italica anni Settanta, degne dell’industriale Del Noce in Giovannona
Coscialunga disonorata con onore (Sergio Martino, 1973) che produce formaggi in modo così
mefitico da inquinare tutto un fiume, cercando poi di corrompere l’onorevole Pedicò. Parti indicibili
di animali per la produzione di alimenti, sostanze minerali per impasti vari, mammiferi e roditori di
varia specie finiti in ragù in scatola sono di volta in volta affiorati nei titoli dei giornali.

Anni Ottanta. Alcuni casi di sofisticazioni attuate da aziende blasonate e di dimensioni e notorietà
ragguardevoli fanno segnare una svolta nella reattività del pubblico. Non più estemporanee furberie
di commendatori caseari, bensì alterazioni sistematiche dei processi produttivi. Una notissima
marca di formaggio spalmabile è rimasta coinvolta da uno scandalo riguardante la povera qualità
degli ingredienti di base e l’igienicità dei metodi di lavorazione. Clamore ha poi fatto l’impiego, da
parte di un produttore di un olio di semi, di oli di sansa di infima qualità. Le campagne pubblicitarie
erano per giunta incentrate su un messaggio salutista, basate sull’efficace sequenza di un vispo
quarantenne che salta d’un balzo uno steccato; immagine parecchio stridente con le qualità reali del
prodotto reclamizzato.
Nel marzo 1986 il vino al metanolo uccide 27 persone, con centinaia di cecità permanenti e
ricoveri, danni miliardari per l’intero settore vitivinicolo italiano a causa del crollo di consumi ed
esportazioni. Come se n’è usciti? Nell’immediato con misure d’emergenza, non inerenti ai metodi di
produzione quanto fiscali e procedurali. A lungo termine, invece, con la scelta molto saggia di
puntare sulla qualità e su un’immagine di eccellenza del vino sia per il mercato interno che per
l’estero. Rivolgendo i propri sforzi non a escogitare trucchi e sofisticazioni, bensì a valorizzare
produzioni ottime e autentiche, l’industria enologica nazionale ne è venuta fuori. Proprio a seguito di
quella tragica esperienza inoltre è nato l’Ispettorato centrale repressione frodi presso il Ministero
delle Politiche agricole. Con un organico di 600 persone, 22 uffici periferici, 230 ispettori, 120
chimici e 22 laboratori sparsi in tutte le regioni, ogni anno da allora esegue migliaia di controlli
sugli alimenti e sulle materie prime, compresi i mangimi. Sarà pure un organico insufficiente, di
fronte alla gigantesca mole di prodotti da controllare, alle norme da far rispettare e alle insidie delle
frodi sempre più sofisticate, ma…

Oggi. Nell’ultimo decennio il fenomeno delle sofisticazioni è come se si fosse polarizzato verso
opposte dimensioni. Marche medio-grandi coinvolte, nessuna. Continuano a esserci alterazioni
sistemiche – legali – di intere categorie di prodotti, tra cui olio e succhi di frutta. Continuano d’altro
canto ad affiorare piccoli casi locali di singoli bottegai o piccoli produttori particolarmente
intraprendenti: acido nicotinico nella carne trita per mantenerla rossa, ormoni vietati nel latte, fette
di tonno fresco irrorate di monossido di carbonio per ritardarne l’imbrunimento, oli di semi colorati
con clorofilla e insaporiti con betacarotene per spacciarli come extravergini, vino fatto con alcol
denaturato, mozzarelle fatte senza latte... Ai colpevoli si contestano, a vario titolo, le accuse di
associazione a delinquere finalizzata alla truffa, alla frode in commercio, alla contraffazione e
commercializzazione di sostanze alimentari preparate in modo pericoloso per la salute pubblica.
Negli ultimi trent’anni si possono così individuare alcuni elementi comuni ai più ignobili casi di
alterazione illecita del nostro cibo.

Si tratta di alimenti di massa, di grande produzione.


Si tratta di prodotti reclamizzati.
E infine non sono passati inosservati: sono comunque stati scoperti.

29. LA MARGARINA È PIÙ LEGGERA DEL BURRO?
Alcune marche la vendono a 29 centesimi a panetto. È fatta d’acqua, grassi vegetali idrogenati e
aromi, con un pizzico di coloranti per ricordare pallidamente il colore del fieno del burro. Il
contenuto percentuale di grasso è simile rispetto al burro. Ma la qualità di questo grasso è
discutibilissima.

Leggiamone l’etichetta. “Grassi vegetali idrogenati”. Non c’è l’obbligo di dichiarare da quali
vegetali vengano. Si usano grassi spremuti da piante non commestibili, poverissimi a livello
nutritivo, dannosi per le coronarie, oli di scarto, perfino transgenici (la colza, pianticella dal fiore
giallo da cui si ricavano migliaia di tonnellate di oli per vari usi, è una delle coltivazioni Ogm più
diffuse al mondo). In più questi innominati oli vegetali vengono “idrogenati” per solidificarli, così
da poterli utilizzare industrialmente per dare forma e consistenza al prodotto… trasformando però
quei grassi acidi in transaturi (“trans”) ritenuti responsabili d’interferire con i sistemi di regolazione
del colesterolo.
Quindi, sì, forse la margarina è lievemente meno grassa del burro, ma non per questo più leggera;
basta capire quali sono gli ingredienti di un panetto per avere riscontro di quanto può pesare sulla
nostra buona salute, sull’ambiente, sull’organismo. La provenienza dei grassi vegetali di cui è
composta la margarina è incerta e non c’è obbligo di indicarla in etichetta. Il costo bassissimo è
indice di materie prime povere. Le qualità nutrizionali di questi grassi sono pessime.
L’idrogenazione dei grassi ne peggiora ulteriormente la qualità.

Il condimento grasso più salutare è sempre l’olio extravergine d’oliva.


Sono in commercio margarine composte da grassi non idrogenati, si trovano anche e
soprattutto nei negozi “bio”.
Se il burro proviene da pascoli d’alta montagna, da latte di mucche allevate in libertà, al sole,
nutritesi d’erba e fieno o da agricoltura biologica, è certamente più salutare di ogni surrogato
industriale. E se si desidera un gratificante condimento bianco panna, niente pallide imitazioni:
ogni tanto, concedersi l’autentico sapore di un ricciolo di burro non vietato.
30. LE PATATINE FRITTE FANNO MALE?
Quell’immancabile tassello delle feste in famiglia e tra bimbi, il momento di pausa con lo
scrocchiante sacchetto in mano, la rotonda sfoglia salata che s’adatta alla forma del palato
ammantandolo di gusto… sapidi e tondi attimi di piacere che le recenti preoccupazioni salutistiche
stanno un po’ appannando.
Preoccupazioni non del tutto peregrine. In effetti, un intransigente nutrizionista non promuoverebbe
la patatina fritta a pieni voti. Amido (la patata), grasso (l’olio), sale. Tutto qui.
Ebbene, proprio questo è il loro punto forte rispetto ai nuovi competitor.

Nuovi competitor. A partire dalla materia prima: la patata è una delle colture più efficienti al
mondo nel rapporto tra terra coltivata e capacità produttiva. Un ettaro di terra coltivato a patate
sfama più persone di tutte le altre specie coltivabili. Ma soprattutto è questo ingenuamente scarno
numero di ingredienti e lavorazioni a renderla preferibile ai concorrenti altamente processati che
hanno inondato il mercato, vincendo premi di marketing e conquistando consistenti fette di mercato.
Il più eclatante caso di recente successo commerciale di uno snack riguarda una linea di prodotti che
mimano proprio la forma tondeggiante e arcuata delle classiche patatine fritte, ma fatti invece di
amidi e farine in polvere, agglutinanti, glutammato monosodico, aromi artificiali. Le ha lanciate un
ex dirigente di una multinazionale chimica, dopo aver inventato i pannolini col marchio Pampers.
Frittura o cottura al forno, poco cambia.
Può darsi che in forza di sofisticati procedimenti produttivi il gusto risulti più frizzante. Ma a prezzo
di una complessità lavorativa esponenzialmente maggiore e un’elaborazione degli ingredienti che
non possono mai essere considerati indizi di genuinità.
Le virtù nutrizionali delle patatine fritte non sono superlative, in sé, ma complessivamente sono
preferibili rispetto a ogni altro snack salato, surrogato, alternativo.

Per reazione, i maggiori produttori di patatine fritte si sono impegnati a migliorare la qualità
degli oli impiegati in cottura, a ridurre i tempi di cottura e la quantità di olio che le impregna, e
a ridurre il sale. Per una patatina ancora più buona e appetibile, in ogni senso.

31. L’ACQUA MINERALE È MIGLIORE?
L’Italia è da anni il primo paese in Europa e il terzo al mondo (dopo Emirati Arabi Uniti e Messico)
per consumo d’acqua minerale in bottiglia: ogni italiano ne beve poco meno di 200 litri, spendendo
in media quasi 300 euro. Il giro d’affari annuo è nell’orbita dei due miliardi di euro, un quarto dei
quali reinvestiti in pubblicità. Alcuni lo chiamano “affaire acque minerali”, citando canoni di
concessione irrisori (risalenti a tariffe del 1927) rispetto a profitti milionari, leggi un po’
accondiscendenti verso alcune sostanze indesiderabili, abile costruzione di un’immagine
accattivante attraverso pubblicità martellanti, svariati rilievi mossi in più riprese a diverse marche
dal Giurì di autodisciplina, etichette reticenti...
È vero che l’acqua minerale sottostà a minori controlli rispetto all’acqua di acquedotto, controllata
anche due volte a settimana (contro le due all’anno degli stabilimenti idrici). È vero anche che in
alcuni casi l’acqua in bottiglia può contenere più contaminanti di quella di casa e che le etichette
possono omettere alcune voci scomode (fluoro e fluoruri; metalli pesanti indicatori
dell’inquinamento dell’acqua).

Sodio e nitrati. Come si sceglie l’acqua minerale? Leggendo l’etichetta. Esistono grandi bacheche
online di etichette di tutte le acque minerali commercializzate in Italia, utili per dare un’occhiata
anche ai dati analitici in etichetta. Vi si trovano i dati su residuo fisso (Tds), sodio, potassio, calcio,
magnesio, cloro, fluoro, bicarbonati, solfati e nitrati. Generalmente questi siti non offrono chiavi di
lettura critiche. Per cui ne diamo un paio qui.
Il sodio. Declamato da ogni pubblicità di ogni acqua minerale…
I nitrati. Le acque minerali con contenuti di nitrati superiori a 10 mg/l sono sconsigliate alle donne in
gravidanza e non sono adatte per la prima infanzia. Quindi, più bassi sono i nitrati, meglio è. Alcune
acque ne hanno valori pari a zero.

La biobottiglia. Ogni anno, in Italia, finiscono tra i rifiuti 150 mila tonnellate di bottiglie di plastica,
e le autostrade italiane traboccano di camion che trasportano da un’estremità all’altra del paese
milioni di bottiglie di acqua, il bene pubblico più comune e capillarmente diffuso.
Per quanto concerne l’inquinamento da bottiglie di plastica, un grande produttore italiano – che tra
l’altro aveva già puntato sulla naturalità, essendo un’acqua con nitrati bassissimi e adatta
all’alimentazione neonatale – ha lanciato sul mercato la prima bottiglia di plastica biodegradabile:
il polimero (una catena ripetitiva composta da uno stesso tipo di molecole) ricavato dalla
fermentazione del mais andrà a costituire il materiale termoplastico. Attualmente questo materiale
viene già utilizzato per i bioimballaggi, ovvero per gli imballaggi di prodotti alimentari biologici.
La biobottiglia è biodegradabile al 100%. Ciò significa che una volta terminato il suo utilizzo, la si
può tranquillamente conferire alla parte organica dei nostri rifiuti, così da essere lavorata
ulteriormente per produrre il compost. La bottiglia non si scioglie a contatto con l’acqua, in quanto il
processo di biodegradazione avviene in particolari condizioni e cioè grazie alla presenza di batteri
che lavorano proprio in assenza di ossigeno (processo definito anaerobico).

Insomma, non ci si può sentire in colpa per un sorso d’acqua cristallina, una “cara” bevuta ogni
tanto di acqua minerale d’alta quota con un basso residuo fisso e zero nitrati… Le marche in
vendita nei negozi d’alimentazione biologica garantiscono standard qualitativi eccellenti e
purezza incontaminata delle zone d’estrazione.

32. L’ACQUA DI RUBINETTO SA DI CLORO?
In effetti, l’acqua di rubinetto costa dalle 600 alle 5.000 volte in meno di quella minerale
imbottigliata. Ma è buona? “Ci sono acque erogate dagli acquedotti di ottima qualità e acque
minerali al limite della potabilità – scrive Matteo Giannattasio su Valore Alimentare, il bollettino
del maggior distributore di prodotti biologici in Italia, nel febbraio 2006 – ma si registrano anche
situazioni inverse. L’acqua dovrebbe sgorgare dal rubinetto limpida, insapore e inodore. Se sa di
cloro, bollitela per qualche minuto in una pentola scoperta prima di berla. Al mattino, come pure nel
caso in cui i rubinetti siano rimasti chiusi per molto tempo, fatela scorrere per qualche minuto. Gli
apparati per migliorare la potabilità dell’acqua (osmosi inversa, filtri meccanici e a carbone attivo)
vanno usati solo se è accertata la cattiva qualità dell’acqua erogata”. Secondo tutte le inchieste di
Altroconsumo dal 2003 in poi l’acqua di rubinetto, anche delle città, è più buona di quello che si
pensa.

Si può bere con tranquillità. La normale acqua di rubinetto può essere migliore di quella nelle
bottiglie di plastica, che sta molto tempo in bottiglia, in viaggio o in magazzino, non sempre stoccata
nel migliore dei modi, a volte persino esposta al sole (e i sali di metalli utilizzati come additivo per
stabilizzare la plastica delle bottiglie rischiano di essere rilasciati nell’acqua).
Resta la questione del sapore. L’acqua di molte città italiane è alquanto calcarea, e la patina bianca
sul fondo delle pentole è sgradevole. Non è gradevole nemmeno il lieve sentore di cloro che viene
iniettato periodicamente nelle condutture degli acquedotti per esigenze igieniche. Però il cloro è un
gas. Vola via. Riempire una brocca d’acqua al mattino e riporla in frigo garantisce alla sera
un’acqua limpida, viva e priva di cloro.

L’allure. C’è un altro handicap di cui soffre l’acqua di rubinetto rispetto a quella imbottigliata.
Sembra un po’ povera.
Allora lo stilista Pierre Cardin ha griffato una bottiglia d’acqua d’autore per la municipalizzata
dell’acqua potabile di Parigi, Eau de Paris. Quest’idea è nata in seno alla società dopo un sondaggio
secondo cui il 51% dei parigini beve acqua imbottigliata. La Eau de Paris è certificata Iso 9002 e,
dal 2000, Iso 14001. Il pubblico ufficiale Franck Madureira ha dichiarato: “Quest’iniziativa serve a
dare all’acqua di Parigi anche un’immagine fresca, chiara e distintiva di quanto sia buona, per tutti”.
Eau de Paris ha distribuito le caraffe davanti all’Hôtel de Ville durante la giornata mondiale
dell’acqua il 22 marzo 2007 reclamando le qualità minerali e igieniche dell’acqua d’acquedotto,
altrettanto buone di qualunque acqua imbottigliata.

Non c’è bisogno di una griffe per migliorare la presentabilità dell’acqua di rubinetto. Una
sussiegosa brocca di cristallo svolgerà egregiamente questa funzione.



33. IL CAFFÈ DECAFFEINATO FA MENO MALE?

Rito italiano per eccellenza, declinato in mille versioni al bar, sul suo conto si sono diffuse
convinzioni non sempre radicate, non sempre generalizzabili, non sempre vere. Amato e apprezzato
per il suo aroma ricco e sensuale, prezioso per chi vuole mantenersi sveglio e attivo, le
controindicazioni del caffè (a seconda della sensibilità personale e della quantità) vanno
dall’alterazione del ritmo cardiaco e dei ritmi del sonno all’accentuazione di stati di ansia o di
depressione, effetti dovuti principalmente alla caffeina, un alcaloide il cui effetto stimolante è
conosciutissimo.

Meno conosciute sono le proprietà benefiche del caffè. Innanzitutto, sembra ormai smentita la tesi
secondo cui favorirebbe i tumori del pancreas e della vescica; sembra anzi che i polifenoli del caffè
possano avere un effetto anticancro. Anche la supposta pesantezza a carico del fegato è stata
riconsiderata. Alla fine del 2003 una notizia ha fatto gioire gli appassionati fruitori della tazzina
mattutina (e delle successive repliche): secondo il Dipartimento di Scienza degli alimenti
dell’Università Federico II di Napoli (su Alimentary Pharmacology & Therapeutics), cinque caffè
al giorno, il consumo medio dei bevitori di caffè italiani, farebbero aumentare del 16% nel plasma
la concentrazione di glutatione, il principale antiossidante endogeno prodotto dal fegato. L’effetto è
dovuto alle sostanze fenoliche presenti nella bevanda ed è il medesimo che sia espresso, moka o
decaffeinato. Il glutatione nel sangue potrebbe essere utile nella cura di epatiti C e cirrosi epatiche,
casi in cui si rileva un suo decremento.
Il caffè è utile nella terapia sintomatica dell’asma perché la caffeina, soprattutto nei pazienti giovani,
stimola la dilatazione dei bronchi. Giova a chi soffre di febbre da fieno e di riniti allergiche, in
quanto riduce l’affaticamento dei muscoli respiratori.
Aiuta a digerire perché eccita la secrezione cloridrica, grazie all’acido clorogenico, che c’è anche
nel decaffeinato. Acido che tra l’altro è in grado di inibire l’assorbimento intestinale di glucosio e
ridurne la quantità prodotta dal fegato, cosa che ha suggerito effetti positivi contro il diabete. La
conferma arriva fumante da uno studio americano: “Bere caffè riduce il rischio di contrarre la forma
più comune di diabete, quella che arriva con gli anni”. La ricerca della Harvard School, pubblicata
a gennaio 2004 negli Annals of Internal Medicine evidenzia come gli uomini che bevono più di 6
tazzine di caffè – stavolta non decaffeinato – al giorno riducano della metà le probabilità di
contrarre il diabete di tipo 2. Per le donne lo “sconto” di rischio è minore, ma comunque
interessante: le 6 tazzine al giorno abbassano i rischi di diabete del 30%. Ma lo stesso autore della
ricerca, Frank Hu, nota: “aspettiamo a incoraggiare una campagna preventiva di questo tipo, non
sappiamo ancora perché questo avviene e, soprattutto, quali problemi collaterali possano dare 6 e
più tazzine di caffè al giorno...”. Sembra perfino che i tannini del caffè possano avere un effetto
anticarie, perché contrastano lo sviluppo dei batteri cariogeni. Può dare una mano anche a chi vuole
dimagrire perché stimola la lipolisi epatica, ovvero aumenta la capacità dell’organismo di
“bruciare” i grassi dei tessuti adiposi, risparmiando gli zuccheri (glicogeno) che servono per gli
improvvisi scatti di energia.
Alla luce di tutto questo, le asserzioni salutistiche vantate dal caffè decaffeinato perdono un po’ di
credibilità.

Come si fa il caffè decaffeinato. Ovvio, il caffè va assunto con moderazione, ricordando pure che
il caffè fatto con la moka a casa ha il 20-25% in più di caffeina rispetto all’espresso del bar. Ma il
procedimento per levargliela ha poco a che fare con la genuinità. I chicchi vengono trattati con
vapore, poi l’estrazione della caffeina si attua con i solventi. Il solvente viene recuperato con la
caffeina, di cui l’industria farmaceutica è ghiotta. Infine, nuovo lavaggio con vapore ed essiccazione.
Si tratta di depauperare l’integrità di un alimento. Si tratta di usare solventi, derivati dagli
idrocarburi clorurati, non idrosolubili, e un lavaggio con acqua calda non può escludere
l’eventualità di residui la cui tossicità è pari a quella della benzina. Difatti nel caffè decaffeinato la
legge tollera residui di etilmetilchetone (butanone).

Concediamoci un normale caffè. Un piacere moderato non fa male.



34. CHE DIFFERENZA C’È TRA OLIO DI OLIVA ED EXTRAVERGINE?
Quanto fa bene alla salute, il condimento principe della dieta mediter ranea. È pieno di acidi grassi
monoinsaturi, tra le sostanze più attive per la prevenzione dei disturbi cardiovascolari. Abbonda in
acido oleico, capace di regolare i livelli di colesterolo (riduce il livello di colesterolo LDL, quello
“cattivo”, rispetto al livello del colesterolo HDL, quello “buono”). È una miniera di sostanze
antiossidanti: vitamina E, flavonoidi e sostanze fenoliche, preziose per contrastare l’invecchiamento
cellulare. Lo squalene, sostanza che abbonda nell’olio d’oliva, sembra efficace nel contrastare i
tumori della pelle.
In fatto di gusto, scriveva Luigi Veronelli, “l’opera dei nostri olivicoltori nel passato è stata tale da
far immaginare al mondo che l’olio d’oliva italiano sia migliore, ed è vero, è il migliore”. È vero
anche oggi. Solo che al supermercato bisogna stare attenti per identificare quello giusto. Perché
quello che è in vendita non è olio di oliva. Può non esserlo, essere una miscela, o provenire
dall’estero. Legalmente.

Cos’è l’olio di oliva. L’“olio di oliva” è, in realtà, olio lampante (cioè, usabile solo come olio
combustibile). L’olio lampante ottenuto per spremitura di olive cadute o di peggiore qualità non è
idoneo al consumo alimentare e allora viene raffinato per essere trasformato in olio d’oliva
“rettificato”.
Un centinaio di autobotti al giorno e più transitano per le maggiori raffinerie d’Italia, sia di oli
lampanti grezzi in entrata che di oli raffinati in uscita. I trattamenti possono comprendere l’uso di
talco e idrocarburi. Una volta ripulito di impurità e pessimi sapori, l’olio va miscelato a sua volta
con un po’ d’olio extravergine. Non importa quanto. Si aggiunge una percentuale imprecisata, a
discrezione, di olio extravergine, poi può essere inscatolato o imbottigliato come “olio d’oliva”.
Sull’etichetta infatti si legge “miscela di oli d’oliva e raffinati”. La legge non stabilisce il
quantitativo di extravergine da mischiare nel prodotto “olio d’oliva”. Alcuni ne possono mettere il
50 o 40%, altri il 30, 10, il 5%.
L’olio d’oliva è un olio lampante che diventa commestibile attraverso un discutibile processo di
raffinazione e con l’aggiunta a piacere di un goccio di extravergine. Sarà almeno un olio italiano?
No, ci sono ettolitri di oli lampanti che provengono da Turchia, Tunisia, Spagna, dal Maghreb al
Mediterraneo.

Cos’è l’olio extravergine d’oliva. L’extravergine è l’unico, autentico olio di oliva. Sarà italiano?
Sì, è in arrivo l’obbligo di aggiungere in etichetta la dicitura sulla provenienza. Ma anche qui
immagini, nomi di marchi e confezioni possono sviare la certezza dell’acquirente. Grandi marchi
che vantano radici ancestrali con il territorio (dalla Liguria alla Toscana) ritraggono artatamente
colline e frantoi in etichetta, ma in realtà imbottigliano oli stranieri. È prodotto con olive italiane
solo se è scritto precisamente in etichetta, non se l’etichetta evoca verdi declivi toscani e mulini di
pietra.
Dovendo scegliere…
Sì all’olio extravergine d’oliva da agricoltura biologica. Le olive da coltivazione biologica
provengono da piante mai trattate con pesticidi, bensì sottoposte a controlli e prelievi periodici su
foglie, radici e terreno. Raggiunto il giusto grado di maturazione, sono raccolte e subito sottoposte
alla “spremitura a freddo” (macinatura e spremitura meccanica al di sotto di 40 °C), la sola in grado
di mantenere intatti i principi nutritivi dell’oliva: miglior resistenza all’ossidazione e
all’irrancidimento del succo prodotto, mantenimento delle vitamine naturali e dei principi attivi
delle olive ed esaltazione del sapore.
Sì all’olio extravergine d’oliva Dop o 100% italiano. Ottenuto dalle olive con spremitura
tradizionale (con macine, o meccanica) non subisce manipolazioni chimiche, ma soltanto il normale
lavaggio, la sedimentazione e la filtrazione. Alla denominazione è davvero preferibile che sia
aggiunta l’indicazione della provenienza, tutelata dal marchio Dop: le regioni italiane sono ricche di
oli dai mille sapori e aromi, molti coltivatori lavorano ancora con orgoglio e i disciplinari
costituiscono una garanzia in più.
Sì all’olio vergine d’oliva. Ottenuto meccanicamente dalle olive, non ha subito manipolazioni
chimiche; è un po’ più acido dell’extravergine (non più del 4% in peso di acido oleico, cioè
d’acidità).

No a tutti gli altri oli. No all’olio d’oliva. Tutti pensano che sia un extravergine un po’ più
leggero, invece è olio d’oliva rettificato con un filo d’olio vergine. No all’olio d’oliva rettificato.
Prodotto pessimo, ottenuto dagli scarti non edibili della spremitura delle olive, resi commestibili
con processi ad alcali o fisici.
No all’olio di sansa e d’oliva. Ottenuto dalla miscela d’olio di sansa rettificato con oli vergini
d’oliva, con non più del 3% in peso d’acidità (acido oleico). È usato per le focacce e le pizze
confezionate in vendita in molti supermercato. No all’olio di sansa. Olio di infima qualità
estratto dall’ulteriore macinazione e spremitura di ciò che resta delle olive infrante. Il suo
residuo purtroppo se lo devono mangiare i poveri bovini d’allevamento.
No all’olio di sansa d’oliva rettificato. Ottenuto dall’“olio” estratto con solventi dalla sansa
d’oliva e da olio lavato (cioè ottenuto lavando con acqua la sansa, i residui delle olive già
spremute) reso commestibile come per l’olio d’oliva rettificato. Un orrore alimentare. Occhio
perché viene usato in ristoranti, mense e grande ristorazione.

35. L’OLIO DI SEMI È PIÙ LEGGERO?
C’è in ogni cucina, ne usiamo a quintali per le fritture (dal 2 al 3% degli oli prodotti sono d’oliva,
gli altri sono tutti di semi o altri vegetali) e ne ingoiamo a etti in margarine, prodotti da forno,
maionese e salse varie. Purtroppo è fatto mettendolo a bagno nella benzina.
La maggioranza degli oli vegetali in commercio – e la totalità di quelli utilizzati dalle industrie –
sono “raffinati”.
L’olio si estrae dai semi (o dalla sansa di oliva) con solventi, principalmente con un idrocarburo:
l’esano, componente base della benzina per autotrazione – liquido incolore che infatti ha un forte
odore di benzina – molto infiammabile, irritante, nocivo, pericoloso per l’ambiente e tossico per il
sistema riproduttivo. Un formidabile solvente.
Dopo essere stati decorticati e lavati, i semi oleosi vengono ridotti in minuscoli pezzetti da mulini
speciali. Così macinati, sono riscaldati e portati a un’umidità prestabilita e spremuti con passaggi in
presse continue (alte pressioni e 180-190 °C di temperatura). Il prodotto così ottenuto è pieno di
mucillagini, farine di seme e piccoli pezzi dello stesso. Non è utilizzabile, non è commestibile. Lo
diventa per raffinazione, in queste fasi.

Degommazione. I semi sbriciolati e il loro composto vengono messi in un bagno di esano (o eptano,
altro componente della benzina) e agitati. Si cominciano così a rimuovere gomme e mucillagini.
Dopo aver separato l’impasto di olio e solvente da ciò che resta del seme, il solvente viene fatto
evaporare a 150 °C. Questa fase del processo rimuove fibre, carboidrati, proteine e fosfolipidi (tra
cui la lecitina). La degommazione rimuove anche la clorofilla, calcio, ferro, magnesio e rame.

Deacidificazione. L’olio viene mischiato con una base corrosiva come la soda caustica (idrossido
di sodio), o una miscela di soda caustica e carbonato di sodio. Questi composti ne abbassano
l’acidità a un livello adatto per l’alimentazione umana. La miscela viene agitata e separata. Questo
processo, che avviene a circa 75 °C, rimuove gli acidi grassi liberi dall’olio, ma rimuove anche
fosfolipidi e minerali. L’olio mantiene ancora pigmenti, che gli fanno assumere generalmente un
colore giallo. Dopo questo passaggio si fanno trattamenti con acque tecnologiche per eliminare la
saponificazione.
Decolorazione. L’olio viene trattato con filtri per 15-30 minuti a 110 °C, per rimuovere tutti i
pigmenti (clorofilla e betacarotene) ed eventuali tracce di sapone da precedenti trattamenti. Vengono
anche rimosse sostanze aromatiche naturali. Durante questo processo, gli acidi grassi essenziali
vengono alterati (si formano perossidi e acidi grassi coniugati).

Deodorazione. A questo punto l’olio sa di frittura, allora viene distillato a vapore a 240-270 °C,
sotto pressione e in assenza di aria, per 30-60 minuti. Vengono rimosse sostanze aromatiche, acidi
grassi liberi, molecole generate dai processi precedenti che danno un sapore sgradevole all’olio. Si
rimuovono anche i tocoferoli (vitamina E), i fitosteroli e alcuni residui tossici (pesticidi e tossine).
È in questa fase che si formano gli acidi grassi “trans” nella misura del 5% circa. Quindi in una
bottiglia di olio di semi da un litro ci sono circa 5 grammi di grassi trans.

Demargarinazione. Rimozione delle cere. L’olio è (finalmente) inodore, insapore, incolore ed è


pronto per essere utilizzato direttamente dal consumatore, oppure per essere messo negli alimenti
che contengono la dicitura “oli vegetali” negli ingredienti.

L’olio vegetale sembra leggero solo perché ha un colore più chiaro e non ha più né sapore né
profumo. Non è meno “grasso”: in realtà tutti gli oli sono costituiti al 99% da lipidi e quindi tutti
apportano all’organismo 9 chilocalorie per grammo.

L’estrazione dell’olio dai semi può però anche avvenire con procedimenti esclusivamente
meccanici, a temperature che mantengono inalterate le caratteristiche dell’olio. Per
individuare un olio non raffinato basta cercare la dicitura “ottenuto solo con procedimenti
meccanici” o diciture equipollenti. Di solito questi oli sono da agricoltura biologica. Ovviamente
sono di migliore qualità. Estraendo meccanicamente l’olio si mantiene un buon tesoretto di
nutrienti: i semi e i frutti sono, in partenza, ricchi di sostanze importanti per la nostra salute,
minerali, vitamine, acidi grassi essenziali, aminoacidi, fibre, lecitina, steroli vegetali.

36. LO ZUCCHERO FA VENIRE LA CARIE?
Dal cappuccino mattutino al dessert serale, le occasioni per un cucchiaino di zucchero non mancano
mai. Lo zucchero bianco si ricava sottoponendo a raffinazione il succo di barbabietola. Purtroppo è
un processo che priva il succo delle sue componenti vitaminiche e minerali oltreché d’altre
sostanze; ciò che si ottiene è praticamente saccarosio puro. Un carboidrato puro, senza più enzimi,
minerali o fibre che attutiscono l’aggressione ai denti – ecco perché fa venire la carie – e viene
assimilato rapidamente dall’organismo, entrando nel circolo sanguigno cinque minuti dopo il
consumo. Modificando così velocemente la glicemia (il tasso di zucchero nel sangue) si stimola la
produzione di insulina, l’ormone che ha il compito di regolare l’utilizzo delle sostanze nutritive, ma
che ha anche l’effetto di favorire l’appetito e la sintesi dei grassi, nonché uno stato di lieve
infiammazione diffusa. Si parla di incendio glicemico. Una reazione a catena.

Non solo carie. Il problema dello zucchero bianco, dunque, non è tanto e non è solo l’effetto
cariogeno. Il problema è che ha solo calorie “vuote”, che fanno aumentare troppo velocemente la
glicemia, che fa aumentare a sua volta di molto l’insulina e questa fa alzare i fattori di rischio di
molte malattie, anche tumorali. I picchi di insulina mandano poi in ipoglicemia, e questa fa venire
fame di zuccheri, e più mangiamo zuccheri e più abbiamo fame di zuccheri. Eccola, la vera trappola.
È per questo che il consumo di elevate quantità di zucchero raffinato è correlato al sovrappeso e
all’obesità. Infine, l’organismo per metabolizzare lo zucchero brucia vitamine del gruppo B,
aminoacidi, vitamina PP e acido pantotenico.
Tutto ciò però non deve far considerare un veleno lo zucchero bianco; l’effetto che può avere sulla
salute dipende molto anche dalla quantità e dalla frequenza con cui lo si consuma e dalle abitudini
alimentari nel loro complesso. Al suo posto si può usare tranquillamente lo zucchero di canna
integrale grezzo, quello di colore beige-dorato, non raffinato. Si ottiene facendo evaporare tutta
l’acqua dal succo della canna, senza alcun processo di raffinazione. È scuro e aromatico, dal
profumo simile a quello della liquirizia, con potassio, magnesio e oligoelementi, conserva anche
tracce di vitamine del gruppo B e vitamina PP. Si tratta quindi di un alimento molto più equilibrato;
il suo effetto sulla glicemia è più modulato rispetto allo zucchero bianco. È adatto per dolcificare il
caffè e molte altre bevande, anche se per qualcuno il suo gusto può risultare strano. È perfetto per i
dolci a base di frutta fresca o secca.

Scegliete zucchero di canna integrale, biologico, meglio ancora equo e solidale.



37. QUALI DOLCIFICANTI USARE?
Negli ultimi quarant’anni è scoppiata la guerra allo zucchero: abbasso calorie, carie e glicemia. Nel
frattempo sono state sintetizzate decine di molecole che, con un potere dolcificante multiplo rispetto
al vecchio zucchero bianco, sottopongono a minori sollecitazioni il pancreas e apportano un
contenuto calorico bassissimo o pressoché irrintracciabile; 0,4 chilocalorie per una dose che
dolcifica quanto un cucchiaino di zucchero. Ma…

Aspartame. È il più costoso edulcorante sintetico. È sospettato di essere, in individui sensibili,


causa di diversi effetti collaterali ed emicrania, reazioni allergiche. I ricercatori del Centro di
ricerca sul cancro della Fondazione europea di oncologia e scienze ambientali Ramazzini di
Bologna sono solo gli ultimi a suggerire che potrebbe indurre un aumento dell’incidenza di linfomi e
leucemie. Ciò potrebbe allarmare i milioni di persone che lo consumano quotidianamente nei
prodotti “light” o senza zucchero, nelle pilloline che si usano per dolcificare il caffè, in farmaci e
sciroppi.

Acesulfame K. “K” sta per potassio. È una polvere bianca cristallina scoperta appena due anni
dopo l’aspartame, nel 1967. Ha un potere dolcificante simile all’aspartame e metà della saccarina.
Il suo lieve retrogusto amaro viene mascherato dall’aggiunta di ulteriori sostanze chimiche. È più
stabile dell’aspartame, anche al calore, per cui viene usato nei prodotti da forno o conservati per
molto tempo, oltreché nelle bibite light. Secondo il Center for Science in the Public Interest, un vasto
network di scienziati statunitensi, è oggetto di studi e sospetti, che però non hanno ancora precisato
un’accusa concreta. Nel 1996 lo hanno imputato di cancerogenicità. È sconsigliato alle donne in
gravidanza e non si deve superare la soglia d’assunzione di 15 milligrammi per chilogrammo di
peso corporeo al giorno.

Sucralosio. È un dolcificante artificiale nato nel 1976. Il suo codice in Europa è E955. Si ottiene dal
vero zucchero rispetto al quale è 600 volte più dolce. Ha suscitato polemica una campagna
pubblicitaria Usa che lo definiva “fatto con vero zucchero”. Suscita perplessità il fatto che contenga
cloro e che la molecola appartenga alla famiglia dei gas responsabili del buco dell’ozono. L’azienda
produttrice afferma che viene assorbito dall’organismo solo per il 15-20%, il resto viene espulso;
inoltre è insolubile nei grassi, quindi non si accumula nei lipidi, nel nostro organismo.

Saccarina (E954, sulfimmide benzoica). È l’edulcorante industrialmente più economico, si usa nella
forma del sale di sodio (saccarinato di sodio). Pura ha un sapore sgradevolissimo; perciò si miscela
con ciclammato. Peccato che saccarina e ciclammato, due ingredienti base di moltissimi dolcificanti
in commercio, di quelli che si trovano ovunque, al bar, al supermercato, insieme non vanno
d’accordo. Nel 1977 il Canada’s Health Protection Branch, la massima autorità pubblica canadese
in fatto di sicurezza alimentare, ha proposto alla Fda (Food and Drug Administration) di porre al
bando il composto saccarina e ciclammato, poiché si erano evidenziate correlazioni con tumori
dell’apparato urinario. In Italia la produzione e l’importazione di saccarina erano del tutto vietate.
Poi, nel 1980 il divieto è stato in parte abrogato. Nel 1992 sono cadute le ultime limitazioni d’uso.

Ciclammato (E952, acido N-cicloesilsulfammico); insieme con la saccarina, è fortemente sospettato


di azione cancerogena. Il ciclammato ha regnato negli Usa come alternativa allo zucchero dal
dopoguerra fino al 1970, quando la Fda lo mise al bando. Nel 1980 fu rimesso in commercio. “Non
appare cancerogeno di per sé – dissero al Cancer Assesment Committee – sebbene alcune prove
dimostrino che può promuovere la crescita di tumori quando è combinato con altri agenti
cancerogeni”. Ai poveri topi sono stati fatti ingurgitare interi panetti di saccarina e di ciclammato, e
alla fine hanno sviluppato vari tumori. Come al solito, le prove sugli animali non hanno dato risultati
certi, e gli epidemiologi che valutano gli effetti sull’uomo rimangono perplessi.

Per chi non riesce ad abbandonarsi tranquillamente all’uso di molecole così complesse che prima di
essere commercializzate abbisognano di anni di studi di tossicità combinata e cronica,
carcinogenicità, effetti genotossici e farmacologici, esistono molti dolcificanti alternativi allo
zucchero bianco:

il fruttosio: lo zucchero contenuto nella frutta e nel miele; di recente


sono stati posti in commercio su larga scala ottimi zuccheri fluidi dalle
mele, dall’uva, dall’agave, anche da agricoltura biologica;
il malto: il cereale viene fatto germinare per attivare il suo potere
enzimatico, in virtù del quale gli amidi si trasformano in zuccheri. C’è
il malto di grano, fluido e dorato, che sa di pane. Il malto di mais,
sembra proprio di sentire il gusto dolce della pannocchia. Il malto di
riso, più chiaro e liquido, il malto d’orzo;
i polialcoli mannitolo (E421), che si trova in varie specie vegetali tra
cui i funghi, il sorbitolo (E420) in piante e frutta, e lo xilitolo (E967).
Ai polialcoli sono attribuiti effetti lassativi.

Soffermiamoci però un momento sul gesto in sé dello “zuccherare”. Che motivo c’è di alterare
il sapore di un cibo, di una bevanda, con l’aggiunta di zucchero? Si tratta solo di abitudine. Qual
è il vero gusto di una tazza di caffè e di tè?

38. BIOLOGICO? NO, QUI SOLO ROBA NORMALE
Mi avvicino alla commessa del banco frutta di quel supermercatone per chiedere se e dove fossero
le carote da agricoltura biologica. Le carote sono radici, affondano nel terreno, ci tengo
particolarmente che non siano cresciute tra fertilizzanti chimici né impregnate di antimuffa. Da dietro
le bilance la commessa guarda con aria stolida e stupita: “Biologico? No, no, qui teniamo solo roba
normale”.
Finché la “roba normale” sarà quella coltivata in serra, pompata con fertilizzanti e ormoni vegetali,
cresciuta tra diserbanti e pesticidi, non riusciremo a capirci. Se fosse ben chiaro, se fosse scritto, se
si chiamassero le cose col proprio nome, la scelta sarebbe tra “carota chimica” e “carota bio”.

L’agricoltura biologica. A differenza di quella “normale” l’agricoltura biologica non stressa il


terreno fino a impoverirlo, bensì lo arricchisce e preserva un’equilibrata fertilità. È sana, amica
dell’ambiente, nemica dell’inquinamento e dello sfruttamento intensivo. Vieta l’uso nei campi di
sostanze chimiche nocive per l’ambiente e per l’uomo, diserbanti, fertilizzanti e sementi Ogm. Tutto
è rigidamente normato a livello europeo. Possono esservi anche allevamenti “bio”: vietati mangimi
Ogm, punture di antibiotici e stimolatori della crescita. Al loro posto erba, fieno e vero becchime.
Gli animali non possono crescere in gabbia o in batteria, devono essere alimentati con prodotti
biologici certificati, mantenuti in aree adeguate alle loro necessità etologiche, con luce naturale,
sole, spazi coperti e all’aria aperta con possibilità di pascolo su superfici erbose. Si possono
muovere, fanno una vita più sana e dignitosa. I prodotti animali così ottenuti saranno migliori.
Quando in un articolo ho scritto che il latte contiene vitamina D, un nutrizionista mi ha rimbeccato:
solo quello “bio”. La vitamina D viene sintetizzata dall’organismo quando si sta al sole, e solo le
mucche allevate con metodo “bio” lo vedono, il sole. Nonostante il momento di crisi, nel 2008
almeno 8 milioni di italiani hanno consumato cibi “bio”, con un aumento percentuale del 23%
rispetto all’anno precedente. Sette su 10 confermano di inserire perlomeno occasionalmente questi
prodotti nel carrello (Coldiretti-Swg 2009). Secondo il censimento 2009 Ismea/ACNielsen e Sinab
– il Sistema di informazione nazionale sull’agricoltura biologica – il primato europeo dell’Italia si
conferma anche per superfici agricole, in tutto 1.150.253 ettari, e per numero di operatori: 50.276 di
cui 45.224 produttori; 4.841 preparatori e 211 importatori esclusivi. La regione con il più alto
numero di ettari coltivati con metodo biologico è la Sicilia. Siamo quinti al mondo in termini
assoluti di superficie, dopo Australia, Cina, Argentina e Stati Uniti.

Il cibo certificato proveniente da agricoltura biologica è spesso più caro e non sempre si trova.
È più caro perché a volte la resa agricola è inferiore, e il circuito distributivo è differente. Chi
se ne importa. Secondo l’Istat la spesa media mensile, a famiglia, per l’alimentazione, oggi è
del 18%, contro il 60% del dopoguerra e il 35% del 1975. Si spende di più e più volentieri per un
litro di olio sintetico per l’automobile che per un buon extravergine “bio”. Il 18% per il cibo?
Spendendo un 1% in più si riempie il carrello di “bio”.

39. IL “BIO” FA BENE SOLO A CHI LO PRODUCE?
“Naturale non significa migliore, non ci sono prove che nutra di più e meglio”. La nuova accusa
rimbalza nell’estate 2009 da uno studio della Food Standard Agency (Fsa) inglese che ha incrociato
i dati di tutto quanto scritto e pubblicato sull’organic food, passando in rassegna 52 mila resoconti
scientifici a partire dal 1958. Insomma, secondo il direttore del progetto Alan Dangour “non emerge
prova di alcun beneficio significativo per la salute derivante dal nutrirsi di alimenti biologici.
Tracce di minime differenze si osservano, ma è improbabile che abbiano rilevanza per la salute
pubblica”.

Che cosa dice esattamente la ricerca. Si registrano per esempio differenze nella concentrazione di
fosforo, nell’acidità da cui proviene il sapore diverso e migliore. E la concessione al miglior sapore
è importante perché vuol dire che gli studiosi della Fsa non intendono schierarsi pro o contro, né
spingersi a dire che sono soldi buttati: “Si può preferire il cibo biologico, pagandolo di più –
osserva Dangour – perché lo si trova più saporito o perché si ritiene che faccia meno danni
all’ambiente in quanto coltivato senza sostanze chimiche. Ma non c’è prova che faccia meglio alla
salute del consumatore”.
“Non mi stupisce che l’autorità alimentare britannica – replica Giorgio Calabrese su La Stampa –
neghi un maggior valore nutritivo ai cibi biologici. Questa istituzione, diretta da Deirdre Hutton, ha
sempre difeso gli Ogm denigrando invece il biologico, che invece tanto amiamo in Italia… I prodotti
derivanti da tecniche di coltivazione e allevamento che rispettano la natura, bandendo qualsiasi
additivo chimico, sono gustosi, sicuri e soprattutto nutrienti, perché ricchi di vitamine, sali minerali
e oligoelementi. Il professor Alan Dangour e i suoi colleghi,tuttavia, lo negano, forse perché cercano
l’introvabile, vale a dire più proteine, grassi e zuccheri! In questo caso hanno ragione. Non ne
troveranno in più. Ma se cercassero gli antiossidanti si accorgerebbero che ne troverebbero molti di
più. E soprattutto non troverebbero residui di prodotti chimici che seppur tollerati dalla legge non
sono certamente salutari. Dangour usa un linguaggio tagliente contro l’ipotizzata maggior qualità dei
cibi biologici, ma poi diventa paternalista (e un po’ patetico)quando dice che se uno vuole spendere
un po’ di più, non fa male.
Andando ad approfondire, la ricerca prende in considerazione gli effetti statistici sulla salute umana,
ma non riesce a negare che i singoli cibi “bio” siano più integri. Ammette che non hanno residui
chimici mentre nei convenzionali c’è n’è un sovrappiù, ma a norma di legge. E non può smentire che
il “bio” faccia bene all’ambiente.

La frutta ringrazia. Siccome non viene pompata con fertilizzanti,annacquata con ormoni vegetali,
disinfettata con pesticidi chimici, la frutta ci ricompensa.
In Italia, la prima grande ricognizione dell’Istituto nazionale di ricerca degli alimenti presentata al
Salone Sana di Bologna nel 2002 ha sentenziato che mele e pere da agricoltura biologica durano di
più e sono più resistenti perché più ricche si sostanze protettive naturali. In un rapporto divulgato nel
2003 al Great Lakes Regional meeting dell’American Chemical Society, la più grande società
scientifica mondiale, Theo Clark, professore di biochimica alla Truman State University, ha scelto le
arance “bio” come primo target di studio perché sono un frutto di alto profilo. “L’arancia è la fonte
tradizionale di vitamina C, ha un vastissimo mercato mondiale, eppure nessuno aveva ancora
comparato i valori nutrizionali di un’arancia ‘bio’ e di una convenzionale”. Queste ultime sono più
grosse di quelle “bio” e hanno un colore più marcato. Date le dimensioni “uno poteva aspettarsi
almeno il doppio di vitamina C in quelle arance”, invece le analisi hanno rivelato che sono quelle
“bio” ad avere almeno il 30% in più di vitamina C.
Un altro studio comparativo del più grande istituto di ricerca sull’agricoltura biologica, lo svizzero
FiBL, nel 2007 evidenzia che i vegetali “bio” garantiscono benefici nutrizionali, livelli più alti di
composti secondari nei lipidi e di vitamina C, tendono ad avere qualità sensoriali superiori e i loro
metodi di lavorazione sono più attenti e scrupolosi. Un quadro confermato da tre studi tedeschi, tre
progetti di ricerca europei dell’Università di Hohenheim, in Germania, secondo cui pomodori,
pesche e mele biologiche hanno maggiori qualità nutrizionali rispetto a quelle convenzionali (a
ulteriore conferma dei risultati di una prima ricerca americana sui kiwi nel marzo 2004). I
ricercatori hanno scoperto che i pomodori biologici “contengono più materia secca, zuccheri totali e
residui, vitamina C, betacarotene e flavonoidi”. Studi precedenti avevano mostrato che i pomodori
“bio” avevano livelli più alti anche di vitamina A e licopene. Nel terzo dei tre studi gli scienziati
hanno concluso che le ciliege e i pomodori biologici possono essere raccomandati nell’ambito di
una dieta mirata alla prevenzione del cancro.
Un gruppo di ricercatori francesi ha notato anche che “le pesche biologiche hanno un maggior
contenuto di polifenoli al momento della raccolta” concludendo che “la produzione biologica ha
effetti positivi sulla qualità nutrizionale e sul sapore degli alimenti presi in considerazione”. Anche
il vino da uve “bio” è più ricco di resveratrolo, dice uno studio del 2002 della Leicester De
Montfort University. I ricercatori rilevano che “se ne trova in più alte concentrazioni proprio in
quelle piante non trattate con fungicidi artificiali e pesticidi”. Noto anche come protettore delle
coronarie, il resveratrolo pulisce le arterie ed è considerato un efficace fattore di riduzione del
rischio cardiovascolare. L’uva lo secerne come antiparassitario naturale: i trattamenti chimici lo
inibiscono, l’assenza di trattamenti nel biologico lo favorisce.

“Nessuno ha mai detto che un pomodoro bio rende più intelligenti. Ma se lo scegli, non mangi
pesticidi e residui chimici” (Marco Roveda, già fondatore di Fattoria Scaldatole, patron di
LifeGate). “Dal punto di vista nutrizionale, hanno scoperto l’acqua calda, sono partiti
dall’elemento più ovvio. Chi compra bio non lo fa per le vitamine” (Carlo Petrini, fondatore di
Slow Food). “Non sono le proprietà nutritive a fare la differenza, ma quelle organolettiche, il
sapore, il colore, la consistenza, il profumo, la digeribilità e la natura degli acidi; dovrebbero
studiare gli effetti sulla salute a lungo ter-mine” (Aldo Paravicini Crespi, tenutario dei terreni
di famiglia e della storica Cascina Orsine). “L’agricoltura convenzionale è governativa,
l’Inghilterra è in crisi e il bio va benissimo, hanno appena aperto un negozio di 1.000 metri a
Kensington e c’è la fila” (Angelo Naj Oleari, imprenditore, creatore con Milly Moratti della
catena di negozi “bio” Centro Botanico).

40. IL BIOLOGICO È SICURO?
Per le produzioni da agricoltura biologica, oltre alle prassi produttive e alle diciture previste dalle
leggi sull’etichettatura dei prodotti alimentari, sono necessarie ulteriori accortezze, dettagliate dal
Regolamento 2092/ 1991/Cee (integrato, nel tempo, dai Regolamenti 2083/1992/Cee,
1935/1995/Ce, 330/1999/Ce, 1804/1999/Ce). Un’attenzione normativa puntuale e aggiornatissima.

Quando può dirsi “bio”. Si possono usare riferimenti all’agricoltura biologica solo se il prodotto è
ottenuto con i metodi indicati dai Regolamenti europei e se l’azienda che lo commercializza si
sottopone periodicamente alle misure di controllo previste. È una certificazione volontaria,
aggiuntiva e di livello superiore rispetto alle norme di legge. Chi la adotta sceglie volontariamente
di adeguarsi a standard produttivi superiori, di seguire disciplinari più rigidi e intransigenti, di
sottostare a doppi controlli.
Sui prodotti, in etichetta, oltre a tutte le diciture di legge, si devono indicare il nome dell’organismo
certificatore di controllo, il codice attribuitogli dal Ministero delle Politiche agricole, gli estremi
dell’autorizzazione, il marchio europeo tondo con una spiga verde su fondo blu, adottato il 17
dicembre 1999 per marcare in modo riconoscibile tutti i prodotti.

Chi controlla? In un cibo “bio”:


le materie prime devono essere da agricoltura biologica certificata;


niente sostanze chimiche di sintesi;
non si possono usare Ogm di nessun genere in nessuna fase;
non è possibile sottoporre gli alimenti a radiazioni (mentre aglio, patate
e cipolle convenzionali possono essere irradiate con raggi gamma per
impedire loro di germogliare);
è vietato utilizzare additivi tranne quelli naturali inclusi in una lista di
venti righe (acido lattico, acido citrico, farine di semi), né aromi
artificiali;
è vietato usare ausiliari di fabbricazione nocivi (quelle sostanze
impiegate durante i trattamenti del cibo di cui possono rimanere tracce
da non indicare in etichetta).
Svolgono i loro controlli in campo, in azienda e sui prodotti 17 enti certificatori in Italia, dotati di
disciplinari e controllori propri, riconosciuti e autorizzati a livello ministeriale. I loro controlli si
aggiungono a quelli comuni a tutti i prodotti alimentari, vigilanza sanitaria e annonaria, Nas, Asl,
Ispettorato repressioni frodi, Camera di commercio, nonché ai controlli incrociati dei supermercati.
I casi già emersi di infrazione – dalle uova di un grande allevatore del Nord che cambiò ente
certificatore in modo sospetto al riso normale etichettato come biologico – sono stati considerati
indice di funzionamento dei controlli.
La scelta “bio” è oggi facilitata dalle nuove etichette: ciò che prima era proveniente “da agricoltura
biologica” ora è più semplicemente “biologico”. Dal 2009 si trovano etichette con su scritto “latte
biologico”, “pasta biologica” e così via, e va bene perché questo rende tutto ancora più facile e
immediato.

Venetia Villani, direttore di Cucina Naturale, ha spiegato le altre nuove tutele in una bella
intervista su LifeGate.it: “Il nuovo regolamento accompagna una maggiore tutela delle parole
utilizzate in commercio e che in qualche modo fanno riferimento al biologico. Se prima
un’azienda conven-zionale poteva anche chiamarsi ‘biomela’ piuttosto che ‘ecologica
pincopallino’ in etichetta, oggi non è più possibile. Un’azienda può avere un nome che fa
riferimento al biologico, all’organico o all’ecologico solo se produce un biologico certificato.
Questo perché non ci si può spacciare per produttori “bio” quando non lo si è”.

41. UN BICCHIERE DI LATTE CONTRO L’OSTEOPOROSI?
Ha una fama immacolata, il latte, soprattutto quando si parla di controllo e prevenzione
dell’osteoporosi. La merita davvero?
“I nutrizionisti – puntualizza Stefania Piloni su LifeGate Magazine – notano che siamo gli unici
animali del pianeta dediti al suo ossessivo consumo oltre lo svezzamento fisiologico: tutti gli altri
mammiferi, abbandonata la mammella, abbandonano il latte. E l’epidemiologia lo conferma: sono
proprio i paesi dove si consumano più latticini e proteine animali a fare i conti con l’osteoporosi.

Il calcio. Il problema è l’aumento di acidità provocato dalla digestione delle proteine animali.
“L’accumulo di acido – prosegue Stefania Piloni – impedisce al corpo di depurarsi e questo
equilibrio alterato degrada il calcio. Se l’acidità non viene eliminata le cellule non sanno come
tornare in equilibrio e purtroppo mettono in atto uno ‘scambio ionico’ svantaggioso: pur di depurarsi
e smaltire l’eccesso eliminano minerali preziosi, come calcio, ferro, magnesio e potassio”.
Recentemente Walter Willet, capo della Scuola di salute pubblica dell’Università di Harvard, ha
dichiarato che consumare latte e derivati non sempre rende le ossa più forti.

Anche l’American Journal of Clinical Nutrition pare d’accordo: le donne consumatrici di proteine
animali presentano una perdita ossea superiore rispetto a quelle vegetariane. Non vale solo per le
donne, e non solo per l’osteoporosi. Eppure, gli articoli di divulgazione ufficiale spingono
praticamente tutte le donne in menopausa a sentirsi in colpa se non mangiano latte e formaggi in
quantità contro l’osteoporosi.
Studiare il rapporto tra durezza dell’osso e cancro del seno induce a riflettere sulla necessità di una
maggiore moderazione nell’uso di latticini. Non si sa con certezza in virtù di quali meccanismi, ma
si sa che la ricchezza di calcio e sale nella dieta di chi mangia molti formaggi e latticini non
sfavorisce la genesi tumorale.

Tumori, diabete, intolleranze. Quando gli americani hanno visto le gigantografie di Rudolph
Giuliani fotoritoccate in modo da far sembrare le sue labbra bianche di latte, si sono indignati. L’ex
sindaco di New York ha il coraggio di dichiarare in pubblico la sua malattia, e questi scavezzacollo
della Peta (People for Ethical Treatment of Animals) se ne burlano. In realtà non c’è nessuna burla.
Alcune ricerche correlano davvero il consumo di latte al tumore alla prostata, e gli animalisti
americani hanno solo scelto un modo spudorato e irriverente per ricordarlo. Uno studio cinese del
2003 parla di una forte statistica di aumento tumorale prostatico correlato al latte, mettendolo in
relazione con i residui di estrogeni presenti in questo alimento. Si tratta di una relazione nota fin dal
1996, quando uno studio britannico segnalò che per ogni 200 millilitri di latte in più al giorno bevuti
in adolescenza, si registrava un aumento del 30% nel numero di casi attesi di cancro del testicolo in
età adulta. Dati poi confermati da una serie di lavori successivi, culminati nelle indicazioni espresse
dalla conferenza internazionale del World Cancer Research Fund a Londra di novembre 2007. A
questi dati s’aggiungono ricerche effettuate in California che spiegano come l’acido sialico presente
regolarmente negli animali, quindi anche nel latte e nella carne di manzo o vitello, si trova ad agire
negli esseri umani con possibili effetti tumorali.
Come documentato poi da un’altra ricerca americana, l’organismo riconoscerebbe le proteine della
mucca come nemiche, e tenterebbe di eliminarle, colpendo però anche una proteina simile, che
protegge invece dal diabete. In questo modo si spiegherebbe la relazione tra i due fatti, anche se è
comunque dimostrato che un’alimentazione ricca di latticini tende comunque a innalzare la resistenza
insulinica di una persona adulta, e quindi favorire lo sviluppo delle malattie con questa connesse.
Per quanto riguarda l’espandersi delle intolleranze, va segnalato che il latte è presente in fin troppe
preparazioni dell’industria alimentare, sia in quanto tale, sia sotto forma di siero di latte, lattosio o
proteine del latte; particolare attenzione quindi alle etichette che recano “siero di latte”,
“lattoalbumina”, “lattoglubulina”, “caseina”, “lattosio” o “proteine del latte” in biscotti, cioccolato,
merendine, brioches, alcuni tipi di crackers, gelati, creme, budini; in fiocchi di cereali, muesli, pan
carrè. Si trovano proteine del latte in salumi e insaccati, prosciutto cotto, salame, mortadella,
salsiccia, wurstel, ripieni di ravioli; in prodotti dietetici, iperproteici, vitaminici e integratori salini
per sportivi, oltre a numerosi farmaci che contengono lattosio tra gli eccipienti e molti prodotti di
cosmesi.

Al posto del latte si possono utilizzare tutti i latti vegetali: latte di mandorle, di riso, di avena,
di soia, di noci. Il latte di mandorle è delizioso. E per contrastare l’osteoporosi? Più proteine
vegetali, soprattutto soia e legumi in genere (fagioli, piselli, ceci, lenticchie...) e i cibi
naturalmente ricchi di vitamina D come broccoli e pesce azzurro; più spazio a sesamo e alghe,
naturalmente ricchi di calcio.

42. IL VINO È SINCERO?
Pur essendo un prodotto molto artefatto – coltivazione dell’uva, vinificazione, imbottigliamento e
lavorazioni con uso di sostanze chimiche – il vino ha sempre goduto di una certa impunità, venendo
esentato dal “dire tutta la verità” in bottiglia su ingredienti e trattamenti in etichetta. Vediamo quel
poco che si può decifrare.

“Imbottigliato da” o “all’origine”. La differenza tra l’azienda agricola e l’imbottigliatore si può


cogliere solo stando attenti alla preposizione “da”. “Imbottigliato all’origine” vuol dire che è
imbottigliato dalla stessa persona che ha prodotto le uve. Quando invece si legge solo “imbottigliato
da” vuol dire che quel vino non è produzione propria, non è di un’azienda agricola, di vignaioli,
bensì di imbottigliatori, commercianti, che possono anche acquistare partite di uve di provenienza
diversa.

I solfiti. A costruire il vino, oggi, nelle cantine, è il consulente, l’enologo. Si possono svolgere nelle
cantine fino a settanta trattamenti diversi. Uno di questi è l’aggiunta di un sale, il metabisolfito di
potassio, che nel mosto e nel vino si discioglie liberando i solfiti. Se la solforosa immessa è troppa,
il vino assume sapore e odore pungenti e uno sgradevole retrogusto. È l’unico antisettico permesso
in enologia. Non fa bene, ad alte dosi, difatti la legge italiana ne permette una dose massima di 160
milligrammi per litro nei vini rossi e di 210 milligrammi per i vini bianchi; nei vini dolci fino a 20
milligrammi per litro in più. In Francia i limiti sono più alti. Serve a proteggere il vino dall’effetto
ossidante e dà una certa garanzia di conservazione, facilita l’estrazione dei pigmenti dalle bucce
(azione solubilizzante), favorisce la sedimentazione dei composti colloidali dei mosti (azione
coagulante), inibisce i batteri e i lieviti sui quali effettua anche un’azione di selezione favorendo
quelli che producono più alcol e che portano a termine la fermentazione (azione antisettica),
permette una miglior conservazione della freschezza e dell’aroma del prodotto (miglioratore
organolettico). Ha anche un effetto sbiancante, impedendo l’imbrunimento enzimatico.

A partire dall’annata 2005 è entrato in vigore l’obbligo di riportare in etichetta o nella retro-
etichetta in caratteri chiari, indelebili e sufficientemente grandi, la dizione “contiene anidride
solforosa” o “contiene solfiti”, se si supera la soglia di 10 milligrammi per litro, dose che viene
prodotta naturalmente nella fermentazione. Vale anche per i vini provenienti dal-l’estero.
Anche i vini da uve di agricoltura biologica contengono solfiti. Si trovano comunque in
commercio vini che ne contengono meno del limite da esplicitare: si sta creando per loro una
nicchia di mercato.



43. PERCHÉ GLI AROMI ARTIFICIALI SONO DAPPERTUTTO?
Il motivo per cui possiamo gustare gelati al cocomero, patatine al sapore d’arrosto e bubble-gum
allo zucchero filato è l’elaborazione industriale di raffinatissime varietà di aromi artificiali.
Si trovano nel ripieno di molti ravioli confezionati. Il classico dado da brodo è composto da
“glutammato di sodio, estratto di carne, aromi”. Panettoni e pandori? Ingredienti: “Farina di
frumento, uva sultanina, burro, canditi, uova, lievito, latte in polvere, aromi, emulsionanti”. Una
spolverata di zucchero a velo? “Zucchero, amido di frumento, aromi”. “Aromi” (artificiali) nel
cioccolato, nelle caramelle, nella margarina; nel popcorn da forno a microonde, nei succhi di frutta,
specie in quelli “Ace” e nei nuovi gusti mix, nelle bibite gassate.

Se sono “aromi”, sono artificiali. Per indicare l’etilvanillina, il 3-Methylbutanal (aroma agrume), il
Methyl-butanoato (aroma mela), il 3-methylbut-1-yl methanoate o l’Isopent-1-en-1-yl ethanoate
(aromi di frutta)... si scrive solo “aromi”. Le essenze estratte realmente da piante o altri cibi si
chiamano “aromi naturali” e così devono comparire in etichetta. Quando si legge “aromi” e basta si
tratta di aromi artificiali.
I sapori identificabili dal nostro palato sono sei. Gli aromi decine di migliaia, e questi gas volatili
che si sprigionano dal cibo costituiscono parte essenziale del sapore stesso. L’industria degli aromi
si è sviluppata a partire dal XIX secolo, quando un chimico tedesco, sintetizzando per caso il
metilantranilato, notò che nel laboratorio s’era diffuso un forte profumo d’uva. Qualche tempo dopo
è uscito il Kool Aid, il primo succo di frutta all’uva al metilantranilato. Oggi la più grande azienda
americana produttrice di aromi, la IFF di Dayton, New Jersey, rifornisce le industrie alimentari
oltreché i principali marchi di profumo. “Una goccia della sostanza che dà il sapore dominante di
paprika – nota Eric Schlosser, autore di Fast Food Nation – basta a dare sapore a cinque piscine di
media grandezza. Ecco perché di solito gli additivi aromatici sono ultimi o penultimi nell’elenco
degli ingredienti. Il sapore artificiale di un cibo costa meno delle altre componenti”. Insomma,
l’onnipresente diciturina non dice nulla sul gioco di prestigio chimico che dà a un cibo manipolato il
suo gusto. “I cibi di oggi – incalza Schlosser – sono una tabula rasa: per dar loro un gusto specifico
si aggiunge una sostanza chimica. Aggiungendo metil-2-peridilchetone il prodotto sa di popcorn.
Aggiungendo etil-3-idrossibutanoato il prodotto sa di marshmallow. Le possibilità sono illimitate. I
cibi confezionati potrebbero contenere aromi artificiali come l’esanale (l’odore dell’erba appena
tagliata) o acido 3-metilbutanoico (l’odore di sudore) senza che cambi l’aspetto o il valore
nutrizionale”.

Le fabbriche. Schlosser conclude il suo capitolo con la visita a Dayton per un’inusuale prova
d’assaggio… senza cibi: “Da una dozzina di bottigliette di vetro si materializzavano i cibi, uno dopo
l’altro. Ho annusato ciliegie fresche, olive nere, fritto di cipolle e gamberi. Ma la creazione più
straordinaria… dopo aver chiuso gli occhi, ho sentito un hamburger alla griglia. Sembrava che in
quella stanza ci fosse qualcuno che rigirava gli hamburger su una griglia”.
La sapida cronaca d’una visita a un altro dei cinquecento stabilimenti al mondo in cui si sintetizzano
aromi artificiali la restituisce anche Marco Magrini, su Ventiquattro del dicembre 2003: “Dentro al
grande stabilimento c’è una pila di contenitori da 25 litri pronti per la spedizione, con su scritto:
‘manzo’. Poco più in là, ci sono altre cataste di ‘limone’ e ‘pompelmo’. Ma non una sola molecola lì
dentro su miliardi di miliardi ha mai pascolato su un prato o è maturata appesa a un albero. ‘Sono
molecole definite nature identical, identiche a quelle in natura – spiega Heini Menzi, vicepresidente
dell’azienda elvetica – che non hanno nessun impatto sulla salute anche perché sono potentissime:
con un chilogrammo, si possono aromatizzare da una a trenta tonnellate di alimenti’. Caramelle e
certi gelati industriali alla fragola non contengono fragole, ma etilfenilglicidato: una molecola
scoperta per caso nel 1880 che altrettanto casualmente ricorda da vicino la fragola. Oppure il Citral,
che in natura non esiste, ma sa ugualmente di limone. Al sapore della vera banana contribuiscono
225 elementi: 48 alcol, 10 aldeidi, 14 chetoni, 39 acidi, 100 esteri, 8 basi e 6 fenoli. Ma per
avvicinarsi a quel gusto basta usarne nove, tra cui quantità infinitesimali di eugenolo (che profuma
inequivocabilmente di dentista). Se qualcuno chiedesse perché al posto dei veri aromi vengono usati
quelli artificiali la risposta sarebbe semplice: ‘la vaniglia raccolta ogni anno – spiega Andreas
Muheim, giovane manager di stanza a Düsseldorf – basterebbe a soddisfare i consumi del solo
Belgio’. Ma c’è molto di più: un chilo di vaniglia naturale costa 10 mila euro; per quella artificiale
ne bastano 20”.

L’aroma di un cibo incide per il novanta per cento sulla percezione del sapore. Gli esseri umani
hanno acquisito il senso del gusto per evitare di rimanere avvelenati; in genere le piante
commestibili hanno un sapore dolce, quelle velenose amaro. Il gusto dovrebbe aiutarci a
distinguere il cibo adatto a noi da quello che non lo è. Gli aromi artificiali sviano ogni autentica
percezione. Sono sostanze probabilmente non nocive nelle quantità infinitesimali impiegate nei
cibi. Essendo spesso composti volatili, nella lista degli ingredienti (ordinata per peso dei
componenti) si trovano sempre in fondo. A volte sono molecole sintetiche identiche alle
sostanze naturali. Però di fatto possono costituire un inganno al consumatore perché
trasformano cibi poveri in squisitezze. Non sono indice di genuinità.
Per evitarne un po’, basta leggere le etichette. Si possono sempre trovare accanto agli altri i
dolci artigianali e quelli tipici. E, sempre, prediligere i prodotti biologici: secondo i disciplinari di
tutti i prodotti “bio”, l’impiego di aromi artificiali è vietato. I profumi devono essere quelli veri.

44.COS’È IL GLUTAMMATO MONOSODICO?
“Esaltatore di sapidità, glutammato monosodico”. Suona familiare? In effetti, spiando tra le righine
microscopiche degli ingredienti di parecchie scatolette vi ci si imbatte non di rado. Dadi da brodo,
piatti pronti, conserve di pesce, risi e minestre in busta. Perché lo contengono? Cos’è?

Una droga per le papille gustative. È un derivato dell’acido glutammico, aminoacido naturalmente
presente nei cibi. Conferisce il gusto umami, così battezzato dai suoi scopritori giapponesi, l’ultimo
scoperto tra la mezza dozzina di gusti base riconoscibili dal palato umano (dolce, acido, amaro,
salato, aspro). È una polverina biancastra che s’estrae anche dalla melassa. Il suo consumo da parte
dell’industria alimentare è stimato nell’ordine delle 200 mila tonnellate all’anno nel mondo. In
Europa è contraddistinto dalle sigle “E” che vanno dall’E620 fino all’E625, e ne è proibito l’uso nei
prodotti per l’infanzia.Esaltando la sapidità di un alimento può mascherarne carenze di gusto,di
lavorazione e di qualità degli ingredienti.

Quantità. Con un pranzo normale, ravioli in brodo, pollo arrosto, patate oppure conserve di pesce,
si può arrivare a ingerirne una quantità venti volte superiore a quella che assumeremmo naturalmente
con cibi non addizionati. Come ogni sostanza che si assume innaturalmente a dosi elevate per anni,
potrebbe scatenare intolleranze ed essere allergenico. Al glutammato monosodico e ai suoi composti
s’imputa la “sindrome da ristorante cinese”, sintomatologia caratterizzata da mal di testa,
palpitazioni cardiache, vertigini, nausea, contrazioni muscolari, dolori al collo e, a volte, cefalea.
Da Tokyo arrivò uno studio secondo cui la sua assunzione nel tempo può provocare un
assottigliamento della retina, danni oculari e all’ipotalamo, mentre altre ricerche lo collegano a
disturbi neurologici. Il glutammato è incluso da alcuni nella famiglia delle eccitotossine che possono
creare problemi nei soggetti sensibili (allergie, intolleranze, malesseri vari). Insomma, c’è chi lo
considera un veleno, c’è chi giura sulla sua innocuità.

È un “esaltatore di sapidità”. Ma, ci si può domandare, perché la sapidità di alcuni cibi


dev’essere “esaltata”? Il glutammato come additivo nei prodotti è nella maggior parte dei casi
un indice di scarsa qualità delle materie prime, quindi il consumo di tali prodotti è sconsigliabile,
a favore di quelli che non ne contengono: dadi da brodo, carni in scatola, piatti pronti e
prosciutto cotto. Moderarne l’uso, evitarlo negli alimenti preparati, ridurre l’impiego dei dadi
da brodo di cui è l’ingrediente principale.

45. TI VA UNA MERENDINA?
Merendine “preparate con lo yogurt”, “ricche di frutta”, “preparate come una volta”, “al miele”,
“naturali e leggere”? Le aziende alimentari attingono al frasario dei nonni per convincere bambini e
genitori a consumare merendine industriali. Il paesaggio da vecchia fattoria, bicchieri colmi di latte,
ciotole di miele, cesti di frutta fresca e campi di cereali servono a circuire le mamme distratte che
fanno la spesa, senza spendere qualche secondo in più per leggere le etichette.

Il packaging. Se si leggono le etichette di snack e merendine, infatti, ci si rende conto che il


contenuto non corrisponde granché a quanto decantato sull’involucro, nel contenitore e negli spot
televisivi! Un dolcetto industriale “al miele” ne contiene 1,4 grammi. Le merendine “allo yogurt” ne
contengono sì e no tra i 2 e i 4 grammi e l’unica caratteristica peculiare dello yogurt, ovvero i
fermenti lattici vivi, è inattivata dalla cottura ad alte temperature e dalla conservazione. La merenda
“con latte fresco” ne contiene meno di un grammo, la punta di un cucchiaino. Gli snack “alla frutta” a
malapena contengono 1 o 2,5 grammi di frutta (un frutto pesa 35-40 grammi) e spesso con anidride
solforosa o benzoati come conservanti. Gli ingredienti salutari sono sempre inferiori ai grassi.
Grassi insalubri che diventano solo ciccia.

Lo “schifezzometro”. Cosa sono le schifezze, quanto fanno male ai bambini e quando un cibo si
trasforma in schifezza ha provato a farlo capire nel 2008 il nutrizionista e psicologo Gabriele
Buracchi nell’eloquente Occhio alle merendine. “Io mi sono reso conto, come nutrizionista, che
spesso i bambini mangiano cose senza avere idea di cosa stanno mangiando – spiegava l’autore a
Caterpillar, Radio 2 – nella classica merendina, il prodotto di fast food o la bibita, se li si prende
in mano ci sono scritti gli ingredienti, ma sono illeggibili. E a volte sono collocati là dove la
linguetta si strappa”. Ha per questo ideato una tabella interattiva, lo “schifezzometro”, in cui
trascrivere gli ingredienti della merendina, del pandorino, dello snack, e desumerne la percentuale
di schifezze che contiene.
Il libro misura anche la tendenza a far ingrassare – il panciometro – nonché il risparmiometro, dove
ci si accorge che prodotti banali come chewing-gum, fatti di gomma, possono costare 38 euro al
chilo, una merendina di farina e additivi 25 euro al chilo.
Sarebbe sufficiente leggere le etichette dei prodotti prima di acquistarli: gli ingredienti sono indicati
in ordine di quantità decrescente, dalla maggior quantità in peso alla minore. Le mamme
scoprirebbero così che le merendine dei propri figli sono fatte di grassi, zuccheri, aria,acqua e
aromi artificiali.
Le merendine industriali sembrano piacere tanto ai bambini per vari motivi. Gli aromi artificiali che
danno allo snack gusto ed essenza.Micidiale lo zucchero, che provoca una sorta di dipendenza e
assuefazione. Un altro motivo è il packaging, la praticità e quindi la comodità assicurata ai genitori,
in abbinata ai gadget.

Allora, dove si va a documentarsi, sui giornali? No. Paolo Bianchi e Sabrina Giannini – autori di
La repubblica delle marchette – hanno incontrato la caposervizio di un settimanale femminile
che ha detto loro: “Ho proposto di scriverne con senso critico. E passava. Purché non uscissero
le marche. Con le marche non passerebbe... Ci fu un casino per il pezzo sulle merendine. Il
caporedattore mi disse che avremmo avuto dei problemi. Si parlava dei grassi saturi non
evidenziati in etichetta. Era un pezzo interessante che metteva a confronto le merendine in
commercio con quelle casalinghe, e si parlava della qualità diversa di grassi. Un’azienda di cui
si parlava ne usciva male...”.

46. PERCHÉ SE INGRASSI NON È COLPA DI MCDONALD’S?
Un caso giudiziario dibattuto in una corte di Manhattan nel 2003 è emblematico del nostro moderno
rapporto con il cibo. Un giudice federale di New York ha respinto un’accusa contro McDonald’s
indicando però, nel contempo, la strada per nuovi ricorsi contro la catena di fast food. La causa
mirava a riconoscere la McDonald’s Corporation colpevole di indurre obesità e malattie nei
teenager.

L’accusa. La catena di fast food “mentirebbe” a proposito degli alti livelli di grassi, zucchero, sale
e colesterolo nei suoi prodotti. La sentenza si legge sul New York Times del 23 gennaio 2003: “Il
giudice Robert W. Sweet della Federal District Court afferma che non è provato che McDonald’s
abbia nascosto le informazioni sugli ingredienti, ed è ampiamente risaputo che i fast food, e i
prodotti McDonald’s in particolare, contengono alti livelli di ingredienti potenzialmente dannosi”.
“Le persone sanno o dovrebbero sapere che mangiare abbondanti porzioni di prodotti McDonald’s
di taglia ‘big’ non è salutare e può causare un aumento di peso corporeo – argomenta il giudice
stesso – e non è compito della legge proteggerle dai propri stessi eccessi”.
Si legge ancora: “Nessuno è obbligato a mangiare da McDonald’s (eccetto, forse, i genitori dei
bambini allettati dal cibo, dai giochi, dalle promozioni, che sono obbligati ad accompagnarli)”.
Il caso poteva potenzialmente far esplodere una cascata di migliaia di altri ricorsi simili,
considerando che gli americani spendono più di 110 miliardi di dollari all’anno nei fast food. Ma il
giudice ha anche respinto l’accusa che i cibi di McDonald’s causino assuefazione.
La compagnia è soddisfatta: hanno sempre definito frivola questa causa intentata dall’avvocato di
due teenager, Samuel Hirsch. Il quale però pensa di riproporre il ricorso in forma emendata, in linea
con uno degli argomenti della sentenza, suggerito dallo stesso giudice Sweet.

In un’altra forma, l’accusa contro McDonald’s sarebbe fondata. Il gigante Usa può essere
accusato di alterare i cibi durante il processo industrialecommerciale, creando così “alimenti
sostanzialmente differenti e più pericolosi di quelli che è lecito aspettarsi”. Il giudice nota, per
esempio, che le Chicken McNuggets, invece che essere pezzetti di pollo fritti in padella, sono
un “composto di vari elementi inusitati e non comuni”.
Un simile argomento sì che “potrebbe stabilire che i pericoli dei prodotti McDonald’s non
possono essere comunemente noti né riconoscibili, e quindi che McDonald’s tiene un
comportamento scorretto verso i clienti”.
47. LE POLPETTINE DI POLLO SONO FATTE DI POLLO?
Enormi quantità di preparazioni di carne di pollo importate in Inghilterra erano adulterate, da
almeno cinque anni, con indefinite “proteine bovine e suine” che potrebbero presentare un nuovo
rischio Bse. Lo ha svelato un’inchiesta di The Guardian del 2002. Per “proteine” s’intende una
sorta di marmellata di tessuti di scarto di animali da macello, provenienti da non si sa dove, iniettate
nella carne di pollo in un processo chiamato tumbling così da aumentarne il peso, e i profitti.
La Food Standard Agency inglese ha condotto subito una batteria di test per quest’adulterazione su
vasta scala. L’8 luglio 2002 una notizia d’agenzia confermava: “In Gran Bretagna torna l’incubo
‘mucca pazza’. Milioni di polli surgelati adulterati con polveri di proteine bovine, che le autorità
ritengono a rischio Bse, sono finiti nel menu dei cittadini britannici. Nella carne dei polli
provenienti dalla Thailandia e dal Brasile verrebbero iniettate proteine bovine, in modo da
facilitare l’assorbimento d’acqua e aumentare, così, il peso dei prodotti”. Per chiarire il fatto e
soprattutto sgombrare il campo dagli interrogativi che le notizie hanno fatto gonfiare, uno: le
“proteine bovine e suine” non vengono iniettate nei polli vivi; due: non vengono iniettate nei “petti
di pollo”, ma nelle preparazioni di carne spezzettata che diventano nuggets, ovvero polpette.

Nelle betoniere. Quest’industria del tumbling è fiorente nei Paesi Bassi. Tonnellate e tonnellate di
carne di pollo cruda o surgelata vengono infilate in grandi betoniere e lavorate con acqua, per
fargliela assorbire e aumentarne il peso. Affinché l’assorbimento di acqua sia maggiore, si iniettano
anche additivi assorbenti: “proteine idrolizzate”. Proteine estratte ad alte temperature o per idrolisi
chimica da vecchi animali o parti non commestibili di bestie macellate. Da dove provengono queste
parti? Dall’inchiesta di The Guardian: “Il problema è che una volta che hai tritato pezzi di pollo in
poltiglia, quella poltiglia può contenere ogni cosa. Cibo per animali riciclato, carni iniettate con
proteine bovine e suine, antibiotici cancerogeni banditi: sono tutte cose trovate dalle autorità
recentemente nel pollo destinato alle preparazioni alimentari...”. E ancora: “La scoperta solleva
molte questioni. Che genere di proteine bovine sono usate? Se non si dichiara la presenza di tessuti
bovini in etichetta, come si fa a rimuovere dalla catena alimentare i materiali a rischio? C’è dunque
la possibilità di Bse nella carne di pollo”. Il portavoce dell’opposizione Kenneth Simpson
dichiarava: “L’inchiesta ha scoperchiato una pentola di marciume”. La Fsa è stata accusata di
risposte pilatesche, avendo dichiarato che “non si poteva essere in grado di bloccare gli import: non
è illegale aggiungere proteine bovine e suine al pollo, se viene dichiarato in etichetta”. Il capo della
Fsa Andrew Reilly affermava che però il fatto che l’origine del materiale bovino fosse sconosciuta
era fonte di seria preoccupazione. Sue Davies, policy adviser della Consumers’ Association, ha
richiamato in causa la Fsa per chiudere la lacune nella legge aggiungendo: “L’uso di proteine di
bovino e di suino nel pollo è scioccante”. Tim Lobstein, direttore della Food Commission, ha
commentato: “Ancora un altro scandalo che immette prodotti potenzialmente pericolosi nella filiera
del cibo”.

La pratica non si è interrotta. Cinque anni dopo, nel giugno 2007, il Times rivela che altre 63
mila tonnellate di preparazione di pollo proveniente dall’Olanda sono state “pompate” con
acqua e proteine diverse. Pollo destinato a fast food, ristoranti, mense, catering e ospedali.
Nonostante le insistenze dell’Ue e delle autorità inglesi, si continua a eludere l’obbligo di
etichet-tarlo come “pollo addizionato con acqua e carne o derivati bovini o suini”.
Evitare le chicken nuggets, le polpettine di pollo, se tra gli ingredienti c’è qualcos’altro oltre al
pollo.
48. UN FRUTTO SU DUE È CONTAMINATO DA PESTICIDI?
Lo dicono tutti i rapporti degli ultimi anni sui residui di pesticidi nei prodotti ortofrutticoli e
derivati, in Italia. Da anni le percentuali sono più o meno quelle. Tra gli alimenti controllati, spesso
è l’uva a fare la figura peggiore – a dirlo, dalle indagini di Legambiente alle inchieste di
Altroconsumo – ma generalmente male anche erbe aromatiche, sedano, pere, mele e agrumi.
I pesticidi sono sostanze chimiche di sintesi usati in agricoltura contro parassiti e malattie delle
piante coltivate. Irrorati sulle piante durante il periodo di coltivazione fino a pochi giorni prima
della raccolta, possono restarne residui sul prodotto finale. Si calcola che ogni anno si spargono nel
mondo 2 milioni di tonnellate di pesticidi.
In Europa, secondo la Commissione europea, si riscontrano residui in circa il 40% dei campioni
alimentari, residui multipli in circa il 15% dei campioni e tracce nelle falde sotterranee europee, il
65% dell’acqua potabile a disposizione dei cittadini. Nessuno sforzo tecnologico o economico (per
sviluppare e lanciare un nuovo pesticida occorrono da 15 a 20 milioni di dollari) potrà mai
cancellare un dato di fondo: i pesticidi sono prodotti chimici destinati a uccidere. Anche se oggi
sono più selettivi di un tempo, il loro impiego continua a provocare danni a tutti.

I pesticidi nel Parlamento europeo. Tutti e otto i campioni di frutta acquistati all’interno
dell’Europarlamento nel dicembre 2007 e analizzati dai campaigners del Pesticide Action Network
sono risultati contaminati da residui di sostanze chimiche, ben ventotto pesticidi diversi, di cui dieci
sostanze cancerogene, tre neurotossine e otto potenziali distruttori endocrini. Tre degli otto campioni
sono risultati addirittura fuori legge, e quindi non adatti alla commercializzazione: si tratta di uva da
tavola, arance e albicocche. Il campione di fragole presentava residui di 14 sostanze chimiche
diverse contemporaneamente. Le analisi, compiute da Friends of the Earth Olanda, sono state usate
per far pressione sui parlamentari in procinto di votare sulla direttiva quadro e sul regolamento di
autorizzazione dei pesticidi. Ha funzionato. Nelle comunicazioni alla Commissione si legge: “a
sostenere l’impegno del governo europeo c’è anche la considerazione che l’adozione di metodi
alternativi per il controllo dei parassiti e una riduzione della dipendenza degli agricoltori dai
pesticidi, ed è il caso dell’agricoltura biologica, si sono dimostrati vantaggiosi in termini economici
nonché sostenibili sotto il profilo agricolo e ambientale”. La Francia entro il 2009 ritira dal mercato
30 sostanze chimiche utilizzate in agricoltura e, entro il 2010, altre dieci. Il ministro dell’Ambiente
Jean-Louis Borloo ha già imposto una legge per ridurre del 50% entro il 2012 l’uso della chimica.
L’obiettivo finale del governo francese è la messa a punto di nuove tecniche sostitutive, incentivando
parallelamente il passaggio al biologico: gli agricoltori che decideranno di convertire i propri
campi da coltivazioni convenzionali a biologiche, ovvero prive di pesticidi, beneficiano di un
credito d’imposta raddoppiato.

Pesticidi nel piatto. Molti pesticidi tra quelli comunemente usati possono avere effetti negativi sulla
salute, anche a seconda della dose. Possono essere tossici per il sistema nervoso, i polmoni,
l’apparato riproduttivo, il sistema endocrino e il sistema immunitario. Secondo l’Enea la
percentuale di pesticidi sospetti cancerogeni è molto alta (100 su 400) e il rischio di contrarre un
tumore aumenta quando se ne usano simultaneamente diversi. Sono passati molti anni dal referendum
del 1990 che voleva limitarne l’uso. In occasione di quel referendum, che non passò per il mancato
raggiungimento del quorum, 18 milioni di italiani hanno votato “no” ai pesticidi nel piatto. Una
richiesta perentoria, rimasta disattesa. Il quantitativo di sostanze chimiche utilizzate in agricoltura
nel nostro paese rimane uno dei più alti in Europa: si stima che ogni anno da 60 a 70 mila tonnellate
di pesticidi (fra erbicidi, battericidi, fungicidi e insetticidi) vengano sparse nei nostri campi
coltivati (più di quante ne siano state usate in Germania e Regno Unito insieme). Qualcosa come 450
chilogrammi per chilometro quadrato di superficie agricola italiana ogni anno.
Troppi, specie considerando che per ogni chilogrammo di principio attivo utilizzato, solo 10 grammi
vengono assimilati dagli insetti “bersaglio” del trattamento: i restanti 990 rimangono nell’ambiente,
sui frutti, nel terreno, nell’acqua.
Il rapporto annuale di Legambiente “Pesticidi nel Piatto 2009”, redatto sulla base dei dati ufficiali
forniti da Arpa, Asl e laboratori zooprofilattici, mette in evidenza passi indietro rispetto ai risultati
dell’anno prima. Sono stati riscontrati incrementi di campioni irregolari per concentrazioni troppo
elevate di residui di agrofarmaci rispetto ai limiti stabili dalla norme. I laboratori pubblici
provinciali e regionali hanno preso in considerazione 8.764 campioni di frutta e verdura, di cui 109
sono risultati irregolari, pari all’1,2% del totale, in leggero aumento rispetto all’1% del 2008 e in
miglioramento rispetto al 2% del 2003.

È vero che un frutto su due è contaminato da pesticidi, ma in Italia solo dall’1 al 2% dei casi i
residui sono oltre i limiti normativi. Limiti, però, che tengono conto dell’effetto su un corpo
adulto e mai di quello del bambino. E non della somma di più pesticidi, nonostante il mondo della
medicina da anni suggerisca correlazioni tra effetto cocktail di pesticidi e cancro. Consigli:
roteare la scelta, variare spesso le verdure, in modo da diminuire la probabilità di incappare in
prodotti contaminati persistendo poi nel loro consumo. Cambiare anche supermercato, ogni
tanto. Lavare e rilavare accuratamente verdura e frutta, lasciandola anche in ammollo in
bicarbonato; sbucciare i vegetali fino a 6-8 millimetri di polpa (a tanto possono penetrare i
veleni, pesticidi, anticrittogamici e fungicidi). Il College of Agriculture dell’Università
dell’Arizona consiglia: “Per minimizzare le accidentali contaminazioni nel cibo, potrete:
1. risciacquare e pulire sfregando forte frutta fresca e ortaggi;
2. eliminare le foglie esterne dei vegetali fronzuti;
3. togliere la pelle e il grasso da carne, pesce e pollame;
4. scartare il ‘sughetto’ e il grasso rilasciati nella cottura di carne, pesce e pollame, poiché
molti contaminanti del cibo si disciolgono nel grasso”.
Scegliere prodotti da agricoltura biologica, esenti, per natura, da pesticidi.

49. PESTICIDI E BAMBINI?
I pesticidi possono essere tossici, cancerogeni, allergenici. Che effetto fanno ai bambini? I loro ritmi
metabolici sono diversi da quelli degli adulti; la loro capacità di eliminare le tossine è minore; la
loro sensibilità agli agenti allergogeni e cancerogeni è maggiore.
Secondo diverse ricerche i bambini che consumano regolarmente cibi con residui di pesticidi
corrono un rischio molto più elevato rispetto agli adulti di contrarre il cancro. Sommando il rischio
derivante dalla presenza sugli alimenti di 8 pesticidi utilizzati comunemente per la produzione di 20
tra frutti e ortaggi, il bambino medio, tra 0 e 6 anni, può vedere decuplicato il livello di rischio
considerato accettabile dalla medicina.
Ci sono studi che dimostrano che i pesticidi, se assunti nel periodo neonatale e nella prima infanzia,
possono alterare, anche in modo irreversibile, la funzionalità e lo sviluppo dei sistemi nervoso,
immunitario, endocrino e dell’apparato riproduttivo. Anche le mamme che allattano dovrebbero
evitare di consumare cibi con residui di pesticidi, perché queste sostanze passano nel latte materno.

Metà della frutta e della verdura non va bene. Quindi, i piccoli sono più esposti degli adulti ai
rischi di un’alimentazione con residui chimici. E metà della frutta e verdura in commercio in Italia
ha residui di pesticidi superiori ai valori consentiti per l’alimentazione infantile. Ripetiamo, metà
della frutta presente sul mercato non è idonea all’alimentazione dei bambini, perché sfora i limiti di
legge per la presenza di tracce di pesticidi.
Un prodotto con residui superiori al limite di legge, ovviamente, non è idoneo all’alimentazione in
generale; ancor più rigorosamente, per i più piccoli, la legge italiana – in base al Dpr 7 aprile 1999
n. 128 – dice che il prodotto su cui ci sono residui di pesticidi superiori a 0,01 mg/kg (lo zero
strumentale) non è idoneo all’alimentazione dei lattanti e dei bambini. Lo ribadisce poi la norma
europea, la direttiva 2003/13/Ce della commissione, del 10 febbraio 2003, che modifica la direttiva
1996/5/Ce sugli alimenti a base di cereali e gli altri alimenti destinati ai lattanti e ai bambini: non
devono contenere alcuna sostanza in quantità tale da poter nuocere alla salute dei lattanti o dei
bambini. In base a ciò alcuni pesticidi non possono assolutamente essere utilizzati, per altri è
tollerato un residuo massimo di 0,003 mg/kg, (3 milligrammi per chilo, 3 grammi di pesticida per
una tonnellata di prodotto), che è sempre praticamente zero, lo zero strumentale.
Ecco perché da un quinto alla metà degli ortaggi e metà della frutta in Italia non hanno le
caratteristiche sanitarie per essere utilizzabili nelle mense degli asili nido e delle scuole elementari
e medie.

Quindi, se dai controlli di frutta e verdura normali in vendita nei supermercati di tutta Europa
ogni tanto emerge che i residui di pesticidi ci sono eccome, e “preoccupano”, che in un’insalata
su tre la soglia di fitofarmaci è fuorilegge, o addirittura sono state usate sostanze proibite,
dubbi fondati possono e devono assalire i più attenti genitori.
Nel biologico, invece, tolleranza zero. Basta una piccola infrazione, il produttore perde la
certificazione. Non c’è dubbio e, forse, di questo ci si può fidare. D’obbligo quindi scegliere per
i bambini (oltreché per noi) frutta e verdura “bio” a casa, d’obbligo chiederlo a gran voce
anche ai sindaci per le mense dell’asilo e delle scuole primarie.
50. ALLA MENSA BISOGNA SEMPRE ACCONTENTARSI?
È nato il diritto al biologico. Facciamolo rispettare.

Legge 488/1999, articolo 59. “Al fine di promuovere lo sviluppo di una produzione agricola di
qualità ecocompatibile... – comma 4 – per garantire la promozione della produzione agricola
biologica e di qualità, le istituzioni pubbliche che gestiscono mense scolastiche ed ospedaliere
prevedono nelle diete giornaliere l’utilizzazione di prodotti biologici, tipici e tradizionali nonché di
quelli a denominazione di origine protetta, tenendo conto delle linee guida e delle altre
raccomandazioni dell’Istituto nazionale della nutrizione. Gli appalti pubblici di servizi relativi alla
ristorazione delle istituzioni suddette sono aggiudicati ai sensi dell’articolo 23 comma 1 del decreto
legislativo n. 157 del 17 marzo 1995, e successive modificazioni, attribuendo valore preminente
all’elemento relativo alla qualità dei prodotti agricoli offerti”. Questo dice testualmente una bella
legge dettata dal ministro dell’Agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio, fondamentale per una svolta
epocale nella politica agricola e alimentare italiana verso l’istituzione delle mense con cibi di
qualità, locali e da agricoltura biologica.
Su 8.100 Comuni italiani sono circa 1.000 quelli che hanno cominciato a rispettare questa legge.
Sono quindi i genitori che devono reclamare a gran voce i prodotti “bio” nella mensa scolastica! La
legge prevede quest’obbligo senza però specificare la quantità di prodotti biologici da inserire nei
menu, né le modalità. La maggior parte delle città più grandi e densamente popolate ha inserito la
previsione dei prodotti biologici nelle gare d’appalto. Quindi la legge c’è, ma mancano le quantità,
le modalità, le istruzioni precise, e non ci sono sanzioni per chi non la applica.

Ecco allora cosa fare. Alcune regioni hanno già una legge regionale che ne precisa e ne rilancia
l’obbligatorietà.
Nelle altre regioni, le remore all’attivazione dei menu “bio” nelle mense scolastiche da parte
dei Comuni possono essere i costi maggiori e l’ottusità della burocrazia: specie nei Comuni più
piccoli gli addetti agli uffici tecnici preposti alla stesura dei capitolati d’appalto guardano con
greve ostilità a ogni cambiamento della routine.
Le mamme e i papà più sensibili dovrebbero innanzitutto raccogliere il consenso di tutti o di un
gran numero di genitori, poi ottenere un incontro con il sindaco del Comune, per chiedere con
fermezza menu biologici per i propri bimbi. È bene che un consigliere comunale o un assessore
sensibile presentino in Consiglio comunale una mozione che impegna la Giunta ad attivare i
menu “bio”.
È importante che un buon numero di genitori sia d’accordo per orientare l’amministrazione
comunale verso la scelta più positiva. Occorrerà anche valutare insieme i costi aggiuntivi e
l’aumento del buono pasto “bio”, per convincere il Comune a farsi carico dei costi, se non di
tutti perlomeno di una parte.
51. LA GALLINA NON È UN ANIMALE INTELLIGENTE?
Nessuno vorrebbe passare la vita in piedi su un foglio A4. Nemmeno se “non è un animale
intelligente”, come la gallina di Cochi e Renato. Come le galline ovaiole e da carne nel nostro paese
e in mezzo mondo, costrette a vivere con uno spazio in gabbia di 20 centimetri di lato l’una: un
foglio di carta. Gli animali, chiusi in gabbie strettissime, si strappano le piume e si beccano a
vicenda furiosi.
“Davanti, nel contenitore – racconta Martin Speich in Gabbia 52, fila centrale, blocco sinistro –
davanti tre uova; il quarto oggi non c’è. La macchina che le produceva è andata definitivamente fuori
uso: i suoi resti giacciono sul fondo della rete. Gli occhi chiusi, il becco semiaperto, verso il basso,
come se volesse ancora mangiare; sono ben miseri resti, spoglie di una macchinetta che doveva
mangiare, defecare e produrre uova. Come lei, altre migliaia di macchine in questo stabilimento. La
rottura di una di esse nella gabbia 52, fila centrale, blocco sinistro, non ha praticamente effetto sulla
spettrale attività che si svolge nelle altre 1.300 gabbie. Le urla di dolore degli animali beccati,
calpestati e schiacciati dagli altri fanno parte del rumore di fondo di questa fabbrica animale, come
il ronzio delle ventole, il crepitio delle migliaia di zampe che raschiano sul fondo della rete, lo
schiamazzo continuo che gli allevatori chiamano ‘canto’, a dimostrazione del benessere degli
animali. Ma un etologo serio capisce che questo non ha nulla a che vedere con il ‘canto’”.
Ci sono 40 milioni di galline in Italia detenute in modo simile per produrre 12 miliardi di uova,
mentre 400 milioni di polli finiscono in tavola. Negli allevamenti in batteria si usano becchimi di
bassa lega e prodotti di scarto. Nel cibo si reimmette il loro stesso guano perché c’è dentro ancora
qualcosa di nutriente. Per correggere il colore dei tuorli, troppo pallido, e rendere l’uovo più
appetitoso, si aggiungono coloranti alla loro dieta. Irradiate con infrarossi, con le zampine
deformate dalla permanenza sulle grate di ferro, sottoposte alla ghigliottina dello “sboccamento”
(taglio del becco), alterati i bioritmi da cicli notte-giorno artificiali, alimentazione forzata con
pastoni, con scarti alimentari, residui d’ogni genere e di provenienza incontrollabile… le galline
subiscono per mesi simili trattamenti. Sono così malate che devono essere sottoposte a ininterrotte
terapie antibiotiche, tanto violente e invasive che un veterinario d’una Asl ha testimoniato che
quando ha dovuto imporre un blocco all’uso di antibiotici in un allevamento veneto sono morti 20
mila polli in pochi giorni.
Dal 2004 la legge ci mette in condizione di scegliere tra uova prodotte da galline allevate così e
uova da galline libere. Ogni singolo uovo deve avere una tracciabilità, l’indicazione di come è
vissuta la gallina che l’ha deposto. Ogni uovo riporta un codice stampigliato con inchiostro
alimentare – un carattere numerico da 0 a 3 (0 = biologico; 1 = ovaiola all’aperto con 2,5 metri
quadrati di spazio a disposizione; 2 = ovaiola a terra in un capannone con nove ovaiole per ogni mq
di spazio; 3 = ovaiola in gabbia). Poi due lettere sigla della nazione di produzione (IT: Italia); tre
caratteri numerici indicativi del codice Istat del Comune del sito produttivo; due lettere indicative
della provincia e caratteri numerici indicanti l’azienda.

Facile tenere a mente la cosa più importante, per il benessere delle galline e la qualità
dell’uovo. È il primo numero, che indica la modalità di allevamento delle ovaiole:
0 = da agricoltura biologica: per legge, con doppi controlli, galline allevate nel pieno rispetto
delle loro caratteristiche naturali;
1 = allevate all’aperto;
2 = allevate a terra;
3 = allevate in gabbia.
Quindi, come prima cifra stampigliata sul guscio, lo zero o l’uno sono da preferire. È bene
rimarcare la distinzione tra “allevate all’aperto” (1) e “allevate a terra” (2). Allevate a terra
significa solo che le ovaiole vivono in capannoni con pavimento di cemento ricoperto da pula di
riso e in un sovraffollamento da nove galline a metro quadro, illuminate con luce artificiale e
non vedranno mai il sole.

52. AMARA VERITÀ, O DOLCE COME IL MIELE?
Oro colato, il frutto del lavoro delle api. Ultimamente un po’ bistrattato. Il miele è costituito da
zuccheri semplici, glucosio e fruttosio (80-90%), acqua, piccole percentuali di zuccheri superiori,
acidi organici provenienti dall’azione delle secrezioni salivari dell’ape e dai processi enzimatici e
fermentativi, sali minerali ed enzimi che assicurano la digestione degli zuccheri.

La provenienza. Grazie alle regole varate da un paio di direttive europee si può evitare dal 2004 di
indicare sulla confezione la provenienza del miele. Come? Microfiltrandolo, facendolo passare
attraverso un filtro che trattiene pollini e microelementi. In questo modo, poiché il polline è la
traccia della provenienza del miele, diventa uno zucchero fluido che dura anche di più (è anche
privato dei lieviti responsabili della fermentazione), ma la cui origine è difficile da stabilire e le cui
proprietà sono depauperate. Da preferire il “miele vergine integrale”: viene estratto per
centrifugazione e non subisce riscaldamenti superiori ai 40 °C, così da mantenere inalterate le
proprietà nutritive e organolettiche tipiche del miele fresco e naturale. Vi si trovano vitamine, sali
minerali, oligoelementi, acido folico ed enzimi che ne fanno un ricostituente, un antibiotico, un
digestivo, un antibatterico e un cicatrizzante. Contiene quegli invisibili granuli di polline che, a
seconda della pianta di cui sono caratteristici, determinano differenti sapori e diverse proprietà.

Antibiotici. In questo quadro bucolico irrompe l’agguerrita associazione di consumatori


Altroconsumo: hanno trovato antibiotici vietati dalla legge nel miele. Nel settembre 2005 è emerso
che, dei venti mieli esaminati, ben sei sono risultati contaminati da sulfametazina e tilosina, vietati
nell’apicoltura europea dal Regolamento 2377/1990/Cee (in uno dei sei solo tracce). Uno dei mieli
è d’origine latinoamericana ed equosolidale. L’associazione di consumatori ha colto l’occasione di
far notare che “è necessario intervenire immediatamente con controlli e analisi per verificare la
portata del problema e ristabilire sia il diritto alla tutela della salute per tutti i consumatori, che la
garanzia a trovare sul mercato solo alimenti in regola con le leggi”. Non è la prima volta. Già nel
2003 un’altra inchiesta aveva trovato antibiotici nel miele e nelle uova venduti in Italia. Simili
contaminazioni non presentano rischi immediati per la salute, anche se è stato unanimemente ritenuto
opportuno il ritiro dal mercato di prodotti con residui non ammessi. Il messaggio emerso però è che
tutto il miele è a rischio di contaminazione. Non è così. Da anni gran parte degli apicoltori italiani si
impegnano a combattere le patologie delle api senza l’uso di alcun tipo di antibiotico e di prodotto
contaminante, come vuole la legge. Da anni chiedono che il divieto di uso di antibiotici riguardi tutte
le produzioni, incluso il miele importato da paesi dove è diffusissimo (e legale) l’uso di sostanze
vietate qui da noi.

Il miele è uno degli alimenti più genuini per natura, per legge. È genuino in quanto la
denominazione commerciale di miele è ammessa solo per il prodotto fatto dalle api a partire da
nettare o da melata: non esistono mieli “artificiali” o ricomposti con lo zucchero; prodotti simili
non possono essere legalmente commercializzati. Al miele in quanto tale non è permessa
l’aggiunta di nessun’altra sostanza. Niente conservanti (non ce ne sarebbe bisogno) né
coloranti o aromatizzanti: laroma e il colore del miele saranno sempre quelli che derivano dalle
piante bottinate dalle api.

53. PERCHÉ LE API STANNO SCOMPARENDO?
Rientrato l’allarme antibiotici, è scoppiato quello delle api. Morie, disorientamento... “Alle api sta
succedendo qualcosa di veramente serio – dichiara Massimo Ilari, direttore di Apitalia – in Italia,
nel 2007, si sono persi circa 200 mila alveari. In Europa il disastro oscilla tra il 30 e il 50% di
perdita di alveari. Le spiegazioni sono tante. È il sistema immunitario delle api a essere indebolito
dall’attacco di molti fattori negativi: il clima impazzito, l’inquinamento, le sostanze tossiche usate in
agricoltura. E non dimentichiamo il grosso problema, ancora poco studiato, degli Ogm. Per quanto
riguarda l’esperienza di Apitalia, tra i primi posti metterei la ‘Chernobyl agricola’, il sistema
agricolo chimico che si è abbattuto in maniera devastante sulle api, falcidiandole” . In Italia il
Ministero delle Politiche agricole ha intrapreso uno studio per stabilire le cause del fenomeno,
mentre la Fao ha investito 30 milioni di dollari per capirne il perché.
Alcuni sospetti si sono appuntati su una specie di acari, il Varroa destructor. Altri sui pesticidi
neonicotinoidi, al centro dell’attenzione dei ricercatori anche negli Stati Uniti, uno dei paesi
maggiormente colpiti da una morìa che stava per cancellare la popolazione mondiale dell’ape
domestica.
Il 29 marzo 2007 Diana Cox-Foster, del Dipartimento di entomologia dell’Università di Stato della
Pennsylvania, ha presentato un’interpellanza davanti alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti
per affrontare il problema della moria di api puntando l’indice sui neonicotinoidi, una classe di
insetticidi largamente utilizzati in agricoltura che nonostante presentino una tossicità estremamente
bassa per gli uomini, risultano essere altamente tossici per le api mellifere e tutti gli altri insetti
impollinatori, gli apoidei, i calabroni e i bombi, dei quali, essendo selvatici, non esistono
censimenti.
Alcune ricerche hanno indicato che questi pesticidi sistemici sono in grado di passare attraverso le
piante andando così a contaminare il polline e il nettare dove sono stati individuati in concentrazioni
nocive per le api.

Neonicotinoidi, inquinamento ambientale, malattie. Abbiamo già cominciato a pensare alle api
come una specie in via di estinzione. Non è escluso che un fattore si sommi a un altro. I sistemi
di difesa delle api potrebbero indebolirsi a causa delle condizioni ambientali, esponendole ai
parassiti. Da notare che in una regione come la Sicilia, con le più vaste aree di coltivazione
biologica, la strage che ha colpito così forte il Nord Italia (zona di monoculture intensive) è
stata molto meno consistente.

54. CHI LO VUOLE IL POPCORN DI FRANKENSTEIN?
Sta per arrivare il popcorn transgenico? Dipenderà dal Consiglio dei ministri Ue, dal comitato di
esperti, dall’Autorità europea sulla sicurezza alimentare, più e più volte riunitisi per decidere se
autorizzare o no l’importazione in Europa del mais transgenico. Il Comitato europeo sugli Ogm,
composto da tecnici, scienziati ed esperti ambientali dei diversi paesi europei, si è ripetutamente
spaccato, di anno in anno, senza riuscire a decidere sulla proposta presentata dalla Commissione Ue
di consentire la coltivazione del mais Mon810 modificato in modo che la pianta secerna un
insetticida geneticamente incorporato. Le critiche degli ambientalisti riguardano soprattutto i danni
collaterali ambientali, gli effetti della sua proteina insetticida Cry1Ab sulle altre specie di insetti
non dannosi per le coltivazioni. La sua ri-approvazione (la precedente autorizzazione durava dieci
anni) permette di continuare a coltivarlo, laddove lo si fa già (oltre alla Spagna, ci sono pochi ettari
in Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania).

Divieto nazionale. Ma ancora una volta, sei Stati membri hanno attivato la “clausola di
salvaguardia” prevista dalla legislazione Ue, che consente un divieto nazionale temporaneo di
coltivazione. I sei paesi sono Austria, Ungheria, Francia, Grecia, Lussemburgo e Germania. Tutti i
tentativi di costringere alcuni di questi Stati membri a revocare i divieti nazionali, fatti fin qui dalla
Commissione europea in base ai pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa),
sono stati respinti dalla maggioranza qualificata dei Ventisette in Consiglio Ue. È da dieci anni che
si discute. L’Italia ha sempre votato contro, in compagnia di Austria, Danimarca, Grecia e
Lussemburgo.
Quello sul mais transgenico è l’ennesimo, grande scontro tra istituzioni internazionali e industrie
biotech dopo una salubre moratoria di cinque anni.

Il popcorn made in Usa. In Usa il 65% dell’agroalimentare è contaminato da Ogm. Il popcorn già
pronto lì prodotto può esser fatto con mais transgenico, poiché nel continente americano se ne
coltivano già da anni diverse varietà, dal NK603 al Bt11.

Perché non riscoprire il piacere festoso di farsi il popcorn in casa? Comprare una sana
pannocchia di mais, o un sacchetto di chicchi per popcorn e riempirne una sfrigolante padella.
Mais e burro si trovano facilmente da agricoltura biologica, sani e controllati “no Ogm”; basta
poi un pizzico di sale marino. L’altro piacevole vantaggio è che, così, si servono caldi.



55. LE NOCI SI LAVANO CON LA CANDEGGINA?
Vediamo da un lato, nel loro sacchettone, queste belle noci color faggio, con le belle venature lisce,
spolpate e ripianate. Dall’altro quelle, dall’aspetto brunito, con qualche macchiolina scura, insomma
dall’aspetto un po’ grezzo, rustico.

Quelle noci belle chiare. Quelle color faggio, che sembrano scolpite nella polpa di legno, sono
state sottoposte a un vero e proprio processo di lisciviatura, sbiancate artificialmente. Come? I
trattamenti del guscio più usati sono due. Con anidride solforosa: è un composto corrosivo, della
famiglia dei solfiti, di cui sono noti gli effetti tossici e antinutrizionali (E220: distrugge le vitamine).
Oppure, con ipoclorito di sodio. Cosa è? Sarà un sale, un po’ come il cloruro di sodio? No. Se non
vi viene in mente cosa è l’ipoclorito di sodio andate a vedere il flacone di candeggina che avete in
casa tra i detersivi.

Impermeabilità. C’è da tenere presente che il guscio delle noci non è impermeabile, e che proprio
le strette fessurazioni da cui gli sbiancanti penetrano nei gherigli impediscono poi l’uscita del
residuo chimico, che sicuramente si deposita all’interno.

L’effetto dei trattamenti appare a occhio nudo, ma devono essere indicati sull’etichetta dei
sacchetti.
Evitare le noci troppo belle e chiare, con altri ingredienti rispetto alle noci,per esempio:
“Ingredienti: noci, guscio trattato con additivi vari: ipoclorito di sodio” o “anidride solforosa”.
Preferire le noci “naturali”, di nome e anche di fatto, nell’aspetto.



56. È BELLA ROSA E TENERA LA FETTINA DI VITELLO?
Il fatto che interi bancali del supermercato siano tuttora zeppi di vaschette colme di carne rosa
pallido, a un prezzo tra l’altro maggiore di quella bovina, sgomenta. Un caso eclatante e inspiegabile
di cattive pratiche inveterate, crudeltà, errate opinioni senza fondamento e senza che questa catena di
misfatti si riesca a interrompere.
È difficile trovare un pediatra che esplicitamente la consigli per l’alimentazione infantile, eppure la
carne di vitello riscuote un successo perpetuo presso le mamme in cerca di fettine morbide, tenere e
rosee.

Come si fa a renderla pallida, rosea e frolla? Al terzo o quarto giorno di vita, strappato dalla
madre inseminata artificialmente, il vitello viene collocato in un box di cemento largo 40 centimetri
e lungo un metro e mezzo. Ci rimarrà per tutta la vita. Viene legato con una catena al collo per
impedire ogni movimento; la catena potrà esser tolta quando il povero essere sarà cresciuto tanto da
occupare tutto il ristretto spazio del box. Non vedrà mai né paglia né fieno, mangiarne potrebbe
rovinare il tenue colorito delle carni. Soffre cronicamente di malnutrizione e di stress acuto e
cronico, le cui conseguenze sono immunodeficienza (molti vitellini si ammalano), infezioni e
necessità di antibiotici. Viene nutrito con un budino semiliquido iper-proteico che gli fa venire
un’inestinguibile sete; l’acqua però gli viene negata per indurlo a ipernutrirsi, mangiando più budino
e più velocemente. Questo regime causa un’inarrestabile dissenteria che lo spinge all’anemia, al fine
di sbiancare le carni. Disordini digestivi e ulcere sono frequenti. Sottoposto a cicli costanti di
trattamenti antibiotici, dopo tredici o quindici settimane finisce finalmente al macello.

Basta con il consumo di carne di vitello in qualunque forma. Più è rosa, più va lasciata lì in
macelleria. Nota di demerito anche per il fegato. Il fegato trattiene le sostanze assimilate da un
organismo. Nel fegato degli animali si possono trovare tracce di tutti i medicinali usati per
controllare le infezioni parassitiche o come promotori della crescita, betabloccanti,
eprinomectina, moxidectina, abamectina, doramectina, ivermectina, clenbuterolo, salbutanolo e
sulfamidici.



57. QUANTE ARANCE CI SONO NELL’ARANCIATA?
Vediamo cosa c’è in cosa beviamo. Innanzitutto, se c’è scritto “di frutta” non vuol dire che ci sia
solo frutta. Il vero succo di frutta proviene dalla pressione di frutti freschi, sani e maturi, non
fermentati. I composti che vengono aggiunti nei succhi non “100%” sono zuccheri, sostanze
aromatiche, vitamina C, betacarotene e pectine.
Le bibite analcoliche alla frutta sono le aranciate, le limonate e simili, che per legge non possono
contenere meno del 12 o 13% di succo di frutta. Il resto è acqua, anidride carbonica, aromi,
coloranti e saccarosio; e possono essere edulcorate con dolcificanti sintetici.

Il caso exotic. Nell’estate 2003 anche in Italia è stata lanciata sul mercato la prima “aranciata
exotic” che di esotico aveva solo i ghirigori giallo mango sulla lattina. Perché dentro c’era lo 0% di
frutta. Lo 0%. Neanche una traccia. Acqua, zucchero, aromi e coloranti artificiali, ecco di cosa sono
fatte simili bibite. La legge ha cominciato a tollerarlo, i coltivatori nostrani di frutta e le
associazioni di consumatori no. Il Ministero delle Attività produttive aveva emanato una circolare
abrogando la norma che prevede(va) che su lattine e bottiglie di aranciate, nelle bevande, nelle
bibite in lattina e in bottiglia non potessero esservi immagini di frutta poi non presente tra gli
ingredienti. La commercializzazione è stata sospesa dopo pochi mesi. Ma quella circolare
ministeriale non faceva che rassegnarsi a una realtà di bevande con dentro zucchero, aromi e
coloranti artificiali al “gusto” di arancia, mora viola, flash lemon, super strawberry, exotic, che
non contengono la benché minima traccia di vera frutta. Nel 2009 ci hanno riprovato. Sarebbe
equivalso a un inganno per i consumatori e un’ombra sulla salubrità, dato che aromi, coloranti e
dolcificanti sono oggetto di studi e verifiche per sospetti effetti negativi sui bambini. Infine,
l’eliminazione totale della soglia del 12% avrebbe fatto sparire 120 milioni di chili di arance
all’anno prodotti in 6.000 ettari di agrumeti, con danni evidenti per consumatori e produttori.

I dubbi non riguardano soltanto la salute, per la pochezza nutritiva di bevande fatte d’acqua,
zucchero, aromi e coloranti artificiali. I dubbi riguardano le suggestioni e la correttezza delle
informazioni per chi acquista una bevanda con il nome, le immagini di frutti presenti solo
nell’inchiostro dell’etichetta.



58. SI FA IL PIENO D’ENERGIA CON LE BEVANDE ISOTONICHE?
Stravincono i premi del marketing e fanno guadagnare molti soldi, con margini elevatissimi, quelle
fluorescenti bevande isotoniche con sali minerali che gli spot tv (sagacemente collocati durante le
partite e nei canali satellitari sportivi all-news) presentano come ideali per contrastare fatica e
sudore. Si presentano con accattivanti pubblicità di performance sportive, in bottiglie aerodinamiche
e colori sgargianti e fosforescenti (dall’arancio al blu elettrico fino a un nuovissimo nero violaceo)
o in gusti fantasiosi. Sono spacciate come bibite ideali per ricaricare lo sportivo, per chi si sente
affaticato, per chi vuole fare il pieno di energia. Integratori di sali minerali “indicati nell’attività
fisica – recitano le etichette – e nelle pratiche sportive che comportano un’intensa sudorazione”,
“per fornire all’organismo un apporto di sali minerali”. Ma è corretto?

Ecco un’etichetta tipo di bevanda isotonica. “Acqua - sciroppo di glucosio (fruttosio) - zucchero -
acido citrico - sali minerali (sodio cloruro, sodio citrato, monopotassio fosfato, magnesio
carbonato) - aromi -coloranti (E104, E110, E122, E131, E150)”. A volte ci sono “emulsionanti,
E414, E450”.
Acqua: se non è indicato diversamente, è acqua di falda o... di rubinetto. Sciroppo di glucosio,
fruttosio, saccarosio: zucchero. Lo sciroppo di glucosio è lo zucchero più usato dai produttori
alimentari, si ricava dal mais. Ha un indice glicemico altissimo, cioè causa un immediato rialzo
della glicemia nel sangue, e questo spiega in parte la sensazione energetica rilasciata.
Acido citrico: è dissetante.
Sali minerali: oltre al cloruro di sodio (il comunissimo sale da cucina), sono sali di potassio e
magnesio. Che sono effettivamente utili all’organismo in caso di necessità di reintegro tonico-
energetico, ma... in che quantità sono presenti in queste bibite? Dai 50 ai 500 mg/l (cioè, mezzo
grammo in una bottiglia da un litro... se ne trova di più in un solo cetriolo!). Ma il fabbisogno
giornaliero di questi sali va dai 2 ai 4 grammi, e ce n’è a iosa in tutti i vegetali, nella frutta fresca
anche spremuta, in cereali, legumi, semi oleosi, lievito di birra e germe di grano. Inoltre, i minerali
che si trovano naturalmente nei cibi sono sempre combinati con aminoacidi specifici e talvolta
anche con una vitamina: il corpo umano è predisposto per assimilare i minerali in questa forma e sa
come utilizzarli nel modo migliore, ma sotto forma di supplementi non riesce ad assimilarli
opportunamente.
Aromi: in commercio ci sono sport drink in decine di gusti, dai classici arancia e limone ai più
moderni e fantasiosi “ice shock”, “blue mountains”, “black mora e pesca”. Il fatto è che si tratta di
“gusti”. Non c’è traccia di arancia né di limone. Neanche una scorzetta. Solo aromi artificiali. Così
come per tutti i fantastici gusti inventati per esigenze di marketing. Coloranti ed emulsionanti: per
ottenere questi colori decisi, arancio e giallo, e psichedelici, dal giallo fluo al blu elettrico, si
ricorre all’E104 (giallo di chinolina, lievemente tossico, sconsigliato ai bambini), E122 (rosso,
azurubina-carnoisina, sconsigliato ai bambini, controindicato per chi è allergico all’aspirina e agli
asmatici), E131 (Blu patent V, da evitare per le persone allergiche), E150d (caramello solfito-
ammoniacale). Altri codici “E”: E414, che è gomma arabica, ed E450, polifosfati (la cui assunzione
in alte quantità può alterare l’equilibrio calciofosforo: sottraggono calcio all’organismo).

Insomma, acqua, zucchero, sale, aromi artificiali e coloranti artificiali. A prezzi che oscillano
tra i 3 e i 6 euro al litro.
Meglio prepararsi uno sport drink in casa, con succo di frutta e verdura. O portarsi dietro una
banana.

59.COS’È LA TAURINA DEGLI ENERGY DRINK?
“Il consumo abituale di taurina e d-glucoronolattone non costituisce un rischio per la salute”. Parola
dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che ha rilasciato nell’aprile 2009 il primo
parere scientifico relativo all’assunzione delle sostanze contenute nelle bibite che “mettono le ali”,
escludendo effetti dannosi a livello cerebrale e ai reni. Il d-glucoronolattone è un carboidrato, un
tipo di zucchero naturalmente prodotto dal metabolismo del glucosio nel fegato umano, ed è aggiunto
agli energy drink per un’asserita efficacia sulla sensazione di fatica e sul senso di benessere: la più
popolare lattina ne contiene 1,5 grammi, le altre da uno a mezzo grammo. La taurina è una sostanza
acida abbondante nei tessuti animali e non ha strepitosi effetti comprovati. Sembra che possa
migliorare la resistenza cardiaca e respiratoria. È stata scoperta nella bile dei tori, da cui prende il
nome, ma oggidì non proviene da organi animali, ma è prodotta in laboratorio, quindi adatta ai
vegetariani. Una lattina ne contiene 1,2 grammi.

Effetti collaterali degli energy drink. L’Efsa si era interessata al problema delle bevande
energetiche a seguito della pubblicazione di una serie di studi che ne suggerivano la pericolosità per
la salute e dopo la decisione da parte della Francia e della Danimarca di ritirarle dal commercio.
Effettivamente queste nazioni le hanno vietate sì, ma per la quantità di caffeina che supera le dosi
consentite dalle leggi di quei paesi. La Francia ne ha riconsentito la vendita in una versione
appositamente modificata in ossequio alle regole d’Oltralpe.
L’Authority europea che vigila sui nostri alimenti ha deciso che esiste un sufficiente margine di
sicurezza per i consumatori abituali di bevande energetiche che ne consumino da 125 millilitri
(mezza lattina) a 350 millilitri (una lattina e mezza) al giorno. L’Efsa ha premesso però che il
consumo concomitante di alcol o droghe rilevato in molti studi “rende particolarmente difficile
l’interpretazione dei casi riferiti”. Gli esperti ritengono anche possibile che i problemi siano dovuti
agli effetti collaterali di un’elevata assunzione della caffeina sempre presente negli energy drink.
Un’opinione, quindi, che non li scagiona del tutto. “Abbiamo esaminato la sicurezza di taurina e d-
glucoronolattone – precisa John Christian Larsen, presidente del gruppo di esperti che ha condotto
l’indagine – ma non delle bevande stesse, che contengono un certo numero di altre sostanze”.

Tra le sostanze caratterizzanti, oltre alla taurina, le diverse marche che hanno invaso il
mercato ne offrono altre, senza rimarchevoli controindicazioni, come l’estratto di guaranà o di
ginseng. Il dubbio non è tanto per gli effetti sulla salute quanto sulla vuotezza nutrizionale di
bevande, generalmente gassate, che oltre all’acqua contengono zuccheri, tanti, un grammo di
blandi stimolanti, caffeina, e pizzichi di vitamine, coloranti, aromi naturali e artificiali, alcune
anche conservanti. Un elenco d’ingredienti per nulla entusiasmante.



60. LA CARNE FA SANGUE?
La carne è un alimento sostanzioso. Ma un suo consumo eccessivo può creare non pochi problemi
alla salute. Secondo l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, la dieta media dell’italiano
presenta un eccesso di proteine e grassi di origine animale che si aggira intorno al 60-70% e può
causare diversi problemi per la salute. Insomma, si mangia troppa carne: siamo arrivati a 75
chilogrammi pro capite l’anno, ben oltre i 20 chilogrammi pro capite anno che si consumavano agli
inizi degli anni Sessanta.
Ecco un elenco delle patologie più comuni correlate a un eccesso di carne nell’alimentazione.

Malattie cardiovascolari. Poco meno del 40% dei grassi nella dieta occidentale proviene dalla
carne sotto forma di grasso saturo, un fattore di rischio per l’infarto e le malattie cardiovascolari. Se
la sua assunzione diminuisse del 35-50%, si dimezzerebbero gli attacchi di cuore.

Cancro. Il premio Nobel Renato Dulbecco ha ribadito nel 2005 che la riduzione della carne nella
dieta è una misura dietetica antitumorale. Umberto Veronesi non perde occasione per ricordare il
proprio vegetarianesimo. In effetti, è stata accertata una correlazione tra diversi casi di cancro –
all’intestino crasso e al colon – e il consumo di carne.

Stipsi. Nella carne mancano le fibre, che facilitano il transito intestinale. Dunque molta carne uguale
stitichezza. La ridotta funzionalità dell’intestino facilita l’accumulo di sostanze nocive e interferisce
con l’assorbimento delle sostanze nutritive.

Artrite, reumatismi, calcoli renali. La riduzione drastica della carne può aiutare a contrastare
queste malattie. Così come anche la gotta. Fettine e bistecche contengono basi puriniche che portano
alla formazione di acido urico, il quale influisce negativamente sulla funzionalità renale.

Tutto questo a prescindere dalla qualità intrinseca della carne: vuol dire che, sebbene le carni di
qualità (biologica, biodinamica o almeno le razze autoctone a denominazione di origine certificata)
siano ovviamente preferibili rispetto a quelle da allevamento convenzionale, rimane il fatto che
consumare troppa carne rossa può influire negativamente sulla salute.
Il nutrizionista di un’istituzione della cultura gastronomica, Giorgio Donegani de La Cucina
Italiana, afferma nel giugno 2009: “Sono ormai parecchi gli studi che dimostrano come una dieta
vegetariana possa non solo soddisfare pienamente i bisogni dell’organismo, ma anche esercitare un
effetto protettivo. Rispetto alle diete che comprendono carne e pesce, quella vegetariana apporta
generalmente un minor numero di calorie, fornisce meno grassi saturi ‘cattivi’ e garantisce una più
alta presenza di fibre e fattori protettivi antiossidanti e anti-invecchiamento”.

La carne rossa non ha un contenuto di ferro particolarmente alto, è uguale a quello delle carni
bianche e, anzi, inferiore a quello di molte verdure; non fa aumentare i globuli rossi; non aiuta
a “costruire le vene”, anzi col suo contenuto di colesterolo le incrosta.
È vero che l’organismo assimila meno il ferro contenuto nelle verdure, ma lo si può aiutare con
la vitamina C, broccoli, spremute di agrumi, kiwi, che aumentano l’assorbimento del ferro
vegetale.
È vero che carne e pesce hanno proteine con tutti gli aminoacidi essenziali e per questo sono di
“alto valore biologico” mentre i vegetali hanno proteine incomplete. Ma dando un taglio alla
carne si possono ottenere ugualmente proteine d’alto valore: è molto vantaggiosa
l’associazione dei cereali con i legumi, perché le loro proteine si integrano e si completano a
vicen-da. Alcuni piatti tradizionali già sfruttano sagacemente questa combinazione, pasta e
fagioli, risi e bisi, polenta e lenticchie, cuscus e ceci…



61. IL 90% DELLA PASTASCIUTTA ITALIANA È OGM?
L’ha detto un eminente fisico italiano che il 25 giugno 2002 ha rilanciato, attraverso un grande
quotidiano, una provocazione che riaccende una controversia. Dopo un’analoga boutade del gennaio
2001, quando scambiò il grano Creso con un Ogm (accusando tutte le industrie italiane di fare la
pasta transgenica, causando reazioni a livello europeo e una rassegna stampa imbarazzante per gli
esportatori di pasta italiani) Tullio Regge insiste nello scrivere che “in commercio vi sono 2.550
varietà di Ogm: tutti li hanno mangiati, anche gli ambientalisti”.

Il grano mutato. Lo spunto, un rapporto del ministro Gianni Alemanno che aveva appena definito
“gli Ogm evidentemente incompatibili con l’agricoltura biologica”. Risposta: il grano mutato ce lo
mangiamo, anche biologico, e nessuno dice niente. Diverse varietà di uso alimentare in Italia e
altrove sono varietà modificate da decenni. Il Capelli mutato, oggi denominato Creso, va a costituire
circa il 90% della pasta venduta in Italia. Ha una maggior quantità di glutine. Sì, potrebbe essere
correlato all’esplosione di intolleranze e celiachia.
Ma comunque no, il grano Creso, così come le varietà di grano selezionato con processi di
mutagenesi dagli anni Settanta a oggi (l’esposizione a radiazioni), non può essere considerato
transgenico. Ha un corredo genetico variato rispetto a quello selvatico ma comunque
prospetticamente naturale (la mutagenesi indotta non fa altro che accelerare i processi di selezione
naturalmente occorrenti, nel corso della filogenesi, a una specie vegetale).
Nel caso della modificazione genetica, o transgenesi, quello che si fa è una ricombinazione delle
caratteristiche genetiche di un organismo, pianta o animale, attraverso l’inserimento di tratti di Dna
che mai e poi mai potrebbero fondersi, in natura, con la pianta originale. È un processo di creazione
di organismi viventi nuovi, di cui nessuno conosce e può conoscere le caratteristiche di adattabilità,
di aggressività, di affidabilità. Noi stiamo immettendo nell’ambiente miliardi e miliardi di
organismi transgenici mai esistiti in natura.
Insomma, Tullio Regge confonde artatamente i termini: “mutati” con “modificati”. Quando scrive
che tutti noi ci cibiamo di grano “mutato” senza ovviamente che ne risulti danno alcuno per la nostra
salute, si chiede perché invece “dall’altra parte l’attivismo ambientale si infuria appena sente
nominare la transgenesi, un procedimento molto meno traumatico che produce mutanti calibrati con
precisione estrema”. E conclude: “il riso Carnaroli e il melo della Val d’Aosta sono minacciati
d’estinzione da orde di parassiti e potrebbero essere salvati dalla transgenesi”. Ma se queste piante
antiche e preziose possono essere salvati oggi solo dalla benemerita industria biotech, come sono
giunti fino a oggi, a noi, dopo secoli o millenni, e ora abbisognano assolutamente di modifiche
genetiche? Come avranno fatto a sopravvivere finora?

Sarebbe meglio accordarsi prima di tutto a livello scientifico sul linguaggio tecnico che si vuole
utilizzare, che deve essere un linguaggio chiaro e condiviso dalla comunità degli scienziati. E
non dare mai più adito a confusioni e forzature, lontane dalla genuinità tanto quanto una spiga
transgenica da una selezionata.

62. IL BUON PANE E SALAME?
Simbolo dell’alimentazione casereccia, contadina, venatoria, compagno di mille spuntini, tentazione
della fettina bricconcella rubacchiata, in realtà il salame è uno spregevole insaccato.

È dinamite. Nessuno degli ingredienti, delle materie, delle fasi produttive è meritevole di lode.
Viene prodotto con la carne residua della produzione degli altri salumi più pregiati. Dopo la
triturazione della carne lo si insacca o nella cellulosa o nel colon del maiale stesso, diviso in
“crespone”, “cresponetto” e “filzetta”, che si usa fino al retto, chiamato “gentile”. A volte prende il
nome da queste sezioni dell’intestino.
Alla carne si aggiungono zuccheri (saccarosio, glucosio, lattosio, fruttosio, che favoriscono la
conservabilità degli insaccati costituendo un substrato favorevole per i lattobacilli, che producono
acido lattico abbassando il pH e inibendo la crescita dei microrganismi indesiderati) fino all’1,5%.
Polvere di latte e caseinati, dal 2 al 4%, per la consistenza e l’omogeneità dell’impasto. Additivi,
soprattutto nitriti e nitrati di sodio e potassio, che mantengono il colore rosso delle carni e
rallentano le proliferazioni batteriche; sostanze contrassegnate dai codici E249, E250, E251, E252,
il cui potenziale cancerogeno è assodato. L’E252, nitrato di potassio, si usa anche per la
fabbricazione della dinamite: è il salnitro.

Lo starter dei microbi. Per mantenere bassi i costi, molti produttori di salami possono ridurre
drasticamente il tempo di stagionatura, drasticamente. E come fa un salame a essere pronto dopo
quindici giorni dalla macinazione della carne? Iniettandovi dentro un attivatore batterico, una
sostanza (lo “starter microbico”) che favorisce il proliferare di germi e batteri annidati nelle carni,
simulando l’effetto di una lunga stagionatura.

Gli insaccati sono, a parere dei nutrizionisti, alimenti da ridurre il più possibile. Se il desiderio
fosse lancinante, aborrire i salami di tipo super-economico o troppo poco costosi.
Optare per i salami di cui si possa leggere la data d’inizio della stagionatura. In alcuni
supermercati s’iniziano a esporre salami prodotti con metodo biologico, da maiali allevati in
semi libertà, senza additivi chimici. Il costo è alto, ma sono da preferire.
Contro gli effetti dannosi di nitriti e nitrati è efficace la terapia chelante: sostanze quali
vitamina C o sodio alginato hanno la capacità di legarsi ai composti indesiderati e li espellono.

63. PERCHÉ IL PROSCIUTTO COTTO COSTA MENO DEL CRUDO?
Un prodotto cotto a puntino, aromatizzato, cucinato, sottoposto a massaggi e trattamenti per renderlo
più morbide e saporoso, come può costare meno dell’omologo crudo?

Invendibili. I prosciutti cotti costano meno del crudo perché la materia prima sono i prosciutti crudi
invendibili, andati a male o deteriorati. Ritirati dal commercio, ricevono prima un lavaggio che li
depura da vermi, parassiti o da difformità antigieniche, sottoposti a cottura e infine – pratica non
adottata da tutti i produttori, quantomeno non con le stesse modalità – trattati chimicamente con sieri,
proteine del latte essiccate e manipolate chimicamente con fosfati o, per esempio, idrossido di sodio
che per intenderci è lo sturalavandini, caseinati, polifosfati, additivi organici e di sintesi, gli stessi
nitrati e nitriti conservanti dei salami e, in più, glutammato monosodico come esaltatore di sapidità.

I polifosfati. Indicati nell’etichetta come “stabilizzanti”, si chiamano E450a, b, c, oppure E450,


E451: ostacolano la corretta assimilazione dei minerali (specie il calcio e il ferro) dagli alimenti, e
la maggiore pericolosità è la calcificazione dei tessuti molli, come i reni; possono dare soprattutto
disturbi muscolari, soprattutto ai bambini, e, si sospetta, rachitismo. Se sull’etichetta è scritto “senza
polifosfati aggiunti” non vuol dire che non ve ne siano: i fosfati polimerici possono formarsi dal
riscaldamento (per cottura) di sostanze naturalmente presenti nei tessuti animali. È vero che se ne
iniettano sempre meno nel prosciutto cotto, ma attenzione: il loro uso è ancora diffusissimo nella
spalla cotta, che ha aspetto e sapore simile al prosciutto cotto, ma, come dice il nome, è parte
diversa del povero maiale, e costa meno. La spalla cotta è usata sempre nella preparazione dei toast
e dei tramezzini.

Inoltre, perché, a differenza di tutte le altre carni, il prosciutto sottoposto a cottura rimane
rosa invece che diventare grigio?

64. COS’È LA HAMBURGER CONNECTION?
Camminando tra i padiglioni del Salone del libro di Torino nel maggio 2002 mi sono avvicinato a un
editore romano, e il discorso è caduto sul successo di Quattro sberle in padella. In quel momento
c’era uno scandalo sugli hamburger in America e ne stavamo parlando. Lui ha ribattuto “sì, però,
bastian contrario come sono io, l’unico pamphlet che vorrei pubblicare è un libro a favore di
McDonald’s”.

Elogio del McDonald’s. Ci ho provato, a buttare giù una traccia, una bozza, con l’idea di elencare i
chiaroscuri di un’impresa nata a cavallo degli anni Venti della White Castle e gli anni Cinquanta di
Ray Kroc.
In cinquant’anni un cibo sordido e da poveri è divenuto simbolo della modernizzazione e della
globalizzazione. Quando McDonald’s ha aperto in Turchia, nel 1986, nessun altro franchiser
straniero era presente in quel paese. Nel 1992 migliaia di persone hanno atteso per ore il loro
panino nel primo McDonald’s di Pechino. Due anni dopo, aperto un McDonald’s in Kuwait, s’è
creata una fila di undici chilometri per ritirare il cibo direttamente dall’auto. È uno dei marchi più
noti al mondo, si contende i primati di valore e notorietà con Google e Coca-Cola. È adorato dai
bambini, forse per la facilità nel maneggiare e masticare l’hamburger, o per l’unione con le major
del divertimento. Gli ambienti sono colorati e accoglienti. I locali sempre aperti. Gli antropologi
hanno coniato termini come “McWorld” e “mcdonaldizzazione”.

Amazzonia, che macello. Tutto ruota intorno a un dischetto di carne rossa, cibo non salubre ed
ecologicamente insostenibile. Causa un’ecatombe di bovini. È carne macinata con altri componenti,
non un alimento integro e riconoscibile. È un gusto standardizzato, culturalmente appiattente. Si
cuoce e consuma meccanicamente in fast food , antitesi dell’approccio slow. È il puntino finale di
una reazione a catena di risorse bruciate a livello mondiale.
Nel 2004 è stata organizzata la prima settimana di mobilitazione globale sul commercio, la Global
Week of Action, promossa da oltre 100 organizzazioni. Lo slogan “Hamburger Connection:
distruggiamo la foresta amazzonica” ha messo in luce un aspetto allora meno noto dello sfruttamento
dei paesi poveri a vantaggio di quelli ricchi: l’abbattimento della foresta amazzonica per fare spazio
a pascoli e campi di foraggio per mangimi destinati ad allevare bovini, la cui carne poi è importata
nei paesi ricchi.
In Brasile sono 16 milioni le persone denutrite (dati Fao), ma il Brasile esporta verso l’Europa 16
milioni di tonnellate di soia l’anno per mangimi animali. E il danno ancora maggiore lo subisce la
foresta amazzonica brasiliana, per la deforestazione causata dalle abitudini alimentari dei paesi
ricchi. Il primo allarme in realtà era venuto dal Cifor (Centro per la ricerca forestale
internazionale), con un rapporto del 2003 dal titolo significativo L’hamburger provoca la
distruzione dell’Amazzonia, che rivelava che la foresta amazzonica veniva deforestata tanto per il
legname quanto per la creazione di sempre nuovi pascoli su cui allevare bovini destinati
all’esportazione. Oltretutto il terreno, inadatto al pascolo o alle colture di foraggi, dopo pochi anni
si desertifica, rendendo necessari ulteriori abbattimenti. Le chiazze desertiche della foresta
amazzonica sono in costante aumento, come in aumento è l’esportazione di carne bovina. Un
ricercatore tedesco, osservando i dati fotografici dal satellite nel 2005, commenta: “Sembra che la
foresta sia presa a morsi”.

Il rapporto Greenpeace 2009 aggiorna i dati sul macello amazzonico. Dopo un’indagine durata
tre anni hanno raccolto prove che dimostrano che i giganti del mercato della carne e della pelle
brasiliani – Bertin, JBS, Marfrig – vengono regolarmente riforniti da allevamenti che tagliano
la foresta amazzonica ben oltre i limiti consentiti dalla legge. Gli allevamenti bovini illegali
distruggono un ettaro di Amazzonia ogni 18 secondi.

65. L’AGLIO È PESANTE DA DIGERIRE?
L’aglio è utile per le persone con ipercolesterolemia e ipertensione. Possiede anche una buona
attività antimicrobica e immunostimolante che lo rende efficacissimo contro le influenze invernali.
Le ricerche del Ruakura Agricultural Research Centre (in Nuova Zelanda) dicono che mezzo
spicchio d’aglio (crudo) al giorno stimola l’intestino a produrre enzimi che distruggono le sostanze
cancerogene, svolgendo quindi un’azione protettiva dai tumori, specialmente quelli al colon. Nel
corso del pasto, l’aglio può aumentare l’assimilazione dei principi nutritivi degli alimenti fino al
10% perché, essendo dotato di attività antibiotica, può “modulare” la flora batterica digestiva
facilitando l’assorbimento di proteine, carboidrati, vitamine e minerali. Inoltre, gli sono state
riconosciute proprietà regolatrici della pressione arteriosa e virtù anti-tumorali.

Da cosa dipende l’asserita pesantezza. Se preparato correttamente, è digeribilissimo. Anzi,


favorisce le secrezioni gastriche. Ha una buona dote di enzimi digestivi ma, si sa, gli enzimi
vengono inattivati con la cottura. Quello che quindi rende apparentemente “indigeribili” aglio e
cipolla sono le lunghe cotture (ad esempio gli stufati), i soffritti, l’associazione con cibi troppo
abbondanti e grassi; in questi casi è l’insieme degli alimenti consumati a non essere digerito bene,
ma l’impressione che si ha è quella di non aver digerito l’aglio o la cipolla perché, essendo
fortemente aromatici, se ne percepisce il sentore anche molte ore dopo aver mangiato.

Aglio cinese. Ciò che rimane indigesto è che negli ultimi anni siamo stati invasi da aglio secco di
provenienza cinese. Centinaia di tonnellate di aglio scaricato dalle navi container, probabilmente
sottoposto a radiazioni con effetto antigerminativo, il cui trasporto è facilitato dalla sua leggerezza e
dalla facilità di conservazione.

Meglio il più sano campanilismo. L’aglio di provenienza cinese è diffuso negli hard-discount, al
costo di un euro a unità di vendita (4 euro al chilo). Il miglior aglio italiano da agricoltura
biologica costa 1,36 euro (5,58 euro al chilo). Quei 36 centesimi in più sono un sagace
investimento in salubrità, risparmio di costi di trasporto, difesa dell’agricoltura italiana,
rispetto dell’ambiente, freschezza e gusto.

66. PERCHÉ LA PIZZA METTE DI BUONUMORE?
La prima ricetta della pizza così come la conosciamo oggi si ritrova in un trattato dato alle stampe a
Napoli nel 1858. Popolarissima presso il popolino ma anche presso principi e baroni, dominava i
ricevimenti dei Borboni, e Ferdinando IV arrivò a farla cuocere nei forni di Capodimonte (gli stessi
dai quali uscivano le preziose ceramiche). Le fonti storiografiche non sono unanimi su come è nata
la pizza, sul “quando” sì: 11 giugno 1889, visita alla città di Napoli da poco annessa al Regno
d’Italia da parte dei Savoia. Interrogato da un messo il fornaio Raffaele Esposito su come si
chiamasse quella pizza tricolore così apprezzata dal palato della regina, rispose “Margherita”.

Attenti ai pezzi di ricambio. Gli ingredienti della pizza, presi uno per uno, sono già di per sé
salutari. Insieme, fanno di più. Per studiare in che modo i diversi nutrienti della pizza interagiscono
a garantire i benefici per la salute sono arrivate in Italia perfino équipe di ricercatori giapponesi.
Gli antiossidanti del pomodoro sono resi più biodisponibili dai grassi; il pomodoro aiuta la
digestione dei carboidrati e la loro conversione in energia. La scienza ha scoperto che se si mangia
pizza più di due volte alla settimana, il rischio d’infarto si riduce a meno della metà e può anche
ridurre le probabilità di tumore all’apparato digerente. Il segreto sta, come detto, nella
combinazione dei suoi ingredienti. La cui qualità può però essere facilmente contraffatta.
Troppe pizzerie usano insipido olio di semi. E soprattutto, occhio alla mozzarella, spesso si usa
quella “finta”, quei panetti di una cosa che non può neanche legalmente fregiarsi del nome
“formaggio”, essendo un “prodotto alimentare filante a base di proteine e derivati del latte” fatto con
acqua, proteine del latte, burro o miscele di formaggi con additivi fondenti (come citrati, fosfati di
sodio e polifosfati). Difatti il loro nome commerciale è spesso un composto di fantasia, sulla base di
alcune lettere della parola “mozzarella”.

La mozzarella è meglio che sia di bufala (non esiste ancora la “finta” mozzarella di bufala). O
da agricoltura biologica. Per l’impasto, meglio la farina integrale. Per fare la farina raffinata
(bianca, 00), i chicchi vengono decorticati e subiscono una perdita di nutrienti durante le fasi di
lavorazione. Pomodoro italiano, meglio se da agricoltura “bio”. E alla fine, rigorosamente a
crudo, un filo d’olio extravergine d’oliva, non di semi, né d’oliva. Extravergine.
67. È ANCORA ALLARME ROSSO (PEPERONCINO)?
“Pennette alla puttanesca tossiche, nuovo maxisequestro”. “Coloranti tossici nel sugo
all’arrabbiata”. A un certo punto dell’estate 2004 ci siamo inopinatamente ritrovati sui giornali
simili titoli, riferiti a interi lotti di prodotti sequestrati, da Torino ad Ascoli, su ordine della Procura
di Torino, dei Nas di Roma, del Nucleo investigativo provinciale di Polizia ambientale e forestale
di Ascoli.

Peperoncino colorato. Cos’è successo? Una ditta di Pescara ha importato ingenti partite di
peperoncino dall’India e, tramite clienti sparsi in tutta Italia (ditte di catering, di produzione
alimentare), il peperoncino è finito in 100 tonnellate di cibi surgelati e di sughi, anche di notissime
marche alimentari.
L’allarme era scattato la prima volta in Inghilterra, nell’estate 2003, con tonnellate di cibi ritirati
dagli scaffali dei supermercati inglesi.

Il colorante rosso Sudan I. Lo si usa in mezzo mondo per tingere oli minerali, cere o lucidi da
scarpe. Ma si presta benissimo anche per conferire colorazione a curry, sughi aromatici e miscele di
spezie per manicaretti a base di carne, pasta e patate, nonché per polvere di paprica, paste
alimentari, olio di palma, chili e derivati. Costa pochissimo, quindi viene impiegato in alcuni paesi
del Terzo mondo nonostante il divieto europeo di utilizzo in ambito alimentare. Già nel 2003 la
Commissione europea aveva varato restrizioni alle importazioni di questo colorante cancerogeno e
genotossico dall’India. Durante un viaggio ispettivo in loco, nel febbraio di quell’anno, i membri
della Commissione hanno definito insufficienti le misure di controllo messe in atto dalle autorità
indiane. Tuttavia il commercio del Sudan I è continuato, i rivenditori europei non hanno mostrato
segni di ravvedimento. Solo in un anno, a livello europeo, sono state riscontrate 125 infrazioni.
A differenza del peperoncino nostrano, il quale viene raccolto una volta rosso e che mantiene il suo
colore anche successivamente all’essiccamento, i peperoncini importati sono spesso raccolti ancora
verdi e quindi ritinti con rosso Sudan I. Considerato che la merce importata costa circa un quinto di
quella nostrana, la tentazione di ricorrere alla variante a basso prezzo è forte. I prodotti col rosso
Sudan I sono stati pubblicati con tanto di nome da Il Salvagente nell’ottobre 2004: era in zuppe di
mare, sughi pronti piccanti, curry, piatti etnici...

Ecco quindi alcuni consigli pratici, pubblicati nel 2004. Tranne uno, sono ancora validi e
d’attualità.

Stare attenti ai barattoli di sughi all’arrabbiata. In Italia sembra


che siano stati i prodotti più a rischio Sudan I.
Occhio alle spezie a basso costo. L’adulterazione avviene in alcuni
paesi, in India e nel Sudest asiatico, dove i controlli non sono così
continui e rigorosi, che poi esportano prodotti alimentari a basso
costo.
Preferire il peperoncino intero, non in polvere. Le partite di
peperoncino contaminate erano sempre di peperoncino in polvere:
probabilmente il Sudan I viene mischiato a quelle partite di
peperoncini che anneriscono per la cattiva conservazione, e che
hanno quindi bisogno di una ritinteggiatura.
Scegliere prodotti biologici certificati. Il peperoncino “bio”
proviene spesso dall’Italia, e soprattutto le fasi di coltivazione e
lavorazione sono tracciate, controllate e certificate.

68. COSA SONO I GRASSI VEGETALI IDROGENATI?
Dai grissini ai gelati, dai cracker alle creme spalmabili, snack, pasticceria industriale, dadi, fritti
pronti… i grassi vegetali sono tra gli ingredienti più massicciamente presenti nei prodotti al
supermercato. I grassi vegetali idrogenati o trans-esterificati presentano qualche rischio per la
nostra salute: il loro processo produttivo modifica le caratteristiche dei grassi in modo che
interferiscano con i sistemi di regolazione dei valori di colesterolo.
Anche quando un’etichetta (per esempio dei cracker o dei grissini) segnala la presenza di “olio non
idrogenato” o di “olio naturale”, non si può sapere con certezza quale sia la composizione finale del
grasso al termine della cottura.

I grassi vegetali idrogenati. Così si definiscono gli oli solidificati tra i 160 e i 210 °C, con
idrogeno e nichel. Si previene così l’irrancidimento, ma purtroppo con l’idrogenazione le molecole
si trasformano in “trans”. L’idrogenazione trasforma il grasso in una specie di sostanza inerte, simile
a un olio minerale (come quello delle automobili). Siccome abbassano il colesterolo buono (l’HDL)
aumentando sensibilmente il rischio cardiovascolare e la produzione di radicali liberi
nell’organismo, da qualche anno le critiche su questi grassi si sono accentuate. Allora le aziende
hanno cambiato nelle etichette la loro denominazione e così i vecchi grassi idrogenati vegetali sono
diventati “grassi trans-esterificati”. Cioè praticamente la stessa cosa.
Grassi vegetali non idrogenati. Alcuni produttori hanno cominciato a usare un diverso processo, il
frazionamento, con cui si separa da un olio la sua parte solida. Con il frazionamento si toglie
chimicamente la parte liquida dell’olio, ottenendo un solido costituito in abbondanza da grassi
saturi. Ecco come si fa la margarina vegetale non idrogenata. L’unico vantaggio rispetto agli
idrogenati è che non è trans.

Basta pochissimo per raggiungere nell’alimentazione quotidiana una quantità di acidi grassi
trans sufficiente a turbare il metabolismo del colesterolo. Un biscotto ne contiene la stessa
quantità di una bistecca di 150 grammi. Evitare i grassi di cui non si conosce la provenienza,
dare la preferenza a olio extravergine d’oliva e a oli di semi biologici spremuti a freddo, oppure
a burro di provenienza biologica. Niente margarina, nemmeno se non è idrogenata.

69. COS’È L’AMIDO MODIFICATO?
Non è transgenico, non è “modificato” geneticamente, non è velenoso.Però, non è buono lo stesso.
L’amido è una sostanza vegetale, un carboidrato. Si trova in tutti i cereali, nelle patate e nelle
leguminose.

Com’è modificato. L’amido modificato – largamente impiegato nell’industria alimentare, negli


yogurt di frutta, nei dessert, nei budini, nelle creme e nelle minestre soprattutto per legare e
addensare – è prodotto dall’amido nativo con procedimenti chimici, enzimatici o fisici.
Si parte per lo più da amido di mais, talvolta anche amido di riso o di tapioca. L’amido nativo può
reagire con gli acidi naturalmente presenti nei cibi. Allora lo si prende un po’ a pugni con uno o più
trattamenti chimici, se ne modificano le molecole. Può anche essere strapazzato con trattamenti
fisici, con il calore o per azione meccanica; o con un trattamento enzimatico, per ricavarne
maltodestrine.

Così si gonfia. Il problema è che, così intontito, l’amido modificato così ottenuto si presta a tappare
molte magagne nei cibi. Permette di incorporare acqua in percentuale maggiore nei prodotti da
forno. Può essere anche usato per smussare sapori strani e odori sgradevoli, come agente di carica
(cioè, si gonfia, così da aumentare peso e volume dell’alimento). La US Corn Refiners Association
ne caldeggia difatti l’uso “per sostituire altri ingredienti che potrebbero risultare costosi”. Se in un
alimento c’è amido modificato di mais, è lì al posto di un altro ingrediente di maggior pregio.

“Modificato”, dunque, non significa che l’amido è stato modificato geneticamente. Il termine
“modificato” per l’amido non significa essere un derivato di una pianta transgenica.

70. C’È ANCORA LA CARNE AGLI ORMONI?
Corridori, vitelloni o culturisti, non fa differenza. Gli ormoni fanno effetto. Sono sostanze di origine
naturale o sintetica (come il famigerato Des, o dietilstilbestrolo, un ormone steroideo sintetico) con
proprietà anabolizzanti, cioè aumentano la massa muscolare. In Italia l’uso di composti ormonali per
l’allevamento è stato vietato dalla legge n. 4 del 1961 e dai decreti ministeriali del 1969 e del 1981;
dal 1988 anche altri paesi europei hanno optato per la stessa soluzione. L’Unione Europea ha
adottato alcune direttive per regolamentare in modo uniforme la materia. Recente è l’attuazione in
Italia delle direttive 1996/22/Ce e 1996/23/Ce concernenti “il divieto di utilizzazione di sostanze ad
azione ormonica, tireostatica e delle sostanze beta antagoniste nelle produzioni animali”. Al
contrario, negli Usa, in Canada e in alcuni altri paesi, gli ormoni possono essere acquistati senza
ricette ed essere utilizzati senza la supervisione di veterinari.

Fanno male. Le sostanze sotto accusa sono gli steroidi esistenti in natura, testosterone e
progesterone, nonché i composti sintetici, acetato di trenbolone, con dimostrata affinità per i
recettori androgenici, zeranolo, con un’elevata affinità per i recettori estrogenici, e acetato di
melengestrolo, che assomiglia agli ormoni progestinici. Anche l’impiego dell’ormone della crescita
GH non è esente da rischi. Il 17-beta estradiolo è stato identificato come sostanza cancerogena
completa; ha l’effetto sia di avviare sia di promuovere lo sviluppo del tumore.
Un gruppo di esperti scientifici sui contaminanti nella catena alimentare, su mandato della
Commissione europea, ha revisionato la letteratura scientifica pubblicata nel periodo compreso tra
il 2002 e i primi mesi del 2007, fino alla data della redazione del parere. Conclusione:
l’esposizione agli ormoni ha potenziali conseguenze avverse per la salute umana, in particolare per
le alterazioni che comporta nei riguardi delle ghiandole endocrine nella fase puberale, del sistema
immunitario e per gli effetti genotossici e carcinogenici.
È dunque confermato, 17-beta estradiolo, progesterone, testosterone, zeranolo e acetato di
trenbolone e di melengesterolo, gli ormoni della crescita utilizzati per la produzione di carne,
possono avere ricadute deleterie sulla salute umana. E permangono nelle carni macellate.
I più a rischio sono i bambini e i ragazzi fino alla pubertà. Le prove esistenti sono sufficienti a
dimostrarlo. I rischi sono reali anche in caso di dosi micrometriche. Infatti, per nessuno di questi
ormoni è possibile stabilire una soglia critica. Il dietilstilbestrolo, che tra gli estrogeni di sintesi è il
più usato per il suo basso costo, somministrato per lunghi periodi anche a basse dosi (0,1-2
microgrammi per chilogrammo di peso) provoca nell’animale alterazioni istologiche nel fegato, nel
rene, nei tubuli seminiferi e negli spermatozoi, inducendo seri disturbi delle funzioni riproduttive. È
difficilissimo accertarne la presenza, essendo attivo anche in quantità minime (parliamo di
milionesimi di grammi). I metaboliti degli estrogeni hanno inoltre la capacità di danneggiare il Dna
e causare mutazioni. Gli estrogeni comportano un arresto della spermatogenesi e azospermia nel
maschio, interruzione del ciclo ovarico, blocco dell’ovulazione, irregolarità mestruali e infertilità
nella donna. La somministrazione di basse dosi di estradiolo (4 microgrammi/giorno) a bambini del
peso di 30-40 chilogrammi provoca un’accelerazione superiore al 60% della crescita ossea rispetto
ai parametri fisiologici e, sia nei maschi che nelle femmine, anomalie dello sviluppo sessuale e
della pubertà.
Ci sono stati diversi casi nel Nord Italia, ancora negli ultimi anni, di bambine al di sotto degli otto
anni con telarca (protuberanze della ghiandola mammaria) e bambini di dieci anni con calvizie. La
causa scatenante sembra essere la presenza di ormoni ed estrogeni nella carne somministrata nelle
mense scolastiche. In alcuni casi la manifestazione è regredita una volta eliminata la carne dal menu.

Nelle carni Usa, e forse anche in Italia. Negli Stati Uniti i trattamenti con ormoni non solo sono
ammessi, bensì incoraggiati. Zeranolo, estradiolo, testosterone, progesterone, trenbolone acetato,
perfino un ormone biotech sono in continuazione iniettati in vitelli, mucche e tori. Così li fanno
esplodere, crescendo più velocemente del 50%. Per questo l’Europa ha tenuto per trent’anni le
proprie frontiere chiuse all’importazione di carne Usa: gli Usa avevano chiesto miliardi in
risarcimenti al Wto, ma le porte finora sono rimaste chiuse. Finora.

Bruxelles e Washington hanno raggiunto l’intesa. La Ue, da parte sua, comincia a dare il via
libera all’accesso sul mercato europeo di 20 mila tonnellate di carne di manzo Usa proveniente
però da animali non trattati con ormoni per i primi tre anni; quantità che salirà a 45 mila
tonnellate a partire dal quarto anno. La controversia sulla commercializzazione di carne bovina
trattata con ormoni risale agli anni Ottanta e si era aggravata negli ultimi mesi con la decisione
dell’amministrazione americana di applicare all’Europa ulteriori sanzioni commerciali come
ritorsione al divieto d’importazione in Europa. L’intesa, in ogni caso, non dovrebbe avere un
impatto negativo sugli allevamenti italiani. Secondo Luigi Scordamaglia, vicepresidente di
Assocar -ni, la concessione di tale quota non crea problemi di particolare gravità alla carne
italiana trattandosi di canali di commercializzazione tradizionalmente diversi (la carne Usa
sembra destinata a catering e fast food).

71. PERCHÉ GLI ANTIBIOTICI FANNO SEMPRE MENO EFFETTO?
Questo tema sta al confine tra salute, alimentazione e abusi in zootecnia. Il fenomeno della resistenza
agli antibiotici è in crescita. Cioè, il numero di persone che soffre di infezioni resistenti all’intero
spettro di antibiotici conosciuti è decuplicato negli ultimi anni.
Sempre di più ciò pare correlato a quel che mangiamo.
Si stima che metà della produzione mondiale di antibiotici, percentuale che in Usa arriva al 70%,
finisca nel cibo degli animali d’allevamento. Servono per accelerarne la crescita, per tentare di
prevenire le malattie causate dal sovraffollamento e dalle malsane condizioni degli allevamenti
intensivi.

Resistenza agli antibiotici. Ciò che ingeriamo può incrementare la resistenza ai trattamenti
antibiotici, con il rischio di contrarre infezioni difficilmente trattabili. Tra le cause, una è la pratica
di addizionare antibiotici ai mangimi degli animali negli allevamenti o usare agli stessi animali
trattamenti prolungati a base di antibiotici.
Recenti studi, tra cui uno del New England Journal of Medicine, lo confermano: l’abuso di
antibiotici negli allevamenti è collegato allo sviluppo di batteri che resistono a spettri sempre più
ampi di agenti antibiotici; batteri che si possono ritrovare nella carne in vendita sui banconi del
supermercato. Per questo sono sempre più forti gli appelli per mettere al bando la routine feeding,
la somministrazione di antibiotici routinaria nei mangimi.

Come scoraggiare questa pratica? Come evitare medicine non richieste? Come ridurre il
rischio di venire a contatto con batteri resistenti agli antibiotici? Ridurre il consumo di carne e
uova. Comprare biologico. La scelta “bio” promuove un allevamento più sano e sostenibile.
Nelle carni biologiche, infatti, sia in Usa che in Europa, non sono ammessi dalla legge e dai
disciplinari né l’uso né la presenza di residui di antibiotici.
72. LA CLONAZIONE È FANTASCIENZA?
Gli americani presto potranno sedersi a tavola e mangiare un hamburger clonato. La Food and Drug
Administration (Fda), l’agenzia statunitense di controllo su cibi e farmaci, ha già dato il suo
benestare nel 2006 alla commercializzazione e al consumo di carne e latte provenienti da animali
clonati perché, a loro giudizio, non presentano alcun rischio per la salute. L’agenzia sanitaria non ha
rilasciato interviste sull’argomento ma il Washington Post anticipava, già nell’ottobre 2005, questa
mossa.
Pare che nelle fattorie americane centinaia di maiali e vitelli clonati fossero da anni in attesa della
loro sorte. Molte aziende produttrici avevano sperimentato, in questi anni, la clonazione dei propri
animali e aspettavano soltanto il sì dell’agenzia sanitaria. Sono passati i tempi in cui fattori e
agricoltori si scandalizzavano per la pecora Dolly, il primo animale clonato da una cellula adulta
nel 1996. Molte imprese agricole Usa stanno facendo pratica con la nuova tecnica scientifica.
Presto, potrebbe diventare la norma. La Fda ha avviato nel 2002 uno studio per arrivare ad alcune
conclusioni sui prodotti clonati.

La bistecca made in Usa. Già oggi, una bistecca made in Usa viene da animali cresciuti con
farmaci e ormoni sintetici o transgenici (come l’rBGH, vietati in Europa), trattata e sterilizzata con
radiazioni. Domani, potrebbe anche essere clonata.
Secondo la comunità scientifica non dovremmo correre rischi. Al massimo, non riusciremo a
distinguerli da quelli veri.
Quest’ultima forzatura dei cicli naturali è stata ideata per aumentare la comodità produttiva: clonare
un particolare individuo, in teoria, garantisce standard di produzione ancora più regolari. Ma gli
americani stessi sembrano non gradire molto la possibilità. I sondaggi rivelano che il 60% non
comprerebbe uova, latte o carne proveniente da animali clonati. La maggior parte delle mamme non
si fiderebbe a dare latte clonato ai propri figli e molti si sono dichiarati disgustati all’idea di servire
in tavola bistecche di vitelli replicanti.

Nonostante anche l’Efsa, l’Authority europea per la sicurezza alimentare, si sia pronunciata
nel 2008 a favore della carne clonata – un consenso di massima confermato anche dal Consiglio
dei ministri dell’Agricoltura Ue il 30 giugno 2009 – ci vorranno anni prima che in macelleria
arrivino questi prodotti (se mai arriveranno). Inoltre, tutti pensano che la carne sia quella degli
animali clonati, ma non è così. Clonare un animale ha costi troppo elevati perché ci si possa
permettere di utilizzarlo per la macellazione. La carne che potrebbe essere messa in vendita è
quella dei figli dei cloni, non dei cloni. Ma quanto successo negli Stati Uniti sconcerta perché
non solo la Fda ha approvato la vendita della carne clonata con poche certezze scientifiche, ma
addirittura non ha previsto l’obbligo di dichiarare in etichetta la provenienza. Non si
comprende l’utilità di sottoporre a nuove, costose torture gli animali (gli animali clonati sono
deboli e si ammalano facilmente). Non c’è granché bisogno di più carne. Il mercato della
clonazione sarà gestito da grandi corporation, e sicuramente non aiuterebbe gli allevatori
nostrani, in maggioranza piccoli e locali.

73. COSA C’È NEL DADO DA BRODO?
Il magico cubetto di sapore, nato intorno al 1880, introdotto in commercio su larga scala negli anni
Trenta e definitivamente diffuso in Italia nel dopoguerra, ha modificato le abitudini culinarie. Per la
sua capacità di sprigionare tanto sapore in così poco volume e con quella consistenza e coloritura
bruna un po’ enigmatica, ha anche sempre suscitato una certa diffidenza. È una legge del 1953 a
regolamentarne produzione e vendita. Oggi si trovano in commercio dadi alquanto differenti l’uno
dall’altro.

Il dado tradizionale di carne. È una preparazione a base di sale e glutammato di sodio (dal 50 al
60%), grassi vegetali idrogenati (15-20%), acqua, aromi vari e carne (3-5%). In un dado di circa 10
grammi ci sono 0,3 grammi di carne. Il resto del sapore è dato da sale e glutammato di sodio.
Altra etichetta: “sale iodato (36%), grassi vegetali, esaltatore di sapidità glutammato monosodico,
estratto di lievito, sciroppo di glucosio, estratto di carne, cipolla, aromi, carota, prezzemolo”. In
questo i grassi vegetali sono maggiori del glutammato (gli ingredienti sono sempre elencati in ordine
di peso).
In un altro dado si trova anche l’estratto per brodo, ottenuto estraendo (con acido cloridrico)
proteine da cereali e legumi oppure proteine di origine animale, partendo da sangue, latte, carne e
pesce. La legge del 1953 non stabilisce di dichiarare in etichetta da dove provengano queste
proteine.
Un altro dado vanta, come caratteristica “mediterranea”, l’olio extravergine di oliva, presente nella
misura del 7% (un grammo) a cui sono aggiunte verdure varie (cipolle, carote, pomodori,
prezzemolo) disidratate nella misura del 2,5%. Gli altri ingredienti sono i soliti di tutti gli altri dadi
sul mercato, sale, sciroppo di glucosio, colorante caramello, estratto di lievito, aromi e glutammato.
Ingredienti non nocivi, ma un po’ poveri.
In genere le calorie di un dado sono poche (12 l’uno), ma se comprendono grassi idrogenati o quelli
di cocco o di palma, per le arterie sarà comunque un danno.
Stanno incontrando sempre più favore commerciale i dadi granulari, in diverse varianti, pollo,
verdure e pesce. Più comodi da dosare, il loro elemento peggiorativo è che per evitare che i grassi
irrancidiscano, spesso si ricorre ad antiossidanti non raccomandabili, come il gallato di ottile. Un
dado da brodo migliore di quelli finora citati è fatto per esempio con “estratto per brodo di proteine
vegetali di soia e di mais, sale iodato, olio vegetale non idrogenato, verdure disidratate in
proporzione variabile (cipolla, carota, sedano, prezzemolo, pomodoro, aglio, porro, patata): 5%,
estratto di carne: 3%, farina di grano tenero tipo 0”.
Un’eti chetta completa e sincera, buon indizio.
Ancora migliore un dado tutto da agricoltura biologica: “estratto di lievito, oli vegetali (non
idrogenati), verdure disidratate 12%, sale”. Qui sono solo le proteine dell’estratto di lievito a
conferire il gusto tondo, sapido e apprezzato dal nostro palato.

Si può anche fare in casa: “1/2 kg di cipolle, 1/2 kg di carote, 250 g di sedano verde, 250 g di
prezzemolo, 250 g di pomodori sodi maturi, 1 testa di aglio, 1 pugno di erbe aromatiche fresche
miste (salvia, rosmarino, timo, basilico), spezie e 1/2 kg di sale marino integrale fino – spiega
Francesca Marotta su LifeGate.it – si triturano finissimamente tutte le verdure e le erbe nel
mixer, si versa in una zuppiera, aggiungendo sale e spezie. Riempire con il preparato dei
barattoli di vetro con coperchio ermetico e coprirne la superficie con un velo d’olio. Dopo la
chiusura, in frigo si conserva per più di un anno. Ottima base per insaporire soffritti, minestre,
zuppe, sughi, salse, ripieni, è perfetto per fare un saporito brodo vegetale istantaneo,
semplicemente mescolandone un cucchiaino con acqua bollente”. È quanto di più semplice,
naturale e sano per sostituire i dadi e i preparati industriali per brodo.

74. QUANTO È REALE IL PERICOLO DIOSSINA NEI CIBI?
Altre centinaia di mucche e pecore sono state abbattute in provincia di Lecce, e il loro latte
incenerito come rifiuto speciale, perché hanno mangiato il fieno coltivato in un raggio di 40
chilometri da un inceneritore di Maglie. C’erano livelli di diossina 420 volte superiori ai limiti di
legge.
Questo, del marzo 2009, è solo l’ultimo episodio di una lunga catena di notizie di latte alla diossina,
un allarme ricorrente che ha colpito diversi allevamenti del Sud Italia, dalla Campania (dove si
produce la mozzarella più rinomata d’Italia) alla Puglia, alla Calabria. Centinaia le analisi sugli
allevamenti disposte dai magistrati, quintali di latticini tolti dal commercio, aziende agricole sotto
sequestro. Sofferenze e uccisioni inutili di animali, danni per milioni di euro, rischi per la salute
pubblica. Tra le cause accertate, gli inceneritori non attrezzati per bruciare rifiuti urbani, le attività
industriali, i mangimi. Sospettate anche le pratiche di combustione non autorizzate di rifiuti.

A livello internazionale. In Europa si sono registrati gli ultimi allarmi diossina sul salmone
d’allevamento, su carne conservata, uova e polli di alcuni paesi nordeuropei.
Il cibo conta per circa il 90% dell’esposizione umana alle diossine, un famiglia di sostanze che,
anche in basse concentrazioni, possono causare tumori, disturbi comportamentali, indebolimento
delle difese immunitarie, riduzione degli ormoni maschili e dello sperma, diabete, una malattia della
pelle (cloracne) e un’affezione uterina (endometriosi). Il nostro organismo impiega sette anni per
eliminare almeno una parte delle diossine assimilate.

Come ridurre l’esposizione alle diossine? Riducendo i piatti a base di grassi animali, perché è
proprio nei tessuti adiposi che si concentrano le sostanze contaminanti con cui l’animale entra
in contatto nella propria vita. Prediligere gli alimenti biologici: gli animali allevati con metodo
“bio” non possono essere nutriti se non con mangimi controllati, riducono quindi una fonte
d’esposizione.



75. MI FA STRACCIATELLA, CIOCCOLATO E… PROTEINA SINTETICA ISP?
Presto potremmo trovare in commercio il gelato che non si scioglie, grazie a una proteina isolata da
un pesce artico e riprodotta in laboratorio con l’ausilio di un lievito transgenico. È la notizia di
inizio estate 2009. “Ci eravamo abituati al gusto cocomero, tè verde, cardamomo, fico d’india,
addirittura allo spaventoso gusto puffo, ma al gusto merluzzo non ci si era ancora arrivati”, è il
sarcastico commento di Antonello Dose e Marco Presta su Il Messaggero.

Gradimento. All’annuncio dell’arrivo in Italia di una simile innovazione, già proposta in altri paesi
da una multinazionale della chimica, la Coldiretti ha prontissimamente diffuso un sondaggio SWG
secondo cui tre italiani su quattro guardano con diffidenza a questa miglioria transgenica del gelato.
“Il gelato che si squaglia è a nostro modesto parere un sacrosanto diritto dell’infanzia e tra le altre
cose – contestano Dose e Presta – si tratta di un’innovazione che toglie alle mamme d’Italia la
premurosa soddisfazione di leccare tutt’intorno il cono del pargolo, rimuovendo il senso di colpa
insito nell’ingurgitare zuccheri con la necessità materna di evitare lo sgocciolamento sulla maglietta
pulita. Infatti, fateci caso, le mamme fingono da sempre di farlo controvoglia, mentre in realtà non
aspettano altro. Un tempo, per combattere la liquefazione di questo meraviglioso dolciume estivo lo
si collocava ingenuamente nel freezer e, se arrivavano degli ospiti inattesi, ci si trovava di fronte a
un blocco di marmo: sembra che Michelangelo abbia scoperto la sua vocazione per la scultura di
fronte a una vaschetta limone, fragola e cocco” chiosano i due satirici.

C’è poco da ridere. C’è un preoccupante precedente nella produzione di proteine a partire da
biotecnologie. Mortale. Nel 1990 una grande casa farmaceutica che da anni commercializzava
triptofano (un aminoacido impiegato contro la depressione) avvia la commercializzazione di un
integratore di triptofano prodotto con batteri Ogm. Dopo pochi mesi, 37 persone muoiono e 1.500
restano invalide per sindrome mialgia eosinofila: il triptofano Ogm era uguale al 99,6% all’altro, il
resto era un’imprevista tossina transgenica.

Il 19 giugno 2009 un allarmato comunicato stampa atterra nelle redazioni dei giornali. Proviene
dalla multinazionale detentrice del brevetto della temuta proteina. “Il gelato della nostra
marca in Italia non contiene proteine ISP. Si precisa, in merito a quanto erroneamente e
superficialmente riportato da alcuni giornali, che la nostra azienda non commercializza in Italia
nessun prodotto contenente Ice Structuring Protein. In altri paesi, come Stati Uniti e Nuova
Zelanda, sono già da tempo prodotti e commercializzati gelati contenenti la proteina Isp
(regolarmente autorizzata da altre autorità nel mondo)… Ma – conclude il comunicato, quasi
minacciosamente – l’azienda valuterà la futura estensione geografica di tale innovazione solo
se, attraverso approfonditi test e ricerche di mercato, i consumatori dimostreranno di
apprezzarla”. No, grazie, rivendichiamo il diritto al gelato che si scioglie.

76. CHE DIFFERENZA C’È TRA IL GELATO ARTIGIANALE E QUELLO INDUSTRIALE?
La bontà di un gelato è nel suo sapore, nell’essere cremoso e fresco. Qualità che si raggiungono con
un’attenta preparazione, ma che possono anche essere simulate, specie nel gelato industriale, con
ingredienti e tecniche artificiali.

Gelato artigianale. Il cono e la coppetta che prendiamo in gelateria, alla frutta o alla crema,
s’accompagna alle nostre passeggiate d’estate. Per produrlo ogni gelatiere deve sottostare a un
rigoroso e salutare Disciplinare sul gelato artigianale che garantisce l’uso di ingredienti freschi e
di corrette tecniche di produzione.
“Il gelato artigianale è una preparazione alimentare portata allo stato solido e pastoso mediante
mescolamento e congelamento della miscela degli ingredienti” recita freddamente il disciplinare.
Durante il congelamento, rimescolando la miscela viene incorporata naturalmente aria che dà
morbidezza e cremosità al gelato. Che, per potersi fregiare del nome “artigianale”, deve
caratterizzarsi per l’impiego prevalente di materie prime fresche: gli altri ingredienti possono poi
essere scelti direttamente dall’artigiano secondo la sua creatività. Il gelato artigianale va venduto
entro pochi giorni dalla sua produzione.

“Ingredienti caratterizzanti” (possono essere freschi, o surgelati, o già in purea o in pasta): latte,
panna, uova e frutta.
“Zuccheri”: zucchero, fruttosio, miele, sciroppo d’acero, maltodestrine. “Semilavorati”: “Nella
preparazione dei gelati al latte è possibile l’impiego di semilavorati (cioè quei preparati destinati
esclusivamente alla produzione del gelato, ma non al consumo diretto), purché nella misura massima
del 10% in peso sulla ricetta” recita il Disciplinare.
“Additivi”: “Viene ammesso l’utilizzo degli additivi legalmente consentiti dalle disposizioni in
vigore con esclusione dei coloranti e degli aromatizzanti artificiali. Nemmeno nei semilavorati
possono essere presenti coloranti e aromatizzanti artificiali ed edulcoranti di sintesi o altrimenti
detti artificiali” si legge ancora sul Disciplinare.
L’artigiano può usare altri prodotti finiti quali biscotti e/o frammenti, frutta candita, cacao e sale
secondo la creatività dell’artigiano gelatiere.
Gelato industriale. Ecco l’etichetta di una delle vaschette che troviamo nei banconi freezer del
supermercato: “Ingredienti: latte scremato reidratato – zucchero – sciroppo di glucosio – oli
vegetali – siero di latte scremato parzialmente delattosato – emulsionante: mono e digliceridi degli
acidi grassi – coloranti – stabilizzanti: alginato di sodio, farina di semi di carrube – aromi –
gelificante: pectina”. Insomma, sembrerebbe solo latte in polvere, grassi, zuccheri e aromi.
“Latte scremato reidratato, proteine del latte, sieri” ecc: si tratta di latte scremato in polvere e parti
residuali di lavorazione. Qualità e provenienza (extracomunitaria?) incerte.
“Oli vegetali”: non c’è obbligo di dichiarare in etichetta di che oli si tratti. Qualità dubbia.
“Grassi vegetali idrogenati (mono e digliceridi)”: usati come amalgamanti ed emulsionanti.
“Aromi”: se c’è scritto solo “aromi” sono senz’altro artificiali. Sono onnipresenti nel gelato in
vaschette.
C’è un altro ingrediente che non è indicato in etichetta, e spesso ce n’è tanto: l’aria. L’aria
compressa insufflata è una pratica vietata per il gelato artigianale mentre è standard nel gelato
prodotto in serie, per gonfiarlo, renderlo più morbido e all’apparenza voluminoso: ce n’è fino al 70-
80% del volume.

Le differenze tra il gelato artigianale delle gelaterie e le produzioni industriali sono


nell’impiego di ingredienti freschi contro conservati, di qualità certa contro incerta, nel diverso
uso di additivi e… dell’aria.



77. CON COSA SI FA IL PESTO GENOVESE?
Varietà di basilico rubate e brevettate. Oli di girasole, margarina e indistinti oli vegetali.
Prezzemolo. Anacardi. Proteine del latte. Poche ricette sono state irriguardosamente bistrattate come
questa. Ci s’imbatte in preparazioni pronte, sia nel reparto “fresco” che tra i vasetti dei sughi pronti,
che del pesto a volte non hanno nemmeno il colore. Eppure si chiamano così. La specialità
gastronomica ligure ne ha già passate di tutti i colori. Innanzi tutto il basilico dovrebbe essere di
varietà “genovese”, con foglie verde tenue, medio-piccole, ovali e convesse, dal profumo delicato,
privo di tracce di menta. Poi vengono l’olio extravergine d’oliva, l’aglio, il sale, il formaggio e i
pinoli, il tutto lavorato a crudo. Se in passato l’aglio era più abbondante e il formaggio poteva anche
essere cremoso, il pesto di oggi ha una fisionomia precisa, che si rifà alla prima codifica della
ricetta, comparsa nell’Ottocento, nella Cuciniera genovese dei fratelli Ratto. Ma le storture a cui
ricetta e ingredienti sono state sottoposte hanno fatto saltare i nervi ai liguri.

La guerra del pesto. Nel 2002 l’allora governatore della Regione Liguria Sandro Biasotti avvia
una protesta del tutto inusuale. In casa sua smettono di acquistare tutti i prodotti della multinazionale
rea d’aver brevettato in sede Ue due varietà di basilico chiamandole “Pesto” e “Sanremo”, destinate
alla Germania. Una disputa a cui ha partecipato tutta Genova, grazie anche a una campagna del
Secolo XIX. Due episodi, in particolare, rivelano il clima di quei giorni del 2002: la Coop, primo
nome della grande distribuzione ligure, fa fuori dagli scaffali i vasetti di pesto colpevoli di
contenere una salsa verde la cui ricetta è difforme da quella depositata presso la Camera di
commercio di Genova. E i carabinieri dei Nas denunciano otto aziende per aver immesso sul
mercato prodotti denominati “pesto alla genovese”, ma preparati secondo una ricetta difforme da
quella depositata. Nel turbinio d’iniziative e polemiche che riempiono le pagine dei giornali, la
guerra si risolve col ritiro dei brevetti e il dono da parte dell’ammansito governatore ligure
all’amministratore delegato svizzero d’una cravatta azzurra con disegnate foglioline di basilico e
mortai con pestello. I nomi “Pesto” e “Sanremo” sono salvi. La Regione Liguria da anni si batte per
ottenere la denominazione d’ origine protetta (Dop) alle piante coltivate nella regione. Pare che solo
lì, infatti, per la vicinanza del mare e il particolare microclima, il basilico assuma quel profumo che
rende unico il pesto. Ma è solo la prima battaglia. Resta aperto anche l’altro fronte, di gran lunga più
importante: quello contro le salse prodotte industrialmente, senza rispettare gli ingredienti originali.

Quando il Consorzio e la Dop saranno operativi, ci saranno aziende che potranno dire di
produrre pesto genovese Dop, altre no.
“Nella ricetta prevista dal disciplinare del consorzio – spiega Roberto De Andreis, presidente
del Consorzio, a Porthos – l’unico vincolo è il basilico (rigorosamente ligure e speriamo a breve
Dop) che non dev’essere inferiore al 25%. Il disciplinare è molto rigoroso, nella parte relativa
alle caratteristiche organolettiche prevede che il prodotto sia di colore che va dal verde chiaro
al verde intenso, deve sapere di basilico fresco, di formaggio, deve essere leggermente
piccante e con un gusto saporito (questo è quello che fa la differenza). E solo il prodotto che
avrà le caratteristiche sopra elencate potrà fregiarsi del marchio collettivo. La verifica
sensoriale verrà fatta da un panel formato da otto giudici (assaggiatori) nelle sale di assaggio
delle Camere di commercio liguri”.

78. CON UNA SCATOLETTA DI TONNO SI STA LEGGERI?
Fa caldo, d’estate. Cosa c’è di meglio di un’insalatona guarnita di tonno? O per rendere un po’ più
sostanziosa l’insalata di riso? O per un pranzetto leggero e dietetico? Idealmente connesso a un
pranzo moderno, salutare, leggero, estivo e rinfrescante, ingrediente onnipresente per sapide tartine
e insalate di riso, il tonno in scatola è in realtà un alimento controverso.

Gli stock ittici di varie specie di tonno sono al collasso. Tonno rosso, tonno pinne gialle e tonno
pinne blu sono sempre più rari. Durante le massicce operazioni di pesca si intrappolano a morte
decine di altre specie non commestibili, e odiosamente spesso anche delfini. La praticità del suo
confezionamento è un inganno culturale. Se chiedete a un bambino dell’asilo di disegnare un tonno,
presumibilmente disegnerà una scatoletta cilindrica.

Metilmercurio. Il tonno è un pesce predatore e, in cima alla catena alimentare, bioaccumula le


sostanze nocive in circolo nell’ambiente. Il mercurio scaricato da vernici e processi industriali ce lo
rimangiamo proprio dal pesce, ed è proprio per gli elevati livelli di metilmercurio che la Food and
Drug Administration americana raccomanda per le donne in gravidanza e allattamento non più di una
scatola di tonno a settimana. Raccomandazione del pari validissima per ognuno di noi.

Non più di una scatoletta di tonno a settimana.


79. I BASTONCINI DEL CAPITANO POSSONO MANCARE DALLA TAVOLA?
Il consumo di pesce e frutti di mare è in crescita. Non così le risorse ittiche selvatiche utilizzate a
scopo commerciale. Una situazione critica in tutto il mondo: il 75% degli stock ittici è oggetto di una
pesca indiscriminata, o rischia di esserlo.
L’International Council for the Exploration of the Sea (Ices) è un organismo internazionale per le
ricerche scientifiche nel Nord Atlantico. Coordina i lavori di oltre 1.600 scienziati marini dei 19
paesi che lo costituiscono. Fornisce annualmente nuovi dati scientifici sui mari alla Commissione
europea.

Stop alla pesca. Tutti gli ultimi rapporti presentati alla Commissione europea richiedono uno stop
alla pesca, nei nostri mari i pesci si stanno estinguendo. L’Ices non fa che ribadire l’allarme: “zero
catture” per merluzzo, nasello e platessa. Stanno finendo! Il loro numero nelle acque continentali, tra
l’Atlantico e l’Irlanda, diminuisce irreversibilmente. Scorrendo il sommario delle raccomandazioni
Ices degli ultimi anni, per i merluzzi nei Mari del Nord e Skagerrak, del Mare d’Irlanda, di Scozia,
zero catture fino al ristabilirsi degli stock. Per la platessa nei Mari del Nord si consiglia l’attuazione
di un piano di limitazione della pesca e recupero per ricostituire lo stock. Idem per il nasello
dall’Irlanda al Portogallo. Gli scienziati continuano a raccomandare di ridurre la pressione della
pesca. “Insieme ad altri stock, i merluzzi nei Mari del Nord, Mare d’Irlanda e della Scozia sono
diminuiti costantemente, da molti anni, e ne abbiamo dato ripetuti allarmi – spiega David Griffith,
segretario generale Ices – e questi stock sono a livelli talmente bassi che alla fine ci siamo risolti a
emanare una raccomandazione di ‘zero catture’, per dare loro una tregua. Se verrà data loro la
possibilità di ritornare al loro stato precedente, speriamo che in futuro potranno sopportare ancora
un’attività di pesca”. Gli stock di platesse nei Mari del Nord sono prossimi ai livelli minimi storici.
La pressione della pesca è troppo alta. Il problema maggiore è che ben l’80% delle platesse
vengono scartate dopo essere state uccise, perché pescate insieme alle sogliole, ritenute più
pregiate. Ci sono altri pesci atlantici per cui l’Ices dice “zero catture”: eglefini, capelan e merlano
(pesci simili al merluzzo, impiegati dalle industrie ittiche come filetti o per preparazioni a base di
pesce).

Dove si pesca il merluzzo. Tra avvertimenti di “zero catture” e forti limitazioni di pesca, il
“capitano” degli spot tv non è stato capace di barcamenarsi in altro modo che andandosene a
pescare illegalmente. La multinazionale del pesce surgelato è stata accusata nel 2006 di vendere
merluzzi pescati illegalmente nel Mare di Barents, dove, ufficialmente, il pesce è pescabile solo in
quote limitate. Un canale televisivo svedese ha mandato in onda un documentario in cui si
mostravano i pescherecci intenti a saccheggiare illegalmente le riserve di pesca. Greenpeace si è
unita alla protesta. Pare che l’azienda, forse spaventata dai danni di un possibile boicottaggio del
suo merluzzo, abbia chiuso i contratti in corso con la compagnia di pesca danese colpevole del
misfatto, impegnandosi a garantire una migliore tracciabilità del pescato.

Il Wwf suggerisce alcune norme a cui attenersi:

Non considerare il pesce come una pietanza per tutti i giorni (un
consumoeccessivo fa male al mare!).
Acquistare preferibilmente pesce autoctono.
Orientarsi su prodotti ittici contrassegnati dall’etichetta Msc
(pesce selvatico) o da marchi di qualità ambientale per
l’allevamento
Evitare di acquistare varietà di pesce a rischio di estinzione.

80. IL COCKTAIL DI GAMBERETTI È UNA PRELIBATEZZA?
Non per l’ambiente e le foreste costiere; non per il gusto; non per la nostra salute.

Le foreste di mangrovie. Habitat e luogo di deposizione delle uova per pesci e crostacei, le
mangrovie frenano l’erosione delle onde e rivestono una grande importanza, sia per l’ecosistema
marino sia per le economie locali. Orlano quasi un quarto delle coste tropicali, ma è solo la metà
dell’estensione originaria. Retrocedono costantemente a causa dello sfruttamento del legname,
dell’inquinamento e, in misura sempre maggiore, dell’allevamento di gamberetti, soprattutto in Asia,
che rifornisce l’80% della produzione mondiale! Le conseguenze di questi allevamenti sugli
ecosistemi sono tali che, in certe zone, per ogni chilogrammo di gamberetti scompaiono 500 grammi
di pesci e altri crostacei.

Cloramfenicolo. Come per molte altre cose provenienti da produzioni intensive in Asia, ogni tanto
si scopre che qualcosa non va. Questa è successa nel 2001. L’Ue ha bloccato l’importazione di
gamberetti, rosa e grigi, ma anche di pollame, conigli, sottoprodotti destinati a divenire redivive
farine animali. Il bando è proseguito fino a fine febbraio 2002. Le date dell’inchiesta:

settembre 2001: iniziano i test.


novembre 2001: una serie di controlli a campione fa emergere
irregolarità igieniche e sostanze proibite.
dicembre 2001: 27 tonnellate di gamberetti e prodotti ittici lavorati
(surimi e polpe di pesce) bloccati in Olanda: erano contaminati.
I gamberetti cinesi sono stati banditi in Europa per oltre un anno, così come ingenti quantità di
molluschi, polli, conigli e farine di pesce usate per l’alimentazione animale, per colpa di un
antibiotico, il cloramfenicolo. Scoperto nel 1947, molto potente – veniva usato per l’uomo solo in
caso di infezioni molto gravi – ha dimostrato di poter indurre oltre a pericolose allergie anche
mutazioni genetiche e tumori. Vietato negli allevamenti europei dal 1994, ha continuato a essere
usato in Cina e Vietnam (e anche nell’Est europeo, specialmente per i conigli) da grandi allevatori
ed esportatori di crostacei che lo impiegano per prevenire malattie e far accrescere più rapidamente
gli animali.
Dopo diversi controlli in Cina da parte degli ispettori europei è scattato il blocco delle merci in
Olanda, Germania, Danimarca e Polonia: in mezza Europa.

Evitare i gamberetti. Controllare la loro provenienza.



81. IL CIBO IN SCATOLA SEMBRA UN PO’ POVERO?
Rispetto agli omologhi freschi, il contenuto vitaminico dei cibi in scatola è minore. Ma per molti
altri parametri, i progressi dell’industria conserviera ci consentono di godere di alimenti integri e
gratificanti.

Addio apriscatole. Le scatolette sono smaltate internamente, così da ridurre il contatto con i metalli
e minimizzare la possibile esposizione al piombo, anche nel momento della saldatura. Si stanno
diffondendo anche i cartoncini Tetrapak per le verdure, riducono il peso dell’imballaggio e gli spazi
di trasporto, e in diverse città italiane la raccolta differenziata ne garantisce lo smaltimento.
Grazie alle modalità di preparazione e conservazione, considerate molto sicure, la legge proibisce
per la maggior parte degli alimenti in scatola l’uso di conservanti artificiali. Dai fagioli ai pelati,
nessun rischio di sorbirsi anche qualche conservante indesiderato.

Nutrienti conservati. Dalle proteine dei legumi ai minerali delle verdure fino agli antiossidanti nei
pomodori pelati, la maggior parte dei preziosi elementi nutritivi (tranne qualche vitamina, come la
B6) viene preservata e si custodisce nel tempo.
Si trovano anche eccellenti verdure “bio” in scatola.

È sensato e legittimo fare un po’ di spesa fresca e un po’ di conserve, scegliendole con varietà e
privilegiando quelle meno elaborate. Durante la preparazione, per cucinare si può pensare di
usare anche il liquido di governo, che contiene elementi nutritivi.

82. I VEGETARIANI SONO PALLIDI, TRISTI E ANEMICI?
Carne e salumi non sono più ricchi di ferro degli alimenti vegetariani, anzi. La carne rossa di
vitellone va, a seconda dei tagli, da 1,5 a 2 mg x 100 g di parte edibile, il suino da 1,4 a 1,6, il pollo
da 0,6 a 1,6. Ebbene, i fagioli e gli spinaci ne hanno il doppio (3,0 mg x 100 g di parte edibile), le
lenticchie fanno segnare un bel 5,0, i ceci addirittura il triplo della carne (6,0), come il tuorlo
d’uovo (6,1) e la soia da 7,0 a 9,0, con il record del germe di grano (10,0) e dei funghi (da 7,0
freschi a 17,5 secchi). Anche riguardo alle vitamine, pochissime ne ha la carne, mentre caratteristica
comune dei salumi è non averne (il record negativo è della coppa: 0 assoluto per tutte; il valore
medio nei salumi è 0,63 mg/kg contro il 6,67 mg/kg – dieci volte tanto – della media legumi).
Fagioli, piselli, verdure a foglia larga abbondano di vitamine del gruppo B (di acido folico è
ricchissimo il lievito), necessarie per la crescita e per combattere l’anemia. E non solo.

I vegetariani amano i piaceri della carne. Un regime alimentare con pochi grassi saturi migliora la
vigoria generale dell’organismo, e la migliore digeribilità di frutta e verdura contribuisce a ridurre
la sonnolenza postprandiale (un frutto permane mezz’ora nello stomaco, contro le sei ore di una
bistecca). La carenza di acido folico può causare mancanza di orgasmo sia nelle donne sia negli
uomini. Il rimedio? Lattuga, insalata verde, vegetali a foglia larga.

Si mangia solo lattuga? Il menu vegetariano non è povero, ma ricchissimo: quasi tutti i primi della
dieta mediterranea sono vegetariani, così come la pizza, i 5.000 formaggi freschi e stagionati
italiani, insalatone, funghi, legumi, contorni e, naturalmente, frutta e dessert. Per i secondi, si opta
per verdure ripiene, gratinate, grigliate miste, hamburger e bistecche di soia, di seitan, di Quorn™,
di proteine di piselli che sono anche dietetiche ed ecoefficienti. Che si debbano per forza assumere
“proteine animali” è un’asserzione priva di valore scientifico, la stessa definizione è erronea fin
dalle sue basi. Si legge infatti nella Banca dati degli elementi nutrizionali dell’Istituto europeo di
oncologia (1998): “la suddivisione proteine ‘animali’/proteine ‘vegetali’ è grossolana e non basata
su indicatori scientifici… svolge la sua funzione solo per indicare la provenienza dell’alimento”. Il
cibo deve fornirci una buona dose di aminoacidi essenziali, in giusta proporzione. Siccome, a
eccezione della soia, nessun vegetale contiene tutti gli aminoacidi essenziali, se ne può fare
provvista associando gli alimenti (per esempio, la pasta e fagioli è un piatto completissimo). Non si
deve consumare più verdura per sopperire alla mancanza di carne e pesce: bisogna associare i
vegetali in modo tale da avere tutti gli aminoacidi essenziali.

Mangiare vegetariano significa anche diminuire il rischio di malattie cardiovascolari e cancro.


Vantaggioso anche il risparmio economico considerando che un secondo a base di carne o pesce
ha un costo medio di 15 euro al chilogrammo contro i pochi euro di un ottimo secondo vegetale;
con i soldi risparmiati si può pensare a un regalo in più per il proprio partner. Infine, aumenta la
serenità. Chi sceglie un’alimentazione vegetariana – circa il 9,5% degli italiani, secondo
l’ultimo censimento AC Nielsen – ogni anno contribuisce a salvare la vita ad almeno 20 animali.

83. PERCHÉ BISOGNA RIDURRE LA CARNE?
I vantaggi della scelta vegetariana non si fermano al miglioramento del rapporto di coppia.

La salute. La maggior parte delle malattie cardiocircolatorie, l’arteriosclerosi e l’infarto sono in


diretta relazione con l’aumento del consumo di grassi animali e carne rossa. Ci sono evidenti
correlazioni con il rischio di cancro alla prostata, al colon e al retto; con gotta, diabete e linfomi. Al
contrario, le verdure fanno bene, curano e depurano. Forniscono vitamine protettive e fibre salutari,
sono ricche di sostanze chimiche che si oppongono al cancro nella sua lenta, rovinosa evoluzione.
Una dieta a base di soia e vegetali aumenta la genistina, che impedisce la crescita dei tumori
incipienti bloccando l’angiogenesi. I vegetali gialli e verdi sono ricchi di sostanze antiossidanti che
assorbono i famigerati radicali liberi. Il pomodoro è un concentrato di licopene, potentissimo
antiossidante. Tè verde, rosmarino e curcumina – che dà il caratteristico colore giallo al curry –
arrestano la crescita dei tumori, agendo anch’essi come antiossidanti e neutralizzando i radicali
liberi prima che possano raggiungere il Dna dei nuclei cellulari. La menta ha un effetto
chemioprotettivo. Le crocifere (broccoli, cavoletti di Bruxelles e cavolfiore) sono la fonte primaria
di una miriade di sostanze anticancerogene, ciascuna delle quali usa il proprio metodo contro le
cellule impazzite. Altro ingrediente protettivo è il sulforafano, vivace rappresentante degli
isotiocianati che danno gusto a broccoli, cavolfiori, cavolo verde, senape, rafano e molti altri
vegetali e spezie: stimola la produzione corporea di enzimi protettivi naturali anticancerogeni.
Secondo la School of Public Health di Harvard, un terzo degli infarti si potrebbe evitare mangiando
più frutta e verdura, specialmente agrumi e verdure a foglie verdi, cavoli, broccoli, ricchi di
potassio e fibre. Dati confermati dal National Institute of Health americano.

Gli animali. Ogni anno almeno un miliardo di animali viene ucciso nel mondo per l’alimentazione
umana. L’avvento della zootecnia industriale ha portato a delle vere e proprie aberrazioni, minando
il benessere degli animali stabulati, l’igiene di ogni momento produttivo, le caratteristiche di ciò che
ci danno. I fenomeni di “mucca pazza” e di polli alla diossina, conseguenza di allevamenti-lager,
riciclaggio di rifiuti per la loro alimentazione, trattamenti farmacologici incontrollabili, rischiano di
essere solo la punta di un iceberg in realtà molto più spaventoso.
L’ambiente. In Italia consumiamo circa un centinaio di chili di carne a testa all’anno. Ci finiscono
tra le mandibole circa 500 milioni di polli all’anno, 4 milioni di bovini e 13 milioni di suini. Le
emissioni di gas serra che innescano i cambiamenti climatici generate dagli allevamenti battono
quelle dell’intero parco auto del pianeta. Per produrre un chilo di carne di bovino si consumano 15
mila litri di acqua e cereali per dieci volte il peso dell’intero animale; cereali che potrebbero
sfamare molte più persone. Senza contare il problema della montagna di liquami ed escrementi che
inquinano le acque e non sappiamo più dove mettere. “Dagli allevamenti – spiega il Nobel Rajendra
Pachauri, a capo dell’Ipcc, organismo Onu per il clima – proviene l’80% delle emissioni totali
dell’agricoltura, il 18% di tutte le emissioni mondiali. Un chilo di manzo genera 36,4 chilogrammi
di CO2, equivalente alle emissioni di un’auto che fa 250 chilometri. La produzione di carne è di gran
lunga la prima consumatrice di terra per uso antropico, consuma il 70% delle terre agricole, il 30%
della superficie terrestre. Un altro enorme impatto è l’acqua che occorre, sempre per produrne un
chilo: mais 900 litri, riso 3.000 litri, pollo 3.900, maiale 4.900 e manzo 15.500”. Ma se sul pianeta
siamo quasi 7 miliardi e già adesso in molti muoiono di fame mentre altri che vorrebbero la carne
non possono permettersela e tra qualche anno diventeremo 10 miliardi, si potrà produrre carne per
tutti? C’è chi dice che sarebbe il suicidio del pianeta.

Ecco come ridurre il consumo di carne in perfetta souplesse. Ce lo spiega, punto per punto, La
Cucina Italiana, giugno 2009: “è bene passare gradualmente alla dieta vegetariana, iniziando a
eliminare per primi i salumi e le carni rosse, poi quelle bianche e infine il pesce. Non commetter
l’errore di sostituire automaticamente la carne con il formaggio, lo fanno in molti, ma poi
pagano il conto in grassi e calorie. Cucinare spesso piatti unici, consentono di assimilare meglio
le sostanze nutritive apportate dai diversi ingredienti. Rivalutare il consumo di legumi, sono la
miglior fonte di proteine vegetali, soprattutto in abbinamento con i cereali. Consumare molta
frutta fresca, in particolare quella ricca di vitamina C, ribes, kiwi, fragole, agrumi (aiutano ad
assimilare il ferro vegetale). Mantenere i cereali, pane, riso, pasta, come base della dieta,
abituandosi anche a consumarli nella forma integrale. Aumentare un pochino il consumo di olio
d’oliva. Introdurre nell’alimentazione quotidiana frutta a guscio, noci, nocciole e mandorle, 3 o
4 semi al giorno”.



84. QUANDO POTREMO ASSAGGIARE LA FRAGOLA-PESCE?
Un Ogm è un organismo vivente, una pianta, un animale, un batterio, nel cui Dna si sparano tratti
genetici di altre specie – non sembra, ma “sparare” è un termine scientifico – facendogli codificare
la proteina estranea come fosse sua.
Anche riuscendo a integrare con successo il transgene (il gene estraneo), cosa che di per sé richiede
una lunga sequela di tentativi, non è detto che questo sia codificato correttamente. Ancora di più se i
due soggetti appartengono a due specie completamente diverse, come nel caso della fragola e del
pesce. L’organismo transgenico così creato comincerà a crescere con le nuove caratteristiche
acquisite. Sono stati pensati una fragola-pesce con una proteina antigelo proveniente da un pesce
artico per tentare di far crescere la fragolina anche tra i ghiacci, pecore con geni di ragno per far
loro crescere lana resistente come le ragnatele, zucchine-banane, topi-kiwi, pomodori con gene di
scorpione, fagioli grandi come ciambelle e polli con quattro cosce.

Un laboratorio in campo aperto. Mentre queste sperimentazioni si svolgono al chiuso di laboratori


sotterranei, vengono ingegnerizzate e sparse realmente per il mondo diverse varietà transgeniche, tra
cui soia e mais, per far tollerare loro dosi maggiori di erbicida o per far secernere nuovi
antiparassitari endogeni. In base a un rapporto diffuso dall’Institute Service for the Acquisition of
Agri-biotech Applications (Isaaa), un ente pro-Ogm, le superfici coltivate con Ogm hanno raggiunto
nel 2008 i 125 milioni di ettari, un aumento del 9,4% rispetto al 2007. Si seminano Ogm in 25 paesi,
nel 2006 erano solo sei. Gli Stati Uniti sono largamente in testa con 62,5 milioni di ettari coltivati
davanti all’Argentina (21 milioni), al Brasile (15,8), all’India (7,6), al Canada e alla Cina (3,8).

Le farfalle monarca. Alcune ricerche hanno via via rivelato che le colture transgeniche avvelenano
le farfalle monarca (mais Bt176 su Nature, 1999), che avvelenano il suolo dalle radici, che sono
potenzialmente allergeniche e non si sa quali e quanti frammenti di Dna mutato o proteine potrebbero
avere effetti nel nostro intestino. Quando in una fattoria olandese un agricoltore ha lasciato due
serbatoi di mais in magazzino, uno normale, l’altro Ogm, uno fu saccheggiato e divorato dai topini,
quello stipato di Ogm è rimasto intoccato (Institute for Science in Society, 2002). L’Independent
Science Panel coordinato da Mae Wan Ho ha pubblicato nel 2003 un ampio studio che documenta
molti rischi. Nello stesso anno un altro colpo alla tracotanza di tutti è stato inferto dal risultato dello
studio sugli Ogm fatto fare dal governo inglese alla Royal Society, che ha messo in evidenza non
pochi rischi.

Gli Ogm non hanno ancora portato i benefici promessi. Pongono problemi all’agricoltura.
Sollevano gravi preoccupazioni sulla sicurezza per la salute. I diserbanti fatti apposta per gli
Ogm sono tossici quanto gli altri. Le compagnie di assicurazione rifiutano coperture
assicurative sulle colture transgeniche. Gli effetti sull’ambiente della semina in tutto il mondo
di miliardi di organismi mai visti in natura non sono noti. La politica di alcune multinazionali
biotech è stata definita arrogante. Gli Ogm e tutte le attività connesse, la ricerca, la semina in
campo aperto, l’impiego di piante transgeniche come ingredienti, i dibattiti, turbano l’equilibrio
naturale, gli equilibri politici, la nostra tranquillità. I coltivatori non li vogliono. I consumatori
non li vogliono. I supermercati e i commercianti non li vogliono. I paesi del Terzo mondo non li
vogliono. Gli ultimi cinque ministri dell’Agricoltura italiani non li hanno voluti. Le autorità
sanitarie e regolatorie ne diffidano. Perché continuiamo a parlarne? Perché le istituzioni
europee sono scosse da continue richieste di autorizzazioni a coltivarli? Perché dovremmo
mangiarli?

85. GLI OGM RISOLVONO IL PROBLEMA DELLA FAME NEL MONDO?
Le più grandi organizzazioni anglosassoni di cooperazione hanno detto no. Il 12 dicembre 2002,
nell’ambito delle consultazioni del governo inglese sul tema dei cibi geneticamente modificati, con
una dichiarazione congiunta affermano non solo che gli Ogm non risolveranno il problema della
fame nel mondo, ma che al contrario potrebbero incrementare povertà, malnutrizione e disparità
economiche.

Le organizzazioni umanitarie. L’intervento dei direttori di Oxfam, Christian Aid, Save the
Children, Cafod e Action Aid colpisce un argomento chiave di chi invece è a favore di questa
controversa tecnologia. Tony Blair e i suoi consiglieri avevano sempre sostenuto le biotecnologie.
Due anni prima un rapporto del Gabinetto affermava che avrebbero vinto la guerra alla fame del
mondo, e l’anno prima il più influente consigliere scientifico, Lord May, affermava che la lotta alla
fame era il più forte motivo del loro utilizzo. La dichiarazione congiunta delle maggiori charities
anglosassoni internazionali – inviata alla Strategic Unit dell’Ufficio di Gabinetto di Blair – mette sul
tavolo l’autorevolezza, la competenza sul campo e l’autorità morale dei più grandi campaigners
contro la fame.

Il rischio povertà. Secondo un rapporto Action Aid 2003 non è dimostrabile che le colture
transgeniche possano essere una soluzione alla fame nel mondo. Piuttosto, incoraggiando produzioni
su vasta scala e l’uso di tecnologie costose, gli Ogm causerebbero un indebitamento e un
impoverimento dei contadini del Sud del mondo. Il rapporto pare confermato dai fatti. I paesi più
poveri che decidono di aprire le proprie frontiere agli Ogm corrono il rischio di divenire dipendenti
delle grandi multinazionali che detengono sia la centralità della produzione che della distribuzione
con una sorta di nuovo colonialismo che vedrebbe gli agricoltori costretti ad acquistare ogni anno le
sementi a prezzi alti e con raccolti dagli esiti incerti.
La diffusione di queste coltivazioni nei paesi poveri si concentra peraltro sopratutto su produzioni
destinate all’esportazione che non riforniscono il mercato interno dove lasciano una situazione
aggravata dalla perdita di varietà locali e in generale della biodiversità.
La coltivazione nei campi può avere un impatto negativo per il terreno. In India il cotone Ogm –
anche se non si mangia – ha alimentato la speranza dei contadini di produrre di più e guadagnare di
conseguenza, ma della resa per acro promessa dalla multinazionale proprietaria dei semi non c’è
traccia: i contadini indiani sono riusciti a ottenere in media l’85% in meno di quello che è stato loro
promesso. Molti, ha denunciato Vandana Shiva dalle colonne del Sole 24 Ore nel 2005, arrivano a
suicidarsi, un fenomeno di proporzioni inusitate.
Nel maggio 2008 il Parlamento europeo ospita la presentazione del “Manifesto on Climate Change
and the Future of Food Security”, redatto dalla Commissione internazionale sul futuro alimentare e
dell’agricoltura (che riunisce decine di associazioni sostenute da parlamentari europei). All’interno
del Manifesto è stata presentata una sezione che si occupa degli Ogm in cui si dice che le colture
geneticamente modificate sono una falsa soluzione e una pericolosa distrazione dal compito di
mitigare i cambiamenti climatici, essendo esse stesse in conflitto con la produzione sostenibile di
cibo. I cibi Ogm non farebbero altro che aumentare il problema della monocoltura industriale: più
geneticamente uniforme e meno resistente agli agenti naturali esterni, con più necessità d’acqua e di
pesticidi.
Una ricerca commissionata nel 2009 da Banca mondiale e Fao che ha coinvolto 400 scienziati e
decine di paesi del Nord e del Sud del mondo ha chiarito inequivocabilmente che le colture
transgeniche non sono una soluzione per la fame o la povertà. Nel rapporto “Failure to Yield”
elaborato nel 2009 dalla Union of Concerned Scientists, l’autore dello studio, Doug Gurian-
Sherman, ha preso in esame sia il mais Bt sia la soia Ogm, le più importanti colture geneticamente
modificate coltivate negli Stati Uniti come nel resto del mondo, e conclude: “una valutazione
realistica dei traguardi finora raggiunti da questa costosa tecnologia, non lascia credere che essa
giocherà nel futuro un ruolo significativo nella lotta alla fame mondiale”.

I raccolti sono deludenti. I contadini si indebitano. E secondo uno studio dell’Università del
Sussex del 2005 “le biotecnologie sono destinate a fallire in un continente come l’Africa,
perché non offrono soluzione ai fenomeni di corruzione, abbassamento dei prezzi, disparità dei
terreni coltivabili, differenze di reddito e conflitti armati, le vere cause della disastrosa
situazione africana”.
Gli ultimi dati sulla diffusione commerciale degli organismi transgenici indicano che, a ben
tredici anni dalle prime semine biotech e a diversi lustri dall’avvio delle relative ricerche e
sperimentazioni, soltanto quattro colture e due tratti transgenici sono stati messi a disposizione
degli agricoltori. E nessuno di questi per combattere la fame.

86. COME SONO STATI ACCOLTI GLI OGM NEL TERZO MONDO?
Nei paesi poveri le colture Ogm rappresentano una minaccia per la biodiversità locale perché
l’inevitabile contaminazione con Ogm può danneggiare le varietà naturali. Lo hanno
coraggiosamente affermato i rappresentanti delle nazioni africane che nel 2002 sono arrivati a
rifiutare, in piena carestia, gli aiuti umanitari contenenti Ogm offerti dagli Usa.

Nel maggio 2002 il primo grande rifiuto. Diecimila tonnellate di mais transgenico destinate allo
Zimbabwe vengono intercettate alle frontiere e dirottate (secondo l’ambasciata statunitense) verso
altri paesi: arrivavano in forma di grani che, se usati come semi, avrebbero potuto contaminare e
modificare geneticamente le varietà locali di mais. E c’era metà della popolazione dello Zimbabwe
(12 milioni e mezzo di persone) che moriva di fame... Nell’agosto 2002, in un incontro tra i ministri
della Salute di Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Namibia, Zambia e Zimbabwe,
viene ribadito il rifiuto di far entrare aiuti umanitari Ogm, cibi, prodotti e semi nei propri territori.
Ma nel settembre dello stesso anno il governo dello Zimbabwe, spinto dalle condizioni della
popolazione, è costretto a tornare sulla sua decisione. Avrebbe accettato gli aiuti Ogm, purché messi
in quarantena. “Vi sono paure, per questo li metteremo in quarantena sotto la responsabilità del
ministro dell’Agricoltura” sono le parole del presidente Mugabe. Come contropartita dell’accordo,
il World Food Program quintuplica gli invii di aiuti alimentari.
La Zambia, invece, resiste. Anzi, alla scoperta di altri aiuti umanitari contenenti mais Ogm nei
container di un’organizzazione umanitaria, il governo emana la direttiva di respingere ed eliminare
tutte le partite di aiuti Ogm: il vicepresidente Stephen Mukuka invita tutte le organizzazioni presenti
sul territorio a fare “piazza pulita”. Il presidente Levy Mwanawasa dichiara alla Bbc che non
permetterà che la popolazione dello Zambia mangi “veleno”. Intanto, il 7 marzo 2004 Usaid, agenzia
del governo statunitense per gli aiuti umanitari, ha cessato di inviare aiuti alimentari in Sudan,
conscia della “gravità delle potenziali conseguenze umanitarie di questa interruzione di aiuti”. Il
governo del paese africano aveva osato richiedere che i cibi statunitensi non fossero transgenici.

Il mais sudamericano. Nello stesso periodo in Bolivia un’organizzazione ambientalista ha trovato il


mais Starlink in un sacco di farina di mais contrassegnato dalla sigla Usaid. Il mais Starlink,
proibito per uso umano perché allergenico a causa della proteina pesticida Cry9C, nel 2001
contaminò la metà dei cereali esportati dagli Usa causando un ritiro di decine di migliaia di stock di
prodotti. Ed eccolo un anno dopo, in una percentuale del 3%, nella farina destinata a scopi
umanitari. I test hanno rivelato la presenza di altre due varietà di mais non approvate per uso umano.
Nel giugno 2002 test commissionati in Guatemala dal Colectivo Madre Selva hanno trovato negli
aiuti umanitari diversi tipi di Ogm non autorizzati per uso umano in sacchi contenenti semi. Mesco
lanza inevitabile e non voluta? Discarica di scorte di cibi transgenici invenduti o invendibili sui
mercati occidentali? Esperimento di massa?

Come la droga. “Le multinazionali del biotech usano le associazioni internazionali di volontariato
per estendere il mercato degli organismi geneticamente modificati – ci aggiorna nell’ottobre 2007
Marcello Buiatti, professore di genetica all’Università degli studi di Firenze – i paesi in stato di
emergenza economica e alimentare sono sotto ricatto”. Un processo, quello ideato dalle
multinazionali del biotech, che assomiglierebbe a quello dello spaccio di droga. “Le prime sementi
e i primi prodotti alimentari mandati tramite le associazioni di volontariato sono gratuiti – ha
proseguito il genetista – ma negli anni a seguire, quando i semi germinano e si riproducono
spontaneamente, i paesi riceventi sono costretti a dipendere dalle multinazionali del biotech
pagando loro ogni anno le royalties. Inoltre le sementi Ogm di un brand possono essere abbinate
esclusivamente agli erbicidi e ai pesticidi dello stesso brand”. Buiatti evoca un circolo di
dipendenza dal quale può diventare difficile uscire.
Una soluzione tampone potrebbe essere quella della molitura. Il World Food Program Onu riceve
dall’Europa contributi sotto forma di denaro, mentre dagli Stati Uniti riceve derrate alimentari che
sono spesso Ogm. Molti paesi riceventi possono chiedere la molitura del mais così da rendere
impossibile la germinazione nel terreno. Ma anche questo è un procedimento il cui carico
economico pesa direttamente sui paesi poveri.

“Cara Africa – ha commentato nel 2002 Manoah Esipiu, corrispondente Reuters da


Johannesburg – mangia Ogm o soffri la fame!”.

87. GLI OGM RIDUCONO L’USO DI PESTICIDI?
Le piante transgeniche coltivate al mondo contengono fondamentalmente due tratti genici: il primo
conferisce alla pianta la resistenza a insetti particolari (le larve di lepidotteri: piante Bt), il secondo
la tolleranza a uno specifico erbicida (il glifosato). In tutti i casi, specifici caratteri a base
monogenica che, l’ecologia e la scienza dell’evoluzione insegnano, sono meno efficaci nel tempo
per la resistenza agli attacchi dei parassiti.

Gli insetti si adattano. Gli insetti in breve tempo sono in grado di manifestare la resistenza alla
tossina killer e, sin dalle prime coltivazioni, le agenzie pubbliche statunitensi sono state
sensibilizzate sul problema e hanno messo in piedi un sistema di gestione delle colture Bt in grado
di ridurre l’insorgenza della resistenza negli insetti. Al contrario niente è stato fatto nel settore delle
piante tolleranti agli erbicidi. Con dati rilevati direttamente in campo dal Ministero Usa dell’Agri
coltura (Usda), è stato pubblicato nel novembre 2003 da Charles Benbrook lo studio secondo cui si
è assistito negli anni a un progressivo aumento dell’uso dei pesticidi, legato soprattutto
all’incremento di erbicidi proprio nelle coltivazioni Ht (Herbicide Tolerant), varietà in cui è stato
inserito un gene che dà alla pianta la tolleranza a un erbicida, con la possibilità per gli agricoltori di
spargere sul loro campo diserbanti a largo spettro che quindi uccidono tutte le piante presenti ma
non quella Ogm (le nuove sementi hanno aperto un nuovo mercato per entrambi i prodotti). Numerosi
fattori hanno favorito l’incremento dell’uso di erbicidi, tra cui la diffusione di parassiti resistenti al
glifosato.
Uno studio dell’Imperial College di Londra e dell’Università Simon Rodrigues di Caracas evidenzia
come le piante modificate per resistere ai pesticidi favoriscano in realtà il proliferare degli insetti
parassiti: le larve degli insetti, dopo essersi cibate di foglie Ogm, sono in grado di digerire e poi
utilizzare le tossine ingerite come scorta di cibo supplementare. Le larve esaminate dagli scienziati
si sono mostrate più grandi e più veloci nella crescita (+56%) di quelle convenzionali.

Un uso maggiore di pesticidi. Il 70% delle piante dell’orto di Frankenstein coltivate in America (e
la percentuale è analoga nei 300 campi sperimentali italiani) sono state modificate geneticamente
per poter resistere a dosi quintuple di diserbanti e antiparassitari, che così potranno essere spruzzati
con meno cautele e, cosa assai più grave, a minor distanza di tempo dalla raccolta e dal consumo.
In Cina dopo sette anni i parassiti sono aumentati in maniera tale da richiedere un uso di pesticidi
assai maggiore di prima e da ridurre dell’8% il guadagno degli agricoltori, come riportato da un
articolo di Le Scienze su di uno studio fatto dalla Cornwell University nel 2006. In Indonesia erano
stati promessi ai contadini abbondanti raccolti e un minore uso di pesticidi. Invece, un’ondata di
siccità portò a un aumento degli insetti tra le colture e i contadini locali dovettero usare un mix
nuovo di pesticidi per contrastare il problema e il Bt cotton, sviluppato per essere resistente a un
insetto che non è mai stato un problema in Sulawesi, fu suscettibile all’aggressione da parte di
diversi parassiti. Il raccolto quell’anno fu di 1,1 tonnellate per ettaro contro le promesse di 3 o 7
tonnellate. Il 70% dei contadini coinvolti non furono capaci di saldare i loro debiti con l’azienda
sementiera.
Anche la modificazione di piante che dovrebbero sopportare gli erbicidi ha mostrato insuccessi. La
soia resistente all’erbicida glifosato è stata introdotta in Argentina nel 1995, il primo esempio di
fallimento sul campo. Negli ultimi anni di coltura, infatti, i coltivatori di soia Ogm hanno iniziato a
manifestare problemi, tra cui una ridotta fertilità del terreno.
Le superfici coltivate a Ogm nel mondo aumentano del 12% annuo a partire dal 2002, con oltre 120
milioni di ettari. Nel contempo, secondo le analisi e gli studi condotti dal Ministero statunitense
dell’Agricoltura, gli Ogm hanno aumentato l’uso di pesticidi di 200 milioni di dollari dal 1996 al
2004. Dal 2001 in poi si è assistito addirittura a un incremento nell’uso di diserbanti e
anticrittogamici. Nel 2001, nelle piantagioni Ogm si è usato il 5% di pesticidi in più rispetto a
quelle non geneticamente modificate; nel 2002 il 7,9% e nel 2003 l’11,5%.

Nelle sole piantagioni di mais, nel periodo 2002-2003, sono stati applicati il 29% di pesticidi in più
rispetto alle piantagioni di mais non Ogm. Sembra che i coltivatori abbiano bisogno di incrementare
le dosi di erbicidi sulle piantagioni geneticamente modificate per tentare di controllare le specie di
infestanti più forti che starebbero sviluppando resistenza genetica.

Per usare le parole di Charles Benbrook, responsabile del Centro di politiche ambientali e
scientifiche del Nord-Ovest (Idaho), autore del rapporto citato da The Guardian, “i sostenitori
delle biotecnologie affermano che le varietà geneticamente modificate riducono l’uso dei
pesticidi. Se questo è stato vero nei primissimi anni della loro coltivazione… oggi non è più così.
Ormai i dati raccolti evidenziano semmai che la quantità media di pesticidi utilizzati per ogni
acro coltivato è in aumento rispetto agli anni precedenti”.
88. SI TROVANO OGM AL SUPERMERCATO?
In Europa coltivarli è vietato, ma si possono commercializzare soia e mais Ogm extracomunitari.
Nel 1997 è divenuto obbligatorio dichiarare in etichetta eventuali ingredienti transgenici poiché “i
nuovi prodotti o ingredienti alimentari contenenti o costituiti da Ogm – recita l’importante premessa
ai Regolamenti 258/1997/Ce e 1813/1997/Ce – possono presentare rischi per l’ambiente” ed è
opportuno “garantire l’informazione su questioni suscettibili di una riserva di ordine etico”. I
produttori devono adottare ogni precauzione per ridurre al minimo possibile la presenza accidentale
di materiale Ogm. Il Regolamento 49/2000/Ce stabilisce che se più dell’1% di ogni ingrediente
deriva da ingegneria genetica o se anziché dipendere da malaugurate contaminazioni in campagna,
durante il trasporto o la lavorazione, la loro presenza è voluta, allora bisogna dirlo in etichetta.
Ma la storia commerciale degli Ogm al supermercato è costellata di fallimenti.

Un pomodoro. I pelati Flavr Savr, ingegnerizzati dalla Calgene, sono il primo ortaggio transgenico a
sbarcare al supermercato. È il 1994. Il prodotto viene ritirato dal mercato: s’è rivelato di sapore
pessimo, immangiabile, nonostante la Fda, autorizzandolo nel 1990, l’avesse dichiarato “sicuro e
indistinguibile dall’omologo convenzionale”.

Un olio. Nel dicembre 2004 ecco arrivare in Italia il primo olio dichiaratamente Ogm al
supermercato. Lì, sul bancone, nella sua bottiglia di plastica, in mezzo agli altri. Costa poco, 89
centesimi al litro. Si chiama “Giusto”. A produrlo, una grande azienda olearia pugliese. Lo ha
scovato tra gli scaffali di un supermercato in Puglia un corrispondente di Greenplanet.net. Il primo
olio di semi transgenico italiano, è proprio “olio di soia geneticamente modificata e semi di
girasole”, in vendita con la sua regolare etichetta. È durato poco. Nel dicembre 2004 è stato ritirato
dal mercato.

Una birra. Nel 2005 viene lanciata al Pianeta Birra di Rimini la prima birra geneticamente
modificata. È svedese, si chiama “Kenth” ed è fatta anche con mais transgenico. Lo slogan che
l’accompagna, “Go trans”, è una vera mossa di judo che aggredisce il consumatore rivendicando il
transgenico come scelta di rottura, di controtendenza. “Punta dichiaratamente al giovane dalla forte
personalità – dice il comunicato stampa – che non ha paura di rompere gli schemi e che, anzi, tende
a muoversi controcorrente, creando nuovi trend di consumo e stili di vita. Un leader caratterizzato
da una forte capacità critica, che ha fiducia nel futuro e nell’innovazione tecnologica. Un
consumatore dalla mentalità aperta, che va oltre le convenzioni e lo status quo, e a cui piace
distinguersi. La tagline ‘Go trans’ incoraggia con ironia il consumatore”. La birra Kenth rimane
introvabile, in Italia.
Salvo i casi di fallimento commerciale conclamato, è possibile che ingredienti transgenici
contaminino quelli convenzionali. Greenpeace e GeneWatch hanno lanciato il primo registro
mondiale della contaminazione da Ogm. Il sito, con un pratico motore di ricerca, offre i dettagli di
tutti i casi noti di contaminazione da Ogm di cibo, mangimi, semi e piante selvatiche nel mondo.
Finora, nessun governo o agenzia internazionale ha creato un registro pubblico degli incidenti o
degli altri problemi associati alle colture Ogm. Dalla loro introduzione nel 1996, il Register Report
conta 216 eventi di contaminazione su larga scala in 57 paesi. Mais, riso, soia, cotone, colza, papaia
e pesce. E sono solo gli incidenti di cui si è venuti a conoscenza.

Gli Ogm sono diffusi nel mondo. Miliardi di piante transgeniche sono state piantate e coltivate,
dal 1996 a oggi. Piante che spargono polline transgenico anche a distanza di chilometri. Il 65%
dell’agroalimentare Usa è contaminato, molti cibi sono transgenici, e si registrano episodi di
contaminazione (accidentale o no) di raccolti e di prodotti alimentari. Qui in Italia alcune
analisi di laboratorio del 2005 suggerivano che il 12% delle confezioni di prodotti di largo
consumo poteva contenere ingredienti transgenici o tracce. Tra gli altri, è stata scoperta
fuorilegge una nota marca di cioccolato bianco...
Come difendersi?.

Diffidare della soia.


Attenzione anche al mais, al popcorn made in Usa, all’amido di
mais.
Margarine: dalla colza, una della colture Ogm più estese, si estrae
un olio vegetale di basso costo impiegato a tonnellate dalle aziende
alimentari.
Leggere con attenzione le scritte in piccolo delle etichette.
Possiamo già scorgere sulla confezione dei biscotti alla soia, tra le
micro-righine degli ingredienti, “farina di soia prodotta a partire
da soia geneticamente modificata”. Ci vuole un occhio di falco,
perché ero riuscito a individuare perfino un vasetto – già di per sé
piccolino – di condimento per spaghettini un cui ingrediente era
“idrolizzato di proteine vegetali (geneticamente modificate)”.
Scegliere “bio”. I prodotti “bio” non hanno Ogm, lo proibiscono le
norme internazionali e i disciplinari di produzione dei singoli enti.
Hanno filiere produttive separate e controllate, e ai controlli
pubblici si affiancano quelli privati degli enti certificatori, sui
campi, sul processo produttivo, sui pochi additivi consentiti e, in
laboratorio, sul prodotto finito.
Niente panico. Non ci sono pomodori transgenici al supermercato.
Le fragole col gene del pesce artico esistono solo in qualche
laboratorio, e il grano Ogm comincia solo oggi il suo iter
autorizzativo in Usa tra mille difficoltà, e probabilmente lo
respingeremo alle frontiere (almeno la pasta!). Sono ancora
relativamente poche le specie vegetali transgeniche.
Gli ingredienti base della nostra cucina, la pasta appunto, il pane, gli ortaggi, l’olio
extravergine d’oliva, le patate, sono ancora certamente, genuinamente, tradizionalmente,
sacrosantamente Ogm-free.

89. IL GOLDEN RICE, IL RISO CON LA VITAMINA A DENTRO,È UN’INVENZIONE GENIALE?
Un riso dalle venature dorate, già ricco di per sé di provitamina A e quindi in grado di alleviare i
rischi di cecità provocati dall’endemica malnutrizione di milioni di persone nei paesi poveri… una
grande promessa! Una grande invenzione! Purtroppo, a qualche anno dal lancio del Golden Rice, nel
2000, sembra che il progetto sia tecnicamente fallito. Un fallimento umanitario e scientifico, ma un
successo di marketing. Non contribuisce a risolvere il problema della malnutrizione, ma è riuscito a
distogliere attenzione e fondi dalle reali soluzioni al problema della carenza di vitamina A nei paesi
poveri.

Riso anticecità. Si era detto che questo riso modificato in laboratorio con l’inserzione di tre geni,
due dalla giunchiglia e uno da un batterio, per produrre pro-vitamina A (betacarotene), avrebbe
potuto risolvere il problema della carenza di vitamina A nei paesi poveri, che causa cecità e anche
la morte. “L’industria ha cercato di vendere il Golden Rice come una soluzione magica. In realtà è
solo un’eccessiva semplificazione del problema vitamina A, che serve a far guadagnare consensi
all’industria biotech in mercati difficili per gli Ogm come India ed Europa” suggerisce Federica
Ferrario, campaigner Ogm di Greenpeace.
Una lettura attenta delle pubblicazioni scientifiche sul Golden Rice mostra che sono sempre stati
tenuti nascosti molti problemi tecnici. La pubblicazione originale, ad esempio, non descriveva
accuratamente il tipo di pro-vitamina A presente nel Golden Rice. La quantità riportata di
betacarotene presente è stata significativamente sovrastimata. Non si hanno informazioni sulla
sicurezza alimentare del riso Ogm, mentre è già noto che tale varietà contaminerà quelle selvatiche e
le erbe infestanti imparentate, causando probabilmente sia problemi ambientali che agronomici. “Il
riso Ogm, se introdotto su larga scala, potrebbe aumentare la malnutrizione e minare ulteriormente la
sicurezza alimentare perché incoraggia una dieta basata su un singolo cibo industriale piuttosto che
la reintroduzione di diverse piante ricche di vitamine, con alti valori nutrizionali, economiche e già
disponibili” ha concluso Klaus Becker dell’Università di Hohenheim (Germania), uno degli autori
del rapporto di Greenpeace presentato nel 2005.

Bisognerebbe mangiare un ciotolone d’un metro di diametro al giorno – 9 chilogrammi – di


Golden Rice per coprire il fabbisogno di vitamina A. Questo è irriguardoso nei confronti di quel
miliardo di persone che di riso da mangiare non ne ha neanche un pugno al giorno. Sì, il Golden
Rice è un’invenzione geniale e un conclamato successo. Ma della scienza del marketing, più
che dell’agronomia.
Esistono, da millenni, varietà tradizionali di riso che non solo contengono beta-carotene ma
anche altri elementi nutritivi come ferro, proteine e anche grassi che sono necessari per
metabolizzare il beta-carotene.

90. MA LEI GLI OGM LI MANGEREBBE?
Una ricercatrice italiana, Manuela Malatesta, ha rilevato “modificazioni” a carico di fegato,
pancreas e testicoli nei topi alimentati con soia Ogm. Le sono immediatamente stati tagliati i fondi,
per le stesse ricerche per cui fu convocata dalla Fao per far parte della commissione di valutazione
degli alimenti Ogm. Paola Magni e Claudio Vigolo l’hanno intervistata, il 19 gennaio 2006, per
LifeGate Radio.

Cosa ha scoperto, nelle sue ricerche? “Abbiamo trovato modificazioni a carico dei nuclei degli
epatociti, le cellule principali del fegato. Potrebbero essere indice di cattivo o di diverso
funzionamento, avremmo avuto bisogno di più tempo, ma non è stato possibile. Abbiamo rivolto la
nostra attenzione al pancreas esocrino, che produce gli enzimi digestivi, e ai testicoli. Anche in
questi organi abbiamo riscontrato modificazioni, visibili solo usando particolari strumentazioni.
Non stupisce che queste modificazioni non siano state rilevate in indagini di routine come posso
supporre siano state fatte dal produttore di soia Ogm”.

Senta, lei (personalmente), fino ad adesso, che idea si è fatta degli Ogm? “Quando cominciai
non avevo preconcetti. Ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento di onestà intellettuale. Via
via che arrivavano i risultati, si mostravano differenze che potrebbero essere segnale di uno stress
che questi organi subiscono. Ma tutto questo accanimento, questa opposizione, questo silenzio, la
sparizione di molti colleghi intorno a me in seguito all’interesse dei mass-media... mi ha fatto aprire
gli occhi. La mia opinione è che ciò che non va in tutta la storia degli Ogm, è che siano stati messi in
commercio, prima fatti coltivare poi immessi nella catena alimentare, senza controlli di autorità
indipendenti. Non è accettabile che la ditta produttrice dica ‘il prodotto è buono’; è ovvio, non
immetterà mai sul mercato qualcosa di immediatamente dannoso alla salute. Ma gli effetti a lungo
termine, sulla salute, sull’ambiente, sono stati valutati?”.

Ma lei, ora come ora, li mangerebbe, gli Ogm? “(Ride) Temo di mangiarli quotidianamente. E
inconsapevolmente! Sinceramente, vorrei evitarlo”.

91. IL SURIMI È POLPA DI GRANCHIO?
L’idea stessa è insopportabilmente, irritantemente, sciattamente ingannevole: simulare la forma e i
colori della polpa di granchio per un prodotto che impasta tutto ciò che di peggio può essere
immaginato, a base di pesce e sottoprodotti.

Di cosa è fatto. Le materie prime utilizzabili per confezionare il surimi sono gli avanzi di
lavorazione delle industrie ittiche, scarti industriali asiatici, oli e grassi, edulcoranti artificiali e
aromi. Sfugge alle norme sulla tracciabilità, basta indicare come unico ingrediente in etichetta
“surimi”. È uno dei prodotti con più alti record di alterazioni dovute in gran parte alla cattiva
sterilizzazione del prodotto, con conseguente rigonfiamento delle scatole, o anomalie da imputare
anche alla cattiva lavorazione. È facilissimo sofisticarlo: aggiunta di oli indefinibili al posto di olio
di oliva, acido acetico, impiego di materie guaste o infette, aggiunta di anidride solforosa. Ma anche
in fatto di additivi legali non scherza. Ci si trovano dentro conservanti, carragenina (E407),
dolcificanti, monofosfati, ortofosfati d’ammonio, sodio e potassio (E339-343), alluminosodico
(E541), mono-, di-, tri- fosfati e i famigerati polifosfati (E450-452).
È un prodotto malandrino. È finto dall’apparenza alla sostanza, è composto di ingredienti di bassa
qualità, di provenienza indefinita, con metodi difficilmente controllabili da imprese ittiche asiatiche.

Evitare il surimi. È commercializzato in forme che vanno dai finti rotolini di granchio alle finte
code di gambero e gamberoni, che stanno riscontrando un successo sempre maggiore al
supermercato.

92. IL SALMONE È ROSA?
Il salmone, in natura, è un pesce migrante. Spinto da un insopprimibile istinto sessuale risale le
correnti, si espone a rischi mortali, e percorre centinaia di chilometri per fare ritorno nel luogo dove
vide la luce,deporvi le uova e morire, con un inspiegabile meccanismo biologico. Il salmone
selvaggio del Pacifico durante il suo ciclo vitale arriva a percorrere migliaia di chilometri.
Sulle pareti delle vasche dov’è allevato nel Nord Europa va invece a sbattere in continuazione,
insieme a centinaia di suoi simili, nutriti all’ingrasso con mangimi innaturali, iniezioni di ormoni di
pollo e una dieta a base di coloranti, fino a che un enorme tubo non lo aspira per decine di metri, lo
risucchia per depositarlo sul bancone dove sarà sezionato vivo, e fatto a fette.

Come viene allevato. Il saggista James Hamilton-Paterson nel 2004 ha pubblicato sul settimanale
svizzero Weltwoche un’inchiesta sui metodi d’acquacoltura del salmone, dal Cile alla Scandinavia.
Ci sono quattro gravi problemi fondamentali che riguardano la salute,umana e animale, e l’ambiente.
Nelle vasche chiuse, nei recinti in acqua, i salmoni sono in sovraffollamento. Le loro deiezioni
producono un inquinamento organico, che si riversa nelle acque circostanti.

In queste condizioni igieniche, si usano composti fungicidi e battericidi con verde malachite, un
veleno. Nel 2003 sono state bloccate alle frontiere europee dozzine di tonnellate di salmone cileno
contaminate con residui di verde malachite. Il verde malachite poi si infiltra nei suoli, nelle falde
acquifere.
Sempre per combattere infezioni e parassiti, si riversano nelle acque sostanze chimiche antibiotiche,
dall’ivermectina all’altamente tossica ossitetraciclina-idrocloride. Dalle acque dacquacoltura si
spargono poi nell’ambiente. In Cile, divenuto da pochi anni uno dei maggiori produttori mondiali di
salmoni, si può già parlare di disastro ecologico.
Ai pesci d’allevamento vengono dati mangimi contenenti farine animali, quelle bandite ai tempi di
“mucca pazza”. Ma, essendo per esempio i salmoni dei pesci predatori, devono anche mangiare
altro pesce. Per ottenere una tonnellata di salmone allevato, occorrono venti tonnellate di pesce
pescato in mare.
Nutrendosi di pesce di mare, i salmoni bioaccumulano tutti i metalli pesanti nocivi e le sostanze
tossiche persistenti, Pcb, mercurio, composti organoclorurati e organostannici.
La diossina è presente negli animali cresciuti in cattività con una concentrazione di 1,88 contro 0,17
parti per miliardo, i Pcb, altri cancerogeni, con 36,6 parti per miliardo contro 4,75 e i pericoli
maggiori si correrebbero proprio consumando i pesci provenienti dagli allevamenti del Nord
Europa.

Il salmone nasce bianco. La sua carne in natura si tinge di rosa con una sostanza che accumula con
una dieta a base di alghe, plancton e crostacei. Un simile colore viene ottenuto dagli allevatori
aggiungendo ai mangimi (a base di farina di pesce) una miscela di coloranti autorizzati e controllati
per legge. Tra cui però anche un pigmento accusato di provocare danni alla retina. “Si accumula
sulla retina dei nostri occhi, provocando seri danni alla vista, il rosa aggiunto nei salmoni e nelle
trote d’allevamento” è il verdetto degli scienziati europei, che ha spinto nel 2003 la Commissione di
Bruxelles a introdurre nuovi limiti, più severi, rispetto a quelli consentiti di cantaxantina nel
salmone (la normativa fissa limiti più stretti anche per i polli all’ingrasso e le galline ovaiole per
rendere più intenso il colore della pelle dei volatili e il tuorlo delle uova). La concentrazione
massima di cantaxantina permessa scende da 80 a 25 milligrammi per chilogrammo di mangime nel
caso di salmoni, trote e pollame da ingrasso, mentre per le galline ovaiole la soglia fissata è di 8
milligrammi per chilogrammo di mangime.

Preferire il salmone selvaggio. Non ricercare più ossessivamente un colore rosa tendente
all’arancione. Anche se il portavoce dell’allora commissario alla Sanità ha tenuto a smorzare
ogni allarmismo, spiegando che solo l’assunzione di dosi massicce di salmone alla cantaxantina
potrebbe, alla lunga, presentare rischi per la salute, meglio una carne dal colore pallido che
correre pericoli così insulsi.

93. UN PIATTO DI SPAGHETTI ALLE VONGOLE?
Le hanno provate tutte, quelli di Greenpeace, in Italia. Comunicati stampa, denunce, analisi. Alla
fine ce l’hanno fatta con un piatto di vongole. Sullo scorcio degli anni Ottanta l’organizzazione
ambientalista conduceva un’intensa campagna sull’inquinamento causato dagli stabilimenti del
Petrolchimico di Marghera. Studi e prelievi di acqua per analisi di laboratorio, esposti, comunicati
stampa. Ma la maggior risposta del grande pubblico la registrarono quando portarono un piatto di
spaghetti alle vongole in una popolare trasmissione televisiva Rai, invitando gli ospiti ad
assaggiarle dopo aver specificato che erano state allevate nel canale di Porto Marghera.

Vivono filtrando l’acqua. Questo perché, si sa, i molluschi bivalve vivono filtrando l’acqua del
mare, per trattenere i nutrienti con cui sostentarsi.
Quello che non si sa è il motivo per cui continuano a esserci allevamenti di cozze in tratti di costa
marina in prossimità di zone industriali.
Anche non legalmente autorizzati. Anzi, tuttora molti allevamenti sono illegali, per motivi che
spaziano dal lavoro nero alla carenza di garanzie igieniche. I pescatori demoliscono le rocce anche
con i martelli pneumatici, rovinando le coste, o si macchiano di pratiche illegali, come la
collocazione di rocchetti di rame negli anfratti, che rende quegli stessi anfratti per sempre
inavvicinabili alle forme di vita acquatiche.
Nonostante questo e nonostante l’alto rischio sanitario, gli italiani ne consumano circa 20 mila
tonnellate all’anno. Ogni mese ne vengono sequestrate almeno quattro tonnellate.
Per quanto riguarda l’acquisto fresco, purtroppo risulta impossibile per i commercianti all’ingrosso
controllare l’indotto e l’eventuale evasione degli adempimenti fiscali e sanitari. Nel caso di
conserve di molluschi, di crostacei e di condimenti vari a base di molluschi, è da segnalare che è
legalmente tollerato un contenuto limite di piombo quasi triplo rispetto alle altre conserve di
verdura o ai succhi di frutta.

Per quanto riguarda cozze e vongole fresche, se si desidera acquistarne si verifichino tutti
questi elementi: l’integrità della confezione, la presenza di un “bollo sanitario”, che siano
raccolte in una retina verde, che siano collocate in vendita in un ambiente refrigerato.

94. COSA DISTINGUE LA TROTA SALMONATA?
Se non dal mare, da qualche altra parte i pesci dovranno pur venire. I pesci d’allevamento, da
acquacoltura, dai vivai, possono recare lo stesso giudizio negativo che va dato per i prodotti degli
animali negli allevamenti intensivi.
Danni ecologici, sofferenze agli animali, uso di sostanze chimiche velenose, spreco di risorse.
Queste sono alcune delle caratteristiche dell’acquacoltura, da cui proviene oggi un terzo del pesce
che mangiamo.

L’itticoltura. L’assunzione da parte dei pesci delle itticolture di sostanze sintetiche e preparati
farmacologici (specialmente antibiotici) o comunque non naturali è favorita dalla facilità di
somministrazione (si versano semplicemente nell’acqua). Con l’aggravante di un forte impatto
ambientale: le acque dei bacini delle itticolture sono ovviamente comunicanti con le acque naturali
di fiumi, laghi e del mare, e tutti i trattamenti chimici e antibiotici defluiscono automaticamente nelle
acque circostanti, con gravissimo danno per l’ambiente e la fauna ittica naturale.
Le trote, i branzini, le orate, che si trovano nelle pescherie e nei supermercati ormai vengono quasi
totalmente da allevamenti, con tutti i rischi sopra evidenziati. Questo dovrebbe preoccupare non
solo gli ambientalisti, ma anche i buongustai: il sapore dei pesci d’allevamento, rispetto a quello dei
pesci che vivono allo stato naturale, è deludente.
Con l’ulteriore aggravante che il modo per farli riprodurre consiste nel prelevare una femmina
gravida di uova, squartarla viva e strizzarla come un calzino, spremendone fuori le uova da far
irrorare ai maschi.

Nota di demerito speciale per le trote salmonate. In teoria, la loro carne dovrebbe assumere
colore rosato per la dieta a base di cibo pregiato, gamberetti. In pratica, esse vengono
sottoposte a un’alimentazione artificiosa a base di coloranti naturali e sintetici, incontrollabili.
Tra cui la cantaxantina e l’astaxantina. Oggi si sta riuscendo anche a produrre una trota sal-
monata che abbia sviluppato naturalmente una pigmentazione rosata della carni, senza dover
ricorrere a molecole chimiche di sintesi.

95. HAI IL COLESTEROLO ALTO?
Al supermercato dilagano prodotti light, versioni scremate di popolari alimenti, versioni dimagranti,
colesterolo-free, dietetiche, sgrassate e via via più costose degli omologhi prodotti normali. In
farmacia dilagano i farmaci anticolesterolo.
Il colesterolo o, meglio, il colesterolo alto, è sentito come uno dei più diffusi problemi di salute.

Il cibo c’entra poco. Tuttavia il colesterolo contenuto nei cibi influenza soltanto in minima parte il
livello dei rispettivi tipi di colesterolo nel sangue. Diverse ricerche sono unanimi nell’evidenziare
che, riducendo di 100 mg l’assunzione di colesterolo con il cibo, il tasso di colesterolo complessivo
nel sangue si riduce di 0,056 millimoli/litro. Circa l’uno per cento della concentrazione di
colesterolo desiderata di 5,0 mmol/l. In tal caso l’LDL viene ridotto mediamente di 0,05 mmol/l e
l’HDL di 0,008 mmol/l.
Il colesterolo dei cibi non incide sul tasso di colesterolo nel sangue delle persone sane perché
l’organismo mantiene il colesterolo a un determinato livello grazie all’adeguamento del suo
assorbimento nell’intestino e alla produzione propria di colesterolo. Il nostro corpo produce
giornalmente da 500 a 1.500 milligrammi di colesterolo. Se si assume una quantità maggiore di
colesterolo con il cibo, la produzione propria viene ridotta, mentre se il consumo è inferiore, la
produzione aumenta. Il colesterolo è infatti l’elemento di partenza per numerose sostanze importanti
nell’organismo (la vitamina D, gli ormoni sessuali e dello stress, e gli acidi biliari). Esso è inoltre
un componente irrinunciabile del cervello, dei nervi e delle membrane cellulari e influenza il
sistema immunitario.

Questione di limiti. La paura dell’“ipercolesterolemia”, poco conosciuta trent’anni fa, ora è balzata
al primo posto tra i timori di decine di milioni di persone in tutto il mondo.
Nel 1987 un’azienda farmaceutica ha lanciato il primo farmaco a base di “statine”. Le statine
(atorvastatina, cerivastatina, fluvastatina, rosuvastatina, pravastatina e simvastatina) inibiscono in
modo competitivo l’enzima coinvolto nella sintesi del colesterolo (la 3-idrossi-3-metilglutaril
coenzima A (HMG CoA) reduttasi) soprattutto nel fegato. Sono ipolipemizzanti efficaci nel ridurre i
livelli di colesterolo LDL. Il loro uso sarebbe ufficialmente da prendere in considerazione per gli
anziani con malattie cardiovascolari sintomatiche o diabete mellito. Invece oggi le usano tutti, adulti,
sani e asintomatici. La loro assunzione dovrebbe essere associata a cambiamenti dello stile di vita e
ad altre misure che riducano il rischio di eventi cardiovascolari. Invece nessuno fa un passo in più.
Il medicinale fu omologato anche per livelli di colesterolo bassi: questo medicinale poteva cioè
venir pubblicizzato e prescritto a gente per il resto sana, un mercato potenzialmente sconfinato!
Da allora sono stati omologati diversi farmaci concorrenti e la pubblicità data sia alle statine, sia
alla patologia correlata, ha assunto proporzioni e dimensioni enormi. Le vendite di questi farmaci
sono salite alle stelle nell’ultimo decennio e il numero di persone classificate come affette da
colesterolo “alto” è cresciuto in maniera esorbitante.
La definizione di colesterolo “alto” viene periodicamente rivista. Tale definizione è stata ampliata
in modo da numero sempre maggiore di persone sane.
Stando alle direttive ufficiali sul colesterolo del National Institutes of Health statunitense emanate
negli anni Novanta, tredici milioni di americani avrebbero avuto bisogno di essere curati con le
statine. Nel 2001 un altro comitato di esperti ha riformulato queste direttive facendo in pratica salire
tale numero a 36 milioni. Poi è successo che negli Stati Uniti una commissione di esperti del
colesterolo ha riformulato le definizioni, tra gli altri cambiamenti apportati ha abbassato i livelli di
colesterolo ritenuti necessari per autorizzare una cura medica, classificando come “malate” persone
sane e triplicando virtualmente da un giorno all’altro il numero delle persone che potevano essere
oggetto di terapia farmacologica. Cinque dei quattordici autori di questa nuova definizione,
compreso il presidente della commissione, avevano legami finanziari con i produttori di farmaci.
Nel 2004 un altro comitato di esperti ha aggiornato ancora una volta le direttive, sottolineando che,
accanto all’importanza di cambiare lo stile di vita, più di 40 milioni di americani avrebbero potuto
trarre beneficio dall’assunzione di farmaci. Otto dei nove esperti che hanno redatto queste ultime
direttive sul colesterolo lavorano anche come relatori, consulenti o ricercatori per le maggiori case
farmaceutiche al mondo.
Le nazioni occidentali spendono di più per i farmaci anticolesterolo che per ogni altro genere di
medicinali con obbligo di ricetta medica (Ims Health - Pharmaceutical Market Intelligence). Nel
loro insieme, oggi questi farmaci generano introiti di oltre 25 miliardi di dollari all’anno per i loro
produttori, i maggiori nomi dell’industria mondiale.
Una delle più diffuse statine è stata ritirata dal commercio dopo essere stata riconosciuta colpevole
di almeno cento morti e decine di migliaia di malattie iatrogene. Il caso, scoppiato nel luglio 2001,
non è ancora chiuso. Anche per la statina più nuova è stato chiesto da più parti il ritiro per alcuni
effetti collaterali gravi di deperimento muscolare e disfunzioni renali.

Per regolare i livelli di colesterolo nel sangue si può:


incrementare il consumo di pesce azzurro, ricco di acidi grassi


polinsaturi della serie Omega-3, pescato, e al momento senza
problemi di stock;
consumare grandi quantità di verdure, soprattutto crude, a ogni
pasto;
utilizzare come condimento l’olio extravergine d’oliva perché
costituito da grassi monoinsaturi;
pensare alla soia come alimento curativo, anche all’interno di
zuppe di legumi (lenticchie a Capodanno!), con i cereali integrali,
o sotto forma di lecitina di soia.


96. IL RISO BIANCO?
I mondiali di calcio del 1966 in Inghilterra sono stati contrassegnati da un ricordo umiliante per gli
sportivi italiani. L’Italia è stata battuta per uno a zero dalla Corea con un goal segnato da un
giocatore che nella vita faceva il dentista.
Sapete cosa hanno mangiato gli azzurri appena arrivati in Inghilterra? Riso in bianco, spinaci lessi e
bistecca. E il giorno dopo? Riso in bianco, spinaci lessi e bistecca. Che altro hanno mangiato nei 38
giorni in cui sono rimasti lì? Riso in bianco, spinaci e bistecca.

Il riso bianco. Oggi sappiamo che le qualità nutrizionali degli alimenti raffinati, rispetto a quelli di
partenza, sono poverissime.
Il riso bianco viene sottoposto ad almeno quattro operazioni invasive che lo privano di tutte le
vitamine, dei sali minerali e di molti elementi nutritivi. Dopo aver subito una prima, devastante
raffinazione, i chicchi vengono sottoposti a diversi trattamenti cosmetici: spazzolatura, lucidatura e
brillatura.
La spazzolatura serve a renderli lisci, la lucidatura a non farli sfarinare (usando oli di semi d’infima
qualità) e la brillatura consiste nel ricoprirli di un lieve strato di glucosio e talco. Infine, va in
commercio parboiled, con un ulteriore trattamento di precottura che lo rammollisce ulteriormente.

Eccolo, così impoverito dei suoi nutrienti, il riso bianco ammannito a chi ha bisogno di salubrità,
dagli sportivi ai convalescenti. Incomparabilmente meglio il riso integrale biologico o il riso
selvatico. Incomparabili purtroppo anche i loro tempi di cottura, che arrivano a tre quarti d’ora.

97. PANE E PASTA, MEGLIO INTEGRALI?
La farina che si usa per pane e pasta è bianca perché è privata del germe, delle fibre di crusca e
cruschello, sbiancata artificialmente e svuotata dei nutrienti. Peccato, perché è facile elencare i
benefici delle fibre. Regolarizzano la funzionalità intestinale, contrastano il ristagno di sostanze
nocive nell’intestino, agiscono come antitumorali impedendo la formazione o l’assimilazione di
sostanze cancerogene o rimuovendole. Diluiscono la concentrazione di sostanze nocive nel colon
cosicché le tossine abbiano minori possibilità di danneggiare il delicato tessuto mucosale. Bloccano
le attività di batteri nocivi e di sostanze chimiche precancerogene. Mentre impediscono il
diffondersi di microbi indesiderati, incrementano la crescita di batteri benigni, che a loro volta
cacciano gli ospiti ingrati. Come se non bastasse a trasformarci tutti e subito in vegetariani e
integralisti, le fibre favoriscono anche la nascita della forma più salutare di estrogeno, in tal modo
impedendo l’insorgere di alcuni tumori. Hanno perfino proprietà antiradioattive, opponendosi agli
effetti negativi sull’organismo dei radionuclidi cesio 137 e stronzio 85, come hanno scoperto gli
scienziati russi studiando gli abitanti dell’area di Chernobyl. La crusca dei cereali contiene anche
gli ambivalenti fitati che, a crudo, pare sottraggano calcio e ferro all’organismo, ma vengono
distrutti in parte dall’enzima presente nella crusca e dalla cottura, dalla germinazione e dalla
lievitazione acida e soprattutto – questo è il lato buono – combattono l’azione cancerogena dei
radicali liberi.

Come è fatto il pane integrale. Purtroppo, invece che usare direttamente farina integrale, ricca di
queste proprietà, spesso si usa farina bianca denaturata a cui si riaggiunge crusca, vuoi per facilità
di reperimento della farina bianca, vuoi per standardizzare le caratteristiche meccaniche di impasto.
A questa stregua non dovrebbe chiamarsi integrale. Si disintegra la farina per separarne i
componenti, sbiancarla, lavarla, denaturarla, per poi riaggiungerne alla fine un pezzettino! “Quello
della distinzione tra farine complete e farine ricostituite è un problema – spiega Francesca Marotta
su LifeGate.it – una farina completa si ottiene per semplice macinazione del chicco di frumento (o di
altri cereali), senza setacciatura né altre trasformazioni: è la farina più ricca e sana, completa anche
del germe con il suo contenuto di proteine, vitamine, minerali e grassi salutari. Spesso però il pane e
alcuni tipi di paste alimentari “tipo integrale” sono fatti di farine raffinate a cui s’aggiunge del
cruschello (crusca sminuzzata) e altri ingredienti. A parte il problema della mancanza del germe, si
pone anche il problema della conservazione del valore nutritivo della farina, che subisce una serie
di trasformazioni e di alterazioni dovute, ad esempio, all’ossidazione dei grassi”. Qualche fanatico
aveva suggerito, nel 2005, di aggiungere alla fine crusca Ogm, vantandone qualità benefiche per il
cuore, ma per fortuna non è stato preso sul serio.

Come dovrebbe essere fatto. Con vera farina integrale, lievitazione con pasta acida, da agricoltura
biologica.

È preferibile scegliere alimenti integrali da coltivazione biologica e biodinamica perché è


proprio sulla parte esterna del chicco di cereale, e cioè sulla crusca, che si concentrano i residui
di pesticidi e di sostanze nocive che possono rimanere sui cereali coltivati e conservati coi
metodi convenzionali. Un vero pane integrale dovrebbe essere scuro, pesante, compatto e
umido, molto diverso da alcuni pani “finti integrali” leggeri e di colore chiaro, simili al pane
bianco per peso e volume...

98. COSA C’È DI MEGLIO DEL CIOCCOLATO SVIZZERO?
La qualità del cioccolato non dipende assolutamente dalla nazionalità degli stabilimenti, bensì dalla
cura produttiva e dall’autenticità degli ingredienti che, incredibilmente, possono esulare dal cacao
stesso. Vediamo come si fa quello a regola d’arte, e come evitare sprezzantemente l’altro.

Il cacao. Si ottiene dai semi del Theobroma cacao (“cibo degli dèi”), pianta arborea originaria del
Centro America. I semi (fave) contenuti dentro un frutto grande come un melone (cabosse) vengono
sottoposti a fermentazione, essiccazione e torrefazione. Avviene la spremitura, con l’estrazione di
parte del grasso (burro di cacao) e l’ottenimento della pasta e dei panelli di cacao.
Con zucchero, massa di cacao, burro di cacao (e latte in polvere nel caso di cioccolato al latte) si
avvia il processo produttivo: miscelazione, raffinazione, concaggio (la massa fluida si tiene a una
temperatura di 80 °C in conche speciali con rimestatura meccanica) e il delicato ed essenziale
temperaggio. Il semilavorato si porta da 50 °C a 30 °C con fluttuazioni che raggiungono anche
temperature inferiori per stabilizzare la pasta fluida fino alla lavorazione finale. Lo scopo del
temperaggio è garantire nel tempo la lucentezza del cioccolato e di stabilizzare i cristalli del burro
di cacao affinché non affiorino le parti grasse, quella patina bianca che di rado si vede.

Standard da abbassare. È da dieci anni che l’Unione Europea tenta di abbassare gli standard
produttivi minimi del cioccolato, aprendo le porte all’impiego di grassi tropicali al posto del solo
burro di cacao. Burro di karité, d’illipé, olio di palma (ricco per il 50% di acido palmitico che è
causa d’innalzamento dei livelli di colesterolo nel sangue), stearina di shorea, burro di kokum,
grasso di nocciolo di mango, olio di cocco (più nocivo dei grassi animali, al suo interno c’è il 50%
di acido laurico e il 15% di acido miristica che innalzano il colesterolo). Cosa non va? Oltre a
rappresentare una scorrettezza verso i produttori di cacao del Sud del mondo e verso i cultori del
cioccolato, questi sono veri e propri grassi killer delle coronarie. Al contrario, l’acido stearico
presente nel vero cioccolato ha proprietà completamente diverse rispetto a tutti gli altri acidi grassi
saturi. Addirittura si è rivelato essere un potente agente di prevenzione contro microtrombi delle
coronarie. Da ricordare che già nel 1994 un lavoro svolto dal Dipartimento di nutrizione e salute
(Ndch) aveva smentito il temuto ipercolesterolizzante degli acidi grassi saturi contenuti nel burro di
cacao.

Controllare la lista degli ingredienti. Ricercare in etichetta la dicitura legale “puro”, che
esclude tassativamente l’impiego di grassi diversi rispetto al burro di cacao. Non tutti i
produttori svizzeri se ne fregiano. La maggior parte degli italiani sì. La cosa che non va giù è
che la Commissione europea si sia rivolta alla Corte di Giustizia nei confronti dell’Italia perché
diamo troppe informazioni in etichetta e quindi penalizziamo i prodotti che non possono
vantare le stesse caratteristiche. Il rilievo viene proprio fatto a proposito del cioccolato di
qualità realizzato con l’esclusivo utilizzo di burro di cacao, sul quale non dovremmo più
scrivere “puro”. L’Italia vanta una lunga e orgogliosa tradizione di maestri artigiani del
cioccolato che da Nord a Sud, da Torino a Modica, propongono prelibati e inimitabili tipi di
cioccolato che meritano di essere tutelati e valorizzati anche attraverso l’uso mirato
dell’etichettatura. L’Italia deve rivendicare il diritto a qualificare e rendere riconoscibili gli
alimenti che produce e che non possono essere confusi da altri semplicemente simili.



99. DOVE SI TROVA IL “SALAME PEPPERONI”?
È un argomento spassoso. Tranne che per i produttori nostrani. Ma da turisti, non possiamo che
sorridere quando, all’estero, ci capitano sott’occhio quelle risibili imitazioni delle nostre specialità.
L’ultima “importante battaglia” del ministro delle Politiche agricole Luca Zaia riguarda il “grande
problema dell’agropirateria. Il nostro export agroalimentare vale circa 24 miliardi di euro, ma
sappiamo che su dieci prodotti dichiarati made in Italy, solo uno arriva davvero dalle nostre
aziende agricole”, ricorda Zaia nel maggio 2009. E rimarca: si tratta di “un fenomeno odioso”.

Falsificazioni. Oltre alle mille storpiature possibili della farcitura della pizza e agli assurdi
condimenti degli spaghetti, viaggiando all’estero è possibile imbattersi nel salame Pepperoni, che
contiene stuzzicanti brandelli di peperoni sottaceto; o in una raggiera di prelibatezze, dal Parmesan
al Combozola triple cream cheese, dall’olio “Toscano” extracomunitario con clorofilla per finire
con il Chianti rosé e l’Amaretto di Venezia cinese.
Al Wto discutono da anni di una tutela internazionale contro l’agropirateria, le imitazioni e le
contraffazioni di prodotti tipici. L’Europa ha proposto una lista di specialità alimentari da difendere.
Su 41 prodotti, un terzo (ben 14) sono italiani! In effetti l’Italia e le sue tradizioni sono tra le più
bersagliate. L’elenco sulle indicazioni geografiche è stato reso noto il 2 settembre 2004 a Bruxelles
e riguarda “prodotti europei di comprovata qualità delle cui denominazioni è stato fatto abuso, come
il formaggio Roquefort, il prosciutto di Parma o i vini della regione spagnola Rioja”.
L’approvazione dei 41 prodotti Ue è stata raggiunta dopo settimane di trattative all’interno del
“comitato 133”, l’organismo composto dai rappresentanti per i temi commerciali degli (allora)
Quindici.

“Insieme ai nostri alleati, l’Europa si deve adoperare al massimo per ottenere ai negoziati Wto
una migliore protezione dei prodotti regionali di qualità”, ha dichiarato l’allora commissario Ue
all’Agricoltura, Franz Fischler, sottolineando che l’iniziativa europea per i prodotti di qualità
non ha niente a che vedere con il protezionismo, bensì con l’equità. E infatti, ha proseguito
Fischler, “è inaccettabile che l’Italia non possa vendere il genuino prosciutto di Parma italiano
in Canada perché il marchio ‘Parma Ham’ è riservato a un prosciutto prodotto in Canada”.



100. COME DRIBBLARE SCANDALI, VELENI, SOFISTICAZIONI E RAGGIRI?
1. Più tempo. Perlustrare qua e là bottiglie e confezioni, imparare a decifrare sigle e codici E,
studiare codicilli e avvertenze delle etichette dev’essere inteso come un esercizio stimolante e
coinvolgente. È anche un divertimento, offre argomenti di discussione e di conversazione, ci fa
soffermare sull’acquisto, suggerisce spunti di conoscenza e di approfondimento, fa crescere la
consapevolezza su ciò che si addenta.

2. Più semplice. Generalmente, i prodotti confezionati con una lista di ingredienti succinta sono
preferibili. Meno sono le fasi produttive e le elaborazioni, minori sono le possibilità di alterazioni,
volute o no, gli sprechi e le dispersioni di proprietà nutritive.

3. Più verde. Ma anche più rosso, giallo, arancio, i colori della salute dell’arcobaleno naturale.
Meno animali, più vegetali, con tante verdure diverse, legumi e cereali integrali. Nutrono, depurano,
sono semplici e molto meno a rischio contaminazione.

4. Più vicino. Differenziare la spesa, cercare di riscoprire cascine, mercati, fiere, piccoli produttori
locali e individuare nuovi itinerari del gusto assicura un rifornimento in dispensa vario, ricco e
vantaggioso, per la salute e il palato. Si scoprono nuovi cibi e nuovi sapori.

5. Più slow. L’approccio slow può riverberarsi su ogni gesto connesso al mangiare. Scegliere con
calma i cibi invece che tirar frettolosamente su le prime cose che si trovano sul bancone del
supermercato; cucinare scegliendo i singoli ingredienti invece che affidarsi ai cibi pronti;
assaporare lentamente i cibi invece che ingozzarsi, sono tutte nuove abitudini molto salutari.

6. Più giusto. Spendiamo troppo poco per il cibo. Dobbiamo cambiare le priorità e assegnare un
giusto, robusto budget alla fonte della nostra vita, della salute e del piacere. Diffidiamo dei prodotti
di costo troppo basso, spesso tritati, elaborati e sofisticati: il prezzo va matematicamente a
detrimento delle materie prime o di qualche fase produttiva.

7. Più gusto. Il motivo per cui scegliere cibi integri, freschi, nostrani e di stagione, non dev’essere
solo il calcolo razionale. Dev’essere il gusto, la piena dolcezza dell’assaporare l’alimento sano, al
momento giusto, maturo e naturale.

8. Più “bio”. Che sia chi produce o chi acquista, chi sceglie l’agricoltura biologica partecipa alla
realizzazione di un mondo migliore. Incentiva produzioni sostenibili, fertilità, attenzione, cura e
rispetto. Sogna un mondo pulito e sa di potervi contribuire, con un acquisto quotidiano.

9. Più passato. I piatti e gli ingredienti che hanno travalicato i decenni o i secoli, messi alla prova
di generazione in generazione, sono più sani, nutrizionalmente completi e sicuri di ogni novità
presentata dall’industria alimentare. Spesso i ricercatori riscoprono virtù nutritive e terapeutiche in
ricette della tradizione o nell’abbinamento dei loro ingredienti.

10. Più notizie. Consulta altri libri, sfoglia giornali e riviste, anche di cucina, conduci ricerche su
Internet su ingredienti dubbi. Nessuna acquiescenza verso i “si dice”, ma solo nuove conoscenze e
fame di nuove ricette.


BIBLIOGRAFIA

A. Speciani, L. Speciani, Dieta Gift. Dieta di segnale, Rizzoli, Milano 2009. L’ultimo capitolo
riguardo al metodo Gift su cui gli autori stanno sviluppando una trattatistica alquanto ampia.

I. Elmadfa, D. Fritzsche, E. Muskat, Additivi e conservanti. Cosa sono, in quali alimenti sono
contenuti, quali effetti comportano, L’Airone Editrice, Roma 2009. È la riedizione di un libretto di
un paio d’anni prima. Un buon bigino sull’argomento. Orientato verso allergici e intolleranti.

B. Statham, Cosa c’è davvero nel tuo carrello? Guida pratica agli additivi alimentari e agli
ingredienti cosmetici, Terre di Mezzo, Milano 2009.
Ha una grafica intuitiva che permette d’imparare a individuare quasi a colpo d’occhio gli additivi
pericolosi, quelli da evitare e quelli innocui.

G. Cerutti, Residui, additivi e contaminanti degli alimenti, Tecniche Nuove,Milano 2009.


Un testo a uso dei tecnologi alimentari, che prende in esame e classifica le sostanze pericolose per
la salute negli alimenti, descrive i processi di trasformazione industriale corretti da seguire, e
include schemi e tabelle.

G. Donegani, “Dieta vegetariana, una scelta salutare?”, Gli Speciali La Cucina Italiana n. 27,
giugno 2009, pp. 6-10.

R. M. Bertino, Tutto Bio, Biobank (rapporto annuale).


L’annuario dell’agricoltura biologica in Italia, giunto alla sua quindicesima edizione, raccoglie e
analizza trend, dati, tendenze del “bio”. Un utile indirizzario di aziende, ristoranti, negozi,
agriturismi, produttori.

G. Buracchi, Occhio alle merendine, Bracciali, 2008.


Un testo dalla grafica immediata che offre un softwarino nel Cd allegato: inserendo i dati riportati
sulla confezione di un prodotto (peso, calorie, ingredienti) s’elaborano in pochi secondi tre
indicatori illustrati da spassose animazioni: panciometro,schifezzometro e risparmiometro. L’autore
è un professore, medico nutrizionista.

M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2008.


Professore di giornalismo a Berkeley, l’autore ripercorre, di persona, a ritroso le tappe dai fast food
ai disumani allevamenti, va a fare il contadino in un’azienda biologica,partecipa a una battuta di
caccia. Un viaggio di 500 pagine verso la riappropriazione di un rapporto autentico con le nostre
fonti di nutrimento, con crudeltà, passione, gioia.
A. Pusztai, La sicurezza degli Ogm, Edilibri, 2008.
Lo studioso che per primo denunciò pubblicamente i rischi connessi alle modificazioni genetiche
(perdendo il lavoro) ora riaffronta il tema, tentando di divulgare imparzialmente le conoscenze di
base per comprendere l’ingegneria genetica.

L. Rizzatti, E. Rizzatti, D. Rizzatti, Tutela igienico sanitaria degli alimenti e bevande e dei
consumatori. Con CD-ROM, Il Sole 24 Ore Pirola, Milano 2007.Il primo autore, Lionello Rizzatti,
è il decano dei Vigili sanitari italiani. I carabinieri dei Nas chiamano quest’opera “Il vangelo
secondo Rizzatti”. Al testo di tutte le leggi e i decreti ministeriali seguono commenti e appunti sulla
giurisprudenza e sulla prassi (per esempio, come si fanno praticamente i controlli, quali moduli
compilare ecc.). Ne escono edizioni periodicamente aggiornate, da trenta anni.

M. Malaspina, La scienza dei Simpson, Sironi, Milano 2007.


L’autore affronta diverse questioni scientifiche prendendo spregiudicatamente a pretesto gli squarci
di microcosmo familiare dei noti cartoons americani. Un’intera sezione, “Birra e ciambelle”, è
naturalmente dedicata ai problemi con il cibo: capitoli su zucchero, cattivi esempi, obesità, birra e
bibite, intossicazioni alimentari “da Krusty Burger”,Ogm, integratori dietetici, consumo di carne.

P. Magni, S. Carnazzi, Le pere di Pinocchio, Apogeo, Milano 2006.


Cinquanta cose da fare per mangiare bene. Il titolo prende l’abbrivio dall’episodio in cui lo
schizzinoso Pinocchio, dopo averne mangiato solo la polpa, per la fame si mangia anche torsolo e
buccia di tre pere: oggi, la scienza scopre che nei semi della frutta e nella buccia ci sono le più
preziose sostanze nutritive.

C. Rémésy, Cosa mangeremo domani, Apogeo, Milano 2006.


Si parla del rapporto tra alimentazione e salute pubblica, chiedendosi, con tutte le conoscenze che
abbiamo, il perché di errori, negligenze, abitudini alimentari sbagliate, sprechi. Interessanti alcuni
capitoli, per esempio quello sulla “predilezione umana per le proteine” o “la relazione grassi-
colesterolo ancora da chiarire”. In generale però il direttore ricerche dell’Inra non è mai tranchant.

A. Speciani, L. Speciani, La dieta Gift. Gradualità, individualità, flessibilità, tono, Fabbri, Milano
2005.
Il libro base per avvicinarsi a un approccio alimentare che punta a rafforzare le difese immunitarie,
riattivare il metabolismo, caricare d’energia vitale, e… alla fin fine,a una nuova linea.

J. B. Schor, Nati per comprare, Apogeo, Milano 2005.


Libro-inchiesta sulle tecniche di persuasione sempre più raffinate, differenziate, chirurgiche a cui
sono sottoposti i nostri bambini. Un intero capitolo è dedicato a snack,merendine e junk food.
Sottotitolo: “salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità”.

A. De Luca, Il bambino ecologico, Stampa Alternativa - Nuovi Equilibri, Roma-Viterbo 2005.


Numerosi contributi (è una piccola antologia di brani di diversi studiosi) che suggeriscono di
circondare i bambini con un abbraccio naturale.
M Giordano, Siamo fritti. Truffe, inganni e altri veleni nel piatto, Mondadori,Milano 2005.
Irride la paura degli Ogm, si sofferma sulla spettacolarizzazione della gastronomia in tv, snobba il
biologico. Ma – che si sia d’accordo o no – il fatto che una penna così tagliente e famosa si prenda
la briga di commentare mode, tendenze, scandali alimentari e questioni culinarie è interessante.

F. Lawrence, Non c’è sull’etichetta, Einaudi, Torino 2005.


Sono le inchieste pubblicate dalla puntuta giornalista sul quotidiano inglese The Guardian: frodi
alimentari, retroscena e condizioni dei lavoratori. Pollo, insalate imbustate, pane e piatti pronti ne
escono davvero male.

M. Spurlock, Supersize me, Feltrinelli, Milano 2005.


È il giovane regista che ha pranzato solo in fast food per un mese. È ingrassato di 12 chili, i medici
gli imponevano di desistere (“il tuo fegato è come un paté”), le analisi del sangue sballate. Edizione
italiana con Dvd e libro Il grande tritacarne e un’intervista a José Bové e François Dufour.

G. Ballarini, Alimentazione e patologia alimentare darwiniana, Mattioli 1885, Parma 2005.


Il libro esplora il problema dell’integrazione tra l’evoluzione biologica dell’alimento e l’evoluzione
culturale del cibo attraverso le “rivoluzioni alimentari”, l’agricoltura, la mondializzazione delle
specie, l’industrializzazione del cibo, la mondializzazione del commercio, l’ingegneria genetica.

A. Schlumberger, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo e risparmiare denaro, Apogeo,
Milano 2005.
Il noto giornalista tedesco illustra con dati, cifre e percentuali lo stato dell’arte per la difesa
dell’ambiente, con concisi capitoli, tra i quali “meglio i sapori di casa”, “agricoltura biologica”,
“quanto costa una bistecca”, “stop alla pesca”, “le tutele del commercio equo-solidale”.

S. Apuzzo, S. Carnazzi, Bimbo bio, Stampa Alternativa, Roma-Viterbo 2005.


Un percorso di consigli e rimedi naturali che parte dalle cure per la mamma all’allattamento al seno,
fino ai dieci anni di vita, per circondare il piccolo di tutto l’affetto bio del mondo. Cibi, veleni e
contaminanti sono attentamente descritti.

F. Capra, Ecoalfabeto. L’orto dei bambini, “Millelire” Stampa Alternativa, Roma-Viterbo 2005.
Il grandissimo fisico e filosofo insegna ai bambini i grandi cicli della natura attraverso la
coltivazione di orti a scuola.

L. Silici (a cura di), Ogm. Le verità sconosciute di una strategia di conquista,Editori Riuniti,
Roma 2004.
Buon manuale su “cosa sono gli Ogm” e sui loro effetti sulla salute (e sull’ambiente). Niente
benefici, problemi all’agricoltura, preoccupazioni sulla sicurezza, geni pericolosi incorporati in
piante transgeniche alimentari, diserbanti tossici per gli Ogm, Dna transgenico assorbito
dall’intestino…

Centro nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2004.
Le pagelle alle corporation. Molte le multinazionali con attività alimentari. L’assunto è che una
società irrispettosa verso i lavoratori e l’ambiente difficilmente proporrà cibi integri, genuini e
rassicuranti.

J. M. Smith, L’inganno a tavola, Nuovi Mondi Media, Bologna 2004. Pregi del libro: chiarezza e
indignazione contro i metodi dell’industria biotech. Difetti: un “americacentrismo” disassato rispetto
alla nostra realtà: da noi i buoi non vengono siringati di ormoni transgenici, le bistecche non
sottoposte a radiazioni, gli Ogm non sono così diffusi.

P. Bianchi e S. Giannini, La repubblica delle marchette, Stampa Alternativa, Viterbo-Roma 2004.


Attualissimo reportage sulla devastante influenza del marketing e della pubblicità sul mondo dei
media. Non si scampa nemmeno nel settore alimentare.

C. Consiglio, V. Siani, Evoluzione e alimentazione, Bollati Boringhieri,Torino 2003.


Approfonditissima analisi scientifica, non priva di originale vivacità, dei consumi alimentari dei
primati antropomorfi. I nostri più antichi progenitori si nutrivano quasi esclusivamente di vegetali, e
l’onnivorismo è un’acquisizione relativamente recente.

G. Altamore, Qualcuno vuole darcela a bere, Fratelli Frilli, Genova 2003.


L’autore, caporedattore di Famiglia Cristiana, presenta dati e verità fattuali sul business delle
acque minerali, da cui si possono evincere chiare indicazioni su come scegliere la nostra acqua da
bere.

L. Rangoni, Il biologico, Xenia, Milano 2003.


Bio fai-da-te: un manuale per produrre yogurt, allevare galline, farsi il miele… una vita idilliaca
(che non tutti possono permettersi).

E. Schlosser, Fast food nation, Marco Tropea, Milano 2002.


Diario on the road sulle strade d’America per raccontare, come in un film, ciò che c’è dietro i fast
food e dentro il loro cibo. Un capitolo per ogni componente del menu. Il racconto di come
ingegnerizzano gli aromi artificiali è… saporito, quello sui macelli doloroso, quello sulla visita allo
stabilimento delle patate kafkiano.

Aa. Vv., Mc Nudo. 100 buone ragioni per stare alla larga da Mc Donald’s, “Millelire” Stampa
Alternativa, Roma-Viterbo 2002.
La maggiore catena di fast food messa sotto tiro da questo piccolo libro che ha individuato cento
buone ragioni per “starne alla larga”. È uno dei “Millelire” più venduti della storia della casa
editrice.

G. A. Donegani, G. Menaggia, Cosa metto nel carrello, Sperling & Kupfer,Milano 2002.
Una guida alla spesa in risposta alla sensazione d’insicurezza che, alla fine dell’emergenza “mucca
pazza”, si poteva provare al supermercato. Un manuale colmo (fin troppo) di riquadri, di
informazioni e di note tecniche.

S. Carnazzi, “La chimica nel piatto”, Quark, 11 gennaio 2002, pp. 127-135.
Enrico Moriconi, Le fabbriche degli animali, Cosmopolis, Torino 2001.Il più completo saggio sulle
condizioni di vita degli animali rinchiusi nei moderni allevamenti intensivi, mucche, maiali, polli,
galline ovaiole… L’autore ha al suo attivo presidenze di associazioni scientifiche e intensa attività
politica.

F. Travaglini, G. Capano, Perché essere (quasi) vegetariani, Sperling &Kupfer, Milano 2001.
Un libro fondamentale, che nella prima parte svolge ampie considerazioni sulle scelte alimentari e i
risvolti su salute e ambiente, nella seconda parte suggerisce decine di ricette. Titolo poco azzeccato
(sarebbe stato meglio “la dieta quadro”, cioè quella che prende in considerazione quattro lati,
salute, ambiente, risorse e forma fisica); contenuto e approccio illuminanti.

G. Fulghesu, Alimentazione naturale dallo svezzamento all’adolescenza,Tecniche Nuove, Milano


2001.
Psicologa e nutrizionista, autrice per gli stessi tipi di Svezzamento naturale (1997), l’autrice spiega
come il regime alimentare dell’infanzia influenza il metabolismo del bambino e dell’adulto che
diverrà anche a distanza di cinquant’anni.

Jean-Pierre Berlan, La guerra al vivente, Bollati Boringhieri, Torino 2001.


Un’altra voce si aggiunge al coro di no agli Ogm, ed è del direttore dell’Inra, Istituto francese della
ricerca agronomica. In evidenza mistificazioni, lacune sulla sicurezza, rischi per la salute... per
concludere con un appello quasi mistico: “fare la pace con il vivente”.

V. Shiva, Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001.


La metafora della mucca pazza che si sostituisce a quella sacra della cultura tradizionale indiana
introduce il tema della depredazione delle risorse alimentari globali e delle storture della
globalizzazione. Nelle emergenze alimentari e nell’ingegneria genetica si nascondono rischi
impensabili, da un nuovo apartheid al controllo totalitario dell’agricoltura.

G. Tamino, F. Pratesi, Ladri di geni, Editori Riuniti, Roma 2001.


Dalle prime manipolazioni genetiche ai brevetti sugli esseri viventi. Gianni Tamino,grande
microbiologo, è alfiere dell’antivivisezionismo, Fabrizia Pratesi è animatrice del comitato
scientifico Equivita. In copertina, Dario Fo con due piedi di maiale,che prestò la sua immagine per
una campagna di sensibilizzazione.

M. Mariani, Alimenti geneticamente modificati, Hoepli, Milano 2001.


Ordinata e diligente rassegna di ricerche scientifiche, opinioni, stato dell’arte.Sembra prevalere una
certa accondiscendenza. Interessante però la resocontazione delle diverse ricerche di cui una parte e
l’altra preferiscono tacere di volta in volta.Poco però lo spessore critico.

Mae Wan-Ho, Ingegneria genetica, DeriveApprodi, Roma 2001.


Una grande e accreditata scienziata britannica fornisce imparzialmente tutti gli strumenti per capire
come funziona l’ingegneria genetica.

Coordinamento Mobilitebio, Biobugie & Tecnoverità, Fratelli Frilli,Genova 2001.


Diciassette medici, genetisti, biologi contribuiscono a chiarire i rischi biotech, prefigurando inauditi
scenari per i decenni a venire. Si parla anche di biodiversità, di globalizzazione e di rapporto Nord-
Sud del mondo.

F. Perucca, G. Pouradier, Generazione mucca pazza, Fanucci, Roma 2001.


Dalla mucca 103 ai rapporti degli esperti, dalla paura della carne bovina alle speculazioni sulle
altre, dai test anti-Bse al crollo dei prezzi. Un saggio-inchiesta francese, con una sezione italiana a
cura di Luca Briaco.

A. Speciani, F. Speciani, Resistere all’inquinamento, Tecniche Nuove, Milano 2001.


Chiaro, lucido, essenziale. Si può reagire all’aggressione dell’inquinamento ambientale anche
attraverso il cibo. Ci sono anche “80 ricette e menu antismog”. Degli stessi autori poi, nella stessa
collana, anche un sequel nel 2003, Superare le intolleranze alimentari.

M. De Bac, Mucca Pazza, Avverbi, Roma 2001.


Deliziose cronache italiane di uno scandalo internazionale, condite con accuse,ritardi, rapporti,
incertezze, dibattiti. L’autrice racconta da anni per il Corriere della Sera i principali avvenimenti in
campo medico, dalla cura Di Bella ai trapianti impossibili, dalla clonazione alla fecondazione
assistita.

M. Correggia (a cura di), Addio alle carni, Lav, Roma 2001.


Polemico pamphlet, molto ben fatto, sui malanni del mangiar carne: motivi ecologici, economici,
salutistici ed etici convergono sulla scelta d’una dieta più verde. Cita a volte il Quattro sberle in
padella del sottoscritto, senza però inserirlo in bibliografia.

S. Carnazzi, S. Apuzzo, Quattro sberle in padella. Come difendersi dall’inquinamento alimentare,


Stampa Alternativa, Viterbo-Roma 2000.
Stuzzicante e fortunato dossier sull’inquinamento alimentare progettato ai tempi del primo scandalo
europeo su polli, uova e maiali alla diossina del 1998, e uscito in libreria proprio nell’occhio del
ciclone “mucca pazza”.

A. Bartolini, Cibo sicuro, con la collaborazione di N. Morabito, Fabbri,Milano 2000.


L’autrice, pasionaria dei diritti dei consumatori, snocciola tutte le informazioni essenziali su igiene,
etichette, additivi, leggi, controlli, con un capitolo finale tutto proiettato verso il futuro e l’Europa.
Interessante, completo, un po’ istituzionale.

G. Ballarini, Sicurezza alimentare e malacucina, Calderini Edagricole,Bologna 2000.


L’autore è un professore universitario grandemente esperto della materia alimentare e si vede: molti
i dati presentati con una certa saccenza. La tesi è che i timori su antibiotici, ormoni, antiparassitari,
mucca pazza e diossine possano comunque aiutarci a conoscere meglio la cultura europea del cibo.

R. Pinton, Leggere le etichette, Demetra, Verona 2000.


Un’agilissima guida illustrata a cura del fondatore di Greenplanet. Fa clamorosamente il tifo per
l’agricoltura biologica, e a ragion veduta.
Encyclopédie des Nuisance, Osservazioni sull’agricoltura geneticamente modificata e sulla
degradazione delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
Il gruppo parigino dell’“Enciclopedia delle nocività” animato da Jaime Semprun prosegue la sua
attività culturale con una critica radicale alle biotecnologie, rifiutandone i distinguo sulle loro
applicazioni. Esse riducono sempre e comunque la varietà dei fenomeni del mondo organico alla
realtà meccanica della codificazione dei geni, su cui l’uomo interviene senza conoscerne le
conseguenze.

J.-M. Pelt, L’orto di Frankenstein, Feltrinelli, Milano 2000.


Il presidente dell’Istituto europeo di ecologia lancia con questo libro un potentissimo e
circostanziato j’accuse contro i metodi dell’ingegneria genetica, “precisamente la trasgressione alle
leggi ordinarie della natura”.

J.-C. Jaillette, Il cibo impazzito, Feltrinelli, Milano 2000.


Il doping nei campi, mucca pazza e il potere delle lobby sono gli argomenti affrontati da quest’ampia
indagine giornalistica sugli scandali alimentari di dimensioni continentali.

M. Teitel, K. A. Wilson, Incroci pericolosi, Punto d’incontro, Bergamo 2000.


Una guida che cita in modo puntiglioso le ricerche in corso e i pericoli degli Ogm, a cui si
aggiungono interessanti capitoli su cosa c’è nel carrello della spesa e su ciò che si può fare
individualmente: “prima strategia, acquista ciò che è certificato come bio”.

C. Guerin-Marchand, C. Reinard, Cibi transgenici, Fabbri, Milano 2000.


Sembrerebbe un depliant pubblicitario (120 pagine a colori) a favore della transgenesi. In realtà
traspaiono inquietudini e controversie.

A. Apoteker, L’invasione del pesce-fragola, Editori Riuniti, Roma 2000.


Le molte manipolazioni genetiche vengono schematicamente descritte e criticate con capitoli chiari e
taglienti su rischi di contaminazioni, abusi, salute degli animali.

L. Guaia, Bestia, che carne, Cdl, Verona 2000.


Libro quasi autoprodotto da un fervente ambientalista, ha il merito di raccogliere fedelmente dati e
articoli di giornali sul tema delle sostanze tossiche nella carne.Gustoso.

G. Bangone, G. Milano, “Mucca pazza. C’è la prova: ora rischia l’uomo”, Panorama n. 7, 17
febbraio 2000, pp. 120-129.

N. Valerio, Manuale di terapie con gli alimenti, Mondadori, Milano 1999.


Ponderosa raccolta di ricerche applicate al cibo. L’autore è il pioniere della divulgazione scientifica
sull’argomento, e un infaticabile scrittore.

R. Marchesini, La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri, Torino 1999.


Scienziato e studioso di bioetica, l’autore analizza i diversi aspetti della manipolazione genetica
degli animali, l’animale-macchina, l’eugenetica, le chimere, la clonazione. La tesi? “Modificare gli
animali per cambiare l’uomo”.
P. Cavalieri, La questione animale, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
La maggiore studiosa italiana di etica e animali esprime le sue considerazioni sullo status morale
degli esseri viventi, argomento che evidentemente ha molti riflessi sul loro utilizzo in agricoltura e
allevamento. La proposta è una teoria allargata dei diritti umani.

Gruppo Verdi al Senato (a cura di), Sicurezza alimentare, controlli e controllori, Stampa
Alternativa - Nuovi Equilibri, Viterbo-Roma 1999.
Un’agenda-rubrica con informazioni e numeri di telefono utili per la difesa dei consumatori.

A. Beltramini, “Paura di mangiare?”, Focus n. 84, ottobre 1999, pp. 66-77.

J. Rosselet-Blanc, I mitici alimenti che fanno vivere cent’anni, Armenia, Milano 1996 (1979).
A dispetto del titolo questo libro è un pionieristico scrigno di informazioni sulla salubrità di svariati
alimenti: frutti, ortaggi, latticini, miele, cioccolato, tè. Memorabile il capitolo sul vino.

R. Marchesini, Oltre il muro, Muzzio, Venezia 1996.


Il fondatore della zooantropologia, uno dei più grandi conoscitori del rapporto tra uomini e animali,
si cimenta qui con l’emergenza alimentare-sanitaria più grave del decennio, prefigurando con anni
d’anticipo gli scenari di “mucca pazza”. Gli allevamenti intensivi sono alla base di molti mali.
Tuttora.

Saul e J. A. Miller, Cibo per la mente, Macroedizioni 1995.


Secondo i due psicologi, alimenti sani e naturali possono anche liberare da ansia e depressione. Ci
sono anche dieci principi per un’alimentazione intelligente, per ridare equilibrio alla dieta e alla
vita.

G. Schwab, La cucina del diavolo, Macroedizioni, 1995.


Attraverso un gioco narrativo si dipana un’interessante ricerca su additivi e sostanze tossiche nel
cibo.

M. Harris, Buono da mangiare, Einaudi, Torino 1992.


Saggio sull’antropologia del gusto. L’autore si interroga sulle nostre abitudini alimentari, decrittando
quelli che chiama “enigmi del gusto”: “buono da pensare o buono da mangiare?”, “santa bistecca
Usa”, “lattofili e lattofobi”…

D. Sheinkin, M. Schachter, R. Hutton, Ecologia alimentare, Red, Como 1991.


Altro libro pionieristico (la prima edizione data 1979) che, raccontando di intolleranze e allergie,
comincia a invocare “la ricerca di cibo sano”.

G. Ferrieri, “Allarme/La carne è pericolosa”, L’Europeo n. 16, 19 aprile 1991, pp. 6-18.

M. Columbro, con la collaborazione scientifica dell’ADRIA, Mangiamoci su, Mondadori, Milano


1991.
La capacità divulgativa dello show-man si è unita al rigore scientifico dei medici dell’Associazione
di ricerca sulle intolleranze. Ne è anche uscita una riedizione, con un altro editore.
N. Valerio, Il piatto verde, Mondadori, Milano 1986.
Spiegati con grande acume e autorevolezza i pro e i contro dell’alimentazione vegetariana. Con una
carica emotiva e un’autorevolezza disarmanti, spaziando dalla musica rock ai vantaggi per la salute,
dai rischi alimentari al gusto (con oltre 300 ricette in fondo). Sono passati oltre vent’anni. Non
sembra proprio.

M. Hannsen, J. Marsden, “E” come additivi, a cura di I. Molinari, R. Pertile, Frassinelli, Milano
1986.
Uno dei primi libri ad aver aperto uno squarcio su questa materia cifrata. Le informazioni oggi sono
un po’ datate, lo spirito indagatore no.

R. Dextreit, Le virtù della verdura e della frutta, Vallardi, Milano 1984.


Libro davvero pionieristico (la prima edizione francese, del 1964, si intitolava, significativamente,
La cure végetalé) scritto con competenza e vivace passione. Dopo un’introduzione teorica, di ogni
frutto si dà una descrizione nutrizionale minuziosa e interessante.

N. Valerio, L’alimentazione naturale, Mondatori, Milano 1984.


La bibbia dell’alimentazione naturale. Analizza ogni sfaccettatura della nostra alimentazione, dai
micronutrienti agli atteggiamenti culturali, dagli abbinamenti ai risvolti sensoriali.

C. Aubert, Un altro piatto, Mondadori, Milano 1981.


Comincia così, e siamo a quasi trent’anni fa: “Già da molto tempo un certo numero di persone – e se
li chiamassimo pionieri? – si sforza di affermare il carattere patogeno della nostra alimentazione di
industriali ‘civilizzati’”… Consigli pratici per un’alimentazione sana da un iniziatore dell’eubiotica.

C. Galimberti, E di veleni saziami… Inchiesta sui prodotti alimentari, CELUC Libri, Milano 1978.
Forse il primo libro sul tema. Denunce puntuali e didascalie mordaci a commento delle illustrazioni.
L’autore riproduce senza renitenze le etichette di conserve e formaggini “incriminati”. Un reperto.


SITOGRAFIA

www.lifegate.it
Un tesoro di oltre diecimila articoli online a formare il più vasto archivio italiano sui temi dell’eco-
cultura: ambiente ed energia, salute e medicina complementare, alimentazione naturale e agricoltura
biologica, lifestyle. L’impresa LifeGate, fondata da Marco Roveda, offre con questo portale nuovi
strumenti di crescita personale, coordinati con radio, newsletter e servizi di advisor per le aziende.

www.eurosalus.it
Centinaia di risposte su ogni quesito riguardante non solo allergie e intolleranze, ma anche regimi
alimentari, diete, alimentazione naturale, inquinamento, aspetti psicologici e culturali del cibo,
questioni di politica della salute. Facilmente consultabile, fondato e coordinato da Attilio Speciani,
si candida a divenire un’esauriente e interattiva enciclopedia online del benessere naturale.

www.greenplanet.net
È dal 1995 che la community del biologico su Internet tiene informati con una rassegna stampa
quotidiana su tutte le questioni più scottanti che riguardano cibo, salute e agricoltura. Un apparato
informativo completo e puntuale con la completezza di riferimenti legislativi e approfondimenti, e,
finché vi ha collaborato Roberto Pinton, con il coraggio di editoriali graffianti e polemici.

www.inran.it
Nel sito dell’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, ente pubblico di ricerca a
vocazione esclusiva su alimenti e nutrizione, si trova online la Banca Dati di Composizione degli
Alimenti. È analiticamente riportata la presenza di 67 sostanze nutrienti in ognuno di circa 800
alimenti, cereali, legumi, verdure, frutta, carni, alimenti di fast food, prodotti della pesca, latticini,
uova, oli e grassi e bevande. Utile strumento di consultazione.


RINGRAZIAMENTI

Per riordinare tutte le informazioni presenti in questo libro mi sono avvalso di capacità di rilettura,
sintesi, documentazione esercitate in anni di lavoro in LifeGate. Ho attinto a svariate fonti nonché a
testimonianze di medici, scienziati, esperti e altri giornalisti. Cito su tutti l’immunologo Attilio
Speciani, persona preziosissima, l’agguerrita Francesca Speciani di Eurosalus.it, la ginecologa e
medico omeopata esperta in endocrinologia Stefania Piloni, la nutrizionista e psicologa Giulia
Fulghesu, il dirigente medico psichiatra Stefano Cagno, Franco Berrino dell’Istituto dei Tumori di
Milano. È Marco Travaglio l’autore di due pezzi citati in questo libro, val la pena andarli a leggere
per intero: quello su “mucca pazza” su L’Espresso, l’altro sull’influenza aviaria in La scomparsa
dei fatti (Il Saggiatore, 2006). Su Report sono andati in onda i videoreportage di Sabrina Giannini,
“Cronistoria di ‘mucca pazza’”, 2002; di Bernardo Iovene, “Scusi, lei è vergine?” (marzo 2002) e
“In vino veritas” (settembre 2004) e di Michele Buono e Piero Riccardi, “Carne”, (maggio 2008).
Quando mi sono dovuto appoggiare a Claudio Vigolo, il Leonard Cohen di LifeGate Radio, e Paola
Magni, colonna portante della redazione LifeGate, ho sempre trovato un sostegno sicuro. Grazie a
Chiara Boracchi per aver alleggerito ogni tanto il mio fardello; a Simona Roveda per la sua
supervisione e a Simone Molteni, ingegnere di Impatto Zero®, che mi hanno dato il vantaggio di
potermi mettere alla prova con un’impostazione ideale vincente dell’ecosostenibilità con dieci anni
d’anticipo rispetto al resto del mondo. Slow Food in Italia e Soil Association in Inghilterra – la
prima, storica organizzazione del biologico in Europa – svolgono un’importantissima opera di
presidio culturale. Oltre alle loro fonti, per questo lavoro si sono rivelati preziosi i testi pubblicati
sul portale LifeGate da Massimo Ilari, Nicoletta Morabito e da Francesca Marotta. Un plauso a
Anna Satolli, capace di rincorrermi con costanza e professionalità, a Marco Moro, che ha impresso
una così energica sferzata all’impresa Edizioni Ambiente.
Una collana di volumi
rivolti al grande pubblico per un’informazione precisa,
chiara e accessibile sulle questioni ambientali
e sulle loro ricadute nella vita di tutti i giorni.

Alimentazione e salute, inquinamento, energie rinnovabili,


trasporti e case ecologiche, nucleare e OGM,
riscaldamento globale e mutamenti climatici:
sono solo alcuni degli argomenti che verranno trattati
dai tascabili di Edizioni Ambiente, l’editore di riferimento
in Italia sui temi della sostenibilità.


PROSSIME USCITE
05 Silvia Zamboni RIVOLUZIONE BICI
06 Gianni Mattioli e Massimo Scalia BALLE ATOMICHE
07 Tessa Gelisio e Marco Gisotti GUIDA AI GREEN JOBS
08 Stefano Caserini DIECI MITI SUL CLIMA

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