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MASTER

NEGATIVE
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AUTHOR:
GIUSEPPE
BELLI,
GIOACCHINO
TITTE:

... SONETTI
ROMANESCHI
PIA CE:

MILANO
DATE:
[1915]
Master Negative #

COLUMBIA UNIVERSITY LIBRARIES


PRESERVATION DEPARTMENT

BIBLIOGRAPHIC MICROFORM TARGET

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Belli, Ciuijoppo
Gioacchino, 1791-1863

prcrazxono di Auguato
Cactaldo o dizionarietto
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.330 p. ''STc;: C12153

At hoad of titlo:
Giusoppo Gioacchino
Bolli.
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Paterno. jigis,

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GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
(1791-1863)
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Sonetti Romaneschi

Poesie Italiane
Con prefazione di AUGUSTO CASTALDO
e

Dizionarietto Romanesco - Italiano

CASA EDITRICE SONZOGNO - MILANO


Via PMqutroIo* 14
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/ CMi.ruv\x)
GL'INCONTESTABILI DIRITTI DEL PUBBLICO
SULL'OPERA DEL BELLI.

Un curioso destino perseguita i sonetti romaneschi del


Belli, nati fra il popolo, ed a questo ostinatamente contesi !
Il poeta, durante tutta la vita, andò assiduamente rac-
cogliendo dalle labbra del popolo gli spunti, i motivi e le
frasi incisive e caratteristiche del suo poema, che poi
strane titubanze ed inesplicabili ed eoccssive paure gli
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA vietarono di mettere alla luce del sole.
I sonettij balzati fuori dal cervello fecondo del poeta,
pieni di vitalità, quasi ribellandosi all'iniqua condanna
e quasi gridando contro il crudele parricidio tentato, fu-
rono finalmente resi di pubblica ragione nel 1865-66 a cura
del figlio Ciro, al quale furono buoni consiglieri l'affetto
pel padre, l'orgoglio di cittadino e le vive istanze del po-
polo, desideroso di guardare in faccia il suo poeta.
Né l'aspettativa di Roma fu interamente delusa, perchè
circa ottocento di quei magnifici quadretti fiamminghi,
che il Tarnassi con bella proprietà defini « come altrettanti
disegni -del Pinelli » ridotti però a più compiuta finitezza
per mano di un valente pittore con la vigoria del colorito,
videro allora 'la luce. Ma una troppo taccagna e pre-
ventiva censura li aveva, per così dire, imbragati, moz-
zando e alterando qua e là espressioni e gesti prettamente
ed efficacemente plebei, non che allusioni più o meno mor-
daci pel governo imperante.
Venne poi, nel 1870, la parziale edizione del Barbèra di
Firenze, curata da Luigi Morandi, e nel 1877-78 compar-
vero nella Nuova Antologia gli stupend.i articoli di Do-
menico Gnoli, che illuminarono di cosi vivida luce la vita
e Fopera del poeta romanesco.
Ma^ esauritasi la prima edizione del Salviucci e rimasta
Stab. Grafico Matarelli Milano Via Passarella, sola in campo quella parziale dei duecento sonetti curati
- -
13-15.
Made in Itmly
5-23-2

S^s;.*^tì«^#«Sij^StoatótóSS«Ì!*l^
6 OLI INCONTESTABILI DIRITTI DEL PUBBLICO sull'opera del BELLI

dal Morandi, il contatto fra il Belli ed il popolo romano Ferino, si è reso cosi benemerito, della cultura pubblica e
fu di nuovo e per lunga pezza interrotto. dell'educazione intellettuale della gioventù.
Nel 1885, un coraggioso e benemerito editore ardì in- £ una paginetta di storia bibliografica e di retroscena
traprendere, fra la generaJe soddisfazione, la ristampa editoriale molto istruttiva e significativa.
degli ottocento sonetti del Belli, in otto volumi, ad una Il cav. Garroni, all'opera (lodevole ed utile del .quale
lira l'uno. io sono orgoglioso di aver collaborato per molti anni, an-
Ma che permettere il fecondo contatto fra l'opera bei-
!
nunziò nei suoi cataloghi la pubblicazione di un volume
liana ed il popolo! consentire a questo di speccniarsi in di Sonetti Romaneschi di G. G. Belli al prezzo di 80 cen-
quegli 9ttocento capolavori di arguzia, di brio, di verità; tesimi. TOIJ
consentirgli di commuoversi, di arrossire, di migliorarsi; Non l'avesse mai fatto! Gli piovvero addosso ditncle su
diffide, da parte degli eredi e da parte degli editori
del
concedergli un'ora di sano godimento estetico, in cui, sotto
poeta. Poiché le diffide sostenevano l'insostenibile, non fu-
l'influsso della poesia, il gusto si affina, l'orizzonte si di-
lata, e tutti gli spiriti subiscono la più benefica trasfor-
I rono prese in considerazione. ,. , o.. j 1 , • •

mazione l'anima grandit^ secondo l'efficace espressione


e Infatti esse pretendevano che l'edizione Salviucci del
francese! Ma che! permettere che tutto ciò si compiesse 1865-66, caduta oramai non solo nel secondo periodo, ma
pacìficamente ! addirittura nel pubblico dominio, non si riproducesse, per-
Apriti ciclo! chè il solo e vero Belli avrebbe dovuto rimanere nel letto
Quel destino, persecutore dei sonetti del Belli, pare li di Frocuste della edizione completa, curata dal senatore
abbia voluti condannare alla più ostinata e certo alla più Morandi; alila quale sarebbe conferito il potere di aprire
odiosa delle censure. un'era novella, rinverginando e ringiovanendo un opera
'

L'editore Ferino fu diffidato legalmente e minacciato di che nel 1912 aveva quarantasette anni sonati, ed ora ne ha
sequestro, e contro di lui si scaraventano ancora i fulmini cinquantasei, (1) e sarebbe così capace, novello Giosuè,
della scomunica editoriale, i quali vorrebbero essere salu- d'imporr© al tempo di fermarsi, anzi di camminare a ri-
tari, pur essendo miseramente sterili ed impotenti. troso, risospingendo avanti diritti oramai decaduti e che
Il Ferino, a malgrado di tutti gli spauracchi, compiè nessuna tromba risusciterà, dovunque chiami a giudizio.
la sua bella intrapresa, e nel settimo volume intitolato L'edizione dei Duecento sonetti, curata dallo stesso Mo-
Mentite ssi cche rohha, con una dignitosa protesta, difese randi, e caduta pur essa nel secondo periodo, veniva pa-
dinanzi al pubblico la legittimità della sua edizione. rimenti difjfìdata come non corretta e lesiva della perso- <(

Ma nella prefazione alla raccolta completa in sei vo- nalità artistica» del poeta; benché il Morandi medesimo
lumi, (1) Luigi Morandi continuò e continua a scomuni- (2) continuasse giustamente pubblicamente a compiacersi
care l'opera del Ferino; ed anche recentemente, in una let- di quel suo lavoro. ...
. j t> it
Inoltre il pubblicare parzialmente 1 sonetti del peni
i
tera preposta alla scelta di poco più di trecento sonetti
del Belli, (2) lamenta come un « dolore » gravissimo, quello veniva dalle summentovate diffide solennemente proibito,
procuratogli dal u famigerato editore Ferino >>. poiché l'opera del Belli è —
commesse nelV interesse del-
Francamente, con tutti riguardi dovuti all'ottimo se-
i l'arte e della scienza affermavano —
poema.
natore, non mi par bello questo perseguitare con l'epiteto Ma, quasi che a confutare l'inconsulta e strana pretesa
di famigerato », quasi come si parlasse di un bandito,
(( non fossero bastate le parole medesime del poeta, il quale
un uomo che, nonostante inevitabili e deplorevoli negli- volle fare una serie di « distinti quadretti », un « libro da —
genze, contribuì molto alla diffusione dei nostri scrittori. prendersi e lasciarsi », del quale, com'egli scriveva,
Gli stessi procedimenti, anzi aggravati dalla minaccia «ogni pagina è il principio ed ogni pagina il fine»; e
di più severe sanzioni, si tentarono contro l'editore Oreste quasi che non avesse nessun valore morale la pubblica-
Garroni, il quale, con intendimenti più illuminati del zione parziale degli ottocento sonetti compiuta non da un

(i) 7 Sonetti Romaneschi


di G. G. Belli pubblicati dal nipote Gia- (i) ed anche più, tenendo conto delle edizioni anteriori, siano pur
como a curar di !.. Morandi; Città di Castello.
1906; pag. CCXXXV. clandestine. . . , ,.^^ ,. j-
(2) Sonetti scelti di G. G. Belli a cura di L. Morandi; Città di Ca- (2) Cfr. Sonetti scelti, ecc. pag.
LXXXVI e Rivista d'Italia - 15 di-
stello, 1912; L. quattro. cembre 1911.

sull'opera del BELLI


sull'opera del belli 9
8 GLI INCONTESTABILI DIRITTI DEL PUBBLICO

famigerato editore qualunque, ma dal figlio amatissimo


— a disposizione indistintamente di tutti gli studiosi^ a;

del poeta, usciva ài quei giorni, —


a privar d'ogni serietà
norma dei regolamenti sulle biblioteche e sugli archivi,.
— nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, dove noi
l'ammonizione critico-giu ridi co-letteraria della diffida, la
li abbiamo studiati e collazionati.
scelta curata dal Morandi, la quale per numero di com-
Prima di venire a parlare brevemente della vita e delie-
ponimenti, manco a farlo apposta, era di gran lunga infe-
opere del Belli, è necessario che io faccia un'altra dichia^
riore alla nostra. E, prima che dalla scelta di cui si parla,
V unità del poema belliano era già stata sconciamente ed razione. ....
Nel ricostruire la « personalità artistica » del Belli, mi
...
immoralmente spezzata dalla pubbLicazione di quel famoso
sesto volume «per adulti » dell'edizione Lapi, nel quale il
sono guardato bene dal tener conto della Prefazione del
Morandi separatamente riunì e quasi concentrò i sonetti senatore Luigi Morandi, tranne che per la fissazione di
più salaci del Belli, che in un'edizione critica, seria e qualche data e cifra cronologica; e ciò per i seguenti
completa dovevano rimaner fusi organicamente col resto. Il motivi :
. ...
Tali iUegittime pressioni in forma legale, intese a tener P
Mentre quest'edizione, letterariamente e giuridica-
mente legittima, era contrastata da tante diffide e mi-
l'opera del Belli strettamente e inseparabilmente congiunta
ad interessi privati, in tanto rispettabili in quanto legit- nacce, sarebbe stata una ingenuità, con l'onore delle con-
timi e giusti, e non lesivi dell'interesse generale, preten- suete coscienziose e probe citazioni, offrire agl'interessati
il destro di affermare (giacché essi parevano più disposti
devano che, scisso dall'edizione del Morandi, il Belli non
potesse sussistere in nessun modo. ad affermare che a dimostrare) che per discorrer del Belli,
E via! Che cosa significano questi sequestri delie per- non avessimo potuto far a meno di renderci plagiari del
sonalità e delJe opere dei grandi scrittori? Morandi;
Dunque senza le cure del Morandi e senza il benepla- pur rendendo omaggio alle benemerenze che
2° perchè,

cito degli eredi, non si potrà né discorrere del Belli né il senatore Morandi ha com'editore e postillatore dei so-
accostarsi al suo poema monumentale? E qualunque edi- netti romaneschi del Belli, (benemerenze circoscritte tut-
zione dovrebb' essere necessariamente guasta, mutilata, scor- tavia dalla chiarezza degli autografi, che egli, nuovo An-
retta? gelo Mai, non ha scoperti, né decifrati in ardui palinsesti,
Innanzi a tanto superba pretesa, io mi sentii autorizzato ma che furono messi gentilmente dagli eredi a sua dispo-
di ripetere a quei signori la semplice risposta data da sizione, ed erano già cronologicamente e filologicamente
dal poeta stesso annotati) io non trovo nelle prefazioni
Diogene ad Alessandro: u Levamiti d'innanzi al sole/)} ;

Mi sentii autorizzato, in nome dell'arte schietta e possente del Morandi nessun lampo di genialità critica, nessun
calore, nessuna simpatia comunicativa pel suo soggetto.
del Belli, in nome della libertà di stampa e di critica, di
risponder loro col popolo romano che vuole il suo poeta EgLi lo seppellisce sotto una valanga d'interminabili dicerie
e non gl'intermediari: uE
levatevi... dai sonetti del storiche e preistoriche; e, prima di dedicargli meno di
Belli/ )» una ventina di smilze ed aride paginette, ne ha spese ben
Se le disposizioni della legge non fossero chiare e paci- duecento trentanove per tessere una lunga storia di Pa-
fiche, se non esistersse l'articolo 8 che non sa può purtroppo squino e delle Pasquinate (1). Non è affar mio tentare una
dissimulare, come la cassetta famosa dei manoscritti bel- critica a quelle duecentotrentanove pagine; qualche ap-
liani (1), esisterebbe sempre il fatto che gli autografi àe] punto mosse ad esse, se non erro, il Cesareo nel Giornale
Belli furono venduti allo stato e si trovano attualmente, storico della letteratura italiana (2) io riscontro in esse
;

il difetto gravissimo di sproporzione, e


penso che non sia
(i) A pag. CCL ed in nota del I completa dei
voi. della raccx)lta esteticamente tollerabile un così lungo e pindarico pream-
Sonetti Romaneschi e a pag. LXXX della prefazione Sonetti Scelti, il bolo ad una così breve e spiccia biografia; e che il valore
Morandi giustifica i motivi di quella dissimulazione, a Se nella vec-
chia Prefazione», egli scrive, —
«io dissimulai l'esistenza degli auto-
cui, nella recente scelta di sonetti, ha sostituito una
cinquan-
grrafi, fu perchè in realtà non me ne potei giovare, e perchè me ne (i) A pagine pregevoli,
aveva pregato lo stesso Ferretti, onde non cadessero nelle mani della tina di pag'ine concernenti la questione linguistica;
ma delle quaU si potrebbe ripetere con Orazio sed
: non erat hic (o
polizia pontificia tanto più che ci sorvegliava... anche la polizia ita-
:
popolare.
liana! ». [La quale veramente era in risibile errore, giacché il Mo- meglio ancora ìiis) locus, segnatamente in un'edizione
randi attendeva pacificamente a spigolare notizie e varianti belliane]. (2) Voi. 31 - pag. 401.
10 GLI INCONTESTABILI DIRITTI DEL PUBBLICO, ECC.

del poeta romanesco non venga probabilmente accresciuto


da cotaJi superfetazioni.
Un
appunto, così di passata, farò tuttavia a quella eru-
dita storia di Pasquino, essendo in parte evidente dal con-
testo di essa che il Morandi ignori affatto l'autore di una
delle più famose e indovinate Pasquinate; la quale fu
scritta nel 1798, per fustigare l'indegna ladreria delle
cedole, fu pubblicata nel Monitore di Uoma e fu opera
del celebre e battagliero Urbano Lampredi, il quale diri-
geva quel giornale, in cui scrisse all'istesso effetto le fa-
PREFAZIONE
mose Litanie di Pasquino^ e nella Notizia Storica, premessa
alla Bettinelliana adi Monti e nella Lettera a Raffaele Li-
i'
beratore, se ne disse autore: il che si trova confermato
in molti libri di comune consultazione, (come per es. TEn-
cielopedia del Boccardo, por omettere altre superflue ci- Giuseppe Gioacchino Belli, figlio di Gaudenzio e di Lui-
taaioni) i quali gliela attribuiscono concordemente. Il che gia Mazio, nacque in Roma il 7 settembre 1791 (1). In fami-
il Morandi ignorava o mostrava d'ignorare, scrivendo: glia era tradizionale la professione di computista, alla
<( sotto la data del 26 maggio 1798, trovo invece nel Diario quale anche il povero Gioacchino fiu destinato, giacché
«dell'abate Benedetto: Oggi è stata pubblicata questa la sua vita, come scriveva il Tarnassi (2), « non fu che
« satira: una continua lotta fra gli ameni studii, cui per natura
n Mar
f or io. Che tempo fa Pasquino? era inclinato, e le gravi amarezze, si delle ingrate occu-
Pasquino. Fa tempo da ladri. »
« pazioni che sole poterongli fornire per lungo tempo un
Né por luno storico di Pasquino mi pare ignoranza per- onorato lucro, e si delle domestiche sventure che di quelle
donabile e di poco momento. presero il luogo e gli funestarono gli agi di una miglio-
Né, in .questa edizione, ho creduto opportuno di ripro- rata condizione ».
durre le copiose note filologiche del Belli, parecchie delle Quanto fu triste e sconsolata l'esistenza di questo poeta,
quali affatto superflue e inopportune, secondo il giudizio la cui Musa ci appar tanto briosa e gioconda! Fanciullo,
del Morandi medesimo (1), bendiè egli rimproveiri ancora era già così serio che dava al fratello Carlo, minore a
al Perinq la soppressione delle medesime, più che mai giu- lui di un sol anno, i balocchi e, nel breve periodo in cui
;

stificata in un'edizione popolare. la sua casa paterna fu prosperosa e allietata da canti,


Chi vuol l'edizione completa, chi vuol l'edizione principe, suoni e spensierati conviti, Gioacchino si appartava per
consulti e studi quella del Morandi {guastata tuttavia e darsi in preda a malinconiche e foiTse presaghe medita-
disorganizzata da quel sesto irragionevole, antiestetico ed zioni.
indecente volume) ; la nostra non le attenta affatto ed « Annoiato da uno strepito cosi contrario al mio innato
in nessun modo il principato, e vuol essere ed è schietta^ amore per le cose tranquille », raccontò in una lettera au-
mente, convenientemente, largamente popolare. tobiografica del 1811 indirizzata a Filippo Ricoi, « me ne
Alle sterili e pedantesche note linguistiche del Belli, non sottraeva a mia posta, e scendeva, particolarmente nelle
interamente sacrificate, ma condensate dov'erano veramente i prime ore notturne, a sedermi tutto soletto sulla silenziosa
necessarie, abbiamo sostituito un piccolo dizionario, rica-
spiaggia del mare. Quivi in pace io nudriva le mie care
vato da esse, il quale riuscirà molto più utile e gradito
ai lettori. (i) Questa data, che il Morandi precisa, in una inutile ed inop-
portuna correzione al magnifico saggio di Domenico Gnoli sul Belli
A. Castaldo e i suoi scrìtti inediti comparso nella Nuova Antologia, (die. 1877, gen-
naio e febbraio 1878), non è evidentemente una sua scoperta, giacché
(i) Sonetti scelti - pag. XIX-XX. si trovava di già fin dal 1864 nell'Elogio del Tarnassi e si legge nel-
l'cpitaflSo del poeta.
(2) Elop^io storico di G. G. Belli. - Roma, Tip. óeìl* Osservatore Ra-
mano, 1S64.
12 PREFAZIONE PREFAZIONE 13

idee malinconiche; ed al fine delle mie meditazioni, spesso si videro abbandonati da tutti, meno che da una fedele
spesso, senza neppure saperne il motivo, mi ritrovava ed affezionata domestica.
umidi gli occhi di pianto ». A
tredici anni, entrò nelle scuole del Collegio Romano,
Egli aveva visto la sua casa rovinata, quando il generale destando l'invidia dei condiscepoli e facendo mostra di un
Valentini, suo zio paterno^ inviato a Roma da Carolina carattere indocile e turbolento, egli che fu poi tanto quie-
d'Austria, moglie di Ferdinando IV di Borbone, con ot- tista e sottomesso. Avendo avuto un ingiusto castigo mar
tantamila uomini a scacciare i Francesi, nel 1798, essendo miaJe, aJbbandonò la scuola, dove rimise piede solamente
stato fucilato, egli, bambino ancora, aveva dovuto seguir per le preghiere della madre e dopo aver avuto dal maestro
la madre nella fuga verso Napoli, derubati in viaggio di ampia soddisfazione.
ben diecimila soudi da un servo malvagio, e costretti a Nel1807, la signora Luigia, dopo cinque mesi di malat-
rifugiarsi nei « recessi di un convento di monache » per tia, morì.
salvarsi dal furore del popolo, il quale sospettava i Belli « Gli occhi suoi, già coperti del livido velo della morte,
traditori del Valentini; mentre a Roma, dove il padre, si rianimarono allora delle ultime scintille vitaii, e la
per non destar sospetti, era rimasto col piccolo Carlo, ve- vdirtù della religione seppe renderle per 'brevi momenti
nivano confiscati i loro beni. Dopo la caduta della repub- un vigore che ella aveva perduto fra i suoi travagli. Ri-
blica romana, Gaudenzio Belli ebbe un lucroso impiego volta quindi a noi, ed a me principalmente rivolgendo le
a 'Civitavecchia, e si abbandonò a festini e scialacqui sue estreme parole, ci ricordò i doveri di cristiano, di
d'ogni specie. In quel tempo, benché la famiglia per sei suddito e di cittadino^ compendiandoci brevemente le ri-
mesi dell'anno dimorasse a Roma, Gioacchino soffrì quasi compense ed i castighi che Iddio e la coscienza retribui-
continuamente di febbri malariche. scono alla virtù ed al vizio. Ci confidò di non troppo con-
Il padre gli si mostrava «everissimo e u sempre sollecito fidar© negli lU omini, ma sì tutto in noi stessi e ne Ilei opere
a mortificarlo nell'amor proprio, cioè nel suo lato il più nostre, e ci avvertì in ultimo qualunque affanno poter
sensitivo». In pena di essersi ritenuto un soldo trovato essere tollerabile ed anche dolce, quando si pensi che le
sullo scrittoio, lo punì, una volta, quando il fanciullo calamità come i piaceri dovendo sulla terra aver fine, in
aveva appena sette anni, tenendolo per tre giorni continui questa idea di un termine si richiude necessariamente la
rinchiuso in una camera oscura. consolazione dello sventurato, ed il tormento dell'uomo
Voleva avviarlo al commercio, e già il nostro Gioacchino felice ».
si preparava a veleggiar lietamente verso la Spagna, al-
I tre fanciulli furono accolti da uno zio paterno, da
lorché un nuovo progetto fece cambiar idea al signor Gau- parte della cui moglie dovettero esperimentare quelle tor-
denzio, con grandissimo corruccio del ragazzo; il quale ture ed umiliazioni morali, che il Belli descrisse patetica-
non potè frenare un triste sentimento di maligna soddi- mente al Ricci e delle quali trasse vendetta nel sonetto
sfazione, sentendo ch'era andata a rotta di collo la no- Er bon core de zia (1) :
vella impresa, che aveva mandato a monte i suoi sogni.
Se essi si fossero realizzati, P Italia avrebbe guadagnato Dunque voleiino voi ch'io ve sopporti^
un singolarissimo scrittore di viaggi, ma Roma, come ben Starno in tono e non famo la girella;
notò lo Gnoli, non avrebbe avuto il suo poeta popolare.
Nell'epidemia di Civitavecchia del 1803, il signor Gau-
denzio Belli fece prove di così straordinario altruismo,
Ce sèm' intesi? Arinyrazziam' Iddio.
che morì lasciando Gioacchino, Carlo, Flaminia in età di E soprattutto nun ze scordi poi^
appena due anni, e la moglie incinta. Che qui in sta casa sce commanno io,
Ah fu quello il primo momento in cui m'accorsi d'es-
<(

sere uomo, ed uomo predestinato a soffrire assai io fan- povero Gioacchino, per non esser di soverchio peao
II
ciullo appena di dodici anni », scrisse nella precitata au- allo zio, dovette abbandonare le scuole del Collegio Ro-
tobiografia. niano, ed entrare col fratello nella computigteria del prin-
La madre, dopo due mesi di delirio, si pose all'opera, cipe Rospdgliosi, poi in quella degli bpogli Ecol©àiaatici|
eostentando la famigliuola con l'ago. La creatura, che por-
tava in grembo, morì nascendo; ed c^i, nell'atroce miseria, Ci) DCXXV di questa faccoUa.
14 PREFAZIONE PREFAZIONE 15

poi nel Demanio, aiutato anche da qualche sussidio del di grammatica, di geografia, di aritmetica, adattandosi
futuro cardinale Anton Maria Odescalchi, che lo aveva anche all'umile ufficio di copista e trascrivenao, fra l'altro,
tenuto a battesimo. )
per la biblioteca della famiglia Albani, le opere inedite
In questo tempo, la sua vita fu piuttosto sbrigliata, de- di Bernardino Baldi, « imperocché non isde^nò egli », come
dita ai divertimenti, agli amorazzi ed al giuoco; ma il dice il Tarnassi, « qualunque onesta occasione di Ir.cro ».
fondo rimase incorrotto, ond'egli potè vantarsi che nella Il Belli, che già fin dal 1807 aveva incominciato a scriver
oscurità medesima delle sue « turpitudini » brillava un versi, ed aveva tradotto i Salmi, e composto La battaglia
raggio della prima onestà. celtica, il Baja^ette, il poemetto in otto canti Le Lamen-
Nel 1810 uscì dal Demanio con un piccolo assegno, e tazioni, e pubblicò, nel 1813, La pestilenza stata in Firenze
ricominciò per lui la miseria e la fame: Vanno di nostra salute I84S, poemetto in terza rima, de-
siderava farsi largo, ed entrò, col nome di Tirteo Lacede-
Nel mondo contro me congiura tutto monio, nell'Accademia Ellenica, essendo questa delle Ac-
A farmi divenir o ladro o matto. cademie, come nota lo Gnoli, « la sola via che fosse allora
aperta in Roma » (1) a chi volesse farsi conoscere.
Segno fatto son io di 'plebeo scherno, In un sonetto troppo vivace, il Belli minacciò di ba-
E ovunque meco porto e fame e scorno. stonate i Siuoi aA^veTsarì e questo fatto determinò lo scio-
;

glimento dell'Accademia; alla quale successe quasi subito,


rorto nel volto 7nio tracciati e pinti
nel 1813, la Tiherin<i, di cui il Belli fu uno dei fondatori
Uno ad un della fame i lineamenti.
ed in tranne una breve e gloriosissima parentesi, stette
cuii,
rinchiusa l'intiera sua vita.
Poco di poi entrò come segretario nella casa del prin- Allo spirito accademico, alla falsità pomposa di espri-
cipe Stanislao Poniatowski, dalla quale spontaneamente mersi, all'eccessiva pieghevolezza di schiena e all'adatta-
si allontanò nel 1813, per scrupoli non ben chiari della bilità e frivolezza e tediosa lungaggine, che soglion regnare
sua illibata coscienza, « evitando », secondo scrive il Tar- in cosiffatti ambienti, dobbiamo con lo Gnoli attribuire
nassi, « la tempesta che forse una sua più lunga dimora «tutto quel che c'è di angusto, d'insulso, di pedantesco
vi avrebbe fatto nascere e restando in pace con tutti, con in molti scritti di quel Belli, che un bel giorno uscito fuori
nessuno in manifesta rottura». di quel guscio e mescolatosi al popolo, seppe mandare
Nel 1811, ebbe il dolore di perdere l'amato fratello, e di sprazzi di luoe da rivelare la presenza del genio » (2).
separarsi dalla sorella Flaminia, la quale come orfana Il Belli, assiduo naturalmente alle tornate della sua
d'impiegato entrò nel Conservatorio di San Paolo primo accademia, non mancò di parteciparvi nelle più solenni
eremita, e mori monaca sacramentaria nel 1842. occasioni, come quando fu festeggiato, nel 1814, il ritorno
di Pio VII, od egli protestò in nome del «cattolico gregge»
Gioacchino andò in quel tempo ad abitare presso l'av-
contro le profanazioni del tempio e si lagnò « del ghermir
vocato Filippo Ricci, poi, per ragioni di economia e mercè
dell'aquila grifagna ».
l'intercessione del P. Lodovico Micara, che diventò in se-
guito cardinale, ottenne una stanza nel convento dei Cap- Come prima conseguenza della fama procacciatasi nella
puocini, dove imparò l'inglese e il francese, e si appro- Tiberina^ gli si offrì l'occasione d'un vantaggioso, se non
fondì nelle scienze fisiche e matematiche; giacché il grande ^
decorosissimo matrimonio.
poeta dialettale fu uomo di varia e non superficiale dot-
Pietà le pose la mia storia in core.
trina; fu minuzioso e diligente spogliatore di libri e di
Appresso alla pietà ve?ine amicizia,
giornali, di cui trascriveva lunghi brani, fu studiosissimo
della nostra letteratura, come mostrano le sue poesie ita- '/
E all'amicizia poi successe amore.
liane e le sue note; fu amante della musica e buon cono-
(i) D. Gnoli, TI poeta romanesco G. G. Belli e i suoi scritti inediti
scitore del violino, (Nuova Antologia, dicembre 1877-gennaio-febbraio 1878; articolo ti-
E questo un altro esempio salutare ai geni improvvisati, pubblicato dall'autore nel suo volume di Studi letterari, Bologna,
che chiedono, illusi ispirazione e forza all'inerzia.
! Zanichelli, 1883).
In quel tempo egli si diede a far di tutto, dando lezioni (2) D. Gnoli - Loc. cit.
td PREPAZIONB \
Prefazione
Maria Conti, di dieci anni più anziana del Belli, ricca 17
vedova di un conte Giulio Fichi, che le aveva fatto una
pessima compagnia, s'innamorò del Belli, il cui aspetto era
allora «molto attrattivo», —
secondo ci assicura il Tar-
nassi, — e abbellito dal fascino dello spirito e dell'in-
gegno. la circondava, .alla.figliuola^e "^^
Gioacchino, a dir vero, rifiutò sulle prime, non volendo persino al^a'rito*^ leT
vivere a carico della sposa ma questa tanto seppe dire e
;

fare che Jo persuase, ottenendogli inoltre dal segretario


di (Stato Consalvi, mercè l'intervento amichevole della
principessa di Piombino, la promossa di un impiego.
Nel 1816, le nozze si effettuarono segretamente, giacché
il padre e lo zio della Conti, pezzi grossi e circondati di
molte aderenze, non avrebbero dato il loro consenso ad un
simile matrimonio. Il 25 agosto 1816, Gioacchino ebbe l'im- mente in riposo per effetto di un nuovo re?o?amentn
piego di terzo commesso nell'ufficio di Deposito della Carta
Bollata e Registro con lo stipendio di dieci scudi. Quando
la Maria fu incinta, allora i due sposi impetrarono gi-
nocchioni la benedizione della madre, a cui tenne dietro,
non senza stento, il perdono paterno, che dischiuse loro le
B£B^ Tr^ piarSE™ i

porte del palazzo Poli, dove si recarono ad abitare in fa-


miglia.
Dopo dieci mesi di matrimonio, venne alla luce per bre-
vissimo tempo una bambina. figlia della sua marchesa Vincenza ' '''''' ^^
Morti i suoceri, l'amministrazione fu tenuta dalla mo-
glie. « Ogni maniera ricche suppellettili, stabili,
dovizie, I*

capitali, tutto avrebbe potuto essere )>, a disposizione del


Belli, — come scrive il Tarnassi, nipote di Luigi, amico
intimo di lui ; —
« ma egli si contentò di vivervi come un
fi.glio », incaricandosi solo di amministrare i beni di Terni
Ilsuo spinto, vivificato dall'aura
e sprofondandosi negli studi diletti. delle ìiìpp i;h»r=i:
^
andava soiogliendo
Per causa dell' ipocondriasi, che lo affliggeva con relativo dalle pastoie e eia
nesehi incominciavano a fluire
Ì^IhV'
corredo di disturbi viscerali, inappetenza, palpitazione e 11 dalla t,^ n»^ V ''"'^f-
intanto si esercitava a tradurre '" •

la ^^enrzade
//'"nWed^'l V.fl"
dtìl Voltaire
ed a scrivere versi italiani
P"'''^''<=^*° ^ F^"» due componimenti
1827 fu a Bologna, nelle Marche e a Milano, dove com
suìll' yWoL/ or
prò le poesie del Porta, ch'esercitarono su di lui grande e o^t!j^^^'
compose
^" ^^ discordie dell'Accademia
Filarmonica
salutare influenza. Questi viaggi gli offrivano il pretesto una canzone
di fare spesso una puntarella a Recanati, dove dimorava
la marchesa Vincenza Roberti, ch'egli aveva conosciuto a ÌnW?etlfa"p'at^r']l°°°
2
^^
petrarchesca contro )'ast?ó «
« -° san°no' el^!
Roma nel 1822, e della quale si era innamorato.
(i) I quali si trovano
La moglie si accorse di questa infedeltà ed il suo cuore mentovati nello Qfn/iJr. ^^n ^ ,.
pare che siano sfuggiti a G ^^"? Gnoh, mentre
i dovette soffrirne; pur ignorando essa come il suo Gioac- FumaJam ?n,!^i
sua Bibliografia diG G fìeW^^.yHv ^"1"^^^ ^^^ ^^ ^a accolti neUa
cihino inviasse alla sua fiamma costantemente ogni mattina
una poesia, senza dubbio men fredda dell'immancabile
Romani Illustri (Roma
da G. Zaccagniui '
isoi)
^ ^'
Vrnì
"^^^^
'"^ T
^^^ u^ ^^l' ^^ ^^"^ ^^^^ di
biografia del Belli scritta
(2) Canzone di G. G. Belli. Pesaro, Tip. Nobili, 1825.
a. Belu. Sonetti romaneschi.
\È 1?REFAZI0NÉ PREPAZioNE
id
Troppo lucida pruova Intanto, <iaJ '31 al '46, cioè durante tutto il pontificato
Qui et tro appar di faziosa setta, ^^' ^''"^^^*^ ^^"^ ^"^
Che d^ astio e di vendetta pro^igfosa!"
^"^ ^^^^ diSfett^e f^
Famelica si nutre, e pensier rei ^ in quel tempo trascorreva
Nel sen tumido cova .iiit/'^f
sierata fra -^T^
lusso
dei grandi, la garrula
il
agevole e soen-
pedanteria detu
Di strugger

Oh
•••••••• l'inimica, e sé con

patria/ oh dolce e sfortunato nome,


lei. antiquari e dei prelati ed il lieti,

Il Belli
e

aveva fondato in casa sua una


motCevole s'eli^

Che innamorar dovresti di lettura, con riunioni piccola società


^
settimanali, nelle Quali ?patÌ
Quanti spirti albergar Dio volle in terra,
Foche civiche chiome rcX;j;^T.\r'^'^^^^-^^^^ ti^enze^' della '}
.i

fe
De' tuoi lauri celesti coHe cfa^r^df;,-Ljr-?'^'^'°-''^^^ ^V^^ ^^^«« a contatto
^"^^ ''*Ì°*^^ ^^ spingeva a mesco-
Vedo in pace bramose e meno in guerra! la^si ira
larsi n^nni per'^ sorprenderne
fra il popolo, '

e coglierne i senti
Fer vanità si atterra impressioni; giacché egli aveva con-
L'umana razza, e per le altrui contese; SdUo' i/nr"''\^'
Ma mfnt l! ^'^ '^^^ fosse^alenato alla
del natio paese p^oeV^/a\&^
Carità vera, ahi quasi move a riso!
Eppur in lei si serra
^'-?articoletti di varietà e recensioni
nS^^l^ e riviste, dal comporre
naletti su gior-
Tanta soavità di paradiso! sato a scrivere in dialetto fin
versi italiani e^li era nas-
dal 1818
^ ^
E oziosa quistione s'egli avesse o no predecessori
Accenti troppo deboli e rettorici, dopo il Monti, il no- letto romanesco. Il Peresio col nel dia-
scolo, e le prime canzoni del Leopardi e quella del Man- Maggio liomanesco il ^Ir
meri col Meo Patacca, il Ciampoli con /W^^^^^^^^
zoni, mentre squillavano i versi del Rossetti e del Ber-
chet; troppo meschina cosa questa del Belli, perchè si pòssa
'rcLrrm "f^^^\^P--a anche forse^'tec^òntl^o^^
dar peso alla non meno sua rettorica lettera del 1836 ad
Amalia Bettini, in cui, commentando la propria canzone,
n«l&^
ncjiiuso del dialetto
^ BelJincioni precedettero
Belli; mentreil
Giraud lo adonerò
'^
1
contemporaneamente o qualche anno dopo ^^^P^-^^
scrive: «Dacché i primi studii delle storie e della ragion
politica de' popoli principiarono a svilupparmi un seniso
.La comicità inarrivabile dell'arte di
Carlo Porta aveva
già guadagnato la simpatia di quasi
nella parola di patria, il sommo pensiero cne abbia di poi tutta Ita?ia le sue
occupato continuamente il mio spirito, quello si fu delle ^'^ P^P^^^ì' ^^^^^ classicismo ave! del
cause dell'italiana decadenza, non che di quella specie di
vanotY'
vano già, e non inutilmente, r^^^^
^
fatto molta strada, quando
Belli concepì ^^anao liil
il suo grandioso disegno.
fato che questa gìk sì {potente e pur sempre nobilissima
terra mantiene vile e derisa » troppo meschina cosa è que- L'apparizione dei Frornessi Sjjosi, in cui son
;
narrati i
sta arcadica canzone, percliè si possa mai fondatamente con- latti di « genti meccaniche e di
piccolo affare », le quali
sentire col Morandi, il quale, contraddicendo allo Gnoli SI esprimono nel nativo dialetto
lombardo, dovette eser-
ed al fedel Tarnassi, vorrebbe gabellarci il Belli per pa- citare non poca influenza sulla mente
del Belli il quale ;

triotta. Povera Italia, se tutti i suoi patriottd fossero etati


cosi !

Nel 1831, mise il figlio nel Collegio Pio di Perugia^ re-


candosi ogni anno a visitarlo. In quel tempo all'inoirca, ^x. v.^^^ ...uc vctgxieggiato neii ampiezza
delle linee il suo
scriveva alla sua Vincenza ch'egli, mentre la vecchiezza stupendo disegno, il numero dei sonetti
va meraviglio-
si accostava, pensava di «fabbricarsi una felicità dome- samente crescendo. Nel '30 sono settantotto, '31
nel se ne
stica, una felicità tutta indipendente dalle vicende del
^ ^"^' ^^^ '32 altri duecento
mondo » ; e ringraziava la Provvidenza che gli aveva con- nf¥.T?i'''''' ''^*^7oo'^''ff^.''^
ottantadue, nel '33 altri duecentocinquantatre
l'anno ap- ;
cesso « un piccolo amico » che ricordevole forse un giorno presso trecentosessantasette nel '35
; trecentoquarantanove;
delle sue cure lo avrebbe contraccambiato di eguale af-
fetto. (i) GioTO. stor. della lett. ital., voi. 31.
PREFAZIONE 21
20 PREFAZIONE
quanto vorrebbe, è forse questo uno de' benefici della crea.,
nel '36 settantacinque; nel '37 novantaquattro. Da que- zione. Il popolo quindi, mancante di arte, manca di
st'anno si va sempre scemando, all'infuori di piccole pa- poesia,
be mai, cedendo all'impeto della rozza e potente sua fanta-
rentesi, sino al silenzio completo della musa. Infatti nel sia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi
'38 sono solamente venticinque i sonetti composti^ nel '39 d'imitare la illu-
^^^^-^.^^-^^^^^ il plebeo non è più lui, ma un fantoccio
scendiamo a tre, dal '40 al '42 ne abbiamo quattro in tutto; maJe
e goffamente ricoperto di vesti non attagliate
dal '43 al '47 lamusa ebbe un piccolo risveglio con una al suo dosso.
Poesia propria non ha, e in ciò errarono quanti il dir ro-
media di circa cinquanta sonetti per ciascun anno; e nel maneeco vollero sin qui presentare in \-ersi che tutta pale-
'49 abbiamo l'ultimo sonetto dialettale, il quale è di argo-
sano la lotta dell'arte con la natura e la -vittoria della
mento privato ed estraneo al poema, benché sia tutto im- natura sull'arte.
pregnato di quei motti, di quell'aura, di quel tono.
« Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del ro-
V ottobre 1831, in una lettera all'amico Francesco
5 mano escono tutto dì, senza ornamento, senza alterazione
Spada, parlava con entusiasmo della sua vasta concezione, veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti
e quasi contemporaneamente scriveva questa introduzione di
licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco
ai suoi sonetti usi egli
:
stesso; insomma, cavare una regola dal caso e una
« Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello gram-
matica dall'uso ecco il mio scopo. Io non vo' già presentare
che o^gi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di ori- nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari
ginalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il co- discorsi
svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la
stume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, rima deb-
bono uscire come per accidente dalraccozzamento, in
le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene ap-
parenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscom-
una impronta che assai per avventura si distingue da qua- poste giammai, non corrette nò modellate, nò acconciate
lunque altro carattere di popolo. Nò Roma è tale, che la con
modo^ differente da quello che ci manda il testimonio delle
plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una orecchie: attalchò i versi gettati con simigliante
città, cioè, di sempre solenne ricordanza. Oltre a ciò, mi artificio
non paiano quasi suscitare impressioni, ma risvegliare re-
sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità. Questo miniscenze E dove con tal corredo di colori nativi
disegno così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova giunga a dipingere la morale, la civile e religiosa vita
io
lavoro da confronto che lo abbia preceduto. del
nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un
«I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di ora- quadro di
genere, non al tutto spregevole da chi non guardi
toria, non di poetica, come ninna plebe n'ebbe mai. Tutto le cose
attraverso la lente del pregiudizio.
esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica
« Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e supersti-
perchè lasoiata libera nello sviluppo di qualità non fat- ziosa, apparirà
tizie. Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar
la materia e la forma: ma il popolo è que-
sto; e questo io ricopio, non per proporre un modello,
loro ciò che può vedersi delle fisonomie. Perchè tanto que- ma
^^® "^^ imagine fedele di cosa già esistente più.
ste diverse nel volgo di una città da quelle degl'individui ^uu^^^j
a;bDandonata
e,
senza miglioramento ».
di ordini superiori] Perchè non frenati i muscoli del volto Nel '37, recandosi a visitare il figlio in collegio, voleva
alla immobilità comandata dalla civile educazione, si la- condur seco anche la moglie, la
nciano alle contrazioni della passione che domina e del-
quale non potè seguirlo
a causa di luna forte oftalmia. Il Belli partì solo, intanto
l'affetto che stimola; e prendono quindi un diverso svi- la moglie improvvisamente si ammalò, ed il 30
luppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito giugno, men-
tr egli stava presso il figlio, fu avvisato
che quei corpi informa e determina. Così i volti divengono che la sua buona
Mariuccia era agli estremi. Tornò immediatamente
specchio dell'anima. Che se fra i cittadini, subordinati a Koma, dove giunse, quand'ella era già morta da due giornia
positive discipline, non risulta una completa uniformità Da quel momento il Belli non fu più lui. Divenne misan-
di fisionomie, ciò dipende da differenze essenzialmente tropo^ burbero e intrattabile; irriconoscibile affatto
OtTganiche e fondamentali, e dal non aver mai la natura ai suoi
vecchi amici, che pure lo avevano sentito motteggiare
formato due oggetti di matematica identità. Vero però pia-
cevolmente nelle riunioni, contraffacendo il gesto e la
sempre mi par rimanere che la educazione, che accompagna voce
altrui a guisa dei caratteristi, il che riusciva
la parte ceremonialc dell'incivilimento, fa ogni sforzo per tanto più
divertente e provocava tanto più l'ilarità
ridurre gli uomini alla uniformità: e se non vi riesce generale, in

PREFAZIONE PREFAZIONE
22 PREFAZIONE PRKFAZIONE 23

quanto che l'apparente serietà del suo aspetto faceva con piego di collaboratore nella segreteria della Direzione del
ciò uno strano contrasto. Debito pubblico e poi nel '42 quello di Capo della Corri-
11 Tarnatssi che si «recò a visitarlo in una malattia, gli spondenza con lo sitipendio di quaranta scudi ; il che aAito-
espresse la speranza di vederlo presto guarito ; al che il nzzò la diceria ch'egli si fosse lasciato comprare ed imba-
Belli replicò che « la speranza era una voce ignota al suo vagliare. E così si stampò di lui « Il Belli, Dio lo ri-
:

dizionario». Un'altra volta, il medesimo Tarnassi si ebbe posi, ^iace disteso nella tomba d'un ufficio papale... Il
un'ancor più sgarbata risposta. Accomiatandosi, il visi- Sacro Collegio gli gettò nella fauci l'osso di (un impiego
tatore gli raccomandò affettuosamente di aversi cura; ed il lucroso, e il poeta uccise con un'indigestione la musa! ».
Belli freddamente « La ringrazio, non vi aveva pen-
: Nell'ottobre del 1841, finalmente il suo Ciro uscì di col-
sato ». legio, ed egli a prodigargli mille cure, ad insegnargli il
L'unico scopo della sua vita era il suo Ciro, e si può francese ed a piangere perfino, parendogli di non essere
affermare col veridico Tarnassi che « la sua vita domestica abbastanza corrisposto nell'affetto; e nel '46, quando l'ebbe
non fu d'or innanzi se non un continuo atto di amore pa- infermo per cinque mesi, lo assistette con aianegazione più
terno ». che materna.
Per rimediare ai debiti che gravavano sul patrimonio, Nel '45 fu messo in pensione con la giubilazione in ra-
lasciò il palazzo di via Poli, licenziò tutt'i servi, usando gione di trentasette anni di servizio.
uno speciale riguardo alla donna che gli aveva allevato il Nel '46, scese in istrada a veder Pio IX recarsi in Vati-
figlio, e si ritirò in via Monto della Farina 11, presso alcuni cano, partecipò anch'egli agli entusiasmi suscitati dal
parenti. nuovo pontificato, ed il suo Ciro fu dei primi a vestire al-
Infierendo in Roma il colera, e temendo egli di morire, l'italiana, ma il poeta non (vedeva di buon occhio quella me-
chiuse i sonetti in una cassetta, che consegnò all'amico scolanza d-i voci, al suo orecchio troppo delicato, discordi
Biagini, ordinandogli di bruciarli. e dovevano destargli un certo sgomento le note della Mar-
Nel marzo del '30, egli col miraggio di acquistar ade- sigliese romana^ che venivano siu formidabili dalla via tra
renze, che potessero giovar in avvenire al suo Ciro, era lo sfilare delle bandiere e gli applausi della folla eccitata :
rientrato nella Tiberina.
Pel suo Ciro lavorava di propria mano un mappamondo, Scuoti ^ o Roma^ la polvere indegna.
per la educazione di lui componeva i sonetti intitolati La
Proverbiale^ perchè si chiudevano con un proverbio; e per Gli uomini calmi e riflessivi erano grandemente allar-
lui implorò, nel 1839, un impiego dal cardinal Lambru- mati di quegli entusiasmi forieri d'imminente tempesta.
schini, segretario di Stato: Natale Del Grande fu sentito dire « che le cose, con simili
apparecchi, non potcA^ano volgere a buon fine ». Ed il
Deh! tu inchina ad un nom puro e innocente^
Belli, facendosi eco di qiueste previsioni, ammoniva che il
Porporato signor^ gli occhi e la inano^
vicario di Gesù ricardasse le parme e 'r crocifisso.
Che pur di tua bontà degno si seri te.
Nel '48 pianse per l'uccisione di Pellegrino Rossi; nel
'49 fu spaventato dagli eccessi della rivoluzione, nella
Vive ei negletto^ e sperò sempre invano
Benché servir quale vide compendiato « quanto di fellonesco, di barbaro
col cuore e colla inente
e di abbietto abbia saputo mai osare la depravata coscienza
La sua patria potrebbe e il suo sovrano;
dell'uomo ». Durante l'assedio, chiuse di nuovo i suoi so-
netti con Tordine di bruciarli e con questa dichiarazione:
e nel diresse un'istanza al Papa, assicurandolo ohe
'40
« Io nego di più riconoscere lavori da me fatti per solo
(( non orgoglioso d'ingegno, ma forte per senso de' suoi capriccio ed in tempi di mente sregolata, i quali s'oppon-
doveri, per devozione alla Chiesa, e per fedeltà al saio Go-
verno, risponderebbe il supplicante con leal gratitudine
gono agl'intimi e veraci sentimenti dell'animo mio ».
alla bontà con cui la S. V. soccorresse a' di lui bisogni
Per sottrarre il figlio dalla mobilitazione della Guardia
Civica, affrettò le nozze di lui con Cristina Ferretti.
in prò di un figliuolo giovanetto, ch'egli educa all'onore,
alle scienze e alle cristiane virtù ».
Quando Pio IX rientrò in Roma, egli come ultimo grido
di protesta contro i gesuiti rossi, cioè contro i repubblicani,
Mercè l'intercessione di monsignor Tizzani, ottenne l'im-
24 PREFAZIONE »REFAZIONE 25

Bcagliò un violento ed insulso sonetto contro Giuseppe maiio (1856); Poesie inedite in quattro volumi (1865-66).
Mazzini. Inoltre ci restano di lui duemila centocinquanta sonetti
Nello stesso anno, fu nominato presidente della Tiberina, romaneschi, che corsero lungamente manoscritti.
e nel '52 compose dodici capitoli o epistole, e dieci sermoni Questi sonetti, che al Belli fluivano quasi spontanea-
m terza rima contro la civiltà moderna, dedicandoli ai re- mente e talvolta a decine in un sol giorno, pei quali egli
dattori della Civiltà Cattolica; ma il governo ebbe la pru- raccoglieva appunti, ascoltando gli sconclusionati eppur
denza di vietarne la stampa. vivi discorsi della plebe, e che poi ricopiava, con varia e
Tradusse gl'inni del Breviario Romano, fu censore tea- non costante ortografia, in bel carattere firmandosi Peppe
trale, cassiere della Conferenza di S. Vincenzo di Paola, er tosto, gli procurarono ben presto gran fama. Uno degli
visitando le case dei poveri e dei malati e recando loro effetti della quale fu che, per un equivoco di omonimia,
oonforto e soccorsi. Ma nel '59 la sua attività si spense gli venivano attribuite le opere di un tal Andrea Belli:
definitivanaente da un lato le infermità e gli acciacchi,
: cosa che Gioacchino non lasciò passar liscia, lagnandosene
daJ,l aitro aJ dolore per la morte della nuora in verso ed in prosa.
e il terrore ^
della guerra italiana lo gettarono in un completo abbat- Nelle ottave Uuoìu di consiglio (1), che portano la data
timento. del 27 dicembre 1851, parla di un taJe che lo chiamò dottore,
1 T/^2.°®-''^^^
apparizioni nel caffè del Buco a via Monte scambiandolo con l'autore del Sai cibario; al che egli pro-
della Farina, se ne stava sempre a letto o sulla poltrona a testò, replicando:
recitar novene e rosarii.
L'uomo, che aveva studiato e ritratto maestrevolmente la Sono un gregario
plebe, ne aveva contratto le paure, le superstizioni, Flagellatore degli umani
intrichi,
J inerzia. E molto ho scrittoe su molte materie
Il 21 dicembre 1863,dopo due ore di a,gonia, morì. Sulla Sollazzevoli in parte e in parte serie.
sua tomba fu incisa questa epigrafe dello Spada: Sommi un arcade insomma e un tiberino
^}c. situs, est. - losephus Ioachim. Belli - Iio?nanus - Senza pur ombra di T}rosopopea,
qui.
ICeligione, monbus. ingenio exeynplar. integer. acer. - Sommi
car- infine un Giuseppe-Gioacchino
mimbus. omnigenis - delectando. pariterque. monendo - Assai diverso dal dottore Andrea.
late, enitmt - Natus. die. VII. sept. A.
decessit. XXI. Decemb. - M. DGCCLXIII.
MDCGXCI. Vita,
E questa diversità volle delineare in una spiritosa e mor-
Del Belli, oltre gli scritti citati già nel corso di questa dace rettifica: a Miei signori e concittadini, se non
biografia e molti altri che giacciono inediti nella è un
Biblio- giorno è 1 altro, io vado ricevendo complimenti e
teca Vittorio Emanuele di Roma e che dovranno congra-
veder tulazioni per colpa di certi eruditi e spiritosi
presto la luce in un'edizione completa, critica ed articoletti
anche pos- che di tempo in tempo si trovano stampati
eibilmente popolare, ed oltre parecchi articoli e presso la se-
articoletti zione degli annunzi giudiziari nel nostro
usciti sullo Spigolatore snìV Ontologia, sul Diario o fra le
Giornale scien- ^otizie del giorno, sotto il titolo di Case abitate
tificx) di Perugia, ^mìV Eptacordo, ci
restano: La in Roma
pestilenza aat grandi uomini. E se io dissi per colpa,
stata in I trenze nel ISJ^S, poemetto
(1813); / finti comme-
non crediate
cne la sia una espressione temeraria o usata
atantt fa^rsa (1815); A7nore m/ermo, novella alla cieca:
(1822); In Wignori no, e proprio la parola che ci voleva, è
morte di Rom Bathurst, elegia (1824); La Canzone addirittura
per le la pietra dell anello perchè il dispensare
discordie della Filarmonica (1825); A messer ; a un (Uomo elogi
Francesco dovuti ad un altro non può chiamarsi buona giustizia.
A^acTa epistola in terza rima (1826); Il ciarlatano,
<Aca>- simile gloria io mi sono per verità sempre schermito;
Da
ìata, (1828) Alla tomba di Teresa Lepri (1833); Ghirlanda
;
vedendo alfine che la faccenda va in lungo, e chi sa quali
ma
poettcattahafm (18?.9) ; Versi (1839); Elogio del sac.
Fr. zizzanie potrebbe un giorno seminare fra i biografi
Bustn letto ali Accademia Tiberina il 25 genn 1841 Versi• de' se-
coli futuri nii credo in coscienza obbligato
inedttt (1843); L'età deir oro versi (I8òl) Ad
unanza'tenuta ad una pubblica
;
dagh Arcadi nella Sala del Serbatoio il 23 marzo 185A e solenne dichiarazione, affinchè la cosa non prenda vizio,
in
lode del defiinto cav. Carlo Finelli il
; volgarizzamento de- (i) Poesie inedite. Roma, Salviucci,i865; voi.
gd Inni ecclesiastici secondo lordine del I, p. 154.
Breviario Ro-
}^'-^
26 PREFAZIONE
PREFAZIONE 27
e fra l'autore di quegli articoletti e me si ristabilisca al parsa, tutto un popolo non interamente
netto Vunicuique suum. Tutto l'imbroglio è nato fra noi scomparso coi suoi
1 difetti e con le sue depravazioni
da error di persona, per quel benedetto nome di Belli parla e gesticola e si agita.
« Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra'
che portiamo entrambi. Ma non per questo noi siamo unum dini, dal ceto medio in ^iù, mi ha
suoi cntta-
et ideìu, che anzi neppure apparteniamo ad una stessa fa- somministrato episodi
pel mio dramma. Così, accozzando insieme le varie
miglia. L'autore degli articoletti fa razza a parte. Forse dell intiero popolo, e facendo dire
classi
discendiamo ah antiquo da un ceppo solo, ma oggi, a buon a ciascun popolano
quanto sa,quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato
conto, passa da lui a me tanta differenza, quanto un giorno
Il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo,
dai Bianchi ai Neri, dai Lamberta^zi ai Geremei. Eppoi pres-
so li quale spiccano le più strane contraddizioni
e^li è cavaliere e dottor medico^hirurgo, ed io un omic- ».
ciuol nudo e crudo, senza addosso ne privilegio di alloro
ne fregio di nastro: egli sa di antiquaria... egli conosce I Augusto Castaldo.
le case di tutti i morti, ed io non so nemmeno quai vivi mi
abitino incontro ». (1).
Benché il poeta protestasse nell'introduzione ch'egli non
s'era voluto nascondere « perfidamente dietro la maschera
del popolano » per prestargli le proprie massime ed i pro-
pri principi, i liberali se lo contesero e lo portarono in
trionfo. Del che il timorato Belli fu sgomento e addolorato.
Egli era ligio al suo governo, aveva respinto le tante of-
ferte fattegli per la pubblicazione dei sonetti, e, benché
malvolentieri, giunse a rifiutarne quasi la gloria (2).
Egli era artista, ecco tutto; la debolezza medesima del
suo carattere « si trasformava » come notò acoitamente
il Mazzoni, (3) « in un aiuto di primo ordine alle sue
facoltà artis«tiche, perchè lo rendeva più malleabile alile
impressioni ».
Nell'opera sua, condotta con metodo da perfetto verista^
e che è una vera enciclopedia romanesca avvivata dal genio
comico e drammatico del poeta, « all'impeto prevale l'eu-
ritmia», come notò Alfredo Ba<?celli (4), e non convien
«cercarvi impeti gagliardi di sentimento; ma potenti rive-
lazioni di anime, verità ad evidenze insuperabili di rappre-
sentazione, vivacità, arguzia, satira, buon scuso, sano giu-
dizio, rilievo e perfezione di forma, fusione d'armonia
nel compimento e varietà infinita di particolari ».
Che capolavoro! che vita intensa e molteplice! qual tea-
tro si apre davanti al lettore! Tutta la vc-ccnia Roma scom-

(i) La Scuola Romana, anno III, n. 5: Uno scritto inedito di


G. G. Belli.
(2) Cfr. il mio articolo « L'arte del Belli fu oggettiva » nel Giornale
d Italia del 4 maggio 1913 e la mia prefazione agli Inni Ecclesiastici
del Breviario Romano tradotti dal Belli. - Roma, Garroni, 1913.
(3) G. Mazzoni, L'ottocento - cap. VII.
(4) A. Baccelli, G. G. Belli e la vita romana, in La vita italiana nel
Risorgimento, Firenze, R. Bemporad e figlio.

\
SONETTI ROMANESCHI

1. - AR DOTTOR CAFONE. - (1830)


(FABRIZIO d'ambrosio) (1)

ò'or cazzaccio cor botto ^ ariveritOy


Ve pozzino ammazza li vormijoni,
Perchè annate scocciano li e...
A chi ve spassa er zonno e Vappitito?
Quanno avevio in quer cencio de vestito
Diesci àsole a ruzza co' tre bottoni^
Ve strofinavio a tutti li portoni:
E mo, buttate giù Varco de Tito!
Ma er popolo Romano nun ze bolla,
E quanno semo a di, sor panzanella,
Se ne fr... de voi co' la scipolla.
E a Roma, sor grugnaccio de guainella^
Ve n'appiccicheranno senza colla
Sette sacchi, du' scorzi e 'na sciuscella.

(i) Il Dottore Fabrizio d'Ambrosio, napolitano


esiliato, stampò .un
hbercolettaccio, in cui, esaminando le donne di Roma, vomitava
mDle
ingiurie contro i Romani. Quest'opera poi, meno le ingiurie
di pro-
prio conio, era un perfetto plagio dell'opera di Cabanis
sopra i rao-
porti fra il morale e il fisico dell'uomo.

I )

2. - AR DOTTORE MEDEMO. - (1830)

Ma voi chi sete co' sto fumé in testa


Che mettete catana ar inonno sano?
Sete er Re de Sterlicche, er gran Zordano,
L'asso de coppe, er capitan Tempesta?/...
Chi sete voi, che fate tanta pesta
Co' quer zeppaccio de pennaccia in mano?
Chi sete? er maniscarco, er ciarlatano...
Se pò sapello, buggiaravve a festa?
30 GIUSEPPE GIOACOHINO BELLI
fiONÉTO ROMANESCHI
31
Vedennove specchiavve a l'urinale^
Le gente bone, pe' non fa baruffa, 5. - CONTRO ER BARBIERETTO
Ve chiameno er dottore, tal e quale: DE LI OIPPONARI. - (1830)
Ma mo ve lo dich'io^ sor cosa-buffa,
Chi (nun ve l'avete a male):
sete voi Quer zor chiccliera lì cor piommacciolo
Trescento libbre de carnaccia auffa.
Va strommettanno pe' Campo de Fiore
Che l àsole che tiengo ar giustacore
Titta er sartore non l'ha 'uperte a solo.
Je pija 'na saetta a farajolo,
3. - ER GUITTO IN NER CARNOVALE. - (1830) Je vienghino tre cancheri in ner core!
L averà fatte Itti cor su' rasore.
non piovi, e die la n€ve
CJie serve che Facciaccia de ciovetta in sur mazzolo!
... 'Già san Mucchione! ancora
Nun vienghi a infarina più le campagne? M iiun è nato
Tanto ^gnisempre a casa mia se piagne, Chi me pozzi fa a mene er muso brutto
Tanto se sta a stecchetta e nun ze beve. benza risico d'essece ammazzato.
Er zor paino, er zor abbate, er greve. Ma taìito ha da fl?iì che sto frabutto,
òto fijaccio de cane arinegato
In sii giorni che qui sfodera e sf ragne: o ha da cava la sete cor presciutto,
Antro ptddìo che a ste saccocce cagne
Nun ce n'è né da dà né da risceve!
Ma si arrivo a leva lo stelocanna. 6. - ER PIJAMENTO D'ARGERI. - (1830)
Madonna! le pellicce hanno da esse Quante sfrisielle a tajo e scappellotti!!
Da misurasse co' la mezza canna! Quante chicchere a coppia e sventoloni!
Allora vedi da ste gente fesse, Quant acciacco de chiappe e de e /
Co' tutta la su' boria die li scanna. Qimnt'inflrze de schiaffi e de cazzotti)'
Le scappellate pe' vieni in calesse! Poveri Turchi, come so' aridotti
to' queir arifilate de gropponi!
Beato chi pò ave tra li carzoni
Un fiasco d'ojo e un bon cavai che trotti!
4. - CONTRO LI GIACOBBINI. - (1830) Nun c'è da dì, pe' sant'Antonio abbate.
Lttrancesi so' gente cfie, madonna!^
Nun
pijà gatti a pela, Giuanni;
te
òo boni pe' l'inverno e pe' ristate.
£* wo metteno in cima
Chi impiccia la matassa, se la sbroji a 'na colonna
Staitene a casa co' li tu' malanni, Er Beo d' Argèri, che va a fasse frate,
Che er monno tanto va, voji o non voji: O vie a venne le pizze a la Ritonna.

Io nun vorria sta un e... in de li panni


De sti sfrabbica Rome e Campidoji; - PE' LA MADONNA DE L'ASSUNTA. - (1830)
Che er me t tese a cozza contro li banni FESTA E COMPRI ANNO DE Mi' MOJE.
E un mare-magna tutto pien de scoji. Moje mia cara, a sto paese cane
Sai quanto è mejo magna pane e sputo^ Nun ze trova n^mmanco a fa a sassate;
Che spone a repenta jo er gargarozzo E quanno hai erompo un móecco de patate,
Pe' fa strozzate de baron futtuto? ia% passo ar vino e quer eh' è peggio ar pane.
Tu lassa annà a l'ingiù l'acqua in ner pozzo; Io pista er pepe, sono le campane,
E hai da dì che Iddio t^ha ben vorzuto Rubbo li gatti, tajo l'ogna a un frate.
Com'è qualmente t' arimedia er tozzo. i
Metto l editti pe' le cantonate,
Cojo li stracci e agliuto le ruffiane.
32 (GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI fiONFrri ROMANESCHI 33

Fmbè lo sai ch'edè che ciariscevo/ 10. - ER GIOCO DER MARRONCINO -


Ammalappena pe^ pagacce er letto; (1). (1830)
Anzi, a le du* a le tre, spallo e ciarlevo. E CE GIÙCHENO
Dunque che tlio da dà, pózzi èsse santa? ROSOIO, NINO, VA-A-MÈTE, ER PAINO E ER
GIACCHEITO.
Senza quadrini gnisun chirichetto
Bisce Dograzzia e gnisun ceco canta. R. Aò, tratanto die s'appara er prete,
Volemo dà d>u' botte a marroncino'/
V. II. Ciarlevo: tocco ibus&e. Q. A paga.
N. A gode.
8. - ER GIOCO DER LOTTO. - S* _. Come se' attacchino/
(1830) N. Tirate er fiato a voi.
M^è parzo alVarha de vede in inzogno^ §• p, . .
Che dichi? hai sete?
,
K. Lh zitti, buggiaravve a quanti sete/
Cor boccino in ner collo appiccicato^ Su, alò, famo la conta : pe' da Nino.
Quello che glieri a Fonte hanno acconciato '
~ ^'*^» ^"^' ^^^" ^^^^« ^^ Paino.
Co no spicchio d'ajetto in zur cotogno. 'iJ Y^tS'^^'
^'^^^^ 'P^' viengh'io, po' tu e Va'-a-mète.
Me diceva: uTiè, Beppe, si hai bisogno ^^
T>
Jt*.
V boccio
Ar a me. De qui. Senza giuchetti,
(E trattanio quer bravo giustizziato N. Senza struccliietti.
Me buttava du' nòcchie in zur costato):
^ ^*^o pe' leva.
((So' poche, Fcppe mio, me ne vergogno
5" ,7 , ,
». U. ivo' pe' strucchià...
lo dunque ciò pijato oggi addrìttura
-^^ » ^^> ^^^^ ^^ metti?
Trentanove iìnpiccato o cquajottina, X* cr
<jr. San guerctno. \
Du-a der conto, e novanta la. pavura.
Va' ar zegno.
E co la cosa che ìienimanco un zero X»
E
nun sta qua?
Ce sta pe ?iocchie in gnisuna descina. S* .

V. Accidentacci, a tutti li giacchetti/


Ilo arimediato cor pijà nocchiero.
Quanto se' fesso/ er zegno eccolo là.
V. 6-7. Var. (E in quer di già mano aveva
Cr. Ma dai da capita ']

la arzato, Un giorno o l'altro giù pe' Borgo-Novo.


Buttannome du' nocchie in zur costato).
V. Mo sta a mene —
Accusi me V aritrovo. 1

N. Per mete.
9. - L'ASTRAZZIONE. - (1830) ^' Nun m^e movo. {
N. So' primo. \
R" So' siconno. i
Tiramese più in là, che qui la guja
Ciarippara de vede er roffianello... ^- Io terzo.
Varda, varda, Gregorio, mi' fratello n T ^o quarto. •

ir. lo quinto.
Che s'è messo a intigna co la pattuja/
Mosca/ Er pivetto arza la mano, intrujaf ^' ^h ?iu?i fa er mucchio tant'in arto.
I Che, tienete l'apparto
Mo in de le palle... Lesto, eh berzitello.

De^ queli siti che ve pare a voi?


Ecco, ecco che leggheno er cartello :
N. Be', schiaffelo peccristo indove vói.
Ch'edè? Cinquantasei/ senti che bujaf
G. Batte.
Je la potessi fa, sangue de dina/ ^*
Sor e...., vorticamo er bussolotto. ... Dègheta/ A noi:
Ch'edei Trenta/ CelVho drento alVottina.
V edemo un po' si ce so coje io...
Dieci/ gnente: Sei/ gnente: Discidotto/ (i) Giuoco che si eseguisce da
due o più persone con un ciottoletto
Gnente. Pe' dio/ nemmanco stammattinaì o altro pezzetto di pietra, il più che si può rotondo,
Accidentacci a chi lia inventato er lotto. una certa distanza, e procurando di lanciarvi vicino dei gettandolo ad
baiocchi (soldi).
3. Belli. Sonetti, romanescAj.
34 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 35
I
G. 2^u nun hai smosso er mezzo-bóecco mio. A manirnanca adesso arza la fronte:
R. Pozzi morì tu* zio, Lassù Tracquinio se perdette er zojo,
Chi arifiata ^ E tu arza: sce vo' tanto? E poi Lugrezzia sua p'er gran cordojo
G. Arma. Ce fesce annà la barca de Caronte.
V. Santo. Vortanno er culo a quele tre colonne,
*• Io vojo arma. Mo annamo all'Arco de la vacca e V toro;
R • A rma. Ma si ne vedi dua, nun te confonne.
^- E noi santo. In quello ciuco se trovò er tesoro:
.,
K. Mezzo e che sì. L'antro è l'Arco de Giano Qiiattrofronne,
^* .
JJe quanto? Che un russio vò crompcdlo a peso d'oro.
G. Arzo, tiengo da Moscio, e fo de dna,
P. Frulla^ madetta l'a?iimaccia tua. 13. - CAMPO VACCINO. - (1830)
... Ah porcaccio da ual A
quer tempo che Tito imperatore,
Cor cardo farzo? Gargantacci nere, Co' premissione che je diede Iddio
V. Tu vo' fa cure li carubbigìieri. Move la guerra ar popolo giudìo
P- Voi ruhbà come glieri? Pe gastigallo che ammazzò er Zignore;
G. Mommo l'hai da sentì si che connessa... Lui ridunò la robba de valore.
R. Oé er chtrico sona: annàmo a messa. Discenno: « C..., quer eh' è d'oro, è mio: )>

E li scribba che faveno pio pio,


11. - CAMPO VACCINO.
(1830) - Te li fece sìierbà dar correttore.
(ER SOR Grigorio waìinataro di santo toto
co ghitano
li
E poi scrivette a Roma a un omo dotto,
er Chirico novo de li sacconi rosci, che vanno Cusì e cusì che frabbicassi un arco
a Co li quadrini der gioco dell'otto.
VEDE L'aNTICAJE).
Si ce passònno li Giudii! Sammarco!
ì^'^J^^^^d^^y Ghitano mia: eh? dì, te piasce? Ma adesso, prima che passacce sotto,
G. Che grannezza de Dio! che frabbicona! Se farìano ferra dar nianiscarco.
M. Nun è pia mejo de Piazza Navona?
G. Antro! E come se chiama? 14. - CAMPO VACCINO. - (1830)
^' ^ ^^' '^^^^V^'^npasce. Sto cornacopio su le spalle a quello
òenti,^

ni •

Ghitano,
t'hai da fa capasce Che vie appresso a quell'antro che va avanti,
Che, pe' sta robba, qui nun ze cojona, C'ha sei bracci più longhi, e tutti quanti
G. Num fnss'antro la carda! Tienglieno immezzo un braccio mezzanello-,
^- Buggiarona! Quello è er gran cannelabro de Sdraelìo
h li mattoni? Sai quante fornasce! Che Mosè frabbicò co tanti e tanti
S* ^"* ^^^ f^'^^^^iffiva, eh sor Grigorio?
T?^ tanta Idoli d'oro che su du' liofanti
M. Eh! gente: e tutti ricchi, sai? Se portò via da Egitto cor fratello.
Figurete che guitto arifettorio! Mo nun c'è più sto cannelabro ar monno.
?; _ ^^^ palazzone! nun finisce mai! Per esse se' è; ma nu lo gode un cane.
M. Che? Annava a la salita de Marforio, Perchè sta giù in ner fiume affoiuio affonno.
Pn?na ch'er Turco nun je dassi guati Lo vói sape, lo vói, dov' arimane?
Viscino a Ponte-rotto; e si lo vonno,
12. - CAMPO VACCINO. - (1830) Si tira su per un tozzo de pane.
Le tre colonne lì viscino ar monte. V. 14. Con poco dispendio. Allude al tentativo creduto di facile suc-
Dove te vojo fa passa te vojo, cesso ed eseguito vanamente negli anni scorsi per mezzo di una mac-
Fumo trescento pe' fa arregge un ponte china. Molti azionisti rimasero ingannati e perdettero le loro sommini-
Dar tuhseo nsinenta a Campidojo. strazioni.
36 GIUSEPPE aiOA(XHINO BELLI SONErm ROMANESCHI 37

15. - TEMPI VECCHI E TEMPI NOVI. - (1830) E si tu guardi er culo der cavallo
E la faccia dell'omo, quarche innizzio
Ar zu' tempo mi' ?ionno m,'ariconta Già vederai de scappa fora er giallo.
Che nun oberano un e... bagarini^ Quanno è poi tutta d'oro, addio Donizzio:
Se vedeva giucà co' li quartini Se va a fa fotte puro er piedistallo.
A piastrella, a huscetta: e mo se sconta. Che amanca poco ar giorno der giudnzzio.
Uova in piazza, s'aveveno a la conta
Cento a pavolo e senza li pnrcini: 18. - LO SPOSALIZIO DE TUTA. -
(1830)
La carne annava a sechici qìKAilrini
Ar mascello, e dna meno co' la gionta. Ma ce voi fa un bucale, che Gia/rtruda
Er vino de castelli e der contorno Nun passa un mese o dna che se ne pentel
Era caro a un lustrino pe' bucale, Tu parole mia tiéttele a mente,
ste
E ott' onciaa bóecco la pagnotta ar forno. E nun te burlo quant'è vero Giuda.
E mo la carne, er pane, er vino, er zale,
Di' : qu^nn'è cotto l'ovo? quanno suda.
E l'accidenti crescono 'gni giorno. Chi comaìina a l'urlone? er Presidente.
Ma l'hai da vede che finisce male. Ch'edè ar muro sta striscia luccichente?
Cià camminato la lumaca ignuda.
Er monna lo conosco, sai, Giuvanni?
le. - ER MORO DE PIAZZA NAVONA. - (1830) Si sposa venai^dì Tuta Ber -pelo
Sce s'abbu^ca 'na frega de malanni.
Vedi là quela statua del Moro Ne de Ve?iere, e..., né de Marte
Ch'arivorta la panza a Sant' Agnesa? (E li proverbi so' com'er Vangelo),
Ebbe, una vorta una signora in g resa Nun ze sposa, peccristo, e nun ze parte.
La voleva dar Papa a peso d'oro.
Ma er Zanto Padre e tutto er Conciastoro, 19. - LI CATTIVI UGURI. - (1830)
Sapenno che quer marmoro, de spesa.
So' le corna d'Aronne! De sti fatti
Costava pili zecchini che ìiun pesa.
Senza nemìnanco valuta er lavoro; Tu nu' ne sai nemmanco mezza messa.
Je fece arrepricà dar Zenafore Lo vói sape perchè a Luscia l'ostessa
Come e quamiente nun voleva venne J'Jmnno arubbato tutt'e tre li gatti?
Una funtana de quer gran valore. Lo vói sape perch'ha du' fiji matti?
Perchè ha per za cor prete la scommessa?
E queir ingresa che poteva s penne, Perchè er curiale pe' 'na callalessa
Dìcheno che ce morze de dolore,
Lusciattèi requia e scant'in pasce ammenne.
J'ha magnato la dota a tutti patti?
Lo vói sape perchè j'è morto l'oste?
Perchè l'antra ostarla de zi' Pasquale
17. - CAMPIDOJO. - (1830) J'è arivata a leva tutte le poste?
È perchè un aiino fa, de carnovale^
Ecchesce ar Campidojo, indove Tito
Ner conni l'inzalata e Vova toste,
Svorticò la lu^cerna e sverzò er zale.
Venne a mercato tanta gente abbrea.
Questa se chiama la Rupa Tarpea,
Dove Creoptitra buttò giù er marito, 20. - L'OSTE A iSU' FIJA. - (1830)
Marcurèfio sta tutto vestito

Povera gente! Uhm! panno chiude
Senza pavura un e... de tropea.
casa,
Si sopra scià cantato la sciovetta:
E un giorno, disce er zor abbate Fea,
Se panno aspetta puro una saetta,
Ch'ha da esse oro infinamente a un dito.
Come si fussi un osso de scerasa.
^

38 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 39

Nun vedi quer cane com^ annasa?


lo 23. - SE N'E ITO. - (1830)
Che seggn'è? la commare che t'aspetta.
E nun zo' ciarle: che già glieri a Betta Haii sentito eh? povero Titta er greve,
J'Jia sparato la frehhe^ e j'è arimasa.
ra nun
Povera sia l anima! ha spallato.
Eh si a méttese addosso a 'na famija Ma! un giuvenotto da potesse beve
Vie la sciangherangà ; hz, bona notte,
Drento in un bicchier d'acqua, eli? che peccato!
Sce fioccheno li guai co' la mantija.
Inzinenta dar giorno de la neve,
Mo va a male un barile, oggi una botte Se portava un catarro marcurato.
Domani la cantina; e via via, fija, E San Giacinto te l'anno a riceve
Pe' sta strada che qui te va' a fa fotte.
In d'un fonno de letto, già appestato!
Da 'na gnàgnera a un'antra, stammatina
21. - L'ORECCHIE DE MERCANTE. - (1830) In zanitate rospite, bz!, è morto
Pien de decupis dereto a la s china.
Giuvenotti, chi paga una fujetta? A quiniscióra fanno lo straporto
Se pòzzino stroppia tutti li guitti, Del corpo in forma-papera: e già Nina
Eccheli sbarellati e sderelitti, Se fa vede a braccetto co' lo storto.
Come l'abbi accoppati 'na saetta.
Quanno pagh'io, pettristo, a la Stelletta,
C arreno com' agnelli fitti fitti; 24. - SE NE VA! - (1830)
Come poi tocca a loro tutti zitti.
Che ber negozzio de Maria Gazzetta! Co' 'na scanzia nell' ùgJiela, e co 'tutte
E voi puro ch'annate sempre liscio, Le tonzìbbUe fràsciche giù in gola^
Sora faccia de culo de badessa, Povera Checca! nun j)ò di' parola,
Ch'edè che mo v'ariscallate er piscio? Sije la vói caccia cor gammavdte.
Sor abbatino, se' è quarche scommessa? Fa l'occhi luschi, tiè le labbr^thsciutte.
Badàmo, ch'a sto gioco io busso e striscio. Ha 'na frebbe in dell'ossa che conzola!...
Oh annate a pijà er morto e a servì messa. Io però tremo de 'na cosa sola,
Ch'oggi j'ho visto fasse fogna brutte.
22. - ER CONFORTATORE. - (1830)
Oh, quer che sia la cura, va benone,
Bast'a dì si pò mejo esse assistita,
Sta notte a mezza notte er carcerato Cile vie er medico inzino deU'U rione.
Sente uprì er chiavistello de le porte, Anzi terzera j' ordinò du' dita
E fasse avanti un zervo de Pilato De re-barbaro messo in confusione
A dije: « Er fischio te condanna a morte ». Drento un cuccliiar d'argento cf a^quavita.
Poi tra dii' torce de seqo incerato.
Co' dìi' guardiani e du' 'bracchi de corte. 25. - LA PROVIDENZA. - (1830)
Entra un confortatore ammasch erato,
ColVocchi lustri e co le guance storte.
Te l'abbràccicaJ ar collo a l'improviso, j^ un ber dì eh' a sto monno sce ve sorte.

Strillanno : u Alegri, fijo mio: riduna Si nun l'hanno antro che baron futtuti.
Le forze ve vola su in paradiso ». Er cristiano ha da dì : « Che Dio sciagliuti
a Che alegri, e...! alegri la luna! t^
E ce pozzi scampa da mala morte ».
Quello arisponne : n Pozziate esse aociso! Io appredicato tante vorte,
te l'ho
Ch'a st'ora lo direbbero li muti.
Pijatela pe' voi tanta furtuna. »
Ma tu, pe' gratta er culo a sti saj)uti,
V. 12. Var. Se po' sape se po' ch'edè? la luna! Sce schiaffi in cammio : aS* Iddio-vò-e-la-corte ».
io GIUSEPPE OI0A(XHIN0 BELLI SONETTI ROMANESCHI
41
So* C...Ì: quaggiù tutto è premissione Mipadre pijò poi la carrettella.
Ber Zxgnore sortantOj e nun ze move Ma prima vorze gode l'impiccato:
Foja che Dio nun voja^ in concrusione. E me tieneva in arto inarberato,
Ahhasta d'ave fede e devozzione : Discenno: a Va' la forca quanta bella!
E poi fa* tira vento e lassa piove: 1 utt a un tempo ar paziente mastro Titta
^^

S* Iddio serra *7ia porta^ apre un portone, J appoggiò un carcio in culo, e tata a mene
Un schiaffone a la guancia de mandritta.
26. - CE SO' INCAPPATI! - (1830) « Fija,j^ me disse, u e aricòrdete bene
the sta fine niedema sce sta scritta
Le tavolozze so' a quest'ora ar posto^ Fé' miti' antri che so' mejo de tene. »
Le bussolette già se fanno avanti^
E mo er Gesummaria e V Agonizzanti
Hanno messo er Zantissimo indisposto, 29. - Zr CHECCA AR NIPOTE AMMOJATO. -
(1830)
pomatina, ora-scerta^ sii garganti,
Dico 'na cosa che nun è buscia...
SJ nun tiengono più ch'er collo tosto, Tu vedi che tu' fijo è grann'e grosso,
S'hanno co qv^r boccon de ferragosto
Da caca l'animaccìa com'è santi. ^^^' je metti gnissun'arte addosso?
E
furno loro, sai? eh' a don Annihhile Ma SI tu mori, che ha da fa? la spia?
L assaltorno in ner Vicolo d'Ascanio JSun e è antro che gioco, arme, ostaria.
Fé' ruhhaje un cuperchio de torrihhile; Donne, sicario... e 7iun z'abbusca un grosso^
E je dièdeno un còrpo subbitanio, Ah/ un giorno o l'antro ha da casca m
d'un fosso
Che penneva un parmo d'intestibbile :
je
Uà fatte piagne; e te lo disce zia.
Sotto ar costato, qui, proprio in ner cranio. ^empre compagni/ e che schiume, fratello,
"uh, libberamus dommine/ UAbbrei
^^' più cristiani e danno più
27. - LA MALA FINE. - (1830)
ciarvello.
Fé 'gni cantone ne tiè cinqu'o sei:
Ahò, Gremente, cognoscevi Lalla, Vedi che scola/ Gome disce quello?
La moje ch'era de padron Tartaja, Di* con chi vai, e te dirò chi sei.
/ Prima cucchiere e poi mastro-de-stalla
De... aspetta un po'... der Gnrdinàr :. 6. Donne... Var. Morra...
Sonajaf
Be, gliert, all'ostaria, pe' fa la galla
E pe la lingua sua che ciusce e taja, 30. - ER ZERVITORE INZONNOLITO. -
Buscò da 'n'antra donna de la balla (1830)
iva botta, sarv' ognuno, alVanguinaja. So' cinque notte o sei che la padrona,
A sangue callo parze gnente : abbasta^ Pe* via de quer grugnaccio d'accidente
*

Qtianno poi curze er cerusico Mori, the mo je fa da cavajer zerpente.


Je se' ebbe da ficca tanta de tasta. Me lassa a conta ogn'ora die Dio sona.
Sta in man de prete mo pe' quanto pesa Te pare carità?... che/ se cojona?
Pj si la lama ha tocco l'interiori, Come s'er giorno nun fascessi gnente/
Iddio nun voji la vedemo in chiesa. Ma stadera, o servente o nun zervente,
Vojo fa 'na dormita buggiarona.
28. ^ ER RICORDO. - (1830) Lei che s'arza 'gnisempre a mezzogiorno,
Er giorno A chi sta su da lo schioppà delVarba
che impiccamo Gammardella, O nun ce penza, o nun je preme un corno.
Io m ero propio allora accresimato. Jfe liscenzio : er crepa poco m'aggarba.
Me pare mo, ch'er Zantolo a mercato De là nun c'è carrozza de ritorno.
Me pagò un zartapicchio e 'na schiammella. E quanno so' mort'io, daip'me de barba.
42 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI soNEnrri romaneschi 43

31. - ER RICURZO. - (1830)


E doppo, m
caìnmio de portallo a scóla,
Lo vennerno in Egitto in contrabbanno
Chiede e che nun è, ècchete un giorno 1 e quattro stracci e un rotolo de sola,
Cheffàmio a gatta-sceca-chi-f-ha-dato,
Una man de giandarmi se n'entrorno 34. . LA DEVOZIONE DER DIVIN'AMORE. -
(1831)
Coli' ordine de facce er per curato.
Senza dicce nemmanco : si' anunazziato,
Dimenica de là Rinzo, Panzella,
lo. Roselo e le tre fije der tintore
Agiièdero f regalino attorn' attorno;
*]^orztmo annà a fa un scialo in
E smossero inzinenta er tavolato, A la Madonna der Divin' Amore.
carrettella
Ma grazziaddio senza trovacce un corno. Che t'ho da dì, Sgrignappola? co' quella
Io /esce stenne a Piazza Montaìiara
Ciolma là che t'arrostiva er core,
P'er general Quitòlli un mormoriale. '

Che je Vagnède a dà la lavanìiara, Eccheme aritornà la raganella,


Ecco arincappellasse er rifreddore.
Discènnoje accusi : « Sor generale,
Questa pe' dio sagrato è una cagnara. Credimi, cocca inia, ma da cristiano
Ce direbbe aresie : eh' è 'na miseria
Che de la grazzia eccetera. Pasquale ».
^ *^* 5em//re co' pilucce in mano.
32. - ER COTTO SPORPATO. -
Mo
fj^^
er zemplicista me dà 'na materia
(1830) Appiccicosa : e un medico br ugnano
Evviva er zor-don-Dezzio-co' -le-mela! Lo sciroppo de radica d'arteria.
Ste strade sce Vavete ariserciafe... V. IT,. Brugnano: browniano.
Ah, discevo accusi de scerta tela
Che se venneva sulle cantonate.
Dite la verità, tanto ve pela? 35. - LA SCOLAZIONE. - (1831)
Su, fateve usci er rospo, vommitate : (la mediscina).
Eh via, co' noi cucchieri ste frustate?
Cascate male assai: semo de vela. ^ai la pulenta? Ebbe? gnente de male:
Pare che quanno re smicciate quella Eh a sta robba co' te me ce la stigno:
Benedetta-pozz'ésse, for dall'occhi Eppwro, quanno vie lo sbarzo, intigno,
Ve voji schizza via la coratella. Ciavessi d'aricurre a lo spedale.
Pare ch'avete d'aspetta li gnocchi/ Senti, va' a nome mio da lo spezziale
V'annereòbe un bocchino, eh sor Brighella? De facciata ar canton de Torzanguigno,
Oh annateve a cerca chi ve V immocchi. E fatte dà un po' d'acqua de grespigno
stillata cor un pizzico de sale.
33. - GIUSEPP'ABBREO. - (1831) Tu pijela a digiuno d-omatina,
Ammalappena che te sei svejato :
Certi mercaìiti, doppo ditto : aèo. Pijela, e veder ai che mediscina!
Se sentinno chiama drento d'un pozzo. Poi magna puro, e doppo ave magnato
Uno sce curze all'orlo cor barbozzo, Bévete la tu' brava fujettina,
E vedde move, e intese un piagnisteo. >
Abbasta che n/un sii vino annacquato.
« C.../ qui c'è un pivetto pe' san Gnèo,
Come un merluzzo a mollo inzino ar gozzo! » 36. - L'INAPPETENZA DE NINA. -
Caleno un zecchio : e su, frascico e zozzo, (1831)
Azzecchesce chi vie? Giv^epp'abbreo. Eh
sor dottore mio, che vorrà dì
L'asciuttcno a In mejo cor un panno, Che m'è sparita quell'anzianità
Je metteno carzoni e camisciola, Che 'na vorta sentivo in ner magna,
E poi je danno da spana, je danno. 'Anzi nun pozzo piiX addiliggerìì
44 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI soNErrri romaneschi 45
Me messa *na boccia proprio qm:
s'è
^Gni sempre ho voja d'arivom^mità; 39. - ER OARCIO-FARZO. - (1831)
E quannOy co rispetto ho da caca,j
Rosa, nun te fida de tu' cugnata;
Sento scerti dolori da morì. Quella ha du' facce e nun te vie sincera.
Perchè nun ni' ordinate quer zocchè Dimànnelo qui giù a la rigattiera,
Che pijò Tuta quanno smammalo Si come t'arivorta la frittata.
Pe* sgrana troppi dorci der caffè? S tacce a la lerta^ Rosa: io t'ho avvisata.
Oppuramente un po' d'ascenzo, o un po^ A la grazia..., bon giorno..., bona sera,..;
De legno-santo : che ar pijà, pe* me, E tocca la viola : che a la sera
Io nun ciò gnisun scrupolo, nun ciò. J^e se smiccia la qv^ja arisonata.
Sibbè che (a senti a lei) tiè er core in bocca,
37. - LE SPACCONERIE. - (1831) Fa du' parte in commedia la busciarda,
sordo-nato dice che sei l'asso,
'6r/ii
E vò dì cacca si te disce cocca.
E vorti l'ammazzati co' la pala! Quanno tu parli, a chi tira la farda,
PrZy te fischieno. Marco; tiette basso: A chi tocca er piedino: e intanto gnocca.
C 'ereno certi frati de la Scala. Tu la erompi pe olisce, e quella e sarda.
Te vedo. Marco mia, troppo smargiasso,
E quarchiduna de le tue se sala. 40. - (LA LETTRA DE LA COMMARE. - (1831)
Lassa de spaccona, nun fa er gradasso, Cara Comrnare, Piazza Montanara^
E aricordate er fin de la scecala. Oggi li disciannove der currente.
A sentì a te, fai sempre Roma e toma, Ve manno a scrive che sta facciamara
E poi ch'edèì vie spesso e volentieri De vostra fija vò pijà un pezzente.
Chi t'arizzolla e te ne dà *na soma, Poi ve faccio sape che la taccara
Ognomo hanno d'ave li su' mestieri: Marze, in zalute ?iostra, d'accidente:
Chi fa er boia, chi er re, chi scopa Roma: E l'arisposta so' a pregavve cara-
Sei braghieraro tu? fa' li braghieri. mente a dàlia alla torre der presente.
V. 4, Parte di ciò che si canta a chi millanta, cioè : C'erano certi Un passo addietro. Qua la capicciola
frati della Scala che dicevano cala cala. Curre auffa, mannandove un zaliito
V. 6. Se sala: si sala onde fermare la corruzione. Pe parte d'Antognuccio e Lusciola.
Me scordavo de divve, si ha piovuto
38. - ER PARTITO BONO. - (1831) Che sta lettra vAin pò passa la mola.
Come, piascenno a Dio, ve dirà el muto.
Ecrederessi tu Sartalaquaja
Titta non ha possuto;
A stelocanna come vò Felisce? E con un caro abbraccio resto quane
Tratanto l'arimistica, e fa e disce. i Vostra Commare Prascita Dercane.
Che carza e veste; magna e beve, e squaja.
Lui strilla gnao, lui dorc© la fusaja, . .
A V obbrìgate mane
De la signiora Carmina Ber prato,
Venne er regolo bono pe l'alisce; Roccacannuccia, in casa der curato,
Raschia li muri, allustra la vernisce.
Va a pesa er fieno e a carreggia la jyaja. ;

41. - LA GUITTARIA. -
Uno che nun avessi arte né parte. (1831)
Pò appettatfelo un'antra, no Artomira, CACARITTO A CACASTUPPINI.
Che nun vie finta a rivortà le carte. Guitto scannato, e chèì, non te conoschi
Dice er proverbio che chi ammira attira, D'esse ar zecco, a la fetta e a la verdacchia,
E un omo, fiìa, che sa fa tant'arte. Stai terra-terra come la porcacchia.
Pò ave in culo girone e chi lo gira. Abbiti a Ardia in casa Miseroschi,
Ii«i

46 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI


47

Ha spiovuto, sor dommìne, la pacchia Fateve un'inzalata de cazzocchi


D'annà in birba, fr..à, e guardacce loschi. Che ve ponno costà pochi baiocchi.
Mo arrvòbi er manichetto a PugnatoschiI So' radiche pe' V occhi;
Magni a braccetto, e batti la pedacchia. Che cor un po' de frégheto suffritto
De notte all'Osteria de la Stelletta, Iranno abbozza er cristiano e stasse zitto.
De giorno al Zole; e quer vinuccio chiaro ,,. , Dico, eh sor Cacaritto,
Che bevi, vie a sta un e... a la fujetta. o% ve battessi mai la bainetta?
Mostri *na chiappa, un gommito e un ginocchio ; Volete che ve manni uìia sarvietta?
E chi te vò, fa capo alVammidaro La povera ciò vetta,
A li Greghi, a Vinzegna der pidocchio. Quanno poi ve spremete ar cacatore
V ariccommauTia de cacavve er core. '

42. - LA GUITTARIA. -
(1831)
RISPOSTA DE CACASTUPPINI A CACARITTO. V. 40. Var. Quanno annerete poi da Monzignore.

So^ po' spiantato : ebbe? nun me vergogno


un
De dillo a tutto er monno a uno a uno. 43. - ER TEMPO BONO.
Mejo pe me : cusì nun ho bisogno - (1831)
D'impresta diecci pavoli a gnisuno.
Nnu te crede però, che ce sbologno: Dinanzi, s'er Zignore sce dà vita,
So' conosce er panbianco dar panbruno : lederemo spunta la Gaìinelora.
E nun m'intraviè mxii, manco in inzogno^ Som n&ve, sta buggera è finita,
D'anìià a la cuccia a stommico addigiuno. Ch oramai de l'inverno scìno fora.
E voi, che fate l'ammazzato ar banco Armanco sce potemo arzà a bon'ora
De Panza er friggitore a Tiritone, L'è annà a beve quer
goccio d'acquavita
Conoscete er panbruno dal panbianco h poi vie marzo, e se pò sta de fora
V'atinerebbe un boccon de colazione? A fa du' passatelle e u?ia partita.
Ve rode er trentadua? Ve bussa er fianco? òt a?ino che me s'è rotto er farajolo
Le budelle ve vanno in priscissione? M e vienuta 'ìia frega de geloni
Sete voi che a piggione E pe tre mesi un catarruccio solo.
Tien-ete lassù a Termini er palazzo Ecco l'affetti de servì padroni
Dove s'appoggia e nun se spenne un e...? Che commatteno er cescio cor fasciolo,
Quer landào pavonazzo Sibbe, a sentilli, so' ricchepuloni.
É robba erompa in Ghetto, oppuramente
Scarti de Monzignor Viscereggente?
Un acciccì cor dente. 44. . ER CUOCHIERE DE GRINZA. -
Sor ricacchio de fija de p..., (1831)
Lo mettete ar cammino a la befana?
Quella 2^orca mammana Er c...^ che v'arrabbi/ A san Ghitano,
V'avessi sciorto subito er bellicolo, òo ventanni che batto la cassetta:
Camperessivo mo senza pericolo E nun tienevo un pelo a la borzetta,
D'ave l'abbiffa ar vicolo Che tata me mette la frusta in mano.
De li tozzi, e d'annà, pe più cordojo^ Ma sai tu, a Roma, a Napoli, a Milano,
A sbatte er borzeUino in Campidojo. (guanti cucchieri ho fatti sta a la
fetta?
Co' sale, asceto e ojo, Sti banchieri strillaveno vennetta
Rtcojenno li ferri da lontano.
V. 29. Campidojo: in Campidoglio erano l€ carceri dei debitori, i
quali dalle inferriate sporgevano alcune borsette all'estremità di una
V. 8. Ricojenno li ferri: rimanendo molto
canna per avere elemosina dai passanti. indietro.
48 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
SONETTI ROMANESCHI 4d
Hoguidate parije io co la vesce
Ch'averebberOj a un dì, tramonto er zole; 47. . ER CORNUTO. - (1831)
Cavalli da fa fa segni de croscè/
E so' arrivato co' le brije sole (a marco).
A portamine da me sedici /rosee/ C/i'edèysor testicciola de crapetto?
Dunque fàmo, pe' dio, pocìie parole.
Da che vostra moje anno a San Rocco

V. 9. Co la vosce: col solo soccorso della voce. Avete arzato un'aria de scirocco
V. 13. Sedici frosee: otto cavalli. E un mu^o duro da serciate in petto/
P<^rlo co' fvoi, eh sor cacazibetto:
Volet'ésse chiamato cor batocco?
Co' tutto che sapemo de lo stocco
45. - ER CUCCHIERE FOE DER TEATRO. - (1831) Che tienete agguattato in ner corpetto.
Sor pioviccica mia, qui nun ce piove,
Eh? che ber gode/ Immezzo de 'na piazza^ Potressimo cavavve la frittella.
Sott'a ste quattro gocce de brodetto, Tanto avete la testa in Dio sa dove.
Senza potè nemmanco accìiiappà un tetto, Ma lo sapemo che tienete quella
Fa ' gni notte 'na vita de sta razza/ Drento a la torre de Capo-de-bove
E tratanto quer grugno de pupazza CoU'antra de Sciscilia Minestrella.
De la padrona mia, drent'ar pare/ietto.
Se ^diverte cor ghigno e co' l'occhietto, V. 2. San Rocco: ospedale per le donne che vogliono partorire
se-
gretamente.
Pe' fa ride la fr... che l'ammazza. V. 14. Il sepolcro di Cecilia Metella sulla via Appia
Eppuro a casa scià tanto de specchio, è chiamato
Capo di Bove per motivo dei crani bovini che vi sono scolpiti d'at-
Pe potella capì che quanno fiocca torno.
La donna se pò venne ar ferravecc/iio.
Ma lei de c.i/ sin ch'ha un dente in bocca. 48. - LE BEVANNE PER LUL - (1831)
De sughillo 'gni giorno ne vò un zecchio.
Una marini tta, un cuccomo e una brocca. E
pe quer panza gonfia de spedale,
Pe quer mido futtuto, eh sora Nanna,
Ve sciannate a spregà sto fior de manna?
Fidateve de me, voi fate male.
46. - ER PURGANTE. - (1831) Che vino fwristiero e vin nostrale/
Dateje da ingozza brodo de Janna:
Quanno quela bon'anima d'Annotta Date j e vin de fr... che lo scanna
Ebbe l'ultima frebbe e stiède male, A sto grugno de vesta d'urinale.
Pe ave l'ojo de riggini che sbotta Cosa beveva quanno de rega^zo
Vorzi curre da me da lo spezziate. Scardazzava la lana a Sanimicchele?
E co la cosa ch'er cumpar Natale Acqua de pozzo e vino de melazzo.
M'ha tienufo a battesimo Carlotta, Pe me direbbe un zuccherino, un mele,
Acquasi ne cacciò mezzo bucale Quanno se dossi a sto faccia de e...,
E me lo vorze dà fresco de grotta. Come a nostro Signore, asceto e fele.
Ma
ch'edè e che nun è, du' ora doppo
Lei sentì gran dolori a le budella 49. - UN'IMMRIACATURA SOPR'ALL'ANTRA. -
E scaricò tamanto de malloppo. (1831)
E
poi d^ merda in merda, poverella. Vói sape che cos'è che je dà in testa
Bisogna di che l'ojo fusn troppo, Ar fljo de la moj6 de Pasquale?
Morze, salute a noi, de cacarella. Vói sentì che cos'è che je fa male?
Sta cosa sola: er zugo de Vagresta,
4. Rei. 1 I. Sonetti romanetchL
50 QlUSBPPB aiOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 5(

Sii vino bonOy o mezza-tacca^ o pesta^


Nun ze n'esce mai m^no d'un btK;ale. 52. - ER GALANTOMO. - (1831)
Je fa er vin de Ripetta^ er padronale...
Basta je monti a ingalluzzì la cresta. E quer grugno de scimminivaghezzì
E r zu^ padrone jerassera agnede Dell' orzarolo, m'accusò pe' miscio!
A mette j e su in mano un cornacopio^ Poi ha yorzuto arippezzalla er griscio,
PercKera notte e ce voleva vede. Ma li rippezzi so' sempre rippezzi.
Nun ze lo fesce casca giù? che propio Io l'ho avvisato che nun ce s'avvezzi
Era arrivato f e s'addormiva in piede A rifamme mai più sto bon' ujfiscioy
Come avessi magnato er grano d'opio. Si nun vò sotto ar casaccone biscio
Porta le^ spaJde com'è peri-mèzzi.
V. II. Var. Che certi impicci ce voleva vede.
>
Pe' me nun zo che gente mai so' quelle
Che pozzi arillegralle e faje gola
Er fa ar prossimo suo ste sciampanelle.
50. - LA COMPAGNIA DE LI SERVITORI. - (1831) Una co$a perantro me conzola.
Che si de tante e poi tante querelle
puro a st'antra gargottara :
vSaette
Me n'hanno provo dua, grasso che cola.
M'intendo de Sant'Anita in Borgo Pio.
Pare che tutto, quan?io sce so' io,
S'abbi da sfotte e da fini in cagnara. 53. - A LI CAGNAROLI SULL'ORE CALLE. -
S'aveva da erompa da' par de para (1831)
De HoLìnpanari e mazze da un giudio : Bastar delli futtutl, ad-ess' adesso
Ogni fratello vorze fa una tara, Si nun ve la sbignate tutti quanti,
E sore mazze e lampanari addio. V'irrigo giù, cristo! e ve n'ammollo tanti,
L'orgheno sfiata: nun ce so' cannele, Tutti de peso e co la gionta appresso.
.
Li banchi so' tarlati attorno attorno: Ghe so! mai fussim' ommini de gesso.
S' hanno d'aripezzà tutte le tele...
Ebbe, se sciarla, e nun ze strigne un corno.
Da pianta li co' la fr annetta avariti!
Guarda che sconciature de garganti!
Già disce bene er mannatàr Michele:
Fussiv'arti accusi, tanto è l'istesso.
« Co tanti galli nun ze fa mai giorno ».
É già da la viggilia de Sanpietro,
Che ve tiengo segnati uno per una,
51. - LE TRIBOLAZIONE. - (1831) Pe gonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat' Iddio, fljacci de nisuìio,
Questo pe Checco. In quanto sii poi Teta, Pregat'Iddio d' arisfasciamme un vetro,
Nun me la pózzo disgusta, sorella. E vedete la fin de sto riduno.
Bigna che me la còccoli, che quella
Sa tutte le mi' corna dall' k ar TaqXjQ,.
L'ho da sbarzàì! Te la direbbe bella! 54. — LE STIZZE COR REGAZZO. — (1831;
E indove ho da mannàmela? A Gaeta,
Dove le donne fileno la seta, Nun me vò più pijà? Che se ne stia.
E Vommini se spasseno a piastrella? E pe questo mo casca Ponte-rotto?
Iddìo che ?iun vò ar monno uno contento I.
Nun me vò più? Vadi a fa dàsse un bòtto;
Me l'ha vorzuta dà ne croscè mia, Nun m'h sonata a me. la vemmaria.
Perch'io nun averehbe antro tormento. So sempre fija de l'azione mia:
Conchi l'ho da pijà? 'gna che ce stia, So, zitella onorata, e me ne fotta.
E che dichi accusi, mettenno drento : Moche^ sto in lista a la dota der lofto^
Piatte volontà stua e cusì sia. Chi nò la madre, me darà la fla.
52 GIUSEPPE GIOACCHINO BBDtXI SONETTI ROMANESCHI
53
De scerto me sciammalo! e so' capasce
De stiracce le scianche da la pena. 67. - VONNO COJONATTE E RUGA ! .
(1831)
Dio l'abbi in grolla, e requiescfiiaV in pasce.
Dije intanto pe' ine : Lena, mia Lena, (MINCHIONATE E RUGA!).
bto core sta in catena; e si je piasce.
Jer l'antro ebbe d'annà a li Gipponari
Che Vho in ner culo, e che l'aspetto a cena. re ruscì verzo Punta-de-diamante,
A crornpamme un corpetto da un marcante
55. -GIROLIMO AR CIRUSICO DE LA CONSOLAZIONE iyfie, disce ò gorgia, nu'
li venne cari.
(1831)
Er padrone era ito a li Sediari
A cerca un tajo de pelle de Dante,
^ervo, sor Tajabò e la compaonia! Cera un gioveìie vecchio, ma gargante
Che, annate a fa un gireto ar Culiseo? Da
fatte saccheggia li cortellari.
A proposito, è vero che Matteo Io je disse de damme sto corpetto •

V'ha mannato Noscenzo a la curzia? E quer faccia de grinze a mosciarella


Avessi creso a le parole mia Me ne diede uno che nemmanco in gJietto
Che je disse quann'era er giubhileo, Io baitelo pe' terra. Er zor Brighella
Nun ze saria mo trovo in sto scangeo òe scalla er piscio: io te l'agguanto in iietto.
De tasse scortellci pe gallaria. A sai come fimi Co la barella.
Ma già che c'è cascato in ner malanno.
Adesso, sor Cinisico mio caro, 58. - ER VINO. - (1831)
L arriccomanno a voi, Parriccomanno.
^onl'avete da fa pe sto somaro, Er vinoè sempre vino, Lutucarda.
Ma pe quelle crdture che nun danno Indove vói trova più, mejo cosai
Gnente che fa si er padre è un cicoriaro. Ma guarda qui si che colore! guarda f
V. 4. Noscenzo: Innocenzo.
Nun pare un ambra? senza un fir de posa!
Questo t arida forza, t'ariscarda,
le fa^ vieni la voja d'esse sposa:
56. - L'INCONTRO COR PADRONE VECCHIO. - (1831)
E va' si magni 'na quaja-lommarda,
un, goccetto e arifai bocc' odorosa.
Sor Conte. -In grazia, chi...? -Vostr'Acccìlenza E bona asciutto, dorce, tonnarella,
Uve! nun m ariffìguraf... - Non m'inganno... - òoio e cor pane in zuppa, e, si è sincero,
laccagna. - Ah, sì, e di dove?... - Da Fiorenza - ic^se confà a lo stommico e ar ciarvello.
Lhe siete sfato a farvi? - Er contrahhanno - h bono bianco, è bona rosso e nero •

Buono! Ed or. ? -Servo er Papa. -In quale essenza^ De Genzano, d'Orvieti e Vignanello;
De sordato. - E da quanto? - Ehh, muffalanno -
Ma l es te-est e è un paradiso vero!
In quale armi servite? - Culiscenza,
Reggimento Canaja ar zu' commanno. -
(^loe? - Guardia d'onor de pulizia. -
i^'J 59. - L'INVIDIACCIA. - (1831)
Corpo di poco onor. - Ma ce se magna. - Uhm! bella bella! quanno
è 'na scert'ora,
Dunque, siete coìitento. - Eh, tiro via. - jyun e poi Nastasìa tutto st'oracolo.
Dove state? - A Marittimo e Ca??ipagna. - E cento vorte più bella Lionora,
Ma ora? - Sto in promesso a casa mia. - E gnisuno la tiè per nn miracolo.
±^d abitate sempre... - A la Cuccagna. - Cos'ha de rwro? Er culo è 'no spettacolo;
TT . ,,
Addio, dunque. Taccagna. -
s
J_}è du occhi de gatto e un dente in fora;
Vorta bascia la mano... - Oh! un militare E dillo tu smun è un altro stàcolo;
JSol permetterò mai. - Come ve Quer
pare fiato puzzolente che t'accora.
54 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 55
Nun io pe dìy ma co sta donna bella, E pia scassi, e ariòchi la partita
to sta p..., co sto pezzo raro, E m aritorni a fa le fuse-torte.
Nun ce baratterebbe una scia fr ella. Ma io, cojona carzata e vestita.
quer che m'hai da di, No/rio mio caro?
ò'ai Che me fido d'un cane de sta sorte!
vàe ha veni amit soli a la bardella
SI Mamma be' me lo fesce er tu' ritratto,
Ruga co la bellezza der zomaro. *
Discenno eh ave ar core cento stilli
E mej assai che mette amore a un matto.
60. - ER CULISEO. - (1831) Ma zitto, zitto: che serve die strilli?
Oria lo so er bene tuo si come è fatto:
Quest'era pe' la giostra e li fochetti,
tome se fa oggigiorno da Corea. E fatto quanno a tordi e qu^nno a grilli.
C ereno attorno qui tutti parchetti.
Lassù er loggiato, e immezzo la irraìea.
^Ppoi fatte tnzegnà da mastr' Andrea 63. - SANTO TOTO A CAMPOVACCINO. -
(1831)
Er butteghm de chiave e de bijetti,
Er caffè per gelati e limonea^ Nun c'è da repricà: V antichi puro
Ereno boni e popolo devoto.
^ f:'^^^sini e trabocchetti.
nh^^i'
OA, /a vtacrusce l'hanno messa
Pregavano li santi addoss'ar muro
doppo De scampani da guerra e terremoto,
terche li Santi Martiri qui spesso '

Ce dovenno ingozza certo sciroppo. ^f'de sto fatto nun vói std, a lo scuro,
Co' un po' de sassi e un po' de carda Oggi fascemo un tantinel de moto,
Lassa che e se dii quarche arittoppo
e gesso. E,annàmo a un tempio antico de' sicuro,
:i

h un imbiancata, e pò servì anc'axìesso, the se seguita a dì de Santo Toto.


' Quanno le cose, Pippo, le dich'io,
61. - ER CULISEO. T hai da capascità che so' vangeli.
-. (1831)
Che tu conoschi er naturale mio.
E no' sortanto co majòni e tori Ner mi' ovo, ehèe, nun
Qm se giostrava, e se sparava botti E te saprebbe dì si come Iddio
ce so' peli;

fo. e ereno cert' antri galeotti


Fesce pe' frabbicà li sette-sceli.
Indifferenti dalli giostratori.
Se chiamava sta gente Gradiatori
E l arte loro era de fa a cazzotti, 64. - L'OCHE E LI GALLI. -
òte panzenere co' li grugni rotti (1831)
Daveno assai da ride a li signori, Ar tempo de
^n de sti birbi, e me l'ha detto Ermete
uuscino con un pugno un lion fante,
l'antichi, in Campidojo,
Bove che vedi tanti piedestalli,
Eppoi se lo magnò, si ce credete! QuelVommini vestiti rossi e gialli,
C'ingrassaveno l'oche cor trifojo.
Je danno nome o Meloìie o Rugante;
EccJiete che 'na notte scerti galli
^<^^ o l uno o l'antro, mai tornassi a Tnete Viengheno pe' dà a Roma un gran cordojo
JSu to vorrebbe un e... appiggionante.
Ma Vocile je sce messeno uno scojo,
V. 9. Var. Arete; — er fwete. die s ve j orno un scozzone de cavalli.
Quell'omo, uscito co' la rete in testa
62. - L'INNAMORATI. -
(1831) E le mutanne sole in n^ le sciancJie,
^emo^ da capo. Hai
detto tante vorte
Cacciò li galli e je tajò la cresta.
Ohe pe tè nun c'è ar monno antro che Pe' questo caso fu che a ste pollanche
òempre giuri e spergiuri che la morte Ghita Ergran Zenato je mutò la vesta,
>^ola pe ine te pò leva la vita. Ch ereno nere, e vòrze falle bianche.
56 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
SONETTI ROMANESCHI
57
65. - L'ARCO DE CAMPOVACCINO La yorta che fu qui prima de ^
questa
QUELLO IN QUA. - (1831)
Cacc^ava, come tutti li tenori,
'

Note de petto, e mo solo de tèsta.


Quello che in faccia mezzo nero
te vie ,,

^^'^«^^o scusa a lor zignori


-""PP'^/^ f^^^« cordonata, IniiT^""?!'
Io fesce allora, « tutta ,,

P^nl^r
Elarcolm de Settimio s'è vero,
'f tempesta sta
La potrebbeno fa Varifreddori
t/iépo esse ch€ sii 'na hugqiarata. ,,

Uh vedi che crapiccio de penziero,


vedi SI eh idea matta sconzagrata
De nun annoilo a frahhicalìo 68. - LA SAI.ARA DE L'ANTICHL -
intero. (1831)
Ma co una parte mezza sotterrata'
L nun t hai da ficca ner ""T^.^^l^^eo, tra li
cucuzzolo 7)JrT
De li fiemli de Padron
Vitale
cantoni
A a datte^ 'rui stampella pe'
mazzolo. s^tte stanzoni,
^''.'''^^''^i
Ale l aricordo io che
Ch^Ti::'''^
^hahbiteressi
nun zo' mejo a lo spedale.
Uie prima se vedeva un arco rapa, Vontio che lì, si nun ho
-fi l antri dua ce
solo
l'ha scuperti er Papa. ' A quer tem^ode dio de li inteso male
òe facessi la frabbica der
Neroni '

zale
66. - ROMA CAPOMUNNI. - (1831)
l'è conni le coppiette
e li capponi.
L mo me vie un'idea! che
Nun
fuss'antro pe' tante antichità sa che nun ce fu.si er
lì, per bacco
'

bisognerebbe nasce tutti qui, zito puro


l^^ tutto er magazzino
re
f,frchè ala roba che ce avèmo qua der tabacco^
é, sor fnccica mio, poco
^uasi guasi lo tiengo pe sicuro •
'

da dì.
le girt^ e vedi buggere de lì :
le svorti e vedi buggere de là
ha vive l anni che campò
:

un zocchi,
lyun ze n arriva a vede la
_^to paese, da sì che se creò,
mità. ^^^l^^^."^^^:^^^^::^^ ^a TUO su..

1 oteva fa cor monna a tu


per tu
V i.^
tccheveler ^T
'"^''''^ ^'' (f^^^ral Cacò. 69. - LA FREBBE. -
(1331)
motivo, sor Monza,
^jhenoma ha perzo Verre, che però
ve st anticaje nun ne pò e più. Q^^^nno pe' via de carica
Ervignarolo me manna a la legna
la
fa
V. II. General Cacò Lui stava fora e c'era viqna
: Principio della repubblica la madfeqna
franco-romana. Na stacca vedovella
da gramigna? '

67. - LA MUSICA. - commido der e... e


(ifuer
temesse voja de gratta ladetigna."
(1831) la f
'^''^''^ a5/7e^fat;o si er
Vnfl.^^'i padrone ^^^ %^^^l'<^ria indegna
Volessi la carrozza o torna
a piede, M
M' attacco
aitalo''"''''
poi 'na malattia maligna
^^''ifjP^rto deji
^a tetta d^ commedia abuscia vede bai che me disse qu^r dottor da
Tordinone. roqna
JoTr^""" « ^« Guccaqna?
Un paino scaìinato pe' la fede "Qui e e una'T^^'i^'"'
bona frebbe! e nun bisocp/a...
Discenno a un antro: Ma IO, pe nun zentì Vanirà »

Ma a Davide nun c'è piùNu lo vanno crede.


<c
Te l azzittai cusì : companna
^
paragone.
Sora carogna
., '

La frebbe e bona? annàtevel'a


magna. „
58 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 59

70. - ER MEDICO. - (1831) ^n giorno, tra li lepri ecco je scappa


Un cervio^ maschio, accudì poco tristo.
Vói sape chi medico delVogna,
è sto Che lui s'uffigurò de fallo pappa.
Ch'io nun farla castracce una castagna? Ma quanno a brusciapelo l'ebbe visto.
È qiier tufo^ quer fijo da carogìia? Co' quella croscè in fronte e in d'una chiappa.
Che venn€ qui da Strangoli a pedagna. Lo lassò in pasce, e vorze crede a Cristo.
Principiò^ pe' strappaUa, a dà Vassogna
A le bastarde de Piazza de Sjmgna.
Poi cor un ciarlatano anno a nirhogna 73. - ER PRANZO DE LI MINENTI. -
(1831)
A fa le vaste frolle de raffagna. Ch'avessimo? un baril de vino asciutto,
È pe^ l'appunto ar fatto de la vigna^ ^^' ragaj e coscio tosto.
Diventato dottore de la zugna^ An ^'^^^
Allesso de mascella, un quarto arrosto,
Era tornato a medica la tigna.
Fu allora che pe' via de In calugna E 'na mezza grostata: ecchete tutto/
Che lui diede a la mi' frebbe ?ncUigna, Ce fussi stato un frittarello, un frutto,
Te j'attwrai la bocca co' sta brugna. • O un piattino più semprice e composto/...
Y^ertantra gente che ce stiede accosto,
71. - LA RITONNA. - (1831) 6 ebbe armanco deppiù fichi e presciutt9/
òi poi vói ride, mica pan de forilo
Sta chiesa è tanta antica^ gente mie. Ce diede, sai? ma pagnottoni a peso.
Che ce l'ha trova er nonno de mi' nonTia. Neri arifatti de scent'anni e un giorno.
Peccato abbi d'ave ste porcherie Oh, tu azzachece un po' quanto fu speso/
Da nun essesce bianca una colonna/ Du' testonacci a testa, o in quer contorno/
Prima era acconzagrata a la Madonnay E ce vonno riannà? Bravo, t'ho inteso/
E ce sta scritto in delle lettanie: ^ ^0 che m'era creso
Ma doppo s'è chiamata la Ritonna, Un, impiega un prosperuccio lammertini,
.

Pe' certe storie che nun zo' buscie. ttò impegnato a mi moje l'orecchini.
Fu U7i miracolo^ fu; perchè una vorta
Nun c'ereno finestre^ e in concrusione 74. -ER PRANZO DE LE MINENTE. -
Je dava lume er buscio de la porta. (1831)
Ma un Papa santOy che dannò in prigione Mo senti er pranzo mio. Ris'e piselli.
Pesce una croce; e subbito a la vorta Allesso de vaccina e gallinaccio.
Se spalancò da sé quelV occhialone. Carofolata, trippa, s tu fataccio,
E 'r ìniracolo è mone E un spida de sar cicce e feghetelli.
Ch'er muro, co' quer buggero de vótOy Poi fritto de carciafoli e granelli,
Se ne frega de sé e dcr terremoto. CTer^t gnocchi da facce er peccataccio,
Na pizza aricresciuta de la spaccia,
72. - SANT'USTACCHIO. - (1831) E un agreddarce de cignale e ucelli.
Sto scervio co' sta croscè e co' sta boria
Ce funno peperoni sattasceta.
Salame, mortadella e cascia fiore.
Ch'edè? Babbàof ciazzeccherai dimani,
Vino de tuttopasta e vin d'Orvieto.
Vie qua, te lo dich'io : questa è 'na storia
Der tempo de l'aretichi pagani. ^
Eppai risario der Perfettamare,
Caffè e ciammelle: e t'ha lassata arreto
T'hfli dunque da ficca ne la momoria
Certe radisce da slargatte er care.
Ch'a li paesi lontani lontani
Sant'Ustacchio era un Re, Dio l'abb'in gloria, Bè, che importò er trattore?
Ch'annava a caccialepri co' li cani. Cor vitturino che magnò con noi.
Manco un quartin per omo: e che ce vói?
60 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 61

Quella benedet t'anima requiesca


75. - LA MACHINA LEDRICA. - (1831) Se scervellava pe' arricchì er marito;
E lui se va a spianta pe' sia ventresca!
Oggi qner zeppo de Padron Zarlattay J^yfi 2e n'accorge, mo ch'ha er fiasco empito;
Lui colVaniro bidello a la Sapienza Ma lasselo aridusce all'acqua fresca,
Che dietr'ar collo tiè tanta de natta. I E a te, Cannella, a mozzicatte er dito/
M'hanno fatto porfacce una credenza.
Ce sta lì drento una gran rota^ senza 78. - VENTI DI' TRENTOTTO MIJA
Razzi, tra du' cuscini, e tutta fatta E UN COTON CHI SE NE PIJA. - (1831)
De vetro; e pe barile eia in cuscenza.
Un manico cìiha Vomo in de la patta. Doppo quella frebbaccia buggiarossa,
Come se fa, nuìi l'ho capito un ette; Che a fa terra pe' ceci era d'avanzo
Ma dicheno che avanti a 'na colonna Sto giugno e lujo, pe' scampa la fossa.
Serve a compone furmini e saette. So' ito a muta aria a Portodanzo.
Eppuro pagheria, corpo de nonna. Magnavo poco a cena e gnente a pranzo:
De sape quanno giucheno a tresette Puro de punt'in bianco ebbe una smossa,
Si er primo è maschio e la siconna è donila. Che si ar guarì finn me se dà uno scarno,
Già aristavo lì lì pe' stira l'ossa.
Mo ch'agosto ariviè capo d' inverno.
76. - ER PID(X:€HIO ARIFATTO. - (1831) Me n'aritorno a Roma a pijà fresco,
O p'annamme^ a fa fotte in zempitemo.
Pe' viennimme a parla fanno a Vaggara Tu lo sai. Schizza mia; ch'io so' todesco
Donne tutte de garbo e obbrigazione; Vojo svariamme, e qimnno vinco un terno
Me saluta Maria de lo scozzone, Vado ar perdon-da-Sisi a San. Francesco.
La Chia/ppina e Luscia la salumara.
E tu, co' quer grostin de protenzione 79. - A BUCALONE. - (1831)
De tienèttela su, vacca somara,
Paressi mai la bella Pulinara Ah? piji moje? ebbe mo che ce sei
('he monta su la scala der pavone? Abbada a li capelli, Bucalone.
In sin' a jeri hai fatta la, servaccia ; Sibbè co' certe razze de drondrone.
E mo che sei. Dio guardi, er pisciatore L'abbi o non l'abbi, è sempre tre e tre sei.
D'un conte, soffi, e me ce sputì in faccia? Te li taji? Ma poi lassa fa a lei,
Picard e te però che chi setaccia. Pe' mostra tutta l'anna de Prutone.
Fa semmola e farina. Er cacciatore lA fai cresce? aricordate Sanzone,
Quanno pia starne e qtianno storni a caccia. Pettinato pe' man de Filistei.
Che je giovonno le su' belle porpe,
NUN ZEMPRE RIDE LA MOJE DER E quella ganassola de somaro,
V7. LADRO. E quelle code de trecento vorpe?
(1831) Che je giovò de rompe uno scatorcio,
Pe' fosse strascina Menica zozza.
E d'ave cojonato er Portinaro?
Pe' fa la morte de che more er zorcio.
Chi nu' lo sa'/ rinegheria la fede:
E te fa spesce si mo va in carrozza? 80. - ER GIOCO DE LA RUZZICA. - (1831)
Lassela fa: ciarivedèmo ap piede.
Sin che dura la roba de P re ssede, Sta cacca de fa a ruzzica. Donato^
Lei se la ride, se la sciala, e strozza. Co' la smaniaccia d'abbuscà l'evviva,
Scorta poi che sarà, tu l'hai da vede. Nun è giro pe' tè, che nun hai fiato
Uh l'hai da vede piagne a vita mozza. De strilla manco peperoni © oliva.
62 GIUSEPPE aiOACCHlNO BELLI
SONETTI ROMANESCHI 63
Comepoi giucà. tisico natOy
sce
Senza daje 'na càccola d'abriva? 83. - L'AMICHI ALL'OSTERIA. - (1831)
Nun vedi la tu' rùzzica sur prato
Ch'appena ar fin de 'na scorreggia arriva? Hairagione, per Dio! nun zo' cattive
Co' du^ p or mone t tacci d^ canario^ Ste sciriole, ^ E
te piasce er ìnarinato? -
D'indove mommo er zangue te se shuzzica. Me tiro wn antro pezzo de stufato. -
Tu protenni de prènnete sto svario? Magnete st'ova, che so' fresche vive. -
Staitene in pasce: gnisuno te stuzzica; Pe' me, quanno ho pijato antre du' olive,
Si poi vói vince tu^ va' a Moìifemario, Ce n'ho d'avanzo, che so' già arrivato.
Pija la scurza e butta giù la ruzzica. ... No, nun me fa più beve: ho sigg illato.
Chi beve pe' magna, magna pe' vive. -
81. - MUZIO SCEVOLA ALL'ARA. -
Ma eh? corpo dell'anima de Ghetto!
(1831) Pare er piscio, sto vin de Ppntemollo,
j Dell'angelo custode benedetto? -
Tra
cherubigneri e dii' patuje^
sei
Ohò! ciavèmo ancora un antro pollo?
Co' mano
derèto manettate^
le
Magni ala o coscia? —
Muzio Scevola in tonica da frate No, nemmanco er petto:
Si me vói fa sciala, tàjeìne er collo.
Anno avanti ar Zoprano de le Truje.
Stava Porzenno a sede in su le guje
Che se vedeno a Arbano inarberate. 84. - ER CIVICO DE GUARDIA. - (1831)
« Sora maschera, come ve ehi amate? Chi evviva? Chi vaia? Pss, sor grostino,
Er Re je disse, « E cosa so' ste bujel » Nun ze risponne più a la sentinella?
Bisce: « Sagra Maestà so' Muzio Scevola: Voi volete finì de beve vino.
Ve volevo ammazza ; ma pe' n'equivico Ve dico chivvalà, dio serenella!
Ho rotto un coppo in oammio d'una tevola ». Chi evviva?... ah, séte voi, mastro Crespino?
Ditto accusìf pe' ariscontà er marrone, Cile! ve puzzeno sane le budella?
Cor un coraggio de sor dato scivico Eh, si avevo la pietra all'acciarino.
Se schiaffò la mandritta in ner focone. Un antro po' ve la fascevo bella!
V. 4. Truje: Etruria. Quanno la guardia dar zu' posto v'urla,
Risponnete; si no, vienissi l'orco.
Qua se tira de netto, e num, ze burla.
82. - NUN za BEVE E SE PAGA. - (1831) Ma Dio guardi lo schioppo me fa foco,
Co' sto vostro sta zitto, eh, nun ve corco?
^
Vedèmo un po', sor oste da finocchi, Bella cazzata de morì pe' gioco!
Fùssimo Cacasenno e Bertollino!
Mezzo bicchiere quinisci baiocchi/ 85. - UN DEPOSITO. - (1831)
Quani'a la botte V arivenni er vino?
Fa commido eh, sor Lappa, er fiaschettino, Dove nasce la cassia, a manimanca.
Quanno capita er passo de Valocchi?! No a Pontemollo, tre mija più lontano,
Chi smezza, paga: tu poi l'aribbòcchi, Ce sta come un casson de pietra bianca
E cusì un fiasco te vie a dà un quartino. O nera, sòr P. P. der posa-piano.
Tu
dunqiie doveressi avelie intese Lì a Romavecchia, ha ditto Vartebbianca,
Quele storie inventate da Margutte, Ce sotterrònno un certo sor Mariano,
Dove disce accusi, che a quer paese, Che marze de 'na palla in una scianca
A tempi der Patriarca Sorfautte, A la guerra indòv'era capitano.
Se cantava st'aìitifona a le chiese: V. I. La cassia: equivoco preso dalla via Cassia, che sii può dire
« Un co Jone che vie, 1© paga tutte. » nascere a Ponte Molle.
V. 6. Mariano: P. Vibio Mariano, il cui nome è scritto sul sarcofago.
64 GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI SONETTI ROMANESCHI 65

Dunque^ o qui er morto è stato sbarattato; Questa glie vende giù, come la janda
E allora me stordisco de ragione Scende su li magliali a campo apelto;
Ch^er Governo nun ciàhhi arimediato
;
E [l giudio vendembiava, e a dogni canda
O chi ha scritto er pitaffio era un e... C impiegava sei gómbiti di cello,
Perchèy da sì cKer monno s'è creato^ Nun mi pare mondezza sto g^uadambio, \

Questa è la seportura de Nerone. Che puro a sembolella era faccenda '

Di lassa un jjranzo pagaticcio in cambio.


86. - AR TENENTE DE LI SCIVICHI. - (1831)
Se ci mettémo poi cena e merenda,
Facevano un sei giuli di sparambio,
Sor nfflzziale mioy nun v'inquietate^ A conti fatti a caldamaro e penda.
Venite qua, sentite la ragione:
Perchè fa sang uemmerda a sciabholate, 89. - LO SCILINGUATO. - (1831)
Si potemo aggiustasse co' le bone?
Qua/ino trenta magnère ho aripescate Oh che diggazzia, Ghitto! oh che bullaccal
Pe' dà ar prossimo nostro der codone, D effe jeli ito via calo me cotta/
E chi ciaripenzava ar battajone Nu" ta be' in ne^ pollone quella vacca,
Che voi, co' riverenza, commannafe? Fi e' mi padòn de cafa nu' la ccotta.
Ma mo ch'ar trentunesimo ch'ho trovo, rr Quanno to p'alientà dento a la potta,
Ve vienite a lagna com'è quarmente Vedo eh' e' pupo mio civola e cacca.
Quelle cose che dico nu^ le provo; Io nu* me leggo più: chiamo Callotta,
S'arimedia cor e...: 7iun è gnente. E butto e' fitto de meluzzi e lacca.
Ve darò pe' cojone un nome novo, Poi vado pe' annà là, ma in ne' fa e' pazzo,
E sarà er trentadua : dite Tenente. Pun, chioppo in tella e do la tetta a' mulo; '

Ma e' pelicolo mio tè ce lo scazzo.


|7. - ER SERVITOR-DE-PIAZZA GIOVILE. -
(1831)
Quello che m'impottava, e tè lo giulo.
Eia la fetta de favvà el lagazzo :
Lei sappi, vò vederle, che quelle
si Del letto lo fa Iddio fi me ne culo.
Indóve el vostro cane-còlso abba,glia,
Tutte cu perle di stole de paglia. V. I. Diggazzia: disgrazia. —
Chitto: Cristo. — Bullacca: burrasca

,

Suono le stufe delle Caftan delle. V. 2. Jeli: ieri. Cotta: costa.


V. Vacca: vasca.
Eh! sti abbagni da noi vanno a le stelle/ 3.

Gente o di garbo, o nobbile o birba glia,


V. 4. Ft.- se. — Padon: padrone. — Cafa: casa. —Cotta: scosta.
V. 5. . Fotta: porta.
Bardassaria, omminità o veochiagLia, V. 6. Civola: scivola. —
Cacca: casca.
Vònno tutti mettérce la sua j)elle. V. 7. Leggo: reggo.
Ohi ha callo..., dico caldo, di stagione, V. 8. Fitto: fritto. —
Lacca: lasca.
O un caldo a un piede, o a<jq'ualche occhiopullino, V. IO Tella : terra. —
Mulo : muro.
tapa la capandelU o el capandone. V. II Pelicolo: pericolo. —
Scazzo: scasso, casso.
V. 12 Giulo: giuro.
La meno folla spendano nn carlino
Per quelle chiuse: ma le più perzone
V. 13 Fetta: fretta. —
Favvà: salvare. —Lagazzo: «ragazzo.
A lo sbaraglio impiegheno un lustrino.
V. 14. Letto: resto. —
Culo: curo.

88. ER PARLA GIOVILE DE 90. LA GOLONNA TROJANA. - (1831)


- PIÙ'. - (1831)
Quando el Signiore volse in nel deselto Piano, sor Tibbddò, nun tanta foja.
Albelgare l'Abbrei senza locanda. Che ve pija una frebbe settimana.
Per darglie un cibbo a godere più scelto, ì Pe' dì a sto modo Golonna Trogliana,
Mando come una gomba: era la manda. Bisognerebbe dì Trog)lia, e no' Troja.
3. Belli. Sonetti romaneschi.

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