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M. Benites; F. Viola; G. Savagnone; C. Regúnaga; A. Preusche; S.

Zamagni; L. Videla; R. Corcuera; J.M. Serrano

EPISTEMOLOGÍA DE LAS CIENCIAS SOCIALES

La Doctrina Social de la Iglesia


en el nuevo milenio
Lila Blanca Archideo
(Coordinadora)

La laicità della Chiesa


Giuseppe Savagnone

CIAFIC
ediciones

Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural


de la Asociación Argentina de Cultura
Epistemología de las ciencias sociales : la doctrina social de la
iglesia en el nuevo milenio /
María Magdalena Benites ... [et.al.]. - 1a ed. - Buenos Aires :
CIAFIC Ediciones, 2012.
E-Book.

ISBN 978-950-9010-59-8

1. Epistemología. 2. Ciencias. I. Benites, María Magdalena


CDD 121

© 2012 CIAFIC Ediciones


Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural
Federico Lacroze 2100 - (1426) Buenos Aires
e-mail: ciafic@fibertel.com.ar
Dirección: Lila Blanca Archideo

Hecho el depósito que marca la ley 11.723

Impreso en Argentina
Printed in Argentina
LA LAICITÀ DELLA CHIESA
Giuseppe Savagnone*

Mentre finora – con la relazione del prof. Viola - ci siamo messi


nei panni del cittadino e abbiamo esaminato il problema della laicità
chiedendoci in che misura, nell’ambito della politica e della cultura,
potesse esserci posto per una dimensione di fede, in questa relazione
proveremo invece a porci nell’ottica del credente e ci chiederemo, dal
punto di vista teologico, quale spazio la fede – quella cattolica in
particolare – lasci all’autonomia delle realtà terrene, più
specificamente alla politica e alla cultura. Se là era in primo piano la
laicità dello Stato, qui si tratta innanzi tutto di quella della Chiesa, che
comporta, da parte sua, il riconoscimento della distinzione tra l’ambito
delle sue competenze e quello entro cui si svolgono e si decidono le
sorti della società civile.
Questa ricerca è tanto più legittima in quanto la laicità è un
valore che ha la propria origine nell’ambito della prospettiva cristiana.
Per quanto paradossale possa sembrare, anche le posizioni più
aspramente polemiche verso il cattolicesimo, che oggi riscontriamo
nella cultura contemporanea, non sarebbero state possibili senza il
vangelo e la tradizione della Chiesa. Per dimostrarlo, bisogna fare un
duplice percorso. Uno, meno essenziale, ci porta alle origini del
termine. L’altro al significato sostanziale della laicità.

* Profesor de Historia y Filosofía. Director del Centro diocesano per la pastorale


della cultura de Palermo y del Ufficio per la cultura, l’educazione, la scuola e
l’universitá de la Conferenza Episcopale Siciliana.

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I. IL SIGNIFICATO STORICO DI “LAICITÀ”
Alle origini del termine “laico”
«Seguendo una traccia filologico-giuridica, con il termine laici,
nell’ellenismo ci si riferisce ad un insieme di persone generiche, che
dovevano stare alle dipendenze di qualcuno (popolo comune). Questo
significato sostanzialmente negativo del termine laico nell’ellenismo,
ha impedito spesso ai LXX di usarlo per definire un membro del
popolo di Dio». Nella Chiesa antica «il termine laico è già usato verso
la fine del I secolo per indicare chi si trova all’ultimo gradino della
scala gerarchica, in un ruolo passivo, che consiste nell’obbedire ai
precetti a lui riservati, come classe ben definita dentro una comunità
religiosa strutturata gerarchicamente». «Dal 313 si accentua
progressivamente la distinzione tra laici e clero». «Lo status giuridico
(subordinato) dei laici viene definito con norme rigorose e da
consuetudini costanti: il codice teodosiano (438) proibirà ai laici, sotto
minaccia di gravissime pene, di discutere questioni teologiche. Il papa
Leone (440-461) farà divieto ai laici di predicare (...) Non pochi concili
(ad es. Orléans nel 549 e Parigi nel 557) ribadiscono (...) il divieto di
amministrare il battesimo e di distribuire l’eucaristia». «La mentalità
anti-laicale del clero è forse nel giudizio-limite del vescovo R.
Grosseteste (1258), il quale paragona i chierici agli angeli e i laici alle
bestie da soma (genus bestiale)»1.
«Di fatto, fin dalla stessa generazione subapostolica (…) il
termine stesso laikós (laico) sembra essere un termine categorizzante
in senso negativo (…) Nel migliore dei casi laico è il membro del
popolo di Dio che non è chierico»2.
Una traccia di questa situazione si trova perfino nei documenti
dello stesso Concilio Vaticano II, al quale pure si deve una vigorosa

1
M. P. Montemurro, Laicità, in «Rivista di teologia morale», XXV (1993), n.
98, pp.299-301.
2
L. F. Pizzolato, Laicità e laici nel cristianesimo primitivo, in AA. VV., Laicità.
Problemi e prospettive. Atti del XLVII corso di aggiornamento culturale del-
l’Università Cattolica, Vita e Pensiero, Milano 1977, p.58.

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rivalutazione della dimensione laicale. È significativo che, nel testo
della Lumen Gentium dove si prova a dare una definizione vera e
propria di questa figura, ci si limiti ad affermare: «Col nome di laici
si intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro
e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli, cioè, che dopo
essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio
e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e
regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo,
la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG, n.31).
Si potrebbe parafrasare dicendo che sono laici tutti i battezzati
che non sono né sacerdoti né religiosi. Dunque, ciò che caratterizza il
laico è, paradossalmente, il suo “non essere” - prete o monaco o frate
o suora.

La laicità come “non essere”


È rifacendosi a questa prospettiva che, ponendosi dal punto di
vista dell’antropologo, un “laico” come Francesco Remotti, è arrivato
alla conclusione che «essere laico forse vuol dire ‘mancare’ di
qualcosa: non esser qualcuno o non avere cose che altri sono e
possiedono. Si è laici rispetto a coloro i quali dispongono di qualcosa
‘in più»3. Ancora oggi, in Italia, in un organo collegiale come il
Consiglio superiore della magistratura, si parla di membri togati e di
membri laici per distinguere quelli che appartengono all’ordine
giudiziario da quelli che non vi appartengono.
L’autore, peraltro, si rende conto di quanto la sua definizione
possa suonare paradossale o riduttiva: «Non c’è dubbio che oggi con
laico intendiamo qualcosa di diverso: l’atteggiamento o lo spirito laico
sono propri di coloro i quali intendono rivendicare la legittimità e
l’opportunità di un pensiero e di istituzioni sociali e politiche che in
modo programmatico si sottraggono alla presa di una chiesa o di una
fede religiosa (...) Si potrebbe anzi sostenere che la cultura laica abbia
ribaltato o meglio ricostruito a suo favore un rapporto gerarchico,

3
F. Remotti, Il pregio di ciò che manca e la laicità degli altri, in G. Preterossi (a
cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005, p.43.

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rivendicando una superiorità intellettuale (la scienza, la ragione, lo
spirito critico e analitico) rispetto al mondo tradizionale delle credenze
e, in particolare, delle credenze religiose».
Per quanto vero, tutto ciò non costituisce una smentita delle
affermazioni precedenti: «E tuttavia qualcosa è rimasto della
definizione originaria. Al di qua delle rivendicazioni polemiche, e per
una sorta di estensione analogica, laico è diventato chi ‘non’ è investito
o non si sente investito della fede cristiana (o di una qualche altra fede
religiosa): chi ne è privo, o chi ne vuole essere privo, o intende non far
valere - per lo meno in certi ambiti - i principi della sua fede (...) Laico
può anche essere il credente che impedisce ai principi della sua fede o
della sua appartenenza religiosa di invadere il campo dell’azione
pubblica»4. E laico, come abbiamo appena visto è, all’interno della
Chiesa, chi non ha ricevuto il sacramento dell’ordine o non appartiene
allo stato religioso.
Insomma, è il “non essere”, il “non avere” -per condizione o per
scelta- ciò che caratterizza la laicità. Essi si riferiscono, immediata-
mente, alla dimensione religiosa. Tuttavia non è impossibile procedere
a un’estensione analogica. Lo fa lo stesso Remotti quando osserva che
ci possono essere «diversi gradi e tipi di laicità a seconda della quantità
di ‘senza’ che costellano la nostra vita, ovvero della quantità di cer-
tezze cui si è disposti a rinunziare (...) In sostanza i vari tipi di laicismo
dipendono dalla proporzione che si intende instaurare - tanto nella vita
pubblica quanto in quella privata - tra ciò che è discutibile, quindi ne-
goziabile e revocabile da un lato, e ciò che invece si ritiene essere in-
discutibile, non negoziabile, assolutamente valido e permanente
dall’altro». Insomma, «quanto più si dà spazio alla discutibilità, tanto
più aumenta il grado di laicità; quanto più si accresce l’indiscutibilità,
tanto più ci si avvicina invece ai fondamentalismi».
Ma, se la laicità implica un “mancare” di certezze indiscutibili,
«forse è impossibile una vita del tutto laica, del tutto ‘senza’, del tutto
aperta e discutibile, così come altrettanto impossibile è forse
un’impostazione del tutto chiusa, ferma nei sui principi, che non lasci
spazio a revisioni e mutamenti».

4
Ibidem, p. 44.

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Non si tratta, insomma, di demonizzare le certezze e di esaltare
in modo indiscriminato il dubbio, ma di trovare un giusto equilibrio tra
queste due componenti di un corretto approccio alla realtà. La laicità,
in questa prospettiva, non può e non dovrebbe essere assolutizzata, ma
valorizzata come una dimensione costitutiva, anche se mai esclusiva,
dell’esistenza umana. Ciò, ovviamente, può avvenire in forme e in
combinazioni diverse, anche in relazione ai diversi settori
dell’esperienza. Perciò sarebbe più corretta «una visione gradualistica,
la quale anziché proporre un’opposizione manichea (pensiero laico da
un lato, pensiero fondamentalista dall’altro), faccia intravedere legami
e passaggi tra posizioni di una stessa scala».

Il “vuoto” che fa spazio all’altro


Così intesa, la laicità implica il senso del limite e un
atteggiamento di onesta ricerca, che non può non tradursi, a sua volta,
in un’intima disponibilità alla cooperazione e all’ascolto. «C’è
un’umiltà del laicismo, che non è l’umiltà di chi si prostra di fronte a
un’autorità divina o umana; è invece l’umiltà di chi è consapevole
della pochezza dei mezzi mediante cui noi e gli altri, noi come gli altri,
noi insieme agli altri dovremmo ricercare “il meglio” (...) Nello spazio
lasciato libero dagli dèi, gli uomini si muovono alla ricerca del
“meglio” (...) Riconoscere ‘ciò che manca’ (o che ‘qualcosa ‘manca’)
è il punto di partenza di una concezione laica, e poco importa che a
‘mancare’ sia la parola di dio [sic] o della società. Mantenere sempre
un po’ sgombero lo spazio determinato da questa ‘assenza’, evitando
che ciò che di volta in volta vi costruiamo (dèi, culture o società)
diventi una presenza ingombrante, incombente ed eccessiva, è
l’obiettivo di un laicismo che sappia contrastare non solo i
fondamentalismi religiosi, ma anche (...) i fondamentalismi culturali»5.
Ci proponiamo di mostrare, negli sviluppi del nostro discorso,
che il laico – dentro e fuori la Chiesa - è colui che, proprio partire da
una “assenza”, è spinto ad andare oltre ciò che è e ciò che ha, verso ciò
che non è e ciò che non ha: verso la trascendenza, verso il futuro, verso
le prospettive altrui, da cui si lascia interpellare e con cui sente di

5
Ibidem, pp. 45-46 e 54.

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doversi confrontare continuamente proprio in ragione dei propri limiti.
Laicità significa dunque attitudine alla riflessione personale, ma anche
apertura al confronto; senso critico, ma anche docilità (dal latino
docibilitas, che indica la virtù di colui che sa lasciarsi insegnare
qualcosa da altri o semplicemente dalla vita); disincanto, ma anche
capacità di meraviglia. Laicità è percezione dell’altro come “altro”,
disponibilità a lasciarsi inquietare e talvolta spiazzare dalla sua alterità,
rinunziando a proiettare su di essa la maschera omologante che la
ricondurrebbe ai nostri schemi e alle nostre aspettative. Laicità è
coraggio di gettare ponti, dal sicuro terreno su cui si radicati, verso
l’ignoto, e di avventurarsi su di essi senza nessuna garanzia.
Perciò essa è legata indissolubilmente alla dimensione
comunicativa e in modo specifico al dialogo, che suppone appunto la
capacità di rispettare, da parte di entrambi gli interlocutori, le rispettive
identità e di accettarsi a vicenda pur nella propria diversità e perfino
nelle più profonde divergenze. È proprio di un’autentica laicità non
avere paura del conflitto e saperlo gestire evitando di farlo degenerare
in scontro violento, in quel clima perverso, cioè, uno dei due
interlocutori o entrambi tentano di metter fuori gioco l’altro,
ignorandolo, eliminandolo oppure assimilandolo a sé6.
Resta da chiedersi se e in che misura le diverse concezioni della
laicità e del laico oggi in circolazione– pur essendo tutte formalmente
caratterizzate dal “mancare” di cui si è detto – siano coerenti con
queste implicazioni.

II. IL SIGNIFICATO SOSTANZIALE DELLA LAICITÀ


Dal significato storico a quello sostanziale
Questa idea di laicità, racchiusa nell’origine del termine, non ha
un mero interesse storico. Essa può servire anche a illuminare l’aspetto
sostanziale del problema. Se, dal punto di vista del cittadino, il limite

6
Sul rapporto tra comunicazione e conflitto mi permetto di rinviare al primo ca-
pitolo del mio Sotto il segno di Hermes. Il giornalismo dal conflitto alla demo-
crazia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

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- il “non essere” e il “non avere” - consiste nella rinunzia, da parte
dalle istituzioni politiche e della cultura, ad una investitura e ad una
fondazione di tipo sacrale, da punto di vista del credente esso si
presenta come la corrispondente rinunzia, da parte della Chiesa e della
religione, a riassorbire in sé la dimensione politica e culturale.
Questo concetto di laicità - lo abbiamo già notato - comporta,
strettamente legato alla percezione del proprio limite, il
riconoscimento di un vuoto dove possono dispiegarsi la ricerca e
l’ascolto. E, su questa base, anche la rinunzia a risucchiare l’altro nei
propri schemi e a proiettare su di esso un’immagine precostituita,
accettandolo piuttosto nella sua inquietante alterità.
Dal punto di vista politico-culturale questa capacità di mettersi
in discussione si manifesta nella rinunzia a far valere nel dibattito
politico verità di fede indebitamente spacciate per argomenti razionali
universalmente validi per tutti i cittadini, siano queste verità quelle
della fede religiosa, siano quelle della fede laicista. In entrambi i casi,
si tratta di mantenere libera la sfera politico-culturale da ogni forma di
assolutizzazione.
Dal punto di vista ecclesiale, il “vuoto” di cui la laicità è
portatrice si realizza nel riconoscimento della relatività e della
discutibilità delle costruzioni troppo umane sovrapposte alla
Rivelazione, che da un lato comprometterebbero l’autonoma
consistenza delle realtà temporali, dall’altro mondanizzerebbero la
Chiesa, caricandola di una illusoria autosufficienza e impedendole di
mettersi in umile ascolto di ciò che Dio vuole dirle.
L’elemento comune ai due punti di vista è il rispetto
dell’autonomia del mondo e della società civile rispetto alle categorie
e alle istituzioni religiose. Un rispetto che, mentre esclude ogni forma
di teocrazia e di clericalismo, implica il riconoscimento della relatività
delle realtà politiche e la loro apertura a una sfera ulteriore, che le
trascende senza vanificarle, escludendo così, al tempo stesso, ogni
forma di laicismo. A noi qui interessa approfondire il primo aspetto,
senza perdere mai di vista il secondo.

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La creazione come fondamento dell’autonomia delle realtà terrene
Della laicità si è espressamente occupato il Concilio Vaticano
II, il quale ha solennemente riconosciuto la consistenza e il valore
intrinseco delle realtà terrene. A questo proposito la Costituzione
Apostolicam Actuositatem si pronuncia con estrema chiarezza: «Tutte
le realtà che costituiscono l’ordine temporale, cioè i beni della vita,
della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istitu-
zioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via (...)
non soltanto sono mezzi con cui l’uomo può raggiungere il suo fine
ultimo, ma hanno un “valore” proprio, riposto in esse da Dio (...): “E
Iddio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano assai buone” (Gen
1,31). Questa loro bontà naturale riceve una speciale dignità dal
rapporto che esse hanno con la persona umana a servizio della quale
sono state create» (AA, n.7)7.
E nella Costituzione conciliare Gaudium et Spes - tutta rivolta,
come recita il suo sottotitolo, a riflettere «sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo» - vi un intero paragrafo dedicato a «La legittima
autonomia delle realtà terrene». In esso si legge: «Molti nostri
contemporanei sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami
tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli
uomini, delle società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà
terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e
valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare,
allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente
essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme
al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature
che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le
loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a
rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola
scienza o tecnica» (GS, n. 36)8.
Vale la pena di fermarsi a riflettere sull’ultima affermazione,
dove si collega la «consistenza, verità, bontà» delle realtà del mondo,
col conseguente obbligo per l’uomo di rispettarne le «leggi proprie»,

7
Da ora in poi con AA sarà indicata la Apostolicam Actuositatem.
8
Da ora in poi con GS sarà indicata la Gaudium et Spes.

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alla «loro condizione di creature». Il concetto di creazione implica, in
effetti, due aspetti fondamentali per la laicità, entrambi legati alla
scoperta che il mondo non è Dio. Il primo aspetto è il
ridimensionamento del cosmo, che viene detronizzato dal suo ruolo
divino (è il “non essere” che, cme abbiamo visto, è intrinseco all’idea
di laicità). Il secondo è la sua valorizzazione in quanto cosmo, realtà
naturale, il cui significato e il cui valore non vanno cercati in una
prospettiva mitica, ma nella sua concreta fisicità (è l’autonomia che
scaturisce da questo “non essere” la divinità).
Nelle grandi religioni antiche la natura - ciò che i Greci
chiamavano physis - costituiva l’orizzonte onnicomprensivo che
abbracciava ogni sorta di esseri. Anche gli dèi non erano altro che
personificazioni di forze cosmiche: Poseidone (Nettuno per i Romani)
del mare, Zeus (Giove per i Romani) della folgore, etc. Tutto, in questa
prospettiva, era divino. Ma ciò significa che della realtà propriamente
fisica del cosmo non si poteva avere alcuna percezione e tanto meno
una considerazione scientifica adeguata.
Ciò condizionava anche la visione antropologica. Se si
identificava con la physis la divinità, a maggior ragione ciò valeva per
l’uomo, le cui vicende di conseguenza venivano interpretate alla
stregua dei processi naturali, e cioè come necessari. Le prime parole
della Bibbia, contrapponendosi radicalmente a quest’ottica, presentano
Dio come Colui che crea il cielo e la terra e che quindi si pone non
come identico alla natura, ma come il suo Signore, superiore ad essa
e sottratto alle sue leggi. Proprio per questo, però, queste diventano
oggettive, codificabili. È stato detto che la Bibbia esercita un’azione
demitizzante9. Ed è vero. Nel disincanto dell’universo, che lo spoglia
della sua trasfigurazione mitica - si pensi che il sole e la luna, che in
Egitto e a Babilonia erano adorati come dèi, nella Genesi diventano
due semplici «lampade» appese nel cielo dal Creatore (cfr. Gn 1,16-17)
– esso perde il suo valore assoluto, però acquista una propria identità,
può essere insomma riconosciuto per ciò che effettivamente è.

9
Cfr. J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, tr. it. G. Ruggieri, Queriniana, Brescia
1969, p.35. Su questo punto insiste giustamente G. Frosini, Laicità e mediazione
culturale, Effatà, Torino 2006, pp.11-13.

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E poiché l’uomo è fatto a immagine di Dio, anche lui non può
più essere assimilato a una parte del cosmo, ma acquista una propria
peculiarità. Si passa da una logica che privilegia la necessità - si pensi
alla oscura potenza del fato, a cui anche gli dèi sono sottomessi – a
una che mette in primo piano la libertà dell’uomo di fare le sue scelte
e di risponderne, come l’episodio del primo peccato dimostra.

Oltre il dualismo tra sacro e il profano


Questo rispetto per la sfera creaturale non va confuso con il
dualismo tra sacro e profano che caratterizza le grandi religioni: «Tutte
le definizioni del fenomeno religioso date fino ad oggi hanno un tratto
comune: ciascuna contrappone, a suo modo, il sacro e la vita religiosa,
al profano e alla vita secolare»10.
Ma proprio questa netta contrapposizione impedisce,
paradossalmente, quella distinzione tra sfera temporale e sfera
religiosa - col riconoscimento della legittima autonomia della prima
rispetto alla seconda - in cui abbiamo indicato l’essenza della laicità.
Il dualismo tra sacro e profano, infatti, comporta, come spesso avviene
nei dualismi, una così netta subordinazione di uno dei due termini
all’altro da annullarne l’effettiva consistenza e dignità: «Nella
dialettica tra sacro e profano (...) prevale la tendenza del sacro a
sottomettersi il profano. I fini ultimi ed i legami più profondi, i
condizionamenti decisivi vengono dal sacro (...) E’ sempre il profano
che si muove verso il sacro. Il pellegrinaggio è verso il luogo sacro»11.
La realtà profana si presenta, in quest’ottica, come un residuo,
un ostacolo da superare, un esilio da cui evadere, che nella sua radicale
opposizione non ha alcun rapporto col divino e, di conseguenza, non
può essere in se stesso considerato un valore. A questo punto, solo
nella misura in cui lo spazio ad esso concesso viene compresso e, al
limite, eliminato, la vita del credente si realizza secondo il piano di
Dio.

10
M.Eliade, Trattato di storia delle religioni, tr. it. V. Vacca, Boringhieri, Torino
1966, p. 3.
11
S. Dianich, Chiesa in missione, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985,
p. 43.

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Solo dove tutto viene da quest’ultimo, senza ombre e senza ri-
serve, ed è perciò dotato di una intrinseca bontà - come ripete per ben
sei volte il testo biblico: «E Dio vide che era cosa buona» (cfr. Gn 1,
1-25), accentuando la settima volta questo apprezzamento positivo:
«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn
1,31) - solo là è possibile che anche quanto non ha immediato riferi-
mento al divino ne mantenga comunque uno indiretto, implicito, che
non è alternativo alla sua identità mondana, ma fa tutt’uno con essa.
E solo dove viene meno la radicalità manichea della
contrapposizione tra divino e non-divino si apre lo spazio per le altre
innumerevoli differenze che conferiscono il loro proprio significato
alle singole sfere dell’essere e della vita. Sacro e profano sono due
entità monolitiche, separate da un confine rigorosamente univoco.
Nell’ambito del primo, non contano i volti, ma l’anonima potenza del
divino che si manifesta attraverso di essi, come si evidenzia nella
prostituzione sacra, in cui il rapporto sessuale prescinde dalle persone
che lo realizzano e diventa l’occasione di un’esperienza estatica in cui
il singolo si perde. Reciprocamente, tutte le differenze interne alla sfera
mondana, in quanto profane, annegano in una indistinta nebulosa di
negatività che le rende irrilevanti, almeno dal punto di vista religioso.
Bisogna uscire da questa alternativa per ritrovare il valore che ogni
cosa, ogni esperienza, ogni persona ha in quanto tale.
Una religiosità fondata sul sacro, peraltro, non si qualifica solo
per la sua chiusura nei confronti del mondo, ma, paradossalmente,
anche per quella nei confronti di Dio. Per rendersene conto, basta
riflettere sul fatto che «il sacro nasce dal fatto che la nostra esperienza
del divino è mediata, costretta cioè a passare attraverso qualcosa che
non è Dio (...) Tale realtà - proprio perché evoca il divino, il santo -
viene rivestita di alcune di quelle qualità che l’uomo attribuisce al
divino». «Il sacro è, dunque, (...) una mediazione che evoca il divino,
ma che non deve assolutamente sostituirsi ad esso e oscurarlo. È
importante perciò – e la Bibbia l’ha capito molto bene - che il sacro (...)
rimanga sempre in posizione di mezzo, al suo posto (occorre una
costante vigilanza per relativizzare il sacro). Il pericolo che il sacro si
sostituisca a Dio è tutt’altro che irreale»12.
12
B. Maggioni, La fondazione della laicità nella Bibbia, cit. , pp. 44-45.

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E quando ciò avviene, non è più il mistero di Dio ad essere
oggetto di venerazione, ma un insieme di formule e di riti che lo
oscurano, perché sono modellati su schemi umani e vengono a
costituire, con la loro tangibile evidenza, un universo concluso di
concetti e di forme rassicuranti e padroneggiabili, molto simile a quello
che è proprio della magia.

Il Dio sconosciuto
Se la minaccia alla laicità della ragione potrebbe essere costituita
da una fede che con le sua rappresentazioni mitiche cerchi di riempire
il vuoto del dubbio e renda superflua la ricerca, simmetricamente la
minaccia alla laicità della fede viene da un eccesso di rappresentazioni
e di rituali troppo umani, che rischiano di riempire il vuoto della
trascendenza di Dio e di anestetizzare l’inquietudine dell’Ineffabile.
Perciò bisogna sottolineare - particolarmente in questo nostro
tempo caratterizzato da un ritorno del sacro in tutte le sue forme
(settarismo, magia, ecc. ) - che la fede, nella prospettiva cristiana, non
è in grado di dar luogo a nessuna rappresentazione umanamente
appagante. La sua certezza è inversamente proporzionale alla sua
capacità di fornire chiarezza. Abbiamo già avuto modo di evidenziare
che proprio per questo essa lascia aperto lo spazio del mistero e
costringe la ragione ad avventurarsi in esso senza garanzie
precostituite. Il cristianesimo non è - come molti credono - un archivio
di risposte precostituite, da tirare fuori su richiesta. Come ha chiarito
il Concilio, «la Chiesa (...) non ha sempre pronta la soluzione per ogni
singola questione» (GS, n.33).
Perfino i dogmi hanno un certa dose di relatività, perché sono
solo le modalità umane di esprimere il mistero, e la fede, dice
Tommaso, è protesa ad rem - alla realtà creduta - non al nostro modo
umano di esprimerla13. Anche se essi, pur condizionati dal tempo, dal
luogo e dalle circostanze in cui sono formulati, rimangono il solo
approccio, per quanto limitato, attraverso il quale noi possiamo
accostarci all’Indicibile.

13
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II II, 1, 2, ad 2m.

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C’è, senza dubbio, la Rivelazione. Ma anche quando Dio parla,
nella pienezza dei tempi, la sua Parola scaturisce da un eterno Silenzio
che ne rimane lo sfondo. «Se nella rivelazione Dio si manifesta nella
Parola, al di là di questa Parola, autentica autocomunicazione divina,
sta e resta un divino Silenzio. Questo Silenzio è anzitutto la Non-
Parola, l’ulteriorità misteriosa e sorgiva da cui la Parola proviene e
presso cui la Parola è stata ed è nell’eterna storia di Dio»14.
Perciò «la natura di Dio, come è in sé, non la conosce né il
cattolico né il pagano», scrive quello che è forse il più noto maestro del
pensiero cattolico, san Tommaso d’Aquino15. Egli, che ha dedicato
tutta la sua vita alla ricerca del volto di Dio, non teme di scrivere che
«l’ultimo passo della conoscenza umana di Dio è sapere che non lo
conosciamo»16. Cosicché si può ben dire che «conosciamo Dio come
sconosciuto»17.
Se il senso della laicità è la percezione di una incompiutezza, di
una “mancanza”, siamo davanti a una religiosità fortemente laica. La
fede del cristiano non ha paura della nudità e del silenzio. Essa lo
spinge a fare piazza pulita delle illusioni consolatorie, delle immagini
arbitrarie, delle false certezze che abbondano, normalmente,
nell’esperienza religiosa. Se «mantenere sempre un po’ sgombero lo
spazio determinato da questa ‘assenza’, evitando che ciò che di volta
in volta vi costruiamo (dèi, culture o società) diventi una presenza
ingombrante, incombente ed eccessiva, è l’obiettivo di un laicismo che
sappia contrastare non solo i fondamentalismi religiosi, ma anche (...)
i fondamentalismi culturali»18 -come si diceva all’inizio della nostra

14
B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compi-
mento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p.56.
15
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 13, 10, ad 5m.
16
Id., De potentia, 7, 5, ad 14m.
17
Id., In Boëtium de Trinitate, 1, 2, ad 1m. È significativo che alla fine della sua
vita Tommaso abbia smesso di scrivere e, rispondendo, a un confratello che
gliene chiedeva il motivo, si sia limitato a dire che tutto ciò che aveva scritto gli
sembrava ormai, a confronto della sua esperienza sempre più intensa di Dio,
come paglia (cfr. J. A. Weischeipl, Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, tr.
it. A. Pedrazzi, a c. di I. Biffi e C. Marabelli, Jaca Book, Milano 1988, p.325).
18
F. Remotti, Il pregio di ciò che manca e la laicità degli altri, cit., pp. 45-46 e 54.

La laicità della Chiesa


77
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
riflessione-, ebbene questo obiettivo è anche quello di un cristianesimo
fedele alla propria identità.
L’opera della ragione non vanifica il mistero e non rende
superflua una fede chiamata a riconoscere Dio non nel fulgore della
sua gloria, ma nella povertà dei segni, come i Magi si prostrarono
davanti a un piccolo bambino in una stalla.
Da qui l’attitudine del messaggio cristiano a lasciarsi
contaminare da tutti gli apporti, da tutte le voci, ad essere debitore di
tutte le culture, come lo è stato nella sua storia millenaria diventando
greco con i Greci, latino con i Romani, italiano, francese, spagnolo,
tedesco, inglese nell’età moderna, sempre più anche latino-americano,
africano, asiatico in quella contemporanea. Da tutti questi ambienti
culturali il cristianesimo ha tratto linfa, vitalità, ricchezza umana,
donandone a sua volta ad essi.
L’apertura a Dio e quella agli uomini vanno di pari passo. Dove
e quando, invece, il sacro e il profano diventano i protagonisti, da un
lato non è possibile il dialogo col mondo, dall’altro non c’è quella
percezione della trascendenza di Dio, rispetto alle nostre costruzioni
religiose umane. E si perde di vista quella salutare inquietudine che
traspare nella preghiera di Salomone, nell’atto di inaugurare il
grandioso tempio da lui fatto costruire a Gerusalemme: «Ma è proprio
vero che Dio abita sulla terra?». La risposta egli la conosce bene:
«Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno
questa casa che io ho costruita!» (1Re 8, 27). La fatica umana non è
stata, per questo inutile. Essa rende gloria a Dio, purché non si illuda
di ingabbiarlo tra le mura di una costruzione o nelle parole di una
formula.

A Cesare e a Dio
La grande lezione di laicità contenuta nella Bibbia non esclude,
però, la presenza in essa di altri aspetti che invece possono richiamare
il dualismo tra sacro e profano - qualcuno ha parlato di «un alternarsi
di tendenze secolarizzanti e sacralizzanti»19 - e che stanno alla base di
letture differenti da quella che ne ha dato la tradizione cristiana.
19
B. Maggioni, La fondazione della laicità nella Bibbia, cit. , p. 45.

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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
Ne è un indizio il forte dualismo tra puro e impuro che
caratterizza sia l’ebraismo che l’islamismo, che pure si rifanno
entrambi alla sacra Scrittura. Ciò ha un preciso riscontro sul piano
politico. Per quanto riguarda l’ebraismo, Martin Buber ha dimostrato,
in una sua famosa opera, che il popolo ebreo, all’alba della sua storia,
non ha ritenuto di potere avere delle istituzioni come quelle degli altri
popoli, ma ha creduto fermamente di avere come re Dio stesso. Egli
ricorda che, quando i suoi compatrioti, dopo la grande vittoria sui
Madianiti, si stringono intorno a Gedeone per proclamarlo re, questi
risponde: «Io non regnerò su di voi né mio figlio regnerà: il Signore
regnerà su di voi» (Gdc 8, 23).
E commenta: «Quello che rende memorabile il rifiuto di
Gedeone è che esso non viene pronunciato solo per lui e per i suoi
discendenti, ma si estende a ogni altra persona (...) In queste parole
c’è l’audacia di prendere sul serio la sovranità di Dio»20. E’ questo,
del resto, secondo lo studioso ebreo, il senso del grande evento
fondativo che ha segnato la nascita del popolo: «Il patto del Sinai
significa che le tribù nomadi accettano JHWH come loro re “per
sempre e in eterno”»21.
Per quanto qualcosa di grande e di profondo possa esservi in
questa concezione, essa è una dimostrazione di come una distinzione
tra sfera religiosa e sfera politica non potesse trovare posto nell’antico
Israele. Se anche dovesse essere vero che l’idea della regalità di Dio è
solo un’utopia22, è innegabile, tuttavia, che essa ha avuto un ruolo
effettivo nelle vicende storiche del popolo ebreo e non manca ancora
oggi di far sentire il suo peso. Anche il movimento sionista, e lo Stato
d’Israele che ne è stato il prodotto, pur essendo essenzialmente
“laici”23, non hanno potuto non rifarsi all’idea del ritorno alla “terra
promessa”. Promessa da chi, infatti, se non da quel Dio la cui presenza
ha segnato indelebilmente l’identità culturale dell’ebraismo,

20
M. Buber, La regalità di Dio, tr. it. M. Fiorillo, pref. J. A. Soggin, Marietti, Ge-
nova 1989, p. 49.
21
Ibidem, p. 168.
22
J. A. Soggin, Prefazione a M. Buber, op. cit. , p. XI.
23
B. Segre, Ebraismo e laicità *

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
rendendola inscindibile da quella religiosa? Che poi, sotto l’influsso di
altre tradizioni, prima fa tutte quella cristiana, anche il mondo ebraico
si sia dato un nuovo statuto ispirato alla laicità, non significa che esso
ne sia la fonte.
Quanto all’Islam, la sua nascita si deve a un Profeta che è stato
anche il condottiero e il capo politico dei suoi seguaci. L’«attività
guerriera di Muhammad» riempie la prima fase della sua vita come
«capo di stato»24. E in effetti per l’Islam la religione «è qualcosa che
abbraccia sia la nostra religione sia la nostra politica, è regola di vita,
legge, mentre le mancano le connotazioni sacerdotali-ritualistiche
essenziali nella nostra nozione di “religione”»25. È significativo il fatto
che «la legge islamica considera solo capitoli differenti, ma non situati
su piani differenti, il come bisogna compiere la preghiera e quanti soldi
bisogna lasciare in eredità al proprio figlio». Così, «nel concetto
musulmano “Dio” sostituisce il concetto antico di civitas»26.
Nel cristianesimo, invece, vale la sentenza lapidaria di Gesù:
«Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»
(Mt, 22, 21). A cui fa eco il Vaticano II: «E’ di grande importanza,
soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione
dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una
chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in
gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla
coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa
in comunione con i loro pastori» (GS, n.76).
Per quanto riguarda il testo evangelico, sembra corretta
l’interpretazione, presentata da qualche esegeta contemporaneo,
secondo cui Gesù, indicando l’immagine impressa sulla moneta, che
era appunto quella dell’imperatore, ha voluto implicitamente porre un
parallelo con l’immagine impressa sul volto dell’uomo, che è quella di
Dio, e ha voluto sottolineare le due diverse appartenenze che ciò

24
A. Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 2002, pp. 144-145.
25
Ibidem, p. 11.
26
Ibidem, pp. 37-38. Qui, come in tutte le citazioni che seguiranno, il corsivo è
nel testo.

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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
implicava27. A Dio spetta tutto l’essere umano, a cui la sfera rituale -
anche il sabato! (cfr. Mc 2, 27) - va subordinata: qui il dualismo tra
sacro e profano, tra puro e impuro, viene superato alla radice.

Niente di creato è immondo


Ne è una conferma, del resto, la rottura che i primi cristiani
realizzarono nei confronti dell’ebraismo, rifiutando i tabù alimentari e
di ogni altro genere. Emblematico, a questo proposito, il racconto degli
Atti degli apostoli dove si narra che, mentre Pietro si trovava nella città
di Giaffa, «salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne
fame e voleva prender cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito
in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una
tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’erano ogni
sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò
una voce che gli diceva: “Alzati, Pietro, uccidi e mangia!”. Ma Pietro
rispose: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla
di profano e di immondo”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha
purificato, tu non chiamarlo più profano”» (At 10, 9-15).
Non si tratta solo della purità o impurità del cibo, che pure è così
importante, anche oggi, per gli ebrei ortodossi. È significativo il fatto
che subito dopo Pietro accetti, sempre per ispirazione divina, di recarsi
a casa del centurione Cornelio, un pagano, casa di cui, secondo la
Legge, non si poteva varcare la soglia senza restare contaminati.
Pietro, che lo sa bene, spiega egli stesso ai suoi ospiti perché abbia
deciso di incontrarli egualmente, violando apertamente il divieto
rituale: «Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi
con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire
profano o immondo nessun uomo. Per questo sono venuto senza
esitare quando mi avete mandato a chiamare» (At 10, 28-29).
È lo stesso capo degli apostoli che stabilisce un nesso tra i due
episodi, come farà del resto quando, ritornato a Gerusalemme, verrà
accusato dai Giudei convertiti alla nuova fede, ma ancora fedeli alla

27
Cfr., per il punto di vista protestante, G. Bornkamm, Gesù di Nazareth, tr. it.
E. Paschetto, Claudiana, Torino 1981, p. 119, e per quello cattolico B. Maggioni,
La fondazione della laicità nella Bibbia, cit. , p. 56.

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81
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
vecchia mentalità, di aver trasgredito la Legge accettando l’invito di
Cornelio. E gli altri «all’udir questo si calmarono e cominciarono a
glorificare Dio» (At 11, 18).
Ma il superamento del dualismo sacro-profano in nome
dell’unità del Dio creatore non fa precipitare tutto in una indistinta
nebulosa unitaria, anzi implica il rispetto dei piani e degli ambiti
particolari in cui la vita umana si articola: «A Cesare ciò che è di
Cesare». Nel mondo romano, l’imperatore era una divinità. Una
metafora per indicare che lo Stato era tutto. Il civis viveva e moriva per
Roma. Per questo la domanda degli scribi è insidiosa. Essa chiede a
Gesù di fare una scelta tra due posizioni totalitarie ed entrambe non
“laiche”: quella ebraica, in cui la religione assorbiva in sé la politica,
e quella romana, per cui la politica assorbiva in sé la religione28.
Cristo le respinge entrambe con la sua risposta. Se l’uomo porta
impressa sul volto l’immagine del suo Creatore e non, come la moneta,
quella di Cesare, egli non appartiene a Cesare, ma a Dio.
Reciprocamente, però, proprio perché è il Signore che abbraccia
l’universo e la storia, il Dio cristiano non entra in concorrenza con le
creature, ma le riconosce e le conferma nella loro fisionomia propria
e nel loro valore. Infatti, «aprirsi alla signoria di Dio significa aprirsi
all’uomo»29. E questi può gestire le realtà create rispettandone le
caratteristiche e le dinamiche interne, nella fiducia di render così gloria
a Colui che le ha volute quali sono e incessantemente le sostiene
nell’essere.

28
In particolare, per quanto riguarda la prima, Gesù stesso, stando ai vangeli, ha
respinto con decisione, come una tentazione diabolica, l’interpretazione “poli-
tica” del messianismo che, nel suo ambiente, era sostenuta dalla setta degli Zeloti,
interpretazione che si trova adombrata nel racconto delle tentazioni nel deserto
e a cui corrisponde il tentativo di difesa armata da parte di Pietro al momento
della sua cattura. È significativo,m del resto, che, quando vengono a cercarlo,
per farlo re, dopo la moltiplicazione dei pani, egli si sottragga, ritirandosi solo
sulla montagna a pregare (su tutto questo cfr. O.Cullmann, Gesù e i rivoluzionari
del suo tempo, tr. it. G. Stella, Morcelliana, Brescia 1974). Non potrebbe esserci
una più evidente diversità rispetto alla linea seguita da Maometto.
29
B. Maggioni, La fondazione della laicità nella Bibbia, cit. , p. 56.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
Perciò va bene che sulle monete e nella vita politica Cesare -
liberato dal peso di una divinità che non gli spetta e che deformerebbe
la sua reale identità in quella fittizia di un idolo opprimente - veda
riconosciuto il proprio ruolo, che, finalmente restituito alle sue reali
dimensioni, non costituisce per Dio una minaccia, ma rientra
nell’ordine da Lui voluto. «Tutto è vostro», dice s. Paolo, «ma voi siete
di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3, 22-23). La religione non deve più
negare il suo spazio autonomo alla politica. Reciprocamente,
quest’ultima non ha bisogno, per vedersi riconosciuta, di negare alla
religione la sua peculiare trascendenza.

III. LAICITÀ E STORIA


Il Dio del futuro
Il terreno più proprio della laicità è quello della storia. È dunque
estremamente significativo che la rivelazione giudaico-cristiana sia
essenzialmente storica, al punto da potersi affermare che è stata questa
rivelazione a inaugurare il concetto stesso di “storia”. Ciò appare
evidente prendendo in considerazione alcuni punti fondamentali del
passaggio dalla prospettiva delle grandi religioni mitiche a quella
biblica.
Il primo è quello che, ponendo Dio fuori della natura, libera
anche l’uomo e il suo divenire dalla logica della ciclicità, che è tipica
dei processi naturali30, consentendo di concepire il suo sviluppo come
un processo lineare e progressivo, teatro dunque della creazione di
cose nuove. Come Dio è capace di trarre l’essere dal nulla, anche
l’uomo, sua immagine, può produrre la novità di un futuro che non si
appiattisce su ciò che è già stato e non è l’inevitabile prolungamento
di ciò che è.
Un secondo punto, strettamente connesso al primo, è quello del
passaggio dai fenomeni agli eventi. Il fenomeno naturale è ripetitivo.

30
Noi oggi sappiamo che anche la natura ha una evoluzione irreversibile (si pensi
al big bang, o all’evoluzione delle specie), ma gli antichi, fondandosi sull’osser-
vazione immediata, vedevano in essa un eterno ritorno e in questa prospettiva
concepivano anche la storia.

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
Nessuno scienziato che si rispetti potrebbe annunciare una propria
scoperta nel campo della fisica o della chimica asserendo di aver
assistito a qualcosa che non si ripeterà mai più. Il fenomeno dev’essere
almeno riproducibile in laboratorio. La vicenda umana, quale la Bibbia
la presenta, è fatta di eventi unici e irripetibili, non riproducibili. Si
pensi al peccato originale.
In questo modo, però, diventa decisiva la dimensione temporale.
Due fenomeni naturali dello stesso tipo sono sostanzialmente identici,
qualunque sia la loro collocazione cronologica. Due azioni umane
dello stesso tipo differiscono profondamente già per il semplice fatto
di essere compiute in momenti diversi. La dimensione temporale
diventa una variabile rilevante e acquista maggiore rilevanza di quella
spaziale. «Non gli oggetti dello spazio, statici anche nel tempo, ma ciò
che accade nella continua innovazione e imprevedibilità del tempo e
non permane fisso nello spazio - l’evento - è per eccellenza sacro
nell’ebraismo (...) Il sacro ebraico non è atemporale, ma s’inserisce in
una storia, ha una storia»31.
Così, mentre le manifestazioni della divinità erano, nel mondo
greco e in quello orientale, la consacrazione di una località, di una
porzione dello spazio, nella Bibbia Jahvè irrompe nel tessuto degli
avvenimenti per dar vita a nuove prospettive e dare una direzione al
tempo. È significativo, da questo punto di vista, che nella Bibbia Jahvè
non sia più, come le divinità delle popolazioni cananee, il Ba’al, cioè
la divinità naturalistica che abita un luogo e ne è il nume protettore,
bensì il Malk, cioè il re e il condottiero del popolo d’Israele nella sua
peregrinazione storica – dunque in una successione temporale di eventi
- di cui egli è il primo protagonista32.
Da qui un terzo fondamentale cambiamento di prospettiva, che
riguarda il valore delle stesse apparizioni divine. Nelle religioni
mitiche queste ultime avevano il senso di una consacrazione del
mondo così com’è, dunque dell’esistente e del presente. In rapporto ad
esse diventa sacro un ambiente fisico o un particolare momento che,
dopo la manifestazione del dio, acquista uno speciale valore.

31
S. Quinzio, Le radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, p. 28.
32
Cfr. M. Buber, La regalità di Dio, cit., pp. 93-95.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


84
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
Così non è nella Bibbia. «Si rimane colpiti dal fatto che Israele
nell’interpretare il significato delle ‘apparizioni’ di Jahwe le ha intese
soltanto in misura limitata come consacrazioni di luoghi o di tempi: per
Israele invece l’‘apparire’ di Dio è direttamente collegato con la
proclamazione di una parola di promessa divina»33.
La promessa diventa, nella rivelazione giudaico-cristiana,
l’elemento decisivo. «Ma la promessa orienta l’attenzione lontano
dall’apparizione in cui essa è avvenuta e verso un futuro che essa
annuncia e che non è ancora reale». Quando san Paolo vorrà
caratterizzare il Dio di Abramo, lo farà definendolo come Colui «che
dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono»
(Rm 4,17). Dove «le cose che ancora non esistono» costituiscono,
precisamente, il futuro. Il passato è già stato, lo si è sperimentato, lo
si conosce; il presente c’è. Il futuro, invece, è imprevedibile, è
totalmente nuovo. Nelle religioni mitiche il richiamo al divino o la sua
diretta manifestazione servono a consacrare il presente mediante il
richiamo al passato, nella logica del ciclo per cui andare avanti
significa, in fondo, tornare indietro, all’origine, alla mitica età dell’oro.
Qui lo relativizzano in rapporto al futuro. «Se i culti mitici e magici
delle religioni epifaniche hanno il significato di annientare i terrori
della storia ricollegandosi all’evento sacro delle origini, e sono
pertanto tendenzialmente ‘antistorici’ (M.Eliade), viceversa il Dio che
fa la promessa rende possibile per la prima volta, mediante l’atto della
promessa, la comprensione della storia nella categoria del futuro ed
opera quindi in modo ‘storicizzante’».
Ma questo cambia profondamente anche il senso dell’intervento
divino. Là esso aveva una funzione rassicurante e stabilizzante, qui, al
contrario, inquietante e de-stabilizzante. Nelle religioni mitiche
portava ad anestetizzare le tensioni e a rafforzare gli equilibri esistenti,
nella Bibbia produce queste tensioni e sollecita una trasformazione.
«Qui evidentemente la rivelazione di Jahwe non serve a mettere il
presente minacciato in congruenza con la sua eternità, ma ottiene
invece l’effetto di mettere gli uditori della promessa in situazione di

33
J. Moltmann, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle impli-
cazioni di una escatologia cristiana, tr. A. Comba, Queriniana, Brescia 1981, p.
99.

La laicità della Chiesa


85
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
incongruenza con la realtà che li circonda (...) La conseguenza non è
quella di sanzionare religiosamente il presente, bensì il muoversi del
presente verso il futuro». In questo senso la promessa «libera delle
forze critiche nei confronti dell’essere»34. La distanza tra ciò che di
fatto è e ciò che ancora non è spinge a trasformare il mondo, non ad
accettarlo così com’è.
Siamo davanti a una visione che privilegia in modo marcato
quella “mancanza” che abbiamo posto al centro di ogni laicità. Nella
prospettiva biblica il vuoto del futuro predomina sul pieno del presente
e apre lo spazio alla speranza.
E il Dio della speranza ad Abramo, ormai anziano e segnato
dalla morte, giura una discendenza numerosa come le stelle (cfr. Gn
12,5); a Mosè, anche lui vecchio e stanco, affida la missione di liberare
il suo popolo da una schiavitù umanamente senza vie d’uscita (cfr. Es
3,7-10). «Seguendo la stella della promessa non si fa l’esperienza della
realtà presente come di un cosmo divinamente stabilizzato, ma come
una storia che avanza, lascia le cose vecchie dietro di sé e si spinge
verso orizzonti nuovi e mai visti prima».
Questo, certamente, supera ciò che i calcoli umani sono in grado
di predisporre o anche semplicemente prevedere. Non per nulla «si
tratta di una promessa divina, il che vuol dire che il futuro atteso non
deve necessariamente svilupparsi nel quadro delle possibilità offerte
dal presente, ma nasce da ciò che è possibile al Dio della promessa. E
può trattarsi di qualcosa che sembra impossibile secondo i criteri
dell’esperienza attuale»35.
Per altro verso, però, la promessa esige da parte dell’uomo una
decisione. Da qui anche l’ultimo, decisivo passaggio, quello dalla
logica della necessità, che porta ad accettare come ineluttabile
l’esistente e configura fatalisticamente il futuro come una
riproposizione del già visto – “niente di nuovo sotto il sole” -, rispetto
a cui è assurdo illudersi di poter introdurre una qualche novità, alla
logica della libertà per cui l’uomo si conferma immagine del Dio che
crea dal nulla cose nuove.
34
Ibidem, pp. 100 e 120.
35
Ibidem, pp. 102-103.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


86
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
Certo, per alcuni versi con la venuta di Cristo il Regno è già in
qualche modo presente: «Se io scaccio i demoni col dito di Dio, è
dunque giunto a voi il regno di Dio » (Lc 11,20). Ma esso è come un
seme nella terra (Mc 4,26), come il lievito nascosto nella pasta (Lc
13,20), come il padrone che tarda a venire e che tornerà quando i servi
meno lo attendono (Lc 12,45), come la rete che contiene pesci buoni
e cattivi (Mt 13,47), come il campo dove il grano e la zizzania
crescono insieme (Mt 13,24). Scambiare l’ambiguità di queste primizie
col frutto maturo, illudersi che non ci sia più nulla da sperare, sarebbe
un decisivo fraintendimento dei testi evangelici.
In realtà, il cristiano, come Abramo, vive proteso verso una città
dalle salde fondamenta, che non è quella costruita dagli uomini (Eb
11, 8-9.13-16). E a lui, non meno che ad Abramo, è richiesto di
attendere con speranza un compimento che, nel vangelo, si configura
come il ritorno del Figlio dell’uomo. A questo ritorno alludono, oltre
che le esplicite affermazioni di Gesù, le numerose “parabole
dell’attesa”, da quella dei talenti (Mt 25,14-30), a quella del servo
dissoluto (Lc 12,36-48), a quella delle vergini (Mt 25,1-13).

Il rito e «le cose che ancora non esistono»


Troppo spesso tale prospettiva resta in secondo piano nella
pastorale della Chiesa. Nella vita di molte comunità cristiane la
celebrazione del rito, che dovrebbe annunziare, insieme alla morte del
Signore, la sua venuta, testimoniando l’ardente attesa dei suoi
discepoli, la loro impazienza nei confronti del presente, finisce invece
per consacrare una routine e sancire la rinunzia ad ogni proiezione
verso il futuro. La virtù teologale più dimenticata, oggi, nelle nostre
parrocchie, nei nostri gruppi, sembra essere proprio la speranza. Non
è un caso che i cattolici vengano spesso identificati con gli ambienti
più conservatori, o, nella migliore delle ipotesi, con quelli più
moderati, in ogni caso con i meno disponibili alle “avventure” di
qualunque genere.
Da questo punto di vista non è del tutto infondata l’accusa che
gli Ebrei rivolgono ai cristiani, di essersi appagati della venuta di Gesù,
abdicando allo spirito dell’attesa. Un aneddoto della tradizione ebraica
narra di un giovane discepolo che andò un giorno a trovare il suo rabbi

La laicità della Chiesa


87
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
e gli confessò di essere tentato di farsi cristiano. Lo tormentava una
domanda: “E se il Messia fosse venuto?”. Il rabbi, che era seduto
vicino a una finestra, senza dire una parola scostò con una mano la
tenda e guardò fuori. Una povera vecchia mendicante si trascinava
sulla via. Una prostituta attendeva clienti. Dei ricconi passavano
indifferenti. “No - disse, lasciando ricadere la tenda -. Non è ancora
venuto”.
Forse i cristiani dovrebbero più spesso richiamare, nella loro
riflessione, il dato indubbio, secondo la loro stessa fede, che il Cristo
deve tornare. La solennità del Natale, con la sua festosità, rischia di
oscurare, ai loro occhi, quanto i padri e i dottori della tradizione
cristiana non si sono stancati di ricordare, e cioè cha la prima venuta
del Signore, attuatasi con la sua nascita a Bethlem, è inseparabile dalla
seconda e definitiva, in cui egli verrà a giudicare la storia degli uomini
e di fronte a cui si evidenzieranno le responsabilità di ciascuno nella
costruzione di questa storia.
Non sembra possibile concludere la nostra riflessione sulla
storicità senza avvertire che, in contrasto con la modernità, il mondo
postmoderno in cui oggi siamo immersi sembra registrare un ritorno
al naturalismo. Ci riferiamo qui soprattutto all’abolizione del tempo
storico operato dal consumismo. Perché il consumismo è diventato
una forma di religione, in cui la distanza tra la promessa e
l’adempimento, che costituisce, nella prospettiva cristiana, lo spazio
della storia e della speranza, viene per definizione ridotto fino al suo
totale annullamento. “Tutto e subito” è il motto ormai dominante. È
significativo che le polemiche contro la presenza di simboli religiosi
nei locali pubblici non abbiano mai sfiorato le immagini e gli slogan
della pubblicità che, con la loro onnipresenza invasiva e sottilmente
totalitaria, si impongono ormai al culto collettivo.
Si riproduce così, in qualche modo, la visione delle religioni
precristiane, secondo cui è la natura, col suo gioco di pulsioni istintuali
ed emotive, la sola vera divinità. In questo senso ha ragione chi parla
di neo-paganesimo36. Se la dimensione della storicità e della speranza

36
Cfr. S. Natoli, I nuovi pagani, Il Saggiatore, Milano 1995. Una curiosità: sul
«Corriere della Sera» del 6 maggio 2006 è apparsa , a tutta pagina, la notizia che

Epistemología de las Ciencias Sociales.


88
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
è legata, col so riferimento al “non ancora”, al “non essere” e “non
avere” della laicità, non ci sembra esagerato concludere che la battaglia
della Chiesa contro l’eterno presente del consumismo (si pensi alla
questione dell’apertura domenicale dei negozi), che Viano giudica un
paese attacco alla laicità37, ne costituisce invece l’estrema difesa.

La conversione della Chiesa al Regno


Qualcuno ha detto, con amaro sarcasmo, che ci si attendeva il
Regno di Dio ed è venuta la Chiesa (Loisy). Diremmo, più
precisamente, che è venuta la cristianità.
Dicevamo che la laicità della Chiesa consiste nella rinunzia, da
parte sua, ad assorbire in se stessa il mondo e a considerarsi perciò
autosufficiente. Quando ciò accade, essa concepisce se stessa come
una societas perfecta, modellata secondo forme che riproducono
esattamente quelle del mondo - proprio nel momento in cui lo
esorcizzano pretendendo di rifiutarlo e di eliminarlo – e perde di vista
la sua essenziale destinazione al Regno di Dio.
È la cristianità, un regime temporale talmente dominato dalla
egemonia non solo spirituale, ma culturale, della Chiesa, da costituirne
in qualche modo un prolungamento. Nella cristianità, la Chiesa,
adottando come modello «una sorta di escatologia realizzata»38,
concepisce se stessa come il Regno. Ma allora esso viene irrigidito in
una realtà storica bene determinata, del tutto analoga ai regni umani,
anche se giustapposta e sovrapposta ad essi, secondo la concezione

un tribunale di Atene ha autorizzato la celebrazione pubblica di riti in onore degli


dèi dell’antico Pantheon ellenico. «Politeismo in crescita anche in Italia» era il
sottotitolo.
37
«Preti e predicatori profani inveiscono contro i consumi, contro una civiltà cor-
rotta nella quale le persone si perdono nelle cose (...) Nei giorni feriali, quando
le prediche domenicali contro la dissipazione e i consumi si chetano un poco,
tutti vorrebbero che si consumasse di più, ma i sacerdoti di tutte le fedi conti-
nuano a ingiungere di distogliere lo sguardo dalle cose (...) Una cultura che voglia
tener viva la prospettiva di una società laica non dovrebbe farsi ingannare da
tutto ciò» (C.A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Bari 2006, p.123).
38
C.Torcivia, La Chiesa oltre la cristianità, EDB, Bologna 2005, p.9.

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
del cardinale Bellarmino, per cui «la Chiesa è un’aggregazione di
persone altrettanto visibile e palpabile del popolo romano, o del regno
di Francia o della repubblica di Venezia»39.
È allora che si rischia di confondere la Chiesa col Regno e di
dimenticarsi che essa è solo il terreno dove crescono insieme il grano
e la zizzania della parabola, in attesa che venga la mietitura. Fino ad
allora essa farà bene a riconoscersi - secondo il crudo ossimoro che la
tradizione cristiana non ha avuto paura di usare - casta meretrix, una
paradossale mescolanza di purezza, che le viene dallo Spirito, e di
prostituzione, legata alla sottile pervasività di logiche di potere e di
ricchezza che sono sempre in agguato là dove ci sono uomini e
strutture umane.
Solo una Chiesa protesa al Regno si percepirà, secondo un’altra
formula altrettanto tradizionale, semper reformanda, sempre
inadeguata alla propria meta e bisognosa di perdono e di conversione.
Solo allora essa sarà capace di percepire il suo “non essere ” il Regno
e di tendere con tutte le sue forze oltre i propri limiti, in un
atteggiamento di umiltà e di ascolto, verso di esso.
Solo così la Chiesa può veramente comunicare con il mondo.
«Sovente gli interlocutori dei cristiani sembrano attendere una chiesa
che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che ami
questo mondo prima di difendersene, che si nutra di creatività piuttosto
che di paura, che sappia annunciare profeticamente piuttosto che
accusare»40.
Altrettanto grave, però, è l’equivoco di chi, davanti alle miserie
della Chiesa istituzionale, vagheggia un Regno di Dio il cui avvento
non passi attraverso di essa. Molte eresie sono in realtà un sintomo di
questa impazienza, di questo anelito a una purezza e a una perfezione
morale che gli esseri umani, così come sono, non garantiscono. E, ac-
canto ad esse, anche molte utopie politiche sono in realtà il frutto della
stessa logica. L’esistente non è mai come lo si vorrebbe. È più facile
negarlo che partire da esso per sforzarsi di cambiarlo gradualmente, fa-
cendo i conti con le resistenze inevitabili delle situazioni.
39
Cit. in S. Dianich, Chiesa in missione, cit. , p. 30.
40
E. Bianchi, La differenza cristiana, cit., p. 36.

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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
È di nuovo la parabola del grano e della zizzania. Al pericolo di
non vedere questa dolorosa commistione, corrisponde quello, opposto
e simmetrico, di non volerla accettare: «Allora i servi andarono dal pa-
drone di casa e gli dissero: “Padrone, non hai seminato del buon seme
nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?” Ed egli rispose
loro: “Un nemico ha fatto questo”. E i servi gli dissero: “Vuoi dunque
che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che,
cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che
l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”» (Mt 13, 27-30).
Anche l’impazienza è ben poco laica. Nessuno è meno capace
di percepirsi “mancante” e di dialogare con gli altri del fanatico che
insegue la propria utopia, senza lasciare spazio alla voce della realtà.
Se si vuole salvaguardare la laicità, si tratta, insomma, di evitare
il duplice equivoco che porta a concepire una Chiesa senza Regno o un
Regno senza Chiesa. Due posizioni semplici e, in un certo senso,
rassicuranti, ma che proprio per questo non corrispondono alla realtà
complessa e inquietante dell’attesa. La fatica del cristiano è tenere
aperta, come una ferita, la sproporzione fra Chiesa e Regno di Dio,
respingendo la tentazione sempre rinnovata di eliminarla rinunziando
a uno dei due termini. Ma in ricompensa di questa fatica, gli è concessa
la speranza. Le altre due posizioni possibili, infatti, appiattendo il
futuro sul presente (la prima) o il presente sul futuro (la seconda),
hanno in comune l’incapacità di sperare veramente nella mietitura che
verrà. Perché «la mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori
sono gli angeli» (Mt 13, 39).

IV. LA LAICITÀ IMPLICITA NELLA CATTOLICITÀ


La chiesa non è una fazione
La presenza della Chiesa nella storia pone anche un altro genere
di interrogativi, non direttamente relativi al suo rapporto col Regno
futuro, ma a quello con le società umane, specialmente oggi che la
globalizzazione le sta unificando in una grande comunità mondiale.
A questo fenomeno epocale la Chiesa non può essere
indifferente. Essa, del resto, ne ha percepito per tempo le avvisaglie.

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
Già i vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II constatavano che
«oggigiorno l’umanità va sempre più organizzandosi in unità civile,
economica e sociale» (LG, n.28). Ciò, per certi versi, non può che
rallegrare il cristiano. L’avvento della società globale sta evidenziando
- e al tempo stesso portando a pieno compimento - quella solidarietà
degli esseri umani che fino a poco tempo fa poteva apparire tutt’al più
un’astratta verità filosofica o una certezza di fede. Oggi nessuno può
più negare che, come dice la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, «i
vari popoli costituiscono una sola comunità» (NA, n.1). Non è più
possibile per nessun individuo, per nessun popolo, illudersi che le sue
scelte e il suo modo di vivere riguardino lui solo. Come ha scritto John
Donne, «nessun uomo è un’isola». E diventa sempre più evidente
l’esigenza di un costante confronto dialogico, non solo tra i governi,
ma anche tra le comunità e le culture, per superare gli inevitabili
conflitti di punti di vista e di interessi.
Di fronte a questi grandi processi la Chiesa non è estranea né
indifferente. Essa ha sempre saputo che Cristo è stato costituito da Dio
«principio di salvezza per il mondo intero» (LG, n. 17). Per questo
egli ha inviato i suoi apostoli a predicare il vangelo e a battezzare «tutte
le nazioni» (Mt 28,19), «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8)
realizzando la prima forma di globalizzazione della storia.
Non c’è dubbio che, in base alla legge dell’incarnazione, i
cristiani siano chiamati, in questo contesto, a costituire un soggetto,
una “parte”, protesa a far valere, rispetto ad altri soggetti, ad altre
“parti”, i suoi punti di vista, i suoi legittimi interessi, i suoi progetti.
Così è accaduto, nella storia, che la Chiesa abbia dato luogo a proprie
strutture, sia stata portatrice di un proprio disegno politico, abbia
propugnato ben precise posizioni culturali e difeso ben precisi assetti
giuridici. Tutto ciò non solo è legittimo, ma necessario, come lo era che
Dio, facendosi uomo, assumesse l’identità di un individuo concreto,
situato in un dato tempo e in una data cultura.
La Chiesa, però, non è solo una istituzione particolare, tra le
tante che popolano la storia. La Lumen Gentium ha solennemente
ricordato che essa è anche e soprattutto «il sacramento, ossia il segno
e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano» (LG, n.1), unità a cui «in vario modo appartengono o sono

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla
salvezza» (LG, n.13). Essa, insomma, è certa che «tutti gli uomini sono
chiamati a formare il Popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur
restando uno ed unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i
secoli» (LG, n.13).

La cattolicità come pienezza dell’umano


La Chiesa sa dunque di essere segno e fattore di unità. È la sua
stessa qualifica di “cattolica”, del resto, a portare in questa direzione.
Nel suo significato originario – dal greco katá ólon, “secondo totalità”
– questo termine non ha in primo luogo una valenza quantitativa, bensì
qualitativa. Se la Chiesa ritiene di poter abbracciare tutti gli esseri
umani è perché pensa che il suo Signore, vero uomo, oltre che vero
Dio, l’abbia costituta capace di abbracciare la pienezza dell’umano.
La globalizzazione non può che sollecitare, da questo punto di vista,
questo suo percepirsi come espressione di una pienezza, da cui
scaturisce la sua universalità. Mentre gli Stati faticano a tenere il passo
di una storia in cui i muri e le frontiere cadono, la comunità cristiana
riscopre con gioia la sua originaria dimensione universalmente umana:
«Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è
più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal
3,28). Perché «tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di
Dio» (LG, n.13).
Oggi più che mai, perciò essa non è e non può essere solo una
“parte”, un partito, una fazione, una setta o un centro di potere fra gli
altri. In quanto «sacramento dell’unità di tutto il genere umano», essa,
come germe del Regno, non è estranea a nessuna verità, a nessun
valore, a nessuna istanza, che siano autenticamente umani. Perciò non
può mai appiattirsi su un punto di vista – per quanto valido -, su
interessi – per quanto legittimi -, su pretese – per quanto giustificate -
, in un gioco dialettico con altri punti di vista, interessi o pretese che
si trovino sul suo stesso piano. Perché essa, al di là di tutto ciò, è la
custode della verità sull’essere umano e sul suo destino.
È a questo che pensa, probabilmente, l’autore della Lettera a
Diognèto, quando dice che i cristiani «non abitano città loro proprie»,

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
che «ogni terra straniera è patria per loro» e che perciò «sono nel
mondo ciò che l’anima è nel corpo»41. L’anima non è una parte fra le
tante, perché è intimamente presente a tutte.
Una tale ampiezza sconfinata deriva alla Chiesa dal suo Signore
ed è finalizzata a Lui: «Questo carattere di universalità, che adorna e
distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la
Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito
di lui» (LG, n. 13). Il Verbo, infatti, non ha cessato, facendosi uomo tra
gli uomini, di essere la Parola creatrice, la pienezza di verità la cui
irradiazione è riscontrabile nelle più varie culture, giustificando
l’orgogliosa consapevolezza di san Giustino martire: «Tutto ciò che è
stato detto di vero appartiene a noi cristiani»42.
Perciò la Chiesa non può essere identificata semplicemente con
una parte fra le altre, come – per riprendere l’esempio fatto da
Bellarmino -, la repubblica di Venezia lo era nel sistema degli Stati
moderni. Concepirla così significherebbe negare la sua laicità. Una
parte, infatti, in quanto tale, sta accanto alle altre, ma proprio per
questo tende a contrapporsi ad esse, o perché pretende di elevarsi a
totalità assorbendole, o perché se ne difende, chiudendosi in una logica
autoreferenziale. In entrambi i casi, non è portata ad accoglierle e
valorizzarle per quello che sono.
I due aspetti sopra rilevati sono entrambi necessari per definire
l’identità della Chiesa e il suo rapporto col mondo. Guai a perdere di
vista il primo: si cadrebbe in quel vacuo spiritualismo che ha
caratterizzato, nel Medio evo, tanti movimenti ereticali che avrebbero
voluto eliminare la dimensione istituzionale del cristianesimo. Guai
però anche a credere che essa possa ridursi soltanto ad un soggetto
particolare, destinato ad esaurire il proprio compito scontrandosi e
negoziando con le altre parti, nel grande gioco della storia, sia pure “a
fin di bene”. Ciò farebbe venir meno la sua cattolicità.
Certo, questa capacità della Chiesa di abbracciare il mondo e la
sua conseguente attitudine a rappresentarne l’unità appartengono
41
Lettera a Diognèto, 5-6 (Sources chrétiennes 33 bis, pp.62-67).
42
Giustino, Apologia secunda pro christianis, 13; PG VI, 465-468.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
all’ordine sacramentale. E nel regime dei sacramenti il segno rivela e
rende presente, ma al tempo stesso nasconde e manifesta come assente
il mistero che sta dietro di esso e in esso. Il carattere totalizzante della
Chiesa non è un dato storicamente constatabile, ma un mistero che
solo a tratti si lascia intravedere attraverso l’opacità delle sue strutture
e dei comportamenti umani dei suoi rappresentanti. Perciò, se da un
lato oscura la laicità della Chiesa il considerarla mera parte, senza
riferimento al tutto che questa parte tendenzialmente è, e che mette in
movimento il suo senso di ciò che le manca, altrettanto nefasto sarebbe
assolutizzare, come un fatto, piuttosto che come un segno, un
sacramento, il suo essere “tutto” e il suo conseguente identificarsi con
l’umanità intera. Anche in questo caso avremmo, non per difetto, ma
per eccesso, la rinunzia da parte della Chiesa a percepirsi nel suo “non
essere”. Ancora una volta, la laicità è data da una dialettica di ricchezza
potenziale e di povertà effettiva, di apertura sconfinata e di limiti
riconosciuti e accettati.

Vangelo e cultura non devono essere confusi


La laicità della Chiesa trova il suo banco di prova, prima ancora
che sul terreno politico, su quello culturale. Il «rendete a Cesare quello
che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» ha il suo retroterra
nell’esclusione, da parte della Chiesa, di qualsiasi forma di confusione
tra vangelo e cultura. Ciò al fine di salvaguardare sia la trascendenza
del vangelo che l’autonomia della cultura. Già Pio XII, guardando al
primo aspetto, osservava che la Chiesa cattolica «ha coscienza di non
essere legata ad alcuna cultura determinata» e «non si identifica con
nessuna»43. Più tardi, nella stessa ottica, Giovanni XXIII ha
ulteriormente precisato che «la Chiesa non s’identifica con nessuna
cultura, nemmeno con la cultura occidentale, alla quale è stata legata
dalla sua storia»44. Da parte sua Paolo VI ha vigorosamente ribadito
che «il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo

43
Discorsi e radiomessaggi di SS. Pio XII, XVII (1955-1956), p.219; XVIII
(1956-1957), p.16.
44
Giovanni XXIII, Princeps pastorum, n. 17.

La laicità della Chiesa


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Giuseppe Savagnone, pp.65-118
con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture» (EN,
n.20)45.
In questo senso, non esiste una cultura cristiana. Ve ne sono
diverse, che via via sono state suscitate dall’incontro con la Parola di
Dio nel suo cammino attraverso la storia. «Dio (...) rivelandosi al suo
popolo, fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha
parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche.
Parimenti la Chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse,
si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messag-
gio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e
approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita
della multiforme comunità dei fedeli. Ma, nello stesso tempo, inviata
a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo, non si lega in
modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun
particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente»
(GS, n.58).
Sotto l’altro aspetto, dalla distinzione tra vangelo e cultura viene
garantita l’autonomia di quest’ultima. Ciò vale anche quando, dalla
cultura in senso antropologico, si passa a quella scientifica. Il Concilio
Vaticano II si è espresso su questo punto con tutta la chiarezza
necessaria: «La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in
maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà
mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà
della fede hanno origine dal medesimo Dio. Anzi, chi si sforza con
umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche
senza prenderne coscienza, viene come condotto dalla mano di Dio, il
quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che
sono. A questo proposito ci sia concesso di deplorare certi
atteggiamenti mentali, che talvolta non sono mancati nemmeno tra i
cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima
autonomia della scienza, suscitando contese e controversie, essi
trascinarono molti spiriti fino al punto da ritenere che scienza e fede
si oppongano tra loro» (GS, n. 36).

45
Da ora in poi con EN sarà indicata la Evangelii Nuntiandi di Paolo VI.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
La laicità del credente starà nel rendersi sempre conto che la sua
fede non lo rende competente nelle diverse materie che pure hanno a
che fare con la sua visione complessiva della vita – l’economia, la
genetica, la psicologia, etc. - e che su questi problemi deve mettersi in
umile ascolto di ciò che dicono gli esperti.

Vangelo e cultura non devono essere separati


E tuttavia, sarebbe un equivoco scambiare la distinzione con una
rigida separazione46. Riprendiamo il testo della Gaudium et Spes sopra
citato per la sua difesa dell’autonomia delle cose del mondo, il quale
prosegue precisando che «se invece con l’espressione “autonomia
delle realtà temporali ” si intende dire che le cose create non dipendono
da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore», allora
una simile opinione è decisamente falsa: «La creatura, infatti, senza il
Creatore svanisce» (GS, n.36). Svanisce perché, trasformandosi essa
stessa in un caricaturale surrogato della divinità, si carica di un falso
ruolo che la schiaccia e perde la propria identità. Tutto ciò che è
umano, dunque anche la cultura, ha nella Rivelazione la sua più
profonda verità. «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato
trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS, n.22). Proprio perché in
Cristo parla e opera il Dio della creazione, egli «rivelando all’uomo il
suo volto divino, gli ha svelato anche il suo proprio volto umano». Ne
consegue che «la religione cristiana, sebbene, vista sociologicamente,
essa sia “una” tra le altre religioni, dovrà necessariamente coincidere

46
Volutamente non ci attardiamo a rievocare la disputa, per fortuna ormai datata,
fra la linea della «mediazione» e quella della «presenza», due termini che, a forza
di essere contrapposti troppo radicalmente, hanno finito per assumere significati
equivoci , estranei alle intenzioni di coloro che li usavano. Svelenito delle ten-
sioni che, intorno agli anni Settanta del secolo scorso, l’avevano reso irrisolvibile,
il contrasto si rivela per quello che era: una differenza di punti di vista tra chi sot-
tolineava la distinzione tra il vangelo e la sfera culturale, e chi, al contrario, vo-
leva evidenziarne l’intimo legame. I testi del magistero che citiamo nel testo
indicano i paletti irrinunciabili a cui ciascuna di queste prospettive deve comun-
que obbedire: non sarebbe, infatti, compatibile con la visione cattolica né una
esasperazione della distinzione che la facesse diventare separazione, né una con-
traria e simmetrica esasperazione della congiunzione tra i due termini, che la tra-
sformasse in confusione.

La laicità della Chiesa


97
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
pure con l’umanesimo totale, e solo con la rivendicazione di questo
titolo essa può essere riconosciuta veramente come cattolica»47. Da
questo rivelarsi, nel volto di Gesù, del volto dell’uomo, deriva la
missione illimitata della Chiesa, che non è più una nazione particolare,
come lo era e lo è rimasto Israele, ma si rivolge a «tutte le nazioni» (Mt
28,19).
Ma questa universalità non implica alcun imperialismo da parte
della Chiesa nei confronti delle culture, bensì, al contrario, la
disponibilità a prendere atto dei germi di umanità che si trovano in
esse e a potenziarli: «Poiché trascende tutto l’ordine della natura e
della cultura, il cristianesimo, colto nella sua essenza, è da un lato
compatibile con tutte le culture, di cui rispetta e valorizza le ricchezze;
d’altra parte, e ancor di più, è esso stesso un fattore dinamizzante della
cultura»48. A questa funzione fa riferimento Giovanni Paolo II quando
dice che «l’evangelizzazione mira a penetrare ed elevare la cultura
tramite la potenza del Vangelo»49.
Certo, anche nelle culture il peccato ha introdotto un margine
ineliminabile di ambiguità. In questo senso anch’esse hanno bisogno
di essere salvate. Come nella visione di Ezechiele, le acque che escono
dal nuovo tempio, che è Cristo, attraversano, simili a un grande fiume
sotterraneo, la storia e le civiltà: «Quelle acque, dove giungono,
risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà» (Es 47,9). Dove
la vicenda del peccato ha svuotato le parole e reso impossibile la
comunicazione fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e gli altri uomini,
fra l’uomo e Dio, bisogna che il tocco del Verbo incarnato restituisca
ai muti, come faceva già per le strade della Palestina (cfr. Mc 7,32-
37), la capacità di parlare.
Ma non è in gioco soltanto l’apporto del vangelo alle culture.
«La sintesi fra cultura e fede non è solo un’esigenza della cultura, ma

47
H. U. von Balthasar, Verbum caro, tr. it. G. Colombi, pref. D. Barsotti, Brescia,
Morcelliana, p.81.
48
G. Cottier, Valori e transizione. Il rischio dell’indifferenza, Studium, Roma
1994, p.156.
49
Giovanni Paolo II, Allocuzione ai vescovi della Nigeria, Lagos, 15 febbraio
1982, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V,1 (1982), p.472.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
anche della fede (...) Una fede che non diventa cultura è una fede non
pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente
vissuta»50. E’ l’inserimento del vangelo nella storia degli uomini che
esige il confronto con le loro categorie di pensiero, le loro forme di
espressione, i loro modi di vivere. Attraverso questo confronto, il
messaggio cristiano è soggetto a sempre nuove e diverse
interpretazioni e applicazioni, che non ne costituiscono solo una
dilatazione nel tempo e nello spazio, ma anche - grazie alla sua
traduzione nei diversi linguaggi umani - una esplicitazione e un
approfondimento. Se è vero, infatti, che la Chiesa evangelizza le
culture, è anche vero che «ogni cultura le pone una domanda, che è per
essa l’occasione di scoprire le sue proprie ricchezze»51.
Questo, secondo il Concilio, è del resto ciò che è accaduto nel-
l’intera storia della Chiesa: essa, «infatti, fin dall’inizio della sua
storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti
e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la
sapienza dei filosofi». Ed anche oggi, grazie a questo stile «viene sol-
lecitata in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo
proprio il messaggio di Cristo e al tempo stesso viene promosso uno
scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli» (GS, n. 44).
È quella che, abitualmente, viene denominata “inculturazione”
del vangelo. E, da quanto appena detto, è chiaro che essa non è un
optional, ma una esigenza imprescindibile sia per la progressiva
manifestazione, nella storia, delle verità contenute nel grande deposito
della rivelazione, sia per consentire una effettiva comunicazione con
gli uomini e le donne delle diverse epoche. Il riconoscimento della
relativa autonomia della sfera culturale implica, da parte della Chiesa,
quel senso del limite, quella percezione di un “non essere”, di un “non
avere” e quell’atteggiamento di ascolto, che abbiamo identificato come
gli elementi caratterizzanti della laicità.

50
Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al Congresso nazionale del MEIC, 16 gen-
naio 1982, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V,1 (1982), p.131.
51
P. Arrupe, cit. in N.Standaert, L’histoire d’un néologisme. Le terme ‘incultura-
tion’ dans les documents romains, in «Nouvelle revue théologique» 110 (1988),
p.568. «Dando una nuova espressione al messaggio evangelico le culture lo ar-
ricchiscono» (ibidem, p.562).

La laicità della Chiesa


99
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
Ne scaturisce, secondo il Concilio, un impegno che dovrebbe
escludere ogni chiusura integralista e autoreferenziale: «E’ dovere di
tutto il Popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto
dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i
vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce
della Parola di Dio, perché la Verità rivelata sia capita sempre più a
fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma sempre
più adatta» (GS, n.44).
Come dice, in sintesi, un bel testo della Commissione teologica
Internazionale: «Nell’evangelizzazione delle culture e
nell’inculturazione del Vangelo si produce uno scambio misterioso:
da un lato il Vangelo rivela ad ogni cultura e libera in essa la verità
suprema dei valori che racchiude; dall’altro, ogni cultura esprime il
Vangelo in maniera originale e ne manifesta aspetti nuovi.
L’inculturazione è, così, un elemento della ricapitolazione di tutte le
cose in Cristo (Ef 1,10) e della cattolicità della Chiesa (LG, nn.16-
17)»52.

La laicità come solidarietà


«Quando la Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad
essa, anzi si congiunge»53. La capacità della comunità cristiana di
prendere le distanze dalle realtà terrene, evitando la confusione con
esse, nella duplice versione dell’integralismo e del secolarismo,
consente non solo il dialogo, ma qualcosa di più, vale a dire la
solidarietà nei loro confronti.
Lo ha sottolineato con estrema forza il Concilio Vaticano II: «Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei
poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è
di genuinamente umano che non trovi posto nel loro cuore» (GS, n.1).
Sono le prime parole della Gaudium et Spes.

52
Commissione Teologica Internazionale, Temi scelti di ecclesiologia, in «Il
Regno-Documenti» 1/86, p.37.
53
Paolo VI, Ecclesiam suam, n. 36.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


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La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
Un confronto che non fosse anche condivisione lascerebbe
ognuno nella sua condizione e non obbedirebbe alla logica della
redenzione. «Perciò la Chiesa, che è insieme “società visibile e
comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità terrena e
sperimenta insieme al mondo la medesima sorte terrena ed è come il
fermento e quasi l’anima della società umana» (GS, n. 40).
Da questa condivisione deriva, in primo luogo, che la comunità
cristiana non ha come compito precipuo quello di curare i propri
interessi, sia pure in nome della altissima missione a lei affidata, bensì
di porsi al servizio degli uomini, a imitazione del Cristo: «Il Figlio
dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare
la propria vita in riscatto per molti» (Mc10,45). Si riferiscono a questo
le parole dettate da Giovanni XXIII pochi giorni prima della sua morte:
«Ora più che mai (…) siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e
non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della
persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica»54.
Si tratta di superare un equivoco, spesso riaffiorato nel passato,
che porta a identificare il bene comune con quello della istituzione
ecclesiastica. Ora, se è vero che nell’interesse di tutti devono essere
assicurate alla Chiesa le condizioni materiali per svolgere
adeguatamente la sua missione, non si può dimenticare che ad essa
deve stare a cuore innanzi tutto la crescita integrale delle comunità
umane. «Certo (…) la Chiesa stessa si serve delle cose temporali nella
misura che la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la
sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa
rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove
constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua
testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (GS,
n.76).
Una seconda conseguenza e che «non si possono leggere i testi
del Nuovo Testamento con gli occhiali di quell’individualismo
teologico che riesce a pensare il Regno di Dio soltanto come una realtà
universale, interiore, presente nelle anime degli uomini che credono in

54
Cit. in M. Assenza, Ri-collocarci nel Vangelo, in «Il Regno-Documenti» 9/01,
p.272.

La laicità della Chiesa


101
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
Dio e che sono sparsi come singoli sulla faccia della terra»55. Un simile
individualismo intimistico sembra più in linea con un pio egoismo che
con una reale solidarietà, capace di abbracciare il mondo intero. Non
si può pensare di realizzare il Vangelo a livello esclusivamente
individuale, come se la lotta contro il peccato riguardasse soltanto la
coscienza dei singoli, e non si annidasse in quelle che Giovanni Paolo
II ha vigorosamente denunziato definendole «strutture di peccato»56.
Ciò comporta, però, come ha sottolineato Paolo VI, che la
Chiesa non può accettare «di circoscrivere la propria missione al solo
campo religioso, disinteressandosi dei problemi temporali dell’uomo»
(EN, n.34). Anche in questo caso, non si tratta di una sua scelta, ma
della fedeltà allo stile del suo fondatore: «L’opera della redenzione di
Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini,
abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la
missione della Chiesa non è soltanto portare il messaggio di Cristo e
la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l’ordine
temporale con lo spirito evangelico (...) [L’ordine spirituale e quello
temporale], sebbene siano distinti, tuttavia nell’unico disegno divino
sono così legati che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il
mondo per formare una creazione novella in modo iniziale sulla terra,
in modo perfetto alla fine del tempo» (AA, n. 5).
La sacra Scrittura chiama “giustizia” l’adempimento del santo
disegno di Dio, della sua volontà, nel mondo, così che si realizzi
l’ordine da Lui voluto. Essa si manifesta innanzi tutto come
riparazione dei torti fatti ai poveri e liberazione degli oppressi. Grande
è l’attesa di questo avvento. E non si tratta di un’attesa passiva, ma di
un impegno attivo di denunzia: «Per amore di Sion non mi terrò in
silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non
sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come
lampada» (Is 62,1).
Da qui il diritto-dovere della Chiesa, «sempre e dovunque, e con
vera libertà» di «predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale,

55
G. Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità? La chiesa quale dovrebbe es-
sere, tr. A. Rizzi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987, p.45.
56
Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 36.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


102
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
esercitare senza ostacoli la sua missione e dare il suo giudizio morale
anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto
dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime»
(GS, n.76). Nella misura in cui non perora la propria causa e sa
rinunziare ai propri vantaggi temporali - sa, insomma, porsi in una
condizione di povertà, di “mancanza” -, la Chiesa si presenta come
una voce autorevole in grado di rivendicare, contro la violenza dei
dominatori di questo mondo, la causa delle vittime di questa violenza.
Laicità come solidarietà.

La giustizia di Dio
Avere a cuore la giustizia evangelica implica, però, uno sguardo
più ampio di quello a cui le ottiche correnti ci hanno abituato. Vale
oggi più che mai il monito di Emmanuel Mounier: «Si pensa anche
troppo (...) agli atti di violenza e ciò impedisce di vedere che ci sono
più spesso stati di violenza - quelli in cui sono disoccupati,
muoiono e si disumanizzano oggi senza barricate, nell’ordine, milioni
di esseri - e che, come il tiranno è il vero sedizioso, la vera violenza,
nel senso odioso della parola, è il permanere del regime»57. Tocca
alla Chiesa denunziare, in nome della sua missione profetica, il falso
“ordine” di un mondo dove vengono sistematicamente calpestati la
dignità e di diritti dei più deboli e dei più poveri. Nello svolgimento
di questo immane compito, è normale che essa, a seconda dei diversi
contesti storici, insista in modo particolare, di volta in volta, su alcune
priorità. Avendo cura, però, di non suscitare, con una insistenza uni-
laterale su alcuni problemi, l’impressione di aver perso di vista tutti
gli altri. Questo equivoco si è spesso verificato nel passato e si ri-
produce talvolta anche oggi, quando la irrinunciabile difesa dei diritti
e della dignità della vita umana dal momento del concepimento al
suo termine naturale rischia di apparire ristretta alla difesa di questa
vita nel momento del concepimento e del suo termine, lasciando re-
lativamente in secondo piano l’immensa gamma di prevaricazioni
che la colpiscono fra questi due estremi.
57
Cit. in R.Coste, L’amore che cambia il mondo. Per una teologia della carità,
tr. it. città Nuova, Roma 1983, p.193.

La laicità della Chiesa


103
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
Non soltanto il contenuto, ma anche lo stile di questo
impegno non può che essere quello evangelico. La giustizia che la
Chiesa deve perseguire in questo mondo è ormai al di là della logica
dell’AT, tutta centrata sulla lotta contro i “nemici”, ed è piuttosto
modellata sull’illimitato aprirsi delle braccia di Cristo in croce,
capaci di abbracciare, insieme alla madre e al discepolo, anche i
crocifissori e i ladroni. Una giustizia così intesa non è portata più
contro nessuno, nemmeno contro i peccatori e i malvagi. In essa si
rivela compiutamente il volto di quel Dio che fa piovere sui giusti
e sopra gli ingiusti e che mostra così anche all’uomo un nuovo
modo di intendere la giustizia: «Avete inteso che fu detto: Amerai
il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i
buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,43-45).
Non si dimentichi che i pubblicani appartenevano precisamente a
quest’ultima categoria. Eppure essi sono cercati e accolti con amore
da Gesù. Perché Dio è più grande del nostro cuore (cfr 1 Gv 3,20).
Ed anche la Chiesa è chiamata ad esserlo.
Si evidenzia qui la novità della prospettiva evangelica rispetto
a quella veterotestamentaria. E’ significativo il confronto tra due
scene di processo per adulterio che la liturgia unisce nelle letture
della messa del lunedì della quinta settimana di Quaresima: quella
relativa alle false accuse degli anziani nei confronti di Susanna, e
quella della donna adultera. In entrambi i casi il processo si
conclude con l’assoluzione. Ma, nel primo, il punto essenziale è
l’innocenza dell’accusata che, in forza di essa, viene liberata da
Dio. Nel secondo l’imputata è colpevole, ma Gesù le risparmia
egualmente il castigo, limitandosi ad esortarla a non peccare più.
Significativo è anche il fatto che gli ingiusti accusatori del primo
processo vengono a loro volta giustiziati, mentre quelli del secondo
ricevono un salutare invito a rimettere in discussione se stessi. La
giustizia che la Chiesa si sforza di instaurare nel mondo è anche
misericordia.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


104
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
DIÁLOGO
- Prof. Viola: Semplicemente una puntualizzazione, che forse è una critica,
non lo so. All’inizio quando giustamente hai definito laicità come non es-
sere, il laico come colui che non assolutizza tutto, però puntualizzando che
ci sono certe cose...
- Prof. Savagnone: Lo dice lo stesso Remotti, non si può essere totalmente
laici, perché non si potrebbe vivere ...
- Prof. Viola: Io credo che il laico è colui che inserisce il dubbio anche
all’interno della fede, cioè il dubbio della ricerca. Io ricordo quel libro di
Ratzinger sull’introduzione alla teologia, in cui all’inizio, proprio nella
prefazione, Ratzinger diceva che c’è una piena compatibilità tra avere la
fede e avere anche il dubbio all’interno de la fede. Ora, il laico è questo
e questo è all’interno stesso della fede. Per questo tutto quello che hai
detto è giustissimo, specie considerando la prospettiva della Gaudium et
Spes, del valore, ma bisognerebbe aggiungere anche che oggi c’è un
problema ulteriore.
I problemi che sono oggi sul tappeto riguardano anche quali siano
i contenuti della nostra fede nella loro applicazione alla vita secolare. Nel
mio intervento ho parlato della costituzionalizzazione della persona, della
costituzionalizzazione della coscienza delle persone con un rilievo che
interessa direttamente il problema della laicità e che è spesso stato tra-
scurato dalla Chiesa. Oggi questi problemi dovrebbero essere ricompresi
nella Gaudium et Spes, oggi ci vorrebbe direi una “errata corrige” della
Gaudium et Spes, non tanto una “errata corrige” ma un ampliamento della
Gaudium et Spes.
- Prof. Savagnone: Forse è meglio dire “un aggiornamento”.
- Prof. Viola: Ecco, un aggiornamento è più giusto che “errata corrige”,
un aggiornamento della Gaudium et Spes, in cui appunto, si dice, c’è
anche da ridiscutere certi valori di fondo che appartengono alla fede
cristiana, che appartengono al cuore della fede cristiana ed essere laico
significa guardare in faccia questi problemi.
- Prof. Savagnone: Sono d’accordo.
- Prof. Viola: Questo dico, all’interno del nostro discorso di fede e come
aggiunta al tuo discorso.

La laicità della Chiesa


105
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
- Prof. Savagnone: Rispetto al mio discorso è una puntualizzazione, non
un disaccordo, perché, come dice San Tommaso, il cristianesimo non è un
blocco monolitico di formule che risolvono tutto. La nostra fede non è un
archivio di risposte già precostituite, come molti, sia credenti che non cre-
denti, pensano. Noi non siamo in grado di sapere tutto: la nostra fede va,
dice San Tommaso, alla “res”, alla realtà, non alle formule che cercano di
esprimerlo, e la realtà di Dio rimane un mistero, di cui dice ancora San
Tommaso D’Aquino, “noi sappiamo questo, che non lo conosciamo”. Non
dobbiamo sottovalutare il fatto che quando alcuni andarono da Gesù a
chiedere quando sarebbe stata la fine del mondo, egli ha risposto di non
saperlo. Ha voluto, nella sua umanità, lasciare aperto lo spazio della do-
manda, dell’incertezza.
Avete sicuramente notato che Gesù nel Vangelo non fa discorsi così
chiari, distinti, come avrebbe voluto Cartesio. Non ci sarebbero stati tanti
problemi se lo avesse fatto, ma lui non ha voluto farlo. Ha preferito ser-
virsi delle nostre parole umane. Soprattutto, ha preferito rivelarsi a partire
dai nostri dubbi, dalle nostre domande. Invece di dare una chiara defini-
zione della sua identità, ha voluto che fossero gli altri a interrogarsi su di
essa. Quando placa la tempesta, sono gli apostoli che si chiedono: “Ma chi
è costui, a cui obbediscono il vento e il mare?”. Una volta è Lui steso a
chiedere: “Chi dice la gente che sia il figlio dell’uomo?” E poi, più diret-
tamente: “E voi, chi dite che io sia?” Tutte domande a cui sono gli uomini
a dovere rispondere, con le loro parole, e le parole degli uomini sono per-
fettibili, perché il Mistero di Dio è tutto racchiuso nell’unica Parola che
Dio ha detto, che è il Figlio, che è Gesù stesso, ma poi sono le nostre pa-
role umane, che debbono piano, piano, portare alla luce questo tesoro.
Perciò il maestro è come uno che porta nella sua bisaccia cose vecchie, e
cose nuove, perché ci sono le cose antiche e ci sono le cose nuove che
sempre devono zampillare. Per questo, diceva Newman, c’è una “evolu-
zione del dogma”, nel senso di una progressiva approssimazione delle
formule elaborate storicamente al mistero che deve esprimere.
Allora, questa ricerca di cui parlava il professore Viola, questo dub-
bio, questa domanda, è giusto che ci siano all’interno stesso del nostro
atto di fede. E’ vero però che non viene messo con ciò in discussione
l’orizzonte della fede stessa. Tanto è vero che noi speriamo in un aggior-
namento della Gaudium et Spes, e non per esempio del Corano.
- Dra. Archideo: Tal vez es bueno dejar en claro lo que usted ha querido
decir, pero que podría no haberse clarificado suficientemente, que la Igle-
sia desarrolla los dogmas, pero no los cambia.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


106
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
- Prof. Savagnone: Questo è chiaro.
- Dra. Archideo: No, porque podría parecer que hay un cambio.
- Prof. Savagnone: No, c’è uno sviluppo, non un rinnegamento di ciò che
era stato definito.
- Dra. Archideo: Es un desarrollo como el desarrollo que tenemos que
hacer nosotros ahora de la Encíclica.
- Prof. Savagnone: Certo, le cose vive crescono, l’Evangelo è vivo per
eccellenza.
- Mons. Serrano: No sé si ha quedado claro lo que significa laicidad de la
Iglesia, de los laicos en la Iglesia. No sé si se pretende que la laicidad de
la Iglesia sea un devolver un sentido sagrado a las realidades temporales
que ha empezado con la Encarnación de Jesucristo y que sigue con esa
presencia de Jesucristo en el mundo que es la Iglesia.
La Iglesia no es la Iglesia triunfante, la Iglesia es la Iglesia de la
lucha, del dinamismo, y por lo tanto, desde ese punto sí que habría una lai-
cidad de la Iglesia.
Pero está el otro problema, que es el problema del profesor Za-
magni. Él se fija en el papel de los laicos en la Iglesia y dentro de la Igle-
sia. Y a propósito de eso yo quisiera preguntar o plantear o discutir, si la
Iglesia misma no contribuye a esa separación entre laicos y clérigos, di-
gámoslo de alguna manera, y lo hace por una concepción que habría que
cambiar también con la interpretación evolutiva del dogma. Una evolu-
ción según la cual el Sacramento del Orden, no ya la profesión religiosa,
pero sí el Sacramento del Orden, significa una transformación ontológica.
Una transformación ontológica que nos lleva a veces a situaciones un
poco difíciles de interpretar pastoralmente, por cuanto, por ejemplo, un
laico puede hacer mejor una homilía que un cura, que un sacerdote, pero
el sacerdote tiene el crisma de la Unción.
Creo que la Iglesia está avanzando ya hacia una concepción más
funcional del Sacramento, y que a lo mejor esta concepción más funcional
del Sacramento del Orden, que es al que nos estamos refiriendo ahora,
debería comenzar también con un mayor discernimiento de las vocacio-
nes. Y este mayor discernimiento de las vocaciones tropieza hoy con la es-
casez de vocaciones. A lo mejor la Iglesia se ve obligada a admitir al orden
Sagrado personas que no tienen preparación o que no tienen cualidades
según la famosa discusión que hubo en su tiempo con el canónigo Lahit-
ton sobre los signos de la vocación, qué había que entender por signos de

La laicità della Chiesa


107
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
vocación, si era sólo el movimiento afectivo de adhesión al Ministerio de
Jesucristo, o eran las cualidades que Dios ha dado como signos de una vo-
cación.
El problema me parece que es importante y que la Iglesia está
dando pasos importantes también, todavía en lo que no afecta al dogma.
Al problema dogmático, por ahora, no le veo más solución que un exi-
gente discernimiento de las vocaciones, porque si va a ser admitido a un
cambio ontológico y la Gracia no destruye la naturaleza sino la perfec-
ciona, habría que requerir una profunda preparación y cualidades para
afrontar el Ministerio, que es el carisma del Orden.
Pero por ejemplo la Iglesia ha suprimido ya los Órdenes Menores
y ya creo que camina hacia una interpretación del Ministerio como en re-
alidad es, como una función, un servicio, y no sólo como una transforma-
ción ontológica. Entonces, la diferencia entre laico y clérigo quedaría
mucho más esfumada, porque, por una parte, los laicos adquirirían más
funciones dentro del Orden Sagrado, dentro del Sacerdocio ministerial y,
por otra parte, los sacerdotes podrían hacer un servicio a los laicos mucho
más cercano a sus realidades.
- Dra. Archideo: Sin duda como se ha señalado hay aspectos de las fun-
ciones del laico y de los clérigos que cambian y evolucionan según las cir-
cunstancias históricas y también hay un desarrollo teológico sobre las
mismas, pero sólo para que quede claro, al mismo tiempo hay en ellas un
apoyo sacramental y ontológico que no cambiará y que es algo donado por
Jesucristo a su Iglesia para el servicio de todos. Esa realidad -don- profun-
dizada puede ayudar a una mayor comprensión y eficacia de las distintas
misiones dentro de la Iglesia.
- Prof. Savagnone: Io credo che sia importante questo superamento di una
troppo netta separazione tra laici e chierci, di cui nella Storia abbiamo
tracce pesantissime. Voi dovete pensare che addirittura il Codice Teodo-
siano, nel 438, proibiva ai laici, sotto minaccia di gravissime pene, addi-
rittura di discutere questioni teologiche. E un Vescovo del 1250, Roberto
Grossatesta, distinse nella Chiesa il genus angelicum che era quello dei
chierici, e il genus bestiale che era quello dei laici. Usò questa espres-
sione, “genus bestiale”.
Ma come si può superare questa separazione? In un contesto dove
venga valorizzato di più la comunione. La comunione deve essere anzi
tutto dentro la Chiesa. Comunione significa anche scambio. Noi veniamo
da un’epoca di autoritarismo che ancora, a volte, nella Chiesa permane,

Epistemología de las Ciencias Sociales.


108
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
dove l’autorità viene concepita come il contrario della reciprocità. E
siamo immersi in una cultura profana, dove si pensa che la reciprocità
debba eliminare l’autorità. Io credo che dovremo trovare una felice sintesi
in cui l’autorità non venga eliminata, ma confermata dalla reciprocità e vi-
ceversa.
Nella mia modesta funzione di professore, io tengo mettere bene in
luce la mia autorità, però cerco di promuovere anche una certa reciprocità,
perché reciprocità non vuol dire essere sullo stesso piano. Dice Aristotele
che essa ci può essere anche tra padre e figlio, anche tra genitori e figli,
tra maestro e discepolo.
C’è un significato profondo della autorità, che ha che fare con la ge-
nerazione: auctoritas deriva dal verbo augere, vuol dire far nascere, far
crescere, da dove anche il sostantivo auctor. Ma, deve essere un’autorità
vera, non potere, e la autorità vera dialoga, l’autorità vera si lascia inter-
pellare, sa spiegare le sue ragioni. Alla fine, certo, deve decidere, ma dice
San Benedetto: “l’abate interpellerà anche il più giovane dei suoi novizi,
perché potrebbe venire da lui una parola illuminante”. Personalmente con-
testo uno stile ecclesiale dove, purtroppo, la differenza dei chierici e i
laici è resa enorme, non tanto da una teoria teologica, quanto da una
prassi, per cui il prete crede di poter fare quello che vuole, eliminando la
reciprocità. Vorrei invece una Chiesa dove si parlasse di più, dove si di-
scutesse di più. Non solo nelle Parrocchie, ma nelle Università cattoliche,
nelle Scuole cattoliche, nei gruppi, nei movimenti. La Chiesa non è una
democrazia e non deve diventarlo, ma non bisogna confondere il concetto
politico di democrazia con il concetto evangelico di comunione, che è
una cosa completamente diversa dalla democrazia, perché non esclude
l’autorità che viene “dall’alto”, ma consente a tutti di non perdere la pro-
pria identità, il proprio volto, di non essere ridotti a pedine di un gioco che
ci sovrasta.
In Italia sono molto inserito nelle strutture istituzionali della
Chiesa. Ebbene, ho sentito Vescovi, perfino vicepresidenti della Confe-
renza Episcopale Italiana, dire: “Io qua non conto niente, vengo a sapere
le cose dei giornali, nessuno mi interpella, si decide tutto dall’alto”. Per-
ché il Presidente della Conferenza Episcopale decide tutto lui.
Solo una Chiesa che sia una vera comunione, dove autorità e reci-
procità si armonizzano, supera questo problema, senza cancellare le iden-
tità. Sono molto critico verso questi preti che si camuffano da laici, così
come i laici che si camuffano da preti. Noi abbiamo oggi troppi laici che
si clericalizano, e troppi preti che si laicizzano. Alla fine c’è solo un cat-

La laicità della Chiesa


109
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
tivo miscuglio che non permette più al prete di essere prete, e al laico di
essere laico.
- Prof. Zamagni: Io desideravo cogliere dalla presentazione di Giuseppe
Savagnone alcune implicazioni della sua lettura, che io condivido, del
concetto di laicità che non sto a ripetere perché l’ha molto bene spiegato
Savagnone.
Un modo di dire, esprimere la stessa cosa di un’altra colatura, è
quello di affermare che per la religione cristiana, la salvezza si realizza
nella Storia. Ecco, perché la Storia è natta con -potrei dire, la Storia con
la S maiuscola- il Cristianesimo, perché per altre religioni la salvezza è
una decisione individuale della divinità, e che prescinde dalla adesione
dell’uomo, e noi sappiamo che la nostra salvezza avviene nel tempo, si
realizza nel tempo, e questo evidentemente da un senso molto forte alla
laicità come tu la intendi, cioè noi possiamo nel tempo decidere se salvarci
o non. Secondo, la salvezza ci viene offerta, ma non ci viene imposta,
perché sta a noi accettarla o meno, ed è lì il fondamento della reciprocità,
che poi, noi economisti, traduciamo in altre forme, ma se uno dovesse
andare alla radice profonda della nozione di reciprocità, è li.. Cioè, la re-
ciprocità, come sappiamo, non postula la equivalenza, ma la proporzio-
nalità, come Aristotele chiariva, perché la salvezza che ci viene offerta
ha un valore infinitamente superiore a quello che noi possiamo dare, però
noi non ci salveremo se noi non diciamo un sì, cioè se non accettiamo le
condizioni di quello offerta, quindi la reciprocità è li. Il Dio cristiano è un
Dio che pretende qualcosa in cambio, non, però, di equivalente, che non
è questo, ma di proporzionale. Noi dobbiamo dare in proporzione al no-
stro essere e alle nostre capacità, però bisogna dare.
Perché questo è importante che si dica? Perché anche nella nostra
Chiesa ci sono molti atteggiamenti, secondo me, che vanno in una dire-
zione opposta, cioè l’idea per cui la salvezza è una decisione libera di
Dio, al massimo noi dobbiamo solo chinare il capo. E questo, evidente-
mente ha generato nel corso della Storia, sotto il profilo sia sociale, sia
economico, delle degenerazioni non di poco conto.
Perché San Benedetto parla di “ora et lavora”? Io non finisco mai
di stupirmi quando rifletto al significato di “ora et lavora”, che vuol dire
mettere il lavoro sullo stesso piano della preghiera. Non dice pregate e
poi, se volete, fatte il lavoro, non, dice, devi pregare e lavorare, perché il
lavoro è altrettanto fondativo della preghiera, cioè, tu non ti salvi solo
pregando, devi lavorare, molti invece pensano che ci si possa salvare solo
con la preghiera, o solo con il lavoro, quelli sono la deviazione opposta.

Epistemología de las Ciencias Sociales.


110
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
L’altra cosa che emerge dalla tua presentazione è che riusciamo a
capire perché in concetto di sviluppo è un concetto tipicamente cristiano,
perché i greci non avevano il concetto di sviluppo, perché nella conce-
zione del tempo come ciclo, non ci può essere sviluppo, non ci può essere
soltanto lo stato stazionario, come diciamo noi economisti. Il concetto di
sviluppo presuppone la nozione lineare del tempo, cioè il tempo è come
una freccia che va verso l’altro, e quindi capiamo perché l’economia di
mercato è una invenzione cristiana. Questo è il punto.
Voi diritte, “non è importante”. È importante perché a volte nella
stessa Chiesa c’è la negazione di questo fatto, si pensa che l’economia di
mercato sia, appunto, un male necessario, invece non, l’economia di mer-
cato è un bene necessario, non è un male necessario, perché se noi di-
ciamo che è un male necessario, vuol dire che dobbiamo affidare, chiari
con il tuo senso, il compito di vigilare, e questo chierico si chiama lo
Stato. E quando dopo noi diamo questo compito allo Stato, è evidente che
nascono i problema di cui si è occupato Francesco Viola prima nella sua
presentazione. Per cui questa riproposizione del tema della laicità della
Chiesa, e dentro della Chiesa, è oggi più urgente che mai, perché ha delle
ricadute nel sociale e nell’economico di grande momento.
Ultima osservazione. Io faccio un po’ l’avvocato del diavolo, ma,
quello che tu hai detto col esempio del professionista che entra in Chiesa,
nella Parrocchia e si spoglia delle sue determinazioni per poi riprenderli,
è vero, però dobbiamo anche essere giusti nel dire che tutto questo av-
viene, perché i cosiddetti laici, cioè, i non clerici, hanno rinunciato alla
loro funzione. Questo avviene perché noi non abbiamo il coraggio di par-
lare chiaro e di dire le cose chiaramente, perché nella mia piccola espe-
rienza, tutte le volte in cui, anche a grande forte autorità, io ho fatto
presente in maniera civile, e in maniera, come dire, caritatevole, dove
erano gli errori da parte loro, io ho visto che non ho ricevuto nessuna con-
danna.
- Prof. Savagnone: Neanch’io.
- Prof. Zamagni: Allora, il mio punto è questo che, o noi capiamo questo
o altrimenti è vana pretesa pretendere che la gerarchia, nel senso proprio
del termine, possa in questo momento storico fare l’operazione che tu
suggerisci.
Quindi, l’operazione io la condivido, però al tempo stesso, devo
dire che il primo “movens” di questo deve partire da noi, dobbiamo avere
meno paura, meno codineria, e allora la libertà a quel punto ritorna.

La laicità della Chiesa


111
Giuseppe Savagnone, pp.65-118
- Prof. Savagnone: Sono interamente d’accordo, e sottolineo anche un
altro aspetto: purtroppo noi laici siamo i primi clericali, perché, anche per
pigrizia, molte volte, preferiamo delegare tutto al prete. Perché non c’è
dubbio che essere laici nel senso vero della parola richiederebbe una as-
sunzione di responsabilità e un coinvolgimento personale che spesso non
abbiamo.
- Dr. Videla: Simplemente quería decir una cosa, porque la presentación
de Giuseppe ha sido tan clara y para mí tan aleccionadora, que quería
hacer una breve reflexión alrededor de este punto, vinculado con una
cuestión fundamental que es la evangelización de la cultura.
La secularización precisamente se inicia como resultado de la
pérdida de la fe en el ámbito intelectual, históricamente se puede
comprobar esta afirmación. Hoy el desafío es, precisamente, tratar de
evangelizar el ámbito de la cultura para que el proceso de secularización
se revierta.
Esa tarea es una tarea que a mi juicio debe hacer la jerarquía con
los laicos, codo a codo, y, de alguna manera, en igualdad de condiciones.
El problema es que para la jerarquía, el laico debe cumplir una función
como la que dice Giuseppe, de subordinación y de acatamiento en un
nivel inferior, y el diálogo con la cultura secular sólo se puede hacer desde
un nivel de equivalencia de inteligencia. Es decir, el que no cree, dialoga
con aquél que tiene una jerarquía intelectual semejante, y el hombre cris-
tiano con nivel intelectual no puede subordinarse de manera automática
a una jerarquía eclesiástica porque la verdad y la realidad están antes que
esa jerarquía. Y ahí se presenta un conflicto que no se resuelve y hace que
en el plano de las instituciones educativas, de la cultura en general, sea
muy difícil encontrar un punto de acuerdo para poder llevar adelante esta
tarea. Y creo que Giuseppe lo ha marcado muy bien.
- Prof. Savagnone: E io vorrei sottolineare che una volta questo l’ho detto
al Segretario della Conferenza Episcopale Italiana in una tavola rotonda,
perché lui diceva: “Voi laici potete essere importanti per dire delle cose
che ormai la gente non vuole più sentire dirsi da noi.” E io gli risposi:
“Eccellenza, i laici non possiamo essere i portavoce del Magistero”. Il
laico non ha la funzione di proclamare la verità, ha la funzione di riela-
borarla, riappropriarsene criticamente, problematicamente, attraverso un
cammino fatto insieme ai non credenti. Quindi, attraverso tutta una serie
di domande e argomentazioni che non sono evidentemente quelle che un
Vescovo o il Papa devono adottare quando enunciano i principi. Noi laici

Epistemología de las Ciencias Sociales.


112
La Doctrina Social de la Iglesia en el nuevo milenio
abbiamo un nostro modo proprio di cercare e di difendere la verità, un
modo che implica la ricerca.
- Dra. Archideo: Sólo quiero agregar, que con respecto a lo que están di-
ciendo, depende de los Episcopados.
Por otra parte quizá sea un aporte que clarifica el tema de la misión
del laico señalar que el Padre Etcheverry identificaba su misión específica
en la construcción del orden temporal respetando su legítima autonomía
-como señala la Gaudium- y al mismo tiempo iluminando esas realidades
temporales con la luz de la fe y aportando la vida de la gracia que sana y
eleva lo humano. En este sentido también se expresaba Juan Pablo II en
la Christifidelis Laici, que además señalaba cómo la Iglesia, que continúa
la acción redentora de Jesucristo, mira a la salvación de los hombres y
abarca también la restauración del orden temporal, aspecto en el que el
laico desarrolla su índole propia. Este último aspecto muestra también la
complementariedad de la misión del laico y de la jerarquía y destaca la
Iglesia como comunión en la que las distintas funciones son en miras al
bien de toda la Iglesia.
Por otra parte, el laico -gran parte de ellos- tiene un sacramento, el
del matrimonio, a través del cuál se inserta en la realidad social, econó-
mica, cultural y política y su misión se manifiesta ya no por los ‘sacra-
mentos que no posee’ sino con una gracia propia que es capaz de
trascender en las realidades temporales en las que actúa.
Por último agradezco a Giuseppe su ponencia y quisiera destacar
algo que vos señalaste: la noción de creación, de Dios que trasciende lo
creado y que, al mismo tiempo, crea participando su ser, bondad, belleza
etc. Este, me parece, es el punto de referencia de la autonomía de la rea-
lidad temporal y de su cognoscibilidad y por eso el descubrir sus propias
leyes y fines es tarea de los laicos y también referencia de la búsqueda
común, con todo ser humano -cristiano o no- de la verdad de las cosas. En
este sentido el fundamento de la laicidad sería más ‘el ser’ que la ‘ausen-
cia’ y ‘lo que falta’, así la tarea del laico es, como señala el magisterio, la
participación en la obra creadora de Dios por parte del hombre inteligente
y libre.
- Dra. Benites: Quería preguntarle a Giuseppe -antes decirle que me gustó
mucho su exposición, que le agradezco porque realmente me hizo pensar
mucho-, recogiendo tres premisas que puso y que me resultaron muy in-
teresantes. La primera es esa idea de definir la laicidad como lo que no es,
como lo que de alguna manera tiene que construirse, que me parece que

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tiene mucha relación con una idea que también se dijo acá en el otro Sim-
posio de Ciencias Exactas, y es que el Cristianismo rechaza la idea de un
Dios relojero, es decir de un Dios que ha hecho un universo, ha terminado,
que nada puede hacerse en ese universo y si esto es verdad para el uni-
verso material, para el universo físico, cuánto más debe serlo cuando se
trata de la realidad humana. Es decir, si al hombre le ha dado libertad, y
si esa libertad tiene su máxima expresión en la creatividad, es decir la li-
bertad creativa de la cual también se ha hablado acá -ha hablado Lila en
el Simposio sobre la libertad-, evidentemente que es muy importante esto,
que es muy sugestiva la idea de ponerla así.
Y la tercera cosa es esa reflexión sobre ese dualismo entre lo sacro
y lo profano y como eso tampoco es cristiano, por lo tanto, corresponde
al laico salir del templo e ir a hacer esa tarea en el mundo. Entonces, mi
pregunta ahora es si vos nos podrías decir, Giuseppe, según lo que vos ves,
cuál podría ser el aporte que puede hacer el laico hoy, justamente en ese
salir del templo, más allá de las situaciones de la Iglesia que pueden ser
circunstanciales. Esto por un lado.
Y otra cosa te quería preguntar, porque hay una idea en el Concilio
Vaticano II que es la idea de la reciprocidad entre el sacerdocio común de
los fieles y el sacerdocio ministerial en el marco de una Iglesia, como se
ha dicho también acá, que es misterio de comunión, es decir, en la Iglesia
hay una reciprocidad entre el sacerdocio ministerial y el sacerdocio
común de los fieles, hay una reciprocidad entre matrimonio y virginidad,
hay una reciprocidad entre ministerios y carismas, y entonces también
quería preguntarte si esto tiene algo que decir respecto de este tema.
- Prof. Savagnone: Innanzi tutto, rispondo alla prima domanda relativa a
quello che possiamo fare noi laici. Io credo che la prima cosa da fare sia
prendere coscienza della nostra dignità battesimale, perché è vero che bat-
tezzati sono pure i presbiteri, i Vescovi, il Papa; però è vero che mentre il
ministero di un presbitero parte dal battesimo per compiersi in qualche
cosa di più, che è la sua vocazione sacerdotale, il laico ha solo il suo bat-
tesimo. Proprio il “di meno” del laico lo spinge ad essere innanzi tutto
caratterizzato dalla regalità, dalla profezia e dal sacerdozio che sono i mu-
nera battesimali, doni e compiti al tempo stesso.
Ora, il laico deve riflettere molto su suo modo peculiare di essere
re, nella società e nella Chiesa. Oggi, si è diffusa spesso una posizione per
cui il laico deve farsi valere per la sua bravura, essere il primo per testi-
moniare Cristo, o peggio ancora, occupare posizioni pubbliche. Da noi

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in Italia è forte questa tentazione di gruppi, di movimenti, di conquistare
posti di potere. Invece, la regalità del laico deve essere modellata sulla re-
galità di Cristo, che si compì sulla croce. È, dunque, una regalità che con-
siste anche nel sapere accettare il nascondimento, la vita quotidiana:
lavare i piatti, fare il proprio lavoro in ufficio, a scuola, essere uno stu-
dente, semplicemente, senza pretese.
Il laico deve trovare il suo modo di vivere anche la profezia. Egli
deve essere profeta anche attraverso la ricerca, il dubbio, non deve essere
colui che dà tutte le risposte, ma deve sapersi fare compagno di strada
degli altri uomini e donne in un pellegrinaggio verso il mistero. Lo stesso
vale per il sacerdozio, e così mi collego anche alla seconda domanda. Il
sacerdozio del laico consiste, sì, nel partecipare all’offerta che il sacerdote
fa sull’altare. Però in questa offerta il laico pone la sua offerta particolare,
che è l’offerta dell’effimero di chi è costellata la sua vita quotidiana. Men-
tre il sacerdote innanzi tutto offre il Corpo di Cristo, e solo indirettamente
la sua vita, il laico, invece, non ha innanzi tutto da offrire altro che la sua
vita quotidiana, il suo andare al cinema, il suo svegliarsi la notte per il
bambino che piange, questa è la sua offerta. Il Concilio lo dice benissimo,
nella “Lumen Gentium”, che corrisponde al discorso di San Paolo: “Of-
frite i vostri corpi come sacrificio vivente”. Il sacrificio cristiano si pre-
senta sin dall’inizio come un sacrificio che ha come oggetto innanzi tutto
la vita. Perciò il sacerdozio del laico non è una specie di versione sbiadita
del sacerdozio ministeriale, ha la sua peculiarità.
Cosa possono fare i laici? Innanzi tutto prendere coscienza di questi
tre munera, e farli diventare attraverso una riflessione, una prassi, uno
stile, il contenuto della vita della Chiesa, perché i laici siamo la stragrande
maggioranza dei membri della Chiesa. Quindi, per la Chiesa è una ric-
chezza enorme se noi laici impariamo a vivere la nostra vocazione batte-
simale nel modo giusto.
Allora, è innanzi tutto urgente una presa di coscienza, una educa-
zione, che si rifletterà su tutta la Chiesa, perché, una volta che noi laici ri-
prendessimo coscienza del nostro essere laici, potremmo dare il nostro
contributo alla laicità dell’intera Chiesa. Non possiamo aspettarci che i
ministri sacri da soli, facciano quest’opera. La gerarchia ha bisogno anche
dell’aiuto e della sollecitazione dei laici.
- Prof. Brenci: Questa mattina si è parlato dei valori, e si è parlato dei va-
lori con una metodologia che in conoscenza è quella del propensionismo.
Cioè, esistono i valori, ma i valori nel tempo possono anche variare par-

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zialmente per l’approfondimento di conoscenza che ogni gruppo, ogni
persona può condurre sopra i valori.
Questo tipo di conoscenza è metodologicamente molto studiato in
logica matematica. L’unica cosa nell’uso che mi sembrava fosse nato di-
rettamente nella testa di Viola, è che quando si modificano, si modificano
tutte le situazioni, basta che un valore modifichi in suo peso, che tutti gli
altri valori cambiano in scala gerarchica e quindi cambiano di importanza.
La cosa a cui si tiene molto in logica formale, è che il metodo abbia
una classificazione, che è equiparata, praticamente, nel teorema di Bayes
nelle probabilità a priori, e un’altra, che possa essere omogenea, cioè, che
effettivamente l’approfondimento possa modificare il valore stesso. Sono
due problemi completamente diversi: uno è un problema conoscitivo di
approfondimento, l’altro è un problema ontologico di essenza.
Volevo solamente qualche precisazione sulla metodologia, ma
credo che sia un problema che riguarda a me, il fatto che per me la logica
matematica è applicabilissima a proposito di questo.
Un’altra delle cose che mi ha molto colpito, è che la filosofia della
scienza esce di solito della comune. Perché, per esempio, non utilizziamo
uno dei discorsi molto importante, e molto antico, che è quello del Circolo
di Viena, che fra l’altro ci favorisce moltissimo, perché dice che non può
esistere una scienza se non ci sono proposizioni metafisiche previe alla
scienza stessa, cosa che affronta il nostro problema in maniera molto
netta. Chi sceglie le proposizioni metafisiche che sono a monte della
scienza? Che cosa sono le proposizioni metafisiche?
A me sembrano domande molto importanti, ma probabilmente sono
importanti per una deviazione corporativa mia personale, che li rifaccio
a non so chi, che mi deva rispondere.
- Prof. Viola: Questi sono problemi troppo complicati, ma sono anche cru-
ciali, nel senso che implicano il problema della conoscenza dei valori.
Io ho l’impressione che oggi si stia tornando a una forma di neo-
positivismo che escludeva appunto la possibilità della conoscenza dei va-
lori, perchè dire che i valori sono delle preferenze, come oggi si inclina a
ritenere, cioè delle preferenze soggettive, che quindi sono segnati dalla di-
mensione della soggettività, è lo stesso in sostanza che affermare l’inco-
noscibilità dei valori. Mentre prima i valori venivano eliminati dalla
dimensione della scienza, oggi entrano tutti nella scienza e la destruttu-
rano dall’interno con la loro pretesa soggettività.
Quindi, la questione oggi non è solo quella di affermare l’impor-
tanza dei valori nella vita umana, ma di affermare anche l’oggettività dei

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valori, cioè la possibilità di avere intorno ai valori dei giudizi conoscitivi
di carattere oggettivo. Questo, direi, non è ancora conquistato, cioè si è
passati dall’eliminazione dei valori all’ammissione dei valori. Però, non
si è passati dalla soggettività dei valori alla loro oggettività. Ecco questo
è il punto. Dire che i valori sono necessari non basta se non si afferma
anche la possibilità di una conoscenza oggettiva dei valori. Questa è la
questione.
E sul piano della conoscibilità oggettiva dei valori, ancora oggi dal
punto di vista delle filosofie dominanti, naturalmente, c’è insomma molto
da fare.
Io personalmente condivido molto la posizione di Charles Taylor,
che è un critico dell’epistemologia neopositivista, essendo sostenitore
della possibilità di conoscere oggettivamente i valori, ma nello stesso
tempo tenendo conto dell’aspetto soggettivo dell’apprezzamento che si
trova nei giudizi di valore. C’è per esempio un bel libro che è stato tra-
dotto di recente da Vita e Pensiero, intitolato “Etica e Umanità”, in cui si
trova una raccolta di articoli molto interessanti di Charles Taylor proprio
sulla possibilità di una conoscenza oggettiva dei valori basata anche sulla
intersoggettività, sulla dimensione culturale, sul dialogo fra le culture,
perché ovviamente, quando si parla di interculturalismo, bisogna ammet-
tere la possibilità di una comunanza in qualche cosa di oggettivo, se la co-
munanza fosse puramente soggettivistica, allora sarebbe meramente
provvisoria e priva di ogni stabilità.
- Prof. Brenci: Dicevo questo perché in teoria questo è il problema prin-
cipe di teoria delle decisioni. I geometri, in generale, soprattutto i geometri
differenziali, dicono bene risolvere un problema, ma in funzione di quali
valori. Se per caso io, in un agilissimo ed elegante teorema, dimostro che
quella è la strada migliore per attingere un valore, e quel valore è inferiore
di poco ad un altro che con un pochino di difficoltà posso risolvere, cam-
bio, addirittura il sistema di riferimento.
Credo che per questa parte un poco il logico matematico dovrebbe
essere interpellato, ha molte cose da dire.
- Prof. Zamagni: Viola appunto dice giustamente che sia passaggio dal
non cognitivismo al cognitivismo, cioè alla tesi epistemologica secondo
cui è possibile dare una fondazione dei valori, e quindi la ammissibilità
nel discorso scientifico.
Il punto, tu hai detto giustamente, non sia ancora però riusciti a fare
a meno del soggettivismo, la riduzione dei valori a preferenze. En effetti,

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il via promettente, secondo me, è quella di tentare una terza via che si sta
tentando in questi ultimi tempi, che è quella della “positional objectivity”,
cioè l’oggettività posizionale.
- Prof. Viola: Sí, ma la via posizionale è soggettiva...
- Prof. Zamagni: La posizione...
- Prof. Viola: La posizione è soggettiva.
- Prof. Zamagni: Però una volta che tu l’hai dichiarata, a quel punto l’altro
può dialogare con te. Ed è una via intermedia tra il soggettivismo e l’og-
gettivismo.
- Prof. Viola: Ed è questa la posizione di Taylor.
- Prof. Zamagni: Di Taylor, anche di altri, ed è quella che io vedo più
efficace nel dialogo interculturale. Perchè allora a quel punto, io posso
difendere i miei valori purché lo dichiari, perché l’oggettività posizionale
presuppone, anzi esige, che coloro quali partecipano al dialogo, dichiarino
subito, dall’inizio, non alla fine, da che parte stanno, perché allora “la
mirada”, come si dice in spagnolo, lo sguardo sulla realtà ti permette
questa.
- Prof. Viola: E questo è importante per il ruolo delle religioni dal punto
di vista pubblico.
- Prof. Zamagni: E soprattutto per i cristiani questa dovrebbe essere la
via che dovrebbe essere abbattuta, e che trovo in generale che è conve-
niente.
- Dra. Archideo: Muchas gracias Prof. Savagnone y gracias a todos.

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