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persone che hanno cambiato il loro stile di vita e consigli semplici
e pratici, La dieta intelligente vi insegnerà ad assumere il controllo
dei vostri «geni intelligenti», a riguadagnare il benessere e a
godere sempre di salute e vitalità.
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L’autore
4
David Perlmutter
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LA DIETA INTELLIGENTE
Perché grano, carboidrati e zuccheri minacciano il nostro
cervello
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L’intento di questo libro è integrare il consiglio di un operatore sanitario
qualificato, non sostituirlo. Qualora sappiate, o sospettiate, di avere un
problema di salute, dovete consultare un medico. Autore ed editore declinano
in modo specifico ogni responsabilità per perdite o rischi, personali o di altra
natura, in cui si incorra in conseguenza diretta o indiretta dell’uso e
dell’applicazione di qualsiasi contenuto di questo libro.
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La dieta intelligente
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Il vostro cervello…
pesa circa 1,360 kg e ha 160.934 km
di vasi sanguigni.
Contiene più connessioni di quante stelle
ha la Via Lattea.
È l’organo più grasso del vostro corpo.
Proprio in questo momento potrebbe soffrire
senza che ne abbiate il minimo sospetto.
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Introduzione
Contro i cereali
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crepe invisibili a occhio nudo. Durante il naturale declino
della casa si effettua la manutenzione opportuna ovunque
sia necessario, ma non sarà mai come nuova, a meno che
non si demolisca la struttura per ricostruirla da capo.
Ogni tentativo di mettere una toppa ed effettuare
riparazioni fa guadagnare del tempo, ma alla fine
qualsiasi parte avrà disperato bisogno di una
ristrutturazione o addirittura di una sostituzione. Allo
stesso modo anche il corpo umano si logora, come tutto
nella vita. Sopraggiunge una malattia debilitante e, poco a
poco, progredisce a un ritmo sempre più straziante, finché
alla fine il corpo muore.
Questo vale in modo particolare per i disturbi cerebrali,
compreso il più temuto di tutti: il morbo di Alzheimer. È
un incubo della medicina moderna che fa sempre notizia.
Se c’è una preoccupazione per la salute che sembra
eclissare tutte le altre, a mano a mano che si invecchia, è
quella di cadere vittime dell’Alzheimer o di qualche altra
forma di demenza che renda incapaci di pensare, di
ragionare e di ricordare. La ricerca mostra fino a che
punto questa angoscia esistenziale sia radicata. Nel 2011,
uno studio condotto dalla Harris Interactive per la
MetLife Foundation ha posto in evidenza che il 31% delle
persone teme la demenza più della morte o del cancro. 1 E
questa paura non riguarda solo gli anziani.
Molti sono i miti intramontabili sul gruppo di malattie
degenerative del cervello che comprende l’Alzheimer: è
genetico, è inevitabile con l’età, è un dato di fatto se si
vive fino agli ottanta e oltre.
Un momento, non così in fretta.
Sono qui per dirvi che la sorte del vostro cervello non è
una questione di geni. Non è inevitabile. E se soffrite di
un altro tipo di disturbo cerebrale, per esempio di mal di
testa cronico, di depressione, di epilessia o di estremi
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sbalzi d’umore, il colpevole potrebbe non essere codificato
nel vostro DNA .
Egli, invece, si nasconde nel cibo che consumate.
Sì, avete letto bene: le disfunzioni del cervello derivano
dal pane quotidiano, e ve lo dimostrerò. Lo ripeto, perché
mi rendo conto che suona assurdo: i cereali moderni
stanno silenziosamente distruggendo il vostro cervello.
Con «moderni» non intendo solo le farine bianche, la
pasta e il riso raffinati che sono già stati demonizzati dai
nemici dell’obesità; mi riferisco a tutti i cereali che tanti di
noi hanno adottato considerandoli sani: grano e cereali
integrali, multicereali, sette cereali, macinati a pietra e così
via. In sostanza, sto considerando alcuni tra i più amati
alimenti base della nostra dieta come un gruppo di
terroristi che tormentano il nostro organo più prezioso: il
cervello. Intendo dimostrare che la frutta e altri
carboidrati potrebbero rappresentare rischi per la salute
con conseguenze di vasta portata, che non solo provocano
caos e distruzione fisica nel cervello, ma accelerano il
processo di invecchiamento del corpo partendo
dall’interno. Non si tratta di fantascienza: è un fatto
documentato.
Il mio obiettivo nello scrivere questo libro è fornire
informazioni attendibili e basate su prospettive
scientifiche moderne, evolutive e fisiologiche. È un testo
che abbandona lo schema del dogma accettato dai profani
e prende le distanze da interessi aziendali occulti. Esso
propone un nuovo modo di comprendere la causa
all’origine delle malattie del cervello e offre un
promettente messaggio di speranza: i disturbi cerebrali
possono essere in larga misura prevenuti grazie alle
nostre scelte di vita. Quindi, se ancora non l’avete capito,
cercherò di essere cristallino: questo non è l’ennesimo
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libro sulla dieta o un generico manuale per la tutela della
salute da ogni sorta di malanno. È un libro che cambia le
carte in tavola.
Nelle varie guerre che conduciamo contro le malattie
croniche, sentiamo ogni giorno parlare di qualcosa di
nuovo, soprattutto riguardo a mali in prevalenza evitabili
mediante determinati stili di vita. Bisognerebbe vivere
fuori dal mondo per non sapere che ogni anno
ingrassiamo sempre più, a dispetto di tutte le
informazioni in commercio su come restare snelli e in
forma. A quel punto sarebbe difficile essere al corrente del
forte aumento della percentuale di malati di diabete di
tipo 2. O del fatto che la cardiopatia è il nostro primo
flagello, seguita da vicino dal cancro.
Mangiare verdura. Lavarsi i denti. Fare ginnastica una
volta ogni tanto. Riposare bene. Non fumare. Ridere di
più. Alcuni principi che riguardano la salute sono
questione di buon senso e sappiamo tutti che dovremmo
praticarli in maniera sistematica. In qualche modo,
tuttavia, quando si tratta di preservare la salute del
cervello e le facoltà mentali, tendiamo a pensare che non
dipenda davvero da noi, che sia destino sviluppare
malattie al cervello nel fiore degli anni e rimbambire da
anziani, o che sfuggiremo a una simile sorte grazie alla
fortuna di una buona conformazione genetica o di
conquiste della medicina. Senza dubbio, faremmo bene a
mantenere impegnata la mente dopo il pensionamento,
fare cruciverba, continuare a leggere e andare ai musei. E
non è che tra le disfunzioni cerebrali e le specifiche scelte
di stile di vita esista una correlazione diretta, di palese
ovvietà, come quella, per esempio, tra fumare due
pacchetti di sigarette al giorno e sviluppare il cancro ai
polmoni, o tra rimpinzarsi di patatine fritte e diventare
obesi. Come stavo dicendo, siamo soliti collocare i
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disturbi cerebrali in una categoria a parte rispetto alle
altre malattie attribuite a cattive abitudini. È mia
intenzione cambiare questa percezione mostrandovi la
relazione tra il vostro modo di vivere e il rischio di
sviluppare una serie di problemi legati al cervello, alcuni
dei quali possono colpire durante l’infanzia, mentre altri
sono diagnosticati all’estremo opposto della vita. Durante
lo scorso secolo siamo passati da una dieta ad alto tenore
di grassi ma basso di carboidrati a quella odierna, a basso
tenore di grassi e alto di carboidrati, composta
essenzialmente da cereali e altri carboidrati dannosi.
Credo che questo mutamento sia all’origine di molte delle
piaghe moderne che colpiscono il cervello, come mal di
testa cronici, insonnia, ansia, depressione, epilessia,
disturbi motori, schizofrenia, disturbo da deficit di
attenzione e iperattività (DDAI , noto anche come ADHD ,
dall’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder), e di
quei momenti della vecchiaia che sono con buona
probabilità forieri di un grave declino cognitivo e di
patologie cerebrali conclamate, irreversibili, non trattabili
e incurabili. Vi svelerò l’effetto profondo che forse proprio
in questo momento i cereali stanno producendo sul vostro
cervello senza che nemmeno lo avvertiate.
L’idea che il cervello sia sensibile a ciò che mangiamo
circola senza clamore nella più prestigiosa letteratura
medica recente. Queste informazioni devono essere rese
note al pubblico, sempre più spesso vittima dell’inganno
di un’industria che vende alimenti spacciati per
«nutrienti». Anche medici e scienziati come me sono stati
indotti a dubitare di ciò che riteniamo «sano». I
carboidrati e gli oli vegetali polinsaturi trattati, come
quelli di ravizzone, di mais, di semi di cotone, di arachidi,
di cartamo, di soia e di girasole, sono responsabili del
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vertiginoso aumento di malattie cardiovascolari, obesità e
demenza? È vero che una dieta ricca di grassi saturi e di
colesterolo fa bene a cuore e cervello? E che possiamo
modificare il nostro DNA con l’alimentazione, a dispetto
dei geni che abbiamo ereditato? Ormai è abbastanza
risaputo che una piccola percentuale dei sistemi digestivi
della popolazione è sensibile al glutine, la proteina che si
trova in grano, orzo e segale, ma è possibile che il cervello
di tutti abbia una reazione negativa a questa componente?
Interrogativi come questi cominciarono a preoccuparmi
qualche anno fa, con l’emergere di ricerche incriminanti e
l’aggravarsi dei miei pazienti. Come neurologo che
esercita la professione e si occupa, giorno dopo giorno, di
individui in cerca di risposte a patologie cerebrali
debilitanti e di famiglie che faticano ad affrontare la
perdita delle facoltà mentali di un proprio caro, ho
l’obbligo di andare a fondo della questione. Forse è perché
non sono solo un neurologo iscritto all’albo, ma anche un
membro dell’American College of Nutrition: l’unico
dottore nel paese in possesso di queste due credenziali.
Inoltre, sono membro fondatore e ricercatore
dell’American Board of Integrative and Holistic Medicine
(ente americano di medicina integrativa e olistica), il che
mi consente una prospettiva unica sul rapporto tra
l’alimentazione e il modo in cui funziona il nostro
cervello. Questo non è ben compreso dalla maggior parte
delle persone, inclusi quei dottori che sono stati formati
anni prima dell’affermarsi di questa nuova scienza. È ora
di prestare attenzione. È ora che uno come me abbandoni
il microscopio o il laboratorio in cui esegue esami clinici e
lanci l’allarme con sincerità. Dopo tutto, le statistiche
lasciano senza parole.
Tanto per cominciare, diabete e disturbi cerebrali sono
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le patologie più costose e più deleterie degli Stati Uniti,
eppure possono in larga misura essere prevenute tenendo
conto di come sono correlate tra loro: avere il diabete
raddoppia il rischio del morbo di Alzheimer. In realtà, se
c’è una cosa che questo libro dimostra con chiarezza è che
molte delle malattie che coinvolgono il cervello
condividono denominatori comuni. Diabete e demenza
possono non sembrare affatto collegati, ma io vi mostrerò
fino a che punto ognuna delle nostre potenziali
disfunzioni cerebrali sia vicina a patologie che di rado
imputiamo al cervello. Inoltre, stabilirò inattesi
collegamenti tra disturbi cerebrali molto diversi – per
esempio tra il morbo di Parkinson e una propensione a
sviluppare comportamenti violenti – indicando le cause
prime di una serie di problemi di salute che interessano il
cervello.
Anche se è ben noto che i cibi pronti e i carboidrati
raffinati hanno contribuito ai nostri problemi di obesità e
alle cosiddette allergie alimentari, nessuno ha spiegato il
rapporto tra cereali e altri alimenti e la salute del cervello
e, in un’ottica più ampia, il DNA . È piuttosto semplice: i
nostri geni determinano non solo il modo in cui
elaboriamo il cibo, ma, e questo è più importante, il modo
in cui reagiamo agli alimenti che consumiamo. Non ci sono
dubbi che uno degli eventi più rilevanti e di maggior
portata nel decisivo declino della salute cerebrale della
società moderna è stato l’introduzione nella dieta umana
del grano. Sebbene sia vero che i nostri progenitori del
neolitico consumavano minuscole quantità di questo
cereale, quello che ora chiamiamo grano somiglia ben
poco alla varietà selvatica monococco conosciuta dai
nostri antenati. Con l’ibridazione moderna e la tecnologia
di modificazione genetica, gli oltre sessanta chilogrammi
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di grano che l’americano medio consuma ogni anno non
denotano quasi nessuna somiglianza genetica, strutturale
o chimica con ciò che potrebbero aver incontrato quegli
antichi cacciatori-raccoglitori. Ed è questo il problema:
stiamo sfidando la nostra fisiologia con sempre più
componenti ai quali non siamo geneticamente preparati.
Per la cronaca, questo non è un libro sulla celiachia
(una rara malattia autoimmune che riguarda il glutine ma
interessa solo un esiguo numero di persone). Se state già
pensando che questo libro non fa per voi perché 1) non vi
è stata diagnosticata alcuna malattia o disturbo, o 2) per
quanto ne sapete non siete sensibili al glutine, vi supplico
di andare avanti a leggere. Riguarda noi tutti. Il glutine è
quello che definirei un «virus silenzioso». Può infliggere
danni duraturi senza essere avvertito.
Al di là di calorie, grassi, proteine e micronutrienti,
sappiamo ormai che il cibo è un potente modulatore
epigenetico, vale a dire in grado di modificare il nostro
DNA in meglio o in peggio. Oltre a servire come fonte di
calorie, proteine e grassi, il cibo regola l’espressione di
molti dei nostri geni. E da questa prospettiva abbiamo
appena cominciato a comprendere le dannose
conseguenze del consumo di grano.
La maggioranza di noi crede di poter scegliere come
vivere la propria vita e poi, quando si presentano
problemi di salute, andare dal dottore per una soluzione
immediata sotto forma dell’ultimo e più fantastico
ritrovato in pillole. Questo comodo scenario favorisce, da
parte dei medici che svolgono il ruolo di fornitori di
pillole, un approccio incentrato sulla malattia. Questo
approccio, tuttavia, ha un tragico difetto per due ragioni:
innanzitutto, si concentra sul disturbo e non sul benessere;
inoltre, le terapie stesse sono spesso gravide di pericolose
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conseguenze. Un recente rapporto sulla prestigiosa rivista
«Archives of Internal Medicine» ha rivelato, per esempio,
che donne in menopausa cui erano state prescritte statine
per ridurre il colesterolo avevano un incremento di quasi
il 48% del rischio di sviluppare il diabete rispetto a quelle
che non assumevano questo farmaco. 2 Quest’unico
esempio risulta ancora più critico se si considera che
diventare diabetici raddoppia il rischio del morbo di
Alzheimer.
Al giorno d’oggi, le persone appaiono sempre più
consapevoli degli effetti delle scelte di vita sulla salute e
sul pericolo di malattie. Spesso sentiamo parlare della
dieta heart smart, quella che fa bene al cuore, o di consigli
per aumentare il consumo di fibre come strategia per
ridurre il rischio di tumore del colon. Ma perché sono
reperibili così poche informazioni su come mantenere
sano il cervello e prevenire le sue patologie? Forse perché
il cervello è legato al concetto evanescente di mente e
questo lo isola, a torto, dalla nostra capacità di controllo?
O perché le società farmaceutiche hanno fatto
investimenti per scoraggiare l’idea che lo stile di vita
eserciti una profonda influenza sulla salute del cervello?
Vi avverto: non tratterò con guanti di velluto la nostra
industria farmaceutica. Conosco troppe storie di persone
che ne sono state più ingannate che aiutate. Avrete modo
di leggerne alcune nelle pagine che seguono.
Questo libro riguarda quei cambiamenti dello stile di
vita che possono essere attuati oggi per mantenere il
cervello sano, vivace e lucido, e, al tempo stesso, ridurre
in maniera notevole l’eventualità di debilitanti malattie al
cervello nel futuro. Ho dedicato più di trentacinque anni
allo studio delle patologie cerebrali. La mia giornata
lavorativa è incentrata sulla produzione di programmi
integrativi studiati per migliorare la funzione cerebrale
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nei soggetti colpiti da malattie devastanti. Tutti i giorni
incontro le loro famiglie e i loro cari le cui vite sono state
sconvolte dalla malattia. È straziante anche per me. Ogni
mattina, prima di cominciare a lavorare, passo a trovare
mio padre, che ha novantasei anni. Un tempo era un
brillante neurochirurgo uscito dalla prestigiosa Lahey
Clinic, ora risiede in un centro di assistenza per anziani
situato dall’altra parte del parcheggio del mio ufficio.
Anche se non sempre ricorda il mio nome, non dimentica
quasi mai di esortarmi a visitare tutti i suoi pazienti. È in
pensione da più di venticinque anni.
Le informazioni che voglio divulgare non sono soltanto
impressionanti, ma incontestabili. Vi indurranno ad
apportare subito dei cambiamenti al vostro modo di
mangiare. E guarderete a voi stessi in una luce del tutto
nuova. In questo momento vi starete domandando: «È già
troppo tardi?». Dopo tutti quegli anni in cui non vi siete
negati nulla, il destino del vostro cervello è ormai
segnato? Niente panico. Con questo libro intendo
soprattutto mettervi in una posizione di potere, dotarvi di
un telecomando per il vostro cervello futuro. Si tratta di
quello che farete a partire da oggi.
Sulla scorta dei decenni di studi clinici e di laboratorio
(inclusi i miei), e degli straordinari risultati cui ho assistito
negli ultimi trent’anni nell’esercizio della mia professione,
vi racconterò ciò che sappiamo e come possiamo trarre
vantaggio da questa conoscenza. Inoltre, vi proporrò un
piano d’azione globale per migliorare la salute cognitiva e
assicurarvi anni più brillanti. E i benefici non sono
circoscritti alla salute del cervello. Posso garantire che
questo programma è utile nei seguenti casi:
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mal di testa cronico ed emicrania
depressione
diabete
epilessia
problemi di concentrazione
malattie e patologie infiammatorie, artrite inclusa
insonnia
problemi intestinali, inclusi celiachia, sensibilità al
glutine e intestino irritabile
problemi di memoria e deterioramento cognitivo
lieve, spesso precursore del morbo di Alzheimer
disturbi dell’umore
sovrappeso e obesità
sindrome di Tourette
e altro ancora.
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proteine. Per non parlare della donna sulla trentina che
conobbe uno straordinario miglioramento delle
condizioni di salute dopo avere sofferto di un’infinita
litania di problemi medici. Prima di rivolgersi a me, non
solo soffriva di emicranie, di depressione e di
un’infertilità che le spezzava il cuore, ma anche di una
malattia rara, chiamata distonia, che le contorceva i
muscoli in strane posizioni rendendola inabile. Alcuni
semplici aggiustamenti nella dieta consentirono al suo
corpo e al suo cervello di tornare in perfetta salute… e di
avere una perfetta gravidanza. Queste storie sono
eloquenti ed emblematiche di milioni di altre storie di
gente che convive senza necessità con disturbi debilitanti.
Vedo molti pazienti che hanno «provato di tutto» e, nella
speranza di trovare una cura per la loro patologia, si sono
sottoposti a ogni esame neurologico o risonanza possibile.
Con poche, semplici prescrizioni che non implicano
farmaci, interventi chirurgici o anche solo assistenza
psicologica, la stragrande maggioranza guarisce e ritrova
la strada della salute. In questo libro troverete tutte queste
prescrizioni.
Una breve nota sull’organizzazione del libro: ho
suddiviso il materiale in tre parti, partendo da un
questionario generale ideato per mostrare come le
abitudini quotidiane potrebbero influire sulla funzionalità
e la salute a lungo termine del cervello.
La prima parte, La verità sui cereali integrali, è una visita
guidata tra gli amici e i nemici del cervello; questi ultimi
vi rendono vulnerabili a disfunzioni e malattie.
Rovesciando la classica piramide alimentare americana,
spiegherò cosa succede quando il cervello incontra
ingredienti diffusi come grano, fruttosio (lo zucchero
naturale che si trova nella frutta) e determinati grassi,
dimostrando che una dieta a bassissimo contenuto di
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carboidrati ma ricca di grassi è l’ideale (stiamo parlando
di non più di 60 grammi di carboidrati al giorno, la
quantità contenuta in una porzione di frutta). Forse
suonerà assurdo, ma vi consiglierò di cominciare
sostituendo il pane quotidiano con burro e uova. Presto
consumerete più grassi saturi e colesterolo e vedrete le
corsie del supermercato con occhi diversi. A chi è già stato
diagnosticato il colesterolo alto e prescritta una statina
toccherà un brusco risveglio: spiegherò cosa succede in
realtà all’interno del corpo e come rimediare a questo
problema in modo semplice, piacevole e senza farmaci.
Con il supporto della scienza, offrirò una nuova
interpretazione dettagliata e convincente del tema
dell’infiammazione, mostrando che occorre cambiare
dieta per controllare questa reazione biochimica
potenzialmente fatale e al centro delle patologie cerebrali
(per non parlare di tutte le nostre malattie degenerative,
dalla prima all’ultima). Vi illustrerò come le scelte
alimentari possano tenere sotto controllo l’infiammazione
modificando l’espressione dei vostri geni. Ed è inutile
consumare antiossidanti: dobbiamo invece preferire
alimenti che attivano le potenti vie antiossidanti e di
disintossicazione del corpo. La prima parte comprende un
esame delle ultime ricerche sul modo in cui possiamo
modificare il nostro destino genetico e controllare gli
«interruttori generali» nel DNA . Ricerche così avvincenti
saranno di ispirazione anche al fanatico di fast food meno
avvezzo alla ginnastica. Questa parte si conclude con un
approfondimento su alcuni dei più dannosi disturbi
psicologici e comportamentali, come quello da deficit di
attenzione e iperattività, la depressione e il mal di testa.
Spiegherò come molti casi si possano curare senza
farmaci.
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Nella seconda parte, Riabilitare il cervello, illustrerò il
fondamento scientifico delle abitudini a supporto di un
cervello sano, che ruotano intorno a tre ambiti primari:
nutrizione e integratori, esercizio fisico e sonno. Le lezioni
apprese in questa sezione vi aiuteranno ad attuare il mio
programma di un mese delineato nella terza parte, Dire
addio alle vecchie abitudini alimentari, che comprende menù,
ricette e obiettivi settimanali. Per ricevere ulteriore
supporto e costanti aggiornamenti potete visitare il mio
sito web www.DrPerlmutter.com, dove potrete accedere
agli ultimi studi, leggere il mio blog e scaricare materiali
che vi aiuteranno ad adattare le informazioni contenute in
questo libro alle vostre preferenze personali. Troverete,
per esempio, l’agenda di «una giornata in un colpo
d’occhio» e di «un mese in un colpo d’occhio», con idee su
come progettare i pasti e programmare le vostre giornate,
ricette incluse. Alcuni degli elenchi presenti in questo
libro (come «la polizia del glutine») saranno accessibili
anche online, perciò non sarà difficile appenderli in cucina
o sul frigorifero come promemoria.
Dunque, che cosa accade con esattezza al cervello
nutrito a cereali? Penso che l’avrete intuito. Per capirlo
meglio, basta riflettere su una vecchia pubblicità
trasmessa verso la metà degli anni Ottanta. Forse
ricorderete la campagna su vasta scala del servizio
pubblico contro i narcotici, che presentava un uovo in una
padella e la battuta memorabile: «Questo è il tuo cervello
sotto l’effetto delle droghe». La potente immagine
suggeriva che l’effetto fosse uguale a quello prodotto su
un uovo da una padella bollente. Friggeva.
È una buona sintesi della mia tesi sull’effetto dei cereali
sul cervello. Permettetemi di dimostrarlo. Poi spetterà a
voi decidere se prenderlo sul serio e andare incontro a un
futuro più luminoso e più sano. Abbiamo tutti molto da
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perdere, se non ascoltiamo questo messaggio, e molto da
guadagnare in caso contrario.
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Autovalutazione
Quali sono i vostri fattori di rischio?
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questionario che rivela quali abitudini potrebbero,
proprio in questo momento, arrecarvi inavvertitamente
un danno. L’obiettivo del questionario sottostante è
valutare i fattori di rischio in relazione ai problemi
neurologici attuali (con manifestazioni quali emicranie,
crisi epilettiche, disturbi dell’umore e del movimento,
disfunzioni sessuali e sindrome da deficit di attenzione e
iperattività) e a un grave declino mentale in futuro.
Rispondete nella maniera più onesta possibile. Non
pensate al rapporto con i disturbi cerebrali implicito nelle
mie affermazioni: limitatevi a rispondere con sincerità.
Nei prossimi capitoli comincerete a comprendere perché
mi sono servito di questi particolari enunciati e qual è la
vostra situazione in termini di fattori di rischio. Se sentite
di essere in bilico tra «vero» e «falso» e vorreste
rispondere «a volte», dovreste in realtà scegliere «vero».
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12.mia famiglia. vero/falso
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Le analisi
«Quali rischi corro?» È una domanda che mi viene rivolta
innumerevoli volte tutti i giorni. La bella notizia è che ora
abbiamo gli strumenti per stilare un profilo medico delle
persone e stabilire il loro rischio di sviluppare
determinate malattie, dall’Alzheimer all’obesità (che
rappresenta ormai un fattore di minaccia ben
documentato per le patologie cerebrali), e per seguirne
l’evoluzione. Oggi gli esami di laboratorio dei valori sotto
elencati sono disponibili, economici e coperti in genere
dalla maggioranza dei piani assicurativi. Nei prossimi
capitoli apprenderete altre informazioni su questi test e
scoprirete come migliorare i risultati (i vostri «valori»). Se
li elenco già qui è perché molti di voi desiderano sapere
subito quali test può eseguire il dottore per aiutarvi a
cogliere il vero senso dei vostri fattori di rischio nelle
patologie cerebrali. La prossima volta che andate dal
medico non esitate a portare questo elenco con voi e a
richiedere i seguenti esami.
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ematico, questo test rileva una glicemia «media»
relativa a un periodo di novanta giorni e fornisce
informazioni più accurate sul quadro della glicemia
nel suo complesso. Dal momento che può segnalare i
danni causati alle proteine cerebrali dallo zucchero nel
sangue (la cosiddetta «emoglobina glicata»), è uno dei
principali indicatori dell’atrofia cerebrale.
Fruttosamina: simile all’esame dell’emoglobina A1C, il
test della fruttosamina viene usato per misurare un
livello glicemico medio per un periodo di tempo più
breve, come le ultime due o tre settimane.
Insulina a digiuno: molto prima che la glicemia cominci
ad aumentare quando una persona diventa diabetica,
cresce il livello dell’insulina a digiuno, segno che il
pancreas sta facendo gli straordinari per affrontare
l’eccesso di carboidrati nella dieta. È un sistema di
allarme preventivo molto efficace per anticipare la
curva diabetica e dunque importante per prevenire le
malattie al cervello.
Omocisteina: livelli troppo elevati di questo
amminoacido prodotto dal corpo sono associati a
molti disturbi, inclusi aterosclerosi (il restringimento e
indurimento delle arterie), cardiopatie, ictus e
demenza; spesso è possibile ridurli senza difficoltà
somministrando determinate vitamine B.
Vitamina D: è ormai riconosciuta come un ormone
vitale per il cervello (in realtà non è una vitamina).
Proteina C reattiva (PCR o CRP , dall’inglese C-reactive
protein): è un marcatore di infiammazione.
Cyrex array 3: è il più completo marcatore della
sensibilità al glutine disponibile.
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Cyrex array 4 (a discrezione): misura la sensibilità a
ventiquattro alimenti «cross reattivi» ai quali può
reagire anche un individuo sensibile al glutine.
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Parte I
31
LA VERITÀ SUI CEREALI INTEGRALI
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nuove cellule cerebrali, acquisire il controllo del vostro
destino genetico e salvaguardare le vostre facoltà mentali.
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Capitolo I
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La pietra angolare delle malattie al
cervello
Quello che non sapete sull’infiammazione
THOMAS A. EDISON
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abbonda e parlate di cose come cheeseburger, patatine
fritte, bibite, pizza, bagel, pane, merendine, pancake,
cialde, ciambelline, pasta, torte, patatine, cracker, cereali,
gelato e dolciumi. È possibile mangiare frutta tutto l’anno
e accedere in pratica a qualsiasi tipo di cibo, basta
premere un pulsante o affrontare un breve tragitto in
macchina. Acqua e succo vengono imbottigliati per
consentirne il trasporto. Anche se tentate di evitare i nomi
di marche, resistere è difficile, perché sono entrati a far
parte della vostra vita: Starbucks, Wonder Bread,
Pepperidge Farm, Pillsbury, Lucky Charms, Skittles,
Domino’s, Subway, McDonald’s, Gatorade, Häagen-Dazs,
Cheerios, Yoplait, Cheez-It, Coca-Cola, Hershey’s e
Budweiser.
Chi vi ascolta è in soggezione, e fatica a immaginare
questo futuro. Gran parte degli aspetti di cui fate la
cronistoria sono incomprensibili; non è possibile
immaginare un fast food o una panetteria, tantomeno
tradurre il termine «cibo spazzatura» in parole che queste
persone possano capire. Prima ancora di cominciare ad
accennare ad alcune delle principali conquiste degli esseri
umani nel corso dei millenni, come agricoltura, pastorizia
e, in seguito, la produzione di alimenti, vi chiedono delle
difficoltà affrontate dai contemporanei. La prima a venirvi
in mente è l’epidemia di obesità che di recente ha ricevuto
tanta attenzione dai media. Non è una materia facile da
comprendere per i loro corpi snelli e tonici, e non lo è
neppure il resoconto delle malattie croniche che
affliggono la nostra società: cardiopatia, diabete,
depressione, malattie autoimmuni, cancro e demenza. Per
loro sono una novità assoluta e fanno molte domande.
Cos’è una «malattia autoimmune»? Cosa provoca il
«diabete»? Cos’è la «demenza»? A questo punto state
parlando una lingua diversa. Fornite loro una rassegna di
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ciò che ucciderà la maggioranza delle persone nel futuro,
facendo del vostro meglio per definire ogni patologia, e
siete accolti da sguardi confusi e increduli. Nella mente di
queste persone avete dipinto un’immagine del futuro
bella ed esotica, ma poi la distruggete con cause di
decesso che sembrano più spaventose della morte causata
da un’infezione o dalle fauci di un predatore di un livello
superiore nella catena alimentare. Il pensiero di vivere con
una malattia cronica che porta a una morte lenta e
dolorosa suona terribile. E quando tentate di convincere i
vostri antenati preistorici che forse una malattia
permanente degenerativa è il compromesso per vivere in
potenza molto più a lungo di loro, non se la bevono. E ben
presto neppure voi. C’è qualcosa che non quadra.
Dal punto di vista genetico e fisiologico, come specie
siamo identici a questi umani che vissero prima degli
albori dell’agricoltura. E siamo il prodotto di un progetto
ottimale: plasmati dalla natura nel corso di migliaia di
generazioni. Forse non ci definiamo più cacciatori-
raccoglitori, ma senza dubbio, in una prospettiva
biologica, i nostri corpi si comportano come tali. Ora,
diciamo che durante il vostro viaggio di ritorno al
presente iniziate a riflettere sull’incontro con questi
antenati. È facile meravigliarsi di quanta strada abbiamo
fatto da un punto di vista meramente tecnologico, ma è
anche ovvio pensare alle battaglie affrontate invano da
milioni dei vostri contemporanei. Potreste perfino sentirvi
sconvolti all’idea che patologie non trasmissibili, che è
possibile prevenire, siano la causa del più alto numero di
decessi a livello mondiale che tutte le altre malattie messe
insieme. È difficile da digerire. Certo, vivremo di più dei
nostri antenati, ma potremmo vivere molto meglio –
godendoci un’esistenza senza malattie – soprattutto
durante la seconda metà della vita, quando aumenta il
37
rischio di ammalarsi. Sebbene sia vero che viviamo più a
lungo delle generazioni precedenti, la maggior parte dei
nostri progressi è dovuta al calo della mortalità e al
miglioramento della salute infantile. In altre parole: siamo
più bravi a sopravvivere agli incidenti e alle malattie
dell’infanzia. Purtroppo, non siamo migliorati nella
prevenzione e nella lotta contro le patologie che ci
colpiscono quando siamo più vecchi. Anche se possiamo
senz’altro dimostrare che ora abbiamo cure molto più
efficaci per numerose sindromi, ciò non cancella il fatto
che milioni di persone soffrono invano di disturbi che
avrebbero potuto essere evitati. Quando lodiamo
l’odierna aspettativa di vita media in America, non
dovremmo dimenticare la qualità della vita.
All’epoca dei miei primi studi di medicina, decenni or
sono, la mia formazione era finalizzata a diagnosticare
malattie e sapere come curare (o, in alcuni casi, guarire)
ogni disturbo con un farmaco o un’altra terapia. Imparavo
a comprendere i sintomi e a giungere a una soluzione che
vi corrispondesse. Da allora molte cose sono cambiate,
non solo perché abbiamo meno probabilità di imbatterci
in patologie facili da curare e da guarire, ma siamo anche
in grado di capire meglio molte delle nostre malattie
croniche moderne attraverso la lente di un comun
denominatore: l’infiammazione. Così, invece di
individuare malattie infettive e affrontare mali con cause
note, come germi, virus o batteri, i medici si trovano
davanti a una miriade di disturbi che non hanno risposte
chiare. Non posso scrivere una ricetta per curare un
cancro, sconfiggere dolori inesplicabili, far regredire un
diabete o risanare un cervello che è stato eroso dal morbo
di Alzheimer. Certo, posso tentare di mascherare o
ridurre i sintomi e trattare le reazioni del corpo, ma esiste
una grossa differenza tra curare una malattia alla radice e
38
limitarsi a tenerne a bada i sintomi. Ora che uno dei miei
figli studia medicina, mi accorgo di come sia cambiato
l’insegnamento. Ai dottori tirocinanti non si insegna più
solo come diagnosticare e curare: si forniscono loro modi
di pensare che li aiutano ad affrontare le epidemie odierne,
molte delle quali sono radicate in disordini infiammatori
fuori controllo.
Prima di arrivare al collegamento tra infiammazione e
cervello, prendiamo in considerazione quella che ritengo
senza dubbio una delle scoperte più formidabili della
nostra era: il fatto che, in molti casi, l’origine delle
malattie al cervello sia in prevalenza alimentare. Anche se
alla genesi e all’evoluzione delle patologie cerebrali
contribuiscono diversi fattori, numerosi disturbi
neurologici riflettono soprattutto l’errore del consumo
eccessivo di carboidrati e della carenza di grassi sani. Il
modo migliore per comprendere questa verità è prendere
in considerazione la malattia neurologica più temuta,
l’Alzheimer, e osservarla nel contesto di un tipo di diabete
provocato solo dalla dieta. Sappiamo tutti che una dieta
inadeguata può condurre a obesità e diabete, ma a
problemi al cervello?
39
Morbo di Alzheimer: diabete di tipo 3?
Tornate al momento trascorso con quei cacciatori-
raccoglitori. Il loro cervello non è poi così diverso dal
vostro: entrambi si sono evoluti per reperire alimenti ad
alto contenuto di grasso e di zucchero. In fondo è un
meccanismo di sopravvivenza. Il problema è che i vostri
sforzi per cacciare si concludono alla svelta perché vivete
nell’era dell’abbondanza e avete più probabilità di trovare
grassi e zuccheri trasformati. È verosimile che le vostre
controparti delle caverne trascorrano molto tempo in
perlustrazione solo per imbattersi nel grasso di animali e
nello zucchero naturale di piante e bacche, se è la stagione
giusta. Perciò, anche se il vostro cervello può funzionare
in maniera analoga, le vostre fonti di alimentazione sono
tutt’altro che simili. Date un’occhiata alla figura che
segue, dove si illustrano le principali differenze tra la
nostra dieta e quella dei nostri progenitori.
40
E di preciso, che cosa ha a che fare questa differenza
nelle abitudini alimentari con il nostro modo di
invecchiare e il fatto che soffriamo (oppure no) di un
disturbo o di una patologia neurologica?
Tutto.
Gli studi che descrivono l’Alzheimer come un terzo
tipo di diabete iniziarono a emergere nel 2005, 1 ma il
legame tra una dieta inadeguata e il morbo è stato posto
in evidenza solo di recente con nuovi studi che illustrano
come si possa verificare. 2 Questi studi sono convincenti e
hanno l’effetto di spaventare e al tempo stesso
responsabilizzare: pensare che solo modificando le nostre
abitudini alimentari sia possibile prevenire l’Alzheimer è
a dir poco sbalorditivo. L’alimentazione ha numerose
implicazioni non soltanto nella prevenzione di questo
male, ma anche di tutti gli altri disturbi cerebrali, come
scoprirete nei prossimi capitoli. Prima, però, una breve
lezione su ciò che hanno in comune il diabete e il cervello.
Nel corso dell’evoluzione i nostri corpi hanno messo a
punto un modo brillante per trasformare il carburante
ricavato dal cibo in energia a disposizione delle nostre
cellule. Il glucosio – la principale fonte di energia per la
maggioranza delle cellule – ha scarseggiato per quasi
l’intera esistenza della nostra specie, spingendola a
sviluppare modi per immagazzinarlo e a convertire altre
sostanze in glucosio. All’occorrenza, il corpo è in grado di
sintetizzarlo da grassi o proteine attraverso un processo
denominato gluconeogenesi, che tuttavia richiede più
energia della conversione di amidi e zucchero in glucosio,
una reazione più semplice.
Il processo mediante il quale le nostre cellule accettano
e utilizzano il glucosio è complesso, perché non si
limitano ad assorbire il glucosio al suo passaggio nel
flusso sanguigno. Questa fondamentale molecola di
41
zucchero deve essere autorizzata a entrare nella cellula
dall’insulina, un ormone prodotto dal pancreas, e che,
come già saprete, è una delle sostanze biologiche più
importanti per il metabolismo cellulare. Il suo compito è
traghettare il glucosio dal circolo ematico alle cellule di
muscoli, adipe e fegato, dove potrà essere utilizzato come
carburante. Le cellule sane e normali sono caratterizzate
da un’elevata sensibilità all’insulina, ma quando sono
esposte senza sosta a livelli elevati di insulina in
conseguenza di una continua assunzione di glucosio (in
buona parte dovuto a un eccessivo consumo di alimenti
ipertrasformati pieni di zuccheri raffinati, che fanno
impennare i livelli di insulina oltre un limite salutare), le
nostre cellule si adeguano riducendo sulla loro superficie
il numero di recettori che reagiscono all’insulina. In altre
parole, si desensibilizzano sviluppando
l’insulinoresistenza, che le porta a ignorare l’insulina e a
non recuperare glucosio dal sangue. Il pancreas reagisce
allora producendo altra insulina in gran quantità. Così,
affinché lo zucchero entri nelle cellule, saranno necessari
livelli di insulina più elevati; e questo provocherà un
problema ciclico che alla fine culmina nel diabete di tipo
2. I diabetici hanno valori di glicemia elevati perché il loro
corpo non riesce a far accedere lo zucchero nelle cellule,
dove può essere immagazzinato in tutta tranquillità per
ricavarne energia. E questo zucchero nel sangue causa
molti problemi, troppi per citarli. Come una scheggia di
vetro, lo zucchero tossico infligge molti danni, portando a
cecità, infezioni, lesioni ai nervi, cardiopatia e – ebbene sì
– Alzheimer. Nel corso di questa successione di eventi,
l’infiammazione dilaga nel corpo.
È opportuno ricordare che l’insulina può essere
considerata un complice negli eventi che si verificano
quando lo zucchero nel sangue non può essere gestito in
42
maniera ottimale. Purtroppo, però, non si limita a scortare
il glucosio nelle cellule. Essa è anche un ormone
anabolico, il che significa che stimola la crescita,
promuove la formazione e la ritenzione del grasso e
favorisce l’infiammazione. Quando i livelli di insulina
sono elevati, altri ormoni possono risentirne, aumentando
o diminuendo. Questo, a sua volta, fa sprofondare ancor
più il corpo in un caos pericoloso che ne lede la capacità
di recuperare il normale metabolismo. 3
La genetica è senz’altro coinvolta nell’eventualità che
una persona diventi diabetica, e può anche determinare a
che punto l’interruttore del diabete si accenderà nel corpo
nel momento in cui le sue cellule non potranno più
tollerare una glicemia troppo alta. Per la cronaca, il
diabete di tipo 1 è una patologia a parte: è considerato una
malattia autoimmune ed è riconducibile ad appena il 5%
dei casi. I soggetti malati di diabete di tipo 1 non
producono insulina o ne producono poca, perché il loro
sistema immunitario attacca e distrugge le cellule nel
pancreas preposte allo scopo, perciò sono necessarie
iniezioni quotidiane di questo importante ormone per
mantenere equilibrati gli zuccheri nel sangue. A
differenza del diabete di tipo 2, di norma riscontrabile
negli adulti in conseguenza degli effetti sul corpo
dell’eccesso di glucosio prolungato nel tempo, il diabete
di tipo 1 viene di solito diagnosticato nei bambini e negli
adolescenti. E a differenza del diabete di tipo 2, che è
reversibile mediante cambiamenti nella dieta e nello stile
di vita, per il diabete di tipo 1 non esistono cure. Detto
questo, è importante tenere a mente che, sebbene i geni
esercitino una notevole influenza sul rischio di sviluppare
il diabete di tipo 1, anche l’ambiente può svolgere il suo
ruolo. È noto da tempo che questa patologia deriva da
influssi sia genetici sia ambientali, ma negli ultimi decenni
43
l’aumento dei casi ha indotto alcuni ricercatori a dedurre
che i fattori ambientali potrebbero essere più determinanti
nello sviluppo di questo tipo di diabete di quanto ritenuto
in precedenza.
44
TRISTE MA VERO
Più di 186 mila persone sotto i vent’anni sono affette da diabete (di tipo 1
o di tipo 2). 4 Solo un decennio fa, il diabete di tipo 2 era noto come
«diabete con insorgenza in età adulta», ma ora, essendo diagnosticato a
tanti giovani, questa definizione è caduta in disuso. E nuovi studi
scientifici mostrano che l’avanzamento della malattia si verifica con più
rapidità nei bambini rispetto agli adulti. Inoltre, nella generazione più
giovane è più difficile da curare.
45
Nell’ultimo decennio siamo stati testimoni di un
aumento parallelo del numero di casi di diabete di tipo 2 e
del numero di persone considerate obese. Ora, tuttavia,
stiamo cominciando a intravedere uno schema anche per i
soggetti affetti da demenza, in quanto la percentuale dei
pazienti con il morbo di Alzheimer aumenta con lo stesso
ritmo del diabete di tipo 2. Si tratta di un’osservazione che
ritengo tutt’altro che arbitraria. È una realtà che dobbiamo
guardare in faccia poiché ci accolliamo il peso di costi
sanitari che salgono alle stelle e di una popolazione che
invecchia. Recenti stime indicano che l’Alzheimer
riguarderà con ogni probabilità 100 milioni di persone
entro il 2050, un dato rovinoso per il nostro sistema
sanitario, in grado di sminuire l’importanza dell’epidemia
di obesità. 5 Negli ultimi quarant’anni la diffusione del
diabete di tipo 2, che negli Stati Uniti è riconducibile al 90-
95% di tutti i casi di diabete, è triplicata. Non desta
meraviglia che il governo statunitense guardi con ansia ai
ricercatori per migliorare la prognosi ed evitare questa
catastrofe. E nei prossimi quarant’anni sono previsti nel
mondo oltre 115 milioni di nuovi casi di Alzheimer, che ci
costeranno più di un miliardo di dollari (stima odierna). 6
Secondo i CDC (Centers for Disease Control and
Prevention, Centri per la prevenzione e il controllo delle
malattie), nel 2010 è stato diagnosticato il diabete a 18,8
milioni di americani, e altri 7 milioni di casi non sono stati
individuati. Tra il 1995 e il 2010 il numero di casi di
diabete diagnosticati ha registrato un incremento del 50%
o superiore in quarantadue stati, e del 100% o superiore in
diciotto stati. 7
46
Il silenzioso cervello in fiamme
Una delle domande più frequenti che mi rivolgono i
famigliari dei pazienti colpiti da Alzheimer della mia
clinica è: «Com’è successo? Che cosa ha fatto di sbagliato
mia madre (o padre, o fratello, o sorella)?». In un
momento così straziante nella vita di una famiglia
formulo con attenzione la risposta. Guardare mio padre
spegnersi poco a poco, giorno dopo giorno, è un costante
promemoria delle emozioni contrastanti sopportate da
una famiglia. Frustrazione mista a impotenza, angoscia e
rimpianto. Ma se dovessi dire ai famigliari (me compreso)
tutta la verità in base a ciò che sappiamo oggi, direi che il
loro caro potrebbe avere fatto una o più delle seguenti
cose:
47
del glutine come causa scatenante non solo della
demenza, ma di epilessia, emicrania, depressione,
schizofrenia, disturbo da deficit di attenzione e
iperattività e perfino calo della libido, nella risposta
prevale un orientamento comune: «Non capisco cosa
intenda». Dicono così perché quello che sanno sul glutine
riguarda la salute intestinale, non il benessere
neurologico.
Conosceremo da vicino il glutine nel prossimo capitolo.
Questa sostanza non è un problema soltanto per i soggetti
affetti dal vero e proprio morbo celiaco, una malattia
autoimmune che colpisce una minoranza circoscritta. Fino
al 40% di noi non riesce a metabolizzare il glutine in
maniera adeguata e il restante 60% potrebbe essere a
rischio. La domanda che dobbiamo porci è: «E se fossimo
tutti sensibili al glutine dal punto di vista del cervello?».
Purtroppo il glutine non si trova solo nei prodotti a base
di frumento, ma anche in quelli più imprevedibili, dal
gelato alla crema per le mani. Un crescente numero di
studi sta confermando il legame tra sensibilità al glutine e
disturbi del sistema nervoso. Questo vale anche per
soggetti che non hanno problemi a digerire il glutine e
risultano negativi alla sensibilità a questo complesso di
proteine. Lo vedo tutti i giorni nel mio ambulatorio: molti
pazienti vengono da me dopo aver «provato tutto» ed
essere stati da un mucchio di altri dottori in cerca di aiuto.
Che si tratti di mal di testa ed emicranie, sindrome di
Tourette, crisi epilettiche, insonnia, ansia, sindrome da
deficit di attenzione e iperattività, depressione, o soltanto
di qualche strana serie di sintomi neurologici senza una
precisa etichetta, una delle prime cose che faccio è
prescrivere l’eliminazione totale del glutine dalla loro
dieta. E i risultati continuano a sbalordirmi.
Ormai è da qualche tempo che i ricercatori individuano
48
nell’infiammazione la pietra angolare di tutte le patologie
degenerative, cerebropatie incluse. Finora, tuttavia, non
avevano documentato i fattori che la provocano, i primi
passi falsi che scatenano questa reazione fatale. E ciò che
stanno riscontrando è che il glutine (e una dieta ricca di
carboidrati, a dirla tutta) è fra i principali stimolatori di
vie infiammatorie che arrivano al cervello. L’aspetto più
inquietante di questa scoperta è che spesso non sappiamo
quando il nostro cervello ne patisce gli effetti. Disturbi
digestivi e allergie alimentari sono molto più facili da
individuare, perché sintomi come flatulenza, gonfiore,
dolore, costipazione e diarrea emergono piuttosto in
fretta. Il cervello, invece, è un organo più elusivo.
Potrebbe subire aggressioni a livello molecolare senza che
le percepiate. Se non state curando un mal di testa o
trattando un problema neurologico evidente, potrà essere
difficile sapere cosa sta succedendo a livello cerebrale
finché non sarà troppo tardi. Nel caso dei disturbi
cerebrali, invertire la rotta una volta effettuata la diagnosi
per patologie come la demenza è difficile.
La buona notizia è che vi spiegherò come tenere sotto
controllo il vostro destino genetico anche se siete nati con
una tendenza naturale a sviluppare problemi neurologici.
A questo scopo dovrete liberarvi di alcuni miti a cui tante
persone continuano ad aggrapparsi. I due principali sono:
1) una dieta ad alto contenuto di carboidrati e povera di
grassi fa bene e 2) il colesterolo fa male.
Eliminare il glutine non è sufficiente: è soltanto un
pezzo del puzzle. Nei prossimi capitoli comprenderete
presto per quale motivo il colesterolo è uno dei
componenti più importanti nel mantenimento di un
cervello sano e ben funzionante. Diversi studi indicano
che il colesterolo alto riduce la minaccia di patologie
cerebrali e aumenta la longevità. In maniera analoga, è
49
stato provato che elevati livelli di grassi alimentari (del
tipo buono, non si parla di «grassi trans») sono
fondamentali per la salute e per un’ottima funzione
cerebrale.
«Come, scusi?» Mi rendo conto che forse dubiterete di
queste affermazioni perché contrastano con ciò che vi è
stato insegnato a credere. Uno dei più apprezzati e
rispettati studi effettuati in America, il celebre Framingham
Heart Study, ha aggiunto un’enorme quantità di dati alla
nostra comprensione di determinati fattori di rischio per
le malattie, inclusa, di recente, la demenza. Il progetto
ebbe inizio nel 1948 con il reclutamento di 5209 uomini e
donne, di età compresa tra i trenta e i sessantadue anni,
della città di Framingham, Massachusetts, nessuno dei
quali era mai stato colpito da infarto o da ictus o aveva
sviluppato sintomi di malattie cardiovascolari. 8 Da allora,
lo studio ha aggiunto diverse generazioni discendenti dal
gruppo originario, consentendo agli scienziati di
monitorare con cura questa popolazione e raccogliere
indizi legati ai disturbi fisiologici nel contesto di una
miriade di fattori: età, genere, problemi psicosociali,
caratteristiche fisiche e predisposizioni genetiche. Nei
primi anni del XXI secolo, i ricercatori dell’Università di
Boston si proposero di esaminare la relazione tra
colesterolo totale e prestazioni cognitive, e presero in
considerazione 789 uomini e 1105 donne che facevano
parte del gruppo originale. All’inizio dello studio i
soggetti non erano affetti da demenza e non avevano
avuto ictus, e furono seguiti per sedici-diciotto anni. I test
cognitivi furono eseguiti ogni quattro-sei anni, valutando
aspetti come memoria, apprendimento, formazione dei
concetti, concentrazione, attenzione, ragionamento
astratto e abilità organizzative: tutte funzioni
compromesse nei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer.
50
Secondo il rapporto formulato su questo studio,
pubblicato nel 2005, «Esisteva una significativa
associazione lineare positiva tra colesterolo totale e gradi
di fluenza verbale, attenzione/concentrazione,
ragionamento astratto e un punteggio composito che
misura diverse sfere cognitive». 9 Inoltre, «i partecipanti
con colesterolo totale “auspicabile” (inferiore a 200)
ebbero risultati meno buoni di quelli con livelli di
colesterolo totale borderline (da 200 a 239) e dei
partecipanti con livelli di colesterolo totale elevati
(superiori a 240)». Lo studio concluse che «livelli di
colesterolo totale inferiori sono associati per natura a
scarse prestazioni su parametri cognitivi che imponevano
uno sforzo importante in termini di ragionamento
astratto, attenzione/concentrazione, fluenza verbale e
funzionamento esecutivo». In altre parole, nei test
cognitivi le persone che avevano i livelli più elevati di
colesterolo ottenevano un punteggio superiore rispetto a
quelle con livelli di colesterolo inferiori. È quindi evidente
che il colesterolo rappresenta un fattore protettivo per il
cervello, e nel capitolo III chiariremo come questo sia
possibile.
I risultati delle ricerche in arrivo da vari laboratori in
tutto il mondo continuano a capovolgere le opinioni
predominanti. Mentre sto scrivendo, dei ricercatori
dell’Università nazionale australiana di Canberra hanno
appena pubblicato su «Neurology» (la rivista medica
dell’American Academy of Neurology) uno studio che
mostra come i soggetti con valori glicemici nella fascia
alta dell’«intervallo normale» sono molto più a rischio di
atrofia cerebrale. 10 Questo si ricollega in modo diretto alla
questione del diabete di tipo 3. Sappiamo da tempo che i
disturbi cerebrali e la demenza sono associati all’atrofia
cerebrale. Tuttavia, scoprire che essa può essere una
51
conseguenza di picchi del glucosio ematico nell’intervallo
«normale» ha straordinarie implicazioni per chiunque
consumi alimenti che fanno aumentare il glucosio ematico
(per esempio i carboidrati). Spesso i pazienti dicono di
stare bene perché la loro glicemia è normale. Ma cosa
significa? L’esame di laboratorio può indicare che un
individuo è «normale» in base a standard prestabiliti,
però nuovi studi scientifici stanno imponendo di
riconsiderare i parametri di «normalità». La glicemia
risulterà «normale», ma se fosse possibile sbirciare nel
pancreas forse inorridiremmo di fronte alla fatica che
sopporta per fornire l’insulina sufficiente a mantenere
l’equilibrio. Per questa ragione è di importanza cruciale
eseguire un esame dell’insulina a digiuno, da effettuare
appena svegli, prima di fare colazione. In quel momento
un livello elevato di insulina nel sangue è un segnale
d’allarme, il segno di un malfunzionamento del
metabolismo. Potrebbe significare essere sull’orlo del
diabete, con l’effetto di privare già il cervello della sua
funzionalità futura.
Lo studio australiano coinvolgeva 249 persone di età
compresa tra i sessanta e i sessantaquattro anni, i cui
valori glicemici rientravano nel cosiddetto intervallo
normale; si sottoposero a risonanze del cervello all’inizio
dello studio e poi, di nuovo, in media quattro anni più
tardi. I soggetti con livelli di glicemia più elevati
all’interno dell’intervallo normale avevano più probabilità
di evidenziare una perdita di volume cerebrale in regioni
legate alla memoria e alle competenze cognitive. I
ricercatori riuscirono perfino a escludere l’influenza di
altri fattori, come età, pressione sanguigna elevata, fumo e
consumo di alcol. Tuttavia, riscontrarono che alla glicemia
nella fascia alta dei soggetti «normali» corrispondeva il 6-
10% dell’atrofia cerebrale. Lo studio suggerisce che i
52
livelli glicemici potrebbero ripercuotersi sulla salute
cerebrale anche di persone che non sono affette da
diabete. 11
Gli squilibri di glicemia e insulina sono molto diffusi.
Entro il prossimo decennio, un americano su due soffrirà
di «diabesità», termine ora in uso per descrivere una serie
di squilibri metabolici, da una lieve insulinoresistenza, a
un pre-diabete, a un diabete conclamato. Ciò che in
assoluto è più difficile da accettare è che per un
incredibile 90% di queste persone non vi sarà alcuna
diagnosi: andranno avanti per la loro strada e arriveranno
a conoscere la loro difficile situazione quando sarà di gran
lunga troppo tardi. La mia missione è impedire tale
infelice destino. Per sventare il disastro sarà necessario
modificare alcune abitudini quotidiane.
Se il pensiero di seguire una dieta a basso contenuto di
carboidrati è spaventoso (già vi mordete le unghie all’idea
di abbandonare quelle delizie che adorate), non
arrendetevi. Prometto di renderlo il più facile possibile.
Farò sparire il cesto del pane, ma lo sostituirò con altre
cose che forse finora avete evitato, pensando, a torto, che
in qualche modo facessero male; per esempio burro,
carne, formaggio e uova, oltre a una quantità di verdure
meravigliosamente salutari. La notizia migliore di tutte è
che, appena il metabolismo del vostro corpo non si baserà
più sui carboidrati, ma su grassi e proteine, troverete assai
più agevole raggiungere molti obiettivi allettanti, come
perdere peso senza sforzo e in maniera duratura, avere
più energie per tutta la giornata, dormire meglio, essere
più creativi e produttivi, avere una memoria nitida e un
cervello veloce, oltre a godere di una vita sessuale
migliore. Questo, è ovvio, oltre a tutelare il vostro
cervello.
53
L’infiammazione diventa cerebrale
Torniamo al concetto di infiammazione, che ho già
introdotto in questo capitolo senza fornire una
spiegazione esaustiva. Tutti hanno un’idea
approssimativa di cosa si intenda, in senso molto
generale, con il termine «infiammazione». Che sia il
rossore che compare subito dopo la puntura di un insetto
o il dolore cronico di un’articolazione artritica, la
maggioranza di noi comprende che in presenza di uno
sforzo, la reazione naturale del corpo è produrre gonfiore
e dolore, segni distintivi del processo infiammatorio.
L’infiammazione, tuttavia, non è sempre una reazione
negativa. Può anche servire a indicare che il corpo sta
tentando di difendersi da qualcosa che ritiene in potenza
pericoloso. Che sia per neutralizzare le tossine di un
insetto o ridurre il movimento per consentire la
guarigione di una caviglia slogata, l’infiammazione è
vitale per la nostra sopravvivenza.
I problemi sorgono quando l’infiammazione sfugge al
controllo. È come per il vino: un bicchiere al giorno è
salutare, ma parecchi bicchieri tutti i giorni possono
nuocere alla salute. L’infiammazione deve rappresentare
un fenomeno di breve durata, non deve sussistere per
periodi di tempo prolungati né diventare uno stato
permanente. Ma questo è ciò che capita a milioni di
persone. Se il corpo è sotto continuo attacco per
l’esposizione a sostanze irritanti, la risposta infiammatoria
perdura. E tramite il flusso sanguigno si diffonde in ogni
parte del corpo, perciò questo tipo di infiammazione
diffusa è rilevabile attraverso le analisi del sangue.
54
Quando l’infiammazione non si risolve, vengono
prodotte una serie di sostanze chimiche con un effetto
tossico immediato sulle nostre cellule. Ne deriva una
riduzione della funzione cellulare, seguita dalla
distruzione delle cellule. L’infiammazione incontrollata è
dilagante nelle culture occidentali, e ricerche scientifiche
di primo piano mostrano che è una causa fondamentale
della morbilità e della mortalità associate a patologie delle
arterie coronariche, cancro, diabete, morbo di Alzheimer
e, in pratica, ogni altra malattia cronica che si possa
immaginare.
Non occorre un grande sforzo per rendersi conto di
come un’infiammazione incontrollata sia alla base di un
problema come l’artrite, per esempio. In fondo, i comuni
farmaci usati per curare questa malattia, come ibuprofene
e aspirina, sono venduti come «antinfiammatori». Nel
caso dell’asma, si usano antistaminici per combattere la
reazione infiammatoria dovuta all’esposizione a una
sostanza irritante, che suscita una risposta allergica. Al
giorno d’oggi, un numero crescente di persone sta
cominciando a capire che la coronaropatia, una delle
principali cause di infarto, potrebbe in realtà avere a che
fare più con l’infiammazione che con il colesterolo alto.
Questo spiega perché l’aspirina, oltre alle sue proprietà
anticoagulanti, sia utile per ridurre il rischio non solo di
attacco cardiaco, ma anche di ictus.
Il collegamento tra infiammazione e patologie cerebrali,
anche se ben illustrato dalla letteratura scientifica, appare
tuttavia per certi versi difficile da comprendere, ed è in
larga misura sconosciuto al pubblico. Forse una delle
ragioni per cui la gente non sembra riuscire a concepire il
coinvolgimento dell’«infiammazione cerebrale» in ogni
cosa – dal morbo di Parkinson a sclerosi multipla,
epilessia, autismo, morbo di Alzheimer e depressione – è
55
che, a differenza del resto del corpo, il cervello non è
dotato di recettori del dolore, dunque non possiamo
percepire l’infiammazione a livello cerebrale.
Concentrarsi sulla riduzione dell’infiammazione
potrebbe sembrare fuori luogo quando si tratta di
migliorare la salute e la funzione cerebrale. Ma anche se
conosciamo tutti il rapporto tra infiammazione e
condizioni patologiche come artrite e asma, il decennio
scorso ha prodotto un ampio corpus di ricerche che
puntano in maniera inequivocabile il dito contro
l’infiammazione considerandola la causa di una serie di
malattie neurodegenerative. Di fatto, studi che risalgono
ancora agli anni Novanta indicano che persone che hanno
assunto per due o più anni farmaci antinfiammatori non
steroidei come l’Advil (ibuprofene) e l’Aleve (naprossene)
possono avere una riduzione del rischio di oltre il 40% per
il morbo di Alzheimer e di Parkinson. 12 Nello stesso
tempo, altri studi hanno evidenziato con chiarezza un
drastico innalzamento delle citochine, i mediatori cellulari
dell’infiammazione, nel cervello degli individui che
soffrono di queste e altre patologie cerebrali
degenerative. 13 Oggi la nuova tecnologia della diagnostica
per immagini permette finalmente di vedere cellule attive
nella produzione di citochine infiammatorie nel cervello
di pazienti affetti da Alzheimer.
Ora dunque siamo costretti a vedere l’infiammazione
sotto una luce del tutto nuova: ben più della mera causa
di un dolore al ginocchio e alle articolazioni, essa rafforza
il processo stesso della degenerazione del cervello. In
definitiva, il principale effetto derivante
dall’infiammazione nel cervello, responsabile del danno, è
l’attivazione di vie chimiche che incrementano la
produzione di radicali liberi. Al centro
dell’infiammazione cronica si trova il concetto di stress
56
ossidativo, una sorta di «arrugginimento» biologico.
Questa graduale corrosione si verifica su tutti i tessuti, e fa
parte della vita; avviene ovunque in natura, anche quando
i nostri corpi trasformano le calorie del cibo e l’ossigeno
dell’aria in energia utilizzabile. Tuttavia, essa può
diventare fatale quando inizia a dilagare, o quando il
corpo non riesce a tenerla sotto un salutare controllo.
Sebbene la parola «ossidazione» implichi ossigeno, non si
tratta del tipo che respiriamo. Il cattivo qui è solo O,
perché non è in coppia (O2) con un’altra molecola di
ossigeno.
Permettetemi di compiere un ulteriore passo avanti
nella descrizione del processo di ossidazione. La maggior
parte di noi ha già sentito parlare dei radicali liberi. Si
tratta di molecole che hanno perduto un elettrone. Di
norma, gli elettroni si trovano in coppie, ma fattori come
stress, inquinamento, sostanze chimiche, elementi tossici
nell’alimentazione, luce solare ultravioletta e comuni
attività fisiche possono «liberare» un elettrone da una
molecola. Quest’ultima, di conseguenza, perderà le sue
«buone maniere» e comincerà a tentare di sottrarre
elettroni ad altre molecole. Tale disturbo è il processo di
ossidazione, una catena di eventi che produce altri
radicali liberi e provoca infiammazione. Poiché i tessuti
ossidati e le cellule ossidate non funzionano in modo
normale, questo processo può rendere vulnerabili a
molteplici problemi di salute. Ciò contribuisce a spiegare
perché le persone con elevati livelli di ossidazione –
spesso riflessa da elevati livelli di infiammazione –
presentino un lungo elenco di problemi di salute e di
sintomi: da una bassa resistenza alle infezioni a dolori
articolari, disturbi della digestione, ansia, mal di testa,
depressione e allergie.
57
Inoltre, come forse immaginerete, una ridotta
ossidazione attenua l’infiammazione, che a sua volta aiuta
a limitare l’ossidazione. Gli antiossidanti sono importanti
proprio per questo motivo. Questi nutrienti, come per
esempio le vitamine A, C ed E, donano elettroni ai radicali
liberi interrompendo la reazione a catena e contribuendo
a prevenire danni. Nel corso della storia, alimenti ricchi di
antiossidanti come piante, bacche e frutta a guscio hanno
fatto parte della nostra alimentazione, ma oggi l’industria
alimentare esclude dalle nostre diete molti nutrienti
indispensabili per una salute e per un metabolismo
energetico ottimale.
Più avanti vi illustrerò come attivare nel vostro corpo
una particolare via che non solo riduce in modo diretto e
naturale i radicali liberi, ma protegge il cervello
diminuendo l’eccesso di radicali liberi prodotti
dall’infiammazione. Interventi concepiti per ridurre
l’infiammazione usando sostanze naturali come la
curcuma sono stati descritti nella letteratura medica già
più di duemila anni fa, ma è solo nel decennio scorso che
abbiamo iniziato a comprendere questa intricata ed
eloquente biochimica.
Un altro risultato di questa via biologica è l’attivazione
di geni specifici che codificano per la produzione di
enzimi e altre sostanze chimiche utili a scomporre ed
eliminare varie tossine cui siamo esposti. Sarebbe lecito
chiedersi perché il DNA umano contenga codici per la
produzione di sostanze chimiche detossificanti, dato che
tendiamo a presumere che la nostra prima vera
esposizione a tossine sia avvenuta con l’era industriale.
Ma gli esseri umani – e, in realtà, tutte le creature viventi –
sono stati esposti a svariate tossine fin da quando c’è stata
vita sul pianeta. A prescindere dalle tossine che esistono
58
in natura nel nostro ambiente esterno, come piombo,
arsenico e alluminio, e da quelle potenti generate per una
forma di protezione da piante e animali consumati in
vario modo, i nostri corpi producono tossine al proprio
interno durante i normali processi del metabolismo. Per
fortuna questi geni della detossificazione, ora più
necessari che mai, sono dunque al nostro servizio da
molto, molto tempo. E stiamo solo cominciando a
comprendere che sostanze naturali reperibili nel più
vicino negozio di alimentari, come la curcuma e l’acido
docosaesaenoico (DHA , dall’inglese Docosahexaenoic Acid), un
omega 3, possono agire come potenti agenti detossificanti
migliorando l’espressione genica.
Non è solo ciò che mangiamo a poter modificare
l’espressione dei nostri geni e, di conseguenza, aiutare ad
affrontare l’infiammazione. Come avrete modo di
imparare, recenti studi dimostrano il ruolo dell’esercizio
fisico e del sonno quali importanti regolatori (delle specie
di telecomandi) del nostro DNA . Inoltre apprenderete
come sviluppare nuove cellule cerebrali e vi mostrerò
come e perché la neurogenesi (la nascita di nuove cellule
cerebrali) è sotto il vostro controllo.
59
Ironia crudele: le statine
Dieta ed esercizio fisico possono stimolare i metodi
naturali adottati dal corpo per far fronte
all’infiammazione, ma esistono anche degli argomenti a
favore dei farmaci? Tutt’altro. È paradossale, ma le statine
(per esempio Lipitor, Crestor, Zocor), che abbassano il
colesterolo e sono fra le medicine più spesso prescritte,
sono pubblicizzate come rimedio per ridurre il livello di
infiammazione globale. Nuove ricerche, tuttavia, rivelano
che le statine possono alterare la funzione cerebrale e
aumentare il rischio di cardiopatie. La ragione è semplice:
per prosperare il cervello necessita di colesterolo, cosa che
ho già fatto presente, ma che ripeterò per assicurarmi che
non lo dimentichiate. Il colesterolo è una sostanza
nutriente essenziale per il funzionamento dei neuroni e
svolge un ruolo fondamentale come componente della
membrana cellulare. Esso agisce come antiossidante e
come precursore per importanti elementi di supporto del
cervello quali la vitamina D e gli ormoni steroidei (per
esempio gli ormoni sessuali come testosterone ed
estrogeno). Ma soprattutto il colesterolo è considerato un
combustibile essenziale per i neuroni: non essendo in
grado di generarne importanti quantità, i neuroni contano
su quello fornito dal flusso sanguigno tramite una
specifica proteina vettrice. È interessante notare che a
questa proteina, l’LDL , è stato attribuito il titolo
spregiativo di «colesterolo cattivo». In realtà, l’LDL non è
affatto una molecola di colesterolo, né buono né cattivo. È
una lipoproteina a bassa densità (Low-Density Lipoprotein,
da cui l’acronimo) e non ha proprio nulla di cattivo. Il suo
60
ruolo fondamentale nel cervello è catturare colesterolo
vitale e trasportarlo fino al neurone, dove svolgerà
funzioni di importanza cruciale.
Nella letteratura scientifica abbiamo ormai prove
evidenti che dimostrano che, quando i livelli di
colesterolo sono bassi, il cervello non funziona bene; il
rischio di demenza e di altri problemi neurologici è molto
più grande nei soggetti con il colesterolo basso. Dobbiamo
cambiare atteggiamento nei confronti del colesterolo e
anche dell’LDL : sono nostri amici, non sono nemici.
E il rapporto tra colesterolo e coronaropatia? Nel
capitolo III affronterò proprio questo problema. Per il
momento, desidero insinuare nella vostra mente l’idea che
il colesterolo sia buono. Vedrete ben presto che eravamo
fuori strada nel biasimare il colesterolo, e in particolare
l’LDL , quando invece la coronaropatia ha più a che fare
con l’LDL ossidata. E come avviene che l’LDL sia
danneggiata al punto di non riuscire più a fornire
colesterolo al cervello? Una delle spiegazioni più comuni
riguarda la modificazione fisica del glucosio. Le molecole
di glucosio si legano all’LDL e cambiano la forma della
molecola, rendendola meno utile e aumentando al tempo
stesso la produzione di radicali liberi.
Se quello che ho appena descritto vi sfugge, niente
panico. Nei prossimi capitoli vi prenderò per mano
illustrando tutti questi processi biologici. In queste pagine
ho accennato in generale a molti temi per preludere al
resto del libro, che presenterà in modo più approfondito
la storia degli effetti dell’alimentazione sul cervello.
Vorrei che rifletteste su alcune domande. Abbiamo
accelerato il declino del nostro cervello seguendo una
dieta povera di grassi e ricca di carboidrati, con la frutta
come contorno? Possiamo davvero controllare il destino
61
del nostro cervello solo attraverso lo stile di vita, a
dispetto del DNA che abbiamo ereditato? Gli interessi
investiti nell’industria farmaceutica sono troppo elevati
per prendere in considerazione il fatto che possiamo
prevenire, curare e talvolta guarire in modo naturale
(senza farmaci) uno spettro di disturbi del cervello come
quello da deficit di attenzione e iperattività, depressione,
ansia, insonnia, autismo, sindrome di Tourette, mal di
testa e Alzheimer? La risposta a tutte e tre le domande è
un clamoroso sì. Anzi, mi spingerò perfino oltre,
arrivando a suggerire che possiamo prevenire anche
cardiopatia e diabete. L’attuale modello di «terapia» per
questi mali dedica troppa attenzione al fumo dei sintomi,
ignorando il fuoco che cova. Un approccio di questo
genere è inefficace e insostenibile. Per estendere i limiti
della longevità umana, vivere ben oltre i cento anni e
avere davvero qualcosa di eccezionale da raccontare ai
nostri antenati preistorici, dovremo cambiare tutto il
nostro modus operandi.
L’obiettivo di questo capitolo era spiegare la storia
dell’infiammazione e presentare un nuovo modo di
pensare (e guardare) al proprio cervello (e al proprio
corpo). Diamo per scontato che il Sole sorga a est ogni
mattina e la sera tramonti a ovest. Il giorno dopo, si
ripeterà la stessa cosa. Ma se vi dicessi che il Sole non si
sta affatto muovendo? Siamo noi che giriamo e ci
spostiamo intorno al Sole! Confido che già lo sapeste, ma
il senso di questa analogia è che tendiamo a sposare idee
che non sono più valide. Spesso, al termine di una
conferenza, qualcuno viene a ringraziarmi per avere
pensato fuori dagli schemi. Con tutto il dovuto rispetto,
non è questo il punto. Al mondo non fa bene considerarmi
uno che ha idee «fuori dagli schemi». La mia missione è
62
allargare gli schemi affinché questi concetti siano parte
della nostra cultura e del nostro modo di vivere. Soltanto
allora saremo in grado di compiere seri e significativi
progressi nella cura delle malattie moderne.
63
Dalla salute del cervello alla salute globale
Il fatto ineludibile è che ci siamo evoluti in una specie che
necessita di grasso per vivere in modo sano. Le massicce
quantità di carboidrati che consumiamo oggi alimentano
nel nostro corpo e nel nostro cervello una silenziosa
tempesta di fuoco. E non sto parlando solo del cibo
industriale e raffinato, che, lo sappiamo tutti, non ci farà
certo vincere un premio dal dottore (né tantomeno sulla
bilancia). Nella sua opera fondamentale, La dieta zero
grano, il dottor William Davis lo spiega con parole che mi
piacciono molto:
64
Capitolo II
65
La proteina collosa
Il ruolo del glutine nell’infiammazione cerebrale (non è solo
questione di pancia)
66
l’emicrania. Nell’esaminare la sua anamnesi, mi accorsi
che intorno ai vent’anni aveva subito un «intervento
esplorativo all’intestino» perché soffriva di «grave disagio
intestinale». Come parte della sua valutazione la sottoposi
al test per rilevare la sensibilità al glutine, e non mi
sorpresi quando scoprii che risultava fortemente positiva
per otto dei marcatori. Le prescrissi una dieta senza
glutine. Quattro mesi dopo, ricevetti una lettera di Fran
che diceva:
67
quali diventava logorroica e aveva manie di grandezza. A
quel punto mangiava troppo, guadagnava molto peso ed
entrava in una fase di grave depressione con tendenze
suicide. Aveva iniziato da poco ad assumere il litio, una
medicina usata per curare il disturbo bipolare. La malattia
mentale era di famiglia; sua sorella era affetta da
schizofrenia e suo padre era bipolare. A eccezione del
drammatico racconto dei suoi problemi mentali, il resto
dell’anamnesi di Lauren era piuttosto comune. Non
lamentava disturbi intestinali, allergie alimentari né
nessun altro dei normali tipi di disturbi associati alla
sensibilità al glutine.
Prescrissi comunque un test per la sensibilità al glutine,
dal quale risultarono livelli molto alti di sei marcatori
importanti per questo disturbo. In realtà, diversi di questi
marcatori superavano i valori normali di più del doppio.
Due mesi dopo aver iniziato una dieta senza glutine,
Lauren mi scrisse una lettera che faceva eco a ciò che mi
ero sentito dire da tanti pazienti che avevano eliminato il
glutine e godevano dei notevoli risultati. Affermava:
68
Permettetemi di citarvi un altro esempio, un caso
emblematico di una serie di sintomi collegati alla stessa
causa. Kurt e sua madre si rivolsero a me quando lui era
un giovane ventitreenne e soffriva per alcuni movimenti
anomali del suo corpo. Sua madre dichiarò che sei mesi
prima della visita «sembrava si fosse messo a
rabbrividire». Da principio i suoi tremori erano lievi, ma
poi, con il tempo, erano peggiorati. Era stato da due
neurologi e aveva ricevuto due diverse diagnosi: una di
quello che viene chiamato «tremore essenziale» e un’altra
di «distonia». I dottori gli avevano proposto un farmaco
per la pressione sanguigna, il propranololo, utilizzato per
la cura di certi tipi di disturbi da tremore. L’altro consiglio
era di farsi iniettare nei muscoli delle braccia e del collo
del Botox, la tossina botulinica, per paralizzare in via
provvisoria i muscoli spastici. Il ragazzo e la madre
avevano scelto di non usare né le pillole né le iniezioni.
La sua anamnesi era interessante sotto due aspetti.
Innanzitutto, in quarta elementare gli era stata
diagnosticata una difficoltà di apprendimento: sua madre
disse che «non riusciva a reggere stimoli eccessivi». E poi,
per diversi anni, aveva lamentato dolori di stomaco e
diarrea, tanto che era dovuto andare da un
gastroenterologo. Questi aveva effettuato una biopsia
dell’intestino tenue per scoprire se era celiaco, ma il
risultato fu negativo.
Quando visitai Kurt, il suo problema di eccessivo
movimento era molto evidente. Non riusciva a controllare
il tremore delle braccia e del collo e appariva molto
sofferente. Passai in rassegna gli esiti dei suoi esami di
laboratorio, in gran parte poco rivelatori. Era stato
sottoposto al test per il morbo di Huntington, una
malattia ereditaria nota per provocare nei giovani
un’analoga anomalia nel movimento, e per il morbo di
69
Wilson, un disturbo del metabolismo del rame associato
anch’esso ad anomalie motorie. Tutti questi test erano
negativi. Le analisi del sangue per verificare la sensibilità
al glutine, tuttavia, evidenziarono livelli elevati di
determinati anticorpi indicativi di vulnerabilità. Spiegai a
Kurt e a sua madre che era importante accertare che la
sensibilità al glutine non fosse la causa del suo disturbo
del movimento e li informai su come seguire una dieta
senza glutine.
Dopo diverse settimane ricevetti una telefonata dalla
madre di Kurt: i suoi tremori si erano senza dubbio
calmati. Dato il miglioramento, il ragazzo scelse di portare
avanti quella dieta; dopo circa sei mesi le anomalie
motorie erano quasi del tutto scomparse. I cambiamenti
avvenuti in questo giovane sono spettacolari, specie se
consideriamo che un semplice mutamento di
alimentazione ebbe un impatto così rivoluzionario sulla
sua vita.
La letteratura medica sta solo compiendo i primi passi
nella documentazione di un legame tra disturbi del
movimento e sensibilità al glutine. Medici come me hanno
ormai identificato e curato un gruppetto di individui i cui
disturbi motori, per i quali non era stata evidenziata altra
causa, sono cessati del tutto con l’adozione di una dieta
senza glutine. Purtroppo, però, la maggioranza dei dottori
che adottano la medicina tradizionale non tengono
presente la possibilità di ricollegare tali disturbi alla dieta
e non sono al corrente delle ultime novità.
Questi casi non sono atipici e riflettono schemi da me
osservati in tanti pazienti. Potranno rivolgersi a me con
problemi di salute molto differenti, ma condividono un
filo comune: la sensibilità al glutine. Sono convinto che il
glutine sia un veleno moderno e che la ricerca stia
obbligando dottori come me a rendersene conto e a
70
riesaminare il quadro generale dei disturbi e delle
malattie cerebrali. La buona notizia è che conoscere
questo comune denominatore ora significa potere curare
e, in alcuni casi, guarire un ampio spettro di patologie con
un’unica ricetta: l’eliminazione del glutine dalla dieta.
Entrate in qualsiasi negozio di alimenti naturali (e oggi
anche in un normale supermercato) e sarete senz’altro
colpiti dall’assortimento di prodotti «senza glutine». Negli
ultimi anni il volume dei prodotti senza glutine in vendita
è esploso; secondo gli ultimi calcoli, il settore registrava
6,3 miliardi di dollari nel 2011 e sta continuando a
crescere. 1 Sottoprodotti di qualsiasi cosa, dai cereali per la
colazione al condimento per insalate, sono ormai
posizionati per approfittare del numero sempre maggiore
di acquirenti che scelgono alimenti senza glutine. Perché
tutta questa pubblicità?
L’attenzione mediatica può senza dubbio giocare un
ruolo decisivo. In un articolo del 2011 su «Yahoo! Sports»,
che domandava Is Novak Djokovic’s new, gluten-free diet
behind his win streak? (La serie di vittorie di Novak
Djokovic è dovuta alla sua nuova dieta senza glutine?) si
leggeva questa risposta: «Un semplice test per le allergie
potrebbe avere portato a uno dei momenti d’oro nella
storia del tennis». 2
A prescindere dalla rivelazione di quest’unico atleta,
tuttavia, cos’ha da dire la comunità scientifica riguardo
alla sensibilità al glutine? Cosa significa essere «sensibili
al glutine»? In che modo è differente dall’essere affetti da
celiachia? Cosa c’è di così cattivo nel glutine? Non è forse
sempre esistito? E cosa intendo, con precisione, quando
parlo di «cereali moderni»? Vediamolo insieme.
71
La colla del glutine
Il glutine (dal latino gluten, cioè «colla») è un complesso di
proteine che agisce come un materiale adesivo, tenendo
insieme la farina per preparare prodotti come il pane, i
cracker, i prodotti da forno e l’impasto per la pizza.
Quando date un morso a un soffice muffin o stendete
l’impasto della pizza, dovete ringraziare il glutine. Al
giorno d’oggi, di fatto, la maggior parte dei prodotti di
panetteria in commercio devono la loro gommosità al
glutine. Il glutine svolge un ruolo chiave nel processo
della fermentazione, facendo «crescere» il pane quando il
grano si mescola al lievito. Per tenere fra le mani una palla
che sia in essenza glutine, mescolate acqua e farina di
grano, formate un impasto lavorandolo a mano e poi
sciacquatelo sotto l’acqua corrente per eliminare gli amidi
e la fibra. Quello che rimane è un miscuglio appiccicoso di
proteine.
La maggioranza degli americani consuma il glutine
attraverso il grano, ma lo si trova anche in vari cereali
inclusi segale, orzo, farro, kamut e bulgur. È uno dei più
diffusi additivi alimentari sul pianeta ed è utilizzato non
solo negli alimenti industriali, ma anche nei prodotti per
la cura della persona. Essendo un agente stabilizzante
affidabile, aiuta i formaggi da spalmare e le margarine a
conservare la loro consistenza omogenea, impedisce alle
salse di «impazzire» e ai sughi di rapprendersi. Anche i
balsami per capelli e i mascara volumizzanti devono
ringraziare il glutine. La gente può essere allergica al
glutine come a qualunque proteina. Ma diamo
un’occhiata più approfondita alla portata del problema.
72
Il glutine non è una singola molecola; esso è composto
da due gruppi principali di proteine, le glutenine e le
gliadine. Una persona può essere sensibile a una o all’altra
di queste proteine o a una delle dodici diverse
componenti più piccole della gliadina. Una qualunque di
queste potrebbe provocare una reazione di sensibilità che
conduce al processo infiammatorio.
Quando parlo con i pazienti di sensibilità al glutine,
una delle prime cose che dicono è qualcosa come: «Beh, io
non ho la celiachia. Ho fatto il test!». Faccio del mio
meglio per spiegare che esiste un’enorme differenza tra
morbo celiaco e sensibilità al glutine. Il mio scopo è
comunicare l’idea che il morbo celiaco, altrimenti noto
come sprue, è una manifestazione estrema della
sensibilità al glutine. La celiachia è ciò che avviene
quando una reazione allergica al glutine provoca danni in
particolare all’intestino tenue. È una delle reazioni più
gravi che si possono avere al glutine. Sebbene molti
esperti stimino che 1 persona su 200 sia affetta da
celiachia, si tratta di un calcolo al ribasso; il numero è
probabilmente più vicino a 1 su 30, dal momento che
molti casi non vengono diagnosticati. Fino a 1 persona su
4 è vulnerabile a questa malattia solo per motivi genetici
(le persone di ascendenza nordeuropea sono
caratterizzate da questa particolare predisposizione).
Oltretutto, ognuno di noi può essere portatore di geni che
codificano per versioni lievi di intolleranza al glutine,
dando luogo a un ampio spettro di sensibilità a questa
sostanza. Il morbo celiaco non si limita a danneggiare
l’intestino: una volta attivati i geni per questa malattia, la
sensibilità al glutine è un disturbo che dura per tutta la
vita e può ripercuotersi sulla pelle e sulle membrane
mucose, oltre a provocare vesciche in bocca. 3
A prescindere dalle reazioni estreme che portano a una
73
malattia autoimmune come la celiachia, la chiave per
capire la sensibilità al glutine è la sua capacità di
coinvolgere qualsiasi organo del corpo, anche
risparmiando del tutto l’intestino tenue. Così, anche se
una persona non è affetta dal morbo celiaco ma è sensibile
al glutine, il suo organismo – cervello incluso – sarà in
grave pericolo.
È utile comprendere che di solito, in generale, le
sensibilità alimentari sono una risposta del sistema
immunitario. Esse si possono verificare anche quando il
corpo non dispone degli enzimi giusti per digerire
elementi che si trovano nei cibi. Nel caso del glutine, la
sua qualità «collosa» interferisce con la scomposizione e
l’assorbimento dei nutrienti. Come potete immaginare, il
cibo mal digerito comporta un residuo pastoso
nell’intestino, che allerta il sistema immunitario affinché
entri in azione, con il risultato finale di un attacco contro
la parete dell’intestino tenue. I sintomi lamentati sono
dolore addominale, nausea, diarrea, costipazione e
sofferenza intestinale. Alcune persone, tuttavia, pur non
sperimentando segni evidenti di problemi
gastrointestinali, potrebbero subire un attacco silente
altrove nell’organismo, per esempio nel sistema nervoso.
Ricordatevi che, quando reagisce in modo negativo a un
alimento, il corpo tenta di controllare i danni inviando
molecole messaggere dell’infiammazione per etichettare
le particelle alimentari come nemiche. Ciò induce il
sistema immunitario a continuare a inviare sostanze
chimiche infiammatorie, cellule killer incluse, nel
tentativo di spazzare via i nemici. Spesso questo processo
danneggia i tessuti, compromettendo le pareti
dell’intestino, un disturbo noto come «permeabilità
intestinale». Quando un soggetto ne soffre, sarà molto
suscettibile a ulteriori intolleranze alimentari in futuro. E
74
l’aggressione dell’infiammazione può anche comportare il
rischio di sviluppare una malattia autoimmune. 4
L’infiammazione, ormai lo sapete, è la pietra angolare
di molti disturbi cerebrali e può avere inizio quando il
sistema immunitario reagisce a una sostanza nel corpo di
una persona. Dopo che gli anticorpi entrano in contatto
con una proteina o un antigene a cui questa persona è
allergica, si scatena la cascata infiammatoria, con il rilascio
di tutta una serie di sostanze chimiche dannose conosciute
come citochine. In particolare, la sensibilità al glutine è
causata da elevati livelli di anticorpi che agiscono contro
la componente gliadinica del glutine. Quando l’anticorpo
si combina con questa proteina (formando un anticorpo
antigliadina), vengono attivati determinati geni in un
particolare tipo di cellula immunitaria. Una volta attivati
questi geni, si ha un accumulo di citochine infiammatorie
che possono attaccare il cervello ed esercitare un forte
effetto antagonista su di esso, danneggiandone il tessuto e
lasciandolo vulnerabile a disfunzioni e malattie,
soprattutto se questa situazione si protrae. Inoltre, gli
anticorpi antigliadina possono legarsi direttamente a
proteine specifiche che si trovano nel cervello e
somigliano alla gliadina presente negli alimenti
contenenti glutine: gli anticorpi antigliadina non sono
capaci di distinguere tra le due. È un fenomeno già
descritto da decenni e porta a sua volta alla formazione di
altre citochine infiammatorie. 5
Considerato questo, non sorprende che si osservino
elevati livelli di citochine nel morbo di Alzheimer, in
quello di Parkinson, nella sclerosi multipla e perfino
nell’autismo. 6 (La ricerca ha posto in evidenza che alcune
persone cui è stata diagnosticata per errore la SLA , o il
morbo di Lou Gehrig, hanno una semplice sensibilità al
75
glutine: eliminarlo dalla dieta farà scomparire i sintomi.) 7
Come segnalato nel 1996 in un articolo sul «Lancet» dal
professor Marios Hadjivassiliou, uno dei più stimati
ricercatori d’Inghilterra del Royal Hallamshire Hospital di
Sheffield nel campo della sensibilità al glutine in relazione
al cervello: «I nostri dati suggeriscono che la sensibilità al
glutine è comune in pazienti con disturbi neurologici di
origine ignota e potrebbe avere rilevanza eziologica». 8
Per uno come me, che si occupa ogni giorno di difficili
disturbi cerebrali di «origine ignota», l’affermazione del
dott. Hadjivassiliou fa riflettere, tenendo conto che circa il
99% delle persone il cui sistema immunitario reagisce in
maniera negativa al glutine non ne è neppure
consapevole. Hadjivassiliou prosegue sostenendo che «la
sensibilità al glutine può portare essenzialmente, e
talvolta esclusivamente, a un disturbo neurologico». In
altri termini, i soggetti sensibili al glutine possono avere
problemi con la funzione cerebrale in assenza di qualsiasi
problema gastrointestinale. Per questa ragione, egli
sottopone al test per la sensibilità al glutine tutti i suoi
pazienti che hanno disturbi neurologici inspiegabili.
Trovo che Hadjivassiliou e i suoi colleghi abbiano offerto
un’eccellente sintesi dei fatti in un editoriale del 2002
intitolato Gluten Sensitivity as a Neurological Illness (La
sensibilità al glutine come malattia neurologica) sul
«Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry»:
Ci sono voluti quasi 2000 anni per rendersi conto che una comune
proteina alimentare, introdotta nella dieta umana piuttosto tardi in
termini evoluzionistici (circa 10.000 anni fa), può provocare malattie
non solo dell’intestino, ma anche della pelle e del sistema nervoso.
Le manifestazioni neurologiche multiformi della sensibilità al
glutine possono verificarsi senza alcun coinvolgimento dell’intestino
e i neurologi devono pertanto acquisire familiarità con le comuni
76
manifestazioni neurologiche e gli strumenti per diagnosticare questo
disturbo. 9
77
La celiachia nella storia
Sebbene la letteratura medica abbia dedicato scarsissima
attenzione al rapporto tra sensibilità al glutine e disturbi
neurologici, siamo in grado di seguire una traccia
evidente di conoscenze che si sono accumulate e risalgono
a migliaia di anni fa, a un periodo in cui il glutine non
faceva neppure parte del nostro vocabolario. A quanto
pare le prove stavano già emergendo, solo che fino
all’inizio del secolo non eravamo in grado di
documentarle. Il fatto di riuscire finalmente a individuare
un collegamento tra il morbo celiaco – come accennato, la
reazione più forte al glutine – e i problemi di carattere
neurologico ha implicazioni per tutti noi, inclusi coloro
che non sono celiaci. Lo studio dei pazienti celiaci ha
consentito di mettere a fuoco i veri pericoli del glutine,
rimasti per tanto tempo nascosti e silenti.
La celiachia può sembrare una «nuova malattia», ma le
prime descrizioni di questo disturbo risalgono al I secolo
d.C., quando Areteo di Cappadocia, uno dei più illustri
medici dell’antica Grecia, ne scrisse in un manuale di
medicina che riguardava varie patologie, comprese
anomalie neurologiche come epilessia, mal di testa,
vertigini e paralisi. Areteo fu anche il primo a usare il
termine «celiaco», dalla parola greca per «ventre». Nel
descrivere questo male, disse: «Essendo l’organo
digestivo, lo stomaco lavora alla digestione quando la
diarrea colpisce il paziente … e se in aggiunta il sistema
generale del paziente è debilitato da un’atrofia del corpo,
ne deriva il morbo celiaco di natura cronica». 11
Nel XVII secolo, il termine «sprue» fu introdotto nella
78
lingua inglese dalla parola olandese sprouw, che significa
diarrea cronica, uno dei sintomi classici del morbo celiaco.
Il pediatra inglese Samuel J. Gee fu tra i primi a
riconoscere l’importanza della dieta nel trattare pazienti
affetti da questa malattia; in una conferenza del 1887
presso un ospedale di Londra diede la prima descrizione
moderna di questo disturbo nei bambini, osservando: «Se
il paziente può essere guarito, sarà mediante una dieta».
All’epoca, tuttavia, nessuno era in grado di indicare
con precisione la componente responsabile del problema,
perciò i consigli per modificare la dieta e individuare una
cura erano tutt’altro che precisi. Il dott. Gee, per esempio,
bandiva frutta e verdura, che non avrebbero posto alcun
problema, ma permetteva fette sottili di pane tostato. Fu
molto commosso dalla guarigione di un bambino «che fu
nutrito con oltre un chilo al giorno delle migliori cozze
olandesi», ma ebbe una ricaduta non appena finì la
stagione dei mitili (forse tornò a consumare pane tostato).
Negli Stati Uniti, la prima analisi della malattia fu
pubblicata nel 1908, quando il dott. Christian Herter
scrisse un libro sui bambini affetti dal morbo celiaco, che
chiamò «infantilismo intestinale». Come avevano notato
altri in precedenza, si accorse che questi bambini non
riuscivano a crescere bene e aggiunse che tolleravano
meglio i grassi dei carboidrati. Poi, nel 1924, Sidney V.
Haas, un pediatra americano, segnalò gli effetti positivi di
una dieta di banane (il miglioramento non era dovuto alle
banane, è ovvio, ma piuttosto al fatto che questa dieta
escludeva il glutine).
Sebbene sia difficile immaginare che una dieta di
questo genere resista alla prova del tempo, essa rimase
popolare finché non fu possibile determinare e
confermare l’effettiva causa della celiachia. E questo
avrebbe richiesto un altro paio di decenni, fino agli anni
79
Quaranta, quando il pediatra olandese Willem Karel
Dicke individuò il legame con la farina di grano. A quel
punto, i carboidrati in generale erano sospettati da tempo,
ma il rapporto diretto non fu evidente finché non fu
possibile effettuare un’osservazione di causa-effetto con il
grano in particolare. E come avvenne questa scoperta?
Durante la carestia olandese del 1944, pane e farina
scarseggiavano; Dicke si accorse di un drastico calo del
tasso di mortalità fra i bambini malati di celiachia: da oltre
il 35% a, in pratica, zero. Segnalò inoltre che la
percentuale dei decessi crebbe fino ai livelli precedenti
una volta tornato disponibile il grano. Infine, nel 1952,
esaminando campioni di mucosa intestinale prelevati da
pazienti chirurgici, un’équipe di medici di Birmingham
(Inghilterra) di cui faceva parte anche Dicke individuò il
legame tra l’ingestione di proteine del grano e il morbo
celiaco. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’introduzione
della biopsia dell’intestino tenue confermò che era questo
l’organo interessato. (A onor del vero, devo fare presente
che esperti storici hanno messo in discussione l’effettiva
correttezza delle precedenti osservazioni aneddotiche di
Dicke nei Paesi Bassi, sostenendo che gli sarebbe stato
difficile, se non impossibile, registrare la ricaduta quando
la farina tornò a essere disponibile. Non hanno tuttavia
messo in dubbio l’importanza dell’identificazione del
grano come causa, limitandosi a sottolineare che il grano
non è l’unica causa.)
Quando abbiamo iniziato dunque a individuare un
legame tra celiachia e problemi neurologici? Di nuovo, la
maggioranza delle persone non si rende conto di quanto
indietro occorra risalire. I primi aneddoti cominciarono ad
apparire più di cento anni fa, e per tutto il XX secolo
diversi medici documentarono disturbi neurologici in
pazienti celiaci. In un primo tempo, tuttavia, quando si
80
scoprì la correlazione tra problemi neurologici e morbo
celiaco, si ritenne che in linea di massima
rappresentassero una manifestazione di carenze
nutrizionali causate dal problema all’intestino. In altre
parole, i medici non pensarono che un determinato
elemento stesse devastando il sistema nervoso; pensarono
solo che la stessa celiachia, che impediva l’assorbimento
di nutrienti e vitamine nell’intestino, portasse a carenze
che davano luogo a problemi neurologici come danni ai
nervi e perfino deficit cognitivi. Ed erano lontani dal
cogliere in questa storia il ruolo dell’infiammazione, non
ancora entrato a far parte del nostro patrimonio di
conoscenze mediche. Nel 1937 la rivista «Archives of
Internal Medicine» pubblicò la prima analisi della Mayo
Clinic sui problemi neurologici di pazienti celiaci, ma
anche allora i ricercatori non furono in grado di descrivere
con precisione la concatenazione degli eventi. Il
coinvolgimento del cervello era attribuito a una
«riduzione degli elettroliti», dovuta soprattutto
all’incapacità dell’intestino di digerire e assorbire
nutrienti in modo adeguato. 12
Per arrivare a comprendere e spiegare fino in fondo il
collegamento tra sensibilità al glutine e cervello avevamo
bisogno di notevoli progressi tecnologici, per non parlare
della comprensione del ruolo delle vie infiammatorie. Il
mutamento di prospettiva, tuttavia, è stato sensazionale e
piuttosto recente. Nel 2006 la Mayo Clinic pubblicò un
altro articolo su «Archives of Neurology» riguardante il
morbo celiaco e il declino cognitivo, ma questa volta la
conclusione cambiava le carte in tavola: «Data la relazione
temporale e la frequenza piuttosto elevata di atassia e
neuropatia periferica, più comunemente associate al
morbo celiaco, esiste una possibile associazione tra
progressivo deterioramento cognitivo e morbo celiaco». 13
81
L’atassia è l’incapacità di controllare i movimenti
muscolari volontari e mantenere l’equilibrio, molto spesso
derivante da disturbi al cervello; «neuropatia periferica» è
un modo sofisticato per dire «danno a carico dei nervi» e
abbraccia un’ampia gamma di disturbi nei quali i nervi
deteriorati fuori dal cervello e dal midollo spinale (nervi
periferici) provocano intorpidimento, debolezza o dolore.
In questo particolare studio, i ricercatori osservarono
tredici pazienti che mostravano segni di progressivo
declino cognitivo entro due anni dall’inizio dei sintomi
del morbo celiaco o da un peggioramento del disturbo.
(Le ragioni principali per cui questi pazienti si
rivolgevano a un medico per problemi cerebrali erano
amnesia, confusione e cambiamenti di personalità. I
medici confermarono tutti i casi di celiachia mediante una
biopsia dell’intestino tenue; chiunque fosse affetto da un
declino cognitivo riconducibile a una causa alternativa fu
escluso.) Durante l’analisi si chiarì un punto che invalidò
subito il pensiero precedente: il declino cognitivo non
poteva essere attribuito a carenze nutrizionali. Oltretutto,
i medici notarono che i pazienti erano piuttosto giovani
per essere affetti da demenza (l’età media dei primi segni
del deterioramento cognitivo era sessantaquattro anni,
con una fascia che andava dai quarantacinque ai
settantanove anni). Come riportato dai mezzi di
comunicazione, secondo Joseph Murray, gastroenterologo
della Mayo Clinic e ricercatore partecipante a questo
studio:
82
cognitivo. 14
83
me con una diagnosi di sclerosi multipla sono sensibili al
glutine; in molte occasioni ho scoperto che in realtà le loro
alterazioni cerebrali non erano affatto collegate a sclerosi
multipla, ma probabilmente alla sensibilità al glutine. Per
loro fortuna, una dieta senza glutine poteva guarirli.
84
Il quadro generale
Torniamo al giovane incontrato all’inizio del capitolo: in
origine gli era stato diagnosticato un disturbo del
movimento denominato distonia. Non riusciva a
controllare il suo tono muscolare, di conseguenza aveva
feroci e intensi spasmi in tutto il corpo che gli impedivano
di condurre una vita normale. Anche se in casi come
questo la causa era spesso un disturbo neurologico o gli
effetti secondari dei farmaci, è mia convinzione che spesso
distonia e altri disturbi motori possano essere attribuiti a
semplice sensibilità al glutine. Nella situazione del mio
paziente, una volta eliminato il glutine dalla dieta i
tremori e gli spasmi convulsivi subirono un brusco
arresto. Altri disordini del movimento, come l’atassia (già
descritta in precedenza), la mioclonia – un disturbo
caratterizzato da spasmodiche contrazioni dei muscoli – e
certe forme di epilessia sono spesso oggetto di errate
diagnosi: essi vengono attribuiti a un inspiegato problema
neurologico invece che a qualcosa di semplice come la
sensibilità al glutine. Ho avuto diversi pazienti epilettici
che sono passati dal prendere in considerazione rischiosi
interventi chirurgici e fare affidamento su trattamenti
farmacologici quotidiani per controllare i loro attacchi a
liberarsene del tutto grazie a semplici modifiche nella
dieta.
Il dott. Hadjivassiliou ha esaminato le risonanze al
cervello di pazienti che soffrivano di mal di testa e
documentato marcate anomalie provocate dalla sensibilità
al glutine. Anche un lettore profano, privo di occhio
85
clinico, non avrà difficoltà a riconoscerne gli effetti: basta
osservare l’esempio della prossima pagina.
Da oltre un decennio Hadjivassiliou ha più volte
dimostrato che una dieta senza glutine può avere come
conseguenza una completa soluzione dei mal di testa in
pazienti sensibili al glutine. In un articolo del 2010 per
«Lancet Neurology» lanciò un fervido appello invitando a
cambiare atteggiamento rispetto alla sensibilità al
glutine. 15 Per lui e per i suoi colleghi è di vitale
importanza divulgare la notizia del nesso tra la sensibilità
al glutine, in apparenza invisibile, e le disfunzioni
cerebrali. E io sono d’accordo. Il rapporto del dott.
Hadjivassiliou su pazienti con segni evidenti di deficit
cognitivi e documentata sensibilità al glutine e sulla loro
guarigione è inconfutabile.
86
Come abbiamo visto, uno dei dati principali acquisiti
tramite queste nuove informazioni è che la celiachia non è
circoscritta all’intestino. Oserei dire che la sensibilità al
glutine interessa sempre il cervello. Il neurobiologo Aristo
Vojdani, un collega che ha pubblicato molti lavori sul
tema della sensibilità al glutine, ha dichiarato che
l’incidenza della sensibilità al glutine nelle popolazioni
occidentali potrebbe arrivare addirittura al 30%. 16 E
poiché la maggior parte dei casi di celiachia sono
clinicamente silenti, ormai la prevalenza della malattia è
venti volte più elevata di quanto si pensasse due decenni
fa. Lasciate che vi racconti cosa suggerì il dott. Rodney
Ford, della Children’s Gastroenterology and Allergy
Clinic (Clinica per le allergie e la gastroenterologia
infantile) in Nuova Zelanda, nel suo articolo del 2009
dall’appropriato titolo The Gluten Syndrome: A Neurological
Disease (La sindrome da glutine: una malattia
neurologica). 17 Il problema fondamentale del glutine è la
sua «interferenza con le reti neurali dell’organismo … il
glutine è collegato a danni neurologici nei pazienti, che
siano o meno celiaci». E aggiunse: «L’evidenza indica il
sistema nervoso come sito primario dei danni da glutine»,
concludendo con decisione che «l’implicazione che il
glutine causi danni alla rete neurale è di enorme portata.
Stimando che almeno una persona su dieci sia interessata
dal fenomeno, l’impatto sulla salute è immenso.
Comprendere la sindrome da glutine è importante per la
salute della comunità globale».
Anche se potete non essere sensibili al glutine nello
stesso modo in cui lo è un celiaco, vi ho sommerso di dati
per un buon motivo: dimostrare che tutti noi possiamo
essere sensibili al glutine da un punto di vista
neurologico. Solo che ancora non lo sappiamo, perché non
esistono indizi o segnali evidenti di un problema che si
87
manifesta entro i silenziosi confini del nostro sistema
nervoso e del cervello. Non dimenticate che
l’infiammazione è in pratica al centro di qualsiasi disturbo
e malattia. Quando introduciamo nel corpo qualcosa che
scatena una risposta infiammatoria, ci esponiamo ad
affrontare un rischio molto più elevato di una gamma di
problemi di salute, da disturbi quotidiani cronici, come
mal di testa e annebbiamento del cervello, a gravi
affezioni come depressione e Alzheimer. Possiamo
perfino sostenere il nesso tra la sensibilità al glutine e
alcuni dei più misteriosi disturbi cerebrali, le cui cause
sono sfuggite ai medici per millenni: schizofrenia,
epilessia, depressione, disturbo bipolare e, più di recente,
autismo e sindrome da deficit di attenzione e iperattività.
Su questo argomento tornerò più avanti; ora vorrei che
afferraste la portata del problema e capiste bene che il
glutine può influire non solo su un cervello normale, ma
anche su un fragile cervello anomalo. È poi importante
tenere a mente che ognuno di noi è unico in base al
genotipo (DNA ) e al fenotipo (la modalità di espressione
dei geni nel loro ambiente). In me un’infiammazione
incontrollata potrebbe avere come conseguenza obesità e
cardiopatia, mentre in voi lo stesso disturbo potrebbe
tradursi in una malattia autoimmune.
Ancora una volta è utile ricorrere alla letteratura sulla
celiachia, dal momento che questa malattia riflette un caso
estremo: consente di identificare modelli di andamento
del disturbo che possono essere rilevanti per chiunque
consumi glutine, anche se non soffre di celiachia. Diversi
studi, per esempio, hanno dimostrato che i soggetti celiaci
presentano un notevole incremento della produzione di
radicali liberi e conseguenti danni a grassi, proteine e
perfino DNA . 18 Inoltre, la reazione del sistema
88
immunitario al glutine fa sì che l’organismo di questi
pazienti perda la capacità di produrre sostanze
antiossidanti. In particolare, risultano ridotti livelli ematici
di glutatione (un importante antiossidante nel cervello), di
vitamina E, di retinolo e di vitamina C: tutti elementi di
fondamentale importanza per tenere sotto controllo i
radicali liberi. È come se la presenza di glutine impedisse
al sistema immunitario di sostenere appieno le difese
naturali del corpo. E io mi chiedo: se la sensibilità al
glutine può compromettere il sistema immunitario, a
cos’altro apre la strada?
La ricerca ha dimostrato altresì che la reazione del
sistema immunitario al glutine porta all’attivazione di
molecole segnale che in sostanza provocano
infiammazione e stimolano il cosiddetto enzima COX -2,
con la conseguenza di aumentare la produzione di
sostanze chimiche infiammatorie. 19 Se conoscete farmaci
come il Celebrex, l’ibuprofene o anche l’aspirina,
conoscete già l’enzima COX -2, che è responsabile di
infiammazioni e dolori nel corpo. Questi farmaci bloccano
in modo efficace le azioni di questo enzima, riducendo
così l’infiammazione. Nei pazienti celiaci sono stati
osservati anche elevati livelli di un’altra molecola
infiammatoria, denominata TNF alfa. L’incremento di
questa citochina è tra i segni caratteristici del morbo di
Alzheimer e in pratica di ogni altra patologia
neurodegenerativa. In conclusione: la sensibilità al
glutine, in presenza o in assenza di celiachia, aumenta la
produzione di citochine infiammatorie, che svolgono un
ruolo di primo piano nelle malattie neurodegenerative. E
nessun organo è più suscettibile del cervello agli effetti
deleteri dell’infiammazione: è uno degli organi più attivi
del corpo, eppure manca di validi fattori di protezione.
89
Anche se la barriera ematoencefalica agisce come una
sorta di guardiano per impedire a determinate molecole
di passare dal flusso sanguigno all’interno del cervello,
non si tratta di un sistema infallibile. Diverse sostanze
riescono a entrare e provocano effetti indesiderabili. (Più
avanti spiegherò in maniera più dettagliata queste
molecole infiammatorie e i modi in cui possiamo usare il
potere degli alimenti per combatterle.)
È ora di stabilire nuovi standard per ciò che significa
essere «sensibili al glutine». Il problema del glutine è
molto più grave di quanto si fosse mai immaginato e il
suo impatto sulla società è di gran lunga superiore a tutte
le nostre stime.
90
Un eccesso di glutine negli alimenti moderni
Se il glutine è tanto dannoso, come abbiamo fatto a
sopravvivere così a lungo consumandolo? La risposta
immediata è che non mangiamo lo stesso tipo di glutine
da quando i nostri progenitori iniziarono a capire come
coltivare e macinare il grano. I cereali che consumiamo
oggi somigliano assai poco ai cereali entrati nella nostra
dieta circa diecimila anni fa. Fin dal XVII secolo, quando
Gregor Mendel presentò i suoi famosi studi sull’incrocio
di piante diverse per arrivare a nuove varietà, siamo
diventati bravi a mescolare e abbinare piante per produrre
nuove varietà selvatiche nel campo dei cereali. E anche se
la nostra struttura genetica e la nostra fisiologia non sono
molto cambiate dai tempi dei nostri progenitori, nel corso
degli ultimi cinquant’anni la catena alimentare ha subito
una rapida trasformazione. L’industria alimentare
moderna e la bioingegneria genetica hanno permesso di
coltivare cereali contenenti fino a quaranta volte il glutine
dei cereali coltivati appena qualche decennio fa. 20 Non si
sa se sia avvenuto nell’intento di incrementare la resa, di
farli risultare più gradevoli al palato, o per entrambi i
motivi. Una cosa è certa: i cereali moderni contenenti
glutine creano più dipendenza che mai.
Se vi è capitato di provare un impeto di euforia dopo
aver consumato un bagel, una focaccia, una ciambella o
una brioche, non l’avete immaginato e non siete i soli. Fin
dalla fine degli anni Settanta sappiamo che il glutine si
scompone nello stomaco per diventare un mix di
polipeptidi in grado di attraversare la barriera
ematoencefalica. Una volta entrati, essi possono legarsi ai
91
recettori di morfina del cervello e produrre uno stato di
euforia sensoriale. Si tratta dello stesso recettore cui si
legano gli oppiacei producendo il loro tipico effetto, che
dà piacere ma anche dipendenza. I primi scienziati che
scoprirono questa attività, la dott.ssa Christine Zioudrou e
i suoi colleghi dei National Institutes of Health (Istituti
nazionali di sanità), chiamarono questi polipeptidi che
colpiscono il cervello esorfine, che è un’abbreviazione di
composti esogeni simili a morfina, distinguendoli dalle
endorfine, gli analgesici prodotti in modo naturale dal
corpo. 21 La cosa più interessante di queste esorfine, a
ulteriore conferma del loro impatto sul cervello, è che
possono essere bloccate da farmaci antagonisti degli
oppiacei, come il naloxone e il naltrexone, gli stessi usati
per far regredire gli effetti di eroina, morfina e ossicodone.
Il dott. William Davis descrive bene questo fenomeno nel
suo libro La dieta zero grano:
Ecco, quindi, una sintesi di ciò che succede al vostro cervello quando
siete sotto l’effetto del grano: la digestione produce composti simili a
morfina che si legano ai recettori degli oppiacei del cervello. Il che vi
regala una specie di ricompensa, una leggera euforia. Quando
l’effetto viene bloccato o vengono consumati cibi che non producono
esorfine, alcune persone provano al contrario uno sgradevole senso
di astinenza. 22
92
che zucchero e alcol possono produrre euforia e indurre a
volerne consumare ancora. Ma i cibi che contengono
glutine? Il vostro pane integrale e i fiocchi d’avena? L’idea
che il glutine possa influire sulla nostra biochimica, con
ripercussioni nel centro del cervello preposto a piacere e
assuefazione, è degna di nota. E spaventosa. Se davvero,
come dimostra la scienza, questi alimenti sono agenti che
alterano la mente, significa che dobbiamo ripensare a
come li classifichiamo.
Quando guardo le persone divorare carboidrati carichi
di glutine, per me è come assistere mentre si versano un
cocktail di benzina. Il glutine è il tabacco della nostra
generazione. La sensibilità al glutine è molto più diffusa
di quanto non crediamo – e può in potenza provocare
qualche danno in ognuno di noi e a nostra insaputa – e il
glutine si nasconde dove meno lo sospettereste. È nei
nostri condimenti e spezie, cocktail e gelati, e addirittura
in cosmetici come la crema per le mani. È dissimulato in
zuppe, dolcificanti e prodotti a base di soia. È nascosto nei
nostri integratori alimentari e nei medicinali di marca. Il
termine «senza glutine» sta diventando vago e
inconsistente come è capitato a «biologico» e «tutto
naturale». Il motivo per cui adottare una dieta senza
glutine può avere un impatto così positivo sul corpo non è
più un mistero per me.
Per gran parte degli ultimi 2,6 milioni di anni, le diete
dei nostri progenitori sono state composte da selvaggina,
da piante di stagione, da ortaggi e, talvolta, da bacche.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, oggi la dieta
della maggioranza delle persone è incentrata su cereali e
carboidrati, molti dei quali contengono glutine. Anche
tralasciando il fattore glutine, però, non si dimentichi che
una delle principali ragioni per cui tanti cereali e
carboidrati possono essere così nocivi è la loro capacità di
93
far aumentare la glicemia come non fanno altri alimenti,
per esempio carne, pesce, pollame e verdura.
Livelli elevati di glicemia danno luogo, lo ricorderete, a
livelli elevati di insulina, rilasciata dal pancreas per
introdurre il glucosio ematico nelle cellule. Più elevata è la
glicemia, più insulina dovrà essere pompata dal pancreas.
E con l’aumentare dell’insulina le cellule recepiscono
sempre meno il segnale dell’insulina. In sostanza, le
cellule non riescono a udire il suo messaggio e il pancreas
fa quello che farebbe chiunque non riuscisse a farsi
sentire: alza la voce, cioè aumenta la produzione di
insulina attuando un processo di reazione anticipata (feed-
forward) che può essere mortale. I livelli più elevati di
insulina rendono le cellule ancor meno reattive al suo
segnale e il pancreas fa gli straordinari per abbassare la
glicemia, dando luogo a un ulteriore incremento
dell’insulina. Anche se la glicemia risulta normale, il
livello dell’insulina è aumentato.
Poiché le cellule sono resistenti al segnale dell’insulina,
questo disturbo viene definito «insulinoresistenza». Con
l’evolversi della situazione, il pancreas aumenta al
massimo la sua produzione, che tuttavia non sarà
sufficiente. A quel punto le cellule perderanno la capacità
di rispondere al segnale dell’insulina e, in ultimo, la
glicemia comincerà ad aumentare, dando origine a un
diabete di tipo 2. Il sistema, arrivato al collasso, richiederà
una fonte esterna (ossia i farmaci per il diabete) per
mantenere bilanciato il livello della glicemia. Tenete a
mente, però, che non è necessario essere diabetici per
soffrire di iperglicemia cronica.
Quando tengo conferenze a membri della comunità
medica, una delle mie diapositive preferite è una foto di
quattro alimenti comuni: 1) una fetta di pane integrale, 2)
una barretta di Snickers, 3) un cucchiaio di semplice
94
zucchero bianco e 4) una banana. La mostro e chiedo
all’uditorio di indovinare quale di essi provochi il
maggiore aumento di glicemia, o quale abbia l’indice
glicemico (GI , dall’inglese Glycemic Index) più elevato, cioè
la valutazione numerica che dà la misura della rapidità
con cui i livelli glicemici aumentano dopo avere
consumato un particolare tipo di alimento. L’indice
glicemico comprende una scala da 0 a 100, con i valori più
elevati attribuiti agli alimenti che provocano l’incremento
più rapido. Il punto di riferimento è il glucosio puro, che
ha un GI pari a 100.
Nove volte su dieci, le persone scelgono l’alimento
sbagliato. No, non è lo zucchero (GI = 68), non è la barretta
dolce (GI = 55) e non è la banana (GI = 54). È il pane
integrale, con un enorme GI di 71, che lo colloca alla pari
con il pane bianco (altro che pensare che l’integrale sia
meglio del bianco!). Sono più di trent’anni che sappiamo
che il grano fa aumentare la glicemia più dello zucchero
da tavola, ma in qualche modo riteniamo ancora che non
sia possibile. Sembra una contraddizione. Eppure è un
dato di fatto: pochi alimenti producono un’impennata del
glucosio ematico come quelli a base di grano.
È importante notare che la crescente sensibilità al
glutine non è solo l’esito di un’iperesposizione a questa
sostanza negli alimenti industriali dei nostri giorni. È
anche il risultato di un eccesso di zuccheri e di alimenti
proinfiammatori. Possiamo inoltre aggiungere l’impatto
delle tossine ambientali, in grado di influire sul modo in
cui si esprimono i nostri geni e sull’eventuale attivazione
di segnali autoimmuni. La combinazione di ognuna di
queste componenti – glutine, zucchero, alimenti
proinfiammatori e tossine ambientali – porta nel corpo, e
soprattutto nel cervello, una sorta di tempesta perfetta.
95
Se qualsiasi alimento artefice di una tempesta biologica
– a dispetto della presenza di glutine – è pericoloso per la
nostra salute, dovremo sollevare un’altra questione di
importanza cruciale per la salute del cervello: i
carboidrati, anche quelli «buoni», ci stanno forse
uccidendo? Dopo tutto, sono spesso la principale fonte di
queste componenti ostili. Qualsiasi discorso su equilibrio
glicemico, sensibilità al glutine e infiammazione deve
ruotare intorno all’impatto che i carboidrati possono avere
sul corpo e sul cervello. Nel prossimo capitolo vedremo
come innalzino in generale i fattori di rischio dei disturbi
neurologici, spesso a spese del vero amore del nostro
cervello: i grassi. Quando consumiamo troppi carboidrati,
mangiamo meno grassi, proprio le componenti che il
nostro cervello richiede per la sua salute.
Aborti spontanei
ADHD (DDAI) Disturbi neurologici
Alcolismo
96
Annebbiamento del Alzheimer, schizofrenia,
cervello ecc.)
Atassia, perdita di Dolore al petto
equilibrio Dolore osseo/osteopenia/
Autismo osteoporosi
Cancro Emicranie
Cardiopatie Intolleranza ai latticini
Convulsioni/epilessia Malassorbimento dei cibi
Depressione Morbo di Parkinson
Disturbi autoimmuni Nausea/vomito
(diabete, infertilità, Orticaria/dermatiti
tiroidite di Hashimoto, Ritardo nella crescita
artrite reumatoide, solo Salute precaria
per Sindrome da intestino
citarne alcuni) irritabile
Disturbi digestivi SLA
amido grano
bulgur kamut
cous cous orzo
farina graham segale
farro semolino
97
farro semolino
germe di grano triticale
amaranto quinoa
grano saraceno riso
mais soia
maranta arundinacea sorgo
miglio tapioca
patata teff
98
spolverate di farina prima malto/aroma di malto
del congelamento) ostie da comunione
polpette/polpettone di seitan
carne succo di wheatgrass (erba
ripieni di frutta dei dolci di grano)
commerciali surimi, pancetta, ecc.
salsa di soia e salse di surrogati del latte
teriyaki surrogati delle uova
salsa e sughi taboulé
salse da marinatura verdure fritte/tempura
commerciali vodka
salsiccia bevande a base di vino
sciroppi zuppe
cosmetici rossetti
farmaci balsami per labbra
francobolli e buste non shampoo
autoadesivi balsami
pasta modellabile per vitamine e integratori
l’infanzia (controllare l’etichetta)
99
color caramello (spesso a proteina vegetale (HVP ,
base d’orzo) Hydrolyzed Vegetable
complesso Protein)
amminopeptidico proteina vegetale
destrina idrolizzata
estratto di fitosfingosina sciroppo di riso integrale
estratto di grano Secale cereale
fermentato tocoferolo/vitamina E
estratto di lievito Triticum aestivum
estratto di malto Triticum vulgare
idrolizzato
100
Capitolo III
101
Attenzione, carboidratodipendenti e
grassofobici
Sorprendenti verità sui veri amici e nemici del vostro cervello
102
carboidrati e grassi. In questo capitolo vi illustrerò i
motivi per cui, in linea di principio, il vostro corpo ha
bisogno di una dieta a basso contenuto di carboidrati e ad
alto contenuto di grassi. E spiegherò perché un eccessivo
consumo di carboidrati – anche non contenenti glutine –
può essere dannoso quanto una dieta ricca di glutine.
È paradossale, ma il nostro stato di salute è peggiorato
da quando abbiamo adottato un «approccio scientifico»
alla nutrizione. Da abitudini legate a cultura e tradizione,
le decisioni su cosa mangiare e bere sono diventate scelte
calcolate, basate su teorie nutrizionali miopi, che
innanzitutto hanno tenuto in scarsa considerazione il
modo in cui gli esseri umani hanno raggiunto la
modernità. E non possiamo dimenticare gli interessi
commerciali in gioco. Credete davvero che la vostra salute
stia a cuore ai produttori dei cereali per la colazione? La
loro merce è ricca di carboidrati e occupa un’intera corsia
del supermercato.
Uno dei business più redditizi nel settore alimentare è quello dei fiocchi
di cereali. È una delle poche attività in grado di trasformare un
ingrediente economico (cereali lavorati) in una merce costosa. Il
reparto Ricerca e Sviluppo della General Mills, denominato Institute of
Cereal Technology (Istituto di tecnologica dei cereali) e situato a
Minneapolis, ospita centinaia di scienziati il cui unico scopo è
progettare nuovi e gustosi cereali per la colazione che possano essere
venduti a un prezzo elevato e durare molto a lungo sugli scaffali. 1
103
vero il contrario. Prendete le uova, per esempio. Si
pensava che facessero bene, poi che facessero male a
causa del loro contenuto di grassi saturi; e, infine,
messaggi come: «Sono necessarie ulteriori prove per
stabilire l’effetto delle uova sulla salute» hanno generato
estrema confusione. È ingiusto, lo so. Non mi sorprende
che la gente si senta sempre più frustrata.
Questo capitolo dovrebbe rallegrarvi. Vi salverò da una
vita fatta di tentativi per evitare il consumo di grassi e
colesterolo e dimostrerò che queste deliziose componenti
preservano la migliore funzionalità del cervello. Se
abbiamo sviluppato una preferenza per il grasso è per un
buon motivo: è l’amore segreto del nostro cervello. Negli
ultimi decenni, tuttavia, è stato demonizzato come fonte
alimentare poco sana: purtroppo siamo diventati una
società di «grassofobici» e «carboidratodipendenti» (e
l’automatica riduzione dell’apporto di grassi sani quando
consumiamo carboidrati in quantità non è di aiuto).
Pubblicità, aziende dedicate alla perdita di peso, negozi di
alimentari e libri di successo stanno promuovendo l’idea
che dovremmo seguire una dieta che sia, per quanto
umanamente possibile, a basso contenuto di grassi, o
quasi senza grassi, e a basso contenuto di colesterolo. È
vero, esistono determinati tipi di grasso che sono associati
a problemi di salute e nessuno può negare che i grassi e
gli oli modificati in commercio siano una minaccia per il
nostro benessere. I grassi trans sono tossici e senza dubbio
collegati a una serie di malattie croniche: su questo esiste
ormai un generale consenso tra gli scienziati. Manca però
un semplice messaggio: ai nostri corpi fanno bene i grassi
«buoni», e il colesterolo è uno di questi. E abbondanti
quantità di carboidrati non giovano, anche quando sono
senza glutine, integrali e ad alto contenuto di fibra.
È interessante notare che l’esigenza di carboidrati nella
104
dieta umana è in pratica pari a zero; possiamo
sopravvivere con un quantitativo minimo di carboidrati
che, all’occorrenza, può essere fornito dal fegato. Senza
grassi, invece, non possiamo andare avanti. Purtroppo, la
maggior parte di noi mette sullo stesso piano l’idea di
consumare grassi con l’essere grassi, quando in realtà
l’obesità – e le sue conseguenze metaboliche – non ha
quasi nulla a che vedere con il consumo di grassi
alimentari, ma è in stretta relazione con la nostra
dipendenza da carboidrati. Lo stesso vale per il
colesterolo: consumare cibi ad alto contenuto di
colesterolo non ha alcun impatto sui nostri livelli effettivi
di colesterolo, e la presunta correlazione tra alti valori di
colesterolo ed elevati rischi di malattie cardiache è pura
falsità.
105
Geni grassi, scienza e salute
Di tutte le lezioni di questo libro, quella che spero
prenderete sul serio è la seguente: rispettate il vostro
genoma. Il combustibile preferito del metabolismo umano
sono i grassi – non i carboidrati – e nell’evoluzione della
nostra specie è sempre stato così. Abbiamo seguito una
dieta ad alto contenuto di grassi per gli ultimi due milioni
di anni, ed è soltanto dall’avvento dell’agricoltura, circa
diecimila anni fa, che i carboidrati abbondano nella nostre
provviste. Abbiamo ancora un genoma da cacciatori-
raccoglitori, frugale, nel senso che è programmato per
farci ingrassare nei periodi di abbondanza. L’ipotesi del
«gene frugale» fu formulata per la prima volta dal
genetista James Neel nel 1962 per contribuire a spiegare
perché il diabete di tipo 2 ha una base genetica così solida
e, agevolato dalla selezione naturale, produce effetti così
negativi. Secondo Neel questi geni predispongono al
diabete, però hanno rappresentato un vantaggio nel corso
della storia: aiutavano a ingrassare in fretta quando il cibo
era disponibile, poiché erano inevitabili lunghi periodi di
carestia. Da quando la società moderna ha cambiato il
nostro accesso al cibo, i geni frugali non sono più
necessari, ma sono ancora attivi e, in sostanza, preparano
a una carestia che non arriverà mai. Si ritiene che siano
responsabili anche dell’epidemia di obesità, che è in
stretto rapporto con il diabete.
Purtroppo, occorrono dai quarantamila ai settantamila
anni affinché si verifichino mutamenti significativi del
genoma, che potrebbero consentire l’adattamento a un
cambiamento così drastico nella nostra dieta e permettere
106
ai nostri geni frugali di contemplare anche solo
l’eventualità di ignorare l’istruzione di «accumulare
grasso». Anche se alcuni di noi amano credere di essere
afflitti da geni che promuovono la crescita e il
mantenimento del grasso, rendendo difficile perdere peso
e non riprenderlo, la verità è che tutti noi siamo portatori
del «gene grasso». Fa parte della costituzione dell’essere
umano, che per la maggior parte della sua esistenza sul
pianeta è rimasto in vita proprio grazie a esso.
I nostri progenitori non potevano avere una
significativa esposizione ai carboidrati, salvo forse nella
tarda estate, quando maturava la frutta. Questo tipo di
carboidrati avrebbe partecipato a incrementare la
formazione e il deposito di grasso per aiutare a superare
l’inverno, quando cibo e calorie scarseggiavano. Oggi,
invece, chiediamo ai nostri corpi di immagazzinare grasso
365 giorni all’anno. E ne stiamo scoprendo le conseguenze
attraverso la scienza.
Il Framingham Heart Study, già citato nel capitolo I,
individuò un’associazione lineare tra colesterolo totale e
prestazioni cognitive, ma quella è solo la punta
dell’iceberg. Nell’autunno del 2012, un servizio sul
«Journal of Alzheimer’s Disease» divulgò una ricerca
della Mayo Clinic stando alla quale il rischio di sviluppare
un deterioramento cognitivo lieve – mild cognitive
impairment, MCI , considerato in genere un precursore del
morbo di Alzheimer – aumenta di quasi quattro volte per
gli anziani che si riempiono il piatto di carboidrati. I
sintomi del MCI includono problemi di memoria, di
linguaggio, di pensiero e di giudizio. Questo particolare
studio rilevò che i soggetti con regimi dietetici a più alto
contenuto di grassi salutari avevano il 42% di probabilità
in meno di sperimentare un deterioramento cognitivo; le
107
persone che assumevano più proteine da fonti salutari,
come pollo, carne e pesce, godevano di un rischio ridotto
del 21%. 2
Studi precedenti che esaminavano modelli di
alimentazione e pericolo di demenza permisero di trarre
conclusioni analoghe. Uno dei primi a mettere davvero a
confronto la differenza nel tenore di grasso tra un cervello
affetto da Alzheimer e un cervello sano fu pubblicato nel
1998. 3 In questo studio post mortem, alcuni ricercatori dei
Paesi Bassi scoprirono che i pazienti affetti da Alzheimer
presentavano nel fluido cerebrospinale quantità molto
ridotte di grassi, in particolare colesterolo e acidi grassi
liberi. Questo era vero a prescindere dall’eventuale
rilevamento nei pazienti malati di Alzheimer del gene
difettoso – noto come APoE ε4 – che predispone le
persone al morbo.
Nel 2007 la rivista «Neurology» pubblicò uno studio
che prendeva in esame più di ottomila partecipanti, dai
sessantacinque anni in su, con funzione cerebrale del tutto
normale. Essi furono seguiti per un massimo di quattro
anni, nel corso dei quali circa 280 svilupparono una forma
di demenza (alla maggioranza fu diagnosticato il morbo
di Alzheimer). 4 I ricercatori miravano a identificare dei
modelli nelle loro abitudini alimentari, con particolare
attenzione al consumo di pesce, ricco di grassi omega 3
che fanno bene al cuore e al cervello. Durante il periodo di
monitoraggio, per le persone che non consumavano mai
pesce il rischio di demenza e Alzheimer subì un
incremento del 37%. Negli individui che consumavano
pesce tutti i giorni la minaccia di queste patologie
registrava una riduzione del 44%. L’uso regolare del
burro non incideva in modo significativo sul rischio di
demenza o di Alzheimer, ma il consumo regolare di oli
ricchi di omega 3, come quello d’oliva, di semi di lino e di
108
noci, lo diminuiva del 60% rispetto a quello dei soggetti
che non consumavano con regolarità oli di questo genere.
I ricercatori scoprirono anche che le persone abituate ad
assumere oli ricchi di omega 6, tipici della dieta
americana, ma non oli ricchi di omega 3 o pesce avevano
il doppio delle probabilità di sviluppare la demenza
rispetto agli altri. (Per una spiegazione più approfondita
su questi grassi si veda il riquadro sottostante.)
È interessante notare che questo rapporto indicava il
consumo di oli omega 3 quale fattore di contrasto
all’effetto dannoso degli oli omega 6 e metteva in guardia
dal consumare i secondi in assenza dei primi. Trovo che
risultati come questi siano sbalorditivi e utili.
109
I TANTI OMEGA: QUALI SONO QUELLI BUONI?
Al giorno d’oggi sentiamo tanto parlare di grassi omega 3 e omega 6. Nel
complesso, i grassi omega 6 rientrano nella categoria del «grasso che fa
male»; sono alquanto proinfiammatori e vi sono elementi che indicano un
nesso tra un consumo elevato di questi grassi e i disturbi cerebrali.
Purtroppo, la dieta americana prevede un altissimo contenuto di grassi
omega 6, presenti in molti oli vegetali come quello di cartamo, di semi di
mais, di colza, di semi di girasole e di semi di soia; l’olio vegetale
rappresenta la fonte numero uno di grassi nella dieta americana. In base
alle ricerche antropologiche, i nostri antenati cacciatori-raccoglitori
consumavano grassi omega 6 e omega 3 in un rapporto di circa 1:1. 5
Oggi consumiamo da dieci a venticinque volte gli omega 6 di allora e
abbiamo ridotto in modo drastico il nostro consumo di grassi omega 3
salutari per il cervello. Alcuni esperti ritengono che il cervello umano
abbia triplicato le sue dimensioni proprio grazie al crescente consumo di
acidi grassi omega 3. La seguente tabella elenca il contenuto di omega 6
e di omega 3 di diversi oli vegetali.
110
sesamo 42% 0%
111
«Movement Disorders» nel 2008, mostrarono che il
pericolo di contrarre il morbo di Parkinson nei soggetti
con il colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo) più
basso registrava un incremento approssimativo del
350%! 8
Per capire come possa essere vero, è utile ricordare ciò
che ho accennato nel capitolo I: l’LDL è una proteina
vettrice non necessariamente cattiva. Il suo ruolo
fondamentale nel cervello è catturare colesterolo vitale e
trasportarlo fino al neurone, dove esegue funzioni di
importanza cruciale. Come abbiamo visto, quando i livelli
di colesterolo sono bassi il cervello non funziona bene, e si
ha, di conseguenza, un notevole incremento del rischio di
problemi neurologici. Ma attenzione: una volta
danneggiata dai radicali liberi, la molecola di LDL è meno
capace di fornire colesterolo al cervello. Oltre
all’ossidazione che mette a repentaglio la funzione
dell’LDL , anche lo zucchero può renderla disfunzionale
legandosi a essa e accelerando l’ossidazione. Quando
questo accade, l’LDL non è più in grado di entrare
nell’astrocita, una cellula deputata a nutrire i neuroni.
Negli ultimi dieci anni, nuove ricerche hanno posto in
evidenza che le LDL ossidate sono un fattore chiave nello
sviluppo dell’aterosclerosi. Perciò dovremmo fare tutto il
possibile per ridurre non necessariamente i livelli di LDL ,
bensì il pericolo di ossidazione di questa proteina. Un
fattore di primo piano in questo rischio sono i livelli
glicemici elevati; le LDL hanno molte più probabilità di
ossidarsi in presenza di molecole di glucosio che le
leghino e ne modifichino la forma. Rispetto alle proteine
non glicosilate, quelle glicosilate, che sono i prodotti di
queste reazioni tra proteine e molecole di glucosio, sono
associate a un incremento nella formazione dei radicali
112
liberi pari a cinquanta volte. Il nemico non è l’LDL : i
problemi si verificano quando una dieta ricca di
carboidrati produce LDL ossidate e porta a un maggiore
rischio di aterosclerosi. Inoltre, se e quando diventa una
molecola glicosilata, l’LDL non riesce a fornire il
colesterolo alle cellule del cervello e la funzione cerebrale
ne risente.
Siamo stati indotti per un motivo o per l’altro a credere
che il grasso degli alimenti induca un aumento del
colesterolo, a sua volta motivo di un incremento di
possibili attacchi di cuore e di ictus. Questa nozione
continua a prevalere, benché una ricerca di diciannove
anni fa abbia dimostrato il contrario. Nel 1994, il «Journal
of the American Medical Association» pubblicò un
esperimento che metteva a confronto anziani con il
colesterolo alto (livelli superiori a 240 mg/dl) e quelli con
livelli normali (inferiori a 200 mg/dl). 9 Per quattro anni i
ricercatori dell’Università di Yale misurarono il
colesterolo totale e la lipoproteina ad alta densità (HDL ,
High Density Lipoprotein) di quasi un migliaio di
partecipanti; inoltre, monitorarono le ospedalizzazioni per
infarto e angina instabile e le percentuali di decessi per
cardiopatie e ogni altra causa. Tra i due gruppi non si
riscontrarono differenze: i casi di infarto e i decessi
avvenivano con la medesima frequenza nei soggetti con
colesterolo totale basso e in quelli con colesterolo totale
alto. E le analisi di diversi grandi studi non sono mai
riuscite a individuare una correlazione tra livelli di
colesterolo e cardiopatia. 10 Il crescente numero di ricerche
simile a questa ha indotto il dott. George Mann,
ricercatore del Framingham Heart Study, a dichiarare
ufficialmente:
113
L’ipotesi della dieta per il cuore, secondo cui un consumo elevato di
grassi o colesterolo provoca cardiopatie, è stata confutata più volte,
eppure, per complesse ragioni di orgoglio, profitto e pregiudizio,
questa ipotesi continua a essere sfruttata da scienziati, iniziative di
raccolta fondi, industrie alimentari e perfino agenzie governative. Il
pubblico viene tratto in inganno dalla più grande truffa sanitaria del
secolo. 11
114
quelle con livelli più bassi. In effetti, mettendo a confronto
i due gruppi, il rischio di morire durante lo studio era
ridotto di un incredibile 48% tra coloro che avevano il
colesterolo più alto. Il colesterolo alto può estendere la
longevità.
Forse uno dei più straordinari studi effettuati
sull’impatto positivo del colesterolo sull’intero sistema
neurologico è un rapporto, pubblicato nel 2008 sulla
rivista «Neurology», che descrive il colesterolo alto come
un fattore protettivo nella sclerosi laterale amiotrofica
(SLA , altrimenti nota come morbo di Lou Gehrig). 14 Non
esiste una cura significativa per la SLA , una malattia
devastante di cui mi occupo tutti i giorni nel mio
ambulatorio medico. La SLA è una malattia cronica
degenerativa dei motoneuroni che porta alla morte in un
periodo compreso tra i due e i cinque anni dalla sua
comparsa. La FDA (Food and Drug Administration,
l’agenzia statunitense per la regolamentazione di alimenti
e farmaci) ha approvato un farmaco, il Rilutek, che nel
migliore dei casi può prolungare la vita di circa tre mesi,
ma è molto costoso e tossico per il fegato. La maggioranza
dei pazienti rifiuta di assumerlo. In questo studio di
ricercatori francesi, tuttavia, emerse che i soggetti con
tassi di colesterolo molto più elevati vivevano, in media,
un anno in più dei pazienti con livelli inferiori. Come
affermano gli autori:
115
Come dicono le pubblicità informative: «Ma aspettate, c’è
dell’altro!». Non possiamo circoscrivere il nostro discorso
sui grassi alla salute cerebrale. Nella letteratura scientifica
sono stati scritti volumi anche su grasso e salute del cuore,
solo non nel contesto a cui immagino state pensando. Nel
2010, l’«American Journal of Clinical Nutrition» pubblicò
uno studio sorprendente che rivelava la verità nascosta
dietro le leggende metropolitane sui grassi, specie del tipo
saturo, e la cardiopatia. 16 Si trattava di una valutazione
retrospettiva di ventuno relazioni mediche precedenti che
coinvolgevano più di trecentoquarantamila soggetti
seguiti per periodi dai cinque ai ventitré anni. Esso
concludeva che «il consumo di grassi saturi non era
associato con un incremento del rischio di cardiopatia
coronarica, ictus o disturbi cardiovascolari». Dal
confronto del consumo più basso con quello più alto di
grassi saturi, emergeva che la minaccia effettiva di
cardiopatia coronarica era inferiore del 19% nel gruppo
che consumava la quantità più elevata di grassi saturi. Gli
autori dichiaravano inoltre: «I nostri risultati suggerivano
un pregiudizio di pubblicazione; gli studi che
presentavano associazioni significative tendevano a
ricevere un’accoglienza migliore per la pubblicazione».
Gli autori lasciano intendere che gli studi caratterizzati da
conclusioni più familiari alla corrente dominante (ossia
che il grasso provoca cardiopatie), per non dire più
interessanti agli occhi delle grandi società farmaceutiche,
avevano più probabilità di essere pubblicati. La verità è
che i grassi saturi fanno bene. Per dirla con le parole del
dott. Michael Gurr, autore di Lipid Biochemistry: An
Introduction (Introduzione alla biochimica dei lipidi):
«Qualsiasi cosa provochi la cardiopatia coronarica, non è
in primo luogo un elevato consumo di acidi grassi
saturi». 17
116
In un successivo rapporto dell’«American Journal of
Clinical Nutrition», un gruppo di ricercatori di spicco nel
campo della nutrizione a livello mondiale affermava
senza mezzi termini: «Al momento non esiste una chiara
relazione tra il consumo di acidi grassi saturi e questi esiti
[di obesità, disturbi cardiovascolari, incidenza di cancro e
osteoporosi]». I ricercatori proseguivano sostenendo che
la ricerca dovrebbe essere indirizzata verso le «interazioni
biologiche tra l’insulinoresistenza, derivante da obesità e
inattività fisica, e la qualità e quantità di carboidrati». 18
Prima di esaminare altri studi che illustrano i benefici
dei grassi, e soprattutto degli alimenti ricchi di
colesterolo, vediamo come siamo arrivati al punto di
rifiutare proprio i cibi in grado di nutrire il cervello sano e
fornire le energie per una vita lunga e attiva. Sarà
necessaria una breve divagazione sul rapporto tra grasso
alimentare e salute del cuore, un aspetto che è in stretto
rapporto con la salute del cervello.
117
Cenni storici
Se siete come la maggioranza degli americani, a un certo
punto della vostra vita avete mangiato più margarina che
burro, vi siete sentiti dei folli mentre divoravate un piatto
di carne rossa, uova e formaggio e avete gravitato in
direzione di prodotti con la dicitura «a basso contenuto di
grassi», «senza grassi» o «senza colesterolo». Non vi
biasimo per queste scelte. Siamo tutti membri della stessa
società che si affida a «esperti» che ci dicono cosa fa bene
e cosa, al contrario, fa male. Per diverse generazioni
abbiamo assistito a storiche conquiste nella comprensione
della salute umana e a scoperte importantissime su cosa ci
fa stare male e ci rende soggetti a patologie. In effetti,
l’inizio del XX secolo ha segnato proprio l’inizio di un
enorme cambiamento nella vita americana dovuto a
progressi nella tecnologia e nella medicina. Nell’arco di
qualche decennio, abbiamo avuto ampio accesso ad
antibiotici, vaccini e sanità pubblica. Malattie infantili
diffuse, un tempo responsabili di un grave abbassamento
della durata media della vita, stavano scomparendo o per
lo meno venivano controllate meglio. Più persone si
trasferivano in città lasciandosi alle spalle gli stili di vita
rurali. Diventammo più istruiti, meglio informati e
sempre più sofisticati. Per molti versi, tuttavia,
diventammo anche più facili da tormentare e ingannare
con informazioni non ancora del tutto decifrate e
verificate. Forse non ricorderete i tempi in cui i dottori
approvavano il vizio di fumare sigarette, per esempio, ma
questo stesso tipo di ignoranza si è verificato su una scala
118
molto più sottile nel mondo delle diete. E purtroppo
accade ancor oggi.
Nel 1900 l’abitante tipico di una città consumava circa
2900 calorie al giorno, e il 40% di queste proveniva in parti
uguali da grassi saturi e insaturi. (Le famiglie di
campagna, che vivevano e lavoravano nelle fattorie,
assumevano con ogni probabilità più calorie.) La sua dieta
era piena di burro, uova, carni e cereali, frutta e verdura
di stagione. Gli americani in sovrappeso erano pochi e le
tre cause di morte più diffuse erano polmonite,
tubercolosi e diarrea.
In quello stesso periodo, il ministero dell’Agricoltura
cominciò a tenere traccia delle tendenze alimentari,
registrando un cambiamento nel consumo del tipo di
grassi di cui si cibavano gli americani. La gente stava
iniziando a usare oli vegetali al posto del burro, e questo
indusse i produttori a offrire oli solidificati attraverso il
processo di idrogenazione, in modo che somigliassero al
burro. Entro il 1950 eravamo passati dal consumo annuo
di oltre 8 chili di burro e circa 1,3 chili di olio vegetale a
poco più di 4,5 chili di burro e altrettanti di olio vegetale.
Anche la margarina stava guadagnando terreno alla
svelta nelle nostre diete; all’inizio del secolo il consumo
annuo pro capite ammontava ad appena 9 etti circa, ma
per la metà del secolo era arrivata a circa 3,6 chili.
Anche se la cosiddetta ipotesi lipidica era in
circolazione fin dalla metà del XIX secolo, fu solo intorno
alla metà del XX, con l’aumento dei decessi dovuti a
cardiopatia coronarica (CAD , Coronary Artery Disease), che
gli scienziati tentarono di stabilire una correlazione tra
una dieta grassa e arterie grasse. Secondo questa ipotesi, il
grasso saturo di origine animale innalza i livelli di
colesterolo nel sangue portando al deposito di colesterolo
119
e di altri grassi sotto forma di placche nelle arterie. Per
suffragare questa ipotesi Ancel Keys, un ricercatore della
sanità pubblica dell’Università del Minnesota, documentò
una correlazione quasi diretta tra le calorie derivanti dai
grassi nell’alimentazione e i decessi per cardiopatia nelle
popolazioni di sette paesi. (Keys ignorò i paesi che non si
adattavano al suo modello, inclusi i numerosi in cui la
gente mangia molti grassi ma non viene colpita da
cardiopatie e altri dove le diete hanno un basso contenuto
di grassi ma si ha un’elevata incidenza di infarti fatali.) I
giapponesi, la cui dieta ha solo il 10% di calorie derivanti
da grassi, evidenziavano la più bassa mortalità per CAD :
meno di 1 caso su 1000. Gli Stati Uniti, invece,
registravano la più alta mortalità per CAD – 7 su 1000 – a
fronte del 40% delle calorie derivanti da grassi. 19 A prima
vista, sembrerebbe che questi schemi indichino senza
mezzi termini l’idea che il grasso fa male e che provochi
cardiopatie. All’epoca gli scienziati erano ben lontani
dall’immaginare che questi dati non fornissero un quadro
completo.
Questa errata valutazione, tuttavia, persistette per
diversi decenni, mentre i ricercatori vagliarono ulteriori
dati in cerca di prove; dal Framingham Heart Study, per
esempio, risultò che i soggetti con livelli di colesterolo più
elevati avevano maggiori probabilità di avere
diagnosticata una cardiopatia coronarica e di morirne. Nel
1956 l’American Heart Association cominciò a
propagandare la «dieta prudente», invitando a sostituire
burro, lardo, uova e manzo con margarina, olio di semi di
mais, pollo e fiocchi di cereali. Entro gli anni Settanta,
l’ipotesi lipidica si era ormai affermata. Questa ipotesi era
imperniata sulla tesi irremovibile che il colesterolo
causasse la cardiopatia coronarica.
120
Ovviamente, questo spinse il governo a intervenire: nel
1977 la Commissione speciale del Senato statunitense per
la nutrizione e i bisogni umani pubblicò i Dietary Goals for
the United States (Obiettivi dietetici per gli Stati Uniti).
Come potete immaginare, tali obiettivi miravano a ridurre
il consumo di grassi ed evitare alimenti ad alto contenuto
di colesterolo. Si riteneva che facessero male soprattutto i
grassi saturi, che «intasano le arterie». Occorreva perciò
diminuire carne, latte, uova, burro, formaggio e oli
tropicali come quello di cocco e di palma. Inoltre,
quest’ottica spianò la strada all’industria farmaceutica
miliardaria che si occupava delle medicine progettate per
ridurre i livelli lipidici. Nello stesso tempo, le autorità
sanitarie cominciarono a consigliare alle persone di
sostituire questi grassi, ora reputati cattivi, con carboidrati
e oli vegetali polinsaturi trattati, come l’olio di semi di
soia, di semi di mais, di semi di cotone, di colza, di
arachidi, di cartamo e di semi di girasole. Verso la metà
degli anni Ottanta i fast food seguirono l’esempio, e per la
frittura dei loro alimenti abbandonarono il grasso di
manzo e l’olio di palma a vantaggio dell’olio vegetale
parzialmente idrogenato (grassi trans). Anche se da allora
il ministero dell’Agricoltura ha modificato la sua guida
per l’alimentazione passando da uno schema a forma di
piramide a una ripartizione alimentare basata sulla
suddivisione di un piatto, l’idea diffusa è ancora che «il
grasso fa male» e «i carboidrati fanno bene». In effetti, la
nuova guida My Plate (Il mio piatto) del ministero non
presenta affatto i grassi, con la conseguenza di
disorientare non poco i consumatori, che non sanno come
e quale tipo di grassi si debbano inserire in una dieta
sana. 20
Donald W. Miller, cardiochirurgo e professore di
chirurgia all’Università di Washington, lo ha espresso alla
121
perfezione nel suo saggio del 2010 intitolato Health Benefits
of a Low-Carbohydrate, High-Saturated-Fat Diet (I benefici di
una dieta povera di carboidrati e ricca di grassi saturi): «Il
dominio della dieta a basso contenuto di grassi e ad alto
contenuto di carboidrati, durato sessant’anni, finirà.
Questo avverrà quando la consapevolezza dei rovinosi
effetti di un eccesso di carboidrati nella dieta crescerà e si
comprenderanno meglio i benefici dei grassi saturi per la
salute». 21 L’ipotesi lipidica ha dominato per decenni il
settore cardiovascolare nonostante il numero di studi
incompatibili con questa tesi superasse quelli in suo
favore. Negli ultimi trent’anni non è stato pubblicato
nemmeno uno studio che dimostrasse in modo
inequivocabile che ridurre il colesterolo sierico adottando
una «dieta a basso contenuto di grassi e a basso contenuto
di colesterolo» previene o riduce il tasso di infarti o di
mortalità. Inoltre, come fa notare Miller, le indagini sulle
popolazioni di tutto il mondo non sostengono l’ipotesi
lipidica. Possiamo risalire addirittura al lontano 1968 per
trovare studi che sfatano con decisione l’idea di una dieta
ideale a basso contenuto di grassi. Quell’anno
l’International Atherosclerosis Project esaminò
ventiduemila cadaveri di quattordici nazioni e scoprì che
non importava se si consumavano grandi quantità di
prodotti animali grassi o se si seguiva una dieta per lo più
vegetariana: la prevalenza della placca arteriosa era la
stessa in tutte le parti del mondo, in quelle con alte
percentuali di cardiopatie così come in popolazioni con
presenza scarsa o nulla di cardiopatie. 22 Questo significa
che l’ispessimento della parete arteriosa potrebbe essere
un processo inevitabile dell’invecchiamento non
necessariamente correlato a cardiopatie cliniche.
Se consumare grassi saturi non provoca le malattie
cardiache, qual è la loro causa? Osserviamo la situazione
122
dalla prospettiva del cervello, poi torneremo a ciò che
interessa il cuore. Presto riuscirete a comprendere la causa
all’origine dell’obesità e anche dei disturbi cerebrali.
123
Carboidrati, diabete e disturbi cerebrali
Come ho già illustrato in dettaglio, uno dei modi in cui
cereali e carboidrati appiccano il fuoco al cervello è
attraverso i picchi glicemici nel sangue; le immediate
ripercussioni sul cervello danno il via alla cascata
infiammatoria. Questo meccanismo va ricondotto ai
neurotrasmettitori, i principali regolatori dell’umore e del
cervello. Quando la glicemia aumenta, si ha un’immediata
deplezione dei neurotrasmettitori serotonina, epinefrina,
norepinefrina, acido gamma-amminobutirrico (GABA ,
Gamma-aminobutyric Acid) e dopamina. Nello stesso
tempo, si esauriscono le vitamine del gruppo B, necessarie
per produrre quei neurotrasmettitori (e centinaia di altri
elementi). Anche i livelli di magnesio diminuiscono,
mettendo in difficoltà sia il sistema nervoso sia il fegato. Il
livello elevato della glicemia fa poi scattare una reazione
detta «glicazione», che esamineremo in dettaglio nel
prossimo capitolo. Per dirla con parole semplici, la
glicazione è il processo biologico mediante il quale il
glucosio, le proteine e determinati grassi si legano insieme
provocando un irrigidimento dei tessuti e delle cellule,
incluse quelle cerebrali. Per essere più specifici, le
molecole di glucosio e le proteine cerebrali si combinano
formando nuove strutture letali che contribuiscono, più di
ogni altro fattore, alla degenerazione del cervello e del suo
funzionamento. Il cervello è molto sensibile alle
devastazioni provocate dal glucosio in questo processo, e
potenti antigeni come il glutine non fanno che accelerare il
danno. In termini neurologici, la glicazione può
124
contribuire alla riduzione della massa critica del tessuto
cerebrale.
Accanto alle bevande dolcificate, gli alimenti a base di
cereali sono i principali responsabili delle calorie ricavate
dai carboidrati nella dieta americana. Che si tratti di pasta,
biscotti, torte, bagel, o del «pane integrale» considerato
così sano, in ultima analisi il carico di carboidrati indotto
dalle nostre scelte alimentari non è di gran giovamento
quando tentiamo di ottimizzare salute e funzione
cerebrale. Se aggiungiamo a questo elenco un
assortimento di alimenti ad alto contenuto di carboidrati
come patate, mais, frutta e riso, non desta meraviglia che
gli americani siano definiti, e a ragione, carboholics, cioè
carboidratodipendenti. E non stupisce che siano colpiti da
un’epidemia di sindromi metaboliche e diabete.
I dati che confermano la relazione tra il consumo
elevato di carboidrati e il diabete sono chiari e gravi. Vale
la pena di ricordare che la patologia esplose nel 1994,
quando l’American Diabetes Association raccomandò agli
americani di attingere dal 60 al 70% delle loro calorie dai
carboidrati: tra il 1997 e il 2007 il numero dei casi di
diabete nel paese raddoppiò. 23 La prossima figura ci
permette di osservare la sua rapida ascesa dal 1980 al
2011, anni in cui il numero delle diagnosi di diabete degli
americani risultò più che triplicato.
Il dato è rilevante perché, come già sapete, diventare
diabetici raddoppia il pericolo di contrarre il morbo di
Alzheimer. Anche la fase «pre-diabetica», quando i
problemi di glucosio nel sangue sono solo agli inizi, è
associata a un declino della funzione cerebrale e a una
atrofia del centro della memoria nel cervello, oltre a
rappresentare un fattore di rischio indipendente per il
morbo di Alzheimer vero e proprio.
È difficile credere che non avremmo potuto riconoscere
125
prima questo nesso tra diabete e demenza, ma è stato
necessario molto tempo per leggere tra le righe e condurre
il tipo di studi longitudinali che una conclusione di questo
genere richiede. E occorreva tempo anche per valutare
l’ovvia domanda che si pone una volta individuato questo
collegamento: in quale modo il diabete contribuisce alla
demenza?
126
proteina (amiloide) che forma le placche cerebrali
associate alla malattia. Inoltre, il livello elevato del
glucosio ematico provoca gravi reazioni biologiche che
nuocciono al corpo producendo molecole contenenti
ossigeno che danneggiano le cellule e causano
infiammazione, con la possibile conseguenza di irrigidire
e restringere le arterie nel cervello (e in altre parti del
corpo). Questa malattia, nota come aterosclerosi, può
portare alla demenza vascolare, che si verifica quando
ostruzioni e ictus uccidono tessuto cerebrale. Tendiamo a
pensare all’aterosclerosi come a un problema connesso al
cuore, ma il cervello può essere altrettanto interessato
dalle alterazioni nelle pareti delle sue arterie. Nel lontano
2004, ricercatori australiani affermarono con audacia in un
articolo di rassegna sull’argomento: «Ora esiste un
consenso riguardo al fatto che l’aterosclerosi rappresenti
uno stato di accentuato stress ossidativo caratterizzato da
ossidazione di lipidi e proteine nella parete vascolare». 24 E
puntualizzarono che tale ossidazione è una risposta
all’infiammazione.
Nel 2011 un gruppo di ricercatori giapponesi fece una
scoperta molto allarmante esaminando mille uomini e
donne sopra i sessant’anni di età e riscontrando che «i
soggetti diabetici avevano il doppio delle probabilità degli
altri partecipanti allo studio di sviluppare il morbo di
Alzheimer entro quindici anni. E avevano anche 1,75 volte
più probabilità di sviluppare una demenza di qualsiasi
tipo». 25 Questo collegamento rimase valido anche dopo
avere contemplato diversi fattori associati a entrambi i
rischi di diabete e demenza, come età, sesso, pressione
sanguigna e indice di massa corporea. Ora questi e altri
ricercatori stanno documentando come il controllo della
glicemia e la riduzione dei fattori di rischio per il diabete
di tipo 2 riducano anche la minaccia di demenza.
127
La verità sul grasso: il migliore amico del
cervello
Per cogliere appieno i danni causati dai carboidrati e i
benefici dati dai grassi, è utile comprendere un po’ di
biologia elementare. Il corpo trasforma i carboidrati
assunti nella dieta (inclusi zuccheri e amidi) in glucosio e,
come ormai sapete, ciò induce il pancreas a rilasciare
insulina nel sangue. L’insulina permette al glucosio di
entrare nelle cellule e lo deposita sotto forma di glicogeno
nel fegato e nei muscoli. È poi il principale catalizzatore
per la formazione di grasso: quando fegato e muscoli non
hanno più spazio per il glicogeno, infatti, l’insulina
trasforma il glucosio in grasso corporeo. La causa
primaria dell’aumento di peso sono i carboidrati, non i
grassi alimentari. (Riflettete: molti agricoltori ingrassano
gli animali destinati al banco del macellaio con carboidrati
come mais e cereali, non con grassi e proteine. Per vedere
la differenza basta confrontare, per esempio, un taglio di
bistecca di lombo di capi allevati a cereali con uno di capi
allevati al pascolo: il primo conterrà molto più grasso.)
Questo spiega in parte perché uno dei principali benefici
di una dieta a basso contenuto di carboidrati è la perdita
di peso. Inoltre, questo tipo di dieta riduce il livello
glicemico nei diabetici e migliora la sensibilità all’insulina.
In effetti, sostituire i carboidrati con i grassi sta
diventando sempre più spesso il metodo consigliato per
curare il diabete di tipo 2.
Un’alimentazione costantemente ricca di carboidrati
induce il corpo a una continua produzione di insulina,
limitando in modo grave (se non arrestando) la scissione
128
del grasso corporeo per produrre energia. Il corpo
sviluppa così una dipendenza dal glucosio: potrà anche
esaurirlo, ma non riuscirà a bruciare il grasso a
disposizione, isolato per effetto degli elevati volumi di
insulina. In sostanza, il corpo viene fisicamente ridotto
alla fame dalla dieta a base di carboidrati. Per questo,
continuando a nutrirsi di carboidrati, molti individui
obesi non riescono a perdere peso: i loro livelli di insulina
tengono in ostaggio quei depositi di grasso.
Passiamo ora ai grassi assunti nella dieta. Il grasso è ed
è sempre stato un pilastro fondamentale della nostra
nutrizione. Al di là del fatto che il cervello umano è
composto da grassi per oltre il 70%, essi svolgono un
ruolo cruciale nel regolare il sistema immunitario. Per
dirla con parole semplici, i grassi buoni come gli omega 3
e i grassi monoinsaturi riducono l’infiammazione, mentre
i grassi idrogenati modificati, così comuni negli alimenti
industriali o semindustriali, provocano un drastico
aumento dell’infiammazione. Certe vitamine, in
particolare la A, la D, la E e la K, hanno bisogno dei grassi
per essere assorbite come si deve nel corpo, e per questo i
grassi alimentari sono necessari al trasporto di queste
vitamine «liposolubili». Non essendo idrosolubili, tali
vitamine possono essere assorbite solo dall’intestino tenue
in combinazione con i grassi. Le carenze dovute a un
assorbimento incompleto di queste vitamine di
importanza vitale sono sempre gravi e possono indurre
malattie cerebrali e molte altre patologie. Se la vitamina K
non è sufficiente, per esempio, in caso di lesioni il sangue
non è in grado di coagulare e può addirittura portare a
casi di emorragia spontanea (immaginate questo
problema al cervello). La vitamina K tutela anche la salute
di cervello e occhi, contribuendo a ridurre il rischio di
demenza legata alla vecchiaia e di degenerazione
129
maculare (e i grassi alimentari giovano in caso di
degenerazione maculare). Senza un’adeguata vitamina A,
il cervello non si sviluppa in modo corretto; si diventa
ciechi e molto vulnerabili alle infezioni. È noto che una
carenza di vitamina D è associata a un aumento di
suscettibilità a diverse malattie croniche (come
schizofrenia, Alzheimer, Parkinson, depressione, disturbi
affettivi stagionali) e a una serie di malattie autoimmuni,
per esempio il diabete di tipo 1.
Se vi attenete all’attuale opinione dominante, sapete di
dover limitare il vostro consumo complessivo di grassi a
non più del 20% delle calorie ingerite (e per i grassi saturi
la percentuale scende a meno del 10%). Sapete anche che è
difficile raggiungere questo obiettivo (state tranquilli,
però: è un consiglio sbagliato, e seguendo il mio
programma non dovrete preoccuparvi di contare i
grammi dei grassi o le percentuali complessive). Tuttavia,
anche se i grassi trans artificiali che si trovano nella
margarina e nei cibi industriali sono velenosi, sappiamo
che i grassi monoinsaturi (come quelli contenuti in
avocado, olive e frutta a guscio) sono salutari. Inoltre,
sappiamo che gli acidi grassi polinsaturi omega 3 presenti
nei pesci d’acqua fredda e in alcune piante (per esempio il
salmone e l’olio di semi di lino) sono considerati «buoni».
Ma che dire dei grassi saturi naturali come quelli che si
trovano in carne, tuorli d’uovo, formaggio e burro? Come
ho spiegato in dettaglio, il grasso saturo è stato oggetto di
diffamazione. La maggior parte di noi non si domanda
neppure più perché questi particolari grassi siano
dannosi; ci limitiamo a supporre che il presunto
fondamento scientifico sia vero. Oppure, a torto,
mettiamo questi grassi nella stessa categoria dei grassi
trans. Tuttavia i grassi saturi sono necessari, e il nostro
130
corpo è concepito per affrontare il consumo, anche in
quantità elevate, delle loro fonti naturali.
Poche persone comprendono che i grassi saturi
svolgono un ruolo cruciale in molte equazioni
biochimiche che ci mantengono in salute. Se da bambini
siete stati allattati al seno, i grassi saturi erano il vostro
alimento base, poiché compongono il 54% del grasso nel
latte materno. Ogni cellula del corpo richiede grassi
saturi; essi costituiscono il 50% della membrana cellulare.
Contribuiscono inoltre alla struttura e al funzionamento
di polmoni, cuore, ossa, fegato e sistema immunitario. Un
particolare grasso saturo, l’acido palmitico 16, forma nei
polmoni il surfattante polmonare, riducendo la tensione
superficiale in modo che gli alveoli – le minuscole sacche
d’aria che catturano l’ossigeno a ogni inalazione e gli
consentono di essere assorbito nel flusso sanguigno –
siano in grado di espandersi. Senza il surfattante non
sareste in grado di respirare, perché le superfici umide
degli alveoli polmonari si incollerebbero impedendo ai
polmoni di espandersi. Un surfattante polmonare sano
previene l’asma e altri disturbi respiratori.
Le cellule del muscolo cardiaco prediligono come
nutrimento un tipo di grasso saturo, e le ossa necessitano
di grassi saturi per assimilare in modo efficace il calcio.
Con l’aiuto dei grassi saturi, il fegato si sbarazza del
grasso e ci protegge dagli effetti nocivi delle tossine,
compresi alcol e composti contenuti nei farmaci. I globuli
bianchi del sistema immunitario devono in parte ai grassi
che si trovano nel burro e nell’olio di cocco la loro
capacità di riconoscere e distruggere i germi invasori,
nonché di combattere i tumori. Anche il sistema
endocrino si affida agli acidi grassi saturi per trasmettere
la richiesta di produrre determinati ormoni, insulina
inclusa. Ed essi contribuiscono a informare il cervello
131
quando siete sazi, così che possiate porre fine al pranzo.
Non pretendo che ricordiate tutta questa biologia, ma ho
voluto parlarne per enfatizzare la necessità biologica dei
grassi saturi. Per un elenco completo degli alimenti in cui
si possono trovare questi grassi buoni (e di dove si
annidano i grassi cattivi), si vedano le pagine 82-83.
132
In difesa del colesterolo
Se avete fatto un esame per verificare i vostri livelli di
colesterolo, è probabile che abbiate associato HDL
(lipoproteina ad alta densità) e LDL (lipoproteina a bassa
densità) a due categorie differenti: una «buona» e una
«cattiva». Ho già accennato di sfuggita a queste due
etichette per il colesterolo. Al contrario di quello che
potreste pensare, però, non si tratta di due diversi tipi di
colesterolo: HDL e LDL rappresentano due contenitori
diversi di colesterolo e grassi, ciascuno dei quali svolge un
ruolo specifico nel corpo. Esistono anche altre
lipoproteine, come VLDL (a bassissima densità) e IDL (a
densità intermedia). Vi ho già anticipato che il colesterolo
– non importa di quale «tipo» – non è poi così terribile
come vi hanno insegnato a credere. Alcuni dei più
pregevoli studi recenti sul valore biologico del colesterolo,
in particolare in relazione alla salute del cervello,
spiegano come i pezzi di questo puzzle si incastrino
raccontando una storia coerente. Come abbiamo visto, gli
scienziati hanno da poco scoperto che il cervello malato
presenta una grave carenza di grassi e di colesterolo e che
livelli elevati di colesterolo totale sono associati in età
avanzata a una crescente longevità. 26 Il cervello
corrisponde solo al 2% della massa corporea, ma contiene
il 25% del colesterolo totale, che ne supporta funzione e
sviluppo. Un quinto del peso del cervello è costituito da
colesterolo!
Il colesterolo forma membrane che circondano le
cellule, le mantiene permeabili e nello stesso tempo
garantisce «l’impermeabilizzazione» cellulare,
133
consentendo a diverse reazioni chimiche di avere luogo
all’interno e all’esterno della cellula. Abbiamo stabilito
che la capacità di sviluppare nuove sinapsi nel cervello
dipende dalla disponibilità del colesterolo, che collega le
membrane cellulari tra loro in modo che i segnali possano
attraversare con facilità la sinapsi. È inoltre una
componente cruciale nel rivestimento mielinico intorno al
neurone, che consente la rapida trasmissione delle
informazioni. Un neurone che non riesce a trasmettere
messaggi è inutile, e la sola cosa sensata è metterlo da
parte come scarto: i suoi resti sono il segno caratteristico
delle malattie del cervello. In sostanza, il colesterolo
agisce come un fattore che agevola la comunicazione del
cervello e il suo corretto funzionamento.
Nel cervello il colesterolo è utile anche come potente
antiossidante, perché protegge quest’organo dagli effetti
dannosi dei radicali liberi. Il colesterolo è il battistrada
degli ormoni steroidei come estrogeni e androgeni,
nonché della vitamina D, un antiossidante liposolubile di
importanza cruciale. La vitamina D è anche un potente
antinfiammatorio, che aiuta il corpo a eliminare agenti
infettivi che possono portare a malattie anche fatali. La
vitamina D non è propriamente una vitamina, e agisce nel
corpo più che altro come uno steroide o un ormone.
Essendo prodotta direttamente dal colesterolo, non vi
sorprenderà apprendere che i livelli di vitamina D sono
bassi nelle persone colpite da varie malattie
neurodegenerative come Parkinson, Alzheimer e sclerosi
multipla. In genere, i livelli di colesterolo naturale
aumentano con l’età. Questo è un fatto positivo, perché
con l’età aumenta anche la produzione dei radicali liberi,
contro i quali il colesterolo può offrire un certo livello di
protezione.
A prescindere dal cervello, il colesterolo svolge altre
134
funzioni vitali nella salute e nella fisiologia umana. Sono
costituiti da colesterolo i sali biliari secreti dalla cistifellea,
necessari per la digestione del grasso e pertanto per
l’assorbimento di vitamine liposolubili come la A, la D e
la K. Un livello basso di colesterolo comprometterebbe
perciò la capacità di una persona di digerire i grassi, e
metterebbe a repentaglio anche il delicato equilibrio
elettrolitico del corpo, che il colesterolo contribuisce a
regolare. In effetti, è ritenuto dal corpo un collaboratore
così importante che ogni cellula ha modo di farne
provvista.
Qual è il significato di tutto questo in rapporto alla
dieta? Per anni ci è stato detto di concentrarci su alimenti
«a basso contenuto di colesterolo», ma gli alimenti ricchi
di colesterolo, come per esempio le uova, sono molto utili
e andrebbero considerati «cibo per il cervello». Abbiamo
consumato alimenti ricchi di colesterolo per oltre due
milioni di anni. Come ormai sapete, i veri responsabili,
quando si parla di alterazione della salute e della funzione
cerebrale, sono gli alimenti ad alto indice glicemico,
ovvero ricchi di carboidrati.
Uno dei miti più radicati che non mi stanco mai di
sfatare è l’idea che il cervello preferisca bruciare glucosio.
Anche questo non potrebbe essere più lontano dalla
verità. Il cervello fa un ottimo uso del grasso: lo considera
un «supercombustibile». Per questo usiamo come terapia
per ogni sorta di malattia neurodegenerativa una dieta a
base di grassi (nel capitolo VII descriverò in dettaglio in
quale modo il cervello accede ai grassi come combustibile
e cosa significhi questo per la salute e ai fini della
realizzazione di una perfetta dieta su misura).
Se mi concentro sui grassi, e sul colesterolo in
particolare, non è solo per la stretta relazione tra queste
componenti e la salute del cervello, ma anche perché
135
viviamo in una società che continua a demonizzarli; e la
grande industria farmaceutica sfrutta la disinformazione
del pubblico e perpetua falsità, molte delle quali
potrebbero distruggere il nostro fisico. Per spiegarmi
meglio, affronterò un esempio problematico: l’epidemia
delle statine.
136
L’epidemia delle statine e la disfunzione
cerebrale
Avendo compreso l’importanza cruciale del colesterolo
per la salute del cervello, siamo in molti, nel mio campo, a
credere che le statine – farmaci molto richiesti, prescritti a
milioni di americani per abbassare il colesterolo – possano
causare o esacerbare disturbi e malattie del cervello.
Un noto effetto collaterale delle statine è la disfunzione
della memoria. Duane Graveline, ex dottore degli
astronauti della NASA che si è guadagnato il soprannome
Spacedoc (dottore dello spazio), è un convinto oppositore
delle statine. Dopo avere sperimentato una perdita totale
della memoria, provocata, a suo avviso, dalle statine che
assumeva all’epoca, ha raccolto prove dei loro effetti
collaterali da persone di tutto il mondo. Oggi ha scritto tre
libri sull’argomento, il più famoso dei quali è Lipitor, Thief
of Memory (Il Lipitor, ladro della memoria). 27
Nel febbraio del 2012, la FDA ha rilasciato una
dichiarazione in cui si segnalava che le statine potevano
provocare effetti collaterali cognitivi, come per esempio
deficit di memoria e confusione. Uno studio eseguito dalla
American Medical Association e pubblicato su «Archives
of Internal Medicine» nel gennaio del 2012 aveva
evidenziato uno sbalorditivo aumento del 48% del rischio
di diabete fra le donne che assumono statine. 28
137
Adattamento da A.L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus in
Postmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, in «Archives of Internal
Medicine», CLXXII, 2, 2012, pp.144-52.
138
possono provocare l’Alzheimer. 29 In questo lavoro espone
ciò che sappiamo degli effetti collaterali delle statine e
dipinge un quadro scioccante di come il cervello soffra in
loro presenza. Riassume inoltre gli ultimi dati scientifici e
i contributi di altri esperti del settore, spiegando che una
delle principali ragioni per cui le statine favoriscono i
disturbi cerebrali è il fatto che limitano la capacità del
fegato di produrre colesterolo. Di conseguenza, il livello
di LDL nel sangue cala in modo significativo. Come ho
appena illustrato in dettaglio, il colesterolo svolge un
ruolo vitale nel cervello, permettendo la comunicazione
tra neuroni e incoraggiando la crescita di nuove cellule
cerebrali. Ironia della sorte, l’industria delle statine
reclamizza i suoi prodotti dicendo proprio che
interferiscono con la produzione di colesterolo nel
cervello e nel fegato.
Il professore di biofisica dell’Iowa State University
Yeon-Kyun Shin è un’autorità per quanto riguarda il
funzionamento del colesterolo all’interno delle reti neurali
per la trasmissione di messaggi. In un’intervista su
«ScienceDaily» il celebre scienziato ha spiegato senza
mezzi termini:
139
forma delle proteine stimolando pensiero e memoria. 30
140
leggerete dell’importanza di incrementare la produzione
naturale di antiossidanti nel corpo).
Un altro modo in cui le statine possono contribuire
all’Alzheimer, descritto alla perfezione dalla dott.ssa
Seneff, 34 è paralizzando la capacità delle cellule di
produrre il coenzima Q10, una sostanza vitamino-simile
che si trova in tutto il corpo e svolge un ruolo importante
come antiossidante e nella produzione di energia per le
cellule. Poiché il coenzima Q10 condivide la stessa via
metabolica del colesterolo, la sua sintesi è disturbata dalle
statine e il corpo e il cervello sono privati di questa
sostanza. Alcuni degli effetti collaterali elencati per le
statine, come spossatezza, fiato corto, problemi di
mobilità e di equilibrio, dolore muscolare, debolezza e
atrofia sono legati alla perdita di coQ10 nei muscoli e a
una ridotta capacità di produrre energia. Nei casi estremi,
i soggetti che sperimentano reazioni forti alle statine
soffrono di gravi danni ai muscoli scheletrici. Una carenza
di coQ10 è stata collegata anche a insufficienza cardiaca,
ipertensione e morbo di Parkinson. Non riesce quindi
difficile capire perché il coQ10 è stato proposto come vera
e propria terapia per il morbo di Alzheimer.
Infine, le statine potrebbero avere un effetto indiretto
sulla vitamina D. Il corpo produce la vitamina D dal
colesterolo presente nella pelle quando viene esposta ai
raggi UV del sole. Se doveste esaminare la formula
chimica della vitamina D, fareste fatica a distinguerla da
quella del colesterolo: sembrano identiche. «Se i livelli di
LDL vengono mantenuti bassi in modo artificiale», scrive
Stephanie Seneff, «il corpo sarà incapace di procurare
quantità adeguate di colesterolo per riempire di nuovo i
depositi nella pelle una volta che siano stati svuotati. Ne
risulterebbe una carenza di vitamina D, un problema
141
diffuso in America». 35 La carenza di vitamina D non
riguarda solo un aumento del rischio di ossa deboli e
molli, e, in caso estremo, di rachitismo; essa è associata a
molte malattie che aumentano il pericolo di demenza,
come diabete, depressione e malattie cardiovascolari. Se il
cervello non necessitasse di vitamina D per un corretto
sviluppo e funzionamento, non disporrebbe di appositi
recettori diffusi.
I benefici delle statine sono discutibili, e importanti
ricerche non sono riuscite a dimostrare che proteggano il
corpo da malattie. Anche se numerosi studi indicano i
loro effetti positivi nel ridurre i tassi di mortalità nelle
persone che soffrono di cardiopatia coronarica, nuove
ricerche rivelano che questi esiti hanno poco a che vedere
con la riduzione del colesterolo indotta da questi farmaci:
più probabilmente riflettono il fatto che riducono
l’infiammazione, una delle principali cause di questa
malattia. Ciò non vuol dire tuttavia che i compromessi per
l’assunzione di una statina meritino un benestare. Per
alcuni, la minaccia di effetti collaterali negativi è troppo
grande. Per le persone a basso rischio di malattie
cardiache ma ad alto rischio di altri disturbi scegliere di
assumere una statina equivarrebbe a esporsi a un
pericolo.
Alcuni studi che risalgono alla metà degli anni
Novanta indicano un collegamento tra l’uso delle statine e
un aumento del rischio di determinati tumori, per non
parlare di un lungo elenco di effetti collaterali: difficoltà
digestive, asma, impotenza, infiammazione del pancreas e
danni al fegato. 36 Da un esperimento pubblicato nel
gennaio 2010 sull’«American Journal of Cardiology»
risultò che i farmaci contenenti statine aumentavano il
rischio di morte. In Israele un gruppo di ricercatori seguì
quasi 300 adulti con diagnosi di insufficienza cardiaca per
142
una media di 3,7 anni, e in alcuni casi fino a 11,5 anni. I
tassi di mortalità più elevati furono riscontrati nei soggetti
che assumevano statine e avevano i livelli più bassi di
lipoproteina a bassa densità (LDL ). Per contro, il rischio di
decesso risultò inferiore per le persone con i livelli di
colesterolo più elevati. 37
143
Come i carboidrati (e non il colesterolo)
causano il colesterolo alto
Se riuscite a limitare il consumo di carboidrati allo stretto
necessario (per i dettagli consultate il capitolo X) e
compensate la differenza con deliziosi grassi e proteine,
potete letteralmente riprogrammare i vostri geni tornando
alle «impostazioni di fabbrica» che avevate alla nascita: le
stesse che vi permettono di essere una macchina dalla
mente acuta, che funziona bruciando grassi.
È importante comprendere che nell’esame del
colesterolo ematico il valore indicato è in realtà derivato
per il 75-80% da ciò che il vostro corpo produce e non
necessariamente da ciò che avete mangiato. In realtà, gli
alimenti ad alto contenuto di colesterolo riducono la
produzione di colesterolo del corpo. Noi tutti produciamo
fino a 2000 grammi di colesterolo al giorno perché ne
abbiamo un disperato bisogno, e si tratta della quantità
che si trova nelle nostre diete moltiplicata per diverse
volte. Nonostante questa straordinaria capacità, però, è
fondamentale ottenere il colesterolo anche da fonti
alimentari. I nostri corpi preferiscono di gran lunga essere
«imboccati» con colesterolo ricavato dai cibi che
consumiamo invece che produrlo al loro interno,
attraverso un complesso processo biologico in più fasi che
mette a dura prova il fegato. Il colesterolo alimentare è
così importante che il corpo ne assorbe il più possibile per
utilizzarlo.
Cosa succede quindi se limitate il vostro consumo di
colesterolo come fanno oggigiorno tante persone? Il corpo
invia un allarme che indica crisi (carestia). Il fegato
144
avverte questo segnale e inizia a produrre un enzima (lo
stesso che viene preso di mira dalle statine) chiamato
HMG-CoA reduttasi, che contribuisce a compensare il
deficit utilizzando i carboidrati nella dieta per produrre
un surplus di colesterolo. Come forse potrete prevedere, si
tratta di un cocktail esplosivo: consumando carboidrati in
eccesso mentre riducete il consumo di colesterolo,
stimolate una costante e punitiva sovrapproduzione di
colesterolo nel corpo. Il solo modo per arrestare questo
percorso interno fuori controllo è assicurarsi una quantità
adeguata di colesterolo alimentare e ridurre in modo
drastico i carboidrati. Per questo i miei pazienti con il
«colesterolo alto» che iniziano a seguire la mia dieta
possono tornare in tutta tranquillità ai valori normali
senza bisogno di farmaci e godendosi alimenti ricchi di
colesterolo.
145
ESISTE UN «COLESTEROLO ALTO» PERICOLOSO?
Nella cardiopatia coronarica il colesterolo è al massimo un elemento
secondario e rappresenta un cattivo predittore del rischio di infarto. Oltre
la metà dei pazienti ricoverati in ospedale con un infarto hanno livelli di
colesterolo compresi nel range «normale». L’idea che abbassare in modo
aggressivo i livelli di colesterolo ridurrà, come per magia, in maniera
sensibile il rischio di infarto è ormai stata confutata in modo categorico ed
esaustivo. I principali fattori di rischio modificabili in relazione all’infarto
includono fumo, consumo eccessivo di alcol, mancanza di esercizio
aerobico, sovrappeso e una dieta ad alto contenuto di carboidrati.
Quando vedo pazienti con livelli di colesterolo pari, per esempio, a 240
mg/dl o superiori, è quasi scontato che il loro medico generico gli abbia
prescritto un farmaco per abbassare il colesterolo. È sbagliato sia sul
piano teorico sia su quello pratico. Come ho spiegato, il colesterolo è una
delle sostanze chimiche vitali nella fisiologia umana, soprattutto per
quanto riguarda la salute del cervello. Il migliore esame cui fare
riferimento per stabilire il proprio stato di salute è l’emoglobina A1C, non il
livello di colesterolo. Raramente, per non dire mai, è corretto considerare
il solo colesterolo alto una minaccia significativa per la salute.
146
prescritta una medicina per ridurlo e vi si raccomandi di
seguire una dieta povera di grassi.
147
Disfunzione sessuale: è tutto nella vostra
testa
Va bene. Dunque il colesterolo è una buona cosa. Ma non
si tratta solo dell’acutezza del vostro cervello, di salute
fisica e di futura longevità. Si tratta anche di una parte
molto importante del vostro stile di vita che di norma
viene passata sotto silenzio nei testi seri sulla salute. Sto
parlando della vostra vita sessuale. Quanto è vivace?
Pur essendo un neurologo, curo un certo numero di
persone che soffrono di disfunzione sessuale: o sono
impotenti ed evitano del tutto il sesso, o accumulano
boccette di pillole per rimediare. Conoscerete queste
pillole: sono quelle pubblicizzate come caramelle nel
telegiornale della sera e promettono di trasformare la
vostra vita sessuale. I miei pazienti con problemi di salute
nella sfera sessuale non vengono certo da me per questo
motivo in particolare, ma è un problema che emerge
quando li interrogo su quella parte della loro vita, oltre
alle questioni neurologiche che sto affrontando.
Un breve aneddoto. Un ingegnere di settantacinque
anni venne da me lamentando una serie di problemi,
comprese insonnia e depressione. Prendeva sonniferi da
quarant’anni e nei due o tre mesi precedenti al nostro
appuntamento la sua depressione era peggiorata. Quando
lo visitai, assumeva alcuni farmaci: un antidepressivo, un
ansiolitico e il Viagra per la disfunzione erettile. Per prima
cosa lo sottoposi all’esame per la sensibilità al glutine e
scoprii, con sua grande sorpresa, che risultava positivo.
Accettò di adottare una dieta senza glutine e ad alto
contenuto di grassi. Quando ci risentimmo per telefono,
148
dopo circa un mese, mi diede una notizia magnifica: la
sua depressione era migliorata e non aveva più bisogno di
assumere Viagra per avere rapporti sessuali con sua
moglie. Mi ringraziò molto.
Il sesso è del tutto connesso a ciò che avviene nel
cervello, su questo il consenso è pressoché unanime. Si
tratta di un atto profondamente legato a emozioni,
impulsi e pensieri, ma anche, in maniera inesorabile, agli
ormoni e alla struttura chimica del sangue. Senza dubbio,
se siete depressi e non dormite bene, come il mio paziente
ingegnere, il sesso è l’ultimo dei vostri pensieri. Tuttavia,
una delle cause più comuni dell’impotenza non è uno di
questi due disturbi, bensì ciò di cui abbiamo parlato in
buona parte di questo capitolo: bassissimi livelli di
colesterolo. Finora gli studi hanno corroborato questa
teoria: se non avete sani livelli di testosterone (e vale sia
per gli uomini sia per le donne), non avrete una vita
sessuale piccante. E da cosa è costituito il testosterone?
Colesterolo. E cosa fanno oggi milioni di americani?
Abbassano i loro livelli di colesterolo attraverso la dieta
e/o l’assunzione di statine, riducendo al tempo stesso
libido e capacità di prestazione. Deve forse stupire che vi
sia un’epidemia di disfunzione erettile (ED , Erectile
Dysfunction) e la richiesta di appositi farmaci, per non
parlare (ironia della sorte, forse) della terapia sostitutiva
del testosterone?
Questi nessi sono stati confermati da numerosi studi. 38
Il calo della libido è uno dei sintomi più diffusi lamentati
da coloro che assumono statine, e gli esami di laboratorio
hanno rilevato a più riprese un basso livello di
testosterone nei consumatori di statine. 39 Chi le assume ha
il doppio delle probabilità di avere livelli bassi di
testosterone. Per fortuna questo disturbo è reversibile,
149
basta smettere di assumere la statina e aumentare il
consumo di colesterolo. Le statine possono ridurre il
testosterone in due modi: abbassando direttamente i
livelli di colesterolo e interferendo con gli enzimi che
producono testosterone attivo.
Uno studio pubblicato nel Regno Unito nel 2010 prese
in considerazione 930 uomini affetti da cardiopatia
coronarica e ne misurò i livelli di testosterone. 40 Nel 24%
dei pazienti fu riscontrato un livello basso e un 21% di
rischio di morte, ben diverso dal 12% dei soggetti con un
livello normale. La conclusione era sotto i loro occhi: se si
ha una cardiopatia coronarica e il testosterone basso, il
rischio di morte sarà molto più elevato. In sintesi,
somministriamo farmaci contenenti statine per ridurre il
colesterolo e questo abbassa il testosterone… e abbassare
il testosterone aumenta il rischio di morire. Non è una
follia?
Non ho altro da aggiungere.
150
La dolce verità
In questo capitolo ho trattato molti argomenti,
occupandomi soprattutto del ruolo dei grassi nel cervello.
A questo punto, però, dobbiamo porci la seguente
domanda: cosa succede invece quando inondiamo il
cervello di zucchero? Ho iniziato questo capitolo
elencando gli effetti negativi dei carboidrati sul nostro
corpo, ma ho tenuto in serbo per un capitolo a parte il
discorso su questo carboidrato particolarmente
devastante. Purtroppo si tratta di un tema che ha ricevuto
davvero scarsa attenzione dalla stampa: sentiamo parlare
sempre più spesso del rapporto tra zucchero e diabesity
(l’accoppiata diabete e obesità), zucchero e cardiopatia,
zucchero e fegato grasso, zucchero e sindrome metabolica,
zucchero e rischio di tumore… ma di zucchero e
disfunzione cerebrale? È tempo di osservare da vicino il
cervello sotto gli effetti dello zucchero.
151
Capitolo IV
152
Un’unione infruttuosa
Questo è il vostro cervello sotto l’effetto dello zucchero (naturale
e non)
153
direzione della comprensione dei suoi effetti sul nostro
corpo. In particolare, presentava il lavoro di Robert
Lustig, specialista in disturbi ormonali pediatrici e
principale esperto di obesità infantile alla University of
California School of Medicine di San Francisco, convinto
che lo zucchero sia una «tossina» o un «veleno». Lustig
non insiste molto sul consumo di queste cosiddette
«calorie vuote»: a suo avviso il problema è che lo zucchero
ha caratteristiche uniche, soprattutto per il modo in cui i
vari tipi di zucchero vengono metabolizzati dal corpo
umano.
Quando descrive la differenza tra il glucosio puro – la
forma più semplice di zucchero – e lo zucchero da tavola –
che è una combinazione di glucosio e fruttosio –, Lustig
ama usare l’espressione «isocalorico ma non
isometabolico». (Il fruttosio, al quale mi dedicherò tra un
momento, è un tipo di zucchero che si trova in natura
soltanto nella frutta e nel miele.) Quando assumiamo 100
calorie di glucosio mangiando una patata, per esempio, il
nostro corpo le metabolizza in maniera differente rispetto
a 100 calorie di zucchero costituito per metà da glucosio e
per metà da fruttosio, e sperimenta effetti differenti.
Vediamo perché.
È il fegato a occuparsi della componente di fruttosio
dello zucchero. Il glucosio ricavato da altri carboidrati e
amidi, invece, viene elaborato da ogni cellula del corpo.
Perciò, consumando nello stesso tempo entrambi i tipi di
zucchero (fruttosio e glucosio), il fegato dovrà fare più
fatica che se assumessimo lo stesso numero di calorie di
solo glucosio. E sarà messo a dura prova anche dalle
forme liquide di questi zuccheri, quelle che si trovano
nelle bibite o nei succhi di frutta: bere zucchero liquido
non è la stessa cosa che mangiare, per ipotesi, una dose
equivalente di zucchero tramite mele. Il fruttosio è il più
154
dolce di tutti i carboidrati presenti in natura e questo forse
spiega perché lo amiamo tanto; al contrario di ciò che
potreste pensare, tuttavia, ha l’indice glicemico più basso
di tutti gli zuccheri naturali. La ragione è semplice: poiché
il fegato metabolizza gran parte del fruttosio, esso non ha
alcun effetto immediato sui livelli di glicemia e di insulina
nel sangue, a differenza dello zucchero o dello sciroppo di
mais ad alto contenuto di fruttosio, il cui glucosio finisce
subito in circolazione, aumentando i livelli glicemici nel
sangue. Non lasciatevi ingannare, però: anche se può non
avere un effetto immediato, il fruttosio ha effetti più a
lungo termine se viene consumato in determinate quantità
da fonti non naturali. E la documentazione scientifica non
manca: il consumo di fruttosio è associato a ridotta
tolleranza al glucosio, insulinoresistenza, elevati livelli
ematici di lipidi e ipertensione. E poiché non dà luogo alla
produzione di insulina e leptina, due ormoni chiave nella
regolazione del nostro metabolismo, le diete ad alto
contenuto di fruttosio portano all’obesità e alle rispettive
conseguenze sul metabolismo. (Più avanti chiarirò che
cosa questo comporti per coloro che amano molto la
frutta. In generale, per fortuna, potete mangiarne quanta
ne volete: la quantità di fruttosio nella maggior parte della
frutta fresca impallidisce in confronto ai livelli di fruttosio
contenuti negli alimenti industriali.)
Sentiamo parlare dello zucchero e dei suoi effetti in
pratica su ogni parte del corpo, eccetto quelli sul cervello.
Anche questo è un argomento cui la stampa ha dedicato
scarsa attenzione. Le domande da porre, e alle quali darò
risposta in questo capitolo, sono:
155
zucchero? «Metabolizza» lo zucchero in modo
differente a seconda della sua provenienza?
156
L’ABC di zucchero e carboidrati
Permettetemi di partire dalla definizione di alcuni
termini. Qual è, con precisione, la differenza tra zucchero
da tavola, zucchero della frutta, sciroppo di mais ad alto
contenuto di fruttosio e simili? Bella domanda. Come ho
già detto, il fruttosio è un tipo di zucchero che si trova in
natura nella frutta e nel miele. È un monosaccaride,
proprio come il glucosio, mentre lo zucchero da tavola (o
saccarosio, ossia i cristalli bianchi che versiamo nel caffè o
mettiamo nell’impasto per i biscotti) è una combinazione
di glucosio e fruttosio, cioè un disaccaride (due molecole
legate tra loro). Lo sciroppo di mais ad alto contenuto di
fruttosio, che è quello che troviamo nelle nostre bibite, nei
succhi e in molti cibi confezionati, è un’altra
combinazione di molecole dominata dal fruttosio (55%
fruttosio, 42% glucosio e 3% altri carboidrati).
Lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio fu
introdotto nel 1978 come sostituto economico dello
zucchero da tavola in bevande e prodotti alimentari.
Senza dubbio ne avrete sentito parlare dai mass media,
che hanno attaccato questo ingrediente prodotto in
maniera artificiale considerandolo la causa alla radice
della nostra epidemia di obesità. Ma il problema è un
altro. Sebbene sia vero che possiamo attribuire al nostro
consumo di sciroppo di mais ad alto contenuto di
fruttosio la colpa dei nostri straripanti girovita e delle
diagnosi di malattie correlate come l’obesità e il diabete,
possiamo puntare il dito anche contro gli altri zuccheri,
poiché sono tutti carboidrati, una classe di biomolecole
che condividono caratteristiche analoghe. I carboidrati
157
sono solo lunghe catene di molecole di zucchero, diverse
dai lipidi (catene di acidi grassi), dalle proteine (catene di
amminoacidi) e dal DNA . Sapete già che non tutti i
carboidrati sono uguali e che non sono trattati dal corpo
nella stessa maniera. La caratteristica che li differenzia è la
misura in cui un determinato carboidrato farà aumentare
nel sangue il livello della glicemia, e quindi anche
dell’insulina. I pasti a più alto contenuto di carboidrati, e
soprattutto di glucosio semplice, inducono il pancreas a
incrementare la produzione di insulina per depositare il
glucosio ematico nelle cellule. Nel corso della digestione, i
carboidrati vengono scissi e altro zucchero liberato nel
flusso sanguigno induce di nuovo il pancreas a
incrementare la produzione di insulina in modo che il
glucosio possa penetrare nelle cellule. Col tempo, i livelli
di glucosio ematico più elevati causeranno una
produzione sempre maggiore di insulina da parte del
pancreas.
I carboidrati che provocano la maggiore impennata
della glicemia sono di solito quelli che, proprio per questa
ragione, fanno ingrassare di più. Essi includono qualsiasi
prodotto preparato con farina raffinata (pane, cereali,
pasta), amidi (riso, patate e mais) e carboidrati liquidi
(bibite, birra e succo di frutta). La loro digestione è rapida
perché inondano il flusso sanguigno di glucosio
stimolando un’impennata di insulina e il deposito delle
calorie in eccesso sotto forma di grasso. E i carboidrati
contenuti in un ortaggio? Quelli, soprattutto se degli
ortaggi a foglia verde come broccoli e spinaci, sono legati
a fibre indigeribili, perciò richiedono una digestione più
lenta. In sostanza, la fibra rallenta il processo, provocando
un passaggio più lento del glucosio nel flusso sanguigno.
Inoltre, in rapporto al loro peso, le verdure contengono
158
più acqua che amidi, il che mitiga ancor più la risposta
glicemica. Anche quando mangiamo la frutta, che
ovviamente contiene zucchero, l’acqua e la fibra ne
«diluiranno» l’effetto nel sangue. Se per esempio
prendiamo una pesca e una patata bollita di uguale peso,
la patata avrà un effetto assai maggiore sulla glicemia
rispetto alla pesca, ricca di acqua e di fibra. Ciò non vuol
dire che la pesca, o qualunque altro frutto, non causerà
alcun problema. 4
I nostri antenati delle caverne mangiavano frutta, ma
non tutti i giorni dell’anno. Non siamo ancora evoluti al
punto di riuscire a far fronte alle grandi quantità di
fruttosio che consumiamo oggi, soprattutto quando lo
ricaviamo da fonti industriali. La frutta ha un contenuto
piuttosto basso di zucchero in confronto, per esempio, a
una lattina di una normale bibita. Una mela di medie
dimensioni contiene circa 44 calorie di zucchero in una
miscela ricca di fibre grazie alla presenza di pectina; per
contro, una lattina da 360 ml di Coca-Cola o di Pepsi ne
ha quasi il doppio: 80 calorie di zucchero. Se estraete il
succo di diverse mele e lo concentrate in una bibita da 360
ml (perdendo così la fibra), ecco che otterrete ben 85
calorie di zucchero, che potrebbero provenire, alla stessa
stregua, da una bibita qualsiasi. Quando quel fruttosio
arriva al fegato, viene in gran parte trasformato in grasso
e inviato alle nostre cellule adipose. Non per nulla più di
quarant’anni fa i biochimici definirono il fruttosio il
carboidrato più ingrassante. Quando il nostro corpo si
abitua a eseguire questa semplice conversione a ogni
pasto, possiamo cadere in una trappola in cui anche il
tessuto dei nostri muscoli diventa resistente all’insulina.
Gary Taubes descrive in modo brillante questo effetto
domino in Perché si diventa grassi:
159
Quindi, anche se il fruttosio non ha effetti immediati sulla glicemia e
sull’insulina, nel corso del tempo, magari alcuni anni, è una
probabile causa di insulinoresistenza, e quindi dell’aumentato
accumulo di calorie sotto forma di grasso. Anche se non sarà stato
così fin dall’inizio, la lancetta del nostro indicatore di distribuzione
del carburante finirà con l’orientarsi verso l’accumulo di grasso. 5
160
Il rintocco funebre nel diabete
Non potrò mai ribadire a sufficienza quanto sia
importante non imboccare la strada che porta al diabete. E
se il diabete è una carta che avete già in mano, è
fondamentale mantenere un buon equilibrio glicemico.
Negli Stati Uniti sono quasi 11 milioni gli adulti dai
sessantacinque anni in su colpiti da diabete di tipo 2, il
che la dice lunga sull’entità della catastrofe che ci aspetta
se tutte queste persone – più quelle che ancora non hanno
ricevuto una diagnosi ufficiale – svilupperanno
l’Alzheimer. I dati che supportano il nesso tra diabete e
morbo di Alzheimer sono di notevole misura, ma è
importante capire che il diabete rappresenta un potente
fattore di rischio per il semplice declino cognitivo; ciò vale
soprattutto nei casi in cui non viene tenuto bene sotto
controllo. Esempio emblematico: nel giugno del 2012,
«Archives of Neurology» pubblicò un’analisi su 3069
anziani per stabilire se il diabete aumentasse il rischio di
deterioramento cognitivo e se uno scarso controllo della
glicemia fosse legato a un peggioramento delle
prestazioni cognitive. 7 A una prima valutazione, circa il
23% dei partecipanti aveva il diabete, al contrario del
restante 77% (i ricercatori scelsero di proposito un
«gruppo eterogeneo di anziani attivi»). Tuttavia, una
piccola percentuale di quel 77% sviluppò il diabete nel
corso dei nove anni dello studio. All’inizio venne eseguita
una serie di test cognitivi, ripetuta poi nei nove anni
successivi.
Nella conclusione si specificava: «Negli anziani attivi, il
DM [diabete mellito] e uno scarso controllo del glucosio
161
dei soggetti diabetici sono associati a una funzione
cognitiva peggiore e a un maggior declino. Questo
suggerisce che la gravità del DM può contribuire a
un’accelerazione dell’invecchiamento cognitivo». I
ricercatori dimostrarono una differenza abbastanza netta
nella percentuale di declino mentale fra diabetici e non
diabetici. Inoltre, fatto ancora più interessante, notarono
che già all’inizio dello studio i punteggi cognitivi di
riferimento dei diabetici erano inferiori a quelli degli altri
soggetti campione. Lo studio individuò altresì un
rapporto diretto tra la percentuale di declino cognitivo e
livelli più elevati di emoglobina A1C, un marcatore del
controllo della glicemia nel sangue. Gli autori precisarono:
«L’iperglicemia (glicemia elevata) è stata proposta come
meccanismo che potrebbe contribuire all’associazione tra
diabete e ridotta funzione cognitiva». E aggiunsero poi
che «l’iperglicemia potrebbe contribuire al deterioramento
cognitivo attraverso meccanismi come la formazione di
prodotti finali di glicazione avanzata, l’infiammazione e la
patologia microvascolare».
Prima di arrivare a spiegare cosa sono i prodotti finali
della glicazione avanzata e come si formano, passiamo a
un altro studio effettuato in precedenza, nel 2008.
Pubblicato su «Archives of Neurology», questa indagine
della Mayo Clinic prendeva in esame gli effetti della
durata del diabete. In altre parole, si domandava se il
tempo trascorso dall’inizio della malattia incidesse sulla
gravità del declino cognitivo.
La risposta è sì, e i numeri sono scioccanti: secondo le
conclusioni della Mayo, se il diabete aveva inizio prima
dei sessantacinque anni il rischio di deterioramento
cognitivo lieve era superiore di un astronomico 220%. E
del 176% nei soggetti diabetici da dieci anni o più.
162
L’assunzione di insulina comportava un aumento del
rischio del 200%. Gli autori descrivevano un meccanismo
proposto per spiegare la connessione tra il persistere di
livelli glicemici elevati e il morbo di Alzheimer:
«incremento della produzione di prodotti finali di
glicazione avanzata». 8 Cosa sono di preciso questi
prodotti finali che ricorrono nella letteratura medica in
relazione al declino cognitivo e all’invecchiamento
accelerato? Li ho citati in breve nel capitolo precedente e
ne illustrerò l’importanza nella prossima parte.
163
La mucca pazza e molti indizi sui disturbi
neurologici
Ricordo l’isteria che dilagò nel globo verso la metà degli
anni Novanta, quando i timori per il morbo della mucca
pazza si diffusero in un lampo mentre in Gran Bretagna
cominciava a emergere la documentazione delle prove di
trasmissione della malattia dal bestiame agli esseri umani.
Nell’estate del 1996 Peter Hall, un ventenne vegetariano,
morì a causa della forma umana della malattia,
denominata variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob:
l’aveva contratta mangiando hamburger di manzo da
bambino. Poco tempo dopo furono confermati altri casi, e
diversi paesi, Stati Uniti compresi, cominciarono a vietare
le importazioni di manzo dalla Gran Bretagna. Perfino
McDonald’s sospese per un periodo la vendita di
hamburger in alcune zone, finché gli scienziati riuscirono
a scoprire le origini dell’epidemia e furono adottate
misure per estirpare il problema. Il morbo della mucca
pazza, chiamato anche encefalopatia spongiforme bovina,
è una rara malattia contagiosa dei bovini; il soprannome
viene dallo strano comportamento delle bestie malate.
Entrambe le forme, quella che colpisce gli animali e quella
che colpisce l’uomo, sono malattie da prioni, ossia causate
da proteine anomale che infliggono danni diffondendosi
in modo aggressivo da cellula a cellula.
Anche se di solito il morbo della mucca pazza non
viene classificato insieme alle classiche malattie
neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, di
Parkinson e di Lou Gehrig, tutte queste patologie hanno
una deformazione analoga nella struttura di proteine
164
necessarie per un funzionamento sano e normale
dell’organismo. È vero, Alzheimer, Parkinson e Gehrig
non sono trasmissibili alle persone come il morbo della
mucca pazza, ma nonostante questo presentano
caratteristiche analoghe, che gli scienziati hanno appena
cominciato a comprendere. E alla fine tutto è legato a
proteine deformate.
Così come ora sappiamo che dozzine di malattie
degenerative hanno in comune uno stato infiammatorio,
sappiamo anche che dozzine di quelle stesse malattie – fra
le altre il diabete di tipo 2, la cataratta, l’aterosclerosi,
l’enfisema e la demenza – hanno a che vedere con
proteine deformate. Ciò che rende tanto particolari le
malattie da prioni è la capacità di quelle proteine anomale
di compromettere la salute di altre cellule, trasformando
quelle normali in portatrici di danni cerebrali e demenza.
È un fenomeno simile al cancro, nel senso che una cellula
interferisce con la normale regolazione di un’altra
generando una nuova famiglia di cellule che non agiscono
più come sane. Lavorando sui topi in laboratorio, gli
scienziati stanno finalmente raccogliendo prove del fatto
che importanti malattie neurodegenerative seguono
schemi paralleli. 9
Le proteine sono tra le strutture più importanti: in
pratica formano e plasmano il corpo stesso, svolgendo
funzioni e agendo come interruttori generali per il nostro
manuale di funzionamento. Il nostro materiale genetico, o
DNA , codifica per le proteine, che vengono poi prodotte
come una serie di amminoacidi. Esse devono raggiungere
una forma tridimensionale per svolgere i loro compiti, per
esempio regolare i processi del corpo e proteggerlo da
infezioni. Le proteine assumono la loro conformazione
attraverso una speciale tecnica di ripiegamento; alla fine,
165
ogni proteina raggiunge una forma peculiare dalla quale
dipende la sua particolare funzione.
È ovvio che le proteine deformate non riescono, in
parte o del tutto, ad assolvere la loro funzione; e
purtroppo le proteine mutanti non possono essere
riparate. Se non si ripiegano in modo corretto assumendo
la giusta forma, nel migliore dei casi saranno inattive e nel
peggiore tossiche. Di solito le cellule dispongono di
meccanismi per distruggere le proteine deformate, ma
l’invecchiamento e altri fattori possono interferire con
questo processo. Quando una proteina tossica è capace di
indurre altre cellule a produrre ulteriori proteine
malformate, il risultato può essere disastroso: per questo
motivo molti scienziati oggi puntano a bloccare questa
diffusione da cellula a cellula, in modo da fermare il corso
di tali patologie.
Stanley Prusiner, il direttore dell’Institute for
Neurodegenerative Diseases (Istituto per le malattie
neurodegenerative) della University of California di San
Francisco, fu insignito del premio Nobel nel 1997 per
avere scoperto i prioni. Nel 2012, Prusiner lavorò insieme
a una équipe di ricercatori che pubblicò su «Proceedings
of the National Academy of Sciences» un saggio epocale
secondo cui la proteina beta-amiloide associata con
l’Alzheimer presenta caratteristiche simili a quelle dei
prioni. 10 Nel loro esperimento, riuscirono a seguire la
progressione della malattia iniettando la proteina beta-
amiloide in una parte del cervello dei topi e osservandone
gli effetti. Servendosi di una molecola luminosa, poterono
osservare il cervello dei topi che si illuminava a mano a
mano che la proteina incriminata si accumulava, una
catena di eventi deleteri analoga a ciò che accade nel
cervello colpito da Alzheimer.
Questa scoperta non offre indicazioni solo sui disturbi
166
cerebrali. Anche scienziati che si occupano di altre parti
del corpo hanno studiato l’impatto di queste proteine
dalla struttura alterata. In realtà, è possibile che le
proteine «impazzite» abbiano un ruolo in una serie di
patologie. Il diabete di tipo 2, per esempio, può essere
visto in quest’ottica se consideriamo il fatto che i diabetici
ospitano nel pancreas proteine anomale che possono
influire in maniera negativa sulla produzione di insulina
(e questo induce a chiedersi: la glicemia alta cronica
provoca questa deformazione?). Nell’aterosclerosi,
l’accumulo di colesterolo che caratterizza la malattia
potrebbe essere provocato dal ripiegamento non corretto
delle proteine. Nella cataratta, proteine «canaglia» si
accumulano nel cristallino. La fibrosi cistica, una malattia
ereditaria provocata da un difetto del DNA , è
caratterizzata da errato ripiegamento della proteina CFTR .
E perfino un tipo di enfisema deve la sua devastazione a
proteine anomale che si accumulano nel fegato e non
raggiungono mai i polmoni.
Ora che abbiamo stabilito che le proteine ribelli hanno
un ruolo nelle malattie, e soprattutto nella degenerazione
neurologica, la prossima domanda è: qual è la causa del
ripiegamento errato delle proteine? Nel caso della fibrosi
cistica la risposta è ben definita, perché abbiamo
identificato un difetto genetico specifico. Ma che dire di
altri disturbi che hanno origini misteriose o che non si
manifestano fino a un’età più avanzata? Torniamo ai
prodotti finiti della glicazione.
Glicazione è il termine biochimico che indica il legame
delle molecole di zucchero a proteine, grassi e
amminoacidi; la reazione spontanea che provoca il legame
della molecola di zucchero viene talvolta chiamata
reazione di Maillard. Louis Camille Maillard descrisse per
167
la prima volta questo processo nei primi anni del
Novecento. 11 Anche se presagì che questa reazione
avrebbe potuto avere un impatto importante sulla
medicina, i ricercatori non se ne servirono fino al 1980,
quando tentarono di capire le complicazioni del diabete e
l’invecchiamento.
Questo processo forma prodotti finali di glicazione
avanzata (di solito opportunamente abbreviati in AGE,
dall’inglese Advanced Glycation End-products), che rendono
deformi e rigide le fibre delle proteine. Per vedere gli AGE
in azione basta osservare una persona che stia
invecchiando in modo precoce, qualcuno con molte
rughe, tendenza a incurvarsi, alterazioni della
pigmentazione della pelle e perdita di radiosità in
rapporto all’età. Ciò che osservate è l’effetto fisico del
legame tra proteine e zuccheri traditori, il che spiega
perché gli AGE sono ormai considerati fattori chiave
nell’invecchiamento della pelle. 12 Oppure basta dare
un’occhiata a un fumatore incallito: l’ingiallimento della
pelle è un altro segno caratteristico della glicazione. Nella
pelle dei fumatori sono presenti meno antiossidanti e il
fumo stesso contribuisce ad aumentare il processo di
ossidazione. Queste persone non possono combattere i
sottoprodotti di processi normali come la glicazione
perché il potenziale antiossidante del loro organismo è
molto indebolito e in pratica sopraffatto dall’entità dei
danni. Per la maggior parte di noi, i segni esterni della
glicazione si manifestano tra i trenta e i quarant’anni,
quando abbiamo accumulato sufficienti alterazioni
ormonali e stress ossidativi ambientali, inclusi i danni
provocati dal sole.
La glicazione è una realtà inevitabile, proprio come, in
una certa misura, l’infiammazione e la produzione di
168
radicali liberi. È una conseguenza del nostro normale
metabolismo ed è fondamentale nel processo
dell’invecchiamento. Possiamo perfino misurarla
sfruttando la tecnologia che illumina i legami che si
formano tra zuccheri e proteine: i dermatologi infatti sono
esperti in questo processo e con l’analisi della carnagione
effettuata mediante gli apparecchi Visia riescono a
catturare la differenza tra gioventù e vecchiaia scattando
un’immagine fluorescente di bambini e confrontandola
con i volti di adulti. I volti dei bambini appariranno molto
scuri, indicando una mancanza di AGE , mentre quelli degli
adulti risplenderanno all’illuminarsi di tutti quei legami
di glicazione.
L’obiettivo è senza dubbio limitare o rallentare il
processo della glicazione. Molti programmi anti-
invecchiamento sono ormai imperniati sul modo di
ridurre la glicazione e perfino scindere questi legami
tossici. Ma ciò non può succedere se consumiamo una
dieta ad alto contenuto di carboidrati, che anzi accelera
l’intero processo. Gli zuccheri, in particolare, stimolano la
glicazione in quanto si legano con facilità alle proteine nel
corpo umano (e a questo proposito si tenga presente che
negli Stati Uniti la fonte numero uno delle calorie negli
alimenti è lo sciroppo di mais ad alto contenuto di
fruttosio, che decuplica la velocità di glicazione).
La glicazione ha almeno due effetti importanti sulle
proteine, che innanzitutto funzioneranno meno bene e
poi, una volta legate allo zucchero, tenderanno a aderire
ad altre proteine danneggiate in modo analogo, formando
collegamenti incrociati che inibiscono ulteriormente la
loro funzionalità. Il dato forse più importante, tuttavia, è
che una volta glicata la proteina dà luogo a un drastico
incremento nella produzione di radicali liberi. Questo
169
porta alla distruzione di tessuti, danneggiando lipidi, altre
proteine e perfino il DNA . La glicazione delle proteine è
insomma un fattore naturale del nostro metabolismo, ma
quando è eccessiva si presentano molti problemi. Livelli
elevati di glicazione sono stati associati non solo con il
declino cognitivo, ma anche con malattie ai reni, diabete,
malattie vascolari e, come accennato, con
l’invecchiamento. 13 Tenete a mente che qualsiasi proteina
nel corpo può essere danneggiata da glicazione e
diventare un AGE . Data la rilevanza di questo processo,
medici ricercatori di tutto il mondo sono impegnati nel
tentativo di sviluppare vari modi per ridurre la
formazione degli AGE con l’aiuto dei farmaci. Senza
dubbio, però, il modo migliore è ridurre in partenza la
disponibilità di zucchero.
Oltre a causare infiammazione e danni dovuti ai
radicali liberi, gli AGE sono associati a deterioramento dei
vasi sanguigni e si ritiene che spieghino la connessione tra
diabete e problemi vascolari. Come ho indicato nel
capitolo precedente, nei diabetici il rischio di cardiopatia
coronarica aumenta in maniera sensibile, così come il
rischio di ictus. Molti individui che soffrono di diabete
presentano danni importanti ai vasi sanguigni che
alimentano il cervello e, anche se possono non essere
malati di Alzheimer, possono soffrire di una demenza
provocata da questo problema di circolazione del sangue.
Ho spiegato in precedenza che l’LDL – il cosiddetto
colesterolo cattivo – è un’importante proteina vettrice che
procura colesterolo vitale alle cellule cerebrali. Solo
quando è ossidata danneggia i vasi sanguigni. E ora
comprendiamo che quando l’LDL è glicata (dopo tutto è
una proteina), la sua ossidazione aumenta in modo
drastico.
170
Il legame tra stress ossidativo e zucchero non sarà mai
ribadito a sufficienza. Quando le proteine sono glicate, la
quantità di radicali liberi formati aumenta di cinquanta
volte; la cellula smette di funzionare bene e alla fine
muore.
Ciò richiama la nostra attenzione sul forte nesso tra
produzione di radicali liberi, stress ossidativo e declino
cognitivo. Sappiamo che esiste un collegamento diretto tra
stress ossidativo e degenerazione del cervello. 14 Gli studi
mostrano che i danni da radicali liberi a lipidi, proteine,
DNA e RNA si verificano agli inizi del cammino verso il
deterioramento cognitivo e molto prima dei segni di gravi
disturbi neurologici come il morbo di Alzheimer, di
Parkinson e di Gehrig. È triste, ma quando viene
effettuata una diagnosi il danno è già fatto. In
conclusione, per ridurre lo stress ossidativo e l’azione dei
radicali liberi che danneggiano il cervello occorre ridurre
la glicazione delle proteine. Vale a dire, diminuire la
disponibilità di zucchero. Molto semplice.
Gran parte dei dottori sono soliti avvalersi della
misurazione di una proteina glicata che ho già
menzionato: l’emoglobina A1C. Si tratta dello stesso
esame standard di laboratorio utilizzato per valutare la
glicemia nel sangue nei soggetti diabetici. Così, anche se il
dottore può prescrivere questo test per verificare il
controllo della glicemia, il fatto che si tratti di una
proteina glicata ha vaste e notevoli implicazioni per la
salute del cervello. L’emoglobina A1C rappresenta più di
una semplice misura di controllo della glicemia media su
un periodo di 90-120 giorni.
L’emoglobina A1C è la proteina che si trova nei globuli
rossi che trasportano l’ossigeno e si legano al glucosio
ematico; con l’aumento della glicemia questo legame si
171
rafforza. Anche se non fornisce un’indicazione attimo per
attimo della glicemia, l’emoglobina A1C è di grande
utilità perché mostra quella che è stata la glicemia
«media» nei 90 giorni precedenti. Per questo essa viene
spesso utilizzata in studi che tentano di correlare il
controllo della glicemia a vari processi di malattie come
Alzheimer, deterioramento cognitivo lieve e cardiopatia
coronarica.
L’emoglobina glicata è un notevole fattore di rischio
per il diabete, e questo è ben documentato, ma è stata
anche messa in relazione al rischio di ictus, cardiopatia
coronarica e morte per altre patologie. Queste correlazioni
sono risultate evidenti quando il valore dell’emoglobina
A1C è superiore al 6,0%.
È stato riscontrato che livelli elevati di emoglobina A1C
sono associati a variazioni nelle dimensioni del cervello.
In uno studio approfondito pubblicato sulla rivista
«Neurology», alcuni ricercatori esaminarono le immagini
della risonanza magnetica per stabilire quale esame di
laboratorio fosse più correlato con l’atrofia cerebrale e
scoprirono che la corrispondenza più precisa si aveva con
l’emoglobina A1C. 15 Confrontando il grado della perdita
di tessuto cerebrale negli individui che registravano valori
di emoglobina A1C inferiori (da 4,4 a 5,2) con quello di
coloro che registravano valori più elevati (da 5,9 a 9,0), la
perdita di tessuto cerebrale di questi ultimi era quasi
raddoppiata nell’arco di sei anni. L’emoglobina A1C è
dunque ben più di un mero marcatore dell’equilibrio
glicemico. Ed è in tutto e per tutto sotto il vostro controllo!
172
Adattamento da C. Enzinger et al., Risk Factors for Progression of Brain Atrophy
in Aging. Six-year Follow-up of Normal Subjects, in «Neurology», LXIV, 24
maggio 2005, pp. 1704-11.
173
un cattivo metabolismo del glucosio è stato definito un
fattore di rischio per lo sviluppo della depressione. In
definitiva, la glicazione delle proteine è una brutta notizia
per il cervello.
174
Intervenire per tempo
Come ho già illustrato, i livelli glicemici nella norma
possono anche indicare che il pancreas sta facendo gli
straordinari per mantenere sotto controllo la glicemia. In
tal caso livelli elevati di insulina si presenteranno molto
prima di un aumento della glicemia e dell’insorgenza del
diabete. Per questo è così importante controllare non solo
la glicemia a digiuno, ma pure il livello dell’insulina a
digiuno. Se quest’ultimo è elevato, significa che il
pancreas si sta sforzando di normalizzare la glicemia. Ed è
un chiaro segnale che state consumando troppi
carboidrati. Non illudetevi: anche essere
insulinoresistente rappresenta un notevole fattore di
rischio per la degenerazione cerebrale e il deterioramento
cognitivo. Non basta esaminare i dati rilevanti per diabete
e malattie del cervello e sentirsi sicuri di avere ridotto il
rischio perché non siete diabetici. E se la glicemia risulta
normale, l’unico modo per sapere se siete
insulinoresistenti è controllare il livello di insulina a
digiuno. Punto e basta.
Servono ulteriori prove? Qualche anno fa fu eseguito
uno studio su 523 persone di età compresa tra i settanta e i
novant’anni che non avevano il diabete e neppure la
glicemia alta. 17 Molti di essi, tuttavia, erano
insulinoresistenti, come stabilito in base ai loro livelli di
insulina a digiuno. Lo studio rivelò che i soggetti
insulinoresistenti presentavano un notevole aumento del
rischio di deterioramento cognitivo rispetto a quelli che
registravano valori nella norma. Nel complesso, più il
livello di insulina era basso e meglio era. Negli Stati Uniti
175
il livello medio di insulina negli adulti è pari a circa 8,8
microunità internazionali per millilitro (µIU/mL) per gli
uomini e a 8,4 per le donne. Ma dato il grado di obesità e
abuso di carboidrati del paese, possiamo dire con
sicurezza che questi valori «medi» sono con ogni
probabilità assai più elevati di quanto si dovrebbe
considerare ideale. I pazienti molto attenti al loro
consumo di carboidrati potrebbero avere livelli di insulina
che risultano inferiori a 2,0. Questa è una situazione
ideale, un segno che il pancreas non è sovraffaticato, che il
controllo sulla glicemia è eccellente, il rischio di diabete è
assai basso e non vi è alcuna evidenza di
insulinoresistenza. L’importante è che un livello elevato di
insulina a digiuno – ossia qualsiasi valore superiore a 5,0
– può essere ridotto. Nel capitolo X vi mostrerò come
farlo.
176
Più siete grassi, più piccolo sarà il vostro
cervello
Quasi tutti sono consapevoli che scarrozzare chili in
eccesso non è salutare. Ma se aveste mai bisogno di una
ragione in più per liberarvi del peso superfluo, forse
contribuirà a motivarvi la paura di perdere la testa, in
senso fisico e letterale.
Quando studiavo per diventare dottore, si pensava che
le cellule adipose fossero innanzitutto contenitori in cui
masse indesiderate di calorie in eccesso potevano restare
silenziose in panchina. Era una prospettiva grossolana e
distorta. Oggi sappiamo che le cellule adipose non si
limitano a stoccare calorie; il loro coinvolgimento nella
fisiologia umana va ben al di là di questo. Le masse di
grasso corporeo formano organi ormonali complessi e
sofisticati tutt’altro che passivi. Avete letto bene: il grasso
è un organo. 18 E forse è uno dei più industriosi del corpo,
poiché ha numerose funzioni oltre a mantenerci al caldo e
protetti. Ciò vale in particolare per il grasso viscerale,
ovvero quello che avvolge i nostri organi interni,
«viscerali», come fegato, reni, pancreas, cuore e intestino.
Di recente, il grasso viscerale è stato oggetto di grande
attenzione mediatica: ora sappiamo che questo tipo è il
più devastante per la nostra salute. Forse ci lamentiamo di
avere cosce grandi, dell’«effetto tendina» delle braccia,
delle maniglie dell’amore, della cellulite e del sedere
grosso, ma il peggior tipo di grasso è quello che molti di
noi non possono neppure vedere, sentire o toccare. In casi
estremi lo vediamo nelle pance sporgenti e nei rotolini di
ciccia sui fianchi, segnali esterni di organi interni avvolti
177
nell’adipe (proprio per questa ragione, la circonferenza
addominale è spesso un parametro di «salute» usato per
prevedere future patologie e mortalità; a una
circonferenza addominale più elevata corrisponde un
maggior rischio di malattia e di morte). 19
È ben documentato che il grasso viscerale ha una
capacità unica di attivare reazioni infiammatorie e
molecole segnale che interrompono il normale corso delle
azioni ormonali. 20 Questo permette alla serie di effetti
negativi che produce di protrarsi. Inoltre, il grasso
viscerale non si limita a generare infiammazione tramite
una sequenza di eventi biologici: diventa esso stesso
infiammato. Esso ospita gruppi di globuli bianchi
infiammatori, e le molecole ormonali e infiammatorie
prodotte dal grasso viscerale vengono scaricate
direttamente nel fegato, che, come potete immaginare,
risponde con altre munizioni, per esempio reazioni
infiammatorie e sostanze che interferiscono con il sistema
ormonale. Per farla breve: più che un mero predatore in
agguato dietro un albero, si tratta di un nemico armato e
pericoloso. Il grasso viscerale viene ormai collegato a un
gran numero di disturbi, da quelli ovvi, come obesità e
sindrome metabolica, ai meno scontati: cancro, malattie
autoimmuni e patologie del cervello.
Alla luce delle informazioni che avete già acquisito da
questo libro non è difficile seguire la logica che collega
eccesso di grasso corporeo, obesità e disfunzione
cerebrale. L’eccesso di grasso corporeo provoca non solo
un aumento dell’insulinoresistenza, ma anche della
produzione di sostanze chimiche infiammatorie che
intervengono in modo diretto nella degenerazione del
cervello.
In uno studio del 2005 fu messo a confronto il rapporto
vita-fianchi di oltre 100 individui con le alterazioni
178
strutturali del loro cervello. 21 Lo studio esaminava anche
le alterazioni cerebrali in relazione ai livelli di glicemia e
di insulina a digiuno. Gli autori volevano stabilire se
esistesse un rapporto tra la struttura del cervello e le
dimensioni dell’addome, e i risultati furono
impressionanti. In sostanza, maggiore è il rapporto tra
vita e fianchi (vale a dire: più grande è la pancia), più
piccolo sarà il centro della memoria nel cervello,
l’ippocampo, che svolge un ruolo cruciale nella memoria.
Il suo funzionamento dipende dalle sue dimensioni,
dunque con la riduzione dell’ippocampo la memoria si
deteriora. Ancora più impressionante è la scoperta
secondo cui un rapporto più elevato vita-fianchi
corrisponde a un maggior rischio di ictus cerebrale di
lieve entità, noto anche per essere associato al
deterioramento della funzione cerebrale. Gli autori
constatarono: «Questi risultati sono coerenti con un
crescente corpus di evidenze che collega obesità, malattie
vascolari e infiammazione a deterioramento cognitivo e
demenza». Da allora, altri studi hanno confermato questa
conclusione: per ogni chilo in eccesso, il cervello diventa
un po’ più piccolo. Ironicamente, più il corpo cresce, più il
cervello rimpicciolisce.
In un progetto di ricerca congiunto tra l’UCLA e
l’Università di Pittsburgh, alcuni neuroscienziati hanno
esaminato le immagini del cervello di novantaquattro
persone tra i settanta e gli ottant’anni che avevano
partecipato a uno studio precedente su salute
cardiovascolare e processi cognitivi. 22 Nessuno dei
partecipanti soffriva di demenza o di altri disturbi
cognitivi e furono seguiti per cinque anni. I ricercatori
scoprirono che il cervello delle persone obese (ossia con
un indice di massa corporea superiore a 30) appariva più
179
vecchio di sedici anni rispetto a quello dei soggetti sani e
normopeso. E quello di coloro che erano in sovrappeso
(ossia con un indice di massa corporea compreso tra 25 e
30) sembrava più vecchio di otto anni rispetto a quello dei
partecipanti più magri. Per essere più specifici, gli obesi in
senso clinico avevano l’8% di tessuto cerebrale in meno
rispetto a individui normopeso, e i soggetti in sovrappeso
il 4%. La perdita di tessuto era concentrata soprattutto
nelle regioni del lobo frontale e temporale del cervello,
l’area deputata, tra le altre cose, a prendere decisioni e
archiviare ricordi. Gli autori dello studio misero
giustamente in evidenza che le loro conclusioni potevano
comportare gravi implicazioni per soggetti in fase di
invecchiamento, sovrappeso o obesi, ivi compreso un
aumento del rischio del morbo di Alzheimer.
Si tratta senza alcun dubbio di circoli viziosi che si
alimentano a vicenda. La genetica potrebbe influire sulla
tendenza a esagerare a tavola e guadagnare peso, con
ripercussioni su livelli di attività, insulinoresistenza e
rischio di diabete. Il diabete influisce poi sul controllo del
peso e sull’equilibrio glicemico. Quando una persona
diventa diabetica e sedentaria è inevitabile che si
verifichino problemi in tessuti e organi, non solo al
cervello. Inoltre, una volta che il cervello comincia a
degenerare e diminuisce il volume della sua massa critica,
esso comincia anche a perdere la capacità di funzionare
come si deve. Questo significa che l’appetito del cervello e
i centri di controllo del peso potrebbero cominciare a
perdere colpi, alimentando a loro volta il circolo vizioso.
È importante capire che la perdita di peso deve
avvenire il prima possibile, poiché le alterazioni sopra
descritte si verificano non appena un soggetto comincia
ad avere del grasso corporeo in eccesso. Entro certi limiti,
misurando il grasso corporeo di una persona possiamo
180
prevedere se fra trent’anni il suo cervello sarà sofferente.
Un rapporto del 2008 documenta la ricerca di alcuni
scienziati della California che passarono al setaccio le
cartelle di più di seimilacinquecento persone sottoposte
ad analisi dalla metà degli anni Sessanta agli anni
Settanta. 23 La loro intenzione era identificare chi si fosse
ammalato di demenza. Al momento del primo esame, in
media trentasei anni prima, per stabilire la quantità di
grasso corporeo erano state rilevate diverse misure, come
dimensione dell’addome, circonferenza della coscia,
altezza e peso. A distanza di circa tre decenni, coloro che
avevano più grasso corporeo presentavano un drastico
incremento del rischio di demenza. A 1049 membri del
gruppo originale fu riscontrata una diagnosi di demenza.
Quando gli scienziati confrontarono i soggetti con livello
di grasso corporeo basso con quelli dal livello più elevato,
constatarono che il rischio di demenza per i secondi era
quasi raddoppiato. Gli autori affermarono: «Come
avviene per il diabete e le malattie cardiovascolari,
l’obesità centrale [grasso addominale] è un fattore di
rischio anche per la demenza».
181
L’efficacia del calo ponderale (al di là di ciò
che già sapete)
Come è stato dimostrato da un susseguirsi di studi,
perdere peso seguendo una dieta può avere un effetto
significativo sulla segnalazione insulinica e sulla
sensibilità all’insulina. In uno studio, 107 individui obesi
di almeno sessantacinque anni di età furono seguiti dai
medici per un periodo di un anno osservando come
reagivano in termini di insulina a una dose orale di
glucosio. 24 I ricercatori volevano misurare la differenza tra
tre gruppi distinti: il primo era sottoposto a una dieta per
perdere peso, al secondo era assegnato un programma di
esercizio fisico e il terzo era trattato sia con la dieta sia con
l’esercizio fisico. Un quarto gruppo di persone fu eletto a
gruppo di controllo ai fini di un ulteriore confronto. I
risultati sei mesi dopo? Le persone nel gruppo che doveva
perdere peso registrarono un incremento del 40% nella
sensibilità all’insulina. Questo avvenne anche nel gruppo
che seguiva un programma per perdere peso abbinato
all’attività fisica. Le persone che non avevano iniziato una
dieta ma facevano esercizio fisico, invece, non
evidenziavano cambiamenti nella sensibilità all’insulina.
Quando infine, dopo un anno, lo studio si concluse, la
sensibilità all’insulina era migliorata di un incredibile 70%
nei soggetti che erano dimagriti; chi aveva fatto esercizio
fisico durante la dieta ed era sceso di peso registrò un
miglioramento dell’86%, mentre il terzo gruppo, quello
impegnato nell’attività fisica senza curare la dieta e
perdere peso, rimase molto indietro. Anche dopo un anno
la sensibilità all’insulina risultava invariata.
182
È chiaro: per migliorare la sensibilità all’insulina e
ridurre il rischio di diabete (per non parlare di ogni sorta
di disturbo cerebrale) basta apportare qualche modifica
allo stile di vita in modo da far sparire quel grasso. E
aggiungendo l’attività fisica alla dieta ne ricaverete
benefici ancor maggiori. Ormai dovreste saperlo, la dieta
che ho intenzione di prescrivervi è povera di carboidrati e
ricca di grassi sani, incluso il colesterolo. Non
accontentatevi però della mia parola: prendete gli ultimi
studi che ne dimostrano l’efficacia. Lo scorso anno il
«Journal of the American Medical Association» pubblicò i
risultati di tre diete in voga su un gruppo di giovani
adulti in sovrappeso o obesi. 25 Ciascuno dei partecipanti
provò ognuna delle diete per un mese: una era a basso
contenuto di grassi (il 60% delle calorie proveniva da
carboidrati, il 20% da grassi e il 20% da proteine), una era
a basso indice glicemico (il 40% delle calorie proveniva da
carboidrati, il 40% da grassi e il 20% da proteine) e la terza
era una dieta a bassissimo contenuto di carboidrati (il 10%
delle calorie proveniva da carboidrati, il 60% da grassi, e il
30% da proteine). Tutte e tre fornivano lo stesso numero
di calorie, ma i soggetti che seguivano quella a basso
contenuto di carboidrati e ad alto contenuto di grassi
bruciarono più calorie degli altri. Lo studio prese in esame
anche la sensibilità all’insulina durante le quattro
settimane di ciascuna dieta, rilevando che quella a basso
contenuto di carboidrati dava luogo al miglioramento più
significativo: quasi il doppio rispetto alla dieta a basso
contenuto di grassi. I trigliceridi, un efficace marcatore del
rischio cardiovascolare, ammontavano in media a 66 nel
gruppo della dieta a basso contenuto di carboidrati e a 107
nel gruppo di quella a basso contenuto di grassi (per
inciso, livelli elevati di trigliceridi sono a loro volta un
segno distintivo dell’eccesso di carboidrati nella dieta). Gli
183
autori misero in evidenza che i risultati degli esami di
laboratorio rilevati nella dieta a basso contenuto di grassi
mostravano alterazioni ematochimiche che lasciavano i
soggetti esposti al rischio di un aumento di peso. È chiaro
che la dieta migliore per mantenere il calo ponderale è
quella povera di carboidrati e ricca di grassi.
Molti altri studi sono arrivati alla medesima
conclusione: una dieta povera di carboidrati e ricca di
grassi darà sempre risultati migliori rispetto a una dieta
povera di grassi e ricca di carboidrati, e questo in
relazione a qualunque parametro fisico, dalla chimica
interna al girovita. Considerando poi tutti i parametri che
interessano la salute, e in particolare la salute cerebrale –
come per esempio il calo ponderale, la sensibilità
all’insulina, il controllo della glicemia e anche la proteina
C reattiva – una dieta a basso tenore di carboidrati è di
gran lunga più efficace di qualunque altra. Le altre diete
produrranno esiti che aumentano il rischio di numerose
disfunzioni cerebrali, da seccature quotidiane come il mal
di testa a emicranie croniche, disturbi da ansia, disturbo
da deficit di attenzione e iperattività e depressione. E se il
pensiero di essere lucidi e pronti fino all’ultimo respiro
sulla Terra non è sufficiente a motivarvi, allora pensate a
tutti i vantaggi che il vostro cuore (e in pratica ogni
organo del vostro corpo) trarrà dall’abbandono di una
dieta a basso contenuto di grassi. Nel marzo del 2013, il
«New England Journal of Medicine» pubblicò un grande
studio epocale che documentava come le persone nella
fascia di età tra i cinquantacinque e gli ottant’anni che
seguivano una dieta mediterranea presentassero un
rischio inferiore – di ben il 30% – di cardiopatie e ictus
rispetto a quelle che seguivano un tipico regime dietetico
a basso contenuto di grassi. 26 I risultati furono così
significativi che gli scienziati interruppero l’indagine
184
prima del previsto perché la dieta a basso contenuto di
grassi si dimostrò troppo dannosa per le persone che
consumavano molti prodotti da forno industriali al posto
di fonti di grassi sani. La dieta mediterranea è nota per
essere ricca di olio d’oliva, frutta a guscio, fagioli, pesce,
frutta e verdura, nonché per l’uso del vino a tavola.
Benché lasci spazio anche ai cereali, è molto simile al
protocollo dietetico da me proposto. In effetti, se
modificate la tradizionale dieta mediterranea eliminando
tutti i cibi contenenti glutine e riducendo l’apporto di
frutta zuccherina e carboidrati, avrete la dieta perfetta per
il cervello.
185
Una mela al giorno?
Forse no, una mela al giorno non toglierà il medico di
torno. Ora che ho criticato tanti dei vostri cibi preferiti,
riesco a percepire l’incertezza: «Come può il corpo vivere
di grassi senza mai ingrassare?» Ottima domanda. Tra
poco affronterò proprio questo enigma e chiarirò come sia
possibile vivere di grassi (e vivere bene). Sembra assurdo
pensare di sopravvivere senza carboidrati ma
garantendoci abbondanti quantità di grasso e colesterolo.
Eppure è possibile e dovremmo farlo, se vogliamo
proteggere il nostro genoma. A dispetto di ciò che le
industrie alimentari vorrebbero farvi credere, negli ultimi
2,6 milioni di anni abbiamo avuto una dieta a base di
grassi che ha plasmato il nostro genoma. Perché
cambiarla? Come avrete già capito, quando l’abbiamo
fatto siamo ingrassati.
Partiamo da una panoramica sulle caratteristiche
fondamentali del cervello per capire come invertire questa
tendenza e recuperare quel corpo snello, vigoroso e agile
che siamo progettati per avere, insieme a un cervello
lucido.
186
Capitolo V
187
Il dono della neurogenesi e il controllo
degli interruttori generali
Come cambiare il vostro destino genetico
188
o poi mi verrà la malattia x perché è ereditaria». Il nostro
retaggio genetico contribuisce senza dubbio a determinare
il rischio di contrarre vari disturbi, ma ricerche mediche
all’avanguardia mostrano ormai che abbiamo il potere di
cambiare il nostro destino genetico.
Al momento, uno dei campi di ricerca più
entusiasmanti è l’epigenetica, lo studio di particolari
sezioni del DNA (denominate «marcatori») che indicano ai
geni quando e con quale forza esprimersi. Come i direttori
di un’orchestra, questi marcatori epigenetici sono il
telecomando non solo della vostra salute e longevità, ma
anche di come trasmetterete i vostri geni alle future
generazioni. Le scelte dello stile di vita quotidiano hanno
profonde ripercussioni sull’attività dei nostri geni. E
questo è incoraggiante. Ora sappiamo che le nostre
propensioni alimentari, lo stress che viviamo o evitiamo,
l’attività fisica che svolgiamo o schiviamo, la qualità del
nostro sonno e perfino i rapporti umani che scegliamo
hanno un peso significativo nel determinare quali dei
nostri geni siano attivi e quali restino inattivi. La cosa più
affascinante però è che possiamo modificare l’espressione
di più del 70% dei geni che hanno diretta attinenza con la
nostra salute e longevità.
Nel corso del capitolo spiegherò come possiamo
intensificare l’espressione dei nostri «geni sani»
disattivando i geni che danno luogo a eventi dannosi,
come l’infiammazione e la produzione di radicali liberi.
Questi ultimi sono molto influenzati dalla scelta di
alimentarsi con grassi e carboidrati e queste informazioni
offriranno ulteriore supporto ai consigli offerti nei
prossimi capitoli.
189
La storia della neurogenesi
È vero che ogni cocktail che bevete uccide migliaia di
cellule cerebrali? A quanto risulta, il numero di neuroni a
nostra disposizione non è solo quello con cui siamo nati, o
quello sviluppato nella prima infanzia. Possiamo
svilupparne di nuovi durante tutta la vita. E possiamo
rafforzare i circuiti cerebrali esistenti e instaurare
connessioni del tutto nuove e complesse con nuove cellule
cerebrali. Ho avuto il privilegio di partecipare a questa
scoperta che ha capovolto opinioni predominanti da
generazioni nella neuroscienza, anche se molte persone
sono ancora di diverso avviso. Quando ero all’università,
ho avuto l’opportunità di studiare il cervello con una
tecnica che compiva i suoi primi passi. Era l’inizio degli
anni Settanta e gli svizzeri avevano cominciato a
fabbricare microscopi che permettevano ai neurochirurghi
di eseguire delicate procedure sul cervello. Con
l’evoluzione di questa tecnica, che i colleghi negli Stati
Uniti erano ansiosi di adottare, emerse ben presto un
problema.
Imparare a usare il microscopio operatorio non era
molto arduo, ma i neurochirurghi constatarono di avere
qualche difficoltà nel comprendere l’anatomia del cervello
da questa nuova prospettiva microscopica. Avevo
diciannove anni e stavo iniziando il mio terzo anno di
università quando ricevetti una telefonata dal dott. Albert
Rhoton, presidente del Reparto di neurochirurgia presso
lo Shands Teaching Hospital di Gainesville, in Florida.
Rhoton stava aprendo la strada alla diffusione dell’uso del
microscopio operatorio negli Stati Uniti e voleva scrivere
190
il primo testo di anatomia del cervello osservato al
microscopio. Mi invitò a passare l’estate successiva a
studiare e mappare il cervello; da questa ricerca derivò
poi la pubblicazione di una serie di articoli e contributi
che fornirono ai neurochirurghi la «mappa» necessaria
per operare con più cautela.
Oltre all’anatomia, ebbi anche l’opportunità di
esplorare e sviluppare altri aspetti della
microneurochirurgia con strumenti e procedure
innovativi. Trascorrendo tanto tempo al microscopio, ero
diventato piuttosto abile nel manipolare e riparare vasi
sanguigni molto piccoli che sarebbero stati distrutti
durante gli interventi al cervello prima dell’uso del
microscopio con conseguenze spesso spaventose. Il nostro
laboratorio era diventato famoso a livello internazionale
per i successi in questo campo nuovo ed elettrizzante e
spesso veniva visitato da professori provenienti da ogni
parte del mondo. Subito dopo la visita di una delegazione
di neurochirurghi spagnoli, mi ritrovai ad accettare un
invito a continuare le mie ricerche presso il prestigioso
Centro Ramón y Cajal di Madrid. Il loro programma di
microneurochirurgia era agli esordi, ma l’équipe era
molto motivata e mi sentii onorato di collaborare agli
sforzi del loro lavoro preliminare, soprattutto per quanto
concerneva la comprensione della circolazione sanguigna
cerebrale. L’ospedale era intitolato a Santiago Ramón y
Cajal, patologo e neuroscienziato spagnolo la cui opera
risaliva agli albori del XX secolo, ancor oggi considerato il
padre della neurologia moderna; alle pareti erano affissi
numerosi suoi ritratti e senza dubbio i miei colleghi
spagnoli provavano un profondo senso di orgoglio per la
presenza nelle loro fila di uno scienziato così influente.
Nel 1906 aveva vinto il premio Nobel per la medicina
grazie alle sue indagini pionieristiche sulla struttura
191
microscopica del cervello, e ancora oggi centinaia dei suoi
disegni a mano sono utilizzati per finalità didattiche.
Durante la visita a Madrid mi sentii in dovere di
approfondire le mie conoscenze su Cajal e arrivai a nutrire
una grande rispetto per le sue ricerche sull’anatomia e la
funzione del cervello umano. Uno dei principali
insegnamenti del neuroscienziato affermava che i neuroni
erano unici rispetto ad altre cellule del corpo, non solo a
causa della loro funzione, ma anche perché non avevano
la capacità di rigenerarsi. Il fegato, per esempio, si
rigenera di continuo sviluppando nuove cellule epatiche,
e un’analoga rigenerazione cellulare si verifica in pratica
in tutti gli altri tessuti, come pelle, sangue, ossa e intestini.
Ammetto che ero proprio convinto di questa teoria,
eppure già all’epoca mi domandai perché il cervello non
dovesse avere questa capacità ed essere in grado di
sviluppare nuovi neuroni cerebrali. Dopo tutto, i
ricercatori del Massachusetts Institute of Technology
avevano già dimostrato che la neurogenesi, la crescita di
nuovi neuroni cerebrali, nei ratti avveniva durante tutta la
vita. E molto di ciò che riguarda il corpo umano è
rigenerazione; per sopravvivere esso si affida a un
continuo auto-rinnovamento. Determinate cellule
ematiche, per esempio, vivono solo poche ore, le cellule
recettoriali gustative vengono sostituite ogni dieci giorni,
le cellule epiteliali ogni mese e alle cellule muscolari
occorrono circa quindici anni per un completo
rinnovamento. Nell’ultimo decennio, gli scienziati hanno
stabilito che il muscolo cardiaco – un organo a lungo
ritenuto «immutabile» dalla nascita – in realtà sperimenta
a sua volta il ricambio cellulare. 1 A venticinque anni viene
sostituito circa l’1% delle cellule del cuore ogni anno; ma
all’età di settantacinque anni si scende a meno di mezzo
punto percentuale. Riesce difficile credere che solo di
192
recente siamo giunti a identificare e comprendere questo
fenomeno nella pompa ematica del nostro corpo. E infine
adesso abbiamo decodificato il cervello e scoperto le sue
qualità di auto-rinnovamento.
Data la tecnologia disponibile a quel tempo, Cajal non
poteva sapere fino a che punto il cervello fosse malleabile
e «plastico». All’epoca, il DNA non era ancora stato
decodificato e non si sapeva molto dell’impatto dei geni
sulla funzionalità cerebrale. Nel suo fondamentale testo
del 1928, Degeneration and Regeneration of the Nervous
System (Degenerazione e rigenerazione del sistema
nervoso), Cajal affermava: «Nei centri di soggetti adulti le
vie nervose sono qualcosa di rigido, finito, immutabile.
Tutto può morire, nulla può essere rigenerato». 2 Se
potessi modificare la sua affermazione con ciò che
sappiamo oggi, sostituirei le parole «rigido», «finito» e
«immutabile» con l’esatto contrario: «flessibile»,
«indefinito», e «alterabile». E aggiungerei che le cellule
cerebrali possono morire, ma senza dubbio possono
essere rigenerate. Cajal diede senz’altro un grande
contributo alla nostra conoscenza del cervello e del
funzionamento dei neuroni; fu persino un precursore nel
tentativo di capire la patologia dell’infiammazione. La sua
convinzione riguardo alle limitate risorse del cervello,
tuttavia, ha pervaso gran parte della storia dell’umanità;
finché la scienza moderna, verso la fine del XX secolo, ha
dimostrato fino a che punto il cervello potesse essere
flessibile.
Nel mio ultimo libro, Ottieni il massimo dal tuo cervello.
Gli orizzonti della neuroscienza, 3 ho raccontato insieme al
dott. Alberto Villoldo come la scienza sia arrivata a
comprendere il dono della neurogenesi negli esseri
umani. Pur avendo provato da tempo la neurogenesi in
193
diversi altri animali, gli scienziati cominciarono a
concentrarsi in modo esclusivo sul tentativo di dimostrare
la nascita di nuove cellule nervose negli esseri umani solo
negli anni Novanta. 4 Nel 1998, la rivista «Nature
Medicine» pubblicò un rapporto in cui il neurologo
svedese Peter Eriksson sosteneva che all’interno del
nostro cervello esiste una popolazione di cellule staminali
neurali che vengono reintegrate di continuo e possono
differenziarsi in neuroni cerebrali. 5 E aveva ragione: tutti
sperimentiamo la «terapia delle cellule staminali»
cerebrali in ogni minuto della nostra vita. Questo ha
portato a una scienza innovativa, detta neuroplasticità.
La rivelazione che la neurogenesi si verifica negli esseri
umani per tutta la vita ha fornito ai neuroscienziati di
tutto il mondo un nuovo emozionante punto di
riferimento, con implicazioni che riguardano in pratica
l’intera gamma dei disturbi cerebrali. 6 Ciò ha inoltre
infuso speranza in coloro che sono alla ricerca di indizi
per fermare, far regredire o perfino guarire malattie
cerebrali progressive. L’idea dei neuroni cerebrali che si
rigenerano ha entusiasmato gli scienziati impegnati nello
studio delle malattie neurodegenerative e ha aperto la
strada a nuove terapie, cambiando la vita di persone che
soffrono per gravi lesioni o patologie. Basta leggere il libro
di Norman Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere della
neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio
cervello, 7 per conoscere esperienze di vita reale che
provano fino a che punto quest’organo – e il nostro
potenziale umano – sia flessibile. Se le vittime di ictus
possono imparare di nuovo a parlare e le persone nate
senza una parte del cervello possono addestrarlo
riprogrammandolo affinché svolga anche le funzioni della
porzione mancante, immaginate le possibilità per quelli di
194
noi che sperano solo di conservare le proprie facoltà
mentali.
La questione scottante è: come possiamo sviluppare
nuovi neuroni cerebrali? O, in altre parole, cosa influenza
la neurogenesi e cosa possiamo fare per favorirla?
Questo processo naturale è controllato, come è logico
pensare, dal nostro DNA . Per la precisione, un gene situato
sul cromosoma 11 codifica per la produzione di una
proteina chiamata «fattore neurotrofico derivato dal
cervello» o BDNF (Brain-derived Neurotrophic Factor). Il BDNF
ha un ruolo chiave nella produzione di nuovi neuroni,
ma, al di là del suo ruolo nella neurogenesi, protegge i
neuroni esistenti, garantendo loro la capacità di
sopravvivere e incoraggiando al tempo stesso la
formazione delle sinapsi (il collegamento di un neurone
all’altro): un processo vitale per il pensiero,
l’apprendimento e i livelli più elevati della funzione
cerebrale. Gli studi effettuati hanno registrato un calo dei
livelli di BDNF nei pazienti malati di Alzheimer, il che non
dovrebbe sorprendere in base a ciò che si conosce della
modalità di funzionamento di questa proteina. 8 A stupire
forse è piuttosto il nesso tra il BDNF e una serie di disturbi
neurologici come epilessia, anoressia nervosa,
depressione, schizofrenia e disturbo ossessivo
compulsivo.
Oggi conosciamo bene i fattori che inducono il DNA a
produrre il BDNF , e fortunatamente questi fattori sono per
lo più sotto il nostro diretto controllo. Sul gene che attiva
la produzione del BDNF influiscono diversi aspetti dello
stile di vita, fra i quali l’esercizio fisico, la restrizione
calorica, l’osservanza di una dieta chetogenica e
l’aggiunta di determinati nutrienti come la curcumina e
l’acido docosaesaenoico o DHA , un grasso omega 3.
195
Questa è una notizia incoraggiante, perché tutti questi
fattori sono alla nostra portata e rappresentano scelte che
possiamo compiere per premere l’interruttore che stimola
la crescita di nuove cellule cerebrali. Vediamoli in
dettaglio uno per uno.
196
Il vostro (nuovo) cervello e l’attività fisica
Approfondirò questo argomento nel capitolo VIII, che
tratterà in dettaglio il ruolo dell’esercizio fisico nella
prevenzione del declino cognitivo. È sorprendente:
l’esercizio fisico è uno dei metodi più formidabili per
modificare i geni; per semplificare, si potrebbe dire che
l’attività fisica rappresenta un allenamento per i geni. In
particolare, l’esercizio aerobico attiva non solo i geni
legati alla longevità, ma anche il gene BDNF , l’«ormone
della crescita» nel cervello. Per essere più specifici, è stato
dimostrato che l’esercizio aerobico provoca un incremento
del BDNF , inverte il declino della memoria negli anziani e
aumenta la crescita di nuove cellule cerebrali nel centro
della memoria. L’attività fisica non serve solo per restare
in forma e avere un cuore forte; i suoi effetti forse più
importanti, impercettibili, si verificano nella stanza al
piano superiore, dove abita il cervello. La visione
scientifica emergente dell’evoluzione umana e del ruolo
dell’attività fisica conferisce un significato tutto nuovo
all’espressione «rinfrescare la memoria». Un milione di
anni fa, avevamo la meglio sulle lunghe distanze perché
riuscivamo a superare nella corsa e nel cammino la
maggior parte degli altri animali. Alla fine, questo
contribuì a fare di noi gli esseri umani intelligenti che
siamo oggi. Più ci muovevamo, meglio stava il nostro
cervello. E ancor oggi il buon funzionamento del nostro
cervello richiede un’attività fisica regolare, a dispetto
dello scorrere del tempo e dei mali del processo di
invecchiamento.
197
La restrizione calorica
Un altro fattore epigenetico che attiva il gene per la
produzione di BDNF è la restrizione calorica. Ampi studi
hanno dimostrato con chiarezza che quando gli animali
seguono una dieta a ridotto apporto calorico (in genere di
circa il 30%), la produzione di BDNF del cervello registra
un netto aumento, con incredibili miglioramenti nella
memoria e in altre funzioni cognitive. Tuttavia, un conto è
leggere studi su ricerche sperimentali che riguardano dei
ratti in un ambiente controllato, tutt’altro elargire consigli
alle persone in base a ricerche sugli animali. Per fortuna
abbiamo ormai un ampio numero di studi sugli esseri
umani che dimostrano il potente effetto della riduzione
dell’apporto calorico sulla funzione cerebrale, e molti di
questi sono stati pubblicati sulle nostre riviste mediche
più accreditate. 9
Nel gennaio 2009, per esempio, «Proceedings of the
National Academy of Sciences» pubblicò uno studio di
ricercatori tedeschi che avevano messo a confronto due
gruppi di individui anziani: uno con un regime calorico
ridotto del 30% e l’altro cui era stato permesso di
mangiare ciò che voleva. I ricercatori intendevano
stabilire se fosse possibile misurare variazioni nella
funzione mnestica dei due gruppi. Al termine dello
studio, durato tre mesi, i soggetti liberi di mangiare a
piacimento sperimentarono un piccolo, ma ben definito,
declino della memoria, mentre la funzione mnestica nel
gruppo che aveva seguito la dieta con restrizione calorica
registrò un netto miglioramento. Sapendo che gli attuali
approcci farmaceutici alla salute cerebrale sono molto
198
limitati, gli autori concludevano: «I presenti risultati
potrebbero contribuire a sviluppare nuove strategie di
prevenzione e trattamento per preservare la salute
cognitiva in età avanzata». 10
Ulteriori testimonianze a sostegno del ruolo della
restrizione calorica nel rafforzare il cervello e aiutarlo a
resistere meglio alle malattie degenerative giungono dal
dott. Mark Mattson del National Institute on Aging, che
ha dichiarato:
199
Se la prospettiva di ridurre il vostro consumo di calorie
del 30% appare scoraggiante, considerate che oggi
consumiamo in media 523 calorie al giorno in più rispetto
al 1970. 13 In base a dati dell’Organizzazione per
l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (la
FAO ), l’americano medio adulto consuma 3770 calorie al
giorno. 14 La maggior parte delle persone ritiene
«normale» un consumo delle calorie che si aggiri intorno
alle 2000 al giorno per le donne e alle 2550 per gli uomini
(con esigenze superiori a seconda del livello di
attività/esercizio fisico). Un taglio del 30% su una media
di 3770 calorie al giorno equivale a 2640 calorie.
Buona parte dell’aumento del nostro consumo di
calorie è dovuto allo zucchero. L’americano medio
consuma orientativamente dai 45 ai 72 chili di zucchero
raffinato ogni anno, con la tendenza a un aumento del
25% proprio negli ultimi tre decenni. 15 Anche solo
concentrarsi sulla riduzione del consumo di zucchero
potrebbe dunque essere di grande aiuto per ottenere una
riduzione significativa dell’apporto calorico, e questo
porterebbe senz’altro a perdere peso. L’obesità è associata
a una riduzione dei livelli di BDNF e così pure a livelli
glicemici elevati, e non va dimenticato che un aumento
del BDNF offre il beneficio aggiunto di ridurre l’appetito.
Io lo definisco un doppio vantaggio.
Se i numeri sopra citati non sono ancora comunque
sufficienti per motivarvi a seguire una dieta destinata a
giovare al vostro cervello, vi dirò che, per molti aspetti, la
stessa via che accende la produzione del BDNF può essere
attivata interrompendo il normale regime alimentare con
periodi di digiuno. Approfondiremo il tema del digiuno
nel capitolo VII.
Gli effetti benefici del trattamento dei disturbi
200
neurologici mediante la restrizione calorica non
rappresentano una novità per la scienza moderna; erano
già noti nei tempi antichi. La restrizione calorica è stata la
prima terapia efficace per le crisi epilettiche nella storia
della medicina. Ora, tuttavia, sappiamo come e perché sia
così efficace: offre una profonda neuroprotezione,
aumenta la crescita di nuove cellule cerebrali e consente
alle reti neuronali esistenti di espandere la loro sfera di
influenza (neuroplasticità).
Anche se la documentazione scientifica testimonia che
un basso apporto calorico promuove la longevità in
diverse specie – fra le quali ascaridi, roditori e scimmie –,
la ricerca ha pure dimostrato che a un consumo inferiore
di calorie corrisponde un decremento dell’incidenza del
morbo di Alzheimer e del morbo di Parkinson. Riteniamo
che ciò accada grazie a un miglioramento della funzione
mitocondriale e del controllo dell’espressione genica.
Consumare meno calorie significa attenuare la
prolificazione di radicali liberi e, al tempo stesso,
aumentare la produzione di energia da parte dei
mitocondri, i minuscoli organelli che nelle nostre cellule
generano energia chimica sotto forma di ATP (adenosina
trifosfato). I mitocondri hanno il proprio DNA e sappiamo
che svolgono un ruolo chiave nelle malattie degenerative
come il morbo di Alzheimer e il cancro. La restrizione
calorica ha inoltre un notevole effetto sulla riduzione
dell’apoptosi, il processo di autodistruzione delle cellule
che si verifica quando all’interno delle stesse vengono
attivati meccanismi genetici che culminano nella loro
morte. Anche se a prima vista può sembrare sconcertante,
e ci si può domandare perché questo dovrebbe essere
considerato un evento positivo, l’apoptosi è una funzione
cellulare cruciale per la vita come noi la conosciamo. La
201
morte preprogrammata delle cellule è una caratteristica
naturale e fondamentale di tutti i tessuti viventi, ma
occorre un equilibrio tra apoptosi efficace e distruttiva.
Inoltre, la restrizione calorica dà luogo a un decremento
dei fattori infiammatori e a un incremento dei fattori
neuroprotettivi, in particolare del BDNF . È stato anche
riscontrato che incrementa le naturali difese antiossidanti
del corpo aumentando enzimi e molecole importanti per
arginare l’eccesso di radicali liberi.
Nel 2008 la dott.ssa Veronica Araya dell’Università del
Cile a Santiago rese noto uno studio durante il quale
aveva messo a dieta per tre mesi soggetti sovrappeso e
obesi con una riduzione complessiva del 25% delle
calorie. 16 Insieme ai suoi colleghi, aveva misurato un
eccezionale aumento della produzione di BDNF , che aveva
portato a notevoli riduzioni dell’appetito. Ed è stato
dimostrato che avviene anche il contrario: la produzione
di BDNF diminuisce negli animali che seguono una dieta
ricca di zuccheri. 17
Una delle molecole più studiate associate alla
restrizione calorica e alla crescita di nuove cellule
cerebrali è la sirtuina 1 (SIRT 1), un enzima che regola
l’espressione dei geni. Nelle scimmie, un aumento
dell’attivazione di SIRT 1 provoca l’incremento di un
enzima che deteriora l’amiloide, la proteina simile
all’amido il cui accumulo è il segno caratteristico di
malattie come l’Alzheimer. 18 L’attivazione della SIRT 1
altera poi alcuni recettori sulle cellule, determinando
reazioni che hanno l’effetto complessivo di ridurre
l’infiammazione. Forse il dato di maggior rilievo è che
l’attivazione della via di segnalazione della sirtuina
mediante la restrizione calorica aumenta il BDNF . Non solo
il BDNF incrementa il numero delle cellule cerebrali, ma
202
migliora la loro differenziazione in neuroni funzionali
(sempre grazie alla restrizione calorica). Per questo
motivo, diciamo che il BDNF favorisce l’apprendimento e
la memoria. 19
203
I vantaggi di una dieta chetogenica
La restrizione calorica è in grado di attivare queste
diverse reazioni, che non solo agiscono a tutela del
cervello, ma promuovono la crescita di nuove reti
neuronali; lo stesso processo, tuttavia, può essere attivato
dal consumo di particolari grassi denominati chetoni.
Quello di gran lunga più importante per l’utilizzo di
energia del cervello è il beta-idrossibutirrato (β-HBA ), un
grasso eccezionale che analizzeremo in maggior dettaglio
nel prossimo capitolo. Per questo motivo la cosiddetta
dieta chetogenica è stata un trattamento per l’epilessia fin
dai primi anni Venti e oggi viene rivalutata come opzione
terapeutica molto valida nel trattamento del morbo di
Parkinson, del morbo di Alzheimer, della SLA e perfino
dell’autismo. 20 In uno studio del 2005, dopo avere seguito
una dieta chetogenica per soli ventotto giorni, dei pazienti
malati di Parkinson registrarono un notevole
miglioramento dei sintomi, paragonabile all’effetto di un
trattamento medicinale o perfino di interventi chirurgici
al cervello. 21 Per essere precisi, è stato dimostrato che
consumare grassi chetogenici (ossia trigliceridi a catena
media o olio MCT ) comporta un notevole miglioramento
nella funzione cognitiva dei pazienti colpiti da
Alzheimer. 22 L’olio di cocco, dal quale ricaviamo gli MCT ,
è una ricca fonte di un’importante molecola precursore
del beta-idrossibutirrato, e se impiegato rappresenta un
approccio utile al trattamento del morbo di Alzheimer. 23 È
stato riscontrato che una dieta chetogenica provoca,
inoltre, una riduzione dell’amiloide nel cervello 24 e un
aumento nell’ippocampo del glutatione, l’antiossidante
204
naturale protettivo del cervello. 25 Essa stimola inoltre la
crescita dei mitocondri e migliora pertanto l’efficienza
metabolica. 26
Nonostante la scienza abbia in genere guardato al
fegato come alla principale fonte della produzione di
chetoni nella fisiologia umana, è ormai riconosciuto che
anche il cervello può produrre chetoni in particolari
cellule denominate astrociti. Questi corpi chetonici hanno
un profondo effetto neuroprotettivo, riducono la
formazione di radicali liberi, aumentano la biogenesi
mitocondriale e stimolano la comparsa di importanti
antiossidanti per il cervello. Inoltre, i chetoni bloccano la
via apoptotica che altrimenti condurrebbe
all’autodistruzione delle cellule cerebrali.
Purtroppo, però, hanno una cattiva reputazione.
Durante il mio internato ricordo di essere stato svegliato
da un’infermiera per curare un paziente in «chetoacidosi
diabetica». Dottori, studenti di medicina e tirocinanti
diventano ansiosi quando sono alle prese con un paziente
in quello stato, e per un buon motivo. Questa condizione
si manifesta nei pazienti affetti da diabete di tipo 1
insulinodipendente quando non è disponibile abbastanza
insulina per metabolizzare il glucosio e produrre energia.
Il corpo ricorre quindi ai grassi e si ha una produzione di
chetoni in quantità pericolosamente elevate, che
accumulandosi nel sangue diventano tossiche. Nello
stesso tempo, si verifica una notevole perdita di
bicarbonato, che porta a un significativo abbassamento
del pH (acidosi). In genere, a causa degli elevati livelli di
glucosio ematico i pazienti perdono molta acqua e ne
deriva un’emergenza medica.
Questo disturbo è molto raro e, lo ripeto, si presenta in
diabetici di tipo 1 con problemi nella regolazione dei
livelli di insulina. La nostra normale fisiologia è in grado
205
di gestire un certo livello di chetoni nel sangue, una
capacità che, a dire il vero, non è diffusa tra i nostri
compagni del regno animale. Forse la dobbiamo al
particolare rapporto tra peso corporeo e peso del cervello
e all’elevato fabbisogno di energia di quest’organo. A
riposo, il 20% del nostro consumo di ossigeno viene
utilizzato dal cervello, che rappresenta appena il 2% del
corpo umano. Nel corso dell’evoluzione, la capacità di
usare chetoni come combustibile quando il glucosio
ematico era esaurito e il glicogeno epatico non era più
disponibile (in fasi di inedia) divenne il solo modo per
sopravvivere e continuare a cacciare e a raccogliere. La
chetosi si dimostrò un passo cruciale poiché consentì
all’uomo di tenere duro nei periodi di carestia. Per citare
Gary Taubes:
206
IL POTERE DELLA MEDITAZIONE
Meditare è un’attività tutt’altro che passiva. Gli studi dimostrano che le
persone che meditano sono molto meno a rischio di sviluppare malattie al
cervello e altre patologie. 28 Imparare a meditare richiede tempo ed
esercizio, ma offre numerosi e comprovati vantaggi, tutti legati alla
longevità. Per reperire risorse su come imparare questa tecnica, visitate il
mio sito web www.DrPerlmutter.com.
207
Curcumina e DHA
La curcumina, la principale componente attiva nella
spezia curcuma, è oggi al centro di approfondite indagini
scientifiche in particolare per la sua relazione con il
cervello. Nella medicina tradizionale cinese e indiana
(aiurvedica) è utilizzata da migliaia di anni. Anche se è
ben nota per le sue proprietà antiossidanti,
antinfiammatorie, antimicotiche e antibatteriche, è stata
soprattutto la sua capacità di incrementare il BDNF ad
attirare l’interesse di neuroscienziati di tutto il mondo, in
particolare di epidemiologi in cerca di indizi per spiegare
come mai la diffusione della demenza sia assai ridotta
nelle comunità che fanno largo uso di curcuma (ulteriori
informazioni sulla curcumina sono reperibili nel capitolo
VII).
Negli ultimi tempi l’acido docosaesaenoico (DHA ) sta
ricevendo forse più attenzione di ogni altra molecola utile
al cervello. Da diversi decenni gli scienziati studiano in
modo approfondito questa sostanza, cruciale per almeno
tre ragioni. Innanzitutto, più di due terzi del peso a secco
del cervello umano sono rappresentati da grasso e un
quarto di quel grasso è DHA . Dal punto di vista
strutturale, il DHA è un importante mattone per le
membrane che circondano le cellule cerebrali, in
particolare per le sinapsi, fondamentali per un
funzionamento efficiente del cervello.
Il DHA ha inoltre un importante ruolo nella regolazione
dell’infiammazione. Esso riduce in modo naturale
l’attività dell’enzima COX -2, che attiva la produzione di
dannose sostanze chimiche infiammatorie. Per molti versi,
208
il DHA agisce poi come un guerriero quando entra in
territorio ostile derivante da una dieta non appropriata.
Può combattere l’infiammazione all’interno della mucosa
intestinale di un soggetto sensibile al glutine, e può porre
un freno agli effetti dannosi di una dieta ad alto contenuto
di zuccheri, soprattutto di fruttosio, aiutando a prevenire
eventuali disfunzioni metaboliche nel cervello
conseguenti a un’alimentazione troppo ricca di
carboidrati.
Infine, l’attività forse più interessante del DHA è il suo
ruolo nella regolazione dell’espressione genica per la
produzione del BDNF . In parole povere, il DHA
contribuisce a orchestrare la produzione, le reciproche
connessioni e la possibilità di sopravvivere delle cellule
cerebrali, migliorandone al tempo stesso la funzione.
In una sperimentazione interventistica in doppio cieco,
portata a termine di recente e nota ormai come MIDAS
(Memory Improvement with DHA Study, Studio sul
miglioramento della memoria con l’acido
docosaesaenoico), un gruppo di 485 soggetti dell’età
media di settant’anni, con lievi problemi di memoria,
ricevette per sei mesi un integratore contenente DHA
ricavato da un’alga marina oppure un placebo. Al termine
dello studio, i livelli ematici di DHA risultarono
raddoppiati nel gruppo cui era stato somministrato, con
notevoli effetti sulla funzione cerebrale. La dott.ssa Karin
Yurko-Mauro, responsabile della ricerca, commentò:
209
di apprendimento e memoria di una persona più giovane di tre
anni. 29
210
Come possiamo aumentare il nostro livello di DHA ? Il
corpo può produrne piccole quantità, e siamo in grado di
sintetizzarlo da un comune grasso omega 3 contenuto
negli alimenti, l’acido alfa linolenico. È però difficile
ottenere tutto il DHA di cui abbiamo bisogno dal cibo che
consumiamo, e non possiamo neppure affidarci alla
produzione naturale del nostro organismo. Abbiamo
bisogno di almeno 200-300 milligrammi al giorno, ma la
maggioranza degli americani ne assume meno del 25%; e
farebbe bene invece a superare questa quantità minima
necessaria. Nel capitolo X illustrerò la mia ricetta per
garantire un approvvigionamento sufficiente di DHA
tramite alimentazione e integratori.
211
La stimolazione intellettuale rafforza nuove
reti
Se non fosse risaputo che gli stimoli intellettuali giovano
alla salute cerebrale, i cruciverba, i corsi di formazione, le
visite ai musei e perfino la lettura non sarebbero così
popolari. E sappiamo che mettere alla prova la mente
rafforza le nuove reti neurali. Il cervello reagisce alle sfide
della stimolazione intellettuale in modo molto simile ai
muscoli che guadagnano forza e funzionalità con l’attività
fisica. Il cervello diventa più veloce e più efficiente nella
sua capacità di elaborazione, migliorando anche la sua
abilità nel memorizzare un maggior numero di
informazioni. Anche in questo caso, trovo istruttiva la
sintesi di Mark Mattson delle pubblicazioni che lo
documentano:
212
che «dati ricavati da studi sugli animali suggeriscono che
un aumento di attività nei circuiti neuronali derivante da
attività intellettuale stimola l’espressione di geni partecipi
dei rispettivi effetti neuroprotettivi».
213
La truffa degli antiossidanti 33
214
scienziati a cercare antiossidanti migliori per fornire al
cervello una misura di protezione non solo al fine di
prevenire disturbi, ma anche di incrementare la funzione
cerebrale. Il rapporto tra deterioramento cognitivo lieve e
radicali liberi fu ben descritto, per esempio, in una
relazione del 2007 del dott. William Markesbery della
University of Kentucky. Insieme ai suoi colleghi,
Markesbery dimostrò che la funzione cognitiva comincia
il suo declino assai presto, molto prima della diagnosi di
un disturbo cerebrale. Inoltre, notò una diretta
correlazione tra i marcatori elevati di danni ossidativi a
lipidi, a proteine e perfino al DNA e il grado del disturbo.
Egli asserì: «Questi studi confermano i danni ossidativi
come evento precoce nella patogenesi del morbo di
Alzheimer; essi possono dunque diventare un obiettivo
dell’approccio terapeutico per rallentare la progressione
della malattia o forse anche il suo inizio». Nel prosieguo si
leggeva poi:
215
molte persone dovrebbero considerarsi in fase
«presintomatica» fin da ora.
Se il nostro tessuto cerebrale è attaccato dai radicali
liberi, ha dunque senso fare il pieno di antiossidanti? Per
rispondere a questa domanda dobbiamo prendere in
considerazione i fornitori di energia delle nostre cellule: i
mitocondri. Nel normale processo di produzione
dell’energia, ciascun mitocondrio produce ogni giorno
centinaia, se non migliaia, di molecole di radicali liberi.
Moltiplicatele per i dieci milioni di miliardi di mitocondri
che ognuno di noi possiede e ne ricaverete un numero
inimmaginabile: dieci seguito da diciotto zeri. Sarebbe
quindi lecito dubitare dell’efficacia, per esempio, di una
capsula di vitamina E o di una compressa di vitamina C
di fronte a questo violento attacco di radicali liberi. I
comuni antiossidanti funzionano «sacrificandosi»: quando
incontrano i radicali liberi avviene l’ossidazione. Di
conseguenza, una molecola di vitamina C si ossida al
contatto con un radicale libero (i chimici chiamano questa
chimica uno-a-uno reazione stechiometrica). Potete
immaginare la quantità di vitamina C o di un altro
antiossidante orale necessaria per neutralizzare
l’incalcolabile numero di radicali liberi generato dal corpo
di giorno in giorno?
Per fortuna, come prevedibile, l’organismo umano ha
sviluppato i propri meccanismi biochimici di difesa,
producendo altri antiossidanti durante i periodi di elevato
stress ossidativo. Lungi dall’essere del tutto dipendenti da
fonti alimentari esterne di antiossidanti, le nostre cellule
hanno la capacità innata di generare enzimi antiossidanti
quando occorre. Elevati livelli di radicali liberi attivano
una particolare proteina nel nucleo, denominata Nrf2, che
in pratica apre la porta alla produzione non solo di
un’ampia gamma dei principali antiossidanti del nostro
216
corpo, ma anche degli enzimi detossificanti. Così, se per
questa via un eccesso di radicali liberi induce una
migliore produzione di antiossidanti, la prossima, ovvia
domanda è: che cos’altro attiva la proteina Nrf2?
E qui la storia si fa davvero avvincente. Nuove ricerche
hanno identificato svariati fattori modificabili in grado di
accendere questo «interruttore» Nrf2 attivando geni che
possono produrre potenti antiossidanti ed enzimi
detossificanti. La dott.ssa Ling Gao della Vanderbilt
University ha scoperto che l’ossidazione dei grassi omega
3 EPA e DHA rappresenta un importante segnale per
l’attivazione della proteina Nrf2. Da anni si osserva una
minore incidenza di danni da radicali liberi nei soggetti
che consumano olio di pesce (la fonte di EPA e DHA ), ma
ora, grazie a queste nuove ricerche, il rapporto tra olio di
pesce e protezione antiossidante è chiaro. Come ha
documentato Ling Gao: «I dati in nostro possesso
confermano l’ipotesi che la formazione di ... composti
generati da ossidazione di EPA e DHA in vivo può
raggiungere concentrazioni abbastanza elevate da
innescare sistemi di difesa antiossidanti e detossificanti
basati sul fattore Nrf2». 37
217
DETOSSIFICAZIONE: COSA SIGNIFICA PER LA
SALUTE CEREBRALE
218
Diversi modelli di laboratorio hanno dimostrato – e
non dovrebbe stupire – che anche la restrizione calorica
provoca l’attivazione di Nrf2. In seguito a una riduzione
delle calorie nella loro dieta, non solo gli animali da
laboratorio vivono più a lungo (con ogni probabilità come
conseguenza di un incremento della protezione
antiossidante), ma diventano anche molto resistenti allo
sviluppo di diversi tipi di cancro. E questa caratteristica
avvalora ulteriormente il programma di digiuno illustrato
nel prossimo capitolo.
Sono stati identificati vari composti naturali che
provocano l’azione antiossidante e detossificante
attraverso l’attivazione del sistema Nrf2. Fra questi si
annoverano la curcumina, ricavata dalla curcuma,
l’estratto di tè verde, la silimarina (cardo mariano),
l’estratto di bacopa, il DHA , il sulforafano (contenuto nei
broccoli) e l’ashwagandha (Whitania somnifera). Ciascuna
di queste sostanze è efficace nell’attivare l’innata capacità
del corpo di produrre antiossidanti fondamentali,
compreso il glutatione. E se nessuno di questi composti
somiglia a qualcosa che siete abituati a consumare ogni
giorno, sarete felici di sapere che il caffè è uno dei più
potenti attivatori di Nrf2 in natura. Questo effetto positivo
è dovuto a numerose molecole in esso contenute, alcune
presenti nella materia prima, altre generate durante il
processo di tostatura. 38
Oltre alla funzione antiossidante, l’attivazione del
sistema Nrf2 fa sì che i geni producano un’ampia gamma
di sostanze chimiche protettive, le quali offrono ulteriore
supporto ai meccanismi di detossificazione del corpo,
riducendo al tempo stesso l’infiammazione: tutte cose
positive per la salute del cervello.
219
Il «gene dell’Alzheimer»
Dopo la decodifica dell’intero genoma umano, più di un
decennio or sono, siamo riusciti ad accumulare una
grande quantità di informazioni su quali geni siano
responsabili di determinati esiti, positivi o negativi. Se
seguivate con attenzione la cronaca nella prima metà degli
anni Novanta, avrete saputo che gli scienziati avevano
scoperto un «gene dell’Alzheimer», un’associazione tra un
particolare gene e il rischio di contrarre il morbo di
Alzheimer. E vi sarete chiesti: «Ce l’ho anch’io?».
Partiamo innanzitutto da una rapida lezione di
biochimica per gentile concessione del National Institute
on Aging, l’istituto nazionale americano che si occupa di
studi sull’invecchiamento. Non sempre le mutazioni
genetiche, o i cambiamenti permanenti in uno o più geni
specifici, provocano malattie. In alcuni casi, tuttavia,
avviene proprio questo; se ereditate una mutazione
patogena, avrete la probabilità di sviluppare la malattia.
L’anemia falciforme, il morbo di Huntington e la fibrosi
cistica sono esempi di malattie genetiche ereditarie.
Talvolta, ma non sempre, può presentarsi una «variante»
genetica per cui le mutazioni in un gene possono portare
alla malattia. Più spesso, la variante si limita ad
aumentare o ridurre il rischio di sviluppare un certo
disturbo o patologia. Se si sa che una variante aumenta le
probabilità di incorrere in una malattia, ma non
necessariamente la scatena, si parla di fattore di rischio
genetico. 39
Per essere chiari, gli scienziati non hanno identificato
uno specifico gene che provochi il morbo di Alzheimer.
220
Tuttavia, un fattore di rischio genetico che sembra
aumentare il pericolo di sviluppare la malattia è associato
al gene dell’apolipoproteina E (ApoE) sul cromosoma 19.
Questo fattore codifica le istruzioni per produrre una
proteina che contribuisce a trasportare il colesterolo e altri
tipi di grasso nel sangue. Ne esistono molte forme diverse,
o alleli. Le tre principali sono ApoE ε2, ApoE ε3, e ApoE
ε4.
L’allele ApoE ε2 è piuttosto raro, ma ereditarlo
aumenta le possibilità di sviluppare il morbo di
Alzheimer. L’allele ApoE ε3 è il più comune, ma si ritiene
che non aumenti né diminuisca il rischio. L’allele ApoE
ε4, infine, è di solito il più citato dai mass media e il più
temuto. È presente nel 25-30% circa della popolazione, e
quasi il 40% di tutti i malati di Alzheimer ne è portatore.
Vi starete chiedendo se siete portatori di questo fattore di
rischio e cosa possa significare per voi e per il vostro
futuro.
Purtroppo, non sappiamo come questo allele aumenti il
rischio di ammalarsi di Alzheimer: il meccanismo non è
ancora stato compreso in maniera adeguata. Le persone
nate con l’allele ApoE ε4 hanno maggiori probabilità di
sviluppare la malattia in età meno avanzata rispetto agli
altri, ma è importante ricordare che ereditare un allele
ApoE ε4 non significa avere un destino segnato, e che
sarete senz’altro colpiti dall’Alzheimer. Alcune persone
hanno un DNA che contiene l’allele ApoE ε4 e non
soffriranno mai di declino cognitivo. E molte sviluppano
l’Alzheimer in assenza di questi fattori di rischio genetico.
Un semplice test di screening del DNA può appurare se
possedete questo gene, ma, anche se così fosse, c’è
qualcosa che potete fare. Il mio protocollo è un modo per
farsi carico del destino del proprio cervello nonostante il
221
DNA . Non mi stancherò mai di ripeterlo: la sorte della
vostra salute – e della vostra serenità, come mostrerà il
prossimo capitolo – è soprattutto nelle vostre mani.
222
Capitolo VI
223
Esaurimento cerebrale
Come il glutine toglie serenità a voi e ai vostri figli
I pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere, turbano con
maggior intensità le menti degli uomini.
GIULIO CESARE
224
d’ansia, la sindrome di Tourette, le malattie mentali, le
emicranie e perfino l’autismo.
Fino a questo momento mi sono concentrato in
prevalenza su declino cognitivo e demenza. Ora passiamo
agli effetti deleteri del glutine sul cervello dal punto di
vista di questi comuni disturbi comportamentali e
psicologici. Inizierò con le patologie che sono spesso
diagnosticate nei bambini piccoli, per poi trattare una
gamma più ampia di problemi riscontrati in persone di
ogni età. Una cosa emergerà con chiarezza: l’eliminazione
del glutine dalla dieta e l’adozione di uno stile di vita
corretto sono spesso il rimedio migliore e più sicuro per i
disturbi cerebrali che affliggono milioni di persone. In
molti casi questa semplice «medicina» è in grado di
surclassare la terapia farmacologica.
225
Il ruolo del glutine nei disturbi
comportamentali e motori
Visitai Stuart per la prima volta quando aveva appena
compiuto quattro anni. Lo portò al mio centro sua madre,
Nancy, che conoscevo da diversi anni; era fisioterapista e
aveva curato molti dei nostri pazienti. Nancy cominciò
con l’espormi le sue preoccupazioni riguardo a Stuart e
riferì di non avere notato nulla che non andasse nel figlio,
ma la sua insegnante dell’asilo era convinta che fosse
insolitamente «attivo» e pensava che sarebbe stata una
buona idea sottoporlo a una valutazione. Non ero il primo
medico a visitarlo. La settimana prima di venire da noi, la
mamma di Stuart lo aveva portato dal pediatra, il quale
aveva annunciato che era affetto da «DDAI » e gli aveva
prescritto il Ritalin.
Nancy era preoccupata, e non a torto, all’idea di
somministrare quel farmaco al figlio, così decise di
prendere in considerazione altre opzioni. Iniziò con lo
spiegare che il bambino aveva frequenti accessi di collera
e che «quando era frustrato tremava in modo
incontrollato». Raccontò che, secondo l’insegnante
dell’asilo, Stuart era incapace di «perseverare in un
compito», il che mi indusse a chiedermi quali compiti
esigessero totale concentrazione in un bambino di quattro
anni.
L’anamnesi di Stuart fu rivelatrice. Aveva sofferto di
molte otiti ed era stato sottoposto a innumerevoli cicli di
antibiotici. Quando lo visitai, stava seguendo una
profilassi antibiotica di sei mesi nella speranza di ridurre
il rischio di altre infezioni alle orecchie. Al di là di questi
226
problemi, però, Stuart lamentava sempre dolori alle
articolazioni, tanto che ora assumeva regolarmente anche
il Naprosyn, un potente antinfiammatorio. Ipotizzai che
non fosse stato allattato al seno e scoprii di avere ragione.
Durante la visita emersero tre fatti degni di nota.
Primo: era solito respirare dalla bocca, un segno
inequivocabile di continua infiammazione delle fosse
nasali. Secondo: il suo volto sfoggiava le classiche
«occhiaie da allergia», i cerchi scuri sotto gli occhi
correlati a quei disturbi. Terzo: era davvero molto attivo.
Non riusciva a stare seduto tranquillo per più di dieci
secondi, si alzava per esplorare ogni centimetro
dell’ambulatorio e strappare la carta che ricopre gran
parte dei lettini degli studi medici.
La valutazione del nostro laboratorio non fu
approfondita. Eseguimmo un semplice test per la
sensibilità al glutine misurando il livello di anticorpi
antigliadina, una delle proteine del grano. Il livello di
Stuart (e la cosa non mi sorprese) superava del 300% il
valore considerato normale dal laboratorio.
Invece di ricorrere a un farmaco per curare i sintomi,
decidemmo di prendere di mira la causa dei problemi di
questo bambino, ovvero l’infiammazione.
L’infiammazione svolgeva un ruolo fondamentale in
pratica in tutto ciò che accadeva nella fisiologia di questo
ragazzino, compresi i suoi problemi alle orecchie e alle
articolazioni, e l’incapacità di calmarsi.
Spiegai a Nancy che bisognava eliminare il glutine.
Inoltre, per aiutare a ristabilire la flora intestinale dopo la
prolungata esposizione agli antibiotici, dovevamo
aggiungere al suo regime alcuni batteri benefici,
probiotici. Infine, completai l’elenco con l’acido grasso
omega 3 DHA .
227
Quello che avvenne dopo seguì un copione da
manuale. Trascorse due settimane e mezzo, i genitori di
Stuart ricevettero una telefonata dall’insegnante dell’asilo
che li ringraziava per avere deciso di somministrargli la
cura farmacologica: la sua condotta era «molto
migliorata». I genitori si accorsero che si era calmato,
interagiva di più e dormiva meglio. La sua
trasformazione, però, non era dovuta a farmaci. Fu
sufficiente una dieta per permettergli di compiere
«grandi» progressi nella salute e nel comportamento.
Due anni e mezzo dopo ricevetti un biglietto da Nancy
che diceva: «Abbiamo potuto inserirlo a scuola in una
classe dove è il più giovane. È riuscito a eccellere in
lettura e matematica e non prevediamo ulteriori problemi
di iperattività. È cresciuto così in fretta che è uno dei
bambini più alti della classe».
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI )
è una delle diagnosi pediatriche più frequenti. I genitori
dei bambini iperattivi sono indotti a credere che i loro figli
abbiano un tipo di malattia che limiterà la loro capacità di
apprendere. Troppo spesso la classe medica convince i
genitori che i farmaci sono la migliore «soluzione rapida»:
l’idea che il DDAI sia una malattia specifica cui si rimedia
senza difficoltà con una pillola è comoda ma allarmante.
In numerose scuole degli Stati Uniti fino al 25% degli
studenti riceve regolarmente potenti psicofarmaci le cui
conseguenze a lungo termine non sono mai state studiate!
Nonostante l’American Psychiatric Association dichiari
nel suo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
(Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) che dal
3 al 7% dei bambini in età scolare è affetto da DDAI , gli
studi su campioni di comunità hanno fornito stime di
percentuali più elevate e i dati dei sondaggi tra genitori
228
raccolti dai Centers for Disease Control and Prevention
(Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, o
CDC ) dipingono un quadro diverso. 1 Secondo nuovi dati
CDC pubblicati nel marzo del 2013, quasi un ragazzo su
cinque delle scuole secondarie negli Stati Uniti e l’11% dei
bambini in età scolare in generale ha avuto una diagnosi
di DDAI . Questo si traduce in una stima di 6,4 milioni di
bambini dai quattro ai diciassette anni, che riflette un
aumento del 16% dal 2007 e del 53% nell’arco di un
decennio. 2
Come annunciato dal «New York Times»: «Circa due
terzi di tutte le diagnosi attuali sono trattati con stimolanti
come il Ritalin o l’Adderall, che possono portare a un
netto miglioramento della vita dei soggetti colpiti da DDAI ,
ma possono anche dare dipendenza, ansia e, talvolta,
psicosi». 3 Il potenziale miglioramento ha indotto
l’American Psychiatric Association a prendere in
considerazione una modifica della sua definizione del
DDAI affinché più persone ricevano la diagnosi… e siano
curate con dei farmaci. Il dott. Thomas R. Frieden, il
direttore dei CDC , ha affermato che la crescente
percentuale di prescrizioni di stimolanti ai bambini è
come l’abuso di analgesici e antibiotici negli adulti. Sono
d’accordo con lui. Jerome Groopman, professore di
medicina alla Harvard Medical School e autore di Come
pensano i dottori, 4 ha affermato in un’intervista rilasciata al
«Times»: «Esiste una spinta molto forte a considerare
patologico il comportamento ritenuto, tra virgolette,
anomalo del bambino – se non sta seduto in silenzio al
banco – invece di considerarlo solo un aspetto
dell’infanzia». 5 Cosa significa dunque quando la nostra
definizione di infanzia viene calpestata da diagnosi vaghe
come il DDAI ?
229
A prescindere dal notevole aumento nell’uso di
medicine per curare questa patologia nel corso dell’ultimo
decennio, l’utilizzo di ansiolitici è salito alle stelle tra il
2001 e il 2010: nei bambini fino ai diciannove anni ha
subito un incremento del 45% nelle femmine e del 37% nei
maschi. Stando a un rapporto della Express Scripts
intitolato America’s State of Mind (Lo stato mentale
dell’America), il numero complessivo degli americani che
assumono psicofarmaci per trattare disturbi psicologici e
comportamentali ha registrato un sostanziale aumento dal
2001. Nel 2010, i dati più recenti indicavano che più di un
adulto su cinque prendeva almeno un medicinale, fino al
22% in più rispetto a dieci anni prima. È interessante
notare che le donne hanno molte più probabilità degli
uomini di prendere una medicina per un disturbo
mentale. Nel 2010 più di un quarto della popolazione
femminile adulta assumeva psicofarmaci, a fronte di
appena il 15% degli uomini. 6 (I ricercatori di Harvard
ipotizzano che ciò sia dovuto a cambiamenti ormonali
nelle donne, legati a pubertà, gravidanza e menopausa.
Sebbene la depressione possa colpire in ugual misura
uomini e donne, di solito le donne tendono a ricorrere più
spesso all’aiuto del medico.)
230
America’s State of Mind, rapporto di Express Scripts, 2011. Pubblicazione
autorizzata.
231
e problemi comportamentali e psicologici, alcuni fatti
sono assodati:
232
da tic caratterizzato da movimenti improvvisi, ripetitivi,
non ritmici (tic motori) e vocalizzazioni che coinvolgono
gruppi muscolari distinti. La scienza non conosce la causa
precisa di questa anomalia neurologica, ma è noto che,
come molti disturbi neuropsichiatrici, ha origini genetiche
che possono essere aggravate da fattori ambientali. A mio
avviso, in futuro la ricerca confermerà che dietro a molti
casi di sindrome di Tourette si nasconde una sensibilità al
glutine.
In occasione della prima visita di KJ , sua madre mi
spiegò che, per ragioni sconosciute, nel corso dell’anno
precedente sua figlia aveva iniziato a soffrire di
contrazioni involontarie dei muscoli del collo. Era stata
sottoposta a vari tipi di terapie di massaggio e ne aveva
tratto qualche giovamento, ma ogni tanto il problema si
ripresentava. Alla fine, peggiorò fino al manifestarsi di
violenti movimenti di mascella, faccia e collo. Inoltre, si
schiariva di continuo la voce e produceva vari grugniti. Il
suo medico di base aveva diagnosticato la sindrome di
Tourette.
Durante l’anamnesi annotai che tre anni prima della
comparsa dei suoi gravi sintomi neurologici aveva
iniziato ad avere attacchi di diarrea e dolori addominali
cronici, di cui soffriva ancora. Come potrete immaginare,
la sottoposi a un test per la sensibilità al glutine e
confermai che questa povera bambina aveva convissuto
con una sensibilità non diagnosticata. Due giorni dopo
avere iniziato la dieta senza glutine, tutti i movimenti
anomali, gli schiarimenti di voce, i grugniti e perfino il
dolore addominale erano scomparsi. A tutt’oggi KJ non ha
sintomi e non può più essere considerata una persona
colpita da sindrome di Tourette. La sua reazione fu così
233
inoppugnabile che spesso presento questo caso quando
tengo conferenze per professionisti del settore sanitario.
234
matematico all’inizio del livello della quinta, le
competenze scolastiche generali a metà del livello di
quarta e la capacità di ricordare storie a metà del livello
dell’ottava classe.
Riporto una lettera che ricevetti da sua madre:
235
«Si lascia spesso sfuggire risposte e citazioni»: diminuzione
dell’11%. 11
236
PERCHÉ I PARTI CESAREI AUMENTANO IL
RISCHIO DI DDAI
237
È possibile curare l’autismo con una dieta
senza glutine?
Spesso mi viene chiesto se vi sia un rapporto tra glutine e
autismo. Un bambino su 150 nati oggi svilupperà un
disturbo dello spettro autistico; nel 2013, un nuovo
rapporto del governo indicava che a 1 bambino su 50 in
età scolare – un milione di bambini circa – era stata
diagnosticata una qualche forma di autismo. 14 L’autismo è
un disturbo neurologico che di solito si manifesta verso i
tre anni e interessa lo sviluppo di competenze sociali e
comunicative. Gli scienziati stanno cercando di
individuarne le cause precise, probabilmente di carattere
sia genetico sia ambientale. Diversi fattori di rischio sono
stati e sono tutt’ora oggetto di studio, compresi quelli
genetici, infettivi, metabolici, nutrizionali e ambientali, ma
meno del 10-12% dei casi ha cause specifiche ben
identificabili.
Sappiamo che non esiste una panacea per l’autismo,
proprio come non esiste per la schizofrenia o il disturbo
bipolare. Queste malattie del cervello sono diversissime,
ma condividono tutte una caratteristica di fondo,
l’infiammazione, che potrebbe essere in parte il semplice
risultato di una sensibilità a determinati alimenti. Benché
questo argomento sia ancora oggetto di discussione,
alcune persone che soffrono di autismo reagiscono in
maniera positiva all’eliminazione dalla loro dieta di
glutine, zucchero e, talvolta, latticini. In un caso
particolarmente incredibile, un bambino di cinque anni
con diagnosi di autismo severo risultò soffrire anche di
una grave forma di celiachia che gli impediva di assorbire
238
nutrienti. I suoi sintomi autistici si attenuarono dopo che
ebbe smesso di consumare glutine, inducendo i dottori a
raccomandare che tutti i bambini con problemi di
sviluppo neurologico fossero sottoposti a una valutazione
per individuare eventuali deficit nutrizionali e sindromi
da malassorbimento come la celiachia. In alcuni casi, i
deficit nutrizionali che influiscono sul sistema nervoso
possono essere la causa originaria di ritardi nello sviluppo
che rispecchiano l’autismo. 15
Ammetterò che non abbiamo ancora il tipo di ricerca
scientifica in grado di rispettare l’elevato standard di
riferimento necessario per tracciare collegamenti
inequivocabili, ma vale la pena di affrontare l’argomento
in generale e accennare ad alcune deduzioni logiche.
Permettetemi di cominciare indicando la tendenza a un
aumento parallelo di autismo e morbo celiaco. Non
intendo dire che vi sia un collegamento categorico, però è
interessante rilevare l’analogia nell’andamento in termini
numerici. Ciò che queste due malattie hanno davvero in
comune, invece, è la stessa caratteristica fondamentale:
l’infiammazione. La celiachia è un disturbo infiammatorio
dell’intestino, l’autismo è un disturbo infiammatorio del
cervello. È ben documentato che gli individui autistici
hanno nel loro organismo un livello di citochine
infiammatorie superiore alla norma. Anche solo per
questa ragione, vale la pena di riflettere sull’opportunità
di ridurre tutte le interazioni anticorpo-antigene
nell’organismo, comprese quelle riguardanti il glutine.
Uno studio del Regno Unito, pubblicato nel 1999,
monitorò ventidue bambini autistici che seguivano una
dieta senza glutine per un periodo di cinque mesi e
registrò una serie di miglioramenti comportamentali. Il
fatto più allarmante fu che, quando i bambini ingerivano
per errore del glutine dopo avere cominciato la loro dieta,
239
«la velocità con cui il comportamento cambiava di
conseguenza … era impressionante e fu notata da molti
genitori». 16 Inoltre lo studio segnalò che erano occorsi
circa tre mesi affinché i bambini mostrassero un
miglioramento nel loro comportamento. Per qualsiasi
genitore che metta a dieta un figlio è importante non
perdere troppo presto la speranza se non si verificano
subito cambiamenti nella condotta: è bene insistere per
tre-sei mesi prima di aspettarsi miglioramenti evidenti.
Alcuni esperti si sono domandati se gli alimenti
contenenti glutine e proteine del latte possano rilasciare
composti simili alla morfina (esorfine), che stimolano vari
recettori nel cervello e aumentano non solo il rischio di
autismo, ma anche di schizofrenia. 17 Queste teorie
richiedono ulteriori ricerche e approfondimenti, ma forse
possiamo ridurre il rischio di sviluppare queste patologie
e affrontarle meglio.
Nonostante la mancanza di prove documentate, è
chiaro che il sistema immunitario svolge un ruolo nello
sviluppo dell’autismo e che lo stesso sistema immunitario
collega la sensibilità al glutine al cervello. E non va
dimenticato l’«effetto stratificazione», per cui un
problema biologico apre la porta a un altro, dando il via a
una catena di eventi. Se un bambino è sensibile al glutine,
per esempio, la risposta immunitaria a livello intestinale
può portare a sintomi comportamentali e psicologici, e
nell’autismo questo può indurre un’«esacerbazione degli
effetti», come ha osservato un’équipe di ricercatori. 18
240
Uscire dal tunnel
È un dato di fatto straziante: la depressione è la principale
causa di disabilità a livello mondiale. Ed è anche al quarto
posto nell’elenco globale delle malattie. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha stimato che entro il 2020 la
depressione sarà diventata la seconda causa di sofferenza,
seconda solo alla cardiopatia. In molti paesi sviluppati,
come gli Stati Uniti, figura già tra le prime cause di
mortalità. 19
Ancora più inquietante è la massiccia presenza negli
armadietti delle medicine di molti depressi di flaconi di
farmaci come Prozac, Paxil, Zoloft e innumerevoli altri
cosiddetti antidepressivi. Negli Stati Uniti sono di gran
lunga il trattamento più diffuso contro la depressione,
anche se in molti casi si sono dimostrati non più efficaci di
un placebo e talvolta possono essere molto pericolosi e
portare perfino al suicidio. Nuovi studi scientifici stanno
iniziando a illustrare fino a che punto questi farmaci
possano essere micidiali. Esaminando più di 136.000
donne di età compresa tra i cinquanta e i settantanove
anni, alcuni ricercatori di Boston constatarono, per
esempio, un innegabile collegamento tra l’uso di
antidepressivi e il rischio di ictus e di morte in generale.
Le donne in cura con antidepressivi avevano il 45% di
probabilità in più di ictus e un aumento del 32% del
rischio di morte a prescindere dalle cause. 20 La
conclusione, pubblicata su «Archives of Internal
Medicine», proveniva dalla Women’s Health Initiative, una
grande indagine sulla salute pubblica delle donne negli
Stati Uniti. E non importava se gli antidepressivi usati
241
erano del nuovo tipo, i cosiddetti inibitori selettivi della
ricaptazione della serotonina (ISRS ), o di vecchia
generazione, cioè antidepressivi triciclici come l’Elavil. Gli
ISRS sono usati di norma come antidepressivi, ma possono
essere prescritti anche per curare disturbi dell’ansia e
alcuni disturbi della personalità. Funzionano impedendo
al cervello di riassorbire il neurotrasmettitore serotonina:
alterando l’equilibrio della serotonina nel cervello, i
neuroni trasmettono e ricevono meglio i messaggi chimici,
il che a sua volta migliora l’umore.
Gli studi destano preoccupazione e si è giunti a un
punto di svolta: alcune grandi società farmaceutiche
stanno prendendo le distanze dallo sviluppo di
antidepressivi (anche se questo settore, con i suoi quasi
quindici miliardi di dollari all’anno, è ancora molto
redditizio). Come si leggeva di recente sul «Journal of the
American Medical Association»: «L’entità del beneficio
dei farmaci antidepressivi rispetto ai placebo è
proporzionale alla gravità dei sintomi della depressione, e
in media, in pazienti con sintomi lievi o moderati, può
essere minimo o inesistente». 21
Questo non vuol dire che in alcuni casi gravi
determinati farmaci non siano di aiuto, ma le implicazioni
sono assai significative. Passiamo brevemente in rassegna
alcuni dati interessanti che indurranno chiunque pensi di
assumere un antidepressivo a tentare un’altra strada
verso la felicità.
242
persone che cominciano ad assumere farmaci per ridurre
il colesterolo (cioè statine) possono diventare molto più
depresse. 23 Ho avuto occasione di osservarlo io stesso nel
mio ambulatorio. Non è chiaro se la depressione sia una
diretta conseguenza del principio attivo o se sia solo un
corollario del livello inferiore del colesterolo (spiegazione
per la quale propendo).
Studi risalenti a più di un decennio fa hanno
evidenziato un legame tra basso colesterolo totale e
depressione, per non parlare di comportamenti impulsivi
come suicidio e violenza.
Nel 2011 James M. Greenblatt, psichiatra specializzato
nella cura di bambini e di adulti e autore di The
Breakthrough Depression Solution (La soluzione innovativa
della depressione), scrisse un bell’articolo per
«Psychology Today» in cui sintetizzava le evidenze. 24 Nel
1993 fu rilevato che gli anziani di sesso maschile con il
colesterolo basso correvano un rischio di depressione
superiore del 300% rispetto alle loro controparti con il
colesterolo più elevato. 25 Uno studio svedese del 1997
individuò uno schema analogo: fra trecento donne per il
resto sane, di età compresa fra i trentuno e i
sessantacinque anni, il 10% con livelli di colesterolo
inferiori presentava sintomi depressivi molto più
importanti rispetto alle altre partecipanti con livelli di
colesterolo più elevati. 26 Nel 2000 alcuni scienziati dei
Paesi Bassi annunciarono che, a lungo termine, gli uomini
con livelli di colesterolo totale bassi riscontravano più
sintomi depressivi di quelli con livelli di colesterolo più
elevati. 27 In un rapporto del 2008 pubblicato sul «Journal
of Clinical Psychiatry» si leggeva: «Un colesterolo serico
basso può essere associato con un’anamnesi di tentato
suicidio». 28 I ricercatori esaminarono un gruppo di 417
pazienti che avevano tentato il suicidio – 138 uomini e 279
243
donne – e li confrontarono con 155 pazienti psichiatrici
che non lo avevano tentato e con 358 pazienti sani. Lo
studio definiva «basso» il colesterolo serico inferiore a
160. I risultati furono impressionanti: le probabilità di
avere tentato il suicidio erano superiori del 200% per gli
individui appartenenti alla categoria del colesterolo basso.
Nel 2009, infine, il «Journal of Psychiatric Research»
pubblicò uno studio che aveva seguito per quindici anni
quasi quattromilacinquecento veterani statunitensi. 29 Gli
uomini depressi con bassi livelli di colesterolo totale
affrontavano un rischio di morte prematura per cause non
naturali (come suicidio e incidenti) sette volte superiore a
quello degli altri partecipanti allo studio. Come già
osservato, è dimostrato da tempo che le persone con un
basso livello di colesterolo totale sono più inclini a tentare
il suicidio.
Potrei proseguire e presentare studi di tutto il mondo
che giungono alla stessa conclusione sia per gli uomini sia
per le donne: al colesterolo basso corrisponde un rischio
molto più elevato di sviluppare la depressione. Più è
basso, più si è a un passo dall’insorgere di pensieri suicidi.
Non lo dico con superficialità, ormai abbiamo prove della
gravità di questo rapporto causa-effetto documentate da
molte istituzioni prestigiose. Questo nesso è ben
documentato anche nel campo del disturbo bipolare. 30 I
pazienti con disturbo bipolare hanno una maggior
tendenza a tentare il suicidio se hanno il colesterolo basso.
244
pazienti celiaci iniziarono a essere pubblicate negli anni
Ottanta. Nel 1982 alcuni ricercatori svedesi riferirono che
«la psicopatologia depressiva è una caratteristica del
morbo celiaco negli adulti». 31 Uno studio del 1998 stabilì
che circa un terzo dei celiaci soffre anche di depressione. 32
Nel 2007 fu pubblicato uno studio di particolare
importanza; si trattava di nuovo di ricercatori svedesi, che
valutavano quasi quattordicimila pazienti celiaci e li
confrontavano con più di sessantaseimila soggetti sani. 33
Volevano conoscere il rischio di depressione di un
paziente celiaco e il rischio di celiachia di un paziente
depresso. Risultò che la possibilità per i celiaci di
incorrere in una depressione era più elevata dell’80% e
che la minaccia di un’effettiva diagnosi di celiachia negli
individui depressi registrava un incremento del 230%. Nel
2011, un’altra indagine svedese riscontrò che tra i malati
di celiachia il rischio di suicidio era superiore del 55%. 34
Un altro studio eseguito da un’équipe di ricercatori
italiani constatò che il morbo celiaco innalza il rischio di
depressione di un incredibile 270%. 35
Oggi la depressione colpisce fino al 52% degli individui
sensibili al glutine. 36 Anche gli adolescenti sensibili al
glutine sono esposti ad alti tassi di depressione; quelli
celiaci denotano particolare vulnerabilità, con un rischio
di depressione del 31% (a fronte di appena il 7% degli
adolescenti sani). 37
A questo punto si pone una domanda logica: qual è il
rapporto tra depressione e danni all’intestino? Una volta
che la mucosa intestinale è lesa dal morbo celiaco, essa
non riesce più ad assorbire in modo efficace nutrienti
essenziali, molti dei quali mantengono sano il cervello,
per esempio lo zinco, il triptofano e le vitamine B. Questi
nutrienti sono elementi necessari nella produzione di
mediatori chimici come la serotonina. Inoltre, la grande
245
maggioranza degli ormoni e delle sostanze chimiche del
buon umore viene prodotta nell’area intestinale da quello
che gli scienziati chiamano ormai il «secondo cervello». 38
Le cellule nervose nell’intestino non solo regolano
muscoli, immunociti e ormoni, ma fabbricano anche circa
l’80-90% della serotonina del corpo. In realtà, il «cervello
intestinale» produce più serotonina di quello situato nel
cranio.
I deficit nutrizionali di vitamina D e zinco risultano i
più critici tra quelli collegati alla depressione. Conoscete
già l’importanza della vitamina D in diversi processi
fisiologici, inclusa la regolazione dell’umore. Anche lo
zinco è importante per la meccanica del corpo: oltre ad
aiutare il sistema immunitario e mantenere la memoria
pronta, è richiesto nella produzione e nell’uso dei
neurotrasmettitori che favoriscono il buon umore. Questo
aiuta a spiegare perché l’integrazione di zinco potenzi gli
effetti degli antidepressivi nelle persone con depressione
maggiore (esempio calzante: da uno studio del 2009
emerse che persone che in passato non erano state aiutate
dagli antidepressivi riferivano infine dei miglioramenti
dopo avere cominciato ad assumere un integratore di
zinco). 39 James Greenblatt, che ho già citato, ha scritto
molto sull’argomento, e, come me, vede molti pazienti cui
gli antidepressivi non hanno giovato. Quando questi
pazienti evitano gli alimenti contenenti glutine, i loro
sintomi psicologici si risolvono. In un altro articolo per
«Psychology Today», Greenblatt scrive: «Il morbo celiaco
non diagnosticato può esacerbare sintomi di depressione
o anche esserne la causa principale. I pazienti con
depressione dovrebbero essere sottoposti a esami per
individuare eventuali deficit nutrizionali. Chissà, forse la
diagnosi corretta è celiachia e non depressione». 40 Molti
medici ignorano i deficit nutrizionali e non pensano a
246
effettuare test per la sensibilità al glutine perché sono
abituati (e si sentono più tranquilli) a prescrivere farmaci.
È importante segnalare che un elemento comune a
molti di questi studi è il lasso di tempo necessario a
cambiare la situazione nel cervello. Come per altri
disturbi comportamentali, per esempio DDAI e disturbo
d’ansia, possono occorrere almeno tre mesi affinché i
soggetti provino un vero senso di sollievo. Una volta
adottata una dieta senza glutine, è fondamentale seguirla
con coerenza. Non perdete la speranza se non ottenete
subito miglioramenti significativi: rendetevi conto che,
con ogni probabilità, sperimenterete un netto
miglioramento sotto diversi aspetti. Mi capitò di curare un
istruttore di tennis professionista che era paralizzato dalla
depressione, e nonostante l’uso di diversi antidepressivi
prescritti da altri dottori non migliorava. Quando gli
diagnosticai la sensibilità al glutine e intraprese la dieta
appropriata, ne fu come trasformato: i sintomi depressivi
scomparvero e tornò alle sue massime prestazioni in
campo.
247
Stabilità psichica attraverso la dieta
Tutti questi discorsi sull’insidioso legame tra glutine e
disturbi psicologici comuni spingono senza dubbio a
interrogarsi sul ruolo del glutine in qualsiasi disturbo che
riguardi la mente, dal più diffuso in America, l’ansia – che
tocca circa quaranta milioni di adulti –, a patologie
complesse come la schizofrenia e il disturbo bipolare.
Cosa dice la scienza in merito al glutine e al suo
rapporto con le nostre malattie mentali più misteriose?
Sono patologie complicate che implicano fattori genetici e
ambientali, ma diversi studi dimostrano che spesso coloro
che ne soffrono sono anche sensibili al glutine. E se hanno
un’anamnesi di celiachia, il rischio di sviluppare questi
disturbi psichiatrici è molto più elevato della norma.
Oltretutto, disponiamo ormai di prove documentate che le
madri sensibili al glutine mettono al mondo figli con un
rischio di schizofrenia superiore di quasi il 50%.
Lo studio, pubblicato nel 2012 sull’«American Journal
of Psychiatry», si aggiunge a un crescente corpus di prove
del fatto che molte delle malattie che si manifestano nel
corso della vita hanno origine prima o appena dopo la
nascita. Gli autori dello studio, che provengono dalla
Johns Hopkins e dall’università svedese di medicina
Karolinska Institutet, una delle più grandi e prestigiose
d’Europa, hanno saputo esprimere i fatti con grande
chiarezza:
Stile di vita e geni non sono gli unici fattori a plasmare il rischio di
patologie; fattori ed esposizioni prima, durante e dopo la nascita
possono contribuire a preprogrammare una buona parte della nostra
248
salute da adulti. Il nostro studio è un esempio esplicativo e
suggerisce che una sensibilità alimentare prima della nascita
potrebbe essere un catalizzatore nello sviluppo della schizofrenia o
di una malattia analoga venticinque anni dopo. 41
249
psichiatrici e sensibilità alimentare materna. Il dott. F.
Curtis Dohan, ricercatore dell’esercito degli Stati Uniti, fu
tra i primi scienziati a rilevare un nesso tra la scarsità di
cibo nell’Europa del dopoguerra (e, di conseguenza, una
mancanza di grano nella dieta) e la netta diminuzione di
ospedalizzazioni per schizofrenia. Anche se all’epoca
quest’osservazione non poteva costituire una prova di tale
associazione, nel frattempo abbiamo avuto il beneficio di
studi a lungo termine e di tecnologie moderne per
verificare la responsabilità del glutine.
Alcuni studi hanno mostrato altresì che una dieta
povera di carboidrati e ricca di grassi, proprio come quella
che illustro nel capitolo VII, può alleviare non solo i
sintomi della depressione, ma anche della schizofrenia.
Nel caso di una donna citata in letteratura con le iniziali
CD , i sintomi di schizofrenia scomparvero del tutto dopo
l’adozione di una dieta senza glutine e povera di
carboidrati. 43 La paziente ebbe la prima diagnosi all’età di
diciassette anni e soffrì per tutta la vita di paranoia,
pensiero disorganizzato e allucinazioni quotidiane. Prima
di adottare, all’età di settant’anni, una dieta povera di
carboidrati, era stata più volte ricoverata in ospedale per
tentativi di suicidio e aumento dei sintomi psicotici. Le
medicine non alleviavano i suoi sintomi. Già nella prima
settimana della nuova dieta, CD riferì di sentirsi meglio e
di avere più energie. E dopo tre settimane non sentiva più
voci né «vedeva scheletri». Nel corso dell’anno, CD perse
peso e le sue allucinazioni non tornarono più, neppure
quando, una volta ogni tanto, trasgrediva e mangiava un
po’ di pasta, di pane o di torta.
250
Un rimedio per il comune mal di testa?
Non riesco a immaginare come sarebbe soffrire di mal di
testa tutti i giorni, ma ho curato molti pazienti che hanno
sopportato il peso di questo tipo di sofferenza per tutta la
vita. Prendiamo, per esempio, un signore di sessantasei
anni che incontrai per la prima volta nel gennaio del 2012.
Lo chiamerò Cliff.
Cliff viveva da trenta lunghi anni con un mal di testa
incessante e merita una medaglia d’oro per avere fatto del
suo meglio per eliminare il dolore. Fra i suoi tentativi
annoverava una litania di farmaci: da quelli concepiti per
le emicranie, come l’Imitrex, agli antidolorifici narcotici
come il Vicodin, prescritti dopo consultazioni con famose
cliniche specializzate. Invano. Oltre a essere inefficaci,
scoprì che molti di questi farmaci lo rallentavano in
maniera significativa. Pur accennando al fatto che
pensava vi fosse un rapporto tra i suoi mal di testa e
l’alimentazione, Cliff non sapeva dire se fosse sempre
così. Nulla nella sua anamnesi mi colpì in modo
particolare, ma quando parlammo della sua famiglia disse
che anche sua sorella soffriva di continui mal di testa e di
notevoli intolleranze alimentari. Questo dato mi indusse a
un’ulteriore piccola indagine. Appresi che Cliff aveva una
storia ventennale di rigidità muscolare, e che sua sorella
era portatrice di un particolare anticorpo legato alla
sensibilità al glutine e associato pure alla cosiddetta
«sindrome della persona rigida».
Quando controllai gli esami del sangue di Cliff per
verificare la sensibilità al glutine, alcune cose risultarono
evidenti. Era molto reattivo a undici proteine in relazione
251
con il glutine. Come sua sorella, denotava una forte
reazione all’anticorpo associato alla sindrome della
persona rigida. Mi accorsi anche che era piuttosto
sensibile al latte vaccino. Come faccio spesso con i miei
pazienti, gli prescrissi una dieta che limitava glutine e
latticini. Dopo tre mesi, mi disse che non aveva avuto
alcun bisogno di Vicodin nelle settimane precedenti. Su
una scala di valutazione del dolore da 1 a 10, il suo
peggior mal di testa era ora un sopportabile 5 e non più
un clamoroso 9. La cosa migliore, però, era che quei mal
di testa non si protraevano più per tutta la giornata,
duravano solo tre o quattro ore. Anche se non era
completamente guarito, il sollievo era grande e così pure
la soddisfazione. Era così contento dei risultati ottenuti
che mi autorizzò a usare la sua fotografia per la
presentazione del suo caso, ora pubblicato, agli operatori
sanitari.
Molti altri pazienti varcano la porta del mio studio per
poi liberarsi dal mal di testa grazie all’adozione di una
dieta senza glutine. Una donna con un problema analogo
si era rivolta a un numero infinito di dottori, aveva tentato
molteplici farmaci soggetti a prescrizione medica e si era
sottoposta a sofisticate risonanze magnetiche al cervello.
Non aveva funzionato nulla, fino all’incontro con me e
alla prescrizione di un test per la sensibilità al glutine. A
un tratto il suo male aveva un nome (e anche una cura).
I mal di testa sono una delle malattie più diffuse:
soltanto negli Stati Uniti soffrono di mal di testa cronici
più di quarantacinque milioni di persone. Tra queste,
ventotto milioni soffrono di emicranie. 44 È incredibile: la
medicina del XXI secolo continua a concentrarsi sulla cura
dei sintomi di quello che spesso è un problema del tutto
evitabile. Se soffrite di mal di testa cronico, perché non
252
tentare una dieta senza glutine? Non avete nulla da
perdere.
253
quelle colpite dal morbo celiaco (quelle classificate come
sensibili al glutine non erano risultate positive al test per
la celiachia, ma ne riferivano i sintomi quando
consumavano alimenti contenenti grano). 45 Inoltre, fu
riscontrato che il 23% dei partecipanti con malattie
infiammatorie croniche intestinali avevano anche mal di
testa cronici. Quando i ricercatori accertarono la
prevalenza delle emicranie, scoprirono percentuali molto
più elevate di soggetti che ne soffrivano nel gruppo dei
celiaci (21%) e nel gruppo con malattie infiammatorie
croniche intestinali (14%) rispetto al gruppo di controllo
(6%). Quando le fu chiesto di spiegare questa connessione,
la dott.ssa Alexandra Dimitrova, responsabile della
ricerca, rimandò al principale colpevole: l’infiammazione.
Per citare le sue parole:
254
questo libro, ha eseguito studi approfonditi su mal di testa
e sensibilità al glutine. 47 Fra i suoi lavori più pregevoli
figurano le risonanze cerebrali che mostrano profonde
alterazioni nella materia bianca dei pazienti con mal di
testa e sensibilità al glutine: le anomalie sono indicative
del processo infiammatorio. Per la maggioranza di questi
pazienti le normali cure farmacologiche per il mal di testa
non funzionavano, ma la sofferenza venne meno quando
adottarono una dieta senza glutine.
Il dott. Alessio Fasano, a capo del Center for Celiac
Research al Massachusetts General Hospital, è un
gastroenterologo pediatrico di fama mondiale e un
ricercatore all’avanguardia nel campo della sensibilità al
glutine. 48 Quando lo incontrai a una conferenza nazionale
sull’argomento, a cui partecipavamo entrambi come
oratori, mi disse che per lui non era più una novità che i
pazienti sensibili al glutine, compresi quelli celiaci,
soffrissero spesso di mal di testa. Fummo concordi nel
ritenere un peccato che questo tipo di disturbo dovuto al
glutine sia spesso male interpretato. Il rimedio è semplice,
ma poche delle persone che ne soffrono sanno di essere
sensibili al glutine.
In una sperimentazione condotta da ricercatori italiani,
ottantotto bambini celiaci con mal di testa cronici
provarono una dieta senza glutine. Il 77,3% di essi rilevò
un notevole miglioramento, e tra questi il 27,3% non
lamentava più alcun mal di testa se perseverava nella
dieta. Lo studio dimostrò altresì che il 5% dei bambini con
mal di testa cui in precedenza non era stata diagnosticata
la celiachia soffriva, in realtà, di questa malattia; una
percentuale molto superiore allo 0,6% documentato dai
ricercatori nell’insieme della popolazione infantile
studiata. Di conseguenza, il rischio di mal di testa nel
gruppo celiaco era aumentato dell’833%. Gli autori
255
conclusero: «Nella nostra area geografica abbiamo
registrato un’elevata frequenza di mal di testa in pazienti
con morbo celiaco e, viceversa, l’effetto positivo di una
dieta senza glutine. Lo screening per la celiachia potrebbe
essere consigliabile nel check up diagnostico di pazienti
che soffrono di mal di testa». 49
256
che allarmerebbero qualsiasi genitore e sarebbero penosi
per un bambino: perdita di peso, anoressia, dolori
addominali, difficoltà di concentrazione, sedazione e
parestesia (la sensazione di «aghi e spilli» o di un arto
«che si addormenta»). 51 Non so voi, ma io non vorrei che
mio figlio li provasse, anche in modo temporaneo, per
tenere a bada un mal di testa che non ha nulla a che fare
con quello per cui il farmaco è stato studiato. In generale,
in base a numerosi studi emersi negli ultimi anni gli
anticonvulsivanti non alleviano i mal di testa nei bambini
più di quanto fa un placebo. 52 Eminenti ricercatori
specializzati in questo campo hanno anzi insistito sulla
necessità di effettuare ulteriori studi sui bambini, perché
pochi farmaci si sono dimostrati utili, efficaci e sicuri.
Concentrarsi sui farmaci invece che sulle scelte alimentari
e l’integrazione nutrizionale impedisce, purtroppo, di
affrontare la causa principale del mal di testa.
257
nazionale sulla salute e sulla nutrizione (National Health
and Nutrition Examination Survey o NHANES ). 53 I dati
comprendevano un patrimonio di preziose informazioni
da esaminare, dai calcoli dell’obesità addominale (la
misura della circonferenza della vita) e dell’obesità
generale (stabilita mediante l’indice di massa corporea)
alle segnalazioni sulla frequenza di mal di testa ed
emicranie. Anche dopo avere controllato l’obesità
generale, i ricercatori stabilirono che sia per gli uomini sia
per le donne di età compresa tra i venti e i
cinquantacinque anni (la fascia di età in cui l’emicrania è
più diffusa) il grasso addominale in eccesso era associato
a un aumento significativo dell’attività dell’emicrania. Le
donne con grasso addominale in eccesso avevano il 30%
di probabilità in più di soffrire di emicranie rispetto alle
altre. Questo rimaneva vero anche quando i ricercatori
tenevano conto di obesità generale, fattori di rischio per
patologie cardiache e caratteristiche demografiche.
Molti altri studi evidenziano il nesso irriducibile tra
obesità e rischio di mal di testa cronici. 54 Uno studio
molto ampio, pubblicato nel 2006, prese in esame oltre
trentamila persone constatando che i mal di testa cronici
quotidiani ricorrevano con una frequenza superiore del
28% nel gruppo degli obesi rispetto ai soggetti di controllo
normopeso. Per chi era patologicamente obeso l’aumento
del rischio di mal di testa cronico quotidiano era pari al
74%. Quando i ricercatori esaminarono più da vicino
coloro che soffrivano di emicranie in particolare,
verificarono un rischio più elevato del 40% per le persone
in sovrappeso e del 70% per gli obesi. 55
Arrivati a questo punto del libro sapete ormai che il
grasso è un potente organo ormonale, un sistema in grado
di generare composti pro-infiammatori. Le cellule adipose
258
secernono una quantità enorme di citochine che danno
luogo a cascate infiammatorie. I mal di testa sono, in
fondo, manifestazioni di un’infiammazione, proprio come
la maggior parte delle altre patologie relative al cervello
di cui ci siamo occupati.
È comprensibile, dunque, che gli studi che esaminano il
rapporto tra i fattori legati allo stile di vita (per esempio
essere sovrappeso, avere una scarsa attività fisica e
fumare) e i mal di testa ricorrenti colleghino questi ultimi
e il grasso addominale. Pochi anni fa, in Norvegia, alcuni
ricercatori intervistarono 5847 studenti adolescenti in
merito ai loro mal di testa, fecero compilare loro un
esauriente questionario sulle abitudini e stili di vita e li
sottoposero a un esame clinico. 56 Quelli che affermavano
di impegnarsi in una regolare attività fisica e di non essere
fumatori furono classificati come aventi uno stile di vita
sano. Questi studenti furono messi a confronto con quelli
considerati meno sani a causa di una o più abitudini
negative.
I risultati? I giovani in sovrappeso avevano il 40% di
probabilità in più di soffrire di mal di testa; il rischio
aumentava del 20% per coloro che non facevano molto
esercizio e del 50% per i fumatori. Queste percentuali,
tuttavia, si sommavano quando uno studente selezionava
più di un fattore di rischio. Se uno studente era in
sovrappeso, fumava e non faceva esercizio fisico, il suo
rischio di mal di testa cronico era molto più elevato. E
anche questo studio puntava il dito contro
l’infiammazione e il suo effetto di alimentare questa sorta
di tempesta di fuoco.
Più grossa è la pancia, maggiore sarà il rischio di mal di
testa. È raro pensare al nostro stile di vita e alla nostra
alimentazione quando ci viene un mal di testa: tendiamo a
ricorrere ai farmaci e ad aspettare l’arrivo del prossimo.
259
Finora, tuttavia, ogni ricerca mostra la grande importanza
dello stile di vita per controllare, curare e guarire in modo
definitivo i mal di testa. Se riuscite a ridurre le fonti di
infiammazione (perdere il peso in eccesso, eliminare il
glutine, ridurre l’apporto di carboidrati, aumentare quello
dei grassi buoni e mantenere un sano equilibrio
glicemico), potrete colpire i mal di testa e tenerli sotto
controllo.
260
LA RICETTA PER LIBERARSI DAL MAL DI TESTA
Un mal di testa può essere scatenato da numerosi fattori. Non mi è
possibile elencare tutti i potenziali responsabili, ma posso offrire alcuni
suggerimenti per porre fine a questa sofferenza:
261
così in queste occasioni sarà possibile prestare particolare attenzione.
Le donne, per esempio, riescono spesso a individuare schemi in base al
ciclo mestruale. Riuscire a definire queste dinamiche consente di
comprendere meglio il proprio mal di testa e agire di conseguenza.
262
Parte II
263
RIABILITARE IL CERVELLO
264
Capitolo VII
265
Le abitudini alimentari ottimali per il
cervello
Digiuno, grassi e integratori essenziali
PLATONE
266
Mantenere in funzione il cervello richiede dunque
l’acquisizione di molte calorie tramite l’alimentazione.
Fortunatamente per noi, il nostro grande e potente
cervello ci ha permesso di sviluppare le competenze e
l’intelligenza per sopravvivere a condizioni estreme come
la scarsità di cibo. Sappiamo immaginare il futuro e
pianificarlo, una caratteristica che contraddistingue la
nostra specie. Avere un’idea delle incredibili capacità del
nostro cervello può contribuire a organizzare in modo
ottimale la nostra dieta per mantenerlo sano e
funzionante.
267
Il potere del digiuno
Ho già accennato a un meccanismo del corpo umano di
importanza cruciale: la sua capacità di trasformare il
grasso in carburante vitale in tempi di carestia. Siamo in
grado di scindere i grassi in molecole specializzate
denominate chetoni. Una in particolare, che ho già citato,
è il beta-idrossibutirrato (beta-HBA ), un carburante di
prim’ordine per il cervello. Questo non solo rappresenta
un argomento convincente a favore dei benefici di un
digiuno ciclico per nutrire il cervello – per quanto ciò
possa sembrare contraddittorio –, ma serve anche a
spiegare una delle questioni oggetto delle più accese
discussioni in campo antropologico: perché i nostri
parenti di Neanderthal siano scomparsi tra i trentamila e i
quarantamila anni fa. Sebbene sia comodo e quasi
obbligatorio accettare che gli uomini di Neanderthal
furono «spazzati via» dall’intelligente homo sapiens, oggi
molti scienziati ritengono che la scarsità di cibo possa
avere svolto un ruolo più importante nella loro
scomparsa. Forse gli uomini di Neanderthal non avevano
la «resistenza mentale» per sopravvivere perché non
disponevano della via biochimica per sfruttare il grasso
per nutrire il cervello.
A differenza di quello di altri mammiferi, in tempi di
carestia il nostro cervello può attingere a una fonte di
calorie alternativa. Di solito, il nostro cibo quotidiano
fornisce al cervello il glucosio da bruciare come
carburante; tra un pasto e l’altro, il cervello viene
approvvigionato da un flusso costante di glucosio,
prodotto dalla scissione di glicogeno, in prevalenza
268
proveniente da fegato e muscoli. Ma le scorte di glicogeno
possono procurare solo una determinata quantità di
glucosio. Una volta esaurite le riserve, il nostro
metabolismo cambia e siamo in grado di produrre nuove
molecole di glucosio da amminoacidi ricavati da proteine
che si trovano innanzitutto nei muscoli. Questo processo,
propriamente detto gluconeogenesi, è un meccanismo
provvidenziale perché aggiunge il glucosio necessario al
sistema, ma ha il difetto di sacrificare muscoli. E la perdita
di massa muscolare non è un fatto positivo per un
cacciatore-raccoglitore affamato.
Per fortuna, la fisiologia umana offre un’altra via per
nutrire il cervello. Quando il cibo non è più disponibile,
dopo circa tre giorni, il fegato inizia a sfruttare il grasso
corporeo per produrre chetoni. Da quel momento il beta-
HBA si presta come forma molto efficiente di carburante
per il cervello, permettendoci di funzionare sotto il profilo
cognitivo per tempi prolungati durante le carestie. Questa
fonte alternativa di energia riduce la nostra dipendenza
dalla gluconeogenesi preservando, di conseguenza, la
massa muscolare.
Per giunta, come ha dichiarato il professor George F.
Cahill della Harvard Medical School: «Alcuni recenti
studi hanno dimostrato che il beta-idrossibutirrato, il
principale chetone, non è solo un carburante, bensì un
supercarburante, che produce energia ATP con maggiore
efficienza del glucosio. Inoltre, ha protetto cellule
neuronali in fase di coltura tessutale dall’esposizione a
tossine associate all’Alzheimer o al Parkinson». 2
Cahill e altri ricercatori hanno stabilito che il beta-HBA ,
che è facile ottenere aggiungendo olio di cocco alla nostra
dieta, migliora la funzione antiossidante, aumenta il
269
numero dei mitocondri e stimola la crescita di nuove
cellule cerebrali.
Nel capitolo V abbiamo esaminato la necessità di
ridurre l’apporto calorico per incrementare i livelli di
BDNF , stimolando così la crescita di nuove cellule cerebrali
e potenziando il funzionamento dei neuroni esistenti.
Molti non amano l’idea di ridurre in modo sostanziale
l’apporto calorico giornaliero, anche se è un approccio che
giova parecchio non solo al potenziamento del cervello,
ma alla salute nel suo complesso. È più semplice applicare
il digiuno ciclico, una limitazione assoluta del cibo per
ventiquattro-settantadue ore a intervalli regolari nel corso
dell’anno. Nel capitolo X consiglio e descrivo un
protocollo di digiuno. La ricerca ha dimostrato che molti
dei meccanismi genetici attivati dalla restrizione calorica e
utili alla salute e al potenziamento del cervello sono
innescati in modo analogo dal digiuno, anche per periodi
di tempo piuttosto brevi. 3 Ciò contrasta con l’opinione
diffusa in base alla quale digiunare rallenta il
metabolismo e costringe il corpo a conservare il grasso in
uno stato cosiddetto da fame. Viceversa, digiunare
procura al corpo benefici che possono accelerare e
aumentare la perdita di peso, per non parlare dei vantaggi
per la salute cerebrale.
Non solo digiunare attiva il meccanismo genetico per la
produzione di BDNF , ma alimenta anche la via Nrf2, che
migliora la detossificazione, riduce l’infiammazione e
aumenta la produzione di antiossidanti a difesa del
cervello. Digiunare fa sì che il cervello passi dall’utilizzo
del glucosio come carburante a quello dei chetoni prodotti
nel fegato. Quando il cervello metabolizza i chetoni come
carburante, si ha anche una riduzione del processo del
suicidio cellulare (apoptosi), mentre nei mitocondri si
270
attivano geni che portano alla replicazione mitocondriale.
In altre parole: digiunare aumenta la produzione di
energia e consente al cervello di funzionare meglio ed
essere più lucido.
271
Elementi in comune tra digiuno e diete
chetogeniche
Cosa succede quando si riduce in maniera sostanziale
l’apporto di carboidrati e si ricavano più calorie dai
grassi? Ho appena finito di spiegare i benefici del digiuno,
che stimola il cervello a ricorrere ai lipidi come carburante
sotto forma di chetoni. Una reazione analoga ha luogo
quando si segue una dieta povera di carboidrati e ricca di
grassi sani e di proteine. Questo è il fondamento del
protocollo dietetico da me proposto.
Nel corso della storia i grassi sono stati per l’essere
umano un’ambita fonte di nutrimento ricco di calorie: lo
mantenevano snello ed erano utili nella vita dei cacciatori-
raccoglitori. Come già sapete, consumare carboidrati
stimola la produzione di insulina, che a sua volta
favorisce la produzione e la ritenzione di grasso e una
ridotta capacità di bruciarli. Oltretutto, il consumo di
carboidrati stimola un enzima chiamato lipoproteina
lipasi, che favorisce l’ingresso dei lipidi nella cellula;
l’insulina secreta quando consumiamo carboidrati
peggiora la situazione attivando enzimi che bloccano i
lipidi nelle cellule adipose.
Come ho già accennato, quando bruciamo grassi invece
di carboidrati entriamo in uno stato di chetosi. Di per sé
non vi è nulla di male: i nostri corpi sono attrezzati per
questa attività fin dalla nostra comparsa sulla Terra.
Essere in un lieve stato di chetosi è perfino salutare.
Capita quando ci alziamo al mattino, perché il fegato sta
mobilitando il grasso corporeo da usare come carburante.
I chetoni, rispetto all’impiego glicemico, permettono a
272
cuore e cervello di funzionare con un’efficienza superiore
fino al 25%. Le cellule cerebrali normali e sane prosperano
grazie ai chetoni. Determinate cellule dei tumori cerebrali,
invece, possono bruciare solo glucosio. Il trattamento
standard per il glioblastoma, uno dei tipi più aggressivi
tra i tumori al cervello, è rappresentato da chirurgia,
radioterapia e chemioterapia. A essere onesti, però, i
risultati di questi approcci sono piuttosto deprimenti.
Approfittando del fatto che le cellule del glioblastoma
possono servirsi solo di glucosio e non di chetoni, il dott.
Giulio Zuccoli della University of Pittsburgh School of
Medicine ha sostenuto che una dieta chetogenica potrebbe
integrare le cure tradizionali nel trattamento del
glioblastoma. 4 E ha pubblicato il caso clinico di un
paziente affetto da glioblastoma trattato usando una dieta
chetogenica con notevoli risultati. Se una dieta può
prolungare la vita di un paziente oncologico, cosa potrà
fare in un individuo sano?
Una dieta solo chetogenica è una dieta che ricava l’80-
90% delle calorie dai lipidi e il resto da carboidrati e
proteine. Questo è senza dubbio un caso estremo, ma i
chetoni sono un carburante molto più efficace per il
cervello. Nel 1921, quando Russell Wilder della Mayo
Clinic sviluppò la dieta chetogenica, l’approccio
prevedeva in pratica solo grassi. Negli anni Cinquanta
scoprimmo i trigliceridi a catena media (MCT , Medium
Chain Triglycerides), che agiscono nel corpo come
precursori del beta-idrossibutirrato e possono essere
consumati attraverso l’olio di cocco.
Il protocollo dietetico delineato nel capitolo X rispetta i
principi chetogenici di base: riduce in modo significativo i
carboidrati per spingere il corpo a bruciare grassi e
aumenta al tempo stesso l’apporto di grassi e nutrienti per
273
incrementare la produzione di beta-HBA . Per quattro
settimane limiterete il consumo di carboidrati a soli 30-40
grammi al giorno, poi potrete incrementarne la quantità
fino a 60 grammi. Il grado di chetosi che potete
raggiungere può essere misurato grazie a un test con
apposite strisce, usato di solito dai diabetici e disponibile
in tutte le farmacie. Un paio di gocce di urina sono
sufficienti per conoscere subito il livello di chetosi
raggiunto. L’obiettivo sono bassi livelli di chetosi, intorno
a un intervallo da 5 a 15; la maggior parte dei prodotti per
questo esame, come per esempio il Ketostix, si avvalgono
di tabelle colorimetriche e di solito il rosa chiaro indica la
presenza di piccole tracce. Ciò significa che il vostro corpo
sta sfruttando in maniera efficace i corpi chetonici per
produrre energia. Se seguirete il mio protocollo, potrete
sperimentare una lieve chetosi all’incirca dopo la prima
settimana del programma, e forse vorrete sottoporvi
all’esame per verificare questo effetto. Alcune persone si
sentono meglio con livelli più elevati di chetosi.
274
Sette integratori per il cervello
275
volta, nel 2004, possiamo aggiungere alla didascalia: «e la
predisposizione a disturbi cerebrali».
La dolorosa realtà nel mondo della medicina attuale è
che sarà difficile che riceviate molti consigli utili sulla
prevenzione delle malattie cerebrali in una visita
ambulatoriale dal vostro internista. Al giorno d’oggi,
avete a disposizione meno di quindici minuti (nel
migliore dei casi) con un dottore che forse non è neppure
aggiornato sulle ultime novità scientifiche riguardo al
modo di salvaguardare le facoltà mentali. E la cosa più
allarmante è che molti dei dottori di oggi, che hanno
frequentato l’università decenni addietro, non hanno una
solida conoscenza della nutrizione e dei suoi effetti sulla
salute. Non lo dico per mettere in cattiva luce la mia
categoria, ma solo per segnalare una verità che è in gran
parte conseguenza di aspetti economici. La mia speranza
è che la nostra prossima generazione di medici sia meglio
attrezzata per far pendere la bilancia dalla parte della
prevenzione invece di concentrarsi tanto sulla terapia. E
questo mi riporta ai consigli sugli integratori (per dosi e
istruzioni precise su quando assumerli ogni giorno,
andate a pagina 240).
276
ad alta qualità abbondano, ed esistono più di 500 prodotti
alimentari arricchiti con DHA . Non ha alcuna importanza
se il DHA che acquistate è derivato da olio di pesce oppure
da alghe. Se siete vegetariani, optate per la varietà
ricavata da alghe.
277
integratore di attivare determinati geni, chiamati sirtuine,
che influiscono sulla longevità. 5 Nel 2010, alcuni scienziati
della Northumbria University, nel Regno Unito,
pubblicarono sull’«American Journal of Clinical
Nutrition» uno studio che trattava proprio dei motivi per
cui il resveratrolo può essere così efficace nell’ottimizzare
la funzione cerebrale. 6 Essi spiegarono di avere
somministrato resveratrolo a ventiquattro studenti e
registrato marcati incrementi del flusso sanguigno nel
cervello mentre eseguivano dei compiti mentali. Più i
compiti erano difficili, maggiore era l’effetto del
resveratrolo.
L’opportunità di assumere resveratrolo prima di
imbarcarsi in un’impresa importante come un esame o un
colloquio è un argomento di cui si può discutere, ma per il
momento sappiamo che potremmo giovare al nostro
cervello con l’aggiunta di una modesta dose tutti i giorni.
E si noti che ho detto modesta. Sebbene precedenti
ricerche accennassero alla necessità, per ottenere benefici,
di dosi molto abbondanti (equivalenti a bere centinaia di
bottiglie di vino), studi più recenti dimostrano con
chiarezza che dosi inferiori (appena 4,9 milligrammi al
giorno) determinano effetti positivi.
278
l’associazione tra il livello del consumo di curry e la
funzione cognitiva in soggetti asiatici anziani. 7 Quelli che
consumavano curry «di tanto in tanto» e «spesso o molto
spesso» ottennero un punteggio assai migliore in specifici
test studiati per misurare la funzione cognitiva rispetto ai
partecipanti che non ne consumavano «mai o quasi mai».
Una delle armi segrete della curcumina è la sua
capacità di attivare geni per produrre un’ampia gamma di
antiossidanti utili a proteggere i nostri preziosi
mitocondri. Inoltre, essa migliora il metabolismo del
glucosio. Tutte queste proprietà aiutano a ridurre il
rischio di patologie cerebrali. Se in cucina non fate un uso
molto abbondante di curry, è probabile che la vostra dieta
non preveda un sufficiente apporto regolare di curcuma.
279
doppio senso, grazie alla quale il cervello riceve
informazioni su ciò che accade nell’intestino e il sistema
nervoso centrale spedisce a sua volta informazioni
all’intestino per garantirne un funzionamento ottimale.
Tutto questo andirivieni di messaggi consente di
controllare il comportamento alimentare e la digestione, e
perfino di dormire bene la notte. L’intestino trasmette
anche segnali ormonali che comunicano al cervello
sensazioni di pienezza, fame o anche dolore da
infiammazione intestinale. Nei disturbi e nelle malattie
che interessano gli intestini, come la celiachia
incontrollata, la sindrome dell’intestino irritabile (IBS ) o il
morbo di Crohn, l’intestino può esercitare una forte
influenza sul nostro benessere: come stiamo, la qualità del
nostro sonno, il nostro livello energetico, l’entità del
dolore che proviamo e perfino come pensiamo. Al
momento i ricercatori stanno esaminando l’eventuale
ruolo di alcuni ceppi di batteri intestinali in patologie
come obesità, disturbi infiammatori e funzionali
gastrointestinali, dolore cronico, autismo e depressione. E
stanno studiando anche l’influenza di questi batteri sulle
nostre emozioni. 11
Questo sistema è così intricato e importante che la
salute del nostro intestino potrebbe avere un peso assai
maggiore di quanto abbiamo mai immaginato nella
percezione della nostra salute nel suo complesso. Le
informazioni elaborate dall’intestino e inviate al cervello
sono in stretto rapporto con il nostro senso di benessere. E
se possiamo aiutare questo sistema mediante il consumo
di importantissimi collaboratori dell’intestino – salutari
batteri intestinali –, perché non farlo? Molti alimenti – per
esempio lo yogurt e alcune bevande – sono ormai
arricchiti con probiotici, ma spesso possono contenere
280
troppi zuccheri. L’ideale è assumere i probiotici attraverso
un integratore che offra una varietà di ceppi (almeno
dieci), compresi il lactobacillus acidophilus e il
bifidobacterium, e contenga almeno dieci miliardi di batteri
attivi per capsula.
Olio di cocco: come ho già accennato, l’olio di cocco può
contribuire a prevenire e trattare condizioni patologiche
neurodegenerative. È un supercarburante per il cervello e
riduce l’infiammazione. Potete berne un cucchiaino da
solo o usarlo quando preparate i pasti. L’olio di cocco è
termostabile, perciò si può usare per cuocere a
temperature elevate. Nella parte dedicata alle ricette, vi
proporrò alcune idee per il suo uso in cucina.
281
Sappiamo che l’intero sistema nervoso centrale possiede
recettori per la vitamina D ed è noto che essa partecipa
alla regolazione degli enzimi nel cervello e nel liquido
cerebrospinale, a loro volta coinvolti nella produzione di
neurotrasmettitori e nella stimolazione della crescita dei
nervi. Gli studi di laboratorio e quelli su animali hanno
indicato che la vitamina D protegge i neuroni dagli effetti
dannosi dei radicali liberi e riduce l’infiammazione.
Permettetemi di elencare alcuni dati. 13
282
livelli di vitamina D concorrono alla depressione e
perfino alla stanchezza cronica. 18 Una quantità
adeguata di vitamina D serve alle ghiandole surrenali
per contribuire a regolare un enzima necessario per la
produzione di dopamina, epinefrina e norepinefrina,
importanti ormoni cerebrali che influiscono
sull’umore, sul controllo dello stress e sull’energia. È
stato riscontrato che pazienti con forme di
depressione da lieve a grave registrano cambiamenti e
miglioramenti dell’umore anche solo grazie agli
integratori.
283
Capitolo VIII
284
Medicina genetica
Allenare i geni per tenere in forma il cervello
JOHN ADAMS
285
memoria negli anziani e incrementa la produzione di
nuove cellule cerebrali nel centro della memoria.
Da tempo, ormai, sappiamo che l’esercizio fisico giova
al cervello, tuttavia solo nell’ultimo decennio siamo
davvero stati in grado di quantificare e qualificare
l’affascinante rapporto tra forma fisica e forma mentale. 1
Per riuscirci sono stati necessari gli sforzi congiunti di
molti attenti ricercatori di diversi campi, fra i quali
neuroscienziati, fisiologi, bioingegneri, psicologi,
antropologi e dottori di vari altri settori della medicina.
Ed è stato necessario lo sviluppo di numerose tecniche
avanzate per potere analizzare e capire i meccanismi
interni della materia stessa del cervello, inclusi i suoi
singoli neuroni.
I risultati delle più recenti ricerche chiariscono in modo
inequivocabile che il legame tra esercizio fisico e salute
cerebrale non è una relazione qualsiasi. Come commenta
la divulgatrice scientifica Gretchen Reynolds sul «New
York Times»: «È la relazione», un nesso fondamentale. 2 In
base agli ultimi studi scientifici, fare esercizio aiuta a
«strutturare un cervello che resiste all’atrofia e aumenta la
flessibilità cognitiva». E questo, amici miei, può significare
che l’attività fisica è lo strumento migliore a nostra
disposizione.
Date un’occhiata ai grafici che seguono: uno illustra la
differenza percentuale nel rischio di morbo di Alzheimer
in base al livello di esercizio fisico, l’altro la differenza in
base all’intensità dell’esercizio fisico. A mio avviso sono
molto eloquenti: 3
286
Adattamento da A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of
AD and Cognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 2012, p.
1323.
Adattamento da A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of
287
AD and Cognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 2012, p.
1323.
288
La magia del movimento
L’attività fisica ha sempre fatto parte della vita dell’essere
umano. Oggigiorno la tecnologia ci ha offerto il privilegio
di un’esistenza sedentaria; quasi tutto ciò di cui abbiamo
bisogno è accessibile senza grandi sforzi, a volte senza
neppure dovere scendere dal letto. Per milioni di anni,
però, il nostro genoma si è evoluto in condizioni di
costanti difficoltà fisiche da affrontare nella ricerca del
cibo. In realtà, il nostro genoma richiede movimento
frequente, necessita di regolare esercizio aerobico per
mantenerci in vita. Purtroppo, le persone che oggi
rispettano questo requisito sono troppo poche. E lo
dimostrano le malattie croniche e gli elevati tassi di
mortalità.
L’idea che l’esercizio fisico possa renderci più
intelligenti ha intrigato non solo i ricercatori tradizionali
nei laboratori biomedici, ma anche gli antropologi in cerca
di indicazioni sullo sviluppo dell’umanità nel corso dei
millenni. Nel 2004, la rivista «Nature» pubblicò un
articolo dei biologi evoluzionisti Daniel E. Lieberman di
Harvard e Dennis M. Bramble della University of Utah,
che sostengono che siamo sopravvissuti così a lungo nella
storia in virtù della nostra abilità atletica. 4 I nostri
antenati, uomini delle caverne, riuscirono a sfuggire ai
predatori e a cacciare selvaggina preziosa, fonte di
nutrimento che forniva pasti ed energia per
l’accoppiamento, permettendo la sopravvivenza. E quei
primi atleti di resistenza trasmisero i loro geni. È una bella
ipotesi: siamo progettati per essere degli atleti e per
riuscire a vivere il tempo sufficiente a procreare. In altri
289
termini, la selezione naturale spinse gli uomini primitivi a
evolvere in esseri agilissimi, che svilupparono gambe più
lunghe, dita dei piedi più tozze e un complesso orecchio
interno per migliorare equilibrio e coordinazione in
posizione eretta e camminare solo su due piedi invece di
quattro.
Per lungo tempo, la scienza non è riuscita a spiegare
perché il nostro cervello fosse diventato così grande, di
dimensioni sproporzionate in confronto a quelle di altri
animali. In passato gli studiosi dell’evoluzione amavano
parlare dei nostri comportamenti carnivori e del bisogno
di interazione sociale, due caratteristiche che esigevano
complicati schemi di pensiero (per cacciare e uccidere, e
per intrattenere rapporti con gli altri). Ora la scienza ha
un’altra componente da prendere in considerazione:
l’attività fisica. Stando alle ultime ricerche, dobbiamo il
nostro straordinario cervello al bisogno di pensare… e al
bisogno di correre.
Per giungere a questa conclusione gli antropologi
hanno studiato il rapporto tra dimensioni del cervello e
capacità di resistenza in molti animali, da cavie e topi a
lupi e pecore. 5 Hanno osservato che le specie con la più
alta capacità di resistenza innata avevano anche volumi
cerebrali più elevati in relazione alle dimensioni del
corpo. I ricercatori hanno poi compiuto un ulteriore passo
nel loro esperimento, allevando topi e ratti addestrati per
correre maratone. Incrociando gli esemplari che si
dedicavano più degli altri all’uso delle ruote nelle loro
gabbie, hanno selezionato una linea di animali da
laboratorio che eccelleva nella corsa. E la verità ha
cominciato a emergere: in questi animali i livelli di BDNF e
altre sostanze che promuovono la crescita dei tessuti e la
salute registravano un aumento. Il BDNF è noto anche per
290
l’impulso che dà alla crescita del cervello, e da questo
giunge una nuova visione, ovvero che l’attività fisica
possa avere contribuito a farci evolvere in esseri acuti e
intelligenti. David A. Raichlen, antropologo della
University of Arizona e autorità nel campo
dell’evoluzione del cervello umano, ha riassunto in modo
brillante per il «New York Times» questo concetto,
parafrasato così da Gretchen Reynolds: «I più atletici e i
più attivi sopravvivevano e, come nel caso dei topi da
laboratorio, trasmettevano caratteristiche fisiologiche che
miglioravano la resistenza, compresi livelli elevati di
BDNF . Alla fine, questi atleti primitivi avevano in corpo
tanto BDNF che parte di esso poté migrare dai muscoli al
cervello, dove stimolò la crescita di tessuto cerebrale». 6
Migliorando la capacità di pensare, ragionare e
pianificare, gli uomini primitivi poterono poi affinare le
competenze di cui avevano bisogno per sopravvivere,
come cacciare e uccidere prede. Beneficiarono di un
continuo circolo virtuoso: essere in movimento li rendeva
più intelligenti, e una mente più acuta permetteva loro di
rimanere in movimento e muoversi con maggiore
efficacia. Col tempo, gli esseri umani sarebbero giunti a
impegnarsi in pensieri complessi e inventare cose come la
matematica, i microscopi e i prodotti ad alta tecnologia.
In conclusione, se l’attività fisica ci ha aiutato a
sviluppare il cervello che usiamo oggi, è ovvio che
abbiamo bisogno di fare esercizio per mantenerlo in
efficienza (o per continuare a evolvere in una specie più
intelligente, più veloce e più abile).
291
Siate agili e pronti
Il meccanismo biologico che rende l’esercizio fisico così
benefico per la salute del cervello va ben al di là del fatto
che il moto promuove il flusso sanguigno al cervello
fornendo nutrienti per la crescita e la manutenzione delle
cellule. Certo, questa è una buona cosa, ma non è una
novità. Le ultime conoscenze scientifiche acquisite sulla
magica capacità del movimento di proteggere e
salvaguardare la funzione cerebrale sono sorprendenti e si
riassumono in cinque vantaggi: controllo
dell’infiammazione, aumento della sensibilità all’insulina,
influenza su un miglior controllo della glicemia,
espansione delle dimensioni del centro della memoria e,
come ho già accennato, incremento dei livelli di BDNF .
Alcune delle più convincenti scoperte scientifiche in
questo campo sono proprio degli ultimi anni. 7 Nel 2011, il
dott. Justin S. Rhodes e la sua équipe al Beckman Institute
for Advanced Science and Technology presso la
University of Illinois hanno studiato quattro gruppi di
topi in quattro diversi ambienti. 8 Un gruppo viveva nel
lusso in un’ambientazione che comprendeva sontuosi
pasti ideali per i topi (frutta secca e non, formaggi e acque
aromatizzate) e molti giocattoli divertenti da esplorare,
come specchi, palle e gallerie. Il secondo gruppo aveva
accesso agli stessi piaceri e giochi, ma la sistemazione
comprendeva delle ruote dove correre. Le gabbie del terzo
gruppo somigliavano a sistemazioni in motel:
l’arredamento era essenziale e i topi si nutrivano di
normale mangime secco. Il quarto gruppo non aveva
292
accesso a comfort né a cibi particolari, ma aveva a
disposizione le ruote.
All’inizio dello studio, i topi furono sottoposti a una
serie di test cognitivi e all’inoculazione di una sostanza
che permetteva ai ricercatori di rilevare cambiamenti nelle
loro strutture encefaliche. Per diversi mesi gli scienziati li
lasciarono liberi di fare ciò che volevano nei rispettivi
ambienti, poi li sottoposero di nuovo ai test sulle loro
funzioni cognitive ed esaminarono i loro tessuti cerebrali.
L’unica variabile che spiccava netta su tutte le altre era
la presenza o l’assenza di una ruota a disposizione. Non
importava che i topi avessero o non avessero qualcosa con
cui giocare nella gabbia. Gli animali che facevano
esercizio erano quelli con il cervello più sano e i migliori
risultati nei test cognitivi. Quelli che non correvano non
miglioravano sotto il profilo intellettivo, anche se il loro
mondo offriva altri stimoli. I ricercatori miravano in
particolare a individuare progressi cognitivi nel pensiero
complesso e nella soluzione dei problemi. In quest’ottica
l’esercizio fisico si dimostrò l’unico elemento chiave.
Sappiamo che l’attività fisica stimola la generazione di
nuove cellule cerebrali. Gli scienziati hanno perfino
misurato questo effetto confrontando topi e ratti che
avevano corso per qualche settimana con un gruppo di
controllo sedentario. I corridori avevano nell’ippocampo
un numero di neuroni nuovi circa due volte superiore a
quello dei pigri. Altri studi hanno osservato quali tipi di
esercizi siano più efficaci. In un esperimento del 2011, 120
uomini e donne anziani furono suddivisi in due gruppi: il
primo doveva seguire un programma di allenamento che
consisteva nel camminare, il secondo un regime con
esercizi di allungamento; i camminatori ebbero la meglio
su quelli che facevano stretching. 9 Dopo un anno, il loro
ippocampo era più grande e i livelli ematici di BDNF più
293
elevati. Viceversa, i soggetti del secondo gruppo
registrarono una perdita di volume cerebrale dovuta a
normale atrofia e non riuscirono altrettanto bene nei test
cognitivi. Date un’occhiata ai risultati.
294
Far crescere nuove reti
È stato dimostrato che l’esercizio fisico stimola la crescita
di nuovi neuroni nel cervello, ma il vero miracolo è che
aiuta anche a costruire nuove reti al suo interno. Un conto
è far nascere nuove cellule cerebrali, un altro organizzarle
in una rete che funzioni in modo armonioso. Non basta
produrre nuove cellule cerebrali per diventare più
«intelligenti»; dobbiamo essere in grado di collegarle alla
rete neurale esistente, altrimenti vagheranno senza scopo
e alla fine moriranno. Un modo utile per innescare questo
processo è imparare qualcosa di nuovo. In uno studio del
2007, i nuovi neuroni dei topi entravano a far parte delle
loro reti cerebrali quando questi animali imparavano ad
attraversare un labirinto acquatico. 10 Tale compito
richiede più energia cognitiva che abilità fisica. I
ricercatori osservarono anche che le cellule neofite
avevano capacità limitate: non potevano, infatti, aiutare i
topi a eseguire compiti cognitivi che esulassero dal
labirinto. Per farlo, i topi avrebbero avuto bisogno di
esercitarsi fisicamente, stimolando quelle nuove cellule a
diventare vivaci e flessibili sotto il profilo cognitivo.
Il beneficio segreto dell’esercizio fisico consiste proprio
in questo: rende i neuroni agili e in grado di svolgere più
di un compito. Non sappiamo in quale modo il moto
agevoli le trasformazioni mentali a livello molecolare, ma
sappiamo che il BDNF contribuisce a rafforzare cellule e
assoni, a consolidare le connessioni tra neuroni e a dare il
via alla neurogenesi. Questo processo aumenta la capacità
del cervello di apprendere nuove cose, e questo, a sua
volta, rafforza le nuove cellule cerebrali e rende ancora
295
più robusta la rete neurale. Non va dimenticato, inoltre,
che livelli più elevati di BDNF sono associati a un calo
dell’appetito: per coloro che hanno difficoltà a tenerlo
sotto controllo, ciò costituisce dunque un altro incentivo
all’attività fisica.
Tenendo presente questo nesso tra BDNF ed esercizio, i
ricercatori hanno esaminato l’effetto dell’attività fisica in
soggetti a rischio di disturbi o malattie al cervello o che
già ne soffrivano. In un recente articolo sul «Journal of the
American Medical Association», il professor Nicola
Lautenschlager della University of Western Australia
riferiva di avere registrato in individui anziani che per un
periodo di ventiquattro settimane facevano regolare
esercizio fisico un miglioramento del 1800% nei parametri
di memoria, competenza linguistica, attenzione e altre
importanti funzioni cognitive rispetto a un gruppo di
controllo. 11 Il gruppo che faceva ginnastica dedicava circa
142 minuti alla settimana ad attività fisiche, in media circa
20 minuti al giorno. I ricercatori attribuivano questi
progressi a una migliore circolazione del sangue, alla
crescita di nuovi vasi sanguigni e di nuove cellule
cerebrali e al miglioramento della «plasticità» del cervello.
In uno studio analogo, alcuni ricercatori di Harvard
hanno individuato una forte associazione tra funzione
cognitiva ed esercizio fisico nelle donne anziane,
arrivando a concludere:
296
inferiore del 20%. 12
297
Basta poco per fare la differenza
D’accordo, l’esercizio fisico fa bene al corpo e al cervello.
Ma fino a che punto? Con quale intensità? Contano anche
i lavori domestici e le attività quotidiane come il
giardinaggio e portare fuori la spazzatura?
Per rispondere a questa domanda ricorriamo a uno
studio sulla memoria e l’invecchiamento della Rush
University, quello illustrato dai grafici che ho presentato a
pagina 210 e 211. Esaminando gli effetti dell’esercizio
fisico quotidiano sul rischio del morbo di Alzheimer, il
dott. Aron S. Buchman riscontrò notevoli differenze tra le
persone piuttosto sedentarie e quelle che eseguivano vari
tipi di attività, comprese semplici azioni come cucinare,
lavare i piatti, giocare a carte, spingere una sedia a rotelle
e pulire. Egli riuscì a registrare i loro livelli di attività
usando un nuovo dispositivo denominato actigrafo, che
viene indossato al polso per rilevare e quantificare il
movimento. L’età media dei soggetti era di ottantadue
anni e non soffrivano di demenza. Il gruppo
comprendeva 716 partecipanti, 71 dei quali svilupparono
il morbo di Alzheimer in fase conclamata nei tre anni e
mezzo circa di monitoraggio. 14
I risultati dello studio rivelarono che gli individui che
rientravano nel 10% con il livello più basso di attività
fisica giornaliera presentavano un incremento del rischio
di sviluppare il morbo di Alzheimer pari al 230% in
confronto a quelli inseriti nel 10% con il livello più alto di
attività fisica. Quando i dati furono valutati in termini di
intensità dell’attività fisica, i risultati furono ancora più
eloquenti. Confrontando i soggetti compresi nel 10% con
298
attività fisica di intensità inferiore con quelli nel 10% con
intensità più elevata, Buchman e la sua équipe
constatarono che all’intensità inferiore corrispondeva un
rischio di Alzheimer quasi triplicato. Ne dedussero, a
buon diritto, che non possiamo sottovalutare il potere di
attività che, pur non comportando la pratica di un vero e
proprio sport, risultano a basso costo, di facile
accessibilità ed esenti da effetti collaterali. Le semplici
azioni della vita quotidiana possono contribuire a
proteggere il cervello a qualsiasi età.
299
Scegliere un’attività
Non è affatto necessario puntare a scalare il monte
Everest. E neppure allenarsi per una gara di resistenza.
Quello che occorre è un’attività che acceleri il battito
cardiaco. Anche se alcuni studi hanno riscontrato benefici
cognitivi tra persone anziane che, per un anno, si
limitavano a sollevare pesi, finora la maggior parte degli
studi – e tutti gli esperimenti sugli animali – hanno
riguardato la corsa o altre attività aerobiche come nuotare,
andare in bicicletta, fare escursionismo e camminare a
passo veloce almeno cinque giorni alla settimana per
almeno venti minuti a sessione.
Mi rendo conto che fare esercizio non è in cima
all’elenco di priorità della maggioranza delle persone, ma
spero che le prove che ho fornito in questo capitolo vi
incoraggeranno a rivedere il vostro elenco, sempre che
non pratichiate già con regolarità un’attività fisica.
Durante il programma vi chiederò di dedicare una
settimana a concentrarvi su questo importante aspetto
della vostra vita e di iniziare un allenamento regolare se
non ne avete già uno. Altrimenti potrete sfruttare questa
settimana per aumentare la durata e l’intensità dei vostri
allenamenti o per provare qualcosa di nuovo.
300
Capitolo IX
301
Buona notte, cervello
Agire sulla leptina per governare il sistema ormonale
302
dall’attivazione anomala del sistema immunitario che
attacca la ghiandola tiroidea.
Gli prescrissi poi un test per la sensibilità al glutine e i
risultati furono inequivocabili. Il suo livello di reazione
era molto elevato: solo uno dei ventiquattro anticorpi
esaminati rientrava nell’intervallo normale. Aveva
assoluta necessità di provare una dieta senza glutine.
La reazione di Samuel a questo cambiamento di regime
alimentare fu davvero notevole e, a onor del vero,
abbastanza prevedibile alla luce dell’esperienza del figlio
e del suo test così fuori dalla norma. Quattro mesi dopo
l’inizio della dieta ricevetti da lui una lettera che mi fece
sorridere: confessava fino a che punto la sua vita fosse
difficile quando aveva preso l’appuntamento per
incontrarmi. Affermando che il suo stato di salute era
«buono» aveva con ogni evidenza raccontato una frottola.
La situazione era ben diversa, come mi scrisse:
303
Anche se Samuel non accennò ai suoi problemi di sonno
durante la visita, avevo il vago sospetto che da qualche
tempo non dormisse bene. Aveva l’aria esausta e tutti i
segni distintivi di una lunga e misteriosa privazione del
sonno. Prima di essere curati, molti dei miei pazienti
considerano così normale la mancanza di sonno che
dimenticano come sia fare una bella dormita finché non
tornano a sperimentarlo. Samuel avrà pensato che
dormire per tutta la notte fosse solo un vantaggio
secondario rispetto al sollievo provato grazie
all’eliminazione del glutine. Si sbagliava: era qualcosa di
più. Nel momento in cui cominciò a dormire un sonno
ristoratore una notte dopo l’altra, iniziò a «rimettere in
sesto» il suo corpo sotto il profilo ormonale, emotivo,
fisico e anche spirituale. A prescindere da tutti i suoi
problemi con il glutine e persino dal suo disturbo alla
tiroide, posso affermare senz’ombra di dubbio che riuscire
a dormire con regolarità e a riposarsi fu di enorme
importanza nel rovesciare la situazione e raggiungere il
traguardo desiderato: uno stato di salute ottimale.
La maggioranza di noi sottovaluta i benefici del sonno,
che è una delle poche risorse nella nostra vita a essere del
tutto gratuita e assolutamente essenziale per il benessere.
Inoltre, come scoprirete tra poco, è uno strumento
fondamentale nella prevenzione del decadimento
cerebrale.
304
La scienza del riposo
Negli ultimi dieci anni, la scienza del sonno è stato uno
degli argomenti preferiti dei media. E per una buona
ragione: sotto il profilo scientifico comprendiamo il valore
del sonno come mai prima d’ora. Gli studi clinici e le
analisi di laboratorio sono concordi nel dimostrare che la
qualità e la quantità del nostro sonno influiscono in
pratica su ogni apparato del corpo umano, in particolare
sul cervello. 1 Il sonno può determinare quanto mangiamo,
il ritmo del nostro metabolismo, se ingrassiamo o
dimagriamo, se riusciamo a combattere le infezioni,
quanto possiamo essere creativi e perspicaci, fino a che
punto sopportiamo lo stress, con quale velocità siamo in
grado di elaborare informazioni e di apprendere nuove
cose e in che modo riusciamo a organizzare e
immagazzinare ricordi. 2 Un sonno adeguato, che per la
grande maggioranza di noi significa almeno sette ore
buone di sonno, influisce anche sui nostri geni. All’inizio
del 2013, alcuni scienziati in Inghilterra scoprirono che
una settimana di privazione del sonno alterava il
funzionamento di 711 geni, alcuni dei quali avevano a che
fare con stress, infiammazione, immunità e metabolismo. 3
Qualsiasi cosa eserciti ripercussioni negative su queste
importanti funzioni ha un impatto sul cervello. Contiamo
su quei geni per produrre una costante riserva di proteine
necessarie a sostituire o riparare tessuti danneggiati; il
fatto che smettano di funzionare dopo appena una
settimana di sonno disturbato la dice lunga sul potere del
riposo. Anche se possiamo non notare gli effetti collaterali
a livello genetico, senza dubbio possiamo percepire gli
305
altri segni di privazione cronica del sonno: confusione,
perdita di memoria, annebbiamento del cervello,
immunodeficienza, obesità, malattie cardiovascolari,
diabete e depressione. Tutte patologie in stretto rapporto
con il cervello.
Di recente siamo anche arrivati a capire che pochi di
noi dormono a sufficienza in base alle vere esigenze del
corpo. Circa il 10% degli americani soffre di insonnia
cronica, mentre almeno il 25% riferisce di non dormire
abbastanza, quantomeno di tanto in tanto. 4 Oltre
all’aspetto quantitativo, l’attenzione degli esperti verte ora
sulla qualità del sonno ai fini della sua capacità di
rigenerare il cervello. È meglio dormire bene per sei ore o
male per otto? Si potrebbe pensare che a domande come
queste sia facile rispondere e che sappiamo tutto quello
che c’è da sapere su una cosa che facciamo per buona
parte della nostra vita. Tuttavia, la scienza sta ancora
tentando di svelare il mistero del sonno, e anche come
influisca in modo diverso su uomini e donne. Proprio
mentre stavo scrivendo questo capitolo, è apparso un
nuovo studio sui «sorprendenti effetti» del sonno sulla
fame. A quanto pare, gli ormoni influenzati dalla
privazione del sonno sono diversi negli uomini e nelle
donne. 5 Anche se il risultato è il medesimo per entrambi i
sessi – la tendenza a mangiare troppo –, la scintilla
all’origine di quella fame non è la stessa per i due sessi.
Negli uomini la mancanza di sonno provoca elevati livelli
di grelina, un ormone che stimola l’appetito. Nelle donne,
invece, i livelli di grelina restano inalterati, ma variano i
livelli di un ormone soppressore dell’appetito, il GLP -1. È
vero, una differenza così sottile può sembrare
insignificante dal momento che, nel complesso, il risultato
è lo stesso, ma è un segno di come conosciamo poco le
306
reazioni biochimiche del corpo umano in rapporto al
sonno.
Se c’è una cosa che invece sappiamo, è che, col passare
degli anni, dormire diventa sempre più una sfida. Ciò
avviene per svariate ragioni, molte delle quali derivanti
da condizioni di salute che possono incidere sul sonno
profondo. Fino al 40% degli anziani non riesce a godersi
una buona notte di sonno per problemi cronici come
apnea notturna e insonnia. Ormai abbiamo anche prove
del nesso tra sonno disturbato e declino cognitivo.
Kristine Yaffe, una psichiatra alla University of California
di San Francisco, studia le persone più a rischio di
sviluppare deterioramento cognitivo e demenza. Nella
sua clinica per i disturbi della memoria, i problemi
lamentati dai pazienti hanno un comun denominatore: la
difficoltà di addormentarsi e rimanere addormentati. I
soggetti riferiscono di essere stanchi per tutto il giorno e
di ricorrere a sonnellini. Studiando per un periodo di
cinque anni più di milletrecento adulti sopra i
settantacinque anni, la dott.ssa Yaffe si è accorta che quelli
che avevano problemi durante il sonno, per esempio
disturbi respiratori o apnea, avevano un rischio più che
raddoppiato di sviluppare demenza anni dopo. E anche i
soggetti che sperimentavano interruzioni nel loro naturale
ritmo circadiano, o che si svegliavano durante la notte,
correvano un rischio maggiore. 6
I ritmi circadiani sono fondamentali per il nostro
benessere. A circa sei settimane dalla nascita, tutti noi
stabiliamo questo schema di attività ripetute, associate ai
cicli diurno e notturno, che accompagnerà il resto della
nostra vita. Come avviene per l’alba e il tramonto, questi
ritmi si ripetono grossomodo ogni ventiquattro ore.
Sperimentiamo molti cicli che coincidono con il giorno
solare di ventiquattro ore, dal sonno/veglia agli schemi
307
stabiliti nei nostri ritmi biologici: la crescita e il calo dei
livelli ormonali, la variabilità della temperatura corporea,
il flusso e riflusso di determinate molecole che alimentano
la nostra salute e il nostro benessere. Quando il nostro
ritmo non è in sincronia con il giorno solare possiamo
sentirci male o stanchi, come capita, per esempio, quando
viaggiamo attraversando fusi orari e obblighiamo il corpo
a adattarsi in fretta a un nuovo ciclo.
Trovo che la maggioranza delle persone non
comprenda fino a che punto il ritmo caratteristico del
corpo sia basato sulle abitudini legate al sonno e
controllato dal cervello. Il naturale ciclo diurno/notturno
del nostro organismo domina in pratica tutto ciò che ci
riguarda, considerando che gli schemi ricorrenti delle
nostre secrezioni ormonali sono legati a questo ciclo. Un
ottimo esempio è la nostra temperatura corporea, che, in
conseguenza a un’oscillazione di determinati livelli
ormonali, aumenta durante il giorno, subisce un lieve calo
nel pomeriggio (una piccola pausa di fine giornata) e
raggiunge il picco la sera, per poi cominciare a scendere
durante la notte. Nelle prime ore del mattino toccherà il
suo minimo, proprio mentre i livelli di cortisolo
cominciano ad aumentare, fino a raggiungere l’apice in
mattinata e poi decrescere nel resto della giornata. Chi
svolge un lavoro a turni dorme con orari irregolari a causa
delle responsabilità professionali e convive per questo con
un maggior rischio di contrarre una serie di malattie
anche gravi. Non per nulla il turno di notte è chiamato
«turno del cimitero».
La prossima volta che avvertite un’insolita stanchezza,
malumore, sete, fame, rallentamento dei processi mentali,
smemoratezza, o che vi sentite vigili, aggressivi o eccitati
in modo anomalo, potrete dunque cercare di
comprenderne il motivo riflettendo sulle vostre recenti
308
abitudini in tema di sonno. Basti pensare che la
regolazione ormonale richiede un affidabile alternarsi tra
stato di allerta e sonno ristoratore. Si potrebbero scrivere
svariati volumi sugli ormoni, ma ai fini di questa analisi,
e, in particolare, del collegamento tra il sonno e la salute
del cervello, concentreremo l’attenzione su uno degli
ormoni più sottovalutati e trascurati del nostro
organismo: la leptina. Dato che il suo ruolo essenziale è
coordinare le risposte infiammatorie del corpo e aiutare a
stabilire se proviamo o meno un insaziabile desiderio di
carboidrati, non è possibile parlare di salute del cervello
senza nominare questo importante ormone, che risente
molto del sonno. Riuscire a controllare questo maestro
cerimoniere biologico permette di governare il sistema
ormonale a beneficio del corpo e del cervello.
309
Più grasso sei, più piccolo sarà il tuo
cervello
Era il 1994. La scoperta colse di sorpresa la comunità
medica e cambiò per sempre il nostro modo di vedere non
solo il corpo umano e il suo complesso sistema ormonale,
ma anche il sonno e il suo vero valore. Proprio quando
pensavamo di avere scoperto tutti gli ormoni e le loro
funzioni, trovammo un nuovo ormone di cui in
precedenza non conoscevamo l’esistenza. 7 Si chiama
leptina e non è, a quanto pare, un ormone qualsiasi. Come
l’insulina, la leptina è molto importante e influenza, in
ultima analisi, tutti gli altri ormoni, controllando in
pratica ciascuna funzione dell’ipotalamo nel cervello.
L’ipotalamo è il punto in cui alberga il dinosauro che c’è
in noi: una struttura arcaica che ha sede nel centro del
cranio, responsabile delle attività ritmiche del corpo e di
un’ampia gamma di funzioni fisiologiche, dalla fame al
sesso. Forse questa scoperta è così recente perché la
leptina è stata identificata in un luogo improbabile: le
cellule adipose.
Come ho già accennato, un tempo si pensava che le
cellule adipose avessero il solo scopo di conservare scorte,
piene di calorie superflue tenute in serbo per il momento
del bisogno. Ora, invece, sappiamo che il tessuto adiposo
è partecipe della nostra fisiologia come altri organi
«vitali», perché gli ormoni che vi risiedono, come la
leptina, decidono se finiremo per avere ventri sporgenti e
piccoli cervelli. Innanzitutto, una rapida premessa: la
funzione della leptina è assai complicata, come quella di
quasi tutti gli ormoni nel corpo. L’intero sistema
310
ormonale, di fatto, è di una complessità straordinaria. Vi
sono incredibili quantità di relazioni reciproche e
descriverle tutte non rientra nelle competenze di questo
libro. Per semplificare le cose, mi atterrò a quello che
dovete sapere per assumere il controllo dei vostri ormoni
a beneficio del cervello.
La leptina è, a un livello molto elementare, uno
strumento primitivo di sopravvivenza, legato in modo
esclusivo alla coordinazione della nostra risposta
metabolica, ormonale e comportamentale alla fame. Di
conseguenza, essa ha un forte influsso sulle nostre
emozioni e sul nostro comportamento. È una sorta di
guardiano; capire questo ormone consente di governare il
resto del sistema ormonale e, di conseguenza, controllare
la propria salute in modi inimmaginabili.
La leptina si trova nelle cellule adipose, ma ciò non
significa che sia «cattiva». Un livello eccessivo comporta
senz’altro dei problemi, in particolare malattie
degenerative e una vita più breve, mentre livelli salutari
hanno l’effetto contrario: prevengono gran parte delle
malattie da invecchiamento e favoriscono la longevità.
Una maggiore sensibilità a questo ormone di importanza
cruciale va a braccetto con una salute migliore. Con
«sensibilità» mi riferisco al modo in cui i recettori di
questo ormone lo riconoscono e utilizzano per eseguire
varie operazioni. Nora T. Gedgaudas, un’acclamata
terapista nutrizionale, fornisce una breve definizione della
leptina nel suo libro Primal Body, Primal Mind (Corpo
primitivo, mente primitiva):
311
decide se farci venire fame e fare scorta di grasso o se bruciarlo. La
leptina governa la nostra risposta infiammatoria e può anche
controllare l’attivazione del sistema nervoso simpatico o di quello
parasimpatico. Se una parte qualunque del sistema [ormonale] ha
qualcosa che non va, comprese le ghiandole surrenali o gli ormoni
sessuali, non avrete una sola chance di risolvere davvero la
questione finché non avrete sotto controllo i livelli della leptina. 8
312
le persone in sovrappeso e obese sono soggette a problemi
infiammatori, compresi quelli che aggravano il rischio di
malattie al cervello, problemi di salute mentale e
patologie neurodegenerative. Leptina e insulina sono
pezzi grossi nella catena di comando del corpo, perciò
eventuali squilibri tendono a generare una spirale
discendente, creando scompiglio in ogni apparato
dell’organismo, oltre a quelli sotto il diretto controllo di
questi ormoni. Leptina e insulina risentono entrambe di
influssi negativi analoghi e i loro principali nemici sono i
carboidrati: più raffinati e più elaborati sono, più i livelli
di queste molecole ne risulteranno scombussolati. Ho già
spiegato come il continuo abuso di carboidrati si
ripercuota sulla produzione di insulina e sull’equilibrio
glicemico, finendo per portare all’insulinoresistenza. Lo
stesso accade con la leptina. Quando il corpo è
sovraccarico e inondato da sostanze che causano continue
impennate dei livelli di leptina, i recettori di questo
ormone cominciano a desensibilizzarsi, non avvertono più
il messaggio della leptina e si diventa leptinoresistenti. In
breve, i comandi non funzionano più e il corpo è
vulnerabile a malattie e a ulteriori disfunzioni. Così, anche
livelli elevati di leptina non riusciranno a segnalare al
cervello che siete sazi e potete smettere di mangiare. Non
riuscendo a controllare l’appetito, il pericolo di aumentare
di peso e diventare obesi sarà molto più alto, così come il
rischio di disturbi cerebrali. Gli studi hanno altresì
dimostrato che elevati livelli di trigliceridi, a loro volta un
segno caratteristico di un’alimentazione troppo ricca di
carboidrati, sono causa di leptinoresistenza. 11
Non esiste un solo farmaco o integratore sulla Terra in
grado di equilibrare i livelli di leptina. Il segreto per
riuscirvi è migliorare la qualità del sonno e
dell’alimentazione.
313
SIETE LEPTINORESISTENTI?
essere sovrappeso
non riuscire a modificare l’aspetto del proprio corpo,
a prescindere da quanto esercizio fisico si faccia
non riuscire a perdere peso o a non ingrassare
avere sempre una voglia insaziabile di comfort food
sentirsi stanchi dopo i pasti
sentirsi sempre ansiosi o stressati
sentirsi affamati, sempre o a strane ore della notte
avere una tendenza a fare spuntini dopo i pasti
avere livelli elevati di trigliceridi a digiuno, superiori
a 100 mg/dL, soprattutto se uguali o superiori ai livelli
di colesterolo
avere l’osteoporosi
avere problemi a addormentarsi o a restare
addormentati
soffrire di ipertensione
provare regolarmente una voglia insaziabile di
zucchero o di stimolanti come la caffeina
avere le «maniglie dell’amore».
314
nel capitolo X vi rimetterà in carreggiata.
315
L’altro lato della medaglia: la grelina
Prima di proseguire, devo menzionare un altro ormone
collegato all’appetito: la grelina. Se la leptina è lo yang, la
grelina è lo yin. Questo ormone viene secreto dallo
stomaco quando è vuoto e aumenta l’appetito, inviando al
cervello il messaggio che avete bisogno di mangiare.
Come ovvio, scombussolare i livelli di leptina e grelina ha
ripercussioni su voglie incontrollabili, girovita, senso di
sazietà e capacità di resistere alle tentazioni in cucina.
Negli studi sul sonno, i livelli di grelina salivano alle stelle
in risposta all’insufficienza di sonno negli uomini. Ciò
causava un aumento dell’appetito e la propensione a
gravitare verso alimenti ricchi di carboidrati e poveri di
nutrienti che, una volta consumati, si trasformano con
facilità in grasso. Quando gli ormoni dell’appetito non si
comportano in modo adeguato, il cervello rimane in
pratica scollegato dallo stomaco. Vi inganna, facendovi
credere di essere affamati quando non lo siete, e stimola
voglie irresistibili di alimenti che perpetueranno quel
circolo vizioso di formazione del grasso. Questo ciclo
alimenta poi i più ampi circuiti di reazione che influiscono
sull’equilibrio glicemico, sulle vie infiammatorie e, com’è
ovvio, sul rischio di disturbi e malattie cerebrali. In sintesi,
se non riuscite a controllare la fame e l’appetito non sarà
facile tenere sotto controllo la chimica ematica, il
metabolismo, il girovita e, più in generale, evitare in
prospettiva problemi a livello cerebrale.
Durante la terza settimana del programma, vi chiederò
di concentrarvi sul raggiungimento di un sonno di alta
qualità che diventi una normale routine e vi permetta di
316
acquisire il controllo degli ormoni che influiscono sul
destino del vostro cervello. E non avrete bisogno di
qualcosa che vi aiuti a dormire. Il sonno migliore per il
cervello arriva in maniera naturale.
317
Parte III
318
DIRE ADDIO ALLE VECCHIE
ABITUDINI ALIMENTARI
319
semplice e lineare, con il giusto equilibrio tra struttura e
flessibilità per rispettare le vostre preferenze personali e la
vostra facoltà di scelta. Porterete a termine queste quattro
settimane con la consapevolezza e la voglia di restare su
questa strada salutare per il resto della vostra vita. Più vi
atterrete alle mie linee guida, prima ne vedrete i risultati.
Non dimenticate che questo programma offre molti
vantaggi al di là di quelli fisici, ormai scontati. Una salute
ottimale del cervello (e un girovita più snello) potrebbe
essere la vostra priorità, ma le gratificazioni non finiscono
qui: osserverete cambiamenti in ogni ambito della vostra
vita. Acquisirete maggiore sicurezza e autostima. Vi
sentirete più giovani e capaci di controllare meglio la
vostra vita e il vostro futuro. Saprete attraversare senza
difficoltà periodi stressanti, sarete motivati a mantenervi
attivi e a interagire con gli altri, e vi sentirete più realizzati
sia a casa sia al lavoro. In breve, sarete più felici e più
produttivi. E il vostro successo porterà ad altri successi.
Quando la vita diventerà più ricca, piena e stimolante
grazie ai vostri sforzi, non vorrete tornare allo stile di vita
poco sano di prima. Io so che potete farcela. È un dovere,
verso voi stessi e verso i vostri cari. I risultati sono
colossali… e lo sono anche le conseguenze, in potenza
disastrose, di non tenere conto di questi consigli.
320
Capitolo X
321
Un nuovo stile di vita
Il piano d’azione in quattro settimane
MICHAEL POLLAN
322
malattia neurologica cronica, come per esempio il
disturbo da deficit di attenzione e iperattività, il disturbo
d’ansia o la depressione, potrebbero notare che i sintomi
cominciano ad attenuarsi o addirittura scompaiono. Con il
tempo constaterete un calo ponderale e il netto
miglioramento di molti valori in determinati esami di
laboratorio. Se poteste sbirciare nel vostro cervello,
vedreste anche che sta funzionando al massimo livello.
È una buona idea consultare il dottore prima di iniziare
questo programma, soprattutto se avete problemi di
salute come il diabete. In particolare, è importante farlo se
intendete optare per il digiuno di un giorno descritto a
pagina 245.
Nel corso del prossimo mese raggiungerete quattro
obiettivi importanti:
323
e prendere in considerazione un digiuno di un giorno per
partire con il piede giusto.
Durante la prima settimana, che chiameremo
«Obiettivo alimentazione», comincerete a usare i miei
menù e a seguire i miei consigli sulla dieta.
Durante la seconda settimana, «Obiettivo esercizio
fisico», vi esorterò a iniziare un regolare programma di
attività fisica e vi proporrò qualche idea per muovervi di
più durante la giornata.
Durante la terza settimana, «Obiettivo sonno», vi
concentrerete sulle vostre abitudini legate al sonno e
seguirete alcuni semplici suggerimenti per assicurarvi di
dormire nel modo migliore ogni singola notte, fine
settimana compreso.
Durante la quarta settimana, «Obiettivo applicazione
integrata», vi aiuterò a mettere insieme tutti gli elementi
del programma e vi fornirò strategie per far sì che questi
nuovi comportamenti diventino per sempre parte della
vostra vita. Non dubitate della vostra capacità di riuscita;
ho progettato questo programma affinché fosse il più
possibile pratico e facile da seguire.
324
Preludio alla prima settimana: preparazione
STABILITE QUAL È LA VOSTRA SITUAZIONE DI PARTENZA
325
solo ogni tre o quattro mesi. Se rispetterete questo
programma fin dal primo giorno, comunque, entro un
mese dovreste cominciare a riscontrare nei livelli di
glicemia e di insulina cambiamenti positivi che vi
motiveranno a proseguire.
Il test della fruttosamina è la misurazione di una
proteina glicata che consente di comprendere bene il
controllo glicemico medio; questo parametro cambia
abbastanza rapidamente, in due o tre settimane. Pertanto,
se forse non riscontrerete grandi variazioni
nell’emoglobina A1C, dovreste senz’altro notarne nella
fruttosamina.
L’omocisteina è un amminoacido considerato ormai in
genere abbastanza tossico per il cervello; come accennato
prima, il livello cui aspirare è intorno agli 8 micromole al
litro (µmol/L) o inferiore. Un livello 14 di omocisteina –
valore superato da molti dei miei pazienti al primo esame
– è stato descritto dal «New England Journal of Medicine»
come associato a un raddoppiamento del rischio del
morbo di Alzheimer (qualsiasi livello superiore a 10
µmol/L di omocisteina nel sangue è un livello «elevato»). I
livelli di omocisteina sono quasi sempre facili da
migliorare. Molti farmaci possono inibire le vitamine B e
provocare l’aumento dell’omocisteina (si veda l’elenco sul
sito DrPerlmutter.com), ma per intervenire a correggere il
vostro livello è sufficiente un’integrazione di alcune
vitamine B e acido folico. Di solito, invito i pazienti con
risultati poco soddisfacenti nel test dell’omocisteina a
prendere ogni giorno 50 milligrammi di vitamina B6, 800
microgrammi di acido folico e 500 microgrammi di
vitamina B12 e a ripetere l’esame dopo circa tre mesi.
Non vi allarmate se il vostro livello di vitamina D è
molto basso: la maggioranza degli americani presenta una
carenza di questo fondamentale nutriente. Poiché il corpo
326
può avere bisogno di tempo per incrementare i suoi livelli
di vitamina D con l’assunzione di integratori, comincerete
con 5000 unità internazionali (UI ) di vitamina D una volta
al giorno e verificherete il livello dopo due mesi. Se
trascorso questo tempo il vostro livello sarà pari a 50
nanogrammi al millilitro (ng/mL) o inferiore, assumerete
altre 5000 UI al giorno e ripeterete l’esame dopo due mesi.
È il livello mantenuto nel corpo che conta, non il
dosaggio. La norma è compresa tra 30 e 100 ng/mL, ma
non vorrete fermarvi a un misero 31: mirate a un livello
intorno agli 80 ng/mL, che rispecchia la metà della
cosiddetta zona normale. Chiedete al vostro medico di
aiutarvi a regolare il dosaggio per raggiungere un livello
ottimale. Quando l’avrete fatto, di solito una dose
giornaliera di 2000 IU sarà sufficiente per conservare un
livello salutare, ma per consigli specifici rivolgetevi al
vostro dottore.
La proteina C reattiva, un marcatore di infiammazione,
ha un livello ideale inferiore a 1,0 mg/L. Possono essere
necessari diversi mesi per migliorare questo valore,
tuttavia è possibile che notiate cambiamenti positivi anche
a un mese dall’inizio del programma.
Infine, raccomando vivamente di richiedere il test
Cyrex array 3: è il migliore sul mercato per la sensibilità al
glutine. Secondo la mia esperienza, i test standard di
laboratorio per rilevare il morbo celiaco non sono
abbastanza sensibili per verificare ogni sensibilità al
glutine, dunque non prendetevi il disturbo di farli.
327
negozi di prodotti dietetici, nella maggior parte delle
farmacie e dei supermercati e in internet. Sul mio sito
segnalo un elenco di alcune delle marche che preferisco. I
probiotici dovrebbero essere presi a stomaco vuoto, ma gli
altri integratori possono essere assunti anche in
concomitanza dei pasti. Gli integratori idrosolubili come
la curcuma e il resveratrolo vengono metabolizzati
piuttosto in fretta, quindi è meglio assumerli due volte al
giorno. La vitamina D e il DHA sono oli, perciò una volta
al giorno va benissimo. Per ulteriori dettagli su ciascuno
di essi tornate al capitolo VII.
Se avete domande sul dosaggio a causa di problemi di
salute personali, rivolgetevi al vostro medico affinché vi
assista negli opportuni aggiustamenti. Nel complesso,
tutti i dosaggi elencati sono ideali sia per adulti sia per
bambini, ma interpellate il pediatra per un consiglio
specifico in base al peso di vostro figlio.
Nella mia clinica, per esempio, prescrivo 100
milligrammi di DHA per i bambini fino ai diciotto mesi, e
poi 200 milligrammi al giorno; per i bambini con disturbo
da deficit di attenzione e iperattività, invece, di solito quei
dosaggi sono più elevati: intorno ai 400 milligrammi al
giorno.
328
alghe marine)
una capsula assunta a stomaco vuoto
fino a tre volte al giorno; cercate un
probiotico che contenga almeno dieci
probiotici miliardi di colture attive di
almeno dieci specie diverse,
compresi il lactobacillus acidophilus
e il bifidobacterium
resveratrolo 100 mg due volte al giorno
curcuma 350 mg due volte al giorno
vitamina D 5000 UI al giorno
329
cibi fritti, miele, agave, zucchero (bianco e di canna),
sciroppo di mais e sciroppo d’acero.
Alimenti confezionati contrassegnati come «senza
grassi» o «a basso contenuto di grassi» (a meno che
non siano davvero «senza grassi» o «a basso contenuto
di grassi» e compresi nel protocollo, come per
esempio acqua, senape e aceto balsamico).
Margarina, grasso vegetale per pasticceria e olio da
cucina (oli di semi di soia, di mais, di semi di cotone,
di ravizzone, di arachidi, di cartamo, di vinaccioli, di
girasole, di crusca di riso e di germe di grano) di
qualunque marchio commerciale e anche se biologico.
Soia non fermentata (per esempio tofu e latte di soia) e
alimenti trattati contenenti soia (cercate nell’elenco
degli ingredienti «proteine isolate della soia»; evitate
il formaggio di soia, gli hamburger di soia, gli hot dog
di soia, lo spezzatino di soia, il gelato di soia, lo
yogurt di soia). Attenzione: anche se alcune salse di
soia prodotte in modo naturale sono tecnicamente
prive di glutine, quelle di molti marchi commerciali
ne contengono alcune tracce. Se avete bisogno di
usare la salsa di soia per cucinare, usate il tamari
prodotto con il 100% di fagioli di soia e senza grano.
330
glicemia. Inoltre, possono sempre rimanere tracce di
glutine. Al momento la dicitura «senza glutine» non ha
significato legale; la FDA (L’agenzia statunitense per la
regolamentazione di alimenti e farmaci) ha proposto una
definizione, ma non l’ha ancora messa a punto. Siate
ancora più prudenti con salse, sughi e prodotti a base di
farina di mais senza glutine (per esempio tacos, tortillas,
cereali e patatine di mais).
FATE RIFORNIMENTO
331
verza, cipolle, funghi, cavolfiore, cavolini di Bruxelles,
crauti, carciofo, germogli di alfalfa, fagiolini, sedano,
cavolo cinese, ravanelli, crescione, rapa, asparago,
aglio, porro, finocchio, scalogno, cipollotti, zenzero,
jicama, prezzemolo, castagne d’acqua.
Frutti a basso contenuto di zucchero: limone, lime,
avocado; ma anche peperone, cetriolo, pomodoro,
zucchina, zucca, melanzana.
Proteine: uova intere, pesce selvatico (salmone,
merluzzo nero, lampuga, cernia, aringa, trota,
sardine), crostacei e molluschi (gambero, granchio,
aragosta, cozze, vongole, ostriche), carne di animali
allevati al pascolo, volatili, pollame e maiale (manzo,
agnello, bisonte, pollo, tacchino, anatra, struzzo,
vitello), selvaggina.
Carote e pastinache.
Fiocchi di latte, yogurt e kefir: usare con parsimonia
in ricette o come guarnizione.
Latte vaccino e panna: usare con parsimonia nelle
ricette, nel caffè e nel tè.
Legumi (fagioli, lenticchie, piselli). Eccezione: potete
consumare dell’hummus (una purea a base di ceci).
Cereali senza glutine: amaranto, grano saraceno, riso
(bianco, integrale, selvatico), miglio, quinoa, sorgo,
teff. (Una nota sull’avena: anche se in natura in genere
332
non contiene glutine, spesso è contaminata da glutine
perché viene lavorata in mulini che trattano anche il
grano; evitatela, a meno che sia garantita come senza
glutine.) Quando i cereali senza glutine vengono
lavorati per il consumo umano (per esempio nella
macinatura dell’avena integrale e nella preparazione
del riso per il confezionamento), la loro struttura fisica
cambia e questo aumenta il rischio di una reazione
infiammatoria. Pertanto limitiamo il consumo di
questi alimenti.
Dolcificanti: stevia naturale e cioccolato (scegliete
cioccolato fondente con almeno il 70% di cacao).
Frutta intera dolce: le bacche sono la scelta migliore;
fate particolare attenzione ai frutti zuccherini come
albicocche, manghi, meloni, papaie, prugne secche e
ananas.
Vino: un bicchiere al giorno, se lo gradite,
preferibilmente rosso.
RIVALUTIAMO LE UOVA
333
consumano poche uova o che non ne consumano affatto
sono in pratica identici a quelli di persone che ne
consumano in abbondanza. Non dimenticate che, al
contrario dell’opinione comune, il colesterolo alimentare
riduce la produzione di colesterolo del corpo e più
dell’80% del colesterolo misurato dall’esame del sangue
viene prodotto dal fegato.
Usiamo le parole di un valido articolo di ricercatori
britannici, Eggs and Dietary Cholesterol – Dispelling the Myth
(Uova e colesterolo alimentare: sfatare un mito),
pubblicato sul bollettino della British Nutrition
Foundation:
334
abbiamo bisogno per vivere, vitamine e minerali, ma
anche antiossidanti noti perché proteggono la salute degli
occhi: il tutto con appena 70 calorie ciascuna. Inoltre,
contengono ampie riserve di colina, sostanza di
particolare importanza perché contribuisce alla funzione
cerebrale e alla salute di madre e feto durante la
gravidanza. Quando vedo scritto su un menù «omelette di
solo albume» mi viene da rabbrividire.
Noterete che in questa dieta consiglio di mangiare
molte uova. Per favore, non abbiatene paura. Potrebbero
essere il modo migliore per iniziare la giornata e dare il là
all’equilibrio della glicemia. E con le uova si possono
preparare tanti piatti. Strapazzate, fritte, in camicia, bollite
o usate per cucinare svariate pietanze, sono senz’altro fra
gli ingredienti più versatili. Preparate una confezione di
uova sode la domenica sera e avrete la colazione e/o gli
spuntini per tutta la settimana.
DIGIUNO FACOLTATIVO
335
troppo, limitatevi a sospendere i carboidrati per qualche
giorno mentre preparate la vostra nuova cucina. Più il
vostro corpo è dipendente dai carboidrati, più lo troverete
difficile. Preferisco che i miei pazienti mettano un punto
fermo quando si tratta di dire no al glutine, dunque fate
del vostro meglio per eliminare per intero almeno le fonti
di glutine e ridurre gli altri carboidrati. Nel momento in
cui il corpo non è più dipendente dai carboidrati, sarà
possibile digiunare per periodi più lunghi, talvolta per
giorni. Quando avrete adottato questa dieta per la vita e
vorrete digiunare per ricavarne ulteriori vantaggi, potrete
provare un digiuno di settantadue ore (dando per
scontato che avrete verificato con il vostro medico se
soffrite di disturbi di cui tenere conto). Io consiglio di
digiunare almeno quattro volte all’anno; il digiuno
durante i cambiamenti di stagione (per esempio l’ultima
settimana di settembre, dicembre, marzo e giugno) è
un’ottima abitudine.
336
La prima settimana: obiettivo alimentazione
Ora che la vostra cucina è a posto, è tempo di abituarvi a
preparare i pasti applicando questa nuova serie di criteri.
Nel prossimo capitolo troverete un programma con menù
giornalieri per la prima settimana, che poi vi servirà come
modello per pianificare i pasti delle restanti tre settimane.
A differenza di altre diete, questa non vi chiederà di
contare le calorie, limitare l’apporto di grassi o
preoccuparvi delle porzioni. Confido che conosciate la
differenza tra un piatto molto abbondante e una quantità
normale. E non vi chiederò neppure di preoccuparvi di
quanti grassi saturi o insaturi consumate.
Il vantaggio di questo tipo di dieta è che si basa molto
sull’«autoregolazione»: non eccederete nel mangiare e vi
sentirete sazi per diverse ore prima di avere bisogno di un
altro pasto. Quando il corpo funziona per lo più a
carboidrati, è in balia delle montagne russe di glucosio e
insulina: la glicemia che scende in picchiata provoca una
fame intensa, mentre la sazietà è di breve durata.
Consumare una dieta povera di carboidrati e più ricca di
grassi avrà l’effetto opposto. Eliminerà le voglie
incontrollabili e preverrà quei blocchi mentali che si
verificano spesso nel tardo pomeriggio con le diete a base
di carboidrati. Consentirà in modo automatico, di
controllare le calorie (senza neppure pensarci), bruciare
più grassi, non mangiare in maniera confusa e meccanica
(cioè evitare di assumere quelle 500 calorie extra circa che
tanti consumano ogni giorno senza accorgersene per
tenere a bada una glicemia nel caos) e migliorare senza
sforzo le prestazioni mentali. Dite addio alla sensazione di
337
essere lunatici, confusi, indolenti e stanchi per tutto il
giorno. E date il benvenuto al vostro nuovo Io.
L’unica differenza tra questo mese e quello che verrà
dopo è che mirerete ad assumere quantità minime di
carboidrati. È imperativo ridurre l’apporto di carboidrati
ad appena 30-40 grammi al giorno per quattro settimane.
In seguito, potrete aumentarlo a 60 grammi. Aggiungere
carboidrati alla vostra dieta dopo le prime quattro
settimane non significa riprendere a mangiare pasta e
pane. Quello che farete è solo consumare una quantità di
poco maggiore degli alimenti elencati nella categoria «con
moderazione», come per esempio frutta intera, cereali
senza glutine e legumi.
Come sapere quanti ne state assumendo? Usate
l’almanacco degli alimenti sul mio sito web
(DrPerlmutter.com), che elenca i grammi di carboidrati a
porzione. Se seguirete i menù e le ricette di questo libro,
presto riuscirete a capire com’è un pasto povero di
carboidrati.
E l’apporto di fibre? Molte persone temono che ridurre
il consumo di pane e prodotti a base di grano e «ricchi di
fibre» sarà causa di una drammatica perdita di fibre
indispensabili. Sbagliato. Sostituendo quei carboidrati con
altri a base di frutta a guscio e verdura l’apporto di fibre
aumenterà. E avrete un sufficiente apporto di vitamine
essenziali e anche di nutrienti che in precedenza, con ogni
probabilità, vi mancavano.
Forse troverete utile tenere un diario alimentare per
tutto il tempo del programma. Prendete nota delle ricette
che vi piacciono e degli alimenti che ritenete possano
ancora crearvi difficoltà (per esempio se si presentano
sintomi come stomaco sottosopra o mal di testa ogni volta
che mangiate i semi di sesamo). Alcune persone sono
sensibili ad alcuni alimenti compresi in questa dieta. Circa
338
la metà dei soggetti con intolleranza al glutine, per
esempio, è suscettibile anche ai latticini. Strano a dirsi, i
ricercatori stanno constatando che anche il caffè tende a
una reazione crociata con il glutine. Qualora, dopo avere
intrapreso questa dieta, aveste ancora la sensazione che vi
sia qualche problema, potrete eseguire un altro esame di
laboratorio, il test Cyrex array 4, che può aiutare a
individuare gli alimenti che, nel vostro caso, hanno una
reazione crociata con il glutine. Esso identifica in
particolare reazioni ai seguenti alimenti:
grano saraceno
amaranto siero di latte
latticini
avena soia
lievito
caffè sorgo
miglio
canapa tapioca
quinoa
cioccolato teff
riso
farro uova
sesamo
339
semplice elenco di idee suddivise in categorie per tipo di
pasto (per esempio colazione, pranzo o cena, insalate),
dunque scegliete pure a vostro piacimento. Ogni pasto
dovrebbe contenere una fonte di grassi sani e proteine.
Potete mangiare quasi tutte le verdure che volete, a
eccezione di mais, patate, carote e pastinache. Se seguite il
programma della prima settimana, in futuro impostare i
vostri pasti sarà una cosa da nulla.
340
La seconda settimana: obiettivo esercizio
fisico
Se non lo state già facendo, puntate a impegnarvi in
un’attività fisica aerobica per un minimo di venti minuti
al giorno. Approfittate di questa settimana per instaurare
una routine di vostro gradimento che aumenti la
frequenza del battito cardiaco almeno del 50% rispetto
alle pulsazioni a riposo. Non dimenticate che state
creando nuove abitudini da seguire per tutta la vita: non è
il caso di logorarsi, ma neppure di faticare troppo poco e
rifuggire dallo sfidare il vostro corpo in modi che possano
promuovere la salute e aumentare la longevità del
cervello.
Per raccogliere i benefici dell’esercizio fisico, mirate a
faticare almeno una volta al giorno e a costringere i vostri
polmoni e il cuore a lavorare di più. Oltre a tutti i
vantaggi che ne ricaverete sul piano cardiovascolare e di
gestione del peso corporeo, gli studi dimostrano che le
persone che fanno esercizio fisico con regolarità, fanno
gare sportive o anche solo camminano diverse volte alla
settimana, proteggono il loro cervello dall’atrofia.
Riducono inoltre al minimo la possibilità di diventare
obesi e diabetici, cioè affetti da patologie che
rappresentano importanti fattori di rischio nelle malattie
cerebrali.
Se avete condotto uno stile di vita sedentario, limitatevi
a fare una passeggiata di venti minuti al giorno e quando
avrete familiarizzato con la vostra routine aggiungete altri
minuti. Potrete anche rendere più intensi i vostri
allenamenti aumentando la velocità e affrontando salite.
341
O portare un peso di circa due chilogrammi in ogni mano
ed eseguire alcuni esercizi per i bicipiti mentre
camminate.
Se praticate già un’attività per mantenervi in forma,
provate a vedere se potete intensificare gli allenamenti
fino a un minimo di trenta minuti al giorno, almeno
cinque giorni alla settimana. Questa potrebbe anche essere
la settimana in cui provate qualcosa di diverso, come un
nuovo corso in palestra, o rispolverate una vecchia
bicicletta in garage. Al giorno d’oggi le occasioni per fare
esercizio sono ovunque, al di là delle palestre tradizionali,
dunque non esistono scusanti. Potete perfino utilizzare
dei video tutorial su internet e fare esercizi nel comfort
della vostra casa. Non importa cosa scegliete, basta che lo
facciate!
Un allenamento completo dovrebbe richiedere un
insieme di esercizi che aumentano il ritmo cardiaco,
esercizi di resistenza ed esercizi di allungamento. Se
partite da zero, cominciate con i primi e aggiungete in
seguito resistenza e stretching. L’allenamento di
resistenza può essere effettuato con classiche attrezzature
da palestra, pesi, o l’utilizzo del vostro peso corporeo in
lezioni mirate a questa attività, come per esempio yoga e
pilates. Queste lezioni implicano spesso anche molti
esercizi di allungamento, ma non è necessario un corso
vero e proprio per lavorare al mantenimento della
flessibilità. Potete eseguire numerosi esercizi di stretching
anche per conto vostro, perfino davanti alla televisione.
Una volta messo a punto un allenamento regolare,
sarete in grado di programmare la vostra routine
quotidiana in base a diversi tipi di esercizio. Per esempio:
lunedì, mercoledì e venerdì potreste dedicarvi per un’ora
allo spinning e martedì e giovedì a un corso di yoga. Poi,
al sabato, fare una passeggiata con gli amici o nuotare in
342
piscina; quindi prendervi la domenica di vacanza per
riposare. Vi consiglio di tirar fuori l’agenda e segnarvi il
programma dell’attività fisica.
Se capita un giorno in cui non avete proprio tempo da
dedicare a una serie di esercizi convenzionali, ingegnatevi
per ritagliare dei momenti di attività fisica. Tutte le
ricerche indicano che da tre sessioni di dieci minuti
ciascuna è possibile ottenere benefici per la salute
analoghi a quelli di un singolo allenamento di trenta
minuti. Se siete a corto di tempo in una certa giornata,
dunque, limitatevi a suddividere la vostra routine in
segmenti più brevi. E pensate a come abbinare l’esercizio
fisico ad altri compiti: per esempio, fare la riunione con un
collega di lavoro camminando all’aperto o guardare la
televisione di sera mentre portate a termine una serie di
esercizi di stretching a terra. Se possibile, riducete i minuti
che passate seduti, muovetevi mentre parlate al telefono
con l’auricolare, usate le scale al posto dell’ascensore e
parcheggiate molto lontano dalla porta d’ingresso al
vostro edificio. Più vi muovete nel corso della giornata,
più il vostro cervello ne trarrà vantaggio.
343
La terza settimana: obiettivo sonno
Oltre a portare avanti le nuove abitudini alimentari e di
esercizio fisico, sfruttate questa settimana per
concentrarvi sull’igiene del vostro sonno. Ora che seguite
questo protocollo da un paio di settimane, dovreste
dormire meglio. Se dormite abitualmente meno di sei ore
per notte, potete iniziare con l’estendere questo lasso di
tempo ad almeno sette ore. Questo è il minimo, se volete
avere livelli sani e normali di fluttuazione ormonale.
Per accertarvi di aver fatto tutto ciò che potete per
ottenere un sonno ristoratore della migliore qualità
possibile, vi offro alcuni suggerimenti per una buona
notte di riposo.
344
trattarsi di qualunque cosa, dai farmaci alla caffeina,
dall’alcol alla nicotina. Caffeina e nicotina sono
entrambe stimolanti. Chiunque fumi ancora, dovrebbe
adottare un piano per smettere, dato l’aumento di
rischio di qualsiasi malattia. Quanto alla caffeina,
cercate di evitarla dopo le due del pomeriggio: questo
darà al vostro corpo il tempo di smaltirla evitando che
influisca sul sonno. Alcune persone sono più sensibili
a questa sostanza, perciò potrebbero anticipare
l’ultimo caffè al mezzogiorno o passare a bevande
contenenti meno caffeina. Chiedete al vostro medico o
al farmacista informazioni a proposito delle eventuali
ripercussioni sul sonno dei farmaci che assumete con
regolarità: anche molti farmaci da banco possono
contenere componenti che disturbano le vostre notti. I
comuni medicinali contro il mal di testa, per esempio,
possono contenere caffeina. L’alcol, pur producendo
un effetto sedativo subito dopo il suo consumo, può
disturbare il sonno mentre viene metabolizzato dal
corpo; uno degli enzimi usati per scomporlo, infatti,
ha effetti stimolanti. L’alcol provoca inoltre il rilascio
di adrenalina e interrompe la produzione di
serotonina, un’importante sostanza chimica del
cervello che favorisce il sonno.
3. Cenate all’ora giusta. A nessuno piace andare a letto a
stomaco pieno o vuoto. Trovate il momento giusto,
lasciando circa tre ore di tempo tra la cena e l’ora di
andare a letto. E siate consapevoli di eventuali
ingredienti nei cibi che possono essere difficili da
digerire prima di dormire. Questo aspetto cambia da
persona a persona.
4. Non mangiate in maniera irregolare. Seguite un regime
regolare, in modo da mantenere sotto controllo gli
345
ormoni dell’appetito. Ritardare troppo un pasto
scombussola gli ormoni, con conseguenze sul sistema
nervoso e successive ripercussioni sul sonno.
5. Provate uno spuntino della buona notte. L’ipoglicemia
notturna (bassi livelli glicemici di notte) può
provocare insonnia. Un eccessivo calo del glucosio
ematico induce il rilascio di ormoni che stimolano il
cervello e accendono l’appetito. Provate a fare uno
spuntino prima di andare a letto per evitare questo
disastro nel mezzo della notte. Optate per alimenti
con livelli elevati dell’amminoacido triptofano, un
coadiuvante naturale del sonno, per esempio tacchino,
fiocchi di latte, pollo, uova e frutta a guscio (in
particolare le mandorle). Fate attenzione alla
porzione: una manciata di frutta secca potrebbe essere
l’ideale. Non vorrete divorare un’omelette da tre uova
con tacchino subito prima di coricarvi. Scegliete con
saggezza.
6. State attenti agli stimolanti ingannatori. Sapete già che
un normale caffè vi manterrà vigili, ma oggi i prodotti
contenenti caffeina sono ovunque. Se seguirete il mio
protocollo alimentare, è probabile che non ne
incontrerete. Inoltre, determinati composti alimentari
come coloranti, aromi e carboidrati raffinati possono
agire da stimolanti, dunque evitate anche questi.
7. Create l’ambiente giusto. Non è una novità che tenere in
camera da letto apparecchi elettronici che stimolano
occhi e cervello sia una cattiva idea, eppure la gente
non rispetta ancora questa regola elementare. Cercate
di rendere la vostra camera da letto un rifugio
tranquillo, pacifico, senza dispositivi stimolanti (per
esempio il televisore, il computer, telefoni ecc.), luci
346
forti e disordine diffuso. Investite in un letto comodo
e morbide lenzuola. Mantenete un’illuminazione
soffusa. Coltivate l’umore adatto al sonno (e al sesso,
che a sua volta può predisporre al sonno, ma questa è
un’altra storia).
8. Usate con prudenza i sonniferi. Un sonnifero una volta
tanto non vi ucciderà, ma l’uso continuo può
diventare un problema. L’obiettivo è arrivare a
dormire bene con regolarità senza bisogno di aiuti. E
non mi riferisco ai tappi per le orecchie o alle
mascherine per gli occhi, che approvo come ausili per
il sonno; sto parlando di farmaci che lo inducono, con
o senza obbligo di prescrizione. Fra gli esempi sono
da annoverare le formule «PM » di antistaminici
calmanti come difenidramina e dossilamina. Anche se
rivendicano di non dare assuefazione, possono
sempre produrre una dipendenza psicologica. Meglio
regolare il sonno in maniera naturale.
347
La quarta settimana: obiettivo applicazione
integrata
A questo punto dovreste essere in sintonia con il nuovo
stile di vita e sentirvi molto meglio di tre settimane fa.
Siete in grado di distinguere tra un’alimentazione ricca di
carboidrati e una scelta più sana. Dormite meglio e fate
esercizio con regolarità. E adesso?
Non lasciatevi prendere dal panico se vi sembra di non
avere ancora trovato il giusto ritmo. Nella vita la
maggioranza di noi ha almeno un punto debole che
richiede ulteriore attenzione. Forse avete difficoltà ad
andare a letto entro le dieci ogni sera, o forse il vostro
tallone d’Achille è trovare il tempo per allenarvi quasi
tutti i giorni della settimana ed evitare il cibo spazzatura
sempre a portata di mano nella sala ristoro dell’ufficio.
Approfittate di questa settimana per trovare il giusto
ritmo nella vostra nuova routine. Individuate gli ambiti
della vostra vita in cui faticate a rispettare il protocollo e
vedete cosa potete fare per rimediare. Ecco qualche
suggerimento che potreste trovare utile.
348
settimana, soprattutto pranzi e cene: tendiamo a
essere piuttosto abitudinari a colazione, ma possiamo
essere vittime di decisioni dell’ultimo minuto
riguardo al pranzo sul lavoro e alla cena se arriviamo
a casa molto affamati. State all’erta per i giorni in cui
sapete di arrivare a casa tardi e non avrete energie per
cucinare. Approntate un piano d’emergenza. (Nel
prossimo capitolo vi proporrò molte idee per
affrontare i pasti fuori casa e i momenti in cui avete
bisogno di qualcosa per tirare avanti fino al pasto vero
e proprio.)
Preparate la lista della spesa. Che andiate a far compere
tutti i giorni o solo una volta alla settimana, avrete
bisogno di una lista della spesa per essere più
efficienti ed evitare acquisti impulsivi. Inoltre, vi
risparmierà una quantità di congetture per tentare di
capire cosa, al mercato, sia sicuro acquistare, cucinare
e consumare. Seguite, in linea di massima, il
perimetro del negozio, dove si trovano i prodotti più
naturali. Evitate le corsie centrali, che traboccano di
prodotti industriali confezionati. E non fate la spesa
quando avete fame, altrimenti graviterete sui cibi
dannosi, dolci e salati. Tenete a mente che gli
ingredienti freschi non durano più di tre-cinque
giorni, a meno che non li mettiate in congelatore.
Andare una volta al mese in un negozio che vende
alimentari sfusi potrebbe essere utile se avete una
famiglia da sfamare e spazio in più nel congelatore
per grandi quantità di carne, pollame e verdure
surgelate.
Stabilite alcuni punti «non negoziabili». Se nutrite grandi
speranze di andare giovedì pomeriggio al mercato dei
contadini nel vostro quartiere, scrivetelo sulla vostra
349
agenda e trasformatelo in un punto non negoziabile.
Se sognate di provare una nuova scuola di yoga che
ha aperto in città, stabilite con precisione quando e
fate in modo che accada. Individuare obiettivi non
negoziabili vi aiuterà a evitare le scuse che si
presentano quando vi impigrite o quando vi lasciate
intralciare da altre incombenze. Ed è un ottimo modo
per rimediare ai vostri punti deboli. Abbiate chiare le
vostre priorità quando fissate la rotta della vostra
settimana, e rispettatele!
Sfruttate la tecnologia. Tutti i giorni ci serviamo della
tecnologia per semplificare la nostra vita. Perché non
approfittare delle risorse di internet e delle
applicazioni tecnologiche che possono aiutarci a
seguire i nostri obiettivi e restare in armonia con noi
stessi? Negli ultimi anni, per esempio, il mercato delle
applicazioni di self-tracking (automonitoraggio) è
esploso. Potete utilizzare ingegnosi dispositivi per
osservare quanti passi fate in un giorno, fino a che
punto avete dormito bene ieri notte e perfino con
quale velocità mangiate. Alcune app funzionano su
smartphone, mentre altre richiedono un vero e
proprio supporto, per esempio un accelerometro che
segue i movimenti del vostro corpo per tutta la
giornata. È vero, questi strumenti non sono adatti a
tutti, ma potreste trovare qualche programma che alla
fine vi aiuterà a mantenere uno stile di vita sano. Sul
mio sito trovate qualche spunto, insieme a un elenco
di applicazioni che possono aiutarvi a ottimizzare le
informazioni di questo libro, come l’almanacco degli
alimenti, con i dati sugli ingredienti di pietanze
diffuse, e collegamenti a servizi legati alla salute che
possono ricordarvi di tenere sotto controllo le vostre
350
abitudini. Google Calendar, per esempio, può essere
usato come un’applicazione completa per autogestirsi.
Usatela, se fa al caso vostro.
Siate flessibili, ma coerenti. Non autoflagellatevi se per
un momento non avete rispettato il programma.
Siamo tutti umani. Potreste avere una giornata no e
ritrovarvi a saltare la palestra per uscire la sera con gli
amici e recarvi in un ristorante dove in pratica tutto
ciò che viene servito è off limits. O magari siete in
vacanza e indulgere a qualche gratificazione è
inevitabile. Purché rientriate in carreggiata appena vi
fermate, andrà tutto bene. Solo non lasciate che un
piccolo scivolone vi faccia deragliare per sempre. A
questo proposito, ricordatevi di seguire con coerenza i
programmi quotidiani. La coerenza non è rigidità: si
tratta di mangiare e fare moto in modi che vi siano
utili senza farvi sentire come se steste esagerando o
costringendovi a fare qualcosa che non gradite.
Trovare una versione personale di questa coerenza
sarà fondamentale per la vostra riuscita. Scoprirete
cosa funziona meglio per voi e cosa non funziona. Poi
potrete adeguare questo programma alla vostra vita
in base a questi criteri generali e portarlo avanti con
coerenza.
Trovate fattori di motivazione. A volte avere una
motivazione aiuta; può essere di qualsiasi genere, dal
desiderio di correre la 10 chilometri della vostra città,
alla programmazione di un viaggio con i vostri figli
adulti per fare un’escursione sul monte Kilimangiaro.
Le persone che decidono di concentrarsi sulla loro
salute lo fanno spesso per ragioni specifiche, come per
esempio: «Voglio avere più energie», «voglio vivere
più a lungo», «voglio perdere peso» e «non voglio
351
morire come mia madre». Non perdete di vista il
quadro generale. Questo vi aiuterà non solo a
mantenere uno stile di vita sano, ma anche a tornare
in carreggiata se di tanto in tanto barate. A volte fare
progressi è meglio della perfezione.
MANGIARE FUORI
352
vorrete provare nuovi ristoranti che soddisfino le vostre
esigenze. Non è difficile far sì che qualunque menù vi
vada bene, a patto di decidere con buonsenso. Il pesce al
forno con verdura al vapore dovrebbe essere una
sicurezza (resistete alle patate, alle patatine fritte e al
cestino del pane e chiedete un contorno di insalata con
olio d’oliva e aceto). State attenti ai piatti elaborati che
contengono numerosi ingredienti. Nel dubbio, chiedete
spiegazioni.
In linea generale, bisognerebbe mangiare fuori il meno
possibile, poiché è impossibile eliminare tutte le fonti di
ingredienti poco salutari. Impegnatevi a consumare cibi
che preparate voi per la maggior parte dei giorni della
settimana. Tenete a portata di mano anche degli spuntini,
così non vi scoprirete affamati nel negozietto della
stazione di servizio. Il prossimo capitolo propone molte
idee per spuntini e alimenti da portare con sé fuori casa,
molti dei quali sono trasportabili e non deperibili. Una
volta che avrete familiarizzato con il nuovo stile di
alimentazione, provate a tornare alle vostre vecchie ricette
e a modificarle adeguandole ai miei criteri. Sarete sorpresi
da ciò che può fare un po’ di sperimentazione in cucina
per trasformare un piatto classico pieno di glutine e
ingredienti infiammatori in un pasto altrettanto delizioso,
ma rispettoso del cervello. Invece della normale farina o
del grano, provate la farina di cocco, i semi di lino tritati e
farine di frutta a guscio come le mandorle tritate; al posto
dello zucchero trovate modi per dolcificare la vostra
ricetta con stevia o frutta intera, e invece di cucinare con
oli vegetali trattati attenetevi al burro e all’olio
extravergine d’oliva.
Infine, di fronte alla tentazione (la scatola di dolcetti al
lavoro o la torta di compleanno di un amico), ricordatevi
che in qualche modo pagherete per quella gratificazione.
353
Se non riuscite a dire no, siate pronti ad accettarne le
conseguenze. Ma tenete a mente che uno stile di vita
libero dagli alimenti che nuociono al cervello è, secondo la
mia umile opinione, il più appagante e gratificante che
esista. Godetevelo.
354
Un esercizio di equilibrismo
Come per tante cose nella vita, apprendere e consolidare
una nuova abitudine è un atto di equilibrismo. Anche una
volta modificati i comportamenti relativi ad alimentazione
e attività fisica e cambiato il modo di acquistare, cucinare
e ordinare il cibo, vi capiteranno ancora momenti in cui
vecchie abitudini riemergeranno.
Non mi aspetto che non mangiate mai più una fetta di
pizza croccante o una pila di pancake bollenti, ma spero
proprio che rimaniate consapevoli delle vere esigenze del
vostro corpo, ora che le conoscete, e che realizziate ogni
giorno questa sensibilità appena scoperta al meglio delle
vostre possibilità.
Molte persone hanno applicato alla dieta il famoso
principio dell’80/20: mangiare bene per l’80% del tempo e
lasciare da parte l’ultimo 20% per fare follie. Alcuni, al
contrario, si ritrovano a vivere la situazione opposta! È
troppo facile trasformare un’occasionale follia in
un’abitudine quotidiana, come mangiare una coppa di
gelato diverse volte alla settimana. Bisognerebbe ricordare
che una scusa per non prendersi cura di se stessi non
manca mai. Abbiamo feste e matrimoni cui presenziare. Il
lavoro che dobbiamo affrontare ci lascia carichi di stress e
senza le energie, il tempo e la capacità mentale per
preparare del buon cibo, fare esercizio fisico e adottare le
scelte relative al sonno. La vita è fatta così, e accettare una
certa elasticità va bene. Cercate, tuttavia, di optare per
una regola di 90/10. Rispettate i criteri di questa dieta per
il 90% del tempo e l’ultimo 10% verrà da sé, com’è
inevitabile. Ogni volta che sentirete di essere usciti troppo
355
dal sentiero, poi, premerete il pulsante di riavvio. Potete
farlo digiunando per un giorno e impegnandovi di nuovo
nelle quattro settimane di restrizione dei carboidrati a 30-
40 grammi quotidiani. Questo protocollo può essere la
vostra ancora di salvezza per un modo di vivere più sano,
alla base della visione che avete in prospettiva di voi
stessi e del vostro cervello.
La vita è una serie infinita di scelte. «Da questa parte o
dall’altra? Adesso o più tardi? Maglione rosso o verde?
Sandwich o insalata?» In fondo, il senso di questo libro è
aiutarvi a imparare a prendere decisioni migliori, che alla
fine vi permetteranno di partecipare alla vita nella
maniera più completa. La mia speranza è di avervi dato
molte idee almeno per iniziare a cambiare stile di vita.
Tutti i giorni, nel mio studio, prendo atto del valore che
ha la salute – e la lucidità mentale – per le persone. E
riscontro anche gli effetti di disturbi improvvisi e malattie
croniche, a prescindere dai successi delle persone e da
quanto siano amate. Per molti la salute può non essere la
cosa più importante nella vita, ma senza di essa null’altro
conta. E quando siete in buona salute, quasi tutto è
possibile.
356
Capitolo XI
357
Nutrirsi bene per un cervello sano
Programmazione dei pasti e ricette
358
acquistare qualsiasi tipo di ingrediente nel raggio di pochi
chilometri, che si tratti di andare nel vostro negozio di
alimentari di riferimento – che ora è pieno di alimenti
biologici – o di avventurarsi in una rivendita dei contadini
della zona. Fate conoscenza con i vostri fornitori:
potranno dirvi cosa è appena arrivato e offrire spiegazioni
sulla provenienza della loro merce. Puntate su prodotti
agricoli di stagione e siate pronti a provare nuovi alimenti
mai gustati in precedenza. Dieci anni fa, per esempio,
acquistare bisonte o merluzzo nero era difficile, mentre
oggi vi è ampia disponibilità di carni e pesci deliziosi ed
esotici. Ricordatevi di optare sempre, quando è possibile,
per prodotti biologici o selvatici. Nel dubbio, chiedete al
negoziante.
359
consumate, calcolate da 350 a 450 ml circa di acqua in
più. Anche il latte di mandorla è una scelta salutare. A
cena potete scegliere di bere anche un bicchiere di
vino, preferibilmente rosso.
Frutta: scegliete la frutta intera e, nelle prime quattro
settimane, puntate a metterla da parte per uno
spuntino o come dessert. Provatela con panna fresca,
non zuccherata, o mescolata con latte di cocco e un
pizzico di stevia o polvere di cacao amaro.
Regola dell’olio d’oliva: siete liberi di fare un uso
generoso dell’olio d’oliva (extravergine e bio). In
cucina è spesso possibile sostituire l’olio d’oliva con
olio di cocco, per esempio per saltare in padella il
pesce e le verdure o per strapazzare le uova a
colazione. Questo vi aiuterà ad assumere il vostro
cucchiaino quotidiano di olio di cocco, come
consigliato nella parte riguardante gli integratori.
Fuori casa: quando siete a corto di tempo e non avete
accesso a una cucina, come capita di frequente
durante la pausa pranzo al lavoro, preparate qualcosa
da portare con voi. È utile avere pronti in frigorifero
cibi già cotti, come per esempio pollo arrosto o ai ferri,
salmone al vapore o strisce di controfiletto o di roast
beef alla griglia. Riempite un contenitore di insalata
verde mista e cubetti di verdure crude, e subito prima
di mangiare aggiungetevi le proteine e il condimento
scelti, che avrete conservato a parte. Oggi molti
supermercati offrono cibi pronti che riportano un
elenco degli ingredienti, così saprete cosa avete
acquistato. Alcuni market della catena Whole Foods 1,
per esempio, propongono un pasto completo, il «Meal
Deal»: potete scegliere tra pollo o salmone alla griglia
360
e due contorni, come fagiolini piccanti e insalata di
cavolo riccio crudo. E non dimenticate gli avanzi.
Molte ricette di questo capitolo possono essere
preparate durante il fine settimana (magari
raddoppiando le quantità) per coprire diversi pasti
durante la settimana, quando siete fuori casa. Basta
trasportare il cibo in un contenitore ermetico e
consumarlo freddo o riscaldato in un microonde.
Io viaggio portando con me avocado e scatolette di
salmone rosso. I cibi in scatola possono essere ottime
fonti di nutrimento, buono e comodo da tenere con sé,
purché stiate attenti a quali prodotti state
acquistando. I pomodori in scatola, per esempio,
possono essere ottime alternative al prodotto fresco,
ma fate attenzione agli ingredienti aggiunti, come
sodio e zucchero. Quando scegliete il pesce in scatola,
optate per quello pescato in maniera sostenibile, a
traina o con la canna. E state alla larga dai pesci che
potrebbero contenere quantità elevate di mercurio. Un
sito fantastico da consultare è quello del programma
Seafood Watch dell’acquario della Baia di Monterey,
all’indirizzo http://www.seafoodwatch.org. Questo
sito offre informazioni aggiornate sulla provenienza
del pesce e su quale evitare a causa di sostanze
contaminanti e tossine.
Cosa scegliere per fare uno spuntino: considerato
l’elevato fattore di sazietà dei pasti che propongo (per
non parlare del meraviglioso controllo sui livelli
glicemici), è difficile che vi ritroviate, famelici, a caccia
di cibo tra un pasto e l’altro. Tuttavia, è bello sapere
che seguendo questa dieta potrete fare uno spuntino
ogni volta che vorrete. Di seguito trovate qualche
proposta.
361
Una manciata di frutta a guscio cruda (a eccezione
delle arachidi, che sono un legume). Oppure
scegliete un misto di frutta a guscio e olive.
Qualche quadratino di cioccolato fondente
(contenente almeno il 70% di cacao).
Dadini di verdura cruda (per esempio peperoni,
broccoli, cetrioli, fagiolini, ravanelli) intinti in
hummus, guacamole, formaggio di capra,
tapenade o burro di frutta a guscio.
Cracker al formaggio senza grano, a basso
contenuto di carboidrati.
Fette di tacchino arrosto freddo o di pollo intinte
nella senape.
Mezzo avocado con un filo di olio d’oliva, sale e
pepe.
Due uova sode.
Insalata caprese: un pomodoro a fette con sopra
mozzarella fresca, un filo di olio d’oliva, basilico,
sale e pepe.
Un gambero freddo sgusciato con limone e aneto.
Un pezzo o una porzione di frutta intera, a basso
contenuto di zuccheri (per esempio pompelmo,
arancia, mela, frutti di bosco, melone, pera,
ciliegie, uva, kiwi, prugna, pesca, pesca noce).
362
Esempio di menù per una settimana
Un’alimentazione sana per il cervello potrebbe iniziare
con un programma giorno per giorno come quello
settimanale descritto nelle prossime righe. Potete trovare
alcune ricette a partire da pagina 269. Fate attenzione:
quando saltate i cibi in padella potete usare burro, olio
extravergine d’oliva biologico o olio di cocco. Evitate gli
oli trattati e gli spray per cucinare, a meno che il
contenuto dello spray non consista in olio d’oliva
biologico.
Lunedì
Martedì
363
Pranzo: pollo al limone (pagina 273) con insalata agli
aromi con vinaigrette all’aceto balsamico (pagina 286).
Cena: salmone veloce ai funghi (pagina 282) e verdure
arrosto a piacere.
Dessert: 2 tartufi al cioccolato (pagina 298).
Mercoledì
Giovedì
Venerdì
364
tostate (pagina 287) e circa 90 grammi di salmone alla
griglia.
Cena: agnello con limone alla greca (pagina 282) e
fagiolini e broccoli a piacere.
Dessert: mousse di cioccolato al cocco (pagina 298).
Sabato
Domenica
RICETTE
365
grano e di zucchero, gli alimenti e gli ingredienti con cui
divertirsi in cucina non mancano davvero.
Dovrete diventare un po’ creativi per preparare alcuni
dei vostri piatti preferiti, ma, una volta appreso come
effettuare con disinvoltura determinate sostituzioni,
sarete in grado di modificare in maniera opportuna le
istruzioni dei vostri classici ricettari. Le ricette proposte di
seguito vi daranno un’idea generale di come applicare i
criteri illustrati in precedenza a qualsiasi pasto e vi
aiuteranno a padroneggiare un’arte culinaria rispettosa
del cervello.
Sapendo che la maggioranza delle persone è oberata di
impegni e ha poco tempo per cucinare, ho scelto piatti
semplici abbastanza facili da preparare e, soprattutto,
gustosi e ricchi di sostanze nutritive. Anche se nella prima
settimana del programma vi invito a seguire il mio
protocollo giorno per giorno delineato alle pagine 267-
268, così da non dover neppure pensare a cosa mangiare,
potrete in ogni caso scegliere le ricette che più risvegliano
il vostro interesse per ottenere un protocollo
personalizzato.
La maggior parte degli ingredienti utilizzati è di facile
reperibilità. Non dimenticate di optare sempre, se
possibile, per prodotti da allevamento al pascolo, biologici
e selvatici. Nella scelta di olio d’oliva o di cocco ricorrete
alle varietà extravergini. Sebbene tutti gli ingredienti
elencati nelle ricette siano stati scelti perché reperibili in
una forma senza glutine, controllate sempre le etichette
per sicurezza, specie se state acquistando un alimento
lavorato da un produttore (per esempio la senape). Non
abbiamo la facoltà di controllare quello che finisce nei
prodotti, ma possiamo controllare quello che finisce nei
nostri piatti.
366
COLAZIONE
367
Sfornare e servire.
Huevos rancheros
368
Questo classico piatto messicano è stato modificato:
invece di essere servite su tortillas, le uova saranno
adagiate su un letto di verdura fresca.
369
½ banana, ridotta a purea
1 cucchiaio di burro di mandorle
2 cucchiaini di semi di zucca (facoltativo)
1 manciata di frutti di bosco freschi (facoltativo)
PRANZO O CENA
Pollo al limone
370
Il pollo può essere usato in una grande varietà di piatti.
Ecco una facile ricetta che potete preparare per cena, e i
cui avanzi possono essere messi da parte per il pranzo del
giorno seguente.
Mettere il pollo in una teglia da forno bassa che possa contenere tutti e 6 i petti.
Unire in una ciotola il rosmarino, l’aglio, lo scalogno, la scorza e il succo del
limone. Incorporare poco a poco l’olio d’oliva. Versare la marinata sopra il
pollo, coprirlo e lasciarlo in frigorifero almeno 2 ore o per tutta la notte.
Preriscaldare il forno a 175 °C. Togliere il pollo dalla marinata e cuocerlo in
una teglia da forno per 25 minuti, oppure finché non sarà ben cotto. Servire
con un’insalata di contorno e verdure al vapore.
371
Per la vinaigrette alla senape:
4 cucchiai di olio d’oliva
1 cucchiaio di aceto di vino rosso
2 cucchiai di vino bianco secco
1 cucchiaio di senape con semi interi
1 cucchiaino di senape di Digione
Sale e pepe q.b.
Mettere in una ciotola tutti gli ingredienti della vinaigrette e sbatterli fino a
ottenere un’emulsione, infine aggiungere sale e pepe.
Tagliare il pollo e servirlo sull’insalata con sopra un filo di vinaigrette.
Preriscaldare il forno a 220 °C. Far sciogliere poco a poco il burro a fiamma
372
media in un tegame, aggiungere mescolando lo Chardonnay, la senape, i
capperi e il succo di limone. Lasciare cuocere per circa 5 minuti per fare
evaporare l’alcol. Completare con l’aneto.
Mettere il pesce in una teglia da forno con la pelle rivolta verso il basso.
Versarvi sopra la salsa e far cuocere per 20 minuti o finché il pesce inizierà a
sfaldarsi. Servire caldo accompagnato da fagiolini con condimento all’aglio (si
veda pagina 290).
373
Costine succulente
374
dell’arancia. Coprire e portare a ebollizione, poi far cuocere a fuoco lento per
due ore e mezzo. Togliere il coperchio, unire le foglie di timo e lasciare
sobbollire per 30 minuti.
Servire cospargendo di prezzemolo e con contorno di «cuscus» al cavolfiore (si
veda pagina 291).
Carpaccio di tonno pinna gialla alla Sea Salt con cipolla rossa,
prezzemolo e grani di pepe rosa
Le sette ricette che seguono furono create dal mio buon
amico e chef Fabrizio Aielli al Sea Salt, uno dei mie
ristoranti preferiti di Naples, in Florida, dove mi reco
spesso (www.seasaltnaples.com).
Fabrizio è stato così generoso da offrirmi alcune delle sue
ricette da condividere. Vi consiglio di provarle quando
avete ospiti a cena e volete fare bella figura.
Tagliare il tonno a fette sottili spesse circa mezzo centimetro; ogni piatto
dovrebbe comprendere da tre a cinque fette. Disporre sopra il tonno la cipolla
rossa, il prezzemolo, i grani di pepe e l’olio d’oliva. Per finire, aggiungere un
pizzico di sale e mezzo limone a parte.
375
Questo piatto è molto gradito dagli amanti della carne. Se
avete difficoltà ad acquistare il manzo Akaushi, una
varietà di capi di razza (Akaushi significa «vacca rossa»),
andrà bene qualsiasi filetto di manzo molto
marmorizzato. Il manzo Akaushi è famoso per i suoi
grassi sani e il gusto appetitoso.
376
Versare il sugo della carne sui cavolini di Bruxelles e servirli di contorno al
filetto.
377
Red Snapper alla Sea Salt con sedano, olive nere, cetriolo,
avocado e pomodorini gialli
Quando questo pesce arriva fresco al mercato,
acquistatelo e provate questa ricetta. Richiede meno di
venti minuti di preparazione.
Gazpacho allo yogurt con zucchine alla Sea Salt e petto di pollo
marinato nello zafferano
Non occorre molto zafferano – la spezia ricavata dal fiore
del crocus – per creare un piatto gustoso davvero squisito.
378
Zucchine e coriandolo contribuiscono a rendere eccellente
questa ricetta.
379
«Minestrone» liquido alla Sea Salt
Scaldare l’olio d’oliva in una grande pentola da brodo su una fiamma medio-
alta. Aggiungere il sedano, la cipolla, i broccoli, il cavolfiore, gli asparagi, le
zucchine e il timo.
Far rosolare le verdure finché le cipolle non diventeranno trasparenti.
Aggiungere il sedano rapa, il cavolo riccio, le bietole, le foglie di alloro, la
380
salvia essiccata, il sale e il pepe nero, quindi far cuocere per circa 4 minuti.
Unire infine il brodo di pollo. Portare la minestra a ebollizione, poi continuare
la cottura a fiamma media lasciando sobbollire per 25-30 minuti o finché le
verdure saranno tenere. Lasciare riposare per 10 minuti. Aggiungere gli
spinaci e mescolare, intanto individuare le foglie d’alloro e toglierle. Passare la
minestra in un frullatore fino a ottenere un composto omogeneo.
Guarnire ogni porzione con una cucchiaiata di yogurt greco.
Mettere metà dell’olio d’oliva in una grossa pentola su una fiamma medio-alta
e far appassire la cipolla, il sedano e l’aglio finché diventeranno trasparenti
(circa 5 minuti). Aggiungere la polpa di pomodoro, il cavolo rosso, metà delle
foglie di basilico, il brodo di pollo, il brodo di verdure e portare a ebollizione.
Continuare la cottura a fiamma media facendo sobbollire per 25-30 minuti.
381
Versare quel che rimane dell’olio d’oliva, condire con sale e pepe e lasciare
riposare la minestra per 10 minuti. Passare il tutto nel frullatore fino a ottenere
una crema, quindi servire.
Scaldare 2 cucchiai di olio d’oliva in una padella su una fiamma media, poi
aggiungere l’aglio, gli scalogni e lo zenzero. Cuocere fino a far sfrigolare (per 1
minuto circa), poi aggiungere i filetti di salmone e cuocere bene (circa 3 minuti
per parte). Togliere i filetti e metterli da parte, quindi pulire con cura il fondo
della padella con un foglio di carta da cucina. Scaldare quel che rimane
dell’olio d’oliva e l’olio di sesamo nella padella su una fiamma media.
Aggiungere i funghi e far cuocere per 3 minuti, mescolando di continuo.
Disporre i funghi sopra il salmone e guarnire con il coriandolo, infine servire
con un contorno di verdure arrosto di stagione (si veda pagina 290).
382
Agnello con limone alla greca
Quando trovate le costolette d’agnello allevato al pascolo
fatene provvista. Ci permettono di preparare piatti
deliziosi ed eleganti che si cucinano in poco tempo. Tutto
ciò che vi serve è una buona marinata, come questa.
Versare tutti gli ingredienti della marinata in una ciotola e mescolarli. Mettere
le costolette a marinare in frigorifero, coperte, per un’ora.
Preparare la griglia, quindi cuocere le costolette per 1-2 minuti per parte (in
alternativa, potete far cuocere l’agnello arrosto nel forno a 200 °C per circa 10
minuti, o fino al punto di cottura desiderato). Servire l’agnello con spicchi di
limone da spremere, verdure e «cuscus» al cavolfiore (si veda pagina 291).
383
Ingredienti per 6 persone
1 pollo biologico da 1,3-1,8 kg
1 limone, a fette
5 spicchi d’aglio sbucciati
Le foglie di 7 ramoscelli di timo fresco
4 cucchiai di olio d’oliva
Sale e pepe q.b.
Preriscaldare il forno a 200 °C. Tagliare il pollo lungo la spina dorsale usando
un paio di forbici da cucina o un coltello, aprirlo a metà e premere con forza
sullo sterno per appiattirlo. Stenderlo su una grossa teglia con la pelle verso
l’alto. Mettere in una ciotola le fette di limone, gli spicchi d’aglio, il timo e 2
cucchiai di olio d’oliva (il timo può essere sostituito da dragoncello o da
origano). Spennellare il pollo con il resto dell’olio d’oliva e condirlo con sale e
pepe. Aggiungere le fette di limone, il timo e l’aglio e infornare per 45-55
minuti, finché sarà ben cotto. Servire con contorno di insalata verde e verdure
arrosto di stagione (si veda pagina 290).
384
Preriscaldare il forno a 200 °C. Passare tutti gli ingredienti tranne il pesce in un
frullatore fino a ottenere un composto omogeneo.
Mettere in una teglia da forno bassa i filetti di pesce con la pelle rivolta verso il
fondo e coprirli con la salsa all’aneto. Infornare per circa 15 minuti, fino a
cottura ultimata. Servire con «cuscus» al cavolfiore (si veda pagina 291) e
spinaci al salto con aglio (si veda pagina 291). L’aneto può essere sostituito dal
prezzemolo; in alternativa, provate la crema di aneto (si veda pagina 296) o il
pesto al pecorino (si veda pagina 296).
385
Sale q.b.
INSALATE
386
coriandolo, dragoncello, salvia, menta)
70 gr di noci, tritate
Per 250 ml di vinaigrette all’aceto balsamico:
60 ml di aceto balsamico
2-3 spicchi d’aglio, tritato
½ scalogno, tritato
1 cucchiaio di senape di Digione
1 cucchiaio di rosmarino (fresco o essiccato)
Il succo di 1 limone
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaino di pepe
120 ml di olio d’oliva
Mettere in una terrina gli ingredienti per l’insalata. Mescolare tutti gli
ingredienti della vinaigrette eccetto l’olio, poi aggiungerlo poco a poco
ottenendo un’emulsione. Versare infine ½ tazza di vinaigrette all’aceto
balsamico sull’insalata, mescolare e servire.
Insalata nizzarda
Questa ricetta è ispirata a quella classica francese
originaria di Nizza, ma senza le patate, e potete usare
qualsiasi tipo di pesce cotto. Anche se richiede un po’ di
tempo in più per la preparazione, dato che occorre tritare
diversi ingredienti e cuocere in anticipo le uova e il pesce,
alla fine mettere insieme il tutto è un’operazione rapida e
priva di difficoltà.
387
220 gr di rucola o insalate verdi miste
3 uova sode, tagliate a fettine
170 gr di pesce cotto (per esempio lampuga, salmone, merluzzo
nero)
12 filetti di acciuga, sgocciolati
50 gr di olive nere o olive di Kalamata
125 gr di fagiolini, spuntati e sbollentati
10 foglie di basilico, tritate
1 piccolo cetriolo, sbucciato e tagliato a cubetti
Per la vinaigrette:
1 cucchiaio di senape di Digione
2 cucchiaini di aceto di vino rosso
6 cucchiaini di olio d’oliva
Sale e pepe q.b.
388
3 cucchiai di mirtilli o mirtilli rossi disidratati
Per il condimento:
2 cucchiai di olio di noce
1 cucchiaio di aceto balsamico o di aceto di vino rosso
½ cucchiaino di senape
Sale e pepe q.b.
389
Insalata di cavolo riccio alla Sea Salt con feta, peperoni arrosto,
olive nere, carciofi e condimento a base di latticello
Quando vado a pranzo al Sea Salt ho l’abitudine di
ordinare quest’insalata: si sposa benissimo con qualsiasi
piatto.
CONTORNI
390
Ingredienti per 4-6 persone
900 gr di verdure di stagione (per esempio asparagi, cavolini
di Bruxelles, peperoni, zucchine, melanzane, cipolle)
85 ml di olio d’oliva
Sale e pepe q.b.
10 gr di erbe aromatiche fresche, tritate (facoltative; per esempio
rosmarino, origano, prezzemolo, timo)
Aceto balsamico invecchiato (facoltativo)
391
1 cucchiaio di timo fresco
In una ciotola sbattere insieme tutti gli ingredienti per il condimento. Portare a
ebollizione abbondante acqua salata in una pentola, sbollentare i fagiolini per 4
minuti o finché saranno appena teneri, quindi scolarli. Mescolare in una grossa
ciotola i fagiolini, le mandorle e il timo insieme al condimento e servire.
«Cuscus» al cavolfiore
Per un gustoso sostituto di preparazioni ricche di amido
come la purea di patate, il riso o il tradizionale cuscus,
provate questo piatto a base di semplice cavolfiore.
392
Qualsiasi verdura a foglia verde saltata in padella con
aglio e olio d’oliva è squisita. Il piatto descritto è la
versione standard con gli spinaci, ma sentitevi liberi di
sperimentare con altre verdure.
Versare l’olio in una padella grande per la cottura al salto e scaldarlo a fiamma
viva. Quando sarà bollente, aggiungere gli spinaci e mescolare di continuo per
1-2 minuti, finché cominceranno ad appassire. Unire l’aglio e continuare a
cuocere mescolando in fretta per un altro minuto circa, poi togliere la padella
dal fuoco.
Spremere il succo del limone sopra gli spinaci e aggiungere il peperoncino, il
sale e il pepe. Mescolare bene e servire.
SALSE
Guacamole
Troverete numerose versioni di guacamole che rispettano
i criteri del mio protocollo, sentitevi liberi di
sperimentarle. La seguente ricetta è ispirata a quella di
Alton Brown su FoodNetwork.com. Mi piace molto il
modo in cui usa le spezie per dare più gusto. Come tutte
le salse presentate in questa parte, potete conservarla in
frigorifero in un contenitore sottovuoto anche fino a una
settimana. Usatela per gli spuntini con verdure crude già
393
tagliate, per esempio peperoni, bastoncini di sedano e
ravanelli, o aggiungetene una cucchiaiata ai piatti per
insaporirli quando opportuno.
394
Il succo di 1 limone
½ cucchiaino di cumino macinato
2 cucchiai di prezzemolo fresco tritato o di coriandolo
Passare nel frullatore gli anacardi, il miso, il succo di limone, la noce moscata e
metà dell’acqua fino a ottenere una purea omogenea. Aggiungere poco a poco
il resto dell’acqua fino a ottenere una miscela dalla consistenza della panna
montata. Se si preferisce una consistenza più fluida, aggiungere altra acqua.
Condire con sale a piacere. Conservare in frigorifero in un contenitore
sottovuoto per un massimo di quattro giorni.
395
Hummus
Lo hummus è una delle salse più versatili e può essere
usato in svariati modi: è delizioso come spuntino con le
verdure e può essere impiegato per aggiungere intensità a
piatti di carne.
CONDIMENTI
396
Quando sarete a corto di idee per cucinare il pesce,
provate questa crema da spalmare su qualsiasi pesce
fresco preparato al forno o alla griglia.
Pesto al pecorino
Ecco un’altra crema da spalmare sul pesce.
Passare in un robot da cucina tutti gli ingredienti tranne l’olio d’oliva, che
dovrà essere incorporato poco a poco attraverso l’apposita apertura; il pesto
dovrebbe essere saporito, cremoso e spalmabile.
397
Sofrito
Ingredienti per 1 kg
2 cucchiai di olio d’oliva
1 cipolla media, tritata fine
1 peperone verde, pulito e tritato fine
2 spicchi d’aglio, tritati
800 gr di polpa di pomodoro
Le foglie di 1 ciuffo di coriandolo fresco, tritate
1 cucchiaino di paprica
Sale e pepe q.b.
Versare l’olio d’oliva in una grossa padella con il fondo pesante e farlo
scaldare a fuoco medio. Far rosolare la cipolla. Unire il peperone verde e far
cuocere per 5 minuti, mescolando spesso. Aggiungere l’aglio e far rosolare per
un altro minuto, quindi versare la polpa di pomodoro, il coriandolo e la
paprica e mescolare bene. Continuare a far cuocere per circa 10-15 minuti.
Aggiustare infine di sale e pepe.
DESSERT
Tartufi al cioccolato
Sono una fantastica prelibatezza come dessert o da servire
a cena con gli amici. Più alta è la qualità del cioccolato,
meglio sarà. Sperimentate diversi aromi, a seconda
dell’umore del momento.
398
Ingredienti per 30-40 tartufi
120 ml di panna da montare
1 cucchiaino di aroma di mandorla, arancia, vaniglia o nocciola
230 gr di cioccolato fondente (con almeno il 70% di cacao),
tagliato a pezzettini
Cacao in polvere o nocciole tritate per la copertura
Far raffreddare in frigorifero per diverse ore o per la notte la lattina di latte di
399
cocco sigillata.
Vuotare la crema in una ciotola e sbatterla energicamente con una frusta o con
uno sbattitore elettrico finché non sarà morbida (non si deve liquefare).
Aggiungere il cacao e la stevia e continuare a sbattere fino a ottenere una
mousse leggera e soffice. Guarnire con una spolverata di farina di cocco, un
pezzetto di burro di mandorle o un pizzico di cannella e servire.
400
Epilogo
La mesmerizzante verità
401
carattere sovversivo del suo seguito in crescita costante.
Nel 1777 fu espulso da Vienna e si recò a Parigi, dove
tornò ad affermarsi.
Negli anni Ottanta del XVIII secolo aveva raccolto
nuovi discepoli e fondato con loro laboratori nella capitale
francese. Questi seguaci «mesmerizzavano» le persone
affermando di individuare i loro poli e regolare il loro
fluido. Si può immaginare la scena teatrale dello
scienziato pazzo che alza le braccia in aria, raccogliendo i
suoi poteri e incanalandoli nel contatto con i disgraziati
colpiti da «sofferenze nervose», quasi tentasse di scacciare
i loro demoni con il suo tocco. Divenne popolare in parte
per il mistero che lo avvolgeva e in parte perché farsi
curare da Mesmer e dai suoi adepti si trasformò in una
moda. L’attrezzatura usata era assai complessa, con tanto
di tubi mesmerici, bottiglie di acqua mesmerizzata e
sbarre di ferro che veicolavano il sottile fluido. Queste
cure si svolgevano in aree isolate, per questo acquistarono
un’aura di mistero e una cattiva fama.
Mesmer non resistette molto a lungo neppure a Parigi.
Furono avviate delle indagini, e il suo studio
indipendente fu esaminato da una commissione
governativa del re che annoverava nomi come Antoine-
Laurent Lavoisier e Benjamin Franklin. Nel 1785 Mesmer
lasciò Parigi per Londra, poi ripartì per l’Austria, l’Italia,
la Svizzera e infine la Germania; tornò in un paese vicino
al luogo in cui era nato e nel 1815 morì. Ovunque andasse,
tentò di conquistare il plauso universale che riteneva di
meritare per le sue terapie.
È ormai opinione comune che Mesmer curasse disturbi
psicosomatici e che approfittasse molto della credulità
delle persone. Con il senno di poi, le sue teorie e pratiche
appaiono ridicole, ma a dire il vero la sua storia somiglia a
molte storie di oggi. Non è poi così ridicolo immaginare la
402
gente vittima di prodotti, procedure e indicazioni sulla
salute commercializzati con grande abilità. Ogni giorno
sentiamo qualche notizia sulla salute, siamo bombardati
di messaggi sulla nostra salute: positivi, negativi e anche
contraddittori, il che genera confusione. E siamo
letteralmente mesmerizzati da questi messaggi. Anche il
consumatore intelligente, istruito, cauto e scettico subisce
questa suggestione. È difficile separare la verità dalla
finzione e distinguere tra ciò che è salutare e ciò che è
dannoso quando le informazioni e le testimonianze
provengono da «esperti».
Se prendete in considerazione alcuni dei consigli
dispensati nello scorso secolo da questi cosiddetti esperti,
non tarderete a rendervi conto che molte volte
l’apparenza inganna. Capita spesso di assistere a completi
voltafaccia circa la validità di un dato di fatto,
affermazione o prassi. Verso la fine del XIX secolo il
salasso era ancora diffuso. Pensavamo che le uova fossero
dannose e la margarina magica, ma ora sappiamo che le
uova sono uno degli alimenti più ricchi di nutrienti al
mondo e che la margarina contiene grassi trans letali.
Verso la metà del XX secolo i dottori posavano per la
pubblicità delle sigarette, e in seguito cominciarono a
sostenere che gli alimenti per neonati fossero molto
meglio del latte materno per i bambini. E anche se oggi è
difficile immaginarlo, non molto tempo fa pensavamo che
la dieta non avesse alcun effetto sulle malattie. Ora
sappiamo che non è così.
Quando immagino il mondo tra cinquant’anni, mi
domando quali affermazioni oggi accettate da molti di noi
saranno state dichiarate false e abbandonate dalla società.
E mi domando anche se, dato il mio lavoro, avrò
contribuito in qualche misura a cambiare le opinioni
distorte delle persone su carboidrati, grassi e colesterolo.
403
Senza dubbio i nostri punti di vista attuali sono
spalleggiati da potenti forze. Entrate in qualunque
supermercato e vi troverete davanti a dozzine di motivi
per mangiare questo o quello: asserzioni che spesso
perpetuano falsità e finte promesse. Questo vale
soprattutto per cibi etichettati come cereali integrali
«sani», prodotti a basso contenuto di grassi e senza
colesterolo. Oltre a dirvi che queste merci rappresentano il
vostro biglietto per una vita più lunga e più attiva, i
produttori di alimenti li legano in qualche modo a un
minor rischio di cancro, cardiopatie, diabete e obesità. Ma
voi conoscete la verità.
Viviamo un periodo elettrizzante per la medicina;
abbiamo finalmente a portata di mano la tecnologia utile a
diagnosticare, curare e guarire molte malattie che solo
pochi decenni fa accorciavano la vita. Tuttavia, viviamo
anche in un periodo in cui le persone che muoiono per
malattie croniche sono il doppio di quelle che muoiono
per malattie infettive (incluse HIV/AIDS , tubercolosi e
malaria), patologie materne e perinatali e deficit
nutrizionali messi insieme. 1 È noto che il sistema sanitario
statunitense ha bisogno di riforme. I costi della sanità
sono esorbitanti: spendiamo quasi il 20% del nostro
prodotto interno lordo nella sanità e il premio delle
assicurazioni sanitarie per la famiglia media è in continuo
aumento, con un costo superiore a quindicimila dollari
all’anno. E anche se oggi siamo al primo posto nel mondo
per la spesa sanitaria, secondo l’Organizzazione Mondiale
della Sanità siamo trentasettesimi in termini di prestazioni
complessive del sistema sanitario, e ventiduesimi per
aspettativa di vita tra i trenta paesi industrializzati. 2
Cosa salverà il nostro sistema e le generazioni future?
Non possiamo attendere che il sistema sanitario, con le
404
sue enormi complicazioni, si sistemi da solo, né aspettarci
che il cambiamento avvenga con la rapidità di cui
abbiamo bisogno. E non possiamo affidarci ai farmaci per
mantenerci in vita e in forma. Come ho raccontato in
questo libro, spesso i farmaci comportano un ulteriore
allontanamento dal nostro obiettivo di salute. Ognuno di
noi deve partire da piccoli mutamenti nelle abitudini
quotidiane, che corrispondono a grandi guadagni nel
nostro indice di salute sia oggi sia in futuro.
Nonostante alcuni considerino il cuore pulsante il
fulcro della vita (in fondo è il battito cardiaco che
cerchiamo nelle prime settimane di vita), al centro del
palcoscenico si trova in realtà il cervello. Il nostro cuore
non batterebbe senza il cervello, ed è il nostro cervello a
permettere la sperimentazione del mondo a ogni livello: la
sensazione di piacere e dolore, di amare e di imparare, di
prendere decisioni e di partecipare alla vita nei modi che
la rendono degna di essere vissuta!
Fino a quando non affrontiamo un problema di salute
che riguarda la funzionalità del cervello, tendiamo a dare
per scontate le nostre facoltà mentali. Immaginiamo che la
nostra mente ci accompagnerà ovunque andremo. E se
non fosse così? Se potessimo assicurarci per il futuro la
nostra capacità mentale e il nostro intelletto solo
cominciando a nutrire il cervello nei modi che ho descritto
in queste pagine? Tutti noi apprezziamo il diritto alla
libertà di parola, alla riservatezza e al voto. Sono
fondamentali per il nostro modo di vivere. Ma che dire
del diritto a una lunga vita, libera dal declino cognitivo e
dalla malattia mentale? Oggi potete rivendicare questo
diritto. Spero proprio che lo facciate.
405
Note
Il seguente elenco riporta testi e studi scientifici che potreste trovare utili per
approfondire alcune delle idee e dei concetti espressi in questo libro. Questi
materiali possono anche aprire la strada a ulteriori ricerche e indagini. Per
accedere ad altri studi e a un elenco sempre aggiornato di fonti, siete invitati a
visitare il sito www.DrPerlmutter.com.
406
Introduzione
1 MetLife Foundation, What America Thinks: MetLife Foundation Alzheimer’s
Survey, studio condotto da Harris Interactive, febbraio 2011,
https://www.metlife.com/assets/cao/foundation/alzheimers-2011.pdf.
2 Annie L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus in
Postmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, in «Archives of
Internal Medicine», CLXXII, 2, 2012, pp. 144-52.
3 Åsa Blomström et al., Maternal Antibodies to Dietary Antigens and Risk for
Nonaffective Psychosis in Offspring, in «American Journal of Psychiatry»,
CLXIX, 2012, pp. 625-32.
407
I. La pietra angolare delle malattie al cervello
1 Eric Steen et al., Impaired Insulin and Insulin-like Growth Factor Expression and
Signaling Mechanisms in Alzheimer’s Disease – Is This Type 3 Diabetes?, in
«Journal of Alzheimer’s Disease», VII, 1, 2005, pp. 63-80.
2 R.O. Roberts et al., Relative Intake of Macronutrients Impacts Risk of Mild
Cognitive Impairment or Dementia, in «Journal of Alzheimer’s Disease»,
XXXII, 2, 2012, pp. 329-39. Sulla relazione tra diabete e Alzheimer si veda
anche: http://www.doctoroz.com/article/alzheimers-diabetes-brain.
3 Mark Bittman, Is Alzheimer’s Type 3 Diabetes?, in «New York Times», 25
settembre 2012, http://opinionator.blogs.nytimes.com/2012/09/25/bittman-is-
alzheimers-type-3-diabetes. Il pezzo di Bittman offre un’ottima spiegazione
sul diabete di tipo 3.
4 http://www.webmd.com/diabetes.
5 http://aiafoundation.org/patients-families/facts-figures.
6 Mark Bittman, Is Alzheimer’s Type 3 Diabetes?, cit.
7 http://www.cdc.gov/mmwr/preview/mmwrhtml/mm6145a4.htm).
8 http://www.framinghamheartstudy.org.
9 Penelope K. Elias et al., Serum Cholesterol and Cognitive Performance in the
Framingham Heart Study, in «Psychosomatic Medicine», LXII, 1, 2005, pp. 24-
30.
10 Nicolas Cherbuin et al., Higher Normal Fasting Plasma Glucose Is Associated
with Hippocampal Atrophy: The PATH Study, in «Neurology», LXXIX, 10,
gennaio/febbraio 2012, pp. 1019-26. DOI: 10.1212/WNL.0b013e31826846de.
11 http://www.sciencedaily.com/releases/2012/09/120904095856.htm.
12 Walter F. Stewart et al., Risk of Alzheimer’s Disease and Duration of NSAID Use,
in «Neurology», XLVIII, 3, marzo 1997, pp. 626-32. Sugli effetti degli
antinfiammatori si veda anche: Angelika D. Wahner et al., Nonsteroidal Anti-
inflammatory Drugs May Protect Against Parkinson’s Disease, in «Neurology»,
LXIX, 19, 6 novembre 2007, pp. 1836-42.
13 Jose Miguel Rubio-Perez et al., A Review: Inflammatory Process in Alzheimer’s
Disease, Role of Cytokines, in «Scientific World Journal», 1 aprile 2012. DOI :
408
10.1100/2012/756357.
14 William Davis, La dieta zero grano, Milano, Mondadori, 2014, p. 46.
409
II. La proteina collosa
1 Keith O’Brien, Should We All Go Gluten-Free?, in «New York Times», 25
novembre 2011, http://www.nytimes.com/2011/11/27/magazine/Should-We-
All-Go-Gluten-Free.html?pagewanted=all&_r=0.
2 Chris Chase, Is Novak Djokovic’s New, Gluten-free Diet Behind His Win Streak?,
in «Yahoo! Sports», 17 maggio 2011,
http://sports.yahoo.com/tennis/blog/busted_racquet/post/Is-Novak-
Djokovic-8217-s-new-gluten-free-diet-?urn=ten-wp706.
3 Per una rassegna completa di definizioni basilari sul glutine e i suoi effetti
sul corpo, potete consultare le risorse disponibili alla pagina internet
http://www.healthspringholistic.com.
4 Ibidem.
5 David Perlmutter, Gluten Sensitivity and the Impact on the Brain,
http://www.huffingtonpost.com/dr-david-perlmutter-md/gluten-impacts-
the-brain_b_785901.html, 21 novembre 2010.
6 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli
orizzonti della neuroscienza, Cesena, BIS , 2011.
7 Il dott. Alessio Fasano del Boston’s Center for Celiac Research and
Treatments, che fa parte del Massachusetts General Hospital, ha scritto
molto sul tema della sensibilità al glutine e sui numerosi modi in cui può
manifestarsi nelle persone, talvolta simulando altri disturbi. Potete visitare
il suo sito e accedere alle sue pubblicazioni alla pagina internet
http://www.celiaccenter.org.
8 Marios Hadjivassiliou et al., Does Cryptic Gluten Sensitivity Play a Part in
Neurological Illness?, in «Lancet», CCCXLVII, 8998, 10 febbraio 1996, pp. 369-
71.
9 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity as a Neurological Illness, in
«Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry», LXXII, 5, maggio
2002, pp. 560-63.
10 Ibidem.
11 Bernadette Kalman e Thomas H. Brannagan III, Neurological Manifestations of
Gluten Sensitivity, in Neuroimmunology in Clinical Practice, Oxford, Wiley-
410
Blackwell, 2007. Questo libro fornisce un eccellente resoconto della storia
del morbo celiaco.
12 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity: From Gut to Brain, in «The
Lancet Neurology», IX, 3, marzo 2010, pp. 318-30. Questo articolo offre
un’altra splendida panoramica della celiachia nel corso dei secoli.
13 T. William et al., Cognitive Impairment and Celiac Disease, «Archives of
Neurology», LXIII, 10 ottobre 2006, pp. 1440-46. Si veda anche: Mayo Clinic,
Mayo Clinic Discovers Potential Link Between Celiac Disease and Cognitive
Decline, in «ScienceDaily», 12 ottobre 2006,
http://www.sciencedaily.com/releases/2006/10/061010022602.htm.
14 Mayo Clinic, Mayo Clinic Discovers Potential Link Between Celiac Disease and
Cognitive Decline, op. cit.
15 Marios Hadjivassiliou et al., Gluten Sensitivity: From Gut to Brain, cit.
16 Il seguente sito web permette di accedere al lavoro e alle pubblicazioni del
dott. Vojdani: http://www.yourmedicaldetective.com/public/148.cfm.
17 Rodney P. Ford, The Gluten Syndrome: A Neurological Disease, in «Medical
Hypotheses», LXXIII, 3, settembre 2009, pp. 438-40.
18 Gianna Ferretti et al., Celiac Disease, Inflammation and Oxidative Damage: A
Nutrigenetic Approach, in «Nutrients», IV, 4, aprile 2012, pp. 243-57.
19 Ibidem.
20 http://www.healthspringholistic.com.
21 Christine Zioudrou et al., Opioid Peptides Derived from Food Proteins (the
Exorphins), in «Journal of Biological Chemistry», CCLIV, 7, 10 aprile 1979,
pp. 2446-49.
22 William Davis, La dieta zero grano, op. cit., p. 67.
23 http://www.healthspringholistic.com.
411
III. Attenzione, carboidratodipendenti e grassofobici
1 Vedi il sito di Craig Weller, http://www.barefootfts.com.
2 R.O. Roberts et al., Relative Intake of Macronutrients Impacts Risk of Mild
Cognitive Impairment or Dementia, cit.
3 M. Mulder et al., Reduced Levels of Cholesterol, Phospholipids, and Fatty Acids in
Cerebrospinal Fluid of Alzheimer Disease Patients Are Not Related to
Apolipoprotein E4, in «Alzheimer Disease and Associated Disorders», XII, 3,
settembre 1998, pp. 198-203.
4 P. Barberger-Gateau et al., Dietary Patterns and Risk of Dementia: The Three-city
Cohort Study, in «Neurology», LXIX, 20, 13 novembre 2007, pp. 1921-30.
5 P.M. Kris-Etherton et al., Polyunsaturated Fatty Acids in the Food Chain in the
United States, in «American Journal of Clinical Nutrition», LXXI, 1, gennaio
2000, S179-S188. Si veda anche: http://chriskresser.com/how-too-much-
omega-6-and-not-enough-omega-3-is-making-us-sick.
6 Rebecca West et al., Better Memory Functioning Associated with Higher Total and
Low-density Lipoprotein Cholesterol Levels in Very Elderly Subjects Without the
Apolipoprotein e4 Allele, in «American Journal of Geriatric Psychiatry», XVI,
9, settembre 2008, pp. 781-85.
7 L.M. de Lau et al., Serum Cholesterol Levels and the Risk of Parkinson’s Disease,
in «American Journal of Epidemiology», CLXIV, 10, 11 agosto 2006, pp. 998-
1002.
8 X. Huang et al., Low LDL Cholesterol and Increased Risk of Parkinson’s Disease:
Prospective Results from Honolulu-Asia Aging Study, in «Movement
Disorders», XXIII, 7, 15 maggio 2008, pp. 1013-18.
9 H.M. Krumholz et al., Lack of Association Between Cholesterol and Coronary
Heart Disease Mortality and Morbidity and All-cause Mortality in Persons Older
Than 70 Years, in «JAMA », CCLXXII, 17, 2 novembre 1994, pp. 1335-40.
10 H. Petousis-Harris, Saturated Fat Has Been Unfairly Demonised: Yes, in
«Primary Health Care», III, 4, 1 dicembre 2011, pp. 317-19.
11 www.survivediabetes.com/lowfat.html.
12 A.W. Weverling-Rijnsburger et al., Total Cholesterol and Risk of Mortality in
412
the Oldest Old, in «Lancet», CCCL, 9085, 18 ottobre 1997, pp. 1119-23.
13 Ibidem.
14 L. Dupuis et al., Dyslipidemia Is a Protective Factor in Amyotrophic Lateral
Sclerosis, in «Neurology», LXX, 13, 25 marzo 2008, pp. 1004-09.
15 Ibidem.
16 P. W. Siri-Tarino et al., Meta-analysis of Prospective Cohort Studies Evaluating
the Association of Saturated Fat with Cardiovascular Disease, in «American
Journal of Clinical Nutrition», XCI, 3, marzo 2010, pp. 535-46.
17 Michael I. Gurr et al., Lipid Biochemistry: An Introduction, 5ª ed., New York,
Wiley-Blackwell, 2010.
18 A. Astrup, et al., The Role of Reducing Intakes of Saturated Fat in the Prevention
of Cardiovascular Disease: Where Does the Evidence Stand in 2010?, in
«American Journal of Clinical Nutrition», XCIII, 4, aprile 2011, pp. 684-88.
19 Per un parere interessante e di carattere generale sulle nostre abitudini
alimentari nel corso dell’ultimo secolo, si veda la nota del dott. Donald W.
Miller Jr. sul sito di Lew Rockwell alla pagina
http://www.lewrockwell.com/miller/miller33.1.html.
20 http://www.choosemyplate.gov.
21 http://www.lewrockwell.com/miller/miller33.1.html.
22 International Atherosclerosis Project, General Findings of the International
Atherosclerosis Project, in «Laboratory Investigation», XVIII, 5, maggio 1968,
pp. 498- 502.
23 http://www.cdc.gov/diabetes/pubs/pdf/diabetesreportcard.pdf
24 R. Stocker e J. F. Keaney Jr., Role of Oxidative Modifications in Atherosclerosis,
in «Physiology Review», LXXXIV, 4, ottobre 2004, pp. 1381-1478.
25 Y. Kiyohara, The Cohort Study of Dementia: The Hisayama Study, in «Rinsho
Shinkeigaku», LI, 11, novembre 2011, pp. 906-09. Si noti che l’articolo è in
lingua giapponese. Si veda anche la trattazione di Ann Harding di questo
studio per «CNN Health» alla pagina
http://edition.cnn.com/2011/09/19/health/diabetes-doubles-alzheimers.
26 D. Jacobs et al., Report of the Conference on Low Blood Cholesterol: Mortality
Associations, in «Circulation», LXXXVI, 3, settembre 1992, pp. 1046-60.
27 Duane Graveline, Lipitor, Thief of Memory. Statin Drugs and the Misguided
War on Cholesterol, USA , Duane Graveline, 2006.
413
28 Annie L. Culver et al., Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus in
Postmenopausal Women in the Women’s Health Initiative, op. cit.
29 http://people.csail.mit.edu/seneff/alzheimers_statins.html.
30 Iowa State University, Cholesterol-reducing Drugs May Lessen Brain Function,
Says Researcher, in «ScienceDaily», 26 febbraio 2009,
http://www.sciencedaily.com/releases/2009/02/090223221430.htm.
31 Center for Advancing Health, Statins Do Not Help Prevent Alzheimer’s
Disease, Review Finds, in «ScienceDaily», 16 aprile 2009,
http://www.sciencedaily.com/releases/2009/04/090415171324.htm. Si veda
anche: B. McGuinness et al., Statins for the Prevention of Dementia, in
«Cochrane Database of Systematic Reviews», 2, 2009.
32 Ibidem.
33 Stephanie Seneff, APOE -4: The Clue to Why Low Fat Diet and Statins May Cause
Alzheimer’s, 15 dicembre 2009,
http://people.csail.mit.edu/seneff/alzheimers_statins.html.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 La National Library of Medicine (http://www.nlm.nih.gov) ospita
pubblicazioni di ricerche in peer review (con valutazione paritaria) su più di
300 effetti negativi noti associati all’uso delle statine. Per un riassunto di
alcuni dei principali studi, si veda la seguente pagina:
http://www.greenmedinfo.com/toxic-ingredient/statin-drugs.
37 G. Charach et al., Baseline Low-density Lipoprotein Cholesterol Levels and
Outcome in Patients with Heart Failure, in «American Journal of Cardiology»,
CV, 1, 1 gennaio 2010, pp. 100-104.
38 K. Rizvi et al., Do Lipid-lowering Drugs Cause Erectile Dysfunction? A
Systematic Review, in «Journal of Family Practice», XIX, 1, febbraio 2002, pp.
95-98.
39 G. Corona et al., The Effect of Statin Therapy on Testosterone Levels in Subjects
Consulting for Erectile Dysfunction, pt. 1, in «Journal of Sexual Medicine», VII,
4, aprile 2010, pp. 1547-56.
40 C. J. Malkin et al., Low Serum Testosterone and Increased Mortality in Men with
Coronary Heart Disease, in «Heart», XCVI, 22, novembre 2010, pp. 1821-25.
414
IV. Un’unione infruttuosa
1 R.H. Lustig et al., Public Health: The Toxic Truth About Sugar, in «Nature»,
CDLXXXII, 7383, 1 febbraio 2012, pp. 27-29.
2 Gary Taubes, Good Calories, Bad Calories. Challenging the Conventional Wisdom
on Diet, Weight Control, and Disease, New York, Knopf, 2007.
3 Gary Taubes, Is Sugar Toxic?, in «New York Times», 13 aprile 2011.
Disponibile online alla pagina
http://www.nytimes.com/2011/04/17/magazine/mag-17Sugar-t.html?
pagewanted=all&_r=0.
4 R.H. Lustig, Sugar: The Bitter Truth, http://youtu.be/dBnniua6-oM, 2009. Si
tratta di un’interessante panoramica sul metabolismo degli zuccheri.
5 Gary Taubes, Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo), Milano,
Sonzogno, 2014, p. 171.
6 Ibidem, p. 176.
7 K. Yaffe, et al., Diabetes, Glucose Control, and 9-year Cognitive Decline Among
Older Adults Without Dementia, in «Archives of Neurology», LXIX, 9,
settembre 2012, pp. 1170-75.
8 R.O. Roberts, et al., Association of Duration and Severity of Diabetes Mellitus with
Mild Cognitive Impairment, in «Archives of Neurology», LXV, 8, agosto 2008,
pp. 1066-73.
9 Amy Dockser Marcus, Mad-cow Disease May Hold Clues to Other Neurological
Disorders, in «Wall Street Journal», 3 dicembre 2012. Disponibile online alla
pagina
http://online.wsj.com/article/SB100014241278873240208045781512915091361
44.html.
10 J. Stöhr et al., Purified and Synthetic Alzheimer’s Amyloid Beta (Aß) Prions, in
«Proceedings of the National Academy of Sciences», CIX, 27, 3 luglio 2012,
pp. 11025-30.
11 L.C. Maillard, Action of Amino Acids on Sugars. Formation of Melanoidins in a
Methodical Way, in «Comptes Rendus Chimie», CLIV, 1912, pp. 66-68.
12 P. Gkogkolou e M. Böhm, Advanced Glycation End Products: Key Players in
Skin Aging?, in «Dermato-Endocrinology», IV, 3, 1 luglio 2012, pp. 259-70.
415
13 Q. Zhang et al., A Perspective on the Maillard Reaction and the Analysis of
Protein Glycation by Mass Spectrometry: Probing the Pathogenesis of Chronic
Disease, in «Journal of Proteome Research», VIII, 2, febbraio 2009, pp. 754-69.
14 Sonia Gandhi e Audrey Abramov, Mechanism of Oxidative Stress in
Neurodegeneration, in «Oxidative Medicine and Cellular Longevity», 2012.
15 C. Enzinger et al., Risk Factors for Progression of Brain Atrophy in Aging: Six-
year Follow-up of Normal Subjects, in «Neurology», LXIV, 10, 24 maggio 2005,
pp. 1704-11.
16 M. Hamer et al., Haemoglobin A1c, Fasting Glucose and Future Risk of Elevated
Depressive Symptoms over 2 Years of Follow-up in the English Longitudinal Study
of Ageing, in «Psychological Medicine», XLI, 9, settembre 2011, pp. 1889-96.
17 C. Geroldi et al., Insulin Resistance in Cognitive Impairment: The InCHIANTI
Study, in «Archives of Neurology», LXII, 7, 2005, pp. 1067-72.
18 M. Adamczak e A. Wiecek, The Adipose Tissue as an Endocrine Organ, in
«Seminars in Nephrology», XXXIII, 1, gennaio 2013, pp. 2-13.
19 E. L. de Hollander et al., The Association Between Waist Circumference and Risk
of Mortality Considering Body Mass Index in 65- to 74-year-olds: A Meta-analysis
of 29 Cohorts Involving More Than 58.000 Elderly Persons, in «International
Journal of Epidemiology», XLI, 3, giugno 2012, pp. 805-17.
20 F. Item e D. Konrad, Visceral Fat and Metabolic Inflammation: The Portal Theory
Revisited, pt. 2, in «Obesity Reviews», XIII, dicembre 2012, pp. S30-S39.
21 C. Geroldi et al., Insulin Resistance in Cognitive Impairment, cit.
22 C.A. Raji et al., Brain Structure and Obesity, in «Human Brain Mapping»,
XXXI, 3, marzo 2010, pp. 353-64.
23 R.A. Whitmer et al., Central Obesity and Increased Risk of Dementia More Than
Three Decades Later, in «Neurology», LXXI, 14, 30 settembre 2008, pp. 1057-
64.
24 http://www.internalmedicinenews.com/single-view/weight-loss-through-
dieting-increases-insulin-
sensitivity/dd3b525509b3dad9b123535c7eb745b5.html.
25 C.B. Ebbeling et al., Effects of Dietary Composition on Energy Expenditure
During Weight-loss Maintenance, in «JAMA », CCCVII, 24, 27 giugno 2012, pp.
2627-34.
26 R. Estruch et al., Primary Prevention of Cardiovascular Disease with a
416
Mediterranean Diet, in «New England Journal of Medicine», 25 febbraio 2013.
417
V. Il dono della neurogenesi e il controllo
1 Nicholas Wade, Heart Muscle Renewed over Lifetime, Study Finds, in «New
York Times», 2 aprile 2009. Disponibile online alla pagina
http://www.nytimes.com/2009/04/03/science/03heart.html.
2 Santiago Ramón y Cajal, Cajal’s Degeneration and Regeneration of the Nervous
System, History of Neuroscience, New York, Oxford University Press, 1991.
3 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli
orizzonti della neuroscienza, cit.
4 Charles C. Gross, Neurogenesis in the Adult Brain: Death of a Dogma, in «Nature
Reviews Neuroscience», I, 1, ottobre 2000, pp. 67-73. Si veda questo articolo
per una sintesi sul modo in cui siamo arrivati a capire la neurogenesi nei
mammiferi.
5 P.S. Eriksson et al., Neurogenesis in the Adult Human Hippocampus, in «Nature
Medicine», IV, 11, novembre 1998, pp. 1313-17.
6 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli
orizzonti della neuroscienza, cit.
7 Norman Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di
persone che hanno cambiato il proprio cervello, Milano, Ponte alle Grazie, 2007.
8 J. Lee et al., Decreased Levels of BDNF Protein in Alzheimer Temporal Cortex Are
Independent of BDNF Polymorphisms, in «Experimental Neurology», CXCIV, 1,
luglio 2005, pp. 91-96.
9 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli
orizzonti della neuroscienza, cit.
10 A.V. Witte et al., Caloric Restriction Improves Memory in Elderly Humans, in
«Proceedings of the National Academy of Sciences», CVI, 4, 27 gennaio,
2009, pp. 1255-60.
11 M.P. Mattson et al., Prophylactic Activation of Neuroprotective Stress Response
Pathways by Dietary and Behavioral Manipulations, in «NeuroRx», I, 1, gennaio
2004, pp. 111-16.
12 H.C. Hendrie et al., Incidence of Dementia and Alzheimer Disease in 2
Communities: Yoruba Residing in Ibadan, Nigeria, and African Americans
418
Residing in Indianapolis, Indiana, in «JAMA », CCLXXXV, 6, 14 febbraio 2001,
pp. 739-47.
13 http://calorielab.com/news/2005/11/24/americans-eat-523-more-daily-
calories-than-in-1970.
14 http://www.forbes.com/sites/bethhoffman/2012/07/30/the-olympics-of-
overeating-which-country-eats-the-most.
15 Riguardo al consumo medio di zucchero le fonti differiscono. È interessante
notare che nel 2012 il ministero dell’Agricoltura statunitense ha rivisto i dati
usando una nuova metodologia che ha ridotto la sua stima di circa 9 chili,
abbassando i valori risultanti a meno di 35 chili all’anno (si veda:
http://www.nytimes.com/2012/10/27/business/us-cuts-estimate-of-sugar-
intake-of-typical-american.html?pagewanted=all). Valutare il consumo di
zuccheri, tuttavia, è difficile, e molti sostengono che siano più realistici dei
valori al di sopra dei 45 chili annui.
16 A.V. Araya et al., Evaluation of the Effect of Caloric Restriction on Serum BDNF
419
Amyotrophic Lateral Sclerosis, in «BMC Neuroscience», VII, 3 aprile 2006, p. 29.
21 T.B. Vanitallie et al., Treatment of Parkinson Disease with Diet-induced
Hyperketonemia: A Feasibility Study, in «Neurology», LXIV, 4, 22 febbraio
2005, pp. 728-30.
22 M.A. Reger et al., Effects of Beta-hydroxybutyrate on Cognition in Memory-
impaired Adults, in «Neurobiology of Aging», XXV, 3, marzo 2004, pp. 311-
14.
23 Mary Newport, What If There Was a Cure for Alzheimer’s Disease and No One
Knew?, www.coconutketones.com/whatifcure.pdf, 22 luglio 2008.
24 I. Van der Auwera et al., A Ketogenic Diet Reduces Amyloid Beta 40 and 42 in a
Mouse Model of Alzheimer’s Disease, in «Nutrition & Metabolism», II, 17
ottobre 2005, p. 28.
25 D.R. Ziegler et al., Ketogenic Diet Increases Glutathione Peroxidase Activity in
Rat Hippocampus, «Neurochemical Research», XXVIII, 12, dicembre 2003, pp.
1793-97.
26 K.W. Barañano e A.L. Hartman, The Ketogenic Diet: Uses in Epilepsy and Other
Neurologic Illnesses, in «Current Treatment Options in Neurology», X, 6,
novembre 2008, pp. 410-19.
27 Gary Taubes, Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo), cit., pp. 214-15.
28 G.L. Xiong e P.M. Doraiswamy, Does Meditation Enhance Cognition and Brain
Plasticity?, in «Annals of the New York Academy of Sciences», MCLXXII,
agosto 2009, pp. 63-69. Si veda anche: E. Dakwar e F.R. Levin, The Emerging
Role of Meditation in Addressing Psychiatric Illness, with a Focus on Substance
Use Disorders, in «Harvard Review of Psychiatry», XVII, 4, 2009, pp. 254-67.
29 K. Yurko-Mauro et al., Beneficial Effects of Docosahexaenoic Acid on Cognition
in Age-related Cognitive Decline, in «Alzheimer’s and Dementia», VI, 6,
novembre 2010, pp. 456-64.
30 M.C. Morris et al., Consumption of Fish and n-3 Fatty Acids and Risk of Incident
Alzheimer Disease, in «Archives of Neurology», LX, 7, luglio 2003, pp. 940-46.
31 E.J. Schaefer et al., Plasma Phosphatidylcholine Docosahexaenoic Acid Content
and Risk of Dementia and Alzheimer Disease: The Framingham Heart Study, in
«Archives of Neurology», LXIII, 11, novembre 2006, pp. 1545-50.
32 M.P. Mattson et al., Prophylactic Activation of Neuroprotective Stress Response
Pathways by Dietary and Behavioral Manipulations, cit. Si veda anche: M.P.
420
Mattson et al., Modification of Brain Aging and Neurodegenerative Disorders by
Genes, Diet, and Behavior, in «Physiological Reviews», LXXXII, 3, luglio 2002,
pp. 637-72.
33 Parte di questo materiale è stato ripreso da David Perlmutter e Alberto
Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli orizzonti della neuroscienza, cit.,
e in un articolo di Perlmutter intitolato Free Radicals: How They Speed the
Aging Process, in «Huffington Post» (http://www.huffingtonpost.com), 25
gennaio 2011.
34 D. Harman, Aging: A Theory Based on Free Radical and Radiation Chemistry,
«Journal of Gerontology», XI, 3, luglio 1956, pp. 298-300.
35 D. Harman, Free Radical Theory of Aging: Dietary Implications, in «American
Journal of Clinical Nutrition», XXV, 8, agosto 1972, pp. 839-43.
36 W.R. Markesbery e M.A. Lovell, Damage to Lipids, Proteins, DNA , and RNA in
Mild Cognitive Impairment, in «Archives of Neurology», LXIV, 7, luglio 2007,
pp. 954-56.
37 L. Gao et al., Novel n-3 Fatty Acid Oxidation Products Activate Nrf2 by
Destabilizing the Association Between Keap1 and Cullin3, in «Journal of
Biological Chemistry», CCLXXXII, 4, 26 gennaio 2007, pp. 2529-37.
38 U. Boettler et al., Coffee Constituents as Modulators of Nrf2 Nuclear
Translocation and ARE (EpRE)-dependent Gene Expression, in «Journal of
Nutritional Biochemistry», XXII, 5, maggio 2011, pp. 426-40.
39 http://www.nia.nih.gov.
421
VI. Esaurimento cerebrale
1 http://www.cdc.gov/ncbddd/adhd/data.html.
2 http://www.cdc.gov/nchs/slaits/nsch.htm.
3 Alan Schwarz e Sarah Cohen, A.D.H.D. Seen in 11% of U.S. Children as
Diagnoses Rise, in «New York Times», 31 marzo 2013. Accessibile alla pagina
http://www.nytimes.com/2013/04/01/health/more-diagnoses-of-
hyperactivity-causing-concern.html?pagewanted=all&_r=0.
4 Jerome Groopman, Come pensano i dottori, Milano, Mondadori, 2008.
5 Alan Schwarz e Sarah Cohen, A.D.H.D. Seen in 11% of U.S. Children as
Diagnoses Rise, op. cit.
6 Express Scripts, America’s State of Mind (pubblicato in origine da Medco
Health Solutions, Inc.), http://apps.who.int/medicinedocs/en/d/Js19032en.
7 N. Zelnik et al., Range of Neurologic Disorders in Patients with Celiac Disease, in
«Pediatrics», CXIII, 6, giugno 2004, pp. 1672-76. Si veda anche: M. Percy ed
E. Propst, Celiac Disease: Its Many Faces and Relevance to Developmental
Disabilities, in «Journal on Developmental Disabilities», XIV, 2, 2008.
8 L. Corvaglia et al., Depression in Adult Untreated Celiac Subjects: Diagnosis by
the Pediatrician, in «American Journal of Gastroenterology», XCIV, 3, marzo
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Depressed? The Link between Celiac Disease and Depression, in «The
Breakthrough Depression Solution» (blog), «Psychology Today», 24 maggio
2011, http://www.psychologytoday.com/blog/the-breakthrough-depression-
solution/201105/is-gluten-making-you-depressed.
9 American Academy of Pediatrics, Gastrointestinal Problems Common in
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http://www.sciencedaily.com/releases/2010/05/100502080234.htm. Si veda
anche: L.W. Wang et al., The Prevalence of Gastrointestinal Problems in Children
Across the United States with Autism Spectrum Disorders from Families with
Multiple Affected Members, in «Journal of Developmental and Behavioral
Pediatrics», XXXII, 5, giugno 2011, pp. 351-60.
10 T.L. Lowe, et al., Stimulant Medications Precipitate Tourette’s Syndrome, in
422
«JAMA », CCXLVII, 12, 26 marzo 1982, pp. 1729-31.
11 M.A. Verkasalo et al., Undiagnosed Silent Coeliac Disease: A Risk for
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12 S. Amiri et al., Pregnancy-related Maternal Risk Factors of Attention-deficit
Hyperactivity Disorder: A Case-control Study, in «ISRN Pediatrics», 2012, doi:
10.5402/2012/458064.
13 A.K. Akobeng et al., Effect of Breast Feeding on Risk of Coeliac Disease: A
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14 S.J. Blumberg et al., Changes in Prevalence of Parent-reported Autism Spectrum
Disorder in School-aged U.S. Children: 2007 to 2011-2012, in «National Health
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http://www.cdc.gov/nchs/data/nhsr/nhsr065.pdf.
15 S.J. Genuis et al., Celiac Disease Presenting as Autism, in «Journal of Child
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16 P. Whiteley et al., A Gluten-free Diet as an Intervention for Autism and
Associated Spectrum Disorders: Preliminary Findings, in «Autism», III, 1, marzo
1999, pp. 45-65.
17 K.L. Reichelt e A.M. Knivsberg, Can the Pathophysiology of Autism Be
Explained by the Nature of the Discovered Urine Peptides?, in «Nutritional
Neuroscience», VI, 1, febbraio 2003, pp. 19-28. Si veda anche: A.E.
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and Celiac Disease, in «Acta Psychiatrica Scandinavia», CXIII, 2, febbraio
2006, pp. 82-90.
18 C.M. Pennesi e L.C. Klein, Effectiveness of the Gluten-free, Casein-free Diet for
Children Diagnosed with Autism Spectrum Disorder: Based on Parental Report, in
«Nutritional Neuroscience», XV, 2, marzo 2012, pp. 85-91. Si veda anche:
«ScienceDaily»,
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120229105128.htm.
19 C.J.L. Murray e A.D. Lopez, The Global Burden of Disease: A Comprehensive
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423
20 J.W. Smoller et al., Antidepressant Use and Risk of Incident Cardiovascular
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Initiative Study, in «Archives of Internal Medicine», CLXIX, 22, 14 dicembre
2009, pp. 2128-39.
21 J.C. Fournier et al., Antidepressant Drug Effects and Depression Severity: A
Patient-level Meta-analysis, in «JAMA », CCCIII, 1, 6 gennaio 2010, pp. 47-53.
22 J.Y. Shin et al., Are Cholesterol and Depression Inversely Related? A Meta-
analysis of the Association Between Two Cardiac Risk Factors, in «Annals of
Behavioral Medicine», XXXVI, 1, agosto 2008, pp. 33-43.
23 http://www.naturalnews.com/032125_statins_memory_loss.html.
24 James Greenblatt, Low Cholesterol and Its Psychological Effects: Low Cholesterol
Is Linked to Depression, Suicide, and Violence, in «The Breakthrough
Depression Solution» (blog), «Psychology Today», 10 giugno 2011,
http://www.psychologytoday.com/blog/the-breakthrough-depression-
solution/201106/low-cholesterol-and-its-psychological-effects.
25 R.E. Morgan et al., Plasma Cholesterol and Depressive Symptoms in Older Men,
in «Lancet», CCCXLI, 8837, 9 gennaio 1993, pp. 75-79.
26 M. Horsten et al., Depressive Symptoms, Social Support, and Lipid Profile in
Healthy Middle-aged Women, in «Psychosomatic Medicine», LIX, 5, settembre-
ottobre 1997, pp. 521-28.
27 P.H. Steegmans et al., Higher Prevalence of Depressive Symptoms in Middle-
aged Men with Low Serum Cholesterol Levels, in «Psychosomatic Medicine»,
LXII, 2, marzo-aprile 2000, pp. 205-11.
28 M.M. Perez-Rodriguez et al., Low Serum Cholesterol May Be Associated with
Suicide Attempt History, in «Journal of Clinical Psychiatry», LXIX, 12,
dicembre 2008, pp. 1920-27.
29 J.A. Boscarino et al., Low Serum Cholesterol and External-cause Mortality:
Potential Implications for Research and Surveillance, in «Journal of Psychiatric
Research», XLIII, 9, giugno 2009, pp. 848-54.
30 Sarah T. Melton, Are Cholesterol Levels Linked to Bipolar Disorder?, «Medscape
Today News, Ask the Pharmacists», 16 maggio 2011 (articolo scaricabile
tramite login, http://www.medscape.com/viewarticle/741999.
31 C. Hallert e J. Aström, Psychic Disturbances in Adult Coeliac Disease, in
«Scandinavian Journal of Gastroenterology», XVII, 1, gennaio 1982, pp. 21-
424
24.
32 C. Ciacci et al., Depressive Symptoms in Adult Coeliac Disease, in
«Scandinavian Journal of Gastroenterology», XXXIII, 3, marzo 1998, pp. 247-
50. Si veda anche: James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed? The
Link Between Celiac Disease and Depression, cit.
33 J.F. Ludvigsson et al., Coeliac Disease and Risk of Mood Disorders – A General
Population-based Cohort Study, in «Journal of Affective Disorders», XCIX, 1-3,
aprile 2007, pp. 117-26.
34 J.F. Ludvigsson et al., Increased Suicide Risk in Coeliac Disease – A Swedish
Nationwide Cohort Study, in «Digest of Liver Disorders», XLIII, 8, agosto
2011, pp. 616-22.
35 M.G. Carta et al., Recurrent Brief Depression in Celiac Disease, in «Journal of
Psychosomatic Research», LV, 6, dicembre 2003, pp. 573-74.
36 C. Briani et al., Neurological Complications of Celiac Disease and Autoimmune
Mechanisms: A Prospective Study, in «Journal of Neuroimmunology», CXCV,
1-2, marzo 2008, pp. 171-75.
37 James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed? The Link Between Celiac
Disease and Depression, cit.
38 http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=gut-second-brain.
39 M. Siwek et al., Zinc Supplementation Augments Efficacy of Imipramine in
Treatment Resistant Patients: A Double Blind, Placebo-controlled Study, in
«Journal of Affective Disorders», CXVIII, 1-3, novembre 2009, pp. 187-95.
40 James M. Greenblatt, Is Gluten Making You Depressed? The Link Between Celiac
Disease and Depression, cit.
41 H. Karlsson et al., Maternal Antibodies to Dietary Antigens and Risk for
Nonaffective Psychosis in Offspring, in «American Journal of Psychiatry»,
CLXIX, 6, giugno 2012, pp. 625-32.
42 Grace Rattue, Schizophrenia Risk in Kids Associated with Mothers’ Gluten
Antibodies, in «Medical News Today», 2012. Accessibile alla pagina
http://www.medicalnewstoday.com/articles/245484.php.
43 B.D. Kraft ed E.C. Westman, Schizophrenia, Gluten, and Low-carbohydrate,
Ketogenic Diets: A Case Report and Review of the Literature, in «Nutrition &
Metabolism», London, 6, febbraio 2009, p. 10.
44 http://www.webmd.com/migraines-headaches/default.htm.
425
45 A.K. Dimitrova et al., Prevalence of Migraine in Patients with Celiac Disease and
Inflammatory Bowel Disease, in «Headache», LIII, 2, febbraio 2013, pp. 344-55.
46 Ibidem.
47 M. Hadjivassiliou e R. Grünewald, The Neurology of Gluten Sensitivity:
Science vs. Conviction, in «Practical Neurology», IV, 2004, pp. 124-26.
48 http://www.celiaccenter.org.
49 S.M. Wolf et al., Pediatric Migraine Management, in «Pain Medicine News»,
settembre/ottobre 2003, pp. 1-6.
50 E. Lionetti et al., Headache in Pediatric Patients with Celiac Disease and Its
Prevalence as a Diagnostic Clue, in «Journal of Pediatric Gastroenterology and
Nutrition», XLIX, 2, agosto 2009, pp. 202-07.
51 D. Ferraro e G. Di Trapani, Topiramate in the Prevention of Pediatric Migraine:
Literature Review, «Journal of Headache Pain», IX, 3, giugno 2008, pp. 147-50.
52 E. Bakola et al., Anticonvulsant Drugs for Pediatric Migraine Prevention: An
Evidence-based Review, in «European Journal of Pain», XIII, 9, ottobre 2009,
pp. 893-901.
53 B.L. Peterlin et al., Obesity and Migraine: The Effect of Age, Gender, and Adipose
Tissue Distribution, in «Headache», L, 1, gennaio 2010, pp. 52-62.
54 M.E. Bigal et al., Obesity, Migraine, and Chronic Migraine: Possible Mechanisms
of Interaction, in «Neurology», LXVIII, 27, 22 maggio 2007, pp. 1851-61.
55 M.E. Bigal e R.B. Lipton, Obesity Is a Risk Factor for Transformed Migraine but
Not Chronic Tension-type Headache, in «Neurology», LXVII, 2, 25 luglio 2006,
pp. 252-57.
56 L. Robberstad et al., An Unfavorable Lifestyle and Recurrent Headaches Among
Adolescents: The HUNT Study, in «Neurology», LXXV, 8, 24 agosto 2010, pp.
712-17.
426
VII. Le abitudini alimentari ottimali per il cervello
1 David Perlmutter e Alberto Villoldo, Ottieni il massimo dal tuo cervello. Gli
orizzonti della neuroscienza, cit. Si veda anche un articolo degli stessi autori
dal titolo Size Does Matter!, pubblicato alla pagina http://healyourlife.com,
25 aprile 2011.
2 G.F. Cahill e R.L. Veech Jr., Ketoacids? Good Medicine?, in «Transactions of the
American Clinical and Climatological Association», CXIV, 2003, pp. 149-61.
3 M.P. Mattson e R. Wan, Beneficial Effects of Intermittent Fasting and Caloric
Restriction on the Cardiovascular and Cerebrovascular Systems, in «Journal of
Nutritional Biochemistry», XVI, 3, marzo 2005, pp. 129-37.
4 G. Zuccoli et al., Metabolic Management of Glioblastoma Multiforme Using
Standard Therapy Together with a Restricted Ketogenic Diet: Case Report, in
«Nutrition & Metabolism», London, 7, 22 aprile 2010, p. 33.
5 J.A. Baur e D.A. Sinclair, Therapeutic Potential of Resveratrol: The In Vivo
Evidence, in «Nature Reviews Drug Discovery», V, 6, giugno 2006, pp. 493-
506.
6 D.O. Kennedy et al., Effects of Resveratrol on Cerebral Blood Flow Variables and
Cognitive Performance in Humans: A Double-blind, Placebo-controlled, Crossover
Investigation, in «American Journal of Clinical Nutrition», XCI, 6, giugno
2010, pp. 1590-97.
7 T.P. Ng et al., Curry Consumption and Cognitive Function in the Elderly, in
«American Journal of Epidemiology», CLXIV, 9, 1 novembre 2006, pp. 898-
906.
8 K. Tillisch et al., Consumption of Fermented Milk Product with Probiotic
Modulates Brain Activity, in «Gastroenterology», pii: S0016-5085(13)00292-8.
doi: 10.1053/j.gastro.2013.02.043 (1 marzo 2013). Si veda anche: J.A. Bravo et
al., Ingestion of Lactobacillus Strain Regulates Emotional Behavior and Central
GABA Receptor Expression in a Mouse Via the Vagus Nerve, in «Proceedings of
the National Academy of Sciences», CVIII, 138, 20 settembre 2011, pp.
16050-55; A.C. Bested et al., Intestinal Microbiota, Probiotics and Mental Health:
From Metchnikoff to Modern Advances: Part I – Autointoxication Revisited, in
«Gut Pathogens», V, 1, 18 marzo 2013, p. 5. Del medesimo rapporto si
427
vedano anche le parti II e III.
9 J.F. Cryan e S.M. O’Mahony, The Microbiome-Gut-Brain Axis: From Bowel to
Behavior, in «Neurogastroenterology and Motility», XXIII, 3, marzo 2011, pp.
187-92.
10 Michael Gershon, Il secondo cervello, Torino, UTET , 2006.
11 Per ulteriori informazioni sul legame tra intestino e cervello, dare uno
sguardo all’opera del dott. Emeran Mayer, direttore del Center for
Neurobiology of Stress (Centro per la neurobiologia dello stress) alla
University of California, Los Angeles. In particolare, «The Globe and Mail»
lo presentava in un articolo di Chantal Ouimet (The Gut Has a Mind of Its
Own) pubblicato il 31 dicembre 2002. È possibile accedervi alla pagina
http://www.ibs.med.ucla.edu/Articles/PatientArticle001.htm.
12 L. Packer et al., Neuroprotection by the Metabolic Antioxidant Alpha-lipoic Acid,
in «Free Radical Biology & Medicine», XXII, 1-2, 1997, pp. 359-78.
13 Per tutto ciò che volete sapere sulla vitamina D, inclusa l’analisi
approfondita di questi studi, si veda il testo fondamentale del dott. Michael
Holick, The Vitamin D Solution: A 3-Step Strategy to Cure Our Most Common
Health Problems, New York, Hudson Street Press, 2010.
14 http://blogs.scientificamerican.com/observations/2010/07/13/vitamin-d-
deficiency-linked-to-parkinsons-disease-cognitive-decline.
15 C. Annweiler et al., Higher Vitamin D Dietary Intake Is Associated with Lower
Risk of Alzheimer’s Disease: A 7-year Follow-up, in «Journals of Gerontology
Series A: Biological Sciences e Medical Sciences», LXVII, 11, novembre 2012,
pp. 1205-11.
16 D.J. Llewellyn et al., Vitamin D and Risk of Cognitive Decline in Elderly Persons,
in «Archives of Internal Medicine», CLXX, 13, 12 luglio 2012, pp. 1135-41.
17 S. Simpson Jr. et al., Higher 25-hydroxyvitamin D Is Associated with Lower
Relapse Risk in Multiple Sclerosis, in «Annals of Neurology», LXVIII, 2, agosto
2010, pp. 193-203. Si veda anche: C. Pierrot-Deseilligny et al., Relationship
Between 25-OH-D Serum Level and Relapse Rate in Multiple Sclerosis Patients
Before and After Vitamin D Supplementation, in «Therapeutic Advances in
Neurological Disorders», V, 4, luglio 2012, pp. 187-98.
18 R.E. Anglin et al., Vitamin D Deficiency and Depression in Adults: Systematic
Review and Meta-analysis, in «British Journal of Psychiatry», CCII, febbraio
428
2013, pp. 100-107.
429
VIII. Medicina genetica
1 C.W. Cotman et al., Exercise Builds Brain Health: Key Roles of Growth Factor
Cascades and Inflammation, in «Trends in Neuroscience», XXX, 9, settembre
2007, pp. 464-72. Si veda anche: University of Edinburgh, Exercise the Body to
Keep the Brain Healthy, Study Suggests, in «ScienceDaily», 22 ottobre 2012,
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/10/121022162647.htm; L.F.
Defina et al., The Association Between Midlife Cardiorespiratory Fitness Levels
and Later-life Dementia: A Cohort Study, in «Annals of Internal Medicine»,
CLVIII, 3, 5 febbraio 2013, pp. 162-68.
2 Gretchen Reynolds, How Exercise Could Lead to a Better Brain, in «New York
Times Magazine», 18 aprile 2012. Accessibile alla pagina
http://www.nytimes.com/2012/04/22/magazine/how-exercise-could-lead-to-
a-better-brain.html?pagewanted=all&_r=0.
3 A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of AD and
Cognitive Decline in Older Adults, in «Neurology», LXXVIII, 17, 24 aprile
2012, pp. 1323-29.
4 D.M. Bramble e D.E. Lieberman, Endurance Running and the Evolution of
Homo, in «Nature», CDXXXII, 7015, 18 novembre 2004, pp. 345-52.
5 D.A. Raichlen e A.D. Gordon, Relationship Between Exercise Capacity and Brain
Size in Mammals, in «PLOS ONE», VI, 6, 2011.
6 Gretchen Reynolds, Exercise and the Ever-Smarter Human Brain, in «New York
Times», 26 dicembre 2012. Disponibile alla pagina
http://well.blogs.nytimes.com/2012/12/26/exercise-and-the-ever-smarter-
human-brain. Si veda anche: D.A. Raichlen e J.D. Polk, Linking Brains and
Brawn: Exercise and the Evolution of Human Neurobiology, in «Proceedings of
the Royal Society B: Biological Sciences», CCLXXX, 1750, 7 gennaio 2013,
pp. 2012-50.
7 Gretchen Reynolds, How Exercise Could Lead to a Better Brain, cit.
8 P.J. Clark et al., Genetic Influences on Exercise-induced Adult Hippocampal
Neurogenesis Across 12 Divergent Mouse Strains, in «Genes, Brain and
Behavior», X, 3, aprile 2011, pp. 345-53. Si veda anche: R.A. Kohman et al.,
Voluntary Wheel Running Reverses Age-induced Changes in Hippocampal Gene
430
Expression, in «PLOS ONE», VI, 8, 2011, e22654.
9 K.I. Erickson et al., Exercise Training Increases Size of Hippocampus and Improves
Memory, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», CVIII, 7, 15
febbraio 2011, pp. 3017-22.
10 N. Kee et al., Preferential Incorporation of Adult-generated Granule Cells into
Spatial Memory Networks in the Dentate Gyrus, in «Nature Neuroscience», X,
3, marzo 2007, pp. 355-62. Si veda anche: C.W. Wu et al., Treadmill Exercise
Counteracts the Suppressive Effects of Peripheral Lipopolysaccharide on
Hippocampal Neurogenesis and Learning and Memory, in «Journal of
Neurochemistry», CIII, 6, dicembre 2007, pp. 2471-81.
11 N.T. Lautenschlager et al., Effect of Physical Activity on Cognitive Function in
Older Adults at Risk for Alzheimer Disease: A Randomized Trial, in «JAMA »,
CCC, 9, 3 settembre 2008, pp. 1027-37.
12 J. Weuve et al., Physical Activity, Including Walking, and Cognitive Function in
Older Women, in «JAMA », CCXCII, 12, 22 settembre 2004, pp. 1454-61.
13 A. Yavari et al., The Effect of Aerobic Exercise on Glycosylated Hemoglobin
Values in Type 2 Diabetes Patients, in «Journal of Sports Medicine and
Physical Fitness», L, 4, dicembre 2010, pp. 501-05.
14 A.S. Buchman et al., Total Daily Physical Activity and the Risk of AD and
Cognitive Decline in Older Adults, cit. Si veda anche: Rush University Medical
Center, Daily Physical Activity May Reduce Alzheimer’s Disease Risk at Any
Age, in «ScienceDaily», 18 aprile 2012,
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/04/120418203530.htm.
431
IX. Buona notte, cervello
1 Per una panoramica generale sul rapporto tra sonno e salute, potete visitare
la pagina
http://www.ninds.nih.gov/disorders/brain_basics/understanding_sleep.htm
. Inoltre, si vedano le opere del dott. Michael Breus, celebre autorità in
materia di medicina del sonno: http://www.thesleepdoctor.com.
2 Benedict Carey, Aging in Brain Found to Hurt Sleep Needed for Memory, in
«New York Times», 27 gennaio 2013. Accessibile alla pagina
http://www.nytimes.com/2013/01/28/health/brain-aging-linked-to-sleep-
related-memory-decline.html. Si veda inoltre: B.A. Mander et al., Prefrontal
Atrophy, Disrupted NREM Slow Waves and Impaired Hippocampal-dependent
Memory in Aging, in «Nature Neuroscience», XVI, 3, marzo 2013, pp. 357-64.
3 C.S. Möller-Levet et al., Effects of Insufficient Sleep on Circadian Rhythmicity and
Expression Amplitude of the Human Blood Transcriptome, in «Proceedings of
the National Academy of Sciences», CX, 12, 19 marzo 2013, pp. E1132-41.
4 Per volumi di dati sul sonno e statistiche su quanto dormiamo, si veda la
National Sleep Foundation alla pagina http://sleepfoundation.org.
5 Ann Luktis, Sleep’s Surprising Effects on Hunger, in «Wall Street Journal»,
«Health», 17 dicembre 2012. Accessibile alla pagina
http://online.wsj.com/articles/SB10001424127887324296604578175681814776
920.
6 T. Blackwell et al., Associations Between Sleep Architecture and Sleep-disordered
Breathing and Cognition in Older Community-dwelling Men: The Osteoporotic
Fractures in Men Sleep Study, in «Journal of the American Geriatric Society»,
LIX, 12, dicembre 2011, pp. 2217-25. Si veda anche: K. Yaffe et al., Sleep-
disordered Breathing, Hypoxia, and Risk of Mild Cognitive Impairment and
Dementia in Older Women, in «JAMA », CCCVI, 6, 10 agosto 2011, pp. 613-19;
A.P. Spira et al., Sleep-disordered Breathing and Cognition in Older Women, in
«Journal of the American Geriatric Society», LVI, 1, gennaio 2008, pp. 45-50.
7 Y. Zhang et al., Positional Cloning of the Mouse Obese Gene and Its Human
Homologue, in «Nature», CCCLXXII, 6505, 1 dicembre 1994, pp. 425-32. Si
432
veda anche: E.D. Green et al., The Human Obese (OB ) Gene: RNA Expression
Pattern and Mapping on the Physical, Cytogenetic, and Genetic Maps of
Chromosome 7, in «Genome Research», V, 1, agosto 1995, pp. 5-12.
8 Nora T. Gedgaudas, Primal Body, Primal Mind: Beyond the Paleo Diet for Total
Health and a Longer Life, Rochester, Vermont, Healing Arts Press, 2011.
9 K. Spiegel et al., Brief Communication: Sleep Curtailment in Healthy Young Men
Is Associated with Decreased Leptin Levels, Elevated Ghrelin Levels, and Increased
Hunger and Appetite, in «Annals of Internal Medicine», CXLI, 11, 7 dicembre
2004, pp. 846-50.
10 S. Taheri et al., Short Sleep Duration Is Associated with Reduced Leptin, Elevated
Ghrelin, and Increased Body Mass Index, in «PLOS MEDICINE», I, 3, dicembre
2004, e62.
11 W.A. Banks et al., Triglycerides Induce Leptin Resistance at the Blood-Brain
Barrier, in «Diabetes», LIII, 5, maggio 2004, pp. 1253-60.
12 Ron Rosedale e Carol Colman, The Rosedale Diet, New York, William
Morrow, 2004.
433
X. Un nuovo stile di vita
1 J. Gray e B. Griffin, Eggs and Dietary Cholesterol – Dispelling the Myth, in
«Nutrition Bulletin», XXXIV, 1, marzo 2009, pp. 66-70.
2 Per ulteriori informazioni e studi sulle uova, visitare la pagina
http://www.incredibleegg.org; si veda anche l’articolo di Janet Raloff,
Reevaluating Eggs’ Cholesterol Risks, in «Science News» (edizione per il web, 2
maggio 2006) alla pagina
http://www.sciencenews.org/view/generic/id/7301/description/Reevaluating
_Eggs_Cholesterol_Risks.
3 C N. Blesso et al., Whole Egg Consumption Improves Lipoprotein Profiles and
Insulin Sensitivity to a Greater Extent Than Yolk-free Egg Substitute in
Individuals with Metabolic Syndrome, in «Metabolism», LXII, 3, marzo 2013,
pp. 400-10.
434
XI. Nutrirsi bene per un cervello sano
1 Whole Foods è una società statunitense con sede a Austin che gestisce
supermercati di alimenti e prodotti biologici e di origine controllata. I suoi
punti vendita sono presenti non solo su territorio americano, ma anche in
Canada e nel Regno Unito. All’interno di alcuni negozi è disponibile un
servizio da asporto di cibi pronti (NdR).
2 Pomodori di varietà antiche, tramandate di generazione in generazione,
come i Marmande (NdT).
3 Cipolla tipica della Georgia, sostituibile con la nostra varietà dorata (NdT).
4 Cfr. nota 2.
5 Cfr. nota 3.
435
Epilogo
1 The World Health Organization,
http://www.who.int/chp/chronic_disease_report/media/Factsheet1.pdf.
2 Ibidem.
436
Ringraziamenti
Come ben sa chiunque ne abbia scritto uno, dare forma a un libro richiede il
lavoro di un esercito di persone creative, brillanti e instancabili. E proprio
quando credete di avere finito, entra in scena un’altra squadra di persone
altrettanto intelligenti che aiuta a portare a termine l’impresa, affinché un
lettore come voi possa immergersi nella primissima pagina.
Se potessi fare come più mi aggrada, elencherei tutti coloro che hanno
contribuito alla formazione del mio pensiero e mi hanno sostenuto in ogni
momento della mia vita e della mia carriera. Poiché ciò implicherebbe
centinaia di persone e molte pagine, sarò breve e conciso. Sono in debito con
tutti gli scienziati e i colleghi che hanno lavorato per comprendere i misteri del
cervello e del corpo umano. E sarò sempre grato ai miei pazienti, che ogni
giorno mi insegnano qualcosa e mi permettono di capire cose che non possono
essere scoperte in altro modo. Questo libro è tanto vostro quanto mio.
Ringrazio il mio amico e agente letterario, Bonnie Solow. Il fatto che tu
abbia compreso l’importanza del messaggio contenuto in queste pagine è stato
l’elemento catalizzatore del progetto. Più di ogni altra cosa, però, sono grato
che da questo progetto sia nata la nostra amicizia. Grazie per la tua guida
benevola e l’attenzione ai dettagli. So che hai fatto ben più del dovuto,
tutelando, guidando e aiutando il mio libro a raggiungere il pubblico.
A Kristin Loberg: se il contenuto di questo lavoro rappresenta la mia ricerca
e la mia esperienza professionale, è solo merito della tua competenza creativa
se il nostro messaggio ha trovato la sua voce.
All’infaticabile squadra della Little, Brown Book Group, che ha sostenuto
questo libro fin dal nostro primo incontro. Un ringraziamento speciale a Tracy
Behar, la mia editor, dotata dell’incomparabile dono di sapere assicurarsi che il
messaggio resti pratico, chiaro e conciso. Il talento e il genio che caratterizzano
437
il tuo lavoro hanno consentito di limare e migliorare molto questo libro. Un
ringraziamento anche a Michael Pietsch, Reagan Arthur, Theresa Giacopasi,
Nicole Dewey, Heather Fain e Miriam Parker. È stato un piacere lavorare con
un gruppo così attento e professionale.
A Digital Natives, la mia squadra di tecnici esperti, che ha il merito di avere
dato vita al mio sito web affiancato al libro.
All’intera équipe presso la nostra clinica, il Perlmutter Health Center, per la
loro dedizione.
A mia moglie, Leize. Grazie per tutto il tempo e l’impegno dedicati a
preparare con amore queste ricette. La mia gratitudine per la tua presenza
nella mia vita è sconfinata. Grazie anche a Dee Harris, dietologa professionista,
per l’intelligente contributo in campo nutrizionale.
Desidero infine ringraziare i miei figli, Austin e Reisha, che non hanno mai
smesso di incoraggiarmi e sostenermi lungo questo cammino.
438
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere
copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso
in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle
quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo
testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei
diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà
sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge
633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio,
commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il
preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non
potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata
e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al
fruitore successivo.
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La dieta intelligente
di David Perlmutter
Copyright © 2013 by David Perlmutter, MD
This edition published by arrangement with Little Brown and Company,
New York, New York, USA. All rights reserved
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Grain Brain
Traduzione di Francesca M. Gimelli
Realizzazione editoriale: studio pym/Milano
Ebook ISBN 9788852060786
439
Indice
Il libro
L’autore
Frontespizio
La dieta intelligente
Introduzione. Contro i cereali
Autovalutazione. Quali sono i vostri fattori di rischio?
Parte I. LA VERITÀ SUI CEREALI INTEGRALI
I
II
III
IV
V
VI
Parte II. RIABILITARE IL CERVELLO
VII
VIII
IX
Parte III. DIRE ADDIO ALLE VECCHIE ABITUDINI ALIMENTARI
X
XI
Epilogo. La mesmerizzante verità
Note
Ringraziamenti
Copyright
440