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Passiamo ora a considerare il soggetto degli abiti. Sull'argomento si pongono sei quesiti:
1. Se un abito possa risiedere nel corpo;
2. Se l'anima sia la sede degli abiti nella sua essenza o nelle sue potenze;
3. Se un abito possa risiedere nelle potenze della parte sensitiva;
4. Se possa trovarsi direttamente nell'intelletto;
5. Se possa aver sede nella volontà;
6. Se possa trovarsi nelle sostanze separate.
Sembra che nel corpo non possa risiedere alcun abito. Infatti:
1. Come afferma Averroè [De anima 3, comm. 18], "l'abito è un mezzo col quale uno agisce quando vuole". Ma le
operazioni materiali, essendo di ordine fisico, non obbediscono alla volontà. Quindi nel corpo non ci può essere alcun
abito.
2. Tutte le disposizioni del corpo sono facili a perdersi. Invece l'abito è una qualità difficile a perdersi. Quindi nessuna
disposizione del corpo può essere un abito.
3. Tutte le disposizioni corporee sottostanno all'alterazione. Ma l'alterazione appartiene soltanto alla terza specie della
qualità, che esclude gli abiti. Quindi nessun abito risiede nel corpo.
In contrario:
Il Filosofo nei Predicamenti [6] afferma che la salute e l'infermità insanabile del corpo sono denominate abiti.
Rispondo:
Come si è già spiegato [q. 49, aa. 2 ss.], l'abito è la disposizione di un soggetto che è in potenza a qualche forma o a
qualche operazione. Ora, nessun abito, in quanto disposizione all'operare, risiede principalmente nel corpo. Infatti ogni
operazione del corpo deriva o dalle sue qualità fisiche, o dall'anima che lo muove. Ora, rispetto alle operazioni derivanti
dalla natura il corpo non riceve disposizioni mediante gli abiti: poiché le potenze naturali sono determinate a un unico
atto, e sopra [ib., a. 4] abbiamo detto che la disposizione da parte dell'abito si richiede quando il soggetto è in potenza a
più cose. Tuttavia le operazioni compiute dal corpo sotto la mozione dell'anima appartengono principalmente all'anima
stessa, ma secondariamente anche al corpo. Ora, gli abiti sono proporzionati alle operazioni: quindi "da determinati atti
sono causati abiti consimili", come dice Aristotele [Ethic. 2, 1]. Perciò le disposizioni a tali atti sono principalmente
nell'anima, ma possono risiedere nel corpo in modo secondario: cioè in quanto il corpo stesso viene disposto e abituato
a servire prontamente alle operazioni dell'anima. Se invece parliamo della disposizione del soggetto rispetto alla forma,
allora anche nel corpo, che sta all'anima come un soggetto alla sua forma, si possono trovare disposizioni affini all'abito.
E in questo senso si dicono disposizioni abitudinarie la salute, la bellezza e altre cose del genere. Esse tuttavia non
hanno perfettamente il carattere di abiti: poiché le loro cause sono per natura facilmente trasmutabili. Alessandro [di
Afrodisia] invece, come riferisce Simplicio [Comm. praed. 8], sosteneva addirittura che l'abito, o disposizione della
prima specie, non sarebbe in alcun modo nel corpo; e affermava che la prima specie della qualità è soltanto nell'anima.
Per cui quando Aristotele nei Predicamenti [6] parla della salute e della malattia non le inserirebbe nella prima specie
della qualità, ma se ne servirebbe solo per portare un esempio, così da rendere questa idea: come la malattia e la salute
possono essere facilmente o difficilmente amovibili, così possono esserlo le qualità della prima specie, denominate abiti
e disposizioni. - Ma ciò è evidentemente contro l'intenzione di Aristotele [Praed. 6]. Sia perché questi si serve della
stessa espressione nel portare l'esempio della salute e della malattia e quello della virtù e della scienza [l. cit.]. Sia
perché nella Fisica [7, 3] mette espressamente tra gli abiti la bellezza e la salute.
Articolo 2 - Se l'anima sia sede degli abiti nella sua essenza o nelle sue potenze
Sembra che gli abiti risiedano più nell'essenza dell'anima che nelle sue potenze. Infatti:
1. Le disposizioni e gli abiti vanno considerati in ordine alla natura, come si è detto [q. 49, a. 2]. Ora, la natura si
desume più dall'essenza dell'anima che dalle sue potenze: poiché l'anima costituisce la natura e la forma di un dato
corpo in forza della sua essenza. Quindi gli abiti risiedono nell'essenza e non nelle potenze dell'anima.
2. Nessun accidente può essere il soggetto di un altro accidente. Ma l'abito è un accidente. E così pure le potenze
dell'anima, come si è visto nella Prima Parte [q. 77, a. 1, ad 5], sono accidenti. Quindi l'abito non risiede nell'anima in
forza delle potenze di questa.
3. Il soggetto deve precedere ciò che in esso risiede. Ora l'abito, appartenendo alla prima specie della qualità, viene
prima della potenza, che appartiene alla seconda. Perciò l'abito non risiede nelle potenze dell'anima.
In contrario:
Il Filosofo [Ethic. 1, 13] colloca i diversi abiti nelle diverse parti dell'anima.
Rispondo:
Come si è già spiegato [q. 49, aa. 2, 3], l'abito comporta una disposizione ordinata alla natura o all'operazione. Se
dunque si prende l'abito in quanto è ordinato alla natura, allora esso non può trovarsi nell'anima, restando però
nell'ambito della natura umana: poiché l'anima stessa è la forma che dà compimento a tale natura; e così in questo caso
l'abito, o la disposizione, deve trovarsi più nel corpo in ordine all'anima che nell'anima in ordine al corpo. Se però
parliamo di una qualche natura superiore, di cui l'uomo può partecipare, secondo quelle parole della Scrittura [2 Pt 1, 4]:
"perché diveniamo partecipi della natura divina", allora nulla impedisce che nell'essenza stessa dell'anima ci possa
essere un abito, che è la grazia, come vedremo [q. 110, a. 4]. Se invece si prende l'abito in ordine all'operazione, allora
esso risiede principalmente nell'anima: poiché l'anima non è determinata a una sola operazione, ma dice ordine a molte,
come l'abito richiede, secondo le spiegazioni date [q. 49, a. 4]. Essendo poi l'anima un principio operativo mediante le
sue potenze, gli abiti devono trovarsi nell'anima mediante le sue potenze.
Articolo 3 - Se qualche abito possa risiedere nelle potenze della parte sensitiva
Sembra che nelle potenze della parte sensitiva non possa risiedere alcun abito. Infatti:
1. Le potenze sensitive sono irrazionali, come quelle nutritive. Ma nelle potenze della parte nutritiva non si parla di
abiti. Quindi non se ne deve parlare neppure nelle potenze della parte sensitiva.
2. Le facoltà sensitive sono comuni a noi e agli animali bruti. Ma negli animali non ci sono abiti: poiché manca in essi
la volontà, che è inclusa nella definizione dell'abito, come si è visto sopra [a. 1, ob. 1; q. 49, a. 3, s.c.]. Quindi non ci
sono abiti nelle facoltà sensitive.
3. Gli abiti dell'anima sono le scienze e le virtù; e come la scienza è legata alle potenze conoscitive, così la virtù è legata
a quelle appetitive. Ma nelle potenze sensitive non ci sono scienze: poiché la scienza ha per oggetto gli universali, che
le facoltà sensitive non possono conoscere. Perciò neppure nelle facoltà appetitive ci possono essere gli abiti delle virtù.
In contrario:
Il Filosofo [Ethic. 3, 10] afferma che "alcune virtù", come la temperanza e la fortezza, "appartengono alle parti
irrazionali".
Rispondo:
Le potenze sensitive si possono considerare in due modi: primo, in quanto operano per istinto di natura; secondo, in
quanto operano sotto il comando della ragione. In quanto dunque agiscono per istinto di natura sono preordinate a
un'unica cosa, come anche la natura. Perciò in questo senso nelle potenze sensitive non ci possono essere degli abiti,
come non ci sono nelle potenze naturali. Ma in quanto agiscono sotto il comando della ragione le potenze sensitive
possono essere ordinate a cose diverse. E in questo senso possono avere degli abiti, che le predispongano bene o male a
una data cosa.
In contrario:
Il Filosofo [Ethic. 6, 3] colloca direttamente nella parte intellettiva la scienza, la sapienza e l'intelletto, che è l'abito dei
primi princìpi.
Rispondo:
Sul problema degli abiti conoscitivi ci sono state diverse opinioni. Infatti alcuni, ritenendo che l'intelletto possibile fosse
unico per tutti gli uomini, furono costretti ad ammettere che gli abiti conoscitivi non sono nell'intelletto stesso, ma nelle
facoltà conoscitive inferiori. È infatti troppo evidente che gli uomini si distinguono tra loro per gli abiti, per cui gli abiti
conoscitivi non si possono collocare direttamente in un elemento che, essendo unico, sarebbe comune a tutti gli uomini.
Se quindi esistesse un solo intelletto possibile per tutti gli uomini gli abiti delle varie scienze, secondo cui gli uomini si
distinguono tra loro, non potrebbero risiedere nell'intelletto possibile, ma dovrebbero trovarsi nelle potenze sensitive
interiori, che rimangono distinte nei vari soggetti. Ma questa tesi è, prima di tutto, contraria al pensiero di Aristotele.
Infatti, come egli nota [Ethic. 1, 13], è evidente che le potenze sensitive sono razionali non per essenza, ma solo per
partecipazione. Per cui il Filosofo [l. cit. nel s.c.] colloca le virtù intellettuali, sapienza, scienza e intelletto, in ciò che è
razionale per essenza. Perciò esse non sono nelle potenze sensitive, ma nell'intelletto medesimo. Inoltre egli dice
espressamente [De anima 3, 4] che l'intelletto possibile, "allorché diviene [intenzionalmente] le singole cose", cioè
quando riceve l'atto delle singole cose mediante le specie intelligibili, "in quel momento passa all'atto, nel modo in cui
si dice che è in atto chi ha una scienza, il che avviene quando uno è in grado di operare da se stesso", cioè di considerare
attualmente quanto sa. "Però anche allora è in qualche modo in potenza; ma non come prima di apprendere o di
scoprire". Quindi l'intelletto medesimo è il soggetto in cui si trova l'abito della scienza, mediante il quale esso acquista
il potere di considerare, anche quando non considera attualmente. Secondo, questa tesi è contro la verità delle cose. Se è
vero infatti che si deve attribuire una facoltà a chi ne possiede l'operazione, è anche vero che l'abito deve essere
attribuito a chi ne compie le operazioni. Ora, l'atto di intendere e di considerare è proprio dell'intelletto. Perciò anche
l'abito col quale si considera è propriamente nell'intelletto medesimo.
Sembra che nella volontà non ci possa essere alcun abito. Infatti:
1. L'abito esistente nell'intelletto è costituito dalle specie intelligibili, mediante le quali l'intelletto conosce. Ma la
volontà non agisce servendosi di specie. Quindi la volontà non è sede di alcun abito.
2. A differenza dell'intelletto possibile, l'intelletto agente non ammette abiti, essendo una potenza attiva. Ma la volontà è
la più attiva delle potenze, poiché muove tutte le potenze ai loro atti, come si è visto in precedenza [q. 9, a. 1]. Quindi in
essa non ci sono abiti.
3. Nelle potenze naturali non ci sono abiti poiché per loro natura sono già determinate a una data cosa. Ma la volontà
per sua natura è ordinata a tendere verso il bene conforme alla ragione. Quindi nella volontà non c'è alcun abito.
In contrario:
La giustizia è un abito. Ma la giustizia risiede nella volontà: infatti la giustizia, come dice Aristotele [Ethic. 5, 1], è "un
abito mediante il quale si vogliono e si compiono cose giuste". Quindi la volontà è sede di qualche abito.
Rispondo:
Tutte le facoltà che possono essere ordinate ad agire in più modi hanno bisogno di un abito per essere ben disposte al
proprio atto. Ora, essendo la volontà una potenza razionale, può essere ordinata all'operazione in più modi. Perciò è
necessario ammettere qualche abito nella volontà, che serva a ben disporla al proprio atto. Anzi, dalla stessa definizione
dell'abito risulta che esso ha un rapporto particolare con la volontà, in quanto l'abito è "il mezzo di cui uno si serve
quando vuole", come sopra [a. 1, ob. 1; q. 49, a. 3, s. c.] abbiamo spiegato.
Soluzione delle difficoltà:
1. Come nell'intelletto c'è la specie [intenzionale] che è un'immagine dell'oggetto, così nella volontà e in qualsiasi altra
potenza appetitiva ci deve essere qualcosa che serva a inclinarla verso il proprio oggetto: poiché l'atto della potenza
appetitiva non è altro che un'inclinazione, come si è già spiegato [q. 6, a. 4]. Perciò quando si tratta di cose verso le
quali è già efficacemente inclinata dalla sua stessa natura, essa non ha bisogno di una qualità che la inclini. Ma essendo
necessario, per raggiungere il fine della vita umana, che la facoltà appetitiva venga inclinata a qualcosa di determinato,
verso cui non è inclinata in base alla sua natura di potenza aperta a cose molteplici e diverse, si richiede che nella
volontà, e nelle altre potenze appetitive, ci siano delle qualità che diano questa inclinazione, vale a dire gli abiti.
2. L'intelletto agente è agente soltanto, e in nessun modo paziente. Invece la volontà, e qualsiasi potenza appetitiva, è un
motore mosso, come dice Aristotele [De anima 3, 10]. Perciò il paragone non regge: infatti la capacità di ricevere un
abito è proprio di ciò che in qualche modo è in potenza.
3. La volontà è inclinata al bene di ordine razionale dalla sua stessa natura di potenza. Ma proprio perché tale bene si
diversifica in modo molteplice, è necessario che la volontà riceva da qualche abito l'inclinazione verso un bene
razionale determinato, in modo da compiere le sue operazioni con maggiore prontezza.
Sembra che negli angeli non vi possano essere degli abiti. Infatti:
1. Scrive S. Massimo, commentatore di Dionigi [De cael. hier. 7, 1]: "Non è da credere che in queste divine
intelligenze", cioè negli angeli, "ci siano delle virtù intellettive", ossia spirituali, "sotto forma di accidenti, come in noi,
cioè come proprietà esistenti in un soggetto: poiché da esse è escluso qualsiasi accidente". Ora, tutti gli abiti sono
accidenti. Quindi negli angeli non ci sono abiti.
2. Scrive Dionigi [ib. 4, 2] che "le sante disposizioni delle essenze celesti partecipano più di ogni altra cosa la bontà di
Dio". Ora, tutto ciò che è per se stesso [cioè sostanza] ha una priorità su ciò che è mediante altro. Quindi le essenze
angeliche ricevono per se stesse la perfetta conformità con Dio. Quindi non mediante qualche abito. E questo sembra
l'argomento di S. Massimo [l. cit.], il quale aggiunge: "Se ciò avvenisse, l'essenza degli angeli non rimarrebbe in se
stessa, e non le sarebbe concesso di essere deificata per se stessa, nei limiti del possibile".
3. L'abito, come insegna Aristotele [Met. 5, 20], è una disposizione. Ma la disposizione è "l'ordine di un essere dotato di
parti". Siccome dunque gli angeli sono sostanze semplici, sembra che in essi non ci siano disposizioni e abiti.
In contrario:
Dionigi [De cael. hier. 7, 1] afferma che gli angeli della prima gerarchia "sono denominati Brucianti, Troni ed Effusioni
di sapienza, poiché tale è la manifestazione deiforme dei loro abiti".
Rispondo:
Alcuni hanno pensato che negli angeli non vi siano abiti, ma che tutti i loro attributi appartengano alla loro essenza.
Infatti S. Massimo, dopo le parole da noi riferite [ob. 1], scrive: "Gli abiti e le virtù che sono in essi sono essenziali, per
la loro immaterialità". E la stessa cosa è ripetuta da Simplicio [Comm. praed. 8]: "La sapienza esistente nell'anima è un
abito, mentre quella che è nell'intelletto è sostanza. Infatti tutte le cose che sono divine sono per se stesse
autosufficienti, ed esistenti in se medesime". Ora, questa tesi in parte è vera e in parte è falsa. È chiaro infatti, da quanto
si è detto [q. 49, a. 4], che soggetto dell'abito è soltanto un essere in potenza. Perciò i suddetti commentatori,
considerando che gli angeli sono sostanze immateriali, prive della potenza della materia, esclusero da essi l'abito e
qualsiasi altro accidente. Ma poiché negli angeli, pur mancando la potenza della materia, si trova ancora una certa
potenzialità (infatti è esclusivo di Dio essere atto puro), in essi ci possono essere gli abiti nella misura in cui c'è in essi
la potenza. Siccome però la potenza della materia e quella di ordine intellettivo non sono della stessa natura, neppure gli
abiti rispettivi sono della stessa natura. Simplicio [l. cit.] infatti afferma che "gli abiti delle sostanze intellettive non
sono simili agli abiti di quaggiù, ma sono piuttosto simili alle specie immateriali semplici che esse contengono in se
stesse". Tuttavia rispetto a questi abiti l'intelletto angelico si trova in condizioni diverse dall'intelletto umano. Poiché
l'intelletto umano, essendo l'ultimo fra gli esseri intellettivi, è in potenza rispetto a tutti gli intelligibili, come la materia
prima rispetto a tutte le forme sensibili, e quindi ha sempre bisogno di qualche abito per qualsiasi conoscenza. Invece
l'intelletto angelico non è pura potenza tra gli esseri di ordine intellettuale, ma è un determinato atto; non atto puro
(essendo questo proprio di Dio soltanto), ma combinato con una certa potenzialità; e quanto più l'intelletto angelico è
superiore, tanto minore è la sua potenzialità. Perciò nella Prima Parte [q. 55, a. 1] si è detto che in quanto è in potenza
ha bisogno di essere predisposto alla sua operazione mediante determinate specie fungenti da abiti, ma in quanto è in
atto può intendere le cose mediante la propria essenza; per lo meno può intendere se stesso, e altro ancora secondo il
grado della sua sostanza, come leggiamo nel De Causis [7]: e tanto più perfettamente quanto più è perfetto. E poiché
nessun angelo può raggiungere la perfezione di Dio, ma ne dista infinitamente, perché possa raggiungere Dio con
l'intelletto e la volontà l'angelo ha bisogno di determinati abiti, essendo in potenza rispetto a quell'atto puro. Perciò
Dionigi [l. cit. nel s.c.] insegna che gli abiti degli angeli sono "deiformi", atti cioè a renderli conformi a Dio. Invece
negli angeli manca qualsiasi abito che sia una disposizione al loro essere naturale, essendo essi immateriali.