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Genitron

Sandro Penna – Una strana gioia di vivere


I

La tenerezza tenerezza è detta


se tenerezza cose nuove dètta.

II

Oh non ti dare arie


di superiorità.
Solo uno sguardo io vidi
degno di questa. Era
un bambino annoiato in una festa.

III

La tua giusta fierezza


per il mio gesto vile
pareva senza asprezza
dorata dal tuo stile.

IV

Come è bello seguirti


o giovine che ondeggi
calmo nella città notturna.
Se ti fernú in un angolo, lontano
io resterò, lontano
dalla tua pace, – o ardente
solitudine mia.

O solitario intorno a una fontana.


Il poetico nudo della leva
militare nel tuo cuore ardeva
più che la Venere Botticelliana.

VI

Le stelle mi guardavano se a tratti


socchiudevano gli occhi come fanno i gatti.

VII
Era la vita tua lieta e gentile.
Quando a un tratto arrivò, gonfio d’amore,
un lombrico vestito da signore.
E’ quieta la tua vita e senza stile.

VIII

Il ciclista polverosa
castità offre alla sposa.

IX

Passando sopra un ponte


alto sull’imbrunire
guardando l’orizzonte
ti pare di svanire.
Ma la campagna resta
piena di cose vere
e tante azzurre sfere
non valgono una festa.

Tra due malandri in fiore


deriso era il mio cuore.
Nel sonno al loro viso
perdonai con amore.

XI

Il fanciullo magretto torna a casa


un poco stanco e molto interessato
alle cose dell’autobus. Pensa
– con quella luce che viene dai sensi
dai sensi ancora appena appena tocca -
in quanti modi adoperar si possa
una cosa ch’è nuova e già non tiene
se inavvertito ogni tanto egli tocca.
Poi si accorge di me. E raffreddato
si soffia il cuore fra due grosse mani.
lo devo scendete ed è forse un bene.

XII

Della romantica tuta


oh non amai solo la scorza.
Ma proprio la dolcezza ch’è sperduta
fra le montagne della forza.
XIII

Per averlo soltanto guardato


nel negozio dove io ero entrato
sulla soglia da dove egli usciva
è rimasto talmente incantato
con gli occhi tonti ferma la saliva
che il più grande gli fece: Hai rubato?
Poi ne ridemtno insieme tutti e tre
ognuno all’altro tacendo un perché
uniti da quell’ultimo perché
che lecito sembrava a tutti e tre.

XIV

Un po’ di pace è già nella campagna


L’ozio che è il padre dei miei sogni guarda
i miei vizi coi suoi occhi leggeri.
Qualcuno che era in me ma me non guarda
bagna e si mostra negligente: appare
d’un tratto un treno coi suoi passeggeri
attoniti e ridenti – ed è già ieri.

XV

La luna ci guardava assai tranquilla


al di là dello schermo ov’egli attento
seguiva le incredibili vicende
col suo profilo di bambino, caro
.a quella luna già, ma assai lontano
solo mezz’ora prima…

XVI

Un amore perduto quanta gioia


di nuove sensazioni in me sorprende.
Ma l’amore è perduto.
E la pena riprende.

XVII

Cercando del mio male le radici


avevo corso tutta la città.
Gonfio di cibo e d’imbecillità
tranquillo te ne andavi dagli amici.
Ma Sandro Penna è intriso di una strana
gioia di vivere anche nel dolore.
Di se stesso e di te, con tanto amore,
stringe una sola età – e te allontana.

XVIII

Oh se potessi io lo compererei.
Solo cosi forse mi calmerei.

XIX

Dacci la gioia di conoscer bene


le nostre gioie, con le nostre pene.

XX

Notte bella, riduci la mia pena.


Tormentami se vuoi. ma fammi forte

XXI

Ma insieme a tanto urlare di dolore,


te scomparso del tutto dai miei occhi,
perché restava in me tanto fervore
ch’io posavo ogni giorno in altri occhi?
Rimase in me di te forse una scia
di pura gioventù se tu scomparso
dalla mia scena la malinconia
restava come neve al sol di marzo?

XXII

Se l’inverno comincia sulle calde


e sporche mani un odore di arance
al quieto sole della festa arde
nell’aria come qualcosa che piange

XXIII

«Cullo una solitudine mortale


nel mortale mattino, che da sempre… »
Il verso dell’amico si era imposto
da qualche giorno. Il fiume, come un olio
lucido e calmo nello stanco agosto…
Forse mia madre era perduta. Solo
lucido e calmo mi era intorno, specchio
a quello specchio nell’ampio silenzio,
quegli che poi doveva il mio silenzio
– già triste come di un lontano assenzio -
rompere con tanto mio consenso…
(Il suo odore, la sera, come un cane
sporco e fedele dopo le campane).
Notte d’inverno, la tua dolce boria
fa lontana, fa buffa questa storia.

XXIV

Un dì la vita mia era beata.


Tutta tesa all’amore anche un portone
rifugio per la pioggia era una gioia.
Anche la pioggia mi era alleata.

XXV

Con il cielo coperto e con l’aria monotona


grassa di assenti rumori lontani
nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia)
nella stagione incerta, nell’ora più chiara
cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti?
L’amore era lontano o era in ogni cosa?

XXVI

Il gatto che attraversa la mia strada


o bianco o nero stasera mi aggrada.
Ma non mi aggradi tu stanca puttana:
chiuditi con un altro nella tana.

XXVII

Come è bella la luna di dicembre


che guarda calma tramontare l’anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.

XXVIII

E l’ora in cui si baciano i marmocchi


assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. lo, mostro da niente.

XXIX

Come è forte il rumore dell’alba!


Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.

XXX

La rosa al suo rigoglio


non fu mai cosi bella
come quando nel gonfio orinatoio
dell’alba amò l’insonne sentinella.

[1949-1955]
tratto da “Poesie” Garzanti, Milano, 2000

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