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TESTI POETICI DI LETTERATURA ITALIANA

X AGOSTO di Giovanni PASCOLI

San Lorenzo, io lo so perché tanto


di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh!, d’un pianto di stelle lo innondi
quest’atomo opaco del Male!

1
 IL GELSOMINO NOTTURNO  di Giovanni Pascoli

  E s'aprono i fiori notturni


     nell'ora che penso a' miei cari.
     Sono apparse in mezzo ai viburni
     le farfalle crepuscolari.
     Da un pezzo si tacquero i gridi:
     là sola una casa bisbiglia.
     Sotto l'ali dormono i nidi,
     come gli occhi sotto le ciglia.
     Dai calici aperti si esala
     l'odore di fragole rosse.
     Splende un lume là nella sala.
     Nasce l'erba sopra le fosse.
     Un'ape tardiva sussurra
     trovando già prese le celle.
     La Chioccetta per l'aia azzurra
     va col suo pigolio di stelle.
     Per tutta la notte s'esala
     l'odore che passa col vento.
     Passa il lume su per la scala;
     brilla al primo piano: s'è spento...
     È l'alba: si chiudono i petali
     un poco gualciti; si cova,
     dentro l'urna molle e segreta,
     non so che felicità nuova.

2
LAVANDARE di Giovanni Pascoli

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero


resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene


lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,


e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l’aratro in mezzo alla maggese.

NOVEMBRE di Giovanni Pascoli

Gemmea l'aria, il sole così chiaro


che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante


di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,


odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.

3
TEMPORALE di Giovanni Pascoli

Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare,
tra il nero un casolare,
un'ala di gabbiano.

IL LAMPO di Giovanni Pascoli

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;


il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

IL TUONO di Giovanni Pascoli

E nella notte nera come il nulla,


a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.

4
La SIGNORINA FELICITA di Guido Gozzano (sez. VI)
VI.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi


luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte


per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...

Oh! questa vita sterile, di sogno!


Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie


per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s'apprende


in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

5
Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!

A MIA MOGLIE di Uberto Saba


6
1. Tu sei come una giovane,
2. una bianca pollastra.
3. Le si arruffano al vento
4. le piume, il collo china
5. per bere, e in terra raspa;
6. ma, nell’andare, ha il lento
7. tuo passo di regina,
8. ed incede sull’erba
9. pettoruta e superba.
10. È migliore del maschio
11. È come sono tutte
12. le femmine di tutti
13. i sereni animali
14. che avvicinano a Dio
15. Così se l’occhio, se il giudizio mio
16. non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
17. e in nessun’altra donna.
18. Quando la sera assonna
19. le gallinelle,
20. mettono voci che ricordan quelle,
21. dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
22. ti quereli, e non sai
23. che la tua voce ha la soave e triste
24. musica dei pollai.

25. Tu sei come una gravida


26. giovenca;
27. libera ancora e senza
28. gravezza, anzi festosa;
29. che, se la lisci, il collo
30. volge, ove tinge un rosa
31. tenero la sua carne.
32. Se l’incontri e muggire
33. l’odi, tanto è quel suono
34. lamentoso, che l’erba
35. strappi, per farle un dono.
36. È così che il mio dono
37. t’offro quando sei triste.

38. Tu sei come una lunga


39. cagna, che sempre tanta
40. dolcezza ha negli occhi,
7
41. e ferocia nel cuore.
42. Ai tuoi piedi una santa
43. sembra, che d’un fervore
44. indomabile arda,
45. e così ti riguarda
46. come il suo Dio e Signore.
47. Quando in casa o per via
48. segue, a chi solo tenti
49. avvicinarsi, i denti
50. candidissimi scopre.
51. Ed il suo amore soffre
52. di gelosia.

53. Tu sei come la pavida


54. coniglia. Entro l’angusta
55. gabbia ritta al vederti
56. s’alza,
57. e verso te gli orecchi
58. alti protende e fermi;
59. che la crusca e i radicchi
60. tu le porti, di cui
61. priva in sé si rannicchia,
62. cerca gli angoli bui.
63. Chi potrebbe quel cibo
64. ritoglierle? chi il pelo
65. che si strappa di dosso,
66. per aggiungerlo al nido
67. dove poi partorire?
68. Chi mai farti soffrire?

69. Tu sei come la rondine


70. che torna in primavera.
71. Ma in autunno riparte;
72. e tu non hai quest’arte.
73. Tu questo hai della rondine:
74. le movenze leggere;
75. questo che a me, che mi sentiva ed era
76. vecchio, annunciavi un’altra primavera.

77. Tu sei come la provvida


78. formica. Di lei, quando
79. escono alla campagna,
80. parla al bimbo la nonna
81. che l’accompagna.
8
82. E così nella pecchia
83. ti ritrovo, ed in tutte
84. le femmine di tutti
85. i sereni animali
86. che avvicinano a Dio;
87. e in nessun’altra donna.

SAN MARTINO DEL CARSO di Giuseppe Ungaretti

9
1. Di queste case
2. non è rimasto
3. che qualche
4. brandello di muro

5. Di tanti
6. che mi corrispondevano
7. non è rimasto
8. neppure tanto

9. Ma nel cuore
10. nessuna croce manca

11. È il mio cuore


12. il paese più straziato.

VEGLIA di Giuseppe Ungaretti

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore

Non sono mai stato


Tanto
Attaccato alla vita.

LA MADRE di Giuseppe Ungaretti

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1. E il cuore quando d’un ultimo battito
2. avrà fatto cadere il muro d’ombra,
3. per condurmi, Madre, sino al Signore,
4. come una volta mi darai la mano.

5. In ginocchio, decisa
6. sarai una statua davanti all’Eterno,
7. come già ti vedeva
8. quando eri ancora in vita.

9. Alzerai tremante le vecchie braccia,


10. come quando spirasti
11. dicendo: Mio Dio, eccomi.

12. E solo quando m’avrà perdonato,


13. ti verrà desiderio di guardarmi.

14. Ricorderai d’avermi atteso tanto,


15. e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Cigola la carrucola del pozzo di Eugenio Montale

11
Cigola la carrucola del pozzo,

l’acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un’immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro…

                                               Ah che già stride

la ruota, ti ridona all’atro fondo,

visione, una distanza ci divide.

LA CASA DEI DOGANIERI di Eugenio Montale

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Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto. 
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna  
la tua memoria; un filo s’addipana
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola 
né qui respiri nell’oscurità
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende …) 
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

NON CHIEDERCI LA PAROLA di Eugenio Montale


13
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,


agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,


sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

I mari del sud di Cesare Pavese

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Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto


se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino…»
mi ha detto «… ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
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spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,


gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: «Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi».

Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno


nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
«Ma la bestia» diceva «più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza».
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: «Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli». Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
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qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
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C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e
non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci
sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è
da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa
ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». Non so se
vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di
balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del
duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla
campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo,
oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia
due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da
Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto?

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