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“La scelta della città di Taranto – ci dice - come sede del IV polo siderurgico italiano sottostà ad alcuni criteri di
scelta, primo fra tutti la forte disoccupazione che insisteva sul territorio oltre che la vicinanza al mare, la presenza
del porto e una forte tradizione industriale che possiamo far risalire alla fine del’800 con i cantieri Tosi prima e
l’Arsenale dopo”.
Tracce: Taranto diviene così una città industriale al pari di quelle del nord con fattori di crescita economica esponenziali.
Quando tutto ciò comincia a mostrare i primi segni di crisi?
Di Fabbio: Direi che questo equilibrio inizia a mostrare le prime crepe con la crisi petrolifera del ‘73, allorquando il prezzo
del petrolio cresce in maniera esorbitante ed è perciò conveniente mantenere la produzione ad un certo livello,
in quanto i costi si dimostrano maggiori dei ricavi. A questa crisi in altre realtà, come l’Inghilterra, si risponde,
per tutti gli anni ‘80, con le liberalizzazioni e la chiusura di molte acciaierie senza che ci sia alcun ammortizzatore
sociale. In Italia ciò non accade grazie all’IRI, esempio di quel connubio forte tra industria e politica, e agli aiuti
all’industria che si protraggono
fino agli anni ‘90. Poi ci fu una
una politica non clientelare, basata sulla modernità, seconda crisi economica agli inizi
degli anni ‘90 che ha portato alla
cioè non più sulla gestione particolaristica ma sulla privatizzazione anche in Italia
gestione universalistica del bene comune, dell’Italsider, che a dire il vero è
stata quasi regalata a Riva, il quale
grazie a quell’acquisto è diventato
uno dei maggiori produttori europei.
Il mercato dell’acciaio è in forte crisi in quegli anni, le solite crisi che colpiscono il settore e che le sono connaturate,
come abbiamo detto. Come Taranto, tante altre realtà industriali italiane ed europee mostrano quella che tu
chiami la “dipendenza” da quel paradigma industriale.
In linea generale tutte le aree a più vecchia industrializzazione hanno delle difficoltà
maggiori ad andare avanti, a compiere quel forward, quel salto in avanti che le può
portare fuori dalla crisi e annullare appunto quella dipendenza. Questo come dato
generale, nel particolare poi bisogna capire come ogni luogo riesce a rispondere alla crisi.
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comunità
ilva-dipendenti chi è
...naji-al-ali?
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che c’è: 1 7
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montemesola territorio
cosa non ci piace... architetture di pietra
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T: Quali sono quindi le loro risposte?
ILVA- DF: Ogni area è un caso a sé: nella Rhur, ad esempio, si è riusciti ad imboccare sentieri
DIPENDENTI nuovi perché lì vi era un tessuto imprenditoriale pregresso che era latente ma non
scomparso, cosicché quando si è deciso per la ristrutturazione del settore dell’acciaio
tutto quel tessuto è tornato in superficie ed ha ricominciato a funzionare, aiutato anche da una politica non
clientelare, basata sulla modernità, cioè non più sulla gestione particolaristica ma sulla gestione universalistica
del bene comune, che ha prodotto quindi una serie di politiche pubbliche fatte con criterio, che puntassero ad uno
sviluppo a lungo termine. Tutto questo amalgamato ad un capitale imprenditoriale già esistente ha permesso la
riconversione dell’economia verso il settore dei servizi e dell’hi tech.
T: Spostiamoci a Taranto. Qui prima della grande industria c’era un’agricoltura basata sul latifondo e gestita con
metodi feudalistici.
DF: Esatto. A Taranto la situazione non è così rosea come nella Rhur perché qui non avevamo un sistema
produttivo pregresso, una capacità imprenditoriale diffusa: ecco, per assurdo possiamo dire che
se il siderurgico fosse sorto, ad esempio, in Emilia, il problema l’avrebbero già affrontato perché lì
esiste un tessuto produttivo fatto di micro-imprese, di cooperative, di associazioni – del tutto assenti
nel nostro territorio - capaci di rispondere in maniera flessibile alle nuove sfide economiche. Il
sistema produttivo dell’area jonica dipende invece in maniera esclusiva dalla fabbrica dell’acciaio.
T: Nel tuo articolo parli di un cambio antropologico alla base di questa dipendenza, cioè del fatto che la fabbrica
totalizzante abbia cambiato il corpo ma soprattutto la mente dell’uomo “industrializzato” di Taranto. Spiegaci
meglio.
DF: Bisogna pensare che prima dell’industria pesante c’era solo l’agricoltura, poi siamo stati operai per decenni,
figli di operai, sorelle e mogli di operai, quindi
è difficile, da un punto di vista identitario,
pensarsi diversamente, ad esempio come Fino a quando le organizzazioni pubbliche
imprenditore, perché noi per cultura non possono guadagnare dalla presenza
abbiamo mai interiorizzato l’assunzione del dell’acciaieria non la chiuderanno mai
rischio imprenditoriale, abbiamo sempre preferito
la sicurezza del posto fisso da dipendente che
l’incertezza dell’ essere autonomi.
T: Quindi la mentalità è uno di quelli che tu chiami “meccanismi inibitori”, cioè quelle forze che si oppongono ad
un rinnovamento del tessuto produttivo del nostro territorio.
DF: La mentalità è uno di quei meccanismi che inibiscono il cambiamento. Questi meccanismi fanno sì che
ci sia una dipendenza del tessuto economico e sociale da un tipo preciso ed esclusivo di produzione.
Questo tipo di produzione permea completamente, essendo l’unico, i rami dell’intera società. Un altro
di quei “meccanismi inibitori” del cambiamento è la presenza della “cattiva politica”, che ha avuto tutto
l’interesse a far rimanere in vita questa produzione, seppure adesso in declino, perché serbatoio di voti.
T: È possibile che un fattore cognitivo come la ”mentalità” possa avere questa importanza?
DF: In sociologia economica si dice che le istituzioni plasmino lo sviluppo economico di un posto. Per istituzioni
intendiamo non solo quelle formali, quali: gli enti pubblici, i partiti politici, i sindacati, le associazioni ma anche
quelle informali come gli usi e i costumi, le attitudini ed appunto la mentalità di una comunità. Secondo me la
costruzione del “Sé” è molto importante così come la qualità delle relazioni e le pratiche comportamentali. Io
credo che alcune forme istituzionali, alcune pratiche di comportamento nella gestione della politica andassero
bene per un modello di produzione di massa e pubblico come quella degli anni ‘60, ‘70, ‘80 per cui la grande
Italsider e la politica clientelare andavano a braccetto. Si era creato questo equilibrio quasi perfetto, fatto di luci
e ombre, fra azienda, sindacati e politica per la gestione dei posti di lavoro all’interno della fabbrica. Quando poi
l’Italsider è stata privatizzata questo equilibrio è cambiato, l’Ilva ha cominciato a voler assumere i suoi operai più
autonomamente aumentando il suo peso nel gioco della governance; intanto però era l’unica fonte di reddito per
molti e la politica non ha saputo indirizzare l’economia verso altre mete. Questa gestione clientelare rispondeva
bene ad un tipo di produzione di massa che ora si va ridimensionando, mentre le nuove sfide dell’economia
della conoscenza, dei servizi, della creatività hanno molto più a che fare col merito che col clientelismo. Questo
la politica locale non sembra averlo capito: si pensa ancora a spremere il più possibile la già esistente produzione
anziché incoraggiare i giovani ad esplorare nuovi orizzonti. E questo, come dire, sa di vecchio e di muffa.
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ILVA- T: Riassumendo, come fa a rimanere viva una fabbrica già in declino dagli anni ‘90?
DF: Fino a quando le organizzazioni pubbliche possono guadagnare dalla presenza
DIPENDENTI dell’acciaieria non la chiuderanno mai (anche perché un’alternativa al momento
non c’è) così come non la costringeranno mai a ridurre sul serio l’inquinamento.
Prima era una questione di voti, adesso ci si accontenta del contributo di Riva nei lavori pubblici o di qualche
sponsorizzazione.
T: A proposito di questo, qualcosa sta cambiando; penso alle molte associazioni ecologiste che monitorano
costantemente la situazione ambientale tarantina. Ora vorrei chiederti una previsione sul futuro dell’Ilva
DF: Secondo me tra n. anni, in un modo o nell’altro, l’Ilva chiuderà perché le produzioni saranno de-localizzate in India
o in Cina. Ad un certo punto a causa proprio delle istanze delle associazioni ambientaliste o a causa dei limiti imposti
(si spera) dalla legge, l’Ilva comincerà a pagare i costi sociali dell’inquinamento in termini di risarcimento alle
famiglie delle persone morte, i costi aumenteranno e preferirà andare da un’altra parte dove non ci sono questi limiti.
T: Questa era una domanda che volevamo farti. Come vedi le nuove politiche pugliesi, o meglio quelle che a noi
appaiono, per forza di cose, nuove?
DF: Le politiche giovanili della Puglia sono assolutamente nuove perché puntano sulla creatività e sui giovani. E la
creatività, insieme con la formazione, è la base dell’innovazione: questi piccoli finanziamenti per la creazione di
micro-impresa o per lo studio all’estero, ad esempio, vanno in questa direzione, perché puntano a finanziare solo
idee intelligenti, promosse da giovani pugliesi ed impiantate sul territorio. Se un tessuto del genere fosse già ben
sviluppato, non credo che nessuno andrebbe più a lavorare in acciaieria.
Secondo me una Taranto del futuro avrebbe tutte le carte in regola e le potenzialità per sviluppare la “green
economy”: l’economia pulita basata su fonti di energia rinnovabili, sul riciclo dei materiali, proprio in opposizione
ad un passato fatto di fumi ed inquinamento.
Ci sentiamo molto più ricchi dopo questa conversazione, la ringraziamo per questa ora concessaci e le ricordiamo un passo
dell’articolo proprio a proposito di ecologia che ci ha colpito molto per la sua, crediamo, involontaria ironia. E cioè quando
dice: “L’intera provincia respirava secondo i ritmi e le modalità scandite dalla grande fabbrica”. Fa spallucce come a dire che
forse così involontario non era e ci saluta ricordandoci che è stata la politica non moderna né lungimirante a permettere
all’acciaieria di far quel che voleva, anche per quanto riguarda l’inquinamento.
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montemesola
Non ci piace la riapertura della piazza. E’ paradossale che a differenza di altri posti, dove
si cerca di valorizzare i centri urbani, rendendoli vivibili e a misura di uomo, a Montemesola
si compia un’improbabile “periferizzazione” del centro. Senza sapere poi alla luce di quale
Cosa esigenza si faccia ciò. Di una cosa siamo sicuri però e cioè che l’attuale pavimentazione non è
adatta al passaggio delle auto con conseguenti, molto probabili, danneggiamenti della stessa.
non Non ci piace la scarsa pubblicità dei lavori di giunta. Il sindaco Punzi si era presentato
negli anni passati come l’uomo della comunicazione, ad uso ai nuovi mezzi di informazione:
ci piace... aveva un giornale, un blog, un forum, un sito. Ora niente più. Come se fossero arrivati
all’obiettivo e quelli fossero semplici strumenti per conquistare il palazzo. Non solo la legge
ma anche il buon senso gli impongono la completa informatizzazione e pubblicizzazione dei
lavori del suo esecutivo. Ad esempio, ci farebbe piacere sapere che fine faranno i 2.000.000 (due
milioni) di euro che la Regione ha destinato a Montemesola nell’ambito dei fondi Pirp per la
...a noi di SEL riqualificazione delle periferie; vorremmo sapere inoltre i destini dei due parchi fotovoltaici
impiantati nel territorio montemesolino e subito stoppati.
Non ci piace questo modo di trattare Montemesola come un fatto personale, come una
cosa di proprietà, come se l’avessero vinta all’ippodromo. In democrazia chi vince governa,
non va a ritirare il premio al tabacchino. Amministrare, e lo chiarisce il Testo Unico degli Enti
Locali del 2000, è un fatto collettivo e deve seguire come fine il bene comune ed avere come
mezzo la trasparenza. Non si tratta di chiedere aiuto agli altri, come viene suggerito; si tratta,
invece, di cercare partenariati attivi col privato che possano aiutare il pubblico nella gestione
di settori per forza di cose eterogenei. Questi non si sognano nemmeno di poter fare le cose in
collaborazione con la società civile.
Non ci piace questo bluff della “clinica”, la sua strumentalizzazione a fini politici ed
elettorali. Vorremmo far notare che per partecipare al più infimo dei concorsi o ad un colloquio
di lavoro, per noi comuni mortali è d’obbligo presentare, tra le altre cose, un curriculum vitae.
Ora noi vorremmo sapere qual è il curriculum di questi personaggi che dovrebbero costruire
la clinica; cosa hanno fatto, qual è il loro assetto societario e finanziario? È assurdo che questa
ditta non abbia un sito internet, che non ci siano riferimenti alle loro attività da nessuna
parte, che non abbiano i soldi neanche per pagare il suolo pubblico ed interrogati da TRACCE
sull’argomento evitino accuratamente di rispondere; sembra di essere nel far west. Ma c’è
qualcuno che controlla? Poi arrivano a El Paso/Montemesola e dal palco promettono posti di
lavoro; su internet un sindacato a loro legato - che difende i diritti dei datori di lavoro (sic!) -
annuncia l’apertura di un ufficio nel nostro paese con conseguenti assunzioni per gli indigeni.
Ma si può accettare questo modo di fare? A maggior ragione poi che si scherza sulla pelle dei
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cittadini, in quanto la costruzione di una clinica d’eccellenza a Montemesola (fatta nel giusto
modo) avrebbe una potenzialità di crescita economica enorme.
Non ci piace il fatto che si stia vendendo la scuola materna per meri interessi di bilancio.
Venduta la scuola materna, non rimarranno più né i soldi né la proprietà ma sicuramente rimarrà
il debito, statene certi, e saremo più poveri di prima. Si cerchi invece di ripianare i debiti in altro
modo e destinare la scuola materna, se proprio non si vogliono più far entrare i bambini, ad
altro uso, ad esempio a Teatro Pubblico Comunale, dove possano trovare una giusta sede le
bande musicali del paese, una sala prove e di registrazione per chiunque ne faccia richiesta, un
auditorium dove si possano celebrare i saggi di fine anno dei nostri ragazzi: un teatro insomma
come negli altri paesi del mondo. È nella cultura il vero investimento, la vera ricchezza.
chi È...
...Naji-Al-Ali ?
Sui muri delle case palestinesi, nelle viuzze strette dei campi profughi, sulle magliette e nei ciondoli
portati da ragazzi e ragazze appare spesso un disegno con un bambino, Handala. Simbolo della
resistenza di tutto un popolo oppresso, quello palestinese, che ostinatamente non smette, come il
piccolo personaggio, di volgere lo sguardo verso i propri paesi, le proprie terre, la propria memoria
storica e i propri ricordi familiari, da cui sono stati barbaramente estromessi. E Handala non lo
Io milito per la causa palestinese e non per le singole fazioni palestinesi.Non diseg no per
conto di q ualcuno, diseg no solo per la Palestina
vediamo che di spalle perchè non è daccordo con la situazione attuale. Si volgerà verso noi spettatori
solo quando giustizia sarà ottenuta.
Handala è nato dalla penna di Naji-al-Ali. Lui, come il suo personaggio, ha visto all’età di 10 anni (nella
Nakba del 1948) il suo villaggio, Asciagiara (tra Nazareth e il lago di Tiberiade) distrutto dai coloni
israeliani. Allora la Palestina era colonia inglese e il movimento sionista, grazie alla dichiarazione
Balfour, trovò forza per incrementare l’immigrazione ebraica seminando terrore e distruzione tra le
popolazioni palestinesi, rompendo quella pacifica coesistenza fino ad allora esistente tra musulmani,
cristiani ed ebrei palestinesi. Con i sopravvisuti a quel massacro Naji ha passato il resto dell’infanzia
nel campo profughi di Ein Al-Hilwe, nel sud del Libano, costretto a vivere al limite della dignità
umana.
Tra spostamenti in cerca di lavoro e studi a singhiozzo, interrotti dai continui arresti perchè militante
nel movimento panarabo (da cui si ritira presto:”Io milito per la causa palestinese e non per le singole
fazioni palestinesi. Non disegno per conto di qualcuno, disegno solo per la Palestina”), intorno agli
anni ‘60 le sue vignette iniziano ad essere pubblicate da giornali libanesi e kuwaitiani. Primo arabo
ad utilizzare la vignetta con intenti politico-rivoluzionari, la sua arte diviene uno strumento di lotta.
Lo è durante la guerra civile libanese, quando dà animo agli oppressi dalle forze fasciste e sioniste,
Handala
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senza risparmiare critiche ai leaders palestinesi. E lo è anche durante l’invasione israeliana in Libano
dell’82: sotto i colpi delle armi incita con la sua penna alla resistenza prima e poi a non cedere alle
proposte di pace volute dagli USA (che, come da Naji intutito, portarono a massacri terribili come
Sabra e Shatila).
Ricercato, è costretto a nascondersi per mesi nei sotterranei di Beirut mentre a livello internazionale
continuano i riconoscimenti pubblici della sua arte e la pubblicazione di libri con sue vignette.
Nell’83 si trasferisce in Kuwait, dove vi è più libertà di stampa e di fronte a una resistenza palestinese
duramente colpita e indebolita sente ancor più viva la propria missione di guida e sostegno per la
causa del suo Paese. Ma quando scoppia la lotta fratricida tra le fazioni palestinesi lancia pesanti
accuse ai leaders dell’OLP, scatenando un’ennesima persecuzione verso di lui. Espulso da Kuwait,
rifiutato da tutti i paesi arabi, si rifugia a Londra, dove continua a collaborare con alcune riviste arabe,
fino a quando nel 1987 viene ucciso nella sua abitazione. Non si sa chi abbia sparato. Certo aveva un
silenziatore.
Il volto di Naji non si vedrà più. La speranza è che, almeno, presto si possa vedere il volto di
Handala.
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territorio
Il Parco Regionale della Terra delle Gravine, accanto alle spettacolari e imponenti
Architetture incisioni carsiche di gravine quali quelle di Laterza e Castellaneta, custodisce e tutela
di pietra altre gravine più piccole, meno note, ma non meno interessanti e ricche di fascino. Tra
queste, la gravina di Montemesola, ubicata a circa un paio di km a sud-ovest del paese, si
la gravina sviluppa seguendo un asse lungo appena 700 m. La gravina, seppur di breve lunghezza, è
una profonda e frastagliata spaccatura nel banco calcarenitico che interessa le alture che
di Montemesola circondano il secondo seno del Mar Piccolo di Taranto. E’ caratterizzata dalla presenza
di Franco Zerruso di una fitta macchia mediterranea punteggiata da alberi di alto fusto che ne ricoprono i
fianchi e il fondo, rigogliosi grazie alle acque che vengono convogliate nella gravina da
una piccola ma scenografica cascata, posta sul bordo settentrionale.
Questa gravina ha una peculiarità che la rende unica e che sarebbe molto opportuno tutelare e proporre ai turisti che,
piano piano, stanno scoprendo il Parco e le sue ricchezze, naturalistiche e culturali. La gravina infatti all’inizio dell’800 fu
interessata, su iniziativa del feudatario dell’epoca – il Marchese Andrea Saraceno – da un vasto piano di ristrutturazione
paesaggistica, che previde la costruzione di un alto muro recinzione nel quale si apriva una porta monumentale, la
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piantumazione di alberi ornamentali e da frutto, l’edificazione di un castelletto (detto di
Architetture Don Ciro) a cui si accede tutt’ora attraverso una scala su arco rampante, la sistemazione
di pietra di fontane. Furono ripulite alcune grotte presistenti, di antica origine, per consentire
la gravina l’accoglienza e la sosta di visitatori e gitanti, fra i quali anche i militari francesi di stanza
di Montemesola a Taranto nel decennio 1804-1814, che arrivavano sin quì alla ricerca di refrigerio e pace,
nelle lunghe e roventi giornate estive. Sul pianoro prospicente la gravina, nel banco tufaceo
segnato da antiche cave e da profonde carrarecce, è scavato un grande frantoio ipogeo che conserva i locali di stoccaggio
delle olive, la stalla e l’alloggio dei frantoiani; le macine invece sono andate perdute tranne una – di piccole dimensioni –
inglobata in un muretto a secco. Il contesto quindi è di grande interesse, e tra l’altro, anche di notevole valore archeologico,
in quanto una ricerca ivi condotta oltre 25 anni fa ha permesso di individuare una serie di frammenti ceramici risalenti al
Neolitico. Purtroppo tutto ciò versa in uno stato di completo abbandono, esposto agli agenti atmosferici e all’attacco
dei vandali, sempre attivi. Vale la pena stigmatizzare la perdita quasi completa di un grande affresco che ricopre le pareti
di una grotta posta sullo spalto ovest: vi era raffigurata una scena articolata in un paesaggio urbano fantastico di case, ponti e
castelli con in primo piano alcune figure umane non identificabili. Attualmente l’affresco è quasi completamente obliterato
da scritte ed incomprensibili segni fatti con vernice spray. Anche questa gravina come gran parte del nostro territorio attende
urgenti interventi di restauro e valorizzazione, ma forse necessita soprattutto di interventi di studio e conoscenza che, soli,
garantiscano un corretto percorso di tutela e l’interessamento – l’adozione, diremmo – della comunità locale.