Sei sulla pagina 1di 444

MARIO GABRIELI

dell’istituto Universitario Orientale di Napoli

Le letterature
della Scandinavia
Danese, Norvegese, Svedese, Islandese

Nuova edizione aggiornata

SANSONI - ACCADEMIA
e se m p la r e fu o ri c o m m e r c io
PIER LA D SST R tBU ZlO N E
Prefazione

Questa seconda edizione della Storia delle letterature della


Scandinavia, benché interamente rielaborata e ampliata, resta,
nelle linee essenziali, aderente al disegno tracciato dieci anni
fa, inteso a cogliere le caratteristiche dominanti dello svolgi­
mento letterario dei paesi nordici e a facilitare Vinquadramento
e la diretta lettura dei testi più originali e significativi.
Mentre nel Nord si scrivono ancora oggi storie letterarie
dei singoli paesi facendo gelosamente coincidere i confini cul­
turali con i confini politici1, lo straniero è più incline a rile­
vare i tratti d'una comune eredità scandinava, senza perciò
chiudere gli occhi sulle differenze reali, che Vaffinità linguistica
sembra dissimulare. Incontestabile appare infatti sin dai pri­
mordi Vunità culturale e linguistica (un*ininterrotta catena di
transizioni dialettali lega insieme le diverse parlate; e in certi
periodi storici è solo questione di adattamenti fonetici e mor­
fologici) di questi popoli germanici: danesi svedesi norvegesi
al centro, islandesi e altri gruppi minori alla periferia, non
smentita né da particolarità locali né da divergenti fattori sto­
rico-geografici.
L'antica letteratura norrena, fissata per iscritto fra il X II
e XIV secolo, ha certo connotati formali e sostanziali che non
ne consentono Vascrizione in blocco a tutta la Scandinavia;
ma indizi e documenti anteriori e coevi (epigrafici, archeologici
storici) e, più ancora, Vinoppugnabile testimonianza d'una po­
steriore tradizione nordica la cui eco non è ancor oggi spenta,
comprovano>Vesistenza d’un comune fondo culturale, di certe

1 Non vanno però taciute le singole voci di implicito dissenso (p. es.
P. Rubow, Herman Bang og fiere kritiske studier, Kobenhavn, 1958,
p. 64) o, sul piano pratico, gli sconfinamenti da una letteratura all’altra
(p. es. gli studi dello svedese Knut Ahnlund sull’opera narrativa del
danese H. Pontoppidan, 1956, o del danese Aage Kabell sull’opera del
norvegese Wergeland, 1956-57).
6 Le letterature della Scandinavia

caratteristiche generali e profonde, che l'esattezza di distin­


zioni filologiche non è valsa a smentire. Cosi parallelismi e
strette interdipendenze presenta sia la tarda evangelizzazione
del Nord, mediatrice d'un nuovo credo religioso, di nuove isti­
tuzioni civili, di nuova letteratura e arte, sia la storia della
Riforma protestante che attraverso le sue dirette filiazioni
— pietismo e illuminismo — imprime per secoli a tutta la
cultura scandinava un comune segno, ulteriormente approfon­
dito dal Romanticismo del secolo X IX \
D'altra parte Vunità del tema non esclude la pluralità delle
variazioni; e di queste si è fatta menzione nel corso del pre­
sente lavoro, incentrato si sulle figure e opere artisticamente
più significative, ma inteso anche a rilevare nomi e fatti che
indichino caratteristiche locali.
Intravista alla lontana dietro le maggiori letterature, fran­
cese inglese e soprattutto tedesca, la scandinava è apparsa sul
nostro orizzonte critico solo tardi, se si pensa che già del
preromanticismo europeo il « nordico » fu, accanto a Ossian,
una componente non trascurabile (scarsa o indiretta cono­
scenza ne ebbero, nell'insieme, sia i letterati e i viaggiatori ita­
liani che fra il Sei e il Settecento visitarono il Nord: il Negri
il Magalotti il Michelessi VAcerbi; sia, in epoca più recente,
studiosi di professione a germanisti dal De Gubernatis al Fa­
rinelli e al Manacorda). Per riparare appunto a questo ritardo
si è tracciato il presente disegno storico, indubbiamente sche­
matico e succinto, eppure forse non inutile se servirà a dare
un'idea dell'evoluzione letteraria dei popoli nordici attraverso
l'esame dei più grandi scrittori e poeti, molti dei quali ancora
ignoti alla media cultura italiana o soltanto noti in giudizi
stranieri.
Da ultimo una parola di chiarimento sulla bibliografia posta
in fondo al testo, a integrazione delle note a piè di pagina.
Questa bibliografia vuol essere soltanto di guida al lettore ita­
liano, indicandogli — in base a un criterio ovviamente sog­
gettivo ma forse non perciò sempre arbitrario — le principali
opere di consultazione su ogni singolo argomento. Rinunciando
di proposito a travasare da repertori cataloghi e periodici
specialistici, intere sfilze di titoli (che oltre tutto non avreb­
bero senso, data la situazione attuale degli studi nordici da

1 Chi vuole rendersene conto legga certe pagine dell’autobiografia del


danese H. Pontoppidan, Undervejs til mig selv, 1943 (il cap. intitolato
« ‘Drengeàr» ) .
Prefazione 7

noi), si è sempre fatto preciso riferimento bibliografico n é


citare determinati giudizi critici, nei quali confluissero i risul­
tati di studi precedenti, o che si segnalassero per propria
originalità.
M. G.
Roma 1969
ABBREVIAZIONI PIÙ FREQUENTI

Skjald (F. Jónsson, Den norsk-islanàske Skjaldedigtning Kobenhavn-


Kristiania 4 voli., 1908-1915).
Skald (E. A. Kock, Den norsk-islàndska skaldediktningen, Lund, 2 voli.,
1946-49).
N.N. (E. A. Kock, Notationes Norrcence, Lund, 5 voli., 1923-24).
Litt. hist. (F. Jónsson, Den norsk-islandske Litteraturs-historìe Koben-
havn, 3 voli., 1920-1924 2).
Altn. Litg. (Jan de Vries, Altnordische Literaturgeschichte Berlin-Leipzig,
2 voli. 1941-42; 2a ed. 1962-67).
Altg. D. (A. Heusler, Altgermanische Dzcbtung, Potsdam, 1941 2).
Edda Snorra (ed. critica islandese delTEdda di Snorri a cura di F.
Jónsson, Kobenhavn, 1931).
t. f. (Islenzk fornrit, ed. critica delle Saghe islandesi in corso di pubbl.
a cura del Fomritafélag di Reykjavik, 1933 sgg.).
I singoli carmi dell’Edda poetica sono citati sia nell’ed. di F. Jónsson
(Kobenhavn 1932) sia nelTed. del Neckel (Heidelberg, 1926).
ANF (Arkiv for nordisk filologi, Lund, 1883 sgg.).
AaNO (Aarboger for Nordisk Oldkyndighed, Kobenhavn, 1866 sgg.).
Edda (Nordisk tidskrift for litteraturforskningy Oslo 1914 sgg.).
APhs (Acta philologica scandinavica, Kobenhavn, 1926 sgg.).
BLM (Bonniers Litteràra Magasiny Stockholm, 1932 sgg.).
MM (Maal og Minne, Oslo, 1909 sgg.).
N.K. (Nordisk Kultur, v. bibliografia).
OoB (Ord och Bild, Stockholm, 1892 sgg.).
PBB (Paul und Braunes Beitràge tur Geschichte der deutschen Spràche
und Literatur, Halle, 1874 sgg.).
SUGNL (Samfundet HI Udgivelse af gammel nordisk Literatur, Koben-
havn, 1879 sgg.).
ZDA (Zeitschrift fùr deutsches Altertumì Leipzig-Berlin, 1841 sgg.),
ZDPh (Zeitschrift fur deutscbe Philologie, Halle, 1868 sgg.).
Capitolo primo
Medioevo pagano e cristiano

l ’e d d a p o e t i c a e l ’ e d d a p r o s a s t i c a ,
LA PO ESIA SCALDICA, L E SAGHE

La storia delPantica letteratura dei popoli della Scandi­


navia (« terra classica del germanesimo » — secondo la nota
definizione di J. Grimm) s’identifica in larga misura con la
storia della civiltà germanica nella lenta fase della conversione
al cristianesimo; anzi ne costituisce il documento comparati­
vamente più vetusto e più insigne per copia e valore di dati,
anzitutto intorno alla poesia, alla religione, al diritto.
È noto che della propria civiltà letteraria le stirpi germa­
niche non ci hanno tramandato alcun documento redatto in
età pagana, che le iscrizioni runiche — vera criptografia sim-
bolico-magica di stretto impiego epigrafico, per più secoli testi­
moniata attraverso una serie di diverse fasi storiche —
hanno, aldilà dei controversi problemi d’origine e d’interpreta­
zione, ben scarso pregio d’arte.
Quanto a noi è giunto è passato tutto al filtro del cri­
stianesimo.
Fu la missione cristiana a render possibile, con l’insegna­
mento del nuovo, la conservazione sia pur parziale dell’antico,
operando dovunque una rivoluzione anche civile, letteraria e
artistica che tra il quarto e l’undicesimo secolo, non certo paci­
ficamente, conquistò tutti i germani (dai goti di Ulfila ai
nordici) del centro e della periferia europea. Mentre però quelli
più vicini a Roma modificarono presto o persero senz’altro la
propria fisionomia culturale e in qualche caso anche linguistica,
il Nord scandinavo (anzitutto l’Islanda e la Norvegia), serbò
invece più a lungo i monumenti e le vestigia d ’una tradizione
spirituale che in varia misura fu comunemente germanica.
Fattori geografici (mille chilometri separano l’isola atlan­
tica dal più vicino lembo del continente europeo), politici, so­
ciali e religiosi (assenza d’un potere regio accentra tore e alleato
10 Le letterature della Scandinavia

della chiesa, conversione a opera di missionari d’origine germa­


nica) ritardarono qui la vittoriosa diffusione del verbo cristiano
e della cultura della Romania, preservando forme autoctone
di costume sociale e d’arte altrove scomparse e assai vagamente
testimoniate persino in terre confinanti come Svezia e Da­
nimarca.
Non diversamente da quella di altri popoli, l’antica lette­
ratura nordica fiori dunque per secoli in anonima tradizione
orale e giunse solo tardi a quella forma scritta nella quale ci
è dato oggi conoscerla. Che su basi congetturali e con l’aiuto di
scienze ausiliarie si sia tentato di risalire indietro nel tempo
e di far luce su tale sfuggente tradizione, è ben comprensibile,
soprattutto da parte di chi (tedeschi, svedesi, danesi) nella
propria lingua quasi nulla ha da porre accanto al cospicuo
patrimonio letterario* superstite norvego-islandese o norreno1
— come per dotta consuetudine si suole chiamarlo.
Si è voluto vedere nelle iscrizioni runiche — in prosa a ca­
denza ritmica allitterante che caratterizza i primordi della civil­
tà di molti popoli, come in verso eddico e scaldico — tracce
d’una poesia epico-mitico-magica anteriore a quella a noi nota
dell’età vichinga; tracce di una poesia che, sul piano culturale,
dovrebbe fungere da anello mancante nella catena che salda
cronologicamente l’età vichinga alla precedente età delle grandi
migrazioni dei popoli.
Ora non è forse inutile precisare che l’esistenza di tale
poesia ovviamente poggia su una ipotesi — giustificata certo
dalla maturità dei caratteri esterni e interni con i quali si pre­
sentano le più antiche fonti scritte — e che il divario quali­
tativo fra poesia « runica » da una parte e poesia eddico-scal-
dica dall’altra è tale da non permettere appunto altro che ipo­
tesi al ri'guardo. Per dissipare ogni possibile equivoco (cui
inducono storie linguistiche e anche letterarie) va dunque chia­
rito che il rapporto tra i due tipi di poesia non ha nulla a che
fare con quello che passa, per esempio, in campo romanzo,

1 L ’espressione dgnsk tunga (lingua danese) nei testi nordici dei secoli
XIII e XIV alternata a quella di norron tunga o norront mài (lingua
norvegese) — Snorri nel Prologo della Heitnskringla le usa indiscrimi­
natamente — riflette con probabilità le denominazioni etniche date ai
nordici (e al loro idioma, ben poco differenziato in età vichinga) dai
popoli occidentali con i quali più spesso vennero in contatto: anglosas­
soni, sassoni, frisoni, e poi entrate nelPuso culturale indigeno (cfr. Einar
Ól. Sveinsson, Islenzkar bókmenntir i fornòld, I, Reykjavik, 1962, p. 5
che riprende le idee di P. A. Munch sull’intera questione).
Medioevo pagano e cristiano 11
fra la lirica provenzale da una parte e gli stilnovisti e Petrarca
dall’altra.
Si suole ad esemplificazione di antecedenti poetici dei car­
mi eddici e scaldici citare gran copia d’iscrizioni runiche com­
memorative e celebrative, e in primo luogo quella più antica
(ca. 400) su uno dei celebri corni d’oro di Gallehus (Schles­
wig): « ek hlewagastiR holtijaR homa tawido » (Io Hlégestr
figlio di Holt il corno feci). Ma, nonostante l’indubbio valore
storico e fonetico-morfologico, la formulare schematicità di
questi due versi brevi allitteranti ben poco ha da offrire al
gusto estetico. Non diversamente le tanto discusse iscrizioni:
norvegese di Eggjum (Sogn; ca. 700), svedese di Rok (Óster-
gòtland; ca. 800) e le due danesi di Jelling (Jylland; ca. 900)
non presentano, aldilà del loro interesse linguistico-culturale e
figurativo, che i connotati esterni della poesia eddica e scaldica
(affinità metrico-lessicali, costrutti tipici dell’uso poetico, allu­
sioni 1 a nomi e fatti mitico-eroici). In qualche altra come per
esempio quella di Gripsholm (Sormland; c. 1050): « PaeiR
foru draengila - fjarri at gulli - auk austarla - aerni gafu, - dou
sunnarla - a Sasrklandi » (Partirono da valorosi,^ lontano in
cerca d’oro, e a oriente dettero cibo all’aquila [cioè uccisero
molti nemici], morirono a sud in terra saracena) può certo
colpire la concisione epigrammatica con cui, quasi in cifra, è
tramandato un fatto notevole che si articola su tre noti simboli
dell’eroismo vichingo: la sete dell’oro, il mare, il sangue; ma si
tratta per lo più di una suggestione che scaturisce dall’inattesa
rottura del nudo linguaggio formulare in uso: non ci troviamo
davanti a microcosmi di poesia, a parole di risonanza profonda
che attraverso le lontananze del tempo e dello spazio ci tra­
smettono la vibrazione d’un sentimento individuale variamente
atteggiato.
E qui si offre da sé il richiamo a quelle che nelle più o
meno indirette testimonianze di scrittori antichi (Tacito, Gior­
dane e altri)2 dovettero essere le forme primitive di poesia
germanica, commemorativa genealogica encomiastica, nell’area
continentale: espressione di una mentalità tribale, di senti­
menti atavici collettivi; anche se qui, a differenza di quanto
per lo più avviene nell’epigrafia runica, il nome del poeta
rimane costantemente nell’ombra.

1 S. B. F. Jansson, Runinskrifter i Sverige, Stockholm, 1963 pp. 37 e 40.


2 Per una esauriente ricostruzione, sempre però di carattere congetturale,
v. A. Heusler, Altg. D. p. 87 sgg.
12 Le letterature della Scandinavia

Chi voglia limitare il proprio orizzonte alla produzione in


cui predomini l’intento artistico, non può risalire nel tempo
oltre la poesia, con ogni verosimiglianza fiorita in età vichinga
(sec. IX-XI): cioè i carmi eddici, scaldici e le Saghe.
Fu in quei secoli d’inquieto fermento, d’intensa espansione
materiale e spirituale, di sete di avventura e di conquista ma
anche di assimilazione dei più disparati elementi culturali stra­
nieri, di compenetrazione di vecchio e di nuovo, che i nordici
elaborarono una materia così composita e eterogenea nelle
strutture del carme mitico, del carme eroico e della Saga.
Aldilà delle frange letterarie, di cui abbondano i tardi
documenti norreni per lo più panegiristici, e delle scarne notizie
dei coevi cronisti e annalisti occidentali spiranti fanatismo reli­
gioso e imbelle esecrazione, alcuni tratti di questo quadro spic­
cano con sufficiente chiarezza.
Guerrieri e contadini a un tempo, i vichinghi1 vivono in­
sieme sotto la guida d’un capo liberamente eletto nel primi­
tivo organismo familiare e tribale, stretti dal sacro vincolo
della solidarietà del sangue. Spinti da indomito coraggio al­
l’avventura corrono i mari, combattono, conquistano, predano
città chiese conventi, commerciano anche, pronti sempre però,
appena padroni d’una terra, a stabilirvisi e a colonizzarla; per
impugnar poi nuovamente le armi quando l’avidità del gua­
dagno, l’amore del pericolo e le lotte intestine non li costrin­
gano a riprendere il mare in cerca di altri lidi. La debolezza
delle difese periferiche dell’impero carolingio e insieme la pro­
pria eccezionale perizia nautica e bellica li incoraggia a intra­
prendere scorrerie sempre più lontane e rischiose, ben oltre i
confini della Scandinavia: a occidente, dove non giovano a
fermarli né le fumanti rovine dei monasteri d’Inghilterra e
d’Irlanda né le flebili litanie della chiesa franca: « A furore
Normannorum libera nos, 'Domine! »; e a oriente lungo il
corso del Dnepr e del Volga, dove l’espansione apparentemente
intrapresa con più costruttivi intenti, viene suggellata dal loro
trionfale ingresso nella guardia del corpo del « basileus » bi­
zantino. Dopo essersi attestato dagli sbocchi del Tamigi e della
Senna fino a Costantinopoli, serrando l’Europa come una mor­

1 Controverso è l’etimo della parola: dalPags. wìc cioè « accampamento »,


del tipo usato appunto dai nordici per le loro imprese militari? o dal
norreno vi - baia dove i vichinghi solevano nascondersi sulle loro lunghe
navi durante le imprese piratesche (viking)?
Medioevo pagano e cristiano 13

sa richiudentesi nel Mediterraneo, il « ferus victor » si lasciò


prendere e assimilare da superiori civiltà. Ma sotto i climi
più diversi e a contatto delle più diverse genti, le virtù e le
passioni e le credenze tradizionali di questi uomini non
mutano1: amore della libertà individuale, della forza, del­
l’onore, della fama, della guerra, del gioco, della poesia, prodi­
galità verso gli ospiti e lealtà verso i capi e cieca remissione
al fato in cui appare radicata la loro religione manistica e
magica.
Quale presumibilmente fu l’ambiente in cui nacque la
poesia vichinga?
Il campo di battaglia e il tumulo del guerriero, l’aula
regia e l’assemblea giudiziaria, il tempio, la nave, la casa del
contadino. Qui lo skàld2 o poeta celebrò le glorie dei principi
e dei capi o incitò alla pugna o commemorò in un linguaggio
tolto al mito religioso e alla leggenda epica le gesta degli avi
o di altri esemplari eroi del passato anche comunemente ger­
manico, qui il « Ipgspgumadr » o legista pronunciò dinanzi
all’assemblea dei liberi (ping) le antiche formule giuridiche e
le genealogie memorabili, il « godi » o il « f>ulr » compì qui i
sacrifici cultuali invocando la protezione degli dei, qui il
« sagamadr » narrò le Saghe.
In un’età illetterata in cui vecchio e nuovo si affrontano
e si confondono (una concezione sostanzialmente giuridico-
sociale della vita di fronte a un’altra individualistico-soterio-
logica) occorre far larga parte a stratificazioni cronologiche, a
sovrapposizioni, a fraintendimenti e contaminazioni molteplici,
rinunciando molto spesso a distinzioni nette nell’ambito d’un
materiale letterario e religioso indubbiamente sincretistico.
Scrìtti dunque in Islanda (forse anche in Norvegia e nelle
isole britanniche) e in islandese o, come s’è detto, in norreno,
da ecclesiastici o da laici non ignari di cultura ecclesiastica,

1 Einar Ól. Sveinsson, cit. p. 11, ricorda acutamente il detto di Orazio:


« Coelum, non animum mutant qui trans mare currunt ».
2 Tutt’altro che perspicua la figura, la funzione e retimologia dei ter­
mini skàld (ch’è un sostantivo neutro) e pulr. La figura dello skàld
nordico sembra corrispondere, da un punto di vista storico, al poeta di
corte, allo scop anglosassone e allo scof tedesco antico (secondo G. Bae-
secke, Vor- und Frugeschichte des deutschen Schrifttums I [v. biblio­
grafia] p. 487 da riconnettere a scbdpfen = creare). Per le varie ipotesi
sui termini skàld e pulr v. Einar Ól. Sveinsson cit., pp. 93-95 e Jan
de Vries, Altn. Litgì 19Ó22, I, pp. 31-34.
14 Le letterature dèlta Scandinavia

sono quasi tutti i testi eddici scaldici e le Saghe che servono


a illuminare la più antica civiltà dei popoli nordici e talvolta,
indirettamente, delle stirpi germaniche continentali e anglosas­
soni; ma si tratta di fonti tarde, fissate sulla pergamena non
prima del sec. XIII, quando cioè la missione cristiana aveva
già dietro di sé più secoli di attività evangelizzatrice e gli ideali
cavallereschi già cominciavano a penetrare nell’estremo Nord.
Indubbiamente però i tre « generi » letterari ebbero una lunga
non precisabile preistoria orale, le cui punte estreme — almeno
per la poesia — è verosimile risalgano fino all’età delle migra­
zioni barbariche. Ciò che da un punto di vista documentario
sembra dunque l’inizio d’una letteratura è invece, a causa di
questo singolare paradosso, il suo epilogo storico.
Travagliata nell’intimo dalle lotte oligarchiche per il po­
tere, anche la remota Islanda perdeva nel 1262 la sua indipen­
denza politica per divenire de facto un feudo della corona nor­
vegese: il suo libero parlamento cessava d’esistere come forza
direttiva della vita politico-sociale per essere gradatamente sop­
piantato dalle istituzioni dell’alto Medioevo: la monarchia uni­
taria d’ispirazione franco-carolingia e la chiesa gerarchica; la
sua società legata a primitive concezioni etico-religiose di parti­
colarismo tribale e di fatalismo eroico si apriva ai nuovi in­
flussi e ideali stranieri; la sua cultura oralmente tràdita, epica
storica e poetica veniva codificata in volgare da quanti ancora
ne intendevano l’intimo spirito, pur appartenendo ormai ai
nuovi tempi.
Certo non va dimenticato che anche nel Nord ingente parte
del materiale documentario deve essere andata distrutta, forse
alterando cosi la nostra prospettiva storica su problemi fon­
damentali. Ed è praticamente esclusa ogni possibilità di even­
tuali recuperi (per fare un esempio comparativo si pensi a ciò
che ha significato il ritrovamento dei Mss. del Mar Morto per
il Vangelo giovanneo). Si aggiunga poi che della maggior parte
dei documenti rimastici s’ignora autore data luogo d’origine;
che sia i carmi eddici come le Saghe e i versi scaldici in queste
interspersi ci sono pervenuti in tardi apografi, anzi spesso in
copie di copie e che neanche per le Saghe le numerose varianti
(della Njais saga per esempio esistono ben ventuno manoscritti
pergamenacei, tredici della Egilssaga) giovano a eliminare passi
irrimediabilmente guasti, interpolazioni e alterazioni. Le diffi­
coltà della ricostruzione e dell’interpretazione testuale aumen­
tano poi a causa della lacunosa conoscenza del norreno, specie
della lingua poetica strutturalmente molto arcaica (su circa
Medioevo pagano e cristiano 15

40 carmi eddici si contano 600 àpax legomena, per non dire


dei versi scaldici, la cui tradizione manoscritta è così corrotta
da non consentire che rari tentativi di emendazione) e soprat­
tutto dei modi in cui avvenne il passaggio dalla tradizione orale
alla scritta.
Non stupisce perciò l’enorme congerie d’ipotesi, avvicen­
datesi in incessante serie di corsi e ricorsi, né la molteplicità
ed eterogeneità delle ricerche linguistiche storico-filologiche re­
ligiose giuridiche etnologiche archeologiche, né l’applicazione
alla letteratura norrena di criteri esegetici usati nella filologia
neotestamentaria (il problema delle fonti dei « sinottici »), ome­
rica (come nel 1832 il formalista G. Hermann postulò una
Ur-Ilias e una Ur-Odyssee, non è mancato nel 1948 chi come
H. Schneider ha tentato la ricostruzione di una Uredda), ro­
manza (le idee di J. Bédier sull’epica francese sono all’origine
della concezione innovatrice di Sigurdur Nordal sulla Saga)
— tante sono le incognite legate alla plurisecolare tradizione
orale in cui quella letteratura visse, prima di essere accolta
nell’interpretazione cristiano-medievale.
Un bilancio odierno non può pretendere di andar oltre la
costatazione di dati approssimativi; ché neanche l’indagine lin­
guistica e stilistica è stata sufficiente, come si credeva più di
mezzo secolo fa, a risolvere molti problemi critici fonda-
mentali *.
Come s’è già detto, e la poesia eddica e scaldica2 e le Saghe,
non diversamente della restante cultura norrena, ci è stata tra­
1 Jón Helgason N. K. cit. p. 31.
2 L ’ars poetica dello storiografo islandese Snorri Sturluson (1179-1241)
(nota già ai rimatori del secolo seguente appunto col nome di Edda —
le varie etimologie proposte per tal nome non sono persuasive: né quella
che lo fa derivare da ó d r= poesia, per difficoltà di passaggi fonetici; né,
per motivi di congruenza logica e storica, quelle che lo riportano a Oddi,
dove Snorri fu educato, o al sostantivo « ava »: cioè o « libro di Oddi »
o « poesia antichissima ») — è così chiamata in uno dei principali Mss.
del 1300 c. (Upsaliensis, De la Gardie 11, 4°) dove è detto: « Bók pessi
heitir Edda; hana kefir saman setta Snorri Sturlu som... » cioè: questo
libro si chiama Edda; lo ha composto Snorri figlio di Sturla... — Quando
nell’età delle riesumazioni antiquarie, Tanno 1643 il vescovo islandese
di Skàlholt Brynjólfur Sveinsson trovò un Ms. anepigrafo del sec. XIII
contenente una trentina di carmi norreni mitici gnomici e eroici (oggi
a Kobenhavn Codex Regius 2365, 4°) utilizzati da Snorri nella sua Edda,
battezzò con questo nome anche il Ms. trovato, e, attribuitolo erronea­
mente al celebre dotto islandese Saemundr frodi (1054-1133), lo fece tra­
scrivere e ne intitolò la copia Edda Seemundi multisci. Abbiamo dun­
que oggi un codice adespoto é anepigrafo chiamato Edda poetica o sem­
plicemente Edda e un'Edda prosastica attribuita dalla tradizione a Snorri,
16 Le letterature della Scandinavia

mandata in Mss. databili dal XII al XV secolo e oltre. Criteri


ortografici e paleografici assegnano i più antichi al 1200 ca.
e i più alla penna di islandesi, anche se non va dimenticato
che la maggior parte degli islandesi erano norvegesi emigrati
nell’isola atlantica nel IX secolo, i quali poi a lungo manten­
nero molteplici vincoli con la terra d’origine. Perciò se la
poesia e la prosa narrativa ebbero eccezionale fioritura soprat­
tutto in Islanda e per merito d’islandesi, è innegabile che la
materiale uguaglianza e della lingua e, in larga misura, dei
temi trattati (per non dir altro la massima opera narrativa di
Snorri, la Heimskringla, è una storia dei re norvegesi dalle ori­
gini mitiche all’inizio delle guerre civili!) ci riporta a un am­
biente culturale norvegese concordemente attestatoci dalla tra^
dizione.
Nella forma attuale del menzionato Codex Regius i carmi
délVEdda sia mitici sia gnomici sia eroici, interfoliati da brevi
prose didascaliche (preamboli del redattore o frammenti di
Saghe perdute?) sono disposti in un certo ordine, che proba­
bilmente rispecchia le idee più o meno recepite di chi con
gusto antiquario curò la intera raccolta, forse attingendo ad
altri Mss. o alla propria o altrui memoria.
Il primo, Vgluspà 1 (vaticinio della veggente) cosmogonico

il quale appunto cita e commenta in prosa gran parte della materia poe­
tica attinta all’altra raccolta.
La tradizionale distinzione fra poesia « eddica » e poesia « scaldica »,
d’uso nella terminologia specialistica moderna, non ha fondamento nella
tradizione. Innegabili sono certo differenze di contenuto e di forma ma
anche punti di contatto e aspetti comuni, tanto che qualcuno (Jan de
Vries cit., I, pp. 89-110) ipotizza una fase storica in cui il carme scaldico
fu composto in metri esclusivamente eddici. Snorri cita indistintamente
nella sua Edda i carmi anonimi déll’Edda poetica e i versi scaldici di
noti autori, ne esemplifica i diversi metri, menzionando da ultimo e
senza una parola di commento i metri tipicamente eddici; ma nella sua
opera storica (Heimskringla, ‘Haralds saga hardràda’, c. 91) riporta l’epi­
sodio di Araldo il Severo che, pronto alla battaglia, compone e recita
i medesimi versi prima in stile eddico, poi scaldico, dove la diffe­
renza fra i due stili — non esplicitamente rilevata nel testo — fa pen­
sare a quello della retorica medievale fra « ornatus facilis » e « ornatus
difficilis ». Più esatto sarebbe forse parlare di due diverse tendenze del
gusto che, invece di escludersi, non mancano di influenzarsi a vicenda.
1 II titolo si trova nelYEdda snorrica; parimente più titoli dei carmi con­
tenuti nel Regius si trovano non già in questo, ma in tarde copie cartacee
del Seicento; né appare perspicua la diversa denominazione dei singoli
carmi: p. esempio mài riferentesi tanto a carmi mitico-gnomici, quanto a
carmi eroici contenenti parti dialogiche; cosi kvida da kveda = recitare.
Medioevo pagano e cristiano 17

profetico escatologico, sembra collocato a tal posto proprio in


virtu del suo intrinseco carattere oracolare: la creazione del
mondo dal caos primordiale, dei giganti, degli dei, degli uomi­
ni, dei nani, è qui rievocata da una indovina; ella narra poi
deiretà delPoro, della guerra fra le due divine stirpi degli Asi
possenti e bellicosi (Ódinn, Pórr ecc.) e dei Vani (Njprdr, Freyr,
Freyja) custodi della pace e della fecondità; dei giuramenti cui
gli dei vengono meno, introducendo cosi la visione apocalit­
tica della imminente fine del mondo (il ragnargk o ragna-
rgkr = destino delle potenze o crepuscolo delle potenze)
preannunciata da sinistri segni di declino morale e descritta
come conflagrazione universale nella quale celesti, inferi e
uomini tutti periscono. Un nuovo mondo, pacificato, risorgerà
dalla tragedia cosmica — secondo la predizione della veggente.
Nel secondo, Hàvamàl (Massime delPEccelso) è consuetu­
dine vedere un carme di carattere sapienziale, composito per la
materia e per la forma. Sentenze e consigli di vita pratica^
vengono impartiti impersonalmente senza alcun cenno a divi­
nità pagane o cristiane: prudenza e diffidenza nel trattare gli
uomini; specialmente saggezza, dosata con quasi classica mi­
sura — meddsnotr dev’esser l’uomo, cioè equidistante dalla
stoltezza come dalla sapienza, secondo l’ideale di vita qui pre­
dicato.
Poi, senza coerenza di nessi, si passa ad altre strofe narranti
avventure o disavventure erotiche di Odino e illustranti il
tema della falsità del cuore femminile; ségue il racconto di
come Odino facesse invaghire di sé e poi abbandonasse la gi-
gantessa Gunnlgd per impossessarsi dell’idromele ispiratore
dell’arte poetica. Quindi un’ampia sezione parenetica del car­
me rivolge ammonimenti morali e salutiferi a un ignoto per­
sonaggio: Loddfàfnir; mentre, nell’ultima parte, il racconto
di Odino che, per penetrare il segreto della magia runica « sa­
crifica sé a se stesso » restando per nove notti consecutive
impiccato a un albero e trafitto da una lancia, ci dà una cruda
immagine dell’estasi sciamanica e dei connessi riti iniziatici1.
Pure di carattere magico è la chiusa del carme elencante gli
scopi pratici, cui sono rivolti diciotto diversi incantesimi.
Sempre a Odino ci riportano il terzo, Vafprùdnismàl e il
quarto Gnmnismàl, ai quali ora si è voluto attribuire valore
testimoniale di antica magia pagana, ora di tarda compilazione

1 A. G. Van Hamel, ódinn hanging on the tree, APhS 7, 1933 p. 285


sgg.; e F. R. Schroder in ANF 49, 1933, pp. 263-278.
18 Le letterature della Scandinavia

didattico-antiquaria. Il deus maximus germanico, travestito da


viandante, e il gigante Vaf]?rudnir si misurano — pena la
vita — in una drammatica gara di sapienza mitologica che si
conclude con la vittoria del primo; cosi, sempre sotto men­
tite spoglie, Odino ricompare, col nome di Grimnir, dinanzi al
re Geirrodr per sottoporsi a un vero supplizio sciamanico che
gli dà modo di dimostrare il suo essere proteico e il suo sa­
pere mitologico.
Skirnismàl, ritenuto da alcuni una specie di dramma ritua-
listico-simbolico 1 per il tema trattato e per la vivacità dialo­
gica e le sequenze sceniche, narra del servo del dio Freyr,
Skirnir, il quale per conto del proprio padrone va a chieder la
mano della gigantessa Gerdr e finalmente l’ottiene grazie a ma­
giche esecrazioni e crude minacce.
Se entro la cornice del Regius Odino appare come il pro­
tagonista dei primi carmi, Pórr è più o meno al centro dei se­
guenti come Hdrbardsljód, Hymiskvida, Lokasenna, Pryms-
kvida, Alvissmàl. Gli Hdrbardsljód (carme di Barbagrigia) met­
tono a confronto i due grandi Asi, Odino e Pórr, ma presen­
tandoli come figure comiche. Il primo, in veste di barbuto
traghettatore, bisbetico e caustico, non vuol far passare il se­
condo, che ha l’aspetto di uno scalzo e goffo contadino. Ne
nasce un alterco plebeo fatto di vanterie, d’insinuazioni e di
beffe che può far pensare alla forma popolaresca del « con­
trasto ».
Comica o eroicomica è anche la Hymiskvida, dove le gesta
prodigiose di Pórr, che si reca dal gigante Hymir in cerca
d’un enorme calderone per la birra degli dei, hanno un sapore
favolistico molto affine ad alcuni racconti della Edda di
Snorri.
Tutta comica è invece la prymskvida, che ci fa assistere a
una vera e propria farsa: il dio Pórr, aiutato dall’astuto Loki
scende vestito da sposa nella dimora dei giganti, e, spaccian­
dosi per la dea Freyja di cui è invaghito il gigante Prymr, si
siede al banchetto nuziale e mangia e beve smisuratamente,
finché, recuperato il suo martello, non fa strage dei commensali.
Brandendo il taumaturgico martello ricompare Pórr anche
nella dialogico-drammatica Lokasenna (contesa di Loki); questa
volta però solo nell’epilogo del carme e per fugare il maligno
e mendace Loki, che dà nome e vita all’intero componi­
mento. Benché figlio di giganti, Loki, a causa del patto di

1 M. Olsen, Fra gammelnorsk myte og kultus, MM, 1909.


Medioevo pagano e cristiano 19
sangue altra volta stretto con Odino, è imparentato anche agli
Asi; e tra questi, raccolti a convito, egli ora s’insinua per dileg­
giarli e svergognarli con un fuoco di fila di accuse, alle quali
brio e irriverenza, oscenità e scherno dànno un sapore ari­
stofanesco.
Un’altra vittoria riporta Pórr, nei dialogici Alvissmàl (Detti
di Alviss), sul nano Alviss, ma questa volta anziché col mar­
tello, con l’astuzia. La prova di sapienza linguistica, cui il dio
sottopone il nano prima di concedergli in sposa la figlia da
questo agognata, si prolunga per una notte intera; e al sorger
del sole l’ingenuo Alviss — in ossequio a una credenza po­
polare germanica — viene mutato in pietra.
Quasi tramite tra i carmi mitico-gnomici e quelli eroici, la
Vglundarkvida, nota anche fuori del Nord, narra della ven­
detta ferocissima del fabbro Vplundr, il quale mutilato e rele­
gato in un’isola dal re Nidudr, solo intento a soddisfare la
propria sete di oro, ne violenta la figlia, ne uccide i figlioletti
e invia poi al re e alla regina i due crani incastonandovi finis­
simi lavori di orafo.
Anche i veri e propri carmi eroici sembrano qui material­
mente disposti secondo un criterio di affinità tematica attorno
a nuclei e figure più o meno storico-leggendari: alcuni intorno
a un eroe di sicura origine settentrionale, Helgi Hundingsbani,
considerato però come Vglsungo cioè fratellastro del nibelun­
gico Sigfrido, e intorno a Helgi Hjgrvardsson. Segue poi una
genealogia in prosa, con cui ha inizio l’ampio ciclo dei carmi
sulla stirpe dei Vglsunghi e anzitutto su Sigurdr Fàfnisbani
(il Sigfrido che nel Nibelungenlied è esemplare rappresentante
dell’età « cortese ») massimo eroe di tutte le stirpi germaniche
e protagonista delle vicende fatali all’intera sua stirpe (in
prosa tale leggenda si ritrova sia nella tarda e composita
Vglsungasaga, che è servita in parte a integrare una lacuna
di otto fogli fra i 35 del Ms., sia in varia forma nella Pi-
drekssaga e nella Edda snotrica).
Composta di vari motivi e frammentaria è la Helgakvida
Hjgrvardssonar sull’amore di una gigantessa per Helgi Hjgr-
vardsson, il quale invece appartiene alla valchiria Svàva, e sulla
tragica rivalità fra Helgi e suo fratello Hedinn appunto per
l’amore di Svàva.
Sempre intorno al tema d’amore e morte (per vendetta) si
svolgono gli altri due carmi intorno a Helgi Hundingsbani; il
secondo dei quali frammentario e accompagnato da una dida­
scalia prosastica. Nel primo, che ha più carattere di conven­
20 Le letterature della Scandinavia

zionale vicenda eroica, Helgi (nato quasi con Parmatura) uc­


cide, per ignoti motivi, Hundingr; e poiché il padre della di­
letta valchiria Sigrun vuole invece darla in sposa a Hgdbroddr,
Helgi si prepara a scontrarsi con lui. Qui si interrompe il com­
ponimento tutto pervaso di spiriti guerrieri e di lampeggiar
d’armi. Più tragico e destinato ad avere eccezionale fortuna nel
Romanticismo europeo è il secondo, già adombrante il tema
della Lenore del Burger. Qui il grande sconfitto è Helgi. Ucci­
sore del padre e dei fratelli di Sigrùn, è finalmente ucciso dal
più giovane di questi, Dagr, unico scampato al massacro. E in
una celebre scena (circa venti strofe dialogiche) l’eroe, assunto
nella Valhalla, ritorna al suo tumulo per l’ultima notte d’amore
con Sigrùn.
Dedicati alla leggenda di Sigfrido sono gli ultimi quindici
carmi eroici del Regius. Tralasciando qui quanto la Vglsunga-
saga narra sugli avi di Sigfrido: una fosca storia di odi fa­
miliari e di disumane vendette, troviamo nel Regius anzitutto
la Gripispà (profezia di Gripir), che riassume in forma di pre­
dizione d’uno zio di Sigfrido, Gripir, la vita le gesta e la
morte dell’eroe — ma in modo diverso dagli altri carmi. Re-
ginsmàl, Fàfnismàl e Sigrdnfumàl ritessono in chiave.mitico-
fiabesca la sua giovinezza e le sue imprese: allevato dal fabbro
Regin, Sigfrido s’impadronisce di un tesoro sul quale grava
la maledizione del nano Andvari cui è stato imposto di fab­
bricarlo; e tale maledizione, che ha all’origine la perfidia di
Loki, sarà causa di morte a tutti coloro che tale tesoro agogna­
no: da Hreidmarr, padre del nano, ai fratelli di questo: Fàfnir
(che assume sembianze di drago), Otr (che assume sembianze
di lontra) e Regin, giù fino a Sigfrido stesso e ai principi
burgundi (o nibelunghi) che gliene contendono il possesso.
Esperto di magia, Sigfrido desta quindi dal lungo letargo la
valchiria Sigrdrifa e da lei apprende, fra molti consigli di
saggezza, i segreti della magia runica.
La lacuna del Regius spezza a questo punto il filo narra­
tivo della leggenda che riprende nel Brot af Sigurdarkvidu
(frammento del carme di Sigfrido — cosi chiamato perché le
sue diciannove strofe presuppongono una prima parte scom­
parsa ma parafrasticamente testimoniata nella Vglsungasaga,
la quale — secondo la geniale ricostruzione di A. Heusler 1

1 Sui legami fra la prosa della Vglsungasaga e i carmi sui quali si fonda:
Sigrdrtfumàly Brot, Gudrunarkvida I, Sigurdarkvida in skamma, Helreid
Brynhildar} come pure su altri affini, ipotizzati da Teusler, e su fonti
Medioevo pagano e cristiano 21

avrebbe utilizzato anche altri carmi perduti intorno alla stessa


leggenda).
Giunto nel regno di Gjuki sul Reno, Sigfrido si lega median­
te giuramento di sangue ai figli del re, Gunnarr e Hggni (Gun­
ther e Hagen del Nibelungenlied) e ne sposa la sorella Gudrun
(la Crimilde del Nibelungenlied); conquista poi, sotto le mentite
spoglie di Gunnarr, la vergine guerriera Brynhildr (che a dif­
ferenza della Gripispà, la Vglsungasaga identifica con Sigrdrifa)
attraversando una magica cortina di fiamme che ne circonda
il castello. A Brynhildr, che crede di essere stata conquistata
da Gupnarr, Gudrun svela poi per gelosia la realtà dei fatti; e
Brynhildr, offesa dall’inganno subito, incita Gunnarr a uccidere
chi l’ha conquistata. Tale è appunto il tema del Brot, dove
Brynhildr, soltanto dopo il feroce assassinio da lei voluto,
proclama la lealtà di Sigfrido, che fra sé e lei pose nel talamo
la spada sguainata. E cosi appunto ella vuole ora per la secon­
da volta giacere, amante non riamata, sulla pira del morto
guerriero.
Il primo dei tre carmi intorno a Gudrun (Gudrunar-
kvida I, II, III) raffigura Pamata presso il corpo esanime di
Sigfrido, impietrita da un dolore che, soltanto alla vista dei
capelli insanguinati e degli occhi spenti dell’eroe, si scioglie
nel pianto e nella commossa rievocazione.
Il secondo è un monologo in cui Gudrun si confida col re
Teodorico, alla corte di Attila. Gli narra della propria giovi­
nezza, del tragico amore per Sigfrido ucciso dall’invidia di Gun­
narr e di Hggni, e finalmente delle proprie nozze con Attila.
Il terzo si svolge, sempre alla corte di Attila, intorno a un
tema favolistico: Gudrun, accusata da Herkja (la Helke del
Nibelungenlied) di tradire Attila con Teodorico, si scagiona
sottoponendosi a un giudizio di Dio.
Se Oddrunargràtr (Pianto di Oddrun) è esso pure una ele­
giaca confessione dell’amore infelice di Oddrun, sorella di At­
tila, per Gunnarr, i quattro carmi di ben diversa ispirazione
che seguono nel Regius: Atlakvida e Atlamàl, Gudrùnarhvgt
e tìamdismàly sviluppano ampiamente la leggenda di Attila.
Nella Atlakvida, Attila re degli Unni e marito di Gudrun,
che gli ha generato due piccoli, invita i fratelli della moglie
Gunnarr e Hggni (mentre nel più tardo Nibelungenlied è Cri­
milde che invita i propri congiunti nella reggia di Attila per

minori rispecchianti diverse tradizioni della leggenda stessa, v. Die Lieder


der Lucke im Codex Regius der Edda, Strassburg, 1902.
22 Le letterature della Scandinavia

vendicare la morte di Sigfrido) per strappar loro con Pinganno


il tesoro di Andvari — di cui essi appunto sono venuti in
possesso dopo la morte di Sigfrido. Malgrado gli ammoni­
menti di Gudrun, che manda ai fratelli un anello con intrec­
ciati peli di lupo, Gunnarr e Hggni accettano impavidi la sfida.
Sopraffatto, Gunnarr si dichiara pronto a svelare il nascon­
diglio del tesoro purché gli sia portato il cuore sanguinante di
HQgni. Egli sarà solo a conoscere e serbare, dopo l’uccisione di
Hpgni, il segreto dell’oro sommerso nel Reno; e affronta da
ultimo senza tradirsi la morte in una fossa di serpenti, sonando
l’arpa. Segue poi la feroce vendetta di Gudrun, la quale al ma­
rito offre in pasto il cuore arrostito dei propri figlioletti; e ap­
piccato il fuoco all’aula regia provoca la fine di tutti.
Identico per il tema, ma ben diverso per la trattazione
diffusa (105 strofe contro 45) minuziosa, artigianale e dipen­
dente da fonti germanico-continentali è Atlamàl, mentre i due
ultimi carmi del Regius, anch’essi affini per materia e spiriti
eroici (Gudrùnarhvgt e Hamdismàl), fondono con la nibelun­
gica la leggenda del re goto Ermanarico.
Nel primo, « Istigazione di Gudrun » la feroce eroina, sposa
ora di Jónakr e madre di Hamdir e Sgrli, istiga entrambi a
vendicare Svanhildr, la figlia già avuta dall’unione con Sig­
frido. Accusata d’infedeltà, Svanhildr è infatti morta sotto gli
zoccoli dei cavalli del proprio marito Ermanarico. Diversa e di
tono elegiaco la seconda parte del carme, nella quale Gudrun
rievoca la tragica fine dei propri figli, mariti, fratelli.
Il tema centrale dell’« Istigazione » riappare da ultimo in
Hamdismàl, ma svolto in poche e scarne scene. Hamdir e Sgrli
si apprestano alla vendetta e danno partendo l’ultimo addio alla
madre. Ben sanno i due guerrieri che il loro destino è segnato,
eppure pronunciano impavidi parole di fede nella fama im­
peritura che acquisteranno affrontando da soli Ermanarico.
Invincibili con le armi in pugno, cadranno però dopo immane
strage, lapidati dagli avversari.
È consuetudine nelle edizioni delYEdda includere anche
altri carmi affini per materia e forma, mitologici e eroici.
Fra gli eroici va ricordata la cosiddetta Hlgdskvida (fram­
menti in versi e prosa d’un « carme di Hlpdr » tolti alla Her-
vararsaga) sulla contesa tra i due fratellastri: Hlgdr allevato
presso gli unni, e il goto Angantyr, per l’eredità del regno di
Heidrekr. L ’inconciliabile dissidio s’impernia soprattutto sul
possesso d’una magica spada, Tyrfingr, dalla quale Angantyr
Medioevo pagano e cristiano 23

non vuol separarsi; e si chiude col compianto dì Angantyr che


ha ucciso il suo fratellastro. Ancora una volta il fato inelutta­
bile ha voluto lo spargimento di sangue fraterno.
Fra i carmi mitologici, anzitutto i Baldrs draumar o Veg-
tamskvida (« Sogni di Baldr » o « Carme del Viandante » —
serbatoci in un Ms. AM. 748 4° del sec. XIV) da riaccostare
alla Vgluspà per gli stretti reciproci nessi prof etico-escatologici.
Ché questo pure è il vaticinio di una veggente, risuscitata da
Odino perché lo aiuti a intendere gli oscuri presagi onirici
di Baldr. Il carme (menzionante soltanto Puccisione del dio
innocente per mano del cieco fratello Hpdr, istigato dal per­
fido Loki e Pimmancabile vendetta, che ne consegue) va in­
tegrato, per una migliore intelligenza, con altre fonti: anzi­
tutto YEdda snorrica e Saxo.
Altro componimento, di carattere mitico-genealogico è la
Rigspula (Catalogo di Rigr — serbatoci corrotto e lacunoso
nel Codex Wormianus della Edda snorrica: AM 242 fol. del
sec. XIV) che fa del dio Rigr il progenitore degli uomini e dà
insieme un racconto e una descrizione della genesi delle classi
sociali divise in schiavi, liberi, nobili.
Seguono altri, ancora più o meno intessuti di motivi fia­
beschi; Hyndluljód (nella Flateyjarbók, Ms. del XIV — cosi
chiamato perché rinvenuto a Flatey, isoletta delPIslanda occi­
dentale) in cui la gigantessa Hyndla, su invito di Freyja, elenca
la lunga genealogia di un certo Óttarr affinché questi possa
venire in possesso di una eredità; ma alcune strofe contengono
anche genealogie divine, e soprattutto in una (44) si accenna
a una variante dell’epilogo della Vgluspà, ripresa ntWEdda
snorrica col nome di « Vgluspà breve ».
Grottasgngr (Carme del mulino Grotti — in un codice
dell’Edda snorrica) è il canto di lavoro di due gigantesse, Fenja
e Menia, che macinano prosperità per il re Frodi, finché, sotto­
poste da questo a un trattamento inumano, e costrette a lavo­
rare senza tregua al magico mulino, le due gigantesse maci­
nano la sciagura del loro padrone.
Da ultimo, riunite sotto il comune titolo di Svipdagsmàl (a
opera d’un moderno studioso norvegese e serbatici in Mss. car­
tacei del Seicento) due carmi: Grógaldr (Incantesimo di Gróa)
e Fjglsvinnsmàl narrano: il primo degli amorosi consigli di una
madre al figlio in procinto di partire per un pericoloso viag­
gio; il secondo dell’amore di Fjglsvidr per Menglgd.
Va infine aggiunto che alcuni carmi o frammenti di carmi
24 Le letterature della Scandinavia

del Regius compaiono, con diverse lezioni, risalenti forse alla


tradizione orale, in altri Mss 1.

Secondo l’opinione prevalente fra gli studiosi romantici


norvegesi e danesi che risentivano delle idee di Herder sulla
poesia « popolare » 2 e della tradizione antiquaristica del se­
colo precedente: P. A. Munch, R. Keyser, S. Grundtvig, C. Ro­
senberg, i carmi eddici risalivano a età remotissime. Fu sol­
tanto lo studio del danese E. Jessen3 seguito poi da altri,
a dimostrare l’impossibilità di riportare aldilà delP800 ca.
la forma esterna di tali carmi, cioè a un’età anteriore alla
sincope nordica (caratterizzata dall’indebolimento e poi dalla
caduta delle finali brevi atone e da altri fenomeni a questa con­
nessi conclusisi intorno alla metà del IX). Il secondo punto
fermo nella storia genetica della critica eddica è costituito
dall’analisi di A. Heusler4, tendente a stabilire, soltanto per
indizi, una cronologia relativa: in rapporto all’età del Ms.
principale, a quella dei singoli carmi, e alla materia ivi trat­
tata. Pur fra i dissensi, è ancor oggi valida la sua fonda-
mentale distinzione fra: un primo nucleo poetico di carmi
o di parti di carmi più antichi paganeggianti, anteriori all’età
vichinga (quelli epico-drammatici e gnomici); un secondo nu­
cleo a quella coeva; un terzo visibilmente legato al tardo
gusto antiquario islandese (per esempio le elegie eroiche di
Gudrùn rievocanti il proprio passato con una sensibilità che
già risente delPinflusso cristiano). Per generale consenso si
tende ad annoverare fra i più antichi i seguenti carmi

1 Nell’apparato critico dell’edizione àelVEdda poetica a cura di G.


Neckel: Edda. Die Lieder des Codex Regius nebst verwandten Denk-
màlern, Heidelberg, 19262 si trovano puntualmente indicate le varianti
di tutti i Mss., mentre la raccolta di Heusler-Ranisch Eddica minora,
Dortmund, 1903, comprende testi o frammenti di testi — con glossario
— esclusi dalle edizione del Regius.
2 In Germania ai primi entusiasmi patriottici i G. Schùtze (Schutz-
schriften fur die alten nordischen und deutschen Vólker, Leipzig,
1752-57) smanioso di contrapporre i germani ai greci e ai romani, fan
riscontro le parole di W. Grimm a Goethe: « Lieder... von so gewaltiger
grossartiger Poesie... » [18 giugno 1811]; « Uns Deutschen gehoren diese
eddischen Lieder in so vielen Beziehungen an... » [11 agosto 1816].
V. R. Steig. Goethe und die Briider Grimm. Berlin, 1892, p. 75.
3 t)ber die Eddalieder, ZDPb, 3, 1871, pp. 1-84: Nachtrage, pp. 251-252;
494. Per l’aspetto linguistico del problema v. specialmente pp. 25-32.
4 Heimat und Alter der eddischen Gedichte in Archiv fiir dar Studium
der neueren Spracken und Literaturen} 116, 1906, pp. 249-281.
Medioevo pagano e cristiano 25

eroici: Vglundarkvida, Atlakvida, Hamdismàl e forse la


Hlgdskvida; dei mitico-gnomici: Vafprùdnismàl, Grimmismàl,
alcune parti degli Hàvamàl, mentre la Vgluspà si suole ascri­
vere al volger del primo millennio. Ai secoli seguenti, fino
al XIII e forse oltre, verosimilmente tutto il resto della poesia
eddica. Ma è chiaro che entro questa verosimile cornice di
successive stratificazioni i giudizi divergono fortemente, e sul1
l’età e sulla patria dei singoli carmi. S’è detto come criteri
linguistici e stilistici metrici e sintattici siano stati impiegati
a provare l’esistenza di presunti archetipi dei carmi eddici1;
si è tentato con argomenti desunti dall’archeologia2, di dare
una datazione molto antica ad alcuni carmi senza tener conto
del possibile intento arcaizzante di questo o quel poeta; e,
come si è cercata qualche indicazione cronologica nelle tracce
che la nuova fede può aver lasciato nei carmi mitici, così
nelle relazioni fra poesia eddica e poesia scaldica (databile,
almeno in parte), e, negli innegabili nessi di alcuni con le
ballate popolari medievali3 si è voluto trovare dei punti d’ap­
poggio. Ma con risultati quanto mai incerti e contradditori.
È di ieri l’ennesimo tentativo d’un eminente glottologo
di far luce attraverso l’esame linguistico, su presunti archetipi
norvegesi dei Mss. eddici (dal Regius all’altro già citato AM
748 4°, a quelli che conservano singoli relitti di poesia ed­
dica); ma è bastato un raffronto con la restante tradizione
manoscritta per infirmare i risultati di quell’esame4. Analo­
gamente ma inversamente, quella che dalla fine del secolo pa­
reva una conquista della critica formale: il carattere composito
d’un carme come Hàvamàl, è stata recentemente e radical­

1 H. Kuhn Zur Wortstellung und Betonung im Altgermanischen in PBB


51 (1933) pp. 1-109; Die Negation des Verbs in der altnordischen Dich-
tung ivi 60 (1936) pp. 133-160; Westgermanisches in der altnordischen
Verskunst ivi 63 (1939) pp. 178-236.
2 B. Nerman, The Poetic Edda in the Light of Archaeology, Coventry,
1931.
3 W. Mohr, Entstehungsgeschichte u. Heimat der jiingeren Eddalieder
sudgermanischen Stoffes, in ZDA 15, 1938 pp. 217-280; Wortschatz und
Motive der jungeren Eddalieder mit sudgermanischen Stoff, in ZD A 76,
1939 pp. 149-217; ma v. le obiezioni di E. Ól. Sveinsson cit., pp. 476-478.
4 D. A. Seip, On the Original of the Codex Regius of the Elder Edda
in Studies in Honor of A. M. Sturtevant, Lawrence, Kansas, 1952; e
H. Kuhn. Die norwegischen Spuren in den Liedern der Edda in APhS,
XXLV, 1952. Secondo Kuhn R e A dipenderebbero da una comune
fonte perduta; secondo altri (Heusler, Lindblad) sarebbero esistite altre
raccolte simili a quelle del R.
26 Le letterature della Scandinavia

mente negata nell’interpretazione unitaria d’uno studioso sve­


dese, che crede di ravvisarvi un testo rituale iniziatico d’una
società segreta consacrata al culto odinico l.
Anche quelli che sembrano i più prudenti criteri di giu­
dizio: la verosimiglianza, la probabilità, si rivelano spesso
qui come i più aleatori. Cosi per esempio, un carme mitico-
satirico quale la Lokasenna, tenuto da alcuni espressione di
puro paganesimo e quindi antico, è stato da altri annoverato
fra i recenti nella collezione del Regius. La spietata irrisione
degli dei pagani qui fatta da Loki può a un tempo parere
sicura prova di recenziorità2 e al contrario esempio illustre
di satira pagana, in cui l’irriverenza di fronte al divino avrebbe
avuto una specifica funzione religiosa3. Discorso analogo po­
trebbe farsi per un altro carme mitico come Baldrs draumar, il
cui carattere apocalittico-escatologico è stato preso, da questo,
come indizio di arcaicità4, da quello, come indizio del con­
trario5, pur ammettendosi la possibilità di archetipi perduti.
Va detto che il divario delle due opinioni si tradurrebbe in
questo caso in una alternativa cronologica di tre secoli! Da
ultimo, per seguitare in tale contesto, si può far cenno alla
Hlgdskvida, nella quale si è voluto vedere, tramutato in tipico
conflitto germanico fra consanguinei, il ricordo delle guerre
storicamente combattute fra goti e unni. Anche i connotati for­
mali del carme lo farebbero a buon diritto annoverare fra i
più antichi dell’Edda6.
Né l’elenco finirebbe qui, perché dietro quasi ogni carme
eddico s’avverte, almeno dal punto di vista dei temi, più
o meno fluida e sfuggente, una tradizione orale, in cui il
quando il come e il dove di avvenute innovazioni, varianti
e contaminazioni sono e probabilmente resteranno punti in­
terrogativi 7. Per accennare ai soli carmi mitici, sono noti

1 I. Lindquist. Die Urgestalt der Hàvamàl... Lund, 1956; v. de Vries.


Altn. Litg. I2 pp. 54-56 che in sostanza rigetta la tesi del Lindquist.
2 E. Paasche Norsk Litt. hist. cit. I, pp. 172-173; H. Kuhn in PBB 60,
1936, p. 144; J. de Vries. Altn. Litg. cit. II p. 121 e nota 15.
3 U. Dronke in lScandinavicay voi. 4. nov. 1965. p. 155.
4 H. Schneider in PBB 69, 1947. p. 330 sgg.
5 J. de Vries, Altn. Litg. cit. I p. 59; II p. 102.
6 Heusler-Ranisch, Eddica Minora cit. p. VII sgg. G. Basecke cit.
p. 175; H. Kuhn in PBB, 63, 1939, p. 178 sgg. Secondo F. Jónsson Litt.
hist. II 1, p. 142 si tratterebbe invece d’un carme recente.
7 Tutti i tentativi di attribuire a questo o a quel presunto autore e
luogo d’origine i singoli carmi eddici (p. es. A. Bugge, Amor Jarlaskald
Medioevo pagano e cristiano 27

gli influssi stranieri rilevativi da alcuni studiosi: il norve­


gese S. Bugge1 e il danese A. Olrik2 vi hanno trovato inne­
gabili tracce cristiane, iraniche e celtiche; l’olandese Van Ha­
mel 3, gli svedesi D. Stròmback 4 e À. Ohlmarks 5 ricollegandosi
agli studi del norvegese M. Ol-sen 6 — oggi seguiti anche da
Mircea Eliade7 — hanno dimostrato la presenza di riti d’ini­
ziazione sciamanica; J. de Vries e G. Dumézil hanno tentato
di riportare alcuni motivi e miti eddici ad archetipi indoeuro­
pei. Senza dubbio con buone argomentazioni. Ciò che non ap­
pare chiaro è come e quando questi miti siano divenuti poesia
nordica. Perché, anche a prescindere dal non ben definito va­
lore ideologico del mito in sé preso, è evidente che abbiamo
qui a che fare con elaborazioni poetiche e letterarie dei miti
stessi (per qualche aspetto e singola figura non solo nordici,
ma comunemente germanici). Ciò che, in questa poesia e let­
teratura, è ancora presente in fatto di arcaiche concezioni inge­
nuamente naturalistiche, magiche, divinatorie, per esempio in
Vgluspà Hàvamàl, Gnmnismàl, Sigrdnfumàl e altrove, sembra
essere puro relitto, superstite frammento di età scomparse, più
o meno consapevolmente utilizzato dai poeti-antiquari dell’età
vichinga e passato al vaglio della tollerante chiesa cristiana.
A quanto è dato congetturare da siffatto materiale gli dei
del pantheon nordico, non difformi dagli uomini, non erano
né creatori, né onnipotenti né onniscienti (anzi, a differenza
degli uomini, sembrano qui per lo più costituire il bersaglio
preferito dell’ironia dei poeti) e sottostavano essi pure al

og det forste kvad om Helge Hundingsbane in Edda 1, 1914; S. Nordal,


Islenzk menning, Reykjavik 1942, I, p. 275 sgg.; H. De Boor, Die re­
ligiose Sprache der Vgluspà in Deutsche Islandforschung, Breslau, 1930,
pp. 68-142); e poi le anonime Saghe islandesi (v. per alcune obiezioni, di
principio H. Lie, Noen metodologiske overveielser i anledning av et bind
av Islenzk fornii in MM 1939, pp. 97-138) restano ipotetici. Ed è signi­
ficativo il fatto che J. de Vries — l’unico germanista che abbia osato
una completa ricostruzione sincronica della letteratura norrena — nella
seconda ed. della sua opera si sia rifatto a criteri tipologici e geografici
anziché strettamente cronologici. Vedi vol. II2 op. cìt., pp. 338-339.
1 Studier over de * nordiske Gude- og Heltesagns Oprindelse, Kristia-
nia, 1879.
2 Om Ragnarok in AaNO 1902 e in N ordisk Tidskrift, idem.
3 APhS, 7, 1933, pp. 285-286.
4 Sejd, Lund, 1935.
5 Studien zum Problem des Schamanismus, Lund, 1939.
6 Om Troldruner in Edda V, 1916, p. 225 sgg.
7 Le Chamanisme et les techniques archdìques de l’extase, Paris, 1951.
28 Le letterature della Scandinavia

Fato ineluttabile. Se nella realtà storica la religione germanica


s’identifica in sostanza con le consuetudini giuridico-sociali
delle varie stirpi, nulla traspare in questi carmi della sua più
intima essenza* del rapporto cioè fra l’uomo e gli dei, malgrado
la varietà il rilievo e la ricchezza degli episodi narrati e delle
figure messe in scena: da Ódinn, dio dell’ispirazione guer­
resca magico-runica e poetica a Pórr, tutore delle umane leggi;
dalle divinità ctoniche della pace e della fertilità Freyr e Freyja,
ai giganti ai nani e a tutti gli altri esseri della « mitologia
inferiore ». Ciò che sembra aver meglio resistito al fermento
dissolvitore della nuova fede sono i sentimenti ancestrali del
Fato e della solidarietà di sangue, punto di convergenza della
vicenda eroica, umana e divina a un tempo.

Se i carmi eddici intorno agli dei ci danno un quadro sia


pur lacunoso e tardo di alcuni miti nordici talvolta intima­
mente connessi ai temi eroici — non certo di una « dot­
trina » pagana — e non trovano paralleli nella superstite
poesia allitterante germanica, i carmi intorno agli eroi, brevi
concisi epico-drammatici, si allineano, per affinità tematica
e formale, anzitutto al mutilo Hildebrandslied (Carme di
Ildebrando)1 e al Frammento di Finnsburg2\ per certi aspetti
anche all’epos pagano-cristiano anglosassone Beowulf, e al
ben più tardo e « cortese » Nibelungenlied.
Che tale poesia allitterante abbia avuto lunga tradizione
orale anteriore all’avvento del cristianesimo è dimostrato dalla
tenacia con cui sopravvisse, adattandovisi, ai nuovi contenuti
religiosi (certo non senza un sensibile intimo contrasto); anzi
in, essa proprio si può vedere la conferma3 di quella postulata

1 Di cui, com’è noto, restano 68 versi in alto-tedesco antico, frammisto a


basso-tedesco, trascritti verso T800, in un Ms. dell’abbazia di Fulda. Il
tradizionale tema eroico dello scontro fra congiunti, fra il padre Ildebran­
do e il figlio Adubrando in mezzo ai due eserciti di Teodorico e di Odoa-
cre non trova qui compiuto svolgimento. Fu certo ben noto anche nel
Nord, dove alcuni versi d’una tarda saga (Asmundarsaga kappabana) e il
libro 7° dei Gesta 'Danorum di Saxo riflettono appunto l’epilogo tragico
del padre che uccide il figlio.
2 Frammento d’un perduto carme eroico anglosassone (c. 800) sulle lotte
fra danesi e frisoni, da integrare con i versi 1063 sgg. del Beowulf.
3 Jón Helgason N. K. cit. pp. 6-7 sottolinea la corrispondenza non certo
fortuita tra espressioni come « jgrmun-grund » (Edda), « eormen-grund »
(Beowulf) per « mondo »; « biór-salr », « migd-rann » (Edda), « bèorsele »,
Medioevo pagano e cristiano 29

unità spirituale delle stirpi germaniche che rese possibile l’assi­


milazione diffusione e conservazione di leggende e motivi eroici
comuni alle genti germaniche del centro e della periferia.
Sono note le complesse e irrisolte controversie sulla re­
mota origine continentale del carme eroico germanico.
Alcuni (Heusler, Schneider, Neckel, Kuhn) approfondendo
idee wolfiane sull'epos omerico e lachmanniane sul Nibelungen-
lied e utilizzando gli accenni di scrittori antichi e medie­
vali da Tacito a Eginardo, hanno postulato l’esistenza già nei
primi secoli dell’era nostra di « Urlieder » epico-eroici (nati
forse nelle sedi sudorientali dei goti alPepoca delle grandi in­
vasioni), dai quali deriverebbero, per migrazione e graduale
rielaborazione, i più tardi componimenti e quindi anche alcuni
almeno dell’Edda, i cosidetti « Fremdstofflieder » *, cioè di
origine germanico-continentale. Nei primi secoli del Medioevo,
che videro sorgere e tramontare effimeri regni e divampare
guerre sterminatrici di capi e di popoli, dovè formarsi o raf­
forzarsi quelParistocrazia guerriera e quel culto dell’onore
della gloria dell’eroismo ch’è l’ispirazione prima dei carmi
stessi: un complesso di valori etici dietro i quali dovette
dunque esserci un nucleo di fatti storici già più o meno
leggendarizzati fra il IV e il VI secolo: la morte di Attila
(nell’Edda, Atli) avvenuta nel 453, secondo una tradizione po­
polare, per vendetta, compiuta la notte delle nozze dalla ger­
manica sposa Hildico2; la distruzione, compiuta dagli unni, del
regno burgundo del medio Reno, che fra i propri re contava
Gibico (nell’Edda, Gjùki) e Gundicario (neìYEdda, Gunnarr,
nel Nibelungenlied, Gùnther); i re goti Ermanarico (nell’Edda,
Jprmunrekr) uccisosi nel 375 quando gli unni annientarono il
suo vasto regno, e Teodorico (nell'Edda Pjódrekr); finalmente
Sigfrido, massimo eroe germanico, probabilmente da identificare
col re franco Sigeberto I di Metz, marito della principessa visi­

« meodo-aern » (Beowulf) per « sala del banchetto »;. « bgd-serkr », « her-


vàd », « val-dreyri » (Edda), « beadu-serce », « here-waede », « vaeldréor »
(Beowulf) rispettivamente per « armatura » e « sangue di ferita »; « sitja
sumbli at » (Edda) « sittan to symble » (Beowulf), « sittian at sumble »
(nell’epos sassone antico Heliand) per « sedere a banchetto »; e molte
altre se ne potrebbero aggiungere,
1 H. Schneider, Germanische Heldensage I, Berlin, 1928 p. 246 sgg.;
H. Kuhn PBB, 63, 1939 pp. 178 sgg. e 283-299.
2 Cfr. H. de Boor, Das Attilabild in Geschicbte, Legende und heroischer
Dichtung, Bern, 19632.
30 Le letterature della Scandinavia

gota Brunilde, assassinato nel 575 da sicari di Fredegonda con­


cubina di Chilperico I l.
Heusler e la sua scuola ipotizzano dunque, sulla base di
una più o meno viva comunanza spirituale originaria tra le
stirpi germaniche, la diffusione dei carmi eroici duna singola
stirpe alle altre. Ma ciò non esclude che fra anglosassoni e
nordici si sia parallelamente potuta sviluppare una tradizione di
poesia eroica sia pur tardamente testimoniata nel Beowulf
(i cui personaggi e fatti come è noto sono danesi e svedesi
del V-VI secolo) e nella parafrasi latina dei Gesta Danorum
di Saxo.
Comunque sia, anche chi recentemente ha voluto capo­
volgere uno degli assiomi della teoria heusleriana (nata forse
come reazione alle idee romantico-populariste dei Grimm e dei
Lachmann e identificante la leggenda eroica presso i germani
col carme eroico) ha poi dovuto riconoscere l'impossibilità di
risalire ai supposti archetipi franchi e goti2.
Dei carmi eroici délVEdda i più antichi sembrano aver
serbato i connotati tematici e alcune caratteristiche formali
della primitiva poesia germanica allitterante, della quale vanno
considerati assai tardo sviluppo, anzitutto a causa del raggrup­
pamento, anziché stichico, strofico, forse attribuibile a in­
flusso scaldico. Si tratta di componimenti brevi (100-200 versi)
senza digressioni informative, di ritmo serrato, di lessico^ scelto,
di pathos scabro intenso monumentale. Agli occhi del poeta
non ha valore la vicenda, pur in sé memorabile, ma la dignità
eroica con cui il guerriero affronta il destino che gli impone
una scelta fra valori contrastanti; sicché, affrontando il destino,

1 Malgrado il dottissimo lavoro (Siegfried, Arminius und die Symbólik,


Heidelberg, 1961) di O. Hofler, il tentativo di identificazione eveme-
ristica di Àrminio a Sigfrido, sulla base di argomentazioni folcloristiche
e sociologiche, non persuade molto.
2 H. Kuhn, Heldensage vor- und ausserhalb der Dichtung in « Ftstschrift
Genzmer », Heidelberg, 1952, p. 269: « Waren die Heldensagen in Lie-
dern entstanden, dann mussten diese erten Lieder wesentUch anders
gewesen sein als die erhaltenen ». Seguito su questa strada, non senza
incertezze da H. Schneider (Germanische Heldensage, Berlin, 1962) che
in un’appendice (pp. 445-457) modifica alquanto le idee heusleriane so­
stenute nella prima ed. del 1928. Di fronte a tanto contrastante conget­
turare si comprende l’ironia di chi ha ridotto l’intero problema a una
specie di segreto professionale dei germanisti, come E. R. Curtius, Euro-
paische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Bern, 1948, p. 175: « Wie
der primare germanische Heldensang ausgesehen hat, wissen nur die
Germanisten... ».
Medioevo pagano e cristiano 31

impavido fino al sacrificio della vita, il guerriero, in certo modo,


vi s’identifica con l’esemplarità del suo comportamento e di­
viene immortale nella gloria postuma. Eliminato perciò ogni
dettaglio narrativo, ogni motivazione psicologica, l’azione epico­
drammatica \ in cui s’alternano la voce del poeta e dei sin­
goli personaggi fortemente tipizzati aldilà della consuetudine
epica («Roland est preux et Olivier est sage»!) procede a
sbalzi, per scene essenziali e con una tecnica chiaroscurale2
che dà rilievo massimo ai contrasti.
Benché incomparabile con il ben più vasto epos, il carme
ne ha in comune alcuni caratteri: ogni riferimento storico e
geografico, ogni color locale è obliterato nella rievocazione
poetica che anacronisticamente fonde personaggi e popoli, fatti
reali e leggendari, mitici e fiabeschi. Come la Canzone di Ro­
lando trasforma in saraceni i baschi che nel 778 aggredirono
la retroguardia di Carlomagno in Spagna; e fa di Orlando il
nipote dell’imperatore e il protagonista della vicenda e spiega
la sconfitta col tradimento di Gano, i poeti dei carmi eddici,
nel trattare una complessa materia dalla quale ogni stirpe po­
teva trarre motivi di orgoglio e di grandezza, apprendono gli
uni dagli altri, stabiliscono fantastiche parentele e discendenze
fra gli eroi, risolvono in scontri individuali conflitti politici
tra popoli, traspongono località geografiche, guardando cosi
più o meno liberamente alla vicenda rievocata. I più anti­
chi (per esempio Atlakvida, Hamdismàl) sembrano solo con­
sci dei vincoli di solidarietà di sangue che legano l’indivi­
duo alla stirpe, dell’imperativo morale della vendetta (tipica
d’ogni società barbarica), della funesta magia connessa al
possesso dell’oro; i più recenti (per esempio Sigurdarkvida
in skamma, Helgakvida Hundingsbana II, Atlamàl) vedono
l’individuo più libero da tali vincoli, approfondiscono più o
meno certi fatti psicologici per influsso della nuova fede reli­
giosa, sembrano servirsi del motivo dell’oro come di legame
estrinseco delle vicende narrate.
Si tratta certo in entrambi i casi di poeti molto esperti,
se pur in varia misura, del proprio mestiere, anche se la totale
anonimità può spiegarsi con la loro consapevolezza di non
essere che dei rielaboratori d’una materia per se stessa illustre.

1 « Il culmine drammatico è il fulcro stesso del carme eroico germanico »


ha detto W. P. Ker (Epic and Romance, London, 1897, p. 76).
2 L. Mittner, La lingua e lo spirito delVantica poesia germanica, Firenze,
1942, pp. 25-39.
32 Le letterature della Scandinavia

Che anche la metrica eddica, basata sul principia dell’ictus e


dell’allitterazione, indica una maturità artistica agli antipodi
d’ogni ipotizzato « primitivismo ».
L 'Edda snorrica è, come s’è detto, l’unica sia pur tarda
testimonianza d’un germano sull’antica metrica germanica. Nel­
l’epilogo della terza parte dell’opera sono elencati ed esempli­
ficati anche i tipici metri eddici, ma solo in funzione del non
poco pedantesco virtuosismo versificatorio dell’autore e senza
una parola di commento, senza una qualsiasi prospettiva crono­
logica; e occorre quindi ancora una volta rifarsi alla fondamen­
tale ricostruzione storica di A. Heusler i. Nell’antico verso ger­
manico l’unità minima dello schema metrico è, secondo Heusler,
costituita da un primo verso breve, con due arsi secondarie,
(studiar o appoggi) collegato mediante allitterazione2 a un se­
condo verso breve, nel quale, in prima sede, è l’arsi principale
(hgfudstafr): le due unità formano un verso lungo (per esem­
pio nell'Hildebrandslied e nel Beowulf). Ma entro tale schema,
variabilissimo è da verso a verso, ciò che Heusler chiama « il
riempimento », cioè il numero indeterminato di atone che pre­
cedono o seguono gli ictus ricorrenti; sicché il ritmo stesso
del verso ne risulta quanto mai mosso e libero.
Se una lapidaria strofe (77) degli Hàvamàl in Ijódahàttr3
può dare un’idea del massimo rilievo enfatico ottenuto me­
diante l’allitterazione consonantica e vocalica, che sottolinea
l’opposizione dei valori etici fondamentali d’una età eroica: da
una parte la morte fatale, dall’altra il coraggio di chi sa affron­
tarla intrepido per conquistare l’immortalità:

1 Deutsche Versgeschichte, Berlin, 19562, I, pp. 86-284; e Altg. D. cit.


cap. VI pp. 30-44.
2 II cui preminente valore — quasi rima iniziale in una lingua carat­
terizzata dall’accento intensivo e protosillabico — è intuitivamente sen­
tito benché non criticamente rilevato da Snorri, che, pur avendo l’occhio
al metro classico della poesia scaldica, rigidamente sillabica (Edda Snorra
ed. F. Jónsson, Reykjavik, 1907 pp. 295-298) ha prestato la sua termi­
nologia ai moderni metricologi e germanisti.
3 Costituito di 6 versi brevi allitteranti, dei quali il 3 e il 6 hanno allit­
terazione propria, usato nei carmi gnomici e didattici (p. es. Hàvamàl,
Vafprudnismàl, Sktrnismàl, Grimnismàl, Lokasenna). Sia lo Ijódahàttr
sia la sua variante amplificatrice il galdralag furono forse in origine i
metri dell’incantesimo e della magia (V. Heusler, Deutsche Versgeschichte
Berlin-Leipzig, ed. del 1925, I, p. 230-243). Gli altri metri eddici men­
zionati da Snorri: il fornyrdislag di 4 sillabe (metro dei carmi antichi) e la
variante màlahàttr di 5 sillabe (metro dei carmi dialogici?), in cui sono
composti la maggior parte dei carmi eroici, s’approssimano, per struttura,
all’antico metro allitterante dell’epica germanica.
Medioevo pagano e cristiano 33

Deyr fé deyja fraendr Muore il bestiame, muoiono i congiunti


deyr siàlfr it sama; cosi anche tu morrai;
ek veit einn, at aldri deyr: ma, una cosa so che mai muore:
dómr um daudan hvern. la fama d’ogni uomo che muore.
altre strofe ci mostrano come in una lingua dura, tagliata con
Fascia e ribattuta con il martello, anche se scelta e elaboratis­
sima, che alterna il solenne rilievo delle toniche col precipitoso
fluire delle atone, che punta sull’urto d’insanabili conflitti, sulla
giustapposizione di luci e ombre, sull’allusiva ambiguità delle im­
magini, il poeta riesca a dar forma alle immani passioni, al volon­
tarismo eroico che tutto sacrifica a un miraggio di fama imperi­
tura. Così Gunnarr della Atlakvida,1 che nega agli unni il tesoro
nibelungico nascosto nel Reno, fa strappare al fratello Hpgni il
cuore; e, rimasto solo depositario di quel segreto, lo svela infine
prima di morire, con gioia feroce all’avversario che non potrà
goderne:
26
Er und einom mér gli um fólgin
hodd Niflunga: lifira nu Hggni!
A me solo è noto, a tutti ignoto il tesoro dei Nibelungi: morto è
ora Hggni!
27
Rtn skal ràda rógmàlmi skatna
à svinn, àskunna arfi Niflunga
i veltanda vatni lysaz valbaugar!
heldr en à hgndom gull sktni Huna bgrnum!
Il Reno custodirà il tesoro conteso dai guerrieri; il rapido fiume,
il sacro retaggio dei Nibelunghi; nell’acqua vorticosa brillino le
armille di morte [o romane], piuttosto che l’oro scintilli in mano
ai figli degli unni!
Cosi Gudrun con disumano eroismo vendica i fratelli uccisi dal
marito Atli dandogli in pasto i cuori arrostiti dei figlioletti.
33
Ut gekk pà Gudrun, Atla i gggn,
med gyltom kàlki, at reifa gigld rggnis:
« piggia knàttu, pengill! i pinni hgllo,
gladr, at Gudrùno gnadda niflfarna! »
Fuori usci Gudrun incontro a Atli col calice d’oro a festeggiare il
suo sovrano: « Felice riceverai, signore, nella tua reggia la selvag­
gina abbattuta da Gudrun! »

1 U. Dronke, The Lay of Attila in Saga-Book of the Viking Society,


16, London, 1962, pp. 1-21.

XXVII - 2. Lett, della Scandinavia.


34 Le letterature della Scandinavia

38
Ymr vard à bekkiom, afkdrr sgngr virda,
gnyr und gudvefiom, gréto bgrn Huna,
nema ein Gudrun, er hon seva grét
brcedr sina berharda ok buri svasa,
unga, ófróda, pà er hon vid Atla gat.
Gemiti risonarono fra i banchi, sinistro echeggiò il canto dei guer­
rieri, gemiti uscivano di sotto i mantelli, piangevano i figli degli
unni; solo Gudrun non pianse mai, i fratelli suoi invincibili, i pro­
pri figlioletti, da lei generati a Atli.

Cosi, con perfetto parallelismo etico, anche il poeta del ‘ Carme


di Ildebrando ' mette padre e figlio di fronte al medesimo
fatale dilemma:
Nu seal mih suasat chind svertu hauwan
breton mit sinu billiu eddo ih imo ti banin werdan! 1
Ora il mio proprio figlio, con la spada mi abbatterà; mi ucciderà
con la sua arma da taglio — o io mi farò suo uccisore!

Diverso però è talvolta il tono in altri carmi: assai più li­


rico-elegiaco. fantasioso e visionario, per esempio nella Helga-
kvida Hundingsbana II (il carme dell'amore che trionfa sulla
morte), dove l'episodio del guerriero ucciso in battaglia, cui è
concesso di tornare alla sua donna per trascorrervi insieme l'ul­
tima notte, ci dà un colorito saggio di romanticismo vichingo. Il
trapasso dalPestasi amorosa all'angoscia della separazione sembra
quasi precorrere in qualche accento l'addio antelucano di Giu­
lietta e Romeo.
46
Vel skolom drekka dyrar veigar
pótt mist hafim munar ok landa!
skal engi madr angrliód kveda,
pótt mér à briósti beniar liti!
Berremo felici coppe ricolme, benché privati della vita e degli averi.
Nessuno levi gemiti funebri se vede il mio petto asperso di sangue.
48
Nù kved ek enskis orvsent vera,
sid né snimma at Sevafigllom,
er p u à armi ólifdom s 0fr,
hvit, i haugi, H ggna dóttir,
ok ertu kvik in konungborna!
Nulla mi resta più da desiderare ora né mai a Sevafigll; ora che

1 Hildebrandslied, ed. F. Saran, Halle a. S., 1915, p. 26.


Medioevo pagano e cristiano 35

tu dormi fra le braccia mie inanimate, bianca figlia di Hggni, nel


tumulo; tu che sei viva, figlia di re.
49
Mài er mér at rida rodrtar brautir
làta fglvan io flugstig troàa;
skal ek fyr vestan vindhiàlms bruar,
àdr Salgofnir sigrpiód veki.
Ma adesso è tempo d’addio; sui sentieri rosseggianti è ora che il
mio fulvo destiero galoppi per l’aria, per essere a occidente dell’ar­
cobaleno, prima che il gallo della Valhalla ridesti gli eroi!
Il poeta della Lokasenna tocca invece, forse come nessun
altro, le corde dell’umorismo moderno. Tutto l’Olimpo nor­
dico si disgrega e si polverizza sotto la sua beffa corrosiva. In
una lingua perspicua briosa, scoppiettante di maligna e scurrile
ironia, cui la ripetizione delle apostrofi dà un’intensità quasi
d’incantesimo (non per nulla ne risentiremo gli echi in Strind­
berg) gli dei vengono accusati e smascherati dei più turpi vizi.
Né giova che Pórr, sopraggiunto in extremis, metta in fuga il
perfido accusatore Loki minacciandolo col martello. Le parole
di questo eddico Mefistofele sembrano mettere la pietra tom­
bale sull’età degli dei falsi e bugiardi.
Fra la Lokasenna e la Voluspà il divario non potrebbe
esser più grande. Quanto lì è satira e scherno, è qui pathos
austero e solenne, serietà etica. I « superni sacri dei » sono qui
visti da un poeta che, certo, sentendosi al confluente tra vecchio
e nuovo affonda lo sguardo nel mito antico con partecipe com­
mozione, illuminato da ideali di giustizia e di speranza, preoc­
cupato da angosciosi interrogativi morali. Qui, altrimenti che
nel mito greco, gli dei né domano né vincono i titani, né
la discordia che per causa loro lacera il cosmo. La primeva
gigantomachia è qui l’ultimo atto epico della storia universale
iniziatasi con l’età dell’oro. Tutto ciò che dal caos è generato:
giganti e dei e uomini è nuovamente destinato a sprofondare nel
caos dei « ragnarpk », cui il poeta fa seguire la speranza d’una
rigenerazione.
Non sono certo gli ingenui miti naturalistici della genesi
o della fine del mondo che colpiscono nella Voluspà, né in
fondo quella che sembra essere l’ispirazione etica dal carme
stesso (pur cosi oscuro e guasto com’è *): il tramonto del mondo

1 F. R. Schroder, ANF 67, 1952, pp. 1-29 ha ricordato il lucianesco


« consiglio degli dei » come remota fonte d’ispirazione.
36 Le letterature della Scandinavia

odinico, cioè della sete delPoro, della magia, degli spergiuri,


della guerra e l'avvento del regno della pace simboleggiato
dall’innocente Baldr (de Vries). Ciò che dà forza lirico-dram­
matica alla profezia della veggente (la quale ridestata da
Odino gli svela le verità apocalittiche primordiali e finali), è
proprio il tono poetico di esaltazione individualistica in cui si
compie il vaticinio. Il senso d'un fato ineluttabile che grava su
tutto sin dall’alba dei tempi, il terribile problema dell'origine
del male e del dolore, la profonda sfiducia nel presente, tutto
concorre a creare quel senso arcano oracolare del numinoso che
può far pensare il lettore classicista allo stormir delle fronde di
Dodona o al gorgoglio delle acque di Delfi. È stato notato
l’influsso formale della poesia scaldica sulla Vgluspà 1: il tipico
frequente impiego dei ritornelli nelle diverse visioni (pà gengo
regin gli à rgkstóla — le potenze reggitrici sedettero allora a
consiglio sui seggi; vitod er enti, eda hvatì — sapete ancora
altro o no?; Geyr nu Garmr migk fyr Gnipahelli — ora Garmr
abbaia furioso davanti alla grotta degli inferi); la vera e oro-
pria descrizione d'una battaglia, così rara nei carmi eddici;
e non c’è dubbio che l’anonimo poeta fu un maestro della
tecnica e del verso, ma sull’interesse puramente estrinseco di
gran lunga prevalse2 la serietà dell'ispirazione etica e la gran­
diosità delle visioni apocalittiche.
Qui i segni funesti della catastrofe s’addensano con ritmo
mozzo, angoscioso, in immagini dure, gonfie di compresso
pathos:
45
Broeàr muno beriaz ok at bgnum verdaz,
muno systrungar sifiom spilla;
hart er i beimi hordómr tnikill,
skegggld, skàlmgld, skildir ro klofnir,
vindgld, varggld àdr vergld steypiz;
mun engi madr gdrom pyrma.
I fratelli si azzufferanno e si uccideranno, i parenti spezzeranno i
vincoli di sangue, l’efferatezza reggerà il mondo e molti adultèri;
tempo di asce, tempo di spade, si fenderanno gli scudi; tempo di
bufere, tempo di lupi, prima che il mondo crolli; nessun uomo il
suo simile rispetterà.

1 E. Noreen, Den norsk-islàndska poesien, Stockholm, 1926, p. 87 sg.


2 M. Olsen, Edda-og skaldekvad VII, Gudedigte, Oslo, 1964, p. 3; De
Vries, Altn. Litg. cit. I2 p. 63.
Medioevo pagano e cristiano 37

lf il presagio d’una resurrezione del mondo, arso dal fuoco e


sprofondato nel mare, spalanca Porizzonte e Panimo a una
rasserenante contemplazione:
Sér hon upp koma gdro sinni
igrd ór eegi, idiagrcena:
falla forsar, flygr grn yfir,
sa er à fialli fiska veidir.
Vede ella sorgere un’altra volta la terra dal mare, riverdeggiante,
scrosciano i torrenti, alta vola l'aquila, che sulle montagne caccia
i pesci.
Nessun poeta eddico come Pautore della Vgluspà ha sa­
puto fondere nei suoi versi tanta meditazione spirituale e con­
cretezza d’immagini, tanta realistica osservazione delPambiente
circostante1 e acuta penetrazione dei mondi creati della fan­
tasia mitica.

LA PO ESIA SCALDICA

Raffrontata allo stile epico-drammatico della poesia eddica


e della Saga norrena, in vario modo alternanti dialogo e narra­
zione di fatti e atti memorabili, la rigida consuetudine tecnica
del carme scaldico col suo minuto ma desultorio descrizionismo,
tutto scorci e « istantanee », privo quasi di prospettiva tem­
porale e spaziale, sembra ancor più chiaramente scoprire la
sua povertà di mezzi espressivi.
Il gusto della metafora fine a se stessa, del bisticcio, del­
l’indovinello, del gioco di parole, il senso acutissimo per i
valori fonici anche se amelodici; la struttura metrica che in­
catena in schemi inalterabili il sentimento; l’uniformità d’una
lingua conservatrice da cui esula ogni venatura idiomatica e
in cui vecchio e nuovo appaiono inscindibilmente saldati: il
virtuosismo formale insomma, che sa trarre smaglianti effetti
esteriori dalla variazione e manipolazione di poche note fon­
damentali ci disorienta e ci respinge.
Eppure non meno degli altri due grandi generi della lette­
ratura norrena anche questa poesia rispecchia gli ideali e i

1 Nella sua edizione islandese del carme, S. Nordal ('Vgluspà. Gefin ut


med skyringum, Reykiavik, 1923) sottolinea il valore che può aver avuto,
per la visione della fine del mondo, l’esperienza delle catastrofi naturali
nell’isola vulcanica in concomitanza con l’attesa chiliastica predicata dai
missionari (pp. 123-125).
38 Le letterature della Scandinavia

modi di vita della società e dell’età vichinga in cui fiori; è


espressione anch’essa d’un fatto di costume, d’un determinato
fenomeno sociale, parte integrante d’un cerimoniale di corte
come — sotto altri cieli — la poesia trovadorica e minne-
singhera. Anzi l’ideale eroico vichingo, poi destinato per secoli
a diventare uno dei temi più frusti e stereotipi delle lette­
rature nordiche, si può dire trovi qui la sua prima e pregnante
espressione artistica.
Nei carmi scaldici, prima e ancor più che negli eddici e
nelle Saghe, rivivono — certo in forme allusive e quanto mai
convenzionali — le gesta di quei guerrieri germanici che così
a lungo contrastarono la civiltà cristiana d’occidente per sotto-
mettervisi poi e assimilarla attraverso un lungo e laborioso
processo di amalgamazione.
Se l’Edda una volta sola ci offre un lampeggiante ritratto
di vita vichinga nel primo carme su Helgi Hundingsbani, per
contenuto e forma assai vicino al « genere » scaldico, le Saghe
attingono tutte o quasi le loro avventure e figure eroiche ai
versi scaldici; anzi sono esse stesse per lo più semplici para­
frasi 1 o chiose di quei versi, che ripetutamente citano o come
fonte d’informazione storica o come puro motivo ornamentale.
Di queste, persino le migliori dal punto di vista artistico, come
la Eigla, la Njàla o come la Heimskringla dalla tradizione con­
cordemente attribuita a Snorri, non sempre riescono a eguagliare
la forza di caratterizzazione, la compressa incisività di certe
strofe scaldiche.
Quanto del duro profilo pagano d’un Egill avrebbe potuto
farci vedere la Saga a lui intitolata senza i componimenti poetici
in quella contenuti e a lui attribuiti? quanto sapremmo oggi
' della lirica erotica norrena senza le pur oscure e corrotte strofe
di un Kormàkr? quanto alla storiografia dello stesso Snorri
non dovettero contribuire i versi scaldici, da lui copiosamente
citati? quanto infine saremmo in grado d’intendere della con­
versione dei popoli nordici al cristianesimo se non avessimo i
tardi poemetti agiografici e parenetici di quegli scaldi che più
o meno avevano assimilato il nuovo verbo religioso?
Anche da un punto di vista puramente documentario la
poesia scaldica merita dunque di non essere posposta agli altri

1 S. Nordal, Snorri Sturluson, Reykjavik, 1920, p. 171 sgg. mostra come


Snorri sullo spunto di singoli versi scaldici abbia creato interi episodi
narrativi.
Medioevo pagano e cristiano 39

due generi letterari norreni, linguisticamente più accessibili e


perciò più studiati.
Donde principalmente trasse ispirazione questa poesia?
L ’aula regia con le sue festose e solenni consuetudini (in
larga misura comuni a tutta l’area germanica) volte a perpe­
tuare i sacri vincoli di fedeltà della « hird » al « dróttinn »,
cioè del seguito al principe e di questo a quello; la rievoca­
zione della battaglia (quasi assente dai carmi eddici) che ce­
lebra e misura le virtù del capo e dei suoi prodi sull’unico ca­
none d’ogni società guerriera: il concetto dell'onore; la muni-
ficità del capo cui principalmente è rivolto l’encomio dello
scaldo, il miraggio della gloria e della ricchezza e la passione
delFavventura; il culto dell’eroismo e il disprezzo della morte;
l’amore delle armi e delle fogge guerresche. Questi, in sintesi,
i motivi dell’ispirazione.
Se nei carmi epici gli anonimi poeti àeWEdda rievocano in
chiave di drammatico conflitto la fosca grandezza dell’eroe ger­
manico dell’età delle migrazioni, gli scaldi ci dànno (in tinte
più luminose e attraenti) un quadro fortemente stilizzato ma
non meno memorabile dell’età vichinga.
Con monotona insistenza risuona infatti nei loro versi
l’encomio del principe e dei suoi prodi che affrontano con
inconcussa fermezza la battaglia e la morte, o la munificità
del capo che dispensa armille spade scudi navi ai fidi seguaci;
l’elegiaco rimpianto dei compagni caduti il cui nome soprav­
vive solo nella luce della gloria postuma o l’esaltazione della
vendetta dettata dalla solidarietà di sangue; lo scherno o l’ese­
crazione del nemico. Vediamo i guerrieri libare nell’aula alla
memoria degli antenati o invocare gli dei a testimoni dei sacri
giuri prima di partire per le spedizioni, ignari del ritorno; ve­
diamo le navi dalle rutilanti teste di drago salpare « come aqui­
le ad ali spiegate »; vediamo le onde « alte come precipiti
montagne » abbattersi sulle prore, e sotto spalancarsi i tene­
brosi abissi dove il dio e la dea del mare Aegir e Ran stanno
in agguato; vediamo i campi di battaglia coprirsi di cadaveri
e le spade lampeggiare e i dardi oscurare il cielo e il sangue
scorrere a fiumi. Cosi per centinaia di versi e per generazioni
di poeti! Finché il trionfo del cristianesimo e il graduale av­
vento di nuove forme di organizzazione statale e sociale non
avviano al tramonto l’ethos pagano e i congiunti modi di vita
e d’arte. Scompaiono allora dal repertorio degli scaldi le san­
guinose epifanie delle valchirie e il fragor delle asce dei « ber-
40 Le letterature della Scandinavia

serkir » 1 sulle cotte ferrigne, le sagome grifagne delle navi


dragonate (il « Serpe lungo » di Ólàfr Tryggvason, il « Bi­
sonte » di Òlàfr helgi, P« Ariete ferreo » di Eirìkr jarl) e per­
sino le semileggendarie incarnazioni delPideale vichingo (un
Vagn Akason e un Ragnar lodbrók che affrontano la morte
senza un gemito, col sorriso sulle labbra, uno Starkadr che an­
cora nella minuziosa parafrasi latina di Saxo assurge a mitico
simbolo di sovrumano eroismo) per lasciar posto a più umane
e cristiane figurazioni. Ma il prezioso descrizionismo scaldico
serba ancora a lungo, pur dopo la vittoria del nuovo verbo
religioso, il suo valore normativo. Tutto o quasi — scene
persone cose — è come prima rappresentato nella rigida ma­
niera tradizionale, sezionato con pseudorealistica minuteria,
assai più che poeticamente ricreato. Gli stessi concetti di Dio
creatore, di trinità, di colpa, di redenzione: l’intero simbolismo
cristiano viene ora costretto nelle fruste perifrasi del linguag­
gio panegiristico degli scaldi.

A stare alla superstite documentazione la poesia scaldica


nasce in Norvegia. Il più antico scaldo, quasi coevo di Ansgar
(primo missionario della chiesa franca nel Nord) fu il norve­
gese Bragi Boddason (prima metà del sec. IX); ma i suoi versi
rimastici sono così tecnicamente maturi da presupporre una
precedente tradizione poetica. Se a lui è attribuita la Ragnars-
dràpa celebrante uno scudo istoriato di scene mitologiche ed
eroiche (il dio Pórr in lotta col Serpe del mondo, le vicende
delPeddico Hamdismàl), al forse coevo Pjódólfr hvinverski,
Snorri stesso ascrive un componimento analogo (Haustlgng, sul
mito di Idunn e sulla lotta tra Pórr e il gigante Hrungnir) e
il genealogico Ynglingatal in kviduhàttr sugli antenati del re
Araldo Bellachiòma, fondatore del regno di Norvegia (875?).
Alle soglie della poesia scaldica troviamo così due tipi di com­
ponimenti encomiastici (« skjaldardràpa, aettartal ») che la te­
stimonianza delle Saghe ci mostra, anche in seguito, assai fre­
quenti. Del pari encomiastici, anche se forse più personali
sono i frammenti della pomposa ed oscura Glymdràpa in
dróttkvsett sulle imprese guerresche di Araldo e soprattutto

1 Lett, «pelli d’orso». Questi guerrieri che combattevano coperti di pelli


d’orso o di lupo (« ulfhednar ») con una sorta di estatico furore, ci sono
attestati nelle Saghe (‘Ynglingasa’ nella Heimskringla di Snorri, cap. 6;
nella Vatnsdcela, cap. 9). Cfr. E. Noreen, ‘Ordet barsark’ in ANF, 1932,
pp. 242-254.
Medioevo pagano e cristiano 41

lo Haraldskvsedi o Hrafnsmàl (in màlahàttr e in Ijódahàttr)


di Porbjpm hornklofi, dove il trionfo dell’unificatore della
Norvegia e la gloria della sua corte sono celebrati nelle forme
epico-drammatiche della poesia eddica, in un dialogo fra una
valchiria e un corvo che giunge dal campo di battaglia col
becco ancora sanguinante.
Con l’anonimo Eiriksmàl commemorante l’apoteosi pagana
del pur battezzato re Eirlkr blódox (prima metà del X see.)
e con lo Hàkonarmàl di 0yvindr skàldaspillir, che anch’esso
celebra l’ingresso d’un altro re cristiano Hàkon Adalsteinsfóstri
nella Valhalla germanica, tocchiamo i confini cronologici della
poesia scaldica norvegese; varcati i quali le fonti documentarie,
quasi soltanto islandesi, tacciono del tutto sulla patria d’origine
e ci presentano la poesia scaldica quale esclusivo monopolio
dei norvegesi trapiantati in Islanda (IX-X see.), benché non
meno di prima fiorente presso le varie corti dei re: norvegesi,
danesi, svedesi e perfino anglosassoni.
È questo, si può dire, il periodo aureo della poesia scal­
dica pagana, la quale sembra poi lentamente avviarsi al tra­
monto quando la morte di Haraldr hardràdi alla battaglia di
Stamford Bridge (1066) segna il crollo definitivo dell’espan­
sione vichinga d’oltremare. Non molto anteriori a tale data
sono il « Riscatto della testa » (Hgfudlausn), in runhent, il
poemetto encomiastico in onore di Arinbjgrn (Arinbìarnarkvi-
da) in kviduhàttr e l’epitaffio per la « Perdita dei figli » (Sona-
torrek) pure in kviduhàttr di Egill Skallagrlmsson, che tutti
ci attestano una forte e originale fisionomia di poeta, un mae­
stro della versificazione scaldica, un esemplare rappresentante
dell’ideale vichingo; quasi coeva è la raffinata lirica d’amore
« mansgngr » di Kormàkr, e non molto posteriore, intorno al
1000, sia la poesia mitologica di Eilìfr Godrunarsson (Pórsdrà-
pa) sia le grandi « dràpur » encomiastiche e funebri di Einarr
skàlaglamm, di Hallfrodr vandraedaskàld, di Pórarinn loftun-
ga, di Sighvatr J)órdarson (il più aperto alla cultura europea
e pellegrino di Roma) in lode dell’ultimo campione del paga­
nesimo nordico Hakon jarl; e soprattutto dei due grandi re
evangelizzatori Ólàfr Tryggvason (995-1000?) e Ólàfr Ha-
raldsson (1015-1030?). In mezzo a una vasta e varia congerie
di altri componimenti più o meno frammentari, più o meno
pregevoli, sono questi i capolavori della poesia scaldica « clas­
sica », connessa al mito e alla leggenda eroica.
Nella poesia posteriore — come s’è già detto — il peso
della dottrina e della predicazione cristiana si fa sempre più
42 Le letterature della Scandinavia

sentire. La tecnica e il costume tradizionale restano sostanzial­


mente immutati (troveremo degli scaldi ancora alla corte del
re norvegese Eirìkr Magnusson; 1280-99); i grandi poeti pa­
gani vengono ricordati e studiati — a un dipresso come gli
« auctores » latini nelle scuole medievali, per apprenderne la
lezione formale — ma lo spirito dei nuovi tempi, l'influsso
delle fonti letterarie scritte, il mutato gusto prevalgono, al­
meno da un punto di vista contenutistico, nelle tarde « drapur »
religiose o di religiosi: come il « Raggio di sole » (Geisli) di
Einarr Skulason (1100-1160?) ch'è una vera e propria apoteosi
cristiana di re Olao il Santo, eroe martire e taumaturgo1,
come il « Sole del dolore » (Harmsol)2 del canonico agosti­
niano Gamli di t?ykkvabcer (X see.) ch’è una predica versifi­
cata sulla necessità della contrizione e in lode della Grazia e
del Redentore; come Leidarvisan (Indice della via); Liknar-
braut (Via della Grazia); Solarijód (Canto del sole); o come
Lilja (Il giglio) del monaco E. Asgrimsson (m. nel 1361) sulla
storia del mondo dal peccato originale alla Passione e Resurre­
zione fino al Giudizio. Nella sua « dràpa » in hrynhent l'autore
esplicitamente ripudia le « kenningar », segnando così una svol­
ta definitiva nella storia della poesia scaldica.
Gli ultimi echi formali e tematici di questa poesia non si
sono ancor spenti nei rimatori islandesi quattro e cinquecen­
teschi, che già si prepara, favorita dagli impulsi eruditi della
Riforma e autocelebrativi dello Stato assoluto, la rinascita
letteraria dell'intera civiltà vichinga. Ancora una volta l'Islanda
è al centro del nuovo moto culturale, come quella che sul
proprio suolo serba più manifesti e numerosi i monumenti
archeologici e linguistici dell’antica civiltà nazionale.
L'era delle dotte riesumazioni s'apre con il Brevis com-

1 Ne restano 71 strofe in dróttkvsett, forse tra le prime opere norrene


a essere fissate sulla pergamena subito dopo la composizione — Secondo
la tradizione il poeta stesso recitò la sua « dràpa » nella Chiesa di
Nidaróss (l'odierna Trondheim) durante una solenne cerimonia in pre­
senza dell’arcivescovo Jón Birgisson e del re norvegese Eysteinn (F.
Jónsson, Litt. hist. cit. II, p. 66).
Notevoli comunque anche da un punto di vista formale i tentativi di
esprimere i nuovi concetti religiosi ricalcando i termini latini: stella
maris («flcedar stjarna »), pacis visio (« fridar syn »), Trinitas (« eins
gods £>renning»).
2 65 strofe scaldiche sul peccato e sul Giudizio e sulla Grazia divina,
ricche di nuove « kenningar », ma non prive di antichi, quasi inerti
relitti pagani.
Medioevo pagano e cristiano 43

mentarìus de Islanda (1593) e con la Crymogeea sive rerum


islandicarum libri tres (1609) di A. Jónsson Vidalin. Non è,
quest’ultima, che un farraginoso compendio storico e etnogra­
fico, linguistico e letterario, ma dà il primo impulso alla ricerca
delle fonti e alla scoperta del semiobliato patrimonio spirituale.
E come i dotti bizantini migrati in Italia avevano insegnato il
greco agli umanisti, cosi, nel Nord, sono ora gli islandesi (da
Brynjólfur Sveinsson a Ami Magnusson) che a Copenaghen
come a Stoccolma fanno da maestri agli antiquari, agli eruditi,
ai raccoglitori di manoscritti e di documenti antichi. A un
Worm che insieme con le sue ricerche runologiche {Runir
seu danica literatura antiquissima, 1636) dà, in traduzione, i
primi saggi della poesia scaldica (17 strofe del Sonatorrek di
Egill; 29 del Krakumàl, il carme funebre di Ragnar lodbrók),
come a un Th. Bartholin il Giovane che nei suoi Antiquitatum
danicarum ... libri tres (1685) già prefigura il mito eroico del
Nord caro ai preromantici europei. Anzi l'interpretazione filo­
logica degli islandesi serba a lungo, sin negli errori e negli
abbagli, il suo valore canonico sia per gli antiquari danesi e
svedesi del Seicento, sia per chi a quella attinge e diffonde in
tutta l’Europa la moda della mitologia e della poesia nordica
in nome del gusto anticlassico, come il cosmopolita ginevrino
P. H. Mallet (Introduction à Vhistoire de Dannemarc, 1755;
Monuments de la mythologie et de la poesie des Celtes et
particulièrement des anciens Scandinaves, 1756) 1.
Per il romanticismo nordico, infatuato, come il tedesco,
di primitivo, di barbarico, d’irrazionale, il mito dell’eroe vi­
chingo celebrato dagli scaldi diviene pressappoco ciò che per
il classicismo francese era stato il mito dell’eroe plutarchiano.
Ma lo schema iconografico di questo eroismo si amplia ora a
dismisura. I danesi Oehlenschlàger e Grundtvig e gli svedesi
Geijer e Tegnér, per citare solo i maggiori, lo riplasmano
secondo le forme della nuova sensibilità: sentimentale e pa­
triottica, metafisica e pedagogica, mentre le seguenti genera­
zioni, da Bjomson a Ibsen e a M. Jochumsson, da Strindberg
alla Lagerlof a Jensen alla Undset, ormai familiari con tutti i
temi della letteratura norrena, tentano di imitarne i vari stili
e (anzitutto in Islanda) i vari metri.

1 Com’è noto rielaborati da Th. Percy nelle sue "Northern Antiquities


(1770) e utilizzate da W. Scott, da Chateaubriand e dalla Stael, per
non dir altri.
44 Le letterature deità Scandinavia

Finché la poesia scaldica non cade nelle mani dei filologi


di professione, dei linguisti e dei germanisti per perdere così
ogni residuo palpito di vita e divenire — notomizzata e scien­
tificamente analizzata — oggetto di fiere polemiche, che ancor
oggi non accennano a spegnersi.

È possibile formulare un giudizio critico su questa poe­


sia senza passar la vita — come hanno fatto i pochissimi
specialisti in materia — a emendar testi e a ricomporre i
« disiecta membra » d’un ideale corpus poetico, principalmente
enùcleabile dai Mss. islandesi e norvegesi dei secoli XIII, XIV
e XV? Una conoscenza anche sommaria del genere scaldico
indurrebbe a rispondere negativamente.
L ’intrinseca difficoltà d’interpretazione di questa poesia, la
impossibilità di ricostruirne la genesi e in più casi d’accer-
tarne l’autenticità, la scarsa perspicuità dell’ambiente culturale
in cui sorse — malgrado singoli dati biografici e cronologici
sicuri — mentre spiega l’estrema cautela con cui deve proce­
dere ogni seria indagine critica, ripropone anche oggi molti
dei più ardui e discussi problemi preliminari connessi alla
storia della poesia germanica antica1.
E anzitutto: quale fu la remota origine del carme scaldico?
Nacque esso, come alcuni sostengono2, già nell’età delle mi­
grazioni barbariche, insieme agli altri generi maggiori e mi­
nori, per vivere poi in lunga tradizione orale — storicamente
pressoché inafferrabile — e comparire a un tratto in Norvegia,
formalmente elaboratissimo, ma così permeato di influssi ir­
landesi da perdere molti dei suoi essenziali connotati germa­
nici3? O fu invece creazione esclusivamente nordica dovuta

1 Quanta parte va fatta in questo campo alla critica congetturale ha


dimostrato la pur geniale e prudente ricostruzione storica di A. Heusler.
2 A. Heusler, Altg. D.; pp. 121 sgg., 172; S. Einarsson, Alternate Recital
by Twos in Widsith (?) Sturlunga a. Kalevala in Arv (Uppsala, 7, 1951,
pp. 59-83). v
3 Innegabile una certa affinità di ambiente sociale e di forme poetiche
fra Tlrlanda del IX see. e il Nord vichingo; né va dimenticato che
vichinghi danesi già intorno al 787 si erano attestati nelle regioni nord-
occidentali dell’Inghilterra; che l’853 Olao il Bianco di Norvegia regnava
a Dublino; che fra i colonizzatori d’Islanda c’erano degli irlandesi. Ma
per un verso l’assenza totale di dimostrabili influssi linguistici irlandesi
sul norreno, per un altro la forma assai evoluta dei primi componimenti
scaldici rende quanto mai problematica l’ipotesi di influssi specifici
(A. Edzardi, Die skaldiscben Versmasse u. ibr Verhàltnis zur keltiseben
Verskunst in PBB 5, 1878, p. 570 sgg.; G. Vigfusson, Corpus poet.
9Medioevo pagano e cristiano 45

a un solo ingegno poetico, die ne fissò il modello ricavandolo


dai ben definiti schemi del carme eroico1? E nella prima ipo­
tesi, quali furono i nessi formali e sostanziali tra il carme
scaldico (descrittivo, encomiastico, personale) e il carme eroico
(epico-drammatico e anonimo), se entrambi nacquero in seno
all’aristocrazia guerriera germanica e risonarono nell’aula regia
sulla bocca di poeti di corte a lode dell’eroe o a rievocazione
delle sue gesta2? E, nella seconda ipotesi, fu l’arte ornamentale
geometrico-lineare dell’età vichinga o non piuttosto il riflesso
ancor vivo di antiche concezioni magico-sacrali a determinarne
l’elaboratissimo concettismo metrico e stilistico divenuto poi
fine a se stesso3?

boreale, Oxford, 1883, II, p. 2 sgg.; S. Bugge, Bidrag til den seldste
skaldedigtnings bistorte, Kristiania, 1894, p. 65 sgg.; A. Bugge, Vester-
landenes indflydelse paa nordboerne..., ivi, 1905, p. 65 sgg.; A. Olrik,
Nordisk Aandsliv i vikingetiden, Kobenhavn, ed. 1927, p. 59). Molto
più cauti Heusler (Altg. D. pp. 28, 135 sgg.) e dopo di lui J. de Vries
(Altn. Litg. Berlin, 1941-42. I, p. 69 sgg.) si sono limitati a mettere
in evidenza i caratteri formali che differenziano il carme scaldico dai
tradizionali schemi metrici germanici. Un influsso celtico sulla Fornaldar-
saga è ipotizzato da E. Ól. Sveinsson, tslenzkar bókmenntir, cit., pp. 35-36.
1 Heusler, Deutsche Versgeschicbte, Berlin-Leipzig, 1925, I, p. 300 e
Altg. D., p. 28 sgg.; H. Lie, Skaldestil-Studier, in MM, 1952, p. 5 sgg.
; Sulla base di semplici congetture J. de Vries (Altgerm. Religionsgesch.,
cit. in bibliografia, Berlin, 1955-572, I, p. 440 sgg., II, pp. 67-73) ritiene
che il carme scaldico abbia avuto la sua remota origine nella poesia
cultuale.
2 Distinti per contenuto e forma i due generi presentano però, come
t s’è già detto, molti punti di contatto e aspetti comuni per non dire
: dei molteplici sicuri indizi di interazione fra poesia scaldica e eddica
(Vgluspà, Hymiskvida, Helgakvida, Atlamàl, Glymdràpa, Haustlgng, Ei-
riksmàl, Hàkonarmàl). Bisogna dunque guardarsi da troppo rigide clas­
sificazioni, e da una applicazione meccanica delle distinzioni oggettive e
stilistico-formali messe in rilievo da E. Noreen (Den norsk4slàndska
ì Voesien Stockholm, 1926, p. 16 sgg.). Se le accogliessimo, dovremmo
! escludere dalla poesia scaldica: i poemetti di Egill, perché composti in me­
tro non tipicamente scaldico; lo Hàkonarmàl e lo Haraldskveedi, perché
dialogici; e finalmente lo Haustlong, perché narrativo. Sarebbe forse più
esatto e più conforme all’uso della tradizione islandese parlare di due
; diverse tendenze del gusto; giacché quanto oggi, per i moderni filologi,
va sotto il nome di eddico, indicò per i rimatori islandesi del Quattro
ì (p. es. Lilja str. 97) e Cinquecento (che avevano l’occhio all’Edda snor-
! rica) la poesia tipicamente scaldica. Forse chi recitava un carme eddico
sentiva di parlare in nome di una tradizione già formata, mentre chi
recitava un carme scaldico si sentiva egli stesso creatore d’una tradizione,
j Cfr. C. M. Bowra, Heroic Poetry, London, 1961, p. 40.
I 3 Heusler, Altg. D. pp. 135-36; de Vries, Altn. Litg. I, p. 90; e per
, i nessi con le arti figurative H. Shetelig, Osebergfunnet, Oslo, 1917-20,
I III, pp. 21-25; e soprattutto H. Lie., cit., in MM, 1902., p. 8 sgg. Alla
46 Le letterature della Scandinavia

Se questi e altri irrisolti quesiti rendono quanto mai arduo


il compito del filologo di professione, basta il semplice assag­
gio di un qualsiasi componimento scaldico per scoraggiare il
più entusiasta amatore di poesia, anche se non inesperto di
nordico antico. Più volte, è vero, si son levate autorevoli
voci di studiosi per rivendicare a questo genere letterario il
posto d’onore che ad esso spetterebbe nella tradizione poetica
del Medioevo scandinavo. Si è detto che assai più dei semplici
« popolari » e anonimi componimenti eddici, gli squisiti ricami
verbali dei tanti e celebri poeti norvegesi e islandesi costitui­
scono l’autentico patrimonio letterario della Scandinavia antica,
la gloria della sua aristocratica poesia d’arte. Si è dato partico­
lare rilievo alla omogeneità e vitalità della tradizione scaldica,
che per secoli tenacemente resistette al fermento dissolvitore
della nuova cultura introdotta col cristianesimo; attraverso un
approfondito studio linguistico è stato anche possibile intender
meglio i valori formali di questo genere poetico e talvolta la
personalità dei singoli autori. Ma almeno in sede estetica, ben
pochi, credo, sono disposti a seguire i patiti della poesia scal­
dica sulla via della loro infatuata ammirazione1.
Per formulare un giudizio, sia pur provvisorio, conviene
direttamente affrontare il problema critico sulla base della
superstite documentazione.
Il primo punto fermo nell’incerta e lacunosa storia della
poesia scaldica è il suo epilogo, chiaramente sintetizzato nella
opera storiografica poetica e critica di Snorri Sturluson. Nel-

magia runica fa risalire la genesi della poesia scaldica M. Olsen (Om


Troldruner in Edda, 5, 1916, p. 235 sgg.). Sul suo esempio À. Ohl-
marks (Till fràgan om den fornnordiska skaldediktnìngens ursprung in
ANF, 57, 1943 pp. 178-207), che si richiama a Giordane (Getica, c. 49
e all’epilogo del Beowulf w . 3174-3177) e avanza l’ipotesi dell’esistenza
d’un vero e proprio rito commemorativo-apotropaico dei caduti in bat­
taglia, mediante la composizione di epitaffi in metro e stile scaldico
(arfijód). Vedi però le osservazioni di J. de Vries Altn. Litg. cit. I2
p. 100, che ricorda il carme encomiastico in metro scaldico di Porbjgrn
per Araldo Bellachioma ancor vivo; e, per converso, quelli per eroi morti
come Eirtksmàl e Hàkonarmàl in metro non scaldico.
1 Ultimo fra questi À. Ohlmarks (Islands hedna skaldediktning, Stoc­
kholm, 1957) che per il suo teutomane entusiasmo (Egill Skallagrimsson
sarebbe addirittura « uno dei massimi poeti europei », p. 16) fa pen­
sare alla ben nota boria nazionalistica di quegli studiosi tedeschi che
riavvicinavano, anzi anteponevano i poeti minnesingheri a un Archiloco
e a un Mimnermo (v. C. Griinanger, Heinrich von Morungen e il pro­
blema del Minnesang, Milano, 1948, pp. 31-32).
Medioevo pagano e cristiano 47

FEdda snorrica (1220-30?) culmina e si cristallizza la secolare


tradizione di questa poesia aulica; viene codificata, critica-
mente studiata e sistematizzata. È vero che anche qui, come
più o meno in tutti i monumenti letterari del germanesimo
antico, Feredità pagana è spesso velata e talvolta ricoperta
da evidenti sovrastrutture cristiane, ma non al punto da ren­
derne indiscernibili almeno alcuni tratti fondamentali. Se a
ciò si aggiunge il discreto stato di preservazione dei tre prin­
cipali Mss. delFEdda snorrica (i « sinottici »: Regius 2367,
4° del 1325 c. con il dipendente Trajectinus, copia secentesca
d’un Ms. medievale; Wormianus AM. 242 fol. del 1350 c.;
Upsaliensis, De la Gardie 11,4° del 1300 ca.) e la diretta testi­
monianza storico-critica di Snorri, per lo più coerente e persua­
siva, sembra impossibile negare l’autenticità d’una tradizione
di poesia di corte risalente almeno all’età di Araldo Bella-
chioma.
Nel prologo della Heimskringla Snorri esplicitamente in­
dica, oltre le genealogie oralmente tràdite (« kynkvìsl, lang-
fegdatal ») e le altre fonti, anche scritte, di cronisti e narratori
di Saghe, i versi scaldici come fonte principale della sua infor­
mazione. È ben consapevole del carattere intrinsecamente en­
comiastico di tale poesia, ma osserva — anticipando cosi di
quattro secoli un analogo e penetrante giudizio di La Roche­
foucauld sui vincoli che legano i cortigiani ai loro signori1 —
che gli scaldi non avrebbero mai impunemente osato di attri­
buire ai principi (al cospetto dei quali recitavano i propri car­
mi) imprese e glorie immaginarie: « ciò sarebbe suonato scher­
no e non lode » 2. Malgrado l’intento celebrativo dunque, essi
non potevano mentire quando esaltavano fatti recentemente
avvenuti come p. es. spedizioni e battaglie (« ferdir ok orrus-
tur ») ai quali chi ascoltava aveva preso parte. Così, se Snorri
accetta, in linea di massima, il valore dei carmi scaldici, lo
condiziona però alla loro incorrotta preservazione e retta in­
terpretazione {ef rétt kvedin ok skynsamliga upp tekin) e in­
sieme ne documenta l’esistenza, citandone direttamente non
meno di 613 strofe3.

1 S. Nordal, Snorri Sturluson, Reykjavik, 1920, p. 166; e per il valore


che la tradizione nazionale ha avuto per Snorri cfr. pp. 107-128; 162-167.
2 « pat vaéri p à had enn eigi lof » (Heimskringla, ed. F. Jónsson, K 0-
benhavn, 1893-1901. I, pp. 3-4).
3 Nella seconda parte dell’Edda snorrica (Skàldskaparmàl) vengono ci­
tati 67 scaldi norreni: 4 del IX see.; 35 dell’XI; 11 del XII (cfr,
A. Jòhannesson in Z D P h 59, 1935, p. 133 sgg.).
48 Le letterature della Scandinavia

Anche sotto questo aspetto lo storico islandese si muove


nel solco d’una lunga tradizione. Dalla latina Storia dei re
norvegesi di Teodorico che parla senza citarli di « antiqua
carmina » (1180 c.) alla leggendaria Saga di Sant’Olao (1170 c.)
e al cronachistico Agrip (1190 c.) il citar versi scaldici come
fonte documentaria appare una consuetudine fissa, destinata
via via a decadere a puro motivo ornamentale1. Ma soltanto
in Snorri il problema della condizionata attendibilità storica
della poesia scaldica è consapevolmente impostato e studiato;
soltanto in lui questa tradizione poetica acquista almeno par­
ziale consistenza ed evidenza; soltanto in lui, quali che siano
le riserve da farsi su possibili e probabili fraintendimenti già
in fase di tradizione orale, il materiale scaldico è sottoposto a
una sistematica (e talvolta sin troppo estrinseca e pedantesca)
indagine critica.
Tutte le figure, i tropi, i colori retorici, i tipi d’espressione
lontani dall’uso quotidiano e prosastico (e spesso anche dalla
tradizione poetica eddica) sono passati in rassegna nella se­
conda e terza parte della sua Edda (« Skàldskaparmal e Hàt-
tatal »). Tra questi, rilievo particolarissimo ha la « kenning »
o metafora poetica. Snorri ne spiega il significato etimologico
e la funzione perifrastica pur senza mai formularne una netta
definizione.
A differenza dei sinonimi o epiteti poetici (« ókent heiti »
o « forngfn » ) 2 la « kenning » si presenta come un composto
nominale formato di due elementi: dei quali il primo (di solito
un genitivo) ha il compito di determinare il concetto fonda-
mentale espresso dal secondo, ma il cui risultato globale ha
un valore semantico diverso da entrambi i componenti. La
spada per esempio è detta « Ódins-eldr », cioè fuoco di Odi­
no, lo scudo « hildar-sky » o nuvola della battaglia, la batta­
glia « hjgr-rodd » o voce della spada; la nave « vag-marr » o ca­
vallo dell’onda; l’oro « Fàfnis setr »: giaciglio di Fàfnir o « Rì-
nar-bàl »: fuoco del Reno (con allusione alla leggenda nibe­
lungica) ecc.
« Kenning » (semplice) — dice Snorri nell’Hattatal3 — è

1 Per esempio nella Hàkonarsaga Hàkonarsonar scritta intorno al 1165,


dove l’autore Sturla jDÓrdarson cita versi scaldici da lui stesso composti.
2 S. Nordal ha dimostrato l’assoluta equivalenza dei due termini (v. Snor­
ri Sturluson, cit., pp. 102-105).
3 Edda Snorra, pp. 215-217. Sull’origine della « kenning », ben nota anche
fuori dell’area nordica, ma sistematicamente usata e abusata dagli scaldi
norreni, s’è concentrata l’attenzione degli studiosi. Chi ha voluto farla
Medioevo pagano e cristiano 49

chiamare « fragor dei dardi » (flein-brag) la battaglia; doppia


(« tvlkent ») chiamare « fuoco del fragor dei dardi » (flein-
braks-fur) la spada; multipla (« rekit ») quella che è accresciu­
ta [di ulteriori composti] Inoltre la « kenning » può essere
vera (« sannkenning ») quando il tertium comparationis richiè­
sto dal principio analogico è senz’altro evidente (per esempio
chiamare il petto « hug-bud », cioè dimora dell’animo); è detta
invece « nyggrfing » quando rappresenta una innovazione fan­
tastica rispetto alle forme tradizionali (per esempio chiamare
le lacrime « bràdpgg, brà-regn » cioè: rugiada dei cigli, pioggia
dei cigli); riceve infine l’appellativo di « nykrat » (part, neutro
da ricollegare al sost. nykr, ags. nicor, ingl. ted. nick, Nix
= il proteiforme spirito acquatico delle tradizioni popolari)
quando se ne fa un uso inconseguente e stravagante (per esem­
pio — dice Snorri — « quando la spada è chiamata prima
serpe e poi pesce o verga... ciò è detto “ nykrat ” , ed è una
bruttura » ) 2.

derivare da motivi d’esoterismo profano (A. Olrik in N ordisk Tìdskrift,


Letterstedtska fòreningen, 1897, p. 339 sgg.; E. Noreen, Studier
i fornvàstnordisk diktning, Uppsala, 1921, I, p. 3 sgg.) o sacrale e
tabuistico (F. Kaufmann, Balder. Mythos u. Sage, Strassburg, 1902,
p. 200; W. Krause, Die Kenning, cit., p. 18; J. Helgason, Norron
Litteraturhistorie, Kobenhavn, 1934, p. 22 sgg.; L. Mittner, Wurd.
Das Sakrale in der altgerm. Epik, Bern, 1955, p. 15 sgg.); chi ne ha
messo in evidenza il peculiare carattere metaforico assai affine a quello
della definizione aristotelica (Poetica XXI, 12: « La coppa sta a Dioniso
in relazione analoga a quella in cui lo scudo sta ad Ares; perciò lo
scudo può esser detto coppa di Ares e la coppa scudo di Dioniso»,
cit. in Heusler, Altg. D., p. 137; e in de Vries, Altn. Litg., I, p. 73);
chi ha voluto spiegarne l’accoglimento nel linguaggio scaldico come una
conseguenza inevitabile della complicatissima metrica (F. Jónsson, in
ANF, 6, 1890, p. 387; W. Bode, Die Kenning in der angelsàchs. Dich-
tung, Darmstadt, 1886, p. 14); chi ne ha voluto tracciare l’evoluzione
0 meglio l’involuzione, delineandone il processo di scadimento da ori­
ginaria e vivida figura poetica ad astrusa formula convenzionale (H. Falk
in ANF, 1889, p. 255; R. Meissner, Die Kenningar der Skalden, Bonn-
Leipzig, 1921, p. 20; W. Mohr, Kenningstudien, Stuttgart, 1933, p. 136);
chi infine, attraverso un esame tipologico, ha tentato di definirne la
varia funzione antonomastica, enigmatica, parabolica, allegorica (E. No­
reen, Studier, cit., I, p. 4 sgg.).
1 P. es.: fjardar elgs vangs fur e cioè: fiardar elgr = « alce del fiordo »,
cioè « nave »; fiardar elgs vangr = «piano su cui cammina l’alce del
fiordo », cioè « mare »; fjardar elgs vangs fur = « fuoco del piano del­
l’alce del fiordo », cioè « oro ».
2 Notevole l’esplicita condanna che di tale uso allotrio della metafora,
già faceva la retorica classica: « Id quoque in primis est custodiendum,
ut, quo ex genere cceperis translations, hoc desinas. Multi autem, cum
50 Le letterature della Scandinavia

Da queste asistematiche enunciazioni di Snorri, e più an­


cora dall’esame dei testi scaldici (e eddici) a noi noti, risultano
evidenti alcuni fatti fondamentali.
La « kenning », qualunque sia stata la sua remota preisto­
ria, fu impiegata dagli scaldi norreni quale mezzo stilistico a
fini prevalentemente letterari: a variare e vivificare la ristretta
tematica del genere encomiastico e dagli ascoltatori fu certo
apprezzata per il suo valore poetico tradizionale e rituale. Fu
essa più di tutti gli altri connotati metrici e linguistici a
costituire, semplice o multipla, il fulcro della poetica scaldica,
la sua forma d’espressione più caratteristica. Se nel Nord non
esistettero, come in Irlanda, vere e proprie scuole di poesia,
vi fu però senza dubbio, favorita da un’aristocratica corrente
del gusto, una ben definita tradizione di arte versificatoria,
per lo più ereditaria, che da un punto di vista storico e filo­
logico merita attenzione per il non trascurabile valore docu­
mentario e per la ricchezza e varietà delle forme linguistiche,
soprattutto metaforiche. Mai come in questa tradizione d’arte
la metafora, in ogni tempo considerata l’anima stessa della
poesia — da Aristotele a Vico, da A. W. Schlegel a Leopardi
e a Baudelaire — ha trovato applicazione più metodica e più
esclusiva. Si tratta naturalmente d’una applicazione sui generis,
rispondente, come s’è detto, a un gusto spiccatissimo per l’ar­
tificio, per l’indovinello, per il gioco di parole.
Lo scaldo non dice, per esempio: « Il principe mi ha do­
nato le armille » ma « il guidatore del cavallo delle onde » (cioè
il principe signore di una nave) ha donato all’« albero della
battaglia » (cioè al guerriero) « lo splendore diurno del fiord »
(cioè l’oro); non dice: « La mia poesia è giunta risonante agli
orecchi di ognuno », ma « il corno pieno dell’idromele di Yggr
(appellativo di Odino, dio della poesia) è giunto spumeggiante
alle bocche dell’udito di ognuno ». Cosi se chiama il mare
« casa {bùi) della balena » (hvalr-) e il ghiaccio « pelle (hùd)
del mare » (seer-), mediante l’ingegnoso gioco d’una « kenning »
multipla, può battezzare l’islandese che abita in un paese di
ghiacci: « l’abitatore della pelle della casa della balena (hvals
bùdar hùdlendingr) ». Se dunque nelle sue forme più sem­
plici, la « kenning » si presenta come un composto nominale bi­

initium a tempestate sumpserunt, incendio aut ruina finiunt, quae est


inconsequentia rerum foedissima» (Quint. Inst. or. V ili, 6, 50; cit. in
G. Gerber, Die Sprache der Kunst, Berlin, 18842, II, p. 95).
1 G. Finnbogason in APhS. 9, 1934-35, pp. 69-75.
Medioevo pagano e cristiano 51

membre (Ódins som, jardar konr, Beowulfr ecc.), presso i


maggiori scaldi appare sempre arricchita e complicata attra­
verso un processo di deduzione, nel quale un quid simile può,
con identico valore, sostituire in parte o in tutto l'immagine
originaria.
Questo sofisticato gioco, questo sapiente calcolo analogico
che soffoca il respiro e l’articolazione dell'intera frase, assor­
bendone in sé quasi tutti gli elementi (tranne il verbo in fun­
zione descrittiva, l'avverbio, l'aggettivo dimostrativo e posses­
sivo) non si presenta come tardo difetto di epigoni, ma è già
discernibile negli scaldi più antichi.
Sotto tale aspetto Bragi Boddason (prima metà del IX see.)
che chiama il corvo « cuculo dei cadaveri » (hrcera gaukr)
non è sostanzialmente diverso da Skallagrìmr Kveldùlfsson
(860-940?) che chiama il mantice del fabbro, fatto con pelli
di pecora, « panni succhianti il vento del fratello dell'ariete »
(viàar bródur vedrseggjar vàdir); Kormàkr Ogmundarson
(930-970?) che chiama la spada « ripagatore dei cardini della
porta della fragorosa Ràn » (glym-Rànar gàtthlids innir: « gly-
mja » = rimbombare; « Ràn » = dea del mare; « gàtt » =
porta; « hlid » = cardine; « inna » = ripagare) non è diverso
da Sighvatr J)órdarson (995-1045?) che chiama il corvo « spar­
viero delle lacrime delle ferite » (benja tàrmutari: « ben » =
ferita; « tàr » = lacrima; << mùtari » = sparviero; « lacrime
delle ferite » è una kenning per « sangue »); Glùmr Geirason
(940-985?) che chiama il re prode in battaglia « custode della
siepe del destriero nero di Glammi » (Glamma sóta gards gastir
— « Glammi » è un re vichingo; « sóti » = destriero nero:
kenning per « nave incatramata »; « gardr » = recinto [allu­
sione alla fila di scudi variopinti fissati esternamente ai bordi
della nave]; « gaetir » = custode) non è diverso da Gìsli
Sùrsson (m. nel 978?), che chiama il campo di battaglia « boc­
cone di Muninn » (Munins tugga — Muninn è uno dei due
corvi di Odino) né dal suo collega ]?órarinn svarti Màhlidingr
(fine sec. X), che continuando a ricamare sulla stessa « kenning »
chiama la spada « fuòco del boccone di Muninn » (Munins tuggu
eldr); lo scaldo-guerriero Egill Skallagrìmsson (910-990?) non
è diverso dallo scaldo-chierico Einarr Skùlason (1110-1160?).
Se il primo è insuperato maestro nell'arte d'inventare e
d'invertire le kenningar (il normale passaggio di una « kenning »
da semplice a doppia e a multipla è spesso ulteriormente com­
plicato dall'inversione: hrann-hyrr cioè « fuoco dell'onda » =
oro; hrann-hyr brjótr cioè « spezzatore dell'onda » = principe
52 Le letterature della Scandinavia

munifico, diviene in Egill: hyrìar hrann-brjótr cioè « spezzatole


dell’onda del fuoco ». Analogamente: hjaldr-fold = « terra
della battaglia » = scudo; hjaldr-foldar Gnà cioè « dea della
terra della battaglia » = dea dello scudo; hjaldr-foldar Gnàr
snerrandi cioè « guerriero [snerra = battaglia] che fa lavorare
la dea dello scudo » diviene: fold-Gnàar hjaldr-snerrandi); il
secondo non è da meno nel sapiente impiego di tutti gli arti­
fici del mestiere. Ad illustrarli basterà una strofe tolta alle
sue visur1.
Hrynia lét en hvita
hausmjgll ofan lausa
strind aurrida strandar,
stalls af reikar fjalli.
Il significato è chiaro: la bianca terra lasciò cader giù dalla
montagna la neve sciolta. Ma chi guardi alle « kenningar » tro­
verà che: strind cioè: terra, è l’elemento fondamentale d’una
« kenning » quadrimembre (aurridi o gnidi — trota; strgnd =
costa; trota della costa = serpe; stallr = sede; sede del
serpe = oro) che semplicemente significa « donna »; tnjgtt
cioè « neve fresca » fa parte d’una kenning che significa
« capigliatura ondulata » (hauss testa); fjall cioè « monte »
fa parte di una « kenning » che significa « testa » (reik:
scriminatura; « monte della scriminatura »: testa). Collegate
dunque le tre « kenningar » equivalgono a: la bianca donna
lasciò snodarsi giù dal capo l’ondulata capigliatura. Estrema
sottigliezza verbale e intellettuale! — si dirà. Senza dubbio;
ma procedente dallo stesso gusto che moveva l’« artifizioso e
convenzionale » (De Sanctis) Petrarca a scrivere: « Erano i
capei d’oro a Laura (l’aura) sparsi » e a trastullarsi — talvolta
felicemente — con quegli anfiboli bisticci (lauro, Loreta ecc.)
che, secoli dopo, dovevano essere assunti nell’Olimpo delle
argutezze, delle figure, dei concetti barocchi2.
E all’abilità combinatoria del barocco fa infatti pensare il
gioco dei contrasti e degli inattesi accostamenti concettuali cui
accenna Snorri, quando, nel suo commento alla tecnica scaldica

1 E. A. Kock, òftald, I, p. 233, str. 10; e J. Helgason, Norron Litt.


cit., p. 25.
2 Si pensi — anche fuori d’Italia — a Shakespeare che fa discettare
Romeo (Atto I, scena I) sull’essenza dell’amore: « Feather of lead, bright
smoke, cold fire, sick health... ».
Medioevo pagano e cristiano 53

delle antitesi1, si fa ad illustrare un metro detto hrefvaurf


o « giravolte di volpe »:
Siks glóthar veR ssekìr
slétt skardb bafi iarthar.
Qui siks glóth: splendore della fossa è una « kenning » per
«oro »; veR può essere la terza pers. sing, dell’indicativo di
« verja »: difendere; così ssekir di « saekja »: cercare, iarthar
bafi slétt skardh è una kenning per indicare un fjord e pro­
babilmente allude a una provincia occidentale della Norvegia:
il Firdafylki. Il significato sarebbe dunque: « il guerriero (cer­
catore d’oro) difende la provincia di Firdafylki ». Ma, osserva
Snorri — per mettere in evidenza l’apparire e sparire delle
antitesi che s’avvicendano come giravolte di volpe in fuga —
il concetto di acqua (che riempie la fossa in cui risplende l’oro)
è antitetico al concetto di splendore, di ardore; sasktr po­
tendo anche essere un sostantivo - assalitore è antitetico a
difensore (seekir-veR); sléttr, « liscio » è antitetico a skardh,
« incavo »; haf: mare è antitetico a Firdafylki ch’è una terra;
sicché il senso .riposto, voluto dalla tecnica scaldica sarebbe:
« l’uomo (veR, got. wair, lat. vir) dell’oro assale per mare
il Firdafylki. »!
Ma c’è ben di più. Al lambiccato gioco metaforico e al
vocabolario raro, prezioso, ricchissimo, come s’è detto, di si­
nonimi o epiteti poetici (p. es. « jQr », « fàkr », « marr »,
« drasill » o « drgsull »: cavallo; « lof », « ódr », « bragr »,
« maerd », «h ró d r»: poesia; « fylkir », « dróttinn », « ]?jó-
dann », « allvaldr », « gramr », « visi », « jpfurr », « hilmir »
ecc.: capo) corrisponde, nella tradizione scaldica, una struttura
metrica che ha perduto la libertà ritmica della poesia eddica
e il suo enfatico rilievo delle toniche, governata com’è da un
chiuso numerus syllabarum e da ferree leggi di composizione.
Il principale metro è il dróttkvsett2, formato di otto versi

1 Edda Snorra, cit. p. 223.


2 Cioè « metro della poesia recitata in presenza del séguito del re »;
da Snorri (ed. cit., p. 215) detto upphaf allra bàtta, cioè: metro scal­
dico originario, probabilmente perché per la prima volta da lui trovato
in Bragi. Secondo Heusler (Altg. D., pp. 29-30) e de Vries (Altn. Litg., I,
pp. 91-94) modellato su esempi stranieri, forse mediolatini, che i nor­
dici conobbero pel tramite della poesia irlandese; secondo H. Lie (Skal-
destil-Studier, cit., p. 16 sgg.) creazione ex novo dovuta al genio di
Bragi. In mancanza di prove o indizi sicuri sembra preferibile associarsi
alle prudenti riserve di S. Nordal che lascia aperto l’intero problema
54 Le letterature della Scandinavia

« lunghi » (di 6, eccezionalmente di 7, 8, e anche 9 sillabe


ciascuno) legati a coppia — senza tener conto delle rarissime
anacrusi — da tre arsi principali, e sempre terminanti in un
trocheo. In ogni verso dispari del dróttkveett normale, poi,
deve esserci semirima interna (skothending), in ogni verso
pari rima piena (adalhending), a quanto sembra, con fun­
zione puramente ornamentale (e non di legamento com’è per
l'allitterazione nella poesia eddica); ma molte furono le varian­
ti (l’ottosillabico brynhent, il trisillabico rùnhent, il pentasilla­
bico hadarlag ecc.) elencate con minuta prolissità nelle 102
strofe délVHàttatal di Snorri e, a giudizio di molti, sorte sotto
l’influsso della innologia mediolatina come sembra dimostrare
la « clavis rhythmica » (Hattalykill) attribuita a Rggnvaldr delle
Orcadi e all’islandese Hallr Pórarinsson 1.
Se a ciò si aggiunge l’intricatissima disposizione delle pa­
role nel tradizionale contesto strofico (conseguenza inevitabile
di siffatta prosodia, o piuttosto antico retaggio di magia nu­
merica?) si comprende come i componimenti scaldici — sia
nella complessa e pomposa forma della « dràpa » 2 sia in quella
più semplice e breve del « flokkr » e della occasionale « lausa-
visa » — facciano più pensare a un paziente lavoro d’erudizione
a tavolino che a creazione mnemonica (comunque non certo
estemporanea, ma lungamente meditata) di gente d’arme, di

(Islenzk ntenning., Reykjavik, 1942, p. 234 sgg.). Sui rapporti fra me­
trica eddica e metrica scaldica v. Genzmer in JGEPh., X III, pp. 323-33;
L. M. Hollander, ivi, LII, pp. 190-197; e E. Ól. Sveinsson, tslenzkar
bókmenntir, cit., pp. 108-118.
1 Dopo G. Neckel (Beitràge zur Eddaforscbung, Dortmund, 1908, p. 14)
hanno sostenuto questa tesi, oltre Heusler (Altg. D.y p. 29) e de Vries
(Altn. Litg., I, p. 212), S. Nordal, Egilssaga Skallagrimssonar, Reykja­
vik, 1933, p. 220 e F. J. Raby, A History of Christian-Latin Poetry
from the Beginnings to the Close of the Middle Ages, Oxford, 1953,
pp. 138, 150. Un parallelo nel campo romanzo è offerto — com’è noto —
dalla metrica trovadorica, i cui modelli più antichi risalgono all’innica re­
ligiosa del Medioevo (H. Spanke in Studi Medievali n. s. 7, 1934, p. 83).
Cfr. anche J. Helgason-A. Holtsmark, Hàttalykill enn forni, Kobenhavn,
1941, p. 118 sgg.; 142 sgg.; G. Turville-Petre, Origins of Icelandic Litera­
ture, Oxford, 1953, p. 141 sgg. Rggnvaldr che s’ispirava — come è stato
dimostrato — alT« Ars major » di Donato, fa derivare la allitterazione dal­
la poesia latina (!) e ne paragona la funzione nella poesia norrena ai chio­
di che tengono insieme la nave (upphaf til kvcedandi peirrar er saman
heldr norrcenum skàldskap, svà sem naglar halda skipi saman) in Islands
grammatiske litteratury II ed. B. M. Ólsen, SUGNL, n. 12, p. 96.
2 Cosi detta forse per l’« inserimento » in essa di uno o più ritornelli
(stef) in una o più strofe (cfr. S. Nordal in APhS, 6, 1931, pp. 144-149).
Medioevo pagano e cristiano 55

individui poeticamente dotati, benché senza alcun dubbio anafc


fabeti1. Due saggi tolti al mutilo carme imprecatorio di Egill
contro Eirikr blódox2 e al carme encomiastico del suo allievo
Einarr skàlaglamm (Vellekla3) serviranno a concludere questo
breve esame della tecnica scaldica:
Svà skyldi god gjalda Cosi possano le divinità ripagare
gram reki bgnd af Igndum il principe e cacciarlo dalle terre;
reid sé rggn ok Ódinn — sfoghino la loro ira le potenze
rgn mins féar hgnum! e Odino su di lui, ladro dei miei
[beni!
Folkmygi làt’ flyja L’oppressore facciano fuggire,
Freyr ok Njgrdr, af jgrdum Freyr e Njordr, dalle terre;
leidisk lofta stridi s’adiri l’Aso di terra []?órr]
landàss panns vé grandarl contro il nemico dei liberi,
contro il profanatore della sacra
assemblea!
Berk fyrir hefnd pàs hrafna Tributo il mio encomio per la
— (hljóms) lof (togins skjóma vendetta che il custode dei corvi
hann nam) — vgrdr (at vinna) delle onde [corvo delle onde =
vann sins fgdur hranna. nave] prese a causa di suo padre.
Egli riuscì a far lavorare la
sonante e lampeggiante spada
sguainata.
Anche qui sono visibili, nel primo verso della prima strofe, i
due « studiar » o arsi allitteranti (g - g) con lo « hQfudstafr »
o arsi principale del secondo (g), nonché le rime consonantiche
interne che seguono a vocali toniche diverse {yld - aid), e, nel
secondo verso, le rime interne piene (gn-gn). Del pari, nella
seconda strofe, le rime consonantiche interne dei primi due
versi (h) e le semirime o assonanze (efn-afn; jóms-jóm; inn-
ann); mentre, a misurare Pincomprensibile arbitrarietà dell’or­
dine sintattico, basta tener presente che l’uso prosastico, al
quale, malgrado il lessico scelto, sostanzialmente si attiene lo
stile eddico, richiederebbe: « Berk lof fyr hefnd pàs vgrdr
hranna hrafna vann sins fgdur; hann nam at vinna hljóms
togins skjóma » - cioè letteralmente: « porto io elogio per la
vendetta che il custode dei corvi delle onde prese per suo

1 Heusler, Altg. D., p. 140.


2 Kock, Skald., I, p. 30, str. 29.
3 F. Jónsson, Skjald., cit. A. 124, B. 118.
56 Le letterature della Scandinavia

padre; egli riuscì a far lavorare lo strepito della sgainata [luce


lampeggiante] spada ».
Era cantata o semplicemente recitata questa poesia? Esi­
stevano regole (ritmiche, mimiche) che la rendessero intelligi­
bile (sia pur entro ristrette cerchie di iniziati, e non senza
sforzo di penetrazione) non solo agli islandesi ma anche ai
prìncipi nordici e anglosassoni presso i quali gli scaldi erano
tenuti in tanto onore? Se qui, a differenza di altre aree germa­
niche, le fonti non parlano di accompagnamento musicale, è
però verosimile pensare che, in corrispondenza di sì elaborata
struttura metrica, esistessero determinati canoni di recitazione,
d’intonazione1 — e anche di disposizione delle parole nel con­
testo strofico.
Le strutture più semplici non presentano in verità ostacoli
insormontabili. Una strofe delle Banasàrsvisur di Hallfrodr
Óttarson, da noi qui tradotta con indicazione, in parentesi in
incisi e in numeri romani, delle parti da collegare, basterà
forse a dare un’idea di come tale collegamento a senso, potesse
essere suggerito dalla semplice intonazione della voce:
(Ek munda nù andask) (Ora spirerei [I])
— ungr vask hardr i tungu — — da giovane fui maledico —
senn, ef sàlu minni subito [II]; se la mia anima
(sorglaust), vissak borgit. (senza paura [III]) sapessi salva.
Veitk at vsettki sytik So che nulla temo io
(valdi god, hvar aldri) (decise Dio dove la vita mia [IV])
— daudr verdr hverr — nema — ogni uomo muore — fuorché
[hr&dumk [ho paura
helviti (skal slita) 2 deirinferno (troverà fine [V]).
Non diversamente, la seguente emistrofe3 della « dràpa » di
Einarr skàlaglamm in onore di Hakon jarl, risulta intelligibile
anche a chi ha una conoscenza elementare di tecnica scaldica:
Byggdi Ignd (en lunda Occupava la terra (e dei guerrieri
lék ord a pvi) fordum. prendo a prestito le parole) una
Gamia kind, sùs granda volta la stirpe di Gamli, che
(gunnbords) véum pordi. profanare (dello scudo) i templi
[osò.

1 È nota l’ipotesi di I. Lindquist (Galdrar, Goteborg, 1923, p. 3 sgg.)


sulla recitazione dei carmi magici « in falsetto ».
2 Kock, Skald. I cit., p. 88. De Vries, Altn. L i t g cit. I, p. 217, la
ritiene spuria per ragioni metrico-stilistiche, a causa cioè dei tre tipi
di adalhending mai ricorrenti nella poesia di Alfredo (ung, org, it).
3 Kock, Skald. I, p. 66, str. 1.
I Medioevo pagano e cristiano SI

cioè: Gamia kind, su es pordi granda vé, byggdi fordum Igni,


en gunnbords lunda ord lé ek a pvt = « La stirpe di Gamli
(figlio di Eirikr blódox) che osò profanare i templi, occupava
una volta la terra; e notizia di ciò io ho udito (prendo a
prestito) dai guerrieri dello scudo ». Qui il primo genitivo
plur. (lunda) fa, per consuetudine, parte d’una « kenning » in­
dicante « guerra, battaglia » ecc.; sicché chi ascolta, e subito
mentalmente lo lega al secondo genitivo (gunnbords) nell’ul­
timo verso, afferra senza sforzo il significato della « kenning » e
delPemistrofe.
Ma la perplessità comincia quando le strutture si fanno
intricate e complesse fino alFenigma, quando le « kenningar » a 4
a 5 a 6 composti s’annodano e si snodano s’incapsulano e si
segmentano, moltiplicando cosi le possibilità d’interpretazione,
ma anche d’errore l. Si è parlato di schemi fissi della costru­
zione strofica; si è tentato di analizzarli e di fissarli secondo
una ragionata casistica (allineamento parallelo di due frasi:
ab; inserimento d’una frase fra due altre: a(b)a; intreccio di
due frasi: a b -a b )2; ma la complessità strutturale delle sin­
gole strofe ha troppo spesso sfidato ogni canone interpretativo
costringendo gli esegeti a sempre nuove congetture. Riprendia­
mo, ad esempio, la strofe 10 della Vellekla3, che non presenta
certo problemi insolubili. Jónsson interpreta: Berk lof fyr hefnd
pàs vgrdr hranna hrafna vann sins fgdur; hann nam at vinna
bljóms togins skjóma = « faccio l’elogio per la vendetta che il
custode dei corvi delle onde (navi) prese a causa di suo padre;
egli riuscì a far lavorare lo strepito della sguainata [luce lam­
peggiante] », cioè, « spada ». Ma si può anche con Reichardt4
intendere: Berk lof togins skjóma hljóms fyr hefnd: faccio
l’encomio della battaglia (hljómr « strepito »; togins skjóma
« della spada sguainata »; skjómi è elemento fondamentale

1 Heusler, Altg. D., p. 135 ricorda a proposito della tmesi dei compo­
sti il latino di Ennio e di Alcuino; de Vries (Altn. Litg., I, p. 86,
nota 3) quello di Beda. Altri esempi si potrebbero citare (cfr. W. Kroll,
Studien zum Verstàndnis der róm. Lit., Stoccarda, 1924, p. 261 sgg;
F. J. E. Raby, cit., I, p. 191.
2 K. Reichardt, Studien zu den Skalden des 9 u. 10 Jahrhunderts, Leip­
zig, 1928, p. 79 sgg.; W. Mohr, Kenningstudien, cit., pp. 4-14 parla di
un Erledingungsprinzip, in base al quale sarebbe agevole ricongiungere
e completare le frasi interrotte nel contesto strofico.
3 Succitata nel testo e nell’interpretazione di F. Jónsson.
4 Op. cit., p. 89.

XXVII - 3. Lett, della Scandinavia.


58 Le letterature della Scandinavia

della nota « kenning » skjómi daltangar, cioè « raggio della


morsa dell’arco » = della mano), a causa della vendetta; pàs
hrafna hranna vgrdr vann fgdur sins: che il capo prese a
causa di suo padre; pat nam at vinna: egli vinse. Jónsson —
osserva Reichardt — preferendo la lezione d’un solo Ms., in
contrasto a quella identica di tutti gli altri, emenda il dimo­
strativo neutro pat (da riferirsi al sostantivo lof) in nomina­
tivo maschile singolare hann; e ciò per restaurare la skothen-
ding, del terzo verso; ma nulla vieta che al posto del nom. si
metta l’acc. pann e lo si accordi con hljómr. Né è da escludere
la possibilità d’una terza interpretazione 1: Ek ber fyrir pà
hefnd, es hranna hrafna vgrdr vann at vinna sins fgdur: hann
nam lof togins skjóma hljóms cioè « io narro (nella mia poesia)
la vendetta che il custode dei cavalli delle onde seppe pren­
dere a causa di suo padre: egli consegui fama con la sua
spada sguainata ».
Ora, fatta pur larga parte all’eccezionale memoria e abilità
degli scaldi norreni in fatto di lingua e tecnica versificatoria,
ammessa l’autenticità di decisive testimonianze storiche2, è
possibile — ci si è chiesto — che i principi nordici e il loro
seguito intendessero, al solo sentirla recitare, siffatta poesia?
Ne spiegava forse lo scaldo stesso, a recitazione ultimata, i
versi difficili, le allusioni mitologiche più oscure, gli accenni
a fatti malnoti, le innovazioni metriche e stilistiche? O l’udi­
torio ne afferrava solo genericamente e approssimativamente
il senso? O si vuole addirittura ammettere l’assurdo: d’un ge­
nere poetico fiorito per secoli senza la necessaria mutua com­
prensione fra chi poetava e chi ascoltava?
La risposta a simili quesiti varia naturalmente a seconda
dei punti di vista dei vari interpreti, di volta in volta oscillanti
fra opposti radicalismi.
Per la scuola islandese, nata nel solco d’una gloriosa tra­

1 À. Ohlmarks, Tors Skalder och Vite Krists, Stockholm, 1958, p. 367.


2 Lo scaldo Mani che recita in presenza, del re Magnus Erlingsson un’in­
tera dràpa poetata 70 anni prima da Haldórr skvaldri (Sverrissaga,
c. 85); Stufr che recita un gran numero di flokkar e poi un proprio
carme encomiastico in presenza di Araldo il Severo, il quale poi lo
ricompensa accogliendolo nella propria bird (Stufssaga, ed. B. M. Ólsen,
Reykjavik, 1912, pp. 13-14); Araldo stesso, benché non scaldo profes­
sionale, capace di giudicare sin nei minimi particolari della tecnica poe­
tica, al punto da accorgersi d’una licenza (sillaba breve rimante con sil­
laba lunga) nella strofe estemporanea composta da l)jódólfr Arnórsson
(cfr. H. Kuhn in ZDA, 74, 1937, p. 60).
Medioevo pagano e cristiano 59

dizione di studi di linguistica e di critica testuale (che va dal


grande Lexicon poeticum antiquae linguae septentrionalis, 1854-
65, di Sveinbjòm Egilsson alle ricerche specialistiche di Kon­
rad Gislason, di G. Vigfùsson, di B. M. Ólsen e di F. Jónsson),
la più assoluta libertà dell’ordine verbale e sintattico nell’àm­
bito della strofe non doveva impedirne l’intelligenza. Si trat­
tava solo di emendare i passi corrotti, e la poesia scaldica
avrebbe così perduto ogni parvenza esoterica. F. Jónsson so­
prattutto è stata per un ventennio il massimo rappresentante
di questo razionalistico « pruritus emendandi » 1 che dall’inizio
del nostro secolo ha furoreggiato anche in seno alla critica
eddica. In opposizione più apparente che reale alle idee dello
Jónsson, lo svedese E. A. Kock, nella sua critica e riedizione
dei testi scaldici, ha fatto valere — almeno in sede teorica —
l’esigenza d’un ritorno integrale ai Mss. i cui guasti egli cre­
deva di dover attribuire all’incomprensione degli editori, in
primo luogo a Snorri. Ma nel corso del suo lavoro anche Kock2,
a prescindere da singole geniali intuizioni, non ha fatto che
ripiegare sulle più dottrinarie posizioni di F. Jónsson.
Né molto più in là si è spinto chi, dopo di lui, ha lavo­
rato all’interpretazione della poesia scaldica. In Germania R.
Meissner, nel suo studio sistematico e analitico delle « kennin-
gar », è sostanzialmente rimasto fermo al pensiero di Jónsson;
K. Reichardt e W. Mohr hanno tentato di enunciare nuovi
canoni esegetici senza perciò varcare i confini d’un sia pur
utile empirismo; e lo stesso H. Kuhn, che in fiera polemica
con Kock ha voluto confutarne il metodo in nome di fondati
principi metrici e sintattici, non è ancora giunto a una posi-
1zione teorica e critica feconda di positivi risultati3. Cosi anche
il recente tentativo del norvegese H. Lie, che vuol interpre­
tare la poesia scaldica come espressione d’arte astratta anor­
ganica, nata in gara con l’animalistica ornamentale dell’età

1 V. ANF, 40 (1924), p. 322; 45 (1929), p. 130 sgg.; 49 (1933), p. 1.


A F. Jónsson si deve la prima edizione diplomatica di quasi tutto il
materiale scaldico (dalle origini al 1400 c.) in 2 voli.: Skjald., cit.:
A (testo e varianti), B (testo emendato con traduzione prosaica in danese).
2 N.N. cit. (critica al testo di F. Jónsson; per i criteri metodologici
v. specialmente i parr. 131, 149, 155, 201, 502; e Skald., cit. Testi
emendati, senza apparato critico e senza traduzione).
3 PBB, 60, 1936, p. 133 sgg. e Dìe Skaldendicktung in Germ. Philólo-
gie (Festschrift O. Behagel, Heidelberg, 1934, pp. 411-418).
60 Le letterature della Scandinavia

vichinga ci sembra più destinato ad aumentare i dubbi che


a dissiparli.
In realtà ancor oggi non esiste una formula univoca, una
chiave, un metodo sicuro per restaurare e interpretare le strofe
scaldiche.
Malgrado la sua complessa e rigida struttura, la lunghis­
sima tradizione orale indubbiamente espose questa poesia (e
le riserve formulate da Snorri ce lo confermano) a frequenti
inquinazioni contaminazioni e manipolazioni, che si moltipli­
carono all’atto delle prime e più ancora delle susseguenti tra­
scrizioni. Se oggi conosciamo alcuni almeno, degli errori di
chi la trascrisse e spessissimo senza intenderla la emendò,
quanti di quelli a noi ignoti non saranno già sorti in fase di
trasmissione orale2? E come avvenne esattamente questo pas­
saggio dalla forma orale a quella scritta? Quando e dove
avvenne? E chi furono gli scribi e gli amanuensi? Nulla è dato
rispondere a siffatti quesiti, se non in via congetturale. Lo
stato stesso poi in cui troviamo la maggior parte dei versi

1 Dopo aver attribuito (in Skaldestil-Studier, cit., pp. 3, 57, 70 sgg.)


a Bragi la creazione della drapa scaldica in dróttkvsett, a causa della
indimostrabilità di un’evoluzione genetica di tale componimento da più
antiche forme germaniche, Lie, richiamandosi a spunti di A. OMk
(Nordisk Aandsliv. cit., p. 101) e di Heusler (Altg. D., p. 140 sgg.) e allo
psicologismo estetico di W. Worringer (in Natur og Unatur i Skaldekun-
sten, Atti Acc. Scienze, Oslo, 1957, pp. 5-122) sostiene che Bragi per
primo tentò di tradurre in poesia le concezioni magico-sacrali dell’arte
figurativa vichinga, imitando le decorazioni mitologiche degli scudi nor­
dici. Questa ingegnosa teoria urta però contro non poche difficoltà.
Anzitutto la mancanza del relativo materiale archeologico, indispensa­
bile a ogni raffronto; in secondo luogo, pur ammessa la genesi figura­
tiva della poesia scaldica (in concorrenza con l’arte «anorganica» orna­
mentale delle navi vichinghe ritrovate a Oseberg), non se ne spiega la
complicatissima metrica; per non dir nulla delle teorie del Worringer
(Abstraktion u. Einfiiblung, Monaco, 1916) tutt’altro che convincenti
quando dal rilievo di determinati caratteri formali vogliono risalire a
indimostrati presupposti psicologici. È possibile p. es. sostenere (op. cit.,
p. 80 sgg.) che gH artisti rinascimentali furono « costruttivi » e non
« astrattivi » perché ispirati da Einfiiblung, cioè da panteistica simpatia
pel mondo circostante? E un Piero della Francesca che creava secondo
1 princìpi dell’« aurea geometria »; e un Diirer che componeva secondo
princìpi che oggi chiameremmo cubistici?
2 Cfr. F. Jónsson, Litt. hist. I, p. 395 sgg.; E. Noreen, Ben norsk-
islàndska Poesien, cit., p. 144, nota 1; e soprattutto J. Helgason (Norr.
Litt. cit., pp. 102-108), che di fronte alla palese corruzione dei testi ci
sembra il più coerente nel ripudiare le divinazioni della critica con­
getturale.
Medioevo pagano e cristiano 61

scaldici, mentre rende insolubili molti problemi d’interpreta­


zione e d’autenticità (p. es. i versi della Grettissaga apparten­
gono, per lingua e stile, al XIII see. mentre il loro presunto
autore Grettir è vissuto circa 250 anni prima; viceversa quelli
della Kormàkssaga sono incorniciati da un commento assai
più recente e palesemente anacronistico), esclude ogni possi­
bilità di costruire uno stemma di Mss. sulla base dei fram­
menti interspersi nella prosa delle Saghe. Solo quando saranno
pubblicate tutte le edizioni critiche di queste ultime, si potrà
forse avere qualche testo meno provvisorio e qualche lezione
più attendibile.
Ciò che intanto va riconfermato, sulla base della pur cor­
rotta documentazione, è il problema generale della poesia scal­
dica. Prima di tutto la mancanza d ’equilibrio tra forma e
contenuto, anzi il primeggiare di quella su questo (come nella
poesia trovadorica, minnesinghera e, aggiungerebbe il compa­
ratista, preislamica1). Alla sbalorditiva ricchezza formale, al
virtuosismo sinonimico, all’amore della parola come puro suo­
no, non corrisponde infatti una varietà di temi, di motivi,
d’orizzonti intellettuali; agli equilibrismi d’una lingua flessiva
ricchissima di desinenze come e più del latino2; all’insuperata
perizia tecnica non tiene dietro quasi mai il volo d’una schietta
ispirazione poetica, ostacolato com’è e mortificato dalle pastoie
dei mezzi espressivi3. È evidente che per lo scaldo non si
trattava di dare libera espressione ai propri sentimenti, ma di
risolverli, secondo le codificate regole di questo genere d’elo­
quenza d’apparato, in una girandola di sottilissime metafore,
in un luccichio di gemme verbali, in una cascata di effetti so­
nori, certo non privi di fascino per chi aveva preso parte alle
gesta celebrate dal poeta. Il contributo personale dello scaldo,
il suo orgoglio d’artista consisteva dunque nell’aggiungere sem­
pre nuovi anelli a una catena di stereotipe figure tradizionali,

1 Heusler, Altg. D., p. 140, nota 4.


2 Idem, ibid., p. 135 sgg.
3 Significativa l’oscillazione di giudizio d’uno studioso come J. de Vries,
ben consapevole dei problemi di fondo che pone la poesia scaldica.
A p. 49-50 (Altn. Litg. cit. I2) citando dei celebri versi di Egill afferma
che solo il grande poeta sa piegare questo genere di poesia al senti­
mento; a p. 63 censura i filologi che con il loro pruritus emendandi
avrebbero spento l’afflato poetico di tale poesia; a p. 99-100 dichiara
che il carme scaldico non è proprio poesia, ma cerimoniale di corte;
a p. 109-110 rifiuta il paragone fatto da altri col marinismo, ma rico­
nosce che gli scaldi volevano più stupire che commuovere.
62 Le letterature della Scandinavia

nelPescogitare sempre più elaborate combinazioni analogiche


e metriche, sempre più ornate ed enigmatiche locuzioni che
servissero a celebrare la munificità e le imprese del principe.
La poesia scaldica — è stato detto1 — almeno nella sua più
tipica forma della « dràpa » in drottkvsett, non narra (co­
me la Saga) né drammatizza (come il carme eroico), ma per­
petuamente oscilla tra la cronaca versificata e la lirica. Ed è
vero; ma bisogna aggiungere: senza quasi mai potersi identi­
ficare né con Tuna né con l’altra, perché Padesione alla sua
intima natura le impedisce tanto un coerente racconto di fatti
quanto una personale effusione di sentimenti. Mai forse ci fu
tradizione d’arte, almeno in Occidente, nella quale il mestiere,
la convenzione letteraria (più assai di quanto fosse costume
nel Medioevo) livellò e uniformò sin quasi a obliterarle le
singole individualità poetiche — e ciò sia detto con buona
pace degli odierni apologeti della poesia scaldica, troppo spesso
eredi del gusto antiquario di O. Worm, che, già nel Seicento,
credeva scoprirvi un artificium nequaquam barbarìem redolensl

EGILL SKALLAGRfMSSON

Pure se in sede estetica va riconfermato il carattere in­


trinsecamente retorico del metaforismo scaldico — la cui ge­
nesi fu determinata da non chiari fattori storici e psicologici
— non si può negare che singole figure di artisti, almeno in
occasionale contrasto agli schemi canonici, riuscirono a piegare
l’artificio all’emozione lirica, a far trasparire, attraverso l’insi­
stente lavorio d’ornamentazione, uno schietto sentimento poe­
tico. Per esempio i norvegesi Porbjgrn hornklofi e 0yvindr
" skàldaspillir che si servirono di modi e metri eddici; gli islan­
desi: Kormàkr, sul cui analitico e anatomico descrizionismo
passa a volte un soffio di fremente passione; Sighvatr, le cui
eleganti strofe parenetiche già rispecchiano lo schiudersi della
società nordica a più ampi orizzonti intellettuali; e più ancora
di questi Egill Skallagrìmsson.
Senza dubbio il maggiore dei poeti norreni per l’assiduo
impegno di tradurre in cifra la realtà, per la maestria del
verso, per le audacie metriche e morfologiche, per la vastità
della cultura mitologica e magico-runica, Egill impersona, quasi
in forma paradigmatica, l’ideale eroico caro alla poesia scaldica

1 Heusler, Altg. D., p. 120.


Medioevo pagano e cristiano 63

e alla Saga. Natura ricca di contrasti, bramoso di gloria e di


ricchezza, ribelle e vendicativo, ma insieme non insensibile
alPaffetto e alla generosità, al dolore e alla morte, Egill cam­
peggia al centro d’una delle più belle Saghe nordiche, da qual­
cuno 1 attribuita alla penna di Snorri, e, in tal caso, posteriore
di due secoli ai fatti narrati.
Tutto l’aspro aroma dell’ideale vichingo è racchiuso in
queste pagine rievocanti con non comune potenza artistica la
figura d’un eroe quale poteva concepirlo un’età barbarica:
guerriero e poeta già in tenera età, discendente dei primi
coloni d’Islanda, che in pari misura gli trasmettono il furor
bersercicus (berserksgangr) cioè il culto della forza bruta e il
dono della poesia, vìkingr mikill o grande vichingo, desideroso
di coquistare ricchezza e fama (afla fjàr ok frcegdar), saccheg­
giatore e devastatore in Curlandia e in Danimarca e poi strenuo
combattente a fianco di re Etelstano a Brunanburh (937); e
finalmente solo e vecchio di fronte alla morte imminente, che
attende senza speranza e senza paura.
È un quadro non certo scevro di frange leggendarie, ma
quanto mai incisivo nel disegno e documentariamente prezioso
per i versi scaldici contenutivi (i più in dróttkvsett), della cui
attribuzione a Egill — almeno per buona parte — non si ha
ragione di dubitare. Troviamo qui, insieme a varie strofe libere,
composizioni più ampie se pur mutile: venti strofe, in rùn-
hent, d’una « dràpa » poetata, secondo la tradizione, a York,
per sfuggire alla vendetta di Eirikr Asciasanguinosa (Hgfud-
lausn) e non poche, in kviduhàttr, d’un’altra in onore del
fedele amico Arinbjgm, signore del Firdafylki (Arinbjar-
narkvida): autentico capolavoro d’abilità diplomatica la prima,
di altera e affettuosa gratitudine la seconda, ma entrambe formal­
mente irretite nel preziosismo professionale della poesia corti­
giana. La terza maggior « dràpa » di Egill sulla morte dei figli
(Sonatorrek) merita un posto a parte nella poesia scaldica sia
per la schiettezza dell’ispirazione che fonde in una unica vi­
brazione lirica le diverse parti del lamento funebre tradizionale
(<erfikv&di), sia per l’insolita semplicità d’eloquio che tende
a infrangere le regole tradizionali. In un tono personalissimo,
— in cui s’alternano rievocazioni e meditazioni — unico nella
antichità nordica, Egill vi ha trasfuso il suo sentimento univer­
salmente umano prima che pagano: l’amore per i figli e il

1 S. Nordal, 1. /. cit. II, prefazione pp. 11-25 sgg., e altri con lui.
64 Le letterature della Scandinavia

dolore per l’irreparabile perdita, trapassante in funereo canto


sul destino dell’intera stirpe e suo proprio.
Oggi, benché liberato dai travestimenti romantici1, e solo
parzialmente restaurato2, il Sonatorrek è fra i pochissimi com­
ponimenti scaldici che ancora ci parli con la voce universale
della poesia. Nato com’è nell’àmbito d’una precisa situazione
storica e tradizione stilistica, materiato d’una inconfondibile
concezione fatalistica e tribale, se ne distacca però per il tono
profondamente meditativo, per il volontarismo individualistico,
per la coscienza tragica della realtà. Quel che c’è di stereo­
tipo e d’impersonale nella poesia scaldica, sembra scomparso
o attenuato in questa elegia di Egill, cui invano si son cercati
paralleli entro l’area germanica3; e anche sul piano formale
il metro epico, un kviduhàttr, assai simile all’eddico forn-
yrdslag, sobrio, agilissimo malgrado il complesso gioco delle
allitterazioni, il peso degli arcaismi (negazioni enclitiche, par-i
ticelle espletive del verbo, forme medie apocopate ecc.) e delle
oscure « kenningar » mitologiche4, sottolinea il contrasto alla
fastosa solennità del dróttkveett, al pedantesco calcolo delle
sillabe, alla tradizionale unità sintattica delle emisrofe. È que­
sta intensità di passione individuale, questo stile vissuto che
differenzia il Sonatorrek dalla restante produzione di Egill e in
generale dal pietrificato manierismo della poesia scaldica.
È noto come nacque il carme — almeno secondo la Saga
(c. 78). Il diciottenne figlio di Egill, Bgdvarr, traversando un
giorno in barca la Hvità, nell’Islanda sud-occidentale, fu tra­
volto dalla tempesta e annegò. Recuperatone il cadavere (rac­
conta la Saga), il padre lo seppellì nel tumulo di famiglia al
capo di Digranes, e tornato quindi a Borg si chiuse in casa per

1 Celebre quello in quartine trocaiche allitteranti tentato nei Guerrieri


a Helgeland da Ibsen che, sulla scorta della traduzione danese di
N. M. Petersen, filologicamente non sempre sicura (Historiske Fortsel-
linger om Islandernes Faerd hjemme og ude, Kobenhavn, I, 1839) lo
interpretò in senso folcloristico-teatrale. Ma anche studiosi moderni hanno
voluto vedervi, non senza una punta d’inconsapevole romanticismo, una
sorta di confessione pagana (G. Neckel, Beitràge zur Eddaforschung,
cit., p. 375; de Vries, Altn. Litg., cit., p. 134).
2 Intero ci è serbato in un unico e assai guasto Ms. del Seicento, il
cosiddetto Ketilsbók (AM. 453, 4°). Il testo di Kock (op. cit. I, pp. 21-
24), qui riprodotto, è ricostruito. A solo fine orientativo si indicano qui
le varie radici germaniche dei vocaboli usati dalla poesia scaldica, diffi­
cilmente accessibile ai non specialisti.
3 Heusler, Altg. D., p. 147 sgg.
4 M. Olsen, Commentarli Scaldici, I, in ANF, 52, 1936, pp. 209-255.
Medioevo pagano è cristiano 65

lasciarsi morire di fame. Solo uno stratagemma della figlia


Porgerdr valse a farlo desistere da tal proposito e lo indusse
a comporre il Sonatorrek in onore del defunto:

SONATORREK 1

1
Mjgk erum tregt Amara pena
tungu at hrcera, mi stringe la gola;
loptvega e torpida è la lingua,
Ijódpundara 2. bilancia del canto.
Esa veenligt Né agevole è
of Vidurs pyfi3 il tesoro della poesia
né hógdrcegt dai recessi dell’anima
ór hugar fylgsnù estrarre.
2
Esa audpeystr 4, E molto doloroso è
pvit ekki veldr dall’anima
hgfugligr, far sgorgare la poesia;
ór hyggju stad la felice scoperta
fagnafundr fatta da Odino
Friggjar nidja5 all’alba dei tempi
àr borinn nel paese dei giganti.
ór Jgtunheimum,

1 Lett.: « Perdita irreparabile dei figli »; dal gen. plur. sona, il pre­
fisso avv. tor (cfr. got. tur-, aat. zur-, perduto nelle lingue germaniche
e scandinave, fuorché nell’islandese, dove è ancora d’uso frequente) e il
sost. rek (cfr. sved. vrak; ingl. wreck e wretch).
2 La lingua paralizzata dal dolore e dalla fame è qui chiamata « bilan­
cia [misuratrice] del canto» (hljód, got. hliup, ags. hleodor, dan. lyd;
pundari, lat. pondo, ingl. pound); lett. i primi tre versi suonano:
molto è difficile muovere la lingua in aria, ecc. Così Kock, N. N.,
par. 3002; ma vedi anche le opinioni diverse di I. Lindqvist, Norrona
lovkvàden I, Lund, 1929, p. 26 sgg.; e S. Nordal, 1. /. II, 1933, p. 246.
3 La « kenning » « preda di Vidurr » — appellativo di Odino — allude a
un noto episodio narrato da Snorri nell’Edda (v. sotto nota 5). Hóg-
drcegt = lett. facile a trasportare: da haga e draga.
4 Dal prefisso avv. aud (manca nel got., ma cf. ags. èàd = easy) e il
verbo peysa = far sgorgare; lo stesso icastico verbo usa le Saga (cap. 71)
quando Egill, per vendicarsi ignominiosamente del contadino Asmódr
skegg, che aveva osato offrirgli latte acido invece di birra, gli vomita
in viso. Ekki (cfr. norr. gngr, got. aggwus, lat. angustus).
5 Lett.: « la felice scoperta del parente (nidja è un plur. poet, con
significato di sing.) di Frigg »; allusione al mito narrato da Snorri nel-
rEdda (ed. cit., p. 85) e insieme anticipazione del concetto catartico
66 Le letterature della Scandinavia

3
lastalauss perché l'ottimo
es lifnadi1 timoniere
ngktveri à 2. esanime fu lasciato
ngkkva bragi3 sul nudo scoglio.
Jgtuns hals 4 Ululano ora le onde
undir pjóta a pie' del tumulo
nàins nidr dove mio figlio riposa.
fyr naustdurum5
4
pvit sett min Perché la mia stirpe
à enda stendr è abbattuta
hreggbardir 6 come, percosso dalla folgore,
sem hlynir marka. acero nella foresta.
E sa karskr madr, Triste è colui che
sàs kggla berr la salma esanime

della poesia svolto più avanti alle strofe 23-24. Ma l’emendazione del
testo priggja in Friggjar appare dubbia (v. R. Meissner, Die Kenningar
der Skalden, p. 429 sgg.; H. Kuhn, PBB, 60, 1936, p. 144; e M. Olsen,
cit., ANF, p. 212).
1 Lifna (cfr. sved. làmna, dan. levne, e il got. af-lifnan, che traduce
il greco perileipesthai): esser lasciato, esser superstite.
2 À. Ohlmarks (op. cit., p. 300) giustamente interpreta l’apax legome-
non ngkkverr come « nudo scoglio dove si pesca » (cfr. ags. woer — mare
e norr. vermenn = pescatori; verità = stagione della pesca).
3 II bragi della biremi (norr. nokkvi, ags. naca, ted. Nachen; v. Edda
snorrica, ed. cit., p. 62) è Bgdvarr. Sembra più congruente inten­
dere bragi come aggettivo e perciò scriverlo con la minuscola (cfr. ags.
brego = princeps), anziché pensare a Bragi dio della poesia. Ma vedi
la diversa interpretazione di M. Olsen, cit., p. 215.
4 La « kenning»: Jgtuns hals undir = « ferite del collo del gigante»,
allude al mito di cui racconta Snorri nelYEdda (ed. cit., p. 14). Non
sembra convincente l’interpretazione di L. Lindquist (Norrona lovkvà-
den I, cit., p. 26) che emenda hals in hélds = rugiadoso.
5 Lett.: « davanti alla porta della baracca per le imbarcazioni » (presso
il capo di Digranes). Fu Bgdvarr sepolto in una nave, secondo l’uso
vichingo? Nàinn prop, vicino, congiunto. L. Wolf in Zum Sonatorrek
(Edda Skalden Saga, Festschrift F. Genzmer, Heidelberg 1952, p. 107)
interpreta, sembra, con scarsa congruenza, naust = aula (di Ràn).
V. invece M. Olsen, cit., p. 217.
6 Hregg è propriamente la tempesta accompagnata da pioggia, e il part,
pass, del verbo berja va qui accordato con il plur. del sostantivo:
« aceri ». L ’accento alla stirpe introduce uno dei motivi centrali del
carme. Secondo la concezione del germanesimo primitivo la stirpe è
infatti depositaria di tutte quelle forze salutifere che reggono l’indivi­
duo e la collettività. Da notare anche l’uso frequente della litote, tra­
duzione stilistica dell’ideale vichingo, della morale eroica, che esigeva
dominio di sé e impassibilità di fronte al destino.
Medioevo pagano e cristiano 67

freenda hrcers 1 d’un parente


af fletjum nidr2. porta alla fossa.
5
pó munk mitt Devo però prima dire
auk módur ht0r di mia madre morta,
fgdur fall di mio padre caduto.
fyrst of telja. Porto ora fuori
pat berk ut del tempio della bocca
ór ordhofi i rami dell’encomio
meerdar timbr rinverditi dalla parola.
mali laufgat3.
6
Grimi vgrum4 hlid, Crudele spezzò
pats hrgnn of braut Tonda
fgdur mins il sacro recinto
à freendgardi. della stirpe paterna.
Veitk ófullt Lo vedo: squarciata
ok opit standa e irreparabile sta la breccia
sonar skard, aperta dal mare.
es seer of vann.
7
Mjgk befr Rgn5 Furiosa mi colpì
of rysktan mik; la gigantessa del mare;
emk ofsnaudr privo sono di coloro

1 tìrcer o breyr (cfr. ags. hryre, lat. ruina) = . cadavere; kggull = giun­
tura.
2 Flet (cfr. ags. flet = aula, ingl. fiat) può essere la casa come la fila
dei banchi nelPaula regia.
3 Come ha osservato S. Nordal (Egils saga Skallagrimssonar, cit., p. 248)
e poi À. Ohlmarks (cit., p. 300 sgg.) l’intera metafora è ricavata da
un uso cultuale. Durante la mezzestate e in primavera si soleva intro­
durre nella sala del banchetto, attigua al sacrario, dei rami frondosi,
che poi, a cerimonia finita, venivano portati via secchi. Timbr masr-
dar = legno dell’encomio (got. meripa).
4 Qui come altrove la forma arcaica dei medio apocopato (v. M. Ny-
gaard, Norron Syntax, Kristiania, 1905, p. 160), col pron. in funzione
di suffisso, serve a rafforzare il senso tutto personale della perdita. Da
notare anche nel penultimo verso l’uso del sostantivo skard = vuoto,
richiamante le immagini e il linguaggio della battaglia (Nù er skard
fyrir skildì, cioè: « c’è un vuoto al posto dello scudo », si soleva dire
anticamente per annunciare una grave perdita nell’aula regia).
5 Ràn è moglie del dio del mare Aegir (cfr. ags. eagor) e madre delle
oceanine nordiche (Edda Snorra, p. 121; sul problema dell’etimo vedi
C. A. Mastrelli, « Sul nome della gigantessa Ràn » in Studi Germanici,
Roma, n. 10, pp. 254-264) pgtt ('pàttr, lat. texto, sved. tàt). Rysktan
è voluto dalla costruzione di hafa con i verbi transitivi.
68 Le letterature della Scandinavia

at àstvinum. che mi amavano,


Sleit marr bgnd il mare strappò
minnar eettar, i legami della mia stirpe,
snaran pgtt il vincolo intrecciato
af sjglfum mér. da me stesso.
8
Veizt1, ef sgk Tu sai, se con la spada
sverdi of reekak, potessi vendicarlo;
vas glsmid 2 per il Tempestoso
altra tima; l’ultima ora sarebbe venuta.
eda vàgs broedr Se potessi vendicarmi sui
ef vega maettak, fratelli dell’onda,
fórk andvigr affronterei l’esercito
Aegis manni3. di Aegir.
9
Enn ek ekki Ma non credo più
eiga póttumk
sakar afl di possedere
vid sùdbana 4, la forza per combattere
pvit allpjód col distruttore delle navi,
fyr augum verdr
gamals pegns ché agli occhi di tutti
gengileysi5. sono ormai vecchio e solo.
22
Attak gótt6 Amico ero
vid geirs dróttin, del dio della lancia,
gerdumk tryggr sicuro
at trua hónum 7, fidavo in lui, prima
1 L ’apostrofe sembra rivolta alla figlia Porgerdr.
^2 « Birraio » è chiamato Aegir con allusione alle onde spumeggianti.
3 Manni (da madr) e non mani (da man cioè moglie di Aegir; S. Nor-
dal, cit., p. 249), come giustamente ha emendato e spiegato E. A. Kock.
4 Sùdbani (da syja, got. siwjan, ags. siwian e bani). Diversa interpre­
tazione dà M. Olsen, cit., p. 227 sgg.
5 Lett.: « la mancanza di seguito del vecchio signore ».
6 Àtta-ek (da riga).
7 Locus classicus per gli apologeti del « puro » paganesimo di Egill.
Dalle Saghe sappiamo infatti che, in età vichinga, il rapporto fra l’uomo
e la divinità si basava sul concetto di fiducia piena (fulltrui) in questo
o quel dio; alterabile perciò e denunciabile come un qualsiasi altro
vincolo di amicizia. Ma, in tale concezione religiosa, qualcuno (W. Baetke,
Christliches Lebngut in der Sagareligion, Berlin, 1951, p. 34 sgg.) crede
di ravvisare un calco della idea cristiana del « santo ». Sappiamo anche
che i primi coloni d’Islanda, grandi vichinghi, avvezzi a credere più
à màtt sinn ok megin cioè alla propria forza che alla protezione degli
dei, non negavano però a questi ultimi il tradizionale culto pagano.
Quando si parla di fede religiosa — in età vichinga — bisogna tener
Medioevo pagano e cristiano m
àdr vinati che l’amico dei giganti, [?]
vagna rùni1, il Vittorioso, strappasse
sigrhgfundr,
of sleit vid mik. il vincolo [che lo legava a me].
23
Bloetka pvt Perciò sacrifico non più
bródur Vilis, volentieri al fratello di Vili,
godjadar 2, all’Eccelso;
at gjarn séak, eppure egli, l’amico di Munir,
pó hefr Mints vinr
mér of fengnar3 mi ha donato
bglva boetr 4 un rimedio alla sventura,
es et betra telk. che io considero il migliore.

conto delle particolari condizioni storiche politiche e sociali create dal


contatto e dalla lenta fusione dei popoli nordici con altre genti europee
già evangelizzate; e anzitutto dal sincretismo religioso che per secoli
impronta di sé la poesia — dalTEdda antica alYEdda snorrica — le arti
figurative e sin l’onomastica. Per i vichinghi, religione significativa ordine
giuridico-sociale prima ancora che credo spirituale. E ciò non solo in
Islanda. Come si accorda il « puro » paganesimo di Egill con ciò che
la tradizione racconta per esempio di Helgi il mago che insieme cre­
deva in Pórr e in Cristo (Landnàmabók, ed. F. Jónsson, Kobenhavn,
1900, I, p. 206) o di Rollone, convertito al cristianesimo e poi riconver­
tito agli antichi dei, cui sacrificò vittime umane (D. C. Douglas, « Rollo
of Normandy », in The English hist. Rev. di London, 57, 1942, pp. 433-
434; 436) o del non meno convertito re Redwaldo della East-Anglia
(VII see.), che nel suo tempio aveva due altari: uno per il dio cri­
stiano e uno per gli dei pagani (Beda, Hist. eccl. II, cap. 15, ed. Plum­
mer, Oxford, 1896); o di Amljótr Gellini costretto al battesimo, cioè
a « diventare » cristiano con una pura cerimonia, da Ólafr il Santo,
prima della battaglia di Stiklastadir (Heimskringla, Ólàfs saga belga,
c. 214)? E poi quanto, anche nel Sonatorrek, è professione di « puro »
paganesimo e quanto invece elaborazione letteraria del mito?
1 II Ms. ha verZy cioè, verri In tal caso vagna verr = « l’uomo dei
carri » sarebbe £>órr, non Odino. Forse l’intero passo è corrotto. Se­
condo Kock, Odino, l’ambivalente — come sarà chiamato alla strofe 25 —
è insieme nemico e amico dei giganti (Mìmir e Aegir Suttungr e Loki).
Ma v. le obiezioni di H. Kuhn, PBB, cit., p. 141, in parte condivise
da M. Olsen, cit., pp. 245-248. Che, comunque, si tratti di Odino,
ritiene anche S. Nordal (Àtrunadur Egils Skallagrimssonar in Skirnir,
Reykjavik, XCVIII, 1924, p. 145-165, ristampato in Afangar, II, ivi,
1944, pp. 103-128, il quale crede in una vera e propria crisi religiosa
giovanile di Egill, adepto prima di ]?órr e poi di Odino.
2 Cioè a Odino, detto qui god-jadarr (cfr. ags. eodor = massimo) = deus
maximus.
3 Fenginn (da fa, got. fahan, ags. fon, sved. fa). Per la costruz. con
hafa v. strofe 7.
4 Cioè la poesia — come tanti secoli prima già sapeva l’omerico Demo-
doco — divino conforto nella sventura (bgly got. balwjan, ags. balew,
ingl. bale; got. bota, ags. bot).
70 Le letterature della Scandinavia

24
Ggfumk iprótt Il nemico del lupo
ulfs of bàgi [cioè di Fenrir] mi donò
vigi vanr — avvezzo com’è alla pugna •
vammi firda, un’arte sacra,
auk pat gedl> e anche una natura
es gerdak mér che mi rese
visa fjandr2 nemici aperti
af vélgndum 3. gli ingannevoli [amici]. ^
25
Nu erum torvelt4: Ma ora è finita per me.
Tveggja bàga La morte mi assilla,
ngrfó nipt5 imminente, là al capo
, à nesjum 6 stendr. [di Digranes].
Skalk pó gladr, Eppure sereno,
gódum vilja, e senza rammarico
ok óhryggr Taspetterò volentieri.
Heljar7 bidaì
Agli inizi del sec. XI col diffondersi del nuovo verbo
religioso, soprattutto per opera dei due re missionari Ólàfr
Tryggvason e Ólàfr Haraldsson, la tradizione scaldica sembra
scindersi in due parallele correnti del gusto: una più semplice,
che consapevolmente si sforza di evitare le « kenningar » mito­
logiche, l’altra che invece moltiplica fino al puro gioco i vir­
tuosismi metaforici e metrici. In quest’età compaiono anche,

1 Ged = natura, sensibilità.


2 Viss (got. weis, ags. wis, sved. vis).
3 Aw vélgndum (cfr. vél).
4 Anche qui la litote sta a indicare serena compostezza dell’animo di
^fronte alle forze oscure del destino. Torveldr = difficile.
5 Lett.: « la sorella del nemico di Odino » = la morte. F. Jónsson
emenda il testo niorfanipt in njgrvanipt, cioè « sorella (cfr. ags. nefa,
ted. Neffe, lat. nepos) di Narfi » o « Nari » (figlio di Loki, secondo
Snorri: Edda, ed. cit., p. 100); Kock invece (N. N., 7, par. 1037) ne
fa un agg. ngrfàr (cfr. ags. nearufàb = assillante). Odino — ambiva­
lente, Tveggi — è detto « nemico del lupo Fenrir » perché lo ucciderà
il giorno dei ragnargk (Lokasenna, 58; Hàkonarmàl, 20).
6 Plur. con valore intensivo.
7 Hel (cfr. got. halja, aat. bella, ags. bell) è secondo Snorri (Edda, ed.
cit., p. 100) figlia di Loki; il nome, certo antichissimo, designava nel
Nord il regno dei morti, e solo tardi fu personificato. Strano comunque
che il vichingo Egill anziché alla Valhalla pensi a Hel, dove erano
destinati coloro che non cadevano in battaglia. Secondo il racconto di
Snorri (Heimskringla, Ynglingasaga, c. 21, Odino, per non morire igno-
miniosamente sulla paglia — stràdaudi — si fece trafiggere da una
lancia.
Medioevo pagano e cristiano 71

accanto alla « dràpa » in dróttkvsett, i nuovi metri della


poesia scaldica; ma fuori delle corti dovette certo continuare
la fioritura di quel tipo di poesia di tono minore, occasionale,
« popolare » legata alla melodia (canti di lavoro, di profezia,
di magia) alla quale almeno per alcuni aspetti appartiene il
qui tradotto Darradarljód1.
Eddico per il metro (fornyrdislag) e per certe figura­
zioni epiche, scaldico per il contenuto almeno in parte pane-
giristico e per il riferimento a fatti recenti o contemporanei,
il Darradarljód sta a mezza strada fra il carme magico e il
carme di guerra. Dodici valchirie cantano e tessono, su un
antico telaio, una magica tela portatrice di vittoria (vefr dar-
radar) per un principe che si appresta ad affrontare il destino
sul campo di battaglia. Secondo la Njàlssaga — scritta dopo il
tramonto dell’indipendenza islandese e riportante il testo del
carme nell’episodio sulla missione cristiana di Jpangbrandr2 —
un uomo a nome Dgrrudr3, vede, la mattina della battaglia
di Clontarf (storicamente combattuta il 23 aprile 1014 fra
gli irlandesi di re Brjànn di Munster e i vichinghi di Sigtryggr
di Dublino e del suo alleato Sigurdr Hlgdvesson, jarl delle
Orcadi), dodici valchirie, che tessono in un ipogeo la porten­
tosa tela e insieme cantano una canzone. A lavoro finito, strac­
ciano la tela, e portandone ciascuna un pezzo, si allontanano
a cavallo, sei in una direzione, sei in un’altra.
Il fatto storico fu indubbiamente l’occasione dell’anonimo
carme (composto forse nelle Orcadi), giacché a Clontarf, alle
porte di Dublino, con la fine congiunta dell’eroe della libertà

1 Secondo l’interpretazione tradizionale « carme della lance » (così già


in Herder — che s’ispirava agli antiquari nordici del Seicento —
Samtliche Werke, Stuttgart-Tùbingen, V III, 1821, p. 16 sgg.; e ancora
in F. Genzmer, Sammlung Thule, Jena, 1941, II, p. 48) A. Holtsmark
(Studier 4 norron diktning, Oslo, 1956, pp. 177-197) ha recentemente
voluto dimostrare che l’espressione va intesa in senso metaforico-magico.
cioè « carme dello stendardo di guerra », che le valchirie tessono per assi­
curare vittoria al loro protetto. Il carme, serbatoci nelle varie edizioni
della Njàlssaga, è stato pubblicato in edizione critica da K. Glslason,
Njdla, II, Kobenhavn, 1883, pp. 579-597. F. Jónsson, Skjald., I, A,
pp. 419-421; e da Kock, Skald., pp. 193-195.
2 Njàlssaga, c. 158.
3 Si tratta d’un probabile fraintendimento della tradizione, che dello
sconosciuto Dgrrudr (sinonimo di Odino — cfr. H. Falk, Odinsheite,
Oslo, 1924, pp. 6-7) fa il testimone della scena magico-profetica. E. Ól.
Sveinsson (Um Njàlu, Reykjavik, 1933, I, p. 85 sgg.) pensa che fu una,
ora perduta, « Saga di Brjànn » a ispirare il racconto della Njàla.
72 Le letterature della Scandinavia

irlandese (assassinato pare nella sua tenda *) e dei suoi avver­


sari, tramontò anche per sempre l’egemonia vichinga nell’isola.
Spirito eroico e terrore superstizioso confluiscono qui a
creare quell’atmosfera di arcano e soprannaturale che tanto
impressionò J. Grimm. Le spettrali valchirie al telaio, mezze
dee del fato mezze streghe, e la loro tela fatta d’intestini
umani e tesa sugli staggi con teschi di morti, sembrano figu­
razioni attinte a quell’antichissimo patrimonio mitico celtico,
che tante tracce ha lasciato nelle letterature germaniche e
romanze; mentre l’apocalittica scena della cavalcata, sullo sfon­
do del cielo rigato di sangue, riecheggia i più cupi temi del
carme eroico germanico.

DARRADARLJÓD

1
Vitt es orpit2 È tesa la tela,
fyr valfalli è nube foriera
rifs reidisky3; di prossima strage;
rignir biódi. e gronda di sangue.
Nil’s fyr geirum È ora approntato
gràr upp kominn l’ordito ferrigno,
vefr verpjódar, la tela dei prodi;
es vinurAfylla le vergini di Odino
raudum vepti la tessono nel sangue.
Randvés5 barn.

1 J. Steensrup, Normannerne, Kobenhavn, 1876-1882, III, p. 163 sgg.


2 Orpit (da verpa, cfr. got. wairpan, ags. weorpan, ted. toerfen) = lett.
tessuta. L ’agg. vitt dovrebbe essere tradotto con « ampia », riferito al
sogg. neutro che segue e che è una « kenning ».
3 Rifs reidisky = lett. la pendente nuvola della stanga, cioè l’ordito
(rifry cfr. ingl. rib, ted. Rippe; reidi = sartiame; sky. sved. sky, ingl.
sky) v. Kock, N. N. 2785; e Brennu-Njàls saga, ed. E. Ól. Sveinsson
(t . f. XII), Reykjavik, 1954, p. 544.
4 Vinur = lett. .amiche [di Odino], ma la lezione è dubbia.
5 Randvés bani = uccisore di Randvér. L ’oscura « kenning » (cfr. K.
Gìslason, op. cit.y p. 581) sembra alludere al perfido Bikki (Gudrù-
narhvQt, prosa) che indusse Randvér a sedurre Svanhildr, figlia di Gudrun
e di Sigurdr, e perciò fu impiccato. Letteralmente il testo ha: le amiche
[dei guerrieri] tessono con la trama (veptr) vermiglia dell’uccisore di
Randvér. A. Holtsmark, cit., pensa che qui si alluda appunto alla
«fo rc a » [di Randvér], intesa come sinonimo di «telaio». La tessi­
tura d’un magico stendardo di guerra è narrata nella Orkneyjngasaga
(cap. 11).
Medioevo pagano e cristiano 73

2
Sjà’s 1 orpinn vefr Tessuta è la tela
yta pgrmum con visceri umani,
ok hardkléadr2 son pesi a tirarla
hgfdum 3 manna. i teschi dei morti;
Eru dreyrrekin 4 son lance le verghe
dgrr5 at skgptum6, intrise di sangue,
jarnvardr 7 yllir di ferro i battenti,
enn grum8 hrseladr9. i subbi son dardi.
Skulum sia sverdum Con spade tessiamo
sigrvef penna. l’insegna di guerra.
3
Gengr Hildr vefa Or tessono la tela
ok Hjgrprimul, Hjgrprimul e Svipul
Sanngridr, Svipul10 Sanngrfdr e Hildr
sverdum tognum 11 con spade sguainate.
Skapt mun gnesta 12 Si spuntano le lance
skjgldr mun bresta. si frangono gli scudi
Mun hjalmgagarr 13 ora Fascia di guerra
i hlif koma14. il sangue berrà.
4
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar, l’insegna di guerra,
panns ungr konungr15 già prima guidò

1 Sjà (oppure su = pron. dim.).


2 Hardkléadr (da hardr e klé, che è appunto, negli antichi telai, la
pietra che serve da peso per tener ben tirata la tela; cfr. K. Gislason,
op. cit., p. 582).
3 Hgfud (got. haubip, ags, heafod ecc.).
4 Dreyrrekinn (da dreyri, ags. dreor = sangue e rekinn da reka. got.
wrikan, ags. wrekan, sved. vràka).
5 Darr = (poet.) dardo, lancia (cfr. ags. darop, ingl. dart).
6 Skapt (ags. sceafr, sved. skaft) le verghe che tengono separati i fili
dell’ordito.
7 Jarnvardr yllir (forse da norr. ull, got. wulla, ags. wull), ma la le­
zione non è chiara; cfr. K. Gfslason, op. cit., p. 582).
8 Orr (ags. aruwe, ingl. arrow).
9 Hraela (forse originariamente senza l’aspirazione; cfr. ags. reol, ingl.
reel) = spola, subbio.
10 Nomi di valchirie, per alcuni dei quali v. Vgluspà, 30.
11 Toga (cfr. norr. tjùga, got. tiuhan).
12 Gnesta (cfr. ags. gnaestan).
13Hjalmgagarr=ìett. « cane dell’elmo », « kenning » per indicare un’arma.
14 1 hlif koma = lett. si metterà al riparo (cfr. norr. hlifa, got. hleibjan),
cioè penetrerà nella carne.
15 Ungr konungr : forse in norvegese Sigtryggr, re di Dublino, figlio di
Ólafr kvàran.
74 Le letterature della Scandinavia

atti fyrril! il giovine re.


Framm skulum ganga Guadiamo nel sangue
ok i folk vada, dei morti guerrieri,
pars vinir órir2 ai nostri protetti
vgpnum skipta3. vittoria daremo.
5
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar Tinsegna di guerra,
ok siklingi il nobile re
sidan fylgjum! poi seguiremo!
par séa Stagnar 4 Gli eroi qui vedranno
blódgar randir, gli scudi arrossati,
Gunnr ok Ggndul5 e Ggndul e Gunnr
es grami fylgdu. vegliare sul re.
6
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar, Tinsegna di guerra,
pars ve6 vada l’insegna ch’ai prodi
vigra manna! vittoria darà.
Lgtum eigi Difesa daremo
Uf hans farask! al prode guerriero,
Eigu valkyrjur le vergini di Odino
vals of kosti7. faranno la scelta.
7
Peir munu lydir Avranno la terra
Igndum ràda, i soli guerrieri
es ùtskaga8 i soli che un giorno
àdr of byggdu. regnarono sul mare.
Kvedk rikjum gram A morte votato
ràdinn9 dauda. è il grande signore,

1 Atti fyrr: potrebbe anche interpretarsi con F. Paasche: « che prima


amò »; ma è da preferirsi K. Gislason, op. cit., p. 585.
2 Órr: arcaico per vàrr = nostro.
3 Skipta vgpnum = lett. tentare la fortuna delle armi.
4 Bragnar: poet, eroi, principi (cfr. ags. brego), ma la lezione è dubbia;
cfr. K. Gislason, op. cit., p. 586.
5 Gunnr e Ggndul: nomi di valchirie.
6 Vé n. pi. = vessillo.
7 Kostr (cfr. got. kustus, da kiusan) = scelta. Nel testo abbiamo l’acc.
plur.
8 lJtskagi = capo estremo [d’una terra], cfr. Skagerak (da skagi e rak,
oland. = tratto di via). Si allude evidentemente ai norvegesi.
9 Ràdinn (da ràda) = sicuro, deciso a ... — Si allude al re Brjànn.
K. Gislason, op. cit., p. 588 pensa che la forma singolare del verbo
(kved-ek) traduca le parole d’una sola valchiria; e propone perciò il plu­
rale: kvedum.
Medioevo pagano e cristiano 75

Nù's fyr oddum1 il nobile sire


jarlmadr2 hniginn. di spada morrà.
8
Auk munu trar3 Giammai la memoria
angr 4 of bida5, di tanta sciagura
pats aldri mun dairirico suolo
ytum fyrnask 6. non dileguerà.
Nufs vefr ofinn, La tela è tessuta
enn vgllr rodinn. del sangue versato;
Mun’ umb land fara la nuova funesta
Isespjgll7 gota. eterna vivrà.
5>
Nù’s ógurligt8 Paura e sgomento
umb at litask9, riempiono lo sguardo,
es dreyrugt sky le nubi sanguigne
dregr med himni. trascorrono il cielo.
Mun lopt lita t10 Rosseggia di sangue
lyda biódi, il cielo d’intorno,
enn spjgrvarrar11 noi canti di morte
springa kunnu. valchirie cantiamo.
10
Vel kvgdum ver Le lodi cantammo
of konung ungan del giovine re,
sigrhljóda fjgld, fortuna e vittoria
syngum heilar. il canto darà.
Enn hinn nemi, Chi ascolta quel canto
es heyrir à, lo accolga e ricanti,

1 Oddr (ags. ord, dan. od) — punta, dardo.


2 Jarlmadr Sigurdr, jarl delle Orcadi, secondo E. Ól. Sveinsson, op. cit.,
p. 456.
3 trar = gli irlandesi di Brjànn.
4 Angr (cfr. ingl. anger, lat. angor).
5 Bida (cfr. got. beidan, ags, bidan, sved. bida) = attendere.
6 Fyrnask = propr. invecchiare (cfr. forn).
7 Lsespjgll = notizie funeste (da lae, cfr. got. lew, ags. laewa; e spjall,
got. spill, ags. e ingl. speli = detto, sentenza).
8 Ógurligt (da ógna, got. ogan, ags. oga) = terribile.
9 Lita (got. wleiton, ags. wlitan) = apparire, guardare.
10 Lita: tingere.
11 Al testo di Kock, che segue K. Gfslason, op. cit., pp. 591-592 enn
spjarvarrar - springa kunnu = « che le valchirie sanno far avverare » sem­
bra preferibile, perché più congruente, quello di F. Jónsson es sóknvar-
dar syngva kunnu = « che noi valchirie sappiamo cantare ». Così anche
B. Ól. Sveinsson (op. cit., p. 458). Herder (cit. a p. 73) traduce frain­
tendendo: « prima che le nostre voci finiscano di echeggiare ».
76 Le letterature della Scandinavia

geirfljóda1 hljód dei prodi guerrieri


ok gumnum skemti2! il cuore gioirà.
11
Rzdum hestum, Sui nudi cavalli
hart ut berum3 voliamo al galoppo,
brugdnum 4 sverdum le spade sguainate
à brott5 hedan! a dare la morte.

La vittoria di Carlomagno sui sassoni schiude la via del


Nord alla missione cristiana; ma solo tardi, come s’è detto,
verso la metà del sec. XII, la poesia scaldica comincia ad
aprirsi al contenuto leggendario e dogmatico della nuova re­
ligione, e non prima del XIII see. il Christus victor con le
sue schiere angeliche, e i re missionari e gli eroi della fede
compaiono nella poesia in dróttkvsett e in hrynhent assieme
ai concetti evangelici di fede, di anima, di peccato, di Giudi­
zio, di dannazione e di redenzione6. La poesia scaldica diviene
ora uno strumento della Chiesa che se ne serve per la sua
predicazione tra i fedeli: non è più recitata nell’aula regia
e nelle assemblee, ma in seno alle comunità ecclesiastiche;
e se non ha ancora abbandonato la tradizionale struttura me­
trica e stilistica della « dràpa », tende però sempre più alla
narrazione epica, al discorso continuato e articolato; persino
al dialogo7. Il concetto stesso di poesia è ora un altro. La
poesia non è più virtù (« ììptótt »), o sapere magico, per oscuri
tramiti già riconnesso all’estasi sciamanica e al mito odinico8,
ma — secondo la concezione teologica medievale — una illu­
minazione divina; troppo alta per poter essere espressa in
parole9.
Molte certo sono le figure di transizione che esemplar­
mente illustrano nei loro versi il singolare e tenace dualismo

1 Geirfljód = poet, donna armata (valchiria).


2 Skemta (propr. da skamr: intrattenere, divertire narrando o cantando).
3 Berr (ags. baer) = nudo, qui: non sellato.
4 Brugdinn (da bregda, cfr. ags. bregdan; bregda sverdi = sguainare la
spada.
5 1 brott (dan. sved. bori) = via.
6 Cfr. specialmente W. Lange, Studien zur christlichen Dichtung der
Nordgermanen Gottingen, 1958, p. 110 sgg.
7 La dràpa pagana è — come dice Genzmer (Festschrift Kluckhohn-
Schneidery cit., p. 11): « ausgesprochen redefeindlich ».
8 De Vries, Altgerm. Relig.y cit., II, pp. 66-73.
9 Harmsól, str. 2; Liljay str. 92.
Medioevo pagano e cristiano m
pagano-cristiano. Fra gli scaldi norreni spicca quella di Hall-
frodr Óttarson.
La Saga a lui intitolata non si distingue nelPinsieme per
memorabilità di imprese, intessuta com’è sullo schema cano­
nico tradizionale: avventure vichinghe, panegirici in lode di
principi pagani e cristiani (da Hakon jarl a Ólàfr Tryggvason),
un amore contrastato ma tutto terreno per la bella Kolfinna
che va sposa al rivale Griss, sfide e duelli, inframmezzati da
versi satirici e imprecatori. Pagano e cristiano si fondono e
confondono continuamente nei numerosi aneddoti della nar­
razione, il cui punto saliente è costituito dall’incontro tra il
pagano Alfredo e il cristiano re Ólàfr Tryggvason 1. Nell’ano­
nimo racconto e più ancora nei frammentari versi, ad Alfredo
attribuiti, acquistano personale rilievo da un lato la figura
magnanima ma inflessibile del sovrano, dall’altro quella im­
petuosa ma leale del poeta.
Un soffio d’idealità viene qui a illuminare il prezzolato
rapporto di vassallaggio fra il re e lo scaldo: il primo impone
al secondo la nuova fede e questi obbedisce, soggiogato oltre
che dal tradizionale ossequio alla sacralità del re, dal fascino
d’una personalità d’eccezione; ma — almeno a giudicare dalle
fonti — la conversione di Alfredo non significa irrevocabile
capovalgimento di valori. Le resistenze, i tentennamenti, i
fraintendimenti (che secondo l’anonimo narratore della Saga
servono a spiegare l’epiteto di « vandrasdaskàld » cioè di
« poeta difficile » dato dal re al poeta) mostrano il carattere
tipicamente magico di tale conversione, e provano insieme
come nel cuore di Alfredo (e del suo re 2) continuino a coe­
sistere, malgrado la solenne abiura degli dei pagani, Cristo e
Odino, la legge della croce e la legge della spada.
Così nella sua poesia.
La reazione al tradizionale gusto « barocco », il ripudio
delle astruse « kenningar » mitologiche, la relativa semplicità di
dizione-, non comportano affatto rottura col passato. Nella
« dnapa » in dróttkveett per la morte di Olao alla batta­
glia di Svpldr (1001)3 ritroviamo ancora una volta, accanto
agli insoliti accenti di cordoglio personale e alla invocazione
cristiana, tutti i tradizionali motivi dell’encomio scaldico: la

1 Illustrato in stile epico-drammatico da Snorri nella Heimskringla,


Óldfs Saga Tryggvasonary c. 83.
2 Heimskringla, Óldfs saga Tryggvasonar, cc. 76, 80.
3 Kock, Skald., cit., I, pp. 82-85.
78 Le letterature della Scandinavia

celebrazione dei sacri vincoli di fedeltà al capo, che grandeggia


solo al centro dell’azione; il monotono elogio dell’eroismo,
dell’onore, della vendetta; le immagini stereotipe della batta­
glia: del cozzar delle spade, del sibilar dei dardi, del sangue
scorrente a fiumi.
Ancora una volta pagano e cristiano nello spirito e nella
forma.
Ma certo la fondazione dei conventi, la canonizzazione
del re missionario, Olao Haraldsson, la graduale diffusione
della cultura cristiana in cerehie piccole, ma dominanti, spiega
il mutamento, lento ma progressivo, anche nell’àmbito della
poesia scaldica. Non poco si dovette scrivere, almeno a giudi­
care dall’ampiezza della documentazione apografa rimastaci (non
ancora tutta criticamente inventariata *), oltreché in volgare,
come in Inghilterra, anche in latino. Anzitutto da ecclesiastici;
i quali mostrarono ai laici colti le possibilità della lingua ma­
terna a fini epici e letterari.
Sappiamo dell’intensa attività culturale svolta nelle scuole
ecclesiastiche islandesi di Skàlaholt e di Hólar (XII) e nei
conventi benedettini e agostiniani di ]pingeyrar, di Munka]?ve-
rà, di ]?ykkvaboer, fra le mura dei quali furono scritte le più
antiche pergamene a noi giunte2. Si tradusse e si rielaborò
un gran numero di testi agiografici, liturgici, teologici che te­
stimoniano un vivo interesse per il pensiero cattolico europeo:
dai Dialoghi di Gregorio Magno aìYElucidario di Onorio d’Au-
tun, dalla Historìa Scholastica di Pietro « Mangiadore » al
Soliloquium de arrha animae di Ugo da S. Vittore3. Fiorente
fu, pare, la letteratura delle leggende, dei racconti devoti, dei
miracoli, delle visioni allegoriche, dei sogni profetici, delle
descrizioni d’oltretomba (bastino come indizi: la MerUnusspà4,
in cui, nel metro della eddica Vgluspà, il monaco Gunnlaugr
Leifsson tradusse e commentò le Prophetiae Merlini di G. di
Monmouth; e la diffusissima Duggals leizla5, nella quale un
anonimo voltò in norreno la terrifico-grottesca Visio Tnugdali);

1 P. Lehmann, Skandinaviens Anteìl an der latein. Lit. u. Wiss. des


Mittelalt.y in Atti Acc. Scienze di Monaco, 1936, I, pp. 5-35.
2 H. Hermansson, Icelandic Manuscripts, Islandica, New York, 19, 1929,
p. 19.
3 F. Jónsson, Litt. hist., cit., II, p. 940 sgg.; de Vries, Altn. Litg.
cit., II, p. 324 sgg. P. Lehmann, op. cit., II, 1937, n. 35 sgg.
4 In Hauksbók (Det kongel. nord, oldskrift- selskab), Kobenhavn, 1892,
pp. 101-113.
5 In Heilagra manna sQgur, Christiania, 1877, I, pp. 329-362.
Medioevo pagano e cristiano 79

per non dir nulla dei viaggi di studio a Parigi e dei pellegri­
naggi espiatori1 a Roma, « ad limina apostulorum », e a Ge­
rusalemme, che portarono i nordici a contatto diretto con i
massimi centri della cultura e della pietà medievali.
Si tratta però neirinsieme d’un lavorio di assimilazione
e d’imitazione ispirato a motivi didascalico-catechistici.
Gli scaldi norreni che scrivono ora le loro « dràpur »
religiose mirano tutti a educare un pubblico di scarsa cultura
ecclesiastica, alla vita cristiana; si studiano di fornire esempi
di ascesi e di santità; di svegliare il terrore del Giudizio e
l’ardore della redenzione; di celebrare l’eroismo, il martirio,
l’apostolato della fede; ma non sembrano a tal punto penetrati
dal nuovo contenuto da voler infrangere le vecchie forme.
L’encomio profano del principe, col suo schema formulare
d’immagini e di tropi, resterà ancora fino al XIV secolo il loro
unico modello artistico.
Un’eccezione almeno parziale nell’àmbito di questo mono­
tono panorama è costituita dal Sólarljód2.
Qui per la prima volta l’ispirazione escatologica e apoca­
littica prorompe in immagini di alta fantasia; per la prima

1 Particolarmente interessante fra questi il nudo ma suggestivo Itinera­


rium (Leidarvisir, 1155 c.) di Nikulàs Bergsson abate di Munka£>verà,
pellegrino gerosolomitano e non insensibile ammiratore della bellezza
delle donne senesi e dei monumenti di Roma (Alfredi islenzk, Ko-
benhavn, 1908, 1, pp. 12-23, ed. Kàlund. Cfr. la recente traduzione
italiana di Marco Scovazzi, Il viaggio in Italia del monaco islandese
Nikolas in N. Rivista Storica, LI, fase. III-IV, 1967, pp. 358-362.
2 Serbatoci intero in Mss. cartacei del Seicento, e dalla tradizione po­
polare islandese — certo erroneamente — attribuito a Ssemundr il
Saggio (1135); pubblicato nelle edizioni ottocentesche dtVCEdda poe­
tica; e per la prima volta in ed. critica da S. Bugge (Norroen fornkvae-
di ..., Christiania, 1867, pp. 357-371; poi da F. Jónsson in Skjald, I, A,
pp. 628-633; da M. B. Ólsen, Safn til sggu Islands, V, Reykjavik, 1915;
da Kock, Skald, I, pp. 308-316. Sulla datazione varie ipotesi sono state
fatte e tutte discordanti. Già i critici romantici C. Rosenberg (Nord-
boernes Aandsliv ..., Kobenhavn, 1878, I, p. 556) e R. Keyser, Efter-
ladte skrifter, Kristiania, 1866, I, p. 259) lo ascrivevano ai primi secoli
della conversione; molto antico lo giudicavano ancora G. Vigfusson
(Corpus, cit., I, p. 203) e E. Noreen, Den norsk-islandska Poesien, cit.,
p. 290) rispettivamente del XI e XI-XII. F. Paasche (Kristendom og
Kvad, cit., p. 134 sgg.), H. Falk (Sólarljód, Skrifter, Videnskapsselskap
i Kristiania, 1914, p. 50 sgg.) e B. M. Ólsen (op. cit., p. 75) propen­
dono con maggior verosimiglianza, per la fine del XIII. Il fatto che
Snorri non mostri di conoscerlo; la forte impronta edificante che denota
uno spirito tutto nuovo, e la forma relativamente semplice, sono argo­
menti persuasivi in favore di una datazione assai tarda.
80 Le letterature della Scandinavia

volta l’angoscia del peccato e l’ansia della redenzione, il ter­


rore della morte, e la fede nell’aldilà danno al linguaggio
poetico un palpito insolito, al tradizionale metro della poesia
moraleggiante (Ijódahàttr) un’accensione lirica solenne a un
tempo e concitata. Il concetto cristiano della redenzione è il
motivo ispiratore del carme, ma altri elementi vi confluiscono:
didattici e sapienziali (attinti al pagano Havamàl e ai devoti
exempla) epici e profetici (attinti alla Vgluspà) figurativi e
simbolici (attinti all’allegorismo delle Sacre Scritture).
L ’assenza totale di notizie intorno alla genesi del carme,
all’autore, alla data di composizione; la struttura assai sciolta
e in più punti scucita; l’oscurità di certe allegorie, hanno dato
luogo a una fiera disputa1 alla quale si accennerà nelle note
al testo.
Il tema è quello consueto delle visioni medievali. Un pa­
dre appare dail’aldilà al proprio figliò e gli spiega il vero
significato della vita terrena e della morte, del bene e del male,
del castigo eterno e della beatitudine. Dopo aver esordito con
una dottrinaria esemplificazione di peccati e con l’esortazione
a tenersene lontano, egli passa a narrare la sua vita di gaudente
ravvedutosi nell’ultima ora, il suo doloroso trapasso, l’insidia
del Maligno e la finale redenzione a opera di Cristo, che lo
rende così degno d’intraprendere il pellegrinaggio nei regni
d’oltretomba. La visione si chiude, con la certezza del supremo
ritrovamento nell’aldilà, con la solenne invocazione della Missa
pro defunctis.
Visto sullo sfondo della secondaria e poco originale pro­
duzione pagano-cristiana del sec. XIII, teologica dogmatica
didascalica, ancor più netta risalta l’ispirazione poetica di que­
sta Visio, così personale nel tono e nei motivi lirico-fantastici
e narrativi, a mezza strada fra il truce realismo della Visio
Tnugdalz e gli smaglianti colori della Visio Wattini di Vaia-
frido. Semplice, popolare per lingua e stile, il poeta innalza
qui la sua vicenda autobiografica a simbolo del conflitto tra
bene e male, tra Dio e Satana, inserendola nel tradizionale

1 Fra chi, con più ingegnose che cogenti argomentazioni filologiche,


vuol sostenere l’unità del carme e spiegarne ogni passo oscuro (come
Falk, op. cit., p. 51 sgg., F. Paasche, op. cit., p. 163 sgg.; B. M. Ólsen,
op. cit., pp. 25, 35-36, 58, 64, 66, 69-70, e altri ancora, che si rifanno
a remote* fonti escatologiche bibliche classiche e medievali), e chi —
come l’ipercritico F. Jónsson {Edda, 5, 1916, p. 14 sgg.) — quell'unità
nega, tentando di dimostrare interpolazioni confusioni e giunte mol­
teplici.
Medioevo pagano e cristiano 81

quadro d’un pellegrinaggio oltremondano. Sin dall’inizio del


carme, che qualcuno 1 — per analogia con l’esempio dantesco
— ha creduto inteso a condannare eventi coevi: le lotte fra­
tricide, la gente nova e i subiti guadagni nell’Islanda del see.
XIII, le strofe didascaliche e sentenziose vibrano di dolente
pietà per la fragile natura umana, di « contemptus mundi »
e di « Amor Dei »; e via via che la tensione drammatica cre­
sce, via via che il poeta, al bivio fra perdizione e redenzione
affonda lo sguardo nel mistero della vita e della morte, gli si
rivela la suprema Realtà « per speculum et in aenigmate »,
nella visione del sole misticamente concepito:
36.
Lutr ek sat Recline a lungo giacqui,
lengi, hglludumk, col capo arrovesciato, grande
mjgk vask p à lystr at tifa. era il mio desiderio di vita.
Enn sa réd, Ma Colui che ha il potere decise.
es rikri vas. L’uomo finito
Vvammi eru feigs ggtur. è giunto [all’inferno].
39
Sòl ek sa, Il sole vidi
sanna dagstjgrnu, il vero astro del giorno
d ru p a1 dynheimum iy sparire dal mondo terreno.
Enn H eljar grin d 3 Ma il cancello delPinferno
heyrdak annan veg udii dalla parte opposta
p jóta pungliga. stridere sinistro.
40
Sòl ek sa Il sole vidi
setta dreystgfum 4; rigato di sanguinanti rune;
mjgk vask p à ór beimi h allr5. lontano ero io ormai dal mondo.
Mgttug leizk Sotto molti aspetti
à marga vegu pareva ora più possente,
frà p v is fyrri vas. di prima.

1 F. Paasche, Norsk Litt., cit., I, p. 399.


2 Sette strofe s’aprono con la visione del sole concepito come simbolo
dell’Altissimo. Per la ripetizione del verbo in prima persona B. M. Ól­
sen, op. cit., p. 70, ha pensato all’esempio della Vgluspà. Drupa dynhei­
mum i = lett. sprofondare nel mondo dello strepito; ma il verbo drupa
a differenza di drjupa (dan. dryppe, ted. traufen, ingl. drip) è usato
soprattutto in senso metaforico: languire, abbassare il capo [dal do­
lore]. «V ero astro del giorno» è detto Cristo in Apocalissi XXII, 16.
3 Heljar grind (cfr. Snorra Edda, pp. 49, 92-94, Ski'rnismàl, 35, Loka-
senna, 63).
4 Setta dreyrstgfum = lett. ornato di rune di sangue (da setja; dreyri,
cfr. got. drjusan, ags. dreor; e stafr.
5 Hallr = inclinato (cfr. balla).

XXVII - 4. Lett, della Scandinavia.


82 Le letterature della Scandinavia

41
Sòl ek sa; Il sole vidi;
svà p ótti mér, mi parve di vedere
sem sseik à ggfgan 1 god. Taltissimo Dio;
Henni ek la u t2 davanti al sole m’inginocchiai
hinzta sinni per l’ultima volta,
alda beimi i. sulla terra.
42
Sòl ek sà; il sole vidi;
svà hon geisladiy ed era radioso
at póttum k veetki vita. al punto che venni meno.
Enn Gii f a r 1 straumar Ma i fiumi infernali
grenjudu annan veg spumeggiavano dall’altra parte
blandnir mjgk vid blód. commisti di sangue.
43
Sòl ek sà à Il sole vidi
sjònum skialfandi4 con gli occhi tremanti
breezlu fullr ok hnipinn 5. col cuore contrito e umiliato.
Pvit hjarta mitt Allora il mio cuore
vas hardla mjgk fu sul punto di
runnit sundr t sega 6. scoppiarmi in petto.
44
Sòl ek sà Il sole vidi, io
più pentito che mai; le spalle
t'-''
1
1

mjgk vask p à òr beimi ballr. avevo ormai volto al mondo.


Tunga min La mia lingua era

1 Ggfugr (got. gabigs) = onorevole, nobile.


2 Laut (luta, ags. lùtan, sved. luta). Cfr. l’episodio narrato nella Land-
nàmabók (c. 38) di fcorkell Mani che « giunto a morte si fece portar
fuori, al sole, e si affidò nelle mani di quel dio che aveva creato il
sole ». Hann lét sik bera i solargeisla i bànasótt sinni ok fai sik à
bendi peim guài er sólinna befdi skapat. È dubbio se sia qui da ve­
dere una reminiscenza di culto pagano.
3 Secondo B. M. Ólsen, op. cit., p. 43, si tratta di una « kenning » per
indicare il mare. Ma — se il testo non è corrotto — abbiamo qui un’al­
lusione al mitico fiume infernale Gjgll = lo strepitoso. Sole e mare in­
sanguinati sembrano comunque preannunciare il Giudizio. Falk, op. cit.,
p. 26, pensa ai fiumi infernali Gylfar-(Gilvar) straumar, che si richiu­
dono sulla testa del padre morente; e cita la descrizione fatta nel
Beowulf, v. 1358 sgg.
4 Sjón (dan. sved. syn, ingl. sight).
5 Hnipinn (norr. hnipa, got. ganipnan, ags. hnipian) = flettere.
6 Segi o sigi = pezzetto.
7 Hryggr (cfr. breowig, ingl. rueful} dan. ruelse).
Medioevo pagano e cristiano 83

vas til trés metin 1 come mutata in legno


ok kólnud allt fyr ut an 2. e il mio corpo in ghiaccio.
Cosi ha inizio l’ultramondana peripezia, in un alternarsi di
scene di tormenti e tormentati e di pause riflessive e invocative,
dove l’impeto visionario si smorza talvolta e ristagna in mo­
notona catechesi.
53
Fra p v is at segja, Ora devo dire
hvat fyrst of sàk, quali visioni ebbi, quando
pàs vask i kvglheima kominn: giunsi nel mondo del dolore:
svidnir3 foglar, uccelli arsi dal fuoco —
es salir vgru, anime erano — volavano
ftugu svà margir sem my. a miriadi come zanzare.
54
Vestan sàk A ovest vidi volare il drago
fijuga V àn ar4 dreka di Vàn, e calare
oik fell à Gleevalds ggtu. sul sentiero di Glasvaldr.
Vaengi skók, I vanni scoteva
svàt vida pótti mér si che sembravami
springa haudr ok himinn. ne tremassero e terra e cielo.
55
Solar h jg rt5 II cervo del sole
leitk sunnan fara; vidi venire da sud,
hann teymdu tv eir6 saman. imbrigliato da due uomini.
Foetr hans I suoi piedi
stódu foldu à, toccavano la terra,
enn tóku horn til himins. le sue corna il cielo.

1 Metinn (da meta, got. mitan, ags. metan, sved. mata) propr. = misu­
rare, stimare.
2 Propr. = e raggelato tutto ciò ch’era intorno.
3 Svida (dan. svìe). Secondo B. M. Ólsen, op. cit.y p. 50, l’uso di que­
sto termine prova che si tratta appunto delle anime del Purgatorio.
4 Vàn è in Grimmismàl, 28, uno dei fiumi infernali; secondo Snorri,
Edda, cit., p. 54 si tratta d’un fiume formato dalla bava di Loki in
catene. B. M. Ólsen, op. cit., p. 50, identifica questo drago al Levia­
tano e Glasvaldr « il luminoso », a Lucifero (in contrasto all’interpre­
tazione letterale che ne dà F. Jónsson, cit., p. 149: « signore del mare »).
I Mss. hanno fella anziché fell à.
5 Secondo Paasche, op. cit., p. 151, e Falk, op. cit., pp. 34-35, nel
cervo è simboleggiato Cristo. All’origine di tale simbolo è la leggenda
del martire e santo Eustachio, nota anche nel Nord (cfr. Vlàcitusdràpa).
6 B. M. Ólsen, op. cit., p. 52, emendando hann teymdi tvày intende:
« Cristo imbriglia entrambi » cioè il Leviatano e Lucifero, e si richiama
al Vangelo di Nicodemo; dove però si parla di Cristo che lega Satana
o Belzebù, come giustamente osserva F. Jónsson (op. c i t p. 14).
84 Le letterature della Scandinavia

56
Nordan sàk Da nord vidi cavalcare
rida N id ja 1 sonu i figli delle notti illuni,
ok vgru sjau saman. ed erano setté.
Hornum fullum Da corni ripieni
drukku peir enn hreina mjgd puro idromele bevevano
ór brunni Baugregins2. alla fonte di Baugreginn.
61
Menn sàk pà, Poi vidi uomini,
es mjgk ó lu 3 che molta invidia
of un d 4 af annars b a g i5. nutrirono deir altrui stato,
Blódgar rùnir rune di sangue, dolorose,
vgru à brjósti peim sul petto avevano
merkdar m einliga6. incise.
62
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
marga ófegna; molto dolenti,
p eir vgru villir1 vega, allontanatisi dal retto cammino;
P at kaupir sà, ciò acquistano coloro che,
es p essa heims dalla corruzione di questo
at óheillum apask. mondo, sono tratti in inganno.
63
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es mgrgum hlutum che con molti inganni
véltu of annars eign. si appropriavano i beni altrui.

1 Oscuro è il senso della « kenning » (da nid, cfr. dan. nae = luna calan­
te, o da nidr, cfr. got. nipjis = discendente, figlio?). Secondo Paasche,
op. cit., p. 65, « i figli della tenebra » sono gli angeli che attingono da
Cristo la loro luce. O si allude invece alle sette fasi della luna?
2 Secondo B. M. Ólsen, op. cit., p. 53, Baugreginn sarebbe Baldr, il
dio innocente che disceso in Ilei trovò ricoperti i seggi di quella di­
mora con anelli d’oro (cfr. Baldrs draumar, 6-7, e Edda Snorra, p. 29);
e quindi si tratterebbe qui della « fonte della misericordia, cui gli angeli
si abbeverano » — a un dipresso come i guerrieri bevevano idromele
nella pagana Valhalla (cfr. Grimmismàl, 25). Interpretando nidja ecc.,
come « discendenti di antenati » (pagani), lo studioso islandese vuol ve­
dere nell’immagine una sorta di norreno « limbus patrum », dove sog­
giornano « i discendenti dei pagani », in analogia alTantinferno dante­
sco. Baldr, il dio buono, la cui morte innocente fu pianta da tutti gli
dei pagani, presiederebbe questo limbo norreno! F. Jónsson, op. cit.,
p. 151, ritiene interpolare le strofe 54-56.
3 Ala (lat. alerei).
4 Ofund (sved. avund).
5 Hagr = stato, condizione.
6 Meinliga, avv.
7 Villr (got. wilpeis, ags, ted. ingl. wild), cfr. Hàvamàl, 47.
Medioevo pagano e cristiano 85

Flokkum fóru A gruppi andavano


HI Fégjarns borgar verso la rocca di Mammona,
ok hgfdu byrdar af blyil. portando pesi di piombo.
64
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es margan hofdu che a molti avevano
fé ok fjgrvi rasnt. strappato beni e vita.
Brjóst i gggnum Terribili velenosi draghi
rendu brggnum peim trafiggevano
oflgir eitrdrekar 2. loro il petto.
65
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es minst vildu che disdegnarono
balda belga daga. di osservare i giorni sacri;
Hendr peira le loro mani
vgru à heitum steinum inchiodate
negldar3 naudliga. a pietre ardenti erano.

Lo sforzo visibile di dar forma adeguata a un contenuto


spirituale del tutto nuovo negli schemi e nei modi attinti alla
tradizione pagana (si pensi per esempio a certi neologismi come
« kvcelheimr », cioè dimora dei tormenti, per indicare l’In-
ferno; come « yndisheimr », cioè dimora del piacere per in­
dicare il Paradiso; o a certi termini giuridici come « grid »,
cioè tregua, pace, passato qui a significare: perdono); questo
sforzo non può far velo al vibrante pathos cristiano, all’onda
incalzante delle immagini che, di tanto in tanto, si fa strada,
attraverso gli impacci della forma, « come torrente ch’aita vena
preme ».
E qui davvero sentiamo che l’anonimo poeta d’Islanda
come il fiero Sigambro, nelle celebri parole di San Remigio,
incendia ciò che ha adorato e adora ciò che ha incendiato4.

1 Piombo, invece dell’oro di cui erano bramosi, secondo la legge del


contrappasso, che fa pensare ai dannati e ai penitenti della Commedia
dantesca. Cfr. anche il Draumkvaede (v. 39).
2 Cfr. Vgluspà, 39. A puro titolo di curiosità, ricordiamo che un’eco
di questa strofe è ancora in Strindberg (Svenska oden och àventyr:
« Vikingaliv »).
3 La legge del contrappasso punisce le mani che, per sete di guadagno,
furono attive anche nei giorni consacrati. Negla (cfr. norr. nagli, ags.
neegely ingl. nail). Anche nella nota Visio Alberici è riserbata una par­
ticolare pena a chi non santificò le feste.
4 Gregorio di Tours, Hist. Franc. II, c. 22.
86 Le letterature della Scandinavia

LE SAGHE NORRENE

Anche gli ampi racconti in prosa che, soprattutto in Islan­


da, vengono fissati sulla pergamena a partire dal sec. XIII,
hanno dietro di sé, come i carmi eddici e i versi scaldici, una
lunga tradizione orale, ma a differenza di questi, in varia mi­
sura legati a un patrimonio mitico-leggendario comunemente
germanico, le Saghe norrene sembrano essere un prodotto
islandese nato dai fatti memorabili della colonizzazione del­
usola e della storia norvegese più o meno a questi connessa.
A stare alla tarda tradizione islandese gli esuli norvegesi
ribelli al potere di Araldo Bellachioma (c. 875-945) e deside­
rosi di vivere secondo il forn sidr, cioè secondo gli antichi co­
stumi giuridici e religiosi, cercarono rifugio in Islanda nell’ul-
timo quarto del sec. IX, abbandonando, parte la madrepatria,
parte i suoi possedimenti come le Orcadi le Ebridi le Shetland
o gli insediamenti vichinghi sulle coste inglesi e irlandesi.
Analogamente a quanto avveniva in Svezia e in Danimarca,
la tradizione vuole ravvisare anche nelPopera unificatrice di
Araldo una tendenza del monarca feudale a considerarsi quasi
proprietario del popolo e del territorio, su cui regnal. Certo
è però che gli esuli o colonizzatori (landnamsmenn) come li
chiama la tradizione, non interruppero, anzi mantennero vive
e frequenti le relazioni con la madrepatria. Grandi capi, alcuni
di stirpe regale, avevano fondato fra le rocce basaltiche e i
dorsi vulcanici di quest’isola, abitata da qualche eremita se­
guace di san Brandano, una democrazia aristocratica sostanzial­
mente agricola, governata dal potere legislativo, ma sprovvista
di esecutivo; sicché i conflitti divampanti nella madrepatria fra
la tradizionale libertà dei singoli capi e la crescente egemonia
regia si perpetuarono in Islanda sotto forma di antagonismi

1 Sulla controversa interpretazione dell’esodo dei norvegesi e sulla co­


lonizzazione delTIslanda è da vedere S. Nordal, Snorri Sturluson, cit.,
p. 250 sgg.; H. Koht, Inhogg og utsyn i norsk bistorie, Kristiania, 1921,
pp. 99-102; J. Schreiner, in Norsk bistorisk tidskrift, Oslo, 1927, pp. 161-
224; M. Scovazzi, Le origini del diritto germanico, Milano, 1957,
pp. 80-81; Il diritto islandese della Landnàmabok, ivi, 1961, pp. 23-30;
218-225; Atti del convegno sul tema\ dalla tribù allo Stato, Accademia
dei Lincei, Quaderno n. 54, 1962, pp. 90-110. Di fronte alla opinabilità
e alla incertezza di tanti aspetti del problema, E. Ól. Sveinsson, cit.
(pp. 16-39) e J. de Vries, Altn. Litg, cit. I2 (p. 155) si astengono dal
prender posizione.
Medioevo pagano e cristiano 87

tra preminenti famiglie e tra individui1. Dopo un periodo di


relativa pace dovuto all’influsso del cristianesimo, le lotte oli­
garchiche per il potere tra le eminenti stirpi di Oddi, di Hau-
kadalr e di Reykjaholt rifiammeggiarono all’inizio del 1200
per concludersi con tramonto del libero Stato e col suo infeu­
damento alla corona norvegese (1268). Se fu l’esodo dei nor­
vegesi in Islanda (analogamente a quanto avvenne per i poemi
omerici e per il Beowulf) a dare il primo impulso alla preser­
vazione del patrimonio culturale autoctono oralmente tradito,
fu certamente la conversione al cristianesimo a renderne pos­
sibile la trascrizione.
Probabilmente le prime notizie sul cristianesimo giunsero
nel Nord con quei guerrieri e mercanti che, a contatto con
popoli già evangelizzati, in Inghilterra, in Normandia e in
Germania si limitavano a ricevere la prima signatio 2 per poter
servire alle corti di re cristiani e commerciare con genti cri­
stiane, senza perciò rinnegare la propria fede. Ma dopo l’al­
leanza del trono con l’altare il nuovo credo conquistò tutta,
la Scandinavia, a quanto sembra, senza massacri, senza màrtiri3,
pur lasciando a lungo sussistere visibili relitti pagani nella vita
sociale come nelle forme della poesia e dell’arte figurativa4.

1 Dopo circa mezzo secolo d’immigrazione e d’insediamento i capi-sacer-


doti pagani (godar) che avevano alle proprie dipendenze i Pingmenn,
appartenenti cioè a un determinato parlamento locale (godord) avverti­
rono la necessità di leggi comuni a tutta Pisola e fondarono, Panno 930,
nelle piane sudoccidentali dette appunto Pingvellir, il primo parla­
mento generale (Alpingi). Questo, presieduto da IJMjótr, ch’era stato
in Norvegia a raccogliervi le norme costituzionali del nuovo Stato, se­
deva ogni anno per due settimane del mese di giugno. Il Iggsggumadr
(« legista ») o presidente, era incaricato per tre anni consecutivi di re­
citare a memoria e d’interpretare le norme giuridiche (segja Igg) dal
Iggberg (altura della legge) sovrastante la pianura, mentre il corpo legi­
slativo vero e proprio (Iggretta) era costituito dai godar. Nel 965 si
procedette alla divisione dell’isola in 4 quartieri (fjórdungar) rappresen­
tati in seno allo Alpingi dai giudici dei relativi tribunali (fjórdungsdómar).
Solo l’introduzione del cristianesimo (1000) e l’istituzione di una corte
di cassazione (fìmmtardómr) sembrano aver creato un periodo di relativa
pace nella tumultuosa storia della più antica repubblica d’Europa.
2 Kristnisaga cap. 1 ed. B. Kahle, Halle, 1905, fase. 11. V. ora sul
valore storico di questa Saga: C. Albani, Ricerche attorno alla Kristni-
sagay in Rend. 1st. Lombardo Scienze e Lett., Milano, 1968, pp. 3-54.
3 Ma non certo senza atti di crudeltà e di ferocia contro singoli individui
(p. es. Ólàs Saga Tryggvasonar cc. 76 e 80 in Heimskringla).
4 R. Mowinckel, Vor nationale billedkunst i middelalderen, Oslo, 1927,
pp. 44-46.
88 Le letterature della Scandinavia

In special modo in Islanda l’accettazione del cristianesimo


come religione pubblica, decretata àaWAlpingi più per motivi
politici ed economici che religiosi, non vietò in privato i di­
ritti e le consuetudini del culto e del rito pagano l. Ci furono
indubbiamente i conflitti religiosi2, ma più spesso si ha l’im­
pressione, come s’è detto, d’un sincretismo pagano-cristiano
avvertibile ancora nella raffigurazione che Snorri fa dei due
re evangelizzatori Ólàfr Tryggvason e Ólàfr Haraldsson, non
meno che nella fortunosa storia della missione in tutto il
Nord3.
Decisivo dunque l’apporto della cultura medievale cristiana
alla definitiva elaborazione e codificazione del patrimonio let­
terario oralmente trasmesso. Si sa che alcuni degli esuli nor­
vegesi si erano convertiti già prima dell’esodo. La vittoriosa
diffusione del cristianesimo fra le genti germaniche deve poi
aver alimentato nei nordici, insieme a dubbi, a fraintendimenti
e a odi tipici di ogni età di transizione, anche un più vivo in­
teresse per la propria cultura cui l’uso della scrittura intima­
mente legato alla religione cristiana apriva nuove possibilità
di preservazione. All’attività legislativa dello Alpingi, che certo
favoriva il culto della tradizione e l’orgoglio genealogico degli
isolani ma anche la loro curiosità intellettuale di udire i fatti
memorabili attinti ai quattro punti cardinali della diaspora
vichinga, s’accompagnò, con la conversione, l’influsso civiliz­
zatore della Chiesa, la quale seppe abilmente secondare e tra­
sformare le tradizioni locali. I godar, come erano stati pro:
prietari d’un tempio pagano (hof), erano ora proprietari
delle chiese che costruivano, e avviavano i propri figli (che
§ lungo il celibato ecclesiastico restò qui lettera morta)4 a

1 M. Olsen M M 1946, pp. 75-88.


2 Qualche testimonianza ce n’è rimasta nei versi profanatori d'un neo­
fita come Hjalti Skeggjason, che l’anno 999 paragonò Freyja a una cagna
(Skjald. I. p. 169) in presenza àeWAlpingt e fu proscritto; cosi pure,
per converso, nell’anonima nidvisa (epigramma infamante) contro il
vescovo Fridrekr e il suo discepolo Porvaldr vidfgrli: Hefir bgrn borit-
byskup niu — peira er allra — porvaldr fadir (Partorito ha il vescovo
nove figli; di tutti è padre Torvaldo), alla quale il convertito Porvaldr
rispose uccidendo l’incauto dileggiatore (Skjald, I, p. 168).
3 I. de Vries, Altg. Relig cit. 11° pp. 423-430; M. Scovazzi, Paganesimo
e Cristianesimo nelle saghe nordiche, Spoleto 1967, pp. 771-773.
4 Ancora nel Cinquecento l’ultimo vescovo cattolico d’Islanda Jón
Arason, poeta e campione della indipendenza dell’isola, decapitato nel
1550 dalle autorità danesi, era tenuto, benché padre di più figli, in
grande stima dalla Chiesa romana.
Medioevo pagano e cristiano 89

imparare nelle scuole clericali a leggere e a scrivere, insieme


al latino, la propria lingua. Cosi se in latino era officiata la
messa, si predicava però spesso in volgare. E in volgare presto
si scrisse in Islanda come già in Inghilterra. In piena luce sto­
rica appaiono ora i primi vescovi d’Islanda 1: nel sud, a Skàla-
holt, fsleifr Gizurarson (1056-1080) e Gizurr Isleifsson (1082-
1118) che con l’aiuto del godi cristiano Saemundr frodi intro­
dusse l’istituto della decima (1096); nel nord, a Hólar, Jón
Ogmundarson (1106-1121). Fu certo nei primi conventi be­
nedettini: di Jringeyrar (consacrato il 1133) e di Munka-
J)vera (1155), agostiniani (di {>ykkvabcer, 1168) e nelle
scuole ecclesiastiche (Oddi, Haukadalr) che la incipiente sto­
riografica tanto agiografica e leggendaria come annalistica fu
fissata sulla pergamena in latino e poi anche in volgare. Anzi­
tutto è ovvio le vite dei santi e degli apostoli, poi quelle
dei re norvegesi che avevano dato un impulso decisivo alla
conversione: Ólàfr Tryggvason e, più ancora, Ólàfr Haraldsson,
ben presto trasfigurato dalla leggenda, santificato dalla Chiesa
romana e assunto a « perpetuus rex Norvegiae » 2. Scritti sacri
e scritti giuridici, di grammatica e di retorica 3, di astronomia,
di geografia, di medicina' attestano la vivacità intellettuale di
questa società fondamentalmente agricola, priva di centri ur­
bani, non certo ricca, conservatrice, eppure aperta a tutti gli
influssi culturali europei.
Se Saemundr frodi Sigfùsson (1056-1133) di Oddi fu il

1 La cui biografia è narrata nelle Biskupa sogur (pubblicate per la prima


volta da G. Vigfusson, Kobenhavn, 1858-62) e importanti come fonti
storiche, specialmente la Hungrvaka (scritta a Skalaholt ca. 1195-1211)
intorno ai primi cinque vescovi islandesi e cosiddetta — propriamente
« aperitivo » — per destare curiosità e interesse intorno al soggetto
trattato.
2 S. Nordal, Om Olof den Helliges Saga, Kobenhavn 1914, pp. 10-11.
H. Koht, Noreg eit len av St. Olav, Norsk Hist, tidskrift 30, pp. 81-109.
B. Dickins, The Cult of St. Olave in the British Isles, Saga Book of
The Viking Society, London, 12, 1939, pp. 53-80.
3 Specie i quattro trattati grammaticali (nel Wormiamus e néìYUpsa-
liensis) dell’Edda snorrica (Dahlerup — Jónsson: Den hrste og anden
grammatiske Afhandling i Snorres Edda, Kobenhavn, 1886; B. M. Ólsen,
Den tredje og fiserde grammatiske Afhandling i Snorres Edda, ivi 1884)
hanno attirato l’attenzione degli specialisti per la singolare autonomia
con la quale gli anonimi autori trattano questioni retoriche e gramma­
ticali risalenti a Prisciano, a Donato e ai loro concorrenti e commen­
tatori come Alessandro di Villadieu, Paolo Elia e Everardo di Béthune
(S. Nordal Codex Wormianus ed. in facsimile. Kobenhavn 1931, p. 9;
e J. de Vries Altn. Litg, cit. I2 pp. 333-334; II, 200-202).
90 Le letterature della Scandinavia

primo a scrivere in latino di storia nazionale con intenti crona- v


chistici e critici, Ari fròdi f)orgilsson (1067-1148), educato a
Haukadalr, è ricordato da Snorri come padre della storiografia
islandese in volgare. La sua tslendingabók (ne restano sedici
pagine sulla storia politica e religiosa della colonizzazione dal-
l’870 fino al 1120 con sobri cenni sulla conversione al cristia­
nesimo fino ai due primi vescovi islandesi e con riferimenti
cronologici a fatti storici europei) sembra sia la seconda reda­
zione di una precedente perduta, alla quale e per le genealogie
(àttartglur) e per le vite dei re norvegesi (konungasevi) ivi
contenute, Snorri fa specifico riferimento come a fonti docu­
mentarie fededegne nel prologo della sua Heimskringla. Sempre
ad Ari va almeno in parte attribuita la cosiddetta Landnàma-
bók 1 o storia della colonizzazione, che insieme alla tslendin­
gabók pare dunque racchiudere in nuce molti degli elementi
costitutivi della Saga islandese scritta. Va subito aggiunto poi
che, a questa tendenza storiografica o cronachistica che sia,
attenta al vaglio delle fonti narrative e delle testimonianze,
s’affianca e gradatamente si confonde un’altra d’ispirazione
esclusivamente claustrale, agiografica, moralistica, che S. Nor­
dal, con molta verosimiglianza, fa risalire al convento bene­
dettino di f)ingeyrar2, dove appunto furono redatte a fini edi­
ficatori le prime Saghe dei re missionari: per esempio quella
in latino (l’originale è perduto, ma esistono traduzioni norrene
del 1200 ca.) su Ólàfr Tryggvason dei monaci Oddr Snor-
rason e Gunnlaugr Leifsson, e forse anche l’altra anonima, sul
secondo grande re missionario e santo nazionale Ólàfr Ha-

1 È una storia topografica della scoperta dell’Islanda e della colonizza­


zione, che segue il progressivo insediamento dei coloni da sud a ovest
a nord a est e dei loro discendenti fino al 1100 ca. narrandone, talvolta
in vivace forma aneddotica, i fatti salienti. Vi sono menzionate più di
3500 persone e di 1500 insediamenti umani. Quanto mai fortunosa
però la tradizione manoscritta. Secondo la più recente redazione ser­
bataci, quella di Haukr Erlendsson detta Hauksbók (prima metà
del XIV) egli stesso avrebbe attinto ad Ari e inoltre, più specificata-
mente, alle due redazioni di Sturla fcódarson ■— ca. 1214-1284 — e di
Styrmir Karason, morto nel 1245. Le altre tre redazioni (quella fram­
mentaria della Melabók e le due assi tarde del sec. XVII) non sono
qui prese in considerazione; per la ricostruzione di tali fonti, quanto
mai problematica, si rinvia a J. Jóhannesson, Gerdir Landnàmabókar,
Reykjavik, 1941; v. inoltre S. Nordal, N. K., cit., pp. 191-193 e E. Ól.
Sveinsson, Dating the Icelandic Sagas, London, 1958, pp. 88-94.
2 N. K. cit. p. 252.
Medioevo pagano e cristiano 91

raldsson 1. Se l’età della codificazione della Saga è grosso modo


il sec. XIII, il genere stesso della Saga2 è indubbiamente più
antico dell’uso della scrittura. Gli esuli norvegesi portarono
certo con sé in Islanda una cultura giuridica, mitologico-
poetica, storica3, affidata alla tradizione orale, ma, in seno a
questa cultura eterogenea, abbracciante anche remoti eventi
leggendari — ritenuti però, in età illetterata4 « veri », — i
fatti salienti dell’esodo e poi le vicende della colonizzazione e
della conversione promossa dai re di Norvegia, avranno certo
destato maggiore interesse negli islandesi che direttamente vi
avevano partecipato e nei loro immediati discendenti.
Sull’origine prima della Saga, come su quella del carme
eroico germanico, nulla si sa di certo. È verosimile però che i
fatti cronachistici più tardi menzionati nella tslendingabók di
Ari, e più ancora i brevi aneddoti (frasggn) della Landnàmabók
siano stati, come si è detto, i primi nuclei narrativi (peettir)
della Saga (conflitti armati fra individui o famiglie eminenti,
liti giudiziarie, offese, vendette e riconciliazioni).
Che il narrar Saghe fosse in Islanda un vero e proprio in­
trattenimento sociale (sagnaskemtun) durante le lunghe sere
invernali, nelle assemblee locali, nello Alpingi è sicuramente
documentato. Nel 1119, ci narra la porgils saga ok Haflida5,
fu solennemente celebrato un matrimonio a Reykjahólar (nel-
l’Islanda occidentale) e fra i divertimenti connessi all’evento
un certo Hrólfr di Skàlmarnes narrò una Saga da lui stesso
composta. Un’altra fonte6 menziona un islandese, il quale

1 Della quale restano solo frammenti; forse il compilatore si rifece alle


idee storiografiche e critiche di Ari (come crede J. Schreiner, Tradisjon
og Saga om Olav den Hellige, Oslo 1926, p. 4 sgg.).
2 II termine, com’è noto, significa racconto orale (da seja = dire, in
contrasto a kveda = poetare). Malgrado la divergenza e il contrasto di
opinioni sull’intricato problema della genesi e dell’evoluzione della Saga,
che abbraccia componimenti formalmente e sostanzialmente diversi, non
esiste dissenso sulla realtà d’un «genere» narrativo indicato con tal
nome (S. Nordal, N. K.t cit., p. 270; P. G. Foote, Some Account of the
.Present State of Saga-Research in « Scandinavia », nov. 1965, pp. 115-
125; Th. Andersson, The Icelandic Family Saga, Harvard Un. Press,
1967, Pref. V).
3 S. Beyschlag, Konungasogur, Kobenhavn, 1950, p. 200 sgg.
4 Cfr. su questo aspetto del problema Bowra, cit., p. 40 sgg. e anche
recentemente M. I. Steblin -Kamensky, On the Nature of Fiction in
. the Sagas of Icelanders, « Scandinavica », nov. 1967, pp. 77-84.
5 Nella Sturlungasaga ed. Kàlund, Kobenhavn, I p. 22.
6 II Ms. anonimo islandese, chiamato da fcormódur Torfasus (1636-
1719) « la pergamena ammuffita » (Morkinskinna} ed. F. Jónsson, K 0 -
92 Le letterature delta Scandinavia

narra al re Araldo il Severo le gesta da quest’ultimo compiute


anni prima a Bisanzio e nel Mediterraneo; e dice di aver udito
di tali gesta nello Alpingi islandese da un certo Haldórr
Snorrason, che era stato appunto al seguito del re. All’inizio
del prologo della Heimskringla Snorri poi cita fra le sue fonti
documentarie non solo Ari, ma i nomi di coloro che garanti­
vano la continuità di una tradizione orale risalente all’epoca
di Araldo Bellachioma: cioè Oddr Kolsson e Jporgeirr afràds-
kollr.
È chiaro però che, affidando alla pergamena il loro patri­
monio narrativo, gli islandesi ne resero possibile non solo la
conservazione ma certo anche quella maggiore elaborazione
artistica che i pur dotati narratori semiprofessionali, i sagna-
menn, difficilmente avrebbero potuto conseguire. Non c’è dub­
bio perciò che il manoscritto segnò una svolta decisiva nella
secolare storia della Saga. Senza por fine alla tradizione orale,
esso permise l’utilizzazione di fonti scritte, l’affinamento degli
intenti artistici, l’approfondimento dei motivi psicologici, e
dette cosi alle Saghe quella forma definitiva nella quale ci
sono oggi accessibili. Ma come esattamente avvenne il pas­
saggio dalla tradizione orale alla scritta?
In un costante avvicendarsi di corsi e ricorsi la storia
della genesi e dello sviluppo della Saga ha oscillato per oltre
cinquantanni tra i poli estremi di due teorie contrastanti:
nell’uso corrente indicate coi nomi tedeschi Freiprosalehre e
di Buchprosalehre 1. La prima considera la Saga come pura e
semplice codificazione d’una anonima e mnemonica tradizione
narrativa di fatti, cui gli anonimi scribi islandesi del sec. XIII
non avrebbero apportato alcuna sostanziale modifica; la se­
conda, invece, come opera d’arte di singoli autori, anch’essi ano­
nimi, nata all’atto stesso della fissazione sulla pergamena, sul
fondamento d’un minimo di tradizione orale.
La storiografia critica sulla Saga sembra cosi ricalcare, al­

benhavn, 1932, pp. 199-200) e contenente appunto questo pàttr af


islèndingi SQgufróda nonché una narrazione della storia norvegese da
Magnus godi (1035-1047) alla battaglia di Ré (1177).
1 Sull’intero problema cfr. anzitutto A. Heusler, Die Anfànge der islàn-
dischen Saga, Berlin, 1914; e Altg. D. Postdam, 1941, p. 215, nota 171;
K. Liestol, Upphavet til den islendske Aettesagay Oslo, 1929; F. Jónsson,
Litt. hist, cit., II2 p. 207-237; S. Nordal, N. K.y cit., 1953; M. Scovazzi:
La Saga di Hrafnkell e il problema delle Saghe islandesi, Arona, 1960,
pp. 72; 85-293; J. de Vries Altn. Litg.y cit., II2; W. Baetke, Ueber die
Entstehung der Islandersagas, Berlin, 1956, passim.
Medioevo pagano e cristiano 93

meno in parte, quella sull’epica francese. Come dalle concezioni


romantico-populariste dei Grimm, dei Fauriel e dei G. Paris
si è passati, sulla base dell’analisi linguistica e stilistica, alle
idee unitariste del Bédier, così dalle ricostruzioni dei tradizio­
nalisti come F. Jónsson, A. Heusler e K. Liestol, alle odierne
interpretazioni di S. Nordal, di E. Ól Sveinsson, di W. Baetke.
I fautori della Freiprosalehre sostengono non soltanto l’esi­
stenza d’un corpus di tradizioni orali già artisticamente ela­
borate rispecchianti i fatti memorabili del IX e del X secolo,
ma anche in varia misura la sostanziale aderenza stilistica dei
testi del sec. XIII a tali antiche tradizioni; gli avversari mini­
mizzano la possibilità di una tradizione orale di componimenti
così ampi come le Saghe (anche 400 pp. a stampa); e sotto­
lineando i caratteri distintivi, spesso asseritamente fantastici,
d’ogni singola Saga, insistono sulla tarda formazione dell’intero
genere letterario, sul quale avrebbero influito in misura deter­
minante rii ideali religiosi e cavallereschi penetrati nel Nord
con la diffusione del cristianesimo. Insomma ciò che secoli
prima avvenne sotto Carlomagno sul continente, si sarebbe a
un dipresso ripetuto in Islanda; a San Gallo, a Fulda, a Rei-
chenau cux risponderebbero Pingeyrar, Hólar e gli altri conventi
islandesi. Inoltre i primi studiosi postulano — certo in linea
generale erroneamente — una eccellenza artistica iniziale delle
Saghe ritenute più antiche e quindi più vicine alla tradizione
orale; e conseguentemente considerano più antiche le cosiddette
Islendingasogur, cioè 40 circa, oltre numerosi p settir sui fatti e
sui protagonisti della colonizzazione islandese (circa 930-1030).
I secondi capovolgono questi canoni interpretativi e pongono
alPorigine le Konungasggur; cioè le più cronachistiche Saghe
dei re norvegesi (due dozzine circa), che probabilmente furono
le prime a venir trascritte dopo le agiografiche, in parte a opera
di noti autori e in un caso almeno (come già era altrove avve­
nuto per i Gesta Friderici ìmperatoris di Ottone di Frisinga)
per iniziativa e sotto la sorveglianza diretta d’un re 1.

1 La Sverrissaga soprannominata Gryla (Spauracchio) e scritta almeno in


parte dall’abate di Pingeyrar Karl Jónsson, a celebrazione ufficiale del
vivente sovrano norvegese Sverrir Sigurdarsson (1184-1202); forse in­
terrotta dopo la scomunica del re da parte di Innocenzo III (1198),
poiché il re a capo della fazione dei Birkìbeinar condusse una guerra
senza quartiere contro i Baglar, o partigiani della Chiesa. In risposta alla
scomunica Sverrir fece scrivere a un ignoto dotto, che forse studiò al-
l’Università di Bologna (cfr. En tale mot Biskopene, Oslo, 1931, ed.
94 Le letterature della Scandinavia

Necessaria appare una mediazione fra le due tendenze


estreme1; che ammetta un lungo e vario processo di forma­
zione e di stratificazione e lasci così adito almeno a una mag­
giore gradualità di trapassi e di elaborazioni.
Come negare infatti che in una società fondata su saldi vin­
coli tribali, come la islandese, e in un’età illetterata in cui si me­
morizzavano liste genealogiche, versi scaldici, carmi eroici, do­
tati sagnamenn siano stati in grado di elaborare artisticamente
brevi narrazioni (le frasggn della Landnàmabók) o anche rac­
conti più ampi sul tempo antico (le cosiddette Fornaldarsógur)
cioè sul remoto passato mitico-eroico nordico e comunemente
germanico (p. es. la Vglsungasaga sulla leggenda di Sigfrido) o
ancora sulla vita dei re norvegesi (p. es. il Hryggjarstykki di
Eirikr Oddsson *, l’anonima e più antica Saga di Ólàfr Haralds-
son). Come spiegare la similarità e talvolta l’identità di certi mo­
duli narrativi della Saga scritta, e insomma il suo stile cosi di­
verso da quello della coeva letteratura chiesastica medievale
senza una precedente tradizione autoctona. E se non da questa,
da quale altra esperienza formativa può essere nato lo stile
della Saga?
Che poi T« autore » o gli « autori » il sagamadr o lo scriba
o entrambi, incorporando omettendo riplasmando, secondo la
consuetudine cosi diffusa nel Medioevo, e in diretta relazione
al talento artistico, all’intento critico o al fine edificatorio, al
momento e alPambiente in cui operarono, abbiano ridotto a
unità organica racconti elaborati dalla tradizione adattandoli a
nuovi contesti, si può ritener certo. Bisognerà dunque tentare,
finché possibile, di determinare, caso per caso, quanto abbia il
suo fondamento in una tradizione orale, e quanto invece sia
nato all’atto della elaborazione scritta o sulla base di fonti

A. Holtsmark, pp. 60-61) un libello contro i vescovi in appoggio alla


teoria della sovranità del potere temporale su quello spirituale.
1 H. Becker-Nielsen; Th. Damsgaard Olsen; O. Vidding, Non on fortsel-
lekunst, Kobenhavn, 1965, p. 123; J. de Vries, Altn. Litg., cit., II2,
p. 323 sgg.
2 Controversa è l’interpretazione del titolo di questa Saga perduta (di
cui ci dà notizia la Morkinskinna ed. F. Jónsson, Kobenhavn, 1932,
p. 419; e Snorri nella Heimskringla — Saga di Ingi capp. 7, 9, 11)
intorno al re di Norvegia Haraldr Magnusson gilli (1130-1136), ai suoi
due figli, nonché ai re Magnus Sigurdarson blindi (1130-1139) e Sigurdr
slembidjakn (1130-1139), cioè intorno ai protagonisti delle feroci lotte
per la successione al trono dopo la morte di Sigurdr jórsalafari (1130).
Snorri ci dice appunto nel c. 11 che Eirikr narrò gli eventi cosi come
gli furono narrati da testimoni oculari.
Medioevo pagano e cristiano 95

scritte; cosa non facile, che anche nelle Saghe artisticamente


più mature e unitarie (la E giissaga, la Njàlssaga, la Laxdcela-
saga) innegabili sono le interpolazioni e le giunte e i pezzi di
raccordo. Ma bisogna anche guardarsi dal formulare troppo
rigide definizioni e classificazioni sulla base dei fluttuanti carat­
teri del materiale documentario sempre composito ed etero­
geneo; e per esempio prendere la crudezza linguistica per si­
curo indizio d’arcaicità e viceversa l’eccellenza letteraria per
prova di recenziorità; o con sicurezza affermare la dipendenza
di un genere dall’altro (le Islendingasggur dalle Konunga-
SQgur !, o viceversa), dove forse non c’è che interazione e pa­
rallelismo; o escludere che la Fornaldarsaga, perché visibilmente
mitico-fiabesca, abbia potuto coesistere e forse anche cronolo­
gicamente precedere gli altri tipi di Saga.
Anche i criteri di datazione adottati non presentano garan­
zie assolute (la coerenza delle genealogie non è sempre control­
labile, né decisiva la forma della composizione d’una Saga, e
neppure la comparazione interna tra più Saghe, le quali,
anziché dipendere l’una dall’altra, possono avere attinto a fonti
perdute o alla tradizione orale; non meno discutibili i risultati
dell’analisi formale basata su determinati costrutti linguistici
e sull’uso di certi vocaboli, perché non è da escludere la pos­
sibilità d’intenti arcaizzanti o di tarde interpolazioni). Se come
si è detto i manoscritti più antichi, cioè della prima metà del
sec. XIII, si riducono a pochi il cimenti e la stragrande mag­
gioranza degli apografi va invece ascritta ai secoli XIV e XV,
pure sembra possibile tracciare almeno uno schema approssi­
mativo di evoluzione storica della Saga scritta2. Fra le più
antiche (c. 1200-1230) redatte, secondo S. Nordal, nel con­
vento di Pingeyrar, la lacunosa Heidarvtga saga (Saga delle
uccisioni sull’altopiano), forse risale a due diverse tradizioni
giustapposte: la prima leggendaria, la seconda cronachistico-
tribale legata al quartiere occidentale dell’Islanda. Rispetto ad
altre Saghe, indubbiamente più tarde, che sembrano averne uti­
lizzato i temi narrativi, questa presenta difetti di composizione
e caratteri stilistici che giustificano la datazione proposta. Allo
stesso periodo cronologico sembra appartenere la Fóstbrcedra
Saga (Saga dei fratelli d’arme) Pormódr Kolbrùnarskàld e
Porgeirr Havarsson. La narrazione delle loro gesta e soprat­

1 Turville-Petre, cit. p. 231.


2 S. Nordal N. K. p. 253 sgg. e E. Ó1 Sveinsson, Dating the Icelandic
Sagas, cit., specialmente p. 127 sgg.
96 Le letterature della Scandinavia

tutto la storia di Pormódr che vendica l’uccisione di Porgeirr


in Groenlandia e finalmente muore a Stiklastadir al seguito di
Olao il Santo, è a tratti intensamente drammatica, malgrado
le digressioni e la composizione alquanto scucita. Allo stesso
periodo appartengono forse alcune Saghe che hanno il carattere
di biografie di singoli poeti apparentemente basate sui versi
scaldici a quelli attribuiti: p. es. la Hallfrodar saga e- la
Kormàks saga, la Egilssaga Skallagrimssonar (delle quali si è
parlato in connessione con la poesia scaldica), mentre altre
come la Reykdcela, la Eyrbyggja, la Vatnsdcela che narrano le
vicende di intere famiglie o di insediamenti territoriali, spesso
diffuse e prolisse ma di grande interesse storico-culturale; o
come altre, legate al quartiere occidentale, quali la Gisla saga
(la storia di un proscritto innocente che ha ucciso per proteg­
gere il fratello) e la Laxdcela (sulla fatale rivalità tra Kjartan
e Bolli per l’amore di Gudrun, improntata insieme allo spi­
rito eroico vichingo e al gusto cavalleresco) sembrano, per
l'utilizzazione di molteplici fonti scritte, per la salda struttura
narrativa, e per la libertà con cui trattano la tradizione, opere
della seconda metà del secolo. Alla fase culminante della Saga
(1300 c.) che, insieme alla eccellenza formale già scopre qual­
che segno di incipiente decadenza, vanno probabilmente ascritti
componimenti come la Gunnlaugs saga, la Njaissaga, la Gret-
tissaga, la Hrafnkels saga Freysgoda, nei quali agli influssi
stranieri dell’amore cortese e della morale cristiana sempre più
evidenti s’accompagnano una maggiore autonomia inventiva e
una consumata perizia d’impianto narrativo; finché, nella se­
conda metà del secolo, col tramonto dell’indipendenza del­
l’isola, le tradizioni tribali della Saga cessano di essere la fonte
prima dell’ispirazione. Il genere narrativo non si estingue
certo, ma attinge sempre più i suoi temi alle traduzioni dei
romanzi « cortesi » e delle canzoni di gesta e predilige l’av-
venturoso il fiabesco e soprattutto Pesotico. Vigoreggia ora e
si diffonde la moda delle Fornaldarsggur, delle Riddarasggur,
dalle cosiddette Lygisggur 1 (Saghe menzognere) il cui carattere

1 Sotto il re Hàkon Hakonarson (1217-1263) fu iniziata a opera dell’abate


Robert la traduzione, in ridondante prosa norvegese, del Tristano del-
l’anglonormanno Thomas vissuto alla corte inglese di Enrico II. Segui­
rono presto traduzioni, in un rozzo e ibrido linguaggio che ricorda i
poemi cavallereschi franco-italiani, dei Lai di Maria di Francia e dei
poemi di Chrétien de Troyes, nonché della materia classica, nella Tróju-
manna Saga (un rifacimento del De excidio Trojse di Darete Frigio).
Medioevo pagano e cristiano 97

favoleggiante e ridondante e il cui lieto fine, qualunque sia la


vicenda tragica narrata, visibilmente contrastano con l'asciut­
tezza cronachistica e realistica delle Konungasggur e delle Islen-
dingasggur. Certo anche questo genere di Saghe lungamente
visse al pari delle altre in tradizione orale (ne fa fede tra l’altro
anche la testimonianza esplicita di Saxo, che nella prefazione
ai suoi Gesta Danorum paga un debito di riconoscenza ai nar­
ratori e agli scaldi islandesi; ma come s’è detto, mutato è lo
spirito che le informa, giacché anche quando riprendono mo­
tivi epici tolti elVEdda o alle altre Saghe, invariabilmente ne
iperbolizzano il lato eroico e soprannaturale, come p. es. la
Vglsunga saga, e la Hrólfs saga kraka l, la Ragmrs saga lodbró-
kar e la Fridpiófs saga)2.
Al di là delle molteplici differenze esterne e interne la
Saga, almeno nella sua forma più tipica, si presenta come bio­
grafia di un individuo o di una stirpe, come narrazione di vi­
cende e di fatti direttamente osservati, o anche se attinti a
testimonianza altrui, esposti sempre con oggettiva imperso­
nalità e cura documentaria in una lingua semplice, realistica,
quasi quotidiana, ignara di epiteti esornativi come di accen­
sioni liriche, in uno stile uniforme, monotonamente para tattico
e asindetico. Chi narra dissimula sempre il suo io dietro la

1 Benché tarda e ricca di elementi leggendari questa Saga contiene un


nucleo epico-storico risalente al V-VI secolo — i nomi dei figli di Hrólfr
Kraki, Hróarr e Helgi si ritrovano nel Beowulf: Hròdgàr e Halga; e
nei Gesta Danorum di Saxo. E qui appunto, nella parafrasi latina
di Saxo, che in centinaia di esametri sembra aver voluto rendere un
antico carme eroico Bjarkamal, è narrata l’ultima battaglia in cui il re
e i suoi prodi guerrieri — fra i quali spiccano Bgdvarr Bjarki e Hjalti —
periscono soverchiati dagli avversari. Il carattere encomiastico del carme
è visibile non solo nell’epilogo, ma nel dialogo tra Bgdvarr e Hjalti; i
quali, prima della battaglia esaltano il valore e la generosità del loro re.
Un’eco di questo perduto carme è ancora in Snorri (Ólàfs saga belga
cap. 208), dove lo scaldo di Olao, Pormódr Kolbrunarskàld, all’alba
della fatale battaglia di Stiklastadir, recita appunto alcuni versi dei
Bjarkamal per destare e incitare i guerrieri: « Vekka ydr at vini — né
at vtfs runum — heldr vekk ydr at bgrdum — Hildar leiki» (non vi
desto alle libagioni né ai colloqui amorosi; vi desto invece al duro gioco
della dea della guerra). E bastano queste parole a darci un’idea del­
l’intonazione eroica del carme, che molto più tardi ha ispirato scrittori
romantici danesi, come J. Ewald e A. Oehlenschlager.
2 Sulla quale certo ha influito la nota leggenda medievale di « Fiorio e
Biancofiore »; il romantico svedese E. Tegnér vi si ispirò più tardi per
il suo epos Fritbiofs saga.
98 Le letterature della Scandinavia

nuda sequenza dei fatti, racconta più che non descriva, rife­
risce più che non commenti, senza prender partito (cosa tanto
più degna di nota se si pensa che gli anonimi « autori » della
Saga furono i sia pur lontani discendenti dei protagonisti di
quelle). Anche quando Finterà vicenda o il singolo episodio
è palesemente fantastico, il tono del racconto arieggia sempre
una fedele osservazione della realtà; e a ciò contribuiscono non
poco sia i frequenti riferimenti genealogici topografici e crono­
logici, sia i dialoghi brevi e freddi e sentenziosi; che servono a
far procedere l’azione o più spesso a caratterizzare situazioni
drammatiche, nelle quali il cupo fuoco delle passioni si nascon­
de sotto un incisivo e allusivo laconismo.
DalPesordio piano, dimesso, quasi sempre genealogico che
evidentemente serviva a orientare subito gli ascoltatori sui
personaggi e sui fatti memorabili: Oddr hét madr Onundar son
breidiskeggs... — Oddr si chiamava un uomo figlio di Onundr
dalla grande barba (Hoensa-póris saga); Mgrdr hét madr, er
kalladr var gigja, hann var sonr Sighvats hins randa. — Mgrdr
si chiamava un uomo soprannominato violino, egli era figlio di
Sighvatr il rosso (Njàlssaga); Madr er nefndr Grimr Kamban,
hann bygdi fyrstr Foereyjar à dggum Haralds hins hàrfagra. —
Un uomo chiamato Grìmr Kamban viveva una volta nelle
« Isole delle pecore » al tempo di Araldo Bellachioma (Pàttr
Pràndar ok Sigmundar), la Saga passa gradatamente, cronachi­
sticamente, per una ben congegnata serie di aneddoti e episodi
che preparano i culmini drammatici, alla complessa caratterizza­
zione dei personaggi, per lo più attraverso le loro parole e azioni,
quasi mai mediante la parafrasi del narratore. E gli anonimi « au­
tori » come già i poeti dei carmi eroici non rinunciano quasi mai
all’espediente epico della prognosis: sin dall'inizio prefigurano
lo svolgimento degli eventi velando nei sortilegi, nelle visioni,
nei sogni premonitori quello che sarà l’ineluttabile decreto del
fato. Sicché tutto l’interesse narrativo si concentra sul « come »
questo fato si compirà attraverso un abile gioco di fatti minuti,
realistici (d’un realismo psicologico non pittorico): una parola
incauta, un contrasto d’interessi appena accennato, un’offesa
anche involontaria all’onore tribale mette in moto la macchina
degli eventi che porteranno al climax tragico dell’uccisione, la
quale, a sua volta, con la vendetta, creerà un nuovo climax. Gli
uccisi sono vendicati e i vendicatori uccisi, in un crescendo di
fatti cruenti che sostanzialmente formano la trama di questi
racconti. Cosi nella più antica Heidarviga, cosi nella più arti-
Medioevo pagano e cristiano 99

Eticamente matura Njàla1. Sicché il pregio maggiore della Saga


non è tanto da ricercare nel pur vario e netto disegno delle
cose, nella sapida narrazione dei fatti in sé presi, quanto nei
personaggi che li incarnano rendendoli, col proprio comporta­
mento eroico, esemplari e memorabili.
Come Eschilo amava chiamare i suoi drammi briciole del
banchetto omerico, cosi oggi si potrebbe chiamare le Saghe più
o meno dirette filiazioni narrative dei carmi eroici2. Su un
piano più realistico certo, ma anche meno stilizzato e tipiz­
zato. Sorte come l’epica eroica per essere ascoltata e non letta3
e quindi difficilmente accessibili al gusto dei moderni per la
unidimensionalità narrativa, per le lungaggini4 e minuterie de­
scrittive di colpi e ferite, per le disuguaglianze strutturali, tal­
volta anche per la folla dei personaggi (la Njàla ne ha 600!),
le Saghe spiccano in seno alla letteratura del Medioevo per la
forza plastica della caratterizzazione individuale spesso atte­
stante l'unità d’una consapevole ispirazione poetica. Figure
come Egill che grandeggia nella fedeltà alPamico e nell’amore
per i figli non meno che nell’odio feroce per gli avversari,
come i proscritti Gisli e Grettir che al fato avverso e all’infa­
mante condanna della società germanica cui appartengono op­
pongono il proprio fiero individualismo e lo sprezzo della
morte, come Gudrùn che si consuma nell’amore-odio del di­
letto Kjartan al punto da incitare il marito ad ucciderlo, come
Njàll e Gunnarr di Hlidarendi, rappresentanti delle più alte
virtù guerriere eppure combattuti fra l’antica morale eroica
e il nuovo spirito cristiano, non possono essere scaturite dal­

1 In due ampi studi E. Ól. Sveinsson ha sostenuto la fondamentale


unità poetica di questa Saga sottolineandone la coerente e profonda
tensione drammatica, l’ampiezza e la chiarezza del disegno, il confluire
e talvolta lo scontrarsi, nei personaggi, del fatalismo eroico e dell’etica
cristiana. Opera dunque di un solo grande artista (Um Njàlu, Reykjavik,
1933, pp. 1-32; 220-298) che per varietà e penetrazione psicologica rap­
presenta il culmine dell’arte narrativa islandese (À Njàlsbud, ivi, 1943,
pp. 53; 127 sgg.)
2 L’unità di spirito eroico fu già sostenuta da W. P. Ker, Epic and
Romance, cit., pp. 228-229; e dopo di lui Th. Andersson, cit., è ritor­
nato sull’argomento sviluppandolo e approfondendolo con appropriati
concetti.
3 Bowra, cit. p. 215.
4 Già M. N. Petersen osservava a proposito dello stile della Saga (Bi-
drag til den danske litteraturs historiey Kobenhavn, 1853-61, I, p. 220:
« Den uendelige ensformige Stil uden afvexling og periodbyggning... ».
100 Le letterature della Scandinavia

l’anonima tradizione popolare che — com’è noto — assimila e


serba, ma non crea. Senza la fantasia di dotati artisti (certo
rielaboratori di copioso materiale orale e scritto) non avremmo
i vividi ritratti dei personaggi primi della Saga, caratterizzati
talvolta da una nuda sentenza, ora gravida di minacciosi sottin­
tesi, ora di amara ironia, ora d’eroica impassibilità. Peim
var ek verst, er ek unna mest (« fui più malvagia verso colui
che più amai ») esclama la Gudrùn della Laxdcela a conclusione
della sua tragedia familiare; Aldri var ek fagrleitr, en litit
hefir pu um bcett (« mai fui bello nell’aspetto, ma di poco
m’hai tu fatto più bello ») esclama Helgi della Droplaugarso-
nasaga sotto il colpo dell’avversario che gli fende il viso;
Aerit fggr en mser sjà; ok munii margir pess gjalda. Enn
hitt veit ek eigi hvadan pjófsaugu era komin i eettir varar
(« bella è certo e molti per lei soffriranno, ma io non so come
siano entrati nella nostra stirpe quegli occhi di ladra ») dice
nella Njàlssaga Hrùtr della piccola Hallgerdr, che sarà la causa
prima d’una fatale catena di eccidi e di vendette; Ek var
ung gefin Njàli; hefi ek pvi heitit honom, at eitt skyldi ganga
yfir okkr bcedi (« giovane fui data a Njàll e gli promisi che
10 stesso destino ci avrebbe uniti ») risponde Bergpóra a chi
vuol distoglierla dal seguire il marito nella morte.
Cosi senza speranza e senza paura muovono tutti incontro
al destino ineluttabile, che qui come nel carme eroico, all’uomo
è invariabilmente imposta una scelta fra due contrastanti va­
lori. La moglie sacrifica il marito per vendicare il fratello,
11 cugino vendica il cugino uccidendo l’amico; Gisli uccide il
marito della sorella per vendicare il fratello dejla moglie; e
la sorella vendicherà a sua volta il proprio marito sul proprio
fratello (Gislasaga); Gudrùn vendica l’amato Kjartan facendo
uccidere il marito Bolli, da lei stessa istigato all’assassinio
(Laxdcela). Questo il tema fondamentale della Saga, anche se
non ne mancano altri e diversi: dalla storia del generoso Brandr
(Brands pàttr grva) a quella del plebeo arricchito (Hoensa-
póris saga) all’altra del vecchio Ófeigr che impiega la sua cau-
sidica sottigliezza a frustrare l’avidità di un gruppo di capi
che vorrebbero impadronirsi delle ricchezze di suo figlio (Ban-
damanna saga) o all’altra ancora del colonizzatore della Groen­
landia Eirikr il Rosso (Eiriks saga rauda) e di suo figlio Leifr,
secondo la tradizione, scopritore dell’America.
Sostanzialmente identica per spiriti e forma alla Saga islan­
dese « classica », ma scritta o fatta scrivere con intenti di vera
Medioevo pagano e cristiano 101

e propria storia è la Heimskringla1 di Snorri: cioè una serie


di Saghe biografiche dei re norvegesi dalle origini mitico-eroiche
fino a Magnus Erlingsson (il primo a farsi incoronare re a Ber­
gen nel 1164 dall’arcivescovo Eysteinn quale «perpetuus rex
Norvegia » e vicario di Olao il Santo) e precisamente fino alla
battaglia di Ré del 1177. Nel ripercorrere circa trecento anni
di storia (ché l’iniziale racconto mitico della Ynglinga Saga,
basato sul poema genealogico scaldico Ynglingatal, è un ten­
tativo di dare nobil prosapia, anzi addirittura origine divina,
al fondatore del regno norvegese Araldo Bellachioma e ai suoi
legittimi discendenti), Snorri ricalca alcune almeno delle sue
fonti scritte: l’anonimo Àgrip af Noregs Konunga SQgum
(compendio delle saghe dei re di Norvegia) che partendo da
Hàlfdan il Nero (sec. IX) padre di Araldo, giunge appunto al
1177, cioè alle guerre civili e alla comparsa in Norvegia di
quel geniale rivoluzionario che fu Sverrir; inoltre forse la
cronaca claustrale e erudita del monaco Teodorico di f)rànd-
heimr (Historia de antiquitate regum Norwagensium) abbrac­
ciarne all’incirca lo stesso periodo storico; quindi la già men­
zionata Morkinskinna che narra i fatti della storia norvegese
da Magnus godi (1035-1047) appunto al 1177; da ultimo la
mutila e anonima Historia Norvegia: dalla dinastia degli
Ynglingar a Olao il Santo considerato « perpetuus rex Nor­
vegia »; e la Fagrskinna2, di ignoto islandese, che da Hàlfdan
il Nero narra i fatti del regno fino al 1177.
Che queste e altre diverse e numerose furono le fonti
scritte di Snorri è certo; non escluse quelle di Oddr e Gunn-
laugr, a carattere agiografico, sui due re missionari. Ma Snorri,
pur utilizzandole, talvolta perfino incorporando e trascrivendo,
si mantiene in sostanza sulla linea critico-genealogica di Ari
(a questo infatti e ai suoi predecessori e trasmettitori di noti-

1 Attribuita a Snorri dai primi umanisti-antiquari dano-norvegesi Laurents


Hanss0n (m. nel 1558) e Peder Clausson Friis (1545-1614), che da mano­
scritti oggi perduti o solo frammentari ne tradussero alcune parti (nel
1633 Ole Worm fece stampare a Copenaghen quella del Clausson dal
titolo Norske Kongers Chronica sammendragen ved Snore Sturleson paa
Island...), l’opera fu cosi chiamata dal suo incipit, per la prima volta
dallo svedese J. Peringskiold, che la pubblicò a Stoccolma nel 1697:
; Heimskringla eller Snorre Sturlusons Nordlàndska Konunga Sagor cioè
« Orbe terracqueo o Saghe dei re norvegesi di Snorri Sturluson ».
2 Cosiddetta da Pormódur Torfceus (« La pergamena bella »), distrutta
i nell’incendio di Copenaghen del 1728, ma esistente in copia; contiene
fra l’altro i versi dell'Haraldskvéedi e degli Eirtksmàl.
102 Le letterature della Scandinavia

zie storiche egli fa riferimento nel Prologo della Heimskringla)


ed è inoltre il primo, come s’è detto, a utilizzare criticamente
la secolare tradizione scaldica (soprattutto di Sighvatr e di
Óttar Svarti, ma di altri molti anche), che in gran parte deve
aver conosciuto a memoria. Storico e artista a un tempo, sembra
dunque impersonare i due massimi intenti della Saga1: nar­
rare una storia vera e dilettevole a un tempo. Oggettivo e rea­
listico nello stile, aneddotico nella tecnica narrativa, tutto il
suo racconto si concentra in profili epici di singole personalità
interpretate alla luce di idee pagane: la vendetta, l'onore tri­
bale, il fato, ma anche cristiane medievali: il rex iustus evan­
gelizzatore e unificatore del regno; ché Snorri conobbe certo
non solo la massima parte della letteratura norrena scritta e
orale del suo tempo; ma anche indubbiamente non poco della
latina ecclesiastica e della anglosassone2. E se la sua rievo­
cazione storica è prevalentemente razionalista3 e pragmatica
ed evita di dipingere in bianco e nero, non esclude però mo­
tivi leggendari4 e fiabeschi, fraintendimenti5 e libere inven­
zioni specie nelle parti dialogiche che, secondo la consuetudine
d’ogni vera epica, vogliono dar rilievo psicologico ai singoli
caratteri.
Il valore documentario della Heimskringla può dunque es­
sere facilmente discusso; ma tanto più netto risalta per contra­
sto quello estetico. Basta un frusto elenco di re con Pindica-
zione del luogo e del modo della loro morte quale lo Ynglinga-
tal per farci vedere come Snorri abbia saputo trasformarlo
in una dilettosa Saga (Ynglingasaga), non indegna di chi ha
composto quelle della Gylfaginning (neWEdda prosaica). Quan­
to c'era di cronachistico, di informe, di slegato in certe narra­
zioni d'ispirazione ecclesiastica è qui risplasmato dalla mano

1 S. Nordal N. K , cit. p. 219-223.


2 O. Moberg, Olav Haraldsson, Knut den Store och Sverige, Lund, 1941,
pp. 220-225.
3 La figura di Olao il Santo non è qui quella agiografica del pio neo­
fita ligio ai precetti ecclesiastici e taumaturgo, ma quella d’un fiero vi­
chingo che soltanto quando è prossimo a morte, di fronte ai propri
sudditi istigati alla rivolta dal danese Canuto il Grande, si trasfigura
in martire della fede.
4 Nella Haralds saga bàrfagra cap. 25 è ripresa una leggenda già attri­
buita a Carlomagno.
5 P. es. sulle gesta di Araldo Bellachioma nella battaglia di Hafrsfjgrdr
in evidente contrasto alla prima parte delYHaraldskveedi di Pórbjgrn,
che era stato testimone diretto (cfr. J. Schreiner, Slaget i Havsfjord}
«Festskrift Koht », Oslo, 1933, pp. 103-114).
Medioevo pagano e cristiano 103

d’un artista, sviluppato e ordinato in un racconto continuativo,


che senza parere, con mezzi semplici e con semplici parole, pre­
para i culmini drammatici; appropriatamente distribuisce le
pause distensive, alterna la concitazione solenne con l’ampio
e fluente periodare, la frase nuda e incisiva col giro sintattico
elaborato. Certo disuguale è il valore delle singole Saghe. Quella
che — a quanto sembra — fu scritta prima (Ólàfs saga belga)
e che con l’altra (Ólàfs saga Tryggvasonar) forma il nucleo
della Heimskringla è anche qualitativamente la migliore. Si
comprende che i due grandi re vichinghi e evangelizzatori a
un tempo abbiano accentrato su di sé l’interesse antiquario
e poetico di Snorri, come quelli che sembravano impersonare
la tradizione antica e insieme preparare la nuova civiltà cri­
stiana del sec. XIII, in cui il loro storiografo si trovava a vivere.
E infatti ciò che emerge sulla congerie dei fatti è la raffigu­
razione umana, la caratterizzazione dei re o dei capi; una carat­
terizzazione certo più o meno stilizzata, ma volta sempre a
considerare il dramma morale dell’individuo quale causa prima
degli eventi esteriori. Basta qualche esempio a darcene un’idea:
qui il ritratto di Hàkon jarl, ultimo fautore del paganesimo in
Norvegia, assassinato con ogni probabilità da un sicario (Ólàfs
saga Tryggvasonar, cap. 50) dà modo a Snorri di scoprire ric­
chezza umana, di tessere l’elogio morale d’un personaggio che
pure sembra rifatto sul modello medievale del tyrannus pre­
varicatore e pieno di vizi; li, proiettando nel passato remoto
di due secoli*, quelli che dovevano essere gli scottanti pro­
blemi politici del suo tempo, l’autore della Heimskringla, paga
un tributo al vetusto ideale di libertà dell’Islanda, prossima
ormai a divenire un feudo della corona norvegese, e nella figura
del vecchio « legista » svedese porgnyr Porgnysson, che osa
contrastare al suo re e imporgli con minacce di morte la volontà
della libera assemblea di Uppsala (Ólàfs saga belga, cap. 80) ci
lascia il vivo quadro, sia pure anacronistico, di un’antica tradi­
zione germanica. E sempre i contrasti psicologici, le antitesi
drammatiche sono scolpite con serratezza asindetica, con incisiva
ellitticità. Gli bastano pochi rapidi tocchi a creare quelle scene
tipiche della Saga in cui le parole svelano, improvvisamente
illuminandoli, il pensare, l’agire, i segreti, le ombre d’un per­
sonaggio, sia che si tratti della celebre partita a scacchi tra Ùlfr

1 cfr. C. Weibull, Sverige och dess nordiska grannstater..., Lund, 1921,


p. 187, sgg.
104 Le letterature della Scandinavia

jarl e Canuto il Grande, con l’immancabile tragico esito {Ólàfs


saga belga, capp. 152-153) sia della leggendaria fine di Ólàfr
Tryggvason a Svgldr.
Specialmente memorabile quest’ultima in cui il re è ri­
tratto nelPimminenza della battaglia contro il ribelle Eirikr jarl
e i suoi alleati: i re svedese Ólàfr scenski e danese Sveinn.
Le imbarcazioni si preparano allo scontro, e il re norvegese sulla
poppa del suo « Serpe lungo » lancia un’occhiata alle singole
navi degli avversari: « Ekki hraedumk vèr bleydur J)aer.
Engi er hugr 1 Dgnum... — Betra vaeri Svium heima ok sleikja
um blótbolla sina en ganga a Orminn undir vàpn ydur... —
Hann mun f)ykkjask eiga vid oss skapligan fund, ok oss er
vàn snarprar orrustu af ]?vi lidi. Peir eru Nordmenn sem ver
erum » (Ólàfs Saga Tryggvasonar, cap. 104)2. Queste le ul­
time parole di Ólàfr prima dello scontro delle navi. La posa
plastica del re, in piedi, sulla poppa del « Serpe lungo », il
freddo scherno rivolto agli alleati del nemico, la stessa forma
perifrastica con cui egli invece accenna all’unico temibile av­
versario — quasi oscuro presagio dell’incombente fato: tutto
concorre a caratterizzare l’intrepida superbia di un personaggio
in cui si sente vibrare l’ammirazione di Snorri.
Come pochi altri questi poteva guardare alla storia norvego-
islandese con commossa partecipazione. Discendente per parte
di madre dei norvegesi che avevano colonizzato l’Islanda e qui
educato dal saggio Jón Loptsson, a Oddi (un eminente centro
di vita culturale dell’isola agli inizi del sec. XIII), si era
presto affermato come uno dei più dotti ma anche dei'più
avidi e influenti godar in quella turbolenta età (Sturlungapld)
di lotte intestine che appunto dalla sua famiglia prese nome.
Due volte Iggsggumadr, era stato due volte, spinto certo dai
suoi interessi storici e politici e da tradizionale consuetudine,
in Norvegia (1218-1237) alla corte dello jarl Skùli e del re
Hàkon Hàkonarson in onore dei quali compose lo Hàttatal.
Illudendosi forse di riuscire a conciliare l’inconciliabile fini
vittima dei dissensi sorti fra i due (i « pretendenti alla co­
rona » dell’omonimo dramma ibseniano) e l’anno 1241, per
ordine di Hàkon, fu assassinato nella sua casa di Revkjaholt.

1 « Quei vigliacchi non ci fanno paura davvero. I danesi non sanno cosa
sia il coraggio... — Gli svedesi farebbero meglio a starsene a casa a
sorbire le loro coppe sacrificali piuttosto che affrontare il Serpe e le
nostre armi... — Colui può avere buone ragioni per combatterci e ci
darà del filo da torcere. Quelli li sono norvegesi come noi ».
Medioevo pagano e cristiano 105

Incertezze e debolezze di spirito determinarono certo la parte


infausta da lui avuta nell’ambigua politica che portò al tra­
monto dell’indipendenza nazionale, ma la sua opera di storico,
di critico, di versificatore (codificata tra il 1220 e il 1235)
fanno di lui a giusto titolo la più eminente personalità cul­
turale del mondo norreno l. Studiando l’antichità nordica pre­
cristiana trovò già formata una tradizione secolare di poesia
scaldica, e gli parve fra le più sicure fonti testimoniali per la
ricostruzione della storia patria. S ’ingannò certo se credette
di poter risuscitare il passato con la precettistica della sua
Edda1, col virtuosismo metrico délVHattatal, con gli splen­
didi racconti mitici della Gylfaginning3 e con la dizione poetica
degli Skàldskaparmàl intimamente connessa ai miti pagani; per
i quali, come s’è detto, egli attinse fra altro ai carmi serbatici
nell'Edda in versi. Ma come nelVEdda ha lasciato un eccezio­
nale documento critico della più antica poesia nordica, cosi ha
creato con la Heimskringla un capolavoro d’interpretazione
epico-drammatica di fatti storici, il cui alto interesse umano non
è stato eguagliato neppure dalla Sturlunga saga4, tanto fe­
dele alla cronistoria degli eventi contemporanei narrati quanto
greve e convenzionale nell’intima ispirazione.

1 Quanto il suo esempio abbia influito sull’evoluzione del genere delle


Saghe è difficile stabilire; certo è che per secoli il sentimento nazionale
dei norvegesi ha trovato nella Heimskringla la sua prima fonte di ispi­
razione.
2 In seno alla quale probabilmente vanno distinte molteplici stratifica­
zioni culturali (H. Kuhn in Anzeiger fur deutsches Altertum..., 65, 1952,
pp. 97-104): un nucleo più antico di tradizioni pagane, uno più recente
da ascrivere al sincretismo religioso dell’età della conversione e final­
mente una interpretazione evemeristica cristiana più chiaramente visi­
bile nello scolastico « Prologo»; dove, fra altro, sulla base delle Etymo­
logise isidoriane troviamo accostati gli Asi all’Asia, Pórr a Troia, la
moglie di Pórr Sif alla Sibilla, mentre Odino è presentato come discen­
dente di Priamo! 4
3 « Illusione di Gylfi » cosiddetto dal nome del mitico re svedese che,
credendo di scoprire i segreti degli Asi, resta invece vittima delle loro
arti magiche.
4 Opera miscellanea anonima, dovuta in parte soltanto al nipote di
Snorri, Sturla Pórdarson (1214-1284) e narrante in più Saghe la storia
islandese e norvegese dell’epoca: fonte primaria dunque per la biografia
di Snorri. Notevole il celebre episodio serbatoci in una di queste Saghe:
loscontro tra due capi avversari seguiti da centinaia di armati àìTAlpingi;
che solo in extremis lo zelo cristiano del prete Ketill ]?orsteinsson
(jborgils saga ok Haflida) giovò a evitare. Uno appunto di questi capi,
Haflidi Masson, morto l’anno 1130, fu, secondo la tslendingabók di Ari
(cap. 10), colui nella cui casa, fra il 1117 e il 1118, vennero messe per
iscritto le prime leggi islandesi.
106 Le letterature della Scandinavia

Volutamente schematici per evitare finché possibile ipotesi


e congetture, questi cenni sull’antica letteratura norrena bar
stano forse a dare un’idea delle caratteristiche fondamentali
che la distinguono sia dall’epica cristiano-medievale sia da
quella antica greco-romana.
Pur nella varietà delle sfumature infatti i carmi eddici, scal­
dici e le Saghe ci presentano la vicenda eroica con uno spirito
diverso da quello dell’epica di altri popoli. L ’eroe germanico
I è dominato da un fatalismo tragico contro il quale non è pen-
sabile ribellione alcuna. È stato giustamente detto che se
Edipo uccide Laio ignorando il verdetto di un cieco fato,
Ildebrando uccide il proprio figlio nella piena consapevolezza
di partecipare col proprio volere, anzi di identificarsi, al volere
del fato l. Di qui la solenne impassibilità dell’eroe germanico
la rigidità quasi ieratica delle sue parole quando muove incon­
tro alla prova estrema, quasi atto rituale e cultuale d’iniziazione
all’immortalità 2; di qui la forte tipizzazione e stilizzazione di
questa poesia che innalza a dignità magico-sacrale, il sogno e
la profezia, l’onore e la vendetta, la semi-soprannaturale « for­
tuna » e « sfortuna » delPeroe, privandolo di quella divina
scintilla della libertà che agli occhi del filosofo-poeta Vico
riscattava perfino gli stupidi insensati orribili « bestioni » della
preistoria. Il riavvicinamento altra volta tentato da studiosi
tedeschi fra l’epica e la tragedia greca da una parte e l’an­
tica poesia germanica dall’altra, si è dimostrato fuorviante;
eppure può forse ancora essere utile a intendere la diffe­
renza che passa tra la forza individualizzante dell’arte ome-

1 C. Grùnanger, Einfiihrung in die Geschichte des altgermanischen und


friideutschen Dichtung, Milano, 1942, p. 21. Mettendo in guardia contro
l’antistorico mito del « Volksgeist » e il connesso facile deduzionismo po­
litico, vanno qui però ricordate le parole di B. Croce (Il dissidio spiri-
tuale della Germania con l'Europa, Bari, 1944, p. 49): « La Germania, la
quale... ha alle origini... la ferocia e l’impeto devastatore delle invasioni
barbariche, e i suoi eroi di allora furono niente altro che capi di orde,
e la sua epica non presenta di certo le umane figure dell’epica di Grecia
e di Roma e neppure di quella francese, non Achille, Ettore ed Enea, non
Orlando ed Oliviero, non Andromaca né Lucrezia, ma quelle di cupi tru­
cidatori e di atroci e semidemoniache femmine sanguinarie »; alle quali
corrisponde l’ammonimento di Heusler (Alt. D., cit., p. 230) a non
giudicare l’antica poesia germanica sulle misure dell’Ellade e di Roma.
2 Cfr. per la diversa concezione del destino nei tragici greci: M. Valgi-
migli, Poeti e filosofi di Grecia, Firenze, 1964, II, pp. 173; 235-236;
336-337.
I Medioevo pagano e cristiano 107

! rica e il ben diverso talento artistico degli antichi poeti nor-


: dici. Achille che tinge di sangue i fiumi di Troia e fa scem-
| pio del cadavere di Ettore non è certo meno feroce di Gudrun
ddYAtlakvida, che uccide i propri figli e ne dà in pasto il
^ cuore arrostito al padre; o di Vglundr della Vglundarkvida
; che compie orrendo strazio sui figli di Nidudr; né meno deva­
statrici sono in Omero o nei tragici greci la guerra e la vendetta
e il cieco fato, che nell’antica poesia germanica. Ma in Omero
e nei tragediografi che ne raccolsero la poetica eredità, tutto è
individualizzato e poeticamente interpretato, miti e leggende,
persone e cose: Achille sterminatore che vede se stesso in Ettore
ucciso e nel vecchio Priamo, Ettore che non sa l’odio e muore
per la patria, e Agamennone e Ulisse e Diomede. Perfino l’asta
peliaca ha una sua individualità ben diversa dalla lancia di Et­
tore dalla lunga ombra; e l’amore e l’illusione, la dolorosa
tristezza e il compianto dei vinti acquistano inconfondibile
rilievo sullo sfondo della vicenda eroica; mentre nell’antica
epica nordico-germanica per lo più si avverte quella mecca­
nicità di svolgimenti e schematicità di psicologia che indica
tutt’altra ispirazione e forza poetica.

la c o n v e r s io n e : lettera tu ra r e l ig io s a e l a ic a

La conversione dei nordici al cristianesimo occidentale,


mediatore non solo d’una nuova fede ma d’una nuova civiltà,
trasformò la struttura sociale politica e culturale della Scan­
dinavia.
Ma il processo di mutua compenetrazione e fusione, con­
clusosi anche nel Nord con la finale vittoria della civiltà più
evoluta, fu lento e contrastato. Non solo infatti nei nuovi
quadri sopravvissero a lungo usi e costumi pagani in un ibrido
: connubio che, come s’è visto, impronta di sé la letteratura le
arti figurative e sin l’onomastica, ma dall’esame delle fonti
appare evidente che del nuovo spirito i nordici non assimila­
rono spesso che le forme esteriori. Né altrimenti poteva essere,
dato il ritardo di secoli col quale la civiltà cristiana conti­
nentale qui penetrò. In compenso il Papato ebbe mano li­
bera. L ’orientamento della politica imperiale costantemente
rivolta a sud rese possibile in Scandinavia una stretta collabo-
razione fra i re locali e la Chiesa, desiderosa di creare, in ap­
poggio all’attività missionaria, salde monarchie indipendenti
dall’impero. E pare molto verosimile perciò che senza l’evan­
108 Le letterature della Scandinavia

gelizzazione dei sovrani nordici, senza l’alleanza del trono con


l’altare, la storia della missione sarebbe stata ben diversa; ché
né Ebo di Rheims, né Ansgarius che ebbero il favore di Ludo­
vico il Pio, di Ludovico il Germanico e di Gregorio IV (dopo
la vittoria di Carlomagno sui sassoni), né gli altri rappresen­
tanti della Chiesa franca conseguirono qui successi paragonabili
a quelli di Bonifazio in Germania. Qualche singola conversione,
la fondazione di chiese: in Danimarca a Sleswig, a Ribe, a
Aarhus; e in Svezia a Birka, ebbero carattere, a quanto sembra,
effimero. Solo un secolo dopo si può parlare dei primi fruttuosi
tentativi, diretti ad attirare il Nord sotto la sovranità spiri­
tuale di Roma, e a organizzare una Chiesa.
Haraldr blatgnn e Knutr inn riki di Danimarca, Ólàfr Trygg-
vason e Ólàfr helgi di Norvegia, Ólàfr scenski e Anund Jacob
di Svezia, più o meno consapevoli dell’importanza politica della
conversione, ed essi stessi neofiti, favoriscono il trionfo della
nuova Chiesa: che, sembra, riceve decisivi impulsi: missionari,
dagli ecclesiastici anglosassoni venuti al seguito dei re nordici,
organizzativi dall’arcivescovato di Amburgo-Brema; dove spe­
cialmente Adalberto dovette svolgere un’intensa attività di
propaganda politico-religiosa, a giudicare dalla testimonianza
di Adamo da Brema che a lui dedicò il terzo libro della sua
celebre cronaca1. Verso il 1200 arrivarono nel Nord i primi
benedettini, poi i cistercensi e i premostratensi, da ultimo
nel secolo XIII domenicani e francescani a predicare, a fon­
dare conventi e scuole. Nel 1103, rescisso ogni legame con
la sede metropolitana continentale di Amburgo-Brema voluta
da Gregorio VII, sorge il primo arcivescovato autonomo a
Lund, nel 1154 a Nidaróss (l’odierna Trondheim), nel 1164
perfino a Uppsala2. Nel 1104, cioè più di un secolo dopo la
accettazione ufficiale del cristianesimo da parte dello Alpzngi,
anche a Skàlaholt e a Hólar nella remotissima Islanda, che, pur
politicamente autonoma, è già una provincia ecclesiastica del

1 Storiografo ecclesiastico e geografo francese autore dei Gesta Ham-


maburgensis ecclesia pontificum (ca. 1070), che molte notizie sulla
storia nordica ebbe dalla viva voce del re danese Svend Estridssen del
quale fu ospite, ma utilizzò anche la Vita Ansgarii di Rimberto, la
Vita Caroli di Eginardo, Gregorio di Tours e altre fonti.
2 Già roccaforte del paganesimo nordico per il suo parlamento e più
ancora per il suo celebre tempio sui cui culti e riti Adamo da Brema ci
ragguaglia (op. cit.y IV, capp. 26-27) specie per quanto riguarda le « “ ne-
niae multiplices et inhonestae ” » in onore del dio della fecondità ivi ve­
nerato.
Medioevo pagano e cristiano 109

regno di Norvegia. E quando nel 1152 il legato pontificio Ni­


colaus Breakspear (il futuro Adriano IV) viene nel Nord a
fondare la sede metropolitana di Nidaróss1 e in Svezia a
esigere il pagamento della decima, sancisce il solenne ingresso
delle genti scandinave nella comunità cristiana occidentale e
afferma cosi in nome della « Libertas Ecclesiae » la supremazia
del potere spirituale sul temporale. E il prestigio politico della
Chiesa è in tanto più rapida ascesa quanto più aspre sono le
rivalità e le lotte intestine fra i re e fra i capi (non esclusa
PIslanda); e ciò malgrado i patteggiamenti cui è dovuta scende­
re, malgrado i fraintendimenti e le superstiti credenze magiche
dei catecumeni, malgrado il livello più che modesto della predi­
cazione catechistica — come è ancora visibile dai concili eccle­
siastici norvegesi e svedesi dei sec. XIII-XIV. Non fu certo il
« Christus patiens » ma il « Christus rex » vincitore del de­
stino e degli dei pagani, che s’impose alla fantasia delle genti
nordiche, avvezze al culto della forza e delle armi, e incapaci
d’intendere la santità in contrasto con l’eroismo guerriero, la
croce in contrasto con la spada. Sicché tanto Snorri quanto
Saxo sono rivolti alla glorificazione degli eroi-apostoli, dei
re unificatori come i due Olai norvegesi, come Valdemaro I
di Danimarca e soprattutto come il suo fido arcivescovo Absa-
lon2, promotore della religiosità bernardina3 e insieme debel­
latore delle popolazioni slave che contendevano ai danesi il
dominio del Baltico.
Se Snorri, che scrive in norreno, spicca per il discernimento
dei giudizi e per l’uso critico delle fonti mentre Saxo indiscri­

1 Pochi anni dopo, come s’è detto, nel 1164, l’arcivescovo incoronerà
per la prima volta un re norvegese: Magnus Erlingsson.
2 II quale, secondo Saxo, « ... non minus piratam se quam pontificem
gessit... Neque enim minus sacrorum attinet cultui publiese religionis
hostes repellere quam coerimoniarum tutela? vacare... (Gesta Danorum,
ed. Olrik-Raeder, 1931, p. 413).
3 Già il predecessore di Absalon, l’arcivescovo di Roskilde e di Lund,
Eskil (1137-1177) era stato in relazione con Bernardo di Chiaravalle;
e impulsi decisivi dove ricevere Saxo pure dalla Francia, specie dalle
scuole umanistiche di Chartres e di Orléans. (Cfr. F. Blatt, Fra Cicero
til Copernicus, Kobenhavn, 1940, p. 31 sgg.), anche se ben poco
si sa della sua biografia. Studiò forse a Parigi, come Absalon (che
fu probabilmente ispiratore dei Gesta Danorum) e la sua opera
scrisse in un latino rifatto sugli scrittori argentei e sul popolarissimo
Marciano Capella, ma con tale virtuosismo da far rivivere in versi ora­
ziani e virgiliani le fiere allocuzioni dei suoi eroi nordici e il paesaggio
della sua terra natale, meritandosi secoli dopo l’elogio di Erasmo (nel
Ciceronianus..., 1528).
110 Le letterature della Scandinavia

minatamente confonde nel suo latino storia e leggenda (di cui


lascia amplissima congerie aneddotica: su Amleto e su Teli,
su Hagbard e Signy, su Ingjald e Starkadd e su Hrólfr kraki),
entrambi rispecchiano però il tipico dualismo pagano-cristiano.
Nel turgido latino delPuno come nel nudo islandese dell’altro
rivivono per l’ultima volta gli ideali eroici di un’età tramon­
tata, in ibrido connubio con le concezioni politico-religiose
della età nuova.

Dalla letteratura religiosa del Nord, esemplata com’è su


tanto inconsueti modelli stranieri, non c’è da attendersi ori­
ginalità di contenuto né di forma. E non solo occorre qui
guardarsi dal fare pericolosi paragoni con gli ineguagliabili
capolavori della Romània, ma neppure con la ben pili mo­
desta letteratura della vicina Germania sono possibili raf­
fronti.
La Chiesa è ora la grande guida spirituale e culturale; e
il latino si afferma perciò in concorrenza con le lingue nordiche
(sempre più infarcite di tedeschismi fino alla Riforma e oltre)
dominandole tutte al punto che ancora Linneo e Holberg e
Swedenborg scriveranno tanto dissertazioni scientifiche quanto
opere d’invenzione nella lingua di Roma.
Primeggiano i volgarizzamenti e le parafrasi dei testi latini,
le vite dei santi, le narrazioni dei miracoli e le raccolte di
esempi, e anche i manuali di educazione e di belle maniere a
uso dell’aristocrazia, la quale — col nuovo assetto sociale —
nettamente si distingue oltreché dal clero, dai contadini e
dalla nascente borghesia.
I centri di studio sono anzitutto la Francia e l’Inghilterra
(talvolta l’Italia) e più tardi la vicina Germania. Già agli inizi
del secolo XIII esiste a Parigi un « Collegium Danicum » per
gli studenti danesi; qui pure il Capitolo di Uppsala fonda un
proprio « Collegium » studentesco, dove per vari anni sog­
giornò un Bryniolf Algotsson innografo e compositore di Uf­
fizi latini, finito poi vescovo di Skara; sempre a Parigi insegnò,
insieme a Sigieri di Brabante l’averroista svedese Boethius de
Dacia. Un altro, svedese o danese che sia, Petrus de Dacia,
domenicano della provincia ecclesiastica nordica, studia sotto
la guida dell’Aquinate e scrive una Vita benedictse virginis
Christi Christinas \ un’umile beghina renana con la quale intrat­
tiene fino alla morte un epistolario improntato alla neoplato-
nizzante mistica bemardina.
Medioevo pagano e cristiano 111

In Danimarca Parcivescovo di Lund, già insegnante a Pa­


rigi, scrive, a fini edificatori e didascalici, un poema in migliaia
di esametri sui sei giorni della Creazione (Hexaèmeron), i cui
remoti modelli risalgono alle omelie e alle esegesi bibliche di
Basilio e di Ambrogio,
La penetrazione dello spirito e delle forme cristiane è certo
ravvisabile in tutta Parea letteraria nordica. Sotto quest’aspetto,
malgrado l’entusiasmo imitativo, non c’è differenza tra poesia
in volgare e poesia in latino. L ’inno scritto per santa Brigida
del vescovo svedese Nicolaus Hermanni (« Rosa rorans boni-
tatem, - stella stillans claritatem, - Birgitta, vas gratiae! -
Rora cceli pietatem, - stilla vitae puritatem in - vallem mi­
seria »), pur notevole come documento di fervida assimila­
zione letteraria, non è da un puno di vista estetico più ori­
ginale dei superstiti frammenti di dràpa che l’islandese Kol-
beinn Tumason circa un secolo prima, modellò in runhent
scaldico sull’innica latina (« Heyr himna smidr, - hvers skàldit
bidr: - komi mjùk til min - miskunnin f)in; - J>vì heitk a
]}ik - Jdvi hefr skaptan mik; - ek em J)raellinn pinn - J)ù ert
dróttinn minn » ) 1. Né a questa constatazione si sottrae la mi­
stica, che nell’insieme non supera in qualità la restante poesia
religiosa del Medioevo nordico. Petrus de Dacia, che in grezzo
latino pur tenta di dare espressione alla sua mistico-erotica
passione per la beghina di Stommeln 2 ricalca altrettanto tra­
dizionali modelli retorici quanto Brigida di Svezia, che nelle
sue visioni, con virile eloquenza, narra i miracoli della fede e i
colloqui avuti col Cielo e con l’inferno e ammaestra e ammo­
nisce i suoi contemporanei, papi e re e principi, sui più vivi
problemi religiosi e morali del tempo.
Pur riconoscendo l’alto valore religioso del nome della
santa svedese indissolubilmente legato alle principali vicende
storico-politiche del tardo Medioevo europeo: dallo scisma
d’occidente alla riforma morale della Chiesa e alla guerra dei
cent’anni; pur tenendo esatto conto dell’influenza da lei eser­
citata sulla pietà laica e sulla cultura nordica del tempo, non

1 « Ascolta celeste artefice — la preghiera del poeta: venga la tua


grazia — mite su di me; — perciò ti imploro — perché tu mi creasti;
iosono il tuo servo — tu sei il mio re ».
2 « O Amantissima mea, o cordis mei intima medulla; rogo te, oculos
attollamus et cor erigamus ad Deum, in qvo omnia sunt unum; et ex
eo et in eo nos invenimus, in qvantum unum sumùs, qvi in nobis in
plurima dividimur. 0 , Carissima! Utinam te ore ad os alloqvi possem
et tecum etiam corporali praesentia commorari ».
112 Le letterature della Scandinavia

è possibile accettare, senza cedere a preconcetti retorici e didat­


tici, il tradizionale giudizio che di lei vuol fare un genio
poetico.
E anzitutto va detta una parola sul problema critico, estre­
mamente complicato, della fortunosa storia del testo delle sue
rivelazioni. Sembra infatti che sia le Revelationes (parecchie
centinaia) sia gli altri scritti attribuitile: cioè la regola del­
l’ordine da lei ideato, Regula Sancii Salvatoris, il Sermo An-
gelicus (sulla vita della Vergine Maria dalla nascita alla sua
assunzione in cielo), le Quatuor orationes e le Revelationes
extravagantes (raccolte e annotate da uno dei confessori di
Brigida, Pietro di Alvastra *) furono da Brigida abbozzati o
dettati in svedese ai suoi direttori spirituali e confessori: il
dotto teologo Mattia da Linkòping, Pietro d’Alvastra e Pietro
da Skànninge; i quali poi, in collaborazione col vescovo spa­
gnolo Alfonso da Jaén (che ignorava lo svedese), li tradus­
sero in latino, indubbiamente rielaborandoli in senso ortodosso
e uniformandoli, dal punto di vista stilistico e dogmatico ai
modelli della letteratura profetica e apocalittica allora cono­
sciuta — qualcosa di simile a ciò che avvenne per l’opera della
coeva Caterina da Siena.
Problemi molteplici dunque, forse in gran parte insolubili:
di attribuzione, d’interpretazione, di restaurazione d’un fanto­
matico testo originario (l’ascrizione a Brigida2 di qualche super­
stite frammento manoscritto di contenuto politico e program­
matico è controversa).
Indiscutibile invece, ben oltre i rifacimenti e le rielabo­
razioni, sembra la mediocrità di questa prosa latina che sulla
falsariga di precostituiti schemi teologici ci narra le visioni e
le illuminazioni della santa, le invettive e le preghiere, i col­
loqui con la Vergine gli angeli e i santi; e che, secondo la ben
nota psicologia dei mistici, annota, con la stessa minuzia di

1 Stampati in latino in otto « parti », per la prima volta, a Lubecca,


Tanno 1492 a cura di due monaci brigidini, poi altrove in più edizioni;
tradotti quindi in svedese e norvegese medievale e finalmene pubbli­
cati in svedese moderno da G. E. Klemming (1857-1884). C’è oggi<una
scelta tradotta (con introduzione di S. Stolpe): Himmelska uppenbarelser,
a cura di T. Lundén, Malmò, 1967.
2 Nata a Finstad nell’Uppland da famiglia aristocratica (forse l’anno 1303)
sposò il giudice Ulf Gudmarsson, dal quale ebbe otto figli. Rimasta ve­
dova dopo un pellegrinaggio a Sant’Jacopo di Compostella, si consacrò
a Dio. L ’anno del giubileo venne a Roma, dove, con brevi intervalli,
soggiornò fino alla morte avvenuta il 23.7.1373.
Medioevo pagano e cristiano 113

particolari, i patimenti di Cristo e i precetti da Lui impartiti


sul taglio sulle stoffe e sulla lunghezza delle vesti monacali del-
Pistituendo ordine brigidino.
Colpisce in Brigida Passenza di esigenze speculative, di
motivi e concetti nuovi (la Riforma protestante sarà nel Nord
opera di predicatori e ceti borghesi che nessun vincolo ideale
accomuna alParistocratica discendente dei Folkunghi). Dal
momento in cui Dio le si rivela con le parole: « sponsa mea
et canale meum », Brigida si sente al di sopra di ogni autorità
mondana e ecclesiastica. Non ha che una vocazione: Paposto-
lato morale sociale e politico in vista di ben determinati fini:
risanare la Chiesa, riformare i costumi del clero, fondare un
nuovo ordine monastico, far cessare la cattività babilonese,
por fine alla guerra fra Inghilterra e Francia. Di qui i suoi
viaggi e pellegrinaggi a Roma, a Napoli, a Cipro, in Terra­
santa. Anche questo tratto pragmatico della sua attività e pre­
dicazione fa pensare a Caterina da Siena; ma Brigida non si
macera in estasi e digiuni, non fa vistosi miracoli, non ha
stimmate; è sempre realistica, pratica, terrena.
Certo non mancano nelle Rivelazioni toni di grande elo­
quenza e fervore religioso, di devozione e di sdegno, di com­
mozione e di terrore, immagini notevoli per crudezza realistica,
volte alla vita domestica, alla natura, perfino alla vita fisiologica
I femminile — che attestano il valore di un’esperienza diretta,
! e per contrasto altre che mirano a spiritualizzare la materia
j umana pur anatomicamente analizzataì. Eppure si cercherebbe
invano fra tanto acceso predicare (che identifica il capo della
Chiesa a Pilato a Giuda e a Lucifero!) e colorito raffigurare

1. 1 Ecco come descrive il Crocifisso: « I tuoi capelli e la tua barba erano


i pieni di sangue del tuo santo capo. Le ossa delle tue mani dei tuoi
! piedi e di tutto il tuo prezioso- corpo erano crudelmente rotte. Eri cosi
■ spaventosamente flagellato e ricoperto di dolenti piaghe che la tua carne
e la tua pelle innocenti apparivano disperatamente lacerate e strappate ».
Ed ecco l’elogio alla Vergine: « Le tue ciglia e le tue palpebre supe­
rano la luminosità dei raggi del sole... Che la bellezza delle tue san­
tissime gote sia lodata più che lo sbocciare roseo dell’aurora. Lodata
sia la tua bocca benedetta e le tue dolci labbra, più belle dello splen­
dore delle rose e di tutti gli altri fiorì... Che le tue santissime braccia
: e le tue mani e le tue dita siano eternamente benedette e venerate più
; delle pietre preziose... Lodati siano i tuoi benedetti seni più delle più
I dolci vive sorgenti... Lodato sia il tuo prezioso petto più del più puro
■ oro; quando tu soffrivi a piè della croce di tuo figlio, i colpi dei mar-
} telli echeggiavano nel tuo petto e serravano come in una morsa il tuo
cuore... ».

XXVII * 5. Lett, della Scandinavia.


114 Le letterature della Scandinavia

quell’abbandono lirico, quel gusto della contemplazione, quel


rapimento visionario ch’è proprio delPanima poetica.
Grande merito di Brigida fu indubbiamente la fondazione
dell'ordine salvatoriano e del duplice monastero di Vadstena;
ideato per uomini e donne secondo il concetto mistico del
tempo e forse Paristocratico esempio francese fontevraldense,
da lei imitato nel preporvi la suprema autorità d'una badessa.
Cosi per iniziativa d'una donna incolta « totaliter rudis
in scientia gramaticali » (come dicono gli atti del processo di
canonizzazione con cui Bonifacio IX la proclamò santa nel
1391) nacque quel monastero che — approvato nel 1370 con
la bolla di Urbano V — solo la figlia di Brigida, Caterina,
vide consacrato nel 1384 e che fu il principale centro di
diffusione della cultura cattolica in tutto il Nord. Qui (e
poco dopo nell’altro convento brigidino di Nàdendal in Fin­
landia) la famiglia spirituale creata dalla santa raccolse una
biblioteca fra le più ricche di manoscritti del tempo, qui si
tradussero in svedese dalla Vulgata alcuni libri della Bibbia
nonché i mistici stranieri: Bernardo da Chiaravalle e Tomaso
da Kempen, Enrico Suso e Matilde di Magdeburgo; qui, fino
alle soglie della Riforma, si mantenne vivo il culto della fon­
datrice che trovò poi rapida diffusione in numerosi monasteri
d'Europa2.
Accanto alla produzione religiosa dominante il quadro
culturale del tardo Medioevo nordico, assai scarso rilievo ha la
letteratura d'ispirazione laica, la quale, fatta eccezione per le
ballate « popolari », offre un interesse quasi esclusivamente
storico-linguistico. Il gusto del romanzo « cortese » è (come
già in Norvegia e Islanda anche in Svezia e Danimarca) atte­
stato da rozzi rifacimenti in knittelvers3 fra il 1300 e il 1312
di originali mediotedeschi (perduti): Federico di Normandia;
o francesi Ivano o il cavaliere dal leone di Chrétien de Troyes;

1 Nel convento di Nàdendal soprattutto, pare, a cura del monaco Jons


Budde (1437-1491); in quello di Vadstena forse a opera del confessore
di Brigida, Mattia.
2 Celebre fra questi l’« Hospitale S. Birgittas de regno Sveciae » di
piazza Farnese in Roma, annesso alla chiesa brigidina. Qui dimorò e
Brigida e sua figlia Caterina, e più tardi (1549) Olaus Magni, che vi
sistemò una stamperia donde uscirono fra altro la sua e l’opera storica
del fratello Johannes, ultimo vescovo cattolico di Svezia.
3 Verso popolaresco per lo più rimato, di quattro battute con tesi li­
bere, subentrato, in tutta l’area germanica, a quello allitterante.
Medioevo pagano e cristiano 115

o di traduzioni norrene di Fiorio e Biancofiore1: lavori anonimi,


eseguiti, come esplicitamente è detto nei testi, per volontà
della regina norvegese Eufemia2 moglie di Hàkon Magnusson,
in onore del genero svedese duca Erik, e più tardi ritradotti
in danese. Troviamo pure, sia in Svezia sia in Danimarca, altri
prodotti artigianali a mezza strada fra Pepica cavalleresca e la
cronaca panegiristica in lode di re e principi viventi: opere
anonime queste pure, dovute però probabilmente alla penna
di ecclesiastici, come le svedesi Erikskronika, Karlskrónika,
Lilla rimkrònikan e la danese Rimkronicke: tutte in knittei
modellate sul genere che aveva avuto la sua grande fioritura
in Francia in Inghilterra e in Germania e probabilmente era
destinato alla recitazione in seno a cerchie aristocratiche3; dal
punto di vista della psicologia e della poesia, inversamente
proporzionale alla sua mole smisurata (migliaia di versi). Se
tale genere cronachistico-fantastico risale per vari tramiti a un
modello non nordico, all’opera del chierico anglonormanno
R. Wace: Le Roman de Brut, altri scritti, nati nell’ambito
della corte e della Chiesa ricalcano con non meno pedissequa
fedeltà il pensiero europeo: come lo svedese Um styrilsi Ku-

1 II carattere di intrattenimento di simile lavoro è sottolineato nel pro­


logo: « Will iach taka mik til handha — ena segn fram at sighia — om
j wilin gòra liwdh och tighia. — Ocb mener iach nokot fram at fora —
them til gaman ther a tvila hòra... (mi propongo di narrare un racconto
se volete ascoltare e tacere. E credo di saper narrare qualcosa che sia
di spasso a coloro che ascoltano...)
2 Di qui il titolo convenzionale Euphemiavisorna.
3 La Erikskronika (ca. 1320-1335) che prende nome dal duca Erik
Magnusson rispecchia un travagliato periodo di lotte dinastiche in seno
alla potente famiglia dei Folkunghi. Della cavalleria l’anonimo cronista
coglie solo gli aspetti esteriori e aneddotici più vistosi, soffermandosi in­
vece sui fatti e i motivi politici che lo hanno mosso a scrivere. La
Karlskrónika intitolata al re Karl Knutsson narra i conflitti dell’Unione
di Kalmar (dal 1389 la regina danese Margherita, vedova di Haakon VI
di Norvegia riunì de facto, alla morte di suo figlio, le corone di Dani­
marca Svezia e Norvegia. Tale situazione, riconosciuta nel 1397 dalla
dieta di Kalmar, durò, malgrado dissensi e scissioni, fino al 1523, anno
dell’acclamazione di Gustavo Vasa a re di Svezia) e agli sforzi della
Svezia per scioglierla. A Karl Knutsson si riconnettono direttamente o
indirettamente sia la Lilla rimkrònikan sia la Prosaiska krònikan. La
Rimkronicke, il primo libro stampato in danese l’anno 1495, attribuita
a un monaco di Sor0, utilizza Saxo e narra la storia patria fino alla
morte di Cristiano I (1481) mediante una serie di monologhi messi
in bocca ai singoli re danesi.
116 Le letterature della Scandinavia

nunga ok hdfdingax, come il norvegese e islandese Kongespeilet


(Konungs Skuggsjà)2.
In fondo anche i più o meno anonimi testi giuridici pro­
vinciali — nelle storie letterarie nordiche presentati come un
numero d’obbligo, talvolta addirittura come esempio insigne
di originalità letteraria — non escono dai ben circoscritti con­
fini della storia linguistica e culturale. Va detto anzitutto che
non si tratta di testi di norme generali in senso moderno, ma
di un'ampia casistica, di una congerie di esempi rispecchian­
ti usi e costumi locali, d’origine spesso sacrale e arcaica, la
cui tarda codificazione, promossa dalla Corte e dalla Chie­
sa, va di pari passo con gli intenti unificatori di queste
due massime forze politiche dello Stato medievale. Per tale
carattere parzialmente arcaico in cui si riflettono gli elementi
del diritto nordico orale, queste raccolte di leggi pur cronolo­
gicamente posteriori a quelle di altri popoli germanici (goti,
franchi, svevi, sassoni) presentano un particolare interesse.
L’influsso del diritto canonico e quindi romano è assai debole
e a tratti assente del tutto; ciò che subito colpisce invece è il
carattere aneddotico; quasi rassegna di situazioni concrete, si
direbbe, esposte a viva voce in un linguaggio sempre perspicuo,
malgrado i barbarismi ortografici e grammaticali, sentenzioso
e sapienziale, ritmico e allitterante, che ricorda talvolta i carmi
gnomici àélVEdda. Senza voler qui fare un’analisi particola­
reggiata di questi testi, appartenenti, s’è detto, alla storia della
lingua e della cultura nordica, se ne dà qualche saggio perché
si possa rilevare il carattere tecnico, formulare, non già libe­
ramente poetico della lingua in cui sono composti. Ecco un
« paragrafo » intorno al saccheggio, della legge dello Jylland
(Jyske lov) promulgata alla dieta di Vordinborg dal re danese
Valdemar Sejr nel 1241 e adottata poi dal ping provinciale di
Viborg: « Gangaer man mseth rathaet raath i annaens mansz
hws oc brytaer hws oc takaer wt antugh fae, ceth klaethae,
ceth wapnae, ceth andrae costae thaer bondaen a, fra bondce
sialf, ceth hans hioon thaer a haldaer tha aer thset haerwaerki.
Bceriaer man oc bondaen ceth saer, ceth hans husfro ceth hans
hioon thaer i faellagh aerae i hans egaeth hws, thaet ser oc

1 «Sul governo dei re e dei principi» (1330-40) esemplato sul. De re­


gimine principum di Egidio Colonna, lo scolastico allievo delTAquinate.
2 Speculum regale o manuale di educazione aristocratica, che pare abbia
lasciato traccia nella legislazione promossa dal re norvegese Magnus
lagabcetir (1256-1280).
Medioevo pagano e cristiano 117

hasrwaerki » Ed ecco un « paragrafo » della legge svedese


delPUppland (Upplandslagen) promulgata in nome del mi­
norenne re Birger Magnusson l’anno 1296 da una commis­
sione di giuristi presieduta dal padre di santa Brigida, Bir­
ger Persson: « Nu rij^aer man at wasghi, hittir lik aerraet
ok undaet; han a ataer wasndae ok lysse j by J)em, J)as naest
aer. Aer oran fore hanum j J)em by, lysi j by andrum. Aer
ok J>asr oran, lysi j by ]?rif>ise. Standi swa j J)em by sum j
fyrstae, ok sighi: Iaek haver fynd hitt. Liggser lik a wighvalli
cerraet ok undaet, ok wet aengin manz banae. Swarae ]3e, sum
fore ceru: Hwar aer likaeri manz banae aen J)u? — Ne, sigher
han: — jaek aer aei manz bani. Synis blof> j spiuzfali, undi
oxaeolum, synis spiaci a klaef>um oellr oddaer w ip und, han
aer likaer manz banae. Dyl han giaerning, J)a aghu tolff maen
han antwiggiae woerioe aellr faellae » 2. Se dalla « letteratura »
giuridica si passa a dare uno sguardo al teatro nordico medie­
vale, poco o nulla si trova che abbia rilievo drammatico. Nacque
certo il teatro qui come nel resto d’Europa dal dramma litur­
gico in latino prima e poi in volgare; e dalla chiesa passò
sulle piazze, quasi rito collettivo che attraverso le didattiche
e edificanti Moralità e i M isteri3 servì a vivificare il senti­

1 « Se un uomo con premeditazione entra in casa di un altro uomo e


vi si introduce con la forza e ruba o gli averi o gli indumenti o le armi
o gli altri mezzi che il contadino possiede, al contadino stesso o ai suoi
familiari che li custodiscono, ciò è saccheggio. E se un uomo colpisce
o ferisce il contadino o sua moglie o i familiari che fanno parte della
comunità in casa stessa del contadino, anche ciò è saccheggio » (Kroman-
Iuul, Danmarks gamie Love paa Nutidsdansk , Kobenhavn, 1945-48).
2 « Un uomo cavalca per la via, trova un cadavere con cicatrici e ferite.
Deve allora tornare indietro e darne notizia nell’abitato che è più vicino.
Se ci sono avversari in quell’abitato, ne dia notizia in un altro. Allora
deve qui fermarsi come nel primo e dire: “ Io ho trovato un cadavere.
C’è un cadavere sul luogo dell’eccidio con cicatrici e ferite, e nessuno
sa chi sia l’uccisore di quest’uomo ”. Se i presenti rispondono: “ Chi
più di te è il probabile uccisore? ” “ No ” dica lui “ io non sono il
suo uccisore ”. Se si vede sangue sul manico della lancia o sulle cinghie
dell’ascia, se si vede strappi sul suo vestito, o punta di lancia nella
ferita, allora probabilmente è lui l’uccisore. Se egli nega il misfatto,
allora dovranno dodici uomini o scagionarlo o condannarlo ”. (E. Wessén,
Fornsvenska texter , Lund, 19592).
3 In un manoscritto danese del 1531 (Brix, Analyseh og Problemer , I,
Kobenhavn, 1933, pp. 57-86) sono raccolti quattro drammi medievali
in knit tei: Ludus de sancto Kanuto duce (che si rifà alla leggenda
taumaturgica del duca Knud Lavard assassinato l’anno 1131; Dor these
118 Le letterature della Scandinavia

mento religioso dèlie plebi. Ma quel poco che qui è rimasto


ha solo valore documentario e potrebbe al più essere oggetto
di una storia di motivi convenzionali non di una storia
letteraria.
Altrove, s’è già detto, va cercata la parte viva della poesia
di quest’epoca, in quel genere, se vogliamo, di arte minore
anonima che fra il 1200 e il 1350 circa allietò e adornò la
vita delle classi aristocratiche in tutto il Nord: la ballata
medievale o come si suole impropriamente chiamarla con voca­
bolo danese, la Folkevise. Inseparabile dalla musica, come già
la lirica nell’antichità classica, questo genere letterario pare es­
ser nato dalla fusione della materia epico-eroica nordica più o
meno pagana con la canzone a ballo d’origine francese 1. Sembra
probabile che, giunta prima in Danimarca attraverso la Germa­
nia e l’Inghilterra, si diffondesse poi ovunque (anche in Islanda
dove assunse il nome di rima e i connotati formali della
poesia scaldica) sempre più però accentuando l ’intimo carat­
tere epico-narrativo e circoscrivendo a uno o più ritornelli
(omkvsed) l’originaria impronta lirica della canzone francese.
Già nella Danimarca dei Valdemari (sec. XIII) e nella Svezia
dei Folkunghi (sec. XIV) è probabile che la Folkevise avesse la
sua prima grande fioritura, per lo più legata alla melodia e a
un tipo di danza lenta e cadenzata — a catena aperta o chiusa,
non a coppie — come ci attestano le scarse testimonianze ico­
nografiche e letterarie (Olaus Magnus) e l ’ancor viva consuetu­
dine delle isole F 0rjar.
Nella sua forma più comune la Folkevise è un componi­
mento strofico-narrativo di due o quattro versi con tre o
quattro accenti ritmici in ogni verso, a rima finale mascolina
congiungente, nelle quartine, il secondo e l’ultimo verso. Il
capofila cantava le varie strofe e gli altri danzatori ripetevano
in coro il ritornello che aveva una propria melodia e serviva
a legare musicalmente e icasticamente l’intero componimento.
Brevi, unitarie per stile e composizione (lessico semplice, im­
magini e personaggi stilizzati e tipizzati mediante epiteti e

Komedie (anch’esso basato sulla leggenda di santa Dorotea); Paris* dom:


un’allegorica raffigurazione del giudizio di Paride non scevra di popo­
laresca comicità; Den utro Hustru : una farsa carnevalesca sul motivo
della moglie infedele.
1 Si è soprattutto voluto ricondurre l’origine della Folkevise alla carole
francese. Più problematici invece gli asseriti influssi della poesia go­
liardica e del Minnesang.
Medioevo pagano e cristiano 119

formule fisse, tematica per lo più tragica, alternante dialogo


e narrazione: tutto sta a indicare la forte ascendenza dell’epica
eddica sulla Folkevise), le ballate nordiche hanno materia cosi
diversa e varia, secondo il mutevole gusto della lunga tra­
dizione orale in cui sono vissute, da giustificare in parte al­
meno le suddivisioni classificatorie introdotte da quel grande
raccoglitore danese che fu S. H. Grundtvig; senza che perciò
si possa giungere a nette e precise distinzioni. Un gruppo di
historiske viser sembra rispecchiare vicende e fatti storica­
mente accertati: come la battaglia di Lena fra danesi che so­
stenevano Sverker Karlsson e svedesi agli ordini di re Erik
Knutsson, Kung Sverker och slaget vid Lena , 1208 (Re Sverker
e la battaglia di Lena del 1208); come la morte della regina
danese Dagmar nel 1212, Dronning Dagmars D od (La morte
della regina Dagmar); come l’assassinio dell’infelice concubina
di re Valdemaro di Danimarca (secondo altri di re Valdemaro
Birgersson di Svezia) Valdemar og T o ve ; come la rivolta del
danese Marsk Stig (morto l’anno 1293) al re Eric Menved,
Ridder Stigs D od (La morte del nobile Stig), come Kongemor-
det i Finderup (Il regicidio di Finderup consumato a tradi­
mento l’anno 1286 sul re Eric Klipping), e come Niels Ebbesen
(che capeggiò la rivolta dei nobili danesi contro il conte dello
Holstein, Gert, assassinato nel 1340). Un secondo gruppo, di
ridderviser , appare più strettamente legato al costume e agli
ideali cavallereschi: Ebbe Skammelsen, Nilus og Hillelille, Hr.
Torbens D after (La figlia di Torben), A xel og Valborg, Hr. Lave
og Hr. Jon, Bendik og Àrolilja , ecc. Un terzo, di trylleviser
o « ballate magiche », attinge la materia al mondo del mito,
della Saga, della magia runica e della superstizione come EU
verskud (Il colpo degli Elfi), Harpens K raft (La forza del­
l’arpa), A gnete og Havmanden (Annina e il tritone), ecc. Un
quarto, di ksempeviser o « ballate eroiche », al ciclo dell’epica
norrena, soprattutto alle Fornaldarsógur, come V idrik V e -
landsson, Aage og Else, Thor af Havsgaard, H avbor og Signil,
Herr Svedendal, H olger Danske (Oggeri il danese). Un quinto
di skeemteviser o « ballate giocose » ò « caricaturali », riflette
nel suo sboccato realismo e umorismo l’ambiente e il gusto
popolareggiante, come Karrig Niding (L’avaro Niding), Bon-
den och oxen (Il contadino e il bove), Bruden fra Ribe (La
sposa di Ribe); o la islandese Skidarìma , che nel parodiare i
poemi mitologici, sembra precorrere lo Scherno degli dei del
nostro F, Bracciolini; e altri raggruppamenti potrebbero ag-
120 Le letterature della Scandinavia

giungervisi di ballate religiose1 politiche2 leggendarie o di


altro particolare carattere.
È chiaro che non la materia qui conta, ma, come per affini
componimenti « popolari », poetici o prosastici che siano, il
tono psicologico, la forma interna (Croce) improntata a una
determinata tradizione a una tecnica a un gusto a un ambiente
che non sono quelli della « poesia d’arte ». E, per restare
nell’ambito del nordico, certo è che le più antiche redazioni
a noi giunte presentano caratteristiche formali che permet­
tono l’ascrizione di buona parte delle Folkeviser al Medioevo
e indicano la Danimarca come primitiva area di diffusione,
almeno in rapporto agli altri paesi scandinavi. Anche qui
il tema dominante è quello della lirica e narrativa cortese
d’origine continentale: ma il tono è diverso per la diversa
tradizione letteraria, il diverso ambiente sociale. Re e regine,
cavalieri e dame sono si ligi tutti al nuovo ideale d ’amore,
ma, spiritualmente, assai più vicini sembrano ai loro ante­
nati vichinghi che a Enea, a Tristano o al favoloso Artù
e agli splendidi cavalieri della Tavola Rotonda; e gesta eroiche
e tragedie passionali, vendette ed offese richiamano alla mente
assai più il rude fatalismo dell’epica norrena che l’aristocratica
« cortesia » cavalleresca.
Emergono nell’ingente massa di componimenti solo po­
chissimi: quasi piccoli drammi, nei quali si assiste all’urto
fatale di inconciliabili passioni e di esseri in lotta col destino.
In Bendik e Àrolilja per esempio, è ripreso con estrema in­
genuità e candore di tono il cupo motivo d’amore e morte di
Tristano e Isotta:

1 Per esempio il Draumkvsede norvegese, dopo quasi 600 anni di tra­


dizione orale, raccolto nel Telemark da folcloristi e demologi in una
settantina di diverse redazioni più o meno frammentarie. Per la forma
questo « canto del sogno » è una ballata, per il contenuto una visione
medievale nella quale Olaf Àkneson, risvegliatosi da un lungo sonno
racconta, in chiesa, ai fedeli le sue visioni delTAldilà. Di forme popo­
lareggianti e di contenuto ascetico è anche l’anonima lirica svedese nota
sotto il titolo di Gamble man (Il vecchio): curiosa fantasia di poeta
ossessionato dalTincubo della vecchiaia e della morte.
2 Come la cosiddetta Frihetsvisan (Canto della libertà) del vescovo sve­
dese Thomas di Strangnas (1380-1443) in favore del re Karl Knutsson
avversario dell’Unione di Kalmar, e di un altro dei più risoluti capi
dell’opposizione antiunionista, il nobile Engelbrekt Engelbrektsson. Pur
tra studiate allegorie e simboli vibra in questo canto un forte pathos
libertario — qualunque sia poi l’interpretazione storica esatta da dare
agli intenti politici del quasi ignoto ecclesiastico-poeta che lo compose.
Medioevo pagano e cristiano 121

Eg tikje so vent um ditt gule Tanto amo i tuoi biondi capelli


[ bar
some epli dei dryp pà kviste — come le mele che pendono dai
[rami —
ssei er den som deg ma fa beato colui che ti avrà
gud b&re den som skó missel Dio aiuti chi dovrà perderti.
— Àrolilja kvi sov'e du so — Àrolilja perché non vuoi
[ lengje? [svegliarti?
Eg tikje sa nàr eg sit hjà deg, Tanto è dolce esserti vicino
som eg sat uti solskin bjarta come star fuori nel sole splen­
dente,
nàr eg og du me skiljast at quando tu e io ci separiamo
sa rivnar bà lung og hjarta. mi manca il respiro e mi si
[spezza il cuore.
— Àrolilja kvi sov’e du so — Àrolilja perché non vuoi
[ lengje? [svegliarti?
Bendik la dei norda kyrkja Posero Bendik a nord della
[chiesa
og Àrolilja sunna, e Àrolilja a sud,
de voks upp av deires grefti spuntarono dalle loro fosse
tvo fagre liljerunnar. , due splendide piante di gigli.
— Àrolilja kvi sov’e du so — Àrolilja perché non vuoi
[ lengje? [svegliarti?
Altrove come nel « Colpo degli elfi » (Elverskud) è già
sensibile, malgrado la linearità e semplicità del tono « popo­
lare », quel segreto fascino del demoniaco che, attraverso
Herder, tanta suggestione eserciterà sulla poesia d’arte dei
romantici: da Goethe a Leconte de Lisle a Berchet e a Car­
ducci.
Hr. Oluf rider med Bjerge Sir Oluf cavalca lungo le mon­
tagne,
der dansed Elver og Dveerge. lf danzano elfi e nani.
Men Dansen den gaar saa let Ma la danza procede leggera pel
[gennem Lunden. [bosco.
Der dansed Fire der dansed LI danzano quattro, lì danzano
[ Fem, [cinque,
Elverkongens Datter rsekker la figlia del re degli elfi gli ten­
[Haanden frem. d e la mano.
Men Dansen den gaar saa let Ma la danza procede leggera pel
[gennem Lunden. [bosco.
Ai maliosi richiami dell’essere di natura il cavaliere resi­
ste, in un drammatico contrasto che culmina nella morte.
Ma come già nell’antico carme eroico germanico cosi anche
122 Le letterature della Scandinavia

qui netta Folkevise ritroviamo quella caratteristica tecnica chia­


roscurale di cui secoli dopo faranno sapiente uso i poeti ro­
mantici (Ibsen insegni!). Infatti l’atmosfera di tensione e di
incubo che sempre vela l’approssimarsi del destino non si
disperde completamente che alla fine. Anche la scena della
vendetta elfica non parla esplicitamente di morte:
Hun slog ham for hans Hjerte- Un colpo gli diede sul cuore
[ bladj
det gjaldet under hans Hjerte - e il colpo echeggiò nel profondo.
{rod.
Men Dansen den gaar saa let Ma la danza procede leggera
[ gennem Lunden. [pel bosco.
Hun lof te hr. Oluf paa Ganger Poi lo mise sul rosso destriero:
[ rod:
« Du rid nu hjem til din Vee- « Torna ora a casa alla tua
[ stemo! » [sposa! »
Men Dansen den gaar saa let Ma la danza procede leggera
[ gennem Lunden. [pel bosco.
Solo da ultimo, quando la promessa sposa solleva la cortina
rossa e scopre il cadavere di Oluf, noi intendiamo appieno il
significato e l’effetto della malia:
Hung tog op det Skarlagen r&d, Sollevò la rossa cortina,
da laa hr. Oluf og var dod. li c'era sir Oluf ed era morto.
Ne La figlia di Torben il tema della vendetta è raffigurato
con tanta potenza e concentrazione drammatica da dar l’im­
pressione che pentimento e amore quasi sboccino ad una col
sangue versato; in Ebbe Skammelsen rivivono figure di cava­
lieri e dame che contano antenati nel carme eroico e nella
Saga *; in Valdemar og Tove assistiamo a un truce dramma
imperniato sul contrasto fra l’esultante spensieratezza dell’amo­
re e il maligno livore della gelosia. Né mancano altre ballate
in cui altri e meno crudi sentimenti sono espressi con grazia
ed efficacia d’immagini, come per esempio M0ens Morgen-
d w m (Il sogno mattutino della vergine), sul sogno d ’amore
della piccola Vesselill che va sposa felice al re dei Vendi;

1 II motivo della promessa d’amore infranta dalla donna alla quale il j


rivale fa credere che l’amato sia morto; e quello dell’immancabile ven­
detta e della strage, nonché dell’espiazione finale fa pensare alla Laxdoela |
saga.
Medioevo pagano e cristiano 123

come Den saarede Jomfru (La vergine ferita), dove una pic­
cola tragedia si risolve in un cavalleresco sorriso; come H err
Tideman och lilla Rosa (Il cavaliere Tideman e la piccola
Rosa), tutta vibrante di « cortese » femminilità e devozione;
e come altre ancora.
Ma il numero non è certo proporzionale alla qualità.
Dal punto di vista estetico, infatti, sono assai pochi i com­
ponimenti che spiccano per intrinseco pregio d’arte: i più si
limitano a manipolare e ripetere, a variare e contaminare gli
stessi o diversi motivi, ora irrigidendoli in mediocri quadretti
di genere, ora cristallizzandoli in stereotipe illustrazioni di
costume, ora anche degradandoli a puro accompagnamento
figurativo di melodie tradizionali.
Invise al gusto classicistico del Settecento (ma non igno­
rate né da Holberg né da Dalin) le Folkeviser conobbero
anche nel Nord un vero trionfo letterario quando furono ri­
scoperte e certo anche sopravvalutate dai romantici, che, sulla
scorta di Herder, guardarono ad esse come a insuperabili mo­
delli di poesia, spontanee anonime creazioni dell’« anima po­
polare » non indegne di stare accanto all’« epos » germanico
e persino omerico. Crollato poi il mito romantico-nazionale del
« selbstdichtendes Volk », vivo ancora nello storicismo erudito
dei positivisti, le ballate popolari passarono dalle mani dei
raccoglitori dilettanteschi e degli amatori al severo vaglio
della critica storico-filologica che ne scopri l’origine colta o
semicolta, ne spiegò l’anonimità e la voluta semplicità, ne
studiò la tradizione e diffusione geografica e culturale, dando
cosi l’avvio alle prime raccolte sistematiche e scientifiche (le
più antiche redazioni manoscritte e stampate, se si eccettuano
singoli frammenti, risalgono per Danimarca e Svezia, non oltre
il Cinque-Seicento1, per Norvegia, Islanda e Forjar solo alla
metà dell’Ottocento).
Ma a differenza dei grandi paesi europei che nel Medioe­
vo produssero capolavori di poesia d’arte, la Scandinavia non

1 Al XV see. risale quella di 200 canzoni circa fatta dalla nobile danese
Karen Brahe e quella del Hjertebogen (libro a cuore — .così chiamato
per la sua forma — 1553-55). Nel 1591 Anders Sorensen Vedel curò
la prima raccolta a stampa; e sulla base del materiale da lui lasciato,
Mette Gjoe pubblicò un nuova raccolta nel 1657 col titolo Tragica. In
Svezia le prime sono quelle (rielaborate) di Geijer-Afzelius, Svenska
Folkvisor (1814-17). La riproduzione dei testi originali si deve a A.
I. Arwidsson, Svenska Fornsànger (183442),
124 Le letterature della Scandinavia

ebbe allora che le F olkeviser1: unico patrimonio letterario


da contrapporre all’oligarchica cultura latina. E a questo ap­
punto attinsero per secoli temi e motivi, melodie e ritmi i
più diversi scrittori sia laici sia religiosi, quando vollero ri­
temprare la loro arte nel flusso perenne d’una tradizione lirica
che ancor oggi esercita il suo recondito fascino sulle genera­
zioni contemporanee.

1 Nelle Forjar, sì può dire, quasi fino ad oggi, sono queste Tunica forma
esistente di letteratura (cfr. E. Dal, N ordisk f olkviseforsking siden 1800,
Kobenhavn, 1956, pp. 116-132).
Capitolo secondo

Dalla Riforma all’età dei Lumi

Se durante il Medioevo l’assimilazione della cultura reli­


giosa e laica del continente appare assai lenta e contrastata
in tutta la Scandinavia, agli inizi dell’età moderna si avverte
ancor più chiaramente la lontananza materiale e spirituale di
questi popoli dai centri d’irradiazione del nuovo pensiero
umanistico e rinascimentale. Il politicismo della Chiesa, il
predominio economico del?Ansa tedesca, l’ascesa della bor­
ghesia, le lotte intestine dell’Unione di Kalmar sembrano sal­
damente legare il Nord alla Germania, accomunandone le sorti
in una svolta decisiva della storia.
Certo anche qui non furono del tutto ignoti e i modelli
classici antichi e l’Italia che se ne mostrava fedele imitatrice
e persino emulatrice: sovrani svedesi come Gustavo Vasa e
i suoi figli Erik XIV e Giovanni I I I 1 chiamarono architetti
stranieri, per lo più protestanti2, a costruire e arredare non
semplici fortezze ma grandiosi castelli (imponente quello di
Kalmar, dove lavorarono gli oriundi bergamaschi Giambatti­
sta e Domenico Paar); ecclesiastici come lo svedese Konrad
Rogge che si addottorò in giurisprudenza a Perugia nel 1640
ed ebbe nella sua biblioteca sia Cesare che Polibio sia Pe­
trarca che Enea Silvio e Poggio; come il predicatore di Erik
XIV, Laurentius Petri Gothus che fu professore di greco a
Uppsala nel 1566; come il danese Rasmus Glad (latinizzato
Erasmus lastus) che scrisse poesia umanistica latina; come
il monaco svedese di Vadstena Peder Mànsson che tradusse,
intorno al 1520, la erasmiana In stitu tio principis o come il

1 La biblioteca di Erik è notevole documento d’interessi culturali e


scientifici, mentre Giovanni III sembra aver conosciuto almeno alcuni
libri dell’Architettura del Serlio.
2 Ma già nel sec. XII avevano lavorato alla cattedrale di Lund un
Donatus e un Regnerus — probabilmente italiani, formatisi alla scuola
renana.
126 Le letterature della Scandinavia

carmelitano Povl Helgesen che la tradusse in danese nel 1521-


22 — sono tutte testimonianze che certi fatti di cultura d’origine
italiana erano qui penetrati attraverso la Germania. Ma furono
travolti e sommersi sul nascere dal fermento religioso della
Riforma luterana. Diffusa e imposta dai re per motivi politico­
sociali assai più che religiosi, la Riforma si presenta nel Nord
come un fenomeno « di riporto » privo di idee autonome e
originali. Non mancò certo in Danimarca e in Svezia il fervore
di singoli predicatori seguaci di Lutero, che, tornati da W it­
tenberg (come Hans Tausen, Olaus Petri e Laurentius Petri)
propagarono la dottrina del maestro con l’esempio, rinnegando
il celibato con la parola e con gli scritti, sostenendo diatribe
ideologiche (celebre quella fra l’erasmiano Helgesen e Olaus
Petri), e talvolta anche avversando, a rischio della vita, il po­
liticismo dei sovrani. Ma mentre nel pensiero del maestro è
possibile seguire un’evoluzione ideale, per i discepoli si tratta
soltanto di applicare soluzioni di problemi altrove posti. In
entrambi i sensi, negativo e positivo, si ripete qui quanto in
sostanza era già avvenuto in Germania: da una parte, deciso
ritorno al Medioevo scolastico con la tesi teologica del servo
arbitrio, con la negazione della libertà umana (annullata da
una concezione veterotestamentaria di Dio), con la giustifica­
zione per sola fede e col rinvio alla Bibbia come unica fonte
di salvezza (e quindi rottura con Roma e rottura con gli ideali
filosofici dell’umanesimo); dall’altra la necessità di restaurare
il testo originario della Scrittura, per renderlo accessibile a
tutto il popolo comportò insieme l’esame umanistico-filologico
delle fonti e la creazione di una lingua nazionale, nuova, sem­
plice, popolare.
Non solo, ma nella stessa storia della formazione della
Chiesa nordica, si riflette il contraddittorio tentativo del grande
Riformatore di conciliare la giustificazione per sola fede e il
valore trascendente dei sacramenti, il libero esame e l’inter­
pretazione ortodossa della Scrittura, il sacerdozio universale
e la nuova gerarchia ecclesiastica. Decisivo fu il suo esempio
per le traduzioni1 dei vari testi sacri, certo opera di più
collaboratori: il Nuovo Testamento in danese vide la luce nel
1524 a cura di H. Mikkelsen e di altri che si basarono sul

1 Qualche parziale tentativo era già stato fatto nel Medioevo: per ini­
ziativa di santa Brigida a Vadstena, forse a opera del confessore Mattia;
in Norvegia fu iniziata forse alla corte di Hàkon Hakonarson una
traduzione di cui restano due copie note sotto il titolo di Stjorn.
Dalla Riforma all’età dei Lumi 127

testo di Lutero, sulla traduzione latina datane da Erasmo e


sulla Vulgata; e nel 1550 l’intera « Bibbia di Cristiano I II »
cui collaborarono anzitutto Christiern Pedersen e Peder Pal-
ladius, fu portata a termine sulla traccia di quella del 1545
di Lutero e dei suoi intimi. In Svezia Olaus Petri, Laurentius
Andrae e altri dettero una traduzione svedese del Nuovo
Testamento nel 1526 utilizzando essi pure Lutero, Erasmo e
la Vulgata; e nel 1541, sotto la direzione di Laurentius Petri
fratello di Olao uscì la « Bibbia di Gustavo Vasa » 1. Paral­
lelamente alla formazione dei testi2, Lutero dette un impulso
decisivo alPorganizzazione delle Chiese nordiche, sia attraverso
il « praeceptor Germanise » Melantone, sia con l’aiuto diretto di
Bugenhagen che, chiamato da Cristiano III a Copenaghen,
ordinò, fra il 1537 e il 1539, il norvegese Geble Pedersson
e il danese Peder Palladius.
Soffocando ogni valore umano in nome della luterana
« fiducialis desperatio », la Riforma abbassò dovunque il già
modesto livello della cultura (anche le prime Università nor­
diche, di Copenaghen 1476, e di Uppsala 1477 non ebbero
alcun peso culturale se non nel tardo Seicento); e non solo
ridusse tutta la vita intellettuale a polemica teologica e di­
strusse e disperse insieme a biblioteche e chiese e scuole e
conventi una non insignificante cultura cattolica, ma nel giro
di pochi decenni — malgrado le resistenze di qualche singolo
riformatore e, talvolta, come in Norvegia, del popolo — in­
feudò completamente la Chiesa allo Stato secondo il cesaro-
papistico principio del « cuius regio eius religio ». Nel 1527
le diete di Vesteràs e di Odense riconoscono Gustavo Vasa e
Federico I capi delle chiese nazionali di Svezia e di Danimarca,
e Panno seguente, esiliato Pultimo arcivescovo norvegese Olaf
Engelbrektsson, Pordinanza ecclesiastica di Cristiano III (in
gran parte opera di H. Tausen) segna la confisca dei beni
della Chiesa3 e il trionfo ufficiale della Riforma in Danimarca
in Norvegia.

1 In Islanda la prima traduzione del Nuovo Testamento fu eseguita da


Oddur Gottskàlksson e stampata in Danimarca a Roskilde nel 1540;
l’intera Bibbia a Hólar nel 1584 a cura di Gudbrandur Jporlàksson. Solo
la Norvegia, per le vicende politiche dell’Unione di Kalmar, non ebbe
un testo proprio (in aperto contrasto agli intenti volgarizzatori e mis­
sionari del Riformatore tedesco) e adottò il testo danese.
2 Imparagonabili con il grande modello, quanto a genialità creativa e
vivacità idiomatica, e, benché notevoli per l’efficacia che ebbero sulla
lingua scritta, di netta impronta latineggiante.
3 In Svezia era già stata sancita dalla dieta di Vesteràs.
128 Le letterature della Scandinavia

Entro il quadro della rigida ortodossia luterana e delle ten­


denze accentratrici dello Stato assoluto, nel languire d’ogni
cultura letteraria, vigoreggia, favorito dall’adozione del vol­
gare, quell’umanesimo nazionalistico e celebrativo che già in
Germania con l’infiammato appello di Lutero alla N obiltà
tedesca e con YArminio di Hutten aveva contribuito alla rivolta
contro Roma. Se, da una parte isolata e a lungo ignorata resta
la Cronaca svedese (Een swensk Cróneka, stampata soltanto
l’anno 1808!) di Olaus Petri, per la sua sobrietà stilistica e
i suoi intenti critici anteponenti al mito e alla leggenda l’ac­
certamento della verità l, dall’altra prende invece decisivo
avvio quel moto ideologico e sentimentale (per consuetudine
chiamato « goticismo ») che doveva aver tanta fortuna di ri­
sonanze letterarie, linguistiche e perfino politiche fino al ma­
turo Ottocento. Si tratta d’una sorta di romanticismo dei
primordi germanici più o meno intessuto d’idee medievali e
risalente perciò, nella brama di conquistarsi un blasone, a fa­
volose ascendenze bibliche e classiche. In Danimarca la grande
fonte d’ispirazione è Saxo, il cui testo latino viene per la pri­
ma volta pubblicato a Parigi (1514) dall’umanista Christiern
Pedersen, tradotto poi in danese da Anders Sorensen Vedel
(1575) utilizzato ancora da Arild Huitfeldt nella Danmarckis
Rigis Kronicke... (1603); in Norvegia la Heimskringla di Snor­
ri è tradotta e contaminata con varie fonti da Absalon Peders-
son Beyer nella O m Norgis Rige (1567) e da Peder Clausson
Friis nella sua Norske Kongers Chronica ; ma in Svezia soprat­
tutto il « goticismo » celebra i massimi trionfi: dalle favolosé
storie dei due fratelli Olaus e Johannes Magnus 2, che ebbero
enorme diffusione anche fuori del N ord3 al romanzo archeo­

1 Filologica e pedagogica almeno nei propositi la cronaca di Olao va


dall’introduzione del cristianesimo in Svezia al cosiddetto « bagno di
sangue di Stoccolma» (Stockolms blodbad); e quell’episodio cioè, di cui
l’autore stesso fu testimone, quando nel 1520 Cristiano II di Danimarca e
di Norvegia, sconfitto il partito separatista svedese, fece assassinare molti
nobili e i due vescovi di Strangnàs e di Skara accusati di eresia. Si
comprende come un siffatto tipo di storiografia non celebrativa e aman­
te del vero dovesse dispiacere al pater patriae Gustavo Vasa almeno quan­
to l’altro scritto giuridico attribuito a Olaus Petri Dotnareregler (Norme
giudiziarie), d’ispirazione schiettamente cristiana e umanitaria.
2 Citate a p. 114.
3 Furono fra altro fonte d’ispirazione del Torrismondo del Tasso, e più
tardi, della teoria climatica del Montesquieu. In Svezia vi attinse J. Mes-
senius (1579-1636) per i suoi indigesti drammi scolastici; e quella di
Iohannes fu tradotta in svedese dal re Erik XIV.
Dalla Riforma alVetà dei Lumi 129

logico del polistore O. Rudbeck A tland eller M anheim l...


(1689-1702) identificante la Svezia con l’Atlantide di Platone!
Alle grottesche fantasie patriottarde si mescolano però in
quella, che anche nel Nord è l’età dell’erudizione favorita
dall’uso della stampa2, l’avidità del sapere, la gioia del cercare
e dello scoprire che dà frutti cospicui; sia sul piano degli
studi scientifici sperimentali con T. Brahe e O. Worm, Th.
Bartholin, O. Romer e N. Steensen, non secondi ai loro col­
leghi di Leida e di Parigi, di Basilea e di Padova; sia sul
piano dell’antiquaria, dell’archeologia, della filologia. Qui il
danese O. Worm e lo svedese J. Buraeus danno l’avvio allo
studio delle rune; il danese P. H. Resen e gli islandesi S.
Ólafsson e G. Andrésson pubblicano la prima edizione sia
AtWEdda snorrica (1665) sia di alcuni carmi délVEdda poetica
(1673); il danese Th. Bartholin in collaborazione con l’islan­
dese A. Magnusson, raccoglie nei suoi A ntiquitatum danicarum ...
libri tres (1685) un’enorme congerie di notizie sull’età eroica
della Scandinavia; autentica miniera cui attingeranno i prero­
mantici di tutta Europa. Svezia e Danimarca si contendono
ora la ricerca e la raccolta di manoscritti islandesi che vanno ad
arricchire le biblioteche « regie » di Stoccolma e di Copenaghen;
(in quest’ultima appunto è serbato il Ms. dell 'Edda poe­
tica scoperto dal vescovo islandese Brynjólfur Sveinsson e
con altri da lui offerto in dono a Federico III). L’impronta
erudita e gli intenti pedagogici della Riforma si avvertono
anche nel teatro nordico assai scarsamente documentato e, da
un punto di vista qualitativo, legato alle vecchie strutture di
tipo popolare: allegorie, Misteri, Moralità. Come Lutero e
Melantone avevano dato impulso alla commedia scolastica uti­
lizzando oltre la Bibbia il teatro classico (soprattutto Terenzio;
ma Melantone fece rappresentare nel 1525-26 la Ecuba di
Euripide tradotta da Erasmo) a fini didattici e morali, cosi
nel Nord si scrisse e si rappresentò in latino prima e poi in
volgare, spesso nelle scuole ecclesiastiche delle cittadine di
provincia anziché nelle Capitali, e con l’aiuto di attori im­
provvisati. Abbiamo una anonima Tobite kom edie in Dani­
marca e in Svezia (sulla leggenda biblica della miracolosa gua­
rigione di Tobia); una « moralità » del danese Hans Christen-

1 La traduzione latina Atlantica sive Manheim non è dell’autore.


2 La prima stamperia danese risale al 1482, la svedese al 1493, la islan­
dese al 1531, la norvegese al 1643.
130 Le letterature della Scandinavia

sen Sthen, K o rtven à in g 1 (c. 1565-74) sulla mutevolezza della


fortuna umana; una rozza farsa versificata d’un altro danese
Hjeronimus Justesen Ranch, Karrig Nidding (L’avaro Nidding,
ca. 1598): più che ritratto d’un carattere, burlesca e sboccata
esemplificazione d’un tema tradizionale noto alla letteratura
d’ogni tempo. E si potrebbe aggiungere a questi esempi, benché
cronologicamente più tarda, la tragedia senecana Rosimunda
(1665) di U. Hiarne, sulla nota leggenda longobarda, opera
anch’essa d’imitazione del gusto terrifico del teatro elisabet­
tiano.
Sedatasi finalmente la polemica teologica e organizzatasi
la nuova Chiesa, i nordici (anzitutto, è ovvio, l’aristocrazia)
riallacciarono i recisi legami con i paesi di tradizione classica,
anche con l’Italia; ma il pensiero umanistico e rinascimentale
fu loro accessibile nelle forme estreme del classicismo, cioè
del già trionfante barocco. E cosi, in un’unica prospettiva, la
cultura nordica studiò e tentò di assimilare la complessa e
articolata tradizione spirituale che va da Petrarca a Marino.
Non sorprende perciò la mediocrità dei risultati di que­
sto tirocinio artistico. Se si prescinde dalle arti figurative, i
modelli stranieri furono utilizzati a fini illustrativi e celebra­
tivi o, come s’è visto, servirono a stimolare la ricerca filologica
e storica.
Solo tardi, con la guerra dei trent’anni, la Svezia, vitto­
riosa della monarchia d’Asburgo e dominatrice del Baltico, si
apre per prima a orizzonti europei. Gustavo Adolfo promuo­
ve personalmente la restaurazione materiale e intellettuale del
paese. Sorgono ora anche nei territori conquistati nuove uni­
versità; oltre che a Lund in Scania, a Àbo in Finlandia nel
1647, a Dorpat in Estonia nel 1668; le biblioteche d’Europa
forniscono tesori librari ai vincitori e nel 1669 il Cancelliere
De La Gardie assicura alla biblioteca di Uppsala il « Codex
Argenteus », la Bibbia gotica di Ulfila. Anche la figlia di
Gustavo Adolfo, Cristina, mossa da intelligente mecenatismo
e insofferente della rigida ortodossia luterana, si circonda dei
più eminenti dotti del suo tempo: da Cartesio a Grozio, da
I. Vossius a N. Hensius; studia filosofia e filologia classica,
incetta e acquista quadri, statue, monete, oggetti d’arte, orga­
nizza a corte balletti di gusto classicistico e intermezzi o di­

1 II titolo della commedia — liberamente tradotto: « Colpo di for­


tuna » è anche il nome del protagonista.
Dalla Riforma àlVetà dei Lumi 131

vertimenti scenici musicali coreografici e drammatici a un tem­


po, e lascia morendo una delle più ricche biblioteche d’Europa,
nonché, in francese, un’autobiografia incompiuta, un epistolario
e una raccolta di meditazioni morali, Ouvrage de Loisir e Les
sentim ents — non creto frutto di genio poetico, ma documenti
di intensa vita spirituale, per un misto di umiltà e di stoici­
smo, che apparentano questi scritti all’autobiografia1 della da­
nese Leonora Christina (1621-1628) figlia naturale di Cri­
stiano IV.
Nel campo propriamente letterario s’affermano ora, per
vari tramiti (tedesco, olandese, inglese), le nuove forme e i
nuovi ideali di origine classica e neolatina. Fu così che anzi­
tutto sugli schemi retorici dello slesiano Martin Opitz (il
quale nel Buch der deutschen Poeterey , 1624, moveva dalla
poetica rinascimentale appresa da Ronsard e da D. Heinsius) la
poesia colta tentò i primi passi: ma la tematica restò ancora
a lungo quella religiosa, didattica, moralistica, ereditata dalla
Riforma.
Eccelle per la vastità degli interessi intellettuali, che ne
fanno la figura più rappresentativa dell’epoca, il polistore Georg
Stiernhielm, il quale, nel suo poema didascalico-allegorico in
esametri Hercules (1648 pubbl. 1658), ricrea a memento della
aristocrazia svedese vittoriosa sui campi di battaglia d’Europa,
la favola di Prodico sofista su Ercole al bivio fra Virtù e
Piacere. Idee etico-filosofiche postaristoteliche di schietta deri­
vazione rinascimentale, stoiche epicuree scettiche, si fondono
al pathos eroico « goticista » turgido di emblematica pompa;
ispirazione mondana a pessimismo; sensualismo a ingegno­
sità; orge di lessico a ritratti realistici. Il petrarchismo giun­
to nel Nord pel tramite di Opitz trovà nell’ignoto autore
dei sonetti W e n e rid 2 (1680) un interprete che dimostra

1 Nota col titolo di Jammers Minde (Ricordo delle afflizioni) è nella


sua parte più interessante la narrazione di 22 anni di prigionia (1663-
1688) trascorsi nella Torre azzurra di Copenaghen sotto la più o meno
esplicita e fondata incriminazione di complicità col marito Corfitz Ulfeldt,
che mirava a insediare sul trono danese il grande elettore di Brande-
burgo.
2 Ciclo di sonetti pubblicati con lo pseudonimo non identificato di
Skogekar Bergbo, il quale, cantando il suo amore « cortese » per la bella
Veneride, si propone di dimostrare le risorse della lingua svedese
in fatto di rime. Al Pastor fido e a\\?Aminta italiani risalgono — attra­
verso YAstrée di H. d’Urfé tradotta dal tedesco a opera del danese
S. Terkelsen — sia la poesia pastorale del Terkelsen stesso (Astrée
132 Le letterature della Scandinavia

quanto ancora angusti siano i confini dell’apprendimento e


dell’imitazione di una tecnica poetica, mentre sul finir del
secolo, G. E. Dahlstierna, rustico e spesso dialettale traduttore
del Pastor f id o 1 { 1695), modella sull’ottava àt\Y Adone il suo
epicedio di Carlo XI Kungaskald (Poesia regale), dando così
la piena misura della distanza che passa fra la squisitezza
stilistica delPoriginale (che aveva come presupposto una lunga
tradizione letteraria) e la rozzezza del calco ch’è appena dissi­
mulata sotto il fasto delle metafore e dei fregi barocchi attinti
a Hoffmanswaldau e a Lohenstein2. Ligio alla precettistica
dell’Opitz anche il danese A. Arrebo modella il suo poema
didattico Hexaemeron (1661) sulla Sepmaine dell’ugonotto Du
Bartas, che fu in Danimarca e che anche in Svezia come in
Italia trovò im itatori3.
Al paragone di questi scritti che più o meno tutti rientrano
nella letteratura erudita fiorente alla Corte e nelle Università,
più viva appare la poesia « popolare », cioè sia quella religiosa
sorta in seno alla Chiesa luterana, sia quella profana d’occasione.
Appena dieci anni dopo i Kirchenlieder di Lutero, Olaus
Petri componeva in Svezia i primi inni liturgici nello spirito
della nuova confessione Stoenske songer eller wisor (1536),
presto imitato dagli altri riformatori nordici, che pongono
così le basi d’una tradizione saimistica — quasi nuovo genere
letterario — in cui si rispecchia, su moduli ritmico-musicali,
il fervore mistico e l’aspro volontarismo della Chiesa riformata.
Non mancano, entro i ben saldi confini di questa tradizione
che unisce insieme l’inno la preghiera e l’insegnamento dot­
trinale e che ha larga diffusione, data l’autorità e i poteri della
Chiesa di Stato, profondità di sentimento e di fantasia: per
esempio in alcuni salmi sul peccato e sulla grazia di Olaus
Petri o in altri di Haquin Spegel, di Jesper Swedberg, di Olof

S)ungechory 1648-1654) sia il romanzo pastorale dello svedese U. Hiarne


(,Stratonice, 1665).
1 Direttamente attinte all’arte poetica di Opitz sono la Manuductio ad
poesin svecanam, 1651 dello svedese A. Arvidi e Rhythmologia Danica,
1649, del danese Hans Mikkelsen Ravn.
2 Assieme allo stile elevato e prezioso del barocco tedesco, Dahlstierna
coltivò anche la poesia popolareggiante e in Giòia Kiampa-Wisa
om Kàningen a Herr Pàdar (Canzone eroica gotica sul re e sul signor
Pietro) cantò la battaglia di Narva, allegorizzando l’evento nella figura
d’una nobile dama (Narva) contesa fra Carlo XII e lo zar Pietro.
3 In Svezia il salmista Haquin Spegel vi attinse per il suo Guds Werk
och Hwila (Le opere e il riposo di Dio, 1685); in Italia, com’è noto,
Tasso nelle Sette giornate del mondo creato (1592-1594).
Dalla Riforma all'età dei Lumi 133

Kolmodin, di Jacob Frese, dei danesi Thomas Kingo H. A.


Brorson2, A. Stub, dell’islandese Hallgrfmur Pétursson3 o del
norvegese Petter D ass4: ma si tratta essenzialmente di un
genere liturgico regolato da precisi schemi di vita devota e da
finalità di predicazione e di elevazione collettiva.
La poesia d’occasione, coltivata spesso dagli stessi salmisti,
conta molti nomi, fra i quali per abilità versificatoria vanno
anzitutto ricordati il danese A. Bording (1619-1667) e lo
svedese J. Runius (1679-1713); mentre un posto a parte me­
ritano in tale quadro i due « scapigliati » svedesi Lars Wival-
lius e Lasse Lucidor, mezzi avventurieri e mezzi uomini di
penna, dotati entrambi di schietta vena popolareggiante oltre­
ché di abilità artigiana; il secondo specialmente destinato dalla
sua tormentata sensibilità alla gloria d’una tarda riesumazione
romantica e postromantica5.

1 Autore di una raccolta Àndeligt sjungekor (Coro spirituale, 1673-1681)


ancora oggi in gran parte inclusa nei salteri danesi.
2 Autore di due raccolte Troens rare klenodie (Il raro tesoro della
fede, 1739) e Svanesang (Il canto del cigno, 1765).
3 Celebri i suoi Passiusàlmar (Salmi della passione, 1666), la cui re­
mota ispirazione agostiniana e bernardina dà all’intero racconto della
Passione e alle connesse meditazioni un’impronta di sofferta schiettezza,
aliena dalla pomposa esteriorità del gusto barocco.
4 Autore insieme di luterani canti catechistici (Katechismus-Sange, 1698)
e di un vivo e fresco epos popolareggiante Nordlands Trompet (La
tromba del Nòrdland, 1678-1700) ricco di descrizioni paesaggistiche sul­
l’estremo Nord e di un Bibelske Visebog (Libro dei canti biblici, 1711)
grezzo e scabro nella forma, ma vibrante di intimo pathos religioso, di
devota contrizione e di fiducia nell’onnipotenza divina.
5 Lars Wivallius fu, dopo una vita di vagabondaggio e di espedienti
in vari paesi d’Europa, condannato a morte in Danimarca nel 1631 per
aver tentato, sotto falso nome, di sposare una nobile, Gertrud Grip.
Scampò in Svezia, ma non alla prigione, dove rimase per circa un de­
cennio; e qui appunto nacque la sua poesia più schietta, libera da fini
apologetici e da atteggiamenti istrionici; soprattutto canzoni di tono
popolareggiante sui temi in voga della gioia di vivere e del terrore della
morte, con ritmi e modi tolti al salmo e al canto popolare (Ack ve,
ack ve, min jammer stor (Ahimè, ahimè, la mia gran pena...); Làr-
kians sàng àr allsintet làng (Il canto dell’allodola non è mai lungo...);
Klagovisa over denna tona och kalla vàr (Lamento sulla fredda e
asciutta primavera), nelle quali traspare tutta la sua vita ricca di
esperienze e di colpe, beffarda e amara, avida e delusa, ma espressa
in accenti moderni di fresco e personale lirismo. Lasse Lucidor (pseudo­
nimo di Lars Johansson), assai vicino al contemporaneo Wivallius per
le torbide vicende biografiche, ha lasciato una gran copia di carmi con­
viviali ed erotici in più lingue, anche in italiano, raccolti, dopo la sua
morte, col titolo Helicons blomster, l’anno 1689 — secondo la con-
134 Le letterature della Scandinavia

Quando ai primi del Settecento l’epopea carolina si spegne


nel sangue di Poltava (1709) e il predominio del Baltico pas­
sa nelle mani di nuovi e temibili concorrenti: la Prussia di
Federico I I e la Russia di Pietro il Grande, si affacciano
all’orizzonte della cultura nordica il pietismo tedesco e l’illu­
minismo anglo-francese qua e là avvertibili già nei più tardi
salmisti.
Legati a una comune origine — che il secondo movimento
di pensiero non meno del primo è un prodotto della Riforma
— collaborano entrambi, anche se da diversi punti di vista,
a quel lungo e lento processo d’erosione che porterà al tra­
monto dell’ortodossia religiosa e dell’assolutismo regio. Il pie­
tismo semina tra le rovine della guerra dei Trent’anni i germi
d’una nuova intimità religiosa e d’una nuova ascesi antimon­
dana, l’illuminismo prosegue e approfondisce, pur fra incer­
tezze e contraddizioni, lo sperimentalismo secentesco. Ma men­
tre in Danimarca e Norvegia sembrano prevalere il pietismo e
poi lo Herrnhutismo zinzendorfiano, sia in seno alla borghesia
urbana sia fra i ceti rurali (fra i predicatori fu lo stesso J. K.
Dippel e poi H. Rosenkrants, J. Dinesen Jersin, J. N. Hauge *),
in Svezia invece trova la sua roccaforte il razionalismo che si
rifà a uomini come Cartesio, Grozio e Pugendorf e conta
scienziati come Linneo e Polhem, Benzelius e Celsius (cui non
fu ignota l’opera di Galileo) e perfino a corte fa proseliti:
da Ulrica Eleonora, sorella di Federico il Grande, a Gustavo III.
Nel campo letterario il primo rappresentante e divulga­
tore del pensiero illuministico è lo svedese O. Dalin, disce­

suetudine del tempo — nonché canti spirituali intensamente drammatici


sull’esempio dei grandi poeti barocchi tedeschi, anzitutto Gryphius (It
Samtaal emellan Doden och en saker Menniskia - Un dialogo fra la mor­
te e un uomo spensierato). Per il suo pathos ardente che dall’ebbrezza
smodata passa al pentimento e al senso della morte, per l’incisivo reali­
smo che annuncia Bellmann fu specialmente caro a E. A. Karlfeldt.
1 Sorto, com’è noto, in Germania nelle pie riunioni (Collegia pietatis)
del pastore Jacob Spener (1635-1705) a Francoforte sul Meno, da uno
spirito di rivolta alla rigida ortodossia luterana e in nome del senti­
mento individuale e del valore delle opere, il Pietismo si diffuse, nelle
sue varie forme, dalla Germania in tutto il Nord, preparando anche
qui quel culto del sentimento e del sentimentalismo (che sarà decisivo
per il sorgere della poetica romantica entro cerehie accademiche) e, so­
prattutto fra i ceti rurali, quelle manifestazioni entusiastico-mistiche,
quella lettura antiscolastica della Bibbia, quel settarismo ascetico ancora
così vegeto nei paesi nordici in anacronistica antitesi alla totale seco­
larizzazione della vita urbana.
Balla Riforma all'età dei Lumi 135

polo del vescovo cartesiano A. Rydelius e precettore di Gu­


stavo III. Sull’esempio dei settimanali moralistici Spectator e
Tatler inglesi e delle allegorie di Swift, Dalin inaugurò la
letteratura satirica col suo settimanale Den svenska Argus
(VArgo svedese, che nel motto serba ancora un’eco della precet­
tistica del tardo Rinascimento: « Omne tulit punctum qui mi-
scuit utile dulci », 1732-34; e, in nome della tolleranza, batta­
glia contro ortodossi e pietisti a un tempo) e in uno stile reali­
stico piano scorrevole modellò sulla Henriade di Voltaire il suo
poema allegorico in alessandrini Den svenska friheten (La li­
bertà svedese, 1742). Ligio alla concezione razionalistica della
poesia rivestì in belle forme il contenuto didattico d’una sua
allegoria della storia patria Sagan om hasten (La storia del
cavallo, 1740 *), e s’ispirò al classicismo francese quando si
fece a scrivere una fredda e solenne tragedia Brynhilda (1736)
che dell’originale Andromaque raciniana ha solo l’estrinseco
paludamento.
Regolista come critico letterario alla scuola del Pope e
compositore di versi d’occasione, fra cui i migliori sono can­
zoni popolari, ebbe però il merito di far piazza pulita, nella
sua opera storiografica Svea rikes historia (1747-62) d ’ogni
fantasia « goticista » sui primordi della storia patria; e di spia­
nare la via, col suo settimanale satirico e bozzettistico, alla
tradizione narrativa del Settecento deciduo.
All’opera di Dalin sostanzialmente razionalistica fa riscon­
tro la « sensiblerie » settecentesca e la lieve grazia del rococò
dominante nel salotto della « tortorella del Nord » H. C. Nor-
denflycht e dei suoi compagni ideali: lo stoico e meditativo
F. Gyllemborg e F. Creutz autore di un arcadico poema in
alessandrini, A tis e C am illa 2. Ma le due correnti razionalistica
e sentimentale che fanno capo a Voltaire e a Rousseau s’intrec­
ciano spesso fino a confondersi persino in uomini di chiesa
come Balle e Bastholm in Danimarca, come Lindblom e Wall-
quist in Svezia. Le figure di Linneo e di E. Swedenborg pos­

1 II racconto è messo in bocca a un vecchio contadino che narra del


suo cavallo Grolle e dei vari padroni che gli sono stati in sella. Il cavallo
è simbolo della Svezia e i cavalieri che gli rendono difficile la vita e
il lavoro i sovrani: da Gustavo Vasa a Carlo XII.
2 Sul contrastato ma trionfante amore del cacciatore Atis e della sacer­
dotessa di Diana, Camilla, visibilmente ispirati slTAminta tassesco e al
Pastor fido del Guarini — malgrado il linguaggio estremamente raffi­
nato e la morbidezza del verso, autentico pezzo da museo, di cui è ben
difficile gustare l’artificiale perfezione.
136 Le letterature della Scandinavia

sono avere sotto questo aspetto valore rappresentativo. In en­


trambi infatti s’allea la più minuta indagine scientifica all’estro
fantastico. I Viaggi del grande naturalista abbondano di osser­
vazioni precise e concrete non solo sulla flora e sulla fauna,
ma sugli usi e costumi di quasi ogni provincia svedese, su
fatti ed esperienze di vita, rese con un senso del pittoresco
che non è rimasto senza imitatori nella posteriore narrativa
svedese. D’altro lato le visioni più fantastiche dell’Aldilà (Ar­
cana Ccelestia, 1749-56) di Swedenborg sono descritte con la
stessa chiarezza e precisione di particolari, con la stessa ana­
litica minuziosità d’osservazione che si ritrova nei suoi studi
scientifici di anatomia e fisiologia (M. Lamm); e il suo tenta­
tivo filosofico di superare il dualismo cartesiano tra materia
e spirito risolvendolo neoplatonicamente nell’unità di Dio, ha
l ’aspetto d’un fantastico ricamo intessuto sul più preciso di­
segno geometrico. Sembra quasi vedere in lui fusi lo spirito
di geometria e lo spirito di finezza pascaliani. Né si spieghe­
rebbe d’altronde l’enorme successo delle sue visioni presso i
più diversi scrittori romantici e postromantici (da Goethe a
Strindberg, da Balzac a Blake e a Yeats) senza tale curiosa
mescolanza di razionalismo e di misticismo.
È questa, anche nel Nord, l’epoca delle società segrete, dai
più o meno esoterici nomi dei clubs, delle associazioni scien­
tifiche, delle accademie: « Vetenskapssocieteten » a Uppsala
(1719), « Vetenskapsakademien » e «U tile Dulci » a Stoccol­
ma (1739; 1766), « Videnskabernes Selskab » a Copenaghen
(1742), « Videnskabs Selskab » a Trondheim (1760), cosi pure
dei salotti letterari (celebri quelli di Kamma Rahbek in Dani­
marca, di Malia Silverstolpe in Svezia). Al pedantesco dotto
del Seicento succede il giornalista brillante che da Voltaire e da
Montesquieu ha imparato a discutere con gusto ed eleganza
di problemi culturali e, nei limiti imposti dalla censura (par­
zialmente alleggerita in Danimarca solo nel 1756, in Svezia nel
1766) morali nonché politici e religiosi. Giornalisti-scrittori
sono infatti molti letterati del Settecento: dai danesi A. Bor-
ding che in versi pubblica il primo giornale letterario: « Den
danske Mercurius » (1667-77) e J. S. Sneedorff editore del
« Patriotiske Tilskuer » (1761-36) che difende puristicamente
le ragioni del « gusto », agli svedesi Ch. Gjòrwell editore del
« Svenske Mercurius» (1755-61; 1763-65) e J. Kellgren che
fa dello « Stockholmsposten », il massimo organo delle idee
enciclopediste nel Nord (1778-1833).
Dalla Riforma all’età dei Lumi 137

LUDVIG HOLBERG

Solo con Ludvig Holberg, si può dire, ha inizio in Scan­


dinavia un teatro nazionale non più affidato a compagnie
drammatiche semiprofessionali: italiane francesi olandesi ingle­
si, chiamate dalle corti: di Svezia, nei castelli di Gripsholm e
di Drottningholm; di Danimarca, in locali di fortuna (Lille
Gronnegade). Capocomici francesi come R. M. de Montaigu
e E. Capion introducono il repertorio di Molière e danno un
decisivo impulso alla nascita del teatro danese di Holberg.
Con lui, oriundo di Bergen in Norvegia, ma formatosi a
Copenaghen, Capitale dei « regni gemelli », e, in ripetuti viaggi
all’estero, sul pensiero illuministico europeo, si apre un’era
nuova per la cultura scandinava in generale; e in particolare
per la dano-norvegese, assai più della svedese dominata dalla
tradizione scolastico-aristotelica, e dalle tendenze antimondane
del pietismo, che specie sotto Cristiano VI osteggia e anate-
mizza il teatro (1730-46).
La società borghese della Capitale, beatamente adagiata
nell’assolutismo paternalistico e nell’ortodossia luterana, nel
formalismo scolastico e nel vacuo e sfarzoso gusto barocco,
doveva parere provinciale e antiquata allo spregiudicato Hol­
berg che, durante i suoi viaggi — per lunghi tratti fatti a piedi
— nei grandi paesi europei come Olanda (1704-5), Inghilterra
(1706-8), Germania (1708-9), Francia e Italia (1714-16), aveva
respirato Paria d’una nuova civiltà utilistica e commerciale l.
E infatti, tornato a Copenaghen, appena nominato (nel
1717), per intervento di Federico IV, professore di « meta­
fisica » all’università, scandalizzò tutto il pubblico colto con
un suo tu tt’altro che metafisico poema eroicomico in alessan­
drini (Peder Paars, 1719-20) esemplato sui modelli di Boileau2
e di Cervantes. Un banale fatto di cronaca: il viaggio d’un
plebeo che va da Kalundborg a Aarhus a trovare la sua fidan­
zata e le varie peripezie intrecciantevisi per intervento degli
dei dell’Olimpo sono puro pretesto a satireggiare la scienza
universitaria e la superstizione clericale, il gusto letterario e
il provincialismo della borghesia di Copenaghen, incarnati in

1 Importanti in proposito le sue tre lettere autobiografiche (1728, 1737,


1743) poi raccolte in Opuscula latina (1737-1743).
2 II quale, com’è noto, s’ispirò alla Secchia rapita di Tassoni per il suo
eroicomico Lutrin.

XXVII - 6. Lett, della Scandinavia.


138 Le letterature della Scandinavia

personaggi e situazioni drammatiche che già preludono a quello


che sarà il suo mondo scenico.
Per intendere a pieno quest’ultimo occorre inquadrarlo
nella complessa opera polistorica di Holberg, che in realtà
diede avvio — ed è qui la sua maggiore importanza — a una
tradizione teatrale nordica, e a una cultura laica basata non
sulla metafisica, ma sull’empirismo, non sul dogma religioso
ma sui principi della tolleranza e della fede personale, non
sull’autorità ma sulla ragione. Uno stesso intento pedago­
gico, una stessa unità d’ispirazione animano infatti le sue
commedie e i suoi scritti giusnaturalistici e storici (Intro­
duction til de fom entste Europseiske Rigers H istorier , 1711;
Introduction til Naturens og Folke-Rettens Kundskab , 1716;
Dannemarks Riges H istorie , 1732-35; Almindelig Kirke-Histo-
rie , 1738; Store H eltes... sammen-lignede H istorier , 1739;
H eltinders... H istorier, 1745 ) l, i suoi romanzi allegorici (Nico­
lai K lim ii iter subterraneum, 1741, sul modello dei viaggi di
Gulliver, poi magistralmente tradotto in danese dal Baggsen nel
1789) le sue E pistler (quasi cinquecento indirizzate a immagi­
nari corrispondenti sui più svariati soggetti, ma informate tutte
ai canoni del « sensus communis » e del « juste milieu », 1748-
54); le sue satire e le sue favole morali: variazioni tutte d’un
unico tema fondamentale: l’uomo come ricettacolo della « rai­
son ». Allo studioso e al critico che sperimenta e sistema fa
riscontro il commediografo che satireggia ed esemplifica il
materiale umano sulla falsariga dell’« utile dulci », supremo
canone estetico del tempo. Alla sua commedia che vuol essere
« uno specchio che raffigura i vizi umani divertendo insieme
e educando» fan riscontro i suoi M oralske T an ker2 (1744)
(sù temi già trattati nelle commedie e qui didatticizzati) che
voglion mostrare « come l’ombra è scambiata per il corpo
e come i difetti vengon confusi con le virtù ».
Cosi variano gli intrecci e le vicende delle sue numerose
commedie, ma fisso resta un elenco ristretto di tipi e di si­

1 « Introduzione alle storie dei maggiori regni europei »; « Introduzione


alla scienza del diritto naturale e delle genti »; « Storia del regno di
Danimarca »; « Storia universale della Chiesa »; « Storie parallele... de­
gli eroi...»; «Storie... delle eroine...» — opere in varia misura de­
rivate dai modelli di Grozio e Pufendorf e Thomasius, d’ispirazione illu-
ministico-moraleggiante.
2 « Riflessioni morali » sul modello degli Essais di Montaigne.
Dalla Riforma all'età dei Lumi 139

tuazioni che costituisce il nerbo del repertorio teatrale: Pigno­


rante tronfio di vacua erudizione (Erasmus Montanus) e il
plebeo rifatto in vesti di patrizio Jeppe paa Bjerget (« Beppe
della Montagna »); lo stagnino politicante (Den politìske kan -
destober 1) e il chiacchierone che affoga nelle sue chiacchiere
(Gert W estphaler ); la donna capricciosa (Den veegelsindede2)
e il borghese infranciosato (Jean de France); il soldato millan­
tatore (Jacob von Thyboe) e l’affaccendato immaginario (Den
stundeslose); l’aristocratico vanesio (Don Ranudo de Colibra-
dos) e il confidente e la confidente che sciolgono con l’astuzia
tutti i nodi dell’intrigo (Henrik og Perniile) e ancora molti
altri di altre commedie d’intrigo e di costumi: avvocati e
medici, gabbamondo e poetastri, comari e vagheggini e giovani
innamorati. Di qua il vizio, di là la virtù; di qua il pregiudizio,
di là il senso comune; di qua il pazzo, di là il savio; di qua il
dotto, di là l’ignorante: in una colorita galleria di figure che,
pur contando antenati nella lunga storia del teatro europeo,
attingono linguaggio e concretezza di situazioni comiche al­
l’ambiente plebeo e borghese della Copenaghen del tempo.
Si sa che Holberg saccheggiò antichi e contemporanei:
da Menandro a Plauto (l’intrigo amoroso sciolto con l’aiuto
d’uno schiavo o schiava), dalla commedia dell’arte (che vide
a Roma, 1814-1816) al « Théàtre it alien » di E. Gherardi (sce­
ne comiche e travestimenti, zuffe e storpiature linguistiche),
da Regnard a Molière, da Corneille a Racine a La Fontaine
e perfino al teatro gesuitico di Jacob Bidermann (struttura
tecnica del dramma, caratterizzazione dei personaggi, tematica
pedagogica, articolata sul contrasto tra il parere e l’essere, la
felicità e la miseria, tra la cupidigia dell’uomo e la caducità
della vita terrena). E non solo fu debole di inventività nativa,
ma, nel fervore dell’opera, a piene mani attinse alle sue fonti
senza curarsi di assimilare e rielaborare, di ampliare e approfon­
dire. Incline agli espedienti meccanici e grossolani della comme­
dia dell’arte, ai lazzi, agli equivoci e alle beffe, alle agnizioni
e ai travestimenti, al burlesco ingenuo e triviale, sfogò il suo
rude umorismo in un’attività che ha insieme del prodigioso e
dell’improvvisato. Nel giro di non molti anni scrisse per il
teatro oltre trenta commedie, studiando anche da vicino — e
sia pur con l’aiuto del De Montaigu — la messinscena e i

1 Che fu rappresentato da Goethe al teatro di Weimar (1800-10).


2 Non senza legami con YIrrésolu di Destouches.
140 Le letterature della Scandinavia

connessi problemi tecnici, certo più di quanto non sia oggi


documentabile.
Le prime commedie, quelle connesse con l’apertura del nuo­
vo teatro danese (scritte 1722-23 pubblicate 1723-25 con lo
pseudonimo di Hans Mikkelsen), sono anche le migliori, più
lineari e più semplici dei loro modelli francesi, quasi tutte in
cinque atti e incentrate sullo studio d’un carattere.
È vero che l’artificiosità dell’intrigo rende spesso i per­
sonaggi tutt’altro che convincenti e assai meccanico lo svol­
gimento della vicenda (per esempio in Den stundeslose,
Jacob von Thyboe, Ulysses von Ithacia, M elampe), ma pure
qui accade talvolta che i vari tipi infrangono la costitutiva
rigidezza del disegno per animarsi d’una vita interiore che a
tratti va oltre l’effetto scenico e l’intento moralistico: Beppe
della Montagna che, ingannato e maltrattato dalla moglie e
dal sagrestano, dal barone e dal giudice, si svela vittima della
vita, umiliato e offeso1, in lunghi monologhi meritatamente
celebri2; Lisbeth che con la sua candida e viva femminilità

1 II tema della commedia è attinto al Cenodoxus del Bidermann, ma


l’ispirazione di Holberg trovava saldi appigli nella realtà storica del
suo paese. Se infatti Federico IV nel 1722 aveva permesso la crea­
zione del primo teatro danese e s’era adoperato per migliorare le con­
dizioni di semischiavitù nelle quali versavano i contadini, vent’anni
dopo, col cosiddetto « Stavnsbaand » (una specie di servitù della gleba),
notevolmente limitava la loro libertà imponendo obblighi militari, che
lasciavano largo margine airarbitrio dei padroni.
2 Non l’alta ispirazione ravviva — qui come altrove — il teatro di Hol­
berg, ma la foga del dialogo, rincalzare delle azioni, l’imprevisto delle
« trovate », la sia pur esteriore « vis comica ». Talvolta la commedia sfiora
s il tragico, come quando il contadino Beppe, quasi a se stesso, confessa
il proprio abbrutimento; o come quando, per atroce burla trasformato
in barone e condannato a morte, scopre una sua insospettata umanità:
« Hun slaaer mig, Ridefogden driver mig til Arbeid som et Beest og
Degnen gior mig til Hanrej. Maa jeg da ikke vel drikke? maa jeg ikke
bruge de Midler, som Naturen giver oss at bortdrive Sorg med? » (Mia
moglie mi bastona, il castaido mi spinge al lavoro come fossi una be­
stia e il sagrestano mi fa becco. E io non dovrei ubriacarmi? Non
dovrei usare i mezzi che la natura ci dà per scacciare il dolore? — Atto I,
scena III) « — Ach jeg elendige Menneske! har jeg alt faaet Giften ind?
Ach far vel Nille! Dog, din Carnali! du har ikke forskyldt, at jeg
skulde tage Afskeed med dig. Far vel Jens, Niels og Christoffer! Far vel
min Dotter Marthe! far vel min 0ye-Steen! dig ved jeg selv at vsere
Far til, thi du blev giort, forend Degnen kom hid; du har ogsaa din
Fars Ansigt, vi ligner hinanden som to Draaber Vand. Far vel min
brogede Hest, og Tak for hver gang, jeg har reedet paa dig; nest mine
egne Born har jeg intet Beest elsket saa meget som dig. Far vel Feier-
fax, min troe Hund og Dorvogter; far vel Moens, min sorte Kat; far
Dalla Riforma all'età dei Lumi 141

contrasta persuasivamente all’umbratile scienza medievale di


Erasmus Montanus; Herman, lo stagnino politicante, che na­
sconde sotto il rozzo desiderio di onori e di potere uno schietto
e sofferto senso di responsabilità: son tutte figure umane che
ancor oggi si mantengono nel repertorio holberghiano.
Ma allora non furono tanto le doti poetiche e psicologi­
che che il pubblico borghese della capitale, cui Holberg si ri­
volgeva, apprezzò di più, quanto invece la grassa e briosa co­
micità delle situazioni e virtuosità degli intrighi, le trovate
sceniche e soprattutto il satirico e divulgativo didatticismo
che della borghesia appunto favoriva l’affermazione.
Se tanta parte di questo teatro è oggi ricoperta dalla pol­
vere del tempo — né valgono a risuscitarla gli sforzi nazio­
nalistici dei danesi e ancor più dei norvegesi che in Holberg
vedono l’annunciatore del loro ingresso nell’Europa moder­
na — non va sottovalutata l’influenza enorme, tra le classi
medie, del fermento rivoluzionario nascosto nel suo moderato
ed equilibrato riformismo. Razionalista e deista, ma più vi­
cino a Locke e a Ch. Wolff che a Hume e a Holbach, mai
ruppe con l’ortodossia ufficiale o esplicitamente criticò l’asso­
lutismo illuminato. Il suo riso stesso egualmente lontano dal­
l’amaro riso di Molière come dal lieto e cordiale sorriso di
Goldoni non rivela mai né odio né passione profonda. Ci
si sente il letterato e l’umanista che è insieme un uomo pratico
(Holberg si formò una sostanza1 amministrando saggiamente
le finanze dell’università di Copenaghen) di buon senso e di
larga esperienza, alieno da ogni fanatismo e tutto intento a
registrare le incongruenze e stravaganze, gli errori e le follie

vel mine Stude, mine Faar, mine Sviin, og Tak for got Compagnie, og
for hver Dag, jeg har kiendt jer. Far vel... » (— Ah, povero me! m’hanno
dato il veleno? Ahimè, addio Nille; però canaglia che non sei altro!
Ma non sei stata tu la causa che ora mi fa dire addio. Addio Gianni,
Nicola e Cristoforo! Addio Marta, figlia mia; addio pupilla dei miei
occhi, lo so bene d’essere tuo padre, perché tu fosti fatta prima che
il sagrestano venisse a star qui; e poi tu hai lo stesso viso di tuo padre;
tu e io ci somigliamo come due gocce d’acqua. Addio mio cavallo pez­
zato e grazie per ogni volta che m’hai portato in groppa, dopo i miei
figli non ho amato tanto nessuna bestia come te. Addio Feierfax, mio
fido cane e custode della mia porta; addio Moens mio gatto nero;
addio miei vitelli, mie pecore, miei porci e grazie per la buona compa­
gnia, e per ogni giorno che vi ho visto. Addio... — Atto IV, scena VI).
1 Che testamento, in cambio del titolo di barone, all’Accademia lingui-
stico-storica di Soro, già convento cistercense nel Medioevo.
142 Le letterature della Scandinavia

in cui cadono gli uomini quando smarriscono il lume della


ragione.
Il teatro dano-norvegese di Holberg, popolarissimo anche
fuori della Danimarca (solo in Svezia si contano oltre cin­
quanta edizioni di Beppe della Montagna), ebbe epigoni e
traduttori: dallo svedese O. von Dalin che ne ricalcò le
orme con la commedia Den avundsjuke (L’invidioso, 1738)
ai norvegesi J. N. Brun, C. Fasting e J. Wessel, il quale ul­
timo parodiò la tradizione drammatica francesizzante ormai
decaduta a pura maniera, nella sua celebre commedia in ales­
sandrini Kcerlighed uden strom per (Amore senza calze, 1772)
imperniata sul conflitto eroicomico tra amore e integrità mo­
rale.
Il francese, che in tutto il Nord ispira la tradizione tea­
trale e in genere letteraria, diviene ora lingua ufficiale della
aristocrazia, dove Pesprit e il joli, il bon ton e il bon gout
dominano incontrastati. In Svezia Gustavo III, (effigiato dallo
scultore Sergel nelle fattezze del?Apollo del Belvedere) sogna
di fare di Stoccolma una copia di Versailles. E i suoi colla­
boratori (Gyllemborg, Oxenstierna, Kellgren, Adlerbeth, Leo­
pold, ecc.) mimetizzati da perfetti « cavalieri » francesi, mo­
dellano sugli ideali del « gran secolo » la loro copiosa attività
di poeti e di scrittori teatrali, anche se i risultati sono ben
lontani dal corrispondere agli intenti, anche se il classicismo
che propugnano è attinto più a Voltaire e a Pope che a Vir­
gilio e a Omero. In francese scrive il monarca stesso, imitatore
di Voltaire e Crébillon, e introduttore in Svezia di Molière e
Regnard, di Marivaux e Destouches; fondatore nel 1773 (su
consiglio dell’abate italiano Michelessi) di un’« Opera » che
inaugura con il suo libretto T eti e Peleo; e, nel 1786, di una
Accademia svedese che, come il modello francese, tutelerà lo
stile classicheggiante al punto da far sembrare ancor più rivo­
luzionaria la poetica del romanticismo.

CARL MICHAEL BELLMAN

Un posto a parte nel quadro letterario del tardo Sette­


cento merita lo svedese C. M. Bellman, non perché sia una
figura di solitario e anacronistico poeta, che anzi ha spicca­
tissimo il gusto per la grazia elegante e agghindata del rococò,
ma perché è il primo grande lirico che aldilà della moda
arcadica s’ispira direttamente alla vita vissuta. Liberato dalla
incomprensione e dallo pseudomoralismo dei contemporanei
Dalla Riforma all'età dei Lumi 143

come dalle esaltazioni romantiche dèi posteri, Bellman appare


ancora oggi come il più geniale interprete di quell'edonismo
e sensualismo che anche nel Nord, col progressivo illangui­
dirsi della fede religiosa, dominò la cultura e la vita del secolo
illuminato.
La storia esterna della sua esistenza di piccolo borghese
che dall'ambiente familiare pio e non incolto, ma economi­
camente dissestato, passa alle angustie degli impieghi statali,
al matrimonio di convenienza, agli insanabili debiti e da ul­
timo allo sfacelo fisico e morale, singolarmente contrasta con
la sua miglior poesia rivolta tutta a cantare il vino e l'amore
come supremi ideali di vita.
Già i giovanili versi d'occasione stampati in parte nella
tarda raccolta del 1791 col titolo di Fredmans Sanger (Canti
di Fredman: ingenue parodie bibliche1, canzonette conviviali
d'ispirazione francese, lettere rimate, pastorellerie, caricature
delle società segrete, degli ordini settecenteschi col loro pom­
poso e fastoso cerimoniale) rivelano un talento ditirambico
che il virtuosismo mimico e musicale di Bellman — larga­
mente attestatoci dai suoi contemporanei, p. es. J. G. Oxenstier-
na nel 1769 — rese presto popolare nella gaudente Stoccolma
del tempo. Ma solo quando egli abbandonò i toni comico­
parodistici e gli scherzi letterari per sollevarsi a una visione
eroica dell’ebbrezza e della lussuria, la sua arte cessò di essere
puro intrattenimento sociale e dilettazione da simposio.
Poche sono le notizie certe pervenuteci sulla cronologia
del suo canzoniere, parzialmente pubblicato — lui ancor vivo
— in anonime edizioni popolari e solo più tardi raccolto in
volume {Fredmans Epistlar , 1790). Il grosso delle composi­
zioni sembra gravitare intorno al 1770 2, ma da tutte le epi­
stole (il titolo serba ancora un'eco delle giovanili parodie
bibliche: l'alter ego del poeta, Fredman è una sorta di sette­
centesco san Paolo, autore di epistole ai compagni di fede)
musicate da Bellman stesso e per lo più da lui adattate a
melodie già esistenti (arie di Hàndel e di Haydn, gli Gluck e

1 Non erano queste un’innovazione di B., che già Dalin, sul modello
francese (“ Le regiment de la calotte ” del quale fecero parte Luigi XIV
e Voltaire) aveva scritto burlesche “ Prediche in papalina ” (kalottpre -
dìkningar).
2 ò . Lindberger-R. Ekner, A tt làsa poesi, Stockholm, 1965, p. 49 sgg.,
che si richiamano a O. Bystrom, Kring Fredmans Epistlar (1945).
144 Le letterature della Scandinavia

di Pergolesi; canti liturgici, canzonette francesi, ecc.) emerge


chiara l’unità dell’ispirazione.
Alla schematica e tipeggiante psicologia del secolo razio­
nalista fermo agli ideali di scienza e di progresso Bellman
non ha da contrapporre che il nudo ritratto del degradato
mondo delle bettole e delle case di piacere, ma evocato con un
linguaggio cosi sapido corposo concreto, tutto parlato e dialo­
gato, con un disegno così dinamico e intenso, con un colorito
così luminoso e caldo da dar l’impressione immediata della
vita. Interni semioscuri di taverne e partite di piacere nei
parchi cittadini e nel suburbio, piccoli drammi erotici e lascivi,
scene di brutture fisiche e morali, di grossolana sensualità e di
ubriachezza, ma anche agghindati idilli campestri, albe e not­
turni sul Malar, soliloqui e meditazioni sulla morte. E gli
eroi e le eroine di questo mondo plebeo — in varia misura
osservati e ripresi dal vero — non sono tipi o manichini irri­
giditi in atteggiamenti teatrali. Fredman e Mollberg, Mowitz
e Wingmark, Wetz e Jergen Puckel, Cajsa Stina e Lotta,
Susanna e Ulla Winblad, musa del poeta e sacerdotessa di
Bacco, benché non approfonditi caratteri, si collocano ognuno
con una propria individualità entro la cornice d’un affresco
che rivela il potente chiaroscurista e il sapiente dosatore di
effetti. Qui Ulla Winblad fa la sua apparizione in foggia di
dama settecentesca (E. 3):

Fader Berg i hornet stó te r — Padre Berg soffia nel corno —


Si, hur lilla nym fen sóter Guarda: la piccola leggiadra
[ninfa
svingar sig i en dans! si slancia nei vortici della danza!
Si hur fader Berg han gapar Guarda: padre Berg, la bocca
[spalancata,
nàr som Jergen P uckel skrapar mentre Jergen Puckel fa rin­
ghino,
stó ter han en kadans. suona in cadenza.
Hurra, si, Ulla dansar: Evviva! Guarda: Ulla danza:
engageanter fior och frànsar merletti e veli e frange
h v it sultan och blom sterkran - pennacchio candido e ghirlande
[w — [di fiori —
h vita ben! calze bianche!
Si, Ijus och lam pors sken ! Guarda che splendore di luci e
[di lumi!

là il gaudente gobbetto Jergen Puckel è colto nel suo carat­


teristico atteggiamento cerimonioso (E. 17):
Dalla Riforma all’età dei Lumi 145

Jergen sig bugar: Jergen s’inchina:


han làspar och frugar balbetta e fa complimenti
sa skònt, ch’è uno spasso,
talar fransyska e parla francese
och tyska. e tedesco.
Blommor pà armen, E ha Ì fiori sul braccio
buketter i barmen e mazzetti sul petto
och gront! legati di verde!

Ora è scandito con ritmo incalzante, febbrile il disordine not­


turno d’una casa sconvolta dal fuoco (E. 34):

Ack hvad for en usel koja! Ahimè che misera bicocca!


spràckta rutor, brutna làsl vetri infranti e rotti chiavistelli!
Tuppen gal en strdf hoboja Il gallo dà fiato al suo rauco
[oboe
trumman hors i grànden slàs! e s’ode nel vico il rullo del tam-
[buro!
Verda, verda? Larm pà gatan; Chi va là, chi va là? Fracasso
[in strada;
Jeppe, bias i tornet, blàs! tu Beppe, sulla tua torre, soffia
[nel corno!
Som en gas Come un’oca
kacklar den Satan... squittisce quel satanasso...
Klockan klàmtar, vatten fàs S’odono i rintocchi, arriva l’ac-
[qua,
Niklas’ torn som róda gulle’ la torre di San Nicola come oro
[incandescente
blanker i den m'órka nati. sfavilla nella buia notte.
I en h'òvàlm pà en skulle In un mucchio nel fienile
: slàss tvà kàrngar om en tratt, due comari si contendono un
[imbuto,
ur en sònderslagen ruta da una finestra infranta
\ tittar fram en gulbrun katt s’affaccia un gatto marrone
strax besatt e subito come ossessi
hundarna tjuta... latrano i cani...
Larm och butter, gràt och skratt! Strepito e fracasso pianto e riso!

ora è evocato con molle grazia un idillio pastorale (E. 82):

Hvila vid denna kàlla! Fermati a questa fonte!


Vàr lilla frukost vi framstàlla: La nostra colazione qui prepa­
riamo:
ródt vin med pimpinella, vino rosso tagliato con pimpi­
nella,
och en nyss skjuten beckasin... e un beccaccino appena abbat­
tuto...
146 Le letterature della Scandinavia

Dove, fra svolazzi e ghirigori pseudoclassici e rococò di Grazie


e Cupidi, di ninfe e tritoni il viaggio di Ulla Winblad per
quella rustica Citerà che era allora il Djurgàrden di Stoc­
colma (E. 25); dove, con incisiva crudezza, le spettrali sem­
bianze d’un bevitore consumato dalla tisi (E. 30). Ma sempre
è la stessa intensità e immediatezza di visione, la stessa foga
vitale che sembra talvolta preannunciare Strindberg.
È certo questa di Bellman una poesia di corto respiro, che
non va oltre il chiuso cerchio dei sensi né mai attinge, nella
raffigurazione del vizio, la tragica profondità d’un Baude­
laire; una poesia che non si scruta e non si tormenta perché
i suoi paradisi artificiali sono semplici ingenui, scevri d’ogni
malizia (fuori luogo dunque sembrano i tentati riavvicina­
menti tra il bellmaniano Fredman e Falstaff o tra Fredman e il
Panurgo di Rabelais). Neanche il senso della fugacità del pia­
cere e delPapprossimarsi della morte, che come nube su un
cielo luminoso di tanto in tanto affiora in questa poesia, ne al­
tera l ’intonazione sostanzialmente ditirambica. Anzi la morte
è qui paganamente sentita — senza terrori o voluttà romanti­
che — come l’oltramondano bagno nel Lete, come l’annienta­
mento totale (« Vuota il bicchiere! Non vedi che la morte ti
attende... — Mowitz, la tua tisi ti porterà alla tomba, — ma
tu pizzica l’ottava — intona le corde — canta la primavera
della vita »; E. 30) o come la goccia amara che rende ancor
più gustosa la coppa della vita (« Caronte già suona il cor­
no », E. 79; « Guarda come la nostra ombra, guarda Mowitz,
mon frère », E. 81). Nell’ombra della morte, più struggente
ancora si fa la brama di godere intensamente, spasmodica­
mente, più pungente il desiderio di concentrare tutta la vita in
brevi attimi di estasi dionisiaca.
Questi i limiti della poesia di Bellman: ma entro questi
limiti quale iridescenza cromatica, quale orchestrazione po­
lifonica! Quale virtuosistica maestria nel fondere e armoniz­
zare i toni e i colori, le rime e i ritmi, nel trascorrere senza
apparente sforzo dalla crudezza naturalistica alla grazia vapo­
rosa, dall’impeto orgiastico alla tristezza elegiaca, dal gergo
plebeo all’incipriata eleganza classicista!
La sua musa era però troppo digiuna di « filosofia » e
troppo rustica per poter piacere ai letterati dell’età gustavia-
na, fermi tutti agli inviolabili canoni dell’« esprit », del « jo-

1 N. Afzelius, M yt ocb bild ..., Stockholm, 1964, pp. 16-69.


Dalla Riforma all’età dei Lumi 147

li » e della « bienséance ». Gustavo III, è vero, non gli fu


avaro di aiuti; e, sulla fine del secolo, Kellgren stesso, supremo
arbitro del gusto illuminista, primo direttore dell’Accademia
Svedese, nemico d’ogni swedenborghiana mistica e interprete
della poesia di moda, frivola e sensuale, raccolse e pubblicò
quel canzoniere contro cui anni prima aveva scagliato i suoi
sprezzanti anatemi. Ma per i classicisti gustaviani Bellman —
non diversamente dal rude e popolareggiante prete Jacob Wal­
lenberg 1 — restò sempre un irregolare.
Eppure nella seconda metà del secolo si fa sentire an­
che nel Nord, assieme al razionalismo, l’esigenza del sen­
timento, insieme al « ricanement » di Voltaire il pathos di
Rousseau. In Svezia non solo Kellgren, che pur battaglia
in nome della ragione contro Th. Thorild2 (primo « Stiirmer
und Drànger » nordico e amico di Herder) e B. Lidner3, si
apre, negli ultimi anni, alle correnti del gusto che vengono di
Germania e d ’Inghilterra: Den nya skapelsen eller imbillningens
v'àrld (La nuova creazione o il mondo della fantasia, 1789);
ma con lui molti altri gustaviani e collaboratori dello Stock -
holmsposten (A. M. Lenngren, Leopold, M. Franzén) si mo­
strano sensibili a quello che un critico svedese (M. Lamm)
ha chiamato il « romanticismo dell’età dei Lumi ». E proprio
uno svedese, C. A. Ehrensvàrd, ideale discepolo di Winckel-
mann, fu a iniziare i nordici a quella nostalgia dell’antico
(Viaggio in Italia , 1785-88), a quella « nobile semplicità e
calma grandezza » erroneamente dedotta dalla scultura greca,
che assumerà cosi varie e intercambiabili forme nella nascente
spiritualità romantica.

1 Autore d’un umoristico diario di viaggio alle Indie orientali: Min


son pà galejan (Mio figlio sulla galèa, 1781) in versi e in prosa, se­
condo il gusto del tempo/ Qui il geniale prete di bordo dà insieme un
saggio di vivo realismo picaresco e una tutt’altro che convenzionale de­
scrizione d’un viaggio settecentesco.
2 Nel suo epos in esametri: Passionerna (1781) sono esaltati, contro ogni
regolismo classicista, gli ideali del « genio » e del « gusto »; difesi anche
in sede estetico-critica nel saggio: En kritik over kritiker (1791-92).
3 Massimo preromantico svedese, molto vicino al gusto dello « Sturm
und Drang» nel suo patetico e lacrimoso monologo lirico: Spastaras
dód (La morte di Spastara, >1783 — apoteosi dell’amore d’una madre
siciliana, che salva la fìglioletta dal terremoto di Messina).
Capitolo terzo

Il romanticismo

In Danimarca più ancora che in Svezia la corrente senti­


mentale è alimentata del pietismo di ascendenza tedesca. Fu
l'esempio di Klopstock che a lungo soggiornò a Copenaghen
(1751-58; 1763-70) ad ampliare gli orizzonti in senso neoclas­
sico e romantico a un tempo. L’uso di metri classici, la gran­
diosa tematica biblica della M essiade , e poi il nazionalismo
rivestito di mitologia nordica aprirono, insieme al dilagante
ossianismo e all’autobiografismo alla Sterne, nuove vie a J.
Ewald. Nei drammi di soggetto nordico attinti a Saxo: Rolf
Krage (1770) in prosa, e Balders d e d (La morte di Baldur,
1775) in endecasillabi sciolti, nelPautobiografia Levnet og me -
ninger (Vita e opinioni - incompiuta, 1774-78), nella lirica:
Rungstedts lyksaligheder (Le beatitudini di Rungstedt, 1773)
e O de til sjeelen (Ode all’anima, 1775) espresse il suo pieti­
stico sentimentalismo e virtuosismo, con una musicalità nuova
vibrante, ma anche non poco stancante a causa degli artifici
retorici.
Affine a Ewald per il capriccioso soggettivismo è anche
Jens Baggesen, la cui vastissima opera lirica, satirica, pedagogi­
ca, anch’essa ricca più di presentimenti e di stimoli che di certi
risultati d’arte sta a mezza strada fra la settecentesca « sen-
siblerie » e il nuovo gusto. Il suo diario A i viaggio Labyrintben
(1792-93) attraverso l’Europa, resta come documento insigne
dell’enorme popolarità di Sterne anche nel Nord (vi si ritrova
la « linea serpentineggiante » quale supremo canone della bel­
lezza secondo VAnalysis of beauty di Hogarth; e l’ammirazione
per la cattedrale gotica di Strasburgo1, che già nel 1773
aveva ispirato allo herderiano Goethe quel pezzo prosastico
cosi significativo per il titanismo dello « Sturm und Drang »).
Ma la prosa di Baggesen risentiva dell’artificio come e più di

1 « È una tragedia shakespeariana: Re Lear — fatta di pietre...


Il romanticismo 149

quella di Ewald, e benché fosse in contatto con Goethe,


e con Tieck, con Klopstock e con Schiller, con Jacobi e Ma­
dame de Stael, e non poco scrivesse egli stesso in tedesco,
pure battagliò per quasi un decennio contro la poetica roman­
tica di Oehlenschlàger.
Cosi a Copenaghen come a Stoccolma, se i nordici già pri­
ma dell’Ottocento avevano letto e imitato Rousseau e Montes­
quieu, Haller e Ossian, Young e Thomson, Herder e Goethe,
solo quando fu riscoperta la Germania letteraria, una nuova
cultura organica sorse sulle rovine di quella classicistica. Solo
quando il naturalista norvegese Henrik Steffens tenne a Cope­
naghen le sue celebri lezioni divulgative — in primo luogo
sulla schellinghiana Filosofia della natura (1802) e sul Fram­
mento del Faust goethiano (1803) — il romanticismo tedesco
agi come elemento catalizzatore di tutte le sparse tendenze
del tempo. Steffens aveva fatto parte del cenacolo di Jena
ma non aveva ignorato né la goethiana Weimar né la novali-
siana Freiberg2 né Berlino3, e la sua entusiastica esposizione
dell’idealismo filosofico-letterario inaugurò — come egli scrisse
— « una nuova era nella letteratura danese »: da Oehlenschlà­
ger a Grundtvig, da Schack-Staffeldt a Blicher.
Rousseau e Ossian (POssian che aveva scacciato Omero dal
cuore del goethiano Werther!), Shakespeare (lo Shakespeare vi­
sto da Herder e dagli « Stiirmer und Drànger ») e i canti popo­
lari, i concetti herderiani di popolo, di natura, di poesia, la « filo­
sofia dell’identità » di Schelling: tutti i fermenti del primo ro­
manticismo tedesco acquistano ora nuovo significato, divengono
forze vive operanti nella letteratura danese e, poco dopo, in
quella svedese norvegese e islandese4. Eppure mai come ora

1 Dove conobbe Schelling e Fichte, A. W. Schlegel e Wieland, Herder


e Schiller.
2 Cfr. H. Beyer, Norsk og fremmed Oslo, 1961, p. 136.
3 Dove incontrò Schleiermacher, F. Schlegel e L. Tieck.
4 Qui le idee romantiche furono introdotte e discusse tardi, anzitutto
nella rivista Fjolnir (1835-47) fondata da Jónas Hallgrìmsson (1807-1845)
e da altri, divenuta poi subito tribuna culturale del liberalismo e del­
la lotta per l’indipendenza dell’isola. Malgrado ciò, non si può dire che
la tradizione letteraria islandese, sostanzialmente ferma al suo grande pas­
sato, si rinnovi e si mostri capace di esprimere nuove voci. L’insularità
per non dire l’isolamento della cultura nazionale è qui documentata anche
dall’estremo conservatorismo linguistico. Ancora fino a pochi anni fa, se
si eccettuano i neologismi e talune innovazioni fonetiche, da un punto
di vista morfologico e ortografico, per non dire tematico, l’islandese è
in sostanza rimasto quello classico della età delle Saghe. Solo recente-
150 Le letterature della Scandinavia

forse si avverte nelle letteratura nordiche la mancanza di una


esperienza storico-culturale paragonabile a quella umanistica
e rinascimentale dei paesi neolatini. L’assenza di capolavori o
di grandi scrittori capaci di creare una tradizione letteraria
si rispecchia qui anche nella lingua che rimane rozza e im­
bastardita da influssi stranieri fino alla vigilia del roman­
ticismo.
In Danimarca il primo decennio del secolo è dominato
non dal dano-tedesco Schack-Staffeldt, che pure nel 1804
aveva pubblicato un volume di romanticissime poesie, D igte
(1803 ) l, ma da Oehlenschlàger, grande retore delle antiche,
leggende e Saghe in una copiosissima produzione di liriche,
di drammi fiabeschi e cicli epici (Erik og Roller , 1802; G uld -
hornerne , « I corni d’oro », 1803; Hakon Jarl, 1805; Palnetoke ,
1809; Correggio , 1811; Helge, 1814; A laddin, 1820), nei quali
a un’eccezionale vena lirica e fantastica, coloristica e mu­
sicale, fa riscontro una parimente eccezionale convenzionalità
di procedimenti psicologici. Il virtuosismo formale presta qui
le sue armi, da un lato alla satira della poetica classicistica
(dalla quale peraltro Oehlenschlàger stesso — come osservò
Madame de Staèl — non s’era affatto liberato), dall’altra alla
celebrazione del proverbiale eroismo nordico interpretato però
alla luce della morale kantiana e schilleriana. Varia il metro,
il travestimento esterno dei personaggi: da Aladino a Hakon,
da Helge a Allegri e a Socrate, ora orientaleggiante ora antico­
nordico ora italiano ora classico, ma identica resta la genera­
lizzazione e tipizzazione d’un linguaggio artistico e d’una te­
matica attinta a Goethe e a Schiller a Shakespeare e a Tieck
e a A. W. Schlegel o alla antica poesia nordico-germanica.
Pure, Oehlenschlàger fu il primo ad attingere con sensi­
bilità nuova (benché attraverso il filtro di traduzioni e rifa­
cimenti da Biòrner a Peringskiòld) a un profondo filone della

mente, in connessione con la seconda guerra mondiale, con la riacqui­


stata indipendenza e col progresso economico, si viene affermando una
poesia e una narrativa antitradizionalista. Se già nel 1930 il « Quaderno
di poesia » (Kveeàakver) di Laxness segnava il trionfo del verso libero,
soltanto molto più tardi con Steinn Steinarr, con Snorri Hjartarson
Agnar Pórdarson e altri la psicanalisi, l’esistenzialismo e il surrealismo
fanno il loro ingresso anche nella cultura islandese.
1 Dov’è ravvisabile la conoscenza non superficiale dell’opera di Goethe
e di Schiller, di Schelling e di Novalis — lo Schack-Staffeldt aveva tra
il 1778 e 1795 pubblicato varie poesie in tedesco nel Musenalmanach
di Gottinga — nonché delle forme poetiche d’origine neolatina.
Il romanticismo 151

spiritualità germanica (e di qui la grande importanza storica


della sua opera) vivificandolo del suo fervore fantastico1 della
sua inventività, del suo ottimismo borghese, e creando cosi
una moda letteraria destinata al successo oltre i confini nazio­
nali: in Svezia (Tegnér, Geijer, Ling, Atterbom, Stagnelius)
non meno che in Norvegia (Wergeland) e in Islanda (B. Tho-
rarensen).
Con il prolificissimo riformatore ecclesiastico N. F. S.
Grundtvig, il romanticismo varca i confini dell’ambiente accade­
mico e borghese (entro i quali sostanzialmente restano sia i ro­
manzi sul Medioevo cavalleresco danese o su epoche e temi
storici di S. Ingemann e di C. Hauch, sia la poesia idilliaca
dell’Italia inaugurata dal Correggio di Oehlenschlager e colti­
vata poi in Danimarca e in Svezia da Andersen, da Bergs0e,
da Goldschmidt, da B0dtker, e da tanti altri, per oltre
mezzo secolo di colorite oleografie fino a Nicander, Bóttiger,
e Malmstròm) e, passando dalla cultura universitaria alla po­
litica e al costume, discende sin negli infimi strati del po­
polo. Studioso e traduttore del Beowulf e di Saxo e Snorri
in un danese popolareggiante, libero da arcaismi, battezzato:
bargerstuedansk , evocatore in drammatici dialoghi dell’incontro
e scontro fra paganesimo e cristianesimo ( Nordens m ytologi -
Mitologia nordica, 1808; O ptrin af Nordens keempeliv - Scene
del paganesimo eroico nel Nord, 1809) Grundtvig sognò, sulla
scorta di idee fichtiane, herderiane e schellinghiane, una rina­
scita dell’eroismo germanico-nordico non solo negli studi ma
nella vita civile, mirando a una mistica identificazione di pa­
triottismo e religione. Il vagheggiamento d’una chiesa adog­
matica fondata sull’idea luterana del valore della Parola evan­
gelica in contrasto a ogni istituzionalismo (per la quale scrisse
gran copia di canti religiosi: Salmi e canti litu rgici) 2, la crea­
zione di una Università popolare F olkhojskole 3, non meno
dell’impulso indiretto dato dalla formazione d ’una sinistra de­
mocratica in Danimarca dopo la guerra del ’64 — son tutte
espressioni del suo fervido romanticismo che giudicava crea­
zione anonima del « popolo » la tradizione storica del cristia­
nesimo al pari della mitologia e della demologia!

1 H. Brix, Gudernes Tungemaae, Kobenhavn, 1911, p. 187 sgg.


2 Sangvserk for den danske kirke (in gran parte traduzioni dal tedesco
e dal latino) più volte ristampato dal 1837 al 1880.
3 In origine rurale, basata su una comunanza di vita e di studio, nella
quale confluivano fermenti democratici ma anche antiumanistici e na­
zionalistici. La prima fu appunto aperta a Rodding (1844) nello Schleswig.
152 Le letterature della Scandinavia

Poco dopo il trionfo del movimento romantico in Dani­


marca, anche in Svezia si ebbero i primi segni del risveglio.
La reazione decisiva al « secolo dei Lumi » si compie anche
qui nel campo filosofico prima che in quello letterario e gra­
vita intorno alle Università di Uppsala e di Lund che si sosti­
tuiscono, nella direzione della vita intellettuale, a Stoccolma,
già centro della cultura nelPera gustaviana. B. HÒijer, pro­
fessore a Uppsala, è il primo mediatore della filosofia kan­
tiana fichtiana e schellinghiana che, insieme allo storico e
poeta E. G. Geijer, fa conoscere in Svezia fra il 1802 e
il 1807. Già ai primi delPOttocento la polemica anticlassi­
cistica divampa negli scritti programmatici della « nuova scuo­
la » l. Nel 1809 il critico letterario L. Hammarskòld pub­
blica in collaborazione con altri la rivista Polyfem; nel 1810
esce a Uppsala il mensile Phosphoros , organo del cenacolo
letterario di P. D. A. Atterbom che propugna una radicale
riforma della letteratura nazionale; poi fra il ’12 e il ’22 il
Poetisk Kalender (eco del tradizionale Musenalmanach tede­
sco!), tra il ’13 e il ’24 lo Svensk L itteratur-Tidning, in cui i
fosforisti F. W . Palmblad, L. Hammarskòld e altri bandiscono
e interpretano il pensiero estetico-mistico di Novalis e di Tieck,
di F. Schlegel e di Schelling, mentre fra P i i e il ’21 vede la
luce a Uppsala in settantasei volumi la « Biblioteca dei classici
tedeschi ».
Atterbom, professore di estetica e poi di filosofia a Uppsala,
meglio ancora di Tegnér e di Geijer (che per il culto del
razionale e per il senso del reale sono ancora legati al secolo
XVIII) rappresenta le più eversive tendenze del romantici­
smo tedesco, di cui rispecchia sia l’evoluzione estetico-religiosa
fino alle aberrazioni della teosofia sia l’involuzione nazionali-
stico-conservatrice sino alle utopie medievalizzanti.
Il platonismo di Schelling e il misticismo erotico di Z.
Werner, la concezione della poesia trascendentale formulata
da F. Schlegel e da Novalis e quella genetica della storia let­
teraria propugnata da Herder, la « mondbeglàntzte Zauber-
nacht » del Medioevo cara a L. Tieck, il sentimentalismo di
Jean Paul e il moralismo di Schiller; e anche l’alto irraggiun­
gibile esempio di Goethe: tutto si ritrova in lui: nel ciclo di

1 Anzitutto nel settimanale Polyfem (1809-1812) di Stoccolma che sati­


reggiava i rappresentanti della « vecchia scuola » fra cui Leopold, e poi
nelle riviste uppsaliensi Phosphoros (1810-1813) e Svensk Litteratur-
Tidning (1814-24).
Il romanticismo 153

poesie giovanili, B lo m m o rn a (I fiori) come nel frammento


drammatico, Fàgel bla (L’uccello azzurrò, 1813 attinto a un
racconto popolare che a sua volta risale a una fiaba di Madame
d’Aulnoy) e nel capolavoro dell’età matura: Lycksalighetens ó
(L’isola della felicità, 1824-27). Anche la sua polemica antil-
luministica ricalca in sostanza le orme di Fichte e di F. Schlegel,
di E. M. Arndt e di F. L. Jahn nell’asserzione della superiorità
spirituale e linguistica della civiltà germanica sulla romanza
e nella tradizionale antitesi fra Nord e Sud: un Nord tutto
eroico e filosofico di fronte a un Sud tutto sensuale e musicale;
in cui l’Italia, pur vagheggiata con romantica « Sehnsucht » vi
appare come autentica terra di morti (non solo Atterbom igno­
rò un Foscolo un Leopardi un Manzoni; ma quando, sulla scorta
dei romantici tedeschi, si avvicinò al mondo delle forme poe­
tiche italiane e lesse e in parte tradusse Tasso, Michelangelo
e Petrarca ne romanticizzò i metri sconvolgendone il ritmo e
dissolvendone la struttura plastica) l.
Il romanticismo tedesco (Novalis e Schelling) aveva posto
al centro dell’arte la fiaba, interpretandola in senso mitico-
musicale-profetico; e non solo Tieck e molti altri, ma dopo il
1820 il neoclassico Platen aveva tentato di fondere insieme
nel nuovo genere di moda: epos lirica e dramma; né ad Atter­
bom mancavano altre suggestioni letterarie: dall 'Aladino di
Oehlenschlàger al Faust, dallo Shakespeare del Sogno d'una
notte di m ezz'estate al novalisiano Enrico di Ofterdingen. Sic­
ché quando pose mano a quello che doveva essere il suo ca­
polavoro, la fiaba drammatica L'isola della felicità , i più diversi
elementi ideologici e sentimentali del romanticismo tedesco
confluirono nel suo simbolismo sensuale e nel suo estetismo
musicale.
Intorno a un tenuissimo filo narrativo, desunto dal racconto
popolare svedese, liberamente s’intrecciano gli arabeschi di
una fantasia quasi operistica in un caleidoscopico alternarsi
di scene e di intermezzi, di monologhi e di balletti, di duetti
e di arie: dall’amletico soliloquio di re Astolfo che sogna un
ideale di bellezza e di felicità assoluta2, all’attuazione di que­

1 Significativi al riguardo: Minnen fràn Tyskland och Italien sul suo


viaggio in Germania e in Italia del 1817-18 (pubbl. nel 1859).
2 Basta qualche verso a darne un’idea: « O, gàves det en trolldom, /
som drankte all vàr nakna verklighet / sa djupt i drombildvarldens
ocean / att ingen brygga nàdde fràn vàr jord / till diktens evigt som-
margrona ò... — Jag slmile genast fòr vad pris som helst / forbyta mot
ett sàdant drommeri / mitt nakna liv, mitt tomma hjàltenamn / min
154 Le letterature della Scandinavia

sto sogno nelPIsola della felicità; dal plurisecolare amore


di Astolfo e Felicia al fatale ritorno del re nel suo regno —
che si è intanto trasformato in demagogica repubblica — si­
no al finale apocalittico in cui i due amanti, privati della
felicità terrena (lycksalighet), assurgono mediante il sacrificio
e la purificazione religiosa alla beatitudine celeste (salighet).
Al di là delTallegorismo metafisico e dell’esotismo sceno­
grafico il poema serba ancor oggi un suo episodico valore
lirico — oltre quello storico e culturale di primissimo ordine
— per quei brevi componimenti cantabili che vi sono inter-
spersi: piccole gemme che nulla perdono a esser tolte dalla
loro fastosa e artificiosa incastonatura (il canto dell’ustgnoloj
la ballata di Astolfo e Svanvit, il lamento di Svanvit) e che
sullo schema melico della ballata popolare danno compiuta
espressione al sentimento poetico dell’Atterbom: alla brama
di vita e alla voluttà di morte, alla nostalgia della bellezza e
della felicità e al senso della solitudine e del dolore.
Parallelo alla corrente fosforista capeggiata da Atterbom,
ora in opposizione ora in comunione d’intenti, un indirizzo
di pensiero romantico-nazionalistico trovò espressione nella
rivista Iduna (1811-24) pubblicata, per iniziativa di E. G.
Geijer, dalla Lega patriottico-letteraria ( G ótiska fórbundet)
di Stoccolma.
Con A. Afzelius, suo collaboratore nella prima raccolta e
j pubblicazione a stampa dei canti popolari svedesi (1814-17),
e con P. H. Ling, inventore della ginnastica svedese e autore
di informi poemi goticisti, E. G. Geijer fu, almeno in un
primo tempo, il massimo rappresentante nordico di que­
sto romanticismo nazionalistico. In lui il culto fichtiano
della forza e della volontà eroica si combina con l’ideale
« goticista », cioè con la celebrazione delle primeve virtù
dell’anima nordica, simboleggiate in poemi e ballate roman­
tiche alla Goethe e alla Schiller (Vikingen - Il vichingo;
Odalbonden - Il libero contadino; Den lille kolargossen -
Il piccolo carbonaio, 1814), la metafisica schellinghiana, con­
siderante la storia come ininterrotta teofania, con la sua

hemska fosterjord, min tunga spira... » (O, se ci fosse un incanto capace


di sprofondare nell’oceano del mondo dei sogni tutta la nostra nuda
realtà; così che nessun ponte congiungesse più la nostra terra all’eterna-
mente verde isola della poesia... Per questo sogno, io darei subito a
qualsiasi prezzo la mia squallida vita, il mio vacuo nome di eroe, la
mia abominevole terra natale, il mio pesante scettro).
Il romanticismo 155

semplice fede nella Provvidenza, lo storicismo del Savigny col


suo empirismo intuizionistico (Svea rikes hàfder - Annali del
regno svedese — fino al IX secolo, 1825; Svenska folkets
historia - Storia del popolo svedese — fino alla regina Cri­
stina, 1832-36; Teckning af Sveriges tillstànd... fràn ko-
nung Carl X I I : s dod till konung G ustaf III: s antràde af
regeringen - Disegno delle condizioni della Svezia dalla morte
di re Carlo XII all’avvento di re Gustavo III, 1838). Ma la
meditazione e l’esperienza storica, come da posizioni inizial­
mente reazionarie lo spingono, attraverso una sincera crisi
intellettuale, cui dette impulso decisivo il movimento operaio
inglese e il socialismo utopistico francese, nelle braccia del
liberalismo1, cosi lo riscattano dalle peggiori astruserie ro­
mantiche.
« Goticista » come Geijer è anche E. Tegnér, professore
di grecò a Lund e poi vescovo di Vaxjò, la cui opera di
studioso poeta e oratore sembra conciliare in ideale sintesi
l’eredità classica e romantica. Il culto della lingua ornata
solenne, sentita come espressione simbolica della tradizione
nazionale, il pathos patriottico ispirato all’idealismo volonta­
ristico di Kant e di Fichte e alimentato dalle guerre napoleoni­
che (l’odio e poi il culto di Napoleone è presente in poesie
come D e t eviga , 1810; Svea , 1811; Den vaknade ornen , 1815),
ma rifuggente dalle infatuazioni mistiche dei fosforisti, il
teismo adogmatico, la concezione ellenico-schilleriana della ca-
. tarsi spirituale operata dall’arte, il liberalismo politico e mo­
rale: tutto mostra come in lui sia vivo e operante l’ideale
neo-umanistico della « nobile semplicità e calma grandezza »
formulato da Winckelmann. E anche la sua migliore lirica,
Flyttfoglarne; Skaldens morgonpsalm, 1812-13 ricca di lumi­
nose sentenze, di profonde riflessioni, di grandiose visioni, cul­
minante nella Saga di F rith iof2 (l’eroismo vichingo caro al
gusto « goticista » è qui trasferito in una sfera ideale cristiana
e platonica a un tempo) rivela sempre l’intima aspirazione clas-
I sicistica, nella dignità e nell’armonia del verso, nella studiata
compostezza dei giri sintattici, nella solennità oratoria del
lessico; e su un piano biografico-psicologico nelle Lettere

1 Utili per comprendere il lento maturare di questa crisi i Ricordi (Min-


neny 1834) di Geijer, anche da un punto di vista stilistico degni di nota.
2 Attinta alla traduzione antiquaria del Biòrner e poi anche al testo
della fornaldarsaga la Frithiofs Saga (1825) è un ciclo polimetro di ro­
manzi a lieto fine sul contrastato amore di Frithiof e Ingeborg.
156 Le letterature della Scandinavia

(B rev) soprattutto in quelle all’amico C. G. von Brinkman e


a Martina von Schwerin.
In Svezia il romanticismo non si esaurisce nelle opere
dei massimi esponenti delle correnti goticista e fosforista, ma
pervade del suo ideale e sentimentale lievito altri artisti —
come E. Sjoberg che verso quelle correnti assume una vel­
leitaria posizione di battaglia, o come F. M. Franzén e J. O.
Wallin, entrambi poeti religiosi e religiosi poeti che rinno­
vano in senso idealistico la tradizione saimistica luterana
(soprattutto quest’ultimo con la sua celebre ode Dodens engel
L’angelo della morte, scritto in occasione dell’epidemia co­
lerosa del 1834, e con un gran numero di salmi in cui vibrano
insieme la nostalgia dell’infinito e il senso della caducità
terrena).
Fuori d’ogni scuola e d’ogni polemica Johan Stagnelius
sembra racchiudere nell’opera come nella vita breve e infe­
licissima oppressa da una chiusa educazione clericale, l’essenza
stessa del romanticismo, orgogliosamente individualistico e
scisso da insanabili contrasti; solo, quasi ignorato dai contem­
poranei, dedito all’alcool e forse all’oppio, muore a trent’anni
dopo aver pubblicato pochi scritti: un epos esametrico W la­
dim ir den store (Vladimiro il grande, 1817) che, oltre a essere
la storia d’una conversione al cristianesimo operata dall’amore
di una donna, è un inno alla Santa Alleanza, alcune liriche
mistico-erotiche: Liljor i Saron (I gigli di Saron, 1821) e due
drammi in versi, Martyrerna (I martiri, 1821) e Bacchanterna
(Le baccanti, 1822) ricchi di scene patetiche, di estasi mistica
e di ebbrezza dionisiaca, mentre la sua fama postuma subito
dilaga quando L. Hammarskòld pubblica (1824-26) gran parte
delle opere inedite.
La sua poesia organicamente evolutasi da esordi classici­
stici verso un romanticismo sempre più esasperato e morboso
(sull’esempio di Chateaubriand e — per l’apprendimento delle
forme poetiche neolatine — di A. W. Schlegel) riflette tutte
le movenze e le sfumature dalla nuova sensibilità. Primeggia
la lirica1 che, per i temi speculativi e per l’intensa rappresen­

1 I lavori teatrali, sia quelli di soggetto nordico antico: Sigurd Ring ;


Wisbur; Svegder, sia « I martiri » e persino « Le baccanti » sono, mal­
grado il raffinato simbolismo, molto melodrammatici, e alcuni addirit­
tura ispirati al più facile e vistoso repertorio romantico, come per es.
Riddartornet (La torre del cavaliere — su un motivo d’incesto) Gladje-
flickan i Rom (La prostituta di Roma — dove lo spettro di un amante
Il romanticismo 157

tazione psicologica e drammatica, sembra anticipare l’ultimo


Froding e forse più ancora il Novalis degli « Inni alla notte »,
tesa com’è a conciliare realtà terrena e Aldilà, lussuria e ascesi,
ansia di piacere e ebbrezza di morte. Qualcuno (A. Osterling)
lo ha ravvicinato a Baudelaire per la struggente e inappagata
nostalgia, per l’avvolgente musicalità, ma manca poi a Stagne-
lius il satanismo eroico del francese mentre è in lui sempre
fortissima la componente religiosa platonizzante e teologica 1
bramosa di trasumanare la materia e di sublimarla nel fuoco
dell’estasi mistica.
Artista finissimo del verso, esperto della tecnica lingui­
stica e metrica riesce spesso soffocante col fasto delle sue
immagini preziose ed esotiche, con le sue languidezze senti­
mentali; con le sue lacrime e i suoi sospiri, abbondanti persino
nelle migliori composizioni come Necken (Lo spirito delle
acque); Tararne och blodet (Lacrime e sangue); Suckarnes
my star (Il mistero dei sospiri); Mànan och sjeelen (La luna e
l’anima); Se hlomman! (Guarda il fiore!); M olnet (La nuvola);
Hòsten (L’autunno) ecc., anche se questa tormentata poesia
troverà per tutto l’Ottocento e oltre imitatori e ammiratori.
In Norvegia il romanticismo appare tutto permeato di spi­
riti nazionalistici, perché preponderanti qui furono gli eventi
politici. Con la pace di Kiel (1814) la Danimarca cedé alla Sve­
zia la Norvegia — che sin dall’Unione di Kalmar era stata in
pratica un territorio di lingua e cultura danese (« la quadriseco­
lare notte » come dice Ibsen in Veer G ynt). Sulla fine del
sec. XVIII non era mancato qualche’sintomo di risveglio nazio­
nale soprattutto sul piano letterario con le polemiche in seno
all’« Associazione dei norvegesi » di Copenaghen (D et norske
Selskab). Ma solo molto più tardi, dopo la fondazione dell’Uni-
versità di Cristiania (1811) e dopo la dichiarazione d ’indipen­
denza dell’assemblea costituente di Eidsvoll (1814), quando
cioè il nuovo Stato ebbe raggiunto un minimo di stabilità eco­
nomica e politica benché legato ancora in unione personale con
la Svezia (il cui re Carlo XIII però s’era impegnato a ricono­
scere i deliberati di Eidsvoll), si manifestarono, verso il 1830,
i primi segni di una nuova coscienza nazionale nella polemica po­

chiama a sé nell’Ade l’amata), A lbert och Julia (su una amante che
rinuncia al cielo per seguire l’amato nelPinferno).
1 V. per questo aspetto del problema l’originale recente lavoro di M. Lu­
dovica Koch, La lirica di E. J. Stagnelius, in A IO N , Napoli, 1968.
XI pp. 211-508.
158 Le letterature della Scandinavia

litico-letteraria fra Henrik Wergeland e Johan S. C. Welhaven.


Aperti entrambi al pensiero romantico ne rappresentano
però due aspetti o momenti diversi. Il primo più vicino all’ir­
razionalismo della « Sturm und Drang » vagheggia la rinascita
nazionale attraverso un ritorno alla natura e al popolo, cioè
attraverso la valorizzazione dei ceti rurali, che per secoli (si
credeva), avevano serbata intatta Peredità spirituale d’un gran­
de e libero passato; il secondo, più sensibile al realismo post­
romantico, sottolinea invece il valore della continuità storica
indispensabile a un vero risveglio nazionale, e viene cosi a
identificare la sua causa con quella dell’odiata tradizione da­
nese. Il primo, in scritti di tumultuosa improvvisazione e di
ardente genialismo (fra l’altro un poema dialogico in più di
15.000 versi sulla storia del genere umano herderianamente
concepita; Skabelsen, M ennesket og Messias - La creazione,
l’uomo e il Messia, 1830, indigesto centone romantico, fatto
di allegoria protologia e escatologia, di teologia e liberalismo,
di ansia rivoluzionaria e ottimismo illuministico) e poi in li­
riche e articoli, libelli, polemiche e drammi, spesso sotto l’os­
sianico pseudonimo di Siful Sifadda, agita in Norvegia per quasi
un secolo le nuove idee: di libertà politica e spirituale, di
eguaglianza sociale e religiosa, di fede nel progresso umano.
Il secondo, sull’esempio del danese J. L. Heiberg (special-
mente nei sonetti polemici di Norges deemring - L’alba del­
la Norvegia, 1934, ma anche con la posteriore lirica pae­
saggistica ed elegiaca) richiama le menti alla necessità di una
aristocratica disciplina artistica e al senso della realtà. Da
diverse posizioni collaborano entrambi alla fondazione d’una
cultura che voleva essere esclusivamente norvegese. L’opera
del primo — checché ne dicano i critici norvegesi — è da
considerare più come battagliera affermazione di ideali poli­
tici e civili, come documento di generosa improvvisazione priva
di gusto e di misura, che come creazione artistica; anche se
in mezzo alla convulsa enfasi che la rende oggi di cosi difficile
lettura è possibile isolare versi di una qualche efficacia descrit­
tiva 1. Nel secondo pure primeggia l’intento didattico e « po­

1 Perfino nella lirica d’amore e nella poesia floreale, giudicate dai cri­
tici come la parte migliore della sua produzione: D et forste Haandtryck
(La prima stretta di mano); Den Elskedes Slummer (Il sonno dell’amata);
Jan Van Huy sums Blomsterstykke (Il mazzo di fiori di J. van Huysum),
Til min Gyldenlak (Alla mia violacciocca) è difficile vedere un supe­
ramento della retorica estatica e del consueto lirismo effusivo, qua e
là forse attenuato da qualche nostalgico ed elegiaco ripiegamento.
ip romanticismo 159

polare », frenato però da un’intima adesione a certi esempi


di poesia d’arte che si avvertono nel linguaggio più scelto, e
nella maggiore attenzione ai valori metrici e musicali della sua
poesia.
Visto nel suo insieme l’intero moto romantico nordico
sembra dunque polarizzato intorno ai due grandi miti ottocen­
teschi di natura e di nazione.
Il naturismo mistico rousseauiano e il nazionalismo, risve­
gliato dalle vicende delle guerre napoleoniche (1801: bom­
bardamento inglese di Copenaghen; 1808-1809: perdita della
Finlandia svedese che passa alla Russia; 1814: pace di Kiel
e Costituzione di Eidsvoll) sono le due forze che riconducono
questi popoli ancora sostanzialmente contadini alle scaturigini
prime della loro storia. Ma naturismo e nazionalismo si tro­
vano già fusi e confusi in molti scrittori della seconda metà
del Settecento. Mentre da Copenaghen il ginevrino Mallet, uti­
lizzando la collaborazione di antiquari islandesi, fa conoscere
per la prima volta all’Europa cosmopolita i miti e la poesia
pagana dei popoli nordici, studiosi poeti e pittori scandinavi
(come G. Schoning J. Kraft e T. Rothe, Bjerregaard, Thorild
e Munch, Dahl, Fearnley e Wahlbom) foggiano sulle idee di
Rousseau, di Herder e di Montesquieu l’immagine d’un antico
Nord tutto primigenia sanità e libertà di costumi, tutto eroismo,
tutto grandiosità e semplicità di natura. Parallelamente l’in­
cetta e la raccolta dei vetusti manoscritti délYEdda e delle
Saghe (perseguita sin dal Seicento soprattutto dai monarchi
danesi e svedesi ma anche da privati e sempre col prezioso
aiuto di islandesi, da B. Sveinsson a A. Vidalm e a A. Ma­
gnusson) mette sotto gli occhi di filologi e poeti, ignoti tesori
e monumenti d’una cultura autoctona che il nascente nazio­
nalismo, materiato di protestantica avversione ai valori uma­
nistici e classici, subito contrappone a quelli della invisa tradi­
zione mediterranea.
In un primo momento il quadro di questo antico Nord,
spesso confuso con l’ossianica Caledonia, appare come un’in­
differenziata unità panscandinava in cui retrospettivamente si
proiettano tutti i miti e i fermenti del gusto goticista. L’uto­
pia primitivistica e lo storicismo herderiano; le tendenze ar-
monistiche nell’interpretazione della religione pagana (sullo
spunto di testi antichi: Vgluspà, Njàlssaga , Snorri, e alla luce
della filosofia schellinghiana, si tentano sconcertanti sintesi che
approdano a vere e proprie mascherate: Grundtvig che chiama
Cristo e Odino « figli del Padre degli dei » e Atterbom che
160 Le letterature della Scandinavia

riavvicina Frigg alla Vergine Maria sono sullo stesso piano


ideale degli scultori Freund e Fogelberg 1 che travestono gli
eroi e gli dei nordici in fogge greche e romane) il pedagogismo
arcaizzante delle società patriottiche (« Gotiska fòrbundet »,
1811; « Manhemsfòrbundet », 1815) sognanti la resurrezione
delle antiche virtù guerriere attraverso lo studio della lette­
ratura e della storia patria; il culto e il mito di Carlo XII,
campione e martire di un'idea tutta germanica delPonore, fil­
trata attraverso il volontarismo fichtiano; e da ultimo, ma non
ultime, persino le fantasie etimologiche e etnologiche medie­
vali e cinque-secentesche dei fratelli Magnus e di O. Rudbeck
(che auspici Isidoro di Siviglia e Giordane facevano discendere
i Goti vincitori di Roma da Gog a Magog e riempivano di eroi
ed eroine svedesi l’intera storia d’Europa) - tutto è convogliato
nel grande alveo di questa corrente del gusto, la cui inegua­
gliata forza di attrazione esercita il suo fascino persino su
grandi filologi come R. Rask, Munch e J. Grimm.
E dal goticismo presero le mosse: sia i primi demoioghi
nordici (Nyerup e Thiele in Danimarca; Geijer e Afzelius
in Svezia; Landstad, Faye, Asbjomsen e Moe in Norvegia,
J. Arnason in Islanda) a cogliere nelle vive parlate rurali le
testimonianze delPunità, oltreché politica, culturale e storica
dei rispettivi paesi: sia gli storiografi romantici, Geijer e
Fryxell, Wergeland, Keyser e Munch, tendenti a una visione
del passato sempre più provinciale e nazionalistica, i cui echi
non sono ancor oggi spenti.
Cosi anche per Tevoluzione linguistica il nazionalismo goti-
cista fu decisivo, soprattutto in Norvegia dove la plurisecolare
sudditanza alla Danimarca aveva portato il paese a quella
profonda scissione politica, sociale e culturale che fa da
sfondo a tanta parte della letteratura dell’Ottocento e perfino
del Novecento; da K. Elster a T. Andersen, da H. E. Kinck a
K. Hamsun. Mentre qui, nei centri urbani, la borghesia colta
e la burocrazia d’origine prevalentemente straniera aveva adot­
tato per lingua ufficiale il danese scritto (infarcito di latinismi
e tedeschismi) benché con pronuncia e accento norvegese,

1 La statua di Baldur, il dio mite e bello, vittima innocente della mal­


vagità — già nelle antiche fonti nordiche — fu modellata da B. E. Fo
gelberg tenendo presenti insieme la Venere di Milo e il Cristo di Thor­
valdsen. Si ripensa, di fronte a tale gusto eclettico, al romanticismo acca­
demico del celebre quadro di Girodet-Trioson raffigurante i generali I
francesi morti in guerra accolti sui campi elisi da Ossian e Fingai.
Il romanticismo 161

nelle campagne invece sopravvivevano i dialetti rurali indigeni;


quasi ignoti alla minoranza dirigente e privi di una tradizione
viva e d’un prestigio letterario.
Nel quadro di questo bilinguismo s’inseriscono gli sforzi
riformistici di Wergeland e di K. Knudsen, di P. A. Munch
e di I. Aasen, di Asbjornsen e di J. Moe, di Vinje e di
Garborg, con i quali tutti ha inizio quel vasto movimento
di emancipazione e di riscossa nazionalistica che ancora oggi
è uno degli aspetti più caratteristici della cultura norvegese.
Se Wergeland e Knudsen1 sostanzialmente seguivano una linea
moderata accettando la tradizione dano-norvegese e mirando
soltanto a migliorarla (bote) sulla base della lingua effettiva­
mente parlata in Norvegia dalle persone colte, lo storico-filologo
P. A. Munch 2 e il linguista autodidatta I. Aasen propugnavano
una soluzione radicale che rompesse con il danese per (illumini­
sticamente) creare sulla base dei dialetti rurali una nuova lingua
nazionale. Ricollegandosi a questi dialetti (soprattutto occi­
dentali) e dimostrandone i legami storici col norreno (e quindi
colla passata grandezza nazionale) dettero entrambi alla nuova
lingua che avrebbe dovuto sostituire il danese3 quell’impronta

1 Grammatico e istruttore teatrale espose nel vocabolario Unorsk og norsk


(1881) il suo programma volto a sostituire i danismi e i tedeschismi
con idiotismi norvegesi, nella grafia, nel lessico, nella pronuncia, nella
sintassi. Fu lui il revisore linguistico delle prime opere di Bjornson e
di Ibsen.
2 Ha lasciato fra altro una monumentale storia della Norvegia (D et
norske folks bistorte, 1851-63, dalle origini fino all’Unione di Kalmar).
Com’è noto, mori e fu sepolto a Roma nel cimitero acattolico.
3 Con lo scritto Prover af landsmaalet i Norge , 1853, che è una rac­
colta di « saggi » (per lo più fiabe popolari attinte a narratori dialettali),
Aasen volle fornire esempi storici della nuova lingua, che egli ambi­
ziosamente chiamò « lingua nazionale », creata in realtà con criteri an­
tistorici e puristici, sulle forme flessionalmente e foneticamente più
arcaiche, senza alcun riguardo all’uso. Ma già prima, nel 1848, aveva
pubblicato una grammatica (D et norske folkesprogs grammatik) e nel
1850 un dizionario (Ordbog over det norske folkesprog) di questa lin­
gua che chiamò prima norvegese-popolare, poi, landsmàl. Al tentativo
radicale di Aasen, che ebbe presto l’appoggio del primo giornale lette­
rario (Dolen - Il valligiano) pubblicato da Vinje nella nuova lingua
(1858), ne seguirono altri, miranti a valorizzare questo o quel dialetto;
ma nessuno potè validamente concorrere con la lingua ufficiale dell’Uni-
versità e della chiesa, della stampa e del teatro, che dietro di sé aveva
una lunga tradizione letteraria. Il problema linguistico divenne presto
anche politico e lo « Storting » norvegese introdusse nel 1892 il cosid-

XXVII - 7. Lett, della Scandinavia.


162 Le letterature della Scandinavia

arcaica e cartacea che ancora oggi in parte caratterizza il cosid-r


detto landsmàl o nynorsk . La lingua creata da Aasen era in lar­
ga misura il dialetto della sua provincia natale (Sunnmore) infio­
rettato di arcaismi; e perfino la auspicata nuova lingua lettera­
ria (samnorsk ) che sarebbe dovuta sorgere dalla fusione tra
nynorsk e bokmàl è ancora oggi, a distanza di un secolo, più
un programma che una realtà. E ciò malgrado le numerose e
sfortunate riforme promosse dal Parlamento in favore di tale
fusione
Comunque, sin dalla metà delPOttocento, il risveglio na­
zionalistico non mancò di dare i suoi frutti. Peter Christen
Asbjornsen e Jorgen Moe, collaboratori nella raccolta e ste­
sura delle fiabe popolari norvegesi (N orske folkeeventyr ,
1841-44) e fedeli discepoli e corrispondenti dei Grimm (a que­
ste fiabe seguirono le « Fiabe di fate e leggende popolari norve­
gesi » del solo Asbjornsen: Norske huldreeventyr og folkesagn,
1845-48) danno il primo esempio di una lingua viva, parlata,
realistica, attinta alla tradizione popolare, ma artisticamente
rielaborata, a mezza strada fra la tradizione danonorvegese
(nella grafia soprattutto) e il colorito dei vari dialetti locali.;
Aasmund O. Vinje, compagno di studi di Ibsen, rifà sul clas­
sico modello heiniano il suo libro di viaggio Ferdaminni fraa
sumaren 1860 (1861) alternando quadri paesaggistici del ^
Trondelag e riflessioni politico-sociali, poesia e prosa, satira e !
sentimentalità, in un landsmàl fresco e duttile alle esigenze '
della conversazione giornalistica come della confessione lirica; ?

detto màlparagrafen, che equiparava le due lingue sul piano delTinse-


gnameno statale: il nynorsk o neonorvegese geograficamente diffuso [
nelle regioni occidentali e il riksmàl o bokmàl (cioè lingua libresca —f
denominazione assai infelice perché non rispondente alla realtà dei fatti),
in quelle orientali, nella Capitale e in genere di maggior uso corrente.
1 Quella del 1907 segna con le nuove norme ortografiche morfologiche
e lessicali una definitiva rottura col danese; quella del 1917, imponendo
l’obbligo didattico delle due lingue, ha incontrato seria resistenza; la
terza del 1938 mira appunto a ravvicinare il nynorsk e il bokmàl (come :
le due lingue si chiamano ufficialmente dal 1929); e nel 1951 è stato,
sempre al medesimo scopo, creato un organo consultivo: « Norsk spràk-
nemd» (Comitato linguistico norvegese). Mentre in pratica gli scrittori
seguono tendenze eclettiche, non si può negare che il bilinguismo abbia
portato a un arricchimento lessicale e culturale, e non soltanto al caos,
come dicono gli avversari, non solo conservatori, ma anche radicali di
sinistra come A. Overland e S. Hoel. Il cosiddetto « Vogt-komiteen »
(dal nome del rettore delTUniversità di Oslo, Hans Vogt) creato nel
1964 non è stato in grado di apportare sostanziali contributi alla solu­
zione dell’intero problema.
Il romanticismo 163

Arne Garborg esordisce pubblicando nel suo giornale Vedrà -


heimen il primo romanzo ideologico in land smài, Ein Fri-
tenkjar (Un libero pensatore, 1878) su quel conflitto fra scienza
e fede che sarà il grande tema del secondo Ottocento.
Esauritosi nello spazio di tre decenni l’impulso novatore
del primo romanticismo, riaffiorarono, anche nella letteratura
nordica, verso il 1830, molte correnti del pensiero settecen­
tesco che sembravano definitivamente tramontate. Negli stessi
romantici si fa strada ora una reazione antiromantica. All’equi­
valenza tra poesia filosofia e religione, alla concezione del
poeta-vate, alla fede messianica nella palingenesi del genere
umano attraverso l’arte, all’estetismo e all’edonismo si con­
trappone un nuovo bisogno di concretezza, una nuova consape­
volezza della realtà che, anche sul piano politico, ispira la na­
scente stampa liberale ( «Fsedrelandet » a Copenaghen; « Afton-
bladet » a Stoccolma; « Morgenbladet » a Oslo) dei tre maggio­
ri paesi nordici. In tutta la nuova generazione di scrittori è visi­
bile lo sforzo di conciliare con la realtà-gli ideali romantici
ora completamente assimilati nella cultura nazionale: dall’auto­
nomia e individualità dell’arte alle istanze dell’irrazionale, del
subcosciente, del soprannaturale; dal concetto di storia all’idea
di nazione. In un primo momento più che di esplicita con­
danna di certi principi e motivi in nome di altri contrari, si
tratta di un maturo eclettismo, di giustapposizione di valori, di
gradazioni e sfumature. Non solo ora un goticista come il già
menzionato scrittore svedese Geijer abbandona il verso per
tentare la prosa d’arte nei suoi Ricordi d }infanzia e di viaggio
(1834), tutti materiati d’interessi politici e sociali, ma persino
il capo dall’esoterismo fosforista, Atterbom, affronta i proble­
mi della critica letteraria su un piano di realtà storica (Vrofeti
e poeti svedesi , 1841-55).
Insieme con fosforisti e goticisti, e già prima di loro, non
manca chi, ai margini delle mode romantiche, prende a bat­
tere le modeste e inesplorate vie del racconto sociale o rurale,
spesso autobiografico, tutto descrizione di ambienti e destini
semplici e comuni, di fatti e di esperienze vissute, con uno
spirito critico e satirico che sembra insieme riattaccarsi al
razionalismo settecentesco e preannunciare il radicalismo del
secondo Ottocento. L’interna dualità romantica-realistica è
palese qui in tutti gli scrittori che si affacciano all’arte nel
nuovo clima creato dalle lotte della borghesia liberale dopo il
’30. Non per nulla Byron e Heine sono i due mentori di questa
generazione che freme d’entusiasmo allo scoppio delle rivolu­
164 Le letterature della Scandinavia

zioni europee e insieme plaude allo scandinavismo patriottardo


dei Ploug, degli Strandberg, degli Sturzen-Becker alla satira
politico-letteraria del Corsaro del danese Meir Goldschmidt1,
al femminismo di ascendenza anglosassone della svedese F. Bre­
mer e della norvegese C. Collett e alla narrativa sociale e uma­
nitaria dello svedese A. Bianche2,
In Danimarca J. L. Heiberg epigono di Hegel, del quale
combinò la dialettica meccanicisticamente intesa col settecen­
tesco generismo letterario, combatte il patetismo romantico con
i suoi amabilmente ironici e innocui « vaudevilles », costruiti
sulla ricetta di Scribe e col suo settimanale letterario (Koben-
havns flyvende p o st, 1827-30), ma tutta la sua opera è in
fondo ispirata al gusto antiborghese e all’ironia dei romantici
(dal « vaudeville » Aprilsnarrene - Pesce d’aprile, 1826, alla
commedia popolareggiante Elverhoj - Il colle degli elfi, 1828
da Fatamorgana, 1838 a En sjeel efter doden - Un’anima dopo
la morte, 1841) e non va oltre l’abile manipolazione di motivi
satirici, di brillanti messinscena, di tipi comici, d’intrighi facili
e piacevoli3; Steen Steensen Blicher, efficace pittore di paesaggi
dell’Jylland e di personaggi ossianici, sembra, per la materia
cruda e realistica delle sue novelle di vita popolare, in aperto
contrasto con la moda patetica del primo romanticismo; ep­
pure l’abuso del romanzesco, cioè dei casi strani e dei colpi
di scena, degli intrighi macchinosi, dei delitti, dei suicidi, in­
somma di tutti gli espedienti del romanzo d ’appendice o del
romanzo giallo ci riporta costantemente a quella moda. Gli

1 Forse la miglior parte della sua ampia produzione narrativa, cui alcuni
ctitici hanno tentato di dar nuovo lustro, è da cercarsi proprio in que­
sto settimanale (1840-46) modellato su esempi francesi, ma vivo brioso
scoppiettante di umorismo caricaturale nella polemica antimonarchica
(contro Cristiano VIII). Se si eccettua qualche singolo racconto (p. es.
Bjergtagen- L’ammaliata) i suoi farraginosi romanzi più o meno auto-
biografici {En jode- Un ebreo, 1841; Hjemlos- Senza patria, 1853;
Arvingen - L’erede, 1865) hanno oggi soltanto interesse storico.
2 Strenuo difensore della libertà — anche italiana — si batté come de­
putato alla Seconda Camera per la indipendenza della Norvegia, contro
il proprio paese. Soprattutto con la sua opera narrativa e bozzettistica
(Bilder ur verkligbeten - Scene di vita, 1863-65) attenta allo studio della
realtà e di schietta ispirazione morale, contribuì all’avvento del natura­
lismo in Svezia.
3 Senza paragone più viva, al confronto, l’autobiografia della moglie di
Heiberg, l’attrice J. Luise nata Patges {Et liv genoplevet i erìndringen -
Una vita rivissuta nel ricordo, 1891-92) assai notevole, e stilisticamente
e come documento di storia del teatro danese e di critica dell’arte
scenica.
infelici eroi di Blicher: da Morten Vinge (Brudstykker af en
landsbydegns d a g b o g 1 - Frammenti di diario d’un sagrestano
di provincia, 1834) a Maren (Ak! hvor forandret! - Ahimè
tutto cambia! 1828); da Cecilia (Hosekreemmeren - Il mer­
eiaio ambulante, 1828) a Linka (Kj&ltringsliv - Vita di vaga­
bondi, 1829) da Ma-Jbs (D e tre helligaftener - Le tre feste
sacre, 1840) a Karen e a Paawal Marri (E B indstow - La
stanza dei lavori a maglia, 1842), solo per citare qui i più
noti, sono testimonianze di un’arte narrativa che troppo spesso
scade ad aneddotico sentimentalismo.
L’antitesi romantico-realistica s’incentra in P. M. Moller
e più tardi in H. Egede Schack sui contrasti psicologici di per­
sonaggi romanzeschi più o meno autobiografici (En dansk
students eventyr - Le avventure d’uno studente danese, 1824,
Phantasterne - I fantasticatori, 1859) che sembrano anticipare
l’interesse dei naturalisti per i casi clinici, mentre sul piano
lirico E. Aarestrup e Ch. Winther danno di quella antitesi si­
gnificative varianti: in erotiche poesie d’occasione (D igte , 1838),
il primo ■— sul cui edonismo sensuale scende a volte un velo
di malinconia per la fugacità del piacere — in melodiose e raf­
finate romanze il secondo, che oscilla fra la vaga spiritualità del­
l’amore « cortese » e l’abbandonata confidenza, il colloquio in­
timo e familiare del « Biedermeier » (Treesnit - Xilografie, 1828-
1832; 77/ E e n - P e t lei; e l’epos medievaleggiante Hjortens
flugt - La fuga del cervo, 1855), finché Frederik Paludan-Muller
nei più che 20.000 versi del suo epico-allegorico poema in otta­
ve Adam H om o, 1841-482 non raffigurerà la disintegrazione e
la restaurazione degli ideali romantici, con spirito d’intransi­
gente puritano.
Sovrasta tutti per acume critico e dialettico, e per inten­
sità di vita interiore Soren Kierkegaard. Cresciuto nell’espe­
rienza luterana, combatte sul terreno filosofico il panlogismo
hegeliano in nome dell’antitesi fra il pensiero e la vita e ri­
vendica così i concetti religiosi di angoscia, intesa come pec­
cato e riscatto a un tempo (la « fiducialis desperatio » di Lu­

1 Non si riesce proprio a capire come H. Brix, lo possa definire (Dan-


marks digtere, Kobenhavn, 1925, p. 214), « un capolavoro », tanto il
racconto è materiato di facile patetismo e di moralismo insipido.
2 Imperniato sulla tragedia d’un dongiovannesco teologo, che per godersi
la vita sta per perdere la propria anima, il poema è un autentico « ca­
polavoro sbagliato », in cui i più torbidi fondi delPascesi kierkegaardiana
si mescolano alla pedanteria accademica del pedagogo che in extremis
salva il suo eroe con l’abusato espediente delT« eterno femminino »!
166 Le letterature della Scandinavia

tero!), di vocazione, di sacrificio supremo quale quello di


Abramo, che appunto spera senza speranza. Furono questi
concetti filosofico-psicologici, scaturiti da una tormentata cri­
si personale, a ridestare la coscienza religiosa dei più diver­
si scrittori nordici: da Ibsen a Strindberg, da Jacobsen a
Brandes, da Kielland a Obstfelder, da Garborg a S. Lal-
gerlof, con un fermento rivoluzionario che agì in tutte le
direzioni: in senso antidogmatico e pietistico, razionale e mi­
stico, nihilistico e superomistico.
In questa congiuntura letteraria va anche iscritta la para­
bola poetica di Hans Christian Andersen, per il complesso or­
dito della sua arte che congiunge in felice equilibrio gli ara­
beschi della fantasia con il senso vivo e pungente della realtà
quotidiana.
Figlio d’un povero ciabattino di Odense e d’una ma­
dre non irreprensibile, finita all’ospizio per alcoolismo, non
conobbe per lunghi anni che le angustie della miseria e le ama­
rezze dell’insuccesso e stentò, malgrado l’aiuto di numerosi
protettori e mecenati1, perfino a compiere il più modesto tiro­
cinio intellettuale. Era un ingegno semplice, acritico, ma viva­
cissimo, destinato perciò a maturare lentamente e faticósa­
mente, sicché anche quando giunse, dopo la prima esperienza
diretta d’un viaggio in Italia (1833-34), a piena consapevo­
lezza delle sue possibilità espressive, non seppe resistete alla
tentazione di cimentarsi in campi in cui era artisticamente
debole o addirittura negato: la lirica il romanzo il dramma2.
Soprattutto qui infatti si avverte lo iato fra una prepotente
effusività sentimentale e una struttura intellettuale assai mo­
desta. L’innegabile valore psicologico e documentario della sua
copiosissima produzione extrafiabesca non può oggi dissimu-

1 Fra i quali il forlivese Giuseppe Siboni (1780-1839), dal 1819 maestro


di canto della scuola teatrale di Copenaghen.
2 I suoi primi tentativi letterari nello stile romantico-ironico di Hoff­
mann, di Heine, di Waiblinger: Fodrejse fra Holmens kanàl til Òstpyn -
ten af Amager (Viaggio a piedi dal canale di Holmen alla punta orien­
tale di Amager, 1829); Digte (Poesie, 1830); Skyggebilleder af en rejse
til Harzen, det sacbsiske Scbwettz... (Schizzi d’un viaggio nel Harz e
nella Svizzera sassone, 1831) sono cose modeste, ma ebbero un certo
successo nel mondo letterario danese. Quanto ai lavori teatrali, per
esempio Agnete og Havmanden (Agnesina e l’uomo del mare, 1833-34);
Mulatten, 1840; Den nye Barselstue (La nuova stanza della puerpera,
1850) privi come sono d’ogni conflitto drammatico e d’ogni consistenza
psicologica possono avere interesse dal punto di vista delle intenzioni
del poeta, e qualche volta anche quali abbozzi per le sue fiabe.
Il romanticismo 167

lame l’esiguo rilievo poetico, al punto da far parere giusti­


ficate le sia pur acrimoniose censure della critica ottocentesca:
da Hertz che in Gengangerbreve (Lettere dall’Aldilà, 1830) a
Kierkegaard che in A f en endnu levendes papirer (Dalle carte
di un ancora vivente, 1838) rimproveravano allo scrittore lo
scarso senso della forma, la mancanza d’una « filosofia », la con­
venzionalità dei suoi romanzi e drammi. Se la lirica, facile
scorrevole colorita, sostanzialmente manca di sicurezza ritmica
e soprattutto d’intensità, i romanzi e drammi, anche i migliori,
appaiono del tutto sprovvisti di tecnica costruttiva e di forza
creativa (Antonio dell 'Im provvisatore, 1835; Otto Thostrup
di O.T.y 1836; Christian di Kun en spillemand - Un semplice
suonatore, 1837; Peer di Lykke-Peer - Pietro il fortunato,
1870; serbano una certa coerenza artistica solo finché rispec­
chiano la vicenda autobiografica dell’autore). Appena si esce
dal quadretto di genere o dall’arguto e vivace dialogare l’An-
dersen cade subito nel repertorio dei luoghi ~comuni e delle
banalità. Così anche i suoi diari carteggi e libri di viaggio \
pur ricchi di delicati spunti e di coloriti episodi, hanno nell’in­
sieme un interesse prevalentemente biografico. La ricchezza
di vita intima o la descrizione di sfondi culturali, il ritratto di
uomini e paesi o di opere d’arte e d’artisti, le osservazioni
su eventi politici e storici che rendono interessanti gli scritti
autobiografici d’uno Chateaubriand o d’un Delacroix, d’un
Leopardi o d’un Wagner sono completamente assenti in An­
dersen. Passa accanto a uomini come Hugo e Vigny, Schumann
e Mendelssohn e non riesce a tirar fuori che qualche cerimo­
nioso e banale aggettivo qualificativo, mentre poi non gli ba­
stano centinaia di pagine per le oleografie dell’Italia roman­
tica: l’Italia del carnevale e dei briganti, delle processioni e
delle osterie, dei mandolini e dei saltarelli! Gira mezzo mondo
in un’epoca di profonde rivoluzioni sociali e di passioni na­
zionali che direttamente toccano il suo paese; ma né il ’48
né il ’64 svegliano in lui più che un po’ d’imbarazzo al ve­
dere che i suoi editori e lettori si trovano ad essere nemici
della Danimarca.

1 En digters bazar (Il bazar di un poeta, 1842 — Sul viaggio dalla


Germania, attraverso l’Italia e la Grecia, a Costantinopoli e in Unghe­
ria; vi si trova la descrizione del suo primo viaggio in ferrovia da
Magdeburgo a Lipsia); I Sverrig (In Svezia, 1851 — dove arrivò fino
a Falun, e dove l’intera narrazione bozzettistica, ora sorridente ora
lacrimosa, risente molto di Baggesen e di Sterne), e altri di minor
interesse.
168 Le letterature della Scandinavia

Non certo qui è la sua forza, ma nel « genere minore »,


nella fiaba, che per semplicità di struttura e duttilità di mate­
ria meglio si adattava al suo estro fantastico.
Al gusto della fiaba doveva condurlo la sua innata « Lust
zu fabulieren » e Fumile ambiente provinciale in cui crebbe,
non meno della familiarità con la romantica poesia popolare
e d ’arte danese e tedesca, soprattutto il grande esempio dei
Grimm. Ma ciò che egli portò di suo in questo microcosmo
dai vastissimi confini geografici e ideali fu un nuovo stile
poetico, un’intuizione animistico-magica dell’universo che gli
schiuse il mistero d’ogni più umile cosa, facendogli cogliere
coi mezzi linguistici e ritmici sin l ’indefinito e l’impalpabile
dell’esistenza.
Il reale e il fantastico anziché identificarsi, come per i ro­
mantici tedeschi, serbano sempre in Andersen la propria auto­
nomia, quasi sfere di valori indipendenti ed equipollenti. E se
l’uno spesso panteisticamente trapassa nell’altro, non arriva
mai ad annullarvisi. A ragione i critici danesi (Brix, Rubow,
Gronbech) hanno parlato di « duplicità di visione » {D ob-
beltsynspunkt) come idea-chiave della poetica di Andersen; il
quale, attribuendo alle cose sentire e sapere umano, mostra
ai suoi simili quanto sia facile scambiare il contingente per
l’assoluto, l’illusione per la verità.
Il vecchio giudizio di Brandes, che sullo schema tainiano
ravvisava nell’« infantilità » del favolista danese la caratteri­
stica fondamentale della sua arte, va oggi, se non capovolto,
sostanzialmente modificato. È noto che Andersen si diede a com­
porre fiabe con l’intento di narrarle ai bambini, secondo quanto
esplicitamente indica il titolo della prima raccolta E ventyr for -
talte for B om , come egli stesso scrisse nel 1835 in una lettera
a Ingemann (10. 2.) e come era solito fare, improvvisandole,
per la nipotina del suo amico e protettore J. Collin; e che
così, seguendo un profondo filone della spiritualità romantica,
ritrovò se stesso nell’elaborazione d’una materia tenue e umile
e nell’uso d’una lingua viva parlata antiletteraria, ma artisti­
camente raffinata e geniale, accentuata e modulata per captare
l ’attenzione dei piccoli: questo non fu però che il primo passo.
Il grande Andersen non è né l’asciutto pedagogo dell’in­
fanzia né il romantico allegorizzatore degli schemi proverbiali
e gnomici della tradizione popolare. Se il modulo fiabesco gli
offriva tutti i requisiti corrispondenti alla natura del suo
genio: idea d’una « poesia di natura », primitività di conce­
zioni magiche e fideistiche (Rubow sottolinea qui l’importanza
Il romanticismo 169

dello schellinghiano spiritualismo naturalistico di 0rsted), inar­


ticolata opposizione di principi etici, psicologia tipologica, sem­
plicità di intrecci — egli riplasmò il tutto alla luce di una ispi­
razione sostanzialmente idillico-religiosa che però afionda le sue
appena nascoste radici nelPesperienza vissuta e sofferta della
realtà1. Soltanto quando superò i suoi autobiografici conflitti
fu artista grande.
Delle centocinquantasei fiabe2 (fra le quali, per affinità
di stile, andrebbero incluse le aeree fantasie del Billedbog uden
billeder (Libro illustrato senza illustrazioni, 1840) che scrisse
fra il 1835 e il 1872, poche sono quelle che non riflettono
l’incanto della sua musa, sempre cordiale e, anche nel tragico,
fidente. E nell’atmosfera di questa complessa ispirazione rifug­
gente dai toni estremi tutto è ricreato in chiave di quotidiana
domestica intimità: leggenda (Il vento racconta di Valdemar
Daae e delle sue figlie, I l gorgo della campana) e mito (V an ­
gelo), favola (La chiocciola e il rosaio) e parabola (Il grano
saraceno ), la vita segreta delle piante (L'abete, L'ultimo sogno
della vecchia quercia, I fiori della piccola Ida, La margheritina ),
degli animali (Il rospo, Lo scarabeo, Il brutto anitroccolo,
La sirenetta, L'usignolo), delle cose (L'ago da rammendo, La
pastorella e lo spazzacamino, I l vecchio fanale, La goccia
d'acqua, G li stracci); persino il misterioso mondo degli esseri
soprannaturali (Il colle degli elfi, I l folletto Serralo,ccht, Il
compagno d i viaggio ).
Non c’è spunto cosi realistico che improvvisamente non
spalanchi orizzonti di sogno e non c’è volo cosi fantastico che
d’un tratto non approdi ai lidi quotidiani. Ogni volta che
l’idillio sta per infrangersi, ecco intervenire l’estrosa arguzia
anderseniana a riportare i toni troppo tesi e solenni, il pate­
tico o il meraviglioso a un livello più basso di quotidiana
umanità; come per esempio nella Piccina dei fiammiferi che

1 Non va qui sottovalutata la vana ricerca d’un amore: per Riborg


Voigt, per Louise Collin e per la svedese Jenny Lind che, insensibili
alle sue profferte, fecero di lui un tipico scapoione, sul piano dell’esi­
stenza quotidiana; e, sul piano dell’arte, contribuirono certo a ispirargli
1 più angosciosi accenti dell’amore impossibile e della struggente nostal­
gia di felicità (v. La Sirenetta, L'intrepido soldatino di stagno, L'abete).
2 Pubblicate per la prima volta in giornali, riviste e almanacchi, e poi
raggruppate sotto vari titoli che (malgrado l’intenzione dell’autore) non
rispecchiano una sostanziale diversità della materia trattata: Eventyr
fortalte for Born (Fiabe narrate ai bambini, 1835-42); Nye Eventyr
(Nuove fiabe, 1844-48); Historier (Novelle, 1852-53); Nye Eventyr og
Historier (Nuove fiabe e novelle, 1856-60; 1861-66; 1872).
170 Le letterature della Scandinavia

prima di morire assiderata perde, nella notte invernale, le sue


pantofole larghe e slabbrate (« ...una non s’era più trovata e
l ’altra se l’era presa un monello dicendo che ne avrebbe fatto
una culla per il suo primo figlio... ») o come nella Storia di
una mamma che cerca il suo bimbo rapitole dalla morte e,
non potendo attraversare il lago, si china nella intrepida spe­
ranza di berne tutta l’acqua [« “ no, cosi non ne verremo mai
a capo”, disse il lago» (Brix)] o come nel Colle degli* elfi,
dove la fantasmagoria romantica è tutta interpunta da un sa­
piente e dissimulato richiamo alla realtà.
Ma non c’è ombra di malignità o di trivialità1 in questa
arguzia che anche quando s’appesantisce o trapassa in satira
(le Fiabe traboccano di nascosti riferimenti biografici) serba
sempre un proprio tono di sorridente indulgenza e di sincera
pietà. Si pensi alla leggerezza di mano con cui nella Gara
di salto è fatta la satira del cortigiano adulatore nella figura
di quel cane di corte che, dopo aver annusato la salterella ne
garantisce la provenienza di buona famiglia; o al fine umo­
rismo con cui il poeta, in sottintesa polemica coi sui critici,
raffigura se stesso in quella pulce che, pur saltando più di tut­
ti, non vince la gara perché « per far figura agli occhi del
mondo c’è bisogno d’un corpone!... (K rop skal der t i l ) » o a
quei critici identificati con i grossi ratti, che non capiscono
nulla dei sogni de\Y A bete; — Kan D e kun den ene H istorie?
spurgte R at terne. — Kun den ene! — svarede Treeet, — den
horte jeg min lykkeligste A ften, men den Gang tesnkte jeg
ikke paa, hvor lykkelig jeg var! — D e t er en overmaade
daarlig H istorie! kan D e ingen m ed Flesk og Teellelys? Ingen
Spisekammer-Historier? — N ei — sagde Traeet. — Ja, saa
skal De have T ak! — svarede R otterne og gik ind til deres.
(— Non sapete altre novelle? — domandarono i ratti — Non
so che questa — rispose l’albero. — La udii nella più bella
sera della mia vita; non sapevo allora quanto fossi felice. —
È una storia molto meschina. Non ne sapete una di prosciutti
e di candele di sego? Non sapete storielle di dispensa? — No
— disse l’albero. — E allora, servi devoti! — dissero i ratti;
e tornarono alle loro famiglie); o ancora a tante altre fiabe nelle
quali la pensosa religiosità di Andersen si avverte persino nel
ritmo della frase e nel colore delle parole.

1 Cfr. F. Book, H. C. Andersen , 28 ed. riveduta e ampliata, Stockholm,


1955, p. 230 sgg.
Il romanticismo 171

Il segreto di quest’arte, s’è già detto, è tutto nella duplice


e simultanea visione di realtà e fantasia, nel repentino e pur
naturale trapasso dall’una all’altra, che permette allo scrit­
tore i più arditi cambiamenti di registro, i più audaci impa­
sti di tinte. Ora dà anima e voce umana persino a un vanitoso
A go da rammendo e poi, con un solo inciso, gli toglie e l’una
e l’altra (« ...e allora l’ago sorrise, dentro di sé, giacché non
si può mai vedere dall’esterno come un ago ride... »); ora
penetra, senza apparente sforzo, nelle più oscure pieghe di
un’anima sofferente e poi a un tratto spalanca sul dolore il
cielo della pietà divina (La piccina dei fiammiferi ); ora ab­
bozza un’amara tragedia mettendo a fronte la sfortunata
grandezza del genio e il facile successo del falsario e del mal­
vagio, e poi scioglie ogni nodo nella sorridente irrealtà della
fiaba (L'ombra).
È qui il grande Andersen, il maestro di tanti narratori
nordici moderni che sulle sue tracce tenteranno nuove e ardue
sintesi di realismo e di fantasia, di toni popolareggianti e in­
sieme colti.
Se la crisi romantico-realistica appare superata da un punto
di vista estetico nella fiaba di Andersen, essa si precisa in
tutta la sua portata di crisi di costume, oltreché storico-psico-
logica nella vita e nell’opera di Carl Jonas Love Almqvist.
Scrittore mistico-esoterico alla maniera di Atterbom e di
Novalis, pietista swedenborghiano e poi collaboratore della
stampa liberale (A ftonbladet , 1839), riformatore rousseauiano
al punto da sposare una contadina e fare il contadino nel
Vàrmland (1824), prete protestante e teorico del libero amore
col romanzo antimatrimoniale D e t gàr an (Cosi va bene, 1838),
illustratore della povertà e della probità popolare in un saggio,
Svenska fattigdom ens betydelse (Significato della povertà sve­
dese), e nei racconti paesani: K apellet (La cappella), Skallnora
kvarn (Il mulino di Skallnora, 1838) e avventuroso manipola­
tore di loschi affari che lo costringono, sotto accusa di falso e
di tentato veneficio, all’esilio volontario in America (1851),
egli riflette le più contraddittorie e sconcertanti tendenze del
romanticismo in una copiosissima ed eterogenea produzione
raccolta col titolo di Tornrosens bok (Libro della rosa selvati­
ca 1)y del quale curò due edizioni, « duodesupplagan » di mino­

1 La rosa selvatica assunta insieme a emblema della romantica con­


templazione dell’Aldilà, e a simbolo della vergine natura nordica.
172 Le letterature della Scandinavia

re forgiato in due volumi, 1832-51; e un’altra « imperialoktav-


upplagan » in tre volumi (1839-50). Entro una cornice fan­
tastica tolta ai Serapionsbruder dell’Hoffmann, si succedono,
secondo il gusto romantico, narrazioni e drammi, saggi dottri­
nali e poesie, meditazioni e sogni, a opera di personaggi imma­
ginari, legati tutti da una sorta di estatica religione quietista,
che astrae completamente dalle convenzioni sociali o morali
del mondo. In Drottningens juvelsmycke (Il diadema della
regina) campeggia la fatale androgina Tintomara, simbolo del
« gioco » estetico aldilà del bene e del male, sullo sfondo del
ballo in maschera del 1792 durante il quale fu assassinato Gu­
stavo I I I 1; in Ramido Marinesco abbiamo una variante del
tema del dongiovanni; nel dramma in versi Signora Luna una
Sicilia romantica nella quale si muove una cieca taumaturga;
nel dramma prosastico Colombine riappare la figura della pro­
stituta pura di cuore, che viene redenta dalla poesia e dal­
l’amore; in altri drammi: Isidoros of Tadmor e Marjam
si predica un ritorno al cristianesimo antidogmatico delle
origini, mentre nei lirico-estatici Songes (Sogni)2 che dove­
vano più tardi essere tanto ammirati da simbolisti e surreali­
sti, trovano espressione insieme l’ebrezza mistica e il ma­
cabro realismo del poeta, idilliaco e satanico a un tempo,
assetato di primitività e di paradisi artificiali. Contraddittorietà
e ambiguità spirituali che s’intendono appieno solo se inqua­
drate in quella religiosità anarchica che apparenta lo scrit­
tore al mistico Blake, in quella quietistica indifferenza che
informa le sue opere, tanto tematicamente ricche e colorite
quanto stilisticamente insipide e monotone.

1 L’evento che — intermediario lo Scribe — ispirò Giuseppe Verdi.


2 In alcuni dei quali si avvertono echi novalisiani, per es. in Ben
lyssnande Maria: « Stilla rinn, o min sjal, i floden, / i dunkla, him-
melska purpurfloden. / Stilla skjunk, o min salla ande, / i Guda-
famnen... ». (Silente fluisci, o anima mia, nel fiume, nelPoscuro fiume
purpureo del cielo; silente sprofonda, o mio spirito beato, nell’abbraccio
di Dio...); o in Helgedomens ande: « Kàrast till mànniskan trader jag
om natten. / Da hon vaknar: sjàlens ljus upptànder, / sig mot him-
melrikets spegel vànder. / Hògt till Gud hon stracker vita hander ».
(PM caro all’uomo scendo io la notte. Quando egli si desta; accende
egli la luce dell’anima; si volge allo specchio del cielo. In alto a Dio
leva le sue bianche mani).
Capitolo quarto
L'età moderna

Gli scrittori scandinavi maturati entro la prima metà del-


l’Ottocento, benché critici e polemici di fronte ad alcuni
aspetti dell’irrazionalismo romantico, si muovono in sostanza
nell’ambito di quella tradizione spirituale che genealogica­
mente discende dall’idealismo tedesco predicato nelle Univer­
sità del Nord: lo scandinavismo politico (cioè il patriottismo
democratico e sociale alimentato dal comune fondo cultu­
rale) il realismo poetico, il protestantesimo liberale, i nuovi
concetti di critica letteraria e artistica non sono che sviluppi
di quel pensiero speculativo. Solo tardi, quando si è già
addentro nel secondo Ottocento, si avverte lo stacco dal
passato, anche se qui, dove per secoli la cultura è stata
d’impronta teologica, molti si rifiutano di trarre le estreme
conseguenze dalla crisi dei valori tradizionali1.
Ora sembrano anacronistici non solo poeti e critici come
gli svedesi Pontus Wikner e David af Wirsén, massimo cam­
pione, quest’ultimo, della monarchia e della chiesa; o liberali
moderati come Cari Snoilsky, parnassiano cesellatore di so­
netti e di poesie patriottiche d’intonazione deamicisiana2, ma
perfino i più popolareggianti finnico-svedesi Johan Runeberg
e Zacharias Topelius, che epigonicamente s’attardano, in piena

1 Scriveva G. Brandes della società nordica nel 1871: «E t aldeles ufor-


holdsmaessigt Antal af de toneangivende Msend har vaeret Praester,
Praestesonner eller teologiske kandidater» (Un numero del tutto spro­
porzionato di persone autorevoli sono stati preti, figli di preti o stu­
denti di teologia), Hovedstromninger, vol. IV dei « Samlede skrifter »,
1899-1910, p. 11.
2 Smetter (1871), Italienska bilder (Immagini italiane, 1864-65), Dikter
(Poesie, 1881, 1883, 1887): notevoli e per forza di rappresentazione
e per la non superficiale umanità che si avverte anche là dove l’artefice
senz’altro prevale sull’artista.
174 Le letterature della Scandinavia

età positivistica, a trattare temi storici e eroici1 di educazione


civile e morale, appaiono troppo ligi alle tradizionali forme
accademiche.
Nell’eclettismo del giornalista poeta e studioso svedese
Viktor Rydberg i segni di questa crisi si fanno ancor più
manifesti. Si avverte nei suoi romanzi storici^ come nelle
sue poesie e negli scritti dottrinali quella non ben fusa me­
scolanza di fantasia e di erudizione, quel desiderio d’una let­
teratura moderna realistica e insieme quella predilezione per
i consueti temi patetici che lo induce a servirsi di modi
stilistici convenzionali. Ai suoi romanzi alla Scott e alla Du­
mas, per es. Singoalla, 1857, sull’amore contrastato fra un
cavaliere medievale e una zingara; Den siste atenaren, 1859,
(L’ultimo ateniese), sul contrasto fra ellenismo e cristianesimo,
e in favore della tolleranza religiosa — che svelano subito, sotto
la coloritura pseudostorica e sotto l’avventuroso, l’intento peda­
gogico e moralistico — corrisponde la sua lirica Dikter, 1882-
1891, che mira insieme all’abbandono effusivo-romantico e alla
discussione di problemi ideologico-sociali; alla sua polemica reli­
giosa, Bibelns lata om Kristus (La dottrina della Bibbia intorno
a Cristo), del 1862, che, riprendendo le idee di Strauss, negava
la divinità di Gesù e il dogma della Trinità, corrisponde, per an­
titesi, la sua condanna di materialisti e atei nel romanzo Vapen-
smeden (L’armaiolo, 1891); all’interesse storico-artistico per
l’antichità classica (Romerska dagar, 1877, raccolta di saggi e
articoli sul suo viaggio in Italia del 1874) lo studio della mi­
tologia nordica [Undersdkning i germanisk mythologi, 1886-89)
interpretata secondo i canoni della filosofia schellinghiana.
Malgrado o forse grazie a questa contraddittorietà, molto
deve a lui la nuova generazione di scrittori che, formatasi nel
positivismo razionalista in filosofia e nel naturalismo in arte,
muove a una radicale revisione di tutti Ì valori: dalla letteratura
al costume sociale. I fondamenti stessi della civiltà vengono se
non ancora intaccati, discussi. All’origine di questa rivoluzione

1 II ciclo epico-lirico sulla guerra finnico-russa del 1808-9 {Fanrik Stàls


sàgner - I racconti dell’alfiere Stài, 1848-1860) ha, malgrado la forte sti­
lizzazione neoclassica, episodi e figure vivi per la schiettezza psicologica
e la sicurezza ritmica dell’evocazione. Noto per gli scottiani Fàltskarns
beràttelser (I racconti del chirurgo di campo, 1851-66) sulla storia
finnico-svedese (dalla guerra dei Trentanni a Gustavo III), Topelius
fu anche molto apprezzato per le sue raccolte di fiabe popolari (Sagor,
1847, 1848, 1849, 1852) sul modello di Andersen.
L’età moderna 175

intellettuale e morale stanno due uomini: S. Kierkegaard e G.


Brandes, per quanto diverse e contrastanti siano le ideologie che
rappresentano. S’è detto del primo e della sua volontà di supe­
rare insieme il panlogismo hegeliano e l'estetismo romantico in
una transvalutazione religiosa della vita individuale. Il secondo
che ha dietro di s$ quasi mezzo secolo di fermenti antiidealistici
(non ultimo quello, sia pur ambiguo di Rydberg) si presenta, al­
meno col suo programma critico-estetico come il dissolvitore
dell’eredità romantica nel materialismo e nello scientismo.
Formatosi sulla filosofia hegeliana ne abbandonò presto
Papparato dialettico-metafisico per darsi al positivismo psico­
logico di Taine e di Sainte Beuve, che determinò il suo
nuovo orientamento, già visibile nella polemica giornalistica:
Aestetiske Studier (Studi di estetica, 1868) e nei saggi letterari
Kritiker og portreeter (Critiche e ritratti, 1870). In quest’ultima
raccolta si trova appunto sia il saggio sul genio « infantile » di
H. C. Andersen, interpretato come prodotto della razza, del-
Pambiente e del momento storico, — sia la teoria dell’« infinita­
mente piccolo e delPinfinitamente grande in poesia », che, par­
tendo da un’analisi délYEnrico IV di Shakespeare, presenta il
drammaturgo inglese come maestro del « naturalismo ». Ma in­
sieme fanno già qui spicco le migliori qualità del futuro legi­
slatore del gusto: la chiarezza delle idee, la sensibilità stilistica,
l’impegno polemico, la fede ardente nella libertà del pensiero.
Addottoratosi con una tesi su Taine: Den franske Aestetik i
vore dage (L’estetica francese oggi, 1870), fu in Francia, in
Italia (qui più di una volta nel ’70-’71 e nel ’98; ma nono­
stante il credo neoclassico e goethiano, professato nelle lettere
alla madre e certe pagine sull’arte rinascimentale, la letteratura
italiana restò fuori dal suo orizzonte) e in Inghilterra, dove la
diretta conoscenza di Stuart Mill e di Taine rafforzò in lui quel
radicalismo antimetafisico già appreso all’Università sotto la
guida dello straussiano Brochner. Così dopo le vicende europee
del ’64 e del ’70, nel torbido clima letterario romanticheggiante
del Nord, divenne il banditore della filosofia di A. Comte, del­
l’estetica di Taine e dell’etica di Stuart Mill; e il 3 novembre
1871 iniziò come libero docente all’Università di Copenaghen
quella serie di lezioni: Hovedstromninger ì det 19. Aarhun-
dredes europaeiske litteratur (Grandi correnti della letteratura
europea del sec. XIX — poi edita in sei volumi, 1872-1890)
che dovevano renderlo celebre. Intento del Brandes era di rifare
la storia degli ideali della grande Rivoluzione fino al ’48, vista
allo specchio della letteratura quasi « grandioso dramma in sei
176 Le letterature della Scandinavia

atti ». Il primo tratta della Letteratura degli Emigrati (1872)


cioè — dopo un cenno a Rousseau e al goethiano Werther —
dei profughi della Rivoluzione: da Chateaubriand a Constant,
da Sénancour a M.me De Stael, che qui è la figura di massimo
rilievo; il secondo: La scuola romantica in Germania (1873)
del romanticismo tedesco degli Schlegel, di Tieck, di Wacken-
roder e di Novalis, condannato senza appello in nome del natu­
ralismo; il terzo La reazione in Francia (1874), contro il princi­
pio d’autorità della Restaurazione; il quarto II naturalismo in
Inghilterra (1875), quasi una serie di monografie, su Coleridge
Wordsworth e i laghisti, che fa da sfondo alla apoteosi di
Byron — già esaltato dal Taine come supremo eroe della li­
bertà; il quinto La scuola romantica in Francia (1881) su
Hugo e i romantici francesi; il sesto La giovane Germania
(1890), in gran parte una congeniale celebrazione di Heine,
rivoluzionario e poeta, democratico e aristocratico a un tempo.
Sono ormai note le osservazioni mosse a tale forma di cri­
tica tipologica e sociologica, quasi, se cosi si può dire, di illu­
ministica Geistesgeschichte, alla tendenziosità dell’assunto, alla
superficialità del metodo e alla conseguente deformazione della
prospettiva storico-critica (già nel primo volume insieme alla
morte d’ogni futura metafisica proclamata in nome di Taine e
di Darwin, si misura la grandezza degli scrittori in rapporto di­
retto alla loro attitudine a « discuter problemi »; cosi passano in
primo piano: « G. Sand che discute i rapporti fra i sessi, Byron
e Feuerbach la religione, Proudhon e Stuart Mill la proprietà,
Turgenev, Spielhagen e E. Augier i rapporti sociali »); ma non
va d’altra parte sottovalutata, insieme ai notevolissimi pregi
formali, la larghezza d’orizzonti e il gusto sottile e la forza di
penetrazione con cui sono ricostruiti singoli ambienti letterari
e ritratte figure di artisti (valga per tutti Heine); e finalmente
il significato, sia pur allotrio, dell’opera, scritta — come disse
Brandes stesso nel libello di risposta ai suoi detrattori: Forkla-
ring og forsvar (Spiegazione e apologia, 1872) e ribadì nella
prefazione alla sesta edizione dell’opera (1923) — in difesa
dei più alti ideali umani « di libertà e di progresso ».
Se lo scandalo dei conservatori e dei retrivi fu enorme
in tutto il Nord, l’adesione di non pochi, allora scrittori di
primo piano come Ibsen e Bjornson, Drachmann e Jacobsen
e Strindberg e di altri minori assicurò a Brandes un durevole
prestigio culturale. Dal 1874 al 1878 con l’aiuto del fratello
Edvard e, per la creazione poetica, del Drachmann, Brandes
prosegui la battaglia da una propria rivista: Det nittende
Uetà moderna 177

Aarbundrede (Il diciannovesimo secolo); e, dopo il volon­


tario esilio berlinese (in Danimarca gli era stata negata nel
1877 la cattedra di estetica), il suo ritorno a Copenaghen
(1882) segnò il trionfo del « brandesianesimo », che anche
sul piano politico doveva preparare la vittoria della Sini­
stra antimilitarista e cosmopolita (nel? ’84 fu fondato dal
fratello E. Brandes e da V. Horup il quotidiano radicale
.Politiken).
Anche dal punto di vista letterario il soggiorno berlinese
fu dunque fecondo per una serie di monografie su poeti e uomini
politici: E. Tegnér (1878), B. Disraèli (1878), F. Lassalle
(1881), Det moderne gjennembruds Meend (Gli uomini della
rivoluzione moderna, 1883), che ulteriormente rafforzarono la
sua fama di critico.
Già nelle « Grandi correnti » (per es. nella Scuola roman­
tica in Francia, e in Poeti danesi, 1877), insieme alle idee del
Taine, si avverte la lezione dello psicologismo di Sainte Beuve e
più tardi anche dell’umanesimo panteistico di Renan. Ma de­
cisivo fu, per una conversione del fronte, soltanto il suo storico
incontro con Nietzsche (secondo l’autobiografia: Levnet 1905-
1908, Brandes lo lesse nel 1886): l’iconoclasta autore di Umano,
troppo Umano e della Genealogia della morale. Se il ciclo di
conferenze dedicatogli dal Brandes nell’aprile-maggio del 1888
fortemente contribuì1 a far conoscere all’Europa tutta l’aristo­
cratico radicalismo del poeta-filosofo tedesco, Brandes non ne
intese certo la recondita ispirazione religiosa2, e vide in lui
piuttosto un alleato — forse il massimo — contro certi idoli
del tempo. Il suo individualistico culto dell’eroe e dell’eroico si
era manifestato in realtà già prima nei saggi su Kierkegaard
(1877), su Holberg (1884), su Ibsen (1867, 1882, 1898) per
restar poi vivo e operante nelle biografie romanzate degli anni
maturi (Shakespeare, 1895-96; Goethe, 1914-15; Voltaire,
1916-17; Csesar, 1918; Michelangelo, 1921) ma libero da ogni
delirio superomistico e nazionalistico.

1 Non vanno dimenticati i saggi su Nietzsche scritti assai prima nella


stampa tedesca da un misurato critico come il tedesco-fiorentino Karl
Hillebrand (ristampati in Zeiten, Volker, Menscben, 1874-85; nel vol. I I
uno su Umano, troppo Umano; nel VI sulle Inattuali).
2 È dubbio quanto Brandes dovè gradire almeno alcune delle parole di
riconoscenza del Nietzsche, che in una lettera del 2.12.1887 lo definì
«Ein guter Europaer und Cultur-Missionar » (Gesammelte Briefe, Ber­
lin, 1905, III, p. 274).
178 Le letterature della Scandinavia

Nel 1902 la Sinistra al potere gli attribuì lo stipendio e


il titolo di professore honoris causa dispensandolo dalPobbligo
dell’insegnamento. Ma né la stima di cui godette ben oltre i
confini nazionali1 né la crisi dei valori apertasi con la prima
guerra mondiale (Brandes esecrò imparzialmente il nazionalismo
di entrambi gli avversari), né l’accanita opposizione dei suoi
nemici, da Helge Rode a Harald Nielsen, valsero sino all’ul­
timo a rimuoverlo dalla inconcussa fede nell’assoluta libertà
del pensiero umano.

HENRIK IBSEN
Quando nel 1851 Henrik Ibsen fu chiamato a Bergen dal
celebre violinista Ole Bornemann Bull, principale finanziatore
dell’improvvisato teatro locale, la sua carriera letteraria era
appena cominciata. Aveva scritto alcune liriche ispirate ai ritmi
sentimentali di A. Munch, all’asciutta eleganza di Welhaven,
alla foga oratoria di Wergeland; aveva spezzato una lancia per
il quarantottesco movimento operaio di M. Thrane, e aveva
buttato giù anche qualche dramma (Catilina: tre atti in versi
bianchi sull’eroe sallustiano; Il tumulo del guerriero: un solo
atto modellato sui metri delle tragedie nordiche di Oehlenschlà-
ger), ma di teatro non aveva alcuna esperienza diretta.
Qui per la prima volta potè studiare da vicino la tecnica
scenica e valutarne le esigenze, qui riceve il primo stimolo della
critica e qui forse anche comprese la necessità di ampliare i suoi
orizzonti. L’anno seguente, l’incontro a Copenaghen con Hei­
berg, direttore del Teatro statizzato e arbitro del gusto lette­
rario della Capitale, contribuì non poco a sprovincializzarlo. La
conoscenza personale di Heiberg e di sua moglie Johanne Louise
Pàtges, futura primadonna sulle scene nordiche del secondo
Ottocento; la polemica sul « teatro d’idee » fra lo hegeliano
Heiberg e Hebbel; la fiorente vita teatrale di Copenaghen,
dov’era ancora recente il successo di F. L. Hoedt, rivoluzionario

1 Da noi, Scipio Slataper che lo lesse in tedesco, forse ingiustamente,


lo definì: « un ingegno mediano tra Vittorio Pica e Guglielmo Ferrerò»
(H. Ibsen, Firenze, 19442, p. 359). Ma nell’ambito del « brandesiane-
simo » concepito quale discussione di idee politiche e letterarie, apertura
a diretti influssi culturali stranieri, comunione spirituale interscandi-
nava, si sono formati tutti gli scrittori grandi e piccoli del secondo Otto­
cento, la cui parabola intellettuale si conclude, da un punto di vista
cronologico, allo scoppio della prima grande guerra.
Vetà moderna 179

interprete di Amleto, lo legarono sempre più alla cultura e al


gusto danese.
Così se la poetica di Heiberg lo iniziò agli artifici della
« pièce bien faite » alla Scribe, tenendolo per anni prigioniero
nel più angusto generismo letterario, la drammaturgia arcaiz­
zante di Oehlenschlàger con quel suo compromesso romantico
tra il pathos shakespeariano e il moralismo schilleriano — che
sarà poi detto dramma storico, lo inserì in una corrente di
gusto accademico e aulico già decaduta a pura maniera. Forse
senza questa duplice influenza Ibsen non avrebbe tanto tardato
a trovar se stesso. In Catilina infatti, pur in mezzo alle inespe­
rienze e alle ingenuità dell’esordiente (frequentissimi cambia­
menti di scena a sipario alzato nei primi atti, impacci di svolgi­
mento, enfasi romantica, prolissi monologhi, pentapodia giam­
bica tolta a Oehlenschlàger) era messo in scena il conflitto
morale d’un individuo combattuto fra ambizione e vocazione,
fra ideale e realtà: chiara prefigurazione del maturo dramma
ibseniano. Nelle prime parole vibranti di volontà eroica (« Jeg
maa! Jeg maa! saa byder mig en stemme — i sjaelens dyb »:
« Io devo, devo! Così mi comanda una voce nell’intimo del­
l’anima! ») come nell’epilogo tragico; nella psicologia del prota­
gonista, che fallisce perché inferiore alla sua missione, inesora­
bilmente travolto dalla Nemesi delle sue colpe, nella caratte­
rizzazione dei personaggi secondari come Aurelia e Furia, nella
soppressione d’ogni particolare storico estraneo al dramma in­
timo: Paccento personale di Ibsen era ben percettibile!
Ma il rigetto del lavoro sia da parte del Teatro di Cristia­
nia sia da parte degli editori, nonché Paccoglimento della critica,
a pubblicazione avvenuta, indussero Ibsen a conformarsi ai
modelli del gusto letterario corrente. Per oltre un decennio il
dramma storico sarà al centro dei suoi interessi teatrali e cul­
turali: YEddcrt le Saghe norrene (da lui lette in traduzioni
danesi), le leggende e le canzoni popolari (le prime raccolte del
Faye e del Landstad risalgono rispettivamente al 1833 e al
1853). NelPEdda e nella poesia popolare ricercava, sulla scorta
della precettistica di Heiberg, i temi lirici1, nelle Saghe gli
epici; e sapientemente fondendo gli uni agli altri sperava di
operare Pauspicata nascita nel nuovo dramma.

1 Un’apologia di questa concezione romantico-popularista tentò Ibsen


stesso nel breve saggio: Kj&mpevisen og dens betydning for kunst-
poesien in Illustrerei Nyhetsblad, 1857, n. 19-20,
180 Le letterature della Scandinavia

La festa a Solhaug (1856) con le sue canzoni e il suo co-


stumismo ma anche con i suoi drammatici antagonismi fra figure
di eroi nordici; La nobile Inger di Qsteraad (rappresentato
nel 1854, pubblicato il 1857) col suo intrigo alla Scribe e col
conflitto di Inger — indubbiamente antistorico — fra am­
bizione e vocazione; I guerrieri di Helgeland (1857) con le sue
situazioni drammatiche e i suoi personaggi arcaicamente mo­
dellati su quelli della Vglsungasaga della Egilssaga della Lax-
dcela e della Njàla, e I pretendenti alla corona (1863) con il con­
flitto psicologico tra Haakon e Skule, sono tappe diverse d’un
unico processo di affinamento stilistico, ma che appare conti­
nuamente insidiato e rotto da perplessità da compromessi da
contraddizionil. In Inger di 0steraad, che è il primo dramma
norvegese scritto in prosa secondo la ricetta classica delle tre
unità, l’intrigo alla Scribe e lo sforzò di ricostruzione storica
apertamente contrastano col « dramma di idee » propugnato da
Heiberg; nella Festa a Solhaug l’apparato tradizionalmente ro­
mantico, anche nella versificazione, mal si concilia con la volontà
di scandaglio psicologico; nei Guerrieri si cerca invano di ac­
cordare lirica e epica in difficile equilibrio fra visione e narra­
zione; nei Pretendenti, dove le tendenze arcaizzanti sembrano
superate in una prosa densa e stringata, duttile e aderente al­
l’analisi psicologica, gli appigli autobiografici rendono assai ap­
prossimativa l’oggettivazione artistica. Eppure singoli perso­
naggi come Inger e Hjordis, singole scene come l’atto quarto
di Inger di 0steraad} l’atto terzo dei Guerrieri, l’atto terzo dei
Pretendenti già mostrano il grande drammaturgo, capace di con­
densare un carattere in poche sobrie battute dialogiche, il poeta
originale nella scelta delle parole di lunga profonda risonanza,
l’amaro e diffidente realista assillato dalla ricerca della verità
a tutti i costi.
Passato nel 1857 a dirigere il Teatro norvegese di Cristiania
Ibsen affronta il problema della lingua (dibattutissimo allora
soprattutto dal punto di vista scenico) mantenendo una posi­
zione intermedia fra l’estremismo ultranorvegese (dagli avversa­
ri sprezzantemente soprannominato « dialetto di Pipervik », dal
nome d’un quartiere di Cristiania) e la corrente danizzante dei
tradizionalisti.
Condivideva certo anche lui nell’insieme le idee patriottiche
e indipendentiste sia in politica sia in arte, come dimostra la

1 H. Midboe, Streiflys over Ibsen, Oslo, 1960, p. 52 sgg.


L'età moderna 181

sua drammaturgia storica, ma senza fanatismi di antiquario e


con eccezionale sensibilità per la lingua letteraria viva, che, mal­
grado ogni velleitario purismo, restava sempre il danese. Assai
più della pronuncia norvegesizzante e delle coloriture dialettali
gli stava a cuore il rinnovamento dell’arte scenica in senso rea­
listico (fra l’altro l’introduzione della celebre « quarta parete »,
cioè della dizione con le spalle al pubblico) e il superamento
del gusto sentimentale e declamatorio. Eppure ancora nella
Commedia dell'amore (1862), che è il suo primo dramma d’am­
biente borghese contemporaneo, tecnicamente ispirato a Hol­
berg e a Molière (La Chesnais) s’avverte la presenza degli
espedienti tradizionali: dallo schema metrico ai monologhi.
Furono essenzialmente due fatti ad avviare Ibsen verso il
superamento dell’intima insicurezza e verso il completo dominio
della forma, sia nella lirica, sia nel dramma. Da una parte l’espe­
rienza dell’Italia, dall’altra la conoscenza di G. Brandes. Val
la pena, prima, di dare uno sguardo alla sua produzione lirica,
più volte messa in ombra dal preponderante rilievo dato ai
drammi.
Una produzione quantitativamente vasta, che va dal 1847
al 1892: e cioè dalla estrinseca abilità versificatoria delle prime
poesie d’occasione allo stile sublime delle antitesi eroiche in
Brand (1866), e alla polifonica orchestrazione del paesaggio
norvegese in Peer Gynt (1867); per non dir nulla poi di altri
numerosi drammi tutti scritti in versi; o iniziati in prosa e
rifatti in versi {La commedia dell'amore, 1858-62) o ancora
iniziati in versi e rifatti in prosa (I guerrieri di Helgeland);
nonché di singole liriche: anticipazione, commento o eco dei
drammi, per i quali furono composte (« Vuggevise » per I pre­
tendenti; « Agnes » per Brand; « Qrnulfsdrapa » per I guer­
rieri; « Forviklinger » per La commedia dell'amore ; « Judas »
per Cesare e Galileo; « De sad der, de to », preludio poetico del
Costruttore Solness) ecc.
Considerato dunque anche soltanto da un punto di vista
esterno, l’alternarsi in Ibsen di lirica e dramma rispecchia, aldilà
della connessione tematica, il travaglio d’un lungo e segreto tiro­
cinio1, àbbracciante quasi l’intero arco della vita, la faticosa
ricerca d’una forma semplice nuda scabra, atta ad esprimere la
sua più alta ispirazione morale. In tal senso e aldilà d’ogni

1 H. Koht, Henrik Ibsen. Bit diktarliv, Oslo, 19522, I, p. 28.


182 Le letterature della Scandinavia

generismo letterario la lirica dTbsen può esser intesa come


la sua via al dramma: ché, come s’è detto, in quella come in
questo permangono a lungo le incertezze e le convenzioni stili­
stiche dovute a un’adesione ai modelli correnti del primo ro­
manticismo dano-norvegese.
Fino al Brand e al Peer Gynt la tensione fra dramma e li­
rica sarà il segno dell’irrisolto dualismo ch’è al fondo tanto dei
primi abbozzi — poveri di risultati ma significativi per le
intenzioni poetiche — come Kieempehoien (1850, rifatto nel
1854) Sancthansnatten (1852)2,e Rypen i Justedal (1850, ri­
fatto nel 1856 col titolo Olaf Liljekrans) quanto degli altri mag­
giori come Gildet pà Solhaug (1856) e Inger til Ostràt (1854-
1857) Heermsendene pà Helgeland (1857) e Kongsemnerne
(1863). Quale trasposizione fantastica di temi drammatici la
Folkevise non solo domina assoluta in Gildet pà Solhaug e fa
da preludio simbolico al macchinoso intrigo scribiano d’un
dramma in prosa come Inger til Ostràt, ma s’accampa al centro
di Hasrmeendene e s’insinua fin nella asciutta prosa quotidiana
di Kongsemnerne.
Meglio ancora dei drammi le poesie giovanili illustrano,
quasi diario intimo, la contradittoria e ambigua evoluzione del­
l’arte ibseniana.
La prima raccolta, più volte progettata e finalmente edita
nel 1871 — durante la laboriosissima stesura di Cesare e Ga­
lileo (1864-1873) — ci dà di lui un ritratto cosi vivo e com­
piuto che ci aiuta a meglio intendere l’enigmatico profilo del
drammaturgo e il suo tortuoso itinerario poetico.
Un’ispirazione etica antisentimentale e anticonformista è alla
base di tutti questi più o meno acerbi componimenti, anzi già
dei versi giovanili (altrove pubblicati)3, un assillo di coscienza
tormentata e ansiosa di giudicarsi e di giustificarsi. Anche lì
dove la forma è frutto di talento imitativo come per es. in
Resignation, 1847; Tvivl og haaby 1848; Til Ungarn, 1849;
Til Norges skjalde, 1849; Ederfuglen (1851); Lysr&d (1855) —
si percepiscono gli echi di una volontaristica esaltazione, d’una
tensione tragica resa ancor più aspra dall’incapacità di pieno,
libero sfogo. Come in Catilina, si trovano qui tutti gli elementi

1 A cui sembra fermo il pur ottimo lavoro di P. Frasnkel, Ibsens veì til
dramay Oslo, 1955, pp. 63-65.
2 Da Ibsen ripudiato e tenuto sempre come masso erratico nella sua
roduzione (Hundreàrsutgave cit. in bibliografia, X V III, p. 400).
F XIV, prefazione.
L'età moderna 183

di fondo della poesia ibseniana. Quel suo cercar la verità alla


luce d’un austero moralismo, quel voler risvegliare la coscienza
umana in nome degli ideali di libertà di sincerità di sacrificio,
quel dissidio tra vocazione e dubbio, quella consapevolezza del
carattere mistico, notturno della sua musa, espressi in una forma
di contrappunto verbale e metaforico che preannuncia il suo stile
maturo1. Eppure il virtuosismo metrico2, maturato nello studio
dei modelli danesi che vanno da Oehlenschlàger a Heiberg, dis­
simulò a lungo, sotto un misto di vecchie eredità e di nuove
intenzioni, il fermento rivoluzionario della sua arte, la sua
esigenza di rinnovamento umano prima che letterario3. Isolato
in un ambiente culturalmente provinciale, ligio al dogma ro­
mantico del verso quale sola forma adeguata ai soggetti aulici
e ideali4, Ibsen tardò molto a sentire quest’ultimo come impe­
dimento alla creazione d’un dramma realistico5. E se la sciolta
prosa di Inger til Qstràt poteva sembrare una rottura con la
tradizione retorica del primo Ottocento6, in realtà, i drammi
seguenti segnavano un ritorno al verso e ai modi stilizzati è ar­
caizzanti della rievocazione storica.
La vena satirica — ch’era una forma dissimulata della sua
ispirazione morale — da una parte alimentava in lui le ambi­
zioni di poeta civile, castigatore di ogni viltà, esaltatore dello
scandinavismo di fronte agli avvenimenti del ’64 (En broder i
md, 1863; Troens grund, 1864) e del sacrificio come unico
mezzo di rigenerazione individuale e nazionale1 (Ved Abraham
Lincolns dod, 1865; Terje Vigen, 1861; Ved tusendarsfesten

1 « Er de Glimt fra Sjselens Dunkle, / der igjennem Mulmet brod, / Og


som Lynblink monne funkle / kun til evìg Glemsel fodt? / Var for-
gjceves al min Higen, / Var min Drom kuns et Fantom, / Er mig
noegtet Sjcélens Stigen, / Var min Digten hold og tom! - / Tier da I Un-
dertoner! - / Kan jeg eder ei forstaa, / Lad mig iblandt Millioner / Leve
glemt og glemt forgaa! / » (Sono gli sprazzi di luce che dal buio del­
l’anima / trafissero la tenebra / e che come lampi abbagliano, / sol­
tanto all’oblio votati? / Fu tutta la mia brama invano, / il mio sogno
soltanto un fantasma. / Mi è negato il volo dell’anima? / Fu il mio poe­
tare freddo e vacuo? / Ebbene, tacete allora voi arcane voci. / Se in­
tendervi non posso, / Lasciatemi fra milioni / vivere e morire obliato),
XIV, p. 43.
2 Che Brandes fra i primi mise in rilievo. H. Ibseny Kobenhavn, 1898,
p. 27.
3 XVI, pp. 302-303.
4 XVII, p. 122 sgg.
s XVII, p. 510 sgg.
6 O. Dalgard, Studiar over « Fru Inger til Qsteraad », Edda XXX, p. 8.
7 XVI, p. 208; X V III, p. 16.
184 Le letterature della Scandinavia

18 juli 1872); dall’altra informava le sue confessioni e rifles­


sioni di artista (Spillemeendy 1851; 0ppet brev til H. 0. Blom,
1859; I billedgalleriety 1859; Pà vidderne, 1859-60; Mindets
magt, 1864) fautore, sulle tracce di Kierkegaard, d’una estetica
antiedonistica*. Ma legandolo ancor una volta a una preminente
tradizione letteraria, rappresentata da Heiberg e da Paludan-
Muller, lo faceva indugiare in quella briosa e verbosa conver­
sazione rimata che regge da capo a fondo la Commedia del-
Vamore2 e ispira le divagazioni biografiche e storico-culturali del
Ballonbrev til en svensk dame (1870) e del Rimbrev til fru
Heiberg (1871).
L’Italia (dove trascorse quasi undici anni) gli si presentò
con un duplice volto. Quello classicistico, di terra della bellezza
ideale, di cosmo storico-estetico armonizzante civiltà e natura e
destinato ad ampliare e chiarire il suo senso dell’arte e della
vita3, e quello risorgimentale, di paese che veniva riconqui­
stando la sua libertà a prezzo di eroismi e di sacrifici4. Non
tutto per lui fu illuminante. L’Antico lo fuorviò trasformando
personaggi e temi drammatici in conflitti ideologici troppo com­

1 Benché consapevolissimo dell’essenza e dei fini dell’arte, come si può


vedere in billedgallerìety per es. in questa strofa: « ... i Kunsfens Rige /
der er det ene Formen som bar Rang; / hvis du vii domine Skaldens
Tonestige, / saa bor hvorledes, ikke bvad ban sang. / Hvad Kunstneren
bar tsenkt vii intet sìge -, / lad da Ideen gaa sin egen Gang; / det
bjalp kun lidt mod Himmelen at hìge, / hvis ej paa stserke Vinger du
dig svang... / ja Formen, Formen kun i et og alt / ... ved Formen bli-
ver mine vers til Digte! » XIV, p. 243 (nel regno dell’arte, la forma
soltanto ha valore; / se vuoi giudicare la gamma musicale del poeta, /
ascolta come, non cosa ha cantato. / Ciò che l’artista ha pensato, nulla
significa - / non ti curare delle sue idee; a poco giova bramare il
cielo, / se non ti libri su forti ali... / - la forma, la forma soltanto e
sempre / ... solo mediante la forma i miei versi diventano poesia).
Ibsen polemizzò più volte contro l’estetica formalista di C. Petersen;
e in una celebre lettera a Bjornson (12 settembre 1865, XVI, p. I l i)
la proclamò altrettanto calamitosa per la poesia come la teologia per
la religione.
2 Dove però in nuce già sono presenti essenziali motivi ibseniani.
Cfr. J. Northam, Love's Comedy, in Scandinavica, voi. 3, n. 1, 1964,
p. 32.
3 Molti anni dopo, nel 1898, sarà lui stesso a ricordare quel 9 maggio
del ’64 in cui per la prima volta gli apparve a Trieste (il testo curiosa­
mente ha: «presso Mira Mara») la bellezza dell’Italia; e il significato
dell’esperienza italiana, quasi miracoloso passaggio dalle tenebre alla luce,
per tutta la sua produzione artistica. XV, pp. 414-415.
4 Lettere a M. Thoresen, 3.12.1865 e a P. Hansen, 28.10.1870, XVI,
pp. 208, 316 sgg.; XVII, p. 16.
L’età moderna 185

plessi e lontani dal suo spirito (ellenismo e cristianesimo, libero


arbitrio e servo arbitrio, protologia ed escatologia, in Cesare
e Galileo). Ma, a contatto con l’arte michelangiolesca, con la
vita e con la natura meridionale, la poesia di Ibsen attinse le
dimensioni dell’energia eroica e del sublime, acquistò densità e
concretezza, precisione e rilievo; e — per contrasto —* intuì
i valori pittorici, e penetrò l’anima del paesaggio norvegese.
Brand e Peer Gynt, quasi due facce d’una medesima realtà
poetica sono intimamente condizionati da questa esperienza: il
primo per la monumentalità del disegno, il secondo per la lumi­
nosità del colore *.
Analoga, pur nell’evidente diversità, l’azione esercitata da
Brandes, quasi spirituale maieutica, sul pensiero di Ibsen. Par­
rebbe a prima vista impossibile un qualsiasi punto di conver­
genza fra l’illuministico sconsacratore della religione romantica
e il mistico evocatore di romantici fantasmi. Ma entrambi, in
fondo, erano sulla linea dell’individualismo aristocratico e anar­
chico dell’Ottocento; entrambi si erano serviti del messaggio di
Kierkegaard2come strumento di rivolta a ogni principio d’auto­
rità; e se nell’uno la fede materialista non andava disgiunta da
coerente e sincera adesione ai principi del liberalismo, non man­
cava nell’altro, insieme al volontaristico idealismo, il correttivo
d’una realistica e disincantata visione delle cose.
Senza dubbio l’agitazione del Brandes, intransigente e bat­
tagliero in nome della modernità, cioè delle verità dell’ora,
operò su Ibsen come fermento liberatore, come spinta decisiva
al rifiuto d’ogni sentimentalismo romantico e quietismo politico.
E Ibsen stesso n’ebbe piena e chiara coscienza3. Il suo para­
dossale anarchismo, che in tanta parte del carteggio col Brandes
apertamente irride allo Stato e alla Chiesa, alle rivoluzioni e
alle libertà politiche, stirnerianamente auspicando l’incondizio­
nata sovranità e libertà dell’individuo4; il biblico pessimismo
che, persuaso del fallimento della storia umana, invoca pn nuovo
diluvio universale con Paggiunta di un siluro sotto l’arca5;

1 Lettera a P. Hansen 28.10.1870 e a Bjornson 12.9.1865, XVI, pp. 315-


319; 109-113.
2 P. Rubpw, Georg Brandes og hans Uerere, Kobenhavn, 1927, p. 10.
3 XVI, pp. 223; 261; XVII, pp. 32; 483; X V III, p. 27.
4 Lettere: 20.12.1870; 17.2.1871 XVI; XVII, pp. 31, 453, 515; XV III,
p. 251; XIX, p. 149.
5 XVI, p. 374 sgg.; Til min ven revolutionsmanden; Rimhrev til en ven
(cioè G. Brandes).
186 Le letterature della Scandinavià

la fede in una personale missione di giudice di un’età, anzi di


un’intera civiltà, illuminata di luce cruda sotto i veli delle
consolanti illusioni; e finalmente la stessa naturalistica sve­
stizione dell’uomo ridotto a puro mimo che recita la sua parte
sulla scena della vita (anticipazione del teatro da Pirandello a
Beckett) — tutto questo si venne chiarendo in un assiduo e
concorde-discorde dialogo con Brandes.
Fu appunto Brandes a osservare come l’evoluzione poetica
di Ibsen procedesse per ripetuti tentativi e abbozzi, per appros­
simazioni e indicazioni1 verso una meta ideale perennemente
elusiva, verso una sempre sfuggente certezza assoluta 2, per la
prima volta intravvista nel Brand e nel Peer Gynt.
Ma l’osservazione del critico danese non va circoscritta sol­
tanto a questa prima fase dell’attività poetica di Ibsen. Ché
tale è il ritmo stesso del suo processo creativo, nel dramma come
nella lirica. Se da noi Slataper3 e Croce4 hanno parlato di
uniformità (il primo sinanche di angustia) del mondo ibseniano
e di ricorrenza dei medesimi motivi, anzi di approfondimento
d’un motivo unico, altri sulla scorta degli abbozzi e degli ap­
punti drammatici, ha potuto — con eccessive consequenziarie
deduzioni — rintracciare le costanti della sua evoluzione ideale,
il progressivo spostarsi dell’angolo visivo da spunti tragici ini­
ziali a finali epiloghi comici5.
Comunque sia, non è difficile oggi (persino sulle edizioni
francesi e inglesi) seguire da presso il lento processo di scavo
psicologico, che accompagna il corso della creazione ibseniana,

1 Op. cit., pp. 9-11.


2 Come chimerico miraggio questa non cesserà mai di attirare tutti i
personaggi dei drammi: « Il terzo regno » (Cesare e Galileo); « Il mi­
racolo » (Casa di bambola); « I liberi aristocratici » (Rosmersholm); « Il
regno di Appelsinia» (Il costruttore Solness) ne sono simboliche testi­
monianze (v. L. Jacobsen, En trilogi... in Edda, 1960, pp. 62-65).
3 « Egli non conosce che un’idea centrale, un fondamentale dissidio di
verità e bugia, coraggio e pusillanimità, individuo e società, gioia e do­
vere gretto... Leggendo, rileggendo, tornando a leggere Ibsen, a un tratto
vi prende una smania indicibile: aria! sangue! Riprendete Shakespeare »
in Henrik Ibsen, cit., pp. 216-217.
4 « Chi si è provato a far la storia dello spirito di lui, è stato costretto
a muoversi sempre sullo stesso posto, perché si è ritrovata dinanzi, gio­
vane adulta e vecchia, sempre la stessa anima, con la sempre presente
e immutata brama dello straordinario e del sublime », nel noto saggio
di Poesia e non poesia.
5 H. Weigand, The Secret .Mark of the Beast, in « Journal of English a.
Germanie Philology », vol. XXII, I, 1923, p, 51 sgg. e poi The Modern
Ibsen, New York, 1925, p. 74 sgg.
L'età moderna 187

il suo scrutare e scandagliare alla scoperta d’una prismatica


realtà sotterranea, fatta di arcani contrappunti e di corrispon­
denze fra verità e illusione, tra ciò che è e ciò che pare. Basta,
per convincersene, dare uno sguardo agli infiniti capillari ritocchi
e alle varianti — talvolta vere e proprie innovazioni — che
investono perfino i nomi dei personaggi o nascono dal senso
musicale della lingua (Rosmershólm insegni).
Parallelamente ai drammi anche la poesia si presenta come
una materia in via di ininterrotta stratificazione. Valga per
tutti l’esempio della celebre lirica Bergtnanden, per la prima
volta inclusa con altre nel settimanale satirico Andhrimner
del 1° luglio 1851; poi via via riplasmata e rimaneggiata e
quindi riaffiorante come allucinato simbolo di vana potenza in
uno degli ultimi drammi di Ibsen: Gian Gabriele Borkman
(nel II Atto e nell’epilogo).
Se i ben noti temi ibseniani già sono presenti nella prima
redazione: l’antitesi fra la dolcezza della vita allietata dal sole
e il travaglio nella tenebra sotterranea, fra vita e arte, fra
volontà e possibilità, le ulteriori elaborazioni non sono altro
che un progressivo affinamento poetico di questi temi, una
graduale ascesa da incertezze tonali e lessicali a una forma
salda e intensa, che il ritmo trocaico del verso sembra voler
scandire con i suoi colpi di maglio.
È stato detto1 che una linea comune ricollega questa poe­
sia — attraverso gli scritti di M. Hansen e di H. Steffens —
ai temi prediletti dei romantici tedeschi (da Noyalis e Tieck
a Arnim e a Hoffmann); ma ciò vale soltanto per il punto di
partenza del componimento ibseniano. Nei rifacimenti del
’63 e del ’71 è ben discernibile il tono tutto personale, l’espres­
sione chiusa e compressa, il mistico volontarismo con cui il
poeta affronta senza speranza e senza paura l’enigma della
vita e della morte; e che anche sul piano propriamente formale
si traduce in un metodico rigetto di forme facili e scorrevoli,
di termini incolori e scopertamente romantici (klippe, larm,
bane vej, naturens hjertekammer, sàdan gàr det slag i slag)
in favore di altri più congruenti e precisi, saturi di onomato­
peica pregnanza {bergvseg, dron, bryde vej, det dulgte, ham-
marslag pà hammarslag).
Chi si prova a studiare Ibsen nei particolari non può non
fare analogo discorso per gli altri versi, non esclusi quelli del

1 H. Beyer, Norsk og fremmed, cit., p. 136 e H. Dahl, H. Ibsen som


lyriker, Oslo, 1958, p. 55 sgg.
188 Le letterature della Scandinavia

Brand e del Peer Gynt: già punti d’arrivo, capolavori, rispec­


chianti il più profondo e personale pensiero del drammaturgo;
il quale ad essi appunto si rifarà nella sua ultima stagione
poetica.
È noto che i due drammi si condizionano a vicenda, per
il contenuto non meno che per la forma. La figura di Peer
è già anticipata in quella di Ejnar del Brand; i problemi del
Brand sono sempre sottintesi nel Veer Gynt. Singole scene
poi, scritte per il primo compaiono invece, sia pur con diverso
intento, nel secondo (per esempio l’elogio funebre del Pastore
sull’uomo che si tagliò un dito per non andare in guerra), il
cui significato risalta appieno solo alla luce di un confronto
con l’altro dramma. Per non dire poi del serrato contrappunto,
sul piano formale, tra ritmi trocaici che traducono l’implacabile
volontarismo di Brand e i fluidi dattili e giambi nei quali si
riflette l’elusivo sogno di Peer Gynt1. Ma entrambi i « poemi
drammatici » sono in realtà — anche se non vi difetta, specie
nel secondo, l’elemento comico — vere e proprie tragedie
etico-religiose d’ispirazione kierkegaardiana (qualcuno ha ricor­
dato il sacrificio di Abramo e la parabola del Figliol prodigo)2
per quella onnipresente antitesi fra l’essere e il dovere essere
che, invece di nullificare, esalta l ’uomo di fronte al destino.
È già qui il grande Ibsen, il poeta della « skranten samvit-
tighet », della coscienza malata (colpevole perfino dei propri
inespressi desideri) che — è stato detto esemplarmente3 —
s’oppone alla brama dello straordinario e del sublime; il pu­
ritano confessore e giudice4, ossesso dal peccato originale5,
che sente la vita soltanto come dramma di tentazione e
d’espiazione.
In un’alternanza di assurdo idealismo e di parimenti as­
surdo scetticismo Brand e Peer Gynt rappresentano, ognuno

1 A. Bjerke, Rim og rytme, Oslo, 1956, pp. 27-33.


2 M. Valency, The Flower and the Castle, New York-London, 1963,
p. 139.
3 Croce, cit.
4 Non è inutile a proposito ricordare le parole d’una lettera di Ibsen
a Bjornson (9.12.1867), che sembrano preludere alla celebre quartina di
«E t vers » (1878): « Du kan tro at jeg i mine stille timer roder og
sonderer og anatomerer ganske eerlig i mine egne indvolde; og det paa
de punkter hvor det lider vserst » (Credimi pure che nelle mie ore di
riflessione, frugo e sondo e disse2 Ìono nel mio intimo con assoluta sin­
cerità, specie nei punti più dolenti).
5 A Roma sdegnosamente condannò Parte raffaellesca, le cui figure gli
parevano « anteriori al peccato originale » (XVI, p. 252).
L’età moderna 189

a suo modo, l’individualismo d’Ibsen proteso in uno sforzo


eroico e vano di autodeterminazione aìl’infuori d’ogni legge
umana. Il primo, quasi profeta veterotestamentario assillato
dalla sua imperativa vocazione, invasato di sacro delirio, ana-
temizza la morale corrente in nome dell’ibseniana « esigenza
ideale » *, il secondo, eroe della fantasia e dell’illusione, rin­
nega per entrambe la realtà di se stesso, degli altri, di Dio.
Disumani, l’uno come l’altro, aprono però gli occhi sul proprio
errore tragico prima che la Nemesi li travolga (perché nel testo
non è parola di effettiva redenzione, se non nel senso che in
Brand, alla morte dell’idealista sopravvive l’idealismo, in Peer
Gynt, alla morte del sognatore sopravvive la pietà dell’« eter­
no femminino »), fedeli a quell’umanità che nasce dal loro
essere figure poetiche, non allegorie o astratti sillogismi2.
Brand, prima di comparire al giudizio del Deus caritatis, vince
la propria volontaristica frenesia e s’inginocchia e piange e
prega; Peer Gynt, prima di chiudere gli occhi, ritrova la verità
di se stesso nell’amore della donna-madre.
Eppure questo inesorabile Brand, che antepone (come poi
farà Stockmann e Gregers e Rosmer e tanti altri) l’« esigenza

1 Sono nel ricordo di tutti le sentenze rivelatrici dei due caratteri: Det,
som du er, veer fuldt og belt, / og ikke stykkevis og delt. (Sii ciò che
sei con tutto il tuo essere / non con l’animo diviso e distratto); ... Husk
at jeg er streng i kravet / fordrer intet eller alt (Rammenta che io sono
severo nel chiedere / esigo tutto o nulla); Sejrens sejr er alt at miste...
(La vittoria delle vittorie è tutto perdere); Evigt ejes kun det tabte
(È eterno possesso solo ciò ch’è perduto); Folk! Àkkordens aand er
Satan! (Uomini, lo spirito della conciliazione è Satana!) - Gaa udenom!
(Gira al larga!); Det er saa fait at se sk&bnen under ojne (Guardare
il destino negli occhi è troppo brutto); vdsr dig selv nok (Ti basti essere
come sei!) Tsenke det, onske det, ville det med; men gore det! - nej...
(Pensarlo, desiderarlo, volerlo, va bene, ma farlo: mai!).
2 È noto che Ibsen più volte reagì alle accuse mossegli di aver creato
in luogo di personaggi drammatici e poetici, problemi e astratte figura­
zioni (XVI, p. 202; X V III, p. 265); ma fu forse lui stesso a dare lo
spunto alla nota osservazione del Croce sulla ambiguità di rappresenta­
zione in figure come Brand e Stockmann. Oggi si vede chiaramente come
tale ambiguità sia dovuta al suo atteggiamento ancipite verso certi per­
sonaggi; e come in Brand sia già prefigurato quel trapasso dall’eroismo
all’illusione, dall’idealismo allo scetticismo che caratterizza la sua para­
bola drammatica. In fondo l’idealismo di Brand è, nei suoi effetti pra­
tici, non diverso, né meno letale, dal conformismo del Pastore Manders.
D’altra parte non si può negare quanto già Brandes (cit., pp. 31; 40-41)
e dopo F. Bull (VI, pp. 34-38) hanno osservato sulla presenza ancor
viva di scrittori moralisti come Heiberg e Paludan-Muller in questi
drammi di Ibsen. Valgano d’esempio le scene del celebre 4° Atto del
Peer Gynt.
190 Le letterature della Scandinavia

ideale », la verità del singolo alla felicità dei più; che in nome
del « dogmatismo della verità » 1 soffoca ogni gioia di vivere2,
è un uomo vivo, che soffre e ama, come figlio, come marito
come padre e ch’è riamato da una donna, per lui pronta a tutto
rischiare e patire; è un uomo che non ignora i fremiti della
passione e i dubbi e i rimpianti, anche quando procede intre­
pido sulle orgogliose vie delPascesi cristiana. Si rileggano al­
cune scene del dramma (la seconda del?Atto secondo, la prima
e la seconda del terzo, la prima e la seconda del quarto, la
prima e la terza del quinto) e si vedrà come l’estrema ten­
sione morale, anziché intralciarne ideologia, si traduce in lie­
vito fantastico d’una materia intensamente viva e umana.
Non diverso dal Brand, è il Veer Gynt, storia allegorica
di tentazione e d’espiazione, religiosa condanna dell’ignavia,
eppure animata tutta da una calda passione che ovunque pe­
netra a stringere e a sciogliere i diversi fili della vicenda, ad
alternare e armonizzare personaggi e scene naturali su un ma­
lioso sfondo di fiaba. Invenzione e riflessione, toni popolareschi
cantabili e rituale solennità tragica, astrazioni concettuali e
esseri vivi in carne e ossa trovano qui posto e si articolano,
in una trama di contrappuntistica rispondenza al Brand. Per­
fino le scene dei troll, e, in genere, l’evocazione delle primitive
forze demoniache (che fuori del Nord si sogliono interpretare
o come pura mascherata o come Moralità medievali) hanno
qui una loro viva e concreta realtà — anticipazione del mi-
stico-magico simbolismo ibseniano.
Al paesaggio senza sole in cui si riflette l’angusto rigorismo
di Brand fa riscontro lo spirito solare di Peer Gynt, la luce
che si prismatizza in tutti i colori; all’esigenza ideale, l’esigenza
umana. Vivere, gioire, ridere delle verità eterne e dei terrori
della coscienza, cedere al fascino dell’illusione (ch’è forse
menzogna, ma — dirà poi Ibsen — menzogna vitale,
livslogn): ecco il credo di Peer Gynt. Si dimentichi per un
momento la sua giovanile spontaneità (che gli viene dal mo­
dello e dall’ambiente della fiaba popolare3 e si avvertirà in
quel suo affidarsi alla « menzogna vitale » un presagio del­

1 A. Dresdner, Henrik Ibsen, nordmand og europeeer, Kristiania, 1918,


p. 53.
2 E. Beyer, Livsglseden som problem i Ibsens dikting, in Edda, 1948,
p. 169.
3 K. Elster, Henrik Ibsens Peer Gynt, Oslo, 1928, p. 9 sgg. e VI,
pp. 19-26. Ma, a ragione, D. Haakonsen (Henrik Ibsens Peer Gynt,
Oslo, 1967, p. 117) ha ricordati probabili influssi byroniani.
Uetà moderna 191

l’illuso patetismo di Hjalmar o di Allmers; si ascolti attenta­


mente il suo riso beffardo e si indovinerà il seguito: il ghigno
cinico di Relling1o il fremente sarcasmo della signora Alving2.
Partito alla conquista del più fantastico impero, Peer Gynt
finisce con la corona d’imperatore dei pazzi nel manicomio
del Cairo; e alla immancabile Nemesi, impersonata dal Fon­
ditore di bottoni, nulla ha da opporre. In ossequio al rigo­
rismo del moralista dovrà essere il suo « miglior io » 3, cioè
Solveig —-una nordica Lucia, la cui pura volontà di sacrificio
s’effonde tutta nel canto — a fare da corredentrice in nome
d’una teologica « satisfactio vicaria ». Sarà lei a far qui la
parte che in Brand è attribuita a Gerd e al « Coro degli in­
visibili ».
In Brand e in Peer Gynt la lingua d’Ibsen fa le sue più
alte prove.
Siamo certo ancora lontani da quella forza di caratterizza­
zione realistica, che la prima volta s’avverte già incisiva nel-
YUnione dei giovani per culminare poi n^YCAnitra selvatica
e in Rosmersholm4, né il poeta è ancora sceso per le semplici e
scarne vie che portano alle sue tetre stanze, là, dove il som­
messo, in apparenza anodino, dialogare dei personaggi denun­
cia la falsità d’ogni mito, le illusioni della ragione umana e
l’irredimibile infelicità del vivere5. Da tale punto di vista,
cioè della lineare concentrazione drammatica in poche scene
d’intenso pathos, i due drammi non scoprono il loro intimo
pregio. Che è altro, ma non minore.
Mai come ora infatti Ibsen s’innalza a tanta potenza di

1 Idealer[?] Vi bar ju det gode norske ord: logne! (Gli ideali? Ma noi
abbiamo la nostra buona parola norvegese: menzogne!), X, p. 145.
2 Ja, dette med lov og orden! Jeg tror mangengang, det er det, som
voider alle ulykkerne ber i verden (Ah, questa storia della legge e del­
l’ordine! Molte volte penso che sia proprio questa la causa di tutte le
sciagure del mondo), IX, p. 89. Si sa che il mito della felicità umana
appariva a Ibsen o come selvaggia libertà d’istinti: per es. la barbarica
« innocenza » dei vichinghi (di cui si parla in Brand, V, p. 247, e in
Bygmester Solness, X II, pp. 91, 107-108) — estrema reviviscenza del
rousseauiano naturismo — o come coscienza libera dal peccato originale
(Rosmersholm, X, p. 430).
3 Logeman, A Commentary on H. Ibsen’s Peer Gyntt Haag-Kristiania,
19542, p. 335.
4 T. Knudsen, Phases of Style and Language in the Works of H. Ibsen,
« Scandinavica », 1963, vol. 2, n. 1, pp. 14-15.
5 Al suo tardo virtuosismo basteranno poche parole (aklam - akli - ma-
tisere sig) balbettate da un insignificante personaggio (nella Donna del
mare) per mettere a nudo il nervo d’una tragedia.
192 Le letterature della Scandinavia

fantasia, a tanta musicalità e duttilità d’espressione, a paragone


della quale anche la tarda prosa ritmica di certi drammi come
per esempio La donna del mare troppo spesso mostra una
certa tendenza all’esteriore illustrativi.
Dietro il movimento intenso e le titaniche impennate del
Brand, dietro la ricchezza e varietà del gioco metaforico del
Peer Gynt si sente pulsare tutta la giovinezza del poeta, tu­
multuante di smisurati sogni, piena di passioni frustrate e di
precoci rimpianti; e come ora l’ispirazione appare enorme­
mente cresciuta, dilatata, cosi più impetuosa e audace è la
foga lirica, anche se qua e là trasmodante nell’oscuro e nel
prolisso *.
Ora per la prima volta il poeta osa,le più ardite innova­
zioni morfologiche e sintattiche, alterna i più diversi schemi
metrici (predominante però è il « knittel »), trapassa senza
sforzo dal pathos alla satira, dal sublime al grottesco, dal rea­
listico al simbolico. Malgrado ogni struttura allegorica, il
mondo ibseniano è qui ancora aperto: vi circola dentro il
sangue, vi si respira aria libera, vi palpita una vita impetuosa
ricca varia. È un mondo che fiorisce e germoglia.
Perciò, a tanta distanza di tempo, ancora oggi, si torna
dalle scene di plumbea desolazione di certi drammi, tecnica-
mente perfetti, all’acerba fede di Brand e alla sognante no­
stalgia di Peer Gynt. Quale slancio lirico in quella inesausta
tensione morale e in quel getto di collera biblica! Quanta
freschezza e purezza in quelle scene tra narrative e dramma­
tiche che visualizzano il sempre risorgente contrasto fra sogno
e realtà. Quanta vitalità in quei versi sdegnosi, tempestosi, per­
fino assordanti con la simmetrica fissità delle loro rime, e in
quel polifonico gioco di melodie che riflettono le continue va­
riazioni dell’animo: dalla ferocia di Brand che strappa ad
Agnes i panni del figlioletto morto in nome della carità cri­
stiana, all’aereo sogno di Peer, alla nostalgica ninnananna con
cui egli accompagna la morte di Àse; all’altra finale di Solveig,
che, nel suo grembo materno, accoglie il pellegrino derelitto.
Due fra i molti esempi eminenti di questa complessa ispi­
razione poetica si possono trascegliere nel Peer Gynt: il di­
scorso funebre del Pastore sull’uomo che si tagliò un dito per
non andare in guerra2, cosi intimamente legato nella sua genesi
cronologica e psicologica al Brand; e l’esordio stesso del Peer

1 Brandes cit., pp. 32-33.


2 Già secondo Brandes (cit., p. 51) «En poetisk perle af ho} rang».
L’età moderna 193

Gynt che trae colare e nerbo dalla lingua viva del popolo e
insieme (come spesso in Ibsen) adombra l’ispirazione simbo­
lica dell’intero dramma.
Ironici e patetici a un tempo i due episodi rappresentano in
duplice forma la stessa antitesi: il primo, della realtà alla
fantasia; della fantasia alla realtà, il secondo. Il primo, epopea
degli umili contro i potenti, illustrata da quell’anonimo ribelle
all’autorità, reo e peccatore di fronte allo Stato e alla Chiesa,
di fronte alla legge e alla società, eppure veramente eroico
perché fedele a se stesso nell’angusta cerchia della famiglia e
del lavoro quotidiano, nella perenne lotta contro la natura e
il destino. Il secondo, apoteosi della fantasia e del sogno che
trasfigurano la realtà. Perché il Peer mentitore e spaccone
che fin dalla prima battuta del dramma campeggia al centro
d’un mondo di vane illusioni, e che, trascinato dagli eventi,
compare infine privo del suo « io gyntiano » davanti al Fon­
ditore di bottoni, è in fondo un poeta, un sognatore, la cui
fantasia è sempre pronta a scattare e a impennarsi come il
caprone ch’egli cavalca verso l’abisso sul crinale di Gendin.
E l’episodio intero, mentre, senza parere, drammaticamente
evoca con la sua intensa dinamicità, tutta incalzante balenio
d’immagini, l’incantato paesaggio norvegese, ci dà la chiave
per penetrare nell’anima stessa del protagonista.
Anche dal punto di vista formale della composizione il
Peer Gynt è, come il Brand, un « poema drammatico » in
versi — prevalente il tetrametro trocaico rimato — a scene
per se stanti, entro le quali si svolge l’intera vita del prota­
gonista; ma, a differenza degli altri drammi ibseniani, è tutto
intessuto su una trama di ritmi e di cadenze musicali e reci­
tative. Ibsen stesso indicò a Grieg le parti da musicare (il
monologo di Peer nel primo Atto, la scena della donna verde­
vestita e quelle del castello di Dovre e del Gran Curvo nel
secondo, la scena della morte di Àse nel terzo, la scena del
canto di Solveig nel quinto, e tante altre ancora); e quando
il dramma per la prima volta comparve sulla scena, il 24 feb­
braio 1876, l’enorme successo presso il pubblico cancellò con
un colpo di spugna le apodittiche pedanterie del critico da­
nese Clemens Petersen parimenti celebri, se pur per opposte
ragioni, alle parole di risposta di Ibsen (« Il mio libro è
poesia; e se non lo fosse, il concetto di poesia, nel nostro
paese, in Norvegia, si conformerà al mio libro...1»).

1 In una lettera a Bjornson del 9.12.1867.

XXVII - 8. Lett, della Scandinavia.


194 Le letterature della Scandinavia

Giorgio Brandes iniziava allora, come si è detto, la sua


radicale revisione critica della cultura nordica contemporanea;
e per tutta la giovane generazione di scrittori scandinavi le
sue Grandi Correnti furono appunto il nuovo vangelo estetico
e filosofico. Dai soggetti storico-nazionali in versi (Mellem
Slagene, Fra le battaglie, 1844; Kong Sverre, Re Sverre, 1861;
Sigurd Slembey 1862) Bjornson passava, nella prosa polemica
di Redaktoren (Il giornalista, 1874) e di En Fallii (Un falli­
mento, 1875), a discutere gli scottanti problemi del tempo;
Ibsen faceva altrettanto precorrendo Augier. Dumas e perfino
Becque con l’aspro realismo di De unges forbund (Unione
dei giovani) e anche di Kejser og Galileeer (Cesare e Galileo);
realistico anch’esso, malgrado la caotica macchinosità dell’in­
trigo coi suoi cinquantasette personaggi, di cui quaranta sto­
rici!); mentre Strindberg, ancora esordiente, ricalcava le orme
dei due norvegesi.
L’Unione dei giovani (1869) e più ancora Colonne della
società [Samfundets sfotter, 1877), sono i due drammi a tesi
che segnano l’influsso decisivo del rivoluzionarismo bran-
desiano.
Ma mentre Colonne della società s’inserisce in pieno nella
corrente moraleggiante del tempo, per la figura centrale del
console Bernick che all’ultima ora sembra pentirsi e accusarsi1
e per gli altri personaggi, rappresentanti tutti, fuorché Lona
Hessel, di una società che nasconde la sua intima degenera­
zione sotto una vernice di rispettabilità; ed è opera tecnica-
mente notevole per il serrato concatenamento delle scene e
per i ben preparati effetti teatrali, solo in Et Dukkehjem (Ca­
sa di bambola, 1879) Ibsen, abbandonato definitivamente
lo schema tradizionale dei Dumas, degli Augier, dei Sardou
e i connessi espedienti convenzionali (dal « resonneur » alla
confidente, dalla lettera rivelatrice al malinteso, dal soliloquio
al colpo di scena, ecc.), riesce a foggiarsi quella personale
forma d’arte che sopravviverà alla moda del tempo.

1 Questo il giudizio tradizionale sul dramma (da R. Woerner, H. Ibsen,


Leipzig, 1909, II, pp. 57-61 a E. Reich, Ibsens Dramen, Berlin, 192314,
p. 200, e a R. Williams, Brama from Ibsen to Eliot, London, 1954,
p. 66. Solo di recente J. Me. Farlane, Meaning a. evidence in Ibsen's
drama (In Contemporary Approaches to Ibsen, Oslo, 1966), pp. 38-39
si è chiesto se la « conversione » di Bernick non sia soltanto un atto di
scaltra simulazione e di conformismo alla morale borghese per salvare
se stesso ima volta ancora.
L'età moderna 111

Per YUnione dei giovani e Colonne della società aveva


ancora avuto bisogno di quindici e diciannove personaggi;
nei drammi seguenti gliene bastano pochissimi: da cinque a
nove; prima l’azione drammatica procedeva attraverso una
trama complessa e decentrata nello spazio e nel tempo; ora
evolve rapida e unilineare verso la catastrofe dell’epilogo.
E solo il dialogo crea i personaggi: un dialogo semplice, quo­
tidiano, anche quando è carico di ambivalenze e risonanze
simboliche. Da una situazione drammatica si risale così gra­
datamente, inavvertitamente all’antefatto e da questo attra­
verso un gioco alterno di luci e di ombre si ritorna a quella:
finché presente e passato, quasi senza che si arrivi a render­
sene conto, appaiono stretti entrambi nello stesso nodo del
destino.
Questo per quanto riguarda i mezzi espressivi. Ma in
Casa di bambola c’è più assai che il collaudo d’una nuova
tecnica teatrale. Qui per la prima volta si rivela quel tipico
contrasto ibseniano tra idealismo morale e radicale scettici­
smo, tra volontà d’assoluto e incapacità di conseguirlo, da
cui scaturirà la sua arte più matura.
La romantica sbarazzina che, all’insaputa del marito onesto
ma conformista, falsifica una cambiale per salvargli la vita, e
poi, scoperta, lo abbandona1 quando a sua volta ne scopre
il meschino egoismo, non è quell’eroina che i fautori del
femminismo e dell’ibsenismo hanno acclamato per tanti anni.
Grande è certo la generosità del suo altruistico gesto che le
impone sacrifici ed economie; grande anche la fierezza nel
tener per sé il suo segreto e nel resistere alle profferte di
aiuto di Rank; ma non meno grande è in lei, combinata
con una infantile paura, la capacità di autosuggestione, l’aspet­
tazione gratuita del miracolo, la volontà di chiuder gli occhi
sui fatti spiacevoli; tanto che più d’un critico, a ragione, ha
parlato di tragicommedia anziché di tragedia ibseniana (B.
Shaw, H. Weigand, M. C. Bradbrook).
Non c’è dubbio che Ibsen inclinasse a contrapporre la
donna nella sua istintività e spontaneità al calcolato egoismo
e legalismo dell’uomo, e che vedesse con simpatia, almeno

1 E con lui i figli, « per scoprire chi abbia ragione, la società o io »


(at komme efter, hvem der har ret, samfundet eller jeg). Anche di recente
qualcuno ha definito l’idealismo ibseniano, sublime nei moventi ma cala­
mitoso negli effetti (S. Northam in Contemporary Approaches, cit.,
pp. 11-18).
196 Le letterature della Scandinavia

in un primo tempo, il movimento femminista e anche chi lo


rappresentava in Norvegia; Selma delYUnione dei giovani,
Lona Dina e Martha di Colonne della società e anche Nora di
Casa di bambola non sarebbero concepibili senza le polemi­
che intorno ai diritti della donna, sorte nel Nord verso la
metà delTOttocento. Dalle prime stesure del dramma è inol­
tre chiaro che si trattava di una tragedia: non esisteva qui
né la scena d’amore né la tarantella in cui culmina il vir­
tuosismo femminile di Nora; né Torvaldo, d’altra parte, ave­
va nulla delle pose eroiche assunte nel secondo e terzo Atto;
e perfino il suo grido di trionfale sollievo, a catastrofe evi­
tata, « sei salva Nora! », era ben diverso da quello della ste­
sura finale: « son salvo Nora! ». Via via però che i personag­
gi prendevano forma e individualità non deve essere sfuggi­
ta all’occhio inesorabile del poeta la duplicità dell’umana
natura, l’antitesi tra l’essere e il parere, tra la verità interna
e la verità esterna: ed ecco allora mescolarsi alla sincerità dei
sentimenti la teatralità degli atteggiamenti, ecco l’imbarazzo
di Torvaldo dinanzi a Krogstad ammantarsi di austerità mo­
rale e la puerile paura di Nora farsi velleità suicida e insie­
me fede cieca nel « miracolo »: cioè gratuita certezza che il
mediocre e onesto Torvaldo sia pronto a prendere su di sé
ogni responsabilità del falso; ecco la scena di addio del ma­
lato Rank, a Nora che ama e a Torvaldo che gli è amico, pas­
sare attraverso tutta la gamma degli equivoci tragicomici, de­
terminati dai rispettivi impenetrabili egoismi. Persino il ce­
lebre finale ha qualcosa di melodrammatico (Weigand) nel­
la circostanziata motivazione delle accuse che piombano sul
capo di Torvaldo e nella teatralità dell’addio di Nora.
Quando apparve sulla scena il 4 dicembre 1879 il dram­
ma produsse ovunque « un effetto potente ma anche pauro­
so » (Brandes); e la tempesta di indignazione che ovunque si
scatenò, a Copenaghen come a Cristiania, a Stoccolma come
a Berlino non si era ancora sedata, che Ibsen già rispondeva
con Gengangere (Spettri, 1881). Avevano protestato in nome
dell’etica cristiana contro il gesto rivoluzionario di Nora? Ora
la sorte della signora Alving avrebbe mostrato le conseguenze
d’una vita coniugale fondata sulla menzogna.
Nudo cupo inesorabile come tragedia antica, Spettri svol­
ge un duplice tema; quello dell’eredità fisica di Osvaldo che
si compie nello spazio di ventisette anni sotto gli occhi impie­
triti di dolore della madre; e quello dell’ereditarietà spirituale
della madre, che vede il proprio ideale di emancipazione e di
L'età moderna ■H
libertà umana soccombere sotto il peso morto dei pregiudi­
zi e delle ataviche superstizioni morali e religiose (Weigand).
Nella tipica forma ibseniana della rivelazione retrospettiva
(M. Jacobs) questi due motivi s’intrecciano con un crescendo
tragico che non ha pari nella letteratura drammatica d’ogni
tempo e d’ogni luogo1.
Proprio quando la signora Alving crede di essersi liberata
dagli spettri del passato fuori e dentro di sé, quando crede
di poter finalmente cogliere il frutto d’un’intera vita di si­
lenzio e d’eroico sacrificio accanto al marito dissoluto: proprio
allora il destino la colpisce più crudelmente. La malattia di
Osvaldo, il suo amore inconsapevolmente incestuoso per Re­
gina che gli è sorellastra, il disperato ma vano sforzo della si­
gnora Alving di eludere la volontà del fato: tutto converge
a far precipitare il dramma, che, in tre soli atti, corre alla
catastrofe. Sicché quando il figlio, róso dal male inesorabile,
scongiura sua madre di somministrargli, al bisogno, il vele­
no che lo libererà, abbiamo già raggiunto il culmine della
tragedia. E Elena Alving non ha più scelta: per amore, deve
uccidere suo figlio. Cessa ogni possibilità di azione dramma­
tica, ogni possibilità di distinzione tra bene e male; e noi
assistiamo al puro strazio d’una vittima la cui grandezza eroica
è sottolineata, per contrasto, dalla incolore mediocrità, dal
supino conformismo del Pastore Manders, servilmente attac­
cato ai principi del « dovere, della legge e dell’ordine ».
V’è molta polemica contingente2 in questo dramma, che
nel 1889 inaugurò sulla « Freie Buhne » il naturalismo sce­
nico in Germania; eppure esso spicca fra gli altri di Ibsen per
la sua fredda luce tragica, per la sua concentrata passione,
per la sua terribile ironia. Osvaldo assetato di gioia e di bel­
lezza cerca il sole proprio quando dalla vita non può più spe­
rare che il veleno; la signora Alving, anche lei anelante alla
felicità e all’amore, tutta se stessa sacrifica al bene del figlio
per finire faccia a faccia con la disperazione; il Pastore Man­
ders predica il più sublime idealismo ed è direttamente cau­
sa del naufragio d’ogni ideale.
Questa la conclusione del moralismo astratto e delPidea-

1 Cfr. per un acuto paragone con PEdipo sofocleo F. Fergusson, The


Idea of a Theater (cit. in bibliografìa), pp. 162-165.
2 Osserva giustamente F. L. Lucas, Ibsen and Strindberg, London, 1962,
p. 160 sgg., Pinverosimiglianza che Peredità sifilitica colpisca solo Osval­
do e non la sorellastra Regine, anche lei figlia del Capitano Alving.
198 Le letterature della Scandinavia

lismo metafisico, questo il risultato del semplicistico dottri­


narismo che ignora la complessità e l’angustia della condi­
zione umana.
Ibsen fu accusato di nichilismo perfino da chi sin allora
lo aveva difeso; conservatori e liberali gridarono concorde­
mente allo scandalo 1, mentre direttori censori e anche attori
teatrali, da Schroder a Jaeger, da J. Juel a E. Bogh faceva­
no a gara a rifiutare il dramma; che soltanto il 22 agosto
1883, grazie alla tecnica e all’intelligenza del regista svedese
August Lindberg, comparve, per la prima volta, sulla scena
nella cittadina svedese di Hàlsingborg.
Ancora una volta s’affrontavano qui, in Ibsen, predicatore e
poeta in un irrisolto contrasto, che il dramma seguente En
Folkefiende (Un nemico del popolo, 1884), ulteriormente sot­
tolineò di sfumature tragicomiche. Anche qui l’idealista che
getta la fiaccola incendiaria della verità in mezzo alla stupida
« compattezza della maggioranza » per riscattarla dall’errore,
è un curioso impasto di eroismo e di ingenuità2, già prean-
nunciante la figura di Gregorio Werle déMAnitra selvatica.
Anche qui il pathos è introdotto per dar rilievo alla commedia,
ché Ibsen stesso una volta definì grottesco il suo « nemico del
popolo ».
Non si tratta — come è stato detto sin troppo spesso —
del tramonto dell’idealismo ibseniano. Al contrario: il senti­
mento di profonda sfiducia e di tristezza desolata che accom­
pagna la tragicommedia dell’esistenza nasce ora come prima
da amara disillusione e da idealismo ferito. Quel che qui si
tempera fin quasi a scomparire è solo la punta del polemi­
sta, l’asprezza del riformatore, che cede a un senso di com­
passione e comprensione per ogni umano soffrire.
Si sa che Ibsen stesso chiamò tragicommedia il suo dram­
ma Vildanden (L’anitra selvatica, 1884), ma è una tragicomme­
dia in cui tragico e comico indissolubilmente si avvicendano,
quasi due facce della medesima realtà. Se a volte il comico ad­
dirittura trapassa nel farsesco — come in quella caricatura di
Amleto che è Hjalmar Ekdal, melodrammatico declamatore del
vuoto spirituale, o come in Gregorio Werle, ridicolo predica-

1 II dramma, come dice G. Gran (Henrik Ibsen, Kristiania, 1918,


p. 122) fu come « una bomba esplosa in due direzioni ». Solo Brandes
e Bjornson presero ie difese di Ibsen.
2 In una lettera al Brandes (17.2.1871) Ibsen sosteneva senz’altro la
necessità di « abolire lo Stato ».
L’età moderna 199

tore dell’« esigenza ideale » — indicibilmente triste è tuttavia


l’impressione che si riceve dal dramma di questi vinti, paghi
tutti, come la loro addomesticata anitra, d’un simulacro di
vita.
Sicché persino il suicidio della quattordicenne Edvige, che
getta col suo sacrificio un lampo di tragedia in quella stagnante
atmosfera di quotidiana mediocrità, resta episodio: non porta
al consueto epilogo ibseniano, alla crisi risolutiva della lunga
tensione drammatica. Dinanzi a quel corpo esanime solo la
madre, nella sua prosaica semplicità, piange; mentre gli altri
continuano tutti a declamare la loro parte grottesca e spettrale
a un tempo: Hjalmar Ekdal quella dell’incompreso e incon­
solabile eroe, Relling quella del freddo scettico, Gregorio
quella di apostolo della « esigenza ideale », Molvik quella del
religioso di professione.
Ciò che appunto distingue questo dramma dagli altri è
l’inesistenza d’una crisi risolutiva. Come acutamente ha det­
to un critico (Weigand), al posto della sequenza causale c’è
qui il quadro spaziale, cioè la raffigurazione di destini umani
nella loro realtà quotidiana. E lo svolgimento dei caratteri
non è, come di solito, retrospettivo, ma avviene sotto i nostri
occhi, già fra il primo e il quarto Atto, attraverso un lento,
quasi inavvertito susseguirsi di piccoli tocchi che progressi­
vamente dischiudono il labirinto del cuore umano.
Come si compenetrano qui e s’intrecciano bene e male,
verità e menzogna, tragico e comico in un alterno irripeti­
bile gioco di luci e di ombre! Hjalmar, amleticamente malin­
conico anche quando è intento a trangugiare appetitose cola­
zioni, idolatrato dalla figlioletta Edvige che tutto gli sacrifica,
rispettato e curato dalla devota moglie, eroicizzato da Gre­
gorio; Gregorio, chiuso nel suo missionario ideale, che spinto
all’assurdo, provoca la morte di Edvige*; Relling, pietoso
nel suo ostentato cinismo, che contrappone alla « febbre di
giustizia » di Gregorio la teoria dell’illusione o della « men­
zogna vitale », indispensabile agli uomini per vivere.
Sono poche le figure dei drammi seguenti che come que­
ste rivelano appieno l’arte matura di Ibsen: quella sua capa­

1 Qui Lucas, dt., p. 185, ricorda l’assurdo sacrificio di Abramo,


tanto caro a Kierkegaard. E sul valore sacrificale della morte di Edvige
ritornano D. Haakonsen, The function of sacrifice in Ibsen’s realistic
drama (in Contemporary Approaches, cit., pp. 32-33), e già prima Jens
Kruuse, «Farce og tragedie i ét », in Mesterv&rker, Kobenhavn, 1955.
200 Le letterature della Scandinavia

cità di rappresentare insieme gli slanci ideali della passione


e i suoi traviamenti, l’anelito alla felicità e il senso di colpa
che la rende irraggiungibile. E forse solo Rosmersholm e
Hedda Gabler possono essere ravvicinati all'Anitra selvatica
per potenza d’espressione e complessità d’ispirazione.
Il primo dramma è d’una simmetria perfetta. Al centro
della prima parte è Rosmer; della seconda Rebecca; il primo
Atto svolge il presente di Rosmer, il secondo il suo passato;
il terzo il passato di Rebecca, il secondo il suo presente (Brad-
brook). Rosmer, debole e sensibile, disarma per il patetico e
quasi infantile candore, per l’ingenua ma sincera fede nella
possibilità di nobilitare gli uomini, che di lui fa l’ultimo rap­
presentante della stirpe austera e intemerata di Rosmersholm;
Rebecca avvince per l’avvampante passionalità che non co­
nosce freni di coscienza.
È lei la vera protagonista del dramma. Originaria del
Finmark — quell’estremo nord che i suoi antenati vichin­
ghi difesero come ultimo baluardo dell’antico paganesimo —
porta nella cupa atmosfera di casa Rosmer l’acre fermento
della sua giovinezza spregiudicata e avventurosa. E un « paz­
zo desiderio di Rosmer » s’impossessa di lei come fato ine­
luttabile.
Apprendiamo retrospettivamente che Beata, la moglie del
Pastore Rosmer, concluse col suicidio l’impari lotta a lungo
sostenuta contro la diabolica rivale; ma la vittoria su Beata
non è che l’inizio della sconfitta di Rebecca. Benché ignaro
del vero motivo di quel suicidio e dolcemente asservito alla
nuova passione, Rosmer non potrà essere tutto di Rebecca,
perché è incapace di liberarsi dal peso del suo passato; privo
della fede avita, di cui conserva però l’altruismo morale, tor­
mentato dalla sua delicatissima coscienza, s’attarda, invece
di agire, in dolenti fantasticherie e in schive meditazioni.
Il nodo della tragedia è tutto qui: non riuscendo a farlo
suo, Rebecca gli si sacrifica volontariamente, vinta se non
conquistata dalla coscienza cristiana dell’uomo che ama. Ma
questo sacrificio non è certo improvviso né incontrastato. La
donna che finalmente confessa a Rosmer il proprio delitto è
ben diversa da colei che una volta lo commise, « capace di
qualsiasi azione... sicura della sua libera e intrepida volontà...
ignara d’ogni scrupolo e d’ogni vincolo umano ». Cadono ad
una ad una tutte le sue convinzioni e illusioni sotto i colpi
d’un destino più forte di lei. Ma Rebecca non tenta ipocri­
tamente di discolparsi né simula pentimento alcuno: anzi,
Uetà moderna 201

quando Rosmer, a confessione avvenuta, le offre la sua mano,


non esita a rifiutare, perché sente impossibile la felicità ac­
canto a quell’uomo indissolubilmente legato al passato. E
quindi la successiva rivelazione del proprio passato incestuo­
so — che giunge inattesa per bocca del fratello di Beata —
a mostrarle i limiti in ogni anarchica emancipazione, non fa
che precipitare in lei ima decisione già irrevocabile.
L’amore per Rosmer può ora, ma soltanto ora, purificarsi
ed esaltarsi nel supremo altmistico sacrificio. Ella, per amore
di Rosmer, seguirà l’esempio di Beata; e, con lei, lo seguirà
Rosmer stesso, che in nome d’un assoluto e inumano ideali­
smo, come Brand, come Gregers e come gli altri eroi ibseniani
nella morte vede l’unica via dell’espiazione1.
Se Rosmersholm è da capo a fondo pietosa tragedia — e
tale la sentirono pur tra incomprensioni e svisamenti pub­
blico e critica — Hedda Gabler è uno di quei drammi che
difficilmente si piegano alle definizioni. Freddo incisivo ama­
ro come smorfia di disgusto sembra nato dalla puritana rea­
zione del vecchio Ibsen a quello che doveva assere il suo
ultimo fuoco d’amore.
Senza cambiamenti di scena, nello spazio di trentasei ore
si compie il destino della demoniaca e decadente Hedda Gabler.
Quale tetro incubo suggerì a Ibsen di legare insieme la
bellezza senza luce e senza calore dell’aristocratica Hedda
Gabler e l’ingenua e trasudante goffaggine del professore
Jorgen Tesman? Quale amaro capriccio gli fece unire le sor­
ti di quella nobile decaduta, esasperatamente egocentrica nel
suo sterile estetismo, al borghesuccio cartaceo la cui più alta
aspirazione è di restaurare e pubblicare gli scritti altrui?
La tragedia di Hedda consiste non solo nell’incapacità di
adattarsi al mediocre ambiente circostante, ma nelle contrad­
dizioni della sua stessa sterile natura: schiava delle convenzioni
sociali e insieme gelosa della propria libertà al punto da re­
spingere l’adulterio- col dissipato intellettuale Lovborg; dis­
simulatrice insieme e sincera nella sua crudeltà al punto da
confessarsi alla rivale Thea, sulla quale proprio si esercita
tale crudeltà, scioglie finalmente l’enigma del suo io distrug­

1 « Det Rosmerske livssyn adler, men det dreper lykken » (La concezione
della vita dei Rosmer redime, ma uccide la-felicità) dice Rebecca quando
finalmente si arrende all’inesorabilità del passato; che nelle semplici
parole della signora Helseth trova la sua epigrafe: « Salig fruen tog-
dem » (La defunta padrona li ha portati via).
202 Le letterature della Scandinavia

gendo insieme alPaltrui la propria vita. Quando tutto intor­


no a lei sembra precipitare nel « ridicolo » e nel « volgare »;
quando Lovborg, da lei spinto alla bella morte, finisce invece
nel più banale suicidio in casa di una avventuriera, quando la
sua geniale opera è da lei data alle fiamme in odio alla donna
che Tha ispirata, Hedda trova la forza di sopprimersi per
sfuggire al cerchio delle disillusioni che le si stringe attorno e
al ricatto d’uno spregiudicato corteggiatore. E al suo gesto di­
sperato fa da ironico contrappunto la nascente intesa tra Thea
e Jorgen, i due esseri mediocri, ai quali solo appartiene la vita
e la felicitàl.
Gli ultimi quattro drammi di Ibsen segnano le varie tappe
della discendente parabola della sua arte. Non si tratta certo
di improvviso declino, perché anche qui abbondano le scene
di rara potenza creativa, ma i motivi drammatici, come già
notò G. Gran, sono spesso semplici variazioni o ripetizioni
di motivi precedenti (cfr. le somiglianze spirituali e sceniche
fra Brand e Nàr vi dode vàgner) o s’intendono (Il costruttore
Solness valga da esempio) solo sul piano simbolico o solo sul
piano biografico o su una sistematica contaminazione dei due
piani, che dà all’intera vicenda quella coloritura ambigua e
metaforica che tanto ha affascinato gli odierni interpreti sur­
realisti; e nel malinconico rievocare e riecheggiare già lasciano
intravedere la mano stanca del vecchio.

In Norvegia e ben oltre i suoi confini Ibsen è stato il


creatore del dramma moderno. E veramente pochi altri scrit­
tori hanno avuto come lui una maturazione spirituale così in­
dipendente e libera da suggestioni esterne, un intuito poetico
cosi precoce e sicuro, pur nel lungo e faticoso tirocinio ar­
tistico.
Già in Catilina si sentiva fra le ingenuità dell’esordiente
l’accento personale che la posteriore esperienza di « istruttore
scenico » e la conoscenza diretta dei francesi — Scribe, Augier,
Dumas, Sardou — hanno solo tecnicamente affinato e scal­
trito, non sostanzialmente mutato. Dal punto di vista del

1 È noto che Strindberg rivendicava la discendenza della ibseniana Hedda


Gabler dalle proprie eroine: Laura (Fadren) e Tekla (Fordringsàgare);
cfr. B. Mòmer, Den Strindberg jag km t, Stockholm, 1924, p. 41. Ma è
forse utile ricordare le parole di Valency, cit., p. 195: « But however
we assess his relation to Strindberg it must be conceded that if he
borrowed anything from him, he put it strictly to Ibsenist uses».
L’età moderna 203

mestiere imparò certo non poco Ibsen e da Oehlenschlàger*


da Bjornson, e dai francesi2. Si sa che senza Bataille de dames
e Contes de la reine de Navarre di Scribe e Legouvé, Inger di
Qsteraad non sarebbe quello che è; senza la tecnica di Scribe
e Dumas, senza l’intrigo e l'artificio impiegati a mantenere la
tensione drammatica e a ritardare la catastrofe finale, senza i
monologhi e gli « a parte » non ci sarebbe né Inger di 0ste-
raad, né I guerrieri di Helgeland, né Brand, né Peer Gynt
e neppure Colonne della società. Ma chi poi ha voluto riavvi­
cinare Gabrielle di Augier, il Pére prodigue di Dumas e Fer-
nande di Sardou e anche La rivolte di Villiers de l’Isle Adam
a Casa di bambola, o Le sphinx di O. Feuillet a Rosmersholm
è andato completamente fuori strada.
Mentre la tensione drammatica nei francesi è fine a se
stessa, in Ibsen serve solo a illuminare il carattere intimo del
personaggio (in Spettri, per esempio, dove la lenta e senz’altro
pedantesca2 preparazione dell’incendio che scoppierà a distrug­
gere l’asilo intitolato al defunto Alving, è mezzo necessario
alla caratterizzazione del Pastore Manders e del falegname
Engstrand); mentre nei francesi la visione retrospettiva del
passato è puro artificio retorico, residuo epico, in Ibsen è po­
tenziamento drammatico, interiorizzazione artistica.
Nel dramma ibseniano l’azione procede con moto alterno,
quasi di flusso e riflusso dal passato al presente e viceversa,
dalla morte alla vita e viceversa. Il passato, cioè la morte, è
sempre vivo nel presente, e il presente, cioè la vita, è sempre
rivolto al passato. Tanto che tutta la sua drammaturgia, e
non solo il dramma di Elena Alving, sembra guidata dal mo­
tivo dominante degli Spettri o dei « morti che ritornano »,
cioè del passato ineluttabile, secondo il significato esatto del
vocabolo norvegese. Spettri sono le colpe dei vivi come le
colpe dei morti, cioè degli « invisibili » (M. Jacobs) che ma­
terialmente non compaiono sulla scena: quelle del padre di
Peer Gynt come quelle dello stesso Peer, del padre di Nora
come di Nora, del padre di Osvaldo come di Osvaldo, di Beata

1 Bjomson lo precedette sempre nella scelta dei soggetti — ma, ovvia­


mente, solo da un punto di vista estrinseco. (C£r. Hundraàrsutgave cit.
Samfundets sfotter - pref., p. 12).
2 Con una precisione di procedimenti («Der exakteste Dramentechni-
cher, der die Literatur aller Zeiten hervorgebracht bat» ha scritto
A. Kerr, Die Welt im Drama, Kòln-Berlin, 1954, p. 13), che anche ad
altri è parsa sin troppo artefatta e calcolata (E. Auerbach, Mimesis,
Bern, 1946, p. 462).
204 Le letterature della Scandinavia

Rosmer come di Rosmer, del generale Gabler come di Hedda.


E in tutti i drammi l’arcana e ossessionante parola: colpa
[skyld, brode)1 risuona come biblica maledizione sui perso-
naggi, protesi in vano sforzo verso il riscatto e la redenzione,
che è solo possibile nella coscienza incolpevole (skyldfri samvit-
tighet), foss’anche quella degli antichi vichinghi che « pre­
davano incendiavano e uccidevano, eppure erano felici come
bambini ».
Tra la coscienza cristiana della colpa e il desiderio pagano
della felicità non v’è conciliazione per Ibsen, implacabile come
il suo Brand; se non forse nella forma utopistica del « terzo
regno » che un giorno succederà ai due della spada e della
croce, del Cesare e del Galileo; o nella forma volontaristica,
più vagheggiata che attuata, della redenzione spirituale attra­
verso l’amore (Rebecca e Rosmer, Ellida e Wangel, Rita e
Aimers, Rubek e Irene), che però si rivela sempre peccami­
noso o tradito2.
Eppure s’accompagna sempre a questo cupo puritano senso
di colpa un dubbio insinuante, una tentazione nichilistica mai
totalmente esorcizzata; anzi, quanto più è ardente lo slancio
dell’idealista, tanto più crudo è il sorriso dello scettico; quanto
più sublime la volontà del metafisico, tanto più crudo il giu­
dizio del materialista; e proprio quando ci sembra di ricono­
scere in Brand o in Gregorio Werle le genuine fattezze di
Ibsen: ecco, ci lascia perplessi la squillante risata di Peer Gynt
e il ghigno acre di Relling.
Chi segue sugli abbozzi e sulle varianti dei drammi la
genesi e la storia dei personaggi di Ibsen, il quasi inavvertito
spostarsi dell’angolo visivo dalla concezione fantastica iniziale
alla redazione finale, può farsi un’idea del suo sotterraneo la­
voro di scavo psicologico, icasticamente simboleggiato in una
celebre lirica giovanile, del suo assiduo scrutare e scandagliare
l’uomo interiore. Tra le pieghe di ima forma umile dimessa
ma lungamente studiata, scevra di orpelli ma carica di segrete
risonanze, d’infiniti echi, Ibsen vela i più esasperati e dispe­
rati contrasti, le più strazianti antinomie della vita. Gli basta

1 Colpevoli sono, come s’è detto, anche i desideri inconfessati: si pensi


a drammi come « Il costruttore Solners », che si sente responsabile del­
l’incendio della casa, o al « Piccolo Eyolf » dove la « donna dei ratti »
che attira il bambino nei gorghi sembra la materiale personificazione
d’un inconfessato desiderio della passionale Rita.
2 Indrehus, Liti omkring H. Ibsen, in Edda, 1935, p. 547.
L’età moderna 205

talvolta una parola sola, un inciso, un particolare apparente­


mente secondario1 a scoprire la natura intima d’un perso­
naggio o a creare la tensione drammatica (« il miracolo » di
Nora; « mamma, dammi il sole » di Osvaldo; « il fondo del
mare » di Edvige; « l’aria di palude » di Gregorio; « i ca­
valli bianchi » della signora Helseth; gli spropositi linguistici
di Gina, la semicultura di Lyngstrand e la pedanteria di
Arnholm — solo per citare qualche esempio dei più noti).
L’ingresso sulla scena di Nora di Casa di bambola, i suoi
primi atti, le sue prime parole, la sua conversazione con Hel-
mer ci danno di lei un’impressione che il successivo dialogo
con la signora Linde dimostra completamente errata; Regina
Engstrand di Spettri, quale si mostra nel primo Atto in com­
pagnia del presunto padre non è l’abile e cerimoniosa simula­
trice che un momento dopo accoglie il Pastore Manders in
casa Alving; la ridicola fatuità di Hjalmar Ekdal dell’Anitra
selvatica, che vuol far credere a sé e agli altri di vivere per
la grande scoperta scientifica che ha in mente, è svelata da
brevi impercettibili accenni tra il terzo e il quinto Atto del
dramma. Solo nel terzo infatti Hjalmar, in forma confusa,
confida a Gregorio la scoperta alla quale dice di lavorare da
anni. Tra il terzo e il quarto avviene — dietro le quinte —
il colloquio rivelatore fra Gregorio e Hjalmar; ma solo nel
quinto, un’incidentale domanda di Gina a Hjalmar, che ha
deciso di abbandonare la famiglia, svela d’un tratto la ciarla­
taneria di quest’ultimo (M. Jacobs):
h j a l m a r (aprendo frettolosamente il cassetto del tavolo) Devo
portar via con me i miei libri. Dove sono i
miei libri?
GINA Quali libri?
Le mie opere scientifiche, no?... le riviste
tecniche che mi occorrono per la scoperta.
Gin a (posando sul tavolo un pacco di fascicoli) Devo dire a Edvige
di tagliarne le pagine?
h ja l m a r Non occorre tagliarne le pagine.

1 Una nuova interpretazione scenotecnica mirante a sottolineare la « vi­


sual suggestion » delTIbsen drammaturgo ha dato J. R. Northam (Ibsen’s
dramatic method, London, 1953), e sul suo esempio molti altri, forse
con troppo consequenziario deduzionismo. Si cita qui solo E. 0sterud,
Lenestolsymbolets i H. I. (Ibsen-Àrbok, Skien, 1962, pp. 82-89); O. Mos-
fjeld (Ibsen-Àrbok, 1957-59, pp. 109-112); E. Host, Hedda Gabler, Oslo,
1958, pp. 152-155; B. Johnston in Contemporary Approaches, cit.,
pp. 82-85; dove i canoni enunciati nei Seven types of ambiguity del-
l’Empson trovano vastissima applicazione.
206 Le letterature della Scandinavia

Così basta una esclamazione di Osvaldo per mettere a fuoco


tutto il dramma intimo della signora Alving, sin allora quasi
involto in una discussione accademica sulla possibilità umana
di emancipazione spirituale:
osvaldo Oh, la bella splendida vita libera di laggiù...
pensare che si possa insudiciarla così!
pastore manders (alla signora Alving) Che ne dite di tutto
questo?
s ig n o r a a l v in g Dico che Osvaldo ha ragione in ogni parola
che ha detto... Qui, nella mia solitudine,
anch’io sono arrivata alle stesse conclusioni,
signor Pastore. Ma non ho mai avuto il co­
raggio di dirlo. Ebbene ora mio figlio parlerà
per me.
E Rebecca West di Rosmersholm? Anche qui uno sguardo
comparativo alle varie stesure del dramma, prima intitolato
Cavalli bianchi (i cavalli bianchi, sacri, per il loro dono pro­
fetico, ai Germani, di cui ci parla Tacito!) e alla stesura defini­
tiva è sufficiente per constatare il progressivo affinamento ar­
tistico, la graduale interiorizzazione del dramma. Quel che
prima appariva sin troppo crudo e spettacolare, per esempio
il motivo dell’incesto di Rebecca S è i n seguito velato e solo
discretamente accennato: e non per quel puritano riserbo che
tanto offese i pansessualisti antibseniani con a capo Nietzsche2,
e D. H. Lawrence3, ma per intuito poetico; lo stesso intuito
poetico che, pur in mezzo alle tante e tanto spesso censurate
meticolosità e pedanterie strutturali, in mezzo agli urti e agli
stridori polemici, dà accenti shakespeariani all’impeto sconvol­
gente della passione.
Rebecca West grida ai suoi accusatori:
— Voi credete veramente ch’io abbia agito e calcolato a sangue
freddo! Io non ero allora quella che in questo momento vi sta
raccontando la sua storia. E poi non ci sono forse in ognuno di noi

1 Altrove motivi analoghi sono sempre toccati, ma senza mai dimenti­


care il freno dell’arte: Edvige che forse è figlia di Werle e non di
Hjalmar Ekdal (Spettri); Regine che è sorellastra di Osvaldo (Spettri);
Alkners che segretamente ama Asta pur credendola sua sorellastra (Il pic­
colo Eyolf).
2 In Ecce homo (Warum ich so gute Bucher schreibe), lo chiamò « ti­
pica vecchia zitella»!
3 In Twilight in Italy.
Uetà moderna 207

due volontà? Si, io volevo sbarazzarmi di Beata, in un modo o in


un altro. Ma non credevo affatto che ciò sarebbe avvenuto. A ogni
passo che avevo la temerità e il coraggio di fare, mi pareva di sen­
tire una voce che gridasse: non più oltre! Non un passo di più!
Eppure non potevo fermarmi. Dovevo fare ancora un piccolo passo,
ancora un solo piccolo passo, uno solo. Eppoi un altro e un altro
ancora... e poi è avvenuto.
Hedda Gabler esclama gettando alle fiamme il manoscritto
di Ejlert Lovborg:
— Ecco io ora brucio tuo figlio, ricciuta Thea! Il figlio tuo e
di Ejlert Lovborg. Io brucio, brucio ora il tuo bambino!
Non diverse parole pronunciano Agnes del Brand e Osval­
do Alving, la signora Alving e Rita Allmers e Irene Rubek
nel loro appassionato dialogare, realistico in apparenza, ma
ordito tutto su un tematismo simbolico in cui riaffiorano i
modi stilistici dell’antica poesia eddica. Tra l’astruso e popo­
laresco simbolismo del Brand e del Peer Gynt e Pallegorismo
rarefatto e schematico del Costruttore Solness (1892), di Gian
Gabriele Borkmann (1896), di Quando noi morti ci destiamo
(1899), sta il simbolismo altamente poetico dei drammi « mo­
derni », dove simbolo e realtà organicamente connessi s’illu­
minano a vicenda in un inimitabile chiaroscuro; gli spettri che
s’insinuano nelle battute del dialogo tra Elena Alving e Man-
ders, l’anitra selvatica che da sé irradia su uomini e cose la
luce sinistra d’una immutabile disperazione, i cavalli bianchi
annuncianti che la morte si è fermata a Rosmersholm, e per­
sino l’apparentemente triviale cappellino di zia Giuli in Hedda
Gabler, che, appena levato il sipario, assurge a simbolo delle
opposte passioni: sono tutte intuizioni fantastiche d’un grande
e schietto poeta quale certamente Ibsen fu, pur nel suo lu­
cido disperato negativismo e nel suo paradossale solipsismo \

BJ0RNSTJERNE BJ0RNSON
Se Ibsen aveva meticolosamente studiato e imitato la
tecnica teatrale degli Scribe, degli Augier e dei Dumas per
poi toglier loro di mano il dramma europeo, sollevandolo a

1 Scriveva Joyce già nel 1900: « The naked drama — either the per­
ception of a great truth, or the opening up of a great question... this is
what primarily rivets our attention... » (« Fortnightly Review », London,
p. 375).
208 Le letterature della Scandinavia

dignità di grande arte, Bjornson appare invece nei suoi lavori


teatrali, sia sotto l’aspetto tecnico sia sotto quello artistico,
come diligente allievo dei francesi. Si tratta in realtà di due
scrittori diversissimi tra loro per statura intellettuale e forza
poetica, che solo vicende e motivi esteriori hanno indebita­
mente posto sullo stesso piano. Se il primo fu un solitario e
taciturno asceta del pensiero, chiuso nella più schiva medita­
zione e nel più impenetrabile riserbo, non distratto da altri
interessi che non fossero quelli dell’arte, non rivolto ad altra
lotta che non fosse quella contro i prepotenti « fantasmi del
cervello e del cuore », il secondo fu un entusiastico uomo di
azione, aperto e socievole, cordiale e effusivo, sempre pronto
a spezzare una lancia per i problemi dell’ora, morali, politici,
religiosi. Se quello ha il suo antecedente spirituale nella tor­
bida angoscia luterana di Kierkegaard, questo si riattacca al­
l’ingenuo nazionalismo religioso di N. F. S. Grundtvig.
Per intendere appieno la figura di Bjornson occorre ricol­
locarla sullo sfondo di quel vasto fermento patriottico che
nella seconda metà del secolo XIX dominò la vita pubblica
norvegese e culminò nella vittoria del parlamentarismo e nella
definitiva rottura dell’unione personale con la Svezia (1905).
Qui Bjornson acquista giusto rilievo e proporzioni adeguate;
qui non appare più sfocato e puerile — come in sede artistica
— il suo virtuistico proselitismo, il suo appello alla volontà
di bene, la sua magnanimità conciliatrice.
Giornalista e oratore eminente, puritano e borghese di
sentimenti, malgrado il suo radicalismo politico, il suo « po­
pulismo » e i suoi atteggiamenti antimonarchici, contribuì in
misura decisiva alla formazione d’una democrazia norvegese
fondata sui ceti rurali. Come già per Wergeland anche per
lui arte letteratura e teatro furono puri strumenti di educa­
zione morale, tribuna libera per difendere cause, affermare
princìpi, discutere idee — non certo originali le più, né pro­
fonde, anzi quelle letterarie assai povere di senso critico e este­
tico; ma messe tutte al servizio d’un istintivo buon senso che
aborre da ogni estremismo e sempre animate da un calore
umano e da un’eroica fede nella vita che disarma e conquista.
Chiamato dopo Ibsen (1857) a dirigere il teatro di Bergen,
proseguì quasi per due anni e mezzo la battaglia già prima in­
trapresa sulla stampa per impedire l’ingaggio di attori danesi
e creare così un repertorio e una compagnia esclusivamente
nazionali; e anche i suoi primi drammi Mellem slagene (Fra le
battaglie, 1857); Halte-Hulda (Hulda la zoppa, 1858); Kong
L'età moderna 209

Sverre (Re Sverre, 1861); Sigurd Slembe (Sigurd il malvagio,


1862) non diversamente dai racconti in prosa (Synmve Sol-
bakken, 1857; Fiskerjenten, La figlia del pescatore 1868, Arne,
1858; En glad gut, Un ragazzo allegro, 1860; Smàstykker, No­
vellette, 1860) rappresentano lo sforzo di fondere l’antico ethos
eroico germanico con una cultura moderna d’impronta contadi­
na, lo stile di Saga norrena con toni fiabeschi e realistico-popo-
lareggianti allora di moda. Synn0ve e Thorbjorn, Arne e Eli,
0yvind e Marit, Petra e Hans 0degàrd esemplificano sì, chi
più chi meno, il trionfo della virtù sull’egoismo, della reli­
gione sugli istinti, ma insieme sono figure vive, schiette e
ingenue, ma vere.
Sarebbe ingiusto sottovalutare l’importanza documentaria
di questi drammi e racconti che, in Norvegia come altrove,
venivano incontro al gusto romantico-realistico del medio Ot­
tocento, ma sarebbe anche difficile oggi vedervi qualcosa di
più. La maggior concretezza e vivacità di tinte nel narrare
e nel descrivere, il maggior impegno stilistico nel ricreare il
sentenzioso laconismo della Saga norrena, la grandiosa enfasi
lirica non sono in sostanza che una pura variante rustica della
tonalità nordico-sentimentale creata da Oehlenschlàger (del
quale ritroviamo anche i metri in Hulda la zoppa e in Re
Sverre). E se ancor oggi si ammira il brio e la scioltezza nella
discussione dei problemi del tempo (politici sociali morali) e
l’artigiana perizia degli effetti scenici, che Bjornson dal suo
maestro Scribe aveva imparato a dosare con perizia di me­
stiere (dal 1865 al 1867 diresse il « Christiania Theater »
della Capitale e istruì i principali artisti dell’epoca come Johan-
ne Juel, Laura Gundersen e J. Brun; dal 1870 al 1872 di­
resse persino un proprio teatro), l’assenza di vera forza dram­
matica o, se meglio si vuole, di vero genio poetico vizia alla base
questi come gli altri suoi lavori, nei quali il moralista finisce
sempre per avere il sopravvento sull’artista. Da Leonarda
(1879), dove tutti i personaggi fanno sfoggio di programma­
tica generosità, a En handske (Un guanto, 1883), che s’impernia
sulla esigenza della castità prematrimoniale anche per l’uomo;
dal cauto antimonarchismo di Kongen (Il Re, 1877) alla discus­
sione teologica e sociale di Over JEvne (Oltre le forze uma­
ne I, 1883, e II, 1895), dove si tocca il vertice delle impoeti­
cità con quelle due figure di giovani, Credo e Spera (nomina,
numina!) che predicano la fede positivista nel progresso scien­
tifico assunto a panacea universale!; dall’umanitarismo di Paul
Lange og Torà Parsberg (1899) col suo celebre epilogo da
210 Le letterature della Scandinavia

dramma borghese settecentesco (« A, hvorfor skal det veere sa,


at de gode sa ofte blir martyreri Kommer vi aldrig sa langt
at de blir forerei »: « Ah! perché dev’essere sempre cosi che
i buoni finiscono tanto spesso martiri? Non verrà mai il giorno
che diverranno guide? ») all’antinietzscheanismo dei drammi
Laboremus (1901) e Paa Storhove (1902), l’invincibile ottimi­
smo di Bjomson 1celebra i suoi trionfi attraverso una ricca gam­
ma di intrecci a lieto fine e di tipi da repertorio romanzesco. Co­
si pure nella narrativa (Magnhild, 1877; Stov, Polvere, 1882;
Det flager i byen og pà havnen, Bandiere sulla città e sul
porto, 1884; Pà Guds veje, Sulle vie di Dio, 1889) c’è più
volontà di bene che acume psicologico. Persino il dramma che,
insieme alla lirica patriottica e popolareggiante, già Brandes
giudicava il suo capolavoro: Over JEvne I, resta in fondo,
malgrado la grandiosità degli scenari e la tensione drammatica
che ispira al pastore Sang la fede nel miracolo, un « caso »
psicologico, un esperimento pseudoscientifico simile a quello
— cronologicamente posteriore — del protagonista del ro­
manzo zoliano Lourdes.
Malgrado ogni concretezza e scioltezza di modi, il suo dia­
logo manca di intensità, di risonanza interiore, di sfumature
e di mezzi toni, sempre piegato com’è a un fine moralistico
e affidato agli artifici melodrammatici e agli spettacolari colpi
di scena (che non mancano neppure nel migliore Oltre le
forze umane, I). Forse il migliore Bjomson è da cercare
altrove: in qualche lieve e sorridente episodio di commedia
come Geografi og K&rlihed (Geografia e amore, 1885), e più
ancora in qualche semplice racconto giovanile come II padre,
ch’è un piccolo capolavoro di contenuto pathos drammatico,
oppure sporadicamente, nei discorsi, nelle lettere, nelle allocu­
zioni, che contengono pezzi stupendi di oratoria tribunizia.

AUGUST STRINDBERG

Nato sotto il segno della contraddizione e dello scandalo,


posto, quasi per biblico fato, al punto di rottura tra l’età

1 Perfino un moderno ammiratore di Bjornson, Harald Noreng, scrive


(B. Bj0rnsons dramatiske diktning, Oslo, 1954, p. 138) « La maggior
parte dei drammi di B. è cosi configurata che l’azione può finire in riso
come in pianto. Che Fautore stesso sia stato in dubbio su come dovevano
risolversi i suoi conflitti è provato dal fatto che egli in più casi ha
cambiato completamente l’epilogo dei drammi.
L’età moderna 211

decidua e l’età veniente1, August Strindberg irrompe come


forza di natura nella letteratura svedese del deciduo Otto­
cento sconvolgendola col fermento rivoluzionario delle sue
caotiche esperienze spirituali (pietistiche e rousseauiane, so­
cialiste e darwiniane, nietzschiane e swedenborghiane), con le
sue ambizioni titaniche, con i suoi impeti faustiani, con la sua
sete di verità assoluta e di salvezza metafisica.
Degli scrittori ottocenteschi è certo il più esasperato indi­
vidualista, sognante l’attuazione del suo io attraverso la con­
fessione intima, il più ribelle visionario, bramoso di model­
lare cielo e terra sui suoi sogni e sui suoi deliri, mentre per
il forte mordente psicologico e per il furore cromatico della
sua arte è il più deciso annunciatore e anticipatore del turbi­
noso Novecento.
A uno sguardo retrospettivo la sua immensa produzione,
polemica drammatica narrativa lirica, scopre subito i difetti
della superficialità e dell’improvvisazione — né vale certo
cercarvi finezza e altezza d’intuizioni poetiche — eppure non
c’è pagina, si può dire, che per l’intensità del ritmo, per la
vibrante liricità e per la furia ossessiva non porti i segni d’una
individualità artistica marcata, vigorosa.
Nella narrativa svedese fu lui l’uomo della « rivoluzione
moderna » preconizzata dal Brandes; ma già negli scritti d’esor­
dio: il romanzo Roda rummet (La sala rossa, 1879) e il li­
bello Det nya riket (Il nuovo regno, 1881), il naturalismo
strindberghiano si presenta con caratteri propri. Qui la realtà
esterna è si analizzata e ritratta fin nei più crudi particolari,
ma in uno stile dinamico ardente visionario, l’uomo interiore
scarnificato e ridotto ai suoi istinti primevi, ma in funzione
d’una « indignatio » puritana (dietro la quale senti Kierke­
gaard) e d’una maldissimulata inquietudine religiosa suscetti­
bile di ulteriori sviluppi. La satira trapassa sempre in carica­
tura, la descrizione in visione, l’ironia in sarcasmo.
Se Dickens e Mark Twain, Hugo e Balzac2 iniziarono
Strindberg al gusto del grottesco e del romanzesco, a ragione
egli poteva rivendicare l’assoluta indipendenza del suo stile:
uno stile vivo parlato, realistico insieme e lirico, tutto scatti

1 Si cita l’ed. critica di J. Landquist, Samlade Skrifter, I-LV, Stockholm,


1912-1921, XIX, p. 186.
2 Assurda sembra la teoria di G. Printz-Pàhlson (BLM, 1, 1965) che
già nella Sala Rossa vuol vedere i primi segni della tecnica del Sogno;
e addirittura parla di Kafka!
212 Le letterature della Scandinavia

e movimento, tutto asindeti e verbi. Basta un quadro paesistico


della Sala rossa o una battuta satirica del Nuovo regno per
capire come d ’un tratto Strindberg potesse diventare l ’idolo
dei giovani « realisti » nordici (da Gustaf af Geijerstam a
Victoria Benedictsson, da Anne Charlotte Leffler a Axel Lunde-
gàrd, da Alexander Kielland a Arne Garborg) e insieme lo
scandalo dei vecchi idealisti e conservatori con a capo Cari
D avid af W irsén. Ecco Stoccolma a volo d ’uccello:

Laggiù... rumoreggiava la città appena desta: le gru a vapore ron­


zavano giù nel porto di Stadsgàrden, le sbarre di ferro strepitavano
nella ferriera, i fischietti delle guardie delle Chiuse sibilavano, i va­
pori di Skeppsbron fumigavano, gli autobus per Kungsbacka sob­
balzavano fragorosamente sull’acciottolato; fracasso e urla nella Pe­
scheria, vele e bandiere ondeggianti sul canale, strida di gabbiani e
squilli di tromba da Skeppsholmen, grida cu comando da Soder-
malmstorg, zoccoli di braccianti in Glasbruksgatan; tutto dava
un’impressione di vita e di movimento...
— Ma il sole stava su Liljeholmen, e saettava tutto il fascio dei
suoi raggi verso oriente; questi trapassavano i vapori salienti dal
Bergsund, volavano sul RÌddarfjarden, s’arrampicavano su fino alla
croce della chiesa di Riddarholmen, si gettavano di 11 sul tetto sco­
sceso di quella tedesca, giocavano coi pavesi dei battelli ancorati a
Skeppsbron, illuminavano le finestre della Dogana Grande, rischia­
ravano i boschi di Lidingòn e svanivano in una nuvola rosata laggiù,
lontano, dove sta il mare.

E d ecco la solenne inaugurazione delle prime ferrovie


svedesi:

Il sovrano arriva. L ’antipasto è preso d’assalto. La minestra è ser­


vita. È uno scoppiettio di tappi di bottiglia. Il pollo è divorato.
Champagne! Un discorso! — Una nuova vena è aperta (== un nuovo
salasso!). Sangue novello ( = quattrini) affluirà all’organismo statale
svedese, il cui cuore risiede a Palazzo Reale; la nazione (cioè la so­
cietà metallurgica, Kolbotten) si rianimerà, rifornita di nuovo ossi­
geno. Il prefetto prende la parola: — Il popolo svedese ha sempre
amato i suoi re...

In questi scritti come nei prim i drammi storici non è


certo la psicologia che conta: sommaria incoerente tipeggiante
sempre piegata a più o meno palesi fini polemici. I personaggi
della Sala rossa: un Falk, un Fahlander, un Borg non meno

1 Cfr. O. Holmberg, Lovtal over svenska romaner, Stockholm, 1957,


pp. 45-54.
L'età moderna

del Libero pensatore (Fritànkaren, 1870), del Proscritto (Den


fredlose, 1871), di Maestro Olao (Màster Olof, 1872) sono
semplici portavoce di Strindberg, volta a volta idealista roman­
tico e puritano con Kierkegaard e Ibsen, determinista e ma­
terialista con Buckle e Brandes, pessimista con von Hartmann;
e anche in seguito nei racconti di Svenska óden och àventyr
(Destini e avventure svedesi, 1882-83), nelle novelle sociali-
steggianti Utopier i verkligheten (Utopie nella realtà) e anti-
femministe Giftas (Sposarsi, 1884-86), la sua prosa dà i mi­
gliori frutti quando con incisiva crudezza disegna tipi di po­
polani dalle passioni elementari o rifà il dialogare plebeo
in Pài och Per (Pietro e Paolo), quando si distende nel qua­
dro paesistico in En ovàlkommen (Un malarrivato) o trasfi­
gura in maliziosa favola Tamara satira sociale in De lycksaligas 6
(L’isola della felicità). Allora lo stile corre rapido come fiume
in piena senza intoppi e senza freni, e nel suo impeto riesce
a trascinare perfino i più grevi sofismi e paradossi, a dissimu­
lare le incongruenze psicologiche, a velare le inverosimiglianze
storiche.
Sin dagli inizi il suo naturalismo era stato satirico-caricatu-
rale: non impassibile ritratto d’una realtà esterna, ma rilievo
del significato in essa riposto, deformazione spietatamente vio­
lenta di tale realtà come rivalsa d’un invitto idealismo (le sue
migliori cose sono infatti quelle in cui, anziché procedere sul
saldo filo del raziocinio, la fantasia esplode in immagini di
allucinante visionarietà).
Se, in nome della verità rousseauiana, non si stancava di
condannare la « vecchia peccatrice » l’arte, e vedeva l’avvenire
della letteratura nella cronaca del giornale e nel bollettino
giudiziarioS o nell’autobiografia2, quale forma più immedia­
tamente mimetica della vita; se, nei drammi, diceva di voler
raffigurare l’antagonismo fra uomo e donna, la lotta dei sessi,
all’incolore lume della scienza3 (il celebre dogma tainiano
identificante il vizio e la virtù col vetriolo e con lo zucchero!)
sentiva poi in concreto che la sua vera forza era la trasfigu­
razione visionaria della realtà4.

1 XVII, p. 234 sgg. Aveva scritto Zola (Le naturalisme au theatre,


Paris, 1881, p. 224) « Nous ne faisons que dresser des procès-verbaux ».
2 XV III, p. 456 sgg.
3 X III, pp. 101-102.
4 Brev, 24.5.1884. Edizione delle Lettere di Strindberg a cura di Torsten
Eklund (Stockholm, 1948 sgg.).
214 Le letterature della Scandinavia

Come sul piano puramente tecnico egli doveva quasi d’un


balzo1 arrivare alla scelta del verso libero (cosi lontano dalle
ben costrutte simmetrie dei romantici: per es. dei parnassiani
Sonetti di Snoilsky), così anche sul piano tematico non tardò
a contrapporre i propri cenciosi e ruvidi eroi « alla gente
perbene avvezza a muoversi in alcaici coturni e in giambiche
marsine»2. Nel 1872 il suo Màster Olof, spogliato del so­
lenne paludamento dei personaggi storici segnava la fine d’una
tradizione secolare3; e insieme, nella sua stessa travagliata pa­
rabola: dalla iniziale vocazione di riformatore e martire alla
finale apostasia, dal pathos rivoluzionario all’apatico nichili­
smo, simbolicamente illustrava il ritmo l’ampiezza il cammino
della psicologia strindberghiana.
I « rousseauiani » M. Nordau4 e Tolstoj5, Cernysevskij6
e Zola7 gli insegnavano che compito primo del poeta era de­
nunciare le menzogne convenzionali della società, alzar veli
e toglier maschere, affrettare l’inevitabile cataclisma cosmico
preconizzato dalle profezie di von Hartmann e dai palinge­
ne si sogni dei nichilisti russi8. Era un programma allettante
per chi, come Strindberg, sentiva in sé la stoffa del riformatore.
Sintomatico fu così il viaggio in Italia, intrapreso a sfatare
un mito romantico quasi cento anni prima accreditato da ben
altro viaggiatore. In Dikter pà vers och prosa (Poesie in verso
e in prosa) e in Somngàngarnàtter (Notti di sonnambulo a
occhi aperti, 1883-84) tutta la scottante tematica del natu­
ralismo: scienza e fede, progresso e felicità, libertà e giustizia
sociale è passata al vaglio di un’analisi che parrebbe sin troppo
puerile se non fosse costantemente ravvivata dal fuoco della
passione e dal ricordo della personale esperienza. L’atteggia­
mento antiaccademico e anticonformista è qui quello comune
alla sua generazione. Ma la paradossalità dei giudizi è schiet­
tamente strindberghiana e già preannuncia l’irrazionalismo dei
nostri tempi. Cos’è l’arte? Frivola tentazione9; chi sono Mi­

1 I, pp. 238-239.
2 Brev, 1.5.1872.
3 XIX, pp. 29-35.
4 Brev, 12.3.1884; XIX, p. 205.
5 Brev., 17.5.1885; 21.9.1885; XIX, p. 268.
6 Brev, 8.8.1884; 19.11.1885; 18.7.1886.
7 G. och E. Brandes brevvakling med svenska och finska forfattare och
vetenskapsmàn, I, Stockholm, 1939, p. 17.
« V, pp. 355-358.
9 XVI, p. 187.
Uetà moderna 215

chelangelo e Raffaello? I glorificatori delle frodi religiose or­


dite dall’aristocrazia a danno del popolo1; cos’è la scultura
classica conservata in Vaticano? Una carrettata di vecchio
gesso2 Venezia? Un tanfo di cloaca.
I versi stessi intenzionalmente brutti3, per spirito polemico
contro l’insincerità e l’artificiosità del metro, spiccano invece
per forza ritmica e freschezza di immagini. Malgrado l’ingenua
fede nelle virtù redentrici della dinamite (« Esplanadsyste-
met ») malgrado l’invettiva mitologica (« Lokes smàdelser »)
contro ogni forma di trascendenza, che molto da vicino ricorda
la carducciana chitarronata dell’inno a Satana, malgrado gli
accenti antiestetici e utilistici (« Fòrsta natten »; « Andra nat-
ten »; « Tredje natten ») il knittel popolareggiante e il verso
libero strindberghiano vibrano tutti di quella vitalità calda e
piena che nasce dal contatto diretto con le cose, di quel senso
dinamico espansivo aggressivo, che erompe dalla nuda anima­
lità dell’uomo.
A preferenza della celebre lirica parigina Vid avenue de
Neuilly cosi strindberghiana nel suo crudo palpitante simbo­
lismo (un cuore animale in una mostra di macelleria parago­
nato a un libro — cuore anch’esso ma umano, esposto in una
vetrina di libraio), vivo esempio di quel che i Goncourt chia­
mavano « document humain, pris sur le vrai, sur le vif, sur
le saignant » — Solnedgàng vid havet (Tramonto sul mare)
illustra appieno il carattere dello stile poetico di Strindberg.
Sembra a prima vista il solito quadretto romantico, l’elegiaca
descrizione paesaggistica introdotta a specchio di facili pate­
tismi. E invece ci disinganna subito la forma aperta, forte­
mente ritmata ma non cantabile della composizione e il tono
ironico che s’affaccia inatteso già al terzo verso a rompere ogni
incanto lirico con un progressivo anticlimax. Il vocabolario
stesso, concreto preciso tecnico (dal nome della marca del
sigaro alla terminologia scientifica degli elementi chimici, per
colore o per sostanza, affini al mare), rafforza l’intonazione rea­
listica del quadro, nitido e perspicuo malgrado la varietà e

1 X III, p. 331.
2 XVI, p. 304.
3 « Versformen slàr tanken i onòdiga fjàttrar, vilka en nyare tid skall
bortlàgga » (pref. a Dikter). Aveva scritto Courbet nel suo « Manifesto
del realismo» (1832) « faire vrai ce n’est rien, c’est faire laid qu’il
faut ».
216 Le letterature della Scandinavia

l’audacia delle immagini, destinate più tardi a far scuola nella


poesia svedese di fine secolo. Concretezza, precisione, espres­
sività figurale concorrono tutte a sottolineare il carattere vi­
sivo delParte di Strindberg — com’è stato giustamente os­
servato1 — sempre refrattaria alle suggestioni delPindeciso
e della sfumatura. 1
Jaz ligger pà kabelgattet Sdraiato, la schiena contro l’oc-
rdkande « Fem blà bròder » [chio di prua,
och tànker pà intet. fumo un sigaro marca « Fem
blà broder »
Havet àr gront, senza pensare a nulla.
sà dunkelt absintgrónt; Il mare è verde, verde
det àr bittert som chlormagne- torbido come assenzio,
[slum amaro amaro come
och saltare an chlornatrium; la magnesia, ben più
det àr kyskt som jodkalium; salato del clorato,
och glomska, glomska più puro dell’iodato.
av stora synder och stora sorger L’oblio, l’oblio, peccati
det ger endast havet, grandi con grandi pene,
och absint! il mare te li dà
soltanto, con l’assenzio.
O du gr'óna absinthav, Mare verde d’assenzio,
o du stilla absintglomska, tu quieto oblio d’assenzio,
dova mina sinnen stordite i miei pensieri,
och làt mig somna i ro fate ch’io m’addormenti
som fórr jag somnade come un momento fa
over en artikel i mi sono addormentato
Revue des deux Mondes! leggendo la Revue des deux
[Mondes!
Sverige ligger som en rók, La Svezia è appena un fumo
som rbken av en maduro- il fumo d’un avana
\_havanna, e il sigaro è quel sole
och solen sitter dàróver lassù spento a metà.
som en halvslàckt cigarr, Ma torno torno, lungo l’oriz-
men runt kring horisonten [zonte
sta brotten sà róda i frangenti son rossi come fuo-
som bengaliska eldar [chi
och lysa pà elàndet. del bengala e fan luce
sopra la mia miseria.
Sono questi, fra il 1880 e il 1890, gli anni culminanti della
sua crisi spirituale, che, dalle posizioni più paradossali del na-

1 G. Brandell, Strindbergs Infernokris, Stockholm, 1950, pp. 219-21;


Hans Àke Karnell, Strindbergs spràk och stil, ed. G. Lindstròm, Lund,
Ì964, 169 sgg.
L’età moderna

turalismo, doveva condurlo alla fede mistico-teologica nel tra­


scendente. Vittima d’un insanabile dissidio fra sensibilità e
intelligenza, accettava ora e ripudiava acriticamente le idee
più disparate: dal naturalismo rousseauiano al darwinismo,
dal pacifismo al militarismo, dal populismo al superomismo
nietzschiano e innalzava a supremi valori persino il grosso
giornalismo di Max Nordau e il profetismo grottesco di José-
phin Péladan, passando così con avido sperimentalismo dal­
l’analisi psicologica alla lirica, dal romanzo all’autobiografia,
dalla ricerca storica alla inchiesta sociale.
Una delle massime espressioni del suo scrupolo di verità
documentaria è costituita dalla prima parte dell’autobiografia
Tjànstekvinnans son (Il figlio della serva, 1886).
Da un punto di vista teorico Strindberg è qui ancora fermo
al suo culto del vero e dell’utile ribadito anziché sminuito,
dall’assunto scientifico e documentario della confessione auto-
biografica; ma già si notano in lui, sotto l’ardore polemico,
i dubbi e le perplessità, le cautele e le riserve. La natura ora
non è più fonte d’energie morali, edenica innocenza, bensì
teatro di spietate lotte, cui solo i forti sopravvivono: dietro
Rousseau e dietro Darwin già sembra d’intravedere, alla lon­
tana, l’ombra di Nietzsche.
Fu però la lettura dell’autobiografia di Jules Vallès (morto
proprio allora) a orientare definitivamente lo scrittore svedese
verso la scelta d’un tema che pareva insieme consentire la
(illusoria) oggettività del romanzo naturalista e la più ampia
libertà poetica. Più che dalla fede politica del comunardo,
esaltatore della Francia proletaria e rivoluzionaria, Strindberg
dovè sentirsi attratto dalla rancorosa aggressività dell’anticon­
formista, ribelle a ogni legge familiare e sociale. Certe minute
scene di un’infanzia martirizzata da incomprensioni, da umi­
liazioni, da persecuzioni, non si spiegherebbero senza la let­
tura del libro di Vallès — da Strindberg del resto esplicita­
mente ammessa.
Ma nello svedese l’evocazione storica di un’epoca e d’un
ambiente, pur non mancando, resta solo cornice del quadro.
La discussione critica delle idee (che impaccia e offusca spe­
cialmente le parti seguenti dell’autobiografia) non era aflkr
suo; e ancor meno la caratterizzazione di figure rappresenta­
tive della vita pubblica o del mondo intellettuale a lui coevo.
Ciò che soprattutto gli premeva era la confessione e la dis­
sezione dei propri sentimenti, la storia della propria anima,
delle prime decisive esperienze in quanto premessa alla for-

XXVII - 9. Lett, della Scandinavia.


218 Le letterature della Scandinavia

mazione della personalità adulta. Guardarsi, analizzarsi, pene­


trare l’enigma del proprio essere aldilà d’ogni idealizzazione
e costruzione romanzesca e d’ogni freno di pudore o di co­
stume: ecco il fulcro di questo autoritratto, che occupa un
posto eminente nella storia delPindividualismo anarchico del
secondo Ottocento. Ossessivamente sincero anche se non ve­
ridico Strindberg è qui riuscito a diagnosticare e a mettere
a nudo il suo dramma intimo, a dare di sé un’immagine quanto
mai viva e convincente — la stessa del resto che si ricava dalla
lettura degli altri suoi scritti — uomo d’eccezione, timido e
aggressivo, pietoso e crudele, scettico e mistico a un tempo.
Dissolta la pretesa unità dell’io in una successione di di­
scontinui stati di coscienza, secondo i dettami della psicologia
contemporanea (soprattutto di Ribot), il suo itinerario bio­
grafico e spirituale dove configurarglisi quale casuistica e aned­
dotica sequela di azioni e reazioni determinate da fattori
esterni: dal disamore e dall’egoismo della famiglia come dalla
tirannia dei maestri e compagni di scuola; dalle ingiustizie
della vita sociale come dalle ipocrisie dell’educazione reli­
giosa. Non c’è pagina dell’autobiografia che non frema di que­
sto cupo pessimismo, di questa titanica (e ahimè troppo spesso
retorica) denuncia. La famiglia la scuola la società: quali mo­
struose macchine inventate dall’uomo per schiacciare i deboli!
Senza paragone più viva dell’ideologia pseudoscientifica,
tolta in prestito al socialismo utopistico e alla psicologia po­
sitivista, è oggi la parte aneddotica; i singoli schizzi e ritratti
più o meno legati alla personalità del narratore. Certi pae­
saggi e dintorni di Stoccolma rivissuti con favoloso stupore,
certe figure sbalzate a rapidi tratti (il padre, la madre, il fra­
tello Gustavo) e talvolta evocate con nostalgica simpatia e
comprensione, certi improvvisi sprazzi di luce sul notturno
dell’anima umana, restano nella memoria del lettore per virtù
di stile.
Ma si tratta purtroppo di singoli episodi e scorci d’una
prosa, che solo eccezionalmente si leva all’abbagliante evi­
denza, alla rapida stringente concisione di quell’opera, che an­
cora oggi molti considerano il suo capolavoro: Hemsoboma
(Gli isolani di Hemso, 1887).
Al confluente fra le amare confessioni e denunzie dell’au­
tobiografia e le crudeli vivisezioni dei drammi naturalistici,
questo piano e brioso racconto segna infatti il momento di
maggior equilibrio artistico nella sua travagliata parabola di
scrittore. Non che qui manchi la prepotente tentazione del-
L'età moderna 219

l’arte-problema, cosi tìpica in Strindberg, ma questa rimane


appunto solo tentazione, esorcizzata da un intuito poetico che
momentaneamente sembra diffidare dello scientismo positivi­
stico e in genere d’ogni consequenziario dottrinarismo.
Qui va ricercata la genesi psicologica de Gli isolani di
Hemsò, in un tentativo di evasione dalle trivellanti analisi,
dalle passioni estreme, in un moto di affettuosa tenerezza del
filius loci verso la terra lontana (nell’estate dell’87 era esule
volontario sul lago di Costanza) e i dolci ricordi che, sin dagli
anni giovani, lo legavano all’arcipelago di Stoccolma. Forse
la lettura dei romanzi rusticani di J. Gotthelf fu decisiva per
la maturazione dei vari spunti che — a stare alla corrispon­
denza — gli si erano affacciati alla mente già anni prima. Ma
resta nell’insieme un fatto esterno, occasionale, malgrado le
innegabili reminiscenze.
Questo staccarsi dal tormentoso battagliare interno, que­
sta nostalgia di ritrovare, nella memoria, il contatto con la
nuda schiettezza della natura, con esseri semplici, perfino vol­
gari e plebei — in apparenza cosi estranei, in realtà così fra­
terni al suo rude spirito — portò a un rifiorire di energie
sentimentali, a una trepida commozione poetica.
Fu così che la storia de G li isolani di Hemsò divenne il
suo capolavoro.
L’intento polemico e didascalico cede qui il luogo alla con­
templazione, all’idoleggiamento, al sogno.
Non fu, s’intende, come qualcuno semplicisticamente sem­
bra credere, la materia idillica, il fondo d’esperienze liete cui
Strindberg attingeva, a creare l’arte vigorosa e colorita de G li
isolani di Hemsò. Basterebbe a dimostrarlo il tono cupo e
amaro dei racconti che, ad una con quello progettati, dove­
vano esserne la continuazione col titolo: Skàrkarlsliv (Vita
degli abitanti dell’arcipelago, 1888). È invece esattamente il
contrario. Fu un effimero sogno di felicità (la stesura del libro
durò solo qualche settimana) a creare, diciamo così, l’idillio:
cioè — nei limiti d’una materia paesana — un mondo non
iperbolizzato da parossistiche passioni e ruggenti indignazioni,
ma animato da uno schietto anelito alla sanità e alla vita.
Uno Strindberg che ride può sorprendere; ma è un riso
il suo cui fanno da sfondo le visioni angosciose del dramma
Padre e le sataniche ossessioni della Apologia d’un pazzo 1

1 Cfr. A. Jolivet, cit. in bibliografia, pp. 113-121.


220 Le letterature della Scandinavia

(scritto in francese, Le plaidoyer d'un fou, 1887-88). Non certo


l’ultimo dei paradossi di questo paradossale scrittore!
D’altra parte questo riso (che non è un riso a piena gola)
scopre subito gli invisibili fili che ricollegano anche la storia
di Hemso alla psicologia dei drammi naturalistici. A comin­
ciare dalla caratterizzazione dei personaggi, così intonata al­
l’ambiente popolare e resa in azione e dialogo più che in ana­
lisi e commenti, eppure così vicina alla concezione atomistica
della personalità umana, del « carattere senza carattere » teo­
rizzata nella prefazione di Contessina Giulia. Per non dir
nulla poi degli altri spunti polemici e drammatici: dall’anta­
gonismo fra il contadino Carlsson e il figlio diseredato Gustavo
per il possesso della « roba », alla schermaglia plebea fra la
ricca vedova Flod e Carlsson per il baratto della « roba » col
matrimonio; dal feroce, quasi flaubertiano sarcasmo con cui
a tratti è illustrata la religiosità degli isolani di Hemsó, allo
schietto sentimento della natura che accomuna in un unico
palpito univèrso e anima umana.
Ma si tratta, come s’è detto, di spunti, che nella effet­
tiva realtà del racconto non diventano mai tesi ideologiche.
Valga d’esempio la figura del pastore Nordstrom: miserabile
ubriacone plebeo, eppure profondamente umano sotto la ru­
vida scorza.
Se Strindberg dunque ha il gusto della sapida volgarità,
della farsa popolaresca, della risata grassa; se ride alle spalle
dei suoi isolani e ne sottolinea la goffa e utilitaria psicologia,
ne rivive però anche, sia pur con distaccata simpatia, la più
nascosta umanità e tragicità. Troppo spesso, è vero, il riso
cercato e provocato gli prende la mano e, col riso, la smisu­
rata gioia della rappresentazione, cruda, dell’aneddotico e del
pittoresco; ma gli dà insieme quella foga vitale, quel brio
travolgente che soffoca sul nascere ogni proposito analitico e
didascalico. Perciò parlare di naturalismo si può qui solo nel
senso di una fervida adesione a tutto ciò che è forza di natura
fuori d’ogni costrizione morale: all’ineluttabilità del tempo e
delle stagioni, del sole e del vento, sempre dinamicamente
presenti nel paesaggio di Hemsò, come alla primitiva istinti­
vità appena raffinata d’astuzia, che governa la vita dei suoi
abitanti.
Estroso, immaginoso, favoleggiarne anche quando incide
nella viva carne, lo scrittore trapassa rapido di scena in scena,
senza dispersioni né compiacenti indugi, intento unicamente
a rappresentare. E il vigore del suo stile è tale che chi legge
L'età moderna 221

difficilmente si sottrae all’incanto di quel ritmo fluido e ser­


rato che arieggia l’improvvisazione; alla vivacità di quel nar­
rare, sempre intenso e concreto, tutto cose vedute e udite.
Soltanto dopo si notano, al microscopio dell’analisi, le incon­
gruenze e le assurdità e i non pochi difetti d’impianto (per
esempio il capitolo sesto introdotto solo a prolungare lo spas­
so), per non dire di altre incoerenze anche peggiori, rimaste
per fortuna in non eseguiti progetti di rielaborazione.
In verità mai come qui Strindberg è riuscito col suo stile
antiletterario « discretamente sgrammaticato e asintattico » (si
è tentati di dire mutuando una frase del Verga) a fondere
narrazione e descrizione, psicologia e paesaggio, parlato pro­
prio e parlato dei personaggi in un unico quadro palpitante
di vita.
Basteranno a titolo indicativo alcuni esempi.
Arrivò come un acquazzone una sera d’aprile, con una boccia di
Hòganas a tracolla. Clara e Lotta erano venute a prenderlo con la
barca da pesca airapprodo di Dalarò, ma ci volle un secolo prima
che tutti fossero in barca. Dovevano passare dal bottegaio per una
botte di catrame, dalla farmacia per l'unguento grigio del maiale,
e poi alla posta per un francobollo, e poi giù alla svolta a lasciare
il gallo a Fia Lovstròm in cambio di una mezza libbra di refe per
riparare i tramagli, e ora s’erano arenate alla locanda, dove Carlsson
offriva il caffè con i biscotti.
Ecco la prima battuta del racconto, la presentazione di
alcuni personaggi, che vivono subito grazie alla dinamicità
dell’esposizione. Tutto sembra qui detto a voce alta e mimi­
camente accompagnato dagli stessi illetterati isolani, in un
periodare sciolto e mosso e in apparenza disordinato, ma che
invece, ricongiungendo la prima similitudine caratterizzante al
dettaglio finale, fonde insieme nella rappresentazione di Hemso
la voce dei suoi abitanti con quella dello scrittore.
Altrove la caratterizzazione è ottenuta mediante la dram­
matica espressività del dialogare, tutto verbi metaforici, in­
calzante succedersi di battute e colorite sentenze; un dialogare
che, senza individualizzare — neppure per mezzo del dialetto
o del gergo — i singoli personaggi, li accomuna tutti in una
sola parlata, quasi voce polifonica dell’anima di Hemso:
In quel momento compaiono sulla porta Carlsson e la vecchia col
suo rastrello: un bel rastrello con due cuori dipinti e la data: 1852,
che ùria volta il vecchio Flod, allora in vita, aveva fabbricato con le
proprie mani per donarlo alla fidanzata; e neU’interno del manico
222 Le letterature della Scandinavia

c’erano dei piselli, che a scuoterlo, sonavano come bubbolini. Il


ricordo delle gioie passate pareva aver destato Pallegria nell’animo
di quella vecchietta arzilla, e senz’ombra di sentimentalismo indi­
cava quella data dicendo: — N’è passato del tempo da quando
Flod mi fece il rastrello... — E tu andasti a letto con lui! — inter­
loquì quello di Svinnockar. — A letto ci può andare anche un’al­
tra volta — incalzò quello di Àvassa. — Chi crede ai porcellini
d’un mese e alle vedove di due anni, povero lui! — motteggiò
quello di Fiàllànga. — Più secca la legna più bello il fuoco! — at­
tizzò quello di Fivàrsatrao.

Più spesso, come nelle scene della mietitura, della festa


di nozze e in altre ancora, la maestria stilistica si avverte
subito nel calore lirico che, senza effondersi in pitture paesi­
stiche e senza nulla concedere alle minuterie del verismo, tra­
sfigura il quadro in azione drammatica:

Ebbe così inizio la battaglia: avanti due dozzine di bianche cami­


cie disposte a cuneo come cigni migranti in autunno, falce dietro
falce; e quindi, in ordine sparso come una schiera di rondini di
mare, capricciosamente scartando, deviando ma pur sempre in grup­
po, le ragazze coi loro rastrelli, ognuna dietro al suo falciatore.
Era un sibilar di falci e l’erba cadeva in fasci; una accanto all’al­
tro giacevano ora i fiori dell’estate che s’erano azzardati a sboc­
ciare fuori del bosco e della macchia: margherite e bruciafave,
rose di macchia e borrane, rugiade di sole, garofani di campo, cer­
fogli, melampiri, cacalie, trifogli e tutte l’erbe e le gramigne del
prato; un dolce profumo si spandeva per l’aria come di miele e
d’aromi; api e calabroni fuggivano a sciami dinanzi alla schiera mi­
cidiale e le talpe si cacciavano nelle viscere della terra sentendo
crollare i loro fragili tetti; il serpe impaurito scivolava giù nella
fossa e s’infilava in un buco guizzando come una scotta al vento;
ma sopra, in alto, sul campo di battaglia, si libravano due allodole
il cui nido era stato calpestato da un tacco ferrato; e da ultimo,
alla retroguardia saltellavano i tordi bezzicando e raccogliendo ogni
sorta d’animaletti venuti alla luce del sole ardente. Finita la prima
battaglia al margine del prato, i guerrieri si fermarono appoggiati
al manico delle falci a contemplare la devastazione che s’eran la­
sciati alle spalle, rasciugando il sudore dalle fodere dei berretti
e cavando dalle tabacchiere una nuova presa; mentre le ragazze
s’affrettavano a disporsi in ordine sul nuovo fronte.
Ed ecco un nuovo assalto contro il verdeggiante mare dei fiori
che ondeggia irridato sotto la crescente brezza mattutina; e ora mo­
stra variopinti colori luminosi, quando gli steli più gagliardi e le
corolle spuntano fuori dalla molle gramigna ondulante al soffio
del vento; ora invece si distende liscio, verde come un mare in
bonaccia.
L’età moderna 223

Sono, questi, sommari cenni soltanto, ma forse sufficienti


perché chi legge possa individuare da sé la migliore arte di
Strindberg, schietta e vigorosa là dove la forza del primitivo
non è falsata dalla sensibilità del decadente.

L’influenza del teatro di Ibsen e di Bjornson non tardò


a farsi sentire anche fuori dei confini della Norvegia, soprat­
tutto in Svezia, dove Strindberg fu il primo a raccoglierne
l’eredità spirituale. Anzi nel rifarsi — secondo il gusto del
tempo — all’antichità nordica fu il primo che direttamente
attinse alle fonti islandesi. La sua parabola però segue da
presso quella dei due norvegesi, passati entrambi, sotto l’in­
flusso del Brandes, dagli entusiasmi storico-romantici alla di­
scussione dei problemi sociali contemporanei.
La Svezia s’apriva allora — intermediario lo storico dell’arte
norvegese L. Dietrichson — alla coeva letteratura danese e
norvegese, e dopo il 1870 il teatro di Ibsen e di Bjornson
(Brand e Peer Gynt, Tra le battaglie, Maria Stuarda, ecc.)
s’imponeva al pubblico spazzando via il polveroso repertorio
storico-borghese di von Beskow e di Borjesson, di Bianche
e di F. Hedberg e suscitando commenti e polemiche di stampa;
e anche Shakespeare (per la prima volta integralmente tra­
dotto in svedese da C. A. Hagberg, 1847-1851) veniva in­
terpretato dal Brandes quale ideale progenitore dei due grandi
norvegesi.
Fra questi e lo Shakespeare « naturalista » si muove in­
fatti il primo Strindberg, il drammaturgo di Màster Olof, di
Lycko-Pers resa (Viaggio di Pietro il fortunato, 1882) e di
Gillets hemlighet (Il segreto della Gilda, 1879-80), e di Herr
Bengts hustru (La moglie del nobile Bengt, 1882).
Ma solo nell’ambiente parigino del naturalismo il suo
ideale drammatico giunse a piena maturazione.
Le enunciazioni programmatiche della nuova dottrina, non
meno dell’esempio di Ibsen, agirono su di lui in misura decisi­
va: l’inchiesta sociale e l’analisi psicologica postulate dai Gon-
court, il metodo pseudoscientifico di Zola e di Taine, le ricerche
di Charcot e della scuola di Nancy sulla suggestione e sull’ipno­
tismo1. Preferiva, sulla scorta della Evolution naturoliste di

1 Vedi su questo argomento l’esauriente studio di H. Lindstròm, Hjàr-


nornas kamp, Uppsala, 1952 e A. Jolivet, cit., pp. 121, 159, 168.
224 Le letterature della Scandinavia

L. Desprez, il dramma al romanzo, perché di effetto più im­


mediato e potente, ma ripudiava gli intrighi complicati della
scuola di Scribe; ammirava l’analisi psicologica dei francesi:
Corneille Racine e Molière (al quale ultimo — diceva — « per
la meravigliosa vivisezione di Tartufo è bastato un semplice
palcoscenico e due sgabelli ») e soprattutto Zola, che, a diffe­
renza di Augier e Dumas, « descrive l’evento, indica i motivi
dell’azione drammatica, ne mostra le conseguenze ». Anche in
Shakespeare e in Ibsen vedeva dei precursori delle sue idee
drammatiche: Iago uccide Otello senza servirsi di spada o
pugnale, solo destando in lui il sospetto, e in Rosmersholm
è inconsapevolmente trattato il tema dall’assassinio psichico
(sjàlamord), « benché Ibsen non ci mostri come Rebecca West
commette il suo delitto, mentre proprio questo costituiva
l’azione drammatica ».
Questo dunque il suo ideale drammatico: portare sulla
scena un conflitto psicologico nella fase culminante, essenziale,
sfrondato di ogni elemento accessorio che ne sminuisca l’ef­
fetto sul pubblico: unità di luogo e di tempo, massima con­
centrazione, azione culminante in poche scene parossistiche
atte a dare l’illusione d’una « tranche de vie »; e poi impiego
di tutti i mezzi tecnici del teatro naturalista: niente più ri­
balta, niente più pause fra gli atti; riflettori laterali e oscurità
completa nella sala, rialzamento della platea; e, per allentare
l’estrema tensione drammatica, ricorso ai vecchi espedienti
scenici come monologo pantomima e balletto.
A formulare questo programma Strindberg non arrivò cer­
to d’un tratto. Il dramma in cinque atti del 1886, Marauddrer
(Predatori), rifatto poi in soli quattro Atti nel 1887 col titolo
Camerati, contiene già il tema favorito del suo antifemmini­
smo: la lotta coniugale. Il conflitto psicologico tra Axel e
Bertha di Predatori-Camerati, cui non mancano paralleli nella
coeva letteratura francese, da VAffaire Clemenceau di Dumas a
Manette Salomon e Charles Demailly dei Goncourt, è tutto
una satira dell’ideale femminista e ibseniano *. Assistiamo,
attraverso cinque lunghi Atti, nella prima stesura, e attraverso

1 Cfr. M. Gravier, Le théàtre naturaliste de Strindberg, ed. du Centre


National de la Recherche Scientifìque, 1958, pp. 107-109 e A. Jolivet,
cit., pp. 106-143. Inoltre, intorno a una ignota fonte norvegese del
dramma: M. Gravier, À propos des Camarades... in Etudes Germa­
nises, ottobre-dicembre 1961, p. 390 sgg.; luglio-settembre 1963,
p. 360 sgg. 1-- —— —.... .
Uetà moderna 225

quattro nella seconda, alle solite scene d’ambiente, a Stoc­


colma come a Parigi, alle solite disquisizioni avvocatesche sui
diritti coniugali dell’uomo e della donna, ai soliti episodi se­
condari, che servono a variare e sottolineare il tema principale.
Ma i personaggi sono, in questi drammi a tesi, semplici tipi:
lui tutto bontà affetto e intelligenza, lei tutta ottusità frigidità
e perfidia; vittima il primo, carnefice la seconda. Anche i ri­
maneggiamenti della seconda stesura (soppressione del primo
Atto, unità di luogo e maggiore brevità dei dialoghi) intesi a
potenziare la concentrazione drammatica, restano sostanzial­
mente nell’ambito delle innovazioni tecniche.
Solo nel dramma seguente Fadren (Il padre, 1887) com­
pare per la prima volta, circondata dal nimbo satanico, la
tipica donna strindberghiana: ora nemica scoperta, che ag­
gredisce l’uomo per succhiargli vampirescamente il sangue, la
forza, l’intelligenza; ora perfida ammaliatrice che attorno al­
l’avversario tesse la sua tela di invisibili serici fili e len­
tamente e inesorabilmente lo soffoca. Una siffatta figura gor-
gonica, un fiore del male che si nasconde sotto l’angelicato
nome di Laura è l’eroina di questo dramma. È lei a gettare
nell’animo del Capitano, suo marito, il seme avvelenato del
dubbio, del dubbio che sia lui il vero padre di sua figlia, e
con perfidia inaudita lo spinge alla follia.
In Strindberg combattevano certo due sentimenti opposti,
mentre scriveva II padre. Voleva per un verso* guardare al
suo soggetto con l’occhio snebbiato del naturalista, che analizza
un processo di disgregazione psichica senza formular giudizi
morali; ma, per l’altro, non sapeva resistere alla tentazione po­
lemica di esaltare enfaticamente il martirio del suo eroe. Vo­
leva sì incentrare tutto il dramma sul motivo dell’« assassinio
psichico », del conflitto irriducibile di due volontà decise ad
annientarsi a vicenda, curiosamente anticipando così il nietz­
scheano « odio dei sessi », l’opposizione fra l’essere inferiore:
la donna, e l’essere superiore: l’uomo; ma, scrivendo, gli è ac­
caduto di sovrapporsi ai suoi personaggi, e specialmente nella
prima parte del dramma, di ricadere fra argomenti e interro­
gatori, prove e controprove, nel tono avvocatesco dei suoi pre­
cedenti lavori1.

1 Anche chi giudica il dramma un capolavoro, come C. R. Smedmark


(A. Strindbergs dramer, Stockholm, 1964) ammette (p. 207): « Dialogen
ar icke likà elegant som i Fròken Julie. Den har annu nagot styvt
skriftspràkligt eller alltfor spetsfundigt over sig. ». Si comprende quel
226 Le letterature della Scandinavia

Qua e là par d’assistere a qualcosa che sta tra il processo


giudiziario e Tesarne clinico. Non che Strindberg sia rimasto
freddo e indifferente. Al contrario. Ma troppo forte era in
lui la foga polemica di denunciare e documentare la perversità
della donna e troppo ingenua, insieme, la fede nella pseudo­
scienza. Così, mentre voleva esaltare il Capitano quale su­
peruomo dall’aspetto marziale e dalla posa gladiatoria « ca­
pace con una parola di domare uomini e animali », quale scien­
ziato scopritore e investigatore della vita astrale, ha poi do­
vuto far di lui — per rendere psicologicamente e artistica­
mente verosimile il fenomeno della « suggestione psichica » —
un nevrotico debole e irresoluto che si lascia « ipnotizzare »
da Laura. E per converso, al fine di sfogare il suo antifemmi­
nismo, ci ha presentato Laura come un mostro di perfidia e
di perversità, mentre non occorreva tanto per far impazzire
il Capitano.
Con ogni mezzo questi tenta di strapparle la temuta con­
fessione d’infedeltà e giunge a prometterle il perdono purché
ella lo liberi dal sospetto e dall’angoscia; e quando, nell’epilogo,
Laura si dichiara innocente (« io non posso prender su di me
una colpa che non ho commesso... ») il Capitano risponde:
« L’infedeltà si può provare, ma non il suo contrario ».
C’è del tragico in questa figura di padre straziato e scon­
volto nel più caro dei suoi affetti, in quest’affannoso vaneg­
giare e smarrirsi d’un essere che confonde la realtà visibile
e percettibile con i fantasmi tremendi delTimmaginazione; che
trapassa improvviso dall’odio all’amore, dalla brutalità alla
tenerezza, dal volgare al sublime.
Qui irrompe sulla scena, vaneggiando, con un mucchio di
libri sotto il braccio:

Ecco, sta scritto in ogni libro. Dunque io non ero pazzo! Qui,
nel primo canto dell’Odissea, verso 215, pagina 6 della traduzione
uppsaliense, è Telemaco che parla ad Atena: — Ben afferma mia
madre che egli, cioè Odisseo è mio padre, ma come posso io sa­
perlo?, che nessuno ancora conobbe mai la propria discendenza; e
ciò sospetta Telemaco di Penelope, la più virtuosa tra le donne!
Bella questa eh? Ecco il profeta Ezechiele: — L’insensato dice:
questo è mio padre; ma come si può sapere le reni di chi Pabbiano
generato?

che di astratto che Zola diceva di trovarci, in una celebre, anche se nor,
molto significativa, lettera inviata all’autore.
Uetà moderna 227

Lì abbraccia la figlia, in un impeto d’amore e d’odio in­


sieme:
Berta, cara figlia adorata... sì, tu sei mia figlia! Sì, sì, non può essere
altrimenti. È così. Tutto il resto non è che fantasia malata, portata
dal vento come la pestilenza e le febbri. Guardami, ch’io veda la
tua anima nei tuoi occhi! — Ma io vedo anche l’anima di lei! Tu
hai due anime e mi ami con Tuna e mi odi con l’altra... Io sono un
cannibale e ti voglio divorare... io sono Saturno che mangiò i suoi
figli, perché gli fu predetto che altrimenti lo avrebbero mangiato.
Divorare o essere divorati: ecco il dilemma!

Eccolo da ultimo, nell’epilogo, prigioniero nella camicia


di forza, astutamente affibbiatagli dalla vecchia nutrice. Al con­
tatto del morbido scialle di Laura, avviene improvviso il tra­
passo dall’odio all’amore e dall’amore all’odio:
10 sento il tuo morbido scialle sulla mia bocca; è lieve e molle come
11 tuo braccio, e profuma di vaniglia come i tuoi capelli, quando
eri giovane! Laura, quand’eri giovane e andavamo insieme nel bosco
di betulle... Omfale, Omfale! Tu scaltra femmina, che ami la pace
e hai abolito le armi. Svegliati Ercole prima che ti tolgano la clava!
Tu volevi toglierci anche l’armatura, fingendo di credere che fosse
un ornamento... Omfale! Omfale! La scaltra debolezza ha sconfitto
la forza bruta; maledetta sii tu femmina diabolica; la dannazione
ricada sul tuo sesso!

Il sipario scende mentre il Capitano, prossimo alla fine,


invoca l’immagine ideale della donna-madre e recita sommesso
le preghiere dell’infanzia.
Un critico (M. Lamm) ha osservato che Strindberg, al pari
del massimo drammaturgo elisabettiano, circonda di luce di sol
cadente la morte del suo eroe, restituendogli così, nell’ultima
ora, tratti di insospettata umanità. Una generica ispirazione
shakespeariana è innegabile; ma è poi possibile fare con quel
critico dei riavvicinamenti fra Otello, Macbeth, Lear e il
nostro personaggio?
Senza entrare in oziosi confronti ci si limiterà ad alcuni
accenni che serviranno a meglio illuminare l’arte stessa di
Strindberg. E anzitutto va detto che il Capitano non è né un
prode né un impetuoso amante come Otello, né un guerriero
accecato dal sogno della grandezza e della potenza come
Macbeth, e neppure un vecchio ma forte re come Lear (« eve­
ry inch a king! »), che in un’ora di smarrimento commette
un errore fatale. È invece un povero malato, che sin dalla
228 Le letterature della Scandinavia

prima scena ben conosce la malvagità di sua moglie e la pro­


pria fiacchezza e femmineità, eppure ciecamente crede a quanto
ella vuol fargli credere. E anche la figura di Laura è troppo
polemica e schematica. Ferrea e indomita, diritta e consape­
vole del piano strategico che ha in testa di annientare l’av­
versario, senza ombra d’esitazione, di rimorso; non sembra
un’astratta figurazione del male? Vuole il male per il male
quasi disinteressatamente, a freddo, senza gioirne come Jago
e senza soffrirne come Lady Macbeth, senza un barlume di
maternità e femminile umanità, senza motivo e passione che
giustifichi la sua condotta.
In che senso questo carattere andava sviluppato nel dram­
ma ce lo mostra l’epilogo, dove Laura è presentata come un
essere che fa il male senza saperlo:
Io non ho mai riflettuto sugli eventi; questi hanno proceduto su
binari costruiti da te stesso, e dinanzi a Dio e alla mia coscienza io
mi sento innocente, anche se non lo sono...

C’è dunque incoerenza interna nella caratterizzazione di


questi personaggi, punti oscuri, non chiariti perché non chia-
ribili data l’impostazione del dramma; al calar della tela an­
cora non si sa se Laura realmente abbia tradito il marito, né
se questi sia impazzito perché crede all’infedeltà della mo­
glie. L’interesse del dramma non è certo qui, ma in quel
rapido trasvolar da un tono all’altro, in quella tragedia di
un’anima straziata che passa dalla dolce illusione al duro risve­
glio, dall’abbandono fiducioso alla furente rivolta, all’estremo
smarrimento nelle tenebre della follia.
Assai più serrato il conflitto psicologico strindberghiano
si presenta nel dramma seguente nato sotto la suggestione
dei drammi brevi del « Teatro Libero » di Antoine: come
Jacques D amour di L. Hennique o come Uévasion di Vil-
liers de PIsle-Adam
Froken Julie (Contessina Giulia) infatti è in un solo atto,
dura un’ora e mézzo, e non ha cambiamenti di scena. Quasi
ad esasperare maggiormente la sua ossessionante problemati­
cità, Strindberg l’ha qui rinserrata nell’anima piagata e im­
pura d’una nobildonna, che, dopo essersi data al suo servo
nell’oblio della notte di mezzestate, sopraffatta dal disonore,
si uccide.

1 A. Jolivet, cit., p. 164.


L’età moderna 229

È la notte di San Giovanni, la più chiara e lunga notte


delPanno. Nella cucina, arredata con veristica minuziosità, pe­
netrano gli echi della festa di mezzestate che la servitù cele­
bra, sull’aia, con la tradizionale esultanza.
Poche parole del servo Jean bastano a trasportarci in piena
situazione drammatica:
— Stasera la contessina Giulia è pazza, completamente pazza. Ap­
pena m’ha visto, mi s’è gettata addosso e m’ha invitato per un
valzer. E poi ha ballato in un modo!... Mai visto nulla di simile.
È pazza!...
La contessina, inconsapevolmente attratta dalla maschia
avvenenza del suo cavaliere, s’abbandona al gioco che le sarà
fatale: se lui si ritira, lo schernisce dandogli del casto Giu-
seppe; se accetta la sfida, rintuzza la sua presunzione don­
giovannesca; ma non osa mischiare il suo sangue aristocra­
tico al sangue plebeo. La servitù irrompente ebbra in cucina
è il « Deus ex machina », che interviene a tagliare l’insolu­
bile nodo dei suoi pregiudizi nobiliari: nella camera di Jean,
dove i due si nascondono, ha luogo l’invisibile scena della
seduzione.
A questo punto ha inizio il dramma dell’odio-amore: il
brusco passaggio dall’illusione estatica al disgusto. Se la pa­
drona s’affanna a prolungare la prima e a combattere il se­
condo, il servo pensa invece solo alle conseguenze e si di­
lunga in eloquenti progetti di fuga. Prima le baciava il piede,
ora la oltraggia; prima le confessava il suo devoto amore; ora
la disprezz'a e la calpesta. Giulia si dibatte nel gorgo in cui
affogherà: prega il suo seduttore d’amarla, d’aiutarla; poi rim­
provera offende comanda, per finire in uno scoppio d’odio
selvaggio che sembra scaturito dagli abissi della barbarie
eddica:
— Ah! voi credete ch’io non possa veder sangue, credete che io
sia debole... ah! — il tuo sangue vorrei vedere, il tuo cervello
messo a nudo — vorrei vedere tutto il tuo sesso in un mare di
sangue — si, io mi sento capace di bere nel tuo cranio, io vorrei
bagnare i miei piedi nel tuo petto squarciato, io sarei capace di far
cuocere il tuo cuore e di divorarlo intero. — Tu credi ch'io sia
debole, tu credi che io t’ami, tu credi ch’io voglia portar nel mio
ventre tuo figlio e nutrirlo del mio sangue, partorire tuo figlio e
prendere il tuo nome! A proposito qual’è il tuo nome? Non l’ho
mai sentito io il tuo nome di famiglia!... Tu cane, che porti il col­
lare, tu servo che porti il mio stemma sui bottoni della tua livrea
230 Le letterature della Scandinavia

— vuoi ch’io abbia a spartire con la mia cuoca, ch’io rivaleggi con
la mia fantesca! Ah, ah, ah! Tu credi ch’io sia vile, che voglia fug­
gire. — No, io resterò e si scateni la tempesta! Mio padre torna
a casa... trova la scrivania scassinata... il denaro rubato! Allora suo­
nerà — quel campanello lf... — due volte, per chiamare il servo —
e poi chiamerà la giustizia — e io confesserò tutto. Tutto! Ah! Che
gioia, la fine. Purché ci sia una fine per tutti — la calma... la pace...
l’eterno riposo! Lo stemma sarà infranto sulla bara, la stirpe co­
mitale s’estinguerà... e il figlio del servo la continuerà in un asilo
di trovatelli, conquisterà i suoi allori nel fango della strada e finirà
in prigione!

Malgrado quest’odio feroce, Giulia è destinata a soccom­


bere (nella darwiniana e nietzschiana « lotta per la vita » è
giusto che l’aristocratica degenere ceda il passo al sano e forte
plebeo). Ad una ad una cadono le maschere dell’amore ro­
mantico dal volto del seduttore, ad una ad una cadono le
illusioni nell’animo della sedotta, finché l’inesorabile fato na­
turalistico, impersonato dal servo che mette il suo rasoio in
mano alla padrona, non pone fine alla tragedia.
Nella prefazione al dramma Strindberg si vantava d’aver
qui dato esempio — in antitesi al matematico e simmetrico
dramma francese e ibseniano — d’una nuova psicologia (de­
dotta dall’associazionismo di Ribot) più ricca più complessa
più « vera », e d’aver sostituito al concetto tradizionale di ca­
rattere un nuovo « carattere senza carattere », un essere cioè
disarmonico contraddittorio incoerente, sempre in balia del­
l’istinto e del caso. La « verità » però è più apparente che
reale, più enunciata che attuata. Anche in Confessino, Giulia,
in sostanza, il meccanismo naturalistico (che per rendere cre­
dibile il suicidio ricorre perfino alla suggestione ipnotica) do­
mina la vicenda drammatica in un ben congegnato susseguirsi
di cause ed effetti (nel vivo della tragedia i protagonisti si
abbandonano a lunghe disquisizioni sulla loro preistoria so­
ciale e psichica, sull’ereditarietà e sull’ambiente) in un simme­
trico gioco di azioni e reazioni. A ben guardare, sotto la conci­
tazione dialogica riaffiora il calcolo sapiente, sotto l’apparente
naturalezza lo schematismo intellettualistico. La psicologia di
Ribot non era in fondo meno « naturalistica » della fisiologia
di Zola! 1

1 Secondo S. Ahlstrom, Strindbergs eròvring av Paris, Stockholm, 1956,


p. 91, Strindberg avrebbe già prima del 1883 letto Le naturalisme au
thèàtre di Zola; e quanto alla superstiziosa fede nella scienza — che fu
L'età moderna 231

L’interesse scientifico per il meccanismo delT« assassinio


psichico » traspare ancor più chiaramente nel dramma che
Strindberg scrisse per il Teatro Libero, immediatamente dopo
Contessina Giulia: Fordringsàgare (Creditori, 1889).
Qui la vicenda drammatica s’incentra tutta sul motivo
della suggestione ipnotica esercitata da Gustavo, già stato
marito di Tecla, e da Tecla sul suo attuale marito Adolfo.
In tre brevi scene noi assistiamo a una « grandguignolesca »
vivisezione di tre anime ossesse dall’amore-odio, ossia da ima
brama frenetica di torturarsi e distruggersi a vicenda: Tecla
ipnotizza senza sforzo Adolfo e lo assoggetta ai suoi capricci
di tipica femminista strindberghiana, mentre Gustavo, simu­
lando coi gesti i sintomi del malcaduco e forzando cosi Adolfo
a credersi realmente in preda a convulsioni epilettiche (!)
completa l’opera di disgregazione psichica della vittima.
Il motivo dell’amore-odio, cioè dell’erotismo decadente
che è insieme schiavitù e ribellione dei sensi malati, è in Cre­
ditori come nei seguenti drammi brevi, modellati sui Quart
d’Heures di Lavedan e Guiches, delineato con manualità di
procedimenti teatrali. Adolfo è un martire agonizzante, Te­
cla un vampiro che gli succhia il sangue, un cannibale che
gli divora l’anima. Tutto esteriorizzato è anche l’altro mo­
tivo della suggestione ipnotica, che addirittura diventa potere
taumaturgico, quando Gustavo, col solo aiuto della mimica,
provoca un accesso di epilessia nel suo sventurato avversario!
Naturalistico è in fondo anche Dddsdansen (Danza ma­
cabra, 1891), benché scritto dopo la cosiddetta «crisi reli­
giosa » di Strindberg. Il motivo dell’odio-amore non è più
dinamicamente rappresentato quale progressivo sviluppo e
contrasto di passioni, ma visto in profondità, cioè esibito sta­
ticamente in una serie di quadri:
c a p it a n o Non vuoi suonarmi qualcosa?
a l ic e Cosa devo suonare?
c a p it a n o Quel che vuoi.
a l ic e A te il mio repertorio non piace!
c a p it a n o E a te non piace il mio!
a l ic e Vuoi che apra le vetriate?

si un pò* di tutti gli scrittori naturalisti, ma di Strindberg in sommo


grado — uno studioso moderno tutt’altro che ostile a Strindberg ha
scritto: « hati valde de teorier som passade honom och som samtidigt
overtygade honom om att han utgick fràn vetenskapligt bevisade fakta »
(L. Josephson, Strindbergs drama Froken Julie, Stockholm, 1965, p. 174).
232 Le letterature della Scandinavia

CAPITANO Se fa piacere a te!...


ALICE Allora lasciamole chiuse!... Perché non fumi?
CAPITANO Il tabacco forte comincio a non tollerarlo.
ALICE Fuma quello debole! È la tua unica gioia; come tu
la chiami.
CAPITANO Gioia? Cos’è la gioia?
ALICE Non lo chiedere a me, io ne so quanto te!...
ALICE È venuta la posta?
CAPITANO Si.
ALICE C’era il conto del macellaio?
CAPITANO SI.
ALICE Quant’è?
CAPITANO Leggilo tu. Io non ci vedo...
ALICE Cos’hai agli occhi?
CAPITANO Non so!
ALICE L’età...
CAPITANO Chiacchiere! Io?
ALICE Certo non io!
CAPITANO Mah!
ALICE Li hai i soldi per pagarlo?
CAPITANO Si, ma non ora!

Poche Battute di dialogo ed ecco evocata, con la con­


sueta efficacia, una scena di desolazione in cui si va spegnendo
resistenza di due falliti.
Ma Strindberg, malgrado la « crisi religiosa », non ha di­
menticato l’insegnamento atomistico del Brandes (« il parti­
colare è la realtà, perché il particolare è la vita e genera
l’illusione ») e anche in Danza macabra costruisce i suoi « ca­
ratteri senza carattere » col metodo analitico della giustappo­
sizione e della somma dei particolari (Diebold).
Alice è una megera tripudiarne di malefica frenesia:
Tutta la mia vita sono rimasta in questa torre, rinchiusa, sorve­
gliata da un uomo che ho sempre odiato e che ora odio così scon­
finatamente che il giorno in cui morrà, io scoppierò dal ridere.»

Come una belva pronta a slanciarsi sulla preda, attende,


spasimando d’impazienza, la morte del marito, e quando que­
sti stramazza in terra, colto da un passeggero attacco d’epi­
lessia, ella, credendolo finito, getta urla di trionfo e ride d’un
satanico ghigno che gela il sangue:
c a p it a n o - L’ora che hai tanto attesa è venuta!
a l ic e - Sf; e tu credevi che non venisse mai!
Uetà moderna 233

La fiamma diabolica dell’odio brilla cupa in questa furia


strindberghiana, bruciandovi ogni sentimento d’umana fem­
minilità Sotto la maliosa fascinazione di lei anche il cugino
Kurt è attratto nei gorghi dell’odio-amore; a un certo mo­
mento, non potendone più, l’afferra come un forsennato e la
morde alla gola:
— Sì, io voglio morderti e succhiarti il sangue come una lince;
tu hai ridestato in me la belva... ora che t’ho vista in tutta la tua
nudità, sono accecato dalla passione e sento tutta la potenza del
male...
Il Capitano è ancor più abietto: puro eroe del male,
essere vampirico che, sprovvisto di vita propria, si nutre del­
l’altrui sangue. Ma, nel proposito d’ingigantirne la perfidia
e l’ipocrisia, Strindberg l’ha sviluppato secondo un disegno
astratto che ne sminuisce le proporzioni e spesso addirittura
lo banalizza. Cosa pensare infatti dei suoi motti cinici e del
ghigno sarcastico, dei diabolici intrighi ai danni della moglie
e di Kurt, delle promesse e delle minacce, quando improvvi­
samente si viene a sapere che tutto è pura millanteria, fatua
mascherata, messinscena per procurarsi l’amara gioia di spa­
ventare il prossimo?
Si comprende bene: l’odio, il male è di per sé un castigo,
un incubo, che forse, in mano d’altro artista, sarebbe diven­
tato oscura sofferenza del personaggio drammatico, germinale
orrore di se medesimo e quindi conflitto interno di passioni.
Ma qui abbiamo invece un’analisi minuta, circostanziata, mi­
croscopica, la cui efficacia sta sempre nella quantità non nella
qualità dei fatti narrati. Malgrado i parossismi e gli scoppi
d’odio, nulla interviene a produrre la tanto desiderata cata­
strofe, sulla si muta nell’animo dei personaggi, nulla risolve
l’uniformità della loro vita vegetativa. Il capitano conclude
sarcasticamente:
Com’è diventata banale la vita; prima ci si batteva, ora si minaccia
soltanto. — Io son quasi sicuro che fra tre mesi celebreremo le
nozze d’argento... con Kurt come tutore legale! Sì, tu ridi! Ma non
ricordi le nozze d’argento di Adolfo... quello dei cacciatori cam­
pali? La sposa portava la fede alla mano destra, perché lo sposo,

1 È incomprensibile come un critico danese abbia potuto ravvicinarla


a Médea! (V. Borge, Kvinden i Strindbergs Liv og Digtning, Koben-
havn, 1936, p. 380).
234 Le letterature della Scandinavia

in un momento di tenerezza, le aveva mozzato l’anulare con un


falcetto... che piangi? Ah, no, tu ridi, mi pare! — SI, sì, figli miei,
noi ora piangiamo e ora ridiamo! Se a torto o a ragione non me lo
domandate... Giorni fa ho letto, in un giornale, di un uomo che
aveva divorziato sette volte e quindi s’era sposato sette volte...
Finalmente a novantott’anni compiuti è scappato da casa e s’è ri­
sposato con la prima moglie! Ecco l'amore!... È una cosa seria o
ima farsa la vita? Chi lo sa!... — Dunque celebriamo le nozze d’ar­
gento?
a lic e (ammutolisce)
c a p it a n o - Di’ di sì — certo rideranno di noi, ma che importa?
Già nei drammi naturalisti di Strindberg l’impiego inge­
gnoso e raffinato dei mezzi tecnici, intesi ad accrescere l’inten­
sità del tragico e a sottolineare il meccanismo dell’assassinio
psichico, complica l’azione drammatica di elementi sopran­
naturali e fantastici, di meraviglioso alla Poe; l’ipnotismo e
la suggestione diventano mezzi taumaturgici; la passione ero­
tica, che dovrebbe simboleggiare il trionfo totale della vita­
lità senza rimorsi e senza colpe, è invece raffigurata a tinte
fosche, pessimistiche; l’analisi dello scienziato trapassa in ama­
ra confessione di decadente. Nell’antibseniano predicatore di
gioia e di sanità si scopre il mistico, il triste asceta condan­
nato a provare in sé e a ritrarre in infernali visioni le oscure
bramosie degl’istinti, i convellenti spasimi dei sensi.
Così anche nei drammi posteriori alla crisi religiosa, che
solo apparentemente taglia in due la drammaturgia strind­
berghiana, si assiste alla medesima lotta diabolica fre le ani­
me martirizzate e le inesorabili Erinni; benché Satana, que­
sta volta, sia visto attraverso l’esorcizzante fumigar dei turi­
boli anziché attraverso il microscopio più o meno incolore
dello scienziato. La cosmologia naturalistica perde la sua den­
sità strutturale e cede il luogo alla suggestione di impalpa­
bili fluidi misteriosi; il proteiforme « carattere » strindber-
ghiano si scioglie nelle sue componenti, la rappresentazione
drammatica si fa visione spettrale. Ma identica resta, a ben
guardare, la concezione deterministica della realtà, pur sotto
le nuove etichette mistiche e swedenborghiane, identico il natu­
ralistico visionarismo di Strindberg che scopre nella Séraphita
di Balzac l’ideale della perfetta umanità: una fusione tra l’an­
drogino di Péladan e il Superuomo di Nietzsche!
In realtà era anche lui giunto al noto dilemma che Bar-
bey d’Aurevilly pose a Baudelaire dopo la lettura dei Fiori
del Male: o la Croce o il suicidio. Più d’una volta Strind-
L’età moderna 235

berg sembrò prossimo alTuna e all’altro; ma la tentazione del-


l’una e dell’altro non giovarono a risolvere la sua crisi.
L’incontro con Nietzsche — che conobbe attraverso Bran­
des nel 1888 — fu anche per lui come per tanti altri relati­
visti in cerca d’assoluto1 una rivelazione. Le idee di sovru­
manità, di volontà di potenza, di transvalutazione di tutti i
valori parevano potenziare, sublimandola, la naturalistica ener­
gia vitale, il mistero tragico della vita. Convinto d’aver perfino
anticipato, nei suoi scritti, l’anarchico volontarismo di Nietz­
sche, Strindberg vi aderì ora contaminandolo di occultismo
e di magia2. Con una delle più ambigue e sconcertanti sim­
biosi tentò d’interpretare in spirito nietzschiano il genio intui­
tivo e divinatorio di Poe3 e il profetismo antimaterialistico
del « rosacroce » Péladan4, il neoplatonico allegorismo di Swe­
denborg 5 e il naturalismo spiritualista di Huysmans6.
La religiosa « crisi d’inferno » — cui certo largamente
contribuì un più o meno consapevole, più o meno « ragio­
nato disordine di tutti i sensi » 7, fu lo sconvolgimento più
radicale del suo pensiero; lo spinse sull’orlo della follia, lo
depresse e lo esaltò e lo consumò, non senza però approfon­
dirne, insieme, la sensibilità, non senza schiudere nuove pro­
spettive al suo mondo spirituale. Ciò che ancora colpisce nei
documenti di questa crisi non sono né gli spunti veterotesta­
mentari e pietisti, swedenborghiani e nietzschiani (il tema
luterano dell’irrimediabile malvagità dell’uomo8, la religione
intesa come puro sentimento ateologico e adogmatico, la pre­

1 A. Liebert, August Strindberg, seine Werke und seine Kunst, Berlin,


1920, p. 148.
2 K. Strecker, Nietzsche und Strindberg mit ihrem Briefwechsel, Miin-
chen, 1921; e LIV, p. 323 sgg.; H. Ahlenius, G. Brandes i svensk lit-
teratur, Stockholm, 1932, p. 136 sgg.; T. Eklund, Tjànstekvinnans son,
Stockholm, 1948, p. 394; H. Beyer, Nietzsche og Norden, Bergen, 1958.
V. specialmente, II, p. 64 sgg.
3 Nel 1889 O. Hansson se n’era fatto interprete nella Vossische Zeitung
(12.5) e l’anno dopo in un saggio Literatur und Kritik (Samlede skrif-
ter> X), sottolineandone i legami ideali col romanticismo tedesco.
4 XXVII, p. 612.
5 Rivelatogli dalla lettura della balzachiana Séraphita, XXVIII, p. 56 sgg.
6 XXVIII, p. 320.
7 K. Jaspers, Strindberg und Van Gogh, Bern, 1922; S. Hedenberg,
Strindberg i skdrselden, Goteborg, 1962. Pur nel contrasto delle rispet­
tive tesi, queste due analisi psichiatriche non lasciano dubbi in pro­
posito.
8 XXVIII, passim.
236 Le letterature della Scandinavia

senza misteriosa degli spiriti correttori*, il sogno d’una sovru­


manità alimentato dal senso della nullità umana) né le nebbie
esoteriche della teosofia, ma la straziata angoscia (la stessa
che fa vibrare i suoi paradossali drammi), lo sgomento pri­
mordiale, infantile, perfino ridicolo2, però sempre vissuto e
sofferto, col quale è percepita l’impotenza dell’intelletto di
fronte ai moniti e ai castighi del soprannaturale.
La disintegrazione dell’io nelle sue molte anime, che nella
drammaturgia naturalistica strindberghiana, già segnava il tra­
monto del concetto stesso di individuo, di carattere, di per­
sonaggio teatrale, è qui al centro della nuova intuizione co­
smica, fondata su una swedenborghiana trama di analogie e
di simboli occulti. Realtà e sogno, io e tu, passato e presente,
tempo e spazio diventano entità intercambiabili, pure par­
venze. Il dramma non è più conflitto di volontà contrastanti,
ma recitazione monodica, Mistero medievale, dramma dell’ani­
ma, le cui arcane esperienze sono cosi smaterializzate da po­
tersi esprimere soltanto in visioni e disegni musicali. Al­
l’enigma, sintetizzato nelle parole dello Sconosciuto di Till
Damaskus (Verso Damascò, 1898, 1904): « Dove sono io?
Dove sono stato? È estate o inverno? In quale secolo vivo
e in quale mondo? Sono bambino o vecchio, uomo o donna,
dio o diavolo? » 3, corrisponde la tecnica metamorfico-alluci-
natoria del Sogno (Ett dromspel, 1902) in cui, secondo un
alchimistico esoterismo degno di Bosch, « tutto può accadere,
tutto è possibile e verosimile... i personaggi si sdoppiano,
svaniscono, ricompaiono, si dissolvono e si ricostituiscono » 4;
e la realtà intera, alla luce della metafisica pessimistica e
« buddistica » di Schopenhauer e di von Hartmann è inter­
pretata quale illusione, effimero incubo presto trapassante nel
risveglio liberatore5. Ma se qui irreale o surreale vuol appa­
rire la trama stessa dell’esistenza umana nel suo insieme, le
singole esperienze, i dettagli sono tutti concreti, intensificati,

1 XXVIII, pp. 184-188. Fu l’idea d’un Dio personale, già affacciatasi


aua e là nei suoi scritti, prima della « crisi d’inferno » (v. M. Lamm,
Strindberg och makterna, Uppsala, 1936, p. 63 sgg.) ad aprire il varco
alla teosofia swedenborghiana.
2 XXVIII, pp. 173, 179, 272-273.
3 « Var dr jag? Var har jag varit? Àr det vàr eller sommar? I vilket
àrhundrade lever jag och i vilken vàrldsrymd, àr jag barn eller gùbbe,
en nud eller en djàvul », XXIX, p. 225.
4 XXXVI, p. 216.
5 L, pp. 83; 202; XLVI, p. 406.
L’età moderna 237

potenziati al massimo. Non a caso Strindberg si definiva na­


turalista-occultista come Linneo, o Zola dell’occultismo *, chia­
mato a operare la sintesi fra scienza e religione, fra natura­
lismo e supematuralismo2 in nome d’un asserito monismo
cosmico3.
Vanificata cosi la realtà dell’io e del mondo, perseguita
nel sottosuolo psichico la ricerca d’un cosmo poetico libero
dai vincoli logici e affidato soltanto alle casuali suggestioni del­
l’ignoto e dell’occulto, anche il ritorno alla lirica, dopo la
crisi d’inferno doveva compiersi nel segno della mistica, o
come Strindberg la chiama, del contatto con l’aldilà 4.
Immutato è certo anche qui, nella breve raccolta Ordalek
och smàkonst (Giochi di parole e arte minore, 1902-1905)
il fondo autobiografico della materia e il senso vivo per la
concretezza dei particolari del quadro poetico. Si cercherebbe
invano nello Strindberg mistico le sfumature e il chiaro­
scuro, le penombre e i silenzi dell’intimismo maeterlinckiano
o le sinestesie simbolistiche5 del da lui non meno ammirato
Balzac di Louis Lambert e di Séraphita (quello dei fiori ca­
nori, dei colori olezzanti, della luce parlante). Nuova è sem­
mai l’ansia con cui lo sguardo, frugando nella realtà, ne rivela
il sostrato misterioso, la forza con cui la fantasia smembra
e frantuma il reale mutandolo in surreale. Si prendano certe
composizioni come « Immagini di strade » (Gatubilder) o
« Lunghe cupe sere » (Lànga tunga kvallar)y o « L’Olandese »,
« I lupi ululano » (Hollàndarn; Vargarna tjuta) o « Segale
fumante » (Ragen ryker) e si avvertirà subito, assieme al rea­
lismo di molte descrizioni tutte visive e auditive, rivelanti
l’intimo carattere delle cose con una lucidità e istantaneità

1 M. Lamm, Strindbergs dramer, Stockholm, 1924-26, p. 40.


2 XXVIII, p. 320.
3 XXVIII, pp. 237-248. Nel romanzo occultista Svarta Fanor (XLI,
p. 200, 1907) Talter ego di Strindberg, Falkenstròm dirà: « Tu devi
essere stato naturalista per poter divenire mistico », riprendendo cosf un
concetto tolto allo psicologo Karl du Prel, fatto conoscere agli svedesi
da O. Hansson nel 1885. (Cfr. D. Norman, Strindbergs skilsmdssa fràn
S. von Essen, Stockholm, 1953, p. 86 sgg.
4 LU I, p. 231 « Anschluss mit Jenseits ».
5 Uno dei non pochi paradossi del suo pensiero, dettato certo da po­
lemico astio verso i simbolisti svedesi, anzitutto verso Heidenstam, è la
condanna in blocco della poetica simbolista, risuscitante, secondo lui,
l’allegoria. LU I, pp. 93-94.
238 Le letterature della Scandinavia

estrema, il tono esoterico di confessione, sempre intenta a


scoprire il significato occulto delle cose1.
Né si può dire radicalmente mutata in lui l’originaria diffi­
denza verso la lirica tradizionalmente concepita (già visibile
nel titolo della raccolta). Ripudiava il concetto pedantesca­
mente restrittivo che avrebbe escluso un Tolstoj dal novero
dei poeti2; e nella polemica contro i simbolisti svedesi, auto-
proclamantisi araldi d’un rinascimento lirico in nome della
fantasia e della libertà metrica, non si stancava di rivendicare
i propri meriti di distruttore3 di vecchi schemi poetici e di
scolastiche concezioni prosodiche. Ma sentiva anche, senza
dubbio, tutto il valore ritmico-melodico della poesia4 é la
funzione del poeta-mago in senso baudelairiano, creatore non
di « realtà, ma di più che realtà », non di « sogno, ma di
sogni a occhi aperti » 5.
Già in alcuni drammi posteriori alla crisi d’inferno, come
Kronbruden (La sposa incoronata), Svanevit (Bianca come ci­
gno), e, soprattutto, Il sogno e Pàsk (Pasqua) — è stato no­
tato6 — la prosa strindberghiana, quasi per interna accen­
sione lirica tende a trapassare nel verso. Si tratta per lo più
d’una prosa ritmica, liberamente fluente, non legata a deter­
minati schemi metrici con pause e cadenze fisse. Lì dove il
presagio o la memoria sembrano decifrare la complessa trama
delle analogie universali, ecco che sovviene la lirica a di­
stanziare o a sciogliere la tensione drammatica1. Lo stesso
dialogo diviene allora tema di composizione musicale8.

1 Nel suo diario-confessione del 1903, Ensam (Solo), XXXVIII, p. 192


Strindberg stesso spiegò, chiarendone la genesi occulta, l’ispirazione
prima della poesia Vargarna tjuta: «Una sera in città assistetti a un
incendio; e nello stesso istante udii l’ululo dei lupi da Skansen; nella
mia immaginazione i capi di queste due diverse fila si congiunsero e si
fusero a formare l’appropriata trama di una poesia».
2 LIV, pp. 403-404.
3 LU I, pp. 97-98.
4 LU I, p. 77.
s XXXVI, p. 301.
6 M. Lamm, A. Strindberg, Stockholm, 1948, pp. 313, 339.
7 G. Ollén, Strindbergs 1900-tals lyrik, Stockholm 1941, pp. 87, 102.
8 G. Ollén, op. cit., p. 94. Malgrado le ripetute invettive contro Wagner,
gli esoterici filosofemi e il naturalismo buddistico del creatore del Par­
sifal hanno lasciato visibili tracce nei drammi mistici di Strindberg
(v. R. Raphael, « Strindberg a. Wagner » in Scandinavian Studies, ed.
C. F. Bayerschmidt-E. J. Fries, American-Scandinavian Foundation, 1965,
pp. 260-268).
L'età moderna 23$

Contesti di elementi drammatici, anzi veri e propri sviluppi


lirici di drammi incompiuti sono in Ordalek och smàkonst i
due cicli poetici: L'olandese (eh’è tutto un inno in chiave neo­
platonica alla corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo)
e La notte della Trinità; anche se non mancano altri e di­
versi toni: dairidillio familiare e pastorale in accademici esa­
metri tegneriani1 di Viaggio in città alle meditazioni esote­
riche sulla vita cosmica di Numeri e leggi della creazione.
Ma il dramma — s’è già detto — non va più inteso in
senso naturalistico quale urto di forze individuali e antago­
nistiche, perché è incentrato tutto nella figura dell’autobio-
grafo protagonista di Verso Damasco (il cui monologo inte­
riore traduce le visioni oniriche del poeta) o nelle allegorie
del Sogno, illustranti l’enigma del vivere e patire umano.
Alla fatalità del male e del dolore si contrappone ora non
una volontà eroica, ma la fede nell’irrealtà del reale e la vaga
aspirazione al sopramondo swedenborghiano. Di qui lo stesso
tono disperatamente triste, passivamente rassegnato dei dram­
mi, che si riaffaccia nelle liriche di Ordalek och smàkonst:
ora, come in Semele e in Villemo, intensa pena d’amore espres­
sa nei moduli della canzone popolare con la semplicità dei corri­
spondenti mezzi stilistici (dalle forme dei verbi e dei sostan­
tivi al parallelismo della struttura e alla melodia pastorale
delle rime); ora, come in Sette rose2, crittogramma occultista
racchiudente nella sua ingegnosa architettura di simboli lo
strindberghiano motivo dell’odio-amore.
La lirica Chrysaétos composta nel 1902, è forse la più
caratteristica e significativa delle poesie di Strindberg, quella
in cui il tema dell’infelicità del vivere umano, risentito in
tutta la sua forza distruttiva, è svolto in una serie di visioni
intensamente angosciose. A renderle più incalzanti, allucinanti,
ossessive, contribuisce per un verso l’incongruenza dei nessi
logici, per un altro la composizione musicale della lirica, che
arieggia un movimento sinfonico, e il ritmo, benché estrema-
mente vario, martellante fino alla bravura.
C’è qualcosa di Poe nell’atmosfera stregata, nel potere

1 M. Lamm, cit., pp. 348-350.


2 Brev. 6.8.1900 a G. af Geijerstam. L’amuleto teosofico ricco di segni
magici, di cui parla la lettera, è il punto di partenza per l’illustrazione
del dissidio fra sogno e realtà. Ai simboli di buon auspicio: la pioggia
di rose sul fuoco, le spighe e la croce, la colomba e i numeri sacri,
inversamente corrispondono l’odio, le parole infide e i falsi giuramenti.
240 Le letterature deli# Scandinavia

suggestivo delle prime sette strofe, nelle quali un crescendo


di occulti presagi, un ansioso interrogare senza risposta, dà
insieme il tono fondamentale alla lirica e ne prepara il cli­
max tragico: la morte di Chrysàetos. Da questo culminare
del motivo ispiratore fino all’epilogo che sembra chiudere in
un cerchio magico, richiamandoli, i lugubri segni del com­
piuto vaticinio, l’angoscia urge in gridi disperati e in stra­
zianti visioni fatte di presagi e memorie, di percezioni reali
e di allucinazioni. Ma qui non si cade mai nell’astniso alle-
gorismo didascalico del teatro e dei romanzi occultistici. Per
quanto accesa sia la rappresentazione drammatica, per quanto
impetuosa e rapida, quasi delirante l’awicendarsi dei simboli
e delle analogie (potenziate dalla stessa interpunzione intensa­
mente affettiva), l’autobiografico realismo strindberghiano ser­
ba netto il suo incisivo rilievo. Anziché affidarsi ad aerei echi
e a impalpabili fantasmi, ricorre sempre a immagini auditive
plastiche concrete. E il poeta sa dare suggestione d’incante­
simo al suo quadro mediante un passo ritmico marcato ep­
pure docile a ogni onda e scarto della fantasia, mediante la
ripetizione di modi sintattici e di valori vocalici e consonan­
tici intimamente legati da pqlifoniche rispondenze. Se si eccet­
tuano alcune note sentimentali e idilliche, inconciliabili con
la predominante tensione tragica, è questa forse tra le liriche
di Strindberg la più artisticamente unitaria e coerente.

Nel quadro di questa singolare simbiosi di realismo e


surrealismo, o per riprendere la già citata terminologia strind­
berghiana di naturalismo e supernaturalismo, si colloca tutta
la produzione posteriore alla « crisi di Inferno ». Alla quale
appunto hanno guardato come a esempi d’avanguardia le gio­
vani generazioni di scrittori — ben oltre i confini della Scan­
dinavia1 — per esprimere l’assurdo e l’occulto, gli incubi e
l’angoscia della esistenza contemporanea. È facile infatti rav­
visare nella parabola strindberghiana i temi, gli atteggia­
menti morali, gli espedienti tecnici di quella evoluzione della

1 Ancora, nel 1949 (« Dagens Nyheter », Stockholm, 28-1) J. P. Sartre


lo chiamava « il nostro creditore »; e sia O ’Neill sia Tennessee Williams
sia J. Osborne, per non dire d’altri (come Adamov e A. Miller, Anouilh,
Ionesco e Beckett), hanno pagato il loro debito di riconoscenza a Strind­
berg. (Cfr. Essays on Strindberg, ed. C. R. Smedmark, Stockholm, 1966,
PP. 14, 24).
I/età moderna, 241

poesia moderna che da Baudelaire1 attraverso Verlaine, Mal­


larmé e Rimbaud culmina in Eliot e in Pound, e che costi­
tuisce il presupposto stesso di ogni più audace sperimen­
talismo.
Le immagini scaturite dal rifiuto d’una straziante realtà,
dalla magia, dal desiderio e dal sogno, non meno che l’ansia
e le vertigini della follia2 di fronte alle irrisolte antinomie
della vita; la ricerca di misteriose analogie e corrispondenze
universali sotto il velo della più triviale realtà; la disintegra­
zione dell’io disumanizzato in tipo o in cosa; l’irrealtà del
reale3: tutto questo era già presente nei drammi mistici di
Strindberg: da Pàsk a Till Damaskus e a Etf drómspel.
Se il primo, all’inizio, è ancora un dramma naturalista con
quadri di quotidiane e meschine angustie borghesi, che poi si
risolve, grazie alla figura di Eleonora, in visionaria ansia di
redenzione cosmica; il secondo e il terzo specialmente, per la
libertà associativa dei temi, per l’ambiguità delle immagini,
per il nichilismo gnoseologico, sono gli archetipi della più radi­
cale rivoluzione del gusto moderno4.
Till Damaskus è la storia drammatizzata della crisi reli­
giosa di Inferno, ossia della lotta tra l’uomo ribelle e l’im­
perscrutabile volontà divina.
Il protagonista, detto lo Sconosciuto, intraprende e com­
pie, insieme a un altro personaggio anonimo, la Signora, uno
strano pellegrinaggio verso l’ospizio del Buon Ausilio, dove
la conversione religiosa dovrebbe aver luogo. Di qui i due
pellegrini retrocedono al punto di partenza.
All’aprirsi della scena, fra una chiesa, un caffè e un uffi­
cio postale, lo Sconosciuto rivolto alla Signora, che improvvi­
samente gli è apparsa, dice: « Quasi sapevo che sareste ve­
nuta... ». Signora: « Dunque mi avete chiamata...? Sì l’ho
sentito! ». Egli la supplica di non lasciarlo, perché ha paura
della solitudine: « Nella solitudine non si è soli; l’aria s’ispes-

1 H. Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik, Freiburg, 196P,


pp. 2542. Per la genesi della poesia italiana del Novecento cfr. G. Con­
tini, Esercizi di lettura..., Firenze, 1947, p. 70 sgg.
2 È noto che Ibsen, il quale di fronte alla scrivania soleva tenere il
ritratto di Strindberg dipinto da Chr. Krogh, lo aveva definito « l’esplo­
sione della follia ». (Cfr. Hundraàrsutgave, cit., XIX, p. 369).
3 « Il primo surrealista » lo ha una volta chiamato Th. Mann (Altes
und Neues, Frankfurt a. M., 1953, p. 234).
4 M. Valency, cit., pp. 241-271; 303-306; 355-372.

XXVII * 10. Lett, della Scandinavia.


242 Le letterature della Scandinavia

sisce, quasi germoglia e ne nascono esseri invisibili, ma di


cui si percepisce l’animata presenza ».
In questa atmosfera misteriosa echeggia lontana la mar­
cia funebre di Mendelssohn, mentre lo Sconosciuto racconta
alla Signora la propria vita di ribelle condannato alla solitudine
e alla sofferenza:
— Io sono nato nell’odio, nell’odio!... Da bambino piangevo sem­
pre e detestavo la vita, odiavo i miei genitori ed essi mi odiavano,
non tolleravo imposizioni convenzioni leggi... nessuno nella mia
città era odiato come me, nessuno così detestato... la mia sorte è
stata sempre d’andare e venire solo. Se entravo in un locale pub­
blico la gente s’allontanava dal mio posto... i preti mi scomuni­
cavano dal pulpito, i maestri dalla cattedra, i genitori nelle case.
Sono un condannato, ma devo essere stato condannato prima di
nascere, perché la pena cominciai a scontarla già nell’infanzia.

Difatti le continue disavventure del pellegrinaggio intra­


preso sembrano motivare quei lamenti e quelle accuse; i luo­
ghi che attraversa, come stregati da inspiegabile malia, lo
sgomentano; la gente a lui prossima per legame di sangue
o d’amicizia lo rimprovera e lo umilia; gli estranei lo scher­
niscono e lo perseguitano, e persino la sua pietosa Beatrice
non tarda ad abbandonarlo. Rimasto solo, in preda allo spi­
rito di rivolta, strappa la croce d’un calvario per minacciare
l’invisibile divinità, e delirando stramazza in terra. Traspor­
tato a braccia all’ospizio del Buon Ausilio e posto a giacere,
si lamenta d’un forte dolore all’anca, benché non sia possi­
bile scoprirvi traccia alcuna di ferita; s’accusa poi d’ogni più
strano delitto, ma fermamente rifiuta di chiedere perdono
all’oscura divinità che lo castiga con le sue folgori.
A questo punto s’inizia lo svolgimento inverso del dram­
ma, in quanto lo Sconosciuto e la sua riapparsa guida, la­
sciando l’ospizio ripercorrono in senso opposto la via del
loro pellegrinaggio. Il non convertito Sconosciuto non vuol
saperne neppure adesso d’inginocchiarsi davanti al Crocifisso,
affermando d’aver peccato per volere divino; e quando la
Signora lo esorta a entrare con lei in chiesa, dapprima resi­
ste, poi, a malavoglia, si piega dicendo: — « Ebbene sì, posso
entrarci, ma non vi resterò! ».
Per comprendere un dramma come Verso Damasco, bi­
sogna porsi nella posizione di chi, sognando, vede la realtà
nelle forme della visione o dell’allucinazione, scopre miste­
riose corrispondenze fra eventi in apparenza insignificanti,
Uetà moderna 243

parla con l’ombra di se stesso, intravede e divina, presente


e ricostruisce, senza mai uscire da quella maldefinita zona
della vita psichica in cui le sensazioni sono appena rischia­
rate dalla luce della coscienza.
Volendo raccontare le labirintiche esperienze della sua
crisi religiosa, gli incubi e le ossessioni, i terrori e le con­
traddizioni del suo inferno swedenborghiano, Strindberg im­
maginò la tenace lotta tra lo Sconosciuto e l’invisibile divinità.
Il dramma intero, incentrato su questa lotta, si riduce quindi
a un continuo monologo dello Sconosciuto. Quanto agli altri
personaggi: il Mendicante, la Signora, i Genitori della Si­
gnora, il Medico, il Confessore, ecc. mancano tutti di obiet­
tiva individualità, e sono piuttosto irradiazioni psichiche del
protagonista, proiezioni del suo io, personificazioni delle sue
colpe. Cosi si spiega l’apparizione della Signora che si sente
misteriosamente chiamata dallo Sconosciuto all’inizio del dram­
ma, l’identità del Mendicante e dello Sconosciuto, l’appari­
zione del demente Cesare in casa del Medico, e finalmente
la scena dell’ospizio, in cui compaiono i, doppioni di queste
spettrali figure.
D ’altra parte lo strano fascino che esse esercitano consi­
ste proprio nella loro enigmaticità e problematicità, giacché
lo Sconosciuto non sa esattamente se debba interpretarle come
ombre, fantasmi della sua mente malata o come esseri reali.
Egli domanda se le persone che vede nell’ospizio sono « rea­
li » e gli vien risposto che hanno una « terribile realtà ». Si
tratta dunque di allucinazioni soggettive d’un cervello insano
o di una oggettiva realtà esterna? Proprio questa proteifor-
mità del mondo sensibile, su cui si stende il magico velo del
sogno, costituisce l’incanto della situazione.
Lo Sconosciuto è l’« alter ego » di Strindberg: un primi­
tivo che ha il terrore panico dell’ignoto e insieme un deca­
dente che complica la sua elementare superstizione coi dubbi
d’una coscienza raffinata, col ragionare le sue visioni e sen­
sazioni; teme e trema dinanzi agli spettri del suo io, eppure
sospetta che siano soltanto prodotti della sua immaginazione.
Fenomenicamente questi spettri sono fuori di lui, ma sostan­
zialmente sono forme del suo io, atomi dispersi del suo essere;
capaci si di scambiarsi le loro elusive maschere e reintegrarsi
in lui, ma non mai di opporglisi in drammatica antitesi, per­
ché prive d’un centro spirituale autonomo. Perciò il loro appa­
rire e sparire è tutto condizionato dal capriccio, dal gioco
vario delle sensazioni.
244 Le letterature della Scandinavia

Il contrasto drammatico si riduce in definitiva alla sola


lotta fra lo Sconosciuto e l’invisibile. Ma come si configura
questa lotta nell’effettivo svolgimento del dramma? Quale
aspetto assumono gli swedenborghiani « spiriti castigatori »
le « potenze occulte » destinate a ricondurre il peccatore su]
retto cammino? Lo Sconosciuto esclama:
— Piccoli dei borghesi che parano il colpo di spada con la punta
dell’ago alle spalle... che non affrontano in campo aperto, ma ri­
spondono con un conto d’albergo non pagato... io posso tremare di­
nanzi a un conto non pagato, eppure non mi coprirei il volto per
salire sul Sinai a sfidare l’Eterno.
Le piccole disavventure quotidiane, le avversità del de­
stino borghese: la mancanza di denaro, le liti familiari, il ma­
trimonio non legalizzato, il timore della cattiva reputazione
determinano dunque la ribellione faustiana dello Sconosciuto
alle leggi cosmiche! Ma chi innalza simili dei a sovrani e
onnipotenti signori del destino umano, non rischia di far
scadere la tragedia a commedia? Dov’è qui infatti il mo­
tivo eroico che giustifica questa lotta? Dov’è lo sfondo mo­
rale che la mette in rilievo? Cos’è il pellegrinaggio dello
Sconosciuto, se non un semplice avvicendarsi di sensazioni?
Che significato infatti possono avere le tanto citate parole
del monologista di Verso Damasco:
— Là ove prima non vedevo che oggetti ed eventi, forme e co­
lori, vedo ora intenzioni e simboli. La vita che prima era solo un
gran caos, ha ora un significato, e io scopro un disegno prestabilito,
dove prima non vedevo che il caso.
quando nel dramma, fra tanta commozione e agitazione, non
v’è ombra di svolgimento spirituale, di vero pentimento, cioè
di consapevole volontà morale? L’unico visibile mutamento
è anche qui di natura quantitativa non qualitativa e consiste
nell’ininterrotto accumularsi e ripetersi dei medesimi motivi
di sofferenza fino allo sterile banale grottesco epilogo mora­
listico da dramma borghese: la Signora esorta lo Sconosciuto
ad aver fiducia nella bontà divina e lo induce a ritirar dalla
posta una lettera che ivi da tempo l’attende: « Sforzati di
credere che sia una buona nuova! » « Proverò » risponde
quello, obbedendo non senza diffidenza. Ed ecco che ritorna
dall’ufficio postale con del denaro; e poi lasciandosi a malin­
cuore tirare in chiesa dalla sua compagna conclude: « Eb­
bene si, posso entrarci, ma non vi resterò! ».
L’età moderna ■211

Non si vuol qui rimproverare a Strindberg la mancata


conversione del suo eroe in nome d’un astratto moralismo,
ma solo indicare il carattere autobiografico, effusivo dell’in­
tero dramma, che può senza difficoltà essere ritrascritto nelle
confessioni diaristiche della « crisi religiosa » (Inferno, 1897)
e Légendes (1897-98). In queste, malgrado singoli spunti
poetici, predomina la prosaicità e staticità della visione gene­
rale, l’eterno ripetersi dei medesimi motivi, delle medesime
sensazioni, il labirintico vai e vieni di ipotesi e di presagi, di
supposizioni e di fantasticherie. E anche noi come lo scrittore
si resta presi nei gorghi di quella massa caotica di particolari
che lenta gira su se stessa come acqua stagnante, senza mai
rinnovarsi, canalizzarsi e sfociare altrove. Come lui sentiamo
anche noi di soffocare nella grigia relatività del mondo em­
pirico, costànte materia grezza, prosaica, che attende invano
la luce dello spirito che la ravvivi, la plasmi, la sollevi al di
sopra dell’inconciliabile tormento dei sensi.
Si comprende d’altra parte come, verso la fine del secolo,
questo dramma di Strindberg e gli altri coevi di analoga ispi­
razione potessero esercitare fortissima suggestione sul pub­
blico teatrale e sugli animi depressi dalla foschia naturalistica;
ai quali procuravano di dar conforto le più o meno sincere
conversioni degli Huysmans e dei Bourget, dei Coppée e dei
Brunetière. In Germania specialmente lo Strindberg di Verso
Damasco trovò devoti discepoli fra gli espressionisti. Lui
per primo aveva — pur senza saperlo — gettato l’esta­
tico « Notschrei der Seele », aveva svelato gli « Urgrunde »,
dell’anima, aveva creato nella figura dello Sconosciuto mo-
nologista l’anima sperduta nella caoticità del mondo empirico
che grida la sua sofferenza, la sua angoscia, la sua inappaga­
bile nostalgia del cielo. Come i naturalisti (Hauptmann e
Holz, Schlaf e Halbe) videro nel primo Strindberg un mae­
stro, così gli espressionisti salutarono nel secondo Strindberg
un creatore di nuove forme poetiche. Da Sorge a Hasencle-
ver, da Kornfeld a Stramm, da von Unruh a Kaiser, dagli
espressionisti ai cubisti, dai futuristi ai surrealisti, tutti di­
rettamente o indirettamente devono qualcosa allo Strindberg
di fine-secolo, allo Sconosciuto, che sulla via di Damasco, cerca
la sua salvazione senza mai trovarla (Diebold)

1 Anarchie im Drama, Berlin, 1921, pp. 155-249. Vedi inoltre l’opinio­


ne in tal senso di qualche critico nordico contemporaneo: B. Wiig,
O’Neill revaluert, « Samtiden », Oslo, 1968, fase. 4, p. 256.
246 Le letterature della Scandinavia

Il trasformismo visionario diviene ora la sua tecnica espres­


siva, la trama confusa ed enigmatica dei sogni, la sua forma
d’arte; e alla luce del sincretismo indo-schopenhaueriano, il
mondo sensibile è da lui interpretato quale passeggerò sogno,
cui tiene dietro il risveglio nella morte. Perfino lo Shakespeare
della Tempesta, visto con gli occhi di Schopenhauer e di von
Hartmann appare bizzarramente legato alla concezione buddi­
stica dell’irrealtà della materia.
Nel Dramma del sogno (1902), il mito indiano della ce­
leste forza originaria Brahma che dal contatto con Maya, ma­
dre del mondo, si lascia indurre al peccato, è introdotto a
spiegare simbolicamente Porigine della materia; la vita umana
dunque non è che inganno e peccato, parvenza labile, ma­
gico incantamento che si può solo rompere mediante la vo­
lontaria e dolorosa rinuncia. Il dolore redime e la morte
libera i discendenti di Brahma dall’incubo tormentoso del
vivere.
La tecnica del trasformismo visionario di Verso Da­
masco, anticipante il cinematografo, è ora ripresa e perfe­
zionata:
Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile, tempo e spazio
non esistono; su un’insignificante trama di realtà, l’immaginazione
ordisce nuovi disegni... i personaggi si sdoppiano, svaniscono, ri­
compaiono, si dissolvono, si ricostituiscono.
Persino la suppellettile scenica obbedisce alle leggi del
sogno e si trasforma: l’ingresso d’un teatro diviene ufficio
legale, un cancello si muta in banco d’avvocato e poi in
balaustra di chiesa, un tiglio si fa candelabro e poi attacca­
panni...
Il dramma intero si risolve in una serie di allegoriche
visioni, che ripetono tutte il medesimo motivo dell’umano sof­
frire in una ridda di trascoloranti scene, di trasognate cadenze,
di enigmatiche pause. Tutto è abbozzato, velato, accennato
in penombra; i personaggi errano come sonnambuli, oppressi
da incubi, incapaci di volere, d’agire, d’infrangere il malioso
cerchio che li stringe, e quindi accasciati tutti nell’inerte la­
mento.
L’Ufficiale attende invano la creatura del suo sogno, la
sua Vittoria, nel corridoio del teatro; l’Avvocato naufraga
nei gorghi della ben nota tragedia coniugale; il Poeta, inter­
pretando le sofferenze del creato, invoca l’aiuto della divinità
senza ottenerlo; la stessa figlia d’Indra, che discende in terra
L’età moderna 247

per vivere in spoglie mortali l’umana esistenza, non sa né


può mutare il destino di coloro che soffrono1.
Il motivo ispiratore: l’infinita pietà per le sorti umane
si muta cosi nella sterile rassegnazione, la tragedia cosmica
nel ben noto elenco delle miserie quotidiane.
L’Ufficiale è un martire della vita perché altra volta, accu­
sato d’aver sottratto una moneta altrui, fu ingiustamente pu­
nito. — Tale ingiustizia ha falsato tutta la mia vita! — egli
conclude.
La Madre vorrebbe prestare la sua mantiglia (dono del
marito) alla domestica:

— Vuoi prestare alla serva il mio dono?


— Non dir così... ricordati che anch’io ho fatto la serva... perché
vuoi offendere un’innocente?
— E tu perché vuoi offendere me, tuo marito?
— Oh! questa vita! se fai una buona azione, c’è sempre qualcuno
che la trova cattiva... Se fai bene a questo, fai male a quello. Oh!
questa vita!

L’incollatore d’affissi, che ha sempre sognato un retino


verde da pesca, è profondamente deluso quando s’accorge che
l’oggetto, finalmente venuto in sua mano, è di colore leg­
germente diverso da quello vagheggiato nella fantasia.
L’Avvocato, per suo conto, conosce meglio di tutti le di­
sillusioni della vita, chiamato com’è a far da arbitro nelle
frequenti tragedie coniugali; e, saggio di tale esperienza, per
prevenire i fatali malintesi, così apostrofa la figlia d’Indra
(divenuta sua moglie):

AVVOCATO Io prometto di non far più alcuna osservazione


sul governo della casa... benché per me sia una
tortura...
f ig l ia d ' in d r a Ed io mangerò il cavolo, benché per me sia un
tormento...
AVVOCATO Dunque una vita comune nel dolore — la gioia
dell’uno è il dolore dell’altro. — Povera uma­
nità!

1 A puro titolo di curiosità si possono leggere certi riawicinamenti ten­


tati da studiosi danesi e tedeschi: fra questo personaggio e... la Beatrice
dantesca (cfr. V. Borge, Strindbergs mystiske Teatery Kobenhavn, 1942,
p. 305; K. Mòhlig, Strindbergs Weltanschauung,, Elberfeld, 1923, p. 152).
248 Le letterature della Scandinavia

Di fronte a siffatta tragedia da Des Esseintes si com­


muove la figlia d’Indra e chiede, rivolta al cielo: — Se gli
uomini peccano, è colpa loro o del Dio che li ha creati?
Come vedere in questo dialogare, involontariamente fa­
ceto, in questi fatti borghesi, la cui tragicità potrebbe forse
essere descritta in un romanzo non già in un dramma (Die-
bold), la tragedia delPumanità sofferente, l’amara pena del
vivere? Come non ripensare qui alla tragicommedia dello
Sconosciuto di Verso Damasco che trema dinanzi a un conto
d’albergo eppure vorrebbe salire sul Sinai a sfidare la col­
lera divina; al trito simbolismo della lettera-raccomandata
inscenato in quel dramma; al patetismo farisaico che crede
di farsi eroico sol perché mescola il nome?degli dei alle più
meschine disavventure?
Se qui il trasformismo visionario e lo sterile dottrinari­
smo rendono vana l’azione drammatica irrigidendo il movi­
mento in atteggiamento (Diebold), in altri drammi come Pa­
squa (1901) e come i celebri Drammi intimi1 scritti nel 1907
per il teatro fondato da Strindberg a Stoccolma, sull’esempio
del « Kammerspielhaus » di M. Reinhardt, ricompaiono ag­
gravati gli stessi difetti.
Bellissima è si la figura della protagonista di Pasqua, Eleo­
nora: creatura eterea spiritualizzata, dolente martire che, in
mano un narciso di prato, appare alla sua sventurata fami­
glia esortando alla speranza e alla rassegnazione, ma da lei
non emana la volontà fattiva del bene, non la virtù eroica
che, pur in umile forma, opera come principio di rigenerazione
morale. Nell’epilogo del dramma è invece la Provvidenza che
fa il miracolo: il vecchio creditore Lindquist, che s’aggira
minaccioso intorno alla casa dei suoi debitori spaventandoli
a dovere, compare improvvisamente nella figura del burbero
benefico ad abbonare il suo credito; e con lui il Dio strind-
berghiano: non onnipossente e supremo giudice che « atterra
e suscita, che affanna e che consola », ma Dio della lettera­
raccomandata di Verso Damasco, Dio-Maestro di scuola di
Avvento (1898); una specie di spauracchio da apologo ca­
techistico, che assolve perfettamente la sua funzione pra­
tica nel mondo della psicologia infantile o infantileggiante,
ma non può non riuscire insipido e ridicolo in un dramma

1 Spoksonaten (La sonata degli spettri), Branda tomten (Suolo bru­


ciato), Ovàder (L'uragano), Pelikanen (Il pellicano).
L'età moderna 249

di redenzione morale. La semplicità qui diventa semplicismo,


la fede nel bene, basso interesse utilitario, la conversione reli­
giosa, transazione economica (Diebold).
Cosi nella Sonata degli spettri che è il migliore dei quat­
tro 'Drammi intimi vediamo giustapposti il terrifico-grottesco
e il sentimentale: la fanciulla innocente, nata dall’odio-amore
d’una coppia di esseri diabolici, accanto alla cuoca-vampiro
che trasforma in vampiro anche la padrona... come? ingozzan­
dosi di cibi nutrienti e servendole solo i resti! 1 Allo stu­
dente che vuole sposarla la fanciulla ricorda con aria di so­
lenne ammonitrice le tremende prove della vita coniugale...
quali? i cibi malcucinati e le cure domestiche: contar la bian­
cheria, asciugare i bicchieri, lavare le caraffe dell’acqua... in­
somma la tragedia del Folantin2 huysmansiano!
E a sfondo di siffatta tragedia che si chiude con la morte
della fanciulla innocente, simbolo della nostalgia di « reden­
zione nel nome di Budda o di Cristo » sorge l’isola dei morti
di Bocklin, mentre nell’aria risuona « una lieve musica dol­
cemente triste ». Accanto alla visione spettrale, l’oppio sug­
gestivo della musica dolcemente triste; accanto al diabolico
vampiro Hummel smascheratore smascherato di tutte le più
nefande colpe di cui lui e gli altri si sono macchiati, l’ingenuo
studente e la fanciulla innocente che naufragano nella più
banale tragedia borghese (Diebold).
L’intero mondo di Strindberg si sfascia qui in un delirio
fantastico, in un caos di visioni terrifico-grottesche fra i fre­
miti convulsi e i bagliori sinistri d’uno stile rotto, segui­
tante fino alla monotonia3; e chi ha l’occhio a questo calei­

1 Qualcuno, seguendo la moda odierna d’interpretare l’opera d’arte con


l’aiuto della « Scienza del simbolismo » e di muoversi esclusivamente
nell’area del mito e del rito, ci ricorda che « la cucina è connessa a un
rituale vampiristico-magico » (P. Fraenkel, Strindbergs dramatiske fan-
tasi i Spbksonaten, Universitetsforlaget, 1965, p. 125 sgg.). Altri critici
come B. Rothwell, J. Northam (Essays on Strindberg, cit., pp. 32, 39,
42, 48) sottolineano sia il carattere simbolico di questo dramma — che
si potrebbe definire prepirandelliano per quel continuo scambio fra real­
tà e illusione — sia i mezzi scenotecnici intesi a darvi rilevo; fra altri
anche quello della tecnica retrospettiva già usato da Ibsen in « Colonne
della società » e in « Spettri ». L’intricatissimo intreccio del dramma dà
ovviamente luogo a una pluralità d’interpretazioni secondo i canoni dei
Seven Types of Ambiguity.
2 À vau-Veau (1882).
3 G. Lindstrom (Strindbergs spràk och stil} Lund, 1964, pp. 173-177)
pur movendo da una valutazione tutta positiva della tarda arte di Strind­
berg, ne sottolinea lo stile sempre concreto e naturalistico: « psykiska
25Ò Le letterature della Scandinavia

doscopio intravede, in mezzo all’allucinante danza dei cristalli,


la nota fisionomia del poeta, il palpitar del suo cuore messo
a nudo. È il malato confessore che ancora una volta si sovrap­
pone all’artista con i suoi grovigli psicologici, con la sua
brama insaziata di toglier maschere e strappar veli; l’ama­
ro pessimista che (come negli ultimi romanzi a chiave: Sale
gotiche; Bandiere nere, 1904) prova anche qui una dispe­
rata gioia a invelenire le antiche piaghe, a farle sangui­
nare atrocemente, spasmodicamente, in una totale esecrazione
della vita umana.

Tutti alla seconda maniera dello Strindberg « mistico »


appartengono i drammi storici, accolti subito dal favore del
pubblico per la popolarità del contenuto « nazionale » e per
il realismo della messinscena.
Infatti tanto le figure di primo piano: i sovrani svedesi
— dall’alto Medioevo al Settecento — quanto la gran massa
dei personaggi secondari compaiono e si muovono sulla scena
solo per illustrare con esempi memorabili i misteriosi dise­
gni delle « potenze occulte » che presiedono al divenire storico.
Nella Saga dei Folkunghi (1899) l’innocente re Magnus
Eriksson espia le colpe della sua stirpe e soccombe alle « oscu­
re potenze vendicatrici che invidiano la felicità degli uomi­
ni »; Gustavo Vasa (1899) riconosce nelle avversità della sua
vita la mano ammonitrice di Dio e grato china il capo sotto
i colpi inflittigli, che non s’intende bene se siano castigo o
premio; Erico XIV (1899), l’esteta scettico e problematico
che non ascolta le voci delle « potenze occulte », naufraga
in un’orgia di trivialità ed è rovesciato dal trono; Gus­
tavo Adolfo (1900), travestito da eroe della tolleranza reli­
giosa, espia le colpe del padre Carlo IX e lentamente è fatto
consapevole degli oscuri disegni della Provvidenza; contro la
quale s’infrange anche l’avventuroso destino di Carlo X II
(1901).
Di questi drammi storici la critica suole soprattutto met­
tere in luce le derivazioni shakespeariane; e si sa infatti che
al grande elisabettiano Strindberg ritornò dopo la crisi reli­
giosa, ma sempre seguendo le orme del Brandes. Come prima

fóreteelser konkretiseras till fysìologiska realiteter ». Altrove (Spókso-


nateny Lund, 1963, pp. 90-91) lo stesso critico aveva messo in rilievo
l’ispirazione schopenhauriana del dramma, che è alla base del Sogno.
Uetà moderna 251

anche ora trovava grande Shakespeare per il suo « naturalismo »,


capace di (movendo da suggestioni plutarchiane) descrivere
perfino gli eroi « at home », nell’intimità domestica, e per la
libertà anzi per la negligenza della sua composizione dram­
matica 1.
Per un verso mirava perciò a decentrare l’azione in temi
e sottotemi paralleli, a creare, come Shakespeare nell’Amleto,
« una sinfonia eseguita polifonicamente con motivi indipen­
denti che tra loro armoniosamente s’intrecciano » 2, per un
altro — certo stimolato più da Brandes che da Shakespeare —
a introdurre nell’ambiente storico il più crudo naturalismo;
e come Shakespeare aveva attinto a fonti aneddotico-leggen-
darie anziché a opere storiche, così anche lui attingeva a
Afzelius e a Starback-Bàckstròm3.
Ma i risultati furono certo inferiori ai propositi.
Dove nel drammaturgo inglese le cosiddette scene indi-
pendenti sono una sorta di sapiente pausa che alterna e sotto-
linea il tragico (Macbeth Atto primo scena sesta; oppure
Hamlet Atto quinto scena prima) o un motivo di rilievo o
di contrasto (il carattere di Fortimbras delineato in funzione
di quello del Principe di Danimarca) o ancora una maniera di
presentare la vicenda tragica nei commenti di chi non vi ha
preso parte (Macbeth, Atto secondo, scena quarta), in Strind­
berg abbiamo una serie di quadri sciolti, una colorita e va­
riata scenografia, priva un motivo artistico che dall’interno
guidi l’azione drammatica.
Così il re Magnus è una sorta di Sconosciuto di Verso
Damasco col manto e la corona regale, un individuo pro­
blematico che non agisce né vuole, non si umilia e non si
ribella alle potenze occulte che lo perseguitano, ma soffre
soltanto e si lamenta ed accusa della propria inettitudine tutti
fuorché se stesso; sicché perfino le sventure che lo colpi­
scono restano quasi fatti naturali, che accadono nel dramma
perché una volta accaddero nella realtà (Diebold). In Gustavo
Adolfo abbiamo una serie di quadri slegati svolgenti ciascuno
un motivo autonomo. Il re stesso è presentato prima, tutto
acceso di fanatismo confessionale, poi, per invisibile effetto
delle invisibili potenze, tutto mite e umano e tollerante come
il lessinghiano Nathan der Weise. E questo spettacolo senza

1 L, pp. 52, 123.


2 L, p. 69.
3 L, p. 296.
252 Le letterature della Scandinavia

motivazione e mutazione d’animo, senza sviluppo, senza sfu­


mature, fra il passare e ripassare di una sessantina di perso-
naggi-comparse e tra il fraterno salmodiare di maomettani ed
ebrei, di protestanti e cattolici che stanno lì ad esemplificare
il principio della tolleranza religiosa! Erico XIV è un Amleto
di maniera, Carlo X II un « alter ego » strindberghiano, mi­
sogino avvocatesco e smascheratore di perfide donne, la Re­
gina Cristina una fatua e capricciosa femminista che conta
numerose antenate nei drammi di Strindberg.
Anche in questi drammi storici ritroviamo in sostanza gli
stessi caratteri dell’arte strindberghiana: il potenziale titani­
smo, la forza ciclopica che abortisce per mancanza di volontà
eroica, la quale sola permette di sollevarsi al piano tragico
dove l’incatenato Prometeo sfida invitto la collera di Zeus.

Gli scritti di Ibsen di Bjornson di Strindberg, come de­


gli altri « uomini della rivoluzione moderna » *, s’inquadrano
facilmente in quel lungo processo di rinnovamento civile, di
democratizzazione della società nordica che ancora oggi non
sembra giunto a conclusione. In fondo la stessa formula del-
l’arte-problema enunciata dal Brandes nell’ultimo quarto del-
l’Ottocento non era che l’insegna di quel processo allora ap­
pena iniziato, l’espressione d’una sensibilità nuova moderna,
attraverso la quale si veniva criticamente filtrando la più vi­
tale eredità del romanticismo europeo.
Tra i due poli del naturalismo positivistico e dell’anti-
naturalismo si muove dunque tutta la moderna poesia, euro­
pea prima che nordica; ché per quanto diverse appaiano nelle
singole formulazioni le correnti estetiche teorizzate durante
gli ultimi cinquanta-sessant’anni (dal simbolismo all’espressio­
nismo e al surrealismo) tutte più o meno scoprono, quasi
comune denominatore, l’opposizione al naturalismo inteso
come studio scientifico d’una realtà oggettiva. Si tratta d’una
bipolarità ancor oggi viva e operante in entrambi i suoi ter­
mini, com’è dimostrato (soprattutto, ma non soltanto nel

1 Det moderne gennembruds meend, 1883, « Gli uomini della rivolu­


zione moderna » chiamò appunto Brandes, malgrado le già avvenute
defezioni, la giovane generazione di scrittori che avevano aderito al suo
programma naturalistico, formulato verso la fine di quel suo saggio, come
Jacobsen, Drachmann; e altri, e quella non più giovane di Ibsen e
Bjornson.
L’età moderna 253

Nord) sia dalle periodiche reviviscenze d’un neorealismo non


immemore del pathos zoliano, sia dall’irrazionalismo ch’è alla
base di tante odierne esperienze d’arte.
Già intorno al Novanta, questa bipolarità è variamente
avvertibile in tutti gli scrittori nordici, perfino in quelli che
erano ritenuti o si ritenevano campioni del naturalismo orto­
dosso. E qui la parabola ideologica del Brandes e dei bran-
desiani s’affianca da sé a quella analoga di Zola e, in mag­
gior misura, dei suoi seguaci: da un iniziale ottimismo scien-
tifico-democratico a quella « banqueroute de la science », alla
quale inevitabilmente doveva approdare il determinismo natu­
ralistico l.
Come già all’alba dell’età romantica, anche ora è Cope­
naghen la grande mediatrice dei contatti con il pensiero euro­
peo, anche se il mentore dei naturalisti non è Henrik Steffens
ma Georg Brandes. S’è detto che il più vistoso episodio del­
l’evoluzione spirituale di Brandes fu lo storico incontro con
Nietzsche2 ma già prima, in certe sue osservazioni sulla fan­
tasia di Balzac3 che sempre trionfa dell’assunto documentario,
e più ancora in altre sull’arte antiaccademica di Zola4 e sul
contrasto in lui tra dottrina naturalista e temperamento arti­
stico (molto simili a quelle di De Sanctis nei noti saggi sullo
scrittore francese, 1877-79), Brandes si era mostrato sensi­
bile, almeno in sede estetica, al nuovo clima letterario. Era
stato lui, è vero, a introdurre nel Nord Darwin e Mill, ma,
insieme, anche Tolstoj e Dostoèvskij (e sia pure sulle orme
del « falso profeta » La Vogùé).
Accanto al Brandes i grandi artisti come Jacobsen, Ibsen,
Strindberg contribuiscono concretamente ai mutamenti del cli­
ma letterario nordico: il darwinista J. P. Jacobsen5, trasfigu­
rando col suo colorismo impressionistico la realtà esterna

1 G. Ahlstrom, Det moderna genombrottet i Nordens litteratur, Stock­


holm, 1947, p. 447 sgg.
2 Di cui è eloquente testimonianza l’articolo scritto in Tilskueren, (ago­
sto 1889) dal titolo « Aristokratisk Radikalisme », che fu accolto in
tutto il Nord come una « transvalutazione di tutti i valori » del pen­
siero brandesiano; alla quale il filosofo danese H. Hoffding dette rispo­
sta nella stessa rivista col titolo: « Demokratisk Radikalisme ».
3 Hovedstromninger, VI, p. 166 (ed. 1899-1905).
4 « Virkeligheden og Temperamentet hos Zola» in Tilskueren (1887).
5 Prima che si attingesse direttamente alle fonti del simbolismo fran­
cese, il grande mediatore della sensibilità e del gusto decadente per tutti
i nordici sarà appunto Jacobsen.
254 Le letterature della Scandinavia

— pur documentariamente studiata (Maria Grubbe, 1876;


Niels Lylme, 1880) — in illusione visiva; Ibsen, prima sma­
scherando col suo rigore logico le ipocrisie e i pregiudizi mo­
rali e sociali (da Brand1 alla prima stesura di Casa di bam­
bola e a Spettri); poi denunciando con elegiaca disperazione
la vanità d’ogni ideale umano (òsOl'Anitra selvatica a Rosmers-
holm e a Edda Gabler); Strindberg alternando superstiziosa
fede nella scienza2 (neìYAutobiografia e nella prefazione a
Contessina Giulia) e occultismo, e anticipando in Verso Da­
masco e nel Sogno l’espressionismo drammatico del Nove­
cento. In tutto il Nord il naturalismo, rinvigorito da .endemici
fermenti pietistici3, e assimilato a una gloriosa tradizione di
scienze sperimentali era stato, più che fotografica riproduzione
della realtà, critica sociale e volontà programmatica di rifor­
me; ma, intorno al Novanta, si contavano già numerosi i
transfughi del movimento; o coloro che, come la oggi dimen­
ticata femminista Ellen Key, miravano a una sintesi di evo­
luzionismo e fede religiosa. Anche qui ormai le istanze di
bellezza e di religione prevalevano su quelle di verità e di
giustizia, alimentando ovunque quella polemica ideologica tra
fautori e avversari di queste o di quelle (basti ricordare la
svedese « Strindbergs-fejden » del 1910-12), ch’è stata una
delle esperienze fondamentali della odierna civiltà letteraria
nei paesi nordici.
Non si può in realtà intendere la fioritura narrativa e
lirica connessa ai due grandi sconvolgimenti mondiali del no­
stro secolo senza rifarsi ai principi stilistici della poetica sim­
bolista; non si intendono gli svedesi Lagerkvist, Sjòberg,
Gullberg e neppure Ekelòf, senza Strindberg, Froding e Karl-
feldt; né i danesi Bang, Drachmann, La Cour e Bjornvig senza
Jacobsen e Jensen, Claussen e Jorgensen; né i norvegesi Over­
land e Vesaas senza Ibsen e Hamsun, Obstfelder e Bull. Per­
fino gli odierni sperimentalisti, aperti a tutte le avventure
d’avanguardia, rimbaldianamente sognanti di esprimere « l’inef­
fabile » di « fissare le vertigini », « inventando nuovi fiori...

1 A. Lidén, Den norska stròmningen i svensk litteratur, Uppsala, 1926,


p. 102 sgg.
2 Le parole di Brunetière su Zola « Qui n’a voué qu’un culte à Darwin
et à Claude Bernard, qui rassemble à de la superstition » — Le roman
naturaliste, ed. 1896, Paris, p. 24, trovano appropriato riferimento anche
a Strindberg.
3 M. Johnsson, En àttitalist, Goteborg, 1934, pp. 36, 15 sgg., 85 sgg.
L’età moderna 255

nuovi astri... nuove lingue », non sarebbero in ultima ana­


lisi concepibili senza le teorie delT« instrumentation verbale »
di Ghil, del « vers-librisme » di Kahn e dell’equazione mal-
larmeana fra poesia e metafisica. Anche da un punto di vista
puramente ideologico è significativo il fatto che un simbolista
danese quale Helge Rode abbia protratto oltre i confini del
secolo la polemica antinaturalistica interpretando la crisi spi­
rituale della prima grande guerra come inevitabile conse­
guenza del biologismo naturalistico facente capo a Brandes
e a Nietzsche Krig og ànd (Guerra e spirito, 1917); Regene­
rationen i voti àndsliv (Rigenerazione nella nostra vita spiri­
tuale, 1923); Det sjselelige gennembrud (La rivolta dello spi­
rito, 1928). Rivelatesi illusorie già alla fine del secolo la
pretesa scientifica e la fede nel progresso, gli scettici dove­
vano necessariamente vedere nella guerra il fallimento della
ragione, i credenti il castigo divino. Così se in Rode l’oppo­
sizione al naturalismo ancora nasceva da un vago e adogma­
tico cristianesimo, in J. Jorgensen, ch’è il tipico convertito
della Decadenza, pronto a bruciare ciò che ha adorato e a ado­
rare ciò che ha bruciato, tale polemica con tutte le sue mol­
teplici implicazioni, si precisa nei termini confessionali del
dilemma peccato-redenzione, dell’antitesi omnipresente fra sen­
suale materialità e mistico cupio dissolvi.
Fattosi banditore del simbolismo francese in senso deci­
samente mistico1 con saggi e traduzioni da Baudelaire, Poe
e Huysmans, da Mallarmé e Verlaine2, Jorgensen ha espresso
la sua costante nostalgia d’un approdo religioso3 in prose e
liriche, Stemninger (Impressioni), 1892; Lignelser (Parabo­
le, 1898) e in poesie, Bekendelse (Confessione, 1894); Digte
(Poesie, 1896); Blomster og frugter (Fiori e frutti, 1907);
Der er en brond som rinder (C’è una fonte che scorre, 1920);

1 Ved. il primo numero del mensile artistico-letterario Tàrnet, da lui


fondato nel 1893, al quale collaborarono poi, oltre Qaussen, V. Stucken-
berg, S. Michaélis e Th. Lange. In generale all’opera di Jorgensen,
oltre che a Kierkegaard va ricondotta sia la mistica religiosità che
ispira la narrativa di Harald Kidde, soprattutto in Helten (L’eroe, 1912):
una moderna figura di Cristo vista sullo sfondo di esseri perduti, alla
deriva, sia quella assai più recente di M. A. Hansen. È noto che
Jorgensen, malgrado il suo lunghissimo soggiorno in Italia, ben poco
conobbe di Dante e ignorò Manzoni (cfr. M. K. Norregaard, Danske
Studier> Kobenhavn, 1965, p. 103).
2 In Tilskueren, 1891-93.
3 V. soprattutto Vers, 1887 e Vxlskland, 1898.
256 Le letterature della Scandinavia

che talvolta superano il prezioso narcisismo e gli intenti di­


dattici cosi intollerabili negli scritti autobiografici e apologetici,
per attingere la nuda semplicità della preghiera e la plastica
schiettezza di forme che ricorda l’ultimo Oehlenschlàger.
Un vero e proprio misticismo naturalistico e non meta­
fisico, un puro culto dell’arte per l’arte è stata invece la reli­
gione per il danese S. Claussen. Seguace di Baudelaire, nella
battaglia antirealistal, e di Verlaine (di cui fra altro evocò
in celebri pagine la tradizionale immagine faunesca)2 non
meno che di Mallarmé, curioso anche di cultura italiana3,
mostrò nella scintillante prosa lirica sempre venata di com­
mossa ironia dei suoi libri di viaggio e dei suoi studi infram­
mezzati alle poesie, d’aver ben appreso la lezione simbolista:
dalla fede in un arcano analogismo cosmico solo decifrabile
per mezzo del Verbo poetico-musicale, alla funzione antireali­
sta delle sinestesie, dal significato della sfumatura e della sug­
gestione al valore « orfico » della parola.
Ma era, malgrado il suo raffinato estetismo nutrito di lar­
ghe esperienze figurative e abile nel trattare con grande vir­
tuosità tutti i temi della poesia « maledetta », una natura sana
contadinesca cordiale, perfino idilliaca4, incapace perciò di
sentire a fondo il religioso satanismo di Baudelaire e dei bau-
delairiani fiorito sul mitico albero del bene e del male. Cosi
la linea della sua letteratissima lirica che si disegna netta già
con Pilefiojter (Flauti compestri, 1899) e Djeevlerier (Diavo­
lerie, 1904), tardiva eco delle Diaboliques di Barbey d’Aure-
villy — specie Trappen til helvede, Il letto, Afrodites dampe,

1 In Lovetandsfnug, Kobenhavn, 1918, pp. 147-150; e Forarstaler, ivi,


1927, p. 44 sgg.
2 « En nat med Paul Verlaine » nel libro di viaggi Antonius i Paris,
1896.
3 Viaggiò e soggiornò più volte nel nostro paese — nell’ultima raccolta
di poesie, Hvededynger (Covoni di grano, 1930) c’è anche una lirica
dedicata a E. Duse — ma le pagine sull’Italia sono spesso infiorate di
Adda (sic) Negri, di pasta asciuta (sic) e di tutte quelle rituali stor­
piature della nostra lingua che sogliono abbondare nella letteratura stra­
niera sull’Italia. Raffrontato a quello del D ’Annunzio il suo estetismo
sembra senza paragone più ingenuo e semplice, ma insieme anche più
sano ed equilibrato; e forse Claussen, malgrado tutto, non avrebbe letto
senza sorridere le ditirambiche confessioni di Andrea Sperelli: « L’Arte,
l’Arte. Ecco l’Amante fedele, sempre giovine, immortale, ecco la Fonte
della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti, ecco il
prezioso Alimento che fa l’uomo simile a un dio ». (Il Piacere, ed. Mon­
dadori, 1946, p. 146).
4 E. Frandsen, S. Claussen, Kobenhavn, 1950, I, p. 84 sgg.
Uetà moderna 257

Livets kermesse — e delle connesse incisioni di F. Rops)


per culminare nei versi di Heroica, 1925 e di Hvededynger,
trapassa di frequente dallo scherzo romantico-ironico di tipo
heiniano, dal tono di canzone popolare, alla raffinatezza d’un
ricercato e calcolato satanismo; dai ritmi sonori e dalla rigida
simmetria strofica del « parlato » baudelairiano, alla preziosa
declamazione e all’ermetismo analogistico (Pan og diamanter)1.
Non si va forse lontano dal vero se si studia l’arte di
Claussen come una scolastica variante del simbolismo fran­
cese. La « Vénus noire », il Fiore nero della poesia omonima
pur cosi affascinante per l’intensità del ritmo e per gli effetti
decorativi, rilevati dall’urto delle antitesi tonali e coloristiche
e dalla scelta del lessico prezioso si risolve in fondo in un
aneddoto erotico, in un’avventura galante2, perché invano vi
si cercherebbe quel perfetto equilibrio tra intelligenza e fan­
tasia, quella drammatica tensione che per lo più trasfigura
in luminosi simboli perfino il mostruoso sottosuolo dei Fiori
del male. Non diversamente Ekbàtana3 — per limitarci qui ai
momenti più alti della sua lirica — non è che una variazione
del sogno musicale di Verlaine e di Mallarmé, e dell’idoleggia-
mento d’un paradiso perduto della baudelairiana Invitation au
voyage. La dipodia giambica che già nel titolo sembra affidare
alla magia sonora l’evocazione d’una misteriosa città sepolta,
segna con la sua lenta cadenza l’atmosfera incantata di questa
esotica fantasticheria. Anche l’altro capolavoro di Claussen,
Imperia (1909) — simbolo pietrificato d’una Natura diabolica,
sterminatrice, invocante l’amplesso del suo amante: il fuoco
— non si intenderebbe appieno senza lo Hymne à la beauté
e il Rive parisien di Baudelaire; né appieno s’intende la no­
stalgia di supremo annientamento nella cupa melodia del
Buddha claussiano se non rifacendosi ai Poèmes antiques, per
es. al Midi di Lecomte de Lisle.
La sovrapposizione e talora la felice sintesi di influssi
esterni e di tradizioni nazionali cui si assiste, intorno al No­
vanta, è un tratto caratteristico di tutta la letteratura nor­
dica, rivitalizzata da una comune nuova sensibilità artistica e

1 Forarstaler, cit., pp. 48-53. V. a p. 35 l'ingenua professione di fede


di questo « poeta maledetto », fermo a un ottimistico naturismo che
riunisce a ideale convito la Madonna e Pan, Cristo e Bacco.
2 Nel suo prezioso sensualismo assai vicina alla poesia di Aarestrup,
dal quale Claussen non poco imparò.
3 Nel resoconto di viaggio Valfart (1896).
258 Le letterature della Scandinavia

linguistica1. E a darvi rilievo giova anche, sia pure da un


punto di vista esterno, la stessa coincidenza cronologica di
certi fatti letterari.
L’anno ’90, mentre in Norvegia, insieme al primo capo­
lavoro della prosa lirica di Hamsun Suit, esce il suo batta­
gliero studio sulPinconscio: « Fra det ubevidste sjaeleliv » (in
Samtiden, la rivista fondata allora a Bergen da G. Gran), vede
la luce in Danimarca l’autobiografica requisitoria antinatura­
listica di Drachmann (il romanzo Forskrevet - In balia del
materialismo) e in Svezia, qualche anno dopo il Manifest des
Cinq del « Figaro », i proclami e i programmi di Heidenstam
e Levertin (Renàssans e Pepitas bróllop). Si tratta in tutti
i tre casi non di indagini storico-critiche, ma di reazioni po­
lemiche di scrittori-poeti agli aspetti teoreticamente più pa­
radossali del naturalismo: e perciò qui a paradosso si contrap­
pone paradosso: alla stroncatura dell’« astratto » Ibsen uscita
dalla penna di Hamsun (che, dimentico àe\YAnitra selvatica
e di Rosmersholm si richiamava al carattere irrazionale del­
l’arte) fanno eco le proteste di Heidenstam e Levertin (che
dimentichi di Strindberg) invocano contro il grigiore natura­
listico una « logica dell’immaginazione ».
Ma, s’è detto, prima e dopo quest’anno cruciale, l’anno
della « banqueroute de la science » secondo la nota defini­
zione di Brunetière nella Revue des deux mondes, non man­
cano neppure nel Nord i segni della crisi del naturalismo, sia
in sede teoretica sia come concreta esperienza d’arte.
In Svezia Ola Hansson dimostra con la sua poesia (Not­
turno, 1884), con la sua maeterlinckiana2 narrativa (Sensi­
tiva amorosa, 1887), con la sua nietzschiana prosa lirica (Ung
Ofegs visor, Le canzoni del giovane Ofeg 1892) la difficoltà
d’ogni schematismo classificatorio, riuscendo a conciliare la cu­
riosità sociologica e patologica del naturalismo con una forma
poetica di ineguagliata musicalità. Tutto ciò che è sfumata
vibrazione sentimentale, preziosa morbidezza di colore, evo­
cazione di inespressi misteri (basti qui come saggio un verso
del Notturno):

1 Sono questi gli anni del trionfo di Zorn e Liljefors nelle arti figura­
tive, della creazione dei musei etnografici (Skansen in Svezia, Bygdoy
e De Sandvigske samlinger in Norvegia) e del culminare della crisi lin­
guistica norvegese in senso nazionalistico.
2 E. Ekelund, Ola Hanssom ungdomsdiktningì Helsingfors-Stockholm,
1930, pp. 128 sgg., e 235, 245.
L’età moderna 259

Mànens agg-gula / skara hanger / pà sammetstacke / i fuktat


blàtt. // Stora stjàrnor spricka ut i / en stràlig darrning / blankt
och vatt. (La falce giallo d’uovo / della luna pende / su serica col­
tre in rorido azzurro. // Grandi stelle fioriscono / in radiosi
fremiti / luminose e stillanti)
si fonde qui al pathos sociale in una ultraromantica ideo­
logia, che allinea sullo stesso piano l’« intuizione » di Poe e
di Nietzsche con l’indagine psicologica di Ribot e di Lom­
broso M
In Norvegia Sigbjorn Obstfelder riprende e varia con le
sue crepuscolari melodie e barcarole, ninne-nanne e notturni
tanto cari a Rilke — (Digte, Poesie, 1893) e con la sua prosa
ritmica (To novelletter, Due novellette, 1895; Korset, La croce,
1896) in difficile equilibrio tra l’ingenuo e l’artefatto, i temi
romantici e mistici dell’angoscia, dell’aldilà e della morte, e,
dopo un soggiorno negli Stati Uniti (1890-91) è il primo nel
Nord a risentire di quella lezione formale di Whitman che
tanta fortuna avrà in tutta la poesia del Novecento, perfino
nella conservatrice Islanda, come si può vedere nel brandesia-
no e nietzschiano J. Sigurjónsson2. Anche fra i romanzieri,
mentre A. Kielland resta fino all’ultimo fedele alleato di Bran­
des con la sua polemica satirica e patetica a un tempo contro
tutti i dogmi religiosi morali e sociali della borghesia (Ar-
beidsfolk, Lavoratori, 1881; Garman og Worse, 1880; Gift,
Veleno, 1883), J. Lie, passa dai romanzi sociali (Familjen
paa Gilje, La famiglia di Gilje, 1883; Kommandorens dotre,
Le figlie del comandante, 1886) in cui ritrae con gusto di

1 Hansson pubblicò il suo saggio su Poe già il 12.5.1889 nella « Vossis-


che Zeitung» e negli anni seguenti si a&ermò (Materialismen i skbn-
litteraturen, 1892; Tolkare och stare, 1893) come uno dei più strenui
rappresentanti dell’ambiguo sincretismo letterario di fine secolo, in cui,
non senza stridori, confluivano gli esempi francesi (v. I. Holm, Ver­
laine i Norden, in « Orbis litterarum », V, Kobenhavn, 1947, p. 19 sgg.)
e i deliri nazionalistici tedeschi di J. Langbehn (il cui Rembrandt als
Erzieher usci anch’esso nell’anno di grazia 1890). Nel saggio su Bourget
(Det unga Frankrike in « Dagens krònika ») scritto però qualche
tempo prima, Hansson mostra di ben conoscere la letteratura francese
della decadenza, alla quale guarda in funzione antizoliana, sullo sfondo
delle filosofie di moda di Schopenhauer e di Hartmann. In À rebours
di Huysmans doveva certo trovare l’elogio dei santi padri della deca­
denza: Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Barbey d’Aurevilly e Poe. Fu
Hansson a far conoscere a Strindberg, Bourget e Huysmans (v. M. Lamm,
August Strindberg, Stockholm, 1940, I, pp. 435, 449).
2 H. Toldberg, J. Sigurjónsson, Kobenhavn, 1965, pp. 146-47.
260 Le letterature della Scandinavia

bozzettista e con colori d’impressionista gioie e pene di anime


femminili oppresse dalle convenzioni, ai brevi racconti popo­
lareschi (Trold, Trolli, 1891-1892) tutti pieni del folclore del­
l’estremo Nord, cui l’arditezza del dialetto dà un sapore su­
perstizioso e magico a volte assai efficace; A. Garborg pure
abbandona la polemica naturalistica per esprimere nel racconto
Fred (Pace, 1892) e nel ciclo poetico Haugtussa (La visio­
naria, 1895) la sua inquietudine religiosa, immersa in un cu­
po fondo di allucinazioni e d’immaginazioni e ricca di echi
nietzschiani e tolstojani.
Il contatto col pensiero europeo, l’esempio dei modelli
stranieri porta nei pili intellettualmente dotati a un amplia­
mento d’orizzonte, documentato da numerosi studi saggi tra­
duzioni di grande impegno (si pensi a Jorgensen e a Claussen,
a Fròding e a Hansson, a Ekelund e a Levertin), ma anche
certo, in molti, al rischio di troppo facili imitazioni. In Sve­
zia Verner von Heidenstam impersona non senza ambiguità
e compromessi il rifiuto delle dottrine naturalistiche d’ascen­
denza norvegese e francese in nome d’un ritorno alla tradi­
zione nazionale1.
Ingegno più intuitivo che riflessivo, non ignaro degl’in­
segnamenti brandesiani, che mostra di apprezzare nell’ambito
della prosa narrativa, proclama però subito i diritti della
fantasia poetica2, in opposizione al naturalismo, richiamandosi
alla tradizione svedese (di cui più tardi sottolineerà la com­
ponente rinascimentale, cioè classicistica), anzitutto al poeta
Bellman3. Si sente certo anche in lui che il naturalismo non
è stato invano. Gli atteggiamenti anticlericali e antiascetici,
la glorificazione d’un solare ellenismo di marca hegeliana, hei-
niana e nietzschiana, sotto la vernice orientaleggiante di moda
(Vallfart och vandringsàr4. Pellegrinaggi e anni di vagabon­

1 Senza averne diretta e precisa conoscenza accenna alla rivolta anti-


zoliana in Francia, poi a Tegnér e alla concezione della Rinascenza ita­
liana — quale erede della pagana classicità — divulgata dal Brandes
(Stridsskrifter, Stockholm 19203, pp. 9, 23, 28, 37).
2 Satireggiando la democraticità dell’arte (in Pepitas brollop) in toni
che già fanno presentire l’ideologo del culto dell’io e dell’energia eroica.
Né va dimenticato, sul piano biografico, il sia pur sporadico entusiasmo,
negli ultimi anni dello scrittore, per il Fascismo.
3 In Klassicitet och Germanism (Stridsskrifter, cit., p. 105).
4 F. Book (Verner von Heidenstam, Stockholm, 1945, I, p. 122) vi ha
rintracciato un. influsso formale e sostanziale dei Senilia di Turgenev,
già citato da Heidenstam (nei Stridsskrifter); e del resto ben noto e
L'età moderna 251

daggio, 1888; Endymion, 1889) lo apparentano subito a Bran­


des (soprattutto al Brandes nietzschiano) e a Strindberg, men­
tre sul piano della creazione poetica e della tecnica formale,
la naturalezza del parlato e la concretezza dei particolari delle
sue Dikter (1895) non si spiegano senza le strindberghiane
Somngàngarnàtter *.
Ma a questi motivi s’affiancano in sempre maggior mi­
sura quelli nietzschiani e nazionalisti (sulla linea di George e
di D ’Annunzio) nei versi e nella prosa del più o meno autobio­
grafico poema Hans Alienus — che dall’edonismo orientale
passa al culto dell’eroismo classico per finire nel semplice
amor di patria — , nelle liriche (Hemmet, Ensamhetens tankar,
Malatestas morgonsàng, Tiveden, Jairi dotter) e nell’epos mi­
stico-patriottico (Karolinerna, 1897-98). Perfino la tarda poesia
di pensiero (Nya dikter, 1915), considerata dalla critica estre­
mo frutto d’assimilazione dell’umanesimo goethiano e schille-
riano, non sembra varcare i confini dell’estetismo: è più ras­
segnazione che fede religiosa, più inquieta ricerca che serena
conquista.

Vicino a Heidenstam in sede critico-estetica, con i pro­


grammatici saggi, Naturalism och romantìk\ Om humor pub­
blicati nella rivista Ur dagens kronika, 1890, Gustav Fro-
ding è forse tra i poeti svedesi del Novanta il più romantico
per il suo morboso misticismo e per il suo virtuosismo mu­
sicale, benché più di altri consapevole delle divergenze e
convergenze della nuova poesia con la precedente tradizione
lirica ottocentesca svedese e straniera: da Tegnér a Stagne-
lius, da Byron a Heine. Anzi appunto perché privo di quelle
certezze metafisiche che la filosofia idealistica e la teologia
liberale tedesca avevano in larga misura tramandato a tutta
la generazione di poeti nordici della prima metà del secolo,
il suo romanticismo sembra ancor più torbido e esasperato.
Almeno nella stagione piena di questa poesia.

imitato modello d’un altro scrittore svedese della decadenza: O. Hansson


(v. H. Levander, Sensitiva amorosa, Stockholm, 1944, p. 161 sgg.).
1 Indicativi di una sostanziale comunanza d’idee fra Strindberg e Hei­
denstam e di un’identica parabola letteraria sono intorno al 1885 i giu­
dizi antiromantici sull’« Italia delle zanzare e delle pulci » (mygg-och
lopp-Italien) e sulla « Venezia dei tuguri » (ruckel-Venedig); ai quali
vanno per contrasto avvicinati gli scritti mistico-estetizzanti e superomi-
stici, dove anche l’Italia ricompare in ben diversa prospettiva.
262 Le letterature della Scandinavia

Qui Nietzsche da una parte, Tolstoj dall’altra si conten­


dono il suo spirito smarrito tra le nebbie teosofiche e ane­
lante a impossibili sintesi di valori aldilà del bene e del male
(Gralstànk, Spruzzi del Gral, 1898; Grillfàngerier, Capricci,
1898; Om Livsmonader Le monadi vitali, 1898). E l’espe­
rienza stessa del naturalismo con le sue istanze di verità e
di concretezza contribuisce a rendere più intense e paurose
le allucinazioni e gl’incubi del soprannaturale. Leggendo la
tarda poesia di Fròding (di Nytt och gammati, 1897, « Nuovo
e vecchio », e già in parte di Stank och flikar, Spruzzi e bran­
delli, 1896 e di Nya dikter, 1894: per esempio En fattig munk
fràn Skara, I Daphne, Drómmar i Hades, En syn, En mor-
gondrom, Vinghàsten) tutto questo si avverte chiaramente.
Quanto più il poeta s’affatica a superare i conflitti della vita,
a eliminare in sé il dualismo morale e psicologico, risolven­
dolo in una specie di edenico naturismo, tanto più si sen­
tono le forzature polemiche, non celate del tutto dagli sma­
glianti colori e dalì’avvolgente melodiosità della lingua.
Malgrado le apparenze, non è qui il grande Fròding. Non
nella materia solenne e sublime del mito e della storia e nep­
pure nella squisitezza dei pastiches (Ur Anabasis, En hòg
visa, Saul och David), ma invece nella tanto più semplice
intonazione popolare e dialettale delle canzoni, nelle quali,
libero da escogitazioni intellettuali, si oggettiva il suo genio
patetico e ironico a un tempo.
Nel raffigurare la piccola vita della provincia varmlandese
(già entrata nella letteratura vernacolare con « Fredrek pà
Rannsàtt », cioè F. A. Dahlgren) la poesia di Fròding, pur
raffinata e colta, trova il suo tono più felice, semplice e in­
tenso a un tempo, il suo ritmo non estrinseco, le sue imma­
gini fresche e immediate, la sua naturale sintassi. Il mondo
sonoro e variopinto dei canti di Bellman sembra qui risusci­
tato in scene e figure di palpitante evidenza, che nulla hanno
del tipico e della maniera, in madrigali e in epigrammi, in
quadretti e in situazioni, in fantasie e in visioni che ripetono
e variano la ricca gamma tematica d’un secolo di romanticismo
[Guitarr och dragharmonika Ghitarra e fisarmonica, 1891;
Ràggler och paschaser, Storielle e aneddoti, 1895-97; Nya
dikter, Nuove poesie, 1894; Stànk och flikar, 1896). Non è
esagerato affermare che l’ingenuità e la spontaneità dei sen­
timenti popolari non sono mai state espresse con tanta raffi­
natezza di forma come in questa lirica.
Vecchi temi di vita paesana d’ogni tempo: tristezze e gioie
L'età moderna 263

di povera gente, leggende e superstizioni, rapidi scorci di pae­


saggio sono evocati con freschezza nuova; non è la loro realtà
esterna che interessa il poeta, ma ciò che dietro vi si nasconde
e che qui si fa ritmo e musica mediante un virtuosismo ca­
pace di giungere fino alPecolalia1 [Vallareiat, Varan prost,
I ungdomen, Vackert vàder, Jonte och Brunte, Sàv, sàv susa,
Slàktvisan). Tutta la grandezza e la dignità degli umili e dei
traviati, le loro ignorate angosce, il loro dramma intimo rivive
in immagini tenere e ironiche a un tempo, in parole semplici,
quotidiane, perfino dialettali (dietro cui però si nasconde un
acerrimo impegno formale), entrate subito, come la vera lirica
popolare, a far parte del patrimonio poetico di tutti. E in que­
sta materia tenue ma schietta, più che nelle straziate confes­
sioni e nelle empie meditazioni, Fròding è riuscito a espri­
mere il suo miglior talento.
Dei maggiori lirici svedesi tra la fine delTOttocento e i
primi decenni del nostro secolo Erik Axel Karlfeldt appare
oggi a una serena rilettura come il più schietto e il più con­
vincente, anche se lo squisito gusto delle nuovissime genera­
zioni lo misura dall’alto, preferendogli magari la poesia di
pensiero di Verner von Heidenstam o perfino Pumoresco
pathos di Gustaf Froding.
Figlio del suo tempo cioè del decadentismo di fine secolo
non meno di Heidenstam e Levertin, della Lagerlóf e di
Froding, ai quali era intimamente legato da profonde ragioni
culturali ed estetiche oltreché personali, ebbe vivissimo il senso
della tradizione letteraria nazionale e quello tecnico artigia­
nale del mestiere di poeta (benché mai fosse poeta di me­
stiere); e studiò e appassionatamente amò il Seicento sve­
dese — il secolo dei trionfi militari, ma anche della tardiva
Rinascenza nordica, cioè della poesia barocca di remota ascen­
denza italiana — al quale, fra altro, lo riportavano le vive
tradizioni storiche e artistiche della sua provincia, la Dale-
carlia, e l’educazione religiosa fondata sul catechismo sui sal­
mi e sulla « Bibbia di Carlo X II »; e nella poesia, come col­
tivò l’arcaismo quale mezzo stilistico-psicologico per meglio
oggettivare e guardare a distanza anche la più intima realtà,
pur senza indulgere a freddezze parnassiane, cosi predilesse
le forme e i ritmi elaboratissimi battuti e ribattuti fino alla

1 Fra i non pochi compositori che hanno messo in musica la migliore


poesia di Fròding vanno anzitutto ricordati Peterson-Berger, Sjogren e
Stenhammar.
264 Le letterature della Scandinavia

bravura e alla maniera. Pago delle simmetrie melodiche dei


romantici seppe però creare, mediante l’armonizzazione dei più
diversi toni la variazione ritmica e il gioco delle rime, una
poesia di struttura sintattica semplice, ma di colori forti e di
suoni profondi, musicalissima malgrado la ricchezza delle im­
magini visive e il rilievo delle cose concrete.
Non ebbe la grande fede delPetà romantica né quella
postromantica nel progresso, e, presto avvertita l’intima crisi
della sua, rifiutò gli ideali dei nuovi tempi e si strinse ai so­
gni di quel passato che il nascente secolo con il suo piede
di ferro sembrava calpestare.
Ma ciò fece senza sentimentali abbandoni, senza compia­
cenza estetizzante, senza rivolte teatrali. Nel pieno dell’auto-
nomia artistica, la sua lirica non fu né documento di costume
regionale né riesumazione storica né arcadismo anemico, sì
invece autentica ispirata poesia, in cui tutte le fondamentali
corde umane risuonano a testimoniare una personalità sem­
plice ma autentica, sana ma vibrante di passione, che ben
conosce le lotte intime eppure sa vincerle e comporle in un’im­
pavida accettazione della realtà.
Non conobbe, si può dire, svolgimento intellettuale né
complessa evoluzione psicologica, né prese parte se non per
indiretti accenni in discorsi articoli e poesie d’occasione alle
battaglie letterarie e ideali del suo tempo; e anche nella vita
pubblica il dotto bibliotecario Karlfeldt restò fedele a un suo
ideale di dignità e di stretto riserbo non intaccato dai suc­
cessi e dalla popolarità — nel 1904 divenne infatti socio
della Accademia svedese, nel 1912 segretario permanente; nel
1918, con ottocentesca scrupolosità, rifiutò il premio Nobel
che gli fu poi assegnato alla memoria nel 1931, lo stesso anno
della sua morte.
Nel volumetto postumo raccolto e pubblicato da Torsten
Fogelqvist (Pensieri e discorsi, 1932) c’è ben poco che non
sia deducibile dalla lirica, anch’essa peraltro di modesta mole
e venuta fuori a lunghi intervalli in quasi un trentennio di
silenzioso lavoro. Cosi pure i due saggi critici, originariamente
redatti quali Memorie per l’Accademia svedese (Il poèta Lu­
cidor, 1912 e C. F. Dahlgren, 1921) mentre illuminano: il
primo l’appassionato studio della poesia barocca nella quale
emergevano due suoi conterranei Georg Stiernhielm e Samuel
Columbus; il secondo l’interesse per il Biedermeier svedese,
non rivelano aspetti inediti della sua personalità di uomo e
di poeta.
Uetà moderna 265

Karlfeldt è veramente tutto nella sua lirica; che si pre­


senta come un progressivo e costante approfondimento dei
medesimi temi e motivi in forme sempre più raffinate e per­
fette.
Non c’è tra la prima e l’ultima raccolta, tra Canzoni della
landa e d'amore (Vildmarks-och kàrleksvisor, 1895) e Corno
autunnale (Hosthom, 1927) differenza sostanziale, come non
ce n’è fra le tre altre: Canzoni di Fridolin (Fridolins visor,
1901), Flora e Pomona (1906), Flora e Bellona (1918). Vi
è passata sopra la prima grande guerra quasi senza lasciarvi
tracce o lasciandovene solo di superficiali, tanto unitaria e
costante e compatta è in tutte l’ispirazione del poeta: un
sentimento di panteistica comunione con la natura, intuita
ora come fonte di ogni gioia terrena, ora come oggetto di
terrore diabolico, ora come segno di rivelazione divina.
Sarebbe facile tracciando un’ideale linea di sviluppo tra
le composizioni della giovinezza, della maturità e della vec­
chiaia scoprirvi, nell’evidente divario delle forme artistiche, la
costanza degli atteggiamenti psicologici. Così in Ballo prima­
verile della prima raccolta si avvertirebbe subito quel senti­
mento che lega insieme, identificandone il destino, la natura
all’uomo, e che con varia intonazione e intensità ricompare
in Inno alla luna nella fiera di san Lamberto e in Microcosmo
della seconda, in Esperide e Le streghe della terza, in Amore
dei fiori, Tempesta montana e Spirito della terra della quarta,
in Organo invernale della quinta — che, sia nella forma sia
nella sostanza, sembra riassumere tutte le sparse voci poeti­
che di Karlfeldt in un’unica monumentale polifonia. Analoga­
mente si rivelerebbe in quel capolavoro di perizia artigiana che
sono le canzonette ballabili come la Polacca di Aspàker,
Il nero Rodolfo o A Lisbona si danza la trasposizione sul
piano dell’arte di echi e cadenze popolari già tentata in La
fiaba di Rosali o in La ragazza di Grànge o in Rosenblom
il bello. Né del tutto nuova sembrerebbe, a chi leggesse al­
cune liriche della prima raccolta, per esempio Lindelinyla cupa
intuizione dell’anima femminile che s’incontra in altre più
tarde come Esperide o Le streghe quale esasperata antitesi
tra nostalgia di innocenza e desiderio di perdizione, o addi­
rittura quale erotismo mistico, e stasi stregonica placantesi solo
tra le fiamme del rogo.
Perché gioia e trepidazione e rimpianto e tenerezza e
pena e vertigine dell’abisso le ritroviamo sempre nell’intui­
zione naturistica di Karlfeldt; e l’amofe in primo luogo,
266 Le letterature della Scandinavia

che è forza di natura e alla natura attinge non soltanto co­


lori luminosi e solari ma anche tenebrosi e notturni. Ri­
facendosi alla natura cosi come egli la concepisce senza
teorizzazioni e speculazioni, non stupisce vederla atteggiata
nelle forme ora serene dell’idillio, ora tumultuose della tra­
gedia; ora umanizzata come dolce viso di donna, ora de­
formata in subsannante maschera di strega, ora anche animata
della presenza del divino, talvolta cristianamente anzi lutera­
namente intuito.
Le prime esperienze poetiche si muovono tutte nel clima
letterario dell’estetismo creato dai suoi più anziani compagni
d’arte, in primo luogo Heidenstam e Froding, ma, nel gene­
rico culto della bella forma, nella nostalgia del passato sen­
tito come paradiso perduto di armonia estetica e etica si
sente subito il suo accento personale. Per lui quel passato
s’identificava tutto con la tradizione popolare dalecarUa cioè
con una realtà seppur fatiscente, viva ancora e concreta.
Una realtà alla quale egli stesso spiritualmente ritornava come
figliol prodigo, come provinciale inurbato e viziato dalla ci­
viltà. Quasi arcana favola la Dalecarlia gli si affacciava alla
memoria col suo paesaggio grandioso e solenne, con i suoi
torrenti precipiti, i suoi laghi le sue lande d’erica, le sue si­
lenti foreste, con la sua gente fiera e sdegnosa, contadini e
minatori i più, avvezzi a una secolare tradizione di libertà e
fedeli a un costume di primordiale virtù: il lavoro l’onore la
religione la giustizia. Materia poetica dunque questa, intrisa
di affetti domestici, densa di concrete esperienze, umile popo­
lare familiare, in cui Karlfeldt, con un’adesione a un tempo
tenera e distante, ritrovava se stesso, la sua pena e il suo rim­
pianto, la sua apostasia e la sua palinodia.
Da quella gente e in quella terra era nato a Karlbo by,
l’anno 1864; e presto aveva lasciata l’una e l’altra per se­
guire la propria vocazione poetica. Già prima degli studi uni­
versitari a Uppsala, aveva per lo più scritto in fogli di pro­
vincia: e solo tardi si decise a licenziare l’opera prima, quei
Canti della landa e d'amore che, come s’è detto, già conten­
gono i motivi fondamentali della sua lirica.
Come quella di Heidenstam, della Lagerlof e di Froding
anche questa di Karlfeldt affonda le radici nell’humus delle
tradizioni popolari. Ma in Karlfeldt non c’è soltanto la no­
stalgia del romantico che si abbandona ai propri sogni. L’in­
tima comunione del figlio della terra con la sua terra e con
la sua gente si scopre subito nelPintensità e evidenza, nel
L'età moderna 267

colore e nel sapore della rievocazione fantastica. Aldilà d’ogni


accertata derivazione anche metrica da Bààth (Scena prima­
verile) e da Fròding (Canzone pastorale per un onomastico)
per non dire dei primi romantici svedesi (Voci di una notte
di maggio, Felicità sognata, Dal segreto del cuore) si avverte
qui subito, seppur ancora in instabile equilibrio la presenza
di entrambi gli elementi: il realistico e il romantico; tanto
che anche quando l’evocazione nostalgica trasfigura in leg­
genda e in simbolo la più umile vicenda quotidiana, il rilievo
netto delle immagini non viene mai meno.
Quegli amori rustici, quella sensualità sana e baldanzosa
ma scevra di pose eroiche o sentimentali (Amore giovane,
Voglia di cacciatore, Amore selvaggio), quei quadretti agresti
nitidi e palpitanti di vita, vaporanti odor di terra e alito di
primavera [Erica, Quelli in attesa, Serenata, Inghirlandami),
quel guardare e aderire alle cose concrete, all’umile lavoro,
alla gente semplice e rude, quel disegno sempre netto è pre­
ciso dettero a qualche critico l’impressione d’un sereno idil­
lio giovanile. Perfino certi accenti d’inquietudine (Canzone
autunnale), certi motivi di superstizione popolare e di terrore
religioso (Il padule, L!indesiderato, Spiriti senza dimora) resi
con pungente angoscia, con ritmi martellanti parvero soltanto
sparse note di colore atte a dar rilievo al quadro d’insieme.
Eppure nella poesia introduttiva all’intera raccolta (I pa­
dri), quasi confessione autobiografica, Karlfeldt stesso aveva
toccato una delle più intime corde della sua lirica. Se nel
confronto col primitivo mondo degli avi il poeta avvertiva
tutto il distacco spirituale e la propria intellettuale superio­
rità, capiva però anche, scavando nel proprio sentimento, di
esserne lo schietto discendente e continuatore su un altro
piano d’esistenza.
Da questa concordia discorde nasce la commozione quasi
innica della poesia. Non si tratta della solita effusione e trasfi­
gurazione nostalgica. La fantasia antieroica del poeta, anziché
evocare simboli di grandezza e potenza, esseri d’eccezione e
personaggi illustri (come avevano fatto Heidenstam, Froding
e la stessa Lagerlòf) sottolinea l’umiltà di quel mondo dei
semplici, di quegli oscuri figli della terra che seppero inten­
dere il vero senso della vita:
Sì, in questa antica terra ferrifera
ruppero il suolo in riva al fiume
e il minerale dalla cava accanto.
268 Le letterature della Scandinavia

Non conoscevan lavoro servile, non intendevano cerimonie;


impancati da re in casa propria
trincavano la sbornia della festa.
Baciavano fanciulle nel fiore della vita,
una diveniva loro sposa fedele.
Onoravano il re, temevano Dio,
morivano in silenzio, sazi di anni.
Dal contrasto fra il poeta sradicato dalla terra e gli avi fe­
deli alla terra trae forte rilievo il dramma intimo di Karl­
feldt e insieme la sua più segreta ispirazione d’artista:
Padri miei! NelFora della pena e della prova
io trassi forza dal pensare a voi

Nello sfarzo allettante del piacere


ho pensato alla vostra lotta, al vostro magro pane.

Sono sradicato come pianta dalla terra natia,


mezzo costretto, mezzo volentieri io tradivo la vostra causa.

Pure, se mai dal mio canto si leva


un frusciar di tempesta e di cascata,
se un pensiero virile e intrepido,
se vi trilla la lodola o la brughiera spoglia
vi getta un guizzo di primavera,
se vi sospira il bosco profondo per miglia —
foste voi, foste voi a cantare piano per molte generazioni
ai colpi dell’ascia, dietro il carro e l’aratro.
Rifarsi al passato popolare e provinciale significava anche,
in sede poetica, tornare alle illusioni alle speranze ai sogni
della giovinezza, attingere alle sorgenti un linguaggio arcaico,
colorito di dialetto e di vernacolo, di parole rare o desuete,
filtrandolo naturalmente attraverso una raffinata esperienza
artistica. E già nella seconda e terza raccolta di versi Karl­
feldt si mostra al suo punto di perfezione formale, in grado
di fondere con estrema naturalezza toni popolari e aulici, im­
magini familiari e nobili, crudo umorismo e delicatezza di
sentimenti in un’unica onda musicale.
La complessità della sua ispirazione si rivela così e si
precisa in una varietà di liriche sui grandi temi della gioia
e del dolore, della vita e della morte, della natura e dell’amore,
dove la diversità e perfino l’opposizione dei singoli senti­
menti ritrova una sua intima unità nel tono sempre misu­
L’età moderna 269

rato e composto, nell’equilibrio tra intelligenza e fantasia, tra


immagine e suono.
Al centro di queste liriche sta il Canto dopo il raccolto.
È qui introdotto il personaggio di Fridolin — il più elabo­
rato dei numerosi autoritratti di Karlfeldt — simbolo e in­
sieme personificazione del suo ideale umano e poetico. Poeta-
contadino dalecarlio, dotto che parla latino coi dotti e dia­
letto coi paesani, giovane ardente eppure già ironicamente
consapevole d’esser votato alla fine, Fridolin balla il tradi­
zionale valzer nel giorno della festa; e se è « pieno del dolce
vino » della sua terra è anche « pieno del vino dei ricordi »,
cioè delle memorie degli avi scomparsi, che ora sente in sé
rivivere; e, rallegrandosi come loro al pensiero del granaio
ricolmo, danza e « solleva in alto la sua ragazza contro la rossa
casseruola della luna autunnale ».
Il rustico si fonde qui senza stonature al colto e raffinato,
l’amore terragno per « la roba » alla gnomica coscienza della
fugacità della vita, la patina arcaizzante e baroccheggiante al
senso della realtà viva e attuale — tutto entro la linea ritmico-
melodica d’una popolaresca canzone a ballo.
Ma la figura di Fridolin non esaurisce certo la complessa
ispirazione di Karlfeldt, che trae il suo fascino da un più am­
pio contrasto e chiaroscuro, da una fusione delle più diverse
note psicologiche e stilistiche. La limitatezza di questo mondo
poetico è largamente compensata dalla ricchezza dei colori e
dalle sfumature, dall’audacia degli accostamenti e dai paralle­
lismi. Non s’intende l’armoniosa semplicità del mondo di Fri­
dolin senza scomporlo e ricomporlo in tutte le sue sfaccetta­
ture: dal nichilismo di chi guarda all’esistenza come « vanitas
vanitatum » (Io sono una voce che canta) alla fidente pena
di chi umilmente accetta il dolore come redenzione morale
(Un vagabondo), dalla trepida attesa dell’avvenire al rimpianto
del passato (Niente è come i tempi dell'attesa, Il mio retag­
gio ha nome nostalgia, I canti silenziosi), dalla sconvolgente
passione erotica (I tuoi occhi sono fuochi, Valzer di Boljeby)
all’elogio dell’energia e della volontà (Di uno sdegno legit­
timoy Canzone di un ostinato dalecarlio, Primavera dell*autun­
no, Il canto dei vagabondi), dal semplice moto del cuore dei
paesani che, tornando dal lavoro a cadenzato passo di marcia,
vedono spuntare i tetti delle proprie case (Marcia dalecarlia)
alla trama aerea del sogno, tradotta in pura musica verbale
(La sorella sognante) o all’intuizione panteistica della natura
che, movendo da umili temi popolari, assurge all’altezza co­
270 Le letterature della Scandinavia

smica dell’inno, per ridiscendere poi senza sforzo a immagini


di realtà quotidiana (Inno alla luna nella fiera di san Lam­
berto).
Mai però l’equilibrio di quest’arte si rivela appieno come
nelle Pitture di Dalecarlia in rima.
Per quasi due secoli gli autodidatti artigiani della Dale­
carlia avevano istoriato portali e pareti delle loro rustiche
case, e casse armadi e pendole con scene bibliche, sublimando
cosi in forme e modi popolareschi la propria primitiva fede
religiosa; ma né gli stridori anacronistici, né gli ingenui tra­
vestimenti di questa pia arte decorativa impedirono a Karl­
feldt di penetrarne l’essenza, con un’ironia che non annulla
l’impulso sentimentale, con una cordialità consapevole e aper­
ta a quanto c’era di commovente anche negli effetti ridicoli.
Innamorato delle tradizioni dalecarlie, si dilettava degli « errori
popolari degli antichi », di quella sapienza del volgo — comu­
nemente europea, alla quale Nicolò Keplero e Galileo Galilei
avevano già dato il colpo di grazia — distillata in curiosi e
bizzarri scritti del Cinque e Seicento svedese: manuali d’agri­
coltura, almanacchi, calendari, lunari, pieni di pronostici astro­
logici e metereologici, di credenze magiche, di detti, di pro­
verbi, di stravaganti figurazioni e immaginazioni, tendenti,
secondo il gusto barocco, al fine didattico, all’allegoria e al­
l’emblema !; e a siffatta materia aveva tolto spunti e stilemi per
tanta parte della sua lirica.
Non sorprende perciò se il decorativismo biblico di quei
modesti artigiani esercitò su di lui cosi gran fascino da spin­
gerlo all’emulazione. Lutero aveva dischiuso il testo sacro
all’anima popolare germanica in modi a questa accessibili;
Karlfeldt avrebbe potuto vantarsi d’aver fatto qualcosa di
simile quando, senza profanarle, umanizzò le grandi figure
della religione cristiana.
Ché qui non si tratta né di ben costrutti « pastiches » né
di estetica compiacenza per quei simboli smaglianti, ispira­
tori di tanto diversi sentimenti ai decadenti di finesecolo. La
religione era una parte integrante di quella poesia delle me­
morie che costituiva il fulcro della sua ispirazione. E se egli
non giunse mai a una professio fidei, della religione protestan-

1 Alla poesia emblematica — com’è noto — risale la poesia-disegno del-


l’Età barocca (p. es. certe liriche di Lucidor); quella poesia-disegno
che risusciterà più tardi nei Calligrammes (1918) del surrealista Apol­
linaire.
L'età moderna 271

ticamente vissuta come indivisa passione etica, come coscienza


della fragilità e peccaminosità umana, ebbe però, oltre il senso
poetico, la pungente aspirazione ai valori assoluti.
A una superficiale lettura le 'Pitture si prestano facilmente
a esser fraintese. A prima vista infatti sembrano ricalcare quella
tradizione satirico-parodistica dell’illuminismo svedese che va
dalle « kalottpredikningar » di Dalin alle Epistole di Bellman:
qui Adamo in mutandoni verdi e Èva in gonnellino di foglie
di fico si muovono nella cornice d’un Eden dalecarlio; lì un
Giona che, giunto al termine della sua procellosa traversata,
si rifà del maldimare con un bicchiere di acquavite all’osteria
{Il viaggio marino di Gionà); qui un profeta Elia che, in ve­
ste di segretario comunale chiamato da Dio in persona a una
seduta di consiglio, si leva al cielo salutando i compaesani,
col cilindro in testa, la pelliccia e l’ombrello verde (L'ascen­
sione di Elia al cielo); lì un Giudizio finale visto con gli
occhi dei semplici che vivono soffrono e muoiono nella fede
di Nostrosignore; qui una danza macabra nello stile burlesco
di Holbein il giovane (Jorum); lì una rievocazione sottilmente
ironica della figura di Giovanni Battista Bernadotte, l’ex ge­
nerale napoleonico che dalla sera alla mattina si trovò re, sve­
dese e protestante {Carlo Giovanni). Ma basta andar oltre
le apparenze per avvertire l’arte finissima con cui il poeta
trapassa dal popolare al colto, dal grottesco al sublime, dal
quotidiano all’eterno, trasportando e innalzando la più umile
realtà nell’impeto e nel ritmo fantastico.
Nel Giudizio il severo martellato ritmo delle antitesi è
sufficiente a dare al meraviglioso delle visioni apocalittiche
l’ansia del riscatto e il terrore del castigo. Nell’Ascensione
di Elia il passaggio dalla familiare campagna dalecarlia alla
solenne maestà dell’universo stellato, dallo scampanio della
parrocchia paesana all’onda sonora dell’organo celeste avviene
senza ombra di stacco psicologico e stilistico, con suprema
naturalezza. E con quale leggerezza di tocco è dipinto il ri­
tratto della madonna (La Vergine Maria), incedente sui prati
di Sjugareby quale semplice contadinella dalecarlia dalla pelle
come il fiore di mandorlo, eppure irradiante dal volto arcana
luce! Senza languori preraffaelliti e senza accenti drammatici
la suggestione di questa figura di fiaba, miracolosamente so­
spesa fra la vita e il sogno, fra l’ideale e il reale è tutta affi­
data alla pura linea melodica, all’andamento pacato del verso,
alle lunghe pause meditative.
Talvolta invece questa materia tradizionale, queste forme
272 Le letterature della Scandinavia

e figure ed episodi che il poeta ricrea nel suo sapido e sapiente


linguaggio, ironico a un tempo e commosso, gli diventano og­
getto di sacro terrore, di tentazione peccaminosa. Lo studioso
svedese Oscar Wieselgren segnalò in un articolo di giornale
come prima fonte d’ispirazione della lirica Le streghe un
episodio dei processi di Loudun, durante la tempestosa reg­
genza di Maria dei Medici, noto a Karlfeldt in un testo fran­
cese delPOttocento. Ma si può essere certi che il poeta non
aveva bisogno d’andare cosi lontano per conoscere le super­
stiziose credenze degli avi nella malizia diabolica: nei male­
fici e nei sortilegi, nei filtri e nelle orge sessuali fra diavoli
e streghe (ché alla Dalecarlia spetta il dubbio onore d’aver
alzato in Svezia i primi roghi e bruciato le prime streghe).
I suoi stessi interessi culturali per la letteratura saimistica del
Seicento e per quella tipica figura secentesca che fu Lucidor,
avventuriero e uomo di penna, frivolo e bigotto « poeta del­
l’ebbrezza e del rimorso », della gioia di vivere e della paura
di morire, ci mostra come fossero vivi e nel letterato secen­
tesco e nel suo ottocentesco biografo certi fermenti e sedi­
menti di religiosità luterana.
Ed ecco cosi riaffacciarsi, in tutto un gruppo di liriche della
tarda maturità, quegli smarrimenti e tormenti spirituali già
visibili nelle prime poesie e scaduti poi a pura maniera nella
letteratura magica e demoniaca della fine del secolo cosi amante
delle passioni del sottosuolo (Il giovine ricco, Bosco d'autunno,
Malattia, Tempesta autunnale); ecco il suo sano e armonioso
naturismo colorarsi di tinte fosche e lugubri, scomporsi in
satanici ghigni. Alle raffigurazioni delle Veneri rustiche entro
la familiare cornice della Dalecarlia, fra le eriche e i sorbi di
Pungmakarbo, fra lo stridio del re di quaglie e il nitrire del
maldomo puledro, fra lo scroscio del gran fiume e il rimbombo
dei magli di Avesta (Felicità sognata, La silfide del paese natio,
Canto di addio, Il castello di legno), si contrappone ora la
tregenda delle streghe e dei diavoli in un paesaggio irreale,
tradotta in immagini livide e malate, in avvolgente ossessiva
musicalità; ai virginei sogni di purezza alianti come profumo
d’esperide sotto la luna, l’acre afrore del sesso (Esperide).
Altra volta invece il suo naturismo si effonde in toni vir­
giliani e insieme biblici (In morte di un uomo della terra),
l’inquietudine religiosa si distende in accenti semplici e so­
lenni, in cadenze sommesse anche se contrappuntisticamente
e polifonicamente orchestrate (Salmo autunnale, Organo in-
vernale, Saltero e lira), quasi che il poeta rassegnato in un
L’età moderna 273

francescano senso di comunanza col destino universale, s’in­


chini davanti al mistero della vita e della morte. Pago di di­
videre l'effimera sorte delle cose, d’esser dato a innominata
zolla, ma vibrante di nostalgia per tutto ciò che trascende
Fumana miseria (Sub luna).
E tale alternarsi e perfino contrapporsi di vari momenti
d’ima medesima ispirazione concorre, mediante il sottile gioco
dei trapassi cui s’è accennato, a formare la singolare e com­
posita voce della poesia di Karlfeldt.

Come altrove anche nel Nord il naturalismo fu più un


punto di partenza che un punto di arrivo; e quanto reale fosse
nei più il contrasto fra le intenzioni tematiche e gli effettivi
risultati lirici e narrativi lo dimostrano, come s’è visto, un
po’ tutti gli scrittori formatisi nelPesperienza naturalistica e
poi evoluti verso il simbolismo. I grandi come i mediocri.
Ci furono sì le ostentate crudezze di Strindberg, i romanzi
e drammi a tesi di Bjornson e di Kielland, il determinismo
pseudoscientifico di Amalie Skram (che nel suo ciclo di romanzi,
Hellemyrsfolket, La gente di Hellemyr, 1887-98), volle creare
un parallelo al zoliano Rougon-Macquart di cui potrebbe por­
tare il sottotilo « storia naturale e sociale d’una famiglia »;
e anche qualche mediocre romanzo polemico contro la falsa
educazione sessuale come Fra Kristiania-bohèmen (La Bohème
di Cristiania, 1885) di H. Jaeger e Albertine, 1886 (sul tema
della provinciale sedotta e abbandonata) di Christian Krohg;
ma, nell’insieme, il naturalismo ortodosso ebbe più transfughi
che seguaci. La realtà quotidiana non fu dimenticata, anzi si
può dire che restò sempre presente in tutti gli scrittori come
amara smentita alla idolatria del sentimento, all’abbandono
lirico-musicale.
Romanzi come Niels Lyhne e Maria Grubbe potevano va­
lere quale dimostrazione scolastica del naturalismo brande-
siano (negazione d’ogni fede religiosa, adesione alle leggi bio­
logiche della natura, scrupolo documentario), ma per la loro
intensa liricità, per il colore, per l’esasperato individualismo,
per la morbida sensibilità romantica (sottolineata anche dalle
poesie postume dell’autore, Digte og udkast -Poesie e abbozzi,
1886) erano insieme un esempio del trapasso dall’osservazione
all’impressione, dal fatto alla sensazione. Cosi pure il giornali­
sta e romanziere Herman Bang, che ha un suo posto tra i Gon-
court e Wilde, può sembrare fortemente avverso al brandesia-
XXVII - 11. Lett, della Scandinavia.
274 Le letterature della Scandinavia

nesimo per il suo deciso rifiuto dell’analisi psicologica e ideolo­


gica a favore del discorso diretto, tutto impressioni sensazioni e
azioni drammatiche; ma poi il suo interesse per gli aspetti
squallidi e macabri della vita, disperati e morbosi, la sua pietà
inerte in cui si fondono estetismo e decadentismo Hàbfose
sleegter (Generazioni senza speranza, 1880 — storia d’un attore
fallito, vittima della degenerazione biologica); Ved vejen (Pres­
so la via, 1886, racconto d’una dolce e umile creatura distrutta
dall’egoismo degli uomini); Tine, 1889, protagonista di un’im­
possibile amore cui tutto sacrifica; Irene Holm, 1890 (tragi-
commedia d’una vecchia ballerina che vive di stenti e di
ricordi); Mikael (1904) e De uden feedreland (I senza patria,
1906) — il primo sull’infelice amore omosessuale di un vecchio
pittore parigino; il secondo sulla solitudine di un’artista « dé-
raciné », che naufraga nel più meschino degli ambienti provin­
ciali — lo mostra ancora saldamente ancorato ai concetti na­
turalistici di individuo, di società borghese, di realtà storica.
Divisi fra la ricerca di un’arte nuova idealistica e trasfigu-
ratrice e l’ossequio agli intenti polemici e teorici del Brandes,
altri scrittori come Karl Gjellerup, mediocre epigono schilleria-
no in una vasta produzione narrativa e drammatica (premiata
col Nobel nel 1917!); o, più ancora, come Holger Drachmann,
vanno incontro al gusto irrequieto e pavido insieme della
borghesia colta della fine del secolo. Drachmann soprattutto,
poeta e pittore a un tempo, alterna periodi di fede nel reale e
nella scienza positiva, Digte (1872) con pose palinodistiche, e
conservatricil: Gamie guder og nye (Vecchi e nuovi dei, 1881);
il romanzo Forskrevet (In balia del materialismo, 1890) con vel­
leità di resurrezioni romantiche che meglio rispondono alla sua
musicale sensibilità scaltra e raffinata, aperta a tutte le sugge­
stioni dell’ora. Le migliori liriche che sul volger del secolo go­
dettero enorme diffusione sono quelle che riflettono un sensua­
listico naturismo, Sange ved havet (Canti del mare, 1877);
Ranker og roser (Tralci e rose, 1879); intersperse, senza ne­
cessaria connessione, nella narrativa, p. es. « Sakuntala » nel
romanzo En overkomplet (Un superfluo, 1876); « Jeg h©rer
i natten » — Ascolto di notte... nel racconto Erindringen fra

1 In siffatti atteggiamenti e nella intollerabile enfasi superato soltanto


dal coevo Valdemar Rordam, autore d’una trentina di raccolte di li­
riche, retore della vita istintiva e campione del nazionalismo danese
prima, e poi del nazionalsocialismo, sotto l’occupazione tedesca, du­
rante la seconda guerra mondiale.
Uetà moderna 275

Venezia (Ricordo di Venezia, 1877). Al gusto eclettico di


questo scrittore prolificissimo, sempre teso ad accrescere le
suggestioni di un’arte con quelle di un’altra, risponde il suo
teatro musicale risolvente in melodrammatiche allegorie non
solo tradizionali soggetti gnomici come Der var engang (C’era
una volta, 1885), ma anche i cupi temi d’amore e morte tipici
del repertorio romantico come Renaissance (sulla drammatica
vita del Tintoretto, 1894).
Nel dischiudersi cosi alle varie eterogenee e complesse
esperienze straniere l’arte scandinava di fine-secolo s’avviava
verso quell’apertura mondiale che è uno dei caratteri più sa­
lienti della letteratura e cultura contemporanea. Ma se per
un verso era ormai matura per accogliere tutte le correnti
dell’irrazionalismo europeo (dalle pose decadentistiche ai deliri
patriottici e razzisti; dalle anarchie espressionistiche alle acro­
bazie surrealiste), per un altro voleva rimettere in' onore i più
profondi valori della tradizione autoctona. Arte dunque quanto
mai composita ed eclettica, satura di contraddittorie sugge­
stioni culturali. Al culto della bellezza ideale troviamo infatti
unito il gusto del particolare realistico, alla fede nel trascen­
dente il dilettantismo coloristico e musicale, all’idoleggiamento
della parola singola l’applicazione delle conquiste formali d’un
intero secolo.
In Svezia forse maggiormente che negli altri paesi nordici
la letteratura di fine-secolo dà un’impressione di relativa omo­
geneità e organicità, più che per il programma antinatu­
ralistico formulato da Heidenstam e Levertin, per la luiiga
tradizione accademica che su tutti fa pesare certe esigenze del
gusto.
Qui il maggior critico è Oscar Levertin, che accompagna al­
l’opera di studioso, ispirato ai canoni del simbolismo europeo,
un’attività poetica erudita e preziosa molto affine a quella dei
preraffaelliti inglesi, Legender och visor (Leggende e can­
zoni, 1891): ora splendente di gemme e di fiori come in
Swinburne, ora morbidamente malinconica come in D. G. Ros­
setti, sempre incentrata sul tema d’amore e morte: dell’amore
che è struggimento mistico-sensuale e della morte che è ri­
nuncia ascetica, assorta meditazione.
Poesia letteratissima dunque, i cui risultati massimi sono
da cercare nel « pastiche» cesellato con virtuosa minuzia di
orafo, ma in cui sempre si avverte qualcosa d’artefatto e di
combinatorio {Nuove poesie, 1894). Più notevole al paragone
l’attività critica fatta di saggi e studi in cui la sensibilità de­
276 Le letterature della Scandinavia

cadente e il prezioso gusto d’antiquario sorretti da una salda


cultura umanistica (Levertin fu professore all’università di
Stoccolma e, dal 1897, critico letterario del giornale conservato-
re Svenska Dagbladet) trovano espressione adeguata nella rie­
vocazione di quadri storici arcadico-rococò (Teatro e dramma
sotto Gustavo I I I , 1899; Novelle rococò, 1899) o di poeti e
scrittori, antichi e moderni, svedesi e stranieri (Poeti e sogna­
tori, 1898; Figure svedesi, 1903) o di artisti svedesi settecen­
teschi (N. Lafrensen, A. Roslin, 1901; G. Lundberg, 1902)
con sicura conoscenza degli influssi francesi sulle arti figurative
scandinave.
Come la poesia di Froding, di Karlfeldt, di Heidenstam
e talvolta anche di Strindberg rappresenta un deciso ritorno
alle tradizioni nazionali e spesso regionalistiche in contrasto
al cosmopolitismo naturalistico, così anche la grande prosa
di Selma Lagerlof e di P. Hallstrom o quella minore di A. Bon-
deson1 e di P. Molin2 in Svezia, di Kinck, di Hamsun e
di Kjaer in Norvegia, di Pontoppidan e di Jensen in Danimarca,
risente tutta, almeno nella fase iniziale, di un’avversione pro­
grammatica al gusto dei naturalisti.
La Saga di Gòsta Berling (1891) è sotto questo aspetto
esemplare sia per la tematica mistico-romantica sia per la
ditirambica liricità dello stile.
« Le donne i cavalier l’arme gli amori » delle ottocen­
tesche leggende vàrmlandesi raccontatele dalla nonna paterna
e dalla zia negli anni dell’infanzia, l’educazione romantica
datale dal padre che in casa cantava e declamava Bellman e
Tegnér e Runeberg, gli esempi letterari e figurativi di rivolta
idealistica al plumbeo grigiore del materialismo, da Hei­
denstam a Carlyle, da C. Larsson a B. Liljefors: tutto questo
ed altro concorse alla genesi del libro. Che, è sì un inno
all’estetismo eroico di finesecolo, ma già adombra, insieme,
il dramma morale su cui poggerà poi tutta l’opera della scrit­
trice svedese. I dodici cavalieri di Ekeby che, in nome della
bellezza celebrata come misura di verità, sfidano l’ira umana e

1 Illustratore di costumi e fatti locali umoristicamente e dialettalmente


descritti, ma soprattutto celebre per la gustosa satira della mezza cul­
tura di certi ambienti provinciali svedesi nel romanzo Skollarare J.
Chronschougs memoarer, 1897-1904.
2 Le cui novelle paesane (Àdalens poesi, 1897), rapide e concise, di
sicuro taglio narrativo sono un frammentario ma vivace saggio della vita
e dei costumi di una provincia (FAngermanland), si può dire, per la
prima volta dischiusa all’attenzione della cultura svedese.
L'età moderna 277

divina, si scoprono in fondo come campioni d’un superomismo


alquanto teatrale; le loro imprese eroiche ed erotiche si ri­
velano, alla resa dei conti, illudenti e deludenti. Stretto un
patto col diabolico Sintram per godersi la vita senza ibseniani
drammi di coscienza e senza dilemmi kierkegaardiani, s’ac­
corgono poi, alla fine, che tra felicità e bontà esiste un abisso
incolmabile. Non è difficile sotto la sorgiva ricchezza di fan­
tasia, sotto la fiammeggiante eloquenza, avvertire già qui il
nucleo primo di quel dramma di perdizione e redenzione che
sarà al centro di tutti gli scritti della Lagerlof.
Ma la critica positivista censurò aspramente la Saga di
Gosta Berling. Quel preferire al minuto realismo descrittivo,
ormai canonico anche nel Nord, le folgoranti visioni ed evo­
cazioni liriche, alla salda concatenazione narrativa la struttura
rapsodica, alla coerente caratterizzazione l’irrazionalità degli
impulsi, parve estetica eresia; e solo l’intervento di Giorgio
Brandes (gennaio 1893) determinò il successo del libro (an­
cora il 10.12.1909 nel ricevere il premio Nobel — il primo
a una svedese — la Lagerlof ricorderà, senza nominarlo, l’au­
torevole critico danese).
In realtà tutto il mondo spirituale della scrittrice era pre­
sente già nell’opera prima, benché ravvolto ancora e non
esplorato nella ricchezza dei suoi sviluppi: sia l’ingenua fede
nel meraviglioso, nella simbolica corrispondenza di leggi na­
turali e morali proprio della fiaba popolare e d’arte, sia le
suggestioni di certi moduli stilistici della Saga norrena — nota
alla scrittrice in traduzioni e attraverso i racconti paesani di
Bjornson — la passione etica alimentata dal femminismo e
il gusto del colore regionale e talvolta dialettale. Un mondo spi­
rituale in cui il male è assente o esiste soltanto nella forma al­
legorica e funzionale della fiaba, cioè come spunto per un
tirocinio di virtù, per una rigenerazione morale mediante la
sofferenza e l’attività, in cui in ultima analisi è affidato il trion­
fo finale del bene.
La Lagerlof conoscerà più tardi il dubbio e lo sgomen­
to davanti al mistero universale, e crederà agli esoterismi
della teosofia, ma non verrà mai meno a questa adaman­
tina e talvolta sin troppo facile fede in un arcano demo­
ne che trae a salvazione l’uomo. La sua religione è in fondo
un cristianesimo senza teologia e senza dogmi, accettato
per i valori etici e per l’incanto poetico dei simboli tra­
dizionali; un richiamo all’amore militante che tutto vince,
o se si vuole una fede popolare, che partendo da polemi­
278 Le letterature della Scandinavia

che posizioni di rigorismo ibseniano gradatamente approda


alla tolstojana apoteosi dei semplici e degli umili, intesi come
personificazioni d’una verità trascendente.
Non è forse un caso che i problemi erotici e il sesso come
motivo di meditazione fantastica siano estranei alla sensibilità
di questa scrittrice moralista, anzi la trovino per lo più se
non ostile, diffidente. Eccettuate le trasfigurazioni romantiche
nella Saga di Gósta Berling, le donne della Lagerlof: Ingrid
e Barbro, Else-lill e Edit, Maja Lisa e Carlotta sono povere
ragazze di provincia, tutte sanità d’istinti, tutte oblio di sé
e volontà di sacrificio, per le quali l’amore non è che stru­
mento di redenzione morale.
Sotto la spinta di questo spirito missionario la Lagerlòf
è passata dall’iniziale individualismo a un tipo di narrazione
più sobria e aderente a uomini e cose realisticamente osser­
vati, a un approfondito contatto con quella realtà che nella
Saga di Gósta Berling era rimasta circoscritta all’ambiente e
al paesaggio vàrmlandese.
Per un decennio provò e riprovò in tutte le direzioni con
silenziosa tenacia, con sforzo assiduo, spesso sin troppo visi­
bile, di conciliare il sogno con la realtà. Nel racconto (Legami
invisibili, 1894) troviamo cosi accanto alla tentata oggettività
della Saga norrena (I proscritti; Il tumulo; La saga di Reor)
il ritratto psicologico a sfondo esoterico (A Vineta; Zio Ruben)
e perfino l’allegoria religiosa (La leggenda del nido degli uc­
celli — su uno spunto della Storia universale del Cantù — in­
torno al misantropo eremita, che mentre invoca morte e di­
struzione sul reo mondo è convertito al mistero dell’amore
da un paio di cutrettole venute a nidificare nelle sue immo­
bili mani aperte); nel romanzo I miracoli delVAnticristo (1897,
scritto dopo un pellegrinaggio d’arte in Italia sulle orme della
prima suffragetta svedese F. Bremer) accanto alla rappresen­
tazione mezzo oleografica mezzo simbolistica del costume e
della vita popolare siciliana all’epoca dei Fasci (cui non fu
estranea l’opera del Pitrè) lo studio dell’inconscio o del semi­
conscio perseguito con una penetrazione che nulla ha da invi­
diare a Freud, allora del tutto ignoto in Svezia (La leggenda
d}un maniero, 1899).
Se i risultati di questo intenso tirocinio appaiono molto
disuguali non si può negare che un progresso c’è stato. Più
forse come disciplina stilistica nel trattare l’aerea trama della
fiaba che come maggiore presa di contatto con la realtà. S’av­
verte comunque che l’esperienza italiana, non è stata invano,
L’età moderna 279

sia per il nuovo senso della misura sia per la nitidezza del
disegno, sia anche per il nostalgico ritorno alla tematica pro­
vinciale. Con questa spinta liberatrice nacque insieme nella
Lagerlof il desiderio di approfondire il suo più intimo e vero
mondo, dal quale, come dimostra l’autobiografia, non si era
mai idealmente staccata. E bastò cosi l’esperienza occasionale
d’un viaggio in Palestina — sempre sulle orme di F. Bremer
— per dare lo spunto al romanzo Gerusalemme (1901-1902).
Un gruppo di pii contadini della Dalecarlia, per vivere da
veri cristiani nella terra del Signore, s’erano colà trasferiti
dopo aver venduto la propria. Su questa trama di realtà la
fantasia poteva ancora una volta abbandonarsi alle visioni, e
al meraviglioso con minor pericolo di perdersi nell’arbitrario e
nel decorativo.
E infatti più riuscita è la prima parte del romanzo, dove
il dramma morale è tutto radicato nella realtà, con quel re­
pentino serpeggiare del risveglio estatico in anime semplici
e ingenue, divise fra l’attaccamento alla terra e la nostalgia
del cielo. La stirpe di Ingmar Ingmarsson esemplifica questo
dissidio: gente dura e aspra come i remoti avi vichinghi,
ferma alle tradizioni ancestrali della solidarietà di sangue,
dell’onore, del diritto, eppure timorata di Dio e pronta a tutto
sacrificargli. Ma l’antitesi tra la realtà e il sogno spezza questa
compatta società patriarcale: e lunghe file di carri prendono
la via del volontario esilio, dalla terra che i partenti pur va­
gheggiano e sperano un giorno di rivedere in Paradiso.
Come ha detto un’intelligente biografa (E. Wagner) la
Lagerlof fu assai più felice nel cogliere la terragna grandezza
che l’estasi e l’ascesi di questi eroi-contadini, più il dramma
del distacco dall’antica patria che quello della imitatio Christi
nella nuova (e quanto la scrittrice svedese detestasse il fana­
tismo e il settarismo religioso lo dimostra ciò che scrisse a
Brandes da Gerusalemme).
Perciò una volta strappate alla propria terra, cioè al pro­
prio essere, queste grandiose figure epiche sbiadiscono e si
banalizzano per diventare puri strumenti d’un troppo facile
provvidenzialismo. Come altrimenti vive ed esemplari non
appaiono invece nella cornice dell’ambiente avito, dove gesti
e parole atti e vicende acquistano quasi la solennità biblica
d’un rito, al punto che perfino i modi epici della Saga nor­
rena, su cui tantò hanno insistito i critici, sono in realtà as­
sunti in tutt’altra funzione e animati da un soffio religioso che
li trasfigura.
280 Le letterature della Scandinavia

Si prenda per esempio l’episodio di Hòk Matts Eriksson


narrato con nuda, quasi verghiana incisività. Lui pure come
gli altri è toccato dalla grazia, e, prima di partire, va col figlio
a vendere la sua terra. Il pensiero che tra breve camminerà
sulle orme del Signore nella valle di Saron, lo fa sorridere di
beatitudine. Ma più si avvicina alla decisione irrevocabile, più
si fa forte in lui la voce di quella terra che trent’anni prima
gli era stata data da Dio perché passasse la vita a lavorarla.
E annulla il contratto, e non parte più, perché quel pezzo di
povera terra è per lui ciò che era la casa del nespolo per pa-
dron ’Ntoni Malavoglia.
Con Gerusalemme la Lagerlòf tocca uno dei vertici della
sua arte. Le afflizioni di gente semplice, il lavoro quotidiano,
l’eterno dramma della storia umana fra sogno e realtà, fra
impulso e dovere è da lei raffigurato con assoluta spontaneità
fantastica. Si nota certo anche qui episodicamente (specie nella
seconda parte) quel facile ottimismo1e miracolismo che guasta
gran parte dei suoi scritti; e per conseguenza la dispersione
della forza in espedienti romanzeschi, ma là dove avviene l’urto
delle passioni, dove è in gioco un contrasto morale, il vigore
drammatico acquista toni taglienti e intensissimi.
Mentre lavorava alla stesura di Gerusalemme le fu pro­
posto dalla « Associazione nazionale dei maestri elementari »
di scrivere un libro di geografia per le scuole. Proposta ten­
tatrice per il pedagogismo della Lagerlòf, così familiare e cor­
diale interprete del mondo infantile. C’era dietro quella pro­
posta l’intento riformatore dei nuovi tempi, d’una società che,
pur fra esitazioni e riluttanze, passava dall’ottocentesco patriar-
calismo al socialismo moderno e cominciava perciò ad avver­
tire l’esigenza dell’autonomia spirituale dell’educazione, la ne­
cessità di sostituire alla pedanteria razionalista l’appello alla
fantasia. Ciò che si voleva da lei era un’opera di dottrina e
di poesia insieme; si faceva credito alle sue doti di artista,
ma ci si riservava il diritto di revisione e di censura.
La Lagerlòf accettò: e se il libro scritto in non molto più
d’un anno e uscito col titolo di Viaggio meraviglioso di Nils
Holgersson attraverso la Svezia (1906-1907) riuscì un’autentica
opera d’arte, senza dubbio il suo capolavoro, lo si deve a un

1 Che, anche sul piano biografico, la porterà a far parte del comitato
internazionale dell’Associazione antimilitarista Clarté, all’indomani del­
la prima guerra mondiale — malgrado le note tendenze bolsceviche di
quelFAssociazione.
L’età moderna 281

tempo al genio e alla tenacia della scrittrice. Tanti e tali fu­


rono gli ostacoli e le critiche opposte dalla eterna burocrazia
e dalla pedanteria professionale alla libertà della creazione
poetica!
Alla ricerca di un punto archimedico in cui far confluire
il reale e il fantastico, la Lagerlof si documentò ampiamente
su geografia topografia e storia patria, su flora e fauna, su
tradizioni e usi locali e regionali, ma intuì subito la necessità
di animare le morte nozioni fondendole in un racconto sin­
tetico. Non si trattava per lei di descrivere e di analizzare,
ma di narrare. Le occorrevano i personaggi vivi delle fiabe,
il movimento epico, il dramma morale. Forte dell’esempio di
Kipling nel Libro della giungla, inventò così la storia cfi Nils
Holgersson: del ragazzo monello e virtuoso a un tempo, che,
trasformato in nano, fa il viaggio del suo paese in groppa a
un’oca migratrice. Fantasia e realtà potevano finalmente bi­
lanciarsi in felice equilibrio.
Ma il viaggio di Nils attraverso la Svezia è ben più che
un ingegnoso strumento di unificazione d’una materia così ete­
rogenea ed inerte: l’esperienza dei vizi umani e del valore,
la millenaria sapienza delle bestie, con le quali è qui restau­
rata l’originaria fratellanza, la tacita lezione delle cose sono
per Nils Holgersson come per il collodiano Pinocchio una
scuola di vita. La paura e il dolore, la necessità e la fatica
danno finalmente un senso e una dimensione morale alla sua
esistenza di ragazzo impertinente, sì da farlo degno, una volta
rotto l’incantesimo, di tornare uomo fra gli uomini. E sarà
proprio il genio tutelare della casa paterna, lo gnomo che
l’ha punito trasformandolo in nano, a fare da demiurgo in
questo dramma di espiazione e di redenzione, così ricco di
meraviglioso e pure così parco di simboli religiosi e magici.
Perché nulla appare qui illustrativo, folcloristico, gratuito;
nel susseguirsi d’immagini e di figurazioni, d’avventure e di
fiabe, zampillanti come in un polverio solare dalla fantasia
dell’artista, il legame organico, il richiamo alla realtà psico­
logica e morale della vicenda è sempre discernibile. Chi vuol
vedere come il fiabesco della Lagerlof non scada mai nel­
l’astratto e nell’insulso, legga l’episodio della notturna guerra
fra i ratti nel castello medievale di Glimmingehus, o l’altro
sul sacrificio dell’alce del Kolmàrden, o l’altro ancora sulla
vecchia contadina dello Smàland, giù fino al muto addio finale
di Nils alle oche, che sfilano in cielo fra il cadenzato battito
delle remiganti. Ogni cosa qui è mossa da una fantasia che
282 Le letterature della Scandinavia

talvolta sfiora il surreale eppure è sempre pronta a risolvere


l’allegoria nel vivo tessuto della realtà. Anche quando la nar­
razione sembra temporaneamente ristagnare, Selma Lagerlof
sa ravvivarla con l’introduzione di nuovi episodi estremamente
naturali, e che anzi quanto più in realtà sono fantastici tan­
to più son narrati con parole semplici quotidiane: come
l’incontro di Nils e della scrittrice stessa — novelli Ulisse e
Nausicaa nella cornice del Varmland — o di Nils e di re Oscar
a Stoccolma, dove il re, in veste di raccontafiabe, narra al pic­
colo la storia della città che galleggia sull’acqua; o come la
vicenda del gran fiume, del Dalàlven che, dopo lunga corsa,
stanco e vecchio muore in mare.
Senza questo autentico miracolo stilistico il libro sarebbe
rimasto soffocato dall’intento pedagogico1, preminente agli
occhi delle autorità scolastiche (che arrivarono a sopprimere,
nell’episodio di re Oscar, la forma parlata del verbo al sin­
golare, genialmente suggerita alla Lagerlof dal glottologo sve­
dese A. Noreen!) e certo profondamente sentito anche dalla
scrittrice, non meno ferma al protestantico senso della re­
tribuzione che alla fiducia nel miracolo dell’amore.
La storia di Nils Holgersson fu malgrado le critiche (strano
a dirsi pure del padre del socialismo svedese Hjalmar Bran-
ting) il successo più vistoso della Lagerlof anche da un
punto di vista editoriale. Agli onori e riconoscimenti ufficiali,
non ultimo l’ingresso fra gli immortali dell’Accademia sve­
dese (1914) seguirono le traduzioni e il favore d’una fama
mai concessa ad alcun connazionale.
Dal punto di vista artistico comincia ora se non il declino
della forza creativa, certo il periodo dei ripensamenti, della
ripresa di vecchi motivi, delle variazioni e delle reminiscenze più
o meno autobiografiche [Una saga intorno a una saga, 1908;
Màrbacka, 1922; Ricordi d'infanzia, 1930; Diario..., 1932)
e sarebbe sin troppo facile oggi rilevare negli scritti posteriori
al Viaggio di Nils Holgersson quegli sviamenti nel romanzesco
che appunto sembrano un ritorno — ma meno abile e spon­
taneo — alla maniera giovanile. Non che manchi qui l’ispi­
razione e l’approfondimento talvolta anche geniale dei con­
sueti temi popolareggianti, cui l’accentuato interesse per la
teosofia dà nuovo rilievo simbolico: per esempio II vetturale

1 Che talvolta, come p. es. nelFepilogo moralistico del nostro 'Pinocchio


— a quanto pare suggerito da altri all’autore — appesantisce anche
il capolavoro collodiano.
Uetà moderna 283

della morte (1912), ch’è una storia di redenzione morale al


confine tra visione poetica e occultismo, o Vlmperatore del
Portogallo (1914), che sembra una parabola evangelica sul
trionfo finale dei puri di cuore. Persino nell’incompiuta serie
narrativa sul Vàrmland ottocentesco della Saga di Gósta Ber-
ling (L'anello dei Lówenskóld, 1925; Charlotte Lówenskóld,
1925; Anna Svard, 1928) il contrasto fra lo sterile ascetismo
d’un prete e l’amore della sua fidanzata anima a tratti di pro­
fondo calore umano l’intera vicenda; ma è innegabile che il
fervido apostolato della moralista faccia sempre più sentire
tutto il suo peso negli scritti della maturità e della vecchiaia.
L’altro grande prosatore svedese che esordisce prima della
fine del secolo è Per Hallstròm.
Venuto all’arte per intima spontanea vocazione, s’affermò
con una raccolta di novelle, che ancora serbano intatto il segno
d’una individualità poetica e intellettuale fuor del comune.
All’eroismo nietzschiano e alle molte altre acrobazie cerebrali
allora in voga, si contrapponeva la prosa lucida e amara di
questo disilluso psicologo, avvinto anche lui a un sogno di
bellezza non caduca, eppure sempre ossessionato dai dilemmi
della realtà.
Uomo dell’opposizione ma non della rivoluzione, nemico
delle opinioni tradizionali ma non fiducioso nel progresso e
nella perfettibilità umana, Hallstròm ha portato nella lettera­
tura svedese moderna un’arte analitica di sottile indagatore
(che a lungo ha ascoltato la lezione di Tolstoj e di Dostoèvskij)
un realismo sobrio ed elegante, forse un po’ freddo e secco
a volte, ma sempre incisivo come morsura d’acquafòrte.
Il contrasto tra arte e vita, tra spiritualità e spontaneità:
ecco il tema costante della sua varia produzione letteraria,
che va dal racconto breve al romanzo psicològico, dalla com­
media al saggio critico, dall’impressione di viaggio alla po­
lemica politica.
Tralasciando il romanzo e il teatro, dove nell’insieme pre­
vale la tesi concettuale sulla raffigurazione artistica (Una com­
media veneziana, 1901, ispirata a una novella del Bandello;
Il romanzo di Gustavo Sparfvert, 1903; Erotikon, 1908, spie­
tata satira dell’« amour-passion » romantico e dei dongiovanni
da strapazzo; Due drammi leggendari, 1908), conviene fer­
marsi alle novelle, alle quali giustamente e per unanime con­
senso è affidata la fama di Hallstròm.
Anche qui i temi sono quelli già indicati, ma il tono è
nuovo, del pari lontano dalla impassibilità documentaria dei
284 Le letterature della Scandinavia

naturalisti e dalla morbida compiacenza degli esteti; sia che


s’ispiri al mito greco o al racconto biblico, al Medioevo ca­
valleresco francese o al Rinascimento italiano, al paganesimo
nordico o al romanticismo.
Variano le scene, i personaggi, le situazioni, non il tono
d’arte. Di qui c’è la vita vissuta, il mondo dell’azione: enig­
matico crudele inesorabile; di là la fantasia assetata di bellezza
che da quel mondo aborre; da una parte i figli della materia,
gli egoisti, i profittatori, intenti al proprio tornaconto, asser­
viti alla cieca volontà di vivere e godere; dall’altra i figli dello
spirito, assorti nel sogno e nella contemplazione, pronti al
sacrificio pur di entrare in quel mitico regno della perfetta
bellezza e libertà che Schopenhauer volgarizzò derivandolo
dall’ascetismo buddista.
La musa di Hallstrom non è l’amore cristiano, ma la pietà.
La pietà che redime dall’egoismo il mercante Jansson nella
novella Una banale tragedia e l’eroina de II veleno delle rose;
Jeanne de II miracolo e Laodamia nella novella omonima; che
illumina di « veggente saggezza » l’ultimo sguardo dell’uomo
morente quando sta per affacciarsi al mistero dell’oltrevita
come ne II leone; che dà valore e significato all’esistenza più
oscura come quella di certi personaggi delle ultime raccolte di
novelle: Eventi, 1927 e Leonora, 1928, i quali vivono nell’illu­
sorio ricordo d’essere stati una volta amati dai loro simili.
Pietà, dunque, e bellezza. Entrambe raffigurate in ima forma
artistica che nei momenti più alti tocca la perfezione del ca­
polavoro: nella storia di Òrlanduccio che legge negli occhi
del leone morente, e del nemico che egli uccide per vendetta,
la vanità dell’odio e dell’egoismo umano; e nella storia di
Leonzino da Bellosguardo che, sdegnoso d’avventure erotiche,
s’oblia in un sogno di bellezza ideale contemplando la danza
delle ore su un’urna greca (Thanatos, 1900; Taccuino di viag­
gio, 1898).
Si dà qui come saggio una pagina de II leone:

« Voglio che mi guardi ancora una volta! » esclamò Orlando


« Aspetta! Ora, ecco ora! »
D’un balzo, con moto fulmineo, il leone fu in piedi, senza un
tremito, senza ombra di sforzo. Teneva ora alto e dritto il pesante
capo che la criniera faceva sembrare più grande e più pesante an­
cora: le gambe erano ferme e forti come una volta, ma dalle grin­
fie profondamente confitte in terra si capiva quanta fatica dovesse
costargli.
Anche più strani erano gli occhi: tornati ora grandi e aperti
L’età moderna 285

come prima; anzi non erano più aperti del solito? Grandi e do­
rati si spalancavano nel fulgor temperato del caldo tramonto, men­
tre le pupille, dilatandosi, s’arrotondavano con un’espressione di
calma insieme e di fierezza. Parevano guardare più lontano che mai,
oltre e attraverso le grigie case, sui cui tegoli d’ardesia brillava
l'ultimo sole, oltre l’Arno balenante di riflessi, oltre i grigioargentei
boschi e i colli, oltre le azzurre montagne, lontano a perdita d’oc­
chio. Che guardava? A che pensava? Sognava ancora una volta?
No, non aveva più bisogno di sognare. Ora era chiaro per lui che
le fugaci visioni d’una volta riflettevano una realtà salda, certa
evidente come quella che circonda l’uomo nella vita; era chiaro
per lui che quel suolo sfolgorante di luce che aveva calpestato
esisteva veramente; e che per quel suolo egli era nato e vissuto,
non per soffrire in gabbia. Ora se lo vedeva intorno: dal basso
colle su cui si trovava la terra declinava dolcemente in molli on­
date purpuree e azzurrine, che andavano a morire nella pace del
mare di sabbia. Qua e là brillavano macchie e saline simili a
piccoli laghi; il resto era come una volta. Il cielo s’incurvava col
suo consueto splendente azzurro entro l’arco del firmamento, in­
commensurabile eppure dai chiari contorni, simile a un anello
chiuso; di mezzo al cielo il sole saettava giù la sua pioggia di
fuoco, mentre l’aria d’intorno, incandescente per l’ardor della sab­
bia, tremolava come sottile vaporio.
Cosa passava nel largo petto di quel leone, di quel re che con­
templava la sua terra? Gioia intensa, fiera consapevolezza della
propria forza? Nessun uomo avrebbe saputo esprimere quei senti­
menti elementari, oscuri, inafferrabili eppure possenti come la
tempesta.
Orlando e sua madre sembravano quasi intuirli, tant’era profondo
e luminoso lo sguardo della belva.
Sobilia afferrò bruscamente la mano del figlio ed ebbe un brivido
di terrore ripensando a quell’attimo in cui già ima volta, senza la
gabbia di mezzo, aveva fatto quel gesto.
« Ma vieni via dunque » esclamò.
Orlando si liberò dalla stretta della madre.
« Come è bello », rispose. « Come è bello! Voglio guardarlo an­
cora ».
Il leone udì e abbassò lo sguardo stupito. Dove si trovava? Dove
era andata a finire la sua visione? Cos'era quel bruciore e quel
fuoco che sentiva, cos'era quel tremore interno, quell’oscura mi­
naccia dinanzi alla quale persino lui provava terrore?
Per un attimo l’occhio del bambino incontrò quello della belva:
come era stranamente triste, disperato e pur padrone di sé, aperto
su un mondo che il bambino non poteva intendere, eppure vaga­
mente, inquietamente presentiva.
Solo un attimo. Il leone tornò a guardare lontano con la solita
espressione assente. Ma c'era ora qualcosa di nuovo in quello
sguardo che penetrava le lontananze: oscura e minacciosa, ma
286 Le letterature della Scandinavia

profonda come la vita, come la tempesta sul mutevole mare degli


eventi, come la tenebra degli abissi, visibile all’occhio morente
d’un animale, impenetrabile al più sagace pensiero, s’approssimava
nell’ora del trapasso la visione e la certezza di un’altra realtà.
Il possente corpo ebbe un fremito, un fiotto di sangue sgorgò
dalla bocca e la belva stramazzò in terra per non più muoversi.

Dalla novella e in generale dalla prosa lirica, di cui è stato


indubbiamente il massimo rappresentante in Scandinavia, Per
Hallstròm si è più volte allontanato per cimentarsi con varia
fortuna in altri campi: oltre che nel dramma e nel romanzo,
come traduttore di poesia moderna (inglese) e del teatro
shakespeariano di cui tra il 1922 e il 1931 ha dato al suo
paese la seconda grande versione integrale; come intelligente
annotatore di cose italiane durante un suo soggiorno a Fi­
renze nel 1902-1903; come saggista e critico con studi e mo­
nografie su Strandberg e Snoilsky, su Mérimée e Cervantes.
Molti oggi considerano caduca, anzi senz’altro scadente gran
parte degli scritti di questo solitario artista, nemico della po­
polarità, della reclame e delle esigenze del gran pubblico; ed
è facile previsione dire che, anche aldilà dell’odierna indif­
ferenza, Hallstròm non avrà mai molti lettori: troppo sincero
è il suo pathos morale, troppo equilibrato il suo scandaglio
psicologico, troppo aristocratico e colto il suo mondo poetico
in cui scorre la linfa d’un pensiero speculativo che va da Pla­
tone a Kant e a Schopenhauer. Ma l’altissima fattura artistica
di alcune novelle, il tocco veramente rembrandtiano dello
stile, che avvolge il più ordinario dettaglio nel mistero del
chiaroscuro, danno al suo nome un significato che nessun
favore di pubblico potrebbe concedergli o negargli.

Se in Svezia e in Danimarca la reazione al naturalismo


si attua anzitutto nella lirica, in Norvegia invece predomina,
almeno da un punto di vista esteriormente generistico il ro­
manzo, la cui prosa è tuttavia animata da movenze e cadenze
liriche.
Hans Ernst Kinck e Knut Hamsun inaugurano qui un tipo
di narrazione che, abbandonando gli schemi consueti dell’analisi
psicologica, vuol trascrivere in slegate visioni (si potrebbe già
chiamarle espressionistiche a causa della consapevole defor­
mazione della realtà) i sentimenti umani allo stato bruto, na­
tivo, subcosciente.
Studioso di antichità nordiche, e scrittore formatosi su
Uetà moderna 287

Nietzsche, O. Hansson, J. Langbehn, Barrès — Kinck1 su­


bisce il fascino delle teorie razzistiche (soprattutto delPepi-
gono di Gobineau, L. Woltmann) e ne introduce il fantasioso
biologismo nell’interpretazione della storia (norvegese e ita­
liana), nella narrativa, nel dramma, nel saggio critico, con ri­
sultati artistici assai discutibili. A ll’ermetismo psicologico con
cui in romanzi e poemi drammatici (Gabriele Jahry 1902;
Emigranti, 1904; I l mandriano, 1908; La valanga, 1918-19)
tenta di raffigurare atavici istinti e conflitti fra individui e
popoli, fa riscontro uno stile turgido, involuto, mirante a ot­
tenere la massima intensità attraverso la ripetizione e l’iper­
bole. Migliore forse in qualche romantica novella delle prime
raccolte (A li di pipistrello, 1895 2) non appesantita da pseu­
doscientifiche ideologie, Kinck scopre la sua inconsistenza an­
che nei tanto vantati scritti di storia e critica letteraria stranie­
ra. In Italiani, 1904; in Terra antica, 1907, unisce all’elogio
della poesia patriottica di Leopardi la condanna oltreché della
retorica dannunziana, della forma poetica di Carducci « priva
d’originalità e presa in prestito ai classici »; e se in compenso
si mostra sincero ammiratore di Verga (Novellisten fra Ca­
tania, 1904), in Uomini del Rinascimento, 1916, assevera che
Machiavelli non poteva essere un « puro homo alpinus per
via del suo carattere, del suo stile e dei suoi occhi azzurri » ;)3.
Tra le figure più eminenti del decadentismo norvegese,
Knut Hamsun è forse l’unico, dopo Ibsen, che per un insieme
di fortunate circostanze ha goduto fama europea.
È stata la Germania a farlo conoscere all’Europa, in una
serie di traduzioni, che, un anno appena in ritardo sugli ori­
ginali, sono puntualmente uscite fra il 1891 e il 1950: gli
anni apocalittici della nostra epoca. Ma l’opera di Hamsun,

1 Vicino a Kinck e a Hamsun è Nils Kjaer, che nella forbita prosa


delle sue Epistler (1903-24) sfoga, insieme agli umori più reazionari e
cattolicizzanti, una schietta vena di ironista del costume e della vita
dei norvegesi infatuati di progressismo e di tecnicismo.
2 P. es.: Hostnastter (Notti d’autunno) che sullo sfondo di un’atmo­
sfera cupa d’autunno narra le angosce, i trasalimenti, l’inconscia sete
animale di amore in una quindicenne; Felen i vilde skogen (Il violino
nella foresta) sull’amore inquieto d’un giovane musicante diviso fra il
richiamo della vita vagabonda e la ragazza diletta; Hvitsymre i utslàtten
(Anemone di prato) la cui prosa ritmico-musicale riesce a creare un’at­
mosfera densa di aspettazione e d’incantesimo.
3 Perfino un critico così positivo verso Kinck come E. Beyer (H . E.
Kinck, II, Oslo, 1965, pp. 265-269) riconosce la confusione e la con­
traddittorietà delle idee razzistiche, che notevolmente riducono la por­
tata della sua opera critica.
288 Le letterature della Scandinavia

quella che conta, s’iscrive in molto più breve arco di tempo,


almeno per chi la guardi retrospettivamente. Con i romanzi
Figli del loro tempo (1913) e Germogli della terra (1917)
la sua più alta vena sfiora, si può dire, il culmine delParte per
fluire poi sporadica e inaridirsi, alla vigilia della seconda guerra
mondiale, nella variazione degli stessi temi, nella polemica,
nel sarcasmo.
Non è un’opera ricca di pensiero la sua. Aperta e spesso
soccombente alle maliose e pericolose seduzioni di tutti i
miti di fine-secolo, discende, com’è stato subito avvertito,
dall’irrazionalismo di Nietzsche e di Dostoèvskij, anche se
poi, a un approfondito esame, si è scoperta del tutto priva delle
complesse ragioni storiche e filosofiche che fanno di questi
ultimi due i maestri del moderno decadentismo. Il suo culto
della natura, panteisticamente intuita come arcana fonte d’ine­
sauribile vitalità, creatrice e annientatrice a un tempo, scade
per lo più a fatalistico biologismo fine a se stesso; la diviniz­
zazione dell’istinto, la mistica del sangue e dei suoi responsi
oracolari, quasi universale panacea contro tutti i mali della
società odierna, degenera in retorica del primitivo e del subco­
sciente; il solipsismo anarchico, negatore d’ogni razionalità,
inevitabilmente approda al nulla esistenziale.
Oggi tutto questo è per noi chiaro. Sebbene in Norvegia
non sia mancato e non manchi ancora chi si ostina a negare
ogni nesso ideale fra il naturismo mistico di Hamsun e la
sua irriducibile polemica dell’anticultura, accattata a Gobineau
e a von Hartmann, a Nietzsche e a Langbehn, e sfociata infine
nella ben nota adesione ai truci miti nazionalsocialisti della
terra e del sangue.
Non diversamente passionali e fantastici appaiono oggi
i motivi delle sue battaglie politico-letterarie contro il natura­
lismo scientista, prima, e in genere poi contro ogni aspetto
della civiltà moderna da lui sentita quale intellettualistica pro­
fanazione della natura: dall’elogio della sanità spirituale della
Germania guglielmina e nazista (che subito lo comprese) alla
feroce satira del conformismo angloamericano; dalla ultraro­
mantica concezione dell’arte, demiurgicamente capace di at­
tingere le radici dell’essere, di cogliere « i moti arcani del
pensiero e del sentimento... le più segrete vibrazioni dei nervi,
il sussurro del sangue, la preghiera delle tibie (!)... tutta la
vita inconscia dell’anima » alle saccenti stroncature delle fame
consacrate: d’un Ibsen, d’un Whitman, d’un Tolstoj. Le sue
pose teatrali: ora di aristocratico e antimaterialista superuomo,
L’età moderna 289

ora di ingenuo figlio della terra (dotato però sempre di squi­


sita sensibilità!); la sua fede primitivistica e antipuritana (la
stessa che portò Gauguin a Tahiti e Lawrence nel Messico,
in cerca d’un Paradiso perduto del sentimento); il suo culto
dell’amore quale estasi di voluttà e di morte — tutto si può
agevolmente riportare a quel clima psicologico ed etico estre­
mamente raffinato e ambiguo che dominò in Europa nell’ultimo
Ottocento e che nel primo Novecento gli guadagnò l’incerta
ammirazione di un Gide e di un Mann *.
Non è una scoperta dire oggi che le ragioni ultime del
successo di Hamsun sono da cercare nello splendore del suo
stile. Uno stile che troppo a lungo ha mimetizzato l’intrinseca
debolezza strutturale e povertà umana della sua arte. Uno stile
limpido ma sfumato, intenso e concreto ma morbidissimo,
miracolosamente vivido e vibrante quando non è deformato
dal gioco virtuosistico della bravura e dai pretesti polemici.
Impressionisticamente alternando e intrecciando luminosi bar­
bagli e cupe ombre, temi e cadenze musicali, la prosa di
Hamsun sa rendere l’arcano fluire della vita nella sua palpi­
tante dinamicità. Tutto ciò che è ritmo emotivo, brivido esta­
tico, senso del mistero, ardente nostalgia, ebbrezza panica è
da lui evocato in melodie verbali e in immagini intense di
furore cromatico.
Penultimo in una famiglia di poveri contadini di Lom nel
Gudbrandsdal, Knud Pedersen andò bambino a vivere con
i suoi nel Nordland: quell’estrema provincia settentrionale
della Norvegia, il cui grandioso scenario naturale fa da sfondo
a tanta parte della sua narrativa. E qui, nel podere di Hamsund
a Hamaroy (lievemente modificato, il suo nome d’arte), dove
faceva il mandriano al servizio d’uno zio materno, ebbe inizio
la sua amara lotta per la vita, che, in quasi un trentennio, lo
portò a esercitare i più diversi mestieri e ad accumulare le
più varie esperienze e conoscenze di uomini, utilizzate poi
nell’opera d’arte. Aldilà delle divinazioni psicanalitiche sul
sadismo e masochismo di Hamsun, qualche breve schizzo e
racconto autobiografico («Uno spettro» in Boscaglia, 1903;
« Tra gli animali » in Vita di lotta, 1905) ci apre uno spiraglio
sulla sua infanzia deserta e intristita dall’autoritarismo brutale

1 Nel « Journal 1889-1939 », Paris, 1948, p. 265 Gide confessava di


preferire Suit a Pan; ma molto prima (« Festskrift », Oslo, 1929, p. 68):
« Pan me parut et me parait dune originalité puissante... » — Mann
(« Festskrift » cit., p. 128) rilevava il contrasto fra la modernità dello
stile e il pensiero retrivo e antiumano di Hamsun.
290 Le letterature della Scandinavia

e dal fanatico pietismo, cui unico conforto appare l’amore della


natura incontaminata e le chimere della fantasia.
Al fortuito lavoro, negli anni della adolescenza (fu mer­
eiaio ambulante a Tranoy, allievo calzolaio a Bodo, maestro
di scuola improvvisato a B0), s’univa la passione della lettera­
tura; e fu cosi che, sulle orme del Bjornson, narratore di
novelle rusticane, l’appena diciottenne Hamsun scrisse e pub­
blicò, per lo più a proprie spese, i primi lavori: una storia
d’amore, L'enigmatico, un poemetto narrativo, Rivedersi e
una novella, Bjorger, tutti attestanti, pur fra le ingenuità del­
l’esordiente e le convenzionalità da romanzo d’appendice, la
ricerca assidua d ’uno stile lirico-musicale.
La vocazione di scrittore gli pareva cosi suggellata.
Ma per quasi dieci anni i no degli editori si susseguirono
con sconcertante uniformità, a Copenaghen come a Cristiania.
Vano fu perfino un suo devoto pellegrinaggio al buon ritiro
del già famoso Bjornson in Aulestad.
Riprese allora il lavoro manuale, improvvisandosi però
all’occasione declamatore di versi, conferenziere, articolista
in fogli di provincia; finché nel 1882, con l’aiuto di facoltosi
commercianti e con una commendatizia dello stesso Bjornson
per il professore R. B. Anderson di Madison, non emigrò
negli Stati Uniti in cerca d’una fortuna che non volle venire.
I due soggiorni americani (1882-84; 1886-88), con centro
a Elroy nel Wisconsin e a Minneapolis nel Minnesota, non
rappresentano infatti né artisticamente né umanamente un
approdo.
Anche qui si ripetè l’alterna vicenda di saltuarie occupa­
zioni (contadino, commesso di negozio, bigliettaio di tranvia
a cavalli, segretario del connazionale scrittore e predicatore
unitariano Kristofer Jansson) e di infelici esperimenti let­
terari. Se qui Hamsun lesse gli scrittori americani quanto gli
bastò per detestarli — e Whitman e Emerson e Mark Twain
(dall’umorismo e moralismo del quale, malgrado tutto, non
poco apprese) — non dimenticò per questo i norvegesi: Ibsen
e Garborg, Kielland e Lie, che in estrose arringhe letterarie,
presentò ai suoi connazionali d’America come ridicoli pigmei
di fronte alla ineguagliabile forza di natura di Strindberg —
a suo giudizio, l’unico scrittore nordico di genio. E anche
fuori e ben aldilà della letteratura, la sua acre avversione alla
terra promessa della libertà (che conobbe nella fase critica
dell’espansione imperialistica e industriale), trovò sfogo in
un satirico libello: La vita spirituale dell’America moderna
Uetà moderna 291

(1889) anticipante motivi e temi di certa narrativa americana


del Novecento, nel denunciare l’affarismo e la corruzione della
democrazia del dollaro: gigantesco mostro senz’anima, ultimo
frutto della degenere civiltà europea.
Tornato in patria, proseguì con scarso successo in articoli
e saggi (il saggio su Kristofer Jansson nella rivista di Copena­
ghen Ny Jordy ottobre 1888; la collaborazione al quotidiano
di sinistra della Capitale, Dagbladet, 1889, e al periodico di
Bergen, Samtideny 1890), la sua campagna letteraria antira­
zionalista e vitalista; e fu solo un fortuito incontro a Co­
penaghen con Edvard Brandes, allora redattore del quotidiano
di sinistra Politiken, che gli portò fama e fortuna immediata.
Col racconto autobiografico Fame (il numero maggio-no­
vembre di Ny Jord ne aveva pubblicato anonimo un capitolo
nel 1888) il trentenne Hamsun usciva finalmente dall’oscurità.
Naturalistico per la crudezza con cui è raffigurato l’assillo
della fame: dalle allucinazioni, dai sogni a occhi aperti, dai
colloqui con le ombre, alla caduta dei capelli e ai morsi dello
stomaco, il racconto è tutto un ditirambico inno all’energia
vitale dell’uomo, alla forza spirituale del solitario figlio di
natura, impulsivo e generoso, sensitivo e appassionato, che
vuole eroicamente « morire in piedi » piuttosto che piegarsi
alle convenzioni d’una società « civilizzata », a lui del tutto
estranea e ostile. Non c’è ombra di protesta sociale o di de­
scrittivo realismo in questa ardente confessione, in cui l’io
autobiografico, anziché cercare le cause della propria miseria
e del proprio insuccesso, s’abbandona all’ebbrezza dei sogni
e a un chimerico amore, al quale la realtà offre un assai tenue
spunto1.
Perché nel racconto non è la realtà a determinare la storia
del personaggio; la realtà è solo labile parvenza, pura occa­
sione per una sfumata pittura di stati d’animo individuali,
di tensioni emotive, di atmosfere psicologiche. Ed è invece
l’io autobiografico che dal nulla crea (e qui è la modernità
del racconto), in accordo con le segrete leggi della sua pas­
sione, persone e cose, e dà loro vita e nomi (magari assurdi
e preziosi come quello di Ylajali alla misteriosa donna incon­

1 Anche recentemente la critica è ritornata su questo tipico aspetto della


prima arte di Hamsun con R. G. Popperwell (Scand. Studies, Lawrence,
Kansas, voi. 38, n. 4, 1966, p. 299), il quale ricorda: « Just as in Suit
he had taken a typically realistic theme, and treated it so differently
from the realists and the naturalists ».
292 Le letterature della Scandinavia

trata per strada). Per la prima volta Hamsun riesce qui con
la tecnica della giustapposizione dei colori, sapientemente al­
ternando luce e ombre, a esprimere l’antitesi fra slancio vitale
e riflessione intellettuale, a raffigurare un essere d’eccezione
nella sua volubile e frammentaria umanità, nella imprevedibile
dinamica della sua vita spirituale.
Erano quelli gli anni della composita reazione al natura­
lismo anche nel Nord. Come s’è detto, Ola Hansson, Verner
von Heidenstam e Oscar Levertin in Svezia, Johannes Jor­
gensen e Sophus Claussen in Danimarca, propugnavano il loro
nuovo ideale estetico-religioso con non minore dogmatismo di
quello che combattevano.
Cosi pure Hamsun in Norvegia.
La sua attività pubblicistica, appena intermessa durante
la stesura del romanzo Fame, s’intensifica verso il 1890 con
una serie di irruenti e bizzarre conferenze, di articoli e saggi
letterari: confessioni e battaglie di un ultraromantico che, in
poche apodittiche sentenze, vorrebbe creare una nuova estetica
e liquidare le vecchie idee con qualche lampeggiante sofisma.
Il bersaglio polemico è anche ora il solito: la coeva let­
teratura norvegese e, dietro questa, gli idoli del secolo pro­
gressista con la sua fede nella scienza e la sua illusione d’aver
risolto il mistero dell’anima umana e della vita cosmica.
Misteri (1892) s’intitola infatti il nuovo romanzo di
Hamsun.
È un miscuglio di frammentario autobiografismo e di van­
gelo nietzschiano. Sotto la sbiadita fisionomia di Johan Nagel,
un superuomo in sedicesimo, si riconosce subito l’autoritratto
di Hamsun irridente al razionalismo e al filisteismo borghese,
alla scienza e alla morale degli uomini comuni, sopra i quali
agita la ferula del suo geniale sdegno e ai quali dona le nuove
tavole dei valori scaturiti dalla sua ispirata meditazione. C’è
molta enfasi e molto dandysmo nella predicazione di Nagel.
I suoi facili sarcasmi sulla « profondità » di Ibsen, sulla « re­
ligiosità » di Gladstone, sul « moralismo » di Tolstoj e sulla
« vanità » di Victor Hugo, e, per converso, la sua ammira­
zione per la « vitalità » da condottiero*di Bjornson, non meno
del proprio personale destino entro la cornice della società
di provincia in cui si muove (dall’enigmatico rapporto di sim­
patia-antipatia con la sua ombra: il deforme « Minuto », al­
l’ambivalente passione per la giovane Dagny Kjelland e in­
sieme per l’attempata Martha Gude, al finale suicidio) sono
puri pretesti per celebrare il demoniaco culto della vita istin­
L'età moderna 293

tiva e subcosciente, per professare la fede in una divina im­


previdenza.
Quel che manca sempre alla polemica ideologica e alla
satira caricaturale di Hamsun è la vera forza di penetrazione,
che viene soltanto dalla articolata chiarezza delle idee e dal
vigore del pensiero. Malgrado il gusto delle parole grosse e del­
le posizioni estreme, la sua dilettantesca schermaglia non va
oltre il dileggio di tutte le idealità morali, sociali e religiose
della civiltà moderna in nome d’una indifferenziata e torbida
intuizione della natura.
Già nel 1893 Hjalmar Christensen1 aveva osservato che
nella polemica dell’esordiente Hamsun, nel libro sul?America
come in Misteri e negli altri libelli: I l giornalista Lynge (con­
tro il conformismo della stampa nazionale), Nuova terra (con­
tro le velleità poetiche degli scrittori norvegesi di fine-secolo),
i geniali sprazzi di luce sul notturno dell’anima troppo spesso
nascondevano il vuoto e l’artificio. E a quel giudizio bisogna
ancora oggi rifarsi se si vuole capire almeno un polo del-
l’Hamsun scrittore.
L’altro è quello lirico, coloristico e musicale.
Quando, volgendo le spalle alla polemica, egli si trasfonde
tutto nel paesaggio, immedesimandovisi fino alla mistica dis­
soluzione della coscienza, fino alla schellinghiana identificazione
di natura e spirito, la sua prosa s’anima di quell’intensità
visionaria, di quel melodioso incanto che ne costituisce la
più segreta forza.
Esemplare sotto tale aspetto è il romanzo Pan, che già
segna il culmine della sua arte.
Scritto tra il 1892 e il 1894 a Parigi e nella Norvegia
meridionale a Kristiansand è anch’esso, come tutti gli altri
romanzi di Hamsun, strutturalmente rapsodico e frammen­
tario: diario lirico, ritmata sequenza di ricordi e di sensazioni,
di visioni e di sogni, più che ordinato disegno narrativo. Ma
pur entro questi limiti quale palpitante vitalità!
Anche qui l’autore parla in prima persona, appena na­
scosto dietro una tenue finzione letteraria; ché nella figura
del cacciatore Thomas Glahn e nella sua tragica storia tra le
foreste del Nordland si riconosce subito Fio del narratore,
tanto più appassionato e assetato di sogni romantici, quanto
più ansioso di umiliarli e dominarli nella anodina lontananza

1 H. Christensen, Unge noràmsenà, Kristiania, p. 116 sgg.


294 Le letterature della Scandinavia

della memoria. Il senso panico della natura, l’acre profumo


dell’istinto, la stupita venerazione delle cose, viste nella loro
primordiale innocenza, il richiamo alle profonde scaturigini
delPessere: ecco i temi sui quali si articola la varia ispira­
zione romantica di Pan.
Reintegrata la primigenia armonia cosmica aldilà del bene
e del male, l’anima dell’eroe hamsuniano penetra il mistero
della natura e parla all’unisono con le mille voci della terra,
in monologhi rimasti celebri ora per la ritmata intensità del­
l’estasi mistica:

La prima notte di gelo — io dico. E una gioia impetuosa con­


turbante di quell’ora e di quel luogo mi attraversa con uno strano
brivido. Leviamo la coppa, o uomini e animali e uccelli alla soli­
taria notte nella foresta, nella foresta! Leviamo la coppa alla
tenebra e al murmure di Dio fra gli alberi, alla lieve dolce musica
del silenzio che mi sfiora l’orecchio, alle foglie verdi e alle foglie
gialle! Leviamo la coppa a questa voce della vita: è il soffio d’un
muso nell'erba, è un cane che fiuta la terra. Leviamo la coppa,
ebbri, alla lince acquattata, pronta a balzare sul passero, nella
tenebra, nella tenebra! Leviamo la coppa alla pietosa quiete della
terra, alle stelle e alla lima nascente; si a quelle e a questa

ora per il senso religioso della natura:

Prendo un ramo secco e lo tengo in mano e lo guardo mentre


sto seduto a pensare. Il ramo è quasi fradicio; mi colpisce la sua
povera corteccia, e un senso di pietà mi angustia il cuore. E quan­
do mi alzo per andarmene, non lo getto via, ma lo poso a terra
e resto a guardarlo; lo guardo ancora un'ultima volta con gli occhi
bagnati prima di lasciarlo

ora per l’intuizione della vita come pura rivelazione interiore:

Che cada la pioggia o muggisca il vento, che importa. Spesso an­


che in un giorno di pioggia, un moto di gioia ci afferra e ci spinge
in un canto con la nostra felicità. Ci alziamo in piedi e ci guar­
diamo intorno. A che pensiamo? Il barbaglio d’una finestra, un
raggio di sole sopra un vetro, la vista di un’acqua corrente, forse
uno strappo d’azzurro. È quanto basta.

La mistica unione con la natura è il motivo centrale del


romanzo; ma vi appare sempre come miracolosa armonia,
come dono d’un labile incantesimo, che un nonnulla basta a
infrangere. E nessuno lo sa meglio del protagonista di Pan:
Uetà moderna 295

Tessere tutto sentimento e fantasia, ansia struggente di vita


e orrore di morte, romanticamente proteso ad abbracciare la
natura come l’amante l’amata. La fata della natura e del­
l’amore, Iselin, preme le labbra sulle sue labbra, la romantica
Edvarda trepidamente lo attende e lo ama come si ama il
principe del sogno, la sorridente Èva tutto gli sacrifica: ad
ali spiegate la sua felicità naviga sotto le stelle — eppure l’idil­
lio non tarda a mutarsi in tragedia. Perché la natura è una
cieca forza che crea e distrugge a un tempo, un inesorabile
e oscuro nume al di qua d’ogni volontà etica e d’ogni luce di
ragione e di civiltà. Fuori dell’uomo essa parla con i suoi co­
lori smaglianti e le sue luci infuocate, dentro l’uomo con la
sua attrazione e illusione erotica. Ma per brevi attimi sol­
tanto. Bruciati i quali, il ritmo del divenire cosmico riprende
a scorrere come arcana vicenda di vita e di morte.
Così il fuoco fatuo della nordica estate si spegne nelle
ceneri dell’autunno. Così Glahn, il romantico sognatore, il
figlio di natura, soccombe al suo destino. Respinto da Edvarda
e incapace di dimenticarla, pone fine ai suoi giorni in terra
lontana, mentre Mack di Sirilund e il dottore e il barone,
i personaggi di contrappunto del romanzo, i figli della civiltà,
meschini e ridicoli, plebei ed egoisti sopravvivono e trionfano
come i veri pesi morti della vita.
Pan fu in Norvegia un autentico successo.
Con la sua psicologia dell’enigmatico e dell’ambiguo, sot­
tolineata e sapientemente variata, e col suo stile ricco di bi­
blici echi e di simbolismo bocklinghiano, rispondeva in tutto
al gusto di fine-secolo. Il mistagogo della decadenza Cari
Naerup accoglieva ora Hamsun, con Dostoèvskij e Nietzsche,
fra i grandi del nuovo Parnaso norvegese; alcuni ravvisarono
in lui l’intensità drammatica e il soffio demoniaco spirante
dalle coeve tele di E. Munch; pochi o nessuno notarono l’oscu­
ra voluttà di morte che si nascondeva sotto tanta predicazione
antintellettualistica e vitalistica, sotto tanta estasi e febbre e
delirio dei sensi.

In realtà la posteriore produzione di Hamsun non con­


sisterà nell’approfondimento del suo mondo poetico — che
aveva già in se stesso i propri confini — ma nello sforzo di
variarlo e affinarlo con rinnovati espedienti virtuosistici. Dal
suo mondo di mistico naturismo, di indistinta nostalgia, di
disperata solitudine egli non uscirà se non per rituffarsi nella
corrosiva e sterile polemica, nel mito dell’anticultura, sempre
296 Le letterature della Scandinavia

vivo, almeno come dramma latente dell’eroe, in tutti i ro­


manzi. v
Non meraviglia perciò, data l’angustia della visione morale,
l’alternarsi in questi e l ’intrecciarsi dei due motivi scaturiti
insieme da una stessa matrice romantica: il lirico e il teorico­
divulgativo. Anzitutto nel teatro. Dove lo scrittore, obbedendo
a esigenze esteriori, si muove su un terreno a lui tutt’altro
che congeniale.
La trilogia: La porta del regno (1895) *, I l gioco della
vita (1896) e Tramonto (1898) non meno del dramma in
versi II monaco Vendt (1902) e dell’altro in prosa In balia
della vita (1910), mentre preannuncia l’affollarsi epico dei
personaggi dei più tardi romanzi, rappresenta un inabile com­
promesso fra il dramma d’idee e il decorativismo mitologico
allora di moda. I personaggi primi: il filosofo-poeta Kareno
e il teologo fallito Vendt sono della stessa famiglia dei Nagel
e dei Glahn e s’affratellano, annunciandole, a molte figure
della posteriore narrativa. Ma la loro sostanza drammatica
sfuma in una pirotecnica di misantropici sarcasmi e di rab­
biosi paradossi nietzschiani, orecchiati da Hamsun col sempli­
cistico dilettantismo che caratterizza i suoi libelli. Il supero­
mismo e la fedeltà a se stessi, la sfida ai credi ufficiali del
tempo, alla democrazia e al cristianesimo (Hamsun fu sempre
un lettore superficiale e saltuario) in nome non della scienza
ma della « logica del sangue » 2, sono qui i temi da repertorio
che irrigidiscono l’azione in statici atteggiamenti di una fal­
sità stucchevole. Molto sentimentale anche e preziosa, mal­
grado le superlative lodi della critica, è la fiaba romantica
Victoria (1898) sull’impossibile amore tra il figlio del mugnaio
Johannes* e la gentildonna Vittoria, che sacrifica il proprio
sogno e la propria vita alle convenzioni sociali e alla necessità
economica — perché nel mondo di Hamsun, si sa, l’amore
non è che « un soffio di vento che agita le rose e poi svanisce »
un effimero dono dell’« enigmatico dio del cuore e della vita ».
Sono però questi gli anni del rapido consolidarsi della sua
fama di scrittore e anche della sua fortuna materiale. Dopo
un soggiorno a Parigi (1894-95), durante il quale personal­
mente conobbe il tanto ammirato Strindberg, tornò in patria;

1 Dove Hamsun proclama la sua fede nel « Signore innato, nel despota
per natura, nel dominatore, in colui che non è eletto da nessuno, ma
si crea duce delle masse sulla terra ».
2 J. W. Me Farlane, The Whisper of the Blood, PMLA, 4, 1956.
L'età moderna 2éi

e in un primo matrimonio (con Bergljot Bech, 1906) e in un


secondo (con Fattrice e scrittrice di romanzi per l’infanzia
Marie Andersen, 1909) cercò la soluzione di molti problemi
che lo avevano tormentato fino ad allora. Fra i quali, non
sopita dal lavoro letterario: romanzi, racconti, schizzi, ricordi,
impressioni d’un viaggio in Russia, Persia e Turchia, raccolte
di versi, più analitico-descrittivi che lirici: Siesta (1897), Nel
paese delle fiabe (1903), I l coro selvaggio (1904) - la nostalgia
dell’infanzia e della vita naturale che lo ricondusse dai vaga­
bondaggi e dai molti soggiorni in pensioni e in alberghi alla
solitudine e alle foreste del Nordland.
Sognò di rifarsi contadino.
Sdegnoso com’era degli artifici e delle menzogne del mondo
ufficiale, persuaso del fallimento della civiltà, s’isolò, rincru­
dendo le sue inattuali considerazioni sulla vita e sul tempo
in senso ferocemente reazionario: nel 1905 il pacifico scio­
glimento dell’unione politica con la Svezia, auspicato perfino
da un nazionalista come Bjornson, lo portò a giudicare il suo
già maestro e benefattore un autentico « rimbambito »; nel
1909, acquistato Skogheim, un podere presso Hamsund nel
Nordland, vi andò a vivere con i suoi, tra il lavoro dei campi
e il lavoro letterario.
Fu qui, nell’ambiente della fanciullezza e dell’adolescenza,
che rifiorì la sua romantica aspirazione a una vita di perfetta
armonia dei sensi, di alogica e prelogica primitività. Nella
trilogia romanzesca: Sotto le stelle d’autunno (1906), Un
viandante suona in sordina (1909), L ’ultima gioia (1912) ri­
compare ancora una volta l’hamsuniano io autobiografico, il
nomade sognatore, consapevole della labilità del tempo, ep­
pure sempre innamorato della vita, aperto alla nostalgia del
ricordo e al richiamo della speranza, incapace di piegarsi alla
realtà e destinato perciò a naufragare nella solitudine del pro­
prio sentimento. La tenuissima trama, in tutte e tre le parti,
fa pensare a una fantasia non a un romanzo, affidata com’è
a uno stato d’animo diffuso, a una segreta angoscia interiore
che accompagna come Leitmotiv le fortunose vicènde del pro­
tagonista-narratore. Specialmente nella seconda, la storia di
Louise Falkenberg, una nordica signora Bovary che spezza col
suicidio la propria chiusa disperazione, ripete il tema ham-
suniano dell’amore femminile, già adombrato in Van, quale
enigmatico conflitto dei sensi che riesce a placarsi solo nella,
feconda maternità, quale irrisolta antitesi fra sete di dominio
e volontà di umiliazione; mentre nella terza, in certi paesaggi

XXVII - 12. Lett, della Scandinavia.


298 Le letterature della Scandinavia

lirici e in certo odor di terra e profumo di selva, par di sentire


alitare ancora una volta la più alta poesia di Pan.
Al paragone appaiono molto meno felici Benoni e Rosa
(1908) i due romanzi di vita nordlandese, quasi ponte di
passaggio fra la prima fase lirica e la seconda epica della pro­
duzione di Hamsun. L’intento di accostarsi ai procedimenti
narrativi tradizionali svela qui tutte le debolezze dello stile
dello scrittore che non riesce ad abbandonare il suo esibizio­
nismo sentimentale per l’oggettivazione veristica. E poco con­
vincente è perciò anzitutto la figura del protagonista Benoni,
il postino arricchito che, passato di trionfo in trionfo, dovrebbe
simboleggiare il falso progresso d’una società industrializzata,
ed è invece, nella sua grottesca convenzionalità, un idolo po­
lemico; per non dire degli altri personaggi, ispirati tutti al
mito dell’anticultura, e più simili a marionette che a esseri
dotati di verità e di calore umano.
L ’aggressività di fronte a giudizi e opinioni codificate e
la tendenza satirica e sarcastica traggono ora nuovo impulso
dal quadro di costume, dal ritratto della società moderna,
sentita come mostruosa contraffazione della natura. E se non
mancano le pagine sicure e potenti, il tratto che incide sempre,
anche quando non scava in profondità, il mobilissimo gioco
delle luci della fantasia sul prisma della realtà, si avverte però
più di prima come l’ardore polemico ostacoli la penetrazione
psicologica.
In primo luogo nei romanzi Figli del loro tempo (1913) e
La città di Segelfoss (1915).
Anche qui la consueta netta opposizione. Da un lato i
mediocri soddisfatti della propria superficiale cultura, i plebei
avidi solo di guadagno e di progresso tecnico, di « america­
nismo », gli esseri che — per usare una definizione gidiana —
« nascono, vivono e muoiono per imitazione »; dall’altro i
contemplativi e i sognatori, rappresentanti di valori immuta­
bili come l’onore, la terra e la tradizione. Di qua gli uomini
di affari Per e Theodor di Bua, il capitano d’industria Tobias
Holmengraa, il prete Lassen; di là gli aristocratici Willats-
Holmsen e sua moglie Adelheid (una spirituale sorella di
Louise Falkenberg), moventisi sulla scena d’un dramma di
decadenza che raffigura il crollo d’ogni forza ideale, lo sfa­
sciarsi della società patriarcale di Segelfoss e l’ascesa trion­
fante della gente nova e dei sùbiti guadagni. Tipeggiante satira
e roventi sarcasmi, non scandaglio psicologico!
Fermo alla sua propaganda dell’anticultura, Hamsun aveva
L'età moderna ,299

sempre additato nelle esperienze elementari e nel ritorno alla


terra la soluzione di tutti i mali segreti della società. Era
un’idea istintiva e semplicistica, ma sincera.
Trasferitosi nel 1917 — per non più muoversi — dal
Nordland nel sud della Norvegia, nel podere di Norholm, da
lui acquistato presso l’ibseniana Grimstad, fu ripreso dal fer­
vore creativo e, insieme, dalla passione del lavoro agreste,
parendogli questo, più che mai ora, nell’imperversare della
bufera mondiale J, la sola forza capace di rigenerare gli uomini
e di ridare al mondo la felicità.
Tale fede palingenetica nel lavoro e nella terra informa
il suo romanzo Germogli della terra (1917), il quale, se non
segna il definitivo trapasso dal superuomo all’uomo comune, si
riallaccia però alla più segreta ispirazione dello scrittore: la
tradizione contadina. Chi altro poteva dire una parola di luce
e di pace se non il contadino che con la sua semplice imme­
diatezza, di slancio, arriva alla verità essenziale delle cose?
Ma il patriarca Isak, il colonizzatore della faticosa terra, in
questo moderno epos del lavoro, è un contadino mitizzato
ed eroicizzato fino alla caricatura, è un puro simbolo delle
forze arcane che reggono l’equilibrio della vita, fuori d’ogni
spazio e d’ogni tempo; e che solo di rado, in qualche scena
georgica, concretamente traduce il naturistico vangelo di Ham­
sun. « Qui tutto cresce, uomini animali germogli; e Isak se­
mina: il sole vespertino brilla sulla semente che sprizza dalla
sua mano, ad arco, e va a cadere come grani d’oro nella terra.
Dietro verrà Sivert con l’erpice e poi col rullo, poi ancora
con l’erpice. La selva e le montagne stanno a guardare; tutto
è pace e grandezza; qui è coerenza e finalità ». Cosi conclude
10 scrittore la sua professione di fede, non certo priva di epi­
ca forza e di intensità visionaria. Ma né il plauso mondiale
(ricordiamo solo i nomi di Ellen Key e di Selma Lagerlof,
di Wells e di Edschmied), né la consacrazione del premio
Nobel, possono oggi illudere il lettore attento su certa retorica
del primitivismo, della felice ignoranza, della incontaminata
naturalità, che, come una volta ironicamente scrisse Voltaire
del Discorso sull’ineguaglianza, fa proprio venir voglia di cam­
minare a quattro zampe!
Germogli della terra era stato un tentativo di ristabilire
11 contatto con le più profonde radici dell’essere, in antitesi

1 Festskrift, cit., p. 128 sgg.


300 Le letterature della Scandinavia

alla degenerazione della civiltà sfociata nella guerra; i due


romanzi Le comari alla fonte (1920) e Ùltimo capitolo (1923)
nascono invece dalla pessimistica coscienza di quella degene­
razione e dal senso del progressivo inaridirsi d’ogiji forza
vitale. Ad illustrarne la tragedia Hamsun crea due figure-
simbolo: il castrato Oliver e il « suicida » Magnus (special-
mente l’ultimo: più caricatura che studiata individualità dai
saldi contorni).
Intorno a entrambi si sviluppa l’azione dei due romanzi:
nel primo, sullo sfondo della gretta società provinciale nordlan-
dese, tutta pettegolezzi e meschinerie; nel secondo, in mezzo
all’ambiente equivoco d’una montana casa di cura, dove una
folla di malati, veri e immaginari, trascina la propria inutile
esistenza.
Già in Benoni Hamsun aveva con impietoso orrore evo­
cato, nelle figure di Mons e Mensa, i due vecchioni dispera­
tamente aggrappati alla vita, un allucinante incubo degno di
Goya; in Le comari alla fonte il ritratto del castrato Oliver,
glabro e gioviale, pingue e servizievole, affettuoso « padre »
di famiglia, che della propria infelicità, del proprio vaniloquio,
dei propri miserabili compromessi vive e si gloria, non lascia
dubbio sulla segreta parentela che lega il decadente Hamsun
al Baudelaire dei Sept viellards o al Rimbaud di Les assis (per
non dir altri): « Se qualcuno venisse ad offrirgli la morte,
non l’accetterebbe, al contrario. Non è poi mica tanto male
la vita, pensa Oliver. Non tutti se la passano come lui. Un
tetto, il pane quotidiano, qualche spicciolo in tasca, moglie
e figli — e che figli! In verità è lui l’umanità imperitura.
Eccolo li che arranca verso casa. C’è in lui qualcosa dello
sfruttatore, qualcosa di imperfetto; ma dov’è la perfezione?
La vita di questa città ha in lui il suo simbolo: zoppica, ma
è sempre affaccendata. Comincia al mattino e cosi fino a sera,
quando tutti vanno a letto. Qualcuno sotto una tela cerata.
Cose piccole e cose grandi: un dente che salta, un uomo
fuori dei ranghi, un passero che cade a terra ».
A quale contraffazione, a quale grottesca parodia è ridotta
la vita di siffatti esseri, convinti tutti di esserne gli insosti­
tuibili attori! Dal « suicida » Magnus (che in Ultimo capitolo
sarà il solo a sopravvivere nell’incendio del sanatorio mon­
tano) al falso barone Fleming, dall’aristocratica cacciatrice di
mariti Julie d’Espard, finita nelle braccia d’un contadino, a
quel maestro di cose inutili ch’è il filologo Oliver e a tanti
altri ancora. Col suo stile vivido, scheggiato di spezzature e
di anacoluti, con lo stacco violento dei suoi ghignanti para­
dossi, Hamsun spoglia qui la vita di tutti i suoi cenci per
investirla di una luce fredda, vitrea, spettrale 1.
Su questa via non poteva andar più oltre.
E gli ultimi romanzi sono infatti più che una variazione,
una ripetizione, un ritorno all’ambiente nordlandese, agli usuali
temi del nomadismo e dell’anticultura, rivissuti però con un
misto di odio-amore esteticamente non sempre felice. In Va­
gabondi (1927), August (1930), Ma la vita continua (1933),
I l cerchio si chiude (1936) ritroviamo il vecchio mondo dello
scrittore. Come mai prima l’immaginazione di Hamsun sa
far muovere intere folle di personaggi, svolgerne i caratteri,
a tratti animarne la vita in episodi ancora ricchi di ironia e
di pathos. Si ammira certo la bravura, ma per lo più si ha
l’impressione del già visto e del già sentito; quasi spettacolo
per gli occhi che stupisce e non commuove.

Col 1936, appena tre anni dopo l’avvento di Hitler al


potere, Hamsun scrittore tacque. Per riprendere la penna in
mano l’ultima volta a 86 anni, quasi cieco e sordo, ma ancora
indomito, sotto l’infamante accusa di tradimento della patria.
Volle ancora scrivere — su foglietti volanti — il diario Per
i sentieri ricoperti d'erba (1949) della sua prigionia, e si po­
trebbe dire, della sua agonia per tentare di giustificare l’in­
giustificabile — e non sempre con l’eroica dignità dei suoi
romanzeschi personaggi, ma giungendo talvolta a invocare
come attenuante perfino... la sua sordità!
Testimone della più grande crisi etico-politica dell’Europa
moderna, accanto al suo spirituale fratello Ezra Pound, fian­
cheggiò anche lui prima, e poi, durante l’occupazione, aper­
tamente sostenne con appelli e articoli nella stampa nazionale
e tedesca il partito di Vidkun Quisling. Arrivò perfino a
scrivere suWAftenposten, il 7 maggio 1945, un necrologio
di Hitler « campione di giustizia... figura di riformatore fra
le più grandi, il cui destino storico è stato quello di battersi
in un’età d’inaudita barbarie, che ha finito per travolgerlo ».
Mai si piegò, né parve capire, malgrado alcuni suoi gene­
rosi e incoerenti atti (una lite con Hitler a Obersalzberg,
perché questi si rifiutava di allontanare dalla Norvegia il

1 Osservava J. Bukdal, Norsk national kunst, Kristiania, 1924, p. 147 sgg.


che quanto più povera si fa la materia di Hamsun, tanto più riluce
lo stile.
302 Le letterature della Scandinavia

Reichskommissar Terboven; un tentativo di salvare tredici


partigiani condannati a morte), a cosa l’aveva condotto il
suo cieco vitalismo. Confinato in ospedali e in ospizi tra il
1945 e il 1948: a Grimstad, a Landvik e a Oslo, durante
l'istruttoria del processo; solo e disprezzato, ci appare però
in tutte le pagine del diario ancora proteso verso la vita e
la bellezza della natura, verso le memorie del tempo andato
e i sogni della fantasia — fino alle ultime nude parole che
chiudono il suo enigma umano: « Oggi il Tribunale supremo
ha emesso la sentenza e io non scrivo più ».
Privato dei suoi beni, moriva qualche anno dopo a Norholm,
il 19 febbraio 1952.
Molti hanno tentato, e in molti modi, d'interpretare quel­
l ’enigma; la soluzione del quale, forse, è da cercare non nei
canoni della morale corrente, ma, ancora oggi, nelle parole di
Socrate a Lachete identificanti la vera forza d’animo con la
suprema scienza del bene e del male.
Capitolo quinto
Tendenze letterarie del Novecento

LA NARRATIVA E LA LIR IC A

Non è facile, in funzione d’una prospettiva sia pur prov­


visoria, tracciare una linea di demarcazione fra gli scrittori
nordici affermatisi prima della fine del secolo e quelli la cui
attività si inizia dopo tale limite cronologico.
Le vicende politiche dell’ultimo cinquantennio, il formarsi
e dissolversi di effimere mode letterarie, gli esempi culturali
stranieri: inglesi americani francesi tedeschi, il cresciuto pre­
stigio della critica, la diffusione, in concorrenza col libro, del
giornale del film della radio della televisione: sono espe­
rienze attraverso le quali passano sia gli uni che gli altri. E
se i primi nell’insieme sembrano più saldamente ancorati a
certe forze ideali e sociali del passato, anche i secondi persino
i più « déracinés » mirano, dopo passeggeri atteggiamenti
anarchici, alla restaurazione di fedi religiose o alla istaura-
zione di nuove fedi politiche. A ben guardare le oscillazioni
e i conflitti di valori rilevabili nella produzione di quelli, ri­
compaiono prima o poi in una forma o in un’altra anche in
questi, e il taglio col passato, almeno come velleità e ricerca
del nuovo a tutti i costi, si avverte solo nei giovanissimi.
Come nella narrativa, nella lirica e nel teatro sopravvivono
i grandi temi della decadenza: dal culto della bellezza al senso
del mistero. Ibsen e Strindberg, Hamsun e Jorgensen, Jensen
e Claussen, Froding e Karlfeldt, sono sotto molti aspetti i mae­
stri delle giovani generazioni degli espressionisti: di P. La-
gerkvist e T. Kristensen, dei « proletari » Martinsson e Laxness
di Bull e di Wildenvey, e su, una linea popolareggiante in
nynorsk, di 0rjasaeter e di Aukrustl, così nella storiografia

1 Se Wildenvey è una figura tipica di poeta moderno, inquieto e insof­


ferente, ironico e nostalgico, che molto ha imparato da Heine, da Froding
e da Karlfeldt e molto vicino sembra ai nostri « crepuscolari », 0rja-
304 Le letterature della Scandinavia

letteraria il danese Brandes e lo svedese Schùck sono i fon­


datori di una critica letteraria sostanzialmente ispirata ai ca­
noni positivistici che dovunque conta ancor oggi seguaci: da
Brix, Topsoe-Jensen e Rubow a Billeskov Jansen, da Bull a
Lamm a Boòk^a Holmberg, giù fino ai giovani e ai giovanis­
simi più o meno sensibili alle istanze della psicanalisi (vere
eccezioni sono stati, sotto questo aspetto, gli svedesi Hans
Larsson, Klara Johansson, Nils Svanberg, Hans Ruin, e il
norvegese P. Rokseth inconsapevolmente o consapevolmente
orientati in senso idealistico crociano e vossleriano *) del mar­
xismo più o meno ortodosso (S. Moller Kristensen, O. Gelsted,
V. Svanberg, A. Ljungdal, S. Ahlgren), o anche d’un umane­
simo (O. Lagercrantz) talvolta confessionale (E. Kielland,
K. Hagberg, E. H. Linder, S. Stolpe, P. P. Rohde).
In questi paesi, dove le tradizioni popolari sempre cam­
peggiano al centro della letteratura, si comprende l’accentuarsi
delle tendenze paesanistiche già rigogliose alla fine del secolo.
Ma il paesanismo novecentesco è un fenomeno complesso,
polivalente. Per un verso ricalca il gusto naturalistico del color
locale, per un altro mira a un approfondimento dell’intro­
spezione psicologica e psicanalitica; prosegue la descrizione
oggettiva di ambienti rustici provinciali o borghesi che sia,
colorendola però di un più o meno dissimulato autobiogra­
fismo, di satira sociale, di discussione ideologica. Se l’ispira­
zione più profonda anche qui nasce dalla mai spenta fede nei
miti delle origini, della terra, della natura, in più o meno
larvata polemica con le brucianti esperienze del nostro secolo,
molteplici sono le sfumature di cui questa fede si tinge nei

saeter con il suo ciclo epico-lirico (Gudbrand Langleite, 1913, 1920,


1927; Livsens tre - L’albero della vita, 1946) e Aukrust (Himmelvarden,
- Il segnale celeste, 1916; Solrenning - Aurora, 1930) appaiono chiusi
in un mondo di simboli e di visioni religiose, e legati a una sensibilità
aggrovigliata e irta di conflitti psicologici, di tormentose contraddizioni
tendenti più alla purificazione mistico-ideologica che poetica.
1 Solo recentemente con la diffusione delle idee del « New Criticism »
sono penetrate anche in Scandinavia molte idee crociane, talvolta accolte
da critici come gli svedesi E. N. Tigerstedt e S. Bjòrck, G. Tidestrom
e Ó. Lindberger e dal danese T. Brostrom. (Cfr. B. Holmqvist, BLM,
1955, II, p. 130; e G. Printz-Pàhlson, Scandinavica, 1966, I, p. 3:
« The concept of criticism in Scandinavia has throughout the twentieth
century been to a considerable degree dominated by an empiricist,
diachronical, purportedly objective and amethodological approach »; non­
ché le pagine di Willy Sorensen, Dtgtere og deemoner, Kobenhavn,
1959, p. 44 sgg.}.
Tendente letterarie del Novecento 305

vari scrittori. Per alcuni il ritorno alle origini significa rin­


novata certezza interiore, per altri liberazione degli istinti
compressi da una falsa educazione, per altri ancora restaura­
zione storico-religiosa d’un confessionalismo cronologicamente
anteriore a quello ufficiale o anche reazione al cerebralismo
in cui sembra negativamente concludersi la più che secolare
parabola romantica.
In Svezia fra i molti prosatori paesanisti documentari e
aneddotici che rappresentano la narrativa dei due primi de­
cenni del Novecento (da A. Engstròm 1 a L. Nordstrom2, da
E. Wagner3 a G. Hellstròm4) emergono tre nomi: Hjalmar
Soderberg, Sigfrid Siwertz e Hjalmar Bergman. Del primo
vanno soprattutto ricordati i brevi racconti e schizzi di ine­
guagliata lucidità e precisione stilistica, dov’è amaramente sa­
tireggiato il costume borghese della capitale, il romanzo FòV-
villelser (Abbagli, 1895); e i racconti Historietter (Storielle,
1898), nonché i maggiori romanzi come Martin Bircks ungdom,
1901; Doktor Glas, 1905 e il dramma Gertrud, 1906, dove
i temi della solitudine umana e della vanità d’ogni fede e
d’ogni passione sono trattati con rara sobrietà e intensità di

1 Pittore e caricaturista, col giornale umoristico fondato nel 1897 Strix


e con una serie di bozzetti e racconti (En gyldenne Book, 1897, Bland
kolingar bonder och herremàn, 1900, ecc.), evocatore di tipi e mac­
chiette popolari: contadini e pescatori e vagabondi dello Smàland, del
Roslagen, di Stoccolma, studiati con strindberghiano realismo, ma anche
con non poche forzature grottesche. Malgrado le trovate e le arguzie
e la versatilità dialettale e gergale raramente la sua arte oltrepassa i
confini dell'epigramma e dello scherzo.
2 Scrittore-giornalista, autore di una vasta produzione narrativa ricca
d’interessi economici e sociologici improntati a un fantasioso avveniri­
smo alla Wells. Le sue cose migliori sono, a preferenza delle inchieste
sociali (Lort-Sverige - La Svezia del sudiciume, 1938 — sull’edilizia
antigienica del Paradiso del socialismo) e sull’industrializzazione del
Norrland (Petter Svensk, 1940), da cercare nelle molte novelle paesane
sapide e colorite anche se di psicologia non profonda.
3 Scrittrice femminista e attiva propagandista del pacifismo, ha lasciato
un romanzo paesano Àsa-Hanna, 1918, notevole per qualità narrative, e
una biografìa di Selma Lagerlòf (1942-43) che ne sottolinea i legami
con la tradizione popolare.
4 Corrispondente dei grandi giornali svedesi in varie capitali straniere,
e autore di una serie di romanzi, il migliore dei quali è Snónnakare
Lekholm far en idé - Il decoratore Lekholm ha un’idea, 1927, tipeggiante
storia d’una famiglia svedese attraverso l’evoluzione sociale d’un secolo
— scritto con serio impegno di cronista e con coerenza di osservazione
realistica, che sono le più persuasive qualità di Gustaf Hellstròm nar­
ratore.
306 Le letterature della Scandinavia

linguaggio; del secondo, a preferenza di qualche sporadico sag­


gio « escapistico » (1 pirati del Molar, 1911) le analisi freu­
diane e bergsoniane dell’egoismo e della volontà (principal­
mente il romanzo I Selamb, 1920, che è la storia della de­
generazione d’una famiglia borghese sullo sfondo della prima
guerra mondiale) di forte sapore intellettualistico ma sempre
intense e pregnanti; il terzo, partito da esperienze decaden­
tistiche (il romanzo storico Gerolamo Savonarola, 1909), si
innalza alla dostoevskiana raffigurazione dell’irrazionale e del
subcosciente (« qualsiasi persona in qualsiasi momento è ca­
pace di qualsiasi cosa... ») ambientandola entro una fantasiosa
cornice paesana e piccolo-borghese della Svezia centrale (I Mar-
kurell a Wadkòping, 1919; Le memorie d’un morto, 1918;
La nonna e nostro Signore, 1921; La signora direttrice lnge -
borg, 1924; le novelle di soggetto italiano: Amori, 1914). Qui
la consapevole deformazione della realtà irrigidisce talvolta
il carattere nella maschera grottesca, trasforma l’intreccio in
arzigogolo, in trovata strana e paradossale, svelando cosi
l’intrusione d’un elemento cerebrale non sempre coincidente
col sentimento; ma nei momenti più alti la prodigiosa vi­
talità dello stile fa scoccare i contrasti fra istinto e ra­
gione, fra realtà e illusione in un gioco di luci fredde a un
tempo e incandescenti, tragiche e grottesche che segna un
punto culminante dell’arte narrativa moderna.
Non meno che in Svezia, in Danimarca in Islanda e in
Norvegia il paesanismo impronta l’opera di moltissimi pro­
satori, fra i quali particolare menzione meritano i danesi dello
Iùtland: Henrik Pontoppidan e J. V. Jensen, i norvegesi
come Aanrud, Duun, Egge e Bojer e l’islandese danesizzato
G. Gunnarsson.
Sembra a prima vista che si tratti solo d’una esperienza
passeggera, d’un punto di partenza dal eguale i più muovono
in cerca di nuovi orizzonti, anche se poi i valori fondamen­
tali della primitiva ispirazione non tardano a riaffiorare in
mezzo alle diversità e eterogeneità dei temi.
Pontoppidan, nudo cronista del trionfo e insieme della
crisi della fede umanitaria e democratica maturata in seno al
liberalismo danese, serba nella realistica e minuta descrizione
della società borghese di Copenaghen (Pietro il fortunato,
1898-1904; I l regno dei morti, 1912-16) l’austero e greve mo­
ralismo luterano dei suoi primi romanzi contadini (Nubi, 1895;
Terra promessa, 1891-95; I l paradiso dell’uomo, 1927) riu­
scendo più d’una volta a equilibrare, nello studio dei ca­
Tendenze letterarie del Novecento 307

ratteri, lo scrupolo documentario e il calore umano attra­


verso un contrasto psicologico fra progressismo e pietismo
che, malgrado ogni smentita dell’autore, lo portò gradata-
mente a far parte dei « seguaci di San Giorgio », cioè di
Giorgio Brandes; Jensen, divenuto sotto influssi stranieri
(Kipling, London, Wells) e dopo un esordio in stile lirico­
decadente (Einar Elkger - tragedia d’un amante deluso che
finisce al manicomio, 1898; Kongens Fold - La caduta del re,
cioè del rinascimentale sovrano Cristiano II, 1900-1901) mi-
tografo del progresso tecnico, dell’americanismo, dell’avven­
turismo (Madame^ d}Oray 1904; La ruota, 1905; Le foreste,
1904; Novelle esotiche, 1907-17; I l lungo viaggio, 1908-22)
presta alla sua confusa concezione vitalistico-darwiniana del
mondo, qua e là sconfinante nella fantascienza, l’insidioso
fascino di quella prosa, piena sonora plastica, vistosamente
muscolosa, tutto palpito di sangue e di carne, con la quale, nei
racconti giovanili ( Storie delVHimmerland, 1898-1910 che
insieme alle Novelle esotiche sono le sue cose migliori) ha
evocato i primitivi figli della sua terra: Cecil, Tordenkalven,
Monsunen.
Se Hans Aanrud, per mole narrativa (è autore di rac­
conti d’intonazione dialettale che illustrano la vita e i co­
stumi paesani della Norvegia orientalel) non può compe­
tere con gli scrittori della sua generazione, Duun, più coeren­
temente fedele all’ispirazione paesana, nella lingua (un « ny­
norsk » con forti coloriture del dialetto locale) e nei modi
narrativi attinti alla neutra impassibilità, alla sentenziosità
dell’antica Saga, è il sagace commentatore della vita e del
costume norvegese illustrato attraverso la storia d’una fami­
glia contadina del Trondelag dalla fine del secolo X V III
alla prima guerra mondiale. Questa analisi storico-psicologica
del trapasso da una società tribale fondata sulla forza a
una più aperta e civile creata dal trionfo dello spirito cri­
stiano, di rado artisticamente persuasiva a causa del suo
opaco cronachistico « stile della Saga » Juvikfolket (La gente
di Juvik, 1918-23), resta però fra le più notevoli testimo­
nianze della prosa norvegese del nostro secolo per il color
locale e per la serietà dell’impegno morale e forse più ancora
per il forte gusto storico che sempre asseconda e sostiene il
ritratto psicologico. Alla vigilia della seconda guerra mondiale

1 Notevole soprattutto la raccolta En Vinternat og andre fortxllinger -


Una notte d’inverno e altri racconti, 1896.
308 Le letterature della Scandinavia

usci Pultimo romanzo di Duun (L ’uomo e le potenze, 1938)


messaggio di fede nella forza rigeneratrice della buona vo­
lontà umana.
Anche Egge, Bojer e Gunnarsson trovano la loro migliore
ispirazione, lontano dalle tesi e dal problematicismo1, nel
racconto epico d’ambiente paesano, nell’esaltazione delle ata­
viche virtù dei semplici e degli umili (Hansine Solstad, 1925;
L'ultimo vichingo, 1921; La gente vicina al mare, 1929; La
stirpe di Borgy 1912-14; La chiesa sulla montagna, 1923-28):
Pultimo specialmente, il quale, quando tenta di staccarsi dal­
l’ambiente nativo per narrare le vicende del mondo borghese
di Reykjavik e di Copenaghen, intellettualmente e socialmente
tanto più alto, cade nella tipizzazione convenzionale e nella
maniera (Beati i semplici, 1920; Uccello nero, 1929).
Una forma di reazione alla crisi dei valori connessa alle
due guerre mondiali e di rinnovata sfiducia nei principi della
scienza è stato anche nel Nord il periodico risveglio religioso
dell’ultimo cinquantennio, comprensibile col vuoto morale
ovunque lasciato aperto dalla crisi del protestantesimo e dalla
sopravvalutazione del progresso tecnico. In paesi di larghis­
sime libertà civili come i nordici questo risveglio religioso si
è naturalmente attuato nelle forme più diverse. Ora come ap­
profondimento dei problemi dell’ortodossia luterana (notevo­
lissimi gli studi storico-religiosi e l’attività organizzativa di
N. Soderblom, M. Bjòrkquist, A. Nygren), ora come revivi­
scenza di sette riformate; significativa sotto questo aspetto in
Svezia la parabola del romanziere Sven Lidman passato dal­
l’edonismo sensualistico di finesecolo alla santità pentecostale;
ora come angosciosa ricerca di una fede, magari solo umana, tra
il cirollo delle fedi tradizionali (due figure cosi diverse quali la
aristocratica svedese Harriet Lòwenhjelm e il « proletario »
norvegese Arnulf 0verland ne sono eloquente testimonianza);
ora come rinnovata attualità dei due grandi dell’Ottocento,
Grundtvig (nei romanzi di Pontoppidan) e Kierkegaard (nei
romanzi del reazionario moralista J. Knudsen2), ma non sol­

1 Diceva Hj. Christensen dei giovani scrittori norvegesi affermatisi alla


fine del secolo (Unge nordmeend, cit. p. 116): «D e minder lidt om
prassten og lidt om den processyge bonden ».
2 Più predicatore che artista; formatosi neirambito della « Università po­
polare » danese e autore di crudi romanzi a tesi (Den gamie prassi,
1899; Sind - Temperamento, 1903) ostili a ogni forma di liberalismo e di
umanesimo in nome del paradossale dogmatismo veterotestamentario e
kierkegaardiano, che agli occhi di Dio giustifica perfino il delitto.
Tendenze letterarie del Novecento 309

tanto in questi ora, finalmente, come più o meno adogmatico


misticismo di fondo popolare (Paludan, Christiansen, Fangen,
Hansen) o anche come formale ritorno alla chiesa romana
(S. Undset, S. Stolpe).

HARRIET LÒ W EN H JELM

Basta aprire la breve raccolta delle liriche di Harriet Lo-


wenhjelm1 o fermar l’occhio sulle sue illustrazioni, che di
volta in volta le commentano o ne sono commentate, per
sentirsi presi dal repentino fascino d’una singolare individua­
lità d’artista.
Quadretti di genere abbozzati in punta di penna con tocco
ironico e aggraziato insieme, che vuole sfuggire a ogni im­
pegno sconfinando nell’arabesco; capricciose fantasie di rime
e di vocaboli esotici italiani francesi inglesi e tedeschi ( Cac­
cia preistorica; Bel-Marduk); una sottile vena satirico-carica­
turale in cui traspare l ’ambivalente sorriso di un Daumier
e di uno Heine e più ancora dell’heiniano Froding (Madame
è molto fine...; Madame è morta...; Ora il barone è andato...;
Monsieur de Brie...); un distaccato ed elegante gioco intel­
lettuale che passa dall’illustrazione patetico-scherzosa (come
quella dei defunti sovrani europei, dalla regina Vittoria a
Francesco Giuseppe e a Guglielmo I, che in prima fila su una
nuvola contemplano la scena del mondo con l’accorato rim­
pianto del tempo che fu; o come quell’altra d’un frettoloso
Gesù Cristo che va al martirio tirandosi sotto braccio il tar­
digrado Cefa, tra le gore d’un primaverile paesaggio boreale)
alla pietistica confessione religiosa di timbro e di fattura
ritmica del più puro Froding (Miserere; Se il cammino della
vita...).
Questa la prima impressione. Ma basta già a farci intra­
vedere, nell’aristocratica signorina che visse raccolta nell’in­
timità della famiglia e dei suoi studi, una tipica figura di
finesecolo: intimista e cosmopolita a un tempo, raffinata e
ingenua, sentimentalmente ironica e pietisticamente religiosa,
tormentata dal dissidio tra scienza e fede che caratterizzò ap­
punto quegli anni e che vide accendersi nel Nord le batta­
glie teologiche fra Brandes e i seguaci di Kierkegaard, fra
Lidfors e Sbderblom.

1 Uscita postuma: Dikter med dem tillhorande teckningar - Poesie con


annesse illustrazioni, 1919, 1927, 1941.
310 Le letterature della Scandinavia

I molti suoi diari ci permettono di conoscere e l’impegno


intellettuale e gli studi e le letture e la sete ardente di bel­
lezza e di vita che l’accompagnò nei viaggi in India in Inghil­
terra in Germania e in Francia come nei lunghi soggiorni
entro le mura dei sanatori scandinavi, dove prematuramente
si spense a trentun’anni nel 1918. Ma bastano le liriche pub­
blicate a testimoniare d’una vocazione poetica nativa e genuina.
Non c’è posa o maniera in quel suo fermo, quasi virile
guardare alla sofferenza senza illusioni e senza speranze, in
quell’ironizzare e celiare senza sarcasmo, in quel suo luterano
scoprire « la presenza operante del Diavolo » nell’anima d’ogni
peccatore. Sia che faccia la caricatura del sangue blu met­
tendone a nudo l’umano, sin troppo umano volto sotto il
velo dei falsi cerimoniali e delle etichette imbalsamate, sia
che heinianamente satireggi il « filisteo della cultura » con­
tento di sé e della sua scienza, ma chiuso all’intimo senso
della vita (Fahrenheit non indica...; Quaranta verghe...) sia
che confessi la sua solitudine (Tallyho, tallyho...) in mezzo
alla schiera degli insensibili, degli indifferenti e dei farisei:
la sua poesia non perde mai quell’impronta di naturalezza
e di semplicità, quasi di schiva umiltà che ne costituisce
la più segreta forza.
Non è che una giovinetta che in questi versi ci parla, ma
la sua voce ha una tale fermezza e misura da sembrare quella
d’un artista maturo ed esperto, consapevole di una felicità cer­
cata e mai raggiunta, d’una vita anelata e mai vissuta, d’un
chimerico amore intravisto e sognato solo in incipriati duetti
o in burleschi travestimenti, mai prorompente in liberi gridi
di passione. Se il suo pessimismo muove da quella che è la
premessa di ogni religione: la coscienza cioè della precarietà
e della sofferenza umana, non ha in sé nulla di compiaciuto
o di programmatico. È un pessimismo anzi tenacemente con­
trastato con le armi dell’ironia e col richiamo continuo alla
bellezza della natura, al miracolo della vita. E con la spon­
taneità d’una forza di natura nasce qui la poesia in strutture
metriche comuni, tradizionali, ma con un ritmo marcato e
personalissimo che fa pensare a rumor d’acqua nuova in alvei
antichi:
God bless you gamie quseru- God bless you vecchio querulo,
\lant,
det ar min sjàl en smul ej sant non è poi proprio vero
att du ar fóror'àttad. che ti hanno fatto un’ingiustizia!
Tendenze letterarie del Novecento 311

Se luften àr av fàglar full Guarda: il cielo è pieno d’uc-


[celli,
och gronska spirar strax ur muli, e la terra germoglia verde,
rìàr tjàlen gàtt ur marken. appena s’è sciolta la neve.
oppure:
O jord som stiger tvagen 0 terra che emergi detersa
ur glidande isars bad! da un bagno di guizzanti
[ghiacci.
Han kommer den stora dagen È venuto il giorno sublime
om vilken siaren kvad. cantato dal profeta.

Du som ruvade skum och dun- Tu che covavi tetra e scura


[kel sul guanciale della notte,
med natten som huvudgàrd, laggiù ad oriente è spuntato un
làngt sòderut star en karfunkel, [rubino,
rund, rod och forundransvàrd. rotondo rosso e meraviglioso.

Tràd ut och skàda ditt rike, Lèvati e contempla il tuo regno,


àitt arv i besittning tag, prendi possesso del tuo retaggio,
och blive till gudars like e diventino simili a dei
de bàvande tràlar en dag. 1 pavidi servi, un giorno.

o ancora:
Skàda, skàda hur det vàras. Guarda, guarda la primavera.
Snòn har smultit, se och màrk. Sciolta è la neve, guarda attento.
Àn en gang skall vi bedàras Ancora una volta ecco ci incanta
av det gamia underverk. l'antico miracolo.

Questa inappagata ricerca di bellezza non caduca e di


vita incontaminata, di valori assoluti insomma con cui misu­
rare la realtà, accomuna la Lòwenhjelm alle tante altre anime
romantiche, profondamente travagliate dalla scepsi moderna
e celanti l'intimo tormento sotto la maschera elusiva del-
l’ironia.
Om vàgen till livet àr rak eller Se il cammino della vita sia
[ krokot, [dritto o tortuoso,
det vete Herran allena som styr. lo sa solo il Signore che ci go­
verna.
Det, som om sóndagen tycks Ciò che domenica sembrava
[mig sà tokot [follia
syns mig helt klokt, ren nàr sembra saggezza allo spuntare
[màndagen gryr [del lunedi
Ty si, att manniskohjàrtat àr, Perché ecco: che il cuore uma-
[ brokot, [no è un guazzabuglio
312 Le letterature della Scandinavia

det har jag làrt tnig for var dag, L’ho appreso ogni giorno che
[som flyr. [fugge.
Ynkligt det slutar och sjaskigt Misera è la fine e turpe e ver-
[och snópligt, [gognosa,
pà vilka vagar jag an mànde gà. qualunque sia il mio cammino.

Il tono il ritmo, le cadenze e le assonanze, il gusto di


certe rime arcaiche in cui balenano reminiscenze secentesche
e la smorfia clownesca: tutto fa pensare alla poesia di fine-
secolo; a Karlfeldt e in particolare a Fròding; al quale la
Lowenhjelm è assai vicina per affinità poetiche e religiose.
L ’educazione pietistica, il crollo dell’energie fisiche e la pro­
fonda sensibilità e pietà parvero a tratti orientarla sul cam­
mino della religione tradizionale; e v’è infatti tutto un
gruppo di poesie che per l’intonazione e per il ritmo sem­
brano vere e proprie preghiere (La terra è piena...; O Dio
che hai creato...; Vorrei dare; La mia anima è senza pace).
Ma preghiere senza abbandono filiale e senza fidenti invoca­
zioni; piene di un’amara straziante angoscia che s’incide nel­
l’anima del lettore come l’acquafòrte nei disegni che le accom­
pagnano. Anche quando pateticamente implora il Figlio di
Dio con parole del Vangelo giovanneo, la poesia vibra più
di muliebre pietà, di accorato appello di simile a simile, che
di mistico abbandono della creatura al suo Creatore:

Vart dina blickar ma falla, Dovunque si posi il tuo sguardo,


mòter du lógn och dumhet och trovi menzogna bassezza e
[han, [scherno,
stackars Guds son, povero figlio di Dio,
stackars Guds enfòdde, blodan- povero unico trafitto figlio di
[de son [Dio.
Kom Guds son, och hj'àlp oss Vieni figlio di Dio e aiutaci lo
[andai [stesso!
Hj'àlp oss, ty du àr den ende! Aiutaci, che tu solo puoi!
Sàg, vart skulle vi anhars gà, Dimmi, dove andremmo altri­
menti
gà med vàrt bittra elànde? con la nostra amara miseria?

Quanto in realtà la Lowenhjelm senta la solitudine spi­


rituale dell’uomo moderno, sempre più estraneo alla malia
dei miti tradizionali, mostrano certe brevi liriche di grande
potenza evocativa e di forme scarne quasi povere (Qui si
cammina in silenzio...; Avvento, avvento!; Stanca da mo­
rire). Chiusa nel cerchio della realtà, della sua realtà, vi si
affisa coraggiosamente: non tenta neppure di penetrare le te­
Tendenze letterarie del Novecento 313

nebre, non assume stoiche pose, non si abbandona a mistiche


ebbrezze di annientamento o a vane ribellioni; fino all’ulti-
mo la sua voce piana e sommessa, appena incrinata da un
sorriso, continua a parlarci dell’antica inveterata pena del­
l’uomo, assetato di assolutezza e infinitamente fragile ed effi­
mero. Ora l’eco d’un celebre verso di Bellman fa da « ouver­
ture » a un dramma di compressa disperazione:
Hàr gàr man tyst, och tyst pà Qui si cammina in silenzio e in
{dòrr’n man glàntar. [silenzio si socchiude la porta.
Dàruntanfdr star vinterns vita Fuori è la bianca nebbia inver­
[dimma. nale.
1 detta sjukrum, timma efter In questa stanza da malato,
[tìmma, [d’ora in ora,
den som mig kàrast àr pà jor- colei che più amo al mondo, at­
[den, vantar. tende.
Jag vet} i saVn dàrute nàgon Lo so nella sala là fuori qual-
[sitter, [cuno attende,
han bidar ocksà} blek och mork attende anche lui pallido scuro
[och stills am.t [e silente.
Jag kànner dig, fastàn din Io ti conosco, benché inganne­
[dràkt àr villsaìn, vole sia la tua veste,
men namnet ditt jag icke nani- ma il tuo nome non oso pro-
[na gitter. [nunciarlo.
H ór uret knàpper i densamma Ascolta: l’orologio batte gli stes-
[takten, [si colpi;
i vinterdimman finns det ingen nella nebbia invernale non c’è
[re va. [spiraglio.
Pà doden bidar den, som jag La morte attende colei che più
[har kàr. [amo.
ora la poesia, con suprema trasparenza e aderenza di forma,
traduce il sentimento dell’uomo che deve dir addio alla vita
e non ha che se stesso cui chiedere dove andrà e come affron­
terà «la triste storia della morte»:
Tag mig - H all mig. - Smek Prendimi, stringimi, carezzami
[mig sakta [adagio
Famna mig varligt en liten Abbracciami lievemente per un
[stund. [attimo.
Gràt ett grand - for sa trista Versa una lacrima - su questa
[fakta. [triste storia.
Se mig med òmhet so va en Guardami pietosamente mentre
[blund. [velo l’occhio.

1 natt skall jag do - det flàmtar Stanotte morrò - una fiamma


[en làga. [palpita.
314 Le letterature della Scandinavia

Det sitter en van och hàller min Un amico mi siede accanto e mi


[han d. [tiene la mano.
I natt skall jag do - Vem, vem Stanotte morrò - a chi, a chi
[skall jag fraga, [chiedere,
vart jag skall resa - till vilket per dove partirò - per quale
[land? [contrada?
I natt skall jag dò. - Och hur Stanotte morrò - e come oserò
[skall jag vaga? [morire?
I morgon finns det en òmkan-
[svard Domani ci sarà un misero
och hittert hjàlplós stackars
[kropp, povero corpo, tristemente inerte,
som hares ut pà sin sista fard portato via per Fultimo viaggio
att slukas av jorden opp. per essere inghiottito dalla terra.

ora par di toccare il fondo dello scoramento in immagini ed


espressioni quotidiane, semplici, sbiadite quasi, dalle quali
però traluce una forza originaria che le fa sembrare create
per la prima volta:
Natten star grà utanfor m itt Grigia è la notte fuori della mia
[fónster [finestra
och bak fjarran fuktiga skogar e oltre lontani umidi boschi rim-
[rasslar ett tàg. [bomba un treno.
Vad det àr gràsligt trist att leva. Com’è orribilmente triste vivere!

Varia lo spunto, la temperatura emotiva, la situazione,


ma è sempre la medesima voce che ci parla, piana e som­
messa, appena incrinata da un timido sorriso.

ARNULF 0VERLAND

Scorrendo la sua prima lirica, un lettore italiano sarebbe


facilmente tentato di definirlo un crepuscolare, uno spirito
affine al Gozzano dei Colloqui e al Serra delYEsame di co­
scienza, per il decadente scetticismo, l’autoironia e l’autocri-
tica, per il linguaggio umile quasi quotidiano, cosi remoto
dalla sublime retorica del secondo Ottocento; e il riavvi­
cinamento, benché ih ambiente e tradizione letteraria cosi
diversi dalla nostra, può forse avere il suo valore orien­
tativo almeno in rapporto a una tonalità essenziale della poe­
sia di 0verland.
Il quale è in tutto figlio del nostro tempo, maturato
nelPepoca dei bestiali superomismi e immoralismi pseudo­
eroici, che in due guerre hanno fatto scempio d’ogni valore
Tendenze letterarie del Novecento ili
tradizionale; angosciato anche lui dalle tentazioni del più de­
serto nichilismo, eppure — malgrado l’ostentata polemica an­
tireligiosa — troppo vero poeta per non aprirsi all’arcano
dell’universo e a quei sentimenti primordiali che, secondo
l’amaro sarcasmo dell’Anticristo nietzschiano, nascono dalla
paura del dolore.
L’accento delle prime liriche è realistico, il linguaggio par­
lato e conversato, fortissima la volontà di concentrazione
lirica, ma il verso con i suoi impasti sonori, con le sue trame
contrappuntistiche, con le sue stanche inflessioni è di schietta
impronta decadente:

Nur er det sent, du kjàre. Ora è tardi, mia cara.


La mig bare en gang fa kysse Lascia ancora una volta ch’io
[ditt hàr [baci i tuoi capelli
fór du gàr. prima d’andartene.
Sà far det veere forbi Poi tutto sarà finito
Sà far det vaere. Sarà finito.
(Den siste natt) (L'ultima notte)

oppure:

ett àr er gàtt, Beate, Un anno è trascorso, Beata,


det vet du ikke av. ma tu non puoi saperlo.
Der gikk en sollos sommer hen. Senza sole è svanita un'estate.
Beate det er host igjen. Beata, un’altra volta è autunno.
Her stàr jeg ved din grav. Son qui presso la tua tomba.
(Et àr er gatt) (Un anno è trascorso)

o ancora con un tono e un motivo del più tipico Gozzano:

Jeg husker hver den elskovsti, Ricordo ogni sentiero,


som jeg har aldri tràdt mai calpestato
som om det hele var forbi, come se tutto fosse finito
slik er det gàtt. così è stato.
Forspilt har jeg hver kostbar Perduto ho ogni attimo prezioso,
\_stund,
hvert dyrt sekund ogni caro secondo
som kom og svantl apparso e fuggito!
Hvert nytendt blikk, Ogni sguardo ardente»
hvert smil jeg fikk, ogni sorriso,
fres bort og svant. sfiori e disparve.
(Hunger) (Fame)
316 Le letterature della Scandinavia

I motivi fondamentali dì questa prima lirica son tutti


qui: e son quelli comuni al decadentismo europeo. Par d'ascol­
tare Famaro soliloquio d’uno spirito disincantato, cui la to­
tale mancanza di fede in ogni forma di vita non ha però
tolto la volontà di guardare coraggiosamente, a questa sua
intima persuasione. Immagini di nudo disinganno, di cupo
rimpianto, di vita perennemente frustrata (Angoscia; Un ca­
priccio; Canti conviviali) si alternano a una raffigurazione
pietosa e ironica insieme di umili esistenze (Un topo; Un pas­
sero; Una canzone su Caterina; Pietro e Paolo), che illustrano
tutte Fantico motivo biblico della « vanitas vanitatum ».
Gli ideali del secolo precedente, le « sicure venerabili tra­
dizioni » sono tramontate: religione patria gloria amore fa­
miglia; tutto sembra vanificato. Il libro della vita è già letto
e chiuso a ventanni.
È un atteggiamento spirituale conclusivo inevolubile, co­
mune a tanti scrittori decadenti, un chiuso cerchio di squal­
lida inerzia contemplativa, dal quale i più hanno tentato
di evadere gettandosi in braccio a una fede religiosa o po­
litica. Anche Overland vede la possibilità di evasione solo
nell’accettazione volontaria dell’ora solènne, del sacrificio, an­
che lui invoca un ideale per cui combattere, « una stella cui
fissar lo sguardo prima di naufragare » (Segnale); e la rea­
zione all’egoistica autocontemplazione, alla saturazione cultu­
rale, è venuta per lui nella forma di un’adesione, anzi di
una conversione religiosa, al credo comunista.
Conversione religiosa professata e difesa — come le tante
altre analoghe remote e recenti — con le armi della più vee­
mente polemica anticristiana anticlericale e « antiborghese »
(Davanti al Crocifisso; Il figlio; Il regno è tuo; Bandiera in­
contaminata) e del tradizionale frasario materialistico tanto
più massiccio quanto più ingenuo (Devi combattere; Il Mae­
stro e i discepoli); ma sempre, a differenza delle altre, sorve­
gliata e guidata dalla sua primiera ispirazione. Se 0verland
inneggia alla rivoluzione d’ottobre (Russia, 1927) alla ban­
diera rossa e alla nuova civiltà fondata sul lavoro (La ban­
diera rossa), se scaglia le sue invettive contro il « mito cri­
stiano della redenzione », cui contrappone l’oscuro sacrificio
dei caduti per la causa operaia, ricalcando la baldanzosa reto­
rica di Eugène Pottier, non son di oggi i suoi sarcasmi sullo
« spirito di rivolta tutelato dal brevetto » (Segnale di marcia)
e sull’infallibilità del « pensare dialetticamente », sulla « dit­
tatura vinta in un paese e vittoriosa in un altro » (La gioventù
Tendenze letterarie del Novecento 317

europea); se sente tutta la vergogna della pietà inattiva per


gli sfruttati e gli oppressi (Il fonditore di bottoni) è ben
lungi dal facile ottimismo dei riformatori del mondo (Una
poesia sulla morte; Stelle cadenti): il suo rivoluzionarismo
è in verità molto più vicino a Ibsen, e al Nietzsche delle
Inattuali che alla dottrina di Marx *.
Ma non interessa qui tanto rilevare le interne contraddi­
zioni o le oscillazioni del pensiero di 0verland, quanto no­
tare che questo orientamento politico ha aperto nuovi oriz­
zonti alla sua poesia (molto meno efficaci sono al paragone
i suoi drammi, e i suoi racconti). La quale, liberata d’ogni
retorica egocentricità e d’ogni molle abbandono, affronta in
pieno il problema della fatalità del male e del dolore con impa­
vida volontà di scandaglio. Il grido di rivolta contro l’ordine
cosmico, l’esasperato satanismo — non sempre immune da pose
teatrali — si risolvono così in un sentimento di commossa ca­
rità universale, di insonne pietà, che trae la sua recondita ispi­
razione, malgrado ogni programmatico anticristianesimo, pro­
prio dall’intuizione cristiana della vita (Sopravviviamo a tutto,
1945; Ritorno alla vita, 1946). Non si tratta certo d’un punto
d’arrivo definitivo, e tanto meno d’un comodo passaggio da
una confessione a un’altra, da un dogmatismo a un altro. Over­
land è ben lontano dai quieti lidi dell’idillio cui sogliono ap­
prodare i troppo corrivi titanidi, come lontano è dall’illumi­
nistico concetto di progresso e perfettibilità (La casa delle
stelle). Tolta la maschera, l’uomo gli appare ancora nelle fat­
tezze fratricide del biblico Caino:
O menneske, allmektig, O uomo onnipotente,
allvidende er du! onnisciente sei!
Kun for ditt eget ansikt Solo innanzi al tuo viso
blev du betatt av gru. t’ha colto il terrore.
Allvidende, allmektig, Onnisciente, onnipotente,
lyder du dog den lov sei però schiavo d’una legge:
at du skal sia din nabo uccidere il tuo vicino
og nsere dig vid rov. e nutrirti di preda.
(Opbrudd) (Segnale di marcia)

1 Nel 1938 abbandonò il comuniSmo militante in connessione con i pro­


cessi di Mosca. Tornato dopo la guerra dal campo di concentramento,
non ha però cessato di polemizzare contro lo spirito « borghese » e ha
spezzato più d’una lancia contro l’ermetismo lirico, la psicanalsi e il bi­
linguismo norvegese (v. la raccolta di saggi: I beundring og forargelse
- Con ammirazione e scandalo, 1954).
318 Le letterature della Scandinavia

e si badi bene: l’uomo; non solo il nemico delPaltra sponda,


come a sufficienza dimostrano anche le liriche clandestine nella
prigione di Mollergaten e poi nel campo di Sachsenhausen
(Non dormire!) — che per altezza morale e potenza rappre­
sentativa possono stare accanto a Achtung Europa! di Tho­
mas Mann, di pochi anni precedente: Lupo in gabbia; Mezza­
notte; La baracca della dissenteria n. 5 — dove una sorta
di brutale contrappasso che Pumana ferocia applica, inver­
tendolo, alla fratellanza cristiana, dà rilievo poetico monu­
mentale alle più angosciose scene di sfacelo e di putredine.
Da questa chiaroveggente sfiducia nascono i suoi migliori
versi, i versi che resteranno (nelle raccolte: Vane e Vino;
Le Tavole della Legge, 1929; Io ti scongiuro, 1934); da que­
sta passione, esperta del crepuscolo di molti, di troppi idoli,
nasce la sua più alta lirica, nuda e solenne insieme nella
sua interna misura, lineare ed epigrammatica ma sempre
al di qua d’ogni freddezza parnassiana e d’ogni « blague »
ermetica; la sua parola disadorna eppur ardente di com­
presso fuoco:
Ver er dyrere ting enn ditt liv. Du skal kjeempe for det!
Men du skal ikke trampe pà den som er sunket i kne.
Du skal ikke domme den som er sunket i slam!
Du skal si til ditt hjerte: Denne gang var det ham.
Og sa kan du boje ditt hode i sorg og skam l.
oppure:
Der er en lykke i livet C’è una gioia nella vita
som ikke vendes til lede. che mai si converte in tedio:
Det at du gleder en annen dar gioia al tuo simile
det er den eneste glede. è Punica gioia.
Der er en sorg i verden C’è un dolore nel mondo
som ingen tàrer kan lette. che niuna lacrima può lenire.
Den at det var forsent Aprir gli occhi troppo tardi
da du skjonte dette. su questa verità.
Ingen kan resten av tiden Nessuno può tutta la vita
sta ved en en grav og klage. gemere presso una tomba.
Dognet har mange timer Ogni dì ha le sue ore
àret har mange dage. ogni anno i suoi giorni.
(En hustavle) (Una tavola della Legge)

1 Ci son cose più care della tua vita. Per queste devi combattere! / Ma
non devi calpestare chi è caduto in ginocchio. / Non devi condannare
chi è caduto nel fango! / D i’ al tuo cuore: Questa volta è toccato a
lui. / E piega il capo nel lutto e nella vergogna. {La legge).
Tendenze letterarie del Novecento m
Il decadente negatore e l’autosufficiente rivoluzionano
sono qui entrambi superati in un’intuizione schiettamente
poetica, che anzitutto è percezione del misterioso e dell’ineffa­
bile della nostra vita:
Kunde du favne Se anche potessi serrare sul petto
sterk og om con forza e tenerezza
hvert levende kre og gi tingene ogni vivente essere e dar nome
[navne, [alle cose,
vilde du erida sta som en blind, sempre saresti come un cieco,
du ville savne non troveresti
ord for det selsomme liv i ditt parola all’arcana vita del tuo
[sinn. [spirito.
(Julinatt i byen) {Notte di luglio in città)

E in questo senso la poesia di 0verland non ha avuto


sviluppi nuovi né per contenuto né per forma, mostrando anzi
nelle ultime raccolte (Il pescatore e la sua anima, 1950; La
spada dietro la porta, 1956; Sul monte di Nabu, 1962) una
tendenza a ritornare senza approfondimento su temi già
trattati.
Il pathos sociale e lo slancio morale di 0verland è stato
un fermento vivo fra poeti più giovani, dei quali Tor Jonsson
prematuramente scomparso, a buon diritto può essere consi­
derato significativo rappresentante. Vissuto in un ambiente
poverissimo del Gudbrandsdal, vi è rimasto idealmente fedele,
concentrandosi tutto senza proteste programmatiche né pose
rivoluzionarie, a esprimere i sentimenti elementari di mise­
ria, di solitudine, di pena, di ricerca d’una fratellanza umana.
L’ispirazione in fondo religiosa sempre umile e sommessa dei
suoi versi in nynorsk lo porta spesso, come già 0verland, a
servirsi dell’ironia per dar maggior rilievo all’intimo tormento:
p. es. in « Andakt i einsemda » (della raccolta postuma ]arn-
netter, 1948): « Kvifor, Gud har du gàtt ifrà meg? / I kyrkja
kan ingen nà deg. / / Der Gud er i ordom er einsemda
naer. / Du er ikkje der disse prestar er / / Kva kyrkjekor
er sà tung og trong. / Du er berre der du var fodd ein
gong. / / Alle prestar trur du er naer. / Eg har ikkje Gud
og spor kvar du er. / / E g spor i mitt kveldskrik: Kvi gjekk
du bort... / / Sume vii ha ein gud av tre, / andre ein gud til
à prate med. / / Sume vii ha ein gud av ord, / andre ein gud
til si odelsjord. / / Sume seier du er alt, / i stjerner og dyr,
og dove salt. / / E g veit ikkje meir enn at gode menn / har
sagt du var sedd i denne grend ». (Perché Dio mi hai abban­
320 Le letterature della Scandinavia

donato? In chiesa nessuno può avvicinarsi fino a te; là dove


Dio è nella parola, li è la solitudine. Tu non sei dove sono
questi preti. Ogni chiesa è troppo angusta e soffocante. Tu sei
soltanto li dove una volta nascesti. Tutti i preti ti credono
vicino. Io non ho Dio, e chiedo dove sei. Chiedo nella not­
turna invocazione: perché sei andato via...? — Alcuni voglio­
no un Dio di legno, altri un Dio con cui parlare, alcuni vo­
gliono un dio di parole, altri un dio che protegga la loro terra.
Alcuni dicono che tu sei dappertutto, nelle stelle e negli ani­
mali e nel sale ammuffito. Io so soltanto che chi è buono ha
detto di averti visto in questo vicolo); ma la confessione è, qui
come altrove, malgrado il senso di sgomento, contenuta, quasi
nascosta in parole semplici, in toni umili e popolareschi, accen­
tuati dalla regolarità dei versi e della rima. Lontano dal sen­
timentalismo e dalle astruserie Tor Jonsson è stato forse il
più umano dei giovani lirici norvegesi, di un’umanità piena
e schietta, intensa e fiera.

Sulla stessa linea della Lowenhjelm e di 0verland, cioè


dell’innovazione che non implica ideale rottura con la tradi­
zione, stanno molti altri lirici nordici, fra i quali ne menzio­
niamo solo due, rappresentativi di opposte tendenze: il nor­
vegese Olaf Bull e lo svedese A. Osterling.
Nato a Oslo, Bull condusse a Roma e a Parigi, come gior­
nalista [Posteri; Dagbladet, 1907-08) un’esistenza di volon­
tario esule senza casa e senza patria, conclusasi nel breve
giro di 49 anni. Alla sua morte non lasciava che dieci pic­
cole raccolte di liriche, alcune delle quali fra le più significa­
tive dell’odierna poesia norvegese. Estraneo ai più vivi pro­
blemi politici (la vittoriosa affermazione d’una sinistra radicale,
culminante nel 1905, dopo un secolo di attriti e di minac­
ciose polemiche, nello scioglimento dell’unione personale della
Norvegia con la Svezia) come agli sconvolgimenti sociali se­
guiti alla prima guerra mondiale (qualche tributo di circo­
stanza al nuovo Stato si trova nelle raccolte: De hundrede àr -
I cento anni, 1927 e Oslohus - Case di Oslo, 1931), Bull ci
appare tutto ripiegato su se stesso in un perenne sforzo di
introspezione che trae dalla stessa fissità il suo tono profonda­
mente intenso, quasi estatico. L’immagine che di lui ricaviamo
dai pochi saggi narrativi, dagli articoli di giornale, dall’episto­
lario è quella d’uno spirito profondamente scisso fra la vita e
l’arte, tormentato da tragiche contraddizioni sentimentali e
razionali (la sua cantata Ignis ardens per l’università di Oslo
Tendenze letterarie del Novecento 321

del 1929 è tutta intessuta di motivi relativistici e intuizioni­


stici bergsoniani, predominante quello della coscienza intesa
come moto perenne fra il passato e l’avvenire).
Sognò una poesia che fosse insieme concreta visione della
realtà e conoscenza intellettuale, intuizione e osservazione e
in cui la parola, anche nell’estrema concitazione, serbasse i
sui>i saldi contorni. Di qui un certo sforzo espressivo che si
avverte, malgrado il variare delle immagini e dei ritmi, di
strofe in strofe, di eco in eco: segno costante d’un irrisolto
dualismo psicologico (vedi soprattutto alcune liriche come Va-
ren, Pilestrsedet, Gobelin, Til ordene, Paul Gauguin). L’on­
deggiare dei sentimenti nel loro nascere e perire, il tempo
dell’anima che si distende sulle cose e se ne ritrae con ansia
e struggimento, perché incapace di penetrarle e di arrestarne
l’inesorabile caducità, s’accampa al centro della sua lirica
{Stjernene - Le stelle, 1924; Metope, 1927; Oinos og Eros,
1930), che spicca fra quella d’ispirazione simbolistica per scat­
tante forza di rilievo plastico e per fermezza architettonica.
Forse ciò che oggi più chiaramente affiora in Bull è l ’in-
congruenza fra l’ispirazione a vivere una realtà non effimera
aldiquà della poesia e la consapevolezza di non poterla attin­
gere se non nell’illusione dell’arte. Contrasto questo che ha
lasciato tracce profonde nella sua lirica.
Poeta, critico e umanista di larghi interessi intellettuali
Anders Ósterling è passato, dopo l’obbligatorio esordio nel
gusto decadente di finesecolo (Preludier, 1904; Offerkransar -
Corone votive, 1905), a un genere di poesia idilliaca che molto
risente dell’influsso della lirica laghista, soprattutto di Words­
worth (Idyllernas bok - Il libro degli idilli, 1917; Tonen fràn
havet - La voce del mare, 1933; Vàrens lòv och hostens - Fo­
glie di primavera e d’autunno, 1955). Scene di vita popolare,
figure, quadretti e paesaggi freschi e semplici acquistano nei
suoi versi un sapore di naturalezza e d’intimità convincente.
La parola precisa e chiara, ferma e salda, il verso che non cono­
sce i colpi d’ala ma neppure le convenzionali leziosaggini, man­
tiene il suo idillio, appena venato di nostalgia e d’ironia, entro
i limiti del piccolo ma schietto capolavoro.
Anche nella critica militante, esercitata per anni sulla stam­
pa e in raccolte di saggi con inconsueta larghezza di orizzonti
e ricchezza di contributi (Dagens gaming, 1921-1926-1931)
Ósterling è stato una delle più vigili e colte guide intellettuali
dell’ultimo cinquantennio. Ha collaborato certo a sprovincia­
lizzare l’ambiente svedese e nordico in generale, facendo

XXVII - 13. Lett, della Scandinavia.


322 Le letterature della Scandinavia

conoscere anche in traduzioni (Frànder och fràmlingar - Affini


e stranieri, 1912-1937; Nya tolkningar - Nuove interpreta­
zioni, 1952) e in antologie (ultima: En bukett italiensk lyrik ,
1954) moltissimi poeti e scrittori stranieri, interpretandoli
sempre alla luce d’un realistico buon senso e forse d’un ecces­
sivo decoro accademico: da Wordsworth a Maupassant, da
Shelley a Valéry, da Papini a Pascoli e a Carducci, da Lawrence
a Tozzi e a Panzini, da Pirandello a Saba.
Non vanno però dimenticate in quest’ampia opera di orien­
tamento e di esplorazione culturale, che talvolta risente del­
l’influsso del Taine, insieme alla franchezza e all’acume dèi
giudizi (p. es. l’artificiosità degli aforismi di Ekelund simili
a « fiori di serra »; la poesia di Valéry di cui buona parte fa
pensare a « ingegnose pagode di parole che, per non dissol­
versi nel nulla, vanno conservate sotto campane di vetro »;
lo schietto desiderio di sanità in Baudelaire, falso invece nei
suoi epigoni; il rifiuto di accettare la poesia ermetica sve­
dese: « l’indirizzo dell’ultima moda che vuole trasformare la
poesia in una sterile caccia alle associazioni d’idee e alle sfilze
di parole in libertà ») — anche certe inspiegabili e non mar­
ginali incomprensioni, p. es. di Manzoni, tenuto inferiore a
W . Scott! (nella pref. a Italienska beràttare fràn Boccaccio
till Moravia, 1952), dell’ideale ascetico di Francesco d’Assisi
« vero sport metodico, gara di resistenza con premi sicuri »
(Dagens gàrning, 1926, pp. 67-81); nonché la palese sopravva­
lutazione d’uno scrittore come Tozzi e, malgrado alcune ri­
serve — del pensiero e dello stile di Freud (Dagens gàrning,
1927-31, pp. 238-246).

Come al centro (si pensi a Breton e a Ungaretti) anche


qui, alla periferia d’Europa è la prima grande guerra a se­
gnare il punto di partenza dei nuovi avviamenti poetici, anzi­
tutto nella Finlandia svedese, pili direttamente legata agli
eventi bellici, e quindi più aperta ai richiami di diverse civiltà.
La tragedia bellica sembrava aver dato nuova dimen­
sione ai valori umani; e le giovani generazioni nate sotto il
segno della crisi e del caos si trovavano a dover fare i conti
col fallimento d’una intera civiltà. Si comprende perciò il
facile ripudio degli dei falsi e bugiardi del passato e la corre­
lativa esaltazione dei profeti inascoltati (o fraintesi): anzi­
tutto Nietzsche, Schopenhauer e Kierkegaard. A ll’assurda tra­
gedia della guerra con cui si chiudeva il secolo del progresso
Tendenze letterarie del Novecento 323

non si poteva reagire se non con la iconoclasta volontà di


ribellione a ogni autorità e con la ricerca del nuovo a tutti
i costi, magari tentando con Marinetti di distruggere « il
chiaro di luna » o con M. Duchamp di dipingere i baffi alla
leonardesca Gioconda. Ancora una volta l’arte fu cosi rituf­
fata nel flusso senza rive e senza fondo della vita; e ancor
una volta i nordici, più che ispirarsi alle proprie tradizioni
culturali (quanti si resero conto che Strindberg e Munch erano
stati i primi maestri degli espressionisti tedeschi?), guarda­
rono agli esempi stranieril.
L ’Espressionismo2, il Surrealismo e in genere tutti gli
esoterismi letterari fluenti e refluenti nella cultura del nostro
secolo hanno trovato nel Nord molti seguaci, tanto più entu­
siasti quanto forse meno ligi a una gloriosa e autonoma tra­
dizione nazionale. Se a Copenaghen le riviste di A. Salto,
Klingen (1917-21) e di P. Henningsen, Kritisk Revy (1926-29)
si fanno banditrici delle nuove mode figurative e letterarie,
a Stoccolma P. Lagerkvist, reduce da Parigi, mostra già nel­
l'opera prima: nella prosa critica di Ordkonst och bildkonst,
1913; nelle poesie in prosa di Motiv , 1914, nei paesaggi poe­
tici di Àngesty 1914, di voler affiancare allo Strindberg di
Dromspelet e dei Kammarspel, Apollinaire3 e Picasso; men­
tre poco dopo tutto un gruppo di letterati finnico-svedesi rac­
colti attorno ai periodici di Helsinki, Ultra (1922) e Quos-
ego (1928-29): E. Diktonius e E. Sòdergran, H. Olsson e
G. Bjòrling, si presenta come pattuglia avanzata a mediare
PEspressionismo tedesco, il Futurismo russo e la poesia ame­
ricana da Whitman a Lee Masters e a Pound4. Accanto alle
nuove esperienze di pensiero e d'arte, anzi quasi onnipre­
sente fermento di quelle, Freud viene ora direttamente tra­

1 G. Brandell, Svensk litteratur, 1900-1950, Stockholm, 1958, p. 194.


2 Sul carattere internazionale del fenomeno espressionista si veda L. Spit-
zer, Stilstudien, Munchen, 19612, p. 580 sgg.; e su Strindberg precur­
sore dell’Espressionismo drammatico: B. Diebold, Anarchie im Drama,
cit. passim; C. Dahlstrom, Strindberg's Dramatic Expressionism, Ann
Arbor, 1930, e soprattutto M. Gravier, Strindberg et le théàtre moderne,
Paris, 1949, I, pp. 85-165.
3 L’Apollinaire che nei Peintres cubistes (Paris, 1913, p. 8) aveva
discorso di Picasso, disintegratore e sintetizzatore della realtà, conosci­
tore dell’arte negra e dei « fauves », studioso dell’oggetto come un chi­
rurgo che seziona i cadaveri.
4 Nella prospettiva critica di Hagar Olsson (Ny generation, 1925) non
mancano né Joyce né Pirandello.
324 Le letterature della Scandinavia

dotto nelle lingue nordiche e introdotto1 quasi Messia d’una


esoreistica metafisica, redentore dei segreti mali dell’uomo mo­
derno prigioniero nella camicia di forza della civiltà. Nel 1929
l’antologia letteraria svedese dei Fem unga (Cinque giovani)
col suo clamoroso programma mezzo vitalista e mezzo futu­
rista è un ulteriore, seppur indiretto tributo al culto freu­
diano (i modelli sono qui Whitman e Sandburg, Lawrence
e Sherwood Anderson); e finalmente, con più di un decen­
nio di ritardo rispetto alla patria d’origine (nella rivista Ka-
ravan, 1934-35, soprattutto ad opera di Lundkvist e di
Ekelof, ma con la collaborazione anche di Breton e Éluard)
l’automatismo psichico del freudiano Breton fa il suo trionfale
ingresso nel Nord creandovi tutti i presupposti del più recente
sperimentalismo letterario e figurativo.
Sono questi anche gli anni della fortuna dell’« arte socia­
le » rumorosamente proclamata dal gruppo di Clarté nel ’24
in Svezia e nel ’26 in Danimarca e attuata forse con più coe­
renza d’impegno in Norvegia, dove primeggiavano i problemi
di cui quella doveva essere espressione, dopo la riconquistata
indipendenza politica nel 1905 2. Ma insieme questi anni di

1 II saggio introduttivo del pubblicista finnico-svedese G. Mattsson,


Libido sexualis sàsom andlig motor (in « Nya Argus », Helsingfors,
1911, specialmente p. 70 sgg.) non ebbe vasta risonanza. Solo dopo le
traduzioni del poeta e critico darwinista e freudiano O. Gelsted in
Danimarca (1920) e del filosofo J. Landquist in Svezia (1924-27),
che lo presentarono come continuatore di James e di Bergson,
Tinfluenza di Freud s’è fatta sempre più forte. Non è mancata
qualche riserva di A. Osterling, in Dagens gàrning, 1926-27 « Freud
som kulturlàkare ». Come antidoto alla enorme inflazione delP« incon­
scio » psicanalitico nella poesia moderna non è forse fuori luogo richia­
mare l’obiezione di principio d’un critico moderno non certo antifreu­
diano come W. Empson (The Structure of Complexe Words, London,
1952, p. 57): « I do not want to make any holy mystery out of the
subconscious mind; a man may think very badly in those regions; but
if he were not thinking there at alia he would not even engage in connec­
ted speech ». E senza timore d’essere tacciati d’estetismo si può ricordare
quanto E. Wilson ha scritto sul valore « artistico » dell’opera di poesia,
che resta tutto da esplorare anche dopo le più accurate indagini freudiane
e marxiste (The triple thinkers, London, 1952, p. 251).
2 Si pensi al profondo interesse etico e sociale di poeti critici e dram­
maturghi come Hoel, Krog, Overland che, almeno intorno al ’20 (qual­
cuno addirittura fino al ’38) credevano all’identità di democrazia e co­
muniSmo; e in Danimarca all’esempio di M. Andersen-Nexo e ai suoi
giovani seguaci più o meno marxisti e freudiani come Kirk, Becker e
Herdal. Malgrado tutto, le crudezze naturalistiche e freudiane di questi
romanzieri e poeti proletari non bastano a dissimulare la loro sensibilità
Tendenze letterarie del Novecento 325

disorientamento psicologico e intellettuale ci fanno assistere


alla coesistenza dei più eterogenei e antitetici fermenti di
pensiero in seno a quella generazione che doveva « inciam­
pare in partenza » l: dalla ricerca d’una fratellanza umana
aldilà delle menzogne « borghesi », all’esaltazione pansessua-
lista, dalla nichilistica scepsi all’ansia religiosa. Anche qui come
altrove gli scrittori vogliono con le loro opere polemicamente
contrapporsi, per il contenuto e per la forma, a quanti li
hanno preceduti. Vogliono anch’essi torcere il collo all’otto­
centesca eloquenza in nome d’una paradossale assoluta since­
rità, che ricorda da vicino quella altra volta proclamata dagli
Sturmer und Drànger tedeschi; vogliono una società nuova,
una fede nuova, una lingua nuova. In contrasto con la poe­
sia aulica e patetica dell’Ottocento cercano i toni intensi
diretti semplici, o per dirla con le parole del programma anti­
naturalista di Lagerkvist (Ordkonst och bildkonst) già prean-
nunciante la tematica religiosa e apocalittica di questo « cre­
dente ateo »: enkla tankar, osammansatta kànslor in for livets
eviga makter » 2, e, come modelli: il Vecchio Testamento, il
Rigveda, l’Avesta, il Corano, l’Edda e le Saghe.
La complessità e, diciamolo pure, la contraddittorietà delle
velleità polemiche e degli intenti artistici di tutta questa ge­
nerazione è già visibile in Lagerkvist, i cui primi scritti, pur
citando il Baudelaire dei Petits poèmes e Poe e Flaubert,
acquistano pieno significato solo alla luce della deformazione
anticlassica, per esempio delle Demoiselles d*Avignon pi-
cassiane, o se vogliamo risalire ancor più indietro, della rim-
baldiana Vénus anadyomène. Non meno disarmonico e in­
conciliabile è il conflitto dei sentimenti in molti pezzi di
Motiv per esempio in Nocturne, dove sono giustapposte
brutalità realistiche e patetiche invocazioni di giustizia e di

ancora largamente romantico-religiosa, risalente per lo più all’educazione


ricevuta nelle grundtvigiane « Università popolari » (v. S. Moller Kri-
stensen, Dansk litteratur 191&1950, Kobenhavn, 1951, p. 8).
1 II danese E. Frandsen (Àrgangen der matte snuble i starten, Koben­
havn, 1960, II, p. 50 sgg.) ha illustrato il dramma di questa genera­
zione, analizzando fra altri il romanzo Jorgen Stein, 1932-33 di J. Pa-
ludan. Il fenomeno analogo in Svezia, seppur con diversa prospettiva,
si può studiare negli articoli polemici di V. Svanberg — pubblicati l’an­
no 1925 in Clarté, e poi nel volume Poesi och politik, Stockholm, 1931
[e 1956; nei saggi critici del poeta religioso svedese E. Blomberg, e,
da ultimo, nei due studi di S. Stolpe, Tvà generationer, ivi, 1929 e
Livsdyrkare, ivi, 1931.
2 Idee semplici, sentimenti elementari di fronte all’eterne forze della vita.
326 Le letterature della Scandinavia

redenzione in puro stile biblico « M in bòn àr inga smekande


ord. Min bòn àr inga hògtlyftade hànder / M in bòn àr ett
vràl som dràglas ur min mun. »; oppure: « Stinn som en
havande kvinnas buk àr min sjàl av làngtan efter ràttfàrdighet,
o Herre »*; mentre altrove nelle poesie di Àngest e nei rac­
conti Jàrn och mànniskor (1914) l’angoscia della vita e il ter­
rore della morte, l’antitesi plastica e coloristica fra la rosea
morbidezza della carne umana e la grigia durezza delle lace­
ranti armi sembra una trasposizione letteraria di certi quadri
surrealistici raffiguranti la disintegrazione della vita mediante
l’osmosi dell'umano e del meccanico.

Nel solco aperto da Lagerkvist, ma formatasi su varie espe­


rienze europee2 e, come Rilke e D ’Annunzio scrivente in più
lingue, Edith Sòdergran mostra nella sua breve opera lirica
(Dikter - Poesie, 1916; Rosenaltaret - L’altare delle rose,
1919; Framtidens skugga - L’ombra dell’avvenire, 1920; Lan-
det som icke àr - La terra che non esiste, 1925) i segni pro­
fondi dell’estatico pathos di Nietzsche e di Munch, tutto
vitalismo e luminismo dionisiaco, e insieme quel gusto (non
meno nietzschiano) dell’ingenuità e dell’innocenza che l’autore
del Zarathustra, nell’immagine del bambino, pose al vertice
delle tre metamorfosi dello spirito.
Se per esprimere il senso drammatico delle cose il suo
stile punta sull’intensità parossistica, sulle rotture sintattiche,
sulle suggestioni fonetico-associative fondendo insieme solen­
nità ieratica e nudo candore, certi atteggiamenti antiletterari
e antipoetici derivati anche da Whitman e da Sandburg, certi
cinismi e certa sorridente disperazione che attraverso i Com­
pianti di Laforgue risalgono a Heine, ci possono ricordare la
« giocosa aridità larvata di chimere » di Gozzano e la sua
sintomatica ironizzazione intellettuale dell’arte contrapposta
alla vita3.
E a Gozzano anche fa pensare il poeta-musicista svedese
B. Sjòberg per il provincialismo Biedermeier delle Fridas vi-

1 « La mia preghiera non è parole carezzevoli. La mia preghiera non è


mani levate in alto. / La mia preghiera è un urlo della mia bocca sba­
vante »; « Pregna come il ventre di una donna gravida è la mia anima
per brama di giustizia, o Signore».
2 G. Tidestrom, Edith Sòdergran, Stockholm, 1949 e I960, pp. 25,
64, 94.
3 D i recente acutamente ridiscussa da E. Sanguined, Guido Gozzano,
Torino 1966, pp. 37, 117-118.
Tendenze letterarie del Novecento 327

sor (1922-29) volutamente goffe e prosaiche nel loro sistemà­


tico accostamento di pathos e ironia, di aulicità e banalità1
(dietro le quali si sente Bellman e Fròding), mentre le deli­
ranti visioni e confessioni ispirate al caos del dopoguerra in
cui naufraga ogni idillio residuo (Kriser och kransar - Crisi
e corone, 1926) segnano quella svolta storica della poesia
svedese verso la rottura fra arte e vita, verso l’assurdismo
surrealista, di cui Lagerkvist aveva dato i primi saggi2.
Ma Lagerkvist non era rimasto fermo a questi. Era stato
lui certo il nordico Battista di tutti i movimenti poetici d’avan­
guardia della seconda e della terza decade del secolo, eppure
l’angoscia apocalittica e il ripudio della enigmatica realtà in
favore del sogno non l’aveva fatto naufragare nelle secche del­
l’intellettualismo.
La sua non è un’opera apologetica proponente un nuovo
sistema filosofico, una dottrina morale nuova. Lagerkvist è,
come tutti sanno, soltanto un artista, uno spirito religioso che
all’uomo « immanente », illuso dell’onnipotenza scientifica e
tecnica vuol contrapporre l’uomo « trascendente » col suo
irrisolto enigma, con la sua solitudine e miseria e con la
sua sete di redenzione. Uno spirito insomma strettamente im­
parentato a Kierkegaard e a Pascal.
Se anche lui infatti muove sempre da premesse razionali
e naturali (giustamente una volta si autodefinì « un credente
ateo ») religiosa è poi sin dall’inizio la volontà di spiritualizzare
il fondo animale dell’uomo e di ricercare nell’inconcepibile,
nell’arcano, nel « deus absconditus » l’unica soluzione all’odier­
na crisi di tutti i valori.
Basterebbe, a documentare questo invitto dualismo reli­
gioso, anche soltanto uno sguardo cursorio alla sua opera,
intimamente connessa con la crisi ideologica di due guerre
mondiali.
Fra le citate « Preghiere a dio » dello scrittore, esordiente
all’insegna del cubismo e dell’espressionismo e le appassionate
meditazioni e confessioni dei più recenti romanzi, c’è l’arco
intero di una vita, le esperienze apocalittiche del nostro tem­
po; eppure identico è il tono di ardente invocazione, di pro­
fetica speranza nell’epifania del divino; d’un divino che è in­

1 G. Helen, B. Sjóbergs Kriser och kransar... Stockholm, 1946, p. 278 sgg.


2 G. Brandell, Svensk Litteratur, 1900il950, Stockholm, 1958, pp. 138-
151.
328 Le letterature della Scandinavia

sieme « fascinosum » e « tremendum », con i suoi segni am­


bigui e sconcertanti, paradossali e assurdi; dice la sibilla di
Delfi nel romanzo omonimo (1956):
« Per quanto mi è dato vedere, dio è malvagio e buono, luce e
tenebra, insignificante e pieno d’un significato che ci sfugge, ma
sul quale non possiamo fare a meno di meditare. Un enigma che
non possiamo risolvere, ma che ci sta sempre davanti, che sempre
torna a inquietarci ».

Così nelle parole delPEbreo errante (La morte di Assuero,


1960)
« qualcosa di prodigioso, per noi inconcepibile, dev’esserci aldilà
di tutte le contraffazioni del divino e di tutti gli aborti dell’umana
fantasia »;

mentre altrove il presagio del soprannaturale, l’ansia dell’in­


finito trova altre ma non meno intense espressioni, permeate
d’un sottile lievito razionalistico:

« Se credi in dio e dio non esiste / la tua fede è un prodigio


ancor più grande / — Come mai un essere immerso nella tenebra
invoca / qualcosa che non esiste? » (Terra del crepuscolo, 1953).
« Forse noi non siamo che pellegrini sul mare, ma il mare non è
tutto; non può essere così. Ci dev’essere qualcosa aldilà... una
terra che non possiamo raggiungere, ma verso la quale, malgrado
tutto, siamo in cammino » (Pellegrino sul mare, 1962); « E finché
qualcuno ricordasse quelPaltura, finché un solo uomo la ricordasse,
ricorderebbe tre croci. Mai una sola. Mai quella croce soltanto.
Sempre anche quelle dei due ladroni. Sempre tre croci insieme ».
(La Terra Santa, 1964)

Come in tutte le anime schiettamente religiose l ’aspira­


zione al divino inteso come qualcosa che ha una sua essenza
immutabile esterna all’uomo, nasce anche in Lagerkvist non
dall’idea del bene (gli umili e i reietti dei suoi romanzi sono
per lo più figure scialbe se non addirittura ridicole), ma dalla
costatazione del male e del dolore che corrono il mondo.
E per indugiare un momento sugli ultimi romanzi, non è certo
un caso che i protagonisti siano qui più o meno tutti dei mal­
vagi e dei selvaggi, dei peccatori tormentati ma non riscattati
da una lontana speranza, da una segreta ansia di redenzione:
Barabba come Assuero, Giovanni come Tobia: la cui vicenda
esemplare e stilizzata illustra a un tempo gli intenti morali­
stici dello scrittore e la lotta senza quartiere fra il bene e il
Tendenze letterarie del Novecento 329

male, fra la vita e la morte. Se la tematica di Lagerkvist è


sempre attinta alle fonti classiche del cristianesimo, Patteg­
giamento dello scrittore resta però — si direbbe — perenne-
mente deluso e incerto, non solo adogmatico ma agnostico,
incapace di acquietarsi in una qualsiasi certezza*. Nel supre­
mo momento della morte i suoi personaggi, perseguitati ed
eletti insieme, quasi purificati dal dolore e dalla meditazione,
sembrano finalmente posti faccia a faccia col divino: ma anche
allora un velo ambiguo scende sul loro viso e un dubbioso
« come se » (som om) s’insinua a sottolineare Pimperscruta-
bilità del mistero che insieme lega e separa vita e morte.
Cresciuto in ambiente provinciale e pietista, Lagerkvist
assorbì sin dalPinfanzia quel tipo di religiosità popolare asce­
tica e antimondana in cui dominava Pidea del peccato e del
dio castigatore. La figura del padre, sorvegliante nella locale
stazione ferroviaria, cupo e introverso, quella del nonno, ac­
canito lettore della Bibbia, le altre dolci e luminose della ma­
dre, della nonna, sfumate come cose soavi e lontane ma salde
nella serena fede dei semplici, affiorano nelPautobiografia (Ospi­
te della realtà, 1925) sullo sfondo della sua vita infantile tra­
vagliata da mille terrori: la malattia, il buio, la morte, l’im­
menso mistero dell’universo visti con stupefatta angoscia in
mezzo alle innumerevoli parvenze del reale.
Venendo incontro al suo desiderio d’evasione, la scuola se­
gnò anche la rottura col pietismo e la prima iniziazione alla
scienza (darwinistica).
« Era una nuova dottrina — dice l ’autobiografia — che faceva
piazza pulita di D io e d’ogni altra speranza, che metteva a nudo
la vita in tutta la sua sistematica assurdità ».

L’accettazione di questo immanentismo scientifico non tardò


a manifestarsi anche nel campo politico in forma di colla­
borazione alla stampa socialdemocratica (Fram, Stormklockan);
ma è facile oggi vedere che esso in fondo non oltrepassava
gli angusti confini d’un giovanile entusiasmo per la poesia
rivoluzionaria, lasciando in realtà intatta se pur nascosta nel
suo spirito l’inestinguibile sete religiosa.
Altra e diversa è l’ispirazione dello scrittore sia in sede
critica sia nella concreta opera creativa.
Nei racconti d’esordio: Uomini (1912); Bue storie di vita

1 K. Henmark, En fàgel av eld} Stockholm, 1962, p. 39.


330 Le letterature della Scandinavia

(1913) è già evidente la volontà di servirsi delPallegoria come


mezzo espressivo di passioni primordiali, pur crudamente rap­
presentate: la malvagità, l’angoscia, la gelosia, la violenza;
e nello scritto programmatico Arte verbale e arte figurativa
(1913), si profila netta, fra molti non sempre definiti ragiona­
menti e riferimenti al cubismo e all’espressionismo, la ten­
denza primitivistica dell’arte di Lagerkvist, ricercante nei ve­
tusti documenti delle religioni rivelate (a lui noti nell’opera
di Nathan Soderblom: Testi di religioni straniere scelti e tra­
dotti (1908) gli esempi di uno stile nudo, essenziale, monu­
mentale.
Non erano nuove le idee di Lagerkvist.
Alla fine dell’Ottocento (e poi a più riprese durante il
Novecento) la polemica dell’anticultura, l’infatuazione roman­
tica per un ritorno al primitivo, all’infantile, al selvaggio era
stata accolta da più parti come un autentico vangelo. Il disgu­
sto per la degenerazione della civiltà aveva spinto Gauguin
e doveva poi spingere Lawrence a ricercare in terre lontane
l’innocente sincerità del sentimento, la verità dell’uomo sve­
stito d’ogni sovrastruttura artificiale. Come quelli, Lagerkvist
pure voleva rifarsi, in contrasto alla decadente cerebralità l, a
un linearismo e misticismo strettamente affline a quello figura­
tivo di Gauguin e van Gogh. Ma se per un verso riaffermava
l’esigenza di « idee semplici, di sentimenti elementari di fronte
alle eterne forze della vita: dolore e gioia, adorazione, amore
e odio, espressioni di quella universalità che è al di sopra del­
l’individuo » (Arte verbale e arte figurativa), per un altro,
scopriva la sua decadente sensibilità religiosa proprio nella
paura della vita e del sesso, nella segreta attrazione per tutto
ciò che è macabro e nauseabondo.
Nei toni parossistici delle poesie e prose di Angoscia come
nell’atmosfera d’incubo dei racconti ispirati agli orrori della
guerra (Motivi; Verro e uomini, 1915) gli elementi di fondo
della sua arte si manifestano con netto rilievo.
Ma la spinta decisiva all’impiego dell’allegoria e della Mo­
ralità d’intonazione popolareggiante, intesa a illustrare con­
flitti ideologici e metafisici moderni, venne a Lagerkvist dallo
studio del teatro mistico di Strindberg. Strindberg era stato
— secondo lui — il vero erede di Shakespeare e dei M i­
steri medievali, sentiti come antitesi alle analisi psicologiche

1 H. O. Granlid, Det medvetna barnet... Stockholm, 1961, pp. 12,


^ sgg.
Tendenze letterarie del Novecento 331

e individualistiche del naturalismo ibseniano; l’ultimo geniale


interprete del valore scenico del teatro concepito come sintesi
di immagine di parola e di musica; il creatore di Verso Da­
masco, del Sogno, dei Drammi intimi, in cui il più crasso det­
taglio realistico serviva a spalancare a un tratto la prospettiva
sul surreale.
Strindberghiani sono infatti tutti i drammi d’esordio di
Lagerkvist. Ne L'ultimo uomo (1917) atmosfera e personaggi
(per non dire dell’apocalittico titolo) ci riportano alle note
allegorie del maestro dell’espressionismo. Gama, Uri, Vo, Vyr
non sono qui individui realisticamente caratterizzati, ma sche­
matici tipi rappresentanti un’umanità demente spettrale mo­
struosa, che irrigidita in atteggiamenti cultuali e corali vana­
mente invoca l’aiuto divino; mentre ne L'ora difficile (1918)
10 scrittore dà il primo saggio di quei non certo lucianeschi
« dialoghi dei morti » che in seguito saranno al centro del suo
teatro. Non stupisce dunque il carattere illustrativo delle va­
rie componenti di questo spettacolo. Della scenografia espres­
sionistica fuori d’ogni spazio e d’ogni tempo; dei personaggi
— angosciate vittime brancolanti in cerca di luce — ; dello
stile stesso fatto di trasognate cadenze, quasi balbettio di ani­
me perdute nel primevo caos cosmogonico.
Caos (1919) è infatti il titolo d’una raccolta di prose e
poesie che riprendono, in chiave prevalentemente terrifico-grot-
tesca, i temi dell’angoscia e del destino umano. Se il dramma
11 segreto del cielo (qui incluso e rappresentato poi nel 1921
al « Teatro Intimo » di Stoccolma con Harriet Bosse prota­
gonista) si presenta come una variazione di certo demonismo
dell’ultimo Strindberg, per quel suo raffigurare la vita come
meccanica ripetizione di atti assurdi e disumani senz’altra alter­
nativa che il suicidio; alla lirica sono invece affidati i vaghi
motivi di una speranza tutta sentimentale e mistica.
La lirica di Lagerkvist non conta né ampi componimenti
né profonde ed estese rappresentazioni di temi storici e pae­
sistici. Come per i drammi e i racconti, anche per la lirica la
genesi va ricercata nella insonne meditazione dello scrittore sul­
l’enigma dell’anima: sul dolore e sull’amore, sulla vita e sulla
morte; sulla vita eh’è sempre sfiorata dal mistero della morte,
e sulla morte ch’è sempre presente nella vita. Il ritmo nativo
di questa poesia è di malinconica quasi trasognata nenia, di
dolce e accorata musica che si affida a parole lente e intense,
a perplesse sospensioni tonali, ad angosciosi interrogativi; la
sua temperie naturale pur non escludendo la tumultuosa pro-
332 Le letterature della Scandinavia

testa e l’invettiva, è quella di un monotono e perfino languido


intimismo che ricorda molto da vicino l’idillio pascoliano.
L’amore delle piccole cose, i sogni dell’infanzia serbati quasi
come reliquie d’una perduta fede, lo smarrimento dell’anima
di fronte al mistero cosmico: sono questi i temi costanti
svolti con raffinata ingenuità in immagini solenni e nude a un
tempo, simboliche e naturalistiche. A dare un’idea di questa
complessa ispirazione che si traduce in un chiaroscuro di anti­
tesi e di parallelismi, di rispondenze e di ripetizioni, bastano
anche pochi versi:
« L’ora più dolce è la sera. / Tutto l’amore che il cielo abbrac­
cia / è raccolto in questa luce scura / sulla terra / sulle case
della terra. / / Tutto è dolcezza, tutto è carezza di mani. / Il Si­
gnore stesso cancella ogni terra lontana. / Tutto è vicino, tutto
è distante. / Tutto è donato / all’uomo in pegno. // Tutto è
mio e tutto mi sarà tolto, / fra breve tutto mi sarà tolto, / Alberi,
nuvole, la terra che calpesto. / Io vagherò — / solo, senza orme ».

L’uomo è dunque solo sulla terra, straniera la natura, oc­


culto Dio \ simile all’aquila nel suo inaccessibile nido di cui
parla un’altra lirica di Caos:
« Remoto e nascosto sei nel cavo della roccia / remoto e a noi
nascosto ».

È vero, in questa pessimistica notte s’accende di quando in


quando, come fuoco fatuo, qualche barlume di speranza: la
fede nell’innocenza e nella bontà della fanciullezza, nell’amore
materno e filiale: fugaci spiragli aperti su una realtà sovrasen­
sibile concepita in chiave platonico-cristiana {La via dell}uomo
felice, 1921). Ma si ha l’impressione che l’elogio dei senti­
menti primordiali, delle virtù dei semplici non vada in La­
gerkvist disgiunto da una certa angustia intellettuale; al punto
da far scadere il dramma etico in moralismo e in semplicismo
fiabesco. D i qui il rimpiccolirsi delle proporzioni e il prevalere
d’un certo meschino antropomorfismo nelle visioni metafisiche
del poeta.
Si prenda quell’epico Mistero ch’è II sorriso eterno
(1920) con la grandiosa visione di un Aldilà, in cui i morti
muovono in infinite schiere a chieder conto a Dio dell’enigma
universale. L’intensità drammatica della scena è innegabile, con

1 G. Fredén, Par Lagerkvist... Stockholm, 1954, pp. 20-22,


Tendenze letterarie del Novecento

quel serpeggiare e dilagare ed esplodere dell’umana angoscia


in rivolta prometeica. Ma il dio di Lagerkvist, anziché rispon­
dere (come quello di Vigny) con l’imperscrutabilità del « silen­
zio eterno », compare in veste di canuto taglialegna (e qui
non si può non sorridere di certi critici svedesi che vorrebbero
giustificare l’anticlimax con il rinvio ad aneddoti autobiogra­
fici) a balbettar parole che sono un presagio dell’odierna lette­
ratura assurdista: « Sono un poveruomo... nel creare la vita non
mi sono proposto nulla di particolare... ho fatto quel che ho
potuto... ». Questo il responso d’un dio! Ma più sconcertante
ancora è la pia conclusione che ne traggono gli esseri da lui
creati, se non redenti da così facili parole, convertiti a un tratto
all’ottimismo finalistico della teodicea leibniziana.
Si è già detto che tutta l’opera di Lagerkvist si svolge con
moto alterno di flussi e riflussi tra i due estremi inconciliabili
e inseparabili d’un dualismo religioso: tra il mondo corporeo
dei sensi orrendo e grottesco e la sua trasvalutazione spiritua­
listica in termini di volontarismo metafisico. La profonda ten­
denza meditativa, in lui saldata all’impeto lirico della passione,
10 rendeva particolarmente sensibile alla tematica apocalittica
dell’espressionismo strindberghiano, destinato poi a trionfare
sulle scene della Germania durante e dopo la prima guerra
mondiale.
Ma per Lagerkvist non era solo questione di mode letterarie.
Fin dai suoi primi scritti, i grandi motivi teologici del senso
della vita umana, del bene e del male, della colpa e del riscatto
sono al centro dell’ispirazione artistica anche se — si vorrebbe
dire — in forma di vistoso satanismo: di negazione d’ogni
provvidenza e di esemplificazione del caotico e dell’assurdo.
11 suo è in fondo il tipico atteggiamento antitetico del cristiano
verso la vita: condannata in quanto materia e occasione di pec­
cato, esaltata in quanto spirito che apre il varco al divino.
È stato detto che fino alla stesura dell’autobiografia Ospite
della realtà (1925) prevale il primo aspetto in visioni escato­
logiche e popolarescamente sataniche (le parabole satirico-grot­
tesche come « L’ospite esigente » in Caos, come « L’ascensore
dell’inferno » in Le Fiabe del Male, 1924; la storia del mu­
lino in II sorriso eterno; certe didascaliche allegorie del dram­
ma in versi L'invisibile, 1923), mentre il secondo informa la
restante produzione letteraria. Ed è vero. Ma si tratta di due
tendenze implicite nella parabola ideale di Lagerkvist e già pre­
senti negli scritti d’esordio.
Fu comunque la crisi della civiltà europea fra le due guerre
334 Le letterature della Scandinavia

ad affrettare quella catarsi dello spirito così a lungo contra­


stata in lui dal pessimismo pietista e dal decadente nichilismo.
Riaccostandosi più o meno consapevolmente alla grande
tradizione idealistico-religiosa delTOttocento, Lagerkvist vi tro­
va le armi più efficaci a combattere quella che egli considera
la minaccia dei nuovi tempi: della scienza che, priva di luce
morale, guida l’uomo soltanto alla perfezione dell’analisi, e gli
preclude invece ogni possibilità di sintesi e perciò di equilibrio
spirituale; della politica di potenza che, ispirandosi a truci miti
nazionalistico-totalitari, travia e degrada l’uomo trasformando­
lo in idolatra; della psicanalisi che, mettendo a nudo gli istinti
distruttivi, fiacca nell’individuo ogni senso di responsabilità e
di fiducia. Nel saggio intitolato Vincere la vita (1927) la po­
lemica di Lagerkvist, ardente fino all’enfasi moralistica, non si
volge soltanto contro il veleno dell’intellettualismo che inari­
disce e snatura l ’uomo, ma tende a dar nuovo rilievo alle « ra­
gioni del cuore », a riaffermare i valori positivi del volonta­
rismo e della fede religiosa.
Stava ormai per scoccare l’ora decisiva per l’Europa e per
il mondo intero. Nel 1933 la dittatura di Hider e quel che
segui, prima che si compisse il decennio, vide in ogni nazione
aumentare, col dilagante irrazionalismo, le schiere dei « chie­
rici traditori ».
Ma l ’impolitico Lagerkvist (non diversamente da quel tor­
mentato scettico che fu Hj. Sòderberg), malgrado il suo torbi­
do pessimismo si tenne, allora come poi, ben lontano da quelle
schiere. È vero, ancora nel lavoro scenico L'uomo che potè ri­
vivere la sua vita (1928) e nei racconti Spirito combattivo
(1930) ritornava in chiave realistico-simbolista (e nel primo
con insolita tensione drammatica) ai temi dell’angoscia impo­
tente e della vanità dell’esperienza umana, non senza però sot­
tolineare l’esigenza d’una vittoria dello spirito inteso come li­
bertà e autocoscienza morale, come valore eterno.
L’accento batte ora con pari intensità sul volontarismo
metafisico e sulla irriducibile aspirazione a un umanesimo mi­
litante. Si trattava anche per lui non solo di svegliare la
inerte coscienza sui problemi eterni dell’uomo, ma di lottare
intanto per il trionfo della civiltà contro la barbarie, della li­
bertà contro la violenza, e in ogni campo: politico morale
intellettuale.
Così per quasi tutto il decennio la sua opera di scrittore
non fu che un’infiammata protesta e denuncia in nome dei
più alti ideali umani oltreché religiosi. Opera di propaganda,
Tendenze letterarie del Novecento 335

dunque, non esente certo da vistosi intenti allegorici e didat­


tici, anche se al servizio della buona causa.
Le forze brutali della vita minacciavano come non mai di
soverchiare l’uomo, il pellegrino delle liriche di Presso i fuochi
del bivacco (1932) destinato a non metter piede sulla terra
promessa; ma finché il più debole lume di coscienza rischia­
rava il suo faticoso andare, i principi ideali di libertà e di fra­
tellanza umana non potevano che essergli di guida e di soste­
gno. Come la lirica così il dramma (Il re, 1932; L'uomo senza
anima, 1936; Vittoria nelle tenebre, 1939) e il racconto (Il
boia, 1933) illustrano questa esemplare vicenda d’una umanità
fuorviata e decaduta, ma sempre ansiosa di riscatto. Lo scettico
re egiziano Amar-Azu che di fronte al mistero della morte apre
gli occhi sulla virtù redentrice dell’amore; « L’uomo senz’ani­
ma », il politico fanatizzato che tradisce la propria coscienza e
non indietreggia neppure di fronte al delitto, finisce per ri­
pudiare, nel supremo distacco dalla vita, la violenza e la
guerra in cui aveva creduto; il boia, che nella sua simbolica
figura sembra racchiudere la quintessenza della perversione
umana — sono tutti pretesti della polemica di Lagerkvist con­
tro i truci idoli del tempo.
Già anni prima in pagine memorabili d’un diario di viag­
gio (Il pugno chiuso, 1934) egli aveva fatto professione d’un
umanesimo religioso molto simile a quello della celebre « Prière
sur l’Acropole » di Renan. Rifarsi al razionalismo greco e al
misticismo cristiano come a supreme fonti della civiltà occi­
dentale significava per Lagerkvist, a un tempo, intendere le
profonde ragioni della battaglia da combattere contro i totalita­
rismi barbarici e fugare le perplessità dei pavidi e dei vili.

Fin qui tutta l’opera di Lagerkvist — quasi intimo mono­


logo sulla situazione spirituale contemporanea — appare come
un tenace sforzo per dare un senso alla vita e alla morte, alla
grandezza e alla miseria delPuomo. In centinaia e centinaia
di pagine non di rado dispersive e ripetitive, in patetici versi,
in parabole predicatorie, in drammi senza vera azione, popolati
da personaggi che vengono dall’ignoto e all’ignoto vanno por­
tandosi intatto nel cuore il loro enigma, la condizione umana
è da lui scrutata con forza di penetrazione ma anche, più d’una
volta, con avvolgimenti stanchi di parole e d’idee che rasentano
la banalità. Il predominare di artefatte allegorie al centro del­
l’opera dà un’impronta di monotonia ai fatti e ai motivi poe­
tici, rilevati o con Penfasi drammatica (e talvolta perfino melo­
336 Le letterature della Scandinavia

drammatica) del predicatore o con l’estatica meraviglia del


fanciullino pascoliano.
Non si può negare che molte appaiono le parti caduche
della sua produzione, sin dalPinizio inorpellata da effetti tea­
trali vittorhughiani (si pensi all’antitesi violenta tra i due fra­
telli Gustav e Eric Mòrk nello scritto d’esordio Uomini). Pure,
col progressivo approfondirsi del suo pensiero, nuove possi­
bilità di sintesi si prospettano a ciò che pareva irriducibile
antagonismo. All’esteriorità di certe visioni fatalistiche e pes­
simistiche della cattiveria umana, cosi com’è stilizzatamente
raffigurata nel Boia, segue l’intuizione cristiana del dolore e del
male quali mezzi di riscatto; quasi le oscure forze ctonie, da
cui nasce ogni vita, nietzschianamente generassero la purezza e
la redenzione.
Nel romanzo intitolato II nano (1944) l’ansia di supera­
mento del dualismo è vissuta con calda passione e con più
intensa forza emotiva.
Il male stesso parla qui in prima persona per bocca d’un
essere che emblematicamente lo rappresenta nella propria de­
formità fisica e spirituale. Un nano di una più o meno imma­
ginaria corte del Rinascimento italiana, una di quelle figure
plebee che sembrano uscite dalle « eretiche » Cene del Veronese
è qui a un tempo cronista e protagonista di fatti memorabili:
guerre e stragi orge e venefici, intrighi di corte e tradimenti.
Non da semplice professionista del motteggio, dunque, egli s’ac­
campa al centro del romanzo, ma da vero deus ex machina
che ogni cosa direttamente o indirettamente muove con le sue
diaboliche arti della perdizione. Predestinato al male e capace
d’intendere solo ciò che s’appaga della realtà sensibile, questo
Homunculus travestito da Superuomo, non sa l’amore né
l’oscuro anelito del vero uomo verso l’alto. I suoi occhi deformi
non vedono le stelle. E perciò, mentre per sua causa tutto si
corrompe e trasforma in un trionfo della morte — dalla buona
volontà all’amore innocente e alla idealistica ricerca del vero —
la sua frenesia del male spalanca inattese prospettive metafi­
siche sul mistero dell’anima e sul senso purificatore del patire
umano.
Col Nano Lagerkvist ha ottenuto uno dei suoi maggiori
successi.
Sia i larvati accenni di polemica antinazista sia la con­
sueta decadentistica compiacenza per l’orrido e il sacrilego
scompaiono di fronte alla allucinante forza di penetrazione
psicologica, alla rigorosa coerenza con cui è attuata la formula
Tendenze letterarie del Novecento 337

del protagonista che, liberato dallo schematismo delle maschere


allegoriche, si consuma nella sua luce sinistra. E la struttura
stessa della narrazione nuda e concisa non meno che il dina­
mismo espressivo della lingua concorrono a dare saldezza di
realtà all’evocazione ambientale e incisivo rilievo ai temi toc­
cati: dalla nefasta forza dell’odio all’apoteosi dell’amore, all’ine­
stinguibile sete di bellezza e di verità.
Se in sede artistica il Nano rappresenta il massimo sforzo
dello scrittore di analizzare la degenerazione e le aberrazioni
dell’anima umana attraverso una ben congegnata trama di per­
sonaggi e di fatti simbolici, a volte sin troppo vistosi nella
loro drammatica illustratività, sul piano ideologico, si avverte
però comunque l’inappagata ricerca d’una soluzione metafisica
del problema del male come motivo dominante di quella trama.
L ’intensità stessa con cui sono negati e calpestati i valori
umani dà a questi maggior risalto. Anzi quanto più distruttivi
appaiono gli effetti dell’odio e della crudeltà, tanto più si fa
viva l’ansia di purificazione in questo mostruoso mondo in
tumulto. Malgrado la sua diabolica lucidità il nano non riesce
a penetrare il più intimo enigma dell’uomo. Ne intende si
subito la perversione morale, l’egoismo e la volontà di po­
tenza, la lussuria e la gelosia, ma gli «sfugge sempre tutto ciò
che è angoscia spirituale di fronte all’insanabile dissidio tra
sogno e realtà, fra le aspirazioni dell’uomo e la sua miseria.
Era perciò naturale che gli orrori della guerra e la debilita­
zione dell’umanità corrosa dalla violenza e dal dubbio dessero
nuovo risalto all’idea rigeneratrice del cristianesimo. Dopo un
paio di tentativi drammatici La pietra filosofale (1947) e La­
sciate vivere l’uomo (1949), ispirati da un’alta meditazione
religiosa ma mossi da una troppo scoperta volontà di dimo­
strazione, Lagerkvist doveva definitivamente concentrarsi sul
motivo dominante della sua spiritualità storicamente condizio­
nata dall’esperienza cristiana.
Nel romanzo Barabba (1950) si ritrovano cosi tutti i mo­
tivi principali di questa tematica metafisica e morale, soterio-
logica ed escatologica. Benché in una prospettiva nuova estre­
mamente concentrata, essenziale. Niente più dell’ampia trasva­
lutazione di episodi biblici, dei narcisismi intellettuali cosi fre­
quenti in lui e nel decadentismo europeo di fine-secolo, né di
quel gusto scenografico intenzionalmente satirico che s’attar­
dava ancora nel fastoso e prezioso quadro dell’ambiente rina­
scimentale, maschera di vizi e corruzione.
338 Le letterature della Scandinavia

L’incontro fra l’uomo e Dio è qui diretto, terreno, si


vorrebbe dire storico. Nel chiaroscuro d’un ineliminabile an­
tropomorfismo, il divino appare a Barabba come sconvolgente
vicenda personale e universale a un tempo. Se il ladrone ebreo
vede la luce intorno al volto del crocifisso e le tenebre del
Golgota e la tomba vuota di colui che inaspettatamente è morto
in sua vece, se parla perfino con chi da Gesù è stato risu­
scitato, non vede però né l’angelo che ha aperto la tomba, né
il risorto. È certo un chiamato ma non un eletto. È in tutto
il suo essere un uomo che vive e si muove nell’unica realtà
a lui intelligibile e incapace perciò di rompere il cerchio del
proprio egoismo e della propria intelligenza raziocinante. Non
sorprende dunque che di ogni cosa cerchi la spiegazione natu­
rale.
Nato nell’odio, maledetto dalla madre, parricida incon­
sapevole, Barabba non riesce a trovare un suo posto nel mondo
da quando l’inattesa liberazione ha acceso in lui quasi l’oscuro
presagio di qualcosa che non intende, e che pure gli s’impone
con la sua assenza, non con la sua presenza: il bisogno di una
fede trascendente. Impara a pregare dai cristiani e per la
seconda volta assiste terrorizzato alla crocifissione: quella d’uno
schiavo suo compagno di pena nelle miniere di Cipro; ma in­
vano: nessun pentimento fa di lui un uomo nuovo. « Chiuso,
ben solo nel suo sacco di pelle » — per dirla con Anouilh —
questo essere, che simboleggia l’umanità traviata dinanzi al
mistero della vita e della morte, non riesce a comunicare con
altri che con se stesso. Lo perseguita un destino di perpetua
irredimibile solitudine, illustrato nel romanzo dal suo angoscioso
errare per le catacombe romane dell’Appia, in cerca di scampo.
Pure l’incredulità non lo difende dal segreto tormento. Ché
troppo a fondo gli è penetrato nell’anima lo sguardo di Gesù
morente. Sicché tutte le vicende della vita che sembrano svol­
gersi al di fuori della sua volontà e intelligenza (da ultimo,
equivocando, crede di testimoniare la propria fedeltà a Cristo
col prestar man forte agli incendiari di Roma), anziché far di
lui uno spettatore passivo, lo riempiono degli interrogativi più
angosciosi. Non lo redimono, ma lo turbano, non gli danno
la fede, ma gliene fanno sentire la sete inestinguibile. Finché,
messo a morte con altri rei, non patisce lui pure il martirio
della croce al quale già due volte era sfuggito; e se non con
fede, certo con atto cristiano affida al dio ignoto la propria
anima.
Barabba è il capolavoro di Lagerkvist.
Tendenze letteràrie del Novecento 33?

L’arte del narratore fa qui le sue più alte prove. In nes­


sun altro scritto il valore della persona umana moralmente
libera al bivio tra bene e male, tra luce e tenebra è espresso
con tanta potenza chiaroscurale, con si sapiente uso di anti­
tesi e di parallelismi, di contrappunti e di analogie. In una
lingua disadorna, nuda, in larga misura parlata, procedente
con vigorose snodature e con profondi stacchi è raffigurata
come mistero religioso tutta l’angoscia e la speranza del nostro
tempo, scettico eppure assetato di fede nel trascendente.
Sparita è qui ogni esteriore teatralità e ogni sentimenta­
lismo. In larvata polemica contro la ragione incapace d’inten­
dere il divino e l’immortalità dell’anima, l’incontro fra l’uomo
e il dio trova accenti di commozione tanto più intensa e
vibrante quanto più dissimulata. Basta un passo scelto a caso
— quello della crocifissione dello schiavo cristiano Sahak, com­
pagno di Barabba — a esemplificare il motivo centrale di
tale incontro, sempre svolgentesi sul malcerto confine fra le
due realtà che sembrano a un tempo eludersi e compenetrarsi:
L’altura del patibolo era un piccolo colle fuori della città, qua e
là ricoperto, in basso, da sterpi e cespugli. E dietro uno di questi
stava Barabba, l’assolto. Eccetto lui e coloro che avevano incarico
della crocifissione, non c’era nessuno; non importava a nessuno as­
sistere alla morte di Sahak. Altrimenti accorreva spesso gente, so­
prattutto quando si trattava d’un delitto importante. Ma Sahak non
era colpevole né di omicidio né d’altro, e nessuno sapeva chi fosse
o.cosa avesse fatto.
Era tornata la primavera, proprio come quando erano usciti in­
sieme dalla miniera e Sahak, inginocchiandosi, aveva esclamato:
« È tornato il Signore! ». Il terreno era erboso e perfino l’altura era
coperta di fiori. Il sole splendeva sulle montagne e giù in basso
sul mare. Ma s’era al colmo della giornata, il caldo era già afoso e
chiunque si muoveva su quell’altura faceva volare nuvole di mosche.
Ricoprivano queste tutto il corpo di Sahak, e lui non riusciva a
muoversi, tanto da schiacciarle. No, non c’era nulla di grande e di
sublime nella morte di Sahak.
Perciò era strano davvero che Barabba fosse tanto commosso. Ep­
pure lo era. Seguiva quella morte con occhi che non volevano scor­
dar nulla: né il sudore che scorreva già dalla fronte e dalle ascelle
incavate, né il petto che si sollevava con sopra i segni impressi a
fuoco, né le mosche che nessuno scacciava. La testa pendeva giù
e il moribondo gemeva pesantemente. Barabba udiva distinto ogni
respiro e anche lui respirava greve e staccato e la sua bocca era
semiaperta come quella del suo amico sulla croce. Gli sembrò per­
fino d’aver sete, come doveva certo averne queiraltro. Strano che
avesse questa sensazione, ma era stato tanto tempo incatenato a
340 Le letterature' della Scandinavia

quell’altro, con le stesse catene. Anzi gli pareva ancora che una ca­
tena di ferro lo stringesse al crocifisso.
Ora Sahak voleva qualcosa, voleva dire qualcosa, forse chiedere da
bere, ma nessuno poteva capirlo. Neppure Barabba riuscì ad affer­
rare cosa dicesse, malgrado ogni sforzo. E poi era troppo lontano.
Avrebbe potuto correre fin su alla croce, chiamare il suo amico e
chiedergli cosa volesse, se volesse aiuto, e nello stesso tempo scac­
ciar via le mosche. Ma non si mosse. Restò nascosto dietro il suo
cespuglio. Senza far nulla. Tutto il tempo a guardare con gli occhi
ardenti e con la bocca semiaperta per il dolore di quell’altro. Non
molto dopo si capì che il crocifisso non avrebbe patito più a lungo.
Respirava appena, il petto non si muoveva quasi, e Barabba, lì do-
v’era, non udiva più niente. Poco dopo il magro petto di Sahak non
si sollevò più e si capì che era morto. Senza che il cielo s’oscurasse
e senza che avvenissero miracoli, impercettibilmente esalò l’ultimo
respiro. Nessuno di quelli che erano di guardia s’accorse che era
morto; stavano a giocare a dadi proprio come l’altra volta, tanto
tempo prima. Ma ora non si precipitarono né si spaventarono per
quello che era morto sulla croce. Nemmeno se ne accorsero. L’unico
che se ne accorse fu Barabba. E quando capì ciò che era avvenuto,
ansimò e cadde in ginocchio come se pregasse.
Strano davvero. Chi sa come sarebbe stato felice Sahak se l’avesse
potuto vedere. Ma lui purtroppo era morto.
E qui sul filo del racconto evangelico riaffiora balenante
di forza lirica il tema centrale di Lagerkvist: l’ansia inappagata
dell’uomo che non trova in se stesso la ragione del suo destino.

Anche nella norvegese Sigrid Undset il problema religioso


è al centro dei molti romanzi storici e di vita moderna, dei
saggi e della polemica ideologica, nei quali ella variamente
cerca d’interpretare i drammi le aspirazioni e le ansie della
donna moderna1. In Martha Oulie (1909), che annoiandosi
a morte nel suo borghese matrimonio accanto all’onesto Otto
finisce per tradirlo, come nella pagana Vigdis (Vigaljot og
Vigdis, 1909) che vincendo la propria atavica crudezza si apre
al sentimento della maternità; in Jenny (1911) che col suicidio
risolve il suo problematico erotismo, come in Rose Wegner

1 Intorno a questo tema, che nel Nord ha tutta una sua letteratura con­
nessa alle vicende politico-sociali del femminismo, è fiorita, dall’età po­
sitivistica a oggi, un’enorme congerie di romanzi (per lo più a opera
di scrittrici) non certo di grande rilievo artistico, ma notevoli perché
formano una salda tradizione narrativa a sfondo romantico-didattico, che
trova larghissima diffusione nei ceti borghesi.
Tendenze letterarie del Novecento 341

(Vaaren, 1914) che soffoca ogni spontaneità di passione in


speciosi sofismi cerebrali. Non meno vivo è il tema religioso
nei due grandi romanzi storici, Kristin Lavransdatter (1920-22)
e Olav Audunsson (1925-27) cui soprattutto è affidata la fama
della scrittrice.
Ma mentre nei romanzi realistici l’imperativo morale aveva
qualcosa di rigido e di voluto, quasi astratta norma imposta
dall’esterno alla coscienza, nei romanzi storici il postulato
metafisico nasce dalla nuda esperienza del dolore. La prospet­
tiva realistica e la prospettiva storica sono in realtà due aspetti
di un unico sentimento religioso che costituisce la più schietta
ispirazione della scrittrice.
Di storico infatti in Kristin Lavransdatter e in Olav Au-
dunss0n, che rispettivamente si svolgono nella prima metà del
secolo XIV e nella seconda metà del secolo X III, c’è solo la
cornice esterna, i quadri di costume, qualche figura intravista
di scorcio (nel primo per esempio si parla appena della pro­
fonda crisi politica che portò alla dissoluzione del feudalismo
e alla perdita dell’indipendenza norvegese). Ciò che soprattutto
interessa alla Undset — al di là della sua vasta cultura medie­
vale e del suo gusto archeologico e antiquario — è il dramma
religioso, l’antitesi fra « Amor sui » e « Amor Dei », vista sì
sullo sfondo psicologico e ideologico della Chiesa medievale,
ma sentita come dramma eternamente attuale dell’anima umana.
Entro i termini di quest’antitesi si svolge la storia di Kri­
stin e del suo amante e poi marito Erlend Nikolausson, anche
se l’ampiezza di disegno del romanzo e la molteplicità e va­
rietà degli episodi secondari tendono talvolta a decentrare la
narrazione.
Dalla cerchia limitata della vicenda individuale, lentamente,
progressivamente l’orizzonte si slarga, si moltiplicano le pro­
spettive, si ascende alla visione panoramica, enciclopedica di
un’intera società, che può essere, nella sua esteriore fisionomia,
la trecentesca società norvegese, ma anzitutto è la società uma­
na d’ogni tempo e d’ogni luogo in quanto riflette la vita nei
suoi essenziali, immutabili aspetti e momenti: nel suo arco fa­
tale che congiunge la culla alla tomba, la terra al cielo. Dalla
idillica fanciullezza Kristin passa ai primi turbamenti dei sensi
ignari, dall’adolescenza irrequieta al fatale urto con i geni­
tori, dall’esaltazione erotica ai prosaici contrasti della vita co­
niugale, dalla prorompente vitalità degli anni giovanili alla
raccolta meditazione dell’età decidua. E con quello di Kristin
altri destini di altri personagi s’intrecciano, si confondo-
342 Le letterature della Scandinavia

no, se ne distaccano, vi si riannodano: il giovinetto Arne,


fido compagno di giochi, inconsapevolmente da lei amato, e
scomparso anzitempo; il turpe e dissoluto figlio di prete Ben-
tein; il vecchio minorità Edvin che per primo addita a Kristin
Pideale francescano della povertà e della fratellanza universale;
monna Aashild, nobile decaduta che porta nell’ambiente vi­
chingo una nota di signorilità non disgiunta da sospette virtù
taumaturgiche; il loquace ed esuberante cortigiano Munan, con­
sanguineo di Erlend, gustoso personaggio che sembra uscito
dai Canterbury Tales del Chaucer, la dotta badessa di Nonne-
saeter, Groa Guttormsdatter, l’amante di Erlend, Eline e i suoi
figli, i figli di Kristin e di Erlend, e molti altri ancora: mo­
nache e sacerdoti, cavalieri e nobili, contadini e servi, sullo
sfondo prima scuro e solenne del Gudbrandsdal e di Oslo,
poi luminoso del Trondelag presso i fiordi che per secoli vi­
dero salpare le prore vichinghe.
In questa realistica raffigurazione della vita, quale alterna
vicenda di gioie e di sofferenze, ogni destino individuale
acquista un suo recondito significato, perché gradualmente,
faticosamente, oscuramente s’innalza all’intuizione d’una real­
tà metafisica. Anche la triste consapevolezza della solitudi­
ne spirituale eh’è un po’ in tutti i personaggi del romanzo,
si riscatta in questo presentimento dell’eterno, affiorante nel
cuore umano proprio quando tutto sembra sfiorirvi e morire.
Così l’esperienza finale di Kristin — che rimasta sola nel
vuoto apertosi intorno a lei, da ultimo, si spegne nel con­
vento di Rein, dove è accorsa ad assistere gli appestati —
acquista un valore simbolico per tutti gli altri personaggi
del romanzo:
Le pareva un mistero impenetrabile, eppure sentiva ora con cer­
tezza che Dio, profondendo su di lei il suo amore, l ’aveva sempre
tenuta legata ad un patto, senza che ella lo sapesse; e contro la
sua orgogliosa volontà, contro il suo torpido cuore fatto di polvere,
quell’amore aveva fatto germogliare in lei qualcosa, come il sole
fa germogliare la terra...
E anche lo stile del romanzo è uno stile di vibrata ma
composta confessione, lontana dagli impeti lirici e drammati­
ci, uno stile di rilievo della realtà (anche ortograficamente
mediante il frequentissimo impiego della lineetta che isola e
circonscrive l’immagine o la frase saliente) rifatto sui moduli
della Saga norrena e caratterizzato da quella fine tecnica del
dettaglio che fa spesso pensare all’arte fiamminga di un H.
Tendenze letterarie del Novecento

Bosch o di un P. Breughel il Vecchio, nella minutissima quasi


miniaturistica resa dei particolari, ognuno concorrente con la
sua pennellata alla monumentale visione d’insieme.
Certo, nell’intento di dar rilievo a ogni aspetto della real­
tà e di atteggiarla entro schemi confessionali, questo stile non
riesce sempre a mantenere il grande respiro, la potente e li­
neare saldezza della sua architettura; e in Olav Audunsson
più ancora che in Kristin Lavransdatter abbondano le lun­
gaggini e le sforzature psicologiche (esempio tipico l’episodio
della paralisi di Olav, che si perde perché non può compiere
l’atto rituale di riconciliazione con gli uomini e di sommis­
sione a Dio).
Nella produzione letteraria della Undset posteriore ai ro­
manzi storici (e alla sua formale conversione del 1924) l’ac­
cento apologetico è senza dubbio dominante; e non solo in
opere polemiche come Gymnadenia (1929), Il roveto ardente
(1930) o agiografiche come Santi norvegesi (1937), ma anche
in quelle meno esplicitamente moralistiche come Ida Elisa­
beth (1923) e La moglie fedele (1936), dove la scrittrice tenta
un ritorno al giovanile romanzo di vita contemporanea, dal
punto di vista della nuova fede. Non c’è sostanziale diffe­
renza tra Paul Selmer di Gymnadenia che si converte al cat­
tolicesimo perché nella Chiesa universale vede il superamen­
to dell’individualismo liberale e del collettivismo comunista, e
Ida Elisabeth, che sacrifica la sua passione erotica all’amore
per i figli. In entrambi il tipico dilemma fra « Amor sui » e
« Amor Dei » è risolto nella certezza religiosa. Ma i critici pro­
testanti che per pregiudizi confessionali hanno fatto, quasi
senza eccezione, fronte comune contro il « papismo » della
scrittrice, non hanno avvertito l’ispirazione fortemente ago­
stiniana della sua religiosità. La quale, nel dar la preminen­
za all’« auctoritas » sulla « ratio » e nell’interpretazione rea­
listica del problema della grazia, si tiene del pari lontana dal
rigorismo protestante come dal lassismo morale cattolico. Il
cattolicesimo della Undset non ha veramente nulla di torbido
o di morboso, d’astruso o d’astratto, e ha trovato convincente
conferma nel suo atteggiamento prima e durante la seconda
guerra mondiale.
Forse sotto le ambigue censure anticattoliche dei critici si
nasconde qualcosa di diverso, che ha invece diretta attinenza
al problema dell’arte della scrittrice norvegese; e da questo
punto di vista non si può negare che il preconcetto religioso
delTarte-tentazione, dell’arte-travestimento abbia seriamente
344 Le letterature della Scandinavia

compromesso l’intrinseco valore estetico dei romanzi cronolo­


gicamente posteriori alla conversione.

Da Lagerkvist (e da Kierkegaard) idealmente procede il


danese M. A. Hansen, che, dopo tutta una gamma di espe­
rienze narrative in stile tradizionale — essenzialmente imper­
niate sul contrasto fra la tradizione rurale e l’intellettualismo
urbano, fra Punità religiosa medievale e Panarchia moderna
(nella fiaba II viaggio di Gionata, 1941; e nel romanzo II
felice Cristoforo, 1945), ha finalmente trovato un suo to­
no d'arte intimo e concreto a un tempo ma alquanto greve
nella prosa lirica di certe novelle paesane (Àgerhonen -La per-
nice, 1947 - in questa raccolta è anche la celebre Sala d'aspet­
to, ricca di significati morali e simboli esistenziali) e un
romanzo un po’ astruso nel suo simbolismo (Logneren - Il
mentitore, 1951) anche se d’intensa spiritualità, col quale
prematuramente s’è chiusa la sua attività di scrittore l.
Vicino a Hansen, per vari aspetti, Jacob Paludan, critico
saggista ideologo in forme narrative, attinge anche lui a un
fondo di religiosità romantica e popolare la sua polemica anti­
materialista e antiprogressista, ricalcante motivi e moduli ham-
suniani ma in vista di effetti idillici, non tragici (Le vie
dell’Occidente, 1922; Tutto un inverno, 1924; Uccelli in­
torno al faro, 1925; Jargen Stein, 1932-33; Prosa, 1946;
Ritorno all’infanzia, 1951).
C’è poi, in una posizione intermedia fra il romanzo pae­
sano e quello d’ispirazione religiosa un altro tipo di narrativa,
cui non a torto è stato attribuito Pepiteto di « proletaria ».
Non si tratta solo di novità tematica. È tutto un gruppo
di scrittori, autodidatti i più, provenienti spesso dal ceto operaio
o contadino e comunque da una larga esperienza di vita vis­
suta, che muove all’assalto della cultura accademica e borghese
non solo per chiedervi diritto di cittadinanza, ma per rifor­
marla e trasformarla. A una prima generazione proletaria esor­
diente intorno al 1910 — e in qualche caso anche prima —
segue una seconda, più numerosa e più radicale anche, che
direttamente partecipa dopo il 1920 alla crisi della socialde­
mocrazia nordica e al formarsi di partiti comunisti autonomi.

1 Nel suo studio Orm og tyr (Serpe e toro, 1952) ha lasciato un docu­
mento molto discutibile dei suoi interessi culturali per il mito paga­
no nordico, interpretato alla luce del pensiero di Kierkegaard e di
V. Gronbech.
Tendenze letterarie del Novecento 345

Mentre l’opera dei primi: dei danesi J. Aakjaer1 e M.


Andersen-Nex©2; degli svedesi M. Koch3, G. Hedenvind-Eriks-
son4, D. Andersson5, dei norvegesi K. Uppdal6, J. Falkber-

1 Più noto come lirico di primitiva freschezza, attinta al salmo e al


canto popolare (Rugens Sange - I canti della segale, 1906), alla maniera
di Burns, che come romanziere. Ma anche nella narrativa (Vredens born
- I figli dell’ira, 1904) è stato fra i primi ad agitare le idee radicaliste
di Brandes applicandole alla difesa del proletariato rurale danese.
2 Venuto all’arte dall’esperienza diretta della più squallida miseria e
formatosi nella « Università popolare », ha evocato in romanzi semiauto­
biografici (Pelle erobreren - Pelle il conquistatore, 1906-10; Ditte men-
neskebarn -La ragazza Ditte, 1917-21; Morten hin rode -Martino il rosso,
1945-47) la storia del proletariato urbano nella Danimarca moderna, con
spirito decisamente antiriformista e dogmaticamente comunista. Am­
miratore della Russia sovietica (Mod dagningen - Verso l’alba, 1923;
To Verdener - Due mondi, 1934) si è stabilito, dopo la seconda guerra
mondiale, a Dresda, « per sfuggire alla tirannia del capitalismo »; e in
quattro volumi di Memorie (Erindringer, 1932-39) ha tracciata la storia
della sua formazione umana, più ricca di fatti e di cose vissute che di
serie meditazioni. La acredine della agitazione sociale e il sentimentali­
smo che appesantiscono anche i numerosi racconti (perfino i meno po­
lemici come Flyvende Sommer; Lotterisvensken e qualche altro attestano
doti artistiche secondarie) non hanno impedito la diffusione enorme dei
suoi scritti chiari e fluidi, pervasi di sincera pietà per i diseredati, ma
sempre inclini all’enfasi pedagogica e alla retorica ideologica.
3 Borghese di estrazione, Martin Koch s’è affermato soprattutto col suo
romanzo (Guds vackra vàrld - Il bel mondo di Dio, 1916) sui bassifondi
della grande città — attento esame degli eroi della malavita, alieno da
facili idealizzazioni e anche da condanne sommarie. Forse la prolissità
narrativa, soprattutto, nuoce al lavoro, che dà spesso l’impressione di un
naturalismo fuori stagione.
4 Contadino del Jamtland, esperto di vari mestieri e di vari paesi, dopo
breve soggiorno in una « Università popolare », si è dato a narrare
storie di lavoratori, boscaioli e manovali nell’estremo settentrione sve­
dese (Vid Eli vàgor, 1914; De fòrskingrades arv, 1926; Det bevingade
hjulety 1928; Pà frikópt jord, 1930). In uno stile formatosi sul rac­
conto popolare e dialettale ha composto novelle (Jàmtlàndska sagor,
1941-52), realistiche e fantastiche a un tempo, attinte a motivi della sua
infanzia e del folclore locale.
5 Dan Andersson è lui pure venuto all’arte dalla fatica manuale e dalla
« Università popolare ». Nel 1914 narrò in prosa (Kolarhistorier) e in
versi (Kolarvisor) le sue esperienze di carbonaio nelle foreste del Fin-
mark, ma soltanto più tardi, nel 1917, i versi di Svaria ballader (Ballate
nere) che risentono della lettura di Kipling rivelarono il suo talento
visionario e musicale e l’angoscia metafisica di un’anima educata ai
rigori del Pietismo. E anche nell’opera autobiografica De tre hemloia
(I tre derelitti, 1918), David Ramms arv (L’eredità di David Ramm,
1919) tali conflitti psicologici e religiosi prevalgono sui problemi sociali,
contribuendo a trasfigurare in un’aria allucinata e cupa vicende e figure
umane.
6 Soprattutto noto per il ciclo narrativo Dansen gjenom skuggeheimen
346 Le letterature della Scandinavia

get1 e O. Braaten2 umanitaria e spesso ingenuamente roman­


tica e ottimista si rifa alla crisi sociale apertasi in Scandinavia
nell’ultimo quarto dell’Ottocento (abbandono delle campagne
da parte di vaste masse contadine, emigrazione transoceanica,
passaggio dalPartigianato all’industria, lotte sindacali d’un pro­
letariato ancor giovane e di mentalità rurale); i romanzi dei
secondi: E. Johnson, H. Martinson, Pórbergur Pórdarson,
Laxness, Kirk3, Herdal, Becker ed altri marxisti e freudiani,
riflettono nel loro crudo e amaro realismo i problemi del no­
stro tempo e l’esperienza sconvolgente di due guerre mondiali.
Certo non pochi di questi scrittori vogliono presentarsi —
aldilà della causa comune — con una propria personalità ar­
tistica, con interessi intellettuali e problemi propri, ma ciò
che invece costituisce la nota caratterizzante dei loro intermi­
nabili romanzi autobiografici — pur ricchi talvolta di colori e
di personaggi attinti ad ambienti inediti — è proprio la man­
canza di salde radici culturali e di schietta libertà fantastica.
Dove l’aneddoto vissuto o l’evento cronachistico non sono
lì a sostenere la narrazione, questa cade subito nel falso e nel
banale. Grezzo e spesso soffocante è quel loro realismo docu­
mentario attento solo a rendere le cose in funzione di troppo

(La danza attraverso il paese delle ombre, 1911-24), che illustra il fe­
nomeno del passaggio dall’agricoltura all’industria mediante una ricca
galleria di tipi e una serie di umoristiche vicende. Si tratta di opera di
notevole mole, ma oscillante e incerta fra i toni popolareschi e le non
ben armonizzate reminiscenze dotte.
1 Figlio di minatori immigrati in Svezia, ha lavorato nella miniera di
Roros — chiamata Christianus Sextus, e che dà appunto il titolo a
una sua trilogia romanzesca, 1927-35 — fino ai venti anni. Fedele a
questa sua tematica anche nella tetralogia Nattens br0d (Il pane della
notte, 1940-59) ha portato avanti l’epico racconto dei suoi minatori dal­
l’epoca di Carlo X II alla metà dell’Ottocento. Al gusto dello storico e
alle esigenze narrative contrasta sempre in questo scrittore un fermento
romantico-religioso che ostacola la coerenza psicologica dei personaggi
e l’impianto stesso delle trame.
2 Interprete della miseria della classe operaia nel suburbio orientale di
Oslo in romanzi realistici, stilisticamente un po’ opachi, ma animati da
sincera partecipazione umana ai fatti narrati (Kring fabrikken - Intorno
alla fabbrica, 1910; Uhehiet, La tana dei lupi, 1919).
3 Hans Kirk è soprattutto noto come autore del cosiddetto « romanzo
collettivo » (che ha avuto anche in Svezia cultori come Ivar Lo-Johansson
e J. Kjellgren) d’ispirazione marxista (Fiskerne - I pescatori, 1928) e di
studi teorici (Kristendom og kommunisme, 1948), nei quali si vuol di­
mostrare l’identità dei due termini. Becker e Herdal, benché attivi pro­
pagandisti e polemisti sul piano sociale, non hanno dato opere di du­
revole valore artistico.
Tendenze letterarie del Novecento 347

scoperti motivi polemici. Quei temi ricorrenti dello sfruttamene


to umano, quelle squallide scene di miseria, di passioni anima­
lesche e criminali — inefficaci nella sovrabbondanza dei precisi
dettagli — quei soliti tipi di umiliati e offesi da ima società
corrotta, anche se hanno valore di testimonianza, non escono
dall’ambito del più trito verismo. A molti di questi scrittori
è stata fatale l’illusione che l’arte s’identificasse col loro auto­
biografico anarchismo, l’immediatezza con la sincerità.
Tutti s’impongono però all’attenzione. La diffusissima edu­
cazione popolare che è alla base della loro coscienza di classe,
la freschezza e novità delle esperienze fatte in patria e all’este­
ro, assicura, anche, ai più giovani il successo negato agli anziani;
la stampa e gli editori li accolgono, il pubblico li legge e li
discute; e in Svezia schiude loro le porte perfino l’aristocratica
e formalistica Accademia.
Accanto al comune ideale rivoluzionario affiorano, alme­
no nei più dotati, tendenze e interessi diversi, segno di ulte­
riori sviluppi: ora un individualismo primitivistico e paga­
neggiante (Lundkvist, Kjellgren, Sandgren, Asklund, Martin­
son); ora un prepotente bisogno di confessione autobiografica
(E. Johnson, L. Fridegàrd) ora anche un sincero pathos reli­
gioso (D. Andersson, Lagerkvist, Laxness). Così il rivoluzio-
narismo non è che un abbrivo verso le più complesse espe­
rienze di avanguardia: per Lagerkvist l’espressionismo, per
Lundkvist il surrealismo, per Martinsson il primitivismo pan-
sessualista. Mentre però il primo solo tardi consegue i mas­
simi risultati artistici nella nudità ed essenzialità della sua
prosa visionaria, gli altri danno la miglior misura di sé nel­
l’opera prima: anzitutto Johnson che, nell’autobiografico Ro-
manto di Olof, 1934-37 ha dato la più persuasiva prova della
sua arte, malgrado la posteriore produzione romanzesca forte­
mente segnata dalla polemica ideologica e dispersa in tentativi
e ricerche tecniche sui modelli di Joyce e Proust, Gide e Mann
(Kommentar till ett stjdrnfall, 1929; Avsked till Hamlet, 1930;
Stràndernas svall, 1946; Molnen over Metapontion, 1957;
Hans nàdes tid, 1960). Lo spirito insofferente — in quel suo
romanzo autobiografico — le esperienze di lavoro e di vita> le
letture caotiche e saltuarie, tutto è narrato da questo scrittore
con una ricchezza di dati concreti e di impressioni visive, con
uno spirito di osservazione sagace e aderente alla realtà, con
un gusto animoso dell’avventura che non sconfina mai nel
gratuito e nell’arbitrario.
La complessità e contradditorietà delle esperienze attra-
348 Le letterature della Scandinavia

verso le quali passano gli scrittori « proletari » è illustrata in


forma esemplare dalla parabola letteraria di H. K. Laxness.
Benché di origine contadina, Halldór Gudjónsson (Kiljan
è il nome cattolico di battesimo e Laxness è il nome del po­
dere avito) ha studiato nella Capitale, a Reykjavik, e a dicias­
sette anni ha scritto, nel 1919, il suo primo libro: Il figlio di
natura, duecentoventotto pagine di effusione romantica e na­
turistica alla Rousseau, ravvivate però da un’ansia introspet­
tiva e da una sensibilità fuor del comune, che sembrano prean­
nunciare una crisi religiosa. Dal 1922 al 1924 lo troviamo
infatti, sotto il nome di Fra’ Mauro, oblato secolare benedet­
tino nel convento lussemburghese di Saint-Maurice de Clair-
vaux, profondamente travagliato dai dilemmi mistico-sensuali
d’una conversione che ha la sua origine nel caos del primo
dopoguerra e in disordinate letture di Strindberg e Nietzsche,
Jorgensen e Pascal, Bourget e Papini.
Appena in Islanda si delineo il movimento letterario so-
cialisteggiante e modernistico di Pórbergur Pórdarsson con la
pubblicazione di quelle « Lettere a Laura » (Bréf til Làru,
1924) che ne furono quasi il manifesto politico, Laxness apri
la polemica controbattendo in nome della nuova confessione"
religiosa (Il punto di vista cattolico, 1925). Ma la sua apolo­
getica, che doveva in primo luogo rintuzzare le accuse di
oscurantismo e superstizióne, non si acquietava nel dogma
né rinunciava alla fede nel razionale; anzi in qualche punto,
contraddittoria e tumultuosa com’era, sembrava assai più con­
corde con l’avversario che ispirata all’ortodossia cattolica.
Anche negli altri scritti più o meno autobiografici di que­
gli anni (Partii da casa, pubblicato solo nel 1952; Sotto la
vetta sacra, 1924; Il gran tessitore del Kashmir, iniziato in
Sicilia nel 1927) si avvertono contraddizioni e contrasti psico­
logici: innanzi tutto un dissidio violento tra l’uomo-Dio nietz­
schiano e il Dio-uomo cristiano, tra religione sociale e reli­
gione monastica, tra ideale prometeico di giustizia e ideale
messianico di fratellanza. Né le successive esperienze (abban­
dono del convento e soggiorno negli Stati Uniti, dove s’incon­
trò con Upton Sinclair; ripetuti viaggi nell’Unione Sovietica;
attività di propagandista comunista in patria !) hanno alterato

1 1 Austurvegi 1933 (verso oriente); Gerska sefintyrià, 1938 (l’avven­


tura russa — nel quale prese per buoni i processi di Mosca. Ma nel­
l’autobiografia — Skàldattmi, 1963, — si è finalmente ed esplicitamente
ricreduto). Notevoli pure i più recenti saggi, Dagur i senn (Ogni giorno
Tendenze letterarie del Novecento

sostanzialmente quel dissidio, rimasto più o meno vivo in tutti


i suoi romanzi, anche i più recenti (La stazione atomica, 1948,
in cui è satireggiata la borghesia islandese dell’ultimo dopo­
guerra arricchita e sperperatrice; Eroica, 1952, iniziato a Roma
nel 1948; parodia e esaltazione insieme in stile di Saga an­
tica, dell’ideale eroico germanico-nietzschiano al di là del bene
e del male; Il paradiso riconquistato, 1960; storia d’un islan­
dese che cerca la felicità emigrando in America, e la trova
invece, al suo ritorno, nella povertà della sua isola).
Fra i tanti che in colorite « istantanee >> riproducono solo
i contorni esterni delle cose o si perdono in astruserie di sim­
boli crittografici, Laxness è dei pochi che riportano l’uomo
nella sua incertezza al centro dell’arte e della realtà. E con
la forza della realtà s’impongono i suoi personaggi: vivi, con­
creti, saldamente piantati sulla terra, anche se dietro il loro
capo l’orizzonte si apre verso l’ignoto e l’imperscrutabile;
naturalisticamente concepiti anche se la realtà in cui vivono
si colora di simbolo.
Già nel romanzo di Steinn Ellidi (Il gran tessitore del
Kashmir) la condizione umana è raffigurata come pascaliana
àntitesi tra grandezza e miseria, tra volontà di conquista
e volontà di rinuncia. Steinn non sa risolversi: sembre­
rebbe incline verso un umanesimo comunista utopisticamente
inteso come attuazione dell’ideale evangelico, ma avverte
insieme che solo l’ascetismo cristiano può riscattarlo dal-
l’ossessionante sensualità. Questo romanzo-confessione intes­
suto di infiniti monologhi, di digressioni e citazioni, ricor­
da da vicino l’incandescente autobiografismo di uno Strind­
berg e di un Papini, pur allontanandosene nelle conclusioni.
Steinn finisce, infatti, per ripudiare sia il quietismo dogmatico
sia l’apriorismo rivoluzionario.
Da questa irrisolta crisi religiosa, tutta palpitante di im­
mediatezza autobiografica, Laxness è passato al racconto d’am­
biente islandese, tornando così alla tradizione letteraria na­
zionale. Anche prima di lui altri avevano percorso la stessa
via: Gunnar Gunnarsson e Gudmundur Kamban s’erano fatti
scrittori danesi, Kristmann Gudmundsson norvegese; ma erano

per sé, 1955), nei quali pur polemizzando contro il capitalismo si pro­
clama nemico d’ogni sètta e d’ogni dogma: idee e propositi ribaditi in
Upphaf mannudarstefnu (Inizio dell’èra umana, 1965).
350 Le letterature della Scandinavia

poi tutti tornati alla tradizione nazionale, austeramente con­


servatrice e puristica.
Così Laxness. Estraniatosi materialmente e spiritualmen­
te dalla cultura islandese, tanto da pensare per un momento
a mutuare la propria lingua con l’inglese, è tornato anche lui
ad attingervi a piene mani. Anche a lui la letteratura norre­
na è apparsa modello letterario e stilistico da difendere e con­
trapporre a ogni influsso straniero.
Nazionalismo politico e radicalismo sociale s’intrecciano
così nella storia di Salvòr Valgerdur (Tu pura vite!, 1931;
L'uccello sulla riva, 1932): la figlia illegittima che lotta per
la giustizia sociale del suo paese. Siamo in imo sperduto
villaggio di pescatori, al tempo delle prime lotte di classe.
Con caricaturale umorismo Laxness descrive questa primi­
tiva società conservatrice e bigotta sfruttata dall’astuto ne­
goziante di pesce Johann Bogesen e redenta dalla pia unzione
dell’Esercito della Salvezza; terra ancora vergine per il messia­
nismo comunista che lentamente vi penetra con la predica­
zione d’improvvisati agitatori.
Attorno a poche ben rilevate figure si annoda e snoda il
filo del racconto: da Sigurlìna, goffa e inetta che dissimula
sotto una trasparente vernice di santocchieria i suoi residui
bollori giovanili, a sua figlia Salvor « dagli occhi limpidi co­
me polla sorgiva », tutta sanità e schiettezza d’impulsi, con­
sapevole forza e dignità, provata dalla cattiveria umana ep­
pure intrepida nel sacrificio di sé; dal brutale marinaio Stein-
J)ór che nella sua elementarità sembra un pezzo di natura
islandese all’intellettuale e timido Arnaldur malato di bova-
rismo, proselite e poi apostata comunista, dall’affarista Johann
Bogesen all’agitatore bolscevico Kristófer Torfdal.
Ma la tesi ideologica non inceppa qui il libero svolgimento
del racconto, sempre vigilato da un sincero intuito poetico.
Chi non proverebbe pietà per quei diseredati che la sorte
abbandona alla mercé del capitalista Johann Bogesen? Eppure
la letteratura « proletaria » conta poche figure così vive e an­
tiretoriche come questa dell’onnipotente signore di Óseyri,
tanto umano nel suo egoismo. Chi non proverebbe disgusto
per quel vizioso da romanzo zoliano che è Steinf)ór? Eppure
anche nella sua animalesca brutalità c’è qualcosa di « implo­
rante e umile, qualcosa che interroga e cerca, che chiede aiuto
nella sua indigenza ». Perfino una sciagurata come Sigurlìna
riacquista, vicino alla figlia innocente, un barlume di dignità:
Tendenze letterarie del Novecento 351

L’angelo del sonno alitava la sua malia su quel viso di bambina


e placava la collera della madre, aprendo uno spiraglio sulla mera­
vigliosa contrada dei sogni; là dove gli uomini vagano felici sotto
le volte, e le stelle del cielo intonano musiche flautate. Forse la
donna ritrovava ora la melodia dei suoi più dolci sogni nelle linee
di quel volto dormiente sul quale s’incurvava, in ascolto: ricordi
di promesse dateci da un altro mondo tanti tanti anni fa. Vivono
le promesse come miraggi nel cuore dell’uomo, finché l’uomo non
muore. Talvolta Dio fa all’uomo una promessa e poi la mantiene
in maniera cosi diversa da come l’aveva fatta... quel volto assopito
era una di queste promesse... era la realtà d’un sogno così diver­
samente sognato. Eppure là appunto era il significato e insieme
la giustificazione della sua vita.
C’è in questo racconto una vitalità e una freschezza di
stile che rivela il miglior Laxness, e che largamente compen­
sa le lungaggini delle due ultime parti e le crudezze natura­
listiche di alcuni episodi, le scene ad effetto e gli espedienti
da romanzo d’appendice (cose del resto che non mancano
neppure in un Dostoèvskij). E la stessa storia di Salka Valka,
che si conclude con l’abbandono del credo politico e dell’uo­
mo amato che l’ha iniziata a quel credo, è una riprova del­
l’equilibrio artistico che regge la narrazione, gravitante tutta
intorno al motivo centrale dell’indipendenza e della dignità
dell’individuo, al di fuori di ogni dogma religioso e politico.
Alla natura nemica, alla cattiveria e alla debolezza degli uo­
mini Salka Valka oppone senza tentennamenti la sua volon­
tà eroica. Ma si fa strada in lei, come nel suo compagno di
lotta, l’amara certezza che nessun sistema sociale bandirà l’in­
giustizia e il dolore dal mondo; che nessun collettivismo ri­
solverà i più inquietanti problemi dell’individuo; dice Àrnal-
dur, e le sue parole sembrano suggellare una lunga storia
di lotte e di speranze:
Pegar ollu er à botninn hvolft pa er madurinn einn, àleinn - han
jinnur pad pegar banastundin nàlgast; pegar hann veit, ad hann a
ad deyja sinum dauda - einn 1.
Questo stesso dissidio fra poeta e riformatore sociale si ri­
trova nei romanzi posteriori a Salka Valka, da Uomini li­
beri, 1934-35, alla tetralogia su Ólafur Kàrason Liósvìkingur,
La luce del mondo, 1937; Il castello del paese dell’estate, 1938;

1 A guardar bene a fondo, l’uomo è sempre solo, completamente solo:


e se ne rende conto, quando s’avvicina l’ora del suo destino, quando
comprende che deve morire la sua morte - solo.
352 Le letterature della Scandinavia

La casa dello scaldo, 1939; Bellezza del cielo, 1940 (sull’ispira­


to scaldo nordico e insieme proletario moderno, che contrap­
pone all’ideale comunista di giustizia quello cristiano dell’amo­
re e della pietà) attestanti tutti un progressivo riavvicinamento
spirituale del cosmopolita Laxness alla grande tradizione let­
teraria dell’Islanda.
Se in Salka Valka l’antico ethos germanico, l’ideale del­
la dignità e autosufficienza dell’uomo appare quasi travestito
nell’umanesimo comunista e sempre in larvata antitesi con la
morale evangelica, nella storia di Jón Hreggvidsson, La cam­
pana dell'Islanda, 1943; La fanciulla bionda, 1945; Incendio
a Copenaghen, 1946, il pathos patriottico e la vicenda roman­
zesca sono entrambi ispirati da un rinnovato studio dei testi
letterari norreni. Il romanzo si svolge non in età vichinga
ma molto più tardi, tra la fine del Sei e il principio del Set­
tecento, negli anni neri della storia islandese, quando da un
lato il monopolio commerciale della Danimarca e dall’altro
una strana concomitanza di catastrofi naturali precipitarono
l’isola nella servitù e nella miseria. Ma la figura di Jón Hreg­
gvidsson, che soffre e lotta per riaffermare un antico diritto
all’indipendenza, simboleggia la volontà d’affrancamento di tut­
to un popolo gemente sotto la frusta dello straniero e non
dimentico della passata grandezza.
La trama, d’altronde, non è senza addentellati con il mo­
mento storico in cui fu scritta. Proprio nel 1944 la più antica
repubblica parlamentare d’Europa tornava a essere uno Stato
sovrano e indipendente. Terminava cosi il plurisecolare pre­
dominio norvegese e danese, che né la Costituzione del 1878
né il trattato d’unione personale con la Danimarca del 1918
erano valsi a rendere meno umiliante; ed è naturale che que­
sto solenne evento politico abbia influito sulla concezione del
romanzo, attualizzando momenti di storia nazionale dimenti­
cati o comunque assai lontani nel tempo.
Più che personaggio storico Jón Hreggvidsson è figura da
romanzo picaresco; ma storico è il suo processo, che riporta al
conoscitore delle Saghe norrene l’eco remota della laboriosa
procedura e della causidica oratoria dell’antico parlamento
islandese. Non meno storico è Arni Magnùsson, il celebre
antiquario, che, col nome di Arnas Arnasus, compare nel ro­
manzo in veste di patetico ricercatore di vetusti manoscritti
in cui si nasconde il tesoro letterario d’Islanda e per la cui
salvezza egli sacrifica la propria vita sentimentale. Ma ispirato
all’antica Saga è soprattutto lo stile; impersonale, oggettivo,
Tendenze letterarie del Novecento 353

dissimulante sotto una gelida superficie la sua vulcanica esplo­


sività.
Per secoli questo stile della Saga è stato studiato e imitato
in tutto il Nord e specialmente in Islanda, dove il tradizionale
conservatorismo ha portato a una lunga frattura col pen­
siero europeo, ancor oggi sensibile perfino nella struttura
rigida e arcaica della lingua. Il romanzo Gerpla ci riporta ancor
più del precedente alle remote scaturigini di questa tradizione.
Campeggia infatti al centro del racconto l’eroe vichingo,
il guerriero impavido (tale è il significato del norreno garpr
da cui è derivato Gerpla, sull’analogia di Grettla da Grettir
di Njàla da Njàll) celebrato nelle Saghe e nella poesia scaldica;
barbaro massacratore e nello stesso tempo amante della libertà
e dell’indipendenza personale, terribile pirata e insieme spesso
dotato di virtù poetica.
Non si tratta però qui d’una delle solite riesumazioni
dell’eroe nordico idealizzato dalla letteratura ottocentesca. Lax­
ness è semmai più vicino al realismo di un J. Fridegàrd o
al farsesco caricaturismo di un F. G. Bengtson. Ma la sua ispi­
razione è ben più complessa di quella dei due scrittori sve­
desi. Se per un verso attinge anche lui a una Saga norrena
(la Fóstbroeclrasaga, narrante le imprese dei due fratelli di
sangue Porgeirr Hàvarsson e Pormódur kolbrùnarskàld, e la
morte di quest’ultimo a fianco del re norvegese Olao Haralds-
son nella battaglia di Stiklastadir, l’anno 1030) particolarmente
cara alla sua tematica psicologica per l’accentuato sincretismo
pagano-cristiano; per un altro lo fa con l’intento polemico di
parodiare veristicamente l’ideale eroico germanico. Se satireg­
gia da buon antiromantico questo eroismo sterile, fondato sul­
la smania di conquista e di sterminio, anche lui però, da
ultimo, rende omaggio all’utopia e all’avventura, alla fedeltà
e all’ardimento1.
Per un verso, infatti, il suo romanzo rievoca Furto fatale
tra paganesimo e cristianesimo nel Nord sul volgere del pri­
mo millennio, interioliandone la narrazione con gustose e co­
lorite scene parodistiche, forse meno antistoriche di quanto
comunemente si pensi; per un altro oppone alla satira anti-
eroica la commozione per ogni forma di umana illusione e
per il suo valore etico. Assistiamo a battaglie cruente iper-
bolizzate con quasi ariostesca malizia e a brutali rapine, ve­

1 Analogo tema, ma su un piano realistico moderno, è come s’è detto,


in Paradisarbeimt, 1960 (Il paradiso riconquistato).

XXVII - 14. Lett, della Scandinavia


354 Le letterature della Scandinavia

diamo predare e saccheggiare, taglieggiare e massacrare; ma


nella glorificazione di re Olao, vichingo ed evangelizzatore,
eroe a un tempo della spada e della croce, e del suo poeta di
corte Pormódur kolbrùnarskàld, sentiamo anche prorompere
il pathos religioso di Laxness cosi a lungo represso e com­
battuto. Il re guerriero che cadde in una battaglia fratricida,
del tutto estranea alla evangelizzazione del Nord, e nella tra­
dizione cristiana posteriore e nella Heimskringla di Snorri fu
assunto a santo martire e « perpetuus rex Norvegia^ », trova
qui la sua seconda apoteosi nella parola del poeta moderno.
Molto più convenzionale e tradizionalista è il restante pa­
norama della narrativa e della lirica nordica fino alla seconda
guerra mondiale.

In Svezia a un polo stanno O. Hedberg, A. von Krusen-


stjerna, F. Nilsson-Piraten che rappresentano la sostanziale pro­
secuzione degli spiriti e della tecnica del romanzo ottocen­
tesco, anche se alla luce d’un nuovo pensiero che va dà Bergson
a Gide e a Freud (da Evasi e inseguitori, 1930 a La sposa
impallidisce, 1951; dalla trilogia su Tony Hastfehr, 1922-26
a La storia di Viveka von Lagercrona, 1935-38; da Bombi Bitf
e io, 1932, ai tragicomici Racconti di Fàrs, 1940) secondati,
su un piano di crudo e moralistico naturalismo, da V. Moberg
(Rid i natt!, A cavallo stanotte!, 1941; e il ciclo romanzesco
sull’emigrazione svedese transoceanica Utvandrarna; Invandrar-
na; Nybyggarna; Sista brevet till Sverige, 1949-59), e di prosa
romantico-saggistica, alquanto ridondante nella sua pienezza, da
F. G. Bengtsson (Letterati e militari, 1929; Compagnia per un
eremita, 1938; Orm il rosso, 1941-45); all’altro polo spiccano
gli spregiudicati scrittori esordienti nel Quaranta, tanto più
fieri nemici del passato quanto più cerebrali imitatori di mo­
delli stranieri contemporanei (Kafka, Gide e Sartre, Eliot,
Pound, Hemingway e Faulkner): autobiografisti senza veli e
inventaristi morali, diaristi e memorialisti.
Simile appare l’orizzonte letterario in Danimarca, dove a
narratori tradizionalisti come Paludan, Hansen, il faeroense J.
F. Jacobsen prematuramente scomparso, autore di Barbara
(1939) o come K. Blixen-Finecke, aristocratica riesumatrice di
modi e gusti romantici col suo superomismo pago di gesti su­
blimi e di atteggiamenti aldilà del bene e del male e con i
suoi artificiosi « pastisches » (Sette racconti fantastici, ed.
inglese 1934, danese 1935; Fiabe invernali, 1942; Ultimi rac­
conti, 1957), solo di rado tenuti insieme dalla virtuosità del-
Tendenze letterarie del Novecento 355

P« écriture artiste », più persuasiva invece nei libri di ricordi


quale La fattoria africana, 1937, si contrappongono romanzieri
d’avanguardia noti anche per la loro partecipazione alla Re­
sistenza come M. Klitgaard (Le -penne rosse, 1940; Il di­
vino quotidiano 1942), brillanti caricaturisti della società
moderna come H. Scherfig (La primavera perduta, 1940; Idea­
listi, 1945), raffinati psicologisti come J. Nielsen (Abissi, 1940),
Aage Dons (Il pozzo del soldato, 1936) e soprattutto H. Bran-
ner, indubbiamente più dotato di tutti, che, in stile tagliente
incisivo e in soliloqui non di rado monotoni alla Joyce, esprime
il sentimento esistenzialistico dell’angoscia e del nulla, il conflit­
to tra umanesimo e violenza, ispirato dalla seconda guerra mon­
diale (notevoli anche se condotto con psicanalitico schematismo
i romanzi II cavallerizzo, 1949; Ingen kender, natten, 1955;
e più ancora i racconti brevi: Om lidt er vi borte, 1939;
To minutters stilhed, 1944).
Cosi anche in Norvegia e perfino nella conservatrice Islanda
l’influsso delle recenti e recentissime esperienze culturali eu­
ropee si avverte in una pleiade di prosatori; alami dei quali
dotati di buon talento narrativo come T. Vesaas, scrittore dia­
lettale del Telemark che, partito dal nudo paesanismo di Duun,
si è foggiato uno stile estremamente secco e stringato, ma
carico di simbolistiche risonanze, in apparenza semplice ma
lavoratissimo (nella trilogia su Klas Dyregodt, 1930-32, e
meglio ancora nei racconti brevi, tra i quali classica è la raccolta
Vindarne - I venti, 1952) e nel romanzo Fuglane (Gli uccelli,
1957), in cui penetra addentro nell’anima dei derelitti e dei
dementi con un tormento di illuminazione non sempre per­
spicuo; come A. Omre chiaro e impassibile (alla maniera di
Hemingway), narratore di enigmatici drammi psicologici (mi­
gliori le novelle come Cose che capitano, 1941); come A.
Sandemose, giornalisticamente sensazionale e vistoso, ma molto
meno convincente nel suo consequenziario freudismo (Un fug­
giasco cancella le sue tracce, 1933-56); come il critico e nar­
ratore J. Borgen, anche lui ricercante sulla scorta della psica­
nalisi la soluzione dell’enigma umano e collettivo nell’anima
del fanciullo (v. la trilogia: Il piccolo Lord; Le sorgenti tor­
bide; Eccolo qui, 1955-57).
S’è detto che la lirica del Novecento serba a lungo i
legami spirituali con la letteratura del secolo precedente per
aprirsi nuove vie soltanto tardi, dopo la prima guerra mon­
diale. La forza d’una lunga tradizione culminante nella raffinata
poesia simbolista* la tendenza alla struttura strofica e alla
356 Le letterature della Scandinavia

cadenza ritmica fanno sentire tutto il loro peso anche sui


poeti giovani, per non parlare di quelli la cui attività si pro­
trae ben oltre le soglie del Novecento. Si prendano ad es.
poeti come l’islandese Einar Benediktsson, che pur usando i
metri antichi delle rimur perpetua l’armonia verbale delle sue
strofe simbolistiche (Hrannir - Onde, 1913; Vogar - Marosi,
1921) ben oltre la tragedia della prima grande guerra; o come
gli svedesi Bo Bergman e Vilhelm Ekelund (traduttore que­
st’ultimo di Leopardi e di Petrarca), che in pieno Novecento
tengono vivi i grandi temi di fine-secolo: dall’idealismo religioso
(che Ekelund rinnova nello spirito di Goethe e di Nietzsche,
di Holderlin, di Platen e di George) alla semplicità popola­
reggiante della folkevise, nella quale Bo Bergman comprime
il suo intimo dramma di tristezza e di rassegnazione, di pas­
sione e di scepsi (Elden, 1917; Livets ògon, 1922; Trots allt,
1931; Gamia gudar, 1939). Sia in Bergman sia in Ekelund
(nella lirica: Dithyramber i aftonglans, 1906; e più ancora
negli aforismi: Antikt ideal, 1909; Metron, 1918; Concordia
animi, 1942), si avvertono però, fra le eredità ottocentesche,
i segni dei nuovi tempi negli atteggiamenti pessimistici e
volontaristici, estetizzanti e moralistici insieme.
S’è già esaminato, sotto tale aspetto, il valore dell’opera
di Par Lagerkvist.
Se Lagerkvist è in Svezia la figura più significativa e arti­
sticamente dotata del ventennio tra le due guerre, per la coe­
rente interpretazione religiosa della crisi dei valori (pur senza
rappresentare come Eliot il ritorno definitivo alla fede), ac­
canto a lui tutta una pleiade di scrittori variamente partecipano
alla vivacissima discussione ideologica e alle esasperate espe­
rienze letterarie del nostro tempo: dai proletari marxisti ai
pansessualisti freudiani, il cui sbrigativo semplicismo trova la
più cocente smentita negli eventi politici che precedono la
guerra. Nei più meditativi il senso della solitudine e dell’im­
potenza dell’uomo conformizzato e annullato dalla « civiltà
di massa » è penetrato così a fondo da colorire d’ironia la
più amara tragedia. Lagerkvist stesso non di rado si serve
di toni ironici e sarcastici per dare maggior rilievo al suo
biblico pessimismo. Ma in altri come H. Gullberg, Karin
Boye, Artur Lundkvist, Harry Martinson e Gunnar Ekelòf,
l’ironia si fa sempre più maschera elusiva, consapevole e raf­
finato strumento di contrappunto psicologico.
In Hjalmar Gullberg questa sensibilità tragicomica questo
evasivo e insistente gioco intellettuale — così diffuso anche
Tendenze letterarie del Novecento

fuori del Nord — ha il suo più vivo e più persuasivo inter­


prete. Già nella prima lirica (I en fràmmande stad, 1927;
Sonaty 1929; Andliga òvningar, 1932) si nota la fusione di
eterogenei motivi culturali e poetici, per cui il discorso con­
tinuamente trascorre, su una trama antitetica, dalla commo­
zione alla satira, dal sublime al banale, dall’ascesi mistica alla
sensualità con una latitudine d’ispirazione che va da Eckhart
e Suso a Morgenstem e a Heine, dai ritmi del « music-hall »
ai Salmi, da Kierkegaard allo stile pubblicitario e parodistico
della tradizione goliardica lundense, in cui il poeta tanto a
lungo ha indugiato
Il travaglio morale della complessa personalità di Gullberg,
malgrado tutto anelante alla pace e alla fede, si rivela appieno
nelle liriche della raccolta Att óvervinna vàrlden (1937), dove
già nel titolo si annuncia l’ispirazione religiosa e dove i toni
solenni e apocalittici del contemptus mundi e della mors mys-
tica lasciano sempre aperto uno spiraglio al sorriso, consen­
tendo cosi alla lama dell’intelligenza di recidere a un tratto
ogni groppo sentimentale (si vedano soprattutto le liriche
Bebàdelse i havet\ Huvudskalleplats; Undinen; il ciclo Cloaca
maxima). Accanto al poeta va ricordato lo studioso e il tra­
duttore, come della lirica e del teatro greco antico cosi di
Calderón e di Garda Lorca, di Sikelianos e di Seferis, e che
nell’imperversante psicologia della crisi e in mezzo alla dila­
gante ciarlataneria2 letteraria non ha mai cessato di far valere
le esigenze della libertà umana e della spiritualità dell’arte
(Fem kornbrod och tvà fiskar, 1942). Nelle ultime raccolte:
Dodsmask och lustgàrd, 1952; Terziner i okonstens tid, 1958;
Ógon, lappar, 1959, alla nota tematica biblica e classica si
accompagnano accenti di una nuova scarna semplicità, quasi
discorsiva e colloquiale, che testimoniano quanto Gullberg fosse
criticamente aperto anche ai più recenti indirizzi del gusto.
Dalle rovine della seconda guerra mondiale non si può
dire che siano sorti nel Nord originali indirizzi di pensiero
o d’arte, se non nella scia di modelli stranieri. Si tratta in
sostanza di idee già note anche entro i confini della Scandinavia,
che si ripresentano però con rinnovata, esasperata urgenza. La

1 C. Fehrman, Hjalmar Gullberg, Stockholm, 1958, pp. 104-119; 217.


2 Che sembra arbitrariamente ispirarsi al maestro d’ogni modernismo.
(V. Baudelaire, Oeuvres Complètes, ed. I. Crépet, Paris, 1922-53, IX,
p. 154: « Après tout, un peu de charlatanerie est toujours permis
au génie... ».
358 Le letterature della Scandinavia

diffusa consapevolezza d’un sempre più incolmabile divario fra


cultura e vita morale, d’un secondo e più catastrofico fallimen­
to della civiltà moderna è stata anche qui per tutti un’espe­
rienza direttamente o indirettamente decisiva. Evadere, ribel­
larsi, liberarsi da ogni tirannia intellettuale, morale, sociale
sembra la parola d’ordine — per lo più in nome di effimere
fedi — che accomuna tutti gli scrittori della generazione affer­
matasi prima del 1940; e più che mai i giovanissimi, impegnati
in dibattiti ideologici e in programmatiche battaglie.
In Svezia soprattutto, dove i movimenti d’avanguardia più
facilmente prendono piede, il primitivismo freudiano trova
punti di contatto sia con la protesta sociale dei « proletari »,
sia con lo scetticismo e l’ironia degli scrittori religiosi, se
non a formare un comune fronte ideologico, a vagheggiare
il miraggio d’una civiltà che sia agli antipodi di quella pre­
sente e reale — magari in terre lontane o nei labili sogni d’una
edenica età dell’oro. Ciò che avvicina scrittori così diversi è la
forte impronta irrazionalistica. Lundkvist e Martinson, Karin
Boye e Ekelòf, Lagerkvist e Gullberg1si mostrano tutti schietti
figli dell’« età dell’ansia », tormentati, increduli, tesi a esplorare
i recessi senza fondo dell’inconscio sessuale o religioso, gl}
enigmi del sogno, in cerca della spiegazione ultima della vita.
Se alcuni credono di trovarla nella semplicistica divinizzazione
del sesso, altri nella ascesi mistica, tutti hanno però vivissimo
il senso d’appartenere a un’età di transizione e di aspettazione
messianica: piena di terrori, ma anche di speranze.
Il più battagliero, ma anche il più superficiale interprete di
questa crisi è Artur Lundkvist, per la smisuratezza dello slan­
cio energetico, per l’improntitudine delle assimilazioni culturali,
per il caotico dinamismo che ne informa tutta l’opera, già
oggi superante i 50 volumi. A leggerne la lirica come il ro­
manzo, i libri di viaggi come gli studi critici, si ha l’impressione
d’essere giunti a un limite estremo e invalicabile, tanto pro­
grammatico e artefatto appare ciò che vorrebbe essere trascri­
zione spontanea di sentimenti nativi.
Il Nietzsche delle Inattuali interpretato in chiave di grezzo
vitalismo si fonde qui con l’immoralismo di Rimbaud, motivi

1 E su un piano di maniera e di bravura estrinseca Bertil Malmberg,


che nei più diversi travestimenti in versi e in prosa autobiografica
(Orfika, 1923; Dikter vid grànsen, 1935; Under mànens fallande bàge,
1947; Ett forfattarliv, 1952) esprime la sua sensibilità inquieta pronta
viva, di decadente profeta del nichilismo.
Tendenze letterarie del Novecento 359

spiccioli dell’intuizionismo bergsoniano con il macchinismo dì


C. Sandburg, Lagerkvist con Whitman, Lawrence con Sher­
wood Anderson, O ’ Neill con Dos Passos 1 in funzione d’un
ultraromantico culto della Vita e d’una intransigente polemica
contro tutti i tabu morali e sociali della civiltà moderna2.
Bastano pochi cenni a dare un’idea della velleità program­
matica, dell’aggressivo attualismo, ch’è alla base della sua tam­
bureggiante lirica « versoliberista » in perpetua oscillazione fra
il tono profetico e la grossolanità naturalistica:
« Jag vili upphòra att grava i min egen sjàl / -----
Inte stirra pà naveln och mumla: Meningen? Me/ningen? »
« Jag àr rà och vild av bara hàlsa och ungdom och kraft, / jag
vàrdslòsar mitt yttre och àr grov i mun, / jag àr ràttfram och
fruktansvàrt oartig, / jag àr obildad och saknar uppfostran, / jag
har ingen moral / och jag kan inte konversera damerna3».
« Vad àr symfonier, sonater, Beethoven, Schubert?--- - /
Men en neger med saxofoni---/ Spela neger, svarte broder! /
Du nye Kristus, fràls oss med din blanka saxofoni / Spring upp
i ett skri! rasa! bit! morda! 4».

1 Vedi la raccolta di saggi Atlantvind, 1932 che mescola le voci degli


autodidatti e anticonformisti d’oltreoceano con quelle dei giovani scrit­
tori svedesi d’ispirazione « proletaria »; così pure quelli di Ikarus* fiykt,
1938; di Diktare och avslójare i Amerikas moderna litteratur, 1942; e
le traduzioni di lirica negra pubblicate sotto il titolo Den mórke bro­
dern, 1951. All’opera divulgativa di Lundkvist va affiancata quella del
narratore e traduttore Thorsten Jonsson, il quale con le novelle Som
det brukar vara, 1939 e con i saggi Sex amerikaner, 1942, Sidor av
America, 1946 ha fatto conoscere agli scrittori svedesi del Quaranta il
neonaturalismo di Hemingway, di Faulkner, di Caldwell e di Steinbeck,
divulgando uno stile e un gusto che ha reso celebri, aldilà d’ogni
intrinseco merito, dei narratori come W. Ljungqvist e T. Aureli.
2 Nella rivista radicale « Fronten » (n. 10, ottobre 1931 e n. 5, marzo
1932) la sua contrapposizione all’estetica « classicistica » d’una nuova
estetica « mostruosa, grottesca, diabolica » (!) e la sua psicologica con­
danna di tutta la tradizione letteraria fanno pensare alla paradossale
anarchia dei nostri futuristi (v. W. Binni, La poetica del decadentismo
italiano, Firenze 19492, pp. 116-118).
3 Voglio smetterla di scavare nella mia anima / non più fissare l’ombe­
lico e mormorare: il senso? il senso? [della vita].
10 sono rozzo, e pazzo di salute, di giovinezza e di forza - io trascuro
11 mio aspetto e uso parole volgari - io sono esplicito e terribilmente
sgarbato - io sono ignorante e senza educazione - io non ho alcuna mo­
rale - e non so intrattenere le signore. (Glod, 1928).
4 Che sono mai le sinfonie, le sonate, Beethoven, Schubert? -- / Guarda
un negro con il saxofono! -- / Suona negro, nero fratello! / Tu no­
vello Cristo, salvaci col tuo splendente saxofono! / Balza in piedi con
un urlo! Infuria! Mordi! Uccidi! (Fem unga, 1929).
360 Le letterature della Scandinavia

« En gang skall vi besegra vara sorger och lidanden / och nàra


vàr gladje vid jordens harm, / vara mànskliga, animaliska, / och
icke fórneka vàr djuriskhet ».
« Vi àr de irrationella, / de som skall sà ogràset / och sprida
vanvett —
Dynamitstoft skall vi utsprida / fór alla vindar1».
Sono versi, questi, che si sarebbe tentati di attribuire a
« Mafarka il futurista »; e che, nell’accozzo di vistoso e di
banale, di solenne e di plebeo sembrano a volte, come, in un
quadro surrealista, farci balenare davanti agli occhi la grotte­
sca immagine d’un D ’Annunzio travestito da guappo. Né l’in­
calzante avvicendarsi delle fatali esperienze europee è servito
a mutare l’ideale poetico e il repertorio di Lundkvist, che al­
meno sin oggi, attraverso una lunga attività di giornalista, di
critico letterario e cinematografico, di scrittore, di traduttore
esperto d’ogni avanguardia è in sostanza rimasto fermo alle en­
fatiche generalizzazioni del suo spavaldo rivoluzionarismo.
L’identificazione di vita e arte espressa in poesie-proclama
o in sequenze d’immagini violente e abbaglianti, giustapposte
secondo la surrealistica tecnica dello choc2 (da Korsvàg, 1942
a Dikter mellan djur och gud, 1944, fino a Ogonblick och1
vàgor, 1962) trova un parallelo nei romanzi (per es. Floderna
flyter mot havet, 1933) e nei variopinti libri di viaggio, ispirati
da terre e paesi lontani: l’Africa, la Russia, la Cina e il Sud-
america (Negerkust, 1933; Vallmor fràn Taschkent, 1952, Den
fórvandlade draken, 1955, Vulkanisk kontinent, 1957) tutti
più o meno pieni d’immagini sgargianti e di sensuale adesione
ai dati più vistosi della realtà umana.
Cosi questo scrittore sempre teso alla programmatica nega-

1 Verrà il giorno che vinceremo i nostri dolori e patimenti / e nutri­


remo la nostra gioia al seno della terra, / e saremo umani, animaleschi,
- e non rinnegheremo la nostra animalità -
Noi siamo gli irrazionali / coloro che devono seminare la zizzania / e
spargere la follia --La dinamite dobbiamo spargere / a tutti i venti.
(Svart stad, 1930).
2 Per es. « Poesi: en demonisk oskuldsfullhet. / Ett lamm som star i
làgor mitt pà en àng. / En vinthund som rullai in sig i ett lakan. / En
spegel framfór vilken en hàger har dótt / likt ett paraply fòrolyckat i
stormen. / Poesi: Ett klàdesstràck spànt mellam ett / fyrtorn och ett
kbrsbàrstràd ». - Poesia: Una diabolica innocenza. / Un agnello in
fiamme in mezzo a un prato. / Un levriero impigliato in un lenzuolo.
/ Uno specchio davanti al quale un airone è morto / simile a un om­
brello abbattuto dalla tempesta. / Poesia: Un filo per stendere i panni
teso tra un faro e un ciliegio (Vindrosor, moteld, 1955).
Tendenze letterarie del Novecento

zione della letteratura in nome della vita, si scopre come uno


dei più letterati della sua generazione.
L’altro poeta del gruppo dei Fem unga che aderì al pro­
gramma primitivista e futurista di Lundkvist è Harry Martin-
son. Anche in lui la presenza dei modelli stranieri, di Kipling
e Whitmann, di Lawrence e London, si sente nei versi
liberi di Spókskepp, 1929, di Nomad, 1931, di Natur, 1934
come nelle prose di Resor utan mal, 1932, malgrado l’eccezio­
nale talento visionario con cui narra le sue colorite peripezie
di marinaio sugli oceani e nei porti dei cinque continenti.
Tutto ciò ch’è freschezza e immediatezza di vita vissuta, vorace
appetito di realtà, adorazione di tutte le forze oscure dell’istinto
è reso con un gioco di fantasia surrealista sin troppo scaltro e
raffinato* Il sogno di un’esistenza selvaggia e felice, le avven­
ture della vita di bordo, il fascino dell’eterno vagabondo e la
libertà primordiale fra genti e paesi esotici dà alla sua poe­
sia una vitalità elementare che largamente compensa la ri­
cercatezza dello stile.
Ma il credo naturistico di Martinson, persuasivo nei limiti
d’un richiamo alle realtà essenziali che condizionano la vita
umana, e che fa le sue migliori prove nei racconti di viaggi e
nei romanzi autobiografici: Nàsslorna blommar, 1935; Vàgen
ut, 1936; Det enkla och det svàra, 1939, diventa assai proble­
matico quando cede alle ambizioni messianiche e profetiche1.
Qui appunto scopre tutta la sua ingenuità la polemica del-
l’anticultura, esemplificata nel nomadismo alla Hamsun e alla
Jensen — ma che anche prima aveva fatto proseliti, in Svezia,
da Almqvist a Heidenstam — (v. il romanzo picaresco Vàgen
till Klockrike, 1948) o in certe meditazioni pseudofilosofiche
di colorito orientale delle liriche, Passad, 1945, e di Cikada,
1953; culminanti, non molti anni fa, nell’allegoria in versi
Aniara, 1956: avventura « cosmicomica » o « cosmitragica »
dell’umanità traviata e illusa in viaggio su un’astronave, lat
quale, per errore di guida, esce dalla propria orbita andando
così incontro alla ineluttabile disintegrazione (adattamento sce­
nico 1959: libretto di E. Lindegren, scenari di S. Erixson, co­
reografia di B. Àkesson. musica di K.-B. Blomdahl).

1 Vedo che questo giudizio formulato anni fa, da chi qui scrive,
è oggi condiviso da altri (cfr. S. Delblanc in Samlaren, 87, 1966,
p. 236) « Han har dgonblickligen starka ambitioner att verka som
tànkare, tidskritiker och profet. Det àr tvivel underkastat att dessa
ambitioner stódas pà filosofisi originalitet ocb skàrpa... ».
362 Le letterature della Scandinavia

Tipico anche per Karin Boye è l’innestarsi di motivi pri-


mitivistici freudiani sul credo politico socialista. Con altri atti­
visti del gruppo svedese di Clarté anche lei sembra condi­
videre la fiducia nell’avvento di una nuova civiltà, l’audacia
delle iniziative d’avanguardia (nella rivista psicanalitica da lei
fondata, Spektrum, 1931-33 traduce, in collaborazione coti
E. Mesterton, il \Vaste Land di Eliot*; e poi discute e accoglie
i principi della poetica surrealista nel saggio Spràket bortom
logiken, ivi 1932 n. 6 pp. 5-11), il netto rifiuto dei tabù
religiosi morali e sociali ereditati dal passato. Tutto questo è
visibile nella polemica giornalistica, negli scritti autobiografici
(Kris, 1936) e satirico-utopistici alla Orwell (Kallocain, 1940)
come nella lirica, dove si riflette la profonda crisi spirituale e
sessuale d’una natura ipersensibile, troncata già nel 1941 dal
suicidio.
Un dissidio insanabile tra la giustificazione degli istinti na­
turali, l’espansione incondizionata dell’io da una parte, e l’edu­
cazione cristiana dall’altra, è al centro della lirica di Karin
Boye, percorsa tutta da un’angosciosa sete di verità e da
un’intrepida volontà di coerenza con se stessa. Al solenne
simbolismo nietzschiano si alternano qui (Gómda land, 1924;
Hàrdarnay 1927) accenti dimessi, vagamente parlati e didat-
tico-discorsivi, immagini semplici, ma significative (Brinnande
ljus, I rórelse, Asar och alfer, Jag vili mota) che la tecnica
surrealista, sensibile nelle raccolte seguenti (For tradets skull,
1935; De sju dòdssynderna, 1941) ha talvolta reso più oscuri
e ossessivi col suo complicato allegorismo, senza però nulla
toglier del loro ritmo intenso e del loro slancio lirico (Nat-
tens djupa violoncell; Javisst gor det ont; Kerub; Bòn ili
solen). Fino all’ultimo è infatti evidente, nei ritorni obbligati
e nelle molteplici variazioni dello stesso tema, lo sforzo d’in­
trospezione con cui Karin Boye ha affrontato il suo intimo
dissidio senza riuscire a comporlo (il parallelo con Froding
è stato fatto da H. Gullberg) mediante l’esclusione o la su­
bordinazione d’uno dei suoi termini. Le opposte tendenze di
spirito e materia restano in lei immutate e quasi mai conce­
dono un totale oblio al sentimento; e questo fatto sottilmente

1 In Norvegia il poemetto di Eliot non vedrà la luce prima del 1941


nella tradizione di Paal Brekke, che, profugo in Svezia durante la
seconda guerra mondiale, ha molto risentito l'influsso della lirica
svedese posteliotiana.
Tendenze letterarie del Novecento 363

cerebrale, traducentesi in aspri toni analitici, si fa ancor più


manifesto nelle ultime liriche della poetessa.

Vicino a Lundkvist e a Martinson per l’iniziale orienta­


mento ideologico, ma più poeticamente dotato di entrambi,
Gunnar Ekelòf è forse il più insigne esempio della malattia^
mortale che mina Parte « disumanizzata ». Spirito complesso,
irrequieto, insaziabilmente curioso del nuovo e del raro, ne­
mico dell’eudemonismo sociale del suo paese, vede solo nel­
l’utopia e nell’assurdo la possibilità d’evasione dal male di
vivere e dalla morte che scava sotto ogni parvenza umana.
Dopo studi all’università di Uppsala e alla School of Orien­
tal Studies di Londra, venne in contatto a Parigi con la poesia
surrealista (che mediante traduzioni e saggi fece conoscere
in riviste come Spektrum, Karavan, Fònstret) e si entusiasmò
per la musica di Stravinskij. Già nei primi versi rivelò quel
gusto della Nachdichtung di temi e modi letterari orientali
(soprattutto arabi) che era stato tipico del Romanticismo: e
più tardi, spinto dalla sua natura ad atteggiamenti pietisti e
panteisti, ricercò con non meno romantica passione l’esoterica
sapienza del buddismo e del taoismo. La mistica e la musica
intuite come quintessenza della poesia, sulla falsariga del sur­
realismo, e anzitutto sull’esempio di Rimbaud, informano già
le raccolte di liriche: Sent pà jorden, 1932; Dedikation, 1934;
Sorgen och stjàrnan, 1936.
A parte alcuni componimenti di esplicito impegno politico
(per es. Mòrdarnas tid àr kommen, scritto a Berlino nel 1933;
Vàrldspolska; cui più tardi seguirà la bellissima Samothrake
nel 1941) queste raccolte portano i segni d’una elaboratissima
e sorvegliatissima tecnica onirica, incandescente miscuglio di
angoscia e d’ironia, delirio di parole legate da puri nessi ana­
logici e sonori (Bòljeslag, Expansion, Hóstsejd, Fossilinskrift),
ma testimoniano anche quella ingenua sensibilità mistico-mu­
sicale che giustamente ha fatto pensare ai primi romantici sve­
desi, soprattutto a Stagnelius (Nordiska stàmningar)*.
Mistica e musica2 ritornano anche nelle poesie seguenti
(Fàrjesàng, 1941; Non serviam, 1945), ma insieme a una nuòva

1 V. G. Printz-Pàhlson, Petronii drbmmar, in OoB, 1958, pp. 11-21.


2 « Dikt àr for mig mystik och musik » (v. Edfelt-Lagercrantz, Poeter
om poesi, Stockholm, 1947, p. 10; anche Utflykter, ivi, 1947, p. 85).
Cfr. inoltre per le derivazioni da Mallarmé, B. Wigforss in BLM (32)
1963, pp. 193-201.
364 Le letterature della Scandinavia

tendenza analitica, sofistica, non spiegabile senza gli insegna-


menti di Joyce, di Eliot e di Picasso. Sul piano stilistico, ac­
canto alla massima libertà metrica fa spicco per un verso l’uso
di schemi tradizionali e addirittura arcaici come l’esametro,
per un altro l’imitazione del blankvers 1 eliotiano, mentre l’at­
teggiamento mistico porta a un’accanita volontà di esplo­
razione d’ogni possibilità del gioco verbale e intellettuale in
nome d’un credo quia absurdum che vuole scoprire l’essenza
metafisica della realtà aldilà dei dualismi, l’infinità nel finito,
la significazione nell’insignificante. Illustrative al riguardo sono
certe liriche come Helvetes Breughel, En varld àr varje màn-
niska, Eufori, Tag och skriv, Gymnosofisten, Absentia, animi.
Dalla tensione e talvolta dalla fusione tra il demone intel­
lettualistico e la nativa sensibilità mistica nasce la sua più
recente poesia: di Strountes, 1945; di Opus incertum, 1959;
di En natt i Otocac, 1961, sul filo di pretesti polemici e an­
tiestetici: come per es. quello che, dall’ironica interpretazione
d’un aforisma di Almqvist, muove a distillare l’essenza occulta
della « poesia delle sciocchezze » o poesia dell’assurdo, accostan­
dosi in tal modo a ima tradizione stilistica che da Lewis Car­
roll va a Morgenstern.
Forse il culmine della poesia di Ekelof è sin oggi rappre­
sentato dalla « Elegia di Moina » (En Mòlnaelegi, 1940-60)
che, nella scia del Dromspelet di Strindberg e della tecnica
eliotiana delle citazioni o interpolazioni musive2, evoca una
visione surrealista dell’uomo, concepito non come individuo,
ma come puro ricettacolo, parvenza intercambiabile con infi­
nite altre, campo aperto in cui sogno e realtà, passato e pre­
sente, s’incontrano e scontrano frantumandosi.
All’interpretazione delle sue rime aspre e sottili, della sua

1 Ekelof non ha voluto riconoscere che un generico influsso di Eliot sulla


sua tecnica poetica (Blandade kort, Stockholm 1957, p. 169), ma gran
parte della sua più recente produzione è impensabile senza l’Eliot dei
Quartetti. A. Lundkvist, in BLM, 1941, pp. 646-647; K. Espmàrk, in
BLM, 1959, pp. 683-690 e altri: Sagt om Eliot in « Prisma », 1948,
pp. 24-28 sembrano sottovalutare tale influsso, che, anche sul piano in­
tellettuale, è alla base dell’interesse di questo scrittore per gli aspetti
etnologici e religiosi di civiltà arcaiche. Cfr. inoltre L. Sjòberg (Scand.
Studies, nov. 1965, pp. 293-331 sulla tecnica delle allusioni in E. Ma
vedi pure le giuste osservazioni di G. Brandell, Konsten att citerà,
Stockholm 1966, pp. 15-16; e L. O. Franzén, Om fyrtiotalsmoralism
(BLM, 1963, ottobre).
2 G. Melchiori, The Tightrope Walkers, London 1956, p. 53 sgg.
Tendenze letterarie del Novecento 365

arte aristocratica e raffinata « dotta e cerebrale » 1 lo stesso


poeta ha contribuito con saggi traduzioni e studi (Promenader,
1941; Utflykter, 1947; Blandade kort, 1957; Hundra àr mo­
dem fransk dikty 1935 (soprattutto Baudelaire, Mallarmé, Rim­
baud); Beròmda franska beràttare (1957 in coll, con 0 . Sjos-
trand) dando un esempio di poesia e di gusto che è stato nor­
mativo per le giovani generazioni.

La maggior novità — se così si può dire — della più


recente poesia nordica2, scaturita dalle esperienze artistiche
qui discusse è quella che in Svezia come in Danimarca e poi
anche in Norvegia si ricollega alla crisi spirituale connessa
con la seconda grande guerra; ma da questa crisi i poeti sem­
brano voler trarre conseguenze conclusive, dogmatiche, appa­
rentemente irreversibili. Dalla fine delTOttocento a oggi non
erano mancate le profetiche proclamazioni sull’inevitabile tra­
monto dell’arte (per prendere due nomi a caso: da Strind­
berg a Breton)3. Ma proprio nel Nord l’esistenzialismo kierke-
gaardiano aveva già da un pezzo diffuso quella nichilistica
sfiducia nei valori razionali che altrove, in tempi molto più
vicini a noi, si richiamerà a Kafka a Sartre e a Camus, a
Anouilh a Beckett e ai loro seguaci. Il terreno era dunque
già preparato in Scandinavia. Fra l’altro, per quanto possa
sembrar paradossale, proprio da quella « malattia del benes­
sere », secondo la definizione di E. Mounier, che ha permesso
agli scrittori di dedicarsi con tanto maggiore libertà e corrosiva
ironia alla critica della civiltà moderna.
Così, preceduta da un’ampia discussione in saggi e pole­
miche di forte impegno ideologico (le riviste svedesi: 40-taly
1944-47; Utsikt, 1948-50; Prisma, 1942-50; le danesi: He-
retica, 1948-53; Atheneeum, 1946-49; Vindrosen, 1954 sgg.),
l’opera creativa e il dibattito teorico sono tornati con mono­

1 T. Brostrom, Ti àrs lyrik, Kobenhavn, 1966, p. 247.


2 Adottando un’infelice terminologia scolastica la storiografia letteraria
nordica studia e classifica astrattamente per decenni gli scrittori del no­
stro secolo come: «scrittori degli anni Trenta», «scrittori degli anni
Quaranta » e così di seguito, per motivi che forse si spiegano col fre­
quente e repentino avvicendarsi delle odierne mode letterarie. Non per
questo va qui taciuta la totale arbitrarietà di siffatto metodo, che allo
scoccar d’ogni decennio vuol scoprire un nuovo indirizzo di pensiero
e d’arte.
3 Per Breton cfr. L. Pierre-Quint, A. Gide, Paris, 1932, p. 86.
366 Le letterature della Scandinavia

tona insistenza sui temi della precarietà, anzi dell’inanità


d’ogni espressione artistica e dell’assurdità d’ogni forma
di vita.
Tutto ciò, s’intende, da un punto di vista teorico-pole­
mico. Che, sul piano concreto, il rifiuto della tradizione si è
sempre dimostrato illusorio, qui come altrove1.
In Svezia il gruppo più o meno omogeneo facente capo a
T. Jonsson, S. Dagerman, E. Lindegren e a K. Vennberg, pur
presentandosi come ultima generazione di sopravvissuti ad un
biblico diluvio, e perciò consapevole della vanità d’ogni espe­
rienza umana e della necessità d’un linguaggio esoterico che
traduca l’impenetrabilità delle cose, si rifà poi a ben .precise
dottrine e correnti di pensiero e d’arte2: del neonaturalismo
americano3 al relativismo etico ed estetico del filosofo A. Hà-
gerstròm4, dalla psicanalisi al surrealismo, da Eliot a Kafka,
a Auden e al suo gruppo5.
In Danimarca, dove la lezione di Kierkegaard è stata ri­
presa sul piano critico da un noto studioso di storia letteraria
e religiosa come V. Gronbech6, si fanno valere esigenze ana­
loghe7. Da una parte aspirazioni schiettamente mistiche e reli­
giose che oppongono la fede nel trascendente al culto della ra-

1 A ragione è stato detto che ogni atto espressivo non può prescindere
da una tradizione (v. M. Fubini, Crìtica e poesia, Bari, 1956, pp. 410-417).
2 Nella rivista « 40-tal » specialmente i numeri 5 e 9-10, 1946; 1, 1947.
3 B. Holmqvist, 40-tal. En prosaantologi, Stockholm 1946, pp. 12-13.
4 H . Ofstad, « Objectivity of Norms a. Value-]udgements according to
Recent Scandinavian Philosophy », in Philosophy a. Phenomenological
Research, X II, 1, 1951.
5 Conosciuti questi ultimi nel volume di F. Scarfe, Auden a. After, Lon­
don 1942; vedi il quotidiano Arhetaren 1.5.1943; 19.10.1943; 25.10.1943
al quale collaborarono vari scrittori anarco-sindacalisti.
6 Kampen om mennesket, Kobenhavn 1930, che propugna, contro ogni
forma di fanatismo, religioso e laico, un ritorno alle origini evangeliche.
7 L’interdipendenza di certi fenomeni letterari svedesi e danesi da chi
qui scrive altre volte segnalata e contestata da critici nordici (Scandi­
navia, 1962 I, p. 69) è accolta da H. B. Forsmark, Lyrikken, 1945-56,
Areté, 1952, p. 17. Oggi anche T. Brostrom (Ti ars lyrik, cit., p. 59)
esplicitamente ammette « Vi behover ikke at soge Uengere hort end over
0resund for at mode en ganske anden poesi, der har stserkere tilknytning
til modernismen og er mere avanceret i selvsteendig experimenteren...;
e a p. 60 dice che dopo il 1890 la lirica danese « nojedes... med indavl
eller mere overfladiske efterligninger... » Così a p. 61 « Der er i vort
àrhundredes Danmark nappe skabt ret mange digte pà hejde med de
beste i det 19 àrhundrede... Selv har vi jo aldrig skabt en selvstxndig
poetisk bevaegelse, men nok for i tiden forstàet at tilegne os det le-
vedygtige ».
Tendenze letterarie del Novecento 1111
gione, appaiono come unico antidoto alla solitudine e all’an­
goscia J, dall’altra si afferma la possibilità di risolvere la crisi
odierna soltanto mediante il ritorno a un umanesimo d’im­
pronta comunista2. Perfino in Islanda dove, s’è già detto, la-
letteratura è stata per secoli legata a un rigido classicismo
(H. G. Laxness, De islandske Sageer og andre Essays, Koben-
havn, 1963, p. 7), l’opera di Póbergur Pórdarson, con la sua
satira dell’endemico romanticismo nazionale ha aperto nuove
vie e alla prosa e, indirettamente alla poesia più o meno er­
metica e versoliberistica.
Ma sul piano dell’arte sia gli svedesi che i danesi3 sem­
brano muovere dalle medesime premesse gnoseologiche della
precedente generazione, benché come s’è detto, proclamate
con intransigente dogmatismo: inconoscibilità del reale, anar­
chico solipsismo4 impavida esplorazione dell’inconscio5 per
mezzo d’un linguaggio iniziatico, che rifiutando ogni tradizio­
nale struttura logica e grammaticale punta solo sulle suggestioni
della magia verbale e simbolica 6.

1 B. Poulsen, « Elfenbenstàrnet » in Heretica, 1941, p. 20; ivi, 1950,


pp. 71-88; M. A. Hànsen, Tanker i en skorsten, Kobenhavn, 1948,
pp. 117-118; Th. Bjornvig, « Heretica », 1948, p. 241; O. Wivel, Poesie
og existens, Kobenhavn, 1953, pp. 129; 145; P. La Cour, Fragmenter
af en dagbog, ivi, 1948, passim; O. Sarvig, Midtvejs i det tyvende
àrhundrede, ivi, 1950, passim.
? E. Knudsen, Galilei ktkkert, Kobenhavn, 1952, p. 43.
3 In Norvegia sono più o meno direttamente legati a queste esperienze
Rolf Jacobsen (Jord og jern, 1933; Vrimmel, 1935; Fjerntog, 1951;
Brev til lyset, 1960), Emil Boyson (Tegn og tydning, 1935; Sjelen og
udyret, 1946; Gjenkjennelse, 1957), Qaes Gill (Fragment av et magisk
liv, 1939; Ord i jeern, 1942) e più tardi anche T. Vesaas con Ver ny
var draum, 1956 (cfr. W. Dahl, Ordene og verden, Oslo, 1967, pp. 9,
14, 25-32, 107-127) e Stein Mehren (Mot en verden av lys 1963).
4 T. Brostrom, Poetisk kermesse, Kobenhavn, 1962, p. 31; Versets love-
mmk\se; ivi, 1960, p. 11; Fonsmark, cit., p. 15.
5 K. Henmark, En fàgel av eld, Stockholm, 1962, p. 99; Brostrom,
Poetisk kermesse, cit., p. 197.
6 Ha detto acutamente un critico svedese: « Lasaren fórs vilje-och snart
minneslòs fràn den ena symboliska krevaden till den andra... » (G. Bran-
dell, Svensk litteratur 1900-1950, Stockholm, 1958, p. 363) di fronte
alle sfilze d’incoerenti metafore dei poeti moderni, nelle quali il signi­
ficato proprio è totalmente messo in ombra dal traslato. Brostrom, Ver-
sets lovemanke, cit., 140; B. Poulsen, «Heretica», 1948, p. 307; O. Wi­
vel, « Heretica », 1950, pp. 72-73; E. Knudsen, Galilei kikkert, cit.,
p. 40.
368 Le letterature della Scandinavia

Nella poesia di E. Lindegren e di K. Vennberg si rispec­


chia, con quella eclettica ingegnosità che è tipica degli scrit­
tori del dopoguerra, e anche con non poca fumisteria, la tur­
bata coscienza del nostro tempo. I risultati di tutte le espe­
rienze poetiche attinti ai quattro punti cardinali della lette­
ratura moderna si ritrovano in entrambi. L’angoscia metafisica
di Lagerkvist, l’ironia religiosa di Gullberg, la tecnica surrea­
listica dello choc di Sjóberg e il gioco verbale di Ekelòf,
gli esempi di Eliot di Kafka di Sartre di Malraux1 e perfino,
non ultima, la lezione neoclassica d’un poeta di finesecolo come
Ekelund; intesa (o fraintesa) per il suo valore di frattura con
la tradizione di forme chiuse, e per la volontà di adegua­
mento ritmico alla libera voce interna2.
Se in Lindegren predomina l’aspetto simbolico-musicale
della poesia e in Vennberg quello analitico-astrattivo, comune
all’uno e all’altro è l’esperienza anarchica da cui essi muovono,
l’esasperato cerebralismo con cui tentano le più audaci com­
binazioni3 di antitetici elementi intellettuali e affettivi per
esprimere la disarmonica complessità dell’anima moderna.
Ma loro maestro non è l’Eliot mistico che ha sentito la
tragedia della guerra come « agony », « primitive terror » ma'
anche come « Purgatorial fire », bensì il creatore di certi stati
d’animo, di certi temi, d’una tecnica poetica (angoscia esisten­
ziale dell’uomo solo in un mondo incomprensibile, alternarsi e
compenetrarsi di piani temporali e psicologici, di toni lirici
e prosaici, comici e tragici; impiego di allusioni letterarie e di
simboli etnologici; musicalità nuova ricavata dal rifiuto delle
forme chiuse) anche sul piano strettamente formale agevol­
mente imitabile in lingue come le nordiche, molto affini al­
l’inglese. Di qui, insieme all’intonazione riflessa e imitativa, la

1 In un saggio sul « Pessimismo moderno » nel primo numero di


« 40-tal » 1944, Vennberg teorizzava una sorta di gelido nichilismo uni­
versale e insieme di paradossale attivismo, richiamandosi soprattutto ad
esempi francesi e dogmatizzando i correnti temi esistenziali della morte
e della nausea, della prigione e dell’angoscia, quale ultima parola del­
l’umana sapienza. In lui sembra così culminare, sino a farsi moda e
posa, la tendenza in fondo più facile della letteratura odierna, apriori­
sticamente persuasa della miseria dell’uomo e dimentica delle sue possi­
bilità di grandezza sul piano morale. Quanto diverso al paragone il
pessimismo che da Epicuro e Lucrezio va a Marco Aurelio e a Leopardi!
2 Valga qui come unico esempio la sovrana libertà di trattamento della
saffica di Dà voto bokarna Ijusa.
3 Sin troppo facilmente e solo in apparenza parodiate da L. Gyllensten,
in Camera obscura, 1946 (in coll, con T. Greitz).
Tendenze letterarie del Novecento

monotonia che induce a caratterizzare la lirica di entrambi petJ


raccolte più che per singoli componimenti. Già nelle prime
(rispettivamente Mannen utan vàg, 1942 e Halmfackla, 1944)
essi hanno esaurito quel che avevano da dire, per limi­
tarsi poi a ripetere con ossessionante fissità quasi con ogget­
tività metafisica: Lindegren i tentativi di orchestrazione ver­
bale (Sviter, 1947 e Vinteroffer, 1954), Vennberg le peren­
torie e crudamente polemiche sentenze sull’assurdità del vivere,
sull’ansia delusa d’una qualsiasi certezza (Tideràkning, 1945;
Gatukorsning, 1952, Vid det roda tr'àdet, 1945, Tillskrift,
1960).
Se il senso esclusivo del valore fonico della parola entro il
tessuto analogico ricollega Lindegren1 (si pensi all’estasi eroti-
co-musicale di Arioso, di Pathétique, di En sàng fòr Ofelia;
al surrealismo intersecarsi e sfaccettarsi della parola2 in Hól-
derlin, Kosmisk moder, Vid Shelleys, hav) ai musicalistici
esperimenti più volte tentati dai romantici e dai simbolisti
fino a Joyce, l’estrema consapevolezza critica di Vennberg, il
suo linguaggio amaramente denunciatario e aggressivo, la sua
sintassi prosaica, fatta di tagli secchi, di enunciazioni ellittiche
e dimostrative che corrodono ogni sentimento (Mitt pà Ijusa
dagen ser du; Du maste varja ditt liv; Vid Memnons hai;
Om det fanns en telefon; Klassisk prolog; Och om du fanns)
fanno di lui un tipico intellettuale antiintellettualista di di­
scendenza nietzschiana.
, Non diverso è il panorama poetico in Danimarca durante
il ventennio di quella che, fuori del Nord, è stata detta Y« età
dell’ansia ». Anche qui fanno da sfondo culturale da una parte
il vago spiritualismo di H. Rode e l’estetismo di S. Claussen
che ancora nel 1927 (Forarstaler) riafferma la sua fede nella
religione dell’arte come antidoto al caotico mondo del dopo­
guerra, dall’altra l’attivismo e il macchinismo di J. V. Jensen
che nel romanzo e nella lirica, cui non fu estraneo l’esempio
di Hamsun e di Whitman (già in Digte, 1906)3, trasmette

1 Dal linguaggio musicale di Lindegren prende le mosse T. Transtromer,


forse il più dotato dei giovani per l’inventività metaforica, ma con un
senso nuovo della realtà che già indica il desiderio di abbandonare i
procedimenti obbligati della tecnica surrealista (v. B. Steene, « Vision
a. Reality in the Poetry of T. Transtromer», Scand. Studies, 1965,
pp. 236-244.
2 V. E. Gotlind, De oerhorda orden, Stockholm, 1961, pp. 46-47.
3 P. es. « Interferens » (1901); « Afsked » (1902); « Paa Memphis sta-
370 Le letterature della Scandinavia

alle giovani generazioni una lezione di valori pratici da con­


trapporre a quelli conoscitivi e religiosi: la gioia sana e ani­
male del vivere, il culto della azione, la ricerca dell’antipoe-
tico come simbolo dell’accettazione totale della realtà. La sua
poesia-prosa descrittiva e cronachistica, concreta e brutale è
un esempio destinato a far scuola (Klaus Rifbjerg insegni!).
Tra i due estremi della letteratura « proletaria » e della
letteratura religiosa (in primo luogo del violento e apocalit­
tico teatro di Kaj Munk) la lirica di Nis Petersen emerge con
un mordente psicologico che conserva il suo fascino pur tra
i difetti dell’espressione artistica. Lontana dal facile ottimi­
smo di moda nel primo dopoguerra, non si è mai risolta nel­
l’evasione come l’orgiastico edonismo e futurismo di un Bon-
nelycke, d’uno Schade, né ha fatto ritorno ai tradizionali valori
religiosi, o s’è più o meno temporaneamente appagata del credo
marxista come T. Kristensen e O. Gelsted1. Di qui la sua
distaccata ironia, sintomo d’una coscienza turbata e perplessa,
plasmata dalla educazione pietista; di qui la sua scelta di forme
elusive e eclettiche non sempre sicure, di qui il perpetuo oscil­
lare fra l’impegno etico-sociale e il disordinato — fantastico
o reale che sia2 — vagabondaggio per l’Europa.
A prescindere da un paio di romanzi (Sandalmagernes
gade, 1931; Spildt mselk, 1934) di discussione ideologica, sti­
listicamente molto inferiori al successo ottenuto, e da qualche
racconto, la produzione di Petersen si esaurisce tutta in po­
che raccolte di versi. Decisiva vi appare l’esperienza della
guerra come distruzione d’ogni mito religioso e umano e il
conseguente tono ironico blasfemo macabro (per es. nelle liri­
che Med rodkridt\ Nytàrsaften; Ravnene skriger della prima

tion» (1904); (cfr. H. Andersen, Studier i J. V. Jensens Lyrik, Koben­


havn, 1936, p. 14 sg.).
1 II primo con la sua lirica espressionistica (Pàfuglefjeren, 1922) e con
il suo romanzo-confessione (Hservserk, 1930) che risentono di Jensen
e di Claussen, di Joyce e di Lawrence, ha dato la più convincente testi­
monianza, sul piano ideologico, della disorientata ricerca d’una fede
per sfuggire al nichilismo imperante fra le1due guerre mondiali. Il se­
condo, educato sui classici greci, traduttore di Leopardi ma influenzato
dalla psicanalisi e dal marxismo, è passato di crisi in crisi fino all’attuale
equilibrio in un immanentismo d’impronta comunista. Notevole, oltre
la sua partecipazione al dibattito ideologico fra le due guerre, la lirica
(Dansens almagt, 1921, Henimod klarhed, 1931, Emigrantdigtey 1946)
espressione d’un coerente realismo poetico.
2 Le tesi di H. Brix (N. Petersen. Liv og digt, Kobenhavn 1947 e
1948) sugli immaginari viaggi del poeta sono state di recente rimesse
Tendenze letterarie del Novecento

raccolta Nattens pibere, 1926). Tentativi di linguaggio alto


e patetico (Elsker du mennesket?\ De smà borns smil; Café
det r0de hjerte) si mescolano qui a ostentazioni ciniche e bef­
farde di brutalità; ansia di fede ad amaro sprezzo nichilistico,
in un continuo oscillare di sentimenti più suggestivi per la loro
stessa indeterminatezza che per la sicurezza di soluzioni stili­
stiche. In foildo anche le sue celebri ballate: Et kvad om en
knes fra Peene, 1928; En ballade om borgmesteren i Galway,
som egenhasndigt hsengte sin son for mord, 1933-34, nei vi­
stosi atteggiamenti eroici alla Nietzsche, nei ritmi marcati e
sonori, nel robusto linguaggio popolaresco ricordano molto da
vicino i modelli kiplinghiani. Forse il meglio di questo poeta
è da cercarsi in certi componimenti sparsi un po' in tutte le
sue raccolte, nei quali i contrasti psicologici si placano in una
virile ma umile accettazione della sofferenza umana, in una
non enfatica difesa della onesta miseria aldiquà delPeroismo
e del sentimentalismo {Den lille gsest\ Kit in memoriam;
Hil vejenes folk).
Alimentata da un lungo soggiorno a Parigi (1923-30) a di­
retto contatto con l’espressionismo figurativo, e con il surrea­
lismo di Aragon e di Éluard la lirica di La Cour (in primo
luogo le tre raccolte Alt krsever jeg, 1938; Levende vande,
1946; Mellem bark og ved> 1950) nasce dall’esigenza di pe­
netrare l’essenza profonda della vita mediante un atto mistico.
Nella sua poetica antiintellettualistica (Fragmenter af en dag­
bog, 1948) tutta intesa a restaurare la spiritualità dell’arte e
la comunicatività dell’atto poetico, questa esigenza è più volte
riaffermata in contrasto sia alle vistose esteriorità e al tor­
bido animalismo di Jensen e di L. Holstein, che furono i suoi
primi maestri, sia all’umanesimo razionalistico comunista di
Sartre, al quale per breve tempo aderì, durante il secondo con­
flitto mondiale. Da una posizione di estremo estetismo e di
impegno sociale, che spiega la sua temporanea collaborazione
alla cerchia di Heretica, è cosi passato, attraverso un lento
processo di chiarificazione critica (dietro la quale si sente la pre­
senza di Rilke e di Eliot) ad approfondire i motivi già in lui
vivi di angoscia metafisica e di mistico distacco dalla illuso-

in discussione da C. M. Woel in Nordisk tidskrift, 1962, pp. 314-322.


Accanto a quello di Nis Petersen e in mezzo a una pleiade di lirici:
da Per Lange a A. Schade e a Thoger Larsen a G. Munch-Petersen,
due nomi s’impongono all’attenzione del lettore: Paul La Cour e
Th. Bjornvig.
372 Le letterature della Scandinavia

rietà della materia per attingere a verità soprannaturali ed


eterne.
Nelle liriche d’esordio come in quelle della maturità (Re-
gnens stentine; Vandet under grassset; Forvisning; Traserne;
Afsked) il poeta, in perfetto accordo con il critico dei Frag-
menter giunge attraverso il kierkegaardiano salto metafisico1
a sentire il reale come ineffabile mistero senza limiti e senza
contorni, come angosciosa labilità d’impressioni alla quale solo
l’arte può dare valore ontologico metamorfosandola e spiritua­
lizzandola. E qui s’avverte ben chiaro l’influsso del primiti­
vismo rilkiano che nel dolore e nell’umiltà delle cose riscopre
l’originaria unità fra l’uomo e il cosmo e nell’innocenza della
vita infantile e animale vede il momento unico in cui tale
unità è ancora possibile e reale. Non meno rilkiana è anche
la tendenza al languore sentimentale2 (1914; Rue Dante) e
all’astrattezza allegorica (Traset; Det aobne; Nu gàr jeg); eh’è
il prezzo pagato dal poeta nello sforzo di spersonalizzarsi, di
adeguarsi alle cose, sentite come manifestazione d’un moni­
stico divenire.

Intessuta di misticismo rilkiano è anche la poesia di


T. Bj0rnvig — forse il massimo lirico danese della giovane
generazione dei Rasmussen, dei Sarvig, dei Wivel, dei Knud-
sen, dei Jaeger — benché poi non vi manchino i segni d’una
volontà di ritorno alla struttura razionale, alle regole metriche
tradizionali (per es. la pentapodia giambica di Oehlenschlager
e certi modi stilistici della poesia scaldica) e a un’alta esigenza
morale che impone il dominio sulla realtà in aperto contrasto
al nichilismo esistenzialistico.
È stato proprio Bjornvig a tradurre in danese gran parte
dell’opera di Rilke e a commentarla in un ampio studio3 che
la inquadra nella tradizione poetica tedesca;, e insieme a far
valere, nell’ambito della cerchia di Heretica, in comunanza
di pensiero con Hansen4, certe idee rilkiane sull’arte e sulla

1 « Springei » è appunto la parola-chiave che più spesso ricorre nella


aforistica poetica di La Cour, nella quale spesseggiano le reminiscenze
di Baudelaire, di Mallarmé, di Rilke e di Lagerkvist.
2 R. M. Rilke, Ausgew'àhlte Gedichte, a cura di L. Mittner, Varese,
1962, p. 8.
3 JR. M. Rilke og tysk tradition, Kobenhavn, 1959; R. M. Rilke: Udvalgte
digte, 1949; Duino-Eiegier, 1957; Sene digtey 1958.
4 Al quale ha dedicato una penetrante indagine critica: M. A. Hansens
digtningy Kobenhavn, 1964.
Tendenze letterarie del Novecento 1S
religione, sulPamore e sul dolore, sui nessi fra la vita e la
mortel.
L’esistenzialistica concezione del peccato e della morte, e
la congiunta fede nell’azione liberatrice dell’angoscia come te­
stimonianza di valori eterni nell’uomo sono al centro della
poesia di Bjornvig. Se nelle prime liriche di Stjaernen bag
gavlen, 1947, tema fondamentale è l’amore come passione
erotica o come mitica memoria d’una primeva felicità, atto
a esprimere l’essenza profonda della vita prelogica in antitesi
alla riflessione intellettiva (Easterparade; Til Een)y l’altro
grande tema della morte già vi si annuncia quale inquietante
ma necessaria integrazione (Morket og mennesket) quasi ril-
kiana metamorfosi della realtà.
È stato a ragione detto che intorno a questo secondo tema,
più ancora che al primo, gravita tutta la poesia di Bjornvig2.
E la seguente lirica soprattutto nella raccolta Anubis, 1955,
ha infatti un carattere unitario compatto accentrato. Pur nella
molteplicità dei motivi marginali vi traspare uno sforzo co­
stante — fra psicanalitico e religioso — di superare le tragi­
che incongruenze della vita esorcizzando la morte: ora me­
diante un ritorno alla beata innocenza, alla integrità spirituale
dell’infanzia (Kims breve; Variationer over foraaret; Moderne
tema; En himmelsk Erindring), ora mediante l’ebbrezza ero­
tica (Sovnlos), ora mediante una mistica assimilazione alla
morte stessa: che, a un tempo, tiene dell’angosciosa preghiera
del Dio-uomo nell’orto degli ulivi e del nietzschiano Amor
fati (Sejdm&ndene pà Skratteskeer e Anubis).
Sia Sejdmeendene che Anubis riprendono e sviluppano con
violenta evidenza questo motivo centrale della lirica di Bjorn-
vig. In entrambi il poeta cerca nella contemplazione della
morte una verità estrema, irrazionale, che dia senso ai fatti
della vita. Nel primo componimento, in chiave epico-dramma­
tica, il tema è svolto quale visionaria sequenza della esisten­
zialistica condizione umana. Sullo spunto d’un noto episodio
della Heimskringla di Snorri (illustrata da H. Egedius) e so­
prattutto dell’interpretazione critica e poetica dell’antichità
nordica di V. Gronbech3 e di Hansen4, la poesia evoca come

1 Vedi il saggio « Begyndelsen » in « Heretica » 1948, ristampato nel


1960.
2 I. Malinovski, Digt og l&ser, Kobenhavn, 1958, p. 98 sgg. e T. Bro-
strom, Poetisk kermesse, cit., p. 169.
3 Vor folke&t i oldtiden, Kobenhavn, 1909-1912.
4 Orm og tyr} cit., 1952.
374 Le letterature della Scandinavia

in un ininterrotto flusso di coscienza le esperienze basilari


dell’umanità moderna: l’amore alla vita e il terrore della
morte, l’illusione d’una magica potenza dell’uomo e la realtà
della sua desolata impotenza, la ribellione e l’angoscia, fino
alla gioiosa accettazione dell’ineluttabile.
Affine per il tema (quasi simbolico rito d’identificazione
con la morte) è la lirica che dà il titolo all’intera raccolta
Anubi. Anche qui si avverte l’ispirazione attinta alle arti
figurative e al mito. È l’anima stessa dell’uomo che ora com­
pare al cospetto del dio-giudice dei morti per essere soppe­
sata e per ascoltarne il verdetto.
In un’appassionata confessione dei peccati la vita intera
vi si configura come mondo di larve e di spettri, come super­
fluo groppo di passioni e di sogni, di tentazioni e d’illusioni,
al quale solo la verità ontologica della morte dà significato
di iniziazione misterica.
Fin qui è giunto Bj0rnvig, nel pieno possesso dei suoi
temi essenziali; e qui è forse anche la promessa di futuri
sviluppi.

Con la generazione di poeti e di prosatori che si è affer­


mata intorno al Quaranta si ha l’impressione che una fase
della letteratura nordica moderna si sia conclusa dopo aver
toccato le punte estreme dello sperimentalismo linguistico me­
taforico e metrico. E viene perciò a mancare la possibilità di
tracciare un disegno sia pur provvisorio dei più recenti indi­
rizzi odierni di pensiero e d’arte.
Da un punto di vista cronachistico si può tentare di dar
qualche cenno orientativo.
Gli scrittori di oggi che si muovono nelle vie aperte da altri
sembrano infatti capaci soltanto di esasperare i motivi più para­
dossali e problematici della poesia del Quaranta in ricerche
tecniche prive di ogni forza autonoma. È esemplare sotto que­
sto aspetto la situazione svedese. Dopo il precario equilibrio
con cui Gullberg e il suo ideale discepolo J. Edfelt*, S. Da-

1 Nella lirica Hògmassa (Messa solenne, 1934); Bràddjupt eko (Eco


abissale, 1947); Hemliga slagfàlt (Campi di battaglia segreti, 1952);
Under Saturnus (Sotto il segno di Saturno, 1956), in cui è costante
lo sforzo di conciliazione del classico dualismo cristiano fra anima e
corpo; e anche nell’opera critica rivolta a sottolineare i valori umani­
stici e umani della poesia, per es. Stròvtàg (Escursioni, 1941), Utblick
(Giro d’orizzonte, 1958).
Tendenze letterarie del Novecento 375

german1 e Ferlin2 hanno espresso a un tempo i motivi del­


l’angoscia, della solitudine, dell’assurdità esistenziale e l’esi­
genza di superarli in una fede religiosa; dopo la inquieta e
confusa problematica morale dei romanzi di Sivar Amér, di
Lars Ahlin e di Peder Sjògren3, dopo i lucidi deliri surrealisti
di Lindegren e di Vennberg e dei loro seguaci — è ancora pos­
sibile andar oltre?
A giudicare dagli spericolati tentativi degli ultimi due de­
cenni si dovrebbe rispondere negativamente. Se si prescinde
dai numerosi professionisti della letteratura e della pornografia
(divenuta ormai ciò ch’era l’intrigo amoroso nel romanzo otto­
centesco) mossi da ragioni commerciali, e da alcune opere ben
ancorate alla tradizione naturalistica, anzi regionalistica anche
se ricche di nuovi problemi psicologici, sociali e religiosi: p. es.
Tjàrdalen, 1953, Regnspiran (L’uccello della pioggia, 1958)

1 Che fra il 1945 e il 1949 soprattutto nei romanzi allegorici Ormen


(Il serpente); De dòmdas ó (L’isola dei condannati); Bróllops besvàr
(Nozze difficili), sulle orme di Strindberg, Kafka e Faulkner perpetua-
mente ha oscillato tra ribellione e rassegnazione, tra l’incubo del male
e l'ansia della redenzione (K. Henmark, cit., p. 125) con risultati
artistici promettenti, troncati dall’immatura fine.
2 Nei popolareschi « couplets » da caffè-concerto, in apparenza super­
ficiali e parodistici, ma tutti ispirati dall’amore religioso per gli oppressi
e i traviati e dagli inconciliabili dissidi della vita, En dóddansares visor
(Le canzoni d’un guastafeste, 1930); Barfotabarn (Bimbi scalzi, 1933);
Goggles (Occhialoni, 1938).
3 Divèrsi, ma con una fisionomia artistica già definita, possono entrambi
essere presi come tipici scrittori del nostro tempo, intenti a svolgere
situazioni, caratteri, indagini introspettive come puri pretesti per la po­
lemica ideologica. Romanzi di Arnér come Knekt och klerk (Soldato
e chierico, 1945); Du sjàlv (Proprio tu, 1946); Han-hon-ingen (Lui,
lei, nessuno, 1951); Som svalorna (Come le rondini, 1956); e di Ahlin
come Om (Se, 1946); Kvinna, kvinna (Donna, donna, 1955); Natt i
marknadstàlt (Una notte sotto la tenda del mercato, 1957) danno l’im­
pressione, pur nella diversa maniera, d’essere costruiti con l’aiuto di
un ricettario narrativo di temi obbligati: un pizzico di giustizia sociale,
un pizzico (o magari una manciata) d’erotismo psicanalitico, un pizzico
di mistica cristiana, un pizzico di analisi della civiltà moderna ecc.;
dove l’attualità della materia trattata ha molto maggior rilievo del fat­
tore stilistico, e palesemente richiama modelli ed esempi stranieri abil­
mente manipolati.
Molto più spigliata e sottile è la narrativa di P. Sjògren, anche se l’ispi­
razione moralistica la riavvicina a quella degli altri due romanzieri.
In Kàrlekens bród (Il pane dell’amore, 1945); in Ta ner stjàrnorna
(Tira giù le stelle, 1957) il tema della fatalità dell’errore e del peccato
per apprendere il significato dell’amore umano è variato in uno stile
inquieto, nervoso, ricco di sfumature e di giornalistico brio, benché
spesso esteriorizzato dal gioco di un’ironia troppo scoperta.
376 Le letterature della Scandinavia

di Sara Lidman; De utsatta (Gli indifesi, 1957), En beràttelse


fràn kusten (Un racconto della costa, 1961) di Birgitta Trot-
zig; Dódgràvarens pojke (Il figlio del becchino, 1958) di Àke
Wassing; 491 di Lars Gorling il quadro della cosiddetta
avanguardia letteraria appare interamente dominato dall’as­
surdo e dal grottesco l. Immutato se non accentuato dalla mi­
naccia d’una guerra atomica resta il clima di sfiducia e di
abulia: tutto sembra incerto minato confuso, sicché gli scrit­
tori che muovono alla ricerca del nuovo e dell’originale, ten­
tano per velleità anticonformista e iconoclasta, l’antipoesia
o, come dicono, la « metapoesia ». Il loro idolo oggi non è
più Eliot, ma Pound2. A un narratore come G. Oswald che
spinge la tecnica delle allusioni letterarie oltre Eliot e Joyce,
dando alla prosa lirica dei suoi romanzi (Peter Sergius... 1949,
Rondo, 1951) l’aspetto di un gioco di prestigio, d’una narra­
zione di fatti mantenuti sul vuoto, corrisponde un versatile
equilibrista come Lars Forsell, che nella lirica più o meno
aforistico-ironica (Narren, Il pazzo, 1952; F. C. Tjetjens, 1954;
Telegram, 1957) clownescamente accosta tragico e grottesco,
atomismo linguistico e ripetizione di banalità, quale denuncia
della condizione umana, espressione della coscienza malata del
tempo. In un giovane come P. O. Enqvist lo sperimentalismo
arriva alla trasposizione della personalità e dei tempi (nel
romanzo Hess, 1966, con una tecnica onirica che richiama
Strindberg) personaggi e tempi immaginari e storici, vivi e
morti si confondono e si identificano, si scindono e si ricom­
pongono, aprendo il varco non ai « sette », ma a settanta volte

1 Di sopravvalutazione (« sjalvoverskattning ») delParte contemporanea


svedese, ha parlato con appropriati concetti I. Wizelius (Nordisk tid-
skrifty Stockholm, 1961, p. 478 sgg.); e oggi anche l’imparziale cri­
tica straniera (Time's Literary Supplement, 5.3.1966: « Swedish abstract,
swedish concrete ») in una rassegna della letteratura contemporanea la
definisce « bleak and lifeless ». Leggendo molti scritti dei novissimi non
si può non ripensare alla rinnovata attualità di certe pagine di B. Croce
sugli operai della grande industria del vuoto (La letteratura della nuova
Italia, Bari, 19546, pp. 188-205).
2 Tradotto in Svezia da L. Forsell, in Danimarca da J. Sonne. Sarebbe
utile, a proposito di questa tardiva popolarità di Pound, non dimenti­
care il giudizio di uno che s’intendeva di poesia in generale e di quella
di Pound in particolare: Yeats: « Yet in his own work he is very
uncertain, often very bad though very interesting sometimes. He spoils
himself by too many experiments and has more sound principles than
taste. (P. Hutchins. E. Pound's Kensington, London, 1965, p. 154).
Tendenze letterarie del Novecento 377

sette « tipi d’ambiguità » dell’Empson *, mentre nel medico­


scrittore Lars Gyllensten sembra incarnarsi lo spirito della no­
stra epoca per la lucidità intellettuale e l’estrema chiaroveg­
genza con cui egli, partendo dal soggettivismo di Kierkegaard
e dal nichilismo di Vennberg, satireggia in romanzi allegorici:
Moderna myter, Miti moderni, 1949; Det bla skeppet, La
nave azzurra, 1950; Barnabok, Il libro dei bambini, 1952;
Socrates dód, La morte di Socrate, 1960, l’illusorietà dei sen­
timenti e degli ideali umani in nome di una sorta d’immorali­
smo che fa pensare alla « disponibilità » di Gide; e con una
duttilità di stile capace di adeguarsi ai più vari modi del di­
scorso. Sul piano dei ludi letterari e dei programmi iconoclasti
e frettolosi non è mancata, nei giovanissimi, una reazione
al moderno assurdismo nel senso d’un velleitario ritorno
alla semplicità e alla concretezza (dei « neosemplici » è fau­
tore Goran Palm, mentre J. Hammarberg, B. E. Johnsson
e B. Hàkanson spingono la riesumazione di espedienti non
certo nuovi quali i fotomontaggi e i « collages » al punto da
servirsi della parola come certi artisti d’avanguardia si ser­
vono del colore schizzandolo a caso sulla tela). Né è mancato
chi, come Torsten Ekbom o P. O. Sundman hanno pronta­
mente accolto le suggestioni del «romanzo dello sguardo»
di Robbe-Grillet.
Il primo, fermo all’illusione di poter riprodurre il « pic­
colo fatto vero » 2 mediante il resoconto neutrale, incolore dei
casi umani, mediante la registrazione delle dimensioni, delle
distanze, dei volumi della realtà quale appare all’occhio del­
l’osservatore (Signalspelet, Il gioco dei segnali, 1965); il se­
condo, raddensando la materia dei suoi racconti in un mosaico
di parole e atti, di ripetizioni e di episodi, di cose viste fuori
d’ogni tempo e d’ogni azione in senso tradizionale, vuol sco­
prire cosi gli infiniti volti della verità e permettere al let­
tore ogni possibile interpretazione delle cose (Undersdkningen,
L’inchiesta, 1958; Skytten, Il cacciatore, 1960; Expeditionen,
La spedizione, 1962).
Senza paragone di maggior impegno appare l’attività di al­
cuni uomini di teatro, che, per la novità del linguaggio figu­
rativo e il sapiente uso delle possibilità sceniche e auditive,
hanno creato valori di autentica poesia come il danese C. T.
1 Che sul piano critico ha trovato un acuto discepolo in G. Printz-
Pàhlson, autore di saggi sui poeti novissimi (Solen i spegeln, 1958).
2 A. Robbe-Grillet, Una via per il romanzo futuro, trad, ital., Milano,
1961, p. 53.

XXVII - 15. Lett, della Scandinavia.


378 Le letterature della Scandinavia

Dreyer e soprattutto lo svedese Ingmar Bergman, autore di


sottili variazioni del cupo e amaro dualismo strindberghiano
fra materia e spirito.

it TEATRO

Scomparsi intorno al primo decennio del nostro secolo i


due maggiori drammaturghi nordici Ibsen e Strindberg, il dis­
sidio fra seguaci e epigoni fra scuole e correnti letterarie dà
grande impulso alla produzione teatrale: qualitativamente certo
inferiore alPottocentesca, ma assai più di questa partecipe,
anche dal punto di vista tecnico, degli influssi e degli esempi
stranieri (da Gordon Craig a Reinhardt, da Stanislavskij a
Copeau). Se naturalismo e antinaturalismo restano anche qui
i due poli entro i quali sostanzialmente si muove tutta la
produzione teatrale dell’ultimo cinquantennio, è ovunque pa­
lese lo sforzo (e ne fa fede l’opera di critici registi e attori’
da S. B0dtcher a G. Heiberg, da B. Bjornson a O. Molander e
a H. J. Nilsen, da Dybwad a A. De Wahl e a G. Ekman)
di potenziare e approfondire la funzione artistico-culturale e
il gusto del teatro non solo utilizzando le possibilità scenico-
visuali e dialogiche recentemente create dal film, dalla radio,
dai radiogrammi, ma rimaneggiando vecchi moduli drammatici
e adattandoli alle nuove esigenze sceniche, variamente reinter­
pretando trame e personaggi del teatro antico e moderno e
perfino organizzando compagnie itineranti destinate a portare
ovunque il repertorio nazionale e straniero.
Ibsen trova il suo primo discepolo e epigono nel norve­
gese Gunnar Heiberg *, lo Strindberg mistico nello svedese
Par Lagerkvist; mentre in Danimarca sembra perpetuarsi una
tradizione drammatica che ha i suoi remoti antecedenti nel
teatro illuministico-satirico di Holberg. Tanto Heiberg che
Lagerkvist sono scrittori e critici teatrali e rappresentano in
sede teorica opposte tendenze: la lucida razionalità del
« dramma di idee » il primo (Ibsen e Bjornson sulla scena,
1918; Teatro norvegese, 1920) che per anni dirige la « Natio-
nale Scene » di Bergen e scrive ben congegnati lavori, tipica­

1 Ma già alla fine del secolo il fratello di G. Brandes, Edvard, critico


teatrale e drammaturgo, era stato un battagliero discepolo di Ibsen e
dal punto di vista scenotecnico e psicologico, come si vede nel suo
capolavoro una volta celebre: Et besog (1882) sul problema della ca­
stità prematrimoniale per la donna.
Tendenze letterarie del Novecento m
mente ibseniani per la tecnica scenografica, ma che risentono
anche per certe pose ciniche e grottesche del conflitto tutto ce­
rebrale fra istinto erotico e ragione, cosi polemicamente divul­
gato da Wedekind: Zia Ulrica, 1884; Re Mida, 1890; Il bal­
cone, 1894; Il Consiglio del popolo, 1897; Il letto di parata,
1913; il simbolismo espressionistico, il secondo, che nettamen­
te contrapponendo Strindberg a Ibsen (il drammaturgo dei
« cinque lunghi atti con passi impercettibili sui tappeti, e pa­
role parole parole... ») esprime la propria inquietudine reli­
giosa in un linguaggio decorativo e scenografico sostenuto dai
più scaltri espedienti della regia.
Ma il divario fra maestri e discepoli è enorme, anche se
lo sviluppo della vita teatrale in tutto il Nord, col moltipli­
carsi delle scene e col perfezionarsi della tecnica, assicura ai
secondi un successo lungamente negato ai primi. Cosi ven­
gono ora rappresentati, accanto al repertorio straniero e ai
« classici » nazionali, molti drammi e commedie di romanzieri
e poeti di scarso talento drammatico o solo occasionalmente
scriventi per il teatro: come i danesi Skjoldborg, Aakjser, e
soprattutto Sven Lange, come i norvegesi N. Kjaer e P. Egge
o come gli islandesi G. Kamban*, G. Gunnarsson e J. Sigur-
jónson, salito quest’ultimo a momentanea celebrità interna­
zionale con un suo dramma romantico-popolaresco Bjserg-
Ejvind og hans Hustru (Ejvind della montagna e sua mo­
glie — ed. danese 1911; ed. islandese 1912, rappresentato
anche in Germania e in Francia, in Inghilterra e in Ame­
rica — dramma di una donna che tutto sacrifica all’amore e,
quando questo vien meno nell’uomo amato, affronta la morte
nella tormenta).
In fondo anche scrittori come lo svedese Hjalmar Berg­
man o come il norvegese H. E. Kinck, che pure hanno cono­
sciuto il successo scenico, non si possono annoverare tra co­
loro che hanno influito sull’evoluzione del teatro scandinavo.
L’amaro e grottesco pathos del primo trova infatti assai più
suasiva espressione nei romanzi che nei drammi, malgrado la
non comune forza di caratterizzazione di questi ultimi, tutti

1 Forse più abile analista di problemi morali sulla responsabilità del­


l’individuo di fronte al delitto, vista secondo i principi della non vio­
lenza, che drammaturgo alla scuola di Ibsen, Strindberg e Shaw (cfr. i
drammi Marmor, 1918, Vi Mordere, 1920, in danese; e Sendiberran frà
Jupiter - L’inviato di Giove, 1927, in islandese.
380 Le letterature della Scandinavia

strutturalmente legati — Swedenhjelms, 1926; Vatrasket (La


canaglia, 1928) — a modelli e schemi tradizionali quali Mae­
terlinck (Parisina, 1915), Strindberg (La casa da gioco; II tes­
sitore di Bagdad; La porta, 1923), Shaw (Un esperimento,
1918); mentre gli affreschi lirico-simbolici del secondo (Il man­
driano, 1908), dramma d’un superuomo mezzo popolaresco e
mezzo colto, mezzo poeta e mezzo affarista; Il savio Agilulfo,
1906, ispirato alla seconda novella della terza giornata del
Decamerone; Uultimo ospite, 1910, Sull’Aretino, tragicomico
eroe della bella frase; Sotto il carnevale, 1915, su Machia­
velli, raffigurato come fallito eroe della politica e maestro di
fatue mascherate, che richiamano alla mente il decorativismo
di Bocklin e talvolta anche di D ’Annunzio, sono dei tipici
drammi da lettura.
Un nuovo dramma scandinavo che si affermi con distinti
caratteri propri è oggi difficilmente individuabile, mentre
non si può negare che anche nel Nord, come e più che altrove,
la crisi del teatro — quali ne siano le cause — è una realtà
che coinvolge direttori e registi, scenografi e attori, pubblico
e stampa.
Nella Svezia del primo dopoguerra Lagerkvist è stato fra
i pochi che, come s’è detto, hanno dedicato al teatro una
lunga e continua attività critica e creativa.
Accanto a Lagerkvist non esistono in Svezia altre figure
di scrittori strettamente legati alla storia del teatro. Anche
sulla ricca produzione di T. Hedberg, « il Giacosa svedese »
(Gabetti), è ormai scesa la polvere del tempo. Per lo più si
tratta, come già s’è detto, di prosatori o poeti che hanno vo­
luto saggiare le proprie forze e ambizioni drammatiche scri­
vendo anche per il teatro: come S. Siwertz, che nel 1932 ha,
fra l’altro, portato sulla scena un « giallo »: Un delitto, sul
tema della degenerazione sociale e del conflitto fra padri e
figli; o come V. Moberg che ha eseguito riduzioni teatrali di
suoi romanzi o scritto drammi fortemente propagandistici:
Violenza, 1933 — sull’assurdità dell’istituto del matrimonio
perché fondato sul diritto di proprietà; Nostro figlio non
nato, 1915 — sul problema dell’aborto provocato; come
R. Josephson, storico dell’arte e garbato drammaturgo, sicuro
nel disegno di caratteri in Forse un poeta, 1932; come H. Gre-
venius, descrittore d’ambienti proletari e borghesi della ca­
pitale in Sonja, 1927; Cost sono i più, 1941; come K. R. Gie-
row, che sull’esempio di Eliot ha tentato di risuscitare il
dramma in versi (Rovdjuret, 1941; Cembalo, 1961), in motivi
Tendenze letterarie del Novecento 111
storicofiabeschi, o come S. Dagerman, che, nei suoi lavori tea­
trali, rivela chiaramente l’influsso oltreché di Strindberg, di
Faulkner e di Kafka: Il condannato a morte, 1944; Uombra
di Mart, 1948.
In Norvegia la più recente evoluzione del teatro risente
assai del radicalismo politico che cosi lungamente ha caratte­
rizzato le lotte per l’indipendenza nazionale conchiusesi solo
nel 1905, dopo oltre quattro secoli di predominio straniero.
E non è possibile quindi intendere la drammaturgia di un
H. Krog o di un J. Nordahl Grieg senza tener conto e
della grave crisi aperta dal comuniSmo in seno alla socialdemo­
crazia norvegese verso il 1920 e dei problemi sociali, morali e
religiosi oggi dibattutissimi in Norvegia. Così per esempio i
protagonisti dei drammi di Krog: una Cecilia di Per via, 1931;
una Agnese di Chi sa?, 1933; ima Vibeke di Partenza, 1936;
tutte erotismo vitalistico e anticonformismo sociale, troppo
facilmente diverrebbero grottesche caricature se si dimenticasse
quale una volta fu e quale oggi è la posizione sociale e reli­
giosa della donna, soprattutto in paesi come Norvegia e Da­
nimarca. Discorso analogo andrebbe fatto per i drammi di Nor­
dahl Grieg: Il nostro onore e la nostra potenza, 1935; Ma do­
mani..., 1937, tutti ispirati al tema della giustizia sociale; o
per quelli di F. Halvorsen; mentre altri scrittori come S. Chri­
stiansen e J. Borgen concentrano la loro attenzione esclusi­
vamente sull’analisi psicologica di complessi stati d’animo;
il secondo soprattutto, che molto mostra di aver imparato
da Freud e da Pirandello in Mentre aspettiamo, 1938.
Se si dovesse dar credito, sia pure entro ben circoscritti
limiti, a certe generalizzazioni, che vogliono il danese idillico
per natura, non a caso mancherebbero alla Danimarca nomi
da ravvicinare a un Ibsen o a uno Strindberg. Sta di fatto
che dopo il teatro di Holberg (del quale G. Brandes tessè
a suo tempo l’elogio facendolo passare per un « naturalista »:
Ludvig Holberg, 1884), la Danimarca non ha avuto sino al
seconda decennio del nostro secolo un repertorio nazionale.
Non son certo mancati i conoscitori del mestiere, gli abili
fabbricanti di drammi come G. Esman, S. Lange, H. Nathan-
sen, o come G. Wied che, per la segreta angoscia e il riso
amaro con cui maschera i vizi umani in drammi non scritti
per la scena (Drammi satireschi, 1898), sembra richiamare un
Maupassant o un Frbding (specialmente in alcune brevi com­
medie: Una cerimonia commemorativa, in cui un guardiacaccia
fa l’elogio funebre della propria moglie morta al ciambellano
382 Le letterature della Scandinavia

che ne è stato il segreto amante; o come La morte, dove una


contadina adultera, che alla morte del marito ha le carte in
regola davanti alla legge, abilmente respinge il ricatto dei
parenti che vorrebbero farle pagar caro il loro silenzio); ma
solo dopo il 1920 si può parlare d’una ripresa del teatro
danese, sensibile ora agli influssi deirespressionismo tedesco
e del simbolismo, del dramma pirandelliano e delle idee di
Freud.
S. Borberg, primo divulgatore di Freud in Danimarca, e
certo non insensibile alle esperienze espressionistiche tedesche,
porta sulla scena il dramma della personalità umana, piran-
dellianamente intesa come inestricabile groviglio di contrad­
dizioni, in un lavoro teatrale, Nessuno, 1920, che ha avuto
fortuna anche a Berlino e a Madrid, e in altri ancora come
Circus juris o i fratelli siamesi, dove dà fondo al suo lambic­
cato e complicato cerebralismo. Non meno intellettualistico,
ma dotato di forte talento comico è Svend Clausen, professore
di diritto all’università di Copenaghen, che risalendo per oscuri
tramiti a Holberg e a Heiberg, amabilmente satireggia gli
« idola tribus » della società moderna: dalla cartocrazia al
nepotismo: I nostri mandarini, 1920, rappresentato al « Dag-
mar Teater » di Copenaghen nel 1931; dalla burocrazia: Lo
schiavo delVufficio, 1922, al matrimonio: Catene coperte di
rose, rappresentato al « Kongelige » di Copenaghen nel 1928;
mentre E. Howait, spirito reazionario e mordace, fa la parodia
della partitocrazia socialdemocratica in una serie di brillanti
« sketches »: Nu dages det Brodre (L’alba sta per spuntare
fratelli!, 1933 — son le prime parole dell’inno socialdemo­
cratico danese) e poi della stupidità umana: Se avessi sol­
di, 1937.
Verso il 1930 con i drammi del pastore protestante Kaj
Munk, di Kjeld Abell e di E. Soya la scena danese sembra
avviata verso un periodo di notevole fioritura.
Ingegno disordinato e ardente Munk è l’ultimo grande
rappresentante del pietismo danese kierkegaardiano e grundt-
vigiano a un tempo, esasperatamente individualista e nazio­
nalista. Il culto del superuomo e della volontà eroica intesa
in senso individualistico-protestante si riflette in tutti i pro­
tagonisti dei suoi drammi: da re Erode (Un idealista, 1923-24,
rappresentato nel 1928 al « Kongelige ») a Enrico V ili (Ipo­
crisia, 1931), da re Davide (Gli eletti, 1933) al cancelliere
Alexi, « alter ego » di Mussolini in La vittoria, 1936; dal
professor Krater, alias Giorgio Brandes in Fra i marosi, 1926,
Tendenze letterarie del Novecento 383

a Grundtvig (Egelykke, 1938-39, rappresentato nel 1940):


circonfusi tutti d’un nimbo di assai discutibile sovrumanità
al di là del bene e del male, che le parole di Erode moribondo
sembrano eloquentemente sintetizzare:
Son fiero d’aver tenuto fede alla mia vocazione, d’aver mirato
a un solo fine; di non esser stato uno schiavo come voialtri, con le
vostre mezze volontà e col vostro spirito contraddittorio. Se sono
stato, come voi dite, un malvagio, mi lusingo di non aver cono­
sciuto le mezze misure!
tanto che, a studiarla retrospettivamente, la sua dramma­
turgia, e non solo quella degli ultimi anni all’indomani della
invasione tedesca (Niels Ebbesen, 1942), non può non destare
le più serie perplessità. Pure non manca a Kaj Munk il senso
dei conflitti drammatici, già discernibile in Un idealista —
malgrado le macroscopiche imitazioni shakespeariane (dal-
YOtello) e le lungaggini romanzesche — appieno poi dimo­
strato nel dramma che il regista C. T. Dreyer ha più tardi
filmato: Il Verbo, 1925 — dove, oltre le ambiguità e le astrat­
tezze simbolistiche cui dà luogo il miracolo di una Resurrezione
(in larvata polemica contro Over eevne di Bjornson) ripetuto
da due puri di cuore, un demente e una bambina, sono ef­
ficacemente resi i contrasti psicologici tra scettici e credenti,
tra grundtvigiani e pietisti della « Indre Mission ».
Diversissimo per ispirazione è invece Kjeld Abell, che por­
ta sulla scena il suo pathos sociale e il suo comunitario uma­
nesimo, ora in forma di tendenzioso realismo ora di astrusa
simbologia dando l’impressione di ricerca dell’originale e del
peregrino a tutti i costi. Maturato nello studio diretto dei
problemi scenografici e cinematografici e nell’esperienza di re­
gista espressionista, d’esperimento in esperimento, dalla panto­
mina allo sketch, dalla canzonetta al gergo, è venuto affinando
la sua tecnica fino a farsene un efficace strumento per la con­
quista del pubblico. Così dalla mordente satira dello spirito
borghese conformista e consuetudinario (La melodia perduta,
1935 — con arie di S. Moller Kristensen; — Èva deve vivere
i suoi anni di bambina, 1936), è passato alla appassionata e
impegnativa discussione di quegli scottanti problemi morali
che la seconda guerra mondiale ha oltremodo acuiti e esa­
sperati: Anna Sophie Hedvig, 1939, tragedia d’una maestrina
di provincia che uccide una sua dispotica collega nella quale
ravvisa, ancora latente, la volontà aggressiva e distruttiva che
fa scempio del mondo; Giorni su una nuvola, 1947, dramma
384 Le letterature della Scandinavia

di coscienza d’uno scienziato che ha deciso di uccidersi get­


tandosi da un aereo senza aprire il paracadute, ma che, so­
speso su una nuvola e spettatore del conflitto fra le olimpiche
divinità dell’amore e della fertilità da una parte, e gli dei
della guerra e dell’egoismo dall’altra, intende alfine il suo
dovere terreno e desiste dal suicidio; Vetsera non fiorisce
per ognuno, 1950; Skriget (Lo stridio, 1961), raffigurante in
astruso simbolismo la decadenza della odierna civiltà europea,
con spirito polemico anticristiano e con fiducia nelle inesau­
ribili energie dell’uomo.
E. Soya è forse dei tre il più dotato, anche se per lui il
successo teatrale è venuto relativamente tardi, quando il suo
nome di fortunato novelliere era già noto e apprezzato fra
il pubblico danese. Come Abell lui pure è un appassionato
conoscitore e sperimentatore di problemi tecnici teatrali e ci­
nematografici, ma a differenza del primo è meno scoperta-
mente moralistico. Il suo scandaglio psicologico, che sembra
riecheggiare l’impassibilità dei naturalisti (c’è chi ha voluto
ricordare il nome di G. Wied), non è mai fredda analisi in­
tellettuale. Non formula tesi, non accusa e non difende; pone
problemi, anche se non ne indica le soluzioni.
Qualcuno ravviserà il suo limite in questo problematicismo
che non disdegna né gli effetti forti né la ricerca del sensa­
zionale e dell’osceno1 pur di raggiungere il voluto intento, ma
difficilmente potrà negare la coerenza degli svolgimenti dram­
matici e la sincerità umana discernibile attraverso la crudezza
e la scabrosità della materia. Se nel suo primo lavoro (I pa­
rassiti, 1929, amara e pessimistica raffigurazione della corrut­
tela borghese contemporanea) la critica non avvertì il forte
intuito drammatico di Soya, i seguenti (Chi sono io?, 1932,
psicanalitico esame dell’inconscio d’un poveruomo che, desi­
derando la morte della propria fidanzata per passare a più
conveniente partito, cade in balia di forze contrastanti im­
personate dal Diavolo e dalla Vergine, da Barbablù e da
Dongiovanni, finché lo spettacolo del male voluto non lo
induce al pentimento; Lord Nelson si toglie la foglia di fico,
o una notte in un museo di cere, dove l’eroismo guerriero del
grande ammiraglio è psicanaliticamente interpretato come com­
pensazione d’un complesso d’inferiorità sessuale; XJmbabumba
si dà una nuova Costituzione, 1935, feroce satira della Ger­

1 Cfr. il romanzo pseudoautobiografico Sytten (Diciassette), 1953-54.


Tendenze letterarie del Novecento 385

mania di Hitler identificata a una tribù africana; Carlo, 1938,


gustosa beffa della società contemporanea affamata di recla­
mismo e di idolatria, perfino quando chi sale alla ribalta è
un oscuro meccanico, riuscito per sua disgrazia a farsi credere
campione di nuoto) rivelarono appieno il talento di questo
scrittore, il suo non superficiale umorismo e il suo pessimismo
amaro ma non mai freddo e cinico. La vita umana quale urto
fatale di forze imponderabili, capriccioso intreccio di fila in
un caotico ordito, enigmatico permutarsi di bene in male, non
meno che di male in bene, è raffigurata nella più recente te­
tralogia « neorealistica » di Soya: Frammenti d’un disegno,
1940; Due fili, 1943; Trent’anni di proroga, 1944; Libera
scelta, 1948 \con una vivezza e incisività di stile non comune,
con un senso acutissimo per le sfumature della parola e una
coerenza e saldezza di struttura eccezionali. Anche un con­
fronto con la restante pur notevole produzione contempora­
nea: per esempio Una donna superflua, 1935 (rielaborata ri­
duzione teatrale d’un racconto di K. Sonderby) o Fratelli e
sorelle, 1952, del romanziere H. Ch. Branner, non può che
riconfermare l’eminente posto che spetta a Soya nella storia
del teatro nordico moderno, ben superiore alle altre forme di
spettacolo (film, radiodramma, commedia musicale eccetera)
nelle quali va segnalato l’influsso di Pirandello e del pirandel-
lismo (p. es. in Udxiklinger - Crescere, 1965, di K. Rifbjerg).

1 Internato dai tedeschi durante la guerra, e poi fuggito in Svezia,


ha tentato con grande acume di penetrare, nel dramma Efler (1947),
la enigmatica psicologia dei collaborazionisti.
B IB LIO G RA FIA

MEDIOEVO PAGANO E CRISTIANO

Opere di consultazione generale, indispensabili per la vastità e com­


piutezza dei riferimenti bibliografici sono le grandi Storie letterarie dei
singoli paesi nordici; pure ricchi di notizie bibliografiche i dizionari
biografici, le enciclopedie, i periodici di filologia e letteratura nordica
che qui solo occasionalmente si citano. Fondamentale e più accessibile
ai lettori non specialisti di lingue nordiche la rivista di lingua inglese
Scandinavica (fondata e diretta da E. B re d s d o rff, Academic Press,
London-New York, 1962, sgg.) contenente un elenco aggiornato di tutti
i periodici che trattano di filologia e letterature della Scandinavia.
Ver la Svezia
Le tre migliori trattazioni d ’insieme sono: H. Schuck, K. W a rb u rg ,
G. C a s tré n , E. H. Linder, Illustrerad svensk litteraturhistoria, 9 voli.,
Stockholm, 1926-65; e ora, per la letteratura contemporanea (ma sol­
tanto di carattere informativo): E. H. L inder, Ny illustrerad svensk
litteraturhistoria, 2 voli., ivi, 1965-664 con bibliografia anche della stam­
pa periodica; R. S te ffe n , F. Book, O. S ylw an , Svenska litteraturens
historiay 3 voli., Stockholm, 1929; E. N. T ig e rs te d t, Svensk littera­
turhistoria, Stockholm, 19672 (la migliore trattazione esistente sull’ar­
gomento); ottima la recente opera poligrafa in 5 voli, a cura di E. N.
T ig e rs te d t, N. A f z e liu s e altri, Stockholm, 1955-57; H. S a lln a s ,
S. B jò rc k , Svensk litteratur, 2 voli., Stockholm, 19635, lucida e accurata
sintesi d i carattere informativo, ma ricca di pezzi antologici. Pure utile e
ricca l ’antologia di G. T id e s trò m , Dikt och bild, Lund, 1965. I n
lingua non nordica: A . G u s ta fs o n , A History of Swedish Litte­
rature, Minneapolis, 1961.
Ver la Danimarca
C. S, P etersen , V. Andersen, Illustrerei dansk Litteraturhistorie,
4 voli., Kobenhavn, 1916-34; S. N o r r ild ne ha allestita un’edizione
ridotta e aggiornata, di più agevole consultazione, in 2 voli., Kobenhavn,
1949; F. J. B ille s k o v Jansen, Danmarks Digtekunst, 3 voli., Kobenhavn,
1944 (in corso; notevole soprattutto per il rilievo dato, almeno nei
primi due voli., alla valutazione estetica); O. F r iis , Den danske Litte-
raturs Historie, I , Kobenhavn, 1945 (in corso; dà particolare rilievo
ai movimenti spirituali fino alla Riforma, e ha una ricchissima biblio­
grafia); H. B rix , Danmarks digtere, Kobenhavn, 19513 (storia letteraria
per saggi); G. A lb e c k , S. M o l l e r K ris te n s e n e altri, Dansk Litte-
turhistorie, 4 voli. Kobenhavn, 1964-66; in lingua non nordica: P. M.
390 Le letterature della Scandinavia

M i t c h e l l , Danish
Literature, Kobenhavn, 1957; H anne M a r ie und
W e rn e r Svendsen,Geschichte der dànischen Literatur, Neumiinster-
Kobenhavn, 1964; F. D u ra n d , Histoire de la littérature danoise,
Paris-Kobenhavn, 1967.
Per la Norvegia
F. B u l l , F. Paasche, A. H . W in sn e s, Ph. H o um , Norsk littera-
turhistorie, 5 voli., Oslo, 1924-55. (La seconda ed. contiene nel I voi.
un aggiornamento a cura di A. H o lts m a r k , 1957); e migliore, per la
parte moderna, K. E ls t e r , lUustreret norsk litteraturhistorie, 3 voli.,
Oslo, 1934-35; sommario ma buono H . Beyer, Norsk litteraturhistorie,
Oslo, 1952 (la seconda edizione curata da Edvard Beyer contiene
un’utilissima e ampia bibliografia, 1963); utile, dal punto di vista
didattico, l’antologia K loum an- K arner S m idt, Moderne norsk lit-
teratur, Oslo, 1968. In lingua non nordica: B. W . D ow ns, Modem
Norwegian Literature, 1860-1918, Cambridge Univ. Press, 1966.
Per ITslanda
(in particolare sulla letteratura norrena)
F. Jónsson, Den oldnorske og oldislandske Litteraturs Historie, Ko-
benhavn, 1920-242 (fondamentale ma caotico e d’ingrata lettura); tratta­
zioni prevalentemente filologiche: E. N oreen, Den norsk-islàndska poe-
sien, Stockholm, 1926 e J. H e lg a s o n , Norr0n litteraturhistorie, K 0-
benhavn, 1934; inoltre G. N e c k e l, Die altnordische Literatur, Leipzig-
Berlin, 1923 (rapida ma penetrante introduzione generale); J ó n H e l ­
gason, S ig u rd u r N o r d a l in Nordisk Kultur, V i l i , 1953 (la migliore
sintesi della materia); J. D e V rie s, Altnordische Literaturgeschichte,
2 voli., Berlin, 1941-42 (storia sinottica di tutta l’antica letteratura nor­
dica, con particolare riguardo al valore culturale delle singole opere e dei
connessi problemi di cronologia e di attribuzione; recentissima la se­
conda edizione interamente rielaborata, 1964-67); utili anche per la
letteratura islandese antica: F. Jónsson, Island fra Sagatid til Nùtid,
Kobenhavn, 1930; G. Finnbogason, Islendingary Reykiavìk, 1933;
H . K u h n , Island, das Heimatland der Sagas, Berlin, 1940. In corso
di pubbl. la monumentale storia della letteratura islandese antica di
E. Ó l Sveinsson, Islenzkar hókmenntir t fornóld, I, Reykiavìk, 1962;
previsti 3 voli.
Sulla letteratura islandese moderna
B ja rn i M. G is la s o n , Islands litteratur efter sagatiden, Kobenhavn,
1949; K r is tin n E. A ndrésson, Islenzkar mutimabókmenntir, 1918-1948,
Reykjavik, 1949. In lingua non nordica: S te fà n E inarsso n , A History
of Icelandic Literature, New York, 1957.
Tra i più recenti tentativi d i sintesi delle letterature della Scandi­
navia: H. B o r e liu s , Die nordischen Literaturen, Potsdam, 1930-31 (ne
resta però esclusa la letteratura dell’età pagana); e, di carattere informa­
tivo, E. B re d s d o rff, B. M o rten se n, R. P o p p e r w e ll, An Introduction
to Scandinavian Literature from the earliest time to our day, Cam­
bridge, 1951. I n Italia esiste la trattazione di G. P r a m p o lin i nella
Storia universale della letteratura, Milano, 1933-38 (malgrado compren­
sibili sviste ed errori, notevole, soprattutto se considerata nel quadro ge­
nerale dell’opera).
Una buona storia della cultura nordica, non di rado però offuscata
Bibliografia 391

dai soliti deliri nazionalistici e razzisti, ha scritto H. D e Boor, « Skandi-


navien», in Handbuch der Kulturgeschichte, Potsdam, 1934-37.
D i utilissima consultazione anche bibliografica sono la già citata
enciclopedia nordica Nordisk Kultur, 32 voli., a cura di J. Brondum-
N ie ls e n (Kobenhavn), O . v. F riesen (Uppsala), M . O ls e n (Oslo)
1936-56, su tutti gli aspetti dell’antica civiltà della Scandinavia; e per
il periodo dal Medioevo alla Riforma il Kulturhistorisk leksikon for
nordisk middelalder, Oslo, 1956 (a cura d i H. Lie, J. S chreiner
e altri; finora pubbl. 13 voli.).
Largamente informativo il manuale storico di L. M u s s e t, Les peuples
scandinaves au Moyen Àge, Paris, 1951. Dello stesso autore un’ottima
Introduction à la Runologie, Paris, 1965 (con ampia e aggiornata biblio­
grafia) integrata dal recente volumetto di K. D u w e l, Runenkunde,
Stoccarda, 1968. Ricchi di riferimenti bibliografici pure il cit. studio
di S. B. Jansson e E. W essén, Runstenen vid Róks Kyrka, Stock­
holm, 1958.
Sulla letteratura nordica inquadrata nella più vasta cornice del
germanico antico e del germanico comune è da vedere G . Baesecke, Vor-
und Fruhgescbicbte des deutschen Schrifttums, I, Halle a.d.S., 1940
(i monumenti della letteratura nordica sono qui usati solo come fonti;
per consultazione su singoli problemi ed aspetti, K. M u ll e n h o f f ,
Deutsche Alterthumskunde, 5 voli., Berlin, 1890-1929; J. Hoops, Real-
lexicon der germanischen Altertumskunde, 4 voli., Strassburg 1911-19;
G . N e c k e l, « K ultur der alten Germanen », in Handbuch der Kultur­
geschichte, Potsdam, 1934; H . Schneider, Germanische Altertumskunde,
Munchen, 1938, con ottim i contributi di H . D e Boor, H . K u h n e altri;
sulla leggenda eroica va consultata, oltre G . Z in k , Les légendes héroìques
de Dietrich et de Ermrich dans les littératures germaniques, Paris, 1950,
l ’opera dello Schneider che risente dei più recenti studi anti-
heusleriani: Germanische Heldensage, 2 voli., Berlin, 19622 (con bibliog.
R. W is n ie w s k i) e Zur germanisch deutschen Heldensage, ed. K . Hauck,
Bad Homburg, 1961. In particolare per la poesia: A. H e u s le r , Deutsche
Versgeschichtey Berlin, 19562, e Die altgermanische Dichtung, Darmstadt,
19573 (malgrado le critiche di H . M eyer resta questo il p iù geniale
e penetrante studio critico, in cui il maestro della moderna germanistica
ha raccolto in sintesi i risultati di decenni d i studi propri e altrui sulla
materia); inoltre H . K u h n , « D ie altgermanische Verskunst », in Ger­
manische Philologie, Festschrift fiir O. Behagel, Heidelberg, 1934;
H. N aum ann, Fruhgermanentum, Munchen, 1926; C. G runanger, Ein-
fiihrung in die Geschichte der altgermanischen und fruhdeutschen Dich­
tung, Milano, 1942 (ottima e precisa introduzione generale sull’argo­
mento, denso di intricati problemi) e Storia della letteratura tedesca,
I. Milano, 1957 (cap. I); L. M it t n e r , La lingua e lo spirito delVantica
poesia germanicay Firenze, 1942; e ora anche in tedesco, Wurd. Das
Sakrale in der altgermanischen Epik, Bern, 1955 (lavoro veramente
originale sui primordi della poesia germanica che, sulla scorta degli
intimi nessi tra filologia e storia letteraria, tra lingua e stile, giunge
a nuovi e sia pur discussi risultati) cfr. J. de V rie s in Deutsche
Literaturzeitung, 1956; V. P is a n i in Paideia, 1959.
Introduzione alla filologia germanica
V. S a n t o li in Enciclopedia italiana; P. G . S ca rd ig li, Filologia
germanica, Firenze, 1963 (con ampia bibliogr.); V. P isan i, Intro­
duzione allo studio delle lingue germaniche, Torino, 19624.
392 Le letterature della Scandinavia

Sulle lingue nordiche in generale, specie per la parte antica, è


ancora utile, e accessibilè ai non specialisti, il Grundriss der germ.
Philologie di H . P a u l, 6 voli., Strassburg, 1911-162: Geschichte der
nordischen Sprachen bes. in altnordischer Zeit di A. Noreen; in sve­
dese B. H e s se lm a n , « De nordiska spràken », in Nordisk Kultur,
voli. III- IV , 1936-56, e E. W e ssén, De nordiska spràken, Stockholm,
I9603; in norvegese: D. A. Seip, Norden; samhorighet og spràkutvi-
kling, Oslo, 1946; B. H o lm b e rg , A. Jan zén , Att studerà nordiska
spràk, Goteborg-Berkeley 1963 (con bibliografia aggiornata).
Grammatiche, storie della lingua e prosodie
A. N oreen, Altislàndische u. altnorwegische Grammatik, Halle,
19234; A. H e u s le r , Altislàndiscbes Elementarbuch, Heidelberg, 19624;
R. Iversen, Norron Grammatikk, Oslo, 19464; F. Ranke, D. H o fm a n n ,
Altnordisches Elementarbuch, Berlin, 19673; E. V. G ordon, A. R . Tay­
lo r , An Introduction to Old Norse, Oxford, 19573; M. Scovazzi, Gram­
matica delVantico nordico, Milano, 1966.
islandese moderno
S. E inarsso n, Icelandic Grammar, Texts, Glossary, Baltimore, 19492;
S. Jónsson, A Primer of Modern Icelandic, London, 19412 (molto ele­
mentare); H a l l d ó r H erm anson, Modern Icelandic, An Essay, New
York, 1919 (ottima storia della lingua).

norvegese
J. M a rm , A. S o m m e rfe lt (in Teach yourself Norwegian), London,
19592; R. G. P o p p e r w e ll, The Pronunciation of Norwegian, Cambridge
Univ. Press, 1963; H . Lie, Norsk versiere, Oslo, 1967; D . A. Seip,
Norsk spràkhistorie til omkring 1370, Oslo, 19552; D . A. Seip, Norsk
og nabospràkene, ivi, 1959; A. Borgun, Le développement linguistique
de la Norvège depuis 1814, 2 voli., Kristiania, 1919-1921 (dopo la
separazione dalla Danimarca); E. H augen, Language Conflict a Lan­
guage Planning, Cambridge, Mass. 1966.

danese
P. S k a u tr u p , Det danske Sprogs Historie, 3 voli., Kobenhavn,
1944-47 (documentatissima storia della lingua; fondamentale); J. Bron-
dum -N ielsen, Gammeldansk Grammatik, 3 voli., Kobenhaven, 1928-
1935; P. D id e rich se n , Essentials of Danish Grammar, Kobenhavn,
1964 (ottima grammatica descrittiva e comparativa); P. Spore, La lan-
gue danoise. Phonétique et grammaire contemporaine, Paris, 1965;
A . A r n h o lt z , Dansk verslaere, Kobenhavn, 1966.

svedese
A. Kock, Svensk Ijudlàra, 4 voli., Stockholm, 1906-29 (la più esau­
riente trattazione del sistema fonetico svedese); A. Noreen, Altschwedi•
sche Grammatik, Halle, 1904; e Vàrt spràk, 7 voli., Stockholm, 1903-
’25 (incompiuta); E. W e ssén, Svensk spràkhistoria, 2 voli., Stockholm,
1941-43; N . Beckman, Svensk spràklàra, Stockholm, 19599; G. D a n e ll ,
Svensk Ijudlàra, Stockholm, 19594; E. P e t e r n o lli, Grammatica della
lingua svedese, Firenze, 1952; N . Beckman, Den svenska verstaran,
Lund, 19464. Nella serie Teach yourself Books (The English Univ.
Bibliografia 393

Press, London), si trovano grammatiche elementari di tutte le lingue


nordiche. Inoltre N. Lindberg, Lehrbuch der Schwedischen Sprache,
2 voli., Goteborg, 19656; O. S ylw an , Den svenska versen, Goteborg,
1925-34.
D iz io n a r i
A le x a n d e r Jóhannesson, Islàndisches etymologisches Wórterbuch,
Bern, 1956; Jan de V rie s, Altnordiscbes etymologisches Wórterbuch,
Leiden, 1961; J. F r itz n e r - C . Unger, Ordbog over det gamie norske
Sprogy 3 voli, (con aggiunte di A. D. Seip e T. Knudsen, Oslo, 1954-
553); R. C leasby, G. V ig fusso n, A. C raigie, An Icelandic-English Dic­
tionary, Oxford, 19572; E. E g ils s o n , F. Jón sson , Lexicon poèticum
antiquse lingua septentrionalis, Kobenhavn, 19312; W. B^etke, Wórter­
buch zur altislàndischer Prosalitteratur, I, Berlin, 1965.
G. L e ijs tr o m , J. M agnusson, S. B. F. Jansson, tslensk-saensk
oraabók, Stockholm, 1955; P. B. P orlA ksso n e altri, Islensk-dónsk or-
dabók, Reykjavik, 1954 (ristampa). I. C. Svabo, Dictionarium farcense,
ed. Ch. Matras, Kobenhavn, 1966.
dello svedese
Il grande dizionario dell’Accademia Svedese è in corso di pubblio.
Svenska Akademiens ordbok, 23 voli., Stockholm, 1893 sgg.; E. H e ll-
q u is t, Svensk etymologisk ordbok, Stockholm, 19392; O. Ò s te rg re n ,
Nusvensk ordbok, Stockholm, 1919 sgg. (ancora in corso di pubbl.).
Dei vocabolari bilingui, fra i più moderni è quello scolastico a cura
di K. K a rre , H. L in d k v is t e altri, Svensk-engelsk ordbok, 2 voli.,
Stockholm, 1938 sgg. Inoltre T òrnberg-àngstròm , Svensk-engelsk ord­
bok, ivi 1965; e B. D a n ie ls s o n , Modem engelsk-svensk ordbok, ivi
1967.
del danese
In corso di ristampa anastatica è il grande dizionario a cura di
« Det danske Sprog-og Litteraturselskap », Kobenhavn, 1966 sgg.; N.
À. N ie ls e n , Dansk etymologisk ordbog, Kobenhavn, 1966.
Ottimo il Nudansk ordbog di vari, sotto la direzione di L. Jacobsen,
2 voli., Kobenhavn, 19675.
Dei vocabolari bilingui i migliori sono Blinkeberg-T hiele, Dansk-
fransk ordbog, Kobenhavn, 1937; A. Blinkeberg-P. Hoybye, Fransk-
dansk ordbog, ivi, 1964-66.
H. S. F a lk , A. Torp, Norwegisch-danisches ethymologisches Wór­
terbuch, Heidelberg, I9602.
del norvegese
riksmàl
T. K nudsen, A. S o m m e rfe lt, Norsk Riksmàlsordbok, Oslo, 1930-
1957.
landsmal
A. E l l e v ik , Norsk ordbok, Oslo, I, 1966.
misto
E. H aug e n e altri, Normegian-English Dictionary, I, Oslo, 1965
(con ampia introduzione bibliografica).
394 Le letterature della Scandinavia

Sulla religione pagana, anche per i suoi nessi con la letteratura,


la più completa e moderna trattazione è quella d i J. de V rie s, Altger-
maniscbe Religionsgeschichte, 2 voli., Berlin, 1956-572; inoltre G . Du-
m é z il, Les dieux des Germains, Paris, 19592; F. R. S ch ròd e r, Skad't
und die Gótter Skandinaviens, Tubingen, 1941; V. G ronbech, Vor
.Volkeeet i Oldtidenì Kobenhavn, 19552 (notevole soprattutto per l ’utiliz­
zazione delle Saghe e dei testi giuridici e per l ’interpretazione psico­
logica e fenomenologica); F. S tro m , N ordisk hedendom, Goteborg, 1961;
H. R. E l l i s D avidson, Nordens gudar och myter (trad, dall’inglese),
Stockholm, 1966; T u r v ille - P e tre , Myth and Religion of the North,
London, 1964.
Sul concetto germanico del destino: W . B aetke, Art und Glaube
der Germanen, Hamburg, 1934; H. N aum ann, Germanischer Schick-
salsglaubey Jena, 1934; H. G u n te r t , Altgermanischer Glaube, Heidel­
berg, 1937; W . W i r t h , Der Schicksalsglaube in der Islandersagas,
Stuttgart-Berlin, 1940; K . H e lm , Altgermanische Religion, I (1913), II
(1937) II, 2, Heidelberg, 1953 (la 3a parte è dedicata alla religione
nordica. Da un punto di vista metodologico è negata ogni unità sostan­
ziale alla religione dei popoli germanici).
Deìl’Edda: la migliore edizione è ancora quella di G . N e c k e l, Edday
die Lieder des Codex Regius... 2 voli., Heidelberg, 1914, 1926 (con
glossario e commento, 3a ed. a cura di H. K u h n , I, 1962); invecchiato
ma sempre utile B. Sijm ons, H. G ering , Die Lieder der Edday 3 voli,
(si tratta in realtà di cinque parti: I, introduzione; II, testo; III, com­
mento ai carmi degli dei; IV, commento ai carmi degli eroi; V, les­
sico), Halle, 1888-1931. Fondamentali per lo studio del Regius: G .
L in d b la d , Studier i Codex Regius..., Lund, 1954; H. K u h n , Zur Gram-
matik und Textgestaltung der alteren Edday in Z.f.d.A. 90 (1961)
pp. 241-268.
In italiano l’unica traduzione completa (con introduzione note e
bibliografia per ogni singolo carme) è quella di C. A. M a s t r e l l i ,
VEdda, carmi norreni, Firenze, 1951 (cfr. V. S a n t o li in Studi e mate­
riali di storia delle religioni, 23, Roma, 1952).
Sulla poesia scaldica: fondamentale anche se unilaterale F. Jónsson,
Den norsk-islandske Skjaldedigtning, Kobenhavn-Kristiania, 1908-15;
A. Kock, R. M e issn er, Skaldisches Lesebuch, 2 voli., Halle, 1931 (testo
e lessico); inoltre R. M e issn er, Die kenningar der Skalden, Bonn-Leipzig,
1921; W . K ra u s e , Die kenning als typische Stilfigur der germanischen
und keltischen Dichtersprachey Halle, 1930; E. A. Kock, Notationes
Norroense, 5 voli., Lund, 1923-44; e Den norsk-islàndska skaldedikt-
ningeny 2 voli., Lund, 1946-49 (postumo, a cura di E. K ock e I. L in d ­
q u is t); H . K u h n , « D ie Skaldendichtung », in Germanische Philologie,
cit. Heidelberg, 1934; O . Moberg, « D en fornnordiska skaldediktnin-
gens ursprung», in APhsy Kobenhavn, 1943; À. O h lm a r k s , « T ill
fràgan om den fornnordiska skaldediktningens ursprung», in ANFy
L und, 1944, e Islands hedna skaldediktningy Stockholm, 1957; L. M .
H o lla n d e r , The Skalds, The University of Michigan Press. London,
19682 (con testi e traduzioni).
Sulla Saga: oltre la già citata opera di S. N o r d a l, « Sagalittera-
turen », in Nordisk Kidtur; K. L ie s t o l, Upphavet til den islandske
Aettesagay Oslo, 1929; G. T u r v ille - P e tre , Origins of Icelandic Lite­
rature, Oxford, 1953 (ottimo studio sull’età « preclassica », sul periodo
cioè meno noto della letteratura islandese), inoltre le brevi sintesi di
P. H a llb e r g sulla Saga e sull’Edda poetica, Den islàndska Sagan, Stòck-
Bibliografia

holm, 1956; e Den fornislàndska poesien, ivi, 1962; E, Ó l . Sveinsson,


Sturlungaòld... Reykjavik, 1940 (mette in nuova luce i presupposti so­
ciali e culturali della Saga); e A Njàlsbud, Reykjavik, 1943 (convin­
cente apologia dell’unità della Saga di Njàll, contro coloro che alla
Saga hanno applicato la « Liedertheorie » del Lachm ann); W. P. K er,
Epic and Romance, New York, 19572; Sullo stato attuale degli studi
intorno alla Saga: P. G. Foot, « Some Account of the Present State
of Saga-Research», Scandinavica, nov. 1965, pp. 115-125.
‘ Eretiche ’ tesi - di fronte alle più recenti teorie - sulla genesi è
10 sviluppo della Saga ha sostenuto da noi M arco Scovazzi in vari
scritti citati a pie d i pagine nel presente testo, anche sui problemi
giuridici e sociali connessi all’esodo dei norvegesi e al loro insedia­
mento in Islanda (tesi che hanno suscitato violente polemiche, ma an­
che autorevoli consensi di specialisti. Cfr. J. de V rie s, Altnordische
Litt., cit. IP, pp. 319 nota 7, 441 nota 306). Dello stesso autore vedi
inoltre il volume d i traduzioni: Antiche Saghe islandesi, Varese, 1964,
11 primo deL genere in Italia.
Per tutta la letteratura nordica antica si possono consultare, in ita­
liano le varie voci (Edda, Saga, ecc.) dell’Enciclopedia italiana di scien­
ze lettere e arti, Roma; e del Dizionario letterario Bompiani, Opere e
personaggi, Milano, a cura, rispettivamente, di B. V ig n o la , V. S a n to li,
C. G rùnanger. La più ampia e più recente bibliografia sulla Saga,
speciale e generale, in Bekker-Nielsen, D am sgaard O ls e n , O . Wid-
ding, Norron fortsellekunst, Kobenhavn, 1965 (pp. 145-172).
Per i testi: molto usata è la collezione (incompleta) di traduzioni,
Thule, Altnordische Dichtung und Prosa, 24 voli., Jena, 1931 sgg. (a
cura d i F. N iedner, A. H e u s le r , F. G en zm er e altri, recentemente
ristampata; e, solo per le principali Saghe, la Altnordische Sagabiblio-
thek, 18 voli., H alle a.d.S., 1892-1929 (edizione critica con commento
in tedesco a cura di G . C e d e rs c h iò ld , H . G e rin g e altri). In islandese,
oltre l ’edizione popolare corredata da indici e note a cura di G .
Jó n s s o n e B. V ilh jà lm s s o n , Islendinga Sbgur, 48 voli., Reykjavik,
1946-50, c’è ora, grazie all’iniziativa di S. N o r d a l, u n ’edizione critica
con commento: Islenzk Fornrit (in corso dal 1933; progettati 35 voli.).
I l Corpus Codicum Islandicorum Medii JEvi (ed. F. Jónsson e altri),
Kobenhavn, 1930 sgg., è ora integrato da u n ’opera in corso: Manu-
scripta Islandica (con introduzione e note di J. H e lg a so n), Kobenhavn,
1954 sgg., (20 voli, progettati). Per lo studio universitario dei carmi
eddici e scaldici J ó n H e lg a s o n ha pubblicato una scelta: Nordisk filo­
logi (Kobenhavn, Oslo, Stockholm, I, 1951, II, 1952, 1953) e Skjalde-
vers, ivi, 1961. Sui m olti problemi d ’interpretazioni rimasti aperti nella
critica eddica fr. L. M . H o lla n d e r in Scandinavian Studies (Lawrence,
Kansas), maggio 1963, pp. 101-109; e dei corsi e ricorsi delle posizioni
critiche di fronte alla « storicità » della Saga è eloquente testimonianza
il recentissimo studio di S. E l l e h o j , Studier over den eeldste histo-
rieskrivning, Hafniae, 1965.
Sulla conversione al cristianesimo e sulla cultura nordica cristiana
c’è un vecchio ma ottimo lavoro del germanista monacense K. M a u re r,
Die Bekehrung des norwegischen Stammes zum Christentum, 2 voli.,
Mùnchen, 1855-56; inoltre essenziali F. Paasche, Kristendom og Kvad,
Kristiania, 1914; V. G ronbech, Religionsskiftet i Norden, Kobenhavn,
1913; H. Ljungberg, Den nordiska religionen och Kristendomen,
Uppsala, 1938; P. Lehm ann, « Skandinaviens Anteil an der lateinischen
Literatur und Wissenschaft des Mittelalters », in Sitzungsberichte der
396 Le letterature della Scandinavia

bayer. Akad. der Wiss.y Munchen, 1936-37; A. O. Johnsen, Studier


vedrorende kardinal Nicolaus Brekespears legasjon til Norden, Oslo,
1945; T. Schmid, Sveriges kristnande, Stockholm, 1940.
Per i testi: oltre gli Acta Sanctorum, vedi: Scriptores Rerum Sue-
cicarum Medii JEvi (a cura di E. M. F a n t, C. A n n e rs te d t), 3 voli.,
Uppsala, 1818-76; Monumenta Historica Norvegia (a cura di G . S torm ),
Kristiania, 1880; Scriptores Rerum Danicarum Medii /Evi (a cura di
J. Langebek), 9 voli., Kobenhavn, 1772-1878 e Scriptores Minores
Histories Danicee (a cura di M. C. G e r tz ), 2 voli., Kobenhavn, 1917-22;
inoltre Latinska Sànger fràn Sveriges Medeltid (ed. G . E. K le m m in g ),
Stockholm, 1884-87; Legender fràn Sveriges Medeltid (ed. E. F o g e lk lo u ,
A . L in d b lo m , E. W essén), Stockholm, 1917; Vita Sanctorum Danorum
(ed. M. C. G e r tz ), Kobenhavn, 1908-12.
S u s a x o g r a m m a t i c u s e s u l problema della tradizione mano­
scritta dei suoi Gesta Danorum: A. O l r i k , Kilderne til Saxes Oldhis-
torie, 2 voli., Kobenhavn, 1892-94; P. H e rrm a n n , Dànische Geschichte
des Saxo Grammaticus, 2 voli. (trad, dei prim i 9 lib ri e commento),
Leipzig, 1922; Saxonis Gesta Danorum, edizione curata da C. Knabe,
P. H e rrm a n n e altri, 2 voli., Hauniae, 1931-35.
Su s n o r r i : G . C e d e rs c h iò ld , Snorre Sturlasson och hans verk,
Stokholm, 1922; fondamentale: S. N o r d a l, Snorri Sturluson, Reykjavik,
1920; F. P aasche, Snorre Sturlason og Sturlungerne, Oslo, 19482;
W. B aetke, Die Gótterlehre der Snorra-Eaday Berlin, 1950; A. H o lts -
m ark, Studier i Snorres mytologi, Atti Acc. Scienze, Oslo, 1964. Varie
le edizioni, in tedesco, oltre quella in islandese della citata raccolta
Islenzk fornrit, sia della sua Edda (Thule, vol. XX a cura di F. N ie dne r
e G . N e c k e l) sia della Heimskringla (Thuley voli. XV-XVI a cura di
F. N iedner). Sulla Heimskringla fondamentale lo studio di H . Lie,
Studier i Heimskringlas stily Oslo, 1937.
Su b r y n o l f a l g o t s s o n : H. Schùck, « De spinea corona » (te­
sto e commento) in Samlaren, Uppsala, 1918; sugli «offici» latini di
B. artisticamente notevoli T. L unden, in Credo, Stockholm, 1945-46;
P. F. A. H a m m e rich , En Skolastiker og en Bibeltheolog fra. Norden,
Kobenhavn, 1865 (tratta anche del danese A. Sunesen arcivescovo
di Lund).
La biografia della Santa di Stommeln scritta da P e tr u s de D a c ia
è stata pubblicata su diversi manoscritti da J. P a u ls o n (1896) e da
I. C o l l i j n (1936).
Su p e t r u s c’è un saggio di H. Schuck, Vàr fòrste f drfattare, in
Svenska bilder I, Stockholm, 1939; e uno studio di E. Renan, Une
idylle monacale au X III siècley in Nouvelles études d’histoire religeuse,
Paris, 1884.
Pochissimo si sa di b o e t h i u s d e d a c i a ; per i suoi scritti
v. M . G rabm ann, « Neu aufgefundene Werke des Siger von Brabant
und Boethius von Dacien », in Sitzungsberichte der bayer. Akad. der
Wiss.y Phil-hist. Kl., Miinchen, 1924. Inoltre J. N o r d s tr o m in « Sam-
laren », 1927; e A. M a u r e r, Boethius of Dacia a. The Double Truth
(« Mediaeval Studies », 1955).
Del Draumkvadey variamente ricostruito e pubblicato più volte: 1849
(J. M oe ); 1853 (Landstad); 1856-74 (S. Bugge); 1899-1927 (M, M oe );
Bibliografia 397

1927 (I. M ortensson-Egnund) esiste una traduzione italiana II canto


del sogno a cura di G . S e lv a n i, Firenze, 1952. Per la critica, oltre la
bibliografia nella citata 2a ed. della Lett. Norvegese a cura di A. H o lts -
m ark, cfr. G . G o n n e t, « Il Draumkvsede e la Divina Commedia », in
I Congresso degli italianisti scandinavi, Stockholm, 20-22, V, 1963
pp. 63-78.

Su e y n s t e i n n À S G R i M S S O N : F. Paasche, Lilja, et Kvad til


Guds Moder, Kristiania 1915, e Lilja in Edda, Oslo, 1924.
Sul vescovo e innografo svedese nico laus hermanni:
H . Schuck, « Nicolaus Hermannis Birgittaofficium », in Lunds univer-
sitets àrsskrift, 1892-93; E . Liedgren, Svensk psalm ocb andlig visa,
Uppsala, 1926.

Manca ancora u n ’edizione critica completa delle Rivelazioni di Santa


Brigida; ampia bibliografia in Svenskt biografiskt Lexikon, Stockholm,
1918 sgg. (a cura di R . S te ffe n ); fondamentale per la storia del testo
K. B. W e stm a n , Birgitta studier, Uppsala, 1911, e S. K r a f t , Textstu-
dier till Birgittas revelationer, Uppsala, 1929; inoltre sull’autenticità dei
frammenti manoscritti E. N oreen, Fràn Birgitta till Pirateny Stockholm,
1942, pp. 54-65; e sulla tesi contraria T. Schm id in Samlaren, 1941;
indispensabile per la storia della canonizzazione: I . C o l l ij n , Acta et
processus canonizationis S. Birgitteey Uppsala-Stockholm, 1924-31; e per
il soggiorno in Italia: C. B i ld t , Svenska Minnen och màrken i Rom,
Stockholm, 1900 (ricco di materiale tratto dagli Archivi concistoriali);
E. F o g e lk lo u , « Speglingar av Birgitta i m odem litteratur », in OoB,
1945. U na buona scelta delle Rivelazione in svedese moderno hanno
curato T. Lundén-S. S to lp e , M alm ó, 1967. I n italiano: F. R usso,
Santa Brigida nella leggenda e nella storia, Napoli, 1913; e Enciclo­
pedia Cattolica, I I I , Roma, 1950.

Sulle « Folkeviser » nordiche, sulle ballate, sulle Rimur islandesi e


sulla letteratura « popolare », oltre le opere d i carattere generale (fra
cui anzitutto il voi IX , a cura di K. L ie s t o l e C. W . von Sydow, della
già citata Nordisk Kultur; e il vol. I I , a cura di J. A. L u n d e ll e
J. M e ie r, del Grundriss del P a u l; nonché quello del Kulturhistorisk
leksikon cit.; inoltre le edizioni critiche dei testi a cura di: S. G ru n d tv ig ,
J. Sigurdsson, A. O l r i k , H . G rùn e r- N ielse n, A. N oreen, H .
Schuck, A . G ra pe , S. Ek, E. B lom berg, K. L ie s t o l e M . Moe, F.
Jón sson , Ch. M a tr a s e l ’odierna ristampa della DGF a cura d i E.
D a l , K.-I. H ild e m a n , 10 voli. Kobenhavn, 1966-67; si veda in parti­
colare J. S te e n s tru p , Vote folkeviser fra Middelalderen, Kobenhavn,
1891; J. Brondum -N ielsen, « D e danske Folkevisers Betydning i
sproglig Henseende », in Nordisk tidskrift, Stockholm, 1910; E. Wes-
sén, « O lm de nordiska folkvisornas sprakform », in Nysvenska Stu­
dier, Uppsala, 1927; P. W . K e r, « O n àie History of the Ballads», in
Proceedings of the Brit. Acad.y London, 1909-10; A . H e u s le r , « Ueber
die Balladendichtung des Spatmittelalters », in Germ. rom. Monatsschrift,
Heidelberg, 1922; K. I. H ild e m a n , Politiska visor fràn Sveriges sen-
medeltidy Stockholm, 1950; e M . L. K och, Le ballate popolari scan­
dinave e la letteratura norrenay « A I O N », Napoli, V I I , pp. 61-103
(1964); V i l i (1965) pp. 41-76. Una recentissima e completa trattazio­
ne di tu tti i problemi sulla materia in E. D a l , Nordisk folkevise-
398 Le letterature della Scandinavia

forskning siden 1800, Kobenhavn, 1956. Si veda inoltre: B. Croce,


Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, 1930; R. Menendez-Pidal, Poe­
sia popular y poesia traditional, Madrid, 1922; V. S a n to li, Canti po­
polari italiani, Firenze, 1940; e « La critica dei testi popolari », in
« Studi e problemi di critica testuale », Bologna, 1961, pp. 112-118;
e S. B a ld i, Studi sulla poesia popolare d'Inghilterra e di Scozia, R o ­
ma, 1949, specialmente p. 41 sgg.; e per gli ipotetici rapporti tra la
Folkevise nordica e il Minnesang tedesco: V. E. Frandsen, Folkevisen,
Kobenhavn, 1935.

DALLA RIFORMA ALL’ETÀ DEI LUMI

Manca uno studio d ’insieme sulla Riforma protestante nel Nord.


Per i tardi riflessi delTUmanesimo nei paesi nordici v. la bibliografia
in V. S a n to li, « Relazioni fra la letteratura italiana, la tedesca e le
nordiche », in Problemi ed orientamenti critici di letteratura italiana,
IV, Milano, 1948; inoltre: J. P a lu d a n , Renaissancebeveegelsen i Dan­
marks Litteratury I, Kobenhavn, 1887 e (sull’illuminism o in Danimarca),
Fransk-engelsk Indflydelse paa Danmarks Litteratur i Holbergs Tids-
alder, Kobenhavn, 1913; G. Rode, Renaissances tidligste Eftervirk-
ninger paa dansk poetisk Litteratur, Kobenhavn, 1866; e S. Gò-
ransson, « D e svenska studieresorna och den religiosa kontrollen fràn
reformationstiden till frihetstiden », in « Uppsala universitetes àrsskrift »,
1951. Sul teatro della Riforma cfr. P. Svendsen, « E i n BHck auf das
Theaterspiel in der Reformationszeit », in « Nerthus; nordisch-deutsche
Beitràge », Diederichs, 1964, pp. 176-183; e B irket- Sm ith, Studier paa
den celdre danske Literatur... Kobenhavn, 1890. Humanister i lylland
(a cura d i G. A lb e c k e altri, Kobenhavn, 1959, pp. 31-115).

Sul celebre Canto della libertà del vescovo svedese T h o m a s S i -


m o n s s o n : E. H ja rn e , «Biskop Thomas’ av Strangnàs visa... », in
Historisk tidskrift for Finland, Helsingfors, 1919; E. L o n n ro th , « Biskop
Thomas’ frihetsvisa », in Scandia, Lund, 1931; M . V. P la t e n , Tviste-
fràgor i svensk litteraturforskning, Lund, 1966.
s Sui fratelli o. e j . m a g n u s : H . H ild e b ra n d , Minne af Olaus
Magni, in Svenska Akad. Handlingar, Stockholm, 1898; A. B e rto l o t t i ,
« Olao Magno arcivescovo d’Uppsala », in Archivio storico italiano,
1891; J. N o rd s tro m , De yverbornas o, Uppsala, 1934.
Un’ottima edizione degli scritti del riformatore svedese o l a u s p e t r i
è quella di B. H e s s e lm a n (4 voli., Uppsala, 1914-17); v. anche la
monografia di H . Schuck, Olavus Petri, Stockholm, 1922; e N . L in d ­
q u is t, Nagra huvuddrag i Gustav Vasas bibels spràk, Uppsala, 1941;
inoltre sulla lingua di O. P. vedi J. P a lm e r , Olaus Petris spràk, 4 voli.,
Lund, 1932-42.
Gli scritti di c h r . p e d e r s e n sono stati pubblicati da C. J. B ra n d t
e R . T. Fenger (5 voli., Kobenhavn, 1850-56), e quelli di H. Tausen
da H. F. R ordam (1870; 1934). Su quest’ultimo, inoltre è da vedere
M. C h riste n s e n , Fra Birkende til Ribe, Kobenhavn, 1942.
Un’edizione moderna del Libro delle visite pastorali, letterariamente
importante, di P. P a lla d iu s è stata curata da H. B rix (Kobenhavn,
Bibliografia 390

1927), il quale tratta dell’argomento in Analyser og Problemer, IV,


Kobenhavn, 1938.
Sull’opera di p. h e l g e s e n : J. O. A n dersen , Paulus Helie , 2 voli.,
Kobenhavn, 1936-38; P. E. Hansen, Poul Helge sens historiske Forfat-
terskab , Kobenhavn, 1927).
Gli scritti di g . s t i e r n h i e l m sono stati raccolti da J. N o r d stro m
e P. W ie s e lg r e n (Stockholm, 1924 sgg.). Ma v. anche i Filosofiska
fragment a cura di J. N o r d stro m , Stockholm, 1924; per la biografia:
B. S w a r tlin g , Georg Stiernhielm , Uppsala, 1909; sul capolavoro di
Stiernhielm: A. F riberg, Den svenske Hercules, Stockholm, 1945; P.
W ie s e lg r e n , Georg Stiernhielm , ivi, 1948.

Su g u s t a f r o s e n h a n e e s u l problema della sua identificazione


v. J. N o r d stro m , in Samlaren, 1917.
Su g . e . d a h l s t i e r n a : M. Lamm, Gunno Eurelius Dahlstierna ,
Stockholm, 1946.
Su l . w iv a lliu s : A . S chuck , Lars Vivallius, hans liv och
dikter , 2 voli., Stockholm, 1892-95; e soprattutto S. E k , Lars Wivallius*
visdiktning , Goteborg, 1930.
Gli scritti di l . l u c i d o r sono editi da F. Sand w a l l (Stockholm,
1914-30); v. inoltre E. A. K a r l f e l d t , « Skalden Lucidor », in Svenska
Akad. Handlingar, Stockholm, 1914; e G. B o lin , in Samlaren, 1934,
1939; inoltre C. Fehrm an, Diktaren och dóden , Stockholm, 1952.
Su o . r u d b e c k : G. Low, Rudbecksstudier, Uppsala, 1930;
J. N o r d stro m , De yverbornas ó, Uppsala, 1934.
Su A. c h . a r r e b o : H. F. Rordam, Mester Arrebos Levnet og
Skrifter , 2 voli., Kobenhavn, 1857, A r n h o lt z - Dal, Danske Metrikere ,
Kobenhavn, 2 voli. 1954.
Su p . d A s s : R. Sveen, Petter Dass og digtningi hans, Kristiania,
1912; H. M idboe, Petter Dass, Oslo, 1947.
Gli scritti di t h . k i n g o sono stati pubblicati da H. B r ix e F. J.
B i ll e s k o v Jansen e altri (7 voli., Kobenhavn, 1939-45); inoltre sulla
sua poesia religiosa: H. B rix, Tonen fra Himlen, Kobenhavn, 1912;
e Analyser og Problemer, I, Kobenhavn, 1933.
Su h . p é t u r s s o n : M. J ó n sso n , Hallgrimur Pétursson. JEfi hans
og starf , 2 voli., Reykjavik, 1947.
Su H. A. brorson: L. J. K och , H. A. Brorson, K obenhavn,
1918, 1931, 1936.
Degli scritti di a . s t u b esiste una buona scelta con introduzione
e note a cura di H. T rier (Kobenhavn, 1912). Cfr. inoltre il saggio di
H. B r ix nel già citato Danmarks digtere.
Un’ampia bibliografia su d a l i n è in Svenskt biografiskt Lexikon ;
B. H e s s e lm a n e M. Lamm hanno pubblicato YArgo svedese (3 voli.,
Stockholm,1910-18); inoltre: M. Lamm, Olof v. Dalin , Uppsala, 1908,
400 Le letterature della Scandinavia

e F. Book in Stridsmàn och Sàngare, Stockholm, 1910; N. O. D yberg,


Olof Dalin och tidsidéerna , Uppsala, 1946.
Sull’aspetto mistico e letterario del pensiero di s w e d e n b o r g :
M. Lamm, Emanuel Swedenborg. En studie over hans utveckling till
mystiker och andeskàdare, Stockholm, 1915; E. Benz, « Swedenborg als
geistiger Wegbahner des deutschen Idealismus u. der deutschen Ro-
mantik», in Viertelj. f. Lit. u. Geistesg. (1941); e E. S. Naturforscher
Stockholm, 1961; A. V i a l t e , Les sources occultes du romantisme, 2 voli.,
Paris, 1928; J. Roos, Aspects littéraires du mysticisme philosophique ...,
Strassbourg, 1951.
H. B o r e liu s ha pubblicato gli scritti della n o r d e n f l y c h t (3 voli.,
Stoccolma, 1924-38) e una monografìa molto panegiristica, Hedvig Char-
lotta Nordenflycht, ivi, 1921; da vedere, oltre le opere di carattere
generale, A. N ils s o n , « Fru Nordenflychts religiosa diktning », in Lunds
universìtets àrskrift, 1918. M. von P la t e n , « Nordenflychtiana » in
Samlaren, 1958.
Di g y l l e n b o r g , e dell’« Era della libertà » in Svezia ha scritto
G. S ah lb erg, Gustaf Fredrik Gyllenborg. Hans liv och diktning under
fribetstiden , Stockholm, 1943.
Su c r e u t z e sulla poesia pastorale c’è la monografia di G. C a -
s tr é n , Gustaf Philip Creutz , Stockholm, 19492; sul problema linguisti­
co: S. D e lb la n c in OoB , 70, 1961, pp. 283-89.
Su g u s t a v o n i scrittore, G. Landberg, Gustav III i eftervàrl-
dens dom , Stockholm, 1945.
Su l e o p o l d : A. Sjòding, Leopold, den gustavianske smakdomaren,
Uppsala, 1931; J. V. Johan sson, Extra-posten, 1792-95; 2 voli., Gote­
borg, 1936.
U n ’ottim a ed izio n e critica d egli scritti di k e l l g r e n (a cura di
S. E k - O. S yl w a n e altri) è ancora in corso di pu b blicazion e (Stock ­
h olm , 1923 sgg.). F ond am en tale la m onografia d i O. S y l w a n , Johan
Henrik Kellgren , Stockholm , 1939. P iù recente e dal p u n to d i vista
sociale L. J o s e p h so n , Kellgren och: samhàllet, U ppsala, 1942. In o ltre i
saggi d i S. E k in Samlaren 1907, 1910, 1911, 1947, 1960.

G . B ergh ha pubblicato gli scritti di e h r e n s v à r d (2 voli., Stock­


holm, 1923-25), le Lettere (ivi, 1916-17)* e il Viaggio in Italia (con in­
troduzione; ivi, 1925). Per i rapporti con Winckelmann e per l’estetica
neoclassica occorre tener presenti le acute osservazioni di questa studiosa
in Litteràr kritik i Sverige under 1600- och 1700-talen, Stockholm, 1916,
e in Samlaren, 1918. Oggi c’è un ponderoso ma molto discutibile volu­
me di H. F ry k e n ste d t, Studier i C. A. Ehrensvàrds fòrfattarskap, Stock­
holm, 1965 (v. V. C. O. G ie r o w in Samlaren, 1966, specie p. 180; e
AION, Napoli, 1967.
Una comoda edizione delle commedie di h o l b e r g è quella curata
da F. B u l l - G. C h r iste n s e n e altri (6 voli., Kobenhavn, 1922-23);
gli scritti completi (18 voli. 1913-42) sono stati pubblicati a Kobenhavn
da C. S. P e te r s e n . Le Riflessioni morali, le Memorie e le Lettere sono
state recentemente pubblicate (con note) da F. J. B i ll e s k o v Jansen
Bibliografia 401

(ivi, 1943-54). Fondamentale per il teatro: H. B rix , Ludvig Holbergs


Komedier, Kobenhavn, 1942; e, per gli altri scritti, F. J. B illeskov
J ansen , Ludvig Holberg som Epigrammatiker og Essayist, 2 voli., Ko­
benhavn, 1938-39; suH’illuminismo di Holberg è importante lo studio
di K. Foss, Ludvig Holbergs naturrett pà idénhistorisk bakgrunn, Oslo,
1934; e H. B eyer, Fra Holberg til Hamsun, Oslo, 1934. Tra il 1920 e
il 1925 si è pubblicato a Copenaghen un ‘Holberg-Aarbog’, con contri­
buti di danesi e norvegesi. In generale sull’illuminismo danese: H.
S tangerup, Romanen i Danmark i det 18 Aarhundrede, Kobenhavn,
1936. E sulla lingua di Holberg vedi D. A. Se ip , Om norskhet i spràket
hos L. H .y Oslo, 1954.
Su w e s s e l : S. T homsen , Kun en Digter. En bog om Joban
Herman Wessel, Kobenhavn, 1942.
È ancora in corso di pubblicazione l ’edizione critica completa degli
scritti di b e l l m a n a cura del Bellmansàllskapet, Stockholm (1921
sgg.), che pubblica anche una serie di Bellmansstudier, ivi (1924 sgg.).
Ancora vivo e di piacevole lettura G. Ljunggren, Bellman och Fredmans
epistlar , Stockholm, 1867; inoltre O. Sylwan , Bellman och Fredmans
epistlar, Lund 1943; O. B ystrom , Kring Fredmans epistlar, Stockholm,
1945; A. Stahlhane, En Bellmansbok, Stockholm, 1947; Ch . E lling ,
Bellmaniana, Kobenhavn, 1947; e soprattutto la penetrante critica di
N. A f z e l iu s , M yt och bild i Bellmans dikt , Stockholm, 1945. Per la
lingua: O. H ellquist , in ANF, Lund, 1888, e N. L indquist , in Nordisk
Tidskrift, Stockholm, 1947. Fondamentale per i problemi musicali con­
nessi alla poesia di Bellman; J. F lodmark, Bellmansmelodiernas ursprung,
Stockholm, 1883; e T. K rogh, Bellman som musikalsk Digter , Koben­
havn, 1945; recentissimo l’utile dizionario: C. L arsson -M. H ellquist ,
Ordbok till Fredmans epistlar, Stockholm, 1967.
Sull’opera più notevole di w a l l e n b e r g , il racconto d’un suo
viaggio a Canton nel 1769 (Min son pà galejan, eller en ostindisk resa)
ci sono due importanti studi di N. A f z e l iu s : in Samlaren, 1924, e in
OoBy 1930; e ora, in forma più ampia, il capitolo dedicato a Bellman
e a Wallenberg nella citata opera poligrafa: Storia della letteratura sve­
dese (1955-57, vol. II, 1956). Lo stesso Afzelius ha curato l’intera
opera del Wallenberg (Stockholm, 192841).

il romanticismo

Sul preromanticismo nordico e quindi su molti degli scrittQri trattati


nel precedente capitolo, fondamentali gli studi di M. Lamm, Upplys-
ningstidens Romantik , 2 voli., Stockholm, 1918-20; sulle origini del
m ovimento goticista: A. B la n ck , Den nordiska renàssansen ' i sjutton-
hundratalets Litteratur , Stockholm, 1911; e ora S. Svennung, Zur Ges-
chichte des Gothizismusy Stockholm, 1967; V . V e d e l, Svensk Roman­
tik y Kobenhavn, 1894; O. Springer, Die nordische Renaissance, Stutt-
gart-Berlin, 1936; P. V, T ieghem , Le préromantisme , Paris, 1924-30;
1947-482 R. S te ig , Goethe und die Bruder Grimmy Berlin, 1892; A.
H en riq u es, Shakespeare og Danmark indtil 1840, Kobenhavn, 1941.
Sul romanticismo come fenomeno europeo cfr. R. W e lle k , Concepts
of Criticism , N ew H aven - London, 19642, specie p. 159 sgg.; V . V e d e l,
Studier over Guldalderen i dansk Litteratur , Kobenhavn, 1895; A.
N ils s o n , Svensk romantik , Lund, 1916 (specialmente per la storia del

XXVII - 16. Lett, della Scandinavia


402 Le letterature della Scandinavia

platonismo romantico); R. G ustafsson B erg, Litteraturbilder , ivi, 1912;


F. Leander, Romantiken, Stockholm, 1944 (sommario ma ottimo studio
d’insieme, in cui è sensibile la distinzione crociana fra Romanticismo
teoretico e Romanticismo morale); A. L idén , Den norska strómningen i
svensk litteratur under 1800-talet, Stockholm, 1926; F. M ortensen ,
Fràn Aftonbladet till Roda Rummet, 2 voli., Stockholm, 1913-15; H.
B rix , Analyser og Problemer, Kobenhavn, 1933-40 (in massima parte
tratta la letteratura danese anteriore all’Ottocento); H. M idboe, Roman-
tikkens balladediktning, Oslo, 1946; L. M aury , Panorama de la litté-
rature suédoise contemporaine, Paris, 1940; G. R ydell , Adertonhundra-
talets historiska skàdespel i Sverige fore Strindberg , Stockholm, 1928;
F. Book, Romanens och prósaberàttelsens historia i Sverige intill 1809,
Stockholm, 1907.
Sul Romanticismo nordico in generale nei suoi rapporti con il pen­
siero tedesco cfr. l’autobiografia di H. Steffens , Was ich erlebte , Bre­
slau, 1840-44; e sugli scrittori scandinavi moderni si può utilmente
consultare le relative voci nella Enciclopedia Italiana e nel Dizionario
letterario Bompiani a cura di G. G abetti, V. Santoli e altri.
Le opere di j. e w a l d sono edite a Kobenhavn a cura di H. B rix ,
V. K uhr e altri (6 voli., 1914-24). Della sua autobiografia Levnet og
Meninger, ispirata allo Sterne, c’è un’edizione commentata di L. Bobe
(Kobenhavn, 1911); Inoltre vedi H. B rix in Analyser og Problemer,
III Kobenhavn, 1936; T. B rostrom, in Meddelelser fra Dansklaerer-
foreningen 1965, pp. 89-96; E. F randsen, Johannes Ewald . Et Stykke
dansk Aaandhistorie. Kobenhavn, 1939; S. T homsen , J. E. ivi, 1943;
per l’influsso di Klopstock su Ewald: L. M agon, Ein Jahrhundert geisti­
ger und literarischer Beziehungen zwischen Deutschland und dem Nor­
den, I, Die Klopstockzeit in Dane mark, Leipzig, 1926.
Sull’importanza dell’idealismo tedesco per l’opera di b a g g e s e n c’è
un accurato studio critico di O. E. H e s s e , J. J. Beggesen und die
deutsche Philosophie, Leipzig, 1914; una parziale edizione critica (con
commento) dei suoi scritti è quella curata da A. A rlaud , Poetiske
Skrifter (5 voli., Kobenhavn, 1882-1903). Sulla polemica letteraria fra
Baggesen e Oehlenschlàger ha pubblicato un ampio lavoro (che è in
realtà una storia della letteratura dal 1780 al 1826, caotica e farraginosa
ma ricca di documentazione) K. A rentzen, Baggesen og Oehlenschlàger
(8 voli., Kobenhavn, 1870-78).
Su t h o r i l d e lo « Sturm und Drang»: E. C assirer , Thomas
Thorilds Stellung in der Geistesgeschichte des achtzenhnten Jakrhun-
derts , Stockholm, 1941, e F. L eander, in Samlaren, 1943; inoltre S.
A rvidson , Th. Thorild..., Lund, 1931 e 1938.
Per le lezioni di s t e f f e n s sul Romanticismo tedesco, v. l ’in­
troduzione al volume Indledning til filosofiske forelesninger (a cura di
H . H offding ), Kobenhavn, 1905; R. P etersen , Henrich Steffens, Ko­
benhavn, 1881; H . B eyer, Henrik Wergeland og Henrich Steffens, Kri­
stiania, 1920. Su Schack-Staffeldt: I. P recht , Der Einfluss G. Brunos
auf den danisch-deutschen Romantiker Schack-Staffeldt, Kiel, 1916; e
H . Stangerup , A. V. v. Schack-Staffeldt, Kobenhavn, 1940.
Una sin troppo larga scelta degli scritti di o e h l e n s c h l à g e r
è quella di F. L. L iebenberg, Poetiske Skrifter, (32 voli., Kobenhavn,
Bibliografia 403

1857-62); più recente e migliore l’edizione di H . G. Topsoe-Jensen


(5 voli., Kobenhavn, 1926-30); recentissima quella delle Lettere (5 voli.,
ivi, 1945 sgg.); per la critica, oltre le opere di carattere generale v. V.
A n dersen , Guldhornene , Kobenhavn, 1896; I. F alben-H ansen, A. Oeh-
lenscblàgers nordiske Digtning, Kobenhavn, 1921; P. V. Rubow, Dansk
litteraer Kritik, Kobenhavn, 1921; e per la biografia: A. S o e r g el, Adam
Oehlenscklàger in seinen persònlìchen Beziehungen zu Goethe, Tieck
und Hebbel, Berlin, 1907 (con bibliografia); V. M adsen, Adam Oehlen-
scblàger, Kobenhavn, 1929 (quasi panegiristico).
D elle opere di g r u n d t v i g buona è la scelta fatta da J. Borup
e F. Schroder (3 voli., Kobenhavn, 1929-31); la corrispondenza è stata
pubblicata da G. C h r iste n s e n e Sv. G ru n d tv ig (2 voli., Kobenhavn,
1924-26); per la biografia e il pensiero religioso di G., fondamentali:
F. Ronning, Nikolai Frederik Severin Grundtvig,, 4 voli., Kobenhavn,
1907-14; e soprattutto H. K och, N. F. S. Grundtvig , Stockholm, 1941
(ampliata ed. danese 1943) e E. Simon, Réveil national et culture popu­
la te , Paris, 1960. Per certi aspetti della sensibilità romantica in Dani­
marca cfr. S. M o ll e r K r iste n s e n , Den dobbelte Eros, Kobenhavn,
1966.
Delle poesie romantiche di b . t h o r a r e n s e n c’è una scelta con
un saggio introduttivo di K. A lb e r ts o n (Qrvalsliód, Reykjavik, 1934).
Sulla copiosissima produzione di i n g e m a n n hanno scritto K.
G a l s t e r , Bernhard Severin Ingemanns historiske Romaner og Digte,
Kobenhavn, 1922; e C. L a n g b a lle , B. S. Ingemann. Et digterbillede
i ny Belysning, ivi, 1949.
P. SchJìERFF ha pubblicato una scelta degli scritti di h a u c h (3
voli., Kobenhavn, 1926-29); per la critica: K. G a ls t e r , Carsten Hauch,
Kobenhavn, 2 voli., 1930-1935.
Sul colorito romanzo autobiografico del b e r g s o e , Fra piazza del
Popolo (1867) è da vedere V. P. Rubow, V. Bergsoe og hans store Ro­
man, Kobenhavn, 1948.
Manca un’edizione critica degli scritti di a t t e r b o m . Una buona
scelta è quella di F. Bóok (6 voli., Stockholm, 1927-29); le « Lettere
a Schelling », sono state pubblicate da R. G u s t a f s s o n B erg in Samlaren,
1918. Per la critica: C. S a n tesso n , « Atterbomstudier », Stockholm,
1932 e in Samlaren (1923, 1925, 1929, 1947); G . A xb erger, Den unge
Atterbom, Uppsala, 1936. Dal punto di vista del pensiero filosofico
importanti gli studi di H . F ry k en ste d t, Atterboms kunskapsuppfattning,
Lund, 1949; Atterboms livs-och vàrldsàskàdning i belysning av den tran-
scendentala idealismen , 2 voli., Lund, 1951-52; Atterboms Sagospel Lyck-
salighe tens o, Lund, 1951.
Di g e i j e r esiste l’edizione (non completa) degli scritti (13 voli.,
Stockholm, 1923-31, a cura di J. L and qu ist); per il pensiero e l’arte:
A. B la n ck , Geijers gótiska diktning, Uppsala, 1918; e in Nordisk tid-
skrift, 1947; J. L an d q u ist, Erik Gustaf Geijer, Stockholm, 1924; P. E.
L ilj e q u is t, Erik Gustaf Geijer. Ein schwedischer Geschichtsphilosoph,
Erlangen, 1924; H. B o r e liu s , E. G. Geijer. Àren fore avfallet, Stock­
holm, 1909; E. N orberg, E. G. Geijers vag fràn romantik till realism ,
Uppsala, 1944.
404 Le letterature della Scandinavia

L’edizione critica degli scritti di t e g n é r è stata pubblicata da


E. W rangel e F. B5o& (10 voli., Stockholm, 1918-25); in corso la
Corrispondenza (1953 sgg.); fondamentali per la critica la monografia in­
completa di F. B ook, Esaias Tegnér, Stockholm, 1917, il quale ha anche
scritto una biografia in 2 voli., 1946-47; inoltre A. W erin , E. Tegnér,
Lund, 1934; C. F ehrman , « Tegnérbilden », in QoB, 1947; G. H edin ,
« Tegnérs uppfattning om klassiskt och romantiskt », in Gòteborgs
hògskolas àrsskrift, 1935; N. Sòderblom , Svenskars fromhet, I, Uppsa­
la, 1933. Una mediocre traduzione in prosa della Saga di Frithiof, ha
dato A. M artines (Palermo, 1904).
Degli scritti di s t a g n e l i u s esiste un’edizione critica a cura di
F. B ook (5 voli., Stockholm, 1911-19); per la lirica e i drammi v.
F. B ook, Erik Johan Stagnelius, Stockholm, 1919, e 1942, 1954, 1957;
A. N ilsso n , Svensk Romantik , Lund, 1916, e Stagnelius’ diktning , Uppsa­
la, 1926; O. H olmberg, Sex kapitel om Stagnelius, Stockholm, 1941; S.
M a lm stròm , Studier over stilen i Stagnelius’ lyrik , ivi, 1961; S. B erg-
sten , Erotikern Stagnelius, Uppsala, 1966; En Stagneliusbibliografiy ivi,
1965. Su r u n e b e r g e i suoi Canti dell’alfiere Stài vedi E. H ornborg,
Fànrik Stàls S'àgner og werkligheten , H elsinki, 1954; e G. C astren ,
J.L.R., Stockholm, 19622.

Delle opere poetiche di w e l h a v e n c’è una comoda edizione


(4 voli., Oslo, 19213 a cura di A. Lochen); inoltre per la critica I. H au -
ge, Tanker og tro i Welhavens poesiy Oslo, 1955; A. A arnes , J. S. Wel­
haven ... ivi, 1955. Di Wergeland esistono 23 voli, di Scritti Completi,
Oslo, 1918-40; fondamentali: K abell . H. Wergeland, Kobenhavn, 1956-
57; D. H aakonsen, Skabelsen i H. W s diktning, Oslo, 1951.
Sul problema della lingua in Norvegi a anzitutto
A. G undersen , Fra Wergeland til Vogt-komiteeny O slo, 1967; E. Lund -
by - I. T orvik, Spràket vàrt giennom tidene , O slo, 1961; K. L iestol ,
Vore hovdingery Kristiania, 1914, e P. Ch. Asbjornsen. Mannen og
livsverkety O sIq, 1947 (delle Fiabe di Asbjornsen e M oe esiste una tradu­
zione ital. di Al M anghi, Fiabe norvegesi, Roma, 1962, con introduzione
di V. Santoli); inoltre T. K nudsen , Peter Andreas Munch og samtidens
norske sprogstrev , O slo, 1923; H . K oht, « Ivar Aasen, granskar og
màalreisar » in Minneskrift, O slo, 1913; I. H andagard, Ivar Aasen ,
O slo, 1946; A. 0 verland, Riksmàl, landsmàl, slagsmàl, O slo, 1956; A.
B ergsgard, À. Vinje...y O slo, 1940. Una buona scelta degli scritti di
Vinje è quella pubblicata a Kristiania (5 voli., 1916-21).
Sull’attività di h e i b e r g critico teatrale filosofo e scrittore, c’è ora la
monografia di M. B orup , Johan Ludvig Heiberg , 3 voli., Kobenhavn,
1947-49; e 5 voli, di Lettere , ivi, 1946-50.
Su g o l d s c h m i d t e s u l suo giornale satirico-politico II Corsaro
v. lo studio di E. B redsdorff (Kobenhavn, 1941).
Una buona biografia di F . b r e m e r ha scritto E. K leman
(Stockholm, 1925); inoltre sulle femministe nordiche del secolo scorso
e di questo, scrittrici e propagandiste, si può consultare E. K. Sa s s ,
« Kvinden som skabende Kunstner », in Kvinden i Danmark , Kobenhavn,
1942; e A. C. A gerholt, Den norske kvinnebevegelses historie, Oslo,
1937; M. G ravier, Le féminisme et Vamour dans la littérature norvé-
gienne, Paris, 1968.
Bibliografia 4Ò5

Di b l i c h e r ( i c u i scritti completi sono ora raccolti in 33 voli.»


Kobenhavn, 1920-34), oltre la biografia di J. A akjaer, .Blichers Livstra-
gedie, 3 voli., Kobenhavn, 1903-4; v. H. B rix, Blicherstudier, Kobenhavn,
1916; e in Analyser og Problemer , II, 1935; J. N orvig, S. S. Blicher,
Hans Liv og Vserker, Kobenhavn, 1943; U. A h lb ec k , Stil og Teknik i
Blichers Noveller , ivi, 1942; e H. P o v ls e n , St. St. Blicher, ivi, 1952;
che ne ha anche pubblicato le novelle e le poesie, ivi, 1954. In italiano
è stato tradotto da A. M anghi, Il diario di Morten Vinge , Brescia, 1957.
Su m o l l e r ci sono varie ristampe della monografia di V. An­
d ersen , Poul Martin Moller, hans Liv og Skrifter , Kobenhavn, 19444,
e lo studio linguistico di J. B ron d u m -N ielsen , ivi, 1940.
1 Phantasterne di h. e g e d e - s c h a k sono stati pubblicati con una
ampia introduzione di C. Roos (Kobenhavn, 1951) e lo studio critico
Homo sum , ivi, 1946.
Una buona scelta delle liriche di WINTHER è quella di O. Friis
(3 voli., Kobenhavn, 1927-29); il quale ha anche scritto sul capolavoro
del Winther: Hjortens Flugt... Kobenhavn, 1961; per la biografia e la
critica v. N. Bogh, Ch. Winther (3 voli., Kobenhavn, 1893-1901).
C. S. P e te r s e n ha pubblicato una scelta degli Scritti poetici di
palu dan-m u ller (3 voli., Kobenhavn, 1909); V. A n dersen
una monografia, Frederik Paludan-Muller, 2 voli., Kobenhavn, 1910; e
M. H a u g ste d , F. Paludan-Mullers prosaiske arbejder, ivi, 1940.
Sono note le numerose traduzioni italiane di varie opere di k i e r -
k e g a a r d . Particolarmente buona quella di A. Z u ccon i, La ripresa,
Milano, 1954. Pregevole anche l’antologia italiana curata da C. Fabro,
Torino, 1952 (con bibliografia). Per gli aspetti letterari della sua opera
cfr. F. J. B ill e s k o v Jansen, Hvordan skal vi studere S. K., Kobenhavn,
1949, e S. Kierkegaards lit tersere kunst, ivi, 1951.
Delle Fiabe di a n d e r s e n esiste un’edizione critica (5 voli., a
cura di H. B rix e A. Jen sen , Kobenhavn, 1919, 1931, 1962); molto
comoda è anche quella illustrata (16 voli., ivi, 1944) a cura di Svend
L arsen. In corso di pubbl. l’edizione critica a cura di E. D a l, E. N i e l ­
sen , H. C. Andersens Eventyr , 5 voli., Kobenhavn, 1963-67 (progettati
2 voli, di commento). Fondamentali gli studi biografico-critici di H. G.
T opsoe-Jensen, Omkring Levnedsbogen , Kobenhavn, 1943, H. C. Ander­
sens Romerske Dagboger, Kobenhavn, 1947; M it Livs Eventyr (ed. critica
annotata) 2 voli., ivi, 1955; H. B rix, H. C. Andersen og hans Eventyr,
Kobenhavn, 1907; P. V. Rubow, H. C. Andersens Eventyr , Kobenhavn,
19673; di utile consultazione sono anche Bo G ronbech, H. C. Andersens
Eventyrverden , Kobenhavn, 19642; V. V e d e l, « H. C. Andersen i euro-
pasisk B elysning», in Tilskueren , Kobenhavn, 1926; F. Book, H. C.
Andersen. En levnadsteckning , Stockholm, 19552; E. C o llin , H. C. An­
dersen og det Collinske Hus , Kobenhavn, 1882, 1929. A Odense esce
dal 1933 Anderseniana. Fondamentali per l ’orientamento degli studi
odierni: E. D a l, Research on H. C. A. in Orbis Liti., Kobenhavn, 1962
pp. 166-183; E. B r e d sd o r ff, A Criticai Guide to the Literature on
H. C. A., Scandinavia, I, 1967 pp. 26-42 e nov. 1967, pp. 105-125.
Dello stesso autore H. C. A. og Ch. Dickens , Kobenhavn, 1951 e H. C.
A. and England, ivi, 1954 (con molto materiale inedito); inoltre S. J.
M o lle r , Bidrag till H. C. Andersens bibliografi, Kobenhavn, 1966; e
406 Le letterature della Scandinavia

A a g e Jorgensen, H. C. Andersen-Litteraturen 1966-1967 in A I ON, Na­


poli, 1968, pp. 5-33. Recentissimo lo studio stilistico, condotto con cri­
teri eclettici sui romanzi, di N . K ofoed, Studier i H. C. Andresens for-
teellekunst, Kobenhavn, 1967. In italiano E. K. W esterg a a d , « Ander­
sen nella letteratura europea », in Rivista di Letterature moderne e com­
parate , Firenze, 1955; A. M anghi, Andersen e l'Italia , ivi; A. G uidi,
« A proposito di alcune pagine di H. C. A . », in Dialoghi, n. 5 1967.
Numerose ma mediocri le biografie; numerosissime le traduzioni, anche
italiane. Q ueste ultim e però, perfino le più recenti, quasi tutte dal tedesco
e dal francese. Fanno eccezione Le 40 Novelle a cura di M. P ezze-P a sco ­
l a t o , che per prima fece conoscere P A n d e r s e n in Italia (Milano,
.1928; 1948); e la recente quasi completa traduzione di A. M anghi e
M. R in a ld i, Fiabe di Andersen, Torino, 1954.

SullTtalia nella poesia nordica: H. C o r n e ll, Italien sett av svenska


skalder och konstnàrer, Stockholm, 1935; L. BosÉ, Rom og Danmark
gennem Tiderne, 3 voli., Kobenhavn, 1935; B. Lew an, Drommen om
Italien , Stockholm, 1967; B u l l , Nordisk Kunstnersliv i Rom, Oslo, I960.
Un'edizione parziale degli scritti di a l m q v i s t è stata pubblicata
da F. B ò ò k - O. H o lm b er g - J. M jòberg - A. W erin (1921-38). Fon­
damentale per l’impostazione dei problemi critici lo studio di M. Lamm,
« Studier i Almqvists ungdomsdiktning », in Samlaren, 1915; inoltre O.
H o lm b erg , C. /. L. Almqvist, fràn Amorina till Colombine , Stockholm,
1922; A. W erin , C. J. L. Almquist..., Stockholm, 1923; H . O ls s o n ,
D ikt och Studie , Uppsala, 1922; e in Samlaren (1917, 1922, 1924), non­
ché C. J. L. Alm qvist till 1836, Stockholm, 1937; E. W en n erstro m ,
Stilstudier i A: s Songes, Uppsala-Stockholm, 1937; A. B ergstran d , Lit-
teraturhist, studier i C.J.L.A: s diktsamling, Uppsala, 1953. Recente la
trad, delle Novelle a cura di I t a l o G r i l l i , introd. A. M anghi C a sta ­
g n o li, Torino, 1966.
K. W arburg ha curato l’edizione delle opere di r y d b e r g (14 voli.,
Stockholm, 1895-99) e gli ha dedicato una monografia (2 voli., ivi,
1900); inoltre V. Svanberg, V. Rydbergs Singoalla, Uppsala, 1923; e
Novantiken i Den siste Atenaren , ivi, 1928. Per l’umanista e lo stu­
dioso Rydberg, v. il volume commemorativo (Goteborg, 1928) che rac­
coglie vari studi di S. Ek e di altri. Accanto a Rydberg e in contrasto
ideale con la nuova età positivistica meriterebbe menzione il poeta e
studioso scanio u . b a a t h ; sulla sua lirica è da vedere il misurato
giudizio di F. Book, Fràn Àttiotalet, Stockholm, 1926.
Una buona scelta delle poesie di s n o i l s k y è stata curata da
H. O lsson (Stockholm, 1942); per la biografia e la critica: H. O lsson ,
Den unge Snoilsky, Stockholm, 1941; da un punto di vista stilistico
N. Svanberg in Nysvenska Studier, 1938.

l ’età m oderna

Opere di carattere generale


H. G. T o p s o e -J e n s e n , Den skandinaviske Litteratur fra 1870 til
vore Dage, Kobenhavn, 1928; G. A h l s t r ò m , D et moderna genombrottet
i Nordens litteratur, Stockholm, 1947; H. K jjErgaard, Die nordische
Literatur in neuester Zeit, Kobenhavn, 1934 (con bibliografia); E. T h o m -
Bibliografia 407

se n , Dansk litteratur efter 1870y Kobenhavn, 19622; S. N ordal, Utsikt


over Islands litteratur i det 19 og 20 àrbundrede, Oslo, 1927; Ó. Lind-
b e r g e r , Beràttarteknikens utveckling fràn H. Sòderberg till E. Johnson,
Stockholm, 1939; H. K rog, Meninger om boker og forfattere, Oslo,
1929; Meninger om mange ting, ivi, 1933; Meninger, ivi, 1947. In
italiano: articoli e saggi diversi in Studi germanici, Firenze, 1932 sgg.
e in Rivista di letterature moderne e comparate, Firenze, 1946 sgg., nella
Enciclopedia Italiana e nel Dizionario Letterario Bompiani.
Su g . b r a n d e s critico: fondamentale P. V. R ubow , Georg Bran­
des og hans Iserere, Kobenhavn, 1927; G. Brandes og den kritiske
Tradition, ivi, 1931; G. Brandes briller, ivi, 1932; ma non meno im­
portante G. A hlstròm , G. Brandes’ Hovedstromninger, Lund, 1937; e
B. C roce, « Storia artistica e storia sociologica della poesia », in Critica,
1919. Cfr. anche S. M oller K ristensen in Scandinavica voi. 3 n. 2
1963, p. 126 sgg., inoltre H. F enger, G. Brandes leereàr, Kobenhavn,
1955, P. K ruger, Correspondence de G. B., 4 voli., Kobenhavn, 1952-
1966; e R. W ellek , A History of Modem Criticism, Yale Univ. Press,
1965 III. Per la biografia: G. R ung, G. Brandes i Samveer og Breve,
Kobenhavn, 1930. Importante per la storia delPultimo O ttocento la Cor­
rispondenza a cura di M. B orup , F. B u ll e altri, Georg Brandes og Edvard
Brandes. Brevveksling med nordiske Forfatter e og Videnskabsmaend (8
voli., Kobenhavn, 1939-42). È in corso di ristampa l’opera critica del
Brandes (Kobenhavn, 1966; finora pubbl. 7 voli.).
La migliore edizione degli scritti di i b s e n è quella del cente­
nario Hundreàrsutgave a cura di F. B u l l , H. K oth, D. A. Se ip e altri
(20 voli., Oslo, 1928-52). Indispensabili per gli abbozzi e le varianti gli
Efterladte Skrifter a cura di H. K oht, J. E lias (3 voli., Kristiania,
1909); per la biografia utili le Lettere a cura di H. K oht, J. E lias (2
voli., ivi, 1904); e di piacevole lettura la corrispondenza con la nuora:
B. B jornson-I bsen , De tre, Oslo, 1948.
Specialmente in Inghilterra e in America, oltre che in Scandinavia,
sono numerosi i recenti studi sulla drammaturgia ibseniana che, diret­
tamente proseguono un indirizzo già chiaro nello studio cit. di H . W ei -
gand e che inoltre si giovano del metodo critico del Richards e dei Seven
Types of Ambiguity di W . E mpson e in generale delle idee del ‘N ew
Criticism’. Meritano particolare menzione: B. C. B ranbrook, Ibsen the
Norwegian, Hamden, Conn. 19662; il già citato J. N ortham, Ibsen’s
Dramatic Method, London, 1953; O . M osfield in Ibsen-Arbok, 1957-59;
E. H ost , Hedda Gabler, Oslo, 1958; F. F ergusson , The Idea of a
Theater, N . Jersey, 1949 (cap. V ), R. W il l ia m s , Drama from Ibsen to
Eliot, London, 1952. Recenti: D. H aakonsen, Ibsen’s Realisme, Oslo,
1957; M e F arlane e altri, Discussions of H. I., Boston, 1962.
D ell’enorme produzione biografico-critica ricordiamo oltre le opere
già citate G . G ran, Henrik Ibsen. Liv og Veerker, Kristiania, 1918; H .
Jaeger, Henrik Ibsen og hans Veerker, ivi, 1892; e soprattutto pregevoli
R. W cerner, Henrik Ibsen, 2 voli., Munchen, 19233 e H . K oht, Henrik
Ibsen. Eit Diktarliv, 2 voli., Oslo, 1928-29, 1954. Straordinaria fortuna
e numerosissime ristampe ha avuto in Germania la monografia del cat­
tedratico di Vienna E. R eich , Henrik Ibsen, Berlin, 1894; di ancora
utile consultazione G. N eckel , Ibsen und Bjarnson, Leipzig, 1921;
E. v. A ster , Ibsen und Strindberg, Munchen, 1923; B. Shaw , The
Quintessence of Ibsenism , London, 1891, 1913; e J. L avrin, Ibsen...
* 408 Le letterature della Scandinavia

An Approach , London, 19502. Sempre acuti, pur fra incertezze e frain­


tendimenti, i saggi e le rassegne di J. L emaitre , Impressions de théàtre
(voli. V-IX, Paris, 1892-98); e fondamentali per la intelligenza dell’arte
di Ibsen: M. J acobs, Ibsens Buhnentechnik, Dresden, 1920; il già ci­
tato H. W eigand, The M odem Ibsen , N ew York, 1925, 1961; e per
la storia delle idee P. Svendsen , Gullalderdrom og utviklingstro, O slo,
1940. Importante sulla critica delle intenzioni in arte: O. R einert , Om
à fa oye pà Ibsen, Ibsen-Àrbok , 1967, pp. 204-208. Sull’influenza di
Ibsen fuori della Norvegia: K. W a is , Ibsen s Wirkung in Spanien Frank-
reich und Italien, Braunschweig, 1932; M. G abrieli, Echi di Ibsen e
Strindberg in Italia} A IO N , V II, 1964, pp. 21-39; N . À. N ilsso n , Ibsen
in Russland, Stockholm 1958; D . R. G eorge, Ibsen in Deutschland ,
G ottingen 1968. D elle traduzioni moderne la migliore è quella di M e
F arlane e altri, The Oxford Ibsen , voli. 7 (con introd. note, bibl. e
documenti vari, 1960-66).
In Italia prima del noto saggio del C roce in Poesia e non poesia,
Bari, 1923 (che in forma sintetica enuncia quanto altri fino a oggi ha di­
luito in centinaia di pagine) usci a c. di farinelli il voi. di S. S lataper
(Torino, 1916; Firenze, 1944); inoltre A. F arinelli , La tragedia di
Ibsen , Bologna, 1923 (con bibl.); da un punto di vista angustamente con­
fessionale S. D ’A mico in Storia del teatro drammatico, II I, M ilano,
1950; e, m olto più equilibrato, M. A pollonio, Ibsen , Brescia, 1944.
Recente il saggio di F. O livero, « L’elemento poetico nel dramma
ibseniano», in A tti dell'Accademia delle Scienze, Torino, 1951-52 (che
sostanzialmente resta nel solco dell’interpretazione tradizionale). M olte
ma scadenti le traduzioni di singoli drammi ibseniani e anche dell’intero
teatro, le più retroversioni dal tedesco o dal francese (come quella messa
insieme dalla S.T.E., M ilano, 1946 e altre, di poco migliori). D al tedesco
è stato ben tradotto Gian Gabriele Borkmann a cura di E. P ocar (Mi­
lano, 1950); dall’originale norvegese La donna del mare a cura di A.
A hnfelt (Firenze, 1922); e in questi ultim i anni Spettri e Una casa di
bambola a cura di P. M onaci (Milano, 1953; 1954). La migliore tradu­
zione esistente è quella di A. R ho , I drammi di Ibsen , Torino, 1959
(che molto si è giovata del lavoro di P. Le Chesnais).
A cura di C. G ia n n in i e per i tipi della Nuova Accademia è uscito
recentemente un volume di Teatro Norvegese (Milano, 1958).
Una buona edizione delle opere di b j o r n s o n è edita da F.
Ò u ll (9 voli., Kristiania, 1911-20); per il centenario della nascita ne
è stata pubblicata un’altra più ampia (13 voli., Oslo, 1932-33). Per la
biografia: G. G ran, Bjornstierne Bjornson , Kristiania, 1916; per la
critica: oltre le opere di carattere generale, B. Bjornson, la seconde jeu-
nesse, Paris, 1932; H. L arsson , B. Bjornson. A Study in Norwegian
Nationalism , N ew York, 1945; e il già citato lavoro del N oreng. In
Italia abbiamo molte retroversioni, anche anonime, di singoli drammi
romanzi e racconti. Buone quelle dal tedesco di E. P ocar, Aldilà delle
nostre forze , I-II, Torino, 1931; Quando fiorisce il vino nuovo , ivi,
1931; Polvere , Milano, 1945. Uno studio su Bjornson e ITtalia è stato
pubblicato da M. P ensa in Studi germanici, Firenze, 1941.
L’edizione degli scritti di strindberg a cura di J. L andquist
(55 voli., Stockholm, 1911-21; 1921-27) è ancora la migliore e la più
completa. U n’altra in 14 voli, ne ha curato G. B randel (1945), mentre
C. R. Smedmark sta pubblicando una ed. critica del Teatro (3 voli.,
Bibliografia 409

Stockholm, 1962 sgg.). Dal 1948 la società strindberghiana (Strindbergs-


sallskapet) pubblica il Carteggio (Brev); già noti alcuni epistolari come
quello con Brandes, con Nietzsche, con O. Hansson ecc.; una scelta di
lettere è stata pubblicata da T. E k lu n d , Fra Fjàrdingen till Bla Tornei,
Stockholm, 1946; così pure del ‘Diario occultoJ (1963) tradotto in ita­
liano da M. S c o v a z z i, Milano, 1966 (con ampia introduzione). È in
preparazione (a cura di K . L u n d m ark e K . K a r n e l l ) una bibliografia
aggiornata.
La storia della critica strindberghiana presenta tre momenti o aspetti
principali. Un primo di studi biografico-critici che preparano e prose­
guono la cosiddetta Strindbergsfejden , cioè la polemica letteraria e
politica intorno a Strindberg (v. H . L a r s so n , Reflexioner for dagen,
Stockholm, 1911; G. A h l s t r ò m , «Den moraliska domen over Strind­
berg», in Samtid och Framtid, ivi, 1948). La grande biografìa di E.
H e d é n , A. Strindberg. En ledtràd vid studiet av bans liv , Stockholm,
1921-26, palesemente apologetica e spesso errata, ma ricchissima di
fatti, di date e di penetranti osservazioni, riepiloga e in gran parte
utilizza una imponente mole di studi e di ricerche, mentre Sul piano
più specificamente critico trova un parallelo nel lavoro di M. Lam m ,
Strindbergs dramer (2 voli., Stockholm, 1924-26) fondamentale e inso­
stituibile per la storia genetica della drammaturgia di Strindberg, ma
non sempre stringente da presso i problemi di valutazione critica.
Un secondo momento nella storia della critica strindberghiana segna
lo studio di B. D ie b o ld , Anarchie im Drama, Berlin, 1921, che inquadra
con grande acume critico e sensibilità artistica la drammaturgia dello
svedese nella storia dell’espressionismo tedesco (sul quale è anche da
vedere C. D a h l s t r ò m , Strindberg's dramatic Expressionism , New York,
19662). Ad eccezione di questo assai pregevole lavoro e di qualche altro
già citato, la critica tedesca dei Marcuse, dei Babillotte, dei Mohlig, dei
Neuhaus, dei Taub, dei Mùssener non porta notevoli contributi al pro­
blema critico dell’arte di Strindberg.
Ottimo studio d’insieme del teatro di Strindberg, è quello di A.
J o l i v e t , Le théàtre de Strindberg , Paris, 1931, che mette in particolare
evidenza l’influsso del naturalismo francese sull’arte dello Strindberg.
Del medesimo autore acuti articoli biografico-critici e comparativi su
Strindberg e Rousseau (Rev. litt. comp.y Paris, 1933); Strindberg et
Nietzsche (ivi, 1930), Strindberg et Balzac (ivi, 1950).
D ’indirizzo analogo molti altri studi: da quello recente di M. G r a ­
v i e r , Strindberg et le théàtre moderne, I, VAllemagne, Paris, 1949, agli
altri di S. L in d e r , Ibsen, Strindberg och andra, Stockholm, 1936; J.
B u lm a n , Strindberg and Shakespeare, London, 1933; O. H o lm b e r g ,
« Viktor Rydberg och August Strindberg », in Samlaren, 1935.
La vasta comprensiva monografia di M. Lam m , August Strindberg , 2
voli., Stockholm, 1940-42 (che, a differenza del primo lavoro di questo
studioso, comprende anche la prosa e la lirica oltreché la drammaturgia
di Strindberg), preceduta da una sua ampia ricerca sui rapporti di Strind­
berg con gli ambienti teosofici e occultistici della Parigi di fine-secolo
(Strindberg och makternay Uppsala, 1936); e il saggio filologico di G.
O l l é n (Strindbergs 1900-tals lyriky Stockholm, 1941) caratterizzano il
secondo momento nella storia della critica strindberghiana, intesa a
riaffermare la funzione di guida di Strindberg nella letteratura antina­
turalista di fine-secolo.
Il terzo è caratterizzato da tendenze psicanalitiche freudiane e adle-
riane (notevole lo studio di K . J a s p e r s , Strindberg und Van Gogh ,

XXVII - 17. Lett, della Scandinavia.


410 Le letterature della Scandinavia

Berlin, 1926) e da interessi sociologici: T. E k lu n d , Tjànstekvinnans


son, en psykologisk studie, Stockholm, 1948; G. B r a n d e ll, Strindbergs
Infernokris, Stockholm, 1950; A. H a g ste n , Den unge Strindberg, Stock­
holm, 1951; H . L in d stròm , Hjàrnornas kamp, Uppsala, 1952.
M oltissime le traduzioni; migliori le tedesche e le francesi; pessime
fino a pochi anni fa le inglesi e le americane. In italiano abbiamo
oltre le solite retroversioni dal tedesco (A. Strindberg. Romanzi e
drammi a cura di C. P ic ch io , Roma, 1950; Drammi di Strindberg a
cura di A. P e lle g r in i, M ilano, 1944, ecc.) qualche singolo romanzo e
dramma tradotto dall’originale come il Figlio du n a serva a cura di
A. A h n f e lt , Firenze, 1923, Maestro Olof a cura di A. A h n f e l t e
M. P e z z e -P a sc o la to , M ilano, 1912; Inferno a cura di G. R ic ci, Fie­
sole, 1925; G li abitanti di Hemsó e Inferno a cura di Z. Z ini e
A. M anghi, Torino, 19512; Racconti svedesi a cura di M. G a b r ie li,
Firenze, 1943; e G li isolani di Hemsó, Firenze, 1966 (ttad. dalla ed.
integrale). A. Strindberg. Il meglio del teatro a cura di G . O r e g lia ,
F. R o s s e t t i e altri, Torino, 1951 (di valore m olto disuguale a seconda
dei vari traduttori); A rgenziano-C odignola, Strindberg: teatro da ca­
mera, M ilano, 1968 (con note e appendici, ispirate all’odierno entu­
siasmo per il teatro dell’Assurdo).
Per gli scrittori della « Giovane Svezia » a . c h . l e f f l e r
duchessa di Cajanello, g . a f g e i j e r s t a m , v . b e n e d i c t s -
s o n , a . l u n d e g a r d , oltre le opere di carattere generale,
v. B. C roce, Ricordo di A. Ch. Leffler, Napoli, 1892; H. L arsson ,
Litteraturintryck, Stockholm, 1926; M. Johns son, G. af Geijerstam.
En àttitalist, Goteborg, 1934; S. Linder, Ernst Ahlgren i hennes
romaner, ivi, 1930, e Ibsen, Strindberg och andra, ivi, 1936. Recenti
gli studi di F. Bòok, Victoria Benedictsson, Stockholm, 1950, e di
B jò rck sugli ultimi anni di V. Benedictsson, prima del suicidio, in
Svensk Litteraturtidskrift, 1963.
Degli scritti di j a c o b s e n c’è una edizione critica con introdu­
zione e commento di M. Borup (3 voli., Kobenhavn, 1924-29). Oltre
il noto saggio di B randes, una buona monografia di G. C h r iste n s e n
(Kobenhavn, 1910, 1923); e sul suo capolavoro Niels Lyhne uno
studio di B. T ig e r s c h iò ld , Jens Peter Jacobsen och hans roman Niels
Lyhne, Goteborg, 1945. In Italia gli ha dedicato un numero speciale
Il Convegno (4-5, Milano, 1926); di tutta la narrativa c’è la traduzione
di G. G a b e tti, dal punto di vista stilistico bellissima (Milano, 1929-30;
nuova ed. con prefazione e nota biografica a cura di V. S a n to li, Fi­
renze, 1954). Una traduzione delle novelle dal tedesco ha dato E. P ocar
(Lanciano, 1930). Più recente La signora Fonss e altre novelle a cura
di P. M onaci (Milano, 1952).
Un’edizione commemorativa delle opere di b a n g è stata pubblicata
(Kobenhavn, 6 voli., 1920-21). In particolare sulla sua attività di gior­
nalista e di critico A . L eviisT, Fra H. Bangs Journalistaar, Kobenhavn,
1932; e sulla sua arte narrativa: B rix, Gudernes Tungemaal, Koben­
havn, 19622, pp. 158-164; P. R ubow, H.B.og fiere kritiske studier,
ivi, 1958; G . C h r iste n s e n , Herman Bangs Teknik, in Edda, 1918,
pp. 57-80; e L. E . G randjean, Herman Bang, Kobenhavn, 1942; H .
Jacobsen è autore di una vasta opera biograficocritica su Bang (3 voli.,
Kobenhavn, 1954-1966), alla quale va aggiunto, come testimonianza del
rinato interesse per questo scrittore, il lavoro di T. N ils s o n , Impres-
Bibliografia 411

sionisten H. B., Stockholm, 1965. In italiano è stato tradotto un ro­


manzo, In margine alla vita a cura di F. A rdelli , Milano, 1929.
Su h . k i d d e vedi N. Je ppesen , H. K ., Kobenhavn, 1934; J. M. J en­
sen , H. K., ivi 1948; V. Sorensen in Digter e og dsemoner, ivi, 1959,
pp. 41-83.
Una buona scelta degli Scritti poetici di d r a c h m a n n è quella
di V. A ndersen (10 voli., Kobenhavn, 1921-27). Per la biografia e la
critica: P. V. R ubow , Holger Drachmanns Ungdom, Kobenhavn, 1940;
H. Drachmann, 1878-97, ivi, 1945; H. Drachmann. Sidste Aar, ivi, 1950;
J. U rsin , H. D., ivi, 1953.
Molte le edizioni dei romanzi e dei drammi di k i e l l a n d . Mi­
gliore quella del centenario (12 voli., Oslo, 1949-50). Sui suoi racconti
brevi, che ancora oggi costituiscono la parte più vitale dell’intera pro­
duzione: N. E. BìEHRENdtz, Alexander Kiellands litteràra genombrott,
Uddevalla, 1952; inoltre O. Storstein , A. Kielland pà ny , Oslo, 1949;
F. B u l l , Omkring Alexander Lange Kielland, ivi, 1949.
Su j je g e r e sulla « scapigliatura » norvegese: J. I. Ip sen , H. ].,
Kobenhavn, 1926; O. S to r s te in , Hans J&ger, in Edda , 1935.
Degli scritti della s k r a m esistono due edizioni: una pubblicata
a Kobenhavn in 9 voli. (1905-7) e una a Osla in 6 voli. (1943-46);
sul suo crudo ma sincero naturalismo v. A. T iberg, Amalie Skram som
kunstner og menneske , Oslo, 1910; B. K rane, A. S., Oslo, 1951; e
A. S., ivi, 1961.
V. E richsen e P. B ergh hanno pubblicato le opere complete di
j. l ie (10 voli., Oslo, 1920-21). Sulla narrativa: A. G ustafson ,
Six Scandinavian Novelists , Princeton, 1940; e soprattutto C. O. Berg­
strom , J. Lies vag tilt Gilje , Crebro, 1949; H. M idboe, J. L., Oslo,
1964-66; in italiano M. P ensa , « J. Lie e l’Italia », in Rivista di lettera­
ture moderne, Firenze, 1947.
Di garborg sono editi gli scritti in «landsmàl» (8 voli., Oslo,
1944). Sulla sua opera di narratore è fondamentale il lavoro di R. T hesen ,
Arne Garborg , 3 voli., Oslo, 1933-39, inoltre J. A. D ale , Studiar i Arne
G arborgs spràk og stil , Bergen, 1950.
La lirica di o b s t f e l d e r è raccolta in 3 voli. (Oslo, 1950);
fondamentale su questo scrittore A. H annevik, S. O. og mystikken,
Oslo, 1960.
Della copiosissima produzione di j o r g e n s e n manca ancora una
edizione completa e aggiornata, come mancano adeguati studi critici.
Tralasciando gli scritti agiografici, in Italia per lo più noti in retro-
versioni, segnaliamo per i problemi critici due lavori fondamentali:
O. E lling, Tanker i Johannes Jorgensens Skrifter , Kobenhavn, 1931;
E. F rederiksen , Johannes Jorgensens Ungdom, ivi, 1946; J. Jorgensens
manuskripter, ivi, 1946; J. J. s Manddony ivi, 1966; cfr. inoltre per i le­
gami con ritalia: Danske Studier (1960) pp. 32-66, e Edda (1961)
pp. 152-168; e ora W . G lyn Jones , J. Jorgensens modne àr, Kobenhavn,
1963.
Su c la u s s en , c’è un importante studio di E. F randsen, Sophus
Claussen, 2 voli., Kobenhavn, 1950.
412 Le letterature della Scandinavia

Su stuckenberg : J. A ndersen , Viggo Stuckenberg og hans


Samtid , 2 voli.* Kobenhavn, 1944.
Su r o d e drammaturgo: H . J. H ansen , Dramatikeren Helge Rode ,
Kobenhavn, 1948.
L’edizione completa degli scritti di h e i d e n s t a m è stata pubblicata
da K. B ang e F. Bóòk (23 voli., Stockholm, 1943-44); oltre le già
citate opere d’insieme, fondamentali per la critica: F. B ook, Verner von
Heidenstam , 2 voli., Stockholm, 1945-46; S. B jòrck, Verner von Hei
denstam och sekelskiftets Sverige , Stockholm, 1947; H. K amras , Den
unge Heidenstam , ivi, 1946; K. B ang, Vàgen till Òvralid, ivi, 1945.
A. A hnfelt ha pubblicato due discrete traduzioni italiane dei romanzi
Karolinerna e Heliga Birgittas pilgrimsfàrd (Firenze, 1938; Torino, 1941).
Le opere di l e v e r t i n sono edite a cura di A. L undegard e E. Le-
vertin (24 voli., Stockholm, 1907-11). Per la lirica e in generale per
tutta l’opera di Levertin ci sono due ottimi studi di C. F ehrman , Le­
ver tins lyrik, Lund, 1945; e Den unge Levertin, Minnen och brev ,
ivi, 1947.
R. G ustafson B erg ha pubblicato gli scritti di f r o d i n g (16 voli.,
Stockholm, 1917-22) e una monografia, Gustav Froding, Stockholm,
1910; inoltre Fródingsstudier, ivi, 1920; ancora utile lo studio di
J. L andquist , Gustav Froding, Stockholm, 1916-19272; sul pensiero di
Froding: O. H olmberg, Fródings mystik , Stockholm, 1921; e S. Sjò-
holm, Óvermànniskotanken i Fródings diktning , ivi, 1940. Sulla sua
lirica e sulle derivazioni da Heine: N. Svanberg, Verner von Heidenstam
och Gustav Froding, ivi, 1934; e H . O lsson , Fràn Wallin till Froding,
ivi, 1939; G. K r u m m , Gustav Fródings Verbindungen mit der deutschen
Literatur , Greifswald, 1934. Per la biografia ancora importante M. H ell -
berg, Fródingsminnen, Stockholm, 1927. Una traduzione da poeti sve­
desi di finesecolo, fra i quali f r o d i n g , è stata curata da A. G u id i ,
Poeti svedesi, Roma, 1945; e qualche (dilettantesco) saggio di tradu­
zione da poeti nordici ha tentato M. S piritine Poeti del Mondo ,
Milano, 1939.

L’edizione più moderna degli scritti della l a g e r l o f è quella in


12 voli, riveduta dalla scrittrice e pubblicata nel 1933 in occasione del
suo settantacinquesimo anno. N. A fzeliu s ha raccolto e pubblicato
(2 voli., Stockholm, 194345) gli scritti inediti. Da un punto di vista
biografico-psicologico e con particolare riferimento alla posizione sociale
della donna in Svezia è da vedere la grande monografia di E. W agner:
Selma Lagerlof; I, Fràn Màrbacka till Jerusalem ; II, Fràn Jerusalem
till Màrbacka, Stockholm, 1942-43; da un punto di vista biografico-critico
G. A h lstr ò m , Den underbara resan, Lund, 19582; E. L agerroth, Land-
skap och natur i Gósta Berlings saga, Lund, 1963; G. W eidel , Helgon
och gengàngare, Lund, 1964.
Sui rapporti tra l’arte della Lagerlof e la Saga norrena, penetrante il
saggio di E. E lias son : « Selma Lagerlof och folkdiktningen », in Sam­
laren, 1950; e di valore critico assai inferiore N . N ih l é n : Selma La­
gerlofs Jerusalem och den islàndska sagan, 1951; sullo stile della La­
gerlof, N . Svanberg: Stildrag hos Selma Lagerlof, in Nysvenska studier ,
1928; H. G ullberg : Stil- och manuskriptstudier till Gósta Berlings
saga, Goteborg, 1948. Più recente e ispirato a criteri psicologici kretsch-
Bibliografia 413

meriani B. Ek, Selma Lagerlòf efter Gòsta Berlings saga. En studie


aver genombrottsàren 1891-1897, Stockholm, 1951, interessante dal pun­
to di vista biografico specialmente per i rapporti tra la L. e S. E lk an ,
l’amica che le fece conoscere l’Italia. Numerosissime e in generale assai
scadenti le retroversioni italiane dei romanzi della Lagerlòf. Buone le
traduzioni dall’originale di A. G uidi, La Saga di Gòsta Berling , Firenze,
1946; di A. T erzian i, L'imperatore di Portogaglia, Milano, 1945; di
L, S la ta p e r , M. Bank, Viaggio meraviglioso del piccolo Nils Holgersson
attraverso la Svezia, Lanciano, 1923; di B. G ia c h e tti-S o r te n i, Il pazzo
e la fanciulla, Milano, 1929 (quest’ultima dal tedesco); e recentemente
il volume nella « Collana dei Premi Nobel »: trad, di S ilv ia de C e sa r is
E p ifa n i, introd. di M. G a b r ie li; ed. Fabbri, Milano, 1960.

Le novelle e i racconti di h a l l s t r ò m sono stati pubblicati (Stock­


holm 12 voli., 1922-23); per la critica: H. N ie ls e n , Moderne Litte -
ratur, Kobenhavn, 1923; A. W erin in OoB, 1926; e H. G u llb e r g ,
Beràttarkonst och stil i Per Hallstròms prosa , Goteborg, 1939; I. Moss-
berg, « Om Schopenhauers inflytande pà P. H. » in Samlaren, 1944;
H. G u llb e r g in Samlaren, 1948.

N on esiste ancora un’edizione critica degli scritti di k a r l f e l d t .


La lirica è raccolta in 4 voli. (Stockholm, 1925-27). T. F o g e lq v is t ha
pubblicato ( Tankar och tal, ivi, 1932) gli scritti in prosa, ed è autore
di una monografia su Karlfellt (Stockholm, 1932; 1940), in cui è di­
scussa la più recente letteratura sull’argomento. È questo il miglior
studio critico d’insieme su Karlfeldt, malgrado le aspre censure cui è
stato fatto segno. Fine e penetrante anche se unilaterale il saggio di
O. L a gercran tz, Jungfrun och demonerna, Stockholm, 1938. M olti
buoni saggi: di B. Bergman, « Erik Axel Karlfeldt », in OoB , 1950;
di G . A tto r p s , En Karlfeldtsstudie , ivi, 1920; di R. G u s t a f s s o n Berg,
Erik Axel Karlfeldt, ivi, 1931; inoltre: K. Mangard, En bok om
Karlfeldt, Uppsala, 1931 (di carattere biografico). Sui problemi religiosi
che sono al centro della più recente letteratura in materia: O. H o lm -
berg, Gud som haver..., Stockholm, 1939; I. H ògm an, Lejonets barn.
Gudstro och manniskouppfattning i Karlfeldts diktning , Stockholm, 1945;
S. S to lp e , Erik Axel Karlfeldt, in BLM , 1943; J. K u llin g , Karlfeldts
livsproblem , Uppsala, 1945; E. F r ie s, Karlfeldt och fadernas tro , Stock­
holm, 1942; J. M jòberg, D et folkliga och det fòrgàngna i Karlfeldts
lyriky Lund, 1945. Sull’interpretazione filologica di singole poesie, uti­
lissimo, anche se non sempre sicuro, K. W ennerberg, Vàrgiga och hòst-
horn, Stockholm, 1944. Pure importante da un punto di vista metodo-
logico per le idee del « N ew Criticism » (I, pp. 3-63) P. H a llb e r g ,
Natursymboler i svensk lyrik. Fràn nyromantiken till Karlfeldt, G ote­
borg, 1951. Fortemente polemico contro l ’« idilliaco e antisociale» Karl­
feldt, V. Svanberg, Poesi och pólitik , Stockholm, 1931; e addirittura
preconcetto e fantasioso R. F rid h o lm , Sàngmòn av Pungmakarbo, Stock­
holm, 1950, che vorrebbe fare di Karlfeldt un precursore del nazismo
in Svezia! Cfr. inoltre K.-I. H ild em a n , « Kring Karlfeldts Vallfard »,
in BLM , 1958, e Slottet i Saknadens datar, ivi, 1959; in italiano per i
tipi della ed. Fabbri, Milano, 1966 è uscito un volume miscellaneo:
trad, di G . A. de Toni, intr. di M. G a b r ie li.

Non esiste ancora una edizione completa degli scritti di k i n c k . Im­


portante, anche per un pacato giudizio sulle sue idee politiche: A. H.
414 Le letterature della Scandinavia

W in sn es, Hans Ernst Kinck og vàr tid , Oslo, 1954; inoltre C. G ier-
L0f f , Hans Ernst Kinck , ivi, 1923; e molto superficiale lo studio di
carattere contenutistico di D. Lea, Hans Ernst Kinck, ivi, 1941. Alla
; morte dello scrittore è stato pubblicato un volume poligrafo con bi­
bliografia a cura di A. H a r b itz (Oslo, 1927). In particolare sul poema
drammatico « Il mandriano », J. A. R e fsd a le n , in Edda, 1914; recente
la grande monografia di E. B eyer, H. E. Kinck , 2 voli., Oslo, 1956-65
(con ampia bibliografia).
Le Opere di h a m s u n sono edite a O slo (17 voli., 1934-39). Pene­
trante lo studio di H . Christensen , Unge Nordm&nd , Kristiania, 1893;
inoltre S. H oel , Knut Hamsun , O slo, 1920; J. L andquist , Knut Ham­
sun , Stockholm, 1927 (non sempre persuasivo nei giudizi critici);
E. S k avlan , K. H., O slo, 19442. Per la biografia e per le recenti vicende
politiche sono da consultare, ma con ampie riserve, i libri del figlio e del­
la moglie dello scrittore: T. H am sun , Knut Hamsun, min far, Oslo, 1952,
e Knut Hamsun som han var, ivi, 1957 (è una scelta di lettere); M. H am ­
su n , Regnbuen , ivi, 1953; più equanime S. Sparre N ils o n , En orn i
uvser, O slo, 1960. Interessante anche il volume d’omaggio Festskrift til
70-àrsdagen, ivi, 1929; per i legami fra Joyce e Hamsun cfr. K.
Sm idt, « English Studies », XLI, 1960. I romanzi di Hamsun sono
ampiamente tradotti anche in italiano; buone le versioni di G.
P ra m p o lin i (p. es. Figli dei loro tempi, Milano, 1934) e quella
dal tedesco di E. P ocar (Pan, Milano, 1941; Fame, ivi, 1952); recen­
tissima quella di C. G ian nini, Knut Hamsun. I capolavori, Roma,
1953; A. M o t z f e ld t ha tradotto l ’ultimo libro di Hamsun col titolo
Io traditore , Milano, 1962. U n volume miscellaneo è stato pubblicato
nella « Collana Premi N obel », Fabbri ed., trad, di S. D e Cesaris
E pifani e A. P alm e , introd. di M. G abrieli, Milano, 1965.

TENDENZE LETTERARIE DEL NOVECENTO

La narrativa e la lirica
Su tutti gli scrittori contemporanei, includendo in tale definizione
molti di fine Ottocento, oltre le grandi storie letterarie, occorre consul­
tare: K. Stròmberg, M odem svensk litteratur , Stockholm, 1932; A. H en -
riques , Svensk litteratur efter 1900 (ed. svedese), ivi, 1944; F. Book,
Resa kring svenska Parnassen, ivi, 1926; R. G ustafsson B erg, Svenska
skalder pà nittiotalet, Stockholm, 1906 e Litteraturbildery 2 voli., ivi,
1912-19; I. H arrie, Tjugutalet in memoriam, Stockholm, 1936; J. M jò-
berg, D ikt och diktatur , ivi, 1944; S. M oller K ristensen , Dansk lit­
teratur 1918&950, Kobenhavn, 1951; E. F randsen , N . K. Johansen ,
Danske Digter e i det 20 Aarhundrede, 2 voli., Kobenhavn, 1951; 3° voi.
a cura di O. R estr u p , ivi, 1955. E. F rederiksen , Ung dansk litteratur,
ivi, 19512; T. K ristensen , Mellem krigene, Kobenhavn, 1946; Ch . K ent ,
En ìcegmann orienterer sig i tilvcerelsen, Oslo, 1931; E. K ielland ,
Fem essays om moderne norsk litteratur , ivi, 1928; S. N ordal, tslenzk
lestrarbók, 2 voli., Reykjavik, 1924-47 (testi islandesi con brevi intro­
duzioni); e in italiano a cura di G . P ram polini , Letteratura islandese
contemporanea, Milano, 1930. I. H olm , Verlaine i Nor den, in Orbis lit­
ter arum , Kobenhavn, 1947; O. S torstein , Fra Jaeger til Falk, Oslo,
1950; T h . B redsdorff, Seere for teller e... Kobenhavn, 1957. U n ’anto­
Bibliografia 415

logia di poeti svedesi moderni è stata pubblicata a cura di G. O r e g li a


(Milano, 1966), il quale per la Casa ed. Italica (Stockholm-Roma) ha tra­
dotto molti scrittori svedesi contemporanei. V. anche per la poesia
nordica moderna l’antologia 50 anni ài poesia noràica a cura di M. Ga­
b r i e l i , trad, di S. D e C e s a r is E p ifa n i.
L’opera narrativa e grafica di e n g s t r ò m è edita a Stockholm
(28 voli., 1939-1941); c’è inoltre una monografìa di T. F o g e lq u i s t ,
Albert Engstròm , Stockholm, 1933.
Su p . m o l i n e sulle sue storie di uomini e di animali del Norr-
land ha scritto un ottimo saggio critico G. A t t o r p s , Velie Molin , Stock­
holm, 1930.
Su h e l l s t r ò m v. H. A h l e n i u s , Gustav Hellstrom , Uppsala, 1934.
Le opere complete di s ò d e r b e r g a cura e con commento di
H. F riedlander - T. Sòderberg (10 voli., Stockholm, 1943-44) con­
tengono molti pezzi caduchi, specialmente di polemica antireligiosa. Vivi
ancor più dei romanzi e dei drammi, sono i suoi racconti brevi. Per la
critica: B. B ergman, « Hjalmar Sòderberg », in Svenska Akaà. Min-
nesteckningar, Stockholm, 1951; inoltre N . À. Sjòstedt , Fràn Freàrika
Bremer tiU H. Sòderberg, Goteborg, 1950. In italiano è stato tradotto
il romanzo d ’esordio La giovinezza di Martin Birck (da C. P iazza , Mi­
lano, 1933).
Su s i w e r t z è da vedere J. L a n d q u ist, « Sigfrid Siwertz», in BLM,
1932; F. B ook, Resa kring svenska Parnassen, ivi, 1926; N. S van b erg,
«Studier i S. Siwertzs prosa», in « Sàmf. /. stilforskning» VIII, 1941.
La pubblicazione degli scritti di h j a l m a r b e r g m a n è stata
curata da J. E dfelt (30 voli. Stockholm, 1949-1958). Fondamentali per
la biografia e la critica E. H. L inder, H. B ., Stoccolma, 1940; Sju vàri-
dars herre, Stockholm, 1962 e Wadkdpingsvandring... Crebro, 1966;
nonché il volume miscellaneo edito da S. E k, Verklighet och vision,
ivi, 1964; inoltre S. B jòrck, « Komedier i Bergslagen » in Samlaren,
1949; V. Sjòman , in BLM, 1951; G. T idestròm , « K a tt och ratta i
nàgra av H. Bergmans rom aner», Samlaren, 1954. In italiano abbiamo
una buona traduzione del romanzo I Markurell a Wadhdping a cura di
A. T erziani (Roma, 1945).
Una bibliografìa completa degli scritti di j e n s e n è stata curata da
F. J ohansen e A a . M arcus , Johannes V. Jensen. En Bibliografi, 2 voli.,
Kobenhavn, 1933-51. Per la biografia v. K. K. N icolaisen , Johannes
V. Jensen ..., Aalborg, 1914; per le sue idee e la sua arte: O. G elsted ,
Johannes V. Jensen, Kobenhavn, 1913, 1938; A. H enriques , Johan­
nes V. Jensen, ivi, 1938; H . A ndersen , Studier i Johannes V. Jensens
Lyrik, I, ivi, 1936 (da un punto di vista esclusivamente linguistico);
A lf L arsen, Ved Johannes V. Jensens dod, O slo e Kobenhavn 1951.
N. B. W amberg, J. V. / ., Kobenhavn 1961; J. E lbek , / . V. J. ivi, 1966.
In italiano G. P uccini e G . B ach hanno tradotto una buona scelta
dei racconti col titolo Arabella e altri racconti, Roma, 1946; dal tedesco
E. P ocar ha tradottto con la consueta perizia Una ragazza danese,
Gudrun, Milano, 1948. Recente il volume miscellaneo nella «C ollana
dei Premi Nobel » con ottima introduzione di M. L. K och, Milano, 1963.
Di p o n t o p p i d a n sono pubblicati i Romanzi e racconti, Kobenhavn,
1924-26; per la critica: C. P. A n d e r s e n , Henrik Pontoppidan, Kobenhavn,
416 Le letterature della Scandinavia

1934 (con bibliografia); e N. J e p p e s e n , Samtaler med Henrik Pon-


toppidan, ivi, 1951. Recente la ottima analisi critica di E. B r e d s d ò r f f ,
H. Pcmtoppidan og Georg Brandes, 2 voli. Kobenhavn, 1964.
I racconti e i rom anzi in « la n d sm à l» d i d u u n son o stati p ubblicati
con in trodu zion e da R . T h e se n (12 v o li., O slo, 1948-1949) ch e ha anche
scritto su di lu i una monografia, Mennesket og maktene ..., O slo , 1942,
1945; D . H aakonsen , Olav Duun. En Dikter om vàr egen tid , iv i, 1949,
1952. Su D u u n e su gli altri scrittori d el T rondelag (fra cu i il proli­
ficissim o P eter E gge) è da segnalare L. A a s , Tronderne i moderne norsk
diktning, T rondheim , 1943; B. S. J ysta d , P. E. og hans tronderromaner ,
O slo , 1949. G. P r a m p o l in i ha tradotto in italiano u n volu m e della
Gente di Juvik co l tito lo Odino , M ilano, 1931.
Popolarissimo, certo ben oltre l’intrinseco pregio dei suoi romanzi a
tesi, è stato j . b o j e r . Le sue cose migliori sono anche tradotte
(non dall’originale) in italiano: L'ultimo Viking, Milano 1926 (ano­
nimo); Gente onesta (a cura di G . R ip a m o n ti-P e r e g o ), Milano 1938.
Per la critica: G . G ad , Johan Bojer, Kobenhavn, 1917; P . G . La
C h e s n a is , J. Bojer. Sa vie et ses oeuvres, Paris, 1930; A. W. P o r t e r ­
f i e l d , J. Bojer's Conquest of America , New York, 1923.
La produzione di g u n n a r s s o n è stata pubblicata in islandese:
K it (19 voli. Reykjavik, 1941-57) e parzialmente in danese: Romaner
(6 voli., Kobenhavn, 1923-33). Per la critica: P . H e s s e l a a , Gunnar
Gunnarsson, Kobenhavn, 1924; O. G e l s t e d , Gunnar Gunnarsson, ivi,
1926; S. A r v id s o n , G. Gunnarsson islànningen, Stockholm, 1960.
In italiano è stato tradotto da G . P r a m p o lin i, L'uccello nero (Milano,
1936); e da A. G u id i, La famiglia di Borg (Firenze, 1945).
Di sigrid undset sono stati pubblicati nel 1949 i Romanzi
medievali (10 voli., O slo) e i Romanzi moderni (10 voli., ivi). Fonda-
mentali per la critica N . Ch . B rogger, Korset og rosen. En studie i
S. Undsets middelalderdiktning, O slo, 1952; e A. H . W in sn es , Si­
grid Undset. En Studie i kristen realisme, ivi, 1949; c’è inoltre un
saggio di E. K ielland , Fem essays om moderne norsk litteratur , ivi,
1929; vari articoli di Ch . K ent in OoB (1928, 1931); H . A. L arsen in
American-Scandinavian Review , N ew York, 1929; e sul capolavoro della
Undset: E. S teen , Kristin Lavransdatter, Oslo, 1959. Per la biografia:
N . R oll-A nker, Min veen Sigrid Undset , ivi, 1946. In italiano c’è una
buona traduzione del capolavoro della Undset, Kristin figlia di Lavrans
a cura di A . V angensten, con prefazione di G. G abetti (Milano, 1931);
recentemente è stato anche tradotto da P. Malvano, Olav Audunsson , ivi,
1951; e da A. Manghi, La vita di Sant'Halvard, Brescia, 1956. Inoltre
nella « Collana Premi N obel » un volume miscellaneo di narrativa con
introd. di M. L. K och (Milano, 1967).

Nel 1932 furono pubblicate in tre volumi a Stoccolma le Opere Scelte


di l a g e r k v i s t , nel 1941 la Lirica, la Prosa nel 1945, nel 1946
il Teatro. Sulla produzione di Lagerkvist (della quale si dà qui la
bibliografia anche per il teatro) fortemente polemico sino alla caricatura
E. H e d é n , Litteraturkritik , II, Stockholm, 1927; inoltre S. S t o l p e ,
Tvà generationer, Stockholm, 1929; O. H o lm b e r g , Pà jakt efter en
vàrldsàskàdning, Stockholm, 1932, e Lovtal over svenska romaner, ivi,
1957. Fondamentale il saggio di E. B lo m b e r g , « En studie i P . Lagerk-
vists forfattarskap » in OoB, 1933, anche se politicamente tenden­
Bibliografia 417

zioso. I n p olem ica co n Blom berg, O . P . B arck , D ikt och fórkunnelse,


H elsin k i, 1936. E n tu siastico e quasi agiografico il volu m e d ella mor-
v eg ese R . F earnley , Par Lagerkvist, O slo , 1950, su l « profeta » La­
gerkvist. D i u tile con su ltazion e C. G . H ildebrand , Bibeln i nutiàa
svensk lyrik, U ppsala, 1939; J. M iòberg , « E k o n av P . L agerkvist i
sam tida d ik tn in g » , in OoB , 1941; in oltre sui drammi: G . M . B erg­
m a n , Par Lagerkvists dramatik , Stockholm , 1928. Sul p en siero d i La­
gerk vist, G . C a st r é n , Par Lagerkvists humanism, in Finska Vet. Soc.
Àrsb.y H elsin k i, 1945; E . H ò r n st r ò m , Fràn den róda tiden till det
e viga leendety S tockholm , 1947; G . F r edén , P . L. Fràn Gudstanken
till BarabbaSy iv i, 19542; O . O berho lzer , P. L ., H eid elb erg, 1958;
S. L in n é r , P . L.s Stockholm , 1961; O . G r a nlid , D et medvetna barnet...,
ivi, 1961 (su l prim itivism o di L.). In italiano è stato trad otto II sorriso
eterno da G* P r a m p o l in i , (M ilano, 1923), Barabba da G . O reglia e
C. P icchio (Rom a, 1951), Il Nano da C. G ia n n in i (R om a, 1953). U n
vo lu m e m iscellaneo con traduzione d i G . A . D e T o n i , introd. d i M . G a ­
b r ie l i è u scito (1967) nella « Collana P rem i N o b e l » Fabbri, M ilano.
Su p a l u d a n , S. H a lla r , Jacob Paludan, K obenhavn, 1927;
O . L undbo , Jacob Paludan, iv i, 1943; e sop rattu tto E . F r a ndsen ,
Àrgangen, der matte snuble i starteny ivi, 1943; T h . H a n se n , Min-
der...y iv i, 1967.
Su h a n s e n : T h . B jo r n v ig , Martin A. Hansen... Kobenhaven, 19652.
Gli scritti di s . C h r i s t i a n s e n sono editi a Oslo (9 voli.,
1949-50); v. anche la monografia di E. K i e l l a n d , Sigurd Christiansen,
ivi, 1952. In italiano è stato tradotto da I. M a r in i il romanzo Due vivi
e un mortoy Milano, 1933.
Su f a n g e n scrittore e critico c’è u n libro di R. F. E ngelsta d , Ro­
nald Fangen och hans samtidy iv i, 1946; v. in oltre S. S t o l pe , I smàlt-
degeln , U ppsala, 1941.
Sui romanzi puritani di k n u d s e n : S. N o r r il d , Jakob Knudsen.
En psykologisk Analyse. Kobenhavn, 1935; C. Roos, J. K., ivi, 1954;
V. S o r e n se n , « Det forgudede trauma » in Hverken eller, ivi, 1961,
pp. 158-168.
Sulla scrittrice e . w a g n e r : H. A h l e n i u s , Elin Wagner, Stockholm,
1936.
Su s . l i d m a n : S. S t o l p e , Profeter och diktare , S tockholm , 1942;
F . Book, Resa kring svenska Parnassen , iv i, 1926; e J. L a n d q u ist , in
Svensk Litteraturtidskrift, L und, 1943.
Sugli s c r i t t o r i p r o l e t a r i n o r d i c i ci sono vari impor­
tanti studi di H. A h l e n i u s , Arbetaren i svensk diktningy Stockholm,
1934; E. B u l l , Arbeiderklassen i norsk litteratur , Oslo, 1947; S. M ol­
l e r K r i s t e n s e n , Digteren og samfundet...t 2 voli., Kobenhavn, 1942-
1945; J. B o m h o lt , Dansk digtning fra den industrielle revolution til
vore dage, ivi, 1930.
Del danese n e x<z> sono state pubblicate le Opere complete (Koben­
havn, 1945); S. M o l l e r K r i s t e n s e n ha curato una bibliografia Martin
Andersen-Nexos Boger. En bibliografi (ivi, 1948) e un volume poli­
grafo di omaggio, Bogen til M. A. Nexo..., ivi, 1949; inoltre S. E r ic h -
418 Le letterature della Scandinavia

s e n , Martin Andersen-Nexoy ivi, 1938; M. H aaland , M. A. Nex 0. En


Analyse in Edda (1961), pp. 112-135; B. H o u m a n , Drommen om en
ny verden , Kobenhavn, 1957. Recentemente è stato anche tradotto in
italiano uno dei suoi primi romanzi, La famiglia Frank (da E. V a l en t e ,
Roma, 1954).
T. F ogelquist ha pubblicato gli scritti completi di d a n a n d e r s s o n
(5 voli., Stockholm, 1930) in cui la parte più pregevole è senza dubbio
la lirica; per la biografia v. W . B ernhard , En Bok om Dan Andersson ,
Stockholm, 19553; e per la critica, E. U h l in , Dan Andersson fore Svarta
ballader, Goteborg, 1950 (con bibliografia).

Sul norvegese u p p d a l c’è la monografia del danese, J. P ed er se n ,


Kristofer Uppdal. En norsk Arbejderdigter , Kobenhavn, 1949.

Sul capolavoro di f a l k b e r g e t c’è uno studio di F. P aa sc h e ,


« Johan Falkberget og Christianus Sextus », in Samtiden , Oslo, 1936;
inoltre J. K ojen , Dikteren fra gruveney Oslo, 19492, e soprattutto R.
T h e s e n , J. F. og bans rike , ivi, 1959.

Sull’opera di j. aakjaer migliore è lo studio critico di F. Nor-


gaard, J. Aakjser...y Kobenhavn, 1941.

Su e . J o h n s o n : J. C l a u d i , Eyvind Johnson, Kobenhavn, 1947;


E . E h nm ark , « Tvà Norrlandsforfattare », Stockholm, 1949, P. H a l l e -
berg , in BLMy 1958; 0 . L indberger , E. J. s mote med Proust och Gide,
BLM (1960), pp. 554-563.
Su m a r t i n s o n ha scritto u n saggio T . K r is t e n s e n , Harry Martin­
son..., K ob en h avn, 1941; da u n p u n to d i v ista esclu sivam en te stilistico
P. H allberg , Studier i H. M. s spràky Stockholm , 1941; in oltre K.
J a e n s so n , « À terb lick pà H arry M artinson », in Essayery Stockholm ,
1946; I. H o l m , « Tankar och ten denser i H . M artinsons d ik tn in g », in
« Svensk litteraturtidskrift » 1948; e H. M .y iv i 19642, L. U l v e n st a m
H. M .y iv i 1950; T . H a l l , Vàr tids stjàrnsàng, S tockh olm , 1958; E. D.
J o h an nesso n , Aniara... Scand. Studies , 32 (1960), pp. 175-202.

Su A . l u n d k v i s t : R. O ldberg , Nutidsfórfattare , Stockholm,


1949; B. H o l m q v ist , in BLM (1956) e K. E sp m a r k , ivi, 1960.
Per il cinquantennio di t>. {j ó r d a r s o n , ha scritto un saggio
S. E in a r sso n , pórbergur pórdarson fimmtugur, Reykjavik, 1939.
Su l a x n e s s , fondam entale: P. H allberg , Halldór K. Laxness,
2 vo li., Stockholm , 1954-56; ora, anche in islan d ese, K. K a r l sso n , H.
K. L.y H elg a fell, 1962. A. M otzfeldt ha trad otto d al d an ese Salka Valkay
M ilan o, 1958.

Su h e d b e r g , a u r e l l , l u n d k v i s t , b e n g t s s o n : R.
O ldberg , Nutidsfórfattare , Stockholm, 1949.
Della k r u s e n s t j e r n a sono stati pubblicati tutti i romanzi
(19 voli., Stockholm, 1944-46 con commento di J. E d f e l t ). Per la
critica: S. A hlgren , Krusenstjernasstudier, Stockholm, 1940; e, più
solido dal punto di vista critico, O. L agercrantz , Agnes von Kru -
Bibliografia 419

senstjerna, ivi, 1951. Importanti le osservazioni di N. S vanberg , in Far


konsten levai , ivi, 1937, pp. 65-73.
Su f . n i l s s o n - p i r a t e n : E. N oreen , Fràn Birgitta till Pi-
raten , Stockholm, 1942; E. T y k e sso n , T olv essay er, ivi, 1945; D.
Hjorth, « Kring Piratens debut », in BLM, 1957. M. v. P laten , Biktare
och bedragare, Stockholm, 1959, pp. 159-177.
Su b e n g t s s o n g O. B ju r lin g , F. G. Bengtsson, in OoB, 1932;
E . E h n m a rk , F.G.B., Stockholm, 1946; K. L u n d m a r k ,
« Tre vikingskil-
drare », in Edda , 1948. A. W e r in , « F. G . Bengtsons poetiska àr », in
« Svensk Litteraturtidskrift », 1955. In italiano è stato tradotto da K.
M ontanari G uldb r a n d se n , Orm il rosso, Milano, 1944.

Su d a g e r m a n : G. N a s s t r o m -M . S tròmberg , Den unga par-


nassen, Stockholm, 1947; K. H enm ark , «Dagerman och anarkismen »,
in OoB, 1957 e in En fàgel av eld, Stockholm, 1962; O. L agercrantz ,
S. D., Stockholm, 1958.
Su K . b l i x e n : H. B rix , Karen Blixens Eventyr, Kobenhavn, 1949.
E. O. J o h an nesso n , The world of I. D., Seattle 1961; inoltre un vo­
lume commemorativo a cura di C. S v e n d sen e O . W iv e l , Kobenhavn,
1962; R. L ang baum , En studie i K. B. s kunst, ivi, 1954. In italiano
sono stati tradotti dall’ed. inglese: La mia africa {Den afrikanske Farm)
Milano, 1959 da L. D r u d i D e m b y ; A. S calerò , Una notte a Parigi,
Milano, 1936; P. O je t t i , Ultimi racconti, ivi, 1942.
Su k l i t g a a r d : E. N eergaard , Mogens Klitgaard, Kobenhavn,
1941.
Su b r a n n e r : H. B. F o nsm ar k , H. C. Branner, Kobenhavn, 1951;
M. B rondsted , Barnet hos H. C. B., Edda 59 (1959), pp. 111-160; J.
V o sm a r , H . C. B.} Kobenhavn, 1959; J. B orgen in Vinduet 16 (1962),
pp. 168-178.

Su v e s a a s : R. S krede , Tarjei Vesaas, Oslo, 1947; E. St een in


Samtiden , 1956; T. B rostrom , in Edda, 1955; H. N a e s s , ivi, 1962.
In italiano è stato tradotto da . D e C e sa r is E p if a n i , con introd. di
(« Il perdigiorno », Milano, 1963).
M ario G a b r ie l i , Fuglàne

Su a . o m re : I. T v eitan , En ny reitning i norsk litteratur, Oslo,


1943.
Del romanzo Barbara di j . f . j a c o b s e n c’è un’ottima traduzione
italiana di A. Z ucconi (Milano,: 1941).
Sulla lir ic a c o n t e m p o r a n e a : E . K ih l m a n , Svensk nit-
tonhundratalslyrik, in Nordiska Profiler, H elsin k i, 1935; N. J o h n sso n ,
Profiler i svensk nutidsdiktning, Stockholm , 1936; A. S trindberg , Màn-
niskor mellan krig, S tockh olm , 1941; K . E . L agerlòf , Femtitalet i
backspegeln, Stockholm , 1968; K . C oucheron J ar l , Mennesker og
boker , O slo , 1942; K. E l st e r , Fra tid til anden, K ristiania, 1920;
e Livet og diktningen, O slo, 1928; G. T id e st r ò m , Lyrik fràn vàr egen
tid (testo e com m ento), Stockholm , 1945; S. S elan d , 20 norske dìktere...
O slo , 1950; P. B rekke , Den unge lyrikken..., O slo , 1955; C. K e il h a u ,
420 Le letterature della Scandinavia

in BLM, 1955; Lyrisk tidspegel (antologia con commento di G. T ide -


stròm , G. Svanfeldt e altri, Lund, 196.37); C. F. P rytz , 13 norske -
lyrikere, Oslo, 1956.
Su T . k r i s t e n s e n poeta e critico: S. H a ll a r , Tom Kristen -
sen , Kobenhavn, 1926; R. H ojberg-P edersen, Tom Kristensen , ivi,
1942; E. F randsen, Àrgangen..., cit. 1943.
Su s e e d o r f f - p e d e r s e n : A. H jorth - M ouritzen , Hans
Hartvig Seedorff-Pedersen. Digter og Troubadour, Kobenhavn, 1950.
Su n . p e t e r s e n : M K nudsen , Petersen, Kobenhavn,
1942; R. B ryde, Vagabonden, der blev Digter , ivi, 1943; H. B rix , Nij
Petersen. L iv og D igt , ivi, 1947. Il suo noto romanzo 1/ fico/o dei san-
è stato tradotto in italiano da G. P rampolini (Milano, 1933).
Su w il d e n v e y : K. H aave, Hermann Wildenvey. Poeten, Kunst-
neren, Oslo, 1952.
Su a u k r u s t : H. G roth, Olav Aukrust. Problematikk og utvi-
kling, Oslo, 1948.
Su o r j a s j E T E r : R. T hesen , Tore Qrjaseeter, Oslo, 1935.
Le liriche di o . b u l l sono raccolte in un volume (Oslo 1942).
Per la critica v. T. G reifft , O. B., ivi, 1952; E. A. W yller , Tidspro-
blemet hos O. B.y ivi, 1959.
Di o v e r l a n d sono pubblicati: la Lirica (3 voli., Oslo, 1947),
le Novelle (ivi, 1916; 1939), i Drammi (ivi, 1917; 1940), e i Discorsi
(ivi, 1940; 1946). In particolare ha scritto di lui O. G elsted , Arnulf
Qverland , Kobenhavn, 1946; v. inoltre la Festskrift til Arnulf Overland
pà 60-àrsdagen Oslo, 1949 (a cura di G . R e is s -Andersen e P h . H o u m )
e Festskrift till A. 0 . pà Syttiàrsdagen, 1959 (a cura di S. H oel); B.
E lling Solheim , in Nordisk Tidskrift, 1955 (sulla lirica); e D. H aa-
konsen , A. 0 . og den etiske realisme 1905-40, Oslo, 1966.

Su s. h o e l vedi la biografia a cura di A. Stai, S. H .y Oslo, 1955;


e soprattutto la Festskrift per il suo 60° compleanno, ivi, 1950. Sullo
stille: O. 0YSLEBO, S. H. S. fortellerkunst, ivi, 1958.
Su borgen vedi N. Ch. B rogger, in OoB., 1958.
L’edizione del 1941 (Stockholm) contiene la lirica della l ò w e n -
h J E l m ; quella del ’52 Lettere e Poesie a cura di E. Bjòrkm an-
G o ld sc h m id t, in seguito più volte ristampata e accresciuta. Da un punto
di vista religioso ne ha scritto H. G . H ild eb ran d , Bibeln i nutida svensk
lyrik , Uppsala, 1939; e R. J à n d el, Jag och viy Stockholm, 1928. Psico-
logizzante è il saggio di O. H olm b erg: « Harriet Lowenhjelm », in
OoB 1927, poi ristampato altrove. Sulla base di diari e di lettere della
scrittrice, E. B jòrkm an-G oldschm id t ha steso un’ampia e interessante
biografia, Harriet Lowenhjelm , Stockholm, 1947; inoltre S. A rb, « H . L.
och Kierkegaard », OoB 1960.
f . boòk ha pubblicato gli scritti di b . s j ò b e r g (5 voli,
con introduzione, Stockholm, 1929). Sulla lirica in particolare: I. H ar-
rie in OoB 1933; R. M alm , Diktarvàrld och verklighet hos Birger
Bibliografia 421

Sjòberg , Stockholm, 1930; G. H e l e n , Birger Sjobergs Kriser och kran-


sar..., Stockholm, 1946; I. W iz e l iu s in Horisont, Stockholm, 1941. K.
J ae n sso n , in Essayer, Stockholm 1946, pp. 137-163; G. A xberger , En
bok orn B. S., ivi, 1960.
Di o . h a n s s o n esistono gli Scritti completi (17 voli. 1919-22). Per
la critica v. S. A h l s t r ò m , O. H. Stockholm, 1958.
D ella lirica d i e k e l u n d c ’è una scelta Samlade Dikter (3 v o li.,
Stockholm , 1921); co sì d ella prosa Valda sidor och essays, 1908-1930
(iv i, 1933, 1952). Sulla poesia: N . Svanberg , « V ilh elm E k elu n d s ly-
r ik » , in Nysvenska Studier , 1932, pp. 148-156; S. A h l s t r ò m , V. Eke­
lund, Stockholm , 1940; P. N aert , Stilen i V. Ekelunds essayer och
aforismer, L und, 1949; A . W e r in , V . E., 2 v o li., L u n d , 1960-61; S.
L in d q u is t , Dagbok och diktverk, Stockholm , 1966. S u l significato d el­
la poesia d i E k elu n d per i giovan i d el Q uaranta v e d i K . V ennberg ,
Kritiskt 40-tal, Stockholm , 1948, p p . 377-382.
La poesia del quasi centenario b . b e r g m a n è stata pubblicata
a Stockholm (2 voli, 1941); anche una scelta di Novelle (ivi, 1954).
Per la critica: S. A rvidson , Bo Bergman, ivi, 1945; S. L ind er , Bo Berg­
man, Stockholm, 1940.
Un’edizione parziale delle liriche di ó s t e r l i n g è edita a Stock­
holm (2 voli., 1945-46); buona parte dei suoi studi critici sono raccolti
sotto il titolo Dagens gaming, ivi, 3 voli. 1921-31. Una bibliografia ha
pubblicato S. C olliander (Stockholm, 1939-44). Molto polemici S.
S t o l pe , Tvà generationer..., Stockholm, 1929; e V. S vanberg , Poe si
och politik , ivi, 1931. Giuste osservazioni sulla sua opera di critico in
B. C h r ist o ff er so n , OoB, 1961.
Su k . b o y e v ed i M. A b e n i u s , K. B., Stockholm, 1965.
Delle liriche di h . g u l l b e r g un’ampia raccolta è stata pubbli­
cata (Stockholm, 4 voli., 1948). Sulla sua poesia ha scritto O. H o l m -
ijerg in OoB 1933, e L. G ò thberg , Hjalmar Gullberg , Stockholm,
1943; recente il volume monografico di C. F e h r m a n , Hjalmar Gullberg,
Stockholm, 1958.
Su e d f e l t : O. L agercrantz in BLM, 1938; B. Ó st e r l u n d , in
Nysvenska Studier, 1954. Una trad, di liriche è uscita a cura di F.
P iazza , I venti della vita, Milano, 1965.
Su n . f e r l i n : O. L agercrantz in Svenska lyriker , Stockholm,
1961.
Su' e k e l ò f : O. L in dberg er - R. E kner , A tt làsa poesi, Stock­
holm, 1955; R. E n c k e l l , En bok om E., ivi, 1956 (con bibliografia);
G. P r intz -P a h l so n , Solen i spegeln , ivi, 1958; R. E kner , I den havan-
des liv, Stockholm, 1967, con bibliografia; v. le osservazioni di C. F ehr ­
m a n in Scandinavica (voi. 7. I, 1968).

Su l i n d e g r e n : B. H o l m q u is t , Svensk 40-talslyrik, Stockholm,


1951; O. L agercrantz , Svenska lyriker, ivi, 1961; G. P r intz -P ahlson
cit., 1958.
Su v e n n b e r g : E. L agerlof , « Det religiosa problemet hos K.
V. », OoB, 1956; BLM , 1961; G. P rintz -P a h l so n , op. cit., 1958.
Su c . g i l l : A, A a r n es , « C. Gills lyrik », OoB, 1962; H. V. S v er ­
d r u p , C. G ill og modernismen in V induet, Oslo, 1950.
422 Le letterature della Scandinavia

Su e . b o y s o n : A. A a rn es, « Lyrikeren E. B. » in O o B . 1956.


D i P. O. Sundman è stato tradotto in italiano La spedizione (da S.
D e C e sa r is E p ifa n i) Milano, 1968.
Su g y l l e n s t e n : 0 L indberger , « Att awapna smartan », BLM,
1957; R. E kner in OoB, 1958.
Su s a r a l i d m a n : L. B a c k str ò m , Under vàlfardens yta, Stock­
holm, 1959; I. Linds jò in BLM., 1960. D i S. L. è stato tradotto in
italiano da S. D e C e sa r is L'uccello della pioggia, Milano, 1963.
Su b . t r o t z i g : L. B a c k str ò m , Under vàlfardens yta , Stockholm,
1959.
Su t o r j o n s s o n : S. H a r a ld se n , « Ung lyrikk i Gudbrands-
dalen », in Syn og Segn, Oslo, 1949; H . M oren V e sa a s, « Portràtt
av T. J. », in OoB, 1952; B. B irk ela n d , « Tankar om T. Jonssons
diktning», Syn og Segn, Oslo, 1957.
Su p . l a cour, vedi P. Schm idt, P. L. C. Symbol og Virkelighed,
Kobenhavn, 1963.

Il teatro
Per il teatro moderno: F. Schyberg, Ti àrs teater, Kobenhavn, 1939;
M. E lle n h a u g e , D et danske Skuespil efter Verdenskrigen, Koben­
havn, 1933. Schyberg, Teatret i krig, ivi, 1949; A. H en r iq u e s, M odem
dansk dramatik, Stockholm, 1942; N. S le tb a k , D et norske Teatret, Oslo,
1963; J. A. D a le , Nynorsk dramatik i bundre àr, Oslo 1964. In ita­
liano esiste una Enciclopedia dello spettacolo, (pubblicata con la colla­
borazione di stranieri) Roma, 1955 sgg. (ma le voci nordiche abbon­
dano di errori).
I lavori teatrali di G. h e i b e r g sono editi a Oslo (4 voli., 1917-
18); per la critica c’è un libro del giornalista e scrittore E. S k avlan ,
Gunnar Heiberg, Oslo, 1950; inoltre sul tema dell’erotismo: L. Longum,
To kjserlighetsromantikere, Oslo, 1960. In italiano cfr. C. G iannini, Il
teatro norvegese, già citato, e la trad, di Balkongen (F. B ernardini e C.
C a s t e l l i , Roma, 1907).

Su k a m b a n : S. E in a rsso n , « Gudmundur Kamban», in Timarit


pjódr&knisfélags Islendinga, Reykjavik, 1932.
Su k j ^ e r , assai più noto per le lirico-impressionistiche Epistole
che per il teatro: H. N oreng, Niels Kjeer. Fra redikal til reaksjoncer,
Oslo, 1949; M. Kj^er, Niels Kjeer og bans samtidige, ivi, 1950.
Su T . hedberg: A. A h le n iu s , Tor Hedberg. En studie over
bans diktning, Stockholm, 1935.
Gli scritti di s i g u r j ó n s s o n sono stati pubblicati da G. G un­
n a r sso n (2 voli., con introduzione R it eftir Johann Sigurjónsson, Rey­
kjavik, 194041); inoltre S. N o r d a l « Johann Sigurjónsson », in Timarit
Màis og menningar, ivi, 1940.
Gli scritti di j . NORDAHL grieg sono pubblicati a Oslo (7
Bibliografia 423

voli., 1947). Su questo molto discusso giornalista-scrittore, morto in


azione di guerra durante il secondo conflitto mondiale: K. E geland ,
N. G., Oslo, 1953; inoltre J. M jòberg , N. G., Lund, 1947; F. J. H as -
l u n d , N. G..., Oslo, 1962.

L’edizione commemorativa degli scritti di w i e d comprende i Ro­


manzi, i Racconti e i Drammi (8 voli., Kobenhavn, 1915-16). Per la
critica: P. C h r ist ia n se n , Gustav Wied, Kobenhavn, 1920; E . N eer -
gaard, Peter Idealist, ivi, 1938; E. S alica th , Omkring Gustav Wied,
ivi, 1946; S. M oller K r is t e n se n , Digning og livssyn , ivi, 1959, pp. 180-
199; K. A h n l u n d , Den unge G. W., ivi, 1964.
Su a b e l l : F. S chyberg , Kjeld Abell, K obenhavn, 1947; O. L un dbo ,
K A., iv i, 1944; G. B. M adsen in Scand. studies, 33 (1961), p p. 127-
136; F. N ie l s e n , K. A. in OoB, 70 (1961), pp. 221-224, e il volu m e
poligrafo ed ito da S. M oller K r is t e n s e n , En bog om K. A., iv i, 1961.

Su s o y A : O. L un dbo , Soya, Kobenhavn, 1944; e Festskrift til Soya,


ivi, 1946; N. B. W am berg , Soya, Stockholm, 1966.
Delle opere di m u n k è stata pubblicata una edizione commemo­
rativa (9 voli., Kobenhavn, 1948-49). Su Munk scrittore: M. N eie n d a m ,
Kaj Munk som Forfatter, Kobenhavn, 1945; A. H e n r iq u e s , Kaj Munk,
ivi, 1945; H. B rix , Hurtig svandt den lyse Sommer. Kaj Munk, 1924-44,
Kobenhavn, 1946; J. K. L a r se n , K. M. som Dramatiker, ivi, 1941;
N . N ojgaard, K. M .t ivi, 1958; e G. J akobsen , K. M., ivi, 1960.

Sul r a d i o d r a m m a n e l n o r d : A. B ò h m , « Das neuere


Schwedische Hòrspiel », in A IO N V ili Napoli, 1965 pp. 15-26.
INDICE ANALITICO

Vindice comprende in ordine alfabetico: in carattere tondo, i nomi de­


gli autori e dei personaggi storici; in corsivo, i titoli delle opere anonime
citate nel testo, le riviste letterarie e i giornali; in tondo tra virgolette,
i generi e i movimenti letterari.

Aage og Else (« Folkevise ») - 119. di Norvegia, ca. 1190) - 48,


Aakjasr Jeppe (Aakjaer, Iùtland 101 .
1866-Jenle 1936) - 345 , 379. Ahlenius H. - 235.
Aanrud Hans (Vestre Gausdal Ahlgren Ernst (v. Benedictsson
1863-Oslo 1953) - 306, 307. Victoria).
Àarestrup Emil (Kobenhavn 1800- Ahlgren Stig (n. Karlskrona 1910)
Odense 1856) - 165, 257. - 304.
Aasen Ivar (Volda, Sunnmore Ahlin Lars (n. Sundsvall 1915) -
1813-Oslo 1896) - 161-62. 375.
Absalon (arcivescovo, Fjenneslev Ahlstròm G. - 253.
1128-Soro 1201) - 109. Ahlstròm S. - 230.
Abell Kjeld (Ribe 1901-Kobenhavn Ahnlund Knut - 5.
1961) - 382, 383-84. Albani C. - 87.
Acerbi Giuseppe - 6. Alcuino - 57.
'Adalberto (arcivescovo di Hanburg- Alessandro di Villadieu - 89.
Bremen, 1000?-1072) - 108. Alfonso da Jaén - 112.
Adamo da Brema - 108. Alfredo (scaldo norreno) - 56, 77.
Adamov Arthur - 240. Algotsson Bryniolf (ca. 1240-1317)
Adlerbeth Gudmund Jòran (Jòn- - 110 .
koping 1751-Ramsjòholm 1818) Alighieri Dante - 81, 84-85, 247,
- 142. 255.
Adriano IV (papa; Nicolaus Almqvist Carl Jonas Love (Stock­
Breakspear) - 109. holm 1793-Bremen 1866) - 171-
Aftenposten (giornale liberale di 172, 361, 364.
Oslo) - 301. Alvtssmàl (Detti di Alviss, carme
Aftonbladet (organo liberale, Stock­ eddico) - 18, 19.
holm) - 163, 171. Ambrogio, sant’ - 111.
Afzelius Arvid (Fjallàkra 1785- Anund Jacob (sovrano svedese) -
Enkoping 1871) - 123, 154, 160, 108.
251. Andersen Hans Christian (Odense
Afzelius N. - 146. 18O5-K0benhavn 1875) - 151,
Agnete og tìavmanden (Annina e 166-71 , 174-75.
il tritone, «Folkevise») - 119. Andersen Marie - 297.
Agostino, sant' - 42, 133, 343. Andersen Tryggve (Ringerike 1866-
Agrip af Noregs Konunga sogum Gran 1920) - 151, 160.
(Compendio delle saghe dei re Anderson R. B. - 290.
426 Le letterature della Scandinavia

Andersson Dan (Grangarde 1888- ciò di Attila») - 21-22, 25, 31.


Stockholm 1920) - 345, 347. Atlamàl (carme eddico, nel « ciclo
Andersson Lars (v. Laurentius An- di Attila ») - 21, 22, 31-32, 45.
drae). « Atli (Attila), ciclo eroico di »
Andersson Th. - 91, 99. - 21-22, 25, 31, 40, 45.
Andhrimner (riv. satirica) - 187. Atterbom Per Daniel Amadeus
Andrésson G. (m. 1654) - 129. (Àsbo, Òstergótland 1790
« annalistica » (v. « cronachistica, Stockholm 1855) - 151, 152-54,
annalistica e storiografia »). 159-60, 163, 171.
Anouilh Jean - 240, 338, 365. Auden Wystan Hugh - 366.
Ansgar (Ansgarius, missionario Auerbach E. - 203.
franco) - 40, 108. Augier E. - 176, 194, 202-03, 207,
Antonisen Ole (v. Omre A.). 224.
Apollinaire G. - 270, 323. Aukrust Olav (Lom, Gudbrandsdal
Aragon Louis - 371. 1883-ivi 1929) - 303-04.
Araldo Eellachioma (Haraldr har- Aulnoy, Madame de - 153.
fagri, primo sovrano di Norve­ Aureli Tage (n. Oslo 1895) - 359.
gia, ca. 875-945) - 40, 46-47, Averroè - 110.
86, 92, 98, 101-02. Axel og Valborg (« Folkevise ») -
Araldo il Severo (Haraldr hardràdi, 119.
m. 1066) - 16, 41, 58, 92.
Arason Jón (vescovo islandese, Bàckstróm P. O. - 251.
m. 1550) - 88. Baesecke G. - 13, 26.
Arbetaren (quotid.) - 366. Baetke W. - 68, 92-93.
Archiloco - 46. Baggesen Jens (Korsor 1764-Ham-
Aretino P. - 380. burg 1826) - 138, 148-49, 166.
Ari fròdi fcorgilsson (1067-1148) - Baldrs draumar (Sogni di Baldr;
90, 91-92, 101, 105. o Vegtamskvida , Carme del
ArinbjQrn di Firdafylki - 63. Viandante; carme eddico) - 23,
Ariosto L. - 353. 26, 84.
Aristofane - 19. Balle Nikolaus Edinger (Lolland
Aristotele - 49-50, 131, 137. 1764-K0benhavn 1808) - 135.
Àrnason Jón (1819-1888) - 160. Balzac H. de - 136, 211, 235, 253.
Arndt E. M. - 153. Bandello - 283.
Arnér Sivar (n. Arby Smàland Bang Herman (Adserballe, isola di
1909) - 375. Alsen 1857 - Ogden, USA 1912)
Arnim L. Achim, von - 187. - 5, 254, 273-74.
Arnljótr Gellini - 69. Barbey d’Aurevilly - 234, 259.
Arrebo Anders (Aereskobing 1587- Barrès M. - 286.
Vordingborg 1637) - 132. Bartholin Thomas il Giovane (Ros-
Arvidi Andreas (Stràngnas 1620- kilde 1659-Kobenhavn 1690) -
1673) - 132. 43, 129.
Arwidsson Adolph Ivar (Tavast- Basilio, san - 111.
land, Finlandia 1791-Viborg Bastholm Kristian (1740-1819) -
1858) - 123. 135.
Asbjornsen Peter Christen (Kristia­ Baudelaire Ch. - 50, 146, 157, 234,
nia 1812-ivi 1885) - 160-61, 162. 238, 241, 255-57, 259, 300, 322,
Asgrimsson E. (monaco, m. 1361) 325, 357, 365, 372.
- 42. Bayerschmidt C. F. - 238.
Asklund Erik (n. Stockholm 1903) Bech Bergljot - 297.
- 347. Becker Knuth (n. Hjorring 1891)
Asmundarsaga kappabana - 28. - 324, 346.
Athenaeum (riv., 1946-49) - 365. Becker-Nielsen H. - 94.
Atlakvida (carme eddico, nel « ci- Beckett S. - 186, 240, 365.
Indice analitico 427

Becque H. - 194. Bjerregaard Henrik (Ringsaker


Beda - 57, 69. 1792-Kristiania 1842) - 159.
Bédier J. - 15, 93. Bjorck Staffan (n. Stockholm 1915)
Beethoven L., van - 359. - 304.
Bellman Cari Michael (Stockholm Bjorner Erik (Timrà, Medelpad
1740-ivi 1795) - 134, 142-47, 1696-1750) - 150.
260, 262, 271, 276, 313, 327. Bjòrkquist Manfred (n. Gideà, Àn-
Bendik og Àrolilja (« Folkevise ») germanland 1884) - 308.
- 119, 120-21. Bjòrling Gunnar (Helsinki 1887-
Benedictsson Victoria (pseud. Ahl- 1960) - 323.
gren Ernst; Domme 1850-Ko- Bjornson Bjorn (Kristiania 1859-
benhavn 1888) - 212. Oslo 1942) - 378.
Benediktsson Einar (Ellidavatn, Bjornson Bjornstjerne (Kvikne,
Islanda 1864-Herdlsarvik 1940) 0sterdal 1832-Paris 1910) - 43,
- 356. 161, 176, 184-85, 188, 193-94,
Bengtsson Frans Gunnar (Tossjò 198, 203, 207-10, 223, 252, 273,
1894-Stockholm 1954) - 353-54. 277, 290, 292, 297.
Benzelius Erik il Giovane (Uppsa­ Bjornvig Thorkild (n. Aarhus 1938)
la 1675 - Linkòping 1743) - - 254, 367, 371, 372-74.
134. Blake W. - 136, 172.
Berchet G. - 121. Blanche August (Stockholm 1811-
Bergman Bo (n. Stoccolma 1869) - ivi 1868) - 164, 223.
356. Blatt F. - 109.
Bergman Hjalmar (Crebro 1883- Blicher Steen Steensen (Vium
Berlin 1931) - 305, 306, 379-80. 1782-Spentrup 1848) - 149, 164-
Bergman Ingmar (n. Uppsala 1918) 165.
- 378. Blixen-Finecke Karen (Rungsted-
Bergson H. - 306, 324, 354, 359. lund 1885-ivi 1962) - 354-55.
Bergsson Nikulàs (abate, sec. XII) Blomberg Erik (Stockholm 1894-
- 79. ivi 1966) - 325.
Bergsoe Vilhelm (Kobenhavn 1835- Blomdahl K. B. - 361.
ivi 1911) - 151. Boccaccio G. - 322, 380.
Bernadotte G. B. (re di Svezia Car­ Bocklin A. - 249, 295, 380.
lo Giovanni) - 271. Bode W. - 49.
Bernardo di Chiaravalle - 109, 114. Bpdvarr (figlio1di Egill) - 63-70.
Beskow Bernhard, von (Stockholm Boethius de Dacia (sec. XIII) -
1796-ivi .1868) - 223. 110.
Beyer Absalon Pedersson (Skirdal, Boileau N. - 137.
Sogn 1528 - Bergen 1575) - 128. Bojer Johan (Orkdalsora 1872-Oslo
Beyer E. - 190, 287. 1959) - 306, 308.
Beyer H. - 149, 187, 235. Bonden och oxen (Il contadino e
Beyschlag S. - 91. il bove, «Folkevise») - 119.
Bidermann Jacob - 139-40. Bondeson August (Vessige 1854-
Billeskov Jansen Frederik (n. Goteborg 1906) - 276.
Hvidbjaerg 1907) - 304. Bonifacio IX (papa) - 114.
Binni W. - 359. Bonifazio (apostolo della Germa­
Birger Magnusson (sovrano svede­ nia) - 108.
se) - 117. Boor H. de - 27, 29.
Birger Persson (padre di Brigida di Borberg Svend (Kobenhavn 1888-
Svezia) - 117. ivi 1947) - 382.
Birgitta (santa Brigida; Finsta, Bording Anders (Ribe 1619 - Ko­
Uppland ca. 1303 - Roma 1373) benhavn 1677) - 133, 136.
- 111-14, 117, 126. Borgen Johan (n. Oslo 1902) - 355,
Bjerke A. - 188. 381.
428 Le letterature della Scandinavia

Bosch H. - 236, 242-43. del carme di Sigfrido, carme ed-


Bosse Harriet - 331. dico) - 20-21.
Bourget P. - 245, 259, 348. Bruden fra Ribe (La sposa di Ri-
Bowra C. M. - 45, 91, 99. be, «Folkevise») - 119.
Boye Karin (Goteborg 1900-Aling- Brun Johan Nordahl (Hojem,
sàs 1941) - 356, 358, 362-63. Trondheim 1745 - Bergen 1816) -
Boyson Emil (n. Bergen 1899) - 142.
367. Brun Johannes (Vaerdalen 1832-
Braaten Oscar (Oslo 1881-ivi 1939) Kristiania 1890) - 209.
- 346. Brunetière F. - 245, 254, 258.
Bracciolini P. - 119. Brunilde (moglie di Sigiberto I) -
Bradbrook M. C. - 195. 29-30.
Bragi Boddason (prima metà sec. Brochner H. - 175.
IX) - 40 , 51, 53, 60. « Buchprosalehre » (teoria sulla
Brahe Karen (sec. XV) - 123. « saga ») - 92-93.
Brahe Tyge (Knutstorp 1546-Praha Buckle H. - 213.
1,601) - 129. Budde Jòns (ca. 1437-1491) - 114.
Brandano, san - 86. Bugenhagen J. - 127.
Brandell G. - 216, 323, 327, 364, Bugge A. - 26, 45.
367. Bugge S. - 27, 45, 79.
Brandes Edvard (Kobenhavn 1847- Bukdal J. - 301.
1931) - 176-77, 291, 379. Bull Francis (n. Oslo 1887) - 189,
Brandes Georg (Kobenhavn 1842- 254, 303-04.
ivi 1927; e « brandesiani ») - Bull Olaf (Oslo 1883-ivi 1933) -
166, 168, 173, 175-78, 181, 183, 320 21
- .

185-86, 189, 192, 194, 196, 198, Bull Ole Bornemann (Bergen 1810-
210-11, 213, 223, 232, 235, 250- Lysoy 1880) - 178.
252, 253 , 255, 259-61, 273-74, Buraeus Johan (Àkerby 1568-Vàrd-
276, 279, 304, 307, 309, 345, sàtra 1652) - 129.
379, 381-82. Burger A. - 20.
Branner Hans Christian (Ordrup Burns R. - 345.
1903-Kobenhavfi 1965) - 355, Byron G. - 163, 176, 190, 261.
385. Bystròm O. - 143.
Branting Hjalmar - 282. Bààth Albert (Malmò 1853 - Gott-
Breakspear Nicolaus (v. Adria­ skar 1912) - 267.
no IV). Bodtker Sigurd (Trondheim 1866-
Br^kke Paal (n. Roros 1923) - 362. 1928) - 151, 378.
Bremer Frederika (Tuorla, Finlan­ Bogh Erik (Kobenhavn 1822-ivi
dia 1801-Arsta 1865) - 164, 278- 1899) - 198.
Bonnelycke E. - 370.
279. Borge V. - 233, 247.
Breton A. - 322, 324, 365. Book Fredrik (Kristianstad 1883-
Breughel P. il Vecchio - 343. Kobenhavn 1961) - 170, 260,
Brinkman C. G., von - 156. 304.
Brix Hans (Vejle 1870-Kobenhavn Borjesson Johan (Vaddo 1790-
1951) - 151, 165, 168, 170, 304, Uppsala 1866) - 223.
371. Bottiger Cari (Vàsteràs 1807-Upp-
Brjànn di Munster (sovrano) - 71, sala 1878) - 151.
74-75.
Brorson Hans A. (Randerup 1694-
Ribe 1764) - 133. Calderón de La Barca - 357.
Brostrom Torben (n. Kobenhavn Caldwell - 359.
1927) - 304, 365-67, 373. Camus A. - 365.
Brot af Sigurdarkvidu (Frammento Cantu C. - 278.
Indice analitico 429

Canuto il Grande di Danimarca Colonna E. - 116.


(Knùtr inn rlki) - 102, 104, 108. Columbus Samuel (Husby 1642-
Capella Marciano - 109. Stockholm 1679) - 264.
Capion E. - 137. Contini G. - 241.
Carducci G. - 121, 215, 287, 322. Comte A. - 175.
Carlo IX di Svezia - 250. Constant B. - 17,6.
Carlo XI di Svezia - 132. Copeau J. - 378.
Carlo XII di Svezia - 132, 135, Coppée F. - 246.
155, 160, 250, 252, 263, 346. Corneille P. - 139, 224.
Carlo XIII di Svezia - 157. Corsaro (riv., 1840-46) - 164.
Carlo Giovanni di Svezia (v. Ber- Courbet G. - 215.
nadotte G. B.). Craig G. - 378.
Carlomagno - 76, 93, 102, 108. Crébillon P. J. - 142.
Carlyle Th. - 276. « crepuscolarismo » - 259, 303, 314.
Cartesio - 130, 134-36. Creutz Gustaf Philip (Anjala, Fin­
Caterina (figlia di Brigida di Sve­ landia 1731-Stockholm 1785) -
zia) - 114. 135.
Caterina da Siena - 112-13. Cristiano I di Danimarca (m. 1481)
Celsius Anders (Uppsala 1701-ivi - 115.
1744) - 134. Cristiano II di Danimarca e Nor­
Cervantes M. de - 137. vegia - 128, 207.
Cesare C. G. - 125, 177. Cristiano III di Danimarca - 127.
Charcot J.-M. - 223. Cristiano IV di Danimarca - 131.
Chateaubriand R. de - 43, 156, Cristiano VI di Danimarca - 137.
167, 176. Cristiano V ili di Danimarca - 164.
Chilperico I - 30. Cristina (regina di Svezia, Stock­
Chrétien de Troyes - 96, 114. holm 1636-Roma 1689) - 130-31,
Christensen Hjalmar - 293, 308. 155, 252.
Christiansen Sigurd (Drammen Cristina di Stommeln - 110-11.
1891-ivi 1947) - 309, 381. Croce B. - 106, 120, 186> 188-89,
Cicerone M. T. - 109. 304, 376.
Clarté (riv.; e gruppo letter., 1924, « cronachistica, annalistica e sto­
•1926) - 324-25, 362. riografìa» - 12, 14-15, 38, 46-
Clausen Svend (Kobenhavn 1893- 48, 89-91, 94-96, 98, 101-05,
ivi 1961) - 382. 115, 119, 128-29, 135, 138, 155,
Claussen Sophus (Isola di Lange- 160.
land 1865 - Gentofte 1931) - « cubismo » - 245, 330.
254-55, 256-57, 260, 292, 303, Curtius E. R. - 30.
3,69-70. Cernysèvskij N. G. - 214.
Codex Argenteus - 130.
Codex Regius (sec. XIII) - 15-26, Dagbladet (organo radicale, Kri­
47. stiania) - 291, 320.
Codex Trajectinus - 47. Dagerman Stig (Àlvkarleby, Upp­
Codex Upsaliensis (ca. 1300) - 15, sala 1923-Danderyd 1954) - 366,
18, 47, 89. 374-7$, 380.
Codex Wormianus (sec. XIV) - 23, Dagmar (regina di Danimarca, m.
47, 89. 1212) - 119.
Coleridge S. T. - 176. Dahl W. - 367.
Collet Camilla (Kristiansand 1813- Dahlerup K. V. H. - 89.
Kristiania 1895) - 164. Dahlgren Carl F. (Stensbruk 1791-
Collin J. (protettore di H. Ch. Stockholm 1844) - 262, 264.
Andersen) - 168. Dahlstierna Gunno E. (Òr, Dals-
Collin Louise - 169. land 1661-Pomeranien 1709) -
Collodi C. - 281-82. 132.
430 Le letterature della Scandinavia

Dahlstrom C. - 323. Donato - 54, 89.


Dal E. - 124. Donatus (architetto) - 125.
Dalgard O. - 183. Dons Aage (n. Svanholm 19Ò3) -
Dalin Olof, von (Vinberg 1708 - 355.
Drottningholm 1763) - 123, 134- Dortheae Komedie (dramma me­
135, 142-43, 270. dievale) - 117-18.
Damsgaard Olsen Th. - 94. Dos Passos I. - 359.
D ’Annunzio G. - 256, 261, 287, Dostoèvskij F. - 253, 283, 288,
326, 360, 380. 295, 306, 351.
Darete Frigio - 96. Douglas D. C. - 69.
Darradarljód (carme scaldico) - 71- Drachmann Holger (Kobenhavn
76. 1846-Hombaek 1908) - 176, 252,
Darwin Ch. - 176, 211, 217, 230, 254, 258, 274-75.
253-54, 307, 324, 329. Draumkvsede (« Folkevise ») - 120.
Dass Petter (Nord-Heroy 1647- Dresdner A. - 190.
Alstahaug 1707) - 133. Dreyer Cari Theodor (Kobenhavn
Daumier H. - 309. 1889-1967) - 377-78, 383.
De Amicis E. - 173. Dronke U. - 26, 33.
De Gubernatis A. - 6. Dronning Dagmars Dod (La mor­
De La Gardie M. G. - 130. te della regina Dagmar, « Fol­
De l’Isle Adam V. - 203, 228. kevise ») - 119.
De Sanctis F. - 52, 253. Du Bartas G. - 132.
De Wahl Anders (Stockholm 1869- Duchamp M. - 323.
ivi 1956) - 378. Dumas A. - 174, 194, 202-03, 207,
« decadentismo » - 263, 275, 287- 224.
288, 295, 306, 316, 321, 359. Dumézil G. - 27.
Delacroix E. - 167. Diirer A. - 60.
Delblanc S. - 361. Duse E. - 256.
Den danske Mercurius (giornale Duun Olav (Fosnes, Trondelag
letter., 1667-77) - 136. 1876-Botne 1939) - 306, 307-08,
Den saarede Jomfru (La vergine 355.
ferita, « Folkevise ») - 123. Dybwad Johanna (Kristiania 1867-
Den svenska Argus (L’Argo sve­ 1951) - 378.
dese, riv. satirica, 1732-34) - Dolen (giornale letter., 1858) - 161.
135.
Den utro Hustru (farsa medieva­ Ebbe Skammelsen (« Folkevise ») -
le) - 118. 119, 122.
Desprez L. - 224. Ebo di Rheims - 108.
Destouches Ph. - 139, 142. Eckhart (Meister) - 357.
D et nittende Aarundrete (Il di­ « Edda poetica » (sec. IX-XI; v. in
ciannovesimo secolo, riv., 1874- particolare i singoli carmi) - 9,
1878) - 176-77. 15-37, 38-41, 45-46, 48, 50, 53-
« Det norske Selskab » (Associa­ 55, 59, 62, 64, 69, 71, 78-79,
zione dei norvegesi di Cope­ 86, 97, 105-06, 116, 119, 129,
naghen) - 157. 159, 179, 325.
Dickens Ch. - 211. « Edda prosastica » (o « snorri­
Dickins B. 89. ca »; v. anche Sturluson Snorri)
Diebold B. - 232, 245, 248-49, - 9, 15, 18-19, 23, 32, 45-48, 53,
323. 65-67, 69-70, 81, 83-84, 89, 102,
Dietrichson L. - 223. 105, 129.
Diktonius E. (Helsinki 1896-ivi Edfelt Johannes (n. Kyrkefalla
1961) - 323. 1904) - 363, 374.
Dippel J. K. - 134. Edschmied K. - 299.
Disraeli B. - 177. Edzardi A. - 44.
Indice analitico 431

Egge Peter (Trondheim 1869-Oslo Engelbrekt Engelbrektsson (nobi­


1959) - 306, 308, 379. le svedese) - 120.
Egill Skallagrìmsson (910-990?) - Engelbrektsson Olaf (arcivescovo
38, 41, 43 45-46, 51-52, 55-56, di Norvegia) - 127.
61, 62-70, 99. Engstròm Albert (Lonneberga
Egilssaga - 14, 38, 63-65, 95-96. 1869-Stockholm 1940) - 305.
Egilsson Sveinbjgrn - 59. Ennio - 57.
Eginardo - 29, 108. Enquist Per Olof (n. Bureà, Và-
Ehrensvàrd Carl August (Stock­ sterbotten, 1934) - 376.
holm 1745-órebro 1800) - 147. Enrico II dTnghilterra - 96.
Eigla (« saga ») - 38. « epica, poesia » (v. anche « eroi­
Eilìfr Godrunarsson (sec. X) - 41. ca, poesia ») - 10, 12-15, 17, 24,
Einarr skàlaglamm (sec. X) - 41, 27, 37, 107, 115, 119, 150, 174.
55-57. Epicuro - 368.
Einarr Skulason (1100-1160?) - 42, Erasmo da Rotterdam - 109, 125-
51. 127, 129.
Einarsson S. - 44. Erasmus laetus (Rasmus Glad) -
Eirìkr Asciasanguinosa (Eirìkr bló- 125.
dox, sovrano, prima metà sec. X) Erik XIV di Svezia - 125, 128.
- 41, 55, 57, 63. Erik Magnusson (duca) - 115.
Eirikr jarl - 104. Erik Menved (sovrano danese) -
Eirìkr Magnusson (sovrano norve­ 119.
gese, 1280-1299) - 42. Erikskrònika (op., ca. 1320-35) -
Eirìkr Oddsson - 94. 115.
Eiriksmàl (poema scaldico) - 41, Erixsson S. - 361.
45-46, 101. Erlendsson Haukr (sec. XIV) - 90.
Ekbom Torsten (n. Stockholm Ermanarico (re goto) - 29.
1938) - 377. « eroica, poesia » (e « cicli eroi­
Ekelund E. - 258. ci »; v. anche « epica, poesia ») -
Ekelund Vilhelm (Stehag 1880- 15-16, 19-20, 22-25, 28-38, 45,
Saltsjòbaden 1949) - 260, 322, 94, 97, 99-100, 118.
356, 368. Eschilo - 99.
Ekelòf Gunnar (Stockholm 1907- « esistenzialismo » - 150, 372-73.
ivi 1968) - 254, 324, 356, 358, Eskil (arcivescovo, 1137-1177) -
363-65, 368. 109.
Eklund T. - 213, 235. Esmann Gustav (Kobenhavn 1860-
Ekman Gosta (Stockholm 1890- ivi 1904) - 381.
ivi 1938) - 378. Espmark K. - 364.
Ekner R. - 143. « espressionismo » - 245, 252, 254,
Eliade Mircea - 27. 275, 303, 323, 330-31, 333, 347,
Eliot T. - 241, 354, 356, 362, 364, 371, 379, 382.
366, 368, 371, 376, 380. Etelstano (sovrano) - 63.
Elster Kristian (Overhalla, Tron- Eufemia (regina di Norvegia) -
delag 1841-Trondheim 1881 \ -
115.
160. « Euphemiavisorna » (testi eseguiti
Elster Kristian (Trondheim 1881-
Oslo 1947) - 190. per volontà della regina Eufe­
Éluard P. - 324, 371. mia di Norvegia) - 115.
Elverskud (Il colpo degli Elfi, Euripide - 129.
«Folkevise») - 119, 121-22. Evemero - 105.
Emerson R. W. - 290. Everardo di Béthune - 89.
Empson W. - 324, 377. Ewald Johannes (Kobenhavn 1743-
« encomiastica, poesia » - 11, 40- ivi 1781) - 97, 148-49.
41, 4647, 50, 58, 77-79, 97. Eyrbyggja (« saga ») - 96.
432 Le letterature della Scandinavia

Eysteinn Erlendsson (arcivescovo nere; v. anche « popolare, lette­


di Nidaróss, 1161-1188) - 101. ratura ») - 118-24, 182, 356.
Eysteinn Haraldsson (sovrano nor­ Folkunghi (sovrani di Svezia, , see.
vegese) - 42. XIV) - 113, 115, 118.
Fonsmark H. B. - 366-67.
Ftedrelandet (organo liberale, Ko­ Foote P. G. - 91.
benhavn) - 163. « Fornaldarsogur » (v. « saga nor­
Fàfnismàl (carme eddico; nel « ci­ rena »).
clo di Sigfrido ») - 20. Forsell Lars (n. Stockholm 1928) -
Falk H. - 49, 71, 79-80, 82-83. 376.
Falkberget Johan (Roros 1879- Foscolo U. - 153.
1966) - 345-46. « fosforistica, corrente » (v. la riv.
Fangen Ronald (Kragero 1895-For- Phospboros).
nebu 1946) - 309. Fraenkel P. - 181, 249.
Farinelli A. - 6. Fram (organo socialdemocratico) -
Fasting Claus (Bergen 1746-ivi 329.
1791) - 142. Francesco d’Assisi, san - 322.
Faulkner W. - 354, 359, 375, 381. Francesco Giuseppe (imperat.) -
Fauriel C. - 93. 309.
Faye Andreas (Drammen 1802-ivi Frandsen E. - 257, 325.
18,69) - 160, 179. Franzén Frans Michael (Uleàborg,
Fearnley Thomas (Fredrikshald Finlandia 1772-Harnosand 1847)
1802-Miinchen 1842) - 159. - 147, 156.
Federico I di Danimarca - 127. Franzén L. O. - 364.
Federico II di Prussia - 134. Fredén G. - 332.
Federico III di Danimarca - 129. « Freiprosalehre » (teoria sulla « sa­
Federico IV di Danimarca - 137, ga ») - 92-93.
140. « Fremdstofflieder » (carmi eddici
Fedrabeimen (giornale di A. Gar- di derivaz. germanica) - 29.
borg) - 163. Frese Jacob (Viborg, Finlandia
Fehrman C. - 357. 1690-Stockholm 1729) - 133.
« femminismo » - 164, 196, 213, Freud S. (e « freudismo ») - 278,
224, 226, 231, 252, 254, 277, 306, 322-24, 346, 354-56, 358,
305, 340. 362, 381-82.
Fem unga (Cinque giovani, antol., Freund Herman (Bremen 1786-Ko-
1929) - 324, 361. benhavn 1840) - 160.
Fergusson F. - 197. Fridegàrd Jan (Enkòpings-Nas
Ferlin Nils (Karlstad 1898-1961) - 1897-1968) - 347, 353.
375. Fridrekr (vescovo islandese) - 88.
Ferrerò G. - 178. Fridpiófs saga - 97.
Feuerbach L. - 176. Friedrich H. - 241.
Feuillet O. - 203. Fries E. J. - 238.
Fichte J. G. - 149, 151-55, 160. Friis Peder Clausson (Kristiansand
Fingai - 160. 1545-ivi 1614) - 101, 128.
Finnbogason G. - 50. Fronten (riv. radicale) 359.
Fjòlnir (riv., 1835-47) - 149. Fryxell Anders (Dal 1795 - Stock­
Fjglsvinnsmàl (v. Svipdagsmàl). holm 1889) - 160.
Flateyjarbók (manoscr., sec. XIV) - Fròding Gustav (presso Karlstad
23. 1860-Stockholm 1911) - 157,
Flaubert G. - 220, 325. 254, 260, 2 6 143 , 266-67, 276,
Fogelberg Bengt (Goteborg 1786- 303, 309, 312, 327, 362, 382.
Trieste 1854) - 160. Fubini M. - 366.
Fogelqvist Torsten - 264. « futurismo » - 245, 323-24, 359-
« Folkevise » (sorta di ballata, ge­ 361, 370.
Indice analitico 433

Gabetti G. - 380. Glumr Geirason (940-985?) - 51.


Galilei G. - 134, 181-82, 185-86, « gnomica, poesia » - 15-16, 19,
194, 204, 270. 24-25, 32, 116.
Gamble man (Il vecchio, « Folke- Gobineau J. A. - 287-88.
vise ») - 120. Goethe W. - 24, 121, 136, 139,
Gamli (figlio di Eirikr blódox) - 148-50, 152-54, 175-77, 261, 356.
56-57. Goldoni C. - 141.
Gamli di Pykkvabcer (sec. X) - 42. Goldschmidt Meir A. (Vording-
Garborg Arne (Time, Jaeren 1851- borg 1819-Fredriksberg 1887) -
Asker 1924) - 161, 163, 166, 151, 164.
212, 260, 290. Goncourt E. e J. - 215, 223-24,
Gauguin P. - 289, 321, 330. 273.
Geijer Erik Gustaf (Ransater 1783- «goticismo» - 128-29, 131, 135,
Stockholm 1847) - 43, 123, 151- 154-56, 159-60, 163.
152, 154-55, 160, 163. Gotthelf J. - 219.
Geijerstam Gustaf, af (Jònsarbo, Gottskàlksson Oddur (ca. 1515-
Vastmanland 1858 - Stockholm 1556) - 127.
1909) - 212, 239. Goya F. - 300.
Gelsted Otto (n. Middelfart, Fin Gozzano G. - 314-15, 326.
1888) - 304, 324, 370. « Gotiska forbundet » (Lega pa-
«genealogica, letteratura» - 11, triottico-letteraria, 1811) - 154,
13, 19, 23, 40, 94, 98, 101. 160.
Genzmer F. - 54, 71, 76. Gran G. - 198, 202, 258.
George S. - 261, 356. Grandguignol - 231.
Gerber G. - 50. Granlid H. O. - 330.
Gert (conte dello Holstein, m. Gravier M. - 224, 323.
1340) - 119. Gregorio IV (papa) - 108.
Gherardi E. - 139. Gregorio VII (papa) - 108.
Ghil R. - 255. Gregorio di Tours - 85, 108.
Giacosa G. - 380. Gregorio Magno - 78.
Gibico (re burgundo) - 29. Greitz T. - 368.
Gide A. - 289, 347, 354, 365. Grettir - 61.
Gierow Karl Ragnar (n. Halsing- Grettissaga (attrib. a Grettir) - 61,
borg 1904) - 390-91. 96.
Gill Claes (n. Odda 1910) - 367. Grevenius Herbert (n. Stockholm
Giordane - 11, 46, 160. 1901) - 380.
Giovanni III di Svezia - 125. Grieg Edvard (Bergen 1843-ivi
Giovanni evangelista - 14, 81, 312. 1907) - 193.
Girodet-Trioson A. L. - 160. Grieg Johan Nordahl (Bergen
Gisla saga - 96, 100. 1902-Berlin 1943) - 381.
Glslason Konràd - 59, 71-75. Grimm J. - 9, 24, 30, 72, 93,
Gìsli Sursson (m. 978?) - 51. 160, 162, 168.
« giuridici, testi » - 13, 116-17, Grimm W. - 24, 30, 93, 162, 168.
128. Grimnismàl (carme eddico) - 27-
Gizurr Isleifsson (vescovo islande­ 18 , 25, 27, 32, 83-84.
se, 1082-1118) - 89. Gripispà (Profezia di Grfpir, car­
Gjellerup Karl (Roholte 1857-Dre- me eddico; nel « ciclo di Sigfri­
sden 1919) - 274. do») - 20, 21.
Gjoe Mette - 123. Grógaldr (v. Svipdagsmàl).
Gjòrwell Karl Kr. (Landskrona Grottasgngr (Carme del mulino
1731-Stockholm 1811) - 136. Grotti) - 23.
Glad Rasmus (v. Erasmus laetus). Grozio H. - 130, 134, 138.
Gladstone - 292. Griinanger C. - 46, 106.
Gluck Ch. W. - 143. Grundtvig Nikolaj Frederik Seve-

XXVII - 18. Lett, della Scandinavia.


434 Le letterature della Scandinavia

rin (Vordingborg 1783-Koben­ Haflidi Masson (m. 1130) - 105.


havn 1872) - 24, 43, 149, 151, Hagberg C. A. - 233.
159, 208, 308, 325, 382-83. Hagberg Knut (n. Torpa socken
Grundtvig Svend Hersleb (Koben­ 1900) - 304.
havn 1824-ivi 1883) - 119. Hagerstrom A. - 366.
Gryphius A. - 134. Hàkon Adalsteinsfóstri (sovrano
Gronbech Vilhelm (Allinge 1873- norvegese) - 41.
Kobenhavn 1948) - 168, 344, Hàkon Hàkonarson (re di Norve­
366, 373. gia, 1217-1263) - 96, 104, 126.
Guarini G. B. - 131, 135. Hàkon jarl - 41, 56, 77, 103.
Gudjónsson Halldór Kiljan (v. Hàkon Magnusson (sovrano nor­
Laxness H. K.). vegese) - 115.
Gudmarsson Ulf (marito di Brigi­ Halbe M. - 245.
da di Svezia) - 112. Haldórr skvaldri - 58.
Gudmundsson Kristmann (n. Pver- Haldórr Snorrason - 92.
fell, Borgarfjòrdur 1901) - 349. Hàlfdan il Nero (sec. IX) - 101.
Gudrunarhvgt (Istigazione di Gu­ Haller A. - 149.
drun, carme eddico; nel « ciclo Hallfmdar saga - 96.
di Attila ») - 21, 22. Hallfrodr Óttarson - 56, 77.
Gudrunarkvida (carme, nel « ciclo Hallfrodr vandraedaskàld (sec. XI)
di Sigfrido ») - 20-21 ; G. I - 20- - 41.
21 ; G. II - 21; G. I l i - 21. Hallgrimsson Jónas (Hraun 1807-
Guglielmo I di Hohenzollern - Kobenhavn 1845) - 149.
309. Hallr Pórarinsson - 54.
Guiches G. - 231. Hallstròm Per (Stockholm 1866-
Gullberg Hjalmar (Malmò 1898- ivi 1960) - 276, 28336.
Stockholm 1961) - 254, 356-57, Halvorsen Finn (n. Talvik 1893) -
358, 362, 368, 374-75. 381.
Gundersen Laura (Bergen 1883- tìamdismàl (carme eddico; nel « ci­
Kristiania 1898) - 209. clo di Attila ») - 21, 22, 25, 31,
Gundicario (re burgundo) - 29. 40.
Gunnarsson Gunnar (n. Valf>jóf- Hamel A. G., van - 17, 27.
stadur, Islanda 1889) - 306, 308, Hammarberg Jarl (n. Goteborg
349, 379. 1940) - 377.
Gunnlaugr Leifsson (monaco) - 78, Hammarskòld Lars (Tuna 1785-
90, 101. Stockholm 1827) - 152 156.
Gunnlaugs saga - 96. Hamsun Knut (pseud. di Peder­
Gustavo III di Svezia - 134-35, sen Knud; Lom, Gudbrandsdal
142, 147, 155, 172, 174, 276. 1859 - Norholm 1952) - 160,
Gustavo Adolfo di Svezia - 130, 254, 258 , 276, 286, 287-302,
250-51. 344, 361, 369.
Gustavo Vasa (re di Svezia, 1523) Hàndel G. F. - 143.
- 115, 125, 127-28, 135, 250. Hansen Martin A. (Stroby 1909-
Gyllenborg Gustaf Fredrik (Stròm- Kobenhavn 1955) - 187, 255,
bro 1731-Stockholm 1808) - 135, 309, 344,, 354, 367, 372-73.
142. Hansen P. - 184-85.
Gyllensten Lars (n. Stockholm Hansson Ola (Hònsinge 1860-pres-
1921) - 368, 377. so Istanbul 1925) - 235, 237,
Gorling Lars (Stockholm 1932-ivi 258-59, 260-61, 286, 292.
1967) - 376. Hansson Laurents (m. 1558) - 101.
Gotlind V. E. - 369. Haraldr blatQnn (sovrano danese)
- 108.
Haakon VI di Norvegia - 115. Haraldr hardràdi (v. Araldo il Se­
Haakonsen D. - 190, 199. vero)/
Indice analitico 435

Haraldr harfagri (v. Araldo Bella- Hundingsbani ») - 31, 34-35, 38,


chioma). 45; H . H . I - 38, 45; H. H. II -
Haraldr Magnusson gilli (re di 31, 34-35, 45.
Norvegia, 1130-1136) - 94. Helgason Jón - 15, 26, 28, 49, 52,
Hdrbardsljód (Carme di Barbagri­ 54, 60.
gia, eddico) - 18. Helgesen Povl (Varberg, Halland
Har pens Kraft (La forza dell’arpa, 1485-ignoto) - 126.
« Folkevise ») - 119. « Helgi Hjgrvardsson, ciclo eroico
Hartmann E., von - 213-14, 236, di » - 19, 45.
246, 259, 288. « Helgi Hundingsbani, ciclo eroico
Hasenclever W. - 245. di» - 19-20, 31, 34-35, 38, 45.
Hauch J. Carsten (Frederikshald Helgi il magro - 69.
1790-Roma 1872) - 151. Hellstrom Gustaf (Kristianstad
Hauge Hans Nielsen (Hauge 1771- 1882-Stockholm 1953) - 305.
Kristiania 1824) - 134. Helreid Brynbildar (carme eddico;
Hauptmann G. 245. nel « ciclo di Sigfrido ») - 20.
Hàvamàl (Massime dell’Eccelso, Hemingway E. - 354-55, 359.
carme eddico) - 27, 25-27, 32- Henmark K. - 329, 367, 375.
33, 80, 84. Henningsen P. - 323.
Havbor og Signil (« Folkevise ») - Hennique L. - 228.
119. Hensius N. - 130.
Haydn J. - 143. Herdal Harald (n. Kobenhavn
Hebbel F. - 178. 1900) - 324, 346.
Hedberg Frans (Stockholm 1828- Herder J. H. - 24, 71, 75, 121,
ivi 1908) - 223. 123, 147-49, 151-52, 158-59.
Hedberg Olle (n. Norrkòping Heretica (riv., 1948-53) - 365, 367,
1899) - 354. 371, 373.
Hedberg Tor (Stockholm 1862-ivi Hermann G - 15.
1931) - 380. Hermanni Nicolaus (vescovo sve­
Hedenberg S. - 235. dese) - 111.
Hegel F. - 164-65, 176, 178, 260. Hermansson H. - 78.
Hedenvind-Eriksson Gustaf (n. Herr Lave og Herr Jon (« Folke­
' Gubbhògen 1880) - 345. vise») - 119.
Heiberg Gunnar (Kristiania 1857- Herr Svedendal (« Folkevise ») -
ivi 1929) - 378-79, 382. 119.
Heiberg Johan Ludvig (Copena­ Herr Tideman och lilla Rosa (Il
ghen 1791-Bonderup 1860) - cavaliere T. e la piccola Rosa,
158, 164, 178-80, 183-84, 189. « Folkevise ») - 123.
Heidarvtga (« saga ») - 98. Herr Torbens Dat ter (La figlia di
Heidenstam Verner, von (Olsham- Torben, « Folkevise »), 119, 122.
mar 1859-Òvralid 1940) - 237, Hertz Henrik (Kobenhavn 1797-
258, 260-61 , 263, 266-67, 275- ivi 1870) - 167.
276, 292, 361. Hervararsaga - 22 .
Heimskringla (« saga ») - 38. Heusler A. - 8, 11, 20, 24-26, 29-
Heine H. - 162-63, 166, 176, 257, 30, 32, 44-45, 49, 53-54, 57, 60-
260-61, 303, 309, 326, 357. 62, 64, 92-93, 106.
Heinrich von Morungen - 46. Hiarne Urban (Nyenskans 1641-
Heinsius D. - 131. Stockholm 1724) - 130, 132.
Helén G. - 327. Hillebrand K. - 177.
Helgakvida Hjgrvardssonar (carme Historia Norvegia? - 101.
eddico; nel « ciclo di Helgi Hitler A. - 301-02, 334, 385.
Hjprvardsson ») - 19, 45. Hjalti Skeggjason (sec. X-XI) - 88.
Helgakvida Hundingsbana (carme Hjartarson Snorri (n. Borgarfjòr-
eddico; nel « ciclo di Helgi dur, Islanda 1906) - 150.
436 Le letterature della Scandinavia

Hjertebogen (Libro a cuore, rac­ Dalarna 1767-Uppsala 1812) -


colta di « Folkeviser », 1553-55) 152.
- 123. Holderlin F. - 356.
Hlgdskvida (carme eddico) - 22-
23 , 25-26. Ibsen Henrik (Skien 1828-Kristia-
Hoel Sigurd (Nord-Odal 1890-0slo nia 1906) - 43, 64, 104, 122,
1960) - 162, 324. 157, 161-62, 166, 176-77, 178 -
Hoffmann E. T. A. - 166, 172, 207, 208, 213, 223-24, 230, 234,
187. 241, 249, 252-54, 258, 277-78,
Hoffmanswaldau Chr. - 132. 287-88, 290, 292, 299, 303, 317,
Hogarth W. - 148. 331 378-79, 381.
Holbach P. H. - 141. « idealismo » - 173, 175, 185, 212-
Holbein il Giovane - 271. 213.
Holberg Ludvig (e suo pseud. lduna (riv. della « Gotiska fòrbun-
Mikkelsen Hans; Bergen 1684- det », Stockholm, 1811-24) - 154.
Kobenhavn 1754) - 110, 123, «illuminismo» - 6, 134-35, 137-
137-42, 177, 181, 378, 381-82. 138, 143, 147, 152-53, 176, 271,
Holger Danske (Oggieri il Danese, 378.
«Folkevise») - 119. Illustreret Nybetsblad (riv.) - 179.
Hollander L. M. - 54. Indrehus - 204.
Holm I. - 259. Ingemann Bernhard (Torkildstrup
Holmberg Olle (n. Stockholm 1789-Soro 1862) - 151, 168.
1893) - 212, 304. Innocenzo III (papa) - 93.
Holmqvist B. - 304, 366. Ionesco E. - 240.
Holstein L. - 371. « iscrizioni » - 5, 9-11, 43; « del
Holtsmark A. - 54, 71-72, 93-94. corno di Gallehus » (ca. 400) -
Holz A. - 245. 11; «d i Eggjum» (Sogn, ca.
Howalt Ejnar (Kobenhavn 1891- 700) - 11; «d i Gripsholm»
ivi 1953) - 382. (Sormland, ca. 1050) - 11; « di
Hrafnkels saga - 96. Jelling» (Jylland, ca. 500) - 11;
Hrólfr di Skàlmarnes (sec. XII) - « di Rók » (Ostergotland, ca.
91. 800) - 11.
Hrólfr Kraki - 97. Isidoro di Siviglia - 105, 160.
Hrólfs saga kraka - 97 Isleifer Gizurarson (vescovo islan­
Hugo V. - 167, 176, 211, 292, 336. dese, 1050-1080) - 89.
Huitfeldt Arild (Bergen 1546-Ko- Iuul S. - 117.
benhavn 1609) - 128.
Hume D. - 141.
Hutchins P. - 376. Jacobi F. H. - 149.
Hutten U. - 128. Jacobs M. - 197, 203, 205.
Huysmans K. - 235, 245, 249, 255, Jacobsen Jens Peter (Thisted 1847-
259. ivi 1885) - 166, 176, 252, 253 -
Hymiskvida (carme eddico) - 18, 254.
45. Jacobsen Jorgen-Frantz (Thorshavn
Hyndluljód (carme eddico) - 23. 1900-Vejlefjord 1938) - 354.
Hàkanson Bjórn (n. Linkòping Jacobsen L. - 186.
1937) - 377. Jacobsen Rolf (n. Oslo 1907) -
Hoedt Frederik L. (Kobenhavn 367.
1820-ivi 1885) - 178. Jaeger Henrik (Drammen 1854-
Hoffding H. - 253. Kristiania 1910) - 198, 273, 372.
Horup V. - 177. Jahn F. L. - 153.
Host E. - 205. James W. - 324.
Hofler O. - 30. Jansson Kristofer - 290-91.
Hòijer Benjamin (Lilla Klingsbo, Jansson S. B. F. - 11.
Indice analitico 437

Jaspers K. - 235. Kahle B. - 87.


Jean Paul (v. Richter J. P.). Kahn G. - 255.
Jensen Johannes V. (Farso 1873- Kaiser G. 245.
Kobenhavn 1950) - 43, 254, 276, Kamban Gudmundur (Litli-Baer,
303, 306, 307, 361, 369-70, 371. Islanda 1888-K0benhavn 1945) -
Jersin Jens Dinesen (n. Jersie 349, 379.
1587) - 134. Kant I. - 150, 152, 155.
Jessen E. - 24. Karl Knutsson (sovrano svedese) -
Jochumsson Matthfas (Skógar, 115, 120.
Islanda 1835-Akureyri 1920) - Karlfeldt Erik Axel (Karlbo xby
43. 1864-Stockholm 1930) - 134,
Jóhannesson A. - 47. 254, 263-73, 276, 303, 312.
Jóhannesson J. - 90. Karlskronika (op.) - 115.
Johanson Klara (Halmstad 1875- Karnell Hans Àke - 216.
1948) - 304. Karrig Niding (L’avaro N., « Fol­
Johansson Lars (v. Lucidor Lars). kevise ») - 119.
Johnson Bengt Emil (n. Ludvika Kaufmann F. 49.
1936) - 377. Kellgren Johan Henrik (Floby,
Johnson Eyvind (n. Overluleà Vàstergòtland 1751-Stockholm
1900) - 346, 347. 1795) - 136, 142, 147.
Johnson M. - 254. Kepler J. - 270.
Johnston B. - 205. Ker W. P. - 31, 99.
Jolivet A. - 219, 223-24, 228. Kerr A. - 203.
Jón Birgisson (arcivescovo) - 42. Ketill torsteinsson (prete cristia­
Jón Loptsson (maestro di Snorri) no) - 105.
- 104. Ketilsbók (ms., sec. XVII) - 64.
Jón Ogmundarson (vescovo islan­ Key Ellen - 254, 299.
dese, 1106-1121) - 89. Keyser Jacob R. (Kristiania 1803-
Jónsson F. - 8, 26, 32, 42, 47, 49, ivi 1864) - 24, 79, 160.
57-60, 69-71, 75, 78-80, 83-84, Kidde Harald (Vejle 1878-Koben-
89, 91-94. havn 1918) - 255.
Jónsson Karl (abate di Pingeyrar, Kielland Alexander (Stavanger
' sec. XII-XIII) - 93. 1849-Bergen 1906) - 166, 212,
Jonsson Thorsten (Hòrnsjò, Nord- 259, 273, 290.
maling 1910-Stockholm 1950) - Kielland Eugenia (n. Skedsmo,
359. Akershus 1878) - 304.
Jonsson Tor (Lom, Gudbrandsdal Kierkegaard Soren (Kobenhavn
1916-1951) - 319-20, 366. 1813-ivi 1855) - 165-66, 167,
Jónsson Vidalfn A. - 43. 175 , 177, 184-85, 188, 199, 208,
Josephson L. - 231. 211, 213, 255, 277, 308-09, 322,
Josephson Ragnar (n. Stockholm 327, 344, 357, 365-66, 372, 377,
1891) 380. 382.
Joyce J. - 207, 323, 347, 355, 364, Kinck Hans Ernst (0ksfiord 1865- ‘
369-70, 376. Oslo 1926) - 160, 276, 286-87,
Juel Johanne (Bergen 1847-1882) 379, 380.
- 198, 209. Kingo Thomas (Slangerup 1634-
Jorgensen Johannes (Svendborg Odense 1703) - 133.
1866-ivi 1956) - 254, 255-56, Kipling R. - 281, 307, 345, 361,
260, 292, 303, 348. 371.
Kirk Hans (Hadsund 1898-Koben-
havn 1962) - 324, 346.
Kabell Aage - 5. Kjaer Nils (Holmestrand 1870-
Kafka F. - 211, 354, 365-66, 368, Kristiania 1924) - 276, 286-87 ,
375, 381. 379.
438 Le letterature della Scandinavia

Kjellgren Josef (Morkò, Sormland Kruuse Jens - 199.


1907-Stockholm-1948) - 346-47. Kuhn H. - 25-26, 29-30, 58-59,
Klemming G. E. - 112. 69, 105.
Klingen (riv., Kobenhavn, 1917-21) Kung Sverker och slaget vid Lena,
- 323. 1208 (Re Sverker e la battaglia
Klopstock F. G. - 148-49. di Lena del 1208, « Folkevise »)
Klitgaard Mogens (Kobenhavn - 119.
1906-Aarhus 1945) - 355. Kàlund P. E. K. - 79, 91.
Knudsen Erik (n. Slagelse 1922) - Kobenhavns flyvende post (riv.,
372. 1827-30) - 164.
Knudsen Knud (Holt Aust-Agder
1858-Kristiania 1895) - 161.
Knudsen Jakob (Rodding 1858- La Cour Paul (Rislev 1902-Roskil-
Birkerod 1917) - 308. de 1956) - 254, 367, 371-72.
Knudsen T. - 191. La Fontaine J. de - 139.
Knutr inn riki (v. Canuto il Gran­ La Rochefoucauld F. - 47.
de). La Vogué M. - 253.
Koch E. A. - 8, 52, 56-57, 59, 64- Lachete - 302.
65, 68-72, 75, 77, 79. Lachmann K. - 29-30.
Koch Martin (Stockholm 1882- Laforgue J. - 326.
Hedemora 1940) - 345. Lafrensen N. - 276.
Koch M. Ludovica - 157. Lagercrantz Olof (n. Stockholm
Koht H. - 86, 89, 181. 1911) - 304, 363.
Kolbeinn Tumason - 111. Lagerkvist Par (n. Vaxjò 1891) -
Kolmodin Olof (Nysatra, Uppland 254, 303, 323 , 32540, 344, 347,
1690-Flo, Vàstergotland 1753) - 356, 358-59, 368, 372, 378-79,
132-33. 380.
Kongemordet i Finderup (Il regi­ Lagerlof Selma (Marbacka 1858-
cidio di F., «Folkevise») - 119. ivi 1940) - 43, 166, 263, 266-67,
Kongespeilet (Speculum regale, op.) 276-83 , 299, 305.
- 116. Lamm Martin (Stockholm 1880-
Kormàkr Ogmundarson (930-970?) ivi 1950) - 136, 147, 227, 236-39,
- 38, 41, 51, 62. 304.
Kormàkssaga - 61, 96. Landquist John (n. Stockholm
Kornfeld P. - 245. 1881) - 211, 324.
Kraft Jens (Kristiansand 1784-Man- Landstad Magnus (Màso 1802-
dal, Vest-Agder 1853) - 159. Kristiania 1880) - 160, 179.
Krause W. - 49. Langbehn J. - 259, 286, 288.
Kristensen Sven Moller (n. Darum Lange Per (n. Horsholm) - 371.
1909) - 304, 325, 383. Lange Sven (Kobenhavn 1868-ivi
Kristensen Tom (n. London 1893) 1930) - 379, 381.
- 370. Lange Thor (Kobenhavn 1851-Se-
Kristmundsson Adalsteinn (v. Stei- lo Napadovka, Ucraina 1915) -
narr Steinn). 255.
Kritisk Revy (riv., Kobenhavn Lange W. - 76.
1926-29) - 323. Larsen Thoger - 371.
Krog Helge (n. Oslo 1889) - 324, Larsson C. - 276.
381. Larsson Hans (Ostra Klagstorp
Krohg Ch. (Vestre Aker 1852-Oslo 1862-Lund 1944) - 304.
1925) - 241, 273. Lassalle F. - 177.
Kroll W. - 57. Laurentius Andrae (o Lars An­
Kroman E. - 117. dersson; 1470-Strangnas 1552) -
Krusenstjerna Agnes, von (Vaxjo 127.
1894-Stockholm 1940) - 354. Laurentius Petri Gothus (o Lars
Indice analitico 439

Petersson; órebro 1499-Uppsala Lindberger Òrjan (n. Uppsala


1573) - 125-27. 1912) - 143, 304.
Lavard Knud (duca danese, m. Lindblad G. - 25.
1131) - 117. Lindblom J. (Skeda, 1746-Linkò-
Lavedan H. - 231. ping 1819) - 135.
Lawrence D. H. - 206, 289, 322, Lindegren Erik (Luleà 1910-Stock-
324, 330, 359, 361, 370. holm 1968) - 361, 366, 368-69,
Laxdoelasaga - 95-96, 100, 122.^ 375.
Laxness Halldór Kiljan (Gudjóns- Linder Erik Hjalmar (n. Fellings-
son H. K.; n. Laxness, Islanda bro, Narke 1906) - 304.
1902) - 150, 303, 346-47, 348-54, Lindquist I. - 26, 56, 65-66.
367. Lindstrom G. - 216, 249-50.
Leconte de l’Isle Ch. - 121, 257. Lindstròm H. - 223.
Lee Masters E. - 323. Ling Pehr Henrik (Sodra Ljunga,
Leffler Anne Charlotte (Stockholm Smàland 1776-Stockholm 1839) -
1849-Napoli 1892) - 212. 151, 154.
Legouvé G. - 203. Linneo C. (Ràshult 1707-Uppsala
Lehmann P. - 78. 1778) - 110, 134, 135-36, 237.
Leibniz G. W. - 333. Ljungdal Arnold (n. Mellerud
Lenngren Anna Maria (Uppsala 1901) - 304.
1755-Stockholm 1817) - 147. Ljungqvist Walter (n. Kisa, òster-
Leonardo da Vinci - 323. gotland 1900) - 359.
Leonora Cristina (Frederiksborg Lo-Johansson Ivar (n. Òsmo 1901)
1621-Maribo 1698) - 131. - 346.
Leopardi G. - 50, 153, 167, 287, Locke J. - 131.
356, 368, 370. Logeman A. - 191.
Leopold Carl Gustaf (Stockholm Lohenstein D. C. - 132.
1756-ivi 1829) - 142, 152. Lokasenna (Contesa di Loki, car­
Lessing G. E. - 251. me eddico) - 18-19, 26, 32, 35,
Levertin Oscar (Gryt 1862-Stock- 81.
holm 1906) - 258, 260, 263, 275- Lombroso C. - 259.
276, 292. London J. - 307, 361.
Lewis Carrol - 364. Lorca G. - 357.
« liberalismo » - 155, 163, 185, Lucas F. L. - 197, 199.
308. Luciano di Samosata 35.
Lidén A. - 254. Lucidor Lasse (pseud. di Johansson
Lidfors Bengt (Lund 1868-ivi 1913) Lars; Stockholm 1638-ivi 1674)
- 309. 133-134, 264, 270, 272.
Lidman Sara (n. Jòrn, Vàsterbot- Lucrezio - 368.
ten 1923) - 375-76. Ludovico il Germanico - 108.
Lidman Sven (Karlskrona 1882- Ludovico il Pio - 108.
1960) - 308.
Ludus de sancto Kanuto duce
Lidner B. (Goteborg 1757-Stock-
holm 1793) - 147. (dramma) - 117.
Lie H. - 27, 45, 53, 59-60. Luigi XIV di Francia - 143.
Lie Jonas (0vre Eiker, Buskerud Lundberg G. - 276.
1883-Stavern, Vestfold 1908) - Lundegàrd Axel (Vastra Sallerup
259-60, 290. 1861-Stockholm 1930) - 212.
Liebert A. - 235. Lunden T. - 112.
Liestol K. - 92-93. Lundkvist Artur (n. Oderljunga
Liljefors B. - 257, 276. 1906) - 324, 347, 356, 358-61,
Lilla rimkrònikan (op.) - 115. 363-64.
Lind Jenny - 169. Lutero M. (e « luteranesimo ») -
Lindberg August - 198. 126-30, 132-34, 137, 151, 156,
440 Le letterature della Scandinavia

165-66, 208, 235, 270, 272, 308, Marx K. (e « marxismo ») - 304,


310. 317, 324, 346, 356, 370.
« Lygisggur » (v. « saga norrena »). Mastrelli C. A. - 67.
Lowenhjelm Harriet (Halsingborg Matilde di Magdeburgo - 114. *
1887-Romanas, Jònkòping 1918) Mattia da Linkòping - 112, 114,
- 308, 309-14, 320. 126.
Mattsson G. - 324.
Maupassant G. de - 322, 382.
Machiavelli N. - 287, 380. Me Farlane J. W. - 194, 296.
Maeterlinck M. - 258, 380. Mehren Stein (n. Oslo 1935) -
Magalotti L. - 6. 367.
Magni o Magnus Johannes (Lin- Meissner R. - 49, 59, 66.
kòping 1418-Roma 1544) - 114, Melantone - 127, 129.
128, 160. Melchiori G. - 364.
Magni o Magnus Olaus (Linkò- Menandro - 139.
ping 1490-Roma 1557) - 114, Mendelssohn J. - 167, 242.
118, 128, 160. Messenius Johannes (Vastra Sten-
Magnus Erlingsson (sovrano nor­ by, Ostergòtland 1579-Uleàborg
vegese, 1164) - 58, 101, 109. 1636) - 128.
Magnus godi (1035-1047) - 92, Mesterton E. - 362. ,
101. Michaélis Sophus (Odense 1865-
Magnus lagabcetir (sovrano norve­ Kobenhavn 1932) - 255.
gese, 1256-1280) - 116. Michelangelo B. - 153, 177, 185,
Magnus Sigurdarson blindi (sovra­ 214-15.
no norvegese, 1130-1139) - 94. Michelessi, abate - 6, 142.
Magnusson Arni (Islanda 1663- Midboe H. - 180.
1730) - 43, 129, 159, 352. Mikkelsen Hans (riformatore del­
Malinovski I. - 373. l’epoca di Cristiano II, see.
Mallarmé St. - 241, 255-57, 259, XVI) - 126.
363, 365, 372. Mikkelsen Hans (v. Holberg Lud­
Mallet P. H. - 43, 159. vig).
Malmberg Bertil (Harnosand 1889- MiU J. Stuart - 175-76, 253.
Stockholm 1958) - 358. Miller A. - 240.
Malmstròm Bernhard (Tysslinge, Mimnermo - 46.
Òrebro 1816-Uppsala 1865) - « misteri » (v. « teatro »).
151. Mittner L. - 31, 49, 372.
Malraux M. - 368. Moberg O. - 102.
Manacorda G. - 6. Moberg Vilhelm (n. Algutsboda,
« Manhemsfòrbundet » (soc. pa­ Smàland 1898) - 354, 380.
triottica, 1815) - 160. Moe Jorgen (Hole, Ringerike 1813-
Mani (scaldo) - 58, 82. Kristiansand 1882) - 160-61,162.
Mann Th. - 241, 289, 318, 347. Mohr W. - 25, 49, 57, 59.
Manzoni A. - 153, 255, 322. Molander Olof (n. Hàlsingborg
Marco Aurelio - 268. 1892) - 378.
Margherita (moglie di Haakon VI Molière - 137, 139, 14142, 181,
di Norvegia) - 115. 224.
Maria dei Medici - 96, 272. Molin Pelle (Multrà, Àngerman-
Marinetti F. - 323. land 1864-Bod0, Norvegia 1896)
Marino G. B. - 61, 130. - 276.
Marivaux P. - 142. Monmouth G. di - 78.
Marsk Stig (m. 1293) - 119. Montaigne M. de - 138.
Martinson Harry (n. Jamshog, Ble- Montaigu R. M. de - 137, 139.
kinge 1904) - 303, 346-47, 356, Montesquieu Ch.-L. - 128, 136,
358, 361, 363. 149, 159.
Indice analitico 441

« moralità » (v. « teatro »). Nielsen Jorgen (Paarup, Silkeborg


Moravia A. - 322. 1902-Kobenhavn 1945) - 355.
Morgenbladet (organo liberale, Nietzsche F. - 177, 206, 210-11,
Oslo) - 163. 217, 225, 230, 234-35, 253, 255,
Morgenstern Ch. - 357, 364. 258-62, 283, 286, 288, 292, 295-
Mosfjeld O. - 205. 296, 315, 317, 322, 326, 331-32,
Mounier E. - 365. 336, 34849, 356, 358, 362, 369,
Mowinckel R. - 87. 371, 373.
Munch Andreas (Kristiania 1811- Nilsson Piraten Fritjof (n. Vollsjo
Vedbaek, Danimarca 1884) - 1895) - 354.
178. Nilus og Hillelille (« Folkevise ») -
Munch E. - 295, 323, 326. 119.
Munch Peter Andreas (Kristiania Njàlssaga - 14, 38, 71, 95-96, 98-
1810-Roma 1863) - 10, 24, 159- 100, 159.
160, 161-62. Nordal Sigurdur - 15, 27, 37-38,
Munch Petersen G. - 371. 47-48, 53-54, 63, 65, 67-69, 85,
Munk Kaj (Maribo, Lolland 1898- 89-93, 95, 102.
presso SÌlkeborg 1944) - 370, Nordau Max - 214, 217.
382-83. Nordenflycht Hedvig Charlotta
Mànsson Peder (monaco, sec. XVI) (Stockholm 1718-ivi 1763) - 135.
- 125. Nordstrom Ludvig (Hàrnòsand
Moens Morgendrom (Il sogno mat­ 1882-Stockholm 1942) - 305.
tutino della vergine, « Folkevi­ Noreen A. - 282.
se ») - 122. Noreen E. - 36, 40, 45, 49, 60, 79.
Moller Poul (Uldum, Vejle 1794- Noreng Harald - 210.
Kobenhavn 1838) - 165. Norrman D. - 237.
Mohlig K. - 247. Northam P. - 184, 195, 205, 249.
Novalis - 149-50, 152-53, 157, 171-
172, 176, 187.
Naerup Cari - 295. N y Jord (riv., Kobenhavn) - 291.
Napoleone I - 155, 159. Nyerup Rasmus (Fyn 1759-Koben-
Nathansen Henri (Hjorring 1868- havn 1829) - 160.
Lund 1944) - 381. Nygaard M. - 67.
« naturalismo » - 164, 174-75, 197, Nygren Anders (n. Goteborg 1890)
211, 213-14, 216-17, 220, 223- - 308.
225, 230-31, 234-37, 239-41, 245, Norregaard M. K. - 255.
251-55, 258, 260-62, 273, 275-
276, 286, 288, 291-92, 304, 324- O’Neill E. - 240, 245, 359.
325, 345, 351, 354, 359, 366, Obstfelder Sigbjorn (Stavanger
375, 378, 381, 384. 1866-Kobenhavn 1900) - 166,
Neckel G. - 8, 24, 29, 54, 65. 254, 259 .
Negri A. - 256. Odd Orvar (v. Sturzen-Becker
Negri F. - 6. O. P.).
« neorealismo » (v. « realismo »). Oddr Kolsson - 92.
Nerman B. - 25. Oddr Snorrason (monaco) - 90,
Nexo Martin Andersen (Koben­ 101 .
havn 1869-Dresden 1954) - 324, Oddrunargràtr (Pianto di Oddrun,
345. carme eddico) - 21.
Nicander Carl August (Strangnas Oehlenschlàger Adam (Kobenhavn
1799-Stockholm 1839) - 151. 1779-ivi 1850) - 43, 97, 149,
Niels Ebbesen (« Folkevise ») - 150-51, 153, 178-79, 183, 203,
119. 209, 256, 372.
Nielsen Harald - 178. Ofstad H. - 366.
Nielsen J. - 378. Ohlmarks A. - 27, 45, 58, 66-67.
442 Le letterature della Scandinavia

Ólàfr Haraldsson (sovrano norve­ Paludan-Muller Frederik (Kjerte-


gese, detto il Santo: « helgi », minde 1809-Kobenhavn 1876) -
1015-1030?) - 41, 42, 48, 69-70, 165, 184, 189.
77-78, 88-91, 94, 96, 101, 103, Panzini G. - 322.
108-09, 353-54. Paolo Elia - 89.
Ólàfr kvàran - 73. Papini G. - 322, 348-49.
Ólàfr soenski (sovrano svedese) - Paris* dom (rappres. medievale) -
104, 108. 118.
Ólàfr Tryggvason (sovrano norve­ Paris G. - 93.
gese, 995-1000?) - 41, 70, 77, « parnassiani » - 173, 214.
88-90, 103-04, 108-09. Pascal B. - 136, 327, 348-49.
Ólafsson Stefàn (Kirkjubaer, Islan­ Pascoli G. - 322.
da 1620-Vallanes 1688) - 129. Patges Heiberg Johanne Luise -
Olao il Bianco di Norvegia - 44. 164, 178.
Ollén G. - 238. Patriotiske Tilskuer (giornale,
Olrik A. - 27, 45, 49, 60, 109. 1761-1763) - 136.
Ólsen B. M. - 54, 58-59, 79-84, 89. Pedersen Christiern (Helsingor
Olsen M. - 18, 27, 36, 46, 64, 66, 1480?-ivi 1554) - 127-28.
68-69, 88. Pedersen Knud (v. Hamsun Knut).
Olsson Hagar (n. Helsinki 1893) - Pedersson Geble - 127.
323. Péladan Joséphin - 217, 234-35.
Omero - 15, 29, 69, 87, 99, 107, Percy Th. - 43.
123, 142, 149. Pergolesi G. B. - 144.
Omre A. (pseud. Antonisen Ole; Perinskjòld Johan (Strangnas 1654-
Vestfold 1887-1967) - 355. Stockholm 1720) - 101, 150.
Onorio d’Autun - 78. Petersen Clemens (Holbaek 1834-
Opitz M. - 131-32. Kobenhavn 1918) - 184, 193.
« orale, tradizione » - 10, 14-15, Petersen Niels M. (Fyn 1791-Ko-
24, 26, 44, 47-48, 60, 86, 92- benhavn 1862) - 64, 99.
94, 119-20. Petersen Nis - 370-71.
Orazio - 13, 109. Peterson-Berger - 263.
Orkneyjngasaga - 72. Petersson Lars (v. Laurentius Pe­
Orwell G. - 362. tri).
Osborne J. - 240. Petrarca F. - 11, 52, 125, 129, 131,
Ossian - 6, 148-49, 158-60, 164. 153, 356.
Oswald Gosta (Stockholm 1926- Petri Olavus (Órebro 1497-Stock-
ivi 1950) - 376. holm 1552) - 126-28, 132.
Ottone di Frisinga - 93. Petrus de Dacia (Gottland 1230?-
Oxenstierna Johan G. (Skenas, ivi 1289) - 110-11.
Sormland 1750-Stockholm 1818) Pétursson Hallgrfmur (Islanda
- 142-43. 1614?-1674) - 133.
Phosphoros (riv., Uppsala, 1810-
Paar Giambattista e Domenico - 1813; e « fosforistica, corren­
125. te ») - 152, 154-56, 163.
Paasche F. - 26, 74, 79-81, 83-84. Pica V. - 178.
Palladius Peder (Ribe 1503-Koben- Picasso P. - 323, 325, 364.
havn 1560) - 127. Piccolomini E. S. - 125.
Palm Goran (n. Uppsala 1931) - Pidrekssaga - 19.
377. Piero della Francesca - 60.
Palmblad Vilhelm (Skonberga, « pietismo » (nel suo influsso sulla
Ostergòtland 1788-Uppsala 1852) letter.) - 6, 134, 135, 148, 171,
- 152. 211, 235, 254, 290, 312, 329,
Paludan Jacob (n. Kobenhavn 345, 363, 382-83.
1896) - 309, 325, 344, 354. Pietro da Skànninge - 112.
Indice analitico 443

Pietro di Alvastra - 112. Prosaiska krónikan (op.) - 115.


Pietro il Grande (zar) - 132, 134. Proudhon P. J. - 176.
Pietro « Mangiadore » - 78. Proust M. - 347.
Pirandello L. - 186, 249, 322-23, Pufendorf S. - 134, 138.
381-82, 385.
Pitré G. - 278. 40-tal (riv. svedese, 1944-47) - 365-
Platen A., von - 153, 356. 366, 368.
Platone (e « platonismo ») - 110, Quo sego (riv. finlandese, Helsinki,
129, 136, 152, 155, 157, 235, 1928-29) - 323.
332.
Plauto - 139. Rabelais F. - 146.
Plough Carl (Kolding 1813-Kòben- Raby F. J. E. - 54, 57.
havn 1894) - 164. Racine J. - 135, 139, 224.
Plummer A. - 69. Raffaello S. - 189, 215.
Plutarco - 43, 351. Ragnar lodbrok - 43.
Poe E. A. - 234-35, 239, 255, 259, Ragnars saga lodbrókar - 97.
325. Rahbek Karen Margrete (R. Kam-
Poetisk Kalender (riv., Uppsala, ma; Kobenhavn 1775-1829) -
1812-1822) - 152. Ì36.
Polhem Kristofer (Gottland 1661?- Ranch Hjeronimus Justesen (Vi-
Stockholm 1751) - 134. borg 1539-ivi 1607) - 130.
Polibio - 125. Ranisch W. - 24, 26.
Politiken (quotid. radicale danese, Raphael R. - 238.
1884) - 177, 291. Rask Rasmus (Brondekilde, Oden­
Polyfem (riv., Stockholm 1809- se 1787-Kobenhavn 1832) - 160.
1812) - 152. Rasmussen (n. Kobenhavn 1915) -
Pontoppidan Henrik (Fredericia 372.
1857-Kobenhavn 1943) - 5-6, Ravn Mikkelsen Hans (1610?-
276, 306-07, 308. 1663) - 132.
Pope A. - 135, 142. « razionalismo » - 134-36, 138,
, « popolare, letteratura » - 24-25, 141, 144, 147, 163.
71, 114-24, 129, 162, 168, 179, «realismo» - 158, 163, 165, 174,
269-70, 345; « Volksgeist, teoria 183, 185, 212, 215, 240, 256,
del» - 24, 30, 106, 123, 149. 267, 277, 283, 334, 341, 346,
Popperwell R. G. - 291. 353, 383; « neorealismo » - 253,
« positivismo » - 174-75, 219, 277, 385.
304, 340. Redwaldo re - 69.
« postromanticismo » (v. « roman­ Reginsmàl (carme eddico; nel « ci­
ticismo »). clo di Sigfrido ») - 20.
Pottier E. - 316. Regnard J. F. - 139, 142.
Poulsen B. - 367. Regnerus (architetto) - 125.
Pound E. - 241, 301, 323, 354, Reich E. - 194.
376. Reichardt K. - 57-59.
Prel K. du - 237. Reinhardt M. - 248, 378.
« preromanticismo » (v. « romanti­ « religiosa, letteratura » - 42, 70-
cismo »). 71, 76-79, 89, 110-14, 125, 370.
Printz-Pahlson Goran V. (n. Hass- Rembrandt - 259.
leholm 1931) - 211, 304, 363, Remigio, san - 85.
377. Renan E. - 177, 355.
Prisciano - 89. Resen Peder H. (1625-1688) - 129.
Prisma (riv., 1942-50) - 365. Reykdoela (« saga ») - 96.
« proletaria, letteratura » - 303, Ribot Th. - 230, 259.
308, 324, 344-54, 356, 358-59, Richter Johann Paul Friedrich
362, 370. (Jean-Paul) - 152.
444 Le letterature della Scandinavia

« Riddarasggur » (v. « saga nor­ havn 1896) - 5, 168-69, 185,


rena »). 304.
Ridder Stigs D od (La morte del Rudbeck Olavus (Vasteràs 1630-
nobile Stig, «Folkevise») - 119. Uppsala 1702) - 129, 160.
Rifbjerg Klaus (n. Kobenhavn Ruin Hans (n. Helsinki 1891) -
1931) - 370, 385. 304.
« Riforma » (per il « luteranesi­ Runeberg Johan L. (Jacobstad
mo » v. in partic. Lutero) - 6, 1804-Borgà 1877) - 173-74, 276.
42, 110, 113-14, 125 sgg., 131, Runius Johan (Larv, Vastergotland
132-33, 134. 1679-Stockholm 1713) - 133.
Rigspula (Catalogo di Rfgr, car­ Rydberg Viktor (Jdnkòping 1828-
me eddico) - 23. Djursholm 1895) - 174, 175.
Rilke R. M. - 259, 326, 371-73. Rydelius Andreas (Linkoping 1671-
Rimbaud A. - 241, 254, 300, 325, Osby 1738) - 135.
358, 363, 365. Romer Ole (Aarhus 1644-Koben-
Rimberto - 108. havn 1710) - 129.
Rimkronicke (op., dal 1495) - 225. Rordam Valdemar (Dalby 1872-
Robbe-Grillet A. - 377-78. Kobenhavn 1946) - 274.
Robert (abate) - 96.
Rode Helge (Kobenhavn 1870-Fre- Saba U. - 322.
deriksborg 1937) - 178, 255, Sasmundr frodi Sigfusson (1056-
369. 1133) - 15, 79, 89-90.
Rogge Konrad (Stockholm 1420?- Saga di Brjànn - 71.
Strangnàs 1501) - 125. Saga di sant*Olao (ca. 1170) - 48,
Rggnvaldr - 54. 90-91.
Rohde Peter P. (n. Kobenhavn « saga norrena » (genere, sec. IX-
1902) - 304. XI) - 9, 12-16, 22, 27-28, 37-40,
Rokseth Peter (Frosta 1891-1945) - 45, 47, 61, 63-65, 68, 77, 86 -
304. 205, 106, 119, 122, 149-50, 159,
Rollone - 69. 179, 209, 278-79, 307, 325, 342,
« romanticismo » - 6, 20, 24, 30, 349, 352-53; « Fornaldarsogur »
43, 79, 93, 97, 121-23, 128, 133- - 45, 95-96, 119; « IslendingasQ-
134, 136, 142-43, 146-47, 148- gur» (sulla colonizzazione islan­
172 , 173-87, 213-14, 223, 235, dese, ca. 930-1070) - 93, 95, 97;
252-53, 257, 259, 261, 264, 266- « Konungasggur » (sui re norve­
267, 273-76, 283, 288, 292, 294- gesi) - 93y 95, 97; «Lygisggur»
296, 305, 330, 340, 353-54, 363, (saghe menzognere) - 96-97;
367, 369; « preromanticismo » - « Riddarasogur » - 96.
6, 43, 129, 147; «postromanti­ Sainte-Beuve Ch. A. - 175, 177.
cismo» - 133, 136, 158, 264. Sallustio - 178.
« romanzo collettivo » - 346. Salto A. - 323.
Ronsard P. - 131. Samtiden (riv. di G. Gran, Ber­
Rops F. - 257. gen) - 258, 291.
Rosenberg C. - 24, 79. Sand G. - 176.
Rosenkrants Holger (1574-1642) - Sandburg C. - 324, 326, 359.
134. Sandemose Aksel (Nykobing 1899-
Roslin A. - 276. 1965) - 355.
Rossetti D. G. - 275. Sandgren Gustav (n. Vàstra Sten-
Rothe Tyge J. (1731-1795) - 159. by, Óstergòtland 1904) - 347.
Rothwell B. - 249. Sanguineti E. - 326.
Rousseau J. J. - 135, 147, 149, Saran F. - 34.
159, 171, 176, 191, 211, 213-14, Sardou V. - 194, 202-03.
217, 348. Sartre J. P. - 240, 354, 365, 368,
Rubow Paul Viktor (n. Koben- 371.
Indice analitico 445

Sarvig O. (n. Kobenhavn 1921) - Serlio S. - 125.


367, 372. Shakespeare W. - 52, 148-50, 153,
Savigny F. - 155. 175, 177, 179, 186, 206, 223-24,
Saxo Grammaticus (1140-1210) - 227-28, 246, 250-51, 330, 383.
23, 28, 30, 40, 97, 109-10, 115, Shaw B. - 195, 379-80.
128, 148, 151. Shelley P. B. - 322.
« scaldica poesia » (sec. IX-XI) - Sherwood Anderson - 324, 359.
9-16, 25, 30, 32, 36, 37-85, 86, Shetelig H. - 45.
94, 96, 101-02, 105-06. Siboni G. - 166.
Scarfe F. - 366. Sifadda Siful (v. Wergeland Hen­
Schack Hans Egede (Sengelose rik).
1820-presso Wiesbaden 1859) - « Sigfrido, ciclo eroico di » - 19-
165. 21, 27, 31.
Schade A. (n. Skive 1903) - 370- Sigeberto I di Metz (Sigfrido?) -
371. 29-30.
Schelling F. - 149-54, 159, 169, Sighvatr ]?órdarson (995-1045?) -
293. 41, 51, 102.
Scherfig Hans (n. Kobenhavn Sigieri di Brabante - 110.
1905) - 355. Sigrdrifumàl (carme eddico; nel
Schiller F. - 149-50, 152, 154-55, « ciclo di Sigfrido »).
179, 261, 274. Sigtryggr di Dublino (sovrano) -
Schlaf J. - 245. 71, 73.
Schlegel A. W. - 50, 149-50, 156, Sigurdarkvida in skamma (carme
176. eddico; nel « ciclo di Sigfrido »)
Schlegel F. - 149, 152-53, 176. - 20, 31.
Schleiermacher - 149. « Sigurdr Fàfnisbani, ciclo eroico
Schneider H. - 15, 26, 29-30. di » - 19.
Schopenhauer A. - 236, 246, 250, Sigurdr Hlgdvesson (jarl delle Or-
259, 284, 322. cadi) - 71, 75.
Schreiner J. - 86, 91, 102. Sigurdr jórsalafari (sovrano norve­
Schroder Hans Fredrik (Tonsberg gese, m. 1130) - 94.
1836-Kristiania 1902) - 198. Sigurdr slembidjàkn (re di Norve­
Schroder F. R. - 17, 35. gia, 1130-1139) - 94.
Schubert F. - 359. Sigurjónsson Johann (Laxamyri,
Schumann R. - 167. Islanda 1880-Kobenhavn 1919) -
Schiick Henrik (Stockholm 1855- 259, 379.
ivi 1947) - 304. Sikelianos A. - 357.
Schiitze G. - 24. Silfverstolpe Malia (1782-Uppsala
Schwerin Martina, von - 156. 1861) - 136.
Schoning Gerhard (Skotnes, isole « simbolismo » - 172, 207, 215,
Lofoten 1772-Kobenhavn 1780) 237-38, 252-57, 273, 275, 278,
- 159. 295, 321, 332, 334, 355-56, 362,
Scott W. - 43, 174, 322. 369, 379, 382-84.
Scovazzi M. - 79, 86, 88, 92. Sinclair Upton - 348.
Scribe A. E. - 164, 172, 179-80, Siwertz Sigfrid (n. Stockholm
202-03, 207, 209, 224. 1882) - 305, 306 , 380.
Seferis G. - 357. Sjoberg Birger (Vanersborg 1885-
« seguaci di San Giorgio » (« bran- Vàxjò 1929) - 254, 326-27y 368.
desiani», v. meglio Brandes G.) Sjóberg Erik (e pseud. Vitalis;
- 307. Ludgo, Sormland 1794-Stock-
Seip D. A. - 25. holm 1828) - 156.
Sénancour E. - 176. Sjóberg L. - 364.
Seneca - 130. Sjógren Peder (n. Baràs, Krono-
Sergei J. T. - 142. berg 1905) - 263, 375.
446 Le letterature della Scandinavia

Sjòstrand ósten (n. Goteborg Steene B. - 369.


1925) - 365. Steensen Niels (Kobenhavn 1638-
Skallagrlmr Kveldulfsson (860- Schwerin 1685) - 129.
940?) - 51. Steensrup J. - 72.
Skidarima («Folkevise») - 119. Steffens Henrik (Stavanger 1773-
Skirnismàl (carme eddico) - 18, 32, Berlin 1845) - 149, 187, 253.
81. Steig V. R. - 24.
Skjoldborg Johan Mattinus (0slos Steinarr Steinn (e pseud. Krist-
1861-Aalborg 1936) - 379. mundsson Adalsteinn; Vestfir-
Skogekàr Bergbo (pseud. di un dir, Islanda 1908-1958) - 150.
non identificato scrittore secen­ Steinbeck J. - 359.
tesco) - 131. Stenhammar - 263.
Skram Amalie (Bergen 1847-Ko- Sterne L. - 148, 166.
benhavn 1905 - 273. Sthen Hans Christiansen (Roskilde
Skuli jarl - 104. 1540?-1611) - 129-30.
Slapater S. - 178, 186. Stiernhielm Georg (Vika, Dalarna
Smedmork C. R. - 225, 240. 1598-Stockholm 1672) - 131 ,
Sneedorff Jens S. (Soro 1724-Ko- 264.
benhavn 1764) - 136. Stirner M. - 185.
Snoilsky Carl (Stockholm 1841-ivi Stockholmsposten (organo enciclo­
1903) - 173, 214. pedista, 1778-1833) - 136, 147.
Snorri (v. Sturluson Snorri). Stolpe Sven (n. Stockholm 1905) -
« sociale, letteratura » - 163-64, 112, 304, 309, 325.
259, 324. « storiografia » (v. « cronachistica,
Socrate - 302, 377. annalistica e storiografia»).
Sofocle - 197. Stormklockan (organo socialdem.)
Solarijód (carme scaldico cristiano) - 329.
- 79-85. Stramm A. - 245.
Sonne Jorgen (n. Kobenhavn 1925) Strandberg C. V. (e pseud. Talis
- 376. Qualis; Stigtomta, Sormland
Sorge R. - 245. 1818-Stockholm 1877) - 164.
Soya Carl Érik (n. Kobenhavn Stravinskij I. - 363.
1896) - 382, 384-85. Strauss D. - 174-75.
Spanke H. - 54. Strecker K. - 235.
Spegel Haquin (Ronneby 1645 - Strindberg August (Stockholm
Uppsala 1714) - 132. 1849-ivi 1912) - 43, 85, 136,
Spektrum (riv. psicanal., 1931-33) 146, 166, 176, 194, 202, 210-52,
- 362. 253-54, 258-59, 261, 273, 276,
Spener J. - 134. 290, 296, 303, 305, 323, 330-31,
Sperelli A. - 256. 333, 348-49, 364-65, 375-76, 378-
« sperimentalismo » - 254-55, 324, 381.
376. Strix (riv. umoristica, 1897) - 305.
Spielhagen F. - 176. Stròmbàck D. - 27.
Spitzer L. - 323. Stub Ambrosius (Gummerup 1705-
Staél, Madame de - 43, 149-50, Ribe 1758) - 133.
176. Stuckenberg Viggo (Vridsloselille,
Staffeldt A. W. Schack (Riigen Kobenhavn 1863-ivi 1905) -
1769-Slesvig 1826) - 149, 150. 255.
Stagnelius Johan Erik (Gardslosa, Stufr (scaldo) - 58.
Gottland 1793-Stockholm 1823) Sturla fxSrdarson (ca. 1214-1284) -
- 151, 156-57, 261, 363. 48, 90, 105.
Stanislavskij K. S. - 378. Sturlunga saga (sec. XIII) - 105.
Starback C. G. - 251. Sturluson Snorri (Hvammur, Islan­
Steblin-Kamensky M. I. - 91. da 1178-Reykjaholt 1241) - 8,
Indice analitico 447

10, 15-16, 18-19, 23, 32, 38, 40, Raivola, Carelia 1923) - 323,
45-50, 52-54, 59-60, 63, 65-67, 326.
69-70, 77, 79, 81, 83-84, 88-90, Sonderby Knud (Esbjerg 1909-
92, 94, 97, 101-05, 109-10, 128- 1966) - 385.
129, 151, 159, 354. Sorensen Vedel Anders - 123, 128.
Sturtevant A. M. - 25. Sorensen Willy - 304.
Sturzen-Becker Oscar P. (e pseud.
Odd Orvar; Stockholm 1811-
Hàlsingborg 1896) - 164. Tacito - 11, 29, 206.
Styrmir Kàrason (m. 1245) - 90. Taine H. - 168, 175-77, 213, 223,
Sundman Per Olof (n. Stockholm 322.
1922) - 377. Talis Qualis (v. Strandberg C. V.).
« surrealismo » - 150, 172, 202, Tàrnet (riv. danese, 1893) - 255.
240-41, 245, 252, 270, 275, 323, Tasso T. - 128, 131-32, 135, 153.
327, 331, 347, 360, 362-63, 366, Tassoni A. - 137.
368-69, 371, 375. Tausen Hans (Birkende 1494-Ribe
Suso E. - 114, 357. 1561) - 126-27.
Svanberg Nils (Kalmar 1902-Upp- « teatro » - 16, 18-19, 32, 117-18,
sala 1939) - 304. 129-31, 137-42, 156, 161, 164,
Svanberg Victor (n. Hastveda 166, 178-210, 223-34, 247-52,
1896) - 304, 325. 276, 296, 330-33, 370, 377, 378-
Sveinsson Brynjólfur (Islanda 385; «misteri» (rappr. medie­
1605-1675) - 15, 43, 129, 159. vali) - 117, 129, 330, 332-33;
Sveinsson Einar Ól. - 10, 13, 25, « moralità » (rappr. mediev.) -
45, 54, 71-72, 75, 86, 90, 93, 117, 129.
95, 99. Tegnér Esaias (Kyrkerud, Vàrm-
Svend Estridssen (sovrano danese) land 1782 - Òstrabo, Vàxjò
- 108. 1846) - 43, 97, 151-52, 155-56,
Svensk Litteratur-Tidning (riv., 111, 239, 260-61, 276.
Uppsala, 1813-24) - 152. Tennessee Williams - 240.
Svenska Dagbladet (organo conser­ Teodorico di £>ràndheimr - 48,
vatore, Stockholm) - 276. 101.
Svenske Mercurius (giornale, 1755- Terenzio - 129.
1761 e 1763-65) - 136. fcórgeirr afràdskollr - 92.
Sverrir Sigurdarsson (sovrano nor­ Terkelsen S. - 131-32.
vegese, 1184-1202) - 93-94, 101. Thiele Just M. (Kobenhavn 1795-
Svipdagsmàl (comprendente « Gró-
ivi 1874) - 160.
Thomas (poeta anglomanno della
galdr », Incantesimo di Gróa, e corte di Enrico II d’Inghilterra)
« Fjglsvinnsmàl ») - 23. - 96.
Swedberg Jesper (Sveden, presso Thomas Simonsson di Strangnas
Falun 1653-Skara 1735) - 132.. (vescovo svedese, 1380-1443) -
Swedenborg Emanuel (Stockholm 120.
1688-London 1772) - 110, 135- Thomasius Ch. - 138.
136, 147, 171, 211, 235-36, 239, Thomson J. - 149.
243-44. Tbor af Havsgaard (« Folkevise »)
Swift J. - 135, 138. - 119.
Swinburne A. Ch. - 275. Thorarensen Bjarni V. (Brautar-
Soderberg Hjalmar (Stockholm holt, Islanda 1786-Modruvellir
1869-Kobenhavn 1941) - 30546, 1841) - 151.
334. Thoresen M. - 184.
Sòderblom Nathan (Trono 1866- Thorild Thomas (Svarteborg, Bo-
Uppsala 1931) - 308-09, 330. huslan 1759-Greifswald 1808) -
Sòdergran Edith (Peterburg 1892- 147, 159.
448 Le letterature della Scandinavia

Thorvaldsen Bertel (Kobenhavn Ugo da S. Vittore - 78.


1768-ivi 1844) - 160. Ulfeldt Corfitz - 131.
Thrane Markus (Kristiania 1817- tMjótr (a capo del primo « Al]?in-
Wisconsin 1890) - 178. gi » islandese) - 87.
Tidestrom Gunnar (n. Folkarna tflfr jarl - 103-04.
1906) - 304. Ulrica Eleonora (regina, moglie di
Tieck L. - 149-30, 132-53, 176, Carlo XI di Svezia) - 134.
187. Ultra (riv., Helsinki, 1922) - 323.
Tigerstedt Ernst N. (n. Warszawa Um styrilsi Kununga ok hofdinga
1907) - 304, 348. (Sul governo dei re e dei prin­
Tilskueren (riv. danese) - 253. cipi, op., 1330-40) - 115-16.
Tintoretto - 275. « umanesimo » - 125-28, 130, 151,
Jpjódólfr Arnórsson (scaldo) - 58. 155, 159, 261, 304, 308.
Pjódólfr hvinverski (scaldo) - 40. Undset Sigrid (Kalundborg 1882-
Tobias komedie - 129. Lillehammer 1949) - 43, 309,
Toldberg H. - 259. 340-44.
Tolstoj L. - 214, 238, 253, 260, Ungaretti G. - 322.
262, 283, 288, 292. Unruh F., von - 245.
Tomaso da Kempen - 114. Uppdal Kristofer (Beitstaden,
Tomaso d’Aquino - 110, 116. Trondelag 1878-1961) - 345-46.
Topelius Zacharias - 173-74. Ur dagens kr'ónika (riv.) - 261.
Pórarinn loftunga (sec. X) - 41. Urbano V (papa) - 114.
]?órarinn svarti Màhlidingr (fine Urfé H. d’ - 131.
sec. X) - 51. « Utile Dulci » (assoc. musicale e
Porbjgm hornklofi (scaldo) - 41, letteraria, Stockholm, 1766) -
46, 62, 102. 136.
JxSrdarson Agnar (n. Reykiavìk U tsikt (riv., 1948-50) - 365.
1917) - 150.
£>ordarson J>órbergur (n. Breida- Vafprudnismàl (carme eddico) -
bólsstadur, Islanda 1889) - 346, 17-18, 25, 32.
367. Valafrido - 78, 80.
Torfasus ]Dormódur (Reykjavik Valdemar og Tove (« Folkevise ») -
1636-Stangeland 1719) - 91, 101. 119, 122.
Porgeirr Hàvarsson (nella Fóst- Valdemari (sovrani di Danimarca,
breedra saga) - 95-96. sec. XIII) - 118.
Porgerdr (figlia di Egill) - 65, 68. Valdemaro I di Danimarca - 109.
J>orlàksson Gudbrandur (Stadar- Valdemaro II di Danimarca (detto
Sejr) - 116.
bakki 1542-Hólar 1627) - 127.
Topsoe-Jensen Helge (n. Koben­ Valdemaro Birgersson di Svezia -
119.
havn 1896) - 304. Valency M. - 188, 202, 241.
t)orgnyr Porgnysson - 103. Valéry P. - 322.
Pormódur Kolbrunarskàld (nella Valgimigli M. - 106.
Fóstbrcedra saga) - 95-97, 353- Vallès J. - 217.
354. Van Gogh V. - 330.
Porvaldr vidfprli - 88. « Vani (stirpe mitica), ciclo sui » -
Tozzi F. - 322. 17.
Transtromer T. - 369. Vatnsdcela (« saga ») - 96.
Trotzig Birgitta (n. Goteborg 1929) Vegtamskvida (v. Baldrs draumar).
- 376. Vennberg Karl (n. Bladinge, Smà-
Prymskvida (carme eddico) - 18. land 1910) - 366, 368-69, 375,
Turgenev I. - 176, 260. 377.
Turville-Petre G. - 54, 95. Verdi G. - 172.
Twain Mark - 211, 290. Verga G. - 221, 280, 287.
Indice analitico 449

Verlaine P. - 241, 255-57, 259. Wagner R. - 167, 238.


Veronese P. - 336. ^ Wahlbom Johan (Kalmar 1810-
Vesaas Tarjei (n. Vinje, Telemark London 1858) - 159.
1897) - 254, 355, 367. Waiblinger W. F. - 166.
« Vetenskapsakademien » (Stock­ Wallenberg Jacob (Viby, Cster-
holm, 1739) 136. gòtland 1746-Mònsteràs 1778) -
« Vetenskapssocieteten » (Uppsala, 147.
1719) - 136. Wallin Johan O. (Stora Tuna, Da-
Vico G. B. - 50, 106. larna 1779-Uppsala 1839) - 156.
Vidalin Arngrlmur (Vididalur Wallquist Olof (Edsberg, Nàrke
1568-1648) - 159. 1755-Norrkòping 1800) - 135.
Vidding O. - 94. Wassing Àke (n. Simtuna, Vàst-
« Videnskabernes Selskab » (Ko­ manland 1919) - 376.
benhavn, 1762 - 136. Wedekind F. - 378.
« Videnskabs Selskab » (Trond- Weibull C. - 103.
benhavn, 1762) - 136. Weigand H. - 186, 195-97, 199.
Vidrik Velandsson (« Folkevise ») Welhaven Johan Sebastian C. (Ber­
- 119. gen 1807-Kristiania 1873) - 158-
Vigfusson G. - 44-45, 59, 79, 89. 159, 178.
Vigny A. de 167, 333. Wells H. G. - 299, 305, 307.
Vindrosen (riv., 1954) - 365. Wenerìd (raccolta di sonetti, sotto
Vinje Aasmund O. (Vinje, Tele­ il nome di Skogekar Bergbo,
mark 1818 - Gran, Hadeland 1680) - 131-32.
1870) - 161, 162. Wergeland Henrik (e suo pseud.
Virgilio - 109, 142. Sifadda Siful; Kristiansand 1803-
Vittoria (regina d’Inghilterra) - Kristiania 1845) - 5, 151, 158-59,
309. 160-61, 178, 208.
Vogt Hans (rettore dell’Univ. di Werner Z. - 152.
Oslo; n. Fredrikstad 1903) - Wessel Johan Herman (Vestby
162. 1742-Kobenhavn 1785) - 142.
Voigt Riborg - 169. Wessén E. - 117.
« Volksgeist, teoria del » (v. « po­ Whitman W. - 259, 288, 290, 323-
polare, letteratura »). 324, 326, 359, 361, 369.
Vglsungasaga - 19-21, 94, 97. Wied Gustav (Holmegaard, Lol­
« Vglsunghi (stirpe mitica), ciclo land 1858-Roskilde 1914) - 381-
sui» - 19. 382, 384.
Voltaire - 135-36, 142-43, 147, Wieland Ch. - 149.
177, 299. Wieselgren Oscar - 272.
Vglundarkvida (carme eddico) - Wigforss B. - 363.
19, 25. Wiig B. - 245.
Vgluspà (Vaticinio della veggente, Wikner Pontus - 173.
carme eddico) - 16-17, 23, 25, Wilde O. - 273.
27, 35-37, 45, 78, 80-Sl, 85, Wildenvey Herman (Eiker 1886-
159. 1959) - 303.
Vgluspà breve (nelT« Edda snor­ Williams R. - 194.
rica») - 23. Wilson E. - 324.
Vossius I. - 130. Winckelmann J. J. - 147, 155.
Vossler K. - 304. Winther Christian (Fensmark 1796-
Vries J. de - 8, 13, 16, 26-27, 36, Paris 1876) - 165.
45-46, 49, 53-54, 56-57, 61, 64, Wirsén C. David, af (Vallentuna,
76, 78, 86, 88-89, 92, 94. Uppland 1842-Stockholm 1912)
- 173, 212.
Wace R. - 115. Wivallius Lars (presso Crebro
Wackenroder W. H. - 176. 1605-Stockholm 1669) - 133.
450 Le letterature della Scandinavia

Wivel O. (n. Kobenhavn 1921) - Zinzendorf N. L. - 134.


367, 372. Zola E. - 210, 213-14, 223-24, 226,
Wizelius I. - 376. 230, 237, 252, 254, 259-60, 273,
Woel C. M. - 371. 350.
Woerner R. - 194. Zorn A. - 257.
Wolf L. - 29, 66.
WolfE Ch. - 141. Àkesson B. - 361.
Woltmann L. - 287. 0rjasaeter Tore (n. Skjàk, Gud-
Wordsworth W. - 176, 321-22. brandsdal 1886) - 303-04.
Worm Ole (Aarhus 1588-Koben- 0rsted H. K. - 169.
havn 1654) 43, 62, 101, 129. 0sterud E. - 205.
Worringer W. - 60. 0verland Arnulf (Kristiansund
Wagner Elin (Lund 1882-Lilla 1889-Oslo 1968) - 162, 254, 308,
Bjorka 1949) - 279, 305. 314-19, 320, 324.
0 yvindr skàldaspillir (scaldo) - 41,
Yeats W. - 136, 376. 62 .
Ynglingar (dinastia) - 101. Osterling Anders (n. Halsingborg
Young E. - 149. 1884) - 157, 320, 321+22, 324.
INDICE GENERALE

Prefazione ...................................................... pag. 5


I. M edioevo pagano e c r is t ia n o .................................................... » 9
L ’« Edda » poetica e l ’« Edda » prosastica, la poesia scal­
dica, le Saghe, 9 - La poesia scaldica, 37 - Egill Skalla-
grìmsson, 62 - « Sonatorrek », 65 - « Darradarljód », 72 -
« Sólarljód », 79 - Le Saghe norrene, 86 - La conversione:
letteratura religiosa e laica, 107.

II. D alla riforma all ’età dei l u m i ........................................ » 125


Ludvig Holberg, 137 - Cari Michael Bellman, 142.

II I. I l r o m a n t ic is m o ...........................................................................» 148

IV . L ’età, m o d e r n a .................................................................................» 173


H enrik Ibsen, 178 - Bjornstjerne Bjornson, 207 - August
Strindberg, 210. ^

V. T endenze letterarie del N ovecento ...................................» 303


La narrativa e la lirica, 303 - Il teatro, 378.

B ib lio g r a fia ............................................................. ......................... » 389

Indice a n a litico ................................................................................. » 425

854561

Potrebbero piacerti anche