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MARIO GABRIELI

dell’istituto Universitario Orientale di Napoli

Le letterature
della Scandinavia
Danese, Norvegese, Svedese, Islandese

Nuova edizione aggiornata

SANSONI - ACCADEMIA
e se m p la r e fu o ri c o m m e r c io
PIER LA D SST R tBU ZlO N E
Prefazione

Questa seconda edizione della Storia delle letterature della


Scandinavia, benché interamente rielaborata e ampliata, resta,
nelle linee essenziali, aderente al disegno tracciato dieci anni
fa, inteso a cogliere le caratteristiche dominanti dello svolgi­
mento letterario dei paesi nordici e a facilitare Vinquadramento
e la diretta lettura dei testi più originali e significativi.
Mentre nel Nord si scrivono ancora oggi storie letterarie
dei singoli paesi facendo gelosamente coincidere i confini cul­
turali con i confini politici1, lo straniero è più incline a rile­
vare i tratti d'una comune eredità scandinava, senza perciò
chiudere gli occhi sulle differenze reali, che Vaffinità linguistica
sembra dissimulare. Incontestabile appare infatti sin dai pri­
mordi Vunità culturale e linguistica (un*ininterrotta catena di
transizioni dialettali lega insieme le diverse parlate; e in certi
periodi storici è solo questione di adattamenti fonetici e mor­
fologici) di questi popoli germanici: danesi svedesi norvegesi
al centro, islandesi e altri gruppi minori alla periferia, non
smentita né da particolarità locali né da divergenti fattori sto­
rico-geografici.
L'antica letteratura norrena, fissata per iscritto fra il X II
e XIV secolo, ha certo connotati formali e sostanziali che non
ne consentono Vascrizione in blocco a tutta la Scandinavia;
ma indizi e documenti anteriori e coevi (epigrafici, archeologici
storici) e, più ancora, Vinoppugnabile testimonianza d'una po­
steriore tradizione nordica la cui eco non è ancor oggi spenta,
comprovano>Vesistenza d’un comune fondo culturale, di certe

1 Non vanno però taciute le singole voci di implicito dissenso (p. es.
P. Rubow, Herman Bang og fiere kritiske studier, Kobenhavn, 1958,
p. 64) o, sul piano pratico, gli sconfinamenti da una letteratura all’altra
(p. es. gli studi dello svedese Knut Ahnlund sull’opera narrativa del
danese H. Pontoppidan, 1956, o del danese Aage Kabell sull’opera del
norvegese Wergeland, 1956-57).
6 Le letterature della Scandinavia

caratteristiche generali e profonde, che l'esattezza di distin­


zioni filologiche non è valsa a smentire. Cosi parallelismi e
strette interdipendenze presenta sia la tarda evangelizzazione
del Nord, mediatrice d'un nuovo credo religioso, di nuove isti­
tuzioni civili, di nuova letteratura e arte, sia la storia della
Riforma protestante che attraverso le sue dirette filiazioni
— pietismo e illuminismo — imprime per secoli a tutta la
cultura scandinava un comune segno, ulteriormente approfon­
dito dal Romanticismo del secolo X IX \
D'altra parte Vunità del tema non esclude la pluralità delle
variazioni; e di queste si è fatta menzione nel corso del pre­
sente lavoro, incentrato si sulle figure e opere artisticamente
più significative, ma inteso anche a rilevare nomi e fatti che
indichino caratteristiche locali.
Intravista alla lontana dietro le maggiori letterature, fran­
cese inglese e soprattutto tedesca, la scandinava è apparsa sul
nostro orizzonte critico solo tardi, se si pensa che già del
preromanticismo europeo il « nordico » fu, accanto a Ossian,
una componente non trascurabile (scarsa o indiretta cono­
scenza ne ebbero, nell'insieme, sia i letterati e i viaggiatori ita­
liani che fra il Sei e il Settecento visitarono il Nord: il Negri
il Magalotti il Michelessi VAcerbi; sia, in epoca più recente,
studiosi di professione a germanisti dal De Gubernatis al Fa­
rinelli e al Manacorda). Per riparare appunto a questo ritardo
si è tracciato il presente disegno storico, indubbiamente sche­
matico e succinto, eppure forse non inutile se servirà a dare
un'idea dell'evoluzione letteraria dei popoli nordici attraverso
l'esame dei più grandi scrittori e poeti, molti dei quali ancora
ignoti alla media cultura italiana o soltanto noti in giudizi
stranieri.
Da ultimo una parola di chiarimento sulla bibliografia posta
in fondo al testo, a integrazione delle note a piè di pagina.
Questa bibliografia vuol essere soltanto di guida al lettore ita­
liano, indicandogli — in base a un criterio ovviamente sog­
gettivo ma forse non perciò sempre arbitrario — le principali
opere di consultazione su ogni singolo argomento. Rinunciando
di proposito a travasare da repertori cataloghi e periodici
specialistici, intere sfilze di titoli (che oltre tutto non avreb­
bero senso, data la situazione attuale degli studi nordici da

1 Chi vuole rendersene conto legga certe pagine dell’autobiografia del


danese H. Pontoppidan, Undervejs til mig selv, 1943 (il cap. intitolato
« ‘Drengeàr» ) .
Prefazione 7

noi), si è sempre fatto preciso riferimento bibliografico n é


citare determinati giudizi critici, nei quali confluissero i risul­
tati di studi precedenti, o che si segnalassero per propria
originalità.
M. G.
Roma 1969
ABBREVIAZIONI PIÙ FREQUENTI

Skjald (F. Jónsson, Den norsk-islanàske Skjaldedigtning Kobenhavn-


Kristiania 4 voli., 1908-1915).
Skald (E. A. Kock, Den norsk-islàndska skaldediktningen, Lund, 2 voli.,
1946-49).
N.N. (E. A. Kock, Notationes Norrcence, Lund, 5 voli., 1923-24).
Litt. hist. (F. Jónsson, Den norsk-islandske Litteraturs-historìe Koben-
havn, 3 voli., 1920-1924 2).
Altn. Litg. (Jan de Vries, Altnordische Literaturgeschichte Berlin-Leipzig,
2 voli. 1941-42; 2a ed. 1962-67).
Altg. D. (A. Heusler, Altgermanische Dzcbtung, Potsdam, 1941 2).
Edda Snorra (ed. critica islandese delTEdda di Snorri a cura di F.
Jónsson, Kobenhavn, 1931).
t. f. (Islenzk fornrit, ed. critica delle Saghe islandesi in corso di pubbl.
a cura del Fomritafélag di Reykjavik, 1933 sgg.).
I singoli carmi dell’Edda poetica sono citati sia nell’ed. di F. Jónsson
(Kobenhavn 1932) sia nelTed. del Neckel (Heidelberg, 1926).
ANF (Arkiv for nordisk filologi, Lund, 1883 sgg.).
AaNO (Aarboger for Nordisk Oldkyndighed, Kobenhavn, 1866 sgg.).
Edda (Nordisk tidskrift for litteraturforskningy Oslo 1914 sgg.).
APhs (Acta philologica scandinavica, Kobenhavn, 1926 sgg.).
BLM (Bonniers Litteràra Magasiny Stockholm, 1932 sgg.).
MM (Maal og Minne, Oslo, 1909 sgg.).
N.K. (Nordisk Kultur, v. bibliografia).
OoB (Ord och Bild, Stockholm, 1892 sgg.).
PBB (Paul und Braunes Beitràge tur Geschichte der deutschen Spràche
und Literatur, Halle, 1874 sgg.).
SUGNL (Samfundet HI Udgivelse af gammel nordisk Literatur, Koben-
havn, 1879 sgg.).
ZDA (Zeitschrift fùr deutsches Altertumì Leipzig-Berlin, 1841 sgg.),
ZDPh (Zeitschrift fur deutscbe Philologie, Halle, 1868 sgg.).
Capitolo primo
Medioevo pagano e cristiano

l ’e d d a p o e t i c a e l ’ e d d a p r o s a s t i c a ,
LA PO ESIA SCALDICA, L E SAGHE

La storia delPantica letteratura dei popoli della Scandi­


navia (« terra classica del germanesimo » — secondo la nota
definizione di J. Grimm) s’identifica in larga misura con la
storia della civiltà germanica nella lenta fase della conversione
al cristianesimo; anzi ne costituisce il documento comparati­
vamente più vetusto e più insigne per copia e valore di dati,
anzitutto intorno alla poesia, alla religione, al diritto.
È noto che della propria civiltà letteraria le stirpi germa­
niche non ci hanno tramandato alcun documento redatto in
età pagana, che le iscrizioni runiche — vera criptografia sim-
bolico-magica di stretto impiego epigrafico, per più secoli testi­
moniata attraverso una serie di diverse fasi storiche —
hanno, aldilà dei controversi problemi d’origine e d’interpreta­
zione, ben scarso pregio d’arte.
Quanto a noi è giunto è passato tutto al filtro del cri­
stianesimo.
Fu la missione cristiana a render possibile, con l’insegna­
mento del nuovo, la conservazione sia pur parziale dell’antico,
operando dovunque una rivoluzione anche civile, letteraria e
artistica che tra il quarto e l’undicesimo secolo, non certo paci­
ficamente, conquistò tutti i germani (dai goti di Ulfila ai
nordici) del centro e della periferia europea. Mentre però quelli
più vicini a Roma modificarono presto o persero senz’altro la
propria fisionomia culturale e in qualche caso anche linguistica,
il Nord scandinavo (anzitutto l’Islanda e la Norvegia), serbò
invece più a lungo i monumenti e le vestigia d ’una tradizione
spirituale che in varia misura fu comunemente germanica.
Fattori geografici (mille chilometri separano l’isola atlan­
tica dal più vicino lembo del continente europeo), politici, so­
ciali e religiosi (assenza d’un potere regio accentra tore e alleato
10 Le letterature della Scandinavia

della chiesa, conversione a opera di missionari d’origine germa­


nica) ritardarono qui la vittoriosa diffusione del verbo cristiano
e della cultura della Romania, preservando forme autoctone
di costume sociale e d’arte altrove scomparse e assai vagamente
testimoniate persino in terre confinanti come Svezia e Da­
nimarca.
Non diversamente da quella di altri popoli, l’antica lette­
ratura nordica fiori dunque per secoli in anonima tradizione
orale e giunse solo tardi a quella forma scritta nella quale ci
è dato oggi conoscerla. Che su basi congetturali e con l’aiuto di
scienze ausiliarie si sia tentato di risalire indietro nel tempo
e di far luce su tale sfuggente tradizione, è ben comprensibile,
soprattutto da parte di chi (tedeschi, svedesi, danesi) nella
propria lingua quasi nulla ha da porre accanto al cospicuo
patrimonio letterario* superstite norvego-islandese o norreno1
— come per dotta consuetudine si suole chiamarlo.
Si è voluto vedere nelle iscrizioni runiche — in prosa a ca­
denza ritmica allitterante che caratterizza i primordi della civil­
tà di molti popoli, come in verso eddico e scaldico — tracce
d’una poesia epico-mitico-magica anteriore a quella a noi nota
dell’età vichinga; tracce di una poesia che, sul piano culturale,
dovrebbe fungere da anello mancante nella catena che salda
cronologicamente l’età vichinga alla precedente età delle grandi
migrazioni dei popoli.
Ora non è forse inutile precisare che l’esistenza di tale
poesia ovviamente poggia su una ipotesi — giustificata certo
dalla maturità dei caratteri esterni e interni con i quali si pre­
sentano le più antiche fonti scritte — e che il divario quali­
tativo fra poesia « runica » da una parte e poesia eddico-scal-
dica dall’altra è tale da non permettere appunto altro che ipo­
tesi al ri'guardo. Per dissipare ogni possibile equivoco (cui
inducono storie linguistiche e anche letterarie) va dunque chia­
rito che il rapporto tra i due tipi di poesia non ha nulla a che
fare con quello che passa, per esempio, in campo romanzo,

1 L ’espressione dgnsk tunga (lingua danese) nei testi nordici dei secoli
XIII e XIV alternata a quella di norron tunga o norront mài (lingua
norvegese) — Snorri nel Prologo della Heitnskringla le usa indiscrimi­
natamente — riflette con probabilità le denominazioni etniche date ai
nordici (e al loro idioma, ben poco differenziato in età vichinga) dai
popoli occidentali con i quali più spesso vennero in contatto: anglosas­
soni, sassoni, frisoni, e poi entrate nelPuso culturale indigeno (cfr. Einar
Ól. Sveinsson, Islenzkar bókmenntir i fornòld, I, Reykjavik, 1962, p. 5
che riprende le idee di P. A. Munch sull’intera questione).
Medioevo pagano e cristiano 11
fra la lirica provenzale da una parte e gli stilnovisti e Petrarca
dall’altra.
Si suole ad esemplificazione di antecedenti poetici dei car­
mi eddici e scaldici citare gran copia d’iscrizioni runiche com­
memorative e celebrative, e in primo luogo quella più antica
(ca. 400) su uno dei celebri corni d’oro di Gallehus (Schles­
wig): « ek hlewagastiR holtijaR homa tawido » (Io Hlégestr
figlio di Holt il corno feci). Ma, nonostante l’indubbio valore
storico e fonetico-morfologico, la formulare schematicità di
questi due versi brevi allitteranti ben poco ha da offrire al
gusto estetico. Non diversamente le tanto discusse iscrizioni:
norvegese di Eggjum (Sogn; ca. 700), svedese di Rok (Óster-
gòtland; ca. 800) e le due danesi di Jelling (Jylland; ca. 900)
non presentano, aldilà del loro interesse linguistico-culturale e
figurativo, che i connotati esterni della poesia eddica e scaldica
(affinità metrico-lessicali, costrutti tipici dell’uso poetico, allu­
sioni 1 a nomi e fatti mitico-eroici). In qualche altra come per
esempio quella di Gripsholm (Sormland; c. 1050): « PaeiR
foru draengila - fjarri at gulli - auk austarla - aerni gafu, - dou
sunnarla - a Sasrklandi » (Partirono da valorosi,^ lontano in
cerca d’oro, e a oriente dettero cibo all’aquila [cioè uccisero
molti nemici], morirono a sud in terra saracena) può certo
colpire la concisione epigrammatica con cui, quasi in cifra, è
tramandato un fatto notevole che si articola su tre noti simboli
dell’eroismo vichingo: la sete dell’oro, il mare, il sangue; ma si
tratta per lo più di una suggestione che scaturisce dall’inattesa
rottura del nudo linguaggio formulare in uso: non ci troviamo
davanti a microcosmi di poesia, a parole di risonanza profonda
che attraverso le lontananze del tempo e dello spazio ci tra­
smettono la vibrazione d’un sentimento individuale variamente
atteggiato.
E qui si offre da sé il richiamo a quelle che nelle più o
meno indirette testimonianze di scrittori antichi (Tacito, Gior­
dane e altri)2 dovettero essere le forme primitive di poesia
germanica, commemorativa genealogica encomiastica, nell’area
continentale: espressione di una mentalità tribale, di senti­
menti atavici collettivi; anche se qui, a differenza di quanto
per lo più avviene nell’epigrafia runica, il nome del poeta
rimane costantemente nell’ombra.

1 S. B. F. Jansson, Runinskrifter i Sverige, Stockholm, 1963 pp. 37 e 40.


2 Per una esauriente ricostruzione, sempre però di carattere congetturale,
v. A. Heusler, Altg. D. p. 87 sgg.
12 Le letterature della Scandinavia

Chi voglia limitare il proprio orizzonte alla produzione in


cui predomini l’intento artistico, non può risalire nel tempo
oltre la poesia, con ogni verosimiglianza fiorita in età vichinga
(sec. IX-XI): cioè i carmi eddici, scaldici e le Saghe.
Fu in quei secoli d’inquieto fermento, d’intensa espansione
materiale e spirituale, di sete di avventura e di conquista ma
anche di assimilazione dei più disparati elementi culturali stra­
nieri, di compenetrazione di vecchio e di nuovo, che i nordici
elaborarono una materia così composita e eterogenea nelle
strutture del carme mitico, del carme eroico e della Saga.
Aldilà delle frange letterarie, di cui abbondano i tardi
documenti norreni per lo più panegiristici, e delle scarne notizie
dei coevi cronisti e annalisti occidentali spiranti fanatismo reli­
gioso e imbelle esecrazione, alcuni tratti di questo quadro spic­
cano con sufficiente chiarezza.
Guerrieri e contadini a un tempo, i vichinghi1 vivono in­
sieme sotto la guida d’un capo liberamente eletto nel primi­
tivo organismo familiare e tribale, stretti dal sacro vincolo
della solidarietà del sangue. Spinti da indomito coraggio al­
l’avventura corrono i mari, combattono, conquistano, predano
città chiese conventi, commerciano anche, pronti sempre però,
appena padroni d’una terra, a stabilirvisi e a colonizzarla; per
impugnar poi nuovamente le armi quando l’avidità del gua­
dagno, l’amore del pericolo e le lotte intestine non li costrin­
gano a riprendere il mare in cerca di altri lidi. La debolezza
delle difese periferiche dell’impero carolingio e insieme la pro­
pria eccezionale perizia nautica e bellica li incoraggia a intra­
prendere scorrerie sempre più lontane e rischiose, ben oltre i
confini della Scandinavia: a occidente, dove non giovano a
fermarli né le fumanti rovine dei monasteri d’Inghilterra e
d’Irlanda né le flebili litanie della chiesa franca: « A furore
Normannorum libera nos, 'Domine! »; e a oriente lungo il
corso del Dnepr e del Volga, dove l’espansione apparentemente
intrapresa con più costruttivi intenti, viene suggellata dal loro
trionfale ingresso nella guardia del corpo del « basileus » bi­
zantino. Dopo essersi attestato dagli sbocchi del Tamigi e della
Senna fino a Costantinopoli, serrando l’Europa come una mor­

1 Controverso è l’etimo della parola: dalPags. wìc cioè « accampamento »,


del tipo usato appunto dai nordici per le loro imprese militari? o dal
norreno vi - baia dove i vichinghi solevano nascondersi sulle loro lunghe
navi durante le imprese piratesche (viking)?
Medioevo pagano e cristiano 13

sa richiudentesi nel Mediterraneo, il « ferus victor » si lasciò


prendere e assimilare da superiori civiltà. Ma sotto i climi
più diversi e a contatto delle più diverse genti, le virtù e le
passioni e le credenze tradizionali di questi uomini non
mutano1: amore della libertà individuale, della forza, del­
l’onore, della fama, della guerra, del gioco, della poesia, prodi­
galità verso gli ospiti e lealtà verso i capi e cieca remissione
al fato in cui appare radicata la loro religione manistica e
magica.
Quale presumibilmente fu l’ambiente in cui nacque la
poesia vichinga?
Il campo di battaglia e il tumulo del guerriero, l’aula
regia e l’assemblea giudiziaria, il tempio, la nave, la casa del
contadino. Qui lo skàld2 o poeta celebrò le glorie dei principi
e dei capi o incitò alla pugna o commemorò in un linguaggio
tolto al mito religioso e alla leggenda epica le gesta degli avi
o di altri esemplari eroi del passato anche comunemente ger­
manico, qui il « Ipgspgumadr » o legista pronunciò dinanzi
all’assemblea dei liberi (ping) le antiche formule giuridiche e
le genealogie memorabili, il « godi » o il « f>ulr » compì qui i
sacrifici cultuali invocando la protezione degli dei, qui il
« sagamadr » narrò le Saghe.
In un’età illetterata in cui vecchio e nuovo si affrontano
e si confondono (una concezione sostanzialmente giuridico-
sociale della vita di fronte a un’altra individualistico-soterio-
logica) occorre far larga parte a stratificazioni cronologiche, a
sovrapposizioni, a fraintendimenti e contaminazioni molteplici,
rinunciando molto spesso a distinzioni nette nell’ambito d’un
materiale letterario e religioso indubbiamente sincretistico.
Scrìtti dunque in Islanda (forse anche in Norvegia e nelle
isole britanniche) e in islandese o, come s’è detto, in norreno,
da ecclesiastici o da laici non ignari di cultura ecclesiastica,

1 Einar Ól. Sveinsson, cit. p. 11, ricorda acutamente il detto di Orazio:


« Coelum, non animum mutant qui trans mare currunt ».
2 Tutt’altro che perspicua la figura, la funzione e retimologia dei ter­
mini skàld (ch’è un sostantivo neutro) e pulr. La figura dello skàld
nordico sembra corrispondere, da un punto di vista storico, al poeta di
corte, allo scop anglosassone e allo scof tedesco antico (secondo G. Bae-
secke, Vor- und Frugeschichte des deutschen Schrifttums I [v. biblio­
grafia] p. 487 da riconnettere a scbdpfen = creare). Per le varie ipotesi
sui termini skàld e pulr v. Einar Ól. Sveinsson cit., pp. 93-95 e Jan
de Vries, Altn. Litgì 19Ó22, I, pp. 31-34.
14 Le letterature dèlta Scandinavia

sono quasi tutti i testi eddici scaldici e le Saghe che servono


a illuminare la più antica civiltà dei popoli nordici e talvolta,
indirettamente, delle stirpi germaniche continentali e anglosas­
soni; ma si tratta di fonti tarde, fissate sulla pergamena non
prima del sec. XIII, quando cioè la missione cristiana aveva
già dietro di sé più secoli di attività evangelizzatrice e gli ideali
cavallereschi già cominciavano a penetrare nell’estremo Nord.
Indubbiamente però i tre « generi » letterari ebbero una lunga
non precisabile preistoria orale, le cui punte estreme — almeno
per la poesia — è verosimile risalgano fino all’età delle migra­
zioni barbariche. Ciò che da un punto di vista documentario
sembra dunque l’inizio d’una letteratura è invece, a causa di
questo singolare paradosso, il suo epilogo storico.
Travagliata nell’intimo dalle lotte oligarchiche per il po­
tere, anche la remota Islanda perdeva nel 1262 la sua indipen­
denza politica per divenire de facto un feudo della corona nor­
vegese: il suo libero parlamento cessava d’esistere come forza
direttiva della vita politico-sociale per essere gradatamente sop­
piantato dalle istituzioni dell’alto Medioevo: la monarchia uni­
taria d’ispirazione franco-carolingia e la chiesa gerarchica; la
sua società legata a primitive concezioni etico-religiose di parti­
colarismo tribale e di fatalismo eroico si apriva ai nuovi in­
flussi e ideali stranieri; la sua cultura oralmente tràdita, epica
storica e poetica veniva codificata in volgare da quanti ancora
ne intendevano l’intimo spirito, pur appartenendo ormai ai
nuovi tempi.
Certo non va dimenticato che anche nel Nord ingente parte
del materiale documentario deve essere andata distrutta, forse
alterando cosi la nostra prospettiva storica su problemi fon­
damentali. Ed è praticamente esclusa ogni possibilità di even­
tuali recuperi (per fare un esempio comparativo si pensi a ciò
che ha significato il ritrovamento dei Mss. del Mar Morto per
il Vangelo giovanneo). Si aggiunga poi che della maggior parte
dei documenti rimastici s’ignora autore data luogo d’origine;
che sia i carmi eddici come le Saghe e i versi scaldici in queste
interspersi ci sono pervenuti in tardi apografi, anzi spesso in
copie di copie e che neanche per le Saghe le numerose varianti
(della Njais saga per esempio esistono ben ventuno manoscritti
pergamenacei, tredici della Egilssaga) giovano a eliminare passi
irrimediabilmente guasti, interpolazioni e alterazioni. Le diffi­
coltà della ricostruzione e dell’interpretazione testuale aumen­
tano poi a causa della lacunosa conoscenza del norreno, specie
della lingua poetica strutturalmente molto arcaica (su circa
Medioevo pagano e cristiano 15

40 carmi eddici si contano 600 àpax legomena, per non dire


dei versi scaldici, la cui tradizione manoscritta è così corrotta
da non consentire che rari tentativi di emendazione) e soprat­
tutto dei modi in cui avvenne il passaggio dalla tradizione orale
alla scritta.
Non stupisce perciò l’enorme congerie d’ipotesi, avvicen­
datesi in incessante serie di corsi e ricorsi, né la molteplicità
ed eterogeneità delle ricerche linguistiche storico-filologiche re­
ligiose giuridiche etnologiche archeologiche, né l’applicazione
alla letteratura norrena di criteri esegetici usati nella filologia
neotestamentaria (il problema delle fonti dei « sinottici »), ome­
rica (come nel 1832 il formalista G. Hermann postulò una
Ur-Ilias e una Ur-Odyssee, non è mancato nel 1948 chi come
H. Schneider ha tentato la ricostruzione di una Uredda), ro­
manza (le idee di J. Bédier sull’epica francese sono all’origine
della concezione innovatrice di Sigurdur Nordal sulla Saga)
— tante sono le incognite legate alla plurisecolare tradizione
orale in cui quella letteratura visse, prima di essere accolta
nell’interpretazione cristiano-medievale.
Un bilancio odierno non può pretendere di andar oltre la
costatazione di dati approssimativi; ché neanche l’indagine lin­
guistica e stilistica è stata sufficiente, come si credeva più di
mezzo secolo fa, a risolvere molti problemi critici fonda-
mentali *.
Come s’è già detto, e la poesia eddica e scaldica2 e le Saghe,
non diversamente della restante cultura norrena, ci è stata tra­
1 Jón Helgason N. K. cit. p. 31.
2 L ’ars poetica dello storiografo islandese Snorri Sturluson (1179-1241)
(nota già ai rimatori del secolo seguente appunto col nome di Edda —
le varie etimologie proposte per tal nome non sono persuasive: né quella
che lo fa derivare da ó d r= poesia, per difficoltà di passaggi fonetici; né,
per motivi di congruenza logica e storica, quelle che lo riportano a Oddi,
dove Snorri fu educato, o al sostantivo « ava »: cioè o « libro di Oddi »
o « poesia antichissima ») — è così chiamata in uno dei principali Mss.
del 1300 c. (Upsaliensis, De la Gardie 11, 4°) dove è detto: « Bók pessi
heitir Edda; hana kefir saman setta Snorri Sturlu som... » cioè: questo
libro si chiama Edda; lo ha composto Snorri figlio di Sturla... — Quando
nell’età delle riesumazioni antiquarie, Tanno 1643 il vescovo islandese
di Skàlholt Brynjólfur Sveinsson trovò un Ms. anepigrafo del sec. XIII
contenente una trentina di carmi norreni mitici gnomici e eroici (oggi
a Kobenhavn Codex Regius 2365, 4°) utilizzati da Snorri nella sua Edda,
battezzò con questo nome anche il Ms. trovato, e, attribuitolo erronea­
mente al celebre dotto islandese Saemundr frodi (1054-1133), lo fece tra­
scrivere e ne intitolò la copia Edda Seemundi multisci. Abbiamo dun­
que oggi un codice adespoto é anepigrafo chiamato Edda poetica o sem­
plicemente Edda e un'Edda prosastica attribuita dalla tradizione a Snorri,
16 Le letterature della Scandinavia

mandata in Mss. databili dal XII al XV secolo e oltre. Criteri


ortografici e paleografici assegnano i più antichi al 1200 ca.
e i più alla penna di islandesi, anche se non va dimenticato
che la maggior parte degli islandesi erano norvegesi emigrati
nell’isola atlantica nel IX secolo, i quali poi a lungo manten­
nero molteplici vincoli con la terra d’origine. Perciò se la
poesia e la prosa narrativa ebbero eccezionale fioritura soprat­
tutto in Islanda e per merito d’islandesi, è innegabile che la
materiale uguaglianza e della lingua e, in larga misura, dei
temi trattati (per non dir altro la massima opera narrativa di
Snorri, la Heimskringla, è una storia dei re norvegesi dalle ori­
gini mitiche all’inizio delle guerre civili!) ci riporta a un am­
biente culturale norvegese concordemente attestatoci dalla tra^
dizione.
Nella forma attuale del menzionato Codex Regius i carmi
délVEdda sia mitici sia gnomici sia eroici, interfoliati da brevi
prose didascaliche (preamboli del redattore o frammenti di
Saghe perdute?) sono disposti in un certo ordine, che proba­
bilmente rispecchia le idee più o meno recepite di chi con
gusto antiquario curò la intera raccolta, forse attingendo ad
altri Mss. o alla propria o altrui memoria.
Il primo, Vgluspà 1 (vaticinio della veggente) cosmogonico

il quale appunto cita e commenta in prosa gran parte della materia poe­
tica attinta all’altra raccolta.
La tradizionale distinzione fra poesia « eddica » e poesia « scaldica »,
d’uso nella terminologia specialistica moderna, non ha fondamento nella
tradizione. Innegabili sono certo differenze di contenuto e di forma ma
anche punti di contatto e aspetti comuni, tanto che qualcuno (Jan de
Vries cit., I, pp. 89-110) ipotizza una fase storica in cui il carme scaldico
fu composto in metri esclusivamente eddici. Snorri cita indistintamente
nella sua Edda i carmi anonimi déll’Edda poetica e i versi scaldici di
noti autori, ne esemplifica i diversi metri, menzionando da ultimo e
senza una parola di commento i metri tipicamente eddici; ma nella sua
opera storica (Heimskringla, ‘Haralds saga hardràda’, c. 91) riporta l’epi­
sodio di Araldo il Severo che, pronto alla battaglia, compone e recita
i medesimi versi prima in stile eddico, poi scaldico, dove la diffe­
renza fra i due stili — non esplicitamente rilevata nel testo — fa pen­
sare a quello della retorica medievale fra « ornatus facilis » e « ornatus
difficilis ». Più esatto sarebbe forse parlare di due diverse tendenze del
gusto che, invece di escludersi, non mancano di influenzarsi a vicenda.
1 II titolo si trova nelYEdda snorrica; parimente più titoli dei carmi con­
tenuti nel Regius si trovano non già in questo, ma in tarde copie cartacee
del Seicento; né appare perspicua la diversa denominazione dei singoli
carmi: p. esempio mài riferentesi tanto a carmi mitico-gnomici, quanto a
carmi eroici contenenti parti dialogiche; cosi kvida da kveda = recitare.
Medioevo pagano e cristiano 17

profetico escatologico, sembra collocato a tal posto proprio in


virtu del suo intrinseco carattere oracolare: la creazione del
mondo dal caos primordiale, dei giganti, degli dei, degli uomi­
ni, dei nani, è qui rievocata da una indovina; ella narra poi
deiretà delPoro, della guerra fra le due divine stirpi degli Asi
possenti e bellicosi (Ódinn, Pórr ecc.) e dei Vani (Njprdr, Freyr,
Freyja) custodi della pace e della fecondità; dei giuramenti cui
gli dei vengono meno, introducendo cosi la visione apocalit­
tica della imminente fine del mondo (il ragnargk o ragna-
rgkr = destino delle potenze o crepuscolo delle potenze)
preannunciata da sinistri segni di declino morale e descritta
come conflagrazione universale nella quale celesti, inferi e
uomini tutti periscono. Un nuovo mondo, pacificato, risorgerà
dalla tragedia cosmica — secondo la predizione della veggente.
Nel secondo, Hàvamàl (Massime delPEccelso) è consuetu­
dine vedere un carme di carattere sapienziale, composito per la
materia e per la forma. Sentenze e consigli di vita pratica^
vengono impartiti impersonalmente senza alcun cenno a divi­
nità pagane o cristiane: prudenza e diffidenza nel trattare gli
uomini; specialmente saggezza, dosata con quasi classica mi­
sura — meddsnotr dev’esser l’uomo, cioè equidistante dalla
stoltezza come dalla sapienza, secondo l’ideale di vita qui pre­
dicato.
Poi, senza coerenza di nessi, si passa ad altre strofe narranti
avventure o disavventure erotiche di Odino e illustranti il
tema della falsità del cuore femminile; ségue il racconto di
come Odino facesse invaghire di sé e poi abbandonasse la gi-
gantessa Gunnlgd per impossessarsi dell’idromele ispiratore
dell’arte poetica. Quindi un’ampia sezione parenetica del car­
me rivolge ammonimenti morali e salutiferi a un ignoto per­
sonaggio: Loddfàfnir; mentre, nell’ultima parte, il racconto
di Odino che, per penetrare il segreto della magia runica « sa­
crifica sé a se stesso » restando per nove notti consecutive
impiccato a un albero e trafitto da una lancia, ci dà una cruda
immagine dell’estasi sciamanica e dei connessi riti iniziatici1.
Pure di carattere magico è la chiusa del carme elencante gli
scopi pratici, cui sono rivolti diciotto diversi incantesimi.
Sempre a Odino ci riportano il terzo, Vafprùdnismàl e il
quarto Gnmnismàl, ai quali ora si è voluto attribuire valore
testimoniale di antica magia pagana, ora di tarda compilazione

1 A. G. Van Hamel, ódinn hanging on the tree, APhS 7, 1933 p. 285


sgg.; e F. R. Schroder in ANF 49, 1933, pp. 263-278.
18 Le letterature della Scandinavia

didattico-antiquaria. Il deus maximus germanico, travestito da


viandante, e il gigante Vaf]?rudnir si misurano — pena la
vita — in una drammatica gara di sapienza mitologica che si
conclude con la vittoria del primo; cosi, sempre sotto men­
tite spoglie, Odino ricompare, col nome di Grimnir, dinanzi al
re Geirrodr per sottoporsi a un vero supplizio sciamanico che
gli dà modo di dimostrare il suo essere proteico e il suo sa­
pere mitologico.
Skirnismàl, ritenuto da alcuni una specie di dramma ritua-
listico-simbolico 1 per il tema trattato e per la vivacità dialo­
gica e le sequenze sceniche, narra del servo del dio Freyr,
Skirnir, il quale per conto del proprio padrone va a chieder la
mano della gigantessa Gerdr e finalmente l’ottiene grazie a ma­
giche esecrazioni e crude minacce.
Se entro la cornice del Regius Odino appare come il pro­
tagonista dei primi carmi, Pórr è più o meno al centro dei se­
guenti come Hdrbardsljód, Hymiskvida, Lokasenna, Pryms-
kvida, Alvissmàl. Gli Hdrbardsljód (carme di Barbagrigia) met­
tono a confronto i due grandi Asi, Odino e Pórr, ma presen­
tandoli come figure comiche. Il primo, in veste di barbuto
traghettatore, bisbetico e caustico, non vuol far passare il se­
condo, che ha l’aspetto di uno scalzo e goffo contadino. Ne
nasce un alterco plebeo fatto di vanterie, d’insinuazioni e di
beffe che può far pensare alla forma popolaresca del « con­
trasto ».
Comica o eroicomica è anche la Hymiskvida, dove le gesta
prodigiose di Pórr, che si reca dal gigante Hymir in cerca
d’un enorme calderone per la birra degli dei, hanno un sapore
favolistico molto affine ad alcuni racconti della Edda di
Snorri.
Tutta comica è invece la prymskvida, che ci fa assistere a
una vera e propria farsa: il dio Pórr, aiutato dall’astuto Loki
scende vestito da sposa nella dimora dei giganti, e, spaccian­
dosi per la dea Freyja di cui è invaghito il gigante Prymr, si
siede al banchetto nuziale e mangia e beve smisuratamente,
finché, recuperato il suo martello, non fa strage dei commensali.
Brandendo il taumaturgico martello ricompare Pórr anche
nella dialogico-drammatica Lokasenna (contesa di Loki); questa
volta però solo nell’epilogo del carme e per fugare il maligno
e mendace Loki, che dà nome e vita all’intero componi­
mento. Benché figlio di giganti, Loki, a causa del patto di

1 M. Olsen, Fra gammelnorsk myte og kultus, MM, 1909.


Medioevo pagano e cristiano 19
sangue altra volta stretto con Odino, è imparentato anche agli
Asi; e tra questi, raccolti a convito, egli ora s’insinua per dileg­
giarli e svergognarli con un fuoco di fila di accuse, alle quali
brio e irriverenza, oscenità e scherno dànno un sapore ari­
stofanesco.
Un’altra vittoria riporta Pórr, nei dialogici Alvissmàl (Detti
di Alviss), sul nano Alviss, ma questa volta anziché col mar­
tello, con l’astuzia. La prova di sapienza linguistica, cui il dio
sottopone il nano prima di concedergli in sposa la figlia da
questo agognata, si prolunga per una notte intera; e al sorger
del sole l’ingenuo Alviss — in ossequio a una credenza po­
polare germanica — viene mutato in pietra.
Quasi tramite tra i carmi mitico-gnomici e quelli eroici, la
Vglundarkvida, nota anche fuori del Nord, narra della ven­
detta ferocissima del fabbro Vplundr, il quale mutilato e rele­
gato in un’isola dal re Nidudr, solo intento a soddisfare la
propria sete di oro, ne violenta la figlia, ne uccide i figlioletti
e invia poi al re e alla regina i due crani incastonandovi finis­
simi lavori di orafo.
Anche i veri e propri carmi eroici sembrano qui material­
mente disposti secondo un criterio di affinità tematica attorno
a nuclei e figure più o meno storico-leggendari: alcuni intorno
a un eroe di sicura origine settentrionale, Helgi Hundingsbani,
considerato però come Vglsungo cioè fratellastro del nibelun­
gico Sigfrido, e intorno a Helgi Hjgrvardsson. Segue poi una
genealogia in prosa, con cui ha inizio l’ampio ciclo dei carmi
sulla stirpe dei Vglsunghi e anzitutto su Sigurdr Fàfnisbani
(il Sigfrido che nel Nibelungenlied è esemplare rappresentante
dell’età « cortese ») massimo eroe di tutte le stirpi germaniche
e protagonista delle vicende fatali all’intera sua stirpe (in
prosa tale leggenda si ritrova sia nella tarda e composita
Vglsungasaga, che è servita in parte a integrare una lacuna
di otto fogli fra i 35 del Ms., sia in varia forma nella Pi-
drekssaga e nella Edda snotrica).
Composta di vari motivi e frammentaria è la Helgakvida
Hjgrvardssonar sull’amore di una gigantessa per Helgi Hjgr-
vardsson, il quale invece appartiene alla valchiria Svàva, e sulla
tragica rivalità fra Helgi e suo fratello Hedinn appunto per
l’amore di Svàva.
Sempre intorno al tema d’amore e morte (per vendetta) si
svolgono gli altri due carmi intorno a Helgi Hundingsbani; il
secondo dei quali frammentario e accompagnato da una dida­
scalia prosastica. Nel primo, che ha più carattere di conven­
20 Le letterature della Scandinavia

zionale vicenda eroica, Helgi (nato quasi con Parmatura) uc­


cide, per ignoti motivi, Hundingr; e poiché il padre della di­
letta valchiria Sigrun vuole invece darla in sposa a Hgdbroddr,
Helgi si prepara a scontrarsi con lui. Qui si interrompe il com­
ponimento tutto pervaso di spiriti guerrieri e di lampeggiar
d’armi. Più tragico e destinato ad avere eccezionale fortuna nel
Romanticismo europeo è il secondo, già adombrante il tema
della Lenore del Burger. Qui il grande sconfitto è Helgi. Ucci­
sore del padre e dei fratelli di Sigrùn, è finalmente ucciso dal
più giovane di questi, Dagr, unico scampato al massacro. E in
una celebre scena (circa venti strofe dialogiche) l’eroe, assunto
nella Valhalla, ritorna al suo tumulo per l’ultima notte d’amore
con Sigrùn.
Dedicati alla leggenda di Sigfrido sono gli ultimi quindici
carmi eroici del Regius. Tralasciando qui quanto la Vglsunga-
saga narra sugli avi di Sigfrido: una fosca storia di odi fa­
miliari e di disumane vendette, troviamo nel Regius anzitutto
la Gripispà (profezia di Gripir), che riassume in forma di pre­
dizione d’uno zio di Sigfrido, Gripir, la vita le gesta e la
morte dell’eroe — ma in modo diverso dagli altri carmi. Re-
ginsmàl, Fàfnismàl e Sigrdnfumàl ritessono in chiave.mitico-
fiabesca la sua giovinezza e le sue imprese: allevato dal fabbro
Regin, Sigfrido s’impadronisce di un tesoro sul quale grava
la maledizione del nano Andvari cui è stato imposto di fab­
bricarlo; e tale maledizione, che ha all’origine la perfidia di
Loki, sarà causa di morte a tutti coloro che tale tesoro agogna­
no: da Hreidmarr, padre del nano, ai fratelli di questo: Fàfnir
(che assume sembianze di drago), Otr (che assume sembianze
di lontra) e Regin, giù fino a Sigfrido stesso e ai principi
burgundi (o nibelunghi) che gliene contendono il possesso.
Esperto di magia, Sigfrido desta quindi dal lungo letargo la
valchiria Sigrdrifa e da lei apprende, fra molti consigli di
saggezza, i segreti della magia runica.
La lacuna del Regius spezza a questo punto il filo narra­
tivo della leggenda che riprende nel Brot af Sigurdarkvidu
(frammento del carme di Sigfrido — cosi chiamato perché le
sue diciannove strofe presuppongono una prima parte scom­
parsa ma parafrasticamente testimoniata nella Vglsungasaga,
la quale — secondo la geniale ricostruzione di A. Heusler 1

1 Sui legami fra la prosa della Vglsungasaga e i carmi sui quali si fonda:
Sigrdrtfumàly Brot, Gudrunarkvida I, Sigurdarkvida in skamma, Helreid
Brynhildar} come pure su altri affini, ipotizzati da Teusler, e su fonti
Medioevo pagano e cristiano 21

avrebbe utilizzato anche altri carmi perduti intorno alla stessa


leggenda).
Giunto nel regno di Gjuki sul Reno, Sigfrido si lega median­
te giuramento di sangue ai figli del re, Gunnarr e Hggni (Gun­
ther e Hagen del Nibelungenlied) e ne sposa la sorella Gudrun
(la Crimilde del Nibelungenlied); conquista poi, sotto le mentite
spoglie di Gunnarr, la vergine guerriera Brynhildr (che a dif­
ferenza della Gripispà, la Vglsungasaga identifica con Sigrdrifa)
attraversando una magica cortina di fiamme che ne circonda
il castello. A Brynhildr, che crede di essere stata conquistata
da Gupnarr, Gudrun svela poi per gelosia la realtà dei fatti; e
Brynhildr, offesa dall’inganno subito, incita Gunnarr a uccidere
chi l’ha conquistata. Tale è appunto il tema del Brot, dove
Brynhildr, soltanto dopo il feroce assassinio da lei voluto,
proclama la lealtà di Sigfrido, che fra sé e lei pose nel talamo
la spada sguainata. E cosi appunto ella vuole ora per la secon­
da volta giacere, amante non riamata, sulla pira del morto
guerriero.
Il primo dei tre carmi intorno a Gudrun (Gudrunar-
kvida I, II, III) raffigura Pamata presso il corpo esanime di
Sigfrido, impietrita da un dolore che, soltanto alla vista dei
capelli insanguinati e degli occhi spenti dell’eroe, si scioglie
nel pianto e nella commossa rievocazione.
Il secondo è un monologo in cui Gudrun si confida col re
Teodorico, alla corte di Attila. Gli narra della propria giovi­
nezza, del tragico amore per Sigfrido ucciso dall’invidia di Gun­
narr e di Hggni, e finalmente delle proprie nozze con Attila.
Il terzo si svolge, sempre alla corte di Attila, intorno a un
tema favolistico: Gudrun, accusata da Herkja (la Helke del
Nibelungenlied) di tradire Attila con Teodorico, si scagiona
sottoponendosi a un giudizio di Dio.
Se Oddrunargràtr (Pianto di Oddrun) è esso pure una ele­
giaca confessione dell’amore infelice di Oddrun, sorella di At­
tila, per Gunnarr, i quattro carmi di ben diversa ispirazione
che seguono nel Regius: Atlakvida e Atlamàl, Gudrùnarhvgt
e tìamdismàly sviluppano ampiamente la leggenda di Attila.
Nella Atlakvida, Attila re degli Unni e marito di Gudrun,
che gli ha generato due piccoli, invita i fratelli della moglie
Gunnarr e Hggni (mentre nel più tardo Nibelungenlied è Cri­
milde che invita i propri congiunti nella reggia di Attila per

minori rispecchianti diverse tradizioni della leggenda stessa, v. Die Lieder


der Lucke im Codex Regius der Edda, Strassburg, 1902.
22 Le letterature della Scandinavia

vendicare la morte di Sigfrido) per strappar loro con Pinganno


il tesoro di Andvari — di cui essi appunto sono venuti in
possesso dopo la morte di Sigfrido. Malgrado gli ammoni­
menti di Gudrun, che manda ai fratelli un anello con intrec­
ciati peli di lupo, Gunnarr e Hggni accettano impavidi la sfida.
Sopraffatto, Gunnarr si dichiara pronto a svelare il nascon­
diglio del tesoro purché gli sia portato il cuore sanguinante di
HQgni. Egli sarà solo a conoscere e serbare, dopo l’uccisione di
Hpgni, il segreto dell’oro sommerso nel Reno; e affronta da
ultimo senza tradirsi la morte in una fossa di serpenti, sonando
l’arpa. Segue poi la feroce vendetta di Gudrun, la quale al ma­
rito offre in pasto il cuore arrostito dei propri figlioletti; e ap­
piccato il fuoco all’aula regia provoca la fine di tutti.
Identico per il tema, ma ben diverso per la trattazione
diffusa (105 strofe contro 45) minuziosa, artigianale e dipen­
dente da fonti germanico-continentali è Atlamàl, mentre i due
ultimi carmi del Regius, anch’essi affini per materia e spiriti
eroici (Gudrùnarhvgt e Hamdismàl), fondono con la nibelun­
gica la leggenda del re goto Ermanarico.
Nel primo, « Istigazione di Gudrun » la feroce eroina, sposa
ora di Jónakr e madre di Hamdir e Sgrli, istiga entrambi a
vendicare Svanhildr, la figlia già avuta dall’unione con Sig­
frido. Accusata d’infedeltà, Svanhildr è infatti morta sotto gli
zoccoli dei cavalli del proprio marito Ermanarico. Diversa e di
tono elegiaco la seconda parte del carme, nella quale Gudrun
rievoca la tragica fine dei propri figli, mariti, fratelli.
Il tema centrale dell’« Istigazione » riappare da ultimo in
Hamdismàl, ma svolto in poche e scarne scene. Hamdir e Sgrli
si apprestano alla vendetta e danno partendo l’ultimo addio alla
madre. Ben sanno i due guerrieri che il loro destino è segnato,
eppure pronunciano impavidi parole di fede nella fama im­
peritura che acquisteranno affrontando da soli Ermanarico.
Invincibili con le armi in pugno, cadranno però dopo immane
strage, lapidati dagli avversari.
È consuetudine nelle edizioni delYEdda includere anche
altri carmi affini per materia e forma, mitologici e eroici.
Fra gli eroici va ricordata la cosiddetta Hlgdskvida (fram­
menti in versi e prosa d’un « carme di Hlpdr » tolti alla Her-
vararsaga) sulla contesa tra i due fratellastri: Hlgdr allevato
presso gli unni, e il goto Angantyr, per l’eredità del regno di
Heidrekr. L ’inconciliabile dissidio s’impernia soprattutto sul
possesso d’una magica spada, Tyrfingr, dalla quale Angantyr
Medioevo pagano e cristiano 23

non vuol separarsi; e si chiude col compianto dì Angantyr che


ha ucciso il suo fratellastro. Ancora una volta il fato inelutta­
bile ha voluto lo spargimento di sangue fraterno.
Fra i carmi mitologici, anzitutto i Baldrs draumar o Veg-
tamskvida (« Sogni di Baldr » o « Carme del Viandante » —
serbatoci in un Ms. AM. 748 4° del sec. XIV) da riaccostare
alla Vgluspà per gli stretti reciproci nessi prof etico-escatologici.
Ché questo pure è il vaticinio di una veggente, risuscitata da
Odino perché lo aiuti a intendere gli oscuri presagi onirici
di Baldr. Il carme (menzionante soltanto Puccisione del dio
innocente per mano del cieco fratello Hpdr, istigato dal per­
fido Loki e Pimmancabile vendetta, che ne consegue) va in­
tegrato, per una migliore intelligenza, con altre fonti: anzi­
tutto YEdda snorrica e Saxo.
Altro componimento, di carattere mitico-genealogico è la
Rigspula (Catalogo di Rigr — serbatoci corrotto e lacunoso
nel Codex Wormianus della Edda snorrica: AM 242 fol. del
sec. XIV) che fa del dio Rigr il progenitore degli uomini e dà
insieme un racconto e una descrizione della genesi delle classi
sociali divise in schiavi, liberi, nobili.
Seguono altri, ancora più o meno intessuti di motivi fia­
beschi; Hyndluljód (nella Flateyjarbók, Ms. del XIV — cosi
chiamato perché rinvenuto a Flatey, isoletta delPIslanda occi­
dentale) in cui la gigantessa Hyndla, su invito di Freyja, elenca
la lunga genealogia di un certo Óttarr affinché questi possa
venire in possesso di una eredità; ma alcune strofe contengono
anche genealogie divine, e soprattutto in una (44) si accenna
a una variante dell’epilogo della Vgluspà, ripresa ntWEdda
snorrica col nome di « Vgluspà breve ».
Grottasgngr (Carme del mulino Grotti — in un codice
dell’Edda snorrica) è il canto di lavoro di due gigantesse, Fenja
e Menia, che macinano prosperità per il re Frodi, finché, sotto­
poste da questo a un trattamento inumano, e costrette a lavo­
rare senza tregua al magico mulino, le due gigantesse maci­
nano la sciagura del loro padrone.
Da ultimo, riunite sotto il comune titolo di Svipdagsmàl (a
opera d’un moderno studioso norvegese e serbatici in Mss. car­
tacei del Seicento) due carmi: Grógaldr (Incantesimo di Gróa)
e Fjglsvinnsmàl narrano: il primo degli amorosi consigli di una
madre al figlio in procinto di partire per un pericoloso viag­
gio; il secondo dell’amore di Fjglsvidr per Menglgd.
Va infine aggiunto che alcuni carmi o frammenti di carmi
24 Le letterature della Scandinavia

del Regius compaiono, con diverse lezioni, risalenti forse alla


tradizione orale, in altri Mss 1.

Secondo l’opinione prevalente fra gli studiosi romantici


norvegesi e danesi che risentivano delle idee di Herder sulla
poesia « popolare » 2 e della tradizione antiquaristica del se­
colo precedente: P. A. Munch, R. Keyser, S. Grundtvig, C. Ro­
senberg, i carmi eddici risalivano a età remotissime. Fu sol­
tanto lo studio del danese E. Jessen3 seguito poi da altri,
a dimostrare l’impossibilità di riportare aldilà delP800 ca.
la forma esterna di tali carmi, cioè a un’età anteriore alla
sincope nordica (caratterizzata dall’indebolimento e poi dalla
caduta delle finali brevi atone e da altri fenomeni a questa con­
nessi conclusisi intorno alla metà del IX). Il secondo punto
fermo nella storia genetica della critica eddica è costituito
dall’analisi di A. Heusler4, tendente a stabilire, soltanto per
indizi, una cronologia relativa: in rapporto all’età del Ms.
principale, a quella dei singoli carmi, e alla materia ivi trat­
tata. Pur fra i dissensi, è ancor oggi valida la sua fonda-
mentale distinzione fra: un primo nucleo poetico di carmi
o di parti di carmi più antichi paganeggianti, anteriori all’età
vichinga (quelli epico-drammatici e gnomici); un secondo nu­
cleo a quella coeva; un terzo visibilmente legato al tardo
gusto antiquario islandese (per esempio le elegie eroiche di
Gudrùn rievocanti il proprio passato con una sensibilità che
già risente delPinflusso cristiano). Per generale consenso si
tende ad annoverare fra i più antichi i seguenti carmi

1 Nell’apparato critico dell’edizione àelVEdda poetica a cura di G.


Neckel: Edda. Die Lieder des Codex Regius nebst verwandten Denk-
màlern, Heidelberg, 19262 si trovano puntualmente indicate le varianti
di tutti i Mss., mentre la raccolta di Heusler-Ranisch Eddica minora,
Dortmund, 1903, comprende testi o frammenti di testi — con glossario
— esclusi dalle edizione del Regius.
2 In Germania ai primi entusiasmi patriottici i G. Schùtze (Schutz-
schriften fur die alten nordischen und deutschen Vólker, Leipzig,
1752-57) smanioso di contrapporre i germani ai greci e ai romani, fan
riscontro le parole di W. Grimm a Goethe: « Lieder... von so gewaltiger
grossartiger Poesie... » [18 giugno 1811]; « Uns Deutschen gehoren diese
eddischen Lieder in so vielen Beziehungen an... » [11 agosto 1816].
V. R. Steig. Goethe und die Briider Grimm. Berlin, 1892, p. 75.
3 t)ber die Eddalieder, ZDPb, 3, 1871, pp. 1-84: Nachtrage, pp. 251-252;
494. Per l’aspetto linguistico del problema v. specialmente pp. 25-32.
4 Heimat und Alter der eddischen Gedichte in Archiv fiir dar Studium
der neueren Spracken und Literaturen} 116, 1906, pp. 249-281.
Medioevo pagano e cristiano 25

eroici: Vglundarkvida, Atlakvida, Hamdismàl e forse la


Hlgdskvida; dei mitico-gnomici: Vafprùdnismàl, Grimmismàl,
alcune parti degli Hàvamàl, mentre la Vgluspà si suole ascri­
vere al volger del primo millennio. Ai secoli seguenti, fino
al XIII e forse oltre, verosimilmente tutto il resto della poesia
eddica. Ma è chiaro che entro questa verosimile cornice di
successive stratificazioni i giudizi divergono fortemente, e sul1
l’età e sulla patria dei singoli carmi. S’è detto come criteri
linguistici e stilistici metrici e sintattici siano stati impiegati
a provare l’esistenza di presunti archetipi dei carmi eddici1;
si è tentato con argomenti desunti dall’archeologia2, di dare
una datazione molto antica ad alcuni carmi senza tener conto
del possibile intento arcaizzante di questo o quel poeta; e,
come si è cercata qualche indicazione cronologica nelle tracce
che la nuova fede può aver lasciato nei carmi mitici, così
nelle relazioni fra poesia eddica e poesia scaldica (databile,
almeno in parte), e, negli innegabili nessi di alcuni con le
ballate popolari medievali3 si è voluto trovare dei punti d’ap­
poggio. Ma con risultati quanto mai incerti e contradditori.
È di ieri l’ennesimo tentativo d’un eminente glottologo
di far luce attraverso l’esame linguistico, su presunti archetipi
norvegesi dei Mss. eddici (dal Regius all’altro già citato AM
748 4°, a quelli che conservano singoli relitti di poesia ed­
dica); ma è bastato un raffronto con la restante tradizione
manoscritta per infirmare i risultati di quell’esame4. Analo­
gamente ma inversamente, quella che dalla fine del secolo pa­
reva una conquista della critica formale: il carattere composito
d’un carme come Hàvamàl, è stata recentemente e radical­

1 H. Kuhn Zur Wortstellung und Betonung im Altgermanischen in PBB


51 (1933) pp. 1-109; Die Negation des Verbs in der altnordischen Dich-
tung ivi 60 (1936) pp. 133-160; Westgermanisches in der altnordischen
Verskunst ivi 63 (1939) pp. 178-236.
2 B. Nerman, The Poetic Edda in the Light of Archaeology, Coventry,
1931.
3 W. Mohr, Entstehungsgeschichte u. Heimat der jiingeren Eddalieder
sudgermanischen Stoffes, in ZDA 15, 1938 pp. 217-280; Wortschatz und
Motive der jungeren Eddalieder mit sudgermanischen Stoff, in ZD A 76,
1939 pp. 149-217; ma v. le obiezioni di E. Ól. Sveinsson cit., pp. 476-478.
4 D. A. Seip, On the Original of the Codex Regius of the Elder Edda
in Studies in Honor of A. M. Sturtevant, Lawrence, Kansas, 1952; e
H. Kuhn. Die norwegischen Spuren in den Liedern der Edda in APhS,
XXLV, 1952. Secondo Kuhn R e A dipenderebbero da una comune
fonte perduta; secondo altri (Heusler, Lindblad) sarebbero esistite altre
raccolte simili a quelle del R.
26 Le letterature della Scandinavia

mente negata nell’interpretazione unitaria d’uno studioso sve­


dese, che crede di ravvisarvi un testo rituale iniziatico d’una
società segreta consacrata al culto odinico l.
Anche quelli che sembrano i più prudenti criteri di giu­
dizio: la verosimiglianza, la probabilità, si rivelano spesso
qui come i più aleatori. Cosi per esempio, un carme mitico-
satirico quale la Lokasenna, tenuto da alcuni espressione di
puro paganesimo e quindi antico, è stato da altri annoverato
fra i recenti nella collezione del Regius. La spietata irrisione
degli dei pagani qui fatta da Loki può a un tempo parere
sicura prova di recenziorità2 e al contrario esempio illustre
di satira pagana, in cui l’irriverenza di fronte al divino avrebbe
avuto una specifica funzione religiosa3. Discorso analogo po­
trebbe farsi per un altro carme mitico come Baldrs draumar, il
cui carattere apocalittico-escatologico è stato preso, da questo,
come indizio di arcaicità4, da quello, come indizio del con­
trario5, pur ammettendosi la possibilità di archetipi perduti.
Va detto che il divario delle due opinioni si tradurrebbe in
questo caso in una alternativa cronologica di tre secoli! Da
ultimo, per seguitare in tale contesto, si può far cenno alla
Hlgdskvida, nella quale si è voluto vedere, tramutato in tipico
conflitto germanico fra consanguinei, il ricordo delle guerre
storicamente combattute fra goti e unni. Anche i connotati for­
mali del carme lo farebbero a buon diritto annoverare fra i
più antichi dell’Edda6.
Né l’elenco finirebbe qui, perché dietro quasi ogni carme
eddico s’avverte, almeno dal punto di vista dei temi, più
o meno fluida e sfuggente, una tradizione orale, in cui il
quando il come e il dove di avvenute innovazioni, varianti
e contaminazioni sono e probabilmente resteranno punti in­
terrogativi 7. Per accennare ai soli carmi mitici, sono noti

1 I. Lindquist. Die Urgestalt der Hàvamàl... Lund, 1956; v. de Vries.


Altn. Litg. I2 pp. 54-56 che in sostanza rigetta la tesi del Lindquist.
2 E. Paasche Norsk Litt. hist. cit. I, pp. 172-173; H. Kuhn in PBB 60,
1936, p. 144; J. de Vries. Altn. Litg. cit. II p. 121 e nota 15.
3 U. Dronke in lScandinavicay voi. 4. nov. 1965. p. 155.
4 H. Schneider in PBB 69, 1947. p. 330 sgg.
5 J. de Vries, Altn. Litg. cit. I p. 59; II p. 102.
6 Heusler-Ranisch, Eddica Minora cit. p. VII sgg. G. Basecke cit.
p. 175; H. Kuhn in PBB, 63, 1939, p. 178 sgg. Secondo F. Jónsson Litt.
hist. II 1, p. 142 si tratterebbe invece d’un carme recente.
7 Tutti i tentativi di attribuire a questo o a quel presunto autore e
luogo d’origine i singoli carmi eddici (p. es. A. Bugge, Amor Jarlaskald
Medioevo pagano e cristiano 27

gli influssi stranieri rilevativi da alcuni studiosi: il norve­


gese S. Bugge1 e il danese A. Olrik2 vi hanno trovato inne­
gabili tracce cristiane, iraniche e celtiche; l’olandese Van Ha­
mel 3, gli svedesi D. Stròmback 4 e À. Ohlmarks 5 ricollegandosi
agli studi del norvegese M. Ol-sen 6 — oggi seguiti anche da
Mircea Eliade7 — hanno dimostrato la presenza di riti d’ini­
ziazione sciamanica; J. de Vries e G. Dumézil hanno tentato
di riportare alcuni motivi e miti eddici ad archetipi indoeuro­
pei. Senza dubbio con buone argomentazioni. Ciò che non ap­
pare chiaro è come e quando questi miti siano divenuti poesia
nordica. Perché, anche a prescindere dal non ben definito va­
lore ideologico del mito in sé preso, è evidente che abbiamo
qui a che fare con elaborazioni poetiche e letterarie dei miti
stessi (per qualche aspetto e singola figura non solo nordici,
ma comunemente germanici). Ciò che, in questa poesia e let­
teratura, è ancora presente in fatto di arcaiche concezioni inge­
nuamente naturalistiche, magiche, divinatorie, per esempio in
Vgluspà Hàvamàl, Gnmnismàl, Sigrdnfumàl e altrove, sembra
essere puro relitto, superstite frammento di età scomparse, più
o meno consapevolmente utilizzato dai poeti-antiquari dell’età
vichinga e passato al vaglio della tollerante chiesa cristiana.
A quanto è dato congetturare da siffatto materiale gli dei
del pantheon nordico, non difformi dagli uomini, non erano
né creatori, né onnipotenti né onniscienti (anzi, a differenza
degli uomini, sembrano qui per lo più costituire il bersaglio
preferito dell’ironia dei poeti) e sottostavano essi pure al

og det forste kvad om Helge Hundingsbane in Edda 1, 1914; S. Nordal,


Islenzk menning, Reykjavik 1942, I, p. 275 sgg.; H. De Boor, Die re­
ligiose Sprache der Vgluspà in Deutsche Islandforschung, Breslau, 1930,
pp. 68-142); e poi le anonime Saghe islandesi (v. per alcune obiezioni, di
principio H. Lie, Noen metodologiske overveielser i anledning av et bind
av Islenzk fornii in MM 1939, pp. 97-138) restano ipotetici. Ed è signi­
ficativo il fatto che J. de Vries — l’unico germanista che abbia osato
una completa ricostruzione sincronica della letteratura norrena — nella
seconda ed. della sua opera si sia rifatto a criteri tipologici e geografici
anziché strettamente cronologici. Vedi vol. II2 op. cìt., pp. 338-339.
1 Studier over de * nordiske Gude- og Heltesagns Oprindelse, Kristia-
nia, 1879.
2 Om Ragnarok in AaNO 1902 e in N ordisk Tidskrift, idem.
3 APhS, 7, 1933, pp. 285-286.
4 Sejd, Lund, 1935.
5 Studien zum Problem des Schamanismus, Lund, 1939.
6 Om Troldruner in Edda V, 1916, p. 225 sgg.
7 Le Chamanisme et les techniques archdìques de l’extase, Paris, 1951.
28 Le letterature della Scandinavia

Fato ineluttabile. Se nella realtà storica la religione germanica


s’identifica in sostanza con le consuetudini giuridico-sociali
delle varie stirpi, nulla traspare in questi carmi della sua più
intima essenza* del rapporto cioè fra l’uomo e gli dei, malgrado
la varietà il rilievo e la ricchezza degli episodi narrati e delle
figure messe in scena: da Ódinn, dio dell’ispirazione guer­
resca magico-runica e poetica a Pórr, tutore delle umane leggi;
dalle divinità ctoniche della pace e della fertilità Freyr e Freyja,
ai giganti ai nani e a tutti gli altri esseri della « mitologia
inferiore ». Ciò che sembra aver meglio resistito al fermento
dissolvitore della nuova fede sono i sentimenti ancestrali del
Fato e della solidarietà di sangue, punto di convergenza della
vicenda eroica, umana e divina a un tempo.

Se i carmi eddici intorno agli dei ci danno un quadro sia


pur lacunoso e tardo di alcuni miti nordici talvolta intima­
mente connessi ai temi eroici — non certo di una « dot­
trina » pagana — e non trovano paralleli nella superstite
poesia allitterante germanica, i carmi intorno agli eroi, brevi
concisi epico-drammatici, si allineano, per affinità tematica
e formale, anzitutto al mutilo Hildebrandslied (Carme di
Ildebrando)1 e al Frammento di Finnsburg2\ per certi aspetti
anche all’epos pagano-cristiano anglosassone Beowulf, e al
ben più tardo e « cortese » Nibelungenlied.
Che tale poesia allitterante abbia avuto lunga tradizione
orale anteriore all’avvento del cristianesimo è dimostrato dalla
tenacia con cui sopravvisse, adattandovisi, ai nuovi contenuti
religiosi (certo non senza un sensibile intimo contrasto); anzi
in, essa proprio si può vedere la conferma3 di quella postulata

1 Di cui, com’è noto, restano 68 versi in alto-tedesco antico, frammisto a


basso-tedesco, trascritti verso T800, in un Ms. dell’abbazia di Fulda. Il
tradizionale tema eroico dello scontro fra congiunti, fra il padre Ildebran­
do e il figlio Adubrando in mezzo ai due eserciti di Teodorico e di Odoa-
cre non trova qui compiuto svolgimento. Fu certo ben noto anche nel
Nord, dove alcuni versi d’una tarda saga (Asmundarsaga kappabana) e il
libro 7° dei Gesta 'Danorum di Saxo riflettono appunto l’epilogo tragico
del padre che uccide il figlio.
2 Frammento d’un perduto carme eroico anglosassone (c. 800) sulle lotte
fra danesi e frisoni, da integrare con i versi 1063 sgg. del Beowulf.
3 Jón Helgason N. K. cit. pp. 6-7 sottolinea la corrispondenza non certo
fortuita tra espressioni come « jgrmun-grund » (Edda), « eormen-grund »
(Beowulf) per « mondo »; « biór-salr », « migd-rann » (Edda), « bèorsele »,
Medioevo pagano e cristiano 29

unità spirituale delle stirpi germaniche che rese possibile l’assi­


milazione diffusione e conservazione di leggende e motivi eroici
comuni alle genti germaniche del centro e della periferia.
Sono note le complesse e irrisolte controversie sulla re­
mota origine continentale del carme eroico germanico.
Alcuni (Heusler, Schneider, Neckel, Kuhn) approfondendo
idee wolfiane sull'epos omerico e lachmanniane sul Nibelungen-
lied e utilizzando gli accenni di scrittori antichi e medie­
vali da Tacito a Eginardo, hanno postulato l’esistenza già nei
primi secoli dell’era nostra di « Urlieder » epico-eroici (nati
forse nelle sedi sudorientali dei goti alPepoca delle grandi in­
vasioni), dai quali deriverebbero, per migrazione e graduale
rielaborazione, i più tardi componimenti e quindi anche alcuni
almeno dell’Edda, i cosidetti « Fremdstofflieder » *, cioè di
origine germanico-continentale. Nei primi secoli del Medioevo,
che videro sorgere e tramontare effimeri regni e divampare
guerre sterminatrici di capi e di popoli, dovè formarsi o raf­
forzarsi quelParistocrazia guerriera e quel culto dell’onore
della gloria dell’eroismo ch’è l’ispirazione prima dei carmi
stessi: un complesso di valori etici dietro i quali dovette
dunque esserci un nucleo di fatti storici già più o meno
leggendarizzati fra il IV e il VI secolo: la morte di Attila
(nell’Edda, Atli) avvenuta nel 453, secondo una tradizione po­
polare, per vendetta, compiuta la notte delle nozze dalla ger­
manica sposa Hildico2; la distruzione, compiuta dagli unni, del
regno burgundo del medio Reno, che fra i propri re contava
Gibico (nell’Edda, Gjùki) e Gundicario (neìYEdda, Gunnarr,
nel Nibelungenlied, Gùnther); i re goti Ermanarico (nell’Edda,
Jprmunrekr) uccisosi nel 375 quando gli unni annientarono il
suo vasto regno, e Teodorico (nell'Edda Pjódrekr); finalmente
Sigfrido, massimo eroe germanico, probabilmente da identificare
col re franco Sigeberto I di Metz, marito della principessa visi­

« meodo-aern » (Beowulf) per « sala del banchetto »;. « bgd-serkr », « her-


vàd », « val-dreyri » (Edda), « beadu-serce », « here-waede », « vaeldréor »
(Beowulf) rispettivamente per « armatura » e « sangue di ferita »; « sitja
sumbli at » (Edda) « sittan to symble » (Beowulf), « sittian at sumble »
(nell’epos sassone antico Heliand) per « sedere a banchetto »; e molte
altre se ne potrebbero aggiungere,
1 H. Schneider, Germanische Heldensage I, Berlin, 1928 p. 246 sgg.;
H. Kuhn PBB, 63, 1939 pp. 178 sgg. e 283-299.
2 Cfr. H. de Boor, Das Attilabild in Geschicbte, Legende und heroischer
Dichtung, Bern, 19632.
30 Le letterature della Scandinavia

gota Brunilde, assassinato nel 575 da sicari di Fredegonda con­


cubina di Chilperico I l.
Heusler e la sua scuola ipotizzano dunque, sulla base di
una più o meno viva comunanza spirituale originaria tra le
stirpi germaniche, la diffusione dei carmi eroici duna singola
stirpe alle altre. Ma ciò non esclude che fra anglosassoni e
nordici si sia parallelamente potuta sviluppare una tradizione di
poesia eroica sia pur tardamente testimoniata nel Beowulf
(i cui personaggi e fatti come è noto sono danesi e svedesi
del V-VI secolo) e nella parafrasi latina dei Gesta Danorum
di Saxo.
Comunque sia, anche chi recentemente ha voluto capo­
volgere uno degli assiomi della teoria heusleriana (nata forse
come reazione alle idee romantico-populariste dei Grimm e dei
Lachmann e identificante la leggenda eroica presso i germani
col carme eroico) ha poi dovuto riconoscere l'impossibilità di
risalire ai supposti archetipi franchi e goti2.
Dei carmi eroici délVEdda i più antichi sembrano aver
serbato i connotati tematici e alcune caratteristiche formali
della primitiva poesia germanica allitterante, della quale vanno
considerati assai tardo sviluppo, anzitutto a causa del raggrup­
pamento, anziché stichico, strofico, forse attribuibile a in­
flusso scaldico. Si tratta di componimenti brevi (100-200 versi)
senza digressioni informative, di ritmo serrato, di lessico^ scelto,
di pathos scabro intenso monumentale. Agli occhi del poeta
non ha valore la vicenda, pur in sé memorabile, ma la dignità
eroica con cui il guerriero affronta il destino che gli impone
una scelta fra valori contrastanti; sicché, affrontando il destino,

1 Malgrado il dottissimo lavoro (Siegfried, Arminius und die Symbólik,


Heidelberg, 1961) di O. Hofler, il tentativo di identificazione eveme-
ristica di Àrminio a Sigfrido, sulla base di argomentazioni folcloristiche
e sociologiche, non persuade molto.
2 H. Kuhn, Heldensage vor- und ausserhalb der Dichtung in « Ftstschrift
Genzmer », Heidelberg, 1952, p. 269: « Waren die Heldensagen in Lie-
dern entstanden, dann mussten diese erten Lieder wesentUch anders
gewesen sein als die erhaltenen ». Seguito su questa strada, non senza
incertezze da H. Schneider (Germanische Heldensage, Berlin, 1962) che
in un’appendice (pp. 445-457) modifica alquanto le idee heusleriane so­
stenute nella prima ed. del 1928. Di fronte a tanto contrastante conget­
turare si comprende l’ironia di chi ha ridotto l’intero problema a una
specie di segreto professionale dei germanisti, come E. R. Curtius, Euro-
paische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Bern, 1948, p. 175: « Wie
der primare germanische Heldensang ausgesehen hat, wissen nur die
Germanisten... ».
Medioevo pagano e cristiano 31

impavido fino al sacrificio della vita, il guerriero, in certo modo,


vi s’identifica con l’esemplarità del suo comportamento e di­
viene immortale nella gloria postuma. Eliminato perciò ogni
dettaglio narrativo, ogni motivazione psicologica, l’azione epico­
drammatica \ in cui s’alternano la voce del poeta e dei sin­
goli personaggi fortemente tipizzati aldilà della consuetudine
epica («Roland est preux et Olivier est sage»!) procede a
sbalzi, per scene essenziali e con una tecnica chiaroscurale2
che dà rilievo massimo ai contrasti.
Benché incomparabile con il ben più vasto epos, il carme
ne ha in comune alcuni caratteri: ogni riferimento storico e
geografico, ogni color locale è obliterato nella rievocazione
poetica che anacronisticamente fonde personaggi e popoli, fatti
reali e leggendari, mitici e fiabeschi. Come la Canzone di Ro­
lando trasforma in saraceni i baschi che nel 778 aggredirono
la retroguardia di Carlomagno in Spagna; e fa di Orlando il
nipote dell’imperatore e il protagonista della vicenda e spiega
la sconfitta col tradimento di Gano, i poeti dei carmi eddici,
nel trattare una complessa materia dalla quale ogni stirpe po­
teva trarre motivi di orgoglio e di grandezza, apprendono gli
uni dagli altri, stabiliscono fantastiche parentele e discendenze
fra gli eroi, risolvono in scontri individuali conflitti politici
tra popoli, traspongono località geografiche, guardando cosi
più o meno liberamente alla vicenda rievocata. I più anti­
chi (per esempio Atlakvida, Hamdismàl) sembrano solo con­
sci dei vincoli di solidarietà di sangue che legano l’indivi­
duo alla stirpe, dell’imperativo morale della vendetta (tipica
d’ogni società barbarica), della funesta magia connessa al
possesso dell’oro; i più recenti (per esempio Sigurdarkvida
in skamma, Helgakvida Hundingsbana II, Atlamàl) vedono
l’individuo più libero da tali vincoli, approfondiscono più o
meno certi fatti psicologici per influsso della nuova fede reli­
giosa, sembrano servirsi del motivo dell’oro come di legame
estrinseco delle vicende narrate.
Si tratta certo in entrambi i casi di poeti molto esperti,
se pur in varia misura, del proprio mestiere, anche se la totale
anonimità può spiegarsi con la loro consapevolezza di non
essere che dei rielaboratori d’una materia per se stessa illustre.

1 « Il culmine drammatico è il fulcro stesso del carme eroico germanico »


ha detto W. P. Ker (Epic and Romance, London, 1897, p. 76).
2 L. Mittner, La lingua e lo spirito delVantica poesia germanica, Firenze,
1942, pp. 25-39.
32 Le letterature della Scandinavia

Che anche la metrica eddica, basata sul principia dell’ictus e


dell’allitterazione, indica una maturità artistica agli antipodi
d’ogni ipotizzato « primitivismo ».
L 'Edda snorrica è, come s’è detto, l’unica sia pur tarda
testimonianza d’un germano sull’antica metrica germanica. Nel­
l’epilogo della terza parte dell’opera sono elencati ed esempli­
ficati anche i tipici metri eddici, ma solo in funzione del non
poco pedantesco virtuosismo versificatorio dell’autore e senza
una parola di commento, senza una qualsiasi prospettiva crono­
logica; e occorre quindi ancora una volta rifarsi alla fondamen­
tale ricostruzione storica di A. Heusler i. Nell’antico verso ger­
manico l’unità minima dello schema metrico è, secondo Heusler,
costituita da un primo verso breve, con due arsi secondarie,
(studiar o appoggi) collegato mediante allitterazione2 a un se­
condo verso breve, nel quale, in prima sede, è l’arsi principale
(hgfudstafr): le due unità formano un verso lungo (per esem­
pio nell'Hildebrandslied e nel Beowulf). Ma entro tale schema,
variabilissimo è da verso a verso, ciò che Heusler chiama « il
riempimento », cioè il numero indeterminato di atone che pre­
cedono o seguono gli ictus ricorrenti; sicché il ritmo stesso
del verso ne risulta quanto mai mosso e libero.
Se una lapidaria strofe (77) degli Hàvamàl in Ijódahàttr3
può dare un’idea del massimo rilievo enfatico ottenuto me­
diante l’allitterazione consonantica e vocalica, che sottolinea
l’opposizione dei valori etici fondamentali d’una età eroica: da
una parte la morte fatale, dall’altra il coraggio di chi sa affron­
tarla intrepido per conquistare l’immortalità:

1 Deutsche Versgeschichte, Berlin, 19562, I, pp. 86-284; e Altg. D. cit.


cap. VI pp. 30-44.
2 II cui preminente valore — quasi rima iniziale in una lingua carat­
terizzata dall’accento intensivo e protosillabico — è intuitivamente sen­
tito benché non criticamente rilevato da Snorri, che, pur avendo l’occhio
al metro classico della poesia scaldica, rigidamente sillabica (Edda Snorra
ed. F. Jónsson, Reykjavik, 1907 pp. 295-298) ha prestato la sua termi­
nologia ai moderni metricologi e germanisti.
3 Costituito di 6 versi brevi allitteranti, dei quali il 3 e il 6 hanno allit­
terazione propria, usato nei carmi gnomici e didattici (p. es. Hàvamàl,
Vafprudnismàl, Sktrnismàl, Grimnismàl, Lokasenna). Sia lo Ijódahàttr
sia la sua variante amplificatrice il galdralag furono forse in origine i
metri dell’incantesimo e della magia (V. Heusler, Deutsche Versgeschichte
Berlin-Leipzig, ed. del 1925, I, p. 230-243). Gli altri metri eddici men­
zionati da Snorri: il fornyrdislag di 4 sillabe (metro dei carmi antichi) e la
variante màlahàttr di 5 sillabe (metro dei carmi dialogici?), in cui sono
composti la maggior parte dei carmi eroici, s’approssimano, per struttura,
all’antico metro allitterante dell’epica germanica.
Medioevo pagano e cristiano 33

Deyr fé deyja fraendr Muore il bestiame, muoiono i congiunti


deyr siàlfr it sama; cosi anche tu morrai;
ek veit einn, at aldri deyr: ma, una cosa so che mai muore:
dómr um daudan hvern. la fama d’ogni uomo che muore.
altre strofe ci mostrano come in una lingua dura, tagliata con
Fascia e ribattuta con il martello, anche se scelta e elaboratis­
sima, che alterna il solenne rilievo delle toniche col precipitoso
fluire delle atone, che punta sull’urto d’insanabili conflitti, sulla
giustapposizione di luci e ombre, sull’allusiva ambiguità delle im­
magini, il poeta riesca a dar forma alle immani passioni, al volon­
tarismo eroico che tutto sacrifica a un miraggio di fama imperi­
tura. Così Gunnarr della Atlakvida,1 che nega agli unni il tesoro
nibelungico nascosto nel Reno, fa strappare al fratello Hpgni il
cuore; e, rimasto solo depositario di quel segreto, lo svela infine
prima di morire, con gioia feroce all’avversario che non potrà
goderne:
26
Er und einom mér gli um fólgin
hodd Niflunga: lifira nu Hggni!
A me solo è noto, a tutti ignoto il tesoro dei Nibelungi: morto è
ora Hggni!
27
Rtn skal ràda rógmàlmi skatna
à svinn, àskunna arfi Niflunga
i veltanda vatni lysaz valbaugar!
heldr en à hgndom gull sktni Huna bgrnum!
Il Reno custodirà il tesoro conteso dai guerrieri; il rapido fiume,
il sacro retaggio dei Nibelunghi; nell’acqua vorticosa brillino le
armille di morte [o romane], piuttosto che l’oro scintilli in mano
ai figli degli unni!
Cosi Gudrun con disumano eroismo vendica i fratelli uccisi dal
marito Atli dandogli in pasto i cuori arrostiti dei figlioletti.
33
Ut gekk pà Gudrun, Atla i gggn,
med gyltom kàlki, at reifa gigld rggnis:
« piggia knàttu, pengill! i pinni hgllo,
gladr, at Gudrùno gnadda niflfarna! »
Fuori usci Gudrun incontro a Atli col calice d’oro a festeggiare il
suo sovrano: « Felice riceverai, signore, nella tua reggia la selvag­
gina abbattuta da Gudrun! »

1 U. Dronke, The Lay of Attila in Saga-Book of the Viking Society,


16, London, 1962, pp. 1-21.

XXVII - 2. Lett, della Scandinavia.


34 Le letterature della Scandinavia

38
Ymr vard à bekkiom, afkdrr sgngr virda,
gnyr und gudvefiom, gréto bgrn Huna,
nema ein Gudrun, er hon seva grét
brcedr sina berharda ok buri svasa,
unga, ófróda, pà er hon vid Atla gat.
Gemiti risonarono fra i banchi, sinistro echeggiò il canto dei guer­
rieri, gemiti uscivano di sotto i mantelli, piangevano i figli degli
unni; solo Gudrun non pianse mai, i fratelli suoi invincibili, i pro­
pri figlioletti, da lei generati a Atli.

Cosi, con perfetto parallelismo etico, anche il poeta del ‘ Carme


di Ildebrando ' mette padre e figlio di fronte al medesimo
fatale dilemma:
Nu seal mih suasat chind svertu hauwan
breton mit sinu billiu eddo ih imo ti banin werdan! 1
Ora il mio proprio figlio, con la spada mi abbatterà; mi ucciderà
con la sua arma da taglio — o io mi farò suo uccisore!

Diverso però è talvolta il tono in altri carmi: assai più li­


rico-elegiaco. fantasioso e visionario, per esempio nella Helga-
kvida Hundingsbana II (il carme dell'amore che trionfa sulla
morte), dove l'episodio del guerriero ucciso in battaglia, cui è
concesso di tornare alla sua donna per trascorrervi insieme l'ul­
tima notte, ci dà un colorito saggio di romanticismo vichingo. Il
trapasso dalPestasi amorosa all'angoscia della separazione sembra
quasi precorrere in qualche accento l'addio antelucano di Giu­
lietta e Romeo.
46
Vel skolom drekka dyrar veigar
pótt mist hafim munar ok landa!
skal engi madr angrliód kveda,
pótt mér à briósti beniar liti!
Berremo felici coppe ricolme, benché privati della vita e degli averi.
Nessuno levi gemiti funebri se vede il mio petto asperso di sangue.
48
Nù kved ek enskis orvsent vera,
sid né snimma at Sevafigllom,
er p u à armi ólifdom s 0fr,
hvit, i haugi, H ggna dóttir,
ok ertu kvik in konungborna!
Nulla mi resta più da desiderare ora né mai a Sevafigll; ora che

1 Hildebrandslied, ed. F. Saran, Halle a. S., 1915, p. 26.


Medioevo pagano e cristiano 35

tu dormi fra le braccia mie inanimate, bianca figlia di Hggni, nel


tumulo; tu che sei viva, figlia di re.
49
Mài er mér at rida rodrtar brautir
làta fglvan io flugstig troàa;
skal ek fyr vestan vindhiàlms bruar,
àdr Salgofnir sigrpiód veki.
Ma adesso è tempo d’addio; sui sentieri rosseggianti è ora che il
mio fulvo destiero galoppi per l’aria, per essere a occidente dell’ar­
cobaleno, prima che il gallo della Valhalla ridesti gli eroi!
Il poeta della Lokasenna tocca invece, forse come nessun
altro, le corde dell’umorismo moderno. Tutto l’Olimpo nor­
dico si disgrega e si polverizza sotto la sua beffa corrosiva. In
una lingua perspicua briosa, scoppiettante di maligna e scurrile
ironia, cui la ripetizione delle apostrofi dà un’intensità quasi
d’incantesimo (non per nulla ne risentiremo gli echi in Strind­
berg) gli dei vengono accusati e smascherati dei più turpi vizi.
Né giova che Pórr, sopraggiunto in extremis, metta in fuga il
perfido accusatore Loki minacciandolo col martello. Le parole
di questo eddico Mefistofele sembrano mettere la pietra tom­
bale sull’età degli dei falsi e bugiardi.
Fra la Lokasenna e la Voluspà il divario non potrebbe
esser più grande. Quanto lì è satira e scherno, è qui pathos
austero e solenne, serietà etica. I « superni sacri dei » sono qui
visti da un poeta che, certo, sentendosi al confluente tra vecchio
e nuovo affonda lo sguardo nel mito antico con partecipe com­
mozione, illuminato da ideali di giustizia e di speranza, preoc­
cupato da angosciosi interrogativi morali. Qui, altrimenti che
nel mito greco, gli dei né domano né vincono i titani, né
la discordia che per causa loro lacera il cosmo. La primeva
gigantomachia è qui l’ultimo atto epico della storia universale
iniziatasi con l’età dell’oro. Tutto ciò che dal caos è generato:
giganti e dei e uomini è nuovamente destinato a sprofondare nel
caos dei « ragnarpk », cui il poeta fa seguire la speranza d’una
rigenerazione.
Non sono certo gli ingenui miti naturalistici della genesi
o della fine del mondo che colpiscono nella Voluspà, né in
fondo quella che sembra essere l’ispirazione etica dal carme
stesso (pur cosi oscuro e guasto com’è *): il tramonto del mondo

1 F. R. Schroder, ANF 67, 1952, pp. 1-29 ha ricordato il lucianesco


« consiglio degli dei » come remota fonte d’ispirazione.
36 Le letterature della Scandinavia

odinico, cioè della sete delPoro, della magia, degli spergiuri,


della guerra e l'avvento del regno della pace simboleggiato
dall’innocente Baldr (de Vries). Ciò che dà forza lirico-dram­
matica alla profezia della veggente (la quale ridestata da
Odino gli svela le verità apocalittiche primordiali e finali), è
proprio il tono poetico di esaltazione individualistica in cui si
compie il vaticinio. Il senso d'un fato ineluttabile che grava su
tutto sin dall’alba dei tempi, il terribile problema dell'origine
del male e del dolore, la profonda sfiducia nel presente, tutto
concorre a creare quel senso arcano oracolare del numinoso che
può far pensare il lettore classicista allo stormir delle fronde di
Dodona o al gorgoglio delle acque di Delfi. È stato notato
l’influsso formale della poesia scaldica sulla Vgluspà 1: il tipico
frequente impiego dei ritornelli nelle diverse visioni (pà gengo
regin gli à rgkstóla — le potenze reggitrici sedettero allora a
consiglio sui seggi; vitod er enti, eda hvatì — sapete ancora
altro o no?; Geyr nu Garmr migk fyr Gnipahelli — ora Garmr
abbaia furioso davanti alla grotta degli inferi); la vera e oro-
pria descrizione d'una battaglia, così rara nei carmi eddici;
e non c’è dubbio che l’anonimo poeta fu un maestro della
tecnica e del verso, ma sull’interesse puramente estrinseco di
gran lunga prevalse2 la serietà dell'ispirazione etica e la gran­
diosità delle visioni apocalittiche.
Qui i segni funesti della catastrofe s’addensano con ritmo
mozzo, angoscioso, in immagini dure, gonfie di compresso
pathos:
45
Broeàr muno beriaz ok at bgnum verdaz,
muno systrungar sifiom spilla;
hart er i beimi hordómr tnikill,
skegggld, skàlmgld, skildir ro klofnir,
vindgld, varggld àdr vergld steypiz;
mun engi madr gdrom pyrma.
I fratelli si azzufferanno e si uccideranno, i parenti spezzeranno i
vincoli di sangue, l’efferatezza reggerà il mondo e molti adultèri;
tempo di asce, tempo di spade, si fenderanno gli scudi; tempo di
bufere, tempo di lupi, prima che il mondo crolli; nessun uomo il
suo simile rispetterà.

1 E. Noreen, Den norsk-islàndska poesien, Stockholm, 1926, p. 87 sg.


2 M. Olsen, Edda-og skaldekvad VII, Gudedigte, Oslo, 1964, p. 3; De
Vries, Altn. Litg. cit. I2 p. 63.
Medioevo pagano e cristiano 37

lf il presagio d’una resurrezione del mondo, arso dal fuoco e


sprofondato nel mare, spalanca Porizzonte e Panimo a una
rasserenante contemplazione:
Sér hon upp koma gdro sinni
igrd ór eegi, idiagrcena:
falla forsar, flygr grn yfir,
sa er à fialli fiska veidir.
Vede ella sorgere un’altra volta la terra dal mare, riverdeggiante,
scrosciano i torrenti, alta vola l'aquila, che sulle montagne caccia
i pesci.
Nessun poeta eddico come Pautore della Vgluspà ha sa­
puto fondere nei suoi versi tanta meditazione spirituale e con­
cretezza d’immagini, tanta realistica osservazione delPambiente
circostante1 e acuta penetrazione dei mondi creati della fan­
tasia mitica.

LA PO ESIA SCALDICA

Raffrontata allo stile epico-drammatico della poesia eddica


e della Saga norrena, in vario modo alternanti dialogo e narra­
zione di fatti e atti memorabili, la rigida consuetudine tecnica
del carme scaldico col suo minuto ma desultorio descrizionismo,
tutto scorci e « istantanee », privo quasi di prospettiva tem­
porale e spaziale, sembra ancor più chiaramente scoprire la
sua povertà di mezzi espressivi.
Il gusto della metafora fine a se stessa, del bisticcio, del­
l’indovinello, del gioco di parole, il senso acutissimo per i
valori fonici anche se amelodici; la struttura metrica che in­
catena in schemi inalterabili il sentimento; l’uniformità d’una
lingua conservatrice da cui esula ogni venatura idiomatica e
in cui vecchio e nuovo appaiono inscindibilmente saldati: il
virtuosismo formale insomma, che sa trarre smaglianti effetti
esteriori dalla variazione e manipolazione di poche note fon­
damentali ci disorienta e ci respinge.
Eppure non meno degli altri due grandi generi della lette­
ratura norrena anche questa poesia rispecchia gli ideali e i

1 Nella sua edizione islandese del carme, S. Nordal ('Vgluspà. Gefin ut


med skyringum, Reykiavik, 1923) sottolinea il valore che può aver avuto,
per la visione della fine del mondo, l’esperienza delle catastrofi naturali
nell’isola vulcanica in concomitanza con l’attesa chiliastica predicata dai
missionari (pp. 123-125).
38 Le letterature della Scandinavia

modi di vita della società e dell’età vichinga in cui fiori; è


espressione anch’essa d’un fatto di costume, d’un determinato
fenomeno sociale, parte integrante d’un cerimoniale di corte
come — sotto altri cieli — la poesia trovadorica e minne-
singhera. Anzi l’ideale eroico vichingo, poi destinato per secoli
a diventare uno dei temi più frusti e stereotipi delle lette­
rature nordiche, si può dire trovi qui la sua prima e pregnante
espressione artistica.
Nei carmi scaldici, prima e ancor più che negli eddici e
nelle Saghe, rivivono — certo in forme allusive e quanto mai
convenzionali — le gesta di quei guerrieri germanici che così
a lungo contrastarono la civiltà cristiana d’occidente per sotto-
mettervisi poi e assimilarla attraverso un lungo e laborioso
processo di amalgamazione.
Se l’Edda una volta sola ci offre un lampeggiante ritratto
di vita vichinga nel primo carme su Helgi Hundingsbani, per
contenuto e forma assai vicino al « genere » scaldico, le Saghe
attingono tutte o quasi le loro avventure e figure eroiche ai
versi scaldici; anzi sono esse stesse per lo più semplici para­
frasi 1 o chiose di quei versi, che ripetutamente citano o come
fonte d’informazione storica o come puro motivo ornamentale.
Di queste, persino le migliori dal punto di vista artistico, come
la Eigla, la Njàla o come la Heimskringla dalla tradizione con­
cordemente attribuita a Snorri, non sempre riescono a eguagliare
la forza di caratterizzazione, la compressa incisività di certe
strofe scaldiche.
Quanto del duro profilo pagano d’un Egill avrebbe potuto
farci vedere la Saga a lui intitolata senza i componimenti poetici
in quella contenuti e a lui attribuiti? quanto sapremmo oggi
' della lirica erotica norrena senza le pur oscure e corrotte strofe
di un Kormàkr? quanto alla storiografia dello stesso Snorri
non dovettero contribuire i versi scaldici, da lui copiosamente
citati? quanto infine saremmo in grado d’intendere della con­
versione dei popoli nordici al cristianesimo se non avessimo i
tardi poemetti agiografici e parenetici di quegli scaldi che più
o meno avevano assimilato il nuovo verbo religioso?
Anche da un punto di vista puramente documentario la
poesia scaldica merita dunque di non essere posposta agli altri

1 S. Nordal, Snorri Sturluson, Reykjavik, 1920, p. 171 sgg. mostra come


Snorri sullo spunto di singoli versi scaldici abbia creato interi episodi
narrativi.
Medioevo pagano e cristiano 39

due generi letterari norreni, linguisticamente più accessibili e


perciò più studiati.
Donde principalmente trasse ispirazione questa poesia?
L ’aula regia con le sue festose e solenni consuetudini (in
larga misura comuni a tutta l’area germanica) volte a perpe­
tuare i sacri vincoli di fedeltà della « hird » al « dróttinn »,
cioè del seguito al principe e di questo a quello; la rievoca­
zione della battaglia (quasi assente dai carmi eddici) che ce­
lebra e misura le virtù del capo e dei suoi prodi sull’unico ca­
none d’ogni società guerriera: il concetto dell'onore; la muni-
ficità del capo cui principalmente è rivolto l’encomio dello
scaldo, il miraggio della gloria e della ricchezza e la passione
delFavventura; il culto dell’eroismo e il disprezzo della morte;
l’amore delle armi e delle fogge guerresche. Questi, in sintesi,
i motivi dell’ispirazione.
Se nei carmi epici gli anonimi poeti àeWEdda rievocano in
chiave di drammatico conflitto la fosca grandezza dell’eroe ger­
manico dell’età delle migrazioni, gli scaldi ci dànno (in tinte
più luminose e attraenti) un quadro fortemente stilizzato ma
non meno memorabile dell’età vichinga.
Con monotona insistenza risuona infatti nei loro versi
l’encomio del principe e dei suoi prodi che affrontano con
inconcussa fermezza la battaglia e la morte, o la munificità
del capo che dispensa armille spade scudi navi ai fidi seguaci;
l’elegiaco rimpianto dei compagni caduti il cui nome soprav­
vive solo nella luce della gloria postuma o l’esaltazione della
vendetta dettata dalla solidarietà di sangue; lo scherno o l’ese­
crazione del nemico. Vediamo i guerrieri libare nell’aula alla
memoria degli antenati o invocare gli dei a testimoni dei sacri
giuri prima di partire per le spedizioni, ignari del ritorno; ve­
diamo le navi dalle rutilanti teste di drago salpare « come aqui­
le ad ali spiegate »; vediamo le onde « alte come precipiti
montagne » abbattersi sulle prore, e sotto spalancarsi i tene­
brosi abissi dove il dio e la dea del mare Aegir e Ran stanno
in agguato; vediamo i campi di battaglia coprirsi di cadaveri
e le spade lampeggiare e i dardi oscurare il cielo e il sangue
scorrere a fiumi. Cosi per centinaia di versi e per generazioni
di poeti! Finché il trionfo del cristianesimo e il graduale av­
vento di nuove forme di organizzazione statale e sociale non
avviano al tramonto l’ethos pagano e i congiunti modi di vita
e d’arte. Scompaiono allora dal repertorio degli scaldi le san­
guinose epifanie delle valchirie e il fragor delle asce dei « ber-
40 Le letterature della Scandinavia

serkir » 1 sulle cotte ferrigne, le sagome grifagne delle navi


dragonate (il « Serpe lungo » di Ólàfr Tryggvason, il « Bi­
sonte » di Òlàfr helgi, P« Ariete ferreo » di Eirìkr jarl) e per­
sino le semileggendarie incarnazioni delPideale vichingo (un
Vagn Akason e un Ragnar lodbrók che affrontano la morte
senza un gemito, col sorriso sulle labbra, uno Starkadr che an­
cora nella minuziosa parafrasi latina di Saxo assurge a mitico
simbolo di sovrumano eroismo) per lasciar posto a più umane
e cristiane figurazioni. Ma il prezioso descrizionismo scaldico
serba ancora a lungo, pur dopo la vittoria del nuovo verbo
religioso, il suo valore normativo. Tutto o quasi — scene
persone cose — è come prima rappresentato nella rigida ma­
niera tradizionale, sezionato con pseudorealistica minuteria,
assai più che poeticamente ricreato. Gli stessi concetti di Dio
creatore, di trinità, di colpa, di redenzione: l’intero simbolismo
cristiano viene ora costretto nelle fruste perifrasi del linguag­
gio panegiristico degli scaldi.

A stare alla superstite documentazione la poesia scaldica


nasce in Norvegia. Il più antico scaldo, quasi coevo di Ansgar
(primo missionario della chiesa franca nel Nord) fu il norve­
gese Bragi Boddason (prima metà del sec. IX); ma i suoi versi
rimastici sono così tecnicamente maturi da presupporre una
precedente tradizione poetica. Se a lui è attribuita la Ragnars-
dràpa celebrante uno scudo istoriato di scene mitologiche ed
eroiche (il dio Pórr in lotta col Serpe del mondo, le vicende
delPeddico Hamdismàl), al forse coevo Pjódólfr hvinverski,
Snorri stesso ascrive un componimento analogo (Haustlgng, sul
mito di Idunn e sulla lotta tra Pórr e il gigante Hrungnir) e
il genealogico Ynglingatal in kviduhàttr sugli antenati del re
Araldo Bellachiòma, fondatore del regno di Norvegia (875?).
Alle soglie della poesia scaldica troviamo così due tipi di com­
ponimenti encomiastici (« skjaldardràpa, aettartal ») che la te­
stimonianza delle Saghe ci mostra, anche in seguito, assai fre­
quenti. Del pari encomiastici, anche se forse più personali
sono i frammenti della pomposa ed oscura Glymdràpa in
dróttkvsett sulle imprese guerresche di Araldo e soprattutto

1 Lett, «pelli d’orso». Questi guerrieri che combattevano coperti di pelli


d’orso o di lupo (« ulfhednar ») con una sorta di estatico furore, ci sono
attestati nelle Saghe (‘Ynglingasa’ nella Heimskringla di Snorri, cap. 6;
nella Vatnsdcela, cap. 9). Cfr. E. Noreen, ‘Ordet barsark’ in ANF, 1932,
pp. 242-254.
Medioevo pagano e cristiano 41

lo Haraldskvsedi o Hrafnsmàl (in màlahàttr e in Ijódahàttr)


di Porbjpm hornklofi, dove il trionfo dell’unificatore della
Norvegia e la gloria della sua corte sono celebrati nelle forme
epico-drammatiche della poesia eddica, in un dialogo fra una
valchiria e un corvo che giunge dal campo di battaglia col
becco ancora sanguinante.
Con l’anonimo Eiriksmàl commemorante l’apoteosi pagana
del pur battezzato re Eirlkr blódox (prima metà del X see.)
e con lo Hàkonarmàl di 0yvindr skàldaspillir, che anch’esso
celebra l’ingresso d’un altro re cristiano Hàkon Adalsteinsfóstri
nella Valhalla germanica, tocchiamo i confini cronologici della
poesia scaldica norvegese; varcati i quali le fonti documentarie,
quasi soltanto islandesi, tacciono del tutto sulla patria d’origine
e ci presentano la poesia scaldica quale esclusivo monopolio
dei norvegesi trapiantati in Islanda (IX-X see.), benché non
meno di prima fiorente presso le varie corti dei re: norvegesi,
danesi, svedesi e perfino anglosassoni.
È questo, si può dire, il periodo aureo della poesia scal­
dica pagana, la quale sembra poi lentamente avviarsi al tra­
monto quando la morte di Haraldr hardràdi alla battaglia di
Stamford Bridge (1066) segna il crollo definitivo dell’espan­
sione vichinga d’oltremare. Non molto anteriori a tale data
sono il « Riscatto della testa » (Hgfudlausn), in runhent, il
poemetto encomiastico in onore di Arinbjgrn (Arinbìarnarkvi-
da) in kviduhàttr e l’epitaffio per la « Perdita dei figli » (Sona-
torrek) pure in kviduhàttr di Egill Skallagrlmsson, che tutti
ci attestano una forte e originale fisionomia di poeta, un mae­
stro della versificazione scaldica, un esemplare rappresentante
dell’ideale vichingo; quasi coeva è la raffinata lirica d’amore
« mansgngr » di Kormàkr, e non molto posteriore, intorno al
1000, sia la poesia mitologica di Eilìfr Godrunarsson (Pórsdrà-
pa) sia le grandi « dràpur » encomiastiche e funebri di Einarr
skàlaglamm, di Hallfrodr vandraedaskàld, di Pórarinn loftun-
ga, di Sighvatr J)órdarson (il più aperto alla cultura europea
e pellegrino di Roma) in lode dell’ultimo campione del paga­
nesimo nordico Hakon jarl; e soprattutto dei due grandi re
evangelizzatori Ólàfr Tryggvason (995-1000?) e Ólàfr Ha-
raldsson (1015-1030?). In mezzo a una vasta e varia congerie
di altri componimenti più o meno frammentari, più o meno
pregevoli, sono questi i capolavori della poesia scaldica « clas­
sica », connessa al mito e alla leggenda eroica.
Nella poesia posteriore — come s’è già detto — il peso
della dottrina e della predicazione cristiana si fa sempre più
42 Le letterature della Scandinavia

sentire. La tecnica e il costume tradizionale restano sostanzial­


mente immutati (troveremo degli scaldi ancora alla corte del
re norvegese Eirìkr Magnusson; 1280-99); i grandi poeti pa­
gani vengono ricordati e studiati — a un dipresso come gli
« auctores » latini nelle scuole medievali, per apprenderne la
lezione formale — ma lo spirito dei nuovi tempi, l'influsso
delle fonti letterarie scritte, il mutato gusto prevalgono, al­
meno da un punto di vista contenutistico, nelle tarde « drapur »
religiose o di religiosi: come il « Raggio di sole » (Geisli) di
Einarr Skulason (1100-1160?) ch'è una vera e propria apoteosi
cristiana di re Olao il Santo, eroe martire e taumaturgo1,
come il « Sole del dolore » (Harmsol)2 del canonico agosti­
niano Gamli di t?ykkvabcer (X see.) ch’è una predica versifi­
cata sulla necessità della contrizione e in lode della Grazia e
del Redentore; come Leidarvisan (Indice della via); Liknar-
braut (Via della Grazia); Solarijód (Canto del sole); o come
Lilja (Il giglio) del monaco E. Asgrimsson (m. nel 1361) sulla
storia del mondo dal peccato originale alla Passione e Resurre­
zione fino al Giudizio. Nella sua « dràpa » in hrynhent l'autore
esplicitamente ripudia le « kenningar », segnando così una svol­
ta definitiva nella storia della poesia scaldica.
Gli ultimi echi formali e tematici di questa poesia non si
sono ancor spenti nei rimatori islandesi quattro e cinquecen­
teschi, che già si prepara, favorita dagli impulsi eruditi della
Riforma e autocelebrativi dello Stato assoluto, la rinascita
letteraria dell'intera civiltà vichinga. Ancora una volta l'Islanda
è al centro del nuovo moto culturale, come quella che sul
proprio suolo serba più manifesti e numerosi i monumenti
archeologici e linguistici dell’antica civiltà nazionale.
L'era delle dotte riesumazioni s'apre con il Brevis com-

1 Ne restano 71 strofe in dróttkvsett, forse tra le prime opere norrene


a essere fissate sulla pergamena subito dopo la composizione — Secondo
la tradizione il poeta stesso recitò la sua « dràpa » nella Chiesa di
Nidaróss (l'odierna Trondheim) durante una solenne cerimonia in pre­
senza dell’arcivescovo Jón Birgisson e del re norvegese Eysteinn (F.
Jónsson, Litt. hist. cit. II, p. 66).
Notevoli comunque anche da un punto di vista formale i tentativi di
esprimere i nuovi concetti religiosi ricalcando i termini latini: stella
maris («flcedar stjarna »), pacis visio (« fridar syn »), Trinitas (« eins
gods £>renning»).
2 65 strofe scaldiche sul peccato e sul Giudizio e sulla Grazia divina,
ricche di nuove « kenningar », ma non prive di antichi, quasi inerti
relitti pagani.
Medioevo pagano e cristiano 43

mentarìus de Islanda (1593) e con la Crymogeea sive rerum


islandicarum libri tres (1609) di A. Jónsson Vidalin. Non è,
quest’ultima, che un farraginoso compendio storico e etnogra­
fico, linguistico e letterario, ma dà il primo impulso alla ricerca
delle fonti e alla scoperta del semiobliato patrimonio spirituale.
E come i dotti bizantini migrati in Italia avevano insegnato il
greco agli umanisti, cosi, nel Nord, sono ora gli islandesi (da
Brynjólfur Sveinsson a Ami Magnusson) che a Copenaghen
come a Stoccolma fanno da maestri agli antiquari, agli eruditi,
ai raccoglitori di manoscritti e di documenti antichi. A un
Worm che insieme con le sue ricerche runologiche {Runir
seu danica literatura antiquissima, 1636) dà, in traduzione, i
primi saggi della poesia scaldica (17 strofe del Sonatorrek di
Egill; 29 del Krakumàl, il carme funebre di Ragnar lodbrók),
come a un Th. Bartholin il Giovane che nei suoi Antiquitatum
danicarum ... libri tres (1685) già prefigura il mito eroico del
Nord caro ai preromantici europei. Anzi l'interpretazione filo­
logica degli islandesi serba a lungo, sin negli errori e negli
abbagli, il suo valore canonico sia per gli antiquari danesi e
svedesi del Seicento, sia per chi a quella attinge e diffonde in
tutta l’Europa la moda della mitologia e della poesia nordica
in nome del gusto anticlassico, come il cosmopolita ginevrino
P. H. Mallet (Introduction à Vhistoire de Dannemarc, 1755;
Monuments de la mythologie et de la poesie des Celtes et
particulièrement des anciens Scandinaves, 1756) 1.
Per il romanticismo nordico, infatuato, come il tedesco,
di primitivo, di barbarico, d’irrazionale, il mito dell’eroe vi­
chingo celebrato dagli scaldi diviene pressappoco ciò che per
il classicismo francese era stato il mito dell’eroe plutarchiano.
Ma lo schema iconografico di questo eroismo si amplia ora a
dismisura. I danesi Oehlenschlàger e Grundtvig e gli svedesi
Geijer e Tegnér, per citare solo i maggiori, lo riplasmano
secondo le forme della nuova sensibilità: sentimentale e pa­
triottica, metafisica e pedagogica, mentre le seguenti genera­
zioni, da Bjomson a Ibsen e a M. Jochumsson, da Strindberg
alla Lagerlof a Jensen alla Undset, ormai familiari con tutti i
temi della letteratura norrena, tentano di imitarne i vari stili
e (anzitutto in Islanda) i vari metri.

1 Com’è noto rielaborati da Th. Percy nelle sue "Northern Antiquities


(1770) e utilizzate da W. Scott, da Chateaubriand e dalla Stael, per
non dir altri.
44 Le letterature deità Scandinavia

Finché la poesia scaldica non cade nelle mani dei filologi


di professione, dei linguisti e dei germanisti per perdere così
ogni residuo palpito di vita e divenire — notomizzata e scien­
tificamente analizzata — oggetto di fiere polemiche, che ancor
oggi non accennano a spegnersi.

È possibile formulare un giudizio critico su questa poe­


sia senza passar la vita — come hanno fatto i pochissimi
specialisti in materia — a emendar testi e a ricomporre i
« disiecta membra » d’un ideale corpus poetico, principalmente
enùcleabile dai Mss. islandesi e norvegesi dei secoli XIII, XIV
e XV? Una conoscenza anche sommaria del genere scaldico
indurrebbe a rispondere negativamente.
L ’intrinseca difficoltà d’interpretazione di questa poesia, la
impossibilità di ricostruirne la genesi e in più casi d’accer-
tarne l’autenticità, la scarsa perspicuità dell’ambiente culturale
in cui sorse — malgrado singoli dati biografici e cronologici
sicuri — mentre spiega l’estrema cautela con cui deve proce­
dere ogni seria indagine critica, ripropone anche oggi molti
dei più ardui e discussi problemi preliminari connessi alla
storia della poesia germanica antica1.
E anzitutto: quale fu la remota origine del carme scaldico?
Nacque esso, come alcuni sostengono2, già nell’età delle mi­
grazioni barbariche, insieme agli altri generi maggiori e mi­
nori, per vivere poi in lunga tradizione orale — storicamente
pressoché inafferrabile — e comparire a un tratto in Norvegia,
formalmente elaboratissimo, ma così permeato di influssi ir­
landesi da perdere molti dei suoi essenziali connotati germa­
nici3? O fu invece creazione esclusivamente nordica dovuta

1 Quanta parte va fatta in questo campo alla critica congetturale ha


dimostrato la pur geniale e prudente ricostruzione storica di A. Heusler.
2 A. Heusler, Altg. D.; pp. 121 sgg., 172; S. Einarsson, Alternate Recital
by Twos in Widsith (?) Sturlunga a. Kalevala in Arv (Uppsala, 7, 1951,
pp. 59-83). v
3 Innegabile una certa affinità di ambiente sociale e di forme poetiche
fra Tlrlanda del IX see. e il Nord vichingo; né va dimenticato che
vichinghi danesi già intorno al 787 si erano attestati nelle regioni nord-
occidentali dell’Inghilterra; che l’853 Olao il Bianco di Norvegia regnava
a Dublino; che fra i colonizzatori d’Islanda c’erano degli irlandesi. Ma
per un verso l’assenza totale di dimostrabili influssi linguistici irlandesi
sul norreno, per un altro la forma assai evoluta dei primi componimenti
scaldici rende quanto mai problematica l’ipotesi di influssi specifici
(A. Edzardi, Die skaldiscben Versmasse u. ibr Verhàltnis zur keltiseben
Verskunst in PBB 5, 1878, p. 570 sgg.; G. Vigfusson, Corpus poet.
9Medioevo pagano e cristiano 45

a un solo ingegno poetico, die ne fissò il modello ricavandolo


dai ben definiti schemi del carme eroico1? E nella prima ipo­
tesi, quali furono i nessi formali e sostanziali tra il carme
scaldico (descrittivo, encomiastico, personale) e il carme eroico
(epico-drammatico e anonimo), se entrambi nacquero in seno
all’aristocrazia guerriera germanica e risonarono nell’aula regia
sulla bocca di poeti di corte a lode dell’eroe o a rievocazione
delle sue gesta2? E, nella seconda ipotesi, fu l’arte ornamentale
geometrico-lineare dell’età vichinga o non piuttosto il riflesso
ancor vivo di antiche concezioni magico-sacrali a determinarne
l’elaboratissimo concettismo metrico e stilistico divenuto poi
fine a se stesso3?

boreale, Oxford, 1883, II, p. 2 sgg.; S. Bugge, Bidrag til den seldste
skaldedigtnings bistorte, Kristiania, 1894, p. 65 sgg.; A. Bugge, Vester-
landenes indflydelse paa nordboerne..., ivi, 1905, p. 65 sgg.; A. Olrik,
Nordisk Aandsliv i vikingetiden, Kobenhavn, ed. 1927, p. 59). Molto
più cauti Heusler (Altg. D. pp. 28, 135 sgg.) e dopo di lui J. de Vries
(Altn. Litg. Berlin, 1941-42. I, p. 69 sgg.) si sono limitati a mettere
in evidenza i caratteri formali che differenziano il carme scaldico dai
tradizionali schemi metrici germanici. Un influsso celtico sulla Fornaldar-
saga è ipotizzato da E. Ól. Sveinsson, tslenzkar bókmenntir, cit., pp. 35-36.
1 Heusler, Deutsche Versgeschicbte, Berlin-Leipzig, 1925, I, p. 300 e
Altg. D., p. 28 sgg.; H. Lie, Skaldestil-Studier, in MM, 1952, p. 5 sgg.
; Sulla base di semplici congetture J. de Vries (Altgerm. Religionsgesch.,
cit. in bibliografia, Berlin, 1955-572, I, p. 440 sgg., II, pp. 67-73) ritiene
che il carme scaldico abbia avuto la sua remota origine nella poesia
cultuale.
2 Distinti per contenuto e forma i due generi presentano però, come
t s’è già detto, molti punti di contatto e aspetti comuni per non dire
: dei molteplici sicuri indizi di interazione fra poesia scaldica e eddica
(Vgluspà, Hymiskvida, Helgakvida, Atlamàl, Glymdràpa, Haustlgng, Ei-
riksmàl, Hàkonarmàl). Bisogna dunque guardarsi da troppo rigide clas­
sificazioni, e da una applicazione meccanica delle distinzioni oggettive e
stilistico-formali messe in rilievo da E. Noreen (Den norsk4slàndska
ì Voesien Stockholm, 1926, p. 16 sgg.). Se le accogliessimo, dovremmo
! escludere dalla poesia scaldica: i poemetti di Egill, perché composti in me­
tro non tipicamente scaldico; lo Hàkonarmàl e lo Haraldskveedi, perché
dialogici; e finalmente lo Haustlong, perché narrativo. Sarebbe forse più
esatto e più conforme all’uso della tradizione islandese parlare di due
; diverse tendenze del gusto; giacché quanto oggi, per i moderni filologi,
va sotto il nome di eddico, indicò per i rimatori islandesi del Quattro
ì (p. es. Lilja str. 97) e Cinquecento (che avevano l’occhio all’Edda snor-
! rica) la poesia tipicamente scaldica. Forse chi recitava un carme eddico
sentiva di parlare in nome di una tradizione già formata, mentre chi
recitava un carme scaldico si sentiva egli stesso creatore d’una tradizione,
j Cfr. C. M. Bowra, Heroic Poetry, London, 1961, p. 40.
I 3 Heusler, Altg. D. pp. 135-36; de Vries, Altn. Litg. I, p. 90; e per
, i nessi con le arti figurative H. Shetelig, Osebergfunnet, Oslo, 1917-20,
I III, pp. 21-25; e soprattutto H. Lie., cit., in MM, 1902., p. 8 sgg. Alla
46 Le letterature della Scandinavia

Se questi e altri irrisolti quesiti rendono quanto mai arduo


il compito del filologo di professione, basta il semplice assag­
gio di un qualsiasi componimento scaldico per scoraggiare il
più entusiasta amatore di poesia, anche se non inesperto di
nordico antico. Più volte, è vero, si son levate autorevoli
voci di studiosi per rivendicare a questo genere letterario il
posto d’onore che ad esso spetterebbe nella tradizione poetica
del Medioevo scandinavo. Si è detto che assai più dei semplici
« popolari » e anonimi componimenti eddici, gli squisiti ricami
verbali dei tanti e celebri poeti norvegesi e islandesi costitui­
scono l’autentico patrimonio letterario della Scandinavia antica,
la gloria della sua aristocratica poesia d’arte. Si è dato partico­
lare rilievo alla omogeneità e vitalità della tradizione scaldica,
che per secoli tenacemente resistette al fermento dissolvitore
della nuova cultura introdotta col cristianesimo; attraverso un
approfondito studio linguistico è stato anche possibile intender
meglio i valori formali di questo genere poetico e talvolta la
personalità dei singoli autori. Ma almeno in sede estetica, ben
pochi, credo, sono disposti a seguire i patiti della poesia scal­
dica sulla via della loro infatuata ammirazione1.
Per formulare un giudizio, sia pur provvisorio, conviene
direttamente affrontare il problema critico sulla base della
superstite documentazione.
Il primo punto fermo nell’incerta e lacunosa storia della
poesia scaldica è il suo epilogo, chiaramente sintetizzato nella
opera storiografica poetica e critica di Snorri Sturluson. Nel-

magia runica fa risalire la genesi della poesia scaldica M. Olsen (Om


Troldruner in Edda, 5, 1916, p. 235 sgg.). Sul suo esempio À. Ohl-
marks (Till fràgan om den fornnordiska skaldediktnìngens ursprung in
ANF, 57, 1943 pp. 178-207), che si richiama a Giordane (Getica, c. 49
e all’epilogo del Beowulf w . 3174-3177) e avanza l’ipotesi dell’esistenza
d’un vero e proprio rito commemorativo-apotropaico dei caduti in bat­
taglia, mediante la composizione di epitaffi in metro e stile scaldico
(arfijód). Vedi però le osservazioni di J. de Vries Altn. Litg. cit. I2
p. 100, che ricorda il carme encomiastico in metro scaldico di Porbjgrn
per Araldo Bellachioma ancor vivo; e, per converso, quelli per eroi morti
come Eirtksmàl e Hàkonarmàl in metro non scaldico.
1 Ultimo fra questi À. Ohlmarks (Islands hedna skaldediktning, Stoc­
kholm, 1957) che per il suo teutomane entusiasmo (Egill Skallagrimsson
sarebbe addirittura « uno dei massimi poeti europei », p. 16) fa pen­
sare alla ben nota boria nazionalistica di quegli studiosi tedeschi che
riavvicinavano, anzi anteponevano i poeti minnesingheri a un Archiloco
e a un Mimnermo (v. C. Griinanger, Heinrich von Morungen e il pro­
blema del Minnesang, Milano, 1948, pp. 31-32).
Medioevo pagano e cristiano 47

FEdda snorrica (1220-30?) culmina e si cristallizza la secolare


tradizione di questa poesia aulica; viene codificata, critica-
mente studiata e sistematizzata. È vero che anche qui, come
più o meno in tutti i monumenti letterari del germanesimo
antico, Feredità pagana è spesso velata e talvolta ricoperta
da evidenti sovrastrutture cristiane, ma non al punto da ren­
derne indiscernibili almeno alcuni tratti fondamentali. Se a
ciò si aggiunge il discreto stato di preservazione dei tre prin­
cipali Mss. delFEdda snorrica (i « sinottici »: Regius 2367,
4° del 1325 c. con il dipendente Trajectinus, copia secentesca
d’un Ms. medievale; Wormianus AM. 242 fol. del 1350 c.;
Upsaliensis, De la Gardie 11,4° del 1300 ca.) e la diretta testi­
monianza storico-critica di Snorri, per lo più coerente e persua­
siva, sembra impossibile negare l’autenticità d’una tradizione
di poesia di corte risalente almeno all’età di Araldo Bella-
chioma.
Nel prologo della Heimskringla Snorri esplicitamente in­
dica, oltre le genealogie oralmente tràdite (« kynkvìsl, lang-
fegdatal ») e le altre fonti, anche scritte, di cronisti e narratori
di Saghe, i versi scaldici come fonte principale della sua infor­
mazione. È ben consapevole del carattere intrinsecamente en­
comiastico di tale poesia, ma osserva — anticipando cosi di
quattro secoli un analogo e penetrante giudizio di La Roche­
foucauld sui vincoli che legano i cortigiani ai loro signori1 —
che gli scaldi non avrebbero mai impunemente osato di attri­
buire ai principi (al cospetto dei quali recitavano i propri car­
mi) imprese e glorie immaginarie: « ciò sarebbe suonato scher­
no e non lode » 2. Malgrado l’intento celebrativo dunque, essi
non potevano mentire quando esaltavano fatti recentemente
avvenuti come p. es. spedizioni e battaglie (« ferdir ok orrus-
tur ») ai quali chi ascoltava aveva preso parte. Così, se Snorri
accetta, in linea di massima, il valore dei carmi scaldici, lo
condiziona però alla loro incorrotta preservazione e retta in­
terpretazione {ef rétt kvedin ok skynsamliga upp tekin) e in­
sieme ne documenta l’esistenza, citandone direttamente non
meno di 613 strofe3.

1 S. Nordal, Snorri Sturluson, Reykjavik, 1920, p. 166; e per il valore


che la tradizione nazionale ha avuto per Snorri cfr. pp. 107-128; 162-167.
2 « pat vaéri p à had enn eigi lof » (Heimskringla, ed. F. Jónsson, K 0-
benhavn, 1893-1901. I, pp. 3-4).
3 Nella seconda parte dell’Edda snorrica (Skàldskaparmàl) vengono ci­
tati 67 scaldi norreni: 4 del IX see.; 35 dell’XI; 11 del XII (cfr,
A. Jòhannesson in Z D P h 59, 1935, p. 133 sgg.).
48 Le letterature della Scandinavia

Anche sotto questo aspetto lo storico islandese si muove


nel solco d’una lunga tradizione. Dalla latina Storia dei re
norvegesi di Teodorico che parla senza citarli di « antiqua
carmina » (1180 c.) alla leggendaria Saga di Sant’Olao (1170 c.)
e al cronachistico Agrip (1190 c.) il citar versi scaldici come
fonte documentaria appare una consuetudine fissa, destinata
via via a decadere a puro motivo ornamentale1. Ma soltanto
in Snorri il problema della condizionata attendibilità storica
della poesia scaldica è consapevolmente impostato e studiato;
soltanto in lui questa tradizione poetica acquista almeno par­
ziale consistenza ed evidenza; soltanto in lui, quali che siano
le riserve da farsi su possibili e probabili fraintendimenti già
in fase di tradizione orale, il materiale scaldico è sottoposto a
una sistematica (e talvolta sin troppo estrinseca e pedantesca)
indagine critica.
Tutte le figure, i tropi, i colori retorici, i tipi d’espressione
lontani dall’uso quotidiano e prosastico (e spesso anche dalla
tradizione poetica eddica) sono passati in rassegna nella se­
conda e terza parte della sua Edda (« Skàldskaparmal e Hàt-
tatal »). Tra questi, rilievo particolarissimo ha la « kenning »
o metafora poetica. Snorri ne spiega il significato etimologico
e la funzione perifrastica pur senza mai formularne una netta
definizione.
A differenza dei sinonimi o epiteti poetici (« ókent heiti »
o « forngfn » ) 2 la « kenning » si presenta come un composto
nominale formato di due elementi: dei quali il primo (di solito
un genitivo) ha il compito di determinare il concetto fonda-
mentale espresso dal secondo, ma il cui risultato globale ha
un valore semantico diverso da entrambi i componenti. La
spada per esempio è detta « Ódins-eldr », cioè fuoco di Odi­
no, lo scudo « hildar-sky » o nuvola della battaglia, la batta­
glia « hjgr-rodd » o voce della spada; la nave « vag-marr » o ca­
vallo dell’onda; l’oro « Fàfnis setr »: giaciglio di Fàfnir o « Rì-
nar-bàl »: fuoco del Reno (con allusione alla leggenda nibe­
lungica) ecc.
« Kenning » (semplice) — dice Snorri nell’Hattatal3 — è

1 Per esempio nella Hàkonarsaga Hàkonarsonar scritta intorno al 1165,


dove l’autore Sturla jDÓrdarson cita versi scaldici da lui stesso composti.
2 S. Nordal ha dimostrato l’assoluta equivalenza dei due termini (v. Snor­
ri Sturluson, cit., pp. 102-105).
3 Edda Snorra, pp. 215-217. Sull’origine della « kenning », ben nota anche
fuori dell’area nordica, ma sistematicamente usata e abusata dagli scaldi
norreni, s’è concentrata l’attenzione degli studiosi. Chi ha voluto farla
Medioevo pagano e cristiano 49

chiamare « fragor dei dardi » (flein-brag) la battaglia; doppia


(« tvlkent ») chiamare « fuoco del fragor dei dardi » (flein-
braks-fur) la spada; multipla (« rekit ») quella che è accresciu­
ta [di ulteriori composti] Inoltre la « kenning » può essere
vera (« sannkenning ») quando il tertium comparationis richiè­
sto dal principio analogico è senz’altro evidente (per esempio
chiamare il petto « hug-bud », cioè dimora dell’animo); è detta
invece « nyggrfing » quando rappresenta una innovazione fan­
tastica rispetto alle forme tradizionali (per esempio chiamare
le lacrime « bràdpgg, brà-regn » cioè: rugiada dei cigli, pioggia
dei cigli); riceve infine l’appellativo di « nykrat » (part, neutro
da ricollegare al sost. nykr, ags. nicor, ingl. ted. nick, Nix
= il proteiforme spirito acquatico delle tradizioni popolari)
quando se ne fa un uso inconseguente e stravagante (per esem­
pio — dice Snorri — « quando la spada è chiamata prima
serpe e poi pesce o verga... ciò è detto “ nykrat ” , ed è una
bruttura » ) 2.

derivare da motivi d’esoterismo profano (A. Olrik in N ordisk Tìdskrift,


Letterstedtska fòreningen, 1897, p. 339 sgg.; E. Noreen, Studier
i fornvàstnordisk diktning, Uppsala, 1921, I, p. 3 sgg.) o sacrale e
tabuistico (F. Kaufmann, Balder. Mythos u. Sage, Strassburg, 1902,
p. 200; W. Krause, Die Kenning, cit., p. 18; J. Helgason, Norron
Litteraturhistorie, Kobenhavn, 1934, p. 22 sgg.; L. Mittner, Wurd.
Das Sakrale in der altgerm. Epik, Bern, 1955, p. 15 sgg.); chi ne ha
messo in evidenza il peculiare carattere metaforico assai affine a quello
della definizione aristotelica (Poetica XXI, 12: « La coppa sta a Dioniso
in relazione analoga a quella in cui lo scudo sta ad Ares; perciò lo
scudo può esser detto coppa di Ares e la coppa scudo di Dioniso»,
cit. in Heusler, Altg. D., p. 137; e in de Vries, Altn. Litg., I, p. 73);
chi ha voluto spiegarne l’accoglimento nel linguaggio scaldico come una
conseguenza inevitabile della complicatissima metrica (F. Jónsson, in
ANF, 6, 1890, p. 387; W. Bode, Die Kenning in der angelsàchs. Dich-
tung, Darmstadt, 1886, p. 14); chi ne ha voluto tracciare l’evoluzione
0 meglio l’involuzione, delineandone il processo di scadimento da ori­
ginaria e vivida figura poetica ad astrusa formula convenzionale (H. Falk
in ANF, 1889, p. 255; R. Meissner, Die Kenningar der Skalden, Bonn-
Leipzig, 1921, p. 20; W. Mohr, Kenningstudien, Stuttgart, 1933, p. 136);
chi infine, attraverso un esame tipologico, ha tentato di definirne la
varia funzione antonomastica, enigmatica, parabolica, allegorica (E. No­
reen, Studier, cit., I, p. 4 sgg.).
1 P. es.: fjardar elgs vangs fur e cioè: fiardar elgr = « alce del fiordo »,
cioè « nave »; fiardar elgs vangr = «piano su cui cammina l’alce del
fiordo », cioè « mare »; fjardar elgs vangs fur = « fuoco del piano del­
l’alce del fiordo », cioè « oro ».
2 Notevole l’esplicita condanna che di tale uso allotrio della metafora,
già faceva la retorica classica: « Id quoque in primis est custodiendum,
ut, quo ex genere cceperis translations, hoc desinas. Multi autem, cum
50 Le letterature della Scandinavia

Da queste asistematiche enunciazioni di Snorri, e più an­


cora dall’esame dei testi scaldici (e eddici) a noi noti, risultano
evidenti alcuni fatti fondamentali.
La « kenning », qualunque sia stata la sua remota preisto­
ria, fu impiegata dagli scaldi norreni quale mezzo stilistico a
fini prevalentemente letterari: a variare e vivificare la ristretta
tematica del genere encomiastico e dagli ascoltatori fu certo
apprezzata per il suo valore poetico tradizionale e rituale. Fu
essa più di tutti gli altri connotati metrici e linguistici a
costituire, semplice o multipla, il fulcro della poetica scaldica,
la sua forma d’espressione più caratteristica. Se nel Nord non
esistettero, come in Irlanda, vere e proprie scuole di poesia,
vi fu però senza dubbio, favorita da un’aristocratica corrente
del gusto, una ben definita tradizione di arte versificatoria,
per lo più ereditaria, che da un punto di vista storico e filo­
logico merita attenzione per il non trascurabile valore docu­
mentario e per la ricchezza e varietà delle forme linguistiche,
soprattutto metaforiche. Mai come in questa tradizione d’arte
la metafora, in ogni tempo considerata l’anima stessa della
poesia — da Aristotele a Vico, da A. W. Schlegel a Leopardi
e a Baudelaire — ha trovato applicazione più metodica e più
esclusiva. Si tratta naturalmente d’una applicazione sui generis,
rispondente, come s’è detto, a un gusto spiccatissimo per l’ar­
tificio, per l’indovinello, per il gioco di parole.
Lo scaldo non dice, per esempio: « Il principe mi ha do­
nato le armille » ma « il guidatore del cavallo delle onde » (cioè
il principe signore di una nave) ha donato all’« albero della
battaglia » (cioè al guerriero) « lo splendore diurno del fiord »
(cioè l’oro); non dice: « La mia poesia è giunta risonante agli
orecchi di ognuno », ma « il corno pieno dell’idromele di Yggr
(appellativo di Odino, dio della poesia) è giunto spumeggiante
alle bocche dell’udito di ognuno ». Cosi se chiama il mare
« casa {bùi) della balena » (hvalr-) e il ghiaccio « pelle (hùd)
del mare » (seer-), mediante l’ingegnoso gioco d’una « kenning »
multipla, può battezzare l’islandese che abita in un paese di
ghiacci: « l’abitatore della pelle della casa della balena (hvals
bùdar hùdlendingr) ». Se dunque nelle sue forme più sem­
plici, la « kenning » si presenta come un composto nominale bi­

initium a tempestate sumpserunt, incendio aut ruina finiunt, quae est


inconsequentia rerum foedissima» (Quint. Inst. or. V ili, 6, 50; cit. in
G. Gerber, Die Sprache der Kunst, Berlin, 18842, II, p. 95).
1 G. Finnbogason in APhS. 9, 1934-35, pp. 69-75.
Medioevo pagano e cristiano 51

membre (Ódins som, jardar konr, Beowulfr ecc.), presso i


maggiori scaldi appare sempre arricchita e complicata attra­
verso un processo di deduzione, nel quale un quid simile può,
con identico valore, sostituire in parte o in tutto l'immagine
originaria.
Questo sofisticato gioco, questo sapiente calcolo analogico
che soffoca il respiro e l’articolazione dell'intera frase, assor­
bendone in sé quasi tutti gli elementi (tranne il verbo in fun­
zione descrittiva, l'avverbio, l'aggettivo dimostrativo e posses­
sivo) non si presenta come tardo difetto di epigoni, ma è già
discernibile negli scaldi più antichi.
Sotto tale aspetto Bragi Boddason (prima metà del IX see.)
che chiama il corvo « cuculo dei cadaveri » (hrcera gaukr)
non è sostanzialmente diverso da Skallagrìmr Kveldùlfsson
(860-940?) che chiama il mantice del fabbro, fatto con pelli
di pecora, « panni succhianti il vento del fratello dell'ariete »
(viàar bródur vedrseggjar vàdir); Kormàkr Ogmundarson
(930-970?) che chiama la spada « ripagatore dei cardini della
porta della fragorosa Ràn » (glym-Rànar gàtthlids innir: « gly-
mja » = rimbombare; « Ràn » = dea del mare; « gàtt » =
porta; « hlid » = cardine; « inna » = ripagare) non è diverso
da Sighvatr J)órdarson (995-1045?) che chiama il corvo « spar­
viero delle lacrime delle ferite » (benja tàrmutari: « ben » =
ferita; « tàr » = lacrima; << mùtari » = sparviero; « lacrime
delle ferite » è una kenning per « sangue »); Glùmr Geirason
(940-985?) che chiama il re prode in battaglia « custode della
siepe del destriero nero di Glammi » (Glamma sóta gards gastir
— « Glammi » è un re vichingo; « sóti » = destriero nero:
kenning per « nave incatramata »; « gardr » = recinto [allu­
sione alla fila di scudi variopinti fissati esternamente ai bordi
della nave]; « gaetir » = custode) non è diverso da Gìsli
Sùrsson (m. nel 978?), che chiama il campo di battaglia « boc­
cone di Muninn » (Munins tugga — Muninn è uno dei due
corvi di Odino) né dal suo collega ]?órarinn svarti Màhlidingr
(fine sec. X), che continuando a ricamare sulla stessa « kenning »
chiama la spada « fuòco del boccone di Muninn » (Munins tuggu
eldr); lo scaldo-guerriero Egill Skallagrìmsson (910-990?) non
è diverso dallo scaldo-chierico Einarr Skùlason (1110-1160?).
Se il primo è insuperato maestro nell'arte d'inventare e
d'invertire le kenningar (il normale passaggio di una « kenning »
da semplice a doppia e a multipla è spesso ulteriormente com­
plicato dall'inversione: hrann-hyrr cioè « fuoco dell'onda » =
oro; hrann-hyr brjótr cioè « spezzatore dell'onda » = principe
52 Le letterature della Scandinavia

munifico, diviene in Egill: hyrìar hrann-brjótr cioè « spezzatole


dell’onda del fuoco ». Analogamente: hjaldr-fold = « terra
della battaglia » = scudo; hjaldr-foldar Gnà cioè « dea della
terra della battaglia » = dea dello scudo; hjaldr-foldar Gnàr
snerrandi cioè « guerriero [snerra = battaglia] che fa lavorare
la dea dello scudo » diviene: fold-Gnàar hjaldr-snerrandi); il
secondo non è da meno nel sapiente impiego di tutti gli arti­
fici del mestiere. Ad illustrarli basterà una strofe tolta alle
sue visur1.
Hrynia lét en hvita
hausmjgll ofan lausa
strind aurrida strandar,
stalls af reikar fjalli.
Il significato è chiaro: la bianca terra lasciò cader giù dalla
montagna la neve sciolta. Ma chi guardi alle « kenningar » tro­
verà che: strind cioè: terra, è l’elemento fondamentale d’una
« kenning » quadrimembre (aurridi o gnidi — trota; strgnd =
costa; trota della costa = serpe; stallr = sede; sede del
serpe = oro) che semplicemente significa « donna »; tnjgtt
cioè « neve fresca » fa parte d’una kenning che significa
« capigliatura ondulata » (hauss testa); fjall cioè « monte »
fa parte di una « kenning » che significa « testa » (reik:
scriminatura; « monte della scriminatura »: testa). Collegate
dunque le tre « kenningar » equivalgono a: la bianca donna
lasciò snodarsi giù dal capo l’ondulata capigliatura. Estrema
sottigliezza verbale e intellettuale! — si dirà. Senza dubbio;
ma procedente dallo stesso gusto che moveva l’« artifizioso e
convenzionale » (De Sanctis) Petrarca a scrivere: « Erano i
capei d’oro a Laura (l’aura) sparsi » e a trastullarsi — talvolta
felicemente — con quegli anfiboli bisticci (lauro, Loreta ecc.)
che, secoli dopo, dovevano essere assunti nell’Olimpo delle
argutezze, delle figure, dei concetti barocchi2.
E all’abilità combinatoria del barocco fa infatti pensare il
gioco dei contrasti e degli inattesi accostamenti concettuali cui
accenna Snorri, quando, nel suo commento alla tecnica scaldica

1 E. A. Kock, òftald, I, p. 233, str. 10; e J. Helgason, Norron Litt.


cit., p. 25.
2 Si pensi — anche fuori d’Italia — a Shakespeare che fa discettare
Romeo (Atto I, scena I) sull’essenza dell’amore: « Feather of lead, bright
smoke, cold fire, sick health... ».
Medioevo pagano e cristiano 53

delle antitesi1, si fa ad illustrare un metro detto hrefvaurf


o « giravolte di volpe »:
Siks glóthar veR ssekìr
slétt skardb bafi iarthar.
Qui siks glóth: splendore della fossa è una « kenning » per
«oro »; veR può essere la terza pers. sing, dell’indicativo di
« verja »: difendere; così ssekir di « saekja »: cercare, iarthar
bafi slétt skardh è una kenning per indicare un fjord e pro­
babilmente allude a una provincia occidentale della Norvegia:
il Firdafylki. Il significato sarebbe dunque: « il guerriero (cer­
catore d’oro) difende la provincia di Firdafylki ». Ma, osserva
Snorri — per mettere in evidenza l’apparire e sparire delle
antitesi che s’avvicendano come giravolte di volpe in fuga —
il concetto di acqua (che riempie la fossa in cui risplende l’oro)
è antitetico al concetto di splendore, di ardore; sasktr po­
tendo anche essere un sostantivo - assalitore è antitetico a
difensore (seekir-veR); sléttr, « liscio » è antitetico a skardh,
« incavo »; haf: mare è antitetico a Firdafylki ch’è una terra;
sicché il senso .riposto, voluto dalla tecnica scaldica sarebbe:
« l’uomo (veR, got. wair, lat. vir) dell’oro assale per mare
il Firdafylki. »!
Ma c’è ben di più. Al lambiccato gioco metaforico e al
vocabolario raro, prezioso, ricchissimo, come s’è detto, di si­
nonimi o epiteti poetici (p. es. « jQr », « fàkr », « marr »,
« drasill » o « drgsull »: cavallo; « lof », « ódr », « bragr »,
« maerd », «h ró d r»: poesia; « fylkir », « dróttinn », « ]?jó-
dann », « allvaldr », « gramr », « visi », « jpfurr », « hilmir »
ecc.: capo) corrisponde, nella tradizione scaldica, una struttura
metrica che ha perduto la libertà ritmica della poesia eddica
e il suo enfatico rilievo delle toniche, governata com’è da un
chiuso numerus syllabarum e da ferree leggi di composizione.
Il principale metro è il dróttkvsett2, formato di otto versi

1 Edda Snorra, cit. p. 223.


2 Cioè « metro della poesia recitata in presenza del séguito del re »;
da Snorri (ed. cit., p. 215) detto upphaf allra bàtta, cioè: metro scal­
dico originario, probabilmente perché per la prima volta da lui trovato
in Bragi. Secondo Heusler (Altg. D., pp. 29-30) e de Vries (Altn. Litg., I,
pp. 91-94) modellato su esempi stranieri, forse mediolatini, che i nor­
dici conobbero pel tramite della poesia irlandese; secondo H. Lie (Skal-
destil-Studier, cit., p. 16 sgg.) creazione ex novo dovuta al genio di
Bragi. In mancanza di prove o indizi sicuri sembra preferibile associarsi
alle prudenti riserve di S. Nordal che lascia aperto l’intero problema
54 Le letterature della Scandinavia

« lunghi » (di 6, eccezionalmente di 7, 8, e anche 9 sillabe


ciascuno) legati a coppia — senza tener conto delle rarissime
anacrusi — da tre arsi principali, e sempre terminanti in un
trocheo. In ogni verso dispari del dróttkveett normale, poi,
deve esserci semirima interna (skothending), in ogni verso
pari rima piena (adalhending), a quanto sembra, con fun­
zione puramente ornamentale (e non di legamento com’è per
l'allitterazione nella poesia eddica); ma molte furono le varian­
ti (l’ottosillabico brynhent, il trisillabico rùnhent, il pentasilla­
bico hadarlag ecc.) elencate con minuta prolissità nelle 102
strofe délVHàttatal di Snorri e, a giudizio di molti, sorte sotto
l’influsso della innologia mediolatina come sembra dimostrare
la « clavis rhythmica » (Hattalykill) attribuita a Rggnvaldr delle
Orcadi e all’islandese Hallr Pórarinsson 1.
Se a ciò si aggiunge l’intricatissima disposizione delle pa­
role nel tradizionale contesto strofico (conseguenza inevitabile
di siffatta prosodia, o piuttosto antico retaggio di magia nu­
merica?) si comprende come i componimenti scaldici — sia
nella complessa e pomposa forma della « dràpa » 2 sia in quella
più semplice e breve del « flokkr » e della occasionale « lausa-
visa » — facciano più pensare a un paziente lavoro d’erudizione
a tavolino che a creazione mnemonica (comunque non certo
estemporanea, ma lungamente meditata) di gente d’arme, di

(Islenzk ntenning., Reykjavik, 1942, p. 234 sgg.). Sui rapporti fra me­
trica eddica e metrica scaldica v. Genzmer in JGEPh., X III, pp. 323-33;
L. M. Hollander, ivi, LII, pp. 190-197; e E. Ól. Sveinsson, tslenzkar
bókmenntir, cit., pp. 108-118.
1 Dopo G. Neckel (Beitràge zur Eddaforscbung, Dortmund, 1908, p. 14)
hanno sostenuto questa tesi, oltre Heusler (Altg. D.y p. 29) e de Vries
(Altn. Litg., I, p. 212), S. Nordal, Egilssaga Skallagrimssonar, Reykja­
vik, 1933, p. 220 e F. J. Raby, A History of Christian-Latin Poetry
from the Beginnings to the Close of the Middle Ages, Oxford, 1953,
pp. 138, 150. Un parallelo nel campo romanzo è offerto — com’è noto —
dalla metrica trovadorica, i cui modelli più antichi risalgono all’innica re­
ligiosa del Medioevo (H. Spanke in Studi Medievali n. s. 7, 1934, p. 83).
Cfr. anche J. Helgason-A. Holtsmark, Hàttalykill enn forni, Kobenhavn,
1941, p. 118 sgg.; 142 sgg.; G. Turville-Petre, Origins of Icelandic Litera­
ture, Oxford, 1953, p. 141 sgg. Rggnvaldr che s’ispirava — come è stato
dimostrato — alT« Ars major » di Donato, fa derivare la allitterazione dal­
la poesia latina (!) e ne paragona la funzione nella poesia norrena ai chio­
di che tengono insieme la nave (upphaf til kvcedandi peirrar er saman
heldr norrcenum skàldskap, svà sem naglar halda skipi saman) in Islands
grammatiske litteratury II ed. B. M. Ólsen, SUGNL, n. 12, p. 96.
2 Cosi detta forse per l’« inserimento » in essa di uno o più ritornelli
(stef) in una o più strofe (cfr. S. Nordal in APhS, 6, 1931, pp. 144-149).
Medioevo pagano e cristiano 55

individui poeticamente dotati, benché senza alcun dubbio anafc


fabeti1. Due saggi tolti al mutilo carme imprecatorio di Egill
contro Eirikr blódox2 e al carme encomiastico del suo allievo
Einarr skàlaglamm (Vellekla3) serviranno a concludere questo
breve esame della tecnica scaldica:
Svà skyldi god gjalda Cosi possano le divinità ripagare
gram reki bgnd af Igndum il principe e cacciarlo dalle terre;
reid sé rggn ok Ódinn — sfoghino la loro ira le potenze
rgn mins féar hgnum! e Odino su di lui, ladro dei miei
[beni!
Folkmygi làt’ flyja L’oppressore facciano fuggire,
Freyr ok Njgrdr, af jgrdum Freyr e Njordr, dalle terre;
leidisk lofta stridi s’adiri l’Aso di terra []?órr]
landàss panns vé grandarl contro il nemico dei liberi,
contro il profanatore della sacra
assemblea!
Berk fyrir hefnd pàs hrafna Tributo il mio encomio per la
— (hljóms) lof (togins skjóma vendetta che il custode dei corvi
hann nam) — vgrdr (at vinna) delle onde [corvo delle onde =
vann sins fgdur hranna. nave] prese a causa di suo padre.
Egli riuscì a far lavorare la
sonante e lampeggiante spada
sguainata.
Anche qui sono visibili, nel primo verso della prima strofe, i
due « studiar » o arsi allitteranti (g - g) con lo « hQfudstafr »
o arsi principale del secondo (g), nonché le rime consonantiche
interne che seguono a vocali toniche diverse {yld - aid), e, nel
secondo verso, le rime interne piene (gn-gn). Del pari, nella
seconda strofe, le rime consonantiche interne dei primi due
versi (h) e le semirime o assonanze (efn-afn; jóms-jóm; inn-
ann); mentre, a misurare Pincomprensibile arbitrarietà dell’or­
dine sintattico, basta tener presente che l’uso prosastico, al
quale, malgrado il lessico scelto, sostanzialmente si attiene lo
stile eddico, richiederebbe: « Berk lof fyr hefnd pàs vgrdr
hranna hrafna vann sins fgdur; hann nam at vinna hljóms
togins skjóma » - cioè letteralmente: « porto io elogio per la
vendetta che il custode dei corvi delle onde prese per suo

1 Heusler, Altg. D., p. 140.


2 Kock, Skald., I, p. 30, str. 29.
3 F. Jónsson, Skjald., cit. A. 124, B. 118.
56 Le letterature della Scandinavia

padre; egli riuscì a far lavorare lo strepito della sgainata [luce


lampeggiante] spada ».
Era cantata o semplicemente recitata questa poesia? Esi­
stevano regole (ritmiche, mimiche) che la rendessero intelligi­
bile (sia pur entro ristrette cerchie di iniziati, e non senza
sforzo di penetrazione) non solo agli islandesi ma anche ai
prìncipi nordici e anglosassoni presso i quali gli scaldi erano
tenuti in tanto onore? Se qui, a differenza di altre aree germa­
niche, le fonti non parlano di accompagnamento musicale, è
però verosimile pensare che, in corrispondenza di sì elaborata
struttura metrica, esistessero determinati canoni di recitazione,
d’intonazione1 — e anche di disposizione delle parole nel con­
testo strofico.
Le strutture più semplici non presentano in verità ostacoli
insormontabili. Una strofe delle Banasàrsvisur di Hallfrodr
Óttarson, da noi qui tradotta con indicazione, in parentesi in
incisi e in numeri romani, delle parti da collegare, basterà
forse a dare un’idea di come tale collegamento a senso, potesse
essere suggerito dalla semplice intonazione della voce:
(Ek munda nù andask) (Ora spirerei [I])
— ungr vask hardr i tungu — — da giovane fui maledico —
senn, ef sàlu minni subito [II]; se la mia anima
(sorglaust), vissak borgit. (senza paura [III]) sapessi salva.
Veitk at vsettki sytik So che nulla temo io
(valdi god, hvar aldri) (decise Dio dove la vita mia [IV])
— daudr verdr hverr — nema — ogni uomo muore — fuorché
[hr&dumk [ho paura
helviti (skal slita) 2 deirinferno (troverà fine [V]).
Non diversamente, la seguente emistrofe3 della « dràpa » di
Einarr skàlaglamm in onore di Hakon jarl, risulta intelligibile
anche a chi ha una conoscenza elementare di tecnica scaldica:
Byggdi Ignd (en lunda Occupava la terra (e dei guerrieri
lék ord a pvi) fordum. prendo a prestito le parole) una
Gamia kind, sùs granda volta la stirpe di Gamli, che
(gunnbords) véum pordi. profanare (dello scudo) i templi
[osò.

1 È nota l’ipotesi di I. Lindquist (Galdrar, Goteborg, 1923, p. 3 sgg.)


sulla recitazione dei carmi magici « in falsetto ».
2 Kock, Skald. I cit., p. 88. De Vries, Altn. L i t g cit. I, p. 217, la
ritiene spuria per ragioni metrico-stilistiche, a causa cioè dei tre tipi
di adalhending mai ricorrenti nella poesia di Alfredo (ung, org, it).
3 Kock, Skald. I, p. 66, str. 1.
I Medioevo pagano e cristiano SI

cioè: Gamia kind, su es pordi granda vé, byggdi fordum Igni,


en gunnbords lunda ord lé ek a pvt = « La stirpe di Gamli
(figlio di Eirikr blódox) che osò profanare i templi, occupava
una volta la terra; e notizia di ciò io ho udito (prendo a
prestito) dai guerrieri dello scudo ». Qui il primo genitivo
plur. (lunda) fa, per consuetudine, parte d’una « kenning » in­
dicante « guerra, battaglia » ecc.; sicché chi ascolta, e subito
mentalmente lo lega al secondo genitivo (gunnbords) nell’ul­
timo verso, afferra senza sforzo il significato della « kenning » e
delPemistrofe.
Ma la perplessità comincia quando le strutture si fanno
intricate e complesse fino alFenigma, quando le « kenningar » a 4
a 5 a 6 composti s’annodano e si snodano s’incapsulano e si
segmentano, moltiplicando cosi le possibilità d’interpretazione,
ma anche d’errore l. Si è parlato di schemi fissi della costru­
zione strofica; si è tentato di analizzarli e di fissarli secondo
una ragionata casistica (allineamento parallelo di due frasi:
ab; inserimento d’una frase fra due altre: a(b)a; intreccio di
due frasi: a b -a b )2; ma la complessità strutturale delle sin­
gole strofe ha troppo spesso sfidato ogni canone interpretativo
costringendo gli esegeti a sempre nuove congetture. Riprendia­
mo, ad esempio, la strofe 10 della Vellekla3, che non presenta
certo problemi insolubili. Jónsson interpreta: Berk lof fyr hefnd
pàs vgrdr hranna hrafna vann sins fgdur; hann nam at vinna
bljóms togins skjóma = « faccio l’elogio per la vendetta che il
custode dei corvi delle onde (navi) prese a causa di suo padre;
egli riuscì a far lavorare lo strepito della sguainata [luce lam­
peggiante] », cioè, « spada ». Ma si può anche con Reichardt4
intendere: Berk lof togins skjóma hljóms fyr hefnd: faccio
l’encomio della battaglia (hljómr « strepito »; togins skjóma
« della spada sguainata »; skjómi è elemento fondamentale

1 Heusler, Altg. D., p. 135 ricorda a proposito della tmesi dei compo­
sti il latino di Ennio e di Alcuino; de Vries (Altn. Litg., I, p. 86,
nota 3) quello di Beda. Altri esempi si potrebbero citare (cfr. W. Kroll,
Studien zum Verstàndnis der róm. Lit., Stoccarda, 1924, p. 261 sgg;
F. J. E. Raby, cit., I, p. 191.
2 K. Reichardt, Studien zu den Skalden des 9 u. 10 Jahrhunderts, Leip­
zig, 1928, p. 79 sgg.; W. Mohr, Kenningstudien, cit., pp. 4-14 parla di
un Erledingungsprinzip, in base al quale sarebbe agevole ricongiungere
e completare le frasi interrotte nel contesto strofico.
3 Succitata nel testo e nell’interpretazione di F. Jónsson.
4 Op. cit., p. 89.

XXVII - 3. Lett, della Scandinavia.


58 Le letterature della Scandinavia

della nota « kenning » skjómi daltangar, cioè « raggio della


morsa dell’arco » = della mano), a causa della vendetta; pàs
hrafna hranna vgrdr vann fgdur sins: che il capo prese a
causa di suo padre; pat nam at vinna: egli vinse. Jónsson —
osserva Reichardt — preferendo la lezione d’un solo Ms., in
contrasto a quella identica di tutti gli altri, emenda il dimo­
strativo neutro pat (da riferirsi al sostantivo lof) in nomina­
tivo maschile singolare hann; e ciò per restaurare la skothen-
ding, del terzo verso; ma nulla vieta che al posto del nom. si
metta l’acc. pann e lo si accordi con hljómr. Né è da escludere
la possibilità d’una terza interpretazione 1: Ek ber fyrir pà
hefnd, es hranna hrafna vgrdr vann at vinna sins fgdur: hann
nam lof togins skjóma hljóms cioè « io narro (nella mia poesia)
la vendetta che il custode dei cavalli delle onde seppe pren­
dere a causa di suo padre: egli consegui fama con la sua
spada sguainata ».
Ora, fatta pur larga parte all’eccezionale memoria e abilità
degli scaldi norreni in fatto di lingua e tecnica versificatoria,
ammessa l’autenticità di decisive testimonianze storiche2, è
possibile — ci si è chiesto — che i principi nordici e il loro
seguito intendessero, al solo sentirla recitare, siffatta poesia?
Ne spiegava forse lo scaldo stesso, a recitazione ultimata, i
versi difficili, le allusioni mitologiche più oscure, gli accenni
a fatti malnoti, le innovazioni metriche e stilistiche? O l’udi­
torio ne afferrava solo genericamente e approssimativamente
il senso? O si vuole addirittura ammettere l’assurdo: d’un ge­
nere poetico fiorito per secoli senza la necessaria mutua com­
prensione fra chi poetava e chi ascoltava?
La risposta a simili quesiti varia naturalmente a seconda
dei punti di vista dei vari interpreti, di volta in volta oscillanti
fra opposti radicalismi.
Per la scuola islandese, nata nel solco d’una gloriosa tra­

1 À. Ohlmarks, Tors Skalder och Vite Krists, Stockholm, 1958, p. 367.


2 Lo scaldo Mani che recita in presenza, del re Magnus Erlingsson un’in­
tera dràpa poetata 70 anni prima da Haldórr skvaldri (Sverrissaga,
c. 85); Stufr che recita un gran numero di flokkar e poi un proprio
carme encomiastico in presenza di Araldo il Severo, il quale poi lo
ricompensa accogliendolo nella propria bird (Stufssaga, ed. B. M. Ólsen,
Reykjavik, 1912, pp. 13-14); Araldo stesso, benché non scaldo profes­
sionale, capace di giudicare sin nei minimi particolari della tecnica poe­
tica, al punto da accorgersi d’una licenza (sillaba breve rimante con sil­
laba lunga) nella strofe estemporanea composta da l)jódólfr Arnórsson
(cfr. H. Kuhn in ZDA, 74, 1937, p. 60).
Medioevo pagano e cristiano 59

dizione di studi di linguistica e di critica testuale (che va dal


grande Lexicon poeticum antiquae linguae septentrionalis, 1854-
65, di Sveinbjòm Egilsson alle ricerche specialistiche di Kon­
rad Gislason, di G. Vigfùsson, di B. M. Ólsen e di F. Jónsson),
la più assoluta libertà dell’ordine verbale e sintattico nell’àm­
bito della strofe non doveva impedirne l’intelligenza. Si trat­
tava solo di emendare i passi corrotti, e la poesia scaldica
avrebbe così perduto ogni parvenza esoterica. F. Jónsson so­
prattutto è stata per un ventennio il massimo rappresentante
di questo razionalistico « pruritus emendandi » 1 che dall’inizio
del nostro secolo ha furoreggiato anche in seno alla critica
eddica. In opposizione più apparente che reale alle idee dello
Jónsson, lo svedese E. A. Kock, nella sua critica e riedizione
dei testi scaldici, ha fatto valere — almeno in sede teorica —
l’esigenza d’un ritorno integrale ai Mss. i cui guasti egli cre­
deva di dover attribuire all’incomprensione degli editori, in
primo luogo a Snorri. Ma nel corso del suo lavoro anche Kock2,
a prescindere da singole geniali intuizioni, non ha fatto che
ripiegare sulle più dottrinarie posizioni di F. Jónsson.
Né molto più in là si è spinto chi, dopo di lui, ha lavo­
rato all’interpretazione della poesia scaldica. In Germania R.
Meissner, nel suo studio sistematico e analitico delle « kennin-
gar », è sostanzialmente rimasto fermo al pensiero di Jónsson;
K. Reichardt e W. Mohr hanno tentato di enunciare nuovi
canoni esegetici senza perciò varcare i confini d’un sia pur
utile empirismo; e lo stesso H. Kuhn, che in fiera polemica
con Kock ha voluto confutarne il metodo in nome di fondati
principi metrici e sintattici, non è ancora giunto a una posi-
1zione teorica e critica feconda di positivi risultati3. Cosi anche
il recente tentativo del norvegese H. Lie, che vuol interpre­
tare la poesia scaldica come espressione d’arte astratta anor­
ganica, nata in gara con l’animalistica ornamentale dell’età

1 V. ANF, 40 (1924), p. 322; 45 (1929), p. 130 sgg.; 49 (1933), p. 1.


A F. Jónsson si deve la prima edizione diplomatica di quasi tutto il
materiale scaldico (dalle origini al 1400 c.) in 2 voli.: Skjald., cit.:
A (testo e varianti), B (testo emendato con traduzione prosaica in danese).
2 N.N. cit. (critica al testo di F. Jónsson; per i criteri metodologici
v. specialmente i parr. 131, 149, 155, 201, 502; e Skald., cit. Testi
emendati, senza apparato critico e senza traduzione).
3 PBB, 60, 1936, p. 133 sgg. e Dìe Skaldendicktung in Germ. Philólo-
gie (Festschrift O. Behagel, Heidelberg, 1934, pp. 411-418).
60 Le letterature della Scandinavia

vichinga ci sembra più destinato ad aumentare i dubbi che


a dissiparli.
In realtà ancor oggi non esiste una formula univoca, una
chiave, un metodo sicuro per restaurare e interpretare le strofe
scaldiche.
Malgrado la sua complessa e rigida struttura, la lunghis­
sima tradizione orale indubbiamente espose questa poesia (e
le riserve formulate da Snorri ce lo confermano) a frequenti
inquinazioni contaminazioni e manipolazioni, che si moltipli­
carono all’atto delle prime e più ancora delle susseguenti tra­
scrizioni. Se oggi conosciamo alcuni almeno, degli errori di
chi la trascrisse e spessissimo senza intenderla la emendò,
quanti di quelli a noi ignoti non saranno già sorti in fase di
trasmissione orale2? E come avvenne esattamente questo pas­
saggio dalla forma orale a quella scritta? Quando e dove
avvenne? E chi furono gli scribi e gli amanuensi? Nulla è dato
rispondere a siffatti quesiti, se non in via congetturale. Lo
stato stesso poi in cui troviamo la maggior parte dei versi

1 Dopo aver attribuito (in Skaldestil-Studier, cit., pp. 3, 57, 70 sgg.)


a Bragi la creazione della drapa scaldica in dróttkvsett, a causa della
indimostrabilità di un’evoluzione genetica di tale componimento da più
antiche forme germaniche, Lie, richiamandosi a spunti di A. OMk
(Nordisk Aandsliv. cit., p. 101) e di Heusler (Altg. D., p. 140 sgg.) e allo
psicologismo estetico di W. Worringer (in Natur og Unatur i Skaldekun-
sten, Atti Acc. Scienze, Oslo, 1957, pp. 5-122) sostiene che Bragi per
primo tentò di tradurre in poesia le concezioni magico-sacrali dell’arte
figurativa vichinga, imitando le decorazioni mitologiche degli scudi nor­
dici. Questa ingegnosa teoria urta però contro non poche difficoltà.
Anzitutto la mancanza del relativo materiale archeologico, indispensa­
bile a ogni raffronto; in secondo luogo, pur ammessa la genesi figura­
tiva della poesia scaldica (in concorrenza con l’arte «anorganica» orna­
mentale delle navi vichinghe ritrovate a Oseberg), non se ne spiega la
complicatissima metrica; per non dir nulla delle teorie del Worringer
(Abstraktion u. Einfiiblung, Monaco, 1916) tutt’altro che convincenti
quando dal rilievo di determinati caratteri formali vogliono risalire a
indimostrati presupposti psicologici. È possibile p. es. sostenere (op. cit.,
p. 80 sgg.) che gH artisti rinascimentali furono « costruttivi » e non
« astrattivi » perché ispirati da Einfiiblung, cioè da panteistica simpatia
pel mondo circostante? E un Piero della Francesca che creava secondo
1 princìpi dell’« aurea geometria »; e un Diirer che componeva secondo
princìpi che oggi chiameremmo cubistici?
2 Cfr. F. Jónsson, Litt. hist. I, p. 395 sgg.; E. Noreen, Ben norsk-
islàndska Poesien, cit., p. 144, nota 1; e soprattutto J. Helgason (Norr.
Litt. cit., pp. 102-108), che di fronte alla palese corruzione dei testi ci
sembra il più coerente nel ripudiare le divinazioni della critica con­
getturale.
Medioevo pagano e cristiano 61

scaldici, mentre rende insolubili molti problemi d’interpreta­


zione e d’autenticità (p. es. i versi della Grettissaga apparten­
gono, per lingua e stile, al XIII see. mentre il loro presunto
autore Grettir è vissuto circa 250 anni prima; viceversa quelli
della Kormàkssaga sono incorniciati da un commento assai
più recente e palesemente anacronistico), esclude ogni possi­
bilità di costruire uno stemma di Mss. sulla base dei fram­
menti interspersi nella prosa delle Saghe. Solo quando saranno
pubblicate tutte le edizioni critiche di queste ultime, si potrà
forse avere qualche testo meno provvisorio e qualche lezione
più attendibile.
Ciò che intanto va riconfermato, sulla base della pur cor­
rotta documentazione, è il problema generale della poesia scal­
dica. Prima di tutto la mancanza d ’equilibrio tra forma e
contenuto, anzi il primeggiare di quella su questo (come nella
poesia trovadorica, minnesinghera e, aggiungerebbe il compa­
ratista, preislamica1). Alla sbalorditiva ricchezza formale, al
virtuosismo sinonimico, all’amore della parola come puro suo­
no, non corrisponde infatti una varietà di temi, di motivi,
d’orizzonti intellettuali; agli equilibrismi d’una lingua flessiva
ricchissima di desinenze come e più del latino2; all’insuperata
perizia tecnica non tiene dietro quasi mai il volo d’una schietta
ispirazione poetica, ostacolato com’è e mortificato dalle pastoie
dei mezzi espressivi3. È evidente che per lo scaldo non si
trattava di dare libera espressione ai propri sentimenti, ma di
risolverli, secondo le codificate regole di questo genere d’elo­
quenza d’apparato, in una girandola di sottilissime metafore,
in un luccichio di gemme verbali, in una cascata di effetti so­
nori, certo non privi di fascino per chi aveva preso parte alle
gesta celebrate dal poeta. Il contributo personale dello scaldo,
il suo orgoglio d’artista consisteva dunque nell’aggiungere sem­
pre nuovi anelli a una catena di stereotipe figure tradizionali,

1 Heusler, Altg. D., p. 140, nota 4.


2 Idem, ibid., p. 135 sgg.
3 Significativa l’oscillazione di giudizio d’uno studioso come J. de Vries,
ben consapevole dei problemi di fondo che pone la poesia scaldica.
A p. 49-50 (Altn. Litg. cit. I2) citando dei celebri versi di Egill afferma
che solo il grande poeta sa piegare questo genere di poesia al senti­
mento; a p. 63 censura i filologi che con il loro pruritus emendandi
avrebbero spento l’afflato poetico di tale poesia; a p. 99-100 dichiara
che il carme scaldico non è proprio poesia, ma cerimoniale di corte;
a p. 109-110 rifiuta il paragone fatto da altri col marinismo, ma rico­
nosce che gli scaldi volevano più stupire che commuovere.
62 Le letterature della Scandinavia

nelPescogitare sempre più elaborate combinazioni analogiche


e metriche, sempre più ornate ed enigmatiche locuzioni che
servissero a celebrare la munificità e le imprese del principe.
La poesia scaldica — è stato detto1 — almeno nella sua più
tipica forma della « dràpa » in drottkvsett, non narra (co­
me la Saga) né drammatizza (come il carme eroico), ma per­
petuamente oscilla tra la cronaca versificata e la lirica. Ed è
vero; ma bisogna aggiungere: senza quasi mai potersi identi­
ficare né con Tuna né con l’altra, perché Padesione alla sua
intima natura le impedisce tanto un coerente racconto di fatti
quanto una personale effusione di sentimenti. Mai forse ci fu
tradizione d’arte, almeno in Occidente, nella quale il mestiere,
la convenzione letteraria (più assai di quanto fosse costume
nel Medioevo) livellò e uniformò sin quasi a obliterarle le
singole individualità poetiche — e ciò sia detto con buona
pace degli odierni apologeti della poesia scaldica, troppo spesso
eredi del gusto antiquario di O. Worm, che, già nel Seicento,
credeva scoprirvi un artificium nequaquam barbarìem redolensl

EGILL SKALLAGRfMSSON

Pure se in sede estetica va riconfermato il carattere in­


trinsecamente retorico del metaforismo scaldico — la cui ge­
nesi fu determinata da non chiari fattori storici e psicologici
— non si può negare che singole figure di artisti, almeno in
occasionale contrasto agli schemi canonici, riuscirono a piegare
l’artificio all’emozione lirica, a far trasparire, attraverso l’insi­
stente lavorio d’ornamentazione, uno schietto sentimento poe­
tico. Per esempio i norvegesi Porbjgrn hornklofi e 0yvindr
" skàldaspillir che si servirono di modi e metri eddici; gli islan­
desi: Kormàkr, sul cui analitico e anatomico descrizionismo
passa a volte un soffio di fremente passione; Sighvatr, le cui
eleganti strofe parenetiche già rispecchiano lo schiudersi della
società nordica a più ampi orizzonti intellettuali; e più ancora
di questi Egill Skallagrìmsson.
Senza dubbio il maggiore dei poeti norreni per l’assiduo
impegno di tradurre in cifra la realtà, per la maestria del
verso, per le audacie metriche e morfologiche, per la vastità
della cultura mitologica e magico-runica, Egill impersona, quasi
in forma paradigmatica, l’ideale eroico caro alla poesia scaldica

1 Heusler, Altg. D., p. 120.


Medioevo pagano e cristiano 63

e alla Saga. Natura ricca di contrasti, bramoso di gloria e di


ricchezza, ribelle e vendicativo, ma insieme non insensibile
alPaffetto e alla generosità, al dolore e alla morte, Egill cam­
peggia al centro d’una delle più belle Saghe nordiche, da qual­
cuno 1 attribuita alla penna di Snorri, e, in tal caso, posteriore
di due secoli ai fatti narrati.
Tutto l’aspro aroma dell’ideale vichingo è racchiuso in
queste pagine rievocanti con non comune potenza artistica la
figura d’un eroe quale poteva concepirlo un’età barbarica:
guerriero e poeta già in tenera età, discendente dei primi
coloni d’Islanda, che in pari misura gli trasmettono il furor
bersercicus (berserksgangr) cioè il culto della forza bruta e il
dono della poesia, vìkingr mikill o grande vichingo, desideroso
di coquistare ricchezza e fama (afla fjàr ok frcegdar), saccheg­
giatore e devastatore in Curlandia e in Danimarca e poi strenuo
combattente a fianco di re Etelstano a Brunanburh (937); e
finalmente solo e vecchio di fronte alla morte imminente, che
attende senza speranza e senza paura.
È un quadro non certo scevro di frange leggendarie, ma
quanto mai incisivo nel disegno e documentariamente prezioso
per i versi scaldici contenutivi (i più in dróttkvsett), della cui
attribuzione a Egill — almeno per buona parte — non si ha
ragione di dubitare. Troviamo qui, insieme a varie strofe libere,
composizioni più ampie se pur mutile: venti strofe, in rùn-
hent, d’una « dràpa » poetata, secondo la tradizione, a York,
per sfuggire alla vendetta di Eirikr Asciasanguinosa (Hgfud-
lausn) e non poche, in kviduhàttr, d’un’altra in onore del
fedele amico Arinbjgm, signore del Firdafylki (Arinbjar-
narkvida): autentico capolavoro d’abilità diplomatica la prima,
di altera e affettuosa gratitudine la seconda, ma entrambe formal­
mente irretite nel preziosismo professionale della poesia corti­
giana. La terza maggior « dràpa » di Egill sulla morte dei figli
(Sonatorrek) merita un posto a parte nella poesia scaldica sia
per la schiettezza dell’ispirazione che fonde in una unica vi­
brazione lirica le diverse parti del lamento funebre tradizionale
(<erfikv&di), sia per l’insolita semplicità d’eloquio che tende
a infrangere le regole tradizionali. In un tono personalissimo,
— in cui s’alternano rievocazioni e meditazioni — unico nella
antichità nordica, Egill vi ha trasfuso il suo sentimento univer­
salmente umano prima che pagano: l’amore per i figli e il

1 S. Nordal, 1. /. cit. II, prefazione pp. 11-25 sgg., e altri con lui.
64 Le letterature della Scandinavia

dolore per l’irreparabile perdita, trapassante in funereo canto


sul destino dell’intera stirpe e suo proprio.
Oggi, benché liberato dai travestimenti romantici1, e solo
parzialmente restaurato2, il Sonatorrek è fra i pochissimi com­
ponimenti scaldici che ancora ci parli con la voce universale
della poesia. Nato com’è nell’àmbito d’una precisa situazione
storica e tradizione stilistica, materiato d’una inconfondibile
concezione fatalistica e tribale, se ne distacca però per il tono
profondamente meditativo, per il volontarismo individualistico,
per la coscienza tragica della realtà. Quel che c’è di stereo­
tipo e d’impersonale nella poesia scaldica, sembra scomparso
o attenuato in questa elegia di Egill, cui invano si son cercati
paralleli entro l’area germanica3; e anche sul piano formale
il metro epico, un kviduhàttr, assai simile all’eddico forn-
yrdslag, sobrio, agilissimo malgrado il complesso gioco delle
allitterazioni, il peso degli arcaismi (negazioni enclitiche, par-i
ticelle espletive del verbo, forme medie apocopate ecc.) e delle
oscure « kenningar » mitologiche4, sottolinea il contrasto alla
fastosa solennità del dróttkveett, al pedantesco calcolo delle
sillabe, alla tradizionale unità sintattica delle emisrofe. È que­
sta intensità di passione individuale, questo stile vissuto che
differenzia il Sonatorrek dalla restante produzione di Egill e in
generale dal pietrificato manierismo della poesia scaldica.
È noto come nacque il carme — almeno secondo la Saga
(c. 78). Il diciottenne figlio di Egill, Bgdvarr, traversando un
giorno in barca la Hvità, nell’Islanda sud-occidentale, fu tra­
volto dalla tempesta e annegò. Recuperatone il cadavere (rac­
conta la Saga), il padre lo seppellì nel tumulo di famiglia al
capo di Digranes, e tornato quindi a Borg si chiuse in casa per

1 Celebre quello in quartine trocaiche allitteranti tentato nei Guerrieri


a Helgeland da Ibsen che, sulla scorta della traduzione danese di
N. M. Petersen, filologicamente non sempre sicura (Historiske Fortsel-
linger om Islandernes Faerd hjemme og ude, Kobenhavn, I, 1839) lo
interpretò in senso folcloristico-teatrale. Ma anche studiosi moderni hanno
voluto vedervi, non senza una punta d’inconsapevole romanticismo, una
sorta di confessione pagana (G. Neckel, Beitràge zur Eddaforschung,
cit., p. 375; de Vries, Altn. Litg., cit., p. 134).
2 Intero ci è serbato in un unico e assai guasto Ms. del Seicento, il
cosiddetto Ketilsbók (AM. 453, 4°). Il testo di Kock (op. cit. I, pp. 21-
24), qui riprodotto, è ricostruito. A solo fine orientativo si indicano qui
le varie radici germaniche dei vocaboli usati dalla poesia scaldica, diffi­
cilmente accessibile ai non specialisti.
3 Heusler, Altg. D., p. 147 sgg.
4 M. Olsen, Commentarli Scaldici, I, in ANF, 52, 1936, pp. 209-255.
Medioevo pagano è cristiano 65

lasciarsi morire di fame. Solo uno stratagemma della figlia


Porgerdr valse a farlo desistere da tal proposito e lo indusse
a comporre il Sonatorrek in onore del defunto:

SONATORREK 1

1
Mjgk erum tregt Amara pena
tungu at hrcera, mi stringe la gola;
loptvega e torpida è la lingua,
Ijódpundara 2. bilancia del canto.
Esa veenligt Né agevole è
of Vidurs pyfi3 il tesoro della poesia
né hógdrcegt dai recessi dell’anima
ór hugar fylgsnù estrarre.
2
Esa audpeystr 4, E molto doloroso è
pvit ekki veldr dall’anima
hgfugligr, far sgorgare la poesia;
ór hyggju stad la felice scoperta
fagnafundr fatta da Odino
Friggjar nidja5 all’alba dei tempi
àr borinn nel paese dei giganti.
ór Jgtunheimum,

1 Lett.: « Perdita irreparabile dei figli »; dal gen. plur. sona, il pre­
fisso avv. tor (cfr. got. tur-, aat. zur-, perduto nelle lingue germaniche
e scandinave, fuorché nell’islandese, dove è ancora d’uso frequente) e il
sost. rek (cfr. sved. vrak; ingl. wreck e wretch).
2 La lingua paralizzata dal dolore e dalla fame è qui chiamata « bilan­
cia [misuratrice] del canto» (hljód, got. hliup, ags. hleodor, dan. lyd;
pundari, lat. pondo, ingl. pound); lett. i primi tre versi suonano:
molto è difficile muovere la lingua in aria, ecc. Così Kock, N. N.,
par. 3002; ma vedi anche le opinioni diverse di I. Lindqvist, Norrona
lovkvàden I, Lund, 1929, p. 26 sgg.; e S. Nordal, 1. /. II, 1933, p. 246.
3 La « kenning » « preda di Vidurr » — appellativo di Odino — allude a
un noto episodio narrato da Snorri nell’Edda (v. sotto nota 5). Hóg-
drcegt = lett. facile a trasportare: da haga e draga.
4 Dal prefisso avv. aud (manca nel got., ma cf. ags. èàd = easy) e il
verbo peysa = far sgorgare; lo stesso icastico verbo usa le Saga (cap. 71)
quando Egill, per vendicarsi ignominiosamente del contadino Asmódr
skegg, che aveva osato offrirgli latte acido invece di birra, gli vomita
in viso. Ekki (cfr. norr. gngr, got. aggwus, lat. angustus).
5 Lett.: « la felice scoperta del parente (nidja è un plur. poet, con
significato di sing.) di Frigg »; allusione al mito narrato da Snorri nel-
rEdda (ed. cit., p. 85) e insieme anticipazione del concetto catartico
66 Le letterature della Scandinavia

3
lastalauss perché l'ottimo
es lifnadi1 timoniere
ngktveri à 2. esanime fu lasciato
ngkkva bragi3 sul nudo scoglio.
Jgtuns hals 4 Ululano ora le onde
undir pjóta a pie' del tumulo
nàins nidr dove mio figlio riposa.
fyr naustdurum5
4
pvit sett min Perché la mia stirpe
à enda stendr è abbattuta
hreggbardir 6 come, percosso dalla folgore,
sem hlynir marka. acero nella foresta.
E sa karskr madr, Triste è colui che
sàs kggla berr la salma esanime

della poesia svolto più avanti alle strofe 23-24. Ma l’emendazione del
testo priggja in Friggjar appare dubbia (v. R. Meissner, Die Kenningar
der Skalden, p. 429 sgg.; H. Kuhn, PBB, 60, 1936, p. 144; e M. Olsen,
cit., ANF, p. 212).
1 Lifna (cfr. sved. làmna, dan. levne, e il got. af-lifnan, che traduce
il greco perileipesthai): esser lasciato, esser superstite.
2 À. Ohlmarks (op. cit., p. 300) giustamente interpreta l’apax legome-
non ngkkverr come « nudo scoglio dove si pesca » (cfr. ags. woer — mare
e norr. vermenn = pescatori; verità = stagione della pesca).
3 II bragi della biremi (norr. nokkvi, ags. naca, ted. Nachen; v. Edda
snorrica, ed. cit., p. 62) è Bgdvarr. Sembra più congruente inten­
dere bragi come aggettivo e perciò scriverlo con la minuscola (cfr. ags.
brego = princeps), anziché pensare a Bragi dio della poesia. Ma vedi
la diversa interpretazione di M. Olsen, cit., p. 215.
4 La « kenning»: Jgtuns hals undir = « ferite del collo del gigante»,
allude al mito di cui racconta Snorri nelYEdda (ed. cit., p. 14). Non
sembra convincente l’interpretazione di L. Lindquist (Norrona lovkvà-
den I, cit., p. 26) che emenda hals in hélds = rugiadoso.
5 Lett.: « davanti alla porta della baracca per le imbarcazioni » (presso
il capo di Digranes). Fu Bgdvarr sepolto in una nave, secondo l’uso
vichingo? Nàinn prop, vicino, congiunto. L. Wolf in Zum Sonatorrek
(Edda Skalden Saga, Festschrift F. Genzmer, Heidelberg 1952, p. 107)
interpreta, sembra, con scarsa congruenza, naust = aula (di Ràn).
V. invece M. Olsen, cit., p. 217.
6 Hregg è propriamente la tempesta accompagnata da pioggia, e il part,
pass, del verbo berja va qui accordato con il plur. del sostantivo:
« aceri ». L ’accento alla stirpe introduce uno dei motivi centrali del
carme. Secondo la concezione del germanesimo primitivo la stirpe è
infatti depositaria di tutte quelle forze salutifere che reggono l’indivi­
duo e la collettività. Da notare anche l’uso frequente della litote, tra­
duzione stilistica dell’ideale vichingo, della morale eroica, che esigeva
dominio di sé e impassibilità di fronte al destino.
Medioevo pagano e cristiano 67

freenda hrcers 1 d’un parente


af fletjum nidr2. porta alla fossa.
5
pó munk mitt Devo però prima dire
auk módur ht0r di mia madre morta,
fgdur fall di mio padre caduto.
fyrst of telja. Porto ora fuori
pat berk ut del tempio della bocca
ór ordhofi i rami dell’encomio
meerdar timbr rinverditi dalla parola.
mali laufgat3.
6
Grimi vgrum4 hlid, Crudele spezzò
pats hrgnn of braut Tonda
fgdur mins il sacro recinto
à freendgardi. della stirpe paterna.
Veitk ófullt Lo vedo: squarciata
ok opit standa e irreparabile sta la breccia
sonar skard, aperta dal mare.
es seer of vann.
7
Mjgk befr Rgn5 Furiosa mi colpì
of rysktan mik; la gigantessa del mare;
emk ofsnaudr privo sono di coloro

1 tìrcer o breyr (cfr. ags. hryre, lat. ruina) = . cadavere; kggull = giun­
tura.
2 Flet (cfr. ags. flet = aula, ingl. fiat) può essere la casa come la fila
dei banchi nelPaula regia.
3 Come ha osservato S. Nordal (Egils saga Skallagrimssonar, cit., p. 248)
e poi À. Ohlmarks (cit., p. 300 sgg.) l’intera metafora è ricavata da
un uso cultuale. Durante la mezzestate e in primavera si soleva intro­
durre nella sala del banchetto, attigua al sacrario, dei rami frondosi,
che poi, a cerimonia finita, venivano portati via secchi. Timbr masr-
dar = legno dell’encomio (got. meripa).
4 Qui come altrove la forma arcaica dei medio apocopato (v. M. Ny-
gaard, Norron Syntax, Kristiania, 1905, p. 160), col pron. in funzione
di suffisso, serve a rafforzare il senso tutto personale della perdita. Da
notare anche nel penultimo verso l’uso del sostantivo skard = vuoto,
richiamante le immagini e il linguaggio della battaglia (Nù er skard
fyrir skildì, cioè: « c’è un vuoto al posto dello scudo », si soleva dire
anticamente per annunciare una grave perdita nell’aula regia).
5 Ràn è moglie del dio del mare Aegir (cfr. ags. eagor) e madre delle
oceanine nordiche (Edda Snorra, p. 121; sul problema dell’etimo vedi
C. A. Mastrelli, « Sul nome della gigantessa Ràn » in Studi Germanici,
Roma, n. 10, pp. 254-264) pgtt ('pàttr, lat. texto, sved. tàt). Rysktan
è voluto dalla costruzione di hafa con i verbi transitivi.
68 Le letterature della Scandinavia

at àstvinum. che mi amavano,


Sleit marr bgnd il mare strappò
minnar eettar, i legami della mia stirpe,
snaran pgtt il vincolo intrecciato
af sjglfum mér. da me stesso.
8
Veizt1, ef sgk Tu sai, se con la spada
sverdi of reekak, potessi vendicarlo;
vas glsmid 2 per il Tempestoso
altra tima; l’ultima ora sarebbe venuta.
eda vàgs broedr Se potessi vendicarmi sui
ef vega maettak, fratelli dell’onda,
fórk andvigr affronterei l’esercito
Aegis manni3. di Aegir.
9
Enn ek ekki Ma non credo più
eiga póttumk
sakar afl di possedere
vid sùdbana 4, la forza per combattere
pvit allpjód col distruttore delle navi,
fyr augum verdr
gamals pegns ché agli occhi di tutti
gengileysi5. sono ormai vecchio e solo.
22
Attak gótt6 Amico ero
vid geirs dróttin, del dio della lancia,
gerdumk tryggr sicuro
at trua hónum 7, fidavo in lui, prima
1 L ’apostrofe sembra rivolta alla figlia Porgerdr.
^2 « Birraio » è chiamato Aegir con allusione alle onde spumeggianti.
3 Manni (da madr) e non mani (da man cioè moglie di Aegir; S. Nor-
dal, cit., p. 249), come giustamente ha emendato e spiegato E. A. Kock.
4 Sùdbani (da syja, got. siwjan, ags. siwian e bani). Diversa interpre­
tazione dà M. Olsen, cit., p. 227 sgg.
5 Lett.: « la mancanza di seguito del vecchio signore ».
6 Àtta-ek (da riga).
7 Locus classicus per gli apologeti del « puro » paganesimo di Egill.
Dalle Saghe sappiamo infatti che, in età vichinga, il rapporto fra l’uomo
e la divinità si basava sul concetto di fiducia piena (fulltrui) in questo
o quel dio; alterabile perciò e denunciabile come un qualsiasi altro
vincolo di amicizia. Ma, in tale concezione religiosa, qualcuno (W. Baetke,
Christliches Lebngut in der Sagareligion, Berlin, 1951, p. 34 sgg.) crede
di ravvisare un calco della idea cristiana del « santo ». Sappiamo anche
che i primi coloni d’Islanda, grandi vichinghi, avvezzi a credere più
à màtt sinn ok megin cioè alla propria forza che alla protezione degli
dei, non negavano però a questi ultimi il tradizionale culto pagano.
Quando si parla di fede religiosa — in età vichinga — bisogna tener
Medioevo pagano e cristiano m
àdr vinati che l’amico dei giganti, [?]
vagna rùni1, il Vittorioso, strappasse
sigrhgfundr,
of sleit vid mik. il vincolo [che lo legava a me].
23
Bloetka pvt Perciò sacrifico non più
bródur Vilis, volentieri al fratello di Vili,
godjadar 2, all’Eccelso;
at gjarn séak, eppure egli, l’amico di Munir,
pó hefr Mints vinr
mér of fengnar3 mi ha donato
bglva boetr 4 un rimedio alla sventura,
es et betra telk. che io considero il migliore.

conto delle particolari condizioni storiche politiche e sociali create dal


contatto e dalla lenta fusione dei popoli nordici con altre genti europee
già evangelizzate; e anzitutto dal sincretismo religioso che per secoli
impronta di sé la poesia — dalTEdda antica alYEdda snorrica — le arti
figurative e sin l’onomastica. Per i vichinghi, religione significativa ordine
giuridico-sociale prima ancora che credo spirituale. E ciò non solo in
Islanda. Come si accorda il « puro » paganesimo di Egill con ciò che
la tradizione racconta per esempio di Helgi il mago che insieme cre­
deva in Pórr e in Cristo (Landnàmabók, ed. F. Jónsson, Kobenhavn,
1900, I, p. 206) o di Rollone, convertito al cristianesimo e poi riconver­
tito agli antichi dei, cui sacrificò vittime umane (D. C. Douglas, « Rollo
of Normandy », in The English hist. Rev. di London, 57, 1942, pp. 433-
434; 436) o del non meno convertito re Redwaldo della East-Anglia
(VII see.), che nel suo tempio aveva due altari: uno per il dio cri­
stiano e uno per gli dei pagani (Beda, Hist. eccl. II, cap. 15, ed. Plum­
mer, Oxford, 1896); o di Amljótr Gellini costretto al battesimo, cioè
a « diventare » cristiano con una pura cerimonia, da Ólafr il Santo,
prima della battaglia di Stiklastadir (Heimskringla, Ólàfs saga belga,
c. 214)? E poi quanto, anche nel Sonatorrek, è professione di « puro »
paganesimo e quanto invece elaborazione letteraria del mito?
1 II Ms. ha verZy cioè, verri In tal caso vagna verr = « l’uomo dei
carri » sarebbe £>órr, non Odino. Forse l’intero passo è corrotto. Se­
condo Kock, Odino, l’ambivalente — come sarà chiamato alla strofe 25 —
è insieme nemico e amico dei giganti (Mìmir e Aegir Suttungr e Loki).
Ma v. le obiezioni di H. Kuhn, PBB, cit., p. 141, in parte condivise
da M. Olsen, cit., pp. 245-248. Che, comunque, si tratti di Odino,
ritiene anche S. Nordal (Àtrunadur Egils Skallagrimssonar in Skirnir,
Reykjavik, XCVIII, 1924, p. 145-165, ristampato in Afangar, II, ivi,
1944, pp. 103-128, il quale crede in una vera e propria crisi religiosa
giovanile di Egill, adepto prima di ]?órr e poi di Odino.
2 Cioè a Odino, detto qui god-jadarr (cfr. ags. eodor = massimo) = deus
maximus.
3 Fenginn (da fa, got. fahan, ags. fon, sved. fa). Per la costruz. con
hafa v. strofe 7.
4 Cioè la poesia — come tanti secoli prima già sapeva l’omerico Demo-
doco — divino conforto nella sventura (bgly got. balwjan, ags. balew,
ingl. bale; got. bota, ags. bot).
70 Le letterature della Scandinavia

24
Ggfumk iprótt Il nemico del lupo
ulfs of bàgi [cioè di Fenrir] mi donò
vigi vanr — avvezzo com’è alla pugna •
vammi firda, un’arte sacra,
auk pat gedl> e anche una natura
es gerdak mér che mi rese
visa fjandr2 nemici aperti
af vélgndum 3. gli ingannevoli [amici]. ^
25
Nu erum torvelt4: Ma ora è finita per me.
Tveggja bàga La morte mi assilla,
ngrfó nipt5 imminente, là al capo
, à nesjum 6 stendr. [di Digranes].
Skalk pó gladr, Eppure sereno,
gódum vilja, e senza rammarico
ok óhryggr Taspetterò volentieri.
Heljar7 bidaì
Agli inizi del sec. XI col diffondersi del nuovo verbo
religioso, soprattutto per opera dei due re missionari Ólàfr
Tryggvason e Ólàfr Haraldsson, la tradizione scaldica sembra
scindersi in due parallele correnti del gusto: una più semplice,
che consapevolmente si sforza di evitare le « kenningar » mito­
logiche, l’altra che invece moltiplica fino al puro gioco i vir­
tuosismi metaforici e metrici. In quest’età compaiono anche,

1 Ged = natura, sensibilità.


2 Viss (got. weis, ags. wis, sved. vis).
3 Aw vélgndum (cfr. vél).
4 Anche qui la litote sta a indicare serena compostezza dell’animo di
^fronte alle forze oscure del destino. Torveldr = difficile.
5 Lett.: « la sorella del nemico di Odino » = la morte. F. Jónsson
emenda il testo niorfanipt in njgrvanipt, cioè « sorella (cfr. ags. nefa,
ted. Neffe, lat. nepos) di Narfi » o « Nari » (figlio di Loki, secondo
Snorri: Edda, ed. cit., p. 100); Kock invece (N. N., 7, par. 1037) ne
fa un agg. ngrfàr (cfr. ags. nearufàb = assillante). Odino — ambiva­
lente, Tveggi — è detto « nemico del lupo Fenrir » perché lo ucciderà
il giorno dei ragnargk (Lokasenna, 58; Hàkonarmàl, 20).
6 Plur. con valore intensivo.
7 Hel (cfr. got. halja, aat. bella, ags. bell) è secondo Snorri (Edda, ed.
cit., p. 100) figlia di Loki; il nome, certo antichissimo, designava nel
Nord il regno dei morti, e solo tardi fu personificato. Strano comunque
che il vichingo Egill anziché alla Valhalla pensi a Hel, dove erano
destinati coloro che non cadevano in battaglia. Secondo il racconto di
Snorri (Heimskringla, Ynglingasaga, c. 21, Odino, per non morire igno-
miniosamente sulla paglia — stràdaudi — si fece trafiggere da una
lancia.
Medioevo pagano e cristiano 71

accanto alla « dràpa » in dróttkvsett, i nuovi metri della


poesia scaldica; ma fuori delle corti dovette certo continuare
la fioritura di quel tipo di poesia di tono minore, occasionale,
« popolare » legata alla melodia (canti di lavoro, di profezia,
di magia) alla quale almeno per alcuni aspetti appartiene il
qui tradotto Darradarljód1.
Eddico per il metro (fornyrdislag) e per certe figura­
zioni epiche, scaldico per il contenuto almeno in parte pane-
giristico e per il riferimento a fatti recenti o contemporanei,
il Darradarljód sta a mezza strada fra il carme magico e il
carme di guerra. Dodici valchirie cantano e tessono, su un
antico telaio, una magica tela portatrice di vittoria (vefr dar-
radar) per un principe che si appresta ad affrontare il destino
sul campo di battaglia. Secondo la Njàlssaga — scritta dopo il
tramonto dell’indipendenza islandese e riportante il testo del
carme nell’episodio sulla missione cristiana di Jpangbrandr2 —
un uomo a nome Dgrrudr3, vede, la mattina della battaglia
di Clontarf (storicamente combattuta il 23 aprile 1014 fra
gli irlandesi di re Brjànn di Munster e i vichinghi di Sigtryggr
di Dublino e del suo alleato Sigurdr Hlgdvesson, jarl delle
Orcadi), dodici valchirie, che tessono in un ipogeo la porten­
tosa tela e insieme cantano una canzone. A lavoro finito, strac­
ciano la tela, e portandone ciascuna un pezzo, si allontanano
a cavallo, sei in una direzione, sei in un’altra.
Il fatto storico fu indubbiamente l’occasione dell’anonimo
carme (composto forse nelle Orcadi), giacché a Clontarf, alle
porte di Dublino, con la fine congiunta dell’eroe della libertà

1 Secondo l’interpretazione tradizionale « carme della lance » (così già


in Herder — che s’ispirava agli antiquari nordici del Seicento —
Samtliche Werke, Stuttgart-Tùbingen, V III, 1821, p. 16 sgg.; e ancora
in F. Genzmer, Sammlung Thule, Jena, 1941, II, p. 48) A. Holtsmark
(Studier 4 norron diktning, Oslo, 1956, pp. 177-197) ha recentemente
voluto dimostrare che l’espressione va intesa in senso metaforico-magico.
cioè « carme dello stendardo di guerra », che le valchirie tessono per assi­
curare vittoria al loro protetto. Il carme, serbatoci nelle varie edizioni
della Njàlssaga, è stato pubblicato in edizione critica da K. Glslason,
Njdla, II, Kobenhavn, 1883, pp. 579-597. F. Jónsson, Skjald., I, A,
pp. 419-421; e da Kock, Skald., pp. 193-195.
2 Njàlssaga, c. 158.
3 Si tratta d’un probabile fraintendimento della tradizione, che dello
sconosciuto Dgrrudr (sinonimo di Odino — cfr. H. Falk, Odinsheite,
Oslo, 1924, pp. 6-7) fa il testimone della scena magico-profetica. E. Ól.
Sveinsson (Um Njàlu, Reykjavik, 1933, I, p. 85 sgg.) pensa che fu una,
ora perduta, « Saga di Brjànn » a ispirare il racconto della Njàla.
72 Le letterature della Scandinavia

irlandese (assassinato pare nella sua tenda *) e dei suoi avver­


sari, tramontò anche per sempre l’egemonia vichinga nell’isola.
Spirito eroico e terrore superstizioso confluiscono qui a
creare quell’atmosfera di arcano e soprannaturale che tanto
impressionò J. Grimm. Le spettrali valchirie al telaio, mezze
dee del fato mezze streghe, e la loro tela fatta d’intestini
umani e tesa sugli staggi con teschi di morti, sembrano figu­
razioni attinte a quell’antichissimo patrimonio mitico celtico,
che tante tracce ha lasciato nelle letterature germaniche e
romanze; mentre l’apocalittica scena della cavalcata, sullo sfon­
do del cielo rigato di sangue, riecheggia i più cupi temi del
carme eroico germanico.

DARRADARLJÓD

1
Vitt es orpit2 È tesa la tela,
fyr valfalli è nube foriera
rifs reidisky3; di prossima strage;
rignir biódi. e gronda di sangue.
Nil’s fyr geirum È ora approntato
gràr upp kominn l’ordito ferrigno,
vefr verpjódar, la tela dei prodi;
es vinurAfylla le vergini di Odino
raudum vepti la tessono nel sangue.
Randvés5 barn.

1 J. Steensrup, Normannerne, Kobenhavn, 1876-1882, III, p. 163 sgg.


2 Orpit (da verpa, cfr. got. wairpan, ags. weorpan, ted. toerfen) = lett.
tessuta. L ’agg. vitt dovrebbe essere tradotto con « ampia », riferito al
sogg. neutro che segue e che è una « kenning ».
3 Rifs reidisky = lett. la pendente nuvola della stanga, cioè l’ordito
(rifry cfr. ingl. rib, ted. Rippe; reidi = sartiame; sky. sved. sky, ingl.
sky) v. Kock, N. N. 2785; e Brennu-Njàls saga, ed. E. Ól. Sveinsson
(t . f. XII), Reykjavik, 1954, p. 544.
4 Vinur = lett. .amiche [di Odino], ma la lezione è dubbia.
5 Randvés bani = uccisore di Randvér. L ’oscura « kenning » (cfr. K.
Gìslason, op. cit.y p. 581) sembra alludere al perfido Bikki (Gudrù-
narhvQt, prosa) che indusse Randvér a sedurre Svanhildr, figlia di Gudrun
e di Sigurdr, e perciò fu impiccato. Letteralmente il testo ha: le amiche
[dei guerrieri] tessono con la trama (veptr) vermiglia dell’uccisore di
Randvér. A. Holtsmark, cit., pensa che qui si alluda appunto alla
«fo rc a » [di Randvér], intesa come sinonimo di «telaio». La tessi­
tura d’un magico stendardo di guerra è narrata nella Orkneyjngasaga
(cap. 11).
Medioevo pagano e cristiano 73

2
Sjà’s 1 orpinn vefr Tessuta è la tela
yta pgrmum con visceri umani,
ok hardkléadr2 son pesi a tirarla
hgfdum 3 manna. i teschi dei morti;
Eru dreyrrekin 4 son lance le verghe
dgrr5 at skgptum6, intrise di sangue,
jarnvardr 7 yllir di ferro i battenti,
enn grum8 hrseladr9. i subbi son dardi.
Skulum sia sverdum Con spade tessiamo
sigrvef penna. l’insegna di guerra.
3
Gengr Hildr vefa Or tessono la tela
ok Hjgrprimul, Hjgrprimul e Svipul
Sanngridr, Svipul10 Sanngrfdr e Hildr
sverdum tognum 11 con spade sguainate.
Skapt mun gnesta 12 Si spuntano le lance
skjgldr mun bresta. si frangono gli scudi
Mun hjalmgagarr 13 ora Fascia di guerra
i hlif koma14. il sangue berrà.
4
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar, l’insegna di guerra,
panns ungr konungr15 già prima guidò

1 Sjà (oppure su = pron. dim.).


2 Hardkléadr (da hardr e klé, che è appunto, negli antichi telai, la
pietra che serve da peso per tener ben tirata la tela; cfr. K. Gislason,
op. cit., p. 582).
3 Hgfud (got. haubip, ags, heafod ecc.).
4 Dreyrrekinn (da dreyri, ags. dreor = sangue e rekinn da reka. got.
wrikan, ags. wrekan, sved. vràka).
5 Darr = (poet.) dardo, lancia (cfr. ags. darop, ingl. dart).
6 Skapt (ags. sceafr, sved. skaft) le verghe che tengono separati i fili
dell’ordito.
7 Jarnvardr yllir (forse da norr. ull, got. wulla, ags. wull), ma la le­
zione non è chiara; cfr. K. Gfslason, op. cit., p. 582).
8 Orr (ags. aruwe, ingl. arrow).
9 Hraela (forse originariamente senza l’aspirazione; cfr. ags. reol, ingl.
reel) = spola, subbio.
10 Nomi di valchirie, per alcuni dei quali v. Vgluspà, 30.
11 Toga (cfr. norr. tjùga, got. tiuhan).
12 Gnesta (cfr. ags. gnaestan).
13Hjalmgagarr=ìett. « cane dell’elmo », « kenning » per indicare un’arma.
14 1 hlif koma = lett. si metterà al riparo (cfr. norr. hlifa, got. hleibjan),
cioè penetrerà nella carne.
15 Ungr konungr : forse in norvegese Sigtryggr, re di Dublino, figlio di
Ólafr kvàran.
74 Le letterature della Scandinavia

atti fyrril! il giovine re.


Framm skulum ganga Guadiamo nel sangue
ok i folk vada, dei morti guerrieri,
pars vinir órir2 ai nostri protetti
vgpnum skipta3. vittoria daremo.
5
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar Tinsegna di guerra,
ok siklingi il nobile re
sidan fylgjum! poi seguiremo!
par séa Stagnar 4 Gli eroi qui vedranno
blódgar randir, gli scudi arrossati,
Gunnr ok Ggndul5 e Ggndul e Gunnr
es grami fylgdu. vegliare sul re.
6
Vindum, vindum Tessiamo, tessiamo
vef darradar, Tinsegna di guerra,
pars ve6 vada l’insegna ch’ai prodi
vigra manna! vittoria darà.
Lgtum eigi Difesa daremo
Uf hans farask! al prode guerriero,
Eigu valkyrjur le vergini di Odino
vals of kosti7. faranno la scelta.
7
Peir munu lydir Avranno la terra
Igndum ràda, i soli guerrieri
es ùtskaga8 i soli che un giorno
àdr of byggdu. regnarono sul mare.
Kvedk rikjum gram A morte votato
ràdinn9 dauda. è il grande signore,

1 Atti fyrr: potrebbe anche interpretarsi con F. Paasche: « che prima


amò »; ma è da preferirsi K. Gislason, op. cit., p. 585.
2 Órr: arcaico per vàrr = nostro.
3 Skipta vgpnum = lett. tentare la fortuna delle armi.
4 Bragnar: poet, eroi, principi (cfr. ags. brego), ma la lezione è dubbia;
cfr. K. Gislason, op. cit., p. 586.
5 Gunnr e Ggndul: nomi di valchirie.
6 Vé n. pi. = vessillo.
7 Kostr (cfr. got. kustus, da kiusan) = scelta. Nel testo abbiamo l’acc.
plur.
8 lJtskagi = capo estremo [d’una terra], cfr. Skagerak (da skagi e rak,
oland. = tratto di via). Si allude evidentemente ai norvegesi.
9 Ràdinn (da ràda) = sicuro, deciso a ... — Si allude al re Brjànn.
K. Gislason, op. cit., p. 588 pensa che la forma singolare del verbo
(kved-ek) traduca le parole d’una sola valchiria; e propone perciò il plu­
rale: kvedum.
Medioevo pagano e cristiano 75

Nù's fyr oddum1 il nobile sire


jarlmadr2 hniginn. di spada morrà.
8
Auk munu trar3 Giammai la memoria
angr 4 of bida5, di tanta sciagura
pats aldri mun dairirico suolo
ytum fyrnask 6. non dileguerà.
Nufs vefr ofinn, La tela è tessuta
enn vgllr rodinn. del sangue versato;
Mun’ umb land fara la nuova funesta
Isespjgll7 gota. eterna vivrà.
5>
Nù’s ógurligt8 Paura e sgomento
umb at litask9, riempiono lo sguardo,
es dreyrugt sky le nubi sanguigne
dregr med himni. trascorrono il cielo.
Mun lopt lita t10 Rosseggia di sangue
lyda biódi, il cielo d’intorno,
enn spjgrvarrar11 noi canti di morte
springa kunnu. valchirie cantiamo.
10
Vel kvgdum ver Le lodi cantammo
of konung ungan del giovine re,
sigrhljóda fjgld, fortuna e vittoria
syngum heilar. il canto darà.
Enn hinn nemi, Chi ascolta quel canto
es heyrir à, lo accolga e ricanti,

1 Oddr (ags. ord, dan. od) — punta, dardo.


2 Jarlmadr Sigurdr, jarl delle Orcadi, secondo E. Ól. Sveinsson, op. cit.,
p. 456.
3 trar = gli irlandesi di Brjànn.
4 Angr (cfr. ingl. anger, lat. angor).
5 Bida (cfr. got. beidan, ags, bidan, sved. bida) = attendere.
6 Fyrnask = propr. invecchiare (cfr. forn).
7 Lsespjgll = notizie funeste (da lae, cfr. got. lew, ags. laewa; e spjall,
got. spill, ags. e ingl. speli = detto, sentenza).
8 Ógurligt (da ógna, got. ogan, ags. oga) = terribile.
9 Lita (got. wleiton, ags. wlitan) = apparire, guardare.
10 Lita: tingere.
11 Al testo di Kock, che segue K. Gfslason, op. cit., pp. 591-592 enn
spjarvarrar - springa kunnu = « che le valchirie sanno far avverare » sem­
bra preferibile, perché più congruente, quello di F. Jónsson es sóknvar-
dar syngva kunnu = « che noi valchirie sappiamo cantare ». Così anche
B. Ól. Sveinsson (op. cit., p. 458). Herder (cit. a p. 73) traduce frain­
tendendo: « prima che le nostre voci finiscano di echeggiare ».
76 Le letterature della Scandinavia

geirfljóda1 hljód dei prodi guerrieri


ok gumnum skemti2! il cuore gioirà.
11
Rzdum hestum, Sui nudi cavalli
hart ut berum3 voliamo al galoppo,
brugdnum 4 sverdum le spade sguainate
à brott5 hedan! a dare la morte.

La vittoria di Carlomagno sui sassoni schiude la via del


Nord alla missione cristiana; ma solo tardi, come s’è detto,
verso la metà del sec. XII, la poesia scaldica comincia ad
aprirsi al contenuto leggendario e dogmatico della nuova re­
ligione, e non prima del XIII see. il Christus victor con le
sue schiere angeliche, e i re missionari e gli eroi della fede
compaiono nella poesia in dróttkvsett e in hrynhent assieme
ai concetti evangelici di fede, di anima, di peccato, di Giudi­
zio, di dannazione e di redenzione6. La poesia scaldica diviene
ora uno strumento della Chiesa che se ne serve per la sua
predicazione tra i fedeli: non è più recitata nell’aula regia
e nelle assemblee, ma in seno alle comunità ecclesiastiche;
e se non ha ancora abbandonato la tradizionale struttura me­
trica e stilistica della « dràpa », tende però sempre più alla
narrazione epica, al discorso continuato e articolato; persino
al dialogo7. Il concetto stesso di poesia è ora un altro. La
poesia non è più virtù (« ììptótt »), o sapere magico, per oscuri
tramiti già riconnesso all’estasi sciamanica e al mito odinico8,
ma — secondo la concezione teologica medievale — una illu­
minazione divina; troppo alta per poter essere espressa in
parole9.
Molte certo sono le figure di transizione che esemplar­
mente illustrano nei loro versi il singolare e tenace dualismo

1 Geirfljód = poet, donna armata (valchiria).


2 Skemta (propr. da skamr: intrattenere, divertire narrando o cantando).
3 Berr (ags. baer) = nudo, qui: non sellato.
4 Brugdinn (da bregda, cfr. ags. bregdan; bregda sverdi = sguainare la
spada.
5 1 brott (dan. sved. bori) = via.
6 Cfr. specialmente W. Lange, Studien zur christlichen Dichtung der
Nordgermanen Gottingen, 1958, p. 110 sgg.
7 La dràpa pagana è — come dice Genzmer (Festschrift Kluckhohn-
Schneidery cit., p. 11): « ausgesprochen redefeindlich ».
8 De Vries, Altgerm. Relig.y cit., II, pp. 66-73.
9 Harmsól, str. 2; Liljay str. 92.
Medioevo pagano e cristiano m
pagano-cristiano. Fra gli scaldi norreni spicca quella di Hall-
frodr Óttarson.
La Saga a lui intitolata non si distingue nelPinsieme per
memorabilità di imprese, intessuta com’è sullo schema cano­
nico tradizionale: avventure vichinghe, panegirici in lode di
principi pagani e cristiani (da Hakon jarl a Ólàfr Tryggvason),
un amore contrastato ma tutto terreno per la bella Kolfinna
che va sposa al rivale Griss, sfide e duelli, inframmezzati da
versi satirici e imprecatori. Pagano e cristiano si fondono e
confondono continuamente nei numerosi aneddoti della nar­
razione, il cui punto saliente è costituito dall’incontro tra il
pagano Alfredo e il cristiano re Ólàfr Tryggvason 1. Nell’ano­
nimo racconto e più ancora nei frammentari versi, ad Alfredo
attribuiti, acquistano personale rilievo da un lato la figura
magnanima ma inflessibile del sovrano, dall’altro quella im­
petuosa ma leale del poeta.
Un soffio d’idealità viene qui a illuminare il prezzolato
rapporto di vassallaggio fra il re e lo scaldo: il primo impone
al secondo la nuova fede e questi obbedisce, soggiogato oltre
che dal tradizionale ossequio alla sacralità del re, dal fascino
d’una personalità d’eccezione; ma — almeno a giudicare dalle
fonti — la conversione di Alfredo non significa irrevocabile
capovalgimento di valori. Le resistenze, i tentennamenti, i
fraintendimenti (che secondo l’anonimo narratore della Saga
servono a spiegare l’epiteto di « vandrasdaskàld » cioè di
« poeta difficile » dato dal re al poeta) mostrano il carattere
tipicamente magico di tale conversione, e provano insieme
come nel cuore di Alfredo (e del suo re 2) continuino a coe­
sistere, malgrado la solenne abiura degli dei pagani, Cristo e
Odino, la legge della croce e la legge della spada.
Così nella sua poesia.
La reazione al tradizionale gusto « barocco », il ripudio
delle astruse « kenningar » mitologiche, la relativa semplicità di
dizione-, non comportano affatto rottura col passato. Nella
« dnapa » in dróttkveett per la morte di Olao alla batta­
glia di Svpldr (1001)3 ritroviamo ancora una volta, accanto
agli insoliti accenti di cordoglio personale e alla invocazione
cristiana, tutti i tradizionali motivi dell’encomio scaldico: la

1 Illustrato in stile epico-drammatico da Snorri nella Heimskringla,


Óldfs Saga Tryggvasonary c. 83.
2 Heimskringla, Óldfs saga Tryggvasonar, cc. 76, 80.
3 Kock, Skald., cit., I, pp. 82-85.
78 Le letterature della Scandinavia

celebrazione dei sacri vincoli di fedeltà al capo, che grandeggia


solo al centro dell’azione; il monotono elogio dell’eroismo,
dell’onore, della vendetta; le immagini stereotipe della batta­
glia: del cozzar delle spade, del sibilar dei dardi, del sangue
scorrente a fiumi.
Ancora una volta pagano e cristiano nello spirito e nella
forma.
Ma certo la fondazione dei conventi, la canonizzazione
del re missionario, Olao Haraldsson, la graduale diffusione
della cultura cristiana in cerehie piccole, ma dominanti, spiega
il mutamento, lento ma progressivo, anche nell’àmbito della
poesia scaldica. Non poco si dovette scrivere, almeno a giudi­
care dall’ampiezza della documentazione apografa rimastaci (non
ancora tutta criticamente inventariata *), oltreché in volgare,
come in Inghilterra, anche in latino. Anzitutto da ecclesiastici;
i quali mostrarono ai laici colti le possibilità della lingua ma­
terna a fini epici e letterari.
Sappiamo dell’intensa attività culturale svolta nelle scuole
ecclesiastiche islandesi di Skàlaholt e di Hólar (XII) e nei
conventi benedettini e agostiniani di ]pingeyrar, di Munka]?ve-
rà, di ]?ykkvaboer, fra le mura dei quali furono scritte le più
antiche pergamene a noi giunte2. Si tradusse e si rielaborò
un gran numero di testi agiografici, liturgici, teologici che te­
stimoniano un vivo interesse per il pensiero cattolico europeo:
dai Dialoghi di Gregorio Magno aìYElucidario di Onorio d’Au-
tun, dalla Historìa Scholastica di Pietro « Mangiadore » al
Soliloquium de arrha animae di Ugo da S. Vittore3. Fiorente
fu, pare, la letteratura delle leggende, dei racconti devoti, dei
miracoli, delle visioni allegoriche, dei sogni profetici, delle
descrizioni d’oltretomba (bastino come indizi: la MerUnusspà4,
in cui, nel metro della eddica Vgluspà, il monaco Gunnlaugr
Leifsson tradusse e commentò le Prophetiae Merlini di G. di
Monmouth; e la diffusissima Duggals leizla5, nella quale un
anonimo voltò in norreno la terrifico-grottesca Visio Tnugdali);

1 P. Lehmann, Skandinaviens Anteìl an der latein. Lit. u. Wiss. des


Mittelalt.y in Atti Acc. Scienze di Monaco, 1936, I, pp. 5-35.
2 H. Hermansson, Icelandic Manuscripts, Islandica, New York, 19, 1929,
p. 19.
3 F. Jónsson, Litt. hist., cit., II, p. 940 sgg.; de Vries, Altn. Litg.
cit., II, p. 324 sgg. P. Lehmann, op. cit., II, 1937, n. 35 sgg.
4 In Hauksbók (Det kongel. nord, oldskrift- selskab), Kobenhavn, 1892,
pp. 101-113.
5 In Heilagra manna sQgur, Christiania, 1877, I, pp. 329-362.
Medioevo pagano e cristiano 79

per non dir nulla dei viaggi di studio a Parigi e dei pellegri­
naggi espiatori1 a Roma, « ad limina apostulorum », e a Ge­
rusalemme, che portarono i nordici a contatto diretto con i
massimi centri della cultura e della pietà medievali.
Si tratta però neirinsieme d’un lavorio di assimilazione
e d’imitazione ispirato a motivi didascalico-catechistici.
Gli scaldi norreni che scrivono ora le loro « dràpur »
religiose mirano tutti a educare un pubblico di scarsa cultura
ecclesiastica, alla vita cristiana; si studiano di fornire esempi
di ascesi e di santità; di svegliare il terrore del Giudizio e
l’ardore della redenzione; di celebrare l’eroismo, il martirio,
l’apostolato della fede; ma non sembrano a tal punto penetrati
dal nuovo contenuto da voler infrangere le vecchie forme.
L’encomio profano del principe, col suo schema formulare
d’immagini e di tropi, resterà ancora fino al XIV secolo il loro
unico modello artistico.
Un’eccezione almeno parziale nell’àmbito di questo mono­
tono panorama è costituita dal Sólarljód2.
Qui per la prima volta l’ispirazione escatologica e apoca­
littica prorompe in immagini di alta fantasia; per la prima

1 Particolarmente interessante fra questi il nudo ma suggestivo Itinera­


rium (Leidarvisir, 1155 c.) di Nikulàs Bergsson abate di Munka£>verà,
pellegrino gerosolomitano e non insensibile ammiratore della bellezza
delle donne senesi e dei monumenti di Roma (Alfredi islenzk, Ko-
benhavn, 1908, 1, pp. 12-23, ed. Kàlund. Cfr. la recente traduzione
italiana di Marco Scovazzi, Il viaggio in Italia del monaco islandese
Nikolas in N. Rivista Storica, LI, fase. III-IV, 1967, pp. 358-362.
2 Serbatoci intero in Mss. cartacei del Seicento, e dalla tradizione po­
polare islandese — certo erroneamente — attribuito a Ssemundr il
Saggio (1135); pubblicato nelle edizioni ottocentesche dtVCEdda poe­
tica; e per la prima volta in ed. critica da S. Bugge (Norroen fornkvae-
di ..., Christiania, 1867, pp. 357-371; poi da F. Jónsson in Skjald, I, A,
pp. 628-633; da M. B. Ólsen, Safn til sggu Islands, V, Reykjavik, 1915;
da Kock, Skald, I, pp. 308-316. Sulla datazione varie ipotesi sono state
fatte e tutte discordanti. Già i critici romantici C. Rosenberg (Nord-
boernes Aandsliv ..., Kobenhavn, 1878, I, p. 556) e R. Keyser, Efter-
ladte skrifter, Kristiania, 1866, I, p. 259) lo ascrivevano ai primi secoli
della conversione; molto antico lo giudicavano ancora G. Vigfusson
(Corpus, cit., I, p. 203) e E. Noreen, Den norsk-islandska Poesien, cit.,
p. 290) rispettivamente del XI e XI-XII. F. Paasche (Kristendom og
Kvad, cit., p. 134 sgg.), H. Falk (Sólarljód, Skrifter, Videnskapsselskap
i Kristiania, 1914, p. 50 sgg.) e B. M. Ólsen (op. cit., p. 75) propen­
dono con maggior verosimiglianza, per la fine del XIII. Il fatto che
Snorri non mostri di conoscerlo; la forte impronta edificante che denota
uno spirito tutto nuovo, e la forma relativamente semplice, sono argo­
menti persuasivi in favore di una datazione assai tarda.
80 Le letterature della Scandinavia

volta l’angoscia del peccato e l’ansia della redenzione, il ter­


rore della morte, e la fede nell’aldilà danno al linguaggio
poetico un palpito insolito, al tradizionale metro della poesia
moraleggiante (Ijódahàttr) un’accensione lirica solenne a un
tempo e concitata. Il concetto cristiano della redenzione è il
motivo ispiratore del carme, ma altri elementi vi confluiscono:
didattici e sapienziali (attinti al pagano Havamàl e ai devoti
exempla) epici e profetici (attinti alla Vgluspà) figurativi e
simbolici (attinti all’allegorismo delle Sacre Scritture).
L ’assenza totale di notizie intorno alla genesi del carme,
all’autore, alla data di composizione; la struttura assai sciolta
e in più punti scucita; l’oscurità di certe allegorie, hanno dato
luogo a una fiera disputa1 alla quale si accennerà nelle note
al testo.
Il tema è quello consueto delle visioni medievali. Un pa­
dre appare dail’aldilà al proprio figliò e gli spiega il vero
significato della vita terrena e della morte, del bene e del male,
del castigo eterno e della beatitudine. Dopo aver esordito con
una dottrinaria esemplificazione di peccati e con l’esortazione
a tenersene lontano, egli passa a narrare la sua vita di gaudente
ravvedutosi nell’ultima ora, il suo doloroso trapasso, l’insidia
del Maligno e la finale redenzione a opera di Cristo, che lo
rende così degno d’intraprendere il pellegrinaggio nei regni
d’oltretomba. La visione si chiude, con la certezza del supremo
ritrovamento nell’aldilà, con la solenne invocazione della Missa
pro defunctis.
Visto sullo sfondo della secondaria e poco originale pro­
duzione pagano-cristiana del sec. XIII, teologica dogmatica
didascalica, ancor più netta risalta l’ispirazione poetica di que­
sta Visio, così personale nel tono e nei motivi lirico-fantastici
e narrativi, a mezza strada fra il truce realismo della Visio
Tnugdalz e gli smaglianti colori della Visio Wattini di Vaia-
frido. Semplice, popolare per lingua e stile, il poeta innalza
qui la sua vicenda autobiografica a simbolo del conflitto tra
bene e male, tra Dio e Satana, inserendola nel tradizionale

1 Fra chi, con più ingegnose che cogenti argomentazioni filologiche,


vuol sostenere l’unità del carme e spiegarne ogni passo oscuro (come
Falk, op. cit., p. 51 sgg., F. Paasche, op. cit., p. 163 sgg.; B. M. Ólsen,
op. cit., pp. 25, 35-36, 58, 64, 66, 69-70, e altri ancora, che si rifanno
a remote* fonti escatologiche bibliche classiche e medievali), e chi —
come l’ipercritico F. Jónsson {Edda, 5, 1916, p. 14 sgg.) — quell'unità
nega, tentando di dimostrare interpolazioni confusioni e giunte mol­
teplici.
Medioevo pagano e cristiano 81

quadro d’un pellegrinaggio oltremondano. Sin dall’inizio del


carme, che qualcuno 1 — per analogia con l’esempio dantesco
— ha creduto inteso a condannare eventi coevi: le lotte fra­
tricide, la gente nova e i subiti guadagni nell’Islanda del see.
XIII, le strofe didascaliche e sentenziose vibrano di dolente
pietà per la fragile natura umana, di « contemptus mundi »
e di « Amor Dei »; e via via che la tensione drammatica cre­
sce, via via che il poeta, al bivio fra perdizione e redenzione
affonda lo sguardo nel mistero della vita e della morte, gli si
rivela la suprema Realtà « per speculum et in aenigmate »,
nella visione del sole misticamente concepito:
36.
Lutr ek sat Recline a lungo giacqui,
lengi, hglludumk, col capo arrovesciato, grande
mjgk vask p à lystr at tifa. era il mio desiderio di vita.
Enn sa réd, Ma Colui che ha il potere decise.
es rikri vas. L’uomo finito
Vvammi eru feigs ggtur. è giunto [all’inferno].
39
Sòl ek sa, Il sole vidi
sanna dagstjgrnu, il vero astro del giorno
d ru p a1 dynheimum iy sparire dal mondo terreno.
Enn H eljar grin d 3 Ma il cancello delPinferno
heyrdak annan veg udii dalla parte opposta
p jóta pungliga. stridere sinistro.
40
Sòl ek sa Il sole vidi
setta dreystgfum 4; rigato di sanguinanti rune;
mjgk vask p à ór beimi h allr5. lontano ero io ormai dal mondo.
Mgttug leizk Sotto molti aspetti
à marga vegu pareva ora più possente,
frà p v is fyrri vas. di prima.

1 F. Paasche, Norsk Litt., cit., I, p. 399.


2 Sette strofe s’aprono con la visione del sole concepito come simbolo
dell’Altissimo. Per la ripetizione del verbo in prima persona B. M. Ól­
sen, op. cit., p. 70, ha pensato all’esempio della Vgluspà. Drupa dynhei­
mum i = lett. sprofondare nel mondo dello strepito; ma il verbo drupa
a differenza di drjupa (dan. dryppe, ted. traufen, ingl. drip) è usato
soprattutto in senso metaforico: languire, abbassare il capo [dal do­
lore]. «V ero astro del giorno» è detto Cristo in Apocalissi XXII, 16.
3 Heljar grind (cfr. Snorra Edda, pp. 49, 92-94, Ski'rnismàl, 35, Loka-
senna, 63).
4 Setta dreyrstgfum = lett. ornato di rune di sangue (da setja; dreyri,
cfr. got. drjusan, ags. dreor; e stafr.
5 Hallr = inclinato (cfr. balla).

XXVII - 4. Lett, della Scandinavia.


82 Le letterature della Scandinavia

41
Sòl ek sa; Il sole vidi;
svà p ótti mér, mi parve di vedere
sem sseik à ggfgan 1 god. Taltissimo Dio;
Henni ek la u t2 davanti al sole m’inginocchiai
hinzta sinni per l’ultima volta,
alda beimi i. sulla terra.
42
Sòl ek sà; il sole vidi;
svà hon geisladiy ed era radioso
at póttum k veetki vita. al punto che venni meno.
Enn Gii f a r 1 straumar Ma i fiumi infernali
grenjudu annan veg spumeggiavano dall’altra parte
blandnir mjgk vid blód. commisti di sangue.
43
Sòl ek sà à Il sole vidi
sjònum skialfandi4 con gli occhi tremanti
breezlu fullr ok hnipinn 5. col cuore contrito e umiliato.
Pvit hjarta mitt Allora il mio cuore
vas hardla mjgk fu sul punto di
runnit sundr t sega 6. scoppiarmi in petto.
44
Sòl ek sà Il sole vidi, io
più pentito che mai; le spalle
t'-''
1
1

mjgk vask p à òr beimi ballr. avevo ormai volto al mondo.


Tunga min La mia lingua era

1 Ggfugr (got. gabigs) = onorevole, nobile.


2 Laut (luta, ags. lùtan, sved. luta). Cfr. l’episodio narrato nella Land-
nàmabók (c. 38) di fcorkell Mani che « giunto a morte si fece portar
fuori, al sole, e si affidò nelle mani di quel dio che aveva creato il
sole ». Hann lét sik bera i solargeisla i bànasótt sinni ok fai sik à
bendi peim guài er sólinna befdi skapat. È dubbio se sia qui da ve­
dere una reminiscenza di culto pagano.
3 Secondo B. M. Ólsen, op. cit., p. 43, si tratta di una « kenning » per
indicare il mare. Ma — se il testo non è corrotto — abbiamo qui un’al­
lusione al mitico fiume infernale Gjgll = lo strepitoso. Sole e mare in­
sanguinati sembrano comunque preannunciare il Giudizio. Falk, op. cit.,
p. 26, pensa ai fiumi infernali Gylfar-(Gilvar) straumar, che si richiu­
dono sulla testa del padre morente; e cita la descrizione fatta nel
Beowulf, v. 1358 sgg.
4 Sjón (dan. sved. syn, ingl. sight).
5 Hnipinn (norr. hnipa, got. ganipnan, ags. hnipian) = flettere.
6 Segi o sigi = pezzetto.
7 Hryggr (cfr. breowig, ingl. rueful} dan. ruelse).
Medioevo pagano e cristiano 83

vas til trés metin 1 come mutata in legno


ok kólnud allt fyr ut an 2. e il mio corpo in ghiaccio.
Cosi ha inizio l’ultramondana peripezia, in un alternarsi di
scene di tormenti e tormentati e di pause riflessive e invocative,
dove l’impeto visionario si smorza talvolta e ristagna in mo­
notona catechesi.
53
Fra p v is at segja, Ora devo dire
hvat fyrst of sàk, quali visioni ebbi, quando
pàs vask i kvglheima kominn: giunsi nel mondo del dolore:
svidnir3 foglar, uccelli arsi dal fuoco —
es salir vgru, anime erano — volavano
ftugu svà margir sem my. a miriadi come zanzare.
54
Vestan sàk A ovest vidi volare il drago
fijuga V àn ar4 dreka di Vàn, e calare
oik fell à Gleevalds ggtu. sul sentiero di Glasvaldr.
Vaengi skók, I vanni scoteva
svàt vida pótti mér si che sembravami
springa haudr ok himinn. ne tremassero e terra e cielo.
55
Solar h jg rt5 II cervo del sole
leitk sunnan fara; vidi venire da sud,
hann teymdu tv eir6 saman. imbrigliato da due uomini.
Foetr hans I suoi piedi
stódu foldu à, toccavano la terra,
enn tóku horn til himins. le sue corna il cielo.

1 Metinn (da meta, got. mitan, ags. metan, sved. mata) propr. = misu­
rare, stimare.
2 Propr. = e raggelato tutto ciò ch’era intorno.
3 Svida (dan. svìe). Secondo B. M. Ólsen, op. cit.y p. 50, l’uso di que­
sto termine prova che si tratta appunto delle anime del Purgatorio.
4 Vàn è in Grimmismàl, 28, uno dei fiumi infernali; secondo Snorri,
Edda, cit., p. 54 si tratta d’un fiume formato dalla bava di Loki in
catene. B. M. Ólsen, op. cit., p. 50, identifica questo drago al Levia­
tano e Glasvaldr « il luminoso », a Lucifero (in contrasto all’interpre­
tazione letterale che ne dà F. Jónsson, cit., p. 149: « signore del mare »).
I Mss. hanno fella anziché fell à.
5 Secondo Paasche, op. cit., p. 151, e Falk, op. cit., pp. 34-35, nel
cervo è simboleggiato Cristo. All’origine di tale simbolo è la leggenda
del martire e santo Eustachio, nota anche nel Nord (cfr. Vlàcitusdràpa).
6 B. M. Ólsen, op. cit., p. 52, emendando hann teymdi tvày intende:
« Cristo imbriglia entrambi » cioè il Leviatano e Lucifero, e si richiama
al Vangelo di Nicodemo; dove però si parla di Cristo che lega Satana
o Belzebù, come giustamente osserva F. Jónsson (op. c i t p. 14).
84 Le letterature della Scandinavia

56
Nordan sàk Da nord vidi cavalcare
rida N id ja 1 sonu i figli delle notti illuni,
ok vgru sjau saman. ed erano setté.
Hornum fullum Da corni ripieni
drukku peir enn hreina mjgd puro idromele bevevano
ór brunni Baugregins2. alla fonte di Baugreginn.
61
Menn sàk pà, Poi vidi uomini,
es mjgk ó lu 3 che molta invidia
of un d 4 af annars b a g i5. nutrirono deir altrui stato,
Blódgar rùnir rune di sangue, dolorose,
vgru à brjósti peim sul petto avevano
merkdar m einliga6. incise.
62
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
marga ófegna; molto dolenti,
p eir vgru villir1 vega, allontanatisi dal retto cammino;
P at kaupir sà, ciò acquistano coloro che,
es p essa heims dalla corruzione di questo
at óheillum apask. mondo, sono tratti in inganno.
63
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es mgrgum hlutum che con molti inganni
véltu of annars eign. si appropriavano i beni altrui.

1 Oscuro è il senso della « kenning » (da nid, cfr. dan. nae = luna calan­
te, o da nidr, cfr. got. nipjis = discendente, figlio?). Secondo Paasche,
op. cit., p. 65, « i figli della tenebra » sono gli angeli che attingono da
Cristo la loro luce. O si allude invece alle sette fasi della luna?
2 Secondo B. M. Ólsen, op. cit., p. 53, Baugreginn sarebbe Baldr, il
dio innocente che disceso in Ilei trovò ricoperti i seggi di quella di­
mora con anelli d’oro (cfr. Baldrs draumar, 6-7, e Edda Snorra, p. 29);
e quindi si tratterebbe qui della « fonte della misericordia, cui gli angeli
si abbeverano » — a un dipresso come i guerrieri bevevano idromele
nella pagana Valhalla (cfr. Grimmismàl, 25). Interpretando nidja ecc.,
come « discendenti di antenati » (pagani), lo studioso islandese vuol ve­
dere nell’immagine una sorta di norreno « limbus patrum », dove sog­
giornano « i discendenti dei pagani », in analogia alTantinferno dante­
sco. Baldr, il dio buono, la cui morte innocente fu pianta da tutti gli
dei pagani, presiederebbe questo limbo norreno! F. Jónsson, op. cit.,
p. 151, ritiene interpolare le strofe 54-56.
3 Ala (lat. alerei).
4 Ofund (sved. avund).
5 Hagr = stato, condizione.
6 Meinliga, avv.
7 Villr (got. wilpeis, ags, ted. ingl. wild), cfr. Hàvamàl, 47.
Medioevo pagano e cristiano 85

Flokkum fóru A gruppi andavano


HI Fégjarns borgar verso la rocca di Mammona,
ok hgfdu byrdar af blyil. portando pesi di piombo.
64
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es margan hofdu che a molti avevano
fé ok fjgrvi rasnt. strappato beni e vita.
Brjóst i gggnum Terribili velenosi draghi
rendu brggnum peim trafiggevano
oflgir eitrdrekar 2. loro il petto.
65
Menn sàk pà, Poi vidi uomini
es minst vildu che disdegnarono
balda belga daga. di osservare i giorni sacri;
Hendr peira le loro mani
vgru à heitum steinum inchiodate
negldar3 naudliga. a pietre ardenti erano.

Lo sforzo visibile di dar forma adeguata a un contenuto


spirituale del tutto nuovo negli schemi e nei modi attinti alla
tradizione pagana (si pensi per esempio a certi neologismi come
« kvcelheimr », cioè dimora dei tormenti, per indicare l’In-
ferno; come « yndisheimr », cioè dimora del piacere per in­
dicare il Paradiso; o a certi termini giuridici come « grid »,
cioè tregua, pace, passato qui a significare: perdono); questo
sforzo non può far velo al vibrante pathos cristiano, all’onda
incalzante delle immagini che, di tanto in tanto, si fa strada,
attraverso gli impacci della forma, « come torrente ch’aita vena
preme ».
E qui davvero sentiamo che l’anonimo poeta d’Islanda
come il fiero Sigambro, nelle celebri parole di San Remigio,
incendia ciò che ha adorato e adora ciò che ha incendiato4.

1 Piombo, invece dell’oro di cui erano bramosi, secondo la legge del


contrappasso, che fa pensare ai dannati e ai penitenti della Commedia
dantesca. Cfr. anche il Draumkvaede (v. 39).
2 Cfr. Vgluspà, 39. A puro titolo di curiosità, ricordiamo che un’eco
di questa strofe è ancora in Strindberg (Svenska oden och àventyr:
« Vikingaliv »).
3 La legge del contrappasso punisce le mani che, per sete di guadagno,
furono attive anche nei giorni consacrati. Negla (cfr. norr. nagli, ags.
neegely ingl. nail). Anche nella nota Visio Alberici è riserbata una par­
ticolare pena a chi non santificò le feste.
4 Gregorio di Tours, Hist. Franc. II, c. 22.
86 Le letterature della Scandinavia

LE SAGHE NORRENE

Anche gli ampi racconti in prosa che, soprattutto in Islan­


da, vengono fissati sulla pergamena a partire dal sec. XIII,
hanno dietro di sé, come i carmi eddici e i versi scaldici, una
lunga tradizione orale, ma a differenza di questi, in varia mi­
sura legati a un patrimonio mitico-leggendario comunemente
germanico, le Saghe norrene sembrano essere un prodotto
islandese nato dai fatti memorabili della colonizzazione del­
usola e della storia norvegese più o meno a questi connessa.
A stare alla tarda tradizione islandese gli esuli norvegesi
ribelli al potere di Araldo Bellachioma (c. 875-945) e deside­
rosi di vivere secondo il forn sidr, cioè secondo gli antichi co­
stumi giuridici e religiosi, cercarono rifugio in Islanda nell’ul-
timo quarto del sec. IX, abbandonando, parte la madrepatria,
parte i suoi possedimenti come le Orcadi le Ebridi le Shetland
o gli insediamenti vichinghi sulle coste inglesi e irlandesi.
Analogamente a quanto avveniva in Svezia e in Danimarca,
la tradizione vuole ravvisare anche nelPopera unificatrice di
Araldo una tendenza del monarca feudale a considerarsi quasi
proprietario del popolo e del territorio, su cui regnal. Certo
è però che gli esuli o colonizzatori (landnamsmenn) come li
chiama la tradizione, non interruppero, anzi mantennero vive
e frequenti le relazioni con la madrepatria. Grandi capi, alcuni
di stirpe regale, avevano fondato fra le rocce basaltiche e i
dorsi vulcanici di quest’isola, abitata da qualche eremita se­
guace di san Brandano, una democrazia aristocratica sostanzial­
mente agricola, governata dal potere legislativo, ma sprovvista
di esecutivo; sicché i conflitti divampanti nella madrepatria fra
la tradizionale libertà dei singoli capi e la crescente egemonia
regia si perpetuarono in Islanda sotto forma di antagonismi

1 Sulla controversa interpretazione dell’esodo dei norvegesi e sulla co­


lonizzazione delTIslanda è da vedere S. Nordal, Snorri Sturluson, cit.,
p. 250 sgg.; H. Koht, Inhogg og utsyn i norsk bistorie, Kristiania, 1921,
pp. 99-102; J. Schreiner, in Norsk bistorisk tidskrift, Oslo, 1927, pp. 161-
224; M. Scovazzi, Le origini del diritto germanico, Milano, 1957,
pp. 80-81; Il diritto islandese della Landnàmabok, ivi, 1961, pp. 23-30;
218-225; Atti del convegno sul tema\ dalla tribù allo Stato, Accademia
dei Lincei, Quaderno n. 54, 1962, pp. 90-110. Di fronte alla opinabilità
e alla incertezza di tanti aspetti del problema, E. Ól. Sveinsson, cit.
(pp. 16-39) e J. de Vries, Altn. Litg, cit. I2 (p. 155) si astengono dal
prender posizione.
Medioevo pagano e cristiano 87

tra preminenti famiglie e tra individui1. Dopo un periodo di


relativa pace dovuto all’influsso del cristianesimo, le lotte oli­
garchiche per il potere tra le eminenti stirpi di Oddi, di Hau-
kadalr e di Reykjaholt rifiammeggiarono all’inizio del 1200
per concludersi con tramonto del libero Stato e col suo infeu­
damento alla corona norvegese (1268). Se fu l’esodo dei nor­
vegesi in Islanda (analogamente a quanto avvenne per i poemi
omerici e per il Beowulf) a dare il primo impulso alla preser­
vazione del patrimonio culturale autoctono oralmente tradito,
fu certamente la conversione al cristianesimo a renderne pos­
sibile la trascrizione.
Probabilmente le prime notizie sul cristianesimo giunsero
nel Nord con quei guerrieri e mercanti che, a contatto con
popoli già evangelizzati, in Inghilterra, in Normandia e in
Germania si limitavano a ricevere la prima signatio 2 per poter
servire alle corti di re cristiani e commerciare con genti cri­
stiane, senza perciò rinnegare la propria fede. Ma dopo l’al­
leanza del trono con l’altare il nuovo credo conquistò tutta,
la Scandinavia, a quanto sembra, senza massacri, senza màrtiri3,
pur lasciando a lungo sussistere visibili relitti pagani nella vita
sociale come nelle forme della poesia e dell’arte figurativa4.

1 Dopo circa mezzo secolo d’immigrazione e d’insediamento i capi-sacer-


doti pagani (godar) che avevano alle proprie dipendenze i Pingmenn,
appartenenti cioè a un determinato parlamento locale (godord) avverti­
rono la necessità di leggi comuni a tutta Pisola e fondarono, Panno 930,
nelle piane sudoccidentali dette appunto Pingvellir, il primo parla­
mento generale (Alpingi). Questo, presieduto da IJMjótr, ch’era stato
in Norvegia a raccogliervi le norme costituzionali del nuovo Stato, se­
deva ogni anno per due settimane del mese di giugno. Il Iggsggumadr
(« legista ») o presidente, era incaricato per tre anni consecutivi di re­
citare a memoria e d’interpretare le norme giuridiche (segja Igg) dal
Iggberg (altura della legge) sovrastante la pianura, mentre il corpo legi­
slativo vero e proprio (Iggretta) era costituito dai godar. Nel 965 si
procedette alla divisione dell’isola in 4 quartieri (fjórdungar) rappresen­
tati in seno allo Alpingi dai giudici dei relativi tribunali (fjórdungsdómar).
Solo l’introduzione del cristianesimo (1000) e l’istituzione di una corte
di cassazione (fìmmtardómr) sembrano aver creato un periodo di relativa
pace nella tumultuosa storia della più antica repubblica d’Europa.
2 Kristnisaga cap. 1 ed. B. Kahle, Halle, 1905, fase. 11. V. ora sul
valore storico di questa Saga: C. Albani, Ricerche attorno alla Kristni-
sagay in Rend. 1st. Lombardo Scienze e Lett., Milano, 1968, pp. 3-54.
3 Ma non certo senza atti di crudeltà e di ferocia contro singoli individui
(p. es. Ólàs Saga Tryggvasonar cc. 76 e 80 in Heimskringla).
4 R. Mowinckel, Vor nationale billedkunst i middelalderen, Oslo, 1927,
pp. 44-46.
88 Le letterature della Scandinavia

In special modo in Islanda l’accettazione del cristianesimo


come religione pubblica, decretata àaWAlpingi più per motivi
politici ed economici che religiosi, non vietò in privato i di­
ritti e le consuetudini del culto e del rito pagano l. Ci furono
indubbiamente i conflitti religiosi2, ma più spesso si ha l’im­
pressione, come s’è detto, d’un sincretismo pagano-cristiano
avvertibile ancora nella raffigurazione che Snorri fa dei due
re evangelizzatori Ólàfr Tryggvason e Ólàfr Haraldsson, non
meno che nella fortunosa storia della missione in tutto il
Nord3.
Decisivo dunque l’apporto della cultura medievale cristiana
alla definitiva elaborazione e codificazione del patrimonio let­
terario oralmente trasmesso. Si sa che alcuni degli esuli nor­
vegesi si erano convertiti già prima dell’esodo. La vittoriosa
diffusione del cristianesimo fra le genti germaniche deve poi
aver alimentato nei nordici, insieme a dubbi, a fraintendimenti
e a odi tipici di ogni età di transizione, anche un più vivo in­
teresse per la propria cultura cui l’uso della scrittura intima­
mente legato alla religione cristiana apriva nuove possibilità
di preservazione. All’attività legislativa dello Alpingi, che certo
favoriva il culto della tradizione e l’orgoglio genealogico degli
isolani ma anche la loro curiosità intellettuale di udire i fatti
memorabili attinti ai quattro punti cardinali della diaspora
vichinga, s’accompagnò, con la conversione, l’influsso civiliz­
zatore della Chiesa, la quale seppe abilmente secondare e tra­
sformare le tradizioni locali. I godar, come erano stati pro:
prietari d’un tempio pagano (hof), erano ora proprietari
delle chiese che costruivano, e avviavano i propri figli (che
§ lungo il celibato ecclesiastico restò qui lettera morta)4 a

1 M. Olsen M M 1946, pp. 75-88.


2 Qualche testimonianza ce n’è rimasta nei versi profanatori d'un neo­
fita come Hjalti Skeggjason, che l’anno 999 paragonò Freyja a una cagna
(Skjald. I. p. 169) in presenza àeWAlpingt e fu proscritto; cosi pure,
per converso, nell’anonima nidvisa (epigramma infamante) contro il
vescovo Fridrekr e il suo discepolo Porvaldr vidfgrli: Hefir bgrn borit-
byskup niu — peira er allra — porvaldr fadir (Partorito ha il vescovo
nove figli; di tutti è padre Torvaldo), alla quale il convertito Porvaldr
rispose uccidendo l’incauto dileggiatore (Skjald, I, p. 168).
3 I. de Vries, Altg. Relig cit. 11° pp. 423-430; M. Scovazzi, Paganesimo
e Cristianesimo nelle saghe nordiche, Spoleto 1967, pp. 771-773.
4 Ancora nel Cinquecento l’ultimo vescovo cattolico d’Islanda Jón
Arason, poeta e campione della indipendenza dell’isola, decapitato nel
1550 dalle autorità danesi, era tenuto, benché padre di più figli, in
grande stima dalla Chiesa romana.
Medioevo pagano e cristiano 89

imparare nelle scuole clericali a leggere e a scrivere, insieme


al latino, la propria lingua. Cosi se in latino era officiata la
messa, si predicava però spesso in volgare. E in volgare presto
si scrisse in Islanda come già in Inghilterra. In piena luce sto­
rica appaiono ora i primi vescovi d’Islanda 1: nel sud, a Skàla-
holt, fsleifr Gizurarson (1056-1080) e Gizurr Isleifsson (1082-
1118) che con l’aiuto del godi cristiano Saemundr frodi intro­
dusse l’istituto della decima (1096); nel nord, a Hólar, Jón
Ogmundarson (1106-1121). Fu certo nei primi conventi be­
nedettini: di Jringeyrar (consacrato il 1133) e di Munka-
J)vera (1155), agostiniani (di {>ykkvabcer, 1168) e nelle
scuole ecclesiastiche (Oddi, Haukadalr) che la incipiente sto­
riografica tanto agiografica e leggendaria come annalistica fu
fissata sulla pergamena in latino e poi anche in volgare. Anzi­
tutto è ovvio le vite dei santi e degli apostoli, poi quelle
dei re norvegesi che avevano dato un impulso decisivo alla
conversione: Ólàfr Tryggvason e, più ancora, Ólàfr Haraldsson,
ben presto trasfigurato dalla leggenda, santificato dalla Chiesa
romana e assunto a « perpetuus rex Norvegiae » 2. Scritti sacri
e scritti giuridici, di grammatica e di retorica 3, di astronomia,
di geografia, di medicina' attestano la vivacità intellettuale di
questa società fondamentalmente agricola, priva di centri ur­
bani, non certo ricca, conservatrice, eppure aperta a tutti gli
influssi culturali europei.
Se Saemundr frodi Sigfùsson (1056-1133) di Oddi fu il

1 La cui biografia è narrata nelle Biskupa sogur (pubblicate per la prima


volta da G. Vigfusson, Kobenhavn, 1858-62) e importanti come fonti
storiche, specialmente la Hungrvaka (scritta a Skalaholt ca. 1195-1211)
intorno ai primi cinque vescovi islandesi e cosiddetta — propriamente
« aperitivo » — per destare curiosità e interesse intorno al soggetto
trattato.
2 S. Nordal, Om Olof den Helliges Saga, Kobenhavn 1914, pp. 10-11.
H. Koht, Noreg eit len av St. Olav, Norsk Hist, tidskrift 30, pp. 81-109.
B. Dickins, The Cult of St. Olave in the British Isles, Saga Book of
The Viking Society, London, 12, 1939, pp. 53-80.
3 Specie i quattro trattati grammaticali (nel Wormiamus e néìYUpsa-
liensis) dell’Edda snorrica (Dahlerup — Jónsson: Den hrste og anden
grammatiske Afhandling i Snorres Edda, Kobenhavn, 1886; B. M. Ólsen,
Den tredje og fiserde grammatiske Afhandling i Snorres Edda, ivi 1884)
hanno attirato l’attenzione degli specialisti per la singolare autonomia
con la quale gli anonimi autori trattano questioni retoriche e gramma­
ticali risalenti a Prisciano, a Donato e ai loro concorrenti e commen­
tatori come Alessandro di Villadieu, Paolo Elia e Everardo di Béthune
(S. Nordal Codex Wormianus ed. in facsimile. Kobenhavn 1931, p. 9;
e J. de Vries Altn. Litg, cit. I2 pp. 333-334; II, 200-202).
90 Le letterature della Scandinavia

primo a scrivere in latino di storia nazionale con intenti crona- v


chistici e critici, Ari fròdi f)orgilsson (1067-1148), educato a
Haukadalr, è ricordato da Snorri come padre della storiografia
islandese in volgare. La sua tslendingabók (ne restano sedici
pagine sulla storia politica e religiosa della colonizzazione dal-
l’870 fino al 1120 con sobri cenni sulla conversione al cristia­
nesimo fino ai due primi vescovi islandesi e con riferimenti
cronologici a fatti storici europei) sembra sia la seconda reda­
zione di una precedente perduta, alla quale e per le genealogie
(àttartglur) e per le vite dei re norvegesi (konungasevi) ivi
contenute, Snorri fa specifico riferimento come a fonti docu­
mentarie fededegne nel prologo della sua Heimskringla. Sempre
ad Ari va almeno in parte attribuita la cosiddetta Landnàma-
bók 1 o storia della colonizzazione, che insieme alla tslendin­
gabók pare dunque racchiudere in nuce molti degli elementi
costitutivi della Saga islandese scritta. Va subito aggiunto poi
che, a questa tendenza storiografica o cronachistica che sia,
attenta al vaglio delle fonti narrative e delle testimonianze,
s’affianca e gradatamente si confonde un’altra d’ispirazione
esclusivamente claustrale, agiografica, moralistica, che S. Nor­
dal, con molta verosimiglianza, fa risalire al convento bene­
dettino di f)ingeyrar2, dove appunto furono redatte a fini edi­
ficatori le prime Saghe dei re missionari: per esempio quella
in latino (l’originale è perduto, ma esistono traduzioni norrene
del 1200 ca.) su Ólàfr Tryggvason dei monaci Oddr Snor-
rason e Gunnlaugr Leifsson, e forse anche l’altra anonima, sul
secondo grande re missionario e santo nazionale Ólàfr Ha-

1 È una storia topografica della scoperta dell’Islanda e della colonizza­


zione, che segue il progressivo insediamento dei coloni da sud a ovest
a nord a est e dei loro discendenti fino al 1100 ca. narrandone, talvolta
in vivace forma aneddotica, i fatti salienti. Vi sono menzionate più di
3500 persone e di 1500 insediamenti umani. Quanto mai fortunosa
però la tradizione manoscritta. Secondo la più recente redazione ser­
bataci, quella di Haukr Erlendsson detta Hauksbók (prima metà
del XIV) egli stesso avrebbe attinto ad Ari e inoltre, più specificata-
mente, alle due redazioni di Sturla fcódarson ■— ca. 1214-1284 — e di
Styrmir Karason, morto nel 1245. Le altre tre redazioni (quella fram­
mentaria della Melabók e le due assi tarde del sec. XVII) non sono
qui prese in considerazione; per la ricostruzione di tali fonti, quanto
mai problematica, si rinvia a J. Jóhannesson, Gerdir Landnàmabókar,
Reykjavik, 1941; v. inoltre S. Nordal, N. K., cit., pp. 191-193 e E. Ól.
Sveinsson, Dating the Icelandic Sagas, London, 1958, pp. 88-94.
2 N. K. cit. p. 252.
Medioevo pagano e cristiano 91

raldsson 1. Se l’età della codificazione della Saga è grosso modo


il sec. XIII, il genere stesso della Saga2 è indubbiamente più
antico dell’uso della scrittura. Gli esuli norvegesi portarono
certo con sé in Islanda una cultura giuridica, mitologico-
poetica, storica3, affidata alla tradizione orale, ma, in seno a
questa cultura eterogenea, abbracciante anche remoti eventi
leggendari — ritenuti però, in età illetterata4 « veri », — i
fatti salienti dell’esodo e poi le vicende della colonizzazione e
della conversione promossa dai re di Norvegia, avranno certo
destato maggiore interesse negli islandesi che direttamente vi
avevano partecipato e nei loro immediati discendenti.
Sull’origine prima della Saga, come su quella del carme
eroico germanico, nulla si sa di certo. È verosimile però che i
fatti cronachistici più tardi menzionati nella tslendingabók di
Ari, e più ancora i brevi aneddoti (frasggn) della Landnàmabók
siano stati, come si è detto, i primi nuclei narrativi (peettir)
della Saga (conflitti armati fra individui o famiglie eminenti,
liti giudiziarie, offese, vendette e riconciliazioni).
Che il narrar Saghe fosse in Islanda un vero e proprio in­
trattenimento sociale (sagnaskemtun) durante le lunghe sere
invernali, nelle assemblee locali, nello Alpingi è sicuramente
documentato. Nel 1119, ci narra la porgils saga ok Haflida5,
fu solennemente celebrato un matrimonio a Reykjahólar (nel-
l’Islanda occidentale) e fra i divertimenti connessi all’evento
un certo Hrólfr di Skàlmarnes narrò una Saga da lui stesso
composta. Un’altra fonte6 menziona un islandese, il quale

1 Della quale restano solo frammenti; forse il compilatore si rifece alle


idee storiografiche e critiche di Ari (come crede J. Schreiner, Tradisjon
og Saga om Olav den Hellige, Oslo 1926, p. 4 sgg.).
2 II termine, com’è noto, significa racconto orale (da seja = dire, in
contrasto a kveda = poetare). Malgrado la divergenza e il contrasto di
opinioni sull’intricato problema della genesi e dell’evoluzione della Saga,
che abbraccia componimenti formalmente e sostanzialmente diversi, non
esiste dissenso sulla realtà d’un «genere» narrativo indicato con tal
nome (S. Nordal, N. K.t cit., p. 270; P. G. Foote, Some Account of the
.Present State of Saga-Research in « Scandinavia », nov. 1965, pp. 115-
125; Th. Andersson, The Icelandic Family Saga, Harvard Un. Press,
1967, Pref. V).
3 S. Beyschlag, Konungasogur, Kobenhavn, 1950, p. 200 sgg.
4 Cfr. su questo aspetto del problema Bowra, cit., p. 40 sgg. e anche
recentemente M. I. Steblin -Kamensky, On the Nature of Fiction in
. the Sagas of Icelanders, « Scandinavica », nov. 1967, pp. 77-84.
5 Nella Sturlungasaga ed. Kàlund, Kobenhavn, I p. 22.
6 II Ms. anonimo islandese, chiamato da fcormódur Torfasus (1636-
1719) « la pergamena ammuffita » (Morkinskinna} ed. F. Jónsson, K 0 -
92 Le letterature delta Scandinavia

narra al re Araldo il Severo le gesta da quest’ultimo compiute


anni prima a Bisanzio e nel Mediterraneo; e dice di aver udito
di tali gesta nello Alpingi islandese da un certo Haldórr
Snorrason, che era stato appunto al seguito del re. All’inizio
del prologo della Heimskringla Snorri poi cita fra le sue fonti
documentarie non solo Ari, ma i nomi di coloro che garanti­
vano la continuità di una tradizione orale risalente all’epoca
di Araldo Bellachioma: cioè Oddr Kolsson e Jporgeirr afràds-
kollr.
È chiaro però che, affidando alla pergamena il loro patri­
monio narrativo, gli islandesi ne resero possibile non solo la
conservazione ma certo anche quella maggiore elaborazione
artistica che i pur dotati narratori semiprofessionali, i sagna-
menn, difficilmente avrebbero potuto conseguire. Non c’è dub­
bio perciò che il manoscritto segnò una svolta decisiva nella
secolare storia della Saga. Senza por fine alla tradizione orale,
esso permise l’utilizzazione di fonti scritte, l’affinamento degli
intenti artistici, l’approfondimento dei motivi psicologici, e
dette cosi alle Saghe quella forma definitiva nella quale ci
sono oggi accessibili. Ma come esattamente avvenne il pas­
saggio dalla tradizione orale alla scritta?
In un costante avvicendarsi di corsi e ricorsi la storia
della genesi e dello sviluppo della Saga ha oscillato per oltre
cinquantanni tra i poli estremi di due teorie contrastanti:
nell’uso corrente indicate coi nomi tedeschi Freiprosalehre e
di Buchprosalehre 1. La prima considera la Saga come pura e
semplice codificazione d’una anonima e mnemonica tradizione
narrativa di fatti, cui gli anonimi scribi islandesi del sec. XIII
non avrebbero apportato alcuna sostanziale modifica; la se­
conda, invece, come opera d’arte di singoli autori, anch’essi ano­
nimi, nata all’atto stesso della fissazione sulla pergamena, sul
fondamento d’un minimo di tradizione orale.
La storiografia critica sulla Saga sembra cosi ricalcare, al­

benhavn, 1932, pp. 199-200) e contenente appunto questo pàttr af


islèndingi SQgufróda nonché una narrazione della storia norvegese da
Magnus godi (1035-1047) alla battaglia di Ré (1177).
1 Sull’intero problema cfr. anzitutto A. Heusler, Die Anfànge der islàn-
dischen Saga, Berlin, 1914; e Altg. D. Postdam, 1941, p. 215, nota 171;
K. Liestol, Upphavet til den islendske Aettesagay Oslo, 1929; F. Jónsson,
Litt. hist, cit., II2 p. 207-237; S. Nordal, N. K.y cit., 1953; M. Scovazzi:
La Saga di Hrafnkell e il problema delle Saghe islandesi, Arona, 1960,
pp. 72; 85-293; J. de Vries Altn. Litg.y cit., II2; W. Baetke, Ueber die
Entstehung der Islandersagas, Berlin, 1956, passim.
Medioevo pagano e cristiano 93

meno in parte, quella sull’epica francese. Come dalle concezioni


romantico-populariste dei Grimm, dei Fauriel e dei G. Paris
si è passati, sulla base dell’analisi linguistica e stilistica, alle
idee unitariste del Bédier, così dalle ricostruzioni dei tradizio­
nalisti come F. Jónsson, A. Heusler e K. Liestol, alle odierne
interpretazioni di S. Nordal, di E. Ól Sveinsson, di W. Baetke.
I fautori della Freiprosalehre sostengono non soltanto l’esi­
stenza d’un corpus di tradizioni orali già artisticamente ela­
borate rispecchianti i fatti memorabili del IX e del X secolo,
ma anche in varia misura la sostanziale aderenza stilistica dei
testi del sec. XIII a tali antiche tradizioni; gli avversari mini­
mizzano la possibilità di una tradizione orale di componimenti
così ampi come le Saghe (anche 400 pp. a stampa); e sotto­
lineando i caratteri distintivi, spesso asseritamente fantastici,
d’ogni singola Saga, insistono sulla tarda formazione dell’intero
genere letterario, sul quale avrebbero influito in misura deter­
minante rii ideali religiosi e cavallereschi penetrati nel Nord
con la diffusione del cristianesimo. Insomma ciò che secoli
prima avvenne sotto Carlomagno sul continente, si sarebbe a
un dipresso ripetuto in Islanda; a San Gallo, a Fulda, a Rei-
chenau cux risponderebbero Pingeyrar, Hólar e gli altri conventi
islandesi. Inoltre i primi studiosi postulano — certo in linea
generale erroneamente — una eccellenza artistica iniziale delle
Saghe ritenute più antiche e quindi più vicine alla tradizione
orale; e conseguentemente considerano più antiche le cosiddette
Islendingasogur, cioè 40 circa, oltre numerosi p settir sui fatti e
sui protagonisti della colonizzazione islandese (circa 930-1030).
I secondi capovolgono questi canoni interpretativi e pongono
alPorigine le Konungasggur; cioè le più cronachistiche Saghe
dei re norvegesi (due dozzine circa), che probabilmente furono
le prime a venir trascritte dopo le agiografiche, in parte a opera
di noti autori e in un caso almeno (come già era altrove avve­
nuto per i Gesta Friderici ìmperatoris di Ottone di Frisinga)
per iniziativa e sotto la sorveglianza diretta d’un re 1.

1 La Sverrissaga soprannominata Gryla (Spauracchio) e scritta almeno in


parte dall’abate di Pingeyrar Karl Jónsson, a celebrazione ufficiale del
vivente sovrano norvegese Sverrir Sigurdarsson (1184-1202); forse in­
terrotta dopo la scomunica del re da parte di Innocenzo III (1198),
poiché il re a capo della fazione dei Birkìbeinar condusse una guerra
senza quartiere contro i Baglar, o partigiani della Chiesa. In risposta alla
scomunica Sverrir fece scrivere a un ignoto dotto, che forse studiò al-
l’Università di Bologna (cfr. En tale mot Biskopene, Oslo, 1931, ed.
94 Le letterature della Scandinavia

Necessaria appare una mediazione fra le due tendenze


estreme1; che ammetta un lungo e vario processo di forma­
zione e di stratificazione e lasci così adito almeno a una mag­
giore gradualità di trapassi e di elaborazioni.
Come negare infatti che in una società fondata su saldi vin­
coli tribali, come la islandese, e in un’età illetterata in cui si me­
morizzavano liste genealogiche, versi scaldici, carmi eroici, do­
tati sagnamenn siano stati in grado di elaborare artisticamente
brevi narrazioni (le frasggn della Landnàmabók) o anche rac­
conti più ampi sul tempo antico (le cosiddette Fornaldarsógur)
cioè sul remoto passato mitico-eroico nordico e comunemente
germanico (p. es. la Vglsungasaga sulla leggenda di Sigfrido) o
ancora sulla vita dei re norvegesi (p. es. il Hryggjarstykki di
Eirikr Oddsson *, l’anonima e più antica Saga di Ólàfr Haralds-
son). Come spiegare la similarità e talvolta l’identità di certi mo­
duli narrativi della Saga scritta, e insomma il suo stile cosi di­
verso da quello della coeva letteratura chiesastica medievale
senza una precedente tradizione autoctona. E se non da questa,
da quale altra esperienza formativa può essere nato lo stile
della Saga?
Che poi T« autore » o gli « autori » il sagamadr o lo scriba
o entrambi, incorporando omettendo riplasmando, secondo la
consuetudine cosi diffusa nel Medioevo, e in diretta relazione
al talento artistico, all’intento critico o al fine edificatorio, al
momento e alPambiente in cui operarono, abbiano ridotto a
unità organica racconti elaborati dalla tradizione adattandoli a
nuovi contesti, si può ritener certo. Bisognerà dunque tentare,
finché possibile, di determinare, caso per caso, quanto abbia il
suo fondamento in una tradizione orale, e quanto invece sia
nato all’atto della elaborazione scritta o sulla base di fonti

A. Holtsmark, pp. 60-61) un libello contro i vescovi in appoggio alla


teoria della sovranità del potere temporale su quello spirituale.
1 H. Becker-Nielsen; Th. Damsgaard Olsen; O. Vidding, Non on fortsel-
lekunst, Kobenhavn, 1965, p. 123; J. de Vries, Altn. Litg., cit., II2,
p. 323 sgg.
2 Controversa è l’interpretazione del titolo di questa Saga perduta (di
cui ci dà notizia la Morkinskinna ed. F. Jónsson, Kobenhavn, 1932,
p. 419; e Snorri nella Heimskringla — Saga di Ingi capp. 7, 9, 11)
intorno al re di Norvegia Haraldr Magnusson gilli (1130-1136), ai suoi
due figli, nonché ai re Magnus Sigurdarson blindi (1130-1139) e Sigurdr
slembidjakn (1130-1139), cioè intorno ai protagonisti delle feroci lotte
per la successione al trono dopo la morte di Sigurdr jórsalafari (1130).
Snorri ci dice appunto nel c. 11 che Eirikr narrò gli eventi cosi come
gli furono narrati da testimoni oculari.
Medioevo pagano e cristiano 95

scritte; cosa non facile, che anche nelle Saghe artisticamente


più mature e unitarie (la E giissaga, la Njàlssaga, la Laxdcela-
saga) innegabili sono le interpolazioni e le giunte e i pezzi di
raccordo. Ma bisogna anche guardarsi dal formulare troppo
rigide definizioni e classificazioni sulla base dei fluttuanti carat­
teri del materiale documentario sempre composito ed etero­
geneo; e per esempio prendere la crudezza linguistica per si­
curo indizio d’arcaicità e viceversa l’eccellenza letteraria per
prova di recenziorità; o con sicurezza affermare la dipendenza
di un genere dall’altro (le Islendingasggur dalle Konunga-
SQgur !, o viceversa), dove forse non c’è che interazione e pa­
rallelismo; o escludere che la Fornaldarsaga, perché visibilmente
mitico-fiabesca, abbia potuto coesistere e forse anche cronolo­
gicamente precedere gli altri tipi di Saga.
Anche i criteri di datazione adottati non presentano garan­
zie assolute (la coerenza delle genealogie non è sempre control­
labile, né decisiva la forma della composizione d’una Saga, e
neppure la comparazione interna tra più Saghe, le quali,
anziché dipendere l’una dall’altra, possono avere attinto a fonti
perdute o alla tradizione orale; non meno discutibili i risultati
dell’analisi formale basata su determinati costrutti linguistici
e sull’uso di certi vocaboli, perché non è da escludere la pos­
sibilità d’intenti arcaizzanti o di tarde interpolazioni). Se come
si è detto i manoscritti più antichi, cioè della prima metà del
sec. XIII, si riducono a pochi il cimenti e la stragrande mag­
gioranza degli apografi va invece ascritta ai secoli XIV e XV,
pure sembra possibile tracciare almeno uno schema approssi­
mativo di evoluzione storica della Saga scritta2. Fra le più
antiche (c. 1200-1230) redatte, secondo S. Nordal, nel con­
vento di Pingeyrar, la lacunosa Heidarvtga saga (Saga delle
uccisioni sull’altopiano), forse risale a due diverse tradizioni
giustapposte: la prima leggendaria, la seconda cronachistico-
tribale legata al quartiere occidentale dell’Islanda. Rispetto ad
altre Saghe, indubbiamente più tarde, che sembrano averne uti­
lizzato i temi narrativi, questa presenta difetti di composizione
e caratteri stilistici che giustificano la datazione proposta. Allo
stesso periodo cronologico sembra appartenere la Fóstbrcedra
Saga (Saga dei fratelli d’arme) Pormódr Kolbrùnarskàld e
Porgeirr Havarsson. La narrazione delle loro gesta e soprat­

1 Turville-Petre, cit. p. 231.


2 S. Nordal N. K. p. 253 sgg. e E. Ó1 Sveinsson, Dating the Icelandic
Sagas, cit., specialmente p. 127 sgg.
96 Le letterature della Scandinavia

tutto la storia di Pormódr che vendica l’uccisione di Porgeirr


in Groenlandia e finalmente muore a Stiklastadir al seguito di
Olao il Santo, è a tratti intensamente drammatica, malgrado
le digressioni e la composizione alquanto scucita. Allo stesso
periodo appartengono forse alcune Saghe che hanno il carattere
di biografie di singoli poeti apparentemente basate sui versi
scaldici a quelli attribuiti: p. es. la Hallfrodar saga e- la
Kormàks saga, la Egilssaga Skallagrimssonar (delle quali si è
parlato in connessione con la poesia scaldica), mentre altre
come la Reykdcela, la Eyrbyggja, la Vatnsdcela che narrano le
vicende di intere famiglie o di insediamenti territoriali, spesso
diffuse e prolisse ma di grande interesse storico-culturale; o
come altre, legate al quartiere occidentale, quali la Gisla saga
(la storia di un proscritto innocente che ha ucciso per proteg­
gere il fratello) e la Laxdcela (sulla fatale rivalità tra Kjartan
e Bolli per l’amore di Gudrun, improntata insieme allo spi­
rito eroico vichingo e al gusto cavalleresco) sembrano, per
l'utilizzazione di molteplici fonti scritte, per la salda struttura
narrativa, e per la libertà con cui trattano la tradizione, opere
della seconda metà del secolo. Alla fase culminante della Saga
(1300 c.) che, insieme alla eccellenza formale già scopre qual­
che segno di incipiente decadenza, vanno probabilmente ascritti
componimenti come la Gunnlaugs saga, la Njaissaga, la Gret-
tissaga, la Hrafnkels saga Freysgoda, nei quali agli influssi
stranieri dell’amore cortese e della morale cristiana sempre più
evidenti s’accompagnano una maggiore autonomia inventiva e
una consumata perizia d’impianto narrativo; finché, nella se­
conda metà del secolo, col tramonto dell’indipendenza del­
l’isola, le tradizioni tribali della Saga cessano di essere la fonte
prima dell’ispirazione. Il genere narrativo non si estingue
certo, ma attinge sempre più i suoi temi alle traduzioni dei
romanzi « cortesi » e delle canzoni di gesta e predilige l’av-
venturoso il fiabesco e soprattutto Pesotico. Vigoreggia ora e
si diffonde la moda delle Fornaldarsggur, delle Riddarasggur,
dalle cosiddette Lygisggur 1 (Saghe menzognere) il cui carattere

1 Sotto il re Hàkon Hakonarson (1217-1263) fu iniziata a opera dell’abate


Robert la traduzione, in ridondante prosa norvegese, del Tristano del-
l’anglonormanno Thomas vissuto alla corte inglese di Enrico II. Segui­
rono presto traduzioni, in un rozzo e ibrido linguaggio che ricorda i
poemi cavallereschi franco-italiani, dei Lai di Maria di Francia e dei
poemi di Chrétien de Troyes, nonché della materia classica, nella Tróju-
manna Saga (un rifacimento del De excidio Trojse di Darete Frigio).
Medioevo pagano e cristiano 97

favoleggiante e ridondante e il cui lieto fine, qualunque sia la


vicenda tragica narrata, visibilmente contrastano con l'asciut­
tezza cronachistica e realistica delle Konungasggur e delle Islen-
dingasggur. Certo anche questo genere di Saghe lungamente
visse al pari delle altre in tradizione orale (ne fa fede tra l’altro
anche la testimonianza esplicita di Saxo, che nella prefazione
ai suoi Gesta Danorum paga un debito di riconoscenza ai nar­
ratori e agli scaldi islandesi; ma come s’è detto, mutato è lo
spirito che le informa, giacché anche quando riprendono mo­
tivi epici tolti elVEdda o alle altre Saghe, invariabilmente ne
iperbolizzano il lato eroico e soprannaturale, come p. es. la
Vglsunga saga, e la Hrólfs saga kraka l, la Ragmrs saga lodbró-
kar e la Fridpiófs saga)2.
Al di là delle molteplici differenze esterne e interne la
Saga, almeno nella sua forma più tipica, si presenta come bio­
grafia di un individuo o di una stirpe, come narrazione di vi­
cende e di fatti direttamente osservati, o anche se attinti a
testimonianza altrui, esposti sempre con oggettiva imperso­
nalità e cura documentaria in una lingua semplice, realistica,
quasi quotidiana, ignara di epiteti esornativi come di accen­
sioni liriche, in uno stile uniforme, monotonamente para tattico
e asindetico. Chi narra dissimula sempre il suo io dietro la

1 Benché tarda e ricca di elementi leggendari questa Saga contiene un


nucleo epico-storico risalente al V-VI secolo — i nomi dei figli di Hrólfr
Kraki, Hróarr e Helgi si ritrovano nel Beowulf: Hròdgàr e Halga; e
nei Gesta Danorum di Saxo. E qui appunto, nella parafrasi latina
di Saxo, che in centinaia di esametri sembra aver voluto rendere un
antico carme eroico Bjarkamal, è narrata l’ultima battaglia in cui il re
e i suoi prodi guerrieri — fra i quali spiccano Bgdvarr Bjarki e Hjalti —
periscono soverchiati dagli avversari. Il carattere encomiastico del carme
è visibile non solo nell’epilogo, ma nel dialogo tra Bgdvarr e Hjalti; i
quali, prima della battaglia esaltano il valore e la generosità del loro re.
Un’eco di questo perduto carme è ancora in Snorri (Ólàfs saga belga
cap. 208), dove lo scaldo di Olao, Pormódr Kolbrunarskàld, all’alba
della fatale battaglia di Stiklastadir, recita appunto alcuni versi dei
Bjarkamal per destare e incitare i guerrieri: « Vekka ydr at vini — né
at vtfs runum — heldr vekk ydr at bgrdum — Hildar leiki» (non vi
desto alle libagioni né ai colloqui amorosi; vi desto invece al duro gioco
della dea della guerra). E bastano queste parole a darci un’idea del­
l’intonazione eroica del carme, che molto più tardi ha ispirato scrittori
romantici danesi, come J. Ewald e A. Oehlenschlager.
2 Sulla quale certo ha influito la nota leggenda medievale di « Fiorio e
Biancofiore »; il romantico svedese E. Tegnér vi si ispirò più tardi per
il suo epos Fritbiofs saga.
98 Le letterature della Scandinavia

nuda sequenza dei fatti, racconta più che non descriva, rife­
risce più che non commenti, senza prender partito (cosa tanto
più degna di nota se si pensa che gli anonimi « autori » della
Saga furono i sia pur lontani discendenti dei protagonisti di
quelle). Anche quando Finterà vicenda o il singolo episodio
è palesemente fantastico, il tono del racconto arieggia sempre
una fedele osservazione della realtà; e a ciò contribuiscono non
poco sia i frequenti riferimenti genealogici topografici e crono­
logici, sia i dialoghi brevi e freddi e sentenziosi; che servono a
far procedere l’azione o più spesso a caratterizzare situazioni
drammatiche, nelle quali il cupo fuoco delle passioni si nascon­
de sotto un incisivo e allusivo laconismo.
DalPesordio piano, dimesso, quasi sempre genealogico che
evidentemente serviva a orientare subito gli ascoltatori sui
personaggi e sui fatti memorabili: Oddr hét madr Onundar son
breidiskeggs... — Oddr si chiamava un uomo figlio di Onundr
dalla grande barba (Hoensa-póris saga); Mgrdr hét madr, er
kalladr var gigja, hann var sonr Sighvats hins randa. — Mgrdr
si chiamava un uomo soprannominato violino, egli era figlio di
Sighvatr il rosso (Njàlssaga); Madr er nefndr Grimr Kamban,
hann bygdi fyrstr Foereyjar à dggum Haralds hins hàrfagra. —
Un uomo chiamato Grìmr Kamban viveva una volta nelle
« Isole delle pecore » al tempo di Araldo Bellachioma (Pàttr
Pràndar ok Sigmundar), la Saga passa gradatamente, cronachi­
sticamente, per una ben congegnata serie di aneddoti e episodi
che preparano i culmini drammatici, alla complessa caratterizza­
zione dei personaggi, per lo più attraverso le loro parole e azioni,
quasi mai mediante la parafrasi del narratore. E gli anonimi « au­
tori » come già i poeti dei carmi eroici non rinunciano quasi mai
all’espediente epico della prognosis: sin dall'inizio prefigurano
lo svolgimento degli eventi velando nei sortilegi, nelle visioni,
nei sogni premonitori quello che sarà l’ineluttabile decreto del
fato. Sicché tutto l’interesse narrativo si concentra sul « come »
questo fato si compirà attraverso un abile gioco di fatti minuti,
realistici (d’un realismo psicologico non pittorico): una parola
incauta, un contrasto d’interessi appena accennato, un’offesa
anche involontaria all’onore tribale mette in moto la macchina
degli eventi che porteranno al climax tragico dell’uccisione, la
quale, a sua volta, con la vendetta, creerà un nuovo climax. Gli
uccisi sono vendicati e i vendicatori uccisi, in un crescendo di
fatti cruenti che sostanzialmente formano la trama di questi
racconti. Cosi nella più antica Heidarviga, cosi nella più arti-
Medioevo pagano e cristiano 99

Eticamente matura Njàla1. Sicché il pregio maggiore della Saga


non è tanto da ricercare nel pur vario e netto disegno delle
cose, nella sapida narrazione dei fatti in sé presi, quanto nei
personaggi che li incarnano rendendoli, col proprio comporta­
mento eroico, esemplari e memorabili.
Come Eschilo amava chiamare i suoi drammi briciole del
banchetto omerico, cosi oggi si potrebbe chiamare le Saghe più
o meno dirette filiazioni narrative dei carmi eroici2. Su un
piano più realistico certo, ma anche meno stilizzato e tipiz­
zato. Sorte come l’epica eroica per essere ascoltata e non letta3
e quindi difficilmente accessibili al gusto dei moderni per la
unidimensionalità narrativa, per le lungaggini4 e minuterie de­
scrittive di colpi e ferite, per le disuguaglianze strutturali, tal­
volta anche per la folla dei personaggi (la Njàla ne ha 600!),
le Saghe spiccano in seno alla letteratura del Medioevo per la
forza plastica della caratterizzazione individuale spesso atte­
stante l'unità d’una consapevole ispirazione poetica. Figure
come Egill che grandeggia nella fedeltà alPamico e nell’amore
per i figli non meno che nell’odio feroce per gli avversari,
come i proscritti Gisli e Grettir che al fato avverso e all’infa­
mante condanna della società germanica cui appartengono op­
pongono il proprio fiero individualismo e lo sprezzo della
morte, come Gudrùn che si consuma nell’amore-odio del di­
letto Kjartan al punto da incitare il marito ad ucciderlo, come
Njàll e Gunnarr di Hlidarendi, rappresentanti delle più alte
virtù guerriere eppure combattuti fra l’antica morale eroica
e il nuovo spirito cristiano, non possono essere scaturite dal­

1 In due ampi studi E. Ól. Sveinsson ha sostenuto la fondamentale


unità poetica di questa Saga sottolineandone la coerente e profonda
tensione drammatica, l’ampiezza e la chiarezza del disegno, il confluire
e talvolta lo scontrarsi, nei personaggi, del fatalismo eroico e dell’etica
cristiana. Opera dunque di un solo grande artista (Um Njàlu, Reykjavik,
1933, pp. 1-32; 220-298) che per varietà e penetrazione psicologica rap­
presenta il culmine dell’arte narrativa islandese (À Njàlsbud, ivi, 1943,
pp. 53; 127 sgg.)
2 L’unità di spirito eroico fu già sostenuta da W. P. Ker, Epic and
Romance, cit., pp. 228-229; e dopo di lui Th. Andersson, cit., è ritor­
nato sull’argomento sviluppandolo e approfondendolo con appropriati
concetti.
3 Bowra, cit. p. 215.
4 Già M. N. Petersen osservava a proposito dello stile della Saga (Bi-
drag til den danske litteraturs historiey Kobenhavn, 1853-61, I, p. 220:
« Den uendelige ensformige Stil uden afvexling og periodbyggning... ».
100 Le letterature della Scandinavia

l’anonima tradizione popolare che — com’è noto — assimila e


serba, ma non crea. Senza la fantasia di dotati artisti (certo
rielaboratori di copioso materiale orale e scritto) non avremmo
i vividi ritratti dei personaggi primi della Saga, caratterizzati
talvolta da una nuda sentenza, ora gravida di minacciosi sottin­
tesi, ora di amara ironia, ora d’eroica impassibilità. Peim
var ek verst, er ek unna mest (« fui più malvagia verso colui
che più amai ») esclama la Gudrùn della Laxdcela a conclusione
della sua tragedia familiare; Aldri var ek fagrleitr, en litit
hefir pu um bcett (« mai fui bello nell’aspetto, ma di poco
m’hai tu fatto più bello ») esclama Helgi della Droplaugarso-
nasaga sotto il colpo dell’avversario che gli fende il viso;
Aerit fggr en mser sjà; ok munii margir pess gjalda. Enn
hitt veit ek eigi hvadan pjófsaugu era komin i eettir varar
(« bella è certo e molti per lei soffriranno, ma io non so come
siano entrati nella nostra stirpe quegli occhi di ladra ») dice
nella Njàlssaga Hrùtr della piccola Hallgerdr, che sarà la causa
prima d’una fatale catena di eccidi e di vendette; Ek var
ung gefin Njàli; hefi ek pvi heitit honom, at eitt skyldi ganga
yfir okkr bcedi (« giovane fui data a Njàll e gli promisi che
10 stesso destino ci avrebbe uniti ») risponde Bergpóra a chi
vuol distoglierla dal seguire il marito nella morte.
Cosi senza speranza e senza paura muovono tutti incontro
al destino ineluttabile, che qui come nel carme eroico, all’uomo
è invariabilmente imposta una scelta fra due contrastanti va­
lori. La moglie sacrifica il marito per vendicare il fratello,
11 cugino vendica il cugino uccidendo l’amico; Gisli uccide il
marito della sorella per vendicare il fratello dejla moglie; e
la sorella vendicherà a sua volta il proprio marito sul proprio
fratello (Gislasaga); Gudrùn vendica l’amato Kjartan facendo
uccidere il marito Bolli, da lei stessa istigato all’assassinio
(Laxdcela). Questo il tema fondamentale della Saga, anche se
non ne mancano altri e diversi: dalla storia del generoso Brandr
(Brands pàttr grva) a quella del plebeo arricchito (Hoensa-
póris saga) all’altra del vecchio Ófeigr che impiega la sua cau-
sidica sottigliezza a frustrare l’avidità di un gruppo di capi
che vorrebbero impadronirsi delle ricchezze di suo figlio (Ban-
damanna saga) o all’altra ancora del colonizzatore della Groen­
landia Eirikr il Rosso (Eiriks saga rauda) e di suo figlio Leifr,
secondo la tradizione, scopritore dell’America.
Sostanzialmente identica per spiriti e forma alla Saga islan­
dese « classica », ma scritta o fatta scrivere con intenti di vera
Medioevo pagano e cristiano 101

e propria storia è la Heimskringla1 di Snorri: cioè una serie


di Saghe biografiche dei re norvegesi dalle origini mitico-eroiche
fino a Magnus Erlingsson (il primo a farsi incoronare re a Ber­
gen nel 1164 dall’arcivescovo Eysteinn quale «perpetuus rex
Norvegia » e vicario di Olao il Santo) e precisamente fino alla
battaglia di Ré del 1177. Nel ripercorrere circa trecento anni
di storia (ché l’iniziale racconto mitico della Ynglinga Saga,
basato sul poema genealogico scaldico Ynglingatal, è un ten­
tativo di dare nobil prosapia, anzi addirittura origine divina,
al fondatore del regno norvegese Araldo Bellachioma e ai suoi
legittimi discendenti), Snorri ricalca alcune almeno delle sue
fonti scritte: l’anonimo Àgrip af Noregs Konunga SQgum
(compendio delle saghe dei re di Norvegia) che partendo da
Hàlfdan il Nero (sec. IX) padre di Araldo, giunge appunto al
1177, cioè alle guerre civili e alla comparsa in Norvegia di
quel geniale rivoluzionario che fu Sverrir; inoltre forse la
cronaca claustrale e erudita del monaco Teodorico di f)rànd-
heimr (Historia de antiquitate regum Norwagensium) abbrac­
ciarne all’incirca lo stesso periodo storico; quindi la già men­
zionata Morkinskinna che narra i fatti della storia norvegese
da Magnus godi (1035-1047) appunto al 1177; da ultimo la
mutila e anonima Historia Norvegia: dalla dinastia degli
Ynglingar a Olao il Santo considerato « perpetuus rex Nor­
vegia »; e la Fagrskinna2, di ignoto islandese, che da Hàlfdan
il Nero narra i fatti del regno fino al 1177.
Che queste e altre diverse e numerose furono le fonti
scritte di Snorri è certo; non escluse quelle di Oddr e Gunn-
laugr, a carattere agiografico, sui due re missionari. Ma Snorri,
pur utilizzandole, talvolta perfino incorporando e trascrivendo,
si mantiene in sostanza sulla linea critico-genealogica di Ari
(a questo infatti e ai suoi predecessori e trasmettitori di noti-

1 Attribuita a Snorri dai primi umanisti-antiquari dano-norvegesi Laurents


Hanss0n (m. nel 1558) e Peder Clausson Friis (1545-1614), che da mano­
scritti oggi perduti o solo frammentari ne tradussero alcune parti (nel
1633 Ole Worm fece stampare a Copenaghen quella del Clausson dal
titolo Norske Kongers Chronica sammendragen ved Snore Sturleson paa
Island...), l’opera fu cosi chiamata dal suo incipit, per la prima volta
dallo svedese J. Peringskiold, che la pubblicò a Stoccolma nel 1697:
; Heimskringla eller Snorre Sturlusons Nordlàndska Konunga Sagor cioè
« Orbe terracqueo o Saghe dei re norvegesi di Snorri Sturluson ».
2 Cosiddetta da Pormódur Torfceus (« La pergamena bella »), distrutta
i nell’incendio di Copenaghen del 1728, ma esistente in copia; contiene
fra l’altro i versi dell'Haraldskvéedi e degli Eirtksmàl.
102 Le letterature della Scandinavia

zie storiche egli fa riferimento nel Prologo della Heimskringla)


ed è inoltre il primo, come s’è detto, a utilizzare criticamente
la secolare tradizione scaldica (soprattutto di Sighvatr e di
Óttar Svarti, ma di altri molti anche), che in gran parte deve
aver conosciuto a memoria. Storico e artista a un tempo, sembra
dunque impersonare i due massimi intenti della Saga1: nar­
rare una storia vera e dilettevole a un tempo. Oggettivo e rea­
listico nello stile, aneddotico nella tecnica narrativa, tutto il
suo racconto si concentra in profili epici di singole personalità
interpretate alla luce di idee pagane: la vendetta, l'onore tri­
bale, il fato, ma anche cristiane medievali: il rex iustus evan­
gelizzatore e unificatore del regno; ché Snorri conobbe certo
non solo la massima parte della letteratura norrena scritta e
orale del suo tempo; ma anche indubbiamente non poco della
latina ecclesiastica e della anglosassone2. E se la sua rievo­
cazione storica è prevalentemente razionalista3 e pragmatica
ed evita di dipingere in bianco e nero, non esclude però mo­
tivi leggendari4 e fiabeschi, fraintendimenti5 e libere inven­
zioni specie nelle parti dialogiche che, secondo la consuetudine
d’ogni vera epica, vogliono dar rilievo psicologico ai singoli
caratteri.
Il valore documentario della Heimskringla può dunque es­
sere facilmente discusso; ma tanto più netto risalta per contra­
sto quello estetico. Basta un frusto elenco di re con Pindica-
zione del luogo e del modo della loro morte quale lo Ynglinga-
tal per farci vedere come Snorri abbia saputo trasformarlo
in una dilettosa Saga (Ynglingasaga), non indegna di chi ha
composto quelle della Gylfaginning (neWEdda prosaica). Quan­
to c'era di cronachistico, di informe, di slegato in certe narra­
zioni d'ispirazione ecclesiastica è qui risplasmato dalla mano

1 S. Nordal N. K , cit. p. 219-223.


2 O. Moberg, Olav Haraldsson, Knut den Store och Sverige, Lund, 1941,
pp. 220-225.
3 La figura di Olao il Santo non è qui quella agiografica del pio neo­
fita ligio ai precetti ecclesiastici e taumaturgo, ma quella d’un fiero vi­
chingo che soltanto quando è prossimo a morte, di fronte ai propri
sudditi istigati alla rivolta dal danese Canuto il Grande, si trasfigura
in martire della fede.
4 Nella Haralds saga bàrfagra cap. 25 è ripresa una leggenda già attri­
buita a Carlomagno.
5 P. es. sulle gesta di Araldo Bellachioma nella battaglia di Hafrsfjgrdr
in evidente contrasto alla prima parte delYHaraldskveedi di Pórbjgrn,
che era stato testimone diretto (cfr. J. Schreiner, Slaget i Havsfjord}
«Festskrift Koht », Oslo, 1933, pp. 103-114).
Medioevo pagano e cristiano 103

d’un artista, sviluppato e ordinato in un racconto continuativo,


che senza parere, con mezzi semplici e con semplici parole, pre­
para i culmini drammatici; appropriatamente distribuisce le
pause distensive, alterna la concitazione solenne con l’ampio
e fluente periodare, la frase nuda e incisiva col giro sintattico
elaborato. Certo disuguale è il valore delle singole Saghe. Quella
che — a quanto sembra — fu scritta prima (Ólàfs saga belga)
e che con l’altra (Ólàfs saga Tryggvasonar) forma il nucleo
della Heimskringla è anche qualitativamente la migliore. Si
comprende che i due grandi re vichinghi e evangelizzatori a
un tempo abbiano accentrato su di sé l’interesse antiquario
e poetico di Snorri, come quelli che sembravano impersonare
la tradizione antica e insieme preparare la nuova civiltà cri­
stiana del sec. XIII, in cui il loro storiografo si trovava a vivere.
E infatti ciò che emerge sulla congerie dei fatti è la raffigu­
razione umana, la caratterizzazione dei re o dei capi; una carat­
terizzazione certo più o meno stilizzata, ma volta sempre a
considerare il dramma morale dell’individuo quale causa prima
degli eventi esteriori. Basta qualche esempio a darcene un’idea:
qui il ritratto di Hàkon jarl, ultimo fautore del paganesimo in
Norvegia, assassinato con ogni probabilità da un sicario (Ólàfs
saga Tryggvasonar, cap. 50) dà modo a Snorri di scoprire ric­
chezza umana, di tessere l’elogio morale d’un personaggio che
pure sembra rifatto sul modello medievale del tyrannus pre­
varicatore e pieno di vizi; li, proiettando nel passato remoto
di due secoli*, quelli che dovevano essere gli scottanti pro­
blemi politici del suo tempo, l’autore della Heimskringla, paga
un tributo al vetusto ideale di libertà dell’Islanda, prossima
ormai a divenire un feudo della corona norvegese, e nella figura
del vecchio « legista » svedese porgnyr Porgnysson, che osa
contrastare al suo re e imporgli con minacce di morte la volontà
della libera assemblea di Uppsala (Ólàfs saga belga, cap. 80) ci
lascia il vivo quadro, sia pure anacronistico, di un’antica tradi­
zione germanica. E sempre i contrasti psicologici, le antitesi
drammatiche sono scolpite con serratezza asindetica, con incisiva
ellitticità. Gli bastano pochi rapidi tocchi a creare quelle scene
tipiche della Saga in cui le parole svelano, improvvisamente
illuminandoli, il pensare, l’agire, i segreti, le ombre d’un per­
sonaggio, sia che si tratti della celebre partita a scacchi tra Ùlfr

1 cfr. C. Weibull, Sverige och dess nordiska grannstater..., Lund, 1921,


p. 187, sgg.
104 Le letterature della Scandinavia

jarl e Canuto il Grande, con l’immancabile tragico esito {Ólàfs


saga belga, capp. 152-153) sia della leggendaria fine di Ólàfr
Tryggvason a Svgldr.
Specialmente memorabile quest’ultima in cui il re è ri­
tratto nelPimminenza della battaglia contro il ribelle Eirikr jarl
e i suoi alleati: i re svedese Ólàfr scenski e danese Sveinn.
Le imbarcazioni si preparano allo scontro, e il re norvegese sulla
poppa del suo « Serpe lungo » lancia un’occhiata alle singole
navi degli avversari: « Ekki hraedumk vèr bleydur J)aer.
Engi er hugr 1 Dgnum... — Betra vaeri Svium heima ok sleikja
um blótbolla sina en ganga a Orminn undir vàpn ydur... —
Hann mun f)ykkjask eiga vid oss skapligan fund, ok oss er
vàn snarprar orrustu af ]?vi lidi. Peir eru Nordmenn sem ver
erum » (Ólàfs Saga Tryggvasonar, cap. 104)2. Queste le ul­
time parole di Ólàfr prima dello scontro delle navi. La posa
plastica del re, in piedi, sulla poppa del « Serpe lungo », il
freddo scherno rivolto agli alleati del nemico, la stessa forma
perifrastica con cui egli invece accenna all’unico temibile av­
versario — quasi oscuro presagio dell’incombente fato: tutto
concorre a caratterizzare l’intrepida superbia di un personaggio
in cui si sente vibrare l’ammirazione di Snorri.
Come pochi altri questi poteva guardare alla storia norvego-
islandese con commossa partecipazione. Discendente per parte
di madre dei norvegesi che avevano colonizzato l’Islanda e qui
educato dal saggio Jón Loptsson, a Oddi (un eminente centro
di vita culturale dell’isola agli inizi del sec. XIII), si era
presto affermato come uno dei più dotti ma anche dei'più
avidi e influenti godar in quella turbolenta età (Sturlungapld)
di lotte intestine che appunto dalla sua famiglia prese nome.
Due volte Iggsggumadr, era stato due volte, spinto certo dai
suoi interessi storici e politici e da tradizionale consuetudine,
in Norvegia (1218-1237) alla corte dello jarl Skùli e del re
Hàkon Hàkonarson in onore dei quali compose lo Hàttatal.
Illudendosi forse di riuscire a conciliare l’inconciliabile fini
vittima dei dissensi sorti fra i due (i « pretendenti alla co­
rona » dell’omonimo dramma ibseniano) e l’anno 1241, per
ordine di Hàkon, fu assassinato nella sua casa di Revkjaholt.

1 « Quei vigliacchi non ci fanno paura davvero. I danesi non sanno cosa
sia il coraggio... — Gli svedesi farebbero meglio a starsene a casa a
sorbire le loro coppe sacrificali piuttosto che affrontare il Serpe e le
nostre armi... — Colui può avere buone ragioni per combatterci e ci
darà del filo da torcere. Quelli li sono norvegesi come noi ».
Medioevo pagano e cristiano 105

Incertezze e debolezze di spirito determinarono certo la parte


infausta da lui avuta nell’ambigua politica che portò al tra­
monto dell’indipendenza nazionale, ma la sua opera di storico,
di critico, di versificatore (codificata tra il 1220 e il 1235)
fanno di lui a giusto titolo la più eminente personalità cul­
turale del mondo norreno l. Studiando l’antichità nordica pre­
cristiana trovò già formata una tradizione secolare di poesia
scaldica, e gli parve fra le più sicure fonti testimoniali per la
ricostruzione della storia patria. S ’ingannò certo se credette
di poter risuscitare il passato con la precettistica della sua
Edda1, col virtuosismo metrico délVHattatal, con gli splen­
didi racconti mitici della Gylfaginning3 e con la dizione poetica
degli Skàldskaparmàl intimamente connessa ai miti pagani; per
i quali, come s’è detto, egli attinse fra altro ai carmi serbatici
nell'Edda in versi. Ma come nelVEdda ha lasciato un eccezio­
nale documento critico della più antica poesia nordica, cosi ha
creato con la Heimskringla un capolavoro d’interpretazione
epico-drammatica di fatti storici, il cui alto interesse umano non
è stato eguagliato neppure dalla Sturlunga saga4, tanto fe­
dele alla cronistoria degli eventi contemporanei narrati quanto
greve e convenzionale nell’intima ispirazione.

1 Quanto il suo esempio abbia influito sull’evoluzione del genere delle


Saghe è difficile stabilire; certo è che per secoli il sentimento nazionale
dei norvegesi ha trovato nella Heimskringla la sua prima fonte di ispi­
razione.
2 In seno alla quale probabilmente vanno distinte molteplici stratifica­
zioni culturali (H. Kuhn in Anzeiger fur deutsches Altertum..., 65, 1952,
pp. 97-104): un nucleo più antico di tradizioni pagane, uno più recente
da ascrivere al sincretismo religioso dell’età della conversione e final­
mente una interpretazione evemeristica cristiana più chiaramente visi­
bile nello scolastico « Prologo»; dove, fra altro, sulla base delle Etymo­
logise isidoriane troviamo accostati gli Asi all’Asia, Pórr a Troia, la
moglie di Pórr Sif alla Sibilla, mentre Odino è presentato come discen­
dente di Priamo! 4
3 « Illusione di Gylfi » cosiddetto dal nome del mitico re svedese che,
credendo di scoprire i segreti degli Asi, resta invece vittima delle loro
arti magiche.
4 Opera miscellanea anonima, dovuta in parte soltanto al nipote di
Snorri, Sturla Pórdarson (1214-1284) e narrante in più Saghe la storia
islandese e norvegese dell’epoca: fonte primaria dunque per la biografia
di Snorri. Notevole il celebre episodio serbatoci in una di queste Saghe:
loscontro tra due capi avversari seguiti da centinaia di armati àìTAlpingi;
che solo in extremis lo zelo cristiano del prete Ketill ]?orsteinsson
(jborgils saga ok Haflida) giovò a evitare. Uno appunto di questi capi,
Haflidi Masson, morto l’anno 1130, fu, secondo la tslendingabók di Ari
(cap. 10), colui nella cui casa, fra il 1117 e il 1118, vennero messe per
iscritto le prime leggi islandesi.
106 Le letterature della Scandinavia

Volutamente schematici per evitare finché possibile ipotesi


e congetture, questi cenni sull’antica letteratura norrena bar
stano forse a dare un’idea delle caratteristiche fondamentali
che la distinguono sia dall’epica cristiano-medievale sia da
quella antica greco-romana.
Pur nella varietà delle sfumature infatti i carmi eddici, scal­
dici e le Saghe ci presentano la vicenda eroica con uno spirito
diverso da quello dell’epica di altri popoli. L ’eroe germanico
I è dominato da un fatalismo tragico contro il quale non è pen-
sabile ribellione alcuna. È stato giustamente detto che se
Edipo uccide Laio ignorando il verdetto di un cieco fato,
Ildebrando uccide il proprio figlio nella piena consapevolezza
di partecipare col proprio volere, anzi di identificarsi, al volere
del fato l. Di qui la solenne impassibilità dell’eroe germanico
la rigidità quasi ieratica delle sue parole quando muove incon­
tro alla prova estrema, quasi atto rituale e cultuale d’iniziazione
all’immortalità 2; di qui la forte tipizzazione e stilizzazione di
questa poesia che innalza a dignità magico-sacrale, il sogno e
la profezia, l’onore e la vendetta, la semi-soprannaturale « for­
tuna » e « sfortuna » delPeroe, privandolo di quella divina
scintilla della libertà che agli occhi del filosofo-poeta Vico
riscattava perfino gli stupidi insensati orribili « bestioni » della
preistoria. Il riavvicinamento altra volta tentato da studiosi
tedeschi fra l’epica e la tragedia greca da una pa