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D4nil0 Mainardi-Il C4n3 S3c0nd0 M3
D4nil0 Mainardi-Il C4n3 S3c0nd0 M3
L’autore.
APPENDICE.
TERZA PARTE. Come affrontare l’arrivo del cane in casa senza commettere
errori.
Letture consigliate.
Ringraziamenti.
COPERTINA.
Danilo Mainardi:
Il cane secondo me. con un’Appendice di Luisa Mainardi.
CAIRO EDITORE.
(Pagine: 319).
Il libro contiene 15 disegni dell’autore.
www.cairoeditore.it/libri ISBN 978-88-6052-316-7.
© 2011 CAIRO PUBLISHING S.r.l., CORSO MAGENTA 55, MILANO.
Prima EDIZIONE: OTTOBRE 2010.
Seconda EDIZIONE: GENNAIO 2011.
In copertina: fotografia di Giovanna Dal Magro.
L’autore.
Danilo Mainardi, etologo, ecologo e divulgatore scientifico, è professore emerito
di Ecologia comportamentale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore della
Scuola internazionale di etologia di Erice. È presidente onorario della LIPU (Lega
italiana protezione uccelli), membro di accademie e società tra cui l’Accademia
Nazionale delle Scienze (dei Quaranta) e l’International Ethological Society di cui è
stato presidente. Collabora con il Corriere della Sera ed è ospite abituale di Piero
Angela a Superquark. Per Cairo Editore, ha pubblicato i saggi Nella mente degli
animali (2006), giunto alla quinta edizione, La bella zoologia (2008), L’intelligenza
degli animali (2009) e i «gialli etologici» L’acchiappacolombi (2008) e Un innocente
vampiro (2010).
Mascheramenti.
Una cosa che proprio non amiamo dei nostri cani è la maledetta abitudine che
quasi tutti hanno, se trovano una carogna o dello sterco, di rotolarcisi dentro. E
con che gusto, con che soddisfazione! Poi, siccome sono contenti, ci vengono
incontro allegri ed è difficile fargli capire, così a distanza di tempo, che a noi
questo comportamento, questo modo di profumarsi non piace, disturba.
Sembrano stupiti, e siccome li sgridiamo dopo un bel po’ da quando si sono,
diciamo così, profumati, il risultato è che non capiscono per cosa li stiamo
sgridando e vanno in confusione.
C’è sicuramente una forte base innata in questo comportamento.
Mi ricordo alcuni miei cuccioli, privi di ogni diretta esperienza, che pure al primo
incontro con quegli oggetti puzzolenti, subito iniziavano il rituale del rotolamento,
dello sfregamento.
Davvero sgradevole, e anche ormai inutile. E dico ormai perché oggi al cane,
civilizzato e dipendente com’è, ciò che più dovrebbe importare dovrebbe essere il
non farci arrabbiare, visto che siamo noi che gli procuriamo da vivere, che gli
diamo da mangiare. Ma una volta, tanti anni fa, non era così. Una volta il cane era il
lupo, era un predatore, e quel chimico mascheramento era funzionale per
avvicinare la preda senza allarmarla.
Proprio perciò ritroviamo tale abitudine un po’ in tutti i predatori interessati ad
animali dall’olfatto fino. Cito le volpi, i licaoni, gli sciacalli, le iene.
E, compiendo un gran salto, potrei parlare anche degli uomini, quando sono
cacciatori. Potrei ricordare i nostri cacciatori di cinghiali che la sera prima della
battuta appendevano (chissà se lo fanno ancora) nella stalla i vestiti da caccia,
perché assorbissero l’odore di bovino, o i pigmei che prima di cacciare gli elefanti
si spalmavano di sterco d’elefante ancor umido l’intero corpo e si spremevano
addosso, perfino in bocca, il fetente liquame che esce dallo sterco.
Infine, ma per un’analogia rovesciata, voglio raccontarvi dell’immenso, feroce
varano di Komodo. Lui no, lui non si spalma di sterco e di carogne per sorprendere
la preda. Lui, e soltanto quando è giovane, si spalma per non essere mangiato.
Cannibalizzato, per meglio dire. Perché, come spesso avviene nella famiglia dei
varanidi, gli adulti non vanno molto per il sottile. Non è poi tanto raro perciò che un
grosso esemplare assalga e mangi un conspecifico più piccolo, se ci riesce.
Così i giovani varani di Komodo (sotto il metro e mezzo di lunghezza; gli adulti
raggiungono e spesso superano i tre metri) vengono frequentemente osservati
rotolarsi dentro le viscere (soprattutto gli intestini) delle grandi prede di cui si
nutrono. I varani infatti non mangiano mai gli intestini delle loro prede, ha scoperto
Walter Auffenberg, che ha studiato in natura questo rettile così affascinante.
L’odore repellente, dunque, funziona per i giovani varani da passaporto. Per
continuare a vivere.
Tornando ai nostri cani, l’unico modo possibile per insegnargli a non strofinarsi
nello sterco od in qualcosa di peggio, sarebbe quello di coglierli sul fatto, e più
volte di séguito, spiegandogli subito con fermezza che assolutamente non devono
farlo. Solo così si potrebbe ottenere qualcosa, anche se non è detto, perché la
motivazione in certi casi è davvero fortissima. Non ci resta, altrimenti, che portare
pazienza. È una tassa da pagare, se si possiede un cane.
L’immagazzinamento.
Da qualche giorno la mia cagnetta Mimi (il mio fox numero tre), che da poco
aveva compiuto i cinque mesi, s’era messa a nascondere cibo. Il comportamento
era apparso all’improvviso, quasi sapienza innata. Ciò che si dice istinto,
insomma.
Mimi, nel greto del torrente in cui passava ore giocando, esplorando e
razzolando, trovava ossa in abbondanza, che poi nascondeva sottoterra. C’era un
guardarsi intorno circospetta, uno scavare nel terreno, un deporvi il prezioso
reperto e infine un risistemarvi sopra, con cura, la terra spingendola e
assestandola con il dorso del muso.
Mimi mi guardava sospettosa, se la spiavo. Mai terrier ha avuto muso più
terroso. Mi guardava come se avesse vissuto chissà quali brutte avventure di
latrocini d’ossa, e invece io sapevo che d’esperienze simili non ne aveva mai
avute. Tutto scritto dentro, tutto genetico, almeno nel suo caso. A un certo punto,
crescendo, è maturato dentro qualcosa, ed ecco comparire il sapiente
comportamento.
Sapiente perché previdente, e prevedere significa vedere avanti, nel futuro.
Significa sapere che verranno, o potranno venire, tempi duri, e dunque è meglio
accatastare, fare la formica.
A proposito di formiche, bisogna che vi dica che l’abitudine di accumulare
scorte è assai diffusa nel regno animale, soprattutto tra insetti, uccelli e
mammiferi, e spesso è essenziale per la sopravvivenza.
L’allevamento della prole, per esempio, non raramente si basa sui depositi
alimentari. C’è chi si fabbrica un unico grande magazzino, chi invece ricorre a
tanti piccoli nascondigli sparpagliati. È soprattutto in tal caso che l’istinto, da solo,
non basta più. Occorre ricordarsi le singole localizzazioni e questo, è stato
assodato, lo sanno fare assai bene, per esempio, le cince. Ciò potrebbe voler dire,
contrariamente a quanto di solito si sostiene, che non è vero che gli animali vivono
solo nel presente.
Le cince sono abilissime nel crearsi scorte. Nascondono il cibo nei posti più
diversi; se si tratta di prede vive sanno perfino fare speciali preparazioni: gli afidi,
che sono insetti piccolissimi, vengono compressi in agglomerati che ne
contengono fino a una cinquantina, i bruchi sono nascosti dopo che sono stati loro
rimossi la testa e l’intestino.
Ma le cince sono anche ladrone. È frequente, dove le due specie convivono, che
cince bigie (Parus montanus) stiano a osservare il previdente lavoro delle cince
more (Parus ater) e poi, quando queste si sono allontanate, portino via tutto. È
proprio vero insomma, non è possibile separare del tutto istinto e apprendimento.
Cani e sadismo.
Il 7 maggio 2010, la Repubblica riportava la notizia di alcuni ragazzi di Torino
che, preda della noia, hanno avuto l’orribile pensata di bruciare vivo un cane.
Così, per passare il tempo. E il giorno dopo, sempre la Repubblica riportava che a
Trepuzzi, provincia di Lecce, altri «ragazzini» hanno dato fuoco, sempre «per
divertimento», ad Aura, una cagnolina di otto mesi che viveva per strada,
abbandonata.
Sono storie che, in questa nostra povera Italia, povera moralmente, si ripetono
con ritmo impressionante, crescente. Non molto tempo prima, infatti, appena
fuori Genova alcuni individui avevano legato un cane alle rotaie del treno
sperando poi di assistere all’orribile spettacolo del suo investimento.
Fortunatamente, però, il convoglio s’era fermato in tempo e così, almeno in quel
caso, l’innocente bestiola se l’è cavata col solo spavento. È comunque finita sui
giornali e ho potuto vederlo quel cagnolino: un bastardino dall’aria mite, occhi
grandi e tondi e orecchie ripiegate all’ingiù. I tipici segnali infantili, come dimostrò
Lorenz, che a tutti noi provocano tenerezza.
E quelli di Torino, di Trepuzzi e di Genova non sono per niente casi isolati,
perché ancora recentemente in Sicilia alcuni ragazzi si sono divertiti a torturare
ed a impiccare un altro cane, un piccolo, inerme yorkshire. E poi, come se non
bastasse, quei ragazzini si sono poi scattati foto ricordo accanto al loro
penzolante trofeo. E ho anche in mente - come dimenticarlo? - quell’altro cane
che, ancora recentemente, venne gettato in mare da una scogliera. Sempre per
puro divertimento.
Come si fa, mi chiedo, a essere tanto crudeli? E sì che noi esseri umani
possediamo quei neuroni specchio detti, un po’ imprudentemente, «dell’empatia».
Già, perché forse sarebbe meglio andarci un po’ più cauti considerandoli
semplicemente strutture che consentono una percezione partecipata ad emozioni
e comportamenti altrui. E ciò anche se una vera empatia è quasi sempre coinvolta
nel complesso disegno sociale che a tale percezione consegue.
Resta il fatto che in quegli squallidi individui che torturano i cani, l’empatia non
solo non esiste, ma viene sostituita dal suo opposto: un godimento sadico in
risposta ad una sofferenza percepita.
Ma parliamo dei cani, ora.
È chiaro che leggere la sofferenza in animali così sociali e comunicativi è facile.
Fanno poi parte, sempre più con l’avvenuta urbanizzazione, della famiglia umana,
tant’è che si continua a parlare del loro inserimento nel nostro stato di famiglia. È
inoltre noto che, soprattutto per le persone sole, i cani ben interpretino la parte di
«sostituti di umanità». Questo è, ormai, il loro più importante e moderno
«mestiere». Ed è anche perciò che vanno forte i cani provvisti di segnali infantili,
che sembrano, e un poco sono, perennemente cuccioli. Più che generici sostituti
d’umanità, questi fanno la parte d’un bambino che non c’è, o che non c’è più.
Ormai spesso, infatti, si sente ripetere questa asserzione (per taluni fastidiosa):
sono la mamma di Jack, di Pippo, di Diana e così via. Tutti cani-figli, ovviamente. E
non raramente si può addirittura scoprire, spostato su un canino figlio-sostituto, il
dolce rituale materno fatto di paroline un po’ storpiate (il mammese), di baci e di
carezze. E il bello è che il figlio-cane, cucciolo od adulto che sia, queste coccole le
percepisce. Assume una faccia beata, sta a pancia in su e offre una zampa,
oppure sventola la coda e comunque se la gode un mondo.
Ecco allora che, per chi ha tendenze sadiche, i cani, proprio per queste loro
caratteristiche, tanto più se magnificate dai segnali infantili, possono divenire
oggetti privilegiati delle sue perverse intenzioni. E c’è dell’altro, perché la crudeltà
rivolta agli animali viene purtroppo punita poco e per di più, com’è noto,
raramente. Anche perciò questo sadismo low cost compare così frequentemente.
Credo, a ogni modo, che il fenomeno della crudeltà gratùita verso gli animali sia
assai allarmante perché chi usa sostituti d’umanità può facilmente venir tentato di
abbandonare questa già crudelissima via per qualcosa di, per lui, ancor più
appetitoso. In ogni caso il problema - e ciò è la regola se c’è coinvolta la nostra
specie - è come sempre totalmente culturale, o quasi. Sia per quanto riguarda i
cani, o in generale gli animali, da noi considerati in genere oggetti non meritevoli
d’un rispetto adeguato alla loro intelligenza e sensibilità. Sia per il ben più
specifico problema del sadismo, che di norma non scaturisce per tare genetiche
né, tanto meno, per colpa dei neuroni specchio, semplici strumenti, seppure
raffinati, del nostro saperci mettere in sintonia con gli altri, ma soprattutto per la
qualità delle esperienze vissute, o meglio subite, nelle prime fasi della nostra vita.
Sarebbe pertanto colpevole sottovalutazione non considerare con allarmata
attenzione questi recenti, terribili casi.
Cari nemici.
Se due persone non vanno d’accordo si dice che sono come cane e gatto. Ma
sarà proprio così?
Il rapporto tradizionale tra questi due, a ogni modo, è quello del gatto che
scappa e del cane che insegue. Sembrerebbe tutto ovvio, eppure non è così. Il
gatto ha paura del cane e dunque fin da lontano, quando lo vede, s’allarma,
s’arruffa, parte in una fuga precipitosa. E il cane è ben contento d’inseguirlo.
Finché il felino non finisce su un albero.
Poi è solo questione di tempo. Dopo un po’ il cane si stufa di saltare, di fare
baccano, di tentare in ogni modo di raggiungerlo, fa dietrofront e se ne va. Il gatto,
a sua volta, anche lui se la squaglia alla chetichella.
In qualche caso, però, anche il cane può avere la sua brava dose di paura. È
infatti sufficiente che il gatto decida di smettere di fuggire e subito s’assiste
all’improvvisa, prudente frenata del cane. Poi se ne stanno lì, a minacciarsi a
vicenda, ma a debita distanza. Quei due, insomma, è raro che giungano davvero a
un corpo a corpo. Sembra quasi, il loro, un innocuo rito.
Vi dirò allora di certe osservazioni di un’etologa, Helen Spurway. Notò, questa
studiosa, che i gatti, se non vengono a contatto con concreti stimoli evocanti la
fuga, se li vanno a cercare. Quasi che ogni tanto il fuggire fosse, per loro, un
bisogno da soddisfare. E il bisogno lo soddisfano, soprattutto nell’ambiente
urbano, grazie ai cani.
Il conflitto sarebbe dunque soltanto una finta, o addirittura un piacere reciproco
che i due si fanno, considerato che tutt’e due, a loro modo, pare che si divertano.
Detto ciò, e ammesso che la Spurway abbia ragione, godetevi ora questa
descrizione. La dobbiamo a Claudio Piersanti, ed è tratta dal suo Il filo dell’acqua,
edito nel 2009 dal Consorzio Venezia Nuova:
«Tornando verso il motoscafo il cane ed il gatto, un muscoloso persiano, li
scortarono giocando. Il gatto, sollevandosi all’improvviso sulle zampe posteriori,
fingeva di graffiare il cane da guardia, che dopo due attacchi consecutivi del gatto
abbaiò e minacciò di inseguirlo. Il gatto non aspettava altro e con due balzi era già
in fondo al molo di legno, pronto a saltare su una vecchia bricola sbilenca. Lassù si
acciambellò sbadigliando e cominciò a specchiarsi nel mare. Un gatto fetente, lo
descrisse suo padre».
Piersanti, nel suo romanzo, racconta di un padre e di un figlio che stanno, nella
scena descritta, passeggiando sull’isola della laguna veneziana denominata
Lazzaretto Nuovo, un’isola bellissima dove sono stato e, addirittura, ho conosciuto
quel cane e quel gatto. Quel «gatto fetente», secondo il padre del protagonista del
romanzo. Ebbene, la pantomima che quei cari nemici hanno messo in scena, con
tantissime repliche a gentile richiesta, è diventata veramente un rito. È
cominciata, penso, come tutte le tantissime tenzoni tra un cane ed un gatto, ma
poi la ripetizione, sempre obbligatoriamente coi due soggetti a recitare le solite
parti, ha fatto sì che avvenisse la ritualizzazione, perché il rito è così, e in questo
caso è davvero uno strano cocktail di biologico e culturale. Il prodotto, a ogni
modo, di due superbe menti non-umane.
Sempre a proposito di gatti «fetenti», voglio raccontarvi di un mio bel gatto
rosso, di nome Kuo, che spesso e volentieri si divertiva a recitare lui la parte del
predatore mentre lasciava alla mia cagna Gilda, una placida basset-hound, il ruolo
della preda. Il gioco-predazione di Kuo aveva sempre luogo quando vivevamo in
una baracca situata sull’alto Appennino parmense. E il rituale con cui il gioco
iniziava era sempre lo stesso. Alla mattina Gilda andava a farsi il suo lungo e
consueto giro, che consisteva soprattutto in una visita alle pattumiere di tutte le
case sparse nei dintorni. Poi, dopo circa un’oretta, la si vedeva da lontano tornare
beata, la coda alzata, trotterellando. Se Kuo s’accorgeva per tempo di questo
ritorno, andava in tutta fretta a nascondersi dietro il grande asse che
fiancheggiava la porta d’ingresso della baracca. Di lì stava in agguato, tutto
contratto e attentissimo, sporgendo ogni tanto d’un minimo il muso, per essere al
corrente delle mosse della sua futura vittima. E questa, come un salame, e sempre
con la sua aria paciosa e beata, ci cascava ogni volta. Mai che avesse un
sospetto. A meno che, al contrario furbissima, non recitasse, così per gioco, la
parte della tonta. Ma forse, al proposito, fantastico troppo.
A ogni modo saliva i tre gradini di legno e, come s’apprestava ad entrare in casa,
improvvisa la belvetta le saltava al collo, graffiandola, mordendola, ma sempre
dolcemente. Iniziava così una lotta divertentissima, che talora durava per più di
mezz’ora, con Kuo e Gilda che s’alternavano, senza mai farsi male, nelle parti
della preda e del predatore.
Piuttosto recentemente, nel 2008, è stata pubblicata una ricerca, questa volta
sui rapporti tra cani e gatti che vivono nelle stesse famiglie umane (N. Feuerstein e
J. Terkel, «Interrelationships of dogs and cats living under the same roof», in
Applied animal behaviour science). Risulta che queste due specie così diverse ma
così intelligenti possono apprendere benissimo regole di convivenza utili per tutt’e
due, e sviluppare una sorta di linguaggio comune, o perlomeno una via per
comprendersi. Insistono molto, gli autori, sul fatto che, volendo un cane ed un
gatto conviventi, prima si adotti un gatto e dopo un cane.
Preadattamenti.
L’evoluzione è un dato di fatto. Non bastassero i fossili a raccontare la storia
della vita ci sono l’anatomia comparata, l’embriologia, l’etologia, per non dire del
Dna che ci ha fatto scoprire tutti parenti. Solo chi è fortemente prevenuto può
avere dubbi. Ma se l’evoluzione è un fatto incontestabile, lo stesso non può dirsi
per l’interpretazione dei meccanismi che la determinano. Non tutto è semplice da
capire nonostante la fondamentale illuminazione darwiniana. Così sempre nuove
ipotesi, verifiche e distinguo fanno continuamente lavorare le menti degli
specialisti. Non tutto è agevole spiegare, infatti, semplicemente in termini di
mutazione-selezione-adattamento.
Un intrigante problema è, al proposito, quello dell’emergenza delle cosiddette
«novità evolutive». La comparsa, tanto per dire, dei polmoni nei vertebrati
terrestri o quella delle penne negli uccelli. Prima della conquista delle terre
emerse, infatti, i vertebrati respiravano grazie alle branchie, così come prima della
comparsa degli uccelli non c’era niente di simile alle penne. Strutture complesse
e raffinate, tali per cui è difficile, se non impossibile, concepire che si siano
evolute per gradi perché, se così fosse stato, non se ne vedrebbe, per le fasi
intermedie, il vantaggio selettivo. A che avrebbe potuto servire, per esempio, una
via di mezzo tra la squama cornea di un rettile ed una penna, quando ancora
inadatta per supportare il volo?
Ebbene, la risposta al non facile quesito sta nel concetto di preadattamento, o
più modernamente nell’intraducibile exaptation, quest’ultimo elaborato negli anni
Ottanta partendo però da assai lontano. Idee seducenti già risiedevano, infatti,
nella mente di Darwin, idee che poi si svilupparono grazie soprattutto alle
scoperte degli studiosi di anatomia comparata. Quanto a Darwin, le sue parole
furono fin da subito illuminanti: «L’esempio della vescica natatoria dei pesci è
particolarmente appropriato, perché dimostra un fatto molto importante: che un
organo originariamente costruito per uno scopo, cioè la funzione idrostatica, può
trasformarsi in uno capace di una funzione completamente diversa, cioè la
respirazione». Parole già da allora illuminanti, perché anche nel riutilizzo di
strutture preesistenti per nuove e differenti funzioni consiste il bricolage
dell’evoluzione. Prima si usava, fino agli anni Ottanta appunto, il termine
«preadattamento», che però suggeriva, secondo alcuni ipercritici studiosi,
pensieri vagamente finalistici, ed è perciò che ora si preferisce exaptation. Da
allora ad ora, naturalmente, il concetto s’è un po’ perfezionato, e proprio in questo
sta il bello della scienza: nell’inarrestabilità del suo progredire.
Pensando al lupo, tra tutti gli animali potenzialmente addomesticabili era
senz’altro il più dotato quanto a preadattamenti.
Ricordo che - ne ho già parlato - fino ad allora le piante e
gli animali erano solo selvatici e l’uomo viveva in equilibrio
con la natura secondo lo stile dei cacciatori-raccoglitori. Lo
scenario generale, ricordate, era questo: i maschi cacciavano
in gruppo, le femmine raccoglievano vegetali e piccoli animali
quali bruchi, molluschi, uova e nidiacei. Tutto avveniva all’interno
di immensi territori entro cui i gruppi umani erravano
mantenendo alcune postazioni stabili, i campi-base. Ebbene,
già da più di centomila anni fa, dove il lupo era presente, s’erano
differenziate mute che, vivendo presso gli umani, profittavano
dei loro resti alimentari. Erano sempre lupi, però, e
non ancora cani, perché il vero processo d’addomesticamento
• l’abbiamo visto - passa attraverso altre vie: l’imprinting, i segnali infantili, una
selezione umana sempre più consapevole. Probabile è però che furono questi
lupi, soprattutto ma non solo, a venir poi addomesticati. Lupi-spazzini che
erano verosimilmente più accostabili perché avevano subìto, girando attorno
all’uomo, la socializzazione secondaria.
Non fu a ogni modo per caso se proprio i lupi, i tanti lupi di questa polimorfa
specie, furono i primi esseri a venire addomesticati, proprio perché erano gli
animali che, più di tutti, possedevano già le fondamentali caratteristiche
etologiche per poter conquistare il nuovo ambiente, quello entro cui gli esseri
umani rappresentavano la specie predominante. In questo senso i lupi erano
preadattati.
Vediamo di considerarle, queste caratteristiche. In primo luogo fu la socialità, in
particolare la capacità di inserirsi in una gerarchia, a fargli fin da subito accettare
un padrone. Seconda qualità: essendo poi un predatore di gruppo seppe
utilmente inserirsi in quello di cacciatori umani. Terza qualità: l’essere animale
territoriale facilitò inoltre la sua capacità di trasformarsi in cane da guardia. Tutto
ciò al servizio del padrone, perché il fenomeno dell’imprinting gli consentì fin da
subito di estendere la sua socialità e affettività al di là dei confini della sua propria
specie includendovi gli esseri umani. Fu così, per la prima volta nella nostra storia,
che un essere di specie diversa seppe penetrare all’interno della famiglia umana.
Ciò avvenne magnificamente anche grazie alla grande intelligenza e socialità del
lupo, alle sue capacità espressive ed affettive, al suo altruismo.
E fu una straordinaria metamorfosi: dal lupo, per tradizione considerato il
peggior nemico, al cane, anche questo tradizionalmente definito come il miglior
amico dell’uomo. Amico provvisto anch’esso di una mente sociale, capace di
immedesimarsi nel ruolo fin dalle più antiche funzioni, o se volete mestieri, che
l’uomo gli attribuì, compagno di caccia e difensore del campo-base e degli stessi
esseri umani da belve allora assai minacciose, tra cui, non raramente, lupi
selvaggi. Poi, millenni dopo, ausiliario alla pastorizia. Insomma l’ex lupo sempre
seppe, e ancora sa, comportarsi con intelligenza, mostrando grandi capacità di
apprendimento e, oltre tutto, il desiderio altruistico di mettersi a disposizione dei
suoi padroni umani. E così fiorirono, e continuano a fiorire, sempre nuovi mestieri
per quell’animale sempre e comunque disponibile.
Il cirneco dell’Etna.
Dicendo del dingo e della tribù dei cani rossi, già ho nominato il cirneco
dell’Etna. Che, considerata la sua origine, non potrebbe essere che un cane
smilzo di colore fulvo, con orecchie appuntite dritte all’insù. Dritte all’insù e ampie,
di grande superficie, perché il cirneco è un cane del Sud e padiglioni auricolari
grandi sono utili, a tutti gli animali omeotermi che abitano in climi caldi, per
smaltire un po’ di calore.
È, inoltre, un cane disegnato in un quadrato, il cirneco, d’una bellezza perfetta e
dichiaratamente meridionale, perché il pelame è corto, anzi cortissimo, e poi, a
dire Sud, soprattutto ci sono quei padiglioni auricolari, che sono come una griffe.
Così come i fennec, le volpi del deserto, così come gli elefanti, specie quelli
africani, che sventolano i loro naturali radiatori e così facendo si rinfrescano. E
difatti il cirneco è un tipico cane siciliano, appartenente, come già abbiamo visto,
a una dinastia che ha radici e parentele antichissime, diramate ben al di fuori del
bacino del Mediterraneo.
La sua storia recente, a ogni modo, è ben nota. È cominciata nel Giardino Bellini
di Catania e, ogni volta che gli passo accanto, e mi càpita spesso perché ho tanti
amici catanesi, non posso non pensarci.
Vedo allora, con gli occhi della mente, quell’indimenticabile giugno del 1953. Fu
un raduno storico, il punto di partenza per dare forma e sostanza ad una razza
finalmente moderna, con uno standard definito e con tanto di libri genealogici.
Nel Giardino Bellini erano presenti, insieme a un manipolo di cani fulvi, certo non
tutti perfetti, nobildonne, signori, contadini. Così infatti succede in queste
occasioni, ormai l’ho imparato: l’importante era solo che tutti fossero proprietari
di quei cani che da millenni erano, nella zona etnea, «i cani». Così come, più o
meno, erano «i cani», ben più estesamente, di tutta l’area mediterranea. Quei cani
che Aristotele descrisse nel De natura animalium come, già allora, antichi. Per
meglio dire «gli antichi cani mediterranei».
Erano i cani dei geroglifici egiziani. Erano anche i cani di Cirene e infatti
Aristotele ne osservò molti, in quella città, ed è probabile che il nome cirneco
proprio da «Kirenaikos» discenda.
O forse deriva, come altri pensano, dal siciliano «cirniri»?
Verbo che vuol dire cernire, discriminare, analizzare, così come quei cani sanno
fare così bene - una vocazione senz’altro genetica - quando cercano una pista nel
loro lavico ambiente.
Già, lascia sempre incertezze l’etimologia.
E del resto rimangono un po’ intricate e vaghe anche le linee di parentela che
collegano le razze entro cui l’uomo ha classificato quell’antico modello di cane.
Esistono infatti, derivati dallo stesso ceppo, i podenchi portoghesi, di Ibiza, e delle
Baleari, c’è il nostro cirneco etneo, infine c’è il cane egizio, che probabilmente è il
capostipite di tutti, perché furono i mercanti fenici a disseminare per il
Mediterraneo quel tipo longilineo di cani.
Dall’Egitto, poi, come sappiamo, lo stesso cane penetrò fin nel cuore profondo
dell’Africa, dove divenne il basenji. Cane decisamente più tozzo, perché così
avviene quando un animale s’adatta alla foresta.
E la storia non finisce qui, ma l’ho già raccontata. In origine troviamo il Canis
lupus pallipes e poi, sul versante orientale, il cane pariah dell’India, per arrivare
all’australiano dingo, inselvatichito.
Che storia dunque, e che tragitti, che parentele.
Quei cinofili del 1953, pertanto, non furono i creatori di una razza (normalmente
le razze non si inventano). La loro opera, tanto meritoria, fu soprattutto di
definizione, di censimento, di protezione, di propaganda. Ma il cane era già vero e,
più o meno, già così. C’è da pensare che la sua forma smilza, il suo stile
aggraziato, siano stati più opera della natura che dell’uomo. E c’è da fare un
augurio al bellissimo cane, che non divenga troppo di moda, che non esca troppo,
cioè dalla sua mediterraneità. Sarebbe infatti triste trovarlo spaesato sulle Alpi, o
magari nel cuore della fredda Europa continentale, così come è triste scoprire i
cani nordici in Sicilia. E questo, purtroppo, sta già avvenendo. E fin troppo.
I segugi italiani.
Anche se ormai solo teoricamente, in una vera muta di segugi dovrebbero
esserci il guidaiolo, il marcatore, l’accostatore, alcuni scovatori e infine
l’inseguitore. Una muta di segugi non dovrebbe mai essere, come sanno i cinofili
competenti di questa antica tribù canina, «un coacervo costituito da
un’improvvisata accozzaglia di cani». Ogni individuo, al contrario, dovrebbe
assumere, seguendo l’attitudine, un suo ruolo e una sua specialità. Quasi che la
muta fosse una sorta di macchina animata, una macchina che cerca e scova il
selvatico. E comunica, anche, coi canettieri. La canizza, sempre gli intenditori
sostengono, deve essere «musicale, armoniosa, martellante».
E sarà senz’altro così per chi ha vissuto certe esperienze venatorie. Oggi però
che la caccia è piuttosto decaduta e che sempre più gente è propensa a
parteggiare per la lepre, la canizza può suonare anche lugubre. Così almeno a me
pare, quando d’autunno schioppettate ed abbaiamenti mi sciupano il piacere di
girare per boschi e per prati. Per non parlare dei motivi etici, che mi fanno
sembrare sempre più inaccettabile uno sport basato massimamente sulla
sofferenza, seppure di gente non umana. Ed è proprio questo secondo il motivo
principale della mia contrarietà.
Sarebbe sciocco, a ogni modo, disconoscere quanto ancora di
meravigliosamente naturale si manifesti all’interno di una muta di segugi. E dico
naturale perché quel funzionale gruppo di carnivori teso alla cattura della preda
mantiene ancora, dentro di sé, l’intelligenza collettiva della muta originaria, quella
dei lupi. O forse potrei dire che «è», quanto a intelligenza collettiva, la muta di lupi,
seppure ormai al servizio dell’uomo. Il che, in un certo senso, aggiunge qualcosa
invece di toglierla, perché quei segugi, oltre all’individuo alfa che sempre è
presente all’interno d’ogni gruppo canino (o lupino), devono anche prestare
attenzione ed ubbidienza a uno od a più super-alfa esterni al gruppo, i padroni
umani, i cosiddetti canettieri.
Certo, il dolcissimo segugio non è più il lupo selvaggio - lunga è stata la strada
da allora ad ora. Nella sua testa però s’è mantenuta l’antica capacità di integrarsi,
di cooperare. L’antica motivazione a unirsi ad altri per lavorare insieme.
La caccia, fortunatamente, è decaduta, e non c’è cacciatore che ormai non
l’ammetta. Quanto ai segugi, depositari d’una caccia primitiva e complessa, la
vera decadenza iniziò già secoli fa. Potrei dire, grosso modo, all’inizio del 1700. Il
declino della nobiltà e il perfezionamento e la diffusione delle armi da fuoco ne
furono tra le cause principali. Non potevano infatti, i borghesi subentranti,
permettersi i maestri di caccia e le grandi mute che ogni nobile medievale, o del
primo Rinascimento, manteneva. Non ne avevano, forse, nemmeno la mentalità.
Inoltre, in quei tempi antichi, funzione della muta era di portare la preda, ormai
stremata, davanti ai cacciatori, che potessero finirla, praticamente ferma, con
l’arco o la balestra. Il nuovissimo fucile, invece, consentiva di colpire la preda in
movimento.
Così addio grandi mute, e con ciò addio a tutta, o quasi, quell’intelligenza
collettiva. Oggi, bisogna dirlo, ancora si tenta, con prove di lavoro e con la
selezione, di mantenere al bellissimo e nobile cane le antiche qualità, ma ciò è
sempre più anacronistico.
Il mondo è cambiato e quella caccia (forse, speriamo, ogni caccia) è
decisamente in via di estinzione. Il più bel segugio, il più vero nel suo senso antico,
vien proprio da pensare che ormai sia solo un’icona. Quella cui tutti gli
appassionati fanno riferimento: il nobile cane dalle lunghe orecchie raffigurato nel
secentesco dipinto del Castello di Borso d’Este.
I border collie e gli altri cani che guidano le greggi.
Il cane da pastore è un animale antico, ma non per questo primitivo. Anzi, esso
porta in sé tracce decisive di eventi evolutivi essenziali, avvenuti quando la
domesticazione era già avanzata, quando lui e il suo padrone, in stretta simbiosi,
già stavano mutando la faccia del mondo. Quando, insieme, costruivano il
progresso.
Che asserzioni m’è toccato fare! Eppure non vorrete dirmi che il passaggio dallo
stato di cacciatore a quello di allevatore di bestiame non sia stato, per l’uomo, un
cambiamento decisivo. Ebbene, era un cane a dargli il suo aiuto, e quel cane era
un cane da pastore.
Io non so, in questa nostra civiltà così estraniante ed estraniata, quanti ancora
conoscano, o abbiano ammirato, il sublime lavoro d’un cane specializzato nel
manovrare un gregge. È uno spettacolo, e non lo dico tanto per dire. Tant’è vero
che ci sono nazioni in cui questi cani con i loro padroni s’esibiscono sulle
pubbliche piazze (meglio se erbose, naturalmente). Io li ho ammirati in Scozia, ma
mi hanno riferito che si possono vedere anche negli Stati Uniti dove, per esempio,
per lungo tempo Jack Knox, di origine scozzese, ha dato spettacoli con
straordinario successo. La sua compagnia era composta, oltre che da se stesso,
da un po’ di pecore e da un po’ di cani, e sapete di che razza erano questi artisti
non umani? Erano dei border collie, ed è proprio di questa razza che voglio
parlarvi perché non c’è niente di meglio, che io sappia, quanto ad abilità nel
manovrare un gregge. Il mio discorso, però, sarà abbastanza generale da andar
bene, all’incirca, per tutti i veri cani da pastore.
La prima cosa che sottolineo, affrontando da etologo l’azione che svolge il cane
da pastore, è la sua posizione centrale: da un lato interagisce con le pecore,
dall’altro con il padrone. Il cane, dunque, è un’intelligente «centralina» che origina
e smista messaggi di una comunicazione interspecifica in cui si mescolano istinto
e apprendimento. Ma guardiamo, innanzitutto, cosa fa il cane con le pecore. Il
border collie, quando manovra un drappello d’ovini, assume un atteggiamento
particolare, un po’ piegato sulle quattro zampe, come se volesse nascondersi tra
l’erba. Il capo e la coda sono tenuti bassi, e quanto maggiore è l’intensità del suo
impegno, tanto più il corpo s’avvicina al suolo, fin quasi a strisciare. Ma la cosa
che più colpisce è lo sguardo. Uno sguardo che non molla mai le pecore, come se
fosse un qualcosa di concreto, un guinzaglio, un elastico, un paio di redini con cui
da una distanza definita, diciamo qualche metro, poterle controllare. Bloccare
anche. I pastori, nella selezione, riconoscono e valutano questa qualità. Vogliono
cani con della «forza nell’occhio».
Per spiegarvi cosa fanno le pecore, vi invito a riandare con la memoria ad una
scena che certo avete visto, almeno in qualche documentario. Càpita infatti
spesso di osservare mandrie di erbivori, come zebre, gnu e gazzelle, pascolare
tranquille a distanza ravvicinata dai loro predatori. Imprudenti? Assolutamente
no. Semplicemente quegli animali sono abili lettori del comportamento dei loro
predatori. Quando una leonessa intende cacciare, le gazzelle lo sanno, e state pur
tranquilli che non se ne stanno a far le spiritose.
Ecco, questo è un fenomeno generale: così come il cane non stacca mai gli
occhi dalle pecore, queste tengono d’occhio lui che, quando vuole manovrarle, si
muove in modo da evocare in loro una sensazione d’allarme. Una tendenza a
compattare il gruppo e a mantenere la distanza di sicurezza. E sapete perché?
Perché le movenze del border sono quelle d’un predatore all’inizio della caccia. Il
cane da pastore le ha ereditate dal suo antenato lupo, un predatore di grandi
erbivori, un manovratore di mandrie, capace, da queste, di enucleare singoli
individui. La selezione umana ha raffinato tali qualità, e ha inibito, nel domestico, la
parte finale, consumatoria, del processo di predazione. Così una predazione è
diventata una guida.
Una guida guidata, però, perché il cane obbedisce agli ordini del pastore. Ordini
che sono parole oppure fischi. Anche qui c’è un filo diretto, e stavolta, certo,
l’apprendimento ha un peso assai maggiore. Comunque non tutti i cani possono
divenire «da pastore», solo alcuni possiedono, geneticamente, questa abilità. I
padroni istruiscono i loro pupilli ad adempiere a comandi che consentono ogni
manovra, e attraverso un particolare modo di calibrare i suoni riescono a
stimolare, o quando serve a rallentare, i comportamenti in atto. Gli ordini (avvicina
il gruppo, allontanalo, fermalo, fallo voltare a destra eccetera) ai cani vengono
insegnati, e al proposito esistono, nel mondo, varie tradizioni. Secondo alcuni
etologi, però, certi suoni funzionano meglio di altri per convogliare le differenti
informazioni. In effetti nelle diverse lingue i messaggi che hanno lo stesso
significato s’assomigliano molto. Uno «stop», insomma, è sempre breve e secco in
qualsiasi idioma (o fischio) lo si comunichi.
Il mastino di Napoli.
Maciste è da tempo diventato un cane di razza, bello e ammirato.
Può capitargli addirittura d’essere il cocco di una distinta signora milanese, di
passeggiare per via Monte Napoleone, di passare le vacanze a Cortina. Poco
male, penso io: il meritato riposo del guerriero.
Maciste è il mastino napoletano, cane antico e verace. E se non ci credete
andate a Napoli al museo di San Martino a vedere il settecentesco presepe
Cuciniello. C’è anche lui tra i più tipici personaggi della Napoli popolare, tra
guappi, macellai, contadini e mandriani. Una viva terracotta ce lo mostra proprio
come è ancora. Quanto al nome, ho detto Maciste, ma il suo nome più vero è stato
«Siente», e cioè ascolta. Appellativo assai appropriato, per un cane da guardia e
da difesa.
Può iniziare, la storia del mastino, duemilacinquecento anni fa. Penso a un
bassorilievo assiro in cui si scopre, per la prima volta, il possente cagnone
dall’aspetto orsino, dal passo dinoccolato. E con quel passo, sappiamo,
accompagnò, lui stesso soldato, ogni esercito antico.
Fu con Ciro, Alessandro, Serse. Raggiunse la Grecia e da lì tutto il Mediterraneo.
Fu oggetto di commercio per i fenici; fu adottato dai romani. Giulio Cesare l’ibridò
con i suoi pugnaces Britanniae, i feroci molossi del Nord.
E a Roma, era fatale, entrò nel circo. Lottò contro leoni, orsi, tori e uomini. Poi,
nel Medioevo, cessate le attività militari e gladiatorie, si diffuse per le campagne
con meno specifiche funzioni, e diluì nel tempo la propria tipicità. Rivoli del suo
sangue si dispersero in linee più leggère e veloci. Ha lasciato tracce, vedremo, nel
pastore abruzzese, che nella sua forma primitiva ha spesso l’esotico tocco
molossoide; certo ha partecipato in modo essenziale alla formazione del cane
corso, il tenace molosso dei carrettieri meridionali.
Insomma, l’unica isola dove il mastino è rimasto tale è il Napoletano. E c’è un
perché. Mentre in Italia s’erano perse le pressioni selettive atte a mantenerne le
tipiche caratteristiche, in Spagna c’era il peño de presa, anch’esso derivato dal
primitivo mastino mediterraneo, inizialmente usato in battaglia da Hernán Cortes e
dai suoi Conquistadores e poi impiegato nella tauromachia. Un particolare
prolungamento delle antiche funzioni, dunque. E il peño venne importato in gran
quantità a Napoli dagli Aragona, da Ferrante in particolare, e qui, dall’incrocio con
l’antico parente ritrovato, il mastino napoletano si ridefinì, si riconcretizzò,
giungendo fino a noi.
C’è da fargli, ora, l’augurio che abbia sempre un padrone bravo e responsabile
che lo sappia ben allevare e ben guidare. Il mastino, infatti, è cane possente che
può essere buono e saggio, ma anche ferocemente micidiale.
Il pechinese.
Pekin Peter è un nome scanzonato, da marinaio giramondo.
Ricorda un’atmosfera alla Corto Maltese, un’aria da personaggi esotici e scafati,
gente dai nervi saldi e dal cuore di leone. E Pekin Peter, nonostante la nobile
origine, o forse proprio perciò, era proprio così. Questo almeno vuole la leggenda,
che dice appunto che nel piccolo cane alberga un cuore da leone.
Il piccolo cane è il nobile pechinese, e Pekin Peter fu uno dei primi a sbarcare,
verso la fine dell’Ottocento, in Inghilterra. Il primo, chissà come si chiamava,
venne portato in omaggio alla Regina Vittoria negli anni Sessanta di quel secolo.
Pekin Peter fu invece offerto in dono da un dignitario del palazzo imperiale a un
ufficiale inglese che poi, tornato in patria, lo esibì nel 1894 alla mostra canina di
Chester.
Insomma, nella seconda metà dell’Ottocento una manciata di cani-leone
approdò in Europa dopo millenni di vita di corte per iniziare l’avventura
occidentale. E quel cane fu subito di moda, anche da noi. Ne ricordo, per sentito
dire, uno di famiglia, e conservo una bella foto di mia mamma, vestita anni Trenta,
con il suo Yu Tong tra le braccia.
Il pechinese era, nell’antica Cina, un cane esclusivo, un nobilcane per
nobiluomini e, per darvene un’idea, mi piace riportare alcuni dei dettami - anzi,
scusate, delle perle cadute dalle labbra - di Sua Maestà Tzu Hsi, imperatrice della
Terra dei Fiori:
Sia il cane-leone piccolo, s’orni con una superba cappa il collo e faccia mostra
dell’ondeggiante splendore del suo dorso. Il suo viso sia nero e peloso, la fronte
dritta e bassa. Siano gli occhi grandi e luminosi, le orecchie modellate come le
vele della giunca di guerra e il suo naso sia simile a quello della sacra scimmia
degli Indù. Siano i suoi arti anteriori curvi così che non desìderi vagare lontano e
lasciare i recinti imperiali. Il suo corpo sia formato come quello del leone
cacciatore che spia la preda. Sia vivace, così da intrattenere con salti e capriole,
sia prudente così da non mettersi in pericolo, socievole nelle sue abitudini tanto da
poter vivere in amicizia con gli altri animali che trovano protezione nel palazzo
imperiale. Il suo colore deve essere quello del leone, sabbia dorata, per poter
essere portato nelle maniche d’un abito giallo, o del colore d’un orso rosso o di un
orso bianco e nero oppure macchiato come un dragone, così da avere le tinte
appropriate per qualunque abito del guardaroba imperiale. Che si comporti con
dignità e impàri a fronteggiare istantaneamente i diavoli stranieri. Che sia
esigente per il suo cibo affinché appaia chiaro, proprio per la sua raffinatezza, che
si tratta di un cane imperiale...
Mi pare d’aver ben tratteggiato, grazie alle «perle» dell’imperiale Maestà, «come
nasceva» quel Pekin Peter, cane forzatamente avventuriero, dal nome certo
fittizio ma appropriato per un nobile cinese in fuga. Il pechinese da allora s’è un
po’ occidentalizzato; è stato sottoposto a differenti seppur tenui selezioni e già si
vanno delineando moderne e più nostrane varietà.
Il volpino italiano.
Me lo ricordo ancora quel volpino, colore bianco e coda sbarazzina, bello vivace
e sicuro di sé. Prima arrivava lui, poi il suo padrone, cui faceva fiero da apripista
per calli e campielli. Li salutavo tutti e due, ci fermavamo un po’, eravamo amici.
L’ho conosciuto anni fa, quel cane, quando abitavo da pochi mesi a Venezia.
Avevo due finestre che davano su un canale: rio della Madonnetta. Vedevo, da
quell’osservatorio, i gabbiani volare ed alcuni colombi torraioli che, sui cornicioni
del palazzo di fronte, si corteggiavano oppure spiavano tutt’intorno per vedere se
qualcuno, generoso, mettesse mai un po’ di becchime su qualche davanzale. Se,
invece, guardavo giù verso l’acqua, dal mio quarto piano potevo notare, attraccati
sotto casa, barconi da lavoro. Tutti, tranne uno, dipinti di blu. Uno, invece, era
verde. Era quello il barcone del volpino, ed è di quest’ultimo che ora voglio
parlare.
La mattina di buon’ora lo sentivo sempre abbaiare, quando il padrone
accendeva il fuoribordo. Doveva esserci un conto in sospeso tra lui e quel motore,
oppure, più probabile, semplicemente si trattava solo di un gioco ripetuto, perché
ai cani, come ai bambini, piace molto rifare, giorno dopo giorno, i medesimi giochi.
Finché diventano un rito.
Poi la partenza. Li vedevo sparire, barcone, cane e padrone, verso il Canal
Grande, ed era sempre un bel vedere.
Pensavo: sono contento che a Venezia ci sia almeno un volpino italiano, e che,
oltre tutto, s’accompagni a un mezzo di trasporto da lavoro. Perché quel volpino,
una volta, era un cane così, da mezzi di trasporto.
Facciamo un po’ di storia.
Era frequente, quel cane, soprattutto in Toscana (veniva detto «volpino di
Firenze») ed era spesso l’amico dei carrettieri, che in tutte le stagioni
trasportavano vino, grano e altre mercanzie su carri trainati da magri cavallucci.
Era il volpino che faceva la guardia quando il padrone s’allontanava per qualche
commissione oppure - caso frequente assai - si fermava in qualche osteria per una
mescita di buon chianti. Ed era un antifurto eccezionale: bastava accostarsi al
carro perché dall’apparente matassa di pelo biancastro venisse fuori un musetto
dagli occhi vispi e neri, con due orecchie puntute e un abbaio insistente ed acuto.
Quel cane non avrebbe permesso mai, a nessun estraneo, di avvicinarsi.
Oltre che amico di povera gente (del popolo minuto, si diceva a Firenze) il
volpino venne anche amato dalla ricca borghesia, tanto che a Roma lo si diceva
«cane del Quirinale». Non lo so con certezza, ma viene da pensare che, forse,
qualche volpino abbia abitato proprio in quel palazzo frequentato da gente
importante.
Ma torniamo al «mio» volpino veneziano, quello di rio della Madonnetta tanto per
intenderci. Non so se avesse proprio tutte le carte in regola quanto a purezza della
razza. Se insomma sarebbe stato accettato od addirittura premiato in una mostra.
Ma cosa importa? Io so che era bellissimo, soprattutto per l’intelligenza che
emanava, per la consapevolezza che dimostrava, per la perenne allegria.
Vedete, una delle cose simpatiche dell’abitare a Venezia è che ci si muove,
necessariamente, sempre a piedi, senza l’incubo delle automobili, e così si
incontra la gente umana e non umana, tutti indistintamente dal volpino al sindaco,
e si impàra a conoscerli. E questo è un valore aggiunto per la città più bella del
mondo.
Ebbene, giorni fa ho incontrato il padrone del volpino, ma il volpino non c’era.
Perché non c’è più quel volpino, finito.
Ci siamo guardati negli occhi e abbracciati. Che tristezza quando muore un
volpino. Un volpino così.
Il lagotto.
Come sempre mi piace, per raccontarvi di un moderno cane di razza, il lagotto,
partire da lontano. Solo così, davvero, si impàra cosa c’è «dentro un cane».
Perché ogni cane è fatto di natura e di cultura, e ogni possibile proprietario
dovrebbe sempre conoscerne la storia.
Esiste, sparsa per l’Italia, una preziosa editoria locale che mantiene nella
memoria usanze antiche, parole altrimenti perdute. Lagòt, per esempio, è un
termine che si può trovare nel Vocabolario romagnolo-italiano italiano-romagnolo
pubblicato a Ravenna, Edizioni del Girasole, nel 1971. Così, cercando quel lemma,
si impàra che è aggettivo proveniente da lago, e di séguito si legge del can lagòt,
cane da acqua. E dello stesso cane si legge in ben più antiche opere. C’è perfino
una stampa che lo raffigura come una sorta di barbone, furbo e attento. Lo si
immagina, dall’atteggiamento, scodinzolante.
Storie di un tempo passato, di quando la Romagna era diversa, più acqua e
meno terra. Prima delle bonifiche c’erano lagune ricche di uccelli, c’erano
personaggi pittoreschi, i vallaroli, e loro compagno, sempre presente sui barchini,
recuperatore diligente di folaghe, gran nuotatore, era il ricciuto cane d’acqua, il
lagòt appunto. E probabilmente, già allora, era anche un po’ cane da tartufi,
perché i vallaroli facevano di tutto, e così i loro cani.
La specialità completa e circoscritta s’è andata però sviluppando solo negli
ultimi cent’anni o poco più, quando i cercatori di tartufo hanno iniziato un’empirica
selezione basata sul risultato pratico immediato. Così i lagotti hanno cambiato la
loro vocazione primaria, di cani d’acqua, e il loro successo ne ha fatto estendere
la distribuzione anche nelle zone collinari dell’Emilia Romagna, e in altre zone
ricche di tartufi.
Il lagotto è un cane piccoletto, di pelo ricciuto, di coda lunga sempre in
movimento, e siccome il cane con la coda parla e, quando l’agita, io penso che
rida (o almeno sorrida), questo vuol dire, a mio parere, che il lagotto è un cane di
umore buono, e dato che i compagni di vita proprio così mi piacciono, chissà che
un giorno non me ne compri uno. Secondo gli esperti, a ogni modo, la coda in
movimento è importante perché informa che il bersaglio è raggiunto. Inquadro la
scena: autunno avanzato, quasi inverno.
Sottobosco, foglie fradice, nebbiolina. Il lagotto attentissimo censisce odori
trottando e fiutando, il naso a terra. L’allegria l’accompagna (gioco e lavoro sono
per lui la medesima cosa), la coda sventaglia bassa. Poi, d’improvviso, si ferma,
gira un po’ intorno fiutando il terreno, comincia a scavare. Allora la coda s’alza
dritta e sbandiera forte. È il segnale: il tartufo è stato scoperto. Il padrone sposta
gentilmente il cane, lo premia (un bocconcino) e, estratto l’apposito strumento, si
mette lui stesso alla ricerca.
Questo è il lagotto quando lavora, e questa è storia secolare.
Ma ho scritto anche, iniziando, che il lagotto è razza moderna. È infatti da poco
che la cinofilia ufficiale ne ha stabilito uno standard e ha organizzato i libri
genealogici. Ha dato inizio, insomma, a quella necessaria trafila di controlli e di
scartoffie che garantiscono la purezza di un cane. Ha certificato, potrei anche
dire, l’evoluzione dal lagòt al lagotto. E ora il lui è tutto nostro, perché, come tutti i
suoi simili, è soprattutto l’amico dell’uomo. Che vada in cerca di tartufi oppure no.
I bovari svizzeri.
Una storia che mi ha sempre affascinato è quella dei bovari svizzeri. Fino a non
molti decenni fa le quattro razze attuali non erano completamente distinte e
definite. Per usare una parola ora di moda si potrebbe dire che, all’interno delle
popolazioni di quei bovari, esisteva una interessante e funzionale biodiversità. È
noto, infatti, che quei cani tra loro diversi agivano bene in gruppo, quasi fossero
una società dove ciascuno faceva la sua parte. Così, per fare un esempio, un
bovaro piccolo, come attualmente potrebbe essere quello dell’Entlebuch,
s’accorgeva di un qualche pericolo per la mandria, come l’avvicinarsi di un
animale o di un uomo estraneo, e subito avvisava, abbaiando, un suo «collega» di
taglia grossa, quello che oggi sarebbe un bernese o un grande bovaro. A questo
punto toccava a quest’ultimo occuparsi del problema. Insomma, ciascuno aveva
un suo ruolo e proprio perciò quella biodiversità era funzionale. Come accade sui
pascoli dell’alto Appennino centrale nei già citati grandi cani abruzzesi che
venivano allertati da piccoli «pometti», tanto simili ai volpini.
A dire la verità, se queste storie di biodiversità, di alleanze, di suddivisione di
ruoli mi affascinano è perché si tratta di una storia antica che continuamente si
ripete: basta pensare all’origine delle tante e diverse razze canine, tutte derivate
dal selvatico lupo. Una biodiversità importante, fisica e comportamentale, era
infatti già presente, e non poteva essere diversamente, nelle mute di lupi,
dalpallipes al nordico, dove la suddivisione dei ruoli era ed è essenziale perché
possano fare utilmente squadra. C’è chi segue la traccia del selvatico, chi l’aggira
e impedisce la via di fuga, chi per primo l’aggredisce. È stato proprio dalla
biodiversità insita negli antenati selvatici, morfologica e soprattutto
comportamentale, che l’uomo seppe selezionare, attraverso un percorso evolutivo
durato più di diecimila anni, le differenti razze canine, caratterizzate, oltre che
dall’aspetto, da tante diverse vocazioni. La storia dei bovari svizzeri, nel suo
piccolo e nel suo recente, non fa dunque che replicare una storia antica.
Il bovaro del Bernese è uno di quei cani dalla bellezza che si potrebbe dire facile,
nel senso che non bisogna essere specialisti per coglierla. E anche per restarne
affascinati. È una bellezza così naturale da parlare a tutti, diversa com’è da quella
di certe altre razze che hanno dovuto fissare ed addirittura «normalizzare»
mutazioni che in origine altro non erano se non patologie. Razze estreme, razze
strane.
Ebbene, è verosimile che il moderno successo che il bovaro del Bernese va
cogliendo in varie parti del mondo - pare tra l’altro sia stato, a scopo estetico,
anche un poco incrociato col terranova - sia per buona parte da addebitare
proprio alla sua bellezza, al suo fascino immediato. Il che, di per sé, non è
ovviamente un male, ma può anche nascondere dei pericoli. Perché la bellezza del
bernese può spingere all’acquisto persone impreparate ad apprezzarne le grandi
doti di intelligenza, di equilibrio, di autonomia. Doti che si sono andate
geneticamente raffinando in una lunga storia evolutiva spesa lavorando in
collaborazione con gente che sapientemente sapeva prima farle sviluppare e poi
utilizzarle. Facendolo agire in una vita ricca di stimoli, di compiti, vera e
soprattutto responsabile. Una vita che naturalmente esaltava quell’altra bellezza,
quella comportamentale. Perché è l’esperienza, l’autonomia, che costruisce
l’equilibrio, la consapevolezza, insomma l’intelligenza del cane.
È evidente che ormai molti cani sono destinati a una vita urbana, da animali da
compagnia. C’è modo e modo, però, per farli crescere, per tenerli. Niente di più
triste, infatti, che vedere uno di questi grandi cani umiliato da un perenne
guinzaglio, sacrificato in una, seppure dorata, cattività. Impossibilitato ormai di
esprimere le sue straordinarie potenzialità. Credo sia dovere degli allevatori non
solo selezionare, ma anche istruire i futuri proprietari al fine di non umiliare la più
importante bellezza dei loro cani, quella che non si vede.
Il terranova.
Ogni anno la Società di Salvamento attribuisce, a numerosi cani d’acqua, il
brevetto da bagnino, e per lo più si tratta di cani di Terranova. Due le prove per
essere promossi: trarre in salvo un bagnante e raggiungere un’imbarcazione in
pericolo. Cose, a ben pensarci, che sanno fare solo i cani e gli uomini (forse i
delfini), e tra i cani non ci sono solo i terranova ma ovviamente anche altri cani.
Questi cani con la patente, poi, si esibiranno sulle spiagge in manifestazioni di
propaganda e, assai più importante, dovranno cimentarsi con eventi questa volta
veri e perigliosi, e sarà allora che mostreranno tutta la loro intelligenza e il loro
coraggio.
È dunque del terranova che voglio parlare, di lui che giustamente è stato definito
«il San Bernardo delle acque». Il terranova è un immenso, pelosissimo, dolce,
brontolone, cisposo, tollerante cagnone nero. Io che da bambino ne ho per anni
frequentato uno, ben mi ricordo di come era bello toccarlo, prendere tra le mani,
un po’ grattando, un po’ dolcemente scuotendo, quel testone largo e poderoso.
Penso che un cagnone così, immenso e saggio, possa dare molta sicurezza ad un
bambino. Io almeno ho ricavato questa impressione, ho mantenuto questo ricordo,
e voi dovete perdonarmi queste incursioni nella lontana memoria personale: voglio
dirvi che il terranova lo conosco bene. Che è uno dei miei.
E ora voglio spendere qualche riga raccontando la specialità del simpatico
bestione. È cane d’acqua, v’ho detto, e in effetti da tempo immemorabile, nel suo
paese d’origine e dovunque, è stato usato come cane da salvataggio nei casi di
naufragio. È un nuotatore formidabile, è robusto, è docile e facilmente educabile;
facendogli seguire un apposito addestramento è possibile ottenere da lui quelle
poche cose essenziali per il soccorso di chi sta annegando, oppure per portare
aiuto a una barca in difficoltà.
Il terranova infatti sa apprendere a portare in acqua un salvagente o, tuffandosi
a comando da una scialuppa, a trascinare una fune sino a riva. E sa
accompagnare a terra una persona che in acqua si trova in difficoltà. Accetta che
gli si metta un braccio intorno al collo e nuota lento, attento e deciso.
Oltre al classico terranova di colore nero ne esistono alcune varianti, ben più
rare, a macchie bianche e nere o di un colore rosso cupo. E poi c’è il Landseer,
pure bianco e nero, che prende il nome da un pittore ottocentesco inglese, Sir
Edwin Landseer, che ne dipinse molti. Il Landseer ora viene considerato razza a
sé, perché da tempo non è più incrociato con i terranova. Le differenze tra le due
razze, a ogni modo, sono tali da sfuggire a chi non è un esperto specifico di queste
razze.
Levrieri orientali.
Per chi non lo sapesse, nel Settecento un certo Johann Kaspar Lavater si divertì
a evidenziare somiglianze tra le fisionomie umane e quelle di certi animali. Poi,
piuttosto fantasiosamente, attribuì loro significati caratteriali. La «donna-gallina»,
tanto per dire, non avrebbe dovuto essere poi tanto intelligente. Allora si ignorava,
infatti, la sublime intelligenza dei polli (per saperne di più, come si dice, leggere G.
Vallortigara, Cervello di gallina, Bollati Boringhieri, Torino 2005). Lavater, a ogni
modo, s’inventò una scienza un po’ lombrosiana, la «fisiognomica», che
ovviamente nessuno più prende sul serio. Nemmeno io, naturalmente. Eppure - mi
spiace confessarlo - ma, dovendo parlare del levriere russo, detto anche borzoi,
non posso non pensare (spero che qualcuno ancora lo ricordi) a quello splendido
attore che fu Misha Auer, caratterista russo sbarcato a Hollywood. Quel Misha,
per citare il meglio, de L’impareggiabile Godfrey, di Rapporto confidenziale ma,
soprattutto, di quell’Hellzapoppin’ i cui geni immancabilmente rispuntano in quasi
tutti i «più moderni e originali» film comici.
È proprio vero: Misha, così allampanato e così russo, ha il fisico e lo spirito di un
borzoi, anche se il cane vero, forse, sembra un po’ più nobile dell’allegro-triste,
spesso squattrinato attore, ma tant’è, ciò che è assolutamente garantito è che
l’uno richiama terribilmente l’altro, e viceversa.
Quest’idea della straordinaria nobiltà dei levrieri russi (a parte che lo sono
davvero) viene da molto lontano. Ai miei tempi, quand’ero un ragazzino, c’era la
moda della rivista. Quella di Dapporto, di Walter Chiari e di Rascel ma,
soprattutto, della divina Osiris, la Wandissima che strabiliava noi allora di primo
pelo non solo col lancio di rose rosse in platea e con il conturbante prepotente
profumo, ma anche col suo drappello di maestosi levrieri russi. Il massimo,
pensavamo, quanto a distinzione.
E, abbandonando i ricordi personali, posso fare un ulteriore passo indietro
raccontando di quella Milano ottimista e luminosa dove i buoni ambrosiani,
facendo i loro tradizionali quaterpass in galeria, s’emozionavano incrociando, alti
e slanciati, Guido da Verona e la sua favolosa amica bionda in compagnia di due
stupendi borzoi, alti e slanciati pur essi.
Cani, dunque, che furono «d’abbigliamento», usati per conferire un tono,
un’immagine. E in realtà lo sono ancora, dato che, ormai, se si vuole ammirarne
qualcuno, la soluzione è di cercarlo sulle pagine d’una rivista di moda. Purché sia
alta, naturalmente.
Il fatto è che il borzoi di quando ero un ragazzo era già in totale decadenza.
Perché - Misha ce lo spiegava coi suoi personaggi - quelli erano i tempi dei nobili
russi in esilio, costretti a far da autisti o da portieri gallonati. E pure essi, come i
loro divini borzoi, conferivano raffinatezza ai nuovi ricchi che in vario modo se li
erano accaparrati.
Stessa gente stessa sorte, i cui tempi belli sono finiti ormai da un pezzo. Da
quando, cioè, quegli uomini e quei cani cacciavano insieme i lupi nella steppa.
Allora la loro bellezza era vera e funzionale all’azione e mai, immagino, era
possibile scoprire nel loro sguardo tagliente, umano-canino, quel velo di noia che
poi ha reso così distaccato, così distinto, ma anche così perdutamente triste, quel
cane e, sua vaga caricatura umana, quel comico chiamato Misha.
Tra i levrieri orientali, a ogni modo, c’è pure l’afghano, anch’esso stupendo e
fuori moda. Cane abbinabile, per storia e per immagine, al russo borzoi. Così
abbinabile che - l’ho scoperto per caso sere fa - in certi spettacoli televisivi può
addirittura fare la sua controfigura. In questo ruolo l’ho visto, o meglio l’ho
ammirato, in quella trasmissione di ritagli che è Supervarietà di Rai Uno. Ho infatti
scoperto, nel rifacimento di uno spettacolo di Wanda Osiris con, ovviamente, una
falsa Wanda, anche dei falsi borzoi, interpretati perfettamente però, essendo
anch’essi tristissimi, da alcuni sfigatissimi afghani. Luci (e ombre) del varietà.
E, sempre in tema di cani e di spettacoli, devo ora dire dei fratelli Marx che, forse
non tutti lo sanno, originariamente erano cinque, non tre, e tutti col loro bravo
nome d’arte terminante in o. I più famosi erano Chico, Groucho e Harpo, ma
c’erano anche Gummo e Zeppo. Ebbene, fu quest’ultimo, il più giovane dell’allegra
brigata, che dopo un po’ la smise con lo spettacolo per dedicarsi alla cinofilia. Fu
lui che per primo introdusse gli afghani in America.
Cani anch’essi, come i borzoi, antichi e fieri. C’è già traccia di loro in un papiro
egizio del IV millennio a.C. Li si ritrova poi in antiche iscrizioni ebraiche, indiane e
russe, e indizi della loro presenza sono stati scoperti un po’ in tutto l’Oriente, sia
medio che estremo. Accompagnavano i nomadi mercanti di lapislazzuli
trasportando quelle pietre preziose in bisacce legate ai loro dorsi.
La loro vera patria, comunque, rimase sempre l’Afghanistan, e il loro vero,
antico lavoro, la caccia alle capre selvagge di montagna. Parimenti ai borzoi erano
nobili e fieri, e mi vien da pensare che questo loro essere fatalmente fuori moda
dipenda proprio da questa loro severa distinzione. Se guardo infatti i cani ora di
moda, anche di grossa taglia, in loro sempre scopro tracce di infantilismo: penso
ai golden retriever, ai labrador, ai pastori bernesi, perfino ai terranova. Fronti
bombate, grandi occhi tondi, muso non troppo lungo, orecchie ripiegate in giù,
aspetto pacioccone e carattere giulivo. L’opposto, rispetto a quei distinti signori
d’un tempo che fu. Non sarà, il loro declino, anch’esso un segno dei tempi?
E, PER FINIRE, UN FLORILEGIO DI CITAZIONI.
APPENDICE.
Linee guida per l’inserimento e la corretta
educazione del cane nella famiglia umana,
di Luisa Mainardi.
(luisamainardi@doggypark.it)
Letture consigliate.
ANSELMI, G.M. e G. Ruozzi, Animali della letteratura italiana, Carocci, Roma
2009.
ASOR ROSA, A., Storie di animali e altri viventi, Einaudi, Torino 2005.
Bekoff, M., La vita emozionale degli animali, Perdisa, Bologna 2010.
BERSELLI, E., Liù. Biografia morale di un cane, Mondadori, Milano 2009.
BUDIANSJY S., L’indole del cane, Cortina, Milano 2000.
Capra, A. e D. ROBOTTI, Compagni di viaggio, Calderini, Bologna 2009.
Colette, Cane & gatto, Donzelli, Roma 2009.
Comincini, M. (a cura di), L’uomo e la «bestia antropofaga», Unicopli, Milano
2002.
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UTET, Torino 1876.
DARWIN, C, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Boringhieri,
Torino 1982.
De Amicis, E., Il mio ultimo amico, Salvatore Biondo, Palermo 1900.
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antica, Il Mulino, Bologna 2003.
GiARDINA, A., Le parole del cane, Le Lettere, Firenze 2009.
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Boringhieri, Torino 2008.
GROMIS DI Trana, C, Vita da cani. Confessioni di un capobranco, Blu Edizioni,
Torino 2008.
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LORENZ, K., E l’uomo incontrò il cane, Adelphi, Milano 1973.
MAINARDI, D., Il cane e la volpe, Einaudi, Torino 1992.
Mainardi, D., Del cane, del gatto e di altri animali, Mondadori, Milano 1996.
Marchesini, R., L’identità del cane, Apèiron, Bologna 2004.
Marchesini, R., Intelligenze plurime, Perdisa Editore, Bologna 2008.
Masseti, M., Uomini e (non solo) topi, Firenze University Press, Firenze 2002.
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STALL, S., 1100 cani che hanno cambiato la storia, Sperling & Kupfer, Milano
2008.
Ringraziamenti.
Se qualcuno mi chiedesse di disegnare un cane non avrei problemi.
Prenderei un pennarello, un foglio bianco, e la mia mano, in perfetta autonomia,
si metterebbe a viaggiare. Insomma, ci penserebbe lei. Prima le orecchie, poi giù il
profilo della fronte, un occhio, una macchia per quell’altro. E poi il muso completo,
il nero del naso...
A questo punto m’allontanerei un po’ - mi serve per farmi un’idea dell’insieme.
Ecco, ora l’ho tutto in testa: zampe anteriori, un segno per la coda, un altro, un
altro ancora e poi zac... spunterebbero le zampe di dietro, una linea... Eccolo lì, e
quel che gli manca, il che succede spesso, idealmente ce lo piazzerebbe, cioè se
lo immaginerebbe, chi lo sta guardando.
Nascono così i miei cani disegnati. Belli non so, non credo, ma uno diverso
dall’altro questo sì. Irripetibili, perché identici non saprei sicuramente farli.
Ebbene, ho l’impressione che anche questo libro sia nato così.
Come se mi fossi detto: ora scrivo un libro sul cane. E la mia mano è andata. E
sono certo che, se ripartisse, nascerebbe un altro libro. A iniziarlo non ci sarebbe
più, probabilmente, il Felice che finge. Chissà chi ci sarebbe e cosa mai farebbe.
Forse nemmeno ci sarebbe la lumachina a spiegare l’assuefazione, ma un ragno o
uno spaventapasseri. Chissà, gli scherzi della mente (e della mano) umane.
Eppure lo so bene: questo libro che mi illudo d’aver fatto così, con la mano che
vola, è anche opera collettiva, lavoro di gruppo.
Tanti sono stati gli apporti esterni, tanti i «secondo me» che ho ascoltato. Come
se - torno all’esempio del disegno - ciascuno di quelli che ringrazierò (o che, forse,
e chiedo scusa, mi sto dimenticando di ringraziare) mi avesse detto: la coda falla
così, le orecchie cosà. Complici, a modo loro.
Ed ora eccomi qui, con questo libro mio e anche non mio, a ringraziare gente cui
devo riconoscenza e pure un pizzico di gioia. E so perfettamente con chi devo
cominciare.
Con Luisa, perché è mia figlia. Quante telefonate lunghissime, unico tema i cani.
È bello con un figlio, o una figlia, aver qualcosa da spartire oltre l’affetto. S’è
buttata in questa avventura dei cani, Luisa, con una determinazione, con una
bravura... Lei e la sua «educazione gentile».
Ma basta con queste lodi sperticate (che poi fatte dal padre non valgono niente);
devo ora ringraziare i miei amici professori: primo tra tutti Alessandro Finzi,
università della Tuscia, che vuol dire Viterbo; subito dopo Giorgio Vallortigara,
quella di Trento. Li avete incontrati nel libro, perciò del loro contributo qualcosa
già sapete, ma m’hanno dato molto di più, e anche di ciò li ringrazio; viene poi Pier
Francesco Ferrari, che m’ha spiegato tutto dei neuroni specchio e che, un poco, è
un mio nipote culturale essendo allievo di un mio allievo (Stefano Parmigiani). C’è
infine Paolo Legrenzi, psicologo dell’IUAV, l’università di architettura di Venezia.
Abita accanto a me e tante volte mi sono fermato, soprattutto dopo cena sulle
Zattere, a chiacchierare con lui e sua moglie Maria. Ciàcole speciali, con Orso
paziente ad aspettarmi, e così ho scippato, ho scippato...
Mi viene poi da ringraziare Vittorino Meneghetti. Il suo ultimo libro, straordinario,
non ho fatto in tempo a discuterlo nel mio, solo a citarlo, ma ugualmente m’ha
regalato tanti pensieri, tante idee. È stato bello leggerlo.
Ci sono infine le amiche di una vita Donatella Barbieri (ALI) e Patrizia Carrano.
Un grazie grande per i suggerimenti utilissimi e intelligenti, per l’affetto prezioso;
e le splendide Signore della Cairo, che mi hanno fatto rivivere l’esperienza antica
di un autore di una volta, di quando gli editori stavano in centro città, in
appartamenti che parevano sartorie di classe. Si discute, con queste Signore, si
condividono idee, si lavora insieme. E ottimamente. Grazie dunque a Benedetta
Centovalli, Carolina Tinicolo, Stella Boschetti, Elena Grimi, Virginia Rossetti, Rita
Colombi. Questo libro è anche loro, è il nostro libro sul cane.
FINE.
Finito di stampare nel gennaio 2011 presso Rotolito Lombarda, Seggiano di
Pioltello (Milano).
07/04/11 11:07:52