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PRESENTAZIONE
INTRODUZIONE
I TIPI FORESTALI
1. LECCETE
1.1. Lecceta tipica a Viburnum tinus - 1.2. Lecceta di transizione a boschi di cadu-
cifoglie - 1.3. Orno-lecceta con roverella delle zone interne - 1.4. Lecceta rupicola
relitta submontana e montana
2. MACCHIE MEDITERRANEE
3. SUGHERETE
3.1. Sughereta mista sopra ceduo di leccio e altre sempreverdi - 3.2. Sughereta
mista sopra ceduo di sempreverdi e caducifoglie - 3.3. Sughereta specializzata
4. PINETE DI PINO D’ALEPPO
5. PINETE DI PINO DOMESTICO
6.1. Pineta di clima suboceanico di pino marittimo a Ulex europaeus - 6.2. Pineta
sopramediterranea di pino marittimo - 6.3. Pineta mediterranea di pino marittimo
su macchia acidofila - 6.4. Pineta costiera di pino marittimo - 6.5. Pineta di pino
marittimo su ofioliti
7. CIPRESSETE
11.1. Cerreta eutrofica ad Acer opalus s.l. - 11.2.Cerreta mesofila collinare -11.3.
Cerreta mesoxerofila - 11.4. Cerreta acidofila montana - 11.5.Cerreta acidofila
dei terrazzi a paleosuoli - 11.6. Cerreta acidofila submediterranea a eriche -
11.7. Cerreta mesofila planiziale - 11.8. Cerreta termoigrofila mediterranea -
11.9 Querceto di cerro e farnetto a Pulicaria odora
12. BOSCHI MISTI CON CERRO ROVERE E/O CARPINO BIANCO
12.1. Carpino-querceto mesofilo di cerro con rovere - 12.2. Querceto acidofilo di
rovere e cerro - 12.3. Carpineto misto collinare (-submontano) a cerro
13.1. Ostrieto pioniero dei calcari duri delle Apuane - 13.2. Ostrieto mesofilo a Sesleria
argentea delle Apuane - 13.3. Ostrieto pioniero delle balze marnoso-arenacee appen-
niniche - 13.4. Ostrieto delle aree calanchive delle alte valli dell’Arno e del Tevere
- 13.5. Ostrieto termofilo dei calcari marnosi ad Asparagus acutifolius - 13.6.
Ostrieto mesofilo dei substrati silicatici
22. FAGGETE
BIBLIOGRAFIA
35(6(17$=,21(
Nel 1997, per una coincidenza in parte fortuita in parte conseguente alla con-
nessione esistente fra vari studi condotti o commissionati dalla Regione, è emersa
una ricca serie d’informazioni sulle foreste, sui boschi, le macchie e le altre aree
naturali (boscaglie, arbusteti, garighe) della Toscana. L’Amministrazione regionale
ha ritenuto di raccoglierle e pubblicarle in una collana che porta il titolo di BOSCHI
E MACCHIE DI TOSCANA. La collana è aperta anche a futuri apporti di studio
sulla vegetazione forestale della regione, ma fin d’ora ne presenta un quadro organico
attraverso cinque volumi che riguardano il suo rilevamento, la classificazione, la
rappresentazione cartografica, la descrizione dei principali Tipi di bosco, l’elabora-
zione statistica di molti parametri relativi alla loro composizione, coltura e accresci-
mento.
Nel volume I tipi forestali i boschi e gli arbusteti della Toscana sono classificati
secondo unità di vegetazione omogenee da un punto di vista floristico, ecologico ed
evolutivo. I Tipi individuati sono 88, raggruppati in 22 categorie. Essi sono fondati
su unità fitosociologiche di vario rango sistematico individuate nel volume La vege-
tazione forestale, che apre la collana sui Boschi e macchie di toscana. La trattazione
è svolta in forma di guida, a schede, che consente non solo d’individuare la fisionomia
dei vari tipi forestali, ma anche di coglierne l’ecologia, le tendenze dinamiche, oltre
che la gestione più appropriata, aspetto, quest’ultimo, rilevantissimo da un punto di
vista operativo.
Lo studio è stato condotto dall’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente -
I.P.L.A. S.p.A. di Torino, attraverso ricerche e rilevamenti durati tre anni, effettuati
da uno staff interdisciplinare validamente diretto dal prof. Gian Paolo Mondino. Al
lavoro ha dato un contributo determinante, soprattutto per la parte selvicolturale, il
prof. Giovanni Bernetti, direttore dell’Istituto di Selvicoltura dell’Università di Fi-
renze. A questi due Autori si deve anche la chiara stesura del testo.
Vorrei qui, a nome anche di tutta la Giunta regionale, esprimere compiacimento
per l’alto livello tecnico e scientifico dell’opera e ringraziare quanti hanno contribuito
alla sua riuscita. Compiacimento e ringraziamento che non vogliono essere formali,
ma intendono sottolineare l’utilità di un lavoro che consente a tutti, operatori del
settore e semplici amanti o fruitori dei boschi della Toscana, di conoscere meglio il
nostro patrimonio forestale, per contribuire alla sua difesa e valorizzazione.
L’Amministrazione regionale vive un momento particolarmente impegnativo
nella rimodulazione della propria politica forestale: l’intento è quello di sviluppare
tutte le connessioni fra le varie dimensioni del bosco, quella ambientale, quella
paesaggistica e quella economica, e d’investire al meglio le risorse finanziarie pub-
bliche, che, per essere limitate, non consentono errori di destinazione e d’indirizzo.
La migliore conoscenza della risorsa è un contributo positivo per la Regione
e per tutti gli altri soggetti, pubblici e privati, che concorrono al buon governo
della foresta.
MORENO PERICCIOLI
Assessore regionale all’agricoltura e alle foreste
,1752'8=,21(
Il Sottotipo distingue in genere all’interno del Tipo variazioni floristiche minori,
causa il prevalere di alcune specie del sottobosco che rivelano con la loro presenza
o abbondanza qualche differenziazione a livello ecologico (del substrato, meso - o
microclimatiche, ecc.).
La Variante viene distinta quando, senza che il sottobosco subisca variazioni
di rilievo, cambi in modo sensibile la composizione dello strato arboreo.
In certi casi i concetti di Sottotipo e Variante vengono a coincidere, quando cioè
alle variazioni nello strato arboreo si accompagnino cambiamenti di un certo rilievo
anche della vegetazione subordinata: ovviamente, in questo caso, si deve parlare
di Sottotipo in quanto le differenziazioni principali avvengono sulla base della
composizione del sottobosco, proprio per l’impostazione ecologica data a questa
guida. Tra le unità distinte sono stati evidenziati a parte, dato il loro particolare
interesse, una Categoria (Boschi misti con cerro, rovere e/o carpino bianco) e tre
Tipi (Betuleto misto, Aceri-frassineto e Piceo-abieteto autoctono con faggio dell’Abe-
tone) sebbene, per la loro composizione, queste unità avrebbero potuto considerarsi
puramente a livello di Sottotipi. Ciò è stato fatto per evitare una loro dispersione in
più Tipi lontani fra loro, mentre si riteneva invece necessario farne una trattazione
unitaria a livello gestionale.
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Sono quelle specie di riferimento (arboree accessorie, arbustive ed erbacee) utili
per il riconoscimento dei Tipi, in quanto, in tali ambiti, sono più frequenti così da
trovarvi un ambiente favorevole oppure - in certi casi - ottimale.
Così si può dire che:
i Tipi vengono riconosciuti, oltre che dalla fisionomia del popolamento e, talvolta,
dalla fisiografia del terreno, tramite le specie più frequenti, considerando in primo
luogo quelle considerate costanti, presenti cioè in almeno metà dei rilievi; in certi
casi vengono pure elencate specie presenti meno frequentemente, localizzate, op-
pure addirittura rare, ma comunque di buon valore indicatore; esse vengono con-
trassegnate rispettivamente con le sigle (loc.) e (r.).
Talune specie, particolarmente legate ad un determinato Tipo nell’ambito di una
stessa Categoria, sono scritte in carattere maiuscolo in quanto di particolare valore
descrittivo del Tipo stesso, anche se talvolta presenti, ma meno tipicamente, in
altri ambienti.
Le liste delle specie proprie di ciascun Tipo vengono denominate specie indicatrici
(o specie guida) seguendo la terminologia di PIGNATTI (1982). Esistono talvolta
anche liste di specie differenziali per la distinzione di alcuni Sottotipi fra loro
all’interno del Tipo.
I Tipi vengono ulteriormente distinti sotto l’aspetto ecologico prendendo in
considerazione il clima, la geomorfologia e il suolo nelle rispettive aree di distri-
buzione.
I Tipi descritti per la Toscana, relativi a soprassuoli arborei e arbustivi, sono in
totale 88, raggruppati in 22 Categorie, più 11 unità non descritte nei particolari e
riunite in una categoria a parte, prendendo in considerazione le specie non spontanee
di minore impiego negli impianti.
Alcuni Tipi, come la Faggeta mesotrofica, la Lecceta tipica a Viburnum tinus,
la Cerreta acidofila submediterranea a eriche, il Castagneto mesofilo su arenaria,
l’Ostrieto mesofilo dei substrati silicatici, ecc., sono presenti su vaste aree regionali,
anche con superfici più o meno continue, e sono state delimitate come tali nelle
cartine. Altri Tipi invece interessano zone più limitate e/o frammentate come il
Querceto mesoxerofilo di roverella a Cytisus sessilifolius, la Macchia media meso-
mediterranea, le sugherete, ecc.; in questi casi si sono usati simboli grafici.
Alcuni di questi Tipi sono presenti in poche zone isolate del territorio regionale;
comunque anche questi sono stati definiti e localizzati allo stesso modo, o per il loro
interesse naturalistico, come la Lecceta rupicola relitta submontana e montana e la
Macchia a Olea europaea sylvestris ed Euphorbia dendroides, oppure perché testi-
moni relitti di un’antica vegetazione forestale, eliminata dalle bonifiche delle colture
agrarie, oggi, solo più, o quasi, allo stato potenziale come il Querco-carpineto ex-
trazonale di farnia.
Alcuni Tipi, infine, estremamente frammentati sul territorio come quelli che
rientrano nella Categoria Arbusteti di post-coltura, sono stati rappresentati cercando
di localizzarli nelle aree di maggior diffusione.
definire stadi di transizione fra Tipi diversi. A questo proposito si può osservare che,
talvolta, Sottotipi appartenenti a Tipi diversi possono costituire situazioni di questo
genere. Inversamente le sugherete, ad es., sono state considerate a parte per il loro
intrinseco interesse anche se Quercus suber non risulta sempre la specie dominante.
Le fasi attraverso le quali deve passare la classificazione tipologica di una cenosi
forestale, come suggerito da DEL FAVERO e Coll. (1991), sono le seguenti:
Nell’ambito della scheda relativa ai singoli Tipi si ritrovano i seguenti
elementi.
• Denominazione del Tipo (titolo della scheda) associazioni mentre, in qualche caso, non è
•Cartina schematica della regione stato possibile far riferimento ad una data uni-
In essa, con l’aiuto dell’idrografia, vengono tà fitosociologica o per mancanza di specie
localizzate, compatibilmente con la scala, a veramente indicatrici (v. ad es. il Betuleto
campitura piena le aree più estese occupate misto) o perché il Tipo ha un significato quasi
dal Tipo e, mediante asterischi, le aree pun- esclusivamente fisionomico (per es. la Fag-
tiformi o disperse, non delimitabili come le geta cespugliosa di altitudine).
precedenti. La rappresentazione cartografica, Una più puntuale definizione delle unità fi-
seppur solo orientativa, permette di identifi- tosociologiche ed eventuali gradi minimi e
care le aree con maggior diffusione dei singoli massimi di abbondanza - dominanza delle
Tipi, almeno a livello delle attuali conoscenze. specie indicatrici avrebbero potuto essere
•Diagramma ecologico presi in considerazione se si fossero potute
Permette di valutare lo “ spazio” ecologico consultare tutte le tabelle fitosociologiche di
occupato dal Tipo e da eventuali Sottotipi rilevamento che, al momento dell’elaborazio-
rispetto a due importanti fattori per la vita ne di questo lavoro, non erano ancora dispo-
delle piante (ELLENBERG e KLÖTZLI, 1972): nibili in forma definitiva.
in ordinata, grado medio di umidità del suolo Ai fini pratici, come già accennato, possono
(paludoso, umido, fresco, asciutto, arido) e, venire indicate eventuali fasi di transizione
in ascissa, relativa ricchezza di elementi nu- fra unità fitosociologiche, di norma ignorate
tritivi (suolo povero, mediamente ricco, ric- dalla fitosociologia classica che attribuisce
co). Questi diagrammi hanno ovviamente una determinata cenosi all’unità predominan-
solo un valore indicativo e sono confrontabili te come numero di specie, con i relativi valori
fra loro soltanto nell’ambito dei Tipi di cia- di abbondanza-dominanza, relegando fra le
scuna Categoria. “ compagne” specie di altre unità, talvolta an-
Per quanto riguarda la vegetazione sempre- cora numerose, che hanno spesso un signifi-
verde il poligono indicante lo spazio ecolo- cato ecologico più ampio o comunque diver-
gico del Tipo è stato suddiviso in due parti so. Operando come dianzi detto, le varie uni-
in modo da poter valutare, sia pure grossola- tà, formate dal complesso dalle specie più
namente, il periodo umido (soprattutto inver- diffuse che vi appartengono, forniscono utili
nale) e quello asciutto (estivo), facendo ov- indicazioni di carattere ambientale.
viamente astrazione delle stagioni di transi- •Sottotipi e varianti
zione. Seguono nell’ordine la caratterizzazione fi-
•Caratterizzazione fisionomica e fitosociolo- tosociologica del Tipo.
gica •Localizzazione
Quest’ultima viene indicata a livello di Tipo, Riassume la descrizione degli areali e delle
talvolta di Sottotipo, sinché possibile a livello stazioni meno estese raffigurate nella cartina
di associazioni, seguendo quelle enunciate da con indicazioni discorsive circa la distribu-
ARRIGONI (1996, ined.), oppure a livello di zione dei Tipi (ed, eventualmente, Sottotipi)
alleanze od ordini, unità comunque di buon sul territorio.
significato ecologico o, ancora, in forme di •Esposizione
transizione fra diverse unità. Di solito viene indicata quella prevalente,
Talvolta uno stesso Tipo può far capo a più qualora esista.
•Distribuzione altitudinale e del trimestre estivo GLA, più eventuali in-
Vengono indicate le quote minima e massima dicazioni circa altri fattori climatici.
e, tra parentesi, eventuali minimi e massimi • Interventi antropici più frequenti
eccezionali. Sono relativi a: diminuzione areale dei bo-
• Geomorfologia schi, ceduazione, conversione a fustaia, sele-
E’ ovviamente in riferimento alle forme del zione negativa di specie principali meno in-
terreno ed eventualmente alle pendenze e alla teressanti economicamente e/o delle specie
presenza di rocce affioranti. accessorie, sostituzione artificiale con altre
• Substrati specie arboree, invasione, indirettamente fa-
La litologia è stata ripresa dalle Carte geolo- vorita, di specie esotiche e non, incendi, pa-
giche ufficiali all’1:100.000, per lo più con scolo in bosco, ecc.
le opportune semplificazioni contenute nella • Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e
Carta informatizzata prodotta nel 1988 alla tendenze dinamiche
scala 1:250.000 dalla REGIONE TOSCANA, ri- Con questa voce si sono volute indicare lo
dotta all’1:500.000 nel 1993. stadio di maggiore o minore maturità o de-
• Suoli gradazione del bosco, le possibili tendenze
Per ogni Tipo viene fatta una breve descri- evolutive verso cenosi più complesse, gli
zione delle loro principali caratteristiche fi- ostacoli a queste trasformazioni, ecc.
sico-chimiche. • Specie indicatrici (lista)
• Clima Di queste si è già trattato al punto D; in par-
In genere vengono indicati: le temperature ticolare nella stesura delle liste sono state usa-
medie annue e quelle del mese più freddo, i te delle abbreviazioni secondo l’elenco che
quantitativi delle precipitazioni medie annue segue.
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&OLPD
Non è questa la sede per trattare le caratteristiche del clima toscano tanto più
che esiste già un’opera, estesa a tutto il territorio regionale, riguardante questo tema
(REGIONE TOSCANA, 1984) e, in particolare, il regime idrico che, in una zona così
ampiamente interessata dagli influssi del clima mediterraneo, può risultare spesso
un fattore limite per certi tipi di vegetazione. L’opera è corredata da una carta, ridotta
alla scala 1:400.000 circa, che suddivide il territorio regionale in otto tipi climatici
- dal semiarido al perumido - che sarebbe stato interessante inserire nelle schede dei
Tipi forestali a livello della voce “ Clima” . Ciò in realtà non è stato giudicato possibile
e questo per varie ragioni.
In primo luogo occorre ricordare da un lato la scala relativamente piccola della
carta suddetta, e, dall’altro, le ristrette aree dove invece il selvicoltore è chiamato ad
agire; il numero delle stazioni pluviometriche esistenti, idoneo per la scala prescelta
per la carta, non risulterebbe sufficiente per studi localizzati; inoltre, spesso, la ve-
getazione risulta a carattere azonale e quindi legata a particolarità microclimatiche
o edafiche locali: si citano, come esempio, nel primo caso la Lecceta rupicola relitta
submontana e montana, e, nel secondo, il Bosco interdunale di pioppi con farnia e
frassino meridionale, il Saliceto e pioppeto ripario e la Cerreta mesofila planiziale
e d’impluvio, tutti Tipi legati alla presenza di una falda utilizzabile dal bosco. Inoltre,
a causa della notevole plasticità di molte specie, quali in primo luogo il cerro e il
castagno, sarebbe risultato poco utile far rilevare la presenza di alcuni Tipi forestali
in più Tipi climatici (anche se a climi più favorevoli corrispondono spesso migliori
produttività a parità di condizioni edafiche).
Va poi considerato che alcune localizzazioni extrazonali di specie chiaramente
termofile sarebbero cadute in un Tipo climatico apparentemente non idoneo in quanto
tali specie, ad es., possono essere presenti in zone notevolmente umide e non molto
calde unicamente per localizzate questioni microambientali (ad es. suolo superficiale
e scosceso) come nel caso già citato della Lecceta rupicola relitta submontana e
montana della Toscana nord-occidentale. Deve infine essere sottolineato il fatto che
molte stazioni meteorologiche sono situate in città o in centri attorniati da ampie
zone a carattere agricolo, dove la vegetazione forestale è solo allo stato potenziale,
per cui non è facile correlare stazioni forestali più o meno lontane ai dati meteorologici
reali di tali stazioni.
Fatte queste precisazioni rispetto alle limitazioni sopra accennate, in sede di
lavori sul terreno si può far comunque riferimento con cautela al tipo climatico,
contenuto nella carta citata, che vige in generale nella zona da studiare.
Per dare quindi un’idea della relazione di alcune tipiche stazioni termopluvio-
metriche con i Tipi forestali esistenti o potenziali sono state scelte 17 stazioni me-
teorologiche che coprono l’ampia gamma di situazioni climatiche toscane. E’ a questo
livello che si è tentato di correlare i tipi climatici contenuti nella pubblicazione già
citata della Regione Toscana con i Tipi forestali locali mediamente i consueti dia-
grammi ombrotermici di Walter e Leith.
Come si vede da tali diagrammi, le stazioni appenniniche non presentano periodi
di aridità estiva; così avviene per i dati delle stazioni settentrionali di Pontremoli,
Abetone, S. Marcello Pistoiese, Eremo di Camaldoli e Vallombrosa. Alcune stazioni
interne, come Volterra e Casteldelpiano (qui per la prossimità al cono elevato ed
isolato dell’Amiata) presentano periodi siccitosi di breve durata. Questi vanno vice-
versa aumentando, nell’ordine, prima in altre stazioni interne (Roccalbegna, Fiesole,
Sansepolcro, Massa Marittima, Larderello, Montelpulciano e Pienza), per raggiungere
infine, logicamente, i valori più elevati di aridità lungo le coste a Viareggio, Porto-
ferraio e Orbetello.
Alcune stazioni con siccità più prolungata, quali Portoferraio, Pienza e Monte-
pulciano, in nessun mese presentano precipitazioni superiori a 100 mm; fra quelle
marittime Viareggio supera questo valore nei mesi autunnali data la sua vicinanza
alla barriera orografica delle Apuane, mentre solo in uno-due mesi ciò avviene per
Livorno e Orbetello. Sugli Appennini, sulle Alpi Apuane e sull’Amiata vi è una
normale possibilità di precipitazioni nevose.
Per quanto riguarda le temperature medie annue, di per sè sole comunque non
molto significative per la vegetazione, esse sono comprese fra i 6.7° e i 10.2° nelle
stazioni appenniniche superiori o quasi ai 1.000 m; per le stazioni interne, nell’ambito
di 370 e 639 m di quota, fra i 12.5° e i 12.8° (Casteldelpiano, Pienza, Volterra, Massa
Marittima); altre, infine (Fiesole, Sansepolcro, Larderello, Montepulciano, Roccal-
begna), presentano medie più elevate (13.5°-14.6°) nell’ambito di 295 e 605 m,
situate come sono in zone più calde nella Valle dell’Arno, nei pressi della Val di
Chiana, oltre che in quella del Cecina aperta direttamente al mare.
Le temperature medie annue delle zone costiere vanno da un minimo di 15.1°
per Viareggio ai 16.6° di Orbetello, passando per i 15.8° di Livorno e i 16.5° di
Portoferraio. Valori un po’ più elevati probabilmente si raggiungono nelle piccole
isole dell’arcipelago.
DIAGRAMMI OMBROTERMICI
DI ALCUNE STAZIONI TERMOPLUVIOMETRICHE
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
40 80
40
0 0
g f m a m g l a s o n d
³³³3UHFLSLWD]LRQL7HPSHUDWXUH
0 0
g f m a m g l a s o n d
7LSLSLUDSSUHVHQWDWLYL
)DJJHWD DSSHQQLQLFD HX VALLOMBROSA - 955 m s.l.m.
WURILFDDGHQWDULH (Tma 10,2°, Pa 1.390 mm)
)DJJHWDDSSHQQLQLFDPH
VRWURILFDD*HUDQLXPQRGR
VXPH/X]XODQLYHD
)DJJHWDFHVSXJOLRVDGLYHW 120 240
WD
$FHULIUDVVLQHWR 100 200
PRECIPITAZIONI
$EHWLQDDOWLPRQWDQDGLRUL
TEMPERATURE
80 160
JLQHDUWLILFLDOH
$EHWLQDPRQWDQDGLRULJL 60 120
QHDUWLILFLDOH
$EHWLQD VRWWR TXRWD GL RUL 40 80
JLQHDUWLILFLDOH
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
S. MARCELLO PISTOIESE. 6DOLFHWRHSLRSSHWRULSDULR
625 m s.l.m.
&DVWDJQHWR PHVRILOR VX
(Tma 12,1°, Pa 1.633 mm)
DUHQDULD
&DVWDJQHWRDFLGRILOR
&HUUHWDPHVRILODFROOLQDUH
120 240 3UXQHWR
100 200
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
120 240
100 200
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
&HUUHWDPHVR[HURILOD VOLTERRA - 536 m s.l.m.
/HFFHWDGLWUDQVL]LRQHDER (Tma 12,5°, Pa 994 mm)
VFKLGLFDGXFLIRJOLH
2UQROHFFHWD FRQ URYHUHOOD
GHOOH]RQHLQWHUQH
120 240
4XHUFHWRDFLGRILORGLURYH
UHOODDFHUUR 100 200
4XHUFHWRWHUPRILORGLUR
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
YHUHOODFRQOHFFLRHFHUUR 80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
100 200
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
*LQHVWUHWRFROOLQDUHGL6SDU
TEMPERATURE
80 160
WLXPMXQFHXP
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
PONTREMOLI - 237 m s.l.m. 3LQHWDGLFOLPDRFHDQLFRGL
(Tma 14,1°, Pa 1.640 mm)
SLQRPDULWWLPRD8OH[HXUR
SDHXV
6DOLFHWR H SLRSSHWR ULSDULR
120 240 OLPLWL
$OQHWR ULSDULR GL RQWDQR
100 200 QHUR
&DVWDJQHWR PHVRILOR VX
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160 DUHQDULD
&DVWDJQHWRDFLGRILOR
60 120 5RELQLHWR
%HWXOHWRPLVWRSLLQTXRWD
40 80
$OQHWRDXWRFWRQRGLRQWDQR
20 40 ELDQFRSLLQTXRWD
3LQHWDDFLGRILODGLSLQRQHUR
0 0 3UXQHWR
g f m a m g l a s o n d 3WHULGLHWR
0 0
g f m a m g l a s o n d
0 0
g f m a m g l a s o n d
FIESOLE - 295 m s.l.m.
4XHUFHWR PHVRWHUPRILOR (Tma 14,5°, Pa 928 mm)
GLURYHUHOODD5RVDVHPSHU
YLUHQV
2UQROHFFHWD FRQ URYHUHOOD
GHOOH]RQHLQWHUQH 120 240
2VWULHWRWHUPRILORGHLFDOFD
UL PDUQRVL DG $VSDUDJXV 100 200
DFXWLIROLXV
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
&LSUHVVHWD D URYHUHOOD H 80 160
6SDUWLXPMXQFHXP
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
3LQHWDFRVWLHUDGLSLQRPD 80 160
ULWWLPR
$OQHWR LJURILOR H PHVRL 60 120
JURILOR GL RQWDQR QHUR H
40 80
IUDVVLQRPHULGLRQDOH
%RVFRLQWHUGXQDOHGLSLRSSL
20 40
FRQ IDUQLD HIUDVVLQRPHUL
GLRQDOH 0 0
g f m a m g l a s o n d
ORBETELLO - 5 m s.l.m.
3LQHWDGXQDOHWHUPRPHGL
(Tma 16,6°, Pa 672 mm)
WHUUDQHDGLSLQRGRPHVWLFR
/HFFHWDWLSLFDD9LEXUQXPWL
QXV
*LQHSUHWRGXQDOHD-XQL 120 240
SHUXVPDFURFDUSDH-SKR
HQLFHD 100 200
PRECIPITAZIONI
TEMPERATURE
80 160
60 120
40 80
20 40
0 0
g f m a m g l a s o n d
&KLDYH SHU O·LQGLYLGXD]LRQH GHOOH &$7(*25,(
1 Boschi di leccio prevalente, quasi sempre cedui (forteto), anche con presenza subordinata
di altre sempreverdi della macchia (altezza media a maturità almeno 7 m); sono inclusi
anche gli addensamenti rupicoli di leccio, più o meno lontani dal mare e isolati entro boschi
di caducifoglie
1. LECCETE
2 Macchia mediterranea di sempreverdi, con leccio anche assente o comunque sempre su-
bordinato, di altezza media a maturità inferiore a 7 m; sono inclusi anche i popolamenti
costieri a ginepri (ginepro coccolone e ginepro fenicio) e quelli ad eriche (erica arborea
e/o erica scoparia) prevalenti
2. MACCHIE MEDITERRANEE
3 Boschi di sughera, prevalente o pura o, più spesso, come matricina di ceduo di leccio (v.
anche LECCETE) mista ad altre sempreverdi e/o latifoglie legnose
3. SUGHERETE
4 Boschi con prevalenza di pino d’Aleppo, spesso consociato con macchia mediterranea
6 Boschi con prevalenza di pino marittimo, puro o consociato con varie altre specie legnose,
talvolta con sottobosco arbustivo di sempreverdi o di caducifoglie (anche cedue). Il pino
subordinato è presente come variante anche nei seguenti Tipi (v.): 10.4. QUERCETO
ACIDOFILO DI ROVERELLA A CERRO, 11.5. CERRETA ACIDOFILA DEI TER-
RAZZI A PALEOSUOLI, 11.6. CERRETA ACIDOFILA SUBMEDITERRANEA A ERI-
CHE, 12.2. QUERCETO ACIDOFILO DI ROVERE E CERRO, 3.2. SUGHERETA MI-
STA SOPRA CEDUO DI SEMPREVERDI E CADUCIFOGLIE, 7. CIPRESSETA A
roverella e Spartium junceum, 14.3. CASTAGNETO ACIDOFILO
7. CIPRESSETE
8 Boschi mesofili o mesoigrofili di pianura in forte prevalenza della fascia costiera (alneti
di ontano nero, boschi misti di latifoglie con pioppi spontanei bianco e nero, frassino
meridionale, anche con presenza di farnia e carpino bianco)
9 Boscaglie o boschi igrofili situati nei greti o lungo le rive dei corsi d’acqua anche nelle
zone interne, costituiti da salici di varie specie, pioppi spontanei, ontano nero
10 Querceti di roverella prevalente, pura o mista, con cerro talora codominante e anche leccio.
(v. anche 7.1. CIPRESSETA A ROVERELLA E SPARTIUM JUNCEUM, 1.2. LECCETA
DI TRANSIZIONE A BOSCHI DI CADUCIFOGLIE)
11 Boschi di cerro prevalente rispetto ad eventuali specie consociate (salvo nel caso di mescolanza
con il farnetto (1) dove le due specie possono mescolarsi in proporzioni anche equivalenti),
latifoglie nobili (v. 22.9. ACERI-FRASSINETO), oppure carpino nero
11. CERRETE
Altri tipi di bosco o arbusteto 12
12 Boschi misti collinari di caducifoglie dove, oltre ad altre specie consociate, sono presenti,
insieme o separatamente, soprattutto rovere e carpino bianco (v. anche 22.9. ACERI-FRAS-
SINETO)
13 Boschi con prevalenza di carpino nero ceduo, puri o con matricinatura di cerro e/o roverella,
esclusi certi castagneti da frutto abbandonati e invasi da questo carpino (v. soprattutto14.4.
CASTAGNETO NEUTROFILO SU ROCCE CALCAREE E SCISTI MARNOSI)
13. OSTRIETI
15 Boschi con prevalenza di robinia (talvolta codominante con castagno: v. 14. CASTAGNE-
TI, o con specie del Tipo 9. BOSCHI ALVEALI E RIPARI)
15. ROBINIETI
18 Rimboschimenti con prevalenza di pino nero o pino laricio
20 Arbusteti (felceti nel caso dei popolamenti di felce aquilina, v. 20.1. PTERIDIETO),
costituiti da varie specie cespugliose (eccetto il caso precedente), per lo più caducifoglie
(salvo il ginepro e il brugo), su terreni già a coltura agraria o pascolo
21 Boschi di abete bianco puro o talvolta misto a faggio, in un unico caso (zona dell’Abetone)
anche con picea di origine spontanea
21. ABETINE
22. FAGGETE
Altri tipi di bosco 23
(1) Ivi compresi anche castagneti, cerrete e abetine con sensibile presenza delle latifoglie nobili (v. 22.9
ACERI-FRASSINETO).
&KLDYH SHU O·LQGLYLGXD]LRQH GHL 7,3,
/(&&(7(
1 Bosco di leccio di norma ceduo (ivi compreso il “ forteto” a leccio prevalente sulle altre
sclerofille, con altezza media a maturità di almeno 7 m - se meno vedi 2. MACCHIE
MEDITERRANEE - ), di zone tipicamente a clima mediterraneo a sensibile aridità estiva
(perciò della fascia costiera e nelle isole, molto raramente in zone interne come il Chianti),
caratterizzato soprattutto dalla presenza di frequente laurotino
2 Bosco ceduo di leccio (molto raramente con sughera), dominante con altre specie della
macchia, variamente misto, a seconda delle condizioni locali, a diverse specie di caduci-
foglie, anche di tipo mesoigrofilo e igrofilo (v. altrettanti Sottotipi) ivi comprese le altre
querce, il pioppo bianco e il frassino meridionale, quest’ultimo presente in Maremma e
nella Montagnola Senese), con vegetazione di sottobosco erbaceo in prevalenza di tipo
submediterraneo
3 Bosco ceduo di leccio misto, in particolare a roverella, con orniello molto frequente, carpino
nero, acero trilobo, sorbo domestico, ecc., a contingente mediterraneo molto ridotto, di
zone a clima relativamente freddo durante l’inverno, diffuso qua e là nelle Alpi Apuane,
Colli alti lucchesi, pistoiesi, fiorentini, aretini e senesi, con vegetazione di sottobosco di
tipo prevalentemente submediterraneo anche in parte con caducifoglie nello strato arbu-
stivo. Fa passaggio al QUERCETO TERMOFILO DI ROVERELLA CON LECCIO E
CERRO.
0$&&+,(0(',7(55$1((
1 Arbusteto di sempreverdi, spesso con leccio, che a maturità non raggiungono i 3 m d’altezza,
di clima mediterraneo con sensibile siccità estiva
2 Arbusteto di sempreverdi, quasi ovunque prive di leccio, con frequenti eriche, “ ginestre”
e cisti, che anche dopo qualche decennio non superano m 1.50 d’altezza, e con suffrutici
aromatici di gariga, degli stessi ambienti climatici del tipo precedente
3 Arbusteto o boscaglia alti m 1.50-6, con raro leccio, costituita soprattutto da sclerofille
dove prevalgono le entità più termofile (lentisco, alaterno, mirto), di zone strettamente
costiere, a clima mediterraneo con forte siccità estiva
4 Boscaglia bassa e rada di zone rocciose presso il mare, caratterizzata in particolare dalla
presenza di specie particolarmente termo-xerofile come olivo selvatico e soprattutto eu-
forbia arborescente, a clima mediterraneo con forte siccità estiva
5 Boscaglia di ginepri eretti o più o meno prostrati, a foglie aciculari (ginepro coccolone) e
anche squamiformi (ginepro fenicio), di ambiente strettamente dunale, con alcuni elementi
della macchia sempreverde più specie erbacee alofile e psammofile
2.6. GINEPRETO RUPESTRE A JUNIPERUS PHOENICEA
68*+(5(7(
3 Bosco d’alto fusto di sughera allo stato puro con sottobosco di macchia mediterranea bassa
e media, quasi priva di leccio
3.3. SUGHERETA SPECIALIZZATA
3,1(7(',3,12'·$/(332
1 Pineta di pino d’Aleppo per lo più mista a leccio e ad altre sempreverdi della macchia
mediterranea, ma anche in un sottotipo rupestre su rocce litoranee, limitata esclusivamente
a zone costiere poco a sud di Livorno
4.1. PINETA COSTIERA DI PINO D’ALEPPO
2 Pineta di pino d’Aleppo di origine artificiale certa, anche di zone più interne, spesso mista
con cipresso comune e cipresso dell’Arizona
3,1(7(',3,12'20(67,&2
1 Pineta di pino domestico su macchia mesomediterranea (ivi compreso il leccio) più o meno
rada, su dune litoranee e in clima mediterraneo a sensibile aridità estiva
2 Pineta di pino domestico su macchia termomediterranea (con raro leccio), più o meno rada,
su dune litoranee e in clima mediterraneo a forte aridità estiva
3 Pineta di pino domestico, su ceduo chiuso di leccio prevalente rispetto alle altre sempreverdi
della macchia mediterranea, su dune antiche e suoli alluvionali a falda profonda
4 Pineta di pino domestico con presenza di varie specie di caducifoglie arboree prevalentemente
mesofile e mesoigrofile (farnia, pioppi bianco e nero, frassino meridionale, cerro, ecc.), oltre
a leccio e anche sughera, adiacente ai BOSCHI PLANIZIALI DI LATIFOGLIE MISTE (v.),
di alluvioni o depressioni interdunali prossime al mare, influenzate dalla falda freatica
5 Pineta di pino domestico di zone interne, eventualmente con pino marittimo e/o cipresso
comune e a piano inferiore costituito da querce (cerro, roverella, talvolta leccio) e altre
latifoglie, con radure e mantello dove sono frequenti le due eriche maggiori, alcune specie
di cisti e altri arbusti acidofili
5.5. PINETA COLLINARE DI PINO DOMESTICO A ERICHE E CISTI
6 Pineta di pino domestico di zone interne, eventualmente con pino marittimo, pino d’Aleppo
e/o cipresso comune, a piano inferiore caratterizzato soprattutto dalla presenza di roverella
con altre caducifoglie e da arbusti del Pruneto (v. punto 20.2.)
5.6. PINETA COLLINARE DI PINO DOMESTICO E ROVERELLA CON
ARBUSTI DEL PRUNETO
3,1(7(',3,120$5,77,02
2 Pineta di pino marittimo di zone interne, più spesso sopra ceduo di cerro e specialmente
castagno, caratterizzata dalle due eriche maggiori e altre specie acidofile, con scarsità di
entità strettamente mediterranee
5 Pineta rada di pino marittimo di modesto sviluppo, spesso mista a cipresso comune,
raramente a leccio e/o roverella, di zone collinari con affioramenti di pietre verdi dei vari
tipi (ofioliti, serpentine, gabbri, ecc.) a suolo superficiale e sassoso
&,35(66(7(
1 Bosco d’impianto artificiale di cipresso comune con sottobosco rado di roverella, ginestra
odorosa ed, eventualmente, arbusti del Pruneto (v. categoria 20. ARBUSTETI DI POST-
COLTURA)
7.1. CIPRESSETA A ROVERELLA E SPARTIUM JUNCEUM
2 Bosco di cipresso comune di impianto artificiale su tappeto erbaceo di zone aride o asciutte
%26&+,3/$1,=,$/,',/$7,)2*/,(0,67(
1 Bosco di ontano nero e frassino meridionale su suoli paludosi o con falda freatica molto
superficiale, di terreni alluvionali pianeggianti o di conche interdunali e quindi prossimo
alla costa
2 Bosco misto di caducifoglie, composto da specie diverse a seconda delle condizioni locali
(soprattutto importante è la profondità della falda, comunque sempre utilizzabile), di terreni
alluvionali o di conche interdunali e quindi prossimo alla costa
3 Bosco relittuale di farnia spesso con carpino bianco, isolato e sempre a gruppi di minima
estensione, dei fondovalle in zone interne a bassa quota nel settore nordoccidentale della
regione, con sottobosco in forte prevalenza mesofilo
%26&+,$/9($/,(5,3$5,
1 Bosco o boscaglia di greto e delle rive dei corsi d’acqua, costituito da salici arborei o
cespugliosi, pioppo bianco e nero, meno spesso con ontano nero o frassino meridionale
2 Bosco ad ontano prevalente di zone umide poste anche all’interno lungo i corsi d’acqua,
con varie specie di salici, eventualmente pioppi e locali infiltrazioni di robinia
48(5&(7,',529(5(//$
2 Bosco di roverella e cerro (la prima specie è almeno dominante fra le matricine) con altre
latifoglie, privo o quasi di specie sempreverdi, di aree collinari anche più interne e più
fredde del Tipo precedente, su rocce prevalentemente calcaree ma con suoli leggermente
acidificati
3 Bosco di roverella prevalente rispetto ad altre caducifoglie (fra le più frequenti il carpino
nero), di zone collinari interne e submontane dell’Appennino, soprattutto sul versante
adriatico, anche a quote un po’ superiori dei tipi precedenti, su rocce scistose delle forma-
zione Marnoso-arenacea a suoli neutro-basici
4 Bosco di roverella con cerro subordinato o anche castagno, di zone collinari interne, in
prevalenza a quote basse o medie, su rocce silicatiche e suoli acidi (anche paleosuoli)
5 Bosco di roverella con cerro e leccio, a strato arbustivo comprendente anche sclerofille della
macchia, di zone collinari calde su rocce calcaree o silicatiche e suoli da subacidi a neutri. Fa
passaggio all’ORNO-LECCETA CON ROVERELLA DELLE ZONE INTERNE.
&(55(7(
1 Bosco di cerro prevalente di elevata fertilità, caratterizzato dalla presenza di acero opalo
(inteso in senso lato), comunque spesso misto a varie altre caducifoglie e, più in quota,
anche all’abete, di zone alto-collinari e submontane, su suoli profondi neutro-subacidi
derivanti da rocce di vario tipo
2 Bosco di cerro prevalente, con sottobosco a frequenti arbusti del Pruneto (v. Categoria 20.
ARBUSTETI DI POST-COLTURA), di zone di alta collina abbastanza fresche su rocce
silicatiche e suoli subacidi
11.2. CERRETA MESOFILA COLLINARE
4 Bosco di cerro prevalente, misto o alternante in alto con il faggio, di fertilità modesta, diffuso
in aree montane (Appennino) su suoli silicatici o da rocce miste, comunque acidificati
5 Bosco di cerro prevalente (spesso è presente il castagno e anche il pino marittimo, più di
rado la rovere), con sottobosco di specie subatlantiche prevalenti rispetto alle due eriche
maggiori, di terrazzi fluviali antichi a quote basse, su paleosuoli acidi e lisciviati
6 Bosco di cerro prevalente, variamente misto con roverella, orniello, carpino nero, pino
marittimo, con sottobosco delle due eriche maggiori prevalenti, di rocce silicatiche o
raramente calcaree ma su suoli sempre acidi o acidificati
7 Bosco frammentario di cerro misto, anche se dominante, con presenza nel piano arboreo
di specie mesofile e mesoigrofile come ontano nero, frassino meridionale, pioppo bianco
e nero, carpino bianco, e talvolta anche farnia, leccio e sughera, con sclerofille assai rare
nel sottobosco, di aree a clima mediterraneo, ma su suoli alluvionali freschi
8 Bosco di cerro prevalente, misto con leccio, sughera, acero trilobo, sorbo torminale e anche
frassino meridionale, talvolta rovere (o forme intermedie con la roverella), a sottobosco
misto di arbusti sclerofillici con alcuni del Pruneto, in terreni alluvionali di fondovalle a
clima mediterraneo in Maremma
%26&+,0,67,&21&(552529(5((2&$53,12%,$1&2
12.1. CARPINO-QUERCETO MESOFILO DI CERRO CON ROVERE
2 Bosco di rovere (o di forme intermedie con la farnia) misto con cerro, castagno, sorbo
ciavardello, raramente faggio o agrifoglio, con arbusti e sottobosco erbaceo prevalente-
mente acidofili dove sono rappresentate le due eriche maggiori, la ginestra dei carbonai,
il brugo, ecc. e altre specie subatlantiche
3 Bosco prevalentemente ceduo di carpino bianco, cerro e anche rovere, acero opalo s.l., carpino
nero, ciliegio selvatico, con arbusti del Pruneto e sottobosco di specie mesofile ed esigenti
2675,(7,
1 Bosco rado di carpino nero del tutto prevalente rispetto a orniello, cerro, acero campestre
e faggio in alto, di aspetto quasi cespuglioso, intercalato a detriti di falda e alle discariche
delle cave di marmo delle Apuane, di suoli molto superficiali, basici e calcarei
2 Bosco di carpino nero o misto con cerro, roverella, orniello, acero campestre, acero opalo
s.l., di suoli neutro-basici e calcarei piuttosto superficiali e sottobosco graminoso ben
sviluppato a prevalente Sesleria argentea
3 Bosco di carpino nero di aspetto anche quasi cespuglioso, misto ad orniello, maggiocion-
dolo e sorbo montano, presente in aree rupestri di marne (prevalenti sulle arenarie) nel
settore centro-orientale dell’Appennino
Bosco con altre caratteristiche 4
4 Bosco ceduo di carpino nero di vario sviluppo, localizzato in aree calanchive su scisti
argillosi alternati ad arenarie, misto ad orniello e maggiociondolo, con eventuali matricine
di cerro o roverella, del settore orientale dell’Appennino
5 Bosco ceduo di carpino nero, eventualmente matricinato con roverella, cerro e anche leccio,
di suoli calcareo-marnosi, caratterizzato dalla coesistenza nel sottobosco di arbusti della
MACCHIA MESOMEDITERRANEA (v. punti 2.1. e 2.2.) e del PRUNETO (v. punto
20.2.), presente a quote basse nella Toscana centro-settentrionale
6 Bosco ceduo con prevalenza talvolta solo relativa di carpino nero con cerro, roverella,
orniello, castagno, acero campestre, acero opalo s.l., ciliegio e prevalenza di arbusti del
Pruneto, proprio di suoli arenacei acidi sulle Apuane, Appennino e Colline Metallifere
&$67$*1(7,
1 Bosco ceduo o castagneto da frutto di buona fertilità, talvolta invaso da varie latifoglie
nobili in caso di abbandono (v. punto 22.9. ACERI-FRASSINETO), di suoli freschi,
profondi, non eccessivamente acidi da arenaria, in zone con buone precipitazioni anche
estive, diffuso qua e là sull’Appennino ma con maggiore frequenza ed estensione nel settore
più occidentale
2 Bosco ceduo o castagneto da frutto spesso ancora in esercizio, per lo più di ottima fertilità,
a sottobosco di specie mesofile in genere prevalenti su quelle acidofile, dei suoli vulcanici
del M. Amiata
14.2. CASTAGNETO MESOTROFICO SU ROCCE VULCANICHE DEL MONTE
AMIATA
3 Bosco ceduo o castagneto da frutto, per lo più abbandonato, di modesta fertilità, con
sottobosco di arbusti ed erbe acidofili ad impronta subatlantico-mediterranea, diffuso su
tutto il territorio (raramente anche nella fascia mediterranea vera e propria: v: sottotipo
CASTAGNETO SUBXERICO CON ELEMENTI MEDITERRANEI), su arenarie (tal-
volta anche rocce vulcaniche al M. Amiata)
4 Castagneto da frutto, per lo più abbandonato, di modesta statura, su suoli di natura calcarea
o mista, parzialmente eluviati o argillificati, spesso invaso dal carpino nero
52%,1,(7,
1 Bosco artificiale di robinia, diffuso soprattutto nei settori più piovosi della Toscana nord-
occidentale, qui spesso in alternanza con boschi di castagno; si hanno pure sue infiltrazioni
soprattutto nei BOSCHI ALVEALI E RIPARI (v.)
%26&+,0,67,&21%(78//$
Bosco rado appenninico di castagno, faggio e anche cerro, con presenza più o meno consistente
di betulla, molto raramente in boschetti puri
$/1(7,',217$12%,$1&2(217$121$32/(7$12
1 Bosco spontaneo di ontano bianco, di zone fresche o umide isolate del settore appenninico
nordoccidentale e, raramente, delle Apuane
17.1. ALNETO AUTOCTONO DI ONTANO BIANCO
3,1(7(',5,0%26&+,0(172',3,121(52
1 Bosco artificiale di pino nero e pino laricio, spesso di buona fertilità, su suoli acidi, in
genere sostitutivo di boschi di castagno
2 Bosco di pino nero e laricio, in genere di minore fertilità rispetto al Tipo precedente, di
suoli neutro-subacidi, sovente sostitutivo di cerrete
3 Bosco di pino nero, quasi sempre di classi di fertilità inferiori rispetto al Tipo precedente,
di suoli argillosi neutro-basici da calcari marnosi e scisti calcarei, sovente sostitutivo di
querceti di roverella (anche con leccio)
,03,$17,','28*/$6,$
$5%867(7,',3267&2/785$
1 Felceto più spesso puro o quasi di felce aquilina (Pteridium aquilinum), ad amplissima
distribuzione altitudinale dal mare sino al piano montano, di suoli acidi e non troppo
asciutti, abbandonati dall’agricoltura o dal pascolo
(1) Vengono compresi in questa categoria anche i felceti di Pteridium aquilinum (PTERIDIETO).
20.1. PTERIDIETO
20.2. PRUNETO
3 Arbusteto collinare a ginestra odorosa dominante, di terreni asciutti più spesso calcarei,
abbandonati dall’agricoltura; può evolvere al tipo precedente con forme intermedie
6 Arbusteto di bassa statura dominato dal brugo (Calluna vulgaris), della zona montana e su
suoli molto acidi, già pascolati e invasi dopo l’abbandono (1)
$%(7,1(
(1) Sono escluse le cenosi con brugo, raramente pure, situate mediamente sotto i 1300 m, le quali fanno parte di
altri Tipi di vegetazione come forme di degradazione.
21.1. ABETINA ALTIMONTANA DI ORIGINE ARTIFICIALE
2 Abetina d’impianto sostituita al faggio in tutta la sua area di distribuzione (salvo le quote
superiori), più spesso di buona fertilità, con vegetazione subordinata ancora tipica
dell’ACERI-FAGGETO sopra citato oppure, più raramente, di tipo acidofilo
3 Abetina d’impianto posta a quote in gran parte non di competenza del faggio come vege-
tazione potenziale, per lo più nell’ambito dei castagneti da frutto e anche di cerrete, di
classi di fertilità basse e con vegetazione di sottobosco variabile, già con infiltrazioni
relativamente termofile
4 Bosco relitto di abete bianco di origine naturale misto a cerro o a latifoglie nobili, situato
sul M. Amiata (zone di Piancastagnaio e S. Fiora)
5 Bosco naturale di abete bianco di quota, con faggio in basso e picea spontanea in alto
(praticamente pura al limite della vegetazione arborea), limitato ad una piccola zona dell’alta
valle del Sestaione nella zona dell’Abetone
)$**(7(
1 Bosco di faggio di alta statura a maturità, delle migliori classi di fertilità, con sottobosco
erbaceo mesofilo ed esigente di erbe a foglia larga del tutto prevalenti, con facies primaverili
a più specie di Cardamine (= Dentaria sp. pl.), di zone fresche, a suoli profondi, con
humus bene incorporato
Bosco con altre caratteristiche 2
2 Bosco di faggio di buona statura a maturità, di classi di fertilità variabili (escluse quelle
dalla IV in meno), con sottobosco formato dalle erbe del tipo precedente miste ad altre di
tipo graminoide, proprie di suoli già più acidi e di tipi di humus meno alterabili
3 Bosco di faggio a maturità di statura più bassa del tipo precedente, talvolta a portamento
tozzo o anche contorto, di classi di fertilità inferiore alla media, con sottobosco tipico di
suoli acidi e di humus di tipo moder
4 Bosco di faggio prevalente, diffuso qua là nella sua fascia superiore di vegetazione, misto
con acero di monte, sorbo degli uccellatori e maggiociondolo alpino, di statura bassa e
mediocre portamento, con sottobosco per lo più formato da erbe mesofile ed esigenti
5 Boscaglia arbustiva di faggio delle quote più elevate, degradate dall’azione antropica e in
zone climatiche sfavorevoli per l’azione del vento, presente sull’Appennino e sulle Apuane
6 Bosco di faggio di relativa fertilità su prevalenti rocce carbonatiche delle Apuane a sotto-
bosco graminoso dov’è particolarmente abbondante Sesleria argentea
22.7. FAGGETA AMIATINA INFERIORE
9 Bosco di faggio, castagno (da frutto) o abete, proprio di stazioni fresche (gole o esposizioni
settentrionali), proprio della fascia inferiore di vegetazione delle faggete, ospitante nume-
rose specie di altre latifoglie per lo più mesofile, diverse a seconda delle condizioni locali,
con cenosi che si configurano come forme di infiltrazione, probabilmente transitorie, di
boschi originari alterati o sostituiti, riunite qui per le implicazioni selvicolturali che ne
richiedono una trattazione unitaria, ma da considerare piuttosto dei sottotipi o varianti di
boschi antropizzati oggi in evoluzione
22.9. ACERI-FRASSINETO
, 7,3, )25(67$/,
foto
/(&&(7(
in inverno, ma distribuito in modo più disperso e accompagnato oramai da poche
altre specie sempreverdi.
Su alcune rupi montane, infine, il leccio fa le sue estreme apparizioni e approfitta
del calore offerto dalla roccia disponendosi a cespugli sparsi, ma talvolta anche
con qualche addensamento.
Ne consegue che i boschi a dominanza di leccio si lasciano suddividere abba-
stanza bene in tipi correlati alla posizione geografica. Questo è dovuto non solo al
variare del clima, ma anche ad una coincidenza geologica per cui le rocce silicatiche
prevalgono nelle colline marittime del sud-ovest mentre quelle carbonatiche, più
favorevoli alle penetrazioni interne del leccio, appaiono più di frequente nei rilievi
settentrionali e interni della Regione.
Le circostanze che regolano l’intercalazione e la mescolanza fra specie sempre-
verdi e decidue sono, orientativamente, le seguenti:
L’altro aspetto della tipologia dei popolamenti mediterranei sta nel distinguere
i diversi stadi di degradazione antropica che vanno dal prototipo ottimale della lecceta
di alto fusto fino agli estremi delle macchie basse, delle garighe o, addirittura, delle
pseudosteppe più aride.
In Toscana il classico paesaggio mediterraneo condizionato da estensioni di
macchie basse è limitato alle coste a scoglio, ai promontori e alle isole dell’Arcipelago.
Nelle colline della Maremma, invece, prevalgono macchie alte e boschi mediterranei.
Il migliore grado di conservazione in cui si trova la vegetazione mediterranea
della Maremma Toscana può essere attribuito ai seguenti fattori:
boschi rimasti sono avvenute fra il ‘700 e gli ultimi anni dell’‘800 (GABBRIELLI,
1980, 1985; TARUFFI, 1905).
2 La geomorfologia collinare su rocce silicatiche facilmente alterabili ha certa-
mente impedito le peggiori forme di degradazione irreversibile.
3 L’ordinamento privatistico del territorio (conseguente alla soppressione delle
proprietà collettive avvenuta nella seconda metà del ‘700) si è articolato in
aziende dove l’organizzazione e la sorveglianza interna hanno evitato che al
taglio dei boschi seguisse quel disordinato incremento del pascolo che si è
verificato in altre parti del Mediterraneo (SEIGUE, 1985). Il pascolo è sempre
stato esercitato, ma direttamente da parte del proprietario e, quindi, nel rispetto
del capitale fondiario e delle sue altre forme di reddito.
4 Le aziende forestali di proprietà granducale seguirono a lungo criteri di gestione
privatistica perchè si trattava di aziende che (come quella di Berignone, di
Bibbona ed altre) erano orientate a rifornire di carbone di legna le Imperiali e
Reali Saline di Volterra e la I.R. Magona di Follonica per la fusione del ferro.
Con l’Unificazione, queste foreste granducali divennero i primi nuclei delle
Foreste Demaniali in Maremma che, dopo il 1950, furono ampliate e poi gestite
con criteri più conservativi.
Man mano che procedeva la colonizzazione della Maremma, il criterio generale
di gestione dei boschi sfociava nel governo a ceduo. I turni erano piuttosto brevi e
variavano da 12 a 18 anni. Nei boschi privati, le necessità del pascolo potevano
condurre anche ad una matricinatura relativamente intensa. Nelle foreste demaniali
ci fu un primo tentativo di universale avviamento all’alto fusto, poi un ritorno al
ceduo a turno breve (MERENDI A., 1920).
Le ceduazioni a turno breve su boschi in cui originariamente dominava il leccio,
hanno condotto al formarsi della tipica fisionomia del “ forteto di Maremma” . E’
questo un tipo colturale di popolamento con una fisionomia di mezzo fra quella della
macchia mediterranea e quella della lecceta. Il “ forteto” si forma quando il leccio,
a causa dei tagli ripetuti, perde il suo potere di dominanza e allora si apre l’ingresso
di varie specie esigenti di luce che si infittiscono in un intrico impenetrabile con
anche più di 20.000 ceppaie e più di 100.000 polloni per ettaro.
Visto nella fisionomia di popolamento molto misto, denso e di statura minore,
il forteto viene considerato come una parte della macchia mediterranea. In senso
evolutivo, però, il forteto può essere considerato anche come una fase giovanile della
lecceta. Infatti, con l’aumentare dell’età, aumenta sensibilmente l’aliquota di parte-
cipazione del leccio alla biomassa (PATRONE, 1951). In età più inoltrate, se la fertilità
è sufficiente, il leccio riprende la dominanza finché il forteto si trasforma direttamente
in una lecceta di alto fusto (PIGNATTI & PIGNATTI WIKUS, 1968, BERNETTI, 1987;
HERMANIN & POLLINI, 1990).
Rimangono da stabilire solo i limiti minimi della fertilità (e quindi di potenzialità
di accrescimento) e della densità delle ceppaie di leccio al di sotto dei quali un forteto
risulta incapace di evolversi a lecceta per mantenere invece più a lungo il carattere
di macchia.
Aspetti selvicolturali
Gli orientamenti attuali della selvicoltura dei boschi a dominanza di leccio stanno
nell’avviamento all’alto fusto dei cedui, nella prosecuzione del governo a ceduo ma
con turno più lungo, nelle combinazioni con l’attività zootecnica e nelle sperimen-
tazioni di allevamento di ungulati.
Molto dipende dalla fertilità e, per ogni opportuno orientamento a questo riguar-
do, si riporta la tabella di fertilità stabilita da HERMANIN & POLLINI (1990) sulla
base di rilievi nelle colline di Follonica. E’ possibile che altrove esistano cedui di
fertilità superiore alla I classe contemplata in questa tabella.
L’avviamento all’alto fusto dei cedui soddisfa soltanto a scopi genericamente
conservativi perchè dalle fustaie di leccio non si può ottenere legname da lavoro;
migliori sono le prospettive per il pascolo, ma questo è limitato soltanto al periodo
della ghianda.
L’avviamento all’alto fusto può essere ottenuto per semplice invecchiamento o
con tagli di diradamento. Mancando ogni necessità di selezione dei fusti, i tagli di
diradamento si giustificano principalmente come misura antincendio oppure per una
occasionale raccolta di legna. La lecceta di alto fusto è un bosco di statura compresa
fra 15 e 25 metri e composto da piante più o meno tozze e contorte. L’ombra al suolo
permette la presenza di uno scarso sottobosco.
Le altre specie sempreverdi possono sopravvivere solo ai margini e nelle radure
a suolo più superficiale.
&ODVVL GL IHUWLOLWj GL DOFXQL FHGXL GHOOD PDFFKLD PHGLWHUUDQHD LQ 7RVFDQD
+(50$1,1 32//,1, $OWH]]D GRPLQDQWH LQ IXQ]LRQH GHOO·HWj
(Wj DQQL , FODVVH +' P ,, FODVVH +' P ,,, FODVVH +' P
(1) E’ probabile che i cedui della III classe di fertilità siano da considerarsi propriamente come “ macchie” e non
più come “ leccete” .
Nel confronto con la macchia e con il ceduo (quest’ultimo visto nella sua fase
più composita di “ forteto” ) la lecceta di alto fusto ha lo svantaggio di presentare un
basso grado di biodiversità e di assicurare alla vita animale molto meno catene
alimentari; basti pensare che le sempreverdi mediterranee diverse dal leccio e dalla
quercia da sughero sono tutte specie a frutti carnosi (quindi appetiti da piccoli uccelli)
e con fruttificazione piuttosto duratura e variata nelle stagioni a seconda delle specie
Secondo MARGARIS (1981) all’evoluzione della macchia in foresta mediterranea
corrisponde non solo una riduzione della biodiversità, ma anche di tutte le altre
produzioni dell’ecosistema almeno fino al lontano momento in cui la lecceta di alto
fusto non entri nella fase di riproduzione e poi di decadenza.
Per queste ragioni può essere sconsigliabile praticare l’avviamento a fustaia dei
forteti contemporaneamente e su vaste superfici. Nel Parco Naturale della Maremma
la vita animale viene infatti sostenuta con sistematiche tagliate del ceduo su piccole
superfici.
Per i cedui mediterranei il periodo di interruzione dei tagli conseguente alla crisi
della legna ardere è stato molto più lungo che per quelli di caducifoglie e la ripresa
dei tagli su superfici significative si è verificata solo più di recente.
L’accrescimento dei cedui a base di leccio è piuttosto lento, come si può verificare
sulla tabella per l’accertamento delle classi di fertilità. Pertanto i tagli che oggi si
vanno eseguendo interessano popolamenti di 35-45 anni di età e di stazioni fertili.
E’ dunque verosimile che il nuovo turno da tenere come riferimento sia dell’ordine
di almeno 30 anni e che un vasto insieme di boschi più scadenti resterà trascurato
dal taglio.
Secondo BERNETTI (1994) la sicura convenienza al taglio è possibile solo per
popolamenti che abbiano raggiunto l’ordine di grandezza di 7 metri. Questo criterio
esclude dalla convenienza al taglio i cedui della III classe di fertilità di HERMANIN
& POLLINI (cit.).
Dato il lento sviluppo, la pratica di rilasciare un consistente numero di polloni
per un turno in più appare opportuna. D’altra parte, proprio per il lento accrescimento,
i cedui di leccio della Montagnola Senese sono sempre stati trattati secondo i criteri
del taglio a sterzo. Oggi tale sistema selvicolturale può essere utilmente esteso altrove
con opportune varianti.
Il numero di matricine di alto fusto che si riservano è spesso relativamente alto
a beneficio del pascolo o della selvaggina. Quando sono presenti, si preferiscono le
piante di sughera che, poi, vengono sottoposte a decortica.
Nei cedui a base di leccio la matricinatura crea problemi soltanto per la conser-
vazione delle ceppaie delle specie eliofile mentre il leccio, grazie alla sua tolleranza
per l’ombra, può sopravvivere allo stato di pollone o insediarsi come semenzale
sempre che l’eccesso di numero e di sviluppo delle matricine non provochino una
copertura proibitiva.
Per lo stesso motivo, l’allungamento del turno dei cedui mediterranei porterà ad
una riduzione della grande diversità di specie e ad un aumento della partecipazione
del leccio alla biomassa.
L’insediamento della rinnovazione naturale del leccio ha maggiori possibilità
nelle stazioni più fertili e subito dopo un taglio eseguito con sufficienti rilasci.
Il motivo per cui i boschi della Maremma Toscana sono sempre stati considerati
molto preziosi per il pascolo non sta tanto nella sola presenza dei boschi delle
sempreverdi quanto nella giustapposizione complementare tra il bosco “ vernino” e
quello “ estatino” .
Il modo corrente di praticare il pascolo consisteva nel limitare il carico degli
animali (non fosse altro che facendo trascorrere loro l’inverno in stalla) e nel far
pascolare, poi, tutta l’area in cui i cedui appena tagliati costituivano la frazione più
utile che valeva la pena di sfruttare a rischio di incorrere in sanzioni per avere
contravvenuto alle Prescrizioni di massima e di polizia forestale. Oggi il patrimonio
zootecnico della Maremma è molto ridotto e le poche aziende zootecniche ancora
in esercizio adottano soluzioni piuttosto diverse fra loro.
1.1. LECCETA TIPICA A VIBURNUM TINUS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
lamenti con fisionomia di Erico arboreae- fra Donoratico e tutto il Parco di Rimigliano
Arbutetum unedi Allier e Lacoste 1980. a S. Vincenzo.
gioranza della superficie dei boschi di questo ti di maggiore fertilità, nelle aziende private
Tipo) sono stati via via ridotti a cedui fra il anche su superfici notevoli.
‘700 e la fine dell’‘800.
Nelle Foreste Demaniali di Bibbona, Massa Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Marittima, ecc. per motivi economici, sono denze dinamiche
stati adottati (fra il 1920 e il 1955) anche turni Si tratta di un tipo di bosco in cui l’intervento
molto brevi (11 anni) senza significativo ri- antropico ha influito sulla biomassa arborea
lascio di matricine (MERENDI A., 1920). Ci senza però che siano intervenuti significativi
fu anche qualche tentativo di coniferamento fenomeni di degradazione del suolo (salvo
o di trasformazione in bosco di conifere. che in alcuni sottotipi).
Nell’ambito delle grandi aziende private si Pertanto il soprassuolo, per semplice invec-
usavano turni di poco maggiori (fino a 12-18 chiamento e sviluppo, può evolvere alla ce-
anni) e matricinature più intense legate anche nosi finale costituita dalla fustaia di leccio
al pascolo della ghianda. dominante e con le altre serie evolutive in
All’incirca fra il 1955 e il 1985 i cedui me- posizione subordinata o marginale ma pronte
diterranei sono stati praticamente abbando- ad espandersi in occasione di catastrofi.
nati salvo qualche tentativo di avviamento Questa Lecceta, almeno in alcuni suoi pri-
all’alto fusto. mordi evolutivi, può presentarsi anche come
Presso l’Azienda di Stato per le Foreste De- piano inferiore di Pinete di pino domestico
maniali di Follonica è istituita la Riserva Na- (v. PINETA DUNALE DI PINO DOME-
turale di Pian Cancelli che oggi include lec- STICO A LECCIO) e, sulle colline di Ca-
cete di grande sviluppo. stiglioncello, anche della PINETA COSTIE-
Dopo, i tagli sono stati ripresi sui popolamen- RA DI PINO D’ALEPPO (v.).
Selvicoltura tensa (fino a 150 piante di varia età per ettaro)
La conversione in fustaia corrisponde a criteri non dovrebbe comportare eccessive perdite
naturalistici o paesaggistici. Il taglio di av- sulla produttività delle ceppaie di leccio e
viamento all’alto fusto non ha particolari uti- sulla rinnovazione da seme. L’insediamento
lità salvo che come misura antincendio. La del novellame, bene inteso, è più probabile
conversione in fustaia condotta contempora- in cedui di fertilità buona o ottima.
neamente su una vasta superficie di popola- La matricinatura con sughera (che taluni ope-
menti contigui, può comportare una eccessiva rano lasciando anche 2-3 polloni della stessa
supremazia del leccio con conseguente ab- ceppaia) produce meno ombra al soprassuolo
bassamento del livello della biodiversità e, di quanta ne faccia il leccio. Si tratta, inoltre,
quindi, degli alimenti offerti dal bosco alla di un buon modo di allevare la quercia da
fauna selvatica. sughero; infatti, le piante decorticate negli
Per il governo a ceduo, il turno di riferimento anni intercalari al turno (cioè quando il ceduo
presumibile è di 35 anni. Dato che il leccio è ancora in piedi), non rimangono col fusto
è tollerante per l’ombra, la matricinatura in- esposto al sole.
1.2. LECCETA DI TRANSIZIONE
A BOSCHI DI CADUCIFOGLIE(1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
occupate da prevalenti caducifoglie che, a se- Localizzazione
conda del rilievo, possono tornare a prevalere Montagnola Senese, Lucchesia, Colline della
alle quote maggiori. Intercorrono, poi, altre Maremma, forse di più nelle province di Li-
differenze connesse col suolo superficiale o vorno e di Pisa che in quella di Grosseto.
con altri elementi del microrilievo. Foreste demaniali di Valle Benedetta, Beri-
Queste variazioni continue creano difficoltà gnone, Decimo e Buriano, Bibbona, Caselli,
nello stabilire delle unità fitosociologiche ben Lustignano, Sassetta, Montioni, ecc.
definite e delimitabili a causa della irregolare
variabilità delle condizioni floristiche ed eco- Esposizioni
logiche. Varie; alle quote superiori per lo più verso sud.
Comunque le associazioni e subassociazioni
di riferimento di volta in volta sono: Fraxino Distribuzione altitudinale
orni-Quercetum ilicis Horvatic (1956) 1958, Diversa secondo la lontananza dal mare e resa
Viburno tini-Quercetum ilicis (Br. Bl., incerta da vari elementi. E’ chiaro che, oltre
1936) Riv. Martinez 1975 nelle subassocia- 500 m, tendono a prevalere i boschi di cadu-
zioni pubescentetosum Br. Bl. 1952 e quer- cifoglie che, poi, si affermano in tutti i fon-
cetosum robori, “ a contatto con associazio- dovalle.
ni igrofile planiziarie” (ARRIGONI, 1996
ined.), Asplenio-Quercetum ilicis Br. Bl., Substrati
1936, Riv. Martinez 1975, di zone relati- Per lo più silicatici, almeno nel luogo classico
vamente fresche. della Maremma; anche da argille del Pliocene
(Berignone).
Sottotipi e varianti
mesofilo (rivelata dalla relativa frequenza Suoli
del cerro oltre che del carpino nero e Da profondi e mediamente profondi, in genere
dell’acero opalo; possibili anche la rovere subacidi, a varia granulometria, spesso ricchi
e, talvolta, il carpino bianco. Corrisponde di scheletro, asciutti in estate, variamente
a buone fertilità e, spesso, all’ultima asso- provvisti di sostanza organica di tipo mull.
ciazione citata)
mesoigrofilo (di fondovalle; oltre al cer- Clima
ro può ospitare la farnia, il frassino meri- Più freddo rispetto alla Lecceta tipica. Tem-
dionale e anche i pioppi; possibili le pre- peratura media annua fra 13° e 16°; media
senze eterotopiche del faggio; all’estre- del mese più freddo 3°-5°. Minime assolute
mo, il sottotipo sfuma nella prevalenza anche di -12°. Temperature eccezionali nei
di caducifoglie) fondovalle, anche inferiori a -20° (come in
acidofilo (corbezzolo temporaneamente Val di Cecina nel gennaio del 1985), danneg-
dominante nella fasi giovanili del forteto; giano gravemente la vegetazione delle sempre-
erica arborea dominante nelle aree degra- verdi e possono influenzare la proporzione re-
date; fra le caducifoglie possono essere lativa di leccio rispetto alle caducifoglie. Pre-
presenti anche il castagno e la rovere). cipitazioni medie annue da 800 a 1100 mm,
acidofilo con sughera (simile floristica- estive intorno a 120 (150) millimetri.
mente alla precedente e rara). Fa passaggio
al Tipo 3.2. SUGHERETA MISTA SO- Interventi antropici più frequenti
PRA CEDUO DI SEMPREVERDI E CA- Come per la Lecceta tipica. Data la distribu-
DUCIFOGLIE. zione, più interna e più remota dalle strade,
è possibile che una parte dei cedui derivi da delle specie eliofile, rappresentato da un lato
tagli della fustaia originaria avvenuti in anni dalle caducifoglie (originariamente accantona-
relativamente recenti, cioè attorno al 1900 te nelle depressioni umide o nelle posizioni più
(TARUFFI, 1905). elevate e fresche) e, dall’altro, costituito dagli
Nel rilascio di matricine sono stati preferiti alberelli sempreverdi e dalle specie pioniere
spesso la roverella e il cerro. mediterranee originariamente insediati nelle
aree a terreno scadente della Lecceta stessa.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- L’avviamento all’alto fusto o l’abbandono
denze dinamiche allo sviluppo naturale comporta una fase di
Gli effetti dell’azione antropica sui rapporti giovane bosco di alto fusto con il leccio come
fra sempreverdi e caducifoglie sono stati di- specie dominante e privo o quasi di sottobo-
scussi da tempo. L’attuale elevato grado di sco. Le altre specie torneranno alle loro nic-
biodiversità del “ forteto” della Lecceta di chie ecologiche originarie e il grado di bio-
transizione è spiegabile anche col fatto che il diversità potrà essere in parte recuperato solo
governo a ceduo a turno di 12-15 anni può quando la lecceta entrerà nella fase di rinno-
avere favorito l’ingresso di tutto l’insieme vazione e di decadenza.
(1)
Specie indicatrici
Quercus ilex Rhamnus alaternus
Q. pubescens Lonicera implexa
Fraxinus ornus Crataegus monogyna
Q. cerris (loc.) Ilex aquifolium (loc.)
Q. petraea (r) Cornus sanguinea (loc.)
Quercus suber (r) Asplenium onopteris
Q. robur (r) Tamus communis
Acer monspessulanum (loc.) Viola reichembachiana
A. campestre Oenanthe pimpinelloides
A. gr. opalus (loc.) Cyclamen repandum
Ostrya carpinifolia C. neapolitanum
Sorbus domestica Filipendula hexapetala
S. aria (loc.) Oryzopsis virescens
Populus alba (loc.) Ruscus aculeatus
P. tremula (loc.) Viola alba dehnhardtii
Fraxinus oxycarpa (loc.) Clematis vitalba
Phillyrea latifolia Trifolium ochroleucon
Paliurus spina-christi Hedera helix
Erica scoparia Brachypodium sylvaticum
E. arborea Asparagus acutifolius
Lonicera etrusca Rubia peregrina
Rosa sempervirens Carex flacca
Arbutus unedo Poa nemoralis (loc.)
Pyracantha coccinea Teucrium scorodonia (loc.)
Selvicoltura L’avviamento all’alto fusto o l’abbandono
Come per la Lecceta tipica. Questo bosco di allo sviluppo naturale contemporaneamente
transizione, però, è molto più adatto al pa- su grandi superfici possono portare ad una
scolo. Il cerro è apprezzato per la maggiore riduzione della biodiversità sensibile anche
produttività come ceduo. nella fauna selvatica.
1.3. ORNO-LECCETA CON ROVERELLA
DELLE ZONE INTERNE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Clima rivano dall’avviamento all’alto fusto di un
Temperature medie annue: 10°-15°, medie ceduo.
del mese più freddo: 1°-3°, minimi assoluti:
fino a -15° (-20°) nei fondovalle. Precipita- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
zioni medie annue: 900-1.500 mm; piogge denze dinamiche
medie estive: intorno a 120 millimetri. La questione se l’intervento antropico abbia
favorito la diffusione delle caducifoglie ov-
Interventi antropici più frequenti vero quella delle sempreverdi è materia con-
Sono popolamenti cedui alternanti a roverella troversa (DE PHILIPPIS, 1955). E’ chiaro che
che ne hanno sempre condiviso il taglio le temperature invernali (in queste aree piut-
al turno di 12 anni, poi di 14, oggi più tosto basse) e le piogge estive sufficientemen-
lungo. te alte possono favorire la caducifoglie. Però
Dove si esercitava il pascolo, il leccio era il leccio, in quanto specie sciafila, è in grado
lasciato volentieri come matricina. I popo- di insediarsi nei cedui di roverella tenuti a
lamenti che sono parchi di ville sovente de- turno più lungo.
(1)
Specie indicatrici
1.4. LECCETA RUPICOLA RELITTA
SUBMONTANA E MONTANA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Specie indicatrici Selvicoltura
Non vengono elencate trattandosi di popola- Nessun intervento: evoluzione naturale. Bi-
menti distinti soprattutto su base fisionomica sognerebbe possibilmente tenere un atteggia-
e sottoposti a condizioni molto variabili per mento conservativo anche per i popolamenti
quota e substrato. più estesi, un tempo tenuti a ceduo.
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Il FENAROLI (1985) propone la seguente classificazione della vegetazione con
fisionomia di macchia mediterranea.
I popolamenti ancora ricchi di leccio e di fertilità tale da far prevedere prospettive
di sviluppo oltre 7 m di altezza, vengono classificate come Leccete (v.) anziché come
“ macchie” .
Le macchie in cui prevalgono ancora il leccio e gli alberelli sclerofillici con
potenzialità di 3-6 metri di altezza a maturità sono da considerarsi come “ macchie
alte” . Anche queste cenosi vengono descritte nelle Leccete.
Le macchie fra 1,5 e 3 m sono considerate “ macchie medie” e, spesso, vi
prevalgono le eriche o le “ ginestre” .
Sotto la potenzialità di un massimo di 1,5 m d’altezza si hanno “ macchie basse”
dove sovente dominano i cespugli pionieri.
Infine, le macchie che, oltre ad essere basse e ricche di suffrutici, sono interrotte
da frequenti pietraie o da chiazze di graminacee e suffrutici, costituiscono le “ garighe” .
Se si considera il clima, le macchie più diffuse in Toscana sono quelle “ me-
somediterranee” . Invece sono “ termomediterranee” certe macchie costiere, pre-
senti in Toscana nella Provincia di Grosseto e nelle Isole, dove il clima più caldo
evidenziato dall’oleastro, dall’erica multiflora (più frequente nelle pinete), dalla
palma nana, dal carrubo (talvolta), dall’euforbia arborea e dai ginepri fenicio e
coccolone.
Aspetti selvicolturali
Il modo più drastico di migliorare (soprattutto in senso economico) i terreni
coperti da macchie e da garighe consiste nel rimboschimento da eseguirsi essenzial-
mente con pini o con specie come gli eucalipti che, in Toscana sono coltivabili solo
nelle pianure costiere.
Il rimboschimento nelle aree mediterranee comporta la rimozione della vegeta-
zione arbustiva (che farebbe troppa concorrenza alle piantine introdotte) e il miglio-
ramento della capacità idrica del terreno tramite la lavorazione profonda e, nei terreni
che non siano argillosi, mediante l’apertura di ripiani lungo le curve di livello. Sistemi
di impatto paesaggistico più moderato (come la piantagione inserita fra la vegetazione
spontanea indisturbata) sono possibili in casi molto rari come terreni sabbiosi molto
filtranti e dove la vegetazione spontanea sia dominata dai ginepri.
Nella maggioranza dei casi il modo di ridurre gli effetti negativi del rimboschi-
mento va ricercato nella disposizione dei lavori sul terreno e nella scelta delle specie.
Il sistema oggi più seguito è quello di lasciare fasce di vegetazione e di terreno
indisturbato alternate alle fasce lavorate e rimboschite. In molti casi si può anche
proporre il rimboschimento parziale condotto soltanto nelle posizioni più favorevoli
all’attecchimento delle piantine e lasciando a sé stessi i dossi di gariga più arida.
E’ certo che i pini mediterranei (e soprattutto il pino d’Aleppo) attecchiscono
bene anche su terreni molto aridi e molto poveri. Non è vero che i pini siano così
inutili nei riguardi di un’ulteriore evoluzione come è stato affermato; anzi, la pineta
(con l’azione pacciamante della lettiera e tramite la frequentazione degli uccelli, che
sono sempre attivi disseminatori), può facilitare molto il reinsediamento degli alberelli
sclerofillici. Dunque, nel contesto di un rimboschimento, alcune plaghe di pineta,
piantate dove non se n’è potuto fare a meno, hanno un loro significato.
Il rimboschimento con le querce mediterranee e con gli alberelli sclerofillici ha
indubbi vantaggi una volta ottenuto il popolamento, ma necessita di cautele al mo-
mento dell’impianto. Prima di tutto sono da evitare le zone con terreno troppo su-
perficiale o troppo arido; per gli alberelli sclerofillici, poi, è quasi obbligatorio l’im-
piego di piantine allevate in contenitore perché (escluso il corbezzolo) si tratta di
specie che tollerano poco gli strappi alle radici.
La ricostituzione artificiale del forteto imporrebbe delle elevate densità di pian-
tagione e dei conseguenti costi proibitivi. Piuttosto che mettere singole piantine rade
forse è meglio studiare la possibilità di piantare un centinaio di gruppi densi per
ettaro composti da 20 piantine collocate alla distanza di 1x1 o di 0,8x0,8 m. E’
sempre bene che ogni gruppo sia costituito da piantine tutte della stessa specie.
I ginepreti delle dune costiere hanno subito gravi riduzioni di estensione a causa
delle urbanizzazioni (che ci si augura siano oramai terminate) e a causa dell’erosione
marina che costituisce ancora un grave pericolo.
Ulteriori danni derivano dall’aerosol marino inquinato e anche dalla frequenta-
zione dei bagnanti nelle spiagge libere.
Una perfetta ricostituzione dei Ginepreti dunali a Juniperus macrocarpa e J.
phoenicea è impedita dalle difficoltà che si incontrano nell’allevamento dei ginepri
in vivaio e dalla lentezza dell’accrescimento giovanile di queste specie.
L’introduzione del lentisco, delle filliree e di altre specie che (come si vedrà)
sono componenti complementari dei Ginepreti dunali, non è mai stata tentata. In
compenso la ricostituzione totale o parziale della vegetazione verso il mare si presenta
quasi sempre come un problema da risolvere in modo urgente.
Le soluzioni più recenti per gli interventi sulle dune si basano molto sull’uso di
graminacee (Ammophila arenaria, Agropyron junceum, o anche Phragmites australis
ed Erianthus ravennae (se l’umidità e sufficiente) e di arbusti che attecchiscono per
talea come le tamerici e l’olivello di Boemia, quest’ultimo da usare con cautela in
zone d’interesse naturalistico trattandosi di specie esotica.
2.1. MACCHIA MEDIA MESOMEDITERRANEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
di transizione alle garighe, proprio di suoli Interventi antropici più frequenti
silicatici piuttosto degradati) Un parte dei popolamenti di questo tipo è sta-
Macchia a erica e cisti dominanti (propria ta, in passato, tagliata a ceduo.
di pendici e radure su cui gli incendi hanno Dove sono stati fatti rimboschimenti con pini
particolarmente influito) piantati densi, la macchia da prima è scom-
Macchia a calicotome (con leccio) parsa a causa dell’ombra bassa dei giovani
pini, poi si è reinsediata manifestandosi come
Localizzazione sottobosco o come vegetazione di radura del-
Può essere qualificante del paesaggio lungo le pinete adulte.
le coste rocciose, sui promontori, al M. Pelato Nelle macchie con erica arborea (dopo il 1880
di Castiglioncello e nell’isola d’Elba. Nelle circa, epoca dell’entrata di moda delle pipe
colline della Maremma e all’Uccellina si ma- di radica) è stata praticata anche l’estrazione
nifesta per lo più in inclusi più o meno ampi del ciocco da pipe.
nei forteti attribuiti alle leccete. L’abbondanza numerica del corbezzolo è do-
vuta anche alla moltiplicazione per polloni
Esposizioni radicali che i boscaioli stimolavano tramite
Varie, ma per lo più verso sud. la pratica della “ scosciatura della ceppaia”
esplicitamente consentita dalle Prescrizioni
Distribuzione altitudinale di Massima e di Polizia Forestale. L’incendio
Da 0 a 300 m o poco più. ripetuto, invece, comporterebbe la regressio-
ne del corbezzolo e l’affermazione della do-
Geomorfologia minanza dell’erica arborea (NAVEH, 1974).
Varia; i sottotipi di maggiore degradazione Le macchie a sclerofille corrispondono a pun-
sono localizzati su pendici ripide. ti di concentrazione della selvaggina.
Specie indicatrici
* Differenziali della macchia a Calicotome spinosa di aree più degradate dove più spesso sono assenti anche il leccio,
l’erica e il corbezzolo. Questo tipo è di passaggio alla MACCHIA BASSA MESOMEDITERRANEA.
2.2. MACCHIA BASSA MESOMEDITERRANEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Germorfologia sa) o non appetiti dagli animali (come tutti
Varia, spesso dirupata. gli arbusti aromatici) possono facilitare un
certo miglioramento perché difendono dal
Substrati pascolo le piantine di leccio, di sughera e
Vari, comprese rocce effusive. degli alberelli sclerofillici insediate nelle loro
vicinanze.
Suoli
Molto superficiali e sassosi, erosi e comun- Specie indicatrici
que poveri di sostanza organica, aridi. V. MACCHIA MEDIA MESOMEDITER-
RANEA (con l’eccezione del leccio qui pra-
Clima ticamente assente).
Temperatura media annua 15°-17°; tempera-
tura media del mese più freddo 6°-10°. Piog- Selvicoltura
ge annue medie (450) 600-800 mm, estive L’alternativa del rimboschimento è da valu-
60-100 millimetri. tarsi secondo le circostanze ricordando che,
sui terreni e nei climi in cui si manifestano
Interventi antropici più frequenti le Macchie basse mediterranee e le garighe,
Incendio sistematicamente ripetuto per il pa- il gradonamento è sempre indispensabile a
scolo. Rimboschimento con pini, poi più o meno che non si tratti di suoli argillosi dove,
meno fallito per incendi. Rimboschimento comunque, si pratica l’aratura profonda a rit-
con leccio con attecchimento non pienamente tochino (cioè perpendicolarmente alle curve
soddisfacente. di livello).
Il rimboschimento con pini (fra cui da rac-
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- comandarsi soprattutto il pino d’Aleppo) può
denze dinamiche facilitare l’evoluzione tramite l’ombra, l’ef-
Forte stadio di degradazione antropica della fetto pacciamante della lettiera e la frequenta-
lecceta nell’ambito di un clima che non ne zione di uccelli sono sempre preziosi per la
facilita la ricostituzione naturale. disseminazione delle sclerofille mediterranee.
Alcune specie (come le eriche e soprattutto i Il rimboschimento (o il cespugliamento) con
cisti) tendono ad impedire l’insediamento di sclerofille o con altre specie mediterranee è
altre specie che potrebbero avviare una suc- consigliabile per gruppi densissimi distribuiti
cessione. I cisti, infatti, sono fortissimi tra- nei tratti meno scadenti. Il decespugliamento
spiratori di acqua e, in tal modo, esercitano precedente il rimboschimento è sempre indi-
una concorrenza radicale proibitiva verso spensabile; pertanto i gruppi dovranno essere
qualsiasi altro insediamento naturale o artificiale. collocati su spezzoni di gradoni o ampie piaz-
Le eriche e Cistus monspeliensis tendono a zole lavorate. Sono raccomandabili le specie
determinare un loro equilibrio col fuoco per- che sono miglioratici del suolo, meno infiam-
ché sono molto infiammabili e, dopo l’incen- mabili e poco appetite dagli animali selvatici
dio, sono capaci di rinnovarsi in massa. e domestici come, per esempio sono: lentisco,
Gli arbusti spinosi (come Calicotome spino- mirto e rosmarino.
2.3. MACCHIA TERMOMEDITERRANEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Clima condurrebbe verosimilmente ad una macchia
Temperatura media annua: 16°-19°; tempe- media costituita da una mescolanza di olea-
ratura media del mese più freddo: 8°-10°; stro, lentisco, alaterno, ecc., con leccio su-
piogge annue (450) 600-750 mm, medie esti- bordinato.
ve: 50-70 mm. Il lentisco può arrivare anche a discrete di-
mensioni. Di norma, però, questo Tipo si ma-
Interventi antropici più frequenti nifesta in ambienti pedoclimatici a lentissima
Incendio ripetuto, pascolo. evoluzione.
Le forme di degradazione sono quelle che
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- portano alla vegetazione del Rosmarino-Eri-
denze dinamiche cion Br. Bl.
L’evoluzione teorica, compatibile col clima,
Specie indicatrici
Pistacia lentiscus Rosmarinus officinalis
Myrtus communis Arisarum vulgare
Olea europaea sylvestris (loc.) Teucrium fruticans
Ceratonia siliqua (loc.) T. FLAVUM
Chamaerops humilis (loc.) (1) Sedum sediforme
Euphorbia dendroides (loc.) Brachypodium ramosum
Cistus monspeliensis Coronilla valentina
Erica multiflora Ampelodesmos tenax (loc.)
2.4. MACCHIA RUPESTRE A OLEA EUROPAEA
SYLVESTRIS ED EUPHORBIA DENDROIDES
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Selvicoltura
denze dinamiche Protezione paesaggistica.
Cenosi stabile salvo possibilità di degrada- Nessun intervento.
zione verso gariga.
Specie indicatrici
2.5. GINEPRETO DUNALE A JUNIPERUS MA-
CROCARPA E J. PHOENICEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
reo angustifoliae-Juniperetum phoeniceae apportata dal mare e dalla poca vegetazione; ph
Arrigoni, Nardi, Raffaelli 1985, la cenosi più anche basico e possibile presenza di calcare.
evoluta (qui è raro Juniperus macrocarpa).
Clima
Sottotipi e varianti Temperatura media annua da 15° a 17°, del
Dal punto di vista pratico queste boscaglie mese più freddo 6°-10°. Piogge annue 600-
sono da distinguersi soprattutto: per la diversa 800 mm, estive 60-100 millimetri.
proporzione dei ginepri rispetto alle altre spe- E’ probabile che l’estrema vicinanza al mare
cie che compongono i cuscinetti, per le specie e alla spiaggia, combinata col riparo dai venti
di ginepro (coccolone e/o fenicio), per la pre- settentrionali, condizioni un microclima par-
senza dei pini e, soprattutto, per lo stato di ticolarmente caldo. Da non trascurare gli ef-
conservazione nei confronti dell’azione fetti del vento di libeccio, dell’aerosol ma-
dell’aerosol inquinato o dell’erosione marina rino ancorché non inquinato, dell’azione
delle coste. smerigliatrice della sabbia e delle mareggiate
La presenza di tamerici è un indizio di inter- eccezionali.
venti di ricostituzione artificiale
Interventi antropici più frequenti
Localizzazione Escludendo le azioni distruttive maggiori, più
Coste da Cecina a Marina di Bibbona, da Ma- volte accennate, la macchia su dune è sempre
rina di Donoratico a S. Vincenzo e da S. Vin- soggetta a stradellamenti per l’accesso dei ba-
cenzo a La Torraccia, fra Pian d’Alma e Punta gnanti alle spiagge. I ricuperi consistono in
Ala, da Castiglione della Pescaia a Alberese, ripari di siepe morta, ottenuta con pali di ca-
Duna Feniglia, da Ansedonia al Chiarone. stagno e fascine di erica, oppure in pianta-
gioni di erbe psammofite. Fra le specie le-
Esposizione gnose sono preferite quelle che attecchiscono
Per lo più sulle creste delle dune direttamente per talea come i tamerici e l’olivello di Boemia.
esposte al mare.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Distribuzione altitudinale denze dinamiche
Dalla battigia (livello di massima tempesta) Si tratta di una forma di macchia primaria
fino alla sommità di dune alte al massimo che, in natura, sta in equilibrio fintanto che
7-10 metri. non avvengono mutamenti nella costa per
erosione.
Geomorfologia L’attuale pericolo sta nel fatto che l’uso uma-
Costa pianeggiante con spiaggia alle cui spal- no ha irrigidito tutto il sistema e, pertanto, ad
le si sia formata una duna di altezza più o un ritiro della costa non consegue più l’arre-
meno costante localmente chiamata “ cordo- tramento di pari passo del sistema delle dune,
nata” . Restano escluse le coste rocciose e ma semplicemente la loro scomparsa, mentre
quelle lagunari. il mare va a lambire direttamente manufatti,
strade, ecc. che l’uomo difende costruendo
Substrati scogliere e altre difese artificiali.
Sabbie di varia natura: silicatiche o anche In condizioni di stabilità della costa, i pulvini
carbonatiche (p. es. Duna Feniglia). di sclerofille sono l’elemento che contribui-
Suoli sce di più alla resistenza contro l’ablazione
Poco evoluti: sabbia con sostanza organica della sabbia ad opera del vento. Il ginepro
coccolone ha una azione efficacissima di con- gianti sotto i quali i pulvini spariscono per
solidamento per il modo con cui i suoi rami troppa ombra con la conseguente apertura di
prostrati si adagiano sulla sabbia. Il ginepro corridoi tramite i quali il vento destabilizza
fenicio, forse, è meno efficace perché si svi- il sistema.
luppa a formare boschetti piuttosto ombreg-
Specie indicatrici
2.6. GINEPRETO RUPESTRE A
JUNIPERUS PHOENICEA (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Selvicoltura
denze dinamiche Nessun intervento: evoluzione naturale.
Cenosi piuttosto stabile, in equilibrio con
l’ambiente, con possibilità di degrada-
zione verso la gariga.
Specie indicatrici
2.7. BOSCAGLIA DI CONSOLIDAMENTO
DUNALE A TAMERICI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Selvicoltura
denze dinamiche Auspicabili interventi di consolidamento del-
L’evoluzione verso il Ginepreto dunale è au- la comunità vegetale (dopo il consolidamento
spicabile, ma difficilmente prevedibile. della duna). Piantagioni a gruppi di sclerofille
e di ginepro coccolone.
Specie indicatrici
Non vengono elencate trattandosi di cenosi
non spontanea .
68*+(5(7(
Importanza e caratterizzazione
In Toscana la quercia da sughero si concentra lungo le coste a sud dell’Arno e,
soprattutto, nella Provincia di Grosseto. Piante sparse sporadiche si possono incon-
trare anche nelle colline interne nel contesto di pinete di pino marittimo (1). Un tempo
la sughera, a giudicare dai tiponimi, doveva trovarsi sin nella zona di Firenze.
La superficie delle sugherete viene valutata in modo molto diverso secondo gli
Autori e i criteri seguiti per distinguere questo bosco: da 11.000 ettari (PALMA, 1986)
fino a 1.500 (ISTAT). I dati provvisori dell’Inventario Forestale Toscano riportano
un valore intermedio: 3.184 ettari (MERENDI, 1996). Nei dati definitivi, le sugherete
non compaiono. Queste incertezze si spiegano con i peculiari modi di coltura delle
sugherete in Toscana.
La sughereta pura di alto fusto (caratteristica del paesaggio sardo) in Toscana
è piuttosto rara. Prevale, invece, il bosco ceduo mediterraneo misto dove le altre
specie (leccio, ecc.) sono tagliate regolarmente per legna da ardere mentre le piante
di sughera vengono riservate e destinate alla decortica. Le sughere riservate possono
anche arrivare ad età e dimensioni tali da impartire al bosco la fisionomia di ceduo
composto, ma spesso le sughere sono di giovane età e anche costituite da ceppaie
con più polloni. La sughera viene coltivata, anche a filari o a piante sparse nei campi.
La raccolta del sughero in Toscana oscilla attorno alla media annua di 10.000
quintali con tendenza all’aumento.
Aspetti selvicolturali
Secondo la legislazione nazionale vigente le decortiche devono succedersi al
ciclo minimo di 9 anni. Le operazioni di raccolta sono ammesse da marzo alla fine
di agosto. Una pianta può essere sottoposta alla prima decortica solo se ha raggiunto
(1) Secondo BOTTACCI (1992), che ha raccolto anche dati di altri AA., queste stazioni (m 250-400 circa) si situano
in Valdarno e Chianti (Figline, M. del Chianti, Greve) e in zone circostanti alla Val di Chiana (Cortona, Monte S.
Savino). Nella zona di Figline questi relitti s’inquadrano probabilmente in una forma degradata di Roso
sempervirentis-Quercetum pubescentis Biondi 1986.
la circonferenza a petto d’uomo di 60 cm. La parte del fusto che viene decorticata
non deve essere più alta del doppio della circonferenza a petto d’uomo. Nelle
successive decortiche il rialzo non può superare tre volte la citata circonferenza;
comunque non è ammessa la decortica di rami con meno di 45 cm di circonferenza
alla base.
Sarebbe bene che queste prescrizioni fossero seguite anche per le piante camporili
e dei filari stradali perchè esse svolgono una importante funzione paesaggistica. La
longevità di una pianta sottoposta a estrazioni del sughero dipende molto dalla altezza
di decortica.
Il modo toscano con cui la raccolta del sughero si esegue su piante allevate nel
contesto di un ceduo presenta indiscutibili vantaggi. Lo sviluppo fra l’ombra dei
polloni favorisce la qualità del sughero (FALCHI, 1967). Inoltre, quando la scorzatura
è eseguita nel folto del ceduo o della macchia, le piante si trovano con la superficie
appena scorzata protetta contro il sole ed il vento. D’altra parte le matricine di sughera
esercitano solo una copertura moderata che i polloni di leccio dello strato ceduo
sopportano senza inconvenienti.
In Toscana la sughera è essenzialmente una componente delle varianti acidofile
della Lecceta tipica e più raramente della Lecceta di transizione: in ogni caso la
Categoria delle Sugherete è stata distinta per porre in evidenza l’elemento arboreo
di maggior interesse e importanza.
L’aderenza alla pratica ha perciò fatto evidenziare a parte quei popolamenti in
cui si trovano significative quantità di piante di sughera sottoposte alle decortiche.
Pertanto questa Categoria si basa più che altro su criteri colturali.
foto
3.1. SUGHERETA MISTA SOPRA CEDUO DI
LECCIO E ALTRE SEMPREVERDI (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Clima rebbe verosimilmente ad un bosco monopla-
Temperatura media annua 16°-17°. Tempe- no di leccio in cui la sughera si conservereb-
ratura media del mese più freddo: 6°-8°. Mi- be, favorita dal vantaggio dell’età e dal fatto
nime assolute: -5°. Precipitazioni annue 600- che il suo sviluppo in altezza è superiore a
700 mm, estive 80-90 millimetri. quello del leccio.
La rinnovazione naturale della sughera è pos-
Interventi antropici più frequenti sibile dopo un incendio quando le piante della
Decortiche eseguite in generale ogni 10-12 specie sopravvivono con maggiore facilità
anni. Sentieramento denso per raggiungere le rispetto alle altre grazie alla protezione del-
piante da decorticare. Ceduazioni con turno la scorza. In assenza di questa calamità la
attualmente allungato a 30-35 anni. sughera è destinata a recedere perchè il suo
novellame non è capace di insediarsi nel
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- folto della macchia o sotto la copertura del
denze dinamiche leccio.
L’interruzione dell’azione antropica porte-
Specie indicatrici
3.2. SUGHERETA MISTA SOPRA CEDUO DI
SEMPREVERDI E CADUCIFOGLIE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Z Stazioni relitte
extrazonali (puntiformi)
Suoli acidofili sono stati influenzati molto dagli in-
Acidi, piuttosto profondi e freschi. cendi.
Specie indicatrici
Quercus suber (matr. e ceduo) Erica arborea (loc.)
Q. pubescens (matr. e ceduo) E. scoparia (loc.)
Q. cerris (matr. e ceduo) Euonymus europaeus (loc.)
Q. ilex (ceduo) Paliurus spina-christi (loc.)
Fraxinus ornus (ceduo) Luzula forsteri
Castanea sativa (ceduo) Brachypodium sylvaticum
Pinus pinaster (loc.) Hedera helix
Crataegus monogyna Ruscus aculeatus
Phillyrea angustifolia Odontites lutea
P. latifolia Asparagus acutifolius
Arbutus unedo Euphorbia amygdaloides
Ligustrum vulgare Melica uniflora (loc.)
Myrtus communis Buglossoides purpuro-coerulea (loc.)
Rosa sempervirens Calluna vulgaris (loc.)
Viburnum tinus
Smilax aspera
3.3. SUGHERETA SPECIALIZZATA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
abbattere la vegetazione arbustiva e per faci- di vigore e, pertanto, il popolamento può as-
litare il pascolo, si siano praticati abbrucia- sumere la fisionomia delle Sugherete sopra
menti controllati. ceduo.
Queste sugherete, inoltre, sono piuttosto
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- soggette agli incendi con danni notevoli
denze dinamiche soprattutto se l’ultima decortica è stata re-
In mancanza di interventi, la macchia prende cente.
Specie indicatrici
Quercus suber (a.f., domin.) Erica scoparia (non freq.)
Q. ilex (ceduo, loc.) E. arborea (non freq.)
Fraxinus ornus (loc.) Lonicera implexa
Arbutus unedo (non freq.) Lavandula stoechas
Cistus salvifolius Rubia peregrina
C. incanus SIMETHIS MATTIAZZI
Myrtus communis Brachypodium plukenetii
Cytisus villosus Pulicaria odora
Phillyrea angustifolia
3,1(7( ', 3,12 '·$/(332
Importanza e caratterizzazione
L’Inventario Forestale Toscano indica 2.464 ettari di superficie forestale quali-
ficata dalla prevalenza del pino d’Aleppo. Inoltre la specie è presente in ulteriori 850
ettari di bosco misto.
Il nucleo più vasto è quello delle colline a sud di Livorno con epicentro al Monte
Burrone. E’ stato sempre detto che anche questo nucleo sia il risultato di un rimboschi-
mento, ma allo scrivente non constano documenti in proposito. In ogni caso, gli incendi
ripetuti e la continua rinnovazione del pino dopo gli incendi hanno oramai connaturato
il pino d’Aleppo nel paesaggio di Monte Burrone, di Montenero e delle coste a scoglio
di Calafuria e di Castiglioncello. Per il resto, il pino d’Aleppo appare in popolamenti
dispersi di inequivocabile origine artificiale, sovente misto col cipresso d’Arizona e non
raramente collocato in stazioni di alta collina troppo fredde per le sue esigenze.
Aspetti selvicolturali
Il pino d’Aleppo è stato usato per ripopolare pendici collinari in condizioni
pedologiche estreme. Sovente però non si è tenuto conto del temperamento termofilo
della specie che è stata inserita anche in ambienti propri delle caducifoglie dove non
sono rari i danni per forti gelate. Il legno ha uno scarso valore anche perchè i fusti
sono quasi sempre contorti. Alcuni rimboschimenti sono stati eseguiti con Pinus
halepensis ssp. brutia e, inoltre, si sta sperimentando la spp. eldarica. Esistono anche
parcelle sperimentali di ibridi fra le due sottospecie citate.
Come e più del pino marittimo il pino d’Aleppo è una specie pirofita, dotata di
adattamenti che la rendono capace di rinnovarsi facilmente dopo gli incendi; uno di
questi è la tendenza a mantenere sulla chioma un certo numero di coni che si aprono
solo sotto l’azione del fuoco. Il pino d’Aleppo tende anche ad accompagnarsi con
esemplari più o meno isolati o a gruppi a specie di macchia che, come le eriche e il
cisto di Montpellier, hanno un comportamento simile, con l’aggiunta di una forte
capacità di incendiarsi e di trasmettere le fiamme. Ne discende che le pinete, con il
ricorrere degli incendi, finiscono per raggiungere una forma di equilibrio col fuoco
detto da alcuni "piroclimax".
4.1. PINETA COSTIERA DI PINO D’ALEPPO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Vari: silicatici (argilliti, basalti), gabbri, cal- tanee almeno nel nucleo centrale, altri di ori-
cari silicei. gine artificiale per lo meno molto sospetta.
Suoli Queste pinete colonizzano un tratto di costa
Di varia profondità e sviluppo ma prevalen- dove, in passato, verosimilmente è stato eser-
temente superficiali e sassosi, asciutti. citato anche un intenso pascolo.
Specie indicatrici
4.2. PINETA DI PINO D’ALEPPO
DI RIMBOSCHIMENTO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Substrati tiera e la ricettività del popolamento agli uc-
I peggiori: scisti argillosi, galestri, calcari celli e ai roditori che, poi, operano da attivi
marnosi, argille scagliose, argille del plioce- disseminatori.
ne, rocce ferro-magnesiache. La relativa rapidità dell’evoluzione (che sarà
consona all’ambiente di appartenenza) dipen-
Suoli de molto dalle condizioni di partenza del suo-
Superficiali, sassosi, da acidi a basici, asciutti. lo. La lettiera dei cipressi eventualmente con-
sociati può avere una azione inibitrice sullo
Clima stanziamento di altre piante.
Temperatura media annua anche di 12°-13°.
Media del mese più freddo anche di 1°-2°. Specie indicatrici
Minima assoluta fino a -10° (-12°), quindi Non vengono elencate specie indicatrici che
con possibilità di danni al pino d’Aleppo. Pre- sono quelle delle forme di degradazione dei
cipitazioni medie annue da 700 a 900 mm, boschi di leccio o di roverella.
estive medie da 80 mm a oltre 120.
Selvicoltura
Interventi antropici più frequenti Si tratta di popolamenti a lento accrescimento
Piantagione con pane di terra su terreni de- e senza significato economico. Può essere
gradati dal pascolo e da incendi ripetuti. consigliabile eliminare tutto il cipresso
dell’Arizona che produce legname privo di
Posizione nel ciclo evolutivo e tendenze di- pregio, non si inserisce bene nel paesaggio
namiche ed esercita con la sua lettiera una azione ini-
I pini hanno sempre una azione positiva tra- bitrice nei riguardi di un’ulteriore evoluzione
mite l’ombra, l’azione pacciamante della let- della vegetazione.
foto
3,1(7( ', 3,12 '20(67,&2
di controversia; per esempio, è sostenuto dal CORTI (1969) ed escluso dal QUEZEL
(1980). Sicuramente la specie era già attivamente coltivata al tempo dei Romani
(GIACOMINI, 1968); la località della Toscana per cui si hanno più antiche testimo-
nianze storiche della presenza di una pineta da pinoli è Castiglione della Pescaia
(GABBRIELLI, 1993).
L’origine e gli ampliamenti delle pinete litoranee toscane possono essere sinte-
tizzati nel modo che segue.
Fra la metà del ‘600 e la metà dell’‘800, la diffusione del pino domestico ha
seguito il ritmo delle bonifiche idrauliche delle pianure costiere. Infatti, una volta
terminati i lavori di prosciugamento, il pino domestico veniva seminato lungo le
dune litoranee affinché la pineta costituisse una fascia di protezione delle colture
agricole contro il vento e contro il movimento delle sabbie. Ne è risultato, allora,
un insieme di superfici di pineta piuttosto discontinue e disposte a fascia sottile
lungo il mare.
Successivamente, e fino ai primi del ‘900, si è verificato un aumento delle
superfici delle pinete litoranee dovuto a ulteriori impianti su dune (fra cui quello di
Duna Feniglia) e anche all’ampliamento di alcune pinete ottenuto a spese di quei
boschi planiziali di latifoglie che si potevano ancora trovare nei terreni adiacenti.
Questo ampliamento della pineta verso l’interno è stato particolarmente significativo
nella costa pisana in quanto questa è interessata da un sistema di antichi cordoni
dunali che si spingono per quasi 5 km verso l’interno determinando una alternanza
di “ tomboli” e di depressioni umide che rende impossibile l’agricoltura. Non è un
caso, dunque, che tra Migliarino e S. Rossore si concentrino 3.759 ettari di pinete
di pino domestico pari al 55% di tutte le pinete litoranee toscane.
In conseguenza dei molti impianti fatti fra la fine dell’800 e i primi del ‘900 la
raccolta e il commercio dei pinoli in Toscana fu particolarmente fiorente durante la
prima metà del ‘900 quando molte delle pinete litoranee erano nell’età di 40-80 anni
cioè nel periodo di massima produzione e di massima facilità di raccolta delle pine.
Fino al 1960, infatti, la media annua dei pinoli raccolti in Toscana era dell’ordine
dei 20.000 quintali all’anno e rappresentava un’altissima percentuale della raccolta
in Italia e anche un’alta percentuale della raccolta e dell’esportazione a livello mon-
diale. Oggi, però, il generale invecchiamento delle pinete e la concorrenza di altri
paesi mediterranei hanno dimezzato la quantità di pinoli raccolti alla media di 10.000
quintali all’anno.
L’utilizzazione del legno di pino domestico, invece, è stata sempre poco signi-
ficativa (e mai specificata separatamente dalle statistiche) a causa della cattiva qualità
del legno che si ricava dal recupero delle piante delle pinete allevate allo scopo di
produrre pinoli. Tra il 1935 e il 1940 ci furono anche tentativi di sfruttamento per
la resina.
Dopo il 1950, alle pinete del litorale della Toscana è stato attribuito principal-
mente un valore paesaggistico sia pure concepito nella contrastante alternativa fra
la "valorizzazione turistica" (tramite le lottizzazioni, le destinazioni a camping, ecc.)
e la conservazione naturalistica.
La minaccia delle urbanizzazioni per scopo balneare è stata presto superata con
perdite di superficie relativamente limitate, salvo che nelle province di Massa-Carrara
e di Lucca dove, dopo il 1936, sono stati trasformati in urbanizzazioni circa 1.000
ettari di boschi litoranei.
A partire dal 1960 circa nelle pinete litoranee sono stati segnalati danni gravi,
anche se circoscritti, derivanti da varie cause locali come: l’erosione delle coste,
l’aerosol marino inquinato e l’affiorare di falde freatiche contenenti acqua salata.
L’incidenza di questi danni è dovuta non tanto alla superficie interessata, quanto al
fatto che essi coinvolgono le pinete più vicine al mare, dunque quelle dall’effetto
paesaggistico più importante.
Ai fini della conservazione delle pinete litoranee si affacciano, infine, aspetti di
ordine selvicolturale e assestamentale; infatti queste vanno progressivamente invec-
chiando senza che si applichi una qualsiasi forma di ciclo di avvicendamento al taglio
e alla rinnovazione. Estrapolando i dati di GATTESCHI e MILANESE (cit.) l’età media
al 1996 sarebbe di 85 anni con punte di 140 anni.
Aspetti selvicolturali
Visto che le pinete di pino domestico della Toscana derivano tutte da impianti
artificiali, il modello selvicolturale a cui è sempre parso più ovvio doversi ispirare
è quello del bosco coetaneo costituito da particelle sistematicamente avvicendate al
taglio a raso e alla rinnovazione artificiale.
Le superfici in taglio avrebbero dovuto essere di almeno un ettaro in modo che
i nuovi giovani pini reimpiantati godessero di piena luce senza disturbi per l’ombra
riportata delle pinete adulte circostanti.
Il turno era prefigurato nell’età di 100-120 anni valutando che, oltre tale età, la
produzione dei pinoli cominciasse a calare significativamente a causa non solo della
perdita di vigore, ma anche degli schianti di rami per vento o, talvolta, neve, e,
soprattutto, a causa delle perdite di piante disseccate in piedi o cadute sradicate per
effetto di danni da marciume radicale.
Si supponeva, inoltre, che le giovani pinete dovessero essere predisposte per
tempo alla densità necessaria a garantire, poi, la maggiore longevità delle piante e
la massima durata della produzione dei pinoli. Ne derivava che un popolamento di
30 anni di età avrebbe dovuto avere solo 80-120 piante per ettaro, cioè molto poche,
ma provviste di tutto lo spazio necessario per svilupparsi con un fusto grosso ed una
chioma adeguatamente espansa (BIONDI e RIGHINI, 1910, LA MARCA, 1984, CAN-
TIANI e SCOTTI, 1988).
La gestione pratica delle pinete, però, si è molto discostata dallo schema.
Il diradamento con isolamento precoce delle piante non è stato applicato perchè
provocava una sia pur temporanea diminuzione della quantità di pine prodotte e
perchè la luce al suolo facilitava l’insediamento di un sottobosco arbustivo fastidioso
per le operazioni di raccolta. Piuttosto, le pinete venivano sottoposte a diradamenti
occasionali che finivano per lasciare quelle piante (spesso contorte o biforcate) che
si erano spontaneamente imposte sulla concorrenza delle altre. Fra le tante conse-
guenze di questo modo di fare, emerge anche il fatto che il legno ricavabile dal taglio
della pineta adulta risulta deprezzato. Un ulteriore deprezzamento deriva, poi, dalle
potature che, essendo sempre molto saltuarie, finivano per asportare anche rami
grossi provocando ferite difficili da rimarginare.
Il criterio di rinnovare sistematicamente le pinete secondo un turno prestabilito
(in modo da ottenere comprensori composti di particelle di età graduata) è stato
disatteso per più motivi. Il primo era che le spese di reimpianto e l’interruzione del
ricavo dei pinoli erano mal compensate dallo scarso valore del legname recuperato
col taglio e, pur di evitare questi inconvenienti, si preferiva lasciare invecchiare la
pineta accontentandosi di una raccolta di pinoli sempre più scarsa.
Poi sono intervenute le opposte esigenze connesse con l’importanza paesaggi-
stica. I proprietari hanno optato per il mantenimento della pineta adulta nella speranza
di poterla destinare a lottizzazioni, camping e altri insediamenti. Gli ambientalisti
dal canto loro hanno protestato con veemenza contro qualsiasi taglio a raso sia pure
su superfici proporzionalmente modeste.
Infine sono intervenuti i vincoli connessi con i parchi, le riserve biogenetiche e
altre forme di gestione pubblica.
Il problema che nel frattempo resta insoluto è quello dell’eccessivo invecchia-
mento delle pinete litoranee e, in effetti, visto lo stato delle più vecchie pinete di
Migliarino e di S. Rossore, rimane difficile prevedere che l’effetto paesaggistico di
una pineta di pino domestico possa durare oltre l’età di 150-200 anni. (ZANZI-SULLI,
1983; COMMISSIONE DI STUDIO PER LA TENUTA DI S. ROSSORE, 1984).
Uno dei rimedi che viene proposto è quello di applicare sistemi selvicolturali
"di tipo disetaneo" basati sulla rinnovazione naturale e sull’avvicendamento di singole
piante e non più di particelle intere. Questo sistema richiede, prima di tutto, tagli
piuttosto frequenti e assidui per modellare una struttura costituita da piante di varie
età e dimensioni, poi è necessario un processo di insediamento continuo della rin-
novazione naturale.
Le possibilità di rinnovazione naturale del pino domestico sono massime, e per
questo basta anche poco seme, dove il sottobosco delle pinete adulte è poco denso
e tale da non fare concorrenza ai giovani pini; ciò avviene nelle stazioni più aride e
meno fertili. In condizioni intermedie di fertilità, le difficoltà della rinnovazione
naturale potrebbero essere sormontate se si interrompesse la raccolta delle pine per
fare aumentare la quantità di seme che arriva al suolo. Invece, nelle stazioni a suolo
più umido e ricco, la densità e la composizione del sottobosco rendono totalmente
impossibile la rinnovazione del pino domestico.
Emerge pertanto che il trattamento delle pinete, come ogni altra decisione al
loro riguardo, dipende molto dalla tipologia e, di riflesso, dalla fertilità e dallo sviluppo
che esse possono raggiungere.
La tabella delle classi di fertilità che viene presentata è stata elaborata da BER-
NETTI in base ad alcune tavole di produzione esistenti con l’aggiunta dei dati di varie
aree di saggio. Si tratta di valori largamente indicativi, validi soprattutto per le pinete
allevate dense da giovani. Nelle pinete allevate rade e per le piante isolate, la stima
della fertilità potrebbe basarsi anche sullo sviluppo laterale della chioma, ma questo
dato è sovente alterato dalle potature.
Importanti sintomi per valutare lo stato vegetativo delle piante del pino domestico
derivano dallo stato della chioma; in un pino di buona fertilità la chioma appare ben
compatta e provvista di aghi di 2 od anche di 3 annate; gli aghi esposti alla luce sono
lunghi da 15 a 20 centimetri e sono di colore verde scuro.
Il pino domestico è ritenuto una specie rustica e resistente all’aridità. Questo è
vero nel senso della sopravvivenza, ma non della piena funzionalità della specie. Al
diminuire delle disponibilità di elementi nutritivi e di acqua, si riducono sensibilmente
non solo la produzione dei pinoli e il vigore vegetativo, ma si riduce anche l’effetto
paesaggistico, quale risulta dalla grandezza delle piante e dall’espansione laterale
della chioma. Probabilmente si riduce anche la longevità o per lo meno si hanno
sindromi di sofferenza crescenti con l’età.
Si può macroscopicamente verificare che i pini più belli sono sovente quelli
che si trovano ai margini dei seminativi irrigui oppure nei giardini: cioè dove fruiscono
di apporti di concimi e di acqua estiva (MURRANCA, 1992)
Lo stato delle pinete litoranee dipende dal clima generale e dal suolo che può
derivare da depositi alluvionali o da sabbie di duna. Nel primo caso i pini fruiscono
anche dell’acqua di falda mentre sulle dune essi dipendono solo delle precipitazioni.
Il clima generale, nei circa 300 km di costa toscana con 1°30’ di riduzione di
latitudine, varia con circa 1° di aumento delle temperature (dalla media annua di
15,1° a Viareggio a quella di 16° a Orbetello) e, soprattutto, cambia in relazione alla
quantità delle piogge come risulta dalla seguente tabella tratta da GATTESCHI e
MILANESE (cit.)
Forse il tratto di costa ottimale, per temperature invernali sufficientemente miti
e per piogge estive ancora sufficienti, sta fra Livorno e Piombino.
Nella Maremma grossetana, infine, le temperature salgono ai livelli della fascia
termomediterraea mentre le piogge estive, oramai scarse e incostanti, espongono le
pinete delle dune a ricorrenti crisi di aridità.
La variazione della piovosità da nord ha sud ha una grandissima rilevanza nella
tipologia delle pinete e soprattutto per quelle impiantate su dune e, quindi, meno
capaci di compensare la scarsità delle piogge con l’acqua del terreno.
5.1. PINETA DUNALE MESOMEDITERRANEA
DI PINO DOMESTICO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Geomorfologia troppo dense che sopravvivono in condizione
Complessi dunali con sommità alta al massi- di fame annientando il sottobosco.
mo 10 metri, mai troppo accidentati. Localmente si fa sentire l’influenza del cal-
pestio dei bagnanti.
Substrati
Sabbie per lo più silicatiche. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Suoli Si tratta di pinete che, dal punto di vista fi-
Poco evoluti, sabbiosi, sciolti, non ricchi di toclimatico, si trovano nel dominio della Lec-
humus, da neutri ad alcalini (acidi-subacidi ceta tipica e, a nord, della Lecceta di transi-
nel sottotipo a erica e cisto a foglie di salvia). zione ai boschi di caducifoglie. Il ritorno al
bosco potenziale è più o meno ritardato se-
Clima condo lo stato di evoluzione della vegetazio-
Temperature medie annue intorno a 15°. ne al momento del rimboschimento a pini e
Temperatura media del mese più freddo 5°. secondo il modo con cui la coltura per i pinoli
Minimi assoluti di -15°, tali da provocare ha fatto regredire il leccio e le altre sclerofille.
danni alle pinete a Viareggio (CORTI, 1969).
Piogge annue da 730 a 1.200 mm; piogge La presenza dei pini, tuttavia, è sempre un
estive da 100 a 150 millimetri. richiamo per gli uccelli che sono i grandi pro-
pagatori naturali di questa e molte altre specie
Interventi antropici più frequenti mediterranee; pertanto, allo stadio di pineta
Si tratta di pinete ottenute per semina a spa- adulta il sottobosco tende a rinfoltirsi pro-
glio sul terreno delle dune più o meno colo- gressivamente.
nizzato da arbusti. Successivamente queste La possibilità o meno del pino domestico a
pinete hanno subito (oltre a occasionali dira- rinnovarsi è difficile da verificare a causa del-
damenti e spalcature) la rimozione del sottobo- la raccolta annua delle pine che riduce di mol-
sco per facilitare la raccolta delle pine. Una to la quantità di seme pervenuta al suolo.
parte di queste pinete è già al 2° o 3° ciclo Nell’ipotesi di un totale abbandono all’evo-
di coltura del pino. luzione naturale, è lecito prevedere un perio-
A San Rossore e alla Duna Feniglia, fra gli do di bosco misto in cui il pino può ancora
interventi antropici va annoverato l’alleva- rinnovarsi finche il contingente delle latifo-
mento di cinghiali e di daini con popolazioni glie non ha chiuso la copertura.
Specie indicatrici
Pinus pinea Smilax aspera
Quercus ilex (loc.) Clematis flammula
Q. suber (loc.) Dorycnium hirsutum
Phillyrea latifolia Asparagus acutifolius
P. angustifolia Rubia peregrina
Cistus incanus Pistacia lentiscus (spec. z. merid.)
Rosa sempervirens Viburnum tinus (loc.)
Lonicera implexa Rhamnus alaternus (loc.)
Paliurus spina-christi Juniperus phoenicea (loc. z. merid.)
Pyracantha coccinea J. macrocarpa (loc.)
Specie differenziali del sottotipo a erica scoparia e cisto a foglie di salvia
Erica scoparia (abbond.) Ulex europaeus (a nord)
Cistus salvifolius Calluna vulgaris
Selvicoltura in fustaia disetanea. Come prima base per
Tutto dipende dalle decisioni di politica ter- avere un bosco stratificato occorrerebbe per-
ritoriale. Se si vuole proseguire la coltura per seguire almeno una prima ondata di rinnova-
i pinoli (individuando in essa il tipo colturale zione.
che ha determinato i paesaggi attuali) il si- Per operare con l’opportuna gradualità (e a
stema selvicolturale più efficiente è quello titolo sperimentale) si potrebbero scegliere
del taglio raso con rinnovazione artificiale su delle particelle di 2-3 ettari da sottoporre ad
superfici di almeno 1 ettaro. un taglio di rinnovazione seguito dalla so-
Volendo, si può tentare la trasformazione spensione della raccolta dei pinoli.
5.2. PINETA DUNALE TERMOMEDITERRANEA
DI PINO DOMESTICO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
700 e mm. Piogge estive fra 60 e 80 mm, con debolita dalla siccità più pronunciata e, quin-
notevole infedeltà da un anno all’altro. di, arricchita da arbusti di macchia. Le evo-
luzioni attuali non sono chiare anche perchè
Interventi antropici più frequenti gran parte di questi boschi sono giovani; è,
Impianto per semina su duna scoperta o, più tuttavia evidente un processo di infittimento
di frequente, sgombrata dalla vegetazione del sottobosco a macchia talvolta anche col
esistente ad opera dei pastori transumanti. solo rosmarino. Il pino domestico dimostra
Salvo eccezioni si tratta di pinete di primo delle possibilità di rinnovazione da seme an-
impianto. che dove si esercita ancora la coltura da pi-
noli.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Nell’ipotesi di un abbandono totale è preve-
denze dinamiche dibile una fase piuttosto lunga in cui il pino
Il tipo di bosco originario potrebbe essere domestico può ancora rinnovarsi.
stato la LECCETA TIPICA (v.) ancorché in-
Specie indicatrici
Pinus pinea Rosmarinus officinalis
Quercus ilex (loc.) Juniperus macrocarpa
ERICA MULTIFLORA J. phoenicea
DAPHNE GNIDIUM Smilax aspera
Pistacia lentiscus Rubia peregrina
Rhamnus alaternus Juncus acutus (z. um.)
Myrtus communis Schoenus nigricans (z. um.)
Phillyrea angustifolia Saccharum ravennae (z. um.)
Dorycnium hirsutum
5.3. PINETA DUNALE DI PINO DOMESTICO
A LECCIO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- e dalla ripresa di vigore di ceppaie soprav-
denze dinamiche vissute. Comunque il pino è sempre nell’as-
Il piano inferiore, composto da leccio e con soluta impossibilità di rinnovarsi per seme.
arbusti sclerofillici, non deriva necessaria- Lo sbocco evolutivo è chiaramente la costi-
mente da un nuovo insediamento corrispon- tuzione di una Lecceta tipica in posizione li-
dente ad una successione, ma può derivare toranea tramite una fase a lecceta con pini
più semplicemente dal riscoppio vegetativo emergenti, ma sempre più radi con l’età.
Specie indicatrici
5.4. PINETA PLANIZIALE MESOIGROFILA
DI PINO DOMESTICO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Substrati di specie caducifoglie. L’impianto può essere
Sabbie, alluvioni recenti, colmate di bonifica. avvenuto direttamente dopo lo sgombro del
bosco oppure su seminativi.
Suoli
Profondi, ricchi di humus, con falda freatica Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
superficiale, soggetti ad allagamenti invernali. denze dinamiche
Il pino è assolutamente impossibilitato a rin-
Clima novarsi; talvolta i macchioni di rovo o di alte
Precipitazioni annue medie 950-1100 mm, di erbe sono tanto densi da rendere impossibile
cui estive 130-150 mm. Temperature medie anche l’auspicabile reingresso delle latifo-
annue intorno a 15°. glie. La durata prevedibile per la permanenza
del paesaggio a pineta può essere ridotta per
Interventi antropici più frequenti effetto di sradicamenti di piante colpite da
Pinete, sovente di primo impianto, su terreni marciume radicale provocato da attacchi di
che, a causa della vicinanza della falda frea- Heterobasidion annosum.
tica, sono di competenza potenziale di boschi
Specie indicatrici
5.5. PINETA COLLINARE DI PINO DOMESTICO
A ERICHE E CISTI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Suoli roverella, cerro e ginestre. La localizzazione
Sciolti, debolmente acidi, superficiali, asciutti. suburbana le sottopone ad un intenso uso per
scopi ricreativi e a incendi.
Clima
Temperatura media annua in genere compre- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
sa fra 12° e 14°. Media del mese più freddo denze dinamiche
da 3° a 5°. Minimi assoluti fino a -20° con La copertura debole dei pini sembra consen-
danni al pino domestico, al cipresso e ad altre tire un infoltimento progressivo del piano in-
specie. Piogge medie annue intorno a 800 feriore a latifoglie.
mm, estive di 100-150 millimetri. L’evoluzione in questo senso, tuttavia, si ar-
resta in corrispondenza delle plaghe percorse
Interventi antropici più frequenti da incendio dove il pino marittimo (se pre-
Pinete derivanti da impianti artificiali esegui- sente) sembra diffondersi meglio del pino do-
ti a partire dagli anni ‘20 su cespuglieti di mestico.
Specie indicatrici
5.6. PINETA COLLINARE DI PINO DOMESTICO
A ROVERELLA CON ARBUSTI DEL PRUNETO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Sottotipi Suoli
a ginepro comune e ginestra odorosa (pi- Neutri o leggermente basici, spesso argillosi.
neta di stazioni più aride, talvolta capace
di rinnovazione naturale) Clima
con carpino nero e cerro (propria di suoli Temperatura media annua compresa fra 12°
più freschi; pineta più sviluppata con sot- e 14°. Media del mese più freddo da 3° a 5°.
tobosco più intricato) Minimi assoluti fino a -20° con danni al pino
domestico, al cipresso e ad altre specie. Piog-
Localizzazione ge annue mm 800-900, estive di 100-150 mil-
Piccoli impianti (quasi sempre più giovani di limetri.
Interventi antropici più frequenti può derivare da una nuova diffusione oppure
Piantagione su cedui degradati oppure su su- dalla ripresa di vigore del popolamento pre-
perfici pascolive. esistente. Salvo il caso del piano inferiore
rado e costituito prevalentemente da ginestra
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- e ginepro, il pino non si può rinnovare; qual-
denze dinamiche che volta è, caso mai, il cipresso che si rin-
Il sottobosco di specie arboree e arbustive nova meglio.
Specie indicatrici
Pineta di clima oceanico di pino marittimo a Ulex europaeus - Tipico
esempio di consociazione del pino con castagno (variante), recentemente
3,1(7( ', 3,12 0$5,77,02
e il 25% per imballaggi (BERNETTI I. et al. 1993).Il consumo annuo è dell’ordine di
90.000 metri cubi provenienti per metà da utilizzazioni locali e per metà dalla Liguria.
Questa importazione può essere molto pericolosa per il pino marittimo della
Toscana sotto il profilo fitosanitario in quanto, in Liguria, il coccide Matsucoccus
feytaudi ha già causato gravissimi danni, estendendosi da ovest verso est sino
all’altezza di Genova.
Aspetti selvicolturali
Le produzioni possibili dalle pinete di pino marittimo della Toscana non sono
molto elevate. Sulle colline la specie vegeta e si perpetua principalmente su terreni
così scadenti e degradati da non essere alla portata delle querce e di altre specie
concorrenti. La I classe di fertilità della tabella preparata da CANTIANI (1975) ri-
guarda, pertanto, solo le poche pinete planiziarie concentrate a S. Rossore. Nelle
pinete collinari, invece, prevalgono pinete fra la II e la III classe di fertilità e, occa-
sionalmente, si trovano popolamenti ancora più scadenti.
Il trattamento abituale delle pinete di pino marittimo è stato per lungo tempo il
taglio saltuario condotto con utilizzazioni a breve periodo e asportazioni intense
lasciando solo poche piante "grosse", cioè con più di 25 cm di diametro. La rinno-
vazione naturale era favorita dalla pratica di tagliare ricorrentemente tutto il sotto-
bosco per ricavare fascine di erica o di ginestra e qualche poco di legna dalle querce
che si potevano eventualmente trovare.
Oggi un trattamento così orientato su assortimenti piccoli non sarebbe più red-
ditizio. Le tagliate a scelta sulle pinete si sono fatte più rare mentre il taglio degli
arbusti del sottobosco è solo occasionale. In compenso è forse aumentata l’aliquota
della massa utilizzata che deriva dal recupero di piante dopo gli incendi.
La struttura delle pinete di pino marittimo può avere varie combinazioni di strati
di vegetazione secondo il modo di rinnovazione, la fertilità, l’età e la concorrenza
di altre specie.
Dopo l’incendio di una pineta adulta, magari con sottobosco di sola erica scoparia
e di arbusti minori, si verificano ondate di rinnovazione estremamente densa che
producono un popolamento coetaneo e ovviamente monostratificato.
Invece, dopo l’incendio di una pineta meno predisposta alla rinnovazione (per
la scarsità di piante adulte o per l’abbondanza di specie concorrenti), la rinnovazione
può risultare molto scalata nel tempo e tale, quindi, da dar luogo ad un popolamento
disetaneo. Strutture disetanee possono risultare anche da catastrofi di altra origine come
una schiantata da neve o da vento oppure, semplicemente, dopo un taglio a scelta.
Però i popolamenti disetanei, col passare del tempo (e tanto più rapidamente
quanto maggiore è la fertilità) possono evolversi verso la struttura monostratificata
che si forma per il livellamento delle piante su di un unico piano superiore di vege-
tazione (BIANCHI, 1984). Una sperimentazione per razionalizzare il trattamento del
pino marittimo venne intrapresa da BIANCHI (1983) nel quadro della compilazione
del piano di assestamento della Foresta Demaniale di Tocchi. I risultatati possono
essere così sintetizzati (BROGI A., 1994).
Il taglio raso su superfici di 1-2 ettari con abbruciamento controllato della ramaglia
contenente gli strobili conduce ad una rinnovazione naturale molto densa, ma il
costo del controllo antincendio dell’abbruciamento è certamente sensibile.
Col taglio raso a strisce di 25-30 m di larghezza, poi scarificate con una ruspa
(come per costruire un viale parafuoco), si ottiene un insediamento della rinno-
vazione molto più denso che con l’abbruciamento.
Al taglio raso con riserve consegue un insediamento della rinnovazione molto
scarso. Lo stesso vale per il taglio raso a buche di 2.000 m2.
Il diradamento è normalmente ritenuto necessario anche per ridurre la probabilità
degli schianti e per evitare che le piante si sviluppino col fusto contorto per effetto
dell’eliotropismo e per le deformazioni che possono essere imposte da una chioma
di peso sproporzionato rispetto al fusto ancora troppo esile (MAUGE’, 1987).
Dal punto di vista dell’economia pubblica, le pinete di pino marittimo interessano
quasi esclusivamente per la necessità di proteggerle contro gli incendi.
Come si è già accennato, il pino marittimo si accompagna ad arbusti (come
soprattutto l’erica arborea, l’erica scoparia, la ginestra dei carbonai e il ginestrone)
che condividono col pino marittimo non solo le esigenze ecologiche, ma anche la
facile infiammabilità e la capacità a rinnovarsi dopo gli incendi. Ne risulta un eco-
sistema che, con gli incendi ripetuti, tende a costruirsi un suo equilibrio che è difficile
interrompere anche con le predisposizioni più accurate.
Tuttavia ci sono condizioni in cui l’incendio fa sparire i pini e lascia la sola
"landa" a eriche e “ ginestre” ; questo avviene quando l’incendio si ripete a breve
scadenza e con tanta maggiore facilità quanto più la pineta si trova fuori dall’ottimo
climatico come, per esempio, in alta collina, dove la produzione di seme germinabile
è più scarsa.
Le pinete di pino marittimo sono popolamenti pionieri e pirofiti che si sovrap-
pongono ad una vegetazione di sottobosco e di radura costituita dai seguenti elementi,
di volta in volta compresenti o non.
6.1 PINETA DI CLIMA SUBOCEANICO DI PINO
MARITTIMO A ULEX EUROPAEUS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Arido
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Caratterizzazione fisionomica e fitosocio- con erica arborea (Sottotipo dei suoli più
logica superficiali)
Pineta di fertilità da buona a mediocre (II e
III classe di fertilità) e di diversa densità e Localizzazione
struttura anche secondo gli incendi pregressi. Base delle Alpi Apuane, Monti delle Pizzor-
Il sottobosco è fisionomicamente dominato ne, Monte Pisano. La distribuzione di questo
dal ginestrone (Ulex europaeus), ma com- tipo non va mai a sud dell’Arno; verso est
prende ancora molta erica arborea e anche sfuma gradualmente per arrestarsi già verso
erica scoparia, ginestra dei carbonai e cor- Pescia.
bezzolo; meno frequenti il brugo e le altre
acidofile comuni; felce aquilina nelle depres- Esposizioni
sioni fresche mentre nelle radure possono ap- Varie.
parire i cisti. Fra le latifoglie arboree più fre-
quenti: leccio, castagno e cerro, talvolta la Distribuzione altitudinale
sughera. Da 100 a 600-700 metri.
La vegetazione precedente ai disturbi cui è
conseguita la diffusione del pino e degli ar- Geomorfologia
busti pionieri e pirofiti poteva forse essere Collinare o pedemontana, generalmente mo-
quella dell’ass. Fraxino orni-Quercetum ili- derata.
cis Horvatic (1956) 1958, con successiva de-
gradazione e partecipazione in primo luogo Substrati
di specie delle classi Calluno-Ulicetea e poi Per lo più arenarie e altre rocce silicatiche,
Cisto-Lavanduletea. p. es. al Monte Pisano.
dità, spesso erosi o con tracce di erosioni pas- vello di provvigione. Al taglio dei pini si ac-
sate e quindi troncati. Nei paleosuoli: oriz- compagnava l’estrazione delle eriche per fa-
zonte illuviale di colore rosso evidente con scina o per ciocco da pipe nonché il taglio
fenomeni di pdsolizzazione localizzata. Mo- delle “ ginestre” ; i rami minori del gine-
der spesso micogenico con lenta alterazione strone venivano raccolti, triturati e sommi-
della lettiera che può accumularsi oppure es- nistrati come foraggio; i fusti più grossi, in-
sere distrutta dal fuoco. vece, sono ancora usati per fabbricare manici
di ombrello.
Clima
Temperature medie annue da 12° a 15°. Me- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
die del mese più freddo da 2° a 5°. Precipi- denze dinamiche
tazioni annue a 1.000-1.200 mm. Precipita- Queste pinete si trovano nel dominio poten-
zioni estive di 150-180 millimetri. ziale del Tipo LECCETA DI TRANSIZIO-
NE AI BOSCHI DI CADUCIFOGLIE.
Interventi antropici più frequenti In caso di incendio di una pineta adulta, il
E’ possibile che queste pinete siano indigene; pino marittimo si rinnova in massa dando luo-
nel loro ambito sembra potessero ospitare un go anche a popolamenti molto densi. Agli
popolamento naturale di pino laricio. E’ovvio incendi ripetuti può succedere una macchia
che si tratta di boschi rimaneggiati dall’azio- densa a eriche e “ ginestre” .
ne antropica da molto tempo; per esempio, In mancanza di disturbo, tale macchia tende
la pineta del Monte Pisano ha una sua lunga a svilupparsi e poi ad esaurirsi.
storia collegata a quella dell’Ufficio dei Fossi Inoltre, le ceppaie di cerro, di castagno e
della Repubblica di Pisa. Sembrerebbe chiaro di altre latifoglie che possano trovarsi nella
che il pino si sia diffuso spontaneamente anche pineta (e che sono spesso più il residuo del
su castagneti da frutto abbandonati e sui terreni bosco precedente che il risultato di una suc-
adiacenti percorsi da incendi; pertanto si trat- cessione) tendono sempre di più ad affer-
terebbe di un indigenato almeno involonta- marsi e cooperano a impedire la rinnova-
riamente incoraggiato dall’uomo. zione del pino che resterebbe confinata
Le pinete sono state oggetto di tagli a scelta nelle stazioni più scadenti dove permango-
a breve periodo di curazione e con basso li- no spazi vuoti.
Specie indicatrici
Pinus pinaster Calluna vulgaris
Quercus ilex MOLINIA ARUNDINACEA
Q. cerris AVENELLA FLEXUOSA (loc.)
Q. suber (r) Pteridium aquilinum
Castanea sativa (loc.) Jasione montana
ULEX EUROPAEUS (freq.) Potentilla erecta
CYTISUS SCOPARIUS Danthonia decumbens (loc.)
Erica arborea Odontites lutea (loc.)
E. scoparia
strascico dei tronchi. Seguirà una fase a strut- Sarebbe sempre molto opportuno scegliere le
tura biplana. piante da riservare per la disseminazione fra
Quando la concorrenza degli arbusti è molto soggetti a fusto dritto e poco ramosi.
forte, ma si vuole mantenere la pineta, il trat- La macchia fortemente spinosa a ginestrone
tamento più consigliabile è quello del taglio contribuisce a rendere difficili le operazioni
raso a strisce di 0,3-0,5 ettari. antincendio con personale a terra.
6.2. PINETA SOPRAMEDITERRANEA
DI PINO MARITTIMO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Suoli te, un querceto acidofilo con rovere, roverella
Spesso troncati per erosione, con orizzonte e cerro con sfumature verso la vegetazione
illuviale rosso chiaro, acidi, piuttosto asciutti. mediterranea. Poi è intervenuta la castanicol-
tura e, in seguito, è stato introdotto il pino
Clima che, tramite la rinnovazione dopo gli incendi,
Temperatura media annua da 10° a 14°; tem- si è naturalizzato nel luogo e si è ulteriormen-
peratura media del mese più freddo: da 0° a te diffuso.
3°. Minimi assoluti fino a -18°. Precipitazioni Le latifoglie che si trovano nel sottobosco
annue da 700 a 1.200 mm. Precipitazioni esti- sono, probabilmente, più il residuo del vec-
ve: 120-150 millimetri. chio bosco sopravvissuto per polloni che un
nuovo ingresso. Queste pinete sono più o
Interventi antropici più frequenti meno in equilibrio secondo la proporzione
Queste pinete sono state quasi tutte introdotte fra il sottobosco a eriche e “ ginestre” e le
per semina nei castagneti abbandonati oppure ceppaie di latifoglie presenti. Al limite si ve-
per coniferamento di cedui di cerro. Poi è rifica una evoluzione verso una fisionomia di
stato applicato l’abituale trattamento a taglio ceduo coniferato con piante adulte di pino
saltuario a breve ciclo e bassa provvigione sopra popolamento chiuso di cerro e castagno
accompagnato dalle periodiche utilizzazioni da ceppaia.
delle eriche e delle ginestre per fare fascine. Dopo gli incendi, la rinnovazione del pino
Dopo gli incendi la rinnovazione in massa marittimo può trovare impedimenti nel ri-
fino a produrre giovani pinete densissime è scoppio delle ceppaie delle latifoglie. Alle
ancora possibile, ma sono più frequenti i casi quote maggiori si notano anche casi di rin-
di rinnovazione mancante o sporadica forse novazione mancante o sporadica attribuibili
perchè la produzione di seme è meno abbon- alla minore produzione di seme germinabile
dante. Esistono estesi ericeti derivanti da pi- che si verifica nelle pinete oltre 300 m di
nete distrutte da incendi. quota. In tal caso dopo l’incendio resta solo
l’ericeto.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Il pino domestico, eventualmente consociato,
denze dinamiche è sempre recessivo. Sono possibili, e temibili,
La vegetazione originaria era, verosimilmen- invasioni da robinia.
Specie indicatrici
Pinus pinaster Pteridium aquilinum
Castanea sativa (freq., ceduo) Rubus sp. pl.
Quercus cerris (ceduo) Calluna vulgaris
Q. pubescens (ceduo, loc.) Jasione montana
Q. ilex (ceduo, loc.) Veronica officinalis
Erica arborea Teucrium scorodonia
E. scoparia (loc.) Rubus fruticosus s.l.
Juniperus communis Stachys officinalis
Cytisus scoparius Solidago virga-aurea
Cistus salvifolius (loc.) Cruciata glabra
Ulex europaeus (loc.) Serratula tinctoria
Calluna vulgaris Hieracium sp. pl.
Genista pilosa Potentilla erecta
G. germanica Plantanthera clorantha (loc.)
Brachypodium rupestre P. bifolia (loc.)
Selvicoltura strascico dei tronchi o da apposite lavorazioni
Il taglio saltuario con tagli a scelta forti e del terreno.
conseguenti bassi livelli di provvigione è at- Nei popolamenti misti, l’avviamento all’alto
tuabile soprattutto nei sottotipi meno evoluti fusto delle latifoglie può essere raccomandato
e alle quote minori. Quanto maggiori sono per ridurre i pericoli d’incendio.
gli impedimenti alla rinnovazione tanto più Alle quote superiori, e in un quadro di eco-
potrebbero diventare consigliabili forme di nomia aziendale, sui terreni più fertili potreb-
taglio raso su piccole superfici (p. es. taglio be risultare utile la trasformazione con dou-
a strisce di 0,3-0,5 ettari) con rinnovazione glasia.
naturale facilitata dalle scarificazioni per lo
6.3. PINETA MEDITERRANEA DI PINO
MARITTIMO SU MACCHIA ACIDOFILA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Arido
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Clima dagli incendi (PIUSSI, 1982) che in queste
Temperatura media annua da 12° a 15°; tem- pinete sono frequentissimi.
peratura media del mese più freddo: da 3° a
5°. Minimi assoluti anche fino a -18°. Preci- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
pitazioni annue da 700 a 1.200 mm. Precipi- denze dinamiche
tazioni estive da 120 a 150 millimetri. Popolamento di sostituzione in territori che,
in assenza di disturbo, sarebbero in buona
Interventi antropici più frequenti parte occupati dalla Lecceta con sughera. At-
Queste pinete, eccettuate quelle delle Cer- tualmente la rinnovazione del pino è più o
baie, sono probabilmente di origine artificiale meno impedita secondo la densità del sotto-
più o meno recente. bosco.
Il trattamento tradizionale era il taglio a scelta Anche dopo l’incendio di una pineta adulta
con bassa frequenza dei tagli e modesta prov- la rinnovazione in massa del pino può trovare
vigione. limitazioni nella concorrenza della macchia
In ogni caso c’è stata una estensione favorita che si rigenera per ceppaia.
Specie indicatrici
rate. Tali fasce vengono subito invase dalla attrezzata fino alla verifica dell’estinzione
rinnovazione del pino per disseminazione la- ompleta del fuoco.
terale. B Taglio raso a piccole buche. Risultato:
Nella pineta di Tocchi BIANCHI (1983) ha la rinnovazione per disseminazione naturale
posto in prova i seguenti trattamenti con i è sporadica.
risultati a fianco commentati. C Taglio raso con portaseme. Risultato:
A Taglio raso seguito da abbruciamento come sopra.
delle ramaglie provviste di coni ancora chiu- A questo punto si potrebbe consigliare anche
si. Risultato: rinnovazione in massa, ma con il taglio a strisce con scarificazione del ter-
prevedibili elevati costi di sorveglianza an- reno, magari facendo coincidere le strisce ta-
tincendio: apertura di una cessa sterrata su gliate e sterrate con un sistema mobile di viali
tutto il perimetro, permanenza di un squadra parafuoco.
6.4. PINETA COSTIERA DI PINO MARITTIMO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Interventi antropici più frequenti Le pinete delle pianure alluvionali non sono
Queste pinete sono tutte di origine artificiale. assolutamente in grado di rinnovarsi e tende-
In particolare il pino marittimo, in quanto rebbero ad essere sostituite da popolamenti a
ritenuto più resistente al salmastro, veniva farnia, ontano, olmo, ecc. nella misura in cui
localizzato verso il mare per formare una "fa- ci siano portaseme di queste specie.
scia di protezione" ai boschi di pino dome- Le pinete delle dune interne possono rendersi
stico impiantati più all’interno. Non manca permanenti per incendi ripetuti o, talvolta, a
qualche impianto più interno intercalato alle causa del suolo poco evoluto.
pinete di domestico. Da questa posizione il
pino marittimo ha talvolta invaso i terreni Specie indicatrici
circostanti e anche le pinete di pino domesti- Non vengono elencate trattandosi di cenosi
co, per lo più dopo incendi. ad ecologia differenziata, comunque ricono-
scibili per la loro peculiare localizzazione.
6.5. PINETA DI PINO MARITTIMO SU OFIOLITI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Arido
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- rinnovarsi in modo sparso. Le piante adulte
denze dinamiche sono poco longeve. Non ci sono quasi incendi
Il pino, non trovando concorrenza, tende a perchè non esiste sottobosco.
&,35(66(7(
Aspetti selvicolturali
Il cipresso è una specie molto rustica ma, ovviamente, dà risultati molto diversi
secondo la fertilità e la disponibilità d’acqua del terreno in cui viene piantato.
Non esistono tabelle di fertilità per il cipresso comune perchè non è possibile
contare l’età delle piante di questa specie sulla base di anelli di accrescimento cro-
nologicamente affidabili (UZIELLI & NARDI-BERTI, 1979). Orientativamente si pro-
pongono le seguenti classi per cipressete "adulte" che, a memoria d’uomo, siano
state piantate da oltre 50 anni.
I classe di fertilità: 20-23 metri di altezza media
II classe di fertilità: 16-19 metri di altezza media
III classe di fertilità: 13-19 metri di altezza media
foto
7.1 CIPRESSETA A ROVERELLA
E SPARTIUM JUNCEUM
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
peratura media del mese più freddo da 2° a bondante e la cipresseta assume una struttura
4°. Precipitazioni annue - solo occasional- disetanea. Possibile, comunque, un lento
mente nevose - vanno da 800 a 1.000 mm. completamento della copertura da parte delle
Piogge estive superiori a 100 millimetri. querce.
7.2. CIPRESSETA SU GRAMINETO XEROFILO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
%26&+, 3/$1,=,$/, ', /$7,)2*/,( 0,67(
radicale mentre, infine, l’olmo campestre e soprattutto la farnia sono le specie dei
terreni alluvionali più elevati e che restano sommersi solo occasionalmente.
L’esame delle componenti arboree dei boschi planiziali conduce alle seguenti
osservazioni sulle diverse specie.
Fra le altre specie eventualmente esistenti nei boschi planiziali sono da aggiun-
gere il cerro, il carpino bianco, il farnetto (solo nella Maremma meridionale: v.
QUERCETO DI CERRO E FARNETTO a Pulicaria odora), la roverella e anche il
leccio. Va da sé che non sono rare le invasioni di robinia.
Aspetti selvicolturali
La selvicoltura non deve necessariamente limitarsi a prendere atto della presenza
di lembi di bosco da conservare. Esiste anche l’opportunità di ricostituire, almeno
in parte, boschi di questo tipo tramite il rimboschimento di seminativi ritirati dalle
colture oppure tramite la conversione della PINETA PLANIZIALE MESOIGRO-
FILA DI PINO DOMESTICO (v.). Si ricorda in particolare che le specie che com-
pongono la foresta planiziale hanno un notevole valore per la produzione di legname
mentre l’ambiente specifico si presta inoltre a colture ad accrescimento piuttosto
rapido. Come necessario corollario emerge l’opportunità di scegliere in natura alcuni
popolamenti da impiegare e da trattare come boschi da seme.
8.1. ALNETO IGROFILO E MESOIGROFILO DI
ONTANO NERO E FRASSINO MERIDIONALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il barrato si riferisce al
periodo invernale
Cenosi isolate e impo-
verite per degradazione,
isolamento e/o abbas-
samento della falda
freatica, senza Fraxinus
oxycarpa
Geomorfologia Interventi antropici più frequenti
Depressioni fra i terrazzi fluviali, oppure fra La Riserva Naturale del Palazzetto è recintata
le dune. Lungo i canali. Terreni alluvionali a e protetta anche dagli animali selvatici. Per
ridosso della cordonata di dune. il resto si tratta di residui frammentari che
possono avere subito trattamenti contestuali
Substrati alle pinete entro cui essi si trovano: taglio del
Materiali alluvionali ricchi di sostanza orga- sottobosco, ecc.
nica. Alcune zone interdunali vicine al mare pos-
sono, oggi, risultare alterate a causa della sa-
Suoli linizzazione della falda freatica.
Acidi, asfittici, a drenaggio impedito, som-
mersi per buona parte dell’anno, oppure con Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
falda freatica molto superficiale. Marcati denze dinamiche
orizzonti a “ gley” causa l’idromorfia. L’inquinamento, oppure la salinizzazione
della falda, possono far regredire questi
Clima popolamenti forestali in canneto di
Temperature medie annue da 14° a 15°. Tem- Phragmites australis. All’opposto, l’ab-
peratura media del mese più freddo da 4° a 7°. bandono della manutenzione ai fossi di
Precipitazioni annue medie intorno a 950 mm; bonifica potrebbe, forse, farli progredire
piovosità media estiva di circa 100-150 mm, dinamicamente.
compensata però dall’acqua di falda.
Specie indicatrici
Sottotipo igrofilo
Alnus glutinosa (domin. o subdomin.) Galium palustre
Fraxinus oxycarpa (sino a subdomin.) Urtica dioica
Ulmus minor (loc.) Carex sylvatica
PERIPLOCA GRAECA Samolus valerandi
HYDROCOTYLE VULGARIS Lycopus europaeus
SOLANUM DULCAMARA Ranunculus repens
Thelypteris palustris Carex elata
Mentha aquatica Scutellaria galericulata
Agrostis stolonifera Hedera helix
Carex pendula Lythrum salicaria
C. remota Osmunda regalis (r)
Sottotipo mesoigrofilo
Faxinus oxycarpa (domin.) Rumex sanguineum
Alnus glutinosa Juncus effusus
Ulmus minor Rubus ulmifolius
Populus alba (loc.) Ranunculus repens
P. nigra (loc.) Mentha aquatica
Frangula alnus Iris pseudoacorus
Ficus carica Potentilla reptans
Periploca graeca Urtica dioica
Carex remota Carex elata
C. pendula Lysimachia vulgaris
C. sylvatica Rubus ulmifolius
Galium palustre R. caesius (loc.)
Selvicoltura pregio (riserve). E’ importante individuare
Interventi colturali selettivi volti al raggiun- popolamenti da trattare e conservare come
gimento di condizioni prossime alla natura- boschi da seme, specialmente per quanto ri-
lità. Evoluzione naturale in siti di particolare guarda il frassino meridionale.
8.2. BOSCO INTERDUNALE DI PIOPPI CON
FARNIA E FRASSINO MERIDIONALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Suoli glio per la sostituzione con le pinete ma,
Bruni, profondi, ricchi di humus, spesso li- nell’ambito di queste ultime, anche dai tagli
moso-argillosi, soggetti a impaludamenti e periodici del sottobosco per facilitare la rac-
più o meno asfittici (presenza di gley con colta delle pine. Attualmente i suoi residui
concrezioni ferrose), talvolta salmastri o tor- sono minacciati anche dall’espansione del
bosi. fenomeno della salinizzazione delle falde
freatiche.
Clima
Temperature medie annue da 14° a 17°. Tem- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
peratura media del mese più freddo da 4° a denze dinamiche
9°. Precipitazioni annue fra 700 e 950 mm.; La ricostituzione naturale completa di questo
precipitazioni estive fra 60 e 150 mm, larga- tipo per semplice evoluzione naturale è poco
mente integrate dall’umidità del suolo. probabile. La specie che ha meno probabilità
di reingresso è la farnia. Le specie che hanno
Interventi antropici più frequenti più possibilità di riespansione sono, invece,
I popolamenti di questo tipo sono stati in- il carpino bianco e l’ontano nero secondo il
fluenzati negativamente non soltanto dal ta- grado di umidità del suolo.
Specie indicatrici
8.3. QUERCO-CARPINETO EXTRAZONALE
DI FARNIA (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Localizzazione peratura media del mese più freddo da 0° a
Potenzialmente nelle pianure e nelle valli a 6°-7°. Minime assolute anche sino a -28° nel-
fondo ampio, oggi a coltivo, della parte set- le valli interne, di -5°, -7° sulla costa. Preci-
tentrionale della regione con relitti rilevati in pitazioni annue da 800 a 1.400 mm.; preci-
aree adiacenti o di transizione a Boschi al- pitazioni estive da 100 a 200 mm. Questi va-
veali e ripari: alle Cerbaie (ARRIGONI, 1996, lori sono in parte compensati dalla falda frea-
ined.); sopra Pistoia, presso Galliano e Scar- tica o dalla situazione di fondovalle.
peria (Mugello), tra Aulla e Fivizzano e sotto
Mulazzo (Lunigiana), presso Barga (Garfa- Interventi antropici più frequenti
gnana) e lungo il torrente Ciuffenna (Valdar- Riduzione a coltura agraria. In seguito anche
no) (MONDINO, dati ined.); il tipo è anche introduzione di specie esotiche che si sono
presente in Casentino. naturalizzate come la robinia.
Suoli Selvicoltura
Profondi, ricchi di humus, limoso-sabbiosi o Tutte le componenti arboree di questo tipo
limoso-argillosi, neutro-subacidi, freschi, da meritano di essere coltivate; in particolare
bene a mediamente drenati, inondati per brevi conviene ridiffondere il più possibile la far-
periodi. Falda freatica ordinariamente più nia. Di questa specie è già stata individuata
profonda di m 0.80. una popolazione del Valdarno da cui si rac-
coglie il seme.
Clima Altri popolamenti sono utilizzabili per esem-
Temperatura media annua da 10° a 15°. Tem- pio alle Cerbaie.
Specie indicatrici (1)
Alneto ripario di ontano nero - Fitto alneto in un vallino delle
%26&+, $/9($/, ( 5,3$5,
localmente cenosi puntiformi, relitte e impoverite, di farnia, con o senza carpino
bianco (v. QUERCO-CARPINETO A FARNIA - Categoria BOSCHI PLANIZIALI
DI LATIFOGLIE MISTE).
Il significato delle presenze di boschetti o di singoli alberi all’interno degli argini
dei fiumi è contrastante. Da un lato c’è un indubbio e valido aspetto paesaggistico
e, soprattutto, c’è un contributo al poco che rimane della fauna e della flora dei luoghi
umidi. Per contro, le piene maggiori possono prelevare da questi boschetti grandi
masse di detriti e addirittura sradicare alberi interi che poi vengono fluitati finchè
non vanno ad incastrarsi nelle arcate dei ponti o in altri luoghi critici intasando il
corso delle acque e provocando o aggravando l’esondazione a monte.
Aspetti selvicolturali
In Toscana i salici hanno avuto un certo significato economico come piante
coltivate nei campi per la raccolta dei "vinchi" per legature rustiche e materiale
d’intreccio. Boschetti di salice oppure di ontano nero erano tenuti allo stato ceduo
in Versilia con produzioni di biomasse molto elevate.
Attualmente il legno dell’ontano nero è considerato ancora di un certo pregio
in Toscana perchè serve (anche in tronchetti di piccolo diametro) per la fabbricazione
di zoccoli, di forme per scarpe e per altri lavori. Ma non risulta che ci siano più
ontaneti coltivati; la raccolta del legno è limitata alle ceduazioni delle ontanete
ripicole con turni piuttosto irregolari.
I pioppi, in natura, occuperebbero quella porzione più esterna dell’alveo che in
occasione delle piene maggiori rimaneva sommerso da acque calme che deponevano
fertile limo. Oggi questa porzione di territorio è stata ampiamente modificata dalle
coltura agricole o anche dalle abitazioni ed è stata difesa dalle alluvioni tramite gli
argini. Una volta perduto il loro luogo di vegetazione naturale, i pioppi sono stati
reintrodotti, soprattutto un tempo, col pioppo bianco e, nella più recente forma di
pioppeti specializzati, con ibridi euroamericani.
Il pioppeto di pioppo bianco (GAMBI, 1958), DI MEO, 1991) è una coltura molto
caratteristica delle rive del Serchio, della Pianura di Lucca (materiali raccolti dall’Ente
Cellulosa e Carta hanno dato origine al clone “ Villafranca” ) e, sino ad una trentina
d’anni fa, della Versilia. Tale coltura si esercita in piccoli appezzamenti dispersi
lungo la parte esterna degli argini; il turno è di 25-35 anni. I turni dell’ordine dei 10
anni (come nella Pianura Padana) non sono applicati qui a causa della richiesta di
tronchi di dimensioni non piccole, della buona qualità del legno adatta a molti lavori
artigianali e della minore velocità di sviluppo rispetto agli ibridi euroamericani del
pioppo nero a causa delle condizioni ecologiche diverse.
La superficie complessiva dei pioppeti della Toscana, tutti ospitati in questo
Tipo, è stata stimata al 1991 in circa 5.000 ettari. La produzione annua è di 22.300
metri cubi contro un fabbisogno (consumato soprattutto dai mobilifici) di 717.000
metri cubi (BERNETTI I. et al. 1993).
Il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico) (REGIONE TOSCANA, 1995a) è un
pregiato prodotto di alcune cenosi inquadrabili in diversi Tipi forestali toscani: ne
sono state individuate ai sensi della L.R. 50/95, cinque principali aree geografiche
di provenienza e cioè: Crete Senesi, Colline Sanminiatesi, Mugello, Valtiberina e
Casentino, all’incirca in senso decrescente d’importanza.
I suoli ospitanti questo tartufo sono ben areati, drenati, freschi tutto l’anno, con
presenza di calcare attivo, poco evoluti oppure disturbati, condizioni che si verificano
nei fondovalle esondati, presso le frane o i versanti in movimento; le stazioni sono
all’interno e ai margini del bosco o, in ambiente non forestale alterato dall’uomo,
nei filari, lungo i fossi e sotto alberi isolati.
Le specie forestali simbionti sul totale di 314 tartufaie studiate (REGIONE
TOSCANA, cit.) sono: il cerro (presente nel 48,0% delle tartufaie studiate), il pioppo
bianco (40,7%), la roverella (36,8%), il pioppo nero (30,4%), il carpino nero (25,5%),
il salice bianco (20.6%) e, con valori inferiori, leccio, nocciolo, farnia, salicone,
carpino bianco e tiglio; specie non micorrizogene più frequenti nei rilievi sono:
l’acero campestre, l’orniello e l’olmo campestre.
L’esposizione prevalente dei terreni in pendio è quella dei quadranti settentrio-
nali, con circa il 30% delle tartufaie, mentre quasi nel 45% dei casi si è in piano. Le
quote estreme risultano comprese fra 0 e 1100 m, però con massima presenza (60.9%)
fra 50 e 300 m di quota.
Un quadro di questo genere dimostra senz’altro che la maggioranza delle tartufaie
interessa la categoria dei Boschi alveali e ripariali (anche potenziali), soprattutto
nella fascia periferica di contatto con vari tipi di querceto nelle cui schede verrà
ricordata di volta in volta la possibile presenza del tartufo.
9.1. SALICETO E PIOPPETO RIPARIO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Geomorfologia fimero nel tempo in quanto, in seguito ad
Golene dell’alveo dei fiumi e dei torrenti, erosione e apporti di materiali può riformarsi
terrazzi lungo gli argini o le sponde, isolotti altrove. I rametti strappati possono, poi, dif-
nel greto. fondere le specie per talea. Si può verificare,
comunque, una successione con aumento del
Substrati salice bianco e dei pioppi, più esigenti, dove
Ciottoli e depositi fluviali sabbioso-terrosi. si hanno apporti di materiale fine e piene con
correnti meno impetuose.
Suoli
Di formazione recente, non evoluti anche se Selvicoltura
talvolta profondi, con vario contenuto di ciot- La destinazione di questi boschi (che fra
toli rispetto alla parte sabbioso-terrosa. l’altro sono spesso di proprietà del dema-
nio fluviale) dipende molto dai singoli pro-
Clima getti di modifica o di manutenzione degli
Molto vario in quanto le specie ripicole hanno alvei. Soprattutto il sottotipo a salici di gre-
sovente vasti areali essendo soprattutto legate to non risulta mai sottoposto a interventi
all’acqua. selvicolturali.
Nella fascia di transizione di questi boschi
Interventi antropici più frequenti ripari con gli adiacenti boschi di roverella e
Tagli molto occasionali magari a titolo di ri- cerro su terreno calcareo si hanno zone di
pulitura. diffusione del tartufo bianco (Tuber magna-
tum Pico); le raccolte si hanno anche in zone
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- povere o prive di boschi di versante (Crete
denze dinamiche Senesi) dove la micorrizazione si ha nei relitti
Tipo più o meno permanente anche a causa di boschi ripari su pioppo bianco, pioppo nero
dei danni sopportati durante le piene ma ef- e salice bianco.
Specie indicatrici
9.2. ALNETO RIPARIO DI ONTANO NERO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
le vicende di erosione e riporto da parte delle fenomeni di allelopatia con cui i salici pos-
acque fluviali o torrentizie. I rapporti di con- sono evitare la concorrenza degli ontani.
correnza con i salici sono regolati anche da
Specie indicatrici
(*Specie nitrofile)
48(5&(7, ', 529(5(//$
I boschi di roverella tenuti a ceduo composto sono molto caratteristici della
Toscana e, soprattutto, del paesaggio del Chianti e dei colli aretini. Questa particolare
diffusione è dovuta al relativo pregio del legname da lavoro di roverella e, soprattutto,
alla nota appetibilità della ghianda di roverella per il pascolo dei suini e anche delle
pecore.
Per moltissimo tempo (TARUFFI, 1905; PIUSSI, 1980) i cedui, matricinati o
composti, delle querce caducifoglie sono stati sfruttati col taglio principale al turno
di 12-14 anni, con tagli intercalari per ricavare fascine fatte con polloni di specie
diverse dalle querce e, come se non bastasse, col pascolo.
Questoregimehaindubbiamentefavoritounacertaespansionedeiboschidominatidallaroverella
perchèquestaspecieerapreferitaalcerrocomematricina,perchéitagliintercalari(“sterzi”)eliminavano
sistematicamente le specie concorrenti e, infine, perché la severità dei prelievi allargava l’area dei terreni
degradati confacenti solo alla roverella. Talvolta, nel contesto di interventi di miglioramento forestale,
si procedeva al coniferamento dei boschi e delle boscaglie di roverella con il cipresso.
Poi sono intervenuti i mutamenti; dapprima la pratica dei tagli intercalari è stata
abbandonata fra il 1930 e il 1940 (BELLUCCI, 1953). Poi, tra circa il 1960 e il 1975,
è stata sospesa anche l’esecuzione dei tagli principali che sono ricominciati su po-
polamenti dell’età di 30-35 anni e anche di più; resta dunque chiaro che è in atto un
allungamento del turno consuetudinario. Nel frattempo anche il pascolo si è ridotto
a poche aziende dove viene ancora esercitato ma con carichi limitati.
Le fustaie di roverella si incontrano principalmente in Mugello e in Casentino
e si distribuiscono a piccoli boschi sparsi collocati non lontano dalle case coloniche
perché esse erano tenute per la raccolta della ghianda da somministrare ai maiali. E’
possibile che qualche superficie di ceduo invecchiato sia stata già attribuita all’alto fusto.
Il trattamento passato dei querceti da ghianda non ha mai avuto canoni precisi;
ovviamente, per incrementare la produzione della ghianda e per facilitare la raccolta,
il querceto era tenuto rado e veniva conservato privo di sottobosco arbustivo.
A partire da questi boschetti e dalla pratica di lasciare piante di quercia sparse
nei campi, la roverella ha potuto, talvolta, rinnovarsi e diffondersi nei seminativi
abbandonati creando nuovi boschi che, poi, sono stati trattati a ceduo.
Le utilizzazioni di legna da catasta (cioè destinabile per ardere o per pannelli)
possono essere stimate in circa 100.000 metri cubi all’anno. Le utilizzazioni annue
di legname da lavoro di roverella costituiscono una parte dei 1.500 metri cubi che
le statistiche riportano come "legname di rovere".
Aspetti selvicolturali
Nella seguente tabella, elaborata a titolo orientativo, i boschi a dominanza di
roverella sono rappresentati dalla I alla III classe di fertilità. La IV classe di fertilità
esprime i popolamenti delle stazioni più degradate dove la roverella sopravvive allo
stato di cespuglio.
Classi di fertilità orientative per i boschi cedui di roverella della Toscana.
Altezza media dei polloni in funzione dell’età
&ODVVL GL IHUWLOLWj
" "
La convenienza a tagliare un ceduo emerge, in linea di massima, quando è
possibile ricavare una massa dell’ordine dei 1.000 quintali per ettaro. E’ stato osser-
vato che i cedui di querce, qualora siano a densità colma, si avvicinano alla massa
precisata quando arrivano a 9-10 metri di altezza media (BERNETTI, 1980). Si può
dunque concludere che il turno attuale dei cedui di roverella delle due classi di fertilità
più frequenti (la II e la III) si colloca fra le età di 25 e di 35 anni.
Questo allungamento del turno, più del doppio rispetto al passato, assieme alla
cessazione del pascolo e dell’uso dei tagli intercalari, comporta indubbiamente un
miglioramento della stazione. Si innescano però dei processi evolutivi da cui derivano,
poi, alcuni problemi selvicolturali.
La minore cadenza dei prelievi, infatti, interrompe l’equilibrio che si era costituito
fra il bosco di roverella e la degradazione antropica e, soprattutto nelle stazioni migliori,
determina la possibilità di ingresso di altre specie concorrenti con la roverella.
Le specie che tendono di più a insediarsi sotto la copertura della roverella sono:
il carpino nero, l’orniello, l’olmo campestre, l’acero campestre e, inoltre, gli arbusti
dei Pruneti: biancospino, prugnolo, sanguinello, ligustro, ecc. Non ci sono, dunque,
specie arboree di particolare valore economico o paesaggistico e anche l’olmo è
mantenuto allo stato cespuglioso dalla malattia della grafiosi.
Negli stadi iniziali tutto l’insieme delle specie arboree ed arbustive forma uno
strato di sottobosco molto denso che rende impossibile la rinnovazione della roverella
o di altre specie di quercia. In questo contesto il taglio del ceduo (secondo il sistema
semplice o composto) agisce nel senso di fare aumentare la densità dei polloni delle
specie del piano inferiore.
Il sistema a ceduo composto a turno lungo, poi, può essere ulteriormente pre-
giudizievole alla presenza della roverella perché un eventuale forte contingente di
matricine può far perire per ombreggiamento molte ceppaie di querce mentre dalle
ceppaie recise delle grosse matricine non si ha più riscoppio di polloni.
Se, per qualche ragione, si ritenesse utile lasciare evolvere un ceduo di roverella
interrompendo del tutto i tagli per molti decenni, allora sarebbe prevedibile che si
formi un bosco di alto fusto di querce sotto la cui copertura il denso strato delle
specie invadenti si sarà man mano ridotto e disperso, determinando condizioni più
favorevoli anche alla rinnovazione della quercia.
Quando ci sono le opportune condizioni di temperatura e quando esistono piante
disseminatrici nelle vicinanze si verifica anche l’ingresso del leccio nei boschi di
roverella. La sempreverde sostiene bene l’ombra della roverella e, una volta insediata,
può dar luogo ad una mescolanza valida sia sul piano produttivo che su quello
paesaggistico.
Un problema attuale è quello di stabilire entro quali limiti possa essere consentito
ad un proprietario di ripristinare la pratica del governo a ceduo in popolamenti di
cedui molto invecchiati tanto da rasentare la struttura di una fustaia.
Nei cedui composti invecchiati l’evoluzione va a totale beneficio delle matricine
che (se la fertilità lo consente) si sviluppano in grandi piante che tendono a chiudere
la copertura ed a provocare la morte di tutte le ceppaie di quercia; solo lo strato di
specie di reingresso può sopravvivere un poco più a lungo. Pertanto, se si vuole
ripristinare il governo a ceduo, bisogna tagliare prima che il popolamento si sia
trasformato in una fustaia, sia pure rada, di alberi grossi e distanziati. Quando la
copertura delle matricine non è ancora completa e i polloni di quercia rimasti vitali
sono sufficienti, si può intervenire con un taglio che, bene inteso, non rilasci troppe
matricine, ma che, in compenso, sia accompagnato da un rinfoltimento artificiale
con piantine di roverella o di altre querce, ivi compreso il leccio. In effetti, fra le
operazioni di miglioramento per i cedui di roverella, i rinfoltimenti artificiali sono
sempre opportuni come pure le piantagioni di arricchimento con il cipresso comune.
L’allevamento faunistico ha buone prospettive di applicazione nel contesto dei
territori caratterizzati da cedui di roverella. Infatti, questi ambienti calcarei subme-
diterranei, pur avendo una vegetazione non eccessivamente rigogliosa, hanno un
notevole numero di specie, non solo arboree ma anche arbustive, che garantiscono
riparo e alimentazione variata agli uccelli e agli ungulati. L’importante è non
eccedere nel carico di questi ultimi.
Il bosco pascolivo è un’antica soluzione esercitata nella forma di boschetto di alto
fusto oppure di ceduo composto. Il maiale non era l’unica specie allevata; si
introducevano anche le pecore e soprattutto i bovini. Il carico eccessivo di bestiame
comporta sempre la formazione di un sottobosco arbustivo composto da specie
rifiutate dal pascolo, fra cui principalmente specie spinose.
Le due attività prima accennate vengono svolte spesso recingendo porzioni più
o meno grandi di bosco per tenervi rinchiusi gli animali. Ne deriva un carico molto
concentrato che esaurisce rapidamente le risorse foraggere e che facilita il prevalere
di specie arbustive spinose. E’ evidente che non si può intervenire a dar luce con dei
tagli perché gli animali distruggerebbero subito qualsiasi ricaccio. Il recinto in bosco,
dunque, ha una utilità temporanea in boschi cedui che, poi, dovranno essere inelut-
tabilmente allevati all’alto fusto perché alla fine saranno troppo vecchi per potere
essere ceduati.
Nei querceti di roverella su suolo calcareo (TOCCI, 1985) vengono raccolti no-
tevoli quantitativi di tartufo nero (Tuber melanosporum Vitt.) che è in relazione
micorrizica anche con specie accompagnatrici quali il leccio, il carpino nero e, più
di rado, il nocciolo.
I suoli tartufigeni sono in genere poco evoluti e poco profondi ma non sottoposti
a perturbazioni, con scarsa sostanza organica, basici e calcarei, ricchi di ciottoli, ben
drenati e aerati, asciutti e caldi d’estate. I boschi sono radi e la degradazione è posta
in evidenza dalla frequenza di Spartium junceum.
La micorrizazione con il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico) è un fenomeno
meno diffuso e limitato alle zone più fresche (v. anche BOSCHI ALVEALI E RI-
PARI). Nelle stesse aree calcaree dove si raccoglie il precedente, anche se meno
pregiato, esiste pure lo scorzone (Tuber aestivum Vitt.) che qui è in simbiosi con il
carpino nero e la roverella.
foto
10.1. QUERCETO MESOTERMOFILO
DI ROVERELLA A ROSA SEMPERVIRENS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
far parte di quest’associazione e Tipo le ce- (semplice o composto) tenuto al turno di 10-
nosi rade o con esemplari isolati a sottobosco 14 anni con uno o due tagli intercalari e col
assente o poco caratteristico. continuo esercizio del pascolo. E’ possibile
che certe forme di degradazione siano dovute
Esposizioni anche ad abbruciamenti per facilitare
Tutte, tranne quelle settentrionali. quest’ultimo. Vicino alle case si praticava la
capitozzatura delle matricine per ricavarne
Distribuzione altitudinale frasca da foraggio.
Da 200 a 500 m o poco oltre. Alcuni di questi querceti derivano dalla rin-
novazione della roverella in vecchi semina-
Geomorfologia tivi alberati con querce camporili.
Dorsali e pendici assolate in un contesto col- Attualmente il sistema a ceduo matricinato si
linare. Qualche affioramento di roccia. applica col taglio secondo un turno che ve-
rosimilmente si consoliderà attorno a 25-35
Substrati anni. Si riservano da 70 a 150 o più matricine
Calcari marnosi ("alberese"). Scisti calcareo- per ettaro che le prescrizioni consentono di
argillosi ("galestri"). Talvolta anche sabbie e sostituire interamente al taglio successivo.
argille non calcaree e rocce ofiolitiche (fer- Molto spesso queste matricine sono scelte fra
romagnesiache). polloni poco vigorosi e allora sono ricono-
scibili perché il loro fusto si copre di rami
Suoli epicormici e poi perché si incurvano o si
Mediamente profondi o anche superficiali per schiantano.
erosione, pietrosi, con calcare attivo e pH Il taglio dei cedui composti viene praticato
neutro-basico, con elevato contenuto di limo con un avvicendamento di matricine più o
e argilla; talvolta anche eluviati su calcare, meno prudente.
sabbioso-argillosi e allora acidi e privi di cal-
care. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Clima In questi boschi la prevalenza della roverella
Il clima generale comporta una temperatura è in parte naturale e in parte è il risultato di
media annua da 12° a 16° e una media del una degradazione divenuta oramai quasi per-
mese più freddo da 0° a 3°, con minimi as- manente. In tali condizioni la roverella è in
soluti fino a -15°, -20°, però la posizione so- equilibrio, e si dimostra ancora capace di rin-
leggiata e l’influenza dell’ambiente calcareo novazione naturale, mentre l’ingresso in mas-
offrono un microclima locale più caldo. Pre- sa degli arbusti del Pruneto e del carpino nero
cipitazioni medie annue fra 800 e 1.200 (1.400) è localizzato alle stazioni meno aride. E’ inol-
mm. Precipitazioni estive intorno a 120-150 tre possibile l’insediamento del leccio sotto
mm. Il suolo superficiale e calcareo può, tut- la roverella. La quercia sempreverde (che è
tavia, determinare condizioni di aridità. più tollerante dell’ombra) è ovviamente faci-
litata nella concorrenza con la caducifoglia
Interventi antropici più frequenti finché non trova un impedimento nelle tem-
Il trattamento passato prevedeva il ceduo perature troppo basse.
Specie indicatrici (1)
Cosa si deve
Quercus pubescens CLEMATIS FLAMMULA spostare?
Fraxinus ornus RUBIA PEREGRINA
Quercus cerris (loc.) ASPARAGUS ACUTIFOLIUS
Q. ilex (loc.) Viola alba dehnhardtii
Sorbus domestica (loc.) Hedera helix
Juniperus communis Carex flacca
Cornus sanguinea Teucrium chamaedrys
Prunus spinosa Brachypodium sylvaticum
Ligustrum vulgare Dactylis hispanica
Crataegus monogyna Buglossoides purpuro-coerulea (loc.)
Cornus mas Dorycnium pentaphyllum (loc.)
ROSA SEMPERVIRENS Coronilla emerus (loc.)
SMILAX ASPERA Pyracantha coccinea (loc.)
LONICERA IMPLEXA Tamus communis (loc.)
L. ETRUSCA Lathyrus sylvestris (loc.)
rafforzare la mescolanza, bisognerebbe riser- Oltre al rinfoltimento con la roverella sono
vare 5-15 matricine per ettaro di leccio da possibili il coniferamento con il cipresso e
allevare, poi, allo stato adulto. l’arricchimento col ciliegio selvatico.
Il sistema a ceduo composto (con lo stesso In questo Tipo sulla roverella si hanno ab-
turno del ceduo senza ripuliture del sottobo- bondanti raccolte di Tartufo nero (Tuber me-
sco) non comporta rischi gravi di concorrenza lanosporum Vitt.) insieme a più ridotti quan-
sul piano dominato ceduo. titativi di Tartufo bianco (Tuber magnatum
Ai fini del taglio dei cedui invecchiati si può Pico), quest’ultimo soprattutto sulle Colline
stimare che la capacità di rigenerazione per Samminiatesi e poi in Casentino, Mugello,
polloni, nonostante la fertilità scadente (e for- ecc. (v. BOSCHI ALVEALI E RIPARI), nel-
se proprio per questo), si mantenga sufficien- le zone fresche a contatto con questi ultimi
te fino a circa 60 anni di età. Nei cedui com- (basse pendici, impluvi).
posti invecchiati è difficile che le matricine Meno pregiato, presente nelle stesse plaghe,
arrivino ad uno sviluppo laterale di chioma ma non legato a salici e pioppi, è lo scorzone
tale da coprire interamente il terreno. (Tuber aestivum Vitt.).
10.2. QUERCETO MESOFILO
DI ROVERELLA E CERRO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Substrati core e anche di bovini. Oggi: ceduo composto
Calcari marnosi ("alberese"), scisti calcareo- a turno di almeno 30 anni. Pascolo ancora
argillosi ("galestri"). presente, ma più raro e con minor carico.
Sono state eseguite piantagioni di conifera-
Suoli mento con il cipresso oppure anche con il
Superficiali, da subacidi a neutri, spesso par- pino domestico.
zialmente decalcificati, non troppo asciutti.. Alcuni di questi popolamenti derivano
dall’invasione della roverella in seminativi
Clima alberati con querce camporili.
Temperatura media annua da 11° a 15°. Me-
dia del mese più freddo da 0° a 3°. Minime Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
assolute anche di -20°, localmente meno ac- denze dinamiche
centuate. Le precipitazioni annue medie pos- Questi querceti sono molto soggetti all’in-
sono essere inferiori a 1.000 mm e quelle gresso del carpino nero e di altre latifoglie.
estive fra 120 e 150 mm però gli effetti della E’ vero che la prospettiva teorica prevede il
siccità sono attenuati dall’esposizione. bosco misto in cui le querce caducifoglie
svolgono ancora un ruolo determinante, ma
Interventi antropici più frequenti la pratica del ceduo (e soprattutto quella del
In passato: trattamento a ceduo composto a ceduo composto) a turno allungato può com-
turno di 12-14 anni con tagli intercalari della portare anche la scomparsa delle querce e
vegetazione arbustiva. Pascolo di maiali, pe- determinare la trasformazione in ostrieto.
Specie indicatrici
I cedui composti invecchiati si trasformano magari accompagnato da una lavorazione su-
rapidamente in fustaie perché il grado di fer- perficiale e localizzata del terreno.
tilità presente favorisce una rapida espansio- Nelle zone fresche dei boschi di questo Tipo
ne della chioma delle matricine. a suolo con buona saturazione in basi (Colline
La rinnovazione da seme della fustaia è pre- Samminiatesi, Mugello e Casentino), a con-
vedibile quando il popolamento si è evoluto tatto con i BOSCHI ALVEALI E RIPARIA-
al punto da non avere quasi più lo strato ar- LI (v.), è possibile la presenza del Tartufo
bustivo denso delle latifoglie e dagli arbusti bianco in simbiosi con roverella, cerro e car-
di invasione. Allora si può fare in una annata pino nero oltre a quella più diffusa del Tartufo
di ghianda abbondante un taglio di sementa- nero che preferisce zone di versante meno
zione che lascia solo 40-50 piante per ettaro, fresche.
10.3.QUERCETO MESOXEROFILO
DI ROVERELLA A CYTISUS SESSILIFOLIUS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Caratterizzazione fisionomica e fitosocio- con molto carpino nero (proprio delle sta-
logica zioni più fertili)
Bosco misto (per lo più ceduo matricinato)
di roverella, orniello e anche di cerro con Localizzazione
carpino nero, acero campestre, ecc. Fertilità Appennino tosco-romagnolo, soprattutto sul
varia, per lo più fra la I e la III classe. versante adriatico.
Strato arbustivo generalmente abbondante
con Cytisus sessilifolius, Spartium junceum Esposizioni
e talvolta Cotinus coggygria, soprattutto ai Varie, ma per lo più meridionali.
bordi e nelle radure.
Appare affine alle associazioni: Orno-Quer- Distribuzione altitudinale
cetum pubescentis Klika sensu Barbero, Gru- Da 400 a 700 metri.
ber, Loisel (1971) e Campanulo mediae -
Quercetum pubescentis (Barbero e Bono Geomorfologia
1971) Ubaldi 1995. Pendici ripide.
Sottotipi Substrati
Il Tipo ha varianti secondo le mescolanze; Scisti della formazione "Marnoso-arenacea".
per esempio:
con cerro Suoli
Relativamente profondi, ma con scheletro ab-
Inoltre ci sono sottotipi legati allo stato di degra- bondante, a pH neutro-basico, spesso con cal-
dazione oppure di evoluzione per esempio: care attivo, tendenzialmente argillosi.
a Brachypodium rupestre (indica esiti da
incendio) Clima
con ginestra odorosa (frequente nei cedui Temperatura media annua da 10° a 15°. Tem-
lacunosi e di minore fertilità) peratura media del mese più freddo da -1° a
+2°. Precipitazioni comprese fra 1.100 e Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
1.400 mm, con siccità estiva attenuata (150- denze dinamiche
200 mm). Si tratta di querceti che, dopo l’attenuazione
del regime dei tagli, sono molto soggetti a
Interventi antropici più frequenti espansioni del carpino nero a partire dalle
Trattamento a ceduo matricinato a turno di posizioni di impluvio.
12-14 anni. Tagli intercalari, pascolo (ora in
diminuzione) e anche abbruciamenti.
Specie indicatrici
10.4. QUERCETO ACIDOFILO
DI ROVERELLA A CERRO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Interventi antropici più frequenti Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Governo a ceduo con turno breve, tagli inter- denze dinamiche
calari, pascolo, abbruciamenti. La roverella può trovare una certa stabilità
Talvolta questi boschi derivano dall’ingresso perché il suolo acido tende ad escludere o ad
della roverella in castagneti da frutto abban- attenuare l’invasione degli arbusti del Prune-
donati. to e del carpino nero; eventualmente si può
avere un infittimento del cerro o del castagno.
Specie indicatrici
10.5. QUERCETO TERMOFILO DI ROVERELLA
CON LECCIO E CERRO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Interventi antropici più frequenti gruppamenti più che a mescolarsi tendono a
Taglio a ceduo matricinato. formare boschi che si intercalano fra loro. E’
quindi difficile stabilire un ciclo evolutivo;
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- si può opinare che il governo a ceduo matrici-
denze dinamiche nato con turno allungato possa favorire il leccio
Casi come questo di bosco misto a caducifo- perché è la specie più tollerante dell’ombra;
glie e sempreverdi sono meno estesi di quanto il carpino nero è aggressivo solo nei fondo-
si possa pensare perché le specie dei due rag- valle e nelle esposizioni a nord.
&(55(7(
(1)
Ivi inclusi i suoi boschi misti al farnetto.
I cedui del centro e del settentrione della Toscana sono in uso da più tempo con
i criteri di cui si è già detto a proposito della roverella: turno di 10-14 anni, tagli
intercalari delle specie diverse dalle querce e intensa applicazione del pascolo.
Questo regime di severi prelievi, dannoso a tutte le specie più esigenti, ha pri-
vilegiato la diffusione del cerro. Nei boschi di cerro le specie consociate che sono
state allontanate dalle ceduazioni erano diverse da quelle dei boschi di roverella e
potevano comprendere anche la rovere e la farnia e una certa aliquota di latifoglie a
legno pregiato come l’acero di monte, l’acero opalo s.l., l’acero riccio, il frassino
meridionale, il ciliegio selvatico e i tigli.
I cedui di cerro del nord della Toscana, a causa dell’uso più prolungato, si trovano
in condizioni di minore fertilità e di maggiore degradazione del suolo. Le latifoglie
esigenti sopra elencate sono divenute rare e occasionalmente si possono riscontrare
rifugiate in luoghi di forra.
Più a sud (come sulle Colline Metallifere e in Maremma) il regime dei cedui
è stato influenzato dalla colonizzazione umana più recente, dalla minore densità
della popolazione, dalle maggiori distanze e, localmente, anche dai particolari
assortimenti richiesti dalle miniere. Alcuni boschi cedui derivano da trasforma-
zioni di fustaie avvenute nella seconda metà dell’ottocento, (TARUFFI, 1905; GAB-
BRIELLI, 1980, 1985).
Così i cedui a dominanza di cerro del sud della Toscana sono stati trattati con
turni più lunghi (15-20 anni), senza o con più rari tagli intercalari, e con minore
carico del pascolo. Non sono state rare forme di matricinatura più intense per la
produzione di materiale per l’armatura delle miniere. Grazie alla minore durata e
alla minore severità dei prelievi, i cedui di cerro della Toscana meridionale presentano
in generale una fertilità più alta con più frequenti mescolanze con la rovere, col
frassino meridionale, con l’acero opalo s.l. e con altre latifoglie esigenti.
I cedui di cerro non hanno conosciuto solo lo sfruttamento ma hanno anche
ricevuto interventi di miglioramento. Fra questi sono da ricordare i coniferamenti
col pino marittimo e, soprattutto, i rinfoltimenti e i rimboschimenti per semina di
ghianda. I boschi migliorati, poi, tornavano al trattamento a ceduo.
A partire dal 1920 circa, e soprattutto nell’ultimo dopoguerra dopo il 1955, il
consumo decrescente degli assortimenti di piccole dimensioni ha determinato una
lunga "crisi del bosco ceduo". Nel periodo fra il 1955 e il 1975 i tagli erano tanto
ridotti da far pensare che tutti i cedui di quercia dovessero essere lasciati evolvere
all’alto fusto.
Dopo il 1975, però, i tagli sono stati ripresi perché l’età più avanzata (25-35
anni) e il conseguente maggiore sviluppo dei polloni consentiva sufficienti rese
economiche. Nel frattempo è scomparso l’uso di un assestamento per avvicendamento
di particelle con la conseguenza che le superfici tagliate possono essere anche grandi.
Il solo prodotto dei cedui è la "legna da catasta" e i tagli intercalari non si praticano
più. Il pascolo viene esercitato solo in poche aziende e con carichi molto modesti.
I boschi di alto fusto del cerro (circa 1.700 ettari) sono cedui che, fra il 1970 e
il 1980 circa, sono stati avviati all’alto fusto nelle foreste demaniali con scopi prin-
cipalmente paesaggistici.
Sono state tentate, ma senza un successivo grande esito, alcune forme di tratta-
mento in vista del pascolo come l’avviamento all’alto fusto a strisce alterne (GAMBI,
1984). Anche i boschi di cerro sono stati interessati da recinzioni per l’allevamento
di animali domestici o di ungulati selvatici.
Aspetti selvicolturali
Nella seguente tabella di fertilità (elaborata sui dati di GALIANO, 1992) i boschi
dalla IV classe di fertilità sono soprattutto misti con la roverella. E’ inoltre possibile
che esistano popolamenti di cerro con fertilità superiore alla I.
Per la stima della resa in legna da ardere (espressa in quintali per ettaro, peso
fresco) di un bosco ceduo non troppo vecchio a densità colma, si può accettare la
formula empirica che prende l’altezza media diminuita di 2 metri e moltiplicata per
100 (BERNETTI, 1980). Un bosco ceduo dell’altezza media di 10 m darebbe, pertanto,
800 quintali per ettaro.
I cedui di cerro di fertilità eccezionalmente scadente seguono lo sviluppo in
altezza indicato per la IV classe di fertilità soltanto fino a 25-30 anni; poi l’accre-
scimento si arresta perché alle piante che man mano superano 6-7 m di altezza si
secca la cima (BERNETTI, 1981). I boschi a prevalenza di cerro vengono trattati
ancora secondo il sistema a ceduo matricinato eccettuate la minore aliquota trattata
a ceduo composto e le piccole superfici avviate all’alto fusto nell’ambito di foreste
demaniali. Infine, sono da discutere i rapporti con l’esercizio del pascolo.
Il sistema a ceduo matricinato si pratica con tagli su superfici fino a 10 ettari
in boschi di 20-30 anni di età secondo la fertilità e le contingenze commerciali. Si
riservano quasi esclusivamente polloni rilasciati per un solo ciclo in più mentre le
matricine "adulte" sono solo occasionali. La densità minima delle matricine dovrebbe
essere (secondo le prescrizioni di massima) di 70-80 per ettaro, però le autorità
forestali arrivano ad imporne anche più di 150.
La matricinatura, anche se di un solo turno in più, ha sempre un senso perché
offre la possibilità, sia pure non molto appariscente, di rinnovazione delle ceppaie e
permette di produrre, a fine turno, una aliquota di tronchetti più grossi. Le matricine
devono essere scelte fra il polloni più vigorosi altrimenti vengono troncate dalle
intemperie o raggiunte in dimensioni dai nuovi polloni; tuttavia i tagliatori tendono
a riservare matricine inadeguate e ciò tanto più quanto maggiore è il numero stabilito
anche perchè, quanto più breve è la distanza imposta fra le matricine, tanto più è
difficile trovare polloni vigorosi collocati nel punto voluto.
Nei cedui più fertili l’eccesso della matricinatura può portare ad una riduzione
del vigore dello strato dei polloni di cerro che diventa grave se il taglio ritarda troppo
perché, fra l’altro, il cerro è la quercia caducifoglia che ha maggiori esigenze di luce.
Per conservare il ceduo con una dominanza di querce bisogna dunque dosare la
matricinatura con un certo giudizio. Sarebbe utile sperimentare alcune forme di
distribuzione per gruppi (del resto previsti dalle prescrizioni di massima) come per
esempio a boschetti sparsi oppure a filari lungo le vie di esbosco.
Nei cedui meno fertili, la matricinatura non solo offre il massimo di vantaggi
ambientali (perché è qui che bisogna conservare la densità delle ceppaie e perché è
qui che il cerro si rinnova meglio in assenza di concorrenti), ma provoca anche meno
pericoli perché nelle stazioni poco fertili la capacità di rigenerazione per polloni si
conserva più a lungo.
Come nei cedui di roverella, così anche nei cedui di cerro l’allungamento del
turno, l’abbandono dei tagli intercalari e l’aumento della matricinatura comportano
un miglioramento stazionale cui consegue la tendenza al ritorno spontaneo di specie
diverse dalle querce.
Nei cedui di cerro le migliori condizioni stazionali dovrebbero ammettere l’in-
gresso di latifoglie arboree esigenti e a legno pregiato come la rovere, la farnia, gli
aceri, il ciliegio, il frassino maggiore, il frassino meridionale, i tigli e anche il faggio.
Più di frequente, però, intervengono le stesse specie che invadono i querceti di
roverella (carpino nero, orniello, ecc.), ma la mancanza delle specie esigenti non è
dovuta sempre ai fattori ecologici quanto al fatto che sono scomparse le piante
portaseme di queste specie. Per conseguenza, nell’ambito dei cedui di cerro, le pian-
tagioni di arricchimento con rovere, farnia e altre latifoglie potrebbero avere un
ampio campo di applicazione.
Nelle stazioni mediocri l’invasione con le latifoglie può mancare e la cerreta
può trovarsi in equilibrio. Gli arbusti spinosi del Pruneto (biancospino, prugnolo,
rose selvatiche, ecc.) possono presentarsi come uno strato transitorio dovuto a pre-
cedenti eccessi del pascolo che è soggetto, poi, a scomparire quando il cerro chiuderà
la copertura.
Nei cedui invecchiati, il ripristino del ciclo delle ceduazioni può essere consentito
finché si ritiene che il popolamento possa reagire al taglio con una sufficiente rige-
nerazione per polloni. In linea generale ciò avviene dopo i 30-40 anni di età secondo
la fertilità; la possibilità di rigenerazione è compromessa quando la sezione di taglio
di parecchi polloni risulta superiore a 15 cm di diametro.
Nei cedui composti invecchiati, la situazione presenta maggiori difficoltà perchè
il numero delle ceppaie di cerro può risultare ridotto dall’oppressione delle matricine.
Quando, poi, si è imposta una maggioranza di ceppaie di altre latifoglie, il ripristino
del governo a ceduo non comporta pericoli di carattere idrogeologico, ma solo una
modifica della composizione che il più delle volte avviene con specie di minore
valore commerciale e di minor valore paesaggistico rispetto alle querce. Se la situa-
zione non è compromessa e si può consentire il taglio a ceduo, bisogna avere il
coraggio di lasciare solo poche matricine perchè, nel ceduo di già invecchiato, anche
le matricine sono di età avanzata e quindi capaci di svilupparsi presto a dimensioni
tali da esercitare una forte concorrenza sulle ceppaie.
Se il popolamento è invecchiato oltre i limiti, ma nonostante tutto si vuole ripristinare
il governo a ceduo, allora si può tentare la via dell’avviamento all’alto fusto temporaneo.
Tale procedimento, consigliato dal PERRIN (1954), consiste in questa sequenza di ope-
razioni: 1. diradare lasciando i polloni migliori; 2. attendere che il popolamento si sviluppi
ulteriormente; 3. praticare il taglio di sementazione in una annata di ghianda abbondante;
4. dopo pochi anni, se e quando il novellame si è affermato, fare il taglio di sgombro;
5. ceduare il novellame all’anno del turno del ceduo.
Questa soluzione non è comunque molto facile. Piuttosto, bisogna verificare se
non sia il caso di ovviare alla perdita di capacità di rigenerazione per polloni, ai
cambiamenti indesiderati di specie e ad altri difetti dei cedui, mediante l’introduzione
di specie tramite piantagioni da effettuarsi contestualmente al taglio, in corrispon-
denza di vuoti e, preferibilmente, disponendo le piantine a gruppi densi.
Si possono ipotizzare due tipi di piantagione nel ceduo. Il rinfoltimento con lo
stesso cerro è utile nei popolamenti invecchiati dove si teme che parte delle ceppaie
non potrà più emettere polloni. L’arricchimento, invece, si fa introducendo specie a
legno pregiato ed è indicato per i cedui di buona fertilità invasi da specie di minor
valore. Nei due casi, una parte delle piante introdotte può, poi, essere allevata come
matricina. Pertanto sia il rinfoltimento che l’arricchimento possono risolversi anche
in una premessa per la successiva conversione a ceduo composto o, addirittura, a
bosco di alto fusto.
L’arricchimento con conifere oppure con latifoglie estranee alla flora dei nostri
querceti è pur sempre possibile: per esempio con il cedro dell’Atlante e, nelle stazioni
più fertili, con il noce comune e il noce nero.
L’avviamento all’alto fusto dei cedui di cerro, come si è già accennato, è stato
eseguito in alcuni cedui di proprietà dello Stato e della Regione. Le giovani fustaie
che ne derivano assolvono solo a scopi paesaggistici perchè il principale assortimento
legnoso ricavabile dalle fustaie di cerro (le traversine ferroviarie) sta andando rapi-
damente in disuso.
Nei giovani querceti che ne risultano si insedia un piano inferiore di altre latifoglie
esattamente come nei cedui a turno allungato. L’avviamento all’alto fusto del cerro
ha, dunque, come primo effetto, quello di aumentare la biodiversità.
L’incremento di biodiversità dovuto all’ingresso di altre latifoglie nel bosco di
cerro può, tuttavia, risultare effimero. Dal confronto con esempi di ceduo molto
invecchiato, risulta che il piano di vegetazione inferiore, crescendo sotto copertura,
subirà col tempo una forte selezione numerica, mentre le piante sopravvissute cre-
sceranno esili e filate e andranno a chiudere le lacune del querceto contribuendo così
ad accentuare l’ombra al suolo (BERNETTI, 1995).
In tal modo, nel bosco maturo finale, il cerro riaffermerà la sua supremazia
a meno di ulteriori interventi selvicolturali miranti a dare piena luce anche ad
alcune piante di specie diversa dalle querce.
Per impedire questa involuzione si possono prevedere dei tagli a buche a carico
del cerro eseguiti con lo scopo di dare luce al piano inferiore di insediamento. Le
buche da tagliare a raso devono avere la superficie minima di 2.000 m2 e devono
essere tanto più frequenti quanto maggiore è il valore che si attribuisce alla mescolanza
anche in relazione alle specie presenti.
In aziende dove si pratica anche la zootecnia è stata intrapresa la trasformazione
dei querceti in boschi di alto fusto pascolivo. Con questo nome si intendono boschi
trattati ad alto fusto con accorgimenti tali da renderli adatti alla produzione di foraggio
da pascolo come, per esempio: 1. col taglio a bande alterne a ceduo tagliato a raso
e a ceduo avviato all’alto fusto; 2. col taglio di avviamento all’alto fusto con un
numero minore di piante riservate e 3. col diboscamento parziale a strisce lavorate
e seminate con piante foraggere.
A questo proposito non è possibile trarre conclusioni definitive, soprattutto se
si considerano le conseguenze a lunga scadenza quando le reazioni del bosco possono
comportare la chiusura della copertura e, quindi, la scomparsa del foraggio o quando
il sovraccarico degli animali può provocare l’insediamento di un sottobosco arbustivo
dominato da specie spinose o comunque selezionate fra quelle non appetite.
Nel caso dell’allevamento in recinti in bosco, molto dipende dalla specie
animale allevata e dalla quantità di alimenti apportati dall’esterno. Alcune specie
di animali (come i suini che sono molto mobili), possono provocare col calpestio
gravi erosioni al suolo. Con i ruminanti domestici o selvatici si determina spesso
una forte invasione di arbusti non appetiti fra cui, soprattutto, le specie spinose
degli arbusti del Pruneto.
11.1. CERRETA EUTROFICA
AD ACER OPALUS s.l.
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
con faggio Badia Prataglia il tipo si presenta come rim-
con nocciolo boschimento fatto con semina di cerro poi
sottoposto a ceduazione per alcuni cicli e,
Localizzazione infine, avviato all’alto fusto. Nelle Colline
Varia e dipendente dai sottotipi. I popolamen- Metallifere si presenta come ceduo derivato
ti di riferimento sono stati osservati a Camal- da conversione recente da fustaia. Al Monte
doli, a Badia Prataglia, nelle Colline Metal- Amiata il tipo si manifesta sia in boschi an-
lifere e sui rilievi esterni arenacei presso il cora cedui matricinati che in boschi cedui
Monte Amiata, M. Cetona, estremo settore composti invecchiati ed evoluti a fustaia rada
Est della regione (v. Substrati). a causa della presa di dominanza delle ma-
tricine.
Esposizioni
Per lo più riparate e tendenti verso nord. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Distribuzione altitudinale In questi boschi a terreno profondo e in con-
Da 500 a 800 metri. dizioni climatiche e microclimatiche favore-
voli, l’evoluzione è piuttosto rapida. Il bosco
Geomorfologia potenziale è probabilmente un bosco misto
Stazioni favorevoli all’accumulo colluviale di latifoglie esigenti anche con rovere e/o far-
di terreno, come nella parte inferiore delle nia. Il ritorno delle specie dipende ovviamen-
pendici e nelle depressioni. te dalla presenza di piante disseminatrici.
Nella prima diffusione entrano soprattutto i
Substrati due carpini e l’acero opalo. Il ritorno della
Prevalentemente arenarie con intercalazioni rovere e/o della farnia è estremamente pro-
di scisti. Anche lave trachitiche all’Amiata e blematico.
marne con argilliti nelle alte Valli del Foglia La discesa del faggio o dell’abete dipendono
ed del Marecchia. dalla vicinanza a boschi di queste specie che
siano in età matura.
Suoli Un così vivace ritorno della biodiversità na-
Suoli neutri o subacidi, profondi e con humus turale, tuttavia, non è scevro da probabili ul-
ben distribuito nel profilo, a complesso di teriori impedimenti perchè, col passare degli
basi più saturo nelle marne con argilliti e an- anni, gli effetti della concorrenza fra i nuovi
che sulle rocce vulcaniche. venuti si sommano agli effetti dell’ombreg-
giamento delle querce. La mortalità diventa
Clima molto forte e, alla fine, restano solo i soggetti
Temperatura media annua da 10° a 15°. Me- che si inseriscono negli spazi vuoti della co-
dia del mese più freddo da -1° a 2°. Minimi pertura del querceto mentre il suolo torna ad
assoluti fino a -20°. Precipitazioni medie an- essere coperto solo dal sottobosco erbaceo
nue superiori a 1.000 mm. Precipitazioni me- anche con pungitopo e edera (BERNETTI,
die estive superiori a 150 millimetri. 1995). Per queste ragioni la rievoluzione ver-
so il bosco misto può avere bisogno di un
Interventi antropici più frequenti aiuto colturale.
Sono tutti popolamenti precedentemente trat- La presenza di nocciolo corrisponde ad una
tati a ceduo, sia pure con derivazioni e vicen- fase evolutiva di miglioramento dopo un uso
de differenti. Nelle Foreste di Camaldoli e di severo del bosco come ceduo.
Specie indicatrici
Quercus cerris C. monogyna
ACER OPALUS s.l. (freq.) Corylus avellana
Ostrya carpinifolia Euonymus europaeus
Prunus avium Daphne laureola
Acer pseudoplatanus Lathyrus venetus
Acer platanoides (loc.) Melica uniflora
A. campestre (loc.) Potentilla micrantha
Carpinus betulus (loc.) Primula vulgaris
Tilia cordata (loc.) Euphorbia amygdaloides
Fraxinus excelsior (loc.) Hepatica nobilis
Fagus sylvatica (loc.) Ranunculus lanuginosus
Castanea sativa (loc.) Symphytum tuberosum
Abies alba (r) Pulmonaria sp. pl.
Fraxinus oxycarpa (M. Amiata) Helleborus bocconei
Sorbus torminalis (loc.) Listera ovata
Malus sylvestris Carex sylvatica
Pyrus pyraster Sanicula europaea
Crataegus laevigata
11.2. CERRETA MESOFILA COLLINARE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Caratterizzazione fisionomica e fitosocio- con arbusti spinosi del Pruneto e con perastro
logica (spesso come conseguenza del pascolo)
Boschi di cerro, per lo più cedui, della II clas-
se di fertilità, consociati con acero campestre, Localizzazione
roverella, con anche carpino nero, talvolta Colline Metallifere e altri rilievi della Ma-
carpino bianco ed, eventualmente, castagno. remma, Pratomagno, Mugello, Casentino
Nelle radure sono frequenti gli arbusti del (salvo in Lunigiana). Più raro nell’Appennino
Pruneto: ligustro, evonimo europeo, bianco- dove lo sviluppo della castanicoltura ha sot-
spini, prugnolo, rose selvatiche, oltre a gine- tratto al cerro i terreni migliori.
pro comune, con edera e pungitopo nei po-
polamenti invecchiati e a densità colma. Esposizioni
Corrisponde a Melico uniflorae-Quercetum Varie, ma prevalentemente a nord alle quote
cerridis Arrigoni 1990, anche con la subass. inferiori.
carpinetosum betuli Arrigoni, Mazzanti,
Ricceri 1990. Distribuzione altitudinale
Da 400 a 800 metri.
Sottotipi e varianti
Sono importanti le varianti secondo la pre- Geomorfologia
senza di latifoglie diverse dalle querce. In Pendici ad inclinazione moderata.
particolare:
a carpino nero (il più comune) Substrati
a carpino bianco e talvolta faggio (alte colline Arenarie e altre rocce silicatiche.
del bacino dell’Ombrone e del Fiora) in espo-
sizione nord secondo ARRIGONI et al. 1990 Suoli
a frassino meridionale (di passaggio alla Subacidi da profondi a mediamente profondi,
CERRETA MESOFILA PLANIZIALE E ben drenati, freschi, con deboli tracce di lisci-
D’IMPLUVIO) viazione; humus ben distribuito nel profilo.
Clima duo (allungamento del turno, incrementi alla
Temperatura media annua da 10° a 13°. Tem- matricinatura, avviamento all’alto fusto) con-
peratura media del mese più freddo da -1° a duce ad una evoluzione relativamente rapida
+3°. Minime estreme anche fino a -20°. Pre- che, per lo più, è mediata dal carpino nero
cipitazioni annue superiori a 1.000-1.200 mm che in alcuni casi può veramente minacciare
(estive superiori a 150 mm), con effetti favo- la permanenza del cerro.
revoli accentuati dal microclima delle espo- Comunque su cedui molto invecchiati o av-
sizioni settentrionali. viati all’alto fusto, l’ingresso delle latifo-
glie può rivelarsi un episodio effimero. In-
Interventi antropici più frequenti fatti lo strato del carpino nero e delle altre
I boschi di questo tipo vengono trattati a ce- latifoglie può rimanere molto selezionato
duo matricinato con matricine tenute per un per l’effetto combinato dell’ombra delle
solo turno in più, raramente a ceduo compo- querce e dei carpini sopravvissuti i quali,
sto. Esistono esempi di avviamento all’alto sviluppandosi, sono andati a chiudere i vuo-
fusto. Ci sono anche esempi in cui (almeno ti residui.
in una prima fase) il cerro ha invaso casta- La mortalità delle piante dello strato inferiore
gneti da frutto abbandonati. è tanto più accentuata in quanto (come per
tutte le specie) le esigenze di luce aumentano
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- col crescere dell’età. Anche lo strato di arbu-
denze dinamiche sti spinosi può diminuire di molto col chiu-
L’attenuazione dell’impatto del regime a ce- dersi della copertura.
Specie indicatrici
Quercus cerris MELICA UNIFLORA
Q. pubescens (subordin.) OENANTHE PIMPINELLOIDES
Acer campestre Euphorbia amygdaloides
Fraxinus ornus Festuca heterophylla
Ostrya carpinifolia Brachypodium sylvaticum
Pyrus pyraster Tamus communis
Acer opalus s.l. (loc.) Viola reichembachiana
Carpinus betulus (loc.) Cruciata glabra
Castanea sativa (loc.) Fragaria vesca
Crataegus laevigata Hedera helix
C. monogyna Viola alba dehnhardtii
Cornus mas Stachys officinalis
Prunus spinosa Ruscus aculeatus (loc.)
Clematis vitalba Sanicula europaea (loc.)
Juniperus communis Orchis maculata (loc.)
Corylus avellana (loc.) Lathyrus venetus (loc.)
Rosa arvensis (loc.)
Chamecytisus hirsutus (loc.)
Selvicoltura ciliegio. Nei boschi avviati all’alto fusto sono
Si tratta di cedui abbastanza produttivi che opportuni tagli a buche per mantenere la me-
possono essere arricchiti con rovere o con scolanza.
Cerreta mesoxerofila - Pendii addolciti su suoli di origine vulcanica con cerrete cedue alternanti a
colture estensive presso Pitigliano (Grosseto)
11.3. CERRETA MESOXEROFILA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Poco profondi, spesso argillosi, più spesso
neutri, di rado subacidi, sovente con calcare Interventi antropici più frequenti
libero presente in profondità. Ceduazioni, pascolo, incendi.
Specie indicatrici
11.4. CERRETA ACIDOFILA MONTANA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
della formazione marnoso-arenacea e rocce nel trimestre estivo) è diminuito dal soleg-
ofiolitiche (ferro-magnesiache). giamento, dalla pendenza del terreno e dalla
scarsa profondità del suolo.
Suoli
Suoli poco profondi, acidi, piuttosto ricchi di Interventi antropici più frequenti
sostanza organica ma anche di scheletro, con Ceduazioni, incendio, pascolo. E’ possibile
una certa tendenza all’inaridimento, solo de- che ci siano casi interessati da una precedente
bolmente lisciviati. coltura a castagno.
Specie indicatrici
11.5. CERRETA ACIDOFILA DEI TERRAZZI
A PALEOSUOLI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Substrati Interventi antropici più frequenti
Sabbie più o meno argillose con ciottolami Si tratta di boschi che hanno subito un intenso
di arenarie. uso antropico compresa l’introduzione della
castanicoltura (PIUSSI, 1982).
Suoli
Per lo più profondi, ma ricchi di scheletro e Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
marcatamente lisciviati, acidi, con orizzonte denze dinamiche
illuviale rossastro bene evidente. Dove il suolo è meno profondo è possibile
una evoluzione lenta che, in assenza di con-
Clima correnti, permette la rinnovazione delle quer-
Temperatura media annua da 9° a 15°. Media ce. Altrove, l’evoluzione in senso mesofilo
del mese più freddo da -1° a +2°. Piogge comporta l’ingresso del carpino nero, del
annue superiori a 1.000 mm; piogge estive nocciòlo o anche della robinia mentre il pino
intorno a 120-150 millimetri. marittimo viene agevolato da incendi e ce-
duazioni.
Specie indicatrici
11. 6. CERRETA ACIDOFILA
SUBMEDITERRANEA A ERICHE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Suoli semina di ghianda. L’incendio è relativamen-
Suoli non molto evoluti, da acidi a subacidi, te frequente. Incendi ripetuti possono portare
con scarsa lisciviazione (fenomeni di illuvia- alla degradazione in arbusteto a eriche mentre
zione modesti e poco espressi); facile il dis- quelli bassi e meno catastrofici possono fa-
seccamento estivo. Se derivati da rocce cal- cilitare la diffusione di un sottobosco a Bra-
caree sono eluviati in superficie. chypodium rupestre.
Specie indicatrici
11.7. CERRETA MESOFILA PLANIZIALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
e 16°. Media del mese più freddo fra 3° e 7°. matricinato con pascolo. Possibile il sovrac-
Precipitazioni annue al di sotto di 1.000 mm carico di animali selvatici.
e pioggia estiva anche sotto i 120 mm, ma
gli effetti della siccità sono comunque atte- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
nuati dall’acqua di falda. denze dinamiche
Questi boschi planiziali sono soggetti anche
Interventi antropici più frequenti a rapide evoluzioni e rievoluzioni verso il
Sono residui dei boschi che esistevano prima bosco misto. Nelle fasi immediate sono da
delle bonifiche eseguite nel secolo scorso. prevedere notevoli difficoltà nella rinnova-
Molti si trovano in proprietà pubbliche. Nelle zione delle querce caducifoglie. Il ritorno
proprietà private sono stati trattati a ceduo spontaneo della farnia è impossibile.
Specie indicatrici
11.8. CERRETA TERMOIGROFILA
MEDITERRANEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
boschi di alto fusto eseguiti nel periodo com- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
preso fra il 1750 e il 1900. Il turno è stato di denze dinamiche
9-10 anni, poi di 12-14 anni. Tipo di bosco La rinnovazione del cerro è possibile solo su
ritenuto molto adatto (e di fatto molto sfrut- cicli molto lunghi. E’ possibile che l’avvia-
tato) per il pascolo. Frequente la matricina- mento all’alto fusto comporti una riduzione
tura o il trattamento a ceduo composto. del numero di specie presenti.
Specie indicatrici
11.9. QUERCETO DI CERRO E FARNETTO
A PULICARIA ODORA(1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
(1)
Le stazioni poste più a nord di quelle toscane sono solo quelle umbre presso il lago Trasimeno.
(2)
Querceto a cerro e farnetto secondo HOFMANN Am., 1992.
Substrati eventuali deficienze di umidità (in tutta la
Molto vari: suoli alluvionali, colluviali, de- zona si ha un più o meno accentuato deficit
positi fluvio-lacustri, sedimenti continentali idrico estivo) con precipitazioni annue medie
antichi, calcari cavernosi, sedimenti marini e di circa 800 mm e di 80-100 mm nei mesi
continentali più recenti, macigno, argille con estivi. Le stazioni di cerro e farnetto “ rica-
calcari palombini, calcareniti. Il farnetto ap- dono nell’area fitoclimatica dei consorzi mi-
pare indifferente alla natura del substrato. sti di latifoglie decidue” (ARRIGONI, 1972).
Specie indicatrici
Selvicoltura nell’impossibilità, la presenza del può essere
Popolamenti per lo più cedui riferibili alla I conservata tramite il trattamento a ceduo
classe di fertilità del cerro; talvolta si trovano composto con matricine di farnetto. Si im-
piccoli lembi di fustaia rada. pone l’istituzione di almeno un popolamen-
Auspicabile l’avviamento all’alto fusto; to da seme.
Cerreta acidofila dei terrazzi a paleosuoli - Cerreta cedua con roverella, di classe di fertilità
mediocre, su paleosuoli di colore rossastro con accumulo illuviale di argilla presso Sansepolcro
(Arezzo). Ai bordi si notano: Erica arborea, E. scoparia, Cytisus scoparius e Calluna vulgaris
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interna , in ogni modo, arrivano al livello di 250.000 lire al metro cubo
(BERNETTI I et al., 1993).
Il carpino bianco (Carpinus betulus) è senza dubbio più frequente in Toscana.
Notoriamente è specie ben lontana dall’avere l’importanza della rovere nella tradi-
zione degli usi del legno e nel paesaggio, ma resta tuttavia una specie la cui distri-
buzione è strettamente legata a quella della rovere e della farnia. Pertanto le sue
presenze nei boschi toscani sono altrettanto meritevoli di essere evidenziate come
testimonianza dei collegamenti con la flora padana e d’oltralpe.
Le presenze in Toscana delle specie che, poi, si sono distribuite fino a caratte-
rizzare il paesaggio medioeuropeo si spiegano come relitti rimasti arroccati nelle
plaghe con condizioni del suolo più favorevoli, circondati e minacciati dall’espan-
sione di specie più resistenti all’aridità e più esigenti di calore.
Su questi equilibri instabili l’azione dell’uomo è poi intervenuta sia intenzio-
nalmente che indirettamente.
Per esempio, i boschi un tempo ospitanti la rovere e il carpino bianco sono stati
sostituiti con le colture agrarie o con i castagneti; d’altronde la riduzione a ceduo
dei boschi di latifoglie provocava condizioni di suolo e di microclima svantaggiose
per le specie medioeuropee e invece favorevoli all’invasione delle specie submedi-
terranee.
Attualmente le presenze del carpino bianco e le più rare presenze della rovere
seguono le seguenti tendenze. Nei luoghi in cui la colonizzazione umana è stata più
antica e continua (come per esempio nell’Appennino e nelle colline della valle
dell’Arno) la rovere è veramente molto rara mentre il carpino bianco è ancora repe-
ribile nel contesto di cerrete, di castagneti e, talvolta, di faggete.
La rovere riappare, anche con addensamenti significativi, sui rilievi retrostanti
alle pianure bonificate nell’’800 dove il generale ambiente malarico ha tenuto lontano
l’uomo più a lungo. Così sui poggi e sulle colline della Maremma interna (DE
DOMINICIS e CASINI, 1980) e anche sulle colline delle Cerbaie che erano a contatto
col Padule di Bientina.
DE DOMINICIS e CASINI (1979) la segnalano in Val di Farma, CUTINI, MERCURIO
e NOCENTINI (1955) in V. di Chiana (ad es. presso Lucignano) mentre CUTINI e
MERCURIO (1995) la indicano per la foresta di Caselli con cerro prevalente e, ancora,
per Sargiano (Arezzo); in Maremma (DE DOMINICIS e CASINI, 1980) vegeta con
cerro, farnetto, carpino bianco e frassino meridionale e, nella cerreta a Melica uniflora
viene indicata da ARRIGONI (1996, ined.)
Nella concorrenza con il cerro, con la roverella e con il carpino nero, la rovere
resiste meglio nelle zone a suolo filtrante e acido. Pertanto alla rovere si associano
anche specie comuni dei suoli acidi, considerate almeno in parte a distribuzione
subatlantica, come Calluna vulgaris, Cytisus scoparius, Avenella flexuosa, ecc.
Aspetti selvicolturali
I boschi misti con rovere e carpino bianco, dato il loro carattere di relitti vege-
tazionali, dovrebbero, come principio generale, essere destinati ad una gestione con-
servativa.
A questo scopo occorrono prima di tutto opportuni accorgimenti di carattere
assestamentale per ovviare agli inconvenienti relativi al modo frammentario con cui
si distribuiscono questi popolamenti. Nelle foreste in cui si ha notizia della presenza
di zone di bosco con rovere e carpino bianco e di altre, più estese, con carpino bianco,
occorre una indagine per reperire, cartografare e catalogare tali superfici a titolo di
“ particelle” o di “ sottoparticelle” . Questa operazione non è difficile nell’ambito
delle foreste di proprietà pubblica dove periodicamente si compilano i piani di as-
sestamento.
Non è detto, poi, che la gestione di queste aree debba limitarsi ad un semplice
abbandono all’evoluzione naturale perché i dinamismi vegetazionali che interven-
gono in aree precedentemente influenzate da secolari ed estese alterazioni antropiche
non sono da considerarsi tanto come "evoluzioni naturali", provvide ed equilibratrici,
ma piuttosto come evoluzioni di postcoltura, capaci anche di aggravare lo stato delle
specie in via di scomparsa.
La rovere vera è una specie esigente di luce che, nel contesto di un bosco misto
con altre specie, può rinnovarsi solo se viene posta in condizioni di potere espandere
la chioma a dimensioni adatte ad una abbondante disseminazione e solo se il novel-
lame è protetto dalla concorrenza di altre specie.
Un solo individuo non è sufficiente alla riproduzione perché le piante di rovere,
isolate e costrette all’autofecondazione, producono poca ghianda e semenzali poco
vigorosi. E’ da vedere, poi, se tutti i boschi contenenti la rovere che sono rimasti
debbano essere considerati solo come una curiosità museale e scientifica oppure se,
a partire da alcuni nuclei, si debba procedere al recupero economico di questa preziosa
specie e all’allargamento della sue presenza anche con rimboschimenti, con rinfol-
timenti e con arricchimenti di cedui. La prima cosa da fare in questo senso è indi-
viduare delle popolazioni da seme e trattarle di conseguenza.
Il carpino bianco in Toscana non ha una diffusione paragonabile a quella
dell’Europa centrale, ma non si può certamente dire che sia una specie rara. Piuttosto
sono rari o rarissimi (e quindi meritevoli di una speciale segnalazione) i carpineti
quasi puri oppure i querceti con piano inferiore dominato dal carpino bianco. Trat-
tandosi di una specie mediamente tollerante dell’ombra, è possibile una certa diffu-
sione spontanea.
Resta inteso che i boschi con una significativa presenza del carpino bianco
denotano condizioni mesiche (cioè di freschezza e di fertilità del terreno) che possono
essere particolarmente adatti anche alla coltura artificiale della rovere.
12.1. CARPINO-QUERCETO MESOFILO
DI CERRO CON ROVERE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Suoli si proseguono i tagli del ceduo. Gli avvia-
Profondi, ricchi di humus, relativamente fre- menti all’alto fusto si praticano nelle foreste
schi, subacidi, ben drenati. demaniali dove (nella Maremma e nel Sene-
se) questo Tipo è relativamente frequente.
Clima
Temperatura media annua di 10°-16°. Tempe- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
ratura media del mese più freddo da 0° a 4°. denze dinamiche
Piogge medie annue 800-1.200 mm; piogge esti- Le ceduazioni (soprattutto a ceduo composto)
ve 120-150 mm. Siccità estiva moderata dalle danno continuo vigore al piano ceduo e, quin-
buone caratteristiche idriche del terreno. di, conducono ad un impedimento assoluto
alla rinnovazione della rovere. Il recupero na-
Interventi antropici più frequenti turale, tramite il governo a fustaia, è possibile
I tagli intensi e le riduzioni a ceduo che hanno a lunghissima scadenza e tanto più incontra
provocato la rarefazione della rovere si sono difficoltà quanto più le popolazioni della
verificati fra il 1700 e il 1850. Attualmente quercia sono ridotte a poche piante.
12.2. QUERCETO ACIDOFILO
DI ROVERE E CERRO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Geomorfologia Interventi antropici più frequenti
Versanti collinari, terrazzi pliocenici a pen- I boschi di questo tipo, impoveriti di rovere,
dici moderate. hanno subito ceduazioni da molto tempo. E’
possibile che alcuni tratti siano boschi di re-
Substrati invasione di castagneti da frutto, abbandonati
Silicatici: ciottolami, arenarie grossolane, ecc. nel ’700 o anche prima.
Selvicoltura piante a chioma sufficientemente espansa,
I boschi di questo tipo sono da individuare e adatte alla produzione di molta ghianda. Pos-
delimitare anche come boschi da seme. I po- sibile l’estensione artificiale della rovere per
polamenti da seme dotati di piante più nume- piantagione interposta in cedui circostanti
rose andrebbero allevati in modo da avere dopo il loro taglio a raso.
12.3. CARPINETO MISTO COLLINARE
(-SUBMONTANO) A CERRO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Suoli Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Profondi e ricchi di humus mull ben incor- denze dinamiche
porato, piuttosto freschi, subacido-neutri. Il carpino bianco, allo stesso modo del car-
pino nero, può essere ceduato indefinitamen-
Clima te fintanto che il suolo non vada incontro a
Temperatura media annua da 8° a 15°. Tempe- degrazione.
ratura media del mese più freddo da -2° a +3°. Pertanto, finché dura il regime ceduo (e so-
Precipitazioni annue medie da 800 a 1.200 prattutto un regime ceduo a turno lungo), il
(1.500) mm, estive intorno a 150 (200) mil- carpineto è soggetto a permanere.
limetri. Nel contesto di un regime a fustaia, invece,
si può ipotizzare l’eventuale ritorno della
Interventi antropici più frequenti rovere o di altre grandi latifoglie esigenti
Ceduazioni e altri interventi antropici che purché ci siano piante da seme nelle vi-
hanno provocato la riduzione delle presenze cinanze.
della rovere.
Specie indicatrici
Quercus cerris Corylus avellana
Q. pubescens Euonymus europaeus
Q. petraea (loc) Rosa arvensis
Carpinus betulus MELICA UNIFLORA
Fraxinus ornus Lathyrus venetus
Acer opalus s.l. Primula vulgaris
A. campestre Euphorbia amygdaloides
Malus sylvestris Hepatica nobilis
Fagus sylvatica Campanula trachelium
Ostrya carpinifolia (loc.) Symphytum tuberosum
Tilia cordata (loc.) Festuca heterophylla
Prunus avium (loc.) Oenanthe pimpinelloides
Pyrus pyraster Luzula forsteri
CRATAEGUS LAEVIGATA Viola reichembachiana
C. monogyna Fragaria vesca
Cornus mas Buglossoides purpuro-coerulea
Daphne laureola Viola dehnhardtii
Juniperus communis
Selvicoltura che occupano si prestano bene alle piantagio-
Il tipo si manifesta a zone troppo circoscritte ni di arricchimento con la rovere o con altre
per avere canoni selvicolturali suoi propri. E’ specie a legno pregiato.
certo che le plaghe a terreno fresco e fertile
Carpineto misto collinare (e submontano) a cerro. - Bosco misto di carpino bianco e cerro
nell’impluvio del torrente Ardenza sotto Valle Benedetta (Livorno)
Ostrieto di neoformazione - Fase finale d’invasione di castagneto abbandonato da parte del carpino
nero presso Fivizzano (Lucca). Il castagno è deperiente.
2675,(7,
Classi di fertilità dei cedui di carpino nero dell’Appennino romagnolo.
Da HERMANIN e BELOSI (1993), modificato
Altezze dominanti in funzione dell’età
(Wj DQQL , +P P ,, +P P ,,, +P P
Restano, inoltre, molti altri luoghi in cui il carpino nero è una componente dei
boschi misti. Anche su rocce silicatiche esso può assumere una certa capacità di
invasione entro i cedui di cerro e spesso anche nei castagneti da frutto abbandonati,
in particolare sul versante padano.
Dalle analisi polliniche appare che sia il carpino bianco che il carpino nero sono
comparsi nell’Europa occidentale solo dopo il 1.000 a.C. Questo fa pensare ad una
diffusione che sia stata in qualche modo favorita dalle alterazioni antropiche sui
boschi di quercia (PIGNATTI, 1982).
In Toscana luoghi designati con il fitonimo "carpineta" (e oggi tuttora coperti
da boschi di carpino nero) esistevano fin dal ’500 (PIUSSI, 1980). Però è anche chiaro
il modo con cui il carpino nero oggi si trova in un periodo di attiva espansione nei
boschi cedui dopo che il turno è stato allungato e dopo che sono stati abbandonati i
tagli intercalari.
I boschi di carpino nero non hanno un particolare valore essendo gestiti solo
come cedui. La legna da catasta è commerciabile, però l’accrescimento in diametro
è talmente lento che è conveniente solo l’utilizzazione di cedui col turno di 30-35
anni. L’acclusa tabella di fertilità si riferisce ai boschi suscettibili di utilizzazioni e
non considera gli ostrieti di fertilità inferiore alla III classe o a portamento cespuglioso
di alcuni tratti dell’Appennino.
Non sembrano emergere particolari pericoli di degradazione perché il carpino
nero, dopo le ceduazioni, si rigenera tramite numerosi "polloni basali" nati, cioè,
raso terra e capaci di affrancarsi con radici loro proprie. Questo non toglie che,
nell’ambito di zone con balzi di roccia friabile, ci possano essere boschi di carpino
nero a cui bisognerebbe attribuire un ruolo prevalentemente protettivo.
L’evoluzione degli ostrieti oltre i 30-35 anni di età è ancora poco nota perché i
popolamenti invecchiati sono attualmente piuttosto rari. Da alcuni esempi (BERNETTI,
ined.) risulterebbe che, oltre ad una certa età, il numero dei polloni si riduce moltissimo
e inizia lo sviluppo anche a grandi diametri; si formano così boschi di alto fusto con
suolo ricco di humus entro cui il carpino nero non sembra più rinnovarsi.
Secondo HERMANIN (comunicazione orale) nei vecchi ostrieti montani si notano
reinserimenti di faggio mentre in quelli delle quote inferiori può entrare il leccio;
però resta ancora incerto il modo con cui possa verificarsi l’insediamento di specie
eliofile, come le querce caducifoglie. E’ certo, però, che gli ostrieti invecchiati o
avviati all’alto fusto di buona fertilità, sono disponibili per la diffusione spontanea
di altre specie (per esempio: aceri, frassini) oppure per la loro introduzione artificiale.
Volendo però migliorare i cedui resta possibile eseguire piantagioni di arricchimento
con latifoglie pregiate, limitatamente ai fondovalle a suolo profondo.
Negli ostrieti su suolo calcareo vengono raccolti il tartufo nero (Tuber melano-
sporum Vitt.). e lo scorzone (T. aestivum Vitt.). Per la loro ecologia v. la Categoria
QUERCETI DI ROVERELLA.
13.1. OSTRIETO PIONIERO DEI CALCARI
DURI DELLE APUANE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
ne, terreni di tipo "rendzina"; suoli calcarei effetto delle escavazioni e delle discariche
sempre molto ricchi di scheletro, assai dre- delle cave di marmo.
nati, a pH neutro-basico. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Clima L’elevata piovosità permette al carpino nero
Temperatura media annua da 8° a 14°. Tem- di sopravvivere anche su substrati molto sas-
peratura media del mese più freddo: da -3° a sosi e, quindi, di avere un comportamento
+2°. Precipitazioni medie da 1500 a 3.000 pioniero oltre che associarsi al faggio ai limiti
mm, estive 250-300 millimetri. superiori.
E’ pertanto possibile che questi popola-
Interventi antropici più frequenti menti tendano a chiudere la copertura ed
Possibili ceduazioni passate con rara e loca- a estendersi sulle discariche più recenti.
lizzata presenza di matricine di querce. Forte Ogni altra evoluzione sarà, ovviamente,
molto lenta.
Specie indicatrici
13.2. OSTRIETO MESOFILO A SESLERIA
ARGENTEA DELLE APUANE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Localizzazione
Alpi Apuane.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- to pioniero che il comportamento di specie
denze dinamiche invadente di querceti o di castagneti.
Il carpino nero, facilitato dalle elevate preci- Nella fase attuale la specie è tuttora in pro-
pitazioni, può presentare sia il comportamen- gresso.
Specie indicatrici
13.3. OSTRIETO PIONIERO DELLE BALZE
MARNOSO-ARENACEE APPENNINICHE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
peratura media del mese più freddo da -2° a abilmente, poi, una parte di questi ostrieti de-
+2°. Piogge annue medie 1.300-1.500 mm, riva da invasione di castagneti.
estive comprese fra 150 e 200 mm.
La siccità è normalmente debole ma, in an- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
nate particolarmente secche, il carpino nero denze dinamiche
entra in sofferenza perdendo i frutti non an- E’ possibile che la copertura a carpino nero
cora maturi e, poi, perdendo anche le foglie dei tratti meno impervi della "Biancherìa
prima del tempo. di Romagna" si sia molto ampliata in questi
ultimi decenni: a questo fine sarebbe op-
Interventi antropici più frequenti portuno fare un confronto con le più vec-
E’ molto verosimile che il pascolo delle capre chie fotografie aeree disponibili.
sia arrivato fino a questi luoghi. Prob-
Specie indicatrici
13.4. OSTRIETO DELLE AREE CALANCHIVE
DELLE ALTE VALLI DELL’ARNO
E DEL TEVERE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Clima Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Temperatura media annua da 8° a 15°. Tempe- denze dinamiche
ratura media del mese più freddo da -2° a +2°. E’ possibile che questi boschi submontani e
Precipitazioni medie annue da 1.000 a 1500 di località piuttosto piovose, si siano originati
mm, estive da 150 a 200 mm. Possibili estati per un’invasione di querceti degradati dal pa-
siccitose durante le quali il carpino nero perde scolo. Non ci sono però indizi circa la possi-
prima le infruttescenze immature e poi le foglie. bilità di un ritorno immediato delle querce
qualora esse siano assenti.
Interventi antropici più frequenti Il novellame prodotto da eventuali matrici-
Questi boschi sono ceduati col turno di 30-35 ne di querce di alto fusto che si trovano
anni. Si rilasciano molti polloni per ettaro i sparse nell’ostrieto non può insediarsi a
quali, però (dato lo stato filato e povero di causa della concorrenza dei polloni del car-
chioma), non sembrano mai capaci di svilup- pino nero.
parsi a matricine di alto fusto. Fanno eccezione Il carpino nero, inoltre, sta colonizzando sia
le foreste demaniali dove è già possibile rin- pure molto lentamente alcuni dei calanchi cir-
venire lembi di ostrieto molto invecchiato. costanti.
Specie indicatrici
13.5. OSTRIETO TERMOFILO DEI CALCARI
MARNOSI AD ASPARAGUS ACUTIFOLIUS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
cipitazioni annue da 800 a 1.000 mm. Piogge carpino bianco e la rovere, questi popolamen-
estive intorno a 120 mm, molto variabili da ti potrebbero essere il risultato di una pro-
un anno all’altro, anche con periodi siccitosi gressiva invasione del carpino nero in boschi
che provocano danni al carpino nero. di roverella e/o di cerro.
Attualmente è in atto una espansione del
Interventi antropici più frequenti carpino nero negli adiacenti cedui di ro-
Questi boschi sono tenuti a ceduo anche da verella.
oltre 500 anni (PIUSSI, 1980). E’ provato, inoltre, che il governo a ceduo
composto, determinando un ambiente più
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- ombreggiato e livellato, incoraggia l’espan-
denze dinamiche sione dei carpini.
Questi ostrieti, che in ambienti meno piovosi E’ difficile immaginare se e come le querce
sono confinati nelle esposizioni a nord, non potranno riprendersi il terreno perduto. Forse
hanno un carattere pioniero; probabilmente è il leccio che interverrà per primo. Secondo
derivano da progressive infiltrazioni nei ELLENBERG (1988) e secondo BERNETTI
querceti manomessi dall’uomo. (1995) la questione della alternanza fra le
Per analogia con quanto dicono i francesi querce e i carpini in senso lato si risolve solo
(PERRIN, 1954) in relazione ai rapporti fra il a scadenza molto lunga.
Specie indicatrici
13.6. OSTRIETO MESOFILO
DEI SUBTRATI SILICATICI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Clima Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Temperature medie annue di 9°-15°. Tempe- denze dinamiche
rature medie del mese più freddo: da -2° a La presenza del carpino nero ha un signi-
+5°. Minime assolute fino a -20°. Precipita- ficato pioniero relativo; la specie, infatti, si
zioni sia annue che estive molto varie con è inserita (e si sta ancora inserendo) sotto
massimi sulle Apuane. Il microclima stazio- la copertura di boschi di querce (o anche
nale è verosimilmente più freddo rispetto ai di castagno) in cui si è allentata la pressione
dati su indicati. La siccità estiva è compensata antropica.
dall’umidità conservata nel suolo. Le ceduazioni (e soprattutto il governo a
ceduo composto con turno lungo) possono
Interventi antropici più frequenti facilitare ulteriori espansioni di questo tipo
Ceduazioni. Una parte di questi ostrieti deriva di bosco. La robinia vi ha un notevole po-
dall’invasione di castagneti da frutto dopo il tere di espansione nei settori piovosi set-
loro abbandono. tentrionali.
Arido
Specie indicatrici
Ostrya carpinifolia (ceduo) Rosa arvensis
Quercus cerris (matr.) Corylus avellana
Q. pubescens (matr.) Rosa canina
Castanea sativa (loc.) Juniperus communis
Fraxinus ornus Lonicera caprifolium
Prunus avium Prunus spinosa
Pyrus pyraster Cruciata glabra
Acer campestre Viola reichenbachiana
Carpinus betulus (loc.) Tamus communis
Acer opalus s.l. (loc.) Fragaria vesca
Robinia pseudoacacia (loc.) Hedera helix
Tilia cordata (loc.) Buglossoides purpuro-coerulea
Sorbus torminalis (loc.) Viola alba dehnhardtii
Malus sylvestris (loc.) Ruscus aculeatus
Crataegus laevigata Stachys officinalis
C. monogyna Euphorbia amygdaloides
Cornus mas Brachypodium sylvaticum
Castagneto mesotrofico ceduo di ottima fertilità con scarso sottobosco.
&$67$*1(7,
Due avversità soprattutto la seconda, hanno contribuito all’abbandono della col-
tura dei castagneti da frutto.
Il mal dell’inchiostro, provocato dal fungo Phytophtora cambivora è noto fin
dall’‘800. Fu considerato pericoloso per un certo tempo e, poi, parve avere perduto
di virulenza. Attualmente, invece, è in fase di piena recrudescenza e provoca la morte
di ceppaie isolate (o più spesso a gruppi) non solo nelle depressioni umide (come si
riteneva un tempo), ma in qualsiasi stazione. Non ci sono rimedi efficaci. E’ consi-
gliabile rinfoltire le radure che si formano nei cedui con specie diverse dal castagno:
frassino maggiore, cerro, rovere, ecc.
Il cancro corticale, provocato dal fungo Cryphonectria (= Endothia) parasitica
è stato segnalato in Europa attorno al 1938. Nel secondo dopoguerra ha causato
notevoli distruzioni di castagneti da frutto principalmente nelle province di Massa-
Carrara, Lucca e Pistoia. Dopo il 1950, il parassita ha perduto di incidenza (in
Toscana, come in altre zone d’Italia), per il selezionarsi di ceppi ipovirulenti. Il
fenomeno è osservabile, soprattutto nei cedui dove la mortalità dei polloni è andata
gradualmente diminuendo; anche qualche pianta di alto fusto ha dimostrato un no-
tevole recupero cicatrizzando i cancri.
Oggi, il parassita resta temibile per le operazioni di innesto eseguite nel corso
della ricostituzione di castagneti da frutto, in quanto colpisce le piante nel punto di
innesto. Sono efficaci le disinfezioni con ossicloruro di rame. Una buona protezione
al punto di innesto si ottiene anche con semplici impacchi di terra grazie ai micror-
ganismi antagonisti al parassita che essa contiene.
Le evoluzioni dei castagneti abbandonati con mutamento naturale di specie
dipendono dalle condizioni ecologiche locali e dallo stato del castagneto da frutto al
momento dell’abbandono e sono molto numerose (PIUSSI e MAGINI 1966). Si possono,
pertanto, esemplificare i seguenti casi di successione di specie: (1) con abete, (2)
con faggio, (3) con cerro, (4) con ricostituzione del bosco misto di latifoglie mesofile
nelle sue diverse varianti, (5) con sostituzione da parte del carpino nero, puro o quasi,
(6) con sostituzione, in parte antropogena, con pino marittimo oppure (7) con robinia,
(8) con sostituzione con macchia mediterranea, (9) con degradazione da incendio in
calluneti a eriche, eventualmente con Tuberaria guttata.
Aspetti selvicolturali
Il castagno è stato coltivato fin dal tempo dei Romani nelle due forme di casta-
gneto da frutto (= “ selva” ) o di ceduo (= “ palina” ).
Il castagneto da frutto è composto da 70-120 piante per ettaro innestate, al
momento dell’impianto, con varietà “ da farina” o “ da consumo fresco” . Le più note
fra le varietà da consumo fresco sono i “ marroni” , che sono le più pregiate e, oggi,
le sole convenienti alla coltivazione. Al contrario, le castagne delle varietà da farina
non hanno più un commercio e i castagneti che le producono possono essere mantenuti
solo a titolo di conservazione di germoplasma oppure per prodotti tradizionali locali.
Comunque, per motivi di impollinazione, un castagneto da frutto comprende sempre
qualche pianta selvatica oppure di un’altra varietà.
Le cure colturali al castagneto da frutto consistono in varie operazioni: potature,
concimazioni alle singole piante, rinfoltimenti con nuove piante innestate e nello
sgombro del terreno da arbusti o da giovani piante di specie arboree che si possano
essere insediate. E’ evidente che questa ultima operazione può essere causa di ero-
sione soprattutto nei castagneti che non abbiano il suolo coperto da un adeguato
strato erbaceo. Nel ripristino dei castagneti da frutto si distinguono due tipi di inter-
vento ben diversi fra loro; (TANI e CANCIANI, 1993). Col recupero del castagneto
da frutto si riprendono semplicemente le cure colturali nel castagneto abbandonato;
in questo caso, ovviamente, rimangono le varietà colturali esistenti in precedenza a
meno di qualche nuovo innesto
La ricostituzione del castagneto da frutto, invece, consiste nel ringiovanimento
e nella trasformazione di un popolamento di castagno di una qualsiasi struttura
mediante il taglio a raso e, qualche anno dopo, mediante l’innesto dei polloni (op-
portunamente scelti e diradati) che ne derivano. Poi, per continue ulteriori cure, si
arriva ad un nuovo castagneto dotato delle varietà ritenute più commerciabili o
comunque desiderabili.
Il ceduo di castagno, più che legna da ardere serve per produrre secondo le circo-
stanze: paleria agricola, paleria per costruzioni e tutta una varietà di tronchi e tronchetti
per lavori di artigianato. Pertanto, il turno dei cedui di castagno dipende molto dall’in-
dirizzo commerciale dell’azienda e, inoltre, anche dalla fertilità perché dai cedui delle
classi più scadenti è inutile cercare di ottenere tronchi grossi allungando il turno.
I cedui a turno breve (12-16 anni), ordinati per la produzione di paleria sottile,
sono chiamati “ paline” .
Classi di fertilità dei cedui di castagno in Italia (BRUSCHINI, 1992).
Altezza media in funzione dell’età
(Wj DQQL , +P P ,, +P P ,,, +P P ,9 +P P 9 +P P
Nei cedui con turni di 18-24 anni o più (chiamati anche “ antennete” ) lo
scopo di ottenere una combinazione produttiva comprendente travi, paleria
grossa (e, anche, tronchi da sega) è raggiunto non solo col turno lungo, ma anche
con uno o due indispensabili diradamenti che servono a stimolare l’accrescimento
dei polloni migliori ed a raccogliere un prodotto anticipato di paleria sottile (BER-
NETTI I., 1991).
La classe di fertilità dei boschi di castagno può essere definita sulla base
dell’altezza media solo per i cedui. L’altezza media dei castagneti da frutto, infatti,
è influenzata anche dalle capacità di sviluppo della varietà e dalle potature; ovvia-
mente, a parità di caratteristiche stazionali, corrispondono analoghi risultati per le
due forme selvicolturali.
In base alle frequenza delle classi di fertilità si possono proporre le seguenti
distinzioni secondo il substrato pedogenetico.
• I terreni vulcanici del Monte Amiata si distinguono per la grande frequenza di
boschi di castagno appartenenti alla I e alla II classe di fertilità. Si tratta però di
terreni molto soggetti all’erosione pertanto occorrono cautele sia nelle utilizzazioni
dei cedui che nella coltura corrente del castagneto.
• In tutti i terreni da rocce sedimentarie con residuo sabbioso la fertilità è molto
condizionata dalla quantità di humus nel terreno. I boschi migliori si trovano nelle
depressioni dove si formano suoli ricchi di humus di migliore qualità. Più in
generale, però, si trovano boschi delle fertilità intermedie o scadenti su suoli erosi,
poveri di humus, con sottobosco di specie acidofile, soprattutto arbustive.
• I terreni da rocce carbonatiche a residuo non argilloso (Apuane, Montagnola Se-
nese, Lucchesia) sopportano boschi di castagno delle fertilità intermedie o inferiori.
- I terreni derivanti dagli scisti arenaceo-limosi o arenaceo-argillosi (come per
certe intercalazioni delle arenarie e per la formazione Marnoso-arenacea dell’Alto
Mugello) rappresentano l’estremo dell’ampiezza ecologica del castagno rispetto
al suolo. I castagneti presenti su questi suoli si sono risolti in popolamenti di
sviluppo e produzioni modesti che, in seguito, dopo l’abbandono, sono rimasti
rapidamente soppiantati dall’invasione del carpino nero.
• Sono sempre stati proibitivi per la coltura del castagno tutti i terreni da calcari a
residuo argilloso (p. es. alberesi), le argille e i terreni da rocce ferro-magnesiache
od ofioliti (gabbri, serpentine, ecc.).
14.1. CASTAGNETO MESOFILO SU ARENAIA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Distribuzione altitudinale trattati con criteri di bosco disetaneo da cui
600-1.000 metri. si ottengono anche tronchi di grosse dimen-
sioni.
Geomorfologia I castagneti da frutto ancora in esercizio ne-
Compluvi, pendici ombreggiate spesso anche cessitano di cure molto assidue a causa delle
ripide, talvolta in fondovalle stretti. rapide evoluzioni del popolamento.
Il recupero dei castagneti abbandonati con la
Substrati potatura dei vecchi castagni e con il taglio
Arenaria, più raramente (ad es. in Lunigiana) delle piante di nuovo insediamento, quando
alberese e galestro ma con calcare dilavato non è seguito da cure annuali, agevola il ri-
per completa alterazione della roccia madre torno del piano inferiore di insediamento non
(sassi “ marci” ). solo per il riscoppio dei polloni delle ceppaie
recise, ma anche per l’insediamento di nuove
Suoli piantine favorito dalla minore illuminazione.
Molto profondi, freschi, non molto acidi-
subacidi, ricchi di humus ben distribuito nel
profilo. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Clima Questo tipo comprende castagneti soggetti a
Temperature medie annue da 9° a 15°. Tem- evoluzioni di postcoltura che possono essere
peratura media del mese più freddo: da -2° a anche molto rapide. Le prime fasi dell’evo-
+2°. Precipitazioni medie annue comprese luzione dipendono dalle condizioni del po-
fra 1000 e oltre 1.500 mm, estive fra 150 e polamento al momento dell’abbandono e, in
200 millimetri. Innevamento modesto e di particolare: (A) dalla presenza nei dintorni di
assai breve durata. piante disseminatrici di altre specie e (B) dal-
la struttura e dalla densità sia del popolamen-
Interventi antropici più frequenti to che del sottobosco in relazione alle possi-
L’origine è sempre il castagneto da frutto, bilità di insediamento di rinnovazione del ca-
verosimilmente impiantato in sostituzione di stagno o di altre specie.
boschi di latifoglie esigenti e, forse, origina- Il tipo di evoluzione più aderente alla natura
riamente contenenti anche la rovere. Oggi il e forse anche più conveniente in economia
tipo si presenta soprattutto nella forma di ca- privata è quello verso i popolamenti di lati-
stagneti abbandonati oppure di cedui derivan- foglie mesofile (rovere, frassino maggiore,
ti dal taglio del castagneto. Questi ultimi an- acero di monte, ciliegio, tigli, carpino bian-
drebbero distinti fra: (A) cedui derivanti dal co). Questo indirizzo è però raro per mancan-
primo taglio del castagneto (che sovente han- za di piante disseminatrici. In certi casi si può
no ceppaie grosse ma rade e con polloni scia- avere invasione di carpino nero (ad es. in Lu-
bolati) e (B) cedui che hanno subìto almeno nigiana - FERRARINI, 1957). Molti castagneti
una seconda ceduazione che spesso sono più abbandonati si rinfoltiscono subito con se-
densi (dove alle vecchie grandi ceppaie si menzali di castagno.
sono aggiunte quelle nuove che derivano dal L’insediamento di novellame di qualsiasi
taglio della rinnovazione naturale) e provvisti specie può essere impedito dalla densità del
di polloni di forma più regolare. sottobosco erbaceo e dalla copertura eser-
In Provincia di Arezzo (Comune di Monte- citata dai vecchi castagni lasciati crescere
mignaio) i popolamenti più fertili vengono con la chioma bassa e quindi molto coprente.
La presenza di nocciólo è un indice di fase fenomeni di degradazione a causa dell’ero-
di miglioramento susseguente, ad esempio, a sione.
Specie indicatrici
14.2. CASTAGNETO MESOTROFICO
SU ROCCE VULCANICHE DEL MONTE AMIATA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Geomorfologia relativamente remota. Ora che questi boschi
Pendice moderata, a tratti più erta perchè di- sono gestiti dalla Regione, il trattamento pre-
sturbata da colate laviche. vede un turno lungo (oltre 20 anni) con pun-
tuale esecuzione di due diradamenti che, alla
Substrati fine, conferiscono al popolamento la fisiono-
Lave alterate e tufi trachitici. mia di un bosco di alto fusto.
Alcuni cedui situati in punti panoramici sono
Suoli stati allevati all’alto fusto. In questa zona nu-
Generalmente profondi, mai fortemente aci- merosi castagneti da frutto sono ancora in
di, con buon drenaggio; humus ben distribui- esercizio.
to nel profilo anche se talvolta scarso. La tes-
situra molto sabbiosa provoca un elevato pe- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
ricolo di erosioni che si manifestano soprat- denze dinamiche
tutto nei castagneti da frutto. Il terreno sempre scarsamente coperto da
erbe e il trattamento a ceduo matricinato (ol-
Clima tre all’effetto di illuminazione e scarificazio-
Temperatura media annua fra 10° e 15°. Tem- ne del terreno provocato dai diradamenti)
peratura media del mese più freddo fra -1° fanno sì che il castagno sia sempre denso e,
e +3°. Piogge annue superiori a 1.200 mm. per il momento, in sicuro possesso del terri-
Piogge estive superiori a 150 millimetri. In- torio che occupa.
nevamento molto modesto e di breve durata. Talvolta si nota una tendenza alla rinnova-
zione del faggio.
Interventi antropici più frequenti E’ probabile che l’evoluzione verso il bosco
I boschi cedui derivano da castagneti da frutto misto di latifoglie possa essere più facile nei
acquistati dalle società minerarie fin dai primi cedui avviati all’alto fusto.
del ’900. La conversione in cedui è, dunque,
Specie indicatrici
Selvicoltura giore, frassino meridionale e ciliegio è sem-
Alcuni dei castagneti da frutto ancora in pre opportuno a patto di trovare radure a ter-
esercizio meriterebbero interventi contro reno fertile di sufficiente ampiezza. Auspica-
l’erosione. bile anche la sperimentazione di cultivar di
Per la stessa ragione è sempre bene che castagno da legno.
le tagliate dei cedui siano contenute entro I boschi avviati all’alto fusto potrebbero es-
2-5 ettari. sere tenuti a turni di 60-80 anni e, poi, fatti
L’arricchimento dei cedui con frassino mag- rinnovare il più possibile per seme.
14.3. CASTAGNETO ACIDOFILO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
L’area punteggiata si
riferisce al sottotipo
subxerico
Distribuzione altitudinale Tipo la coltura per il frutto è abbandonata;
500-1.000 metri. in parte vi si esercita la ceduazione mentre
per il resto sono attualmente in evoluzione.
Geomorfologia Alcuni comprensori di castagneto in cui
Pendici di varia acclività. prevaleva il Tipo presente sono stati sosti-
tuiti con pino marittimo o abete bianco op-
Substrati pure con pino laricio e, più recentemente,
Arenarie, più spesso a tessitura grossolana; con douglasia.
anche lave vulcaniche all’Amiata.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
Suoli denze dinamiche
Relativamente superficiali o recanti tracce di ero- L’abbandono della coltura da frutto ha quasi
sione passata, nettamente acidi e più o meno im- sempre comportato un’intensa rinnovazione
poveriti di sostanza organica. del castagno favorita dal terreno smosso delle
E’ immancabile un orizzonte illuviale di co- erosioni e dalle discontinuità della copertura
lore rosso o rossastro che, talvolta, affiora in del sottobosco. Soprattutto nella Toscana set-
superficie. tentrionale e a bassa quota si sta diffondendo
il pino marittimo nei vuoti occupati dal cal-
Clima luneto con Tuberaria lignosa. Se ne deduce
Temperature medie annue fra 10° e 15°. Tem- che il castagno, pur non essendo nel suo ot-
perature medie del mese più freddo fra -1° e timo fisiologico, trova nei terreni acidi una
+3°. Precipitazioni annue superiori a 1.000 condizione, per lo meno temporanea, di mas-
mm. Piogge estive superiori a 120 millimetri. sima frequenza.
Specie indicatrici
sottotipo ad impronta suboceanica
(Qui e nel sottotipo precedente sono assenti: Abies alba, Quercus petraea, Vaccinium
myrtillus, Luzula nivea, L. pedemontana, Avenella flexuosa, Ulex europaeus).
14.4. CASTAGNETO NEUTROFILO SU ROCCE
CALCAREE E SCISTI MARNOSI
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Mediamente profondi, freschi, tendenzialmente Interventi antropici più frequenti
argillosi, neutro-subacidi, eluviati, con poco Si tratta di colture spinte ai limiti delle esi-
calcare libero in profondità nel sottotipo B . genze edafiche del castagno che oggi sono
abbandonate.
Clima
Temperatura media annua compresa fra 10° Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
e 15°. Temperature medie del mese più fred- denze dinamiche
do da -1° a +3°. Precipitazioni medie annue La vegetazione potenziale è verosimilmente
superiori a 1.000 mm, estive comprese fra la CERRETA MESOXEROFILA. La fase
150 e 200 millimetri. Innevamento modesto che ora è dato di vedere più di frequente è la
e di breve durata. rapida ed invadente evoluzione all’ostrieto.
Specie indicatrici
52%,1,(7,
Classi di fertilità dei cedui di robinia della Garfagnana.
(HERMANIN, 1987) modificato. Altezza media (m) in funzione dell’età
$OWH]]H PHGLH
foto
Robinieto d’impianto - Cedui di robinia con castagni da frutto abbandonati e invasi, in fase di
incipiente fioritura. Apuane (Valle Turrite Secca-Lucca)
15.1. ROBINIETO D’IMPIANTO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Il settore tratteggiato
comprende le stazioni a
basse precipitazioni
Geomorfologia Interventi antropici più frequenti
Varia. In montagna anche su superfici molto Impianto con semenzali di 1 anno. Cedua-
ripide. zioni al turno di circa 20 anni.
Incendi e successiva diffusione spontanea in
Substrati boschi diradati o abbattuti di recente oppure
Depositi sciolti. Arenarie. - più limitatamente - in terreni abbandonati
dall’agricoltura.
Suoli
L’ottimo si verifica anche su suoli che in par-
tenza erano acidi e che, poi, la robinia ha Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
trasformato in senso neutrofilo. denze dinamiche
Fintanto che la robinia è tenuta a ceduo non
Clima emergono possibilità di evoluzione verso al-
Vario, ma entro limiti superiori di aridità e tre cenosi.
inferiori di temperature estive relativamente
ristretti (GELLINI, 1980).
Specie indicatrici
*(specie nitrofile)
%26&+, 0,67, &21 %(78//$
Importanza e caratterizzazione
La betulla in Toscana si trova sull’Appennino e sul Pratomagno. E’ leggermente
più frequente nel settore nord-ovest della regione fino alla valle della Lima. Altrove
appare solamente con singole piante sparse; resta eccezionale e molto interessante
la segnalazione di MERCURIO (1984) di un bosco di castagno e betulla sul Pratomagno
che al suo interno contiene un ettaro di betuleto quasi puro.
E’ difficile individuare tutti i fattori a cui sono legati i relitti sull’Appennino di
questa specie eliofila, frugale e pioniera, ma anche esigente di acqua.
Il suolo acido non incide tanto per le esigenze edafiche della betulla (che invece
sono indifferenti) quanto forse per le conseguenze collaterali che esso esercita
sulla siccità e per la concorrenza di altre specie. L’ambiente è quello della fascia
submontana dove la betulla trova umidità sufficiente e boschi misti in cui il faggio
non impone ancora una concorrenza proibitiva. La castanicoltura, infine, tramite
il continuo disturbo, ha offerto delle occasioni di sopravvivenza per questa specie
pioniera che invece, nell’ambito dei boschi di cerro, sembra più confinata a luoghi
dirupati.
16.1. BETULETO MISTO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
medie annue di 1.500-2.000 mm di cui 200- coltura agricola o tenuti a pascolo. Forse la
300 nel trimestre estivo salvo che nel relitto specie è anche legata ad incendi o abbrucia-
del Pratomagno dove queste sono un po’ in- menti passati.
feriori (1300-1400 mm e con 150-200 mm in
estate). Posizione del tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche.
Interventi antropici più frequenti E’ molto probabile che il miglioramento della
I relitti di betulla appaiono legati a radure, vegetazione delle specie consociate, oggi ce-
frane e boschi radi, (castagneti da frutto ab- duate più di rado, provochi uno stato di con-
bandonati e boschi cedui degradati) o, local- correnza eccessiva ai fini della permanenza
mente, a zone un tempo (50-60 anni fa) a della betulla.
$/1(7, ', 217$12 %,$1&2 ( 217$12 1$32/(7$12
Importanza e caratterizzazione
Questi boschi, accomunati dalla dominanza di due specie appartenenti allo stesso
genere, sono stati inclusi in una stessa categoria anche perchè vegetano all’incirca
alle stesse quote e in ambienti ecologici affini. La loro origine è comunque ben
diversa essendo i primi a carattere spontaneo mentre i secondi, come noto, provengono
da rimboschimenti. Per tale ragione essi sono stati brevemente descritti in questo
ambito al punto 23.1.
La loro distribuzione è esclusivamente limitata all’Appennino e localizzata a
zone particolarmente fresche o umide.
Le superfici occupate da questi Tipi di bosco non sono state considerate sepa-
ratamente nell’Inventario Forestale della Regione Toscana.
Alneto autoctono di ontano bianco - Ceduo a m. 1370 sotto Foce a Giovo (Garfagnana- Lucca).
Il fitto sottobosco è ricco di specie mesofile e nitrofile.
17.1. ALNETO AUTOCTONO
DI ONTANO BIANCO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Il settore tratteggiato è
relativo alle stazioni delle
quote più basse
Caratterizzazione fisionomica e fitosocio- Alnetum incanae (Br. Bl. 1915) Br. Bl. 1921
logica inserita da ARRIGONI (1996, ined.) fra le as-
L’ontano bianco, per la sua natura di specie sociazioni “ inquirendae” .
boreale, risulta limitato alle zone più pio-
vose e fredde della Toscana settentrionale, Sottotipi e varianti
in piccole superfici disgiunte talvolta pun- normale su rocce cristalline
tiformi, la cui presenza non è stata eviden- basifilo su calcare (Apuane)
ziata nei rilievi dell’Inventario Forestale re- Non esistono varianti.
gionale.
Questi alneti praticamente puri coprono Localizzazione
probabilmente poche centinaia di ettari di Appennino in Lunigiana (Sotto il Passo
superficie, ma sono interessanti sotto il pro- dei Due Santi, Passo del Brattello, Passo
filo naturalistico in quanto la specie rag- del Cerreto (è la stazione più estesa verso
giunge qui il limite meridionale del suo il M. Albo), in Garfagnana sotto Foce a
areale italiano. Giovo, e al Pian degli Ontani (Valle del
Il sottobosco è quasi sempre dominato dal Sestaione); versante interno delle Apuane
lampone, mentre numerose sono pure le spe- nella zona di Vagli e probabilmente al-
cie nitrofile banali risultando invece del tutto trove (M ONDINO , ined.); P ADULA (1995)
assenti le entità decisamente igrofile. Lo stra- segnala la specie per le Foreste Casenti-
to arbustivo è povero di specie e a scarsa nesi (Parco Nazionale) ma in boschi misti
copertura. ad altre latifoglie.
Questi boschi vanno inclusi genericamente
nell’ord. Fagetalia sylvaticae, però con forti Esposizioni
ingressioni di specie nitrofile di diverse unità Varie.
fitosociologiche.
La composizione floristica rilevata (MONDI- Distribuzione altitudinale
NO, ined.) non corrisponde all’associazione (600) 950-1450 metri.
Geomorfologia Clima
Greti, coni di deiezione, morene anche senza Precipitazioni medie annue 1800-2500 mm;
acqua superficiale, rive di ruscelli, impluvi precipitazioni estive 200-300 mm. Assenza
freschi con suolo profondo. di periodo asciutto estivo.
Specie indicatrici
Alnus incana Mycelis muralis
Acer pseudoplatanus (loc.) Fragaria vesca
Prunus avium (loc.) Geranium nodosum
Alnus glutinosa (limiti inf.) Dryopteris affinis
Corylus avellana *Galium aparine
Salix caprea *Rubus gr. hirti
S. apennina (loc.) Myosotis sylvatica
Euphorbia dulcis Epilobium montanum
*Sambucus nigra Valeriana officinalis (loc.)
*Rubus idaeus Stellaria nemorum (loc.)
*Urtica dioica Orchis maculata (loc.)
*Geum urbanum Vicia sepium (loc.)
*Geranium robertianum Circaea lutetiana (loc.)
*Aegopodium podagraria Senecio fuchsii (loc.)
Athyrium filix-foemina Salvia glutinosa (loc.)
Dryopteris filix-mas Campanula trachelium (loc.)
Poa nemoralis
(* specie nitrofile)
Selvicoltura basse pendici incassate e degli impluvi oltre
Si tratta sempre di cedui semplici, a coper- che sotto quello naturalistico per le ragioni
tura colma, più o meno invecchiati (ultimi su esposte.
tagli, circa 30-40 anni fa) che, attualmente, L’altezza non supera i 10 m e il diametro dei
possono essere localmente considerati so- polloni i 20 cm; esemplari isolati ad alto fusto
prattutto sotto l’aspetto protettivo delle raggiungono i 40 centimetri.
3,1(7( ', 5,0%26&+,0(172 ', 3,12 1(52
difficile stabilire le singole provenienze adottate a meno di ricerche di archivio
sull’origine del seme oppure di indagini biometriche e biochimiche apposite.
Le specie impiegate nella mescolanza variavano secondo la stazione: cipresso,
cedro dell’Atlante, abete greco o anche abete bianco. Le latifoglie (per esempio,
orniello, cerro, acero di monte) sono state largamente usate all’atto dell’impianto,
ma poi sono state trascurate nel corso delle cure colturali. La robinia e l’ontano
napoletano sono stati usati lungo gli stradelli di servizio e in zone franose.
La principale avversità parassitaria del pino nero (con danni più forti sugli
impianti giovani) è stata fino ad ora la processionaria Thaumetopoea pityocampa);
attualmente si osservano fenomeni di clorosi su pinete adulte, soprattutto sui rimbo-
schimenti dei terreni calcarei.
Aspetti selvicolturali
Ai fini della gestione dei maggiori comprensori di pinete di pino nero si intrec-
ciano varie questioni anche contrastanti.
Alcuni comprensori di pineta hanno acquisito una loro popolarità ed una certa
frequentazione ricreativa sia pure a livello locale: ciò dovrebbe far presupporre per
lo meno delle opere di manutenzione.
Sotto altri punti di vista, la pineta di pino nero è una forzatura paesaggistica ed
ha potenzialità molto ridotte rispetto ad ecosistemi naturali teoricamente possibili.
Ne deriverebbe la necessità di lavori di trasformazione sia pure con la necessaria
gradualità.
Per contro, il regime delle proprietà delle pinete in cui potrebbero essere pro-
grammato degli interventi è molto vario. Una parte è di proprietà della Regione o di
Comuni mentre, fra le pinete di proprietà privata, alcune fanno parte di aziende in
cui si esercitano ancora attività agrosilvopastorali, ma molte altre sono in condizioni
di abbandono della gestione.
In Calabria e in Corsica si conservano esemplari di pino laricio di età plurise-
colare; non è detto però che la longevità individuale possa corrispondere alla durata
di popolamenti interi che, come avviene per i rimboschimenti della Toscana, non
sono sempre ben inseriti sotto il profilo ecologico. E’ possibile inoltre che, alle quote
inferiori e nelle stazioni aride, il pino nero, dopo avere reagito bene da giovane,
possa incontrare limiti di longevità per le maggiori necessità di acqua e di elementi
nutritivi delle piante adulte e per il conseguente ricorrere di crisi idriche e di attacchi
di parassiti (soprattutto processionaria).
Le prospettive di rinnovazione naturale (oppure di evoluzione verso altre cenosi)
cambiano molto secondo la stazione. Nelle stazioni estremamente scadenti, il pino
nero (libero dalla concorrenza di altre specie) potrebbe anche rinnovarsi e dar luogo
ad "associazioni permanenti"; nelle stazioni molto fertili, invece, sono possibili rapide
successioni verso il bosco misto di latifoglie. Resta un ampio campo intermedio di
pinete di dinamismo poco prevedibile.
Nella tabella di fertilità qui allegata, la I e la II classe di fertilità rappresentano
pinete dotate di un discreto dinamismo evolutivo e che, da un punto di vista econo-
mico, potrebbero essere destinate alla gestione per la produzione di legno oppure
che possono essere sottoposte agli interventi di trasformazione che qui di seguito
saranno discussi. Le pinete della III classe possono avere destinazioni produttive o
protettive secondo le circostanze. Le pinete della IV classe, infine, svolgono un ruolo
protettivo e possono essere sottoposte solo a trasformazioni di natura specifica cioè
volte a rafforzarne l’azione protettiva.
I boschi di pino nero che fanno parte di aziende agricole e forestali ancora gestite
vengono già sottoposti a tagliate a raso seguite dalla rinnovazione artificiale con lo
stesso pino nero o con altre conifere fra cui, soprattutto, la douglasia.
Tuttavia esistono anche premesse tecniche che suggeriscono la necessità di ap-
plicare piani operativi per lo svecchiamento, la rinnovazione e la trasformazione dei
grandi complessi di pineta di pino nero.
Il taglio raso su superfici ampie (1-3 ettari) è il tipo di intervento più semplice
e anche più drastico. Su terreni poco accidentati non provoca pericoli idrogeologici;
se applicato a particelle di pino nero disperse fra altre colture dà il minimo di danno
paesaggistico. La conseguente rinnovazione artificiale può essere fatta col pino nero
o, piuttosto, con specie scelte secondo le esigenze aziendali oppure secondo criteri
di recupero naturalistico. Nel primo caso conviene spesso ripetere la coltura di co-
nifere, ma con douglasia, abete bianco o cedro dell’Atlante secondo la stazione. Nel
caso di recupero naturalistico occorre la sostituzione mista di latifoglie e conifere
(faggio e abete) in alto o con sole latifoglie alle quote inferiori.
Il taglio raso su piccole superfici (0,5 - 1 ettaro) può essere utile per limitare
l’impatto (soprattutto psicologico e visivo) delle operazioni; a parte la minore su-
perficie delle tagliate e la minore efficienza operativa segue gli stessi criteri del taglio
raso su superfici più grandi.
Le varie forme del taglio raso sono ovviamente sconsigliabili quando la pineta
possiede già un piano inferiore di rinnovazione spontanea di latifoglie o di altre
specie di conifere.
Nelle pinete di pino nero la presenza di nocciolo invita alla pronta sostituzione
con specie indigene, ma può essere consigliabile limitarsi a diradare la pineta e
lasciare che la latifoglia prolunghi la sua funzione miglioratrice del terreno.
Un modello di trasformazione alternativo consiste nel diradare progressivamente
tutto il comprensorio delle pinete fino a rilasciare, gradualmente, solo 50-80 grossi
pini per ettaro emergenti sopra un piano di successione di latifoglie. I diradamenti
spinti fino a lasciare piante isolate servono ad avere piante grosse e bene impostate
ai fini della longevità individuale e a dare spazio e luce per lo sviluppo del piano
inferiore di successione.
In assenza di quest’ultimo si possono effettuare delle sottopiantagioni. Lo scopo
generale è quello di sostituire la fisionomia del paesaggio con la massima gradualità
lasciando alla fine poche piante di pino come testimoni dell’antico rimboschimento.
I criteri generali di assestamento son quelli del sistema a taglio saltuario. Il metodo
non è applicabile ai popolamenti delle quote inferiori o dei terreni calcarei perché
le piante isolate sono molto più soggette alle crisi di aridità.
Recenti prove (NOCENTINI, 1955), di forti tagli sul piano dominante di pino nero
e laricio a M. Morello, hanno effettivamente favorito orniello, carpino nero e qualche
acero di monte, sia come piante da seme, prima stentate (ora con altezza di 3-7 m),
sia come polloni di ceppaie preesistenti. Biancospini, rovi ed edera completano la
copertura del suolo. Una proposta interessante è quella di combinare gli interventi
con piccole tagliate a raso localizzate in stazioni di particolare fertilità e facilità di
accesso per piantarvi specie arboree indigene di mole maggiore come, per esempio,
la rovere o l’acero di monte. Le pinete dei terreni più scadenti (appartenenti alla III
e soprattutto alla IV classe di fertilità) possono essere sottoposte a sottopiantagioni
di latifoglie arbustive rustiche e miglioratrici che risultano tanto più opportuni quando,
nonostante il rimboschimento, rimangono superfici con erosione attiva.
Le pinete di pino nero possono essere classificate secondo il substrato del terreno
e secondo la quota. Si hanno pertanto, le seguenti distinzioni in Tipi:
Pineta eutrofica acidofila (sostitutiva di castagneti delle fertilità migliori)
Pineta neutro-acidoclina su rocce calcaree o arenaceo-argillose, montana e submon-
tana (sostitutiva di castagneti oppure di pascoli su terreni di competenza di cerrete)
Pineta neutro-basifila su rocce calcaree o arenaceo-argillose, sopramediterranea,
(sostitutiva di pascoli su terreni di competenza di querceti di roverella) .
18.1. PINETA EUTROFICA (ACIDOFILA)
DI PINO NERO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Esposizioni Il reingresso spontaneo delle grandi querce
Varie. (rovere ed eventualmente anche farnia) è im-
possibile per mancanza di piante dissemina-
Distribuzione altitudinale trici nelle vicinanze.
Da 500 a 900 (1.000) metri. E’ tuttavia indubbio che il tipo potenziale
sia da attribuire a un querceto con carpini
Geomorfologia di almeno parziale intonazione medio-eu-
Pendici non molto ripide. ropea.
18.2. PINETA NEUTRO-ACIDOFILA
DI PINO NERO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arid
Povero Ricco
Esposizioni vano una limitazione nella forte densità alla
Varie, da cui dipende la differenziazione in quale questi popolamenti sono stati allevati
sottotipi. e, forse, anche nella azione di impedimento
generata dal brachipodio rupestre.
Distribuzione altitudinale E’ possibile che il regime precedente di ab-
500-1.000 metri. bruciamenti ripetuti abbia provocato la dif-
fusione della prateria con prevalenza del bra-
Geomorfologia chipodio che è, notoriamente, una pirofita.
Pendici anche accidentate. Dopo l’impianto dei pini la graminacea po-
trebbe essere rimasta ancora favorita dalla sua
Substrati capacità a propagarsi per via vegetativa e ma-
Scisti argillosi o limosi facenti parte della for- gari anche da non rari incendi bassi che sono
mazione del Macigno, della formazione Mar- stati ricorrenti nei rimboschimenti confinanti
noso arenacea, oppure anche della serie detta con i pascoli.
delle “ Crete di Vicchio” la quale di prolunga Nondimeno, dove si hanno pinete sufficien-
poi fino al Casentino e alla Val Tiberina. temente adulte (e quindi produttrici di seme
abbondante), si osservano casi di espansione
Suoli progressiva del pino nero in praterie adiacenti
Abbastanza argillosi, superficiali sui dossi, (PACI e ROMOLI, 1992).
relativamente freschi, subacidi, con calcare Nelle posizioni a suolo più profondo e fresco
attivo in profondità e lettiera spessa ma con si insedia un piano di successione costituito,
una certa incorporazione della sostanza orga- però, solo da latifoglie di mole minore salvo,
nica alla frazione minerale. teoricamente, l’olmo campestre che poi, in
pratica, resta costretto allo stato arbustivo
Clima dalla malattia della grafiosi. Le querce hanno
Temperatura media annua da 8° a 13°. Tem- maggiore difficoltà di ritorno immediato a
peratura media del mese più freddo da -3° a causa del seme pesante.
+1°. Precipitazioni medie annue di 1000-
1500 mm; precipitazioni estive superiori a Specie indicatrici
150 millimetri. E’ lo stesso clima montano e Vengono omesse perchè non ne esistono pra-
submontano della Pineta acidofila di pino ticamente.
nero, sostitutiva di castagneti, tuttavia il sub-
strato di questo tipo ha un bilancio idrico mol- Selvicoltura
to più sfavorevole. Il bilancio idrico peggiore, proprio dei suoli
argillosi, soprattutto se combinato con le pre-
Interventi antropici più frequenti cipitazioni più basse, può contribuire ad ab-
Rimboschimento su pascoli mantenuti con breviare la longevità di queste pinete. Pertan-
continui abbruciamenti, fortemente erosi e to sarebbe opportuno iniziare per tempo il
degradati. Il pino è stato piantato denso e ciclo delle trasformazioni. Resta evidente
talvolta su gradoni molto fitti. Raro il caso che le operazioni debbono essere dosate
di boschi sottoposti a diradamenti. con molta attenzione ai sottotipi e alle classi
di fertilità.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Nella stazioni migliori dal punto di vista pro-
denze dinamiche duttivo la soluzione migliore è il taglio raso
Le probabilità di una evoluzione ulteriore tro- su 1-3 ettari con sostituzione con cedro
dell’Atlante o, solo eventualmente, con la Nelle stazioni più scadenti, invece, il mi-
douglasia. nore sviluppo di altezza raggiunto dalle
Ai fini della trasformazione, il taglio raso nel- piante consente una maggiore libertà di in-
le sua diverse concezioni può essere ancora tervento. In particolare sarebbe consiglia-
la soluzione più efficiente perché l’eccessiva bile operare diradamenti più o meno loca-
densità di questi popolamenti rende sconsi- lizzati seguiti da sottopiantagioni di querce
gliabili moduli selvicolturali basati sul dira- e altre latifoglie.
damento.
Pineta neutro-acidoclina di pino nero - Impianto di buona fertilità della conifera diradata da tempo,
con presenza di faggi di rinnovazione naturale sotto Foce delle Radici verso 1000 m (Lucca).
18.3. PINETA NEUTRO-BASIFILA
DI PINO NERO
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Suoli fra l’altro, si rende possibile anche la rinno-
Tendenzialmente argillosi, superficiali sui vazione del cipresso e in un certa misura an-
dossi, asciutti, sempre ricchi di scheletro, che del pino. Nelle pinete a brachipodio è
neutro-basici e contenenti calcare attivo, let- possibile ancora un certa penetrazione del
tiera spessa e scarsa incorporazione della so- leccio e qualche accenno alla rinnovazione
stanza organica alla parte minerale. del pino in corrispondenza di vuoti. Le pinete
delle stazioni migliori hanno un piano di suc-
Clima cessione composto da alberi di mole minore
Temperatura media annua da 10°a 15°. Tem- e di arbusti.
peratura media del mese più freddo da -1° a Le crisi idriche restringono molto le prospet-
+3°. Precipitazioni medie annue intorno a tive di longevità della pineta. Resta tuttavia
1.000-1.200 mm; precipitazioni estive probabile che, al momento in cui i pini co-
dell’ordine dei 150 mm. La natura del sub- minceranno a morire, l’illuminazione al suolo
strato e del suolo impongono condizioni lo- consentirà (almeno sui sottotipi a sottobosco
cali di temperatura più alta e di aridità più erbaceo) l’insediamento della rinnovazione
marcata di quanto non sia indicato dai dati naturale e, quindi, l’insediamento di una fase
meteorologici. di associazione permanente a pini.
,03,$17, ', '28*/$6,$
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Importanza dei boschi di douglasia Impianti estesi, e a scopi aziendali, sono stati
La douglasia verde (Pseudotsuga menziesii fatti fra il 1970 e il 1975 nelle Province di
ssp. menziesii) è stata introdotta, come pianta Prato, di Firenze e di Arezzo: Montepiano
ornamentale, verso la metà dell’800. La pri- (Vernio), Passo della Futa, Colla di Casaglia,
ma parcella sperimentale è stata impiantata Passo della Consuma e vicino a Porciano
nella Foresta di Vallombrosa nel 1897 ma il (Stia) in Casentino. Si tratta di proprietà pri-
massimo impulso alla sperimentazione si è vate dove la coltura della conifera esotica ha
avuto, poi, fra il 1920 e il 1940 (CIANCIO et sostituito castagneti da frutto e seminativi
al., 1981-82). montani.
Tra il 1948 e il 1955, la douglasia è stata Esistono, poi, svariati impianti minori e anche
molto usata in consociazione con l’abete a piccole particelle disperse. Inoltre la dou-
bianco per la rinnovazione artificiale di ampie glasia è stata molto usata a piante singole o
tagliate a raso effettuate per motivi bellici a gruppetti vicino agli abitati.
nella Foresta di Camaldoli.
Classi di fertilità dei popolamenti di douglasia in Toscana
(MAETZKE e NOCENTINI, 1994).
Altezza dominante in funzione dell’età
Non è possibile definire nell’ambito di questi Interventi antropici più frequenti
rimboschimenti unità fitosociologiche se non Piantagione di trapianti 2+1 o 2+2 al sesto
potenziali. da 1,80x1,80 fino a 3x3 m (LA MARCA,
1985). Diradamenti dal basso o, più di recente
Sottotipi e varianti e in alcune aziende, diradamenti a file alterne.
Non esistono praticamente varianti perché, Sono già state eseguite alcune tagliate a raso.
dato il rapido accrescimento della douglasia,
nessuna specie arborea resiste alla consocia- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
zione. Non è possibile inoltre distinguere dei denze dinamiche
sottotipi. Ci sono casi in cui la specie si è dimostrata
capace di diffondersi spontaneamente in bo-
Localizzazione schi vicini dopo un’azione di disturbo come,
Appennino e catene secondarie del sistema per esempio, un taglio.
appenninico, ma principalmente nel settore Piuttosto, nei popolamenti adulti di dougla-
centrale e orientale. Monte Amiata. Raramen- sia, si osserva l’ingresso di latifoglie: casta-
te sulle Apuane e sui rilievi calcarei. gno, acero di monte, ecc., mentre la rinnova-
zione della douglasia è accantonata in posi-
Esposizioni zioni di margine.
Prevalentemente verso nord.
Specie indicatrici
Distribuzione altitudinale Non vengono elencate trattandosi di cenosi a
600-1.200 metri. carattere fisionomico pur prevalendo spesso
specie legate a faggete e abetine.
Geomorfologia
Pendici moderate, depressioni. Selvicoltura
Il modo migliore di produrre economicamen-
Substrati te il legname di questa specie e con la più
Arenarie. Trachiti del M. Amiata. scarsa probabilità che la specie esotica possa
diffondersi spontaneamente nei boschi vicini,
Suoli è il taglio raso al turno di 50 anni su superfici
Bruni molto profondi, più o meno freschi, di 3-5 ettari da rinnovarsi poi per piantagione.
subacidi, ben drenati, ricchi di humus ben Forme di trattamento di tipo disetaneo, grazie
distribuito. La lettiera è di facile decomposi- ai diradamenti orientati anche sulle piante do-
zione. minanti, possono ridurre di molto gli interessi
passivi che l’azienda deve sopportare durante
Clima la fase giovanile delle piantagioni; inoltre si
Temperatura media annua da 7° a 14°. Tem- apre la possibilità di facilitare l’ingresso delle
peratura media del mese più freddo da -3° a latifoglie e di costituire un popolamento plu-
+ 4°. Precipitazioni medie annue superiori a ristratificato. A causa della tendenza a riser-
1.200 mm, quelle estive superiori a 150-200 vare piante molto grosse e a chioma espansa
millimetri. (e quindi forti disseminatrici) potrebbe venire
agevolata la diffusione della specie nell’am-
biente circostante.
$5%867(7, ', 3267&2/785$
Dal punto di vista del rimboschimento gli arbusteti formano una opportuna fase
intermedia e preparatoria del terreno fra l’uso precedente e il momento della pian-
tagione di alberi. Però, al momento della piantagione, una forma più o meno totale
e severa di rimozione degli arbusti si rende assolutamente indispensabile.
Ci si può domandare, tra l’altro, se l’evoluzione naturale, iniziata con l’insedia-
mento degli arbusti, non renda superfluo il costoso rimboschimento artificiale. Questo
però, oltre che è giustificato dal fatto che non è sempre così chiaro se e quando
l’arbusteto si trasformerà in bosco.
L’evoluzione naturale in senso forestale dei terreni abbandonati dalle colture è
sicura quando le specie arboree si insediano immediatamente insieme ai cespugli
senza dar tempo agli arbusti di costituire una formazione densa. L’evoluzione suc-
cessiva può avere diversi esiti secondo l’ambiente, la natura e il modo con cui si è
formato il suo primo insediamento.
L’ingresso di specie arboree è facilitato negli arbusteti delle stazioni peggiori
dove la chiusura della copertura bassa e intricata degli arbusti è più lenta ad
affermarsi.
Le ginestre, in quanto arbusti poco longevi e non pollonanti, probabilmente
formano cenosi più labili. Gli arbusti dei Pruneti, invece, sembrano in più stabile
possesso del territorio. Talvolta la fase successiva a quella di arbusteto è la costitu-
zione dei macchioni di vitalba, particolarmente pericolosa per i giovani alberi che si
stanno insediando.
Arbusteti neutro-basifili
Comprendono gli arbusteti dei calcari, delle marne, delle argille e degli scisti
argillosi intercalati nella formazione del “ Macigno” .
Si dividono secondo la fertilità e/o l’umidità in tre Tipi, il primo con più sottotipi.
Pruneto (formato da specie più esigenti, spesso misto di molte specie legnose)
sottotipi:
Pruneto puro
Pruneto a rovo
Pruneto rado a rose selvatiche (specialmente Rosa canina, fase iniziale di colo-
nizzazione)
Ginestreto collinare di Spartium junceum (xerofilo, preferente suoli ben provvisti
di basi)
Ginepreto di Juniperus communis (relativamente xerofilo, su suoli acidi, probabilmente
favorito dal pascolo).
Arbusteti acidofili
Divisibili in Tipi secondo l’umidità e la fertilità della stazione e, in seguito, secondo
la fascia di vegetazione.
Pteridieto (felceto di Pteridium aquilinum). La felce aquilina non è strettamente
legata ai suoli acidi o silicatici, però è qui che costituisce i popolamenti più estesi.
Sottotipi:
Pteridieto montano (felci di grande sviluppo)
Rovo-pteridieto collinare (con o senza eriche; frequente la presenza di pioppo
tremolo)
Rovo-pteridieto mediterraneo (come il precedente ma confinato nelle depressioni
umide in aree a clima caldo)
Ginestreto di Cytisus scoparius
Ginestreto montano
Ginestreto a brugo (del settore nordoccidentale della regione, a intonazione subo-
ceanica)
Ginestreto con felce aquilina
Calluneto puro
foto
Ginestreto collinare di Spartium junceum - Aree in erosione delle crete (argille) sotto Radicofani
colonizzate qua e là da macchie di Spartium junceum
20.1. PTERIDIETO
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Clima da pascolamento o da colture agrarie montane
Temperatura media annua fra 8° e 13°. Tem- poi abbandonate.
peratura media del mese più freddo: da -5 a
0°. Precipitazioni variabili a seconda della Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
quota. denze dinamiche
La copertura molto densa delle felci rende
Interventi antropici più frequenti difficile l’ingresso del faggio. Possibile l’in-
Interventi pregressi: disboscamento seguito sediamento marginale del salicone.
(1)
Specie indicatrici
20.2. PRUNETO (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Suoli lonizzato dagli arbusti dei Pruneti è già ab-
Profondi, non acidi nè aridi, un tempo a col- bastanza profondo e relativamente fertile. Gli
tura agraria o pascolati, talvolta spietrati. arbusti che intervengono sono, comunque,
miglioratori del suolo. Inoltre, le radici degli
Clima arbusti aumentano la porosità del terreno e
Molto vario come si deduce dalla temperatura intaccano eventuali orizzonti induriti dal ri-
media che va da 6° a 16°; lo stesso si può petersi delle arature. Il tempo medio di chiu-
dire per le precipitazioni. sura dell’arbusteto dopo l’abbandono è di cir-
Interventi antropici più frequenti ca 10 anni. I modi del passaggio alla fase
Seminativo, oliveto, ecc., più in alto pascolo forestale sono difficili da arguire anche per-
mantenuto con l’abbruciamento, tutti terreni ché il massiccio fenomeno di abbandono data
agricoli poi abbandonati. ancora da troppo pochi anni. In certi casi si
ha, ad un certo punto, l’invasione da parte
Posizione del tipo nel ciclo evolutivo e ten- della vitalba che, oltre ad opprimere gli ar-
denze dinamiche busti, aggredisce anche eventuali specie ar-
Non si tratta di una invasione di carattere boree.
pioniero in senso stretto perché il terreno co-
Specie indicatrici
20.3. GINESTRETO COLLINARE
DI SPARTIUM JUNCEUM (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
12° a 15°. Prevalgono, comunque, le influen- Negli oliveti abbandonati studiati nel Chianti
ze del clima locale derivanti dall’esposizione da BOSCAGLI e ANGIOLINI (cit.) si è osservata
e dalla roccia madre; il regime idrico è im- una notevole copertura erbacea nei primi 20-
posto dal terreno e dall’esposizione. 25 anni, formata in prevalenza di Brachypo-
dium rupestre e Bromus erectus mentre pro-
Interventi antropici più frequenti cede l’espansione della ginestra.
Questo Tipo si trova su terreni abbandonati Gradualmente l’arbusteto si arricchisce di
dalla coltura a margine di aree pascolate, ai specie dell’ord. Prunetalia (v. PRUNETO) in-
bordi nelle radure dei querceti termofili di sieme a Lonicera etrusca e Pyracantha coc-
roverella, in particolare del QUERCETO cinea. A 30-45 anni si ha la massima pre-
MESOXEROFILO APPENNINICO; pertan- senza di questi arbusti con regresso della
to le influenze principali sono quelle che de- ginestra e una modesta presenza (poco ol-
rivano dal pascolo e dall’incendio. Talvolta tre il 20% della copertura) di specie arbu-
(in Chianti) aree di questo genere venivano stivo-arboree delle classi Querco-Fagetea e
adibite alla coltura del giaggiòlo. Quercetea ilicis.
Secondo ANGIOLINI, BOSCAGLI e CASINI
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- (1995) anche sui difficili terreni delle argille
denze dinamiche plioceniche dell’Amiata già a colture erbacee
L’evoluzione verso il querceto di roverella, si osserva un’evoluzione che va dallo
anche attraverso l’ingresso di arbusti del Pru- SPARTIETO al PRUNETO con Prunus spi-
neto, è molto lenta. Eventuale il coniferamen- nosa, Rosa canina oltre a meno diffuso Ul-
to spontaneo col cipresso. mus minor.
Specie indicatrici
Spartium junceum (domin.) Sanguisorba minor
Artemisia alba Euphorbia cyparissias
Juniperus communis Scabiosa gramuntia
Dorycnium herbaceum Odontites lutea
Prunus spinosa (forme più evol.) Astragalus monspessulanus
Rosa canina (forme più evol.) Helichrysum italicum
Crataegus monogyna (forme più evol.) Globularia punctata
Cornus sanguinea (forme più evol.) Prunella laciniata
Cytisus sessilifolius (loc.) Peucedanum cervaria
Bromus erectus Carex flacca
Brachypodium rupestre Peucedanum cervaria
Teucrium chamaedrys Teucrium polium (loc.)
Hippocrepis comosa Aster lynosiris (loc.)
Potentilla hirta Quercus pubescens (sem.)
Cupressus sempervirens (sem.) Fraxinus ornus (sem.)
Ostrya carpinifolia (sem., loc.)
20.4. GINEPRETO DI JUNIPERUS COMMUNIS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- Selvicoltura
denze dinamiche Volendo rimboschire, questi sono terreni che
Possibile l’evoluzione verso gli arbusteti del si prestano all’impianto senza alcun interven-
Pruneto, ingresso eventuale di orniello o an- to sulla vegetazione esistente: basta la pian-
che di querce. Eventuali piante camporili di tagione a buche.
roverella danno luogo alla diffusione del L’introduzione della roverella o del cerro
querceto. (secondo la quota) non pone problemi.
Alle quote maggiori si potrebbe introdurre il
Specie indicatrici cedro dell’Atlante, alle quote minori, il ci-
Essendo tipo prevalentemente fisionomico si presso.
omettono le specie indicatrici.
20.5. GINESTRETO DI CYTISUS SCOPARIUS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
l’insediamento delle latifoglie è possibile e Specie indicatrici
più o meno rapido secondo la presenza di Vengono omesse trattandosi di tipo fisionomico.
piante disseminatrici. L’insediamento del
pino marittimo alle quote inferiori è favorito Selvicoltura
dagli incendi. Rimboschimento con faggio o abete alle quote
superiori (800-1.200 m), con cerro più in basso.
20.6. CALLUNETO DI QUOTA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Esposizioni Interventi
Tutte. Oltre al pascolo è possibile che nell’area dove
si trovano i calluneti ci sia stato anche l’eser- Specie indicatrici
cizio delle colture agrarie. Non vengono riportate trattandosi di un tipo
riconoscibile fisionomicamente.
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche Selvicoltura
E’ possibile che il calluneto possa prestarsi E’ un arbusteto che, ai limiti inferiori, è an-
localmente ad una lenta penetrazione del cora suscettibile di rimboschimento.
faggio.
$%(7,1(
Prataglia è passato da circa 900 ettari a 2.100 ettari per effetto di piantagioni eseguite
in campi o in pascoli e, poi, per effetto di piantagioni in sostituzione di faggete e
anche per il modo con cui l’abete ha invaso spontaneamente alcuni castagneti da
frutto spingendosi inopinatamente sotto quota (PATRONE, 1934).
Ancora maggiore è stato l’aumento di superficie delle abetine dovuto ai rimbo-
schimenti con abete fatti su tutta la Regione sia in foreste demaniali di nuovo acquisto
che in boschi di privati.
L’Inventario Forestale Toscano censisce 7.184 ettari di boschi in cui l’abete
bianco è prevalente. Le abetine pure sono 4.272 ettari e sono sicuramente tutte di
origine artificiale. Fra i boschi misti qualificati dalla prevalenza fisionomica dell’abete
prevalgono, nell’ordine, le consociazioni con il faggio, il pino nero, il castagno e la
douglasia. È verosimile che i relitti di abete allo stato spontaneo formino solo una
piccola parte della superficie.
Il legname di abete bianco (diversamente da quanto avviene nelle regioni alpine)
in Toscana è piuttosto apprezzato e, in un certo senso, rientra nelle tradizioni. Il
fabbisogno è valutato in 50.000 metri cubi all’anno contro una utilizzazione interna
che in media è di 20.000 metri cubi all’anno (BERNETTI I. et al. 1993).
Il trattamento classico delle abetine della Toscana era il taglio raso con rinno-
vazione artificiale. Il turno era di 90-100 anni; la superfici avvicendate al taglio erano
dell’ordine di 1-3 ettari; il reimpianto si faceva alla distanza di 4 x 4 braccia (vale
a dire 2,3x2,3 m); il materiale di piantagione veniva raccolto fra i giovani esemplari
nati spontaneamente nei boschi di latifoglie.
Nel 1904, dopo che la Foresta di Vallombrosa era divenuta una stazione di
villeggiatura, la pratica del taglio raso delle abetine venne considerata paesaggisti-
camente inappropriata e venne soppressa in virtù di una apposita legge che riguardava
anche Camaldoli, l’Abetone e altre foreste demaniali presenti in stazioni climatiche.
Questa legge, però, ebbe effetti pratici solo fino al 1915 quando le abetine della
Toscana subirono estese tagliate a raso per ricavarne legname per scopi bellici. Fra
le due guerre, poi, il divieto del taglio raso venne limitato a una modesta porzione
delle foreste interessate detta "fascia estetica". Nel 1944 seguirono ulteriori tagliate
a raso ad opera degli eserciti di occupazione (MENCUCCI, 1988).
Nel secondo dopoguerra i piani di assestamento per le maggiori foreste demaniali
toscane seguitarono a prescrivere il trattamento a taglio raso, ma con criteri estre-
mamente prudenziali, cioè fino a prescrivere il taglio su una superficie pari a solo
all’1/200 del totale: tanto valeva prescrivere il turno di 200 anni ! (PATRONE, 1952;
1970; CANTIANI e BERNETTI G., 1963; BERNETTI G. e CANTIANI, 1967).
A partire dal 1970 il taglio raso delle abetine delle foreste demaniali è stato
gradualmente sospeso. Un presunto pericolo per la sopravvivenza delle abetine, im-
putato all’inquinamento atmosferico, suggerì addirittura di evitare i diradamenti (GEL-
LINI e CLAUSER, 1986). Probabilmente si trattò invece di crisi da annate siccitose
(MORIONDO e COVASSI, 1981). Ma ora che l’allarme sembra rientrato, sul trattamento
delle abetine delle foreste demaniali regna l’indecisione. Nondimeno se ne ricavano
quantità di legname non indifferenti dal recupero delle piante che cadono sradicate
per effetto del marciume delle radici, di quelle che seccano in piedi per varie patologie
e di quelle cadono o rimangono stroncate o per i danni dovuti al gelo o alla neve
pesante ed aggravati dall’eccessiva densità di allevamento (LA MARCA, 1979; 1984;
HIPPOLITI, 1989).
Nel frattempo, le abetine di proprietà privata (che sono tutte di costituzione più
recente) man mano che arrivano all’età di 70-90 anni vengono tagliate a raso, ma
sovente rinnovate non con l’abete, ma con la douglasia.
Aspetti selvicolturali
Dato che per la coltura dell’abete bianco sono sempre stati preferiti i terreni
migliori, le classi di fertilità stabilite da CANTIANI e BERNETTI G. (1962) rivelano
piuttosto effetti del clima che effetti del terreno. D’altra parte, l’ottimo dell’abete
bianco si verifica in un intervallo climatico ristretto.
Ad altitudini inferiori a 900-800 m si trovano le Abetine sotto quota il cui
sviluppo si colloca nei limiti della IV classe o anche a livelli inferiori a causa del
periodo vegetativo troppo lungo e delle crisi di aridità. Si aggiungono fenomeni di
senescenza precoce e patologie più accentuate che finiscono per giustificare la so-
stituzione dell’abete con altre specie.
Per la selvicoltura dell’abete bianco si possono delineare i seguenti principi
di base.
La specie, almeno sull’Appennino, rivela un campo di adattabilità limitato.
L’ottimo per l’abete, sempre sull’Appennino, coincide con l’ottimo per il faggio
che, guarda caso, è il suo peggiore concorrente.
L’abete ha una "longevità di massa" limitata nel senso che numerose patologie
tendono ad attenuare la densità e, alla fine, la compagine dei popolamenti coetanei
di età superiore a 100 anni.
Le giovani piante di abete sono molto tolleranti dell’ombra, ma non tanto da
potere resistere alla copertura di faggete dense.
La lettiera dell’abete inibisce l’insediamento di piantine della stessa specie tanto
che la rinnovazione dell’abete tende a concentrarsi ovunque ci sia un apporto di
lettiera di altre specie (come in boschi misti) o, semplicemente in boschi attigui
di altre specie come pinete, castagneti, ecc. (ma non sotto il faggio per i motivi
indicati).
Nelle piantagioni l’abete dà risultati di attecchimento soddisfacenti. Per l’alleva-
mento in vivaio incontra remore e costi nella necessità di raccogliere i coni
sull’albero prima che si disarticolino, nella scarsa conservabilità del seme e nella
modesta germinabilità.
Sulle Alpi, il sistema colturale classico per i frequenti boschi contenenti l’abete
bianco consiste nel trattamento a taglio saltuario con lo scopo di ottenere e mantenere
un bosco a struttura disetanea misto fra abete bianco e abete rosso con, eventualmente,
anche faggio o altre latifoglie oppure anche con larice e pino silvestre. Questo sistema
ha buone possibilità di successo nelle località in cui il clima impedisce al faggio di
svolgere in pieno la sua capacità di copertura. L’abete bianco è considerato un
essenziale elemento equilibratore del bosco misto disetaneo perché, come si è detto,
si rinnova in posizioni alternate rispetto alle altre specie e perché il novellame tollera
bene e a lungo la copertura.
Inoltre la maggiore intonazione continentale dei climi delle Alpi, grazie al mag-
giore freddo invernale limita l’azione dei parassiti dell’abete e, tramite le maggiori
punte di calore estivo amplia il campo dell’ottimo dell’abete, sull’Appennino ci sono
evidenti differenze di clima, di composizione floristica e di condizioni vegetative.
Ciò si riferisce alle due specie principali presenti fra cui emerge la frequenza di
stazioni in cui il faggio tende a dominare ed a formare boschi puri. Si capisce,
dunque, perché i relitti naturali di abete si trovano solo in luoghi dirupati dove il
potere di concorrenza del faggio è attenuato oppure si trovano a bassa quota in boschi
di cerro o di castagno. Sono anche comprensibili le ragioni per cui si è preferito
segregare l’abete dal suo contesto e coltivarlo artificialmente.
Il sistema a taglio raso ha certamente un impatto visivo sensibile tanto più se
è visto come sistema applicato su grandi superfici dove l’avvicendarsi della tagliate
dà luogo ad un panorama dove le pendici appaiono divise a tasselli squadrati composti
dalle tagliate e da boschi di varia statura.
Su comprese di estensione limitata e composte di particelle non contigue, inter-
calate da boschi destinati ad altre forme di trattamento, l’impatto visivo del taglio a
raso è molto ridimensionato. Nelle tagliate a raso, fin tanto che la nuova piantagione
non ha chiuso la sua copertura, si stabilisce un periodo di notevole grado di biodiversità
vegetale e anche animale. Pertanto il sistema a taglio raso costituisce una pratica di
produzione efficiente che entro certi limiti può essere tollerata come, per esempio,
nelle condizioni prevalenti nella proprietà privata oppure nella proprietà pubblica
dove si vogliano formare comprese per la produzione di legname di pregio.
La trasformazione delle abetine esistenti in boschi misti disetanei può essere
affidata a vari modi di introduzione di altre latifoglie. La reintroduzione del faggio
si impone alle quote maggiori. Nell’ambito dell’ottimo dell’abete è sempre opportuno
limitare l’impiego del faggio e, ricorrere, piuttosto, a specie meno competitive come
il frassino maggiore, il sorbo degli uccellatori, l’acero di monte, l’acero riccio, il
tiglio platifillo, il ciliegio, ecc. Ci sono casi in cui queste specie si insediano da sé
(v. ACERI-FRASSINETO), ma necessitano di essere incoraggiate col diradamento
dell’abetina. In altri casi converrà ricorrere all’introduzione artificiale in corrispon-
denza delle radure.
FOTO
Piceo-abieteto e faggio dell’Abetone - Limiti superiori del bosco a Foce di Campolino (m 1700 circa)
con picea in purezza. In primo piano brughiere basse di Vaccinium gaultherioides con Juniperus nana.
Sullo sfondo limiti superiori delle faggete sotto le creste innevate
21.1. ABETINA ALTIMONTANA DI ORIGINE
ARTIFICIALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Clima recupero del legname e si procede a pianta-
Temperature comparabili con quelle generali gioni di abete con faggio e acero di monte.
della fascia montana del faggio. La frequenza di danni da ungulati obbliga
Precipitazioni sopra 1.400 e sino a 2.600 mm, all’uso di protezioni alle giovani piantine.
estive 200-300 mm. Frequenza di nebbia e di
fenomeni implicanti depositi di ghiaccio (ga- Posizione nel Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
laverna, gelicidio). Estate fresca con frequen- denze dinamiche
tissimi annuvolamenti quotidiani a evoluzio- L’evoluzione prevista e auspicata in senso
ne diurna che deprimono la fotosintesi in naturalistico sta nella ricostituzione con in-
modo sfavorevole per la vigoria dell’abete. gresso di faggio, acero di monte, sorbo de-
Venti molto forti. Innevamento piuttosto pro- gli uccellatori e altre latifoglie. Le schian-
lungato. tate danno luogo a forti invasioni di alte
erbe "di tagliata" (Epilobium angustifo-
Interventi antropici più frequenti lium, Prenanthes purpurea, ecc.), talvolta
Si tratta di impianti artificiali eseguiti diret- con insediamento del salicone. Danni anche
tamente in sostituzione del faggio oppure su forti da Heterobasidium annosum, agente
pascoli aperti nell’area delle faggete. In con- di marciumi radicali.
seguenza dei continui schianti si pratica il
Specie indicatrici
cresce lentamente per effetto dell’insufficien- Sebbene sia possibile lasciare le abetine ab-
za di calore estivo. Nei popolamenti piantati battute al pascolo degli ungulati senza sosti-
densi e poi lasciati privi di diradamenti questa tuirle, dal punto di vista idrogeologico sareb-
lentezza di accrescimento fa sì che le piante be invece assai opportuno tenere coperta la
restino a lungo esili e, quindi, molto esposte porzione alta dei bacini.
a danni da vento e da neve (LA MARCA, Per questo è consigliabile il rimboschimen-
1983). A questo proposito è emblematica la to delle schiantate e la sottopiantagione di
resistenza dimostrata da una particella della faggio, acero di monte, sorbo degli uccel-
Foresta di Vallombrosa con alberi piantati latori, ecc.
alla distanza di m 3 x 3.
21.2. ABETINA MONTANA DI ORIGINE
ARTIFICIALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
parire (1) già con gruppi di rinnovazione terreni in cui vecchi terrazzamenti rivelano
di abete e (2) non ancora con rinnovazione l’antica destinazione agricola.
di abete
mista con latifoglie nobili (frassino mag- Substrati
giore, acero di monte, ciliegio, ecc. che Principalmente silicatici. Arenarie. Argille
possono apparire (1) già con rinnovazione scagliose all’Abetone (Monte Maiori). Lave
di abete e (2) senza ancora rinnovazione trachitiche al M.Amiata.
di abete
con piano inferiore di latifoglie (castagno, Suoli
frassino, ecc.) che appaiono già con gruppi Suoli bruni, suoli bruni acidi, talvolta suoli
di rinnovazione di abete bruni con orizzonte a gley. Orizzonti supe-
acidofila a luzule riori ricchi di humus e di azoto perché l’abete
fa cadere molti dei suoi aghi vecchi durante
Invece, sono da considerarsi in condizioni l’estate quando sono ancora allo stato verde
sfavorevoli alla rinnovazione le abetine: e, quindi, nel priodo in cui sono anche più
con sottobosco a macchioni di rovi facilmente alterabili.
miste con faggio
con rinnovazione densa di faggio Clima
miste con douglasia Temperatura media annua fra 6° e 13°. Tem-
peratura media del mese più freddo sino a
Localizzazione -2°. Precipitazioni dai 2.500 mm dell’Abeto-
Nelle foreste demaniali di Abetone, Teso, ne ai 1.350 mm di Vallombrosa dove ricor-
Vallombrosa, La Calla, Camaldoli e Badia rono più facilmente crisi di aridità (MORION-
Prataglia si riscontrano i nuclei storici della DO e COVASSI, 1981). Innevamento più meno
coltura artificiale dell’abete bianco. prolungato.
Altrove, abetine di questo tipo si trovano a
particelle più o meno disperse fra boschi di Interventi antropici più frequenti
faggio o fra rimboschimenti eseguiti con In alcune particelle la coltura dell’abete è sta-
pino nero o con douglasia. Tipo raro sul M. ta ripetuta per più turni.
Amiata. Le abetine di costituzione più recente sono
state impiantate su ex coltivi o pascoli, op-
Esposizioni pure in sostituzione di faggete o di casta-
Varie. Ma con una preferenza per le esposi- gneti.
zioni settentrionali che diventa fondamentale La densità di impianto, che originariamente
sotto i 1.000 m di quota. era di 800-2.000 piante per ettaro, è stata por-
tata (a partire dal 1860) a 3.000-3.500 piante
Distribuzione altitudinale per ettaro. Inoltre la densità è sempre stata
Nella fascia montana del faggio e nei suoi mantenuta piuttosto forte per assenza di di-
margini inferiori, per lo più in esposizioni a radamenti o per diradamenti ritardati e molto
nord. Normalmente fra 900 e 1300 m (1500 prudenti.
all’Abetone). Anche fino a 800 m ma, bene Nelle abetine mature e stramature si pratica
inteso, in esposizioni poco soleggiate. il recupero del legname delle piante cadute,
morte o stroncate per cause patologiche o me-
Geomorfologia teoriche. Talvolta le radure maggiori vengo-
Varia, per lo più poco accidentata, talvolta su no rinfoltite con piantagioni di abete o di la-
tifoglie varie fa cui sono preferiti il faggio e di specie di latifoglie con copertura non
l’abete bianco. eccessiva (p. es. castagno, sorbo degli
uccellatori, frassino maggiore) allo stato
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- di piano inferiore arbustivo.
denze dinamiche D Situazioni di blocco in cui il terreno
L’abetina di oltre 100 anni di età, divenuta dell’abetina rimane occupato da alte erbe
sempre più rada, può essere interessata da nitrofile o, peggio, da rovi.
quattro tipi di evoluzione.
A Ingresso anche massiccio del faggio che Specie indicatrici
si nota soprattutto in abetine derivanti dal Il sottobosco dell’ABETINA MONTANA
primo impianto su terreni antecedente- DI ORIGINE ARTIFICIALE ha una fisio-
mente occupati da faggete. nomia e una composizione simile a quello
B Rinnovazione mista con acero di monte, della FAGGETA EUTROFICA (v.) salvo
tiglio platifillo, frassino maggiore, sorbo la scarsità di individui delle geofite a fio-
degli uccellatori, e varie altre specie (ca- ritura precoce, una densità e uno sviluppo
stagno, faggio, ecc.) che si evidenzia alle superiori e, spesso, una maggiore frequenza
quote minori nelle posizioni poco soleg- di specie nitrofile; le radure delle abetine
giate. adulte possono essere invase da grandi
C Rinnovazione mista di latifoglie e abete, macchioni di rovo.
fenomeno non raro, facilitato dalla pre- A colpo d’occhio le differenze di fertilità si
senza di lettiera diversa da quella percepiscono non tanto secondo la composi-
dell’abete: mescolanza con altre conife- zione del sottobosco quanto nel diverso svi-
re, mescolanza con latifoglie, presenza luppo delle erbe che lo compongono.
è imposto anche dal fatto che l’abetina adulta Un problema a sè è la alternativa fra l’abete
perde progressivamente di densità. L’impie- bianco e la douglasia. E’ oramai chiaro che
go di materiale di piantagione di provenienza in economia privata la conifera esotica è pre-
della Toscana è auspicabile, benchè sia prob- ferita soprattutto nella fascia submontana per
abile che parte delle popolazioni attuali (com- l’accrescimento più rapido e per la maggiore
prese quelle naturali) siano già ibride con stabilità dei popolamenti. Nelle proprietà
piante di origine alpina. pubbliche ci sono riserve biogenetiche dove
Forme di trattamento a taglio saltuario sono la douglasia è molto rappresentata. Questo
possibili soprattutto in quelle abetine adulte aspetto è ben localizzato e visibile a Vallom-
che si presentano, oramai, molto rade e molto brosa dove la douglasia è distribuita a parti-
influenzate dalla rinnovazione naturale celle intere, mentre si manifesta in modo più
dell’abete o anche delle latifoglie. Però non estensivo anche se meno evidente a Camal-
è da escludere che questa forma di trattamen- doli dove quasi metà della superficie delle
to sia da applicare facendo anche ricorso a abetine è mista con singole piante o con pic-
piantagioni integrative. coli gruppi di douglasia.
21.3. ABETINA SOTTO QUOTA DI ORIGINE
ARTIFICIALE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Esposizioni diamento di specie arboree. Sovente la prima
Varie. Le abetine originate da diffusione na- specie che appare è il castagno (forse per so-
turale sono però esposte prevalentemente a pravvivenza delle ceppaie). L’abete, nono-
sud perchè la disseminazione naturale da cui stante lo stato vegetativo non buono, è sempre
parte la diffusione dell’abete “ in discesa” av- capace di rinnovarsi e di mantenere la sua
viene sotto l’effetto dei venti secchi da nord presenza in bosco misto fintanto che la co-
che sono quelli che aprono i coni. pertura delle latifoglie non si completa. Il sot-
tobosco costituito da macchioni di rovo e
Distribuzione altitudinale (peggio ancora) di rovi e vitalba impedisce
Da 600 a 800 m. Abetine a quota inferiore qualsiasi evoluzione immediata.
sono del tutto eccezionali.
Specie indicatrici
Geomorfologia Non vengono elencate perchè si tratta di spe-
Pendici a inclinazione moderata. cie non sempre in relazione (anzi in parte
Substrati pertinenti all’ord. Quercetalia pubescenti-
Silicatici. petraeae Klika 1993) con l’ecologia dell’abe-
te e del faggio salvo in qualche ambiente par-
Suoli ticolare dove si osservano Geranium nodo-
Bruni o bruni acidi. sum, Sanicula europaea, Cardamine cheli-
donia, Senecio fuchsii e altre specie del la-
Clima mineto mesofilo. Nelle stazioni più fresche
Temperatura media annua superiore a 14°; tem- appaiono i macchioni di rovi.
peratura media del mese più freddo superiore
a 0°. Precipitazioni annue spesso sotto i 1200 Selvicoltura
mm ed estive intorno ai 150 mm o meno. Nonostante tutti gli inconvenienti fino ad ora
ricordati, l’abete sotto quota ha molte possi-
Interventi antropici più frequenti bilità di rinnovazione naturale perchè vive in
Le abetine derivanti da disseminazione natu- un contesto da latifoglie dalla chioma poco
rale in castagneti da frutto o in cedui di cerro coprente come il castagno e il cerro.
sono state condotte allo stato di bosco puro Questo aspetto può dar luogo a interessanti
col taglio delle latifoglie e col rinfoltimento applicazioni selvicolturali in fustaie mista o
artificiale con abete talvolta misto al pino la- in ceduo misto con l’abete. Evidentemente i
ricio. Le abetine di origine artificiale sono criteri di utilizzazione non possono che ispi-
state piantate per lo più su ex seminativi. rarsi al turno basso o alla provvigione mode-
Nell’ambito dei boschi privati è pratica cor- sta e gli assortimenti raccolti non potranno
rente il taglio a raso e la sostituzione con la essere che sottili e adatti per usi ordinari.
douglasia. Le abetine pure, tuttavia, non saranno capaci
di rinnovarsi e, per loro sarà obbligatorio il
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- trattamento a taglio raso. Qualora si volesse
denze dinamiche sostituirle con boschi di un’altra specie, la
Le abetine sotto quota sono ancora più insta- douglasia non è l’unica alternativa; nelle sta-
bili di quelle della fascia montana. Dal mo- zioni più ombreggiate si può prendere in con-
mento in cui, per effetto del marciume radi- siderazione anche l’impiego delle grandi la-
cale e di altre avversità, il popolamento co- tifoglie e a legno pregiato come il frassino
mincia a divenire rado si può avere un inse- maggiore, l’acero di monte e il ciliegio.
21.4. ABETINA MISTA AUTOCTONA
DEL MONTE AMIATA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
gole piante o a gruppi e con chiazze di Geomorfologia
novellame. Raro faggio). Pendici moderate, anche d’aspetto quasi col-
a tiglio, aceri e frassino maggiore (V. ACE- linare. presenza di una discarica di miniera
RI-FRASSINETO). Nel bosco sopra al abbandonata.
Convento della SS. Trinità in Comune di
S. Fiora. Bosco di alto fusto (attualmente Substrati
di aspetto giovanile) con latifoglie miste Arenacei.
ad abete per singole piante o per gruppi.
Raro faggio (VAGAGGINI, 1995). Suoli
Non ne è stato definito il tipo.
Verso i fondovalle è facile trovare il faggio
mentre sulle balze non meraviglia trovare il Clima
leccio. In questi casi l’abete relitto si trova Temperatura media annua intorno a 10°-12°.
esattamente nella stessa posizione sotto quota Temperatura del mese più freddo circa 1°-2°.
in cui si collocano gli altri suoi relitti in tutto Piogge annue intorno a 1.350 mm, quelle esti-
il resto dell’Appennino fino alla Calabria ve di circa 160 millimetri. Innevamento poco
(BORGHETTI e GIANNINI, 1984), comunque prolungato.
su un rilievo del tutto isolato dalla catena. Il
suo carattere relitto è spiegabile se si pensa Interventi antropici
che ai tagli a carico dell’abete nella fascia Le testimonianze storiche sono riportate in
montana ha corrisposto l’espansione e il raf- dettaglio da NEGRI (1943). Le antiche abetine
forzamento della competitività del faggio del M. Amiata erano utilizzate al tempo dei
mentre, invece, nelle aree sotto quota, l’abete Romani e vennero usate anche dal papa Pio
poteva mantenersi in convivenza con specie II (BERNETTI Giuseppe, 1981) per la costru-
meno coprenti. zione di Pienza.
In epoche più recenti il territorio fu di pro-
Localizzazione prietà delle aziende minerarie che sfruttarono
Provincia di Siena e Grosseto. Zone di Pian- i popolamenti misti con abete come ceduo
castagnaio e di S. Fiora. Parte bassa di Poggio coniferato e che fecero alcune piantagioni con
Nibbio (più in alto l’abete è di origine artifi- materiale sospetto alloctono a Poggio Pam-
ciale e misto a abete rosso, pino silvestre e pagliano. Per il Bosco della SS. Trinità, VA-
nero). I nuclei più estesi si trovano sotto la GAGGINI (1995) riferisce di tagli a scelta, di
strada da Piancastagnaio a Castell’Azzara e pulizie del sottobosco e di piantagioni con
attorno al convento de la Selva. Un’altra sta- abete del luogo.
zione più piccola si troverebbe sul Versante
Nord del M. Amiata in Comune di Castiglio- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
ne d’Orcia ma qui la spontaneità dell’abete denze dinamiche
sarebbe dubbia. Questi popolamenti si inquadrano fra quei
relitti di abete bianco dell’Appennino Cen-
Esposizioni tro-Meridionale in cui l’abete ha trovato ri-
Varie. fugio nell’orizzonte dei querceti anzichè
nell’orizzonte del faggio (PATRONE, 1952;
Distribuzione altitudinale BORGHETTI e GIANNINI, 1984).
Metri 600-950. E’ possibile che questa posizione di rifugio
sia stata facilitata anche dalla minore azione
coprente esercitata dalle latifoglie eliofile ri- hanno senza dubbio offerto possibilità di
spetto a quella del faggio. Il trattamento a equilibrio.
ceduo coniferato o a fustaia mista disetanea
Specie indicatrici
21.5. PICEO-ABIETETO AUTOCTONO
CON FAGGIO DELL’ABETONE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Il settore tratteggiato si
riferisce alle stazioni inferiori
dove la picea è subordinata
all’abete e al faggio mentre il
settore a linea continua
corrisponde alle stazioni più
in quota con picea pura o
quasi
l’altitudine), forse ancora riferibili all’al- Distribuzione altitudinale
leanza Fagion sylvaticae (Luquet 1926) (1280) 1350-1760 (1800) metri.
Tx. e Diemont 1936 e, in particolare,
all’ass. Gymnocarpio dryopteri - Fagetum Geomorfologia
sylvaticae (Ubaldi e Speranza 1985) Ubal- Zona spesso rupestre, con roccia in posto, in
di 1995. parte coperta da detriti a massi consolidati,
Bosco chiuso o quasi di picea e abete con con chiari segni di morene e altri fenomeni
poco faggio. Forma grandi gruppi di po- di morfologia glaciale pregressa del Würmia-
polamento di statura modesta inframmez- no. Presenza di laghetti e aree palustri per
zati a gruppi di bosco puro di faggio ceduo sbarramento morenico.
avviato all’alto fusto. L’all. Vaccinio-Pi- E’ caratteristico l’alternarsi di bastioni a frana-
ceion Br. Bl. (1938) 1939 vi era già stata poggio e di estesi macereti sui quali le due co-
riscontrata da SARFATTI e PEDROTTI (1966). nifere sfuggono alla concorrenza del faggio.
Bosco infraperto di picea e abete bianco
in brughiera d’altitudine a Vaccinium Substrati
gaultherioides. Attorno a 1.700 m e poco Arenaria macigno con prevalenza di banchi
oltre. Poco faggio e sorbo degli uccellatori. di forte spessore.
Statura molto modesta. Struttura a gruppi
molto densi e stratificati. Densità irrego- Suoli
lare per lacune occupate dalla brughiera a Poco profondi in alto (litosuoli A1/R), ma
mirtillo. E’ una fase di transizione fra la ricchi di sostanza organica, specialmente su
situazione precedente e le due seguenti. cenge o in tasche fra i sassi, freschi (presenza
Picea e abete a piante sparse a piccoli grup- di sorgenti). Tra i 1330 e 1650 m si hanno
pi in brughiera, contorte e danneggiate da invece suoli con B cambico, profondi sino a
eventi meteorici. Raro faggio. Secondo 80 cm, ricchi di scheletro, molto acidi, di tipo
BERNETTI (1963) l’abete rosso a queste bruno lisciviato o podsolico.
quote arriva a rasentare i 20 m di altezza
a 120 anni di età. Clima
Piante basse di picea e anche abete sparse Il biotopo è situato nella zona più continentale
nella brughiera. Oltre 1740-1760 m e fino dell’Appennino tosco-emiliano, sia per le
a 1.800. Qui, come nel caso precedente, le temperature che per le precipitazioni, in di-
conifere sono ospitate nella brughiera ap- screta parte nevose (talvolta il manto nevoso
penninica d’altitudine ormai dominante si mantiene sino alla metà di giugno). Tem-
dell’ass. Empetro-Vaccinietum gaulthe- peratura media annua da +4°a 6°. Tempera-
rioidis Palmann e Hafter 1933. tura media del mese più freddo: da -3° sino
a -5°. Precipitazioni superiori a 2500 mm
Localizzazione (CANTIANI e BERNETTI, 1963), con 250-300
Presso il Passo dell’Abetone nell’alta Valle mm e oltre durante il trimestre estivo.
del Sestaione sotto la Foce di Campolino;
meno caratterizzato sotto il Lago Nero presso Interventi antropici più frequenti
l’Abetone. I popolamenti con picea, rimasti forse intatti
anche ai tempi del Granducato, furono inte-
Esposizioni ressati da tagli a scelta nel 1915 e poi da un
L’esposizione generale delle pendici è a nord, taglio nel 1954. Tagli pregressi sul ceduo di
quella del bosco principalmente a NE. faggio, anche con carbonificazione. Pascolo
intenso sino al 1970 circa. Circa la metà del determinate peculiarità geomorfologiche
“ Pigelleto” Chiarugi è inserita nella “ Riser- (macereti e lastroni di roccia affiorante) han-
va Naturale Orientata di Campolino” . Data la no attenuato la competitività del faggio ri-
vicinanza alla stazione invernale dell’Abetone spetto alle conifere; da notare che le due co-
esistono comunque pericoli relativi alla possi- nifere si insediano soprattutto nelle posizioni
bile apertura di nuove piste da sci e costruzione di margine del soprassuolo arboreo (GIANNI-
di mezzi di risalita che sarebbero ovviamente NI e SCREM, cit.). E’ probabile che il popo-
da evitarsi in un biotopo così delicato. lamento fosse in equilibrio ma è possibile che
i tagli abbiano facilitato l’insediamento delle
Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten- conifere.
denze dinamiche L’abete rosso si è rinnovato meno dell’abete
Esempio di popolamento in cui il clima e bianco.
Specie indicatrici
Sottotipo inferiore
Fagus sylvatica Fragaria vesca
Abies alba Pteridium aquilinum
Picea abies (loc.) Euphorbia dulcis
Acer pseudoplatanus (loc.) Viola cfr. reichenbachiana
Juniperus communis Oxalis acetosella
Lonicera nigra Geum montanum
Sorbus aucuparia Homogyne alpina
Vaccinium myrtillus GYMNOCARPIUM DRYOPTERIS
Luzula nivea DRYOPTERIS DILATATA (loc.)
Cardamine bulbifera Anemone nemorosa (loc.)
Sottotipo superiore
Picea abies (preval.) LYCOPODIUM ANNOTINUM
Abies alba ORTHILIA SECUNDA
Sorbus aucuparia MELAMPYRUM SYLVATICUM
JUNIPERUS NANA MONESES UNIFLORA
Vaccinium myrtillus (domin.) LISTERA CORDATA
V. gaultherioides (domin.) LUZULA LUZULINA
V. vitis-idaea (domin.) L. sylvatica
Oxalis acetosella (domin.) Homogyne alpina
Gentiana purpurea Prenanthes purpurea
Empetrum hermaphroditum (rad.) Solidago virga-aurea
)$**(7(
Allo stato attuale, per il 90% sono ancora boschi cedui oppure sono boschi avviati
a fustaia. Le faggete di alto fusto si estendono per 4.672 ettari e derivano da boschi
cedui che sono stati convertiti all’alto fusto fra fine dell’‘800 e primi del ‘900,
soprattutto nell’ambito di alcune foreste demaniali e dei boschi comunali del Monte
Amiata. E’ verosimile che la superficie di cedui avviati all’alto fusto più di recente
sia dell’ordine dei 18-20.000 ettari.
In Toscana, i boschi di faggio hanno una grande importanza sotto il profilo
paesaggistico e della protezione idrogeologica. Le peculiari fisionomie del bosco di
faggio fanno da scenario a tutti gli aspetti del turismo e della ricreazione in montagna
e, non a caso, le stazioni climatiche più conosciute si trovano nelle vicinanze di
comprensori di faggete di alto fusto. Parallelamente, le faggete qualificano l’ambiente
di parchi nazionali e regionali o di altre zone protette della Toscana.
Nella porzione alta dei bacini imbriferi, che costituisce una zona particolarmente
critica per il regime delle acque, il faggio interviene con spiccate attitudini a trattenere
e a rallentare il deflusso con la compattezza della sua chioma unitamente allo spessore
della lettiera e dell’humus che impartisce al suolo una struttura assai favorevole alla
penetrazione e alla trattenuta dell’acqua.
L’apporto del legname di faggio all’economia non è trascurabile. Il fabbisogno
di legname di faggio delle industrie e degli artigiani della Toscana è valutabile in
circa 150.000 m3 all’anno mentre l’utilizzazione interna è di poco più di 5.000 m3
(BERNETTI I. et al. 1992). L’obiettivo di coprire questo fabbisogno razionalizzando
la gestione delle faggete toscane è, per varie ragioni, irraggiungibile. Motivi di pru-
denza e di strategia economica possono consigliare, tuttavia, di ridurre una così forte
dipendenza per una materia prima che può essere prodotta anche all’interno.
Dai boschi di faggio che i proprietari vogliono ancora tagliare a ceduo si ricavano
circa 40.000 m3 all’anno di legna da catasta corrispondenti al 10% della produzione
toscana di questo assortimento.
Come è stato già accennato, il governo a ceduo è il sistema selvicolturale che,
in Toscana, ha la più lunga tradizione ma, dato che il faggio ha poca capacità di
rigenerarsi per polloni, l’esperienza popolare ha suggerito diverse particolari forme
di trattamento che avevano come base il taglio a breve ciclo.
La maggioranza dei cedui veniva trattata a taglio raso con turni di 15-18 anni.
La riserva di matricine poteva essere più o meno intensa e capace di dar luogo ad
un certo grado di rinnovazione delle ceppaie.
La pratica popolare, ritenuta più raffinata, era quella del “ ceduo a sterzo” che
consisteva nel tagliare il bosco a intervalli di 9-12 anni asportando solo i polloni più
grossi e avendo cura di non tagliare mai una ceppaia a raso.
La conservazione della capacità di rigenerazione per polloni era affidata anche
al taglio praticato tanto in profondità nella terra fino a estirpare la ceppaia in modo
che i nuovi polloni nascessero dai monconi delle radici invece che dalla ceppaia
stessa. Per rinfoltire il bosco, si procedeva alla propagazione del faggio per propaggine
piegando dei polloni fino a terra e fissandoli con pietre o picchetti finché non avevano
emesso radici.
A fronte di queste pratiche cautelative non sono mancate, purtroppo, forme di
uso irrazionale che portavano più direttamente alla degradazione. Il taglio alto delle
ceppaie è stato ampiamente praticato dove mancava mano d’opera accurata ed esperta;
ne risultano, oggi, ceppaie di aspetto mostruoso che fanno la delizia dei fotografi
naturalisti. Dove la morfologia del terreno era meno accidentata, al taglio del ceduo
seguiva il “ debbio” che consisteva nell’abbruciamento dei residui vegetali minori
rimasti dopo il taglio, seguito da una coltura di cereali o di patate praticata per 2-3
anni negli spazi fra le ceppaie. La traccia della pratica del debbio (detta anche "dei
fornelli") si trova ancora oggi ed è rivelata da certe strutture a ceppaie rade. Dal
termine locale “ pigella” che significa picea.
Nelle stazioni più soggette all’incendio (come nelle pendici ripide esposte a sud)
il faggio è stato ridotto allo stato cespuglioso e spesso ha lasciato il posto a praterie
a brachipodio rupestre oppure a brughiere di calluna e ginestra dei carbonai.
I primi provvedimenti per l’avviamento all’alto fusto dei boschi di faggio sono
stati presi (limitatamente a foreste demaniali e comunali ) dopo il 1880. Da essi
derivano, fra l’altro, le cospicue faggete della Foresta dell’Abetone e quelle del M.
Amiata ed inoltre le faggete della Foresta di Vallombrosa e della Foresta di Maresca.
Nello stesso periodo si eseguirono anche rimboschimenti con faggio nelle aree oc-
cupate da pascoli o da seminativi di alta montagna.
Una seconda fase di avviamenti si ebbe (sempre in foreste di proprietà pubblica)
fra il 1930 e il 1940 e interessò soprattutto le Foreste Casentinesi, la Foresta di
Acquerino e boschi comunali delle Alpi Apuane. Il lavoro si intensificò dopo il 1950
estendendosi alle foreste demaniali di nuovo acquisto e anche a qualche proprietà
privata. In questo periodo, però, la pratica del rimboschimento delle superfici di
montagna ha trascurato l’impiego del faggio ed ha preferito quasi esclusivamente le
conifere, finché poi, a partire dal 1955-60, il rimboschimento montano si è interrotto
per la crescente mancanza di mano d’opera.
Attorno al 1955 cadde la convenienza a tagliare i cedui secondo i vecchi metodi
che erano basati principalmente sui turni bassi e sulla produzione di legna di piccolo
diametro. Pertanto si pensò che l’interruzione dei tagli potesse facilitare l’evoluzione
alla fustaia anche dei cedui di faggio di proprietà privata.
Però, a partire dal 1985 circa i cedui, oramai invecchiati a 40-50 anni di età e
cresciuti a maggiori dimensioni, tornarono ad essere convenienti al taglio. Ma a tale
età non corrispondeva più la capacità di rigenerazione per polloni. Le autorità forestali,
allora, sottoposero i tagli dei cedui invecchiati alla concessione di una apposita
autorizzazione. In conseguenza di questo provvedimento, si consentono solo tagli
con il rilascio di numerosi polloni.
Nelle foreste demaniali, le faggete derivanti dagli avviamenti più antichi sono
state sottoposte a tagli seguendo vari criteri. Fra il 1920 e il 1930 era molto in voga
la trasformazione delle faggete in boschi misti con l’abete; ma spesso, per errore o
per fraintendimento, si arrivò a sostituire drasticamente le faggete con abetine pure.
Altrove le faggete furono sottoposte a tagli che hanno provocato l’insediamento della
rinnovazione da seme secondo la seguente distinzione.
Per le faggete di maggiore fertilità e destinate alla produzione, i piani di asse-
stamento prescrivevano il sistema a tagli successivi uniformi. Secondo tale sistema,
singole “ particelle” di 2-5 ettari, vengono avvicendate a tagli con cui, prima, si
provoca l’insediamento della rinnovazione da seme, poi si sgombrano tutti i vecchi
faggi fino a lasciare un fitto giovane popolamento di faggio sull’intera particella
Nelle faggete classificate come boschi di protezione, invece, l’uniformità del
popolamento doveva essere interrotta tramite tagli successivi a gruppi per ottenere
appunto gruppi di alberi di diversa età, dimensione e densità, disposti in una alternanza
più adatta a frenare l’azione del vento, a interrompere il ruscellamento ed, eventual-
mente, a intercettare il rotolio di massi.
L’applicazione effettiva di piani di assestamento è stata piuttosto disordinata e,
per questo, molte faggete oggi hanno forme irregolari.
Alla fine, verso gli anni 1980-90, in molte foreste demaniali i tagli sono stati
interrotti o molto rallentati. Per questo motivo sorge anche l’opportunità di formulare
delle previsioni relative ai possibili sviluppi della struttura e della rinnovazione dei
boschi in assenza di interventi.
Aspetti selvicolturali
Le alternative sulla destinazione delle faggete e sui modi di coltura dipendono
molto dai fattori stazionali e dalla struttura dei popolamenti quale risulta dagli inter-
venti pregressi.
L’esame dei Tipi di faggeta è, dunque, molto importante e, per maggiore sicu-
rezza, è sempre opportuno verificare anche la classe di fertilità in base all’altezza
dominante in relazione all’età.
Classi di fertilità dei boschi di faggio avviati all’alto fusto della Toscana
(BIANCHI, 1981). Altezze dominanti in funzione dell’età
La tabella di BIANCHI (1981), articolata in ben 7 classi di fertilità, è stata stabilita
in base a dati raccolti su boschi cedui avviati all’alto fusto. Si tratta, pertanto, di un
campione che esclude sia i boschi più scadenti di quelli espressi dalla VII classe di
fertilità sia, a maggior ragione, i popolamenti di faggio di aspetto cespuglioso.
In presenza di boschi di struttura irregolare o, comunque, di boschi di cui sia
impossibile conoscere l’età, ci si può basare sull’altezza media delle piante più grosse.
In una faggeta di fertilità sufficiente per un buon accrescimento e favorevoli future
prospettive di rinnovazione naturale bisogna che le piante di alto fusto (per cui si
può ragionevolmente stimare un’età superiore a 100 anni) rasentino o superino i 25
m di altezza.
Per una pianificazione razionale della coltura dei boschi di faggio è necessaria
una compartimentazione cartografica e assestamentale molto accurata che, al bisogno,
tenga conto anche di variazioni di dettaglio ricorrendo a particelle piuttosto piccole
oppure a particelle divise in sottoparticelle.
Per il trattamento orientato sulla produzione di legname di pregio occorre sele-
zionare particelle di faggeta di fertilità elevata che siano anche in condizioni stazionali
tali da offrire buone possibilità di insediamento di rinnovazione in massa e in con-
dizioni di viabilità tali da consentire la puntualità di esecuzione dei diradamenti.
Se a questo scopo si destinasse solo il 10% dei boschi di faggio della Toscana (cioè
circa 6.000 ettari), si potrebbe prevedere una produzione annua dell’ordine del 25.000
metri cubi il che costituirebbe un buon volano di mercato per l’industria locale.
Per i boschi di fertilità intermedia, in posizioni meno accessibili o, comunque,
dove non si vogliano adottare forme di trattamento mirate alla produzione di legname
di pregio, si possono prevedere moduli selvicolturali più estensivi oppure anche
forme di semplice protezione naturalistica. A questi fini bisogna comunque ricordare
che le faggete (e in particolare quelle di migliore fertilità) per loro natura contribui-
scono molto poco alla biodiversità almeno fintanto che non siano colpite da catastrofi.
Per i cedui di buona fertilità (per esempio superiore alla IV classe) la conversione
all’alto fusto è sempre desiderabile.
Il metodo di conversione abituale consiste nell’applicazione di uno speciale
diradamento chiamato taglio di avviamento all’alto fusto seguito da un lungo periodo
di invecchiamento più o meno assistito, da altri diradamenti, durante il quale il bosco
evolve a faggeta con struttura monostratificata e, dunque, predisposta soprattutto al
trattamento a tagli successivi col turno di 100-120 anni.
Nei boschi di proprietà privata, tuttavia, non è facile che il proprietario accetti
un metodo di conversione che impone un così lungo periodo di sospensione dei
redditi. Resterebbe proponibile, piuttosto, proseguire i tagli a ceduo salvo riservare
gruppi di matricine fino a sfociare gradualmente in un bosco di tipo disetaneo che
consenta di poter effettuare i prelievi secondo un ciclo più breve e in modo più
elastico di quanto non sia possibile con le faggete di struttura monoplana (CRISTO-
FOLINI, 1981).
Per i boschi delle fertilità inferiori, l’avviamento all’alto fusto ha meno senso;
non dà risultati economici perché ne derivano fustaie con legname di poco valore
mentre, dal punto di vista protettivo, sarebbe forse preferibile mantenere un po-
polamento con struttura di ceduo. Va però notato che i turni lunghi imposti
dall’economia di oggi non rendono tanto facile la prosecuzione del governo a
ceduo dei boschi di faggio.
Infatti, il proseguimento del governo a ceduo presenta i problemi connessi con
l’inapplicabilità dei vecchi principi. L’antico taglio dei polloni praticato raso terra,
o addirittura con incisione della ceppaia, a parte ogni considerazione economica, è
reso obsoleto dall’uso della motosega al posto dell’accetta. La di già scarsa capacità
di rigenerazione del faggio è ancora ridotta dalla circostanza che, dato il suo lento
accrescimento, i tagli di oggi sono convenienti soltanto con cicli piuttosto lunghi
(forse anche di 35-50 anni).
Il mantenimento del sistema "a sterzo" (che implicherebbe un ceduo con tre
strati di polloni) col ciclo superiore ai tradizionali 9-12 anni è difficile, se non
impossibile da applicare, perché nel più lungo intervallo fra due tagli susseguenti gli
strati dei polloni più vecchi tendono a convergere in un unico piano di copertura che
fa sparire, per ombreggiamento, tutto lo strato dei polloni più giovani. Il ritorno dei
tagli a ceduo su popolamenti invecchiati può comportare una forte perdita di ceppaie;
talvolta anche il rilascio dei "tirasucchi" (cioè di polloni giovani ed esili che si
mantengono per conservare in vita la ceppaia) è inutile perché muore tutto: tirasucchio
e ceppaia. Il taglio con riserva di almeno un pollone per ceppaia (magari non il più
grosso) può essere seguito dalla sopravvivenza dei polloni e delle ceppaie, ma senza
riscoppio di rinnovazione vegetativa.
Soprattutto nel versante adriatico dell’Appennino è frequente il fenomeno del
"gelicidio" (noto nel Pistoiese come "bruscello") che consiste in grosse formazioni
di ghiaccio che causano danni gravissimi ai cedui e anche ai cedui avviati all’alto
fusto che il proprietario finisce per voler tagliare indipendentemente dalla capacità
delle ceppaie di emettere nuovi polloni.
E’ possibile che l’unica soluzione per tutti questi problemi consista nell’intro-
durre la pratica di eseguire piantagioni di rinfoltimento nelle radure dei cedui o
comunque dei popolamenti che per una ragione qualsiasi siano stati tagliati in con-
dizioni di dubbio sulla capacità di sopravvivenza delle ceppaie. E’ raccomandabile
che queste piantagioni siano fatte per gruppi di piante disposte a distanze molto
ravvicinate.
Un aspetto fondamentale della pianificazione applicata alle faggete è la separa-
zione di una classe dei boschi di protezione. Questa categoria comprende i boschi
prossimi al limite della vegetazione arborea o vicini ai crinali e i boschi delle posizioni
più accidentate.
Spesso per i boschi di faggio di protezione non si prescrive alcun trattamento
e ciò è giustificato dalla distanza dalle strade, dagli scarsi redditi dei trattamenti
proponibili e dalle incertezze generali impliciti in interventi in condizioni delicate.
Sui terreni molto accidentati intervengono anche gravi questioni di sicurezza degli
operai.
L’opportunità di impartire una forma di trattamento ai boschi di faggio di pro-
tezione si propone in due casi. Il primo è quello di boschi di fertilità sufficiente e
molto ben serviti da strade; il secondo è quello in cui si voglia rafforzare l’efficacia
protettiva di un bosco magari troppo rado o troppo vecchio.
In questi due casi si può prendere in esame l’opportunità di applicare opportuni
moduli colturali come i tagli successivi a gruppi di 2-3.000 metri quadrati integrati
(al bisogno) da piantagioni di faggio a gruppetti densi.
foto
22.1. FAGGETA EUTROFICA A DENTARIE (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Caratterizzazione fitosociologica e fisiono- bolo prima di tutto perché possono essere pre-
mica senti anche con 4-5 specie e, poi, perché espri-
L’aggettivo “ eutrofico” qualifica ovviamen- mono bene la fisionomia di un insieme di
te condizioni buone o ottime in relazione alla erbe (come per esempio quelle dei generi:
nutrizione, al tipo di humus e, automat- Geranium, Sanicula, Anemone, Mercurialis,
icamente, anche alla freschezza del suolo. Galium, Lunaria, Corydalis, ecc.) che hanno
Questo tipo, pertanto, comprende le faggete in comune la foglia larga e sottile, notevoli
della I, II e III classe di fertilità secondo BIAN- esigenze di fertilità e di umidità e tolleranza
CHI (1981) o comunque faggete dove le piante per l’ombra. Le erbe “ graminoidi” a foglia
più grosse e di apparenza "matura" superano stretta (graminacee, giuncacee e ciperacee)
l’altezza media di 27 metri. possono essere presenti, ma non sono mai
Nei boschi giovani e densi il sottobosco è qualificanti della fisionomia del sottobosco.
assente o scarso mentre il terreno è coperto I muschi si trovano solo sui tronchi delle pian-
da una spessa coltre di lettiera con sottostante te o sui massi affioranti, mai sul terreno a
humus dolce poco infeltrito. causa dello spessore della lettiera.
Le faggete adulte, dense e monostratificate, I boschi cedui delle fertilità migliori si ricono-
assumono il suggestivo aspetto di “ chiesa go- scono per la qualità dell’humus, per la profon-
tica” per i tronchi netti come colonne e per dità del terreno e per l’esposizione favorevole,
il modo con cui i rami si inseriscono alti sul non per il sottobosco che spesso manca a causa
fusto e ad angolo acuto. Man mano che con dell’intensità della copertura. Lo sviluppo dei
l’età la copertura si solleva, si affermano an- polloni è certamente migliore che per i cedui
che le erbe del sottobosco che compongono scadenti; tuttavia, finché dura il governo a ce-
un rado basso tappeto. Nel designare il tipo duo, il ricorrere dei tagli impedisce il formarsi
di sottobosco, le crocifere del genere Carda- un accumulo di humus nel terreno adeguato
mine (= Dentaria) vengono prese come sim- all’optimum del faggio.
Questo Tipo, vegetando su suoli con humus Geomorfologia
mull e flora di sottobosco composto da specie E’ situata di preferenza negli avvallamenti e
ancora medio-europee, può far capo alle as- alla base delle pendici.
sociazioni Galio odorati-Fagetum sylvati-
cae Mayer 1964 e Cardamino hep- Substrati
taphyllae-Fagetum sylvaticae Oberdorfer e Arenacei con intercalazioni di scisti argillosi.
Hofmann 1967.
Suoli
Sottotipi e varianti Bruni acidi, sciolti (sabbioso-limosi o fran-
Il tipo rappresenta il massimo di fertilità delle chi), per lo più profondi, anche colluviali,
stazioni e, pertanto, non è facilmente divisi- freschi, ben drenati, piuttosto ricchi di sche-
bile in sottotipi. Nella fase di età in cui la letro, con molta lettiera e humus mull acido
Faggeta eutrofica comincia ad ammettere il sot- ben distribuito nel profilo, rimaneggiato da
tobosco, si possono avere momenti puramente una forte attività di lombrichi.
accidentali di predominio di una sola specie. Ri-
mane importante una distinzione secondo l’al- Clima
titudine con i seguenti due sottotipi: Temperatura media annua fra 6° e 12°; tem-
superiore dove, nonostante la ricchezza del peratura del mese più freddo sino a -4°. Pre-
suolo, lo sviluppo in altezza dei fusti può cipitazioni annue medie superiori a 1.500 mm
subire riduzioni per effetto del clima e e sino a circa 2.500 mm annui; piogge estive
dove la flora del sottobosco si arricchisce sempre superiori a 200 mm e sino a 300 mm.
di specie più microterme a foglia ampia Precipitazioni nevose importanti.
come, per esempio, Adenostyles australis.
inferiore, cioè di faggeta delle quote mi- Interventi antropici più frequenti
nori, disposta in esposizioni poco soleg- Ceduazioni e, dopo, eventuale avviamento
giate e nelle quali può manifestarsi la me- all’alto fusto. Le fustaie di avviamento più
scolanza con il frassino maggiore. Questo antico (1880-1910) sono quelle delle Foreste
sottotipo confina con l’ACERI-FRASSI- dell’Abetone, del Teso e di Vallombrosa;
NETO (v.). solo dopo il 1920 sono state convertite quelle
di Camaldoli e Badia Prataglia.
Localizzazione
Appennino (soprattutto settore Est), Prato- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
magno, zona del Falterona, Alpe di Catenaia, denze dinamiche
Alpe della Luna; M. Cetona. Le condizioni di ottimo fisiologico accentua-
no il potere di concorrenza del faggio che si
Esposizioni esplica: con la maggiore compattezza della
Per lo più settentrionali. La Faggeta eutrofica chioma, la capacità di espansione laterale dei
a dentarie si localizza nelle esposizioni meno rami e con la possibilità di potersi rinnovare
soleggiate e in luoghi di accumulo di suoli in massa quando se ne determinino le condi-
profondi. zioni di densità appropriate.
Pertanto, in queste stazioni ottimali, il faggio
Distribuzione altitudinale tende a crescere in boschi puri. La presenza
In tutta la fascia delle faggete salvo che in delle possibili specie consociate (che in am-
vicinanza dei limiti superiori. Sui rilievi di biente di Faggeta eutrofica sarebbero soprat-
minore giunge sino all’altitudine di 1.300 metri. tutto: abete bianco, acero di monte e frassino
maggiore) è affidata a quelle cause acciden- gressivamente la copertura utile e per dar luo-
tali che si producono nel ciclo naturale di go, alla fine, ad una struttura estremamente
rinnovazione delle faggete. Il trattamento sel- suggestiva a piante rade e molto grosse. In
vicolturale, invece, tende a sistematicizzare presenza di faggete con questa struttura la
e a velocizzare i processi di rinnovazione e, rinnovazione del bosco sarà resa difficile dal
quindi, a favorire ulteriormente il faggio. fatto che il crollo di piante gigantesche aprirà
In queste faggete più fertili, i dinamismi evo- vuoti molto grandi che possono restare co-
lutivi sono piuttosto rapidi. Nelle faggete del- perti a lungo da alte erbe nitrofile o da mac-
la Toscana l’evoluzione “ naturale” è piutto- chioni di vitalba.
sto un’evoluzione di “ post-coltura” in quanto Questi fenomeni di stagnazione dell’evolu-
si innesta sempre su faggete la cui struttura zione possono però essere prevenuti col trat-
è stata condizionata dall’uso umano prece- tamento.
dente. Quando il trattamento viene interrotto Per esempio, nell’avviamento all’alto fusto
l’evoluzione va ad esclusivo vantaggio delle di un ceduo di faggio provvisto di matricine,
piante più adulte mentre il novellame e le è opportuno un diradamento che elimini an-
piante giovani sono destinate a morire. Tal- che le matricine e che lasci un insieme di
volta bastano 50 matricine per ettaro, libere polloni coetanei che possano combattere ad
da concorrenza laterale, per completare pro- armi pari.
Specie indicatrici
necessariamente accorpate. Basta arrivare ad polazione che ha subito una scelta secondo
una compresa di 50-150 ha: su di una super- un criterio così unilaterale.
ficie superiore, infatti, la gestione potrebbe Per il taglio dei cedui invecchiati delle ferti-
non riuscire a condurre con sufficiente pun- lità migliori occorre fare le seguenti osserva-
tualità i tagli colturali necessari alla produ- zioni. La fertilità e la freschezza della stazio-
zione di pregio. Questi sono: tagli di regola- ne, verosimilmente, attenuano il rischio di
rizzazione della struttura (se necessari), tagli disseccamento di ceppaie dopo il taglio, ma
di sementazione, tagli secondari, tagli di solo di poco.
sgombro (da effettuarsi presto perchè il no- L’invecchiamento del ceduo, infatti, corri-
vellame di faggio è meno sciafilo di quello sponde ad una forte mortalità delle ceppaie
che si credeva), ripuliture e diradamenti. per motivi di concorrenza. Spesso, e princi-
Nei cedui di questo Tipo che si vogliono con- palmente per i cedui a sterzo, si prescrive di
vertire in fustaie, i diradamenti di avviamento lasciare almeno un pollone per ceppaia; allo-
all’alto fusto sono sempre opportuni perchè ra, proprio nei cedui di fertilità migliore, può
servono a predisporre nel modo migliore la succedere che i polloni riservati riprendano
fustaia transitoria ai tagli di rinnovazione che vigore fino a determinare una forma preter-
si faranno a maturità. Per ottenere questo, è intenzionale di avviamento all’alto fusto ot-
bene asportare tutte le matricine e incidere tenuta con un taglio più remunerativo del
sui polloni secondo il criterio del diradamen- classico “ diradamento” di avviamento.
to selettivo in modo da portare a maturità un Si potrebbe autorizzare un taglio del ceduo
numero adeguato di polloni di forma miglio- più intenso, ma vincolato all’obbligo di ese-
re. L’asportazione delle matricine si impone guire una piantagione cautelativa con un certo
perchè quando il bosco era trattato a ceduo numero di piantine di latifoglie, orientativa-
esse sono state sempre reclutate fra i polloni mente 500 per ettaro. In questo caso i cedui
più costosi ad abbattere, cioè quelli più ra- migliori darebbero maggiori garanzie di buon
mosi o a fusto più contorto; questi sono ca- attecchimento; fra le specie che si prestano
ratteri sicuramente ereditabili pertanto non si bene all’impianto occorre ricordare soprat-
dovrebbe portare alla riproduzione una po- tutto oltre al faggio anche il frassino maggiore
e l’acero di monte.
22.2. FAGGETA APPENNINICA MESOTROFICA
A GERANIUM NODOSUM E LUZULA NIVEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Geomorfologia Clima
Luoghi di minore accumulo di terreno: pen- Come il Tipo precedente anche se le tempe-
dici anche ripide, dossi arrotondati. rature sono po’ più elevate.
Specie indicatrici
Selvicoltura naturale oppure come coniferamento dei ce-
La valutazione dei popolamenti del Tipo dui collocando la conifera in corrispondenza
FAGGETA MESOTROFICA dovrebbe es- dei vuoti.
sere integrata sempre con misure di altezza e Nella conversione dei cedui, il taglio di av-
conseguente stima della classe di fertilità. viamento all’alto fusto è ancora opportuno:
Fra le faggete mesotrofiche migliori si pos- meglio se è eseguito col rilascio di molti pol-
sono reclutare ancora delle particelle per loni e con i criteri del diradamento dal basso
completare una compresa di faggete da de- ma rimuovendo sempre le matricine.
stinarsi alla produzione di legno di pregio. Il ripristino del governo a ceduo in popola-
Qui sarà sempre opportuno praticare il taglio menti in queste condizioni di fertilità inter-
di sementazione in una annata di pasciona e media (o, comunque, molto variabile) lascia
procedere eventualmente ad una lavorazione sempre delle perplessità; anche imponendo
superficiale del terreno prima della caduta del la riserva di un pollone (non fra i più grossi)
seme. per ceppaia c’è il rischio che qualche ceppaia
Se si vogliono destinare alla produzione le- venga a seccare rendendo consigliabile la
gnosa estesi complessi dove prevalgono fag- piantagione integrativa di faggio o di faggio
gete di questo Tipo conviene applicare, inve- e abete.
ce del sistema a tagli successivi uniformi, un Potrebbe essere studiato un criterio di con-
sistema più articolato e adattabile alle situa- versione progressiva a fustaia mista di faggio
zioni del terreno come è quello a tagli suc- e abete secondo il metodo indicato da CRI-
cessivi a gruppi. STOFOLINI (1981): prosecuzione delle ce-
Se si vuole aumentare la biodiversità, queste duazioni con progressive piantagioni a
faggete si prestano bene alla piantagione gruppi di abete e parallelo rilascio di ma-
dell’abete bianco da eseguirsi, dopo il taglio tricine fino ad ottenere un popolamento a
di sgombro, nelle lacune della rinnovazione struttura disetanea.
22.3. FAGGETA OLIGOTROFICA A LUZULA
PEDEMONTANA, LUZULA NIVEA E
FESTUCA HETEROPHYLLA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Caratterizzazione fisionomica e fitosocio- in relazione all’età che con l’analisi del sot-
logica tobosco. In linea generale si possono distin-
L’aggettivo “ oligotrofico” , come noto, qua- guere i sottotipi:
lifica un ambiente che offre poco nutrimento a Oxalis acetosella, più promettente in fat-
agli organismi che ospita. to di produttività anche se incerto circa la
Il popolamento forestale è di statura media o facilità di ottenere rinnovazione in massa
mediocre anche con alberi contorti. La classe a Vaccinium myrtillus, proprio delle fag-
di fertilità è bassa, compresa fra la V e la VII gete del nord-ovest (fino al Passo di Mon-
secondo BIANCHI. Le piante più grosse dei tepiano) dove l’abbondanza dell’ericacea
popolamenti maturi hanno una altezza media indica condizioni di suolo molto acido.
inferiore a 25 metri. a brugo e a ginestra dei carbonai, più fre-
Le specie prese come simbolo di questo Tipo quente in cedui radi e degradati con suoli
evidenziano che il sottobosco ha la fisiono- erosi a profilo tronco
mia di un erbaio di graminacee (simboleg- a graminacee prevalenti (con lacune occu-
giate dal genere Festuca), movimentato dal pate da biancospino, prugnòlo o altri ar-
luccicare delle bianche spighette delle luzule. busti; forma frequente, soprattutto fra i ce-
Se, come spesso avviene, la lettiera è scarsa, dui, che rivela anche condizioni di una cer-
ci possono essere chiazze di terreno coperte ta aridità)
da muschi. La ridotta capacità di concorrenza del faggio
Sotto il profilo fitosociologico il Tipo si può in- dà luogo a mescolanze con altre specie fore-
quadrare nel Luzulo pedemontanae-Fagetum stali da cui derivano diverse varianti o com-
sylvaticae Oberdorfer e Hofmann 1967. binazioni di varianti:
a carpino nero (propria delle quote infe-
Sottotipi e varianti riori)
I sottotipi più importanti sono quelli che di- a cerro (come sopra ma di aree meno fre-
pendono dallo sviluppo del faggio e che pos- sche)
sono essere accertati più con misure di altezza ad abete
ad acero di monte e sorbo degli uccellatori suolo sciolto, fresco e drenato, è tuttavia piut-
(più frequente alle quote superiori a con- tosto superficiale, povero di humus che é di
tatto con l’ACERI-FAGGETO appennini- tipo moder alterato da funghi, molto acido,
co di quota (v.) con illuviazione delle basi in profondità. Ri-
sultano suoli di tipo bruno lisciviato o anche
Localizzazione bruno podsolico.
Appennino e rilievi paralleli: Pratomagno,
ecc., esclusa la sua porzione più orientale e Clima
il versante padano; rara sulle Apuane (HO- Temperatura media compresa fra 6° e 12°;
FMANN, 1970). temperatura media del mese più freddo sino
a -4°. precipitazioni annue superiori a 1500
Esposizioni mm (sino a 3.000 sulle Apuane) e quelle esti-
Per lo più meridionali. ve oltre 200 mm. L’esposizione al vento può
indurre scostamenti di carattere microclima-
Distribuzione altitudinale tico.
Porzione superiore della fascia montana;
spesso a contatto con il CALLUNETO DI Interventi antropici più frequenti
QUOTA. Come gli altri tipi di faggete. Le ceduazioni
hanno avuto comunque un effetto più degra-
Geomorfologia dante. Le radure coperte di graminacee e di
Questo tipo si manifesta sui dossi più marcati ginestra dei carbonai possono avere favorito
e sui crinali dove l’erosione è maggiormente incendi.
attiva e dove si manifesta di più l’azione del
vento che spazza la lettiera. Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
denze dinamiche
Substrati Il faggio si rinnova lentamente e in modo
Arenacei con intercalazioni di scisti argillosi. molto graduale e discontinuo, mai in massa.
E’ probabile che l‘attuale condizione di bo-
Suoli sco puro di faggio possa derivare anche
Spesso il terreno risente delle conseguenze dall’azione antropica e che l’evoluzione fu-
di un precedente periodo di degradazione: lo tura possa portare ad un miglioramento del-
strato di lettiera è modesto e discontinuo. Il la situazione.
Specie indicatrici
Fagus sylvatica Veronica officinalis
Quercus cerris (loc.) Cruciata glabra
Ilex aquifolium (loc.) Phyteuma scorzonerifolium
LUZULA PEDEMONTANA (freq.) Orchis maculata (loc.)
AVENELLA FLEXUOSA (freq.) Veronica urticifolia (loc.)
FESTUCA HETEROPHYLLA (freq.) Luzula sylvatica (loc.)
Luzula nivea (freq.) Thelypteris limbosperma (loc.)
Vaccinium myrtillus (freq.) Viola reichenbachiana (loc.)
Prenanthes purpurea Pteridium aquilinum (loc.)
Hieracium gr. sylvaticum Polypodium vulgare (loc.)
Poa nemoralis Dryopteris affinis (loc.)
Anemone nemorosa Teucrium scorodonia (loc.)
Mycelis muralis Dianthus seguieri (loc.)
Selvicoltura anche arbusti che possono dare nutrimento
L’altezza delle piante a 100 anni è inferiore alla fauna selvatica.
a 25 metri, anzi talvolta non arriva a 15 metri. Il loro ruolo protettivo è indiscutibile. E’ sem-
I fusti sono spesso contorti pertanto, anche pre bene lasciarle sviluppare all’alto fusto
nel caso di boschi di alto fusto, non si ha senza praticare diradamenti che, attenuando
produzione di legname da lavoro in quantità la copertura, faciliterebbero ulteriormente la
commerciabili. La rinnovazione del faggio dispersione della lettiera. Per aumentare l’ef-
avviene in modo lento e progressivo per sin- ficacia contro l’erosione possono essere op-
gole piantine disperse e mai in massa. portuni rinfoltimenti di piantine di faggio po-
Le faggete di queste classi inferiori di fertilità ste a dimora a file molto dense lungo le curve
devono comunque essere apprezzate per il di livello. Evidentemente il governo a ceduo
contributo che forniscono alla biodiversità dovrebbe essere evitato. Dovendo ceduare
perchè costituiscono il tipo di faggeta che sono ammissibili solo tagli seguiti da pianta-
tende di più al bosco misto e che comprende gioni di rinfoltimento.
22.4. ACERI-FAGGETO APPENNINICO
DI QUOTA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Localizzazione estensioni ridotte di questo tipo di faggeta
Le espressioni più classiche di questo Tipo sono da imputarsi a cause climatiche.
si trovano lungo crinale della Giogana (nel
Parco Nazionale del Casentino), nella Foresta Clima
di Acquerino e in qualche altro tratto Appen- Sul popolamento forestale si fanno sentire,
ninico. Invece, sulle Apuane (dove, secondo oltre alle influenze macroclimatiche quelle
ARRIGONI, cit., esiste anche l’ultima asso- locali dovute all’altitudine ed alla vicinanza
ciazione citata) e sull’Appennino del nord- del crinale: minore somma di temperature
ovest della Toscana, a causa delle più notevoli estive, ciclo vegetativo abbreviato, effetto del
accidentalità del terreno e della maggiore de- vento, danni da galaverna o gelicidio, ecc.
gradazione antropica, le faggete di altitudine Copertura nevosa abbondante e prolungata
sono da riferirsi soprattutto al Tipo FAGGE-
TA CESPUGLIOSA DI VETTA. Interventi antropici più frequenti
Il regime a ceduo con molte matricine può
Esposizioni avere favorito la formazione di cedui spesso
Tutte. E’ probabile però che la distribuzione ancora piuttosto densi.
in altitudine sia maggiore nelle esposizioni a
nord e nei tratti di territorio sul versante adria- Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
tico, dove la neve permane più a lungo. denze dinamiche
Cenosi nella quale la densità e lo sviluppo in
Distribuzione altitudinale altezza degli alberi sono progressivamente
Quota non inferiore a 1.300 metri; più che da più modesti al crescere dell’altitudine. La ca-
una quota assoluta, il posizionamento del tipo pacità di concorrenza del faggio viene ridotta
dipende comunque dalla distanza dal crinale anche dai frequenti schianti che subisce sotto
che, in generale, è di 100-150 metri. il peso della galaverna. Ne derivano, quindi,
popolamenti moderatamente misti grazie al
Geomorfologia modo con cui l’acero di monte, il tiglio a
Margini di crinale arrotondato in cui sia pos- grandi foglie, l’olmo montano, il frassino
sibile l’accumulo della neve. maggiore, il sorbo degli uccellatori e il sali-
cone riescono ad inserirsi localmente nelle
Substrati radure. Nell’area dell’Aceri-faggeto si trova
Silicatici. anche qualche plaga di abete o di bosco misto
di faggio e abete.
Suoli L’abete però sembra soffrire di questo am-
Il terreno è molto ricco di humus facilmente biente con estate troppo fresca e con ecces-
alterabile (mull), fresco e profondo, acido; le siva influenza del vento e delle nebbie.
Specie indicatrici
22.5. FAGGETA CESPUGLIOSA DI VETTA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
come precisato per i Sottotipi A. e B. Il sot- Interventi antropici più frequenti
totipo A. (cioè quello su arenarie) può pre- Attualmente nessuno. Prima: incendi e pa-
sentarsi anche in alcuni tratti del Pratomagno scolo caprino; sulle Apuane danni da disca-
(Foresta di S. Antonio). Alpi Apuane. riche di cava.
22.6. FAGGETA APUANA A SESLERIA
ARGENTEA
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Localizzazione Clima
Alpi Apuane. Temperatura media fra 7° e 10°; temperatura
del mese più freddo fino a -2°. Precipitazioni Interventi antropici più frequenti
annue elevate da 2.000 a 3.000 mm annui, Allo stato attuale si tratta solo di cedui o di
anche nevose. cedui avviati all’alto fusto con età di 50-60
Piogge estive sempre superiori a 200 mm. anni.
Possibili forti scostamenti microclimatici,
per esempio nel senso dell’esposizione al Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
vento. denze dinamiche
L’alta piovosità del settore apuano consente Possibilità di evoluzione anche verso discrete
al faggio di scendere a quote basse. fustaie a prevalenza di faggio.
Specie indicatrici
22.7. FAGGETA AMIATINA INFERIORE
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
passati criteri di taglio, molte delle fustaie Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
delle quote inferiori dell’Amiata si trovano denze dinamiche
in condizioni di struttura disetanea a gruppi Questo tipo può dar luogo a ottime fustaie,
o a due strati con piante del vecchio ciclo e sempre tendenzialmente pure. La rinnovazio-
novellame in vari stadi di sviluppo. I cedui ne in massa del faggio è spesso molto facile,
avviati all’alto fusto, invece, hanno una strut- salvo localmente sui terreni superficiali lungo
tura più decisamente monostratificata. le creste del microrilievo.
Specie indicatrici
22.8. FAGGETA AMIATINA SUPERIORE
AD ADENOSTYLES AUSTRALIS
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
Ora prevalgono i cedui avviati all’alto fusto, Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
anche per motivi estetici, attraversati da denze dinamiche
strade e da piste da sci, con insediamenti Evoluzione lenta. Ridotte possibilità di rin-
abitativi sparsi. novazione in massa.
Specie indicatrici
22.9. ACERI-FRASSINETO (1)
Paludoso
Umido
Fresco
Asciutto
Arido
Arid
Povero Ricco
(1) Pro parte corrisponde a Faggeta con altre latifoglie secondo HOFMANN Am., 1992.
anzi in attiva evoluzione e con sottobosco Clima
eterogeneo, non è possibile definirli sotto il I parametri termici dei climi montani e
profilo fitosociologico. submontani della nostra regione sono alterati
dalla morfologia e dall’esposizione. Per il re-
Sottotipi e varianti sto, il microclima di forra è ancora tutto da
Allo stato attuale l’ACERI-FRASSINETO si studiare. L’effetto principale è dato dalla ri-
distingue principalmente per il soprassuolo duzione delle massime estive a causa di un
esistente e, di conseguenza, dà luogo a più soleggiamento ridotto. L’attiguo corso d’ac-
varianti: qua torrentizio, quindi ricco di cascate spu-
Abetine su ACERI-FRASSINETO meggianti, garantisce l’umidità atmosferica.
Castagneti su ACERI-FRASSINETO
Faggete su ACERI-FRASSINETO Interventi antropici più frequenti
I popolamenti di queste stazioni sono stati
Localizzazione talvolta (Vallombrosa) trasformati in abetine
Il Tipo si presenta in modo molto frammen- oppure (Piano Sinatico) in castagneti. Soven-
tario. Luoghi classici possono essere consi- te sono rimasti come cedui più o meno rapi-
derati: Piano Sinatico e dintorni; la conca di damente degradati a causa della posizione di-
Vallombrosa; la forra sotto il Monastero di rupata.
Camaldoli; varie stazioni attorno alla Verna;
zona di S. Fiora (Amiata). Posizione del Tipo nel ciclo evolutivo e ten-
E’ frequente sul versante romagnolo delle Fo- denze dinamiche
reste Casentinesi, quindi fuori dalla Toscana. E’ probabile che, una volta sospeso l’uso an-
tropico, questi tipi possano avere una ricosti-
tuzione naturale più rapida di quello che si
Esposizioni. possa pensare anche perchè beneficiano di
Sempre poco soleggiate. apporti colluviali di terriccio e di lettiera che
giungono per gravità. Se ci sono piante madri
Distribuzione altitudinale nelle vicinanze è anche possibile la ricostitu-
Da 700 a 1200 m. zione di un bosco molto misto grazie al fatto
che il terreno accidentato dà occasioni fortui-
Geomorfologia te di insediamento a molte specie. Influisce
Suolo sovente ripido e accidentato. Al limite anche la facilità con cui si formano vuoti per
il bosco ha la fisionomia di una rupe boscata, crollo e sradicamento di piante adulte o per
ma con alberi di età più o meno avanzata e piccole frane.
di grande sviluppo.
Specie indicatrici
Substrati Non vengono elencate per le stesse ragioni
Arenarie. addotte a livello dell’inquadramento fitoso-
ciologico.
Suoli
Nonostante la morfologia dirupata, si hanno Selvicoltura
a zone suoli con grandi accumuli di terreno Dove il tipo si presenta in plaghe estese esi-
fresco, subacido e fertile, ricco di humus mull stono opportunità di applicare forme di sel-
per forte attività di lombrichi. vicoltura orientate sull’allevamento di boschi
con elevato livello di biodiversità oppure sul- sradicamenti o a piccole frane causate anche
la produzione di legno di pregio. dal peso delle piante) può costituire un peri-
Nelle posizioni di forra vicine agli abitati, la colo per il modo con cui i detriti legnosi pos-
ricostituzione di un bosco di alto fusto (così sono provocare dighe e rimpozzamenti tem-
ricco, ma anche instabile perchè soggetto a poranei durante gli eventi meteorici più forti.
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Le specie estranee alla flora forestale della Toscana che hanno avuto un maggiore
impiego e che sono già stati trattati a livello di Tipi, sono: il pino nero, la douglasia,
la robinia e, se si vuole, anche il cipresso comune e il pino domestico che erano già
stati importati ai tempi dei Romani.
Primi tentativi di uso di specie esotiche nel rimboschimento sono avvenuti fra
il ‘700 e l’’800 per opera di forestali al servizio di Casa Lorena e con specie delle
Alpi: pino silvestre, abete rosso e larice. Sulla fine dell’800, comincia l’interesse per
il pino nero d’Austria, presto sostituito, almeno nelle migliori stazioni, col pino
laricio di Calabria. Si rafforza, in modo del tutto empirico, la diffusione della robinia
introdotta, peraltro, alla fine del ‘600.
La sperimentazione di specie di paesi d’oltremare porta all’uso della douglasia
e, contestualmente, fa sì che si pongano in prova altre specie sia per il rimboschimento
che per l’eventuale sostituzione dei castagneti da frutto distrutti dal cancro corticale.
Pertanto (soprattutto nel contesto dei perimetri di rimboschimento o delle foreste
demaniali) si hanno piccole parcelle di specie piantate come aree di sperimentazione
sistematica oppure per semplice prova.
Spesso, però, prevale l’impiego in bosco misto; pertanto il seguente elenco si
articola per specie e non per popolamenti che, se presenti, raramente superano il
mezzo ettaro di estensione.
23.1. ONTANO NAPOLETANO rimboschimenti con abete bianco oppure per
ALNUS CORDATA Desf. il rimboschimento di campetti nell’area del
faggio. Cresce rapidamente ma è molto sog-
E’ la più diffusa fra le specie di questa Cate- getto a schianti per danni meteorici.
goria. Introdotto dall’Italia Meridionale nel
secondo dopoguerra nei castagneti devastati
dal cancro della zona dell’Abetone. Molto 23.4. CIPRESSO DELL’ARIZONA
usato (anche in piccoli boschi puri) nel resto CUPRESSUS ARIZONICA Greene
dell’Appennino per la sistemazione di frane
e di scarpate stradali da 500 a oltre 1000 m Frequente in rimboschimenti talvolta con C.
di altitudine su substrati sia silicatici che car- glabra su calcari o su scisti argillosi misto
bonatici (purché non aridi) sebbene l’ottimo con cipresso comune, con pino d’Aleppo o
sia sui primi. Questa specie non si è adattata anche con pino nero. Da 300 a 700 m. Poco
alle argille della Val d’Orcia. attaccato da Seiridium cardinale.
Fertilizzando il terreno, i popolamenti hanno Pianta obiettivamente non bella. Legno lon-
spesso flora nitrofila come la robinia. Accre- tano dall’essere apprezzato come quello del
scimento rapido. Incapace di diffondersi per cipresso comune.
polloni radicali, costituisce popolamenti
poco infiammabili ma è soggetto a danni
da gelicidio e da gelate precoci. Legname 23.5. LARICE GIAPPONESE
poco apprezzato. LARIX KAEMPFERI Carrière
‘700. Rimangono esemplari in località Ma- 23.9. PINO STROBO
strocarlo. Più di recente è stato impiegato PINUS STROBUS L.
sempre nella medesima zona ma più in basso
(fino al Ponte Sestaione) e per il conifera- Localizzato nei rimboschimenti sostitutivi
mento di cedui di castagno. di castagneti sulle colline delle Pizzorne
(Lucca).
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