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La grammatica di un’espressione è l’insieme delle differenti regole in uso che servono a far
funzionare una lingua.[grammatica: regola d’uso di un termine. “che tipo di oggetto una cosa sia:
questo dice la grammatica]
Il ruolo semantico della grammatica, per Wittgenstein, consiste nello stabilire il riferimento
categoriale di un termine.
Un enunciato ha senso soltanto se è chiaro a che tipo di cose un termine si riferisce, ma il
collegamento tra termine sub-enunciativo e “cosa” dipende dalle modalità d’uso del suddetto
termine, stabilite dalla grammatica.
Nelle diverse grammatiche varia il riferimento categoriale dei temini che, perciò, diventano
semanticamente diversi.
Le parole con riferimento categoriale diverso sono tra loro semanticamente diverse.
Riferimento categoriale:
[Il significato di un’espressione non sta nel suo referente ma nell’uso che ne facciamo
all’interno del linguaggio]
Il ruolo ontologico della grammatica consiste nell’individuare i criteri d’identità per gli oggetti
che cadono sotto un termine di un certo tipo.
Questa funzione consiste nell’individuare, attraverso le regole d’uso di una parola, le caratteristiche
essenziali che appartengono ad un oggetto, in quanto ricade sotto il concetto espresso da quel
termine.
- il ruolo ontologico consiste nel determinare un tipo categoriale di oggetti denominati da carti
termini e quindi individuare i criteri di identità e le caratteristiche essenziali di tali oggetti.
Es. (suppongo…) Se una cosa ha un tronco, rami ed (in certi periodi) foglie è un albero.
Con l’attribuzione del ruolo ontologico alla grammatica W. ripudia la tesi 7 del Tractatus
(isomorfismo tra linguaggio e realtà): diviene infatti impossibili parlare di possibilità di
combinazione di un oggetto indipendentemente dall’individuazione delle regole grammaticali d’uso
del termine che sta per l’oggetto.
La grammatica determina il linguaggio e questo può essere visto come giuoco linguistico o forma di
vita.
Giuoco linguistico: è una nozione aperta. Esiste una pluralità di cose che chiamiamo giuoco
linguistico:
- differenti modalità di uso di una stessa proposizione (descrivere, comandare, far
congetture…)
- differenti modalità di usare parole (battezzare e poi usare successivamente il nome).
- Differenti tipi di informazione (numero, colore, forma…)
- Differenti linguaggi, nel loro complesso (es. del giuoco linguistico denotazionale del
muratore v. pag 40 Voltolini).
Parlare del linguaggio come insieme di (eterogenei) giuochi linguistici ne sottolinea il carattere
prassiologico. Il linguaggio, inteso come l’intende W. parlando di giuochi linguistici, fa parte di
un’attività, o di una forma di vita.
Forma di vita significa che un giuoco linguistico è costituito, inter alia, da determinati
comportamenti che formano la base pre-linguistica del giuoco stesso oppure determinano
l’applicazione delle regole simboliche che caratterizzano il giuoco.
L’uso del linguaggio non è l’impiego che ne fa un soggetto disincarnato, bensì l’uso che ha luogo in
un contesto di attività e consuetudini il cui carattere è eminentemente sociale.
- In senso forte significa che è l’uso stesso del linguaggio a dover costitutivamente dipendere
dall’attività umana, almeno in due aspetti essenziali:
a) Reazione Primitiva. Comportamenti che formano la base pre-linguistica del
giuoco.
I giuochi linguistici sono articolazioni di relazioni pre-linguistiche.
Es. i giuochi linguistici con i temini di sensazione e di intensione, di cui non si
potrebbe parlare senza sperimentarli.
Senso debole:
Wittgenstein nel Tractatus aveva abbracciato il mentalismo semantico (sulla falsariga agostiniana
più che sulla scia di Locke o Hume), ma nelle Unterschungen se ne allontana con decisione.
Mentalismo semantico:
Entità mentale o cerebrale
Termine/segno linguistico –> Immagine mentale -> significato/cosa rappresentata
Mera entità mofosintattica che
potrebbe avere un’infinità di Ha significato originariamente
significati Intenzionalità originaria
W. ritiene che non ci sia motivo per cui le immagini mentali possano essere assegnate a certe cose
rappresente e non ad altre. Si dovrebbe immaginare un ulteriore livello, ancor più recondito, quale
interpretazione ultima dotata dell’intenzionalità originaria.
Tuttavia così non si fa che generare le premesse di un vacuo regresso all’infinito. Da cui si esce solo
smettendo di pensare che applicare un segno linguistico, o qualunque cosa “retrostante” a questo,
corrisponda a interpretarlo. (v. riassunto pagina 74 del Voltolini).
Un’altra critica è che la normatività che viene richiesta all’aver significato di un’espressione non
può fondarsi su entità mentali ed un tentativo di farlo porterebbe ad un regresso all’infinito (la
normatività si basa su regole d’uso). (v. dopo e pag 74).
W. (come Frege) sostiene che la connessione tra significato e comprensione sia interna.
Così anche il mentalista che però immagina un tramite che per W, non c’è.
La tesi del mentalismo psicologico prevede che vi sia qualcosa (esperienza vissuta o processo
crebrale inconscio), che renda possibile la comprensione di un certo significato.
Mentalismo psicologico:
Dipendenza generica o
specifica
Contro il MPE Wittgenstein dice che: perché qualcuno comprenda un certo significato, non solo
non è necessario che egli abbia una determinata (specifica) esperienza vissuta, ma non è neanche
necessario che egli abbia una qualche esperienza vissuta in generale.
Non solo chi comprende una determinata espressione può avere diverse esperienze siffatte dinanzi
alla mente (es. esperienza della successione aritmetica) ma può anche non avere alcuna esperienza
del genere (come nel caso che vi sia una “sensazione di comprensione” senza che ci sia una reale
comprensione).
Quale che sia l’esperienza mentale da cui scaturisce la sensazione di comprensione, questa è
connessa solo estrinsecamente (in modo NON essenziale), col comprendere, così come lo è un
sintomo del fenomeno di cui è sintomo.
Contro il MPN nel senso di una dipendenza specifica necessaria (non si potrebbe comprendere, per
es, la lettura, se un determinato evento cerebrale non accadesse nella propria testa), W. sostiene che
può essere un’ipotesi, non una necessità, e che, anzi, si possa ben immaginare che l’evento di
comprensione si dia senza alcun evento cerebrale inconscio.
Contro il MPN nel senso di una dipendenza generica (non si potrebbe comprendere se non
accadesse un qualche evento cerebrale)… W non si sofferma, ma, arguiamo dal Zettel, era
contrario.
Wittgenstein è certamente contrario alla tesi della necessità di un collegamento tra processi mentali
o cerebrali e la comprensione ma è contrario anche alla tesi della sufficienza.
Tesi della sufficienza: Avere un processo cerebrale è condizione sufficiente del comprendere.
Sussiste una connessione concettuale tra eventi di lettura e processi crebrali, tale che non solo di
fatto, ma necessariamente, se si dà un certo processo crebrale, si dà anche un corrispondente evento
ad es. di lettura.
Witt ribatte con l’esempio della lettura: non si più dire che se un certo processo cerebrale è
avvenuto allora qualcuno ha letto.
Il fatto che nella testa di qualcuno occorra un processo cerebrale non basta perché costui comprenda
una determinata espressione della lingua.
Non c’è, tuttavia, una quantità di comportamento corretto che fa da condizione sufficiente perché
qualcuno comprenda una determinata espressione.
(come non è detto che una uomo che ha tempo di camminare, è abbastanza forte per farlo e che ha
gambe nello stato adeguato non possa far altro che camminare).
Se l’esibire un comportamento di un certo tipo fosse condizione sufficiente del comprendere
un’espressione, allora ogni volta che il soggetto esibisse un tale comportamento avrebbe compreso
(invece non è detto che se leggo io abbia compreso come si legge… potrei anche aver finto).
W. non propone alcun criterio positivo che faccia da condizione sufficiente per la comprensione (né
pre i processi interni in generale).
Il significare qualcosa, in qualità di processo interno, sarà dipendente dagli effettivi comportamenti
linguistici di un parlante quella lingua (caratteristica para-disposizionale v. la comprensione).
Il significato di un’espressione risiede nel suo uso (modalità in cui viene impiegata), che dovrà
essere un uso corretto. Un uso conforme alle regole che costituiscono la grammatica di tale
espressione.
Normatività del linguaggio = necessaria conformità a regole dell’uso.
Aspetto normativo del significato = una parola ha un certo significato nella misura in cui è usata
secondo determinate regole.
Significare qualcosa con un’espressione sgnifica usarla in maniera corretta, ossia seguendo le
regole della sua grammatica, o meglio, rapportandosi a determinate applicazioni paradigmatiche di
tali regole.
Il primo tentativo di soluzione è quello della formulazione della regola in termini generali
(esprimibile in chiave logico-formale mediante l’opportuno inserimento delle variabili: x, y…) che
dovrebbe fungere da prescrizione su come la regola vada applicata in ogni caso particolare,
compresi quelli non ancora ottenuti. Alla regola sarebbe dato il modo di anticipare ciò che nella
realtà non c’è ancora… come se ci fosse una realtà ideale.
Ma questa concezione platonica può sollevare dei dubbi circa cosa voglia dire che esiste in una
qualche regione ideale una regola che già contiene tutte le sue applicazioni.
A questo primo tentativo si affianca, come supporto, il secondo, avanzato da un ulteriore, ipotetico,
interlocutore: un mentalista normativo.
In tal caso si suppone che ci sia un atto mentale che colga al volo tutte le applicazioni successive di
una regola espressa in termini generali. Una sorta di intuizione o di intendimento anticipatore.
Per W la capacità, supposta sia dal platonista che dal mentalista, di precorrere a volo tutte le nuove
applicazionei della regola prima che siano concretamente date non c’è.
Tuttavia… ogni applicazione di una regola in una nuova circostanza può risultare corretta se
l’opportuna interpretazione interviene a mediare tra l’espressione della regola e tale applicazione.
Ma, e questa è la cosa ancor meno accettabile, mediante la medesima interpretazione può anche
risultare scorretta!
→ →
Tuttavia torno indietro.
L’errore sta nel fraintendimento del concetto di regola: seguire una regola, infatti, non significa
interpretarla.
Ogni pretesa interpretazione ultima in fondo non è che un mero segno, che deve ricevere il suo
senso per così dire dall’esterno esattamente come l’espressione della regola che essa è supposta
interpretare.
Regola
Esiste un modo non-interpretativo di concepire una regola, il quale si manifesta nell’essere le
concrete applicazioni della regola (in determinate circostanze) corrette o scorrette:
un’applicazione della regola in una nuova circostanza è posta come paradigma di correttezza per
ulteriori applicazioni della regola alla stessa circostanza.
La connessione tra regola e sue applicazioni paradigmatiche nelle differenti circostanze è interna,
ossia, la regola stessa dipende per la sua esistenza dall’esistenza delle sue applicazioni
paradigmatiche.
Porre un’applicazione della regola in una nuova circostanza come paradigma dell’applicazione in
quella circostanza, equivale a istituire una nuova regola particolare che specifica il valore generale
della regola di cui quell’applicazione paradigmatica è applicazione.
Wittgenstein dissolve (e non risolve) il problema di seguire una regola affrontando la nozione stessa
di regola.
Egli concepisce la regola in maniera non-interpretativa (al contrario delle concezioni di stampo
platonico o mentalista). La sua è una concezione prassiologico-antropologica.
Una regola è articolata nella sua essenza da ogni singola sua applicazione nelle diverse circostanze.
L’applicazione corretta di una regola in una nuova circostanza è definita dalla coerenza con
precedenti, multiple, simili applicazioni di quella regola in quella circostanza che costituiscono
un’applicazione paradigmatica. In sé, tale paradigma non sarà né corretto né scorretto.
Operare questi passaggi è un agire tipicamente umano, pensando all’uomo come animale
simbolico.
Applicare una regola in tal modo è un’operazione irriflessa che consegue all’abitudine (spesso
influenzata da uno strenuo addestrameto v. pag. 91 -94). E’ un’operazione che risulta naturale a chi
condivida certi comportamenti simbolici.
NB. L’applicazione paradigmatica non precede l’applicazione della regola stessa in tale circostanza,
semplicemente è quella stessa applicazione considerata come paradigma di correttezza, e dunque
non può giustificare alcunché.
*in quella circostanza tutti i soggetti di una comunità convergono nel concepire una certa
applicazione della regola e non altre come l’applicazione corretta (nb. è una coincidenza di reazioni
simboliche spontanee).
Per Wittgenstein il linguaggio privato non esiste. Infatti perché si possa pervenire ad una
applicazione paradigmatica di una regola linguistica è necessario che ci sia una coincidenza di
reazioni simboliche spontanee in una comunità. E’ necessaria un’effettiva intersoggettività
linguistica. Il che, ovviamente, comporta la presenza di più di un individuo.
Per quanto riguarda il numero massimo di appartenenti alla comunità, ebbene, Witt sostiene che la
comunità il cui accordo fa da presupposto alla significazione PUO’ (ma non necessarimente DEVE)
estendersi tanto quanto la specie umana..
Tuttavia una comunità i cui membri reagiscano naturalmente (e non secondo un ragionamento -
come potrebbe fare un matematico creativo) in modo diverso da come reagiamo tutti noi nella
medesiama circostanza (un comportamento “anormale”) costituirebbe un’altra forma di vita e non
saremmo in grado di capirci. (<< se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo >>).
Wittgenstein si concentra in particolare sul caso delle sensazioni, in rapporto alle quali è
particolarmente facile cadere nell’errore di parlare di linguaggio privato.
Nota: W è maggiormente interessato a smentire la tesi n.2 in quanto rischierebbe di far da sostegno al MSE. Infatti:
se il significato di un termine sta nell’esperienza vissuta da un determinato soggetto mentre proferisce quel termine,
allora nella misura in cui quest’esperienza è accessibile solo a costui, tale significato sarà privato. Così, se almeno gli
ordinari termini di sensazione hanno davvero un significato privato, nel loro caso MSE è valido (e allora perché non
immaginarsi che lo sia anche con gli altri termini del linguaggio?)
W. deve smontare due indipendenti assunzioni da cui deriverebbe l’idea di un linguaggio privato
delle sensazioni:
1- STSR: la specifica dottrina semantica secondo cui il Significato dei Termini di
Sensazione equivale al loro Riferimento (la sensazione stessa). (v. Russel)
non è erronea, ma vacua finché non sappiamo qual è la grammatica dei
termini di sensazione.
2- PE: la tesi epistemica del privatismo epistemologico, secondo la quale gli stati
mentali (tanto qualitativi quanto intenzionali) sono cognitivamente accessibili solo al
loro soggetto. (v. Russel e Carnap).
Posto che il significato dei termini di sensazione, coincide col loro riferimento, le
sensazioni medesime cioè, e posto altresì che tali sensazioni sono accessibili solo a
chi le prova, ne segue che il significato dei termini di sensazione è privato.
è una concezione fourviante, che occorre dissolvere mediante l’opportuna
analisi grammaticale dei termini in essa coinvolti.
1)
Un privatista epistemologico vorrebbe che un soggetto possa coniare un linguaggio che solo lui
possa comprendere per riferirsi alle proprie sensazioni.
Basterebbe concentrarsi su una particolare sensazione e decidere di chiamare quella cosa lì in un
certo modo, ad esempio “S”. Da questo tipo di definizione ostensiva trarrebbe l’applicazione
paradigmatica in conformità alla quale seguirebbero le successive applicazioni paradigmatiche,
confrontate ad essa tramite il ricordo.
Il problema è all’origine: per definire un termine ostensivamente occorre che il posto grammaticale
di tale termine, la categoria linguistica che fissa il tipo di entità cui quel termine si riferisce, sia già
dato nel linguaggio.
Per coniare un nuovo termine di sensazione occorrerebbe poterlo considerare come “termine per
una sensazione”, ma perché questo sia possibile esso dovrebbe conformarsi alla grammatica del
termine sensazione.
Ma questo non avviene. (v. dopo)
D’altra parte un analogo problema si riproporrebbe per inserire il nuovo termine in una qualsiasi
categoria del linguaggio ordinario (“S” non può essere neppure “qualcosa che lui ha”).
Dunque non è possibile inventare un linguaggio privato per i termini di sensazione. W ha smontato
la tesi n.1.
La confutazione della possibilità di un linguaggio privato delle sensazioni vale per Wittgenstein
come confutazione paradigmatica della possibilità di un linguaggio privato qualsiasi.
La grammatica dei termini di sensazione ci dice che solo mediante il collegamento tra una
sensazione e la sua esibizione nel comportamento dell’individuo che la prova il relativo termine di
sensazione avrà il significato pubblico che ha.
La grammatica ci illustra la categoria ontologica dei termini fissando i criteri di identità che li
accomunano. Così avviene anche per i termini di sensazione.
Perché ci sia - accada - uno stato qualitativo (tra cui le sensazioni) occorre che in passato (nel
periodo di apprendimento del termine per tale sensazione) questo stesso soggetto abbia esibito in
qualche modo l’evento corrispondente che provava allora.
C’è questa differenza, dunque, tra stati intenzionali e stati qualitativi: ogni evento intenzionale
richiede per la sua esistenza di essere effettivamente manifestato ogni volta. Per gli stati qualitativi
basta che vengano manifestati anche una sola volta.
Per quanto ruguarda il secondo punto, la dipendenza dal portatore della sensazione, diventa chiaro
prendendo atto dell’impossibilità grammaticale di avere sensazioni altrui. E’ un’impossibilità
concettuale. Un altro non può avere le mie sensazioni.
Criterio di identità: Significato
Tutte le volte che io reagisco così o cosà ad una
certa sensazione (come mi è capitato in passato)
sto provando… …dolore, gioia, piacere…