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$@Trecento: Rimatori di scuola - Guido Novello da Polenta

%1%|GUIDO NOVELLO DA POLENTA|

%2%|I|
Era l'aire sereno e lo bel tempo
e cantavan gli augei per la rivera,
e in quel giorno apparve primavera
quand'io te vidi prima, bella zoia.
Ben fosti zoia, che tal m'apparisti
e col novo color nel tuo bel viso,
che gi dalla mia mente non si parte.
E quando sono in pi lontana parte,
pi mi sovven del tuo piacente riso,
s dolcemente nel mio cor venisti
per un soave sguardo che facisti
da' tuoi begli occhi che mi mirar fiso,
s che zamai da te non fa diviso,
tanta allegrezza mi da' fuor di noia.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Guido Novello da Polenta
%3%|II|
Novella zoia 'l core
me move d'allegrezza
per la somma dolcezza
che tuttor sento per grazia d'Amore.
Pi d'altro amante mi deggio allegrare
e star sempre zoioso,
ch'Amor per grazia m'ha fatto montare
in stato dignitoso,
e ha dato riposo
al mio grave languire,
facendomi sentire
come om senta il suo gentil valore.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Guido Novello da Polenta
%4%|III|
Madonna, per vertute
d'amor la pena m' zoia, pensando
ca iusto affanno fai dolce salute
e sempre vive quii che more amando.
Quest' la vita e 'l ben per ch'io ve servo
e per che 'l vostro orgoglio amor non parte
del cor, ma pur ennalza 'l suou potere,
che 'l meo servir col bon penser comparte
en vostro onor, per cui desio conservo
e quanto ve contenta m' 'n piacere.
De voi cos volere
m' tanto d'alegreza, imaginando
ca sol bontate fai servir valere,
nel qual deletto ognor vo pur montando.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Guido Novello da Polenta

%5%|IV|
D'Amor non fo za mai veduta cosa
tanto lezadra e bella,
come questa donzella
per cui semel desio nel meo cor posa.
Cos porto 'l desio com' la vista
che l'alto imaginar nel cor depenge,
quand'aver gli ochi p s dolce vista:
onde foco d'amor la mente cenge,
s che tutt'ardo, che 'l piacer l'aquista
che sempre en desiar lei pi me penge,
sperando la vert, che donna strenge
a la merc verace,
de tal guerr'aver pace,
come degno conven che cheder l'osa.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Quirini
%6%|GIOVANNI QUIRINI|

%7%|I|
"Io sum regina in l'amoroso regno
e ho di onor in man la segnoria
e qual vita beata aver desia
drizi gli ochi vr mi come a suo segno.
Qui si vedr la belt che io contegno
ornata de la onesta cortesia,
che d conforto e piacer tuttavia
a chi mi guarda s'el di ci degno.
Venete, donque, a me, voi che credete
ne la fede de Amor, in lui sperando,
e cum sospiri nel suo fuoco ardete:
io sola compir il vostro dimando:
per me del ben servir merito avrete."
Cos una donna a l'altre gi cantando.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Quirini
%8%|II|
Ora che 'l mondo se adorna e se veste
di foglie e fiori e ch'ogni prato ride
e fredo e nebia el ciel da s divide,
e gli animali comincian lor feste
e in amor ciascun par che s'apreste,
e gli augelletti, cantando, lor gride,
che lascian guai e di lamenti stride,
fanno per boschi e selve e per foreste
per che 'l dolce tempo allegro e chiaro
di primavera col suo verde vene,
rinfresco di gioia e rinovo mia spene,
come colui che vita e onor tene
da quel signor che sopra gli altri caro,
lo qual a me suo servo non fie amaro.

$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Quirini


%9%|III|
A. "Tolete via le vostre porte omai
e intrese costei, che l'altre onora."
C. "Chi sta donna?"
A.
ed possente e valorosa assai."
S. "Oim, lasso, oim!"
R.
S. "Io tremo s, ch'io non potrei ancora."
R. "Or ti conforta, ch'io te ser ognora
socorso e scudo."
S.
s'io me sento legar tute mie posse
da la oculta vert che seco mena,
e vegio Amor che m'impromette pena?"
R. "Volgiti a me, ch'io sum di piacer piena,
e sol adietro cogli le percosse,
n non dubiar che tosto fien rimosse."

"In lei pregio dimora


"Dime che hai?"

"Como dar saprai,

$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Quirini


%10%|IV|
Segnor, ch'avete di pregio corona
per l'universo e fama di prodeza,
di onor, di cortesia e di largeza
e di iusticia, che meglio ancor sona,
e di vert vostra gentil persona
ornata fulge e splende in grande alteza,
s ch'ogni nazion vi dotta e preza
udendo ci che di voi si ragiona,
io sono un vostro fedel servitore
bramoso di veder la gloria santa
del Paradiso che 'l poeta canta;
onde vi prego che di cotal pianta
mostrar vi piaza i be' fioretti fore,
che e' dian frutto degno al suo fatore,
lo quale intese, e so ch'intende ancore,
che di voi prima per lo mondo spanta
agli altri fosse questa ovra cotanta.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Quirini
%11%|V|
Salve, Regina di misericordia,
vita, refugio nostro e vera spene,
salve, Regina, vasel d'ogni bene,
fiume di pace e di tutta concordia;
salve, Regina che la gran discordia
di Dio a l'uom, che ruinava in pene,
sapesti terminar, ond'el avene
che ci perdona il peccato a vecordia.
Madre di grazia e di eterna salute,
Vergene santa, preziosa e degna,
la via di salvazion ora m'insegna
e fa' la mente mia del tuo amor pregna,

s ch'io non tema le mortal rerute,


e contra 'l tuo aversar dammi vertute.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Niccol Quirini
%12%|NICCOL QUIRINI|

%13%|I|
L'orgoglio e la superbia ch'en vui regna,
signor veniciani, for mesura,
aprestavi sentenza acerba e dura
da la potenza sopra tute degna,
s ch'ornai conven che vostra ensegna
de santa desia conosca l'altura,
a lei fazendo ferma fede e pura,
se le soi braze voli ve sostegna
Ch'en altra guisa non podi campare,
s grande altrui avete posto 'l carco,
contro rasone, del beato Marco
Donqua guardati, enanzi al vostro varco,
che colpo scenda per voler purgare
la colpa iniqua del vostro pecare.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Niccol Quirini
%14%|II|
No vi meravegliate s'eo sospiro
e vo planzendo a guisa di dolenti,
ch'ig' spirti mei ormai sono s venti,
che solo in morte mia salute miro,
poi Mercede e Pietate, a cui me ziro,
mostra no possa intender mei lamenti,
perch ig' pianeti e 'l pi dig' elementi
seno a contraro de lo meo desiro.
E dami pena per l'altrui falire
che m'ha s rotto zascun osso e polpa,
che duol di guai, ove mi son, incolpa.
Ma se rason, ch'a dretura mi scolpa,
potesse in breve il torto convertire,
poriasse en vita ancor l'alma tenire.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Frescobaldi
%15%|MATTEO FRESCOBALDI|

%16%|I|
Cara Fiorenza mia, se l'alto Iddio,
da cui ogni perfetto ben discende,
non procura e attende
contra la tua veloce e rea fortuna,
i' ti veggio venire a punto ch'io
gi piango per lo duol che 'l cor ne prende,
il,qual tanto m'offende,

ch'alcun diletto meco non s'aduna.


Per te non chi mova cosa alcuna
che abbia in s valor, n alcun bene:
e questo quel per ch'ogni mal l'avene.
Come potrest mai prender salute
contro a' nemici tuoi che t'hanno morta,
quando dentro a la porta
del tuo bel cerchio ogn'om fatt' scherano?
Chi ti difende ch'abbia in s vertute?
O chi in tanta ruina ti conforta,
dov'io ti veggio scorta
per mala guida di consiglio strano?
Certo, s'al proprio ver noi riguardiano,
gente non degna d'abitar tuo nido
son la cagion di questo amaro strido.
$
Mentre tu fusti, Firenze, adornata
di buoni antichi cari cittadini,
i lontani e' vicini
adorarne el Lione e' tuoi figliuoli;
ora se' meretrice publicata
in ogni parte, infin tra' Saracini.
Om, che tu ruini
pe' tuo peccati in troppi etterni duoli!
Deh, ravediti ancor, che puoi stu vuoli,
e fa' che tu sia intera e non divisa,
e muterai di pianto in dolce risa.
Ov' prudenza, fortezza e giustizia
e temperanza e l'altre suore loro,
ch'erano el tuo tesoro
quando volevi dimostrar tuo possa?
Tu l'hai cacciate via con avarizia,
con superbia e lussuria, nel cui coro
tu vivi e fai dimoro,
per che ti rodono le midolle e l'ossa,
e non temi giudicio n percossa
de l'eccelso Signor, che t'ha pi volte
di molte imprese le vittorie tolte.
I' mi vergogno ben di ci ch' i' parlo
considerando ch' i' son di te isceso;
ma 'l soperchio del peso
del grave oltraggio che sostien' m'induce.
$Se' tu s cieca che non vedi 'l tarlo
cascar de l'ossa tue sanza conteso?
Non vedi istare inteso
ciascun vicin per cavarti la luce?
Deh, muoviti a pensar chi ti conduce
e a che punto se' per lor difetto
e scorgerai s' ver ci ch'i' ho detto.
Canzona, i' so che letta tu sarai
da molti, che la tua sentenza chiara
parr lor molto amara
perch de' vizi lor dicendo vai.
Ma se tu truovi alcun che sia gentile,
parla con lui, ch'e' non t'avr a vile.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Frescobaldi
%17%|II|
Molto m'allegro di Firenze or io

e veggio che tuo possa sempre istende


e che 'l tuo nome rende
tuttor crescendo e 'n virt s'aduna,
e spero tosto veder quel disio
di ch'io contento son che 'n te discende,
s che tuo arco intende
ove ti piaccia addirizzar la cruna.
Per te 'i veggio prospera fortuna
e cittadini illustri d'ogni bene
addirizzarti dove si conviene
Tu non regnasti mai in tal salute,
ma in pi casi se' stata per morta:
or te ne se' accorta
e hai da te spento ogni consiglio vano.
Or si mostra palese tuo vertute:
chiaramente ognun ne vede scorta
e per ti conforta,
che le radici tue prendon del piano.
La Chiesa un poco fatta t'era strano
e que' che ne la colpa venne a grido,
donde a scamparlo gli desti il tuo nido.
$
Quando tu eri, Firenze, guidata
da falsi e nuovi e strani cittadini,
che solo i lor vicini
pensavan pur di distrugger con duoli,
non saria tu umil cos trovata.
Or vedi tu che gli buon cittadini
co' capi tutti chini
feciono a guisa degli buon figliuoli.
Se fossi istata al punto, come suoli,
di cotal gente che facien divisa,
avrienti in pianto messa e non in risa.
Spenta vegg'io in te tanta avarizia
e rovinati e falsi di coloro
che sempre pur per loro
pensavan roder le midolle e l'ossa.
Or venuto el punto di giustizia,
s che la fama, ch' il nobil tesoro
di te, Fiorenza, onoro:
en tutte parte si dice tuo possa.
Ben piacque a Dio di darti una percossa
s come a' suoi nemici fa tal volte
per contentargli d'altre cose molte.
Tanta innoranza ho io di quel ch'i' parlo,
perch'io mi sento esser di te disceso,
che non nullo peso
che possa tormentar punto mie luce.
Ma recoti a figura al buon re Carlo
che perdon a ogni mortale offesa.
$
E cos ogn'impresa
conduce Iddio a chi soffrir s'adduce.
Beato chi suo patria ben conduce!
Perseverate dunque el buon effetto,
che per innanzi fiorisca mie detto.
Tu, mia canzone, con gioia n'andrai,
ridendo co letizia molto chiara;
e que' che non t'ha cara,
s'a lui t'incontri, s 'l contasterai
e s riprendi perch tanto a vile
e' mette nostra terra s gentile.

$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Frescobaldi


%18%|III|
Deh, cantate con canto di dolcezza,
ch'egli tornato el for d'ogni allegrezza.
La donna, ch' d'ogni bilt fontana,
tornata per dar pace e salute
a chi la guarda non con mente vana,
ma con amor fiorito di vertute,
per che 'l suo valore e sua altezza
risprende solo ovunque gentilezza.
Dunque si pu e' dir che sia beato
ne la corte d'Amor pi ch'altro amante
chi di tanta bilt infiammato
o chi ne la sua f servo costante,
che per servir si rompe ogni durezza
e sormontasi in pregio e in grandezza.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Frescobaldi
%19%|IV|
Chi vuol veder visibilmente Amore,
guardi colei che m'ha rubato el core.
Ne gli occhi suoi dimora e fa soggiorno
e tiene un arco in man, cocche e saette;
non ferisce ogni uom che gli d'intorno,
ma sol colui che vede e'ha valore
e costanza di starle servidore.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Sennuccio del Bene
%20%|SENNUCCIO DEL BENE|

%21%|I|
L'alta bellezza tua tanto nova,
chi subito ti vede isprende tutto;
ciascun altro piacer si fa distrutto
ch'a lato al tuo di s vogli far pruova.
Tu se' colei ch'a ogni cosa giova;
in te ogni vert fa suo ridutto,
radice, ramo, fronda, fiore, frutto
d'ogni dolcezza ch'al mondo si truova.
In compagnia di tua somma biltade
gentilezza, puritade e fede,
vi adornezza e perfetta onestade.
Tu se' tal maraviglia a chi ti vede,
alto valor sovr'ogni umanitade,
che discesa dal ciel ciascun ti crede.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Sennuccio del Bene
%22%|II|
O salute d'ogni occhio che ti mira,

conforto d'ogni mente isbigottita,


o chiara luce di nuovo apparita
lo cu' sprendor ciascun veder disira,
o pace d'animi, o vittrice d'ira
o angiola discesa in questa vita
di tal bellezza e di vert vestita,
ch'ogni uom per maraviglia a te si tira,
che, a veder, l'angelico piacere,
che spande la tua gaia giovinezza
ogni altro che si vede fa sparere,
in te perfetta fa la gentilezza;
in te riluce valore e savere,
in te asembiata ogni bellezza.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Sennuccio del Bene
%23%|III|
Era ne l'ora che la dolce stella
mostra 'l segno del giorno a' viandanti,
quando m'apparve con umi sembianti
in visione una gentil donzella.
Parea dicesse in sua dolce favella:
"Alza la testa a chi ti vien davanti
moss' a piet de' tuoi pietosi pianti,
piena d'amor e, come vedi, bella,
a rimettermi tutta in la tua mano.
Tienmi per donna e lascia la tu' antica,
prima che morte t'uccida, lontano."
Io vergognando non so che mi dica;
ma per donzella e per paese strano
non cangio amor, n per mortal fatica.
Ond'ella vergognando volse i passi
e piangendo lasci gli occhi miei bassi.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Sennuccio del Bene
%24%|IV|
Da poi ch'i' ho perduta ogni speranza
di ritornare a voi, madonna mia,
cosa non n fa
per conforto gi mai del mio dolore.
Non spero pi veder vostra sembianza,
poi che Fortuna m'ha tolta la via
per la qualconvenia
ch'i' ritornassi al vostro alto valore;
ond' rimase s dolente il core,
ch'i' mi consuino in sospiri e in pianto
e ducimi perch tanto
duro, che vita Morte non ha spenta.
Deh, com far, che pur mi cresce amore
e mancami speranza in ogni canto?
Non veggio in che amante
mi chiuda, ch'ogni cosa mi tormenta,
se non ch'i' chiamo Morte che m'uccida
e ogni senso ad alta voce il grida.
Quella speranza, che mi fe' lontano
dal vostro bel piacer ch'ognor pi piace,
mi s' fatta fallace

per crudel Morte, d'ogni ben nimica:


ch'Amor, che tutto dato in vostra mano
m'avea ed ha per consolarmi in pace,
di consiglio verace
ferm la mente misera, mendica,
in farmi usar dilettosa fatica:
$per acquistare onor mi fe' partire
da voi pien di desire
per ritornare in pregio e 'n pi grandezza.
Segui' signor, che, s'egli uom che dica
che fosse mai nel mondo miglior sire,
lui stesso par fallire,
che non fu mai con s savia prodezza,
largo, prudente, temperato e forte,
giusto pi ch'uom che mai venisse a morte.
Questo signor creato di giustizia,
eletto per virt tra ogni gente,
us pi altamente
d'animo valoria ch'altri mai fosse.
Nol vinse mai superbia o avarizia,
anzi l'aversit 'l fece potente,
che magnanimamente
ben contastette a chiunque il percosse.
Dunque ragione e buon voler mi mosse
a seguitar signor cotanto caro
Ma se color fallare
che fecion contra lui a lor podere,
i' non dovea seguir le false posse:
vennine a lui fuggendo suo contraro;
e perch il dolce amaro
Morte abbia fatto, non da pentre,
che 'l ben si de' pur far perch'egli bene,
n pu fallir chi fa ci che convene.
$
gente che si tiene onore e pregio
il ben che loro avien per aventura,
onde con poca cura
mi par che questi menin la lor vita:
che non adorna petto l'altrui fregio,
ma quant'uomo ha da s per sua fattura,
usando dirittura:
questo s' suo e l'opera gradita.
Dunque qual gloria a nullo stabilita
per morte di signor cotanto accetto,
nol vede alto intelletto,
n savia mente, n chi 'l ver ragiona.
O alma santa in alto ciel salita,
pianger dovrieti nemico e suggetto,
se questo mondo retto
fusse da gente virtuosa e buona,
pianger la colpa sua chi t'ha fallito,
pianger la vita ogni uom che t'ha seguito.
Piango mia vita poi ched egli morto
lo mio signor, cui pi che me amava
e per cui io sperava
di ritornar dov'io sarei contento;
e or sanza speranza di conforto
pi ch'altra cosa la vita mi grava.
O crudel Morte e prava,
come m'hai tolto dolce intendimento
di rivedere il pi bel piacimento

che mai formasse naturai potenza


in donna di valenza,
la cui bellezza piena di virtute!
$Questo m'ha' tolto, ond'io tal pena sento,
che mai non fu si greve cordoglienza,
che mia lontana essenza
gi mai, vivendo, non spera salute,
che pur morto e io non son tornato:
onde languendo vivo disperato.
Canzon, tu ne girai ritta in Toscana
a quel piacer che mai non fu pi fino
e, fornito il cammino,
pietosa conta il mio tormento fro.
E prima che tu passi, in Lunigiana
ritroverai 'l marchese Franceschino
e con dolce latino
gli di' ch'ancora in lui alquanto spero;
e, come lontananza mi confonde,
priegal ch'i' sappi ci che ti risponde.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Sennuccio del Bene
%25%|V|
S giovin bella, sottil furatrice
come tu non fu mai,
pensando come e che furato m'hai.
Del mezzo del mio cor segreto e chiuso
ogni potenza hai tolta
con un sol d'occhi aprendo ogni serraglia;
poi v'hai lasciato tanto amor rinchiuso,
che sempre a te mi volta.
Ora ti fuggi e non par che ten caglia:
cos di pianto una crudel battaglia
dentro schierata v'hai
che durer quantunque tu vorrai.
I' ti pur seguo quanto pi mi fuggi
n truovo ov'io mi volga
a tr soccorso col qual i' ti giunga,
se non al pianto con che tu mi struggi,
che tanto se ne accolga,
che faccia una piet che 'l cor ti punga.
Se questo fa per via corta o lunga,
tu sola se' che 'l sai,
che di me fa ci che tu disporrai.
Mia vita e morte sta nel tuo disporre
e io parato aspetto
a ci che tu farai tenerlo caro;
ma ben conosco che non mi puoi trre
l'amor puro e perfetto
che 'l sol de gli occhi in mezzo al cor lasciare.
$Sia, dopo questo, dolce o vogli amaro,
che, ci che disporrai,
pur lo dolce disio non mi terrai.
Col quale spero divenir felice:
che tu pur t'avedrai,
quando che sia, del torto che mi fai.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Correggiaio
%26%|MATTEO CORREGGIAIO|

%27%|I|
Gentil madonna, mia speranza cara,
poi che dipinta per la man d'Amore
se' in mezzo del mio core,
convien ch'io t'ami pi de la mia vita.
Tu se' dolcezza ad ogni cosa amara,
conforto e lieta pace al mio dolore:
di vert e di valore
sopra tutt'altre adornata e vestita.
O bel granato, o chiara margherita,
splendida gemma, oriental zaffiro,
topazio puro e lucido smeraldo,
beato quel ch' caldo
de l'amor tuo e beato 'l sospiro
che per te l'alma disiando move,
e l'occhio che per te lagrime piove.
Prima che niun pel mi fosse al volto
cominciai a far tua l'anima mia,
per che mi sentia
tutto arrossirmi quando ti mirava;
e poi cantava e sospirava molto,
ed era amore e non me ne accorgia.
$E la tua leggiadria
in ciascun d pi bella si mostrava:
la tua persona in quella forma stava
qual rosa tenerella, che al sole
ancor le fronde sue non manifesta,
con un fronzale in testa,
dicendo poche e savie parole;
e le mammelle tue, se ben aviso,
parian duo pomi nati in paradiso.
Poscia col tempo amor cresciuto tanto,
ch'i' ho pi volte meco ragionato
come io sono scampato
da l'aspre brighe e da le mortal pene
che spesse volte Amor m'adduce in pianto;
e poi mi lancia un pensier disiato,
el qual mi tien zelato
tanto che il sangue aghiaccia ne le vene.
E s'el mi dice alcun: "Che ti sostiene?"
io dico i tuoi costumi e la bellezza
e 'l lume etterno che da gli occhi scende:
e questo mi difende
da pianto, da sospiri e da tristezza,
e veste el cor d'una letizia nova
tal che la vita in me tutta rinnova.
Move de la tua bocca, quando ridi,
una fiorita e gaggia primavera
e con dolce maniera,
che fa ne l'andar tuo ciascun contenti.
$E le labra sottil quando dividi
nel soave parlar, mostran la schiera
ben composta e sincera

d'iguali, bianchi e pargoletti denti.


Tra lor spirando odoriferi venti,
e parole e cantar con voce fanno
simile a quella che nel ciel si pensa.
La lor virt dispensa
ogni atto onesto e gentilesco affanno:
onde, estimando in te ciascuna cosa,
se' pi che bella e pi che vertudiosa.
Mentre che gli occhi miei veggon li tuoi,
pungonmi 'l cor con dolce cicatrice:
e per quel mi dice
ch'io ti venga a veder dove tu stai.
Debitamente gloriar ti puoi
che se' di tutte belle imperadrice
e io son ben felice
quando de l'amor tuo degno mi fai.
E quando a spasso e a le chiese vai,
ogni uom che ti mira suo cor ti dona,
e tu riman ne gli occhi a ciascheduno,
lodando per comune
tutte le cose de la tua persona,
benedicendo la tua nobil fama,
il tuo merito, chi ti fe', chi t'ama.
$
Tanto vien dolce ne li miei pensieri
talor, ch'io sento amor in ogni vena
e nel cor mi balena
spirito grazioso e somma pace;
e contemplando questi gran mestieri
Amor l'alma mi toglie e poi la mena
libera d'ogni pena
a te veder, che pi ch'altri gli piace.
E l'immagine tua tutta verace
veder mi par dinanzi a gli occhi miei
s propiamente, che teco ragiono:
e nel mio cor propone
inginocchiarmi inanzi a li tuoi piei
e chieder per salute a la mia guerra
basciar sotto di lor la soda terra.
Perch tu abbi molti e grandi amanti
non son per fatto di te geloso
(ma allor son ben gioioso
via oltra pi che se nessun t'amassi),
per che questa prova che sembianti
d'ogni belt in te faccian riposo
e dal volto pietoso
altra cosa che onesta uscir non lassi.
Ma se alcuno di lor pi disiassi
o e' sentisse sospir, martiri e doglie
per te pi ch'io, allor pi tristo fora
che se di morte l'ora
fosse gi dentro a mie vivaci spoglie:
per che qual pi forte per te ardi
ghiaccio a rispetto a' miei boglienti dardi.
$
Amore al sogno, quando forte dormo,
la tua bella figura mi presenta
per far l'alma contenta
di cose oneste che poi aver io bramo.
Allora sono gaio, allor riformo,
qualunque onesta cosa mi talenta;
allora mi rammenta

narrarti el modo, el come, el quanto io t'amo;


allora mi rispondi, allor ti chiamo,
e parli e ridi e tua belt mi mostri
ed empi gli occhi miei del tuo chiar lume
e ogni tuo costume
ne l'alma mia gloriosamente inchiostri:
ond'io per sofferir cotal percosse
torria che 'l mio dormire etterno fosse.
Canzon, tu sai che niun altro messaggio
voglio che i miei occhi e il tuo cantare:
per ti vo' pregare
che questa bella dea tu mi saluti,
e di' che 'l core, 'l corpo e ci ch'io aggio
e ci ch'io posso dire e operare
o so immaginare
fatto ho servo a le sua gran vertuti.
Per la prega che non mi rifiuti
n preponga altro amante al mio disio
e che per prezzo de la mia fatiga,
che Amor nel cor mi riga,
non domando altro che lo sperar mio,
el qual mi tien d'ogni letizia verde,
ch'a buon signor servir mai non si perde.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Correggiaio
%28%|II|
Mille merz, o donna, o mio sostegno,
che m'hai de la tua grazia fatto degno.
Vago, leggiadro, gioioso e contento
d'allegra voglia canto,
perch tu d'amoroso e bon talento
m'hai tratto fuor di pianto,
poi m'ha' coperto del tuo nobil manto
con viso d'umilt senza disdegno.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Matteo Correggiaio
%29%|III|
A 'namorarmi in te ben fu' matt'io,
che tu non donna se', ma 'l dolor mio.
Tu mi mostrasti prima il volto chiaro,
facendomi sentir di pace segno
e di cor dolce, amoroso e benegno.
Me sol tenevi per tuo servo caro:
or hai rivolto il bene in pianto amaro,
veggendo ch'io t'adoro come Dio.
Ahi lasso a me!, ben fallo e dico male,
che 'n te non fu matt'io a 'namorarmi,
ma pien di grazia ben posso chiamarmi,
che 'n pregio venni sotto a le tue ale.
Perch virt in donna assa' pi vale,
voglio gradire il tuo vero disio.
Tu sai ch'a fede pura i' t'ho servita
e servo e servir per me' morire.
Or come ti pu il core sofferire
che la piet per me sie tramortita?
Se mi consumi o fai perder la vita,
onor non ti sar, ma biasmo rio.

$@Trecento: Rimatori di scuola - Pietro Alighieri


%30%|PIETRO ALIGHIERI|

%31%
Non si pu dir che tu non possi tutto,
non si pu dir che tu non veggi a tondo,
Dio, ci che si fa al mondo,
e che giusto non sia ci che tu fai;
pur si pu dir che ogni vizio ha frutto
or qui e ch'ogni virtute casca al fondo,
e dir si pu, secondo
che si suoi dir: "Sia reo, che viverai."
Questo, pi volte omai
silogizando (quanto pi disputo
ne la mia mente pi divento muto!),
fatt', con l'altre vere, la maggiore.
I' m'avea posto in core
pur di non dire, e pur non ho possuto,
tanto disio che ci mi sia soluto:
per drizzo la lingua a te, che puoi
solo, e non altri, risponder, se vuoi.
Dio, sol per colpa il sommo sacerdote
rovinar testi, Eli, in terra morto:
deh, non li festi torto,
poi in tal sedia in duol molt'anni stato.
Oza facesti presso da le rote
morto cader, drizando il carro torto
de l'arca santa al porto,
che nullo usurpi ufficio altrui collato.
$Poi come ha usurpato
oggi ben vedi il braccio spirituale
l'ufficio altrui e il gladio temporale,
e come il mondo tutto n' confuso.
Perch non dunque giuso
cade giudicio alcun celestiale
sopra chi questo fa, se questo male,
come facesti a' due detti di sopra,
che puoi e sai e sempre fai giust'opra?
Festi Gez lebbroso, e Simone
mago San Pier dann, e 'l foco santo,
ch'arse sott'acqua tanto
nel tempo bambillonico, ammorzasti
per breve simonia. Per qual ragione
sofferi dunque ancoi veggendo quanto
ciascun da ogni canto
fa quel per che nel tempio ti crucciasti?
Non so se questo basti
dir di color che vivono a tue spese,
veggendo tu l'occulto e tu il palese,
po' vuoi che sian quaggi per nostro essempio.
Tu volesti nel tempio
che si ponesser genti in virt accese
di castit, non d'avarizia offese,
e or pur vedi 'n la tua chiesa genti
tratte a lussuria e a ricchir parenti.
Al popol non s tuo, cio l'Ebreo,
principio desti che legge gli dava,
e, se prevaricava,
con morte, sete, fame gli punivi:

$No e Mois e 'l Macabeo,


losu; lette poi retro gli andava;
ogni altro rege stava
a la lor norma: e quel per li altri udivi.
A noi mo cristian vivi
dai rege sanza possa e leggi vane,
dico lo 'mperador, c'ha fuor le mane
de la sua spada e de la sua bilancia,
e tenut' pi a ciancia
che non fu mai il ciocco da le rane
da tutte le genti vicine e lontane:
per quasi a tiranno ogni terra,
s che, se batte, ognuna l'uscio serra.
Cain, Lamech e gli altri per te stesso
punisti in prima e poi per tuo ministri,
de' quai ne' tuoi registri
si trova che No fu lo primero.
Dunque, poi che non ci hai giudice adesso,
perch or s per te non ci ministri
contro a' tanti sinistri,
di far, da beffe, un poco da dovero?
Tu fosti pi severo
quando il diluvio testi e quando sette
anni il Faraon la fame stette,
e che stentasti il popol nel deserto
e che Gomorra certo
con l'altre quattro terre maladette
ardesti, e in pi altre tue vendette,
che non saresti in far ci ch'io creggio,
che ci hai ricomperati e faccian peggio.
$
Guarda quasi ogni terra gir venduta
pi cara ogni anno a' nuovi publicani,
i quai poi come cani
rodon la gente ognor con peggior morso;
guarda l'usura palese tenuta
esser onor; grandezza tra' cristiani
navicar a' Soldani;
Saracin contra legge dar soccorso;
guarda lo capo e 'l torso
qui de le donne fuor d'ogni misura;
di vedove e pupilli non ha cura
e meno il cavalier di giusta spada;
giudice alcun non bada
di far dir no e s sue Chiose e Giura:
per questo e quel non avr dirittura.
I mercatanti e poi gli altri meccanici
a le bugie sai ben se son buon pratici.
Satira mia canzon, vattene al cielo,
poi che non trovi qui chi ti risponda,
e, se puoi aver onda
ch'a Dio t'arrivi, con benigno zelo
pregai che ti chiarisca con risposta
la perplession proposta
e che faccia parere omai qui cosa
ch'altra gente non osa
dirne da beffa, come avien sovente:
"Or dov' 'l vostro Dio, cristiana gente?"
$@Trecento: Rimatori di scuola - Brizio Visconti
%32%|BRIZIO VISCONTI|

%33%|I|
Senza la guerra di Fortuna ria,
la qual vincer si puote per valore,
non pu mai gentil core
esser felice in stato alcun che sia.
Non ha diletto Iddio pi grazioso
se volger degna li occhi suoi in terra,
com' di riguardar un vertuoso
a cui l'aspra Fortuna faccia guerra;
e quanto pi di male ella diserra
verso l'animo ch' di valor pieno,
cotanto 'l cura meno,
perch di chi la fa la villania.
Per ingannar soffrir vari tormenti,
soffrir infamia, povertade e morte,
non creda alcun che gentil cor paventi,
perch di quel che fuor di lui pi forte:
el vince tutto quel che manda Sorte
e 'l muta in ben n si lascia mutare,
come fa il vivo mare
i fiumi che riceve in compagnia.
$
Or quel che dotta esser in esilio,
deh guardi ci ch'el nocque a Scipione
e pensi quant'el spiacque a quel Rutilio
che disdegn tornare a sua magione.
Sollazzo questo de le menti bone,
che 'l savio per profitto ogni or porta
per dritta via e per torta,
e patria con amici dov'el sia.
D'assai soffrir tormenti e non turbarse
Regulo valoroso avr in essemplo;
e Muzio, che la mano stesso s'arse,
con santi e sante assai a ci contemplo.
La voglia mia per tal voglia adempio,
che donne han vinto il disio de la carne:
onde, s'el p turbarne,
le femmine avanzian in codardia.
La povert, che par mortal supplizio,
necessit contemplo ai cuori elati:
guardi ciascun che nocque al buon Fabrizio,
a Zenone, a Diogene, ai santi abati:
nulla bramando costor fur beati,
per che poco sazia la natura
ne la cupida cura,
ond' beato pi chi men disia.
Se 'l bon per molti ispesso si disfama,
perch'egli bono, questo falsamente.
El bon d'esser biasmato dal vii ama
perch gli loda il biasmo di tal gente;
$e se turbazion di questo el sente,
pensi che vizio in lui ancor tien loco,
ch'el non s'accende il foco
se non in cosa dove ha signoria.
S'el pensa l'omo ch'una morte sola
veloce, inoppinata aver convene,

e pensa poi per quante vie li nota


coi morbi sol che natura contene,
cagion bramer ogni or di morir bene,
sperando che morte ch' con vertute
mena a somma salute,
come sper David contra Golia.
Ahi quanto al cor gentil gravosa lite
spender un'ora mal di tutto l'anno!
Ahi quanto Sardanapal e Tersite
gola e lussuria am sedendo in scanno!
Sol non bene operar fo <loro> danno.
E quanto in ci Fortuna li pi fiera,
tanto pi gloria spera,
ch dopo nube chiar convien che sia.
Dunque ciascun faccia l'animo grande,
al quale grande nulla cosa magna,
e pensi ci che Fortuna li mande
esser ufficio del qual si guadagna;
e se d'aversit el si d lagna,
pensi che 'l difetto vien da se stesso,
perch da Dio concesso
che poco senno vince assai follia.
$
Ballata, io son come 'l porco ferito
sor cui amici son spasimati a doglia,
che del suo caso si fa per guarito
e sol procura che a questi el <si> toglia:
onde vattene omai di buona voglia
a chi tu senti del mio stato infermo,
e di' ch'io sto pur fermo,
ma chi assai priega tosto romperla.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Brizio Visconti
%34%|II|
Mal d'Amor parla chi d'amor non sente:
per, donne, s'i' tacqui
di ragionar di lui per alcun giorno,
fu che uscito m'era de la mente,
onde in pigrizia giacqui
in fine a mo, ch'umile a lui ritorno.
Ogni piacere, ogni pensiero adorno
da me part co lui
e in quel tempo fui
ne l'ignoranza mia sanza conforto,
a virt quasi morto.
Di razionale in bestia fui converso
qual d'Atteon mostra d'Ovidio il verso.
Quant'allegrezza, quanta bella vista
mostr quel padre pio
nel ricovrar del suo perduto figlio!
Non di geometria s buono artista
alcuno, al parer mio,
che qui levar non faticasse il ciglio.
Chiamommi poi a s come a consiglio
e mostrommi una donna
sedere a una colonna.
Dissemi: "Questa per ispecchio avrai."
E quando la mirai
un subito sprendor da lei si mosse

e come Paol questo mi percosse.


$
Drizzommi poi con propia mano Amore
e lavommi ambo gli occhi
dicendo: "Vista ria grava il gran lume."
E io, sentendo il dolce mio signore,
piegai tosto i ginocchi,
Lasciando una di sue dorate piume.
Poi volsi gli occhi verso il bel volume
d'ogni virt e bellezza
e ben che con pienezza
ritrar non possa sua sovrana forma,
i' pur seguir l'orma,
distinguendo a mia possa sua persona
qual Apoledio di Psiche ragiona.
Avea capelli assai crespi e volanti
con un color d'or fino
intorno al collo, e suo pulito viso
color di perla e d'onest sembianti
e ancor d'un rubino
l parea tra quel bianco color miso.
La vesta sua, se mal non la diviso,
fu d'ariento vero,
ben che paresse nero
appresso il lume di sua cera fresca:
fatta fu a la francesca.
La sua loquela fu prudente e pronta
qual d'Ansalon la Bibbia ne racconta.
Fronte spaziosa e piana sanza pelo,
sottili e nere ciglia
partite avea qual un terzo di cerchio;
$e suo begli occhi com' suso in cielo
dio Venus s'assomiglia,
che l'un non face a l'altro alcun soverchio,
ma di que' luminar! il bel coverchio
che cuopre e manifesta,
di neri peli ha cresta,
onde candeggia pi de gli occhi il bianco.
L non pare alcun manco,
per che un filetto a la pupilla vive
quali di Pulissena Dares scrive.
Parte da gli occhi e da le ciglia parte
il dritto in tutto naso
che pare il terzo lungo di quel volto,
e le sue gote fatte per tant'arte,
che vi parea rimaso
il color d'un granato pur mo colto.
S'ella ridea, che non ride molto,
facea due fosselle
ne le sue gote belle;
e dal suo capo tondo uscian due orecchi
puliti e ben parecchi;
la sua bocca dritta e piccolina
qual dimostra Virgilio di Lavinia.
Tenendo gli occhi e le mie virt fise
in quel fior di natura,
Amor le mise a gli orecchi la bocca
e non so quel che disse, ch'ella rise;
e io, ponendo cura,
vidi suo denti che ciascun si tocca.
$Non persona alcuna, fuor che sciocca,

che 'n suo proponimento


non gli avisassi argento,
piccoli e ordinati in bella schiera.
Ciascun de' suoi labbri era
fregiato di vermiglio a tal ragione
qual di Roma
pone.
Il mento bel, ch' fine de la faccia,
pende sotto dal labbro
con valle alcuno, misurato e pieno:
non credo che pintore alcun si saccia,
e di martel tal fabbro,
ch'alcuna cosa li vedesse meno.
Ancora credo che null'uom terreno
vedesse mai tal gola,
ch corda o vena sola
l non appare overo altro difetto.
Ben commesso colletto
per l'alto collo morbido si spande
qual Salamon ne la Cantica pande.
Scendon dal collo suo due braccia dritte
assai, grosse e sottili,
tra lunghe e corte con proporzione.
Le man, ch'a la lor fine furon fitte,
sono al viso simili
di bel color s come vuol ragione.
Le dita lunghe, di bella fazione,
tenere l'unghie avea:
ciascuna rilucea.
$L non appare alcun soverchio nodo;
ogni parte avea modo,
s che la mano fu sanza magagna,
qual si legge d'Isotta di Brettagna.
Petto avea tal, che parea fondamento
del collo e de la testa,
tra largo e stretto, misurato e compresso.
Enfiate eran due parti, s'i' non mento;
ond'io: "Che cosa questa?"
per dissi. Il signor, ch'era l presso,
rispose allor: "Dirottel io stesso,
s che saprai il come
costei colse due pome
del mio giardino e in sen le si mise;
alquanto le divise;
odorifere son, poco durette,
qual Aristotil del suo pome mette.
Coperte da le veste l'altre cose,
i' rimasi perpresso,
s che mi vide il signor che mi regge,
onde mi disse: < E' ci son pi cose
ne l'attrattivo sesso
che tu non vedi e per pochi si legge,
ond'oggimai la tua vista corregge
e solo a me attende,
che per pochi s'imprende
com' proporzionato ogni suo membro:
ond'io s ti rimembro
ch'ell' partita in palese e 'n segreto
qual fu la statua di quel Pulicreto.
$
Di Vergine, in suo nascer, prima faccia
stette con orizonte

insieme e con Mercurio in quel grado.


Il sol la prima di Gemini abbraccia,
la luna tien quel monte,
in Cancro Giove e Tauro passa il guado,
Saturno il terzo di Scorpio fu rado,
in duodecimo Marte.
Qui finiscon le parte
di questa detta donna al parer mio. >"
Ond' allor rispos' io:
"Signore, il diffinir tuo pi mi piace,
che non conta Agostin che piaccia pace."
Canzon, ben so che tu passi lo stile
de le tue pi sorelle:
per, se se' ripresa, fa' la scusa
che costei s bella e s gentile
pi d'altre oneste e belle:
per convien che tu sia pi diffusa,
ond'a me par ch'a modo sia conchiusa,
che per pochi si tene
che 'n troppo pecchi il bene.
Ma se alcuno a dir vene
s'a questa donna la corona increbbe,
di': "Quale Amore scrisse cotal l'ebbe."
$@Trecento: Rimatori di scuola - Bindo di Cione del Frate
%35%|BINDO DI CIONE DEL FRATE|

%36%
Quella virt, che 'l terzo cielo infonde
ne' cuor che nascon sotto la sua stella,
servo mi fe' di quella
che ne' belli occhi porta la mia pace,
la qual nulla distanza a me nasconde,
s ne la mente Amor me la suggella;
e la dolce favella
udir mi par ognor ch'ella pi tace.
Ogni pensier, fuor che di lei, si sface
prima che ne la mente giunto sia
de la mia fantasia,
che sanza lei non pu punto durare.
Ma perch'i' veggo Italia guastare,
i' priego Amor che per sua cortesia
tanta triegua mi dia,
ch'i' possa in sua difesa recitare
quello ch'io in vision udii narrare
a una donna con canuta chioma,
la qual mi disse ch'era l'alma Roma.
Sol con Amore un giorno a picciol passo,
de la mia donna ragionando, mossi
e, uscito de' fossi,
tenni per un sentier d'un bel boschetto,
per lo qual molte volte vommi a spasso
purgando gli umor freddi, secchi e grossi,
e montai gli alti dossi
de' verdi colli per pi mio diletto.
$
Quivi mi puosi sanza alcun sospetto
tutto disteso in un prato di fiori
e poi a quelli odori
sopra le braccia riposai la testa.

Cos dormendo vidi in bruna vesta


una donna venir tra pi signori,
e quanti e quali onori
si posson far, tutti facieno a questa.
Ell'era antica, solenne e onesta,
ma povera pareva e bisognosa,
discreta nel parlare e valorosa.
Ne' suoi sospir diceva lagrimando
con voce assai modesta e ordinata:
"Ahi, lassa sventurata,
come caduta son di grande altezza,
ne la qual m'avien posta triunfando
i miei figliuoi, magnanima brigata,
che m'hanno or vicitata
col padre mio in tanta mia bassezza!
Lassa!, ch'ogni virt, ogni prodezza
mi venne men quando morir costoro,
i quali col senno loro
domare il mondo e riformarlo in pace
sotto lo sterpo mio, ch'ora si face
di grieve piombo e di fuori par d'oro.
Or di saper chi foro
arde la voglia tua s che nol tace:
ond'io far come chi sodisface
l'altrui voler ne la giusta domanda,
perch di lor tal fama ancor si spanda.
$
Quel biondo grande, che sta sol da parte
per reverenza fra questi maggiori,
ha in cielo quelli onori
che l'opere sue belle gli acquistare:
egli il mio genitor, fgliuoi di Marte.
E gli altri pi reverenti signori
son cento senatori,
che dopo lui s ben mi nutricare
un anno e mezzo; e poi mi governare
dugento quarant'anni e tre puntati
que' sette coronati
finch Tarquin fu da Bruto cacciato.
Poi resse e governommi il consolato
quattrocento sessanta sette ornati
anni ben numerati,
essendo Bruto pria consol chiamato
e Publicola ancor che gli da lato.
Ma perch' forte a dir di tutti quanti,
di loro e d'altri mostrerotti alquanti.
Quel che tu guardi con tanto diletto
per la viril sembianza ch'e' ritiene,
quel da cui conviene
prendere essemplo ognun che cerca onore:
egli il mio Cesar, onde ogni altro detto
Cesar che mie corona in testa tiene,
Cesar di buona spene,
Cesar del mondo franco domatore.
Quel che gli dietro fu suo successore,
l'aventurato Augusto, e poi da lato
gli vidi l'onorato
$Pompeo il Magno e l'ardito Africano
e 'l savio Scipione Emiliano.
Ve' Scevola, Camillo e Cincinnato,
vedi Bruto e Torquato

rigidi padri con le scure in mano;


l'altro Orazio Cocles, che nel piano
combatt co' nimici a fronte a fronte
facendo dietro a s tagliare il ponte.
Or volgi gli occhi al mio giusto Catone:
ve' la sua contenenza e 'l forte petto
che sempre fu ricetto
d'ogni virt e onorato ostello.
Egli ha da lato il savio Cicerone;
Fabio Massimo quel e'ha di rimpetto,
che tien per mano stretto
il dignitoso e nobile Marcelle
Mira duo scogli, Fabrizio e Metello;
mira le man callose per l'arare
d'Atilio consolare
ch'abatt triunfando tante schiere.
L'altro Siccio Dentato, il battagliere
che fu veduto ne lo stormo entrare
e con onor tornare
centoventi fiate a mie bandiere
O figliuol mio, omai drizza il pensiero
a far mie voglia e pensa, se t' briga,
che mal s'acquista onor sanza fatiga.
$
Onor ti sar grande, e a me stato,
se per tuo operar son consolata,
essendo abandonata
da tutti quei che mi dovrieno atare.
Raccomandar mi volsi al mio senato
che m'ha con le sue man dilacerata:
e io trovai serrata
la porta e la ragion di fuori stare
e 'n su la soglia vidi, per guardare,
Superbia, Invidia e Avarizia ria
e vietarmi la via,
s che mie passi indarno fr lor corso.
Or come ar dal mio Carlo soccorso,
che m'ha lasciata avendomi in balia,
e non per mie follia?
O buon principio, dove se' trascorso!
N spero da' Pugliesi aver soccorso,
che fan contento ogn'uom a cui diletta
giusto giudicio e divina vendetta.
Per surgi gridando, fgliuol mio,
desta gl'Italiani adormentati,
d'amore inebriati
de le triste guardiane ch'or nomai.
Di' lor come a figliuoli il mio disio,
che sempre fur compagni de miei nati;
non sien pigri n ingrati
a pormi nel gran seggio ond'io cascai.
$Un sol modo ci veggo e quel dirai:
che preghin quel Buemmo, che 'l pu fare,
ch'a lor deggia donare
un vertudioso re che ragion tegna
e la ragion de lo 'mperio mantegna,
s ch'e' con men pensier passi oltramare
facendo ognun tremare
ch'arme prendesse contro la sua 'nsegna,
perch'a tanto signor par che s'avegna
la destra fiera e la faccia focosa

contra i nemici e a gli altri graziosa.


O figliuol mio, da quanta crudel guerra
tutti insieme vegnamo a dolce pace,
se Italia soggiace
a un sol re che 'l mio voler consente!
Poi, quando il cielo cel torr di terra,
l'altro non fia chiamato a "ben mi piace",
ma come ogni re face,
succederagli il figlio o 'l pi parente:
di che seguiter immantinente
che ogni rio pensier di tirannia
al tutto spento fa
per la succession perpetuale.
E poi con quel vessillo imperiale
menando il santo padre a casa mia,
vedrai di mercantia
tutto adornato il paese reale.
Or vedi la grandezza dove sale
quella ch' donna de l'altre province,
se 'l suo peccato stesso non la vince.
$
Canzon mia, cerca il talian giardino
chiuso da' monti e dal suo proprio mare,
e pi l non passare,
che pi non disse chi mi die la 'mposta.
E guarda a or a or, cos da costa,
gli atti che vedi a chi t'ascolta fare,
che si suoi giudicare
talor di fuor la 'ntenzion nascosta.
E se truovi la gente mal disposta
e se' da gli orbi superbi dirisa,
lascia pur fare e vedrai belle risa.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%37%|FAZIO DEGLI UBERTI|

%38%|I|
Nel tempo che s'infiora e cuopre d'erba
la terra, s che mostra tutta verde,
vidi una donna andar per una landa,
la qual con gli occhi vaghi in essa serba
amore e guarda s che mai nol perde.
Luceva intorno a s da ogni banda:
per farsi una ghirlanda,
ponevasi a sedere in su la sponda,
dove batteva l'onda
d'un fiumicello, e co' biondi capelli
legava fior qua' le parean pi belli.
D'arbori chiuso dentro a un bel rezzo,
su la rivera d'un corrente fiume,
legando insieme l'uno a l'altro fiore,
i raggi suoi passavan per lo mezzo
de' rami e de le foglie, con quel lume
che si vedea nel suo gentil valore.
Quivi con lei Amore
istar vedea con tanta leggiadria,
che fra me dir sentia:

"quest' la donna che fu in ciel criata


e ora qui come cosa incarnata".
$
Volgeva ad or ad or per la campagna
gli occhi suoi vaghi, che parean due stelle,
vr quella parte dond'era venuta;
e poco stante vidi una compagna
venir di donne e di gaie donzelle,
che tanto nova mai non fu veduta.
Ciascuna lei saluta:
ed ella allora, per pi bella festa,
poniesi in su la testa
la ghirlandetta, che s ben le stava,
che l'una a l'altra a dito la mostrava.
Da poco stante a guisa d'una spera
dinanzi a l'altre la ne vidi andare,
paoneggiando per le verdi piagge.
E come il sole, in sul far de la sera,
rompe col suo bel lume in fondo l' a're,
cos per li occhi suoi li vedea ragge;
e talor per le fagge,
dove nascosto m'era, mi volgeva:
quel ch'io di lei credeva
e con quanti sospiri e pensier fui
dicalo Amor, ch'i' nol so dire altrui.
Canzonetta figliuola, tu girai
col dove ti sai
ch'onesta leggiadria sempre si trova,
s come Amor fa prova
e par s come in su la spina rosa.
Cos tutta vezzosa,
se puoi, per modo ch'altri non ti vegga,
entrale in mano e fa ch'ella ti legga.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%39%|II|
Io guardo i crespi e i biondi capelli
de' quali ha fatto per me rete Amore:
d'un fil di perle e quando d'un bel fiore
per me pigliare truovo ch'e' gli adesca.
E poi riguardo dentro a gli occhi belli,
che passan per li miei dentro dal core
con tanto vivo e lucente sprendore,
che propiamente par che d'un sol esca.
Virt mostra che in loro ognor pi cresca:
ond'io, che s leggiadri star gli veggio,
cos fra me sospirando ragiono:
"Om!, perch non sono
a solo a sol col dov'io la cheggio,
s ch'io potessi quella treccia bionda
disfarla a onda a onda
e far de' suoi begli occhi a' miei due specchi,
che lucon s che non trovan parecchi".
Poi guardo l'amorosa e bella bocca,
la spaziosa fronte e 'l vago piglio
e i bianchi denti, il dritto naso e 'l ciglio
pulito e brun, tal che dipinto pare.
E 'l vago mio pensiero allor mi tocca
dicendo: "vedi allegro dar di piglio

dentro a quel labbro sottile e vermiglio


dov'ogni dolce e saporito pare.
$E odi suo vezzoso ragionare
quanto ben mostra, morbida e pietosa,
e come suo parlar parte e divide.
Vedi, quand'ella ride,
che passa per diletto ogni altra cosa".
Cos di quella bocca il pensier mio
mi ragiona, per ch'io
non ho nel mondo cosa ch'io non desse
a tal ch'un s con buon voler dicesse.
Poi guardo la sua isvelta e bianca gola
com'esce ben de le spalle e del petto,
il mento tondo, fesso, piccioletto,
tal che pi bel cogli occhi nol disegno.
E quel pensier, che sol per lei m'invola,
mi dice: "Vedi allegro e bel diletto
aver quel collo fra le braccia stretto
e fare in quella gola un picciol segno".
Poi sopragiugne e dice: "Apri lo 'ngegno:
se le parti di fuor son cos belle,
l'altre che den parer che chiude e copre?
Ch sol per le belle opre,
che fanno in cielo il sole e l'altre stelle,
dentro da lor se crede il paradiso.
Dunque di pensar fiso,
se guardi ben, ch'ogni terren piacere
si trova dove tu non puoi vedere".
E guardo i bracci suoi distesi e grossi,
la bianca mano morbida e pulita,
guardo le lunghe e sottilette dita
vaghe di quello anel che l'un tien cinto.
$E 'l mio pensier mi dice: "Se tu fossi
dentro a que' bracci, fra quella partita,
tanto piacere avrebbe la tua vita,
che dir per me non si potrebbe il quinto.
Vedi ch'ogni suo membro par dipinto,
formoso e grande quanto a lei s'avene
con un colore angelico di perla;
graziosa a vederla
e disdegnosa dove si convene,
umile e vergognosa e temperata.
E sempre a virt guata
e in fra' suoi be' costumi un atto regna,
che d'ogni reverenza la fa degna".
Soave va a guisa di pagone,
diritta sopra s com'una grua:
vedi che propiamente ben par sua
quant'esser pu onesta leggiadria.
"Se tu ne vuoi veder viva ragione,
dice il pensier, guardi la mente tua
ben fisamente allor ch'ella s'indua
con donna che leggiadra e bella sia.
E come muore e par che fugga via
dinanzi al sole ogni altra chiarezza,
cos costei ogni adornezza isface.
Vedi, se ella piace,
ch'amore tanto quant' sua bellezza
ed somma bont che in lei si trova.
Quel ch'a lei piace e giova

sol d'onesta e di cortese usanza,


che solo in suo ben far prende speranza".
$
Canzon, tu puoi ben dir sicuramente
che, poi ch'al mondo bella donna nacque,
veruna mai non piacque
generalmente, come fa costei,
perch si trova in lei
bilt di corpo e d'animo bontate,
fuor che le manca un poco di pietate.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%40%|III|
I' guardo in fra l'erbette per li prati
e veggio svariar di pi colori
rose viole e fiori,
per la virt del ciel che fuor li tira.
E son coperti i poggi, ove ch'io guati,
d'un verde che rallegra i vaghi cori
e con soavi odori
giunge l'orezza, che per l'aere spira:
e qual prende e qual mira
le rose che son nate in su la spina:
e cos par ch'amor per tutto rida.
Il disio che mi guida
per di consumarmi il cor non fina,
n far mai, s'io non veggio quel viso
dal qual pi tempo stato son diviso.
Veggio li uccelli a due a due volare
e l'un l'altro seguir per li albuscelli
con far nidi novelli,
trattando con vaghezza lor natura.
E sento ogni boschetto risonare
de' dolci canti lor, che son s belli,
che vivi spiritelli
paion d'amor criati a la verdura.
Fuggita han la paura
del tempo che fu loro tanto greve
e cos par ciascun viver contento.
$E io, lasso!, tormento,
ch mi distruggo come al sol la neve,
perch lontan mi trovo da la luce,
ch'ogni sommo piacer da s conduce.
Simil con simil per le folte selve
si trovano i serpenti a suon di fischi;
in fino a' badalischi
seguon l'un l'altro con benigno aspetto:
e' gran dragon e l'altre fiere belve,
che sono a riguardar s pien di rischi,
d'amor s punti e mischi,
d'un natural piacer prendon diletto.
E cos par costretto
ogni animal, che 'n su la terra scorto,
in questo primo tempo a seguir gioia.
Sol i' ho cotanta noia,
che mille volte il d son vivo e morto,
secondo che mi sono buoni e rei
i subiti pensier ch'i' fo per lei.
Surgono chiare e fresche le fontane,

l'acqua spargendo gi per la campagna,


che rinfrescando bagna
l'erbette e i fiori e li alberi che trova;
e' pesci, ch'eran chiusi per le tane,
fuggendo del gran verno la magagna,
a schiera ed a compagna
giocan di sopra, s ch'altrui ne giova.
E cos si rinnova
per tutto l'alto mare e per li fiumi
fra loro un disio dolce che li appaga.
$E la mia crudel piaga
ognor crescendo par che mi consumi;
e far sempre, fin che 'l dolce sguardo
non la risaner d'un altro dardo.
Giovani donne e donzellette accorte
rallegrando si vanno a le gran feste
tanto leggiadre e preste,
che par ciascuna che d'amor s'appaghi;
e altre in gonnellette a punto corte
giocano a l'ombra de le gran foreste
d'amor s punte e deste,
qual solien ninfe stare apresso a' laghi:
e giovinetti vaghi
veggio seguire e donnear costoro
e talora danzare a mano a mano.
E io, lasso!, lontano
da quella che parrebbe un sol fra loro,
lei rimembrando tale allor divegno,
che pianger fo qual vede il mio contegno.
Canzone, assai dimostri apertamente
come natura in questa primavera
ogni animale e pianta fa gioire
e ch'io son sol colui che la mia mente
porto vestita d'una veste nera
in segno di dolore e di martire.
Poi conchiudi nel dire
ch'allor termineran queste mie pene,
ch'a occhio a occhio veder 'l bel volto.
Ma vanne omai, ch'i' ti conforto bene
ch'a ci non star molto,
se gi prigione o morte non mi tene.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%41%|IV|
Ne la tua prima et pargola e pura
eri qual novelletta primavera,
cara mia luce e vera:
con li occhi tuoi m'apristi lo 'ntelletto.
E se allor ti trovai acerba e dura,
come tu sai, maraviglia non m'era,
perch d'amor la spera
non riscaldava ancor il tuo bel petto;
e con molto sospetto
cacciai pi soli al tuo piacere acerbo.
Or qui non so ben dir s come strugge
bramar bilt che fugge,
se non ch'i' consumava ogni osso e nerbo.
Cos t'amai ne la tua puerizia;
e se allor t'era in ugge,

sempre attendea, per ben soffrir, letizia.


Moltiplicava di d in d amore
in me, s come in te face biltate,
ch'ognor pi dilicate
mostravi a 'namorar le tue fattezze,
e cos tanto fu vago 'l mio core,
che tu giugnesti a la seconda etate:
com'albero la state
mostravi pi virt e pi bellezze.
$Qui provai le dolcezze
ch' amar donna che ragione intenda:
qui fu piat soccorsa del mio pianto;
qui facest ben tanto,
ch'i' non so dr come 'l merito renda.
Certo i' non dico ch'i' fossi s oltre,
ch'i' mi possa dar vanto
ch'i' ti vedessi mai sotto la coltre.
Sett'anni fur, che non mi parve un'ora,
tanto mi piacque il tempo che diviso:
ch 'l tuo vezzoso riso
ogni spirito mio facea contento.
E altrettanti ne son iti ancora
ch'i' mi trovai lontan dal tuo bel viso,
con tutto che m' aviso
che ogni d sia stato pi di cento.
Lasso!, che s'io tormento
poi che non posso tua bilt vedere,
certo non da maraviglia farsi,
per che mai non arsi,
com'io ardo, del tuo bel piacere.
E quanto amor mi combatte e martira
s nel mio viso parsi,
che qualunq'uom mi vede ne sospira.
Or se dubiassi e mi volessi dire:
"Che che non se' morto in tanti stridi?
E po' come mi fidi
d'aver portato fede a' miei begli occhi?",
$i' ti rispondo che talor venire
mi par vedere Amore che ti guidi,
ne l'atto ch'io ti vidi
quando prima provai li accesi stocchi.
E par neve, che fiocchi
dal tuo bel viso, l'amorosa manna
con la qual cibi li spiriti miei:
s che tu se' colei
che campi me, che morte non mi danna.
Po' la mia fede tal, che, s'io volessi,
partir non mi potrei
da te, n che niun'altra mi piacessi.
Cos, com'elli ver ci ch'io ti scrivo,
si bramo io di te veder la voglia,
inanzi che ti toglia
la tua terza stagion le verdi frondi:
ben ch'io pur pensi che, come l'ulivo
over l'abete o 'l pin non perde foglia,
cos mai non si spoglia
da te bilt, per tempo che secondi:
ch i cape' crespi e biondi,
li occhi e la bocca e ogni bilt tua
non fece Dio perch venisser meno,

ma per mostrar a pieno


a noi l'essemplo de la grolia sua.
O luce mia, in cui mi raccomando
per merito, s'io peno,
sia graziosa a questa ch'io ti mando.
Canzon, non bisogno ch'io ti dica
dove tu debbi andar, ch 'l sai com'io.
$Sol ti priego per dio
che, quanto puoi, di ritornar t'affretti;
ch tu sai ben che sopr'ogni fatica
a l'uom che ha stato bisognoso e rio,
come tu sai ch''l mio,
lo 'ndugiar e viver con sospetti.
Poi t'ammonisco che non ti diletti,
com'hanno fatto le sorelle tue,
ne le bellezze sue,
tanto che del tornar fosse niente:
ch degn' quel servente
di mille morti, che 'l suo cammin tarda
al gran bisogno, come fece il corbo.
Or va, figliuola, e guarda
al tuo dovere e al mio greve morbo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%42%|V|
Di quel possi tu ber che bevve Crasso
o vegga le tue membra come Mario
e come Sceva sia di piaghe vario
o tu vegni mendico come Oreste;
come a Mordret il sol ti passi il casso,
o abbia tui congiunti come Dario
o qual ebbe Tarpea abbi salario
o quante a Giob ti vengano moleste!
E se non bastan queste
tante bestemmie o tanta rea ventura,
tante ten vengan, quante Ovidio agura
contra Ibim e se pi ne fur mai.
E forse che non sai
chi s t'assal non sanza grande e dura
cagion, come udirai con lingua oscura?
Sappi ch'i' sono Italia che ti parlo,
di Luzinborgo ignominioso Carlo.
Qual dolor vince quel, che ciascun sente
quando di nuovo veramente sanza
si vede pi d'aver qualche speranza
nel male stato suo duro e perverso?
Certo nessun; s come mo' dolente
Ausonia pruovo, che per grande stanza
afflitta sono e ora in tua possanza
tutto 'l mio sperar era converso.
$E mostro 'l per tal verso:
gi son cent'anni e pi, com' palese,
che a confonder lo 'mperio il papa intese;
e tu per lui se' fatto imperadore.
E or col suo favore,
quando dovevi, vinto il mio paese,
ire oltramare e di quel far le spese
c'hai tolto qui, te ne 'l porti in Buemme

e me abandoni con Gerusalemme.


O d'Aquisgrana maladetta paglia,
o di Melano sventurato ferro,
o di Roma ancor l'oro, il qual te erro
ha come imperadore incoronato!
Ch la tua spada dove dee non taglia
e 'l tuo parlar pu dir: "Mai non disserro
vero"; ma 'l grembo tuo pu ben dir: "Serro
e chiudo, sanza aprir, ci che m' dato".
Ciascun di te ingannato
si truova, salvo ch'uno, il qual mi disse,
prima che tu di fuor di Praga uscisse
per venir qua, perch'el ti conoscea:
"Italia, il tuo Enea
non fe' tanto per te, mentre ch'el visse,
n Cesare e Agusto e chi sconfisse
Brenno, Annibal e Pirro mise in caccia,
che questo Carlo pi non ti disfaccia".
$
O Roma pi che mai disconsolata,
o pi che mai guasta Siena e Pisa,
o pi che mai Toscana in mala guisa,
o pi che mai serva Lombardia,
o pi che mai da me gente scacciata
da le mie terre e per parte divisa,
come la tua speranza mo dicisa
d'avere al tuo tornare omai pi via!
Chi vorr pi ch'el sia
venuto da la Magna in le mie parti,
veggendo te aver teso tue arti
a tor danari e gir con essi a casa?
Ahi stirpe rimasa
diversa al buon tuo avo, perch darti
volesti questo impaccio a incoronarti,
togliendo in ci forse la volta a tale,
ch'aria ben fatto dove tu fai male?
Tu dunque, Giove, perch 'l santo uccello
(sotto il qual primamente trionfasti
e poi a me dai Dardani il mandasti
e fe' di Roma nido al suo gran parto
col gran Querino prima e col fratello,
con voi altri seguaci, che 'l portasti
quando in cinquecent'anni m'acquistasti,
poi in dugento l'altro mondo sparto)
da questo Carlo quarto
imperador non togli e da le mani
de gli altri lurchi moderni Germani,
che d'aquila un allocco n'hanno fatto,
e rendil s disfatto
ancora a' miei Latini o a' Romani?$Forse allor rifar gli artigli vani
con quali e con qual gente altre fiate
fe' che le porte a Giano fur serrate.
Canzon, non aver tema,
ben che il tuo tema sia molt'aspro a dire:
ch spesso lo corregger, per ver dire,
lo mal far d'uno, mille ne fan bene.
E sed e' pure avene
che veggi quel che qui tua rima tocca,
apri la bocca e dillo tutto intero:
perch non pu mal dir chi dice il vero.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti

%43%|VI|
O sommo bene, o glorioso Iddio,
ch'alluminasti inanzi a Faraone,
come la Bibbia pone,
Ioseppo, onde fu scampo a quella gente,
lumina, Padre, lo 'ntelletto mio,
s che dir possa d'una visione
la vera intenzione,
la qual m' apparita nuovamente.
Mi parea visilmente
sopr'un bel fiume in un prato di fiori
una donna trovar, che ne la vista
mostrava tanto trista,
che facea pianger me de' suoi dolori:
per che m'era aviso
che, con quanto tormento fusse in lei,
gi mai gli occhi miei
veduto non avieno un simil viso.
Non men che la piet era il disiro
di spiar di suo stato e s del pianto:
ond'io mi trassi alquanto
pi verso lei e di ci la richiesi.
Ed ella, tratto ch'ebbe un gran sospiro
e gli occhi asciutti con suo scuro manto,
cos rispuose: "Ahi quanto
pi che pensi son gravi i miei pensieri!
$Tu vuoi ch'i' ti palesi
de l'esser mio e del tempo felice,
quando fiori portava e frutti e foglia;
che de la mia doglia
ancor ti manifesti la radice.
Certo il tuo dolce priego,
poi ch'a tanta piat per me se' mosso,
nasconder non mi posso:
e per in parte al tuo piacer mi piego.
Da Roma vennor gli antichi miei primi
e parte ne scenderon del bel monte,
che m' sopra la fronte,
quando gi cadde in tutto il suo potere.
E vo' che certamente pensi e stimi
ch' per le genti valorose e conte
e al ver tutte impronte,
che molto tosto crebbi in gran piacere
e vidi a' mie' voleri
quelle seguire, ch'or mi dan de' calci
(io dico ben qual mostra la maggiore),
alcuna per amore
e qual temia le mie taglienti falci.
E per darti omai copia
qua' fur gli antichi, sappi che ciascuno
in nel mio ben comuno
guardava pi che 'n la sua cosa propia.
In fin ch'i' fui con questi cotali,
i' vissi con vert onesta e pura
e non avea paura
di giudicio di Dio per mio peccato.
$Ma, lassa!, ora mi struggo a dirti i mali
onde son nati de la mia sventura,

ben che m' cosa dura


pensar di quello e dir di questo stato.
Dico che nel mio prato
di nove piante son nati germogli,
c'hanno aduggiato i gigli e la buon'erba
e creata superba,
invidia, avarizia e molti orgogli,
lussuria con micidi,
usura, mal tolletto e arroganza
e di tanta fallanza
non ci niuno ch'al ciel merz ne gridi.
Ond'io che penso a Soddoma e Gomorra
come l'alta giustizia le disfece,
per l'opre scure e biece
del maladetto e dileggiato stuolo,
parmi che io a peggior morte corra,
perch le genti mie son vie pi grece;
ch se tra color diece
giusti ne furon, e qui non n' un solo:
e quinci nasce il duolo,
che fuor de gli occhi per lo volto appare.
Ver che giova, ch mutin costume,
gastigarli col fiume
o per battaglie o per corromper d' a're,
per fame o pistolenze.
Anzi allor fanno pi aspre le legge;
e qual me guida e regge,
che pi baratta e d peggior sentenze.
$
Vedove e pupilli e innocenti
del mio sangue miglior van per lo pane
per altrui terre strane
con gran vergogna e con mortale affanno.
E questi, assai pi crudi che serpenti,
li scaccian, come bisce fan le rane:
c'ha l'uom piat d'un cane,
s'a merz torna, poi c'ha fatto danno.
E se di': perch 'l fanno?,
muoveli a ci non ingiurie punite,
figliuolo mio, ma per voler rubarli.
E questo vo' che parli
al popol mio, che curin tal ferite
con far general pace,
onorando ciascun che vuol far bene;
renda l'altrui chi 'l tene
e non guardi s'al grande ci dispiace.
Con pace, dico, e con buona concordia,
con limosine e santi sacrifici,
con laude e benefici,
con sostener digiuni e penitenza,
con disprezzar la guerra e la discordia,
con disprezzare i maladetti vizi,
con disprezzare offizi,
che fan tra' cittadin mala semenza,
convien l'alta potenza
umiliare, s'el c' alcun rimedio.
E non pensi fuggir chi ora scampa:
ch 'l ciel forma la vampa
de la qual dubbio pi che d'altro tedio.
$Non diano indogio a questo,
ch folle quel che tal giudicio aspetta:

temasi la vendetta
del Signore, a cui tanto manifesto".
Canzon, compiuto ch'ebbe il suo lamento,
la dolorosa donna trasse un grido;
po' disse: "O dolce e dilettoso nido,
quanto per voi tormento s'apparecchia!
Oda chi ha orecchia
e a cui tocca noti ci ch'io veggio:
trasformar Marte in oscura selva
e me latrando andar s come belva,
se mai non tornan tal qual io li cheggio".
E, detto questo, parve sparer via
ed io poi mi destai dov'io dormia.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%44%|VII|
I' son la magra lupa d'avarizia,
de cui mai l'appetito non sazio,
e, com pi ho di vita lungo spazio,
pi moltiplica in me questa tristizia.
Io vivo con paura e con malizia;
limosina non fo n Dio rengrazio;
deh, odi s'i' me vendo e s'i' me strazio:
ch'io mor' di fame e ho de l'or divizia.
Io non bramo parenti n memoria;
n credo sia diletto n pi vivere
che l'imborsar e far rasgion e scrivere.
Lo 'nferno monimento de mia storia
e questo mondo 'l ben in cui m'annidolo:
il fiorino quel dio ch'io ho per idolo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Fazio degli Uberti
%45%|VIII|
Stanca m'apparve a l'onde ben tranquille
quella, che pu di me far pi ch'i' stesso;
stanca m'apparve quella, in cui ho messo
gi tempo vano e d ben pi di mille.
#Honestus erat tantum visus ille#,
che chi mirar potuto avesse in esso,
sarebbe morto per le luci apresso,
pel gran folgor che spargien le pupille.
#O spes dilecta et vita cordis mei#,
vedi a che porto sono in questa barca
(#tu sola potes dare vitam ei#),
che per gran pena d'esto mondo varca.
#O cara soror, miserere mei#,
levando il peso il quale Amor mi carca,
pregando Citerea che d'aspri artigli
mi tragga e poi con dolci mi ripigli.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%46%|ANTONIO DA FERRARA|

%47%|I|

Ave, diana stella, che conduci


a la toa scorta nel profondo mare
ogni noccher, guardando ove tu luci;
e mai secur non se p navigare
esto pelago s procelloso e rio,
senza la vista del to lampezzare;
piena de grazia se' tanto che 'l fio
de li angeli de l'alto Olimpo eterno
in ti venne a farse omo, essendo Dio.
Tu fosti benedetta in sempiterno,
fra l'altre donne tu se' la pi donna
con purit del to corpo materno;
e benedetto 'l frutto che fe' gonna
del ventre to, s come de colei
che se' d'ogni vert l'alta colonna.
E perz, Donna mia, orar tu di
per nui che sol vivemo a la to' fede,
tratti da l'orma d'i falsi Zudei;
e color che questo ama e questo crede
dn pur aver soccorso da' to' preghi,
come peculio 'stratto per toe rede.
$
Per te oro che 'n ver mi te pieghi
con li occhi de la toa benignitade,
bench i miei ver de ti sian stati cieghi.
E guarda, madre, in quanta scuritade
son zunto con tormento e con dolore,
se non m'aiuta la toa caritade.
Io son quel tristo, miser peccatore,
che navigando for per queste salse,
sentii gi de tuo ben qualche vapore
e oltre a seguitar pi non me calse
n de venir al to lito soave,
credendo al son de le serene false.
I' trassi for del porto la mia nave,
tirando s le vele al vento crudo,
che prima me parea tanto soave;
poi fei de la toa grazia el mi' cor nudo,
non pensando che quel cade al giudizio
che de tal provedenza lassa el scudo,
lassando la vert, prendendo 'l vizio
nel tempo che dovien fruttar le rame,
quando de pobert se fa l'inizio;
e quanto pi m'avie da' bon letame
natura in ben accrescer la mia pianta,
tanto l'opere mie son sta' pi grame.
Donna, tu sai che 'l mi' dir non millanta:
cos sapess'io ben ch'i' fossi degno
venir lass dove osanna se canta!
$
E con angoscia i' ho scorto 'l mio legno
oltr'a la giovent perversa e vana,
la qual d'esser ad alto lassa el segno;
e trovo l'alma mia dal ben lontana
e s m'accatto ancor peggio che cervo,
com'Atteon, quando trov Diana.
E hamme zunto un vento s protervo,
una fortuna s forte e crudele,
che de brancar pi remo non ho nervo
e hamme rotto l'lbore e le vele,

l'orza, la sosta, l'antenna e 'l temone,


n cosa trovo al mio prender fidele.
Poi me vezzo dinanzi el gran dragone,
che me conduce con s gran fracasso
n vol ch'i' me retorni a pentisone;
e vezzo che m'induce dritto al sasso,
dove chi fere innanzi che se penta
ser del tuo zardin privato e casso.
Ben ten el la soa spada molto attenta
per fare el so voler, se non che guarda
che la toa gran possanza li 'l consenta.
S che se 'l to soccorso ver mi tarda
a relevarme de questa fatica,
la quale a poco a poco m'incodarda,
sento 'l pontor de l'infernal ortica
e romper vezzo el fil che me ten vivo,
ch spent' 'l sol che per f me nutrica.
$
Redumme, Donna, al to porto zolivo,
famme trovar sentero a la mia scampa,
zefir me vesta quel che borea ha privo,
ch'io son formato simil a toa stampa,
e forse, anzi ch'i' mora, in le mie rime
de toa vert mostrar qualche vampa,
bench'io non sia da siffatt'opra opime;
ma l'intelletto mio scuro e mendico
raso ser da le toe sante lime.
E per quanto posso a ti sopplco,
com'a colei che p' z che te piace,
che me defendi dal mio gran nemico
e ch'el te piazza omai redurme a pace
e donar tal fermezza a la mia mente
che 'n ver de ti non sia mai pi fallace.
Tu non refiuti mai quel che se pente,
tu fonte sola de misericordia,
tu sola che contasti al gran serpente.
Deh, fa, Madonna mia, per mi concordia
fra 'l mio padre celeste e fra 'l terreno,
coi quali ho avuto s longa discordia!
Ch'i' non sera pur degno aver del feno,
com'hanno i animal per lo so uso,
tanto verso de loro ho avu' veleno.
S che, donzella e madre, i' non me scuso,
ch'lbor che non se piega a le grand'onde
conven pur che de terra sia deschiuso.
$
Deh, cessa un poco este nebbiose gronde,
ch'i' vezzo l'acqua, s'tu non me relevi,
presso gi per passar oltr'a le sponde:
ch'i miei defetti son s longhi e grevi
ch'a mi non basta pur de dir i' voglio,
se toa benignit no i fesse brevi.
Redumme, Donna mia, su 'n qualche scoglio,
insin che 'l tempo sia chiarito e bello,
e abbassa un poco el serpentino orgoglio:
de z te preco, per quel sant'uccello
che sol remase teco per figliolo,
quando t'aperse el cor l'aspro coltello,
e sana questo mio gravoso dolo
e tramme a porto de vera salute,
s ch'io discerna el to benigno polo.
E a z che per mi siano compiute

le lode ch'io te fo con pianto amaro


e che me doni al ben oprar vertute,
io zuro sul to sacro e santo altaro,
dove del tuo fiol se fa olocasto,
de non zugar al zoco de lo zaro.
De qui a dece anni de z ser casto;
in zoco dove dadi s'aopri o butti,
la mia mano de lor non far tasto;
n per mi ad altri far trar quei brutti
n io per altri mai in alcun modo,
tanto soffrii per lor tormenti e lutti.
E questo zuro e s prometto e lodo
innanzi al Crucifisso benedetto,
el qual conosce d'ogni froda el nodo.
$
E perch in questo io ne sia pi costretto,
io vo' ch'a z ne sia mio testimonio
el Battista Giovanni sacro eletto
e 'l prezioso messer santo Antonio
e 'l glorioso Apostol de Galizia,
el qual pi volte z m'apparve in sonio,
e 'l bon san Ziminian, che la milizia
d'i nostri re' avversari fora cazza
del corpo a l'impazzati dove ospizia.
E s me boto e dico in le so' brazza
de visitare i soi tri santi limini,
com' pi tosto potr compir la trazza.
In merito d'i miei gravosi crimini
io zurar su l'altar de zascuno,
a z che pi fermezza in mi se simini,
de sempre le soe vilie far degiuno,
affermando quel ch'i' ho ditto de sopra,
se vera scusa non me fesse impuno.
E se io mai far contr'a quest'opra,
che la soa gran vert e la soa possa
in ver del corpo mio s se descopra
e s me roda con le polpe l'ossa!
E s'io mantegnir mio sacramento,
l'alturio lor da mi non fazza mossa.
E questo 'l mio volere e s 'l consento
non com'insano n com' furibondo,
anzi ho ben fatto in z pi pensamento
e a Dio el manifesto e cos al mondo;
forsi che Dio per la soa cortesia
non me vorr lassar pi vagabondo.
$
E io ne prego vui, dolze Maria,
a la qual feci e fo questo gran voto,
che in z vui me prestati vigoria.
E io ser de vu' caro e devoto;
e s offero a la colonna vostra
in Modona quel ch'io ve dico e noto,
a z che a mi siati a questa giostra
elmo, curazza, scudo e ferma lanza,
come besogna a la miseria nostra.
E perch'io abbia de z remembranza,
milletrecento fei questo proposto,
quaranta appresso con gran disianza,
a vinti, de domenega d'agosto.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%48%|II|

Cesare, poi che recev 'l presente


de la tradita testa in sommo fallo,
dentro fece allegrezza, canto e ballo
e de for pianse e mostrosse dolente.
E quando la gran testa reverente
del poderoso tartaro Asdruballo
fo presentata al so frate Anniballo,
rise, pianzendo tutta la soa zente.
Per simil pi fiate egli addivene
ch'a l'om conven celar z ch'ha nel core
per allegrezza o caso de dolore.
E per, se gi mai canto d'amore,
fazzol perch celar e' me convene
le 'ntrinseche mie triste e grave pene.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%49%|III|
Io scrissi gi d'amor pi volte rime,
quanto pi seppi dolze, belle e vaghe,
e in pulirle oprai tutte mie lime.
De z son fatte le mie voglie smaghe,
perch'io conosco ispeso avere invano
le lor fatiche e aspettar mal paghe.
De questo falso amor omai la mano
de scriver pi de lui voglio retrare,
e rasonar de Dio come cristiano.
Io credo in un Dio Padre, che p fare
z ch'a lui piace e da cui tutti i beni
procedon de ben dire e d'operare;
de la cui grazia terra e ciel son pieni,
e che da lui fr fatti de niente,
perfetti boni lucidi e sereni;
e tutto quel che s'ode, vede e sente,
fece l'eterna sua vert infinita,
e z che se comprende con la mente.
E credo che l'umana carne e vita
mortal prendesse ne la Vergin Santa
Maria, che coi so' preghi pur ce aita;
e la divina essenza tutta quanta
in Cristo fosse giusto santo e pio,
s come Santa Chiesa aperto canta:
el qual fo veramente Omo e Dio,
unico de Dio Fiol e de Dio nato,
eternalmente Dio, e de Dio usco:
$
non fatto manual, ma generato
simile al Padre, e 'l Padre e Esso uno,
e de Spirito Santo incarnato.
Costui volendo salvar ciascheduno,
fu su la Santa Croce crocefisso,
de grazia pieno e de colpa degiuno,
poi descese al profondo de l'abisso
d'inferno tenebroso, per cavarne
i antichi Padri ch'ebbon el cor fisso
a aspettar che Dio prendesse carne
umana e lor traesse de pregione
e per sua passion tutti salvarne.

Io dico: chi, con ferma openione,


e giustamente, con perfetta fede,
crede, salvato per sua passione.
Chi, altrimenti, vacillando crede,
eretico e nemico de si stesso,
l'anima perde che non se n'avvede.
Tolto de croce e nel sepolcro messo,
con l'anima e col corpo el terzo d
da morte suscit: credo e confesso.
E con tutta la carne ch'ebbe qui
da la sua madre Vergin benedetta,
poi alto in cielo, vivo, se ne g,
e con Dio Padre siede e a dritta aspetta
tornar con gloria a suscitar i morti,
e de lor e d'i vivi far vendetta.
Per al ben fare zascun se conforti
e paradiso per ben fare aspetti
e de divina grazia esser consorti.
$
E chi con vizi vive e con defetti,
aspetti inferno e sempre pene e guai,
e star con li demoni maladetti.
A le pene infernal remedio mai
non ve se trova, ch son senza fine,
e pianti e strida l sempre trovarai:
da le qual pene, o anime tapine,
ce aiuti e guardi lo Spirito Santo,
qual terza persona in le divine;
e quant' 'l Padre e lo Spirito Santo,
e quant' 'l Figlio l'uno e l'altro tale:
una cosa sol, d'i Santi un Santo.
E vera Ternit ell' cotale,
quale 'l Padre e 'l Figliol un solo Dio,
con lo Spirito Santo, ognuno equale.
Da quell'amor e da quel bon disio
procede questo: ch dal Padre 'l Figlio,
non generato o fatto, al parer mio,
ma sol da quell'eterno e bon consiglio
che da Padre e Figliol procede e regna,
non prima l'un che l'altro fosse piglio.
Qual pi suttil de dichiarar s'inzegna
che cosa sia la divina essenza,
manca la possa a dir cosa s degna.
Bastice pur aver ferma credenza
in z che ce ammaestra Santa Chiesa,
la qual ce d de z vera sentenza.
$
E credo che 'l battesmo zascun fresa
de la grazia de Dio e mondal tutto
d'ogni peccato e poi de grazia 'l presa
(el qual d'acqua e parole construtto,
e non se d ad alcun pi ch'una volta,
quanto sia de peccati alcun pi brutto),
senza la qual ogni possanza tolta
a ciaschedun d'andare a vita eterna,
bench'in si avesse ogni vert raccolta.
Lume talvolta da questa lucerna,
che de Spirito Santo in nui resplende,
de diritto disio s ce governa
e del battesmo aver s forte accende
amore in nui che, per la voglia giusta,
non men ch'averlo l'om giusto s'intende.

Poi, per purgar la nostra voglia ingiusta


e 'l peccar nostro che da Dio ce parte,
la penitenza abbiam per nostra frusta.
N per nostra possanza n per arte
tornar potremo a la divina grazia,
senza confession da la sua parte:
prima contrizion quella che strazia
el maladetto, e poi con propria bocca
confessa el mal che tanto in nui se spazia.
El sodisfar che dietro a l'altre scocca
tornar ce fa, con le predette inseme,
aver perdon, ch drittamente i tocca.
$
Ma poi, per lo nemico che pur preme
le fragil voglie nostre a farce danno,
che sa che Dio per nui poco se teme,
a z che nui fuggiam el falso inganno
che sempre ce apparecchia quel nemico,
da cui principio i mal tutti quant'hanno,
nostro Segnore Dio, padre e amico,
el Santo corpo e 'l Sangue suo benegno
veder ce 'l fa a l'altar - de z el ver dico quel proprio corpo, che nel santo legno
de carne e sangue fo chiavato e sparto
per nui librar de spirito malegno.
E se dal falso el vero ben diparto,
in forma d'ostia nui vediamo Cristo,
qual el produsse el santo vergin parto.
Vero Dio e Omo inseme misto
in ispezie de pan pare e de vino,
per cui del ciel facciamo el grande acquisto.
Tanto santo, mirabile e divino
questo ministerio e sacramento,
ch'a dirlo, sera poco el mio latino.
Questo ce d fortezza e ardimento
contr'a le nostre male tentazione,
s che per Lui da nui 'l nemico vento;
perch'Egli intende ben l'orazione,
ch'a Lui se fanno ben, giuste e devote
quando son fatte con devozione.
La possa de z fare e l'altre note,
de ben cantare e dare altrui battesmo,
sol d'i preti volger cotai rote.
$
E per fermezza ancor del cristianesmo,
dsse la cresma e l'olio santo ancora
a refermar questo creder medesmo.
La nostra carne, pronta al mal tuttora,
stimolata da lussuria molto,
per che l'un l'altro qui spesso s'accora.
A ripararli Dio ce volse el volto,
ordinando fra nui 'l matrimonio,
a z che tal peccar da nui sia sciolto.
Tratti ce ha da le man del mal dimonio
coi sopraddetti santi sacramenti,
con limosine, orare e con dezonio.
Dieci da Dio abbiam comandamenti:
el primo che Lui solo adoriamo
n in idoli d'i dei siam pi credenti;
el santo nome de Dio non pigliamo
invan giurando, o altre simil cose,
se non che sempre Lui benediciamo;

el terzo vol che ciaschedun se pose


d'ogni fatica un d de la stemana,
s come santa Chiesa a mandar pose;
sopra ogni cosa, qui fra nui mondana
ch'a padre e madre nui facciamo onore,
perch da loro abbiam la carne umana;
che nessun furi ovver sia robatore;
e viva casto e de lussuria attondo,
n de ci cerchi altrui far desenore;
n z per cosa ch'egli aspetti al mondo
falsa testimonianza a nessun fazza,
s che dal falso el ver sia messo al fondo;
$
n mai distenda a ira le soe brazza
a uccidere altrui in nessun modo,
ch spegnere' de Dio in nui la fazza;
n sciolga altrui de pudenza el nodo,
n del prossimo suo brami la moglie,
perch sere' de caritade vodo;
l'ultimo a tutti che nostre voglie
noi raffreniam de disiar l'altrui:
che spesso el cor da Dio ce parte e toglie.
E perch bene attenti tutti nui
istiamo a ubedir quel che ce dice,
fuggiam i vizi che ce t da Lui:
prima superbia, d'ogni mal radice,
perch l'om se repta valer meglio
d'i so' vicin e esser pi felice;
invidia poi, che fa l'omo vermeglio,
che, per istizza vedendo altrui bene,
al nemico de Dio lo rassomeglio;
ira a l'irato e altrui d gran pene:
par che 'l consumi, uccida, accenda e arda:
fasse con pianto e in povert se vene;
accidia, d'ogni ben nemica, guarda,
ch sempre al mal penser se volge e gira,
al disperar pronta e al ben far tarda;
poi avarizia, per cui se martira
el mondo tutto e rompe f e patti:
li par licito a si quel che pi tira;
la gola che converte i savi in matti:
con ebriezza e suo mangiar soperchio
morte apparecchia e a lussuria i atti;
$
e la lussuria, ch' settima al cerchio,
ch'amist rompe e parentado spezza
n de Dio teme n de vert el merchio.
Contr'a questi peccati abbiam fortezza,
che son qui scritti in questo poco inchiostro,
per andar poi dov' somma allegrezza.
Io dico, per istar dentro a un chiostro,
che noi facciamo a Dio preghere assai:
la prima orazion 'l Pater Nostro,
dicendo: - O Padre, che nei cieli stai,
santificato sia sempre el tuo nome,
e grazia e laude de z che ce fai;
avvegna el tuo regno come pone
questa orazion; tua volont se faccia;
com' in cielo, sia in terra unione;
Segnor, dacce oggi pane; e che te piaccia
de perdonarce i peccati nostri,
n cosa nui facciam ch'a ti dispiaccia,

e come perdonar tu s ce mostri


esempio a nui mondan de toa vertute,
a z che dal nemico ogn'om se schiostri;
piatoso Padre, pien d'ogni salute,
guardace e salva da le tentazione
de l'infernal nemico e sue ferute;
e che possiam a ti far orazione,
che ce guardi de male, e 'l regno vostro
a posseder veniam con devozione.
Preghiante, Re de gloria e Segnor nostro,
che Tu ce guardi da dolor afflitto;
la nostra mente e a ti sia 'l cor composto.
$
La Vergin benedetta ormai a dritto
laudare e benedire, anzi che fine
aggiunga a quello che de sopra scritto;
e Lei pregar ch'a le glorie divine
s ce conduca coi suoi santi preghi
e scampi nui da l'infernal rovine,
e tutti quei che son del peccar cieghi
allumi e svegli da lor tenebra,
e dai lacci infernal s ce disleghi.
Salve Regina, Vergine Maria,
piena de grazia, Dio sia sempre teco,
pi ch'altra donna benedetta e pia,
e 'l frutto del tuo ventre, el qual io preco
che ce guardi dal mal, Cristo Ges,
sia benedetto, e nui tiri con seco:
o Vergin benedetta sempre tu,
ora per nui, che Dio s ce perdoni,
e diace grazia a viver s quaggi
che paradiso al nostro fin ce doni.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%50%|IV|
La bionda foresetta,
bella, vaga, zentile e adorna,
nel mio cor soggiorna
n d'altro bel piacer non se diletta.
Z che p far natura
de bello e de piacer pose in costei,
<che> per la sua figura
paradiso sempre a li occhi miei;
ma perch'io non saprei
sue bellezze contar perfettamente,
me scusi tutta zente
s'io canto poco d'esta giovenetta.
Amor come in so' pase
sempre ne li occhi d'esta donna regna:
ell' contento e piase
che de cotanto onor se faccia degna.
Costei porta la 'nsegna
de pregio, de valore e de vertute;
costei sola salute
per cui l'anima mia vivere aspetta.
Gi mai non la reguardi
ne li occhi alcun che sia superbo o vile,
ch a' colpi d'i so' dardi
scampar non p chi non ha cor zentile,

perch'ella tanto umle


e altera de spirito e graziosa
che ogni trista cosa
a la sua mente sempre fu sospetta.
$
Altro da lei non chero
se non che servo <suo> chiamar me senta,
ch sol d'esto pensero
felice la mia vita ognor deventa,
per ch'el me contenta
scacciare ogni defetto e trarme al bene:
e questa sola spene
far l'anima mia stare suggetta.
La bionda foresetta...
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%51%|V|
El vago lume acceso nel tuo viso
e i atti onesti e 'l bel parlar soave
m'han posto in mezzo al petto una tal chiave
che mai da ti non credo esser diviso.
Tu se' el mio ben, tu se' 'l mio paradiso,
al mio cader ferma colonna e trave,
tu fai leggero ogni mio penser grave
e l dov'era pianto accendi 'l riso.
Tu porti l'alma mia ne la tua branca,
tu non hai forma d'orso ma d'agnello,
tu rafforzi mia lena ch'era stanca.
Tu m'hai s chiuso sotto 'l tuo mantello
che, se 'l poder al mio voler non manca,
tosto ver ti drizzar mi' pennello.
In questo mezzo io ser sempre teco
nel mio penser, e tu fa cos meco.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%52%|VI|
Non seppi mai che cosa fosse Amore
n sua vert sentii perfettamente,
e pur novellamente
ha teso ver de mi le site e l'arco,
e hamme zunto s dentro nel core
con una sita amorosa e pungente
che for de la mia mente
la sua possanza mai non far varco.
E tanto cresce pi d'amore 'l carco
quanto ch'io ardo e convenmel celare;
ma pur manifestare
a vui, Madonna, mia forza me sprona:
ch se vostra bellezza m'abandona,
non averiti poi scusa de dire:
- Volse costui per sua colpa morire -.
Portove pinta e rinchiusa ne l'alma,
imaginando le vostre bellezze
e quelle bionde trezze
che notte e giorno s me lega e zinze,
e 'l viso che del bel color s'incalma
e i occhi onesti, con tante adornezze,

e le piacevolezze,
le qua' de giorno in giorno in vui s'impinze.
$Per sappiati ben che non s'infinze
el spirto mio d'amarve infin a morte
e non me sere' forte
de soffrir pena e sostener tormento,
pur ch'io ve sia, Madonna, in piacimento:
ch se me provareti esser fidele,
so ben che puoi non me seri' crudele.
Ma se seriti dentro s piatosa
come de for appande el dolce riso,
io non ser diviso
d'aver piacer senz'aspettar lontano;
deh, chiara luce, bella e graziosa,
che de mi sola siti 'l paradiso,
fati che 'l vostro viso
in ver de mi se faccia umle e piano.
El don tanto pi val quant' tostano,
n aspetti tempo chi l'ha chiaro e verde,
che 'n un punto se perde
cosa ch'a recovrar el poder manca,
e questo quel penser che s me stanca,
che s'i' me parto senza vostra zoglia,
non so chi debba mai sanar mia doglia.
Canzon, tu te n'andrai s come fura,
che va de notte scura
perch persona non la veggia o senta;
e non te star contenta
pur de baciarli i pi, ma dilli tosta:
- Madonna, io vegno a vui per la resposta -.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%53%|VII|
Lagrime i occhi e 'l cor sospiri amari
hanno sofferto tanto
ch'el me conven alquanto
sfogar la mente col tristo parlare.
Dolci diletti, miei compagni cari,
ben ve recordi quanto
Amor nel dolce manto
me porse grazia del bel vaghezzare!
Ch palese e secreto praticare
soleva Amor, come da tempo norma,
non dischiarando l'orma,
secondo el mio saper, del suo comando.
E or m'ha posto in bando
novellamente per mio gran defetto,
quasi come sospetto,
in cui non abbia sua fede pienera,
ch s'alcun la vert de sua bandera
per altro vizio lassa,
del suo quaderno el cassa
n fa del bel piacer seguir l'effetto,
e poi se perdonanza cher del fallo,
pi grav' assa' 'l perdon che non 'l fallo.
Quanto eran i occhi miei de mirar vaghi
quelle sue trezze bionde,
revolte a le ritonde,

che me ferien nel core tremolando!


$Deh, Amor, del mio fallir ben me ne paghi,
ch molte vedoette
con sue veste brunette
gustar me fe' come se ven amando!
Ahi, quante belle feste vaghezzando
io vidi z e fra mi contendea,
ch saper non potea
fra tante belle donne la pi bella!
E or me sta ribella
la sua dolcezza, e son fra vecchie lorde
che me resembran borde,
che grosse callegiol hanno pendenti,
le bocche larghe, longhi e larghi i denti,
con lor visi cagnazzi,
vestite in brutti strazzi,
e per centure portan stroppe e corde,
e al cospetto de le bionde trezze
co' cavalline son ben bionde trezze.
Solea veder in corte dongelline
con lor visi amorosi
e atti graziosi,
nel fresco tempo che par la verdura.
Qual prezioso iaspide pi fine
de cor tristi e noiosi
far freschi e zoiosi,
nulla serebbe in ver de lor misura.
Ma qual fu mai d'alcun s vil natura,
se pur un pizzolin danno sentisse,
che zentil non venisse
istando in quel ch'ogni vilt resana?
$E or me sto in bresana
suso una rocca a guisa de romitto:
cos veggia sconfitto
el mondo tutto per diluvio ancora,
ovver a foco, e non sia longa l'ora!
Ch'io guardo le montagne
e veggio sol migragne
e trovome fra boschi derelitto
e abito con zente in queste selve
ch'un abito recher de boschi e selve!
O angeliche note e dolci canti,
i quai solia odire,
che non se poria dire
quanto era quel diletto a chi non l'ode!
Ch molte volte pi diversi amanti
<col> me fece gire,
e tanto ben sentire
che, remembrando, ancor el cor ne gode!
Ma un altro penser me strugge e rode,
sol per recordo d'una bella anzilla,
che, sopran fermo in schilla,
du' occhi ladri, in su i bei fior cantava.
E or cerchiar de biava
son fatto, per odir cerchiar de lovi,
e cantare de govi,
e muttilar le bestie qui nel piano,
quando da la pastura ven villano,
e zenzali e tavani,
baiando sempre i cani:

$in su la sera nui siam posti in covi,


quasi ogni notte me conven far guarde,
tutta notte gridando: - Attorno, guarde! O quanti dolci sonar d'instrumenti
ne l'ora del mattino,
ch'ogni piacer divino
messo ho in oblio per suo gran dolzore!
E quanti graziosi parlamenti
in un verde giardino,
sonando un cembalino,
m'oblig sempre star servo d'amore!
Ch spesse volte un organetto al core
sentir me fece tanto de dolcezza
per una bionda trezza,
che me 'l recordar sempre ch'io viva.
Ora odo una piva
per confortar se' pegore in campagna,
e su qualche migragna
talor el corno pr assembiar el grezzo,
e suso quella rocca ad ogni sezzo
i' bevo, i' dormo, i' manzo,
e de voler me canzo
vedendome in tal modo preso a ragna.
Ben mille volte al d chiamo la Morte,
ma per, per chiamar, non ven la Morte.
Io zuro ben, s'tu trovarai novella
de piet, canzon distesa mia,
da quella de cui son servo verace,
ch'io te terr per mia dolce sorella,
e sempre, de ogni parte dove i' sia,
t'appellar sol per donna de pace;
$e se la tua andata non li piace,
lagrime spanderem con pianto amaro;
ma, perch la piet vince l'avaro,
forsi diralla: - Retorna a Bologna! -.
Deh, vederotte mai, dolce Bologna?
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%54%|VIII|
Le stelle universali e i ciel rotanti,
le loro 'nfusione,
l'eterno moto e tutta la sua forza,
e propiamente quelle impressione,
i abiti e i sembianti,
che da lor prese mia natural scorza,
e l'alimento che mai non se ammorza,
l'aere, l'acqua e la terra
che 'n mia forma se serra,
sian maladetti e tutto lor podere.
Maladetto el voler ch'accese el padre
de le mie triste membre,
a spargere 'l suo seme e 'l mio dolere.
Poi maladico el corpo de la madre,
dove se aggiunse insembre
l'anima tapinella a questa pasta,
dogliosa pi che quella de Jocasta.
Quel punto novo ch'io scopersi tempo,
e caldo e pioggia e vento

sia maladetto, e chi me vide prima!


Maladette le fasse e 'l nudrimento,
che comincir per tempo
a darme la cason de questa rima!
Maladetto dal pi fino a la cima
l'acqua e 'l sale e 'l battesmo
de mio cristianesmo,
e chi me pose nome a quel zimbello!
$Stato foss'io porcel da campanella,
quando tre dadi 'n groppo
me fro appesi al collo in un borsello!
E per si maladetta sia la stella
che 'l mondo de galoppo
assai pi tristo m'ha fatto cercare,
che non fo Edippo a i occhi suoi cavare.
Mille e trecento quindici ov'io nacqui,
tempo crudele e rio,
nemico de vert, sia maladetto,
la mia bassa fortuna e 'l sito mio
l dov'io gioven giacqui
e 'l padre mio allora poveretto.
Io maladico el so bon intelletto,
che de suo stato vile
volse aggrandir mio stile
e for de li animali trarme a scienza.
Maladetta la interza e quel sudore
che per mio studio spese,
maladetta la 'mpresa intelligenza,
che fa centuplicare el mio dolore,
maladetto el paese
dov'io la 'mpresi, ch me ten pensando
pi tristo assai ch'Ecba furiando.
El vano intender mio, la lingua sciolta,
l'altezza del mio animo
sia maladetto e 'l tempo vagabondo,
poich'i' son fatto tanto pusillanimo,
ch'una pizzola volta
de dadi me p far tristo e giocondo.
$Maladette le terre e l'ampio mondo
ch'i' ho tanto cercato,
povero e disviato,
senza trovar gi mai don de fortuna.
Non so qual luna la mia vita guidi:
doglio, sospiro e piango,
e mai de questo mia mente degiuna.
Maladetti i sospiri e' grevi stridi
ch'io traggo in questo fango
del miser viver mio, pi grave assai
che quel de Job al colmo d'i suoi guai.
Maladetti i servigi recevuti,
maladetto el servire
ch'io feci altrui o con borsa o con bocca!
Maladetto el tacere e 'l proferire
d'i miei dolori acuti!
Maladetta la morte che non scocca
l'ultimo stral de sua possente cocca
fra mia indurata mente,
disperata e dolente,
priva d'ogni speranza e de conforto,
poi ch'egli morto el Segnor che me dava

frutto, speranza e norma


de la mia vita ria giogner al porto!
Ora fortuna e vizio pur me grava
de novo cangiar forma,
gravosa pi che quella de Apollegio,
trasfigurato al bestial collegio.
$
Tua disperata rima e tristo verso,
canzon nova de pianto,
i' la confermo, e s te benedico:
e s'tu trovassi alcun che se dia vanto
in pene esser sommerso,
disperato de ben, lasso e mendico,
fammeli amico, se amist p essere
tra 'nfortunati e rei;
e giura per li dei
che Dido giunse a suo gravoso tessere
ch'assai son presso a privarme de l'essere.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%55%|IX|
Se Dante pon che giustizia divina
mandi gi ne lo 'nferno, ov'ogn'om plora,
i traditor, po' che morte li accora
(chi trade el sangue suo ne la Caina,
chi trade sua citt ancor declina
in altro loco detto l'Antenora,
chi trade suo segnor ancor dimora
in Tolomea a prender disciplina),
qui se p fare una bella dimanda:
chi trade sua citt, sangue e segnore,
la divina giustizia dove 'l manda?
Dico per messer Azzo traditore,
quel da Correggio, ch' de simil razza:
che parr ch'abbia, s'i' non metta Azza?
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%56%|X|
- O sacro imperio santo,
o giusto Carlo, o mio bel protettore,
col to antico valore
porgi le orecchie al mio devoto pianto.
Io non so ben se de mi te remembra,
z tanto altera donna.
Credo, se guardi le mie belle membra
per la squarzata gonna,
ch'io fui l'alta colonna
conoscerai, sostegno de tal peso
che con volere acceso
me ubed el mondo, qual el sia e quanto.
Io son la sposa tua, Italia bella,
el tuo tesor gradito,
che tanto tempo stata vedovella
del suo degno marito:
reguarda el mio vestito,
guarda la gonna mia dilacerata,
guarda chi m'ha usurpata

ingiustamente z tempo cotanto.


Io so ben, segnor mio, che per tua colpa
non manca tua presenza,
ma per colui che d'ogni mal s'incolpa
de tutta mia doglienza;
$quel ch'ha voluto senza
compagno posseder mio gran tesoro,
col falso concestoro,
del pescator spresando 'l pover manto.
I
sacrosanti lor celesti offizi
son tutti trasmutati
in sparger sangue, in vender benefizi
a viri scelerati,
e hanse appropiati
i reggimenti, el mondano e 'l divino,
dando per lo fiorino
el giusto sangue per nui in terra spanto.
Non basta, segnor mio, che 'ngiustamente
tanto m'han posseduta,
ma la mia bella carne a molta zente
l'han per dinar venduta;
nel bordel m'han tenuta,
facendome avoltrar con pi tiranni,
e fa tacer so' danni
botte e dinari, e de z se dn vanto.
Veni, segnor mio car, che 'l ciel te chiama,
che 'n tutto ben disposto;
e 'l guelfo e 'l ghibellin veder te brama.
Deh, non tardar, ven tosto,
ch per tal modo posto
el stato italian per molte bande
che 'l pizzolin e 'l grande
de tutto el so poder te dnno el guanto.
$
Roma te chiama col suo Patremono,
el Ducato e Toscana,
Romagna bella de si te fa mono,
la Marca Anconetana,
cos la Trevisana,
e tutto 'l Friulle te faranno festa.
Deh, ven, alta podesta,
ch contr'a ti non p valer percanto!
I popol sottoposti a tirannia
chiaman el tuo venire,
e color stessi ch'han la segnoria
te voglion ubedire,
e 'nanzi a ti servire,
che se' giusto segnor e naturale,
che sozzazere a tale
che non vol mai compagno al suo biscanto.
Poscia che 'l ciel cotanto benegno
al tuo segnorezzare,
prendi conforto, accresci 'l to inzegno!
Deh, non voler tardare!
Zente non aspettare!
Perch'io te giuro che sol tua presenza
ne la dolze Fiorenza
tal far pianger che m vive in canto.
Se a questo punto el to soccorso tardo
e non affretti 'l passo,
zascun che t'ama se far codardo,

e caderai nel basso,


e 'l to poder fia casso;
per modo tal che, se sai viver, vivi,
che i to' penser sian privi
che mai al to venir pi vaglia incanto -.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%57%|XI|
S'a lezzer Dante mai caso m'accaggia
dov'egli scrive ne' suoi bei sermoni:
- O Alberto Todesco, ch'abandoni
costei ch' fatta indomita e selvaggia,
giusto giudizio da le stelle caggia! -,
senz'altro dire conven ch'io scasoni
questo Alberto Todesco e ch'io rasoni
d'un altro novo e 'l primo for ne traggia.
La carta raschier per iscambiarlo
e metterve l'ingrato, avaro e vile
imperador re de Buemme Carlo,
infamador del suo sangue zentile,
ch tutto 'l mondo volea seguitarlo
e e' d'i servi fatto el pi servile,
e ha tradito ogn'om che 'n lui sperava,
facendo per dinari Italia schiava.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%58%|XII|
E' me recorda, cara mia valise,
che gi de molti vai t'ho fatto onore,
de drappi, de zendadi de valore,
de fresi, de centure e d'altri arnise.
Ma tu sai bene che 'l proverbio dise
ch'el se conosce al tempo del merore
qual amico de perfetto amore,
come demostra el frutto la radise.
Or tu se' vota e non te posso empire
n de Venesia posso far lo salto,
perch'io non ho moneta da partire.
Per te prego che tu vadi a Rialto
e dete tosto al primo proferire,
s che non m'abandoni in questo assalto.
I' giuro a Dio, s'i' non son preso o morto,
novarte tosto e vendicar to torto.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%59%|XIII|
Antonio mio, ben veggio che le spise
te son s minuite e 'l grand'onore
ch'hai recevuto da zascun segnore,
che gi fo ben chi assai per men s'ancise.
Tu t'hai lass condur a tal pendise
sol per tuo zoco e per tuo grand'errore,
e non pensi che beffe e desenore
non fr gi mai da povert divise.
Poich te piace, e io te vo' servire,

pregandote ch'al cor te faccia un smalto


de questo, per recordo al tuo fallire:
che se de basso mai retorni in alto,
non te lassare al vizio s 'nvilire
che tu retorni a z per tuo diffalto.
I' vo per trenta soldi: sta s accorto
che, come giongo, corri tosto al porto.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%60%|XIV|
I' ho gi letto el pianto d'i Troiani
el giorno che del bon Ettr fr privi
come de lor defesa e lor conforto,
e' lor sermon fr defettivi e vani
verso de quel che dovrien far i vivi
che braman de vert giogner al porto,
sol per la fama de colui ch' morto
novellamente in su l'isola pingue,
dove mai non s'estingue
foco nascente e de Circe l'ardore.
Ahi, com' grave dolore
mostrr nel finimento
de suo dur partimento
alquante donne de summo valore,
con certi lor seguaci per zascuna,
piangendo ad una ad una
quel d'i Petrarchi fiorentin poeta,
messer Francesco e sua vita discreta!
Gramatica era prima in questo pianto,
e con lei Prisciano e Uguccione,
Gragissimo, Papa e Dottrinale,
dicendo: - Car figliol, tu amasti tanto
la mia scienza fin pizzol garzone
ch'a ti non se retrova alcuno equale.
Chi seguitar pi cotante scale,
dove se monta al fin d'i miei conaboli?
$Chi sapr i vocaboli
e le divariazione ortografare?
Chi sapr interpretare
i tenebrosi testi?
Quali intelletti presti
seranno a le mie parte concordare?
Unde pianger de ti vie pi me giova,
perch oggi se trova
quasi da mi zascun partirse acerbo,
s'el sa pur concordar el nome e 'l verbo -.
La sconsolata e trista de Retorica
seguitava nel dolo a passo piano,
tenebrosa del pianto in soa figura,
Tullio de retro con la sua Teorica,
Gualfredo praticando e 'l bon Alano,
che non curava pi de la natura.
Dicea costei: - Chi trovar misura
in circuir i miei latini aperti?
Ove seran li sperti
in saper colorar prevariando?
Chi ordir, tessando
come se d' le parte,

el fil de le mie carte,


memoria ferma de z componando?
Qual pi ser nel proferir facondo
e ne li atti, secondo
che la materia e che la rason vole?
Non so, per de ti nel cor me dole -.
$
Con le man zunte e col pianto angoscioso,
con le facce coperte e volte a terra,
seguia de viri una turba devota.
Prim'era Tito Livio doloroso,
istoriografo summo el qual non erra;
Valerio dietro a cos trista nota,
de qual non obliava un pizzol iota;
Svetonio, Florio, Orosio e Eutropio,
e tanti che ben propio
non li sapre' raccontar per memoria;
ch, poi che fo la gloria
del gran Nino possente
infin al d presente,
sapia costui zascuna bella storia;
- Unde pianger possiam -, dicien costoro,
- questo nostro tesoro:
e' n'esponea, e' ne concordava;
el ver tena e 'l soperchio lassava -.
Nove incognite donne ancoi fra nui,
battendo a palme e squarciando lor veste,
i crini lor scioglen per la dogla,
correndo spesso intorno intorno a lui,
baciandol tutto. Sappi chi eran queste:
Melpomen, Erat e Polina,
Tersicor, Euterp e Urana,
Tala, Calliop e l'altr' Clio,
dicendo: - O nostro Dio,
perch n'hai tolto esto figliol diletto?
$Dove trovarem letto
a reposarne inseme,
tanto che senza speme
for per le selve sta nostro recetto? -.
Poi l d'Astrologia un messo venne,
che le donne retenne
a pianger seco, e tanto avien de dolo,
com' se convene a poetico stolo.
De retro a tutte, solamente, onesta
venia la tribulata vedovella,
nel manto scur, facendo amaro sono,
e chi me domandasse chi era questa,
dire' Filosofia, i' dico quella
per cui se studia al fin sol d'esser bono,
dicendo: - Sposo mio, celeste dono,
in cui natura e 'l ciel pose de bene
z che in angel convene,
chi dovr omai le mie vert servire? -.
Poi la vidi seguire
Aristotile e Plato,
e 'l bon Seneca e Cato,
e altri pi, che qui non se p dire,
che ci che speculava era 'n suo fine
l'opre sante e divine.
Per pianger costei p sopra tutti,
perch'ella trova ancoi pochi redutti.

Undici fr, zascun con sua corona,


che 'l portr al sepolcro de Parnaso,
ch' stato chiuso per s longo spazio.
$Undici furon, come se rasona,
quei ch'han bevu' de l'acqua de tal vaso;
Vergilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Esiodo, Persio, Lucano e Orazio,
e Gallo e dui, che fan mia mente sorda;
e chi l'ud s'accorda
ch'alcun pi de costui mai non fu degno.
Poi del celico regno
venne Apollo e Minerva,
che sua corona serva,
e s l'appose al suo peneo legno,
el qual non teme la sita de Giove,
n secca 'l vento o piove.
Poi imbalsimr el corpo, e l'alma santa
portr lass dove osanna se canta.
Lamento, tu hai a far pizzol viaggio:
io taccio la cason, perch tu 'l sai.
Va, che pur trovarai
alcun dolerse teco.
Poi t'ammonisco e preco
che faccia scusa de toa trista rima
in tema s sobrima,
ch 'l tuo fattor non de pi sapere.
Bastili el bon volere,
e se alcun del nome te dimanda,
de quel che 'n z te manda,
d' che Antonio Beccar, un da Ferrara,
che poco sa ma volenter impara.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio da Ferrara
%61%|XV|
O novella Tarpea, in cui s'asconde
quell'eloquente e lucido tesoro
del trionfal poetico, ch'alloro
peneo colse per le verdi fronde,
prite tanto che de le faconde
toe gioie se demostrino a coloro
ch'aspettano e a mi ch'in z m'incoro
pi ch'assetato cervo a le chiar'onde:
deh, non voler asconder el valore
che te concede Apollo, ch scienza
comunicata sl multiplicare,
ma apri lo stil tuo de l'eloquenza,
e vogli alquanto mi certificare
qual prima fu o Speranza o Amore.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giannozzo Sacchetti
%62%|GIANNOZZO SACCHETTI|

%63%|I|
Chi non meco a rinovare il pianto

sovra le membra preziose e l'ossa,


non vede quanto Amor piet m'induce.
Guardate quella donna ch'amai tanto
com' trasfigurata in questa fossa
dove il piacer m' tolto e pi non luce.
Oh lasso!, chi m'adduce
conforto, ch'i' non moro a questo punto?
O cor, dove se' giunto?
Se tu non t'apri qui per gran dolore,
mai non ti chiamer servo d'Amore.
Guarda gli schietti pi leggieri e bianchi,
che perseguiano Amor soavemente
con l'onest che a donna si richiede:
vedigli 'n terra consumati e stanchi,
spartite l'ossa e le midolla spente,
che fanno gran paura a chi gli vede.
E pensa, ove si diede
Natura a far la gamba s pulita,
vedi quel ch' reddita:
un osso vto, palido e sottile,
che gi s caro fu, or s vile.
$
Le membra poi infin al fedel petto,
l'ossa che rinchiudea suo corpo degno
ov'ogni gran virt sempre albergava,
mi dnno a rimirar tanto sospetto
e tanta maraviglia, ch'io mi segno
pensando quel c'ha fatto Morte prava.
Costei, ch'alluminava
di sua gentil bellezza l'aria tutta,
travagliata e distrutta
in terra giace come cosa morta,
dov'ell' pi che mai viva e accorta.
La bionda testa e 'l viso tanto bello
con gli atti addorni d'ogni piacer novo,
guarda quel ch' venuta e se par dessa:
non vi si vede su 'l biondo capello
che di varie grillande era rinovo,
over la luce drento a s commessa
e cos ben compressa.
In che forma l' giunta tu tel vedi
dal capo fino a' piedi,
le membra a nodo a nodo rotte e sparte,
la carne consumata in ogni parte.
Tal venuto amor per duol mortale
in un anno e tre d che qui fu posto.
Ma pi non posso se non pianger forte
e l'ossa, di che tanto ancor mi cale,
spesso vedr s come son disposto,
basciando con piet le dritte e torte,
in fin che crudel morte
me non ancide come ha fatto lei:
$allora a' santi piei
seco nel ciel mi trover, dov'ella
intera vi oltra misura bella.
Canzone, i' mi diparto da la tomba
dov'ho lasciato amor cos difunto:
per dolor m' giunto
con gran piet che s forte mi sgrada,
ch'i' non ti posso dir dove tu vada.

$@Trecento: Rimatori di scuola - Giannozzo Sacchetti


%64%|II|
Perch'io son giunto in parte che 'l dolore
tanto mi grava e s forte m'afferra,
che m'abbatte per terra
s com'uom da Fortuna vinto e stanco,
aprir 'l petto mio con quel valore
che deboletta chiave lo diserra,
narrando l'aspra guerra
ch'a la mia barca Fortuna fa anco,
s ch'ogni giorno, lasso!, vegno manco
come padron ch'ogni averso gl'intoppa,
e seggio in su la poppa
gi fuor d'ogni speranza e di soccorso.
Cos ciascuna pena in me s'agroppa
quando m'apressa pi nel mortal corso
costei, che m'ha trascorso
da' vaghi porti e dal benigno mare
dove non rimedio al tempestare.
Giva la barca mia soave e cheta
con vaghi venti, piena di conforto:
cos di porto in porto
non m'era grave fare alcun viaggio.
Giunsemi quella ch'attrista e allieta,
invidiosa di mio bel diporto,
gridando: - Tu se' morto. $Subito mi lev il celeste raggio;
poi, con un'onda ch'allor dissi: - I' caggio veggendo la barchetta gi riversa,
gittommi a la traversa,
mostrar volendo ch'i' fessi altra via.
L'aria, venuta nera overo persa,
forte il vento indi versa,
s che la vela intorno si 'volgia
e 'l remo mi fuggia:
ruppemi 'l buon timon, che mi fu segno
di non valere a ci forza n ingegno.
Cos guardando la nudetta barca
a pianger sopra lei incominciava
e con le man parava
le crudeli onde per dar qualche aiuto.
Ma la nimica avanti mi travarca
in parte gi che l'occhio non mirava
quell'orme ch'io lasciava,
s tosto in alto mar m'ebbe premuto:
onde dolor, che mai non conosciuto
fu da me, giunse intrando per la mente
tanto superbamente,
che' membri tutti si chiamaron vinti.
Caddi riverso allora immantenente;
sentendo i tristi polsi gi distinti
di gran piet sospinti,
rende'mi a quella ch' di me pi forte,
non aspettando bene altro che morte.
$
Gi non pens costei se fe' ragione
a rompermi e rubarmi ogni altro bene
e rinchiudermi in pene,
ch'ognor mi crescon quanto pi mi move.

Deh, qual dispetto gli mosse cagione


d'impedir la mia barca, ch'a s tene
s ch'omai mi convene
lasciarla a guida di sue false prove?
O inclito, superno, o alto Giove,
anzi che vogli che questa mi stenti,
fa' ch'i' morto diventi
per la piet di mia rigida pena;
tu vedi mie valori essere spenti,
s sospignendo qua e l mi mena,
ch'ogni debole vena
grida l'aiuto tuo, o Morte, tosto,
se non che poi morr peggio disposto.
Cos son giunto qui solo soletto
a guida di crudeli e rigide onde,
n mai tornare a sponde
creder non posso, s m'ha gi nel lago.
Or scendere or salire al mio dispetto
convienmi l'acqua che 'l ben mi nasconde
e tanto mi rinfonde,
che per dolor di terra non mi smago.
O superba nemica, o aspro drago,
che credi far di me poi che qui m'hai?
$Raffrena l'ira omai,
ch ben tempo s'a ragion riguardi,
e, se non pare avermi fatto assai,
uccidimi, per Dio, sanza pi tardi,
ch, dove tra' codardi
io vada poi, saranno men mortali
che questi spessi e dispietati strali.
Canzon, tu vedi ben com'io rimango
padrone afflitto de la trista nave;
per non ti sia grave
d'andarne tosto dove pi ti cale:
di' che contra Fortuna nessun vale.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giannozzo Sacchetti
%65%|III|
Mettete dentro gli spezzati remi,
calate vele, o stanchi marinai:
fortuna cresce e 'l giorno passa omai,
lungo il viaggio e non mi par che scemi.
Non ci lascin conducer ne gli stremi,
abandonati corpi pien di guai,
ove veder si pu che sempre mai
convien che la sua vita fredda tremi.
E se volete seguire il cammino,
cercate di trovare altro padrone
che pi di me aventurato sia,
ch'i' vo' tornare al creator divino
con nova barca e con novo timone,
lasciando a voi la trista vita mia.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giannozzo Sacchetti
%66%|IV|
Maria dolze, che fai?

Deh, perch non mi di


Ges diletto omai,
tanto da me bramato?
Dammi il diletto figlio,
Vergine madre pia,
non mel tener nascoso:
vivone in gran periglio
s'i' non l'aggio in balia,
tanto par dilettoso.
Egli 'l nostro riposo;
in esso vive 'l core;
egli 'l verace amore,
verbo di Dio incarnato.
Egli quel sommo bene
ch'arse di caritade,
umil uomo divenne,
cambi diletto a pene,
ciel per umanitade:
di vita e morte tenne.
Questo non si convenne
se non in quanto volle
per un vermine folle
morire inebriato.
$
Di questa dolce ebrezza
un odor m' venuto,
ch'i' non son quel ch'io soglio;
preso m'ha tal mattezza,
tal coltel m'ha feruto,
ch'altro che lui non voglio.
Ma ben gran cordoglio,
s vil prezzo adimanda:
per povert comanda
s a noi esser dato.
O povert diletta
de lo spirito umano
a Dio cotanto cara,
esser non puo' costretta;
vola dunque tostano,
al mio dolor ripara,
la via del cielo impara;
priega del mar la stella:
chi poppa sua mamella
non gli fia dinegato.
Vien, dolor con fatica,
obbrobrio con la morte,
siate con meco insieme.
L'amor che mi nutrica
mi guidi ne la corte
dove sta la mia speme.
Per lo mio cor che geme
nel cor di Ies vero,
ogni uom facci preghiero
ch'i' non sia abandonato.
$
Una volta m'apparve
Ies tutto pietoso;
gi mai poi nol rividi;
accesemi e disparve,
lasciando il cor doglioso
ripien d'amari stridi.
Ies, l'ora ch'i' vidi

te, benigno conforto,


fussi caduto morto
poi che tu m'hai lasciato.
Ben ti dissi da prima:
- Signor, i' non son degno
ch'entri sotto 'l mie tetto. Ma tu con dolze lima
del cor ciascuno ingegno
diserrasti nel petto.
Ebbi tanto diletto,
ch'apena ch'i' ne viva,
po' che l'anima priva
de l'amoroso amato.
Non mi dispereraggio:
tale speranza sento,
ch'i' non posso mancare.
Tal fede nel coraggio
fuggesi come vento
com vengoti abracciare.
So ben che 'l mio pigrare
Ies dolze m'ha tolto;
rinnoveraggio volto
d'amor tutto infiammato.
$
Se la suo fiamma vede,
non si potr tenere
ch'ella dentro non arda.
So ben che ne la fede
sta tutto il suo piacere,
quella che 'l cor ben guarda.
Fede mia, sta gagliarda
e col ben far t'acosta:
Cristo gi non si scosta
se un poco sta celato.
Alquanto mi do pace,
da po' ch'esser non puote
ch'i' non l'abracci e prenda,
pognan che mi dispiace
di far s lunghe note
prima ch'a me s'arrenda.
Quanto pu si difenda,
ch'i' nol giunga a quell'esca
de l'amorosa tresca
che 'l fa di s impazzato.
L'amato con l'amante
pur convien che s'unisca
per forza de l'amore.
Se Ies fa 'l sembiante
ch'altri per lui languisca,
pi s'accende il fervore.
Sta, cor mio, di buon core,
non temer d'amarezza:
doppia fia la dolcezza
poi nel regno beato.
$
Maria, dunque ti prego,
s'or non mel vuoi largire,
ch'al mio fine mel serbi;
e io a questo mi lego,
s'i' dovessi morire,
non usar co' superbi.
L'umilt mi riserbi

al dolce Signor mio,


a que', ch'essendo Iddio,
mor per me incarnato.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%67%|FRANCESCO DI VANNOZZO|

%68%|I|
Giravan gli occhi miei di dolor prengni
per voglia di veder quella lezadra
che nuovamente il cuor mi piega e squadra
come a lei piace senza troppi inzengni.
Ai, maladetti e dolorosi sengni,
di canto en canticel, di quadre in quadra,
che me appariro in quella notte ladra,
principio de martiri e de disdegni!
Allora ben previddi il gran dolore
del mio partire et anco il protestava
un tremito moderno e 'l batticore.
Possa nel luogo ove madonna stava
ad occhi chiusi riconobbi Amore,
per mio conforto, a lei che mi guidava.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%69%|II|
Sia benedetto el vespro e 'l predicare,
dove la vaga mia tal sonno colse
che stetter gli ochi miei, non quanto volse,
ma lieti in pace al suo viso mirare.
Io credo ben che Amore el fece fare,
come colui che di me si condolse,
menbrando il tempo che 'n fasse mi tolse
fuor de la culla in figlio a notricare.
D, quanto allor zoioso mio distino
mostrme el cielo, a reguardar madonna
seder con gli ochi chiusi a capo chino
su lato destro, e la vermiglia gonna
partir col bianco (in megio era oro fino),
la palma letto e 'l bel braccio colonna.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%70%|III|
Legiadro mio giardin, lucido e bello,
sussitator de zascun corpo morto,
tutto d'intorno chiuso di conforto,
dove s'asconde ogni zentil ucello,
perch trattato m'hai come fratello
coprendo bellamente ogni mie torto,
avegna che sia tardi, i' ti fo accorto
che 'l t' furato il tuo caro gioiello.
Non pur per te mo il dico, ancor per io:
io sento mormorar quind'oltre genti
che trattano de torne el nostro dio.
Per piangemo insieme ambi dolenti:

tu te condolerai del dolor mio,


et io di te che selva gia deventi.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%71%|IV|
Gaio e zontil zardino adorno e fresco,
dove per suo piacer la Dea s'asconde,
inclina verso me tuo' fresche fronde,
se per parlar un poco non t'incresco.
Io sono il cor del tuo fratel Francesco,
quel che s crudelmente Amor confonde:
da te mi parto, e non so veder donde;
mia morte fuggo in cui tanto m'adesco.
Sol un rimedio trovo a la mia doglia,
che se 'l fia mai ch'a te costei si stenda,
tu faccia lacrimar ciascuna foglia;
e gli arbor tutti mia rason diffenda
per fin ch'ella non mossa de voglia:
i fiori e l'erba 'sta giudea riprenda.
E s'ella vi domanda: - A che piangete? ognun risponda: - Piet non avete -.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%72%|V|
Pascolando mi vado a passi lenti,
pensoso via per questo solaretto
dove 'l mio cor incarcerato e stretto,
sligato de le man d'ongn'altre genti.
Per la parete ai bucarelli attenti
stan gli occhi, sta l'animo soletto
sol per veder quel volto benedetto
che notte e d mi d tanti tormenti.
A l'alba levo e guardo al bel coperto
che chiude in s quei radii de la dea
a cui gran tempo ho gi lo spirto offerto.
Cos mi struggio in questa vita rea,
che, s'io non fossi a tal fatiche esperto,
m'ucciderei qual Dido per Enea.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%73%|VI|
O solitario vago ignoto cuco,
tuba d'amor che per li verde prati
gli amanti svegli e fai tutti avisati
quando incomincia il dolce badaluco;
ben ch'io non sia caduto nel trabuco
di quei che sono a morte confinati,
quand'io rimembro e compagni passati,
odendo il canto tuo tutto me struco:
perch guardando al ciel bicorna luna
m'apparve tal, che quanto dura il giorno
l'un me percuote, e l'altro all'ora bruna.
Di che pensieri assai mi surge intorno,
che questa maladetta de Fortuna
non voglia farmi un tradimento adorno.

Ma faccia pur, ch'io vado e son armato:


Amor m'aiuti che m'ha nutricato.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%74%|VII|
Liuto mio, d, quanto pianger degio
l'acerba, dura e rustica partita
che da te feci in faccia scolorita,
de gran necessit caduto in gregio!
Or dico ben ch'io sento e chiaro vegio
senza di te ch'io perderei la vita,
a dir che 'n tanti non vego un'aita
e quel pi crudo che pi mite cregio.
O mia fortuna trista e maledetta,
che da trent'anni i' son fatto corrieri
con l'usitate gambe a zir in fretta,
de Ponte-Surga povro prisonieri,
ignudo, scalzo et in misera vetta!
Ma tutto prendo in pace volontieri,
che s vilmente t'agio abandonato:
s'io perdo gli occhi, i' l'ho ben meritato.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%75%|VIII|
Quand'io mi volgo a torno e pongo mente
al mio cor alto e a le scarpe rotte,
bramo la febre, mal de fianchi e gotte
e maladico Dio ch'a ci consente;
biastemo el d che mi spinse a ponente
e 'l tristo mar ch'afogar non mi puote,
la terra che non s'apre e non mi 'nghiotte
come ranochia in boca di serpente.
Per, sonetto, fa delle gambe ali,
e di' con reverenzia a monsignore
che ponga fine a questi nostri mali.
Seco m'ha ritenuto el grande amore,
n in papa spero pi, n in cardinali:
s'egli gran conte, io son gran servitore.
Pi non ti dico: schietto a lui t'acosta,
ma guarda non tornar senza risposta.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%76%|IX|
El poder basso col voler altiero
m'ha fatto roder osse e gollar spine,
tal ch'io son oggi d'ogni ben confine,
di pena carco e di piuma leggiero.
E non mi val armonico mestiero
o por con lingua nero in albe brine,
n di natura mi val medicine,
ch'io son converso d'omo in un sparviero.
Ben che tra gli altri uccelli io viva adorno
de getti, de braghette e de sonagli,
con le promesse assai di giorno in giorno,

e coronato con creste di galli,


le longhe e 'l "ben-farem" mi van d'atorno
pi ch'a levere brocche de bresagli.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%77%|X|
Amor or treppa, ride, gioca e godi,
or l'arco piglia, tira, getta e fieri,
or gela, or ardi, or struggi el prixonieri,
or pnlo in croce e possa el cor li rodi.
Con gran razon mi fai li aspri nodi,
e non senza perch pigli el sentieri:
ormai m'alcidi, Amor, ch i mie' pensieri
contra zascun in to lodar fien sodi,
po' che 'l tuo servo, che sua vita stenta,
io vegio a mortal sorte esser or giunto,
come descrive el suo dolente stile.
Ma chi de z ne fa l'alma contenta?
Lacrime assai ch'io vidi in un sol punto
dagli occhi soi correnti pi che 'l Sile.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%78%|XI|
Se Dio m'aide, a le vangniele, compar,
a dir ci che me par,
i' gran paura:
se 'l no 'nde vien ventura,
nu perderemo l'ambladura
e difaremo foza.
Zenovesi sta in Clozza:
entro per quei vignali
'li fase tutti i mali;
lo s un peccado!
Marco Storlado
end' pur mo' vignudo
e sier Zan Sanudo con esso,
et enghe stadi appresso a un trar di piera:
'li ha vezudo una bandiera granda
con una banda
blanca e non se che vermeio.
Per Sen Baseio, se la rende splendor!
S l'arme del signor da Carrera
che 'nd'ha fatto 'sta vera
con so' traditi enganni.
El fa gi pluxor anni
che s questa bugada:
esso si l'ha menada
e mo' 'nde d panada senza pan. $- Dis mo pur plan;
per San Casian,
driedo ancuo' vien doman:
lass pur andar.
Mo diseme, compar,
che 'nde pu 'li far? - I 'nde pu rubar. - Mo a che partido?

Non seremo nu a Lido?


No x infortido 'l porto?
Mo' x Sen Marco morto?
Vu se' gran desconforto a la citade:
che Die ve dia 'firmitade,
lengua maledetta.
Ligheve meio la vetta,
e toll z la beretta,
se 'sta terra benedetta
di andar a saccomanno.
Che s'un garzon d'un anno
v'avesse oldido,
vu saresse schernido
e vituperado.
Lo campo s levado! - Mo Dio lo voia! - Dico, deve bona voia,
Che nu averemo plazer e zoia
avanti che compla 'l mese. - Che ghe s? - Le Bebe s rescattade!
$Questo s veritade,
ch'ie l' sapudo
da sier Benvegnudo
e da mio cugnado;
e vu se' smemorado, tal co bestia:
non me d pl molestia che Die v'aide!
Chi non pu planzer ride a la buonazza. - Co' vol vu che se fazza? - Movemose de plazza
e tocheremo 'l gotto.
Clam sier Marcotto,
e andaremo de botto al maritasso,
o vol passo passo,
ende s un tratto d'arco.
Dix a Marco che vada oltra anenti,
e un de li oltri fenti,
el vostro o 'l mio. - S, a le piaghe de Dio!
Coletto fio,
vrdeme da olto,
traggi un gran solto
fuor de Riolto
e cori a casa,
e puo' dira' a Tomasa o Cattaruzza
che dia la clave a una de le sclave,
e sia bona massera;
parecla una anghestera con do gotti
per missier e per Pier Vidotti;
e se i smergoni cotti,
di' che la manda gioso.
$
Co distu, Nafoso,
de questa nostra paxe? - Mesier, f co ve plaxe. Pur aponto.
Vu av a far conto
che co misier fo zonto e la brigada
li fese tal fracasada
che tutta la contrada fo a remor,
e corse 'nde pluxor:
sier Michiel procorator
e fo 'nde li Signor de Notte.

Mesier, 'li se d tante botte


che, Dio, misericordia!
Non dix de concordia,
ni per Dio ni per Senti.
Omeni e fenti
li scampava danenti:
quel tristo abissado
era emplagado
e l'oltro avia snodado el costolier.
E co 'l vede mesier co l'ha per tresso,
negun ghe steva apresso:
se no puo' adesso,
co venne madonna Diod,
suor de so cugn,
la cosa fo de botto atasentada:
ch co 'lo la vete
'lo se restete
e mese lo gladio en vagina.
$Agnesina e Margarita
senza flado e senza vita,
e quella topina aflicta
da ca' Moro,
bona co l'oro, col so cavo blondo,
desfarse del mondo,
baterse e afranger:
la feva planger tutti en veritade,
s che per so bontade fese tanto
che 'la si pu dar vanto en questo stado
d'aver pacificado do lioni;
tal che 'l nevode de sier Zan Gargioni,
co Dio ha plasesto,
s pareclado e presto
de tuorla per moier;
e fin da l'oltr'ier el pledo comenzado,
et enghe z invitado pluxor donne
da ca' Corner,
e li zubler tutti s apparecladi
e 'li s spalmadi de claro:
e me se as de caro
che sia comprado el varo e le varnazze.
E se 'l no 'nde vien cosa che 'nd'empazze,
co s tempesta o pluoba,
io credo che zuoba
la cosa sar spazada,
e seranghe brigada de barbuda.
$
Misier, co' zuoba fo vegnuda,
la cosa fo compluda,
e ieranghe Benvegnuda e sor Floretta,
madonna Benedetta e Madaluzza,
Fantina, Cataruzza e Flordelise
et an, s co se dise,
ende fo omeni ass,
e puo' ve dir
che 'l non se vette me tanti signor
de le case mazor avantazadi,
tutti avogadi en campo de Sem Polo,
s come dise el golo e Pier Zancani
e Ser Nadal Pollani che 'nde iera.
E non s cuor de piera
che non fosse adolzido

aver oldido el pruolego


che fese 'l nostro struoligo,
che fo fio del Besazza,
en megio de la plazza.
"Ved, co vu oldir
(s cominz a parlar),
nu semo a questa plazza,
che Dio be' 'nde fazza,
mi per dir, vu per oldir Dio lodar.
In nome de Dio par
e de la so dolce mar
madona Santa Maria,
az che Dio varenta la conpagnia
e amplifica la nostra Signoria
sempre in mior stado,
$al presente tractato
ende sar nomenado
lo Vangelista beado,
miser Sem Marco
con Dio anenti
e tutti li altri Senti.
S qua cos presenti
lo sposo e la sposa:
A vu, donna Rebosa da ca' Moro,
ve plase per marido
sier Afenido da ca' Malipiero
e s consent en esso?"
Le donne da presso
vardava tutte tresso
madonna Diodada,
suor de so cugnada.
Con la cegla arbassada
la sposa vergognada
non sope responder,
e pur se vuol asconder
e ninte dixe.
Se no che Flordelise,
suor de la dogaressa,
se fese l da essa: "Di', fiia, di'!"
E allora essa respose: "Misser, s".
"E a ti, Affenido da ca' Malipier,
te plaxe per moiier
e vuostu qua cos per to sposa
donna Rebosa et en essa consenti?"
$El matto mostra i denti
e disse: "Messer, co ve plase".
"And in bona pase";
e mette-i l'anello.
"Va oltra, donzello in bon viaggio:
da ca' Selvaggio, fa sonar i versi".
Piero Inversi li branca la fozza,
Zanni da Clozza
i d sul cavo,
el Sclavo beretter,
Nicoletto ostregher e Pier Galina
fese una remesina,
ch'elli parea stornelli,
tal che do mantelli s 'nde fo persi.
E, con li versi sona,
madona Semprebona

da ca' Zustinian
li prese tutti do per man
e feseli ballar.
Vu av a rasonar
che li era ben 'na allegrezza vardar
cotanta bella zenta co i' 'nghe vitti:
e puo' quel Marco Gritti e Pier Grioni,
Ugo da ca' Garzoni vezadi
e 'nmantelladi per entrar en danza,
s co s usanza de la cittade.
$Pu de suo voluntade
lo sposo fese artegnir,
s co 'l vette vegnir,
lo Marmora, che iera so compar,
e dise-i: "Dolce frar,
io te voio caramente pregar
che 'l te plaqua de cantar
e de vegnir a tresca".
Lo Marmora con la suo ciera fresca:
"Non voia Dio che me recresca,
an diroio una canzon:
"Tui ghe se' e io ghe son";
e dise: "d, l' bon, bel diridon";
e co la canzon fo riva,
'lo grida, ch'ognom l'oldiva,
ver lo sposado:
"Se Die te varenta 'l novizado
e se Dio te varda da mal morir,
plaquave de dir una canzon".
Affenido, co un castron,
prese a dir un madrigal,
e respose-i Zannin da Canal;
e la canzon fo tal co vu oldir:
"Puo' che se' gionta al partido,
fia mia, che tu se' sposa,
varda ben de non far cosa
che desplaqua a to marido.
E quando ch'el vien de notte,
che tu ve' ch'i' son irado,
non pensar ch'io te dia botte:
$fatte arente al mio costado,
che co ie son adormentado
da doman io son 'mendado".
Co la sposa l'ave oldido,
stette forte vergognada,
e puo' dixe: - Tas, brigada,
ch'io vo' dir una ballada -:
"Ardente mio marido,
caro frar, dolze Affenido,
el ver ch'io son to sposa:
vardarme de far cosa
che me sepi; io te 'nd'afido.
Quando ch'el ser di notte,
se tu vien apiornado,
io te dar tante botte
che tu non gaver flado;
e se avesse a z pensado,
no 'nd'avria tolto marido". Co sier Affenido
old quella resposta,

'lo la varda de posta


e d-i una goltada.
Diod, ch'old el buffetto,
e so frar Coletto
se i fese davanti
e pluxor mercatanti
e zentilomini,
e comenzar a cridar
per tramezar la briga:
e 'nde fo gran fatiga
e grande messedada.
$E puo' venne so cugnada
e donna Marta:
"D, chi no 'nd'ha a-ffar si parta!",
e fese adur una quarta de castron;
Griguol Bon la fese arostir,
e fese vegnir
Affenido e Rebosa,
topina e dolorosa, che planzea.
Et esso con essa sen dolea
po' digando: "Rebosa, io non credea
che tu te dovesse corozar;
ma, s'ie non m'aniga in mar,
ie non far plu cosa te dispiaqua,
e s vado ber de l'acqua
o del vin ben adaguado".
Die Cristo ne sia loldado!
El prevede fo clamado
e disse-i la messa,
e esso and da essa
e d-i pase per bocca.
De puo' enn avanti
tanto i desplaque la rocca,
che non s'old me dir che la filasse:
sempre s stada con bagase
a lavorar di vette,
bindoni e cornette.
E l'un co l'oltro si plasette
con tanto amor ligadi,
ch'eli s sempre stadi
in pase e in tranquilitade.
"St, che Dio ve dia sanitade!"
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%79%|XII|
El bel destino che dal ciel t' dato,
re nostro sacrosanto, illustre prince,
a questo punto tutta Italia vince
facendo zascun popol consolato.
E se 'l mio dir te par che sia sboccato,
pensa che gran dolor or mi convince
per le malvasie e maladette cince,
che men intorno el gran dolor passato.
Italia son che 'n fretta m'apresento
a l'orme sacre tue, zusta Corona,
per far il sito mio da pena essento.
Po' ch'hai drizato Vicenza e Verona
nel suo paregio con s dolce vento,
ch'n care membra de la mia persona,

l'altre se gettan tutte en le tuo' braccia,


perch tirn giamai non le disfaccia.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Francesco di Vannozzo
%80%|XIII|
Italia, figlia mia, prendi dilecto,
prendi conforto, lieta, e prendi lena,
ch 'n breve tu sarai tratta di pena,
immaculata senza alcun diffecto.
Io son la negra Roma, che l'aspetto
per farmi bella con pulita lena;
e non dubbiar che z che a te lui mena
il priego mio ch'al cielo ogni d zetto,
per che senza lui far non si puote
azal che duri a raconzar le lime,
cho fazan tonde to' fiaccate rote
con tal equalit, che a terze e prime
nel grado suo tassato fie la dote.
Donque correte ensieme, o sparse rime,
e zite predigando in ogni via
ch'Italia ride et zunto 'l Messia.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Dondi dall'Orologio
%81%|GIOVANNI DONDI DALL'OROLOGIO|

%82%|I|
Ogni cosa mortal convien che manchi,
ben che tal men e tal pi tempo dura;
unde, crescendo al fin di sua statura,
l'uom prima avanza e po' par che se stanchi:
el capo langue, el ventre, i piedi, i fianchi;
de giorno in giorno cade la natura;
la pelle increspa e perde soa figura
e i capii biondi imbruna e poi vien bianchi.
E s brive e ratta la dimora
nostra nel mondo qui pien di difetto,
che la maor parte se ritrova a l'ora
de la partita senza alcun protetto.
Ma quel saggio che sol s'inamora
di Dio, s ch'abia pace in suo conspetto.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Dondi dall'Orologio
%83%|II|
Nel summo cielo con eterna vita
gode l'alma felice tua, Petrarca;
quivi de sodo sasso in nobel arca
la terena caduca parte sita.
La fama del tuo nome gi gradita
sonando va con gloriosa barca
di vera lode e, d'ogni pregio carca,
per l'universo in ogni canto udita.
Ne le scrite sentenze toe se vede

la gentileza de l'ingegno divo


e qual si stato in catolica fede.
Per chionca t'ama non privo
ancor di te, e chi morto ti crede
erra, ch'or vivi e sempre serai vivo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Dondi dall'Orologio
%84%|III|
Glorioso segnor, sopra alto monte
vostro stato fermato cum la eterna
voglia di Dio, che 'l salva e che 'l governa,
convien che d'ora in ora pi sormonte.
Voi siete de Vert chiamato Conte,
siete di pace e iusticia lucerna;
e chi ben mira in voi, par che discerna
benigna grazia sempre ne la fronte,
s che contento o pien d'alta speranza
vive 'l bon servidor e chi sogetto
a la vostr'ombra; e chi non , s'ingegna
d'esser: onde a voi de' crescer fidanza
e lieta vita fuor d'ogni sospetto,
con la qual chi segnor p dir che regna.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Dondi dall'Orologio
%85%|IV|
Gi ne la vaga etade de' primi anni
mi piaque udir et dir tal volta in rima,
ben che chon grosso stile et rude lima;
poy che vestir l'alma de' meglior panni
mi piaque pi, perch' io cognovi i danni
dei perssi d, lasai la via di prima,
prendendo quello che 'n pi pregio si stima
chon magior cura et studiosi afanni.
Ma voy me festi novamente gusto
d'un vostro son, che per piet si lagna
chon dolce modo et bela melodia
di quel caso terribel et ingiusto
di popoli infelice di Romagna;
onde io ritorno a la lasciata via.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Giovanni Dondi dall'Orologio
%86%|V|
Lieti cantando et pigliando il pi sano
camin per l' Appennin chon valor baldo,
passiamo, ora con fredo ora con caldo,
pi per salite et siese cha per piano.
Gi Montefore, Urbino et Candiano,
la Scheggia chon Suggiel, Fossato et Galdo,
Nucea, Fuligno chon l'animo saldo
passato abiam par saxi et per pantano.
Veder speremo Asisi et poi l'anticha
donna di l'altre, con asai dilecto,
che non fie per dolce senza amaro
di danno, di sospetto et di faticha:
ma questo mondo non a ben perfecto,
et quel che costa pi se ten pi caro.

$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci


%87%|ANTONIO PUCCI|

%88%|I|
- Deh fammi una canzon, fammi un sonetto mi dice alcun c'ha la memoria scema,
e parli pur che, datomi la tema,
i' ne debba cavare un gran diletto.
Ma e' non sa ben bene il mio difetto
n quanto il mio dormir per lui si strema,
ch prima ch'una rima del cor prema,
do cento e cento volte per lo letto.
Poi lo scrivo tre volte a le mie spese,
per che prima corregger lo voglio
che 'l mandi fuor tra la gente palese.
Ma d'una cosa tra l'altre mi doglio:
ch'i' non trovai ancora un s cortese
che mi dicesse: - Te' il danai' del foglio. Alcuna volta soglio
essere a bere un quartuccio menato
e pare a loro aver soprapagato.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci
%89%|II|
Andrea, tu mi vendesti per pollastra
sabato sera una vecchia gallina
ch'era de gli anni pi d'una trentina
stata de l'altre genitrice e mastra.
E non fu mai s affamato il Calastra,
che mangiato avesse tal cucina,
per che la paria carne canina
e quell'omore in s c'ha una lastra.
Volevasi mandare a la fornace
e tanto far bollire ogni stagione
ch'ammorbidasse sua carne tenace.
Ma primamente il tegolo o 'l mattone
o calcina saria stata verace,
che quella mossa avesse condizione.
Mangia'ne alcun boccone
per fame e misi a repentaglio i denti:
per fa' che di altre mi contenti.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci
%90%|III|
Quando 'l fanciul piccolino iscioccheggia,
correggil con la scopa e con parole,
e, passati i sette anni, s si vole
adoperar la ferza o la coreggia.
E se passati i quindici folleggia,
fa' col baston, ch altro no gli dole,
e tante gliene d che, dove sole
disubbidirti, perdonanza cheggia.
E se di venti 'n su 'l ben far nemica,

fal mettere in pregion, se te ne cale,


e ivi magro un anno e pi il notrica.
Se nel cavassi e facesse pur male,
amico mio, non vi durar fatica,
ch'uom di trenta anni gastigar non vale:
partil da te cotale
chent'esser vuol, ben che ti sia gran duolo,
e fa' ragion che non sie tuo figliuolo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci
%91%|IV|
La femina fa l'uom viver contento;
gli uomini senza lor niente sanno;
trista la casa dove non ne stanno,
per che senza lor vi si fa stento.
Per ognuna ch' rea ne son cento
che con gran pregio di virtude vanno,
e quando son vestite di bel panno
nostr' l'onore e lor l'addornamento.
Ma gli uomini le tengon pur con busse
e, senza colpa, ognun par che si muova
a bestemmiar chi 'n casa gliel condusse.
Tal vuol gran dota che non val tre uova,
e po' si pente ch'a ci si ridusse
e tanto le vuol ben quant'ell' nuova.
Perch di lor mi giova,
contra chi mal ne dice senza fallo
difender vo'le a piede e a cavallo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci
%92%|V|
Amico mio, da poi c'hai tolto moglie
convienti far ragion che tu rinaschi
e come per l'adrieto non t'infraschi
in quella vanit ch'onor ci toglie.
Sappi con senno rafrenar tuo voglie,
s che a onor con tua donna ti paschi
e a l'altrui merc gi mai non caschi,
ch chi vi cade non sta senza doglie.
Per ti priego che inanzi t'armi
s che non senta mai s fatti duoli,
quante pi volte tu hai sentito parmi.
Non istruggere il tuo, come tu suoli;
se tu guadagni, fa' che tu rispiarmi,
ch'abbi da te, se Dio ti d figliuoli.
A cos fatti duoli,
amico mio, al tuo servigio sono
e s'i' ho fallato, chieggioti perdono.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio Pucci
%93%|VI|
I' ho vedute gi dimolte piazze
per diverse citt; ma de' vicini
vo' ragionar, lasciando l'altre razze.
Bella mi par quella de' Perugini
di molte cose addorna per ragione,

ed anche la fan bella i Fiorentini;


ma de l'altre citt non far menzione,
ch, s'el ti bisognasse per tuo scampo,
trovar non vi potresti un testimone.
Quella di Siena, che si chiama il Campo,
par un catino, e di freddo, di verno,
vi si consuma e, di state, di vampo.
Ma queste e l'altre, se chiaro dicerno,
niente son di frutte e di bellezza
e di ci ch'a la gente d governo,
appetto a quella che mi d vaghezza
di dirne in rima, perch in quella terra
nacqui dov'ella a tutti d allegrezza,
cio Firenze e, se 'l parer no m'erra,
Mercato Vecchio al mondo alimento
s che d'ogni altra piazza il pregio serra.
Ond'io fermai il mio intendimento
di raccontarvi con parole preste
le propiet che nel Mercato sento,
e brievemente dico che son queste:
c'ha quattro chiese ne' suoi quattro canti
ed ogni canto ha due vie manifeste.
$
Artefici ha d'intorno e mercatanti
di pi e pi ragion, parte de' quali
racconter a voi, signor, davanti.
Medici v'ha maestri a tutti mali
ed havi pannilini e lanaiuoli,
pizzicagnoli v'ha e speziali.
E1vi chi vende bicchieri ed orciuoli,
e chi alberga e d mangiare e bere
a pi ragion di cattivi figliuoli.
Fondachi grossi v'ha di pi maniere
ed vi la pi bella beccheria
che sia, di buona carne, a mio parere.
E sempre quivi ha gran baratteria:
contentanvisi molto e barattieri
perch v' pien di lor mercatantia,
cio di prestatori e rigattieri,
tavole di contanti e dadaiuoli,
e d'ogni cosa ch'a lor fa mestieri.
Ancor da parte stanno i pollaiuoli
forniti sempre a tutte le stagioni
di lepre e di cinghiali e cavriuoli,
di fagiani e di starne e di capponi
e d'altri uccelli, ch'al conte d'Isprecche
si converrian, sparvieri e falconi.
Sempre di pi ragion vi stanno trecche:
diciam di quelle con parole brutte
che tutto il d per due castagne secche
garrono insieme chiamandosi putte
e sempre son fornite di vantaggio,
secondo il tempo, lor panier di frutte.
$
Ed altre vendon uova con formaggio
per far de gli erbolati e de le torte
o raviuoli o altro di paraggio.
Appresso a queste son le trecche accorte
che vendon camangiare e senapina
e d'ogni ragion erbi, dolce e forte.
E contadin vi vengon la mattina
a rinnovar le cose a le fantesche:

ciascuna rifornisce sua cucina.


Quando le frutte rappariscon fresche,
vengon le foresette con panieri
di fichi, d'uve, di pere e di pesche:
se le motteggi, ascoltan volontieri,
ed havi di pi belle che 'l fiorino
con rose e fior che recan di verzieri.
Non fu gi mai cos nobil giardino
come a quel tempo gli Mercato Vecchio,
che l'occhio e 'l gusto pasce al fiorentino.
Non credo che nel mondo abbia parecchio,
e ci si pruova per vive ragioni:
non voglia pi chi del mio dir fa specchio.
Or che ricchezza quella de' poponi
che vendon que' che soglion vender biada,
perc'hanno pronte a ci loro stazzoni!
Ogni mattina n' piena la strada
di some e di carrate e nel mercato
la gran pressa e molti stanno a bada.
Gentili uomini e donne v'ha da lato,
che spesso veggion venire a le mani
le trecche e' barattier c'hanno giucato.
$
E meretrici v'usano e ruffiani,
battifancelli, zanaiuoli e gaglioffi
e i tignosi, scabbiosi e cattani.
E vedesi chi perde con gran soffi
biastimar con la mano a la mascella
e ricever e dar dimolti ingoffi.
E talor vi si fa con le coltella
ed uccide l'un l'altro, e tutta quanta
allor si turba quella piazza bella.
E spesso ancor vi si trastulla e canta,
per che d'ogni parte arriva quivi
chi vagabondo e di poco s'ammanta.
E per lo freddo v'ha di s cattivi
che nudi stan con le calcagna al culo
perch si son di vestimenti privi,
e mostran spesso quel che mostra il mulo;
pescano spesso a riposata lenza
perch' ciascun di danar netto e pulo.
Quando fa oste il Comun di Firenza,
quinci vi vanno guastatori assai
per ardere e guastare ogni semenza;
esconne manigoldi e picconai,
di cui la gente molto si rammarca
perch guadagnan pur de gli altru' guai.
Incoronati v'ha che de la marca
vengono a farsi caricar la schiena:
beato quello a cui pi spesso carca!
$
E quando i tordi son, sempre n' piena
la bella piazza, e certi gentilotti
co' dadi fanno desinare e cena:
talvolta costan cari i boccon ghiotti,
ch tal vincer si crede il desinare,
ch'accorda per altrui dimolti scotti.
E pochi sdegnan quivi di giucare:
quivi giuocan donzelli e cavalieri
e rade volte senz'essi, mi pare.
Maestri v'ha di ceste e panettieri,
rimondator di pozzi e di giardini

e di molte ragion cacapensieri.


Recanvi, quand' 'l tempo, i contadini
di mele calamagne molte some
da Poggibonizi e d'altri confini,
e di pi cose ch'io non dico il nome,
di fichi secchi e pere carvelle,
mele cotogne ed ogni simil pome.
E1vi chi vende taglieri e scodelle,
chi vende liscio ed vi 'l calzaiuolo
che vende calze e cappelline belle,
e 'l fabbro e 'l ferrovecchio e 'l chiavaiuolo;
e, quando 'l tempo, molte contadine
con pentole di latte fanno stuolo.
Per carnasciale capponi e galline,
partendosi dal viver tra le zolle,
vengono a farsi a' cittadin vicine.
$
Di quaresima poi agli e cipolle
e pastinache sonvi e non pi carne,
s come a Santa Chiesa piacque e volle,
erbette forti da frittelle farne,
fave con ceci e ogni altra civaia,
che di quel tempo s'usa di mangiarne.
E poi quando ne vien la Pasqua gaia,
la piazza par che tutta si rinfreschi,
ch di giardino pare fatta un'aia:
rinnuovansi e racconcian tutti i deschi,
veggionsi pien di cavretti e d'agnelli
e di castron nostrali e gentileschi;
similemente vitelle e vitelli
ed altre carni, e molti cittadini
chi compera di queste e chi di quelli.
Di pi ragion v'arrivano uccellini
s da tenere in gabbia per cantare,
fruson per li fanciulli e passerini;
e colombi e conigli per figliare
e donnole vi son, gatte e gattucci,
e masserizie assai da comperare,
btte, lettier, cassapanche e lettucci;
e parvi quella che accatta le fanti,
pognam ch'el non bisogni a Antonio Pucci.
Del mese di dicembre i buon briganti,
ch'usano in piazza calda, sono insieme
e chiamano un signor di tutti quanti.
Quand' fatto il signor, ciascun si preme
per farsi bel di roba e di cavagli,
n allor paion con le borse sceme.
$
Con l'aste in man, forniti di sonagli,
armeggian per la terra, ognun s gaio
ch'ogni altro par che di suo fatto abagli.
E po' il d di calen di gennaio
vanno in camicia e con allegra fronte,
curando poco grisoppo o rovaio,
e 'n su la terza sopra 'l vecchio ponte
si fanno cavalier, gittansi in Arno
dov' de l'acqua pi cupa la fonte.
Quando bagnati son, com'i' v'incarno,
si ciban di cocomer per confetto
e poi tornano in piazza e non indarno,
ma con le trombe e con molto diletto
ismontan da cavallo al fuoco addorno,

che a loro costa poco ne l'effetto,


perch da' gentiluomini d'intorno
donato lor legname e salvaggiume,
vitello e polli in cos fatto giorno.
Cacciato il freddo che recon del fiume,
non barattieri paion, ma signori
andando a mensa con gentil costume.
Appresso v'ha dimolti servidori,
nappi d'argento v'ha da tutte bande,
sonator di stormenti e cantatori,
lesso ed arrosto con molte vivande;
e poi di presentare e' par cortese
ciascun secondo che tra loro grande.
Poi c'hanno desinato a l'altrui spese,
ch tutto viene di dono e di giuoco,
ed e' cavalcan veggendo 'l paese.
$
Da quella sera in l fan senza cuoco,
per che, forse per le borse vote,
non chi pi per loro accenda fuoco,
ma ricomincian le dolenti note
tornando al pentolin con tal tenore,
che 'n pochi d sottiglian lor le gote
e posson dir "nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria" e ci disse l'autore:
ch dove avean capponi e le pernice,
la vitella e la torta con l'arrosto,
hanno per cambio il porro e la radice.
E quel ch'era signor si vede sposto:
non fe' maggior istoscio Simon mago
ch'a lui pare aver fatto in brieve e tosto,
ch di signor si ritruova nel brago,
non pu soccorrer s e non soccorso,
e dice: - Ohm, perch ne fu' io vago? Quando nel pane asciutto d di morso
e be' de l'acqua, si reca a memoria
che ber soleva il vino a sorso a sorso.
Oh quanti de la rota hanno vittoria
per questo modo, che similemente
iscendon del trionfo a grande storia!
Foll' chi vuole oprar, signor, per boria.
Di questo Antonio Pucci fu poeta.
Cristo vi guardi sempre in vita cheta.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio degli Alberti
%94%|ANTONIO DEGLI ALBERTI|

%95%|I|
Om il bel viso e om il dolce sguardo,
om gli atti leggiadri, onesti e alteri,
e om gli occhi suoi chiari e sinceri
ond'usc prima l'amoroso dardo!
Om l'antico amor per cui io ardo
e per cui tu, mio cor, convien che peri
fra tanta doglia e s grievi pensieri,
che mi fan di mia vita esser bugiardo!
Om il soave ragionar d'amore,

l'angeliche parole e 'l dolce riso


che facien lieta ogni turbata vista!
Om quello immortal vivo splendore
che apparve in terra or nel paradiso
e l'alma mia qua gi sola s'attrista.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Antonio degli Alberti
%96%|II|
O giustizia di Dio, quanto tu peni
a punir Simon mago e la sua setta,
c'hanno a mal far la tua Chiesa costretta
allargando a le legge i primi freni.
La colpa tua omai, se tu sosteni
che la rinnovazion, che 'l mondo aspetta,
non venga gi, com' stata predetta,
a rinfrescar gli antichi e santi beni.
Non tardar dunque a risanar la piaga,
s che 'l disordinato tuo collegio
non dia di s fra noi pi malo essempio.
L'avara Babilonia atterra e paga,
s ch'a l'opere tue non metta pregio,
e gli suoi venditor caccia dal tempio.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%97%|CINO RINUCCINI|

%98%|I|
Io porto scritto con lettere d'oro
ne la mia mente de le donne donna:
il perch d'esser servo a cotal donna
assai m' caro pi che tutto l'oro.
Quando i biondi capelli in lucente oro
veggio annodati da man di tal donna,
lieto ardo tutto per bilt di donna
e pi m'affino che nel foco l'oro.
Ond'io ringrazio te, caro signore,
che di tal donna m'hai or fatto amante,
che vince di color balasci e perle.
E sempre te chiamar vo' per signore
e lei per donna e star palido amante
a l'ombra de le sue guance di perle.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%99%|II|
Chi costei, Amor, che quando appare
l'aer si rasserena e fassi chiara
e qual donna con lei tenuta cara
per le virt che prendon nel suo andare?
Ne gli occhi vaghi allor ti metti a stare,
nel cui lume Natura non fu avara,
signor, s che da te e lei s'impara
di non poter parlar, ma sospirare.
Bench se fusse Omer, Virgilio e Dante

ne' miei pensier con lor versi sonori,


non porrian mai ritrar la sua biltate,
per che Dio da' suoi eccelsi onori
la produsse qua gi nel mondo errante
per mostrar ci che pu sua deitate.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%100%|III|
Tu vuoi ch'io parli, Amor, de la bellezza
d'un miracol ch' al mondo,
il qual non ha secondo:
come il potr io far sanza tua aita?
Aiutami, signor, dmmi fortezza
ch'io sopporti tal pondo
e fa' ch'io sia facondo
a ritrar sua bilt ch' infinita.
Se 'l mio intelletto, che ha virt finita,
tal leggiadria e bel miracol novo
e 'l foco in ch'io mi trovo
mostrar non pu, fanne tu degna scusa
e di' che mal s'ausa
lingua mortale a parlar del divino
c'ha in s la bella donna dentro ascosa:
per che umil mi dichino
a domandar perdono a voi dicendo:
- Io non posso ridir quel ch'io comprendo. I capei d'or, la spaziosa fronte
dove ridon le rose,
nere ciglia amorose
con una via di latte, che divide
da l'altro l'uno in fin ch'al naso smonte,
dove drittura pose
$Natura e dove ascose
de gli occhi il lume, di mie stelle fide,
disparir fanno il sol, dove amor ride
con guance che di perla orientale
hanno color, n tale
pi visto fu. La piccioletta bocca
co' sottil labri fiocca
soave odore da suoi nivei denti
e 'l mento si polito, che si scocca
Policreto e sue genti.
Quando riguardo tal bellezze fiso
non so s'io sono in terra o in paradiso.
La svelta gola colonna polita
che sostien la cervice
d'esta bella fenice
con color cristallin, che sempre splende;
e l'ampie spalle, ov' bilt compita,
e' bracci, a cui ne lice
ci che 'l pensier ne dice
"se tra lor fossi, oh beata tua vita!",
le bianche man, le sottilette dita,
el suo latteo petto e le mammelle,
che chi da lor si svelle
non pu dolce sentire in alcun loco!
Per onest vo' poco
trattar de l'altre parti ascose, Amore.
Il suo suave andar saetta foco,

a chi 'l guarda, nel core:


ond'io consento ci ch' maraviglia
e spesso dico: - Il suo Fattor somiglia. $
Fra divine bellezze Amor ha ascoso
un cor tanto gentile
con vago aspetto umile
da fare inamorar te, sommo Giove.
Nel suo bel viso siede ogni riposo
e ciascun atto vile
vi pr, s che simile
si vien d'ogni virt che da lei piove.
Ne gli occhi suoi, se avien ch'ella gli move,
si veggon cose che uom non sa ridire,
ma convienvi perire
s come occhio mortal nel divin sole.
Con qual degne parole
potre' i' mai ritrar la sua virtute?
Far nol so io; ma chi in un punto vole
veder tutta salute,
guardi il miracol che dal terzo cielo
produsse Dio qua gi nel mortal velo.
Per lei son io, signor, venuto a tale,
che or d'un sasso duro
tutto mi trasfiguro
e divengo uomo e poi palido amante.
O contraria a Medusa, a me non vale
fuggir, s che sicuro
da te pi non mi furo,
perch mi sgrida Amor; ond'io tremante
a lui m'assegno e a te vengo avante
che siedi, com'ei vuol, ne la mia mente,
ad esso obidiente:
comanda tu che mi sentenzi a morte.
$Oh trista, oh dura sorte!
Allor guard'io se alcuno atto pietoso
rimaso in te, c'hai il cor di diamante,
e veggio s cruccioso
il tuo aspetto, che altro non mi giova
che chiamar morte, morte, morte a prova.
Descritto hai, canzon mia, piccola parte
di quel che ho dentro, ch'io non so mostrare.
Ma basti questo a fare
muover gli amanti, che truovi, a pietade:
di' loro in veritade
che per la f, ch'a una donna porto,
io son venuto al punto ov'io son morto.
E poi con umiltade
ne le man de la bella donna mia
raccomanda lo spirto che va via.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%101%|IV|
Amore, spira i tuoi possenti rai
in questa vaga e semplice angiolella,
che non si accorge ancor quant'ella bella
e come piace pi che ogni altra assai.
Ch forse porrei fine a tanti guai,
se questa, che arde me con sua facella

e che ha ne gli occhi bei mille quadrella,


sentisse come il cor non posa mai.
Ella adorna, vezosa e gentile,
n gi mai scese da l'empireo cielo
cosa s bella, che passa ogni stile.
Sua semplice durezza fammi un gelo
che ancide dentro il core e fammi vile,
se non soccorri col dorato telo.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%102%|V|
Con gli occhi assai ne miro,
ma solo una nel core
ne tieni, Amor, per cui sempre sospiro.
Questo fo per iscudo
e per me' ricoprire
i mortal colpi che sentir mi fai.
E tu, sempre pi crudo,
tien' freddo il suo disire
e fa'mi traditor, n ci fu mai.
Dunque, signor, che 'l sai,
scuoprile il mio dolore
e dille: - E' muor sanza colpa in martiro. $@Trecento: Rimatori di scuola - Cino Rinuccini
%103%|VI|
Qual maraviglia questa
che tante volte in voi l'alma non guarda,
che di nuove bellezze il cor non arda?
O pargoletta, scesa
qua gi nel mondo su dal terzo cielo
per mostrar qui sua bellezza infinita,
raguarda quanta offesa
a s fa chi e capei canuti al velo
serba, non conoscendo la sua vita.
Di poi la sbigottita
navicella del servo, ch' in tempesta,
rimira e la sua f, ch'a te s presta.
$@Trecento: Rimatori di scuola - Simone Serdini
%104%|SIMONE SERDINI|

%105%|I|
Le 'nfastidite labbra in ch'io gi pose
mille vaghe dolcezze, e quelle apersi
s come Citarea volse e serrai,
con altri ingegni omai, con altri versi,
mischiati con le lagrime angosciose,
qui si convien che cantino i lor lai!
O Furie infernali, ov'io sperai
gi son molti anni alla mia debil vita,
poi che grazia dal ciel pi non aspetto,

voi m'aiutate, e poi ch'alla partita


de l'alma trista mia <d>el corpo infetto
sar da voi accolta e seppellita.
Con le tue chiome, Erito, ora m'aita,
quale apparisti al doloroso Igneo;
ma fa che alla finita
venga per me con Cerbaro e Anteo!
Sia maledetto il seme e chi 'l congiunse
nel ventre diabolico ov'io giacqui
difforme assai d'ogni virtute umana:
o biastema di Dio con la qual nacqui,
maledetto sia il d che mi ci giunse
come figura mostruosa e strana!
$O vulva adulterata, orrida e vana,
perch non ti serrasti sul dolore,
s che con teco insieme io fusse morto?
Almen, da poi ch'uscito fui di fore,
perch non fui io dismembrato o storto,
e poi a' can dato a mangiare il core?
Maledetta la luce e lo splendore
che prima mai s'aggiunse agli occhi mei,
e chi ne fu l'autore
coi denti 'l teness'io come vorrei!
Non fe' Tideo a vendicar sua onta
qual, s'io potesse, i' sbranarei co' denti
il tristo padre che mi pose in terra;
per me fussero i cieli e i giorni spenti,
la stella d'Orion armata e gionta
contra del sole, e tutto il mondo in guerra!
Perch l'ira di Dio non si disserra
senza misericordia in pianti e strida?
E corra i fiumi impetuoso sangue;
Furia nel volto suo venga, ch'uccida
le radice dell'erbe, e venga un angue
che col venen la terra apra e decida!
O Babilonia avara, ove si grida
oggi gli onor, gli stati e la salute,
cos di te si rida,
come per te si strazia ogni virtute!
Convertansi i d miei in oscura nube,
che non sian numerati in mese o anno,
e sian le notte tenebrose in lutto,
l'ore sian computate in mio affanno,
$e qual pi fera addormentata cube
si svegli omai a divorarmi tutto;
poi che fuor di speranza io son condutto,
contra di me sia il prossimo e l'amico,
vinca come lion la parte avversa!
Peggio Iddio non pu farmi e pi mendico,
che perder l'alma trista ch'i' ho persa
ed in podesta al perfido inimico.
Or fusse tosto almen che l'impudico
corpo si separasse fra' mortali
e l'anima ch'io dico
portassin poi le Furie infernali!
Quivi Satn coi dispietati artigli
m'accogliar fra tanti incliti viri,
da poi che 'l corpo fia pasto di fera;
quivi vedr le lagrime e i sospiri,
ma sar fuor d'esti mondan perigli,

ch'esser non potr peggio a quel ch'io era;


quivi sar fra Tantalo e Megera,
poi verranno i Centauri a devorarmi,
talch di Capaneo portar invidia.
Molte fiate ancor farmi e disfarmi
io mi vedr e roder per accidia,
graffi e serpenti fieno a confortarmi,
folgore e fiamme fieno a 'ncenerarmi:
la maggior pena e 'l pi crudele stento,
tutto vo' comportarmi
pur che di questa vita io fusse spento!
$
Non si rallegra il cavator del campo,
che con la zappa sua trova il tesoro,
qual io farei a ritrovar l'avello;
per ch' troppo singular ristoro,
chi de' morire e non vi vede scampo,
di venir tosto a l'ultimo flagello;
ch pi di mille morti il d fa quello
che giudicato a morte, infino all'ora
la quale ad ogni passione fine.
Questo quel che mi strazia e che m'accora,
poi che per legge superne e divine
l'anima del dimonio, e 'l corpo ancora.
Vorrei, poi ch'io men veggio esser di fora,
con quanti mai ne piobber fitto al centro
e chi pi 'l cielo adora
fusse con meco ruinato dentro!
Canzon, tu cercarai Cariddi e Silla,
dove bffaro mugghia in fra le sarte
e apre il mar terribili procelle;
poi cerca Mongibello in quella parte
dove pi falde orribili sfavilla;
poi te ne va fra le maligne stelle.
Con le pi disperate e tapinelle
anime parlarai: piange e suspira
e di' che tosto me ne vengo ad elle,
per che Dio m' contra e 'l mondo in ira!
$@Trecento: Rimatori di scuola - Simone Serdini
%106%|II|
Corpi celesti e tutte l'altre stelle,
sette pianeti, tutti i cieli e' segni
sian maladetti e le lor posse felle!
E ciascuno alimento s si spegni
maladicendo la natura umana
e te, Fortuna, che s falsa regni!
E maladetta sia quella fontana
di poesia e ciascuna scienza,
e ci che pi da loro omai s'intana!
Le terze e quarte donne d'eccellenza
sian maladette, e ancor quelle sette
che spegnitrice son d'ogni fallenza;
arbori, frutti e erbe maladette,
le pietre, le parole e ogni cosa,
e, se pi fussen, anco le lor sette!
Sommerga il cielo, s che tenebrosa
la luce torni e sia perpetuale,
e in molestar giamai non trovi posa!

Fame con guerra e morbo sia mortale,


e, s'egli paradiso, caggia al fondo,
s che si spenga per fiamma eternale;
e Satans resurga, quel furbondo,
su l'alte sedie e signoreggi il tutto,
poi che cotanto d'ogni ben son mondo!
$
Iob a mestizia mai non fu produtto,
Essiona, Medea, over Primo,
n pi Ulisse, come or son condutto;
s che pi volte il d la morte chiamo:
poi che speranza contra me succede,
veder summerger tutto il mio cor bramo.
Sian maladette ancor le prime rede
e 'l primo seme e quel che de' venire,
che prima fr di matrimonio fede!
Maladetto il pensiero e 'l primo dire
qual ebbe a congregare il genitore
con quella che mi volse poi nutrire;
e maladetti i giorni, i punti e l'ore
e 'l tempo, l'anno, la semmana e 'l mese
che prima si movro a quel tenore;
maladetta la 'ngiuria e le contese,
i canti, suoni, balli e danze ornate;
sian maladette tutte l'altre spese,
l'andate ancora e pi le ritornate
sian maladette, e quelli ornati panni,
le gente ancor ch'a ci fr congregate!
E maladetti i dolorosi danni
che segur per congiunger quello stuolo,
e pi l'amore e' primi e dolci affanni;
e maladetto sia quel mal bestiuolo
che s'intan e sparse quella pianta
che destinata fu con tanto duolo!
$
E maladetta la semenza spanta,
maladetta la tana e pi il cruore
e la baldanza e allegrezza tanta,
e' nove mesi e pi ogni labore
che in me fu fatto: tutto maladetto,
la genitrice e anco il genitore!
E maladetto sia 'l parto imperfetto,
il punto che corria e quel pianeta;
poi maladico ci ch' benedetto!
Gli amari passi e la baldanza inqueta,
le fasce, balie, panni e anco il latte
e 'l battesmo e la cresma in me s leta;
i bagni e le lavande in me s fatte,
e ogni cosa in tutto maladico,
poi che Fortuna tanto mi combatte!
Chi prima a scuola mosse a farmi amico
sia maladetto, i libri e 'l professore,
eccetto 'l mal appreso, ch'i' bendico!
Chi mai mi disse un motto di valore
sia cruciato nell'eterno foco,
poi che spento mi truovo ogni colore!
Non ammirar, lettor, perch'io sia fioco,
ch, se sol una delle mie provasse,
forse staresti non pi saldo al gioco.
Ma bench la mia lingua trapassasse
il segno di ragione, gran mestizia
che mi circunda l'alma, il core e 'l casse.

Or nonostante doglia o mia nequizia,


i' rivoco Colui che pu atarmi,
rendendo in colpa me d'ogni mie vizia,
e che piet lo mova a perdonarmi!
$@Trecento: Rimatori di scuola - Simone Serdini
%107%|III|
Novella monarchia, iusto signore,
clemente padre, insigne e generoso,
per cui pace e riposo
spera trovar la dolce vedovella,
tu sai ben, signor mio, quanto dolore
ella ha portato, poi che 'l dolce sposo,
inclito e glorioso,
volse nel ciel la sua beata stella.
Ella rimase afflitta e tapinella
fra le galliche mani,
dilacerata dal suo proprio sangue.
Non c'era pi il Senato e i buon Romani,
non Cato, non Fabrizio, non Metello,
non Camillo o Marcello,
che per virt fr pari in fra gli dei!
Con lei rimaser barbari e Caldei,
e sotto il sacro manto un crudel angue,
ond'ella ancor si langue
e viene a te per tua santa mercede,
ch d'altri mai non ebbe amor n fede.
Signor, io dico d'una eccelsa donna,
con le pi illustre membra e pi verace,
che, s'ella avesse pace,
sotto del sol non simil bellezza.
$Questa fu sotto il cielo una colonna
di cui memoria eterna ancor si face,
e che 'l sangue rapace
dom nel mondo e ogni pi fiera altezza.
Costei fu madre d'ogni gentilezza
in colmo della rota,
Italia, donna di ciascun terreno!
Ma poi che Constantin la dette in dota
alla scisma cristiana e tirannia
e quella simonia
c'ha guasto il divin culto or pi che mai,
ella ha provato i dolorosi guai,
ch'a poco a poco ella venuta meno,
per che senza freno
ciascuno corso ad istracciarli i panni,
chi con rapina, e chi l'ha giunta a inganni!
Non dico ancor del detestabil seme,
nimico di quiete e caritade,
che dicon libertade,
e con pi tirannia han guasto il mondo:
ahi, vendetta di Dio, perch non preme
tanta nequizia, frodo e crudeltade,
che ne venga pietade
a chi d'ogni suo male pi giocondo!
Costor con loro inganni han messo al fondo
gi le cose di Dio
e conculcato sempre ogni vicino!
$Ora venuto il tempo, ora il disio,

or la santa iustizia a vendicarsi:


ora veggio svegliarsi
Italia bella, e chiama a te vendetta!
Signor, tu vedi che ciascuno aspetta
il tuo santo vessillo e 'l tuo domino:
che 'l sangue fiorentino
purghi la sua pi venenosa scabbia,
e noi sin franchi di cotanta rabbia!
Tu vedi il ciel, la fiammeggiante aurora,
le stelle tue propizie e rutilanti,
i segni tutti quanti
ora disposti alla tua degna spada!
Vedi Pallade, Marte e Juno ancora,
teco il braccio d'Alcide e d'Atalanti;
vedi beati e santi,
la terra e tutto che t'aspetta e bada!
Ricorditi di Julio in la contrada
di Rubicon, che disse:
"Io te seguitar, Fortuna lieta!".
Chi d'Alessandro mai tanto ne scrisse,
quanto fu pi nel seguitar vittoria?
Allor s'acquista gloria
quando il poter s'aggiunge alla stagione:
fiero Anibl, ma vinse Scipione
per seguir sua vittoria e sua pianeta.
Per non stia quieta
la tua virt mentre che 'l ciel la chiama,
e or ch' il tempo di triunfo e fama!
$
Se la tua forza e la tua destra ardita,
la tua gran maiestate e providenza,
sguita or sua potenza,
chi contra Cesar fia mai troppo ardito?
Vedi or Fortuna quant'ella t'aita
l'altrui divisione e differenza,
che senza violenza
vedi la gloria tua e 'l buon partito!
Ahi, signor mio magnanimo e gradito,
queste spade leggiadre
rimetterenle senza aver corona?
Ecco qui Italia, che ti chiama padre
e per te spera omai di triunfare
e di s incoronare
le tue benigne e preziose chiome.
A te ne segue stato, onore e nome,
a noi contento e ben d'ogni persona
che mai non ci abandona:
fede e speranza della tua virtute
fia nostra pace e ultima salute.
Canzon, tu vai a tanta celsitudine,
che, pi presuntuosa assai che degna,
ma quanto puoi, t'ingegna
con umilt piegarti a servitudine.
Quando dinanzi a sua mansuetudine
tu serai in terra a' piedi suoi distesa,
pregal di questa impresa,
per parte d'ogni vero italiano,
principe di Milano,
di Virt Conte e di virt dotato,
iusto, prudente, forte e temperato!

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