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ARIOSTO 10 gir l'aure insino al giorno?

VIII Fur segni forse de la tua partita,


vita de la mia vita? 
Fingon costor che parlan della morte,
Un’effigie a vederla troppo ria;
E io, che so che da somma bellezza,
Per mia felice sorte,
5 A poco a poco nascerà la mia;
Colma d’ogni dolcezza,
Sì bella me la formo nel desio,
Che il pregio d’ogni vita è il viver mio.

ARIOSTO
X

Occhi, non vi accorgete,


Quando mirate fiso
Quel sì soave ed angelico viso,
Che come cera al fôco,
5 Ovver qual neve ai raggi del sol sête?
In acqua diverrete,1
Se non cangiate il loco
Di mirar quell’altiera e vaga fronte:
Chè quelle luci belle, al sole uguali,
10 Pôn tanto in voi, che vi faranno un fonte.
Escon sempre da loro or fôco, or strali.
Fuggite tanti mali:
Se non, vi veggio alfin venir nïente,
e me cieco restarne eternamente.

TASSO

Qual rugiada o qual pianto,


quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
5 E perché seminò la bianca luna
di cristalline stille un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
BOCCACCIO e dicoti che tanto e si mi cuoce,
Decameron IV giornata che per minor martir la morte bramo:
venga adunque, e la mia
Lagrimando dimostro vita crudele e ria
quanto si dolga con ragione il core termini col suo colpo, e ’l mio furore,
d’esser tradito sotto fede Amore. ch’ove ch’io vada il sentirò minore.
Amore, allora che primieramente      Nulla altra via, niuno altro conforto
ponesti in lui colei per cui sospiro mi resta piú che morte alla mia doglia:
senza sperar salute, dállami adunque omai,
sì piena la mostrasti di vertute, pon’ fine, Amor, con essa alli miei guai,
che lieve reputava ogni martiro e ’l cuor di vita sì misera spoglia;
che per te nella mente, deh! fallo, poi ch’a torto
ch’è rimasa dolente, m’è gioi tolta e diporto;
fosse venuto: ma lo mio errore fa’ costei lieta morend’io, signore,
ora conosco, e non senza dolore. come l’hai fatta di nuovo amadore.
     Fatto m’ha conoscente dello ’nganno      Ballata mia, se alcun non t’appara
vedermi abbandonato da colei io non men curo, per ciò che nessuno,
n cui sola sperava: com’io, ti può cantare;
ch’allora ch’io piú esser mi pensava una fatica sola ti vo’ dare:
nella sua grazia e servidore a lei, che tu ritruovi Amore, e a lui solo uno,
senza mirare al danno quanto mi sia discara
del mio futuro affanno, la trista vita amara
m’accorsi lei aver l’altrui valore dimostri appien, pregandol che ’n migliore
dentro raccolto, e me cacciato fore. porto ne ponga per lo suo onore.
     Com’io conobbi me di fuor cacciato,
nacque nel core un pianto doloroso
che ancor vi dimora:
e spesso maladico il giorno e l’ora
che pria m’apparve il suo viso amoroso
d’alta biltate ornato
e piú che mai infiammato;
la fede mia, la speranza e l’ardore
va bestemmiando l’anima che more.
     Quanto ’l mio duol senza conforto sia,
signor, tu ’l puoi sentir, tanto ti chiamo
con dolorosa voce;
Franco Sacchetti, Rime Guido Cavalcanti

“O vaghe montanine pasturelle, In un boschetto trova’ pasturella


       d’onde venite sì leg[g]iadre e belle? più che la stella – bella, al mi’ parere.
      
Qual è ’l paese dove nate sète, Cavelli avea biondetti e ricciutelli,
       che sì bel frutto più che gli altri aduce? e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata;
5        Creature d’Amor vo’ mi parete, 5 con sua verghetta pasturav’ agnelli;
[di]scalza, di rugiada era bagnata;
       tanto la vostra vista addorna luce! cantava come fosse ’namorata:
       Né oro né argento in voi riluce, er’ adornata – di tutto piacere.
       e, mal vestite, parete angiolelle.”
       D’amor la saluta’ imantenente
“No’ stiamo in alpe, presso ad un boschetto; 1 e domandai s’avesse compagnia;
10        povera capannetta è ’l nostro sito; 0 ed ella mi rispose dolzemente
che sola sola per lo bosco gia,
       col padre e con la madre in picciol letto e disse: «Sacci, quando l’augel pia,
       torniam la sera dal prato fiorito, allor disïa – ’l me’ cor drudo avere».
       dove natura ci ha sempre nodrito,
       guardando il dì le nostre peccorelle.” Po’ che mi disse di sua condizione
15        1 e per lo bosco augelli audìo cantare,
“Assa’ si dé’ doler vostra bellezza, 5 fra me stesso diss’ i’: «Or è stagione
di questa pasturella gio’ pigliare».
       quando tra monti e valli la mostrate; Merzé le chiesi sol che di basciare
       ché non è terra di sì grande altezza, ed abracciar, – se le fosse ’n volere.
       dove non foste degne ed onorate.
       Deh, ditemi se voi vi contentate 2 Per man mi prese, d’amorosa voglia,
20        di star ne’ boschi così poverelle?” 0 e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’ una freschetta foglia,
      
là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore;
“Più si contenta ciascuna di noi e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
       andar drieto a le mandre a la pastura, che ’l die d’amore – mi parea vedere.
       che non farebbe qual fosse di voi
       d’andar a feste dentro a vostre mura. 2 Di pensier in pensier, di monte in monte
25        Richezza non cerchiam, né più ventura, 5 mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
       che balli e canti e fiori e ghirlandelle.” Se ’n solitaria piaggia, rivo, o fonte,
       se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,
Ballata, s’i’ fosse come già fui, ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
       diventerei pastore e montanino; e come Amor l’envita,
       e prima ch’io il dicesse altrui, or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
30        serei al loco di costor vicino, si turba et rasserena,
       et or direi “Biondella!” ed or “Martino!”, et in un esser picciol tempo dura;
       seguendo sempre dove andasson elle. onde a la vista huom di tal vita experto
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.

Per alti monti et per selve aspre trovo


qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo Canzone, oltra quell’alpe
de la mia donna, che sovente in gioco là dove il ciel è piú sereno et lieto
gira ’l tormento ch’i’ porto per lei; mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,
et a pena vorrei ove l’aura si sente
cangiar questo mio viver dolce amaro, d’un fresco et odorifero laureto.
ch’i’ dico: Forse anchor ti serva Amore Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;
ad un tempo migliore; qui veder pôi l’imagine mia sola. 
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?

Ove porge ombra un pino alto od un colle


talor m’arresto, e pur nel primo sasso Gaspara Stampa
disegno co la mente il suo bel viso. Rime CLXXIV
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso,
dove se’ giunto! ed onde se’ diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga, Una inaudita e nova crudeltate, 
et mirar lei, ed oblïar me stesso,
un esser al fuggir pronto e leggiero, 
sento Amor sí da presso,
che del suo proprio error l’alma s’appaga: un andar troppo di sue lodi altero, 
in tante parti et sì bella la veggio, un tórre ad altri la sua libertate,
che se l’error durasse, altro non cheggio.
un vedermi penar senza pietate, 
I’ l’ò piú volte (or chi fia che mi ’l creda?)
un aver sempre a' miei danni il pensiero, 
ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde
veduto viva, et nel tronchon d’un faggio un rider di mia morte quando pèro, 
e ’n bianca nube, sí fatta che Leda un aver voglie ognor fredde e gelate,
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che ’l sol copre col raggio; un eterno timor di lontananza, 
et quanto in piú selvaggio
loco mi trovo e ’n piú deserto lido,
un verno eterno senza primavera, 
tanto piú bella il mio pensier l’adombra. un non dar giamai cibo a la speranza
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lí medesmo assido m'han fatto divenir una Chimera, 
me freddo, pietra morta in pietra viva, uno abisso confuso, un mar, ch'avanza
in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva.
d'onde e tempeste una marina vera.
Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi
Giambattista Marino
comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso, L A C A N Z O N E D E I B A CI
alor ch’i’ miro et penso,
quanta aria dal bel viso mi diparte
che sempre m’è sí presso et sí lontano. O baci avventurosi, 
Poscia fra me pian piano:
Che sai tu, lasso? forse in quella parte ristoro de’ miei mali, 
or di tua lontananza si sospira. che di nettare al cor cibo porgete; 
Et in questo penser l’alma respira.
spiriti rugiadosi, 
sensi d’amor vitali,  per ferito esser piú, ferisco a prova. 
che ’n breve giro il viver mio chiudete;       Or tepid’aura e leve, 
in voi le piú secrete  or accento or sorriso, 
dolcezze e piú profonde  pon freno al bacio, a pien non anco impresso. 
provo, talor che con sommessi accenti  Spesso un sol bacio beve 
interrotti lamenti,  sospir, parola e riso; 
lascivetti desiri,  spesso il bacio vien doppio, e ’l bacio spesso 
languidetti sospiri  tronco è dal bacio stesso. 
tra rubino e rubino Amor confonde,  Né sazio avien che lasce 
e piú d’un’alma in una bocca asconde!  pur d’aver sete il desir troppo ingordo: 
     Una bocca omicida,  suggo, mordo, rimordo, 
dolce d’Amor guerrera,  un bacio fugge, un riede, 
cui natura di gemme arma ed inostra,  un ne more, un succede; 
dolcemente mi sfida,  de la morte di quel questo si pasce, 
e schiva e lusinghiera,  e, pria che mora l’un, l’altro rinasce. 
ed amante e nemica a me si mostra.       L’asciutto è caro al core, 
Entran scherzando in giostra  il molle è piú soave,
le lingue innamorate; men dolce è quel che mormorando fugge. 
baci le trombe son, baci l’offese,  Ma quel, che stampa Amore 
baci son le contese;  d’ambrosia umido e grave, 
quelle labra, ch’io stringo,  i vaghi spirti dolcemente sugge. 
son l’agone e l’arringo;  Lasso! ma chi mi strugge 
vezzi son l’onte, e son le piaghe amate,  ritrosa il mi contende 
quanto profonde piú, tanto piú grate.  in atto sí gentil, che ’nvita e nega, 
     Tranquilla guerra e cara,  ricusa insieme e prega. 
ove l’ira è dolcezza,  Pur amata ed amante, 
amor lo sdegno, e ne le risse è pace;  e baciata e baciante, 
ove ’l morir s’impara,  alfin col bacio il cor mi porge e prende, 
l’esser prigion s’apprezza,  e la vita col cor mi fura e rende. 
né men che la vittoria il perder piace!       Miro, rimiro ed ardo, 
Quel corallo mordace,  bacio, ribacio e godo, 
che m’offende, mi giova;  e mirando e baciando mi disfaccio. 
quel dente, che mi fère ad ora ad ora,  Amor tra ’l bacio e ’l guardo 
quel mi risana ancora;  scherza e vaneggia in modo, 
quel bacio, che mi priva  ch’ebro di tanta gloria i’ tremo e taccio; 
di vita, mi raviva;  ond’ella che m’ha in braccio, 
ond’io, c’ho nel morir vita ognor nova,  lascivamente onesta, 
gli occhi mi bacia, e fra le perle elette 
frange due parolette: 
— Cor mio! — dicendo, e poi, 
baciando i baci suoi, 
di bacio in bacio a quel piacer mi desta, 
che l’alme insieme allaccia e i corpi innesta. 
     Vinta allor dal diletto 
con un sospir se ’n viene 
l’anima al varco, e ’l proprio albergo oblia; 
ma con pietoso affetto 
la ’ncontra ivi e ritiene 
l’anima amica, che s’oppon tra via; 
e ’n lei, ch’arde e desia 
già languida e smarrita, 
d’un vasel di rubin tal pioggia versa 
di gioia, che sommersa
in quel piacer gentile, 
cui presso ogni altro è vile, 
baciando l’altra, ch’a baciar la ’nvita, 
alfin ne more, e quel morire è vita. 
     Deh taci, o lingua sciocca; 
senti la dolce bocca, 
che t’appella e ti dice: — Or godi, e taci! — 
e, per farti tacer, raddoppia i baci.

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