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Il futuro della nonviolenza

di NANNI SALIO
(Pubblicato in: Grande Dizionario Enciclopedico UTET, Scenari del
XXI secolo, Torino 2005)
Il futuro ha radici antiche
nota laffermazione di Gndh secondo cui i principi della
nonviolenza sono antichi come le colline: unaffermazione che
trova testimonianza nel fatto che tutte le religioni sono portatrici di un
messaggio di nonviolenza. In alcuni testi esso formulato in maniera
esplicita, come nel Saman Suttam (2001), il canone jainista che, nel
capitolo su I precetti della nonviolenza recita: caratteristica
essenziale di ogni saggio non uccidere nessun essere vivente. Senza
dubbio, si devono comprendere i due principi della nonviolenza e
delleguaglianza di tutti gli esseri viventi. vero daltro canto che
questi precetti debbono essere letti alla luce dellultima parte del
canone, che tratta della teoria jainista della relativit del conoscere (un
tema di grande attualit e rilevanza epistemologica, che probabilmente
ebbe una grande influenza sulla formazione del giovane Gndh) e
che, pi in generale, in molti altri testi religiosi il messaggio appare
ambiguo, commisto con altri che giustificano la guerra e
lintolleranza.
Resta indubitabile, in ogni caso, che solo nel Novecento che, a
cominciare dal messaggio e dallazione gandhiana, la nonviolenza
non rifiutando ogni forma di forza e di pressione (Pontara, 2004),
ma diventando essa stessa una concreta ed efficace forma di lotta,
acquista dimensione e valenza politica.
Che cos la nonviolenza
Si possono distinguere due principali concezioni della nonviolenza.
La prima, lahimsa indica letteralmente il non nuocere, il non
uccidere,
linnnocentia.
Essa
induce
un
significato
prevalentemente di astensione, di passivit, che riguarda la sfera
personale, soggettiva. Dal punto di vista morale si richiama al
principio del non commettere violenza. Ma la nonviolenza
gandhiana introduce esplicitamente una seconda concezione, il
satyagraha, intesa come forza della verit, nonviolenza attiva,
intervento e lotta contro ogni ingiustizia. Essa si richiama al principio
morale del non omettere, non permettere che altri commettano
violenza e ingiustizia.
Come ci ricorda Aldo Capitini la nonviolenza fondamentalmente
un principio etico, lessenza del quale una tecnica sociale di azione
[]. Lintroduzione del metodo gandhiano in qualsiasi sistema
sociale politico effettuerebbe necessariamente modificazioni di quel
sistema. Altererebbe labituale esercizio del potere e produrrebbe una
ridistribuzione e una nuova strutturazione dellautorit. Esso
garantirebbe ladattamento di un sistema sociale politico alle richieste
dei cittadini e servirebbe come strumento di cambiamento sociale.
Ma lintervento, linterposizione e la lotta nonviolenta in situazioni
conflittuali acute debbono essere attuati rispettando il principio
generale dellunit tra mezzi e fini. Contro il realismo machiavellico
del fine che giustifica i mezzi, vale il principio, in ampia misura
verificato pragmaticamente nel corso della storia, che i fini sono gi
contenuti nei mezzi. Lazione politica deve tener conto della
fallibilit, delle conseguenze perverse dellagire umano, della
imprevedibilit del corso dazione, che provocano quella eterogenesi

dei fini e dei mezzi, che si verificata pi volte nel corso del
Novecento (Revelli, 1999).
Tra i lavori teorici sui fondamenti etici della nonviolenza spiccano i
contributi del filosofo della morale Giuliano Pontara, uno dei pi
autorevoli studiosi della nonviolenza gandhiana. Egli distingue tra
nonviolenza pragmatica e negativa, e nonviolenza dottrinale e
positiva. Nella prima lazione caratterizzata dalla semplice assenza
di violenza diretta (il mezzo), ma compatibile con qualsiasi fine.
Nella seconda ci si propone di dare una risposta adeguata e
comprensiva ai nuovi e gravi problemi posti dallenorme sviluppo
degli armamenti, dallescalation della violenza politica, sia nelle
forme del terrorismo internazionale sia in quelle della nuova guerra,
dalla crisi dello Stato nazionale, dai drammatici cambiamenti
verificatisi nel sistema internazionale in seguito alla fine della guerra
fredda, dallo sviluppo incontrollato dellindustrialismo (non solo
capitalistico) e dalle conseguenze che esso pu avere su interessi vitali
di molte generazioni future, nonch dallognor crescente divario fra
popolazioni povere e popolazioni ricche. Nella concezione
gandhiana, egli individua inoltre tre tipi di nonviolenza: la
nonviolenza del forte, la nonviolenza del debole e la nonviolenza del
codardo. Con questultima espressione [Gndh] intende denunciare
latteggiamento di coloro che si rifiutano di lottare per i propri
legittimi interessi, o per proteggere i legittimi interessi di altri, per
pura vigliaccheria o per altri motivi prettamente egoisticiPer
nonviolenza del debole, Gndh intende, invece, la posizione di coloro
che in una situazione conflittuale acuta non ricorrono alluso della
violenza per la semplice ragione che non dispongono dei mezzi
necessari per condurre la lotta violentaDa ultimo, la nonviolenza
del forte la posizione di coloro i quali, pur avendo i requisiti
necessari [] alluso della violenza [] tuttavia si rifiutano di
ricorrere a tale metodo di lotta per determinate ragioni di ordine
morale e in quanto ritengono di poter condurre la lotta in modo
efficace con metodi diversi.
Leredit di Gndh e la diffusione globale della nonviolenza
Come gi osservato solo con Gndh che la nonviolenza assume
esplicitamente anche una dimensione politica e comincia a essere
sperimentata su larga scala: dapprima in India, poi nelle lotte per i
diritti civili negli Stati Uniti con Martin Luther King in Sudafrica con
Nelson Mandela e Desmond Tutu nelle Filippine (1986), per cacciare
Marcos nei paesi dellest europeo, per liberarsi dal giogo dellimpero
sovietico imploso nel 1989; nella lotta secolare del movimento delle
donne nelle lotte in difesa dellambiente, nella difesa dei diritti umani
violati e cos via in un crescendo che attraversa tutto il Novecento e
continua ai giorni nostri. Sullonda di questi sviluppi, verso la fine
degli anni cinquanta del secolo scorso nascono le prime scuole di
peace research ispirate al paradigma della pace positiva e della
nonviolenza, con il contributo determinante del ricercatore norvegese
Johan Galtung. Una decina danni dopo, Gene Sharp pubblica il suo
famoso lavoro sulla Politica dellazione nonviolenta (1986-95) che
verr tradotto in decine di lingue e ispirer gli attivisti dei movimenti
per la pace e per la nonviolenza in ogni angolo del mondo. La rete di
ricercatori, attivisti ed educatori che si richiamano esplicitamente alla
nonviolenza si man mano estesa sino a costituire importanti reti
internazionali che operano sia in campo accademico, dallalto, sia a
livello non istituzionale, dal basso.
In sintesi, la storia del XX secolo pu essere interpretata sia come
lesempio della massima violenza, sia come linizio di una nuova era,
quella delle lotte nonviolente di massa. La documentazione su queste

forme di lotta e sulla loro efficacia impressionante, tanto da indurre


un numero crescente di studiosi e di istituti di ricerca a sottolinearne la
rilevanza strategica nel condurre lotte di liberazione, abbattere
tirannie, ripristinare e difendere la democrazia, creare condizioni di
vita pi giuste e ridurre la violenza strutturale. Richard Falk (2003)
non ha dubbi nel sostenere che studiosi e accademici stanno sempre
pi considerando gli obiettivi dellabolizione della guerra e della
geopolitica della nonviolenza come gli unici fondamenti sostenibili
dellordine mondiale. La letteratura su Gndh e sulla sua eredit
sterminata e crescente: lumanit alla disperata ricerca di una via
duscita dal vicolo cieco e dalla follia della guerra preventiva e
permanente. E tuttavia quella di Gndh uneredit controversa,
quanto meno in patria. I movimenti integralisti che in India hanno
conosciuto un momento di pericolosa affermazione, anche politica,
non si riconoscono nel suo insegnamento, e lo accusano di aver
travisato lautentico messaggio dellinduismo. Anche alcuni esponenti
del movimento dalit (i senza casta, gli harijan, figli di Dio, come
li chiamava Gndh) sono critici nei suoi confronti, poich ritengono
che egli non abbia affrontato con sufficiente radicalit la questione
delle caste (Roy, 2004).
Daltro canto, osserviamo come leredit di Gndh appartenga
sempre pi a tutta quanta lumanit e oggi viene raccolta da quel
movimento dei movimenti che sta rinnovando le societ civili
nazionali trasformandole in una vera e propria societ civile globale
transnazionale (Kaldor, 2004). Questa terza onda di cui parla Michael
Nagler (2003) caratterizzata non solo dallampiezza dei nuovi
movimenti che, dopo il 15 febbraio 2003, qualcuno ha definito la
seconda superpotenza mondiale, ma dal concretizzarsi della capacit
di intervento e interposizione nonviolenta in situazioni di conflitto
acuto da parte di gruppi, organizzazioni, movimenti di base. il
sogno delle Shanti Shena i corpi civili di pace che Gndh immagin
di poter realizzare sin dagli anni trenta. Ora questo sogno si sta
concretizzando con le PBI (Peace Brigades International), con
associazioni quali Global Exchange, The Ruckus Society,
International Solidarity Movement che hanno la loro base negli Stati
Uniti, con la rete internazionale delle Donne in nero e centinaia di altri
organismi di base, capaci di intervenire attivamente nelle dinamiche
conflittuali per prevenire la violenza, riconciliare dopo la violenza,
interporsi durante la violenza (Mathews, 2001). Sino a giungere
allambizioso progetto internazionale delle Nonviolence Peace Force,
che si propone di realizzare un contingente permanente di duemila
attivisti pronti a intervenire nelle varie aree del mondo, come gi
stanno facendo in Sri Lanka, Colombia, Palestina.
Quale futuro?
Riflettendo sul futuro della democrazia, qualche anno fa Norberto
Bobbio scriveva (1991): sia ben chiaro, non faccio alcuna
scommessa sul futuro: la storia imprevedibile. Se la filosofia della
storia in discredito, dipende dal fatto che non c previsione,
annunciata dalle diverse filosofie della storia succedutesi nel secolo
scorso e allinizio di questo, che non sia stata smentita dalla storia
realmente accaduta.
Parole simili si possono ripetere per il futuro della nonviolenza: non
siamo in grado di fare delle previsioni e in questo campo tutte le
forme ideali [appartengono] non alla sfera dellessere ma a quella del
dover essere. Bobbio osserva inoltre che nel corso del Novecento
avvenuto un significativo aumento del numero di Stati democratici,
con una corrispondente democratizzazione del sistema internazionale
delle Nazioni Unite, secondo una progressione ideale che avrebbe

portato il sistema internazionale da uno stato di anarchia a una


condizione di equilibrio delle grandi potenze, al predominio di una
potenza egemone e infine a un sistema internazionale democratico
condiviso. Se questa successione si rivelasse valida sul piano storico,
il passo successivo dovrebbe essere quello verso la nascita di societ
nonviolente e di un sistema internazionale nonviolento.
Se il sistema internazionale si democratizzato, cosa avvenuto delle
guerre? Sono diminuite o aumentate? Che significato dobbiamo
attribuire allattacco terrorista dell11 settembre 2001 e alle successive
reazioni degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq? Dallesame dei dati
relativi agli ultimi quindici anni, dopo la fine della guerra fredda,
scaturisce un paradosso: stando alla percezione diffusa, le guerre sono
aumentate, mentre i dati elaborati dagli analisti affermano un
sostanziale congelamento, o addirittura una diminuzione (Labanca,
2003).
Pi in generale, afferma ancora Richard Falk, in questo momento
della storia umana, sembra che il bicchiere non sia n tutto pieno n
tutto vuoto, ma forse stiamo vivendo un nuovo momento gandhiano,
pur di fronte alla scalata innescata dagli eventi dell11 settembre
2001. Questo parere condiviso da altri autori che interpretano questo
evento come una biforcazione. Possiamo procedere verso labisso,
seguendo il realismo di ieri della violenza che diventer la ricetta per
la catastrofe di domani, oppure considerare il trauma come possibilit
che apre nuove forme di azione: lutopia di ieri della nonviolenza
diventa cos il realismo di oggi.
Interrogarsi sul futuro della nonviolenza significa anche chiedersi
esplicitamente se la guerra ha un futuro. Dato che il XX secolo stato
il pi sanguinoso nella storia umana, e che guerre di varia intensit
continuano a uccidere e ferire centinaia di migliaia di persone,
prevalentemente civili, chiedersi se la guerra ha un futuro pu
sembrare ridicolo. Ma questo interrogativo stato sollevato da troppe
persone autorevoli, in tempi diversi e con argomentazioni differenti,
per apparire peregrino. Se lo pose Albert Einstein, allinizio dellera
nucleare. Se lo posero in molti dopo la seconda guerra mondiale
(Bauer, 1994), e dopo il 9 novembre 1989 folle festanti gridarono
mai pi muri, mai pi guerre. Saggiamente, Gndh sosteneva che
o il mondo progredisce con la nonviolenza, oppure perir con la
violenza.
Gli scettici ribaltano linterrogativo e preconizzano un nuovo secolo
di guerre, a meno che non avvengano profondi cambiamenti nella
politica internazionale delle grandi potenze, in particolar modo degli
Stati Uniti i quali detengono un potere senza saggezza, e non sono
capaci di riconoscere i limiti delle armi nonostante ripetute esperienze.
Il risultato stato la follia, e lodio, che sono le ricette per il disastro.
E l11 settembre ne la conferma. La guerra arrivata in casa
(Kolko, 2002).
Come uscire da questo dilemma?
Nel chiedersi anche lui se la guerra ha un futuro, Sohail Inayatullah,
curatore con Johan Galtung di un provocatorio testo di macrostoria
(1997) sostiene che dobbiamo sfidare lidea che la guerra qui per
rimanerci come se fosse un fatto evolutivo naturale. Non dobbiamo
solo trovare nuovi metodi per risolvere i conflitti internazionali, ma
necessario sfidare tutta quanta la concezione di conflitto armato,
simmetrico e asimmetrico. Dobbiamo inoltre superare la litania
della semplice contrapposizione tra pace interiore, dellindividuo, e
pace collettiva, internazionale. Ovvero dobbiamo affrontare
esplicitamente in chiave sistemica il paradosso dello yogi e del
commissario sollevato sin dal 1947 da Arthur Koestler (2002),
agendo contemporaneamente su tre aspetti principali: trasformare la

natura del complesso militare-industriale, dellindustria bellica e del


commercio delle armi; trasformare il sistema educativo in un processo
di formazione alla pace e alla nonviolenza (come recita il documento
ONU sul decennio della nonviolenza) centrato sullacquisizione di
capacit di trasformazione nonviolenta dei conflitti e su una diversa
lettura della storia umana, non pi vista soltanto come una
successione di guerre; creare nuove visioni del mondo. Queste nuove
visioni comportano il passaggio da una societ dominata da strutture
gerarchiche patriarcali a una concezione di partenariato (Eisler, 2002);
da unidea di evoluzione intesa come risultato casuale della
sopravvivenza del pi adatto, che giustifica la guerra, a una in cui essa
frutto della ragione e dellazione umana; e infine da unidea di
identit definita solo in termini di razza, lingua, religione esclusiva a
una consapevolezza planetaria, gaiana.
A partire da queste premesse, si possono prefigurare quattro scenari
principali: permanenza della guerra, con pericoli crescenti che
deriveranno non tanto dalla presenza di leader autoritari, quanto dalla
facilit con cui ognuno di noi potr accedere a nuove armi di
distruzioni di massa e tenere in ostaggio, da solo, unintera nazione;
scomparsa della guerra, mediante un cambiamento del sistema di
potere e della cultura che ora la sorreggono; ritualizzazione e
contenimento, con un prevalere della cultura di pace e un permanere
della guerra per brevi periodi e come opzione meno desiderabile;
genetizzazione della guerra, con procedure invasive di ingegneria
genetica alla ricerca del gene dellaggressione, nella speranza di
eliminare i comportamenti che porterebbero alla guerra.
Oltre a immaginare i possibili scenari futuri, Inayatullah vede cinque
principali processi di cambiamento in atto: governo globale,
multinazionali delleconomia, ritorno al passato, cyberspazio, people
power.
Le prime due trasformazioni sono frutto di poteri dallalto, in mano a
piccole lite. Il terzo cambiamento, antitetico e opposto ai primi due,
caratterizzato da forme di localismo e nazionalismo esasperato che si
oppongono alle forze dirompenti dei processi di globalizzazione per
mantenere barriere e privilegi anacronistici. Il quarto processo, basato
sulle tecnologie dellinformazione, ha un carattere orizzontale e
potenzialmente pu coinvolgere chiunque in una grande rete
comunicativa con un forte potenziale di democrazia partecipativa. Il
quinto processo, infine, una trasformazione dal basso, attivata da
una miriade di soggetti che Immanuel Wallerstein considera nel loro
insieme come la nuova ondata dei movimenti che stanno costruendo
un nuovo ordine mondiale sulle rovine del cadente disordine creato
dal capitalismo selvaggio.
I prossimi cento anni di peacemaking
Con questo titolo al tempo stesso ambizioso e impegnativo, Johan
Galtung si cimenta nel proporre una terapia per curare la malattia
della guerra mediante un insieme di politiche di pace che
richiamandosi allinsegnamento buddhista, definisce lottuplice
sentiero e riassume nella seguente tabella.
Politiche di pace per il XXI secolo
Pace negativa
Militari

Economiche

Pace positiva

difesa difensiva
forze di peackeeping
delegittimazione delle armi competenze non militari
difesa non militare
brigate internazionali per la pace
Self-reliance I
internalizzare le esternalit

Self-relianceII
condividere le esternalit

usare i propri fattori

Politiche

Culturali

Democratizzare gli stati


diritti umani ovunque
deoccidentalizzazione
iniziative referendarie
democrazia diretta
decentralizzazione
Sfida
idea di popolo scelto
violenza, guerra

cooperazione Sud-Sud

Democratizzare lONU
un paese, un voto
abolizione del veto
seconda assemblea ONU
elezioni dirette
confederazione
Civilizzazione globale
approccio solistico globale
alleanza con la natura
eguaglianza,

Gli attori sociali di questo insieme di politiche possono essere, in linea


di principio, tutti quanti, ma in pratica vi sono delle difficolt con
coloro che detengono posizioni di potere. Galtung tuttavia sottolinea
che i due principali errori che si possono commettere consistono nel
credere che tali processi possano essere attivati solo dalle lite oppure
da chi non appartiene ad esse: dallalto o dal basso. Passi importanti
sono stati realizzati in passato congiuntamente e/o separatamente,
come nellinsieme di eventi che hanno portato alla fine della guerra
fredda, con lazione congiunta del potere dallalto e di quello dal
basso. Se ci si verificato una volta, potr verificarsi ancora.
Caratteri di una societ nonviolenta
La visione di societ nonviolenta di Gndh espressa in modo
sintetico nel seguente passo: lo Stato nel passaggio alla societ
senza Stato sar una federazione di comunit democratiche rurali
nonviolente decentralizzate. Queste comunit si baseranno sulla
semplicit, povert e lentezza volontarie, cio su un tempo di vita
coscientemente rallentato, nel quale laccento sar sulla
autoespressione attraverso un pi ampio ritmo di vita piuttosto che
attraverso pi veloci pulsazioni nelle avidit di potere e di lucro
(Gndh, citato da Capitini, 1967).
Pontara ne sintetizza limmagine nei tre momenti del sarvodaya,
dello swaraj e dello swadeshi. Sarvodaya lequivalente di
benessere di tutti, ripreso anche da Capitini. Swadeshi si pu
tradurre con self-reliance, ovvero autosufficienza, sviluppo
autocentrato, che utilizzi innanzi tutto le risorse locali. Infine swaraj
significa indipendenza intesa nel senso di autonomia, capacit di
autogoverno, autocontrollo, disciplina. Possiamo riassumere questo
insieme di termini nel paradigma della semplicit volontaria, uno
stile di vita pi povero esteriormente, materialmente, ma pi ricco
interiormente, spiritualmente.
Una societ nonviolenta dunque caratterizzata da: riduzione di ogni
livello di violenza (diretta, strutturale, culturale); elevata qualit della
vita e delle relazioni interpersonali; decentramento amministrativo e
decisionale, capacit di autogoverno, elevato grado di partecipazione
ai processi decisionali collettivi; sostenibilit e basso impatto
ambientale, rispetto della vita di ogni essere vivente; modello di
sviluppo e di economia nonviolento, autocentrato, autosufficiente su
scala locale, regionale, nazionale, a bassa potenza energetica e a bassa
densit urbana; modello di difesa popolare nonviolenta, con forze
civili di pace che agiscano su scala locale e internazionale.
Sorge spontanea la domanda se esistano o siano esistite societ di
questo tipo, alle quali ispirarsi per apprendere, migliorarne le
esperienze e ampliarne la diffusione su scala internazionale. Gli studi
antropologici e sociologici hanno portato a classificare un certo
numero di societ che si avvicinano allideale descritto pi sopra. Nei

suoi lavori Bruce Bonta ne ha classificate varie decine, che presenta


evidenziandone soprattutto i tratti di cooperazione e armonia: la
maggior parte delle societ nonviolente nel mondo basa la propria
visione di pace sulla cooperazione e si oppone alla competizione.
Sebbene siano societ amorevoli e dedite alla cura, molti allevano i
bambini a essere cauti e ad aver paura delle intenzioni degli altri, in
modo tale da interiorizzare i valori nonviolenti e da non dare per
scontati gli atteggiamenti pacifici propri e degli altri. In queste societ,
non vengono dati ai bambini giochi competitivi; sebbene i piccoli
siano molto amati, sin da quando hanno due o tre anni si fa in modo
che non si considerino pi importanti degli altri. Queste societ non
attribuiscono alcun valore allacquisizione perch essa porta alla
competizione e allaggressivit, che a sua volta scatena la violenza
che essi aborriscono. I loro rituali rinforzano la fiducia e i
comportamenti ispirati alla cooperazione e allarmonia. Essi hanno
talmente interiorizzato i loro valori di pace e cooperazione che le loro
strutture psicologiche sono in sintonia con la loro fede nella
nonviolenza.
Queste societ possono essere classificate in due grandi categorie:
quelle che appartengono a popolazioni altre, che vivono in culture
tradizionali, e quelle che invece sono inserite nel contesto della
modernit e stanno sperimentando nuove forme di vita comunitaria.
Le prime comprendono vari gruppi etnici, tra i quali ricordiamo:
balinesi (Bali), batek (Malesia), inuit (Alaska, Canada), jain (India),
kadar (India), king (Boscimani del Botswana e della Namibia),
ladakhi (India), zapotechi (Messico). Complessivamente, ne sono stati
individuati una sessantina.
Nella seconda categoria rientrano esperienze e gruppi diversi, molti
dei quali di ispirazione religiosa: mennoniti, quaccheri (Societ degli
amici), amish, villaggi dellArca di Lanza del Vasto, villaggi
gandhiani dellASSEFA in India, kibbutz in Israele. In questa stessa
categoria rientra una molteplicit di piccole comunit che stanno
sperimentando i principi di uno stile di vita che si richiama alla
nonviolenza. Le esperienze sono numerosissime, spesso notevoli,
anche se poco conosciute. Una delle pi affascinanti si svolge
nientemeno che nella martoriata Colombia, in una zona inizialmente
inospitale: Gaviotas il nome di questo villaggio dove in corso una
delle pi significative esperienze di sviluppo sostenibile, ideata da
Paolo Lugari.
Fondamenti epistemologici della nonviolenza
Caratteristica saliente della nonviolenza il suo carattere omeostatico,
che consente di ricercare la verit senza distruggere quella
dellavversario, imparando dagli errori, con comportamenti altamente
reversibili. Non siamo sicuri di essere nel vero, non sappiamo se il
corso dazioni intrapreso, anche con le migliori intenzioni, produrr i
risultati desiderati, ma utilizziamo una metodologia che consente alla
ricerca della verit di dispiegarsi.
Questo latteggiamento filosofico ed epistemologico che sta alla
base delle procedure della ricerca scientifica per prova ed errore, nella
consapevolezza che in campo sociale le sfide sono di vita e di morte,
altamente non reversibili.
Nella tradizione gandhiana si invita ad agire senza rivendicare il
merito dellazione e senza aspettarne lesito, che verr quando meno
ci si aspetta. C una fiducia nel processo di ricerca della verit, che
prima o poi si imporr, anche nelle situazioni apparentemente pi
difficili e disperate. Satyagraha vuol dire forza della verit, ma
anche dire la verit, dirla di fronte ai potenti e allingiustizia,
quanto basta perch si imponga. Cos come nella propaganda si

sostiene che una bugia ripetuta mille volte diventa una verit, si pu
aver fiducia che una verit ripetuta mille volte finir per imporsi.
Parole chiave
Ahimsa: la concezione di rifiuto delluccidere, dellesercitare
violenza diretta, che ispirata a un rapporto di amore e di
compassione nei confronti di ogni essere vivente.
Difesa popolare nonviolenta: cos come esistono dottrine militari per
la difesa di uno Stato, anche nel pensiero e nella politica della
nonviolenza stata elaborata una dottrina che prevede la possibilit di
affrontare conflitti su larga scala addestrando la popolazione in
generale e alcune forze specializzate (caschi bianchi, corpi civili di
pace) a intervenire in situazioni di potenziale pericolo per prevenire,
dissuadere, riconciliare, interporsi mediante tecniche di azione
nonviolenta.
Nonviolenza: capacit di trasformazione costruttiva e creativa dei
conflitti dal micro al macro, attuata mediante le tecniche e i metodi
dellazione nonviolenta individuale, diretta, collettiva, organizzata.
Satyagraha: sta a indicare la forza della verit, ovvero la forza
interiore che deve animare chi sceglie di lottare mediante le tecniche
della nonviolenza, che scaturisce dalla costante e attenta ricerca
personale della verit, senza distruggere quella portata dallavversario
in una situazione di conflitto.
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