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La Lanterna di Born

Rivista di cultura umanistica


n. 8 Fascicolo 63-66 maggio 2012

Puntuali come orologi svizzeri, rieccoci nelle vostre edicole virtuali. S, questa volta possiamo essere fieri della nostra puntualit: avevamo dato appuntamento per aprile/maggio, e ce labbiamo fatta a mantenere limpegno. Voi direte: poca cosa! Non che il vostro dovere! Ed indubbiamente avete una parte di ragione, cari lettori, ma siccome parliamo pur sempre di una rivista di pi di sessanta pagine confezionata su base di puro volontariato da una Redazione di tre persone, gratificateci almeno di una pacca sulla spalla! Ci detto, passiamo a presentare (Segue a pag. 66)

Pan,AfroditeedEros
(Atene,MuseoarcheologicoNazionale)

IN QUESTO NUMERO

LETTERATURA
LOPERA OMNIA DI ROBERTO MANDILE - Introduzione Opera omnia in fieri (Matteo Fontana) ........pagina 4 - Racconto La Caduta (Roberto Mandile) ...........pagina 7

RIFLESSIONI - Articolo - Il timor panico e la Natura degli ipocriti (Matteo Fontana) ....pagina 15 - Articolo La scuola tra libert di non studiare e mercificazione dellinutile. Note a margine Di Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola (Roberto Mandile)pagina 27

CRITICA CINEMATOGRAFICA Romanzo di una strage Il romanzo civile di Marco Tullio Giordana (Matteo Fontana)...pagina 33 Midnight in Paris Il sogno nostalgico e ingenuo dellespirante regista (Roberto Mandile).pagina 36 Shame Nulla di cui vergognarsi, dopotutto (Matteo Fontana).pagina 39 The Artist e Hugo Cabret Ieri, oggi e (forse) domani del cinema (Matteo Fontana) ........pagina 42

SCUSATE IL RITARDO (critica a film non pi recentissimi!) The Reader La vuotezza del Male (Manuela Landini) .. pagina 47 Ogni cosa illuminata La luce del passato (e del cinema) (Matteo Fontana)..pagina 50 Melancholia Dei minimi sistemi, e dei massimi (Matteo Fontana).pagina 53

(E)SPUNTI da pagina 57 - Il cinema italiano in crisi. Ancora sugli effetti nefasti dei sociologismo (Roberto Mandile) - Parliamo di calcio! E senza ipocrisia, per favore! (Matteo Fontana) - (In)sensibili alla lettura: lo spot che parla al muro (Roberto Mandile) - Siccit, clima, forza di gravit: niente di nuovo sotto il Sole! (Claudio Mazzaglia) - La poesia morta? Viva la poesia! A margine del caso Szymborska (Roberto Mandile)

LULTIMA STANZA In morte di Carlo Fruttero (Roberto Mandile) ....pagina 62 Botta e risposta su Lost .........pagina 64

LETTERATURA

Due parole di introduzione al racconto La Caduta di Roberto Mandile


MATTEO FONTANA

Opera omnia in fieri

Il nostro Roberto Mandile ha tante di quelle qualit che, se dovessi elencarle tutte, impiegherei pagine e pagine. Del resto, non ho certo bisogno di presentare la figura di Roberto Mandile a chi ci legge fedelmente: i suoi articoli e le sue riflessioni, tanto sul cinema quanto sulla letteratura, tanto sulla storia quanto sullattualit, sono colonne portanti di questa rivista, pensieri sempre acuti e interessanti, punti di vista irrinunciabili nella nostra Redazione. Proprio la poliedricit di pensiero di Roberto, capacissimo di passare con nonchalance da una profonda riflessione sulla letteratura greca delle origini al dibattito nato attorno ad un Cinepanettone qualsiasi (giusto per fare un esempio), la caratteristica che pi lo rende idoneo anzi, fondamentale per le pagine di questa rivista che, come ben sapete, si basa sullintersezione di argomenti e materie, e cerca costantemente punti di vista originali, senza farsi spaventare dallampiezza dei discorsi o, nellaltro senso, dalla trivialit dei medesimi! Insomma, viviamo in un mondo di contraddizioni, quindi perch non esaltarle e, in un perfetto caso di estremi che si toccano, farle coincidere con larmonia? Perch non ricavare da essere un barlume di quellarmonia perduta del mondo, armonia della quale serbiamo una sorta di ancestrale ricordo, che pur non riusciamo, il pi delle volte, ad esprimere a parole? Ci detto, non mi dilungher sulla figura di Roberto: lo conoscete bene, cari lettori, per ci che ha scritto in questi primi anni di Lanterna, e spero lo conoscerete sempre meglio in futuro, per ci che continuer a scrivere. Oltretutto, tra le tante qualit di cui parlavo sopra, egli possiede anche una innata modestia, per cui sono certo che non gradirebbe da parte mia uno sperticato elogio in odor di agiografia. Parliamo invece di un pezzo unico nellambito degli scritti mandiliani: il racconto che pubblichiamo su questo numero della Lanterna, che ironicamente definiamo sua opera omnia. O meglio: egli stesso lo definisce cos! Perch vero: sinora, La Caduta lunico racconto di Roberto Mandile. Unopera omnia che per mi sia concesso, a questo punto (e ne chiedo il permesso a Roberto in primis), di definire, con concessione al sottile ossimoro, in fieri, ovvero in divenire, in via di formazione. Unopera omnia provvisoria, insomma! La Caduta non un racconto qualunque, non un piccolo esperimento letterario permeato di autobiografismo o di autocompiacimento, come quasi tutti i primi scritti di chi si cimenta con la letteratura. Qui ovviamente entriamo in un terreno pericoloso, perch mi lancio in un tentativo di esegesi sul lavoro di uno stretto collaboratore ma, prima ancora, di un amico, per cui chiedo scusa fin dallinizio a Roberto per quello che scriver, qualora non dovesse corrispondere alla verit biograficamente intesa.

Mi comporter da critico. Come se non conoscessi lAutore del racconto, e mi trovassi ad inquadrarlo nellambito della sua produzione in prosa, per il resto interamente saggistica. La Caduta come salter immediatamente allocchio del lettore non un racconto improvvisato, non come dicevo un primo timido tentativo letterario, per il semplice fatto che Roberto Mandile non un ragazzino che muove i suoi primi passi nellambito della letteratura, senza nemmeno saper bene che cosa essa sia. Al contrario, Roberto arriva alla letteratura conoscendola benissimo, ed in questo senso La Caduta come il corteggiamento ad una donna ampiamente vagheggiata in precedenza, prima dellincontro finalmente realizzato, durante una festa galante. Una donna gi conosciuta, anche temuta per il suo potere e la sua bellezza, sempre desiderata ma mai avvicinata veramente. Studiata, non vissuta. Frequentata attraverso occasioni sociali, mai direttamente. Fino alla Caduta, appunto, fino a questo solidissimo e cristallino racconto, dominato da una parte centrale quasi esclusivamente speculativa e, lo diciamo subito, non particolarmente adatta a chi tiene in poco conto la riflessione esegetica, storica o filosofica. Un racconto steso con immensa consapevolezza tanto linguistica quanto contenutistica, un racconto che come vedrete non ha una parola fuori posto, e assapora ogni frase con gusto filologico, facendo dellunione tra saggismo e letteratura di finzione la sua ragion dessere. Un racconto, in questo senso, estremamente mandiliano, ovvero perfettamente in linea con il suo Autore, con il fascino che su di esso hanno sempre esercitato la filosofia e la filologia. Un racconto garbato, mai sopra le righe, vagamente lirico nel suo Io narrante al contempo forte (capace di informare lintero impianto narrativo in modo assai nitido) e sfumato (in fondo della sua vita non sappiamo nulla, essa rimane avvolta in unaura soffice di indeterminatezza: si vedano i minuscoli ma importantissimi riferimenti alla figura, appena abbozzata e nemmeno descritta, della moglie). Un racconto, infine, che pi che altro una riflessione sulla difficolt di scrivere un racconto, in un anello logico che replica, nella scrittura, leterno ritorno delluguale di cui si parla ad un certo punto, a proposito delle eretiche tesi sulla Caduta dal paradiso terrestre del professor Neumann. Il protagonista, del resto, ammette candidamente: Mi mancano la fluidit e la facilit dello scrivere. Non ho mai sofferto della sindrome della pagina bianca, eppure, semplicemente, ora non c uno stile che mi convinca. Ecco il problema centrale dello scrivere che Roberto ha colto perfettamente nella sua attuale opera omnia: la ricerca dello STILE. E una domanda che da sempre mi assilla, essendo io a mia volta un tentativo di scrittore: si pu costruirsi uno stile e utilizzarlo sempre, per ogni propria opera, oppure ogni opera richiede un suo stile? Nel primo caso, lo stile sarebbe appunto lelemento che distingue quel particolare scrittore; nel secondo caso, come definire quel particolare scrittore, se il suo stile varia da unopera allaltra, se, insomma, esso si adegua alla materia del racconto? Oppure esiste qualcosa, un quid diciamo, che unifica sotterraneamente lopera di un Autore, a prescindere dalla quantit di stili diversi che esso potrebbe trovarsi ad adottare nel corso della sua carriera? Il problema dello stile a mio parere il problema letterario centrale non solo delloggi, ma in un certo senso di sempre, valido per ogni tempo e per ogni letteratura, a meno che non vogliamo convincerci che letteratura sia la semplice messa in fila (e in parole) di qualunque stupidaggine, di qualunque esperienza personale. No, per me letteratura una profonda mediazione, e lo strumento di mediazione non pu che essere lo stile, la costruzione del quale fa la differenza tra unopera letteraria (che poi pu piacere o meno, intendiamoci) e un ammasso di parole, magari anche gradevole, ma lontano anni luce dalla letteratura. Discorso ancor pi valido oggi, in un mondo pressoch interamente
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alfabetizzato, nel quale la differenza tra il letterato e il non-letterato non pu pi essere la capacit tecnica di scrivere, talmente diffusa che ragionevolmente chiunque potrebbe scrivere, se non un libro, perlomeno un racconto. A fare la differenza, oggi, al massimo la CONSAPEVOLEZZA dello scrivere, di ci che significa scrivere, dalla scelta dellargomento alla scelta delle singole parole. Lo stile, appunto. Sto divagando. La Caduta anche, e principalmente, un bellissimo racconto filosofico, che sinterroga sulla natura dello Spazio e del Tempo, e sullimportanza di questi due elementi anche in sede di esegesi biblica! In questo senso, Roberto si diverte a ricollegare con un gusto arcaico che sarebbe piaciuto a un Giorgio de Santillana scienza e filosofia, fisica e letteratura, mito e religione. Riflette infatti il protagonista: Se noi fatichiamo a vedere la curvatura del tempo, non solo un altro difetto della nostra vista, non dissimile da quello che ci impedisce di cogliere la rotondit della terra guardando la linea piatta dellorizzonte? Noi temiamo la fine del tempo e cerchiamo lorigine, ma non ci rendiamo conto che fine e origine coincidono. E non ho citato a caso Giorgio de Santillana, il grande studioso delle stelle e della struttura del Tempo, giacch poco oltre Roberto scrive: Daltra parte sappiamo che contemplare la volta del cielo, che limmagine stessa, ai nostri occhi, della perfezione, vuol dire guardare il tempo. E allora potrete gi intuire, da queste poche righe, la notevole portata di pensiero del racconto, anzi, dellopera omnia in prosa di Roberto Mandile! Leggete La Caduta, leggetelo con la giusta cadenza, lasciando agire su di voi la prosa avvolgente di cui fatto, immergendovi assieme al protagonista nellenigma di Eden che poi uno dei grandi enigmi dellUOMO. Lasciate che questa sottile tramatura intellettuale vi penetri dentro, come la sottile ma palpabile inquietudine che si impadronisce del protagonista al ricordo delle sconvolgenti teorie del professor Neumann. Vedrete allora che La Caduta, lungi dallessere soltanto un esercizio di stile o la messa in scena di una passione tutta personale per lo studio e la filosofia, un racconto che parla dellUomo e del suo rapporto col Tempo e col Creato (ovvero lo Spazio), questi due grandi cardini dellesistenza che da sempre affascinano pensatori e scienziati, e che da sempre occupano i loro pensieri e le loro speculazioni. Chi ha detto, sembra chiedersi un divertito Roberto Mandile, che le Sacre Scritture e la teoria della Relativit, o addirittura quella delle superstringhe, non possano andare daccordo, anzi, non siano in fondo testi che si interrogano sulle medesime problematiche? Del resto, che idea del tempo avevano i nostri progenitori?, si chiede ad un certo punto il protagonista. E ammette che il racconto della Bibbia non che uno dei tanti possibili racconti; Eden uno dei tanti possibili paradisi; Adamo uno dei tanti possibili uomini (daltronde 'adam, in ebraico, non vuol dire semplicemente uomo?). Non Relativit, questa? Buona lettura a tutti.

La Caduta
ROBERTO MANDILE

Hubo un Jardn o fue el Jardn un sueo? Jorge Luis Borges, Adam cast forth

Conobbi il teologo Johann Gottfried Neumann, gi Professore emerito di Esegesi Patristica presso lUniversit Cattolica di Lovanio, durante un convegno al quale partecipai, qualche anno fa, a Roma, e che era dedicato alle visioni del paradiso nella letteratura occidentale. Stavo allora facendo ricerche per un racconto: una rivisitazione, in chiave moderna, della vicenda di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, una rilettura della cacciata dal giardino in Eden, ossia della cosiddetta Caduta. Il racconto non vide poi la luce: non avevo la determinazione necessaria per scriverlo e soprattutto non trovavo una chiave di attualizzazione della storia che mi convincesse. Avevo scartato la via dellironia e della satira (gi percorsa da Mark Twain in The Diary of Adam and Eve) e non volevo limitarmi a trasferire i due uomini nellet contemporanea, perch credevo che cos facendo sarebbe andata perduta la valenza universale della vicenda. Volevo insomma che lepisodio mantenesse il suo significato simbolico, valido per tutti gli uomini di tutti i tempi, ma non sapevo come avrei potuto raggiungere questobiettivo cos ambizioso senza cadere nel realismo pi spicciolo o nel ridicolo. A ripensarci ora devo ammettere che ebbe uninfluenza in questo senso anche la conferenza del professor Neumann che ascoltai quella volta: si intitolava, con un certo gusto paronomastico, Das Eden auf Erden: der Fall eines Symbols. Ricordo che ne rimasi affascinato, pur avendo capito allincirca la met di quanto il professore aveva detto, visto che allora la mia conoscenza del tedesco (Neumann parlava abbastanza bene anche litaliano, ma aveva preferito ricorrere alla sua lingua natale) era piuttosto difettosa. Il teologo espose una serie di considerazioni sulle linee di lettura del paradiso terrestre fornite nellesegesi patristica, illustrando come linterpretazione allegorica del racconto della Genesi, quale si pu ricavare dalle opere di Filone di Alessandria, di Origene o di Ambrogio, che esaltano il messaggio morale contenuto nel testo biblico, sia stata per lungo tempo prevalente sullinterpretazione letterale, che di fatto si afferm solo con Agostino, interessato a spiegare sul piano fisico e materiale oltre che su quello spirituale il dettato scritturale. Nonostante la mia laurea in Filosofia, mi resi conto che troppe cose mi sfuggivano e, sicuramente anche per questo, il racconto a cui avevo in animo di dedicarmi rest confinato tra le idee astratte, pura potenza non destinata a trasformarsi in atto. Da quando - e sono ormai trascorsi quasi tre mesi - ho letto della morte del professor Neumann, mi sono tornate in mente alcune sue suggestioni, affidate ad una sterminata produzione di articoli e saggi, sui quali la comunit scientifica ha espresso sempre giudizi lusinghieri, non disgiunti, tuttavia, da un atteggiamento che definirei di prudente rispetto, come se la grandezza del professor Neumann fosse talmente ingombrante da suggerire, di per s, una naturale deferenza. Non ho potuto per non ripensare anche allepisodio che pi di tutti ha caratterizzato la carriera accademica del teologo: il suo abbandono dellUniversit di Lovanio, dopo trentacinque anni di insegnamento. Il professore era allora in et sufficientemente avanzata perch quel ritiro, di pochi anni precedente il pensionamento, potesse sembrare quasi
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la naturale risoluzione di un lungo rapporto di lavoro, reso peraltro ulteriormente faticoso negli ultimi tempi dallinsorgere di una malattia agli occhi che aveva colpito il professor Neumann. Ma, come spesso accade in simili circostanze, non erano mancate in merito allepisodio versioni ufficiose, interpretazioni alternative, congetture pi o meno avventurose di diverso segno. La buona fama del professor Neumann non fu scalfita, ma da quel momento di lui si cominci a parlare al passato: let del teologo, unita al suo prestigioso curriculum pregresso, lo avevano da un lato consacrato definitivamente, nellopinione di tutti, nellOlimpo dei pi importanti studiosi, dallaltro per, per questa stessa via, lo avevano anche escluso dal circolo dei pensanti e persino dei viventi. Quel che certo che il professor Neumann trascorse gli ultimi anni, rivelatisi poi molto pochi, nelleremitica solitudine della sua casa nella campagna bavarese, dove, a quanto pare, passava le giornate assorto in lunghe meditazioni. Nulla era trapelato da quel soggiorno: nessuna dichiarazione, nessun articolo, tanto meno nuovi libri, in generale nessun contributo pubblico destinato ad arricchire la bibliografia, del resto gi cospicua, dellillustre teologo. Mi sarei probabilmente dimenticato presto del professor Neumann, se un paio di settimane dopo aver saputo della sua morte non avessi incontrato un suo allievo, Augustin Lefvre, che avevo conosciuto anni prima in un corso post-universitario ma che non vedevo da un pezzo. Augustin era venuto nella mia citt per tenere una serie di conferenze ( diventato nel frattempo professore di Storia delle Eresie presso la stessa Universit di Lovanio) e cos una sera lo invitai a cena, per ricordare i nostri comuni trascorsi e rinverdire la nostra amicizia. Mia moglie aveva cucinato, come sempre, in maniera sopraffina (la cena era stata impreziosita da uneccellente Tarte Tatin servita come dessert) e, nonostante io e Augustin non ci vedessimo da tempo, o forse proprio per questa ragione, la conversazione a tavola si svolse piacevolmente. Tra i tanti discorsi che affrontammo, finimmo ovviamente per parlare pure della morte del professor Neumann, anche perch la mia curiosit, come ho detto, si era ridestata e voleva togliersi il capriccio di conoscere qualcosa di pi, da una fonte che immaginavo pi diretta, sugli ultimi anni del teologo. Augustin mi parve sulle prime un po restio a parlare del suo maestro, come se volesse custodirne il ricordo, ma pi tardi, forse convinto che non ci fosse nulla di male nel soddisfare il mio interesse e forse anche stimolato dalla familiarit dellambiente in cui ci eravamo trasferiti, la biblioteca del mio studio, cominci a raccontarmi della sua duratura relazione col professor Neumann, del quale tracci un profilo intriso di grande ammirazione e anche di profondo affetto. Adesso mi disse, soppesando attentamente le parole ci sar qualcuno che si dar pensiero di spiegarci il vero Neumann, ma io che lho conosciuto e frequentato per tanti anni, posso assicurarti che non c nulla di strano e tanto meno di misterioso. Non so perch Augustin mi avesse detto proprio quella frase, n perch avesse scelto quegli aggettivi, strano e misterioso: vero, come ho gi accennato, che, dopo il suo ritiro dallUniversit, il teologo aveva trascorso una vita solitaria, nessuno per, a quanto ricordassi, aveva parlato di comportamenti strani o misteriosi. Il rispetto dovuto al professore non si era, nellopinione comune, incrinato, e tuttavia non era quellatteggiamento un modo, educato fin che si vuole, ma piuttosto esplicito, di non volere, di non potere pi prendere in seria considerazione il teologo? Il dubbio, che solo allora ammisi di stare covando da tempo, si rafforz ed emerse alla coscienza in maniera nitida dopo le parole di Augustin, che furono seguite da un lungo intervallo di silenzio. Che cosa intendi per misterioso? ebbi infine il coraggio di chiedere. Nulla, come ti ho detto. Intendevo solo che ci sono state molte voci, sulla sua vita da pensionato.
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Quali voci? proseguii io, esitando, come aveva fatto lui, su quella parola. Le voci che girano, o meglio che giravano, nellambiente accademico. Sai, le solite maligne insinuazioni. Dunque, cominciai a pensare, cera pure qualcosa di vero in quelle versioni ufficiose, in quelle indiscrezioni che erano filtrate: ci che non era assurto alla dimensione pubblica del dibattito scientifico, con tutta evidenza era circolato, sotterraneamente, nellambito privato, nei discorsi confidenziali che si diffondono in ogni ambiente di lavoro, tanto pi in quegli ambienti, come quello accademico, in cui le invidie e i rancori sembrano trovare terreno particolarmente fertile per attecchire e crescere rigogliosi. Non ebbi bisogno di interloquire, perch Augustin riprese a parlare (forse, pensai, lespressione incuriosita e sorpresa del mio volto era abbastanza eloquente). Si tratta di sciocchezze. E Neumann non ne avr nemmeno avuto notizia. Molti dicevano che il professore fosse diventato, diciamo, meno lucido. Che negli ultimi tempi, prima del ritiro, si fosse immalinconito e non ragionasse pi come una volta. Si ferm, come se volesse verificare leffetto che queste sue affermazioni avevano prodotto su di me; ritenni opportuno intervenire per rassicurarlo: Beh, certo: sono tutte stupidaggini, ovvio. Io avevo letto i suoi articoli e. Augustin mi interruppe: Vedi, i suoi articoli, gli ultimi intendo, hanno rafforzato queste assurde convinzioni. Avrai notato che in questi scritti ha affrontato un unico tema: il paradiso. Non c nulla di strano ancora quellaggettivo, notai in fondo era un argomento che aveva gi studiato pi volte. Per la prospettiva con cui Neumann ha trattato quel tema nei suoi ultimi articoli, in effetti, nuova e persino un po anomala, direi. Devo riconoscere che la mia lettura, peraltro piuttosto superficiale, risaliva a qualche anno addietro e che molti dettagli mi sfuggivano. Augustin mi corse in aiuto, riprendendo: Diciamo che nei suoi ultimi scritti alcuni hanno visto un cambiamento di stile. E questo, secondo costoro, era un motivo sufficiente per svalutarlo. Cambiamento di stile: Augustin alludeva probabilmente al procedere nervoso, saltellante, talvolta brusco della prosa dellultimo Neumann, che dava limpressione, a tratti, di affidarsi a fulminanti illuminazioni pi che ad argomentazioni rigidamente coerenti. Quando avevo letto quegli articoli, avevo pensato che fosse normale che lacume del professore, forte di un esercizio decennale, si esprimesse in quelle forme condensate, contratte, che noi, profani (e per un teologo dilettante come me, le difficolt non potevano che essere ancora maggiori), non eravamo in grado di afferrare nella loro pienezza. Ho capito dissi, pi seguendo il filo dei miei ragionamenti che rispondendo al mio amico. Gi. riprese Augustin Ma, secondo altri, dietro questo cambiamento di stile, si poteva leggere anche qualcosa di pi. Un pensiero... insensato, per cos dire. Tentai di decifrare le parole del mio amico: Neumann si era dunque ritirato dallUniversit Cattolica di Lovanio perch qualcuno lo aveva considerato pazzo? O, quanto meno, non pi pienamente compos sui? Di certo, se le cose erano andate cos, non erano bastati gli articoli, per quanto pi criptici, o meno limpidi, a giustificare la decisione: doveva esserci qualcosaltro. La questione diventava interessante, ma Augustin, forse intuendo ancora una volta i miei pensieri, prosegu, sconfessando di fatto quella mia ricostruzione: Ma posso assicurarti che il professor Neumann stava benissimo. Almeno fino allultima volta che lho visto. E quando successo? E stato qualche mese fa, poco prima che morisse. Ero andato a fargli visita, perch non lo vedevo da tempo e mi sentivo in colpa. Anche per le voci che dovevo ascoltare sul suo conto.

Ebbi quasi la sensazione che quella visita fosse stata suggerita ad Augustin dalla volont di verificare di persona la fondatezza, anzi linfondatezza, di quelle voci, ma non glielo dissi perch coglievo il suo disagio di raccontare (o era la necessit di confessarsi con qualcuno?). Era sicuramente stanco: la malattia agli occhi era diventata cos grave che passava le sue giornate in una stanza quasi buia, con le tende tirate. Mi accolse con gioia: si disse felice che fossi andato a trovarlo. Non me lo rivel apertamente, ma intuii che la solitudine di quella casa grande, nella quale viveva, assistito solo da una domestica, gli risultasse un po penosa. Volle informarsi della vita universitaria e, chiaramente, io gli raccontai lo stretto indispensabile. Mi parve ansioso di avere la conferma di essere ancora ricordato, di aver lasciato una traccia. Parlava piano, dando ogni tanto anche limpressione di una certa debolezza. Di certo aveva ormai preso labitudine di trascorrere in silenzio molto tempo: mi raccont che usciva poco e che, poich anche leggere e scrivere erano attivit che svolgeva con fatica crescente e alle quali poteva dedicarsi solo alcune ore al giorno, non gli era rimasto che pensare. Augustin si ferm, come se avesse concluso il discorso e, al tempo stesso, aspettasse di essere invitato a proseguire. Io venni colto dalla curiosit di sapere quale fosse il risultato di quelle lunghe riflessioni. Cominciavo a pensare seriamente che il mio amico sapesse di pi di quanto avesse voluto darmi a intendere. Lo incoraggiai dunque a continuare il suo racconto ma Augustin non aveva ormai pi bisogno di sollecitazioni: In effetti disse Neumann mi rivel di avere avuto unintuizione. Io pensai subito a un qualche contributo esegetico, e gli manifestai il mio interesse. Ma lui mi fece capire che non si trattava solo di questo. Era, cos la defin, unidea pi alta, pi definita. Mi disse di aver finalmente trovato la risposta a tre quesiti fondamentali. Ovviamente, non capii che cosa intendesse; ti confesso che fui attraversato, per un attimo, dal pensiero che il professore non fosse effettivamente del tutto in s. Ma poi, quando inizi a spiegare, mi convinsi che le cose stavano in modo del tutto differente. Dopo una breve pausa, Augustin ricominci a parlare; prover qui a riassumere il senso del suo discorso, ossia lessenza delle tesi del professor Neumann. La prima questione, mi disse Augustin, che il professore aveva affrontato e, a suo giudizio, risolto ruotava attorno a un problema dibattuto per lungo tempo nellesegesi biblica: la collocazione di Eden. Mentre gli studiosi di ogni epoca si sono affannati a trovare una collocazione geografica precisa per questo luogo, Neumann si era posto una domanda diversa: non dove si trova Eden, ma perch Dio avrebbe scelto proprio Eden come sede per il primo uomo. Il nome Eden stato anzi reinterpretato secondo una parola ebraica che significa delizie, cosicch lespressione Gan Eden (il giardino in Eden) di Genesi 2,8 stata intesa (o fraintesa?) come il giardino delle delizie. Eden di certo uno dei pochi luoghi della Sacra Scrittura a non essere geograficamente determinato, se si esclude la vaga indicazione ad oriente, che peraltro autorevoli esegeti sono riusciti a interpretare solo sul piano allegorico. Saremmo pertanto di fronte alla contraddizione secondo la quale Dio avrebbe scelto un luogo che gli uomini avrebbero poi faticato a localizzare; non solo, ma in altri punti della Bibbia (Ezechiele, 28,13 e 31,9 e Isaia 51,3) si parla di Eden come giardino di Dio o del Signore. E noto che il nome di Dio in ebraico, ossia il tetragramma YHWH, impronunciabile. Neumann pensa dunque che, come Dio ha voluto che il suo nome non fosse pronunciato, cos avrebbe deciso anche che il paradiso terrestre fosse un luogo non localizzato. Ma perch? E chiaro che il primo uomo e la prima donna non si posero il problema di dove fossero, dunque la scelta di Eden non poteva essere fatta per Adamo ed Eva, che daltronde avrebbero vissuto sempre in quel luogo, se avessero evitato di mangiare il frutto dellalbero proibito. A meno che non si debba pensare che Dio gi sapesse della cacciata di Adamo ed Eva da Eden nel momento in cui scelse di collocarli in quel giardino, non c che
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unalternativa: Eden un nome creato in un secondo momento, quando cio, dopo la Caduta, cominci ad esistere per gli uomini il mondo al di fuori del Giardino. Non possibile che Adamo ed Eva conoscessero il nome del luogo in cui avevano trascorso la loro vita prima del peccato, ma quel che certo che il rimpianto per quel giardino accompagna da allora luomo. Di esso sappiamo tutto, conosciamo il tipo di alberi che vi crescono, il nome dei fiumi che lo attraversano, ma quello che ignoriamo la sua precisa collocazione. Come contrappasso della conoscenza che Adamo ed Eva si procurarono mangiando il frutto proibito, nel momento stesso in cui gli uomini acquistarono la cognizione del bene e del male, e, grazie ad essa, sperimentarono lesistenza del tempo e dello spazio, persero lorientamento. Se Dio ha consentito quindi che noi dessimo un nome a quel giardino, ci ha anche dimostrato la nostra impossibilit di definirne lubicazione. La seconda domanda che angusti il professor Neumann nei suoi ultimi giorni fu: quanto tempo pass Adamo nel paradiso? Se noto che la creazione si svolse nellarco di sei giorni, nessuna indicazione si trova nel Testo Sacro in merito a questo aspetto. La questione potrebbe risolversi qui, se non fosse che un altro quesito si affaccia: che idea del tempo avevano i nostri progenitori? Essi non solo non si posero infatti il problema di dove fossero, mentre erano in Eden, ma non si dovettero domandare nemmeno in che tempo fossero. Certo, anche nel paradiso terrestre i giorni scorrevano luno dopo laltro, scanditi dallalternanza di luce e ombra, dal sorgere e dal tramontare del sole. Ma Adamo ed Eva non dovettero avvertire il senso di tutto ci se non come ciclica ripetizione dellidentico; finch non si ritrovarono, dopo la cacciata da Eden, a sperimentare direttamente gli effetti concreti del tempo sulla propria condizione, divenuta soggetta al deperimento, e infine alla morte, i primi uomini vissero in un tempo infinito, cio in un non-tempo. Sulla base di queste considerazioni, il professor Neumann, mi disse Augustin, era arrivato a porsi la seguente, ultima domanda: se luomo non in grado di collocare il paradiso nello spazio, almeno in grado di collocarlo nel tempo? S, certo, la Bibbia dice che la creazione si colloca in principio, ma anche questa idea del principio, dobbiamo pensare, stata determinata, ha iniziato ad avere un senso per luomo solo da quando il tempo ha iniziato per lui a esistere, cio dopo la Caduta. Dunque la vicenda del paradiso terrestre si colloca, per sua stessa natura, fuori dal tempo, cos come si situa fuori dallo spazio. Che cosa vieta quindi di pensare che la vita di Adamo ed Eva in Eden non vengano prima, ma dopo, visto che allora prima e dopo non avevano alcun significato, almeno per Adamo ed Eva, cio per gli uomini? La vita in Eden, se ne dovrebbe anzi dedurre, non si situa pertanto prima o dopo, ma sia prima sia dopo. Il che vuol dire sempre. Restai colpito dalle parole di Augustin e compresi finalmente le ragioni dellallontanamento (ma non dovrei dire, a questo punto, della cacciata?) del professor Neumann dallUniversit Cattolica di Lovanio. Altro che sintomi di pazzia! Altro che segni di una latente demenza (magari senile)! Da quanto mi aveva raccontato Augustin si ricavava che il grande teologo fosse stato invitato a ritirarsi perch in odore di eresia! Non potei questa volta nascondere il mio sincero stupore e dissi pertanto apertamente: Ma idee del genere sfiorano leresia! In verit il professor Neumann era consapevole dei rischi impliciti in queste teorie e sapeva altres che, in alcuni punti, queste sue idee erano gi state condannate come eretiche nei primi secoli del Cristianesimo. Ma ti assicuro che mi rifer le sue conclusioni con estrema prudenza, come se volesse darmi a intendere che non si trattasse di un gioco intellettualistico, di un paradosso della logica. E tuttavia non mi parve del tutto convinto dellopportunit di diffondere convinzioni di questo genere. Quando io gli chiesi come mai non avesse pensato di scrivere
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qualcosa sullargomento, mi rispose che ormai era vecchio e che la sua malattia agli occhi non gli consentiva di fare gli sforzi necessari per portare a termine unimpresa cos impegnativa. Ma aggiunse anche, in maniera sibillina, che pure Socrate non ha scritto niente, eppure il suo insegnamento stato ampiamente diffuso... Socrate o Ges dissi tre me, convinto che lo stesso pensiero avesse attraversato anche la mente del professor Neumann e quella di Augustin. Mi limitai per a dire: E tu intendi essere il Platone del caso? Forse ribatt Augustin sorridendo in modo ambiguo. In quel momento ebbi la netta impressione che il racconto di Augustin fosse stato meno casuale di quanto apparisse: tutto mi sembrava dimprovviso avere in s qualcosa di preordinato, di necessario. Si gener in me una sensazione strana: mi parve a un tratto inevitabile lidea che, se Augustin avesse raccolto leredit del maestro, si sarebbe trovato a sua volta nella medesima condizione di dover essere cacciato. Non era una banale previsione di quello che, ragionevolmente, sarebbe potuto accadere nei fatti, ma una consapevolezza di altro genere, pi astratta e per questo pi ferrea: la consapevolezza di una necessit logica che mi si presentava nella sua assoluta, assiomatica, irrefutabile verit. Non ritenni opportuno per aggiungere altro e lasciai che, con la massima naturalezza, la nostra conversazione sul professor Neumann si esaurisse; la serata si concluse cos con discorsi meno profondi e lindomani Augustin Lefvre ripart per Lovanio. Da quella sera di quasi due mesi fa non ci siamo pi sentiti, ma io non ho potuto fare a meno di continuare a riflettere sulle intuizioni del professor Neumann: come se quella sensazione di necessit prodotta dal discorso di Augustin abbia cominciato da allora a operare anche su di me, allettandomi con lusinghe che, per quanto mi appaiano vaghe e indistinte, risultano tuttavia irresistibili, incontenibili, invincibili. Ho rispolverato cos le mie conoscenze di letteratura patristica e mi sono imbattuto in un passo del De genesi ad litteram di Agostino (III 21,33), che mi ha dato molto da pensare. Il vescovo di Ippona, interrogandosi sulla natura del corpo di Adamo ed Eva, creato immortale, ma nutrito con erbe e frutti, e confutando la possibile contraddizione insita nellordine di Dio Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra di Genesi 1,28 che sembra lasciar pensare allamplesso (e dunque alla mortalit del corpo), arriva alla conclusione che dovette esistere nel Giardino un altro modo di unione, fondato su un sentimento amoroso privo di qualsiasi sensualit corruttibile. Questo, secondo Agostino, avrebbe portato genitori eterni a generare figli eterni fino a quando la terra non sarebbe stata piena duomini immortali, e in tal modo, formatosi un popolo giusto e santo, come quello che crediamo sar dopo la risurrezione, sarebbe stato messo anche un termine alle nascite. Si tratta di unipotesi, precisa Agostino, che pu essere avanzata, ma - aggiunge - come possa essere sostenuta, unaltra faccenda (alia consideratio est). Il come, penso, appunto implicito nellidea di Neumann: basterebbe cio considerare che il tempo nel giardino di Eden un non-tempo, e quindi pensare che quel processo di generazione eterna cui Agostino fa riferimento non si colloca prima della cacciata di Adamo ed Eva, perch, nel paradiso terrestre, non esistevano un prima o un dopo: leternit la condizione del tempo che esiste sempre o che non esiste mai, e che pertanto non pu essere collocata prima o dopo qualcosaltro. Non si pu concepire insomma, come lascia pensare Agostino, lidea di una generazione eterna che abbia avuto inizio e che avr un termine (dopo che si sar formato un popolo giusto e santo), perch, se cos fosse, allora si dovrebbe negare limmortalit primigenia di Adamo ed Eva, e affermare la loro corruttibilit prima del peccato, il che condurrebbe alla conclusione che Dio avrebbe creato il male, idea gi affacciata dallo gnostico Florino, gi confutata come eretica da Agostino (De haeresibus 66) e pertanto irricevibile. Le uniche ipotesi sostenibili restano quelle
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pi ovvie, ma anche pi sconvolgenti: o Adamo ed Eva non sono mai stati cacciati dal paradiso, oppure continuano ad essere cacciati dal paradiso! La colpa da loro commessa non pu essere occasionale; se fosse avvenuta una volta soltanto (come lascerebbe intendere la Bibbia), come se non fosse avvenuta mai. Essa quindi deve poter avvenire pi volte! La Caduta, anzi ogni caduta produce cos il paradossale effetto di determinare ulteriori cadute, in un ciclo perpetuo di autoconservazione del principio. Si pu individuare una prima caduta, da cui tutto avrebbe origine? Il racconto biblico parrebbe autorizzare questinterpretazione, ma, come visto, sembra anche negarla: collocare la vicenda del paradiso terrestre allorigine del tempo, significherebbe ricadere nella contraddizione di situarla in un momento che ha assunto un significato solo dopo la caduta stessa. E se sono infinite le cadute, devono essere infiniti anche i paradisi dai quali luomo stato, e sar cacciato. Ogni tentativo di individuare dunque la caduta originaria sarebbe vano, tanto quanto lo sforzo di trovare lorigine di una circonferenza: come infatti in un cerchio ogni punto origine della circonferenza e ne a sua volta il risultato, cos ogni caduta causa ed effetto delle altre cadute. Il racconto della Bibbia quindi uno dei tanti possibili racconti; Eden uno dei tanti possibili paradisi; Adamo uno dei tanti possibili uomini (daltronde 'adam, in ebraico, non vuol dire semplicemente uomo?). Questo pensiero mi tormenta da giorni, ma in fondo se vero, come dice San Paolo che un uomo ha condannato tutti, laltro li ha salvati tutti (1 Cor. 15,22: Poich se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verr anche la risurrezione dei morti), allora tutto pu anzi deve ancora accadere. Mi venuta in mente lidea della circolarit del tempo presente nella filosofia greca e attestata anche nel mito delle cinque et narrato da Esiodo (Le opere e i giorni, 106-201), ma penso anche allekpyrosis degli Stoici, la conflagrazione dalla quale ciclicamente si rigenera il mondo. E poi, ovviamente, leterno ritorno di Nietzsche, ma pure il proverbio tedesco Einmal ist keinmal, citato da Milan Kundera ne Linsostenibile leggerezza dellessere, quello che avviene soltanto una volta come se non fosse mai avvenuto, o quel verso di Borges Tutto accade per la prima volta, ma in un modo eterno. Perch le cose abbiano senso devono ripetersi! La cacciata di Adamo ed Eva e la cacciata del professor Neumann sono dunque eventi diversi? O non sono piuttosto parti della medesima Caduta, punti interscambiabili della medesima circonferenza? Se noi fatichiamo a vedere la curvatura del tempo, non solo un altro difetto della nostra vista, non dissimile da quello che ci impedisce di cogliere la rotondit della terra guardando la linea piatta dellorizzonte? Noi temiamo la fine del tempo e cerchiamo lorigine, ma non ci rendiamo conto che fine e origine coincidono. Daltra parte sappiamo che contemplare la volta del cielo, che limmagine stessa, ai nostri occhi, della perfezione, vuol dire guardare il tempo: la puntiforme figura con cui ci si mostrano stelle e pianeti sfugge anchessa, come Eden, ad ogni collocazione precisa nello spazio, visto che le distanze trascendono le nostre capacit di misurazione, e soprattutto nel tempo, giacch, nel guardare un tempo che non c pi, guardiamo in realt il riflesso del tempo che c sempre. A ben vedere, si torna ancora allo stesso punto: la localizzazione del paradiso davvero una questione che riguarda lo spazio, o non piuttosto un problema temporale? In altri termini, quando e quante volte si ripetuta e si ripeter la Caduta? Sono stati, questi ultimi, giorni di inesausta e assillante meditazione. Ho provato a capire se ci sia una qualche ragione che mi inclini verso questo genere di riflessioni in maniera cos esclusiva, ma devo ammettere che proprio il fatto di non riuscire a dare una risposta a questa domanda fa crescere in me lattrazione nei confronti dellargomento. Il dubbio di non sapere soddisfare ai miei dubbi , a sua volta, alimento di nuovi dubbi e di nuovi tormenti, in un
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vortice di sofferenza che non ha fine. Per tentare di porre un termine a questa assurda, ingiustificata, assoluta sete di conoscenza, stamane ho pensato di riprendere in considerazione il mio vecchio progetto del racconto su Adamo ed Eva. Scrivere, ho considerato, potrebbe essere la soluzione alle mie ossessioni. Lidea, in principio, mi sembrata dare i suoi frutti. La chiave di rilettura del racconto, che avevo faticato a trovare anni fa, mi balzata nella sua immediata evidenza davanti agli occhi della mente: la storia dovr iniziare dalla cacciata da una prestigiosa universit di un illustre professore di teologia accusato di idee eretiche. Queste per, alla sua morte, troveranno seguito grazie a un altro professore di teologia, suo allievo, che verr a sua volta cacciato: questevento sar solo accennato e costituir la conclusione del racconto. Nonostante le ottime intenzioni e le buone premesse per, pi di unora che sono seduto alla scrivania del mio studio e sul foglio davanti a me campeggia per il momento soltanto il titolo del racconto: La Caduta. Per quanto provi a concentrarmi, non riesco a trovare il modo di iniziare. Ho presente la storia, i personaggi, ho provato anche a cominciare dalla fine, ma mi mancano la fluidit e la facilit dello scrivere. Non ho mai sofferto della sindrome della pagina bianca, eppure, semplicemente, ora non c uno stile che mi convinca: ogni frase che mi viene in mente mi sembra priva di originalit, mi suona come detta e ridetta, come gi ascoltata. Fatico insomma a trovare le parole. Ogni tanto mi lascio distrarre dai rumori tenui provenienti dallesterno: la finestra socchiusa e spira una brezza gradevole; si ode a tratti il mormorio del ruscello che scorre poco lontano. Torno a fissare il foglio nella speranza di superare il blocco che mi paralizza, ma non c nulla da fare. Mi impongo di concentrarmi pi a lungo, chiudo anche la finestra per eliminare ogni possibile fonte di distrazione. Passano cos altri minuti: come se li sentissi scorrere uno a uno e lasciare un segno invisibile sulla pagina bianca che continuo a fissare con vana ostinazione. Senza rendermene conto, sollevo di nuovo gli occhi dal foglio e guardo ancora una volta fuori. Adesso vedo mia moglie. E distesa serenamente allombra di una quercia, sta addentando una mela. Si accorge che la sto osservando, e mi fa un segno con la mano che io interpreto come un invito a raggiungerla. Mi alzo dalla scrivania ed esco in giardino. Tra ogni specie di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, mia moglie mi viene incontro: senza dire una parola, mi offre con un sorriso di condividere il frutto che sta mangiando. Sorrido anchio, in un momento questi ultimi giorni mi paiono lontanissimi, come se non ci fossero mai stati: tendo la mano, accetto.

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RIFLESSIONI

Il timor panico e la Natura degli ipocriti


Riflessioni a partire dal Saggio su Pan di James Hillman
MATTEO FONTANA

INTRODUZIONE

Ci che maggiormente si fa apprezzare nel lavoro di James Hillman (1926-2011) latteggiamento critico nei confronti della psicologia proposto proprio da uno psicologo e psicoterapeuta. Lo sguardo (impietoso) da insider, insomma. Una sana autocritica che non guasta, in una dottrina che troppo spesso ha fatto della autoreferenzialit la propria bandiera. La carriera di filosofo di Hillman stata animata da una sincera ispirazione a fare piazza pulita di stereotipi e luoghi comuni, in favore del recupero di certe componenti dello junghismo, in primis la cosiddetta psicologia degli archetipi. Pi che interrogarsi su casi singoli, egli sempre stato attratto per dirla con Musil, in una celebre intervista rilasciata ad Oskar Maurus Fontana da ci che spiritualmente tipico, dalle istanze psichiche (inteso come: dellanima) comuni a tutti gli uomini, o perlomeno agli uomini occidentali che condividono, volenti o nolenti, il passato greco-romano. Il Saggio su Pan (1972) un testo basilare nellanalisi hillmaniana del fenomeno noto come Ritorno alla Grecia, verificatosi nel pensiero ottocentesco (si pensi a Nietzsche) a partire dagli studi filologici e mitografici di Wilhelm Roscher, autore di un monumentale Lexicon, e proseguito tra alterne fortune anche nel corso del XX secolo, fino alla rielaborazione junghiana e alla teorizzazione degli archetipi. Hillman individua nella figura di Pan un referente mitologico fondamentale per comprendere lanima delluomo occidentale contemporaneo. Il Mito, secondo Hillman, un gigantesco serbatoio di verit archetipiche, un corpus immenso di storie che veicolano istanze profonde dellanima (psicologia del profondo), istanze che provengono da tempi molto lontani e che, purtuttavia, sarebbero rimaste sostanzialmente invariate.

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Invariate, per, non significa coscienti! Anzi, la maggior parte di queste istanze avrebbe subito la rimozione, come accaduto a detta di Hillman al dio Pan, immolato sullaltare del passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo, dal politeismo al monoteismo.1 Il Cristianesimo traduce Pan col Diavolo, connotandolo moralmente in senso profondamente negativo, cosa che, ovviamente, non avviene nel Pantheon greco. Pan non un dio cattivo; un dio che suscita paura, che opera violenze, che scatena incubi. Ma che, allo stesso tempo, sovrintende a fenomeni come la malattia mentale, lepilessia, lincubo, e persino la masturbazione. Come sempre, il mondo pagano non giudica, ma RAPPRESENTA i fenomeni fisici e umani in un mondo superno, quello degli di, appunto. Con tale rappresentazione, la mente greca fa i conti con i fenomeni stessi, specie con quelli dolorosi (terremoti, sciagure, la morte stessa). Si pu dire, in un certo senso, che non c rimozione nel mondo greco, bens uno SPOSTAMENTO, una collocazione in territorio superno delle istanze, anche le pi sgradevoli, della psiche. Mentre il mondo cristiano ha bisogno di scaricare il Male su una figura il Demonio, appunto che sia moralmente esecrabile2, il mondo pagano col Male ci convive pi tranquillamente, lo conosce e a volte lo venera persino, o lo blandisce. La riflessione di Hillman su Pan in questo senso molto attuale. In questi anni che vedono il fiorire di nuove religioni (si pensi alla quantit impressionante di sette, le pi disparate e bizzarre, che nascono, e spesso muoiono, ogni anno, da Scientology in gi), e che vedono la ricerca intensa di nuove vie verso la completezza dellEssere e dellAnima, e nuove teorie che finalmente ci spieghino chi siamo, forse proprio il caso di guardare al passato, al Mito, come gi provarono a fare tanti pensatori ottocenteschi, Nietzsche in testa, ma anche D.H. Lawrence, Novalis, Roscher La Grecia scrive Hillman permane come un paesaggio interiore piuttosto che come un paesaggio geografico, come una metafora del regno immaginale che ospita gli archetipi sotto forma di Dei.3 E dunque alla Grecia che si rif, giocoforza, la psicologia del profondo, che considera i personaggi della mitologia come realt viventi dellessere umano e che si rivolge alla mitologia non tanto per imparare sugli altri nel passato, quanto per comprendere noi stessi nel presente.4

Si pensi, a questo proposito, a quanto riferito circa il celebre grido Il grande Pan morto!, che avrebbe accompagnato laffermarsi del Cristianesimo sul Paganesimo. Tale grido, a detta di Plutarco, sarebbe stato udito dalle rive di Paxos da un mercante fenicio in viaggio verso lItalia, durante il regno di Tiberio (14-37 d.C.). Al mercante, tale Tamos, sarebbe anzi stato chiesto di diffondere la notizia della morte del grande dio Pan. Ma su questo punto torneremo a breve, a proposito del rapporto morte-rimozione nellanalisi hillmaniana. Cfr. PLUTARCO, Il tramonto degli oracoli, in Dialoghi delfici (Adelphi, 1983). 2 Non sar inutile sottolineare che anche nello Gnosticismo, che pure una dottrina per molti aspetti in netto contrasto con il Cristianesimo classico, finisce per affermarsi una concezione dualistica di spirito e materia e, mentre il primo ha connotazioni benigne, la seconda apertamente accostata al Male. Ulteriore dimostrazione del fatto che la scissione in elementi contrapposti squisitamente cristiana, laddove invece la cultura pagana tende ad armonizzare, ad allargare lo spettro di rappresentazione mediante il divino pur di non generare contrapposizioni nette. Non che nel mondo pagano non esistano i contrasti, ma essi sono, per cos dire, accolti in seno al Pantheon stesso, e non espulsi sotto forma di angeli ripudiati o altre figure maligne. Persino i Signori del Regno dei morti, nella cultura pagana (Ade o Plutone che dir si voglia), sono parte integrante di un sistema che non li concepisce come reietti o esecrabili. Torner su questi argomenti pi avanti, quando si parler dellimportanza del fallo come attributo di Pan e, pi in generale, come attributo del rapporto pagano con la Natura. 3 James HILLMAN, Saggio su Pan (Adelphi, 2008 p. 16) 4 James HILLMAN, op. cit. (p. 27)

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Con la consapevolezza, per di pi, che non possiamo toccare il mito senza che esso ci tocchi a sua volta.5 Una sorta di legge di Heisenberg applicata alla mitologia che non posso che sottoscrivere in pieno. E ora veniamo allanalisi vera e propria delle principali affermazioni hillmaniane contenute nel Saggio su Pan, analisi che ho intenzione di ricondurre ad una riflessione sul rapporto (o nonrapporto) dellUomo contemporaneo con la Natura e i suoi fenomeni, fino a smascherare una curiosa (e oggid assai diffusa!) perversione del pensiero relativo alla Natura.

IL SOGNO

Partiamo, come doverosa premessa, dalla disamina di una delle attivit psichiche pi importanti, in ogni scuola psicologica, ovvero lattivit onirica, non fossaltro perch Hillman, come gi Wilhelm Roscher nellOttocento, considera Pan il Nume tutelare dellincubo, ovvero di una particolare attivit onirica, la pi inquietante e gravida di segnali demoniaci. Osserva giustamente Hillman che lOttocento stato il secolo dei pi intensi studi sul sogno. Egli individua tre diversi tipi di approccio adottati dai principali studiosi dellepoca: - MATERIALISTICO, in base al quale il sogno altro non sarebbe che una eco mentale di eventi fisici, ovvero di percezioni del corpo durante il sonno; - RAZIONALISTICO, in base al quale il sogno non avrebbe senso, derivando da un intorbidamento della coscienza durante il sonno; - ROMANTICO, in base al quale il sogno sarebbe un derivato diretto di potenze occulte che si scatenano di notte. Mediante il sogno, dunque, si sarebbe avviata una vera e propria comunicazione con gli Dei.6 Ora, nel mondo greco, il sogno era interpretato come un momento di comunicazione col Divino, spesso per mezzo del daimon, entit di raccordo che poteva simboleggiare detto molto brevemente il carattere, linclinazione personale, lintuito.7 Diverse divinit potevano esprimersi per mezzo di sogni, e una di queste era certamente Pan. A questo proposito, Hillman ammirevole. Egli infatti scrive, senza mezze misure: Pan non pu essere ricondotto a nessun complesso della propria vita personale; non lo si pu giustificare con una spiegazione psicologica.8 Insomma, il Pantheon greco non pu essere ricondotto a costruzioni psicologiche di comodo, se non profonde, ovvero comuni a tutti gli esseri umani che siano entrati in contatto con quella cultura, o che siano sue dirette (seppur, ormai, lontane) filiazioni. La tal divinit non vuol dire
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James HILLMAN, op. cit. (p. 30) Cfr. Sigmund FREUD, Linterpretazione dei sogni (Die Traumdeutung, 1900). Tra i meriti indiscussi di questopera di Freud, vero e proprio caposaldo della psicoanalisi, figura laver considerato e descritto (a ridosso peraltro della loro formulazione) tutte e tre le tipologie di approccio di cui parla Hillman, per poi approdare, a mio parere, ad un quarto tipo di approccio, che definirei IPER-RAZIONALISTICO: il sogno ha un senso preciso, legato alle esperienze della veglia, riformulate in modo da veicolare un messaggio proveniente dallinconscio, e consistente il pi delle volte nellappagamento di un desiderio inconfessato, rimosso o semplicemente impossibile da realizzare nella realt. 7 Cfr. PLUTARCO, Il demone di Socrate (Adelphi, 1982), per una rapida quanto efficace (e ironica!) rappresentazione del daimon. A proposito di questa figura semi-divina, scrive Dario Del Corno nellintroduzione al volume succitato: Il termine daimon compare gi in Omero. Luso primitivo lo distingue da theos in quanto, pi che una divinit individuata nel culto e nel mito, esso definisce un indistinto agente divino, che esplica la sua forza in certe circostanze. Questo valore si precisa poi in due direzioni: a indicare la causa soprannaturale di ogni evento fatale e inaspettato, e come nome comune tanto per gli esseri divini cui non pertiene uno specifico culto, quanto per gli eroi che hanno ottenuto la condizione di di dopo la morte. In et pi tarda [] si sviluppa lidea che i demoni siano divinit di rango inferiore, intermediari tra il dio e gli uomini, qualcosa di simile agli angeli dellEbraismo e poi del Cristianesimo. 8 James HILLMAN, op. cit. (p. 42).

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nulla, il tal mito non significa niente: non c un messaggio contenuto nella mitologia, bens una profonda verit che, come scrive Robert Musil, non un cristallo che si pu mettere in tasca, bens un liquido sconfinato in cui si casca dentro. 9 Questo con buona pace di chi si ostina ad interpretare i singoli miti o le fiabe in chiave esclusivamente psicologica, come se la mitologia fosse una raccolta di raccomandazioni o un (consapevole?) tentativo di raccontare complessi, perversioni o meccanismi psicologici. No, la mitologia un fatto collettivo, il veicolo di conoscenze ancestrali, e per definizione non applicabile al caso singolo e non descrive singole istanze psicologiche, bens caratteri10 profondi dellessere umano, caratteri che provengono, con ogni probabilit, da un Tempo tanto lontano da non poter essere ricordato con nessun altro mezzo. Non a caso, la mitologia ha assunto anche precisi aspetti rituali, tra cui (per limitarci al mondo greco) i riti misterici e la tragedia.

LA NATURA DEMONIZZATA

Pan era dunque, tra le altre cose, il dio dellincubo, una delle divinit chiamate in causa per spiegare il particolare fenomeno del sogno, soprattutto nella sua declinazione paurosa. Ma egli era anche, riconosciutamente, una divinit della Natura. Si pensi alla sua rappresentazione pi classica: met umano e met caprino, accovacciato in un campo o in un bosco, intento a suonare il celebre flauto composto da canne forate di diverse dimensioni. Ora, in confronto a dei come Apollo, Atena, Afrodite e ovviamente Zeus, si potrebbe pensare a Pan come ad una divinit minore nel Pantheon greco. Un dio interlocutorio, una delle tante divinit o semi-divinit legate al mondo naturale. Eppure, per sottolineare il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo nellopera di Plutarco citata nella nota 1, si ricorse proprio a Pan, la cui morte (fatto di per s strano, ed estremo, trattandosi di un dio!) sembra suggellare un passaggio di consegne, il subentrare di unaltra divinit che esclude le altre. Ma il fatto che sia proprio Pan a morire costringe a vedere il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo sul piano del controllo della Natura. Ora, come detto poco sopra, Pan non era lunico dio della Natura nel mondo greco. Si pensi a figure come Artemide (sotto il cui controllo ricadevano le pratiche connesse alla caccia), Demetra (la dea delle messi e delle coltivazioni), Poseidone (il dio dei mari), Cibele (dea, o Grande Madre, della natura e degli animali), fino allarcaica Gea, figura che rappresenta il pianeta stesso nelle sue molteplici manifestazioni, divinit che incarna lessenza della Natura. In mezzo a tutte queste divinit che presiedevano i diversi aspetti della Natura (e potremmo citare anche la Potnia Theron omerica11, la Signora degli animali), Pan aveva una particolarit: era il dio dei momenti oscuri, temibili della Natura. Non un dio notturno, visto che la sua
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Robert MUSIL, Luomo senza qualit (Einaudi, 1972), p. 518. Ma non solo caratteri! Direi anche ACCADIMENTI che hanno riguardato lUmanit in epoche nelle quali essa non disponeva della scrittura per poterne conservare la memoria. Si pensi alla ben nota diffusione, in quasi tutte le culture conosciute del pianeta, di miti legati al diluvio, miti che, a detta di svariati studiosi, potrebbero serbare il ricordo dellultima de-glaciazione, periodo di diversi secoli che vide certamente poderose alluvioni e stagioni di piogge insolitamente lunghe. In merito, ma pi in generale circa la natura e il significato della mitologia, non si pu non rimandare al fondamentale libro di Giorgio DE SANTILLANA e Hertha VON DECHEND, Il Mulino di Amleto (Adelphi, 1983), imprescindibile caposaldo per qualunque indagine sulla mitologia occidentale e non solo. 11 Cfr. OMERO, Iliade XXI, 470
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comparsa testi alla mano avveniva perlopi di giorno, anzi, addirittura a mezzogiorno, quando il Sole era allo zenit; per essere terrificante, Pan non aveva bisogno di arrivare di notte, poich egli era il dio degli istinti e degli eventi naturali che sfuggono al controllo, e alla ragione. Da cui il TIMOR PANICO, la paura folle e a volte ingiustificata che prende gli uomini in determinate circostanze, soprattutto quando il mondo attorno a loro perde le sue coordinate consuete e assume, improvvisamente, un aspetto sinistro.12 Il Paganesimo e la sua complessa mitologia furono visti essenzialmente come connessi alla Natura, allambiente agreste (il nome stesso, Paganesimo, com noto, deriva dal latino pagus, termine che indicava gli insediamenti rurali: come a indicare che i devoti delle divinit antiche erano coloro che vivevano fuori dai confini delle citt, nella Natura). Parve dunque logico, al passaggio da una religione allaltra, ovvero dal culto naturale a quello borghese o cittadino, sopprimere in primis il dio Pan. Ma, in realt, mai informazione fu pi errata di quel Pan morto! di cui riferisce Plutarco. Infatti, non di morte si tratta, bens, casomai, di rimozione. Scrive Hillman: Gli dei rimossi ritornano come nucleo archetipico dei complessi sintomatici.13 Pan verrebbe dunque ancora sperimentato dallUomo contemporaneo, sotto forma di disturbi psichici quali agorafobia, aracnofobia, claustrofobia e altre affezioni legate essenzialmente al rapporto con lambiente. 14 Io per non parlerei neppure di rimozione propriamente detta, giacch Pan, nel passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo, scomparso solo nominalmente. La sua figura ha finito per trasferirsi in quella del Diavolo: il dio della Natura nelle sue manifestazioni avverse divenne il ricettacolo del Male, il Tentatore per antonomasia, il Maligno. Non pi, dunque, un aggressore che veicolava istinti che (questo la mente greca lo sapeva benissimo) albergavano anche nellanimo umano, bens un persuasore in concorrenza con la Divinit buona e creatrice, un corruttore, qualcosa di esterno allanima, da scacciare e rimuovere. Mai trasformazione fu pi scellerata! Il contatto Uomo-Natura, in questo modo, finisce ben presto per perdersi, e si giunge per compiere un breve ma fruttifero excursus in ambito cinematografico a quel FALLIMENTO DELLA CREAZIONE che struttura tutto il cinema di Werner Herzog, regista panico quantaltri mai.15
Freud parlerebbe, probabilmente, di perturbante. Pan indubbiamente la divinit che meglio di tutte si presta ad esprimere questo concetto-cardine del pensiero freudiano, che in questa sede non approfondiremo oltre, rimandando ovviamente gli interessati al testo di riferimento. Cfr. Sigmund FREUD, Il perturbante (Theoria ed., 1984). 13 James HILLMAN, op. cit. (p. 47). 14 Questa , nei suoi tratti essenziali, la tesi di Wilhelm Roscher. 15 Si vedano titoli come Fata Morgana (1969-70), Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), Aguirre, furore di Dio (1972), Fitzcarraldo (1982), Dove sognano le formiche verdi (1984), persino il discusso Grido di pietra (1991). Film nei quali il fulcro concettuale risiede proprio nella messa in scena, attonita e sospesa, del non-rapporto tra uomini e ambiente naturale, allinsegna di un mondo che Herzog non vede pi adatto allUomo, come se questi si ritrovasse vittima di una Creazione fallita che lo ha scagliato in un ambiente ostile e incomprensibile, violento, respingente. Ora, pi che di fallimento della Creazione, sulla base di quanto sin qui scritto, bisognerebbe forse parlare di rimozione del dio Pan. Laltro grande autore panico che ravviso nel cinema contemporaneo Terrence Malick, che per, rispetto ad Herzog, si fatto maggiormente contaminare da suggestioni new age. La Natura in Malick elemento carico di bellezza e mistero, che sovrasta gli uomini, li permea di una sorta di amore non ricambiato, di una quantit di bellezza che i personaggi malickiani spesso, semplicemente, non sono in grado di contenere, da cui il lacerante conflitto che li annichilisce. Viceversa, in Herzog, la componente panica pi genuina, nella messa in scena della Natura (sia essa rappresentata dallAmazzonia come dal Cerro Torre, da un fiume impetuoso come da una foresta inestricabile) come elemento apertamente ostile, di per s inquietante, che lUomo si sforza vanamente di piegare. Dir di pi: in Herzog, la componente panica deriva perlopi dal contrasto tra il fascino, innegabile, addirittura ipnotico della Natura (piano visivo del suo cinema) e la sua essenziale pericolosit, la sua inviolabilit, il suo mistero (piano concettuale). Si pensi al finale di Aguirre o, per concludere con un film non ancora citato, al patetico e vano tentativo del soldato Stroszek in Segni di vita (1968): sparare al Sole per riaffermare il proprio dominio sulla Natura, opporre il fuoco del fucile al fuoco
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Ovvero, lo scollamento dellUomo dal suo mondo. Il Cristianesimo si pone dunque come religione dellUomo civilizzato, ma lo fa a prezzo di una rimozione pesante, forse in fondo inaccettabile per lUomo stesso: la rimozione della Natura che DENTRO DI LUI, e che era rappresentata appunto dal dio Pan. Hillman parla spesso dei concetti oggi contrapposti di NATURA FUORI e NATURA DENTRO, e sostiene che Pan era, nellAntichit, lelemento unificatore, colui che teneva assieme questi due modi di vivere il rapporto con la Natura. Letica cristiana, viceversa, accetta la scissione, e lo fa nel momento stesso in cui etichetta come pagani, quindi appartenenti alle campagne, ad un fuori diverso e arretrato, non paragonabile con lambiente cittadino, i fedeli degli antichi culti politeisti. Per questo oggid la psicologia ha buon gioco nel prendere Pan come simbolo di manifestazioni psicopatologiche: esso il residuo di un modo di intendere lUomo in rapporto con la Natura che non c pi, che stato calcolatamente rimosso. Si faccia caso poi ad unaltra interessante contrapposizione, che Hillman mette bene in evidenza, quella tra Pan e Cristo. Cristo il portatore dellascetismo, ovvero del vivere la Natura come una sfida, del resistere ad essa per esaltare la propria individualit; esaltazione dellindividualit che avviene anche mediante i miracoli che invertono o modificano le caratteristiche naturali (giusto per fare un esempio, si pensi alla celebre camminata sulle acque del lago di Tiberiade);16 Pan, al contrario, simboleggia una profonda simbiosi con la Natura, anche e soprattutto con i suoi lati turpi e sconci (il fallo, la violenza, lo stupro, la paura, la morte). Quella di Pan insomma una Natura che lUomo non pu che SUBIRE, in quanto pi forte di lui ed estesa anche, in un certo senso, al suo animo (ma su questo argomento torneremo pi avanti). Quella di Cristo una Natura cui lUomo SI CONTRAPPONE, una Natura da studiare e da piegare tecnologicamente. Come scrive, al solito acutamente, Giorgio de Santillana, il rapporto del pensiero con la natura nei tempi classici era ben diverso dal nostro; non gi ricerca di un punto di sfondamento da cui sopraffare lavversario, ma la ricerca di unarmonia, di un ritmo in cui ci si inserisce. Luomo si concepisce come vivente in seno alla natura, non contrapposto ad essa.17 Lecologismo, dunque, dovrebbe essere panico per definizione; ma proprio qui, per usare unespressione colloquiale, casca lasino!

MASTURBAZIONE, STUPRO E PANICO

Prima di procedere nel discorso critico sullecologismo di oggi, per, occorre dedicare qualche riga al Pan pi controverso, ai suoi ruoli pi discutibili: protettore della masturbazione e dello stupro, e artefice del panico. La masturbazione si accompagna tradizionalmente, nel mondo cristiano, al senso di colpa per la mancanza di scopo riproduttivo e per lindulgenza nei confronti di un piacere che, pi che sessuale, pu essere definito genitale. Il panico la paura folle, immotivata e comunque soverchiante, che non fa ragionare. Due istanze che Pan e la mitologia ad esso connessa non
della stella. E, in proposito, si ricordi quanto detto in precedenza circa la natura diurna del dio Pan, la cui apparizione avveniva perlopi a mezzod, col Sole allo zenit In questo senso, quello del povero Stroszek un perfetto attacco (di) panico! 16 Naturalmente anche gli di pagani, in moltissime culture, compiono miracoli e sovvertono i dati naturali. Basti pensare che il mito stesso della camminata sullacqua appartiene, ben prima che a Cristo, al dio egiziano Horus. Qui interessa per suggerire la derivazione dalla figura di Cristo di un ascetismo che mira alla contrapposizione delluomo alla Natura, mentre la linea del pensiero panico, ovvero della simbiosi assoluta con lambiente naturale, viene rimossa. 17 Giorgio DE SANTILLANA, Fato antico e Fato moderno (Adelphi, 2007, pp. 33-34).

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spiegano n giudicano, ma giustificano. Il panico scrive Hillman esister sempre perch radicato nella natura umana. [] Per governarlo [] bisogner seguire un procedimento rituale e mitologico.18 Sorprende, ovviamente, che uno psicologo non suggerisca un procedimento psicologico! Ma abbiamo gi chiarito che James Hillman non era uno psicologo tipico. Nella psicologia classica di stampo freudiano, del resto, langoscia il risultato del ritorno di un desiderio rimosso, un desiderio la cui esistenza lIo cosciente non pu ammettere senza andar contro le convenienze sociali e civili (ad esempio, lincesto). Ora, i mitologi vedono proprio angoscia e desiderio come elementi ben presenti nella figura di Pan. E Hillman segue questa linea di pensiero, riconoscendo implicitamente il bisogno dellUomo di tali istanze psichiche, come anche della paura, che fattore fondamentale dellistinto di autoconservazione. Del resto, il bisogno umano di provare paura in un mondo che ha messo in sicurezza quasi tutto ampiamente testimoniato dal successo di tanta letteratura e cinema horror, che dello spavento o del terrore fanno i loro cardini. 19 Hillman in merito chiarissimo: Essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significherebbe perdita dellistinto, perdita di connessione con Pan.20 E a questo proposito, non si pu non pensare al celebre finale di Full Metal Jacket (Kubrick, 1987), nel quale proprio il totale venir meno della paura a sancire la rinuncia del soldato Joker alla propria stessa anima (termine peraltro assai hillmaniano). Marciando verso il Fiume dei Profumi dopo aver ucciso la cecchina vietnamita, la frase di Joker inequivocabile: Certo, vivo in un mondo di merda, questo s. Ma sono vivo. E non ho pi paura. E gi nella prima parte, durante laddestramento a Parris Island, il sergente maggiore Hartman aveva posto laccento sulla necessit del coraggio cieco, che abolisse la paura: Il soldato Joker ignorante e senza Dio, ma ha fegato! E il fegato tutto! La paura, gi secondo Jung, rappresenta una connessione molto profonda con la Natura, che per definizione qualcosa di incontrollabile e di molto pi grande delluomo. In Jung, pulsioni come la fame, la sessualit e laggressivit vengono accostate alla paura, che in un certo senso ne causa scatenante. Anche la pratica della masturbazione, infatti, secondo Hillman interpretabile come una reazione alla paura, anzitutto perch essa non implica la relazione con unaltra persona, e dipende dunque solamente dallindividuo.21

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James HILLMAN, op. cit. (pp. 68-69). Il pensiero corre immediatamente al Maestro del Brivido per antonomasia, Sir Alfred Hitchcock, che peraltro in una celebre conversazione che intrattenne con uno psichiatra e semiologo, il dottor Christian Metz, interessato ad approfondire la natura a suo dire eccessivamente violenta e scabrosa del cinema hitchcockiano, sostenne con meravigliosa eleganza e profondit la causa del cinema di suspense, argomentando che esso andava precisamente a soddisfare un bisogno dello spettatore: quello di sperimentare la paura, ma in un contesto controllato e sicuro (nonch simbolico e onirico) quale la sala cinematografica. 20 James HILLMAN, op. cit. (p. 73). 21 Convince meno Hillman laddove vede nella masturbazione una pratica tipica dei pastori che, soli col loro gregge, possono trarre sollievo e piacere fisico solo dallatto onanistico. Io preferisco vedere nella masturbazione un epifenomeno della naturale solitudine delluomo. Lorgasmo , riconosciutamente, un istante nel quale il pensiero focalizzato solo sul piacere, sul godimento. Quanto ad intensit, il momento acuto dellorgasmo sopravanza qualunque altro pensiero, in un certo senso occupa il corpo intero, e perci rappresenta la regina delle distrazioni, il piacere seppur di breve durata in grado di far dimenticare qualunque altro pensiero. Una sorta di droga naturale e fisica, di anestetico estremo. In questo senso, pu essere interessante rimandare il lettore (che sia anche cinefilo) al recentissimo Shame di Steve McQueen, storia di un uomo dipendente dal piacere solitario (o comunque disimpegnato) dellattivit sessuale.

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Ad ogni modo, senza spingersi troppo in l con le elucubrazioni, contentiamoci di sottolineare come il dio Pan fungesse anche da paladino della masturbazione, laddove invece il Cristianesimo la condanna in partenza: Nella nostra cultura la masturbazione attribuita a Onan, il quale fu colpito a morte da Dio, e non a Pan, che era egli stesso un dio.22 Differenza, questa, fondamentale e a suo modo devastante: la cultura giudaico-cristiana nasce aborrendo un atto che, viceversa, la cultura greca comprendeva, in un certo senso, tra i fenomeni di natura. Il discorso si fa ancora pi interessante, anche se fatalmente pi controverso, per quanto riguarda lo stupro, unaltra delle attitudini riconosciute a Pan dalla mitologia. Partiamo da Hillman: Lo stupro appartenuto allesistenza umana e divina da molto prima che la psicologia entrasse sulla scena per spiegarlo.23 Parole incontestabili. La mitologia greca piena di mortali, di ninfe e persino di di stuprati o raggirati in modo da essere posseduti sessualmente. Lo stupore dinanzi alla violenza contenuta nel Mito per gli spiriti candidi degli ingenui, poich il Mito parla dellUomo antico come la Storia di quello moderno. Perch stupirsi, dunque, che esso contenga anche ci che di oscuro e patologico alberga nellanimo umano? Autoerotismo, stupro e paura sono oggetti psichici che il mondo greco non aveva problemi ad affrontare e raccontare. E col concetto di peccato che subentra una griglia di valutazione morale che finisce per escludere recisamente tali termini dallorizzonte religioso e morale, confinandoli nella patologia. Il Mito, nel suo sgorgare dallanima per parlare allanima stessa24, non fa distinzioni morali, ma accetta determinate deviazioni per il semplice fatto che anchesse fanno parte dellanimo umano. Pan anche il dio dello stupro perch lo stupro previsto in Natura, anzi, come scrive Hillman, lassalto di Pan trasforma repentinamente la Natura in istinto. Lo stupro ne fa qualcosa di intimo. Lo stupro, da l fuori, la porta dentro di noi.25 Hillman, con un certo acume, si spinge a notare che in fondo le vittime predilette del dio-capro, ovvero le Ninfe, non sono estranee al mondo di Pan. Le Ninfe sono divinit naturali, spiriti dei luoghi (di sorgenti, boschi, monti, fiumi, valli, cui spesso danno nome e di cui strutturano i miti detti eziologici), intimamente connesse a quella Natura sulla quale Pan regna sovrano. Chi stupra egli, dunque, se non le sue stesse Vestali? E insomma, quello veicolato da Pan, uno stupro estremamente simbolico, tutto interno al suo mondo, la Natura poderosa e incontrollabile. E se gi la trasformazione di Pan nel Diavolo (ampiamente dimostrata) un profondo pervertimento delle originarie caratteristiche del dio, che dire della trasformazione (altrettanto evidente) delle Ninfe in streghe? Il rapporto Pan-Ninfe era lestrinsecarsi del desiderio di possesso del femminile da parte del maschile (ma anche viceversa, con ogni probabilit, ovvero del desiderio femminile di essere possedute).26 La figura della strega, dedita al vizio e al malocchio, non altro che il definitivo abbandono della Natura da parte del Cristianesimo. Ma non solo della Natura. Anche di quei naturali istinti che Pan incarnava e che le Ninfe si prestavano ad esemplificare, subendo e molte volte provocando gli attacchi del dio. Si pensi invece alla figura della strega. Essa si connota come una donna giovane o meno giovane che nottetempo abbandona il focolare domestico e si reca nel bosco, o in una radura,
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James HILLMAN, op. cit. (p. 82). James HILLMAN, op. cit. (p. 82). 24 Sempre a proposito del cinema di Werner Herzog, esso, per definizione del suo stesso autore, ha lambizione di trovare immagini che partano dallanima e arrivino allanima. Del resto, quello di Herzog un cinema, alfine, profondamente mitologico, prometeico. Vedi nota 15. 25 James HILLMAN, op. cit. (p. 94). 26 Per restare in ambito strettamente psicologico, impossibile non fare qui riferimento alla ben nota fantasia di stupro che, riconosciutamente, interessa molte donne anche nel mondo attuale.

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o comunque in un luogo naturale, che si contrappone allambiente cittadino, per svolgervi un RITO blasfemo, che nella maggioranza dei casi consiste in una evocazione del Diavolo (o addirittura in un accoppiamento con esso). Il sabba non altro che una sopravvivenza di ritualit pagana, che tenta di ricostruire la simbiosi perduta con lambiente naturale (la radura, il fal acceso, lo spogliarsi degli indumenti e la danza attorno al fuoco stesso). Solo che il sabba, come chi vi partecipa, patisce una connotazione profondamente negativa. Il ritorno alla Natura laccoppiamento col Demonio, levocazione stessa del Male, operata allo scopo lascivo di giacere con Esso, di trarre piacere (quello stesso piacere che, nella masturbazione, viene stigmatizzato). Hillman vede le Ninfe sopravvivere nel nostro inconscio, quando proviamo qualche spontaneo afflato sentimentale per un luogo naturale, uno scorcio, una visione, magari un torrente o persino una singola pianta. Quando, insomma, per qualche ragione stiamo bene in un luogo, e proprio in quel luogo.

EROS E PAN

Ora, prima di procedere, una doverosa precisazione: questo articolo non venga inteso come un gratuito attacco al Cristianesimo (sport oggid sin troppo diffuso) in favore di un utopistico (nonch ridicolo) ritorno al Paganesimo. Voglio essere ben chiaro su questo punto. Lungi da me lintenzione di negare che anche il Cristianesimo possieda una bellissima e profonda mitologia, non a caso in precedenza (vedi nota 10) si accennava al mito del Diluvio Universale come uno dei miti fondamentali dellUomo, diffuso e radicato in quasi tutte le culture. Insomma, nessuna intenzione di sposare una visione inutilmente manichea in base alla quale il Paganesimo sia il bene e il Cristianesimo il male. Qui ci si interroga sulla storia evolutiva (o involutiva) di queste due grandi religioni, che tanto a fondo hanno inciso, e continuano ad incidere, sulla storia dellOccidente. In questo senso, non un male affermare, pur consapevoli dellestrema semplificazione, che il Paganesimo coincide con la Natura, il Cristianesimo con la Civilt. Se si accetta, metodologicamente, questa semplificazione allosso, si deve necessariamente ricavare che luomo contemporaneo occidentale non pi, per definizione, in stato di simbiosi con la Natura, da cui lesigenza a volte sincera, a volte patetica di recuperare il rapporto con essa. Perch ovvio che versare un obolo al WWF o a Greenpeace e poi continuare tranquillamente la propria vita cittadina, scorrazzando col SUV o usando il decespugliatore a nafta, non vero ecologismo, e tanto meno vero recupero del rapporto con la Natura. Il punto che la Natura, con i suoi istinti e le sue aggressioni, la grande RIMOZIONE dellUomo contemporaneo, ed la cosa che, inevitabilmente, pi gli manca. Egli sente di non essere completo, ma non pu colmare, individualmente, questo gap, se non a prezzo di grande fatica e dispendio di tempo o, meglio, a prezzo di un radicale e non certo sempre possibile cambiamento nello stile di vita. La ricerca, oggid sempre pi evidente, del cosiddetto SVILUPPO SOSTENIBILE, non altro che il tentativo di ecologizzare la civilt, di riportare la Natura nel paesaggio antropico (si pensi alla locuzione, sempre pi in auge, di citt sostenibile). Ora, ci si render facilmente conto, anche e soprattutto in base a quanto sin qui detto, che il tasso di ipocrisia in tutto ci piuttosto elevato. Si vorrebbe una Natura placida e controllabile, addomesticata, che entri in punta di piedi nella nostra vita e ne migliori le condizioni quasi senza che noi ce ne accorgiamo. Una Natura civilizzata, in pratica una contraddizione in
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termini! Una Natura senza Pan, cosa che la mente greca, con ogni probabilit, non avrebbe nemmeno saputo concepire. Questa lipocrisia che noto in tanto ecologismo doggi: la predica del vivere in Natura senza avere alcuna reale idea di cosa sia Natura, la predica somministrata col sedere al caldo, e soprattutto lidea fasulla di Natura che si tende a far passare, come di qualcosa di bello, dolce, tenue e delicato, contrapposto alla bruttura del paesaggio antropico, delle citt. Quindi: no al nucleare perch contro la Natura e lambiente, per s allacqua calda per la doccia; s alla corrente elettrica per il frullatore e la lavastoviglie; s a tutte le comodit che per definizione sono frutto della civilt e dellantropizzazione del mondo, ma mi raccomando, salvaguardiamo lambiente! Ebbene, io lo affermo senza mezze misure: questo ambientalismo daccatto, cialtrone e vanesio, salottiero, fatto apposta per sgravarsi la coscienza dal viver comodo, terziarizzato, del mondo occidentale contemporaneo. Con la Natura con la Natura vera questi ambientalisti da quattro soldi non fanno i conti, esattamente come gli psicologi da quattro soldi (tra i quali, sia chiaro, non annovero Hillman) non fanno i conti col Mito e con la sua profondit, ma se ne servono come se esso fosse composto da favolette, ciascuna con la sua moralina di comodo. Torniamo perci con decisione a Pan, alla Natura vera. E affrontiamo lultima tappa di questo percorso tra Paganesimo e Cristianesimo, tra antichit e modernit: il confronto con Eros, ovvero con lAmore. Anche Eros noto per essere un dio che tutto travalica, che fa perdere il controllo e instilla sentimenti e bramosie. Iconograficamente, Eros e Pan sono allopposto: tanto uno, il desiderabile figlio di Afrodite, bello e rotondetto, quanto laltro brutto e caprigno, oltre che violento, beffardo e irrispettoso. Eros agisce per inganni e imbrogli, Pan diretto e sfacciato. Insomma, pur essendo due divinit fortemente propense ad influire sugli uomini instillando in essi desideri e pulsioni, non potrebbero esistere figure pi diverse. Non stupisce, a questo punto, che proprio lAmore sia una delle caratteristiche (quasi un epiteto!) di Cristo. La morte di Pan coincise con ogni probabilit con lascesa dellamore (il culto di Cristo). [] Lamore non ha posto nel mondo di panico, masturbazione e stupro di Pan e della sua caccia alle Ninfe.27 Con laffermarsi del Cristianesimo vince lamore, vince luniverso sereno di Eros, non quello contrastato e violento (naturale) di Pan. Il Cristianesimo tout court (e intendiamoci: non sto dicendo che si tratti di cosa negativa) predica il rispetto, la tolleranza, la sopportazione, da Ama il prossimo tuo a Porgi laltra guancia. Certe risultanze del Cristianesimo, soprattutto in ambito cattolico, fanno poi dellAmore il concetto-cardine del loro approccio alla religione.28 Ha dunque le sue ragioni Hillman quando afferma che, con Pan, siamo completamente fuori del cosmo di Eros, e troviamo invece sessualit e paura. E forse per questo che siamo tanto turbati dalla masturbazione e dallo stupro. Per essi non c posto in un mondo damore. Quando sono giudicati dalla prospettiva dellamore, diventano patologici. Arriviamo perci alla

James HILLMAN, op. cit. (p. 117). Il concetto di Cristo come Amore proprio, ad esempio, di Comunione e Liberazione, che vi insiste apertamente. Ma in realt basta frequentare un poco le chiese, e ascoltare le prediche dei sacerdoti, per accorgersi che lequiparazione Cristo-Amore frequentissima, con tutto quel che ne consegue sul Cattolicesimo come religione stabile, che predica laccettazione e la sopportazione. In questa sede non ci dilungheremo oltre, anche se ovviamente largomento apre a ben altre e pi approfondite trattazioni.
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inevitabile conclusione che il regno dellamore non include tutti i fattori istintuali presenti nellUomo.29

PAN OGGI

Dunque, a cosa pu servire Pan oggid? Perch recuperarlo? Perch spendere attorno alla sua figura pensiero, tempo e scrittura? James Hillman lo propone come cura per la nevrosi dellUomo contemporaneo, lui che in fondo ne lartefice rimosso. Il panico curato con il panico, il male che anche la cura, un po come i vaccini che si ricavano dalle malattie stesse. Del resto, vi sono delle affinit tra Pan e Asclepio attraverso gli attributi della musica, del fallo30, della visione dincubo e della visione mantica. Sia Pan sia Asclepio guariscono per mezzo di sogni.31 E ancora: Pan e le Ninfe tengono insieme Natura e psiche. Essi dicono che gli eventi istintuali sono riflessi nellanima: dicono che lanima istintuale. [] La conoscenza di s riconosce che lorrore di Pan e le sue depravazioni morali appartengono anchesse allanima.32 E la conclusione, dunque, non pu che essere: Non possiamo ripristinare un rapporto armonioso con la Natura semplicemente limitandoci a studiarla. [] Non potremo venirne a capo soltanto mediante lecologia []. Se si vuole restaurare, conservare e promuovere la Natura l fuori, anche la Natura dentro di noi deve essere restaurata, conservata e promossa.33 Ovvero: non solo lAmore, ma anche Pan andrebbe coltivato. Peccato che il mondo di Pan comprenda masturbazione, stupro, panico e incubi! E sia, pertanto, in netta CONTRADDIZIONE col mondo dellAmore e dei teneri ideali che troppo spesso animano ecologisti e paladini del ritorno alla Natura.34
James HILLMAN, op. cit. (p. 118). Non abbiamo insistito sinora su questo attributo di Pan, ma noto che il fallo sia, nella religione pagana e nella cultura dellantichit, una figura molto diffusa. Per restare in ambito romano, a noi pi vicino, basti pensare a Priapo, connotato iconograficamente con un gigantesco fallo e utilizzato come antifurto agli ingressi delle case e dei giardini. Infatti, come scrive Eva CANTARELLA, Priapo, il dio della fertilit, era stato adottato, a Roma, come protettore degli orti e dei giardini, sui quali troneggiava, rozzamente rappresentato da un omino minuscolo fornito di enormi genitali. (Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico, Rizzoli, 1995, p. 186). E Paolo FEDELI d una efficace e rapida idea delle origini e dellimportanza di questo dio (e del suo attributo!) nellantichit, quando scrive: Priapo pu vantare origini lontane e un luogo di culto principale: Lampsaco sullEllesponto. Secondo la tradizione greca sarebbe figlio di Dioniso e di una ninfa del luogo, o addirittura di Afrodite. [] Legato allidea di fecondit, Priapo fin per assumere unimportanza non trascurabile nel pantheon greco e latino: come il fallo allontanava il malocchio che, sotto forma di sterilit, colpiva terra e bestiame, cos Priapo, grazie alle straordinarie proporzioni del suo fallo, serviva a proteggere e a preservare da interventi maligni e nefasti. (I versi di Priapo, Fgola editore, 1992, p. 11). Interessante e da sottolineare questo accostamento del fallo primariamente alla terra e al bestiame, ovvero alla Natura, il regno di Pan. Ma ancora pi interessante riprendere, sulla base di ci che fin qui si detto, quanto scritto nella nota 2 a proposito della scissione tra Bene e Male, tra spirito e materia, tra carnalit e spiritualit che caratterizza il Cristianesimo, e che implica necessariamente lidea della RINUNCIA a qualcosa in favore della Fede. Due esempi clamorosi: Tertulliano e Origene. Il primo attu un sacrificium intellectus come reazione allo scandalo della Gnosi, e si impose di credere solo nellincredibile, rinunciando programmaticamente alla razionalit; il secondo attu il sacrificium phalli, e si auto-evir come segno tangibile della propria rinuncia alla carnalit e alla sessualit! Come scrive Jung, il Cristianesimo esige la totale soppressione del legame sensuale con loggetto o, pi esattamente, la rinuncia alla funzione sino a quel momento ritenuta di maggior valore, al bene pi caro, allistinto pi forte. (Carl Gustav JUNG, Tipi psicologici, Newton Compton 2007, p. 25). 31 James HILLMAN, op. cit. (p. 127). 32 James HILLMAN, op. cit. (pp. 128-129). 33 James HILLMAN, op. cit. (pp. 129-130). 34 Sulla distanza tra ideale e realt, corre lobbligo di citare un passo musiliano assolutamente illuminante, e peraltro costruito proprio guarda caso sullanimalismo, o meglio, sul malinteso animalismo. Scrive infatti Musil: le esigenze della vita sono diverse da quelle del pensiero. Nella vita succede pressa poco il contrario di tutto ci che uno
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Il ritorno alla Natura possibile, certo; ma esso dovrebbe coincidere, allora, con un ritorno agli di, col recupero di quella VARIETA della Natura, dellanima che la mente greca tanto bene sapeva concepire, e rappresentare. Ma quello moderno un mondo, paradossalmente, a senso unico. Limmensa variet delle nostre scelte , alfine, solo apparente, al punto che esprimersi contro lecologismo appare subito una presa di posizione moralmente inaccettabile. Perch? Perch lecologismo di marca occidentale (vogliamo definirlo radical chic?) non altro che uno scarico della coscienza, come detto in precedenza, un atteggiamento di comodo, un battersi per nulla, un agitarsi senza significato. Un lottare per qualcosa che non si capito, per un obiettivo che ci si costruiti attentamente seguendo i propri desideri e le proprie illusioni, senza fare i conti con ci che davvero emerge dallanima dellUomo, con le sue forze oscure e le sue contraddizioni.35 La migliore consapevolezza che lascia la lettura del Saggio su Pan di James Hillman che non esiste soltanto (come vorrebbero alcuni) la Natura l fuori; essa inscindibile da quella che Hillman chiama Natura dentro di noi. Il recupero della prima comporta la riscoperta della seconda, e la vera ecologia una ECOLOGIA PANICA che nulla pu avere a che vedere con le moraline preconfezionate di Greenpeace e compagnia cantante. Come dice Socrate nel Fedro di Platone, giustamente citato da Hillman: O caro Pan, e voi altre divinit di questo luogo, datemi la bellezza interiore dellanima e, quanto allesterno, che esso saccordi con ci che nel mio interno. Ma io preferisco chiudere con la frase che Paul Gauguin volle come epitaffio sulla sua tomba a Hiva Oa, nelle Isole Marchesi, dove mor l8 maggio 1903: La vostra civilt la vostra malattia; la mia barbarie la vostra guarigione.36 Parole di chi il ritorno alla Natura lo ha operato davvero, e della Natura ha accettato tutti gli aspetti, fino in fondo, e fino alla fine.

spirito coltivato saspetterebbe. [] E se qualcuno, per puri sentimenti vegetariani, desse del lei ad una mucca (in giusta considerazione del fatto che pi facile comportarsi senza riguardo con un essere che si tratta col tu) si direbbe che uno stupido, se non un pazzo; ma non per le sue tendenze zoofile e vegetariane, che son considerate molto lodevoli, bens per la loro immediata traduzione in realt. Insomma, fra lo spirito e la vita c un bilancio complicato in cui lo spirito ottiene al massimo il pagamento di mezzo per mille dei suoi crediti, e in compenso si fregia del titolo di creditore onorario. (Robert MUSIL, op. cit., pag. 294) 35 Uno degli scrittori che maggiormente hanno inciso sul panorama letterario mondiale del 900, James BALLARD, ha affrontato la problematica del malinteso ecologismo con un romanzo del 1997, Il Paradiso del Diavolo (Feltrinelli, 2008). In esso, Ballard da una parte mette impietosamente in scena la contraddizione insita nel voler salvare la Natura con mezzi tecnologici (a ben vedere, le spedizioni in difesa di albatri, foche, atolli o barriere coralline spesso non fanno che aggiungere inquinamento!) e, dallaltra parte, racconta da par suo lo scivolamento degli ideali in una inevitabile, panica regressione. I membri della spedizione di Barbara Rafferty, infatti, giunti sullatollo da salvare, vi si accampano cercando di dare vita su di esso ad una societ pi giusta e armoniosa, di gusto vagamente matriarcale. Ma la violenza in agguato, e i sogni di sopraffazione e di dominio non abbandonano il piccolo gruppo, facendolo anzi a pezzi. Di pi: la Natura stessa, lungi dalessere accogliente e dolce, si rivela insidiosa, spietata, a tratti putrescente. 36 Lepitaffio oggi non pi visibile, la pietra sulla quale esso era stato inciso stata rimossa. Lo cito cos come lo vide il grande regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, che lo trascrisse su un suo diario, allepoca in cui visit Hiva Oa per girare il suo ultimo film, Tab. A completamento, impossibile non citare anche il caso di Robert Louis Stevenson. Anche lautore de Lisola del tesoro e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde mor infatti nei Mari del Sud, per la precisione a Upolu, nelle Samoa, nel 1894. Un caso, il suo, forse meno estremo di quello rappresentato da Gauguin, ma egualmente importante in chiave di recupero vero, effettivo della dimensione naturale.

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Note a margine di Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola


ROBERTO MANDILE

La scuola tra libert di non studiare e mercificazione dellinutile

Nella variegata pubblicistica che fiorisce abbondante sul tema della scuola e dell'istruzione, due mi sembrano le linee principali. Da un lato vanno di moda i libercoli scritti da insegnanti che, con un certo ammiccante autocompiacimento, si divertono a dipingere un quadro tragicomico della situazione collezionando gustosi aneddoti, perle di ignoranza, succulenti strafalcioni e altre amenit di questo genere. Il lettore ridacchia, magari un pochino si stupisce, ma poi pensa che so' ragazzi, si ricorda di quanto la scuola era () pallosa e, soprattutto, di quanto in fondo sia inutile quel tipo di conoscenza spicciola; alla fine, per lo pi, richiude il libro provando persino un po' d'invidia nei confronti dell'autore, stipendiato per farsi quattro risate ogni giorno. La seconda linea quella pi pensosa, pi seriosa, la linea sociopsicopedagogica, che dei mali della scuola ha una visione cupa, grave, accigliata. I buchi, le lacune nella preparazione degli alunni, punto di partenza irrinunciabile di qualunque analisi critica, sono in realt la spia di un deficit educativo, un segnale allarmante dei tempi, un indizio della decadenza o crisi, appunto, della societ in cui viviamo. In questo senso, la pars destruens la premessa per lanciarsi in grandi discorsi sulla necessit del cambiamento drastico, della trasformazione radicale, che risolver tutti i guai e assicurer finalmente il trionfo, da troppo tempo rimandato, della Giustizia e della Libert. Si distingue da queste due linee imperanti lultimo saggio di Paola Mastrocola, scrittrice-docente (insegna lettere in un liceo scientifico del torinese), che, gi nel titolo, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libert di non studiare (Guanda, Milano 2011), sceglie la via del paradosso non tanto per il gusto di denunciare la situazione insostenibile, quanto per il senso di inadeguatezza che coglie chi, come l'autrice, si ritrova ormai sprovvisto di strumenti adeguati per contrastare lo spirito dei tempi. Il libro, che uscito a sei anni di distanza dal precedente La scuola raccontata al mio cane, si compone di tre parti: la prima, intitolata I nonstudianti, un ironico trattatello sugli adolescenti, che parte dall'osservazione del generale abbassamento dei livelli d'istruzione di base, quelli che, una volta, erano di pertinenza della scuola elementare (la calligrafia, l'ortografia e la grammatica) per allargarsi a dipingere il quadro dei veri interessi e delle reali passioni dei ragazzi (dai peluche sugli zaini agli acquisti nei negozi del centro agli intrattenimenti vari sui social network). Non c' condanna preventiva da parte della Mastrocola (la cui analisi, ad essere precisi, limitata ai ragazzi dei licei, provenienti cio, per la maggioranza, dalle cosiddette famiglie bene), ma la mera constatazione che la scuola, cos com', la scuola cio che richiede lo studio e, in particolare, lo studio delle materie umanistiche, non sembra
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avere spazio nelle vite della gran parte degli adolescenti degli anni Duemila. Se i dati ufficiali sui risultati di apprendimento non sono confortanti, non c' insomma di che stupirsi: per imparare bene a usare la lingua, a parlare e a scrivere in forma corretta, a ragionare di storia o di letteratura, occorrerebbe applicarsi, dedicare del tempo, studiare, ossia, secondo l'etimologia latina (dove studium vale interesse, impegno, passione), appassionarsi. Ma se, appunto, gli interessi e le passioni sono altrove, lo sforzo della scuola non potr che essere vano. Su questa conclusione sinnesta la riflessione della seconda parte del libro, Nuovomondo?, la pi interessante e, al tempo stesso, la pi inquietante. Attraverso un'analisi lucida dei danni prodotti da quarantanni di pedagogismo (dal donmilanismo al rodarismo alla pedagogia democratica), lautrice dimostra come, perseguendo il nobile intento di rendere la scuola meno classista, si sia finito, in realt, per combattere il valore culturale dell'insegnamento e dell'apprendimento, a tutto vantaggio dell'importanza della socializzazione e di un generico saper fare o, peggio ancora, saper essere. Il punto , in effetti, tutto qui: nell'aver fatto del concetto di nozione, che propriamente vuol dire conoscenza, la sentina di tutti i mali scolastici, il bersaglio delle peggiori invettive pedagogiche. Con il risultato che, spinti dall'idea che si debba valutare lo studente nel complesso della sua personalit, per come e non per quello che sa, si promuove sempre pi una scuola delle competenze, che serva a fornire strumenti, quanto mai vaghi, in vista di un loro possibile futuro utilizzo. Qui, per, il problema , per usare paroloni, quello dello statuto epistemologico delle singole materie. Se, infatti, si pu anche supporre che la matematica, la fisica, la chimica e le discipline tecnico-scientifiche in generale o le lingue straniere possano essere anche studiate, pardon apprese, in funzione della loro spendibilit (misurabile e valutabile oggettivamente), chiaro che non seriamente immaginabile un insegnamento della letteratura, della storia o della filosofia, insomma delle cosiddette discipline umanistiche, che possa essere giudicato in ragione della loro effettiva utilit. Appurato cio che la conoscenza, poniamo caso, della Divina Commedia , in s e per s, inutile, in quanto difficilmente impiegabile in ambito lavorativo, ci si deve domandare se essa rivesta ancora un ruolo rilevante nella formazione scolastica o se non sia il caso di ridiscuterne limportanza. Nel discorso tenuto allAccademia di Svezia in occasione del conferimento del premio Nobel, nel 1975, Eugenio Montale racconta che, a una giornalista che gli aveva chiesto come avesse distribuito il suo tempo tra le sue tante diverse attivit, di poeta, traduttore, critico, bibliotecario, egli aveva cercato di spiegare che
non si pu pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c un largo spazio per linutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo quella mercificazione dellinutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.

Questo largo spazio per linutile, di cui prova il fatto che tutti coltiviamo passioni personali in forma del tutto disinteressata (dal tifo calcistico al giardinaggio, dalla visione di un film agli infiniti hobby e passatempi vari), pu avere luogo anche nella scuola o no? La questione delicata, credo, per due ragioni: primo perch la scuola non pu, ragionevolmente, aprirsi a tutte le attivit che costituiscono linfinita galassia degli interessi umani; secondo perch, altrettanto ovviamente, bene che alcuni di questi interessi restino esclusi dallorizzonte, pubblico e sociale, dell'istruzione ( pensabile una scuola in cui si insegni, che ne so, la pornografia, che pure appassiona milioni di persone?). Ogni scuola, insomma, risponde a sollecitazioni, stimoli, impulsi della societ in cui inserita. Ma che cos una societ? E
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essenzialmente la sua economia (e, dunque, la scuola deve aprirsi al mercato, avvicinarsi alle richieste del mondo del lavoro) oppure il risultato di un lento e faticoso processo di sedimentazione di tradizioni, valori, esperienze e identit? Sono convinto che dichiarare guerra alla Divina Commedia, in ossequio all'idea corrente che carmina non dant panem, sia un pericolo, ma temo che peggio ancora che ostracizzare Dante dalle aule scolastiche sia utilizzarlo, in forme distorte, per scopi del tutto diversi dalla comprensione, il pi possibile corretta, della sua figura storica e della sua opera: qualsiasi uso strumentale espone al rischio di quella mercificazione dellinutile di cui parlava Montale1. Per spiegare meglio questo concetto, torniamo al saggio della Mastrocola e concentriamoci sui continui sforzi che i cosiddetti esperti di istruzione fanno per definire gli obiettivi che la scuola dovrebbe perseguire. Gi lo studio del didattichese - studio che, peraltro, verrebbe con tutta probabilit accusato di nozionismo sarebbe un ottimo strumento per capire il degrado culturale, e innanzitutto linguistico, in cui la scuola sta precipitando. Ma, come al solito, dietro le parole si annida un pensiero che ne , al contempo, lo specchio e il riflesso. E il pensiero che emerge si pu ben ricavare dalle otto competenze-chiave stabilite a livello europeo dal Trattato di Lisbona, che la Mastrocola riporta: 1) comunicazione in madrelingua; 2) comunicazione in lingue straniere; 3) competenza matematica e in scienze e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialit; 8) consapevolezza ed espressione culturale. Anche tralasciando lo scempio della lingua commesso da chi ha redatto e redige documenti di questo genere, che ahim sono ormai ordinaria amministrazione nelle scuole di ogni ordine e grado, ci possiamo chiedere, sgomenti, con la Mastrocola, dove stanno qui dentro i canti di Dante. Ovvero, com pensabile di insegnare ancora, ad esempio, la letteratura, se il quadro dello studente in uscita dalla scuola deve conformarsi a un quadro di tal genere? A meno che, e qui sannida linganno, non si pensi di leggere Dante, o di affrontare la storia moderna o la filosofia antica, al solo scopo di far acquisire agli alunni le competenze sociali e civiche e la consapevolezza ed espressione culturale. Insomma, per essere chiari, lInferno o le guerre di religione nellEuropa del 500 o letica aristotelica non dovrebbero, secondo questa prospettiva, essere presentate con l'intento di illuminare il contesto storico, mettere in evidenza la ricerca stilistica, far cogliere la complessit dei fenomeni storici e culturali, ma dovrebbero sfruttate, a mo di pretesto, all'interno di un percorso didattico che insegni a essere cittadini consapevoli. Consapevoli di che? obietter qualche ingenuo. Consapevoli di esserlo, sintende. Il che equivale a dire che la letteratura, la storia, ecc. non hanno un valore in s, un
E non si tratta di ipotesi del tutto campate in aria, visto che, pochi mesi fa, un'organizzazione di ricercatori e professionisti accreditata alle Nazioni Unite, la Gherush92, ha chiesto, nientemeno, di vietare la lettura dell'opera dantesca nelle scuole per i suoi contenuti omofobi e antisemiti. Rimando, per un'argomentazione seria sul tema, all'articolo di Paolo Di Stefano, Che sciocco censurare il razzista Dante, comparso sul Corriere della Sera del 13 marzo 2012, p. 39 (disponibile anche on-line: http://archiviostorico.corriere.it/2012/marzo/13/che_Sciocco_Censurare_Razzista_Dante_co_9_120313048.shtml); di fronte a certe alzate d'ingegno, a me viene in mente una battuta di Woody Allen in Scoop: Suono lo scacciapensieri... Sa un affare di metallo... Una volta si chiamava arpa giudea, ma si sa come sono quelli, basta un accenno di antisemitismo e scrivono lettere.
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significato proprio e specifico, che ci si sforza di afferrare nella maniera pi obiettiva possibile, ma sono piegabili ai significati che, in base a una lettura ideologica e forzata, ci fanno, di volta in volta, pi comodo. Con i risultati devastanti che, in taluni casi, sono gi sotto gli occhi di tutti: il cristianesimo di Dante potrebbe offendere i fedeli di altre religioni o gli atei e gli agnostici? Baster inserire la lettura della Divina Commedia in un percorso, bilanciato, di educazione alla sensibilit religiosa, che contempli anche autori, magari sconosciuti, magari mediocri, di diverso orientamento, e nessuno potr pi lagnarsi della scorrettezza del Sommo Poeta. Lo studio della storia rischia di farci scoprire temi seccanti come la sottomissione delle donne, la persecuzione delle minoranze, la violenza delle guerre e dei massacri dinnocenti? Sar sufficiente annettere ai libri di storia le avvertenze del caso, corredare i testi o i percorsi didattici di un apposito manuale distruzioni che, come le scritte sui pacchetti di sigarette o nelle pubblicit dei superacolici, informi dei pericoli di uno studio irresponsabile e indichi con chiarezza da che parte sta il bene e da che parte il male, e lo studente crescer, finalmente, consapevole della verit e pronto ad affrontare la societ contemporanea. Perch, si capisce, il pensiero unico sempre un male, a meno che non sia il pensiero giusto. La conseguenza, chiarisce la Mastrocola, di questo modo di concepire la scuola arrivare ad affermare che i professori dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e occuparsi di pi della crescita dei propri alunni, che i docenti sono troppo concentrati sulle discipline che insegnano, che amano troppo la loro materia, al punto di considerarla un fine e non un mezzo (il virgolettato, tratto da unintervista al Corriere della Sera pubblicata nel 2010 e riportata dalla Mastrocola, appartiene a Claude Thlot, esperto di problemi scolastici e presidente di una commisione sul futuro della scuola francese sotto la presidenza di Chirac). In questo quadro, in cui dunque la scuola si deve proporre come obiettivo il successo formativo dei suoi allievi (in Italia, in particolare, non c discorso sulla scuola che non sottolinei la scarsit di diplomati e laureati rispetto al resto dEuropa), in cui i docenti si dovrebbero ridurre a educatori generici, che non educano cio attraverso la loro materia, ma ben prima e ben al di l della loro materia, emerge poi la questione delle questioni: il ruolo delle nuove tecnologie, su cui la Mastrocola a lungo si sofferma. Uno dei luoghi comuni pi frequenti che si sono ormai fatti discorso accettato che la scuola debba aprirsi alle nuove tecnologie. Concetto che, in s, non fa una piega: sicuramente vero che, attraverso luso di strumenti informatici, interattivi magari, si possa potenziare l'apprendimento di molte discipline, dalla matematica alle scienze, dalle lingue straniere alla musica. Ma resta il sospetto che, proprio quando si fanno questi discorsi, si trascurino, sicuramente per ingenua sbadataggine, tutti quei campi del sapere che non sono n meramente applicativi n legati principalmente all'asse visivo-esperienziale. In altri termini, come dice la Mastrocola, Internet non ci dispensa dallo studio. Ci si pu certamente avvalere di filmati, immagini, presentazioni elaborate con Power Point e strumenti interattivi per rendere pi attraente, pi chiara, meno noiosa una lezione di letteratura o di storia, ma non si pu dispensare lo studente dallo studiare quei dati senza i quali qualunque conoscenza sarebbe approssimativa, superficiale, per non dire impossibile. Questo, tuttavia, il punctum dolens: vogliamo ancora una scuola che insegni queste cose? Vogliamo ancora una scuola che, oltre a fornire le competenze per comunicare, operare, risolvere problemi, insegni a ragionare della vita, della morte, della felicit, del dolore, insomma dell'uomo? Labbaglio forse qui: per secoli, questo genere di argomenti, costituzionalmente inutili, sono stati appannaggio esclusivo di una minoranza di poeti, scrittori, filosofi, intellettuali; poi, con la societ di massa, le porte del sapere si sono aperte a tutti. Sia chiaro, anche sotto questo profilo, sarebbe difficile rimpiangere il passato, quando i libri erano merce rara e costosa, non esistevano il cinema, la radio, la tv, internet, quando, come ha scritto Mariarosa Mancuso, per ascoltare un po di musica, bisognava ospitare in salotto un quartetto
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d'archi, eppure le geremiadi sulla decadenza culturale sono allordine del giorno (intere torme di sociologi e psicologi ci campano da anni, daltra parte). Ma, poich ogni processo di democratizzazione, anche quello del sapere, porta con s evidenti controindicazioni, ci siamo inventati lutopia (Dio ci scampi dagli utopisti, uomini pieni di zelo e sicuri verso il cammino dellordine sociale perfetto, ha scritto Ian McEwan) che tutti possano, anzi debbano essere in grado di capire e apprezzare la letteratura pi raffinata, di interrogarsi con profondit sui processi storici, di interessarsi davvero alle grandi domande esistenziali. Salvo poi accorgerci - e dire che gi Musil ci aveva messo in guardia - che tutto frutto di compromessi, che ogni nostro tentativo di progredire si scontrer sempre con le infinite possibilit opposte. Essendo dunque irrealizzabile (e inauspicabile) un mondo di persone dedite allinattivit del pensiero, alla riflessione, alla passivit (ancora Musil), ci siamo convinti che la soluzione stia nella semplificazione: sinsegna la letteratura e si scopre il disinteresse medio dello studente? La colpa del metodo dinsegnamento, del fatto che la si spieghi con sistemi antiquati, che non si motivino adeguatamente gli studenti. E quella che definirei la sindrome dellAttimo fuggente. Riteniamo che la scuola si salverebbe se avesse tanti professor Keating, tanti docenti anticonformisti, confidenziali, che fanno strappare le pagine dal libro di poesia e invitano i ragazzi a salire in piedi sulla cattedra per cambiare il punto di vista. Ma, al di l del fatto che la maggior parte dei libri, per fortuna, non contiene le stesse solenni idiozie di quello del film (cos troppo facile!) e che ovvio dire che bisogna pensare con la propria testa, il difficile farlo sul serio, resta un interrogativo di fondo: siamo davvero certi che i ragazzi siano tutti potenzialmente interessati, incuriositi, attratti dalla poesia? Siamo davvero sicuri che, di fronte alle prime fatiche che la lettura di una terzina dantesca, di un sonetto di Petrarca o di unottava di Ariosto pone, siano (tutti) disposti a fare gli sforzi necessari per comprendere, interpretare, apprezzare realmente quel testo? Perch, chiaro, finch ci accontentiamo di una lettura superficiale, impressionistica, limitata al mi piace / non mi piace (con o senza pollice verso, con o senza faccine divertenti), va tutto bene. Ma se crediamo che, per intendere fino in fondo un'opera letteraria, come anche per capire in modo non approssimativo un fenomeno storico o il pensiero di un filosofo, occorra andare al di l di una sensazione epidermica, e magari conoscere la grammatica, la retorica, la logica, allora, probabilmente, dovremmo concludere che Lattimo fuggente ha rovinato una generazione di educatori (il copyright de I Simpson). Intendiamoci, che la metodologia d'insegnamento possa fare molto sar anche vero, almeno in parte. Ma siamo davvero convinti che esistano strategie dinsegnamento talmente appassionanti da vincere le potenziali diffidenze e le reali difficolt di tutti i potenziali o reali alunni? O non sar piuttosto da credere che esisteranno comunque e sempre persone che, nei confronti di questo genere di cose, mostreranno una normalissima mancanza di attitudine, una comprensibile estraneit, una banale superficialit, uninsormontabile incapacit? So benissimo che, a detta di certa psicologia, tutta e solo questione di stili di apprendimento o addirittura di forme di intelligenza e che, quindi, ognuno deve essere considerato per quello che . Ma mi sembra anche innegabile che tra saper commentare bene un canto di Dante e saper comunicare verbalmente corre la stessa differenza che c tra saper correre i 100 metri in tempi accettabili e saper camminare: per luna cosa serve un minimo di studio, cio di passione e d'impegno, per laltra basta avere compiuto un paio danni det. Essendoci resi conto che, com' ovvio, non tutti sono in grado di correre i 100 metri, abbiamo pensato che fosse bene esaltare i diversi stili di camminata. Perch, in questo modo, nessuno si sentirebbe discriminato,
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incapace, nessuno andrebbe incontro a insuccessi formativi, nessuno potrebbe essere definito non portato per lo studio o, peggio ancora, stupido (nel senso umanissimo, beninteso, di affetto dalla btise flaubertiana). Insomma, forse per lincapacit di estrometterlo del tutto dalle nostre vite, abbiamo deciso che l'inutile possa continuare a sopravvivere, purch si renda in qualche modo utile. Abbiamo deciso che Dante pu stare ancora a scuola, a patto che non si pretenda di studiarlo, ma possa essere impiegato per migliorare il nostro status di cittadini socialmente responsabili e culturalmente consapevoli, in modo che, se qualcuno, un giorno, ci dovesse chiedere a che cosa ci servita la letteratura o la filosofia, non siamo pi costretti a rispondere A un bel niente, ma possiamo balbettare, orgogliosi, A diventare migliori, senza sapere nulla, va da s, dei contenuti specifici di quelle discipline. Abbiamo mercificato linutile e lo stiamo rivendendo, sotto forma di competenze sociali e civiche, come elemento qualificante del percorso formativo della Nuova Era. C una via duscita o quanto meno unalternativa a questa strada? Alla domanda prova a dare una risposta la stessa Mastrocola, nella terza parte del libro, Lo studio come scelta, immaginando di diversificare i modelli di scuola, in modo da lasciare ai pochi che ancora credono o crederanno nel valore dello studio la possibilit di dedicarvisi e da consentire, invece, agli altri di formarsi in altro modo, attraverso percorsi che privilegino il lavoro pratico o la comunicazione. Tra le tante utopie sociopsicopedagogiche, quella della Mastrocola pare, a ben vedere, la meno folle, la pi ragionevole. Anche se, pessimisticamente, c da riflettere sul fatto che, in unepoca e in un mondo dominato dallansia di certezze, dal mito dellautosufficienza e della comprensione totale, lo spazio per il dubbio della ricostruzione, lambiguit della parola, la vertigine della forma, lo spazio cio per una cultura umanistica pare davvero sempre pi ridotto. Per citare e parafrasare ancora Montale, si pu affermare, in conclusione, che la crisi della modernit
strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della propria sorte e depositari di un destino che nessunaltra creatura vivente pu vantare. Inutile dunque chiedersi quale sar il destino delle arti [della scuola, n.d.A.]. come chiedersi se luomo di domani, un domani magari lontanissimo, potr risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal giorno della Creazione (e se, di un tale giorno, che pu essere unepoca sterminata, possa ancora parlarsi.

NOTA CONCLUSIVA. Che le tesi esposte da Paola Mastrocola nel libro, e riprese in quest'articolo, siano considerate

reazionarie questione troppo generica per essere discussa: ha scritto, al riguardo, un grande studioso come Cesare Segre (La didattica facile che ha cancellato la capacit di studiare, Corriere della Sera, 23 febbraio 2011, p. 51, disponibile anche on-line: http://archiviostorico.corriere.it/2011/febbraio/25/didattica_facile_che_cancellato_capacita_co_9_110225060.shtml) che questo forse uno dei pochi casi in cui la reazione pu difendere ideali e principi vitali prima che vengano defintivamente cancellati.

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CRITICA CINEMATOGRAFICA

Il romanzo civile di Marco Tullio Giordana


MATTEO FONTANA

Premessa doverosa: in questarticolo eviter (come bisognerebbe fare sempre, in casi come questo) di considerare laspetto contenutistico del film di Marco Tullio Giordana sulla strage di piazza Fontana. Trattandosi, com evidente, di unopera di cosiddetto cinema civile (o impegnato che dir si voglia), il film sposa una teoria sulla meccanica e sullorigine della strage sulla quale non entrer in discussione. Non importante, per giudicare il valore dellopera, quale sia la teoria che essa avalla. Adriano Sofri, del resto, si occupato della questione dapprima sulle pagine del Foglio di Giuliano Ferrara, e poi in un apposito libello uscito proprio a ridosso delluscita del film nelle sale. Lopinione di Sofri che la tesi alla base del film (a sua volta tratto dal saggio di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana, pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie) sia gratuita e assurda (parole sue). Ora, della querelle Sofri-Giordana non mi importa francamente nulla. Ovviamente ciascuno pu sostenere le idee che vuole, tutto peraltro si pu dire tranne che Sofri non abbia voce in capitolo per quanto riguarda piazza Fontana e fatti annessi. Per capirete che, se iniziamo a perderci dietro alle dispute su una strage datata ormai a 43 anni fa, finiamo per fare il medesimo gioco che ha portato, a tanti anni di distanza, a non avere colpevoli certi. Occupiamoci invece del film, che non un faldone giudiziario e che non data a 43 anni fa bens al 2012. Lidea di cinema civile di Marco Tullio Giordana senza dubbio meritevole di elogio. Quello che il regista ci propone un film scabro, asciutto, ben recitato e ottimamente fotografato. Un film nel quale, a tratti, resa in modo molto efficace e palpabile la cosa pi difficile da rendere, ovvero latmosfera di quegli anni, che avrebbero aperto alla stagione degli anni di piombo propriamente detti. Anni sospesi tra desiderio di ritorno allautoritarismo di stampo fascista e minacce di rivoluzione operaia. Due estremi che non potevano non cozzare e non dare adito a tentativi di sfruttamento bieco da parte di servizi deviati e/o potenze straniere interessate allo scenario italiano. Giordana racconta con ordine, suddividendo il film in capitoli, e dedicando la prima parte al rapporto tra Pinelli e

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Calabresi (molto bravi Favino e Mastandrea) e la seconda, essenzialmente, alla figura del commissario Calabresi abbandonato dalle autorit, impegnato da solo a cercare la verit sulla strage e a riabilitare la propria figura, lui che venne cos facilmente incolpato della morte di Pinelli stesso. Qualcuno potr dire: facile riflettere oggi, a 43 anni dai fatti (e poco meno dalla morte dello stesso Calabresi, assassinato nel 1972). Certo, Giordana pu disporre di una visione dinsieme, e il suo film ne risulta cos, in un certo senso, onnicomprensivo. Non c dubbio che molti elementi non fossero calcolabili a ridosso dei fatti, e che occorresse proprio una certa distanza dagli eventi per vederli in tutta la loro chiarezza. Altres, non c dubbio che il film sia a tratti un po cerchiobottista, se mi si passa il termine, nel senso che esso tende a distribuire le colpe, a spalmarle su un arco di possibili responsabili molto pi ampio di quanto si desidererebbe, giacch umano sperare sempre che il colpevole sia uno e unico, identificabile e certo. E pi rassicurante, piuttosto che dover fare i conti col fatto che il colpevole in realt non ha un volto n un nome, perch si annida nelle Istituzioni. Si pensi al film che, piaccia o no, ha scritto una pagina memorabile nellambito del cinema civile dinchiesta, quel JFK di Oliver Stone che data ormai al 1991. Ad un certo punto un personaggio chiede a Jim Garrison: Ha veramente importanza chi ha premuto il grilletto? No, in effetti: una volta provato che si tratt di complotto e che dietro ad esso con ogni probabilit cerano persino degli elementi governativi, e certamente degli ambienti militari, lautore materiale dellassassinio perde importanza. Lo stesso dicasi per piazza Fontana. Sapere chi materialmente deposit la bomba un dettaglio e, per quanto possa interessare saperlo, secondario rispetto alla ricostruzione dello scenario complessivo, che vedeva allopera forze impressionanti. Il film di Giordana a mio parere molto pi riuscito nella parte intimista (il rapporto tra Pinelli e Calabresi, la vita dello stesso Calabresi) che in quella politica (un esempio su tutti: lAldo Moro interpretato dal solitamente bravo, ma stavolta non convincente Fabrizio Gifuni). Giordana si muove bene tra le stanze della Questura di Milano, nelle vie stesse della citt, oppure negli ambienti del neofascismo veneto, messi in scena con notevole realismo e caricati della giusta valenza, visto che troppo spesso sono stati ignorati o messi a latere. Ma il passaggio alle grandi stanze del potere, nonostante un eroico Omero Antonutti nei panni del Presidente Saragat, non convince appieno. Diciamo che, rispetto ad altri film, questo di Giordana resiste alla tentazione di attribuire ogni nefandezza possibile ad un innominato Grande Vecchio (che c, ad esempio, tanto in Romanzo criminale di Michele Placido quanto, e pi ancora, ne La banda Baader-Meinhof di Uli Edel), e si sforza di ricostruire collegamenti politici e disegni segreti, errori e false piste, negligenze e fatalit. Un cinema, quello di Giordana, che d sempre limpressione (e non cosa da poco) di sapere dove sta andando a parare, fermo restando che, come si diceva in apertura, si pu essere o meno daccordo con le tesi sostenute. Un cinema, per, che trova spesso il giusto compromesso tra limpegno civile e la necessit di raccontare una storia, tra la denuncia e la messa in scena (che sono due cose profondamente diverse, ricordiamocelo!), tra il contenuto a tratti per forza di cose un po pesante e la forma, caratterizzata in particolare da una bellissima fotografia (di Roberto Forza) che, seppur non propriamente realistica, offre allo spettatore un chiaroscuro molto intenso, che vale da solo il prezzo del biglietto.

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Una fotografia che si sforza di mettere in immagini le laceranti contrapposizioni (e contraddizioni) che squassavano il Paese in quegli anni di stragi e di tensione, e che fa fare al film un salto di qualit che

altro cinema civile e impegnato, pur magari meritevole sul piano etico, non riesce a fare. Se a questo si aggiunge una galleria di attori tutti molto bravi (anche se qualcuno sottoutilizzato, come Lo Cascio nel ruolo del giudice Paolillo o Laura Chiatti nel ruolo della moglie di Calabresi), una regia solida, senza le ambizioni smisurate di un Michele Placido (i cui ritratti generazionali, infatti, non sono efficaci: vedere Romanzo criminale), e una sceneggiatura che fatte salve le obiezioni contenutistiche ricostruisce/racconta con ordine e metodo, il risultato un film robusto, non appassionato nel senso letterale del termine, ovvero mai sopra le righe e mai apertamente indignato, ma al contrario, riflessivo e ben costruito, che consente allo spettatore di muoversi attraverso anni di inchiesta e decine di personaggi senza smarrirsi. Pregio non da poco, soprattutto in virt del fatto che il cinema impegnato civilmente deve essere pensato soprattutto per chi come il sottoscritto, giusto per fare un esempio in quegli anni non cera, per chi della strage di piazza Fontana ha solo letto qualcosa sui libri di storia contemporanea, per chi quelle atmosfere non le ha vissute. Certo, direte voi, ma importa anche il contenuto! Se le tesi sostenute sono sbagliate, non crolla tutto?, la domanda che nasce spontanea. Pu darsi, e quindi pu darsi che abbia ragione Sofri nello stroncare tanto il saggio di Cucchiarelli quanto il film di Giordana. Ma io faccio notare una differenza tra saggio e film, una differenza ben visibile a tutti: il titolo. Se Il segreto di piazza Fontana diventa Romanzo di una strage, il motivo forse pu essere proprio quella teoria azzardata tanto osteggiata da Sofri. Insomma, Giordana sapeva benissimo, a mio avviso, di stare raccontando UNA storia delle tante storie possibili che riguardano piazza Fontana, o meglio: sapeva di stare raccontando in uno dei modi possibili, sapeva di stare ricostruendo il complicatissimo puzzle secondo UNA delle possibili soluzioni. Il suo, nel bene e nel male, un romanzo, appunto. Un romanzo assai serio, i cui protagonisti sono personaggi reali che hanno agito, sbagliato, vissuto, amato, sofferto. E alcuni dei quali sono morti in circostanze aberranti, strane, ancor oggi non chiare, oppure (come nel caso di Luigi Calabresi) inquadrate in una luce completamente errata, condannato a morte in quanto assassino ma ormai si pu dirlo, si deve dirlo riabilitato dalla storia.

Ma in definitiva, se dopo 43 anni una verit conclamata ancora non esiste, si pu davvero imputarne la colpa a Marco Tullio Giordana o a Paolo Cucchiarelli? (Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana)
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Il sogno nostalgico e ingenuo dellaspirante artista


ROBERTO MANDILE

Di questi tempi moltissimi americani sentono il bisogno di trasferirsi qui, dice Marion Cotillard, alias Adriana, la modella amante di Picasso e di Hemingway di cui sinvaghisce lo scrittore Gil Pender (OwenWilson) in Midnight in Paris di Woody Allen. Siamo a Parigi e, in questo momento del film, siamo negli anni Venti. Gil uno sceneggiatore di Hollywood, un americano in trasferta nella capitale francese insieme alla fidanzata e prossima sposa Inez (Rachael McAdams) e ai genitori di lei: il padre un repubblicano di ferro, con simpatie per il Tea Party, e la madre tanto snob che il suo motto Se cheap, cheap (ossia se costa poco, non vale niente). Non accontentandosi pi di scrivere film che lui stesso definisce divertenti ma dimenticabili, Gil, alla ricerca dispirazione per la Grande Opera, il romanzo che dovr dare una svolta alla sua vita, manifesta fin dall'inizio la sua passione per il passato: vorrebbe vivere a Parigi negli anni Venti, sotto la pioggia, quando la pioggia non era acida, come gli ricorda la sua fidanzata. Il suo sogno sarebbe trasferirsi in un piccolo attico sui tetti per vestire a pieno i panni dellartista, per provare sulla propria pelle il fascino della bohme, quel genere di vita insomma, precisa il pedante Paul, amico di Inez, in cui quello che manca solo la tubercolosi. Gil dunque affetto, secondo la diagnosi dello stesso Paul, dalla sindrome epoca doro; o, come il Candido di Voltaire, semplicemente convinto che gli anni Venti siano il migliore dei mondi possibili, almeno per le sue velleit artistiche. E cos una notte, mentre vaga per la citt, accetta un passaggio da unauto depoca e si ritrova magicamente trasportato nella Parigi degli anni Venti, dove si trova a frequentare il fior fiore degli artisti e degli intellettuali del tempo, da Francis Scott e Zelda Fitzgerald a Ernest Hemingway, da Gertrude Stein a Thomas S. Eliot, da Pablo Picasso a Henri Matisse, da Salvador Dal a Luis Buuel, a Cole Porter. Notte dopo notte, il suo sogno si ripete e prende forma; Gil riesce persino a ottenere un giudizio positivo sul suo romanzo. Ma Adriana, la modella degli artisti di cui anche lui finisce per innamorarsi, vorrebbe a sua volta vivere nella Belle poque e, quando i due riusciranno, per incanto, a fare un ulteriore salto all'indietro nel tempo e a conversare al Moulin Rouge con Toulouse-Lautrec, Degas e Gauguin, Gil scoprir che non esiste lge d'or e che il presente un po insoddisfacente perch la vita un po insoddisfacente. Considerazione amara s, ma alquanto scontata. Mentre di Woody Allen si parla, in genere male, per il recentissimo To Rome with love, noi, che pure non soffriamo della stessa sindrome epoca doro, ci occupiamo di Midnight in Paris, penultimo film del regista americano, che comincia con una dichiarazione damore per Parigi, che Gil definir pi avanti come il posto pi cool delluniverso. Nei confronti della Ville Lumire Allen oscilla tra un
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atteggiamento di sincero amore, qualcosa di vagamente simile al sentimento espresso per New York nellincipit di Manhattan, e la languida romanticheria da turista. Anche se, certo, a far da collante tra i due modi di vedere la citt c il velo di superficiale nostalgia con cui osserva la realt il protagonista. Siamo certi, come recita una delle battute conclusive del film, che Parigi molto pi bella con la pioggia o, quando lo pensiamo, siamo soltanto annebbiati dalloleografia, cinematografica e non solo, della citt? Di sicuro, la bohme che vagheggia Gil ben diversa dal mondo dorato e luccicante della festa mobile che laspirante scrittore (che si rifiuta di andare a ballare al night con la moglie e gli amici nel presente, ma si scatena nel charleston quando il party si svolge nel passato!) finisce per conoscere e frequentare nottetempo. Un mondo che, peraltro, non proprio rappresentato come il regno della concordia e dellamore in nome dellarte, ma dipinto con uno sguardo piuttosto disincantato, come gi accadeva nel precedente Incontrerai luomo dei tuoi sogni (anche l il protagonista era uno scrittore in crisi che, per, per lenire i suoi tormenti, non si faceva scrupoli a spacciare per suo il romanzo, inedito, di un amico morto). La battuta di Hemingway che dice di non voler leggere il libro di un altro scrittore in quanto se brutto lo odio perch odio la brutta prosa, se bello lo odio perch sono invidioso produce quanto meno una smagliatura nelluniverso di favola in cui Gil crede di trovarsi.

Senza dubbio, la fuga dal presente noioso (ma come si fa poi senza antibiotici?) ha quanto meno il vantaggio di far capire a Gil quello che tutti noi avevamo intuito fin dallinizio del film: che lui e Inez non sono fatti luno per laltra. Woody Allen satireggia qua e l sulla figura dellartista e dellintellettuale: lo fa, ad esempio, nella scena, ambientata al museo, in cui Gil smentisce lonnisciente Paul su un quadro di Picasso, alla cui nascita lui ha assistito la notte precedente. Viene in mente la celebre scena di Io e Annie in cui vengono sbeffeggiati gli sproloqui cui si lascia andare, in coda alla cassa del cinema, un accademico che tiene un corso di tv, media e cultura. Ma, rispetto al 1977, in Midnight in Paris lironia di Allen appare meno corrosiva, stemperata da uno sguardo pi indulgente. Anche perch, a ben vedere, il bersaglio vero non pu che essere Gil in persona, alter ego dello stesso regista, vittima designata, nel film, della sua ingenuit e dei suoi sogni autoconsolatori, non diversamente, com stato notato, dalla protagonista de La rosa purpurea del Cairo, dove pure i riferimenti metacinematografici erano pi espliciti e il discorso sulle facili illusioni prodotte dallarte pi pessimistico (e dove Gil, tra laltro, era il nome dellattore che interpretava il personaggio che esce dallo schermo per fuggire con la casalinga). Se uno pensa che, per diventare un grande artista finalmente compreso, basti la frequentazione con i grandi artisti riconosciuti, non c' da meravigliarsi che non si avveda delle inverosimiglianze del suo romanzo, in cui, come fa osservare a Gil Gertrude Stein, il protagonista non si accorge che la fidanzata ha una relazione proprio sotto i suoi occhi con il personaggio pedante. Anche la precariet degli affetti, tema da sempre caro al regista newyorkese e presente in maniera pressoch costante nei suoi ultimi film, trattata, dunque, con i toni leggeri della fiaba (lautomobile che trasporta Gil negli anni Venti passa sempre a mezzanotte, come la carrozza di Cenerentola, che, per, fa il viaggio inverso, dal sogno alla realt).

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E, quando Gil chiede alla guida del Museo Rodin (interpretata, si fa per dire, da Carla Bruni) come faceva lo scultore francese ad amare contemporaneamente la moglie e l'amante, arrivando alla conclusione che voi francesi in questo siete pi avanzati, si capisce che non di vero dubbio trattasi, ma ancora una volta di ingenua curiosit intellettual-turistica. Di questi tempi moltissimi americani sentono il bisogno di trasferirsi qui: lo far anche Gil, mentre noi ci chiediamo, dopo Londra e Barcellona, Parigi e Roma dove andr la prossima volta lerrante Woody, il quale, a differenza del protagonista di Midnight in Paris, si accontenta di vivere, anno dopo anno, scrivendo film che, per nostra fortuna, sono ancora, in molti casi, divertenti ma dimenticabili. (Midnight in Paris di Woody Allen)

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Nulla di cui vergognarsi, dopotutto


MATTEO FONTANA

Shame di Steve McQueen (regista 43enne di colore, nessuna parentela col pi celebre attore) rinverdisce i fasti della tradizione cinematografica newyorchese. Non c niente da fare. Il cinema USA si sviluppa da sempre sulla concorrenza tra il polo maggiore di Los Angeles (Hollywood) e quello, volutamente minore, di New York. La contrapposizione non tanto economica (Hollywood nettamente superiore, in questo senso) quanto piuttosto visiva e tematica. Il cinema targato New York immediatamente considerato, in media, pi autoriale, civilmente pi impegnato, pi portato a riflettere sulla societ e sulla Storia, oltre che pi portato a scavare nelle psicologie individuali, a sezionare personaggi e patologie, drammi e follie. Si pensi agli esordi di quello che forse il pi grande Maestro del cinema della East Coast, Martin Scorsese, con titoli come Mean Streets (1973), Taxi Driver (1976), lo stesso Fuori orario (After Hours, 1985), geniale messa in scena a met tra realismo e surrealismo di una Odissea newyorchese. Fino a giungere alle scorsesiane moderne ricognizioni di New York, tra le quali vanno indubbiamente segnalati Al di l della vita (Bringing out the Dead, 1999) e soprattutto la visione sinottica della citt realizzata con quel film imperfetto ma affascinante che Gangs of New York (2002). Parlando di cinema della East Coast, non si pu evitare poi di citare Woody Allen, il pi newyorchese di tutti i registi, lautore di vere e proprie elegie dedicate alla sua citt natale: da Io e Annie (Annie Hall, 1977) a Manhattan (1979), vera e propria elegia dedicata alla citt; da New York Stories (1989) a Mariti e mogli (Husbands And Wives, 1992), Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery, 1993), senza dimenticare gli scombiccherati, divertentissimi film degli esordi. Anche Brian De Palma ha esordito con piccoli film newyorchesi come Greetings (1968) e Hi, Mom! (1970). E si potrebbe continuare. Contentiamoci comunque di dire che la tradizione del cinema newyorchese solida e ben definita, nel panorama cinematografico made in USA. Veniamo a Shame. In un suo libro, il bellissimo La casa del sonno, Jonathan Coe descrive lincontro tra un produttore cinematografico rampante, di quelli che vogliono fare i soldi, e due giovani autori molto diversi tra loro: uno ignorante e modaiolo, ma tecnicamente ben preparato e affamato di successo nel cinema, laltro intellettuale snob, pieno di letture altisonanti e visioni di pietre miliari della storia del cinema. Il colloquio tra il produttore e lintellettuale prende subito una brutta piega: il produttore accusa il giovane, lui e quelli come lui, di essere la causa del declino del cinema. Lintellettualismo di cui si sono (quasi) sempre nutrite le varie Nouvelles Vagues, a detta del produttore, ha abbattuto lindustria cinematografica, che una volta era molto pi libera di produrre divertimento, anche ingenuo e fracassone, senza doversi preoccupare delle tematiche, del confronto con la cultura, eccetera.
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Ebbene, il produttore descritto da Coe non avrebbe mai prodotto un film come Shame! Lento, zeppo di piani-sequenza, feroce e impietoso nello scavare nelle psicologie dei personaggi ma, al contempo, un po criptico (vedi le scene dapertura e chiusura sulla metropolitana, con la ragazza sorridente che cattura lattenzione del protagonista), il lavoro di Steve McQueen (confesso: trovo difficile scrivere questo nome senza pensare al grande Steve McQueen!) ha indubbiamente una notevole statura autoriale, ma non risulta n particolarmente accattivante n tantomeno (come hanno scritto alcuni) in grado di coinvolgere il pubblico. Per vedere un film come Shame ci vuole una certa determinazione, come spesso succede per il cinema impegnato. Insomma, bisogna VOLERLO vedere, bisogna essere interessati ed essere disposti a offrire alla causa due ore del proprio tempo e della propria concentrazione. Nulla di male in ci, intendiamoci. Chi scrive ha sempre visto il cinema pi come unattivit di pensiero che di totale abbandono e svago. C molto sesso in Shame, vero, e questo a detta di tutti un fattore di attrazione per il pubblico; ma sesso mortifero, meccanico, gelido. Oppure fallimento del sesso, come quando il protagonista, anaffettivo e patologicamente legato al soddisfacimento fisico, cerca di avviare una relazione con una collega dufficio. E sufficiente un minimo coinvolgimento emotivo, ed egli si blocca, come se si attivasse in lui un firewall contro i sentimenti, pericolosi in quanto capaci di far soffrire. Shame allora un film sulla solitudine e lisolamento, beninteso: solitudine urbana. Quel particolare tipo di solitudine che consiste nel vivere costantemente in mezzo alla gente, a New York appunto, senza per esserne minimamente toccati nel profondo, o senza VOLERNE essere toccati (si pensi alle telefonate e ai messaggi in segreteria telefonica sistematicamente ignorati dal protagonista).

Solo davanti al suo computer, Brandon (un intenso Michael Fassbender) si intrattiene in lunghe conversazioni a distanza via chat, o assiste a spettacolini messi in piedi apposta per lui via web cam. Limportante che tutto sia a distanza, nel mondo cittadino narrato da Steve McQueen. La citt uno sfondo, niente di pi, una serie di superfici lisce e respingenti, o trasparenti (come nella scena di sesso nella stanza dalbergo fatta praticamente solo di finestre) o, ancora, riflettenti, fatte apposta per rimandare al protagonista limmagine della propria stessa solitudine. Sesso ritualizzato, insomma, spogliato di ogni componente comunicativa e verace, e filmato dal regista a sua volta con un distacco e un gelo molto appropriati. E un film di stile questo Shame: insistiti carrelli laterali a seguire il protagonista che corre per New York, lunghi piani sequenza (meraviglioso quello del ristorante, un lentissimo zoom a stringere sui due personaggi a tavola), interni algidi dai quali si ha limpressione di non poter uscire (lufficio, la casa stessa di Brandon), dialoghi scarni e spesso brutali. Un film non per tutti, certamente non per chi e non un dramma, intendiamoci! si trovasse daccordo col produttore della succitata scena del libro di Jonathan Coe La casa del sonno, e non potesse soffrire un cinema tutto sommato piuttosto compiaciuto della propria intelligenza, della propria sottile raffinatezza.

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Un cinema che pu anche fare male, perch afferra le angosce e le porta allesterno, oppure (ed la stessa cosa) offre allo spettatore un viaggio al loro interno, un viaggio al termine della notte newyorchese, meglio: di una notte che, cinematograficamente, non poteva che essere newyorchese. Se Hollywood la fabbrica dei sogni, New York , per il cinema, da sempre, il gabinetto danalisi di psicosi e nevrosi, il microcosmo delle contraddizioni, il laboratorio del rimosso che nel cinema e grazie al cinema a volte riemerge e chiede ascolto, sotto forma di film difficili, scabrosi, sperimentali, fieri di non appartenere alluniverso hollywoodiano ma forse, sotto sotto, desiderosi di godere della medesima, luccicante considerazione. Insomma, nessuna vergogna! (Shame di Steve McQueen)

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Ieri, oggi e (forse) domani del cinema


MATTEO FONTANA

Questo 2012, edizione degli Academy Awards compresa, stato un anno di riflessione del cinema sul cinema o, pi precisamente, del cinema sul suo passato. A ben vedere, forse, pi che di riflessione bisognerebbe parlare di omaggio: i due film pi rappresentativi dellultimo Academy Award (cinque statuette ciascuno) sono infatti due commossi omaggi al cinema delle origini, realizzati da due registi diversi in tutto, dallo stile alla carriera. Parliamo di The Artist di Michel Hazanavicius, regista di origine lituana ma di nazionalit francese, che si aggiudicato i premi pi succulenti (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista) e di Hugo Cabret di Martin Scorsese, che per carriera e caratura registica non ha certo bisogno di presentazioni. Non sembrava giusto scindere la critica a questi due film, dato che essi sembrano nascere dalla medesima esigenza, quella di omaggiare, appunto, il cinema pi artigianale e imperfetto delle origini (ovvero del periodo del muto) ricordando allignaro spettatore di oggi sempre pi abituato a straordinari e a volte frastornanti effetti speciali qual stato il percorso tecnico-espressivo della cinematografia. Ci detto, non potrebbero esistere due opere pi diverse di The Artist e Hugo Cabret. Pur nella palese comunanza dintenti, i due film si differenziano praticamente sotto ogni aspetto. The Artist pi propriamente un omaggio al cinema muto, un omaggio basato sulla mimesis pi assoluta con loggetto della sua ammirazione: si tratta infatti, com noto, a sua volta di un film muto, uscito nelle sale quasi in sordina per stupire poi tutti con il trionfo agli Oscar. Hazaravicius, coadiuvato dai suoi attori (tutti bravissimi, con menzione di merito per Dujardin premiato con lOscar; ma che dire di John Goodman? E della bravissima Brnice Bejo?), mette in scena il difficile passaggio dal muto al sonoro, alla fine degli anni 20 del secolo scorso, passaggio che fu la vera porta per il cinema contemporaneo. Il muto , semplicemente, unaltra forma espressiva, e limpossibilit ben messa in evidenza in The Artist per molti attori di adattarsi alla novit del sonoro ne la migliore dimostrazione. Laddove si recitava soprattutto di corpo e di mimica (valgano per tutti gli esempi di Buster Keaton e Charlie Chaplin), con lavvento del sonoro si prese a recitare sempre pi di voce, e la riuscita del timbro di voce fu elemento fondamentale per il lavoro nel cinema.

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Mettendo in scena la storia di un divo del cinema muto, chiamato con il non casuale nome di George Valentin (allusione chiara a Rodolfo Valentino), che non riesce ad adattarsi al cinema sonoro e tenta unimpossibile difesa di un linguaggio delle immagini destinato a tramontare, Hazanavicius rende omaggio (in modo un po ruffiano, bisogna dirlo) tanto al muto quanto al sonoro, tanto alle esigenze e ai pregi delluno quanto a quelli dellaltro. Laspetto migliore di The Artist, tutto sommato, proprio la sua equidistanza: nulla viene difeso a spada tratta, ma con un tocco molto leggero, e unindubbia capacit di orchestrare lazione, il regista strizza locchio al passato rifacendone stilemi e passaggi, riproducendo con passione filologica un aspetto dimenticato del cinema, dimenticato ma non cancellato: perch The Artist va a pescare, e stimolare, i nostri ricordi cinematografici ancestrali, sfrutta una certa qual memoria collettiva (locuzione che piacerebbe senza dubbio a Jung) dimostrandoci che anche chi non ha mai neanche lontanamente vissuto quella remota epoca del cinema serba purtuttavia in s un frammento di cinema muto, un brandello di quel cinema lontano che ci fa un po ridere per la velocit dei movimenti, per lingenuit delle trame e per la caricata intensit delle interpretazioni. Chi del resto non ha mai visto una comica di Stanlio & Ollio, o uno short di Charlot, o di Buster Keaton? Chi non ha mai visto, magari a tarda ora su Rai Tre facendo zapping, un pezzetto di cinema muto (LAtalante di Vigo, magari, tanto caro al buon Ghezzi)? The Artist una appassionata rappresentazione del cinema come arte in continuo divenire, mai ferma, da una parte in quanto arte del movimento, dallaltra in quanto cos strettamente connessa allo sviluppo tecnologico. La macchina-cinema (intesa da Hazanavicius soprattutto come macchina produttiva) che finisce per stritolare i suoi stessi lavoranti, quegli attori che, da divi che erano, vengono presto dimenticati e cancellati.

Il cinema cambia, si evolve, ma da sempre insegue le emozioni, le cattura e cerca di trasferirle sullo schermo. Questo il minimo comun denominatore di ci che, dagli anni 20 del XX secolo ad oggi, chiamiamo cinema. E lesercizio di stile compiuto da Michel Hazanavicius e dai suoi attori con The Artist si propone come una presa di coscienza di questo fatto, e come la dimostrazione di un teorema: si pu ancora fare un film muto, certo (e non lo scopriamo oggi: Juha di Aki Kaurismaki del 1999), e soprattutto si pu ancora mettere il cinema al centro di un film, riflettendo sulla natura stessa di ci che stiamo vedendo, o meglio, sulla materia di cui fatto ci che stiamo vedendo. In questo senso, la sequenza forse pi riuscita di The Artist quella dellincubo, nel quale Dujardin-George Valentin assordato da rumori di ogni tipo ma non riesce a sentire la propria voce.

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The Artist un film sottile e delicato, indubbiamente calligrafico, ma realizzato con indubbia competenza e animato dal soffio di alcune grandi interpretazioni. Sar un caso, ma proprio nello stesso anno 2012 ecco anche la riflessione di Martin Scorsese sul cinema delle origini, sulla magia perduta di un cinema col quale, come si diceva, in un certo senso tutti siamo cresciuti, volenti o nolenti. Ora, laddove The Artist si presenta come esercizio di stile teso a riportare, per quanto possibile, le lancette dellorologio del cinema indietro di un secolo, Hugo Cabret si apre fin da subito allinsegna della mostruosa tecnologia raggiunta oggi dallarte cinematografica.

Con un impressionante zoom in, (realizzato dalla Industrial Light & Magic di George Lucas) Scorsese parte da un totale sulla Parigi degli anni Venti e va a stringere fino agli occhi di Hugo, celati dietro il quadrante di uno dei tanti orologi della stazione. Uninquadratura mirabolante, totalmente anacronistica, se vogliamo, ma adatta ad esprimere quel senso di meraviglia, di sospeso stupore che il cinema delle origini, nella sua semplicit che allepoca non pareva affatto semplice, doveva produrre nei primi spettatori (non a caso Scorsese cita ad un certo punto il celebre episodio, sulla cui veridicit non metterei la mano sul fuoco, ma che si racconta da sempre, della fuga degli spettatori terrorizzati durante la prima proiezione, il 28 dicembre 1898, de Larrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumire). Film visivamente eccezionale e profondamente macchinico, Hugo Cabret una fiaba urbana ambientata perlopi nella gigantesca stazione ferroviaria, e incentrata sulla ricerca di una chiave che restituisca vita ad un automa custodito gelosamente dal giovane protagonista in quanto ricordo del padre defunto. Scorsese concentra continuamente la visione sul tema della MACCHINA: gli orologi della stazione, i meccanismi del giocattolaio misterioso che si riveler personaggio-chiave nel dramma, lautoma lasciato in eredit dal padre... Ma non solo: anche la gamba meccanica del gendarme un simpatico Sacha Baron-Cohen, terribilmente sopra le righe ma a tratti effettivamente irresistibile su su fino alla cinepresa stessa, che nel finale diventa la vera macchina attorno alla quale ruota lintero film.

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Riscoperta letterale di un cinema dimenticato, il finale di Hugo Cabret cerca s la lacrima un po facile, ma anche un sincero inchino a quel maestro assoluto di creativit e visionariet che fu Georges Mlis, che fin rimosso e dimenticato, come il George Valentin di Hazanavicius e Dujardin. Certo, per chiunque conosca il cinema di Martin Scorsese, limpressione che Hugo Cabret sia una sorta di capitolo a s stante, unappendice fiabesca distante, molto distante dallo Scorsese classico, quello per intenderci diTaxi Driver, Toro Scatenato, Goodfellas e Casin. Uno Scorsese che, come gi con The Aviator e Shutter Island, si sforzato di fare il grande regista mainstream, con risultati intendiamoci pi che apprezzabili, giacch Hugo Cabret un film godibilissimo, ma accettando di snaturarsi, o meglio, di mettersi ancora una volta alla prova accogliendo la sfida tutta hollywoodiana di tributare un grande (e costoso) omaggio a Georges Mlis e al cinema delle origini. Un omaggio che si estrinseca, se vogliamo, per antitesi: il profluvio di effetti visivi di cui fatto il film di Scorsese fa il paio con la semplicit degli effetti che, nel suo laboratorio dalle pareti fatte di vetro (per fare entrare pi luce e poter girare fino a sera) Mlis inventava e metteva in pratica. Ma il discorso scorsesiano non banale: il tessuto visivo oggi cos lavorabile, modificabile allestremo grazie al computer, e peraltro arricchito dalla riscoperta del 3D, fa per il 2012 quello che le pellicole colorate a mano, gli sgargianti costumi e le astronavi sovrimpresse facevano nel 1912 per il cinema di Mlis. Pura meraviglia per gli occhi avvolta in una trama semplice, quasi una caccia al tesoro, la chiave per mettere in moto lautoma-macchina da presa, che non a caso una volta avviato, non comporr delle parole, ma far un disegno. Restituir unimmagine, un fotogramma, lelemento basilare del cinema.

Scorsese riflette soprattutto, dunque, sullessenza macchinica del cinema, sul suo scaturire da una macchina, la cinepresa. Il cinema il frutto di un movimento meccanico, lo scorrimento della pellicola davanti ad un obiettivo, regolato da un otturatore. Come pu da un principio tanto spartano, tanto scientifico emergere qualcosa che fatto di puro sogno?, sembra chiedersi il regista dalla carriera ormai tanto lunga e tanto fulgida. Una domanda, come si diceva, non banale; un ricondurre il cinema ai suoi elementi costitutivi, anche se e qui forse c la pecca forse tanta magniloquenza visiva perfino esagerata. Hugo Cabret un film profondamente artificiale, e ben consapevole di esserlo. The Artist, a sua volta, un film un po ruffiano, facile nel suo assunto di base quanto sottile e profondo nelle sfumature interpretative e nei tocchi filologici. Il 2012 sar ricordato, anche grazie alla pioggia di Oscar su questi due film cos diversi e cos uguali, come lanno dellomaggio al cinema muto, al cinema degli albori; o dellinchino di fronte al genio (spesso dimenticato, ma sempre vivo) di chi ha consentito che non si avverasse quella celebre profezia dei fratelli Lumire, quella secondo la quale il cinema sarebbe stato unarte senza futuro. (The Artist di Michel Hazanavicius e Hugo Cabret di Martin Scorsese)

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SCUSATE IL RITARDO
Critiche a film vecchi, passati, scappati, sfuggiti e, alla fine, riacchiappati!

Meglio tardi che mai!, recita un famoso adagio. Proprio in ossequio a questo detto, abbiamo deciso di varare questa nuova sezione della nostra rivista, per incorporare nellapparato di critica cinematografica anche quei film che, al momento delluscita, ci sfuggono, a volte per colpa nostra (troppi impegni per andare a vederli), altre volte per colpa della distribuzione italiana, che spesso e volentieri fa passare nelle sale film pi che dignitosi come meteore, una settimana e via, gi tolti, con buona pace di chi stava cercando di organizzarsi per vederli. Insomma, certi film vengono trattati per usare una similitudine culinaria come bistecche al sangue: pochi minuti da un lato, pochi minuti dallaltro e poi via dalla graticola! Non sarebbe male poter indagare sul fenomeno, ovvero sui misteri della distribuzione cinematografica in Italia, ma in fondo non si tratta di un grande mistero: una questione di soldi, puro e semplice. Niente di pi. Se un film parte bene e nel primo week-end di programmazione raccoglie un buon successo, allora pu reggere nelle sale per un tempo accettabile (qualche settimana, in certi casi persino qualche mese). Se invece parte male, le distribuzioni lo ritirano e lo sostituiscono con qualcosa che dia maggiori garanzie di incasso. E questo, sia chiaro, su input degli esercenti, ovvero dei gestori delle sale cinematografiche, che purtroppo oggid non possono permettersi di assorbire dei fiaschi, visti i costi di gestione e di esercizio. Non ci piace questa forma di strangolamento cui sottoposto il cinema, lo diciamo chiaramente. Per cos, e oltretutto innegabile che certi titoli risultano complicati da distribuire, in quanto palesemente pensati per un pubblico di nicchia, e quindi non idonei ai grandi multisala con centro commerciale annesso e connesso, strutture queste pensate per le famiglie, per i filmoni davventura o per i cartoon Disney. Sono ambienti, i grandi cinema multisala, che hanno un che di inquietante, di ballardiano: offrono tutti i comforts, si pu entrare alle due del pomeriggio, vedere un primo spettacolo, poi fare un giro per negozi con aria condizionata, sedersi a bere qualcosa sfogliando una rivista, e poi vedere anche uno spettacolo alle 20.00, e una volta usciti, andare a cena in pizzeria o persino nel sushi restaurant, che ormai non manca nei migliori centri commerciali. Uno stile di vita, insomma! Ecco cosa vendono i grandi cinema di oggi. Uno stile di vita che mal si accorda con film impegnativi, volutamente un po sgradevoli, autoriali, complessi. Intendiamoci: non stiamo difendendo il cinema pizzoso, la boiata pazzesca di fantozziana memoria, contro il cinema spettacolare e leggero. Anzi, ce ne guardiamo bene! Anche a noi piace il cinema spettacolare, per quanto forse si esageri un po, nella concezione odierna, sul concetto di esperienza. Il cinema deve essere a tutti i costi esperienza, da cui il revival del 3D cui abbiamo assistito in questi ultimi anni. Nostra rettifica: il cinema pu essere anche esperienza intellettuale, non solo visiva o emozionale. Per cui, spazio e rispetto merita anche chi alla sala cinematografica chiede qualcosa di pi rispetto al porta-bicchiere per la Coca-Cola o al bar ben fornito di ogni tipo di bevanda, cibo o caramella. Detto ci, e chiudendo la divagazione, vi lasciamo a queste critiche un po vecchiotte, a film che giustappunto per diversi motivi ci sono scappati al momento della loro uscita. Cogliamo peraltro loccasione per presentare una nuova firma della Lanterna di Born, Manuela Landini, che inizia con questo numero una collaborazione che speriamo sia lunga e piacevole. Vi invitiamo, infine, a segnalarci, se vorrete, dei film anche vecchi di cui vi piacerebbe leggere la critica qui sulle nostre pagine, in questa sezione: nei limiti del possibile, vedremo di accontentarvi! Buona lettura.
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La vuotezza del Male


MANUELA LANDINI

Inizia sotto una pioggia torrenziale questo film pieno di lavacri, simbolici e non, questo film liquido che il regista si sforzato (con buon successo) di far scorrere via come un flusso dacqua che leviga le pietre, che lava le colpe. Il tema della colpa infatti centrale. Il film comincia gi dopo il periodo nazista, e ci mostra una donna tedesca di mezza et, silenziosa e non particolarmente attraente, che fa la controllora sui tram. Un ragazzo in et da Liceo comincia casualmente a frequentarla, e con lei, sotto la sua guida, scopre il sesso. Detto cos, il film pu sembrare di genere os, ma come gi fu per un film come Il portiere di notte (di Liliana Cavani, 1974) il sesso passa abbondantemente in secondo piano, in favore del racconto del percorso di (auto)conoscenza dei due personaggi. Lei cela un passato oscuro nei campi di concentramento, lui un ragazzino nato dopo, che non ha vissuto gli orrori del Nazismo e che non pu saperne nulla se non ci che studia sui libri di scuola. Libri che diventano ben presto elemento centrale nello strano rapporto tra i due personaggi. Lei si fa leggere da lui dei libri, continuamente.

Li vive con passione, piange, ride, lo abbraccia, si arrabbia se la narrazione non le sembra accurata o plausibile. Si nutre di quelle letture, e rifiuta sempre di leggere in prima persona. Vuole sentire dalla voce di lui, come se ben pi che il sesso le interessassero quelle storie, quelle pagine piene di misteriosi segni neri. Infatti, pi volte, posticipa il soddisfacimento sessuale alla lettura. Prima si legge; poi si fa lamore. Questa sembra la regola base di questo rapporto strano, forte eppure misterioso, attraversato da qualcosa di non detto, da un segreto. Infatti quando lei vede lui sul tram, lo ignora bellamente, facendolo arrabbiare. Cosa non vuole dire? Cosa non vuole far sapere di s?

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Dicevamo: un film fatto di acqua che scorre via come un flusso dacqua tiepida. Lei Hanna il suo nome ogni volta che rientra a casa dopo il lavoro ha una sorta di assoluto bisogno di lavarsi, e i primi rapporti anche sessuali tra i due personaggi sono legati al momento del bagno (lui si sporcato di carbone facendo una commissione per lei e lei pretende di lavarlo). Cosa deve lavarsi cos insistentemente di dosso Hanna, se non la COLPA? Il suo passato, che purtroppo non pu essere lavato con normale acqua, e richiede un profondo percorso di autocoscienza, che Hanna non in grado di intraprendere, dato che neppure sa leggere. Allora, il film la tragedia di questa donna semplice, incolta, VUOTA, che tenta tardivamente di riempirsi di libri, di storie, di emozioni, lei che le emozioni non le ha mai vissute gelidamente fece morire dei prigionieri in un incendio, senza preoccuparsi di salvare loro la vita. Molto pi efficace, secondo me, nella prima parte, quella che descrive il rapporto col ragazzo, che nella seconda, processuale e adulta, il film si giova della bellissima interpretazione di Kate Winslet, che ha vinto lOscar, non a caso. Una parte sofferta, che ha richiesto allattrice anche un vero e proprio imbruttimento fisico, e che soprattutto le ha richiesto di costruire uno sguardo di totale inconsapevolezza, uno sguardo totalmente ignorante, nel senso letterale del termine, cio di chi ignora ci che succede attorno a lui. Hanna ignorava tutto, e anche in sede processuale, fa le ammissioni pi candide, perch non si rende conto di che cosa esse comportino. Le altre kap si difendono in modo astuto, Hanna no, Hanna ammette tutto, si prende persino pi colpe di quante non ne abbia, e viene condannata pesantemente. Paga per tutte, insomma. Il film qui vorrebbe forse essere ambiguo, vorrebbe dire che le colpe non sono mai solo di qualcuno, ma andrebbero sempre distribuite, capite, interpretate. E per secondo me la parte meno riuscita del film, quella in cui i dilemmi morali diventano pi evidenti, e quindi anche pi stucchevoli (basta pensare alla dialettica tra gli studenti di giurisprudenza, tra i quali ovviamente troviamo il nostro protagonista, e il loro professore, che li porta ad assistere al processo per cercare di far loro capire il periodo nazista). Il film qui si fa molto crudele: lui costretto ad assistere alle udienze nelle quali Hanna non pu difendersi, non sapendo nemmeno leggere. E il suo dilemma : devo dichiarare che conosco il suo segreto, e svelare cos tutta la storia di sesso legata agli anni precedenti, o lasciare che la condannino anche se non ha pi colpe delle altre? Hannah Arendt ha scritto il celebre La banalit del Male, in cui mostrava che i simboli di quel Male assoluto che tanto spaventa, gli uomini capaci di mandare a morte milioni di persone innocenti, spesso non sono dei mostri nel senso classico del termine, ma degli uomini come noi, semplici e anche stupidi, a volte. Il film di Stephen Daldry pi che altro la vuotezza del Male, il suo essere stupido e ignorante. Tutta la parte finale infatti non che una ricerca di riscatto: lui, ormai adulto e diventato un avvocato di successo, si mette a registrare le sue letture di libri vari e le spedisce in cassetta ad Hanna, in prigione. E lei proprio grazie a questi audiolibri impara a leggere! Forse non troppo tardi per riscattare quellignoranza, quella chiusura al mondo che ha generato il Male, perch pi facile essere presi dalle spire del Male quando non si sa nulla di ci che ci circonda. Lultima parte del film si regge davvero sulla coppia di attori bravissimi, Ralph Fiennes e appunto Kate Winslet, anche se linvecchiamento, a livello di make up, secondo me sempre un po deleterio per giudicare la qualit delle interpretazioni. E poi c da segnalare quellincredibile errore, la scelta da parte del regista di far imparare a leggere ad Hanna su un testo in inglese! Ma come? Sappiamo che tedesca, anche il personaggio maschile sappiamo bene che tedesco, lintero film si basa sulla rievocazione degli orrori del Nazismo, e poi ci fai vedere che legge in inglese? E una scelta che toglie un po di forza allultima mezzora del film, che per il resto vibrante e ben messo in scena, insomma, un bel dramma come se ne facevano una volta, scritto piuttosto bene e interpretato

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superlativamente (molto bravo, anche se un gradino sotto, David Kross, che interpreta il protagonista maschile da ragazzo). The Reader insomma un film da vedere assolutamente, per la forza di questo strano personaggio femminile, in balia degli eventi eppure incredibilmente dura, un personaggio femminile che merita di entrare nella storia del cinema proprio per la contraddizione tra il suo essere cos originale ed interessante e il suo essere anche vuoto dentro, mostruosamente incapace di distinguere il bene dal male, eppure in un certo senso innocente. Una lettura molto bella, e anche inquietante, del periodo nazista. (The Reader di Stephen Daldry) - 2008 -

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La luce del passato (e del cinema)


MATTEO FONTANA

Lopera prima e, finora, unica da regista di Liev Schreiber (pi noto come attore: Scream, Sfera, Hurricane, The Manchurian Candidate, per citare giusto qualche titolo) ladattamento del romanzo di Jonathan Safran Foer Ogni cosa illuminata (Everything is illuminated, 2002): un originale e autobiografico road movie ambientato in Ucraina, che narra il viaggio di un ragazzo ebreo, fanatico collezionista di oggetti di famiglia, alla ricerca delle tracce del nonno, salvatosi dalla deportazione nazista grazie ad una ragazza del posto. Nella difficile ricerca di un passato lontano e rimosso lo accompagnano un anziano burbero che si crede cieco, ma non lo , e il nipote di questi, un giovane ucraino che vive nel mito degli U.S.A. e del Successo. Film delicato, minimale, incentrato su tre personaggi (e un cane), quello di Schreiber un bellesordio registico, sentito e partecipativo, dedicato ai temi del ricordo e della memoria, eterni eppure inattuali in un mondo, come quello doggi, pervicacemente proiettato sul futuro, e angosciato dalla necessit di vivere il presente, di accumulare esperienze e soddisfazioni, vere o presunte. Ogni cosa illuminata, in questo senso, un piccolo film inattuale, che svolge una riflessione non banale sul passato, sul cinema e sul linguaggio. Per la verit, il lavoro sul linguaggio come facilmente comprensibile meglio svolto nel romanzo di Safran Foer, che interamente giocato sullintersezione tra due livelli narrativi antitetici: i capitoli, dal sapore grottesco, che raccontano la storia del paesino ebreo/ucraino di Trachimbrod dagli albori allinvasione nazista, e le lettere sgrammaticate e spassosissime che Alexander Perchov, improvvisata guida turistica, indirizza a Jonathan, commentando proprio quei capitoli un po aulici e un po grotteschi di storia ebraica. Schreiber non si azzarda a tentare di trasferire su pellicola limmensa mole di fatti e fatterelli che, con pedante, ebraica pignoleria Safran Foer racconta a proposito di Trachimbrod, costruendo per il libro una trama liquida e inafferrabile, che si espande di pagina in pagina a macchia dolio, costruita un mattoncino dopo laltro in una sequela di eventi tragici e buffi, tristi e delicati, assurdi e toccanti, meschini e corroboranti. Al contrario, il regista depura il film da moltissimo materiale squisitamente letterario, e si concentra sul viaggio nel pre-

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sente alla ricerca di un paese che nessuno ricorda pi, di un segreto sepolto ma non dimenticato, un segreto che aspetta solo di essere scoperto, e rivelato. Il cinema si fa allora veicolo prediletto della memoria, e il film si propone come ricerca vera e propria, prima ancora che come narrazione (come invece fa il libro, che investe moltissimo sul racconto minuzioso della storia locale di Trachimbrod, e del suo mescolarsi con la mitologia ebraica). IL fatto che il protagonista alter ego dello stesso Safran Foer sia un collezionista quasi patologico di oggetti e ricordi, soprattutto oggetti di famiglia, non fa che infittire il discorso che il film svolge sulla conservazione della memoria, costruendo una vera e propria poetica degli oggetti, che ha il suo trionfo e il suo momento abissale nel ritrovamento di Trachimbrod, il paesino cancellato dai Nazisti e ridotto ad un enorme cumulo di oggetti, appunto, appartenuti agli abitanti, oggetti la cui conservazione si configura come vero e proprio mantenimento della memoria.

Lanello, la fede nuziale della ragazza che il protagonista venuto a cercare, attendeva in un certo senso proprio che qualcuno la trovasse, in modo da tramandarsi, da veicolare la memoria dei fatti e delle persone. Gli oggetti, sotto la penna di Safran Foer e sotto la macchina da presa di Liev Schreiber, non sono cose completamente inanimate, ma agenti della storia, e in questo senso la natura di collezionista patologico del protagonista, Jonathan (Elijah Wood), assume una valenza profonda, una sorta di riconciliazione con i luoghi e con gli eventi, con persone lontane nel tempo ma, proprio per il tramite degli oggetti, ancora avvertibili, recuperabili. Quante volte, del resto, ci capitato di pensare, trovandoci davanti una vecchia fotografia ingiallita che ritrae i nostri bisnonni, che quella foto un punto di contatto, un modo per riallacciarci ad un passato che, per forza di cose, non abbiamo potuto vivere, e del quale nulla sapremmo senza qualche testimonianza concreta? Ovviamente, sul tema dellOlocausto, il discorso si fa ancora pi profondo ed emotivo, giacch entrano in campo il senso di colpa e il dolore, il fatalismo e il rancore, la rabbia e la volont di capire. Mai come in questo caso, dunque, il viaggio viaggio nella memoria, o meglio: VERSO la memoria, rappresentata dalla casetta superstite di Trachimbrod, stracolma di scatole contenenti gli effetti personali degli abitanti trucidati. E il film, se non per nulla efficace nella rievocazione del passato (superflui e tutto sommato piuttosto oscuri risultano i flashback che vorrebbero collocare nel passato la vicenda del nonno di Alexander), in compenso un road movie riuscitissimo, quasi lynciano, dai ritmi blandi e dallo sguardo pieno di stupore, lo stesso sguardo occhialuto del protagonista, che penetra sempre pi nella Storia (maiuscola non usata a caso) fino a sfiorare una consapevolezza che appunto pu essere solo sfiorata, proprio come il film non pu mostrarci tutto, non pu raccontarci come si sforza di fare il libro con la paro,a scritta tutte le vicende di quei buffi strani personaggi che popolarono un paese cancellato dalle carte geografiche. Bolla di memoria erasa, il paese fantasma di Trachimbrod il McGuffin di questo film strano e ondivago, molto ben fotografato, e recitato con puntualit e partecipazione (menzione di merito per Eugene Htz, cantante dei Gogol Bordello che interpreta, con ottima verve, il ruolo di Alexander).
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Un road movie pacato e riflessivo, a tratti di una comicit irresistibile (vedi la cagnetta psicopatica Sammy Davis junior junior, o la finta cecit del nonno che guida la macchina!) e, in altri momenti, capace di immergersi nella tragedia pura, archetipica. Questa differenza di potenziale avrebbe potuto dare origine ad un film squilibrato e sgradevole, e infatti Ogni cosa illuminata unopera bizzarra, che non si lascia afferrare; ma proprio questo , a parere di chi scrive, il suo principale pregio, il motivo per cui il film di Schreiber si differenzia da tanti, tantissimi altri film dedicati allo stesso tema lOlocausto e costruiti come road movies alla ricerca della memoria perduta. Ogni cosa illuminata, col suo prendersi gioco, a tratti, della sua stessa trama, eppure col suo prendersi anche tremendamente sul serio, un ibrido bizzarro come bizzarro il libro da cui tratto, di cui il regista ha saputo restituire la stranezza e la particolarit, pur costretto per le ragioni di cui sopra a tagliarne ampie parti. (Everything is illuminated di Liev Schreiber) - 2005 -

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Dei minimi sistemi, e dei massimi


MATTEO FONTANA

A due film, peraltro diversissimi tra di loro, si pu fare riferimento per cominciare a dire qualcosa su questopera ultima del sempre discusso Lars Von Trier. Uno Sorelle, o lequilibrio della felicit (Schwestern oder die Balance des Glcks, Margarethe von Trotta, 1979): storia al femminile, come piaceva alla von Trotta anni 70, di tre sorelle molto diverse e del loro rapporto. Film intimista, ben scritto e ottimamente recitato, uno di quei film fatti di atmosfere, di piccoli tocchi, di dettagli, e di brave attrici. Laltro The Tree of Life (id., Terrence Malick, 2011), di cui abbiamo scritto sul numero scorso della Lanterna di Born. Vicenda tanto cosmica quanto umana e individuale, il film di Malick si potrebbe accostare a quello di Von Trier anche solo per questi dati essenziali. Ma c di pi, e ci arriveremo a tempo debito. Infine, ci sarebbe anche da scomodare certo cinema di Andrej Tarkovskji, ma non spendiamo titoli precisi: la natura per certi versi tarkovskjiana di Melancholia apparir chiara man mano che svilupperemo il nostro discorso critico. Dello stile di Von Trier si detto e scritto tantissimo, ormai, a partire dai dettami del famoso manifesto Dogma sempre disatteso, peraltro, dai suoi stessi sottoscrittori. Macchina a mano, montaggio sgrammaticato, uso frequente del fuori fuoco: questi i cardini di un cinema che negli ultimi anni ha fatto spesso discutere, mascherando la propria frequente mancanza di contenuto con uno stile volutamente provocatorio, e sfornando a volte opere decisamente riuscite (Le onde del destino, 1996, e Dogville, 2003, in particolare, senza dimenticare quel gioiellino che The Kingdom, 1994) e altre volte lavori irritanti, per vuotezza e programmaticit (Idioti, 1998, e per certi aspetti anche Dancer in the Dark, 2000 e Le cinque variazioni, 2003). Questo Melancholia, diciamolo subito, rientra tra i lavori interessanti di Von Trier, il che ovviamente non significa che debba per forza mettere daccordo tutti. Anzi, quasi impossibile che il bizzarro regista danese metta daccordo tutti, il suo cinema, per la sua stessa essenza, non lo prevede. Esso infatti fieramente, pervicacemente autoriale, un cinema che i pi definirebbero strano, atipico, presuntuoso, autocompiaciuto. Tutto vero. Ma vediamolo un po da vicino questo curioso film, che narra del pericoloso avvicinarsi alla Terra di un gigantesco pianeta azzurro (chiamato appunto Melancholia), un pianeta che forse finir per collidere col nostro, distruggendolo. Un film apocalittico, dunque! LApocalissi secondo Lars Von Trier.
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Ma ovviamente al regista danese non interessa tanto laspetto fantascientifico della trama (lavvicinarsi del pianeta dato per assodato, senza nessun tipo di giustificazione scientifica: esso semplicemente compare da dietro il Sole, oscura la stella Antares e si avvicina puntando dritta la Terra), quanto piuttosto il lato umano troppo umano: il pianeta dal nome malinconico sembra un catalizzatore di frustrazioni, angosce e paure dei personaggi. Il film si impernia, anche strutturalmente vista la perfetta bipartizione, sulle figure di due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg). La prima parte, incentrata su Justine, non che una lunghissima festa di matrimonio, sullo stile de Il cacciatore (Cimino, 1978). Una festa beffarda e contrastata, durante la quale emergono linstabilit della stessa Justine e lintreccio di rapporti tra gli invitati, apparentemente cordiali ma in realt minati da rivalit, gelosie, persino odio. Se Cimino utilizzava, nel suo capolavoro del 1978, la lunga sequenza del matrimonio di Steven come momento sociale per antonomasia, contenente tutto un mondo di valori, riti, usanze, umanit che i protagonisti si apprestavano ad abbandonare in favore della guerra, Von Trier utilizza la prima ora di film per costruire una strana tensione, un senso di minaccia incombente appena cenato sotto una patina di normalit. Ogni azione di Justine guardata dallo spettatore con sospetto; il suo crescente disagio evidente, tra i brindisi e la onnipresente scaletta della festa diligentemente preparata dalla sorella Claire, e spesso sbandierata tra i genitori divorziati e litigiosi e lorganizzatore del party, che insiste su riti tipici come il gioco dei fagioli nella bottiglia.

La figura di Justine che Von Trier ha dichiarato ispirata allOfelia shakespeariana unimmagine dellanticonformismo impotente, del disagio femminile. Non a caso, il matrimonio fallisce ancor prima di cominciare veramente, e Von Trier acutamente apre il film con la bella scena della limousine che non riesce a percorrere la stretta stradina di campagna. Una macchina troppo grossa, un evento sovradimensionato per la fragile e solitaria Justine. Quello che si poteva pensare come un catastrophic movie si apre dunque con un lunghissimo blocco narrativo che si avvita su s stesso, come un sogno dangoscia, uno di quei sogni nei quali vorremmo compiere unazione, o anche semplicemente allontanarci da un luogo, e per una ragione o per laltra non ci riusciamo mai, qualcosa ci blocca sempre. La stessa cosa vale per il soffocante matrimonio di Justine. Nonostante lei cerchi in tutti i modi di sottrarvisi, il sogno non termina, la avvolge come lingombrante abito da sposa, le impedisce i movimenti. E a questo punto, quellattacco con le inquadrature in ralenti estremo un attacco che mette gi alla prova lo spettatore, e la sua pazienza! assume un significato ben preciso. La lentezza esasperata, del tutto innaturale dei movimenti, non fa solo il paio con lapparente lentezza con la quale si muovono i corpi celesti ai nostri occhi (e tra essi, ovviamente, anche linesorabile pianeta Melancholia), ma sottolinea anche limpossibilit di fuga da quei riti, da quel contenitore che la vita sociale, con le sue assurdit e le sue nevrosi.

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Von Trier si sbarazza in questo senso con le prime inquadrature dellintera trama del film: vediamo i pianeti che collidono, vediamo Claire e Justine cercare di muoversi ma in realt non avanzare di un passo, impelagate in qualcosa che le trattiene, in una goccia dambra che le ha fatte prigioniere, e che le tiene invischiate. Due personaggi femminili molto diversi, ma in fondo le due facce di ununica medaglia. Tanto Justine nevrotica e incoerente nelle azioni, quanto Claire si sforza di essere logica e assennata. La prima accetta larrivo di Melancholia con tragica rassegnazione, la seconda svolge incessantemente ricerche su internet, e assilla il marito astronomo dilettante con domande e preoccupazioni. La seconda parte, incentrata su Claire, si presenta come una sorta di risposta (polemica) al Malick di Tree of Life. Tanto infatti Malick , a suo modo, panteista e spirituale, quanto Von Trier pessimista e materialista, soprattutto sul tema della Vita. Si veda il bel dialogo tra Justine e Claire, durante il quale proprio la disillusa Justine a sperare nella collisione con Melancholia, perch la vita sulla Terra cattiva. Se Malick celebrava la Vita come miracolo, e col suo film cercava di renderne visibili lorigine e lessenza, spingendo il cinema al di l di ogni limite (con risultati tutti da valutare, intendiamoci! Noi stessi non siamo stati teneri con certi passaggi di Tree of Life), Von Trier della Vita sembra voler essere il liquidatore, lesecutore testamentario. Siamo soli nellUniverso, dice sempre Justine. E tra poco non ci saremo pi. Melancholia far dunque giustizia di una vita cattiva, ma nessuno se ne accorger, perch nessuno potr mai raccontarlo. E in ogni caso non far nessuna differenza su scala cosmica. Il pessimismo vontrieriano si radicalizza, insomma, e se gi emergeva dai lavori precedenti, con Melancholia diviene assoluto, cosmico, nel vero senso del termine! Allora, anche il montaggio sincopato e i tagli spezzati che tanto poco piacciono ai fautori del dcoupage classico assumono in questo film una valenza persino superiore al solito. Von Trier taglia in chiave emotiva, non in chiave narrativa; taglia per sottolineare (o spezzare) emozioni, stati danimo, idiosincrasie tra personaggi; taglia per cogliere gesti rivelatori, smorfie, lacrime, espressioni. Mette, in questo senso, il mezzo espressivo del cinema totalmente al servizio dei suoi contrastati personaggi, si adegua alla loro differenza di potenziale. Sacrifica i nessi cinematografici classici, e cerca (mentendo!) una sorta di verit estrema. Sar per questo che ad attori e attrici piace cos tanto lidea di lavorare con lui?

Melancholia un film tutto sommato nitido e classicheggiante nella narrazione, giocato su due figure femminili molto ben interpretate e caratterizzato sostanzialmente da unit di luogo: tutto si svolge nella grande tenuta di campagna del marito di Claire, il ricchissimo astronomo dilettante John (Kiefer Sutherland). Dimora e giardino, con tanto di campo da golf a diciotto buche, sono lelemento pi tarkovskjiano del film, che indugia spesso in lunghe inquadrature delle due sorelle a cavallo, tra le nebbie della brughiera, o di Justine che si aggira nel bosco, che si stende nuda accanto ad un corso dacqua (si ricordi in questo senso il rimando, ammesso dallo stesso Von Trier, al personaggio di Ofelia nellAmleto).

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E gli strani fenomeni meteorologici provocati dallavvicinarsi di Melancholia (una strana neve in pieno Sole, e lelettricit che si posa sui vestiti e sugli oggetti) hanno a loro volta un che di tarkovskjiano, per la sospensione stupita che si disegna sui volti dei personaggi, e per il senso di mistero di cui un ambiente che dovrebbe essere noto e familiare, e curato fin nei dettagli come il campo da golf!, finisce per caricarsi.

Si pensi alle frequenti scene di pioggia nel cinema di Tarkovskji, da Solaris (1972) a Stalker (1979), e soprattutto alluso che fa il regista russo delle infiltrazioni dacqua nelle case, e dei fenomeni meteorologici in senso lato. Puri punti di contatto tra lUomo e la Natura, incomprensibili per come antichi riti, essi in Tarkovskji hanno un sapore arcaico, primigenio, che non si ravvisa con altrettanta chiarezza in Von Trier. In Melancholia la macchina da presa come sempre in Von Trier al servizio degli attori, incollata spesso ai volti intensi di Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg, alla ricerca di segni, indizi, sensazioni. Von Trier un giallista dei volti, un indagatore delle (inter)facce che collegano lessere umano inteso come persona fisica alla sua anima, ammesso che esista e che non sia come la Vita secondo Justine una cosa cattiva. E cos, una sorta di tragedia familiare diventa cosmica, giacch, se vogliamo, Justine per la famiglia quello che il pianeta Melancholia per il sistema solare, e per la Terra in particolare: una scheggia impazzita, un elemento imprevedibile, che dovrebbe solo sfiorarci, regalandoci unesperienza unica, ma che forse invece finir per colpirci, chiudendo per sempre il conto con la Vita, con le sue bellezze come con le sue miserie, perch alla fine nulla importa veramente in un discorso sui massimi sistemi, e la Vita tutto e il contrario di tutto, sembra dire Von Trier. Quindi, non fa differenza come noi la vediamo, se con gli occhi tristi di Justine o con quelli tutto sommato ottimisti, ancora pervicacemente aggrappati alla speranza, di Claire. I minimi sistemi (il matrimonio, la societ, il lavoro, i soldi) si rispecchiano nei massimi, e viceversa; ad un certo punto, non c pi rete di sicurezza, tutto illusione, dallamore in gi. E la Vita forse non poi cos solida come crediamo, e come vorremmo che fosse. (Melancholia di Lars Von Trier) - 2011-

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(E)SPUNTI

Se le circostanze gli sono propizie luomo saggiusta scrivendo un bel giorno sul suo punto fisso un libro o un opuscolo o almeno un articolo di giornale, e cio inserendo a verbale la sua protesta negli atti dellumanit, il che un gran sedativo, anche se nessuno lo legge. (Robert Musil)

1 Il cinema italiano in crisi. Ancora sugli effetti nefasti del sociologismo


ROBERTO MANDILE

La questione antica e ormai persino stantia, uno di quei luoghi comuni colti che fanno sentire un fior dintellettuale chi riesce a infilarlo in una conversazione qualunque: Il cinema italiano in crisi. Se ne parla da decenni, ma il problema serio che, quasi sempre, per indicare la stagione doro del cinema italiano (quando non era in crisi, anzi!), si finisce per citare il neorealismo, al quale peraltro, in un modo o nellaltro, vengono ricondotti anche molti registi e film estranei allesperienza, a ben vedere pi ristretta di quanto si potrebbe pensare, propriamente neorealista. E un po la stessa sorte che tocca, in ambito poetico, allermetismo, sotto il cui ampio ombrello vengono compresi gli autori e le opere pi disparate. Il punto per un altro: se il neorealismo fu, per molti versi (tra i quali quello economico!), epoca felice per il cinema italiano, a distanza di molti anni possiamo forse dire che i danni che esso ha prodotto sono forse superiori agli effetti positivi. In altri termini, se il cinema italiano in crisi, converr convincersi che molte delle colpe sono proprio del neorealismo, modello di riferimento, spesso ahim unico, di molti film degli ultimi tempi. Con laggravante che, esaurita la spinta ad indagare le miserie (soprattutto materiali) dellItalia del dopoguerra, ormai si passati a mettere in scena le miserie (esclusivamente esistenziali) dellItalia contemporanea. Se erano gi tipici del neorealismo una certa concessione al melodrammatico, uno spiccato gusto per il patetico (altro che scrupolo di oggettivit!), il sociopsicologismo di molto cinema di casa nostra (per non parlare della fiction televisiva) ha segnato una tappa in pi, sulla strada del lamentoso. Quanti film sembrano costruiti non su una sceneggiatura, ma sullillustrazione per immagini di un grande problema (in italiano moderno problematica) sociale o psicologico? E la crisi della coppia, e la solitudine, e la caduta degli ideali, e la difficolt di educare i figli, e il disagio giovanile, e il fallimento generazionale Con la scusa di raccontare la realt, si cade nellequivoco di convincersi della necessit di fornire allo spettatore non solo una storia, ma anche la sua interpretazione, a mo di didascalica appendice. S, il cinema italiano in crisi, purch la crisi non diventi materia per unanalisi sociologica.

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2 Parliamo di calcio! E senza ipocrisia, per favore.


MATTEO FONTANA

Com noto, il calcio lo sport pi popolare (e pi ricco) dItalia, e non da ieri, ma da parecchio tempo. Lunico a fargli concorrenza il ciclismo, che comunque era molto pi seguito qualche decennio fa. Oggi, i tanti, troppi scandali legati al doping hanno fatto perlopi disamorare la gente di questo straordinario sport fatto di fatica ed eroismo. Restano gli eroi del calcio, ma anchessi vedono la loro dimensione mitica minata dagli eccessivi guadagni e da vite spesso turbolente (non facciamo nomi, ma gli esempi sono chiari a tutti) e incomprensibilmente segnate dallinsoddisfazione. Il calcio, comunque, si presta ad unesposizione mediatica senza paragoni. Oggi guardare una partita vuol dire guardare ogni dettaglio di quella partita: ralenti e contro-ralenti, ingrandimenti, moviole, super-moviole, iper-moviole, lettura del labiale in casi di insulti allarbitro, prova televisiva se larbitro non ha visto qualcosa che invece allocchiuta troupe di Sky non sfuggito, tra camere a bordo campo, camere negli spogliatoi e spider cam appesa come un ragnetto sopra il campo di gioco. Insomma, vediamo TUTTO. E di calcio parliamo sempre di pi. Se una volta le partite si commentavano dal sabato al luned, oggi si commentano per tutta la settimana, incessantemente, alla ricerca di ogni minimo indizio che faccia luce su micro e macro-eventi, sugli umori di un calciatore o di un tecnico o di un presidente. Ora, prima di proseguire, sia chiara una cosa: chi scrive tifoso di calcio fin da quando era bambino, e non se ne mai vergognato. Anchio da piccolino tiravo i proverbiali quattro calci al pallone assieme agli amici, in giardino o sui prati del quartiere. Ero una schiappa, ma vabb, non si pu avere tutto nella vita, e il talento calcistico non era evidentemente nel mio destino. Per cui, non ho nessuna intenzione di scagliarmi contro chi ama guardarsi le partite e contro chi ama il calcio, amandolo io per primo. Lo snobismo degli anti-calcio lo trovo stucchevole e fastidioso. Quello su cui vorrei riflettere, per, il moralismo daccatto cui il calcio sta pagando pegno in cambio della estrema, totale visibilit di cui sopra. Ormai, ogni cosa che succede su un campo di calcio elevata a fatto di inaudita gravit, indagata come se ne andasse dellanima umana. E spesso la motivazione : le partite le guardano anche i bambini, che esempio danno i calciatori che sputano, o che commettono un fallo violento, o che protestano contro una decisione arbitrale? Certo, perch i nostri bambini aspettano solo di impararle dai calciatori, queste cose! Io, da piccolo, mi incazzavo come una biscia se subivo un fallo o se ritenevo di aver subito uningiustizia. Mi accapigliavo con gli altri ragazzini proprio come fanno tutti i ragazzini del mondo, per conto loro e senza bisogno di vederlo in televisione, da qualche migliaio di anni a questa parte. Vogliamo piantarla con questo moralismo da due soldi, che poi altro non che invidia mascherata? Ci stanno sulle palle i calciatori che guadagnano milioni di Euro allanno, e allora ci scagliamo contro di loro accusandoli di essere dei corruttori di bambini, perch si fanno vedere in mondovisione mentre sputano o fanno gestacci. Daccordo, non sono belle cose da vedere, e andrebbero evitate: ma basta con queste motivazioni ridicole! I bambini non sono quelle creaturine debolucce e indifese che piacciono a tanta psico-idiozia dei nostri tempi; tuttaltro, i bambini sono svegli, reattivi, fantasiosi e fanfaroni, come scrive genialmente Robert Musil in un passo dellUomo senza qualit. Sono cos da sempre, e non sar lo sputacchio di un calciatore a influenzarli, non pi di quanto li influenzino i comportamenti dei loro genitori, che sono gli unici veri responsabili delleducazione dei pargoli. I bambini giocano alla guerra da sempre, e non perch hanno visto Delio Rossi scagliarsi contro Adem Ljiajic durante Fiorentina-Novara. Ci senza voler negare che abbia fatto male Mister Rossi ad aggredire il suo giocatore. Ma non perch ha dato cattivo esempio, bens perch sempre e comunque un fatto socialmente deprecabile laggressione di un individuo ad un altro,
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che avvenga su un campo di calcio, per la strada o in una sala cinematografica, alla presenza di bambini o meno. Basta per con lipocrisia dei bambini. Che gli stadi italiani siano ricettacoli di teste vuote si sa (basti pensare a quei tifosi del Genoa che, poche settimane fa, hanno interrotto la partita imponendo ai propri giocatori di togliersi la maglia, a loro modo di vedere disonorata sul campo). Ma fate caso alla contraddizione: si accusano continuamente i giocatori di essere dei ragazzini viziati, dei milionari che neanche si degnano di spandere sudore per la maglia, che giocano da mercenari puri, e senza passione; e poi, quando uno di questi milionari ventenni sputa ad un altro milionario ventenne, evidentemente perch la partita lo ha preso, e tiene al risultato e al confronto nonostante i milioni sul conto in banca, ecco che tutti lo stigmatizzano e lo accusano di dare il cattivo esempio ai bambini! I quali, peraltro, si sputano e si menano per conto loro, senza alcun bisogno di impararlo da Lamela o da Totti! Insomma, signori, mettiamoci daccordo: vogliamo giocatori passionali e appassionati, che vivano le partite un po come le viviamo noi tifosi, prendendoci ogni tanto anche a male parole, oppure vogliamo dei fantocci prezzolati che muovano le gambe meccanicamente sul prato? Nel primo caso, non lamentiamoci se ogni tanto ci scappa un vaffanculo o uno sganassone in mondovisione; nel secondo caso, finiamola con la manfrina dei mercenari. Guardiamo il calcio, divertiamoci, ma senza ipocrisia.

3 (In)sensibili alla lettura: lo spot che parla al muro


ROBERTO MANDILE

Se ritenete che un muro sia solo un insieme di mattoni, vuol dire che non avete visto lo spot, anzi la comunicazione istituzionale, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la quale viene incentivata la lettura. Dal 2010, il 24 marzo la Giornata nazionale per la promozione della lettura, nella quale, come recita l'articolo 1 del Decreto Ministeriale del 15 luglio 2009, che lha istituita, le amministrazioni pubbliche assumono iniziative volte a promuovere la lettura in tutte le sue forme e a sensibilizzare i cittadini, e in particolar modo le nuove generazioni, sui temi ad essa legati. A parte il fatto che resta da capire quali sarebbero i temi legati alla lettura, la volont di istituire una Giornata nazionale per la promozione della lettura pu essere accolta in due modi: o con i consueti piagnistei sulla decadenza della cultura, accompagnati dalle immancabili prediche sul piacere e sullimportanza della lettura, o con un po di spirito ironico. Innanzitutto, infatti, le statistiche ci ricordano che gli unici che non andrebbero incentivati a leggere di pi sono le nuove generazioni, presso le quali si registrano le percentuali pi alte di lettori. E poi ovvio che chi legge non ha bisogno di una Giornata nazionale che lo inviti a farlo e chi non legge non si convince certo guardando uno spot dallaccattivante slogan Vai oltre. Pi leggi, pi sai leggere la realt. Anche perch, per sapere che un muro non solo un insieme di mattoni, ma anche un fondamentale della pallavolo, per imparare che il crollo di un muro ha fatto finire una guerra fredda, per conoscere qualcosa di un muro che divide due amanti, di un aereo che rompe il muro del suono e di un muro lungo oltre 8000 km, non serve, come suggerisce la comunicazione istituzionale, un tour de force tra ledicola, la libreria e la biblioteca. Basterebbe un clic su internet (dove, peraltro, se cercate la storia di un muro che divide due amanti, prima della tragica vicenda di Piramo e Tisbe, trovate quella, vagamente boccacciana, di due carcerati americani, che, attraverso un buco nella parete divisoria delle loro celle, sono riusciti a generare un figlio!). Ma, se proprio praticate convintamente anche lanalfabetismo tecnologico, potreste sensibilizzarvi a leggere la realt seguendo quotidianamente su Rai 1 La ghigliottina, il gioco finale del quiz preserale di Carlo Conti: imparerete qualcosa ogni sera e alla fine, quando gli indizi saranno pallavolo, guerra, amanti, suono e 8000 e indovinerete di slancio la parola misteriosa, vi convincerete definitivamente che avete fatto bene a non dare retta a quello spot.
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4 Siccit, clima, forza di gravit: niente di nuovo sotto il Sole!


CLAUDIO MAZZAGLIA

Che bello, Primavera! Non si fa neanche in tempo a dirlo, ed ecco che le cornacchie della siccit attaccano il loro motivetto. Anzi, neanche le cornacchie della siccit. Le cornacchie del clima, in generale! Piove? Moriremo affogati! Lagricoltura sullorlo del baratro! Danni per centomila milioni! Non piove? Moriremo bruciati e desertificati! Lagricoltura sullorlo del baratro! Danni per centomila milioni! (S, certe cose non cambiano, a prescindere dal clima). I cambiamenti climatici ci sono, chi lo nega? Ci sono sempre stati, per quanto mi riguarda, fin da quando esiste il pianeta. Non voglio buttarmi in una disputa sul riscaldamento globale, perch non sono uno specialista e potrei uscirne con le ossa rotte, e io delle mie ossa ho bisogno, grazie. Mi reggono la ciccia che, ahim, pesa sempre di pi Maledetta forza di gravit! Ecco, io ho deciso che per partecipare al coretto degli indignati, mi indigner contro la forza di gravit! Newton di merda! Scherzi a parte, ovvio che con la bella stagione i fiumi riducano la loro portata, sempre stato cos da che mondo mondo. Non giusto per che i TG indulgano ogni anno negli stessi servizi triti e ritriti sulla siccit, roba che potrebbero tranquillamente usare le immagini dellanno prima e non se ne accorgerebbe nessuno. E un discorso viscido, e vi spiego perch. Il problema non il clima e non sono i fiumi. Il problema sono i nostri acquedotti che fanno piet, che non trattengono abbastanza acqua o la distribuiscono male. In realt, avremmo abbastanza acqua per supplire anche ad unestate completamente secca. Ma la usiamo malissimo. Cos come non averla, perch aspettiamo sempre che ce la portino comodamente i fiumi. Invece dovremmo investire in strutture per la distribuzione dellacqua. Il perch ovvio: quella naturale andava bene quando in Italia ci vivevano 5-6 milioni di persone; facciamo 15-16 milioni, o anche 25-30 milioni, suvvia! Ma non oggi, non per unagricoltura cos intensiva e automatizzata, e cos capillarmente diffusa. In nome del Capitalismo, vogliamo sfruttare ogni fazzoletto libero di terreno? Benissimo! Ma non pretendiamo che anche la Natura sia capitalista! Suvvia, signori, fatemi il piacere! Newton di merda, maledetta gravit!

5 La poesia morta? Viva la poesia! A margine del caso Szymborska


ROBERTO MANDILE

Wisawa Szymborska, morta il 1 febbraio di questanno, stata la pi grande poetessa polacca del Novecento. Premio Nobel nel 1996, Szymborska ha goduto di una popolarit che, in tempi recenti, a pochi poeti toccata. In Italia, in particolare, la raccolta di tutti i suoi testi, pubblicata da Adelphi sotto il titolo La gioia di scrivere, ha ottenuto, nei giorni successivi alla scomparsa, un successo di vendite inaspettato, risultando addirittura, per qualche tempo, il libro pi venduto. Dando non pochi tormenti, come ha scritto Mariarosa Mancuso, agli intellettuali radical-chic, che hanno visto vacillare uno dei punti fermi del loro pensiero: Non leggo i libri in classifica. Che poi allexploit in libreria abbia contribuito la promozione fattane in tv, nel salotto radical-chic di Fabio Fazio, da Roberto Saviano, che ne ha citato alcuni versi, fonte di ulteriori
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turbamenti presso chi ancora sinterroga con smarrimento sulla convivenza, predicata come costituzionalmente impossibile, tra laltezza vertiginosa della poesia e la bassezza abissale della televisione. Ma la poesia di Wisawa Szymborska si prestata ad articolati dibattiti anche per la sua spudorata semplicit: i suoi versi sono comprensibili, chiari, limpidi, antinovecenteschi si direbbe, se si pensa agli sviluppi pi tipici, sperimentali e avanguardistici, che la poesia ha conosciuto nel secolo scorso. dunque ancora possibile capire la poesia? La tanto esecrata societ di massa non aveva decretato, irrimediabilmente, la separazione tra unarte difficile per pochi eletti e una letteratura di intrattenimento per i pi? A ben vedere, gi una quarantina danni fa, Wystan Hugh Auden, grande poeta comprensibilissimo, si era espresso contro lastrusit programmatica della poesia: No, Surrealisti, no! No: la pi sfrenata delle poesie deve anchessa, / come la prosa, avere un punto fermo nel solido buon senso (in Shorts II 1969-1971). Quanto seguito abbia avuto lappello difficile dirlo; pi facile riconoscere lo scarso interesse mostrato nei confronti della poesia dal grande pubblico, le cui esigenze di lirismo sono state ampiamente, e spesso egregiamente, soddisfatte dalla musica leggera, essa s pop, cio popolare. E ora che ci eravamo finalmente abituati ad accettare la morte della poesia, arriva il caso Szymborska a incrinare le nostre certezze, a scompigliare le nostre acquisizioni, a rimettere tutto in discussione. A partire da quella antica, radicata convinzione che, gi nella seconda met dellOttocento, Gustave Flaubert riportava nel suo Dizionario dei luoghi comuni alla voce Poesia: E del tutto inutile. E passata di moda.

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LULTIMA STANZA

In morte di Carlo Fruttero


ROBERTO MANDILE

Il primo incontro con la letteratura una faccenda soggettiva e accidentale, del tutto indipendente dal valore del libro incontrato. Ad altri, quel senso violento di scoperta, di sbalordimento, di eccitazione febbrile, quella incredibile visione di ricchezze a perdita docchio, sono venute attraverso Orazio o Plutarco, Ariosto, Shakespeare o DAnnunzio. A me - che pure avevo frequentato scolasticamente quegli autori illustri - fu Dos Passos a spalancare una volta per tutte le porte del grande deposito.

Cos Carlo Fruttero racconta, nel suo ultimo delizioso libro, Mutandine di chiffon. Memorie retribuite (2010), comera iniziato, negli anni della guerra, il suo amore per la letteratura. Carlo Fruttero morto lo scorso 15 gennaio, allet di 85 anni. Dici Fruttero e immediatamente pensi a Lucentini, al loro decennale sodalizio, iniziato negli anni 50 e proseguito per pi di trentanni. Fruttero & Lucentini, con la loro & orgogliosamente commerciale, hanno rappresentato un esempio pi unico che raro nel paesaggio della letteratura italiana del secondo Novecento (e, per quello che riguarda Fruttero, anche di questo scorcio di nuovo millennio). Il loro anticonformismo, il loro rifiuto di omologarsi ai riti e ai vezzi ideologici del milieu intellettuale (fece scandalo il loro abbandono di Einaudi per Mondadori negli anni 60, quando la casa editrice torinese era il centro culturale della sinistra letteraria italiana, ossia dellintellighenzia tout court dellepoca: si vedano, al riguardo, gli esilaranti racconti di Fruttero sempre in Mutandine di chiffon) sono il segnale di uneducazione che veniva da lontano, che aveva un respiro davvero internazionale, francese per certi versi, anglosassone per altri, se pensiamo alla loro attivit di traduttori di Beckett o di Stevenson, per limitarsi ai primi nomi che vengono alla mente. A F&L dobbiamo innanzitutto la sprovincializzazione della cultura italiana: merito loro non solo la diffusione della fantascienza nel nostro paese, grazie alla collana mondadoriana Urania, che i due diressero per pi di un ventennio tra gli anni Sessanta e la met degli anni Ottanta, ma anche, pi in generale, il superamento dell'antico pregiudizio, duro a morire presso gli intellettuali di casa nostra, nei confronti della cosiddetta letteratura di genere. Se oggi il giallo pu vedersi riconosciuta piena dignit letteraria, non c' dubbio che F&L abbiano pi di una responsabilit. Certo, c alle spalle il magistero gaddiano del Pasticciaccio, c' la produzione di Sciascia, ma soprattutto grazie ai capolavori di F&L, da La donna della domenica (1972) a A che punto la notte (1979), da Il palio delle contrade morte (1983) a Enigma in luogo di mare (1991), fino a Donne informate sui fatti (2006) e Ti trovo un po pallida (2007) del solo Fruttero, che possiamo dire di avere forse definitivamente superato una radicata atavica diffidenza nei confronti di generi che a lungo sono stati considerati ai margini della letteratura seria. Attraverso la loro attivit pi propriamente letteraria, che ha toccato il poliziesco, il mistery, il fantasy, ma anche mediante la loro sterminata produzione di articoli e saggi (meritano un cenno almeno le raccolte La prevalenza del cretino, 1985 e Il ritorno del cretino, 1992), si pu dire che F&L abbiano dato forma a un unico grande libro sulla natura umana, che ciascuno scrittore, specie se aspirante, dovrebbe venerare con la devozione che si deve ai classici e ciascun lettore, specie se medio, dovrebbe conservare nella sua biblioteca tra i volumi pi preziosi.
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La perfetta padronanza dei meccanismi narrativi, la filologica cura per la ricerca della parola in grado di restituire un carattere, di evocare una situazione, e al tempo stesso il totale disinteresse per il bello stile fine a s stesso, la lucidissima capacit di cogliere la stupidit e di restituirla in tutta la sua evidenza sono state - e sono ancora - una boccata daria fresca per tutti noi che ci siamo innamorati della letteratura. Con Carlo Fruttero abbiamo perso un altro pezzo dironia. Restano, per fortuna, i suoi libri a restituirci ogni volta, come solo la letteratura sa fare, quel senso violento di scoperta, di sbalordimento, di eccitazione febbrile, quella incredibile visione di ricchezze a perdita docchio di cui non possiamo fare a meno.

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Botta e risposta con la Lanterna di Born


Spazio dedicato alle opinioni, alle critiche e alle domande (cui cercheremo sempre di dare adeguata risposta) di voi lettori. Su questo numero, ospitiamo con grande piacere la domanda che il lettore Fabio Bonfrisco ci ha posto a proposito di Lost:
Gentile direttore, ho molto apprezzato l'articolo su Lost comparso nellultimo numero della Lanterna di Born a firma Roberto Mandile. Se possibile, mi piacerebbe porre allAutore dellarticolo una domanda: Lost pu essere accostabile alla feuilletonistica del XIX secolo? Intendo per la proliferazione della trama e delle tante sottotrame, a volte secondo me improvvisate di stagione in stagione. A me non sembrato che il plot fosse chiuso, come invece capita in altri serial e telefilm dove tutto programmato fin dallinizio, oppure nei film, dove tutto DEVE essere programmato... Lost ha vissuto un po di vita propria: lei daccordo? E in che misura si adattato alle attese degli spettatori secondo lei? Oppure le ha volute evitare appositamente? Ringrazio per lattenzione. Fabio Bonfrisco

Risponde Roberto Mandile

Laccostamento delle serie al feuilleton un punto fermo ormai nellanalisi di questo genere televisivo. Se ne occupa bene Aldo Grasso, nel suo Buona maestra (Mondadori, Milano, 2007) al quale ho attinto anche nel mio articolo. A pag. 14 Grasso, che rimanda pure a un libro di Daniela Cardini (La lunga serialit. Origini e modelli, Carocci, Roma, 2004), scrive:
Proprio il grande feuilleton (tipo Il circolo Pickwick di Charles Dickens o I misteri di Parigi di Eugne Sue) un genere cerniera di grande interesse: rappresenta il momento in cui lautore, in quanto artista, cede le armi e le pretese, e il romanzo diventa una sorta di catena di montaggio per la produzione di gratificazioni incessanti e rinnovabili (la pi celebre delle quali quella promessa di rivelazioni che normalmente chiude un episodio e procede all'apertura di altre nuove strade, il continua). Il feuilleton non si preoccupa soltanto di seguire i dettami del buon narrare ma introduce, puntata dopo puntata, artifici di comodo che ritroveremo poi nelle saghe di fumetti e nelle serie televisive.

E proprio nella struttura costituzionalmente aperta che le serie televisive hanno saputo, come lo stesso Grasso argomenta altrove, fare giustizia dell'idea di Autore per proporsi come un prodotto capace di rispondere alle esigenze e alle sollecitazioni delle reti televisive e, dunque, degli spettatori. Mentre un film unopera finita, chiusa nel momento stesso in cui viene pensata, girata e vista, una serie televisiva un cantiere, un laboratorio di creativit collettiva in cui sceneggiatori, registi, attori e anche spettatori sono legati da una trama di rapporti molto pi elastica. Sul piano strettamente narrativo, questo significa che una serie in grado di ricalibrarsi continuamente, correggendosi e indirizzandosi di volta in volta verso strade che, all'inizio, non erano previste n prevedibili. E chiaro che, talvolta, come nel caso di Lost, questo riesce e la serie in grado di mantenere alti livelli di attenzione e di interesse, ossia di crescere e di migliorarsi; in altri casi, invece, questo miracolo non avviene, le serie si chiudono su s stesse e, laddove viene a mancare la presa sul pubblico, possono finire bruscamente dopo poche stagioni. Quanto a Lost, le vicende produttive (che si trovano ben riassunte su Wikipedia) testimoniano come la pianificazione iniziale sia andata incontro a revisioni, modifiche, aggiustamenti in corsa, dovuti da un
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lato alle richieste della ABC, intenzionata, com facile comprendere, a prolungare la serie, dallaltro a eventi imprevedibili come lo sciopero degli sceneggiatori del 2007-2008. Se, insomma, facile immaginare che il soggetto di Lost fosse gi ben presente a J.J. Abrams, a Damon Lindelof e a Jeffrey Lieber, i creatori della serie (c' anche chi li ha accusati di plagio, rivendicando di aver ideato la storia gi nel 1977), mi pare altrettanto indubitabile che lo sviluppo della trama, con le sue diramazioni, le sue divagazioni e i suoi colpi di scena (non tutti, in verit, risolti), abbia seguito percorsi non totalmente programmati. Il fascino di Lost, come di qualunque serie ben riuscita, non risiede, d'altronde, soltanto nelle sue pieghe testuali, nella scrittura, nell'interpretazione, nella regia, ma si nutre della capacit di creare, per riflesso, una vasta eco di suggestioni extra-testuali. In questo gioco di rimandi continui, come si diceva, il confine tra chi fa la storia dall'interno e chi, in qualche modo, la orienta e la indirizza dall'esterno si fa assai labile. La stessa logica di mercato della domanda e dell'offerta, sulla quale stata costruita lindustria cinematografica hollywoodiana, si ritrova nell'industria televisiva americana, dove i network, dalla ABC alla HBO, dalla NBC alla Fox, affidano anche alle serie il compito di definire il proprio brand, in un connubio spesso felice tra riconoscibilit e affari, tra qualit e quantit. Qualcosa, sia detto in conclusione, di molto lontano dalla mentalit ristretta con cui la fiction, in genere, viene pensata e realizzata in Italia. Sar per questo che molte delle migliori serie americane faticano a trovare spazio nel nostro Paese sulla tv generalista: si pu dire con una certa sicurezza che, se Lost ha avuto successo anche da noi, non stato per merito di Rai2 che, quando trasmise in chiaro la prima stagione nel 2004, la lanci sullonda del successo de Lisola dei famosi (che era iniziata lanno prima), come se i due prodotti fossero accostabili sulla base di superficiali somiglianze nellambientazione. Gli ascolti di Lost non furono soddisfacenti e, negli anni successivi, la serie stata programmata senza alcuna cura per il prodotto (trasmissione di tre puntate alla volta, mancato rispetto della successione degli episodi), finch le ultime stagioni sono state trasmesse nei mesi, televisivamente meno appetibili, di luglio e agosto. Se la serie fosse stata prodotta in Italia, c da credere che a stento sarebbe durata un paio danni.

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(dalla prima) il numero che avete tra le mani, o meglio, sotto gli occhi, visto che la natura cartacea, perlopi, non ci appartiene. Un numero che definirei, a suo modo, incentrato sullecologismo e sul rapporto tra lUomo e la Natura, un tema assai dibattuto, in ogni epoca, e da fior di letterati e filosofi. Il gruppo di statue che abbiamo messo in copertina, col dio Pan che interagisce con Afrodite ed Eros gli dei pi pulsionali, assieme al misterioso Dioniso, del Pantheon greco la dice lunga sulle nostre intenzioni: riflettere il pi possibile approfonditamente sulla Natura e sullevolversi del suo concetto rispetto alla dimensione umana dal Paganesimo al Cristianesimo, dal lontano passato alloggi. Il bellissimo racconto, che ospitiamo nella sezione Letteratura, del nostro insostituibile Roberto Mandile, neanche a farlo apposta riflette sulla cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, ovvero sulla primigenia incrinatura del rapporto tra lUomo e il mondo creato per lui. Dico neanche a farlo apposta perch, come vedrete, si tratta dellopera omnia in prosa di Roberto, per cui non frutto di una ponderata scelta tra centinaia di racconti e migliaia di pagine! E un caso, che Roberto abbia scelto proprio questo affascinante tema per il suo esordio nel mondo del racconto di fiction. Per tutti i dettagli in merito, oltre che alla lettura del racconto stesso, vi lascio alle poche pagine introduttive che abbiamo ritenuto di dedicargli. Insomma, riflettiamo soprattutto sulla Natura e sul modo degli uomini di viverla, o di non-viverla pi. Nel segno di Pan e nel segno di James Hillman, scomparso pochi mesi fa e a proposto del quale vi preannunciavamo, sul numero scorso, un corposo articolo. Ebbene, eccolo, lo trovate a pagina 15, una mia personale riflessione a partire dal Saggio su Pan di Hillman, e attraverso tutta una serie di suggestioni che vi invito a prendere, appunto, come tali. Non, dunque, come verit eterne e assodate, ma come suggerimenti, spunti di riflessione, ipotesi. Connessioni che in certi casi possono aprire nuove strade interpretative su problematiche gi assai dibattute, e molto meglio, da ben altri scrittori. Uno su tutti, Giacomo Leopardi, che nel trattare il tema del rapporto tra lUomo e la Natura ha prodotto alcune tra le sue pagine pi belle, tanto in prosa quanto in versi. Non a caso, chiudiamo il numero con una doverosa citazione di quel testo straordinario che La ginestra, splendida, dolente, efficacissima riflessione sullindifferenza della Natura, sulla durezza dellesistenza, e allo stesso tempo sulla sua pervicacia. Che dire di pi, circa la Natura, di quello che ha gi scritto Leopardi nel celeberrimo Dialogo della Natura e di un Islandese? Mi risolvo a conchiudere riflette lIslandese che tu sei nemica scoperta degli uomini , e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora cinsidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de tuoi figliuoli e, per dir cos, del tuo sangue e delle tue viscere. E la Natura, impassibile, replica: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? [] Sempre ebbi ed ho lintenzione a tuttaltro che alla felicit degli uomini o allinfelicit. Quando io vi offendo in qualunque modo o con qual si sia mezzo, io non me navveggo, se non rarissime volte. [] E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.1

Giacomo LEOPARDI, Operette morali (Feltrinelli 1993, pp. 121-122)

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Anche nello Zibaldone si trovano eccezionali riflessioni sul tema, a Leopardi de resto tanto caro, del confronto con la Natura. Ne citiamo una, a mo di esempio: La natura, per necessit della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale delluniverso, essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui di ogni genere e specie, chella d in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti. Ci, essendo necessaria conseguenza dellordine attuale delle cose, non d una grande idea dellintelletto di chi o fu autore di tale ordine.2 Se il rapporto Uomo-Natura, mediato principalmente dal pensiero di James Hillman, indubbiamente largomento che ha maggiormente animato questo numero della nostra rivista, non per certo lunico argomento che affrontiamo. Vi lascio perci alla, al solito straordinariamente acuta, riflessione di Roberto Mandile sulla scuola italiana, a partire dallultimo libro di quella scrittrice arguta che Paola Mastrocola. Un articolo dal sapore, se vogliamo, pi pratico, che certo interesser quelli tra i nostri lettori che hanno a che fare lavorativamente, o da genitori, col mondo della scuola. E poi abbiamo, ovviamente, uno dei nostri principali punti di forza, la critica cinematografica. Su questo numero lanciamo una nuova sezione, Scusate il ritardo, nella quale ospiteremo critiche a film che, negli anni o nei mesi scorsi, ci sono sfuggiti, e che abbiamo di recente recuperato. Una sezione che si presta molto, cari lettori, anche ai vostri suggerimenti. Scriveteci, fateci sapere di quali film, anche appunto un po passatelli!, vi piacerebbe leggere il commento ad opera di una delle nostre firme; se sar possibile, vi accontenteremo. A proposito di firme, peraltro, con molta gioia che do il benvenuto a Manuela Landini, che esordisce sulle pagine della Lanterna di Born con la critica a The Reader, il film di Stephen Daldry che ha fruttato lOscar a Kate Winslet come migliore attrice protagonista. Manuela giornalista di professione, e appassionata di cinema da tanti di quegli anni che la sua competenza in materia non in discussione. Ciononostante, ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie per convincerla ad entrare in squadra, dato che la sua innata modestia la portava a pensare di non essere allaltezza. Ma la verit che non c unaltezza definita per entrare nel tremolante cerchio di luce della Lanterna di Born. Bisogna solo averne voglia, bisogna avere voglia di interrogarsi sulle cose e di rifletterci, e magari proporre per iscritto le proprie riflessioni, avere il coraggio questo s di sottoporle al giudizio, sempre acuto e appuntito!, di voi lettori. Vi auguro dunque buona lettura, un pezzettino alla volta, quando avrete tempo e voglia di entrare anche voi, per un momento, nel nostro cerchio di luce, nella luce tremolante e mai abbagliante che la Lanterna di Born cerca di gettare sulle cose, sulla Natura come sui film, sulla scuola italiana come sul mondo del calcio, o sullannoso problema della siccit, o sulla crisi del cinema italiano S, tutti argomenti che, a diverso titolo e in diversi modi, troverete affrontati nei pezzi che compongono questo numero. Da parte mia, lappuntamento alla prossima uscita, verosimilmente in luglio. Stavolta ad essere puntuali ce labbiamo fatta. E stato un caso o sapremo ripeterci? Seguiteci, e lo scoprirete! Matteo Fontana

Giacomo LEOPARDI, Zibaldone di pensieri (Donzelli, 2003)

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Linvio via e-mail di questa rivista gratuito e opzionale. La rivista non contiene informazioni o proposte commerciali di alcun genere. Potete richiedere di essere esclusi da successivi invii mandando una e-mail a lanternadiborn@libero.it con oggetto: Richiesta di cancellazione.

Uomo e Natura
Nobil natura quella Che a sollevar sardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra s nel soffrir, N gli odii e lire Fraterne, ancor pi gravi Dogni altro danno, accresce Alle miserie sue, luomo incolpando Del suo dolor, ma d la colpa a quella Che veramente rea, che dei mortali Madre di parto e di voler matrigna. Giacomo Leopardi (La Ginestra, vv. 110-125)

Numero 8

La lanterna di Born
Fascicolo 63-66

Maggio 2012

Direttore MatteoFontana Hannocollaboratoaquestonumero ManuelaLandini,ClaudioMazzaglia

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