In Italia oggi la questione del museo è molto battuta, sebbene
solitamente inquadrata nei termini tecnico-burocratici di una più o meno oculata gestione, in bilico tra centralismo ed enti locali, di autonomia finanziaria e di servizi aggiuntivi, oppure ancora di scelte museografiche, di ordinamento tassonomico, cronologico o tematico, di comunicazione e didattica, ecc. Se invece si passa a un livello di implicazioni etiche, allora il discorso viene subito risucchiato dalla retorica del “patrimonio”, a cui hanno attinto e continuano ad attingere accademici e funzionari, certamente, nonché politici, ministri e governi di ogni colore.
Il museo assolve diverse mansioni: disciplina le pratiche dello
sguardo, propone modelli di comportamento, coltiva la virtù pubblica e il dialogo civile, favorisce l'industria e il consumo, e così via. Non importa quanto noioso o seducente possa apparire, il museo resta comunque una istituzione basilare del mondo moderno occidentale, perché lavora alla coesione sociale attraverso la costruzione e la trasmissione di una memoria collettiva di valori simbolici, necessari all’individuo per attribuire un senso coerente alla realtà in cui vive e cui partecipa. In altre parole, il museo influenza l’esistenza di tutti i membri di una società, a prescindere dalla loro consapevolezza o approvazione.
Ovviamente, s’intende qui il museo in un’accezione ampia, di
grande dispositivo per la raccolta, la conservazione e l’esposizione dei prodotti artisticamente rilevanti di una comunità. Si parla, cioè, di un apparato che abbraccia virtualmente l’intera «industria culturale» – persone, edifici, discorsi, regolamenti, dottrine, ecc. – e nel quale convergono raccordandosi il collezionismo privato e pubblico, il mercato, le politiche statali.
Superfluo quanto indispensabile, il museo ha conosciuto in anni
recenti un’enorme diffusione, con un incremento esponenziale nel numero di edifici e siti dedicati. Ciononostante, benché ormai di uso comune, il concetto di museo è relativamente giovane e ha trovato piena esplicitazione soltanto nel corso degli ultimi due secoli. Straripante è oggi la bibliografia sul tema, esiguo però il novero dei testi irrinunciabili.
Il museo è un luogo assolutamente bizzarro, animato al suo
interno da ambiguità e contraddizioni, che però è in grado di produrre profondi e duraturi effetti non solo culturali e artistici ma anche politici, economici e morali sulla vita delle persone.
E la sua storia è prima di tutto e soprattutto la storia degli
individui, dei gruppi e delle società che l’hanno reso una componente essenziale della civiltà odierna.
Il successo dell’istituzione museale si deve a una serie di
fattori concomitanti legati allo sviluppo dell’Europa moderna a partire dal XV secolo. Mentre sul piano antropologico, il museo sorge come variante particolare della “collezione”: la pratica dell’accumulare insiemi di oggetti, naturali o artificiali, estraendoli da un circuito di attività utilitaristiche per sottoporli a tutela ed esibirli allo sguardo di un pubblico più o meno limitato in un luogo appositamente destinato.
La pratica della collezione è in effetti ancestrale e
universale, perché le società umane stabiliscono da sempre uno scambio tra il visibile e l’invisibile, di cui la collezione è a un tempo segno, strumento e prodotto. Questo perché l’oggetto raccolto, sacralizzato, diventa un mezzo per parlare dei morti come se fossero vivi, di eventi passati come se fossero presenti, di ciò che è distante come se fosse vicino, e di ciò che è nascosto come se fosse palese.
Perciò il contenuto della collezione, come pure i relativi
criteri di selezione, conservazione, catalogazione ed esposizione, nonché le competenze e gli obblighi di chi se ne prende cura, possono variare in funzione delle credenze socialmente condivise e storicamente determinate circa il volubile rapporto dell’uomo con l’invisibile, vale a dire con qualunque cosa che in quanto reale ma inaccessibile ai sensi diviene materia di una credenza.
È abbastanza evidente che l’idea di museo – inteso come luogo
di culto paragonabile a un santuario nel quale una comunità raccoglie e custodisce gli oggetti che ritiene preziosi per la propria identità – si apparenta all’idea arcaica di “tesoro”, di cui sono esempi gli arredi e corredi delle antiche tombe regali egizie o cinesi, dei templi ellenistici e delle sontuose dimore patrizie romane. E il tesoro, il cui valore era strettamente proporzionato al pregio dei materiali che lo costituivano o dei reliquiari che lo contenevano, è stato elemento comune a ogni cultura dove il potere ha avuto carattere sacro.
Dal tesoro deriva quindi la “collezione privata”, a lungo
privilegio dell’aristocrazia o dell’alto clero: una forma esclusiva di accumulazione contraddistinta da uno speciale legame affettivo, per lo più irrazionale, tra il collezionista e gli oggetti raccolti. In termini cronologici dunque il museo non è che il penultimo anello nell’avventura millenaria del collezionismo, di cui avrebbe ribaltato in senso egalitario l’originaria valenza simbolica: da rappresentazione di un potere eterno, personale o di casta, a bene pubblico accessibile a chiunque, senza distinzioni di classe.
In questa accezione, il primo museo – sebbene allora non
venisse definito tale – nacque a Roma sotto il pontificato di Sisto VI, quando un gruppo di statue antiche già in Laterano venne traslato in Campidoglio, il 15 dicembre 1471. Da allora e per circa duecento anni il museo è rimasto una questione culturale tutta italiana, e grazie al lavoro di eruditi come Paolo Giovio ha gradualmente affinato il proprio significato differenziandosi da altre forme collezionistiche, come gli studioli o i gabinetti di mirabilia. In seguito, tra il XVI e il XVII secolo, il museo ha valicato le Alpi, propagandosi dapprima nell’occidente cristiano erede della cultura latina e poi nel resto d’Europa. In questo progresso ha inciso in maniera determinante all’estero come in Italia la comparsa degli orti botanici e delle raccolte di scienze naturali.
È chiaro che quella del museo è una vicenda fatta di guerre e
diplomazia, donazioni e confische, furti e ritrovamenti, razzie e occasionali restituzioni. Se infatti, da una parte, le condizioni necessarie alla proliferazione dei musei sono state la pace, la stabilità politica e un’economia in grado di produrre un surplus sufficiente a finanziare le arti, d’altro canto è evidente che le guerre, attraverso saccheggi e dispersioni di grandi patrimoni, abbiano in più circostanze favorito la formazione di nuclei collezionistici tuttora importanti.
Il museo appare quando la religione perde la sua forza di
persuasione collettiva a favore delle ideologie e decadono i vecchi divieti che vincolano i costumi. È un luogo secolare che sopprimendo l’aura mistica degli oggetti li sottrae al culto religioso ma li consacra in chiave laica, convertendoli in opere da ammirare. Contano, o dovrebbero contare, solo le qualità artistiche, estetiche o testimoniali.
Ancora. Il museo è un’istituzione emblematica del processo di
modernizzazione del mondo e delle resistenze che questo stesso processo inevitabilmente incontra. In altre parole, dato che in ogni società moderna si generano di continuo fratture a più livelli – filosofico, economico, tecnologico, etico, ecc. –, il museo garantisce la coesione sociale tramite un’azione mai definitiva di raccordo tra passato e presente finalizzata alla trasmissione della memoria a una posterità indefinitamente distante. Orientato verso l’avvenire, affacciato sul presente.
Ma il compito, distintivo e fondante, di difendere la memoria
collettiva dall’erosione dei tempi e dalla malizia degli uomini non si concilia automaticamente con l’altrettanto inderogabile impegno a mostrare ogni oggetto raccolto. Di qui gli annosi dilemmi che ben conoscono gli esperti del settore.
Malgrado il neoliberismo punti oggi a sottomettere arte e
cultura alla ragione economica, il museo pubblico resta una istituzione importante, strategica, se non altro in quanto fonte di prestigio e veicolo promozionale. Nato come strumento di legittimazione e propaganda degli interessi delle classi dominanti, il museo ha servito dapprima l’aristocrazia, poi la borghesia e infine si è reincarnato come “tempio populista dello svago”.
Esistono vari tipi di musei, ma il requisito fondamentale è una
collezione da conservare, tramandare e comunicare; e siccome organizzare una collezione significa necessariamente strutturare una narrazione, la visita di un museo è sempre l’esperienza di una visione ideologica. Al di là dei problemi legali e gestionali, e prima dei troppo spesso stucchevoli dibattiti su allestimenti, illuminazione o restauro, esporre opere d’arte significa inserirle in un ordine concettuale concretato da uno spazio architettonico, ovvero iscriverle nell’ideologia che presiede alla creazione e alla vita del dispositivo museale.
Sebbene nella nozione di museo rientri qualsiasi spazio
espositivo, galleria o collezione d’arte, antica e moderna, è indubbio che il terreno privilegiato per la verifica empirica di nuove idee in materia di industria culturale sia il contemporaneo, perché niente meglio dell'arte contemporanea con la sua incessante proliferazione di forme in rapido cambiamento permette di scoprire e testare nuove possibilità.
Così, al museo d’arte contemporanea spetta l’incombenza di
comporre la propria collezione pescando nel magma del presente; mansione che lo obbliga alla promiscuità con il mercato, i collezionisti e le gallerie private.
La vitalità del contemporaneo deriva storicamente dall’opera
delle avanguardie e delle neoavanguardie del XX secolo, che hanno eliminato ogni coordinata fissa, svincolando l’arte dalla dipendenza a costellazioni prestabilite di valori e significati. Ed è questa volatilità dei valori che meglio di ogni argine cronologico descrive il “contemporaneo” e lo rende vitale, cioè conflittuale e incoerente. D’altronde, in un certo ironico senso, lo sviluppo dell’arte ricalca alla perfezione quello del libero flusso del capitale.
La proliferazione di musei del contemporaneo tra la fine del XX
e l'inizio del XXI secolo – la stagione delle archistar – è andata di pari passo con la progressiva privatizzazione dei musei stessi. Nel frattempo si è transitati da un criterio cronologico di ordinamento delle collezioni a uno tematico. «Nel modello del museo moderno, di cui il MoMA è l’esempio principe, la narrazione guida è il tempo storico lineare, che precede in avanti seguendo un orizzonte al centro del quale vi è l’Occidente; il suo dispositivo di enunciazione è il white cube, pensato per il concetto moderno di pubblico. Nel museo postmoderno, esemplificato dalla Tate Modern e dal Centre Pompidou, l'impianto concettuale è il multiculturalismo, visto nell'equazione tra contemporaneità e diversità globale; la sua struttura di mediazione è il marketing, che si indirizza a diverse fasce di popolazione, ciascuna con un preciso peso economico» (C. Bishop).
È stata una transizione favorita dagli artisti. Perché il
rifiuto avanguardista di un’idea autorevole di storia e la critica istituzionale portata avanti più tardi dalla neoavanguardia hanno creato le premesse per una programmazione espositiva condizionata dall’obsolescenza delle merci e dalla successione delle mode. Il relativismo appiattisce tutti gli stili e le opinioni sul valore di scambio e così risponde perfettamente alle sollecitazioni del mercato per l’adeguamento dell’arte al flusso immateriale del capitale; inoltre esonera curatori e conservatori dalla responsabilità di esprimere una posizione precisa.