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APPUNTI SUL MUSEO

Paolo Martore

In Italia oggi la questione del museo è molto battuta, sebbene


solitamente inquadrata nei termini tecnico-burocratici di una
più o meno oculata gestione, in bilico tra centralismo ed enti
locali, di autonomia finanziaria e di servizi aggiuntivi,
oppure ancora di scelte museografiche, di ordinamento
tassonomico, cronologico o tematico, di comunicazione e
didattica, ecc. Se invece si passa a un livello di implicazioni
etiche, allora il discorso viene subito risucchiato dalla
retorica del “patrimonio”, a cui hanno attinto e continuano ad
attingere accademici e funzionari, certamente, nonché politici,
ministri e governi di ogni colore.

Il museo assolve diverse mansioni: disciplina le pratiche dello


sguardo, propone modelli di comportamento, coltiva la virtù
pubblica e il dialogo civile, favorisce l'industria e il
consumo, e così via. Non importa quanto noioso o seducente
possa apparire, il museo resta comunque una istituzione
basilare del mondo moderno occidentale, perché lavora alla
coesione sociale attraverso la costruzione e la trasmissione di
una memoria collettiva di valori simbolici, necessari
all’individuo per attribuire un senso coerente alla realtà in
cui vive e cui partecipa. In altre parole, il museo influenza
l’esistenza di tutti i membri di una società, a prescindere
dalla loro consapevolezza o approvazione.

Ovviamente, s’intende qui il museo in un’accezione ampia, di


grande dispositivo per la raccolta, la conservazione e
l’esposizione dei prodotti artisticamente rilevanti di una
comunità. Si parla, cioè, di un apparato che abbraccia
virtualmente l’intera «industria culturale» – persone, edifici,
discorsi, regolamenti, dottrine, ecc. – e nel quale convergono
raccordandosi il collezionismo privato e pubblico, il mercato,
le politiche statali.

Superfluo quanto indispensabile, il museo ha conosciuto in anni


recenti un’enorme diffusione, con un incremento esponenziale
nel numero di edifici e siti dedicati. Ciononostante, benché
ormai di uso comune, il concetto di museo è relativamente
giovane e ha trovato piena esplicitazione soltanto nel corso
degli ultimi due secoli. Straripante è oggi la bibliografia sul
tema, esiguo però il novero dei testi irrinunciabili.

Il museo è un luogo assolutamente bizzarro, animato al suo


interno da ambiguità e contraddizioni, che però è in grado di
produrre profondi e duraturi effetti non solo culturali e
artistici ma anche politici, economici e morali sulla vita
delle persone.

E la sua storia è prima di tutto e soprattutto la storia degli


individui, dei gruppi e delle società che l’hanno reso una
componente essenziale della civiltà odierna.

Il successo dell’istituzione museale si deve a una serie di


fattori concomitanti legati allo sviluppo dell’Europa moderna a
partire dal XV secolo. Mentre sul piano antropologico, il museo
sorge come variante particolare della “collezione”: la pratica
dell’accumulare insiemi di oggetti, naturali o artificiali,
estraendoli da un circuito di attività utilitaristiche per
sottoporli a tutela ed esibirli allo sguardo di un pubblico più
o meno limitato in un luogo appositamente destinato.

La pratica della collezione è in effetti ancestrale e


universale, perché le società umane stabiliscono da sempre uno
scambio tra il visibile e l’invisibile, di cui la collezione è
a un tempo segno, strumento e prodotto. Questo perché l’oggetto
raccolto, sacralizzato, diventa un mezzo per parlare dei morti
come se fossero vivi, di eventi passati come se fossero
presenti, di ciò che è distante come se fosse vicino, e di ciò
che è nascosto come se fosse palese.

Perciò il contenuto della collezione, come pure i relativi


criteri di selezione, conservazione, catalogazione ed
esposizione, nonché le competenze e gli obblighi di chi se ne
prende cura, possono variare in funzione delle credenze
socialmente condivise e storicamente determinate circa il
volubile rapporto dell’uomo con l’invisibile, vale a dire con
qualunque cosa che in quanto reale ma inaccessibile ai sensi
diviene materia di una credenza.

È abbastanza evidente che l’idea di museo – inteso come luogo


di culto paragonabile a un santuario nel quale una comunità
raccoglie e custodisce gli oggetti che ritiene preziosi per la
propria identità – si apparenta all’idea arcaica di “tesoro”,
di cui sono esempi gli arredi e corredi delle antiche tombe
regali egizie o cinesi, dei templi ellenistici e delle sontuose
dimore patrizie romane. E il tesoro, il cui valore era
strettamente proporzionato al pregio dei materiali che lo
costituivano o dei reliquiari che lo contenevano, è stato
elemento comune a ogni cultura dove il potere ha avuto
carattere sacro.

Dal tesoro deriva quindi la “collezione privata”, a lungo


privilegio dell’aristocrazia o dell’alto clero: una forma
esclusiva di accumulazione contraddistinta da uno speciale
legame affettivo, per lo più irrazionale, tra il collezionista
e gli oggetti raccolti. In termini cronologici dunque il museo
non è che il penultimo anello nell’avventura millenaria del
collezionismo, di cui avrebbe ribaltato in senso egalitario
l’originaria valenza simbolica: da rappresentazione di un
potere eterno, personale o di casta, a bene pubblico
accessibile a chiunque, senza distinzioni di classe.

In questa accezione, il primo museo – sebbene allora non


venisse definito tale – nacque a Roma sotto il pontificato di
Sisto VI, quando un gruppo di statue antiche già in Laterano
venne traslato in Campidoglio, il 15 dicembre 1471. Da allora e
per circa duecento anni il museo è rimasto una questione
culturale tutta italiana, e grazie al lavoro di eruditi come
Paolo Giovio ha gradualmente affinato il proprio significato
differenziandosi da altre forme collezionistiche, come gli
studioli o i gabinetti di mirabilia. In seguito, tra il XVI e
il XVII secolo, il museo ha valicato le Alpi, propagandosi
dapprima nell’occidente cristiano erede della cultura latina e
poi nel resto d’Europa. In questo progresso ha inciso in
maniera determinante all’estero come in Italia la comparsa
degli orti botanici e delle raccolte di scienze naturali.

È chiaro che quella del museo è una vicenda fatta di guerre e


diplomazia, donazioni e confische, furti e ritrovamenti, razzie
e occasionali restituzioni. Se infatti, da una parte, le
condizioni necessarie alla proliferazione dei musei sono state
la pace, la stabilità politica e un’economia in grado di
produrre un surplus sufficiente a finanziare le arti, d’altro
canto è evidente che le guerre, attraverso saccheggi e
dispersioni di grandi patrimoni, abbiano in più circostanze
favorito la formazione di nuclei collezionistici tuttora
importanti.

Il museo appare quando la religione perde la sua forza di


persuasione collettiva a favore delle ideologie e decadono i
vecchi divieti che vincolano i costumi. È un luogo secolare che
sopprimendo l’aura mistica degli oggetti li sottrae al culto
religioso ma li consacra in chiave laica, convertendoli in
opere da ammirare. Contano, o dovrebbero contare, solo le
qualità artistiche, estetiche o testimoniali.

Ancora. Il museo è un’istituzione emblematica del processo di


modernizzazione del mondo e delle resistenze che questo stesso
processo inevitabilmente incontra. In altre parole, dato che in
ogni società moderna si generano di continuo fratture a più
livelli – filosofico, economico, tecnologico, etico, ecc. –, il
museo garantisce la coesione sociale tramite un’azione mai
definitiva di raccordo tra passato e presente finalizzata alla
trasmissione della memoria a una posterità indefinitamente
distante. Orientato verso l’avvenire, affacciato sul presente.

Ma il compito, distintivo e fondante, di difendere la memoria


collettiva dall’erosione dei tempi e dalla malizia degli uomini
non si concilia automaticamente con l’altrettanto inderogabile
impegno a mostrare ogni oggetto raccolto. Di qui gli annosi
dilemmi che ben conoscono gli esperti del settore.

Malgrado il neoliberismo punti oggi a sottomettere arte e


cultura alla ragione economica, il museo pubblico resta una
istituzione importante, strategica, se non altro in quanto
fonte di prestigio e veicolo promozionale. Nato come strumento
di legittimazione e propaganda degli interessi delle classi
dominanti, il museo ha servito dapprima l’aristocrazia, poi la
borghesia e infine si è reincarnato come “tempio populista
dello svago”.

Esistono vari tipi di musei, ma il requisito fondamentale è una


collezione da conservare, tramandare e comunicare; e siccome
organizzare una collezione significa necessariamente
strutturare una narrazione, la visita di un museo è sempre
l’esperienza di una visione ideologica.
Al di là dei problemi legali e gestionali, e prima dei troppo
spesso stucchevoli dibattiti su allestimenti, illuminazione o
restauro, esporre opere d’arte significa inserirle in un ordine
concettuale concretato da uno spazio architettonico, ovvero
iscriverle nell’ideologia che presiede alla creazione e alla
vita del dispositivo museale.

Sebbene nella nozione di museo rientri qualsiasi spazio


espositivo, galleria o collezione d’arte, antica e moderna, è
indubbio che il terreno privilegiato per la verifica empirica
di nuove idee in materia di industria culturale sia il
contemporaneo, perché niente meglio dell'arte contemporanea con
la sua incessante proliferazione di forme in rapido cambiamento
permette di scoprire e testare nuove possibilità.

Così, al museo d’arte contemporanea spetta l’incombenza di


comporre la propria collezione pescando nel magma del presente;
mansione che lo obbliga alla promiscuità con il mercato, i
collezionisti e le gallerie private.

La vitalità del contemporaneo deriva storicamente dall’opera


delle avanguardie e delle neoavanguardie del XX secolo, che
hanno eliminato ogni coordinata fissa, svincolando l’arte dalla
dipendenza a costellazioni prestabilite di valori e
significati. Ed è questa volatilità dei valori che meglio di
ogni argine cronologico descrive il “contemporaneo” e lo rende
vitale, cioè conflittuale e incoerente. D’altronde, in un certo
ironico senso, lo sviluppo dell’arte ricalca alla perfezione
quello del libero flusso del capitale.

La proliferazione di musei del contemporaneo tra la fine del XX


e l'inizio del XXI secolo – la stagione delle archistar – è
andata di pari passo con la progressiva privatizzazione dei
musei stessi. Nel frattempo si è transitati da un criterio
cronologico di ordinamento delle collezioni a uno tematico.
«Nel modello del museo moderno, di cui il MoMA è l’esempio
principe, la narrazione guida è il tempo storico lineare, che
precede in avanti seguendo un orizzonte al centro del quale vi
è l’Occidente; il suo dispositivo di enunciazione è il white
cube, pensato per il concetto moderno di pubblico. Nel museo
postmoderno, esemplificato dalla Tate Modern e dal Centre
Pompidou, l'impianto concettuale è il multiculturalismo, visto
nell'equazione tra contemporaneità e diversità globale; la sua
struttura di mediazione è il marketing, che si indirizza a
diverse fasce di popolazione, ciascuna con un preciso peso
economico» (C. Bishop).

È stata una transizione favorita dagli artisti. Perché il


rifiuto avanguardista di un’idea autorevole di storia e la
critica istituzionale portata avanti più tardi dalla
neoavanguardia hanno creato le premesse per una programmazione
espositiva condizionata dall’obsolescenza delle merci e dalla
successione delle mode. Il relativismo appiattisce tutti gli
stili e le opinioni sul valore di scambio e così risponde
perfettamente alle sollecitazioni del mercato per l’adeguamento
dell’arte al flusso immateriale del capitale; inoltre esonera
curatori e conservatori dalla responsabilità di esprimere una
posizione precisa.

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