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RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XVI NUOVA SERIE - N.

47 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002

Manni Manni

Pubblicazione quadrimestrale promossa dal Dipartimento di filosofia dellUniversit degli Studi di Lecce, con la collaborazione del Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche con sede in Roma.
Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso il Dipartimento di Filosofia dellUniversit degli Studi di Lecce, e dello stesso Dipartimento.

Direttore responsabile: Giovanni Invitto


Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce), Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno), Antonio Ponsetto (Mnchen), Mario Signore (Lecce). Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Daniela De Leo, Lucia De Pascalis, Alessandra Lezzi.
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Stampato presso Tiemme - Manduria nel novembre 2002 - per conto di Piero Manni s.r.l.

SOMMARIO
5 R. Raggiunti GLI ATTI LINGUISTICI NEI LORO ASPETTI, SEMANTICO E PRAGMATICO 17 M. Fortuna RELIGIONE CRISTIANA E RELIGIONE APERTA. UN CONFRONTO CON ALDO CAPITINI 40 C. Fersini GENIO E DIMENSIONE ESTETICA IN SCHOPENHAUER. UNA PROPOSTA DI LETTURA 62 C. Stella DALLA CITT ALLA COSMOPOLI UN CAMMINO POSSIBILE 67 P. Miccoli I LUOGHI DELLANIMA DI MARIA ZAMBRANO 70 G. De Liguori PER G. MUCCIARELLI. POSITIVISMO PSICOLOGIA E STORIA 75 S. Ciurlia I LINGUAGGI DELLA RICERCA STORICA: I VOCABOLARI DI BRAUDEL 85 M. Spadavecchia IL DOPPIO VOLTO DELLA MENZOGNA. LA DIMENSIONE SOLIDALE DEL MENTIRE 95 Recensioni

NOTE PER GLI AUTORI

I contributi vanno inviati alla Direzione di Segni e comprensione c/o Dipartimento di Filosofia Via V. M. Stampacchia 73100 Lecce. I testi debbono essere inviati in duplice copia, su carta formato A4, dattiloscritta su una sola facciata, a doppia interlinea, senza correzioni a mano. Ogni cartella non dovr superare le duemila battute. Il testo deve essere inviato assolutamente anche su floppy disk, usando un qualsiasi programma che, per, dovr essere indicato (Word, Windows, McIntosh). Il materiale ricevuto non verr restituito. Per la sezione Saggi i testi non dovranno superare le venti cartelle comprese le note bibliografiche, per la sezione Note non dovranno superare le sette cartelle, per la sezione Recensioni e Notizie le tre cartelle. Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva il diritto di apportare eventuali modifiche che si rendessero necessarie, previa comunicazione e approvazione dellAutore. Agli Autori saranno inviate tre copie del fascicolo in cui appare il loro lavoro.

GLI ATTI LINGUISTICI NEI LORO DISTINTI ASPETTI, SEMANTICO E PRAGMATICO


di Renzo Raggiunti

Una prima definizione della pragmatica, perfettamente valida, la troviamo in Charles Morris, nei suoi Foundations of the Theory of signs1. In tale opera Morris definisce la pragmatica come il rapporto dei segni con gli interpreti. Tale definizione rimane, a mio avviso, un punto fermo dal quale non ci possiamo allontanare, se vogliamo stabilire un criterio univoco e coerente, che ci permetta di delimitare la sfera della pragmatica e di distinguerla dalla sfera semantica. Sulla base di tale criterio, dobbiamo considerare latto linguistico, non tanto in relazione a ci che viene detto, quanto in relazione alla partecipazione degli interpreti, parlante e ascoltatore. Non dobbiamo dimenticare che parlante e ascoltatore, nella loro partecipazione a ci che viene detto, assumono due posizioni diverse, due ruoli diversi. In ci consiste il carattere pragmatico dellatto linguistico. Austin, fra i filosofi del linguaggio, forse quello che ha posto in evidenza nella maniera pi incisiva, il carattere pragmatico degli atti linguistici, in special modo in relazione alla differente partecipazione del parlante e dellascoltatore. Basti pensare alla sua analisi degli enunciati performativi, nei quali latto linguistico si configura come unoperazione pratica, che riguarda il parlante in maniera diversa dallascoltatore, che partecipa anchesso a questa operazione pratica ma con una parte diversa rispetto a quella del parlante. Sulla base dello stesso concetto di performance, Austin ha sottoposto alla stessa analisi tutti i tipi di atti linguistici, ai quali ha attribuito una stessa rilevanza pragmatica, definendoli atti illocutori. La teoria degli atti illocutori stata poi accolta da Searle, il quale distingue, entro latto illocutorio, due elementi ugualmente necessari per il compimento dellatto stesso: quella parte dellenunciato che egli denomina indicatore della forza illocutiva e la parte dellenunciato che denomina contenuto proposizionale. Ad esempio, nellenunciato io prometto che partir, lindicatore della forza illocutiva rappresentato dal sintagma io prometto che, mentre il contenuto proposizionale costituito dalla proposizione io partir. Gi si delinea una distinzione di un aspetto semantico e di un aspetto pragmatico dello stesso atto linguistico, ma questi due aspetti non vengono distinti dallo studioso americano. Egli stabilisce semplicemente e soltanto le regole che riguardano i caratteri pragmatici delloperazione che stabilisce un certo rapporto fra il parlante e lascoltatore. A questo riguardo, potrei citare la regola (denominata da Searle di sincerit), che stabilisce che il parlante vuole compiere lazione che ha promesso (partire), oppure la regola secondo la quale lascoltatore dovrebbe preferire che il parlante compia piuttosto che non compia quella determinata azione, e il par-

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lante ritiene che lascoltatore dovrebbe preferire il suo compiere quellazione al suo non compierla2. Viene posta soltanto in evidenza la differente partecipazione operativa delluno e dellaltro. Ebbene Searle definisce queste regole come regole semantiche, dimostrando chiaramente che egli non ritiene di poter e dovere distinguere una semantica da una pragmatica degli atti linguistici. Ha reso cos pi difficile limpostazione e la soluzione dei problemi della semantica e della pragmatica degli atti linguistici. In una posizione, per certi aspetti, analoga, si trova Umberto Eco, il quale nel suo volume Semiotica e filosofia del linguaggio mostra di far propria la tesi di Bar-Hillel affermando: La pragmatica lo studio della dipendenza essenziale della comunicazione, nel linguaggio naturale, dal parlante e dallascoltatore, dal contesto linguistico e dal contesto extra-linguistico e dalla disponibilit delle conoscenze di fondo, e dalla buona volont dei partecipanti nellatto comunicativo3. evidente che qui, Eco, quando parla di regole di significazione contenute in una lingua L, egli intende regole semantiche e include nellambito delle regole semantiche anche le regole propriamente pragmatiche, e, perci, come Searle, non distingue la semantica dalla pragmatica, e include la pragmatica nella semantica degli atti linguistici. Rinuncia, cos, a una impostazione rigorosa del problema della semantica e della pragmatica degli atti linguistici. Non si compreso che latto di comunicazione pu costituire un solido fondamento per definire e distinguere rigorosamente semantica e pragmatica degli atti linguistici. Il problema della comunicazione stato trascurato da molti studiosi. Austin e Searle, che hanno maggiormente contribuito a porre in evidenza laspetto pragmatico dellatto linguistico, non si sono posti, in realt, il problema della comunicazione, anche se considerano la comunicazione come una condizione necessaria del realizzarsi dellatto illocutorio. Austin non va oltre laffermazione che la sicurezza della comprensione costituisce una delle condizioni del realizzarsi dellatto illocutorio. La posizione di Searle , per molti aspetti, simile a quella di Austin rispetto al problema della comunicazione. Per Searle ogni atto illocutorio deve avere anche la caratteristica di produrre sullascoltatore la comprensione dellenunciato del parlante. Searle ammette che la comprensione di un enunciato letterale avviene in virt di certe regole concernenti gli elementi della frase enunciata, regole della lingua ugualmente conosciuta dal parlante e dallascoltatore, ma non dice come esse rendano possibile la comunicazione. Nellopera Intentionality che esce nel 1983 la sua posizione non cambiata in relazione al problema della comunicazione. La semantica, come disciplina filosofica, deve rispondere a questo quesito: [] che cosa aggiunge lintenzione del parlante a quellevento fisico [lenunciazione], che rende quellevento fisico un caso in cui il parlante esprime un qualche significato per suo tramite?4. Rispetto a tale problema, che, per Searle, si identifica con il problema del significato, assume un valore secondario linterrogativo che viene posto dalla seguente domanda: che conoscenza deve avere un parlante perch si possa

dire che conosce una lingua, come il francese o linglese?. Tale questione non avrebbe, a suo avviso, nessuna connessione con il problema del significato. Eppure su tale conoscenza, che la conoscenza propriamente linguistica, fondata la possibilit stessa dellatto di comunicazione. Searle distingue i due aspetti delle intenzioni significanti, lintenzione di rappresentare e lintenzione di comunicare, e sostiene che non sia consentito, in sede di teoria degli atti illocutori, quelli che si determinano nellarea del cosiddetto discorso ordinario, separare il rappresentare dal comunicare. Perci, nellanalisi del discorso ordinario, poco credibile la sua tesi che una teoria del linguaggio deve essere in grado di spiegare come una persona possa fare unaffermazione ed essere del tutto indifferente rispetto al fatto che il suo pubblico le creda oppure no, o addirittura che il suo pubblico la comprenda5. Dobbiamo domandarci come potremmo, in relazione ad un ordine o ad una promessa, ad esempio, affermare che sia possibile il rappresentare senza il comunicare. certo che il problema della comunicazione considerato, da Searle, soltanto come un problema secondario, rispetto al problema semantico, che si identifica, a suo avviso con il problema dellIntenzionalit degli atti linguistici. Nellultima opera di Searle, scritta in collaborazione con Daniel Vanderveken, Foundations of illocutionary Logic, espressa una posizione analoga, riguardo allesigenza di definire i caratteri e i meccanismi dellatto di comunicazione. Qui lautore afferma che fra le condizioni che determinano la corretta comprensione di unespressione vi quella che il parlante deve usare la stessa lingua dellascoltatore. Non si preoccupa di spiegare che cosa significhi usare la stessa lingua dellascoltatore, quale differenza possa esserci fra la lingua, come strumento, e il suo uso; e neppure si preoccupa di spiegare come e per quali meccanismi luso della stessa lingua permetta ai parlanti di comunicare fra loro. E infine afferma che [] queste condizioni che sono alla base della comprensione sono di scarso interesse teoretico in un teoria degli atti linguistici [] e noi concentreremo la nostra attenzione sul parlante e su come la sua enunciazione soddisfa le altre condizioni per una esecuzione riuscita e non difettosa6. Riprendiamo ora il tema della proposta di un criterio di distinzione della semantica e della pragmatica degli atti linguistici; penso che tale distinzione possa essere fondata, in maniera rigorosa, sul concetto di comunicazione che ci permette di individuare i contenuti propriamente semantici. La questione pu essere affrontata opportunamente prendendo, anzitutto, in esame la struttura dellatto illocutorio, teorizzato da Austin e successivamente da Searle, due studiosi che, pur distinguendosi luno dallaltro nei criteri di impostazione e soluzione del problema dellatto illocutorio, hanno, entrambi, contribuito a porre in evidenza lo spessore pragmatico dellatto linguistico. Lespressione azione linguistica, unazione che si compie a mezzo delle parole ed inseparabile dalle parole, indica chiaramente la sfera pragmatica dellatto linguistico, i cui contenuti possono definirsi, in senso specifico, contenuti pragmatici dellatto linguistico. La promessa, ad esempio, rappresenta un tipo di atto illocutorio. Se il par-

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lante, rivolto ad un ascoltatore pronuncia la frase Io prometto che partir egli compie unazione linguistica diversa da quella che egli compie se pronuncia la frase Pietro partito. Laspetto pragmatico dellatto linguistico ci si rivela soltanto, se si considera latto linguistico, accogliendo il suggerimento di Morris, in rapporto alle differenti posizioni del parlante e dellascoltatore. Se il parlante, a mezzo delle parole, compie lazione del promettere, che consiste nellassumersi lobbligo di fare una certa cosa, nei confronti dellascoltatore, tale azione la compie il parlante e non lascoltatore. Il ruolo pragmatico dellascoltatore nettamente distinto da quello del parlante: una cosa fare una promessa, altra cosa pretendere che sia mantenuta. Questo differenziarsi degli atteggiamenti pratici del parlante e dellascoltatore in relazione al suddetto atto illocutorio, come a qualsiasi altro tipo di atto illocutorio, ci dimostrano chiaramente che latto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, si realizza sotto il segno della asimmetria dei ruoli e delle operazioni pratiche del parlante e dellascoltatore. Consideriamo ora laspetto semantico dellatto linguistico, di qualsiasi atto linguistico, in quanto atto di comunicazione, che coinvolge, allo stesso modo, il parlante e lascoltatore, determinando una situazione di perfetto equilibrio, di simmetria dei ruoli del parlante e dellascoltatore. Nellatto di comunicazione, i contenuti semantici debbono presentarsi identicamente al parlante e allascoltatore, ma necessario precisare che non vi nulla che privilegi certi contenuti come semantici, contrapponendoli ad altri contenuti non semantici. Si deve dire che la semantica del linguaggio naturale, nel discorso cosiddetto ordinario, non ha contenuti privilegiati, quali potrebbero essere, ad esempio, i contenuti apofantici, delle asserzioni vere o false, descrivibili in base a concetti logici. Alcuni studiosi come Gazdar e Kempson7 si trovano, erroneamente, in questa posizione e definiscono in questo modo la semantica, e assumono questo unico criterio per distinguerla dalla pragmatica. Non vi alcuna valida ragione per affermare che soltanto i contenuti apofantici, delle asserzioni vere o false, debbano essere considerati come contenuti semantici. La semantica del linguaggio ordinario, che si posta su questa strada, applicando un criterio rigidamente vero-funzionale, indotta a definire pragmatiche differenze che hanno, invece, un carattere squisitamente semantico: lenunciato Maria cagionevole di salute, ma intelligente avrebbe lo stesso significato semantico dellenunciato Maria cagionevole di salute ed intelligente, e soltanto un differente significato pragmatico. Si ha ragione di porre questa tesi che nega che i contenuti apofantici possano avere essi soli il privilegio della semanticit. In contrasto con una illustre tradizione logico-linguistica si ha ragione di affermare, da un diverso punto di vista, che non vi motivo alcuno, in sede di indagine sui contenuti del linguaggio ordinario, di limitare la nozione di significato al contenuto delle asserzioni, entro i limiti della nozione vero-funzionale. Daltra parte, anche la terminologia, quella delle origini, quella di Aristotele, sembra conferire validit alla tesi che la nozione di significato pi generale rispetto a quel significato specifico che attribuibile al discorso assertivo: infatti lo stesso Aristotele distingue la semanticit del discorso dalla sua eventuale apofanticit, e, in tal

modo, dimostra chiaramente che attribuisce un significato anche al discorso non assertivo. Un altro tentativo di privilegiare e di distinguere, entro la sfera del significato in senso lato, determinati contenuti o significati quello di coloro che8, distinguendo, in sede di linguistica teorica, competence e performance, langue e parole, identificano i contenuti semantici con i significati della lingua e quelli pragmatici con i contenuti o sensi degli atti di parole. Questa tesi, ovviamente, da respingere senza esitazione; e non per il fatto che la definizione del concetto di lingua, come entit distinta dallatto linguistico concreto, comporti delle difficolt. Se si coglie la distinzione di lingua, langue nella terminologia di De Saussure, competence in quella di Chomsky, e si ammette che si possa dare una definizione consistente e rigorosa di lingua, proprio la stessa definizione di lingua a fornirci le pi valide argomentazioni contro la tesi, che si rivela, cos, assurda, secondo la quale i contenuti semantici sarebbero i significati della lingua e quelli pragmatici i contenuti o sensi degli atti di parola. La lingua contiene, soltanto virtualmente, tutte le frasi possibili. Ma la lingua soltanto uno strumento, usando il quale si possono produrre tutti i significati possibili: sarebbe opportuno precisare che si tratta propriamente di sensi o significazioni, che si producono mediante i singoli atti linguistici, mediante la parole. Virtualmente tutto appartiene alla lingua, i singoli termini come le frasi, le quali richiedono determinate regole sintattiche. Ma se consideriamo le entit linguistiche, termini e regole sintattiche, nella loro concreta realizzazione, niente appartiene alla lingua, neppure i singoli termini, che si realizzano nellatto stesso in cui si realizzano le frasi. Ma prendiamo, ora, in considerazione una significativa distinzione, quella di enunciato e contesto di enunciazione. Possiamo affermare che non esistono enunciati privi di un contesto di enunciazione; possibile solo distinguere fra enunciati il cui significato non determinato o modificato dal contesto di enunciazione. Sulla base di questa distinzione, si affermato che la semantica tratterebbe solo dei significati degli enunciati che non sono determinati dal contesto di enunciazione, mentre la pragmatica tratterebbe tutti e soli i significati che sono dipendenti dal contesto9. Ma non vi alcuna valida ragione per escludere dalla semantica i significati degli enunciati che vengono determinati dal contesto di enunciazione. E, ugualmente, non accettabile la tesi, affermata da alcuni studiosi di semantica di indirizzo propriamente logico, che di competenza della semantica solo ci che ha un rapporto diretto con la verit o la falsit, e perci esclusivamente il campo delle asserzioni. Abbiamo, dunque, accertato che hanno tutte le caratteristiche necessarie per essere oggetto di considerazione e teorizzazione semantica anche i significati degli enunciati il cui contenuto determinato, in qualche maniera, dal contesto enunciativo. Ma il contesto di enunciazione riguarda anche il campo pi esteso degli enunciati non assertivi. Anche i significati di questi ultimi possono acquisire il loro contenuto pieno e compiuto, il loro senso determinato e

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particolare, attraverso il contesto di enunciazione. Il senso preciso di enunciati come un ordine, una domanda, una minaccia, una promessa, e di tutti gli altri tipi di atti illocutori, si determina attraverso il contesto di enunciazione, nella mente del parlante come in quella dellascoltatore. Ma il senso di questi enunciati, anche se determinato dal contesto di enunciazione, non ha nessuna caratteristica che lo escluda a priori dalla sfera dei contenuti della semantica; e neppure che lo includa a priori nella sfera dei contenuti propri della pragmatica. Appare fin da ora evidente che la determinazione del senso di un atto linguistico, effettuata mediante il contesto di enunciazione, fenomeno che riguarda esclusivamente la semantica. Una volta stabilita la premessa che la semantica del linguaggio ordinario non ha contenuti privilegiati, e che il criterio per stabilire i contenuti semantici di ogni atto linguistico il concetto di comunicazione, riprendiamo in esame, da questo punto di vista, gli atti illocutori della promessa e dellasserzione, per porre finalmente in luce laspetto semantico di tali atti linguistici e individuarne i rispettivi contenuti. Mentre latto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, si compie sotto il segno della asimmetria dei ruoli, del parlante e dellascoltatore, latto linguistico, nel suo aspetto comunicativo e strettamente semantico, si compie, al contrario, sotto il segno della simmetria dei ruoli, della reciprocit delle funzioni, del parlante e dellascoltatore. Per farsi comprendere, il parlante deve porsi anche nella posizione dellascoltatore; e lascoltatore, per comprendere, deve porsi anche nella posizione del parlante. Vediamo latto linguistico della promessa come atto di comunicazione. Il parlante, che compie lazione del promettere, in grado di prevedere ponendosi nella posizione dellascoltatore, come lascoltatore intenda le sue parole, attraverso la frase con cui denuncia il suo impegno di fare una certa cosa. In ci consiste il carattere semantico dellatto linguistico come atto di comunicazione. Lascoltatore, come attore dellatto di comunicazione, pu, da parte sua, comprendere il significato dellatto linguistico della promessa di cui il destinatario, solo in quanto sa che cosa significa quella espressione, tanto meglio lo comprende, quanto pi riesce a porsi nella situazione del parlante. Il concetto di contenuto semantico appare, cos, fondato unicamente sul concetto di comunicazione. Consideriamo ora latto illocutorio dellasserzione nel suo aspetto puramente semantico, e, perci, dal punto di vista della comunicazione. Nellenunciazione della frase Pietro partito, nella quale un parlante si rivolge ad un ascoltatore, ci che costituisce il contenuto propriamente pragmatico la differenza dei ruoli, del parlante e dellascoltatore. Sappiamo che il ruolo del parlante consiste nel fatto che egli, ed egli soltanto, si assume la responsabilit di ci che asserisce, della sua veridicit. Se invece consideriamo la stessa asserzione dal punto di vista della comunicazione, allora abbiamo il contenuto semantico dellatto linguistico, che, per la simmetria e reciprocit dei ruoli, si prefigura come identico nel parlante e nellascoltatore. Il contenuto dellasserzione uninformazione che riguarda il fatto che Pietro partito: tale contenuto, nella prospettiva della comunicazione, non ha alcuna relazione con la responsabilit dellasserente e del parlante, che riguarda unica-

mente il carattere pragmatico dellatto linguistico. Il contenuto della comunicazione, il contenuto propriamente semantico, il puro dictum senza la paternit dellasserente. Ma vi da considerare un altro aspetto dellatto di comunicazione, che riguarda la responsabilit del parlante che compie un atto di comunicazione. Il parlante pu informare lascoltatore semplicemente del fatto che Pietro partito, oppure pu informare lascoltatore del fatto che Pietro partito e insieme del fatto che egli si assume la responsabilit della veridicit dellinformazione. In entrambi i casi si tratta di contenuti che appartengono alla sfera semantica, e che hanno, o debbono avere, lo stesso significato per il parlante e per lascoltatore. Ci che appartiene alla sfera pragmatica semplicemente il fatto che il parlante e soltanto il parlante si assume la responsabilit della veridicit della sua asserzione. Indipendente dal puro contenuto semantico della comunicazione pu essere considerato il fatto che il parlante, ponendo la sua asserzione, abbia lintenzione di produrre determinati effetti sullascoltatore, come, ad esempio, tranquillizzarlo, spaventarlo, minacciarlo etc. Questi effetti, che sono stati denominati perlocutori e richiedono una definizione univoca e rigorosa che, fino ad oggi, mancata, rientrano anchessi nella sfera propriamente pragmatica. Ed ora, prendiamo in esame alcuni tipi di atti illocutori, per chiarire ulteriormente il criterio di distinzione della semantica e della pragmatica degli atti linguistici. Consideriamo un enunciato imperativo come, ad esempio, Chiudi la finestra, nel suo aspetto puramente comunicativo. Il suo contenuto, che il puro significato dellenunciato, per la simmetria e reciprocit dei ruoli, presentandosi identicamente per il parlante e per lascoltatore, il contenuto semantico dellatto linguistico. Lo stesso atto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, ci mostra altrettanto chiaramente la asimmetria dei ruoli. Lazione che compie il parlante quella di indurre una certa persona, lascoltatore, a fare una certa cosa. Mentre si vuole una certa cosa, si comunica che si vuole una certa cosa, ma le due operazioni rimangono distinte. Lordine, che dato dal parlante, cambia, in qualche modo, il rapporto sociale del parlante e dellascoltatore. La funzione pratica di chi d gli ordini diversa dalla funzione pratica di chi li riceve. Un altro tipo di atto illocutorio, che ci viene presentato e descritto da Austin, s, prendo questa donna come mia legittima sposa, e che egli dapprima denomina performativo, e colloca nella classe degli enunciati contrattuali, stabilisce, come noto, le condizioni necessarie alla sua completa realizzazione. Tutte le condizioni di felicit dellenunciato, cos descritte, si riferiscono ai caratteri pragmatici dellatto linguistico, del s celebrativo del matrimonio. Ma, fra le condizioni di felicit dellenunciato ve n una, che riguarda soltanto la comprensione del significato e del valore dellenunciato e che egli denomina la sicurezza della comprensione. Se consideriamo il s, pronunciato dallo sposo nel suo puro contenuto semantico, vale a dire come un puro atto di comunicazione, il significato di esso, per la reciprocit dei ruoli, del parlante e dellascoltatore, sar identico per il parlante e per lascoltatore.

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Riguardo al contenuto semantico dellordine, dellenunciato imperativo, possiamo dire che anchesso costituisce, a suo modo, uninformazione. Nellambito di ci che denominiamo informazione, possiamo distinguere l informazione in senso stretto, lasserzione, vera o falsa, e linformazione in senso lato, quella che non trasmessa da unasserzione, ma, bens, da un ordine, oppure dallespressione della volont di stipulare un contratto matrimoniale, che si realizza mediante una certa formula. Nel rapporto che, a livello del discorso ordinario, si stabilisce fra un parlante e un ascoltatore, la linea di discriminazione fra la semantica e la pragmatica determinata dal carattere di questo rapporto. Se si determina la asimmetria del rapporto parlante-ascoltatore, se i ruoli del primo e del secondo risultano differenziati, si ha, come sappiamo, una differente partecipazione operativa del parlante e dellascoltatore, nel compimento dellatto linguistico. Se, come sostiene Morris, la pragmatica deve studiare la relazione dei segni con gli interpreti parlante e ascoltatore, occorreva definire il senso ed il carattere di questa relazione: per Austin, come per Searle, la relazione consiste in una operazione pratica, in unazione che parlante e ascoltatore compiono a mezzo delle parole. Ma, come abbiamo pi volte precisato, in tale operazione pratica, parlante e ascoltatore hanno ruoli e parti diverse. Se, ad esempio, il parlante d un ordine allascoltatore, e, perci, compie lazione rispettiva, lascoltatore si sentir in qualche modo obbligato o condizionato. I due ruoli diversi, del parlante e dellascoltatore, nel rapporto che si stabilisce fra essi mediante latto linguistico, danno luogo a ci che io ho denominato lasimmetria dellatto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, che loggetto di studio di un settore ben determinato della filosofia del linguaggio. Laltro settore costituito dalla semantica, i cui limiti racchiudono uno spazio molto pi ampio, che stato definito sulla base del concetto della comunicazione linguistica. A differenza della sfera pragmatica, la sfera semantica si manifesta sotto il segno della simmetria e della reciprocit dei ruoli. Ci che ci determina a parlare di simmetria dei ruoli, del parlante e dellascoltatore, il fatto che il contenuto della comunicazione trasmesso dal parlante e ricevuto dallascoltatore se la comunicazione riesce identico per il parlante e per lascoltatore. La comunicazione non si realizza quando quello che sa il parlante e che vuole comunicare allascoltatore diverso da quello che viene a sapere lascoltatore, e ci si verifica a causa della conoscenza del parlante e dellignoranza dellascoltatore. In tal caso, non si verifica quella situazione ideale in cui il parlante perfettamente in grado di comunicare e lascoltatore perfettamente in grado di ricevere e comprendere la comunicazione. Ed ora consideriamo laltro aspetto, distinto, dellatto di comunicazione, quello della reciprocit o scambio dei ruoli, del parlante e dellascoltatore. Lascoltatore tanto pi in grado di cogliere lintenzione del parlante, ci che vuole o desidera o sa, quanto pi egli riesce a porsi nella prospettiva del parlante, nel suo punto di vista, oltre che nel proprio. La comunicazione fallisce tanto se lascoltatore non sa comprendere il punto di vista del parlante, quanto se il parlante non sa comprendere la mentalit, il punto di vista dellascoltatore. Sulla base di queste nozioni di simmetria e reciprocit dei ruoli del parlan-

te e dellascoltatore, possiamo stabilire che qualsiasi contenuto, in quanto si determina come identico per il parlante e per lascoltatore, deve essere considerato come oggetto di studio della semantica, invece loggetto di studio della pragmatica costituito dalle operazioni compiute, a mezzo delle parole, dal parlante e dallascoltatore, in maniera differenziata; essa fondata sul concetto della asimmetria dei ruoli. Non si ha ragione di escludere dalla sfera semantica alcuni contenuti dellatto di comunicazione. Perci appartengono alla sfera semantica non solo i contenuti apofantici, vale a dire i significati delle asserzioni, vere o false, definibili mediante concetti logici, ma anche gli altri contenuti, vale a dire i significati delle domande, degli ordini, delle promesse, degli avvertimenti, eccetera. E poich latto di comunicazione atto di parole, performance, sono oggetto di studio della semantica tutti i contenuti che si realizzano nellatto di parole in quanto atto di comunicazione. Perci da respingere la tesi che identifica i contenuti, che sono oggetto di studio della semantica, con i significati della langue, e assegna alla sfera pragmatica tutti i contenuti della parole. La lingua, la langue, a rigore, non contiene in s nessun enunciato, nessun significato. La lingua soltanto uno strumento, e dalluso di tale strumento hanno origine i significati, che appartengono alla sfera della parole, e sono i contenuti che si realizzano nellatto di parole come atto di comunicazione. Questa conclusione in antitesi con unaltra esclusione, quella che eliminerebbe dalla sfera semantica tutti i contenuti che sono dipendenti dal contesto di enunciazione e li assegnerebbe alla sfera pragmatica. Perci non si ha alcuna fondata ragione di escludere dalla sfera semantica i significati degli enunciati che sono determinati dal contesto di enunciazione. Dobbiamo anche respingere una tesi di Grice, che assegna alla sfera pragmatica i contenuti o significati che egli definisce come implicitati non convenzionalmente. Se accogliamo la distinzione di Grice, fra ci che detto, ci che implicitato convenzionalmente e ci che implicitato non convenzionalmente, dobbiamo collocare ugualmente nella sfera semantica tanto i significati di ci che detto e di ci che implicitato convenzionalmente, quanto i significati di ci che implicitato non convenzionalmente. Debbo osservare, ora, che il fatto di aver assegnato alla sfera semantica un insieme cos ampio di significati non aumenta le difficolt per la delimitazione e definizione dei problemi propriamente semantici. Austin, nellopera How to do things with words e precisamente nella Lezione quinta, mentre sta saggiando la possibilit di scoprire un criterio grammaticale che permetta di riconoscere un enunciato performativo, ipotizza che tale criterio possa essere la prima persona singolare del presente indicativo attivo. Ebbene, Austin osserva che, in relazione a tale uso del presente indicativo attivo, si deve notare lasimmetria costante che si rivela fra questa prima persona e questi tempi e le altre persone e gli altri tempi dello stesso verbo (p. 63). Si tratta della stessa asimmetria che si osserva tra la prima persona del presente indicativo del verbo promettere, ad esempio, e la prima persona del presente indicativo del verbo correre. C unanaloga differenza fra io pro-

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metto e tu prometti o fra io prometto e io promisi e fra io prometto e io corro. Solo se dicoio prometto io sto compiendo lazione del promettere. Invece se dico tu prometti o io corro io sto compiendo latto illocutorio dellasserzione. Ci che determina la asimmetria fra io prometto e tu prometti il valore pragmatico dellatto illocutorio, ma la asimmetria sussiste fra due atti illocutori diversi. Invece la asimmetria che io ho posto a fondamento del carattere pragmatico dellatto linguistico interna a una singola enunciazione, ad un singolo atto illocutorio, e riguarda esclusivamente il rapporto che si determina tra parlante e ascoltatore del singolo atto illocutorio. C una asimmetria tra i due distinti ruoli, del parlante e dellascoltatore, allinterno di uno stesso atto illocutorio. La asimmetria considerata da Austin fra lio e il tu, in due enunciazioni diverse, deve essere posta fra il parlante e lascoltatore allinterno di ununica enunciazione. Non dobbiamo dimenticare che qualsiasi tipo di atto illocutorio, oltre ad essere unazione compiuta a mezzo delle parole, anche un atto di comunicazione. Se noi astraiamo, ad esempio, dallatto del promettere, nella sua interezza, latto con cui si comunica che si sta promettendo: da questo punto di vista, che quello dellatto di comunicazione, la asimmetria che sussiste, al livello pragmatico, fra io prometto e tu prometti, scompare per il necessario istaurarsi della simmetria dei ruoli, che caratterizza il concetto di comunicazione. Quando il parlante dice io prometto, ci che egli comunica non lazione del promettere: le azioni non si comunicano, si compiono e soltanto interagiscono con altre azioni; ci che il parlante comunica il significato dellazione che compie, che, se la comunicazione riesce, deve risultare identico per il parlante e per lascoltatore. Se invece consideriamo latto del promettere nel suo carattere pragmatico, come unazione compiuta a mezzo delle parole, dovremo collocare questa azione linguistica sullasse della asimmetria dei ruoli, del parlante e dellascoltatore, e allora il pronome io presente in alcuni tipi di enunciati performativi espliciti assumer tutto il suo spessore pragmatico, e caratterizzer loperazione del parlante, nella sua contrapposizione a quella dellascoltatore. Un altro problema, che pu essere trattato dal nostro punto di vista della simmetria e asimmetria dei ruoli, quello delle presupposizioni. Vediamo anzitutto laspetto semantico delle presupposizioni. Supponiamo che il parlante pronunci i seguenti enunciati, in direzione dellascoltatore: a: i figli di Giovanni sono ammalati. b: Pietro ritornato dagli Stati Uniti. In questi enunciati vi qualcosa di esplicito e qualcosa di implicito (presupposto). Il contenuto implicito del primo enunciato, a , la sua presupposizione, che Giovanni ha dei figli; il contenuto implicito del secondo enunciato, b , che Pietro partito per gli Stati Uniti dal luogo in cui si trovano il parlante e lascoltatore. Supponiamo che questi enunciati siano detti da un parlante che vuole soltanto informare lascoltatore di certi fatti. Le presupposizioni dei due enuncia-

ti, a e b, che Giovanni ha dei figli, e che Pietro partito per gli Stati Uniti, hanno, dunque, un carattere essenzialmente semantico. evidente che non troviamo delle presupposizioni di carattere semantico anche in enunciati diversi dalle asserzioni, come, ad esempio, le interrogazioni. Ma vediamo, ora, il carattere pragmatico delle presupposizioni. Consideriamo ancora latto illocutorio della promessa. Quando si compie una promessa si presuppongono due cose, che il parlante abbia veramente lintenzione di fare ci che promette e che lascoltatore lo desideri. Questi due fatti opresupposizioni, che riguardano distintamente il parlante e lascoltatore, sono stati definiti da Searle come due delle condizioni necessarie per la perfetta realizzazione dellatto illocutorio della promessa. Tali presupposizioni rivelano chiaramente il loro carattere pragmatico perch sono fondate sulla asimmetria del rapporto parlante ascoltatore. Su questo piano propriamente pragmatico, non dipende certamente dallascoltatore che il parlante abbia veramente lintenzione di fare ci che promette, come non dipende dal parlante che lascoltatore desideri quella certa cosa che il parlante promette di fare. Quando, nellatto linguistico del promettere, anche una sola di queste presupposizioni non viene soddisfatta, latto linguistico risulta fuori della norma. Adoperato il termine condizione usato da Searle possiamo dire che la presupposizione la condizione implicita dellatto del promettere. Se il parlante dice prometto che partir, sono condizioni implicite di questo atto illocutorio sia che il parlante voglia partire, sia il fatto che lascoltatore desideri che il parlante parta. C un esplicito e un implicito. Si hanno due impliciti di origine diversa, uno riguarda il parlante, e laltro riguarda lascoltatore, e si determinano sullasse della asimmetria dei ruoli. Un altro esempio di questa asimmetria, legata al carattere pragmatico delle presupposizioni, si determina altrettanto chiaramente nellatto illocutorio dellordine. Alla differenza e asimmetria dei ruoli, di chi impartisce lordine e di chi lo riceve, correlativa una differenza e una asimmetria di presupposizioni. La presupposizione che riguarda latto compiuto dal parlante distinta e diversa da quella che riguarda lascoltatore. La presupposizione che riguarda latto compiuto dal parlante il fatto che egli si senta autorizzato a compiere latto in virt della superiorit della sua posizione sociale rispetto allascoltatore, la presupposizione che riguarda lascoltatore il fatto che egli si sente obbligato, nella sua partecipazione allatto illocutorio dellordine, a causa della inferiorit della sua posizione sociale rispetto al parlante. Da un lato, quello del parlante, limplicito il fatto di sentirsi autorizzato, dallaltro lato, quello dellascoltatore, il fatto di sentirsi obbligato. Tali presupposizioni sono parti integranti dellatto illocutorio dellordine nel suo carattere di normalit. In questo senso limplicito parte integrante dellesplicito. Se si esce dalla normalit, le presupposizioni possono venire a mancare. In teoria un soldato semplice, che non si sente autorizzato, pu dare un ordine ad un capitano che non si sente obbligato. Prima di terminare, vorrei accennare soltanto agli usi linguistici dei pronomi io e tu, per porre in evidenza i due aspetti, pragmatico e semantico, di tali usi. Consideriamo gli atti illocutori, ormai familiari, dellordine e della promessa:

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Io ti ordino di Io ti prometto di In questi atti illocutori, io e tu impersonano ruoli differenti, che caratterizzano laspetto pragmatico dei rispettivi usi. Io significa solo ci che pu fare il parlante, tu significa solo ci che pu fare lascoltatore, la sua partecipazione pratica nellatto illocutorio. Io e tu sono collocati in un asse asimmetrico, in quanto rappresentano i due ruoli differenti del parlante e dellascoltatore e le rispettive presupposizioni. Ed ora prendiamo in esame laltro aspetto, quello propriamente simmetrico, delluso di io e di tu. Gli stessi enunciati, io ti ordino di, io ti prometto di, considerati semplicemente come atti di comunicazione, come atti mediante i quali il parlante vuol soltanto far sapere qualcosa allascoltatore, e lascoltatore vuole solo comprendere ci che gli dice il parlante. Sappiamo che, ormai, nellatto di comunicazione vige il principio della simmetria e della reciprocit dei ruoli. Lio pensato nello stesso modo dal parlante e dallascoltatore, esattamente come il tu. Il significato di io e il significato di tu, divengono identici, nellatto di comunicazione, per il parlante e per lascoltatore10.

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1 C. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, in Writings in the General Theory of Signs, Mouton, LAja 1971. 2 J.R. SEARLE, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge University Press, Rodon 1970, p. 63. 3 U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984, pp. 68, 69. 4 J. R. SEARLE, DellIntenzionalit. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Bompiani, Milano 1985, pp. 166, 167. 5 Ivi, pp. 173, 174. 6 J.R. SEARLE, D. VANDERVEKEN, Foundations of illocutionary Logic, Cambridge 1985, p. 21. 7 G. GAZDAR, Pragmatics, Presupposition, and Logical Form, Academic Press, New York 1979; R.R. KEMPSON, Presupposition and the Delimitation of Semantics, Cambridge University Press, London 1975. 8 G. LEECH, Principles of Pragmatics, Longman, London 1983; R. KEMPSON, Presupposition and the Delimitation of Semantics, Longman, London 1975. 9 Questa posizione viene assunta, ad esempio, da J.J. KATZ e D.T. LANGENDOEN nellarticolo Pragmatics and presuppositions, Language 1, 1978. 10 A questo concetto della reciprocit, che caratterizza i pronomi io e tu, nel loro carattere semantico, sembra alludere Oswald Ducrot, che cita una definizione del linguista Benveniste; ma tanto Benveniste quanto Ducrot non pongono in luce laspetto pi importante della reciprocit, quello che, presupponendo la rigorosa distinzione dei caratteri semantico e pragmatico dellatto linguistico, rivela quel senso della reciprocit che fondato sul concetto di comunicazione. Ducrot esprime la sua tesi con questa affermazione: Ci che determinante nel pronome io, non tanto il fatto che esso costituisce un mezzo abbreviato per parlare di s, quanto, piuttosto, che esso obbliga colui che parla a designarsi con la stessa parola che il suo interlocutore utilizzer a sua volta per designare se stesso. Luso di io (lo stesso vale per il tu) costituisce dunque un apprendimento e un esercizio permanente della reciprocit [ ] Benveniste riassume questa tesi dicendo che i pronomi personali marcano la presenza dellintersoggettivit allinterno della lingua stessa. (Dire et ne pas dire, Paris 1972. p. 3).

RELIGIONE CRISTIANA E RELIGIONE APERTA: LINEE DI UN CONFRONTO


di Massimiliano Fortuna

Lopera e la figura di Aldo Capitini nella cultura italiana del Novecento non posseggono, a tuttoggi, che nebulosi contorni. Basti pensare, ad esempio, a quanto sia limitato il numero di persone che riconosce in lui lideatore della Marcia della pace Perugia-Assisi. Non che Capitini non goda di una lusinghiera bibliografia quanto a numero di titoli. Ma il valore di questi testi, tranne alcune, anche recentissime, lodevoli eccezioni, complessivamente modesto. E se una lacuna pi di altre pu distinguersi, questa attiene alla dimensione filosofico-religiosa del suo pensiero. Troppo spesso a quanti si interessano di nonviolenza la sua palese inclinazione religiosa si direbbe apparire come una superflua, quando non imbarazzante, appendice. E, naturalmente, questo non che un modo, il pi evidente forse, di tradire lindiscutibile complessit del suo patrimonio intellettuale. Il rispetto per un pensatore comincia innanzi tutto dalla volont di prenderlo in parola; sufficiente dare una rapidissima scorsa ai titoli dei libri di Capitini e vedere quante volte le parole religione, religioso e religiosa ritornano per rendersi conto che una simile insistenza non solo non pu essere casuale, ma testimonia unopzione fondamentale e decisiva, sminuire la quale un azzardo che chiunque intenda soffermarsi su di lui con una qualche meditata attenzione non pu certo commettere. Lo scritto che segue trova la propria ragion dessere nel tentativo di analizzare alcuni nodi fondamentali sebbene altri se ne possano trovare della prospettiva religiosa di Capitini, da lui stesso sintetizzata nella formula religione aperta. In essa sintersecano mondi culturali diversi e la struttura concettuale che la contraddistingue si chiarisce in un ampio confronto fra svariati motivi, appartenenti tanto al pensiero laico e filosofico quanto alla tradizione strettamente religiosa. Mi pare si possa comunque dire che i componenti prioritari di questo intreccio sono: leredit cristiana, essenzialmente nel richiamo alla sua fonte evangelica, il criticismo kantiano, lidealismo (tanto Hegel quanto Croce e Gentile), lanalisi marxiana, alcuni temi delle filosofie dellesistenza e la spiritualit gandhiana. Analizzare con precisione critica il diverso apporto dato alla religione di Capitini da queste differenti fonti, ricostruire il contesto intellettuale della loro apparizione nel pensiero capitiniano, cogliere le reciproche influenze e ripercorrere le affinit tra questi molteplici strati, confrontarne gli esiti con alcune delle maggiori correnti filosofiche e religiose costituirebbe il, non agevole, compito di un intero libro. E si tratterebbe di un lavoro assolutamente meritorio, poich al momento un libro siffatto non esiste. Questo articolo dal canto suo si propone, in modo assai pi semplice, di

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ravvisare limportanza che la religione cristiana possiede nellopera capitiniana, e nel far questo coglie, come detto, loccasione per tentare di fornire un contributo alla comprensione della religione aperta. Lo scritto suddiviso in tre paragrafi, il primo dei quali cerca di mettere in luce i pi significativi punti di tangenza che possono riscontrarsi tra cristianesimo e religione capitiniana, il secondo, allopposto, ne evidenzia le maggiori differenze, e il terzo tenta di abbozzare qualche considerazione generale, sottolineando innanzi tutto il posto centrale che lescatologia occupa nelle pagine di questo autore. Chi scrive guidato infatti dalla convinzione che la cristiana idea di salvezza costituisca leredit di maggior rilievo nella delineazione del nucleo pi profondo della religione di Capitini, e che il serrato corpo a corpo ingaggiato da questultimo nei confronti dellistituzione cattolica possa, al limite, leggersi come il tentativo di presentare se stesso come un erede del cristianesimo originario pi autentico della Chiesa Romana, quasi, per adoperare parole sue, il ricercatore e il costitutore di una vita religiosa, in contrasto con quella tradizionale, leggendaria, istituzionale, autoritaria1. Alla base delle pagine che seguono sottesa lidea che lapparato filosoficoreligioso capitiniano possegga un rigore concettuale e linguistico indiscutibile, la cui decifrazione non pu che essere il risultato di pazienti e scrupolose ricerche; la sua persuasione religiosa non corrisponde in alcun modo ad un generico rispetto per la vita umana o ad una abborracciata e semplicistica silloge ecumenica, ma ad una precisa prospettiva a cui occorre avvicinarsi facendo uso delle pi adeguate categorie ermeneutiche che lanalisi critica ci fornisce.

Un terreno comune
Dico dunque: io ho, insieme con tutti gli esseri esistenti. E per un eguale moto dico: io sono, insieme con tutti gli esseri presenti (intendendo per presenza lessere apparsi, anche un istante solo che infinito, nella storia). Al mio operare secondo i valori sono intrinsecamente presenti anche quelli che sembrano non operare pi. Come lavere i beni economici mi lega a tutti gli esistenti, cos loperare per i valori mi unisce a tutti gli esseri che ne sono o furono capaci, anche se morti, perch essi, solo che siano nati, hanno portato nel loro intimo un valore, ed il valore non muore: vivono con esso. Per la persuasione etica sociale voglio che tutti gli esistenti fruiscano dei beni economici esistenti; per la persuasione religiosa sento che alla creazione continua dei valori spirituali tutti sono infinitamente presenti, anche chi sembra non essere pi2.

Questa distinzione tra etica e religione non trova molti altri riscontri nelle pagine di Capitini: non mi pare venga mai formulata esplicitamente prima di tale passo e raramente lo sar in seguito. Tuttavia per intendere la centralit e limprescindibilit del religioso in Capitini non si pu partire che da qui: dalla consapevolezza, cio, che se esiste un tentativo di chiarificazione concettuale, attinente a categorie classiche di pensiero, in grado di riepilogare la tensione che con maggior vitalit sorregge la sua pagina, questo non altro che il tentativo di distinguere il momento religioso dal momento morale, con cui generalmente, e i migliori, lo confondono3.

Una cosa emerge da subito come la pi evidente: lo sguardo della religione punta verso una direzione che letica non contempla: quella dei morti, di coloro il cui esistere sociale venuto meno. Il discrimine tra etica e religione risiede innanzi tutto in una diversa valutazione in merito allaltro a cui rivolgere la propria attenzione. Capitini chiarisce che la responsabilit che luomo religioso avverte non resta circoscritta ad una dimensione che comprenda unicamente le creature viventi; la prospettiva che lo contraddistingue allinsegna di un ampliamento, o pi correttamente di unaggiunta. Si tratta di transitare da una realt parziale, quella dei vivi (gli esistenti), ad una realt assoluta, volta ad incorporare anche coloro che hanno cessato di vivere (i presenti). La persuasione etica sociale, come Capitini la definisce, si ferma alla prima realt, la religione raggiunge la seconda; e nel raggiungerla entra in possesso di una radicale verit entro la quale tutto il reale si incardina: i morti non muoiono, la morte non che un inganno della vitalit, un tranello biologico nel quale il religioso (vero persuaso) evita di restare impigliato e che ha il compito di palesare a tutti, indicando profeticamente, se si vuole laggiungersi della vita dietro lapparenza della morte. Afferrare senza esitazioni e con immediatezza lesigenza di questa aggiunta significa aver posto lorecchio sul battito vitale che sorregge lintero pensiero capitiniano, poich sullasse vita-morte che il seguente pensiero si gioca e solo in modo derivato su quello, di gran lunga pi noto e indagato, nonviolenza-violenza: questa seconda antitesi, per quanto assolutamente centrale in Capitini, non costituisce che una specificazione della prima. Nel dire etico-sociale Capitini definisce uno spazio che il medesimo della politica; valori etici e valori politici non si situano per lui in una scala gerarchica, n stanno fra loro in opposizione, n occupano ambiti autonomi e reciprocamente distinti: semplicemente costituiscono unidentit; la politica autenticamente intesa risponde ad esigenze etiche e letica non pu evitare di trovare il proprio sbocco nellazione politica e sociale. Ma nemmeno tra sfera etico-politica e sfera religiosa si d una qualche contrapposizione, anzi una continuit profonda le attraversa: tutto il discorso di Capitini lascia facilmente intendere anzi esplicitamente sottolinea che il vero impegno politico quello capace di dotarsi di uno sguardo religioso. Essere un riformatore religioso era infatti il ruolo che, con tutta probabilit, rivendicava prioritariamente per se stesso: e nella riforma religiosa dovevano conseguentemente rinvenirsi le condizioni di una nuova socialit (nuova anche perch non pi solo strettamente politica); non certo casuale che queste due espressioni si trovino accostate nel titolo di uno dei suoi libri pi chiarificatori del vicendevole implicarsi di politica e religione. Ci si potrebbe innanzi tutto chiedere se luso della parola riforma, non costituisca di per s la spia di una solidariet essenziale tra religione cristiana e religione aperta. La volont di riformare dovrebbe presupporre infatti un nucleo, gi esistente, di idee religiose al quale si intende conferire una nuova forma. E questo nucleo, pi che in qualsiasi altro movimento religioso, sembra proprio rinvenirsi nel cristianesimo: il cristianesimo, pur non trascurando, nella sua mai circoscritta passione spirituale, altri patrimoni culturali, la religione che Capitini intende aprire. Ma sviluppare in pienezza e libert le potenzialit di apertura interne ad esso significa inesorabilmente porsi in una condi-

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zione di critica e di rifiuto nei riguardi della tradizione cattolica, vale a dire di una versione della religione cristiana che ne ha stravolto, o al limite visibilmente usurato, loriginaria forza durto nei confronti della societ e delle chiusure che la perpetuano non si presti dunque unattenzione marginale al fatto che nella religione di Capitini, come, pi o meno larvatamente, in ogni posizione che risenta vivamente della suggestione del cristianesimo evangelico, traluce unimmediatezza politica. Alla distinzione tra etica e religione se ne sovrappone una seconda, che Capitini mostra di avere ben chiara sin da quegli Elementi di unesperienza religiosa che segnano il suo esordio saggistico: quella tra libert e liberazione. La libert, come si pu intuire, corrisponde al supremo obiettivo di chi agisce circoscrivendosi in un terreno solo etico-politico, la liberazione costituisce lo sbocco finale di unesigenza religiosa. Se ci immaginiamo, come Capitini stesso suggerisce, la libert collocata su di un piano posto orizzontalmente e la liberazione su di un piano verticale, abbiamo una figura in grado di ricapitolare simbolicamente la distinzione tra le due dimensioni, ma anche il nesso capace di unirle. La libert sociale, per trovare realizzazione, ha bisogno di radicarsi in un riconoscimento reciproco; ognuno realmente libero nella misura in cui permette anche allaltro di considerarsi tale: una societ giusta non pu che essere quella in cui a ciascuno viene riconosciuta la propria porzione di libert una linea a cui si direbbe fatale lirrigidirsi nello spazio asettico del diritto; e il mondo del diritto per Capitini, pur nellinevitabile rispetto dovutogli, fonda un modo di esistere basato sulla separazione e come tale insufficiente. Se la libert allinsegna di un distanziarsi, lagire nel quale la liberazione condensa il proprio senso originario mira ad un avvicinamento: donare senza pretendere nulla in cambio, senza voler ricevere in misura proporzionata a quel che si d questa la direzione che la religione persegue allo scopo di colmare ci che al diritto fa difetto. Pervenire ad ununione sostanziale (intima) e non semplicemente formale (esteriore), non risponde ad altro la motivazione del persuaso: poich unicamente da questa liberazione intima sorge lesigenza della libert sociale, non come un diritto (come se qualcuno ce la dovesse dare), ma come un dovere: come dovere lesercitarla in s cercando strenuamente il meglio4. Se si rimane nellambito della vita (in quanto entit biologica), come la politica fa, non si pu che aspirare a rimedi parziali: il diritto uno strumento utile unicamente a disciplinare5, migliorandolo in direzione di un valore, ci che vive e che, in quanto vivo, mantiene una inevitabile correlazione con la morte, ha un termine. Ma la persuasione religiosa pretende di cogliere, dietro questo tempo parziale del vivere, quel che non ha termine e non muore: leternit della presenza; e nellestendere questa ad ogni creatura che stata viva giunge ad intenderla come presenza di tutti, come compresenza. Alla parzialit della politica la religione risponde arrogandosi un compito assoluto: liberare definitivamente la vita dalla provvisoriet che la contrasta, permettere alla compresenza di emergere. Se la libert si arresta alla direzione presente-futuro, nella liberazione

anche il passato converge nella sua interezza. Credere che la societ, e con essa lintera realt, possa divenire non soltanto libera, ma totalmente liberata dal dolore e dal morire sar dunque laspirazione di chi, come Capitini, guidato dalla convinzione che il piano orizzontale della politica e quello verticale della religione non vadano disgiunti e che si debba diventar capaci di vedere la liberazione sociale entro la liberazione religiosa6. Individuata la matrice religiosa in un impulso alla liberazione, resta da chiedersi in quali precise forme Capitini prospetti questa liberazione. Una polarit di fondo difficilmente eludibile, e sufficiente ad impostare un discorso introduttivo, emerge con relativa facilit: quella che pu rinvenirsi nella distinzione tra una liberazione acosmica ed una liberazione storica. La prima intende il liberarsi come un liberarsi da qualcosa: dal mondo, dalla storia, dalla realt umana, dal tempo, dalla materia. Nella seconda la liberazione avviene con qualcosa: con il mondo e cos via. Salvarsi acosmicamente vuol dire essenzialmente evadere da una realt (storica) degradata: fuggendo da quel che appare reale, senza esserlo, in direzione di quanto pienamente reale, transitando da un livello inferiore ad uno superiore, trasferendosi in un altro luogo, passando al di l. Salvarsi storicamente, al contrario, indica la necessit di attuare la redenzione attraverso la storia, ed anche per mezzo di essa, nel presupposto che il compito non sia, in concisione estrema, liberarsi dalla realt in cui ci si trova ma renderla libera. Il cristianesimo e le altre religioni abramiche prefigurano, in modo inedito rispetto al restante panorama religioso (eccezion fatta per il mazdeismo), questultimo tipo di salvezza7. Se ci si domanda quale di queste due biforcazioni imbocchi lesigenza della liberazione avvertita da Capitini, la risposta non pu che pendere verso una liberazione intesa storicamente. La salvezza tanto invocata nelle sue pagine non ha nulla a che vedere con una via di redenzione individuale: quella di Capitini non una soteriologia, un salvarsi da soli dopo aver negato il mondo, ma unescatologia, un salvarsi insieme, con gli altri, mutando il mondo ma conservandolo al medesimo tempo. Non sembra facile negare che la Novella al centro dei Vangeli testimonia di una redenzione che investir e rinnover la creazione, senza disconoscerla nella sua concretezza: la salvezza rivestir questo mondo, liberandolo per sempre dal dolore e dalla morte, ma sar appunto questo mondo ad essere trasfigurato, essendo la vittoria sul peccato soltanto la vittoria su ci che lo limita e non sulla sua intera consistenza reale. Analogamente, in Capitini la liberazione non emigrazione dalla terra attraverso cui approdare a luogo migliore, ma la liberazione trasformazione qui della natura8. Date queste premesse si direbbe innanzi tutto agevole intuire quel che Capitini non . Un mistico, per prima cosa. I suoi interpreti pi avvertiti non hanno faticato ad accorgersene, dal momento che a sottolinearlo lui stesso: Non difficile vedere che alla concezione della migrazione verso altra terra sono simili le concezioni mistico-spaziali, per cui lindividuo si salva spostandosi spazialmente verso il Tutto, il Valore, la Realt assoluta, la Beatitudine9. Ma misticismo parola ambigua, al cui interno si sono sedimentati nel tempo significati molteplici ed eterogenei, ricondurre i quali ad una qualche unit dotata di

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senso ed uniformit non pare impresa possibile. Allinterno della tradizione cristiana, ad esempio, sembra doveroso distinguere perlomeno tra due forme di misticismo. La prima una mistica di derivazione neoplatonica, della quale capostipite lo Pseudo-Dionigi, improntata su di un processo di ascesa e di innalzamento verso una realt superiore, culminante nella riunione con una Trascendenza per la quale la dimensione terrena costituisce una distante appendice: un misticismo che viene definito dellimmagine, ruotante attorno allidea di identit, un misticismo estatico (o ancor meglio instatico), volto al raggiungimento di una salus individuale. Ma, soprattutto a partire dalla riscoperta francescana dellintegrale divinit del cosmo e della centralit della tenerezza nel Cristo evangelico, non manca una mistica dellamore, incentrata sulla somiglianza degli esseri creati e sul loro reciproco corrispondersi, che, con locchio volto innanzi tutto al mistero dellincarnazione, si sostiene sulla consapevolezza che la presenza di Dio si trova nella creazione pi che al di l della creazione10 la mistica di Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena, Teresa dAvila. Il non misticismo di Capitini si chiarisce se posto a confronto con il primo tipo di mistica, non certo con il secondo11 basti considerare il risalto di Francesco dAssisi nelle sue pagine. Ma, soprattutto, approfondendo il senso di questa distinzione possibile giungere in prossimit di uno dei perni concettuali attorno a cui la fenomenologia religiosa di Capitini incessantemente ruota. Misticismo dellimmagine e misticismo dellamore sono sostanzialmente inconciliabili, perch fanno riferimento a due matrici culturali che non possibile assimilare, se non a prezzo di un aperto sincretismo. In sintesi: se limmagine si trova in rapporto con una visione, lamore a contatto con unazione. Nel primo caso si fa capo alla categoria greca del vedere, nellaltro si immersi nella centralit neotestamentaria, e pi generalmente biblica, del fare. Qualsiasi pagina di Capitini si apra, sar questa centralit a venirci incontro: anche per lui Dio non si svela in ci che visto ma in quel che viene compiuto; la ricerca non ha termine in un Essere da contemplare ed in cui eventualmente annullarsi misticamente (quale mistica si detto), ma in un atto da svolgere. Non laffinarsi delle potenzialit visive, la teoresi, a condurre al cuore del divino e della verit, ma la capacit di realizzare qualcosa, la prassi, a permetterlo. Riuscire a scorgere cosa possa differenziare lamore evangelico dalla prassi capitiniana non impresa troppo semplice; la nonviolenza assomiglia molto ad una solidificazione pratica delloriginaria agape cristiana, per sua essenza attiva e creatrice di vincoli comunitari, e per nulla alleros greco, radicato nel desiderio dellanima di attingere il mondo sovrasensibile12. La predilezione di Angela da Foligno per il Dio che si d rispetto al Dio che d pu bene indicare, meglio forse di qualsiasi altra sintesi pi nutrita, lamore a cui Capitini rivolge la sua attenzione13. A muoverlo una sorta di istinto, di dedizione fiduciosa e incrollabile: la certezza, ma si potrebbe dire fede, che il mondo, nel suo nucleo inscalfibile, risponde ad un atto damore, un atto che, nelle nervature che egli cerca di far emergere nella loro elementare chiarezza, ha come dimensioni essenziali la coralit e la sovrabbondanza. Nessun essere vivente immeritevole damore e nessun limite interno pu realmente impedire a questa assolutezza damore di estinguersi o arenarsi la sua stessa scrittura sembra conti-

gua ad essa ed incapace di sottrarvisi: unequilibrata fusione di entusiasmo e serenit la cifra ricorrente anche delle pagine pi cupe di Capitini. Lamore come forza che anima un Dio di consolazione, lincondizionata vicinanza alle creature, non abbandonate in bala della morte e non lasciate a disperdersi nella loro naturale fragilit, sono linnegabile collante che tiene unite divinit cristiana e compresenza; quando Capitini si rivolge a questa ritraendola nel seguente modo, non sembra quanto mai prossimo al Dio neotestamentario: sa profondamente ci che ciascuno di noi, ci giudica e ci aiuta e sorregge continuamente, collabora nei valori, si aggiunge, perdonando, allessere individuo?14 Non amore senza meta, n universalismo umanitario: scrutare volti presenti e curare miserie concrete segnano in Capitini i prodromi indispensabili di ogni vero agire15; gli abbandoni mistici a cui non poteva impedirsi di guardare con sospetto gli dovevano sembrare, nellebbrezza dellannichilirsi in Dio, una sorta di esaltazione di un amore astratto e fine soprattutto a se stesso: in questo amore per lamore scorgeva probabilmente un possibile capostipite, seppure di stoffa nobilissima, di quellazione per lazione di cui i fascismi del ventesimo secolo si sono nutriti. Il male di Capitini il male biblico; il dolore nella sua agghiacciante consistenza fisica e la concretezza innegabile del morire sono le due colonne dErcole che il suo pensiero riconosce in tutta la loro spaventosa imponenza: se si decide ad oltrepassarle unicamente in nome di quella radicale escatologia che lo contraddistingue, non certo di un irenismo di maniera o di una facile teodicea. Non c dubbio sul fatto che Capitini abbia saputo tenersi a distanza di sicurezza da qualsivoglia tentazione di spiritualizzare la sofferenza, vero e proprio buco nero attorno al quale gli idealismi di ogni sorta gravitano sino ad esserne immancabilmente risucchiati. Lattenzione alla carne, in Capitini come nel cristianesimo evangelico, testimonia unulteriore tangenza tra i due, che sfocia in una reale prossimit antropologica. Di comune si ritrova innanzitutto, ed , se si vuole, laspetto pi generico, unindomita attenzione agli ultimi; locchio di Capitini non sospende mai di vigilare su ogni forma di emarginazione: la tenerezza che egli profonde verso i deboli, il desiderio di non veder sopraffatti gli inermi, la costante vicinanza ai socialmente reietti ed ai limitati fisicamente non consentono paragoni, se non con pochissimi autori del Novecento: e i nomi, quando si rinvengano, fanno molto pi probabilmente parte dellambito letterario che di quello rigidamente filosofico. E, gi s visto, la reazione a questo dolore tanto intensamente avvertito non si arresta ad una condivisione della pena di vivere, Capitini non si limita a compatire coloro che soffrono il peso di un male diffuso e universale ma attende che sopraggiunga, pi rapida possibile, una redenzione: svellere il dolore una volta per sempre il gesto, ancora evangelico, che occupa integralmente il suo orizzonte. Ma la corrispondenza che deve forse venir sottolineata con maggiore risalto quella che intercorre tra la cristiana resurrezione dei corpi e il modo dessere nel quale la compresenza finir per manifestarsi in una realt liberata. Capitini riserva ben pi che semplici accenni allidea di un rinascere rivestiti di una corporeit nuova e trasfigurata:

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La vita religiosa aperta alla trasformazione del corpo e delluniverso, che corpo di tutti, e si appassiona per la realt di tutti che comprende anche chi ha il corpo malato e difettoso []. Lappassionamento religioso per la realt di tutti non perch essa resti una cosa separata, ma perch cresca con un nuovo corpo e un nuovo universo adatti ad una realt liberata16.

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In Capitini la natura lostacolo alla liberazione che la compresenza deve investire con la sua spiritualit e trasformare, come lo Spirito cristiano coinvolge il cosmo creato in una rinascita a nuova vita. Certo, la natura ed il corpo naturale sono abissale mancanza tanto in Capitini che nel cristianesimo, ma una volta depurati da questa mancanza e, per cos dire, riplasmati, non si trovano esclusi dalla salvezza. Capitini sembra vicino ad intendere luomo quale unit non scindibile di esteriorit e interiorit, con un reciso rifiuto dellirrimediabile dualismo platonico tra anima e corpo, in cui limmortalit riservata alla prima soltanto: ma questo rifiuto lo pone sulla linea di quel protocristianesimo che, ancora prossimo alla sua progenitura ebraica, non guardava allanima e al corpo come a dimensioni irriducibili, ma come a due parti di una medesima unit che lo Spirito di Dio ha il potere di tener viva in eterno. La dedizione di Capitini alla carnalit umana e alle altissime sofferenze che la coinvolgono, sembra rientrare di conseguenza in una pienezza escatologica che non scorge nel corpo unimbarazzante appendice che la liberazione conclusiva pu tralasciare; non si dimentichi del resto che limmagine capitiniana della festa come prefigurazione e anticipazione della realt liberata si direbbe assai vicina ai banchetti vetero e neotestamentari, piuttosto che a rarefazioni nirvaniche (per quanto diverse e composite possano esser le versioni che del nirvana si sono date). Non manca, glossa a quanto si appena scritto, unultima acuta convergenza con il cristianesimo: il convincimento, che deve restar sotteso ad ogni nostra azione, che latto allorigine del vivere debba venire inteso in primo e decisivo luogo come dono. La gioia di trovarsi nella vita, per quanto bisognosa di redenzione possa essere, e non nel nulla scava uno iato incolmabile rispetto a quellaspirazione a non essere mai nati che stata uno degli alimenti principali a cui la vena tragica della grecit si nutrita e che costituisce, ad esempio, anche lo sfondo uniforme di quel Michelstaedter che Capitini amava.

Divergenze
Non si dice cristiano; tuttavia gli sta sommamente a cuore lavvenire del cristianesimo17. Se si fosse costretti a compendiare in una riga soltanto tutto quel che in Capitini ruota attorno al problema religioso, queste parole di Fabrizio Truini si presenterebbero alla stregua di una formula quasi rituale. Difficile non avvertire del tutto come il non dirsi cristiano si stagli costantemente, e si direbbe con inevitabile consapevolezza, sullo sfondo di un terreno religioso fecondato dalle pi profonde aspirazioni cristiane. Potrebbe un autore le cui pagine sono ripetutamente attraversate da espressioni come Provvidenza, Grazia, Resurrezione, Regno di Dio, pentimento, confessarsi,

paradiso, perdono, incarnazione, considerarsi avulso dal sentire cristiano, estraneo alle speranze che al cristianesimo hanno permesso di radicarsi e diffondersi? Meglio, potrebbe un autore nel quale alla speranza concesso un ruolo di rilievo, essere privo di relazioni proprio con il movimento spirituale che ha introdotto in Occidente lorizzonte stesso della speranza? Evidentemente no, e fino ad ora il tentativo stato precisamente quello di mostrare i risvolti pi consistenti di questo legame. Ma accanto ad essi non si pu naturalmente mancare di evidenziare anche ci che separa. Per Capitini innanzi tutto non credibile quel che per un cristiano costituisce il mattone a partire dal quale il resto del suo credo trova fondamento: laccettazione della messianicit di Ges di Nazareth. Nellindicare la salvezza come luogo in cui il mondo pone fine al suo perpetuarsi nellorizzonte della morte e del soffrire, Capitini non si avvale di un mediatore privilegiato. Lipotesi che un uomo soltanto possa esser ritenuto il collante della redenzione universale, ai suoi occhi destituita di qualsiasi plausibilit: sorge su di una linea di chiusura non di apertura. Ipotesi che pare rigettata quasi nel rifiuto di intenderla nella sua radicalit: ad esempio quando rivolto a Don Mazzolari in toni che, considerati in proporzione alla sua abituale estrema pacatezza, possono dirsi addirittura aspri Capitini sottolinea:
A me sembra che la piena realizzazione del principio sommo dellunit amore per tutti, e dellapertura ad una realt liberata che finalmente comprenda tutti, sia attraversato, impedito, frustrato da quegli elementi tradizionali che Don Mazzolari conserva, e che gli fanno porre dei dilemmi religiosamente ormai inaccettabili, perch risultanti da residui di religioni primitive, crudeli, esclusivistiche. Come si pu dire che se Cristo il Risorto, il suo Vangelo tiene, con neanche uno jota fuori; se non il Risorto, tutto cade e diviene folle?18

La tensione religiosa di un cristiano per basata proprio sulla convinzione che la resurrezione di Ges costituisca la primizia di un evento che, nel suo punto terminale, finir per coinvolgere anche il resto dellumanit: sottratta questa primizia, tutta la fede che ne segue vacilla e, se certamente indubbio che la lezione dellamore permane intatta nella sua validit, la redenzione attorno a cui i Vangeli ruotano inevitabilmente si dissolve. Per Capitini, semplicemente, la salvezza dellumanit non si trova in bala di alcuna primizia escatologica, non essendo Ges di Nazareth un uomo differente dagli altri e, nello specifico, perch quella resurrezione attestata dai Vangeli non mai avvenuta. Latteggiamento tenuto nei riguardi della figura del Cristo neotestamentario richiama quella scuola interpretativa che viene definita critica o storicista, scuola che ha avuto in Loisy un maestro riconosciuto e in Buonaiuti e Martinetti i pi noti esponenti italiani: nomi che nelle pagine di Capitini non difatti raro incontrare. Il Ges evangelico corrisponde ad un uomo storicamente esistito, uomo che si reso protagonista per Capitini di una straordinaria, forse senza uguale, apertura religiosa: ma di un uomo si tratta e non di Dio. Posto questo ne risultano sfrondati non solo, e non tanto, i corollari miracolosi che la tradizione ha attribuito alla nascita e alla vita di Ges, ma soprattutto lidea che la salvezza si strutturi seguendo lo svolgersi di eventi storici dei

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quali lAntico e il Nuovo Testamento sarebbero i custodi e che lincarnazione attraverso la quale Dio si rivela compiutamente costituisca un unicum assoluto: centro attorno a cui tutta la storia umana converge per rinvenire la propria fonte di senso. Sono appunto queste le conclusioni che Capitini trae. Se lincarnazione non pu dirsi un unicum, nemmeno la rivelazione lo pu. Moltiplicare Cristo per il numero complessivo degli esseri viventi non che un modo pi suggestivo di definire la compresenza: tutto quel che vive si deve ritenere, al medesimo titolo, discesa nella morte e potenziale contributo alla sua disfatta. E qualsiasi uomo conserva in se stesso la possibilit di pervenire a questa fondamentale verit, senza dover ricorrere ad una voce soprannaturale. Cos la storia della salvezza, se in Capitini possibile rinvenirne una, ed a me pare la si possa rinvenire, non si sveler in tappe storiche annunciate e graduali o, per quanto concerne le versioni secolarizzate, in schemi entro cui gli eventi si dispongono seguendo deduzioni conseguenti, ma si direbbe affidata allestro di improvvise e successive aperture che, per quanto imparentate luna con laltra e sottese da un reciproco corrispondersi, non si lasciano ordinare secondo una qualche genealogia storica. Circoscrivendo per un momento lattenzione al rapporto con il solo cattolicesimo, non dovrebbe a questo punto essere arduo comprendere che il casus belli allorigine del contrasto con la Chiesa cattolica, si deve precisamente al fatto di avere a che fare con una comunit che si dichiara Chiesa, che dichiara cio se stessa passaggio obbligato attraverso cui pervenire alla redenzione, o, ancor pi nettamente, luogo di una redenzione gi in atto. Non accolta la mediazione unica di Ges, diviene a maggior ragione impossibile accogliere lopera di una istituzione che di questa mediazione si pretende erede, pi ancora che privilegiata esclusiva. Larco di volta, i cui contorni dovranno man mano tracciarsi con maggiore risalto, di tutta lestesa e dettagliata ma, occorre dire, quasi mai avventata e mai ostruita da una qualche farragine polemica con cui Capitini investe la tradizione cattolica si incastona per intero proprio in questa lapidaria contrapposizione: se listituzione tale in quanto propone se medesima come tramite della salvezza, linstancabile e reiterato attestare lurgenza della salvezza da parte di Capitini testimonia la superfluit di qualsiasi istituzione che intenda proporsi come tramite. Ne consegue che il primo, in ordine quantomeno ideale, atto che occorre rivolgere contro questa indebita pretesa ecclesiastica dovr condensarsi nel rifiuto di quel segno di appartenenza che lega un nato in ambito cattolico alla sua comunit, ovverosia il segno del battesimo. questo il senso essenziale da attribuire alle dimissioni da cattolico rese da Capitini in una lettera, rimasta priva di risposta, allarcivescovo della natale Perugia: il principale resoconto delle quali, speculativo e biografico, si pu leggere in Battezzati non credenti. Respingere listituzione cattolica significa, in altri termini, respingere quella cristallizzazione del divenire religioso entro la quale affondano le sue radici. , allesatto contrario, nella libert concessa a questo divenire che Capitini scorge la possibilit di accelerare lavvento della realt liberata ed nellatto di voler circoscrivere la Grazia, che egli rinviene il travisamento dorigine nei confronti del Cristo evangelico: partito da questo travisamento il cattolicesimo non pote-

va che avviarsi irreversibilmente su di una linea di insufficienza religiosa, tanto pi stridente e paradossale se costretta a sostenersi sullidea che per ritornare a Cristo non si debba far altro che riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo19. Per Capitini Ges di Nazareth non pu essere ritenuto il Figlio di Dio che scende a redimere gli uomini da una colpa originaria, per il fatto che non si d alcuna colpa originaria in forza della quale luomo insinua nella realt unimperfezione prima inesistente. Il tentativo di rendere conto di Dio nel mondo si snoda in Capitini senza perdere mai di vista la seguente convinzione. E le concezioni, che con la dovuta cautela possono definirsi teologiche, da lui svolte allo scopo di tratteggiare per se stesso prima che per gli altri, come in ogni religiosit genuina con maggior nettezza la sua idea del divino sembrano quasi disporsi a raggiera attorno a questo centro. Lassunto cardinale che in primo luogo ne deriva consiste nel vedere Dio e lumanit implicati in un medesimo processo di liberazione; principio che sottende anche il rifiuto dellidea che unicamente nella fugacit della dimensione terrena si possa giocare il destino eterno delluomo. Non si pu dunque dare qualche cosa di paragonabile a quella creazione dal nulla attraverso la quale, secondo la prospettiva ebraico-cristiana, Dio concede allumanit unesistenza che in origine lui solo a possedere. Colmare questa sperequazione tra Creatore e creatura mi pare sia il principale atto di riscrittura teologica perseguito da Capitini; tentativo che, se ripercorso con chiarezza, contribuisce certo ad illuminare anche quello che potrebbe ritenersi il sorgere aurorale (o uno fra i pi decisivi quantomeno) delle analisi sulla nonviolenza, se vero che una delle fonti concettuali al cui interno la violenza pu annidarsi con maggior facilit a Capitini sembra proprio risiedere nellatto con cui questa distanza tra Dio e mondo viene posta. La trascendenza del Dio cristiano che la tradizione ha perpetuato20 anche se dobbligo tenere conto che lincarnazione aveva manifestato, come mai era accaduto, il senso di una vicinanza assoluta tra lumanit e il divino conteneva in s le potenzialit, concretizzatesi, di introdurre un vasto spazio vuoto tra cielo e terra che luomo poteva essere indotto a riempire facendo uso di un potere autoritario o attribuendo al Padre di bont tratti autoritari. Nello sforzo di erodere questo dualismo tra Dio e mondo Capitini giunge nella compresenza ad una soluzione dal sapore indubbiamente panteistico. Non panteismo nel senso pi elementare di perfetta coincidenza empirica di ogni cosa particolare con Dio, ma in quello di un monismo divino nel quale trova spazio ogni realt vivente. Anche se con maggiore propriet bisognerebbe forse ricorrere al termine panenteismo, per sottolineare con maggiore acutezza lirriducibilit della compresenza al mondo della vitalit naturale: ogni vita si d nella compresenza ed la compresenza ad avvolgere il visibile, non il visibile a contenere la compresenza, perch il valore pi del mondo e ingloba i fatti21. Una qualsivoglia contiguit fra Dio e natura, del resto, proprio quel che Capitini non si stanca di avversare ed escludere, finendo per rimproverare agli stessi pontefici romani di pensare, poco cristianamente, a Dio come ad un semplice imitatore della natura22. E se, giunti a questo punto, non si riuscisse a resistere al fascino tentatore della

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definizione, gli si potrebbe cedere facendo ricorso ad unespressione come panenteismo escatologico, meno suggestiva certamente ma forse pi appropriata di quella di monoteismo aperto coniata da Capitini stesso23. Ma un terreno minato, questo delle definizioni, che credo sia pi lungimirante abbandonare subito. Una volta avviatosi sulla strada che conduce ad anestetizzare il dualismo tra Dio e mondo, Capitini non poteva evitare di incontrare Hegel. Deve infatti ammettere, e nel farlo parrebbe quasi palesare un leggero stupore, una non trascurabile attrazione nei confronti della filosofia hegeliana, dettata, con indiscutibile conseguenza rispetto a tutto il suo discorso del resto, dal movimento con il quale questa si propone di calare gli elementi ideali nella realt24. Ed in effetti, pur con i proficui ed indispensabili confronti che si debbono fare con quel Kant che costituisce il suo principale filosofo di riferimento, non possibile mettere in ordine tutti i tasselli del pensiero di Capitini, senza aver prima compreso adeguatamente questo calare e senza guardare alla nozione hegeliana dello Spirito come continua autoproduzione e della realt umana intesa quale atto di autocreazione progressiva temporale, e non quale dato eternamente identico a s25. Il Dio di Capitini non lAssoluto greco: sostanza immobile originariamente compiuta, da sempre data e da sempre identica a se stessa, ma il motore interno della realt, lintimo dinamismo che le permette di trovare svolgimento e che assieme ad essa si svolge; insomma, il Dio-compresenza non resta statico ma, come lo Spirito hegeliano, diviene; ed in quanto divenire, aperto al futuro, storia. Sottolineare la centralit di questa dinamicit una delle preoccupazioni costanti di Capitini, che in pi di un caso designa la compresenza alla stregua di una Trinit dinamica contrapposta a quella immobile della tradizione26; non tenendo, daltra parte, forse adeguatamente conto del fatto che la stessa Trinit cristiana sembrerebbe suggerire, sotto gli appesantimenti teologici, lidea di una mobilit interna alla vita divina. Eterno perch crescente la formula nella quale Capitini stesso compendia questo dinamismo: e il quadro di riferimento generale parrebbe delineare uneternit che sin dallorigine coinvolge il mondo nel suo crescere eternit che sembra per poter crescere, secondo un procedere hegeliano quanto fichtiano, solo nella misura in cui, nel suo punto davvio, lesistere biologico le si pone di fronte come ostacolo da oltrepassare e correggere: la compresenza idealmente anteriore alla storia27. Lo Spirito si incarna per realizzare il valore e assieme a questo realizzare se stesso, non come nel cristianesimo per mettere riparo ad una caduta, per ricomporre una lacerazione insinuatasi in una iniziale armonia. forse questa la parte pi sfuggente e meno circostanziata del pensiero di Capitini, quella su cui le sue pagine sembrano non volersi mai soffermare con lassiduit dovuta: ma qualche barbaglio pare talvolta riservare chiarimenti improvvisi:
E perch mi sono incarnato? Perch sono sceso in un mondo di limiti, incontro al dolore, alle avversit, alla morte? Potrei dare semplicemente la risposta che lo Spirito ha sempre dato nellintimo di ogni uomo: per attuare il valore. Ma io posso dare unaltra risposta, in cui c unaggiunta religiosa: per attuare la realt di tutti28.

Ne segue, almeno cos mi pare, che leternit non , biblicamente, un dono di Dio alluomo, risultato di un nuovo atto di creazione per mezzo del quale la morte arriva a capovolgersi nel suo contrario, ma tutta lumanit, in quanto parte della compresenza, di per s (al modo greco pi che a quello cristiano) un principio spirituale eterno, e la morte congiunta allincarnarsi, per quanto esperienza abissale, sembra spesso in Capitini ontologicamente funzionale al compiersi di questo eterno29, tanto che da alcuni passaggi si potrebbe persino essere indotti a scorgere in lui una sorta di theologia gloriae della compresenza. Di conseguenza la pienezza, linfinit del valore, in Capitini non si situa allorigine, come nel neoplatonismo o nellinduismo, n allorigine quanto alla fine, come nel cristianesimo (non per lunica prospettiva), ma soltanto alla fine, come in Hegel o Marx, con la grandissima differenza del resto che in lui questa pienezza non il semplice inverarsi di un mondo storico ma una sua decisiva apertura, un ribaltamento a cui faranno seguito successive e potenzialmente infinite, oltre che non determinabili, aperture e tramutazioni allinterno di una realt e di unumanit ormai redente e sciolte dalla morte. C ancora spazio per accennare ad un dilemma, forse pi terminologico che sostanziale, che pu vedere impegnati, difficile dire quanto proficuamente, i lettori di Capitini: quello che verte sulla questione se la sua opera, in ultima analisi, si collochi pi sul versante della filosofia o pi su quello della religione. Affidandosi ad una sorta di deduzione empirica si potrebbe ritenere che, dato lintrecciarsi di temi hegeliani e kantiani che attraversa con assiduit le sue pagine, i panni che meglio gli si addicono siano pi quelli del filosofo che quelli del religioso, e, dal momento che Capitini fa sicuramente un considerevole impiego di strumenti filosofici, definirlo un filosofo non pu certo considerarsi un grave errore concettuale. Si potrebbe, daltra parte, essere indotti ad annacquare la sua religiosit e tentare di relegarla ad una sfera genericamente intimistica, facendo leva sulluso di classiche espressioni capitiniane come esperienza religiosa o persuasione religiosa; ma se questo richiamo alla soggettivit in lui essenziale presupposto che intende indicare, con massima forza, nella religione un coinvolgimento assoluto e personale, senza il quale non si pu essere propriamente religiosi, altres indiscutibile che la sua religione mira a proporsi come religione universale, valida sempre e sotto ogni latitudine. Verrebbe allora automatico dire semplicemente che quella di Capitini, non per nulla kantiano, una religione nei limiti della sola ragione, o affidarsi alla distinzione classica tra religione naturale e religione rivelata. Ma non meno giusto ricordare che molti riterrebbero questa distinzione impropria, dal momento che in ogni forma di religione si d comunque sempre un momento rivelativo e che in una religione naturale questo momento rivelativo semplicemente interno alla ragione stessa. Precisando meglio bisogna allora dire che Capitini non riconosce alcuna rivelazione storica incentrata su di una promessa divina (cosa che, evidentemente, un cristiano fa), ma attesta una rivelazione naturale. Ma per tornare al dunque: religione o filosofia? Mi pare che da una definizione precisa e convincente come la seguente possa giungere una schiarita:

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Lelemento ricorrente in quasi tutte le forme religiose la credenza in una Realt che si distingue o trascende o impregna di un valore pi alto la realt empirica e percepibile []; talora la credenza attesta un Divino o Assoluto (di solito immanente, senza tratti personali: monismo, panteismo). A differenza delle filosofie, la prima questione non riguarda lesistenza di questa entit bens il rapporto da stabilirsi con essa, e questo religione30.

In Capitini questo rapporto si trova al centro, rende centro di vita chi lo sperimenta con pienezza; tale pienezza, laltro punto chiave, induce ad una non accettazione, si impernia su di unansia profonda di rivolta, ispira il dissenso quale culmine ideale di ogni agire:
La religione dissenso con il mondo comesso . La vita religiosa perde il suo senso essenziale se accetta lumanit, la societ, la realt come esse sono31.

Non credo sia sviante insistere sul fatto, troppo spesso relegato ai margini da chi ama insistere sulla sua laicit32, che, al di l di qualsiasi itinerario speculativo, ci che pi conta per Capitini rendere testimonianza e dare impulso allavvento di un nuovo mondo, di un altro modo di esistere: senza pi dolore, n morte.

Salvezza contro istituzione

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Lautoproclamarsi post-cristiano da parte di Capitini stato sovente messo in rilievo; quasi mai ci si per voluti soffermare con il dovuto piglio critico sui non rari passi nei quali il medesimo Capitini sembra prossimo ad intendere la sua religiosit alla stregua di un realizzarsi del cristianesimo stesso, eccone uno fra i pi conseguenti:
Il fatto che i princpi di cui parlo, lavorando per una riforma religiosa, sono nuovi appunto perch il mondo cristiano ha abbandonato quelli originari cristiani a cui, in parti essenziali, questi della riforma di cui parlo sono tanto vicini, e senza dubbio pi vicini che a quelli che tanto mondo cattolico e protestante ha accolto in s33.

Daltra parte, anche il termine post-cristianesimo sembra contribuire a risvegliare questa vicinanza: nel momento in cui Capitini intende porsi oltre le religioni istituzionali, il fatto di assumere come riferimento linguistico proprio la religione cristiana lascia affiorare una sorta di cordone ombelicale forse pi vitale dello stesso atto teso a reciderlo. Ma in effetti, come la citazione precedente pare dimostrare, recidere questo cordone non si direbbe nemmeno essere unintenzione cosciente. In un interrogatorio rilasciato alla Questura di Perugia nel febbraio del 1942 concisamente dichiara: Nei riguardi religiosi io sono per un rinnovamento evangelico, cio secondo lo spirito cristiano34. Ritengo pienamente conseguente sostenere che questo pretendersi post possa illuminarsi di senso soprattutto se messo in relazione ad un proto, se, non dico ricongiunto, ma certamente collocato in parallelo ad unorigine nella quale era radicalmente prioritario quel che il seguito ha provveduto a rimuo-

vere il pi possibile: lattesa impaziente di un mondo salvato. Una volta ancora, lo stesso Capitini ad attestarlo nei toni pi chiari: non questo postcristianesimo, pur privo della lettera e delle strutture storiche istituzionali, attuazione del cristianesimo?35 La redenzione corrisponde in Capitini al significato ultimo che decifra la realt e che permette di leggerla come una storia di salvezza, di intenderla realmente solo nella luce di un schaton che la conclude in quanto luogo di sofferenza. Il tempo non qui, come nei sistemi religiosi induisti, un insieme di istanti omogenei senza inizio e senza fine: intreccio illusorio che per salvarsi occorre squarciare; ma ci attraverso cui la liberazione si manifesta, il latore del senso supremo dellesistere. Dire che questo senso si snoda attraverso il tempo significa prendere atto che per Capitini la relazione salvifica a fondamento del suo agire si colloca, temporalmente, tra un prima e un dopo, e non, spazialmente, tra un alto e un basso. precisamente limminenza di un dopo a trovarsi al centro anche della pagina evangelica. Il non cristianesimo di Capitini acquista lineamenti concettuali meno vaghi, innanzi tutto se inteso quale critica ad una tradizione cristiana di maggioranza che, non marginalmente sedotta da categorie filosofiche elleniche, ha operato una sorta di congelamento di questo dopo (che i Vangeli mostravano di attendere entro scadenze limitate e sulla terra), sostituito da una salvezza gi pienamente costituitasi in una dimensione spaziale altra, in un sopramondo un cielo rivestito dei caratteri di eternit e pienezza dellEssere, separato ed in posizione dominante rispetto ad un mondo sottostante e contingente. La relazione pervasa dal dinamismo tra un tempo, ancora irredento, che si trova prima ed un tempo, redento, che arriver in seguito viene evidentemente convertita ed immobilizzata in quella tra un eterno, come tale compiuto e perfetto, posto sopra ed un tempo, incompiuto e imperfetto, relegato in basso: sopra la Verit sotto la distanza dalla Verit, sopra il cielo sotto la terra. A questa contrapposizione tempo-eternit fanno capo due prese di distanza gi ricordate: il rifiuto di una salvezza mistico-spaziale e quello, pi impetuoso e ribadito, di una istituzione ecclesiastica che, volendosi specchio di questa eternit celeste, occulta la redenzione come evento a venire e futuro: e presentando s come Regno di Dio36 confonde manifestazione del divino e trionfo temporale della Chiesa. Capitini sembra leggere il cristianesimo nella prospettiva di una, pressoch immediata, rarefazione della tensione escatologica iniziale, sigillata dallabbraccio mortale della metafisica greca: qualcosa di molto simile a quella spiritualizzazione nella quale un suo attento lettore come Sergio Quinzio ha scorto una sorta di vastissimo sentiero apocrifo interno alla fede cristiana. Quanto pi Capitini si allontana da questa religione cristiana ellenizzata, tanto pi sembra approssimarsi, s detto, ad un cristianesimo germinale; se vero infatti che per influenza del pensiero greco grava sul cristianesimo il concetto di un Dio totalmente perfetto, senza incremento37, questo stride in primo luogo con lattesa pressante di una realt diversa, liberata (o regno di Dio), cio di una trasformazione della realt e societ attuali, come doveva essere, agli occhi di Ges, il regno di Dio, cio un cielo in terra, nuovo cielo

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e nuova terra (regno dei cieli sta nei Vangeli per non dire di Dio, cio per non fare troppo spesso il nome di Dio)38. Anche per Capitini, come molti altri prima e dopo di lui hanno notato, lattesa impaziente della conclusione di questa realt corrispondeva alla lingua franca del protocristianesimo. Il quadro di riferimento pu completarsi con laiuto del filtro interpretativo di Oscar Cullmann, che ha saputo dare a mio avviso la lettura pi conseguente e convincente della storia salvifica neotestamentaria39. da rilevare in primo luogo che lopposizione fra tempo ed eternit non trova riscontro nella letteratura neotestamentaria e che il cristianesimo primitivo non conosce un Dio fuori del tempo e non vuole affermare che Dio fuori del tempo, ma che il tempo di Dio infinito40. La critica capitiniana ad un Dio abitante di un mondo superiore disancorato dalluomo trascendente, immobile ed onnipotente rivolta ad una ibridazione successiva alla spiritualit neotestamentaria, nella quale, al contrario, Dio piuttosto colui che affranca la realt temporale dallinterno stesso del tempo, e questultimo di conseguenza non risulta qualche cosa di contrapposto a Dio, che vada quindi superato41. Daltra parte si pu anche puntualizzare sia che il termine biblico olam, che riferito a Dio viene sovente tradotto con eterno nel significato greco di atemporale, sembra debba con maggior precisione venir inteso come tempo molto lontano, sia che la stessa parola onnipotenza non propriamente di matrice biblica. Il Dio cristiano a cui Capitini con la sua compresenza si contrappone non si direbbe davvero avere molti tratti in comune con quel liberatore che i Vangeli attendono, nella speranza di vedere presto ricomposta la dolorosa imperfezione del mondo, e Capitini stesso dimostra in pi di un caso di avere ben presente questo punto di tangenza entro la comune radice escatologica: non al Sommo Bene che egli aspira ma al Regno. La storia della salvezza cristiana, Cullmann lo ha sottolineato, si dipana tra un gi e un non ancora: al gi corrisponde lunicit dellevento messianico di Ges di Nazareth, Dio incarnato, al non ancora lavvento definitivo del Regno di Dio. Non difficile riscontare in Capitini un analogo ed al medesimo tempo assai differente rapporto tra gi e non ancora. Il suo gi non Cristo ma la persuasione della compresenza, la percezione pratica di ununit spirituale che regge il mondo e che preme sulla manchevolezza della realt al fine di liberarla, il non ancora questa stessa realt liberata. certamente vero che talvolta Capitini sembra dare risalto unicamente al primo elemento, ed significativo notare che nelle occasioni in cui lo fa finisce per relegare ai margini il ruolo della speranza, oscurata dalla presenza dellatto religioso damore, dal suo essere gi qui; ma altrettanto indubbio che la tensione tra il presente di questo atto e il non ancora della futura realt liberata costella letteralmente la pagina capitiniana e risponde allintima sostanza che sottende per intero la sua esperienza religiosa42. Una lettura di Capitini amputata dello spazio imprescindibile di questo non ancora una lettura che ne tralascia, o ne sottovaluta in modo pregiudiziale, laspetto essenziale, ovvero quel punto terminale a cui tutti i suoi sforzi pratici si direbbero tendere; pi concisamente: una lettura solo etica, una lettura che, a dispetto dei non pochi libri nei quali Capitini tenta, talora certo anche disordinatamente, di erigere a fondamento

del suo pensiero una dimensione religiosa, riduce, con non lieve azzardo, questa dimensione religiosa a dimensione morale. Se si crede che la compresenza si esaurisca in una semplice partecipazione intima della presenza di tutti nella sofferenza come nella gioia, se la si riduce unicamente ad una solidariet spirituale, ad una sorta di memoria sovraindividuale che in qualche modo misterioso il tempo non sovrasta o la si confina nella regione inevitabilmente imprecisa di un limite ideale, si oscura una persuasione che Capitini, perlomeno in quel La compresenza dei morti e dei viventi che costituisce il suo sforzo speculativo pi denso, non lascia passare in secondo piano: lattesa di una tramutazione strutturale della nostra realt, il convincimento che la natura ha il tempo contato43. Allo stesso modo, se non si scorge che limpegno politico di Capitini volto a porre fine alla politica comunemente intesa, che la politica compiuta quella che giunge anche al proprio compimento (che non risiede in una vita civile perfettamente funzionante ma in una vita redenta), che le sue proposte sociali hanno di mira lorizzonte ultimo di una liberazione non classificabile semplicemente come sociale, allora quellampiezza profetica che intesse le sue pagine si sottrae progressivamente allo sguardo. Unaltra tensione, non estranea, innanzi tutto linguisticamente, al cristianesimo, affianca quella tra gi e non ancora: il rapporto tra la libert delluomo e laspetto provvidenziale della compresenza. In Capitini risalta, con una complessiva nettezza, che la trasfigurazione escatologica della realt non si disegna solamente come eventualit, ma come sicuro possesso futuro44. Tanto sollecita la sua preoccupazione di salvaguardare luomo da un determinismo che lo privi di ogni reale possibilit di scelta, quanto salda la fiducia nella certezza di una direzione: Vi dir che trovo sempre molto bello e profondo questo parlare di piani di Dio, di infinita capacit dello Spirito di provvedere, da par suo, ad ogni punto del suo manifestarsi: ci che lindividuo deve sapere che egli non estraneo a un ordine, a una ragione. Cio egli ha la libert non in quanto staccato da tutto [], ma per stabilire un rapporto con un piano nel quale egli rientri45. Nellagire religioso ogni uomo compie una decisiva apertura che accelera lavverarsi della realt liberata, la cui venuta si direbbe comunque iscritta da sempre nella compresenza: cosa che pu farci dire che ci vuole laiuto di Dio per giungere ad una realt liberata46. Naturalmente, anche questo doppio movimento in cui sintersecano decisione umana e piano divino attecchisce entro un humus che si trova nei cromosomi dellOccidente a causa del cristianesimo: vera e propria cera molle nel cui impasto ogni filosofia della storia ha modellato in seguito le proprie variazioni; non facile, ad esempio, intendere lo storicismo hegeliano alla stregua di una monumentale e grandiosa trascrizione concettuale di tale doppio movimento? Se il Regno come certezza che si sottrae ad ogni forse costituisce poi la demarcazione essenziale che si interpone tra la salvezza cristiana e quella ebraica, occorre dire che entro questa prospettiva il cristianesimo di Capitini ne esce rinvigorito: langelo della storia dellebreo Benjamin guarda al passato attraversato dalloscura angoscia che il suo dolore rimanga irredento e il Regno non si manifesti, la compresenza del cristiano Capitini sembra pervasa dallintima sicurezza che la redenzione pi forte di qual-

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siasi abisso di sofferenza e che ogni frammento disperso del passato finir per ritrovare il proprio posto. Il principio fondamentale della religione aperta che ci salviamo tutti47. In questa affermazione si avverte in primo luogo leco persistente di una presa di distanza da quellidea di una salvezza circoscritta che la religione cattolica ha profondamente inglobato in s. Nulla suona forse a Capitini pi estraneo di una simile delimitazione, il prendersi a cuore la sorte di ragni, gatti, usignoli fa nella sua pagina da ripetuto contrappunto alla dedizione riservata alla vita umana: nella compresenza nessuna creatura vivente, nemmeno la muta manifestazione del mondo minerale, soggiace ad un definitivo annichilirsi. Indubbio che per rinvenire limpronta di una simile globalit occorra guardare pi allOriente che allOccidente. Ma altrettanto indubbio, senza voler protrarre pi di tanto un discorso virtualmente amplissimo, che anche allinterno dei secoli cristiani si possano rintracciare esempi, certamente piuttosto infrequenti, di illuminata partecipazione alla vita animale Francesco dAssisi il primo ovvio nome a venire alla mente. E, pi in generale, non si pu certo non vedere che, nonostante i numerosi passi evangelici che disegnano la realt di una punizione eterna, lidea di una salvezza riservata al cosmo nella sua interezza non aliena allo spirito cristiano: dal mirabile squarcio paolino in cui si coglie che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto (Rm 8, 22), alla reintegrazione assoluta dellapocatastasi di Origene, che lo stesso Capitini in pi di unoccasione rammenta, fino alle variazioni origeniste di von Balthasar o alle rincuoranti pagine di Maurice Bellet e Adriana Zarri nel secolo appena concluso. Quel che di religioso si trova in Capitini allinsegna di sovrapposizioni che possono turbare gli amanti delle delimitazioni rigorose; del tutto comprensibile che sia di prammatica riservargli letichetta di pensatore confuso, inutilmente rapsodico, responsabile di accostare autori che i canoni della cultura ufficiale pretendono inavvicinabili; la stessa difficolt ad inquadrarlo senza ambagi nel pensiero laico o in quello religioso sintomo di un certo disagio speculativo che la sua figura contribuisce ad evocare. Ma la confusione che la pagina di Capitini solleva pi sovente frutto di una volont di classificazione di chi se ne fa interprete. Se Capitini si distingue per essere uno dei pensatori italiani peggio studiati, lo si deve principalmente al fatto che la sua esperienza intellettuale , in assoluto, una fra le meno scolastiche che si possano immaginare. Proprio il rapporto con la religione cristiana mi pare ne costituisca un esempio fra i pi illuminanti. Il cristianesimo nelle sue mani da un lato, disancorato dalla sua consistenza storica, si volatilizza: Ges non pi limmagine di Dio, ma tutto lo in misura uguale a lui, la mediazione non Cristo ma la compresenza; dallaltro se ne coglie, con precisione ignota a numerose menti cristiane, il capovolgimento rivoluzionario, facendone brillare la purezza del nucleo escatologico e la conseguente insopprimibile protesta contro quel che di cieco ed impietoso si annida entro le pieghe del potere terreno. Capitini recepisce in pieno un germe religioso introdotto dalla coscienza cristiana: labbattimento del limite. Il venire della salvezza spazza via ogni ritaglio gerarchico, ogni spazio circoscritto: questo il principale asse di collisione tra

cristianesimo e societ classica. Ne deriva lannullarsi del sacro inteso quale luogo o fatto delimitato, al cui interno una forza divina manifesta lincombere della propria potenza ad un mondo che tale potenza non possiede. Questa divaricazione tra sacro e profano rispecchia quella tra eternit e tempo, alla base una medesima sperequazione tra un dominante e un dominato. questa sperequazione che Capitini vuole recidere, tagliando alla radice ogni forma di sapere aristocratico, ricomponendo qualsiasi spaccatura (produttrice per lui di violenza, sostenuta dalla violenza) che sottrae alluomo la possibilit di entrare liberamente in contatto con la pienezza di senso che lo costituisce. Ma nel designarsi Chiesa del cristianesimo Capitini ravvisa limmediato risorgere del limite: alla Chiesa soltanto spetta dessere quel luogo circoscritto che contiene un rinvio allulteriorit; e il sacro di cui si fa immagine rimane ancora il sacro cosmico, precristiano, segnato dallattributo di una potenza schiacciante: ne sintomo quella monarchicizzazione di Ges che replica e moltiplica la divisione terrena fra sovrano e sudditi, cos come la potenza soprannaturale del sacro non rimanda che ad un accrescimento di quella naturale. Se Capitini ascrive a merito della filosofia moderna quella linea che da Cartesio a Hegel lo sviluppo della familiarit col sacro48, non lo fa per espellere dallesistenza la dimensione sacrale, ma per estendere il sacro ad ogni aspetto della realt. Il sacro che apre autenticamente alla percezione di Dio, che sporge verso Dio, non si trova in contatto con quanto dispone della forza ma con quel che della forza privo, riluce nellimpossibilit di agire non nellimpresa coronata dal successo, nella prostrazione, non nel trionfo. Il sacro di apertura, come lo chiama Capitini, rimanda ad uno spazio allargato: pu manifestarsi ovunque, questo il nocciolo del ribaltamento49, perch ogni cosa va soggetta alla debolezza. Il rischio di un simile allargamento, che la vocazione ad annullare i limiti alimenta, per tutto fuorch esiguo. Listituzione Chiesa, nei suoi intenti pi nobili ed acuti, ha rappresentato la percezione distinta di questo rischio supremo, di quanto di insostenibile emerga in una radicale passione salvifica: il suo pericoloso inclinare verso lindistricabile, il caos, il disordine sottratto ad ogni regolazione. Ma il terrore, del tutto legittimo e comprensibile, di un disordine da cui potrebbe germinare un male pi vasto e distruttivo di quello che lordine comprime nella rigidit dei meccanismi che presiedono al suo funzionamento, il terrore che sopraggiunge, inevitabile, in chi nella salvezza non ha fiducia. Il limite che il sacro incorpora in s sta in luogo di una redenzione assente: la Chiesa, come tale, si fonda sulloscuro presentimento che il Regno non verr, o quantomeno si trovi ben lontano dallessere prossimo. Anche Capitini costeggia a volte la spirale senza uscita a cui lassillo dellintegrit della liberazione pu condurre: come cogliere questa condizione pura se non negando tutto e tutti, con il pericolo di ritrovarsi nellarbitrario, nietzscheano od estetico, perch tale purezza deve respingere per conquistare se stessa, anche gli esseri individuati e i valori?. Ma Capitini crede nella salvezza, e subito dopo si limita a ricordare che sufficiente connettere questo stato puro con la compresenza, aperta alle conseguenti liberazioni50. Forse per figurarsi il crinale, esilissimo, su cui questa persuasione si direbbe procedere possono

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bastare due versi di Hlderlin, molto noti: Ma dove il pericolo, cresce / anche ci che salva; Ernst Bloch li ha ribaltati in uninversione che non ne intacca il senso: dove cresce ci che salva, cresce anche il pericolo. La via alla redenzione tracciata da Capitini una via arituale, intenzionalmente costruita sullespunzione di qualsiasi elemento riconducibile allo spazio del rito, del solidificarsi della ripetizione: nessun vago ricorso al potere salvifico di simboli, formule liturgiche, dettami dogmatici, potr esservi rinvenuto. Possono invece riscontrarsi con chiarezza alcuni tratti ascetici di rinuncia: lesigenza di una riduzione dei beni materiali fino ad una sfera prossima allindispensabile, linclinazione ad astenersi dalla pratica sessuale. Ma, soprattutto, la salvezza in Capitini si lega allesercizio della virt, si attua in un costante sforzo di adeguazione agli obblighi morali che la ragione pratica ci rivela. Il nome unico con cui pu dirsi lecito sintetizzare tale virt certamente quello di nonviolenza. Questultima rappresenta, in un mondo non ancora salvato, ununit inscindibile di metodo e contenuto. La nonviolenza metodo nella misura in cui si presenta come ods, come strada attraverso la quale un fine pu dirsi raggiungibile: la realt liberata costituisce laspirazione cardine del nonviolento poich la realt liberata corrisponde al fine supremo a cui la nonviolenza tende. Ma, daltro canto, la nonviolenza non di meno un contenuto, un valore in s, autonomo; anzi, si potrebbe addirittura notare che la sua valenza metodica equivale al segno stesso dellimperfezione della realt presente: in una realt liberata, presumibilmente, questa qualit di metodo cederebbe per intero il proprio posto alla pienezza del contenuto. Impossibile, come vuole Capitini, raffigurarsi in tratti definibili una realt siffatta, anche se tutto nelle sue allusioni lascia credere che a quel punto la nonviolenza, divenuta possesso ordinario, perder la forza, che attualmente la caratterizza, di impatto rivoluzionario, e non solleciter pi la speranza di una tramutazione del reale, perch sar il reale.

1 A. CAPITINI, Attraverso due terzi del secolo, in Scritti sulla nonviolenza, a c. di L. Schippa, Protagon, Perugia 1992, p. 4. 2 ID., Vita religiosa, in Scritti filosofici e religiosi, a c. di M. Martini, Protagon, Perugia 1994, p. 108 (dora in poi abbreviato in Scritti). Se vero che proprio allinizio di Nuova socialit e riforma religiosa (Einaudi, Torino 1950, p. 11) Capitini fa riferimento al campo economico-politico opposto a quello etico-religioso, non credo tuttavia che sia possibile ravvisare qui una reale contraddizione rispetto al passo citato nel testo: parrebbe trattarsi pi semplicemente di una sorta di oscillazione linguistica oscillazione che a proposito di questo tema si manifesta non poche volte nelle sue pagine; risulta infatti pi opportuno e pi appropriato distinguere (e non opporre) in Capitini una sfera etico-politica da una sfera etico-religiosa, in cui letica assume quasi le sembianze di una sorta di copula in grado di gettare un ponte tra religione e politica: la dimensione etica pu rinchiudersi nel solo ambito politico o aprirsi allesperienza religiosa. lecito figurarsi la politica, letica e la religione accostate su di una linea continua nella quale lultimo termine che d pienamente senso ai primi due, ma i primi due sono in grado di fornire allultimo contenuti vitali e spazi di applicazione. 3 ID., Educazione aperta, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 313. 4 ID., Elementi di unesperienza religiosa (rist. anast. delled. Laterza, Bari 1947), Cappelli, Bologna 1990, p. 28. Capitini, lettore appassionato di Michelstaedter (citato, tra laltro, sin dagli

Elementi), avvertiva certamente gli echi delle pagine di questo in cui la purezza dellagire trova identificazione con un beneficio svincolato da qualsiasi rimunerazione sociale: Poich prendi parte alla violenza di tutte le cose, nel tuo debito verso la giustizia tutta questa violenza. A toglier questa dalle radici deve andar tutta la tua attivit: tutto dare e niente chiedere: questo il dovere dove sono i doveri e i diritti io non so, C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a c. di S. Campailla, Adelphi, Milano 1995, pp. 41-42. 5 Se si fatto uso di questo verbo anche per non dare adito ad uneventuale confusione: lidea, cio, che il piano della vita naturale e delletica costituiscano qualcosa di indistinto, quando si tratta di ambiti ben differenti. Capitini stesso a palesarlo nel miglior modo possibile: Vedendo ogni essere, io posso scorgere in lui tre aspetti: quello naturale biologico (un essere vivente); quello spirituale (un essere che ha la coscienza di diritti o doveri, personalit); quello religioso (un essere che va oltre i limiti di questa realt imperfetta, dove c il male e la morte), dal che si pu dedurre che laspetto spirituale termine adoperato da Capitini talora con ambiguit quello che coincide con la dimensione etico-politica, cfr. A. Capitini, Religione aperta, in Scritti, cit., p. 563. 6 Ivi, p. 593. 7 Se lacosmismo germoglia, letteralmente, allinsegna di una negazione sottrarsi al mondo (non essere vinti dalla sua forza annichilente) la parola dordine, lannuncio di Cristo che dichiara di avere vinto il mondo sottende ed alimenta lirruzione salvifica del cristianesimo. 8 A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, in Scritti, cit., p. 396. 9 Ibidem. Nelle rarissime occasioni in cui Capitini inquadra la propria posizione ricorrendo al termine misticismo, non manca di porgli accanto laggettivo pratico (ad esempio Educazione aperta, vol. I, cit., p. 9): il perch si cerca di spiegarlo in quel che segue. 10 L. DUPR, Misticismo, in MIRCEA ELIADE, a c. di, Enciclopedia delle religioni, vol. III, Jaca Book, Milano 1996, p. 397; allinterno di questa voce si veda la spiegazione pi dettagliata dei due filoni mistici ai quali si fatto cenno. 11 Se poi si vuole pensare al Corpo Mistico paolino, asserendo che la compresenza intende essere una sorta di estensione di questo ad ogni realt esistente e non ai soli fedeli in Cristo, losservazione resta in linea con le osservazioni di Capitini stesso, cfr. ad esempio Battezzati non credenti, Parenti, Firenze 1961, pp. 100-1. 12 Si pu seguire lintrecciarsi di queste due dimensioni dellamore nella tradizione cristiana nel classico, ma anche assai contestato, studio di A. NYGREN, Eros e agape, trad. it., Il Mulino, Bologna 1971. Non credo si possa trovare una parola di introduzione alla compresenza capitiniana pi appropriata di quella che Maurice Bellet indirettamente ci fornisce, quando parlando del cristianesimo sostiene che se c una verit fondamentale del Vangelo che ci che primo non lio, il soggetto, il solo che cerca eventualmente altre persone, ma la comunione: noi umani insieme, con qualcosa tra noi che non possiamo afferrare e che permette a ciascuno di risorgere alla propria esistenza., M. BELLET, M. CACCIARI, C. MOLARI, Il cristianesimo sta morendo?, laltrapagina, Citt di Castello 2001, p. 11. 13 Ritorna pi volte in Capitini questa distinzione di Angela da Foligno, cfr. ad esempio Severit religiosa per il Concilio, De Donato, Bari 1966, p. 71; Nuova socialit, cit., p. 184; Teismo e compresenza, p. 367 (v. nota seguente). 14 A. CAPITINI, Teismo e compresenza, in M. SOCCIO, a c. di, Tre scritti inediti di A. Capitini, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, Serie III, V, 1 (1975), p. 372. Questo breve testo, che riproduce la relazione presentata al Secondo Convegno su Teismo e Ateismo, tenutosi al C.O.R. di Perugia il 15 gennaio 1967, rappresenta forse quanto di pi limpido Capitini abbia mai scritto su alcuni nodi cruciali del suo sentire religioso. 15 Non ci si lasci sviare da unespressione come Dio anonimo, della quale Capitini si serve allo scopo di definire il suo assoluto religioso. Nel Dio anonimo di Capitini non risaltano minimamente i tratti di una divinit sconosciuta ed abissale, quale lUngrund di alcuni mistici. Lanonimit non corrisponde qui ad una mancanza di nome ma, gandhianamente, al privilegio di possederli tutti, con la conseguente prossimit a chiunque (cio ogni creatura) si qualifichi come detentore di un nome. 16 A. CAPITINI, Religione aperta, cit., p. 484; cfr. anche La compresenza dei morti e dei viventi, cit., pp. 361, 376, 435-40; Il fanciullo nella liberazione delluomo, Nistri-Lischi, Pisa 1953, pp. 79, 189, 218, 255; Latto di educare, La Nuova Italia, Firenze 1951, p. 91; Educazione aperta, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 22.

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F. TRUINI, Aldo Capitini, Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1989, p. 126. A. CAPITINI, Religione aperta, cit., p. 627. 19 ID., Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze 1957, p. 54. 20 Una ricostruzione essenziale, ma convincente e piuttosto esauriente, di questo processo, che chiama ovviamente in causa, come pi avanti avverr anche qui, la metafisica greca, si pu trovare in M. RUGGENINI, Il Dio assente. La filosofia e lesperienza del divino, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 41-61. 21 A. CAPITINI, La realt di tutti, in Scritti, cit., p. 186. 22 ID, Discuto la religione di Pio XII, cit., p. 26. 23 Cfr. ID., Il fanciullo nella liberazione delluomo, cit., p. 131. 24 ID., Attraverso due terzi del secolo, cit., p. 13. 25 A. KOJVE, La dialettica e lidea della morte in Hegel, 2 ed. (1 ed. 1948), Einaudi, Torino 1991, p. 149. A dire meglio si tratta semplicemente di notare con attenzione la linea di continuit, quandanche eretica, che si snoda tra Kant e Hegel: anche Kant un filosofo dello spirito, e pure Capitini lo . 26 Cfr. ad esempio A. CAPITINI, Lettere di religione, in Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 199 o Battezzati non credenti, cit., p. 177. 27 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 391. 28 ID., La realt di tutti, cit., pp. 199-200. 29 La tensione tra questo abisso e questa funzionalit sembra rispecchiata da passi come il seguente: La nascita come essere vitale, lessere una vita, una forza, una sensibilit, una corporeit, una realt in una immensa realt nello spazio e nel tempo, era ed un mezzo nei riguardi della compresenza; e invece diventa innumerevoli volte un ostacolo; e perci ogni essere anche un Cristo che ne soffre, in tante occasioni e infine nella morte che ogni essere incontra, dove lindividualit come potenza sconfitta, e si fa pi evidente lindividualit nella compresenza. (A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., p. 316). Capitini non accetta lidea paolina che uomo e natura siano colpa e di conseguenza respinge la necessit di un sacrificio riconciliatore tra Dio e mondo. Ma anche per lui il mondo in quanto natura, in quanto divenire secondo vitalit e potenza, non rivestito da alcuna nietzscheana innocenza: la fine di questo divenire il fuoco secondo cui il suo sguardo si regola, agire religiosamente redimere (verbo che lo stesso Capitini impiega). E dal momento che la redenzione non una pezza che Dio costretto ad applicare ad un cosmo prima intatto poi lacerato, se si cerca di andare al fondo del suo discorso, nonostante la partecipe coscienza della tragica insufficienza della natura, su questa stessa insufficienza pare spesso ruotare una sorta di redenzione interna al divino, qualcosa di molto simile ad un processo teogonico, per mezzo del quale Dio diviene pienamente Dio o, per cos dire, aumenta la propria estensione. 30 O. AIME, M. OPERTI, Religione e religioni. Guida allo studio del fenomeno religioso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 249-50. 31 A. CAPITINI, Lettere di religione, cit., p. 262. 32 Proprio Capitini ha segnalato linsufficienza del laicismo nel suo accettare che la realt si realizzi cos come ora; che nel mondo ci sia il male e la morte; e, pur col programma umanistico e prometeico di umanizzare il mondo, la realizzazione puramente scientifica e politica, dichiarando che luomo non pu cercare altro, Religione aperta, cit., p. 566. Si pensi solo a quanto sia riduzionistica la lettura di coloro che guardano a Capitini essenzialmente come lautore di Le tecniche della nonviolenza, relegandolo, di fatto, al ruolo di precursore ed antesignano di quanti dopo di lui, come ad esempio Gene Sharp, hanno indagato in modo assai pi capillare le dinamiche dellagire nonviolento. 33 A. CAPITINI, Lettere di religione, cit., p. 223. 34 C. CUTINI, a c. di, Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988, p. 70. 35 A. CAPITINI, Nuova socialit, cit., p. 220. 36 ID., Aggiunta religiosa allopposizione, Parenti, Firenze 1958, p. 168. 37 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 451. 38 ID., Battezzati non credenti, cit., p. 147. 39 Il rimando prioritario a Cristo e il tempo e a Il mistero della redenzione nella storia, tr. it. Il Mulino, Bologna 1965, 1966. 40 O. CULLMANN, Cristo e il tempo, cit., pp. 87 e 94.
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Ivi, p. 73, n. 25. Basti questo esempio: apertura ad una realt di tutti, liberata dalla finitezza, il cui superamento , s, gi nella coscienza appassionata della finitezza stessa, ma procede e sbocca escatologicamente in una realt di tutti, A. CAPITINI, Educazione aperta, vol. I, cit., p. 10. 43 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 408. 44 Fra i non pochi passi che si possono citare a questo proposito si veda Religione aperta, cit., p. 521, La compresenza dei morti e dei viventi, cit., pp. 262, 343, 438. 45 ID., Educazione aperta, vol. II, cit., p. 146; due sono infatti gli aspetti che si intrecciano: che esiste una libert di autodeterminarsi; che la religione ha un suo progresso, sopra ai cicli storici, ivi, p. 149. Si pu anche accennare qui, argomento che se ben evidenziato richiederebbe certo pi pagine, al saldarsi in Capitini di due differenti modi di manifestazione del divino presenti nella tradizione ebraico-cristiana: quello della progressiva rivelazione di Dio e quello di una rottura radicale ed improvvisa; si in precedenza tentato di rendere questa duplicit facendo ricorso ad unespressione come successive aperture, dove a successive corrisponde lelemento della continuit e ad aperture quello della rottura a Ges, Francesco dAssisi e Gandhi si devono ad esempio alcune fra queste aperture, nessuna delle quali si per rivelata definitiva. 46 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 266. 47 ID., Religione aperta, cit., p. 476. 48 ID., Educazione aperta, vol. II, cit., p. 144. 49 per lecito domandarsi se a questo punto sia ancora corretto far uso del termine sacro, dal momento che in tutte e tre le lingue cardine dellOccidente (ebraica, greca, romana) esso rimanda proprio al significato di separato, e cio costituito in opposizione ad un ambito profano, o non sia preferibile parlare di passaggio, come direbbe Lvinas, dal sacro al santo. 50 A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 443.
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GENIO E DIMENSIONE ESTETICA IN SCHOPENHAUER. UNA PROPOSTA DI LETTURA


di Cosima Fersini

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Questo intervento vuole essere solo una rilettura di alcuni nodi concettuali, relativi alla nozione di genialit e il suo riferimento alla produzione artistica e alla condizione estetica, nellopera maggiore di Arthur Schopenhauer. Linteresse per larte matura, in Schopenhauer, nel periodo tra il 1814 e il 1818 quando, ritiratosi a Dresda, si accosta con convinta adesione alla filosofia di Kant, al buddismo e, nello stesso tempo, ha lopportunit di conoscere artisti e critici darte che condizionano e convogliano la sua attenzione verso luniverso estetico. Cos larte diventa, nella sua teorizzazione, la prima via di liberazione dal dolore esistenziale. Molti studiosi hanno dedicato le loro riflessioni alla teoria dellarte di Schopenhauer. Tra questi, pensiamo a Elisa Oberti che ha tradotto lintera sezione dellopera principale del filosofo tedesco, quella che contiene il tema dellarte1. Infatti, come noto, il terzo libro de Il mondo come volont e rappresentazione interamente dedicato allarte, a ci che rappresenta, a come si estrinseca e al suo fine ultimo. Il tema estetico, in Schopenhauer, il parto di unesigenza profonda del suo sistema. Potremmo dire che cos stato pure per alcuni suoi predecessori tra i quali, ad esempio, Kant. Questultimo si accostato al problema dellarte principalmente per conciliare le esigenze delluomo-soggetto di conoscenza e quelle delluomo-soggetto di moralit attraverso il giudizio riflettente che, libero dalle condizioni fenomeniche del giudizio determinante, guida verso lin-s. Hegel, dal suo canto, ha incastonato anchegli il momento dellarte nel proprio pensiero ma solo come gradino propedeutico alla filosofia, nella sintesi della quale trova soluzione. Tutto ci presente tanto nella Enciclopedia delle scienze filosofiche quanto nelle lezioni di Estetica2. Il panlogismo hegeliano3 si esprime nel fascino della sua imponente unit e della monumentale costruzione sistematica della sua filosofia. In questa costruzione , senza dubbio, insito anche ci che riesce a soddisfare la domanda estetica; e proprio questo svolge un ruolo decisivo a favore di Hegel rispetto a Fichte ed Herbart. Per Schelling il discorso diverso. Anzitutto perch determinante la sua avversione radicale per la filosofia di Hegel e la propensione per quella di Kant. Scrisse Andr Cresson: Qui bene amat bene castigat. Questa formula classica caratterizza fortemente latteggiamento che Schopenhauer ha creduto di dover prendere nei confronti di Kant. Quando tratta di Fiche di Hanswurst di Kant (vale a dire Guignol), quando non parla mai di Hegel se non lo qualifica pesante pedante imbecille, quando ha parole cos carine per quasi tutti i filosofi illustri, suoi contemporanei, Schopenhauer fa una eccezione per Kant. Dichiara di agganciarsi direttamente a lui. Lo d per suo maestro4.

Tornando alla filosofia schopenhaueriana in rapporto a Hegel, non troveremo mai, per, il senso ottimistico del divenire e dello sviluppo che lessenza della dottrina hegeliana, n la fiducia nella forza della Ragione, con cui Hegel elude le attestazioni di Schopenhauer sulle miserie del mondo. Il problema della trasformazione dellinfelicit in felicit la sorgente comune della Filosofia della religione, della Filosofia della storia, della Logica e dellEstetica, appunto. Schopenhauer ha sradicato lIdealismo hegeliano, propriamente logico ed ottimistico, impiantando il suo sistema in cui centrale il dolor perennis che deriva dal conflitto tra soggettivit e mondo della Volont. Quella di Schopenhauer la filosofia par excellence degli artisti; cos giudica Thomas Mann5, soggiungendo che essa tale anche, ma non solo, per il posto cospicuo che vi occupa la teoria dellarte. Stefano Zecchi, allievo di Enzo Paci e filosofo interno allarea della Fenomenologia, ha dedicato il saggio apparso su Estetica 1994 a Eros e decadenza nellestetica di Schopenhauer. Il titolo del saggio racchiude in s il significato concettuale del romanzo. Schopenhauer colui che ha portato la filosofia orientale nel nostro sistema; colui che, dopo Pascal, ma contemporaneamente allo stordimento logistico hegeliano, ha mostrato laltra via del romanticismo: la via dellarte, dellintuizione corporea. Il tema dellarte introdotto e sostenuto dalla dottrina delle idee, una delle sezioni pi importanti del sistema schopenhaueriano, ripresa dalla teoria platonica delle idee. Questa dottrina assecondava la Weltanschauung dellepoca e la visione romantica. In Schopenhauer lidea platonica rappresenta la forma che assume limmediatezza romantica, cio il rifiuto dellintermediazione tra finito e infinito6. Questo rifiuto porta a cercare levanescenza del corpo e, siccome per Schopenhauer esso dipende dalle forme del principio di ragione, la trasparenza assoluta del corpo la si ottiene eliminando tali forme. Tutto questo avviene nellarte. Nella contemplazione estetica si ha quel piacere senza interesse di cui aveva gi parlato Kant nella Critica del Giudizio e che in Schopenhauer diventa liberazione dallindividuazione della volont. Schopenhauer condivide la definizione di idea data da Platone, e da questa definizione fa scaturire, poi, il nesso tra idea e volont, poich, per il filosofo tedesco, le idee costituiscono i gradi di oggettivazione della volont, che trova la sua pi alta espressione nelluomo. In particolare, per conoscere le forme essenziali, che chiama idee, seguendo la dottrina platonica, necessaria, per lui, la contemplazione estetica, segno della capacit umana di sottrarsi al dominio della volont7. Con idea intenderemo indicare ogni grado determinato e costante di oggettivazione della volont come cosa in s, quindi come estranea alla pluralit; in relazione con gli oggetti particolari questi gradi sono forme eterne, o modelli, conferma Schopenhauer8. La volont, dunque, si oggettiva attraverso luomo e attraverso le idee. Queste ultime si manifestano in uninfinit di esistenze particolari che costituiscono nientaltro che copie di esse: ci significa che tra lidea e il fenomeno esiste un rapporto da modello a copia. Ogni forza naturale generale ed originaria non dunque altro, nella sua intima essenza, che unoggettivazione della volont in un grado inferiore; ciascuno di questi gradi unidea eterna nel senso di Platone. La legge di natura sarebbe la relazione tra lidea e la forma del suo fenome-

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no. Questa forma il tempo, lo spazio e la causalit, legati tra loro da connessioni e relazioni necessarie e indissolubili. Mediante il tempo e lo spazio lidea si moltiplica in innumerevoli manifestazioni: lordine poi, secondo cui tali manifestazioni si producono nelle forme della molteplicit, rigorosamente determinato dalla legge di causalit: la quale segna in qualche modo il limite fra le manifestazioni delle differenti idee, ripartendo tra loro il tempo, lo spazio e la materia. Questa legge ha quindi una relazione necessaria con lidentit di tutta la materia data, costituente il substratum comune dei diversi fenomeni9. Vecchiotti, uno dei principali rappresentanti della critica schopenhaueriana italiana, ripropone il pensiero del filosofo tedesco a questo proposito, affermando che le idee si presentano nei gradi pi bassi come forze generali della natura; esse appaiono senza eccezione in ogni materia, come peso, impermeabilit e in parte si distribuiscono senza ordine in tutta la materia esistente, cos che alcune dominano su questa materia, altre su quella, che ne appunto per questo specificata10: a questo gruppo appartengono la solidit, la fluidit, lelasticit, lelettricit, il magnetismo, le propriet chimiche e le qualit di ogni tipo11. Queste idee non sono cause o effetti, ma condizioni di tutte le cause e di tutti gli effetti. Ora, siccome spazio, tempo e causalit appartengono ai fenomeni dellidea e non alla volont, lidea si manifester allo stesso modo in tutti i fenomeni di una tra le forze naturali: questa costanza nellapparire, quando si presenta una serie di circostanze, si chiama legge naturale12. Possiamo, in tal modo, riconoscere una visione dinamica della vita della natura in Schopenhauer, visione che scaturisce in larga misura dallevoluzionismo filosofico della scuola di Schelling e da quello empirico delle scuole naturalistiche delle quali lo Schopenhauer vuole riprendere e superare il momento meccanicistico13. La concezione di idea dello Schopenhauer e quella di Platone sono, dunque, abbastanza vicine. Platone considerava loggettit reale come doxa, cio opinione, semplice copia delleidos, cio dellinsieme di idee perfette che avevano un loro mondo. Anche Schopenhauer vede la rappresentazione come semplice copia di idee perfette che per sono per lui gradi di oggettivazione della volont. Noi conosciamo, quindi, quello che ci appare, quello che percepiamo con i nostri organi di senso e che cogliamo con la ragione individuale. E le idee? possibile conoscerle in qualche modo? La risposta che d Schopenhauer affermativa e radicale: La conditio sine qua non affinch le idee divengano oggetto di conoscenza, la soppressione dellindividualit del soggetto conoscente14. Lunico modo per conoscere le idee , dunque, quello di abbandonare il principio di ragione e, nella contemplazione degli oggetti, fare in modo che percipiente e percepito divengano una cosa sola senza relazione alcuna, per raggiungere un unico scopo: lannientamento dellindividuo nella contemplazione e la sua nascita come soggetto conoscente puro che al di l dal dolore, dalla volont e dal tempo15. Quando luomo, lasciata la conoscenza dominata dal principio di ragione sinnalza con la concezione delle idee oltre il principium individuationis, la

volont, come realt in s, manifesta la propria libert mettendo il fenomeno in contraddizione con se stesso. Questo fatto, chiamato dallo Schopenhauer abnegazione16, pu spingersi fino alla vera e propria soppressione dellessenza in s del nostro essere; lunico e vero modo con cui la libert della volont come cosa in s pu insinuarsi nel campo del fenomeno. Solo allora il mondo come rappresentazione appare puro, intero; e si realizza la perfetta oggettivazione della volont, proprio perch lidea la sua unica, adeguata oggettit. Lidea include in s, contemporaneamente, soggetto e oggetto perfettamente in equilibrio tra loro come costituenti la sua forma unica. Questa coscienza, che ci permette, poi, di comprendere linsieme delle idee, costituisce, in senso vero e proprio, tutto il mondo come rappresentazione17. Da questo consegue che il soggetto conoscente puro, conoscendo loggetto conosce se stesso, in quanto la volont delloggetto e quella del soggetto costituiscono un unicum. Da queste premesse, ci si chiede quale sar la specie di conoscenza in cui si potranno contemplare le idee. Schopenhauer giunge alla conclusione che questa speciale conoscenza sia larte, lopera del genio. Ci per due motivi: prima di tutto, perch ci che noi vediamo nel quadro o nella poesia sta fuori da ogni possibile rapporto col nostro volere; poi, perch ci non esiste gi in s che per la conoscenza e si volge immediatamente soltanto ad essa18. Larte concepisce con la pura contemplazione riproducendo, di conseguenza, le idee eterne, cio questi archetipi essenziali e permanenti presenti in tutti i fenomeni del mondo. A seconda, poi, della materia usata per questa riproduzione, prende il nome di arte figurativa (o plastica), di poesia o di musica. Larte nasce, dunque, dal rapporto con le idee ed ha come unico fine la comunicazione di questo19. Schopenhauer contrappone questo tipo di relazione uomo-idee alla conoscenza razionale, conseguente al principio di ragione20, che ha valore ed utilit solo nella vita pratica e nella scienza: Larte si attiene dunque alloggetto singolo, considerato a s stante; ferma la ruota dei tempi; svanite le relazioni, lessenziale, lidea, formano il suo unico oggetto. La conoscenza che in grado di fare astrazione dal principio di ragione la contemplazione del genio, ed ha valore ed utilit soltanto nellarte. La conoscenza razionale simile alle gocce innumerevoli di una cascata, che cadono con violenza, assumono mille forme svariate, senza un attimo di riposo; larte larcobaleno che si stende tranquillo sopra questo tumulto infernale21. Il filosofo tedesco sostiene che il momento estetico permette allartista di dimenticare le sofferenze della vita e, al tempo stesso, gli permette di ricompensarsi del dolore che, in qualit di genio, sente in maniera molto forte. Questo avviene perch, nel momento della produzione artistica, lin s della vita, la volont, lesistenza stessa libera da ogni sofferenza e appare alluomo di genio in tutto il suo splendore. Egli in grado di giungere a questa conoscenza pura e di riprodurla artisticamente compiendo cos un sacrificio perch: pi pura la conoscenza e pi il soggetto conoscente puro soffre22. Schopenhauer sostiene che luomo che vuole un uomo privo di qual-

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cosa. Da ci la sofferenza e il bisogno, la volont di appropriarsi delloggetto mancante. Una volta raggiunto la sofferenza cessa, ma solo per pochi istanti, perch molti altri desideri prendono il posto di quello soddisfatto, in un processo infinito: lappagamento , quindi, solo apparente23. Nessun voto realizzato pu dare una soddisfazione duratura e inalterabile; come lelemosina che si getta a un mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i suoi tormenti sino allindomani24. Emblematici, a tal proposito, gli esempi portati dal filosofo tedesco che assimila il soggetto della volont ad Issione, sempre attaccato alla sua ruota che gira; alle Danaidi, che attingono sempre per riempire il vaglio; a Tantalo, eternamente assetato. Tutto questo, e perfino la felicit duratura e il riposo, sono gli effetti della nostra sottomissione alla volont. Quando, per, interviene un motivo esterno o una causa interna che ci libera dalla schiavit della volont, allora avremo una conoscenza libera e concepiremo le cose in modo puramente oggettivo, senza relazioni alcune: solo cos saremo felici25. Questi momenti di liberazione ci fanno entrare in una dimensione altra, in cui viviamo il benessere, la pace spirituale e la calma dellanimo, situazione simile allatarassia di cui parlava Epicuro26. Questo lo stato di contemplazione del genio. Basta uno sguardo sulla natura a liberarci, anche solo per un attimo, dai dolori e dalle pene che affliggono la volont; infatti, se riusciamo a liberarci dal giogo della volont e ci eleviamo alla conoscenza pura, non abbiamo pi privazioni e, quindi, bisogni, desideri e tantomeno sofferenze27. La felicit, dunque, ad un passo da noi, ma ci sfugge come le particelle di mercurio ci sfuggono dalle mani. Schopenhauer, come Leopardi, richiama lattenzione sulla nostra esperienza del dolore28. I dolori della vita, infatti, sono di gran lunga maggiori rispetto ai piaceri e rispetto a quello stato di tranquillit che per Schopenhauer il piacere vero e per Epicuro , come accennato prima, latarassia. Non appena riacquistiamo la coscienza di una sola relazione tra un oggetto contemplato e la nostra volont, infatti, la magia scompare, per cui torniamo ad essere semplici individui, anelli di una catena di cui fanno parte anche gli oggetti, non pi come idee ma come cose. Luomo comune, a differenza delluomo di genio, non in grado di elevarsi al disopra della volont, per cui si serve di una conoscenza logica, razionale29. Ci che allevia il dolore alluomo , dunque, la beatitudine della contemplazione esente da volont, cos che attraverso la memoria del passato ci ritornano in mente solo gli oggetti e non il soggetto sottomesso a volont, con le sue miserie30: per questo motivo, quando siamo angustiati dal dolore, le immagini del passato che ci balenano nella mente, ci danno limpressione di un paradiso perduto31. Leggiamo in Schopenhauer: Possiamo, per mezzo degli oggetti presenti, come per mezzo di quelli lontani, sottrarci a tutte le pene: basta che ci eleviamo alla loro contemplazione pura e oggettiva in modo da crearci lillusione che se questi oggetti sono presenti a noi, noi non siamo presenti a loro; allora, sgravati dal nostro misero io, e divenuti soggetti puri di conoscenza, facciamo tuttuno con tali oggetti, e la nostra miseria diviene allora tanto estranea a noi,

quanto estranea agli oggetti. Non resta pi che il mondo come rappresentazione; il mondo come volont svanito32. Qui si pone il problema cruciale di ogni ermeneutica schopenhaueriana: la volont, allora, una quidditas negativa? Sicuramente, dopo lanalisi della teoria del dolore, risulta chiara la sua negativit, proprio perch la causa prima per la quale lindividuo soffre il conflitto tra volont universale e ragione individuale: la loro coesistenza che provoca dolore. La conditio sine qua non per vivere senza soffrire leliminazione della soggettivit razionale o della volont. Ma quale possibile? Luomo rappresenta il pi alto grado di oggettivazione della volont, ma proprio per questo sottost, come abbiamo detto, al predominio di essa, di cui costituito e dai cui promana. Contemporaneamente, imprigionato nei principi razionali ed intellettivi della sua mente: quindi, non comunque libero. Solo un uomo particolare in grado di raggiungere una libert che gli permette di entrare nella pura contemplazione, assorta per intero nel suo oggetto e di innalzarsi alla concezione delle idee. Questuomo particolare il genio33. Lessenza del genio consiste proprio in unattitudine, che supera la normalit, ad una simile contemplazione, ad entrare cio nellintuizione pura e a perdersi in essa, a liberare la conoscenza dalla schiavit della volont, trasformandosi da individuo a soggetto conoscente puro per un tempo abbastanza lungo da riprodurre le proprie concezioni con i mezzi ben meditati dellarte e per fissare in pensieri eterni ci che fluttua nellonda dei fenomeni34. La conditio sine qua non che permette la manifestazione del genio nellindividuo una somma di potenza intellettuale di gran lunga superiore a quella richiesta per il servizio di una volont individuale35; il surplus di conoscenza che rimane, viene a costituire il soggetto libero da volont, in preda ad un oblio completo della propria personalit e delle sue relazioni. In questo modo si spiega anche la vivacit, cos spiccata negli uomini di genio, che rasenta la turbolenza. Inoltre essi appaiono sempre alla ricerca di oggetti nuovi e pi degni di considerazione; cos come anche di esseri simili a loro, cosa quasi sempre vana36. Mentre luomo comune dunque, pago del presente, di ci che lo circonda e della serenit della propria famiglia, al genio tutto questo benessere negato37. La fantasia stata considerata, da Schopenhauer, compagna del genio, un elemento indispensabile alla sua manifestazione. Loggetto di conoscenza del genio lidea, che egli attinge intuitivamente. Sarebbe, per, una conoscenza sterile e dipendente dalle circostanze in cui tali oggetti si mostrano, se non intervenisse la fantasia ad allargare lo spettro di tale conoscenza38. Il genio si serve, dunque, della fantasia per vedere nelle cose ci che la natura avrebbe dovuto realizzare, ma che non ha potuto a causa del conflitto reciproco fra le sue forme39. La fantasia, quindi, un elemento che rende il genio tale. Come mai?, verrebbe da chiedersi; eppure essa pu essere presente anche negli uomini comuni. Schopenhauer scioglie questo dubbio utilizzando quello che, secondo noi, il filo rosso che guida e lega tutto il suo modo di pensare: il dualismo40. Come il mondo volont e rappresentazione; come loggetto idea e oggetto materiale, cos la fantasia pu essere un mezzo per arrivare allidea,

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la cui comunicazione sar lopera darte ed da questo punto di vista che il genio se ne serve. Oppure la fantasia pu essere banalmente un mezzo per costruire castelli in aria, che servono al sognatore per appagare i propri desideri ma che, essendo semplici illusioni, sistematicamente crolleranno41. Schopenhauer contrappone spesso luomo comune alluomo di genio, proprio per sottolineare lantiteticit soprattutto per quanto riguarda il genere di conoscenza cui rispettivamente approdano. La conoscenza, mentre per luomo volgare la lanterna che illumina la via, per luomo di genio invece il sole che rivela il mondo, scrive Schopenhauer42. Questo perch, mentre luomo volgare resta un individuo che arriva a conoscere ci che lo circonda entro il principio di ragione, il principium individuationis, la causalit, il tutto sotto lo stretto controllo della volont, di cui il soggetto succube, luomo di genio si trasforma in soggetto conoscente puro, che non conosce tramite la semplice astrazione, ma con lintuizione giunge alla contemplazione delle idee e, quindi, alla pura realt in cui la contemplazione, e non la volont, padrona43. A questo punto si impongono alcune constatazioni. Schopenhauer indica lo stato di contemplazione, che si raggiunge con larte grazie allindividuo che, elevandosi al disopra del principium individuationis, diventa soggetto puro di conoscenza, come prerogativa di un limitato numero di uomini che come abbiamo visto, nel campo dellarte sono uomini di genio. Per essi il velo di Maya si squarcia liberandosi, finalmente, dalle sofferenze dello stato fenomenico e arrivando, cos, a cogliere la vera essenza. Da questo punto di vista la filosofia di Schopenhauer sembra alquanto litaria. vero, infatti, che egli crea questa filosofia aristocratica, in cui solo unlite etico-intellettuale alquanto ristretta di uomini in grado di arrivare alla pura conoscenza e, nello stesso tempo, di liberarsi dal giogo della volont liberandosi provvisoriamente anche dai dolori e dalle sofferenze che lattrito volont-individualit provoca. Nello stesso tempo, per, egli afferma anche che questi uomini geniali soffrono pi degli altri, sviluppano maggiore sensibilit nei riguardi delle pene, delle sofferenze dellumanit intera proprio perch hanno il dono di vedere oltre lillusione. Occorre notare, quindi, che la condizione di sofferenza accomuna il soggetto puro di conoscenza e il semplice individuo. In poche parole, si soffre sempre e comunque, ci che cambia la causa di tale sofferenza, fino a che non annulliamo completamente la nostra individualit empirica. Ma c qualcosa di pi. Sergio Givone ha scritto che non , in Schopenhauer, alcuna differenza tra lartista e luomo di genio: Se cos non fosse, non sarebbe neppure possibile alluomo comune contemplare le opere dellartista e riprodurre nella sua anima lemozione, anzi, lintuizione che le ha suscitate. Invece, lesperienza estetica per lartista e per luomo comune nella sostanza identica: sia luno sia laltro conoscono nelle cose lessenziale, al di fuori di ogni relazione e, quindi, mentre raggiungono lin s della volont, si sottraggono al suo dominio44. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare di primo acchito, luomo di genio non perfetto; pecca, infatti, di conoscenza razionale e, con essa, di prudenza, saggezza pratica e avversione alle scienze, particolarmente alla matematica45. Da ci consegue unaltra particolarit. Siccome ci che costitui-

sce lintelligenza unesatta comprensione di ogni genere di relazioni, fondata sulle leggi di causalit e di motivazione, e poich la conoscenza del genio non si preoccupa di relazione alcuna, ne deriva che un uomo intelligente, nei momenti in cui tale manca di genio e, viceversa, un uomo di genio, nei momenti in cui tale, non pu essere un uomo intelligente46. Luomo di genio, inoltre, spesso in preda ad affezioni violente e a passioni insensate, conseguenza, in parte, di una straordinaria energia del fenomeno di volont che costituisce luomo di genio; in parte, del predominio della conoscenza intuitiva su quella astratta47. Limpressione del presente , quindi, molto forte nel genio e lo trascina verso un comportamento irragionevole, illogico, passionale. A proposito della conoscenza pura, che sembra risultare la causa del dolore di questa lite etico-intellettuale, vorremmo aprire una parentesi per dire che anche Leopardi e, pi tardi Nietzsche in particolare, toccheranno e condivideranno la considerazione di Schopenhauer nei riguardi di tale conoscenza: ossia, che essa simile alla follia. Il Leopardi, a onor del vero, da sempre stato accomunato a Schopenhauer. Il De Sanctis ha scritto a tal proposito: Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo luno creava la metafisica e laltro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo cos, e non sapeva il perch. Arcano tutto/ Fuorch il nostro dolor. Il perch lha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille48. In una nota leopardiana del gennaio 1820, troviamo elencate tre maniere di vedere le cose. La prima quella che riguarda proprio gli uomini di genio, che vedono nelle cose pi spirito che corpo; la seconda, pi comune, quella degli uomini volgari per i quali le cose hanno molto corpo e poco spirito. Infine abbiamo la sola funesta e miserabile e tuttavia la sola vera maniera, quella dei filosofi per i quali le cose non hanno n corpo n spirito perch sono vane49. Tra laltro, per Leopardi genio non si nasce, ma si diventa: In natura, cio non esiste (se non forse come singolarit) nessuna persona le cui facolt intellettuali siano per se stesse strabocchevolmente maggiori degli altri. Le circostanze e le assuefazioni col diversissimo sviluppo di facolt non molto diverse, producono la differenza degli ingegni50. Tornando al concetto di genio presente in Schopenhauer, egli afferma che la genialt non sempre presente nelluomo, ma si manifesta in determinati momenti e per un certo periodo di tempo, come per lhomo religiosus di Kierkegaard, Abramo. Lopera darte viene concepita in particolari momenti e, proprio per questo, viene considerata unispirazione, parto di un essere sovrumano. Schopenhauer afferma che tutti gli uomini di genio, gli artisti, vivono il loro essere dicotomico separatamente: da un lato il loro essere uomini e dallaltro il loro essere artisti, sopra ogni altro, lartista sommo. Nella sua opera, Enten Eller, Kierkegaard sostiene che il genio nellattimo di una grandezza soprannaturale e in essa vi sprofonda con tutta la sua anima; realizza il suo scopo ma interrompe anche la coesione della sua vita. solo un attimo che lo costringe a ricominciare da capo. Lartista, dunque, esiste come uomo dello hiatum irrationale kierkegaardiano e fichtiano51: lattimo dellispirazione rappresenta il suo culmine vitale e lascesi il suo obiettivo ultimo. Lopera darte una liberazione immediata dellartista, mediatamente per il pubblico, fruitore dellopera. Sappiamo, per, che Schopenhauer considera questa

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liberazione momentanea e inadeguata a farlo uscire dalla vita: solo un conforto alla vita stessa. Larte nasce dalla negazione della natura, dalla fuga dellartista dalla rappresentazione, ossia dalloggettivazione di cui la volont si serve per raggiungere i suoi fini: liter che lartista segue per creare lopera darte dipende ancora dalla volont, egli stesso volont che si oggettiva attraverso la sua opera52. Listintiva necessit che il fondamento dellopera lo rende estraneo al mondo e chiuso nella vita stessa. Schopenhauer si accosta e condivide il pensiero di Goethe riguardo allattivit geniale che, per ambedue, si oppone alla dispersione del tempo storico ed al suo impedire ogni unitariet formale, proprio perch lintelletto la facolt dellanalisi e della scissione. Luomo di genio astorico53 sia perch la sua intuizione libera dalla volont e quindi dal fenomeno, sia perch manca di una buona coesione dellidentit personale che lo avvicina molto alla follia e allo stato mentale infantile. A causa della conoscenza intuitiva, infatti, si manifesta nel genio un comportamento irrazionale, idiosincratico, simile a quello del folle54. Schopenhauer, in un passo de Il mondo come volont e rappresentazione,55 ci racconta di aver conosciuto persone di una superiorit intellettuale molto pronunciata che presentavano, nello stesso tempo, una leggera traccia di follia: egli giunge, quindi, alla conclusione che ogni superiorit intellettuale oltrepassante la media comune debba venir considerata come unanormalit predisponente alla follia. Il folle ha unesatta percezione del presente e di alcuni elementi frammentari del passato; ma disconosce la loro connessione, le loro relazioni; sicch erra e divaga. E questo precisamente il punto di contatto con luomo di genio, dice Schopenhauer56. Ed ancora: in ogni cosa, egli non vede che gli estremi, e perci anche la sua condotta cade negli estremi, manca di moderazione, conosce benissimo le idee, ma non gli individui57. Per meglio comprendere larte, tappa fondamentale del pensiero schopenhaueriano, nonch prima via attraverso la quale luomo pu superare il suo stato di dolore, si rende necessario il chiarimento di un argomento di sostegno qual quello del sentimento del sublime58. Kant tratta la nozione di sublime nella Critica del Giudizio. Dopo aver toccato molti temi cari allestetica settecentesca, il filosofo di Knigsberg espone la propria teoria riguardo al concetto di sublime, affermando che esso lespressione di ci che privo di forma, che inadeguato e violento nei confronti dellimmaginazione. Per Schopenhauer, il sublime risulta affine al sentimento del bello nella sua condizione principale, cio nella contemplazione pura, libera dalla volont, come nella conoscenza delle idee che ne deriva necessariamente e come nello stare al di fuori di tutte le relazioni determinate dal principio di ragione. Se ne discosta, invece, quando si eleva al disopra della relazione ostile alla volont di s come individuo, riconosciuta nelloggetto. proprio grazie a questa seconda fase che luomo sar pervaso dal sentimento del sublime, portato ad uno stato di elevazione per il quale si d il nome di sublime alloggetto che provoca un tale stato59. Si possono distinguere due tipi di sublime. Il primo il sublime dinamico che produce nelluomo limpressione di sentirsi infinitamente piccolo di fronte allinfinitamente grande del cielo o delluniverso, ad esempio60. Nello stesso

tempo, per, prendiamo coscienza del fatto che tutte queste immensit esistono solo perch noi ce le rappresentiamo e, pi specificamente, il soggetto della conoscenza pura che lo crea. Siccome noi ci riconosciamo tali, quando dimentichiamo la nostra individualit, ci rendiamo conto di essere la conditio sine qua non di tutto ci che in un primo tempo ci turbava. In concreto, limmensit ci risolleva perch avvertiamo di essere parte del mondo: questelevazione al disopra della propria individualit il sentimento del sublime61. Il secondo tipo, il sublime matematico. Esso nasce quando guardiamo uno spazio piccolo che ci consente di percepire le tre dimensioni che lo delimitano riducendoci ad atomi rispetto alla sua grandezza, la quale per esiste solo come nostra rappresentazione e grazie al nostro sostegno. Si tratta, quindi, di un contrasto tra la nullit e la dipendenza del nostro io come individuo soggetto puro di conoscenza62. Questa teoria del sublime spazia anche in campo morale, permettendo, cos, di delineare ci che si chiama carattere sublime63. Esso caratterizzato dal rimanere impotenti contro la volont degli oggetti facendo anche qui prevalere la conoscenza: ne risulta un uomo che considera gli altri uomini dal punto di vista puramente oggettivo, senza che entrino in relazione con la sua volont; in questo modo egli non soffre, come di fatto puntualizza lo stesso Schopenhauer: Poich nel corso della propria esistenza e nelle sue sventure, egli vedr meno il suo destino individuale che quello dellumanit in genere, la sua vita sar quindi per lui un oggetto di studio, pi che una causa di sofferenza64. Lapparenza inganna, si sa. Cos anche per leccitante65, che in un primo momento potrebbe sembrare simile al sublime, ma in realt ad esso contrario. Infatti, il sentimento del sublime nasce quando qualcosa di contrario alla volont viene contemplato e questa contemplazione continua grazie ad un distacco completo dalla volont, nonch ad unelevazione al di sopra di ogni interesse; leccitante, invece, fa decadere il soggetto puro di conoscenza a semplice oggetto di volont perch lo distoglie dalla contemplazione pura con degli oggetti che danno soddisfazione e appagamento alla volont stessa66. La teoria di Schopenhauer sulleccitante duplice, perch esso col suo aspetto positivo stuzzica e con quello negativo ripugna alla volont; quindi, mira sempre e comunque a stimolare la causa prima delle nostre sofferenze e della nostra bassezza, facendo decadere cos anche lo scopo ideale dellarte. Tutto quanto stato detto finora sullarte, fa parte del suo lato soggettivo ed , quindi, unanalisi compiuta solo a met. Nellambito di una trattazione sullarte, necessario conoscere i vari nuclei che hanno vita in essa e che ne costituiscono, appunto, la parte oggettiva. Prima di procedere, per, sono necessarie alcune ulteriori premesse. Sappiamo che la volont trova la propria oggettivazione nelle idee, le quali, a loro volta, sono rappresentate nella realt che ci circonda. La materia, per, non pu essere la rappresentazione di unidea e questo per due motivi. Il primo consiste nel fatto che la materia causalit, ossia una forma del principio di ragione, mentre lidea non ha niente in comune con tale principio. Il secondo dato dallesser la materia base, comune denominatore di tutti i fenomeni particolari delle idee e, quindi, anche trait dunion tra lidea e il suo

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fenomeno67. Inoltre, la materia presuppone un concetto astratto e non invece una rappresentazione intuitiva, la quale pu avere come oggetto solo le forme e le qualit che si manifestano nelle idee ed hanno come substrato la materia. Dunque, non la materia, ma le sue qualit sono oggetto di contemplazione estetica68. Se prendiamo in esame larchitettura, possiamo dire innanzitutto che essa unarte bella e che il mezzo attraverso il quale possiamo intuire le idee che si celano dietro le qualit pi basse della materia, ossia la rigidit, la coesione e la durezza69. Anche se ci troviamo nei gradi inferiori di oggettivazione della volont possiamo notare lessenza di essa che si manifesta nella lotta tra il peso e la rigidit; ed proprio questa lotta che costituisce precipuamente lunico tema estetico dellarte in architettura. Scopo di questarte , dunque, quello di mettere in risalto tale lotta. In che modo? Frenando il peso, che qui rappresenta proprio la manifestazione della volont; e la rigidit, in modo che la loro lotta si prolunghi allinfinito manifestandosi in svariate forme70. Quindi la bellezza di una qualsiasi opera architettonica consister nelladattamento finale di ogni parte al tutto, nel senso che ogni elemento della costruzione dovr essere legato necessariamente a tutti gli altri in modo tale che se uno solo di questi elementi venisse a mancare, crollerebbe lintera costruzione71. Di notevole importanza poi la luce nelle opere architettoniche: infatti, qualsiasi edificio immerso nella luce d un effetto sicuramente diverso da quello che produce il buio; la luce conferisce un secondo motivo di bellezza poich la luce la pi gioconda di tutte le cose, in quanto la condizione e il correlato oggettivo del modo pi perfetto di conoscenza intuitiva72. La contemplazione estetica che si innesca e di conseguenza il piacere che deriva dalla visione di un edificio ben illuminato, quindi, non dipende solo dalla conoscenza dei materiali, dalla lotta tra peso e rigidit e dalla luce, ma anche dal soggetto. Infatti, essendo larchitettura unarte che riguarda i gradi inferiori di oggettivazione della volont, ci d un piacere estetico minimo in quanto a oggetto, che per diventa notevole se lindividuo si trasforma in soggetto puro di conoscenza libero dal giogo della volont e del principio di ragione73. Ci che contraddistingue larchitettura rispetto alle arti figurative e alla poesia rappresentato dal fatto che, mentre queste ultime riproducono lidea conosciuta, per esempio, in un quadro, che ha un significato nascosto, larchitettura offre allo spettatore direttamente loggetto da cui si pu facilmente derivare lidea, portando loggetto reale e individuale alla chiara e completa espressione della sua essenza74. Un altro particolare che contraddistingue larchitettura la sua duplice funzione: mentre, infatti, le altre arti hanno fini puramente estetici, larchitettura unisce a questi i fini utilitari. Sta proprio in questo la grandezza dellarchitetto: infatti, per ogni elemento dellopera egli deve valutare il lato estetico e lesigenza utilitaria75. Questi due elementi, tra laltro, sono inversamente proporzionali perch pi il clima richiede una maggiore utilit pratica, meno lartista in grado di conferire senso estetico. Come nellarchitettura e nellidraulica artistica, cos in altre situazioni estetiche, quali ad esempio quelle che possono scaturire dal vedere un paesaggio

o un giardino rigoglioso, prevale il lato soggettivo su quello oggettivo. Questo avviene perch, trovandosi di fronte ai gradi inferiori di oggettivazione della volont, il piacere estetico deriva soprattutto dal soggetto conoscente puro che svincolato dalla volont e da qualsiasi altra relazione con lindividualit76. Sia contemplando uno spettacolo naturale, sia contemplando quadri che riproducono la natura, la realt sempre il soggetto che d il maggior contributo al piacere estetico77. Procedendo per questo excursus di arti belle si ha limpressione di salire i gradini di una scala, per cui dai gradi pi bassi di oggettivazione della volont si arriva ai superiori. Dopo larchitettura, che riguarda la materia inorganica e dopo la natura e la pittura di paesaggio, che hanno a che fare con la vita organica ma pur sempre vegetale, interessante considerare la scultura e la pittura di animali dalle quali nasce una contemplazione estetica che trova il suo fondamento pi nelloggetto che nel soggetto: Ci vediamo dinanzi quella medesima volont in cui consiste anche la nostra essenza; ma la vediamo incarnata in esseri nei quali la sua manifestazione non , come in noi, dominata e mitigata dalla riflessione, bens accentuata nei tratti pi intensi, ed esplicata in maniera cos franca, da rasentare il grottesco e il mostruoso; e, in compenso, sbrigliata, nella piena luce del giorno, sempre ingenua, sempre schietta, senza la minima dissimulazione. Questa la ragione vera per cui noi proviamo tanto interesse agli animali78. Guardando gli animali, pi che le piante, afferma Schopenhauer79, non si pu fare a meno di notare la ricchezza delle forme e dei comportamenti che lasciano trasparire la volont celata in essi; e c una particolare frase che egli adotta dai libri sacri degli Ind per definire lessenza intima di questi esseri: Tat Twam asi (questa cosa vivente sei tu)80. Scopo della pittura storica e della scultura quello di rappresentare in maniera immediata e intuitiva le idee in cui la volont raggiunge il grado pi elevato della sua oggettivazione, afferma Schopenhauer81. In questi ambiti il lato oggettivo supera quello soggettivo, perch ci troviamo di fronte a gradi di oggettivazione della volont superiori rispetto a quelli dellarchitettura e della pittura di paesaggio. Bisogna inoltre precisare un altro particolare di rilievo. Schopenhauer distingue nelluomo due caratteri: uno generico, che quello che riguarda la specie ed il carattere che si trova oggettivamente in tutto il genere umano e si chiama bellezza in senso interamente oggettivo, appunto. Il secondo il carattere intellettuale e si chiama propriamente carattere o espressione82. Paolo Vincieri puntualizza il pensiero di Schopenhauer a riguardo e sostiene che ognuno di noi ha una sua natura, un carattere intelligibile che si manifesta come una costante nel tempo83. Il filosofo tedesco, inoltre, spiega la perenne sofferenza legata alla vita come lespiazione di una colpa originaria: quella del peccato originale, che determinerebbe anche il bellum omnium contra omnes. Questa lotta proprio lespressione dellegoismo di un uomo che deve scontare una pena perch colpevole di esistere: tutto ci determina un rapporto inseparabile tra colpa originaria e natura umana immutabile. Horkheimer, uno dei filosofi pi significativi, condivide il principio schopenhaueriano della colpa originaria, ma non daccordo sulla natura umana immutabile. Egli sostiene che il carattere degli

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uomini sia determinato dalle circostanze e che sicuramente la vita contrassegnata dal dolore anche se diverso il modo in cui viene vissuto. In Crepuscolo, Horkheimer afferma che diverso il modo di soffrire del borghese e del proletario e diverso il modo in cui si instaura, nel corso della storia, il rapporto degli uomini tra loro e con la natura. La bellezza umana , dunque, unespressione oggettiva che designa il pi alto grado di oggettivazione della volont, ossia lidea delluomo84. Insieme a questo aspetto oggettivo, per, altrettanto importante laspetto soggettivo. Infatti, per Schopenhauer, non esiste nella realt alcun oggetto che colpisca subito come il volto umano; e questo succede perch nellaltrui figura riconosciamo subito lessenza intima di noi stessi, ossia la volont nel suo pi alto grado di espressione; e anche perch questa bellezza che noi percepiamo il mezzo pi veloce per innalzarci al disopra del principium individuationis e raggiungere cos quella conoscenza pura che ci permette di contemplare85. Qui il filosofo cita le parole di Goethe: Colui che contempla la bellezza umana, si sente immune da ogni soffio di male; si sente in pieno accordo con se stesso e col mondo86. Secondo Schopenhauer, la bellezza il trionfo della volont su tutti gli ostacoli oppostili dalle forze dei gradi inferiori della sua oggettivazione. Sappiamo, infatti, che la volont lotta con se stessa per accaparrarsi la materia e, proprio dalla vittoria su queste battaglie, scaturisce la bellezza umana. Prova delle lotte, cui tutti i gradi di oggettivazione della volont devono far fronte, la conformazione stessa. Il corpo umano, per esempio, un sistema di organi, fibre, muscoli ecc. che hanno ciascuno il proprio compito e tutti contribuiscono a mantenere in vita luomo87. Per quanto riguarda larte, era stato pi volte affermato da illustri teorici che essa imita la natura. Ma Schopenhauer non daccordo su questo, perch convinto che lidea del bello non scaturisca a posteriori, ma che si fondi su una nozione a priori, non esattamente come i modi del principio di ragione, ma pur sempre a priori88. Questa certezza nasce, nel filosofo tedesco, dalla constatazione che in natura quasi impossibile trovare delle forme perfette, ideali, che invece lartista di genio sa creare proprio perch intuisce a priori la vera bellezza. Questo gli possibile e gli permette di oggettivare in forme perfette la volont che analizza, perch si tratta della nostra stessa volont, della nostra stessa sostanza. Lartista di genio, infatti, crea la bellezza perfetta nel pi duro dei marmi e la mette poi a confronto con la natura quasi dicendo: ecco quello che tu volevi dire. Si, proprio questo, risponde una voce vibrante dallintima coscienza dello spettatore89. questo il processo che ha luogo negli artisti quando creano le loro opere scultoree90. La bellezza umana stata, dunque, definita dal filosofo di Danzica come loggettivazione pi alta della volont nel grado supremo della sua conoscibilit91. Essa si esprime nella forma, che a sua volta dipende dallo spazio e non necessariamente dal tempo; quindi la bellezza in senso oggettivo non altro che loggettivazione adeguata della volont mediante un fenomeno puramente spaziale92. Luomo, per, non esiste solo nello spazio ma anche nel tempo; e loggettivazione della volont nel tempo lazione, il movimento, che si pu

esprimere in due modi: o manifesta in modo puro latto volontario o no; nel primo modo abbiamo la grazia e nel secondo essa assente93. Il connubio di grazia e bellezza d come risultato la manifestazione pi alta della volont nel grado pi alto della sua oggettivazione. Abbiamo visto che la bellezza il carattere generico, quello della specie, mentre lespressione il carattere individuale. Scopo delle arti sar, quindi, quello di rappresentare sia luno sia laltro. Il carattere individuale, per, non deve essere considerato dal punto di vista empirico, di rappresentazione, ma bens come un frammento dellidea di umanit e come tale deve, quindi, essere visto in senso ideale. Questo carattere idealizzato si manifesta, tramite lintelligenza e la volont, attraverso i movimenti e il viso. Cos lartista, quando si propone di rappresentare la bellezza, oggetto specialmente proprio della scultura, deve pur sempre modificare in qualcosa la bellezza medesima mediante il carattere individuale, mettendone in viva luce un lato particolare94. Lapprofondimento di concetti ideali, come quelli di grazia e bellezza, si reso necessario dal momento che essi costituiscono i principi su cui si basa la scultura. Per questi motivi tale arte ha come oggetto il nudo o, quanto meno, i panneggi trasparenti che hanno il compito di far intuire allo spettatore le forme della rappresentazione dellidea95. La pittura storica unaltra arte bella che ha in comune con la scultura i due oggetti principali: la bellezza e la grazia. Oltre a tali caratteristiche peculiari la pittura contraddistinta da un altro oggetto, ossia il carattere, considerato da Schopenhauer come la rappresentazione della volont nel pi alto grado della sua oggettivazione96, cio quella parte dellidea di umanit che contraddistingue ciascun uomo: il comportamento e le azioni sono le manifestazioni di tale carattere. La complessit dellidea di umanit pu essere colta solo attraverso le varie circostanze in cui luomo si viene a trovare: ed proprio questo che la pittura ha il compito di rappresentare; ogni gesto, ogni avvenimento della vita di un uomo ha la sua importanza. Schopenhauer sostiene che bisogna distinguere tra il significato esteriore di unazione e il significato interiore97: il primo rappresentato dallimportanza che le conseguenze di unazione possono avere per e nel mondo reale; quindi, regolato dal principio di ragione. Il secondo, ossia il significato interiore, mette in risalto gli aspetti migliori dellidea di umanit tramite individualit spiccate, dando loro la possibilit di esprimere le loro caratteristiche98. questultimo aspetto che diviene oggetto della pittura, mentre il primo quello di cui si serve la storia. Questi due significati, inoltre, possono esistere separati ma anche trovarsi insieme in ununica azione. Unaltra distinzione importante considerare: in un quadro, sostiene Schopenhauer99, bisogna distinguere il significato nominale dal significato vero: anche qui, similmente ai significati di unazione, il primo esterno, mentre il secondo consiste in un aspetto particolare dellidea di umanit rivelata mediante limmagine allintuizione. Nelle opere dei grandi artisti, nelle loro fisionomie, specialmente negli occhi, vediamo lespressione, il riflesso della conoscenza pi completa; non di quella che mira alle cose particolari, ma di quella che abbraccia con visione

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grandiosa le idee, quindi, lessenza intera del mondo e della vita; una tale conoscenza reagisce anche sulla volont; ma, anzich somministrarle dei motivi, come fa la conoscenza volgare, opera come un quietivo, e ne procede quella perfetta rassegnazione che costituisce ad un tempo lo spirito intimo del Cristianesimo e della saggezza indiana: la rinunzia e il sacrificio di ogni desiderio, la soppressione di ogni volont e, quindi, anche di tutta lessenza di questo mondo: e, cio, in ultimo, la salvezza. Ecco lalta saggezza che queglimmortali maestri dellarte espressero nelle loro opere. Afferma Schopenhauer: Ecco il vertice supremo dellarte stessa: dopo aver seguito la volont sulla scala ascendente di tutte le sue oggettivazioni adeguate che sono le idee, percorrendo successivamente i vari gradi in cui il suo essere si sviluppa, cio gli inferiori, in cui obbedisce alle cause, gli altri in cui segue le eccitazioni, gli ultimi infine, in cui sottost allimpero dei motivi, larte assurge finalmente alla rappresentazione della volont in atto di libera autoespressione, dovuto a quel grande quietivo che la perfetta conoscenza del suo proprio essere100. Fine dellarte , dunque, la comunicazione dellidea e lartista rappresenta lo strumento, la conditio sine qua non attraverso la quale essa viene isolata, purificata da elementi estranei e consegnata anche agli uomini comuni. Lallegoria unopera darte che vuol significare una cosa diversa da quella che rappresenta, scrive Schopenhauer101. Essa rappresenta un elemento degno di considerazione nel campo dellarte, quasi paradossalmente, perch lopera darte che rappresenta lidea, oggetto di intuizione e si esprime da sola; mentre lallegoria, basandosi su concetti astratti, devia la conoscenza dello spettatore sul vero significato dellopera, il quale deve sforzarsi di riconoscerlo. Anche in base allallegoria lopera darte ha due significati: uno nominale, che equivale al senso allegorico stesso; e uno reale, che quello effettivamente rappresentato. Questi due significati sono, per cos dire, in lotta perch lallegoria oscura la conoscenza intuitiva dellopera darte102. Quando poi lallegoria si sposa con un oggetto nasce lallegoria simbolica come, per esempio, lalloro, simbolo di gloria o la colomba, simbolo di pace103. Se nelle arti plastiche lallegoria ha un valore negativo, nella poesia accade il contrario. In questambito, infatti, il dato immediato il concetto astratto e il poeta ha il compito di condurre dal concetto astratto allimmagine intuitiva, fine dellarte104. Fra le arti non si pu non menzionare la poesia. Ad essa Schopenhauer dedica una parte del terzo libro de Il mondo come volont e rappresentazione105. Anche il fine della poesia, come quello delle altre arti di rappresentare le idee, ossia i gradi di oggettivazione della volont; tali idee sono di natura intuitiva e, sebbene la poesia si risolva in una seria di parole e, quindi, di concetti astratti, essi concetti hanno proprio il compito di illuminare il lettore circa le idee106. Per raggiungere questo scopo, per, bisogna scuotere limmaginazione del lettore e questo creando due condizioni: come prima cosa i concetti astratti devono intrecciarsi tra loro in modo tale che venga eliminata ogni loro astratta generalit; in secondo luogo necessario che limmagine intuitiva prenda il posto del concetto astratto nellimmaginazione e che la parola del poeta trasformi tale immagine perch si adatti a quello che vuole esprimere107. Elementi indispensabili della poesia sono il ritmo e la rima108 che hanno il

grande potere di attirare la nostra attenzione e di predisporci ciecamente alla poesia. Perch si sprigiona questo potere quasi ipnotico? Schopenhauer risponde dicendo che la nostra facolt di rappresentazione, legata principalmente al tempo, si sente trasportata da questi intervalli regolari nei quali si ripete il suono, per cui, la nostra attenzione si culla, per cos dire, al suono della poesia109. Essa, inoltre, unarte che ha a disposizione una materia sconfinata per esprimere le idee e, secondo la natura del soggetto, adotta ora la forma descrittiva, ora quella narrativa, ora ancora, quella drammatica110. Oggetto della poesia luomo, come grado pi alto di oggettivazione della volont che si manifesta progressivamente nei suoi atti, pensieri e comportamenti: dipingerlo nei suoi versi il suo fine111. Schopenhauer richiama lattenzione del lettore sul fatto che anche lo storico come il poeta si occupa delluomo: ma, mentre il primo adotta una Weltanschauung empirica, fenomenica, legata allhic et nunc e al principium individuationis, il poeta ha una missione diversa: rivelare lidea di umanit, la noumenicit del grado pi alto di oggettivazione. Le parole del nostro ci confermano: Il poeta abbraccia lidea dellumanit nel senso determinato in cui vuol rappresentarla; la natura del suo proprio io quella che egli oggettiva dinanzi a s nellidea umana; la sua conoscenza, come si detto in occasione della scultura in parte a priori; il suo modello sempre di fronte al suo spirito, fermo, distinto, luminoso, e non gli si offusca un momento. Ci mostra in tal modo, nello specchio del suo spirito, lidea pura e limpida, e le sue pitture sono, fin nei minimi particolari, vere come vera la vita stessa112. Anche nella poesia, come nella pittura di paesaggio, il genio come lo specchio limpido e terso che raccoglie e riflette in viva luce tutto ci che essenziale ed importante, sopprimendo gli elementi accidentali ed eterogenei113. Tenendo presente che il fine del poeta la rappresentazione dellidea di umanit, Schopenhauer114 dice che questo pu avvenire in due modi: uno quello in cui il poeta prende come oggetto se stesso e particolarmente descrive lintuizione dei suoi stati danimo: da qui nasce la poesia lirica, la canzone. Un altro modo , invece, quello in cui il poeta prende ad oggetto un personaggio diverso col quale si eclissa fino a scomparire del tutto. Prendendo in esame la canzone scaturisce che in essa il soggetto della volont occupa la coscienza del poeta in due modi possibili: o come volere libero e contento, che quindi gioia; oppure sovente come volere contrastato, che tristezza e comunque sempre come passione, sentimento. Insieme a questo stato danimo c la contemplazione della realt che circonda e fa prendere coscienza, al poeta, di essere un soggetto puro di conoscenza: da questa considerazione nasce una calma assoluta di spirito che picchia contro la violenza della volont perennemente insoddisfatta; tale contrasto il nucleo centrale da cui ha vita la canzone e lispirazione lirica in genere115. In questo stato dispirazione il genio soggetto puro di conoscenza e libero dalla volont; ma questa contemplazione dura poco perch la volont gi pronta con i suoi artigli a farlo tornare alla sua merc. Per questo nella canzone e nellispirazione lirica questi due stati sono ben percepibili e coesistono alternativamente. Lelemento pi importante di tutti, nella poesia come nelle altre arti ,

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comunque, la verit, infatti allarte si domanda che sia uno specchio fedele della vita, dellumanit e del mondo, afferma Schopenhauer116. Essa funge, quindi, da vocabolario perch ci aiuta a tradurre in oggetti o concetti comprensibili ci che oscuro. da rilevare che la tragedia considerata il genere poetico pi elevato per la potenza delleffetto e per la difficolt dellesecuzione. Scopo di tale genere quello di mostrare il lato peggiore della vita, quindi la lotta spaventosa della volont con se stessa; lotta che, in questo grado supremo di oggettivazione, si spiega nellambito pi vasto e completo117. Sappiamo che la volont, nella visione schopenhaueriana, unica e si manifesta in tutti gli individui, i quali lottano costantemente tra loro spinti dallegoismo; ci sono per alcuni individui che riescono a sollevarsi al disopra del principium individuationis e conoscono lessenza perfetta del mondo; tale conoscenza agisce come quietivo della volont e produce rassegnazione, rinuncia alla vita e alla stessa volont di vivere. Tutto questo si ripropone nella tragedia, in cui, dopo lunghi sforzi e sofferenze, le creature pi nobili rinunziano per sempre alle miserie della vita e si liberano della volont, negandola. Esempi illustri ci sono offerti da Amleto, da Margherita di Faust, da Giovanna dArco, la Pulzella di Orlans, tutti personaggi che muoiono purificati dal dolore, quando in loro gi morta la volont di vivere118. dobbligo, dopo questa nomenclatura delle belle arti, parlare della musica nel modo in cui era considerata da Schopenhauer. una differenza sostanziale quella che separa la musica da tutte le rimanenti arti che abbiamo sondato: il nostro filosofo la individua nel fatto che dallarchitettura alla tragedia, tutte si servono di mezzi, come un edificio, un quadro, una poesia, e di una conseguente modificazione della conoscenza dello spettatore per trasmettere le idee, loro scopo supremo. Tali arti, quindi, oggettivano la volont mediatamente, ossia per mezzo delle idee. La musica, invece, essa stessa unoggettivazione immediata della volont proprio come il mondo fenomenico e le idee119. Ne deriva che come fra le idee e il mondo fenomenico c una relazione di copia a modello, cos, fra la musica e tale mondo fenomenico esiste la stessa analogia. Ci significa che il basso, fondamentale nellarmonia, corrisponder alla materia inorganica del mondo fenomenico e, man mano che si sale la scala del suono, si percorrono i vari gradi di oggettivazione della volont, come fenomeni, fino a raggiungere la melodia che corrisponderebbe alla vita, alle aspirazioni coscienti delluomo120. Per questo motivo inventare una melodia, rivelare per suo mezzo i pi profondi segreti della volont e del sentimento umano lo scopo, il fine supremo del genio. Questo avviene nella pi completa ispirazione, tanto da poter parlare di sdoppiamento della personalit: infatti, quando il genio crea la melodia in questo stato di contemplazione, come se si trovasse in una dimensione altra; per cui, una volta venutone fuori, non ricorda nulla di tale evento121. necessario precisare una cosa. La musica ha, con le nostre analogie, solo una relazione indiretta: infatti, essa non esprime il fenomeno ma solo la volont. Ecco perch la nostra immaginazione viene cos facilmente eccitata dalla musica: come se cercassimo di capire quel quid, ci che per noi sconosciuto, attraverso il trasporto delle note; la musica non esprime, della vita e dei suoi avvenimenti, se non la quintessenza, e tale universalit appunto

il carattere che le conferisce un cos alto valore, che ne fa la panacea di tutti i nostri mali, sentenzia Schopenhauer122, e quindi, continua il filosofo, esprime lelemento metafisico del mondo fisico, lin s di ogni fenomeno: il mondo si potrebbe, in conseguenza, chiamare unincarnazione della musica, non meno che della volont123. La musica va oltre le idee ed indipendente dal mondo fenomenico, anzi, potrebbe, in certo qual modo, sussistere anche se il mondo non esistesse, a differenza delle altre arti. Con la musica si completa anche il lato oggettivo dellarte. Abbiamo visto che lo stato di contemplazione permette allartista di svincolarsi dai dolori e dalle sofferenze per creare la manifestazione delle idee eterne, anche se per brevi istanti. La volont, infatti, pronta a smembrare il genio dallindividuo, facendo ripiombare questultimo nel baratro del dolore. Larte rimane, dunque, per Schopenhauer, un rimedio solo parziale al dolore esistenziale. Dopo quanto stato detto sulla musica il filosofo di Danzica giunge alla considerazione finale, cio: se si riuscisse a rendere esplicito il significato intrinseco, ossia a tradurre in concetti ci che la musica esprime, riusciremmo anche a trovare la spiegazione del mondo per mezzo di essi, il che equivarrebbe alla vera filosofia. Siccome poi, guardata dal punto di vista empirico, la musica un mezzo per affermare in concreto dei grandi numeri e delle complicate relazioni numeriche (comprensibili solo per via dellastrazione), si potrebbe concepire la possibilit di una filosofia dei numeri, come quella di Pitagora o dei Cinesi nellY-King124. I pitagorici avevano dato molta importanza alla musica e Platone non stato da meno. Nel Fedone, il filosofo greco afferma che la musica ha il compito di formare la ragione: si tratta, nel senso pi comune, del ritmo dorico, perch dotato di particolare seriet e gravit; nel senso pi teorico, la musica viene considerata come ritmo regolato dal numero e come armonia che ha il numero per sua essenza specifica. Abbiamo gi visto che la critica italiana rivela unimportanza molto concreta che si realizza anche in rappresentanti come Martinetti125 e Varisco126, per menzionarne alcuni. Vecchiotti, uno degli ultimi critici, richiama lattenzione su un problema riguardante proprio il settore dellarte127: la possibilit di conciliare il pessimismo complessivo con la filosofia della musica e con lestetica schopenhaueriana. Pi si conosce pi si soffre, ma non si avverte la caducit del piacere quando si sa che nel mondo estetico non c dolore. Cosa comporta questo concetto? Di certo ottimismo e non gi pessimismo come vuole Schopenhauer. Larte ha, infatti, il compito di liberarci dalla volont ma, in questo modo, insieme al dolore si elimina anche il piacere; Schopenhauer sostiene, invece, che larte porta alla liberazione dal dolore e, quindi, al piacere. Riconda richiama lattenzione sulla grande capacit di sofferenza che esiste nel secolo che va da Goethe a Nietzsche. Schopenhauer si pone fra luno e laltro, lanello di congiunzione tra Goethe, a differenza del quale pi classico, pi tragico, pi pessimista, insomma, e Nietzsche, in confronto al quale pi imponente, deciso e forte. Gi Georg Simmel, nel 1907, aveva collegato lidea goethiana di un Essere che incessantemente produce forme alle teorie di Nietzsche e Schopenhauer128. La specificit di questultimo pensatore nellimpronta pessimistica della

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sua dottrina, dovuta al tentativo di negare il mondo e di creare un ideale ascetico, di strappare luomo alla rappresentazione e di elevarlo a redentore di tutte le creature. La sua spirituale sensualit, la sua dottrina, sgorgata dalla vita, che ci insegna esser conoscenza, pensiero, filosofia, non solo un affare del cervello ma di tutto luomo, col cuore e coi sensi, col corpo e con lanima [] in una parola la sua arte, appartiene ad unumanit ugualmente lontana dallaridit della ragione e dallidolatria dellistinto, e pu forse favorirne la nascita. Larte, infatti, con laccompagnare luomo nel faticoso cammino verso se stesso, gi ha conseguito sempre il suo specifico fine129. Nonostante tutte le critiche che gli sono state mosse o che gli si potrebbero muovere, non si deve dimenticare perci n la denuncia che Schopenhauer ha fatto della realt del dolore n la portata demistificatrice del suo filosofare n, infine, la profondit di molte sue analisi, coincidenti, almeno a livello di fenomenologia della condizione umana, con le voci alte della sapienza, non solo occidentale, dellet moderna e contemporanea. Del resto, la ricchezza di motivi del suo pensiero, anche per la parte estetica, al di l della cornice sistematica, confermata dallampia serie di influssi esercitati sulla cultura successiva130. Possiamo fare nostra la conclusione posta da Simmel, alle analisi sullarte di Schopenhauer: Linsufficiente della liberazione per mezzo dellarte proprio in ci stesso che questa liberazione riesce a fare: che essa si allontana soltanto dalla volont, da cui noi invece abbiamo bisogno di essere liberati; al contrario, la liberazione reale, non revocata in ogni istante, deve impadronirsi della volont stessa. E questo riesce nelle azioni delleticit e dellascesi, alle quali ci rivolgiamo come la soluzione pratica delloscura problematica in cui la riflessione di Schopenhauer ha finora calato la vita131.

Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il problema dellarte, trad. it., a c. di E. Oberti, Brescia 1959. Cfr. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di B. Croce, (1907) Bari 1967; e ID., Estetica, trad. it., a c. di N. Merker e N. Vaccaro, Milano 1963. 3 Su questo ancora valida limpostazione metodologica presentata a suo tempo da V. VERRA, Hegel, in Questioni di storiografia filosofica, vol. III, a c. di V. Mathieu, Brescia 1974, p. 322. 4 A. CRESSON, Schopenhauer, Paris 1962, p. 2. 5 Cfr. T. MANN, Introduzione ad A. Schopenhauer, in Schopenhauer, Nietzsche, Freud, trad. it., Milano 1980, p. 5. 6 Cfr. G. RICONDA, Schopenhauer, in Questioni di storiografia filosofica, cit., pp. 375-376. 7 Cfr. S. ZECCHI-E. FRANZINI, Storia dellestetica, v. II, Bologna 1995, p. 598. 8 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volont e rappresentazione, trad. it., a c. di G. Riconda, Milano 1985, p. 168. 9 Ivi, p. 172. 10 Cfr. I. VECCHIOTTI, Introduzione a Schopenhauer, Bari 1986, p. 46. 11 Ibidem. 12 Cfr. ibidem. 13 Cfr. Ivi, pp. 47-48. 14 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volont e rappresentazione, cit., p. 207.
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Cfr. Ivi, p. 217. Cfr. Ivi, p. 343. Cfr. Ivi, p. 218. Cfr. Ivi, p. 223. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Ivi, pp. 223-224. Ivi, pp. 309-310. Cfr. Ivi, pp. 234-235. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. G. RICONDA, op. cit., p. 377. Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volont e come rappresentazione, cit., p. 237. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Ivi, p. 238. Cfr. Ivi, p. 224. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ivi, p. 225. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ibidem. Cfr. Ivi, pp. 225-226. Ivi, p. 226 Cfr. Ivi, p. 227. S. GIVONE, Storia dellestetica, Roma-Bari 1991, p. 91. Cfr. Ibidem. Cfr. Ivi, p. 228. Cfr. Ivi, 228-229. Cfr. F. DE SANCTIS, Schopenhauer e Leopardi, in Opere, vol. XIII, Einaudi, Torino 1969, p.

444.
49 Cfr. G. LEOPARDI, nota 103 (20 gennaio 1820), in Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a c. di G. Pacella, v. I, Milano 1991, pp. 116-117. 50 Ivi, p. 966; la nota 1647 del 7 settembre 1821. Cfr. G. INVITTO, Varia filosofia e bella letteratura. Luso del termine filosofia nello Zibaldone, in Narrare fatti e concetti, Lecce 1999, p. 33. Vedi pure: A. PRETE, Schopenhauer e Leopardi (sullorigine del parallelo), in Schopenhauer ieri e oggi, Atti del Convegno Internazionale svoltosi dal 22 al 25 settembre 1986 a Gargnano del Garda, a c. di A. Marini, Genova 1991, pp. 439-444. 51 Cfr. S. A. KIERKEGAARD, Aut Aut, trad. it., Milano (1956) 1977. 52 Cfr. F. GALLO, Esistenza, arte, genialit. (Un itinerario schopenhaueriano), in Schopenhauer ieri e oggi, cit., pp. 242-243. 53 Cfr. Ivi, p. 243. 54 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volont, cit., p. 229. 55 Cfr. Ivi, p. 230. 56 Ivi, p. 232. 57 Ivi, p. 233. 58 Cfr. Ivi, p. 241. 59 Cfr. Ivi, p. 242. 60 Cfr. Ivi, p. 244. 61 Cfr. Ivi, p. 245. 62 Cfr. Ibidem. 63 Cfr. Ivi, p. 246.

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Ibidem. Cfr. Ivi, p. 247. 66 Cfr. Ivi, p. 248. 67 Cfr. Ivi, p. 252. 68 Cfr. Ivi, p. 253. 69 Cfr. Ibidem. 70 Cfr. Ivi, p. 254. 71 Ibidem. Bisogna che ogni parte sostenga un peso esattamente proporzionato alla sua resistenza, e venga essa stessa sostenuta n pi n meno del necessario: questa , infatti, la condizione indispensabile per metter bene in luce quel conflitto tra la rigidit e il peso, in cui si manifesta la vita, lestrinsecazione della volont nella pietra, e che manifesta con chiarezza ed evidenza questi infimi gradi delloggettit della volont stessa. 72 Ivi, p. 256. 73 Cfr. Ibidem. 74 Ibidem. 75 Cfr. Ivi, p. 257. 76 Cfr. Ivi, p. 258. 77 Ibidem. Infatti, non appena ci sforziamo di contemplare tali oggetti con gli occhi dellartista che li ha dipinti, gioiamo subito, come per eco simpatica di sentimento, della serenit profonda di spirito dovuta al silenzio completo della volont, i quali elementi si resero necessari affinch lartista potesse effondere la sua conoscenza in oggetti cos privi di vita, e concepirli con tanto amore, con oggettit perfetta. 78 Ivi, p. 259. 79 Cfr. Ibidem. 80 Ivi, p. 260. 81 Ibidem. 82 Cfr. Ibidem. 83 Cfr. P. VINCIERI, Discordia e destino in Schopenhauer, Genova 1993, p. 140. 84 Cfr. M. HORKHEIMER, Crepuscolo, trad. it. a c. di G. Backaus, Torino 1977, pp. 35-36. 85 Cfr. A SCHOPENHAUER, Il mondo come volont e rappresentazione, cit., p. 260. 86 Ivi, p. 261. 87 Cfr. Ibidem. 88 Cfr. Ibidem. 89 Ivi, p. 262. 90 Ibidem. Nellanticipazione consiste lideale: lidea, in quanto, almeno in parte, riconosciuta a priori, e in quanto, associandosi con i dati a posteriori della natura, e completandoli, entra nella pratica dellarte. La possibilit, per lartista, di concepire il bello a priori, e per losservatore di constatarlo a posteriori, deriva dal fatto che, tanto lartista, quanto losservatore, sono essi stessi lin s della natura, e la loro essenza coincide con la volont che si oggettiva. 91 Ivi, p. 263. 92 Ibidem. 93 Cfr. Ivi, p. 264. 94 Ivi, p. 265. 95 Cfr. Ivi, p. 269. 96 Ivi, p. 270. 97 Cfr. Ibidem. 98 Cfr. Ivi, p. 271. 99 Cfr. Ivi, pp. 271-272. 100 Ivi, pp. 273-274. 101 Ivi, p. 277. 102 Cfr. Ivi, p. 278. 103 Cfr. Ivi, pp. 279-280. 104 Cfr. Ivi, p. 281. 105 Cfr. Ivi, p. 283. 106 Cfr. Ivi, p. 284. 107 Cfr. Ibidem.
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Cfr. Ivi, p. 285. Cfr. Ibidem. 110 Cfr. Ibidem. 111 Cfr. Ibidem. 112 Ivi, p. 287. 113 Ivi, p. 290. 114 Cfr. Ibidem. 115 Cfr. Ivi, p. 292. 116 Ivi, p. 294. 117 Ivi, p. 295. 118 Ibidem. 119 Cfr. Ivi, p. 298. 120 Cfr. Ivi, p. 300. 121 Cfr. Ivi, p. 302. 122 Ivi, p. 304. 123 Ivi, p. 305. 124 Cfr. Ivi, p. 307. 125 Cfr. P. MARTINETTI, Antologia, Bologna 1971. 126 Cfr. B. VARISCO, I massimi problemi. Brani scelti e coordinati a c. di G. Albiney, Firenze 1941. 127 Cfr. I. VECCHIOTTI, op. cit., pp. 138-139. 128 Cfr. G. SIMMEL, Schopenhauer & Nietzsche, a c. di A. Olivieri, Firenze 1995. 129 Cfr. G. RICONDA, op. cit., pp. 387-388. 130 Per una ricostruzione complessiva della fortuna dellestetica di Schopenhauer, cfr. S. GIVONE, op. cit., pp. 238-241 e S. ZECCHI-E. FRANZINI, op. cit., pp. 1077-1978. Si ricordano alcuni contributi specifici: F. VISCIDI, Il problema della musica nella filosofia di Schopenhauer, Padova 1959; C. ROSSET, Lesthtique de Schopenhauer, Paris 1969; A. PHILONENKO, Schopenhauer. Une philosophie de la tragdie, Paris 1980; S. ZECCHI, Eros e decadenza nellestetica di Schopenhauer, in S. ZECCHI, a c. di, Estetica 1994. Scritture sullEros, Bologna 1995. 131 G. SIMMEL, op. cit., p. 154.
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DALLA CITT ALLA COSMOPOLI, UN CAMMINO POSSIBILE


di Carmela Stella

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La discussione politico-culturale dellipotesi federalista e della sua singolare portata storica di unistanza progettuale di grande attualit ed interesse costituisce uno dei temi, o meglio dei problemi, affrontati da Mario Schiattone in un suo recentissimo scritto, Citt Federazione Cosmopoli in Carlo Cattaneo, edito da Name (Genova, 2002). Essa non poteva non proporsi, nellimpostazione argomentativa dellautore, come riflessione critico-teoretica sul significato della storia, sulla sua affermazione nellOttocento (il secolo, come ebbe a dire Nietzsche, affetto dalla malattia storica, per il quale invocava loblio) come scienza indagativa, interpretativa di eventi e fatti, ma chiusa nelle grandi costruzioni e idealizzazioni, il concetto di nazione di Fichte, leticit dello Spirito oggettivato, come Stato, fondamento ontologico delluomo, nella teorizzazione hegeliana; una storia prefigurata da una ragione immanente, da principi direttivi, solo nel Novecento aperta a nuova rielaborazione. Come sottolinea Schiattone, con Mannheim ed, in particolare, con Bloch si comprende che la condizione prima della sua fattualit, non pi definibile secondo precostituiti modelli evolutivi e di sviluppo, una linearit progettuale, costantemente in relazione con le istanze che maturano dal suo svolgimento e di cui possibile specificare la natura in quanto scaturienti dai fini che lumanit persegue. Si tratta di un concetto di non immediata acquisizione perch prelude allindividuazione nella storia di una continuit di svolgimento di istanze utopiche, della presenza in essa di un progetto implicito che partendo da lontano secondo alcune ricostruzioni gi dal mito aureo si andato sempre pi chiarendo e manifestando lungo lidea guida della giustizia. In questa direzione procede Cattaneo: con il suo apporto la storia italiana riconquista la sua linearit, in anni gi per se stessi densi di progetti, vivi per la forza propositiva del dibattito risorgimentale che doveva portare a maturazione lidea dellindipendenza dallo straniero, dellunit nazionale in Mazzini e dellistanza federativa in Ferrari e nello stesso Cattaneo (Mario Schiattone ha scritto, tra laltro, un volume monografico su Ferrari dal titolo Alle origini del federalismo italiano. Giuseppe Ferrari ). Tenace animatore delle giornate insurrezionali del marzo 1848, Cattaneo avvers risolutamente i tentativi fusionisti dei fiduciari piemontesi in Lombardia, attento ai possibili sviluppi storico-politici del Risorgimento che, a suo avviso, dovevano porsi in naturale continuit con la storia italiana, una storia dominata dai particolarismi locali, elementi imprescindibili di un fecondo policentrismo; per essa, per la sua evoluzione sin dalla fase rinascimentale, non poteva risultare consono un programma unitario. Un filo sottile, ma

chiaramente percettibile, lega Cattaneo alla progettazione utopica, nonostante egli abbia espresso nei riguardi dellutopia un giudizio non positivo, vedendo in essa una sorta di volontarismo o una scarsa attenzione, se non proprio disaffezione, per le concrete questioni economiche. Ed interessante il percorso abilmente ricostruito da Schiattone attraverso il quale vi perviene, definendo e chiarendo, nel contempo, la sua tesi sul federalismo: la relazione liberalismo-transazione e ancora liberalismo-utopia. Infatti al federalismo Cattaneo perviene attraverso il liberalismo, un liberalismo maturo che ha fatto proprie alcune istanze sociali consentendo una lettura della storia in termini progettuali. Fondamentale in esso lidea di progresso, fattore portante della storia umana, deliberato e perpetuo, indefinito nel suo sviluppo e nella sua natura, determinata di volta in volta dalle conquiste della scienza. Su tale idea, Cattaneo, come gi Romagnosi, fonda la diretta e specifica responsabilit delluomo nella costruzione della sua storia, scevra da interventi sovrannaturali, giustificazioni metastoriche e pretesti provvidenziali. In questo assunto si rintracciano le radici culturali di Cattaneo, romagnosiane e vichiane da un lato e positiviste dallaltro, le premesse da cui dedurre un pensiero coerente: le tesi empiriste, baconiana e lockiana, confluenti nellaffermazione della connessione tra senso e ragione come criterio di reciproca verificabilit, lattacco alla metafisica (proprio del positivismo, ma non solo, si pensi alle riserve kantiane) e la conseguente negazione dellinnatismo, nella sua pretesa di porre lidea a fondamento della realt, di porre principi universali a fondamento della storia, presupposti dogmatici ad una scienza considerata valida nel suo deduttivismo aprioristico. Lidea di progresso rappresenta, per Cattaneo, una conquista significativa, la radicale messa in discussione dei limiti prefissati e predefiniti allemancipazione umana; su di essa egli imposta il principio di uguaglianza, il diritto di opportunit, consistente nelloffrire a tutti gli stessi mezzi, poich solo cos inteso il progresso pu essere per tutti e assumere un significato universale. Sono ancora prime intuizioni, ma le basi per una matura riflessione sono gi poste. Il liberalismo, cui egli fa riferimento, propositivo, nella sua impostazione originaria, di istanze di grande forza epocale: la libert, suo presupposto etico, il principio di rappresentanza, suo fondamento politico, la nozione di diritto, conquista-simbolo della demolizione del privilegio feudale-aristocratico; ma Cattaneo non ne coglie il vizio strutturale, lambiguit intrinseca. Come sottolinea Schiattone, il liberalismo ha in s lambiguit del rapporto individuo-societ, attribuisce allindividuo un primato sulla societ; ripone nelliniziativa individuale il presupposto dellorganizzazione sociale, riconoscendo alla storia individua la componente del disegno sopraindividuale della storia. Esso espressione della borghesia, ceto egemone economicamente e politicamente, che ha introdotto la democrazia liberale, ma per perpetuare il potere e renderlo inattaccabile, ha introdotto il principio di popolo per sancire, attraverso listituzione della delega di potere, il diritto di espropriazione della sua sovranit. Cattaneo , comunque, consapevole che la borghesia non pu proporsi come unico ceto interprete dei bisogni della societ e individua nella transazione la volont di pervenire ad una interrelazione con gli

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altri ceti, di equilibrare bisogni e aspettative, interessi e necessit; un principio che pu apparire velleitario perch lequilibrio tra le forze di potere risulta sempre inadeguato, ma sicuramente rispondente allintento propositivo. Cattaneo, infatti, crede di poter immettere, attraverso la transazione, un principio di ragione nella storia che induca a guardare oltre gli inevitabili conflitti, a non vedere nella rivoluzione il loro momento risolutivo, anzi lopposto, a riconsiderare intese e accordi, sempre possibili, tra le parti in causa; che consenta di comprendere le ragioni delle controversie, di risolverle allinterno della realt sociale, favorendo nei contendenti la maturazione della coscienza individuale e sociale. Un sistema transattivo un sistema che si apre alle nuove istanze, che si autoprogetta ed evolve. Altro non vede Cattaneo; e tuttavia egli rappresenta lunico teorico che ha considerato la transazione come la possibile via del liberalismo verso lutopia moderna. Non ha altro con cui esprimersi il liberalismo, se non una vaga nozione di decentramento, non sempre chiarificatrice della natura e delle mansioni delle autonomie che genera. Ma Cattaneo affronta questo tema, trasferisce la riflessione dal piano giuridico al piano politico, definisce le linee di un progetto di stato che costituisca per il cittadino lespressione pi alta della democrazia. Giunge cos a prefigurare una federazione di stati, a precisarne le categorie costitutive, libert e autonomia: la libert diritto primo ed inalienabile della persona comporta lautonomia, cio lincondizionato riconoscimento della capacit di autogoverno in ciascuna persona in ciascun popolo, come affermato in un significativo inciso di Schiattone. Esplicita in tale definizione , come egli sottolinea, la relazione individuo-societ, la quale riporta a dimensioni sociali il volere del singolo che, in ragione del valore sociale, raccorda la propria volont allaltrui volont, non intravedendo in questo un ridimensionamento della propria persona ma unopportunit di espansione della propria autonomia e libert, in un contesto espressione, gi di per s, di tutte le potenzialit sociali e politiche, riassumibili nelle associazioni, nei movimenti, nei partiti, nelle federazioni delle arti e dei mestieri, nelle federazioni dellindustria; in tutte le possibili istanze e aspettative popolari. lidea di pluralismo, che in Cattaneo si carica di un forte significato utopico in quanto, cos inteso, esso oltre che legittimare la pluralit delle prospettive sociali e politiche e ad esprimerne, nel comune senso della reciprocit e corresponsabilit, lampio concorso risolvendo lemarginazione e la differenziazione tra ceti, rende possibile luniversale rappresentanza delle forze sociali. Solo allora risulta comprensibile il processo che fa s che la societ diventi stato, che la societ concreta, luogo espansivo della propria libert e autonomia, si dia un governo ed unamministrazione rispondenti ai suoi bisogni. Una precisazione questa necessaria per comprendere lavversione di Cattaneo per un sistema centralistico-autoritario e per lideologia unitaristica del Risorgimento, lesivi, a suo avviso, della sovranit popolare, correttamente esprimibile invece solo nella federazione, il cui fondamento, sul piano politico, lautogoverno, la capacit di autorganizzarsi e autoamministrarsi, di autorappresentarsi; sul piano economico, lautogestione. Il rifiuto di ogni forma di omologazione, pericolosamente avvertita da Cattaneo (e Ferrari) anche nel progetto federalista di

Pisacane, che prevedeva per gli Stati italiani la guida dello stato sabaudo, riporta lattenzione sul problema di come sia comune ed ovvio rapportare la societ allo stato, ritenere una societ tale solo nella forma statuale e investire lo stato di una ragione sovrindividuale contrapposta alla ragione dei singoli e dei popoli. Per Cattaneo, la societ diventa stato se sceglie di autodeterminarsi, di porre a proprio fondamento luguaglianza e la coesistenza pacifica, se realizza politicamente la sua autonomia, quale grado di consapevolezza della propria libert, se si riappropria del potere come diritto della sovranit del proprio popolo e della singola persona costitutiva di quel popolo. In questo, il singolo membro della comunit deve avvertire il senso etico della responsabilit personale che impone una prassi virtuosa, cio un formarsi consapevole alla libert e allautonomia, un educarsi alla cosa pubblica, alla sua difficile gestione, al suo governo che poi il governo del popolo, un cementare in s lo spirito comunitario, nella cooperazione e nel confronto. Il popolo rappresenta dunque il corpo dello stato, una comunit di eguali, sulla base del diritto e della dignit della persona. Solo un governo pienamente popolare porta alla concorde unione di entit statali, autonome nello spirito e nel valore della nazione. la federazione il naturale esito delle insurrezioni popolari contro lAustria. Linsurrezione, e non la rivoluzione, per Cattaneo come per Ferrari, rappresenta il momento in cui il popolo, cosciente della propria potenzialit matura la rivolta, il ripudio delloppressione: in un sol tratto si emancipa. Ma perch il diritto rientri nella prassi quotidiana e la partecipazione alla vita pubblica sia pienamente consapevole, Cattaneo ritiene necessaria quella che egli chiama prossimit o vicinanza fisica del cittadino alle istituzioni, vale a dire: il controllo diretto delle istituzioni, perch agevole laccostamento ad esse del cittadino, la valutazione diretta delloperato dei governanti, con i quali immediato e rigoroso il rapporto, il ritiro o la conferma del mandato di governo, il ripristino della sovranit ad ogni sua negazione. La prossimit, nota Cattaneo, richiede che lo stato sia piccolo, pienamente identificato con la comunit che lo costituisce, con il popolo che, in una tale realt politica, rappresenta in forma democratica, semplicemente e pienamente se stesso; uno stato dalle dimensioni di una citt e del suo circondario. Si arriva al punto centrale del discorso di Cattaneo, il ruolo storico della citt, chiaramente delineato nel suo celebre saggio La citt considerata come principio ideale delle storie italiane, ma anche in altri suoi scritti. Egli ricostruisce storicamente la genesi della citt seguendo il modello ateniese, quello dei comuni medievali e delle repubbliche constata la sua forza aggregativa, il dinamismo produttivo e mercantile, la capacit di autoregolamentarsi, il costituirsi in essa dellautonomia legislativa, vale a dire della democrazia (sia pure nei limiti imposti dal momento storico); essa rappresenta dunque il nucleo originario dello stato democratico. Cattaneo dimostra che, nella polis greca, lucido modello di comparazione, la gestione diretta dello stato ha il suo punto dinizio nellautonomia della citt, nel livello di autogoverno che vi si afferma, nelle iniziative decisionali e deliberative delle assemblee e dei consigli. Pertanto, la societ giusta secondo laccezione tipica per Cattaneo realizzabile nella citt. Una funzione dunque feconda, prosegue Schiattone,

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ma non considerata, nel suo giusto valore, dagli storici che hanno visto sempre le citt come emanazione degli stati, degli imperi, mentre esse ne hanno costituito le basi. Cattaneo, su uno spunto offerto da Ferrari, capovolge il processo: lo stato promana dalle citt e non viceversa. La citt, ancora, il luogo della socialit, espressione di tutti gli elementi dellagire umano, dellemotivit, come della spinta solidale, che realizza larmonia e la coesione tra i cittadini; la socialit disvelamento continuo dellumanit delluomo. Ma, continua Schiattone, lespressione pi alta della umanit delluomo data dal valore che egli potr attribuire alla libert, per s e per gli altri, poich, nella libert degli altri vi la certezzadella propria libert. Questo costituisce il punto pi alto ma anche pi problematico della proposta cattaneana in quanto prerogativa di tutti gli uomini e di tutti i popoli diviene il diritto alla libert e allautonomia che postula il principio di universalizzazione della libert, nella coscienza di ognuno; un principio di ragione che Cattaneo individua nella dignit diritto della persona, nella dignit diritto dei popoli, reso cos efficacemente dallespressione di Schiattone. In questo, il punto autenticamente utopico della riflessione cattaneana: la libert, quale diritto universale, si contrappone agli abusi, alle prevaricazioni egemoniche e allaffermazione della potenza di uno stato sullaltro; con essa si ha il superamento della discriminazione e lapertura verso la cosmopoli, verso una cittadinanza senza confini. Forte nei popoli, come la storia attesta, unineludibile volont di pace, che emerge con forza dopo ogni guerra, in ogni trattato, in ogni armistizio; il trattato per Schiattone, riprendendo Cattaneo, una conquista della coscienza, un atto di solenne giustizia che fa ringiovanire le istituzioni, cos come la storia un continuo dibattito sulla libert e la giustizia, una continua petizione. Nel diritto alla libert si ritrova il principio di uguaglianza, nellaspirazione verso la giustizia il riconoscimento nellaltro della dignit dessere. Per questo necessario superare ogni limite e chiusura, abbattere le frontiere, i confini, intesi da Cattaneo, come linee di contenimento delle diverse entit dei popoli, ma anche, con unimmagine pregnante, linee sulle quali tutti i popoli confluiscono, scambiano comunicazioni e merci, tracciando una cosmografia in cui tutti i popoli convivono nella loro armoniosa variet; cos ognuno cittadino del mondo, ma nella singolarit della sua identit etnicoculturale. Questo il senso del cosmopolitismo di Cattaneo: il cosmopolita ha bisogno di solide radici su cui fondare il proprio spirito di appartenenza mentre si aggetta sul mondo. Listanza straordinaria il principio etico della cosmopoli che insiste nel riconoscimento della universale dignit umana, riassunta nei principi guida delle rivoluzioni, libert uguaglianza e fraternit, non ancora pienamente inverati. Ancora altre e profonde sono le riflessioni di Schiattone, ma non pi possibile addentrarsi. Il rigore critico e analitico, lessenzialit e insieme compiutezza delle trattazioni, la ricchezza degli spunti, delle riflessioni, dei riferimenti costituiscono il carattere saliente del suo apporto. Gli interrogativi, come egli afferma, rimangono: traspaiono nuove categorie, lintersoggettivit di Habermas, si affievoliscono i principi democratici, si avverte la necessit di un superamento delle federazioni storiche verso un federalismo pi umano ed emancipato.

I LUOGHI DELLANIMA DI MARIA ZAMBRANO


di Paolo Miccoli

Maria Zambiano (1904-1991) rappresenta una voce significativa del pensiero al femminile nel Novecento. Voce della hispanidad che si fatta sentire in varie parti dellEuropa e del Nuovo Continente (Parigi, LAvana, New York, Roma) a motivo del lungo esilio dal 1939 al 1984. Personalit di spicco, ella ha fatto tesoro del pensiero filosofico del suo maestro Ortega y Gasset e del magistero di Xavier Zubiri senza peraltro pregiudicare lintimo sentire poetico che pervade i suoi saggi a met strada tra letteratura e meditazione metafisica. Occasione del ritorno alla lettura della Zambrano la recente traduzione italiana del volume Luomo e il divino, ed. Lavoro, Roma 2001, opera di densa intelaiatura filosofica, che dialettizza il destino della civilt europea secolarizzata, diagnosticandola tra il Sacro perduto e una forma di surrogata divinit antropocentrica, di cui si appropriato luomo dellOtto-Novecento in cerca di significati per poter sopravvivere. La lettura dellopera in s complessa agevolata da una puntuale introduzione di Vincenzo Vitiello sulla filosofia della storia espressa dalla Zambrano e da una postfazione di Giovanni Ferraro che rivisita il percorso mistico della parola poetica dellautrice. Riteniamo non superfluo un richiamo ad altri scritti della Zambrano allo scopo di agevolare i lettori che la conoscono meno. Leggendola, veniamo a contatto con una scrittura costantemente sollecitata dalla conoscenza poetica: un logos embrionario che si alimenta di umori viscerali e tende alla conoscenza pura, cio al dialogo dellanima con se stessa che cerca di essere ancora parola, la parola unica, la parola indicibile, la parola liberata dal linguaggio (Chiari del bosco, trad. it. 1991). Vita e scrittura della Zambrano sono contrassegnate dalla cifra dellesilio. I claros sono stazionamenti provvisori di tappe esistenziali raggiunte e subito abbandonate in vista di ulteriori viaggi dellanima in cerca di luce che, tuttavia, si offre solo in episodiche radure spirituali grazie a folgorazioni improvvise che lasciano nostalgia nellintimo. C, nella confessione talora orante di Maria Zambrano, il carisma dellanima eletta che risponde a una misteriosa chiamata e pone la sua vocazione sotto legida della parola poetica che impera sulla pagina e si fa eco di una carit assoluta nei confronti del popolo spagnolo e dellintera umanit travagliati e storditi dagli eventi bellici della prima met del Novecento. Una prosa tersa, sebbene ellittica, mette il lettore sullavviso di non prendere troppo sul serio certe incandescenze nicciane o heideggeriane o marxiste, come pure di saper ridimensionare un misticismo locutivo sui generis che

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a volte sembra apparentarsi col linguaggio di Eckhart, di s. Giovanni della Croce e persino con la lettura del Vangelo. Certo, i chiari del bosco richiamano, per assonanza, la radura di Heidegger quale condizione di corrispondenza delluomo alla voce dellessere. Ma nella sensibilit della Zambrano lessere neutro di Heidegger gi avvistato e trasposto in presenza originaria dellAmore preveniente e trasfigurante in senso di effettiva redenzione cristiana. Luomo esiliato, che riesce a sottrarsi alle lusinghe e agli abbracci degli idoli terrestri, dispone la sua esistenziale indigenza alle pure invadenze dellamore che ci concerne e ci guarda, che guarda verso di noi, convocandoci all appello di un sentire originale soltanto in qualche claros, aperti tra cielo e terra nel seno delliniziale vegetazione. Ogni creatura che vive di attitudine poetica imparentata ai Beati: vede o indovina la chiarezza nascosta nelloscurit. Si appropria proletticamente dellinvisibile nel visibile proprio perch in grado di sintetizzare fede e ragione, mistica amorosa e ricerca riflessiva nel vissuto quotidiano. Il bienaventurado simultaneamente abitante del nostro mondo e insieme di un altro. Nel volume Los Bienaventurados (1990) si tratteggia lidentit del beato: essere di silenzio, fasciato, ritirato nella parola, distinto dal santo che patisce e arde per essere beato, giacch mira ad approdare allidentit con se stesso. Il beato ostaggio nel mondo, un trattenuto nellesilio, un sofferente eppure riconciliato con la vita a partire dalla raggiunta identit. Questi richiami ci raggiungono come rimbalzo di luce che si sprigiona dai vari libri della Zambrano e consentono di avvicinare la riflessione filosofica pi densa delle pagine di Luomo e il divino, dove si dispiega una visione della storia che prende le mosse dal Sacro eclissato e da un equivoco modo di trasporre il Divino nelluomo ad opera del razionalismo idealistico, poi fatto esplodere dal nichilismo nicciano che ha riservato al Superuomo i miseri onori dellutopia illusoria. Gli elementi cardini del discorso possono essere ravvisati nella progressione depotenziata di tre idee: anima, coscienza, spirito. Eccone lo schema argomentativo. Il luogo arcaico di sentire delluomo l anima, intesa come elemento turgido della vita, come viscere (entranas) di memoria orfico-pitagorica ed empedoclea, come ethos e pathos dellessere che sta nella vibrazione originaria dellAurora. Luomo panico si riflette nellorizzonte del Sacro, inteso quale cifra totalizzante di delirio, di sogno, di estasi festiva. Un sacro che pu essere avvertito anche in forma dionisiaca e tragica, ma che trova le sue pi congrue modalit esperienziali nella realt femminile, la cui alta cifra simbolica rappresentata dallAntigone di Sofocle. Suggestiva la riflessione della Zambrano su La tomba di Antigone (ed. originale 1967). Lumanit, rivisitata archetipicamente affonda le radici nella ingens sylva del caos preistorico, da cui emergono troppo tardi gli ardimenti della tragedia greca. Dunque un Sacro pagano, pi che biblico, quello della scrittrice spagnola. Un sacro naturalistico che trover volto composto solo nella rivelazione cristiana. Luomo moderno sta, invece, sotto il segno della coscienza razionalistica che ha gi trasposto il delirio panico in certezza psicologica col cogito cartesiano. La ragione cogitante pensa il divino cio lidea di infinito, e ne tira le con-

seguenze, deducendo e calcolando persino la divina geometria del mondo, del migliore dei mondi possibili. Trasposto in chiave filosofica, il divino si presenta come traccia illanguidita del Sacro archetipico. Il delirio di onnipotenza della coscienza riflessiva ha infine raggiunto il parossismo logico-dialettico con lidealismo hegeliano che ha trascendentalizzato lo spirito (Geist ). Uomo, mondo e storia vengono ormai identificati in unavventura dialettica inarrestabile allinsegna del protagonismo storico-etico della Libert del genere umano. Che cosa ha guadagnato lumanit con lesplodere luciferino dellorgogliosa conoscenza onnicomprensiva? Il dolente privilegio di un occhio di troppo e la deplorevole nudit del re mendico in cerca della propria identit. Luomo della trasgressione si ritrova nella condizione di Edipo accecato, che ha bisogno di guida. Siamo nel cuore della modernit che ha obliato le Origini e si sforza di infrenare linvidia nellinferno terrestre. La via della redenzione additata dalla Zambrano nel suo stimolante saggio di filosofia della storia e della cultura passa attraverso una forma peculiare di riappropriazione della Vita (vitalismo orteghiano) allinsegna della pietas che ci consenta non tanto di conoscere ma di patire le cose come dolce carezza e non come algidi fantasmi. Riappropriarci delle cose con larica sollecitudine chiama a raccolta fede e ragione nella direzione operativa dischiusa dal cristianesimo, che dispiega linsegnamento sapienziale pi alto nella rivelazione dellamore quale pedagogia del saper trattare laltro. Alla luce dellamore evangelico la theora greca, sapienza umana troppo umana, va integrata con la dimensione mistica e poetica del sentire la Vita quale energia trasfigurante e additamento di destino umano che trova lultima e intrascendibile risorsa di senso nella misteriosa realt del Dio-Amore. Si spiega cos anche la legittimazione mistica dellangoscia e del sacrificio in seno alla religione della Vita che vittoria luminosa di Ges Cristo sulla morte.

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PER GIUSEPPE MUCCIARELLI POSITIVISMO PSICOLOGIA E STORIA


di Girolamo De Liguori

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Due convegni, promossi rispettivamente dalla Facolt di Psicologia, sede di Cesena, e dal Dipartimento di Psicologia della Universit di Bologna, hanno inteso ricordare in modo costruttivo lattivit di ricerca, di organizzatore editoriale e di coordinatore di studi del compianto Giuseppe Mucciarelli, psicologo profondamente impegnato nella ricerca sia metodologica che storiografica della sua disciplina. Il primo, dedicato specificamente a Le biografie tra psicologia e storia, si tenuto a Cesena il 30 novembre 2001. Si discusso di biografia e autobiografia, di biografia e storiografia, dellessere e del farsi uomini nellOttocento, di autobiografia e teorie psicologiche, di false autobiografie e meccanismi dissociativi, di memorie individuali e collettive e finanche di storie di vita, di uomini e donne fra guerra e resistenza. In definitiva, si voluto portare lattenzione sul tema, particolarmente caro allo studioso scomparso, della continua intersezione tra psicologia e storia e sviluppare, in chiave operativa piuttosto che sterilmente commemorativa, limpegno interrotto di Mucciarelli, psicologo e storico, attento alle frequenti connessioni disciplinari nel vasto campo della ricerca sul comportamento e le interrelazioni. Il secondo convegno, tenutosi il 24 maggio 2002 a Bologna, stato dedicato a Problemi di storiografia e di epistemologia della Psicologia ed ha avuto relatori Renzo Canestrari, Riccardo Luccio, Guido Cimino, Luciano Mecacci, Nino Dazzi, Sergio Cesare Masin, concludendosi con una tavola rotonda condotta da Marco W. Battacchi sulla identit metodologica della psicologia. Dei rapporti tra Etologia e psicologia avrebbe dovuto riferire Stefano Parmigiani che per ragioni di forza maggiore ha dovuto disertrare lincontro. Dopo un breve profilo dello scomparso, tracciato con viva intensit, il prof. Canestrari ha ricordato le sue doti di impareggiabile ricercatore, meticoloso e aperto nelle scelte di campo; di docente sempre disponibile nella sollecitazione e nel dialogo con gli studenti, ma anche la sua instancabile attivit nelledizione di testi poco noti, nella ricostruzione delle origini della psicologia italiana, tanto da farne un polo di costante riferimento per gli storici non soltanto della disciplina quanto anche della filosofia, della scienza, della antropologia e della critica letteraria. Sono quindi seguite le relazioni su quattro fondamentali momenti concernenti la storia della psicologia, connessa al problema epistemologico della propria legittimazione metodologica. Riccardo Luccio si soffermato in modo particolare sui problemi di storiografia psicologica, mettendo in evidenza metodi errati e strade da evitare nel campo della ricostruzione storica. Una pars destruens, la sua, di particolare

finezza argomentativa e di acutezza filologica che ha messo laccento sulla necessit dellinedito, degli epistolari e dei carteggi, esemplificando e non mancando di avvertire le difficolt che si incontrano nel complicato percorso ricostruttivo sia di profili intellettuali di psicologi che di tematiche specifiche riguardanti teorie e tecniche diagnostiche. Ha, tra laltro, avuto il merito di richiamare il nome di Felice Tocco, pur non lesinando critiche alla Nadia Urbinati che, nel 1984, ne avrebbe riesumato un Manuale scolastico con un commento dice testualmente il Luccio acritico e colmo di franche corbellerie. Le critiche non vengono lesinate neppure al testo del Tocco, definito banale, bisognoso di molte correzioni che Tocco stesso ritenne di non pubblicare; operazione che, francamente, avrebbe fatto torto allo stesso autore, del resto uno dei maggiori, se non il maggiore, storico della filosofia che lItalia abbia avuto tra Ottocento e Novecento. Senza volere entrare nelle convinzioni del relatore, va osservato che il manoscritto, reso noto dalla Urbinati, era non pi che la bozza di letture di psicologi, in particolare tedeschi, e che il suo valore sta tutto nel fatto che documenta la buona informazione e la considerevole attenzione di un filosofo italiano di quegli anni ai pi avanzati sviluppi della psicologia sperimentale e non nella originalit sua di teorico della psicologia. Soprattutto se si tiene presente quanto, di l a qualche anno, tali studi sarebbero stati avversati e sconsiderati dal trionfante neoidealismo; tanto che lo stesso Tocco avrebbe espresso il suo dissenso da Croce in termini che resta comunque merito della Urbinati avere ricordato: il Croce ed io, parlanti due lingue diverse, non potremmo intenderci neanche a segni. Egli disdegna altamente la psicologia empirica, io, per lopposto credo che una filosofia dello spirito senza una larga esperienza e psichica e storica non possa essere se non una bolla di sapone (Cfr. N. Urbinati, Un manuale inedito di F. Tocco, Atti e memorie dellAccad. toscana di scienze e lettere La Colombaria, Firenze, 1984, pp. 193-225). Guido Cimino ha presentato una sorta di carrellata sulla storia della storiografia in Italia negli ultimi trentanni, relativamente alla psicologia nelle sue connessioni con la storia della scienza, ricordando il ruolo giocato dal Mucciarelli in questo campo di studi e leggendone la posizione raggiunta come un superamento ed un arricchimento di prospettiva rispetto a precendenti inchieste storiografiche della disciplina in Italia dalle quali emergeva una immagine sostanzialmente negativa se non del tutto fallimentare almeno se ci si ferma al 1981, anno della diagnosi di Sadi Maharaba nel noto volume, Lineamenti di storia della psicologia italiana. Lesigenza del resto di quella che viene chiamata storia esterna della psicologia (in realt la leggittima istanza di riportare la psicologia alla sua stessa storia che fu quella di relazioni con altre discpline, anzi di faticosa gestazione allinterno di statuti disciplinari che la tennero a battesimo, per cos dire, dalla filosofia allantropologia, dalla medicina alla neurologia, ecc.) era stata sentita dagli stessi padri fondatori della psicologia in Italia, da Giuseppe Sergi ad Ardig, da Enrico Morselli a Bonaventura a Ferrari a De Sarlo, autori in cui fu evidente il travaglio di trovare il terreno sul quale dichiarare lautonomia della discplina dalle sue matrici storiche.

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Mecacci, in un intervento del tutto originale, ha trattato dellidea di mente come spazio: contro labusata prospettiva dualistica di uno spazio tutto esteso e di una mente (pensiero) inestesa, secondo larchetipo cartesiano di res extensa e res cogitans. In realt, quella di Cartesio, era una metafora: la metafora della mente come spazio; e la sua eterogenit rispetto al corpo, come puro spazio, era data soltanto dalla sua indivisibilit di contro alla divisibilit della corporeit. La mente, in definitiva, era un modo per indicare una complessit di funzioni e, implicitamente, una sua scomponibilit non disgiunta dal luogo dove pur dovevasi collocare. Lassoluta contrapposizione tra spazialit e mente, infatti, non resse a lungo nella tradizione del pensiero moderno. Gi Leibniz escogit il modello del mulino per raffigurarla: una sorta di macchina che, pur non spiegando come avvenga la percezione, ne mostrerebbe almeno gli ingranaggi. Del resto, tale immagine era stata preceduta da quella del teatro cartesiano: un grande scenario interno, complesso e variegato, che un po lantefatto dellinterno della coscienza freudiana: un conscio e inconscio che sono come due vani di un unico appartamento. Essa non ha un suo luogo ben determinato: non costituita di neuroni; perci le teorie della localizzazione cerebrale le restano estranee, come un ramo secco della evoluzione del concetto stesso di mente. Ha tuttavia una sua spazialit costituita da molti spazi: una sorta di scatola nera della esistenza, non fuori dello spazio ma connessa alla fisiologia del corpo, tanto da far dire a Freud che la mente estesa ma non lo sa. Il Masin ha tracciato una storia molto tecnica della psicofisica, da Fechner e dalla legge di Weber ai nostri giorni, suscitando interventi e consentendo un serrato incontro con alcuni studiosi convenuti tale da arricchire la tematica proposta. Nino Dazzi, dal canto suo, ha offerto, da storico della psicologia, una interessante trattazione delle somiglianze ma soprattutto delle differenze tra due cospicui protagonisti della psicologia tra Otto e Novecento, William James (1852-1910) e Karl Stumpf (1848-1936). Il raffronto gli ha offerto, in pari tempo, lagio di ricordare la posizione che Giuseppe Mucciarelli aveva conquistato anche tra gli storici della psicologia italiana; e su tale questione vorrei riportare una mia pi personale esperienza della quale un rapido cenno avevo fatto, come testimonianza daffetto e di stima, al convegno di cui si discute. Il contributo offerto dai pensatori del positivismo in Italia alla affermazione della psicologia come scienza autonoma. Questo il tema che con lautore avevo personalmente discusso e progettato di portare avanti, con sondaggi storico-critici circostanziati, tra gli anni 1986 e 1988. Ne sono testimonianza alcune sue lettere che conservo e alcuni spunti che trapelano da suoi interventi di presentazione dei fascicoli della rivista da lui diretta e voluta, Teorie e Modelli. Il progetto, per quel che riguardava la mia collaborazione, si arrest a due contributi sulla polemica intorno alle teorie del parallelismo in Italia, usciti su Teorie e modelli, nell 86 e nell 87. Ma, dopo una lunga interruzione durata pi di un decennio, il nostro dialogo era ripreso; tanto che lo stesso direttore, nel presentare il numero doppio 1-2 del 2000, dichiarava con la chiarezza che gli era consueta, di voler dedicare spazio in modo sistematico alla pubblicazione di lavori che riprendano argomenti classici della storia della psicologia in Italia ed allo studio di pensatori e di movimenti che sono stati tra-

scurati e sottovalutati. E, introducendo il mio nuovo articolo su Tito Vignoli, esplicitamente prometteva di pubblicare in un prossimo numero materiale inedito del Vignoli [] con lobbiettivo di ripubblicare alcune sue opere nella Collana Classici della Psicologia Italiana edita da Pitagora Editrice e che rappresenta una sorta di prolungamento dellattivit scientifica della rivista (cfr. Premessa, in Teorie e Modelli, V, 1-2, 2000). Una serie di circostanze, tra le quali, pi pesante e irrimediabile, la morte del nostro amico e, in pi, del nipote di Tito Vignoli il dottor Antonio Cipollini, mi impedirono di portare avanti il disegno di completare definitivamente i miei studi sulla figura e lopera di questo positivista, con la pubblicazione di lettere inedite di suoi corrispondenti e la ristampa con introduzione e note delle sue due opere maggiori, interessanti la psicologia. Se ben ricordo, del resto, il mio interesse specifico per Vignoli era nato proprio dalle nostre prime conversazioni, durante una pausa estiva nelle campagne pugliesi, nelle quali egli mi aveva confidato di volere riproporne alcuni saggi come Mito e scienza e La legge fondamentale dellintelligenza nel mondo animale, testi che io avevo incontrato in quegli anni in cui andavo facendo indigestione di postivisti italiani di varia estrazione. Trascurati del tutto in Italia, li avevo trovati citati nellopera di Ernst Cassirer e nella biografia di Warburg scritta da Gombrich, nonch negli interventi censori del padre Previti e di Civilt Cattolica, negli anni Ottanta del secolo XIX. Lipotesi storiografica che premettevo a tale ripresa del lavoro, era che quanti in Italia, tra la fine del secolo XIX e linizio del XX, si ponevano la complessa questione della fondazione dello statuto della psicologia collegavano sempre questa allantropologia. Quanti sostenevano, contro vecchie preclusioni metafisiche o pregiudizi religiosi, lautonomia della psicologia come scienza sovente contro i gesuiti che, guarda caso, individuarono prontamente in Tito Vignoli un nemico della recta ratio, accusato di invocare autori stranieri e di indicare nella sperimentazione la risoluzione di problemi che soltanto religione e filosofia, assieme coordinate, potevano impostare e correttamente provarsi a risolvere tutti indistintamente, ritenevano che una corretta fondazione della psicologia dovesse sottendere una nuova antropologia. Su tale terreno della stretta connessione tra psicologia e antropologia si impegnarono medici, fisiologi, neurofisologi, filosofi, antropologi: da Mantegazza a Lombroso, da Sergi a Vignoli, da Ardig a Morselli, da Canestrini a Livi, a Tamburini, a Luciani, a Mosso, a Golgi, a tutto il fronte variegato e tormentato della cultura scientifica di ispirazione positivistica dei primi decenni del secolo. Quello che si chiam o si individu polemicamente come positivismo non fu perci una scuola di filosofia; ma pi semplicemente (se non soprattutto) un non sempre concorde schieramento di studiosi che, tra errori e tentativi frettolosi di sintesi, cadute scientistiche e appiattimenti meccanicistici, tenne una frontiera, contro le fughe idealistiche, in favore delle scienze delluomo, come scienze sperimentali. Grazie a Buccola, De Sarlo, Moleschott, Adolfo Faggi, e i gi ricordati Sergi, Ardig, Morselli fino a Piero Martinetti (filosofo, si badi, metafisico!) i nomi di Darwin, di Spencer, di Helmoltz, di Lotze, di Fechner, di Wundt, di Mach, non furono richiami retorici; e i problemi della percezione, del

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rapporto mente-corpo, connessi alle questioni di neurologia, della scoperta della cellula prima e del neurone poi, cessarono di costituire campo chiuso degli anatomo-patologi da un canto e dei metafisici dallaltro, per diventare aspetti osservativi sistematici di una nuova metodologia di ricerca e analisi che avrebbe portato alla fondazione della psicologia scientifica. Certamente la connessione tra le due discipline comportava dei rischi, primo tra tutti quello, subito individuato e combattuto in Sergi, ad es., Morselli, Lombroso e compagni, del riduzionismo materialistico; ma per buona parte dei nostri positivisti tale legame significava mantenere la nuova disciplina dei comportamenti al riparo dalle prevaricazioni della metafisica spiritualistica che intendeva riportare lorigine del pensiero e dei fatti psichici nonch dei comportamenti in generale sotto la tutela della teodicea. Lantropologia significava una nuova concezione delluomo, evoluzionistica, progressiva, non antropocentrica, che legava lessere umano agli animali e quindi alluniverso in una scala ascendente senza soluzioni di continuit. Essa consentiva di leggere i fenomeni psichici come espressione complessa delle funzioni naturali e non come manifestazioni di forze soprannaturali, spirituali o divine. Antropologia era anche, di volta in volta, filosofia della natura e fisiologia; anatomia patologica e fisiologica; era costruzione teorica di una immagine di essere umano basata sui progressi della neurologia, sulle osservazioni degli esploratori, sui diari e i dagherottipi riportati dai viaggiatori in Asia, in Africa, in Oceania, in Brasile; sulle prime incerte conclusioni comparative di tratti somatici e comportamenti di popolazioni da poco avvicinate e osservate; e, infine, sui turbamenti, sia pure, o, talvolta, lagnosticismo che prendeva i ricercatori che provavano ad avventurarsi in quei campi ancora oscuri degli organi di senso e del cervello in particolare che avrebbero costituito, tra non molto. il terreno di coltura delle future neuroscienze. Chi vorr riprendere questordine di ricerche storiche, del resto sempre fondamentali per ogni nuovo impegno teorico nel campo della psicologia come della storia della scienza, dovr ricominciare da dove a Giuseppe Mucciarelli non stato pi consentito di procedere oltre.

I LINGUAGGI DELLA RICERCA STORICA: I VOCABOLARI DI BRAUDEL*


di Sandro Ciurlia

I. Il nome di Braudel soprattutto legato alla proposta di una storiografia resa in grado dindagare i processi di lunga durata, svincolata dai rigidi criteri di ricerca della tradizionale indagine storica di tipo evenemenziale. Il tempo come loceano, ha dichiarato una volta lo storico francese: in superficie scorrono i fatti che caratterizzano lo sfuggente moto ondoso della cronaca; in profondit sfilano le correnti responsabili degli equilibri di lunga durata. La storiografia di Braudel si sempre mossa tra questi due estremi, nel tentativo dindividuare i compositi ordini di configurazione dei fenomeni storici. Quella braudeliana non solo, per, una rivoluzione metodologica in storiografia. anche unincessante ricerca volta a combinare metodi e linguaggi. Aggredire i fatti, disporsi a far luce sui processi storici significa dotarsi di un linguaggio teso ad isolare il singolo evento, immergendolo nel contesto di cui espressione. Come pu lo storico con il suo linguaggio attraversare il tempo, perimetrare unepoca, fare i conti con i vari livelli di profondit delloceano della storia? A tale interrogativo tenta di offrire una risposta Giovanni Mari in questo volume dedicato allopera del massimo esponente della storiografia annalistica e, in particolare, allo studio dei livelli linguistici della sua monumentale monografia, pubblicata nel 1949, dal titolo La Mditerrane et le Monde mditerranen lpoque de Philippe II. Mari si propone, sin dalle prime battute, sia dintrodursi nel laboratorio lessicale dello storico transalpino, sia di penetrare la sua concezione filosofica della storia. Tutto ci nel tentativo di ricavare un pi ampio significato culturale dalla rivoluzione storiografica degli annalisti. Il punto di partenza dello studio lanalisi della Prefazione braudeliana a La Mditerrane, dove Braudel spiega come il libro si articoli in tre parti, ciascuna delle quali costituisce un tentativo di spiegazione a s (p. 15). Il primo tipo di spiegazione a cui si allude quello relativo ad una storia quasi immobile, quella delluomo nei suoi rapporti con lambiente; il secondo si riferisce ad una storia lentamente ritmata [], quella dei gruppi e degli aggruppamenti; il terzo si lega alla tradizionale storia vnementielle. Il risultato pi immediato di tali distinzioni consiste nellaver scomposto il

* A proposito di G. MARI, I vocabolari di Braudel. Lo spazio come verit della storia, Luciano Editore, Napoli 2001, pp. 184. Le pagine delle citazioni tratte da questo libro sono indicate, nel corpo del testo, in parentesi tonde.

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tempo della storia in un tempo geografico, un tempo sociale, un tempo individuale (Ib.). In questo modo si scinde luomo in un corteo di personaggi. Le esigenze di ricerca e la progressiva analisi delle questioni potranno portare avverte Braudel, strada facendo, a passare dalluno allaltro di questi piani della spiegazione storica. Ne discender una storia vivente e necessariamente una. Questo tipo di storia configura, in realt, non tanto un superiore piano ontologico, sintesi dialettica dei precedenti, quanto un orizzonte, un ideale regolativo di tipo metodologico per comprendere le tante dimensioni dellazione umana immersa nel tempo, per far interagire i singoli nuclei di senso perseguiti da ciascun tipo di spiegazione: difesa ad oltranza, dunque, dellunit della storia e del pluralismo storiografico. In verit, ogni piano della ricerca si compone di brevi, ed altrettanto complesse, storie trasversali (p. 19), che tocca allo storico legare, combinare, cogliendo nessi ed analogie tra gli eventi, allo scopo di ricostruire e di descrivere lidentit dei fatti e la policroma degli sfondi. In questo senso lunit della storia costituisce, per Braudel, la totalit delle connessioni comprese (Ib.) e si individua nello spazio che le ha rese possibili, nella fattispecie in quel crogiolo di civilt qual stato il mondo mediterraneo. Ora, se i tre modelli di storia sono stati presentati come spiegazioni a s in qual modo devessere inteso il suddetto piano della storia vivente e necessariamente una? (p. 17). Come si pu osservare, i problemi raccolti in questimpostazione sono molti e fa bene Mari a giustificare il proprio libro come un lungo commento (Ib.) della Prefazione metodologica dellopera braudeliana. Da essa emergono sia una dichiarazione di principio, sia unevidente filosofia della storia protesa a ridefinire la natura dei rapporti tra le categorie storiche di spazio e di tempo. A giudizio di Mari, per gettare luce sulla stratigrafia dellopera di Braudel necessario, dunque, far luce sui suoi linguaggi. A tale scopo, lautore non esita a prodursi in un approccio analitico al problema al fine di consentire al significato nascosto tra le righe della suindicata Prefazione braudeliana di esprimersi. Mari utilizza, anzitutto, la nozione wittgensteiniana di gioco linguistico, secondo la quale il significato di una parola nel suo uso linguistico, essendo ciascun gioco una forma di vita, un mondo a s. Cos, dichiara Wittgenstein, quando comprendiamo il significato di una parola [] lo afferriamo di colpo1. Ne conseguono due risultati: possibile considerare sia le tre spiegazioni a s cui allude Braudel come altrettanti giochi linguistici, sia la storia vivente e necessariamente una come il momento della comprensione e dellesplicitazione di una certa visione del mondo. Ciascuna delle dette spiegazioni s detto legata ad un vocabolario. Parafrasando Rorty2, Mari intende per vocabolario i giochi linguistici come totalit (p. 26). Quella di Braudel stata unautentica rivoluzione linguistica in storiografia grazie alluso continuo di tropi tesi ad investire di senso quelle spiegazioni strada facendo che possono risultare tanto illuminanti nel corso della ricerca. La metafora non appartenendo, nel suo uso letterale, ad alcun vocabolario, forza il consueto assetto semantico del linguaggio e gioca con i giochi linguistici: distorce ed amplia, cos, significati consueti e condivisi; spesso irrompe in un vuoto, fino a proiettarsi sul teoreticamente impossibile3,

rendendolo logico e coerente. La conseguenza pi diretta consiste, comunque, nellampliamento dellarea semantica di un dato termine. Secondo lo stesso schema, Braudel utilizza ed interseca i propri vocabolari, legati alle dette spiegazioni a s, mentre luso ingente della metafora occorre a penetrare, attraverso il linguaggio, i tanti coni dombra del passato, cambiando registro, modulando toni, recingendo di nuovo senso gli spazi, ridefinendo la rettilineit del tempo in relazione a quel piccolo universo qual larea mediterranea ai tempi di Filippo II. In tal modo, si pone assieme una storiografia finalizzata a contemperare le tante anime di unepoca con lunit del suo senso; ununit sintesi del molteplice, che non si riduce dialetticamente allUno, ma che vive della sua stessa variet in seno ad un impianto unitario, conseguito mediante lapporto dei risultati delle ricerche di varie discipline limitrofe alla storia. In questa maniera, il mondo mediterraneo esprime tutta la sua ricchezza di forme e si dimostra un nucleo di civilt in cui si sono codificati equilibri compositi, tali da condizionare in modo duraturo i futuri assetti dellintera Europa. Rimane in piedi un punto di enorme rilievo: nellopera di Braudel, la ricerca di un significato complessivo della storia non compromette il valore dellindagine evenemenziale perch convivono, nella sua produzione, i momenti della comprensione e della spiegazione. Pertanto, levidente presenza di una filosofia della storia non preclude la possibilit di immergersi nelle abissali profondit delloceano del passato, vagliandone le increspature superficiali e le forti correnti che ne alimentano il moto nel profondo. Lutilizzo di vari vocabolari, cio di termini significanti legati da sostanziali somiglianze di famiglia4, garantisce un adeguato scandaglio della superficie nascosta di quello spazio. Nel caso dellopera braudeliana del 1949, i tre piani dellindagine si legano ad altrettanti approcci linguistici, ciascuno sorretto da un vocabolario: quello dellambiente, quello dei destini collettivi e quello degli avvenimenti, a cui Mari dedica i tre capitoli centrali del libro. Nella prima parte di La Mditerrane, Braudel significativamente pone laccento sullambiente geografico. Trova qui applicazione la teoria della metafora prima evocata. Il vocabolario ambientale braudeliano opera una sorta di continua trasmigrazione linguistica dalla geografia alla storia: utilizza, infatti, termini designanti la morfologia fisica del territorio per disegnare nuovi sentieri di ricerca. Un esempio costituito dallutilizzo traslato del termine istmo. Questultimo, nel linguaggio ordinario, indica una lingua di terra che mette in comunicazione ampi territori. Questi luoghi, in Braudel, divengono ponti di passaggio di civilt, attori della storia, strumenti attivi di trasmissione di tradizioni, di significati, di cultura. Listmo diviene, cos, un fattore di unit, di comprensione unitaria di mari, popoli, azioni e terre (p. 44): ci accade in relazione agli istmi russo, polacco e tedesco. Un simile utilizzo metaforico del vocabolario della geografia permette di cogliere il sorgere delle civilt nelle loro relazioni durature con lambiente, il quale diviene, a sua volta, un attore di irradiamento delle culture dei popoli, condizionandone gli spostamenti, gli scambi commerciali, leconomia. La civilt, in tal modo, letta nella lunga durata del suo manifestarsi, fa i conti con

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lambiente, rende flessibili i suoi confini, li lega allo spazio e non solo allo scorrere del tempo. Lo stesso discorso vale per la trattazione braudeliana delle nozioni di montagna (per traslato da intendersi come una forma di rifugio), di deserto (la cui implacabilit richiama la ferrea fedelt al dogma religioso tipica del mondo islamico), di isola (da leggersi come un luogo chiuso e senza confini dove si concentrano vita e storia) o di mare (inteso come lo spazio in cui sorge la civilt mediterranea). La nozione di Mediterraneo costituisce, inoltre, ununit umana, un punto dincontro tra varie linee di forza; un mondo che finisce col diventare il mondo lungo cui si snodano e si esprimono i destini della modernit. In questa maniera, si assiste alla creazione di un vocabolario geostorico (p. 66), volto a descrivere il rapporto tra evento ed ambiente. Quella ambientale rappresenta, dunque, una delle citate spiegazioni a s. A sua volta, la tropizzazione del linguaggio geografico conduce a costituire una prima forma, ancorch provvisoria, di unit della storia, colta attraverso la costituzione di un vocabolario fatto di strumenti linguistici che permettono di parlare di cose di cui precedentemente non si riusciva a parlare nello stesso modo [] e soprattutto congiuntamente (p. 68). Diviene possibile realizzare, cos, quei passaggi di piano volti a compiere quelle spiegazioni trasversali resesi disponibili strada facendo, alle quali Braudel si era riferito nella Prefazione alla sua opera maggiore. Ma che tipo di relazione sussiste tra la prospettiva della spiegazione storica e lutilizzo delle unit linguistiche dei vari vocabolari di senso? Chiarisce Mari: La spiegazione guidata dalle metafore, non le spiega []. La spiegazione interviene dopo che la metaforizzazione ha gi predisposto lunit di senso e si sofferma solo su alcuni aspetti di questa (p. 69). In altri termini, la metafora sollecita il linguaggio a configurare orizzonti unitari a tutto vantaggio del momento della spiegazione, il quale, invece, illustra il significato della metafora (Ib.) e ne utilizza lavanzamento di senso nel frattempo conseguito per risolvere certi quesiti e porne altri. Se, viceversa, il momento logico della spiegazione fosse a fondamento delluso metaforico dei vocabolari si perderebbe di vista lattivit storiografica di illustrazione della testimonianza e del documento appartenenti ad un altro presente. La capacit, insita nella categoria della spiegazione, di far uso delle varie risorse del linguaggio rende la ricerca storica unimpresa critica. II. Oltre al vocabolario dellambiente, Braudel propone un altro tipo di spiegazione a s, quella relativa al vocabolario dei destini collettivi. Si tratta di una sezione della ricerca di Le Mditerrane che si occupa dellanalisi dei processi socio-economici posti a determinare gli assetti di una civilt complessa qual quella mediterranea del Seicento. chiaro sottolinea Mari che [qui Braudel] crea un vocabolario dai confini lessicali meno precisi e uniformi di quelli del vocabolario dellambiente, ma in compenso in grado di parlare e di riportare sullo stesso piano una maggiore variet di accadimenti (p. 74). In questo modo, si persegue la costituzione di un vocabolario finalizzato a descrivere i caratteri di unintera epoca senza che, con ci, esso assuma i crismi di una sorta di meta-vocabolario finalizzato a descrivere la globalit

degli eventi. Si rende possibile cogliere, cos, la misura del secolo dai grandi spostamenti finanziari, dallo studio dei traffici di spezie e di metalli preziosi. In questaspetto non vi alcun segno di una considerazione fondativa dei fatti economici (p. 82), ma solo lapplicazione di quel programma storiografico di ricerca volto a rintracciare i fattori che determinano levolversi dei processi complessi. Leconomia tra questi. Infatti, non si tratta solo di tenere conto delle dinamiche finanziarie tardo rinascimentali, quanto di osservare come lo spazio storico definisca il proprio assetto attraverso la valutazione del fattore economico. Leconomia regge le sorti di unepoca come fattore coagulante e come misura di un tempo, non configurandosi alla maniera di una categoria strutturale della storia: in questo consiste lelemento metodologico di differenziazione tra lapproccio braudeliano e quello di un qualunque storico marxista. Leconomia, dunque, come parte integrante del vocabolario dei destini collettivi. Lo stesso si pu dire per la politica, letnografia, lanalisi sociale e la storia delle battaglie. In relazione al primo aspetto, Braudel tratta la vicenda della formazione dei grandi colossi politici. La loro lunga evoluzione conduce alla costituzione degli imperi, quelli turco e spagnolo. Quando parla di civilt, invece, Braudel intreccia i propri percorsi di ricerca con quelli delletnologia, secondo un piano programmatico teso ad intersecare lordine dellindagine storiografica con quello della descrizione delle condizioni complessive della vita civile. Si costituisce, in tal modo, la nozione di spazio lavorato, vale a dire riccamente tramato di senso in quanto luogo di convivenza civile e culturale tra gli uomini. Calato in questottica, lo storico si mette nelle condizioni di osservare permanenze ed epifenomeni, seguendo i piani delle sue indagini. Nella Parte terza di La Mditerrane, Braudel discute gli sviluppi degli eventi relativi al periodo del regno di Filippo II e mette a punto un terzo tipo di spiegazione a s, legato alla costituzione di un vocabolario degli avvenimenti. Lo scorrere degli eventi dominato dalla complessit dei meccanismi di lunga durata e dalle singole azioni degli individui: che rapporto c tra questi due poli? Ad un simile interrogativo Braudel offre una risposta nella conclusione dellopera. A suo giudizio, isolare uno dei due aspetti deleterio. La storia non fatta n solo dagli uomini, n solo da forze massicce. Ciononostante, la libert individuale, la sagacia e la prontezza dellintuizione hanno il loro peso nel condizionare, in seno a certi processi, lapertura delle pesanti porte della storia. Al riguardo, Braudel pensa a personaggi quali don Giovanni dAustria e Pio V. Mari suggerisce di denominare tali figure individui super-evenemenziali (p. 136), perch collocati oltre il tempo degli avvenimenti, capaci di forzare il corso degli eventi (p. 137). Ben oltre lo stesso Filippo II, Solimano o Dragut, alla volont dei due detti protagonisti si deve laver forzato lordinato circuito degli avvenimenti: sono, questi, alcuni degli elementi trasversali che lo storico pu analizzare strada facendo. Lindividuo super-evenemenziale spesso legato ad un fenomeno di rottura, frutto della sua prorompente personalit. Vi sono anche, per, personaggi o avvenimenti per cos dire di contesto, la cui caratura storica come capacit dincidere sugli eventi tocca allo storico stabilire, e che assumono un

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valore per lo pi contingente. In questo scontro tra profondit e superficie si gioca la dialettica della storia. Secondo Mari, Braudel pare assumere un atteggiamento doppio (p. 151): per un verso preferisce privilegiare lo spazio entro cui gli uomini agiscono e le cose accadono; per laltro savvede di come la storia [sia] limmagine della vita in tutte le sue forme, ridando tono, in questa maniera, allevenemenziale. La storia, infatti, una sorta di gioco di specchi (p. 153) tra la volont individuale che contribuisce a determinare il profilo dellevento ed i processi entro cui questultimo si specifica in una continua lotta per il riconoscimento della propria identit. Entro questa prospettiva finalizzata a legare laccadimento e lazione dellindividuo alla lunga durata della storia tende a configurarsi unidea complessiva di storia in grado di combinare i due aspetti (gli uomini e le forze della storia), senza arrivare a far leva su un tlos, come accadeva nelle grandi prospettive storicistiche della tradizione. Torna qui il tema dellunit della storia e dello spazio come sua unica verit. III. La Mditerrane s detto unopera nella quale confluiscono resoconti, approcci trasversali, passaggi di piano strada facendo, verso una storia vivente e necessariamente una che ha come protagonista uno spazio, il mondo mediterraneo, lungo cui si snoda una civilt complessa e dai tanti volti, quella dellet di Filippo II. Secondo il ragionamento induttivo di Mari, si pu concludere che, nello studio di Braudel, una certa idea [di spazio] la verit della storia (p. 161). Per chiarire la questione, Mari cita il giudizio su Braudel elaborato da Paul Ricoeur in Temps et rcit. Questultimo aveva colto lunit dellintreccio di storie di cui si compone lopera braudeliana in una certa concezione della temporalit responsabile di tale sintesi delleterogeneo5. Mari interpreta la proposta di Braudel, viceversa, come un invito a liberarsi dallossessione del tempo. Gi Hegel, parlando del Mediterraneo come dellasse della storia universale, aveva riscattato lo spazio dalla sua connotazione meramente geografica, anche se la disposizione degli eventi era sempre da collocarsi in seno alla Weltgeschichte6. Superare il fondamento temporale significa tornare a fare i conti con la categoria storica di spazio. Lunit dello spazio, cos, contrassegna lunit della storia. In Braudel lunit un ulteriore significato che la pluralit acquisisce (p. 173): quando Braudel parla di unit della storia non allude al culmine di un percorso teleologico, ma al modo in cui si combinano le tante storie che si raccolgono in un dato spazio. In questo senso la ricerca dellunit coincide con la piena esaltazione della molteplicit tanto dei punti di vista narrativi, quanto degli approcci metodologici. Una storia senza tlos, dunque, capace di valorizzare le spiegazioni e di sottrarsi a qualsivoglia neostoricismo speculativo. Importante questione, questa, secondo Mari, da proporsi nellet della globalizzazione, nella quale il primato del tempo sancisce loblio dello spazio verso forme sempre pi astratte ed impersonali di dominio e di concentrazione di potere. In questo punto si concentra il significato culturale della rivoluzione storiografica braudeliana. Limmagine complessiva di Braudel che emerge dallo studio di Mari quella di uno storico attento a combinare tante nicchie di significati da cui attinge-

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re lunit della storia, detronizzando la storia evenemenziale per focalizzare lattenzione sulla storia lentamente ritmata. Lapproccio di Mari, inoltre, risulta assai suggestivo in relazione soprattutto alla definizione dei tre vocabolari in quanto spiegazioni a s di cui si serve Braudel. In tale prospettiva risultata assai utile la lettura [] analitica (p. 11) messa a punto da Mari per descrivere limpianto de La Mditerrane. Discutere i concetti di spiegazione, metafora, forma linguistica al fine di ritornare ad illuminare le traiettorie storiografiche braudeliane si dimostrato un modo efficace per gettare nuova luce sullimponente opera dello storico francese, in un momento in cui sono maturate, forse, le condizioni per stendere un severo bilancio critico dellesperienza annalistica. Distinguere le tre forme di vocabolario allo scopo di rendere ragione di una simile forma di storiografia pluralistica suscita, per, qualche osservazione. Nellenfasi analitica di Mari tesa a giustificare i piani braudeliani del linguaggio appare, in verit, troppo netta la distinzione tra i vocabolari, proprio alla luce delle fluidificazioni strada facendo sulla cui necessit lo stesso Braudel non esita spesso ad indugiare. I confini tra i vocabolari sono davvero cos netti da poter essere riconosciuti? Ed ancora, quella data trattazione che si erige sul loro confine di quale vocabolario fa uso visto che partecipa di pi duno? un vocabolario questo tipo di vocabolario? In altri termini, nel momento vivo della ricerca la complessit dei problemi, al di l delle dichiarazioni di principio, non richiama spesso lausilio di pi vocabolari, passando da un piano allaltro per rispondere alla necessit di contestualizzare il dato storico e, nel contempo, allesigenza di esprimere la compiuta fisionomia dellevento? I tre vocabolari esprimono rispettivamente gli orizzonti dellunit, delluniversalit e della globalit degli avvenimenti. Ciascuno, a suo modo, avendo citato Wittgenstein, configura un gioco linguistico, una forma di vita o una prospettiva narrativa nel nostro caso. Ora, esiste un Vocabolario dei vocabolari, un Gioco attraverso cui si determinano e si esprimono morfo-sintatticamente i singoli giochi? Le stesse difficolt, queste, dellimpostazione wittgensteiniana. Il riferimento di Mari allopera del filosofo austro-britannico nel mentre guida a comprendere la complessit dei piani su cui si fonda lattivit storiografica braudeliana si accompagna a tutti i problemi legati alle condizioni di autodicibilit dei vocabolari che, in Braudel, condividono la stessa sintassi e la stessa semantica, pur possedendo una diversa capacit euristica di aggredire le dinamiche storiche. Dunque, il fatto che tali vocabolari abbiano unestensione parallela, richiamandosi in una sorta di dialettica corrispondenza di reciprocit ed indipendenza, rappresenta il loro punto di forza e, insieme, il loro limite. Braudel, in realt, li usa nelle tre sezioni del libro, ma li interseca per affrontare molti passaggi problematici o per scardinare numerose stereotipie evenemenziali. Risulta, pertanto, difficile continuare a tenerli distinti e, soprattutto, ritenere di poterli riconoscere e definire data la loro frastagliata e problematicissima superficie di estensione. Non va trascurato, inoltre, il fatto che una visibile filosofia della storia sinsinua nelle maglie delle indagini braudeliane con inevitabili costi di opacit storiografica. Lidea dellunit della storia, la tesi della presenza di figure emble-

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matiche poste a guidarne gli sviluppi, il programma di descrizione della planimetria complessiva dei processi depongono a favore della costituzione, in Braudel, di una concezione della storia stessa come Weltanschauung, probabilmente frutto di suggestioni tratte dallopera di Kojve7. proprio questaspetto, per, ad impensierire. Certo, nessuna operazione storiografica mai neutra; pensare, tuttavia, ad un certo percorso unitario della storia rende la questione alquanto pi problematica. Braudel propone il proprio punto di vista con chiarezza: ci gli consente di sfuggire alle angustie delle indagini evenemenziali e di cogliere i processi di lunga durata. Ma gli permette anche di concepire un adeguato concetto di comprensione tale da rendere la ricerca storica un procedimento ermeneutico, una combinazione di elementi alla volta della penetrazione delle oscurit del passato, in un processo continuo di interpretazione dei dati a disposizione. Braudel ha dichiarato a conclusione de La Mditerrane: In storia non esiste un libro perfetto [] che non si riscriver mai pi. Al contrario, la storia uninterrogazione-interpretazione sempre differente del passato, perch deve seguire i bisogni e talvolta le angosce dellora presente. Si presenta a noi come un mezzo per la conoscenza delluomo, non come fine a se stessa. In questa dialettica presente-passato riecheggiano le parole di Febvre, il quale aveva esortato lo storico a non scindersi, a non volgere un occhio al passato ed uno al presente, ma a mescolarsi alla vita, perch fra pensiero e azione non c separazione8. Una simile forma di neostoricismo, pur con tutti i suoi limiti, assimila la storia ad unimpresa critica e la rende sia un modo per partecipare al dibattito del presente, sia una maniera di fare domande al passato per capire da dove veniamo e per elaborare ragionevoli congetture su dove andiamo. Un tratto comune, questo, a tutta la scuola degli annalisti: si pensi ancora a Febvre ed a Bloch9. Una simile suggestiva impostazione, tuttavia, contrae un debito da pagare, quello di una storia dei lunghi processi che pecca, per, di tanto in tanto, di un eccesso di qualitativismo. Bernard Baylin, nel 1951, parl dello studio di Braudel come di un saggio enorme e sconnesso [] che ha lambizione di parlare di tutto [] procedendo per classificazioni, separazioni, compartizioni10. La frequente genericit dei riferimenti, la larga estensione delloggetto e la rigidit delle divisioni sarebbero, dunque, responsabili di non aver sollevato buone questioni storiche11. Giudizio, questo, in buona parte condiviso in quegli anni, ma che spesso trascura di fare i conti con gli autentici motivi della rivoluzione metodologica della storiografia braudeliana. La richiesta di un vero pluralismo storiografico era, per Braudel, una forma di riconoscimento dellirriducibile complessit del passato e rappresentava la pianificazione di un rigoroso piano metodologico per mettersi nelle condizioni di fare storia. Detto altrimenti, non bastano il solitario sguardo e la sagacia dello storico per intendere il fitto intrico di eventi del passato. Unindagine storiograficamente avveduta, infatti, deve sapersi sintonizzare sulla stessa lunghezza donda delle altre scienze dellantichit, sapendo penetrare metodologicamente in esse allo scopo di riuscire a tenere conto dei risultati delle loro ricerche. Una storiografia metodologicamente

duttile, perci, consapevole del fatto che studiare il passato devessere unimpresa collettiva e che per raggiungere tale scopo vanno combinati assetti e statuti disciplinari, creando addentellati e linguaggi comuni, pur nel rispetto della loro specificit. Una lezione di metodo, quella di Braudel, ed una lucida esortazione a dotarsi di una cultura allaltezza sia del passato, sia del vorticoso evolversi del presente. Mari insiste a lungo sui tre vocabolari di La Mditerrane. In verit, appare assai poco condivisibile il suo entusiasmo per lultimo di questi. In particolare, la teoria dei protagonisti super-evenemenziali della storia ricorda molto da vicino la teoria hegeliana degli individui cosmico-storici di cui si serve con astuzia la Ragione per realizzare i suoi piani terreni12. Questattenzione verso le figure emblematiche di unepoca costituisce, forse, la pi limpida testimonianza della dimensione speculativa che agita il gesto storiografico di Braudel e, forse, uno dei segni della sua debolezza. Infatti, anche Pio V e don Giovanni dAustria vanno inseriti nel contesto delle relazioni socio-politico-culturali di cui sono espressione. Enfatizzare la loro volont dazione (e di potenza) significa isolarne le figure come se avessero acquisito una dimensione di autonomia rispetto al loro tempo. Tutto ci pu avere un senso nel sistema hegeliano dellAssoluto, ma lascia perplessi quando si tratta di studiare larticolata planimetria degli equilibri europei del Seicento. Altra questione altamente problematica la distinzione braudeliana tra grandi avvenimenti ed accadimenti ordinari, tra fenomeni profondi e di superficie, anche perch le correnti marine per ritornare alla metafora delloceano possono avere un andamento ondivago, insieme ascensionale e discensionale, per cui, ad un tratto, la superficie pu diventare profondit e viceversa. Si nota, ancora, un malcelato hegelismo anche dietro la teoria del riconoscimento, secondo la quale la storia configura il teatro dello scontro (magari senza sintesi) di determinazioni che si fronteggiano. Del resto, la tradizione dellhegelismo francese di cui sono pervasi Braudel ed un gran numero di intellettuali doltralpe degli anni Quaranta e Cinquanta stata a lungo scandagliata. Quanto qui, tuttavia, importa rimarcare non sono i limiti accanto ai suoi indubitabili meriti dellimpostazione di Braudel, su cui si discute da decenni. Interessa, piuttosto, evidenziare come alle sue spalle occhieggi una robusta filosofia della storia. Lo studio di Mari, nel complesso, orienta lattenzione sul tema del linguaggio dellindagine storiografica e costituisce una sicura guida in quel vortice di storie e di personaggi qual La Mditerrane. Mari isola le unit lessicali e narrative, scandisce i rilievi e gli sfondi, percorre i sentieri ora distesi ora interrotti della ricerca di Braudel. Lapproccio analitico gli permette di cogliere il senso della distinzione braudeliana dei piani narrativi e di offrire lo stimolo per un rinnovato approccio ad unesperienza storiografica che ha fatto della molteplicit dei punti di vista e della capacit di coordinare metodi e piani dellindagine storica il suo vero punto di forza; una metodologia storiografica, quella di Braudel, capace ancora oggi di offrire il suo contributo in quel confronto impari ma affascinante tra i tanti volti del passato e la limitata estensione dellorizzonte di ricerca dello storico.

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1 L.WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, ed. it., a c. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, 138, p. 74. 2 Cfr. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidariet, tr. it., a c. di G. Boringhieri, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 12. Per unanalisi dei rapporti tra la concezione rortyana della storia e la sua posizione in seno alla filosofia analitica contemporanea cfr. G. MARI, Postmoderno, democrazia, storia, ETS, Pisa 1998. 3 H.BLUMENBERG, Paradigmi per una metaforologia, tr. it., a c. di M.V. Serra Hansberg, Il Mulino, Bologna 1969, p. 183. 4 Lespressione ricorre in L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., 67, p. 47. 5 Cfr. P.RICOEUR, Tempo e racconto, voll. 3, tr. it., a c. di G. Grampa, Jaka Book, Milano 19861988, vol. I, p. 110. Com noto, Ricoeur articola la propria posizione in costante dialogo critico e polemico con le proposte di P.VEYNE elaborate in Comment on crit lhistoire, ditions du Seuil, Paris 1971. 6 Cfr. G.W.F.HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, voll. 4, tr. it., a c. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1941, vol. I, p. 235. 7 DellA. KOJVE studioso di Hegel e della sua filosofia della storia cfr. soprattutto Introduzione alla lettura di Hegel, ed. it., a c. di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Il testo raccoglie i seminari di Kojve tenuti dal 1933 al 1939 presso lcole des Hautes-tudes di Parigi, raccolti e pubblicati da Raymond Queneau nel 1947. 8 L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, tr. it., a c. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1976, p. 152. 9 Cfr. M. BLOCH, Apologie pour lhistoire ou mtier de lhistorien, Colin, Paris 1949. 10 B. BAYLIN, La gohistoire de Braudel: une relecture critique, in AA.VV., Fernand Braudel et lhistoire, a c. di J. Revel, Hachette, Paris 1999, p. 79. Il saggio di Baylin, per la prima volta, apparve nel 1951. 11 Ibid. 12 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. I, pp. 98 e sgg.

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IL DOPPIO VOLTO DELLA MENZOGNA. LA DIMENSIONE SOLIDALE DEL MENTIRE*


di Mariella Spadavecchia

Che il mentire sia un evento quotidiano noto da secoli, ma che sia inteso come uno degli strumenti di comunicazione solidale tra gli esseri umani stato in particolar modo messo in evidenza di recente da alcune pubblicazioni sul tema. In queste pagine si vogliono analizzare i percorsi tracciati da tre scritti, quelli di Maria Bettetini (Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio) e di Andrea Tagliapietra (Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale), pubblicati nel 2001, e quello di Vladimir Janklvitch (La menzogna e il malinteso), la cui traduzione italiana avvenuta nel 2000 bench i due saggi, che compongono il testo, siano stati scritti dal filosofo nel 1940. Tutti e tre i testi hanno come comune denominatore la menzogna intesa come una delle pi importanti e diffuse manifestazioni del quotidiano esistere delluomo. Il lavoro di Tagliapietra, che si snoda temporalmente tra le figure della menzogna del pensiero occidentale, prende avvio dalla mitologia greca attraversando la Genesi, la nascita del pensiero filosofico occidentale, da Socrate a Tommaso, da Cartesio a Kant fino a Jaspers e Derrida. Filosofia della bugia nasce dallarduo tentativo dellautore, peraltro ben riuscito, di mettere insieme in maniera sapiente interrogativi e riflessioni non solo appartenenti ad epoche storiche diverse ma anche legate ad ambiti disciplinari diversi. E cos Tagliapietra attinge da una variegata produzione: dai classici greci ai testi di religione, filosofia e letteratura, dal teatro alle opere darte. Divertente e di agile lettura, pur nel rigore dellanalisi, il lavoro della Bettetini che elabora una attenta ricognizione dellalterna fortuna della bugia analizzando il pensiero di alcuni tra i pi grandi filosofi, quali Platone, Aristotele, Agostino, Spinoza, Kant, e scrittori politici come Machiavelli, e le favole letterarie di Boccaccio, Swift, Collodi, Carrol, Rodari fino al moderno mito di Dylan Dog. Decantazioni e condanne del mentire si avvicendano nello scritto che segue le tracce dei differenti contesti storici e che ci porta a comprendere che non basta dire tutta la verit per essere autenticamente sinceri. E una fenomenologia del quotidiano sono le pagine del testo di Janklvitch, scritte di getto mentre si trovava presso lOspedale complemen-

* A proposito di A. TAGLIAPIETRA, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001; M. BETTETINI, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Raffaello Cortina, Milano 2001; V. JANKLVITCH, Du mensonge, Flammarion, Paris 1998, trad. it. a c di M. MOTTO, La menzogna e il malinteso, Raffaello Cortina, Milano 2000.

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tare di Marmande, nel giugno-agosto 1940. Il filosofo, fatto oggetto di recente di notevole attenzione presso il pubblico italiano, aveva gi da tempo rilevato limportanza di un fenomeno cos difficilmente eliminabile dal nostro esistere, visto che la menzogna e il malinteso costituiscono il fulcro dellagire quotidiano dellessere umano. Questo scritto riflette in pieno la riflessione filosofica janklvitchiana denunciando un aspetto drammatico dellessere umano: il suo barcamenarsi nel difficile equilibrio degli opposti. Luomo un essere intermedio che non pu essere analizzato o giudicato se non nel suo essere nel mondo. E nel difficile equilibrio delle convenzioni quotidiane si sviluppa la meditazione del filosofo. Legge universale o vita concreta? Sincerit assoluta o intermediariet dellessere umano? sulle tracce di questo interrogativo che si pu condurre una ricerca sul significato e sul ruolo della bugia nel pensiero occidentale. Chi ha detto, dunque, la prima bugia? Con questa domanda si introduce il lavoro molto complesso di Tagliapietra che, in un cammino ampio e articolato, certamente interessante ma allo stesso tempo impegnativo, segue i cambiamenti storici, sociali e culturali di circa venticinque secoli. Un elogio della bugia e non un inno alla verit: questo laspetto sorprendente di uno scritto che non vuole perorare la causa della sincerit e infliggere nuove condanne morali alla menzogna bens vuole recuperare luso pratico e la valenza autenticamente umana del mentire. Anche la menzogna richiede la virt del coraggio; se infatti per dire la verit bisogna avere coraggio, anche per mentire bisogna averne. Cos lIntroduzione del lavoro di Tagliapietra affidata a due personaggi: Socrate, padre della tradizione critica della filosofia, e Jakob il bugiardo, dellomonimo romanzo di Becker, personaggi accomunati dallo stesso tragico destino di morte inflitto loro dai propri simili. Entrambi, il primo attraverso la verit, il secondo attraverso la menzogna, vogliono esprimersi, vogliono ribellarsi contro un comune destino di sopraffazione, di violenza. Socrate difende quella verit critica con la quale si impegna a negare il mondo esistente, quello stesso mondo che viene negato da Jakob attraverso la sua bugia con cui vuole creare un mondo nuovo. Socrate non dice mai il falso perch il ruolo del filosofo quello di dire la verit anche a scapito della propria vita. la verit critica di Socrate, la coerenza tra il dire e il fare, esercizio ed esempio di sincerit. Questa verit sine cera, senza impurit. Cos Socrate mette in gioco tutto se stesso, la sua intera esistenza per testimoniare la verit di cui si fa portavoce perch questo il vero compito del filosofo. Lui si batte per la dignit dellessere umano ma lo stesso fa Jakob, in modo diverso, con la sua bugia coraggiosa. Chiunque sia stato il primo a mentire, scrive Wilde ne La decadenza della menzogna, stato sicuramente il fondatore delle relazioni sociali. La menzogna infatti nasce e si sviluppa in relazione allaltro, chiunque sia questaltro, anche quellaltro che siamo noi stessi. La bugia ha un carattere relazionale, ha bisogno dellaltro per prendere forma, ha bisogno di quel dialogo di cui pu invece fare a meno chi dice la verit. Chi mente deve innanzitutto penetrare nella mente dellaltro, operazione che pu esimersi dal fare chi dice il vero, deve immedesimarsi nel suo interlocutore tanto da comprenderne le aspettati-

ve e anticiparne i desideri. Il bugiardo mente in quanto capace di immedesimazione e questo perch ha la capacit di sdoppiarsi. La coscienza allora nasce dallo sdoppiamento del proprio io che, come in una finzione scenica, ci consente di guardarci dal di fuori; lo sdoppiamento e limmedesimazione sono alla base dellinganno. Mente luomo che occulta la verit, mente quello che ne inventa una sua. Lintelligenza si esprime anche attraverso limmaginazione; mentire, scrive Tagliapietra ricordando le parole della Arendt, vuol dire infatti creare dal nulla e quindi iniziare qualcosa che prima non cera. La menzogna dunque metafora del nulla, reazione alla cavit del mondo (p.48) che ci permette di riempirlo e di inventarne nuovi. Senza tale capacit creativa forse non sarebbe neanche nata quella cosa che noi chiamiamo cultura umana. Cos larte, il teatro, la letteratura mettono in scena storie non vere grazie alla capacit della coscienza di sdoppiarsi. La menzogna fonda la cultura, la menzogna fonda le relazioni sociali. Diverse possono essere le circostanze che portano a mentire. Mente il sopraffattore ma mente anche il debole. Si nasconde luomo come lanimale, mente luomo di fronte al nemico. La menzogna anche gioco dastuzia e di intelligenza. Si comprende di essere pi deboli e si ricorre allinganno al fine di salvarsi. La menzogna dunque uno strumento, un gioco dintelligenza che permette alla preda di sfuggire al suo cacciatore. La menzogna non solo tecnica di sopravvivenza, un terreno sfumato fatto di astuzia, caso, necessit, dovere. Sin dalle prime movenze, la bugia sembra essere, in questo lavoro, riabilitata dalla sua condanna etica per diversi motivi. Essa infatti non viene esaminata esclusivamente dal punto di vista morale, anzi le viene riconosciuta quella valenza positiva che spesso le stata negata. La bugia del protobugiardo una menzogna strumentale, simile a quella dellanimale e del bambino. Anche gli animali attuano delle tecniche di sopravvivenza, tuttavia queste bugie non vengono mantenute nel tempo: sono inganni strumentali, quegli stessi inganni che si raffineranno e diventeranno sempre pi complessi nel passaggio dallIliade allOdissea, testo questultimo in cui si avverte la formazione della coscienza. La coscienza, infatti, consente di narratizzare il tempo, di estendere linganno in una progettualit temporale. stata proprio tale capacit a permettere alluomo di sopravvivere vista la sua scarsa dotazione fisica, a fronte di una forte capacit intellettiva. Menzogna e verit si intrecciano nelle relazioni con gli altri ma anche nel rapporto con se stessi nella forma della maschera, della doppiezza, dellautoinganno. Riflettendo sulla storia della bugia, si nota che tante sono le sfumature del mentire. complesso e difficoltoso delinearne un quadro univoco. Mentire occultare la verit o inventarne una propria? La bugia non identificabile con la metafora; allora quanto lintenzionalit pesa sulla responsabilit del mentire? La menzogna forse una violenza invisibile? Che senso ha quella bugia gratuita che il protobugiardo di Wilde racconta al ritorno dei propri compagni cacciatori mentre lui resta nella caverna? Lautore cerca di districarsi nei diversi interrogativi che si pongono. Varia la casistica della menzogna. C chi considera poco importante una bugia riferita al di fuori dellambito giudiziario e tuttavia gravissima se lo fosse creando conseguenze negative per gli altri; basti pensare ai raggiri, alle trappole, ai plagi, allo spergiuro. Ma

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ci sono anche bugie di cortesia, dette per consolare o per pacifica convivenza; o la menzogna come scelta tattica delluomo di potere detta per necessit o interesse. E ancora la menzogna raccontata per semplice piacere estetico. C chi mente agli amici e chi ai nemici; per ingannare o per sedurre o semplicemente per millanteria. possibile ancora seguire il percorso della sincerit tracciato dai diversi autori, da Diogene di Sinope agli Epicurei e la schol accademica, da Epitteto a Seneca. Passando cos in rassegna circa venticinque secoli, emerge come il mentire sia presente nella storia delluomo sin dalle sue origini. nella Genesi che fa il primo ingresso la menzogna con Adamo ed Eva. Mentivano gli dei dellOlimpo, mentono nel paradiso terrestre Dio e il serpente cos come mentono Abramo, sua moglie Sara, Lot, Raab e Giobbe. Eppure la dottrina della Chiesa ha ottusamente difeso la verit perch chi vive seguendola, vive in conformit con Dio, laddove la menzogna la fonte ontologica di tutti i mali. Numeroso lelenco dei teologi che non condannano nettamente la bugia giustificando quella necessaria: da Clemente Alessandrino a Origene, da Cassiano a Girolamo e tanti altri ancora. Lunga la tradizione dei filosofi che si sono divisi ed interrogati sulla menzogna, da Montaigne a Cartesio, da Rousseau a Kant, da Kierkegaard a Sartre ed altri ancora compreso lo stesso Nietzsche. Un cenno va fatto alle osservazioni che lautore, spesso con tono critico, riferisce prendendo in esame la grande bugia dellet contemporanea: il mito del progresso. Gli uomini, esseri dotati di grande intelligenza, hanno nei secoli raggiunto un dominio sul mondo circostante che ormai da tempo sottoposto ad una aspra critica. Sotto accusa, adesso pi che mai, sono la scienza e la tecnica il cui sviluppo non ha solo contribuito a trovare soluzioni a problemi esistenti ma si spinto oltre, avanzando senza una meta precisa e creando sempre nuovi squilibri e nuovi bisogni. La tecnica il pi ambiguo di tutti i doni ed proprio leggendo il mito di Prometeo che si evince il legame esistente tra dlos e tchne. Nelle favole di Esopo, Igino e Fedro, si delinea il legame tra loriginaria dotazione antropologica fornita da Prometeo alluomo e la sua naturale predisposizione allinganno e la menzogna (p.54). Esopo infatti narra che a Momo, dio della critica e dello scherno, venne dato il compito di giudicare le opere di Zeus, Prometeo ed Atena. Zeus realizz un toro, Prometeo cre luomo, Atena una casa. Nel giudicare il lavoro di Prometeo, il dio Momo rilev un limite nella sua creazione ossia quello di non aver riportato il cuore delluomo allesterno bens allinterno del corpo, in modo tale che le sue intenzioni potessero rimanere nascoste. La tecnica si identifica con quel voler avere di pi che, nella tradizione classica occidentale, trova la sua rappresentazione nella figura di Ulisse. Ulisse interpreta un tipo duomo e un modello dumanit che gi il nostro (p.126). Ma perch parlare di Ulisse in un lavoro sulla menzogna? Perch chi volesse scrivere una tipologia del bugiardo nella cultura occidentale non avrebbe dubbi nel trovarne larchetipo pi eminente e antico nelleroico protagonista dellOdissea (p.89). La menzogna a cui ricorre Ulisse sembra, secondo alcune tradizioni, incarnare quel piacere insano che ha trovato manifestazione nei suoi innumerevoli travestimenti e nelle sue diverse rappresentazioni.

Ulisse ha una naturale ed indomabile propensione per linganno, ha una volont acquisitiva. Dunque, Ulisse rappresenta il desiderio che non si appaga mai, Ulisse mente perch vuole sempre di pi. Il testo di Tagliapietra ricco di particolari ed utile per chi volesse seguire le tracce di antichi racconti mitologici, dalla vicenda del Re dAusonia alla storia della Regina di Lab delle Mille e una Notte. Di Odisseo spesso sono state messe in evidenza con diversi epiteti lastuzia, la furbizia, ma non tutte le letture del personaggio concordano nel dare una valutazione negativa al suo atteggiamento. Ulisse anche lemblema della razionalit e dellingegno. Egli adotta un movimento curvilineo, a spirale, diverso dal procedere rettilineo dei personaggi dellIliade. Ulisse non si pone in maniera diretta di fronte alla realt ma obliqua, in quanto convinto che sia possibile sconfiggere il nemico anche per via indiretta. Prudenza o furberia? Ulisse non solo ci che appare. Nella sua figura emerge la caratteristica di fondo del mentire ossia la separazione radicale tra esteriorit ed interiorit. Spesso la bugia assume la stessa forma della verit ma non per questo coincide con essa. La bugia per essere credibile deve aderire perfettamente alla realt, apparire perfetta nella sua esteriorit, addirittura pi perfetta della stessa realt in cui a volte linteriorit emerge attraverso lapsus e lacune. Ulisse ha mille volti, realizza il proprio inganno attraverso il corpo, la parola, il tono di voce; ogni cosa pu essere utile alla menzogna, come gli strumenti della tecnica che ingannano sulle reali capacit di un individuo. Ulisse lastuzia gratuita e sovrabbondante del voler avere di pi, un simulatore, polymetis, polymchanos, polytropos; la menzogna prudente, la gloria e la vendetta, attore, Nessuno. Tanti sono i volti della menzogna. Ma la menzogna di Ulisse ha una finalit anche difensiva: egli dunque colui la cui bugia necessaria per la propria e altrui sopravvivenza. La pubblica utilit o la sopravvivenza personale giustificano la necessit della menzogna. In alcuni contesti come quello di Ulisse il primo valore seguito non quello della verit bens quello della solidariet. Se in effetti si volessero tracciare i confini etici del mentire si potrebbe sicuramente affermare che la verit, come legge universale, non pu imporsi come un dovere oggettivo senza considerazione della concretezza dellessere umano. Luomo vive con gli altri ed lecito mentire per salvare la loro vita. Il valore dellospitalit vale una menzogna. Lepisodio biblico di Lot il prototipo di quella menzogna necessaria che, pur negando i legami di stirpe, lo fa in nome della difesa del valore dellospitalit. lecito mentire e quindi non rispettare la legge se cos si rispetta la physis, il naturale rapporto tra lio e laltro. Dopo il sacrificio estremo di Ges, si interrompe quella ritualit sacrificale presente nella Bibbia, inaugurando unepoca post-sacrificale in cui si afferma letica dellospitalit assoluta: non si chiede a nessuno di sacrificarsi al proprio posto ma ci si assume la responsabilit dellaltro. Forse ancora troppo poco ospitale, ancora troppo sacrificale, annota Tagliapietra, la nostra societ globalizzata. E alle manifestazioni del mentire nella societ contemporanea dedica attenzione la Bettetini sottolineando come la menzogna riguardi oggi il nostro modo di essere. Mentire nella civilt tecnologica vuol dire disfare la propria identit, ricostruirsene una totalmente nuova e correre il rischio di smarrirsi e

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non trovarsi pi. questo ci che accade nel circuito virtuale, questo ci che accade nel tubo catodico dove le persone vengono risucchiate, decostruite e reimpostate. Siamo ingannati e ci lasciamo sottomettere allinganno dal nostro tipo di societ che ci insegna a non interrogarci pi, che ci fa assorbire tutto ci che ci propone. Quella della Bettetini una polemica nei confronti del nostro nuovo mondo, quello dei mass media, della pubblicit, di Internet in cui il confine tra verit e menzogna si ridotto sino a scomparire. La verit si trasformata in fatto. Siamo costretti a vedere ogni giorno in televisione la cruda realt, quella di popoli che soffrono, di situazioni di disagio a volte cos tanto rappresentate nelle fiction televisive da non consentirci pi di distinguere tra verit e menzogna; quale tragica situazione di popolo terremotato o quale drammatica scena di film potr pretendere il mio coinvolgimento dopo linterruzione che ha invitato a perdere chili nei punti critici, a provare il nuovo cioccolato che ricopre il nuovo conturbante gelatone, a concedersi unauto che sembra proprio come quelle dei veri ricchi? (p. X). Laspetto rilevante del lavoro consiste nellaver sottolineato lo stretto legame esistente tra verit, linguaggio e potere. Il linguaggio frutto di un accordo naturale tra gli uomini. Nel tempo si affermata lidea che esistesse un rapporto di diretta corrispondenza tra linguaggio e verit. Cos molti pensatori moderni, tra cui Grozio, Montaigne e Swift, hanno condannato ad oltranza la menzogna in quanto lesiva del diritto di ognuno alla conoscenza. Ma il linguaggio una convenzione e spesso la verit dipende dallopinione diffusa. Cos dimostra la novella di Pirandello intitolata La Patente che la Bettetini ricorda nel suo testo: viene ritenuto vero ci che vien ripetuto con convinzione (p.109). La richiesta paradossale del protagonista della novella, Rosario Chirchiaro, di ottenere dal giudice la patente di iettatore fa emergere un dato di fatto: lopinione pubblica ritiene vero ci che detto, ripetuto, creduto tale, indipendentemente dallassurdit di ci che sostenuto (p.111). Oggi, di sovente, la comunicazione passa attraverso lo strumento dellinformazione e la verit viene identificata con il fatto grazie ai reality-show e alle inchiesteverit. Sennonch, in questo modo, si corre il rischio di smarrire il confine tra verit e menzogna, di perdere il senso della realt visto che, di fronte allo scorrere delle immagini, nulla sembra pi avere il peso della verit. Non detto che sia necessario mentire per ingannare gli altri. Infatti, ammonisce nella prefazione al testo la Bettetini, da sempre si mentito molto meglio e molto pi crudelmente senza dire bugie (p.XI). Cos nellOtello di Shakespeare Iago trama un inganno senza quasi proferir menzogna. La forza di Hitler, in fondo, consistita proprio in questo; la lucida sincerit che inganna, la pi perversa come sosteneva lo storico della scienza Alexandre Koyr ricordando che tutti coloro che sono stati a capo di governi totalitari hanno annunciato il loro programma proprio perch sapevano che non sarebbero stati creduti. Verit e menzogna hanno in ogni caso avuto un peso decisivo nello svolgersi degli eventi. Chi difatti pu negare il peso che nella storia hanno avuto documenti ritenuti veri e rivelatisi in seguito falsi? Come dimenticare che queste false informazioni hanno modificato il corso della storia, basti pensare alla scoperta dellAmerica e alla serie di invenzioni casuali che hanno modificato la nostra esistenza. questa la

serendipit, il ritrovamento di qualcosa di prezioso rinvenuto mentre non lo si stava cercando, anzi mentre si era occupati in altro (p.112). Il grande merito di questo testo sicuramente quello di aver risvegliato in noi la consapevolezza che ci che comunemente riteniamo vero solo il frutto delle costruzioni sociali e del comune assenso; le verit vengono costruite quotidianamente sui giornali, in televisione o in rete. In realt bugia e verit possono essere decifrate soltanto guardando allintenzione di chi agisce. Il vero o il falso infatti non vanno visti e giudicati in s, bens guardando allintenzione che chi parla vuole dare al suo discorso. Non a caso, il tema della bugia, scrive lautrice, linganno, ossia il voler far credere vero o falso ci che vero o falso non si ritiene, indipendentemente dal fatto che lo sia davvero (p.3). Scrive la Bettetini, ricordando il messaggio di Agostino di Ippona che la menzogna dipende dallintenzione dellanimo e non dalla verit o falsit delle cose (p.11); la direzione che si d ad un atto che ne stabilisce la bont. Esiste infatti ununica eccezione al mentire: la generosit del cuore. lecito chiedersi se sia giusto che il paziente debba conoscere sempre tutta la verit sul suo stato di salute. Il problema del rapporto medico paziente un problema delicato e complesso allo stesso tempo. Al medico si vuol credere perch nelle sue mani la nostra vita, pur tuttavia ci sono delle situazioni difficili da gestire. Come potr un medico comunicare lo stato di salute al malato considerando ad esempio la situazione di solitudine in cui possibile che si trovi, parlare con uomini soli perch vivono soli, soli perch lo sono di fatto o soli per scelta, per proteggere dalla loro malattia i cari, per orgoglio, per vergogna, insomma per precisa determinazione (p.100). Non forse giusto mentire al malato sul letto di morte per regalargli unultima speranza? Si pu in nome di un principio universale, quello della sincerit, sacrificare laltro, le sue emozioni? Di certo no. quello che sostiene Janklvitch, nei cui due saggi, che compongono La menzogna e il malinteso, non tralascia di tracciare le due facce del mentire. Quelle di Janklvitch sono pagine che invitano a recuperare un autentico rapporto con laltro, inquinato troppo spesso da mascheramenti, doppi sensi e menzogne. Menzogna e malinteso sono cos presenti nellagire comune da essere diventati delle vere e proprie convenzioni che, inutile negarlo, servirebbero a rendere pi accettabile la quotidianit dellincontro con laltro altrimenti reso impossibile dallo scontro di due identit che si pongono in maniera assoluta luna di fronte allaltra. Ma la riflessione di Janklvitch molto sottile; il filosofo non vuole affermare a tutti i costi la validit di un valore come la sincerit, cosa assolutamente improbabile per un filosofo cos attento alla complessit dellesperienza umana. Janklvitch infatti osserva luomo nel suo agire in rapporto agli altri perch nellambito della concreta esperienza umana che luomo pu e deve essere giudicato. Non deve stupire la quotidianit delle argomentazioni del filosofo poich proprio ci che appare assolutamente banale in realt difficilmente esprimibile o addirittura comprensibile. E ci che di banale c in questa riflessione lesperienza umana vista nella sua quotidianit. Il filosofare di Janklvitch si rivela come la negazione totale di ogni intellettualismo grettamente razionalista e rivalutazione del piano dellesistenza, con unattenzione dunque alluomo in quanto essere morale ma anche alla fragilit stes-

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sa di questo suo essere morale. un pensiero concentrato sul vissuto umano, sulla durata del tempo umano, un pensiero che si fonda proprio sulla capacit stessa del filosofo di cogliere ogni trasalimento dellanimo umano in quanto lui stesso essere umano come gli altri. Janklvitch si insinua dunque nel difficile intreccio delle questioni umane, nei dilemmi costanti dellesistenza morale delluomo, nelle infinite contaminazioni del suo agire. Guardando il volto negativo della menzogna il filosofo pu cos dire che la bugia non va assecondata in quanto fonda delle relazioni false e superficiali tra gli uomini basate sulla misconoscenza e determina limpossibilit della comprensione autentica. La menzogna non certo un evento indifferente nella vita di ognuno, anzi, proprio la prima menzogna, quella innocente del bambino, che costituisce la prima ruga sulla fronte ben liscia dellinnocenza, la prima complicazione annunciatrice di doppiezza (p.11). Non la bugia in se stessa che preoccupa quanto lintenzione che si fa strada grazie alla comparsa della coscienza e della volont e, di conseguenza, la consapevolezza di avere uno strumento di potere nelle nostre mani. La doppiezza una caratteristica dellessere umano, propria della sua struttura; luomo un essere anfibio, duplice, scisso. Analizzando la genesi quotidiana del mentire, Janklvitch spiega che luomo ha avvertito tale necessit in quanto il proprio io isolato si imposto allaltro con il suo egoismo. La menzogna trova la sua ragion dessere in un mondo di creature parziali, opache, incomunicabili e segrete luna per laltra (p.22); non c spazio per tutti in questo mondo. Ma la menzogna mostra s, lintelligenza, ma anche la debolezza dellessere umano; ha un carattere sociale e antisociale. vero infatti che aiuta la coesione sociale, ma si tratta di una coesione apparente, basata semplicemente sulla conciliazione provvisoria dei reciproci interessi. La menzogna infatti la soluzione facile che legoismo trova per risolvere i suoi problemi. quellastuzia che permette a breve termine di superare gli ostacoli. La menzogna costituisce il modello archetipo della difficolt facile e della profondit superficiale (p. 25), loppio del minimo sforzo. Allo stesso modo il malinteso permette laccordo che , s, preferibile alla discordia, ma si tratta di un accordo debole. Il malinteso, come nel suo genere la gaffe, appartiene alla specie di quegli errori ben fondati che diventano possibili mediante il commercio scabroso delle coscienze, non semplice confusione, ma caratteristico falso-calcolo, falso-senso rivelatore, interessato e passionale (p.51). La possibilit del malinteso data dallorientamento dei nostri desideri che ci portano a dar credito ad una cosa piuttosto che ad unaltra mettendo in atto una falsa magia in quanto il desiderio di qualcosa, non implica necessariamente che essa sia vera; ecco in cosa consiste tutto lo sbaglio. Si crede ci che si desidera e si intende ci che si crede (p.52). Chi si arrende o approfitta del malinteso non si pone seriamente di fronte alla vita. Cos col malinteso si crea un dialogo di solitudini che comunicano solo apparentemente. Il malinteso distrugge la comunione tra s e lciurliaaltro. Anche Janklvitch, diversi anni prima della Bettetini, accusa la societ di essere la responsabile dei malintesi in quanto sbrigativa e frettolosa, si interessa a ci che si fa piuttosto che alle ragioni per cui lo si fa; che la riuscita sia meritata o fortuita, il successo, si dice, pur sempre il successo. La nozione di Merito, al contrario, sposta laccento dal fine al come, su

questo elemento invisibile della vittoria sulle difficolt, che scava le rughe, incurva le schiene, lascia dappertutto dietro di s la pensosa patina dellinfelicit (p.62). Occorre il coraggio di sopportare unesistenza complessa e difficile. Contro la durezza della realt bisogna resistere, anche se la sincerit ha un costo. Viviamo con addosso delle maschere e ci per colpa dellaridit del nostro cuore che domina la nostra vita, laddove basterebbe essere ispirati da un po di simpatia e di seriet per incontrarsi in maniera autentica. Basta la semplicit del gaffeur per far crollare, con un gesto scandaloso, il nostro castello di carta. Ed proprio tale semplice seriet che deve ispirare il nostro agire. Cos che senso ha quella verit che viene detta per uccidere? Ci che conta lintenzionalit del cuore, la sua purezza. Bisogna cercare dentro se stessi quella verit che ci permette di instaurare unautentica relazione con laltro e soprattutto una relazione damore. Al di l della denuncia dei diversi ed innumerevoli malintesi, al di l dellinvito a togliersi la maschera che si indossa ogni giorno, Janklvitch difende il buon uso che della menzogna si pu fare quando la questione vitale. Ogni uomo ha peccato di ascolto, di generosit dove invece soltanto lo slancio fino al quasi-niente dellamore poteva rendere autentica la nostra esistenza. Ci che conta, ammonisce Janklvitch, la maniera: questa che fonda il valore dei nostri atti, cos come fonda il pregio delle nostre opere (p.60); la maniera che fa la differenza, il frutto doloroso della mediazione. Le difficolt dellagire morale non devono scoraggiare luomo che, al contrario, deve incessantemente impegnarsi a rinnovare il proprio impegno etico. La lacerazione che si produce nellessere umano deriva proprio dalla consapevolezza della sua natura limitata e dallaspirazione ad unesistenza continuamente e autenticamente morale. Luomo non n angelo n bestia ma una creatura mediana che oscilla tra due estremi: lamore di s e lo slancio verso laltro. Compito delluomo etico deve essere il suo impegno costante contro le sue istanze egotropiche perch la morale , secondo Janklvitch, un costante appello ad amare, a rispettare laltro, alla tolleranza, alla generosit e alla giustizia. Lodissea morale corrisponde a questo infaticabile agire sempre pronto a ricominciare e sempre cos vicino al proprio annichilimento, un agire tutto proteso alla realizzazione dellamore. In questo complesso cammino stato possibile constatare come la menzogna sia strettamente legata alla quotidianit dellagire umano e come essa, nella sua dimensione vitale, cerchi di difendere valori quali la dignit umana, lascolto, la generosit che scavalcano ogni principio di verit. La menzogna rende possibile laccoglienza e lospitalit. Ci a cui ogni uomo deve ispirarsi semplicemente la sincerit del cuore piuttosto che ladesione a vuoti e astratti principi che si scontrano con il bene di quella stessa umanit di cui noi facciamo parte. Occorre accettare che, al di l della ricerca della verit che ogni uomo deve porsi come scopo, esiste una contaminazione menzognera nel suo agire necessaria ed umana.

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O. DE BERTOLIS, Il diritto in San Tommaso dAquino. Unindagine filosofica, Giappichelli, Torino 2000, pp. 107. LA. mira in questo libro a fornire elementi decisivi alla ricostruzione del pensiero giuridico di Tommaso dAquino, nella convinzione che le sue istanze di fondo siano ancora valide e capaci di dare un orientamento sicuro nella soluzione dei gravi problemi che oggi dobbiamo affrontare. Il problema giuridico in Tommaso, nella prospettiva dell A., non posto nei soli termini della lex, cio nellambito della scienza deduttivo-sillogistica, ma pu essere colto in modo adeguato solo avendo ben presente il suo referente metafisico, l ens e la conoscenza ad esso propria. Il quadro di riferimento quindi quello del realismo metafisico e giuridico. Come per spiegare una scienza devo risalire allente, cos, parallelamente, per spiegare la scienza giuridica devo risalire allente (sensibile) giuridico, al ius, la singola cosa giusta, in via resolutionis. Il diritto (cio: la giustizia, in quanto ci che giusto) viene dunque prima della legge, e questultima ne articola, ne svolge le esigenze: la legge costituisce come i gangli linfatici, i vasi sanguigni, nei quali fluisce il diritto, innervando tutto il sistema (p. 31). Il giusnaturalismo che ne deriva non rende tuttavia superflue le leggi positive, ma addirittura le esige, perch per Tommaso, come per Aristotele, la legge, senza esaurire il giusto, ne costituisce tuttavia unespressione privilegiata, riuscendo cos ad assurgere di volta in volta a tutte le possibili determinazioni concrete (p. 39). Questo tipo di giusnaturalismo, a differenza di quello moderno (di Hobbes, Locke, Pufendorf, Thomasius, Wolff e Leibniz e i loro epigoni), non mira allelaborazione di codici di diritti naturali, pure proiezioni delle idee del nostro spirito allinterno del reale, ma un approccio che privilegia leffettivit, non la validit formale (p. 41). Per Tommaso la legge naturale a sua volta partecipazione della legge eterna di Dio, cos come lessere della creatura partecipazione allessere di Dio e la ragione lume partecipato dellintelletto divino. Perci il problema delle scienze pratiche costruire le regole dell agire libero secondo le esigenze ed i fini iscritti in natura (p. 57). La legge naturale non altro che lordine divino manifestato dagli impulsi, dalle tendenze fondamentali, dalle esigenze prime della natura umana razionale (p. 59). Di modo che il diritto naturale e la legge positiva hanno il i loro fondamento ontologico in Dio stesso. In questo senso, la ragione, sebbene costitutiva della legge, non autonoma, nell accezione moderna del termine, perch non trova in s lordine dei valori, ma si fa interprete di essi quali emergono nella logica fluida del reale (p. 75). La derivazione della legge umana dalla legge naturale avviene in due modi, come una conclusione o come una determinazione. La legge umana non pu avere linfallibilit che hanno le conclusioni delle scienze speculative. In quanto, tuttavia, essa fa riferimento alla natura e quindi alla legge divina, obbliga in coscienza (p. 83). In definitiva, per lA., nellambito giuridico la preminenza assoluta spetta al ius, che il primo referente della lex, la sua anima, il suo baricentro. La legge quindi proiezione, nel campo dellagire, di un procedere razionale inteso ad un fine, ad un effetto qualificato, il bene comune, fine che ha ragio-

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ne di bene (p. 92). Il giusnaturalismo di Tommaso esige le leggi positive, ma d loro consistenza ontologica. La conclusione cui perviene lA. la seguente: La giustizia non si d senza la legge, la legge senza la giustizia corpo senza anima: nel loro fondersi reciproco, nel loro continuo reciproco implicarsi ed esaltarsi sta lautonomia della scienza (giuridica) ed il valore imprescindibile della filosofia (giuridica) (p. 93). Questo volume raggiunge certamente i propri obiettivi, che non sono certamente quelli di proporre prospettive originali e nuove, ma di presentare le linee fondamentali della filosofia del diritto di Tommaso d Aquino, nella convinzione della sua attualit e della sua capacit di concorrere a creare una cultura politica e giuridica pi conforme a verit (p. 3).
Albino Babolin

P. PONZIO, Tommaso Campanella. Filosofia della natura e teoria della scienza, Levante ed., Bari 2001, pp.330. Questa monografia si impone allattenzione del lettore per il tracciato tematico e costituisce un valido contributo alla chiarificazione del pensiero filosofico e scientifico di Campanella, o, meglio, della sua philosophia naturalis. Lanalisi attenta delle fonti e il confronto con laggiornata letteratura critica consentono di focalizzare loriginalit e lardimentosa coerenza del pensatore rinascimentale che mette a frutto la lezione del corregionale Bernardino Telesio nel fronteggiare lo studio della natura iuxta propria principia, discutendone le conseguenze in un serrato dibattito su questioni scottanti quale, ad esempio, la teoria copernicana sposata da Galilei, nei confronti della quale sa anche avanzare limiti e riserve, come dato leggere in Apologia pro Galileo (1622). Osservatore attento del mondo a partire dallautorit dei sensi e da ragionamenti deduttivi, ma altres metafisico di razza che si muove a suo agio nel rivendicare la fondativit ontologica della realt cosmica sia pur in chiave antiaristotelica, Campanella ha scritto numerose opere di filosofia della natura. Rispetto a Galileo che dilata ad artem losservazione dei cieli restando pur sempre vincolato ai calcoli matematici, e, quindi ai limiti delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, il filosofo calabrese, accomunato al confratello domenicano Giordano Bruno dalleros platonico di voler vedere speculativamente lunitotalit del mondo, o de li infiniti mondi, aguzza lingegno fantastico (talora fantasioso!), sporgendosi al di l delle barriere del sapere verificabile in un ardimento temerario che lo rende eretico di Chiesa. N poteva essere diversamente per un entusiasta vessillifero del sapere enciclopedico che coniuga disinvoltamente teologia, metafisica e scienza. Campanella pu rivendicare a s il grande merito di aver aperto alla dimensione storica del sapere scientifico, incrinando non poco le presunzioni dogmatiche degli ecclesiastici suoi contemporanei in fatto di cosmologia. Ha avuto buon destro lautore di questo ragguardevole volume a fronteg-

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giare la nozione di scienza in quanto historia e la ripartizione del sapere umano: ambedue ritenute giustamente come i modi pi rilevanti della filosofia campanelliana (p. 23). Sono pagine lucide ben documentate sugli scritti scientifici dello Stilota che si leggono con profitto storico e rendono ragione del destino di colui che si sentiva nato a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia, pagando di persona. Era convinto che senza scienza nemmeno chi santo pu giudicare rettamente.

Paolo Miccoli

R. RUSSO, Ragione e ascolto. Lermeneutica di John Locke, Guida, Napoli 2001, pp.267 La tesi fondamentale del libro che la problematica ermeneutica si impose a Locke lentamente, ma progressivamente, fino a diventare il centro di tutta la sua riflessione (p. 8). Allevoluzione intellettuale di Locke corrisponde una progressiva insoddisfazione nei confronti del lavoro esegetico. Locke ebbe il merito di rendersi conto della necessit di affrontare il problema alla radice, e quindi di stabilire un criterio in base al quale interpretare il testo sacro: il problema ermeneutico si pose cos come problema di metodo (p. 9). La teoria dellinterpretazione di Locke unestensione al campo biblico di quelle stesse esigenze di rigore, chiarezza e distinzione che erano proprie della sua impostazione teoretica (p. 10). Parallelamente a questa tesi svolge un ruolo centrale nel libro di Russo la convinzione che vi sia una sostanziale continuit nel pensiero lockiano, un pensiero che, pur orientato fin dallinizio in senso religioso, e pur riconoscendo i limiti della ragione, non ha mai abdicato alle sue esigenze (p. 20). Il punto di partenza della ricerca di Russo lesame del lavoro esegetico svolto da Locke anzitutto nel First Tract on Government, in polemica con Edward Bagshaw, e nel First Treatise of Government, in contrasto con Robert Filmer. A proposito del primo opuscolo, lA. osserva che Locke, fin dallinizio del suo percorso, si avvale di un metodo che mira a uninterpretazione contestuale e storicizzante del testo sacro e nellapplicazione di questo metodo presuppone una distinzione fra nucleo essenziale della fede e cose indifferenti (secondo un modulo interpretativo che sar poi ripreso, trentacinque anni dopo, nella Reasonableness of Christianity, in un contesto ideologico radicalmente diverso). Naturalmente lA. prende in considerazione tutti i testi rilevanti, comprese le Questions concerning the Law of Nature (che costituiscono una naturale prosecuzione dei due giovanili Tracts, e lEssay on lnfallibility ad essi coevo). Quanto al Patriarcha di Filmer, lA. osserva che sar proprio la parte esegetica, apparentemente meno a rischio, quella su cui si abbatter con pi forza dissolvente la critica sistematica del First Treatise di Locke (p. 59). Laccusa fondamentale che Locke muove a Filmer la mancanza di una

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coerente derivazione delle sue posizioni da quella Scrittura su cui pretendevano fondarsi. Con spirito analitico e spesso mordace Locke dimostra che le deduzioni che Filmer trae dai numerosi riferimenti biblici sono insostenibili (p. 62). Nel suo lavoro esegetico Locke continua a dare per scontata la congruenza di ragione e rivelazione e mira a mostrare come ci siano clamorose discrepanze tra luso che Filmer fa di un testo citato e il significato di quel testo nel contesto generale. Uno dei presupposti fondamentali del metodo esegetico lockiano nel First Treatise of Government la coerenza razionale della parola di Dio, che si rivolge agli uomini in maniera adeguata alla loro comprensione, e rispettosa delle regole del loro linguaggio. Per Locke condizione essenziale di questa convergenza fra il lume della ragione e la verit biblica (convergenza che egli condivide con molti suoi contemporanei, tra cui soprattutto il platonico di Cambridge e latitudinario Benjamin Whichcote) non sovrapporre al dettato biblico arbitrarie interpolazioni umane, spesso interessate, che ne distorcono la coerenza e ragionevolezza, un principio regolatore dellesegesi biblica, che aprir poi la strada ad una scelta ermeneutica che avr un grande sviluppo nelle future riflessioni di Locke: quella secondo cui nellinterpretazione di ogni passo biblico controverso la Scrittura la migliore interprete di se stessa, e sar proprio questo il principio guida delle successive opere ermeneutiche di Locke (pp. 65-66). Occorreva a Locke definire la specificit e i limiti del compito ermeneutico e approntare gli strumenti per giungere a definire incontrovertibilmente il nucleo essenziale della parola di Dio, un criterio che permettesse di discriminare, tra le interpretazion della Scrittura, quelle aperte a un effettivo ascolto della lettera del testo. LA. mette in evidenza quali siano per lEssay concerning Human Understanding le difficolt e i limiti del compito ermeneutico: soprattutto la forza dei pregiudizi, particolarmente rilevanti nellambito della religione e della morale, le difficolt che nascono dalla strutturale imperfezione del linguaggio, lantichit e loscurit dei testi sacri. Infine individua con precisione il ruolo svolto dalla ragione. Essa deve fornire gli strumenti e le procedure che permettono di misurare lattendibilit delle credenziali di tutte le proposizioni che ambiscono al titolo di rivelazione divina ed anche di intenderle (p. 116). La ragione non uno strumento di scoperta di verit religiose, ma , in questo campo, uno strumento di regolazione dellassenso. LA. mostra quindi analiticamente come, dopo aver identificato, con lEssay, loggetto e i limiti del compito ermeneutico, Locke si risolve a verificare le riflessioni metodologiche sul campo dellinterpretazione vera e propria, attraverso linterpretazione biblica fornita nella Reasonableness of Christianity e poi nella Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul. Per quanto concerne la Reasonabless, lA. affronta anche i contenuti dottrinali dellopera: la fede nella messianicit di Ges, necessaria per dirsi cristiani, la necessit delle opere per la salvezza, linsufficienza della ragione per rinvenire un sistema di regole morali capaci di orientare sulla via della salvezza e la conseguente necessaria integrazione offerta dalla rivelazione. In particolare tuttavia lA. si sofferma sul tema della congruenza fra messaggio evangelico e ragione, sullimpossibilit che la parte ispirata della Scrittura presenti contraddizioni, e quindi sul tema della concor-

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danza evangelica, sul tipo di erudizione religiosa volta alla ricostruzione dellarmonia tra le varie parti della Scrittura, condotta in modo da ricavarne un corpus di verit coerenti (p. 145). La posizione di Locke ben determinata dallA. in rapporto alla tradizione latitudinaria e allarminianesimo di Limborch, alle tesi contrastanti di Richard Simon e Jean Le Clerc. La strategia ermeneutica di Locke mira a escludere ogni precomprensione dottrinale e filosofica, nel senso che il signficato del testo non devessere cercato in una dottrina estranea alla Scrittura, ma nella Strittura stessa collazionata con se stessa. Russo osserva acutamente che di qui nasce un problema di difficile soluzione per Locke. Locke ha impiegato unesegesi di tipo storico della Scrittura, in base allidea che il linguaggio usato nella Scrittura avesse, per lappunto, un carattere storico, e lo ha fatto per spiegare alcune difficolt che il lettore moderno incontra nel leggere il testo sacro. Ma Locke sapeva bene, in quanto esperto di cronologia biblica e di concordanza evangelica, che i testi sacri appartengono a epoche storiche diversissime e gli scrittori sacri usarono le parole secondo il linguaggio del tempo e del paese in cui vissero. Come si pu, dunque, applicare il principio di comparazione per spiegare i passi pi oscuri, se deve valere anche il principio storico? (p. 159). I principi generali del metodo ermeneutico, le cui premesse erano state elaborate nellEssay e riprese nella Conduct of Understanding, rimangono saldi in Locke, ma si rivelano insufficienti a dare forma organica e soddisfacente al lavoro di interpretazione applicato alle epistole di S. Paolo. Di qui limpresa lockiana della Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul. Lo scopo di Locke nellintraprendere il suo nuovo lavoro ermeneutico era quindi quello di rendere accessibili a tutti le epistole di Paolo nel loro autentico significato (p. 206). Rimane il ricorso alla ragione, che in Paraphrase and Notes risulta lo strumento pi adatto per la comunicazione di un contenuto altro un contenuto che la trascende (p. 216). Russo mette in evidenza come, seguendo in particolare le indicazioni metodologiche fornite da Robert Boyle in Considerations Touching the Style of the Holy Scriptures, Locke si impegni nel ricostruire la linea argomentativa delle epistole punto per punto, ritrovandone tutti i nessi, gli snodi e le digressioni, per mostrare come tutto il testo sia coerentemente organizzato, in rapporto al fine che ciascuna epistola si propone (p. 216). Risulta alla fine che lo scopo principale della lettura lockiana delle epistole di Paolo quello di fondare su base scritturistica e paolina limportanza della vita morale per la salvezza. Ancora una volta osserva acutamente Russo, giunto ormai alla fine delta sua carriera intellettu1e e della sua vita di studioso, Locke affronta la questione decisiva, quella intorno a cui aveva ruotato lintero suo percorso. Lo fa, ancora una volta, da una prospettiva nuova, scegliendo il terreno apparentemente pi sfavorevole: appunto quelle epistole di Paolo che erano larsenale preferito dei predestinazionisti, ovvero i testi biblici, che pi apertamente svalutavano limportanza delle opere per il conseguimento della salvezza eterna (p. 219). Dal punto di vista dottrinale Russo sottolinea ancora una volta la sostanziale continuit dellinterpretazione lockiana di Paolo con limpostazione di fondo dellEssay e della Reasonableness: Salvare le opere in effetti lobiettivo primario dellerme-

neutica di Locke, che aveva fatto ricorso alla rivelazione proprio per fondare su basi il pi possibile sicure il dovere morale di ciascuno, e attraverso quello il dovere politico (p. 250). Il volume ha il pregio di affrontare direttamente il tema specifico dellesegesi e dellermeneutica, tra i pi trascurati nella vasta letteratura critica su Locke, collocandosi peraltro nel solco dei contributi critici pi recenti che sottolineano la centralit del pensiero religioso nello sviluppo della filosofia lockiana. Russo dimostra una sicura padronanza delle fonti lockiane edite e inedite, del contento intellettuale e della letteratura secondaria. Attraverso lo studio critico dellermeneutica lockiana viene offerta una riconsiderazione complessiva del pensiero di Locke e del suo sviluppo storico.

Mario Micheletti

M. SCHOEPFLIN, Maurice Blondel, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 96. Tra i primi volumi di una intelligente collana (Scrittori di Dio) pubblicata dintesa con il Progetto culturale della Chiesa italiana giunto in libreria quello dedicato a Maurice Blondel (1861-1949) e che stato curato da Maurizio Schoepflin. Lagile volumetto si articola in una breve, ma densa introduzione ed unampia antologia di testi blondeliani tra i pi significativi. Cattolico convinto e praticante scrive Schoepflin, cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, lettore attento e partecipe, fin dalla giovinezza, di autori caratterizzati da una forte tensione spirituale, Maurice Blondel, che fu e si sent per tutta la vita un professore di filosofia, avvert con una sensibilit particolarmente spiccata un problema che risultato costantemente presente e vivo allinterno del pensiero di ispirazione cristiana fin dalle origini: ovvero quello concernente il rapporto che pu e deve intercorrere tra la fede e la speculazione filosofica. Blondel studi nella celebre Scuola Normale Superiore di Parigi, dove ebbe per maestri Lon Oll-Laprune ed Emile Boutroux. Nel 1893 discusse la tesi di dottorato Lazione e nel 1895 inizi la carriera universitaria. Egli stato il pi prestigioso rappresentante della filosofia dellazione, una filosofia che stata strettamente interconnessa con il movimento modernista. Lazione egli scrisse nella mia vita un fatto il pi generale e costante di tutti. Nellazione luomo esprime la sua volont, il suo essere. E la vita una dialettica della volont e non gi come pensava Hegel della ragione. una dialettica tra la volont volente e la volont voluta (cio il risultato realmente ottenuto). E in questa dialettica luomo sperimenta la sproporzione esistente tra i due tipi di volont or ora ricordati e si apre cos alla trascendenza e al soprannaturale. Luomo, per Blondel, un essere finito che tende naturalmente allAssoluto. Luomo, infatti, si accorge che non pu bastare a se stesso e sente fino allan-

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goscia di non essere il proprio autore e il proprio padrone. Lidea di Dio, egli afferma, si sappia o no, linevitabile compimento dellazione umana, ma lazione umana ha inoltre linevitabile ambizione di raggiungere ed adoperare, di definire e realizzare in s questa idea della perfezione. Non possiamo conoscere Dio senza voler diventare Dio in qualche modo. Il metodo dellimmanenza fatto proprio da Blondel fu condannato nel 1907 dal SantUffizio insieme al modernismo. Tuttavia, in tempi a noi recenti, non pochi studiosi hanno dichiarato di poter considerare Blondel tra gli ispiratori del Concilio Vaticano II ed altri, tra cui Giovanni Ferretti, hanno visto in lui uno dei padri della cosiddetta svolta antropologica che ha condotto la teologia e la filosofia cattoliche dalla considerazione primaria, se non esclusiva del piano religioso oggettuale e concettuale, alla considerazione primaria, anche se non esclusiva, del piano esistenziale personale del soggetto che effettivamente vive la religione.

Massimo Baldini

E.AFFINATI, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, Mondadori, Milano 2002, pp. 172.

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Per lorientamento del pensiero filosofico e teologico, Bonhoeffer si inscrive nel filone della teologia liberale (Liberalitat) del Novecento, alla quale hanno prestato attenzione speciale studiosi insigni quali Jaspers, Gogarten, Bethge, Mancini, Caracciolo, Moretto. Nella realt esistenziale la biografia del grande teologo evangelico contrassegnata dallappartenenza alla Chiesa confessante che ha fatto sentire la sua voce di condanna per i crimini commessi da Hitler e dal nazismo. Bonhoeffer ha incarnato nella sua vicenda esistenziale la tipologia del cristiano eroico che testimonia gli ideali del Vangelo senza cedimenti e senza compromessi con ideologie politiche. Egli ha vissuto la sua breve ma intensa vita nella doppia tensione di fedelt a Cristo e ai fratelli di peregrinazione missionaria. Leroica coerenza di vita cristiana ha condotto Bonhoeffer a morire impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg, nellaprile del 1945, con laccusa di aver cospirato alla vita del Fhrer. Per incondizionata fedelt a Cristo il giovane pastore danime ha rinunciato alla carriera dellinsegnamento, ha sacrificato nobilmente lamore della fidanzata, ha fatto sentire la sua voce per la conquista della libert personale, educando gli uomini della sua generazione, con scritti provocatori, a superare la psicologia delluomo diviso in se stesso (aner dpsychos) in direzione di marcia etica e religiosa verso la ritrovata unit spirituale del credente (anthropos teleios). Assiduo lettore e interprete della Bibbia, Bonhoeffer ha vissuto sulla propria pelle la tragedia degli ebrei perseguitati ed ha scosso il torpore dei cristiani acquiescenti della Chiesa luterana, come del resto ha fatto anche Karl Barth, alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Paolo Miccoli

F. BIANCO, G. MATTEUCCI, E. MATASSI, Dilthey e lesperienza della poesia, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2001, pp.65. Il volume comprende tre saggi: Franco Bianco tratta Del profetico e della follia. Note sulla lettura diltheyana di Hlderlin; Giovanni Matteucci scrive Sullidea diltheyana della poesia; Elio Matassi affronta il seguente tema: Walter Benjamin e lesperienza vissuta: una ricezione controversa. In appendice offerta una traduzione italiana (a cura di Giovanni Matteucci) del saggio di Dilthey del 1867: Hlderlin e le cause della sua follia. Il tema del saggio di Dilthey pubblicato in appendice, presente nel primo contributo, quello di Franco Bianco, che mette in evidenza le considerazioni che inducono Dilthey a veder culminare levoluzione poetica di Hlderlin nelle liriche nate al limite della follia. In esse giungeva infine ad una totale liberazione il ritmo interiore del sentimento, che prendeva congedo da ogni forma di chiusura esercitata fino ad allora (p. 14). Per il Matteucci, se lidea diltheyana di poesia si riassume nello stabilire un rapporto di reciprocit organica tra forma e vissuto, sembra giustificato sottolineare che tale rapporto vale come principio di comprensione, in quanto designa una relazione a geometria variabile, plastica, aperta a contesti imprevedibili (p. 27). Lidea di poesia che ha Dilthey indice di uno schema desperienza alieno da intenti prescrittivi e inefficace sul piano delle definizioni. Il Matassi rende conto nel suo saggio della lettura radicalmente critica del paradigma diltheyano di Das Erlebnis und die Dichtung fornita da Walter Benjamin. Laccusa alla Lebensphilosophie ed al Dilthey epigonale osserva il Matassi di far sfumare nellindeterminatezza del mito la vita dellartista, rendendola inqualificabile dal punto di vista morale, rappresenta il nucleo teoreticamente centrale di una teoria della critica, declinata essenzialmente sulla questione della verit (p. 41). Naturalmente, la stessa traduzione italiana del saggio di Dilthey su Hlderlin e le cause della sua follia un contributo significativo. Il volumetto, in definitiva, presenta alcune prospettive interessanti sullestetica di Dilthey, con particolare riguardo alla figura di Hlderlin.

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Albino Babolin

RECENSIONI

Lo scrittore Eraldo Affinati traccia, nella presente biografia, un ritratto esaltante dellautore di Ethica, rivisitando, sulle tracce della memoria, i luoghi della vita e della morte del rinomato pastore e raccogliendo preziose testimonianze di persone che lo hanno conosciuto, fra le quali Dante Curcio. Una biografia che si legge con viva emozione e che pu essere compendiata in questa riflessione di Bonhoeffer: Essere libero significa essere-libero-per-laltro perch laltro mi ha legato a s. Solo in rapporto allaltro sono libero.

AA. VV., Filosofia - dialogo - amicizia. Studi in memoria di Dario Faucci, a c. di A. Scivoletto, FrancoAngeli, Milano 1998, pp. 361. Il filo che lega i contributi piuttosto eterogenei di questo volume laffettuoso ricordo di Dario Faucci, lo studioso, gi docente allUniversit di Parma, alla cui memoria questi saggi sono dedicati. La terza parte espressamente dedicata a testimonianze relative alla personalit di Faucci e al suo tempo. C anche uninteressante intervista a Faucci, gi pubblicata nel 1991, a cura di Pietro Leandro Di Giorgi. Il percorso filosofico, culturale e umano di Faucci invece ricostruito nel contributo iniziale di Angelo Scivoletto. Mi limito qui a ricordare i principali contributi di carattere filosofico. Alberto Siclari tratta il seguente argomento: La fede e il mondo per Soren Kierkegaard. Il Siclari nota che, per il pensatore danese, in quanto costituisce lunico rapporto esistenziale con leterno delluomo, la fede il necessario fondamento di tutto il suo essere e di tutto il suo mondo: quando manca la fede, la realt si trasforma, anche nella sua dimensione socio-politica, in un vortice dove ogni cosa travolta e dissolta. Questa funzione della fede, che Kierkegaard ribadisce sino nel suo ultimo scritto, rimasto inedito, non deve per far dimenticare che per il cristianesimo limpegno negli affari del mondo ha un valore soltanto strumentale. un punto sul quale, con il passare degli anni, Kierkegaard ha insistito con sempre maggiore decisione (p. 193). Kierkegaard ha voluto riaffermare con assoluta chiarezza che la rinuncia al mondo un esigenza reale e indeclinabile del cristianesimo. Richiamando luomo al dovere dellonest intellettuale ed esistenziale, stimolando nel credente la coscienza del peccato e un adeguata consapevolezza del valore della grazia, ha cercato di restituire al cristianesimo la sua seriet e la sua dignit di fede difficile (p. 198). Il saggio di Ferrucio Andolfi Attualit di una polemica ottocentesca su frammentazione e ordine sociale imperniato sulla figura di Stirner e sulle critiche a lui rivolte da Marx. Andolfi sottolinea lattualit di quella polemica, anche in rapporto al problema-religioso. Egli nota che la risacralizzazione del soggetto, resa necessaria dal fallimento stirneriano di una totale abolizione del sacro, pu essere tentata secondo vie del tutto opposte. Cos Nietzsche allarga i confini dellio, mettendolo in relazione con lintero divenire cosmico, ma loperazione finisce pur sempre da ultimo per inglobare il mondo nellio, che viene perci stesso reso ipertrofico. La filosofia umanistica e sociale di Feuerbach e Marx suggerisce al contrario una trasformazione del sacro consistente nel riconoscimento dellappartenenza e della dipendenza dai propri simili e dallintero universo. Per questa via la grandezza dellio non esclusa ma ricercata attraverso la sua deflazione (p. 207). Angelo Marchesi si sofferma invece sulla figura di Del Noce, considerando in particolare le sue riflessioni sull attualismo gentiliano, sul modernismo e sulla metafisica classica. Appare piuttosto discutibile il fatto che il pensiero di Del Noce sia studiato prevalentemente attraverso il filtro dell interpretazione di Rocco Buttiglione, peraltro aspramente criticata dal Marchesi. LA. in particolare rivendica, specialmente nei confronti della interpretazione dellattualismo

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Albino Babolin

A. G. MANNO, Quis est homo? Ricerche scientifiche, storiche e teoretiche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, pp. 568. Questo ultimo volume di Ambrogio Giacomo Manno, dal sottotitolo Un cammino pensante tra scienza, filosofia, religione alla ricerca delle radici divine, spirituali e umane delluomo, una vera enciclopedia del sapere divino e del sapere antropologico, inteso, questultimo, a livello psicologico, epistemologico, etico, sociologico, storico, comunitario. impensabile, sotto tutti gli aspetti, una separazione tra Dio e uomo, tra trascendenza e immanenza, tra rivelazione e scienza, tra Creatore e creato, tra Infinito radicato nel cuore delluomo e fnitudine dello stesso uomo. C una voce della ragione, c una voce del cuore, c ancora una voce dellanima, e c anche una voce della natura, della scienza, della storia delluomo, dalle origini fino ad oggi, che parlano di Dio e dellitinerario spirituale e umano delluomo verso Dio. Cosa sarebbe, si chiede Manno, un mondo senza Dio e un uomo senza Dio? (p. 489) . Non si comprenderebbe il perch dellesistenza di un mondo. Tutto sarebbe senza un perch, come afferma lateo Sartre. E chi avrebbe potuto dare origine al mondo, alla sua intelligibilit, alle meraviglie delle specie vegetali e animali? Soppresso Dio resterebbero le tenebre, lassurdo, il non senso di tutto il reale; anzi niente di tutto questo: resterebbe solo il Nulla. Soppresso Dio, luomo sarebbe un essere mostruoso e incomprensibile: bramoso di Dio, diretto a Dio, esigente Dio, sarebbe vittima di un ideale inconsistente, non si sa perch e da chi ispirato (p. 489). Lattenzione particolare che emerge da questa estesa e profonda ricerca, dallintroduzione alla prima parte dedicata al Mondo ambiente e alcuni modelli storici (pp. 15-434), e alla seconda parte dedicata alle Linee di antropologia teoretica (pp. 437-555), quella di porre alla riflessione di chi studia o legge queste pagine il nesso ontologico, logico, divino e umano tra Dio e luomo, e poi tra mondo, uomo e Dio. Manno studia, attraverso le ultime ipotesi sullorigine e sul tempo delluniverso, la storia del cosmo secondo le conoscenze attuali, i problemi epistemologici e filosofici riguardanti lorigine delle specie, lorigine delluomo e lantropologia dei Veda delle Upanishad, il cammino di Dio nella storia

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gentiliano, la prospettiva filosofica e metafisica bontadiniana, trascurata da Del Noce. Alla fine si mette in discussione che la frequentazione da parte di Del Noce di idealismo, tomismo e modernismo sia e rimanga criticamente valida e apprezzabile o, addirittura imprescindibile, per riuscire a capirli (p. 311). Vorrei concludere, ricordando la frase finale dellintervento di Angelo Scivoletto, che sintetizza il suo approccio commosso alla figura e al pensiero di Faucci: Dal dialogos al Logos: mi caro riassumere in questo binomio la pensosa esistenza, solerte e tenera, di Dario Faucci, filosofo del dialogo e dellamicizia (p. 17).

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del mondo e, quindi, delluomo, e come tale cammino stato visto dalluomo comune e dagli studiosi. A conclusione della sua indagine sulla spiritualit dei Veda egli afferma: Nella Bagavad-Gita, una delle ultime opere della grande tradizione brahmanica, si esprime la gratitudine alla Persona Suprema per il ritorno nella Patria; e nelle Upanishad, in generale, lelevazione a Brahman, anche in vita, considerata una sua grazia, un suo dono. Riportiamo in fase conclusiva la sentenza della Gita: Colui che libero dallillusione, dallorgoglio e dalle false relazioni, che comprende leterno, che libero dalla lussuria e dalla dualit della gioia e del dolore, e sa come sottomettersi alla Persona Suprema, raggiunge questo regno eterno (p.172). Limmortalit viene data a chi raggiunge la forma suprema di conoscenza, innalzandosi al mondo soprasensibile. Vi quindi una discesa divina nella storia degli uomini, cui corrisponde una ascesi degli uomini verso il divino. Ed impressionante, scrive Manno, come questa spiritualit, non illuminata dalla luce del pensiero cristiano, ne abbia precorso molti aspetti (p.167). Manno, dopo questa ricerca sulla spiritualit non cristiana e sui problemi epistemologici riguardanti le ipotesi sull origine del mondo e delluomo, rivolge la sua attenzione alluomo inteso come persona che, creata da Dio con unanima immortale, vive intensamente questa armonia di discesa di Dio nella sua storia e in quella dei suoi fratelli di fede e la forte tensione ascensionale verso Dio. A questa tematica dedicata la maggior parte dellopera, dalla Concezione dellanima in S. Agostino alluomo come tempio della Trinit, alla Charitas come via di acceso a Dio, alleternit della verit e allimmortalit dellanima (cap. 6-15). La centralit delluomo come persona uno dei punti pi caratteristici e originali di questa ricerca, sia attraverso lindagine agostiniana, sia attraverso lo studio delle opere di Bonaventura da Bagnoregio. Certi temi, come lumanesimo cristiano di Bonaventura, la facolt dellanima e lascesi a Dio come itinerario della mente, la dottrina dellilluminazione, le ali della ragione e della fede per salire verso Dio, e tre vie della perfezione cristiana, purgativa, illuminativa, unitiva, che provocano lincendio amoroso dellanima, sono tutti in funzione della centralit della persona (cap.16-23). Il valore delluomo come persona sta proprio in questo itinerario ascensionale e in questo incontro con Dio che si fatto uomo, croce, storia umana, Maestro pi vicino alluomo e insieme pi comunicativo (p. 284). La persona umana, con la sua anima, con la ricchezza della sua intelligenza e con la bellezza della sua corporeit, pur restando sempre nellabissale distanza ontologica tra il creatore e la creatura comprende allora la grandezza infinita del suo Autore e limmensit dellamore che ha per lei (p. 295), ma anche, nello stesso tempo, la dignit della propria persona e la sua nobilt, oltre che la sua grandezza divina e antropologica. Il cammino della e sulla centralit della persona attraversa cos il Tracciato antropologico nel pensiero moderno (cap.24), da Malebranche allesistenzialismo ateo e teistico, per fermarsi ad approfondire il personalismo di Rosmini (pp. 325-358), il quale su questo tema, in pieno Ottocento, deve ritenersi un maestro di spiccata originalit e di elevata attualit per i nostri giorni. Manno riprende il suo itinerario presentando il personalismo di Mounier, di Maritain, di

La Pira, parlando del personalismo comunitario che si basa sulla dottrina della persona come valore in s, e come valor assoluto, ma, nello stesso tempo, comunicante intersoggettivamente (p.361), e che rifiuta il liberalismo agnostico e individualistico, incapace di avere un respiro europeo e mondiale. Accanto a questi maestri della persona Manno colloca giustamente il pensiero di Michele Federico Sciacca che, seguendo la linea filosofica, pedagogica e giuridica di Rosmini, vede luomo-persona in tutte le sue dimensioni. Nella charitas, Luomo, questo squilibrato della societ moderna, pu ritrovare la pienezza dellessere e gustare lInfinito (p. 391). Luomo-persona pu ritrovare il gusto della libert e pu uscire dalle strettoie di un pessimismo esistenziale passando dalla strada dei filosofi, cio dal Dio dei filosofi, al Dio della Rivelazione biblica. E in questo passaggio Luigi Pareyson, con il suo personalismo, maestro e guida di alto valore (pp. 413-434). Gli ultimi capitoli (29-36) sono dedicati al rapporto tra anima e corpo alla luce delle nuove frontiere della neurologia, alla volont libera e responsabile, allimmortalit dellanima. Il volume termina con una voce di speranza: Nelle tenebre che avvolgono tante coscienze nell attuale momento culturale, Cristo Via, Verit e Vita, appare come la grande luce che possa guidare e illuminare lumanit nel suo cammino (p. 555).

Pietro Addante

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G. STRUMMIELLO, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001, pp. 416. Il volume mette in luce il rapporto tra il logos, inteso come il discorso ragionevole, e la violenza, intesa come ci che, in apparenza, altro dalla ragione, dal logos appunto, e che pertanto gli si opporrebbe. In quella che sembrerebbe unesclusione reciproca si palesano i termini di una coappartenenza: la violenza tratto caratterizzante delluomo almeno quanto la razionalit, difatti solo lanimale razionale, cos come recita la sua classica definizione filosofica, pu essere violento, e quasi invariabilmente lo (p. 6). Lampia e puntuale trattazione della Strummiello colloca al centro della riflessione il proprio dellesercizio della filosofia come logos e permette, attraverso le analisi svolte, di riconoscere la violenza come il portato che permane sempre al fondo della razionalit filosofica. Questo nesso viene sviluppato ed indagato attraverso quattro sezioni che lAutrice organizza come un percorso volto ad una graduale ed ampia decostruzione di ogni suo aspetto. La prima sezione, intitolata Logos e violenza, definisce non solo i termini della questione ma sonda gi lambiguit intera del rapporto: la posizione del problema quella hegeliana, lassunzione della negativit come momento interno del processo dialettico che fa della filosofia un sapere (dell) Assoluto. Il negativo lalterit, lesterno svolge nella dialettica hegeliana un ruolo fon-

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damentale: esso rappresenta per Hegel il finito, limmediato, il contingente, e quindi ci che ha parvenza di esteriorit rispetto allaffermarsi delluniversale, dellAssoluto, che regna nella storia. Il suo addomesticamento, il suo superamento, la sua ricostituzione nel movimento dialettico serve dunque a togliere questa parvenza e a liberare luniversale in esso dissimulato, a riconoscere lidentit dellAssoluto con se stesso. Lalterit non altro dunque che un momento dellidentico. Viene qui per messa in rilievo lambiguit essenziale di questo gesto: convergendo nellaffermazione delluniversale, inverandosi, il negativo lungi dallessere destituito, viene, per cos dire, elevato a potenza: Si pu cos dire che Hegel non solo allestisce effettivamente lo scenario, ma definisce lesatta posta in gioco del rapporto tra filosofia e violenza: la filosofia (il corso storico e teorico del logos) s una risposta al negativo e alla violenza (nella misura in cui si serve di essi per ricomporre una superiore conciliazione), ma solo in quanto essa stessa si fa portatrice di negativit e di violenza una violenza di secondo grado, una metaviolenza nei confronti di ci che semplicemente dato e devessere tolto (p. 35). A questa posizione Giusi Strummiello affianca quella di Eric Weil. Nella sua Logica della filosofia, Weil sostituisce la concezione classica delluomo come animal rationale con quella di animal rationabile e, come Hegel, fa della negazione, dellaffrancamento, il tratto costitutivo delluomo. La negazione infatti lattivit con la quale luomo si affranca dalla sua condizione animale naturale per fare della ragione la ragionevolezza il proprio compito: essere ragionevole per Weil il modo di liberarsi dallo scontento, dallinsoddisfazione, e maturare cos la propria libert. La violenza diviene quindi la controparte del divenire esseri ragionevoli, diventa lirragionevole. La ragionevolezza si costituisce quindi come lo sforzo di una graduale armonia tra gli uomini, come dialogo, e rappresenta la libert stessa come tratto proprio delluomo poich essa stessa scelta libera. A questo fa appello lideale weiliano del discorso assolutamente coerente, ad un ideale di logos come ragione realizzata tale da non contrastare pi la possibilit della violenza ma piuttosto ricomprenderla in positivo. Ed ecco che lAutrice mostra ancora la circolarit di questa ulteriore posizione del problema, circolarit in qualche modo strutturale: con le parole di Weil, il risultato paradossale dunque che la violenza non ha senso che per la filosofia, la quale rifiuto della violenza (cfr. p. 72); nelle parole della Strummiello, senza la violenza [] la filosofia non sarebbe concepibile, non potrebbe darsi neppure come possibilit (p. 73); perch ci sia scelta consapevole del discorso filosofico [] ci si deve rappresentare la violenza (p. 80). La seconda sezione, intitolata Metafisica e violenza, pone una domanda ben pi radicale: questo inizio violento che genera la filosofia non porta invece a concepire il logos come gi permeato di violenza, attraversato cio, per la sua stessa pretesa di organizzare un senso, da un imprescindibile vena violenta? Fondamentale per lAutrice si rivela qui quella riflessione radicale ancora in atto sullinizio stesso, sul gesto originario del pensiero che inaugura la metafisica e la conseguente esigenza di pensare la possibilit di un superamento

della metafisica stessa, in particolare attraverso le riflessioni di Heidegger, Adorno, Lvinas e Derrida. La filosofia trova al fondo della propria urgenza la percezione di qualcosa di inquietante, di qualcosa di terribile che si situa pi in l del thaumzein, e che Heidegger ritrova nel primo coro dellAntigone di Sofocle: Di molte specie linquietante, nulla tuttavia/di pi inquietante delluomo saderge (p. 91). Nel 1935 Heidegger considera luomo come essenzialmente violento in quanto corrisponde allapparire dellessere che un imporsi, un vigere nel mezzo dellessente, esponendosi cos alla percezione dellinquietante, dello spaesamento, della perdita di ci che familiare: Luomo fa violenza dominando [] la violenza del predominante (p. 96). Luomo violento in senso ontologico perch levento dellessere un imporsi violento. La cifra della violenza di questo corrispondimento tra uomo ed essere il logos pensato come lgein, come un raccogliere lessere nel suo insieme con la lotta, esercitando la violenza che tiene aperto, nel seno dellessente, il varco per la manifestazione dellessere. Il logos originario sta dunque, per Heidegger, nella decisione di corrispondere allimporsi dellessere e nella lotta volta a mantenere questa apertura. Platone e Aristotele avrebbero in seguito tradotto/tradito questa verit del logos pensandola come ambito della rappresentazione degli enti. Ma gi con Heidegger raggiunto un importante risultato ai fini di questa ricerca: anche nel suo darsi aurorale, il logos si d nella lotta, nella violenza, percorso trasversalmente dalla conflittualit. Questo significa, con lAutrice, che anche posizioni fortemente avverse alla tradizione metafisica della filosofia, avverse ad Heidegger stesso, devono fare i conti con una negativit insita nello stesso statuto del logos: Adorno oppone un rifiuto netto alla metafisica considerata come la matrice teorica della tragedia nazista, pur mantenendo il semplice senso in essa presente di apertura sullalterit assoluta ma svuotando questa promessa di ogni contenuto concettuale, come una promessa che sottrae sempre il proprio dovuto. Anche in Lvinas lalterit pi radicale da appello morale diviene fondamento puro che ci si impone come un comandamento, e che si impone senza possibilit ulteriori, nel silenzio. allora con Derrida che lAutrice giunge a considerare che non si d logos puro, esso sempre insieme violato e violento: la filosofia allora non pu che essere quella scelta unica e radicale di riconoscere questa compromissione e di optare per la minore violenza possibile: essa lambito esclusivo in cui si rende possibile una economia della violenza. Nella terza sezione, intitolata Cristianesimo e violenza, viene analizzata laltra matrice fondamentale dellOccidente, e cio quella giudaico-cristiana, e il suo rapporto con la violenza. Non si pu a tal proposito non ricordare la sentenza nietzscheana di condanna del cristianesimo, ma ad essa lAutrice contrappone la lettura in chiave antropologica che Girard fa delle Scritture, interpretandole come custodi di una teoria delluomo e come un epocale smascheramento della violenza quale fondamento della costituzione delle comunit e del sacro. La secolarizzazione del cristianesimo sta dunque nella tradu-

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zione in termini storico-antropologici della colpa umana che sta al fondo di ogni comunit, quella con la quale si esorcizza il negativo attraverso il sacrificio umano. Il cristianesimo, con la figura del Cristo, ha additato per primo linnocenza della vittima sacrificale, minando cos la possibilit di allontanare la colpa o di occultarla nel culto del sacro. Altro concetto fondamentale della tradizione cristiana la creazione ex nihilo che lAutrice rivisita attraverso le tesi di Mara Zambrano. Per la Zambrano la violenza che scuote lEuropa nel Novecento deriva da lontano, fin dalla dottrina cristiana della creazione dal nulla considerata come un atto assoluto, una violenza che squarcia la notte dei tempi generando le cose, un atto violento esso stesso ma di una violenza positiva poich propria della divinit. Il creazionismo rappresenta lelemento di originalit che il cristianesimo e lebraismo introducono rispetto alla tradizione greca: esso dunque ci che costituisce la matrice dellEuropa, poich ladorazione del suo Dio che giustifica nelluomo europeo la sua attivit creatrice (p. 257). La capacit creatrice dunque motivo autentico di una intimit delluomo con Dio ed ha pertanto una valenza positiva come, secondo la Zambrano, pensava anche Agostino. Ora, lattivit umana si piuttosto sviluppata nella pi completa distanza da quel suo essere originaria prosecuzione dellattivit creatrice divina, avanzando la pretesa di sostituirsi ad essa in tutto, divenendone dunque una variante perversa (p. 260). Il cristianesimo quindi portatore di una originaria consapevolezza della condizione di incompiutezza e contingenza delluomo ed in essa radica il senso autentico della capacit creatrice umana intesa come compito di progettarsi: esso insegna alluomo a vivere nel fallimento della propria presunzione di assolutezza. Unultima sezione analizza i modi di concepire le forme storiche concrete di violenza. Vengono qui percorse in modo particolareggiato le principali tesi che interpretano la violenza nel suo darsi storico: come strumento ai fini degli equilibri economici (Engels), mezzo pedagogico (Sorel), fondamento del diritto (Benjamin), tratto attuale e fondamentale dellapertura allaltro in sede di ontologia trascendentale (Sartre), controparte nella definizione del potere (Arendt). Ma lAutrice si sofferma, sulla scorta di quanto finora guadagnato, soprattutto sulla concezione di Foucault: con essa infatti scompare limmagine monolitica del potere e quindi della violenza che diventa il dato di rapporti discontinui, mutevoli, locali, diviene cio parte della trama di rapporti in cui sempre siamo. In questi rapporti, la violenza rappresenta un mezzo, e per di pi non necessario: ritorniamo cos alla filosofia come sede di una concezione economica della violenza sostenuta da un lavoro di ricerca genealogica e locale dei rapporti di cui la violenza stessa si compone. Ed nella storia che il logos, compromesso con il negativo, incontra il logos del testimone, del sopravvissuto, e la sua soggettit destituita. Siamo, con la testimonianza, davanti ad un linguaggio che non appartiene ad un soggetto, e la violenza che lo anima sempre tale da tenere in scacco il pensiero, il senso. LAutrice sottolinea che sebbene la testimonianza sia sempre necessaria (il silenzio non che il perpetuarsi eterno e a-storico dellorrore subito) non possiamo per rendere il testimone un puro portatore di storia, nella misura in

cui si rischia non solo la spettacolarizzazione della testimonianza, ma anche il suo inglobamento in una dimensione industriale (p. 376). La pratica filosofica esce, dallindagine di Giusi Strummiello, sezionata nel suo legame con la violenza e smascherata nelle sue pretese assolute, richiamata ad una consapevolezza fatta di un paziente ed accurato lavoro di decostruzione delle interpretazioni conflittuali e della sua comunanza con questa stessa conflittualit. Proprio tale consapevolezza permette di evidenziare uno dei tratti pi rilevanti del discorso dellAutrice: sullimportanza e sullurgenza di considerare un legame diretto tra filosofia e violenza, come si dice fin dalle prime battute del volume, regna la luce sinistra dei drammi storici e umani del secolo scorso e la consapevolezza che proprio il rigore di una organizzazione razionale dei mezzi ne ha reso possibile il compimento. Questo imporrebbe il dovere di imputare una certa responsabilit proprio al fallimento della ragionevolezza della filosofia di fronte a simili tragedie. Dice dunque lAutrice a questo proposito: Questo forse il vero circolo in cui la filosofia si dibatte: il dolore, lingiustizia, la violenza richiedono risposte forti che la filosofia non pu e non deve, in tutta onest, dare (pp. 390-391). Questo significherebbe infatti tradire una volta di pi ci che davvero da pensare: il tentativo della Strummiello di sottrarre la violenza al monopolio di una riflessione etico-morale o di una considerazione destinale se da un lato permette di rilevare la profondit e difficolt della questione, dallaltro attribuisce al pensiero un compito gravoso. Se di responsabilit della filosofia si deve parlare essa non pu che consistere nel misconoscere il suo legame con la violenza, e per il logos dissimulare la consapevolezza che il proprio statuto si fonda sulla possibilit stessa della violenza. Esso dovr allora progettarsi, crearsi su questa misura e senza alcuna garanzia di successo. In breve: dovr prendere consapevolezza della propria radicale finitudine. Arginare meticolosamente la possibilit della violenza: questo il proprio del pensiero e la dimensione della sua autentica finitudine. Ed in questo sta allora anche la impossibilit di un superamento della metafisica, perch questa lunica storia che abbiamo (p. 121): se ogni discorso non solo compromesso statutariamente con la violenza, esso stesso apertura del violento, e partecipa sempre delle manifestazioni storiche della violenza e della sua rete locale di equilibri e discontinuit, dobbiamo, insieme allAutrice, pensare che alcune forme di violenza rimangono, con tutte le cautele che si vogliono, preferibili ad altre. Questo il senso dellespressione, che abbiamo mutuato da Derrida e a cui abbiamo pi volte fatto riferimento nelle pagine precedenti, economia della violenza: non si pu uscire fuori da questo regime (cos come non si pu saltare tout court fuori dal testo della metafisica), ma si pu e anzi si deve optare per la violenza minore, per quella che non solo cerca di evitare, ma si impegna a combattere le forme pi distruttive di violenza (p. 384).

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Roberto Ferrario

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Vincenzo Consolo
Oratorio Due testi teatrali
pp. 64 - t 8,00

novit

In questi due testi teatrali lautore porta fino alle conseguenze estreme landatura della sua prosa che si compatta in un narrato contratto, sintetico, molto ritmico, giungendo fino alla forma poetica. In Catarsi messo in scena il suicidio di un Empedocle contemporaneo. Il momento estremo prima della morte in un luogo anchesso estremo, lEtna. Ape Iblea unelegia per Noto dove si canta del terremoto, della ricostruzione e del degrado ambientale. Appare, in filigrana ma ben evidente, limpegno civile sotteso a tutta lopera di Consolo.

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Alda Merini
pp. 64 - t 8,00

Il maglio del poeta

novit

Il libro raccoglie lultimissima produzione di Alda Merini; articolato in tre sezioni: nella prima (Dediche) si ricostruiscono le relazioni intellettuali ed umane della poetessa; la seconda (Canzoniere damore) dedicata a d un tema dominante della poesia della Merini: la ricerca dellamore in tutte le sue accezioni, da quella religiosa a quella sensuale, che in Alda si coniugano, in quanto la sensualit insieme spiritualit; la terza sezione, che d il titolo alla raccolta, una riflessione sul mestiere del poeta, sul senso della poesia.

PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA SEGNI E COMPRENSIONE (oltre quelle recensite nella rivista)

Volumi:
F. DAL BO, Societ e discorso, con inedito di J. Derrida, Mimesis, Milano 2002, pp. 218. P. DALLA VIGNA, A partire da Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2002, pp. 232. D. FELICE, a cura di, Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosoficopolitico, voll. 2, Liguori, Napoli 2001, pp. 702. F. LEONI e M. MALDONATO, a cura di, Al limite del mondo. Filosofia, estetica, psicopatologia, Dedalo, Bari 2002, pp. 240. E. LISCIANI PETRINI, La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty, E. S. I., Napoli 2002, pp. 292. A. MONTANO, Il prisma a specchio della realt. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 268. A. NAPOLI, Thomas Hobbes e gli italiani. 1981-2000. Bibliografia recensioni, Cuen, Napoli 2002, pp. 372. S. DE SIENA, La sfida globale di E. Morin, Besa, Nard 2002, pp. 272. L. VALENTINO, Il saluto dellerrante. Tra poesia e pensiero in Heidegger, Sugarco, Milano 2002, pp. 170. S. VUSKOVIC ROJO, Allende en el mundo, Colectivo Itinerante, Valparaiso s. d. (2002).

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Periodici:
Antologia Vieusseux, n. 22, gennaio-aprile 2002. Aquinas, n. 1, a. XLV, 2002. E. FRANZINI, Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Aesthetica Preprint, Centro internazionale Studi di Estetica, n.65, 2002, pp.104. Idee, n.49, 2002. Lincantiere, n. 58, a. XV, maggio 2002. Mthesis. Revista de Educaao, v. I, n. 1, jan.-jun. 2000; v. 1, n. 2, jul.-dez. 2000; v. 2, n. 1, jan.-jul. 2001. G. MORPURGO-TAGLIABUE, Il Gusto nellestetica del Settecento, a c. di L. Russo e G. Sertoli, Aesthetica Preprint-Supplementa, Centro internazionale Studi di Estetica, n.11, 2002, pp. 254. Proyeccin, teologia y mundo actual, n. 204, a. XLIX, enero-marzo 2002. Studia patavina, a.XLIX, n.2, maggio-agosto 2002. Uomini e idee, n. 11, 2002.

Bianca Gelli Voci di donne


Discorsi sul genere
pp. 256 - t 15,00

novit

La rivoluzione culturale al femminile in un saggio critico interdisciplinare. Questo volume offre una riflessione critica su genere, identit, teoria e pratica della differenza: dalla filosofia, alla psicanalisi, alla pedagogia, alla sociologia e alla psicologia di comunit.

Egidio Zacheo Il secolo della democrazia


Politica e societ nel Novecento
pp. 200 - t 16,00

novit novit

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Il secolo della democrazia, del suffragio universale, delle dichiarazioni dei diritti, delle conquiste sociali.

Carlo Alberto Augieri La letteratura e le forme delloltrepassamento


pp. 184 - t 15,00

La capacit del testo letterario di andare oltre il contesto nel quale prodotto. Saggi su Bachtin, Jakobs, Lotman e De Martino. I saggi qui raccolti focalizzano, allinterno del rapporto tra letteratura e significazione, un problema che interessa lo specifico della parola letteraria: il suo essere discorso dal senso oltrepassante (non solo aperto, dunque) rispetto al significare determinato, necessario, chiuso entro il codice tipologico della cultura che lo emette.

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SAGGI

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