Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Diamo alcuni esempi che illustrano il fenomeno. Negli ultimi giorni della
guerra del Kippur, Israele era riuscito a rovesciare i suoi iniziali arretramenti. L’e-
sercito aveva attraversato il Canale di Suez e circondato la terza armata egiziana,
aveva raggiunto il chilometro 101 sull’autostrada Suez-Cairo ed era sul punto di in-
fliggere una schiacciante sconfitta all’Egitto di Sadat. Un rovesciamento simile era
avvenuto anche sul fronte siriano nelle Alture del Golan. La politica americana,
portata avanti astutamente dal segretario di Stato Henry Kissinger, non vedeva po-
sitivamente un risultato così nettamente sbilanciato. Alcuni duri scambi di opinioni
fra Washington e Gerusalemme, intorno al 22-23 ottobre 1973, fermarono l’esercito
israeliano evitando che questo portasse a termine una vittoria di maggiori propor-
zioni e venne così imposto un cessate-il-fuoco proprio nel momento in cui Israele
voleva continuare la sua vittoriosa campagna ancora per alcuni giorni. Il susse-
guente blocco delle ostilità ha poi aperto la strada a una serie di accordi ad inte-
rim, ha prevenuto un possibile intervento sovietico, ha portato alla definitiva rottu-
ra del rapporto di dipendenza dell’Egitto da Mosca e ha poi creato quel contesto
che portò, cinque anni più tardi, al trattato di pace israelo-egiziano.
Durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, avvenuta dopo che il presi-
dente eletto Bašør Ãmayyil, il quale aveva il supporto degli israeliani, venne assas-
sinato da agenti siriani, Israele era sul punto di irrompere nella parte est di Beirut
abitata dalla popolazione musulmana. Così facendo, avrebbe rischiato di portare la
Siria all’interno di quella che, fino a quel momento, era stata un’operazione israe-
liana limitata e circoscritta, condotta contro l’Olp nel Sud del Libano. Washington
guardava a tutto ciò con grande apprensione e alcune dure telefonate fatte dall’al-
lora presidente Ronald Reagan al primo ministro Menachem Begin bloccarono l’e-
sercito israeliano già pronto nei suoi camion, impedendo di fatto ad Ariel Sharon,
allora ministro della Difesa, di mettere in atto il suo «grande piano» di ristrutturazio-
ne della politica libanese.
Durante la prima guerra del Golfo nel 1991, quando dozzine di missili irache-
ni colpivano obiettivi civili israeliani e le forze aeree americane non riuscivano a
neutralizzare le capacità di lancio irachene, Israele aveva iniziato a pianificare la
propria offensiva contro i siti missilistici di Baghdad. Gli Usa, nel timore che un
coinvolgimento israeliano nella guerra contro Saddam potesse ledere o perfino
rompere la coalizione arabo-americana, misero in chiaro a Israele che non avreb-
bero tollerato una tale operazione. Poiché gli israeliani non avrebbero tecnicamen-
te potuto portare a termine un attacco del genere senza il tacito assenso america-
no, il governo del primo ministro Yitzhak Shamir cancellò gli attacchi pianificati.
Ciò che tutti questi casi hanno in comune è che sono avvenuti in una dram-
matica situazione di guerra e il coinvolgimento americano è risultato nel richia-
mo a un chiaro, inequivocabile e verificabile insieme di misure da prendere: in
meno di 48 ore sarebbe stato possibile sapere se Israele aveva o non aveva ob-
bedito a Washington. È in questi momenti che la potenza statunitense si è
espressa al massimo. Le penalizzazioni per chi non avesse dato retta al richiamo
2 della Casa Bianca erano altrettanto chiare. Inoltre, l’emergenza permetteva al
000-000 Lim 1-09 avineri 23-01-2009 12:01 Pagina 3
quando l’accordo venne raggiunto su una base bilaterale, anche in questo caso
con alcune questioni rimaste in sospeso, il presidente Bill Clinton intervenne. Invi-
tando alla Casa Bianca Rabin e Peres da una parte e Arafat dall’altra, fu capace di
chiarire i notevoli disaccordi e di portare a termine l’intesa finale. Anche in questo
caso i negoziati furono il risultato della volontà politica delle due parti che ne pa-
garono il prezzo politico per aver parlato con antichi nemici e fatto le necessarie
concessioni (cosa questa che nel caso di Rabin portò al suo assassinio).
Anche l’accordo di pace fra Israele e Giordania, firmato l’anno successivo, è
stato frutto dei negoziati bilaterali fra i due paesi, senza alcun coinvolgimento
americano (e anche in questo caso con una certa iniziale insoddisfazione da parte
degli Usa). Solo alla fine Clinton prese parte alla cerimonia della firma dell’accor-
do di pace, al passaggio di frontiera Aravà, che divide il Sud di Israele dal Sud
della Giordania.
coalizione antirachena della prima guerra del Golfo. Questa è stata la sua impor-
tanza politica. Ma come veicolo di pacificazione, vale a dire per il suo obiettivo di-
chiarato, è stata un fallimento. E anche in questo caso, le ragioni di tale fallimento
sono indicative e istruttive: mancava la volontà di Israele, sotto la guida di Shamir,
il quale non voleva andare a Madrid e vi è stato trascinato di forza. Similmente, la
Siria non era pronta a fare le necessarie concessioni e l’Olp era di certo riluttante a
contribuire al successo di un processo in cui non era coinvolta direttamente. Perfi-
no all’apice della sua potenza, dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo, l’Ame-
rica di Bush padre non è stata in grado di portare all’acqua i cavalli recalcitranti.
5. L’analisi qui proposta intende suggerire che gli Stati Uniti hanno un’enorme
forza e influenza come vigili del fuoco e nella funzione di levatrice, ma non come
promotori di iniziative. Con tutte le fondamentali differenze esistenti fra i due posi-
tivi scenari sopra descritti, c’è un aspetto che questi hanno in comune: sono stret-
tamente circoscritti nella loro cornice temporale. Ciò significa che il diretto coin-
volgimento del presidente americano, che sembra essere cruciale per il successo
degli sforzi Usa, è efficace perché egli può concentrarsi intensamente sulle trattati-
ve per alcuni giorni e determinarne il corso, esercitando talvolta pressioni per in-
terrompere o evitare un’azione militare. Per contro, piani di pace dettagliati dei
quali Washington si è fatta promotrice (la road map, il processo di Annapolis e nu-
merose simili iniziative americane negli anni Settanta e Ottanta) prevedono un
processo stratificato, dai molti stadi, che talvolta si estende su un periodo di due o
tre anni. Nessun presidente americano può dedicare la sua esclusiva attenzione a
un’opera di pacificazione nel Medio Oriente per un lasso di tempo così lungo, così
come nessun presidente può essere così direttamente coinvolto nell’esplorare e
negoziare le centinaia di minuzie presenti in un trattato di pace. E se tutto ciò vie-
ne lasciato ad altre figure ufficiali, anche se si tratta di segretari di Stato (a meno
che non abbiano de facto la funzione di presidente, come era nel caso di Kissinger
nei mesi finali della presidenza Nixon), questi non possono esercitare quel peso
che spetta solo al più alto rango del potere americano. E ugualmente non possono
fare da baby-sitter a un processo di pace che funziona a periodi alterni. Visite di
due-tre giorni nella regione possono risolvere questioni di minore centralità ma
non possono coprire le distanze derivate da problemi di dimensioni storiche.
In questo il Medio Oriente non è speciale: con tutta la loro potenza e la loro
influenza, gli Stati Uniti non sono riusciti a risolvere neppure altri conflitti simili,
come Cipro, Bosnia e Kosovo. Ciò che tutte queste crisi hanno in comune è la loro
multidimensionalità: pur avendo tutti una dimensione territoriale, questi conflitti
non riguardano solo territori. Sono guerre che coinvolgono movimenti nazionali
che combattono per sovranità e indipendenza, autodeterminazione e identità stori-
che, che vengono a scontrarsi fra loro. Coinvolgono aspetti di occupazione, resi-
stenza, terrorismo, guerriglia e coloni. E se pure non sono di per sé conflitti religio-
si, posseggono dimensioni religiose che li esacerbano e li infiammano ulterior-
mente. Anche se il conflitto arabo-israeliano è forse il più intenso (anche perché di 5
000-000 Lim 1-09 avineri 23-01-2009 12:01 Pagina 6
bo le parti ancora maggior rabbia, timore e odio. Ripetere un esercizio di questo ti-
po non è solo sconsigliabile, è pericoloso.
6. Ma allora, cosa andrebbe fatto? L’alternativa non è mai guerra o pace, lo sta-
tus quo o un regolamento di conti. Come hanno dimostrato Cipro, Bosnia e Koso-
vo c’è sempre la possibilità di una terza alternativa. Israeliani e palestinesi dovreb-
bero essere incoraggiati a continuare a negoziare e ad ambo le parti si dovrebbero
prospettare una serie di stadi intermedi che possano aiutare a mitigare e minimiz-
zare il conflitto e l’attrito. Da parte israeliana, ciò deve comprendere uno stop as-
soluto di ogni ulteriore inizio di costruzione negli insediamenti della Cisgiordania
e un misurato ma reale smantellamento dei posti di blocco e altri impedimenti al li-
bero movimento dei palestinesi. L’Autorità palestinese dovrebbe essere aiutata in
una lunga serie di azioni tra cui quelle indicate qui di seguito sono solo una parte:
costruire le istituzioni di un futuro Stato, cosa in cui ha tristemente fallito sin da
Oslo per non parlare del periodo precedente; assicurare la nascita di un singolo
apparato di sicurezza che goda del monopolio nell’uso legittimo della forza, in so-
stituzione dell’eccessivo numero di servizi di sicurezza che si sovrappongono l’un
l’altro, di milizie e perfino di bande; istituire un sistema fiscale (che è attualmente
inesistente); istituire il principio della legalità; abbassare lentamente il livello della
retorica relativa al ritorno dei profughi del 1948.
Nulla di quanto è stato elencato potrà essere conseguito con facilità. Queste
misure, peraltro realistiche, richiederanno uno sprone dall’esterno. Se si riusciran-
no a realizzare, potranno servire da base per futuri negoziati indirizzati alla risolu-
zione di questioni più fondamentali. D’altra parte, gesti drammatici il cui intento è
di trovare una risoluzione totale al problema, pur attirando plausi e supporti verba-
li saranno inevitabilmente destinati al fallimento, come è avvenuto nel passato,
tanto in Medio Oriente, quanto altrove. Nulla può sopperire alla volontà politica
delle parti in causa in una guerra. E questa, come un fiore delicato, deve essere
nutrita senza far rumore e con grande pazienza. Non esistono scorciatoie: nessun
conflitto nazionale è stato mai risolto dall’esterno.
7
000-000 Lim 1-09 avineri 23-01-2009 12:01 Pagina 8
8 * Questo articolo è già comparso in lingua inglese su Israel Journal of Foreign Affairs, vol. 2, n. 3/2008.