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Matteo Settura Crisi e anomia intervento del 4 maggio 2012

1000 suicidi dal 2009 al 2011 23 suicidi solo fra imprenditori dallinizio del 2012 un suicidio ogni 4 giorni

Sono stato invitato a discutere delle ricadute sociali della crisi. Dal momento che non sono un sociologo, n un economista, ma solo uno che ha esperienza nel filosofare e peraltro unesperienza piuttosto limitata, credo che non sarebbe corretto da parte mia avventurarmi nel campo delle cifre, dei dati, delle statistiche e delle interpretazioni di queste. Lascio il compito a chi interessato ad approfondire largomento e mi limito a prendere le mosse da uno solo, e forse il pi inquietante degli aspetti di questa ricaduta: laumento dei suicidi. Per affrontare questo argomento difficile, la cui portata supera sicuramente le mie conoscenze e le mie competenze proceder dapprima ad una analisi terminologica dei concetti di crisi, e di societ, per vedere innanzitutto se nel titolo generale del mio intervento non sia per caso celata unambiguit pericolosa, capace di metterci del tutto fuori strada nellardua comprensione del presente.

Crisi un termine di origine greca, che deriva dal verbo krino, a sua volta riconducibile alla sfera semantica del giudicare. Il suo utilizzo nellambito della disciplina economica peraltro solo una traslazione dalla sfera medica, alla quale il termine si riferiva primariamente. Crisi dunque il momento pi acuto della malattia, il discrimen dalla cui soluzione (e di qui la sua connessione al campo semantico del giudicare, ma anche del tagliare) dipende in ultima istanza la guarigione o la morte del paziente. Di qui abbiamo gi una prima indicazione che contraddice luso dossico del termine: la crisi non qualcosa che si manifesti allimprovviso in un corpo sano, ma solo il momento sintomatico pi acuto di una malattia presistente. In secondo luogo, la crisi ha inoltre una propria sintomatologia, che permette di risalire alla malattia stessa e

alle sue cause; il che equivale a dire: uno studio sintomatologico approfondito dovrebbe permettere di conoscere le cause della malattia e quindi, forse, di risolvere la crisi in senso terapeutico. Traslato opportunamente sul piano socioeconomico questo rischiaramento terminologico permette di fornire due indicazioni importanti: a) la crisi non la malattia, ma il momento acuto della sua manifestazione, dunque non si guarisce dalla crisi, ma semmai dalla malattia; b) la crisi qualcosa che esige una interpretazione dei sintomi, e ne offre loccasione in modo precipuo dal momento che nella crisi i sintomi diventano qualcosa che costringe a pensare e non soltanto qualcosa che richieda una osservazione limitata allambito dellinteresse teoretico-scientifico. Societ e dunque la sfera del sociale significa in latino il vincolo, il legame. In questo semplice chiarimento etimologico possiamo rinvenire lambiguit fondamentale del termine, che richiede di essere sciolto nei suoi due aspetti: da un lato societas il vincolo che lega gli uomini fra loro e li obbliga pertanto nel senso di una costrizione e di una disciplina che pu essere intesa come una imposizione; dallaltro per questo vincolo ci che lega gli uomini fra loro rammemorando la loro condizione di enti generici, connessi perci, volenti o nolenti, nel comune essere-insieme che fonda la sfera universale dei diritti individuali. La vita comune una necessit nel duplice senso che ogni necessit racchiude: essa da una parte fardello e dallaltra ncora che permette di stare. Noi siamo, a causa della nostra natura, obbligati a vivere in comune, tanto che lisolamento volontario, leremitismo, ancora qualcosa che rimanda per contrasto al rapporto interumano, ed eventualmente alla sua critica radicale, ma critica che per avere senso deve pur sempre riferirsi ad esso rapporto. E daltra parte in questo obbligo, nella misura in cui esso non viene semplicemente rifiutato e rimosso, contenuto altrettanto il fondamento della possibilit della liberazione dalla necessit naturale e animale e dunque dellemersione del soggetto libero e razionale, ed anche dellindividuo nel senso alto e consapevole, ovvero come dotato di diritti universali che soli permettono la sua esistenza particolare, ma proprio per questo mai privata. Un individuo privato, cio privo del riferimento al comune essere-insieme umano che fonda il

diritto, proprio per questo un individuo che costretto ad accettare limposizione sociale come un decreto a lui superiore, inaccessibile, incontrovertibile, come fatum o tyche, egli, infatti, privandosi del suo riferimento universale, non trova fondamento alcuno che gli permetta di far valere i suoi diritti nemmeno nella sfera del particolare. arrestiamoci qui. Da ci che abbiamo qui chiarito in modo cos sommario e per cos dire, en passant, possiamo nondimeno trarre una conclusione provvisoria: la crisi non ha affatto ricadute sociali, le ricadute sociali sono invece il sintomo della crisi nella misura in cui essa non costituisce il problema, ma segnala lemergenza del problema. Il che significa altrettanto: non c propriamente una crisi economica da cui derivino ricadute sulla societ, ma piuttosto una crisi del rapporto sociale in generale, che investe tutti i livelli, di cui la crisi economica costituisce pi un corollario che una causa. Si potrebbe dire senza nemmeno troppo azzardo che parlare di crisi economica come causa di una crisi sociale costituisca un deliberato mascheramento volto ad occultare, pi che a svelare, ci che accade attualmente. La crisi sociale, con la sua sintomatologia che si estende dalla stupidit emotiva al suicidio, non una conseguenza della crisi delleconomia, ma del successo globale e della massima efficientizzazione del modello economico prevalente, anzi obbligatorio e totalitario che andato affermandosi negli ultimi trentanni. Dobbiamo cominciare a considerare la possibilit che questo modello economico sia nemico dellaffermazione della vita umana e della piena e completa realizzazione delluomo sotto tutti gli aspetti, considerazione, questa, che abbiamo tutti gli strumenti per fare gi da molto tempo, valutandone le conseguenze. Non pretendo qui di dimostrare questa ipotesi, come se in filosofia si dessero dimostrazioni, ma solo tenter di fornire alcune prospettive a partire dalle quali sostenerla, seguendo il filo rosso della linea dabolizione che sperimentiamo quotidianamente. Secondo la terminologia positivista di Ma per ora

Durkheim lessenza della societas come vincolo la solidariet. Per poter esistere una societ deve produrre solidariet fra i suoi membri. Tale solidariet non deve essere dunque intesa nel senso corrente di aiuto pietistico e

caritatevole nei confronti degli svantaggiati, ma nel senso pi ampio e generale di ci che connette e mantiene lunit funzionale degli organi, di ci che permette la coesione morale fra gli individui associati, sostanziando la morale comune che si traduce in diritto positivo. Ora, secondo Durkheim la modalit principale attraverso cui la societ moderna produce solidariet la divisione del lavoro. Man mano che la societ evolve essa va specificando le funzioni dei suoi membri, precisa i loro ruoli e gli ambiti dellattivit che ciascuno chiamato a svolgere. Ma per la gran parte la solidariet prodotta dalla divisione del lavoro una solidariet di tipo negativo, essa cio compensativa, nel senso che tende ad assumere la forma del risarcimento economico. La solidariet positiva invece prodotta da societ meno specificate, dove la divisione del lavoro non ancora sviluppata e dove esiste una forte coesione attorno alle rappresentazioni. Qui il diritto esprime direttamente la punizione per chi viola la morale comune della societ. Lanomia la malattia cronica della societ moderna, ed esprime linadeguatezza normativa che ingenera lo squilibrio fra libert ed eguaglianza. La norma male integrata e comporta, di fronte a rappresentazioni che si fondano su una uguaglianza formale, lineguaglianza de facto delle condizioni a partire dalle quali ciascun libero individuo dovrebbe potersi autodeterminare. Quanto pi a fondo procede questo scollamento fra ideale di uguaglianza e diseguaglianza delle condizioni concrete, tanto pi la societ riproduce la condizione di anomia in se stessa e i comportamenti devianti ad essa connessi. Ad essere anomica non tanto la condizione del soggetto, quanto la divisione del lavoro. Nelle societ a solidariet meccanica le rappresentazioni sono fortemente integrate perch i ruoli sociali sono scarsamente specificati. Al contrario la societ moderna una societ a solidariet organica, il che significa essa produce solidariet solamente se tutte le singole funzioni fra le quali si suddiviso il lavoro sociale sono integrate da rappresentazioni ad esse corrispondenti le rappresentazioni sono altamente individualizzate, tanto che la pi universale appunto la libert individuale. La societ moderna si trova pertanto in una situazione di anomia cronica, ed essa continuer a riprodurre in s la situazione di anomia fino a quando non sar in grado di integrare le singole funzioni con rappresentazioni corrispondenti: essa deve cio ancora realizzare

concretamente quei presupposti ideali che la guidano, e in primo luogo la corrispondenza fra libert e uguaglianza.

[appunti e citazioni]

In Merton lanomia assume un carattere pi soggettivo ed quella condizione nella quale mete culturali e norme istituzionali entrano in conflitto a causa della eccessiva enfasi posta sulle prime a discapito delle seconde. La societ americana si rivela come produttrice di comportamenti devianti al proprio interno proprio a causa dellenorme operazione culturale che prescrive indifferentemente a tutti gli individui di diventare ricchi, avere successo ecc a qualsiasi costo: gettin rich or die trying. [appunti e citazioni]

In un primo questo momento abbiamo potuto considerare lanomia come una sorta di effetto collaterale dello sviluppo economico capitalistico nelle societ moderne, generato da una carenza normativa che produce squilibrio fra libert ed eguaglianza, ingenerando tensioni sociali che rischiano di disgregare lunit funzionale perch non integrano dal punto di vista delle rappresentazioni comuni le funzioni assegnate nella divisione del lavoro ad unampia parte del corpo sociale. Ma con Merton abbiamo dovuto approfondire questa prospettiva integrando questa considerazione oggettiva della anomia con un punto di vista soggettivo che problematizza le mete culturali come potenzialmente disgregatrici nei confronti delle norme istituzionali che dovrebbero regolare il raggiungimento di queste stesse mete. Abbiamo visto dunque come una societ arrivi a produrre il proprio virus dallinterno, allorch nella sua cultura essa produce una insistenza esagerata rispetto alle mete indebolendo al contempo limportanza delle norme che regolano il raggiungimento di esse. dunque il modo in cui una societ interviene sulle rappresentazioni che vengono interiorizzate dagli individui che induce linsorgenza del comportamento deviante allinterno di questa stessa societ. Ora potremmo chiederci, qual il

rapporto fra queste due forme di anomia, quella oggettiva, legata ad una mancata integrazione normativa, e quella soggettiva, legata alla contraddizione fra le mete prescritte e le norme che permettono di realizzare tali mete? Senza avvicinarci alle vette di scientificit degli studi di Durkheim e di Merton, vorremmo avanzare una modesta risposta: fra le due forme di anomia non c solo una correlazione, ma una forma di reciprocit esponenziale, se ci concesso esprimerci cos. La contraddizione fra le mete prescritte e le norme che regolano la loro realizzazione senza dubbio il prodotto di una mancata integrazione normativa che produce lo squilibrio fra libert ed eguaglianza, poich ha una sua radice proprio nellassenza di una legislazione che garantisca quelleguaglianza concreta che renda realizzabile la libert individuale per tutti i membri della societ: in assenza della prima, questa seconda rimane una mera astrazione, che ha per giunta qualcosa dello scherno e della beffa. Dallaltro lato, le conseguenze devianti della forma soggettiva dellanomia, che hanno le loro radici nella oggettiva carenza normativa, a loro volta la riproducono e la rilanciano in peggio, approfondendo il divario oggettivo fra libert ed eguaglianza, perch inducono i soggetti a forme di adattamento che lasciano intatta la situazione oggettiva in quanto fanno venir meno i presupposti soggettivi della sua trasformazione. Se io non credo nella legge, non ho nemmeno la coscienza della possibilit di cambiarla; se ho rinunciato ad un rapporto responsabile con le norme e le istituzioni non ho nemmeno la capacit di trasformarle oggettivamente. Litaliano entrato in questo circolo vizioso, e una delle vie duscita purtroppo il suicidio. C di pi: abbiamo detto poco fa che una delle radici dellanomia soggettiva si trova nella inadeguatezza oggettiva delle norme. Abbiamo per visto come per Merton il problema si trovi soprattutto nelle sottolineature culturali del tutto sproporzionate fra mete e norme. Se da una lato dunque le norme si rivelano inadeguate, dal punto di vista del soggetto che si rapporta ad esse, perch sono costantemente svalutate dal punto di vista della cultura, intesa in senso generalissimo e dossico come complesso socialmente prodotto delle rappresentazioni che sono prescritte al singolo. Il terreno comune sul quale anomia oggettiva (mancata integrazione normativa) e anomia soggettiva

(contraddizione fra meta culturale e norma istituzionale) si incontrano e si compenetrano proprio il terreno delle rappresentazioni. Nella misura in cui le rappresentazioni sono tanto ci che prodotto sul piano di una coscienza comune, quanto ci che interviene nel rapporto con la realt del singolo, e dunque nella determinazione delle sue mete, che coincidono poi con le sue possibilit di oggettivarsi e ottenere il riconoscimento sociale che solo lo qualifica come uomo fra gli uomini storici concreti del suo tempo. Lamericano dellamerican dream ottiene il proprio riconoscimento perch accetta ed eventualmente realizza la meta (ricchezza ad esempio) che ha ricevuto dalla societ; essere riconosciuti significa rispondere alla chiamata che la coscienza comune gli rappresenta sotto forma di meta desiderabile e in ogni caso necessaria per essere umano in quel concreto storico-culturale. Ma quando questa eventualit non si realizza e il riconoscimento fallisce, o ancor di pi quando questo riconoscimento riesce perfettamente ma del tutto al di fuori delle norme istituzionali, egli, qualsiasi sia ladattamento che ha praticato, finir per rispondere con una rinuncia alla responsabilit politica, egli cio rinuncer ad agire oggettivamente come cittadino per trasformare le istituzioni, poich esse si sono rivelate nemiche e in ogni caso inutili alla sua libert, che egli assimila alla sua possibilit di realizzare le mete prescritte culturalmente. Ovviamente questa conclusione di rinuncia alla responsabilit contiene una fallacia, o per lo meno una incompletezza argomentativa, e anche pi duna. 1. In primo luogo, dal fatto che le norme istituzionali operino in contraddizione con le mete prescritte non deriva

necessariamente che esse siano da rigettare in toto, ma piuttosto che esse debbano essere trasformate, sempre che si intenda vivere in comune. 2. In secondo luogo, pu darsi il caso che non siano le norme istituzionali, ma le mete culturali socialmente prescritte ad essere nemiche o inutili alla libert, mentre sembra che il protagonista del nostro esempio non si sogni nemmeno di prendere in considerazione questa possibilit.

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In terzo luogo, pu darsi che la libert non coincida con la possibilit di realizzare le mete prescritte, ma che, anzi, ci troviamo di fronte a due idee di libert distinte e finanche contrapposte, ad una libert del cittadino, contenuta nelle norme istituzionali almeno dal punto di vista teleologico, e ad una libert dellhomo oeconomicus, che appartiene alla doxa della cultura come rappresentazione socialmente prodotta e condivisa nellhumus della particolare concretezza storica.

La norma istituzionale, in democrazia, non nulla che non possa essere trasformato in direzione di una integrazione e di un riequilibrio tra libert ed eguaglianza. Ma una trasformazione della norma richiede innanzitutto la trasformazione della rappresentazione sociale. Rappresentazione e funzione sociale sono strettamente connesse. La nostra posizione rispetto alla struttura dipende dalla rappresentazione della funzione che siamo chiamati a svolgere allinterno di essa. Ci che il soggetto generalmente non fa chiedersi se non sia per caso la rappresentazione della meta che gli viene prescritta a dover essere messa in questione. La critica delle rappresentazioni sociali diverrebbe dunque propedeutica alla trasformazione delle funzioni, poich a partire da queste rappresentazioni che le funzioni si distribuiscono e vengono eventualmente rigettate. Ora la norma non fa che esprimere il rapporto reciproco fra le funzioni e regolare i loro conflitti cos da permettere lunificazione delle funzioni allinterno dellorganismo. Pertanto una rappresentazione superstiziosa della propria funzione sociale (e della prassi concreta) rende incapaci di sottoporre tale funzione ad una critica e rende de facto incapaci di trasformare la norma. Ad esempio: criticare la istituzione scolastica senza mettere in questione seriamente che cosa significhi essere studenti in rapporto a che cosa dovrebbe significare, equivale a privarsi della possibilit di condurre una critica che sfoci in una trasformazione effettiva dellistituzione. dunque in primo luogo una critica delle rappresentazioni che vanno a costituire le mete culturali ci di cui abbiamo bisogno per uscire da questa impasse. Per rappresentazione intendo ci che media il rapporto con la realt, e fra il soggetto e loggetto. In senso ampio la cultura non altro che un insieme di

rappresentazioni, non tanto per ci che esse contengono, ma per il modo della loro organizzazione e delle loro sottolineature, che conferiscono al reale il suo peso e la sua incidenza. Quando in teatro si parla di rappresentazione, si intende la messa in scena di qualcosa ora tanto nella percezione diretta quanto a maggior ragione nella percezione mediata, la realt non si presenta mai in s, ma sempre come qualcosa che deve essere messo in scena: le nostre rappresentazioni sono linee guida secondo le quali organizziamo lesperienza mettendo in scena il reale per poterlo giudicare. Questa incidenza della sfera culturale sul nostro rapporto con la realt la sperimentiamo continuamente allorch il nostro sguardo trasformato nella sua prospettiva. Esattamente come chi, avendo studiato la storia dellarte, riesce a cogliere e giudicare allinterno di un quadro degli elementi che al profano non erano nemmeno apparsi, limmagine che essi hanno di fronte la stessa, ma uno vede di pi e meglio, e ci che allaltro sfugge, non perch gli sia nascosto, ma perch egli non sa vederlo. Ora, come si costruisce questa componente culturale che media il nostro rapporto con la realt, volenti o nolenti, consapevoli o meno di questo? Una tale componente si costruisce per mezzo dellesercizio rappresentativo stesso, a contatto con le rappresentazioni e con la produzione di rappresentazioni. Ci che guardiamo come spettatori ci insegna implicitamente un modo di costruire lesperienza, come direbbero gli studiosi di semiotica dei media. Mentre acquisiamo informazioni acquisiamo il modo in cui esse sono organizzate, e questo modo diventa il modo come noi organizziamo lesperienza della realt nella misura in cui essa pu avere senso per noi. E a questo punto entra in gioco la comunicazione, affinch queste non rimangano vaghe speculazioni psicologistiche:
In verit si soliti dire che un potere superiore pu privarci della libert di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per cos dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si pu ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libert di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libert di pensare, cio dellunico

tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora pu consentire di trovare rimedio ai mali di questa condizione. (Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero)

Non si tratta del nostro caso, ma in qualche misura s: questo passo di Kant dice infatti in primo luogo che il modo come comunichiamo non indifferente al modo come pensiamo, perch possiamo dire che sensato solo il pensiero che si fonda su unesperienza comunicabile. Il modo in cui organizzata la comunicazione arrivato ad un tale livello di standardizzazione che un determinato tipo di pensiero divenuto pressoch impossibile, come una moneta caduta in disuso, il pensiero critico razionale stato colpito da interdetto. Come ci avviene? mentre acquisiamo informazioni il modo come esse sono organizzate diviene progressivamente il modo come noi siamo portati ad organizzare la nostra esperienza nella misura essa deve avere senso, essa deve essere comunicabile: chi detta le leggi che regolano il modo come si comunica detta insieme ad essa le leggi dellesperienza che pu essere condivisibile e compresa, cio, appunto, avere senso. Cos come ormai uso comune assumere qualcuno che organizzi al nostro posto gli eventi pi carichi di significato (e dunque di responsabilit, come un matrimonio, un funerale ecc), allo stesso modo possiamo dire che noi abbiamo da tempo affidato allindustria culturale la gestione della nostra esperienza, del modo come essa organizzata: i social network conferiscono al groviglio confuso e imprecisato delle nostre esperienze, dei nostri ricordi, delle nostre relazioni con altri passate o possibili, un ordine standardizzato, che aiuta a scongiurare lansia. Ma con ci noi abbiamo consegnato la nostra possibilit di comunicare lesperienza e cio di organizzarla, darle forma, ripensarla e giudicarla ad altri, che scrivono le regole di ci che comunicabile per noi e per tutti: peraltro ovvio che tali regole saranno necessariamente limitate e limitanti, ci che abbiamo fatto e le persone che abbiamo incontrato si riducono ad un immagine che documenti tutto come nel dossier di un investigatore privato; i nostri giudizi possono esistere solo sotto forma di preferenze e opzioni commerciali come nellindagine di mercato; ci che non pu rientrare nello spazio delimitato del leggibile su schermo non

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pu pi essere argomento di conversazione; e tutto questo non perch vi sia una qualche censura, ma perch il modo come comunichiamo condiziona ci che possiamo o non possiamo pensare, e lo condiziona nel peggiore dei modi: implicitamente. Eppure costruire lesperienza, sforzarsi di ricercarne i limiti e di esprimerla in modo autonomo, mettendo sotto accusa i codici che ne escludono alcune a favore di altre, equivale a formarsi, significa rilanciare la sfida per quel possesso culturale del mondo che, secondo Pasolini, costituisce lunica cosa che possa dare la felicit. Questa atrofia dellesperienza altrettanto atrofia della capacit di giudizio. Le nostre rappresentazioni hanno a che vedere con limmaginazione. Limmaginazione la facolt che ci permette di connettere il giudizio, e il concetto corrispondente, alla cosa o alla situazione che abbiamo di fronte, dalla nostra capacit di immaginazione dipende la nostra capacit di dare un giudizio critico sul presente senza di essa dunque impossibile pensare lattuale, pensare ci che accade attualmente; proprio il giudizio che ci permette di scorgere per la prima volta la possibilit, la linea di fuga dal cattivo presente. Se restiamo privi di immaginazione (della spontaneit dellimmaginazione) restiamo incapaci di pensare il presente, identici alluomo prescientifico: sottoposti ad una forza che ci trascende e assoggettati allordine di un fato incontrovertibile, sia esso dio oppure leconomia di mercato. Solo il libero e spontaneo uso dellimmaginazione per lesercizio della capacit di giudizio ci permette di riconoscere la nostra situazione, apparentemente senza uscita, come un divenuto. Ovvero come qualcosa che poteva e dunque pu ancora essere altrimenti, il mondo come diverso, che ancora possibile. Le nostre rappresentazioni non sono divertissement, astrazione o sogno: sono lunico modo che ci sia dato di conoscere la realt; questa stessa realt , per quanto possiamo conoscerla, solo ci che il filtro delle nostre rappresentazioni ci consente di vedere. Limmaginario e il reale non sono due sfere tra loro aliene e separate, ma due flussi che scorrono uno nellaltro. Chi governa limmaginario, i luoghi dellimmaginazione, il modo in cui essa d forma, governa lesperienza del mondo, la realt stessa in quanto essa ha senso come esperibile e comunicabile. Il modo di organizzare linformazione condiziona il modo come noi esperiamo la realt le immagini di desiderio che ci vengono

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imposte (con il nostro assenso) fanno parte di una politica di gestione delle pulsioni per fini di mercato. Il modo in cui ci divertiamo, il modo in cui conversiamo, le modalit secondo le quali prendiamo il nostro piacere o diamo un nome alla nostra sofferenza, sono una questione politica, che non pu essere lasciata in mano ad altri, men che meno ai pubblicitari e agli addetti di marketing. La nostra vita politica non solo un mondo di norme ma innanzitutto un mondo di immagini, di desideri e di rappresentazioni: limmaginario politico nella misura in cui la realt non mai un datum, una cosa in s, ma sempre il portato di una complessa costruzione cui diamo il nome di esperienza. Ancor prima che un cinico, un indifferente, un apolitico, il qualunquista qualcuno che non ha potuto (n voluto!) costruire in modo autonomo e consapevole la propria esperienza della realt e il suo giudizio su di essa. Dobbiamo a questo punto ammettere la possibilit che lanomia non sia un effetto collaterale del sistema-mondo capitalistico, ma che da qualche decennio in qua lanomia sia scientemente prodotta attraverso i mezzi che permettono di rendere omnipervasive e globali determinate rappresentazioni dellimmaginario sociale. Tali rappresentazioni, sono a tutti gli effetti mete che contraddicono e tendono a minare non le singole norme istituzionali, ma i principi stessi della democrazia, che, sebbene in modo ancora confuso e impreciso quanto alle singole leggi, tali norme esprimono: il governo delle rappresentazioni dellimmaginario sociale ha approfondito il conflitto fra la cosiddetta libert dellhomo oeconomicus, che poggia sullindividualismo edonistico e dossico che costituisce il senso comune; e la libert intesa nel senso pi alto, quella espressa dalla costituzione, che poggia sul riferimento alluniversale umano. Ci troviamo di fronte ad uneconomia che, per poter esistere, deve realizzare lo smantellamento della democrazia. Un simile smantellamento peraltro loperazione meno complicata che si possa immaginare: la democrazia infatti non nemmeno qualcosa di edificato, ma una perenne costruzione ed sufficiente che i cittadini rinuncino ad esercitare la propria responsabilit politica (cio rinuncino a continuare a costruire). Essa non c ancora se non come un incondizionato, ancora di l da venire. Quindi potrebbe darsi che non venga mai (ma il contrario anche, a patto che).

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Lanomia, in senso pi profondo, pu essere considerata proprio come una incapacit di esperienza. La cultura non qualcosa che prescriva ricette, ma qualcosa che permette la costruzione e la critica dellesperienza, la sua messa in questione e la sua trasformazione. Il genocidio delle culture reali e viventi sarebbe dunque altrettanto il genocidio della capacit di esperire il mondo. Ora, noi viviamo in un sistema che attraverso la gestione delle rappresentazioni sociali mira precisamente a produrre anomia, e ad estenderla il pi possibile, al fine di smantellare lesperienza per poi compensare con il consumo una simile, incolmabile, assenza. Che poi lassenza delluomo a se stesso.

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