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INCONTRO CON UN UOMO STRAORDINARIO - 21

tratto dal blog http://ilgrandeignoto.blogspot.com di Angelo Ciccarella

Dove mi trovavo (?), il tempo assumeva un valore diverso. Si ha l'impressione di vivere un film al
rallentatore, ma, parallelamente, trascorre il nostro tempo soggettivo. Mi sentivo in una sorta di
sdoppiamento controllato, come se vivessi da due postazioni differenti, quasi all'unisono.
Mi passarono davanti/dietro, di lato e sopra, spezzoni di immagini, venti sonori, volti e figure
geometriche svolazzanti; erano i primi segni di vita, o almeno sembravano tali, che incontrai. Nella
struttura sottile del tempo esistono cose appena abbozzate, riflessi e riverberi, che poi ritroviamo
come forme residuali in determinate condizioni sulla terra; volgarmente li chiamiamo fantasmi.
Qui, la struttura sottile assume un'estensione particolare. Un mese lì, equivale a tre ore circa nella
nostra dimensione. Provare per credere.
Il paesaggio era incantevole, fatato. Il cielo blu cobalto, mi sembrava meno sterminato, la volta era,
come dire, più raccolta, meno alta.
Dopo un po' le figure che mi aleggiavano intorno si dileguarono improvvisamente. Qualcosa stava per
succedere. Intanto, decisi di muovermi.
Guardavo con curiosità i miei piedi, le gambe, e sentivo un effetto strano, come di leggerezza, di
facilità nei movimenti. Il prato all'inglese, era soffice, sì, ma c'era minor impatto nel passeggiare; mi
sosteneva maggiormente che sulla terra, come se rimbalzassi. Non era la minore gravità, non saprei
dire perché, però aveva a che fare col tempo rallentato. Mi osservavo da fuori e in perfetta sincronia
percepivo il mondo dietro la mia fronte – ma forse un leggero scarto divideva le visioni. Ero stimolato
al massimo, sentivo ogni cellula del mio corpo vibrare, rispondere.

La stazione che avevo di fronte, non aveva nulla dell'astroporto, ma che dico, anche di un terrestre
aeroporto. Non vedevo rampe di lancio, piste o quelle strutture tipiche dove partono e arrivano
aeroplani. Infatti, non si decollava né si atterrava: si entrava o si usciva. Era un varco
interdimensionale fuori da ogni possibile immaginazione. Ero ad un crocevia cosmico per tutte le
destinazioni, piani dimensioni mondi, un ventaglio di possibilità che il sottoscritto, tra i pochi uomini
contemporanei, aveva avuto in dote dalla fortuna di scegliere. Scegliere per andare dove? Un dubbio
atroce mi scosse. Scandurra non mi aveva dato indicazioni in proposito, o almeno non le ricordavo.
Decisi di recarmi in quella cittadella inerpicata lassù e così avrei chiesto a qualcuno ragguagli. A prima
vista lo scalo distava alcuni chilometri in linea d'aria. Tra me e la stazione, vi erano prati all'inglese e
alberi raggruppati in buon ordine. Non vedevo un sentiero, ma realizzai che la linea retta mi avrebbe
portato facilmente alla meta.
Stupidamente feci una balorda considerazione: e se avessi incontrato il cappellaio matto, o comunque
un tipo strano dall'idioma incomprensibile e dall'atteggiamento ancora più illogico, come mi sarei
dovuto comportare? Niente di tutto questo avvenne.
Incominciava per me l'avventura; potevo ben dire di essere il ragazzo più fortunato del mondo. Quanti
prima del sottoscritto avevano avuto la possibilità di esplorare l'ignoto? Credo pochi, qualcuno ne

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aveva fatto un resoconto camuffato da romanzo, altri avevano taciuto.
I viaggi dell'anima di mistici e sciamani, erano ben catalogati, analizzati, inseriti nella fenomenologia
della storia delle religioni; ma ben poco c'era che riguardava l'esperienza totale, l'immersione in varchi
interdimensionali, quella che stavo facendo grazie ad un maestro unico nel suo genere, ammesso che
vi fosse un genere come quello.
Ero avvolto in uno sconfinato silenzio, ne ero assorbito. Forse per spirito di conservazione, richiamai
l'attenzione e la necessaria tensione, sebbene confidassi nella bontà di Scandurra che mai mi
avrebbe mandato in un luogo da cui non sarei stato in grado di cavarmela, ma ero pur sempre un
viaggiatore in una contrada incognita, dove le categorie spazio-tempo, la presenza a me stesso, la
coscienza ordinaria, erano rivoluzionate. Avanzavo in quello stato duplice di osservazione, non
sentivo il mio peso abituale, camminavo lentamente o forse mi vedevo lentamente camminare.

Dovrei scrivere molto di più di quel che sto qui abbreviando, poiché le tante cose che mi si
presentarono meriterebbero una serie di capitoli di un ipotetico libro. Quanto sto ora scrivendo è la
premessa necessaria per localizzare il punto dimensionale nel quale si verificò il fenomeno mitico che
mi investì: si tratta di un posto reale, da me raggiunto e che influì decisamente sulla mia visione della
realtà, sull'interpretazione di casistiche aliene e su come leggere il mondo.

L'aria si faceva fresca. Mi accorsi della presenza di una sorgente, sul limitare del boschetto di destra,
e poiché avevo sete, mi diressi verso una polla d'acqua. Piegandomi, immersi cautamente la mano:
era fredda e leggerissima. Allora ne raccolsi un po' sul palmo della mano e vi accostai le labbra. Era
frizzante e buona, difficile valutarne la composizione.
Notai che non vi era sottobosco né cespugli, gli alberi erano simili a faggi, emanavano profumi mai
sentiti prima.
Intravidi ad un certo momento qualcosa che si muoveva a poco più di cinque metri da me. Una specie
di roditore, un topo gigantesco, grosso come un maiale, dal colore marrone scuro, mi fissava e alzava
la sua coda anellare. Mi spaventai, lo confesso. Stava masticando non so cosa, poi emise una specie
di rutto-squittio baritonale e si girò allontanandosi lentamente, sculettando. Il mio primo incontro con
un animale di un'altra dimensione. Se i topi erano così grossi in quel mondo, figuriamoci i gatti.
Alzai gli occhi al cielo, profondo, brillante. Finalmente realizzai: era giorno ma non c'era nessun astro.
Allora, piano piano, si formò nella mia mente un pensiero, una domanda: dietro quel cielo c'è Dio?
Sentii dei fruscii tra le foglie e restai con le orecchie tese per capire che cos'era quel rumore. Quel
bosco mi sembrava più grande che visto da fuori. Girai intorno ad un grosso faggio e scorsi un fiume,
non più largo di 20 metri che divideva il bosco. Placido, sembrava un canale artificiale per quanto era
preciso nelle sue anse e argini: un fiume disegnato da un pittore iper-realista.
Ma mentre facevo queste elucubrazioni, una vampata di luce intensissima apparve come dal nulla
proprio in mezzo al corso d'acqua. Una sfera perfetta dal diametro di 10/12metri, mutava con velocità
folle di colore; ne distinsi solo alcuni, rosso blu giallo verde oro, gli altri non saprei come identificarli.
Non emetteva nessun suono. Stava lì sospesa a 2metri dalla superficie del fiume ed io, sulla riva e
con la bocca aperta, trattenevo il respiro. Stava lì per puro caso? Era un u.f.o. che mi dava il

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benvenuto? No, quella sfera cangiante, era qualcosa che non aveva nulla a che fare con le mie
ipotesi iniziali. Il mito si era manifestato, attraverso un simbolo, una potenza. Elettricità pura, anzi, la
sua sorgente.

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