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Il trionfo

dell’Umanesimo
•La nascita di Venere, Sandro
Botticelli.
Scrive Erich Fromm: "Esiste una definizione di umanesimo (a mio giudizio troppo restrittiva) che lo intende come quel
movimento, manifestatosi nel XV e XVI secolo, di ritorno alla cultura e alle lingue classiche: greco, ebraico e latino. Ma la
definizione di umanesimo come concezione globale dell'uomo è di tutt'altro genere; si tratta certamente di una concezione che
ha avuto il proprio culmine durante il Rinascimento, ma che ha una tradizione vecchia di duemilacinquecento anni, e che ha
avuto esordio con i profeti nel mondo occidentale e con gli insegnamenti buddisti in Oriente. Quali sono i principi fondamentali
di quest'umanesimo? La concezione può essere così sintetizzata: uno, fede nell'unità della specie umana, in quanto non v'è
nulla di umano che non sia reperibile in ciascuno; due, accentuazione della dignità umana; tre, affermazione della capacità di
autosviluppo e autoperfezionamento dell'uomo; quattro, importanza attribuita alla ragione, all'obiettività, alla pace". Il nuovo
modello umanistico poggia in primo luogo sulla volontà di riscoprire la cultura nei suoi valori originari, al di là
dell’imbarbarimento subito nel corso dei secoli; tutto ciò comporta ad una maggiore conoscenza relativa ai classici e a un modo
di scrivere che sia più vicino possibile a quello degli antichi scrittori. Il termine umanista in senso più ristretto e profondo
designa un uomo di cultura che, si dedica interamente ad un’opera letteraria in latino, facendo riferimento ai diversi poeti e
scrittori che hanno caratterizzato quest’ultima età. La rinascita di vali valori, viene designata col titolo del secolo
dell’Umanesimo. La visuale umanistica attribuisce all’individuo, come disse Fromm, un valore completamente nuovo, ponendo
in primo piano la letteratura e l’educazione letteraria. Vergerio fu un’umanista istriano; tra le opere più importanti ricordiamo
De Ingenius moribus et liberalibus studiis adolescentiae. L’opera narra delle caratteristiche fondamentali del principe, sotto i due
aspetti dell’uomo di governo e del guerriero; nella formazione del principe, sono fondamentali gli studi liberali, tramite i quali si
coltivano le virtù e la sapienza e si raggiungono onore e gloria. Gli studi liberali ora sono intesi, non più in chiave religiosa, bensì
come studi prettamente legati all’educazione dell’uomo. Vergerio individuò la forma di espressione più alta della vita umana,
affermando che ‘leggere sempre, o scrivere, e conoscere, noi uomino moderni, gli antichi fatti, parlare coi posteri come fossero
presenti, e far nostra ogni esperienza passata e futura. La visione della letteratura e della storia sono essenzialmente retoriche;
nell’età antica, assumono un ruolo fondamentale la perfezione formale, l’eleganza della parola e la ricerca di perfezione ed
equilibrio.
E’ una retorica molto diversa da quella delle artes medievali: concepisce la perfezione e l’eleganza come manifestazione di
misura morale, come dirette espressioni della virtù e del valore dell’individuo. La poesia viene intesa come elemento
fondamentale che sintetizza il valore integrale dell’uomo stesso, come forma di espressione privilegiata: espressione già utilizza
e stilata dal grande Petrarca. L’obiettivo poetico è puramente retorico, poiché essa viene vista come ornamento, come
esaltazione delle virtù e del potere, dispensatrice di onore e gloria relativa all’individuo. Se nell’età medievale, la poesia era
legata alla teologia, alla filosofia e alle scienze, nell’età umanistica il campo d’indagine assoluto diventa l’uomo, studiando
senza scrupoli, i suoi comportamenti, e non più le essenze metafisiche. Tutto ciò porta ad esaltare le virtù dell’uomo e studiare
le sue manifestazioni individuali, sociali e mondane; fortissima ora è la diffidenza verso la vita monastica e verso le più
ascetiche forme della religiosità cristiana. Gli umanisti vogliono occuparsi di ciò che viene riconosciuto come umano; qui
potremmo ricordare una frase del grande Protagora, il quale affermò «… di tutte le cose misura è l'uomo, di quelle che sono,
per ciò che sono, di quelle che non sono per ciò che non sono.» L’umanista cerca di affermarsi nel mondo che lo circonda e di
raggiungere posizioni di prestigio sociale: ha quindi bisogno dell’appoggio da parte dei signori e principi, per questo ne esalta
spesso le virtù; ma può capitare che, non ricevendo l’appoggio desiderato, cerca allora il consenso di altri potenti, passando ad
un campo a quello opposto (molti di loro, infatti, cambieranno notevolmente di diversi atteggiamenti politici). In realtà quando
parliamo di Umanesimo, dovremmo dividere numerose distinzioni, tra le quali: 1)Umanesimo repubblicano; diffuso a Venezia e
soprattutto a Firenze nel periodo della repubblica oligarchica, mirando a connettere la letteratura con l’impegno civile;
2)Umanesimo cortigiano, la quale concepisce la letteratura come ornamento e sostengo del potere signorile; 3)Umanesimo
laico e modano; tende ad esaltare la vita terrena, la libertà dell’omo, la sua aspirazione alla gloria e al potere; 4)Umanesimo
cristiano; vuol approfondire l’esperienza religiosa risalendo ai valori originari del Cristianesimo, affermando i valori più
autentici ella cultura cristiana e quelli relativi alla cultura classica; 5) Umanesimo filologico; mira a ricostruire basandosi sugli
aspetti storici, letterari, retorici; 6)Umanesimo filosofico; elabora con rigore teorico la nuova visione del mondo, partendo da
un nuovo rapporto con la filosofia antica, al di là delle interpretazioni da parte della scolastica medievale. Genericamente
potremmo distinguere un primo ed un secondo Umanesimo.
Il primo umanesimo è caratterizzato dal recupero dei manoscritti delle grandi biblioteche capitolari, alla diffusione delle nuove
scoperte grazie alla traduzione dei testi dal greco e del latino e dalla promozione del messaggio umanistico presso i centri del
potere locale, alla creazione di circoli e accademie private dove i simpatizzanti dell’Umanesimo si riunivano e scambiavano
informazioni. E’ un umanesimo che si incentra sul lavoro dell’analisi e delle scoperta della codificazione dei testi (umanesimo
filologico) a un umanesimo propagandistico, incentrato sulla produzione di opere che esaltano la libertà dell’uomo esaltandone
la sua natura attraverso il pensiero neoplatonico (umanesimo laico), sino ad arrivare ad un umanesimo cristiano, preoccupato
di far conciliare i valori cristiani con quelli dell’Umanesimo, della nuova età relativa allo studio dell’uomo. Il secondo
umanesimo, si ha con l’affermazione delle Signorie e coincide con gli anni 50’ e 60’; Guido Cappelli disse, con riferimento a
questa seconda fase, che si assiste all’impulso innovativo, tipico delle tradizioni precedenti. Il distacco degli Umanisti dalla
tradizione medievale, porta quest’ultimi alla ricerca di nuove istituzioni, capace di trasmettere i nuovi modelli letterari;
l’educazione assume una posizione centrale, rendendo ogni allievo capace di muoversi nel mondo col pieno possesso delle
proprie qualità. Tra i diversi umanisti-maestri, ricordiamo Guarino Veronese e Vittorino da Feltre. La realizzazione di questi
programmi di integrale sviluppo dell’uomo è possibile, solo all’interno delle classi dominanti, le quali dispongono di
determinate condizioni materiali. Ma la ricerca di nuove istituzioni deve fare i conti con un contesto sociale arretrato, in cui
sopravvivono le istituzioni di vecchio stampo medievale; questa arretratezza, portano ad una diffusione tarda di quelli che sono
i principi umanistici, all’interno delle scuole, raggiungendo solo una parte delle popolazione cittadina. Sono soprattutto le corti
principesche a sostenere la cultura: principi e signori sostengono soprattutto gli umanisti; ed un ruolo fondamentale, non di
minor importanza, è svolto anche dai cancellieri della Repubblica di Firenze e della corte papale. La cancelliera Romana
abbandona infatti le tradizioni retoriche medievali e diventa uno dei maggiori centri di elaborazione di modelli umanistici,
specialmente per la presenza di Bracciolini e per l’iniziativa di Niccolò V e Pio II. Bracciolini avrà un ruolo fondamentale, in
quanto rinvenne una grande moltitudine di testi di Stazio, Lucrezio ecc; rivelò anche delle ottime qualità da lettorato, per aver
narrato nelle sue lettere dei suoi diversi viaggi, nelle quali l’esaltazione dei classici si congiunge all’esaltazione delle virtù umane
dell’impegno civile.
Poiché tra gli intellettuali umanisti diventa sentito il carattere “dialogico” della cultura, cioè che la cultura si produce
essenzialmente nello scambio di idee, nel confronto e nella discussione libera, nasce l’esigenza di trovare un’istituzione, un
luogo in cui poter esercitare tutto questo. E siccome siamo in un’epoca in cui prevale l’imitazione dei classici, si prenderà come
riferimento l’accademia platonica, per il fatto che tutto il suo pensiero è basato proprio sul dialogo. Inoltre l’accademia non ha
più finalità pratiche, come invece aveva l’università (e cioè per avere un titolo, una carica) e va sottolineato che nell’accademia
si produce la cultura per cultura, per ricercare le verità del mondo. Naturalmente le università e le scuole permangono,
continuano ad essere delle realtà importanti; tuttavia entrano in contrasto fra loro e con l’accademia per il fatto che, mentre
l’accademia ha un’impostazione platonica, l’università per tradizione era legata ad un’impostazione aristotelica. Inoltre,
seguendo il modello della celebre biblioteca del Petrarca, molti umanisti e aristocratici ad essi legati, specialmente a Firenze,
costituiscono biblioteche private di notevoli dimensioni. Il costruirsi di tali biblioteche è la conseguenza del lavoro di ricerca di
testi antichi perduti o dimenticati dalla tradizione medievale, un lavoro di ricerca che viene accompagnato da un impegno a
riportare a una forma corretta e più vicina possibile a quella originale. Nell’attività degli umanisti, prende il nome di filologia,
con l’intento di riportare in vita i testi antichi, di ritrovare nella parola scritta il soffio di un valore umano profondo, da far
rivivere contemporaneamente nel mondo umanistico. Alle scoperte già fatte dal Petrarca, si aggiungono quelle di Cicerone,
Lucrezio, Stazio e altre ancora, sempre relative al mondo dell’antichità. Si elaborano nuove tecniche, metodi di analisi e di
ricostruzione dei testi; i metodi della ricostruzione di tali testi, verrà riformata da Lorenzo Valla. Valla era convinto che lo studio
accurato e l'uso corretto della lingua fosse l'unico mezzo di acculturazione feconda e comunicazione efficace: la grammatica e
un appropriato modo di esprimersi erano a suo modo di pensare alla base di ogni enunciato e, prima ancora, della stessa
formulazione intellettuale; in questo modo, si elimina la retorica che dominava i testi precedentemente, impedendo di
raggiungere un adeguato rigore critico. Notiamo come tra la fine del 300’ e l’inizio del 400’, non solo gli umanisti si limitarono al
latino ma anche alla conoscenza del mondo greco e della sua lingua, ignorati in parte dalla tradizione medievale. I nuovi
rapporti tra la Chiesa e l’impero Bizantino portano in Italia vari dotti greci ed alcuni umanisti italiani, soggiornarono a lungo
nell’impero Bizantino, raggiungendo una perfetta conoscenza della lingua greca. In questo modo, si avranno numerose
traduzioni dal greco al latino.
Tutto ciò portò ad una grande produzione e diffusione di libri; ovviamente, quest’ultimi erano destinati ad un pubblico limitato,
costituito dagli altri umanisti e dai loro protettori. Per quanto riguardano i testi in volgare e di largo consumo, verranno
mantenuti i metodi di composizione consueti. Ma nella seconda metà del secolo XV, si compie una trasformazione radicale,
dovuta all’invenzione della stampa a caratteri mobili, avvenuta in Germania intorno al 1450 per opera di Gutenberg. Sulla base
della tecnica dell’inventore cinese Bi Sheng, realizzatore del primo sistema di stampa con caratteri mobili ma di terracotta,
lavorò con costanza, ricercando e sperimentando un nuovo sistema per velocizzare la stampa di fascicoli, libri e manuali. La sua
idea venne perfezionata solo nel 1450. Il primo libro ad essere stampato fu una Bibbia latina, nel 1455 e introdotta in Italia alla
fine degli anni 60’: il primo libro stampato in Italia fu probabilmente l’Ars grammatica di Elio Donato. La stampa rese subito
meno costosa la produzione libraria, trasformando la stessa nozione di cultura; gli studiosi sono soliti designare tutti i libri a
stampa apparsi nel secolo XV col termine di incunaboli; nome attribuito ai primi prodotti dell'arte della stampa (dalle origini al
1500 incluso), modellati sull'esempio dei manoscritti. Grazie alla stampa, è possibile una verifica filologica più rigorosa: tra i
lavori più importanti, dal punto di vista filologico, ricordiamo le opere del Poliziano e quelle di Barbaro. L’impegno della
letteratura umanistica si ricollega sempre alla ripresa dei modelli classici, ma con l’obiettivo di partecipare, nel modo più nobile
e degno, al mondo contemporaneo. Questa letteratura si basa fondamentalmente sul principio dell’imitazione degli antichi e
sulla tecnica della riscrittura, che adatta gli schemi classici alla realtà e alle occasioni contemporanee. Per quanto riguarda la
prosa, il supremo esemplare classico fu Cicerone, in quanto i suoi schemi retorici e sintattici costituiscono la base della prosa
umanistica, divenendo forma sempre più ornata e misurata, a totale scapito dei contenuti. In quanto alla poesia, la scelta degli
autori da imitare varia: Orazio, Catullo, Virgilio, Marziale rimangono i personaggi chiave. I generi che caratterizzano
maggiormente la letteratura di tale periodo sono quelli prosastici: l’epistolografia, il dialogo, l’invettiva, la storiografia. Le
epistole particolarmente curate, che gli umanisti scambiano tra loro, rivelano gran parte della nuova problematica relativa alla
filologia, filosofia, politica richiamando al modello non lontano del Petrarca. Il dialogo, che risale a numerosi esempi classici,
collega la ricerca della verità alla presentazione di situazioni concrete: mettendo in scena personaggi e problematiche relative
alla contemporaneità, in modo tale che possano emergere dalle diverse opinioni, una verità parziale.
La mancanza di sistematicità della produzione teorica umanistica mostra che si è ormai lontani dalla tradizione aristotelica e
scolastica: in polemica con l’aristotelismo, gli umanisti preferiscono piuttosto rifarsi a Platone e al platonismo, come già aveva
fatto il Petrarca, ma con la possibilità di avvalersi dei testi greci originali. Fin dall’inizio del secolo XV si sviluppa in modo
considerevole la storiografia, stimolata dalla volontà di risalire alle origini della civiltà contemporanea; questo genere trova un
modello soprattutto in Tito Livio e si concentra sull’osservazione dei comportamenti degli individui e dei popoli, col proposito di
trovare gli esempi di virtù, che richiamino gli uomini antichi illustri. La letteratura umanistica suggerisce l’immagine di un mondo
misurato ed equilibrato, ricco di gesti composti e lodevoli, serio e nobile nel comportamento, accuratissimo nelle forme
linguistiche e stilistiche. Firenze imprime il primo grande impulso alla nuova cultura umanistica, attraverso l’opera di un gruppo
di studiosi già attivi alla fine del 300’, sulle orme di Petrarca e Boccaccio e con fortissime radici nella vita comunale e nelle
istituzioni della Repubblica. I caratteri del primo Umanesimo, vengono riassunti nella formula di Umanesimo civile, che
evidenzia il suo legame con la comunità cittadina e i suoi valori. Esso elabora un vero e proprio mito di Firenze come erede e
continuatrice dello splendore e della libertà dell’antica repubblicana romana. Nacque così la " Fiorentina libertas", cioè la libertà
fiorentina che era una continuità della repubblica romana che era in antitesi con l'assolutismo accentratore degli alti stati
italiani. Due figure più rappresentative di questo periodo sono sicuramente Coluccio Salutati e Leonardo Bruni. Il primo
sosteneva che la cultura classica forma l'uomo colto e civile , capace di scegliere tramite il proprio intelletto e degno di
intervenire attivamente nella vita pubblica, il secondo diceva che l'uomo si completa con la natura solo all'interno delle
istituzioni sociali e nella vita. Nello scontro, tra la fine del 300’ e del 400’, oppone Firenze al ducato di Milano, gli umanisti
fiorentini contrappongono ai Visconti, per la libertà fiorentina.  Alla fine del XIII sec., a Milano, Matteo I Visconti divenne
capitano del popolo e conquistò il potere della città. Milano divenne così una signoria, seppur senza un riconoscimento ufficiale.
Solo con Gian Galeazzo Milano raggiunse il massimo splendore sotto la dinastia Visconti; in questo periodo iniziò la costruzione
del duomo e della certosa di Pavia, allora sotto il dominio dello Stato visconteo. Filippo Maria riuscì a riunire nelle sue mani il
potere ereditato dal padre e grazie al matrimonio con Beatrice di Tenda, si assicurò le terre piemontesi e un esercito ben
preparato. Al Servizio dei Visconti e poi degli Sforza passò gran parte della sua vita un personaggio, Francesco Filelfo, un vero
rappresentante dell’opportunismo letterario, elaborando la letteratura solo per il suo interesse personale.
L’umanesimo cristiano della Curia romana è particolarmente ferace nell’età che va da Niccolò V (1447-1455) a Giulio II (1503-
1513). La maggior parte degli umanisti è strutturata nella Cancelleria apostolica, con l’incarico di redigere le lettere papali e le
bolle solenni. La ricezione di Dante, durante il papato di Giulio II (1503-1513), si configura all’interno del neoplatonismo
dominante, come dimostra la Stanza della Segnatura, affrescata da Raffaello Sanzio. Dante è rappresentato due volte, in un
contesto figurativo ad prescriptum Iulii pontificis, glorificante le Idee del Vero, del Bene, del Bello. Nel Trionfo della Chiesa Dante
è tra i Teologi, nel Parnaso tra i Poeti, mentre la teologia in forma di Donna, affrescata nella volta, richiama i colori di Beatrice
di Purgatorio, XXX, 31-33, «Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma
viva». I due secoli che separano il papato di Pio II (1458-1464) dal papato di Alessandro VII (1655-1667) sono cruciali per
l’umanesimo cristiano, perché nel Cinquecento si abbatte sulla Curia romana lo tsunami della Riforma. Tutto l’impianto
dottrinale, che nel papato di Pio II si era perfettamente configurato nel suo dantismo, subisce una tale offensiva che nemmeno
lo scudo dell’arte e della cultura può servire a difenderlo, anzi proprio il mecenatismo artistico è visto come la fonte di tutti i
mali. Il Dantismo del Cinquecento è decisamente minoritario rispetto al Petrarchismo, ma ecco che, col pontificato di
Alessandro VII, si genera una splendida e nuova stagione dell’umanesimo cristiano dantesco, perfettamente contestualizzato
nell’estetica della Controriforma. Lo stile del Papa senese cambia notevolmente la concezione della cultura e della vita cristiana,
che muta già agli inizi del Seicento. L’iter culturale e spirituale di Alessandro VII confluisce in un programma, che si potrebbe
sintetizzare nella formula Del congiungere le gemme de’ gentili con la sapientia de’ christiani: dall’amore per i poeti greco-latini,
testimoniato dalla raccolta di rime Phìlomati musae iuvenilis (Anversa 1654), all’aristotelismo teologico degli anni universitari,
sotto l’egida del commento alla Summa tomistica del gesuita Francisco Suàrez; dalla vena di una pietas autentica, alimentata
dall’Introduzione alla vita devota di Francesco di Sales, da lui canonizzato nel 1665, alla filosofia morale di Virgilio Malvezzi, suo
intimo e sodale, autore de Il ritratto del privato politico cristiano (1635). Il progetto di Alessandro VII porta a compimento
l’immagine della Roma moderna, seguendo i percorsi estetici dell’Europa contemporanea, come dimostra il genio artistico e
architettonico di Gian Lorenzo Bernini. Dal diario di Alessandro conosciamo il suo coinvolgimento nel cenacolo intellettuale di
cui è caposcuola: la Pleiade alessandrina, un gruppo di poeti, eruditi, filologi, filosofi e bibliofili.
L’interprete della spiritualità papale è il cardinale Pietro Sforza Pallavicino, la cui teoria della letteratura, un audace
compromesso tra scolastica e naturalismo, può essere definita dantesca, nell’accordo tra Poetica e sensismo aristotelico e
nella connotazione morale e razionale dello Stile. Si vedano Arte della perfezione cristiana e Del Bene (1644), in cui la poesia
ha un fine morale: è questo il discrimine tra Antichi e Moderni ma anche il loro punto di congiunzione. La filologia dantesca si
esprime in Federico Ubaldini che lascia, nel Fondo Chigi della Biblioteca vaticana, una mole immensa di appunti sulla lingua e
lo stile della Commedia, di estrema modernità. In un secolo in cui ci furono solo tre edizioni della Commedia (Vicenza 1613,
Padova 1629, Venezia 1629), Ubaldini vuole risalire al valore originale della parola di Dante; la sua opera esprime fedelmente il
triangolo culturale alessandrino i cui apici portano il nome di mecenatismo, erudizione, bibliofilia, quest’ultima egregiamente
rappresentata da Lucas Holstenius, bibliotecario del cardinale Francesco Barberini e poi custode della Biblioteca Apostolica
vaticana. A lui Alessandro VII affida l’incarico di trasferire in Vaticana i codici urbinati, mentre in prima persona opera una
scelta tra i manoscritti senesi delle biblioteche di Pio II e Pio III e si procura i codici appartenuti a Celso Cittadini; volendo
creare una biblioteca personale, segue lo schema delle grandi biblioteche romane come la Vallicelliana o l’Angelica, fonda la
biblioteca Alessandrina (circa 20.000 volumi), donata allo Studium Urbis di Sant’Ivo alla Sapienza, con bolla papale del 21
aprile 1667, e la Chigiana, che, dopo alterne vicende, costituisce oggi il Fondo Chigi della Biblioteca Apostolica vaticana.
È questo Fondo uno scrigno di tesori danteschi che testimonia concretamente il dantismo di Alessandro VII: manoscritti
riguardanti la Commedia, le opere minori dantesche, i Commenti antichi e moderni, le Vite di Dante di Boccaccio e Bruni,
le Difese di Dante, le fonti mistico-teologiche di Dante (opere di san Tommaso, san Bernardo, san Bonaventura, Alberto
Magno, Pietro Comestore), ma anche quelle scientifico-matematiche, come il Tractatus de Sphera di Giovanni da Sacrobosco,
con la mirabile “geografia” del Paradiso, o la Practica geometrie di Leonardo Fibonacci, o la traduzione di Avicenna, fatta da
Michele Scoto dall’arabo al latino, con dedica a Federico ii di Svevia. Il filologo Lorenzo Valla (1407-1457) apre così il suo
opuscolo Sulla donazione di Costantino, attribuita e falsificata: una denuncia tagliente e spaventosamente gravida di
conseguenze che fu pubblicata solo sessant’anni dopo la morte del suo autore. La Chiesa aveva giustificato fino a quel
momento il proprio potere temporale attraverso un documento che avrebbe attestato la presunta donazione dei domini
dell’Impero Romano d’Occidente da parte dell’imperatore Costantino a papa Silvestro I, in data 30 marzo 315 d.C. 
Costantino era stato cristiano, vero, ma la sua conversione era stata strumentale, dettata dalla volontà di avere a
disposizione uno strumento di controllo su un potere politico ormai in espansione, quello della Chiesa. In ogni caso,
papa Silvestro, rappresentante di Cristo in terra, avrebbe dovuto rifiutarlo. Ma si analizzino ora le incoerenze oggettive: la
lingua. La lingua della Donazione riflette un latino barbarizzato, non quello adoperato ancora nei documenti e nella letteratura
occidentale del IV secolo. E ancora, nel testo del documento – che, ribadiamo, sarebbe datato al 315 – si fa riferimento a
Costantinopoli, che fu fondata con questo nome solo nel 330 d.C., quindici anni dopo. Come un detective a caccia di prove
schiaccianti, Valla sottolinea come, ad esempio, nel testo si faccia riferimento a un diadema d’oro e tempestato di pietre
preziose, quando, ai tempi di Costantino, la corona imperiale era fatta di seta e stoffe: il falsario aveva presente i gioielli dei
sovrani del suo tempo ed è caduto così in errore. Il caso è risolto: la Donazione è un falso storico prodotto nell’VIII secolo da
uno Stato pontificio e da un’accresciuta autorità papale che avevano bisogno di giustificare i propri interessi per il potere
terreno. E per cogliere in fallo il falsario, Valla si rifà ad argomenti di ordine storico-politico e linguistico, in una parola,
argomenti di ordine filologico. La Donazione «non serve a nulla per la storia del secolo IV, ma serve moltissimo per quella del
secolo VIII»[2]: ci racconta le esigenze e i limiti di un potere politico crescente, riflette le critiche del mondo laico e i peccati di
uomini ‘santissimi’. Ci racconta quali fossero i valori di un secolo lontano, le istanze di persone potenti e le richieste di chi da
quel potere si vedeva privato di qualcosa. Il falso – un non vero progettato e coscientemente creato – ci racconta una realtà
desiderata, sogni e speranze del suo falsario e contro il falso, esiste solo una cura: ovvero la filologia. La filologia di Valle indica
la strada di un umanesimo laico e critico, che fa leva sulla razionalità della parola, nella sua capacità di smascherare errori e
mistificazioni e di costruire una verità tollerante, cercando un Cristianesimo più autentico, che si affidi alla fede in Dio, ma
sappia riconoscere il valore degli istinti e dei valori naturali dell’uomo. Leon Battista Alberti fu colui a riconoscere alle arti il
valore di compiuta espressione dell’uomo e progetta e fa realizzare alcune delle più importanti opere di architettura del secolo
XV: afferma così in tutta la sua pienezza il legame con l’Umanesimo, studio dell’antico e del lavoro artistico. In ogni suo
impegno intellettuale emerge allora di continuo una sfida: egli è sempre in lotta contro la realtà che resiste all’intelligenza
umana. Per ciò che riguarda la lingua scritta, Alberti afferma senza esitazioni la dignità del volgare come lingua autentica di
comunicazione. Compone scritti sia in latino, che in volgare, inaugurando il cosiddetto Umanesimo volgare.
Egli nacque a Genova nel 1404, da una famiglia mercantile fiorentina esiliata fin dal 1337: durante l’adolescenza e la giovinezza
ebbe rapporti difficili con la famiglia, tutto ciò fu aggravato dalla condizioni di esilio della famiglia. La sua biografia si configura
essenzialmente come un passaggio dal mondi mercantile delle famiglie alle strutture della Chiesa: egli può realizzare i propri
interessi intellettuali, grazie alla relativa libertà e al prestigio che gli sono garantiti dalla condizione di chierico. I primi scritti
dell’Alberti mettono in primo piano il problema della condizione dello studioso nel mondo contemporaneo e delle difficoltà che
egli incontra nella vita sociale. In vari periodi, l’Alberti indirizzò a numerosi amici e scrittori brevi prose in latino, che chiamò
Interconales: la vita quotidiana, viene osservata dall’autore con amarezza e indifferenza, tra la volontà di interpretare fatti e
situazioni in chiave morale e la tentazione di svalutarli, dove il mondo sembra apparire privo di senso e di valore. Il Defenctus
(defunto), narra di un uomo morto che può osservare i comportamenti di familiari e amici verso la sua salma e verso la sua
memoria, e scopre così la loro falsità e ipocrisia. Più noti sono i Quattro libri della famiglia, dove la famiglia è vista come il più
essenziale nucleo sociale, punto di riferimento assoluto per l’esistenza materiale e spirituale dell’individuo. Questo valore viene
affidato all’esercizio della virtù, che sola permette di resistere all’azione imprevedibile e capricciosa della fortuna. Ma molti
dubbi assalgono i vari personaggi del dialogo, costretti a riconoscere che non si dà nessuna regola veramente assoluta e
definitiva; così, l’Alberti non può elaborare una vera scienza della vita familiare, ma ribadisce gli schemi della tradizione morale
mercantile, basata sull’utile e sulla pratica. Più originale è la tematica del libro IV, dove l’autore parla dunque dell’amicizia,
interpretata non come valore assoluto ma come un rapporto di tipo pratico, uno strumento di coesione sociale, interrogandosi
sugli intrecci riguardanti la fiducia reciproca tra gli individui e di come si ottiene l’amicizia tra loro. Dal punto di vista linguistico,
questi dialoghi costituiscono il primo tentativo di creare una lingua volgare collegata sia al latino umanistico sia alla prosa
mercantile, costruendo una lingua che non coincide perfettamente con la tradizione toscana, ma cerca un ampio orizzonte
italiano. Tra gli scritti latini ricordiamo gli Apologi, Il Momus: quest’ultimo narra di una curiosa narrazione fantastica, ricca di
spirito aggressivo e di allusioni al mondo contemporaneo difficilmente identificabili. Attraverso la favola di Mono (mutevole dio
della maldicenza), l’autore sviluppa una critica della vita sociale e politica, delle istituzioni dominanti dalla follia e dall’inganno.
L’autore presta inoltre una particolare attenzione per l’arte e per la sua trattatistica, ricordando opere come il De Pictura, dove
vengono applicati i principi della retorica e poetica; il De Aedificatoria, un monumentale trattato composto nel 1455.
Dopo la morte di Cosimo de Medici e del figlio Piero, il controllo di Firenze passò nelle mani al giovane figlio Piero, Lorenzo, a
cui fu dato l’appellativo di Magnifico: figlio di Piero il Gottoso e Lucrezia Tornabuoni, fu considerato come esponente più noto e
amato di tutta la famiglia Medici, incarnando le virtù dell’uomo rinascimentale. Fu poeta, mecenate e umanista; nacque a
Firenze nel 1449, nel Palazzo Medici. In questo periodo registriamo l’apice del potere della famiglia di Lorenzo; Cosimo il
Vecchio riuscì a legare a sé diversi politici, raccogliendo sempre più consensi popolari. Sia Lorenzo che il fratello Giuliano,
acquisirono una grande cultura umanistica, sotto il controllo del nonno Cosimo e dei genitori; in particolare la madre, donna
molto acculturata, grazie alla quale riuscì a sviluppare un enorme interesse per l’umanesimo e per le arti. La sua adolescenza fu
accompagnata da una moltitudine di filosofi, come Ficino, Landino ecc. Nonostante la giovane età, il nonno Cosimo si affezionò
moltissimo al poeta, conversando con lui innumerevoli volte. Lorenzo ebbe solo 16 anni, quando nel 1463 morì: il fratello Piero,
non ebbe la capacità di governare, in quanto soffriva di gotta e dunque aveva una salute cagionevole. Così Cosimo de Medici,
aveva designato Giovanni come suo successore, il quale però morì prematuramente; afflitto dal problema della successione,
decise di porre tutto nelle mani dei nipoti Lorenzo e Giuliano, di cui il figlio Piero si sarebbe occupato della loro disciplina e
conoscenza. Con la morte di Cosimo, Piero il Gottoso salì al potere; prima però di fare il suo ingresso nella vita politica, decise di
affidare a Lorenzo alcune missioni diplomatiche in città come Milano, Genova, Napoli, acquisendo così una visione della politica
generale della penisola italiana. Ma la situazione interna vide l’ingresso del partito antimediceo, dopo la morte di Francesco
Sforza di Milano, alleato coi Medici e per la situazione finanziare di Piero, non vista di buon occhio. Venne così organizzata una
congiura; il ricco Luca Pitti, organizzò un mandato di uccisione per Piero, il quale però venne a conoscenza di tale piano. Quindi,
attraverso l’aiuto di 2.000 soldati mandati dal nuovo duca di Milano, Galeazzo Sforza, riuscì a ripristinare la sua autorità. Piero
De Medici presentò Lorenzo come suo successore, accompagnato dal fratello Giuliano: verranno presto celebrate le nozze tra
Lorenzo e Clarice Orsini, donna appartenente alla nobiltà romana, scelta dalla madre Lucrezia. Il progetto matrimoniale ebbe
grandi vantaggi, dal punto di vista economico e politico; l’unione fu celebrata nel 1469 con rito religioso a Firenze, da grandi
festeggiamenti. Al contempo, egli portò avanti la relazione con una donna, dal nome di Lucrezia Donati, alla quale dedicò molti
sonetti: si trattava di un amore platonico ma il quale, sicuramente, si spinse oltre a quello. Contrariamente a Lorenzo, Clarice
era un estrema religiosa; non ebbe grande conoscenza della letteratura umanistica.
Vi sono delle opinioni discordanti riguardante questa coppia ma, senza dubbio, il ruolo di Lorenzo nel compiere i propri doveri
coniugali non fu tralasciato: concepirono ben 10 figli, tra i quali ricordiamo il futuro papa Leone X. Morto il padre Piero, Lorenzio
ricevette il controllo della città fiorentina, affiancato dal fratello Giuliano. La madre Lucrezia, gli fece da consigliere; e così come
il padre e il nonno, anche Lorenzo non volle accettare ufficialmente il potere ma volle essere considerato un semplice cittadino
ma di fatto, accentrò il potere nelle proprie mani della città. Si assicurò l’appoggio da parte delle grandi famiglie fiorentine,
ridimensionando il potere delle istituzioni; ma presto, i nemici dei Medici complottarono con Borso d’Este per abbattere i
Medici e la città. Ma le truppe mandate da Lorenzo, in tempo, furono mandate a liberare Prato e la ribellione fu spenta.
Nonostante i successi il politica sia estera che interna, il potere della famiglia Medici era ancora oggetto di attrito; i legami con la
Curia di Roma erano rimasti saldi, fin quando però papa Sisto IV, volle estendere il proprio potere sino alla Romagna, volendo
occupare dei territori vicini al territorio fiorentino;. Lorenzo, essendo il banchiere del Vaticano, decise di negare al Papa di
negare alcuni prestiti, per conquistare Imola dalla famiglia Sforza di Milano, in nome dell’alleanza stipulata tra Milano-Genova-
Firenze. Tutto ciò portò al disgregarsi dei rapporti tra Lorenzo il Magnifico e lo stato della Chiesa; tutto ciò portò al Papa nel
tessere degli intrighi contro i Medici, stabilendo rapporti con i Pazzi, famiglia nemica della famiglia medicea. Nell’agosto 1459, la
sorella di Lorenzo, Bianca sposò Guglielmo De Pazzi, sugellando un’alleanza tra le due famiglie. L’astio tra le due famiglie, era
procurata da un’antica legge retroattiva, dove le figlie furono private dall’eredità e ostacolando la famiglia Pazzi, dal punto di
vista economico. Morto Galeazzo Sforza, la famiglia Medici subì un grande indebolimento, dovuto al progressivo diminuire di
risorse da parte della famiglia Sforza; approfittandosi di questo indebolimento, i nemici di Lorenzo organizzarono una congiura,
attraverso l’aiuto di Papa Sisto e altri oppositori. Il primo tentativo fu fallimentare mentre il giorno successivo, durante una
messa del 1478, nella cattedrale di Santa Maria Del Fiore, i fratelli Medici furono aggrediti: ciò provocò la morte di Giuliano De
Medici, da parte della famiglia Pazzi. Lorenzo fu ferito in modo lieve, ma riuscì a ripararsi in sacrestia, grazie all’aiuto di un
amico. Il pubblico si sollevò contro la famiglia de Pazzi, appoggiando pienamente Lorenzo, il quale portò avanti delle terribili
esecuzioni in Piazza della Signoria, a cominciare da Iacopo e Francesco de Pazzi, catturati mentre tentavano la fuga da Firenze.
La perdita di Giuliano, provocò un enorme malessere interiore alla figura di Lorenzo, il quale venne a conoscenza di un figlio
illegittimo del fratello, tenendolo con sé e procurandogli una splendida educazione.
Successivamente intraprese la carriera ecclesiastica, divenendo papa col nome di Clemente VII. Sisto IV, indignato dal
comportamento di Lorenzo, decise di mandare una scomunica contro quest’ultimo, chiudendo e facendo arrestare i membri del
banco mediceo romano. Si alleò con Ferdinando I di Napoli, mentre Lorenzo sostenuto dai cittadini e dal clero toscano, di dedicò
alla preparazione della difesa miliare, con Milano e Venezia. Ma dopo la conquista di Colle Val D’Elsa, Lorenzo lasciò Firenze e si
recò a Napoli, presso Ferdinando I: grazie alla sua diplomazia, riuscì a conquistare la sua fiducia e ritirò le sue truppe dalla
Toscana. Tornato a Firenze, fu accolto dal pubblico come il Salvatore della Patria e Sisto IV, decise di scogliere la scomunica e di
dichiarare tregue al comune fiorentino. La figura di Lorenzo si impose su tutta la penisola italiana, consacrando un ambiente di
pace generale; il suo nome fu legato al massimo splendore al rinascimento fiorentino, con una celebrazione delle arti senza
uguali. Lorenzo si circondò da un ambiente dai connotati colti, eleganti e ricercati e la sua corte, fu circondata da una moltitudine
di intellettuali, artisti e scrittori; diede forza e vigore all’Accademia neoplatonica di Careggi fondata da Cosimo il Vecchio, il
nonno. La passione per la scrittura lo accompagnò per tutta la vita, distinguendosi per la creazioni di opere civile, ottenendo
l’appoggio da parte del popolo. Entrò in contatto con molti artisti, ricordando Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci; Le
frequentazioni di Botticelli nella cerchia della famiglia dei Medici furono indubbiamente utili per garantirgli protezione e le
numerose commissioni eseguite nell'arco di circa vent'anni. Nel 1478, dopo la congiura dei Pazzi in cui morì lo stesso
Giuliano, a Botticelli fu chiesto di effigiare come appesi i condannati in contumacia su cartelloni da attaccare sul Palazzo
della Signoria, lato Porta della Dogana, come anni prima aveva fatto Andrea del Castagno nel 1440 per il complotto
antimediceo degli Albizi, che era valso all'artista in soprannome di "Andrea degli Impiccati". Chiaro è come Sandro avesse
pienamente abbracciato la causa dei Medici, che lo accolsero sotto la loro ala dandogli la possibilità di creare opere di
grandissimo prestigio.
Particolarmente interessante per questo periodo è l'Adorazione dei Magi (1475), dipinta per la cappella funeraria di Gaspare
Zanobi del Lama in Santa Maria Novella. Botticelli inserì, anche per volere del committente, un cortigiano dei Medici, i
ritratti dei membri della famiglia, per cui si riconoscono Cosimo il Vecchio ed i suoi figli Piero e Giovanni, mentre Lorenzo il
Magnifico, Giuliano de' Medici e altri personaggi della corte medicea sono ritratti tra gli astanti, disposti ai lati a formare due
quinte, raccordate dalle figure dei due Magi in primo piano al centro.
Adorazione
dei Magi
•Sandro Botticelli
Arrivò a fondare nel giardino di San Marco, la prima accademia artistica che la storia italiana ricorda, dove furono accolti
numerosi artisti, derivando dalle botteghe del Ghirlandaio e del Verrocchio. Michelangelo Buonarroti colpì notevolmente
l’interesse e la curiosità del Magnifico; il suo operato si estende per tutta la città di Firenze, il quale, dopo un lungo soggiorno a
Roma, decise di tornare presso la città fiorentina, dove gli fu commissionato il suo più grande capolavoro: il David (1501-1504).
Leonardo Da Vinci, per il suo genio e inventiva artistica, sarà presentato dal Magnifico agli Sforza di Milano: in questa città,
realizzò la Vergine delle Rocce e poi l’Ultima Cena. Dovuto all’astio tuttavia presente tra il Magnifico e papa Sisto IV, mandò
Botticelli e il Perugino, per affrescare le pareti della Cappella Sistina, la cui immensa bellezza sarà completata dall’opera
centrale, ovvero il Giudizio Universale di Michelangelo (Sistina per Sisto IV). Successivamente moriranno sia la madre, che la
moglie e anche papa Sisto IV, il quale sarà succeduto da Innocenzo VIII, col quale fu legato da un rapporto di ammirazione
reciproca. Approfittando della situazione, decise di proporre come successore al suo pontificio, il figlio Giovanni (Leone X). Il
suo potere crebbe ulteriormente, dal punto di vista politico, culturale: mescolando istanze private con quelle pubbliche ed
estraendo fondi dalle casse dello stato, ciò provocò problemi gravi dal punto di vista economico. Gli ultimi anni del suo regno
furono segnati, sì da una grande stima verso la sua figura ma anche dalla censura morale divulgata dal frate Girolamo
Savonarola, considerando il lusso una forma di depravazione, invitando gli uomini a recuperare fede e rigore. Negli anni
successivi, la sua salute andò peggiorando, sino a spegnersi nell’8 aprile 1492, circondato dagli amici più cari. La sua
scomparsa provocò uno stato di sgomento e di dolore: la sua salma fu portata nel convento di San Marco e poi nella basilica di
San Lorenzo. Le sue spoglie e quelle del fratello Giuliano saranno deposte nella sacrestia nuova, in un sarcofago preparato da
Michelangelo. Dopo la sua morte, Caterina Sforza disse: ‘Natura non produrrà mai più un simile uomo.’ Petrarca e i primi
umanisti avevano guardato a Platone come maestro di filosofia morale, da contrapporre ai sistemi metafisici della filosofia
aristotelica; il platonismo della seconda metà del 400’ ricava anche da Platone una visione generale dell’universo,
richiamandosi anche alla filosofia del Plotino, alla tradizione neoplatonica che aveva percorso tutto il Medioevo ed altre
antiche tradizioni orientali. Già gli anni di Cosimo de Medici vedono la diffusione in Firenze di un vivace interesse per il
platonismo, i cui frutti vengono raccolti da Marsilio Ficino: nella sua villa di Careggi, donatagli da Cosimo nel 62’, si riunì un
circolo di studiosi e amici, a cui fa attributo l’appellativo di Accademia Platonica.
Ficino tradusse in latino molti testi di Platone e della tradizione neoplatonica; legato al potere mediceo, il Ficino volle fare della
sua filosofia un modello di vita per il gruppo degli scrittori e studiosi che si riunivano intorno a Lorenzo; si trattava per lui di far
convergere tutte le tradizioni religiose e filosofiche dell’antichità, considerate concordanti col Cristianesimo, in una phia
philosophia. Per Ficino l’uomo può sfuggire alla miseria e alla desolazione dell’esistenza, se scopre, attraverso la
contemplazione, il significato più autentico della vita dell’universo, e se comunica con lo spirito divino, innalzandosi sino alla
visione di Dio. L’amore da Ficino, viene considerato strumento fondamentale per il compimento di questo processo e la natura
animata, mossa dalla musica divina, può essere dominata dall’uomo, animale perfetto: la magia e l’astrologia sono strumenti
essenziali per inserirsi nel flusso armonico. Le sue opere, diffuse in tutta Europea, saranno alla base delle nuove teorie d’amore
e di essenziali tendenze filosofiche del secolo XVI, fino a Bruno e a Campanella.

Luigi Pulci:
Mentre Ficino mira a far convergere la natura, la storia, le religioni in una sintesi assoluta animata dall’impulso dell’amore, la
ricerca di una continuità con la tradizione volgare fiorentina dava vita a un modello opposto, basato su un linguaggio basso,
radicato nel mondo quotidiano. Nei primi anni della Signoria di Lorenzo, Luigi Pulci rappresenta in modo originale questa
continuità, opponendosi alle teorie platoniche del Ficino. Quest’ultimo non condusse una vita tranquilla da studioso, ma vive di
un’esistenza agitata e disorientata che lo porta a scontrarsi con mille problemi e difficoltà: la famiglia è particolarmente
impoverita. Luigi ricevette una normale educazione letteraria, basata sulla conoscenza del latino e dei maggiori poeti volgari.
Dopo una giovinezza di espedienti, incominciò a frequentare il palazzo Medici, facendo valere il suo gusto per l’espressione
vivace e aggressiva, per un linguaggio comico legato al gesto immediato. Anche nei rapporti coi Medici, amava assumere
movimenti bruschi e scherzosi, divertendosi a trasformare ogni atteggiamento quotidiano in occasione di gioco; amava recitare
in pubblico, manipolando il linguaggio fino a farlo esplodere. Mirava ad una letteratura giocosa, la quale potesse convertirsi
nell’espressione tipica della cerchia o brigata medicea. Compilò numerosi raccolte di vocaboli, ad esempio un piccolo dizionario
di lingua fiabesca. Dal rapporto con Lorenzo sono interessante testimonianza le lettere che Pulci scrisse durante alcuni viaggi:
sono lettere in cui la realtà viene espressa in modo grottesco e gli eventi del mondo sono considerati bizzari.
Per il suo poema, il ‘Morgante’ fece diretto uso dei cantari precedenti, traendo la materia che avrebbe costituito la prima parte
di un anonimo cantare, scritto forse intorno al 1450, ritrovato solo nell’800’ e intitolato dagli studiosi Orlando. Seguendo gli
schemi narrativi propri dei cantari, nel Morgante si ripete tutta una serie di formule fisse che servono a chiamare in causa gli
ascoltatori. Il mondo degli eventi narrati si presenta come un grande spettacolo, dove tra rapidi esecuzioni e movimenti, ogni
gesto appare come eccesivo, sproporzionato e la narrazione spesso risulta confusa. Gano è il traditore manico, che si ostina fino
all’assurdo a ordire inganni, Carlo Magno è un vecchio, che ogni volta perdona senza motivo i tradimenti di Gano, e i Paladini
sono immagini di forza e di valore sovraumani, che si divertono a fare a pezzi stuoli di nemici: i pagani appaiono ottusi e maligni,
ma capaci di improvvisi sentimenti di cortesia e di lealtà. L’autore non giustifica i comportamenti dei personaggi, ma aspira a
mettere in risalto atti fuori da ogni misura. In realtà la funzione di questo farraginoso materiale narrativo è di fornire situazioni
che stimolino la passione linguistica di Pulci e permettano alla sua voce di avvolgersi attorno alle cose, ricavandone effetti strani
e bizzarri. Con perverso divertimento, l’autore descrive scene di battaglia con immagini legate al cibo, dove tutto diventa
commestibile. Emerge un modo selvaggio, dove ci si muove soltanto aggredendo o lasciandosi aggredire. La sproporzione
domina tutto il poema. Non a caso il gigante Morgante è il personaggio più caratteristico dell’opera: pagano sconfitto da
Orlando, convertito al Cristianesimo e divenuto fedele scudiero del paladino, è armato di un battaglio di campana e si fa
protagonista di una serie di avventure segnate da una furia distruttiva. Immagine di ciò che è eccessivo e smisurato, Morgante
partecipa alla più umile realtà quotidiana. Anche il racconto della morte si regge su una sproporzione: dopo aver salvato da un
naufragio i Paladini, sostituendosi all’albero della nave, e aver ucciso una balena, egli muore per la puntura di un granchio. Sulla
dismisura è basato sul resto anche l’episodio più celebre del poema: quello dell’incontro di Morgante con un gigante-nano, cioè
Margutte. I due vivono avventure dominate da una voracità alimentare, vagando per le strade del mondo sino alla morte di
Margutte, causata da un attacco di risa per una bertuccia che si è impadronita dei suoi stivali: il suo comportamento risulta
estraneo ad ogni ordine e razionalità. Pulci usa un linguaggio di origine popolare, creando un modo dominato dalla
sproporzione, dall’eccesso e dall’irrazionalità, rischiando di cadere nella superficialità, in una cinica indifferenza verso i
contenuti.  La lingua non è quella dolce e piana dello stile alto dello Stilnovo e della lirica amorosa, ma una lingua aspra e dura,
che sceglie i termini volgari della lingua parlata.
Cercò quasi di trasferire il linguaggio della piazza popolare e borghese fiorentina all’interno del palazzo signorile, ponendosi
così agli antipodi dei modelli umanistici. Il Morgante non ebbe però il successo sperato, in quanto, nella corte medicea,
dominava il platonismo di Ficino e il nuovo umanesimo del Poliziano. Pulci decise di aggiungere cinque cantari all’edizione
dell’83’, intendendo passare al contrattacco nei confronti dell’ambiente culturale dominante a Firenze dopo il 73-74’. Allo scopo
di giustificare le proprie scelte, inserì numerosi accenni alla propria persona e a personaggi autorevoli, esibendo varie
manifestazioni di pietà religiosa. Tuttavia anche in questi ultimi cinque cantari, il ritmo risultava lento e discontinuo. Il suo
progetto di far prevalere un modello comico di scrittura veniva sconfitto, benché il fascino del suo poema e della sua stessa
figura di irregolare, fossero destinati a resistere a lungo nella letteratura italiana e fiorentina, anche se in una posizione del
tutto marginale.

Lorenzo De Medici:
Delle personalità di Lorenzo de Medici, viene evidenziata in particolar modo la sua formazione, la quale risentì di moltissime
influenze. Per i Medici, e per il vecchio Cosimo in particolare, sostenere il lavoro degli umanisti significava controllare il senso
stesso del presente, vivere il potere come suprema espressione dell’uomo. Quando nel 1469, a soli vent’anni, Lorenzo si trova
ad avere in mano lo stato fiorentino, egli ha già maturato la sua passione letteraria, alla quale non rinuncerà per il resto della
vita. Il suo non è semplicemente l’atteggiamento del principe che protegge artisti e letterati, ma non coglie il senso del loro
lavoro e lo comprende solo in senso superficiale. Poeta e scrittore in primo piano, Lorenzo fu infatti un signore che ha piena
conoscenza dei significati e delle ispirazioni di questa cultura, conosciuta come Umanesimo. Da questo punto di vista, tutta la
cultura di Firenze laurenziana appare come l’espansione del sogno umanistico, garantita da una grande personalità che fa
coincidere in sé il signore e l’intellettuale. Tutta l’attività letteraria del Magnifico va valutata sullo sfondo di questo ambizioso
progetto, in cui la cultura tende a identificarsi con il potere. Lorenzo compì numerose opere, fatta di un intreccio di molteplici
esperienze; ma queste opere, risultano la maggior parte incompiute. Egli mira sostanzialmente a rivitalizzare la tradizione
volgare fiorentina, risalendo ai grandi autori del 300’ e cercando a un tempo nuove vie, rese possibili dal culto umanistico dei
classici.
Altrettanto importante fu l'attività di mecenate svolta in campo più propriamente artistico, dal momento che la corte di
Lorenzo raccolse una nutrita cerchia coi più significativi pittori attivi nell'ultimo Quattrocento (i nomi più rilevanti furono quelli
del Ghirlandaio, del Pollaiolo, del Verrocchio e soprattutto di Sandro Botticelli, il più attivo esecutore di opere celebrative della
famiglia Medici e della sua potenza). Botticelli realizzò diverse opere su diretta committenza dei Medici, tra cui spiccano
specialmente la Primavera (1478) e la Nascita di Venere (1485), interessanti per il collegamento con l'opera contemporanea di
Poliziano (il volto femminile delle protagoniste sembra ispirato a quello di Simonetta Cattaneo, la donna amata da Lorenzo e
Giuliano protagonista delle Stanze, per cui si veda oltre). Notevole è la sua abilità nel passare da uno stile ad un altro, volendosi
identificate con tutte le varianti della letteratura fiorentina contemporanea, recita tutte le parti possibili. Ma, sotto questa
disponibilità, si avverte sempre l’insoddisfazione di non avere una voce propria e originale, come nell’impossibilità di affare sé
stesso. La produzione letteraria di Lorenzo de’ Medici è varia, basata su esperienze diverse.
Lorenzo dimostra una grande abilità nel passare da uno stile all’altro e da un genere all’altro, ma pecca nell’affermare una voce
propria e autenticamente originale. Le opere vengono più volte rimaneggiate e corrette ed alcune non raggiungono mai una
redazione definitiva e rimangono incompiute. Lorenzo de Medici inizia la sua attività letteraria ancora prima del suo avvento
alla Signoria. In questa prima fase si impegna in con liriche di ascendenza petrarchesca legate all’amore per Lucrezia Donati
(il Canzoniere) ma anche con poesie comico-burlesche come la celebre Nencia da Barberino, idillio rusticano, realistico e
popolareggiante. Tra i poemetti burleschi due si ispirano a eventi giocosi della vita fiorentina: Simposio (detto anche I beoni),
terzine comiche e caricaturali sui più accaniti bevitori fiorentini e Uccellagione di starne, resoconto in ottave di una battuta di
caccia.. Anche negli anni a seguire, nonostante il carico dell’azione politica dovuta al suo ruolo di governo della Signoria di
Firenze, Lorenzo continua a scrivere di tutto. Scrive componimenti che si avvicinano e traggono spunto dai modelli di Poliziano,
poeta della corte medicea, come l’incompiuto Ambra, poemetto classicheggiante in ottave e l’ecloga in terza rima Amori di
Venere e Marte. Queste opere testimoniano il propendere di Lorenzo anche verso un certo naturalismo classicistico.
Lorenzo si impegna anche in una letteratura di devozione popolare scrivendo varie laude  e mettendo in scena anche
una Rappresentazione di san Giovanni e Paolo. Un altro genere letterario che Lorenzo de’ Medici favorisce e a cui si dedica è
quello dei Canti carnascialeschi, espressione della piena maturità artistica di Lorenzo..
..come la celeberrima Canzona di Bacco (detta anche Trionfo di Bacco e Arianna) composta probabilmente per una sfilata di
personaggi rappresentanti il corteo di Bacco nel carnevale del 1490. Questa disposizione ad alternare scritti di devozione
religiosa a componimenti di ebbrezza pagana testimoniano l’ambigua e complessa personalità di Lorenzo il Magnifico. Le opere
del Lorenzo possono essere divise in tre grandi gruppi: quelle che riguardano l'amore e gli insegnamenti inerenti a questo
argomento; quelle di intonazione popolare, scanzonate e briose, ma temperate dalla raffinata ironia dell'autore ("Canti
Carnascialeschi", "I trionfi", "Canzoni a Ballo", "L'Uccellagione", "La Nencia da Barberino"); le opere di devozione ("Laudi
Spirituali" e la Rappresentazione dei santi Giovanni e Paolo). Le rime rientrano nel primo grande gruppo di opere e trattano
principalmente l'argomento amoroso. Con questa produzione Lorenzo riprende e richiama la poesia amorosa del due-trecento,
non solo gli stilemi formali del tempo, riprendendo formule stilistiche del "dolce stil novo" ma anche riproponendo le
tematiche dell'amore vicine a quello platonico, idealizzato e totalizzante, distaccato dal fervore carnale, attento alla sola
contemplazione della bellezza fine a se stessa. L'interesse per questo filone mosse anche dalla ammirazione di Lorenzo per i
suoi "modelli" come Dante e Petrarca: anch'egli infatti desidera riproporre il volgare per trattare temi di tale importanza, a
testimonianza della pari considerazione che aveva per le due lingue, appunto il latino ed il volgare. In Lorenzo de' Medici risulta
ben chiara la concezione amorosa, che emerge dalla famosa ballata dei "Canti carnascialeschi" "Trionfo di Bacco e Arianna". Il
Magnifico tende ad esaltare l'amore fisico e non quello platonico, mettendo in evidenza l'importanza del corpo. Egli ritiene che
un corpo giovane, nel fiore degli anni, sia l'unico a poter assicurare i piaceri, mentre d'altro canto il corpo anziano è visto come
"soma", come peso inutile privo di ogni dignità. Per Lorenzo l'amore è passione, passione carnale, non sentimento che leva
l'animo dell'amante e semplice carnalità. Una passione opposta alla sua è quella presa dal Bembo, autore rinascimentale
petrarchista. Come il suo modello egli ritiene che la bellezza del corpo è certamente un fattore importante, ma soprattutto che
"è belle quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia". Con l'esaltazione della carnalità e della necessaria giovinezza per
Lorenzo de' Medici emerge, di conseguenza, il tema della fugacità del tempo. L'autore sottolinea in maniera marcata la sua
posizione pessimistica e malinconica del passare del tempo onorando la giovinezza e degradando la vecchiaia. Egli sembra
invitarci a non perdere tempo e a cogliere tutti i piaceri possibili senza lasciare che il tempo li faccia appassire. Lorenzo non
utilizza l'immagine simbolica del "cogliere la rosa", bensì marca fortemente, riprendendolo nel ritornello, il fatto che non ci si
Angelo Poliziano:
Angelo Ambrogini, detto il Poliziano dal nome latino della città di origine (Montepulciano), nacque nel 1454. Dopo la morte del
padre, si reca d Firenze, studiando alla scuola di maestri come l’Argiropulo, il Ficino, il Landino e facendosi ammirare per
l’ingegno precoce. Nel 1473 nella cancelleria privata dei Medici, e dal 75’ ebbe l’incarico di istruire i figli di Lorenzo, dal
primogenito Piero sino a Giovanni (futuro papa Leone X). Molto presto intraprese la carriera ecclesiastica, e nel 77’ divenne
priore della collegiata di San Paolo. Il Poliziano è certamente l’esponente più prestigioso ed esemplare della cultura medicea,
dedicandosi interamente a esperienze e studi incentrati sul culto della parola e portando avanti l’importanza dello studio
autonomo. Nell’attività coi Medici, occorre distinguere due momenti diversi, separati da un breve intervallo negli anni 79-80’, in
cui egli si distaccò dai suoi signori. Per tutti gli anni 70’, egli lavorò presso i Medici e concentrò la sua attività letteraria nella
poesia, sia in latino che in volgare, guardando con distacco gli orientamenti filosofici di impronta neoplatonica-finiciana:
successivamente fu professore dello Studio fiorentino, dedicandosi a scritti filologici ed eruditi. Il primo esercizio poetico di
Poliziano, che suscitò l’ammirazione da parte dei Medici e dei letterati appartenenti alla loro cerchia, fu l’avvio di una tradizione
in latino dell’Iliade, che gli valse il titolo di adolescente omerico e che egli continuò come esercizio di stile. A questa tradizione
si affiancò una ricca produzione poetica in greco e soprattutto in latino, rifacendosi soprattutto agli scrittori della tarda latinità,
di cui ammirerà sempre l’esuberanza dello stile, ‘il sangue’ e ‘il colore’, le espressioni rare e preziose, l’erudizione e l’ingegno di
quest’ultimi. Pur scrivendo molti componimenti in metro lirico (le Odae, Odi), il Poliziano diede le sue migliori prove come
poeta latino negli Epigrammi (che fissano gesti e personaggi in formule essenziali) e nelle Elegiae, dove in modo più autentico e
disteso egli si abbandona all’aspetto esteriore delle cose e delle parole, al piacere che si sprigiona dal loro apparire e dal loro
combinarsi. La celebre ampia elegia In Alberiam Albitiam, per la morte della quindicenne Albiera degli Albizzi, che suscitò
grande commozione a Firenze, volge uno sguardo tenero e amaro alla bellezza che si consuma e svanisce. Questa poesia tende
dunque a sottrarre la bellezza a ciò che la minaccia e trasformarla in un ideale eterno; tende quasi a ricordare quel verso
celebre di Lorenzo de Medici, ‘del domani non v’è certezza’, dove la canzone esalta il tema pagano del ‘carpe diem’, concetto
fondamentale della filosofia epicurea: “cogli l’attimo”, cioè goditi la vita attimo per attimo senza pensare a ciò che succederà
dopo.
In questi versi l’autore invita il lettore a godersi ciò che avviene nel presente. Molte errate interpretazioni attribuiscono al verso
sul domani un invito alla ricerca della serenità, in quanto non si può sapere cosa ci riserverà il futuro. Il Poliziano conforma agli
stessi principi del piacere e della docta varietas, che caratterizzano i suoi versi latini, anche la sua lirica in volgare, prodotta in
vari generi e in diverse fasi del corso degli anni 70’. Essa comprende, una serie di ottave legate tra loro e rispetti spicciolati
(ottave autonome), canzoni a ballo e canzonette. La lirica in volgare del Poliziano risponde in parte al proposito di Lorenzo di far
nascere una nuova letteratura legata alla tradizione toscana ma si mantiene assai lontana sia dall’espressionismo di Pulci, sia dai
grandi modelli dei poeti del 200’ e del 300’. Il Poliziano guarda invece alle forme più delicate , più lievi e cantabili dell’amore
popolare, costruendo delle immagine di figure graziose in movimento (ricordando lo schema tardo-gotico tipico di Boccaccio),
giochi di scherzoso e ingegno abbandono sentimentale, maliziosi inviti a godere la dolcezza dell’amore, lontano da riflessioni
ideologiche. La famosa ballata Ben venga maggio! è un invito entusiastico ad afferrare la bellezza della primavera e dell’amore.
Ancora più bella è la ballata delle rose, che riprende con sorprendente freschezza l’antico motivo della breve vita delle rose. Una
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la propria bellezza ed esorta ad afferrare l’ora che fugge: un invito
che sembra rivolto a un’intera società. Le stanze per la Giostra di Poliziano sono un poemetto in ottave, con scopo elogiativo:
celebrano infatti la vittoria di Giuliano De Medici in una giostra (duello a cavallo, in cui bisogna disarcionare l’avversario) tenutosi
in piazza Santa Croce a Firenze, per celebrare un importante atto di pace. Il poeta non si limita a creare una vera e propria
encomiastica, ma crea un vero e proprio poema allegorico, all’interno del quale inserisce le sue concezione filosofiche,
soprattutto date da Marsilio Ficino. L’opera sarà poi interrotta dovuto alla morte di Giuliano, a causa della congiura dei Pazzi,
avvenuta nel 1478. In questi versi, Poliziano esprime il vivo entusiasmo e la partecipazione delle vicende, attraverso l’uso di
esclamazioni, tipiche della poesia popolare, qua calate in un contesto colto.

Siamo fieri di condividere tutti i contenuti di questo sito, eccetto dove diversamente specificato, sotto
Cupido, dopo aver fatto innamorare Iulio, torna a Ciprio, mitico regno della madre di Venere, a cui racconta minuziosamente
l’accaduto. Il poeta descrive l’isola, secondo il tipico locus amenus della classicità, che fu ripreso anche dallo stesso Petrarca nel
sonetto 124. L’intera composizione risente di influenze latine e della poesia greco-latina e della tradizione italiana (Dante e
Petrarca), chiudendosi il componimento del primo libro dell’opera su questo meraviglioso paesaggio erudita. Il secondo libro,
incompiuto, si apre con la lode rivolta a Lorenzo de Medici e alla grandezza della grande famiglia. Venere stabilisce che Iulio
deve riuscir a far innamorare la giovane Simonetta (donna amata dallo stesso Giuliano, la quale sarà ritratta dal grande
Botticelli). Manda dunque al protagonista un sogno premonitore, che ha quasi valore iniziatico per quel giovane; nella visione
onirica, Iulio deve l’amata legare Cupido a un ulivo, pianta sacra di Minerva (ulivo ripreso anche nella Primavera del Botticelli) e
simbolo di castità; compare la Gloria, che da le armi di Minerva a Iulio. Si assiste alla morte di Simonetta, che rammenta quella
di Beatrice nella Vita Nova di Dante, e nella sua resurrezione. Una volta sveglio, Iulio decide di mettersi alla prova nel prossimo
torneo. Qui il poemetto si interrompe. Diverse sono le interpretazioni date a questo poemetto encomiastico: una parte della
critica vede la vicenda come allegoria del discorso platonico dell’animo, dall’inseguimento della bellezza sensibile ed effimera
sino a quella spirituale e angelica, la Bellezza divina. In questo caso, Simonetta e Venere incarnano i diversi stadi di bellezza;
diversi sono i modelli letterari e le fonti presenti all’interno dell’opera, configurandosi come sintomo dell’alta cultura umanistica
di Poliziano. L’opera, profondamente penetrata nell’animo della corte medicea, si costruisce allora come un mosaico, in cui il
lettore colto può rintracciare e scoprire i segni di una tradizione condivisa. Le prime ottave risaltano Firenze, i Medici e Lorenzo,
con cui la glorificazione si identifica con la poesia stessa, trattandosi di Lorenzo-Lauro (riferendosi a Petrarca, per il collegamento
del Lauro, alloro simbolo di Apollo e della poesia). La figura di Giuliano appare immersa in una giovinezza acerba, tutta dedita
alla caccia in un rapporto rude e spontaneo con la natura, estranea a ogni esperienza amorosa. Per vendetta, il dio Amore
conduce Iulio lontano dai compagni e ‘in un fiorito e verde prato’ lo fa incontrare con Simonetta, apparsa come ninfa o dea. Il
breve incontro, la bellezza della donna e le parole con le quali Simonetta si presenta, provocano nel giovane un forte
turbamento amoroso fino ad allora sconosciuto. L’eroe e le sue vicende si collocano però nello spazio del mito, in un mondo
distaccato dalla realtà quotidiana, dove trionfa una natura splendente, dove la natura è pervasa da un’aria incontaminata, da
un’area che sa di rinascimento.
Ma questa freschezza, così sicura della sua perfezione originaria. rivela qualcosa di eccessivo, come un qualcosa di doloroso
offuscato. La malinconia che si connette a una bellezza perfetta e insieme fragile e effimera nell’apparizione di Simonetta. Il
Poliziano usa una materia di vario origine, facendo soprattutto riferimento a Boccaccio per l’uso dell’ottava. E’ proprio
all’interno di quest’opera che possiamo intravedere quelli che sono gli aspetti principali del sogno della Firenze Laurenziana, di
una coincidenza perfetta tra valori umani e potere, tra parole poetica e dominio signorile. La società fiorentina viene così
sublimata in un sopramondo antico, eternamente giovane, e al poeta di corte spetta il ruolo essenziale di affermare ed
esaltarne la vitalità. All’indomani della Congiura il Poliziano sostenne la causa di Lorenzo, col libretto latino Commentario della
Congiura dei Pazzi; quindi seguì la famiglia medicea in brevi soggiorni in varie località della Toscana, mentre cresceva la sua
inquietudine. Forse in questo periodo compose la raccolta dei Detti piacevoli, rifacendosi alla tradizione della facezia. Nel
dicembre 1479 si allontanò da Firenze, per ragioni rimaste oscure, soggiornano a Bologna, Padova, Venezia e soprattutto
Mantova, protetto dal cardinale Gonzaga. Probabilmente a Mantova, nel giugno del 1480 compose per uno spettacolo di corte,
la Favola di Orfeo, primo esempio di una letteratura drammatica che avrebbe conosciuto un rapido sviluppo nelle corti
dell’Italia settentrionale. Si tratta della messa in scena della vicenda di Orfeo, il mitico poeta delle origini, considerato caro a
tutta la cultura umanistica e in particolare al neoplatonismo fiorentino, che lo assume come emblema della natura divina della
poesia. Seguendo Virgilio e Ovidio, il Poliziano rappresenta la morte di Euridice, il dolore di Orfeo e la sua discesa agli Inferi,
dove egli ottenne dagli dei la liberazione dell’amata, a condizione che non si volti a guardarla prima di aver raggiunto il mondo
dei vivi. Il mancato rispetto di questa regola fa sì che Euridice ritorni sempre alla morte. Orfeo, disperato, rinuncia per sempre
agli amori femminili ma viene punito dalle Baccanti, che lacerano il suo corpo e si scatenano in onore di Bacco. Una pestilenza
disastrosa si abbatte però sul paese: Apollo, irato per la perdita del fedele cantore, ordina come espiazione che venga costruito
un tempio a Orfeo. La sua testa, che le onde del mare hanno portato fino all’isola di Lesbo, è ritrovata da un pescatore, e
continuerà a dare vaticini per sempre, mentre la lira intonerà ancora un’armonia melodiosa. Notiamo come, a differenza delle
Stanze, vi è la presenza di elementi realistici e comici, proiettando il mondo mitico all’interno di uno spazio quotidiano. Il mito
dei due amanti sarà ripreso da una moltitudine di artisti come Canova, Tiziano, affascinando diversi artisti sino alla nostra
contemporaneità.
In Orfeo possiamo scorgere lo stesso poeta, nella perdita di Euridice la perdita della bellezza e della giovinezza, nello
scatenamento dionisiaco delle Baccanti l’esplosione di una forza irrazionale che mette in dubbi, sia pure per il breve spazio di
uno spettacolo, l’equilibrio umanistico di bellezza, poesia, storia e gloria. Nell’estate del 1480 il Poliziano, tornerà a Firenze per
volere di Lorenzo ma i rapporti sono cambiati: egli non è più i precettore della famiglia, né il poeta di corte negli esordi, ma un
grande intellettuale che gode di uno spazio personale del tutto autonomo e che coi suoi studi e il suo insegnamento rafforza il
prestigio dei Medici. Egli non rinnega certo la sua esperienza precedente, ma oramai ha rinunciato al sogno di un mondo ideale
e perfetto, e manifesta interesse per gli studi più concreti. Poliziano applica ora al metodo filologico umanistico alla
ricostruzione e interpretazione di molti testi greci e latini, convinto che in ogni parola dell’uomo, compresi i testi filosofici,
giuridici, medici, sia depositato un profondo sapere storico. Allontanandosi sempre più dal neoplatonismo dominante a Firenze,
sotto l’influenza di Pico della Mirandola egli si impegna sempre più nello studio della filosofia e della logica aristotelica. Scriverà
diverse opere, soprattutto ricordando una vasta gamma di appunti universitari e di prolusioni accademiche in latino e volgare,
rifacendosi al poeta Stazio. Mentre Poliziano vedeva giungere al punto più alto il proprio prestigio da studioso, nel 1494 usciva
la prima stampa delle prime Cose vulgare (con le Stanze e l’Orfeo). Si parlava di una sua possibile nomina a cardinale, quando
nel 1494 morì improvvisamente. Aveva appena concluso la sistemazione di una raccolta delle Epistolae in 12 libri, ricordando
tra le varie lettere quelle spedite a Paolo Cortesi e la risposta di questi. Le due lettere impostano una discussione sul concetto di
imitazione nella scrittura latina, in cui il Poliziano rifiuta il modello ciceroniano.

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