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ANPI provinciale di Roma

Bando di Concorso a fumetti per esordienti


PRIMA EDIZIONE 2019-2020

PARTEGGIARE
Storie brevi e autoconclusive ispirate agli anni e a i personaggi
che hanno fatto la Resistenza Italiana

Storie resistenti di tre partigiani


Lo straniero, la donna e il bambino

Giorgio Marincola
«Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi
sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria
significa libertà e giustizia per i Popoli del Mondo. Per questo combatto gli oppressori…»
(Giorgio Marincola, dai microfoni di Radio Baita, gennaio 1945)
Trascrizione di quello che Giorgio Marincola, ventiduenne, di padre italiano e madre somala
disse, dai microfoni di Radio Baita, radio nazifascista, invece
di leggere il messaggio che i nazisti che lo tenevano prigio-
niero volevano diffondere, per attirare in una trappola i suoi
compagni partigiani del biellese.
La trasmissione fu interrotta e Giorgio fu pestato a sangue.
Giorgio abitava a Via Cugia, a Casalbertone. Fu allievo di
Pilo Albertelli, ucciso alle Fosse Ardeatine, e partecipò alla
lotta di liberazione, da iscritto al Partito d’Azione, tra Roma, il
viterbese, il biellese e, appunto, il Trentino, dando prova di coraggio e ricevendo la medaglia
d’oro al valore militare alla memoria.
Motivazione alla Medaglia d’Oro al Valor Militare: “Giovane
studente universitario, subito dopo l’armistizio partecipava alla
lotta di Liberazione, molto distinguendosi nelle formazioni
clandestine romane per decisione, per capacità, per ardi-
mento. Dopo la liberazione della Capitale, desideroso di con-
tinuare la lotta, entrava a far parte di una missione militare e
nell’agosto 1944 veniva paracadutato nel Biellese. Rendeva
preziosi servizi nel campo organizzativo e in quello informa-
tivo ed in numerosi scontri a fuoco dimostrava ferma deci-
sione e leggendario coraggio, riportando ferite. Caduto in mani
nemiche e costretto a parlare per propaganda alla radio, per
quanto dovesse aspettarsi rappresaglie estreme, con fermo
cuore coglieva occasione per esaltare la fedeltà al legittimo
governo. Dopo dura prigionia, liberato da una missione alleata,
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rifiutava di porsi in salvo attraverso la Svizzera e preferiva impugnare ancora le armi, insieme ai partigiani
trentini. Cadeva da prode in uno scontro con le SS germaniche, quando la lotta per la libertà era ormai
vittoriosamente conclusa”.

Ugo Forno
Nato a Roma il 27 aprile 1932, caduto a Roma il 5 giugno 1944, scolaro di seconda media.
Scoperta il 4 giugno 2005 (sessantunesimo anniversario della liberazione della Capitale) dall’allora
sindaco di Roma Walter Veltroni, nel parco Nemorense figura una targa per ricordare che poco di-
stante abitava, al numero 15 della via Nemorense, l’ultimo caduto della Resistenza romana, Ugo
Forno, “morto - è scritto sul marmo - per la libertà”. La singolarità è che Ugo Forno aveva soltanto 12
anni. Figlio di un impiegato statale, era scolaro di seconda media dell’ Istituto “Luigi Settembrini”. Ulti-
mata la scuola con ottimi voti (come appare nel registro di classe), il ragazzo era andato verso le
nove del mattino del 5 giugno 1944 a incontrare degli amici in piazza Vescovio. Là “Ughetto”, come lo
chiamavano, apprese che un reparto di genieri tedeschi stava minando il ponte ferroviario sull’Aniene,
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lungo la statale Cassia in prossimità della città, zona allora di campa-


gna. Ugo - che aveva nascosto nella sua casa due pistole lanciarazzi, ab-
bandonate all’alba del giorno prima dai militari germanici mentre
lasciavano Roma, proprio mentre gli angloamericani entravano nella Ca-
pitale da Porta Maggiore, senza incontrare resistenza, visto che erano
scomparsi anche gli ultimi fascisti - andò a prendere le “armi” pensando
di poter intimidire con quelle i soldati della Wehrmacht. Giunto ad un ca-
scinale sulla strada che portava al ponte, vi trovò alcuni giovani: due
(Antonio e Francesco Guidi) erano i figli del proprietario di quell’appezza-
mento agricolo; tre erano i braccianti Luciano Curzi, Vittorio Seboni e
Sandro Fornari; di altri due ragazzi presenti non si è mai conosciuto il
nome.
Erano armati con due fucili Mauser e due o tre pistole, ed erano in-
certi sul da farsi. “Ughetto”, che era il più piccolino e minuto del grup-
petto, si impose subito: bisognava salvare il ponte. I ragazzi si avviarono e giunti in prossimità del
luogo ove una diecina di genieri stavano collocando i tubi di dinamite, aprirono il fuoco. I tedeschi ri-
sposero con tre precisi colpi
di mortaio, e abbandonarono
subito il manufatto, che così
rimase indenne. I proiettili
colsero in pieno il gruppo di
ragazzi: Francesco Guidi fu
gravemente ferito, Curzi ebbe
una gamba straziata, Fornari
perdette di netto un braccio;
le schegge colpirono mortal-
mente Ugo Forno al petto e
alla testa. Quando sul posto
arrivò Giovanni Allegra (sot-
totenente dei paracadutisti,
comandante di una squadra
partigiana), tutto era tragicamente finito. Soccorsi i feriti (Francesco Guidi, ventunenne, sarebbe
morto poco dopo), il sottotenente collocò su un carretto il corpicino senza vita di “Ughetto”, copren-
dolo con un drappo tricolore che aveva con sé, e lo tirò sino alla clinica INAIL in via Monte delle Gioie.
Alcuni anni dopo lo scoprimento della targa nel parco Nemorense, il 7 giugno 2010, le Ferrovie hanno
intitolato a Ugo Forno il moderno manufatto sull’Aniene dove ora passano i treni “Freccia Rossa”.
Anche una via di Roma porta il nome del bambino, caduto alla liberazione della sua città.
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Carla Capponi

Nel luglio del 1946, su un aereo DC-9 da trasporto truppe par-


tito da Fiumicino, si trovano alcuni ufficiali con due uomini e una
donna. I due uomini sono Vincenzo Arangio-Ruiz, ministro di tre
governi transitori dopo la Liberazione, e Agostino Gemelli, il fon-
datore dell’Università Cattolica. L’unica donna è Carla Capponi.
“Impiegata del ministero della Guerra?”, chiedono i passeggeri.
“Partigiana”, risponde lei. Gemelli allora esclama: “Signori uffi-
ciali, abbiamo l’onore di viaggiare con un’eroina della Resistenza
italiana!”. I militari le fanno il saluto e Carla arrossisce, ma si
chiede anche se quella forma di rispetto sia seria o una presa
in giro. Il viaggio per Milano è turbolento e quando Elio Vittorini
la accoglie per portarla alla sede del Partito comunista in via
delle Botteghe oscure e le chiede com’è andato il viaggio, Carla
ammette di aver avuto molta paura. “Più dei nazisti?”. “È un’altra
paura”. Solo due anni prima, era lei a terrorizzare i nazifascisti.

La sua militanza comincia il giorno dopo l’assedio di San Lorenzo, a Roma. Carla, che proviene
da una famiglia di origine marchigiana di fede antifascista, lavora come dattilografa nel Corpo reale
delle miniere quando, il mattino del 14 luglio 1943, sente le sirene dell’allarme suonare. Va subito a
soccorrere i feriti e a nascondere nella Basilica gli ebrei rimasti in città. Il giorno dopo la fine del
bombardamento, da cui il quartiere esce libero e resistente, un’amica le chiede di ospitare a casa
sua una riunione di alcuni cattolici comunisti. Mentre gli antifascisti redigono copie clandestine
de L’Unità, Carla suona i notturni di Chopin al pianoforte per coprire i rumori della riunione: è l’inizio
della sua attività politica.

Ma è solo dopo l’8 settembre che Carla si unisce alla Resistenza. Il suo primo incontro con i par-
tigiani è casuale: li vede camminare davanti a casa sua e, ignorando l’insistenza della madre che
cerca di dissuaderla dall’uscire e unirsi a loro, decide di raggiungerli. Qui si trova, disarmata e im-
preparata, in mezzo agli scontri di Porta San Paolo. L’esperienza la segna nel profondo: estrae i corpi
dei soldati dai carri armati, soccorre i feriti usando come garze la sua sottoveste e per la prima volta
capisce cosa sia la guerra. Decide che non può più stare a guardare, e che vuole seguire quelle
donne e quegli uomini armati finché ce ne sarà bisogno. La sua casa nel frattempo è diventata una
sorta di quartier generale dei comunisti romani e, quando si costituiscono i Gap, i Gruppi di azione
patriottica, lì comincia a riunirsi la sezione femminile. Carla prende il nome di battaglia di Elena. In-
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teri quartieri si mobilitano per contrastare i nazisti: alla Garbatella le armi si nascondono dapper-
tutto, al cinema, dal farmacista, nelle trattorie. All’ospedale di San Giacomo si organizzano corsi
clandestini per insegnare alle volontarie a fermare emorragie e fare iniezioni.

Inizialmente a Carla vengono assegnati compiti di sorveglianza o da staffetta, ma la giovane non


vuole restare nell’ombra, vuole combattere. I Gap però si rifiutano di fornire armi alle donne che, nel
caso di attacchi, avrebbero dovuto fingersi loro fidanzate per non essere coinvolte in prima persona.
Carla allora decide di rubarne una, sfilando una Beretta 9 a
un militare della Guardia nazionale repubblicana su un auto-
bus affollato. È una donna coraggiosa e sicura di sé, a volte
sprezzante del pericolo: quando Guglielmo Blasi (che poi
verrà processato per collaborazionismo) era scappato per la
paura durante l’attacco contro alcuni camion tedeschi in
piazza Vittorio, era rimasta da sola a combattere contro i na-
zisti. Dopo lo sbarco di Anzio e dopo aver contribuito
alla fuga di Pertini, comincia un periodo duro per i Gap ro-
mani, arrestati uno dopo l’altro. Carla allora, insieme a com-
pagne e compagni, si dà alla clandestinità, rifugiandosi a
Centocelle. Il 3 marzo 1944, quando assiste all’uccisione da
parte di un soldato tedesco di Teresa Gullace (raccontata
anche in Roma città aperta di Rossellini) – una donna che
stava cercando di parlare col marito prigioniero nella ca-
serma di viale Giulio Cesare – Carla reagisce d’impulso pun-
tando la pistola contro il militare. Viene immediatamente
arrestata dai nazisti, ma non prima che la sua amica Marisa Maru le tolga l’arma dal cappotto e le
infili un tesserino del Partito fascista in tasca. In caserma, Carla si presenta come Marisa e, appro-
fittando del fascino che esercita sul soldato di guardia, riesce a farsi rilasciare.

Carla Capponi (in basso al centro) insieme a un gruppo di gappisti romani, 1944
La sua impresa più nota è però l’attentato di via Rasella. Giovedì 23 marzo, i Gap romani decidono
di attaccare la colonna di SS che passa di lì ogni giorno, di ritorno dalle esercitazioni dal poligono
di tiro di Tor di Quinto. Via Rasella viene scelta per la sua conformazione: stretta, priva di negozi (e
quindi poco frequentata), ma soprattutto in salita. Il progetto iniziale prevedeva una bomba a tempo
depositata all’altezza di palazzo Tittoni, a cui sarebbe seguita una scarica di bombe a mano all’in-
crocio di via del Boccaccio. Ogni gappista ha un ruolo: l’ordigno principale viene nascosto in un car-
rettino della spazzatura, e sarebbe stato innescato da Rosario “Paolo” Bentivegna travestito da
spazzino. Carla invece deve trasportare dei mortai in alcune buste della spesa, celati da qualche
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verdura, e aiutare Paolo nella fuga facendogli indossare un cappotto per nascondere la divisa da
spazzino. Al passaggio del I battaglione del Polizeiregiment Bozen, dato il segnale, Paolo accende
la miccia e in circa cinquanta secondi la bomba esplode, causando la morte di 33 militari e qualche
civile. È il caos. L’esplosione innesca le granate dei soldati, generando ulteriori deflagrazioni, mentre
la colonna viene raggiunta da altre tre bombe a mano. Segue un feroce scontro a fuoco, in cui nes-
suno dei gappisti rimane ucciso o ferito, né viene fatto prigioniero. I nazifascisti, colti di sorpresa,
cominciano a sparare verso le finestre, mentre Carla e Paolo scappano.

L’attentato di via Rasella è tristemente passato alla storia per le conseguenze sulla popolazione
civile: la reazione tedesca infatti è terribile. Il quartiere viene devastato per cercare i responsabili
della strage e i rastrellamenti culminano nel terribile eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui perdono
la vita 335 persone, 10 per ogni soldato tedesco. Su questo episodio, si sono svolti numerosi pro-
cessi per stabilire se l’attentato abbia costituito un’azione di guerra legittima o meno. Nel 1999 la
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Prima Sezione Penale della Corte di cassazione ha confermato che si è trattato di un “atto legittimo
di guerra”, come già statuito nel 1957 dalle Sezioni Unite Civili della stessa Corte, ma questo non
ha impedito ad alcuni commentatori di piegare la memoria storica a proprio piacimento. Il Giornale,
ad esempio, è stato condannato in via definitiva a risarcire Paolo Bentivegna per averlo paragonato
al gerarca nazista Priebke, una comparazione definita “gravemente lesiva della sua onorabilità per-
sonale e politica”. E, ancora, nel 2009 sempre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della figlia
di Carla Capponi, Elena Bentivegna, contro il quotidiano Il Tempo, reo di aver definito la partigiana
e gli altri gappisti “massacratori dei civili”.

Altre polemiche sono nate quando la scheda biografica su Carla Capponi per il volume Italiane del
150esimo anniversario dell’Unità d’Italia è stato affidato a Paolo Granzotto, penna de Il Giornale,
che ne ha fatto un ritratto tendenzioso. “Non si conoscono rilevanti gesta partigiane di Carla Cap-
poni”, aveva scritto, nonostante sia stata insignita della Medaglia d’oro al valor militare, insinuando
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che il suo ruolo nella Resistenza sia stato marginale. “Il coraggio di Carla non poteva essere messo
in discussione, né la sua partecipazione a combattimenti, anche prolungati e aspri, al centro di
Roma, prima e dopo via Rasella, a Centocelle prima di via Rasella e, dopo quell’evento, sui Monti
Prenestini. […] Lei può non condividere le scelte di Carla, ma non può mistificarne la qualità di com-
battente e di partecipe ad attività di comando”, aveva risposto Bentivegna sulla rivista dell’Anpi.

Nell’impietoso ritratto di Granzotto emerge quanto ancora sia difficile riconoscere il ruolo attivo
delle donne nella Resistenza. Al di là della scelta discutibile di far parlare di una partigiana chi non
risulta aver mai manifestato simpatia per la Resistenza e la liberazione di questo Paese dal nazifa-
scismo, come spesso accade la memoria storica delle donne che hanno partecipato alla Liberazione
è parziale e ridimensionata. Delle donne si sottolinea sempre il loro ruolo di “aiutanti” – staffette,
messaggere, segretarie, infermiere – e anche quando, come nel caso di Carla, imbracciavano un fu-
cile e combattevano in prima linea, qualcuno prova a negarne il coraggio. Ma dobbiamo ringraziare
anche loro se oggi questo Paese è democratico e antifascista. “Non siamo mostri di perfezione”,
scrive Carla a un’alunna di liceo nella sua autobiografia Con cuore di donna, edita da Il Saggiatore.
“Siamo solo uomini e donne che di fronte alla durezza delle situazioni non si sono abbandonati al
pianto o nascosti per la paura, ma hanno reagito, alzato la testa. E, credimi, eravamo in tanti”.

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