Sei sulla pagina 1di 25

Freni a disco e residui di sparo

(Disk brakes and gunshot residues)


(http://www.earmi.it/varie/freni/freni.html)

Per osteggiare una realtà ormai accettata da tutti i migliori laboratori criminalistici – e cioè
l’impossibilità di individuare in modo certo le autentiche particelle di residui di sparo – nei tribunali
italiani si è fa da qualche tempo riferimento ad un lavoro 1 che in realtà, come vedremo, non solo
F F

non affronta il problema specifico ma sviluppa un discorso scientificamente inaccettabile.


Intendiamo cioè il seguente:

Per quanto riguarda l’introduzione salta subito all’occhio la rassomiglianza della prima frase con la
prima frase, sempre dell’introduzione, del lavoro indicato nelle References da Ingo e colleghi come

1
G.M. Ingo et al. Thermal and microchemical investigation of automotive brake pad wear residues In: Termochimica
Acta 418 (2004).

1
[1] M.K. Stanford, V.K. Jain, Wear 251 (2001) 990–996, rassomiglianza che qui sotto noteremo
evidenziata:

Risulta quindi evidente che la prima frase dell’introduzione è stata certamente letta: dubbi possono
insorgere per quanto riguarda il resto in quanto nel lavoro di Stanford e Jain si parla di temperature
anche di 800°C. Non solo. Leggendo il titolo – che, come gli altri 8, risulta omesso nel References -

e l’Abstract riscontriamo che nel saggio vengono trattate in modo specifico le caratteristiche di
attrito e usura di particolari rivestimenti (Stellite, Diamalloy, ecc.) applicati ai dischi dei freni e che
l’unica notizia utile agli autori italiani era quindi la temperatura massima di 800°C notizia peraltro
non utilizzata.

Prima di proseguire e esporre le valutazioni che questo articolo merita, sarà utile fornire qualche
breve notizia sul funzionamento dei freni a disco delle automobili. Un disco (o rotore)
generalmente di ghisa è in asse con la ruota e gira insieme ad essa. Quando si aziona il pedale del
freno, grazie a un sistema di trasmissione ad olio idraulico, due pastiglie (o ferodi) contenute in un

2
complesso chiamato “pinza”sono spinte contro il disco e lo stringono a morsa. Per via dell’attrito il
disco, e di conseguenza la ruota, iniziano a diminuire la loro velocità di rotazione: l’energia cinetica
di cui è dotata l’automobile si trasforma in calore la cui intensità è in funzione della pressione
esercitata dalle pastiglie e della velocità di rotazione del disco stesso.

Qui sopra vediamo l’immagine di un normale freno a disco: 1) perno di scorrimento


della pinza; 2) finestra controllo spessore della pastiglia; 3) corpo della pinza; 4)
valvola di spurgo; 5) alloggio del pistone; 6) tubo flessibile dell’olio; 7) pastiglia
frenante; 8) fessure di ventilazione; 9) disco o “rotore”; 10) mozzo della ruota; 11)
tappo antipolvere; 12) bullone della ruota.

3
Questo disegno schematico permette di comprendere il funzionamento del freno:
azionando il pedale l’olio idraulico provoca il restringimento degli elementi della
pinza e il conseguente contatto delle pastiglie con la superficie del disco.

L’immagine sopra riprodotta ci presenta l’organizzazione interna di un complesso


frenante.

Esempio di dischi con vani e alette di raffreddamento.

4
Altro tipo di dischi raffreddati sia con vani e alette sia con fori passanti.

La fotografia sopra riprodotta fa vedere la situazione nel corso di una frenata: La


corona circolare del disco su cui agiscono le pastiglie è arroventata mentre cascate di
faville di varia intensità luminosa evidenziano le altissime temperature raggiunte
localmente.

5
Si è detto più sopra che l’energia cinetica della vettura viene trasformata in calore: detto calore si
sviluppa per attrito fra la pastiglia frenante e il disco e va a interessare tutto il complesso del freno.
La circostanza che il freno sia esposto all’aria e che il disco sia dotato di appositi vani 2 e alette di F F

raffreddamento 3 inclinate nel senso di marcia permette di limitare il riscaldamento del dispositivo a
F F

valori tollerabili, in genere compresi fra i 300 e gli 800°C (valore massimo riscontrato in una
vettura da corsa).
Ma nel nostro caso l’importante è sapere quali temperature si possono sviluppare nei punti di attrito
fra pastiglia e disco. Possiamo già anticipare – più sotto forniremo le prove – che queste
temperature sono in grado di superare localmente, e non di poco, i 2000°C e che quindi, fra calore e
pressioni, sussistono le condizioni per la formazione di particelle comparabili a quelle dei residui
dello sparo. Questo fenomeno è dovuto al fatto che per ragioni originate da microscopiche
scabrosità delle superfici , sia della pastiglia sia del disco, il contatto fra i due elementi interessa non
più del 20% dell’area della pastiglia. Area che, a sua volta, risulta essere compresa fra il 20 e il 35%
di quella della corona circolare del disco su cui agisce. Il calore prende quindi origine da una zona
molto ridotta dove dagli “hot spots” si sprigionano delle “flash temperatures” molto elevate.
In buona sostanza il riscaldamento di tutto il complesso frenante prende origine da una zona di
attrito molto limitata, zona dove le temperature risultano estremamente elevate, ben superiori di
quei 720°C indicati come limite nell’articolo che stiamo esaminando.
Veniamo ora alle dimostrazioni scientifiche di quanto qui sopra esposto

Come abbiamo già notato, nel periodo evidenziato dell’Abstract (riassunto) gli autori italiani
informano di aver riscontrato che la temperatura nell’interfaccia compresa fra la pastiglia del
‘ferodo” e il disco non può superare i 720°C. Nell’introduzione scrivono però che “This latter
value could largely vary and some authors [1,2] have reported different estimated values for the
maximum contact surface temperature, ranging from 600 to 1500 ◦C
C at the interface between
the automotive brake pad and the metallic counter-
counter- face.” E che cioè altri studiosi hanno indicato
temperature di contatto comprese fra i 600 e i 1500°C . Le opera indicate sono [1] Malcolm K.
Stanford e Vinod K. Jain (Friction and wear characteristics of hard coatings in: Wear 251 (2001)
990–996) e [2] Carlo Torre et al. (Brake linings: a source of non-GSR particles containing lead,

2
A.D. McPhee, D.A. Johnson Experimental heat transfer and flow analysis of a vented brake rotor In: International Journal of
Thermal Sciences 47 (2008) 458–467
3
G P Voller et al. Analysis of automotive disc brake cooling characteristics In: Proc. Instn Mech. Engrs Vol. 217 Part D: J.
Automobile Engineering 2003

6
barium, and antimony. J Forensic Sci 2002;47(3):494–504. Se ne è già accennato più sopra:
nell’introduzione del primo lavoro si parla di temperature di 800°C, informazione peraltro
attribuita a M.G. Jacko ( Physical and chemical changes of organic disc pads in service), Wear 46
(1978) 163–175. Sempre come abbiamo già rilevato il saggio è dedicato alle caratteristiche di attrito
e di usura dei rivestimenti, applicati con processi di spray termico, a base di ferro, nichel, cobalto,
ecc. ecc., e risulta pertanto difficile comprendere le ragioni per cui gli autori italiani lo hanno citato.
Nel secondo lavoro, le cui conclusioni si ambirebbe contestrare, Torre e colleghi scrivono che :
“It must be remembered that, while braking, the temperature inside the metallic disk brake
exceeds 600°C, reaching over 1500°C in friction spots on the disk surface
surface (Dr. Kostantin
Vikoulov of ITT Automotive Italy S.p.A., Barge, Italy, personal communication).
communication).
Si tratta quindi di notizia ottenuta da una comunicazione personale, circostanza che secondo uno
degli autori italiani (Falso) permetterebbe di mettere in dubbio quanto sostenuto da Torre e colleghi.
A prescindere che Falso pare ignorare che la formazione di particelle di frenatura identiche ai
residui di sparo era stata già segnalata nel 1998 alla comunità scientifica internazionale da Claudio
Gentile e Marco Morin (grazie alle indicazioni fornite da Robin Keeley), è evidente che ha
frainteso, peraltro insieme ai suoi colleghi, la frase in inglese sopra riportata. Frase che recita: “E’
necessario ricordare che nel corso della frenata la temperatura del sistema
sist ema a disco supera i 600°
C, raggiungendo e superando i 1500°C nei punti di frizione della superficie del disco”.
Risulta quindi evidente che quanto affermato da Torre e colleghi è: la temperatura generale del
complesso frenante (disco, pastiglie frenanti e pinza) può superare in determinati casi i 600°C 4 (è F F

opportuno ricordare che i freni a disco subiscono un notevole raffreddamento anche grazie alle
speciali alette di cui dispongono) mentre i 1500°C o più si sviluppano localmente in alcuni punti di
frizione fra pastiglia e disco. E’ quindi completamente sbagliato attribuire agli studiosi torinesi di
aver comunicato: estimated values for the maximum contact surface temperature, ranging from 600
to 1500 ◦C at the interface between the automotive brake pad and the metallic counter-face. e cioè:
i valori stimati della temperatura massima, che si estendono tra 600 e 1500°C sull’interfaccia fra le
pastiglie frenanti dell’automobile e la controfaccia metallica.

Sul problema delle reali superfici di contatto nell’ambito di un complesso frenante a disco
segnaliamo il seguente lavoro:

4
In: Demers, J. R. "Development of the fade stop brake cooler" fourproducts, 24.6.2004 si parla di più di 800°C.

7
Nell’ Abstract (riassunto) possiamo leggere:
“Malgrado l’enorme quantità di prove e miglioramenti relativi ai freni e al materiale
mater iale frenante
delle automobili, molto poco si sa della loro condizione di contatto tribologico a livello
microscopico. Lo sfregamento di una pastiglia frenante organica contro un disco di ghisa è molto
Quando
diverso dalla maggior parte dei sistemi tribologici. Q uando viene logorata contro il disco la
struttura complessa e la composizione altamente disomogenea delle pastiglie si evidenzia in una
particolare struttura superficiale, con larghi altipiani di contatto che si ergono di alcuni
micrometri sopra il resto della superficie”.

8
Più avanti troviamo scritto:
“Il calore di attrito sviluppato in un freno di automobile è alquanto elevato. Nel corso di una
forte frenata di una normale auto famigliare, la forza dissipata da ciascuna delle pastiglie frenanti
anteriori
anteriori può oltrepassare gli 80 kW. Come si dirà più sotto, l’area di reale contatto (fra pastiglia
e disco) è limitata a circa il 20% dell’area di contatto nominale (che poi è l’area della pastiglia) e
inferiore
lo spessore dello strato superficiale deformato è infer iore a un micron. Il totale del volume
deformato è così inferiore a un millimetro cubo e la potenza dissipata per volume diventa 80
TW/m3. Questo corrisponde al dissipare la potenza di 80 reattori nucleari in un decimetro
cubo”.
Quanto sopra ci fornisce un idea delle enormi energie di attrito che si sviluppano in zone di
superficie limitatissima. Ed è proprio in queste zone, che chiameremo “hot spots” primari, che si
formano le “flash temperatures” o temperature lampo estremamente alte. Abbiamo denominato
“hot spots” primari queste zone ridotte per distinguerle da quelle molto più estese, sempre
denominate in tribologia “hot spots”, che si possono formare sui dischi. Questi ultimi hs, oltre per le
dimensioni, si distinguono in quanto individuano una zona in cui si è avuto un cambiamento di stato
del metallo riscontrabile a occhio nudo una volta che il disco si è raffreddato. Per maggiori
delucidazioni consultare il lavoro indicato nella nostra nota 6.

9
Qui sopra troviamo la parte del testo dove viene illustrato quanto poco della
pastiglia frenante viene a contatto con il disco.

Nella porzione di testo evidenziata si legge:

“Come avviene in tutte le situazioni di contatto, le forze di frizione vengono trasferite dalla reale
superficie di contatto. A causa della
d ella topografia delle pastiglie l’area di vero contatto risulta
confinata all’interno degli altopiani di contatto, vedi Fig. 5. Ciononostante, in un momento
qualsiasi, la reale area di contatto risulta molto piccola rispetto all’area totale degli altopiani.”
altopiani.”

Come abbiamo detto più sopra nel lavoro degli autori italiani la temperatura massima possibile sulla
superficie frenante viene indicata non superiore ai 720°C e questo sulla base di rilevazioni
termogravimetriche eseguite su frammenti del materiale frenante. In realtà ci troviamo dinnanzi a
un grosso equivoco e a notevoli imprecisioni che ora tenteremo di chiarire.

10
Vediamo innanzitutto chi sono gli autori, due dei quali lavorano per il CNR (Ingo e Padeletti), due
appartenenti alla Polizia di Stato (Falso e D’Uffizi) e uno operante presso il Dipartimento di
Scienze Chimiche dell’università di Catania (Bultrini).
Gabriel Maria Ingo, chimico, risulta conosciuto per i suoi studi sui bronzi antichi e la loro cura e ha al
suo attivo in questo settore una notevole produzione scientifica, mentre la sua collega Giuseppina
Padeletti, anche lei chimica, è nota per le sue ricerche sull’ossido di Titanio e le ceramiche antiche.
Di Bultrini si sa poco: chimico, lavora a Catania e pare che anche lui si interessi di conservazione di
reperti antichi.
Giacomo Falso è un perito chimico laureatosi all’Aquila in Scienze delle Investigazioni 5 , noto alle F F

cronache soprattutto per il caso Marta Russo.


Mario D’Uffizi è un ingegnere che, dopo un breve periodo trascorso alla Polizia Scientifica, venne
trasferito al per lui evidentemente più congeniale servizio telecomunicazioni.
Nessuno quindi pare possedere sufficienti nozioni di fisica e una competenza specifica sul
funzionamento dei freni a disco e sui materiali frenanti. E’ forse superfluo dire che questi ultimi
rivestono un ruolo essenziale nel processo di decelerazione forzata e sono quindi oggetto di continuo
studio e sperimentazione. In questo specifico settore indichiamo alcuni recenti studi:

5
Ricordiamo che l’Università dell’Aquila attribuisce addirittura 150 crediti (sui 180 necessari per una laurea breve) per
“esperienza formativa” ad un vice ispettore della Polizia, in pratica due anni e mezzo su tre sono già fatti.

11
12
Ma, se prendiamo in considerazione i riferimenti bibliografici (References) elencati a pagina 68 del
lavoro italiano – indicati per modo di dire in quanto, contravvenendo alle regole accademiche, in nessun
caso viene indicato il titolo del lavoro – troviamo degli articoli che, se veramente letti, avrebbero
certamente messo al corrente gli autori sia sui problemi relativi alle differenze dei materiali frenanti, sia
su quelli relativi alle aree di attrito. Esaminiamone alcuni.
Prendiamo il lavoro [7] H. Zaidi, A. Senouci, Appl. Surf. Sci. 144-145 (1999) 265–271.

Notiamo innanzitutto che in questo studio sono presi in considerazione i freni a tamburo e non
quelli a disco e che quindi, anche se i materiali di attrito sono uguali, i problemi di attrito e
riscaldamento sono diversi. In seguito, fornendo le specifiche sperimentali, indicano la natura della
suola frenante (Ferodo 44) e le sue principali caratteristiche fisiche. Molto interessante risulta poi la
circostanza che questi autori abbiano riscontrato la presenza di piombo nei residui di frenatura,
come viene dimostrato dal sotto riportato spettro analitico

13
Passando a [8] M. Eriksson, F. Bergman, S. Jacobson, Wear 232 (1999) 163–167. abbiamo la sorpresa
di trovare chiaramente indicata nell’introduzione la natura del contatto fra pastiglia e disco.

Qui sopra possiamo infatti leggere:

14
“Questo contatto è diviso in un certo numero di piccoli altopiani di contatto, Questi altopiani di
contatto costituiscono delle aree relativamente piatte che si elevano per alcuni micron sopra i dintorni
irregolari (vedi Fig. 1).”

Detta figura, meglio di diecimila parole, fa comprendere la particolare natura che caratterizza il contatto
fra pastiglia frenante e superficie del disco.
Il contenuto di questo studio smentisce poi l’affermazione che troviamo a pagina 68 dell’articolo
italiano e cioè:
“Indeed, usually, during standard brake testing, wear rate and brake pad performance trends are
determined without investigating the mechanisms responsible for these trends [8,9].”
E cioè, posto in italiano:
“ Invero, generalmente, gli andamenti dei tassi di usura e del comportamento delle pastiglie
meccanismi
frenanti, nel corso delle prove standard, vengono determinati senza investigare i m eccanismi
responsabili di detti trend [8, 9]”.

Altrettanto avviene nel lavoro [9] G.J. Howell, A. Ball, Wear 181–183 (1995) 379–390. il cui titolo è
rilevabile qui sotto.

15
Sarebbe stato sufficiente una rapida lettura per condividere invece le conclusioni degli autori, fra
cui la prima:

e, cioè:
“Sono stati investigati il meccanismo di usura di due dischi MMCs (Metal Matrix Composed)
composti di alluminio al magnesio-
magnesio- silicio e delle loro matrici non rinforzate e lo slittamento della
ghisa contro una varietà
varietà di materiale frenante.”

Nell’articolo degli autori italiani vengono presi in considerazione una pastiglia frenante usata e il suo
particolato da attrito, una pastiglia nuova asseritamene del medesimo tipo e dei cristalli di stibnite
(solfuro di antimonio Sb2S3). Questo materiale è stato sottoposto ad analisi termica differenziale e ad
analisi termogravimetrica (DTA-TG): sulla base dei risultati ottenuti gli autori affermano (pag. 67) che
la massima temperatura raggiunta dalla superficie di contatto durante le frenate non supera i 720°C.
Questo valore, come abbiamo visto, può essere attribuito alla superficie in toto ma non certo alle singole
ridotte aree di frizione. Il sistema analitico impiegato, che non è assolutamente in grado di fornire le
informazioni desiderate dagli indagatori italiani, risulta peraltro essere stato più volte utilizzato per
16
studiare il comportamento dei vari tipi di pastiglie frenanti. A titolo di esempio ricordiamo questo
lavoro:

nel quale peraltro possiamo leggere:


“Nel corso della frenata si osserva talora sulla superficie del materiale frenante una temperatura
superiore ai 1000°C.”

17
La sperimentazione, ovviamente, è stata eseguita su più campioni: qui sopra viene riprodotta la curva
DTA-TG del esemplare X, un materiale semi-metallico.
Il lavoro di Ramousse e colleghi risulta proficuo per chi studia i vari tipi di “mescola” da utilizzare per
la realizzazione di migliori pastiglie frenanti: il lavoro di Ingo et al., finalizzato esclusivamente a
controbattere una realtà ormai accettata dal mondo scientifico, non possiede alcuna ravvisabile utilità.
Quello che stupisce poi è che non si è tenuto conto della insorgenza, nell’interfaccia frenante, dei
già menzionati “hot spots”6, cioè di minuscole zone volumetricamente ben determinate nelle quali
pressione e temperatura (“flash temperature”7) raggiungono valori che superano di molto i valori
medi riscontrati nel complesso in esame.
Abbiamo peraltro il sospetto che i dipendenti del Consiglio Nazionale delle Ricerche probabilmente
non fossero a conoscenza della particolarissima problematica legata alla formazione dei residui di sparo.
Infatti in nessun punto dell’articolo troviamo accenno a questo imprescindibile fattore, rendendo
quindi illusoria ogni pretesa di evidenziare che le condizioni termodinamiche (pressione e
temperatura) che si generano al momento della frenata non sono in grado di produrre particelle con
morfologia e composizione analoga ai residui dello sparo, come incautamente Falso ha altrove scritto.

6
Lo stesso termine viene talvolta impiegato per definire le aree del disco su cui, per il maggior attrito, la temperatura
superare gli 800°C (cfr. Kao, T.K. e J.V. Richmond Brake disc hot spotting and thermal Judder: an experimental and
finite element study In: Int: J. Of Vehicle Design, Vol. 23, Nos. 3/4, 2000). Queste aree sono facilmente rilevabili in
quanto la perlite si trasforma in martensite e risultano visibili a disco raffreddato.
7
Sudipto Ray and S.K. Roy Chowdhury Experimental investigation into the effect of 3D surface roughness parameters on flash
temperature In: Industrial Lubrication and Tribology Volume 63 · Number 2 · 2011 · 90–102

18
Nel seguente lavoro, peraltro elencato da Ingo e colleghi fra le References, troviamo una informazione
relativa alle temperature raggiunte localmente: infatti, a
.

pagina 1476 possiamo leggere, evidenziato e indicato dalla freccia:

19
“Questo significa
significa che ci si può attendere “flash temperatures” dell’ordine di 1500°C anche a una
velocità di frizione di un metro al secondo”

E’ da osservare come questo lavoro - indicato dagli autori italiani come opera di riferimento
(Reference) [3] W. Österle, M. Griepentrog, Th. Gross, I. Urban, Wear 251 (2001) 1469–1476.,
peraltro in modo incompleto in quanto manca come al solito il titolo – viene utilizzato più volte per
ragioni legate alla natura delle pastiglie ma il passaggio da noi riportato risulta elegantemente
ignorato.
Per quanto riguarda gli “hot spots” rimandiamo ai seguenti lavori:

20
Nella parte evidenziata leggiamo: “Per regioni legate a instabilità termica il disco può deformarsi
nella direzione di scorrimento provocando delle aree di alta temperatura
temperatura locale, conosciute come
“hot spots” (punti caldi)”.
Nel seguente libro, pubblicato nel 1996, troviamo riferimento al collegamento fra la flash

temperature e gli hot spots

21
Tradotto in italiano si ha:

“Ricordarsi che le Equazioni 5, 6 e 7 rappresentano la crescita di temperatura nell’area virtuale di


contatto, mentre le equazioni 8 e 9 si riferiscono all’area reale di contatto ruvido ed è questa la
‘flash temperature’ di cui si parla in alcuni lavori. La flash temperature relativa ai contatti
contat ti elastici
(equazione 8) è molto superiore rispetto a quella per i contatti plastici (equazione 9) perché non
viene imposto alcun limite elastico (punto di snervamento) alla pressione di contatto. Per questa
ragione vi sono alcuni punti di contatto accidentato
accidentato estremamente caldi.”

Nella seguente opera leggiamo quanto segue:

22
“E’ importante, dal punto di vista dell’usura, prevedere le temperature degli ‘hot spots’ di un
contatto di slittamento. … omissis …. In un non recente studio sperimentale,
sperimental e, Bowden e Tabor
hanno osservato hot spots aventi una durata compresa fra 0.1 e 1.0 millisecondi. …omissis
… …
Più recentemente Winer e Griffioen hanno effettuato misure delle temperature superficiale con

23
una macchina fotografica all’infrarosso registrando locali ‘flash temperatures’ superiori ai
2000°C. “

Dal momento che non siamo impegnati a compilare un trattato sui freni a disco e sui relativi problemi
termodinamici, termochimica e tribologici ma solo a contestare il risultato di uno studio facilmente
confutabile, riteniamo opportuno a questo punto chiudere con l’argomento.
Concludiamo quindi ribadendo che nelle zone di contatto fra pastiglia e disco, al momento di una
frenatura, si creano delle zone dove temperatura e pressione sono di valori uguali o superiori a quelli che
secondo il Basu8 si sviluppano al momento della deflagrazione dell’innesco di una cartuccia (1500-
2000°C di temperatura e 98, 4 kg /cm2 di pressione per meno di 0,5 millesimi di secondo), momento
in cui si formano le caratteristiche particelle dei residui dello sparo. Se in queste zone sono presenti
gli elementi piombo, antimonio e bario, elementi peraltro contenuti in alcuni tipi di pastiglie, si può
avere la formazione di particelle del tutto identiche a quelle che fino a 14 anni or sono erano
ritenute provenienti esclusivamente dallo sparo di armi da fuoco.

In definitiva gli autori, da un punto di vista scientifico, hanno commesso i seguenti errori:
1. hanno sottoposto ad indagine un solo tipo di pastiglia frenante;
2. non hanno indicato la marca, il tipo e la composizione della pastiglia;
3. ignorando la struttura e i problemi dei freni a disco hanno ritenuto che tutta la superficie della
pastiglia frenante venisse a contatto con il disco e che pertanto la temperatura fosse omogenea su
tutta l’area e questo malgrado quanto illustrato in alcune delle opere da loro indicate come di
riferimento,
4. da un risultato, errato, hanno enunciato una norma di validità generale, violando così i più
elementari principi del metodo scientifico.
5. si sono avventurati in un settore nel quale nessuno, apparentemente, aveva specifiche conoscenze;
6. il riferimento citato al numero [6] L.H. Madkour, J. Chem. Phys. 94 (1997) 620–634. è errato o
inesistente. L’annata 1997 del The Journal of Chemical Physics è contenuta nel volume 107
mentre il volume 94 si riferisce all’anno 1991: a parte questo il nome L.H. Madkour non risulta
essere presente in nessuna annata di questo periodico.

8
Basu S. "Formation of gunshot residues" In: Journal of Forensic Sciences, 27 - 1 - 1982

24
L’unico Madkour presente, come si può notare dalla finestra di ricerca sopra riprodotta, è tale Tarek
M. che però si occupa di argomento del tutto diverso.

La pretesa, chiaramente espressa in più occasioni, di avere invalidato con questo studio quanto
rivelato già nel 1998 da Torre, Gentile e Morin e poi pubblicato a stampa nel 2002 da Torre e
colleghi9 risulta così del tutto infondata.

Authors: Marco Morin and Luca Soldati


Venice-Milan, 2009.

9
Torre C, Mattutino G, Vasino V, Robino C. Brake linings: a source of non-GSR particles containing lead, barium and antimony. J
Forensic Sci 2002;47:494–504.

25

Potrebbero piacerti anche