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giugno 2019
DISCUSSIONI
Antonello Sciacchitano Il soggetto supposto intelligente
Sergio Benvenuto Il mistero della passe
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951
redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah
Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal
Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul
Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori,
Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri,
Carla Troilo, Davide Zoletto
collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J.
Butler, M. Cacciari, A. Cavarero,
R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-
L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo,
M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek
il Saggiatore S.r.l.
via Melzo 9, 20129 Milano
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La società omogenea
La “società omogenea”9. dentro cui viviamo è fatta della sintesi del bisogno
e dell’oggetto che lo soddisfa. La società omogenea – “istituzioni politiche,
giuridiche e commerciali”10. – è una strategia di adaequatio tra l’uomo e le
circostanze, tra i gruppi umani e l’ambiente: le scuole e le fabbriche
soddisfano i bisogni feriali, l’arte e la letteratura quelli domenicali. Bataille
chiama “appropriazione” questa sintesi, ovvero l’“equilibrio statico” tra
“l’autore dell’appropriazione e gli oggetti”,11. una “omogeneità generale,
come quella che l’architetto stabilisce fra la città e i suoi abitanti”.12. Due
persone si danno appuntamento e chiacchierano. Il botta e risposta, le
attese, il consenso, il dissenso, gli attestati di stima: tutto contribuisce al
carattere omogeneo dell’incontro e al suo buon funzionamento. Stringere le
mani, annuire, visitare o farsi visitare, inseguire o farsi inseguire, indebitarsi
o riscuotere, ascoltare, giustificarsi, aspettare, darsi ragione, darsi torto: “Il
rispetto che gli uomini si scambiano li immette in un circuito di servitù in
cui si danno soltanto momenti subordinati”.13. Il bambino – poco pratico
della vita – si chiede a che servono questi gesti concitati. Quando, diventato
adulto, lo capisce – sono i rituali del riconoscimento reciproco e servono
alla conservazione di una società –, sente tutta “la noia senile e
l’inconcepibile vuoto dentro il quale sappiamo di parlare”.14. Gli adulti
cominciano ad angosciarsi e a chiedersi se c’è una via d’uscita.
Sade è una specie di solvente della società omogenea e delle sue
istituzioni. Egli sloga l’articolazione della società. Sospende la sintesi
appropriativa del bisogno. Fa esperienza del “ganz Anderes”,15. il
“tutt’altro” dalla società omogenea: il passato che essa sembra aver
dimenticato ma che in realtà torna a farsi valere nei momenti di crisi e di
trasformazione.
Escrezione
Se nella società omogenea c’è appropriazione, allora c’è anche il déchet, lo
“scarto”.16. Lo scarto è ciò che rimane quando la società omogena si è
spartita l’esistenza. Lo scarto è ciò che non si lascia né assimilare né
evacuare. Lo scarto è lì a mostrare che “l’essere è qualcosa di più della
semplice presenza”.17. I libri di Sade ci fanno passare dalla società al suo
scarto, dall’omeostasi alla violenza, dall’omogeneità all’“irruzione delle
forze escrementizie”:18. dall’appropriazione all’escrezione. L’escrezione non
è l’appropriazione ma non è neppure l’evacuazione. L’escrezione è
un’esperienza complessa. L’escrezione è la “produzione di un ritmo
alterno” che libera impulsi ambivalenti.19. L’escrezione non è un’esperienza
puntuale perché è un rapporto ambiguo, che complica attrazione e
repulsione. Nell’escrezione “un corpo estraneo […] può essere sia espulso
in seguito a una rottura brutale che riassorbito nel desiderio di mettersi
interamente il corpo e lo spirito in uno stato di espulsione (di proiezione)
più o meno violento”.20. L’escrezione non ha a che fare con un oggetto
addomesticato e conforme al nostro bisogno, né significa l’evacuazione di
ciò che non siamo riusciti ad addomesticare. L’escrezione è, invece,
l’incontro con un corpo estraneo su cui agiamo e che retroagisce su di noi.
Solitamente “la sensualità […] viene risvegliata non semplicemente dalla
presenza ma dalla modificazione dell’oggetto possibile”.21. Nei libri di Sade
“l’oggetto come tale (l’essere umano) sarebbe di per sé indifferente:
bisogna modificarlo, per ottenere da lui la sofferenza voluta. Modificarlo
cioè distruggerlo”.22. Lo scarto, l’oggetto escreto, è l’oggetto modificato.
Esso è sempre troppo vicino o lontano perché ci sia il tempo di
appropriarsene oppure evacuarlo. Il corpo degli altri diventa estraneo e
seducente quando noi lo abbiamo modificato, alterato, manipolato,
aggredito, tagliuzzato, penetrato, e “l’urto risultante dalle impressioni altrui
in noi”23. ci restituisce il potere di estraneità e di alterazione che gli abbiamo
dato.
La società ci mette in comunicazione soltanto con alcune proprietà degli
oggetti e degli uomini, vietandoci di sperimentarne altre. L’uso che il
libertino sadiano fa degli oggetti supera i divieti sociali, allarga gli orizzonti
dell’esperienza. Per sapere com’è fatto un dado a sei facce posso rigirarlo
fra le mani e lanciarlo. Per conoscerlo fino in fondo, però, dovrei anche
metterlo in bocca, bagnarlo, asciugarlo, saltarci sopra, nasconderlo sotto il
cuscino quando dormo, incidermi la carne con gli angoli, gettarlo nel
fuoco… L’escrezione è il regime di variazione continua che noi infliggiamo
a un oggetto per realizzare la sua “totalità del possibile”:24. modificato,
alterato, l’oggetto viene liberato dalla semplice presenza e raggiunge la
condizione di omnimoda determinatio, la determinazione completa della
sua realtà. O meglio, l’oggetto modificato, dechainé, scatenato, sciolto dagli
usi che ci sono famigliari, è il primo momento dell’escrezione. Perché –
secondo momento dell’escrezione – anche il soggetto subisce lo
“scatenamento (in rapporto alle condotte del lavoro e, generalmente, del
benessere) […] innescato dallo scatenamento concomitante dell’oggetto”.25.
L’oggetto estraneo, alterato, sconvolge il soggetto. Per strappare all’oggetto
tutti i segreti che la società nasconde, per avviare il processo
dell’escrezione, l’oggetto e il soggetto devono sfinirsi a vicenda.
Irritazione e godimento
Tra le funzioni animali – nascita, crescita, spostamento, nutrizione – la più
interessante per Sade è l’irritabilità. Quello di Sade è un teatro dello
sfinimento e dell’irritazione. A irritare e farsi irritare sono il corpo e l’anima
elettrica,26. che del corpo è la parte più facilmente infiammabile. “Tutti gli
oggetti esterni che sono un po’ singolari portano a una irritazione
straordinaria le particelle elettriche del vostro fluido nervoso”,27. dice
Juliette a una compagna di crimine. Scatenare gli oggetti significa irritare il
mondo e sé.
L’irritazione è il dolore diventato cosciente. Noirceul spiega al sodale
Saint-Fond cos’è il dolore per un vero libertino: una “conseguenza dello
scarso rapporto degli oggetti estranei con le molecole organiche di cui
siamo costituiti. Di modo che invece di atomi inviati da questi oggetti
estranei che si congiungono con quelli del nostro fluido nervoso, come
fanno durante l’emozione del piacere, essi presentano in questo caso degli
angoli, li pungono, li respingono e non si uniscono mai con loro”.28. Il
piacere è il segno di un incontro omogeneo: vuol dire che l’oggetto è adatto
al bisogno del soggetto. Il dolore, invece, è il segno che la nostra sensibilità
incontra forze che l’aggrediscono e con le quali non è capace di saldarsi. Il
dolore è un concatenamento senza vincolo, elettrico e non gravitazionale,
fluttuante, libero, escretivo, fatto di attrazione e repulsione. Nel dolore gli
atomi dell’oggetto e il fluido elettrico-nervoso del soggetto sono agganciati
in una condizione di tensione e di lotta.
Non solo il piacere, anche il dolore può essere scientemente ricercato e
praticato. È in quest’ultimo caso che il dolore diventa irritazione e
godimento. Ora, continua Noirceul,
[…] che cosa impedisce che tale stimolo al dolore, molto più forte e acuto
dell’altro, non giunga a suscitare in quel fluido la stessa accensione che vi
si infonde con l’attrazione degli atomi emanati dagli oggetti del piacere?
Inoltre, agitato per agitato, chi può impedire che, con l’abitudine, non mi
adatti a star bene sia cogli atomi che respingono che con quelli che
attraggono? Annoiato dagli effetti di quelli che producono soltanto una
sensazione semplice, perché non potrei abituarmi a ricevere piacere da
quelli la cui sensazione è acuta? […] Non si vedono ogni giorno persone
che hanno il palato abituato a un’irritazione piacevole, mentre altre questa
irritazione non potrebbero sopportarla neanche per un minuto? Non è vero
a questo punto (se ammettiamo la mia ipotesi) che di solito, durante i
propri piaceri, l’uomo cerca di stimolare gli oggetti del proprio godimento
nello stesso modo in cui egli è stimolato e che tali procedimenti si
chiamano, nella metafisica del godimento, effetti di delicatezza?29.
Nel godimento gli altri corpi vengono modificati, alterati, stimolati “in
modo tale che l’irritazione dei nostri nervi subisca un grado di violenza così
prodigioso che essi ne siano come travolti, come sollecitati in tutta la loro
estensione”.30. Il godimento è il concatenamento dell’escrezione. Esso è
fatto dello sfregamento tra le “molecole maligne”31. nell’oggetto e nel
soggetto. Nel godimento accade che elementi disparati, eterogenei, male
assortiti – i corpi irritati – si mettono a comunicare. Il godimento è la
habitudo del dolore, la ricerca di un contatto tra corpi e parti del corpo che
di per sé si respingono. “Qui si tratta esclusivamente del godimento, e non
della proprietà…”:32. nel godimento non c’è appropriazione dell’oggetto da
parte del soggetto, né vincolo duraturo. “Ricevendo o producendo sul
sistema nervoso la massima vibrazione possibile”33. il godimento circola
dentro la comunità dei libertini e la scintilla del dolore appicca l’incendio
nelle loro anime.
L’intensità della polarizzazione, il quantum di tensione tra i poli (per
esempio: uomo e oggetto, uomo e uomo), decide del carattere del rapporto:
esso è eterogeneo se la polarizzazione è forte, omogeneo se la
polarizzazione è debole.34. Nella società la polarizzazione è debole (bisogno
e oggetto = piacere), mentre è forte fuori dalla società, nel godimento
dell’escrezione (carnefice e vittima, fluido nervoso e atomi dolorifici =
godimento). Per Bataille la comunicazione degli eterogenei – dunque forte
– è la polarizzazione fondamentale dell’esperienza.
Il vortice
Le molecole maligne di Sade, l’escrezione di Bataille, istituiscono rapporti
eterogenei, sono figure vorticose. Quando un flusso incontra un ostacolo dal
quale riceve indietro un contro-flusso il quale, anziché perdersi, si combina
con il flusso, allora si forma un vortice. Nel vortice due forze che prima non
comunicavano si mettono a girare insieme. Un vortice è la polarizzazione
circolare di un flusso e di un contro-flusso che possono essere fisici,
biologici oppure verbali:
Onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un ‘essere’ non
è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione
interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito
dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gli
innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli
elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e
migrazioni di elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La
vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto
all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua
vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al
di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice
durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali
forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.35.
La rivoluzione
Sade in prigione “si faceva portare le rose più belle per sfogliarne i petali
sullo scolo di una fossa”.40. Sade butta i petali nel liquame, mette insieme il
fiore della letteratura e l’escrezione, fa vorticare insieme il godimento e la
scrittura. La prigione di Sade è la pietra contro cui il flusso del godimento
va a sbattere e che produce così un contro-flusso di immaginazione
scrittoria.
Davanti all’immagine di disastro che Juliette fa balenare a un’amica – il
“nuovo universo” in cui esiste solo la felicità del crimine –,
“un fuoco divoratore e dolce scivolerà suoi tuoi nervi e incendierà il fluido
elettrico nel quale risiede il principio della vita”.41. L’immaginazione è come
una scintilla buttata nei fluidi di un sistema nervoso pronto a incendiarsi.42.
Il contro-flusso dell’immaginazione svolge due funzioni
contemporaneamente, analitica e sintetica: prende in esame gli elementi
costitutivi del godimento, ne fissa i dettagli, e ricongegnandoli insieme,
facendoli macchinare in modo nuovo, potenzia, amplia il godimento.
Rispetto all’intensità del fluido nervoso, “la forza della vostra
immaginazione vi fa concepire i modi di accrescerla, alcuni particolari…
l’irritazione diventa più acuta e voi moltiplichereste così, se voleste, i vostri
godimenti all’infinito”.43. L’immaginazione analizza la nebulosa energetica
del godimento, porta luce sugli elementi per ridisegnarne le costellazioni.
L’analisi e la sintesi fatte dall’immaginazione aumentano l’intensità del
godimento e sono capaci di estendere il suo spazio-tempo: “le innumerevoli
variazioni che l’immaginazione suggerirà in questi godimenti”44. li fanno
proliferare.
La tortura e lo smembramento dei corpi fatti dal libertino sono i casi-
limite di quella anatomia che l’immaginazione sempre mette in pratica per
scoprire gli organi e i punti d’attacco del godimento. Se l’unità
fondamentale dell’esperienza libertina è la “postura” – una qualsiasi forma
di concatenamento fisico-nervoso – l’immaginazione scompone questo
aggregato nei suoi elementi: l’“azione” e il “punto di applicazione sul
corpo”.45. L’analisi dell’immaginazione fa del libertino l’ingegnere del
godimento. Egli diventa capace di programmare nuove combinazioni dei
corpi, reinventa i concatenamenti delle molecole maligne. Si libera dalle
immediate circostanze spazio-temporali e permette la ripetizione del
godimento. Il luogo deputato per l’esercizio dell’immaginazione è la
prigione: “Per primo Sade, nella solitudine della sua prigione, ha dato
un’espressione ragionata dei movimenti incontrollabili”.46. L’esattezza di
quest’immaginazione è necessariamente l’esercizio di un solitario, un
prigioniero. Il contro-flusso dell’immaginazione scrittoria comincia in un
carcere, perché il prigioniero si è sganciato da tutti i concatenamenti dei
corpi. Egli vive la situazione della solitudine, lo sconcatenamento assoluto
che permette di ricostruire con la mente la totalità dei concatenamenti
possibili.
I libertini “si abbandonano ciecamente a tutti i crimini di cui le prospettive
politiche della natura suggeriscono loro le idee”.47. La natura è omicida,
incestuosa, incendiaria e ladra. Le prospettive politiche della natura si
compendiano nel godimento. Se queste prospettive seducono anche gli
uomini, anzitutto e perlopiù esse vengono misconosciute dai diretti
interessati, che con i loro codici e leggi negano i concatenamenti pericolosi,
li proibiscono, e permettono soltanto quelli sicuri e piacevoli. Oppure
rimangono un episodio trascurabile: si affermano ma vengono subito
evacuate dalla società. Le prospettive politiche della natura rimangono
negate oppure cieche fino a quando il loro flusso non rimbalza sulle pietre
di un carcere. La solitudine della prigionia rimanda indietro un contro-
flusso di immaginazione che si combina con il flusso del godimento dando
origine a un vortice infuocato: la rivoluzione. La rivoluzione è
l’articolazione interna (intensificazione) ed esterna (estensione) del
godimento.48.
La solitudine carceraria di Sade incontra l’agitazione del godimento e le
rimanda addosso il contro-flusso immaginativo necessario alla formazione
del vortice rivoluzionario capace di incendiare l’animo non solo dei
francesi, ma degli europei.49. Non certo la rivoluzione robespierresca o
roussoviana, la vittoria del risentimento plebeo o la confederazione
svizzera, il legame dei citoyens nella volontà generale o davanti alla
ghigliottina. Il vortice sadiano della rivoluzione si allontana dalla città e
dalla nation per dare vita a società segrete, eterogenee e trasversali, il cui
unico legame interno è l’affinità elettiva dei libertini.50. L’immaginazione e
la scrittura ampliano il campo della rivoluzione, ma questo campo è di volta
in volta delimitato, chiuso. L’estensione rivoluzionaria del godimento non è
democratica e collettiva. La rivoluzione non è una marea che dilaga ma una
serie di razzi che si impennano da un punto dello spazio e del tempo, diretti
verso altri punti.
Il volumen
La prigione non è l’unica forma di solitudine che riguarda l’universo
sadiano. Nei suoi libri troviamo un altro tipo di solitudine: i quattro
debosciati del castello di Silling ogni tanto abbandonano i saloni aperti al
resto della comunità – dove le azioni sono già agganciate
all’immaginazione, perché devono seguire scrupolosamente l’ordine del
giorno dettato dalla prostituta-narratrice – e si nascondono con le proprie
vittime dentro stanze segrete, oppure dietro un sipario, per compiere una
“piccola infamia”51. fuori programma. Dolmancé abbandona gli amici del
boudoir e si rinchiude con il giardiniere nel gabinetto attiguo perché “ci
sono alcune cose che richiedono assolutamente discrezione”.52. Olimpia
Borghese ha sequestrato la figlia con il piano di aggredirla: “Penetro
dunque da sola nella torre e passo per prima cosa due ore in quella follia, in
quella specie di delirio, in quella sconnessione, divino linguaggio
dell’ebbrezza in cui ci immerge la lussuria e che si azzarda così
gustosamente con un individuo che non rivedrà più la luce. Ti riferisco
male, amore mio, ciò che dissi, ciò che feci… Ero fuori di me […]. Come
sono forti tali voluttà! […] L’ebbrezza che provocano è al di sopra di ogni
descrizione”.53. I libri di Sade sono costellati di queste reticenze: nel
godimento c’è qualche cosa che non può essere scoperto.
“Ciò che nell’erotismo ci ha portati all’ultimo grado dell’intensità ci
colpisce allo stesso tempo con la maledizione della solitudine.”54. I libertini
si appartano, rimangono soli, perché dimenticano la “lealtà nei confronti
degli altri che è la logica, che è la legge, che è il principio del linguaggio”.55.
Questo linguaggio non ha presa sul linguaggio dell’ebbrezza. Il linguaggio
dell’ebbrezza è un segreto e le nostre parole non possono restituircelo. Solo
i letterati hanno fiducia nella capacità mimetica delle parole. Essi credono
che l’interferenza tra parole di aree semantiche distanti produca quel
collasso del significato in cui il poeta fa esperienza della luce nera della
surrealtà. Costringono il linguaggio alle torture e contraddizioni che
simulano la torsione dei corpi: le rubis du Champagne oppure la rencontre
fortuite sur une table de dissection d’une machine à coudre et d’un
parapluie. Invece, se “Sade ‘parla’ […], parla in nome della vita silenziosa,
in nome di una perfetta solitudine, inevitabilmente muta”.56. Sade scrive nel
nome di un’ebbrezza solitaria.
Quello sadiano è un universo ebbro e per ciò stesso apatico, è cioè un
universo intensivista.57. Ogni postura erotico-criminale è una tappa nel
percorso dell’ebbrezza, eccita i nervi, è un grado d’intensità. Il principio, e
anche la fine di ogni grado intensivo, è la tensione nulla, la stasi del
movimento molecolare. Il concatenamento energetico dei corpi, l’intensità
del godimento, comincia e finisce con il grado zero dell’energia. L’universo
sadiano è fatto di forze, gradi e intensità, e ha il suo principio nonché il
compimento nell’insensibilità, nell’apatia. Nel godimento “l’insensibilità si
fa fremito di tutto l’essere”.58. I libertini sadiani si raccomandano a vicenda
l’apatia: ogni ebbrezza e concatenamento dei corpi devono essere
accompagnati da una sovrana indifferenza per ciò che accade. L’apatia è ciò
che rende i personaggi sadiani dei grandi solitari, è la vera infamia libertina,
è l’ultimo nascondiglio delle loro passioni. Se il godimento dei corpi è lo
scarto della società omogenea, l’apatia è il resto di questo scarto. L’apatia è
il residuo di ogni dinamismo energetico, soprattutto dell’energia libertina
che è un continuo “degradamento dei sentimenti”.59. Il degradamento è il
percorso che fanno tutti i gradi del godimento verso l’apatia. Al fondo del
degradamento l’ebbrezza ritrova il cippo funebre del proprio tragitto.
Ancora una volta è in gioco la formazione di un vortice. Per comprendere
la formazione di questo secondo vortice – distinto dal vortice rivoluzionario
– dobbiamo cambiare prospettiva e ripensare le funzioni: il flusso, adesso, è
la scrittura, mentre l’ostacolo contro cui sbatte il flusso, e da cui proviene il
contro-flusso, è il nascondiglio del libertino, è il fondo dell’ebbrezza. Il
sasso contro cui sbatte il flusso della scrittura è il corpo infame, il
godimento sottratto agli sguardi e ricondotto al suo principio apatico. Il
contro-flusso causato dall’apatia si combina con il flusso della scrittura e
insieme formano il romanzo metafisico del godimento.
Il flusso della scrittura romanzesca è fatto di toni e stili differenziati. Sade
ci tiene a caratterizzare il tono degli enunciati che mette in bocca ai
personaggi, esso è di volta in volta: iroso, impaurito, semplice, leggero,
amaro, gentile… Anche gli stili di Sade sono molteplici. La sua è una
scrittura polifonica. Nei romanzi c’è la solennità di Racine e il linguaggio
della medicina,60. Marivaux, Molière e la restituzione del linguaggio
popolare.61. Ma le lunghe tirate e gli argomenti elaborati dai libertini, prima
e dopo le orge, finiscono per contaminare gli altri toni e gli stili del
romanzo con il tono e lo stile neutri della filosofia.62. Questa neutralità
tonale-stilistica è il contro-flusso che la scrittura romanzesca ha ricevuto dal
sasso dell’apatia: l’“evidente monotonia che caratterizza i libri di Sade […]
scaturisce dall’intenzione di subordinare il gioco letterario all’espressione
di un evento indicibile”.63. Evento indicibile è la “voce della natura” che,
spiega Norceuil, “non ci ingannerà mai”.64. Questa voce non ci inganna
perché non dice niente: “la natura non ha alcuna voce”,65. non ha pathos. La
“voce della natura” dice l’apatia che appartiene all’ebbrezza. Prodotto dal
sasso dell’apatia, il contro-flusso della filosofia investe gli altri flussi con la
neutralità del proprio tono. Il tono neutro della filosofia organizza le voci
del romanzo, così come nel vortice rivoluzionario l’immaginazione analizza
e reinventa le forme del godimento. Nel grand rouleau della Bastiglia – il
rotolo lungo dodici metri su cui in cinquantasette giorni di lavoro Sade ha
ricopiato Le centoventi giornate – il flusso romanzesco della scrittura e il
contro-flusso della filosofia si combinano in un vortice di gelo. Il tessuto di
grafia continua, microscopica e fittissima che Sade arrotola e nasconde
dentro il godemiché fatto costruire dagli artigiani del faubourg Saint-
Antoine su commissione della moglie è il secondo vortice di Sade: il
volumen.
Il romanzo metafisico del godimento ha un aspetto respingente. Se Le
centoventi giornate “snerva sensualmente” il suo pubblico e “tutto alla fine
concorre alla nausea”,66. non è solo per i contenuti, ma anche perché
sentiamo la chiusura e il rifiuto che quel volumen smarrito in una cella
continua a opporci. Non vuole essere ritrovato, non vuole essere letto.
I due vortici
Non ci sono due periodi distinti nel confronto di Bataille con Sade: quello
giovanile, arrembante e speranzoso – che invita a un uso rivoluzionario di
Sade – e uno senile, in cui Sade diventa un fatto letterario. Ci sono, invece,
due vortici sadiani di cui Bataille ci permette di ricostruire la morfologia:
quello incendiario della rivoluzione e quello congelato del volumen. Il
vortice della rivoluzione è seduttivo, accende entusiasmi all’intorno,
produce altri vortici simili. Vuole avere testimoni e diffondersi, vuole essere
ricordato. Il vortice del volumen, invece, è chiuso e repulsivo, la sua
continuità fa corpo con se stessa e abbandona il mondo. Non vuole avere un
pubblico, vuole essere dimenticato.
Quale dei due vortici si produce quando ci mettiamo a leggere Sade
dipende dalla nostra prospettiva. Qual è il flusso: il godimento o la scrittura
romanzesca? Qual è la pietra che produce il contro-flusso: la solitudine
carceraria o l’apatia libertina? Qual è il contro-flusso: l’immaginazione o il
tono neutro della filosofia?
Se “l’umanità è fatta di esperienze separate”,67. Bataille dichiara di aver
cercato di addossarsi “la difficoltà in entrambe le direzioni”.68. Non è però
facile pensare i due vortici, la rivoluzione e il volumen, insieme. Nel tempo
in cui un vortice si disfa e l’altro si sta formando succede che le spire
allargantesi della rivoluzione toccano il volumen che si avvolge su se stesso.
Etero-logia significa questo: due volgimenti disparati che collidono. In
quell’istante la rivoluzione può incendiare il volumen, oppure il volumen
raffredda la combustione della rivoluzione. Ma si tratta, in entrambi i casi,
di un pensiero insufficiente, capace solo di fare ipotesi sugli effetti della
collisione e che non riesce a pensare la collisione in quanto tale.
Sade è l’avversario del letterato che oggidì “non riesce più ad ammettere
le relazioni che si istituiscono […] tra la chiusura della letteratura e la
Rivoluzione proletaria, tra Lautréamont e Lenin”.69. In Sade la letteratura “e
la rivoluzione si collegano […] come gli elementi disparati di una figura
compiuta, come a una rovina si collegano delle rocce, o al silenzio la
notte”.70. La collisione tra la rivoluzione e il volumen accade nel punto di
massima energia di cui Sade è il nome.
2. Sade
Tutte le tesi dell’energetismo sono riscontrabili negli scritti di Sade. Lo
possiamo verificare, ripercorrendole in ordine inverso, e meno
schematicamente. Anzitutto, il dominio della necessità, nel duplice senso di
“dominio”, cioè la dominanza della necessità nell’intero universo, come
campo d’azione. La medesima duplicità caratterizza il termine privilegiato
dalla filosofia di Sade, vale a dire la Natura: non vi è nulla che non sia
natura, e la Natura è imperiosità che si diffonde in tutti gli enti. Non
dobbiamo trascurare la distinzione tra natura causante e causata. Il
determinismo di Sade non si ispira alla nozione di causa efficiente, cioè a
una causalità che implica l’esteriorità tra soggetto e oggetto: e tuttavia
l’immanenza della causa agisce inevitabilmente nelle relazioni tra esseri
separati, e iperbolicamente separabili – non è questo un aspetto della
jouissance, a cui accede il carnefice, quando sovrasta la vittima? Occorre
chiarire pazientemente la duplicità, o paradossalità, in cui si esprime quella
logica paradossale che è la coincidentia oppositorum.
Di questa logica, l’equivalenza immediata tra Natura e Legge è la
manifestazione forse più importante, e da cui trae conferma la tesi di
necessità. Le leggi della Natura sono inesorabili e “cieche”, e a esse la
Natura è interamente vincolata.1. Nella sua concezione della necessità, Sade
è un seguace di Aristotele (necessario è ciò che non può essere altrimenti) e
della tradizione occidentale: necessità significa rigidità – potremmo forse
immaginare una necessità flessibile? E tuttavia l’univocità del necessario si
scinde in un più e un meno, in una differenza: il che non dovrebbe
sorprendere, quando ci si riferisce a un universo dinamico, dove tutto è in
perenne movimento. Perciò uno dei personaggi a cui verosimilmente Sade
affida l’esposizione del suo pensiero, e cioè papa Braschi, osserva che “i
vizi sono più necessari delle virtù”.2. Più necessari: nell’universo della
necessità – diversamente da quanto può sembrare a prima vista – non tutto è
egualmente necessario. L’eguaglianza è smentita dalla differenza: a meno
che tra di esse non torni a stabilirsi la coincidentia.
Proviamo a seguire il ritmo altalenante di questa concezione: “I vizi sono
più necessari delle virtù, poiché hanno funzione crea-trice, mentre le virtù
sono soltanto create o, se preferite, i vizi sono cause e le virtù sono soltanto
effetti”.3. I criminali sono più necessari, in quanto assumono integralmente
la spinta alla distruzione che abita la Natura, e la possiede: “Non saranno
mai abbastanza gli omicidi sulla terra, in rapporto all’avidità [soif ardente]
che ne prova la natura”.4. Nella Natura, l’impulso di distruzione si spinge
fino a una delirante volontà di autodistruzione: brama inappagabile,
impossibile, perché nessuna vera distruzione è possibile, perché la morte è
impossibile, e ciò che chiamiamo morte è solo mutazione di forma.
La paradossalità di questa concezione risulta incomprensibile senza il
ricorso alla logica della coincidenza immediata tra gli opposti (tra i
contrari), che peraltro va precisata. Vita e morte coincidono, e tuttavia in
Sade possiamo trovare (oltre che derivare) l’asserzione “non vi è morte [il
n’y a point de mort]”,5. mentre non troveremo mai né implicitamente né
esplicitamente l’asserzione contraria “non vi è vita”. In un universo
dinamico, come viene pensato dall’energetismo, la coincidentia
oppositorum è sempre sbilanciata.
Non sarà certamente in esempi irenici come quello della linea e del
circolo che potremo trovare casi paradigmatici di uno sbilanciamento, da
cui la coincidenza immediata non viene peraltro smentita se non
provvisoriamente: in una provvisorietà infinita, però, interminabile.
Torniamo alla (non)-relazione tra vita e morte. Come si è appena detto, per
Sade la morte è una forma di vita, morire è impossibile; sarebbe necessaria
una seconda morte, per imporre una distruzione definitiva: “L’assassinio
toglie soltanto la prima vita all’individuo da noi colpito; si dovrebbe
potergli strappare anche la seconda, per essere ancora più utili alla natura;
poiché essa vuole l’annullamento”.6. Ma la seconda morte sarebbe a sua
volta una seconda vita, una vita semplicemente mutata di forma, e così via
all’infinito. Abbiamo appena osservato che la coincidentia oppositorum,
nella versione energetista, è sbilanciata. Eppure, all’asserzione “la morte è
una forma di vita” non potrebbe seguire “la vita è una forma di morte”? Sì e
no. Sì, perché la vita è continua distruzione, trionfo della morte. No, perché
la morte viene inesorabilmente degradata ad apparenza, non appena si
assume il punto di vista dell’Uno.
Lo sbilanciamento sembra perciò confermato, a condizione di intenderlo
dinamicamente, come squilibrio che rinnova un equilibrio “differenziale”.
D’altronde, per citare ancora una volta il discorso di papa Braschi,
l’equilibrio dell’universo (ce parfait équilibre) va pensato attraverso la
nozione e l’espressione di Orazio rerum concordia discors.7.
Che l’Uno (o la Natura) sia differenza, gli ideologi che prendono la parola
negli scritti di Sade lo dicono continuamente. Per esempio Dorval: “Amiche
mie, una sola cosa crea differenze tra gli uomini nell’infanzia delle società:
la forza”.8. Essa è distribuita in modo ineguale, e l’ineguaglianza della
distribuzione implica necessariamente una lesione del forte sul debole.9.
Prima ancora che tra gli individui, tale diseguaglianza si manifesta nella
differenza di intensità tra due movimenti: quello primario, il più forte, in cui
si trova la felicità, e che si manifesta nel vizio; e quello secondario, il più
debole, che si manifesta nella virtù. La virtù delude: “Quel défaut de
mouvement!”, esclama Noirceuil.10.
In effetti la virtù mira al conseguimento di un piacere, al pari del vizio; ma
in un mondo fittizio dove si è costretti a rinunce e sacrifici, nell’illusione
che sopprimendo i nostri istinti naturali si possa ottenere una ricompensa:
un mondo calcolistico, e anche per questo motivo inferiore a quello
disinteressato del vizio.11. Ciascuno di noi può scegliere (“c’est à lui de
choisir”).12. Ma, poiché virtù e vizio mirano entrambi alla felicità, al piacere,
e poiché “solo il grado di violenza da cui siamo scossi caratterizza l’essenza
del piacere”,13. ne consegue che colui che si affida al movimento secondario
non potrà essere felice quanto colui che si abbandona al movimento
primario, ed è vigorosamente eccitato dalla passione.
Nel momento stesso in cui siamo indotti a rimarcare nella natura una
differenza, che, pur essendo una differenza soltanto di grado, sarebbe
capace di minacciare la sua unità indivisa, dobbiamo convenire che tale
differenza è sempre riassorbibile. Non vi è propriamente conflitto tra vizio e
virtù, in quanto la virtù è vizio indebolito, egoismo mascherato, rinuncia
interessata e calcolatrice, “desiderio di far rifluire su di sé una dose di
felicità più riposante di quella che offre la via del delitto”.14. Dunque,
“nell’uomo tutto è vizio”.15. Il mondo della virtù e delle leggi deriva
dall’esaurimento dello slancio vitale, da un affievolirsi dell’energia. Questa
sembra essere la spiegazione offerta dall’energetismo per giustificare la
possibilità, ancor prima che l’esistenza, di tutto ciò che almeno in apparenza
smentisce e capovolge la realtà dell’Uno. Ritmicamente, il mondo
dell’esperienza risorge dall’annientamento metafisico, le spiagge tornano a
essere visibili ogni volta che la marea dell’Uno si ritrae. Riappare il mondo
del Due, e delle relazioni. Si incrina la certezza nell’indiviso, svanisce la
serenità di coloro che si stavano immergendo nel divino flusso. Allora
l’energetista evocherà la più pacificante delle formule, la “formula magica
che cerchiamo tutti: PLURALISMO = MONISMO”.16. I nostri dubbi verranno
dissipati?
La versione di Sade non è l’unica possibile, ma non è irenica, e forse è più
veritiera di quanto lo siano le versioni ireniche dell’energetismo. Il
problema filosofico viene posto con sufficiente lucidità: come è possibile
diventare Natura, e non restare confinati in una di quelle frazioni che
limitano l’individualità di ciascuno? In quale forma di vita potrebbe
concretizzarsi la coincidentia oppositorum? È possibile de-soggettivarsi
sino a diventare una forza anonima, indistinguibile nella continuità fluida
dell’universo? L’uomo di Sade aspira alla de-soggettivazione, e in questo
processo scorge la via d’uscita dal Due, la possibilità che la sua condizione
paradossale non diventi aporetica.
La violenza e il crimine vengono scelti in quanto offrono un vertice alla
passione, e, come sappiamo, il più alto grado di violenza coincide con
l’estremo del piacere. Tuttavia il sadico non è semplicemente un individuo
che tormenta un altro individuo: l’uomo sadiano si è identificato con la
Natura stessa, la sua metamorfosi non è immaginaria né simbolica, bensì
reale, per usare i termini di Lacan; e, per riprendere quelli di Bergson, si
potrà dire che il sadico ha stabilito un “contatto diretto con la realtà”.17. È
riuscito ad abolire tutte le mediazioni; ha l’intuizione diretta della vita.
Si dirà che questo è soltanto il sogno di Sade; ma non è forse il sogno di
tutti gli energetisti? Resta il fatto che soltanto in una delle sue versioni
l’energetismo genera il sadismo; come si è già detto, qui non si intende
affibbiare l’etichetta “perversione” a una posizione filosofica, che va
analizzata e discussa filosoficamente, e non clinicamente.18. Bisognerebbe
interrogarsi sul punto di divaricazione tra la versione crudele
dell’energetismo e le versioni ireniche.19. Adesso vorremmo offrire qualche
precisazione relativamente al concretizzarsi della coincidentia oppositorum
in una forma di vita.
Gli obiettivi, convergenti, sono due: la de-soggettivazione (il diventare
Natura) e il godimento estremo. Resta inteso che il godimento riguarda
soltanto i sensi.20. Quali pratiche ne consentiranno la realizzazione? De-
soggettivarsi implica il diventare indiviso: il dissolversi di tutto ciò che è
articolazione, distinzione. Perciò tutti i gesti dovranno diventare uno: e la
precipitazione verso l’uno genera un furor incontenibile, condizione e
attuazione della metamorfosi. Un esempio, tra i più noti: “Eccomi insieme
incestuosa, adultera, sodomita, e tutto questo lo è una ragazza che è stata
sverginata soltanto oggi!”, dice Eugénie, esaltata dalla rapidità con cui sta
percorrendo la strada del vizio.21. Il principio della réunion (la sintesi
sadiana) viene continuamente riaffermato: “Sublimi effetti dell’unione tra
delitto e lussuria, quanta energia fornite al delirio delle passioni!”, dice
Dorval.22. L’unificazione esalta il soggetto, lo conduce a uno stato
parossistico in cui l’Io si dissolve, e subentra una soggettività anonima, cioè
una forza de-soggettivata. Ma l’intensità del godimento può venire
accresciuta dal linguaggio, secondo varie modalità. Anzitutto quella
organizzativa, in quanto le orge esigono ordine e coordinazione; la Natura
non è caos, la réunion non conduce al disordine: “Mettiamo un po’ d’ordine
nei nostri piaceri, si gode soltanto fissandoli”.23. In secondo luogo, la parola
si alterna al piacere fisico, per offrirne un quasi-equivalente al fine di
colmare gli intervalli, determinati dalla spossatezza: “Non basta provare
delle sensazioni, bisogna analizzarle. Talvolta saperne parlare è altrettanto
dolce che goderne, e quando ciò non è più sopportabile, è divino gettarsi
sull’altro”.24. Il linguaggio viene posto al servizio della continuità. Infine, la
parola offre ai libertini la possibilità di anticipare le sevizie che
infliggeranno alle loro vittime, contribuisce alla crescente esaltazione di chi
si erige a padrone assoluto dell’altro, dunque agisce a favore della
jouissance.
3. Obiezioni a Lacan?
Come valutare la teoria lacaniana della perversione nella prospettiva che
qui è stata delineata? La descrizione del sadismo come energetismo offre
un’integrazione, e in larga misura una conferma, alla concezione che Lacan
ha esposto nel Seminario VII, privilegiando il libello Francesi ancora uno
sforzo, e in seguito nel Kant avec Sade? Oppure la nostra prospettiva
suggerisce quantomeno la necessità di chiarire alcune delle tesi più note, e
più frequentemente ripetute? Proviamo a ricordarle rapidamente,
cominciando da quella che sembra la più importante: il perverso mira a un
godimento pieno, non intaccato dalla castrazione, cioè dalla Legge. Nel
programma della perversione il principale obiettivo sarebbe dunque
l’abolizione della legge – delle “vostre leggi”, come dice un personaggio di
Sade, cioè delle leggi sociali in cui si riconosce la cultura dell’Occidente:
non si tratta infatti di disconoscere qualunque legge, perché Natura e Legge
sono la stessa cosa, ma di interiorizzare e di condividere, in un piccolo
gruppo o in un progetto politico (come lo enuncia, per esempio, La filosofia
nel boudouir), un assetto organizzativo che si ispira direttamente a quelle
leggi, a cui la Natura stessa è vincolata. Leggi non scritte, e la cui
“traduzione” in un progetto politico dovrà risultare parsimoniosa
(“Promulghiamo poche leggi, ma buone”).25.
In una diversa formulazione, il perverso vuole abolire il grande Altro,
dunque il Simbolico, così da annullare l’azione letale del significante. Se
questa formulazione riflette correttamente il pensiero di Lacan, non meno
corretta sarà l’equivalenza tra Altro, Simbolico, significante, Legge. Il
perverso opera per “riunificare, agendo contro l’Altro (l’Altro della Legge),
il corpo del soggetto con il suo godimento […]. Si tratta di un’ambizione
che urta inevitabilmente contro l’esistenza stessa del linguaggio, la quale
rende impossibile la coincidenza di corpo e godimento perché, dove c’è
corpo umano, c’è sempre perdita, negativizzazione, scissione, distanza tra
corpo e godimento. È una formula che ritorna frequentemente in Lacan: il
corpo umano è un ‘deserto di godimento’ provocato dall’incidenza del
linguaggio sulla vita”.26. L’umanizzazione della vita implica una perdita, un
trauma: si può essere senz’altro d’accordo con Lacan, ma perché attribuire
quest’azione a un’entità chiamata “il linguaggio”, “il significante”? Perché
lasciarsi ipnotizzare dall’articolo determinativo, così utile nel riassumere
funzioni, modalità, possibilità diverse, e forse in conflitto tra loro, così
fallace, dogmatico e depistante nella misura in cui crea l’illusione di
un’identità compatta? IL linguaggio non esiste, è lo stesso Lacan ad averlo
detto, sia pure soltanto nel Seminario XX, e limitando una possibile teoria
degli stili all’alternativa tra linguaggio codificato e lalangue.27. Ma allora
non esisterà neppure IL significante, bensì soltanto modi o regimi. Che esista
un regime di significanti, in grado di svolgere un’azione letale nei confronti
della vita intesa nella sua ricchezza esuberante, traboccante di potenzialità,
è fuori discussione. E che la superstizione indotta dall’articolo
determinativo caratterizzi la visione del perverso è del tutto plausibile.
Sconcertante è che tale superstizione caratterizzi anche la psicoanalisi.
Tuttavia, è proprio il discorso di Sade a mettere in discussione
l’equivalenza tra il linguaggio e la Legge (sociale, convenzionale). Come si
è appena osservato, il linguaggio – o meglio un regime di linguaggio – può
schierarsi dalla parte del godimento, educare la tendenza al disordine,
dirigere l’orgia verso un’armoniosa combinazione dei corpi e degli organi,
in fluide variazioni, aumentare l’eccitazione anticipando gli atti che stanno
per compiersi, duplicandoli su quello schermo che la parola può diventare
in una fantasia condivisa. Quanto alla tesi secondo cui il linguaggio è un
trauma, ebbene: felix trauma, che da un lato reprime, dall’altro dischiude
possibilità di godimento sconosciute all’animale ipoteticamente rimasto al
di qua della parola.
Secondo la dottrina lacaniana “la pulsione è in sé perversa, indifferente
all’Altro, chiusa autisticamente su se stessa […]. Mentre la soddisfazione
del desiderio umano appare profondamente vincolata a quella dell’Altro
[…], la pulsione è una figura dell’Uno che sembra rendere impossibile ogni
rapporto con l’Altro poiché gode anzitutto di se stessa”.28. Nuovamente, a
partire dalle precise definizioni di Recalcati, ci si può interrogare su quello
che è uno dei concetti psicoanalitici fondamentali, e ci si può chiedere se la
teoria di Lacan non abbia rinunciato a sviluppi autorizzati, se non suggeriti,
dal pensiero di Freud. La clinica incontra la pulsione soprattutto nelle sue
manifestazioni irrigidite, negli effetti della coazione a ripetere: è forse per
questo motivo che la teoria non ha saputo valorizzare ciò che nelle pulsioni
è più essenziale della rigidità, ovvero della proprietà fenomenicamente più
diffusa? Nella Metapsicologia e altrove Freud dice che le pulsioni sono
forze plastiche.29. Alcuni anni dopo, in Al di là del principio di piacere,
metterà in risalto la tendenza a ripetere, indicandola come una proprietà
delle pulsioni. Un termine poco felice, perché né la plasticità (cioè la
flessibilità) né la rigidità sono “proprietà”, bensì modi. Certamente,
seguendo Heidegger, si potrà ammettere che in una certa misura anche i
modi sono proprietà, caratteri intramondani: la flessibilità del ramo di un
albero, di un contratto, di un mutuo bancario ecc., mostrano uno statuto che
è assai più quello di una Eigenschaft che non di una Weise zu sein. Non
solo: benché vada pensata come un modo d’essere, la rigidità si avvicina al
modo di essere proprietario assai più della flessibilità.
Che cos’è dunque una pulsione? Come può riunire determinazioni
opposte? Perché, a quali condizioni, il più flessibile diventa il più rigido?
Possiamo senza dubbio descrivere la pulsione come un conflitto tra rigidità
e flessibilità, ma questa resterebbe soprattutto una descrizione, mentre
stiamo cercando una spiegazione. La domanda ineludibile è questa: perché
la plasticità assoluta dovrebbe includere il suo opposto? Forse la concezione
energetista dei perversi aiuta a trovare una risposta: perché un’orgia ha
bisogno di venir regolamentata dalla parola? Anche la perversione ha una
sua saggezza, che troviamo enunciata sin dall’inizio nella Histoire de
Juliette (come già ricordato): un po’ d’ordine favorisce il piacere, impedisce
ai corpi di accavallarsi comicamente in quella che sarebbe semplicemente
“un’ammucchiata”. La serietà di una vera orgia è la stessa del rito.
Dunque la pulsione non è autistica, o almeno non lo è interamente: in essa
dobbiamo cogliere due movimenti, di eguale importanza. Per un verso, essa
gira intorno all’oggetto, si chiude circolarmente su di sé – immagine della
bocca che tenta di baciare se stessa. Per un altro verso, la pulsione si infila
nelle articolazioni del significante, nelle sue strettoie, nei suoi labirinti,
nelle vie che essa solo apre e dischiude. Se non penetra nel Simbolico, se
non lubrifica le sue rigidità, se non scuote gli intrecci dei significanti,
rimane un’attività sterile. La pulsione ha bisogno del significante per non
venir privata della sua plasticità, per non riversarsi nella rigidità del
molteplice.30.
Dobbiamo ancora credere che la pulsione sia una figura dell’Uno? Non
dovremmo dire, piuttosto, che l’Uno aspira – vanamente – a essere l’unica
possibile versione del Trieb?
1 D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, UGE, Paris 1976, vol. II, parte IV, p. 455; trad. a cura di G.P.
Brega, Storia di Juliette, in Opere scelte, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 260 e 261.
2 Ivi, p. 462; trad. p. 263.
3 Ibidem.
4 Ivi, pp. 462-463; trad. p. 264.
5 Ivi, p. 460; trad. p. 262.
6 Ivi, p. 463; trad. p. 264.
7 Ivi, p. 462; trad. p. 263.
8 Ivi, vol. I, parte I, p. 150; trad. p. 177.
9 Ivi, p. 151; trad. p. 177.
10 Ivi, p. 182; trad. p. 186. La traduzione italiana (“Che mancanza di vivezza!”) rinuncia a un
termine chiave di Sade, cioè mouvement.
11 Ivi, pp. 184-185; trad. p. 188.
12 Ivi, p. 184; trad. p. 187.
13 Ivi, p. 187; trad. p. 189.
14 Ivi, p. 185; trad. p. 188.
15 “Tout est donc vice dans l’homme” (ibidem).
16 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), trad. di G. Passerone,
rivista da P. Vignola, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 60.
17 H. Bergson, Pensiero e movimento (1938), trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000, p. 21.
18 In proposito, condivido le riflessioni di Federico Leoni, “Un altro Uno. Lacan, la legge, la
perversione”, in A. Campo (a cura di), L’Uno perverso, Textus, L’Aquila 2017.
19 Per motivi di spazio questo problema non potrà venire discusso come meriterebbe. Mi limito a
un’indicazione: l’aggressività del sadico trova la sua giustificazione teorica nell’espressione “Ho il
diritto di esigere”, cioè nel principio di parità violenta a cui egli si sottomette, pretendendo che
chiunque vi si debba sottomettere.
20 “Il n’y a de véritable félicité que dans les sens” (D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, cit., p.
188).
21 Id., La filosofia nel boudoir (1795), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1974, p. 301.
22 Id., Histoire de Juliette, cit., vol. I, p. 150; trad. p. 177.
23 Ivi, p. 23.
24 Ivi, pp. 87-88.
25 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 271.
26 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina,
Milano 2016, pp. 419-420. Cfr. anche F. Lolli, Le perversioni nella clinica psicoanalitica, Poiesis,
Alberobello (Bari) 2010.
27 J. Lacan, Seminario XX. Ancora (1972-1973), trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 139.
28 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, cit., p. 396.
29 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima serie di lezioni (1915-1917), in Opere, vol. VIII,
Bollati Boringhieri, Torino 1976.
30 Un esempio, che riguarda l’insufficienza mentale grave, dove il soggetto “può mangiare di tutto,
fino a scoppiare. Non importa ciò che mangia (frammenti di vetro, chiodi, pezzi di plastica, rifiuti
ecc.). Ciò che conta è l’attività del ‘mangiare’, dell’inghiottire, dell’ingurgitare – in qualunque modo
e con qualunque mezzo” (F. Lolli, “L’Uno è la differenza”, in A. Campo [a cura di], L’Uno perverso,
cit., p. 169). L’assenza di selezione contrassegna la perdita di flessibilità.
31 Per una sintesi delle critiche a Deleuze, cfr. M. Recalcati, “L’illusione della perversione”, in A.
Campo (a cura di), L’Uno perverso, cit.
32 Vale la pena di ricordare il desiderio espresso da Sade nel suo testamento, dove chiede di essere
sepolto “nel folto del primo bosco ceduo” posto a destra della selva della Malmaison per chi viene
dall’antico castello, e aggiunge che “una volta ricoperta la fossa, vi siano subito seminate della
ghiande, affinché, ricresciute le piante sulla fossa e ricosti-
tuitosi il bosco ceduo così com’era stato prima, le tracce della sua tomba scompaiano dalla faccia
della terra” (citato in G. Lély, Vie du marquis de Sade, Pauvert, Paris 1965, p. 690).
33 Per quanto riguarda la prospettiva qui adottata, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, La ragione
flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013 e Perché bisogna
riscrivere Lacan. A partire dalla letteratura (cioè dalla flessibilità), “Enthymema” (rivista online),
15, 2016.
Giovanni Bottiroli insegna Teoria della letteratura ed Estetica all’Università di Bergamo.
Immanenza? Etica?
FELICE CIMATTI
Questa legge deve dare al mondo dei sensi in quanto natura sensibile (per
quanto concerne gli esseri razionali) la forma di un mondo dell’intelletto,
cioè di una natura soprasensibile, senza tuttavia sconvolgerne il
meccanismo. Ora la natura nel senso più generale è l’esistenza delle cose
sotto leggi. La natura sensibile degli esseri razionali in generale è
l’esistenza di questi esseri sotto leggi empiricamente condizionate; il che,
per la ragione, è eteronomia. La natura soprasensibile di questi stessi
esseri è, al contrario, la loro esistenza secondo leggi indipen-
denti da ogni condizione empirica e quindi proprie all’autonomia della
ragion pura. E, poiché le leggi secondo le quali l’esistenza delle cose
dipende dalla conoscenza sono pratiche, la natura soprasensibile, in
quanto possiamo formarcene un concetto, è semplicemente una natura
sotto l’autonomia della ragion pratica. Ma la legge di questa autonomia è
la legge morale che è dunque la legge fondamentale di una natura
soprasensibile e di un mondo dell’intelletto puro, la cui copia deve
esistere nel mondo sensibile, senza però pregiudizio per le leggi di esso.8.
In un paese vi sono vari prodotti naturali che tuttavia devono essere visti,
considerata l’abbondanza di una certa specie, anche come manufatti
(artefacta) dello Stato […]. Così come dei vegetali (per esempio delle
patate) o degli animali da allevamento che […] sono opera degli uomini,
si può dire che li si può usare, consumare e distruggere (far morire), allo
stesso modo sembra si possa dire anche del potere supremo dello Stato, il
Sovrano, che ha il diritto, nei confronti dei sudditi, che nella loro grande
quantità sono un suo prodotto, di condurli in guerra come a caccia e su un
campo di battaglia come a una festa campestre.23.
L’unico principio “etico” di Sade è quello di privilegiare in ogni caso e a
ogni costo la volontà del singolo soggetto. In questo senso si può ancora
parlare di “etica”, a proposito di Sade, perché comunque mantiene una
caratteristica indispensabile del campo etico, la volontà del soggetto (ché i
soggetti, come nel caso delle Centoventi giornate di Sodoma, siano
pochissimi rispetto al grande numero delle loro vittime, non toglie nulla al
carattere perversamente “etico” della sua filosofia). Una volontà che, per
realizzare le proprie voglie, deve sbarazzarsi di ogni altra norma che non sia
quella raccolta nella massima brutale del “fotti”. Ogni etica si muove nella
tensione fra norma e soggetto; Sade privilegia il polo della volontà
individuale, a dispetto di quella della collettività. Ma siccome non c’è
soggetto senza norma (così come non esiste norma senza soggetto),
l’egoistico e violento imperativo “fotti” non smette per questo di essere un
gesto etico. Nella Filosofia nel boudoir è il cinico e spietato Dolmancé che
spiega a Eugénie perché anche il crimine, in fondo, rientri nel campo etico:
“EUGÉNIE. Ma se tutti gli errori che voi esaltate sono nella natura, perché le
leggi vi si oppongono? DOLMANCÉ. Perché le leggi non sono fatte per il
particolare, ma per il generale, cosa che le mette in perpetua contraddizione
con l’interesse, dato che l’interesse personale è sempre in contrasto con
quello generale. Ma le leggi, buone per la società, sono pessime per
l’individuo”.24. Il paradosso di questa affermazione consiste nel fatto che
l’individuo può esserci, in quanto volontà, solo perché esiste quella stessa
norma astratta e generale che limita le sue voglie. Il factum dell’“autonomia
del principio fondamentale della moralità”, come scrive Kant, in realtà non
sarebbe un fatto se non ci fosse già una norma morale che presuppone e
istituisce quello stesso fatto. Per questa ragione, in Justine, “l’anima del
libertino” viene presentata come “l’enigma della natura”.25. Come la volontà
è un factum, cioè un assioma indimostrabile, così il libertino, cioè la pura
volontà di godere, è un “mistero”, cioè appunto un assioma che sfugge a
ogni definizione o spiegazione.
L’operazione di Sacher-Masoch, invece, è opposta: non si tratta più di
affermare la volontà individuale contro la norma politica e morale, bensì di
sottomettervela (ma volontariamente, come vedremo), per quanto questa
stessa norma possa essere arbitraria e insensata. E così Venere in pelliccia si
apre con un significativo “mi trovavo in dolce compagnia”.26. Un aggettivo,
“dolce”, che in Sade non sarebbe mai potuto occorrere, perché non c’è
alcuna dolcezza nel suo mondo spietato di godimento autistico: “È dalla
natura”, dice il duca di Blangis, “che ho ricevuto i miei istinti […] tra le sue
mani sono solo una macchina che essa muove a suo piacimento”.27. Sade
gioca con questa ambiguità: da un lato la volontà è “naturale”, dall’altro,
tuttavia, tutta la sua filosofia si basa sull’innaturalità del desiderio, ché i
“libertini non hanno altro dio che la loro libidine, altra legge che la loro
depravazione, altro freno che la loro dissolutezza, dei criminali senza dio,
senza principi, senza religione”.28. Una natura distruttiva, che quindi
trascina con sé il volere degli uomini: “Le nostre distruzioni eccitano il suo
potere e mantengono viva la sua energia […] che importa alla sua mano,
votata a una creazione perenne, se la carne che forma un individuo bipede si
riproduce domani con le parvenze di mille insetti diversi?”.29. In fondo il
libertino di Sade agisce sì sotto spinta della natura, ma perché è giusto
seguire la natura. In questo senso il suo gesto rimane un gesto, benché in
modo rovesciato, etico. Questo significa, tuttavia, che il sadico vuole il male
che sostiene di non potere non compiere.
Ma la volontà è al centro anche del mondo di Sacher-Masoch: “Vuol
essere il mio schiavo?”30. chiede Wanda Dunajew a Severin. Mentre i
libertini di Sade costringono le loro vittime alla schiavitù, la Venere in
pelliccia chiede alla sua vittima di accettare volontariamente di diventare il
suo schiavo. Allo stesso tempo Severin cerca nella sua “padrona” una figura
trascendente: “‘Io posso amare solo ciò che è al di sopra di me’, proseguii,
‘una donna che mi soggioghi con la bellezza, con il temperamento, lo
spirito, la forza di volontà, che diventi la mia despota’”.31. D’altronde lo
stesso Severin è un uomo “sovrasensuale”,32. cioè appunto qualcuno che
non cerca una donna in carne e ossa, bensì un ruolo, una posizione in uno
schema formale del desiderio. Per questo ha bisogno di un contratto
esplicito: “‘Ti permetterò di rimanermi accanto come schiavo’”, dice la
Venere in pelliccia, “‘ma io so che alla prima occasione ti ribellerai di
nuovo, per questo devi essere il mio schiavo realmente, e nel senso più
autentico della parola. Devi firmarmi un contratto, offrirmi un mezzo per
domarti con la forza, in caso di necessità, e per costringerti all’obbedienza.
Vuoi?’”.33. La differenza con Sade è radicale: la vittima, per Sacher-Masoch,
vuole essere vittima. Allo stesso tempo la vittima vuole che questa
condizione venga stabilita in modo esplicito, vuole appunto un “contratto”.
D’altronde è quello che riporta anche il contratto che lo stesso Sacher-
Masoch stipulò realmente con Fanny von Pistor: “Il signor Leopold von
Sacher-Masoch si impegna con la propria parola d’onore a essere lo schiavo
della signora von Pistor e a obbedire incondizionatamente a ogni suo
desiderio e ogni suo ordine”.34. È il contratto – cioè la norma “etica” – a
tenere legato lo “schiavo” alla Venere in pelliccia. E infatti è con un gesto
libero e volontario che Severin/Sacher-Masoch si impegna a diventare lo
schiavo della “dea”35. a cui ha deciso di legarsi senza alcuna restrizione:
“‘Deciditi dunque, vuoi essere il mio schiavo?’. ‘Sì, lo voglio’”.36.
Se Sade privilegia il polo etico della volontà, rispetto a quello della
norma, Sacher-Masoch compie l’operazione opposta, mettendo l’accento su
quest’ultimo, a tutto svantaggio del primo. In entrambi i casi, tuttavia, si
rimane nel campo etico, cioè nel campo della trascendenza. Perché in
entrambi i casi è la “volontà”, sadica o masochistica, che fonda le azioni dei
loro personaggi. Per Sade la volontà di assecondare la natura, per Sacher-
Masoch quella di ubbidire a un contratto liberamente stipulato. In effetti che
la norma sia “naturale” o artificiale non ne cambia il carattere essenziale:
c’è norma solo se c’è una libera volontà che agisce (o no) come la norma
stabilisce che si debba agire. Da questo punto di vista Blangis e Severin
sono figure etiche allo stesso titolo, per quanto possano essere
incomprensibili le norme a cui “ubbidiscono”. A ragione Deleuze pone il
contratto al centro sia della posizione del sadico che di quella del
masochista: “Il masochista elabora dei contratti, mentre il sadico aborre e
distrugge qualsiasi contratto”.37. In entrambi i casi è il contratto, e quindi la
libera volontà che presuppone e implica, a occupare il centro della scena:
contratto da stipulare e contratto da rigettare. Senza contratto, ossia senza
una proposizione che si autopresenta come universale, non può esserci il
masochista, ma nemmeno il sadico: “Considerate il paradosso”, osserva
Lacan a proposito di Sade, “perché questa massima [quella espressa
dall’imperativo della Saint-Ange, ‘fotti’, rivolto a Eugénie] faccia legge
bisogna e basta che […] possa essere ritenuta come universale a filo e
diritto di logica”.38. Ecco allora che anche il sadico, in realtà, agisce in base
a una massima universale: “‘Ho il diritto di godere del tuo corpo […] e
questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nel
capriccio delle esazioni ch’io possa avere il gusto di appagare’”.39. È
Deleuze che coglie la centralità della Legge sia per la figura del sadico che
per quella del masochista:
Partendo dall’idea [kantiana] che la legge non può essere fondata sul
Bene, ma deve basarsi sulla sua forma, l’eroe sadico inventa un nuovo
modo di risalire dalla legge a un principio superiore: ma questo principio
è l’elemento informale di una natura prima che distrugge le leggi.
Partendo dall’altra scoperta moderna, che la legge alimenta la
colpevolezza di colui che vi ubbidisce, l’eroe masochista inventa un
nuovo modo di discendere dalla legge alle conseguenze, egli “aggira” la
colpevolezza, facendo del castigo una condizione che rende possibile il
piacere proibito. In tal modo il masochista non rovescia in misura minore
la legge, sebbene lo faccia in un modo diverso.40.
Sade e Sacher-Masoch mostrano come non sia sufficiente, per immaginare
una condizione di immanenza, stravolgere la legge da un lato, oppure
costruirsi una propria legge perversa dall’altro. La legge non scompare con
la sua soppressione, perché rimane sempre la volontà, e quindi il soggetto,
che è inseparabile dalla legge. Ma finché esiste un soggetto non può esserci
un’etica dell’immanenza, perché immanenza in fondo non vuol dire altro
che non c’è più soggetto né volontà. Immanenza significa: non c’è spazio
per l’etica. Tuttavia se Sade e Sacher-Masoch non si sbarazzano della legge,
e quindi del soggetto, allo stesso tempo indicano che c’è un godimento
insensato al fondo dell’umano. Una insensatezza che può voler dire due
cose molto diverse; un comportamento è insensato perché è illogico, perché
non rispetta la razionalità. Quindi un’insensatezza che in realtà non è che il
rovesciamento del sensato. L’altra possibilità è che si tratti di un insensato
che non ha nulla a che fare con il senso e il ragionamento. È in questa
seconda direzione che va intesa l’insensatezza di Sade e Sacher-Masoch,
muovendo anche oltre il loro stesso pensiero. Perché in fondo quello che
mostrano è come il godimento del corpo sia, al suo fondo, del tutto privo di
senso. D’altronde è questa la scoperta freudiana, la sessualità infantile
“perversa polimorfa”, che mostra la “predisposizione verso perversioni di
qualsiasi tipo [che] è una caratteristica umana generale e originaria”.41. Si
potrebbe sostenere che Sade e Sacher-Masoch mostrano piuttosto quello
che diventa questa natura perversa originaria, quando è posta al servizio del
doppio dispositivo trascendente del soggetto e della norma.
Sade e Sacher-Masoch mostrano, o almeno lasciano intravvedere,
l’insensatezza del godimento corporeo, il fatto che è un godimento fuori
senso. Fuori senso significa oltre il soggetto e la norma. Quindi oltre l’etica.
Ma questo non significa che oltre l’etica ci sia un caos insensato. Un mondo
senza senso non è un mondo insensato.42. Deleuze chiama questo spazio
“immanenza assoluta”,43. dove l’aggettivo “assoluta” mostra che si tratta di
un’immanenza che non è il contrario della trascendenza, bensì il venire
meno di questa stessa distinzione. Per questo “la pura immanenza è UNA
44.
VITA, e nient’altro”. Una vita – e la precisazione è pertinente, visto che ci
si muove nel campo che si estende oltre l’etica – che non è irrazionale più
di quanto sia soggettiva. Si tratta di una vita, che è una vita del corpo,
“indefinita [che] non ha momenti, per quanto vicini siano gli uni agli altri,
ma soltanto frat-tempi, fra-momenti”.45. Solo un corpo perverso e polimorfo
può avventurarsi in una vita come questa. Un corpo, cioè, che non teme gli
incontri con gli altri corpi e con il mondo. Deleuze propone, non a caso se
torniamo alla sessualità infantile secondo Freud, l’esempio del neonato
come corpo dell’immanenza: “I neonati si somigliano tutti e non
possiedono affatto individualità; ma hanno singolarità, un sorriso, un gesto,
una smorfia, eventi che non sono caratteri soggettivi. I neonati sono
attraversati da una vita immanente che è pura potenza, e anche beatitudine
attraverso le sofferenze e le debolezze”.46. Ci sono “buoni” incontri, come
incontri “cattivi”, per una vita del genere. Ma non sono questi corpi che
fanno queste esperienze, è piuttosto la “vita immanente” che li attraversa. È
questo il punto, una vita che partecipa della vita, al suo stesso livello:
Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Università
della Calabria.
1 A. de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (2014), trad. di P. Arlorio,
Einaudi, Torino 2015 p. 75.
2 G. Moore, Principia ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, p. 2.
3 Ibidem.
4 I. Kant, Critica della ragion pratica (1797), in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a
cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, p. 180.
5 Da questo punto di vista tutto il gran discutere di “naturalizzazione” dell’etica non cambia i
termini della questione posta da Kant; cfr. F. de Waal, Good Natured: The Origins of Right and
Wrong in Humans and Other Animals, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996; M.
Hauser, Moral Minds: How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Little,
Brown, New York 2006. O la morale umana a un certo punto si emancipa dalle sue basi biologiche,
oppure non si può parlare di morale umana.
6 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 180.
7 Ivi, p. 181.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 183.
10 Ivi, p. 187.
11 Ivi, p. 241.
12 J. Lacan, “Kant con Sade” (1963), in Scritti, vol. II, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 2002, p.
765.
13 D.A.F. de Sade, Opere, a cura di P. Caruso, Mondadori, Milano 2006, p. 67.
14 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 167.
15 Ivi, p. 153.
16 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475.
17 Ivi, p. 570.
18 Ivi, p. 577.
19 Secondo la celebre interpretazione di Bataille; cfr. G. Bataille, L’érotisme, Minuit, Paris 1957, in
particolare lo studio “L’homme souverain de Sade”. Da questo punto di vista neanche l’uomo
sovrano sfugge all’etica.
20 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 68.
21 Cfr. R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014; F. Cimatti, Cose. Per una filosofia
del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
22 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1785), trad. di G. De Col, ES, Milano 1991,
p. 58.
23 I. Kant, Metafisica dei costumi (1797), a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2006, p.
301.
24 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 144.
25 Ivi, p. 587.
26 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia (1878), trad. di G. De Angelis e M.T. Ferrari,
Mondadori, Milano 2013, p. 9.
27 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, cit., p. 17.
28 Ivi, p. 57.
29 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475.
30 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, cit., p. 34.
31 Ivi, pp. 45-46.
32 Ivi, p. 46.
33 Ivi, p. 110.
34 Si tratta del primo contratto stipulato fra Sacher-Masoch e Fanny von Pistor, riportato in
appendice a Venere in pelliccia, cit., p. 185.
35 Ivi, p. 34.
36 Ivi, p. 111.
37 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1996, p. 24.
38 J. Lacan, “Kant con Sade”, cit., p. 766.
39 Ivi, p. 768.
40 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., pp. 98-99.
41 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), trad. di C. Csopey, Rizzoli, Milano 2010, p. 83.
42 Sul problema etico in Deleuze, cfr. N. Jun, D.W. Smith (a cura di), Deleuze and Ethics,
Edinburgh University Press, Edinburgh 2011.
43 G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti (2003), trad. di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p.
321.
44 Ibidem.
45 Ivi, p. 323.
46 Ibidem.
47 G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, trad. di A. Pardi, ombre corte, Verona
2007, p. 81.
48 Ibidem.
49 Ibidem.
Carmelo Bene o dell’immanenza
dei corpi
GIANLUCA SOLLA
Una sera a cena proposi a Klossowski questa definizione del porno: “Il
porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau,
Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è al di là del desiderio”.
Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in
quella definizione. L’eccesso dell’eros è quanto si cadaverizza, quanto è
disponibile a rendersi mero oggetto. Nel porno a subire sono solo due
oggetti che si annullano reciprocamente. Hai presente due pietre che
copulano? Rende l’idea. Si amano in quanto si disattendono (ne ho
frequentate alcune, rare, nei miei letti). Nulla a che fare con la recita
complice di Masoch. Nel porno non c’è complicità, non c’è partner, non
c’è desiderio e non c’è vagito. Non c’è intimità né il mito della
condivisione trova qui ospitalità. Non c’è altra prossimità se non quella
inquietante con l’oggetto-porno del sedicente soggetto (in realtà oggetto
anche lui, suo malgrado). C’è il congelamento della specie. L’ottusità del
giardino d’infanzia è l’ideale del porno. Basta mantenersi recidivi. Derive
patologiche come la necrofilia sono la fungaia putrescente della vita che si
decompone a vista. Tutto ciò che è patologico è l’uomo. Se non lo è,
chissà cos’è. (Detto altrimenti: che sarebbe di noi se non fossimo
mancati? Che sarebbe di Dio se esistesse?)3.
Il dio feticcio
La perversione è obliqua, sinuosa, tortuosa. Non nega qualcosa, non
afferma qualcosa. Piuttosto svia, devia, piega. Che cosa svia, che cosa
piega? La sua non è una posizione ma un’operazione o un insieme di
operazioni. Ma che tipo di operazioni?
Se stiamo alla psicoanalisi, nevrosi e psicosi sono anzitutto posizioni,
posizionamenti soggettivi. Scrive per esempio Lacan: “Il nevrotico, isterico
o ossessivo, o più radicalmente paranoico, è colui che identifica la
mancanza dell’altro con la sua stessa domanda”;1. viceversa: “Nella follia,
quale che ne sia la natura, ci tocca riconoscere […] la libertà negativa di
una parola che ha rinunciato a farsi riconoscere”.2.
In altri termini, la nevrosi sta davanti a qualcosa, la psicosi non arriva a
star davanti a quel qualcosa, che Lacan chiama legge, o altrove mancanza, o
castrazione simbolica, o parola dell’altro. Lo stare è però decisivo in
entrambi i casi, anche quando lo è nel senso dell’impossibilità di stare.
L’uno la assume, quella cosa, vi sottomette la propria vita soggettiva, o
piuttosto diventa un soggetto assumendola, sottomettendovisi, facendola
propria. L’altro la costeggia senza incontrarla, o la incontra come un
geroglifico indecifrabile, inutilizzabile.
Se la nevrosi e la psicosi sono posizioni, modi di stare di fronte a quella
mancanza, a quella legge, quelle della perversione non sono posizioni ma
operazioni. La perversione si industria senza sosta, maneggia e rimaneggia i
suoi materiali, fabbrica e rammenda continuamente quel qualcosa che la
nevrosi incontra e assume, e la psicosi non incontra e non assume. Se per la
nevrosi e per la psicosi la legge o la mancanza sono un dato, anche nel
senso che sono qualcosa che è stato dato, che perciò proviene da altro o da
altrove, per la perversione sono invece un fatto, anche nel senso che sono
qualcosa di fabbricato, qualcosa che anzi va continuamente costruito,
congegnato, architettato. O forse si dovrebbe dire: creato.
Per questo la perversione è complessivamente illuminata dal feticismo,
che per tanti aspetti non è che una sua provincia. Non si comprende la
perversione se non si comprende la sua dimensione fabbrile. La prima
interpretazione che la psicoanalisi ha avanzato intorno alla perversione è in
ogni senso esemplare.3. Freud mette in scena un bambino che si imbatte
nella madre nuda e non ne sopporta la visione, perché quella visione gli
rivela una mancanza minacciosa. La donna è priva di pene. Potrebbe un
giorno esserne privato a sua volta? Il piccolo feticista distoglie lo sguardo,
lo lascia vagare lungo il corpo della madre, si ferma dove trova qualcosa
che gli dà sostegno. “Come sostituto del pene che manca alla donna, si è
creato un feticcio”,4. commenta Freud. Poco importa che l’insopportabile
mancanza intravista nell’altro riguardi il pene, come nella prima ipotesi
freudiana, o un qualsiasi altro significante fallico. L’essere non è dato,
l’essere esige creazione per poter essere, è questa l’esperienza fondamentale
del feticista.
In fondo l’operazione della perversione è perversa soprattutto perché
fabbrica ciò da cui dovrebbe provenire ogni fabbricazione, perché
costruisce l’ambito stesso nel quale dovrebbe muoversi ogni creazione.
Crea il presupposto. Lo fa essere après coup. È in questo disordine del
tempo, che si annida tutta la hybris della perversione. Non solo la
psicoanalisi, anche l’antropologia si sofferma da sempre sullo
stravolgimento ontologico che il feticismo porta con sé. È noto che i
commercianti portoghesi sbarcati nel Cinquecento sulle cose africane
avevano reagito con sconcerto al culto che le popolazioni locali tributavano
alle piccole, malcerte divinità che esse ricavavano dall’assemblaggio di
pezzi di legno e lembi di stoffa, perline e conchiglie. “Dei facticii”, li
avevano prontamente ribattezzati. Da cui il termine divenuto classico,
feticci. Come potete credere, chiedevano gli europei agli africani, alla
potenza di questi dei che avete appena finito di fabbricare con le vostre
mani? La risposta degli africani avrebbe potuto rovesciare facilmente
l’argomento europeo: come potremmo credere ai poteri di un dio che non
abbiamo fabbricato con le nostre mani, come potremmo confidare in un dio
già fatto?5.
Il dio cadavere
“Dio è morto.”6. Da Nietzsche in poi questa frase risuona senza sosta
insieme all’altra constatazione nietzschiana: d’ora in poi si tratterà di fare i
conti col “cadavere di Dio”.7. Un cadavere di cui il meno che si possa dire è
che è ingombrante.
Da un certo punto di vista, del resto, la filosofia non si è sempre collocata
in quel punto in cui Dio è morto, in quel punto in cui al posto di Dio c’è
piuttosto un archivio, un corpo di idee e tradizioni, una serie di materiali
che bisognerà riorganizzare in un’altra verità, ricomporre in un’altra forma
di esperienza?
Senza dubbio è nella scia di questa eredità nietzschiana che si collocano
tutti i pensatori che questo fascicolo raduna in una strana costellazione.
Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze, Blanchot, tutti loro capiscono che
davanti all’annuncio della morte di Dio le scorciatoie sono inutili, e che più
inutile di tutte è la scorciatoia principe, tutt’ora moneta corrente in tante
discussioni. Se Dio è morto, tutto è permesso. Se Dio è morto, tutto è
possibile. Ecco la grande scorciatoia, per quanto ammantata di abissale
drammaticità. Nichilisti allegri e tristi, postmoderni gaudenti e pensosi
reazionari si danno ogni volta appuntamento intorno a questo presunto
scatenamento del possibile, ora per denunciarlo ora per esaltarlo. Quando
Dio viveva, così ragionano tanto i detrattori quanto i fautori dello
scatenamento, una linea netta solcava il campo degli esseri e i tragitti delle
esistenze, e gli eventi e i gesti erano nitidamente ripartiti nelle due regioni
del possibile e dell’impossibile. Ora invece il guardiano della soglia è
assente, l’impossibile dilaga nella regione contigua, diventa felicemente
praticabile o sciaguratamente disponibile. Perversione generalizzata, dice
qualcuno, sempre in campo lacaniano.8.
Ma non è curioso che a diventare possibili, dopo la morte di Dio, siano gli
impossibili di un tempo? Non è singolare che i possibili e gli impossibili
rimangano quindi gli stessi di quando Dio reggeva l’universo, o di quando,
fuor di metafora, i nostri saperi e le nostre esperienze disponevano di un
qualsiasi significante padrone? In effetti non è questa perversione, non è
questo scatenamento del possibile un tempo impossibile a occupare la scena
filosofica dei Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze. C’è qualcosa come
un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile,
che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con
la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con
quest’altro scatenamento del possibile. Un campo di esperienza si apre, in
cui nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a
margine di quei possibili.
Il dio virtuale
Che proprio la questione del possibile sia il terreno sul quale verificare lo
stato di quella difficile liquidazione di Dio, lo si comprende bene se si
rilegge un breve, memorabile scritto di Henri Bergson intitolato Il possibile
e il reale.9. Bergson del resto è l’altro grande antefatto che va convocato,
quando si cerca di rispondere alla domanda che chiede che cosa tenga
insieme la costellazione “perversa” appena evocata. Bataille, Klossowski,
Caillois, Deleuze, Foucault, Blanchot, Barthes, Sollers, tutti loro si
collocano dopo Nietzsche ma anche dopo Bergson. Tutta la questione della
fabbricazione, della natura fabbrile della perversione, della sua propensione
a creare feticci, va ricollocata in questa prospettiva. L’ontologia perversa ha
qualcosa di bergsoniano, e Bergson è il pensatore di quel regime del
possibile che è proprio della perversione. Almeno, di quella perversione
pura, felice, riuscita, che è quella della filosofia.
In una decina di pagine Bergson liquida il possibile come una categoria
inconsistente, semplice retroflessione di qualcosa che qui e ora è concreto,
reale, attuale. “Il possibile non è altro che il reale, con, in più, un atto dello
spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che esso si è
realizzato.”10. C’è qualcosa di reale sotto i nostri occhi, noi lo rileviamo
isolandolo dal suo contesto e dal suo divenire, infine lo proiettiamo, lo
immaginiamo all’indietro, lo ipotizziamo nel passato di quel presente che
vorremmo spiegare, mantenendolo però del tutto identico a com’è ora. Ecco
che ai nostri occhi quel qualcosa di attuale, fantomaticamente retrocesso nel
passato, inizia a valere come possibile, come prefigurazione o forse
prescrizione di ciò che, guarda caso, ci ritroviamo sotto gli occhi.
Deduciamo il reale da se stesso. Fingiamo una genesi dell’attuale che è tutta
astratta, essenzialmente sterile. Ciò che si realizza era già tutto contenuto
nelle premesse, iniziamo a pensare. Il possibile che si è realizzato era
semplicemente il necessario. E tutti gli altri possibili erano semplicemente
impossibili. In un simile universo, nulla di nuovo accade mai. O come
scrive Bergson, il tempo “non serve a niente”.11.
A che cosa servirebbe invece il tempo, se fosse pensato come tempo
concreto, come tempo fattivo, come tempo operativo? Bergson risponde
con una battuta che ha qualcosa di perverso. Il tempo “impedisce che tutto
sia dato”.12. È quanto dire che il tempo trattiene, e trattenendo consente la
fabbricazione dell’essere, anzi impone che l’essere coincida con la perenne
creazione dell’essere. Anzitutto, il tempo impone la fabbricazione di quel
primo feticcio, di quel primo artificio di ogni altro artificio, che è la
possibilità della possibilità. Il tempo implica in altri termini la fabbricazione
di quel regime di possibili a cui ogni altra fabbricazione attingerà un
singolo possibile per tradurlo in atto, lasciando intatti e inattuati tutti gli
altri. Una sola volta nel suo scritto Bergson introduce un termine destinato a
grande fortuna contemporanea, filosofica e non solo filosofica. “Virtuale.”13.
Il virtuale bergsoniano è questo possibile in quanto si rende possibile, in
quanto sta divenendo possibile, in quanto va fabbricandosi insieme alla
fabbricazione che esso rende possi-bile, alla creazione che sembrerà
attingervi la propria preliminare possibilità. Più esattamente, virtuale è il
divenire che diviene, è la sua concretezza processuale. È il corpo del
processo che qui e ora sta agendo, e che proprio in quanto sta agendo qui e
ora è un puro presente senza passato e senza futuro, un corpo puramente
“incorporeo”.14.
Che, difatti, un passato si dia, un futuro si dia, è un effetto della soglia
stessa, del suo essere in atto qui e ora, del suo stare divenendo. Poiché
qualcosa qui accade, allora qualcosa emerge nel passato, iniziando a valere
come il passato di questo presente. Poiché qualcosa qui accade, allora
qualcosa prende corpo nel futuro, iniziando a valere come il futuro di
questo presente. Qualcosa qui e ora accade, di incorporeo, e solo per questo
accade che laggiù nel passato qualcos’altro prenda corpo, appaia come il
corpo e il supporto, la materia e la potenza preliminare di questo atto qui e
ora in atto, oppure che laggiù nel futuro qualcosa si animi e appaia come il
senso e la direzione di questo atto. Il passato e il futuro, la materia-potenza
di cui si nutre il processo e la forma-entelechia in cui si condensa il
processo non sono qualcosa di dato, non sono qualcosa a partire da cui o
verso cui il processo si muove. È il processo che se li dà. “È il reale che si
fa possibile, e non il possibile che diviene reale”, scrive Bergson.15. Sicché
virtuale è il nome del reale in quanto diviene, o del reale tout court.
Aristotele nella Fisica faceva un esempio semplice e celebre.16. Bergson
direbbe forse: troppo semplice. L’architetto costruisce la casa usando pietre
o mattoni, componendole in una forma complessiva, e il processo va
appunto dalla materia, dalla potenza, all’atto, all’entelechia, alla forma
compiuta. Ora, è come se Bergson ragionasse a rovescio, o mostrasse che
proprio Aristotele ragiona a rovescio rispetto a quello che abbiamo appena
chiamato il reale. È perché c’è un architetto che guarda alla casa come sarà,
che qualcosa che giaceva nel paesaggio circostante inizia a valere come
materia, come pietra da costruzione. Si potrebbe obiettare naturalmente che
le pietre erano già là, anche prima che l’architetto venisse al mondo. E che
se parlare di pietre sembra troppo antropomorfico, e rende facile evocare
l’architetto come condizione di possibilità dell’interpretazione delle pietre
come pietre da costruzione, potremmo sbarazzarci del problema dicendo
che ciò che c’era già era piuttosto una materia informe, una potenzialità
assolutamente prima, ignara di ogni intenzione umana e animale e persino
vegetale.
Ma Bergson non avrebbe difficoltà a rovesciare l’obiezione. C’è una
materia perfettamente informe solo in forza di uno sguardo perfettamente
informe, c’è una potenza perfettamente indeterminata solo in forza di un
atto perfettamente indeterminato. La potenza, il possibile, la serie delle
prefigurazioni perfettamente aperte e indifferenti, proprio questo è il primo
e principale oggetto di costruzione, non il campo che la costruzione deve
presupporre alle proprie spalle, non il campo in cui la costruzione deve
ritagliare la propria nicchia di attualità. Ogni atto crea in primo luogo la
propria potenza, ogni presente raffigura in se stesso il proprio passato, ogni
fabbricazione è propriamente creazione ex nihilo. Senza un atto qualsiasi,
niente varrebbe come materia. La materia prima, assolutamente inaugurale,
perfettamente impregiudicata, è l’atto stesso. Lui sì è concreto, lui sì è
materiale, lui sì è condizione di ogni condizione. Non è l’operazione stessa
della perversione, questa sistematica sostituzione del possibile come
possibile dato al possibile come possibile fabbricato, questa
riconfigurazione integrale e senza scarto che il virtuale opera nel proprio
stesso corpo incorporeo, raffigurandovisi ogni volta di nuovo come
possibile e insieme come più che possibile, come virtuale e insieme come
attuale? Non è propriamente perverso il fatto che questo non sia solo un
vedere “come”, ma un “fare come”, un piegare l’essere a una sua infinita
modalizzazione, un risolvere la sostanza stessa nell’incessante evento dei
suoi infiniti modi?
Il dio superficiale
Una pagina della Gaia scienza è particolarmente celebre. “Abbiamo ucciso
Dio”, scrive Nietzsche, e subito si chiede sgomento: “Che mai facemmo, a
sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora?
Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno
precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora
un alto e un basso?”17.
Se Dio muore, manca un criterio, manca la possibilità di tracciare una
linea, manca la possibilità di guardare la vita da fuori e di decidere da fuori
che cosa le sia d’aiuto e che cosa le sia di ostacolo, che cosa le faccia bene e
che cosa le faccia male, che cosa vada dichiarato possibile o permesso, e
che cosa impossibile o vietato. Se dio muore, viene meno la possibilità di
un punto di vista, e insieme di qualcosa che faccia da oggetto a quella vista.
Un punto di vista è per definizione un punto lontano dall’og-
getto guardato, un punto che proprio stando a distanza dall’ogget-
to ne fa una cosa visibile, un oggetto di contemplazione, un fenomeno che
cade sotto il nostro giudizio. Se Dio muore, viene meno la possibilità di
avere un punto di vista sulla vita. La vita diventa unico punto di vista su se
stessa, unico metro a se stessa. Non è il sogno della perversione, che la
propria vita sia la sola istanza a cui riferire la propria vita, che il proprio
sentire sia l’unico metro a cui conformare il proprio sentire?
Ma dopo Nietzsche questo sogno è un sogno inaggirabile, non è il sogno
della perversione se non perché è il sogno di una filosofia costretta a
ripercorrere le operazioni ormai inevitabili della perversione. Una vita non
smetterà di ascoltarsi, di valutarsi, di giudicarsi, ma non potrà farlo d’ora in
poi che dall’interno, dall’intimo della propria materia, sulla base della sola
intensità del proprio sentire. Non ci sarà un occhio divino, a sorvolare il
paesaggio di un’esistenza registrandone la materia sensibile in un tracciato
soprasensibile. Non ci sarà una memoria superiore, a ricapitolare la storia di
un’esistenza in un racconto di cui valutare il sensato o insensato rapporto di
mezzi e fini. Ogni vita sarà qualcosa come una superficie assoluta, come
scriveva Raymond Ruyer, un autore che Deleuze e Lacan amavano, e che
anche un Bataille o un Klossowski avrebbero forse potuto sentire affine.18.
Ogni vita sarà una superficie perfettamente piatta, assolutamente
immanente a se stessa, che per farsi punto di vista su di sé deve sollevarsi in
se stessa e prodursi come superficie ondulata, come ondulazione di affetti
che tendono a divenire concetti, prese di prospettiva, formazioni di sorvolo,
senza però arrivarci mai. L’immanenza di una superficie a se stessa, il
sorvolo di una superficie da parte della superficie stessa, è questa la figura
di trascendenza che il nostro cielo disabitato ci obbliga a frequentare.
Figura di trascendenza che si produce nonostante tutto, e che non smette
mai a suo modo di prodursi, non più tramite distanza, cesura, taglio, bensì
tramite inerenza, implicazione, oscillazione, ripiegatura.
Così, se questa vita che è unico criterio a se stessa è il sogno della
perversione, l’immediata implicazione, il rovescio improvviso di questo
sogno è che la perversione vuole farsi punto di vista, ambisce a farsi linea di
demarcazione, sogna la figura di una legge. Né capace di vita solitaria, né
incline alla vita comune, la vita perversa offre lo strano movimento di un
essere che si dispiega, ma in se stesso. Di un essere che si estende, ma senza
uscire da sé pur uscendone continuamente e producendosi come la
continuità stessa. Che si avvolge senza sosta intorno al proprio evento,
anche se proprio avvolgendosi in sé si ritrova a disegnare un campo di forze
e di significati che lo estendono infinitamente. Quel campo non è affatto
presupposto al proprio evento, come una forma a priori, ma accade insieme
al proprio evento, lo accompagna come un predicato indispensabile, un
accidente necessario. Fine del trascendentale, sostituzione del
trascendentale con un concetto simile e insieme dissimile, quello di una
genesi, di una differenziazione senza tagli, di una gemmazione che procede
in maniera spiraliforme. Perché lo spazio in cui si inoltra non è sgombro,
aperto, ma chiuso, ripiegato, avvolto. E proprio perché avvolto intorno a
quella differenziazione, anche illimitato.
Il dio bambino
Affrontiamo due figure chiave di questa strana etica dell’immanenza, di cui
la perversione è diventata paradigma una volta capitata tra le mani di
Bataille o di Klossowski, di Deleuze o Foucault o Barthes. Due figure che
chiameremo dell’infanzia e della complicità.
Prendiamo la prima figura da Gilles Deleuze. Non è un mistero, per i
lettori di Logica del senso, che l’intero libro sia un libro sull’infanzia, che
l’infanzia giochi un ruolo strategico nella costruzione deleuziana. Che il
bambino sia un emblema perfetto della perversione è del resto un portato
maggiore dell’avventura di Freud, che nel momento in cui definisce il
bambino come un “perverso polimorfo”19. non solo sembra specificare la
perversione del bambino tramite il suo polimorfismo, ma sembra quasi
risolvere la perversione nel polimorfismo. Il bambino è perverso perché
polimorfo, e forse la perversione stessa è perversa perché frequenta con
particolare intensità questa dimensione metamorfica per cui ogni forma è
sul punto di trascorrere in un’altra forma, ogni forma è sempre sul punto di
prendere forma.
Ma si sa che per Freud l’infanzia è solo uno stadio all’interno di una
vicenda più ampia, un passaggio destinato a risolversi in un approdo
conclusivo. Deleuze eleva quel passaggio ad assoluto, innalza la
provvisorietà dell’infanzia a condizione fondamentale dell’esperienza, fa
del polimorfismo non un’indifferenziazione momentanea ma una genesi
perenne di differenziazioni.
Anche per questo l’eroina del libro è Alice, la bambina di Lewis Carroll,
col suo sguardo che sembra aprirsi per la prima volta sul mondo, e che a
ogni nuova situazione continua ad aprirsi sul mondo sempre per la prima
volta. Non che Alice non abbia memoria, non accumuli un qualche sapere
sul mondo, non disponga di un certo numero di stratagemmi a loro modo
efficaci. Ma quella sua memoria si mantiene sempre sul punto di
un’insorgenza insormontabile, quel suo sapere è immerso in un presente che
non si versa mai del tutto nell’ampolla che le clessidre riservano al passato
e al possesso. I suoi stratagemmi sono stratagemmi di una sola volta, vanno
reinventati a ogni occasione perché anche il mondo in cui sono stati efficaci
si ricrea in continuazione.
Apriamo la sesta serie di Logica del senso, “Sulla messa in serie”.
Deleuze cita Lewis Carroll: “La cosa più strana era che ogni volta che Alice
fissava lo sguardo sopra uno scaffale, quello scaffale era sempre vuoto,
benché tutti gli altri fossero zeppi fino a traboccare. ‘Ma qui le cose
scorrono’, disse in tono accorato dopo aver passato un paio di minuti a
inseguire un oggetto grande e luminoso, che a volte sembrava una bambola
e a volte una cassetta, e che si trovava sempre nello scaffale sopra quello
che Alice guardava. ‘Ma sai che faccio ora? Lo voglio seguire fino
all’ultimo scaffale. Non potrà certo attraversare il soffitto!’ Ma anche
questo tentativo fallì. La cosa attraversa il soffitto in tutta tranquillità, come
se non avesse mai fatto altro”.20. Siamo in presenza di una sorta di genesi, di
incipiente organizzazione di una struttura. Qualcosa come una scena si
disegna per la prima volta. Abbiamo un gioco di pieni e vuoti, un insieme di
movimenti ancora enigmatici. Gli scaffali che Alice osserva sono pieni di
oggetti il cui profilo è appena suggerito. E poi c’è una specie di vuoto, un
posto vacante sugli scaffali, stranamente mobile. È come se su quegli
scaffali ci fosse anche una merce rara, un oggetto che non sta sullo stesso
piano degli altri, essendo di più e di meno di un oggetto qualsiasi. Forse
anche per questo l’oggetto misterioso sembra avere due volti. “A volte
sembrava una bambola, a volte sembrava una cassetta”, scrive Carroll.
Questa cosa rara e strana, eccessiva e mancante, si sposta continuamente,
rapidamente, ma non casualmente. Appena raggiunta, si sottrae. Inseguita,
acchiappata una seconda volta, sfugge di nuovo. Non c’è dubbio, l’oggetto
misterioso è lo sguardo di Alice. Quando lo sguardo si incontra, per
esempio in uno specchio, non è forse allora che si sfugge, si cancella, si
nega? Non è in quell’istante che lo sguardo che cerca se stesso come
sguardo, trova nello specchio tutt’altra cosa, un occhio che non guarda
affatto, una biglia di vetro colorato, l’ammiccare di un morto? Sì e no, in
effetti. Alice sfiora il proprio sguardo nella scena, lo trova e insieme non lo
trova, lo vede e insieme non lo vede. Vede non solo l’occhio ma anche lo
sguardo, non solo la biglia di vetro ma una cosa viva o quasi viva. La scena
danza insieme al geometrale che la istituisce, si sposta allo spostarsi di
Alice, in ogni istante interamente ricalcolata dal suo movimento. Alice vede
il suo sguardo senza vederlo, lo vede come una pura concavità nella scena,
una mancanza che, diceva Lacan, “manca esattamente al suo posto”,21. a suo
modo c’è e si fa sentire.
Così, per un verso lo sguardo di Alice si fa scena, si fa cosa sugli scaffali,
si rende visibile come oggetto tra gli oggetti, cade tra le cose prendendovi
tendenzialmente posto. Al termine della caduta troviamo la cassetta,
troviamo lo sguardo che è sempre anche questo divenire cosa guardata,
peraltro senza mai divenire definitivamente cosa, senza mai farsi vedere
appieno. Prima o poi il posto vuoto si sposta. Per un altro verso, lo sguardo
di Alice cade, contemporaneamente, fuori da quella scena che si va
costruendo, e che si va costruendo anche grazie a questo cader fuori scena
dello sguardo. La bambola indica questa seconda direzione, questo divenire
soggettivo dello sguardo, questo sollevarsi sempre incompiuto, sempre
precario, della scena a punto di vista su se stessa. La scena diventa Alice,
intanto che Alice diventa scena. Lo sguardo diventa occhio, intanto che
l’occhio diventa lo sguardo di Alice, di una bambina con nome e cognome,
di un soggetto che sta di fronte a un oggetto o a un insieme di oggetti o a un
mondo, come si suole dire.
Tutto il passo di Carroll ha a che fare con questo doppio divenire. C’è
qualcosa come un movimento unico, che proprio accadendo in un sol colpo
si sdoppia, procede in due direzioni divergenti, verso la cassetta dunque
verso la bambola, verso l’oggetto dunque verso il soggetto, verso il suo
soggettivarsi dunque verso il suo oggettivarsi, verso il suo divenire
significato dunque ver-
so il suo divenire significante. Doppie serie che si creano in virtù di quel
punto che sfugge loro, doppie serie che si annodano l’una all’altra in virtù
di quel nodo che le ha divise e le allontanate l’una dall’altra. Simmetrica
distribuzione di elementi che iniziano a valere gli uni in rapporto agli altri
proprio in forza di quell’elemento che non ha posto tra loro, ma in cui e
grazie a cui essi trovano posto e ordine. La bambola-cassetta, questa cosa
polimorfa e instabile, questo oggetto propriamente perverso, stabilisce la
corrispondenza ordinata degli oggetti e dei soggetti, delle cose e delle
parole, dei significati e dei significanti.
Definisce anzitutto la prima corrispondenza: una scena, e qualcuno che la
osserva. Ecco delle cose sullo scaffale, ecco davanti a loro la bambina che
guarda. E poi, definisce tutte le altre corrispondenze, comprese quelle che
neppure vengono nominate. Ecco che ogni oggetto diviene ciò che è. Il
libro è un libro e non un cappello, il cappello è un cappello e non un vaso di
fiori, e così via. Ogni cosa coincide finalmente con se stessa, o meglio ogni
cosa diviene finalmente un significante che coincide col suo significato,
anzitutto perché ogni cosa è divenuta la giunzione di un significante senza
significato e di un significato senza significante. Sembra ovvio? Certo che
lo è, a cose fatte. Prima, però, bisognava che le cose si facessero. Bisognava
che qualcosa diventasse un significante, e che qualcosa diventasse un
significato. Nei termini del suo saggio su Il possibile e il reale, bisognava
che qualcosa diventasse materia per qualcos’altro, e che qualcos’altro
diventasse forma per quel primo qualcosa. Il mezzo, e anche il prezzo, di
questo doppio divenire divergente, è appunto la caduta dell’oggetto
perverso, la sua risoluzione, la sua castrazione. O cassetta o bambola.
Cancellazione tendenziale, peraltro. Che è quanto dire insistenza perenne,
ai margini del campo e anzi al cuore del campo, dell’oggetto perverso.
L’oggetto perverso, lo sguardo, il virtuale, “circola tra le serie”, dice
Deleuze. O le serie circolano in lui, si muovono nel campo gravitazionale
del suo evento, non cessano di transitare attraverso il suo geometrale
immobile. Se guardiamo da questo punto di vista la questione della nevrosi
e della psicosi, da cui partivamo poco fa, la conseguenza è una sola.
L’ordinato corrispondersi dei significati e dei significanti (nevrosi) o lo
slittare inarrestabile delle due catene l’una sull’altra (psicosi)
presuppongono entrambe uno spazio in cui i significanti e i significati si
costituiscono come tali o si stanno costituendo come tali. E quello spazio è
la struttura di ogni struttura, è la perversione come strutturazione in corso
della divisione nevrotica significante/significato e dello slittamento
psicotico significante/significato. Proprio su questo punto, si potrebbe
aggiungere, si differenziano la perversione come paradigma filosofico e la
perversione come condizione clinica. Il perverso in senso clinico, che vuole
fare della sua vita il metro unico della sua vita, è un soggetto che vuole
scrivere la legge, è qualcuno che suppone di poter progettare da cima a
fondo una nuova struttura.22. La perversione come paradigma filosofico
mostra che il soggetto è semplicemente una delle cose scritte dalla legge
che va scrivendosi, è solo uno degli oggetti disposti dalla struttura che va
strutturandosi. Nella scena deleuziana non è Alice a governare il gioco, ma
il suo sguardo. Il suo sguardo in quanto sta divenendo il suo, senza esserlo
ancora.
Il dio oltraggiato
Questo ci porta alla seconda questione, la complicità. Alice è una
singolarità, è l’evento di una struttura che la struttura non può dire e che
pure non smette di suggerire, è il virtuale che non cessa di creare i suoi
possibili e impossibili essendone ricreato a ogni passo. Ma come si
esprimono queste vite che hanno se stesse come unico metro, come
comunicano queste singolarità che sono paradigma esclusivo di se stesse?
Non comunicano affatto, si direbbe. Ed è sul filo di questa conclusione,
adeguata e insieme inadeguata, che va collocato il testo forse più bello che
l’intera stagione speculativa di cui parliamo abbia dedicato al marchese de
Sade. Lo ha scritto Pierre Klossowski e si intitola Il filosofo scellerato. Da
un certo punto di vista il saggio di Klossowski è un saggio sul linguaggio,
una meditazione sul modo in cui comunicano quegli esseri della singolarità
che sono i perversi. Ma è anche un saggio che di fatto liquida Sade, o
almeno il modo in cui Sade e i sadiani hanno inteso il nocciolo di una certa
esperienza.23. L’essenziale della perversione non è sadico, e non lo è
neppure l’essenziale della sfida che la perversione lancia alla filosofia.
Nelle pagine centrali del Filosofo scellerato, Klossowski sottolinea nel
gesto sadiano una difficoltà strutturale, una difficoltà di natura anzitutto
linguistica. Scrive Klossowski: “Sade inventa un tipo di perverso che parla
a partire dal suo gesto singolare in nome della generalità”.24. Tutti lo sanno:
nei suoi romanzi Sade non smette di descrivere, teorizzare, argomentare,
dimostrare. Non è un gesto paradossale? Come può una singolarità
argomentare in nome di una generalità? Della singolarità non ne sarà più
nulla, se parlare significa mediare, dare rappresentazione universale a
qualcosa che è dell’ordine del particolare, misurare col metro di un segno
estrinseco qualcosa che a contatto con quel metro o quel segno si dividerà
istantaneamente e simmetricamente. Da una parte ciò che corrisponde a
quel metro e che non apparirà più come singolare ma come universale,
dall’altra qualcosa che non corrisponde a quel metro e che a sua volta non
apparirà più come singolare ma come negativo dell’universale, dunque
ancora come universale. Di qui, per inciso, la reiterazione a cui Sade è
costretto, l’eterno ricominciare delle sue dimostrazioni, l’infinito
sprofondare in descrizioni sempre più crude. “Se il perverso parla, si chiede
Klossowski, può forse dimostrare in nome della generalità che non c’è
generalità?”25.
Ma l’oltraggio sadiano, a ben vedere, non ha il suo unico oggetto nel
linguaggio. Sade deve trasgredire in modi sempre più atroci non solo il
logos ma il nomos, non solo la parola ma la legge. Intollerabile è tutto ciò
che è rapporto, proporzione, commisurazione, tutto ciò che lega cosa a cosa,
che accomuna evento a evento. Da questo punto di vista, la ferocia della
devastazione sadiana non è che il grido di dolore della singolarità davanti
alla macchina della mediazione, che macina la singolarità nel gioco
circolare del particolare e dell’universale. È per questo che Georges Bataille
ha potuto osservare in un lampo che il linguaggio di Sade è molto più “il
linguaggio della vittima” che non quello del carnefice.26. Una singolarità
vuole parlare altrimenti, e forse vuole abitare altrimenti il linguaggio stesso,
la legge stessa. Una singolarità non funziona così come la dialettica
suppone, e neppure il linguaggio funziona così, almeno se ci collochiamo
dopo la morte di Dio, dopo la caduta dell’illusione del fuori, dopo la
liquidazione della figura del sorvolo. Il linguaggio potrebbe non essere un
metro esteriore, che cala dall’alto sul paesaggio delle cose e delle esistenze.
La legge potrebbe non essere un rapporto trascendente, che si posa sugli
eventi soppesandoli dall’alto della sua estraneità. Che accadrebbe se
pensassimo che proprio le cose si sollevano in se stesse facendosi figura,
che proprio gli esseri si sollevano in se stessi divenendo legge o linguaggio?
Assisteremmo a qualcosa come una genesi figurale del linguaggio,
toccheremmo con mano una sorta di perdurante sostanza immaginale della
mediazione, capace di innervare ogni rapporto, ogni proporzione fino alle
estreme propaggini della loro logicizzazione. Il segreto del simbolico, il
simbolo del simbolico sarebbe dunque un’immagine?
Il dio complice
Quello strano romanzo filosofico che Klossowski intitola Il Bafometto27. è
forse l’espressione più profonda di questo pensiero dell’incomunicante
comunicazione figurale delle singolarità. Klossowski pubblica Il Bafometto
due anni prima del Filosofo scellerato. Ma se Il filosofo scellerato misura
l’impasse sadiana indicandone ipoteticamente l’al di là, Il Bafometto ha già
risolto l’impasse e si è già installato in quell’al di là.
Lo sfondo del romanzo è quello di un medioevo più o meno fantastico.
Protagonisti sono un gruppo di templari desiderosi di ricostruire il loro
ordine dopo che il re di Francia, Filippo il Bello, l’ha sciolto in parte per
motivi politici, in parte a causa delle efferatezze di cui si era macchiato. Tra
quelle efferatezze, peraltro, ritroviamo tutti i crimini classicamente sadiani.
I fratelli non mancano di sputare sul crocifisso, di praticare il bacio
dell’infamia, di adorare gatti neri e altri idoli assortiti, di compiere
cerimonie pagane, di dedicarsi a un esercizio di sodomia che ha tutta l’aria
di essere più dimostrativo che voluttuoso. Ma in ultima analisi il romanzo
passa accanto a tutto questo. Essenziale non è ciò che i templari fanno per
oltraggiare Dio, ma ciò che via via sperimentano come un altro ordine della
divinità, come la costruzione possibile di un ordine numinoso finalmente
immanente.
Al netto dello sfondo storico, i cavalieri del Bafometto si affacciano, per
lunghi tratti della narrazione, su una sorta di scena senza tempo, in cui
vedono materializzarsi illustri personaggi appartenenti ad altre epoche, su
tutti santa Teresa d’Avila e Friedrich Nietzsche. I cavalieri stessi sembrano
sospesi su una soglia perfettamente instabile, che mette il loro tempo e la
loro identità in una condizione di perpetuo scambio con altri tempi e con
altre identità, per la cui notevolissima resa letteraria qualcuno ha
giustamente parlato di “écriture baphométique”.28. Una generale atmosfera
di sognante ambiguità accompagna ogni personaggio, ogni scena. Chi parla,
chi agisce? E agisce effettivamente, o piuttosto è agito, ripete l’azione di un
altro, diviene la parola di un altro ripetendola, il quale a sua volta…?
“Bafometto” non è altro che il nome, nel romanzo, di un idolo adorato dai
cavalieri del Tempio, piccola scultura d’oro portatrice di questo potere di
ripetizione metamorfica e di risonanza incrociata, sorta di oggetto perverso
o di casella vuota di cui tutto il romanzo è la struttura che si dispiega, la
sempre cangiante danza di identità e sostituzioni di identità.
Parlando di Roberta stasera, un romanzo che Klossowski scrive una
decina d’anni prima del Bafometto, un filosofo del linguaggio oggi
purtroppo dimenticato come Brice Parain ha fornito con rara lungimiranza
alcune coordinate capaci di illuminare l’intera produzione klossowskiana.29.
Parain ricorda anzitutto che per la teologia scolastica, in cui Klossowski si è
formato e non ha mai smesso di reperire suggestioni decisive, l’uomo non è
soltanto un’unità di anima e corpo, ma un terzo elemento gioca un ruolo
essenziale, l’elemento dello spirito. È grazie allo spirito, prosegue Parain,
che secondo gli scolastici medievali gli uomini comunicano, e comunicano
non tanto perché in rapporto tra loro quanto perché, ciascuno
singolarmente, in rapporto con Dio. È in Dio, in altri termini, che ogni
uomo è “complice”, per usare una parola chiave del Filosofo scellerato,30.
ed è sul fondo di questa complicità in Dio o di Dio con se stesso attraverso
gli uomini, che accade ogni umana comunicazione, ogni mediazione e ogni
rapporto che sembrerà andare dall’umano all’umano.
Se seguiamo il suggerimento di Parain, dobbiamo concludere che il
problema di Klossowski, tra Roberta stasera e Il Bafometto, non riguarda
altro che la messa a punto di un modello di comunicazione per un verso
assolutamente originale rispetto alla moneta corrente della dialettica, per
altro verso assolutamente canonico se si guarda alla tradizione filosofica più
classica. Solo se comunicare significa attraversare un vuoto, misurare una
distanza, mediare una differenza ormai accaduta, allora la comunicazione
diventa un fenomeno misterioso e in ultima analisi un esercizio di violenza.
Solo se il paradigma della mediazione è posto inavvertitamente alla base
della nostra comprensione del linguaggio, allora Sade ha ragione di gridare
la sua angoscia, di denunciare il destino insopportabile a cui la macchina
hegeliana della mediazione condanna la singolarità di una vita che solo in
se stessa trova il proprio paradigma. Se invece si ricollocano la legge, il
linguaggio, la comunicazione nell’elemento dell’assoluto, ogni enigma e
ogni violenza svaniscono improvvisamente. Non “tutto è in tutto” ma “tutto
comunica con tutto”, questa sarebbe forse la formula cui l’écriture
baphométique tenta di dare corpo narrativo.
Traduciamo infatti l’ipotesi della scolastica in termini più vicini a noi.
Assumiamo che l’essere non sia dell’ordine del discreto ma dell’ordine del
continuo. Ipotizziamo che gli esseri non siano separati, non abbiano identità
e consistenza autonoma, ma che ogni essere sia un’emergenza momentanea
del sistema, che ogni singolarità sia tutto l’essere anche se transitoriamente
ricapitolato nella figura di quella singolarità. La stoffa diviene piega, la
superficie si fa punto di vista, la struttura sorvola se stessa prendendo figura
di una certa singolarità. Ma ogni evento è un simile movimento, ogni punto
della stoffa esercita la stessa virtù, ogni piega ricapitola l’intera stoffa e cioè
l’intera geometria delle altre pieghe. Sicché la stoffa non esiste affatto se
non come uno sciame di infinite singolarità, ciascuna assolutamente
esaustiva della totalità, ciascuna perfettamente solitaria. Tutte loro sono
ogni volta tutto ciò che c’è. Se queste singolarità comunicano, comunicano
paradossalmente, perché comunicano non tanto sormontando una distanza
che le divide, dato che ogni singolarità è tutto ciò che c’è e non ha nulla
fuori di sé, quanto rapportandosi alla propria intimità, ritrovando nel fondo
di se stesse ogni altra singolarità come propria figura o come variazione
della propria figura.
Per altro verso, queste singolarità non comunicano mai qualcosa, e non
comunicano mai quel qualcosa a qualcuno, cioè un’altra singolarità.
Semplicemente, divengono. Divengono ogni altra singolarità per il solo
fatto di divenire se stesse, e ciò che comunicano alle altre singolarità non è
altro che questo loro divenire, che è in ogni senso un divenire comune. È la
bambola-cassetta di Carroll-Deleuze, è il dio eterogeneo che i portoghesi
incontravano in Africa in quei precari assemblaggi di stoffe e perline. Che
quelle singolarità divengano se stesse, significa peraltro che si fanno vuote,
si riducono a neutro geometrale di tutte le altre singolarità prospetticamente
disposte, insistono in sé come la soglia incorporea attraverso cui tutte le
altre divengono, prendono corpo e significato, si fanno materia e forma di
quella soglia perfettamente neutra. La comunicazione non è più il
misterioso potere di sormontare differenze ormai accadute e incomponibili,
ma è il semplice accadere della differenza, il semplice evento di ogni
differenza come differenza ogni volta unica di tutte le altre differenze.
Nei termini di Brice Parain, è in Dio che ogni essere comunica, ma ogni
essere è un Dio se si vuole evitare di mettere Dio da qualche parte,
facendone un essere separato e dunque finito, e gli uomini da qualche altra
parte, facendone esseri separati e finiti solo al prezzo di costruire Dio a
somiglianza della loro finitezza. Così, che Dio sia coerentemente posto
come assoluto comporta allora immediatamente l’idea della comunità o
della comunicazione tra quelli che Klossowski chiama nel suo romanzo
“soffi”, con evidente riferimento al terzo elemento indicato da Parain
nell’antropologia della Scolastica. Soffio, spirito, nella lingua filosofico-
romanzesca di Klossowski, è ciò che resta dell’esperienza una volta
sottratta l’esperienza al dispositivo di identificazione incentrato
sull’assemblaggio corpo-anima. Soffio, spirito, nomina lo statuto
dell’esperienza singolare una volta sganciata dal trattamento che ne dava la
macchina della mediazione dialettica, che di ogni esperienza individuava
una materia e dunque una forma, un passato e dunque un futuro, una
potenza e dunque un compimento, un soggetto e dunque un’azione
individuale. Se viene meno il punto di vista esterno, che su una vita può
esser preso solo da un Dio ridotto a sua volta a punto di vista, ciò che resta
in campo è un insieme paradossale di pure dissomiglianze. Insieme
paradossale perché composto ogni volta di un solo elemento, di una sola
pura dissomiglianza, intenta ogni volta a elevarsi a paradigma, proprio
facendo transitare e divenire ogni altro elemento nel geometrale apatico
della sua singolarità. Così, illustrando questa comunicazione di singolarità
inchiodate all’illimitata apertura della loro solitudine, Klossowski può
scrivere: “Il soffio non è che spazio trasparente fino al punto di stimare
come interno a se stesso tutto quanto gli accada, e non crea nella sua
intenzione senza oggetto altro che delle esteriorità puramente ipotetiche,
come ipotetica è questa stessa intenzione. Se un altro soffio gli viene
incontro, eccoli supporsi reciprocamente, ciascuno secondo un’intensità
variabile”.31.
4. Ciclo di isteresi
C’è dell’insistenza, dell’ostinazione, della ripetizione potenziata nelle
perversioni. Una insistenza fredda, apatica, macchinica, abbiamo detto con
Barthes e Deleuze. La mia ipotesi è che questo battere e ribattere siderato,
anziché rappresentare il luogo di una risessualizzazione sia una deriva in
isteresi della vita. La morte non parla, e proprio per questo motivo la vita,
sovrastimolata, ridondante, si rilascia, si smolla alla stregua di un materiale
che ha perso la sua elasticità. Come abbiamo notato, il ragionamento di
Deleuze si distende tra queste due polarità: ripetizione negativa e
ripetizione legata, desessualizzazione e risessualizzazione, disimpasto e
reimpasto pulsionale. Ma occorre interrogare più a fondo quel sur place che
caratterizza l’apatia sadica e la freddezza masochista. Deleuze lo legge
come una erotizzazione del neutro, mentre io proporrei di intenderlo
piuttosto come una neutralizzazione dell’Eros, o meglio come uno sfibrarsi,
uno snervarsi, uno spossarsi della vita per eccesso di vita. La morte non
parla, e ciò accade perché la volontà, come ci suggerisce Lacan, mette il
godimento al centro del soggetto anziché al suo orizzonte, pretende di
denegare la mancanza, la scissione a favore del “tutto ora e subito”. La
sovrastimolazione che riempie i vuoti e uccide i silenzi non produce nuovo
eros, ma costringe la vita in un ciclo di isteresi. Vediamo più da vicino di
cosa si tratta.
Quando si supera il carico specifico di snervamento, nel momento in cui il
carico viene a mancare, il corpo solido, non più deformato elasticamente ma
plasticamente, perde la propria capacità di ritornare alle condizioni
originarie. La deformazione diviene irreversibile. Proporrei di intendere la
perversione come una deformazione plastica della vita, vale a dire come
una deformazione che non riesce più, per eccesso, a recuperare la
condizione di partenza. Nella perversione, l’elastico è deformato al punto
da non essere più un elastico. La vita si spossa nella vita, e il godimento che
ne discende non ha niente a che fare con una risessualizzazione, bensì con
la lontana eco dell’eros. Eros risuona tra le maglie molli del suo
sfibramento. Dunque i fenomeni che abbiamo a disposizione per descrivere
lo psichismo sono: polarizzazione, depolarizzazione e isteresi. Se la
perversione è il regno dell’isteresi, come propongo, allora non è possibile
vedere in essa operativa una pulsione di morte. Può sembrare un paradosso:
l’isteresi non ha niente a che vedere con la pulsione di morte, perché
quest’ultima richiede che l’elasticità della vita sia nel pieno delle sue forze.
La pulsione di morte ha bisogno di elastici integri per manifestarsi, non di
elastici in isteresi. Deleuze sembra non considerare che in Al di là del
principio di piacere, Freud sceglie proprio la metafora dell’elastico per
descrivere il Todestrieb:
Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a
ripristinare uno stato precedente, al quale quest’essere vivente ha dovuto
rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno;
sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la
manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica. Questa
concezione della pulsione ci suona strana, poiché ci siamo abituati a
ravvisare in essa un fattore che spinge al cambiamento e allo sviluppo,
mentre ora la dobbiamo intendere in un modo precisamente opposto, vale
a dire come espressione della natura conservatrice degli esseri viventi.11.
C’è intanto una differenza macroscopica tra la pulsione di morte che
Deleuze rintraccia nelle perversioni e quella qui descritta da Freud: la
prima, nella veste della desessualizzazione, è simultaneamente (sur place)
un reimpasto creativo, una forma nuova di erotizzazione; la seconda, cioè
quella descritta da Freud, non è da iscriversi sul versante del nuovo, del
cambiamento, bensì su quello dell’inerzia e della conservazione. Dunque la
pulsione di morte per come la intende Freud non è uno strumento adeguato
per illuminare né la lettura deleuziana della perversione, sebbene Deleuze la
riprenda con insistenza, né la perversione intesa come ciclo di isteresi,
poiché in questo caso è proprio “l’elasticità della vita organica” ciò che
viene a mancare.
Silvia Vizzardelli insegna Estetica e Filosofia della musica all’Università della Calabria.
1 D.A.F. de Sade, Les infortunes de la vertu (1787), introduzione di J. Paulhan, Éd. du Point du
Jour, Paris 1946.
2 J. Lacan, “Kant con Sade”, in Scritti (1966), vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002.
3 R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), trad. di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p.
XXVI.
4 Ivi, p. 5.
5 Ivi, p. 7.
6 Ivi, p. 9.
7 Ivi, p. 48.
8 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 57.
9 Ivi, p. 133.
10 Ivi, p. 126.
11 S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
2008, pp. 246-247. Per un approfondimento della lettura deleuziana della pulsione di morte di Freud,
cfr. V. De Filippis, S. Vizzardelli, La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico,
Orthotes, Salerno 2016, in particolare il capitolo VI.
12 M. Prampolini, “Roland Barthes e Il piacere del testo. La deriva in isteresi e l’idiozia”, in E.
Fadda e M.W. Bruno (a cura di), Roland Barthes Club Band, Quodlibet, Macerata 2017, p. 163.
13 R. Barthes, Il piacere del testo (1973), trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1999, pp. 82-83.
14 G. Bataille, La letteratura e il male (1957), trad. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006, p. 79.
15 Ivi, p. 115.
Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce
CARMELO COLANGELO
1 Cfr. M. de M’Uzan, De l’art à la mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 132-133: “Al termine
masochismo sarei portato a preferire quello di movimento masochista”.
2 S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Werke, Fischer,
Frankfurt a.M. 1976, vol. XIII, p. 371; trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo,
Boringhieri, Torino 1975, vol. X, p. 5: “Il masochismo ci appare dunque nella veste di un grande
pericolo, mentre ciò non vale affatto per il suo corrispettivo opposto, il sadismo”. Dove ritenuto
necessario o opportuno le traduzioni citate sono state modificate.
3 Ibidem: “Se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo
scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, il masochismo è incomprensibile. Se invece il
dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono essi stessi rappresentare dei fini
[Ziele], il principio di piacere ne risulta paralizzato [lahmgelegt] e in un certo senso narcotizzato
[gleichsam narkotisiert] il guardiano [Wächter] della nostra vita psichica. […] Siamo tentati di
affermare che il principio di piacere non è solo il guardiano della nostra vita psichica, ma della nostra
vita in genere”.
4 T. Reik, Masochism in Modern Man, Farrar & Rinehart, New York-Toronto 1941; trad. di L.
Volpatti, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963, p. 8. Al termine dell’introduzione
al suo volume Reik precisava: “Mi sono interessato maggiormente al problema di un tipico
comportamento nei riguardi della vita, piuttosto che di quello tragicamente anormale. Questo è un
problema che compromette sempre più la nostra intera cultura. Voglio far notare questo aspetto della
odierna situazione umana” (ivi, p. 12).
5 L. von Sacher-Masoch, Venus im Pelz (1870); trad. di S. Formilli, Venere in pelliccia, RL Gruppo
Editoriale, Rimini 2010, p. 7.
6 Ivi, pp. 4-5.
7 J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960), in
Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 811; trad. a cura di G.B. Contri, “Sovversione del soggetto e dialettica del
desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 813.
8 Ibidem.
9 Cfr. per esempio J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme (1967-68), inedito,
lezione del 12 aprile 1967. Sulla lettura critica della dialettica hegeliana servo-padrone e
sull’interpretazione lacaniana di Marx vedi: P. Bruno, Lacan, passeur de Marx. L’invention du
symptôme, Erès, Toulouse 2010; B. Moroncini, Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014, pp. 99-126.
10 Cfr. É. Marty, Pourquoi le XXe siècle a-t-il pris Sade au sérieux?, Seuil, Paris 2011.
11 Cfr. J.-P. Sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, III, 3, § 1; trad. di G. Del Bo, L’essere
e il nulla, il Saggiatore, Milano 1997, p. 414.
12 Ivi, p. 428.
13 Ibidem.
14 “Per fortuna c’era Sartre”, esclama parlando del dominio dell’hegelismo e della fenomenologia
nel panorama filosofico del secondo dopoguerra francese: cfr. G. Deleuze, Dialogues, Flammarion,
Paris 1977, p. 13; trad. di G. Comolli, Conversazioni, ombre corte, Verona 1998, p. 18. Cfr. Id., “‘Il a
été mon maître’” (1964), in L’île déserte. Textes et entretiens 1953-1974, Minuit, Paris 2002, pp. 109-
113; trad. a cura di D. Borca, “‘È stato il mio maestro’”, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi,
Torino 2007, pp. 98-103.
15 Cfr. Id., “Desir et plaisir” (1977), in Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-95, Minuit,
Paris 2003, pp. 119-120; trad. a cura di D. Borca, “Desiderio e piacere”, in Due regimi di folli,
Einaudi, Torino 2010, p. 101: “Mi dico che non è casuale che Michel dia una certa importanza a Sade
e io al contrario a Masoch. Non basta dire che io sarei masochista e Michel sadico. Lo si potrebbe,
ma non è vero. Ciò che m’interessa in Masoch non sono i dolori, ma l’idea che il piacere interrompa
la positività del desiderio”.
16 Id., Pourparlers, 1978-1990, Minuit, Paris 20032, p. 198; trad. di S. Verdicchio, Pourparler,
Quodlibet, Macerata 2000, p. 192: “Credo che il ’68 sia stato la scoperta [dell’univocità del reale].
Coloro che odiano il ’68 o che ne giustificano la sconfessione considerano che sia stato simbolico o
immaginario. Ma in effetti non è mai stato così: fu un’intrusione del reale puro”.
17 Ivi, p. 195; trad. p. 189.
18 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, Minuit, Paris 1967, 20072, p. 87; trad. di G. De
Col, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1991, pp. 110-111.
19 Lettera di L. von Sacher-Masoch al fratello Karl dell’8 gennaio 1869, citata in W. von Sacher-
Masoch, Meine Lebensbeichte, Schuster, Berlin 1906; trad. di G. Bartoli, Le mie confessioni,
Adelphi, Milano 1998, p. 340. Cfr. G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. p. 87; trad. p.
111.
20 K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844; trad. a cura di N.
Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 112-114.
21 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 61; trad. p. 79.
22 Cfr. ivi, pp. 53-54; trad. p. 68.
23 Nel corso della lezione del 27 maggio 1980 a Vincennes, Deleuze, nell’avvicinare masochismo,
amore cortese, forme della sessualità cinese, dirà che il masochista “è qualcuno che in una maniera
perversa – che lo porterà a una strana impasse – vive in modo assai rigoroso il fatto che il desiderio è
un processo continuo, e dunque ha orrore, un orrore affettivo, per tutto ciò che potrebbe interrompere
il processo. Di conseguenza non cessa di allontanare il piacere, che è un modo di interruzione
“gradevole” del processo. A profitto di cosa? A profitto, letteralmente, di un vero “campo
d’immanenza” del desiderio, in cui il desiderio non deve smettere di riprodurre se stesso”
(<www2.univ-paris8.fr/deleuze/article.php3?id_article=70>).
24 Id., Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 105; trad. p. 137.
25 Cfr. T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 98 e 151-167.
26 G. Deleuze, “Un manifeste de moins”, in C. Bene, G. Deleuze, Superpositions, Minuit, Paris
1979, p. 89; trad. di J.-P. Manganaro, “Un manifesto di meno”, in C. Bene, G. Deleuze,
Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978, p. 70.
27 L’intera settima sezione della Présentation de Sacher-Masoch è dedicata alla decisiva questione
dell’umorismo, sulla quale due anni dopo tornerà la sezione XIX di Logica del senso, annodando
intorno a essa non solo il tema della perversione, ma anche quelli dell’“arte delle superfici”, delle
“singolarità nomadi”, dell’“evento puro”: cfr. Id., Logique du sens, Minuit, Paris 1969, p. 166; trad.
di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, p. 127. Un bilancio critico sul valore
del libro su Masoch nell’itinerario deleuziano si ricava dagli studi raccolti in “Multitudes.
Masoch/Deleuze”, 25, 2006.
28 J.-P. Sartre, L’être et le néant, cit., III, 3, § 1; trad. p. 429 (corsivo nel testo).
29 Cfr. ibidem.
30 T. Reik, Il masochismo nel mondo moderno, cit., p. 213.
31 A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique II (1840), in Œuvres, II, Gallimard, Paris
1992, p. 708; trad. a cura di N. Matteucci, “La democrazia in America”, in Scritti politici, II, UTET,
Torino 1968-1969, p. 688.
32 Cfr. ivi, p. 709; trad. p. 688.
33 Resta utile in proposito la disamina storico-critica offerta da M. Cavina, Il padre spodestato.
L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007.
34 Cfr. J. Lacan, “D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose” (1957-58),
in Écrits, cit., pp. 531-583; trad. di G. Contri, “Una questione preliminare ad ogni possibile
trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., vol. II, pp. 527-579.
35 G. Deleuze, De Sacher-Masoch au masochisme, “Arguments”, 21, 1961, p. 42: “In generale la
psicoanalisi freudiana soffre di un’inflazione del padre. Nel caso particolare del masochismo, siamo
invitati a una ginnastica stupefacente per spiegare come l’immagine del Padre sia prima interiorizzata
nel Super-io, poi ri-esteriorizzata in un’immagine di donna. Spesso tutto avviene come se le
interpretazioni freudiane raggiungessero solo gli strati più superficiali e più individualizzati
dell’inconscio. Esse non entrano nelle dimensioni profonde in cui l’immagine di Madre regna per suo
conto, senza dovere nulla all’influenza del padre”.
36 Cfr. ivi, p. 46: “[Freud] non riuscì a cogliere il ruolo delle immagini originali: esse non si
spiegano se non con se stesse, sono insieme il termine delle regressioni e il principio di
interpretazione degli eventi in sé. I simboli non si lasciano né ridurre né combinare; al contrario, sono
la regola ultima per la combinazione dei desideri e del loro oggetto, costituiscono i soli dati
irriducibili dell’inconscio. L’unico dato irriducibile dell’inconscio è il simbolo stesso, e non un
ultimo simbolizzato”. Su questo “scheletro nell’armadio di Deleuze”, cioè la sua “ammirazione per
Jung” (cfr. S. Žižek, Notes on a Debate “From Within the People”, “Criticism”, 4, 2004, p. 662),
vedi i contributi di C. Kerslake, Rebirth Through Incest. On Deleuze’s Early Jungianism, “Angelaki.
Journal of the Theoretical Humanities”, 9, 2004, pp. 135-157; Id., Deleuze and the Unconscious,
Continuum, London 2007, passim.
37 La messa in parentesi dello junghismo e degli archetipi, e l’importanza conferita a diniego
feticista e struttura del fantasma masochista possono aver trovato i loro presupposti in due importanti
contributi psicoanalitici pubblicati su “Les Temps Modernes” nel gennaio e nell’aprile 1964 e
divenuti poi pressoché classici: O. Mannoni, “Je sais bien, mais quand même...”, in Clefs pour
l’imaginaire, ou l’Autre Scène, Seuil, Paris 1969; trad. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, “Sì, lo so, ma
comunque…”, in La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1972,
pp. 5-29 e J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Fantasme originaire, fantasmes des origines, origines du
fantasme, Hachette, Paris 1985; trad. di P. Lalli, Fantasma originario, fantasmi delle origini, origini
del fantasma, il Mulino, Bologna 1988.
38 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 59; trad. p. 73.
39 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme, cit., lezione del 19 aprile 1967:
“Incontestabilmente [Deleuze] scrive sul masochismo il miglior testo che sia mai stato scritto. […] È
un testo che davvero anticipa tutto ciò che vi dirò ora sulla via che abbiamo aperto quest’anno; non
c’è uno solo dei testi analitici che non sia interamente da riprendere, da rifare in questa nuova
prospettiva”.
40 Cfr. Id., Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre (1968-69), Seuil, Paris 2006, p. 134: “[…]
questo contratto su cui il nostro amico Deleuze ha messo così felicemente l’accento per supplire alla
fremente imbecillità che regna nella psicoanalisi”. Per la lettura lacaniana di Présentation de Sacher-
Masoch, cfr. D. Sigler, “Read Mr. Sacher-Masoch”: The Literariness of Masochism in the
Philosophy of Jacques Lacan and Gilles Deleuze, “Criticism”, 2, 2011, pp. 189-212. Più in generale,
sul rapporto di Deleuze con la psicoanalisi lacaniana, si veda la riflessione di M. David-Menard,
Deleuze et la psychanalyse, PUF, Paris 2005.
41 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. Le Sinthome (1975-76), Seuil, Paris 2005; trad. a cura di
A. Di Ciaccia, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 75. Si
vedano le ricostruzioni di M. Fiumanò, Masochismi ordinari, Mimesis, Milano-Udine 2016 e la
sintesi di M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, Raffello Cortina, Milano 2016, pp.
395-451.
42 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, cit., pp. 257: “Che il masochista
faccia della voce dell’Altro ciò a cui darà la garanzia di rispondervi come un cane, è l’essenziale
della cosa”.
43 Cfr. ibidem. Sulla voce in quanto oggetto a piccolo il rinvio d’obbligo è a Id., Le Séminaire.
Livre X. L’angoisse, Seuil, Paris 2004; trad. di A. Succetti, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi,
Torino 2007, pp. 264-277.
44 Ivi, pp. 258-259.
45 T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 64-65, 154-158, 214-217.
46 Per un’introduzione alla questione si veda M. Dolar, A Voice and Nothing More, MIT Press,
Cambridge (Mass.) 2006; trad. a cura di L.F. Clemente, La voce del padrone, Orthothes, Salerno
2014.
47 M. Blanchot, “L’indestructible” (1962), in L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 191-
200; trad. di R. Ferrara, “L’indistruttibile”, in L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 2015, pp.
159-166.
Carmelo Colangelo insegna Filosofia morale all’Università di Salerno.
Disconoscimento sur place
RICCARDO PANATTONI
Premessa
La resistenza psicologica e culturale che tutti proviamo di fronte a una
qualsiasi (pur minima, simbolica, teatrale) idea di autoaggressione o
sottomissione volontaria si riflette in innumerevoli espressioni del
linguaggio comune. Eppure il masochismo, termine che racchiude troppi
significati differenti per un’unica denotazione, non cessa di esercitare su
molti di noi un fascino misterioso. Da parte mia credo che in questo fascino,
antico e attualissimo nello stesso tempo, si nasconda un significato
filosofico e politico che siamo ancora lontani dall’avere ancora soltanto
accarezzato. Nella dinamica masochista, di cui Masoch è stato senz’altro un
grande attore, ma non certo il primo, si nasconde infatti un segreto che
meriterebbe di essere approfondito attraverso un’inedita genealogia. Invece
di indagare il “masochismo” da un punto di visto politico, filosofico o
psicoanalitico, mi piacerebbe piuttosto rovesciare il piano e provare a
ripensare alcune forme di seduzione politica, psicoanalitica e filosofica a
partire dalla peculiare dinamica seduttiva, e dal particolare rapporto di
potere, in gioco nella strategia masochista.
Nel fascio di problemi cui ci introduce il masochismo, inteso come
strategia e come modalità di produzione della verità, si declina infatti in
maniera del tutto singolare l’antichissimo tema della trasformazione di sé: il
ferirsi, l’autointaccarsi, il farsi violenza. Lo sdoppiamento e la divisione del
soggetto – concepiti anche in chiave politica come modalità di seduzione e
di trasformazione dell’altro – sono infatti il nocciolo del masochismo che,
ancora oggi, ci interessa e merita di essere approfondito. Le storie di
Masoch ci raccontano, in ultima istanza, proprio di come sia necessario
farsi del male per trasformarsi, per provare a se stessi una verità, e di come
tutto questo non si possa fare senza “un altro”; ma ci raccontano anche di
come “gli altri” non possano essere il supporto delle nostre trasformazioni
senza esserne, per questo, a loro volta intaccati. La seduzione masochista e
il rapporto che essa articola tra il soggetto, l’altro, il godimento e la verità,
ci riportano infatti a una dimensione del discorso e del rapporto
intersoggettivo che nella nostra cultura rimane a tutt’oggi velata, sincopata,
misconosciuta: quella ordalico-sofistica, in cui la verità non è fatta per
essere conosciuta, ma giocata, inflitta e subita, come un evento che si scrive
sui corpi.
L’orrore di Nietzsche
A eccezione del fatto che sono entrambi morti folli, che erano ammiratori di
Schopenhauer e che scrivevano in tedesco, tutto sembra dividere Nietzsche
e Masoch. In primo luogo la formazione cattolica e mistico-barocca dello
scrittore galiziano, radicalmente opposta a quella protestante di Nietzsche.
In secondo luogo, la storia familiare: da un lato Nietzsche, figlio di un
pastore protestante teneramente amato e prematuramente scomparso,
dall’altra Masoch, figlio di un questore cordialmente detestato. In terzo
luogo a dividerli troviamo le convinzioni politiche: da un lato Masoch, per
metà slavo e affascinato del panslavismo, vicino agli ambienti anarchici
bakuniniani e proudhoniani, simpatizzante delle rivolte dei contadini
piccolo-russi contro la nobiltà polacca e strenuo difensore dell’impero
transnazionale asburgico. Dall’altro lato Nietzsche: prussiano, acerrimo
nemico di qualunque forma di socialismo, gioiosamente ateo e, a suo modo,
nazionalista tedesco. Eppure, forse proprio a causa di questa siderale e
paradossale prossimità, mi è parso di poter rintracciare un’affascinante
complementarità in un punto decisivo del loro pensiero che mi sembra
perfetta per inoltrarci nel “masochismo” che (ancora oggi) ci interessa.
Nietzsche nella Genealogia ci racconta una specie di mito, una fiaba
grottesca. La storia di come i poveri, gli umiliati, gli ultimi, i malriusciti, i
giudeo-cristiani (per chiamarli col loro nome) sono stati capaci di sedurre i
“migliori” alla loro nuova, mostruosa e inquietante verità per mezzo di quel
“dio”, e di quella inedita “autoaggressività”, di cui gli antichi signori non
avrebbero letteralmente saputo che farsene. Nietzsche si ferma qui,
dicendoci a chiare lettere che se si addentrasse ulteriormente tra i vapori
malsani di questo ripugnante segreto rischierebbe di restarne contagiato
come da una malattia. Dopo aver osato scoperchiare con grande coraggio
un simile vaso di Pandora, egli sembra infatti proibirsi misteriosamente
nella Genealogia tutte le domande (e le risposte) decisive. Come hanno
fatto gli schiavi, a livello pratico, a sedurre i propri padroni? A ben vedere
infatti – Nietzsche ce lo lascia intuire, gli schiavi non hanno trasformato i
valori per mezzo della violenza ma, piuttosto, per mezzo della seduzione. E
dove avrebbero trovato, gli schiavi, la volontà di potenza necessaria per
compiere un così seducente e inaudito rovesciamento di valori? Risposta
(ancora velata) di Nietzsche: nella cattiva coscienza e nel ressentiment
covati per secoli nei confronti di quei “signori” che li dominavano, che
erano davvero più forti – e quindi più “veri” – di loro. Ma come hanno fatto
gli “schiavi” a dimostrare l’esistenza del loro dio, della loro nuova verità?
La risposta, spaesante e vertiginosa (che prendo a prestito da una celebre
sentenza di Lacan) è: amandolo, agendo come se quel dio e quella verità
fossero reali. Gli schiavi della Genealogia hanno dimostrato ai propri
signori l’esistenza e la superiore potenza del loro dio (della loro verità e,
quindi, del loro “io”) soffrendo e morendo da martiri per questi nuovi
valori, in loro nome.
Nietzsche si accorge nitidamente che la volontà di verità, la morale degli
schiavi, si è imposta nella storia dell’Occidente attraverso un’inedita e
spaventosa forma di seduzione “masochista” che ha contagiato i primi
“buoni” (i “signori”), inducendoli a riconoscersi a un certo punto della
storia come i nuovi “malvagi”. La volontà di verità – la volontà che esista
una separazione vero/falso che raddoppia quella morale (e cristiana) di
bene/male – si è instaurata storicamente nella psiche dell’uomo occidentale
a partire da questa sfida, da questa seduzione ordalico-sofistica che è
l’essenza della strategia masochista. Foucault non ha mancato di rilevare,
nelle Lezioni sulla volontà di sapere, fino a che punto la volontà di verità
sia soltanto il circoscritto (anche se molto longevo) episodio storico di una
più ampia, e strategica, volontà di sapere.
Non è possibile comprendere la dinamica su cui si fonda, in tutti i tempi,
l’esercizio seduttivo del potere senza indagare il fascino segreto che emana
dall’autoaggressione e dall’autosacrificio. L’uomo che non teme di
autoinfliggersi la verità che propugna, quella stessa verità a cui vorrebbe
piegare gli altri, è, in quasi tutte le culture della terra, l’uomo d’onore,
l’uomo glorioso, colui che ha il diritto di comandare gli altri e di intaccarne
i valori. Nietzsche trema nel realizzare che nessuno meglio degli schiavi
della Genealogia e del loro “pastore” ha saputo mettere in atto questa
perversa strategia di seduzione e vendetta, e inorridisce nel realizzare che
una simile potenza seduttiva è scaturita proprio da quelle due orrende
“malattie” che sono il ressentiment e la cattiva coscienza. Niente è meglio
delle sue parole per restituirci il sapore del suo sconcerto:
La provocazione che vorrei lanciare è che Masoch si sia reso conto (meglio
di Nietzsche) che la seduzione masochista degli “schiavi” – intuita dal
filosofo tedesco nella Genealogia – non sia altro che un mito moderno, una
maschera del doppio gioco che il filosofo critico è chiamato a svolgere nella
società capitalista per far marcire dal di dentro i valori borghesi di cui egli
stesso è imbevuto. Lo “schiavo” nietzschiano forse, in ultima istanza, come
gli eroi e le eroine di Masoch, non è che una metafora dell’intellettuale
critico borghese e del compito grottesco, paradossale di cui questi deve farsi
carico per riuscire a essere all’altezza delle proprie parole.
L’intellettuale critico è l’uomo dell’ideale ascetico. È lui (Nietzsche,
Masoch, “noi”) che ha bisogno della seduzione masochista, è lui che deve
servirsene per scatenare negli attuali signori quell’odio di sé che – fin dai
tempi dei brahamani – i filosofi (quelli veri) sanno magicamente ispirare
negli umili e nei potenti.
Basta aver studiato un po’ di storia per sapere molto bene che i deboli
veri, i sottomessi, gli sfruttati non sono affatto dei “deboli”. Il fatto di
essere cristiani non ha impedito ai deboli “veri”, negli ultimi duemila anni,
di massacrare i forti non appena ne hanno avuto l’occasione (vedi, prima
del cristianesimo, le guerre sociali e le rivolte degli schiavi ai tempi
dell’antica Roma, o – in età cristiana – la rivolta degli zeloti a Tessalonica
durante il lungo crollo dell’Impero bizantino, o ancora le rivolte contadine
di Munster che hanno seguito la Riforma; o ancora – non più di
centocinquant’anni fa – la strage di Bronte nella Sicilia “liberata” dai
garibaldini). Non sono i deboli “veri” gli schiavi che ci interessano, Masoch
lo vede molto meglio di Nietzsche. I deboli veri, gli sfruttati, quando gli
salta la mosca al naso, non cercano mezzucci. Lo vediamo anche oggi,
mutatis mutandis, nel voto populista-sovranista attraverso cui gli strati più
poveri e più ignoranti della popolazione europea, una volta di più, stanno
giocando un brutto (e probabilmente autolesionistico) scherzo ai padroni, ai
ben nati, alle élites del vecchio continente.
Masoch si inoltra, e ci trascina, in questa zona desertica, glaciale dove ai
deboli e ai poveri è restituita la loro ferocia. Egli assiste ancora ragazzo, e
come figlio di questore, alla tremenda reazione dei contadini piccolo-russi
contro la nobiltà polacca (che a sua volta si era sollevata contro l’Impero
asburgico). Uomini impiccati agli alberi come frutti troppo maturi, ammassi
di cadaveri trasportati nei carretti come sacchi di patate che grondano
sangue leccato dai cani. Masoch vede la furia dei deboli, degli oppressi e
degli sfruttati (con cui peraltro, da “padrone” e da intellettuale critico,
solidarizza). Ma proprio per questo non può credere, nemmeno per un
istante, come sembra fare Nietzsche un po’ ingenuamente, che i deboli
“reali” non siano (da sempre stati) in grado – se portati al limite della
sopportazione – di rovesciarsi violentemente, subitaneamente (anche se
spesso solo fugacemente) in “forti”. Non vede alcuna bassezza nella loro
vita, nella loro realtà, e non la vede nemmeno nella loro fede in dio.
I romanzi “masochisti” dell’autore galiziano (come La venere in pelliccia
e La madre di dio) ci interessano e ci affascinano ancora oggi perché – a
differenza delle opere di Nietzsche – ci aiutano a capire per quale via un
uomo del ressentiment, un debole, un invidioso, un uomo dell’ideale
ascetico come un Salvini, una Le Pen o un qualsiasi leader populista-
sovranista, possa ottenere – proprio oggi, sotto i nostri occhi e tutt’altro che
miticamente – di essere amato e ascoltato da così tante persone (mentre i
“migliori” intellettuali del paese sono considerati – se va bene – dei pedanti,
e se va male dei farabutti). Sembra strano che nessuno si sia accorto del
fatto che la strategia politico-discorsiva dei nuovi sovranisti neofascisti è
proprio ordalico-sofistica (e quindi implicitamente masochista nel senso che
ci interessa). Che si tratti del rapporto con l’Europa a proposito dei conti,
della questione migranti, di diritto internazionale o di un qualsiasi tema
etico, il
leader sovranista si pone sempre teatralmente e seduttivamente nel discorso
come colui che si farà arrestare, punire, uccidere, piuttosto che venire meno
alla parola data. In questo modo egli si rappresenta, in maniera perfetta e
ipocrita (ma questo a livello strategico non ha alcuna importanza), come il
capo che tutti vorrebbero avere; come qualcuno che ci “mette la faccia”, che
mette il suo corpo davanti al tuo, che si espone per primo alle conseguenze
della verità che propugna. Anche se la cosa può apparire paradossale, è
proprio così che – seducendo gli altri – si trasformano i valori nel reale:
mostrando che si è pronti a rimetterci in proprio, in solido, per la verità che
si propugna. Non che i leader sovranisti e populisti facciano nulla di tutto
questo, hanno solo capito meglio degli altri che – per innescare una
potentissima identificazione – spesso basta rappresentare questo
atteggiamento.
Allo stesso modo in cui il senso non esiste che come ricaduta incidentale,
effettuale, quasi volgare della materia grafica o sonora e del suo erotico
con-fondersi con la superficie corporea su cui viene a marchiarsi, a
scriversi, così tutte le “verità” che garantiscono un sistema di valori –
generando la polpa storica delle varie morali – in origine sono state tutte
delle non-verità, dei bruti pezzi di reale. Masoch, come e meglio di
Nietzsche, ci insegna anche questo: che c’è un momento, un luogo, in cui la
verità non è né vera né falsa: un’immanenza, un al di qua in cui essa –
prima di funzionare come un modello o regola trascendente – accade come
un evento.
Per una verità di questo genere [cioè diversa da quella implicata nella
volontà di verità], pertanto, il problema fondamentale non sarà mai quello
del metodo, bensì quello di una strategia. Tra questa verità-evento e chi ne
è preda, chi la afferra o chi ne è colpito, il rapporto non è analogo a quello
che lega l’oggetto al soggetto. Non è dunque un rapporto di conoscenza. È
piuttosto un rapporto contrassegnato dallo scontro, dall’urto [...].
Assomiglia a ciò che avviene nella caccia, e in ogni caso si tratta di un
rapporto bellicoso, reversibile, rischioso. Insomma, si tratta di un rapporto
in cui c’è dominazione e c’è vittoria, e dunque di un rapporto non di
conoscenza, ma di potere.9.
Conclusione
In La madre di dio Masoch ci fa sentire nella carne, sulla pelle, proprio
questa dimensione della verità-evento che l’esperienza dominante della
soggettività tende a sincopare. Non solo, egli ci fa sentire anche fino a che
punto, ancora oggi, per vivere e socializzare un’esperienza della
soggettività differente – alternativa rispetto a quella che ne fa una sorta di
Legge “interiore” che ci abita e governa (Freud avrebbe detto Super-io) –
siamo spesso costretti a chiamare in causa l’idea della morte, della
sofferenza e dell’autodistruzione. Masoch ci racconta – a mezza voce – di
come in questa teatrale autoaggressione, in questa angosciante (ma
simbolica) pulsione di morte, si nasconda un’esperienza della soggettività,
di me stesso, che mi fa godere; un’esperienza di fronte alla quale
l’esperienza borghese, utilitaria, razionale ed edonista della soggettività non
tiene nemmeno per un secondo.
L’esperienza borghese della soggettività, pur con le sue importanti
trasformazioni storiche, è infatti talmente pervasiva da coincidere ormai con
il soggetto stesso, con ciò che ho l’abitudine descrittiva di chiamare “io”. Al
punto tale che la sola idea, la sola eventualità di poter vivere altrimenti mi
fa sprofondare di colpo in un’atmosfera masochista. Tutto questo perché –
pur non essendo affatto ogni forma di masochismo di per sé qualcosa di
rivoluzionario – bisogna ammettere che, al contrario, ogni pratica
rivoluzionaria, ogni scelta deviante rispetto all’orizzonte di valori che
costituisce l’esperienza borghese della soggettività (e il suo principio di
piacere) non può che essere strutturalmente percepita (da chi la mette in
pratica e la vive sulla propria pelle) come “masochista”.
Niente oggi è considerato più assurdo di agire contro il proprio interesse
individuale. Niente è considerato più malato e perverso di attentare
attraverso i propri atti e le proprie scelte semicoscienti alla dominante
esperienza economica dell’io. Se oggi – come ha detto Žižek – il genere
distopico ci mostra come sia più facile pensare la fine del mondo (cioè la
fine biologica della propria vita e dell’intero genere umano) che pensare la
fine del capitalismo, allo stesso modo nei romanzi “masochisti” di Masoch
possiamo vedere come a volte, per l’intellettuale critico borghese, sia più
facile immaginare di autodistruggersi fisicamente piuttosto che ammettere a
se stesso – in maniera meno melodrammatica – che è proprio giunto il
tempo di cominciare a vivere diversamente, il tempo di essere (almeno un
po’) all’altezza delle proprie parole.
Nietzsche ci ha lasciato molte poetiche indicazioni per guidarci in questo
pericoloso ma necessario cammino autodistruttivo, di cui non ha mai
smesso di avvertire l’intima urgenza (dallo Zarathustra e fino alla Volontà
di potenza):
Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi il contrasto. Non è una differenza
nel martirio: piuttosto, il martirio ha un altro senso. […] Il “Dio in croce”
è una maledizione scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di
liberarsene – Dioniso fatto a pezzi [invece] è una promessa di vita; la vita
rinasce in eterno e ritornerà in patria, tornerà dalla distruzione.13.
Ancora una volta vediamo come, forse proprio a causa del suo amore per le
lettere classiche (e delle sue pose aristocratiche), Nietzsche abbia avuto dei
grossi problemi non tanto a cogliere, quanto piuttosto ad accettare l’essenza
seduttiva del cristianesimo. Un’“essenza” che Masoch, invece, non solo
comprenderà a fondo, ma saprà addirittura far splendere oscuramente nelle
atmosfere gotiche dei suoi romanzi. Il cattolicesimo mistico-barocco,
eterodosso, per non dire eretico, gioiosamente e angosciosamente
masochista è stato storicamente – a partire dal Seicento, passando per il
romanticismo e giungendo alla psicoanalisi e all’irrazionalismo
novecentesco – il principale nemico interno della razionalità capitalista.
Invece di affrettarsi a fare una genealogia e una psicoanalisi del
masochismo, si potrebbe piuttosto riconsiderare oggi la pratica genealogica
à la Foucault/Nietzsche e l’etica implicata nelle “scoperte” della
psicoanalisi come due strategie masochiste interne all’esperienza capitalista
e borghese della soggettività. Un rovesciamento di prospettiva senz’altro
audace, che i protagonisti della stagione post-strutturalista francese sono
stati i primi a rilanciare nella contemporaneità. Se infatti abbiamo già visto
il contributo di Deleuze e Foucault a tale progetto, possiamo chiudere con
queste sibilline e poco frequentate parole di Lacan a proposito
dell’“essenza” dell’atto analitico:
[L’atto psicoanalitico] dovrebbe essere articolato all’interno di quello che
è l’orizzonte “masochista”. Sarebbe davvero molto istruttivo confrontare
l’atto analitico e la pratica masochista – senza ovviamente confonderli o
sovrapporli interamente. […] In un certo senso, infatti, si può dire che –
finché lo desidera – il masochista è il vero padrone. È il padrone del vero
gioco. Certamente può fallire, senza dubbio. Anzi, è quasi certo che
fallisca […] Ma quello del masochista è un fallimento felice, perché si
trova in una posizione tale per cui [sia che vinca, sia che perda] egli gode
in ogni caso, ed è per questo che è il padrone del vero gioco. È evidente
che non ci sogniamo neppure per un istante di imputare un tale successo
allo psicoanalista… Significherebbe veramente attribuirgli una fiducia
riguardo alla scoperta del proprio godimento che siamo ancora lontani dal
potergli accordare.14.
1 F. Nietzsche, La genealogia della morale (1887), trad. di F. Masini, in Opere, vol. VI, tomo II,
Adelphi, Milano 1986, p. 239.
2 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 137.
3 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 108.
4 Ivi, p. 115.
5 J. Lacan. Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1991), trad. di C. Viganò e R.E.
Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 230. “[…] È questo che la psicoanalisi scopre. Con un po’ di
serietà vi accorgerete che questa vergogna [di vivere] si giustifica per il fatto di non morire di
vergogna, cioè per il fatto di tenere in piedi con tutte le vostre forze un pervertito discorso del
padrone – è il discorso universitario.”
6 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 115.
7 M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere (2011), trad. di M. Nicoli e C. Troilo, Feltrinelli,
Milano 2015, pp. 100-101 (trad. leggermente modificata).
8 M. Foucault, Il potere psichiatrico (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2010, p. 213.
9 Ivi, p. 212.
10 L. von Sacher-Masoch, La madre santa (1886), trad. di A. Sansone, SugarCo, Milano 1968, p.
192 (nel testo ho preferito usare il titolo dell’edizione italiana pubblicata da ES, Milano 1995, che
ricalca il titolo originale).
11 Ivi, p. 194.
12 Ivi, p. 202.
13 F. Nietzsche, La volontà di potenza (1901), trad. di A. Treves, Bompiani, Milano 2001, p. 554.
Cfr. anche Così parlò Zarathustra: “Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per
offrirsi in sacrificio o perire. […] Amo colui che vive per sapere, e che vuol sapere affinché, un
giorno, viva il super-uomo. E in tal modo egli vuole la propria distruzione”.
14 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris 2006, p. 352.
Discussioni
Il soggetto supposto intelligente
ANTONELLO SCIACCHITANO
Il mondo è complesso
L’ultima affermazione è in buona sostanza falsa. Il falso sembra
ineliminabile dal discorso sull’intelligenza. Il falso sembra parte integrante
e intrigante, al fondo la molla, dell’intelligenza. La probabile ragione è che
il mondo (inteso come stato epistemico o modello del reale inconoscibile) è
il luogo della complessità, dove l’intelligenza non può far altro che
formulare congetture false (leggi: da falsificare) su sistemi caotici.
Probabilmente c’è un gradiente dall’intelligenza naturale all’artificiale,
dall’intelligenza del lombrico a quella dell’uomo. Sarebbe uno sviluppo
parallelo a quello che prese le mosse dagli istinti sociali degli animali e
arrivò ai sentimenti morali dell’uomo, come vide Darwin.
È molto probabile che l’intelligenza naturale esista; sarebbe prodotta
dall’evoluzione delle specie che promuove la più adatta a riprodursi in certe
condizioni ambientali. Siccome tali condizioni variano, non c’è alcuna
direzione evolutiva predeterminata, a priori più di altre intelligente. Darwin
fu non poco astuto a localizzare l’intelligenza della natura nella selezione
naturale. Fu abile a smarcarsi dal finalismo e dal determinismo globale,
vigente ai suoi tempi, pur ammettendo come Newton il determinismo a
livello locale nel passare da una generazione all’altra. Ma con una
differenza sostanziale: oggi, il determinismo non determina più l’evento,
come pensava l’antico, ma la sua probabilità.4.
La selezione naturale opera nella contingenza, non nella teleo-logia.
Genera un ventaglio di possibilità e premia la migliore al momento, in una
sorta di campionato della vita, senza perseguire un progetto prestabilito.
Variabilità e casualità sono gli ingredienti dell’intelligenza naturale che ha
prodotto il nostro mondo complesso. In biologia si chiama biodiversità.
Dove c’è più diversità, lì c’è più bio. Questa è la premessa scientifica non
sempre gradita al potere, che tende a omogeneizzare l’ambito su cui si
impone. I migranti e i barbari restino fuori, dicono i barbari di dentro.
L’isolazionismo e il protezionismo degli odierni movimenti sovranisti e
populisti sono il portato di una controintelligenza sul breve periodo
intelligente. Non a caso quei movimenti sono sempre governati da un
Führer; il popolo c’entra poco e solo come soggetto a ipnosi. Non sappiamo
cosa sia l’intelligenza, ma empiricamente constatiamo che l’ipnosi politica,
seppure è il contrario dell’intelligenza, funziona in modo intelligente, nel
senso di finalizzare a disegni di potere il comportamento popolare.
Il Führer semplifica il complesso. Impone al falso la propria semplice e
autarchica verità: “Lo Stato sono io”. La dittatura si può definire il primato
violento dell’essere sul sapere, del “semplice” (da semel “una volta sola” e
plectere, “piegare”) sul “complesso” (da cumplecti, “abbracciare”). Ogni
dittatura, sia di destra sia di sinistra, fomenta l’ignoranza, imponendo la
verità unica del proprio catechismo… come piace al popolo. Il disegno
politico dittatoriale la sa lunga. Vulgus vult decipi, ergo decipiamur, si
sussurrava un tempo in Vaticano.
L’intelligenza è apprendere dall’esperienza
Non è mio compito tracciare la storia del programma di ricerca cibernetica
noto come “intelligenza artificiale”. Mi limito a constatare che l’appellativo
“artificiale” segnala l’approssimarsi del discorso scientifico e dei suoi
artefatti. Sono artificiali i linguaggi studiati in logica; artificiali, addirittura
non fonetiche ma ideografiche, le scritture dell’algebra; artificiali le
osservazioni computerizzate dei satelliti; artificiali gli esperimenti di
laboratorio, anche quando riproducono in vitro fenomeni verificati in vivo.
Forse non è artificiale l’intelligenza in sé; è l’approccio scientifico a
renderla tale. L’artificio, la simulazione, la prossimità al falso sono il prezzo
da pagare alla scienza; lì si radica la principale e più forte ragione delle
resistenze che la scienza suscita nell’intelligenza “naturale”, dalla
filosofica, ostile allo scientismo e al riduzionismo meccanicista, alla politica
avversa ai tecnici che pure sfrutta a suo servizio.
Le premesse al programma di ricerca sull’intelligenza artificiale furono
poste da McCulloch e Pitts con le loro reti neurali, i cui neuroni erano
simulati da funzioni logiche a soglia che calcolavano la congiunzione, la
disgiunzione e la negazione logiche dei loro input per dare i corrispondenti
output, a loro volta input di altri neuroni. La prima performance di questa
“intelligenza in estensione” fu nel 1958 il percettrone di Rosenblatt, una
rete neurale che poteva essere addestrata a riconoscere caratteri di stampa
mediante la minimizzazione della cosiddetta retropropagazione dell’errore.
Il programma di ricerca fu soffocato sul nascere dalla stroncatura di Minsky
e Papert, i quali dimostrarono che il percettrone non poteva discriminare tra
situazioni non lineari, come la negazione della disgiunzione.
Da allora si avviò un programma di ingegneria della conoscenza, una
forma di cognitivismo, mirante a costruire “sistemi esperti”, cioè
programmi per calcolatori, codificati da esperti nell’intento di rendere il
calcolatore altrettanto esperto degli esperti. Il programma fallì scontrandosi
con la complessità del reale,
di fronte alla quale ha dimostrato di non sapere apprendere ad apprendere. È
il meta-apprendimento la condizione epistemica fondamentale di ogni
forma di intelligenza. Lo stabilì Bateson nel 1964,5. ma la posizione era
stata guadagnata qualche secolo prima dalla Mathesis universalis
cartesiana, che passando per l’ars combinatoria di Leibniz arriverà fino alla
logica formale di Husserl e alla cibernetica di Wiener. Wiener ebbe il merito
di individuare l’anello di congiunzione tra la macchina e il vivente, sia
vegetale sia animale:6. la capacità di apprendere le cause dagli effetti per via
retroattiva – un’intuizione che superava l’uomo-macchina di Cartesio e La
Mettrie. Non è inutile ricordare l’etimo di “matematica” dal greco
manthano, che non significa “calcolare” ma “apprendere”. Si apprende
dall’esperienza, in particolare dall’esperienza del dolore.7. Sanno di soffrire
le macchine? Sanno di decadere? Che l’entropia aumenta?
Oggi il programma di ricerca sull’intelligenza artificiale si riapre proprio
sul tema matematico per eccellenza del machine learning, reso impellente
dalla necessità di gestire le enormi quantità di dati generati dalle moderne
tecnologie informatiche applicate ai processi produttivi. La questione è
come una macchina possa imparare senza un maestro che le dica cosa
apprendere, cioè confermi le prestazioni positive e corregga le negative.
Detto altrimenti, esiste un algoritmo di apprendimento per apprendisti senza
supervisori?
La congettura scientifica, tutta da verificare, è che tale algoritmo esista.
L’evoluzione naturale deve aver applicato qualcosa di simile a un algoritmo
di apprendimento senza supervisore, se è vero che in tre miliardi e mezzo di
anni la natura ha saputo generare la biodiversità che oggi conosciamo,
senza postulare un Disegno Intelligente che prestabilisse la direzione di
evoluzione del processo.
Oggi ci sono diverse scuole di machine learning. Tutte credono che esista
l’Algoritmo Definitivo, ma divergono sul modo di implementarlo. Tutte
hanno un tratto negativo in comune: sono antipopperiane. Per Karl Popper
le teorie non si possono indurre empiricamente dai dati.8. I dati servono solo
a confutare teorie escogitate fuori dal regime empirico.9. Invece questi
ricercatori, forse sulle orme di Pierre Duhem,10. cercano in vari modi di
estrarre un sapere dal reale – teorie immaginarie da dati reali – non in modo
fine a se stesso ma per estrarre ricorsivamente altro sapere dal reale. La
bontà dei loro algoritmi si misura proprio sull’efficacia autoreferenziale di
apprendere ad apprendere.
Pedro Domingos distingue cinque tribù di “apprendisti” in altrettanti
capitoli del suo libro L’algoritmo definitivo.11. Ci sono i simbolisti che sulla
base dell’empirismo di Hume si cimentano nel calcolo della deduzione
inversa; partono dal basso, dalle conseguenze, per “indovinare” le premesse
a monte. Su base neuroscientifica i connessionisti esplorano le possibilità di
estendere la legge di Hebb: due neuroni che “sparano” insieme, rinforzano
la loro connessione e in futuro spareranno probabilmente ancora insieme.
Gli evoluzionisti creano darwinianamente tanti programmi diversi a caso
che competono tra loro per il successo del calcolo. Dati gli effetti, i
bayesiani calcolano la probabilità inversa delle cause; a loro basta
conoscere la probabilità a priori delle cause e la verosimiglianza che un
certo effetto sia prodotto da una certa causa. Per il teorema di Bayes, che è
un teorema lineare, la probabilità delle cause cresce tanto più quanto più
verosimili sono i loro effetti osservati. Infine ci sono gli analogisti che
cercano nell’archivio (database) la configurazione più simile a quella data
(nearest neighbour), per classificarla nella classe di quella.
Quale strategia preferire? Tutte e nessuna. All models are wrong, scrisse
nel 1976, lo statistico bayesiano George Box sul “Journal of American
Statistical Association”. Undici anni dopo aggiunse la prudente postilla: but
some are useful. Commenta Pedro Domingos: “Per un bayesiano la verità
non esiste: si parte da una distribuzione a priori [delle probabilità] delle
ipotesi che, dopo aver visto i dati, diventa la distribuzione a posteriori [delle
probabilità], calcolate secondo il teorema di Bayes. […] Essere bayesiani
significa non dover mai dire che si è certi”.12. Ma essere incerti significa
essere tanto intelligenti da apprendere dall’esperienza.
Da psicoanalista mi sento di fare un’osservazione, credo pertinente al
tema dell’intelligenza artificiale, essendo l’intelligenza psicoanalitica una
forma di intelligenza tutt’altro che naturale (fuori dal buon senso), come
dimostrano tutte le forme di resistenza messe in atto contro la psicoanalisi.
Dove si impara dal transfert, cioè interagendo con l’altro. Tanti analizzanti,
segnatamente gli anoressici, non apprendono nulla dalla propria analisi, pur
sapendo tutto della propria malattia dai libri e dai media, perché sono inibiti
al transfert (al sapere) come al cibo. Finora gli approcci al machine learning
soffrono della stessa inibizione affettiva verso l’altro, uomo o robot che sia.
Il corpo intelligente
Non si può parlare di intelligenza senza parlare di corpo.
Nelle righe precedenti ho inanellato i primi due anelli della catena
deduttiva: c’è un sapere nel falso, quindi c’è un sapere nel reale. Ora non mi
resta che concludere con il terzo anello: c’è un sapere nel corpo, inteso
come luogo reale del falso.18. Tentato da un certo lacanismo, direi che il
corpo lega in modo borromeo il sapere e il falso, senza legarsi direttamente
a nessuno dei due: tolto il corpo, falso e reale si slegano.19.
La ripartenza è da Spinoza. Il corpo di Spinoza è diverso da quello di
Cartesio. È res extensa ma pensa. Il corpo pensa pensieri falsi. Attenzione,
non sono falsi perché manchino di verità. Sono falsi perché non sono chiari
e distinti come quelli nella mente di Dio (o della Natura, che coordina
l’ordo idearum all’ordo rerum). Le passioni dell’anima sono false. Il tema
sarà ripreso da Lacan alla fine del seminario del 30 giugno 1954,20. dove
identifica le tre passioni ontologiche fondamentali e le colloca nel suo
algoritmo RSI: l’amore al giunto simbolico-immaginario, l’odio al giunto
reale-immaginario e la volontà d’ignoranza al giunto simbolico-reale, una
passione ben più forte delle altre due, regolarmente imposta al soggetto dal
proprio contesto, prima familiare e poi civile. Insomma per trattare le
passioni, o gli affetti, come li chiama Spinoza, ci vuole un’intelligenza
particolare, forse non del tutto naturale.
Nell’analisi degli affetti, l’intelligenza di Spinoza non esita ad affrontare il
falso. Gli affetti sono falsi pensieri pensati dal corpo; sono falsi – come
dicevo – non perché manchino di verità, ma perché sono pensati in modo
incompleto, oggi si direbbe in modo congetturale o probabilistico. Di quale
incompletezza si tratta?
Apro una parentesi didascalica. In logica si distingue tra due
incompletezze: sintattica e semantica; nella prima manca sia la
dimostrazione sia la confutazione di un asserto; nella seconda di un asserto
supposto vero, per esempio come conseguenza intuitiva di certe ipotesi, non
si riesce a derivarlo da quelle ipotesi con il calcolo sintattico rigoroso.
L’incompletezza sintattica è dell’intelligenza che non arriva a descrivere il
proprio mondo come unico. L’incompletezza semantica è dell’intelligenza
impotente a dominare tutto il proprio mondo in via algoritmica.21.
Formalizzata dai teoremi di Gödel, l’incompletezza sintattica è una
caratteristica comune a ogni forma di intelligenza sia umana sia artificiale,
purché dotata di una certa abilità a manipolare simboli, cioè purché sia
sufficientemente… intelligente.22.
Spinoza sembra optare per l’incompletezza sintattica dell’intelligenza
corporea o affettiva; quando sostiene che le idee pensate dal corpo sono
“confuse”, sembra intendere “indecidibili”; per loro, in particolare per gli
affetti, sembra non si possa dire se sono idee vere o false.23. Aristotele
direbbe che gli affetti non sono degli interi, perché rimane sempre qualcosa
fuori dalla loro area semantica. Ciò facilita la transizione di contenuti da un
affetto all’altro, per esempio dall’amore all’odio o viceversa; in psicoanalisi
il fenomeno si chiama transfert.
In realtà, fuori dall’affetto esiste ineliminabile l’altro. Qui forzo Spinoza a
compiere un passo che ritengo necessario ma che nell’Etica rimane
implicito nella dicotomia affetto-passione, uno attivo, l’altra passiva.
L’affetto risulta dall’azione del corpo dell’altro sul mio, che reagisce in
modo affettivo, cioè falso. Insomma, secondo il pensiero di Spinoza, che è
essenzialmente politico anche quando è etico, il corpo è originariamente un
collettivo che fa posto al corpo dell’altro.24. Perciò è il luogo del falso,
perché l’uno non sa cosa pensa l’altro, al di là di qualche schema ereditato
per via transgenerazionale e codificato nell’“altro generalizzato” secondo
Georg Herbert Mead,25. che non è molto sbagliato supporre come l’autentico
soggetto intelligente, depositario dell’intelligenza del gioco collettivo.
Pensare come e cosa pensa l’altro, è questo l’orizzonte dell’intelligenza
natural-artificiale; naturale perché è già in natura, artificiale perché tende a
intelligere oltre se stessa, fino nel corpo dell’altro. Il tema del corpo ritorna
nell’ambito della ricerca sull’intelligenza artificiale, dapprima con la
dicotomia hardware-software, poi nella costruzione di robot, dapprima
industriali, in seguito domestici. La coabitazione corpo-macchina ne ha
fatta di strada dai tempi di Lamettrie ai nostri smartphone.
1 “L’intelligenza è la capacità di realizzare fini complessi”, M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani
nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), trad. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 61.
2 Esemplare a questo proposito è la prima commedia di Molière, L’étourdit ou les contre-temps
(1658), dove Lelio intralcia sistematicamente l’operato del fedele Mascarillo, che traffica per
procurargli l’amata.
3 L’intelligenza per ingannare l’altro, tipica dell’isteria, è affatto innaturale.
4 È stato recentemente tradotto il saggio del 1932 di Alexandre Kojève, L’idea di determinismo
nella fisica classica e nella fisica moderna (trad. di S. Moreno, Adelphi, Milano 2018), che sviluppa
il tema dell’Intelligenza del “demone” di Laplace. Traggo da Kojève la distinzione tra determinismo
globale e locale.
5 G. Bateson, “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione” (1964), in Verso
un’ecologia della mente, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano 1976, p. 303.
6 Si veda il capitolo III di N. Wiener, Introduzione alla cibernetica (titolo originale: The Human
Use of Human Beings del 1950), trad. di D. Persiani, Boringhieri, Torino 1966, p. 74 sgg., dove
Wiener contrappone rigidità ad apprendimento. Sei anni prima Erwin Schrödinger si era impegnato a
definire che cos’è la vita (cfr. E. Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula dal punto di vista fisico
[1944], trad. di M. Ageno, Adelphi, Milano 1955), ma non affrontò il tema dell’apprendimento,
limitandosi alla trasmissione del codice genetico.
7 V.A.I. Telloni, “Mathemata pathemata: il dolore dell’apprendimento nella tragedia attica antica”,
in AA.VV., Matematica e letteratura. Analogie e convergenze, De Agostini Scuola, Novara 2016.
8 “La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto’”, K.R. Popper, Logica
della ricerca scientifica (1934), trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, p. 107. Più profonda
l’analisi di Alexandre Kojève. “A rigore di termini, le osservazioni non possono né confermare né
invalidare la teoria, la quale non si applica che alle serie infinite” (A. Kojève, L’idea di determinismo
nella fisica classica e nella fisica moderna, cit., p. 69).
9 All’epistemologia di Popper sfugge almeno il 50% delle teorie scientifiche, non essendo
falsificabili proprio gli enunciati probabilistici, tipici della meccanica quantistica e della biologia
evoluzionista. La probabilità delle ipotesi non è per lui riconducibile alla probabilità degli eventi,
l’unica matematizzabile (K.R. Popper, Logica della ricerca scientifica, cit., p. 279).
10 P. Duhem, “Alcune riflessioni sulla teoria fisica” (1892) e “Alcune riflessioni sulla fisica
sperimentale” (1894), in Verificazione e olismo, a cura di M. Fortino, Armando, Roma 2006.
11 P. Domingos, L’algoritmo definitivo (2015), trad. di A. Migliori, Bollati Boringhieri, Torino
2016, pp. 79-234.
12 Ivi, pp. 195-196.
13 Attenti alla doppia negazione! 3,5.10–6 non è la probabilità che il bosone di Higgs esista; è la
probabilità di ottenere dati come quelli del CERN in assenza della particella.
14 “L’infinito è la negazione della negazione, l’affermativo, l’essere che si è di nuovo ristabilito
dalla limitatezza”, G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16), trad. di A. Moni, Laterza, Roma-
Bari 1988, vol. I, p. 139.
15 C’è una bella poesia della Szymborska intitolata Pi greco. Un suo verso recita: “Tutte le sue
cifre successive sono iniziali”.
16 L’atto osservativo si inserisce in un discorso senza parole. Ricordo che nel Seminario XVI del 13
novembre 1968 Lacan sostenne che “l’essenza della teoria psicoanalitica è un discorso senza parole”.
17 “Considerai pressoché falso tutto ciò che non fosse nulla più che verosimile”, Cartesio, Discorso
sul metodo (1637), trad. di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2002, p. 101. In proposito va corretta
l’affermazione di Lacan che Cartesio cercasse la certezza (cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les
quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 202). Cartesio
cercava un modo “intelligente” di trattare il falso ubiquitario.
18 Ho sviluppato l’argomento in A. Sciacchitano, Il corpo pensante, “aut aut”, 330, 2006, pp. 73-
93.
19 Per i lacaniani, sto traducendo la catena RSI di Lacan; pongo il falso dalla parte del reale, il
sapere dalla parte del simbolico (visto in chiave sintattica) e il corpo dalla parte dell’immaginario.
20 J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1954), Seuil, Paris 1975, p. 298.
21 Tra il 1929 e il 1930 Kurt Gödel dimostrò la completezza semantica della logica dei predicati
del I ordine e l’incompletezza sintattica dell’aritmetica, se coerente. In logica l’incompletezza
sintattica fu introdotta già nel 1908 dal matematico olandese Luitzen Brouwer che nel suo
intuizionismo sospese il principio del terzo escluso, caposaldo della logica aristotelica.
22 Dopo Gödel sappiamo che condizioni sufficienti perché una teoria sia sintatticamente
incompleta sono che sia coerente, assiomatizzabile e tanto potente da rappresentare parte
dell’aritmetica (le funzioni ricorsive primitive).
23 “La falsità consiste nella privazione di conoscenza inerente a idee inadeguate, ossia parziali e
confuse” (B. Spinoza, Etica II, Prop. 35). In particolare sono false, cioè inadeguate, le idee che la
mente si fa delle affezioni corporee (ivi, Prop. 25). Consegue l’inadeguatezza della conoscenza
mentale del corpo (ivi, Prop. 24). Ciò non toglie che esista una logica del falso degna del nome di
intelligenza. “Le idee inadeguate e confuse si svolgono con la stessa necessità delle idee adeguate,
ossia chiare e distinte” (ivi, Prop. 36).
24 “Per mantenersi il corpo umano ha bisogno di moltissimi altri corpi da cui viene continuamente
come rigenerato” (B. Spinoza, Etica II, 4. Postulato).
25 G.H. Mead, Mente, sé e società (1934, postumo), trad. di R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, pp.
212-225.
26 Per lo sviluppo di questo tema rimando a C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017.
27 “Se ripetiamo un milione di volte il film della vita a cominciare da Burgess, dubito che tornerà
mai a svilupparsi qualcosa di simile all’Homo sapiens”, S.J. Gould, La vita meravigliosa (1989),
trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1995, p. 297.
28 Ad Einstein rispose Henri Bergson in Pensiero e movimento (1934), trad. di F. Sforza,
Bompiani, Milano 2000. Il contrasto Einstein-Bergson è paradigmatico della contrapposizione tra
scienza e filosofia: la prima a servizio del falso, la seconda del vero.
29 G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi (1633), in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Napoli-
Milano 1953, p. 391.
30 Il tempo epistemico è anche il tempo della psicoanalisi. Cfr. A. Sciacchitano, Il tempo di sapere.
Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013.
31 La dimostrazione euclidea dell’infinità dei numeri primi è dall’antichità l’esempio fulgido di
dimostrazione per assurdo. Una vera e propria dimostrazione di intelligenza (cfr. Euclide, Elementi,
IX, 20). Peraltro non si dimentichi il paradosso: fu proprio l’elevato livello della performance
intellettuale euclidea a inibire lo sviluppo dell’intelligenza matematica occidentale per almeno due
millenni, soprattutto sul versante della generalizzazione.
32 Nel linguaggio di Aristotele l’innaturalezza dell’infinito sta nell’essere in potenza ma non
diventare mai in atto. L’infinito non è intero, nel senso che non ha nulla fuori di sé, ma ha sempre
qualcosa fuori di sé (cfr. Aristotele, Fisica, III, 206a-207a). Quindi non è concettuale. Parlando alla
Hegel, se l’intero è il vero, l’infinito è il falso. Quindi è ostico a qualunque intelligenza “naturale”,
poiché è vero che dal falso si deduce qualunque cosa. Oggi si direbbe che l’infinito è non categorico,
cioè ha molti modelli tra loro non isomorfi.
33 L’analista restituisce all’analizzante la sua temporalità attraverso le cosiddette “costruzioni in
analisi”. Allora, alla fine del suo percorso, Freud si chiede se l’analisi sia finita o infinita. Cfr. S.
Freud, Die endliche und die unendliche Analyse (1937, Analisi finita e infinita), in Gesammelte
Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. XVI, p. 57.
34 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964),
Seuil, Paris 1973, p. 209 sgg.
35 B. De Finetti, La logica dell’incerto, il Saggiatore, Milano 1989.
36 M. Li Calzi, La matematica dell’incertezza, il Mulino, Bologna 2016. La matematica moderna
segna la perdita delle certezze euclidee. Lo argomenta lo storico della matematica Morris Kline in
Matematica, la perdita della certezza (1980), trad. di M. Turchetta, D. Roubini e L. Bonatti,
Mondadori, Milano 1985.
37 R. Musil, Über die Dummheit (conferenza tenuta a Vienna l’11 marzo 1937 e ripetuta il 17
marzo 1937 su invito della Österreische Werkbund), Alexander Verlag, Berlin 1987, p. 6.
38 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883), trad. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2010,
Proemio, 3, p. 225 sgg.
Il mistero della passe
SERGIO BENVENUTO
2. Nel seminario del 21 dicembre 1994 Badiou evoca la passe per illustrare
in che senso Lacan debba essere considerato un antifilosofo. Tutto il
seminario di quell’anno è dedicato a Lacan, presentato appunto come
antifilosofo. Badiou annovera sei antifilosofi, tre nell’età classica (Pascal,
Rousseau, Kierkegaard), tre moderni (Nietzsche, Wittgenstein, Lacan). Egli
dice che infatti questi pensatori non si rivolgono ai filosofi (anche
Wittgenstein? C’è da dubitarne; a meno di non separare i logici dai filosofi),
ma ad altre figure. Per esempio, Pascal si rivolge essenzialmente al
libertino, Rousseau “al contadino che beve latte”, Kierkegaard alla donna…
Quanto a Lacan, egli si rivolge agli analisti, anche se spesso li deride,
soprattutto perché non leggono filosofia. “Voi analisti – dice in sostanza –
dovreste leggere seriamente la filosofia proprio per liberarvi dai cattivi
filosofemi che ostacolano la vostra pratica.” Ora, secondo Badiou, la passe
è un meccanismo che dovrebbe servire proprio a bloccare il filosofico
nell’analisi: la filosofia è ciò che non passa. Ovvero, il filosofico è la scoria
dell’analitico. Scrive:
Mostratemi un giorno la pattumiera di una passe – penso che sarebbe
piena di filosofia! È ciò che non passa! E perché è ciò che non passa, il
filosofico di una cura? Perché è tutto ciò che si è trovato di ermeneutico,
di piatto interpretativo, delle più svariate parlantine, di nefasta
totalizzazione, di coscienza di sé in un cogito centrato, di falso sapere
assoluto, dell’istanza trionfale del padrone che non rinuncia mai a sé, ecc.
Che cos’è tutto questo? Ovvio, è la filosofia! (p. 83)
Da notare che Badiou non si include nella serie antifilosofica. Certo esalta
gli antifilosofi, tra cui Lacan, ma lui stesso non pare abiurare la posizione di
filosofo. Dobbiamo considerare quindi la sua come una filosofia che si è
riconosciuta come scarto, pattumiera, una filosofia che ha accettato di
mancare l’atto. Perché è questo che accomuna tutti gli antifilosofi: contro le
astrattezze del filosofo che pretende di dire la verità, loro indicano ciò che
dà davvero senso, qualcosa dell’ordine dell’atto. Contro il primato
filosofico della verità, gli antifilosofi rivendicherebbero il primato del
senso. Per esempio, nel caso di Pascal, contro le verità teologiche l’atto di
conversione nel Dio cristiano. Nel caso di Rousseau, contro le verità
illuministe di Voltaire e di Hume, un appello mistico al primato del
sentimento. Nel caso di Wittgenstein, contro la pretesa di dire verità
filosofiche il primato della dimensione etica ed estetica.
Badiou cita l’esempio dato da Kierkegaard del rigattiere dove tra le
cianfrusaglie si trova una placca con su scritto: “Qui si stira”. Il tipico uso
erroneo della filosofia sarebbe equivalente a quello di chi prendesse alla
lettera quella scritta e pensasse che davvero dal rigattiere si stiri! L’atto
(stirare) è esterno alla filosofia-rigatteria, mentre gli antifilosofi vogliono
riportarci all’atto.
Ma Badiou sa che Lacan non oppone il senso alla verità, che Lacan
denuncia tutte le concezioni che indicano un senso ultimo della vita, a
cominciare dalla religione, che per lui è una macchina per dare senso alla
vita. Con Lacan, il gioco di Badiou si complica.
La verità però è che tutto il pensiero di Lacan si inscrive in una
dimensione di senso, anche se non viene dichiarata come tale: è l’idea che
in ultima istanza l’essere umano desidera e gode. L’essere umano non è una
facoltà contemplativa, vive nel desiderio, e in qualche modo riesce a
godere. Tutto il pensiero di Lacan si inserisce in un orizzonte molto forte di
senso, malgrado i dinieghi.
Dico subito che questa dicotomia tra filosofi e antifilosofi non mi pare
rendere giustizia alla filosofia, per lo meno non alle filosofie maggiori.
Potremmo dire che il nocciolo di tutte le grandi filosofie è antifilosofico,
nella misura in cui ogni filosofia tende a trascendere se stessa, a porre
qualcosa di essenziale sempre al di là del proprio dire. Ogni vera grande
filosofia apre all’atto.
Qui mi limiterò a evocare la scrittura di Platone, ovvero di una filosofia
che, secondo quel che si pensa, sarebbe l’acme della pretesa filosofica di
dire la vera verità. In realtà nei Dialoghi ciò che alla fine viene dato come
sapere positivo, ciò che viene chiamata “concezione platonica”, non è mai
la conclusione filosofica di una dialettica, ma l’appello, da parte di Socrate,
a una sophia che proviene da altri, da saggi, poeti, mistici, da Diotima…
Mai da altri filosofi. Perché, come dice la parola stessa philosophia, il
filosofo resta sempre nell’anticamera della verità, la quale può essere detta
solo al di là della filosofia, da un al di là a cui la dialettica filosofica non ha
mai diretto accesso. E questo vale per tutta la filosofia antica (ma potremmo
mostrare che vale anche per quella moderna), se ha ragione Pierre Hadot nel
dire che il filosofo nel mondo antico non era necessariamente l’autore di
una dottrina filosofica, ma qualcuno che aveva compiuto l’atto di scegliere
un certo modo di vivere, di orientarsi filosoficamente nel mondo. Per il
filosofo, la verità sin dall’inizio è detta da altri discorsi – religioso,
scientifico, poetico, sapienziale – mentre la filosofia si mantiene sempre
nello spazio del senso, ovvero dell’ante-verità, prima della verità. Dire la
verità è attività interdetta alla filosofia.
Quanto poi alla filosofia medievale, e in generale alla filosofia connessa
alla teologia, il suo carattere antifilosofico mi sembra evidente, nel senso
che quella filosofia si voleva ante-teologica, un’anticamera della fede. La
verità non era detta dalla filosofia ma dalla Rivelazione cristiana – questo
era ben chiaro anche prima di Pascal. E in effetti, che c’è di più
antifilosofico della frase di congedo dalla vita di Tommaso d’Aquino,
ovvero di bruciare come paglia tutta la sua opera? Ogni grande filosofia
vuol essere bruciata, non è solo Wittgenstein (nel Tractatus)3. a dire che
bisogna buttar via la scala con cui si è saliti.
Quindi, il primato del senso sulla verità – che Badiou attribui-sce a un
pugno di antifilosofi – è di fatto una costante, anche se non sempre
enunciata, riconosciuta, del discorso filosofico.
“C’è stata analisi, per sempre”: l’atto accade una sola volta, non è ripetibile.
Il programmatico riguarda il futuro, l’atto invece è qualcosa che c’è stato, si
irradia dal passato, e di cui occorre riconoscere l’irreversibilità. Ora, Badiou
non ci dice che cosa farebbe, in un’analisi, atto: diciamo che prende Lacan
e gli ana-listi sulla parola, si fida di loro. Loro – i membri dell’ecclesia
analitica – dicono che l’importante è che in un’analisi ci sia atto analitico e
non bla-bla-bla, e Badiou, come il credente si fida di quel che dice il papa o
il vescovo, ha fede nell’élite analitica, nelle giurie della passe. Ma non è
tanto questo il punto che voglio sollevare – la dimissione filosofica rispetto
a un supposto sapere sull’atto che viene delegato a una corporazione di
analisti di cui il filosofo non fa parte – quanto un altro: il carattere appunto
incorreggibile dell’atto (in questo caso dell’atto analitico), il suo essere per
sempre.
Badiou sottolinea in effetti l’importanza, per Lacan, del Ritorno a Freud.
Perché le analisi fatte e scritte da Freud – le Cinque analisi di Freud4. –
sarebbero il primo atto, l’atto inaugurale da cui tutti gli altri derivano. È
come se, scrivendo quei casi clinici, Freud avesse compiuto la prima passe,
e che a partire da quella tutte le altre, di tutti gli altri analisti che la
tenteranno, prenderanno validità. (Non diversamente, direi, da come la
religione cattolica legittima il potere del pontefice: come una ripetizione
della prima delega pontificale effettuata da Cristo nei confronti di Pietro.5.)
Freud avrebbe compiuto un atto, che si ripete – e ci si chiede a quali
condizioni si ripeta – nella storia, che si reitera in un meccanismo che deve
certificare l’essersi effettivamente compiuto di questo atto.
Si vede chiaramente quanto Badiou sposi una visione chiaramente
sacramentale della passe e dell’atto che essa dovrebbe certificare. Penso
qui ai sacramenti delle chiese cristiane, tenendo conto che sacramentum è
traduzione latina del greco mystérion: i sacramenti sono i Misteri della
chiesa, ovvero atti che ripetono un atto di grazia originario. Nella teoria
cristiana i Misteri hanno assunto il senso della donazione di un marchio, in
molti casi indelebile. Da notare inoltre che dei sette sacramenti o misteri
della chiesa cattolica, quattro accadono una volta sola, e i loro effetti sono
incancellabili: battesimo, conferma, ordine sacro (sacerdozio), matrimonio.
Sono atti che avvengono una volta sola nella vita perché irrevocabili, attivi
“per sempre” come Badiou dice dell’atto analitico. Il matrimonio cattolico è
indissolubile: anche se dopo i due sposi si possono separare, anche se
ognuno fa sesso con altri ecc., il soggetto resterà sposato fino alla morte
dell’altro, come un tatuaggio spirituale che durerà fino alla morte del
coniuge. Secondo la chiesa, certamente ogni sacramento è opera della
grazia divina, ma è a sua volta la ripetizione di un atto di grazia originaria
che discende da Cristo. L’analogia col modo in cui Badiou parla dell’atto
analitico con i misteri della grazia divina risulta evidente. Come ogni
sacramento discende dal primo atto sacramentale di Gesù, analogamente
ogni atto analitico discende dai primi atti compiuti da Freud. E questo anche
se Badiou non è credente, anzi si dichiara ateo e comunista (ma, come è ben
noto, anche nella storia e tradizione marxiste si sono strutturati modi di
pensare sacramentali del tutto simili a quelli ecclesiali, e ci si dovrebbe
chiedere perché).
In questa visione sacramentale e misterica della passe – ovvero della
conversione o metanoia, potremmo dire, di un analizzante in analista –
Badiou si chiede anche però in cosa consista l’atto che la passe dovrebbe in
qualche modo riconoscere. E Badiou lo connette – perché lo dice Lacan – al
matema. C’è atto quando c’è qualcosa dell’ordine del matema.
Matema, da cui viene matematica, era originariamente ciò che bisogna
sapere, ciò che bisogna imparare. Si tratta di una relazione puramente
formale (senza senso) strettamente connessa al sapere, quindi. Ora, Lacan
presenta il matema come ciò che nell’analisi – e non solo nell’analisi, ma
nelle scienze per esempio – è completamente trasmissibile. Qui, secondo
Badiou, l’antifilosofia di Lacan si separa da quelle dei suoi cinque
predecessori: ciò che qui prevale sulla verità non è il senso, ma il matema.
Ovvero qualcosa che è del tutto trasmissibile, e che nutre un sapere. E
difatti, nota Badiou, non ha importanza che i passeurs non siano dei geni e
che non intendano completamente quel che ha detto loro il passant; non ha
importanza che la giuria non sia composta da menti eccelse. Se atto
analitico c’è stato, il suo matema è trasmissibile e verrà comunque
riconosciuto.
Ora, credo che Lacan, col matema (lui che era stato allievo di Alexandre
Koyré) intendesse qualcosa come le equazioni della fisica, per esempio, le
equazioni di Newton sulla gravitazione universale. In effetti, basta avere
una conoscenza anche approssimativa della fisica per capire le equazioni di
Newton; le si capisce proprio perché non hanno senso. Sono pure
equivalenze formali, che tutti i fisici, anche quelli meno intelligenti,
possono intendere. Ora mi chiedo, però, se questo sia vero. Mi chiedo se qui
Lacan col matema, e Badiou al suo seguito, non mitizzino quel che accade
nella trasmissione umana, compresa quella scientifica.
Ai tempi di Lacan non si era sviluppata l’informatica, ma noi oggi
possiamo dire che il matema di Lacan è un software. In effetti un software è
perfettamente trasmissibile: lo si può mettere in qualsiasi computer, basta
che questo hardware sappia leggerlo, e funzionerà. Possiamo fare tutte le
copie che vogliamo di un software, esso resterà identico, lo si può
trasmettere integralmente. Del software possiamo dire quel che Lacan dice
della matematica, che è “scienza senza coscienza”. Ma è la stessa cosa per
la mente umana? Ovvero, la mente umana è identificabile al rapporto che
c’è tra software e hardware in un computer, come sostengono molti
cognitivisti? Non ne sono affatto convinto.
Un altro caso di perfetta trasmissibilità, abbiamo visto, è quella presunta
da certi atti simbolici religiosi come i sacramenti. In ogni caso, il sapere
religioso si vuole per lo più perfettamente trasmissibile anche quando si
ammette la grande variabilità delle interpretazioni. È come la Bibbia
ebraica, la Torah, testo assolutamente immodificabile, di cui non si può
cambiare nemmeno una virgola. Il permissivismo ermeneutico delle
religioni rinvia alla perennità del Testo sacro, che si suppone ispirato
direttamente da Dio. La psicoanalisi avrebbe allora qualcosa sia del
software che del sacramento religioso istituito da dio-Freud?
4. Si dà il caso che Badiou non sia interessato alle scienze vere e proprie. Le
evoca raramente, e quando parla di scienza, si riferisce quasi sempre a les
mathématiques. Sembrerebbe che per lui la scienza è sempre matemica, che
insomma il sapere sia matematico. Ovviamente ciascuno è libero di
interessarsi o meno alle scienze, di trovare stimoli filosofici nella
matematica piuttosto che nel sapere fisico, biologico, cosmologico…
Stupisce però che identifichi con la scienza la matematica un autore come
Badiou, il quale ammira Wittgenstein. Ora, la concezione della matematica
da parte del Wittgenstein del Tractatus è assolutamente chiara: la
matematica non è affatto una scienza! Certamente il sapere scientifico fa
continuamente uso della matematica, ma la matematica in sé non è un
sapere. Non ci informa affatto sul mondo. Piuttosto è una costruzione, un
gioco. Anche gli scacchi sono un gioco perfettamente matematico, ma non
possiamo dire che giocare a scacchi ci faccia conoscere qualcosa del
mondo. I teoremi degli scacchi ci fanno conoscere l’universo degli scacchi,
ma solo quello. Scambiare, come fa Badiou, matematica e scienze è il
segno, a mio avviso, di una rimozione del sapere scientifico (che Lacan
invece non operava). E, per quel che riguarda l’essere umano, una
rimozione del sapere biologico.
Ora, si può essere oggi più o meno darwiniani, si possono criticare anche
molti aspetti dell’attuale sintesi che mette assieme genetica e darwinismo,
credo però che di una cosa le scienze dell’evoluzione ci abbiano convinto:
che nella vita nulla si trasmette integralmente. C’è evoluzione, c’è storia
della vita, c’è straordinaria moltiplicazione delle specie, sbalorditiva varietà
della vita, perché il genoma – che possiamo considerare il matema
biologico – non si trasmette integralmente. Molto spesso avvengono degli
errori di trascrizione, si suppone del tutto casuali, ed è grazie a questi
continui errori di trascrizione che si dispiega la storia della zoé. È quel che
separa la vita, con la sua imperfezione, dalla gelida perfezione delle
macchine create dall’essere umano. La passe è certamente un meccanismo,
ma possiamo dire che un’analisi, e l’atto analitico che esso dovrebbe
effettuare, è una macchina? Certamente se fossimo computer avremmo
molti meno problemi di quanti non ne abbiamo, ma si dà il caso che, prima
di inventare la matematica, noi esseri umani siamo esseri biologici. E
questo non bisogna dimenticarlo mai. Altrimenti si cade nello spiritualismo,
e penso che, nel fondo, le teorie di Badiou siano spiritualiste.
Nella vita la trasmissione non è quasi mai completa e perfetta, dunque.
Ma questo è vero anche per la trasmissione dell’informazione tra umani. Da
un secolo ormai si fanno ricerche ed esperimenti sulla trasmissione
dell’informazione tra gli umani, e una cosa sembra da tempo evidente: il
trasmettere una qualsiasi informazione per lo più modifica, devia, stroppia,
fuorvia l’informazione originaria.6. Tra gli umani, l’informazione si
modifica sempre. E queste deformazioni nella trasmissione di solito
disegnano un senso, ovvero, il fatto che la fedeltà della trasmissione è
continuamente curvata, modificata, tradita dai desideri e dagli interessi
degli individui, insomma dalle loro pulsioni. Non esiste matema fuori dal
gioco pulsionale. Nei termini di Badiou: la verità nella trasmissione di un
sapere è continuamente plasmata dal senso umano, troppo umano, degli
individui.
Ora, questo è vero persino per le grandi formule della scienza, in cui
sembra coagularsi un pensiero perfettamente trasmissibile. Le equazioni di
Newton sono trasmissibili nella misura in cui esiste una comunità
scientifica internazionale che dà sensi convergenti a concetti come massa,
distanza, velocità, attrazione, spazio ecc. Ma se la comunità dei fisici si
dividesse secondo paradigmi diversi, se insomma i concetti di massa,
distanza, velocità ecc. cessassero di essere univoci, anche le equazioni di
Newton cesserebbero di essere univoche, ovvero cesserebbero di essere
completamente trasmissibili. Avrebbero diverse interpretazioni, perché ogni
comunità scientifica le interpreterebbe in modo diverso, e verrebbero
trasmesse diverse interpretazioni. Dietro la rigidità monumentale del
matema c’è un formicolare di forme di vita, c’è il costituirsi storico delle
corporazioni scientifiche, delle istituzioni accademiche e delle scuole.
Proprio perché gli esseri umani non sono macchine costruite secondo un
programma, ma esseri viventi soggetti sempre… a un cambiamento di
programma.
Capiamo quindi la strana convergenza, in Badiou, tra un discorso
sacramentale della passe e il richiamo alla perfetta trasmissibilità del
sapere. Per Badiou le Cinq psychanalyses sono il testo sacro della
psicoanalisi, nella misura in cui esse fanno atto: qui la scrittura coincide con
una prassi, con un agire. E ogni volta non si ripete un testo ma un matema,
il supposto sapere formale che fa di un atto un atto.
Tengo ad affermare la mia distanza, soprattutto etica, da una visione del
genere. La psicoanalisi è una pratica importante, decisiva, ma anche umile,
che procede a tentoni. La pratica analitica, così fragile e così sempre
esposta al sospetto di essere suggestione o prassi rieducativa, non dà
all’analista alcuna giustificazione per essere arrogante o apodittico. Gli
analisti non sono i sacerdoti di un sapere a loro riservato, come pensa
Badiou, ma i tutori di un setting che si è rivelato produttivo. Solo fino a un
certo punto l’analista sa quel che sta facendo e quel che accade, e resta
spesso lei stessa sorpresa dagli effetti che l’analisi produce. In questo senso
Lacan ha ragione nel dire che c’è un sapere inconscio di cui lo stesso
analista non sa nulla.
5. Benché Badiou forse avrebbe problemi ad auto-classificarsi nel campo
dello strutturalismo, credo che il suo pensiero illustri bene quello stile di
pensiero, quelle maniere concettuali che si chiamarono strutturalismo
francese. C’è un tratto distintivo dello strutturalismo a cui Badiou partecipa:
l’idea che le varie forme di vita umane siano descrivibili in termini
puramente formali, e che queste strutture formali siano discontinue. Il
modello era la teoria di Ferdinand de Saussure: ogni lingua è
sincronicamente (ovvero, in un momento dato) un insieme di distinzioni
formali che formano sistema. E passare da una lingua all’altra è saltare da
un sistema formale fonologico all’altro. Non credo che questa idea
esaurisca la concezione saussuriana del linguaggio, tutt’altro, ma è questa
idea di fondo ad aver ispirato le varie derive dello strutturalismo.
La teoria strutturalista della storia è quindi una teoria assolutamente
discontinuista: si “salta” da una struttura all’altra. Questo vale sia per la
storia collettiva, sia per quella individuale. Non diversamente dal gioco
degli scacchi: qui ogni mossa è un atto perfettamente discontinuo e
indivisibile, che ha il potere di cambiare l’assetto formale di tutta la partita.
La storia, in un’ottica strutturalista, è come una lunghissima partita di
scacchi. Questo spiega la convergenza di certo strutturalismo con le teorie
rivoluzionarie marxiste: si passa da una struttura sociale all’altra solo per
via rivoluzionaria, per salti, per ristrutturazioni violente e immediate degli
assetti sociali, e non per un mutamento continuo, lento, molecolare, non
percepito. Lo strutturalista ignora i processi continui, che gli appaiono
irrilevanti. Lo strutturalismo eredita la visione rivoluzionaria della storia
che dominò le concezioni politiche dei secoli XIX e XX.
In questa ottica, l’atto è un evento del tutto discontinuo, puntuale – è il
passaggio da un matema all’altro. Abbiamo detto che Badiou non ci porta
alcun esempio e nessuna dimostrazione di quel che possiamo riconoscere
come atto e quindi come matema nel caso di un’analisi; egli assume
dogmaticamente il discorso degli analisti-sacerdoti. Laddove invece la
funzione del filosofo dovrebbe essere quella di ri-pensare ciò che un’altra
disciplina (sia essa religiosa, scientifica, politica, psicoanalitica…) afferma
in modo da dispiegarne – come si dispiega un dépliant – il senso. La
filosofia, sin dagli inizi, ha svolto il ruolo di guastafeste di tutti i saperi, ed è
bene che guasti anche la festa della psico-
analisi ponendole domande perspicue e magari imbarazzanti, anziché farne,
per dir così, la teologia. Mi sembra che – per restare nel parallelo religioso
– Badiou voglia costruire una teologia della psicoanalisi lacaniana. Un
tempo la filosofia era concepita come ancilla theologiae, oggi pensatori
come Badiou ne fanno piuttosto una ancilla psychoanaliticae. Non
interroga il senso delle varie cose – di cui molte sorprendenti ed
enigmatiche – che Lacan dice. Le assume come Rivelazione.
Personalmente credo che nella pratica analitica siano più utili alcune
critiche rigorose e perspicue rivolte da alcuni filosofi alla psicoanalisi – per
esempio, quelle sollevate proprio da Wittgenstein, che piace a Badiou – che
da tutte le filosofie che indulgono a una timorata agiografia della
psicoanalisi. Una lettura come quella di Badiou certamente gonfia – inflates
dicono gli inglesi – il narcisismo degli analisti, ma trovo che il narcisismo
degli analisti sia troppo diffuso, per cui sarebbe molto più sano, a mio
parere, ridimensionarlo. La maturazione della pratica analitica avviene non
attraverso le apologie filosofiche, ma attraverso il duro scontro con critiche
spesso del tutto pertinenti, e spesso imbarazzanti. Il trionfalismo
psicoanalitico di Badiou – e di molti altri filosofi di indirizzo analogo – di
fatto danneggia la psicoanalisi.
Queste filosofie danno per scontato che la psicoanalisi si basi su una
Rivelazione, di cui Freud è stato l’artefice (e di cui Lacan, poi, sarebbe stato
il Nuovo Testamento). Come in ogni Rivelazione (religiosa, politica,
psicoanalitica) si afferma la coincidenza dell’atto e del simbolico, tipico di
ogni fede religiosa. Nella messa cattolica, il simbolo del corpo di Cristo
(l’ostia) diventa attualmente corpo di Cristo. Per il misticismo popolare,
reale e simbolico coincidono, mentre un atteggiamento illuministico porta a
scindere i due.
1 A. Badiou, Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995 (2013), trad. a cura di L.F. Clemente,
Orthotes, Napoli-Salerno 2016. In particolare il Seminario III del 21 dicembre 1994.
2 Tra le critiche a questo assetto cooptativo, cfr. E. Fachinelli, Sull’impossibile formazione degli
psicoanalisti. Conversazione con Sergio Benvenuto (1987), “European Journal of Psychoanalysis”,
<journal-psychoanalysis.eu/sullimpossibile-formazione-degli-analisti-conversazione-di-sergio-
benvenuto-con-elvio-fachinelli1>.
3 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino
2012, 6.54.
4 Cinq psychanalyses è il titolo dato dall’editore francese (PUF), nel 1935, a cinque casi clinici di
Freud (il caso di Dora, del piccolo Hans, del presidente Schreber, dell’Uomo dei topi, dell’Uomo dei
lupi).
5 Mt 16,17-19.
6 Ho descritto questa ampia ricerca in S. Benvenuto, Dicerie e pettegolezzi, il Mulino, Bologna
2000.
7 F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), trad. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari
1992.
8 Per sapere di che cosa si tratta, cfr. J. Gleick, Chaos, The Viking Press, New York 1987.
9 Cfr. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria (1987), trad. di B.
Argenton, il Mulino, Bologna 1988.
Archivio Enzo Paci
A oltre quarant’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate
alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare
copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere
lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la
presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti
e biblioteca.
L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo
Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e
sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi
interessati.
Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in
possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto
copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente.
L’indirizzo al quale inviare il materiale è: