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giugno 2019

Sade, Masoch. Due etiche dell’immanenza


a cura di Federico Leoni
Premessa
Tommaso Tuppini I due vortici. Sade con Bataille
Giovanni Bottiroli Sade e il desiderio di essere
Felice Cimatti Etica? Immanenza?
Gianluca Solla Carmelo Bene o dell’immanenza dei corpi
Federico Leoni Singolarità, perversione, immanenza
Silvia Vizzardelli Erotismo della morte o ciclo di isteresi. La perversione
tra Barthes e Deleuze
Carmelo Colangelo Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce
Riccardo Panattoni Disconoscimento sur place
Andrea Muni Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e ordalia del filosofo
critico

DISCUSSIONI
Antonello Sciacchitano Il soggetto supposto intelligente
Sergio Benvenuto Il mistero della passe
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redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah
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Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul
Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori,
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Premessa

La posta in gioco di questo fascicolo di “aut aut” potrebbe essere formulata


con una domanda piuttosto semplice. Perché mai una stagione tanto
rilevante del pensiero francese novecentesco ha trovato in Sade e Masoch
due stelle polari? Mi riferisco alla stagione dei Bataille, dei Klossowski, dei
Lacan, dei Deleuze, dei Foucault, dei Derrida, dei Barthes, dei Sollers.
Perché mai rivolgersi a due figure tanto eccentriche al canone della
filosofia, e tanto eccentriche anche rispetto al canone dell’antropologia
occidentale, chiamiamolo così, che la psichiatria e la psicoanalisi le hanno
ritenute degne di dare il loro nome a un quadro psicopatologico specifico?
Perché, in senso ancora più generale, la perversione e l’insieme delle
perversioni, al plurale, si è, a un certo punto, imposto alla filosofia come
una questione ineludibile, forse come l’unica questione?
Una prima precisazione. Tutti gli autori francesi citati si imbattono in
Sade e in Masoch ogni volta che riflettono sull’etica, sulla struttura del
soggetto, sul modo in cui un soggetto si soggettiva, sul mondo in cui quel
soggetto si soggettiva. Ma Sade e Masoch non sono ciò a cui essi si
oppongono. Non valgono come un antimodello. Al contrario, Sade e
Masoch indicano sempre la dimensione in cui muoversi. È nel solco di Sade
che alcuni di loro pensano. O nel solco di Masoch, nel caso di altri.
Seconda precisazione. Il binomio Sade/Masoch, utile a ricostruire una
costellazione, a rintracciare una sorta di canone, regge però fino a un certo
punto. Regge fino al punto in cui ci si arrende all’evidenza che Bataille o
Deleuze o Lacan non hanno semplicemente riflettuto sulla perversione o sul
sadomasochismo. Hanno esercitato un’opzione ben precisa. Hanno
individuato il loro oggetto, forse la loro stella, in Sade oppure in Masoch,
mai in entrambi, mai in un elemento eventualmente comune. Su tutti, Lacan
e Deleuze hanno insistito nel disfare quel nodo altrimenti tanto stretto.
Terza precisazione. Tra Bataille e Lacan, tra Klossowski e Deleuze, per
fare solo qualche esempio, si tratta probabilmente di due pensieri
dell’immanenza non del tutto sovrapponibili, di due immanenze di segno
piuttosto differente. Per questo le simpatie si polarizzano, ora verso Sade,
ora verso Masoch. Si dovrebbe parlare di una linea sadiana e di una linea
masochiana, di una linea dell’immanenza sadiana come quella di Bataille,
per esempio, e di una linea dell’immanenza masochiana, come quella di
Deleuze. È quanto mostreranno in modo dettagliato i testi qui raccolti, che
proprio per questo motivo dovevano affrontare la questione da tanti punti di
vista, moltiplicando i distinguo, soffermandosi su svariate sfaccettature.
Limitiamoci per ora a dire che la via di Sade suppone che l’immanenza
sia qualcosa. Sembra una sentenza abbastanza oscura, ma basta pensare a
ciò che Sade mette in scena costantemente, ed ecco che la questione viene
in chiaro. Per Sade quel qualcosa è la natura, la sua materia sorda, l’insieme
delle sue leggi implacabili, la sua logica ferrea incessantemente convocata
in estenuanti dimostrazioni. Il che è quanto dire: Sade è a distanza. La
natura è una meta, va raggiunta. La materia è sempre a venire. Ostacoli di
ogni genere vanno rimossi dal cammino. La distruzione dei corpi e delle
anime è necessaria a travolgere quelle forme che impediscono all’informe
di manifestarsi senza mezze misure. Ma la natura è l’informe? La materia è
necessariamente materia macellata? L’immanenza è l’orizzonte, per Sade,
ma un orizzonte lontano.
Viceversa, Masoch è un cultore dell’artificio, un appassionato
legiferatore, un instancabile bricoleur di forme di vita. Non tanto nel senso
che gioca l’artificio contro la natura, ma nel senso che vede bene che anche
la natura è un artificio tra altri artifici. Dunque la sua etica sarebbe l’etica di
un’invenzione dell’immanenza piuttosto che di un’attuazione
dell’immanenza, la sua etica consisterebbe nell’inventare immanenze
molteplici nella misura in cui l’immanenza non è che le sue costruzioni, le
sue congetture. L’immanenza non è qualcosa, per Masoch. Non va
raggiunta. Ci siamo già, e ci siamo nel modo dell’invenzione, della
creazione. È un’invenzione, una creazione che si serve brevemente degli
strumenti che trova sul terreno, dà vita ad accordi che non mirano a fare
sistema, si affida a negoziazioni che non smettono di lasciarsi attraversare
dalle forze che sembrano imbrigliare. L’eroe di Masoch procede per piccole
differenze, non progetta ma organizza, non comanda ma governa, non
seduce ma si concede, non afferma ma suggerisce. Piega, inflette,
accompagna, mai da fuori ma sempre da dentro. L’immanenza non è un
orizzonte, per lui, ma una superficie. Una superficie assoluta, senza confine,
senza alterità, senza rovescio. [F.L.]
I due vortici. Sade con Bataille
TOMMASO TUPPINI

Il confronto di Bataille con Sade è delimitato grossomodo da due saggi: Le


valeur d’usage de D.A.F. de Sade – scritto nel 1932, forse 1933, pubblicato
postumo1. – e Il segreto di Sade pubblicato nel 1947 su “Critique”, poi nel
1957 tra gli interventi di La letteratura e il male.2. L’occasione del primo
saggio è l’aspra polemica che contrappose Bataille ai Surrealisti (sono gli
anni della sua militanza nei gruppi francesi della sinistra extraparlamentare,
che durò fino al 1935). Bataille mette qui a punto per la prima volta la
nozione di “eterologia”, la scienza del “tutt’altro”. L’altro saggio viene
scritto durante e dopo il secondo conflitto mondiale, quando Bataille
sembrerebbe allontanarsi dall’impegno politico e fare di Sade una questione
estetica.3.
Nel Valeur d’usage Bataille se la prende con Breton e i suoi seguaci. Per
loro “la vita e l’opera di D.A.F. de Sade non avrebbero dunque altro valore
d’uso che il valore d’uso plebeo degli escrementi, nei quali il più delle volte
si ama soltanto il piacere rapido (e violento) di evacuarli per non vederli
più”.4. I Surrealisti guardano a Sade come i popoli primitivi al loro re, “che
adorano esecrandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente”.5.
Evacuare Sade e metterlo su un piedistallo poetico sono la stessa cosa. I
Surrealisti sono “i letterati”6. convinti che “il valore folgorante e soffocante
che [Sade] ha voluto dare all’esistenza umana è inconcepibile fuori della
finzione”.7.
I Surrealisti mostrano di non conoscere l’enigma di Sade, che Bataille
propone in questi termini: com’è possibile che egli – come dice in una
lettera – abbia pianto “lacrime di sangue” per la perdita del manoscritto
delle Centoventi giornate di Sodoma e nel testamento, invece, si sia
augurato la distruzione della propria sepoltura, l’oblio per sé e la sua opera?
Il ricordo e il libro da una parte, la solitudine e l’autodistruzione dall’altra:
tra le due scelte “c’è la stessa distanza che separa la freccia dal bersaglio”.8.
I Surrealisti superano la contraddizione di Sade con una sintesi letteraria,
adorano ed esecrano con lo stesso gesto. Invece la contraddizione va
mantenuta. Sade è la combinazione di atteggiamenti inconciliabili: la
commozione fatta di rosse lacrime e la virginale indifferenza che tiene il
mondo in gran dispitto, Juliette e Justine. La rivoluzione e il volumen.

La società omogenea
La “società omogenea”9. dentro cui viviamo è fatta della sintesi del bisogno
e dell’oggetto che lo soddisfa. La società omogenea – “istituzioni politiche,
giuridiche e commerciali”10. – è una strategia di adaequatio tra l’uomo e le
circostanze, tra i gruppi umani e l’ambiente: le scuole e le fabbriche
soddisfano i bisogni feriali, l’arte e la letteratura quelli domenicali. Bataille
chiama “appropriazione” questa sintesi, ovvero l’“equilibrio statico” tra
“l’autore dell’appropriazione e gli oggetti”,11. una “omogeneità generale,
come quella che l’architetto stabilisce fra la città e i suoi abitanti”.12. Due
persone si danno appuntamento e chiacchierano. Il botta e risposta, le
attese, il consenso, il dissenso, gli attestati di stima: tutto contribuisce al
carattere omogeneo dell’incontro e al suo buon funzionamento. Stringere le
mani, annuire, visitare o farsi visitare, inseguire o farsi inseguire, indebitarsi
o riscuotere, ascoltare, giustificarsi, aspettare, darsi ragione, darsi torto: “Il
rispetto che gli uomini si scambiano li immette in un circuito di servitù in
cui si danno soltanto momenti subordinati”.13. Il bambino – poco pratico
della vita – si chiede a che servono questi gesti concitati. Quando, diventato
adulto, lo capisce – sono i rituali del riconoscimento reciproco e servono
alla conservazione di una società –, sente tutta “la noia senile e
l’inconcepibile vuoto dentro il quale sappiamo di parlare”.14. Gli adulti
cominciano ad angosciarsi e a chiedersi se c’è una via d’uscita.
Sade è una specie di solvente della società omogenea e delle sue
istituzioni. Egli sloga l’articolazione della società. Sospende la sintesi
appropriativa del bisogno. Fa esperienza del “ganz Anderes”,15. il
“tutt’altro” dalla società omogenea: il passato che essa sembra aver
dimenticato ma che in realtà torna a farsi valere nei momenti di crisi e di
trasformazione.

Escrezione
Se nella società omogenea c’è appropriazione, allora c’è anche il déchet, lo
“scarto”.16. Lo scarto è ciò che rimane quando la società omogena si è
spartita l’esistenza. Lo scarto è ciò che non si lascia né assimilare né
evacuare. Lo scarto è lì a mostrare che “l’essere è qualcosa di più della
semplice presenza”.17. I libri di Sade ci fanno passare dalla società al suo
scarto, dall’omeostasi alla violenza, dall’omogeneità all’“irruzione delle
forze escrementizie”:18. dall’appropriazione all’escrezione. L’escrezione non
è l’appropriazione ma non è neppure l’evacuazione. L’escrezione è
un’esperienza complessa. L’escrezione è la “produzione di un ritmo
alterno” che libera impulsi ambivalenti.19. L’escrezione non è un’esperienza
puntuale perché è un rapporto ambiguo, che complica attrazione e
repulsione. Nell’escrezione “un corpo estraneo […] può essere sia espulso
in seguito a una rottura brutale che riassorbito nel desiderio di mettersi
interamente il corpo e lo spirito in uno stato di espulsione (di proiezione)
più o meno violento”.20. L’escrezione non ha a che fare con un oggetto
addomesticato e conforme al nostro bisogno, né significa l’evacuazione di
ciò che non siamo riusciti ad addomesticare. L’escrezione è, invece,
l’incontro con un corpo estraneo su cui agiamo e che retroagisce su di noi.
Solitamente “la sensualità […] viene risvegliata non semplicemente dalla
presenza ma dalla modificazione dell’oggetto possibile”.21. Nei libri di Sade
“l’oggetto come tale (l’essere umano) sarebbe di per sé indifferente:
bisogna modificarlo, per ottenere da lui la sofferenza voluta. Modificarlo
cioè distruggerlo”.22. Lo scarto, l’oggetto escreto, è l’oggetto modificato.
Esso è sempre troppo vicino o lontano perché ci sia il tempo di
appropriarsene oppure evacuarlo. Il corpo degli altri diventa estraneo e
seducente quando noi lo abbiamo modificato, alterato, manipolato,
aggredito, tagliuzzato, penetrato, e “l’urto risultante dalle impressioni altrui
in noi”23. ci restituisce il potere di estraneità e di alterazione che gli abbiamo
dato.
La società ci mette in comunicazione soltanto con alcune proprietà degli
oggetti e degli uomini, vietandoci di sperimentarne altre. L’uso che il
libertino sadiano fa degli oggetti supera i divieti sociali, allarga gli orizzonti
dell’esperienza. Per sapere com’è fatto un dado a sei facce posso rigirarlo
fra le mani e lanciarlo. Per conoscerlo fino in fondo, però, dovrei anche
metterlo in bocca, bagnarlo, asciugarlo, saltarci sopra, nasconderlo sotto il
cuscino quando dormo, incidermi la carne con gli angoli, gettarlo nel
fuoco… L’escrezione è il regime di variazione continua che noi infliggiamo
a un oggetto per realizzare la sua “totalità del possibile”:24. modificato,
alterato, l’oggetto viene liberato dalla semplice presenza e raggiunge la
condizione di omnimoda determinatio, la determinazione completa della
sua realtà. O meglio, l’oggetto modificato, dechainé, scatenato, sciolto dagli
usi che ci sono famigliari, è il primo momento dell’escrezione. Perché –
secondo momento dell’escrezione – anche il soggetto subisce lo
“scatenamento (in rapporto alle condotte del lavoro e, generalmente, del
benessere) […] innescato dallo scatenamento concomitante dell’oggetto”.25.
L’oggetto estraneo, alterato, sconvolge il soggetto. Per strappare all’oggetto
tutti i segreti che la società nasconde, per avviare il processo
dell’escrezione, l’oggetto e il soggetto devono sfinirsi a vicenda.

Irritazione e godimento
Tra le funzioni animali – nascita, crescita, spostamento, nutrizione – la più
interessante per Sade è l’irritabilità. Quello di Sade è un teatro dello
sfinimento e dell’irritazione. A irritare e farsi irritare sono il corpo e l’anima
elettrica,26. che del corpo è la parte più facilmente infiammabile. “Tutti gli
oggetti esterni che sono un po’ singolari portano a una irritazione
straordinaria le particelle elettriche del vostro fluido nervoso”,27. dice
Juliette a una compagna di crimine. Scatenare gli oggetti significa irritare il
mondo e sé.
L’irritazione è il dolore diventato cosciente. Noirceul spiega al sodale
Saint-Fond cos’è il dolore per un vero libertino: una “conseguenza dello
scarso rapporto degli oggetti estranei con le molecole organiche di cui
siamo costituiti. Di modo che invece di atomi inviati da questi oggetti
estranei che si congiungono con quelli del nostro fluido nervoso, come
fanno durante l’emozione del piacere, essi presentano in questo caso degli
angoli, li pungono, li respingono e non si uniscono mai con loro”.28. Il
piacere è il segno di un incontro omogeneo: vuol dire che l’oggetto è adatto
al bisogno del soggetto. Il dolore, invece, è il segno che la nostra sensibilità
incontra forze che l’aggrediscono e con le quali non è capace di saldarsi. Il
dolore è un concatenamento senza vincolo, elettrico e non gravitazionale,
fluttuante, libero, escretivo, fatto di attrazione e repulsione. Nel dolore gli
atomi dell’oggetto e il fluido elettrico-nervoso del soggetto sono agganciati
in una condizione di tensione e di lotta.
Non solo il piacere, anche il dolore può essere scientemente ricercato e
praticato. È in quest’ultimo caso che il dolore diventa irritazione e
godimento. Ora, continua Noirceul,

[…] che cosa impedisce che tale stimolo al dolore, molto più forte e acuto
dell’altro, non giunga a suscitare in quel fluido la stessa accensione che vi
si infonde con l’attrazione degli atomi emanati dagli oggetti del piacere?
Inoltre, agitato per agitato, chi può impedire che, con l’abitudine, non mi
adatti a star bene sia cogli atomi che respingono che con quelli che
attraggono? Annoiato dagli effetti di quelli che producono soltanto una
sensazione semplice, perché non potrei abituarmi a ricevere piacere da
quelli la cui sensazione è acuta? […] Non si vedono ogni giorno persone
che hanno il palato abituato a un’irritazione piacevole, mentre altre questa
irritazione non potrebbero sopportarla neanche per un minuto? Non è vero
a questo punto (se ammettiamo la mia ipotesi) che di solito, durante i
propri piaceri, l’uomo cerca di stimolare gli oggetti del proprio godimento
nello stesso modo in cui egli è stimolato e che tali procedimenti si
chiamano, nella metafisica del godimento, effetti di delicatezza?29.

Nel godimento gli altri corpi vengono modificati, alterati, stimolati “in
modo tale che l’irritazione dei nostri nervi subisca un grado di violenza così
prodigioso che essi ne siano come travolti, come sollecitati in tutta la loro
estensione”.30. Il godimento è il concatenamento dell’escrezione. Esso è
fatto dello sfregamento tra le “molecole maligne”31. nell’oggetto e nel
soggetto. Nel godimento accade che elementi disparati, eterogenei, male
assortiti – i corpi irritati – si mettono a comunicare. Il godimento è la
habitudo del dolore, la ricerca di un contatto tra corpi e parti del corpo che
di per sé si respingono. “Qui si tratta esclusivamente del godimento, e non
della proprietà…”:32. nel godimento non c’è appropriazione dell’oggetto da
parte del soggetto, né vincolo duraturo. “Ricevendo o producendo sul
sistema nervoso la massima vibrazione possibile”33. il godimento circola
dentro la comunità dei libertini e la scintilla del dolore appicca l’incendio
nelle loro anime.
L’intensità della polarizzazione, il quantum di tensione tra i poli (per
esempio: uomo e oggetto, uomo e uomo), decide del carattere del rapporto:
esso è eterogeneo se la polarizzazione è forte, omogeneo se la
polarizzazione è debole.34. Nella società la polarizzazione è debole (bisogno
e oggetto = piacere), mentre è forte fuori dalla società, nel godimento
dell’escrezione (carnefice e vittima, fluido nervoso e atomi dolorifici =
godimento). Per Bataille la comunicazione degli eterogenei – dunque forte
– è la polarizzazione fondamentale dell’esperienza.

Il vortice
Le molecole maligne di Sade, l’escrezione di Bataille, istituiscono rapporti
eterogenei, sono figure vorticose. Quando un flusso incontra un ostacolo dal
quale riceve indietro un contro-flusso il quale, anziché perdersi, si combina
con il flusso, allora si forma un vortice. Nel vortice due forze che prima non
comunicavano si mettono a girare insieme. Un vortice è la polarizzazione
circolare di un flusso e di un contro-flusso che possono essere fisici,
biologici oppure verbali:

Onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un ‘essere’ non
è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione
interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito
dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gli
innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli
elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e
migrazioni di elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La
vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto
all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua
vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al
di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice
durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali
forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.35.

La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, perché ha portato


a intersecarsi forze che precedentemente si ignoravano: “la tranquilla
orizzontalità animale” e “l’erezione vegetale” che si lascia “polarizzare, in
un certo senso, dal cielo”.36. Il flusso dinamico animale incontra la
stanzialità del vegetale che gli rimanda indietro un contro-flusso di
verticalizzazione: insieme formano il vortice umano. Il vortice umano è una
pianta locomotrice, un vegetale animale, una tensione orizzontale che si
annoda con una tensione verticale.
I vortici biologici sono sempre in rotta di collisione reciproca: “Una
formica, cadendo in un vortice di animali che con la sua energia
schiaccerebbe tutto quanto si unisse a lui, avrebbe, a causa della debole
resistenza da opporre, molto più da soffrire di quanto avesse un grosso
animale che, offrendo più presa, sarebbe coinvolto molto meno”.37. La
polarizzazione delle molecole che formano un grosso animale è più intensa.
Un animale da preda è un vortice abituato alla lotta, è molto più vicino della
formica alle “molecole spezzate e reimmerse nel crogiolo della natura”.38.
Un corpo-vortice violento può entrare in un numero più ampio di
concatenamenti, formare alleanze più potenti, aggredire con più efficacia.
Per un uomo i picchi dell’esistenza sono fatti di quel “vortice del
godimento” che si eleva “nella direzione di un cielo bello come la morte,
pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato
con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo
cammino”.39. Il godimento è la condizione di massima intensità ed
eterogeneità di cui può fare esperienza il vortice umano.

La rivoluzione
Sade in prigione “si faceva portare le rose più belle per sfogliarne i petali
sullo scolo di una fossa”.40. Sade butta i petali nel liquame, mette insieme il
fiore della letteratura e l’escrezione, fa vorticare insieme il godimento e la
scrittura. La prigione di Sade è la pietra contro cui il flusso del godimento
va a sbattere e che produce così un contro-flusso di immaginazione
scrittoria.
Davanti all’immagine di disastro che Juliette fa balenare a un’amica – il
“nuovo universo” in cui esiste solo la felicità del crimine –,
“un fuoco divoratore e dolce scivolerà suoi tuoi nervi e incendierà il fluido
elettrico nel quale risiede il principio della vita”.41. L’immaginazione è come
una scintilla buttata nei fluidi di un sistema nervoso pronto a incendiarsi.42.
Il contro-flusso dell’immaginazione svolge due funzioni
contemporaneamente, analitica e sintetica: prende in esame gli elementi
costitutivi del godimento, ne fissa i dettagli, e ricongegnandoli insieme,
facendoli macchinare in modo nuovo, potenzia, amplia il godimento.
Rispetto all’intensità del fluido nervoso, “la forza della vostra
immaginazione vi fa concepire i modi di accrescerla, alcuni particolari…
l’irritazione diventa più acuta e voi moltiplichereste così, se voleste, i vostri
godimenti all’infinito”.43. L’immaginazione analizza la nebulosa energetica
del godimento, porta luce sugli elementi per ridisegnarne le costellazioni.
L’analisi e la sintesi fatte dall’immaginazione aumentano l’intensità del
godimento e sono capaci di estendere il suo spazio-tempo: “le innumerevoli
variazioni che l’immaginazione suggerirà in questi godimenti”44. li fanno
proliferare.
La tortura e lo smembramento dei corpi fatti dal libertino sono i casi-
limite di quella anatomia che l’immaginazione sempre mette in pratica per
scoprire gli organi e i punti d’attacco del godimento. Se l’unità
fondamentale dell’esperienza libertina è la “postura” – una qualsiasi forma
di concatenamento fisico-nervoso – l’immaginazione scompone questo
aggregato nei suoi elementi: l’“azione” e il “punto di applicazione sul
corpo”.45. L’analisi dell’immaginazione fa del libertino l’ingegnere del
godimento. Egli diventa capace di programmare nuove combinazioni dei
corpi, reinventa i concatenamenti delle molecole maligne. Si libera dalle
immediate circostanze spazio-temporali e permette la ripetizione del
godimento. Il luogo deputato per l’esercizio dell’immaginazione è la
prigione: “Per primo Sade, nella solitudine della sua prigione, ha dato
un’espressione ragionata dei movimenti incontrollabili”.46. L’esattezza di
quest’immaginazione è necessariamente l’esercizio di un solitario, un
prigioniero. Il contro-flusso dell’immaginazione scrittoria comincia in un
carcere, perché il prigioniero si è sganciato da tutti i concatenamenti dei
corpi. Egli vive la situazione della solitudine, lo sconcatenamento assoluto
che permette di ricostruire con la mente la totalità dei concatenamenti
possibili.
I libertini “si abbandonano ciecamente a tutti i crimini di cui le prospettive
politiche della natura suggeriscono loro le idee”.47. La natura è omicida,
incestuosa, incendiaria e ladra. Le prospettive politiche della natura si
compendiano nel godimento. Se queste prospettive seducono anche gli
uomini, anzitutto e perlopiù esse vengono misconosciute dai diretti
interessati, che con i loro codici e leggi negano i concatenamenti pericolosi,
li proibiscono, e permettono soltanto quelli sicuri e piacevoli. Oppure
rimangono un episodio trascurabile: si affermano ma vengono subito
evacuate dalla società. Le prospettive politiche della natura rimangono
negate oppure cieche fino a quando il loro flusso non rimbalza sulle pietre
di un carcere. La solitudine della prigionia rimanda indietro un contro-
flusso di immaginazione che si combina con il flusso del godimento dando
origine a un vortice infuocato: la rivoluzione. La rivoluzione è
l’articolazione interna (intensificazione) ed esterna (estensione) del
godimento.48.
La solitudine carceraria di Sade incontra l’agitazione del godimento e le
rimanda addosso il contro-flusso immaginativo necessario alla formazione
del vortice rivoluzionario capace di incendiare l’animo non solo dei
francesi, ma degli europei.49. Non certo la rivoluzione robespierresca o
roussoviana, la vittoria del risentimento plebeo o la confederazione
svizzera, il legame dei citoyens nella volontà generale o davanti alla
ghigliottina. Il vortice sadiano della rivoluzione si allontana dalla città e
dalla nation per dare vita a società segrete, eterogenee e trasversali, il cui
unico legame interno è l’affinità elettiva dei libertini.50. L’immaginazione e
la scrittura ampliano il campo della rivoluzione, ma questo campo è di volta
in volta delimitato, chiuso. L’estensione rivoluzionaria del godimento non è
democratica e collettiva. La rivoluzione non è una marea che dilaga ma una
serie di razzi che si impennano da un punto dello spazio e del tempo, diretti
verso altri punti.

Il volumen
La prigione non è l’unica forma di solitudine che riguarda l’universo
sadiano. Nei suoi libri troviamo un altro tipo di solitudine: i quattro
debosciati del castello di Silling ogni tanto abbandonano i saloni aperti al
resto della comunità – dove le azioni sono già agganciate
all’immaginazione, perché devono seguire scrupolosamente l’ordine del
giorno dettato dalla prostituta-narratrice – e si nascondono con le proprie
vittime dentro stanze segrete, oppure dietro un sipario, per compiere una
“piccola infamia”51. fuori programma. Dolmancé abbandona gli amici del
boudoir e si rinchiude con il giardiniere nel gabinetto attiguo perché “ci
sono alcune cose che richiedono assolutamente discrezione”.52. Olimpia
Borghese ha sequestrato la figlia con il piano di aggredirla: “Penetro
dunque da sola nella torre e passo per prima cosa due ore in quella follia, in
quella specie di delirio, in quella sconnessione, divino linguaggio
dell’ebbrezza in cui ci immerge la lussuria e che si azzarda così
gustosamente con un individuo che non rivedrà più la luce. Ti riferisco
male, amore mio, ciò che dissi, ciò che feci… Ero fuori di me […]. Come
sono forti tali voluttà! […] L’ebbrezza che provocano è al di sopra di ogni
descrizione”.53. I libri di Sade sono costellati di queste reticenze: nel
godimento c’è qualche cosa che non può essere scoperto.
“Ciò che nell’erotismo ci ha portati all’ultimo grado dell’intensità ci
colpisce allo stesso tempo con la maledizione della solitudine.”54. I libertini
si appartano, rimangono soli, perché dimenticano la “lealtà nei confronti
degli altri che è la logica, che è la legge, che è il principio del linguaggio”.55.
Questo linguaggio non ha presa sul linguaggio dell’ebbrezza. Il linguaggio
dell’ebbrezza è un segreto e le nostre parole non possono restituircelo. Solo
i letterati hanno fiducia nella capacità mimetica delle parole. Essi credono
che l’interferenza tra parole di aree semantiche distanti produca quel
collasso del significato in cui il poeta fa esperienza della luce nera della
surrealtà. Costringono il linguaggio alle torture e contraddizioni che
simulano la torsione dei corpi: le rubis du Champagne oppure la rencontre
fortuite sur une table de dissection d’une machine à coudre et d’un
parapluie. Invece, se “Sade ‘parla’ […], parla in nome della vita silenziosa,
in nome di una perfetta solitudine, inevitabilmente muta”.56. Sade scrive nel
nome di un’ebbrezza solitaria.
Quello sadiano è un universo ebbro e per ciò stesso apatico, è cioè un
universo intensivista.57. Ogni postura erotico-criminale è una tappa nel
percorso dell’ebbrezza, eccita i nervi, è un grado d’intensità. Il principio, e
anche la fine di ogni grado intensivo, è la tensione nulla, la stasi del
movimento molecolare. Il concatenamento energetico dei corpi, l’intensità
del godimento, comincia e finisce con il grado zero dell’energia. L’universo
sadiano è fatto di forze, gradi e intensità, e ha il suo principio nonché il
compimento nell’insensibilità, nell’apatia. Nel godimento “l’insensibilità si
fa fremito di tutto l’essere”.58. I libertini sadiani si raccomandano a vicenda
l’apatia: ogni ebbrezza e concatenamento dei corpi devono essere
accompagnati da una sovrana indifferenza per ciò che accade. L’apatia è ciò
che rende i personaggi sadiani dei grandi solitari, è la vera infamia libertina,
è l’ultimo nascondiglio delle loro passioni. Se il godimento dei corpi è lo
scarto della società omogenea, l’apatia è il resto di questo scarto. L’apatia è
il residuo di ogni dinamismo energetico, soprattutto dell’energia libertina
che è un continuo “degradamento dei sentimenti”.59. Il degradamento è il
percorso che fanno tutti i gradi del godimento verso l’apatia. Al fondo del
degradamento l’ebbrezza ritrova il cippo funebre del proprio tragitto.
Ancora una volta è in gioco la formazione di un vortice. Per comprendere
la formazione di questo secondo vortice – distinto dal vortice rivoluzionario
– dobbiamo cambiare prospettiva e ripensare le funzioni: il flusso, adesso, è
la scrittura, mentre l’ostacolo contro cui sbatte il flusso, e da cui proviene il
contro-flusso, è il nascondiglio del libertino, è il fondo dell’ebbrezza. Il
sasso contro cui sbatte il flusso della scrittura è il corpo infame, il
godimento sottratto agli sguardi e ricondotto al suo principio apatico. Il
contro-flusso causato dall’apatia si combina con il flusso della scrittura e
insieme formano il romanzo metafisico del godimento.
Il flusso della scrittura romanzesca è fatto di toni e stili differenziati. Sade
ci tiene a caratterizzare il tono degli enunciati che mette in bocca ai
personaggi, esso è di volta in volta: iroso, impaurito, semplice, leggero,
amaro, gentile… Anche gli stili di Sade sono molteplici. La sua è una
scrittura polifonica. Nei romanzi c’è la solennità di Racine e il linguaggio
della medicina,60. Marivaux, Molière e la restituzione del linguaggio
popolare.61. Ma le lunghe tirate e gli argomenti elaborati dai libertini, prima
e dopo le orge, finiscono per contaminare gli altri toni e gli stili del
romanzo con il tono e lo stile neutri della filosofia.62. Questa neutralità
tonale-stilistica è il contro-flusso che la scrittura romanzesca ha ricevuto dal
sasso dell’apatia: l’“evidente monotonia che caratterizza i libri di Sade […]
scaturisce dall’intenzione di subordinare il gioco letterario all’espressione
di un evento indicibile”.63. Evento indicibile è la “voce della natura” che,
spiega Norceuil, “non ci ingannerà mai”.64. Questa voce non ci inganna
perché non dice niente: “la natura non ha alcuna voce”,65. non ha pathos. La
“voce della natura” dice l’apatia che appartiene all’ebbrezza. Prodotto dal
sasso dell’apatia, il contro-flusso della filosofia investe gli altri flussi con la
neutralità del proprio tono. Il tono neutro della filosofia organizza le voci
del romanzo, così come nel vortice rivoluzionario l’immaginazione analizza
e reinventa le forme del godimento. Nel grand rouleau della Bastiglia – il
rotolo lungo dodici metri su cui in cinquantasette giorni di lavoro Sade ha
ricopiato Le centoventi giornate – il flusso romanzesco della scrittura e il
contro-flusso della filosofia si combinano in un vortice di gelo. Il tessuto di
grafia continua, microscopica e fittissima che Sade arrotola e nasconde
dentro il godemiché fatto costruire dagli artigiani del faubourg Saint-
Antoine su commissione della moglie è il secondo vortice di Sade: il
volumen.
Il romanzo metafisico del godimento ha un aspetto respingente. Se Le
centoventi giornate “snerva sensualmente” il suo pubblico e “tutto alla fine
concorre alla nausea”,66. non è solo per i contenuti, ma anche perché
sentiamo la chiusura e il rifiuto che quel volumen smarrito in una cella
continua a opporci. Non vuole essere ritrovato, non vuole essere letto.

I due vortici
Non ci sono due periodi distinti nel confronto di Bataille con Sade: quello
giovanile, arrembante e speranzoso – che invita a un uso rivoluzionario di
Sade – e uno senile, in cui Sade diventa un fatto letterario. Ci sono, invece,
due vortici sadiani di cui Bataille ci permette di ricostruire la morfologia:
quello incendiario della rivoluzione e quello congelato del volumen. Il
vortice della rivoluzione è seduttivo, accende entusiasmi all’intorno,
produce altri vortici simili. Vuole avere testimoni e diffondersi, vuole essere
ricordato. Il vortice del volumen, invece, è chiuso e repulsivo, la sua
continuità fa corpo con se stessa e abbandona il mondo. Non vuole avere un
pubblico, vuole essere dimenticato.
Quale dei due vortici si produce quando ci mettiamo a leggere Sade
dipende dalla nostra prospettiva. Qual è il flusso: il godimento o la scrittura
romanzesca? Qual è la pietra che produce il contro-flusso: la solitudine
carceraria o l’apatia libertina? Qual è il contro-flusso: l’immaginazione o il
tono neutro della filosofia?
Se “l’umanità è fatta di esperienze separate”,67. Bataille dichiara di aver
cercato di addossarsi “la difficoltà in entrambe le direzioni”.68. Non è però
facile pensare i due vortici, la rivoluzione e il volumen, insieme. Nel tempo
in cui un vortice si disfa e l’altro si sta formando succede che le spire
allargantesi della rivoluzione toccano il volumen che si avvolge su se stesso.
Etero-logia significa questo: due volgimenti disparati che collidono. In
quell’istante la rivoluzione può incendiare il volumen, oppure il volumen
raffredda la combustione della rivoluzione. Ma si tratta, in entrambi i casi,
di un pensiero insufficiente, capace solo di fare ipotesi sugli effetti della
collisione e che non riesce a pensare la collisione in quanto tale.
Sade è l’avversario del letterato che oggidì “non riesce più ad ammettere
le relazioni che si istituiscono […] tra la chiusura della letteratura e la
Rivoluzione proletaria, tra Lautréamont e Lenin”.69. In Sade la letteratura “e
la rivoluzione si collegano […] come gli elementi disparati di una figura
compiuta, come a una rovina si collegano delle rocce, o al silenzio la
notte”.70. La collisione tra la rivoluzione e il volumen accade nel punto di
massima energia di cui Sade è il nome.

Tommaso Tuppini insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona.


1 G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, in Œuvres completes, Gallimard, Paris 1970,
vol. II, pp. 54-69.
2 Id., “Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1979, vol. IX, pp. 239-258.
3 Cfr. J.-M. Heimonet, Recoil in Order to Leap Forward: Two Values of Sade in Bataille’s Text,
“Yale French Studies – On Bataille”, 78, 1990, pp. 227-228. Questa è la ricostruzione standard che
gli studiosi hanno fatto del confronto di Bataille con Sade: dall’uso politico degli anni trenta
all’interesse prevalentemente letterario del dopoguerra.
4 G. Bataille, “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ivi, p. 57.
8 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 244.
9 Id., “La structure psychologique du fascisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol.
I, pp. 339-341.
10 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58.
11 Ivi, pp. 59-60.
12 Ivi, p. 60.
13 G. Bataille, “Histoire de l’erotisme”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, vol. VIII, p.
153.
14 Id., “Cet enoncé étant terminé…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 81.
15 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 58.
16 Ivi, p. 61.
17 G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1987, vol. X,
p. 172.
18 Id., “Le valeur d’usage de D.A.F. de Sade”, cit., p. 56.
19 Ivi, p. 59.
20 Ivi, p. 58.
21 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 254.
22 Ivi, p. 249.
23 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù (1791), trad. di C. Rendina, Newton
Compton, Roma 1993, p. 241.
24 G. Bataille, “Sommes nous là pour jouer ou pour être serieux?”, in Œuvres complètes,
Gallimard, Paris 1988, vol. XII, p. 113 e Id., “Histoire de l’erotisme”, cit., passim.
25 Id., “Sade”, cit., p. 254.
26 L’“anima elettrica” è il sistema nervoso pensato dalla biologia coeva a Sade. Il passaggio dal
paradigma ippocratico della vita come equilibrio a un paradigma fluido-dinamico comincia a dare
spazio ai fenomeni elettrici. Cfr. J. Deprun, “Sade et la philosophie biologique de son temps”, in De
Descartes au Romantisme. Études historiques et thématiques, Vrin, Paris 1987, pp. 133-147. Cfr.
anche: R. Cavaillès, Le matérialisme électrique et la métaphysique du crime. Une lecture
épistèmologique de Sade, “Annales publiées par l’Université de Toulouse-Le Mirail – Philosophie II”,
IX-6, 1973, pp. 33-49 e C. Carnicero de Castro, Le fluide électrique chez Sade, “La Découverte”, 46,
2014, pp. 561-577.
27 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio (1801), trad. di P. Guzzi, Newton
Compton, Roma 1993, vol. II, p. 29. Qualche volta ho modificato la versione italiana.
28 Ivi, vol. I, p. 212.
29 Ibidem.
30 Ivi, pp. 259-260.
31 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, pp. 296-299.
32 Id., La filosofia nel boudoir (1795), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1974, p. 239.
33 Ivi, pp. 259-260.
34 G. Bataille, “La polarité humaine…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 167.
35 Id., “L’experiènce interieure”, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1973, vol. V, p. 111.
36 Id., “Dossier de l’œil pinéal”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 26.
37 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 296.
38 Ivi, p. 305.
39 G. Bataille, “Dossier de l’œil pinéal”, Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 26.
40 Id., “Le langage de fleurs”, in Œuvres complètes, cit., vol. I, p. 178.
41 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 60.
42 Ivi, vol. II, p. 46.
43 Ivi, p. 29.
44 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù, cit., p. 236.
45 Sono le espressioni che usa Barthes nel suo Sade, Fourier, Loyola.
46 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 253.
47 D.A.F. de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù, cit., p. 164.
48 Fare la rivoluzione significa “valorizzare la problematica struttura personale a livello di
necessità universale”. La rivoluzione è “un vasto processo di decomposizione e ricomposizione
sociale”, P. Klossowski, “Sade e la rivoluzione” (1947), in D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir,
cit., pp. 15 e 27.
49 I libertini di Sade si cercano tra di loro in continuazione, dalla Svezia all’Italia, “nessuno è più
europeo di lui”, P. Sollers, “Sade dans le Temps”, in Sade contre l’Être Suprême, Gallimard, Paris
1996, p. 42.
50 Cfr. B. Sichère, Sade, l’impossible, “Lignes”, 2, 2004, pp. 141-158.
51 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1904), trad. di G. Nicoletti, Newton
Compton, Roma 1993, p. 238. Sulla “piccola infamia” dei libertini sadiani, cfr. P. Macherey, “Sade et
l’ordre du desordre”, in Á quoi pense la littérature? Exercises de philosophie littéraire, PUF, Paris
1990, p. 203.
52 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 285.
53 Id., Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. II, pp. 66-67.
54 G. Bataille, “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, in Œuvres complètes, cit., vol. X, p. 256.
55 Id., “Sade et l’homme normal”, in Œuvres complètes, cit., vol. X, p. 188.
56 Ivi, p. 187.
57 Di “intensivismo” sadiano parla J. Deprun, in Sade et le rationalisme des lumières, “Raison
Présente”, 3, 1967, pp. 81-83.
58 G. Bataille, “L’Homme suverain de Sade”, cit., p. 172.
59 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 104.
60 Cfr. D.B. Morris, “The marquis de Sade and the discourses of pain. Literature and medicine at
the revolution”, in G.S. Rousseau (a cura di), The Languages of Psyche. Mind and Body in
Enlightenment Thought, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1990, pp. 291-
330.
61 Cfr. M. Gaillard, Le langage de l’obscénité. Étude stylistique des romans de D.A.F. de Sade:
“Les Cent vingt journées de Sodome”, les trois “Justine” et “Histoire de Juliette”, Champion, Paris
2006.
62 “La sintesi di tutti i possibili costituisce la soppressione di tutto ciò che il linguaggio introduce e
che sostituisce all’esperienza della vita ridondante – e della morte – una sfera neutra, una sfera
indifferente. Ho voluto […] usare un linguaggio uguale a zero, un linguaggio che sia l’equivalenza
del nulla”, G. Bataille, “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, cit., pp. 257-258.
63 G. Bataille, “Sade”, cit., p. 106.
64 D.A.F. de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, cit., vol. I, p. 154.
65 Ivi, vol. II, p. 122.
66 G. Bataille, “Sade”, cit., pp. 254-255.
67 Id., “La sainteté, l’heroisme et la solitude”, cit., p. 248.
68 Ivi, p. 254.
69 G. Bataille, “Ces propositions étant énoncées…”, in Œuvres complètes, cit., vol. II, p. 80. Lenin
e il proletariato c’entrano poco. Sono spettri agitati sotto il naso dei Surrealisti.
70 Id., “Sade”, cit., p. 241.
Sade e il desiderio di essere
GIOVANNI BOTTIROLI

1. Bergson avec Sade. Le tesi dell’energetismo


Il sadismo, nella sua accezione filosofica, così come viene formulato negli
scritti di Sade, è una versione dell’energetismo. Con questo termine vorrei
indicare una posizione, una possibilità, che non ha un solo rappresentante
ma che trova probabilmente in Bergson, e nella linea Bergson-Deleuze, la
sua espressione più coerente. Tuttavia, mettere in rilievo un’affinità non
marginale tra l’energetismo perverso di Sade e quello metafisico di Bergson
non giustifica un’equivalenza affrettata: non si dovrebbero sminuire i punti
di divergenza. Non è mia intenzione, dunque, affermare la perversione
come l’orizzonte che ospita e racchiude per intero l’energetismo. In prima
istanza, vorrei piuttosto prendere le distanze dalla solidarietà che Lacan ha
creduto di scorgere tra Sade e Kant, e proporre un punto di vista che ritengo
più fecondo; e anche più fondato, benché non sia possibile in questa sede
riesaminare le somiglianze sottilmente valorizzate da Lacan.
Per giustificare il mio punto di vista, è indispensabile tentare una
definizione di quelle che sembrano essere le tesi fondamentali
dell’energetismo:
1. L’energetismo è una filosofia dell’Uno, dell’assoluto, o dell’irrelato.
Afferma la potenza della vita, forse la sua onnipotenza. E la vita è
dinamismo, movimento, slancio, energia. La vita, come vedremo meglio in
seguito, è l’anti-separativo.
2. L’Uno è l’indiviso, il necessariamente indiviso. Più semplice di tutto
ciò che è semplice, più “uno” di qualsiasi unità. Pertanto, l’energetismo
tenderà a svalutare ogni tipo di relazione, a eccezione di quelle che si
autodissolvono, paragonabili ai tagli inferti da un coltello sulla superficie
dell’acqua. E se ogni relazione implica un “non” in quanto distingue tra
termini ciascuno dei quali non è l’altro, e se il “non” è negazione, per
l’energetismo non esiste negazione che possa dividere l’indiviso.
3. Ciò significa che l’energetismo nega la relazione tra l’Uno e i molti, in
nome di una compattezza che sarebbe anche irreversibile staticità? No, esso
afferma la relazione con i molti, ma la pensa come una “non-relazione”. In
una prospettiva di radicale immanenza, l’Uno si moltiplica senza mai uscire
da se stesso: non si aliena, non si separa da sé e non si moltiplica né si
fraziona assumendo la maniera d’essere del separativo (quell’esteriorità
mereologica, che Bergson chiama partes extra partes).
4. La forma logica dell’energetismo è la coincidentia oppositorum, cioè
l’unità immediata tra l’Uno e i molti (e tra tutte le coppie oppositive che ne
costituiscono una variazione). Non si insisterà mai abbastanza sulla nozione
di “immediatezza”, se si vuole comprendere questa posizione filosofica.
Cerchiamo di chiarirne meglio lo statuto. La coincidentia oppositorum non
afferma la sintesi tra tutti gli opposti (e non viola, né supera, il principio di
non contraddizione): più precisamente, indica una sintesi tra contrari, e
però radicalmente diversa da quella hegeliana, che infatti non è immediata.
In ogni concezione dialettica l’Uno non è mai abbastanza Uno, in quanto
deriva dal superamento di una negazione – superamento che è Aufhebung, e
che dunque conserva il negativo: di qui il dissenso degli energetisti, e la
loro incessante battaglia contro la dialettica. L’immediatezza redime dalla
negazione, in tutte le coppie oppositive affermate dall’energetismo.
5. Il postulato etico dell’energetismo suona così: tutto è bene. Si potrebbe
obiettare che, in base al principio di coincidenza dei contrari, questa tesi è
immediatamente solidale con quella opposta: “Tutto è male”. A un esame
più attento, però, il male non risulterà essere un opposto del bene – se non
dal punto di vista empirico, limitato. Il principio di coincidentia
oppositorum esclude la parità del metafisico e dell’empirico. L’empirico è
sottomesso al metafisico: ma per comprenderlo occorre assumere il punto di
vista della metafisica.
Questa disparità, o differenza, verrà interpretata esplicitamente come
sottomissione nell’universo sadiano: ma, riconosciuta o meno che sia,
governa tutte le concezioni energetiste. Il rapporto è sottomesso al senza-
rapporto, la negazione all’assenza di negazione, e così via.
6. La prospettiva modale dell’energetismo è quella della necessità. Il che
porta a valorizzare inesorabilità e concentrazione (tutte le differenze, tutti
gli atti possono venire concentrati in un punto di pienezza, o di estasi).
Può darsi che questa presentazione venga giudicata incompleta dai
rappresentanti dell’energetismo. Per quanto mi riguarda, tuttavia, a non
essere stati portati in piena evidenza non sono i principi di una filosofia
dell’indiviso, bensì i suoi dogmi impliciti:
(a) La tipologia degli opposti contempla soltanto due relazioni
fondamentali, i contraddittori e i contrari. La coincidentia oppositorum si
riferisce agli opposti nella realtà, e non a contraddizioni logiche. Dunque,
per l’energetismo gli opposti (intesi come i contrari, come la relazione
oppositiva eminente) sono sempre sintetizzabili;
(b) Il “non” (la negazione, comunque venga intesa) indica sempre una
mancanza.
Vale la pena di precisare sin d’ora che l’energetismo ignora il “non” della
non-coincidenza di un ente con se stesso: una possibilità logica e ontologica
che trova la sua autentica dimensione soltanto nei correlativi, e grazie a
essi. I correlativi sono opposti non-sintetizzabili. Non ci si lasci ingannare
da quella che è in effetti una somiglianza, e cioè dal carattere anti-
separativo di questa relazione, che sembra avvicinarla alla coincidentia
oppositorum. A ben vedere queste due posizioni sono radicalmente in
contrasto, l’una afferma una sintesi immediata (la più sintetica delle sintesi),
l’altra la non-sintesi (e la fecondità degli antagonismi). I correlativi si
ispirano al principio di non-coincidenza.
Quanto al secondo dogma dell’energetismo, esso si regge su una visione
privativa della negazione. Ignora il desiderio di essere come potenza – il
“non” oltrepassante. Vi torneremo.

2. Sade
Tutte le tesi dell’energetismo sono riscontrabili negli scritti di Sade. Lo
possiamo verificare, ripercorrendole in ordine inverso, e meno
schematicamente. Anzitutto, il dominio della necessità, nel duplice senso di
“dominio”, cioè la dominanza della necessità nell’intero universo, come
campo d’azione. La medesima duplicità caratterizza il termine privilegiato
dalla filosofia di Sade, vale a dire la Natura: non vi è nulla che non sia
natura, e la Natura è imperiosità che si diffonde in tutti gli enti. Non
dobbiamo trascurare la distinzione tra natura causante e causata. Il
determinismo di Sade non si ispira alla nozione di causa efficiente, cioè a
una causalità che implica l’esteriorità tra soggetto e oggetto: e tuttavia
l’immanenza della causa agisce inevitabilmente nelle relazioni tra esseri
separati, e iperbolicamente separabili – non è questo un aspetto della
jouissance, a cui accede il carnefice, quando sovrasta la vittima? Occorre
chiarire pazientemente la duplicità, o paradossalità, in cui si esprime quella
logica paradossale che è la coincidentia oppositorum.
Di questa logica, l’equivalenza immediata tra Natura e Legge è la
manifestazione forse più importante, e da cui trae conferma la tesi di
necessità. Le leggi della Natura sono inesorabili e “cieche”, e a esse la
Natura è interamente vincolata.1. Nella sua concezione della necessità, Sade
è un seguace di Aristotele (necessario è ciò che non può essere altrimenti) e
della tradizione occidentale: necessità significa rigidità – potremmo forse
immaginare una necessità flessibile? E tuttavia l’univocità del necessario si
scinde in un più e un meno, in una differenza: il che non dovrebbe
sorprendere, quando ci si riferisce a un universo dinamico, dove tutto è in
perenne movimento. Perciò uno dei personaggi a cui verosimilmente Sade
affida l’esposizione del suo pensiero, e cioè papa Braschi, osserva che “i
vizi sono più necessari delle virtù”.2. Più necessari: nell’universo della
necessità – diversamente da quanto può sembrare a prima vista – non tutto è
egualmente necessario. L’eguaglianza è smentita dalla differenza: a meno
che tra di esse non torni a stabilirsi la coincidentia.
Proviamo a seguire il ritmo altalenante di questa concezione: “I vizi sono
più necessari delle virtù, poiché hanno funzione crea-trice, mentre le virtù
sono soltanto create o, se preferite, i vizi sono cause e le virtù sono soltanto
effetti”.3. I criminali sono più necessari, in quanto assumono integralmente
la spinta alla distruzione che abita la Natura, e la possiede: “Non saranno
mai abbastanza gli omicidi sulla terra, in rapporto all’avidità [soif ardente]
che ne prova la natura”.4. Nella Natura, l’impulso di distruzione si spinge
fino a una delirante volontà di autodistruzione: brama inappagabile,
impossibile, perché nessuna vera distruzione è possibile, perché la morte è
impossibile, e ciò che chiamiamo morte è solo mutazione di forma.
La paradossalità di questa concezione risulta incomprensibile senza il
ricorso alla logica della coincidenza immediata tra gli opposti (tra i
contrari), che peraltro va precisata. Vita e morte coincidono, e tuttavia in
Sade possiamo trovare (oltre che derivare) l’asserzione “non vi è morte [il
n’y a point de mort]”,5. mentre non troveremo mai né implicitamente né
esplicitamente l’asserzione contraria “non vi è vita”. In un universo
dinamico, come viene pensato dall’energetismo, la coincidentia
oppositorum è sempre sbilanciata.
Non sarà certamente in esempi irenici come quello della linea e del
circolo che potremo trovare casi paradigmatici di uno sbilanciamento, da
cui la coincidenza immediata non viene peraltro smentita se non
provvisoriamente: in una provvisorietà infinita, però, interminabile.
Torniamo alla (non)-relazione tra vita e morte. Come si è appena detto, per
Sade la morte è una forma di vita, morire è impossibile; sarebbe necessaria
una seconda morte, per imporre una distruzione definitiva: “L’assassinio
toglie soltanto la prima vita all’individuo da noi colpito; si dovrebbe
potergli strappare anche la seconda, per essere ancora più utili alla natura;
poiché essa vuole l’annullamento”.6. Ma la seconda morte sarebbe a sua
volta una seconda vita, una vita semplicemente mutata di forma, e così via
all’infinito. Abbiamo appena osservato che la coincidentia oppositorum,
nella versione energetista, è sbilanciata. Eppure, all’asserzione “la morte è
una forma di vita” non potrebbe seguire “la vita è una forma di morte”? Sì e
no. Sì, perché la vita è continua distruzione, trionfo della morte. No, perché
la morte viene inesorabilmente degradata ad apparenza, non appena si
assume il punto di vista dell’Uno.
Lo sbilanciamento sembra perciò confermato, a condizione di intenderlo
dinamicamente, come squilibrio che rinnova un equilibrio “differenziale”.
D’altronde, per citare ancora una volta il discorso di papa Braschi,
l’equilibrio dell’universo (ce parfait équilibre) va pensato attraverso la
nozione e l’espressione di Orazio rerum concordia discors.7.
Che l’Uno (o la Natura) sia differenza, gli ideologi che prendono la parola
negli scritti di Sade lo dicono continuamente. Per esempio Dorval: “Amiche
mie, una sola cosa crea differenze tra gli uomini nell’infanzia delle società:
la forza”.8. Essa è distribuita in modo ineguale, e l’ineguaglianza della
distribuzione implica necessariamente una lesione del forte sul debole.9.
Prima ancora che tra gli individui, tale diseguaglianza si manifesta nella
differenza di intensità tra due movimenti: quello primario, il più forte, in cui
si trova la felicità, e che si manifesta nel vizio; e quello secondario, il più
debole, che si manifesta nella virtù. La virtù delude: “Quel défaut de
mouvement!”, esclama Noirceuil.10.
In effetti la virtù mira al conseguimento di un piacere, al pari del vizio; ma
in un mondo fittizio dove si è costretti a rinunce e sacrifici, nell’illusione
che sopprimendo i nostri istinti naturali si possa ottenere una ricompensa:
un mondo calcolistico, e anche per questo motivo inferiore a quello
disinteressato del vizio.11. Ciascuno di noi può scegliere (“c’est à lui de
choisir”).12. Ma, poiché virtù e vizio mirano entrambi alla felicità, al piacere,
e poiché “solo il grado di violenza da cui siamo scossi caratterizza l’essenza
del piacere”,13. ne consegue che colui che si affida al movimento secondario
non potrà essere felice quanto colui che si abbandona al movimento
primario, ed è vigorosamente eccitato dalla passione.
Nel momento stesso in cui siamo indotti a rimarcare nella natura una
differenza, che, pur essendo una differenza soltanto di grado, sarebbe
capace di minacciare la sua unità indivisa, dobbiamo convenire che tale
differenza è sempre riassorbibile. Non vi è propriamente conflitto tra vizio e
virtù, in quanto la virtù è vizio indebolito, egoismo mascherato, rinuncia
interessata e calcolatrice, “desiderio di far rifluire su di sé una dose di
felicità più riposante di quella che offre la via del delitto”.14. Dunque,
“nell’uomo tutto è vizio”.15. Il mondo della virtù e delle leggi deriva
dall’esaurimento dello slancio vitale, da un affievolirsi dell’energia. Questa
sembra essere la spiegazione offerta dall’energetismo per giustificare la
possibilità, ancor prima che l’esistenza, di tutto ciò che almeno in apparenza
smentisce e capovolge la realtà dell’Uno. Ritmicamente, il mondo
dell’esperienza risorge dall’annientamento metafisico, le spiagge tornano a
essere visibili ogni volta che la marea dell’Uno si ritrae. Riappare il mondo
del Due, e delle relazioni. Si incrina la certezza nell’indiviso, svanisce la
serenità di coloro che si stavano immergendo nel divino flusso. Allora
l’energetista evocherà la più pacificante delle formule, la “formula magica
che cerchiamo tutti: PLURALISMO = MONISMO”.16. I nostri dubbi verranno
dissipati?
La versione di Sade non è l’unica possibile, ma non è irenica, e forse è più
veritiera di quanto lo siano le versioni ireniche dell’energetismo. Il
problema filosofico viene posto con sufficiente lucidità: come è possibile
diventare Natura, e non restare confinati in una di quelle frazioni che
limitano l’individualità di ciascuno? In quale forma di vita potrebbe
concretizzarsi la coincidentia oppositorum? È possibile de-soggettivarsi
sino a diventare una forza anonima, indistinguibile nella continuità fluida
dell’universo? L’uomo di Sade aspira alla de-soggettivazione, e in questo
processo scorge la via d’uscita dal Due, la possibilità che la sua condizione
paradossale non diventi aporetica.
La violenza e il crimine vengono scelti in quanto offrono un vertice alla
passione, e, come sappiamo, il più alto grado di violenza coincide con
l’estremo del piacere. Tuttavia il sadico non è semplicemente un individuo
che tormenta un altro individuo: l’uomo sadiano si è identificato con la
Natura stessa, la sua metamorfosi non è immaginaria né simbolica, bensì
reale, per usare i termini di Lacan; e, per riprendere quelli di Bergson, si
potrà dire che il sadico ha stabilito un “contatto diretto con la realtà”.17. È
riuscito ad abolire tutte le mediazioni; ha l’intuizione diretta della vita.
Si dirà che questo è soltanto il sogno di Sade; ma non è forse il sogno di
tutti gli energetisti? Resta il fatto che soltanto in una delle sue versioni
l’energetismo genera il sadismo; come si è già detto, qui non si intende
affibbiare l’etichetta “perversione” a una posizione filosofica, che va
analizzata e discussa filosoficamente, e non clinicamente.18. Bisognerebbe
interrogarsi sul punto di divaricazione tra la versione crudele
dell’energetismo e le versioni ireniche.19. Adesso vorremmo offrire qualche
precisazione relativamente al concretizzarsi della coincidentia oppositorum
in una forma di vita.
Gli obiettivi, convergenti, sono due: la de-soggettivazione (il diventare
Natura) e il godimento estremo. Resta inteso che il godimento riguarda
soltanto i sensi.20. Quali pratiche ne consentiranno la realizzazione? De-
soggettivarsi implica il diventare indiviso: il dissolversi di tutto ciò che è
articolazione, distinzione. Perciò tutti i gesti dovranno diventare uno: e la
precipitazione verso l’uno genera un furor incontenibile, condizione e
attuazione della metamorfosi. Un esempio, tra i più noti: “Eccomi insieme
incestuosa, adultera, sodomita, e tutto questo lo è una ragazza che è stata
sverginata soltanto oggi!”, dice Eugénie, esaltata dalla rapidità con cui sta
percorrendo la strada del vizio.21. Il principio della réunion (la sintesi
sadiana) viene continuamente riaffermato: “Sublimi effetti dell’unione tra
delitto e lussuria, quanta energia fornite al delirio delle passioni!”, dice
Dorval.22. L’unificazione esalta il soggetto, lo conduce a uno stato
parossistico in cui l’Io si dissolve, e subentra una soggettività anonima, cioè
una forza de-soggettivata. Ma l’intensità del godimento può venire
accresciuta dal linguaggio, secondo varie modalità. Anzitutto quella
organizzativa, in quanto le orge esigono ordine e coordinazione; la Natura
non è caos, la réunion non conduce al disordine: “Mettiamo un po’ d’ordine
nei nostri piaceri, si gode soltanto fissandoli”.23. In secondo luogo, la parola
si alterna al piacere fisico, per offrirne un quasi-equivalente al fine di
colmare gli intervalli, determinati dalla spossatezza: “Non basta provare
delle sensazioni, bisogna analizzarle. Talvolta saperne parlare è altrettanto
dolce che goderne, e quando ciò non è più sopportabile, è divino gettarsi
sull’altro”.24. Il linguaggio viene posto al servizio della continuità. Infine, la
parola offre ai libertini la possibilità di anticipare le sevizie che
infliggeranno alle loro vittime, contribuisce alla crescente esaltazione di chi
si erige a padrone assoluto dell’altro, dunque agisce a favore della
jouissance.

3. Obiezioni a Lacan?
Come valutare la teoria lacaniana della perversione nella prospettiva che
qui è stata delineata? La descrizione del sadismo come energetismo offre
un’integrazione, e in larga misura una conferma, alla concezione che Lacan
ha esposto nel Seminario VII, privilegiando il libello Francesi ancora uno
sforzo, e in seguito nel Kant avec Sade? Oppure la nostra prospettiva
suggerisce quantomeno la necessità di chiarire alcune delle tesi più note, e
più frequentemente ripetute? Proviamo a ricordarle rapidamente,
cominciando da quella che sembra la più importante: il perverso mira a un
godimento pieno, non intaccato dalla castrazione, cioè dalla Legge. Nel
programma della perversione il principale obiettivo sarebbe dunque
l’abolizione della legge – delle “vostre leggi”, come dice un personaggio di
Sade, cioè delle leggi sociali in cui si riconosce la cultura dell’Occidente:
non si tratta infatti di disconoscere qualunque legge, perché Natura e Legge
sono la stessa cosa, ma di interiorizzare e di condividere, in un piccolo
gruppo o in un progetto politico (come lo enuncia, per esempio, La filosofia
nel boudouir), un assetto organizzativo che si ispira direttamente a quelle
leggi, a cui la Natura stessa è vincolata. Leggi non scritte, e la cui
“traduzione” in un progetto politico dovrà risultare parsimoniosa
(“Promulghiamo poche leggi, ma buone”).25.
In una diversa formulazione, il perverso vuole abolire il grande Altro,
dunque il Simbolico, così da annullare l’azione letale del significante. Se
questa formulazione riflette correttamente il pensiero di Lacan, non meno
corretta sarà l’equivalenza tra Altro, Simbolico, significante, Legge. Il
perverso opera per “riunificare, agendo contro l’Altro (l’Altro della Legge),
il corpo del soggetto con il suo godimento […]. Si tratta di un’ambizione
che urta inevitabilmente contro l’esistenza stessa del linguaggio, la quale
rende impossibile la coincidenza di corpo e godimento perché, dove c’è
corpo umano, c’è sempre perdita, negativizzazione, scissione, distanza tra
corpo e godimento. È una formula che ritorna frequentemente in Lacan: il
corpo umano è un ‘deserto di godimento’ provocato dall’incidenza del
linguaggio sulla vita”.26. L’umanizzazione della vita implica una perdita, un
trauma: si può essere senz’altro d’accordo con Lacan, ma perché attribuire
quest’azione a un’entità chiamata “il linguaggio”, “il significante”? Perché
lasciarsi ipnotizzare dall’articolo determinativo, così utile nel riassumere
funzioni, modalità, possibilità diverse, e forse in conflitto tra loro, così
fallace, dogmatico e depistante nella misura in cui crea l’illusione di
un’identità compatta? IL linguaggio non esiste, è lo stesso Lacan ad averlo
detto, sia pure soltanto nel Seminario XX, e limitando una possibile teoria
degli stili all’alternativa tra linguaggio codificato e lalangue.27. Ma allora
non esisterà neppure IL significante, bensì soltanto modi o regimi. Che esista
un regime di significanti, in grado di svolgere un’azione letale nei confronti
della vita intesa nella sua ricchezza esuberante, traboccante di potenzialità,
è fuori discussione. E che la superstizione indotta dall’articolo
determinativo caratterizzi la visione del perverso è del tutto plausibile.
Sconcertante è che tale superstizione caratterizzi anche la psicoanalisi.
Tuttavia, è proprio il discorso di Sade a mettere in discussione
l’equivalenza tra il linguaggio e la Legge (sociale, convenzionale). Come si
è appena osservato, il linguaggio – o meglio un regime di linguaggio – può
schierarsi dalla parte del godimento, educare la tendenza al disordine,
dirigere l’orgia verso un’armoniosa combinazione dei corpi e degli organi,
in fluide variazioni, aumentare l’eccitazione anticipando gli atti che stanno
per compiersi, duplicandoli su quello schermo che la parola può diventare
in una fantasia condivisa. Quanto alla tesi secondo cui il linguaggio è un
trauma, ebbene: felix trauma, che da un lato reprime, dall’altro dischiude
possibilità di godimento sconosciute all’animale ipoteticamente rimasto al
di qua della parola.
Secondo la dottrina lacaniana “la pulsione è in sé perversa, indifferente
all’Altro, chiusa autisticamente su se stessa […]. Mentre la soddisfazione
del desiderio umano appare profondamente vincolata a quella dell’Altro
[…], la pulsione è una figura dell’Uno che sembra rendere impossibile ogni
rapporto con l’Altro poiché gode anzitutto di se stessa”.28. Nuovamente, a
partire dalle precise definizioni di Recalcati, ci si può interrogare su quello
che è uno dei concetti psicoanalitici fondamentali, e ci si può chiedere se la
teoria di Lacan non abbia rinunciato a sviluppi autorizzati, se non suggeriti,
dal pensiero di Freud. La clinica incontra la pulsione soprattutto nelle sue
manifestazioni irrigidite, negli effetti della coazione a ripetere: è forse per
questo motivo che la teoria non ha saputo valorizzare ciò che nelle pulsioni
è più essenziale della rigidità, ovvero della proprietà fenomenicamente più
diffusa? Nella Metapsicologia e altrove Freud dice che le pulsioni sono
forze plastiche.29. Alcuni anni dopo, in Al di là del principio di piacere,
metterà in risalto la tendenza a ripetere, indicandola come una proprietà
delle pulsioni. Un termine poco felice, perché né la plasticità (cioè la
flessibilità) né la rigidità sono “proprietà”, bensì modi. Certamente,
seguendo Heidegger, si potrà ammettere che in una certa misura anche i
modi sono proprietà, caratteri intramondani: la flessibilità del ramo di un
albero, di un contratto, di un mutuo bancario ecc., mostrano uno statuto che
è assai più quello di una Eigenschaft che non di una Weise zu sein. Non
solo: benché vada pensata come un modo d’essere, la rigidità si avvicina al
modo di essere proprietario assai più della flessibilità.
Che cos’è dunque una pulsione? Come può riunire determinazioni
opposte? Perché, a quali condizioni, il più flessibile diventa il più rigido?
Possiamo senza dubbio descrivere la pulsione come un conflitto tra rigidità
e flessibilità, ma questa resterebbe soprattutto una descrizione, mentre
stiamo cercando una spiegazione. La domanda ineludibile è questa: perché
la plasticità assoluta dovrebbe includere il suo opposto? Forse la concezione
energetista dei perversi aiuta a trovare una risposta: perché un’orgia ha
bisogno di venir regolamentata dalla parola? Anche la perversione ha una
sua saggezza, che troviamo enunciata sin dall’inizio nella Histoire de
Juliette (come già ricordato): un po’ d’ordine favorisce il piacere, impedisce
ai corpi di accavallarsi comicamente in quella che sarebbe semplicemente
“un’ammucchiata”. La serietà di una vera orgia è la stessa del rito.
Dunque la pulsione non è autistica, o almeno non lo è interamente: in essa
dobbiamo cogliere due movimenti, di eguale importanza. Per un verso, essa
gira intorno all’oggetto, si chiude circolarmente su di sé – immagine della
bocca che tenta di baciare se stessa. Per un altro verso, la pulsione si infila
nelle articolazioni del significante, nelle sue strettoie, nei suoi labirinti,
nelle vie che essa solo apre e dischiude. Se non penetra nel Simbolico, se
non lubrifica le sue rigidità, se non scuote gli intrecci dei significanti,
rimane un’attività sterile. La pulsione ha bisogno del significante per non
venir privata della sua plasticità, per non riversarsi nella rigidità del
molteplice.30.
Dobbiamo ancora credere che la pulsione sia una figura dell’Uno? Non
dovremmo dire, piuttosto, che l’Uno aspira – vanamente – a essere l’unica
possibile versione del Trieb?

4. Il desiderio di essere è un desiderio “senza


Legge”
C’è dell’Uno, nella pulsione. E c’è soltanto dell’Uno se la pulsione non
trova una via per non confermare tautologicamente se stessa: questa via è il
desiderio. Ecco l’alternativa che caratterizza un dibattito, all’interno del
quale la psicoanalisi freudiana e lacaniana si vede accusata di riproporre
una concezione riduttiva dell’energia pulsionale: il desiderio come
mancanza, rincorsa infinita e frustrante di un oggetto perduto, di una
completezza rispetto alla quale la Legge, il significante, agisce come un
ostacolo insormontabile. Negli ultimi anni, questo dibattito è penetrato nel
campo della psicoanalisi lacaniana, con un’accentuazione del contrasto tra
desiderio vincolato alla mancanza e godimento come volontà di pienezza
(volontà ontologicamente garantita). Sono certamente condivisibili le
critiche che Recalcati ha rivolto all’energetismo deleuziano, evidenziando
alcune confusioni, la prima delle quali riguarda la sovrapposizione tra
mancanza e privazione: in una visione non caricaturale, il desiderio è forza
generativa, e non semplicemente la rincorsa di un oggetto mancante.31.
Bisogna però chiedersi, in una prospettiva più ampia, se la psicoanalisi ha
saputo definire in maniera adeguata la potenza del desiderio. Il problema è
complesso, e qui potrà venir affrontato solo schematicamente.
La triangolazione desiderio-Legge-oggetto può venir pensata in una
versione non punitiva e sacrificale, e tuttavia: a partire dalla distinzione
freudiana tra desiderio di essere e desiderio di avere (più tecnicamente: tra
identificazione e investimento oggettuale), sembra difficile negare che la
psicoanalisi abbia privilegiato il rapporto con l’oggetto – e sia pure con
l’oggetto (a), il che costituisce evidentemente un enorme progresso rispetto
alla concezione ingenua di qualcosa che manca e che suscita attrazione. Il
desiderio di essere non è stato indagato abbastanza, vale a dire che non è
stata compresa la formidabile novità rappresentata – anche sul piano
filosofico – dal concetto di identificazione, rispetto al quale Freud, in
Psicologia delle masse e analisi dell’io, aveva offerto una prima
pionieristica sistemazione. Da questo punto di vista, anzi, il pensiero di
Lacan va giudicato un regresso rispetto a Freud. Nessuna delle versioni
lacaniane del desiderio, né quella invidiosa-aggressiva (il paradigma di
Agostino), né quella dialettica del riconoscimento (il paradigma hegeliano-
kojeviano), e ancora meno quella metonimica o il desiderio di Altrove, fa
emergere chiaramente il desiderio di essere come ciò che determina i
processi di identificazione con un modello nelle sue diverse possibilità. A
venir trascurate sono le possibilità creative, perché non vi è dubbio che alle
identificazioni alienanti e “oggettivanti” (desiderio di essere il Fallo,
desiderio di essere l’oggetto a) sia stata dedicata molta attenzione.
Analizzare il desiderio di essere significa dunque sviluppare una teoria
dell’identificazione, cioè delle relazioni che un soggetto stabilisce con
un’alterità: con un altro soggetto che svolge il ruolo di modello/rivale,
oppure con un oggetto (un soggetto-oggetto ma anche un oggetto nel senso
letterale del termine) oppure con la Cosa. Consideriamo anzitutto la prima
possibilità, di cui il divenire artista offre l’esemplificazione forse più
creativa: un soggetto assorbe tutte le tecniche di colui che ammira, si lascia
penetrare dal modello per il tempo indispensabile a una piena assimilazione,
poi va oltre, inventa se stesso. Durante questo processo viene sperimentata
l’identità nel modo della “non-coincidenza”, prima come alienazione poi
come invenzione. Sono le due forme del “non” oltrepassante.
In questa sede, mi limiterò a sottolineare un aspetto essenziale: costruire
la propria soggettività tramite il confronto agonistico con un modello
ammirato non implica un passaggio attraverso la legge. Il desiderio di
essere, nella sua forma eminente, è un desiderio senza Legge. Non senza
modelli, certamente: ma senza il filtro universalizzante della legge – e senza
un oggetto? Senza un oggetto piccolo a? L’unico “oggetto” per il desiderio
di essere è la non-coincidenza con se stessi, è il modo d’essere del “non”
oltrepassante. Il Simbolico, inteso come luogo dove si scindono e si
combattono creativamente gli stili di pensiero, è la dimensione
irrinunciabile del “non” come potenza, più affermativa di qualunque
affermazione.
Questa è la differenza fondamentale con l’energetismo, nel cui ambito
l’abolizione della Legge conduce alla suprema coincidenza. Farsi Natura,
de-soggettivarsi, godere dell’energia anonima dell’universo. Desiderio di
essere la Cosa. Era il desiderio di Sade quando chiedeva di essere
dimenticato, sepolto nell’Uno-Tutto, di cui la terra, le radici, le fronde degli
alberi sono una delle mille, indifferenti manifestazioni.32.
Ingenuità logica di Sade e dell’energetismo: svanire nella forma logica
della coincidentia oppositorum, che è una sintesi tra contrari, cioè una
possibilità contemplata e codificata dalla tradizione logica. Dunque, da un
insieme di leggi che trovano il loro fondamento nella rigidità. Ciò che
sfugge agli energetisti è che la logica separativa e la logica anti-separativa
(nella versione dell’immediatezza) sono il recto e il verso di un medesimo
foglio, dove il pensiero rigido non cessa di scriversi, alternativamente.33.

1 D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, UGE, Paris 1976, vol. II, parte IV, p. 455; trad. a cura di G.P.
Brega, Storia di Juliette, in Opere scelte, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 260 e 261.
2 Ivi, p. 462; trad. p. 263.
3 Ibidem.
4 Ivi, pp. 462-463; trad. p. 264.
5 Ivi, p. 460; trad. p. 262.
6 Ivi, p. 463; trad. p. 264.
7 Ivi, p. 462; trad. p. 263.
8 Ivi, vol. I, parte I, p. 150; trad. p. 177.
9 Ivi, p. 151; trad. p. 177.
10 Ivi, p. 182; trad. p. 186. La traduzione italiana (“Che mancanza di vivezza!”) rinuncia a un
termine chiave di Sade, cioè mouvement.
11 Ivi, pp. 184-185; trad. p. 188.
12 Ivi, p. 184; trad. p. 187.
13 Ivi, p. 187; trad. p. 189.
14 Ivi, p. 185; trad. p. 188.
15 “Tout est donc vice dans l’homme” (ibidem).
16 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), trad. di G. Passerone,
rivista da P. Vignola, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 60.
17 H. Bergson, Pensiero e movimento (1938), trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000, p. 21.
18 In proposito, condivido le riflessioni di Federico Leoni, “Un altro Uno. Lacan, la legge, la
perversione”, in A. Campo (a cura di), L’Uno perverso, Textus, L’Aquila 2017.
19 Per motivi di spazio questo problema non potrà venire discusso come meriterebbe. Mi limito a
un’indicazione: l’aggressività del sadico trova la sua giustificazione teorica nell’espressione “Ho il
diritto di esigere”, cioè nel principio di parità violenta a cui egli si sottomette, pretendendo che
chiunque vi si debba sottomettere.
20 “Il n’y a de véritable félicité que dans les sens” (D.A.F. de Sade, Histoire de Juliette, cit., p.
188).
21 Id., La filosofia nel boudoir (1795), trad. di C. Rendina, Newton Compton, Roma 1974, p. 301.
22 Id., Histoire de Juliette, cit., vol. I, p. 150; trad. p. 177.
23 Ivi, p. 23.
24 Ivi, pp. 87-88.
25 D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 271.
26 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina,
Milano 2016, pp. 419-420. Cfr. anche F. Lolli, Le perversioni nella clinica psicoanalitica, Poiesis,
Alberobello (Bari) 2010.
27 J. Lacan, Seminario XX. Ancora (1972-1973), trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 139.
28 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, cit., p. 396.
29 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima serie di lezioni (1915-1917), in Opere, vol. VIII,
Bollati Boringhieri, Torino 1976.
30 Un esempio, che riguarda l’insufficienza mentale grave, dove il soggetto “può mangiare di tutto,
fino a scoppiare. Non importa ciò che mangia (frammenti di vetro, chiodi, pezzi di plastica, rifiuti
ecc.). Ciò che conta è l’attività del ‘mangiare’, dell’inghiottire, dell’ingurgitare – in qualunque modo
e con qualunque mezzo” (F. Lolli, “L’Uno è la differenza”, in A. Campo [a cura di], L’Uno perverso,
cit., p. 169). L’assenza di selezione contrassegna la perdita di flessibilità.
31 Per una sintesi delle critiche a Deleuze, cfr. M. Recalcati, “L’illusione della perversione”, in A.
Campo (a cura di), L’Uno perverso, cit.
32 Vale la pena di ricordare il desiderio espresso da Sade nel suo testamento, dove chiede di essere
sepolto “nel folto del primo bosco ceduo” posto a destra della selva della Malmaison per chi viene
dall’antico castello, e aggiunge che “una volta ricoperta la fossa, vi siano subito seminate della
ghiande, affinché, ricresciute le piante sulla fossa e ricosti-
tuitosi il bosco ceduo così com’era stato prima, le tracce della sua tomba scompaiano dalla faccia
della terra” (citato in G. Lély, Vie du marquis de Sade, Pauvert, Paris 1965, p. 690).
33 Per quanto riguarda la prospettiva qui adottata, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, La ragione
flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013 e Perché bisogna
riscrivere Lacan. A partire dalla letteratura (cioè dalla flessibilità), “Enthymema” (rivista online),
15, 2016.
Giovanni Bottiroli insegna Teoria della letteratura ed Estetica all’Università di Bergamo.
Immanenza? Etica?
FELICE CIMATTI

Alla fin fine, etologia è un anagramma di teologia.1.

Provare a immaginare un’etica dell’immanenza sembra porre una sfida,


prima ancora che filosofica, logica. In effetti qualunque etica implica un
principio o una norma, e qualcuno che esplicitamente e volontariamente
prenda posizione rispetto a quella norma: l’etica, scrive Moore, riguarda
“what is good”.2. Più specificamente, “Ethics is undoubtedly concerned with
the question what good conduct is”.3. Una condotta può essere buona solo se
avrebbe potuto anche essere cattiva. Quindi non c’è etica senza qualcuno –
tipicamente, un soggetto – in grado di scegliere. Il soggetto è, per
definizione, qualcuno libero di scegliere. Tuttavia il mondo fisico non è
retto dalla libertà, bensì da connessioni causali. Il soggetto, allora, può
essere un soggetto solo a patto di non essere – in quanto soggetto –
un’entità come le altre entità fisiche del mondo. Non c’è etica senza questo
dualismo. Al contrario, immanenza significa che non c’è nessun dualismo,
che l’ontologia è piatta, in particolare non ci sono né soggetti né norme. Il
soggetto, infatti, è un soggetto solo a condizione di essere qualcos’altro
rispetto al mondo. Il soggetto, qualunque sia la sua caratterizzazione, è
trascendente rispetto al mondo. Ma allora, questo è il nocciolo del
problema, un’etica dell’immanenza è impossibile per definizione.
Sembrerebbe che o c’è l’etica, e quindi soggetto e norma, oppure c’è
l’immanenza, senza soggetto e norme. Etica implica trascendenza. Cos’è
allora un’etica dell’immanenza? Tuttavia, come proveremo ad argomentare,
“immanenza” non è propriamente un sinonimo di “mondo”. In realtà
“immanenza” significa piuttosto il collasso del dualismo fra soggetto e
mondo.
Ma perché il soggetto, in qualunque accezione, “sporge”, e non può non
sporgere, rispetto al piano del mondo? La formulazione più chiara, e
conseguente, di questo radicale dualismo la si trova, probabilmente, nella
Critica della ragion pratica. Il punto di partenza, evidente ma anche
indimostrabile, è il Factum dell’“autonomia del principio fondamentale
della moralità, per mezzo del quale essa determina la volontà dell’azione”.4.
Ci può essere moralità, solo se questa radicale e assiomatica “autonomia
[…] determina la volontà dell’azione”. Qui “azione” va intesa come termine
tecnico: un comportamento è un’azione se alla sua base c’è questa
fondamentale “autonomia”. Questa non è una descrizione di che cosa è
un’azione morale: è la sua definizione. Non si tratta di capire se qualcosa
del genere esista realmente nel mondo; il punto è che senza azione in questo
senso preciso, non può esserci moralità.5. Vediamo in che consiste, per Kant,
questo “principio fondamentale della moralità”:

Tale fatto è inscindibilmente connesso con la coscienza della libertà della


volontà, anzi fa tutt’uno con essa; e per ciò la volontà di un essere
razionale che, in quanto fa parte del mondo sensibile, si riconosce, al pari
delle altre cause efficienti, sottoposto alle leggi della causalità, ha nel
pratico, nello stesso tempo ma da un altro lato, cioè come essere in sé,
coscienza della sua esistenza come tale da poter essere determinata da un
ordine intelligibile delle cose, non, in verità, mediante un’intuizione
particolare di sé stessa, ma secondo leggi dinamiche che ne possono
determinare la causalità nel mondo sensibile; […] la libertà, se ci è
attribuita, ci trasporta in un ordine intelligibile delle cose.6.

La “libertà” non è una constatazione empirica; al contrario, la libertà è il


fatto della moralità, ossia l’assioma (per definizione indimostrabile) della
moralità. Ma se c’è la libertà ne segue che l’agente morale, qualunque sia la
sua realizzazione materiale, si colloca al di fuori del mondo sensibile, cioè
del mondo delle cause, ossia del mondo senza morale. La morale non è,
quanto ai suoi presupposti, cosa naturale: “Al contrario, la legge morale,
benché non ne dia alcuna veduta, ci pone di fronte a un fatto assolutamente
inspiegabile mediante i dati del mondo sensibile e l’intero ambito dell’uso
teoretico della nostra ragione, un fatto che annuncia un mondo
dell’intelletto puro, anzi lo determina anche positivamente e ce ne fa
conoscere qualcosa, cioè una legge”.7. Il fatto della morale è “assolutamente
inspiegabile”, tuttavia non cessa di essere un fatto, cioè un assioma. La
morale, in fondo, non è altro che questo assioma, tutto il resto ne segue.
Accettare questo fatto comporta, e così arriviamo all’insormontabile
problema del dualismo, che il mondo morale è radicalmente diverso dal
mondo naturale. In questo senso l’etica è radicalmente innaturale:

Questa legge deve dare al mondo dei sensi in quanto natura sensibile (per
quanto concerne gli esseri razionali) la forma di un mondo dell’intelletto,
cioè di una natura soprasensibile, senza tuttavia sconvolgerne il
meccanismo. Ora la natura nel senso più generale è l’esistenza delle cose
sotto leggi. La natura sensibile degli esseri razionali in generale è
l’esistenza di questi esseri sotto leggi empiricamente condizionate; il che,
per la ragione, è eteronomia. La natura soprasensibile di questi stessi
esseri è, al contrario, la loro esistenza secondo leggi indipen-
denti da ogni condizione empirica e quindi proprie all’autonomia della
ragion pura. E, poiché le leggi secondo le quali l’esistenza delle cose
dipende dalla conoscenza sono pratiche, la natura soprasensibile, in
quanto possiamo formarcene un concetto, è semplicemente una natura
sotto l’autonomia della ragion pratica. Ma la legge di questa autonomia è
la legge morale che è dunque la legge fondamentale di una natura
soprasensibile e di un mondo dell’intelletto puro, la cui copia deve
esistere nel mondo sensibile, senza però pregiudizio per le leggi di esso.8.

La legge morale si può trovare solo in un “mondo soprasensibile”, cioè


appunto non si trova nel mondo “sensibile”. Qui non interessa quanto
questo approccio sia compatibile con il metodo scientifico, il punto è che
morale significa e implica libertà, e la libertà significa e implica una
“natura soprasensibile”. Il dualismo non è un sottoprodotto sgradevole del
punto di vista morale; al contrario, il dualismo è il fatto stesso della
moralità: “La differenza fra le leggi di una natura a cui la volontà è
soggetta e quelle di una natura che è soggetta alla volontà (in ordine al
rapporto fra questa volontà e le sue azioni libere) consiste nel fatto che,
nella prima, gli oggetti debbono essere cause delle rappresentazioni che
determinano la volontà, mentre nella seconda la volontà deve essere causa
degli oggetti, sicché la causalità di essa ha il suo motivo determinante
esclusivamente nella facoltà razionale pura”.9. O sono gli oggetti del mondo
che sono “cause” della volontà, che quindi non è libera, oppure è la volontà
che è “causa”. La libertà si pone al di fuori del mondo delle cause, cioè del
mondo naturale; quindi la libertà non è di questo mondo. Il dualismo è
inevitabile.
Un dualismo che è imperniato sulla contrapposizione fra il mondo delle
“cause” da un lato, e quell’essere razionale che non è altro, in fondo, che
pura libertà dall’altro. Kant non dice che cosa sia questo ente libero. Anzi,
scrive espressamente che propriamente non è un qualcosa, perché se fosse
una cosa cadrebbe sotto la legislazione a cui sottostanno tutte le cose
materiali. In effetti, facendo del “concetto della libertà il principio
regolativo della ragione […] non conosco per nulla quale sia l’oggetto a cui
tale libertà è attribuita”; in realtà così facendo, prosegue Kant, “lascio libero
[…] il posto vuoto per essa, cioè l’intelligibile”.10. Il soggetto libero
“occupa” quel “posto vuoto” perché, in fondo, è anch’esso vuoto, nel senso
che non può essere qualcosa. Questo curioso ente, infine, è il soggetto.

Ma lo stesso soggetto, che è peraltro consapevole di sé come cosa in sé,


considera anche la propria esistenza in quanto essa non è sottoposta alle
condizioni del tempo e guarda a sé stesso come determinabile soltanto in
base a leggi che egli stesso si dà mediante la ragione; in questa sua
esistenza, niente precede per lui la determinazione della propria volontà,
ma ogni azione, e in generale ogni determinazione della sua esistenza, che
muta in conformità al senso interno, e la stessa intera successione della
sua esistenza in quanto essere sensibile devono esser considerati nella
coscienza della sua esistenza intelligibile semplicemente come
conseguenza, mai come motivo determinante, della sua causalità in
quanto noumeno.11.

Il dualismo dell’etica, pertanto, è ineliminabile. Al contrario, la condizione


dell’immanenza è radicalmente anti-dualistica. Per questa ragione un’etica
dell’immanenza è difficile anche solo da formulare. Tuttavia è proprio di
questa etica che sembra esserci bisogno, come di quell’unica per quanto
paradossale etica che non rimane intrappolata nel dualismo fra causa e
ragione, fra vita e legge, fra corpo e mente. In effetti la questione del corpo,
quando si ragiona di immanenza, è quella centrale. Perché il corpo non può
stare, evidentemente, nella “natura soprasensibile”. Il corpo sta qui, fra le
cose del mondo. Tuttavia il corpo, proprio perché è un ente mondano,
sembra escludere l’etica. Per questa ragione, prima di provare ad arrivare
all’immanenza, sarà necessario passare per i due autori, Sade e Sacher-
Masoch, che del corpo e delle sue voglie hanno proposto più e meglio di
chiunque altro una rappresentazione del tutto esplicita e crudele (perché il
corpo è crudele in modo freddo, senza etica appunto). Si tratta di capire se il
corpo sadico, oppure quello masochistico, possono “incarnare” quell’etica
immanente di cui siamo alla ricerca.
Nella Filosofia nel boudoir a un certo punto madame de Saint-Ange
presenta alla giovane allieva Eugénie quella che, nel sistema di Sade,
potrebbe rappresentare l’equivalente di una “massima” morale. In questo
paradosso – colto precisamente da Lacan che infatti vede in Sade “la verità
della Critica” della ragion pratica12. – è racchiusa forse una prima risposta
al nostro interrogativo su quanto sia effettivamente immanente l’etica
implicita nei lavori di Sade. La “massima”, che è molto semplice e diretta,
sembra di primo acchito non implicare nessuna forma di trascendenza:
“Fotti, in una parola, fotti, è per questo che sei stata messa al mondo. Non
porre alcun limite ai tuoi piaceri all’infuori di quello delle tue forze o della
tua volontà; nessuna eccezione di luogo, di tempo e di persona, tutte le ore,
tutti i posti, tutti gli uomini, devono servire alle tue voluttà; la continenza è
una virtù impossibile, di cui la natura, violata nei suoi diritti, ci punisce con
mille mali”.13. Tuttavia già la forma linguistica dell’imperativo rimanda a
una sorta di “ordine”, anche se si tratta di un “ordine” impartito non da
un’autorità trascendente (per esempio la Legge, o la Chiesa) bensì
direttamente dalla natura. Ora, un “ordine” ha senso solo se esiste la
possibilità di ubbidire, o disubbidire, a quello stesso “ordine”. Più in
particolare, è l’ordine stesso che implica e presuppone l’esistenza di
qualcuno che può, o no, ubbidirgli. L’ordine, cioè, non è che l’altra faccia di
qualcuno dotato della “volontà” di ascoltarlo e seguirlo, o disattenderlo. La
massima “fotti”, allora, non è logicamente così diversa da quella kantiana:
“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello
stesso modo come principio di una legislazione universale”.14. Nonostante la
diversità del “contenuto” della massima, in entrambi i casi quello che viene
indicato da un lato non è un’azione particolare, bensì un principio
“universale”; dall’altro la massima si appella alla “volontà”. Lo stesso Kant,
infatti, precisa che si è in presenza di “principi pratici […] soggettivi, o
massime” quando “il soggetto considera la condizione come valida soltanto
per la sua volontà”.15. Da questo punto di vista la massima “fotti”, non
impone alla “volontà” nulla di particolare o di empiricamente determinato,
proprio perché si tratta di un “ordine” che va applicato sempre e comunque.
Si dirà che per Sade è la “natura” che “ordina” al soggetto di soddisfare le
sue “voluttà”. Che sia la Natura o la Legge non fa, evidentemente, nessuna
differenza. In entrambi i casi siamo in presenza di un’istanza trascendente.
In effetti nel “sistema” di Sade la natura occupa una posizione affatto
sovraordinata rispetto alla “volontà” corporea. In Justine, ovvero le
disavventure della virtù, il conte di Bressac, spiega per esempio alla
sventurata Thérese perché l’omicidio non
sia – dal punto di vista della natura – un crimine: “Il primo crimine –
distruggere un nostro simile – è assolutamente chimerico […]. Il potere di
distruggere non è accordato all’uomo; tutt’al più, può variare le forme, non
può annientarle; ora, ogni forma è uguale, agli occhi della natura; niente che
si perda, nel crogiuolo immenso dove avvengono le sue mutazioni; tutte le
porzioni di materia che vi cadono, incessantemente ne sgorgano sotto altre
parvenze; quali che siano i nostri comportamenti, non ve n’è uno che
oltraggi la natura, non uno che la offenda”.16. Che quello che per un essere
umano è un “crimine” non lo sia dal punto di vista della natura, infatti, non
cambia la natura etica del problema. La “volontà” che “ubbidisce” alla
natura non è così diversa, in fondo, da quella che ubbidisce al fischietto del
vigile urbano. Il problema non è chi o perché comanda, ma il fatto che ogni
comando faccia appello a una “volontà”, cioè a un soggetto. E un soggetto,
se è un soggetto dotato di “volontà”, è un soggetto kantiano, quindi
qualcuno che si muove – lo voglia o no, lo sappia o no – in una “natura
soprasensibile”. Da questo punto di vista la “liberazione” proposta da tanti
personaggi di Sade non potrebbe nemmeno essere proposta se non
presupponesse qualcuno – cioè una “volontà” – capace di accogliere questa
stessa possibilità. Così all’interno di un altro lungo passaggio “teorico” di
Justine, Clément dice a Thérese che “l’egoismo è la prima legge della
natura; lo è soprattutto nei desideri lubrichi. La natura, questa madre
celeste, desidera che esso sia il solo nostro movente”.17. Se è la natura che
comanda l’egoismo, questo, evidentemente, non è più “egoismo”, perché un
egoismo che non può essere anche altruista non è nemmeno egoista.
Tuttavia più avanti lo stesso personaggio sembra contraddirsi, quando
sostiene che “nessuna politica incatena, con le sue costrizioni, i miei
desideri …”.18. In realtà la contraddizione è solo apparente, perché Sade non
rinuncia mai ad appellarsi a una “volontà”. Una volontà che può così
disubbidire alla legge come anche ubbidire alla natura; in entrambi i casi si
tratta di scelte sovrane del soggetto.19.
D’altronde che Sade non esca dal dualismo etico lo dice espressamente
madame de Saint-Ange quando, sempre parlando a Eugénie, le ricorda che
il corpo deve essere sempre al servizio della “volontà” di godimento: “Fotti,
Eugénie, fotti dunque, mio caro angelo, il tuo corpo è tuo, solo tuo, non ci
sei che tu sola al mondo che hai il diritto di goderne e di farne godere a chi
ti piace”.20. Il dualismo fra corpo e “volontà” è il primo e fondamentale
dualismo.21. Per Sade non è il corpo che impersonalmente gode; è la
“volontà” del soggetto che impone al corpo il proprio godimento. Il corpo è
letteralmente lo schiavo della mente. Da questo punto di vista Le centoventi
giornate di Sodoma mostrano tanto il godimento sadico del potere, quanto il
godimento sadico della “volontà” sul corpo. Infatti per i quattro libertini il
corpo della vittima è del tutto simile a quello dell’animale. Lo dice
espressamente il duca di Blangis, quando spiega alle vittime quale sarà la
loro condizione: “Non vi consideriamo affatto come crea-
ture umane, ma soltanto come animali, nutriti unicamente per servire, e che
verranno ammazzati di botte se deluderanno questa aspettativa”.22.
L’animale è, da un punto di vista etico, il contrario del libero soggetto
dotato di volontà. Non è un caso che anche per Kant gli animali, come i
vegetali, sono nella completa disponibilità degli esseri umani:

In un paese vi sono vari prodotti naturali che tuttavia devono essere visti,
considerata l’abbondanza di una certa specie, anche come manufatti
(artefacta) dello Stato […]. Così come dei vegetali (per esempio delle
patate) o degli animali da allevamento che […] sono opera degli uomini,
si può dire che li si può usare, consumare e distruggere (far morire), allo
stesso modo sembra si possa dire anche del potere supremo dello Stato, il
Sovrano, che ha il diritto, nei confronti dei sudditi, che nella loro grande
quantità sono un suo prodotto, di condurli in guerra come a caccia e su un
campo di battaglia come a una festa campestre.23.
L’unico principio “etico” di Sade è quello di privilegiare in ogni caso e a
ogni costo la volontà del singolo soggetto. In questo senso si può ancora
parlare di “etica”, a proposito di Sade, perché comunque mantiene una
caratteristica indispensabile del campo etico, la volontà del soggetto (ché i
soggetti, come nel caso delle Centoventi giornate di Sodoma, siano
pochissimi rispetto al grande numero delle loro vittime, non toglie nulla al
carattere perversamente “etico” della sua filosofia). Una volontà che, per
realizzare le proprie voglie, deve sbarazzarsi di ogni altra norma che non sia
quella raccolta nella massima brutale del “fotti”. Ogni etica si muove nella
tensione fra norma e soggetto; Sade privilegia il polo della volontà
individuale, a dispetto di quella della collettività. Ma siccome non c’è
soggetto senza norma (così come non esiste norma senza soggetto),
l’egoistico e violento imperativo “fotti” non smette per questo di essere un
gesto etico. Nella Filosofia nel boudoir è il cinico e spietato Dolmancé che
spiega a Eugénie perché anche il crimine, in fondo, rientri nel campo etico:
“EUGÉNIE. Ma se tutti gli errori che voi esaltate sono nella natura, perché le
leggi vi si oppongono? DOLMANCÉ. Perché le leggi non sono fatte per il
particolare, ma per il generale, cosa che le mette in perpetua contraddizione
con l’interesse, dato che l’interesse personale è sempre in contrasto con
quello generale. Ma le leggi, buone per la società, sono pessime per
l’individuo”.24. Il paradosso di questa affermazione consiste nel fatto che
l’individuo può esserci, in quanto volontà, solo perché esiste quella stessa
norma astratta e generale che limita le sue voglie. Il factum dell’“autonomia
del principio fondamentale della moralità”, come scrive Kant, in realtà non
sarebbe un fatto se non ci fosse già una norma morale che presuppone e
istituisce quello stesso fatto. Per questa ragione, in Justine, “l’anima del
libertino” viene presentata come “l’enigma della natura”.25. Come la volontà
è un factum, cioè un assioma indimostrabile, così il libertino, cioè la pura
volontà di godere, è un “mistero”, cioè appunto un assioma che sfugge a
ogni definizione o spiegazione.
L’operazione di Sacher-Masoch, invece, è opposta: non si tratta più di
affermare la volontà individuale contro la norma politica e morale, bensì di
sottomettervela (ma volontariamente, come vedremo), per quanto questa
stessa norma possa essere arbitraria e insensata. E così Venere in pelliccia si
apre con un significativo “mi trovavo in dolce compagnia”.26. Un aggettivo,
“dolce”, che in Sade non sarebbe mai potuto occorrere, perché non c’è
alcuna dolcezza nel suo mondo spietato di godimento autistico: “È dalla
natura”, dice il duca di Blangis, “che ho ricevuto i miei istinti […] tra le sue
mani sono solo una macchina che essa muove a suo piacimento”.27. Sade
gioca con questa ambiguità: da un lato la volontà è “naturale”, dall’altro,
tuttavia, tutta la sua filosofia si basa sull’innaturalità del desiderio, ché i
“libertini non hanno altro dio che la loro libidine, altra legge che la loro
depravazione, altro freno che la loro dissolutezza, dei criminali senza dio,
senza principi, senza religione”.28. Una natura distruttiva, che quindi
trascina con sé il volere degli uomini: “Le nostre distruzioni eccitano il suo
potere e mantengono viva la sua energia […] che importa alla sua mano,
votata a una creazione perenne, se la carne che forma un individuo bipede si
riproduce domani con le parvenze di mille insetti diversi?”.29. In fondo il
libertino di Sade agisce sì sotto spinta della natura, ma perché è giusto
seguire la natura. In questo senso il suo gesto rimane un gesto, benché in
modo rovesciato, etico. Questo significa, tuttavia, che il sadico vuole il male
che sostiene di non potere non compiere.
Ma la volontà è al centro anche del mondo di Sacher-Masoch: “Vuol
essere il mio schiavo?”30. chiede Wanda Dunajew a Severin. Mentre i
libertini di Sade costringono le loro vittime alla schiavitù, la Venere in
pelliccia chiede alla sua vittima di accettare volontariamente di diventare il
suo schiavo. Allo stesso tempo Severin cerca nella sua “padrona” una figura
trascendente: “‘Io posso amare solo ciò che è al di sopra di me’, proseguii,
‘una donna che mi soggioghi con la bellezza, con il temperamento, lo
spirito, la forza di volontà, che diventi la mia despota’”.31. D’altronde lo
stesso Severin è un uomo “sovrasensuale”,32. cioè appunto qualcuno che
non cerca una donna in carne e ossa, bensì un ruolo, una posizione in uno
schema formale del desiderio. Per questo ha bisogno di un contratto
esplicito: “‘Ti permetterò di rimanermi accanto come schiavo’”, dice la
Venere in pelliccia, “‘ma io so che alla prima occasione ti ribellerai di
nuovo, per questo devi essere il mio schiavo realmente, e nel senso più
autentico della parola. Devi firmarmi un contratto, offrirmi un mezzo per
domarti con la forza, in caso di necessità, e per costringerti all’obbedienza.
Vuoi?’”.33. La differenza con Sade è radicale: la vittima, per Sacher-Masoch,
vuole essere vittima. Allo stesso tempo la vittima vuole che questa
condizione venga stabilita in modo esplicito, vuole appunto un “contratto”.
D’altronde è quello che riporta anche il contratto che lo stesso Sacher-
Masoch stipulò realmente con Fanny von Pistor: “Il signor Leopold von
Sacher-Masoch si impegna con la propria parola d’onore a essere lo schiavo
della signora von Pistor e a obbedire incondizionatamente a ogni suo
desiderio e ogni suo ordine”.34. È il contratto – cioè la norma “etica” – a
tenere legato lo “schiavo” alla Venere in pelliccia. E infatti è con un gesto
libero e volontario che Severin/Sacher-Masoch si impegna a diventare lo
schiavo della “dea”35. a cui ha deciso di legarsi senza alcuna restrizione:
“‘Deciditi dunque, vuoi essere il mio schiavo?’. ‘Sì, lo voglio’”.36.
Se Sade privilegia il polo etico della volontà, rispetto a quello della
norma, Sacher-Masoch compie l’operazione opposta, mettendo l’accento su
quest’ultimo, a tutto svantaggio del primo. In entrambi i casi, tuttavia, si
rimane nel campo etico, cioè nel campo della trascendenza. Perché in
entrambi i casi è la “volontà”, sadica o masochistica, che fonda le azioni dei
loro personaggi. Per Sade la volontà di assecondare la natura, per Sacher-
Masoch quella di ubbidire a un contratto liberamente stipulato. In effetti che
la norma sia “naturale” o artificiale non ne cambia il carattere essenziale:
c’è norma solo se c’è una libera volontà che agisce (o no) come la norma
stabilisce che si debba agire. Da questo punto di vista Blangis e Severin
sono figure etiche allo stesso titolo, per quanto possano essere
incomprensibili le norme a cui “ubbidiscono”. A ragione Deleuze pone il
contratto al centro sia della posizione del sadico che di quella del
masochista: “Il masochista elabora dei contratti, mentre il sadico aborre e
distrugge qualsiasi contratto”.37. In entrambi i casi è il contratto, e quindi la
libera volontà che presuppone e implica, a occupare il centro della scena:
contratto da stipulare e contratto da rigettare. Senza contratto, ossia senza
una proposizione che si autopresenta come universale, non può esserci il
masochista, ma nemmeno il sadico: “Considerate il paradosso”, osserva
Lacan a proposito di Sade, “perché questa massima [quella espressa
dall’imperativo della Saint-Ange, ‘fotti’, rivolto a Eugénie] faccia legge
bisogna e basta che […] possa essere ritenuta come universale a filo e
diritto di logica”.38. Ecco allora che anche il sadico, in realtà, agisce in base
a una massima universale: “‘Ho il diritto di godere del tuo corpo […] e
questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nel
capriccio delle esazioni ch’io possa avere il gusto di appagare’”.39. È
Deleuze che coglie la centralità della Legge sia per la figura del sadico che
per quella del masochista:
Partendo dall’idea [kantiana] che la legge non può essere fondata sul
Bene, ma deve basarsi sulla sua forma, l’eroe sadico inventa un nuovo
modo di risalire dalla legge a un principio superiore: ma questo principio
è l’elemento informale di una natura prima che distrugge le leggi.
Partendo dall’altra scoperta moderna, che la legge alimenta la
colpevolezza di colui che vi ubbidisce, l’eroe masochista inventa un
nuovo modo di discendere dalla legge alle conseguenze, egli “aggira” la
colpevolezza, facendo del castigo una condizione che rende possibile il
piacere proibito. In tal modo il masochista non rovescia in misura minore
la legge, sebbene lo faccia in un modo diverso.40.
Sade e Sacher-Masoch mostrano come non sia sufficiente, per immaginare
una condizione di immanenza, stravolgere la legge da un lato, oppure
costruirsi una propria legge perversa dall’altro. La legge non scompare con
la sua soppressione, perché rimane sempre la volontà, e quindi il soggetto,
che è inseparabile dalla legge. Ma finché esiste un soggetto non può esserci
un’etica dell’immanenza, perché immanenza in fondo non vuol dire altro
che non c’è più soggetto né volontà. Immanenza significa: non c’è spazio
per l’etica. Tuttavia se Sade e Sacher-Masoch non si sbarazzano della legge,
e quindi del soggetto, allo stesso tempo indicano che c’è un godimento
insensato al fondo dell’umano. Una insensatezza che può voler dire due
cose molto diverse; un comportamento è insensato perché è illogico, perché
non rispetta la razionalità. Quindi un’insensatezza che in realtà non è che il
rovesciamento del sensato. L’altra possibilità è che si tratti di un insensato
che non ha nulla a che fare con il senso e il ragionamento. È in questa
seconda direzione che va intesa l’insensatezza di Sade e Sacher-Masoch,
muovendo anche oltre il loro stesso pensiero. Perché in fondo quello che
mostrano è come il godimento del corpo sia, al suo fondo, del tutto privo di
senso. D’altronde è questa la scoperta freudiana, la sessualità infantile
“perversa polimorfa”, che mostra la “predisposizione verso perversioni di
qualsiasi tipo [che] è una caratteristica umana generale e originaria”.41. Si
potrebbe sostenere che Sade e Sacher-Masoch mostrano piuttosto quello
che diventa questa natura perversa originaria, quando è posta al servizio del
doppio dispositivo trascendente del soggetto e della norma.
Sade e Sacher-Masoch mostrano, o almeno lasciano intravvedere,
l’insensatezza del godimento corporeo, il fatto che è un godimento fuori
senso. Fuori senso significa oltre il soggetto e la norma. Quindi oltre l’etica.
Ma questo non significa che oltre l’etica ci sia un caos insensato. Un mondo
senza senso non è un mondo insensato.42. Deleuze chiama questo spazio
“immanenza assoluta”,43. dove l’aggettivo “assoluta” mostra che si tratta di
un’immanenza che non è il contrario della trascendenza, bensì il venire
meno di questa stessa distinzione. Per questo “la pura immanenza è UNA
44.
VITA, e nient’altro”. Una vita – e la precisazione è pertinente, visto che ci
si muove nel campo che si estende oltre l’etica – che non è irrazionale più
di quanto sia soggettiva. Si tratta di una vita, che è una vita del corpo,
“indefinita [che] non ha momenti, per quanto vicini siano gli uni agli altri,
ma soltanto frat-tempi, fra-momenti”.45. Solo un corpo perverso e polimorfo
può avventurarsi in una vita come questa. Un corpo, cioè, che non teme gli
incontri con gli altri corpi e con il mondo. Deleuze propone, non a caso se
torniamo alla sessualità infantile secondo Freud, l’esempio del neonato
come corpo dell’immanenza: “I neonati si somigliano tutti e non
possiedono affatto individualità; ma hanno singolarità, un sorriso, un gesto,
una smorfia, eventi che non sono caratteri soggettivi. I neonati sono
attraversati da una vita immanente che è pura potenza, e anche beatitudine
attraverso le sofferenze e le debolezze”.46. Ci sono “buoni” incontri, come
incontri “cattivi”, per una vita del genere. Ma non sono questi corpi che
fanno queste esperienze, è piuttosto la “vita immanente” che li attraversa. È
questo il punto, una vita che partecipa della vita, al suo stesso livello:

In un’etica […] la potenza è una quantità differenziale. Il discorso etico


non riguarda le essenze […], ma prende in considerazione solo la potenza,
ossia le azioni e le passioni di cui si è capaci; non: “Cos’è?”, ma: “Cosa è
capace di fare o sostenere?”. Niente più essenze generali, solo
singolarizzazioni. È un’etica che non ci dice niente in anticipo […]. Un
pesce non può avere le specifiche possibilità di un altro pesce. Tutto qui.
La quantità di potenza cambia infinitamente negli enti.47.
Questa non è più l’etica a cui siamo abituati, ma non è nemmeno
un’etologia – intesa come una specie di etica animale – perché il corpo
etologico (cioè puramente animale) non è altro che il rovescio di quello
teologico (cioè trascendente). Ma è un’etica, infine, perché ancora accoglie
al suo interno delle differenze. Un’etica che non è altro, infine, che “un
campo enorme di esplorazione, di sperimentazioni, dove l’essenza non
c’entra più nulla”.48. Soprattutto un’etica senza volontà, perché “la potenza
non è ciò che voglio, è ciò che ho: ho questa potenza, o quest’altra […].
Fare della potenza l’oggetto di una volontà è un controsenso. Vale
esattamente l’opposto: sarà in funzione della potenza che possiedo che
potrò volere questo o quello. […] Si tratta sempre della stessa questione:
cosa può un corpo?”.49.

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all’Università
della Calabria.
1 A. de Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa (2014), trad. di P. Arlorio,
Einaudi, Torino 2015 p. 75.
2 G. Moore, Principia ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, p. 2.
3 Ibidem.
4 I. Kant, Critica della ragion pratica (1797), in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a
cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, p. 180.
5 Da questo punto di vista tutto il gran discutere di “naturalizzazione” dell’etica non cambia i
termini della questione posta da Kant; cfr. F. de Waal, Good Natured: The Origins of Right and
Wrong in Humans and Other Animals, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996; M.
Hauser, Moral Minds: How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Little,
Brown, New York 2006. O la morale umana a un certo punto si emancipa dalle sue basi biologiche,
oppure non si può parlare di morale umana.
6 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 180.
7 Ivi, p. 181.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 183.
10 Ivi, p. 187.
11 Ivi, p. 241.
12 J. Lacan, “Kant con Sade” (1963), in Scritti, vol. II, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino 2002, p.
765.
13 D.A.F. de Sade, Opere, a cura di P. Caruso, Mondadori, Milano 2006, p. 67.
14 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 167.
15 Ivi, p. 153.
16 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475.
17 Ivi, p. 570.
18 Ivi, p. 577.
19 Secondo la celebre interpretazione di Bataille; cfr. G. Bataille, L’érotisme, Minuit, Paris 1957, in
particolare lo studio “L’homme souverain de Sade”. Da questo punto di vista neanche l’uomo
sovrano sfugge all’etica.
20 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 68.
21 Cfr. R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014; F. Cimatti, Cose. Per una filosofia
del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
22 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma (1785), trad. di G. De Col, ES, Milano 1991,
p. 58.
23 I. Kant, Metafisica dei costumi (1797), a cura di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2006, p.
301.
24 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 144.
25 Ivi, p. 587.
26 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia (1878), trad. di G. De Angelis e M.T. Ferrari,
Mondadori, Milano 2013, p. 9.
27 D.A.F. de Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, cit., p. 17.
28 Ivi, p. 57.
29 D.A.F. de Sade, Opere, cit., p. 475.
30 L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, cit., p. 34.
31 Ivi, pp. 45-46.
32 Ivi, p. 46.
33 Ivi, p. 110.
34 Si tratta del primo contratto stipulato fra Sacher-Masoch e Fanny von Pistor, riportato in
appendice a Venere in pelliccia, cit., p. 185.
35 Ivi, p. 34.
36 Ivi, p. 111.
37 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1996, p. 24.
38 J. Lacan, “Kant con Sade”, cit., p. 766.
39 Ivi, p. 768.
40 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., pp. 98-99.
41 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), trad. di C. Csopey, Rizzoli, Milano 2010, p. 83.
42 Sul problema etico in Deleuze, cfr. N. Jun, D.W. Smith (a cura di), Deleuze and Ethics,
Edinburgh University Press, Edinburgh 2011.
43 G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti (2003), trad. di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p.
321.
44 Ibidem.
45 Ivi, p. 323.
46 Ibidem.
47 G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, trad. di A. Pardi, ombre corte, Verona
2007, p. 81.
48 Ibidem.
49 Ibidem.
Carmelo Bene o dell’immanenza
dei corpi
GIANLUCA SOLLA

1. Che cos’è realmente perverso? Pierre Klossowski dedica le battute


iniziali di Le philosophe scélérat alla scrittura in Sade. In particolare le
dedica all’antinomia tra il linguaggio, il cui valore è sempre universale – è
sempre una “generalità” –, e la singolarità della scrittura con cui di volta in
volta, scrivendo, Sade prova a stabilire una “contro-generalità”.1. La
scrittura non può pertanto che essere attraversata da questa tensione tra
l’assoluta singolarità del suo momento e l’universalità del suo linguaggio
con cui si trova comunque a operare, ma che continuamente non può che
essere ribaltato e sovvertito nelle sue intenzioni. Questo vale anche per
quella particolare scrittura delle vite che sono le pratiche. Rispetto al
condizionamento normativo implicito nella valenza universale del
linguaggio “logicamente strutturato della tradizione classica”,2. la sola
forma di emancipazione per la specie umana si può realizzare valorizzando
“la specificità delle perversioni”. Non è tanto l’idea della perversione – ed
eventualmente la sua pratica – a costituire un contro-bilanciamento o
un’alternativa. Questa va cercata piuttosto nella “specificità” che con
risolutezza tanto Sade quanto Klossowski rivendicano.
A essere dirompente è “il caso singolare delle perversioni”, che rispetto
alla generalità normativa del linguaggio si definisce “per una assenza di
struttura logica”. Essere perversi vuol dire sovvertire la logica, ma
sovvertire la logica vuol dire potenziare e sfruttare la singolarità dei casi
contro la generalità della norma. Il singolare sarebbe, da questo punto di
vista, sempre eccessivo. La mostruosità sadiana, potremmo dire, non ha
altro contenuto che questa assoluta specificità in cui, caso per caso, volta
per volta, corpo per corpo, qualcosa della perversione può aver luogo. In
quanto irriducibile all’universalismo che fa del linguaggio una norma
cogente, la perversione consiste in questo gusto – in questa attrazione
vertiginosa e irresistibile – per la singolarità. In quanto tale, essa esclude le
definizioni preconcette e l’anticipazione prescrittiva – moralizzante e
giudicatrice – che fanno sempre ricorso alla generalità di una norma. Qui
non è in discussione il contenuto delle norme, quanto la struttura normativa
stessa, che prevede una fittizia universalità il cui correlato principale è il
riferimento alla “specie umana”, qualsiasi cosa essa sia. Non è però in
discussione neppure il contenuto delle perversioni, bensì unicamente
l’assoluta singolarità con cui viene fatto valere, di volta in volta, ciò per cui
la norma non vale, il buco cieco di ogni regola, precetto o legge.
Si potrebbe proseguire interrogandosi su quanto questa “contro-
generalità” non sia in fondo interna alla stessa generalità normativa e
normalizzante che intende interrompere. La domanda verterebbe, in questo
caso, su quanto di dialettico ci sia in questo procedimento (tanto in Sade,
quanto in Klossowski). In fondo, come Sade sa e come Klossowski annota,
è già l’ateismo del razionalismo a produrre un rovesciamento, estraendo dal
fondo della generalità imperante una contro-generalità. La traccia che mi
sembra più feconda da seguire è però un’altra: se l’universalismo è auto-
contradditorio, cosa ne è di quello che Klossowski chiama “il caso singolare
delle perversioni”? Come si articola una perversione il cui contenuto non è
una determinata predilezione, per esempio per una pratica erotica, né
tantomeno fa riferimento a un desiderio inconfessabile? Come pensare
quanto ha il suo tratto propriamente perverso nella sua assoluta singolarità?
Cosa ne è della potenza di questa singolarità? E cosa ne è della sua
possibilità di staccarsi dalla subordinazione a funzioni abituali e generali,
quindi implicitamente o esplicitamente normative, che ne garantiscono, se
non la vita, almeno la sopravvivenza?

2. Se la singolarità – anche quella della scrittura – è di per sé perversa, è


perché è portatrice di un eccesso del corpo rispetto alla presa normativa
delle istituzioni. Tuttavia tale eccesso può essere pensato in molti modi.
Due di questi sono presenti in un aneddoto in cui Carmelo Bene racconta di
un incontro con l’amico Klossowski. A questo aneddoto è affidata una
precisazione decisiva:

Una sera a cena proposi a Klossowski questa definizione del porno: “Il
porno è ciò che eccede il desiderio”. Si entusiasmò: “Très beau,
Carmelo”, ma suggerì una variante: “Il porno è al di là del desiderio”.
Non mi piacque. Glielo dissi. C’era qualcosa di metafisico e cattolico in
quella definizione. L’eccesso dell’eros è quanto si cadaverizza, quanto è
disponibile a rendersi mero oggetto. Nel porno a subire sono solo due
oggetti che si annullano reciprocamente. Hai presente due pietre che
copulano? Rende l’idea. Si amano in quanto si disattendono (ne ho
frequentate alcune, rare, nei miei letti). Nulla a che fare con la recita
complice di Masoch. Nel porno non c’è complicità, non c’è partner, non
c’è desiderio e non c’è vagito. Non c’è intimità né il mito della
condivisione trova qui ospitalità. Non c’è altra prossimità se non quella
inquietante con l’oggetto-porno del sedicente soggetto (in realtà oggetto
anche lui, suo malgrado). C’è il congelamento della specie. L’ottusità del
giardino d’infanzia è l’ideale del porno. Basta mantenersi recidivi. Derive
patologiche come la necrofilia sono la fungaia putrescente della vita che si
decompone a vista. Tutto ciò che è patologico è l’uomo. Se non lo è,
chissà cos’è. (Detto altrimenti: che sarebbe di noi se non fossimo
mancati? Che sarebbe di Dio se esistesse?)3.

La questione centrale di questo racconto, tratto dalla Vita di Carmelo Bene,


è indubbiamente quella dell’eccesso. Se l’eros porta con sé un eccesso, ogni
volta, a ogni tornante di strada, questo stesso eccesso che lo attraversa
conduce l’eros all’erotismo ovvero all’oggettivazione di sé. Non apre a una
dimensione altra, ma si compie tutto lì, precipitando nelle forme di un
oggetto che non può che essere, come tale, che porno. Potremmo dire che il
porno è la rivelazione oscena che riguarda l’oggettivazione dei corpi. È
oscena perché rivela ciò che non sarebbe dovuto essere rivelato a vantaggio
di un discorso consolatorio. In queste considerazioni di Bene non c’è la
baldanzosa speranza di Klossowski. Manca il suo côté “metafisico e
cattolico”, per cui nel porno ci sarebbe comunque un al di là per il
desiderio. L’annullamento nell’oggetto esclude il trascendimento edificante.
L’eccesso non è da pensarsi come al di là, ma come atto assoluto di corpi,
come il loro evento. Questo conduce, al limite, al loro annullamento
reciproco, dove – come pietre senza mondo – copulano. La possibilità di
amarsi è data nella misura in cui gli amanti si disattendono. Ci sono solo dei
corpi, tutti presi nella loro fisicità, al di fuori di ogni vagheggiamento di
complicità, di relazione e perfino di desiderio. Ciò che il porno – che non è
ancora la pornografia, ci torno subito – costituirebbe è appunto questo
luogo in cui la vita si produce, decomponendosi a vista. Senza deriva –
senza quelle derive che Bene chiama “patologiche” – non c’è neanche
uomo, ammesso di sapere cosa questo sia. Sicuramente non c’è vita.
Se l’eccesso del desiderio è il porno ovvero il porno è il desiderio in
quanto eccesso, questa definizione indica solo il puntuale disattendersi dei
corpi. Un incontro è possibile solo in ciò che disattende le reciproche
aspettative, tradendo l’immaginario che ne prende possesso e ne trattiene la
vita segreta.
Tutto ciò non ha evidentemente niente di volontario, dato che, come dice
Bene, “la volontà non è mai buona”.4. Non c’è mai niente di buono a cui la
volontà possa porre capo. Piuttosto, prendendo ispirazione da Jean Paulhan
per il quale Le centoventi giornate di Sodoma di Sade fondano tutta una
scienza dell’uomo, potremmo dire che qui si aprono due scienze dell’uomo,
due antropologie: una legata alla dimensione dell’eccesso, l’altra a quella
dell’al di là. Una pensa l’immanenza del desiderio nell’eccesso e come
eccesso; l’altra esprime un modello di verticalità e di trascendente (non è
qui necessario mostrare come l’Ateologia di Sade teorizzata ricada dentro le
difficoltà della teologia propriamente detta).5. Sicuramente questa
semplificazione pecca d’eccesso e bisognerebbe piuttosto mostrare come i
due modelli, lungi dal differenziarsi radicalmente, attingano l’uno all’altro,
per creare infinite forme intermedie e ibride. Tuttavia l’aneddoto raccontato
da Bene segnala che l’“al di là del desiderio” di Klossowski si innesta su
una rappresentazione in cui l’eccesso è ancora un effetto del desiderio.

3. Un’annotazione che Gilles Deleuze ha dedicato a Un Amleto di meno si


ricollega a questo punto, là dove Deleuze scrive che il lavoro di Bene “non
procede per addizione, ma per sottrazione, per amputazione”.6. Se qualcosa
viene meno, è certamente la Storia in quanto cornice ovvero come schema
trascendentale dentro il quale inserire le vicende, qualsiasi esse siano. Senza
cornice non ci sono che corpi ad aggirarsi sul palcoscenico, ad agitarsi. Da
qui la nudità dei personaggi. Prendiamo il Riccardo III (1978). Ad apparire
in scena non sono che il duca di Gloucester (poi Riccardo III) e le donne: la
duchessa di York, madre di Riccardo; la ex regina Margherita; la regina
Elisabetta; Lady Anna Warwick; una cameriera e Madame Shore. Più che
una mancanza il dispositivo teatrale produce un mancamento in cui nulla
manca. Vi si produce un’insistenza di un tipo tutto particolare: una
perseveranza, un ingombro che non è dell’ordine dello statico –
dell’ostacolo che stia perfettamente immobile dentro un flusso – ma che è
esso stesso mobile, duttile. Coincide con un movimento descrivibile solo
sulla base dei punti che tocca.
Se questo movimento è quello dell’eccesso, che Bene chiama “porno”
nell’aneddoto su Klossowski, e “osceno” in una risposta al testo di Deleuze,
porre l’osceno al centro dell’evento teatrale – là dove non può che essere
assente, dato che avviene fuori dalla scena, ma al tempo stesso non può non
mancare – significa fare del teatro il dispositivo assoluto dell’eccesso. Nel
Riccardo III è detto che questo osceno è “l’osceno del femminile nella
storia”. È il femminile, cioè, che irrompe e offende “‘l’imbecillità’
dell’unico” ossia dell’identico (come “impossibilità del diverso”).7. Da
questo punto di vista il femminile è la singolarità assoluta, è l’eccesso del
singolare rispetto alla norma dinastica maschile. In questa irruzione, nella
sottrazione di cui parla Deleuze e a cui risponde già il titolo di Un Amleto di
meno, qualcosa può succedere: un esperimento, un’emersione di una vita
impersonale dai personaggi e in particolare dalle loro voci, che sono sempre
più disarticolate via via che conoscono la loro evoluzione, le loro
variazioni.
Senza Storia vuol anche dire: senza referente, senza orientamento, senza
fine ovvero senza capo né coda. Inevitabilmente qui si dovrà fare a meno
anche della mimesis, dato che non c’è più nulla da imitare. Non c’è né un
passato glorioso a cui tornare, né uno da riscattare in vista del futuro. Ciò
che questo esperimento disegna è un presente assoluto, che avviene sulla
base di un mancamento. Nella Vita di Carmelo Bene questo registro è il
registro dell’essere smedesimati, per il quale non c’è tempo, né storia, non
c’è patria, né io o tu.8. Tutto procede per dis-individuazioni. L’attore mira sì
a incarnarle, ma in un certo senso non ci arriva mai. Eppure l’eccesso di
altre energie attraversa il suo corpo rispetto al dettato della regia. Per quanto
forte sia l’idea iniziale o il progetto di scena, un corpo non smette per
questo di essere ciò che di per sé è già da sempre: un atto di dis-
individuazione. Impossibile gestirlo. Non solo non ci sono relazioni, non ci
sono neanche i personaggi e le loro rispettive identità. Così Lorenzaccio –
“l’attore-cretino” per eccellenza, “sempre preceduto da se stesso” –
costituisce l’irruzione di quell’eccesso che lo porta a essere in ogni ruolo
fuori dal ruolo: è una parte senza parte, senza destino, “sottratta alla propria
destinazione”.9. Come capiterà al servo in S.A.D.E.,10. nessuno padroneggia il
ruolo che gli è stato affidato, dato che la vicenda – che non è Storia –
avanza unicamente a colpi di eccesso, di osceno e di porno.11. Nemmeno
assistiamo però a un eroismo dell’eccesso, dato che questo come tale non
può che mancarsi e insieme non può che trovare proprio in questo
mancamento la sua unica forma. Negli eccessi che ne costituiscono
l’energia immanente le cose non si fanno che per bricolage, tenendo
insieme i frammenti, rabberciandoli: “Quello che conta non l’ho mai
realizzato. È quanto non son riuscito a fare. È quanto è stato, come me,
abortito. […] Quello che invece ti riesce di rabberciare è come la vita, i
residui, quello che non avresti mai voluto fare”.12.

4. Nell’immenso archivio della sua Psychopathia sexualis Krafft-Ebing


aveva decifrato la procrastinazione dell’orgasmo in termini masochistici. In
quella dimensione la sospensione diventa una forma di appagamento.
Diventa la vera e propria esperienza o, quantomeno, ciò che costituisce il
particolare contenuto d’intensità e di pienezza dell’esperienza stessa.
Questo aspetto ascetico ha presa perché promette di mantenere un controllo
o, meglio, perché, come Theodor Reik ha giustamente descritto, si mantiene
in un’oscillazione tra la fuga e l’avvicinamento.13. Forse però non c’è mai né
l’una né l’altro in termini assoluti. C’è tutt’al più una sospensione a cui non
si fugge mai né mai le ci si avvicina. Tutto si compie in un’attesa che
dovrebbe sciogliere il soggetto da quanto di spiacevole alla fine il piacere
ha per lui. Ciò che è qui in questione è il desiderio nel suo rapporto con la
cosa. Affinché questo desiderio si mantenga nella sua purezza, qualsiasi
contatto dev’essere evitato. Da qui il ricorso a schermi in S.A.D.E.: il padrone
non guarda mai il corpo femminile se non per la mediazione di una
schermatura che rende quel corpo solamente visibile. Non ha occhi per il
corpo della donna, soprattutto quando questo si fa troppo vicino. La
prossimità di quell’altro corpo femminile ne travolge la pretesa superiorità.
Il padrone resta così vittima del proprio delirio di padronanza e, come tale,
resta privo dell’accesso a quel corpo, al suo contenuto osceno. In S.A.D.E. il
padrone è tutto preso dalla fissazione per il proprio orgasmo, che latita, ma
che fa scena. Non viene, il padrone, ma mutamente asservisce tutta l’azione
scenica al raggiungimento del proprio orgasmo. Il servo invece sperimenta,
crea, si arrangia. Benché sia al servizio del suo padrone, è l’unico a
muoversi e ad attraversare la scena. Se il padrone è membro che non
eiacula, il servo è l’invenzione singolare che si costituisce da sé.
Unicamente sua è l’iniziativa.

5. Questa configurazione scenica in S.A.D.E. produce l’instabilità del


singolare. Produce una variazione infinita. Travolge i ruoli affidati. Frustra
l’attesa di un conflitto che, se non arriva, è perché il conflitto è ancora tutto
parte di una rappresentazione e di una partizione dei ruoli. La
rappresentazione è sempre convenzionale, anche quando si vuole “contro
natura” (come nel tentativo di provocare l’orgasmo attraverso la
messinscena di un matrimonio incestuoso con una prostituta nel ruolo di
figlia). Canta il servo: “Complicato è il mio padrone / nell’orgasmo
(nell’orgasmo) si vedrà”.14. Le aberrazioni di cui si compone S.A.D.E. sono
altrettante delusioni.
È proprio l’instabilità delle forme a permettere – al di là di una pura e
semplice ripetizione dello schematismo hegeliano di servo e padrone – che
il servo sia capace di metamorfosi. Si offre alla vita. Se è vero che il
padrone è “ridotto a tic masturbatorio”,15. il servo non è mai pura vittima.
Una volta che avrà eiaculato, il posto del padrone rimarrà vuoto e al servo
non rimarrà che contemplare questa vuotezza che era da sempre là. Il
padrone non è altro che funzione-di-orgasmo, espletata la quale non resta
ni-ente al cospetto dell’unico che in questo tourbillon si sia dato da fare, per
quanto per ni-ente appunto: il servo. Per quanto tutto funzioni come
macchina di cattura del desiderio, il desiderio è davvero poca cosa: non fa
che annullarsi nell’eiaculazione e tutti i ruoli (per esempio le donne in
scena) sono d’improvviso superflui e possono sgombrare la scena.
Il problema non è mai il desiderio. Ne è satura la scena, ma questo non
cambia la sua natura “padronale”. Il problema è semmai la funzione del
corpo del padrone nel corrispondere a tanto desiderio con la sua
eiaculazione. Non il desiderio, ma unicamente l’orgasmo giustifica una
macchina infernale, che gira a vuoto sulla difficoltà dell’orgasmo. Ne crea
una rappresentazione. O, più esattamente, crea una mascherata che affossa
la rappresentazione che dovrebbe finalmente dare l’orgasmo al padrone. Del
resto il padrone, lui, “non desidera nulla”.16.
Quello del servo è forse proprio un uso minoritario del corpo, nel senso di
“un divenire in cui [non] ci si impegna”.17. Non c’è impegno. Dato che
manca la Storia, in cosa ci si dovrebbe impegnare? Il fatto che il tempo del
servo non sia Storia, è quanto gli restituisce indipendenza e autonomia, dal
momento che “la Storia è il marchio temporale del Potere”, come si trova a
scrivere Deleuze.18. Non si tratta di storia: la storia è materia d’archivio, in
cui le azioni agite sono messe agli atti, su cui l’io tiranno edifica la sua
sopravvivenza spettrale. Qui si tratta invece solo di atti: assoluto presente. Il
teatro sarebbe allora quell’evento che buca la storia.19.
Libero dalla Storia, può nuovamente accedere alla potenza dei suoi gesti.
Il gesto gli è consegnato, fuori dalla fissazione maniacale, dalla
monomaniacalità con cui il padrone dispone degli altri, nella sua
indifferenza. Il gesto del servo è l’onda diacronica che attraversa il dominio
dei padroni, la monotonia della loro Storia, la struttura stessa del potere e
della comunicazione. Non agisce come i padroni, sostituendoli nel loro
agire o impegnandosi in un conflitto senza tregua che ne rivendichi i diritti,
ma appunto sottrae al mondo la dimensione dell’azione per restituire la vita
a dei gesti nei quali si inciampa. Ecco che cos’è il masochismo qui:
l’assenza di padroneggiamento, in cui non ci sono più parti, in cui non si è
che come esistenze fatte delle occasioni e delle occorrenze che attraversano.
Per questo non c’è rivendicazione, né vendetta. Non c’è qui nemmeno il
sentore di qualcosa come dei diritti che possano essere invocati. Il
masochismo non è qui che un’altra parola per dire l’essere smedesimati in
cui vive la vita impersonale dei corpi.
6. La festa a cui S.A.D.E. invita è una festa infame,20. è la festa indecente
dell’ignominia.21. La sua è un’arte delle variazioni in cui l’osceno possa
essere vissuto nel presente assoluto che esso esige dal corpo. Qual è per
Bene la grande tragedia del tragico? Che i suoi personaggi “non accettano il
freddo, il crudele del comico kafkiano, sadiano o masochiano. Hanno
sempre un’anima, ovvero una flatulenza da smaltire”.22. Credendo
nell’anima, si condannano a smarrire la crudeltà del corpo. Quest’aspetto è
decisivo e spesso misconosciuto. Circola in rete un’intervista in cui Bene
racconta del suo rapporto con Buster Keaton. Sollecitato dall’intervistatore
sulla figura di questo straordinario maestro del cinema, che appare spesso
come un incapace mai all’altezza della situazione ma in realtà bravissimo in
ciò che fa, Bene dà una risposta esemplare: i modi di Keaton non sono una
critica della realtà, ma una “formula antichapliniana, acritica”. Anzi subito
rettifica dicendo che per Keaton bisognerebbe parlare non di una formula
ma di “formule” e che il suo è un “modo stirneriano”, in cui sono soppresse
tutte le distinzioni abituali, benché banali, come quelle di eroe positivo ed
eroe negativo, bene e male ecc. Qui a valere è in fondo l’idea che il cinema
non critica la realtà, così come essa è, ma ne rimette in questione l’esistenza
stessa. Nell’intervista Bene arriva a formulare questa posizione dicendo “la
realtà non esiste o almeno non come noi”: non esiste dunque né una realtà
fuori di noi, a cui tendere, da desiderare. Né esiste un noi fuori dalla realtà,
come quell’istanza che renderebbe possibile criticare la realtà stessa perché
esterna a essa.
Keaton lo mostra in maniera formidabile nei suoi pezzi di bravura, nei
quali non cade: scivola e ha il momento del suo “voilà”, dice Bene. È una
bravura, dice Bene, ma “bravura a che?”:
Keaton in fondo rivela l’inutilità, il non finalismo, che sta dietro le sue
azioni, anche quelle più spettacolari. A questo proposito Bene fa notare un
aspetto fondamentale. Alla fine dei film, nelle ultime scene dell’happy-end
che nel buio in sala precede la riaccensione delle luci, Keaton sta seduto
con la donna finalmente conquistata con le braccia conserte, gli occhi al
cielo e la testa di lei sulla sua spalla. Bene vede giustamente: qui non c’è
rapporto con la sposa, Keaton non guarda mai colei che pure è sembrato
essere per tutto il film la meta ambita, il motore stesso dell’azione. Non c’è
alcuna condivisione, per usare una parola moderna: “Anche quando è
accanto a una realtà, è appiccicato alla realtà”. Non c’è rapporto. Se Keaton
perfora l’ambito della rappresentazione, con tutti i suoi compiti e i suoi
rituali, è fondamentalmente perché non crede alla realtà ed è questa
miscredenza e scetticismo che mette in scena: non c’è rappresentazione
della realtà perché in fondo non c’è realtà da rappresentare.
Teniamo a mente intanto questo: Keaton non cade, scivola. A differenza
dell’idea di Klossowski (per cui la vita si ripete – per riaffermarsi nella sua
caduta), qui l’elogio dell’eccesso conduce a un’arte della superficie.

7. È singolare che proprio riferendosi a Klossowski e alla messa in scena


del Bafometto da parte del coreografo Maurice Béjart a Parigi (non senza
una punta di polemica), Bene abbia decretato (in un testo di poche pagine
dal titolo Ebbene, sì, Gilles Deleuze) che “non vi si muore mai dal morire (e
invece il grande masochismo dell’attore (se grande) gioca l’orgasmo col
proprio io, scommette sempre bluffando con l’eterna lotta delle sue pulsioni
contro il proprio Io)…”.23. Non si tratta di un vivere per la morte che è il
postulato fondamentale dell’eroismo in piccola o grande scala. Questo,
com’è noto, costruisce già in vita il suo monumento, il suo mausoleo.
Giocare l’orgasmo con l’io ovvero contro il proprio io significa che qui
l’orgasmo non ha nulla di erotico, ma è inevitabilmente pornografico.
Bisogna bleffare contro il se stesso, c’è poco da fidarsi. Qui il riferimento al
masochismo conterrebbe la possibilità di lasciar perdere la dinamica
istituzionale che reggeva ancora tutta la relazione servo-padrone in S.A.D.E. e
il suo correlato decisivo: il lavoro finalizzato a uno scopo (nello specifico
allo scopo irrisorio, ma centrale, dell’eiaculazione del padrone).
L’istituzione è dovunque, e in primis nel lavoro. Dato che pare che solo il
lavoro – estremo oltraggio alla vita del signore e dunque massima
trasgressione – possa procurargli l’erezione tanto attesa, esso ascende qui
alla funzione di modello.
Michel Foucault ha definito una volta quella di Klossowski una “parola
trasgressiva”.24. Ma la trasgressione è un’istituzione dell’istituzione,
un’istituzione al quadrato. La consonanza di istituzione e perversione, a cui
Klossowski ha dedicato pagine importanti, che è la stessa coesistenza di
istituzioni e crimine,25. trova nutrimento proprio in questo rimando all’al di
là. “Casa, ufficio: d’un borghese / la giornata scimunita: / tribunale, la
partita, / lo star male, la violenza / sindacale, l’ufficiale / giudiziario e nel
finale / la querela è da giocar! / Sì, proviamo con la vita / quotidiana e si
vedrà! / Sì, proviamo con la vita / quotidiana e si vedrà! / Al lavoro del
piacere / senza remora e decoro / il piacere del lavoro / basta qui
sostituir”.26. Il comico svolge qui la funzione che nell’aneddoto giocava il
porno: è la rivelazione oscena dell’oggettivazione a cui l’istituzione
comanda i corpi, oggettivazione su cui essa si regge ma di cui pure cancella
le tracce a vantaggio di un discorso moralistico e assennato. Così come il
soggetto non ammette che la sua oggettivazione è ancora una sua estrema
risorsa.
È proprio il piacere e la confusione tra piacere e godimento che va qui
sostituito, ovvero evitato. “Così l’attore (e quando dico grande voglio
intendere colui che supera ‘se stesso’) non può che frequentare la scena del
dispiacere che gli è proprio.” Questa necessità del dispiacere segue dal fatto
che è da esso, e non dall’appagamento piacevole del piacere, che si svolge
la differenza della ripetizione.
8. Se torniamo ora all’aneddoto della conversazione tra Bene e Klossowski
siamo in grado di coglierne alcuni implicazioni che all’inizio abbiamo
lasciato inespresse. Per esempio ci accorgiamo come la definizione di
Klossowski potesse avere agli occhi di Bene – con quel suo riferimento
all’al di là – qualcosa di inguaribilmente teologico, dunque trascendente.
Con Sade Klossowski sa che “la nozione di Dio e la nozione del prossimo
sono indispensabili alla coscienza del libertino”.27. Per Bene è necessario
prendere atto che quel senso di verticalità e di “ipercristianesimo” a cui
Klossowski non era affatto disposto a rinunciare appartiene ancora a una
rappresentazione del desiderio e del corpo come intenzionalità
desiderante.28. Per Bene l’immanenza dei corpi parla per sé. Questa
immanenza dei corpi a se stessi annulla qualsiasi prossimità (i corpi non
sono prossimi gli uni agli altri), così come annulla qualsiasi distanza (non
esiste la lontananza vagheggiata, ma non attraversabile del divino). Non è
sullo spazio (poco, tanto, non importa) che si gioca questa partita. Né la
negazione delle vite procede da altro se non dall’eros stesso che ne
accompagna come eccesso il desiderio. Non ha niente del “potere
trascendente di negazione” su cui Sade fondava la sovranità sull’uomo:29. se
c’è negazione essa procede da ciò che permette l’incontro sempre mancato
tra i corpi stessi. L’osceno la contempla e, al tempo stesso, la realizza.
Potremmo dire che l’osceno ne costituisce la realizzazione. Ciò per cui non
c’è appunto rappresentazione né concettualizzazione: “L’‘osceno’ è per
definizione quanto si sottrae al concetto. In quanto al ‘comico’ non va mai
confuso con la ‘commedia’ o, peggio ancora con il ‘buffo’. […] Il comico è
tutto l’opposto. Quanto di più asociale e libertino si possa concepire, se mai
fosse concepibile”.30.
Di quell’orizzonte parla appunto anche il tragico in cui i drammi ricevono
un senso superiore. Sono sublimati dalla cornice in cui la tragedia li
inscrive. Si tratta invece di sospendere il tragico.31. Di non cedere alla sua
retorica melliflua. Qui parla l’assoluto di un presente che non sta ad alcuna
rappresentazione. È l’assoluto di un godimento? Si dirà: di un godimento
che pare non realizzarsi masochisticamente che nel suo rimando, punto
cieco, osceno, attorno al quale si organizza tutta la scena. Se questo
godimento è un impossibile, è solo perché non corrisponde a nessuna
condizione di possibilità: “Non ha passato, non ha testo a monte, non ha un
progetto, non ha messaggi da lasciare, non ha socialità e nessuno ‘ismo’.
Non conosce il prima e non conosce il dopo”.32.
Qual è il tempo di questo impossibile? “È l’atto possibile solo
nell’immediato (cortocircuitato presente). Non fa futuro-passato.”33.
Assoluto presente di un atto reiterato. È l’immediato dell’atto.
Porno è allora l’ineliminabile dei corpi. È il loro eccesso. Ma in questo
eccesso che li costituisce, non tendono a nulla. Invece quando cercano di
costruirsi un racconto biografico, quando cedono alla tentazione padronale
di avere o di essere una storia, questo loro tentativo non può mancare del
suo correlato comico. Se i corpi si vendono per qualcosa – che sia per
un’ambizione o per ottenere un riconoscimento – alla fine non è che una
falsa moneta quella che ricevono in cambio del loro eccesso.

Gianluca Solla insegna Filosofia teoretica all’Università di Verona.


1 Pierre Klossowski, Sade mon prochain, preceduto da Le philosophe scélérat, Seuil, Paris 1967, p.
19.
2 Ivi, p. 18.
3 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 35.
4 Ivi, p. 71.
5 Cfr. M. Surya, L’imprécation littéraire, Verdier, Paris 1999, pp. 36-41.
6 C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002, p. 85.
7 Ivi, p. 14.
8 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 111.
9 Jean-Paul Manganaro, in AA.VV., Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia
1990, p. 29.
10 C. Bene, S.A.D.E. ovvero: Libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della
Gendarmeria salentina. Spettacolo in due aberrazioni, in Opere, Bompiani, Milano 2004, pp. 279-
349.
11 Ivi, p. 326.
12 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 86.
13 T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno (1940), trad. di L. Volpatti, SugarCo, Milano 1963,
p. 94.
14 C. Bene, Opere, cit., p. 293.
15 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 245.
16 C. Bene, Opere, cit., p. 283.
17 C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 112.
18 Ivi, p. 95.
19 Camille Dumoulié, in AA.VV., Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, cit., p. 11.
20 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 13.
21 Ivi, p. 29.
22 Ivi, p. 30.
23 C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit., p. 121.
24 M. Foucault, “La prose d’Actéon” (1964), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol. I, p. 364.
25 Cfr. P. Klossowski, “Sade et Fourier”, in Les derniers travaux de Gulliver, seguito da Sade et
Fourier, Fata Morgana, Montpellier 1974, pp. 44 e 51.
26 C. Bene, Opere, cit., pp. 322-323.
27 M. Blanchot, Sade et Restif, Éditions Complexe, Bruxelles 1986, p. 43. Cfr. anche P.
Klossowski, “Sade et Fourier”, cit., p. 58.
28 La formula “ipercristianesimo” è di Georges Bataille, rivolta a Nietzsche. Nella sua lettura
Michel Surya ha proposto di estenderne l’uso a Klossowski. Cfr. M. Surya, L’imprécation littéraire,
cit., p. 39.
29 M. Blanchot, Sade et Restif, cit., p. 43.
30 C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 31.
31 Ivi, p. 137.
32 Ivi, p. 72.
33 Ibidem.
Singolarità, perversione, immanenza
FEDERICO LEONI

Il dio feticcio
La perversione è obliqua, sinuosa, tortuosa. Non nega qualcosa, non
afferma qualcosa. Piuttosto svia, devia, piega. Che cosa svia, che cosa
piega? La sua non è una posizione ma un’operazione o un insieme di
operazioni. Ma che tipo di operazioni?
Se stiamo alla psicoanalisi, nevrosi e psicosi sono anzitutto posizioni,
posizionamenti soggettivi. Scrive per esempio Lacan: “Il nevrotico, isterico
o ossessivo, o più radicalmente paranoico, è colui che identifica la
mancanza dell’altro con la sua stessa domanda”;1. viceversa: “Nella follia,
quale che ne sia la natura, ci tocca riconoscere […] la libertà negativa di
una parola che ha rinunciato a farsi riconoscere”.2.
In altri termini, la nevrosi sta davanti a qualcosa, la psicosi non arriva a
star davanti a quel qualcosa, che Lacan chiama legge, o altrove mancanza, o
castrazione simbolica, o parola dell’altro. Lo stare è però decisivo in
entrambi i casi, anche quando lo è nel senso dell’impossibilità di stare.
L’uno la assume, quella cosa, vi sottomette la propria vita soggettiva, o
piuttosto diventa un soggetto assumendola, sottomettendovisi, facendola
propria. L’altro la costeggia senza incontrarla, o la incontra come un
geroglifico indecifrabile, inutilizzabile.
Se la nevrosi e la psicosi sono posizioni, modi di stare di fronte a quella
mancanza, a quella legge, quelle della perversione non sono posizioni ma
operazioni. La perversione si industria senza sosta, maneggia e rimaneggia i
suoi materiali, fabbrica e rammenda continuamente quel qualcosa che la
nevrosi incontra e assume, e la psicosi non incontra e non assume. Se per la
nevrosi e per la psicosi la legge o la mancanza sono un dato, anche nel
senso che sono qualcosa che è stato dato, che perciò proviene da altro o da
altrove, per la perversione sono invece un fatto, anche nel senso che sono
qualcosa di fabbricato, qualcosa che anzi va continuamente costruito,
congegnato, architettato. O forse si dovrebbe dire: creato.
Per questo la perversione è complessivamente illuminata dal feticismo,
che per tanti aspetti non è che una sua provincia. Non si comprende la
perversione se non si comprende la sua dimensione fabbrile. La prima
interpretazione che la psicoanalisi ha avanzato intorno alla perversione è in
ogni senso esemplare.3. Freud mette in scena un bambino che si imbatte
nella madre nuda e non ne sopporta la visione, perché quella visione gli
rivela una mancanza minacciosa. La donna è priva di pene. Potrebbe un
giorno esserne privato a sua volta? Il piccolo feticista distoglie lo sguardo,
lo lascia vagare lungo il corpo della madre, si ferma dove trova qualcosa
che gli dà sostegno. “Come sostituto del pene che manca alla donna, si è
creato un feticcio”,4. commenta Freud. Poco importa che l’insopportabile
mancanza intravista nell’altro riguardi il pene, come nella prima ipotesi
freudiana, o un qualsiasi altro significante fallico. L’essere non è dato,
l’essere esige creazione per poter essere, è questa l’esperienza fondamentale
del feticista.
In fondo l’operazione della perversione è perversa soprattutto perché
fabbrica ciò da cui dovrebbe provenire ogni fabbricazione, perché
costruisce l’ambito stesso nel quale dovrebbe muoversi ogni creazione.
Crea il presupposto. Lo fa essere après coup. È in questo disordine del
tempo, che si annida tutta la hybris della perversione. Non solo la
psicoanalisi, anche l’antropologia si sofferma da sempre sullo
stravolgimento ontologico che il feticismo porta con sé. È noto che i
commercianti portoghesi sbarcati nel Cinquecento sulle cose africane
avevano reagito con sconcerto al culto che le popolazioni locali tributavano
alle piccole, malcerte divinità che esse ricavavano dall’assemblaggio di
pezzi di legno e lembi di stoffa, perline e conchiglie. “Dei facticii”, li
avevano prontamente ribattezzati. Da cui il termine divenuto classico,
feticci. Come potete credere, chiedevano gli europei agli africani, alla
potenza di questi dei che avete appena finito di fabbricare con le vostre
mani? La risposta degli africani avrebbe potuto rovesciare facilmente
l’argomento europeo: come potremmo credere ai poteri di un dio che non
abbiamo fabbricato con le nostre mani, come potremmo confidare in un dio
già fatto?5.

Il dio cadavere
“Dio è morto.”6. Da Nietzsche in poi questa frase risuona senza sosta
insieme all’altra constatazione nietzschiana: d’ora in poi si tratterà di fare i
conti col “cadavere di Dio”.7. Un cadavere di cui il meno che si possa dire è
che è ingombrante.
Da un certo punto di vista, del resto, la filosofia non si è sempre collocata
in quel punto in cui Dio è morto, in quel punto in cui al posto di Dio c’è
piuttosto un archivio, un corpo di idee e tradizioni, una serie di materiali
che bisognerà riorganizzare in un’altra verità, ricomporre in un’altra forma
di esperienza?
Senza dubbio è nella scia di questa eredità nietzschiana che si collocano
tutti i pensatori che questo fascicolo raduna in una strana costellazione.
Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze, Blanchot, tutti loro capiscono che
davanti all’annuncio della morte di Dio le scorciatoie sono inutili, e che più
inutile di tutte è la scorciatoia principe, tutt’ora moneta corrente in tante
discussioni. Se Dio è morto, tutto è permesso. Se Dio è morto, tutto è
possibile. Ecco la grande scorciatoia, per quanto ammantata di abissale
drammaticità. Nichilisti allegri e tristi, postmoderni gaudenti e pensosi
reazionari si danno ogni volta appuntamento intorno a questo presunto
scatenamento del possibile, ora per denunciarlo ora per esaltarlo. Quando
Dio viveva, così ragionano tanto i detrattori quanto i fautori dello
scatenamento, una linea netta solcava il campo degli esseri e i tragitti delle
esistenze, e gli eventi e i gesti erano nitidamente ripartiti nelle due regioni
del possibile e dell’impossibile. Ora invece il guardiano della soglia è
assente, l’impossibile dilaga nella regione contigua, diventa felicemente
praticabile o sciaguratamente disponibile. Perversione generalizzata, dice
qualcuno, sempre in campo lacaniano.8.
Ma non è curioso che a diventare possibili, dopo la morte di Dio, siano gli
impossibili di un tempo? Non è singolare che i possibili e gli impossibili
rimangano quindi gli stessi di quando Dio reggeva l’universo, o di quando,
fuor di metafora, i nostri saperi e le nostre esperienze disponevano di un
qualsiasi significante padrone? In effetti non è questa perversione, non è
questo scatenamento del possibile un tempo impossibile a occupare la scena
filosofica dei Bataille, Klossowski, Foucault, Deleuze. C’è qualcosa come
un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile,
che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con
la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con
quest’altro scatenamento del possibile. Un campo di esperienza si apre, in
cui nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a
margine di quei possibili.

Il dio virtuale
Che proprio la questione del possibile sia il terreno sul quale verificare lo
stato di quella difficile liquidazione di Dio, lo si comprende bene se si
rilegge un breve, memorabile scritto di Henri Bergson intitolato Il possibile
e il reale.9. Bergson del resto è l’altro grande antefatto che va convocato,
quando si cerca di rispondere alla domanda che chiede che cosa tenga
insieme la costellazione “perversa” appena evocata. Bataille, Klossowski,
Caillois, Deleuze, Foucault, Blanchot, Barthes, Sollers, tutti loro si
collocano dopo Nietzsche ma anche dopo Bergson. Tutta la questione della
fabbricazione, della natura fabbrile della perversione, della sua propensione
a creare feticci, va ricollocata in questa prospettiva. L’ontologia perversa ha
qualcosa di bergsoniano, e Bergson è il pensatore di quel regime del
possibile che è proprio della perversione. Almeno, di quella perversione
pura, felice, riuscita, che è quella della filosofia.
In una decina di pagine Bergson liquida il possibile come una categoria
inconsistente, semplice retroflessione di qualcosa che qui e ora è concreto,
reale, attuale. “Il possibile non è altro che il reale, con, in più, un atto dello
spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che esso si è
realizzato.”10. C’è qualcosa di reale sotto i nostri occhi, noi lo rileviamo
isolandolo dal suo contesto e dal suo divenire, infine lo proiettiamo, lo
immaginiamo all’indietro, lo ipotizziamo nel passato di quel presente che
vorremmo spiegare, mantenendolo però del tutto identico a com’è ora. Ecco
che ai nostri occhi quel qualcosa di attuale, fantomaticamente retrocesso nel
passato, inizia a valere come possibile, come prefigurazione o forse
prescrizione di ciò che, guarda caso, ci ritroviamo sotto gli occhi.
Deduciamo il reale da se stesso. Fingiamo una genesi dell’attuale che è tutta
astratta, essenzialmente sterile. Ciò che si realizza era già tutto contenuto
nelle premesse, iniziamo a pensare. Il possibile che si è realizzato era
semplicemente il necessario. E tutti gli altri possibili erano semplicemente
impossibili. In un simile universo, nulla di nuovo accade mai. O come
scrive Bergson, il tempo “non serve a niente”.11.
A che cosa servirebbe invece il tempo, se fosse pensato come tempo
concreto, come tempo fattivo, come tempo operativo? Bergson risponde
con una battuta che ha qualcosa di perverso. Il tempo “impedisce che tutto
sia dato”.12. È quanto dire che il tempo trattiene, e trattenendo consente la
fabbricazione dell’essere, anzi impone che l’essere coincida con la perenne
creazione dell’essere. Anzitutto, il tempo impone la fabbricazione di quel
primo feticcio, di quel primo artificio di ogni altro artificio, che è la
possibilità della possibilità. Il tempo implica in altri termini la fabbricazione
di quel regime di possibili a cui ogni altra fabbricazione attingerà un
singolo possibile per tradurlo in atto, lasciando intatti e inattuati tutti gli
altri. Una sola volta nel suo scritto Bergson introduce un termine destinato a
grande fortuna contemporanea, filosofica e non solo filosofica. “Virtuale.”13.
Il virtuale bergsoniano è questo possibile in quanto si rende possibile, in
quanto sta divenendo possibile, in quanto va fabbricandosi insieme alla
fabbricazione che esso rende possi-bile, alla creazione che sembrerà
attingervi la propria preliminare possibilità. Più esattamente, virtuale è il
divenire che diviene, è la sua concretezza processuale. È il corpo del
processo che qui e ora sta agendo, e che proprio in quanto sta agendo qui e
ora è un puro presente senza passato e senza futuro, un corpo puramente
“incorporeo”.14.
Che, difatti, un passato si dia, un futuro si dia, è un effetto della soglia
stessa, del suo essere in atto qui e ora, del suo stare divenendo. Poiché
qualcosa qui accade, allora qualcosa emerge nel passato, iniziando a valere
come il passato di questo presente. Poiché qualcosa qui accade, allora
qualcosa prende corpo nel futuro, iniziando a valere come il futuro di
questo presente. Qualcosa qui e ora accade, di incorporeo, e solo per questo
accade che laggiù nel passato qualcos’altro prenda corpo, appaia come il
corpo e il supporto, la materia e la potenza preliminare di questo atto qui e
ora in atto, oppure che laggiù nel futuro qualcosa si animi e appaia come il
senso e la direzione di questo atto. Il passato e il futuro, la materia-potenza
di cui si nutre il processo e la forma-entelechia in cui si condensa il
processo non sono qualcosa di dato, non sono qualcosa a partire da cui o
verso cui il processo si muove. È il processo che se li dà. “È il reale che si
fa possibile, e non il possibile che diviene reale”, scrive Bergson.15. Sicché
virtuale è il nome del reale in quanto diviene, o del reale tout court.
Aristotele nella Fisica faceva un esempio semplice e celebre.16. Bergson
direbbe forse: troppo semplice. L’architetto costruisce la casa usando pietre
o mattoni, componendole in una forma complessiva, e il processo va
appunto dalla materia, dalla potenza, all’atto, all’entelechia, alla forma
compiuta. Ora, è come se Bergson ragionasse a rovescio, o mostrasse che
proprio Aristotele ragiona a rovescio rispetto a quello che abbiamo appena
chiamato il reale. È perché c’è un architetto che guarda alla casa come sarà,
che qualcosa che giaceva nel paesaggio circostante inizia a valere come
materia, come pietra da costruzione. Si potrebbe obiettare naturalmente che
le pietre erano già là, anche prima che l’architetto venisse al mondo. E che
se parlare di pietre sembra troppo antropomorfico, e rende facile evocare
l’architetto come condizione di possibilità dell’interpretazione delle pietre
come pietre da costruzione, potremmo sbarazzarci del problema dicendo
che ciò che c’era già era piuttosto una materia informe, una potenzialità
assolutamente prima, ignara di ogni intenzione umana e animale e persino
vegetale.
Ma Bergson non avrebbe difficoltà a rovesciare l’obiezione. C’è una
materia perfettamente informe solo in forza di uno sguardo perfettamente
informe, c’è una potenza perfettamente indeterminata solo in forza di un
atto perfettamente indeterminato. La potenza, il possibile, la serie delle
prefigurazioni perfettamente aperte e indifferenti, proprio questo è il primo
e principale oggetto di costruzione, non il campo che la costruzione deve
presupporre alle proprie spalle, non il campo in cui la costruzione deve
ritagliare la propria nicchia di attualità. Ogni atto crea in primo luogo la
propria potenza, ogni presente raffigura in se stesso il proprio passato, ogni
fabbricazione è propriamente creazione ex nihilo. Senza un atto qualsiasi,
niente varrebbe come materia. La materia prima, assolutamente inaugurale,
perfettamente impregiudicata, è l’atto stesso. Lui sì è concreto, lui sì è
materiale, lui sì è condizione di ogni condizione. Non è l’operazione stessa
della perversione, questa sistematica sostituzione del possibile come
possibile dato al possibile come possibile fabbricato, questa
riconfigurazione integrale e senza scarto che il virtuale opera nel proprio
stesso corpo incorporeo, raffigurandovisi ogni volta di nuovo come
possibile e insieme come più che possibile, come virtuale e insieme come
attuale? Non è propriamente perverso il fatto che questo non sia solo un
vedere “come”, ma un “fare come”, un piegare l’essere a una sua infinita
modalizzazione, un risolvere la sostanza stessa nell’incessante evento dei
suoi infiniti modi?

Il dio superficiale
Una pagina della Gaia scienza è particolarmente celebre. “Abbiamo ucciso
Dio”, scrive Nietzsche, e subito si chiede sgomento: “Che mai facemmo, a
sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora?
Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno
precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora
un alto e un basso?”17.
Se Dio muore, manca un criterio, manca la possibilità di tracciare una
linea, manca la possibilità di guardare la vita da fuori e di decidere da fuori
che cosa le sia d’aiuto e che cosa le sia di ostacolo, che cosa le faccia bene e
che cosa le faccia male, che cosa vada dichiarato possibile o permesso, e
che cosa impossibile o vietato. Se dio muore, viene meno la possibilità di
un punto di vista, e insieme di qualcosa che faccia da oggetto a quella vista.
Un punto di vista è per definizione un punto lontano dall’og-
getto guardato, un punto che proprio stando a distanza dall’ogget-
to ne fa una cosa visibile, un oggetto di contemplazione, un fenomeno che
cade sotto il nostro giudizio. Se Dio muore, viene meno la possibilità di
avere un punto di vista sulla vita. La vita diventa unico punto di vista su se
stessa, unico metro a se stessa. Non è il sogno della perversione, che la
propria vita sia la sola istanza a cui riferire la propria vita, che il proprio
sentire sia l’unico metro a cui conformare il proprio sentire?
Ma dopo Nietzsche questo sogno è un sogno inaggirabile, non è il sogno
della perversione se non perché è il sogno di una filosofia costretta a
ripercorrere le operazioni ormai inevitabili della perversione. Una vita non
smetterà di ascoltarsi, di valutarsi, di giudicarsi, ma non potrà farlo d’ora in
poi che dall’interno, dall’intimo della propria materia, sulla base della sola
intensità del proprio sentire. Non ci sarà un occhio divino, a sorvolare il
paesaggio di un’esistenza registrandone la materia sensibile in un tracciato
soprasensibile. Non ci sarà una memoria superiore, a ricapitolare la storia di
un’esistenza in un racconto di cui valutare il sensato o insensato rapporto di
mezzi e fini. Ogni vita sarà qualcosa come una superficie assoluta, come
scriveva Raymond Ruyer, un autore che Deleuze e Lacan amavano, e che
anche un Bataille o un Klossowski avrebbero forse potuto sentire affine.18.
Ogni vita sarà una superficie perfettamente piatta, assolutamente
immanente a se stessa, che per farsi punto di vista su di sé deve sollevarsi in
se stessa e prodursi come superficie ondulata, come ondulazione di affetti
che tendono a divenire concetti, prese di prospettiva, formazioni di sorvolo,
senza però arrivarci mai. L’immanenza di una superficie a se stessa, il
sorvolo di una superficie da parte della superficie stessa, è questa la figura
di trascendenza che il nostro cielo disabitato ci obbliga a frequentare.
Figura di trascendenza che si produce nonostante tutto, e che non smette
mai a suo modo di prodursi, non più tramite distanza, cesura, taglio, bensì
tramite inerenza, implicazione, oscillazione, ripiegatura.
Così, se questa vita che è unico criterio a se stessa è il sogno della
perversione, l’immediata implicazione, il rovescio improvviso di questo
sogno è che la perversione vuole farsi punto di vista, ambisce a farsi linea di
demarcazione, sogna la figura di una legge. Né capace di vita solitaria, né
incline alla vita comune, la vita perversa offre lo strano movimento di un
essere che si dispiega, ma in se stesso. Di un essere che si estende, ma senza
uscire da sé pur uscendone continuamente e producendosi come la
continuità stessa. Che si avvolge senza sosta intorno al proprio evento,
anche se proprio avvolgendosi in sé si ritrova a disegnare un campo di forze
e di significati che lo estendono infinitamente. Quel campo non è affatto
presupposto al proprio evento, come una forma a priori, ma accade insieme
al proprio evento, lo accompagna come un predicato indispensabile, un
accidente necessario. Fine del trascendentale, sostituzione del
trascendentale con un concetto simile e insieme dissimile, quello di una
genesi, di una differenziazione senza tagli, di una gemmazione che procede
in maniera spiraliforme. Perché lo spazio in cui si inoltra non è sgombro,
aperto, ma chiuso, ripiegato, avvolto. E proprio perché avvolto intorno a
quella differenziazione, anche illimitato.
Il dio bambino
Affrontiamo due figure chiave di questa strana etica dell’immanenza, di cui
la perversione è diventata paradigma una volta capitata tra le mani di
Bataille o di Klossowski, di Deleuze o Foucault o Barthes. Due figure che
chiameremo dell’infanzia e della complicità.
Prendiamo la prima figura da Gilles Deleuze. Non è un mistero, per i
lettori di Logica del senso, che l’intero libro sia un libro sull’infanzia, che
l’infanzia giochi un ruolo strategico nella costruzione deleuziana. Che il
bambino sia un emblema perfetto della perversione è del resto un portato
maggiore dell’avventura di Freud, che nel momento in cui definisce il
bambino come un “perverso polimorfo”19. non solo sembra specificare la
perversione del bambino tramite il suo polimorfismo, ma sembra quasi
risolvere la perversione nel polimorfismo. Il bambino è perverso perché
polimorfo, e forse la perversione stessa è perversa perché frequenta con
particolare intensità questa dimensione metamorfica per cui ogni forma è
sul punto di trascorrere in un’altra forma, ogni forma è sempre sul punto di
prendere forma.
Ma si sa che per Freud l’infanzia è solo uno stadio all’interno di una
vicenda più ampia, un passaggio destinato a risolversi in un approdo
conclusivo. Deleuze eleva quel passaggio ad assoluto, innalza la
provvisorietà dell’infanzia a condizione fondamentale dell’esperienza, fa
del polimorfismo non un’indifferenziazione momentanea ma una genesi
perenne di differenziazioni.
Anche per questo l’eroina del libro è Alice, la bambina di Lewis Carroll,
col suo sguardo che sembra aprirsi per la prima volta sul mondo, e che a
ogni nuova situazione continua ad aprirsi sul mondo sempre per la prima
volta. Non che Alice non abbia memoria, non accumuli un qualche sapere
sul mondo, non disponga di un certo numero di stratagemmi a loro modo
efficaci. Ma quella sua memoria si mantiene sempre sul punto di
un’insorgenza insormontabile, quel suo sapere è immerso in un presente che
non si versa mai del tutto nell’ampolla che le clessidre riservano al passato
e al possesso. I suoi stratagemmi sono stratagemmi di una sola volta, vanno
reinventati a ogni occasione perché anche il mondo in cui sono stati efficaci
si ricrea in continuazione.
Apriamo la sesta serie di Logica del senso, “Sulla messa in serie”.
Deleuze cita Lewis Carroll: “La cosa più strana era che ogni volta che Alice
fissava lo sguardo sopra uno scaffale, quello scaffale era sempre vuoto,
benché tutti gli altri fossero zeppi fino a traboccare. ‘Ma qui le cose
scorrono’, disse in tono accorato dopo aver passato un paio di minuti a
inseguire un oggetto grande e luminoso, che a volte sembrava una bambola
e a volte una cassetta, e che si trovava sempre nello scaffale sopra quello
che Alice guardava. ‘Ma sai che faccio ora? Lo voglio seguire fino
all’ultimo scaffale. Non potrà certo attraversare il soffitto!’ Ma anche
questo tentativo fallì. La cosa attraversa il soffitto in tutta tranquillità, come
se non avesse mai fatto altro”.20. Siamo in presenza di una sorta di genesi, di
incipiente organizzazione di una struttura. Qualcosa come una scena si
disegna per la prima volta. Abbiamo un gioco di pieni e vuoti, un insieme di
movimenti ancora enigmatici. Gli scaffali che Alice osserva sono pieni di
oggetti il cui profilo è appena suggerito. E poi c’è una specie di vuoto, un
posto vacante sugli scaffali, stranamente mobile. È come se su quegli
scaffali ci fosse anche una merce rara, un oggetto che non sta sullo stesso
piano degli altri, essendo di più e di meno di un oggetto qualsiasi. Forse
anche per questo l’oggetto misterioso sembra avere due volti. “A volte
sembrava una bambola, a volte sembrava una cassetta”, scrive Carroll.
Questa cosa rara e strana, eccessiva e mancante, si sposta continuamente,
rapidamente, ma non casualmente. Appena raggiunta, si sottrae. Inseguita,
acchiappata una seconda volta, sfugge di nuovo. Non c’è dubbio, l’oggetto
misterioso è lo sguardo di Alice. Quando lo sguardo si incontra, per
esempio in uno specchio, non è forse allora che si sfugge, si cancella, si
nega? Non è in quell’istante che lo sguardo che cerca se stesso come
sguardo, trova nello specchio tutt’altra cosa, un occhio che non guarda
affatto, una biglia di vetro colorato, l’ammiccare di un morto? Sì e no, in
effetti. Alice sfiora il proprio sguardo nella scena, lo trova e insieme non lo
trova, lo vede e insieme non lo vede. Vede non solo l’occhio ma anche lo
sguardo, non solo la biglia di vetro ma una cosa viva o quasi viva. La scena
danza insieme al geometrale che la istituisce, si sposta allo spostarsi di
Alice, in ogni istante interamente ricalcolata dal suo movimento. Alice vede
il suo sguardo senza vederlo, lo vede come una pura concavità nella scena,
una mancanza che, diceva Lacan, “manca esattamente al suo posto”,21. a suo
modo c’è e si fa sentire.
Così, per un verso lo sguardo di Alice si fa scena, si fa cosa sugli scaffali,
si rende visibile come oggetto tra gli oggetti, cade tra le cose prendendovi
tendenzialmente posto. Al termine della caduta troviamo la cassetta,
troviamo lo sguardo che è sempre anche questo divenire cosa guardata,
peraltro senza mai divenire definitivamente cosa, senza mai farsi vedere
appieno. Prima o poi il posto vuoto si sposta. Per un altro verso, lo sguardo
di Alice cade, contemporaneamente, fuori da quella scena che si va
costruendo, e che si va costruendo anche grazie a questo cader fuori scena
dello sguardo. La bambola indica questa seconda direzione, questo divenire
soggettivo dello sguardo, questo sollevarsi sempre incompiuto, sempre
precario, della scena a punto di vista su se stessa. La scena diventa Alice,
intanto che Alice diventa scena. Lo sguardo diventa occhio, intanto che
l’occhio diventa lo sguardo di Alice, di una bambina con nome e cognome,
di un soggetto che sta di fronte a un oggetto o a un insieme di oggetti o a un
mondo, come si suole dire.
Tutto il passo di Carroll ha a che fare con questo doppio divenire. C’è
qualcosa come un movimento unico, che proprio accadendo in un sol colpo
si sdoppia, procede in due direzioni divergenti, verso la cassetta dunque
verso la bambola, verso l’oggetto dunque verso il soggetto, verso il suo
soggettivarsi dunque verso il suo oggettivarsi, verso il suo divenire
significato dunque ver-
so il suo divenire significante. Doppie serie che si creano in virtù di quel
punto che sfugge loro, doppie serie che si annodano l’una all’altra in virtù
di quel nodo che le ha divise e le allontanate l’una dall’altra. Simmetrica
distribuzione di elementi che iniziano a valere gli uni in rapporto agli altri
proprio in forza di quell’elemento che non ha posto tra loro, ma in cui e
grazie a cui essi trovano posto e ordine. La bambola-cassetta, questa cosa
polimorfa e instabile, questo oggetto propriamente perverso, stabilisce la
corrispondenza ordinata degli oggetti e dei soggetti, delle cose e delle
parole, dei significati e dei significanti.
Definisce anzitutto la prima corrispondenza: una scena, e qualcuno che la
osserva. Ecco delle cose sullo scaffale, ecco davanti a loro la bambina che
guarda. E poi, definisce tutte le altre corrispondenze, comprese quelle che
neppure vengono nominate. Ecco che ogni oggetto diviene ciò che è. Il
libro è un libro e non un cappello, il cappello è un cappello e non un vaso di
fiori, e così via. Ogni cosa coincide finalmente con se stessa, o meglio ogni
cosa diviene finalmente un significante che coincide col suo significato,
anzitutto perché ogni cosa è divenuta la giunzione di un significante senza
significato e di un significato senza significante. Sembra ovvio? Certo che
lo è, a cose fatte. Prima, però, bisognava che le cose si facessero. Bisognava
che qualcosa diventasse un significante, e che qualcosa diventasse un
significato. Nei termini del suo saggio su Il possibile e il reale, bisognava
che qualcosa diventasse materia per qualcos’altro, e che qualcos’altro
diventasse forma per quel primo qualcosa. Il mezzo, e anche il prezzo, di
questo doppio divenire divergente, è appunto la caduta dell’oggetto
perverso, la sua risoluzione, la sua castrazione. O cassetta o bambola.
Cancellazione tendenziale, peraltro. Che è quanto dire insistenza perenne,
ai margini del campo e anzi al cuore del campo, dell’oggetto perverso.
L’oggetto perverso, lo sguardo, il virtuale, “circola tra le serie”, dice
Deleuze. O le serie circolano in lui, si muovono nel campo gravitazionale
del suo evento, non cessano di transitare attraverso il suo geometrale
immobile. Se guardiamo da questo punto di vista la questione della nevrosi
e della psicosi, da cui partivamo poco fa, la conseguenza è una sola.
L’ordinato corrispondersi dei significati e dei significanti (nevrosi) o lo
slittare inarrestabile delle due catene l’una sull’altra (psicosi)
presuppongono entrambe uno spazio in cui i significanti e i significati si
costituiscono come tali o si stanno costituendo come tali. E quello spazio è
la struttura di ogni struttura, è la perversione come strutturazione in corso
della divisione nevrotica significante/significato e dello slittamento
psicotico significante/significato. Proprio su questo punto, si potrebbe
aggiungere, si differenziano la perversione come paradigma filosofico e la
perversione come condizione clinica. Il perverso in senso clinico, che vuole
fare della sua vita il metro unico della sua vita, è un soggetto che vuole
scrivere la legge, è qualcuno che suppone di poter progettare da cima a
fondo una nuova struttura.22. La perversione come paradigma filosofico
mostra che il soggetto è semplicemente una delle cose scritte dalla legge
che va scrivendosi, è solo uno degli oggetti disposti dalla struttura che va
strutturandosi. Nella scena deleuziana non è Alice a governare il gioco, ma
il suo sguardo. Il suo sguardo in quanto sta divenendo il suo, senza esserlo
ancora.
Il dio oltraggiato
Questo ci porta alla seconda questione, la complicità. Alice è una
singolarità, è l’evento di una struttura che la struttura non può dire e che
pure non smette di suggerire, è il virtuale che non cessa di creare i suoi
possibili e impossibili essendone ricreato a ogni passo. Ma come si
esprimono queste vite che hanno se stesse come unico metro, come
comunicano queste singolarità che sono paradigma esclusivo di se stesse?
Non comunicano affatto, si direbbe. Ed è sul filo di questa conclusione,
adeguata e insieme inadeguata, che va collocato il testo forse più bello che
l’intera stagione speculativa di cui parliamo abbia dedicato al marchese de
Sade. Lo ha scritto Pierre Klossowski e si intitola Il filosofo scellerato. Da
un certo punto di vista il saggio di Klossowski è un saggio sul linguaggio,
una meditazione sul modo in cui comunicano quegli esseri della singolarità
che sono i perversi. Ma è anche un saggio che di fatto liquida Sade, o
almeno il modo in cui Sade e i sadiani hanno inteso il nocciolo di una certa
esperienza.23. L’essenziale della perversione non è sadico, e non lo è
neppure l’essenziale della sfida che la perversione lancia alla filosofia.
Nelle pagine centrali del Filosofo scellerato, Klossowski sottolinea nel
gesto sadiano una difficoltà strutturale, una difficoltà di natura anzitutto
linguistica. Scrive Klossowski: “Sade inventa un tipo di perverso che parla
a partire dal suo gesto singolare in nome della generalità”.24. Tutti lo sanno:
nei suoi romanzi Sade non smette di descrivere, teorizzare, argomentare,
dimostrare. Non è un gesto paradossale? Come può una singolarità
argomentare in nome di una generalità? Della singolarità non ne sarà più
nulla, se parlare significa mediare, dare rappresentazione universale a
qualcosa che è dell’ordine del particolare, misurare col metro di un segno
estrinseco qualcosa che a contatto con quel metro o quel segno si dividerà
istantaneamente e simmetricamente. Da una parte ciò che corrisponde a
quel metro e che non apparirà più come singolare ma come universale,
dall’altra qualcosa che non corrisponde a quel metro e che a sua volta non
apparirà più come singolare ma come negativo dell’universale, dunque
ancora come universale. Di qui, per inciso, la reiterazione a cui Sade è
costretto, l’eterno ricominciare delle sue dimostrazioni, l’infinito
sprofondare in descrizioni sempre più crude. “Se il perverso parla, si chiede
Klossowski, può forse dimostrare in nome della generalità che non c’è
generalità?”25.
Ma l’oltraggio sadiano, a ben vedere, non ha il suo unico oggetto nel
linguaggio. Sade deve trasgredire in modi sempre più atroci non solo il
logos ma il nomos, non solo la parola ma la legge. Intollerabile è tutto ciò
che è rapporto, proporzione, commisurazione, tutto ciò che lega cosa a cosa,
che accomuna evento a evento. Da questo punto di vista, la ferocia della
devastazione sadiana non è che il grido di dolore della singolarità davanti
alla macchina della mediazione, che macina la singolarità nel gioco
circolare del particolare e dell’universale. È per questo che Georges Bataille
ha potuto osservare in un lampo che il linguaggio di Sade è molto più “il
linguaggio della vittima” che non quello del carnefice.26. Una singolarità
vuole parlare altrimenti, e forse vuole abitare altrimenti il linguaggio stesso,
la legge stessa. Una singolarità non funziona così come la dialettica
suppone, e neppure il linguaggio funziona così, almeno se ci collochiamo
dopo la morte di Dio, dopo la caduta dell’illusione del fuori, dopo la
liquidazione della figura del sorvolo. Il linguaggio potrebbe non essere un
metro esteriore, che cala dall’alto sul paesaggio delle cose e delle esistenze.
La legge potrebbe non essere un rapporto trascendente, che si posa sugli
eventi soppesandoli dall’alto della sua estraneità. Che accadrebbe se
pensassimo che proprio le cose si sollevano in se stesse facendosi figura,
che proprio gli esseri si sollevano in se stessi divenendo legge o linguaggio?
Assisteremmo a qualcosa come una genesi figurale del linguaggio,
toccheremmo con mano una sorta di perdurante sostanza immaginale della
mediazione, capace di innervare ogni rapporto, ogni proporzione fino alle
estreme propaggini della loro logicizzazione. Il segreto del simbolico, il
simbolo del simbolico sarebbe dunque un’immagine?

Il dio complice
Quello strano romanzo filosofico che Klossowski intitola Il Bafometto27. è
forse l’espressione più profonda di questo pensiero dell’incomunicante
comunicazione figurale delle singolarità. Klossowski pubblica Il Bafometto
due anni prima del Filosofo scellerato. Ma se Il filosofo scellerato misura
l’impasse sadiana indicandone ipoteticamente l’al di là, Il Bafometto ha già
risolto l’impasse e si è già installato in quell’al di là.
Lo sfondo del romanzo è quello di un medioevo più o meno fantastico.
Protagonisti sono un gruppo di templari desiderosi di ricostruire il loro
ordine dopo che il re di Francia, Filippo il Bello, l’ha sciolto in parte per
motivi politici, in parte a causa delle efferatezze di cui si era macchiato. Tra
quelle efferatezze, peraltro, ritroviamo tutti i crimini classicamente sadiani.
I fratelli non mancano di sputare sul crocifisso, di praticare il bacio
dell’infamia, di adorare gatti neri e altri idoli assortiti, di compiere
cerimonie pagane, di dedicarsi a un esercizio di sodomia che ha tutta l’aria
di essere più dimostrativo che voluttuoso. Ma in ultima analisi il romanzo
passa accanto a tutto questo. Essenziale non è ciò che i templari fanno per
oltraggiare Dio, ma ciò che via via sperimentano come un altro ordine della
divinità, come la costruzione possibile di un ordine numinoso finalmente
immanente.
Al netto dello sfondo storico, i cavalieri del Bafometto si affacciano, per
lunghi tratti della narrazione, su una sorta di scena senza tempo, in cui
vedono materializzarsi illustri personaggi appartenenti ad altre epoche, su
tutti santa Teresa d’Avila e Friedrich Nietzsche. I cavalieri stessi sembrano
sospesi su una soglia perfettamente instabile, che mette il loro tempo e la
loro identità in una condizione di perpetuo scambio con altri tempi e con
altre identità, per la cui notevolissima resa letteraria qualcuno ha
giustamente parlato di “écriture baphométique”.28. Una generale atmosfera
di sognante ambiguità accompagna ogni personaggio, ogni scena. Chi parla,
chi agisce? E agisce effettivamente, o piuttosto è agito, ripete l’azione di un
altro, diviene la parola di un altro ripetendola, il quale a sua volta…?
“Bafometto” non è altro che il nome, nel romanzo, di un idolo adorato dai
cavalieri del Tempio, piccola scultura d’oro portatrice di questo potere di
ripetizione metamorfica e di risonanza incrociata, sorta di oggetto perverso
o di casella vuota di cui tutto il romanzo è la struttura che si dispiega, la
sempre cangiante danza di identità e sostituzioni di identità.
Parlando di Roberta stasera, un romanzo che Klossowski scrive una
decina d’anni prima del Bafometto, un filosofo del linguaggio oggi
purtroppo dimenticato come Brice Parain ha fornito con rara lungimiranza
alcune coordinate capaci di illuminare l’intera produzione klossowskiana.29.
Parain ricorda anzitutto che per la teologia scolastica, in cui Klossowski si è
formato e non ha mai smesso di reperire suggestioni decisive, l’uomo non è
soltanto un’unità di anima e corpo, ma un terzo elemento gioca un ruolo
essenziale, l’elemento dello spirito. È grazie allo spirito, prosegue Parain,
che secondo gli scolastici medievali gli uomini comunicano, e comunicano
non tanto perché in rapporto tra loro quanto perché, ciascuno
singolarmente, in rapporto con Dio. È in Dio, in altri termini, che ogni
uomo è “complice”, per usare una parola chiave del Filosofo scellerato,30.
ed è sul fondo di questa complicità in Dio o di Dio con se stesso attraverso
gli uomini, che accade ogni umana comunicazione, ogni mediazione e ogni
rapporto che sembrerà andare dall’umano all’umano.
Se seguiamo il suggerimento di Parain, dobbiamo concludere che il
problema di Klossowski, tra Roberta stasera e Il Bafometto, non riguarda
altro che la messa a punto di un modello di comunicazione per un verso
assolutamente originale rispetto alla moneta corrente della dialettica, per
altro verso assolutamente canonico se si guarda alla tradizione filosofica più
classica. Solo se comunicare significa attraversare un vuoto, misurare una
distanza, mediare una differenza ormai accaduta, allora la comunicazione
diventa un fenomeno misterioso e in ultima analisi un esercizio di violenza.
Solo se il paradigma della mediazione è posto inavvertitamente alla base
della nostra comprensione del linguaggio, allora Sade ha ragione di gridare
la sua angoscia, di denunciare il destino insopportabile a cui la macchina
hegeliana della mediazione condanna la singolarità di una vita che solo in
se stessa trova il proprio paradigma. Se invece si ricollocano la legge, il
linguaggio, la comunicazione nell’elemento dell’assoluto, ogni enigma e
ogni violenza svaniscono improvvisamente. Non “tutto è in tutto” ma “tutto
comunica con tutto”, questa sarebbe forse la formula cui l’écriture
baphométique tenta di dare corpo narrativo.
Traduciamo infatti l’ipotesi della scolastica in termini più vicini a noi.
Assumiamo che l’essere non sia dell’ordine del discreto ma dell’ordine del
continuo. Ipotizziamo che gli esseri non siano separati, non abbiano identità
e consistenza autonoma, ma che ogni essere sia un’emergenza momentanea
del sistema, che ogni singolarità sia tutto l’essere anche se transitoriamente
ricapitolato nella figura di quella singolarità. La stoffa diviene piega, la
superficie si fa punto di vista, la struttura sorvola se stessa prendendo figura
di una certa singolarità. Ma ogni evento è un simile movimento, ogni punto
della stoffa esercita la stessa virtù, ogni piega ricapitola l’intera stoffa e cioè
l’intera geometria delle altre pieghe. Sicché la stoffa non esiste affatto se
non come uno sciame di infinite singolarità, ciascuna assolutamente
esaustiva della totalità, ciascuna perfettamente solitaria. Tutte loro sono
ogni volta tutto ciò che c’è. Se queste singolarità comunicano, comunicano
paradossalmente, perché comunicano non tanto sormontando una distanza
che le divide, dato che ogni singolarità è tutto ciò che c’è e non ha nulla
fuori di sé, quanto rapportandosi alla propria intimità, ritrovando nel fondo
di se stesse ogni altra singolarità come propria figura o come variazione
della propria figura.
Per altro verso, queste singolarità non comunicano mai qualcosa, e non
comunicano mai quel qualcosa a qualcuno, cioè un’altra singolarità.
Semplicemente, divengono. Divengono ogni altra singolarità per il solo
fatto di divenire se stesse, e ciò che comunicano alle altre singolarità non è
altro che questo loro divenire, che è in ogni senso un divenire comune. È la
bambola-cassetta di Carroll-Deleuze, è il dio eterogeneo che i portoghesi
incontravano in Africa in quei precari assemblaggi di stoffe e perline. Che
quelle singolarità divengano se stesse, significa peraltro che si fanno vuote,
si riducono a neutro geometrale di tutte le altre singolarità prospetticamente
disposte, insistono in sé come la soglia incorporea attraverso cui tutte le
altre divengono, prendono corpo e significato, si fanno materia e forma di
quella soglia perfettamente neutra. La comunicazione non è più il
misterioso potere di sormontare differenze ormai accadute e incomponibili,
ma è il semplice accadere della differenza, il semplice evento di ogni
differenza come differenza ogni volta unica di tutte le altre differenze.
Nei termini di Brice Parain, è in Dio che ogni essere comunica, ma ogni
essere è un Dio se si vuole evitare di mettere Dio da qualche parte,
facendone un essere separato e dunque finito, e gli uomini da qualche altra
parte, facendone esseri separati e finiti solo al prezzo di costruire Dio a
somiglianza della loro finitezza. Così, che Dio sia coerentemente posto
come assoluto comporta allora immediatamente l’idea della comunità o
della comunicazione tra quelli che Klossowski chiama nel suo romanzo
“soffi”, con evidente riferimento al terzo elemento indicato da Parain
nell’antropologia della Scolastica. Soffio, spirito, nella lingua filosofico-
romanzesca di Klossowski, è ciò che resta dell’esperienza una volta
sottratta l’esperienza al dispositivo di identificazione incentrato
sull’assemblaggio corpo-anima. Soffio, spirito, nomina lo statuto
dell’esperienza singolare una volta sganciata dal trattamento che ne dava la
macchina della mediazione dialettica, che di ogni esperienza individuava
una materia e dunque una forma, un passato e dunque un futuro, una
potenza e dunque un compimento, un soggetto e dunque un’azione
individuale. Se viene meno il punto di vista esterno, che su una vita può
esser preso solo da un Dio ridotto a sua volta a punto di vista, ciò che resta
in campo è un insieme paradossale di pure dissomiglianze. Insieme
paradossale perché composto ogni volta di un solo elemento, di una sola
pura dissomiglianza, intenta ogni volta a elevarsi a paradigma, proprio
facendo transitare e divenire ogni altro elemento nel geometrale apatico
della sua singolarità. Così, illustrando questa comunicazione di singolarità
inchiodate all’illimitata apertura della loro solitudine, Klossowski può
scrivere: “Il soffio non è che spazio trasparente fino al punto di stimare
come interno a se stesso tutto quanto gli accada, e non crea nella sua
intenzione senza oggetto altro che delle esteriorità puramente ipotetiche,
come ipotetica è questa stessa intenzione. Se un altro soffio gli viene
incontro, eccoli supporsi reciprocamente, ciascuno secondo un’intensità
variabile”.31.

Federico Leoni insegna Antropologia filosofica all’Università di Verona.


1 J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio” (1966), in Scritti, trad. di G.
Contri, Einaudi, Torino 1976, vol. II, p. 827.
2 Id., “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi” (1966), in Scritti, cit., vol. I,
p. 273.
3 S. Freud, “Feticismo” (1927), in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol.
X, p. 494. Per uno straordinario approfondimento dei modi in cui l’operazione feticista innerva le
altre operazioni, via via più lontane, della perversione, cfr. H. Rey-Flaud, Le démenti pervers. Le
refoulé et l’oublié, Aubier, Paris 2002.
4 Ibidem.
5 Riformulo, a dire il vero con qualche libertà, la risposta che Bruno Latour dice gli sarebbe
piaciuto sentire uscire dalla bocca degli africani in quel frangente: B. Latour, Il culto moderno dei
fatticci (1996), trad. di C. Pacciolla, Meltemi, Roma 2005, pp. 46-47.
6 F. Nietzsche, La gaia scienza (1887), trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1997, aforisma 125.
7 Ibidem.
8 C. Melman, L’homme sans gravité, Denoël, Paris 2002.
9 H. Bergson, “Il possibile e il reale”, in Pensiero e movimento (1934), trad. di F. Sforza,
Bompiani, Milano 2010.
10 Ivi, p. 92.
11 Ivi, p. 85.
12 Ibidem. Sul ruolo strategico di quest’espressione in Bergson, cfr. F. Leoni, R. Ronchi,
“Introduzione”, in H. Bergson, Storia della memoria e storia della metafisica (2002), trad. di F.
Leoni, ETS, Pisa 2007; R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano 2011, p. 161 sgg.
13 Ivi, p. 93. Come si sa, il termine “virtuale” è destinato a grande fortuna nell’opera di G. Deleuze
a cominciare da Differenza e ripetizione (1968, trad. di G. Guglielmi, Raffaello Cortina, Milano
1997, p. 269 sgg.). Cfr. “aut aut”, 204, 1984, numero monografico: Sfumature. Materiali per
rileggere Henri Bergson. Cfr. P.-A. Miquel, Bergson ou l’imagination métaphysique de la vie, Kimé,
Paris 2007.
14 G. Deleuze, Logica del senso (1969), trad. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, in
particolare “Ventitreesima serie – Sull’Aiôn”, p. 147.
15 H. Bergson, “Pensiero e movimento”, cit., p. 96.
16 Aristotele, Fisica, II, 9.
17 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 125.
18 R. Ruyer, “Superfici assolute e domini assoluti di sorvolo” (1952), in La superficie assoluta,
trad. e cura di D. Poccia, Textus, L’Aquila 2018.
19 S. Freud, “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905), in Opere, cit., vol. IV, pp. 499-500.
20 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 44.
21 J. Lacan, “Seminario sulla Lettera rubata” (1966), in Scritti, cit., p. 22.
22 M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica. Struttura e soggetto, Raffaello Cortina,
Milano 2016, p. 419: “Egli conduce l’atto della trasgressione al suo punto più estremo, il punto in cui
esso si ribalta in una nuova forma di legge”. Sulla differenza tra perversione come figura clinica e
perversione come figura filosofica, mi permetto di rinviare a F. Leoni, “Un altro uno. Lacan, la legge,
la perversione”, in A. Campo (a cura di), L’uno perverso. L’uno senza l’altro, una perversione?,
Textus, L’Aquila 2017.
23 Primo fra tutti Klossowski con i suoi primi scritti, poi culminati nel celebre Sade prossimo mio
(1947), trad. di G. Amaducci, ES, Milano 2003.
24 P. Klossowski, “Il filosofo scellerato” (1967), in Sade prossimo mio, cit., p. 32.
25 Ivi, p. 33.
26 G. Bataille, “Préface”, in D.A.F. de Sade, Justine, ou les malheurs de la vertu, Pauvert, Paris
1955, p. XXV.
27 P. Klossowski, Il Bafometto (1965), trad. di L. De Maria, SugarCo, Milano 1994.
28 J. De Cottignies, Klossowski notre prochain, Veyrier, Paris 1985, p. 94. Sul Bafometto ha pagine
efficaci A. Marroni, Pierre Klossowski. Sessualità, vizio, complotto, Costa & Nolan, Milano 1999, p.
163 sgg.
29 B. Parain, Pierre Klossowski: Roberte ce soir, “Nouvelle Revue Française”, 16, 1954, pp. 720-
722.
30 P. Klossowski, Il filosofo scellerato, cit., p. 33.
31 P. Klossowski, Il Bafometto, cit., p. 64.
Erotismo della morte o ciclo
di isteresi. La perversione
tra Barthes e Deleuze
SILVIA VIZZARDELLI

1. Premessa: descrizioni e forme


Si può vivere con Sade, si può vivere con Masoch. A cosa dobbiamo il
gusto di intrattenerci con loro, di assaporarne gli universi immaginari? Non
certo alla volontà di attuare nella nostra vita i dettagliati programmi sadici e
orgiastici contenuti nei loro libri, frutto di una bizzarra e satanica grandeur.
Per alcuni versi, neanche allo sfinente lavoro interpretativo cui filosofi,
pensatori e psicoanalisti, più frequentemente di area francese, si sono
dedicati, allestendo scenari speculativi di sofisticatissima officina, fatti di
vertiginosi scambi di posto e ontologici capovolgimenti. Una fatica del
pensiero che talvolta sembra allontanarci dall’oggetto di godimento e dalla
desiderabilità di quelle volute teoriche, pur donandoci infine, per restare nel
nostro tema, un piacere altro. Del resto fu proprio Jean Paulhan, autore della
prefazione alla prima versione di Justine (Les infortunes de la vertu), a
sottolineare che questo libro poneva una domanda tanto ardua che un secolo
intero non sarebbe stato sufficiente per darvi una risposta.1. Un esempio su
tutti: Kant con Sade2. di Lacan. Lo leggiamo, lo studiamo, a ogni giro di
frase ci pare di capire, ma poi non riusciamo a tollerare lo sforzo di tenere
insieme una lettura azzardata della seconda critica kantiana con lo
stravolgimento della massima sadica riscritta a proprio uso e consumo. Non
voglio essere fraintesa: ho sofferto e tanto imparato da questo testo, come,
in modi diversi, da quelli di Bataille, di Klossowski. Tutti sono decisivi, e di
tutti terrò conto in queste mie brevi considerazioni, non fosse altro che per
mettere a frutto il brusio, con l’annesso godimento perverso, che sento
ancora ronzare nella testa.
Si può vivere con Sade e Masoch a patto di sposare una prospettiva al
contempo descrittiva e formale. Dopotutto, ci muoviamo in un campo tra
psicoanalisi e filosofia, che è stato sempre reso instabile dalla doppia
necessità di tenere insieme lo studio e l’analisi del caso, nella sua evidenza
fenomenologica, con la ricerca delle componenti strutturali,
“trascendentali”, la forma appunto, capace di mostrarci la possibilità di ciò
che viene trattato, contro ogni nominalismo. Il rischio di descrivere
comportamenti, occorrenze, figure materiali e morali della perversione, di
fatto rincorrendo affannosamente nomi, è sempre alle porte. Così come è
sempre dietro l’angolo il pericolo opposto, quello di un affanno formale,
che rende troppo distante il riferimento all’esperienza. Occorre quindi
tenere insieme il più possibile questi due versanti. Purtroppo non ci sono
esempi significativi, nella storia delle interpretazioni, di questa sintesi
feconda, per cui mi limiterò a individuare i maestri dei due modelli, quello
descrittivo e quello formale, rimandando magari ad altro contesto, la
proposta di ibridazione.
Dunque, da una parte Barthes, dall’altra Deleuze. Barthes lo assumo come
la via maestra di una “fenomenologia” della perversione attraverso la
delibazione della letteratura sadica, col suo gusto dei dettagli materiali, e la
capacità di far balenare, lungo la linea dell’invisibile, la struttura a venire;
Deleuze come esempio di un antinominalismo strutturale esplicito, che
mantiene sullo sfondo i casi, le evenienze, le occorrenze. Insomma, se
dovessi fare un esperimento mentale, direi che la trattazione migliore della
perversione, ammesso che si voglia il testo unico e non ci si accontenti di
aprire e chiudere due libri entrambi imprescindibili, sarebbe quella che
disvela l’implicito dei due autori.

2. Barthes: il viaggio senza viaggio, il vestire senza


vestire, il mangiare senza mangiare
Un ingresso morbido nell’edificio della perversione ce lo offrono i due
saggi che Barthes dedica a Sade in Sade, Fourier, Loyola (1971). La
perversione viene presentata come un “canto discontinuo di amabilità”, una
pluralità di incanti “in cui nondimeno leggiamo la morte con più certezza
che nell’epopea di un destino”.3. E allora si affaccia subito il tema del
viaggio. Viaggiano molto i personaggi di Sade, in Europa, tra Francia e
Italia, o fino in Siberia, ma è un viaggio privato della sua anima, un viaggio
senza iniziazione, senza apprendistato. Le geografie delle città, delle
campagne, dei giardini, anziché rappresentare luoghi di avventura, sono
mappe funzionali dove nulla è da scoprire, nulla da imparare. “Le città non
sono che procacciatrici, le campagne ritiri, i giardini scenari e i climi
operatori di lussuria.”4. Si attraversano continenti, ma il luogo è sempre uno
solo, quello chiuso, isolato, autarchico della ripetizione, dell’insistenza,
dell’accanimento. Luoghi allestiti, come scene teatrali, da una sapiente e
dettagliata regia che fa del quotidiano la vera utopia. “Orari, programmi di
nutrizione, progetti di abbigliamento, installazioni mobiliari, precetti di
conversazione o di comunicazione, tutto questo è in Sade.”5. Dunque c’è il
viaggio, ma sul lato del sembiante. Occorre abituarsi a questa sfasatura
dello sguardo per simpatizzare con i libertini di Sade.
Lo stesso accade per l’alimentazione. Sappiamo tutto di quello che si
mangia a Silling dall’alba al tramonto, entrando in un dettaglio
gastronomico che fa invidia a un buon ricettario, eppure il cibo è
semplicemente un segno che rinvia a un fatto di casta. Dunque anche il cibo
è preso dal lato del sembiante. Come il vestire, del resto: spogliato della sua
componente erotica, l’abbigliamento acquista un valore asetticamente
funzionale. “L’abito o segnala, mediante artifici precisi (colori, nastri,
ghirlande) le classi di soggetti: classi di età […], classi d’iniziazione (i
soggetti vergini cambiano segno vestimentario dopo la cerimonia della loro
deflorazione), classi di proprietà (ogni libertino dà un colore alla sua
scuderia).”6. Su tutto vige un sistema di gestione, di controllo che mira a
portare al vertice il godimento, a disporne nel presente, senza attesa,
mancanza, iniziazione, mistero, divisione.
L’esplorazione di Barthes prosegue nell’analisi dei discorsi, dei giochi di
parole che apparecchiano la scena orgiastica, nell’enumerazione delle
macchine voluttuose e criminali di cui si servono i libertini, macchine per
violare, per fustigare, per ingravidare, per far godere. Ma l’essenziale è che
tutto il gruppo vivente sia concepito come una macchina la quale, una volta
in moto, produca i suoi abominevoli automatismi. Le parole chiave sono
dunque controllo, ordine, saturazione, denegazione della mancanza,
assolutizzazione della volontà di godimento esteso a tutte le occasioni del
quotidiano. Una energia sempre in crociera.
Cos’è, allora, che più precisamente fa di questi viaggi un non-viaggio, di
questa vita il rovescio della vita? Cosa ammanta di sfinimento il
quotidiano? Effettivamente a essere messi in campo sono gli aspetti più
pertinenti per descrivere l’immanenza della vita: il viaggio, il cibo, il
godimento del corpo, il godimento della parola. Come giustificare allora il
passaggio al sembiante? Qui l’analisi di Barthes si arresta e abbiamo
bisogno di rivolgerci a un’altra voce.

3. Deleuze: salto sur place


Barthes descrive il luogo della perversione come un sistema chiuso,
preordinato e gestito in ogni dettaglio. Nell’analisi strutturale che Deleuze
propone, questa chiusura prende i tratti delle serie incomunicanti. L’unità
sadomasochista è definitivamente sciolta, al punto che le due perversioni
vengono a costituire due mondi in sé completi e autosufficienti. Siamo
tentati, ci spiega Deleuze, ad astrarre erroneamente la miscela piacere-
dolore, come una sorta di materia neutra comune a sadismo e masochismo.
Se è indubbiamente vero che il sadico prova un certo piacere nell’infliggere
torture e il masochista gode nel sentire dolore, ciò avviene in modi
irriducibilmente diversi nelle due perversioni. L’analogia che lega sadismo
e masochismo non può autorizzare il passaggio dall’uno all’altro sistema,
dall’una all’altra serie. Innanzitutto perché “tutta l’energia disponibile di un
soggetto si trova mobilitata nell’impresa di questa o di quell’altra
perversione. Sadico e masochista che sia, forse ognuno recita un dramma
sufficiente e completo, con personaggi diversi, senza che nulla, né
dall’interno né dall’esterno, possa farli comunicare tra loro”.7. In ciascuna
serie non residua una componente di energia libera, capace di legarsi, di
empatizzare con l’altra serie. In altre parole, ogni personaggio di una
perversione ha bisogno solamente di un elemento implicato nella stessa
perversione; il masochista si costruisce dall’interno la sua Vergine in
pelliccia, la quale non è né una vera né una falsa sadica, ma qualcosa di
completamente diverso, che appartiene esclusivamente alla serie
masochista. Lo stesso vale per il sadismo.
Barthes descrive il “gruppo vivente” della perversione come una
macchina congelata nelle sue funzioni. Nel discorso di Deleuze, questa
sorta di pietrificazione degli affetti si distingue nell’apatia sadica e nel
freddo masochista, distinzione che compendia le dieci opposizioni che
vengono descritte analiticamente nel Freddo e il crudele (1967) e su cui non
possiamo ora soffermarci. L’apatia sadica è un congelamento del
sentimento, al fine di guadagnare una sensualità impersonale, pura,
macchinica. Qualsiasi entusiasmo degli affetti, persino quello del far del
male va tenuto lontano come residuo di bontà. La freddezza masochista è
invece disconoscimento della sensualità, per far trionfare la glacialità del
sentimento. Masoch annuncia la nascita dell’uomo nuovo, privo di amore
sessuale, ma aperto a una sentimentalità assediata dal ghiaccio, una
sentimentalità che resiste sotto il freddo ed è protetta dalla pelliccia. “Il
freddo è al tempo stesso ambiente protettore e medium, bozzolo e veicolo:
protegge la sentimentalità sovrasensuale come vita interiore, e l’esprime
come ordine esterno, come Collera e Severità.”8.
Abbiamo concluso il paragrafo su Barthes chiedendoci cos’è che
nell’orizzonte della perversione fa della vita una non-vita. Qui cominciamo
a trovare una possibile risposta. Freddezza, apatia, glacialità, pietrificazione
sono nel cuore della perversione. Ma “in che senso?”, si chiede Deleuze.
Non certo perché sia qui in gioco una messa in mora dell’onnipervasività
del principio di piacere, il quale non viene mai spodestato, per il fatto che,
secondo Deleuze, Thanatos tace, pur essendo implicato, mentre a parlare
sono le infinite combinazioni del piacere. Cosa è dunque questa siderazione
perversa, nella duplice declinazione dell’apatia e della freddezza, se non è
una manifestazione diretta di Thanatos?
Per rispondere a questa domanda, Deleuze fa riferimento alla teoria
freudiana del disimpasto pulsionale, attraverso la quale il padre della
psicoanalisi spiega la costituzione dell’Io narcisistico e del Super-io. In
entrambi i casi, è in gioco un fenomeno di desessualizzazione, di
neutralizzazione di una certa quantità di energia erotica, resa così libera per
costituire nuovi legami, nuovi concatenamenti pulsionali. Nel caso dei
disturbi funzionali della nevrosi, la desessualizzazione acquista il
significato di una idea-lizzazione immaginaria dell’Io, nel caso invece della
sublimazione prende la via di una identificazione che spiega la potenza del
pensiero nel Super-io. Il disimpasto quindi, lungi dall’essere una smentita
del principio di piacere, è la costituzione di una libido neutra, trasferibile
nelle altre combinazioni.
Oltre alla combinazione nevrotica e a quella sublimante, ne esiste una
terza che è rappresentata dalle perversioni. In questo caso la freddezza della
desessualizzazione è ancora più potente e vivida che negli altri due, ma non
ha bisogno della complementarità dell’Io e del Super-io. Nel caso
dell’apatia sadica e della freddezza masochista, la desessualizzazione non
attende di trasferire l’energia nel legame con l’idealizzazione e
l’identificazione, ma resta sur place, si risessualizza sul posto. Siamo in
presenza di una erotizzazione del ghiaccio, della pietra: non occorre
attendere il rivolo d’acqua di un parziale scongelamento per pervenire a
nuove lagune calde, perché è il ghiaccio che si erotizza sul posto. “Si
desessualizza Eros, lo si mortifica, per meglio risessualizzare Thanatos.”9.
Questo equivale a dire che Thanatos continua a tacere sotto le metamorfiche
e plastiche combinazioni di Eros.
Possiamo ricavare da questa straordinaria interpretazione delle perversioni
la lettura che Deleuze propone del testo più controverso della storia della
psicoanalisi, vale a dire Al di là del principio di piacere di Freud. Tutto si
gioca nell’interpretazione di quell’“al di là” che non significa per Deleuze
l’introduzione di un’eccezione rispetto al principio di piacere. Quest’ultimo
resta l’unico a governare la vita psichica, ma dobbiamo ammettere
filosoficamente un’istanza superiore, un principio trascendentale, un
principio di secondo grado che renda conto di questa sottomissione dello
psichico al piacere. “Non si tratta di eccezioni al principio del piacere, ma
della fondazione di questo principio.”10. Tale fondamento viene individuato
nell’Eros come legame e ripetizione. È il legame (nella duplice veste di
legame energetico nella stessa pulsione e di legame biologico delle cellule)
che rende il piacere un principio. Resta ancora la domanda delle domande:
in che modo la ripetizione può intervenire nella vita senza farvi capolino
con un altro ritmo nel prima della vita, nell’inanimato? La ricerca del
fondamento non si conclude col reperimento di Eros, in quanto esso può
affermarsi come legame, vita, ripetizione unicamente trascinando con sé la
sua negazione. Dunque al di là di Eros, Thanatos. Al di là della ripetizione-
legame, la ripetizione che uccide e che cancella, la quale non costituisce
un’eccezione al principio di piacere, ma ne è un resto, una conseguenza.
Questa è secondo Deleuze la grande scoperta di Freud: un monismo (la
ripetizione), un dualismo di natura (la ripetizione-legame in Eros e la
ripetizione demoniaca in Thanatos) e una differenza di ritmo (il ritmo alla
nascita e il ritmo prima della vita, nell’inanimato). Insomma, Thanatos è
uno dei ritmi della ripetizione e della vita, ed è per questo che il gelo della
morte può essere risessualizzato nelle perversioni, rimanendo sul posto.
Questa lettura deleuziana della perversione come salto sur place legittima
l’ipotesi di chi considera la perversione nell’ottica di un’etica
dell’immanenza. In fondo è la vita che parla, sebbene trascinandosi dietro la
morte, come sua negazione, come altro ritmo. Si comprende quindi il senso
della proposta di Federico Leoni che, per questo numero di “aut aut”, ci ha
invitati a riflettere su sadismo e masochismo come, appunto, due etiche
dell’immanenza. L’orizzonte del vizio sarebbe dunque escluso: a parlare
sarebbero pur sempre le virtuose combinatorie della vita.
Thanatos non parla, dunque. E se fosse proprio questo silenzio a
consentirci di afferrare il lato vizioso della perversione? Se il pervertire, il
“deviare” consistesse nel non poter più accedere a quell’abbandono
inerziale che è caratteristico della pulsione di morte? In tal caso,
occorrerebbe lasciare indietro il salto sur place di Deleuze per avvicinare il
ciclo di isteresi.

4. Ciclo di isteresi
C’è dell’insistenza, dell’ostinazione, della ripetizione potenziata nelle
perversioni. Una insistenza fredda, apatica, macchinica, abbiamo detto con
Barthes e Deleuze. La mia ipotesi è che questo battere e ribattere siderato,
anziché rappresentare il luogo di una risessualizzazione sia una deriva in
isteresi della vita. La morte non parla, e proprio per questo motivo la vita,
sovrastimolata, ridondante, si rilascia, si smolla alla stregua di un materiale
che ha perso la sua elasticità. Come abbiamo notato, il ragionamento di
Deleuze si distende tra queste due polarità: ripetizione negativa e
ripetizione legata, desessualizzazione e risessualizzazione, disimpasto e
reimpasto pulsionale. Ma occorre interrogare più a fondo quel sur place che
caratterizza l’apatia sadica e la freddezza masochista. Deleuze lo legge
come una erotizzazione del neutro, mentre io proporrei di intenderlo
piuttosto come una neutralizzazione dell’Eros, o meglio come uno sfibrarsi,
uno snervarsi, uno spossarsi della vita per eccesso di vita. La morte non
parla, e ciò accade perché la volontà, come ci suggerisce Lacan, mette il
godimento al centro del soggetto anziché al suo orizzonte, pretende di
denegare la mancanza, la scissione a favore del “tutto ora e subito”. La
sovrastimolazione che riempie i vuoti e uccide i silenzi non produce nuovo
eros, ma costringe la vita in un ciclo di isteresi. Vediamo più da vicino di
cosa si tratta.
Quando si supera il carico specifico di snervamento, nel momento in cui il
carico viene a mancare, il corpo solido, non più deformato elasticamente ma
plasticamente, perde la propria capacità di ritornare alle condizioni
originarie. La deformazione diviene irreversibile. Proporrei di intendere la
perversione come una deformazione plastica della vita, vale a dire come
una deformazione che non riesce più, per eccesso, a recuperare la
condizione di partenza. Nella perversione, l’elastico è deformato al punto
da non essere più un elastico. La vita si spossa nella vita, e il godimento che
ne discende non ha niente a che fare con una risessualizzazione, bensì con
la lontana eco dell’eros. Eros risuona tra le maglie molli del suo
sfibramento. Dunque i fenomeni che abbiamo a disposizione per descrivere
lo psichismo sono: polarizzazione, depolarizzazione e isteresi. Se la
perversione è il regno dell’isteresi, come propongo, allora non è possibile
vedere in essa operativa una pulsione di morte. Può sembrare un paradosso:
l’isteresi non ha niente a che vedere con la pulsione di morte, perché
quest’ultima richiede che l’elasticità della vita sia nel pieno delle sue forze.
La pulsione di morte ha bisogno di elastici integri per manifestarsi, non di
elastici in isteresi. Deleuze sembra non considerare che in Al di là del
principio di piacere, Freud sceglie proprio la metafora dell’elastico per
descrivere il Todestrieb:
Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a
ripristinare uno stato precedente, al quale quest’essere vivente ha dovuto
rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno;
sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la
manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica. Questa
concezione della pulsione ci suona strana, poiché ci siamo abituati a
ravvisare in essa un fattore che spinge al cambiamento e allo sviluppo,
mentre ora la dobbiamo intendere in un modo precisamente opposto, vale
a dire come espressione della natura conservatrice degli esseri viventi.11.
C’è intanto una differenza macroscopica tra la pulsione di morte che
Deleuze rintraccia nelle perversioni e quella qui descritta da Freud: la
prima, nella veste della desessualizzazione, è simultaneamente (sur place)
un reimpasto creativo, una forma nuova di erotizzazione; la seconda, cioè
quella descritta da Freud, non è da iscriversi sul versante del nuovo, del
cambiamento, bensì su quello dell’inerzia e della conservazione. Dunque la
pulsione di morte per come la intende Freud non è uno strumento adeguato
per illuminare né la lettura deleuziana della perversione, sebbene Deleuze la
riprenda con insistenza, né la perversione intesa come ciclo di isteresi,
poiché in questo caso è proprio “l’elasticità della vita organica” ciò che
viene a mancare.

5. La deriva in isteresi non è la vertigine della


caduta
Ancora un punto mi resta da chiarire, pagando un debito. Ho tratto l’idea di
associare la perversione alla deriva in isteresi da un bel saggio di Massimo
Prampolini dedicato, guarda caso, proprio a Barthes. Ma il mio debito
finisce qui, perché l’intenzione dell’autore del saggio è quella di intendere
la ripetizione perversa della lettura – Prampolini commenta Il piacere del
testo di Barthes – come uno scivolamento verso la caduta, l’abbandono del
godimento. Scrive infatti:

Di fatto per Barthes la perseveranza nella ripetizione è una delle


ineludibili quanto perverse condizioni che trovano manifestazione
esemplare nel testo. In particolare nel testo da cui traggo gratificazione,
piacere; e in cui la ripetizione è avviamento al godimento. Nel testo di
piacere sono risucchiato nell’esperienza della deriva, e sono (accade nei
bambini come negli adulti dediti alle letture di culto) ipnotizzato dalla
reiterazione, tanto più preziosa quanto più letterale. Riascolto esattamente
quel brano musicale, quei versi, quel racconto, ripeto esattamente
quell’orazione, ripeto gli stessi gesti, in cadenza con le stesse parole […].
Entrambi – deriva e parossistica ripetizione – sono gli irresistibili scivoli
che dalla gratificazione, dal piacere inducono verso il godimento, la
soddisfazione. La lettura di culto, come il gioco in cui i bambini girano su
se stessi fino a cadere nello stordimento, è un moto oscillatorio:
“conferma-straniamento-riconferma” ovvero “stasi, vertigine, stasi” [R.
Caillois, I giochi e gli uomini].12.

Si noterà come qui l’estenuazione della ripetizione, poco prima definita da


Prampolini, appunto, “deriva in isteresi”, sia associata alla caduta,
all’abbandono, alla vertigine del godimento. Il mio intento è stato quello di
dimostrare come la deriva in isteresi della perversione sia proprio ciò che
impedisce la caduta, la riuscita (mortifera quanto si vuole ma non perversa),
l’abbandono. Non di scivolo quindi si tratta, ma di protratto sorvolo, fino
allo sfinimento, che ci dissolve lasciandoci per aria. La caduta ha bisogno
dell’elasticità della vita organica, mentre l’isteresi consuma dall’interno la
possibilità di qualsiasi cedimento, essendo piuttosto un’estenuata
sospensione. Insomma, Prampolini ben descrive la dinamica del godimento
estetico in Roland Barthes, una dinamica che però sarei più propensa ad
associare alla vertigine, proprio nel senso dell’ilinx di Caillois, che non alla
deriva in isteresi. Lascerei quest’ultima alla descrizione della perversione,
nel suo significato più circoscritto.
Che il godimento estetico sia da Barthes associabile alla caduta lo
dimostra questo passo:

Donde due regimi di lettura: una va direttamente alle articolazioni del


testo, ignora i giochi di lingua (se leggo Verne vado svelto: perdo
qualcosa del discorso, e ciononostante la mia lettura non è attratta da
alcuna perdita verbale – nel senso che la parola può avere in speleologia);
l’altra lettura non fa passare niente; pesa, aderisce al testo, legge, se così
posso dire, con applicazione e trasporto, coglie in ogni punto del testo
l’asindeto che taglia i linguaggi – e non l’aneddoto: non è l’estensione
(logica) ad avvincerla, la defoliazione delle verità, ma lo sfogliamento
della significanza; come nel gioco della mano sopra all’altra, l’eccitazione
non deriva da una fretta litigiosa, ma da una sorta di baldoria verticale (la
verticalità del linguaggio e della sua distruzione); nel momento in cui ogni
mano (diversa) salta sopra all’altra (e non dopo l’altra), si produce il buco,
e trascina il soggetto del gioco – il soggetto del testo. Ora,
paradossalmente (tanto si è comunemente convinti che basti andare svelti
per non annoiarsi), questa seconda lettura, applicata (in senso proprio), è
quella che conviene al testo moderno, al testo-limite. Leggete lentamente,
leggete tutto, di un romanzo di Zola, il libro vi cadrà dalle mani; leggete
rapidamente, a frammenti, un testo moderno, il testo diventa opaco,
recluso al piacere: volete che succeda qualcosa, e non succede niente;
perché quello che “avviene” al linguaggio non succede al discorso;
quello che “avviene”, quello che “se ne va”, la crepa fra i due bordi,
l’interstizio del godimento, si produce nel volume dei linguaggi,
nell’enunciazione, non nel susseguirsi degli enunciati: non divorare, non
inghiottire, ma brucare, rasare con minuziosità, ritrovare, per leggere
questi autori di oggi, il piacere delle vecchie letture: essere dei lettori
aristocratici.13.
Potremmo così dire che la deriva in isteresi si produce nella noia della fretta
orizzontale, della spinta a inghiottire e a divorare, a essere sempre
orizzontalmente e perversamente in crociera, proprio come accade
all’energia libertina. Il godimento estetico, invece, prende la via
dell’accumulo verticale, del volume, e dell’asindeto, dello slegato
paratattico, per preparare la caduta. Proprio come nel gioco delle mani, qui
descritto mirabilmente da Barthes.
Provo a riassumere rapidamente quanto detto. Dal lato della perversione
abbiamo un eccesso, una mostruosità che annoia, che raffredda, che rende
apatici, una sorta di stordimento per estenuazione; dal lato del godimento
estetico, per come lo descrive Barthes, siamo invece in presenza di un
cedimento, di un abbandono. Si è fatta molta confusione nella letteratura su
Sade e Masoch tra queste due forme di resa, di smarrimento. Un conto è la
noia che scaturisce dal tentativo eroico e disumano di coincidere col corso
delle cose, volendo annullare distanza e dislivello, un altro è quella
sensazione di vertigine, di smarrimento sensuale, di dépense che ci fa
cadere nelle cose. Bataille stesso, nella sua lettura di Sade, oscilla tra queste
due accezioni.

6. L’estetica perversa: un abbaglio


In quasi tutti i testi che abbiamo preso in esame, dopo un inizio
dichiaratamente dedicato alla perversione, con diverse accentuazioni del
versante sadico o del versante masochista, si assiste a una lenta
progressione verso gli orizzonti attraenti del discorso estetico. Come se il
vizio si sciogliesse nella virtù, come se la verità della costellazione perversa
si manifestasse nello spazio immersivo di un’esperienza creativa. C’è una
strana connivenza, tutta teorica, tra l’estetico e il perverso. Il punto di
torsione è rappresentato da quella “seduzione dello sfondo” che ritorna a
più riprese nei due discorsi.
Deleuze coglie nel cuore dell’anima di Masoch un elemento estetico
basato su una sensualità trasmutata. Gli amori di Masoch sono ispirati
dall’opera d’arte. “L’iniziazione avviene con donne di pietra. Le donne
sconvolgono per il loro confondersi con le fredde statue, nel chiarore
lunare, o con quadri nell’ombra. Tutta la Venere è sotto il segno del Tiziano
nel mistico rapporto tra la carne, la pelliccia e lo specchio. In questo si
manifesta il legame tra il freddo, il crudele e il sentimentale. Le scene
masochiste hanno bisogno di fissarsi come sculture o dipinti, di riprodurre
sculture e dipinti, di sdoppiarsi in uno specchio o in un riflesso.”14.
Bataille descrive il deliquio della seduzione perversa come un moto dello
spirito con cui l’uomo si rende uguale a ciò che è, sparisce in uno sfondo di
indistinzione grazie a un movimento inverso a quello dell’individuazione:
dove c’erano soggetti spinti a usare gli oggetti del mondo, ora ci sono
situazioni in cui lo spirito del mondo è alla misura di ciò che è. Vale la pena
notare tuttavia, come del resto fa lo stesso Bataille, che questa sparizione
nello sfondo, che molto assomiglia al senso di perdita e di caduta che
caratterizza un’esperienza estetica, è possibile unicamente perché non si è
già da sempre installati nel mondo per come è, non si è già da sempre alla
misura delle cose. Che senso avrebbe, infatti, parlare di dépense, di
smarrimento senza presupporre questo sfasamento di piani? Sade, come
rileva giustamente Bataille, può lasciarsi cadere nell’indeterminatezza dei
suoi deliqui amorosi, e contemporaneamente accedere al sogno di una
indistinzione di soggetto e oggetto, grazie allo splendore della poesia.

Questa verità senza lo splendore della poesia non avrebbe umanamente la


sua importanza. È toccante per noi che una affabulazione mitica si
connetta a ciò che, infine, svela il fondo dei miti. Ci voleva una
rivoluzione – nel fragore dell’assalto alla Bastiglia – per offrirci, nel
disordine del caso, il segreto di Sade, al quale la sventura permise di
vivere questo sogno, questa ossessione che è l’anima della filosofia:
l’unità di soggetto e oggetto. Si tratta, in questo caso, dell’identità
raggiunta nel superamento dei limiti degli esseri, nell’andar oltre l’oggetto
del desiderio e il soggetto che desidera. Maurice Blanchot ha giustamente
detto che Sade aveva “saputo fare della sua prigione, l’immagine della
solitudine dell’universo”, ma che questa prigione, questo mondo, non gli
dava più impaccio, poiché egli ne aveva “bandite ed escluse tutte le
creature”. Così la Bastiglia, in cui Sade scrisse, fu il crogiuolo in cui a
poco a poco i limiti coscienti degli esseri furono distrutti: dal fuoco di una
passione prolungata dall’impotenza.15.
Ho riportato per intero questo passo, perché mostra con chiarezza come lo
spostamento dell’attenzione verso l’orizzonte estetico cambi
impercettibilmente le carte in tavola, muti l’ambientazione, fino al punto in
cui non è più possibile recuperare le atmosfere ambigue della perversione.
Il discorso poetico, letterario, estetico è il congedo discreto dalla
perversione. Sade, dal chiuso della sua cella, può poeticamente spingere
l’immaginario verso quel piano di derealizzazione e di desoggettivazione
che viene trainato dalla seduzione. Ma il suo è l’abbandono di un poeta, una
caduta, una riuscita, una resa benigna. Altro è il mondo del perverso,
incapace di cadere, perché inadatto alla morte, al mancamento.
È necessario dunque mantenere aperta la forbice tra la caduta estetica e
l’isteresi della perversione. La prima è un’esperienza di cedevolezza, la
seconda di installazione nell’immanenza; la prima ha bisogno di un
dislivello (la poesia e il desiderio, la cella e la libertà) che renda possibile il
“lasciarsi cadere”, la seconda vive nell’eterna sospensione di un godimento
in crociera. Sul lato della perversione, insomma, l’abbandono diventa
apatia, il rilascio si allenta nella noia, la tentazione dello sfondo diviene
l’imperio dello sfondo, l’elasticità cede il posto all’isteresi.

Silvia Vizzardelli insegna Estetica e Filosofia della musica all’Università della Calabria.
1 D.A.F. de Sade, Les infortunes de la vertu (1787), introduzione di J. Paulhan, Éd. du Point du
Jour, Paris 1946.
2 J. Lacan, “Kant con Sade”, in Scritti (1966), vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 2002.
3 R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), trad. di L. Lonzi e R. Guidieri, Einaudi, Torino 2001, p.
XXVI.
4 Ivi, p. 5.
5 Ivi, p. 7.
6 Ivi, p. 9.
7 Ivi, p. 48.
8 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 57.
9 Ivi, p. 133.
10 Ivi, p. 126.
11 S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino
2008, pp. 246-247. Per un approfondimento della lettura deleuziana della pulsione di morte di Freud,
cfr. V. De Filippis, S. Vizzardelli, La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico,
Orthotes, Salerno 2016, in particolare il capitolo VI.
12 M. Prampolini, “Roland Barthes e Il piacere del testo. La deriva in isteresi e l’idiozia”, in E.
Fadda e M.W. Bruno (a cura di), Roland Barthes Club Band, Quodlibet, Macerata 2017, p. 163.
13 R. Barthes, Il piacere del testo (1973), trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1999, pp. 82-83.
14 G. Bataille, La letteratura e il male (1957), trad. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006, p. 79.
15 Ivi, p. 115.
Masochismo plurale. Il servo, l’oggetto, la voce
CARMELO COLANGELO

Lungo tutto il secolo scorso, in particolare a partire dagli anni quaranta, i


temi del sadismo e del masochismo – e con essi gli scritti di Sade e Masoch
– sono stati indagati con regolarità dal discorso filosofico, soprattutto di
area francese, ma non solo. Grazie a un confronto sovente assai serrato con
le prospettive della psicoanalisi, della fenomenologia, della critica letteraria,
la riflessione filosofica, a cominciare da quella pratico-morale, si è
impegnata in una disamina attenta dei due fenomeni che più apertamente
manifestano la presenza, nella vita psichica, di un rapporto specifico tra
desiderio e sofferenza, inferta o patita. Di primo acchito può colpire questa
circostanza: mentre generalmente il sadismo è stato illustrato ricorrendo a
un numero tutto sommato piuttosto ristretto di predicati (nevrotico,
perverso, criminale, sociale), l’aggettivazione che modula il termine
masochismo è molto più cospicua. Per limitarci alle espressioni più
frequenti, si è parlato non solo, con Freud, di masochismo primario
(originario) e secondario, perverso e nevrotico, erogeno, “femmineo” e
morale, ma anche di masochismo ideale, fondamentale, formale, sociale,
dimostrativo, estetico, ordinario. La lista è lungi dall’essere completa. Il
masochismo, sembrerebbe, si dice in molti modi: il suo “problema
economico” ha assunto figura e densità grazie alla declinazione delle sue
modulazioni e all’analisi della sua varietà, delle sue fasi, del suo
“movimento”.1.
Solo nel 1924 Freud, è noto, si è risolto a parlare apertamente di
“enigmaticità” della tendenza masochista e del “grande pericolo” da essa
rappresentato (ben maggiore di quello legato al sadismo).2. Egli lo ha fatto
chiedendosi se il dolore e il dispiacere, nella misura in cui si trovino a
essere subiti e cercati come finalità, non pongano in questione il dominio
del principio di piacere nei processi psichici. Più precisamente, Freud si
domanda se nel masochismo il dolore non rappresenti il momento di una
vera e propria “paralisi” – o di una “narcosi” – di quello che egli non ha mai
smesso di considerare il “guardiano della nostra vita psichica”, anzi della
vita umana tout court, il Lustprinzip, appunto.3. Questione determinante, che
il fondatore della psicoanalisi affronta con circospezione, non senza
moltiplicare le ipotesi esplicative, da un lato interrogandosi sui rapporti che
il “guardiano” intrattiene con le pulsioni di morte e le pulsioni erotiche,
dall’altro isolando con attenzione forme, dinamiche, proprietà essenziali
della tendenza masochista, sottolineandone ormai una consistente
indipendenza rispetto a quella sadica.
Nel successivo moltiplicarsi delle qualificazioni del fenomeno si può
cogliere il segnale di una considerazione della sua natura intesa ad
assumerlo in chiave per così dire transclinica: esso, cioè, oltre e più che
essere indagato in termini di “anormalità” e perversione, è colto come un
elemento basilare della configurazione del sintomo stesso in quanto tale, e
al limite anzi come “possibilità” esistenziale che è sempre possibile veder
affiorare nei destini soggettivi, nel rapporto che gli uomini intrattengono
con se stessi e con l’altro. Nel campo filosofico il masochismo è stato
discusso verificando i modi in cui si manifesta nell’ambito delle forme
vigenti di organizzazione della vita, della cultura, della società, e al
contempo tentando di ricavarne una prospettiva aggiornata sulle dinamiche
del desiderio. Nello stesso torno di tempo in cui si è ragionato sull’“uomo
moderno” in quanto “animale masochista”,4. il tema è stato affrontato
ponendolo in rapporto con altri nuclei fortemente problematici del pensiero
contemporaneo.
Si potrebbe dire che, in modo implicito o esplicito, due questioni in
particolare abbiano accompagnato e persino guidato l’interesse teorico nei
confronti della tendenza masochista. Anzitutto il problema del rapporto tra
padrone e servo, nella sua struttura, nelle sue possibilità di sclerosi e nelle
sue mutazioni; in secondo luogo la questione della tenuta, nella vita
individuale come in quella collettiva, delle forme simboliche dell’autorità e
della Legge, questione discussa in relazione all’eclissi della funzione
paterna e della sua capacità di regolare il campo del desiderio.
Incrociandosi con questi cospicui plessi problematici, l’enigmaticità del
desiderio masochista si è rivelata suscettibile di rilanciare la comprensione
di temi determinanti della riflessione etica, offrendo possibilità
interpretative capaci di presentarli in nuova luce.
Si ricorderà che il sogno che apre Venus im Pelz è rudemente interrotto dai
rimproveri che colpiscono il dormiente sottraendolo alle delizie del suo
incontro onirico. A scuotere il narratore è la “voce rauca” del suo servo
cosacco, che lo apostrofa con severità riferendosi stranamente agli interessi
filosofici del suo padrone: “In piedi e si vergogni. È il colmo! Andare a
letto vestito e per giunta con un libro... e di Hegel”.5. Non si è mancato di
interrogarsi sulle ragioni della comparsa del nome del campione
dell’idealismo in apertura del romanzo poi divenuto paradigmatico della
figurazione del desiderio di un uomo di farsi schiavo di una donna da lui
stesso posta nel ruolo di padrona. E c’è chi, tra il serio e il faceto, ha potuto
rammaricarsi dell’assenza di indicazioni più precise circa il volume caduto
dalle mani del narratore al momento di cedere al sonno e al sogno troncati
dall’ammonimento perentorio del domestico. Il riferimento però è così
tenue da non aver consentito altro che ipotesi, legate anzitutto al tono
umoristicamente polemico della critica che la Venere sognata dal narratore
formula nei confronti dell’astrattezza e dei rigori della “filosofia tedesca”,
ovvero contro la morale della “gente del Nord”, rea di non saper intendere
l’amore altrimenti che nel registro del dovere e della serietà.6.
Hegel però, non c’è chi lo ignori, è il titolare della narrazione teorica più
celebre della modernità matura, quella proposta nella Fenomenologia dello
Spirito con la figura della lotta per il riconoscimento: pagine fondanti per il
discorso filosofico tra Otto e Novecento, se è vero che la descrizione del
conflitto delle autocoscienze, in quanto genealogia della coppia dominante-
dominato e in quanto luogo di identificazione di un protagonismo
essenziale del servo al di là delle gioie parassitarie del padrone, ha
rappresentato lo sfondo teorico delle elaborazioni teoriche marxiste, a
cominciare da quelle relative alla soppressione delle contraddizioni del
sistema capitalistico attraverso la creazione, da parte del servo proletario, di
una fruizione comune e libera di ciò che quel sistema produce, fruizione che
diverrebbe possibile a partire da un’abolizione della proprietà privata e del
valore di scambio foriera della fine dello sfruttamento di un lavoro vivo che
così cesserebbe di essere servile.
Non si consideri fuori luogo il rinvio alla scena hegelo-marxista: parte
dell’interesse filosofico manifestatosi lungo il Novecento per le figure del
desiderio presentate dal masochismo e dal sadismo attinge in effetti alle
trasformazioni contemporanee, indotte anche dall’evenemenzialità storica,
della prospettiva di comprensione dei rapporti di dominazione. Tali rapporti
sono in effetti risultati vieppiù problematici, e solo in parte passibili di una
lettura orientata dalle categorie abituali, una volta che il tremendo “secolo
breve” – prima con la subordinazione dell’esperimento comunista sovietico
al primato incondizionato della produttività, poi con la sottomissione e il
lavoro distruttivi nei campi di concentramento, poi ancora con l’inscrizione
dell’esistenza in cicli produttivi permanenti, nel quadro di un crescente
sbiadirsi della distinzione tra tempo della vita e tempo del lavoro – si è
incaricato di mostrare l’inattendibilità dell’idea di un affrancamento del
dominato grazie alla potenza del lavoro, e insomma il carattere mitico,
piuttosto che genetico, della visione di una servitù che sarebbe in quanto
tale capace di percorrere le strade dell’autodeterminazione, grazie a
differimento dell’appagamento e acquisizione di sapere e consapevolezza.
Per dirla con il Lacan della relazione al congresso di Royaumont del 1960
(organizzato da Wahl e dedicato a La dialettica) “non vi è illusione più
manifesta politicamente e a un tempo psicologicamente” di quella secondo
cui il lavoro del servo, pensato come “rinuncia al godimento [jouissance]
per timore della morte”, rappresenterebbe la strada che conduce
all’emancipazione.7. In effetti, nota Lacan, l’esperienza, quella storica, ma
anche quella psicoanalitica del sintomo, mostra che nella realtà “il
godimento è facile per il servo, e lascerà servo il lavoro”.8. Come dire che
dopo la visione “eroica” della Knechtschaft in Hegel, e dopo la scommessa
di Marx sull’affrancamento del proletariato – soggetto storico collettivo
pensato nei termini filosofici di coscienza, universalità, razionalità – l’epoca
e il pensiero hanno richiesto di interrogare criticamente l’idea che le vie
della libertà siano per il servo moderno spianate e direttamente percorribili.
Nella pagina citata Lacan va dritto al punto, parlando di un godimento
servile qualificato come perfettamente agevole, e indicato come una delle
ragioni di fondo della sospensione del presunto processo di emancipazione
del lavoro. Ciò che Lacan invita a pensare, qui come altrove,9. è insomma il
fatto che qualcosa nella posizione del servo (almeno nella misura in cui essa
può trovarsi legata a una jouissance che, in quanto stato di eccitazione
potenzialmente senza limiti, supera il mero piacere, inteso come ciò che si
produce con la diminuzione di una tensione psichica) può far sì che essa
conosca un ostacolo determinante per le sue possibilità di farsi altro da ciò
che è.
Si è osservato che nel Novecento l’interesse diffuso per Sade e il sadismo
è tributario per un verso dello sforzo di comprendere gli aspetti psichici
delle atrocità prodottesi con i regimi totalitari, per l’altro della volontà di
interrogarsi sulle dinamiche fondamentali della trasgressione e sulle loro
eventuali possibilità emancipatrici.10. Si può dire che, almeno per alcuni
suoi aspetti qualificanti, la riflessione filosofica sul masochismo conosca
anch’essa – sul piano dell’indagine sul desiderio, la libertà, il rapporto con
l’altro – almeno due diverse inflessioni, se è vero che da un lato si è
sforzata di cogliere alla loro origine le pieghe del fenomeno della
“sottomissione volontaria”, dall’altro si è rivolta a mostrare nella struttura
dello psichismo masochista la presenza di una sorta di paradossale
possibilità di affrancamento.
A leggerle alla luce dell’osservazione lacaniana sul godimento servile, le
pagine sartriane di L’essere e il nulla sull’attitudine masochista nelle
“relazioni concrete con gli altri” risultano di grande interesse, tanto più in
quanto si aprono con la considerazione che, in tali relazioni, “mentre cerco
di soggiogare l’altro, l’altro tenta di soggiogarmi” e che perciò occorre
ammettere che “il conflitto è il senso originario del per-altri”.11. Il
ragionamento di Sartre può essere così compendiato: ciò a cui il masochista
ambisce è disfarsi della propria libertà, alleggerirsi del peso della propria
soggettività e della propria responsabilità. Egli tenta di farlo attraverso un
asservimento all’altro così integrale da consentirgli di rinunciare a se stesso.
“Io progetto di farmi assorbire dall’altro e di perdermi nella sua soggettività
per sbarazzarmi della mia.”12. Per porsi al riparo dall’esercizio angoscioso
della libertà, dall’incertezza, dal conflitto, il masochista anela alla passività
di un oggetto compatto e privo di mancanze.
Se egli si umilia, se desidera essere avvilito, oltraggiato, violato in ogni
modo, se si “impegna tutto nell’essere-oggetto”,13. è perché da questa
manovra ottiene un guadagno psichico decisivo. Facendo di se stesso un
oggetto-rifiuto, uno scarto, egli raggiunge la consistenza di qualcosa di
solido e totalmente compiuto, a cui non manca niente. Essere un oggetto fra
gli oggetti, farsi costituire dall’altro come uno strumento inanimato, ridursi
a qualcosa di inerme, di quasi inorganico grazie alla deposizione di ogni
tratto di soggettività, permette al masochista di disfarsi della sua
“trascendenza” e dell’umana “mancanza a essere”, e così di vivere una vita
non più sottoposta all’angoscia della scelta, né votata all’esercizio della
volontà. Il godimento dell’asservimento – godimento incondizionato, non
più intaccato da nessun vuoto – scaturisce allora dal farsi-passivo che il
sottomesso persegue. Dispiacere e dolore non sarebbero affatto l’obiettivo
ultimo del masochista, bensì il mezzo che gli permette di mirare a una
peculiare totalizzazione del proprio essere.
Deleuze ha volentieri indicato in Sartre una figura importante della
propria formazione,14. sicché ci si potrebbe interrogare su quanto le
notazioni sartriane possano aver concorso alla sua idea di occuparsi di
masochismo, piuttosto che di sadismo, seguendo con ciò una via ben
diversa da quella percorsa da molti tra i pensatori contemporanei a lui più
prossimi, a cominciare da Klossowski e Foucault.15. Sia come sia,
Présentation de Sacher-Masoch, edito nel 1967, alla vigilia dell’“intrusione
del reale puro” del Maggio francese,16. apparve subito assai innovativo,
nella misura in cui, fondandosi sulle analisi di Reik, rintracciava gli
elementi strutturali del masochismo – per differenziarlo con cura dal
sadismo e sottolinearvi l’importanza sintomale del rapporto contrattuale – e
giungeva a leggerlo come una sorta di singolare “atto di resistenza”.17.
La proposta di Deleuze conosce i suoi punti più caratteristici nella
tematica dell’“annullamento del padre” e in quella dell’“elemento
giuridico”, assunte entrambe come aspetti distintivi dell’impresa
masochista, colta come tentativo di realizzare una “seconda nascita” e
produrre un “Uomo nuovo”.18. Che tipo di uomo? Deleuze valorizza questa
citazione di Sacher-Masoch: un “uomo che rinuncia all’amore sessuale, alla
proprietà, alla patria, al lavoro”.19. Elenco privativo in cui, sullo stesso piano
e al medesimo titolo, appaiono sia l’ambito erotico, nella misura in cui si
lega ai sensi e alla carnalità, che quello politico-sociale, marcato da
possesso, appartenenza a un luogo d’origine, obbligo produttivo. Deleuze
aveva in effetti aperto il sesto capitolo del suo libro – quello in cui sono
discussi funzione e senso del contratto masochista – alludendo ai
Manoscritti economico-filosofici del 1844, lì dove il giovane Marx
sosteneva che “la soppressione della proprietà privata rappresenta la
completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani”, perché,
eliminando l’alienazione, fa sì che essi cessino di essere animali, si liberino
della “prigionia dei bisogni pratici primordiali” e diventino
“immediatamente, nella loro prassi, teorici”,20. giacché infine il loro
“oggetto [diviene] un oggetto umano, culturale, proveniente dall’uomo e
destinato all’uomo”.21.
Per Deleuze l’enigma del masochismo richiede di essere affrontato
cogliendovi la tensione a una metamorfosi fondamentale che consenta al
soggetto di smettere di relazionarsi ai suoi oggetti in termini di possesso,
avere, appagamento, piacere. Il masochista plasma una donna che,
infliggendogli dolore e umiliazione, sarebbe in grado di plasmare colui che
l’ha plasmata, producendo in lui un movimento che lo conduce al di là tanto
della sessualità genitale (e edipica, giacché – ci torneremo – chi nel
masochista viene picchiato, scrive Deleuze parafrasando Freud, non è “un
bambino”, ma “un padre”),22. quanto della conflittualità sociale (perché qui,
per così dire, il servo cessa di tentare di insignorirsi e, con una sorta di
movenza sur place, si sottrae al campo stesso della dialettica).
Attraverso il medio di un dolore sempre rinnovato e sempre di nuovo
sospeso, lo schiavo masochista gode indefinitamente, blocca la necessità di
un piacere conclusivo. Egli realizza un desiderio prolungato, affrancato
dall’urgenza di compiersi in una finalità che lo trascende.23. Al contempo,
sul piano sociale, il masochista “è schiacciato solo in apparenza”:24. al di là
della sua fittizia debolezza esteriore, è pronto in realtà a deformare,
parodiare, contestare, provocare le forze dominanti, sottomettendosi alle
loro istanze “con tale spavalda obbedienza da rovesciarne il significato” e
“rivelarne l’assurdità”.25. Non stupisce, in questo senso, che circa dieci anni
dopo Présentation de Sacher-Masoch, Deleuze abbia potuto segnalare il
proprio interesse per S.A.D.E. di Carmelo Bene, sottolineandone la capacità
di rendere perspicuo il fatto che il “servo masochista” non va compreso
come “l’immagine rovesciata del padrone, né tanto meno come la sua
replica o identità contraddittoria”; nel masochismo, piuttosto, il servo “si
cerca, si sviluppa, si trasmuta, si esperimenta”, e così “si costituisce per
pezzi, a brandelli, partendo dalla neutralizzazione del padrone”, in funzione
delle sue fissazioni e delle sue incapacità.26.
Elogio del masochismo in salsa “critico-clinica”? Si può dire che il
richiamo deleuziano al sintomo masochista, fondato sul confronto con il
campo della letteratura – confronto che in Deleuze avviene per la prima
volta precisamente con la lettura di Sacher-Masoch – sia compiuto non solo
per riflettere sui modi in cui, nel godimento, la pulsione è capace di
spingere il desiderio al di là del piacere e al contempo al di là delle leggi
che, regolando il conflitto col padrone, lo predeterminano, ma in certo
senso anche per rispondere con un disciplinato e produttivo umorismo
filosofico all’umorismo letterario precipuo dei testi a cui il pensatore si
rivolge.27. Nelle sue pagine Sartre aveva precisato come il tentativo di
asservimento attuato dal masochista con la sua adesione alla posizione di
oggetto in vista della produzione di una completezza assoluta – del rifiuto
di qualsiasi mancanza – non potesse che conoscere la sconfitta. Per quanti
sforzi faccia, si legge in L’essere e il nulla, il masochista non può riuscire a
percepirsi come privo di soggettività. Egli potrà umiliarsi, farsi usare come
uno strumento, lasciarsi colpire finché vorrà, ma continuerà a sentire che
“solo per l’altro sarà osceno e semplicemente passivo, per l’altro subirà tali
atteggiamenti; per lui è sempre condannato a darseli”.28. Insomma, più il
masochista cercherà di assaporare la propria oggettività e lasciarsene
ammaliare, più continuerà a “essere sommerso dalla coscienza della propria
soggettività”,29. e in definitiva non gli sarà possibile eludere il dato che è
solo grazie alla sua più propria “trascendenza” che egli può presentarsi
come un essere da trascendere (il che evidentemente chiarisce che è
senz’altro lui a fare dell’altro uno strumento, piuttosto che il contrario).
L’interpretazione di Deleuze sembra sbiadire la stessa opposizione
pertinente sconfitta/vittoria, per invitare a pensare che l’attitudine
masochista mette capo a un particolare ibrido, alla stranezza di una resa
invincibile. Deleuze trae cioè tutte le conseguenze di quanto Reik aveva
osservato considerando il masochismo come luogo del manifestarsi di una
fondamentale sospensione (suspence) della tensione psichica, di un
pronunciato tratto dimostrativo e di un elemento provocativo evidente: ciò
che gli faceva dire icasticamente che “il masochista perde tutte le battaglie
eccetto l’ultima” e che, alla prova dei fatti, di fronte a lui “tutte le misure
inibenti dell’educazione e della cultura sono destinate a fallire”.30.
Possiamo così avvicinarci alla seconda delle questioni che, come si diceva
in apertura, incrociano la riflessione filosofica sul masochismo: quella che
riguarda il problema dell’autorità e della Legge, nel loro legame con il tema
dell’incidenza della figura paterna, assunta nelle sue virtualità normative o
regolatrici del desiderio. È che in effetti “sospensione” del piacere e
“provocatorietà” non sollecitano solo a una riconsiderazione del conflitto
servo-padrone in grado di mostrare ciò che sconsiglia di intenderlo in
termini dialettici; esse possono anche essere lette come un momento di
erosione dei generali elementi di organizzazione e delimitazione del campo
del desiderio così come sono stati posti dal sapere psicoanalitico ai suoi
inizi.
A grandi tratti, il problema può essere ricapitolato in questo modo. Con la
modernità matura, quel luogo peculiare dell’intersezione tra biologico e
culturale che è per l’uomo l’istituzione familiare si trasforma
profondamente, in modo correlativo alla spinta individuale
all’affrancamento da ogni potere esterno. Si può ricorrere in proposito alla
testimonianza di Tocqueville, acutissimo lettore delle modificazioni psico-
antropologiche indotte dall’instaurarsi della società democratica di massa.
Tra padre e figlio, si legge in La democrazia in America, tende a stabilirsi
una forma di “intimità” e di confidenza “che rende l’autorità meno assoluta
e che mal si accorda con le forme esteriori del rispetto”.31. La relazione tra i
due limita allora la loro differenza alla semplice realtà biologica dell’età: il
potere accordato al padre diviene null’altro che “quello che piace sia
accordato alla tenerezza e all’esperienza di un vecchio”.32. La sua figura e le
sue parole cessano di essere costrittive; i precetti che esse veicolano
vengono assunti più come indicazioni che come regole cogenti, a carattere
incondizionato. Padre e figlio tendono insomma a istituire un legame
pressoché paritario, “fraterno”, che con sempre maggiore difficoltà
conserva il valore di possibile luogo di iscrizione delle differenze e di
trasmissione dei vincoli autoritativi della tradizione, dell’educazione,
dell’ordine sociale.33.
Lo sforzo teorico che alla fine del XIX secolo conduce all’invenzione della
psicoanalisi rappresenta una risposta alle difficoltà profonde che per gli
individui scaturiscono – testimoni le diverse configurazioni
psicopatologiche – dall’impulso all’autodeterminazione e dalla crescente
orizzontalità del rapporto con la figura paterna. Confermando una centralità
decisiva, sulla scena inconscia, della figura di un Padre-Sovrano – della
proibizione dell’incesto e della minaccia di castrazione che da lui
procedono – Freud mostrava la permanente attualità, nella vita psichica, di
ciò che la congiuntura storico-sociale mostrava come in via di
dissolvimento. L’individuazione teorica del complesso edipico e del suo
superamento, in quanto elementi essenziali per il desiderio del soggetto – il
quale con la via lunga dell’attraversamento del rapporto di
obbedienza/rivolta nei confronti del padre giunge alla risoluzione degli
effetti sintomali del senso di colpa e della costrizione pulsionale – è punto
cardine della dottrina psicoanalitica classica, nella misura in cui implica
l’idea di un valore normalizzatore dell’immagine paterna, individuata come
fattore essenziale della costruzione soggettiva e della possibilità di limitare
la forza del vincolo che problematicamente lega ogni essere umano al corpo
materno. Con la sua idea di “Nome-del-padre”, Lacan proporrà una
riattivazione del nucleo dell’invenzione freudiana, e al contempo una sua
revisione, giacché egli, rispondendo al sempre più evidente fading
contemporaneo dell’istanza paterna, mette a fuoco, ben al di là della
persona reale o immaginata del padre, l’aspetto strutturante di quella che,
nella sua teoria, diviene a tutti gli effetti una funzione simbolica,
suscettibile di consentire al soggetto di confrontarsi con l’enigma del
desiderio della madre (funzione di cui chiunque può farsi supporto e di cui
si può dire, in sintesi, che costituisca la modalità attraverso cui la cultura,
articolando il divieto dell’incesto, mette a distanza la rappresentazione
immaginaria dell’onnipotenza).34.
Ora, il punto è che l’invenzione freudiana dell’Edipo, e l’idea di un
riferimento al padre riguardo alla questione dell’autorità, dell’ordine, della
Legge, è apparsa sempre meno cogente e solo in parte funzionale alla
comprensione delle vicissitudini psichiche individuali e dei “disagi della
civiltà”. Se quell’invenzione poteva ancora apparire adeguata al quadro
sintomale nevrotico, la sua pertinenza rispetto a ciò che eccede tale quadro
– a cominciare da psicosi e perversioni (e tra queste la più frequente e
significativa, appunto il masochismo) – è stata percepita come
problematica. È notevole in questo senso che nello studio che precede di
qualche anno la Présentation de Sacher-Masoch e ne costituisce un
antefatto decisivo, Deleuze, nel contestare l’“inflazione del padre nella
teoria di Freud”,35. ritenga di ricorrere, per opporvisi, alla dottrina junghiana
dell’immagine primordiale della Madre e alla concezione del simbolo come
“dato irriducibile dell’inconscio” così come era stata avanzata in
Wandlungen und Symbole der Libido (1912), il testo di Jung che, con
l’enfasi posta sugli archetipi collettivi, segna la rottura definitiva con
Freud.36.
Nel 1961 l’essenza del masochismo è ricercata da Deleuze in una
derisione della legalità paterna che si consuma in virtù di una regressione
alla Madre (attraverso una fantasia di incesto vissuta come ritorno a un
grembo materno da cui il soggetto potrà sognare di uscire nuovamente,
grazie a una rinascita eroica). Esso è letto come una protesta di una parte di
noi stessi oppressa dalla legge paterna e come una possibile compensazione
a tale oppressione. Sei anni dopo Deleuze lascerà cadere ogni riferimento a
Jung, ma terrà fermo il nucleo teorico dell’“espulsione del padre”. Tuttavia
lo articolerà ormai – ben più solidamente – a partire da una rilettura della
teoria freudiana del disconoscimento (Verleugnung) feticista della
mancanza materna e soprattutto da una valorizzazione del carattere
primigenio, assolutamente dominante del fantasma.37. Deleuze si impegna a
identificare appunto nell’impersonale dispositivo fantasmatico e nella sua
caratteristica capacità di destituire l’opposizione tra “soggettivo” e
“oggettivo” ciò che genera il campo entro i cui limiti paradossali si dispiega
il desiderio masochista (il masochismo non è che “l’arte del fantasma”,
scrive).38. La scena fantasticata, teatralizzata, ritualizzata non cessa di
alimentare tale desiderio, e caratteristicamente il soggetto la rinforza
attraverso il contratto con una “carnefice” freddamente materna, contratto
che, istituendolo come schiavo, oggetto-scarto di una donna, sospende la
possibilità di vigenza o di ritorno del padre. In tal modo il masochista mira
a farsi padrone del proprio godimento, avendo per così dire rifondato la
legge in modo da renderla non più contraria, bensì favorevole a tale
jouissance. Di qui gli elementi provocatori nei confronti delle forze
dominanti della civiltà e la derisione sottilmente sprezzante opposta alle
misure repressive della cultura.
Non può stupire il grande interesse che Lacan – una volta riconosciuti i
limiti della metafora del Nome-del-Padre e avviata l’innovativa riflessione
intorno all’oggetto perduto causa del desiderio (l’“oggetto a piccolo”) – ha
manifestato per la Présentation de Sacher-Masoch.39. Oltre ai temi della
specificità del masochismo rispetto al sadismo e del ruolo determinante,
non del dolore come tale, ma del prolungamento dell’eccitazione sessuale in
concomitanza con il dolore, ciò che soprattutto interessa Lacan è il modo in
cui Deleuze, nel rilevare la funzione del contratto, ricostrui-sce gli aspetti
essenziali del fantasma e dell’“oggettualità” masochisti.40. Non è qui
possibile evocare la complessiva interpretazione lacaniana della
perversione, nel cui quadro si situa la lettura del masochismo in quanto
“massimo godimento dato dal reale”.41. Vale però osservare come nel
seminario del 1968-69 Da un Altro all’altro Lacan integri l’analisi di
Deleuze – sospendendone il versante “umoristico” – su un punto
sicuramente rilevante, che non solo fornisce una preziosa indicazione di
fondo circa le modalità peculiari in cui nella posizione del masochista si
produce la sua incarnazione come oggetto-rifiuto (la sua metamorfosi in
oggetto a piccolo), ma riporta anche al cuore oscuro della contemporaneità,
alla spina che la storia del Novecento ha piantato nel pensiero filosofico,
psicoanalitico, politico, e che non cessa di assillarlo.
Lacan nota come nell’analisi del fenomeno masochista non sia stata
rilevata la funzione fondamentale che vi riveste la dimensione oggettuale
della voce: la scelta, la successione, l’enfasi, i toni, la cadenza, il ritmo di
parole e frasi. Ciò su cui non ci si è soffermati abbastanza è la circostanza
che il soggetto, perdendo del tutto la propria voce, o meglio facendo in
modo da restarne privo, la rimetta completamente all’Altro, al quale per lui
si tratterà di rispondere “come un cane”.42. L’oggetto a piccolo voce, la pura
materia sonora di una vocalità “fredda e percorsa da tutte le correnti
dell’arbitrarietà” sono reperiti da Lacan come cardine della configurazione
masochista del fantasma.43. Qui il soggetto instaura l’Altro come dotato
della voce in quanto oggetto perduto: egli si procura il godimento
completando l’Altro con i diversi ritmi di una voce-oggetto che,
rivolgendoglisi perentoriamente, potrà denigrarlo, insultarlo, impartirgli
ordini mortificanti e penosi. Cade qui il riferimento di Lacan alla scena
contemporanea, che converrà riportare per intero: “Diciamolo, basta aver
vissuto nella nostra epoca per sapere che c’è un godimento in questa
rimessa all’Altro della funzione della voce [...]. [Nell’opera di Sade] ci
vengono raccontati gli eccessi più straordinari nei confronti di vittime la cui
incredibile sopravvivenza può stupire. Ma non c’è neanche uno di questi
eccessi che non sia non solo commentato, ma fomentato da un ordine. La
cosa più sorprendente è che non provocano nessuna rivolta. Ma dopo tutto
anche noi abbiamo potuto constatare con esempi storici che le cose possono
andare così. In queste greggi che si sono trovate spinte verso i forni
crematori, sembra che non si sia mai visto qualcuno mettersi d’un tratto
anche soltanto a mordere il polso di un guardiano”.44.
Questo inquietante rinvio al campo di sterminio in riferimento
all’oggettualità vocale masochista (e non solo alla tendenza sadica, come è
sin troppo spesso avvenuto) pare indicare ellitticamente le motivazioni
psichiche che permetterebbero di inquadrare la circostanza dell’assenza di
vere rivolte contro la configurazione più atrocemente distruttiva prodottasi
del rapporto dominanti-dominati. L’osservazione di Lacan richiederebbe
un’estesa discussione, pronta a esaminare le pagine considerevoli di Reik
sul tratto masochista che può segnare la vita di interi popoli, culture,
società, gruppi,45. e al contempo a discutere l’incidenza essenziale della
dimensione sonora sullo psichismo umano.46. Qui, però, per concludere,
preferiamo leggervi un richiamo all’opportunità di non cessare di
interrogarsi sulle figure e i modi – persino quelli “vocali” attivati nel
masochismo – attraverso cui l’uomo si manifesta, con le parole di Maurice
Blanchot, come un “indistruttibile che può essere distrutto”.47.

1 Cfr. M. de M’Uzan, De l’art à la mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 132-133: “Al termine
masochismo sarei portato a preferire quello di movimento masochista”.
2 S. Freud, Das ökonomische Problem des Masochismus (1924), in Gesammelte Werke, Fischer,
Frankfurt a.M. 1976, vol. XIII, p. 371; trad. di R. Colorni, Il problema economico del masochismo,
Boringhieri, Torino 1975, vol. X, p. 5: “Il masochismo ci appare dunque nella veste di un grande
pericolo, mentre ciò non vale affatto per il suo corrispettivo opposto, il sadismo”. Dove ritenuto
necessario o opportuno le traduzioni citate sono state modificate.
3 Ibidem: “Se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo
scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, il masochismo è incomprensibile. Se invece il
dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono essi stessi rappresentare dei fini
[Ziele], il principio di piacere ne risulta paralizzato [lahmgelegt] e in un certo senso narcotizzato
[gleichsam narkotisiert] il guardiano [Wächter] della nostra vita psichica. […] Siamo tentati di
affermare che il principio di piacere non è solo il guardiano della nostra vita psichica, ma della nostra
vita in genere”.
4 T. Reik, Masochism in Modern Man, Farrar & Rinehart, New York-Toronto 1941; trad. di L.
Volpatti, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963, p. 8. Al termine dell’introduzione
al suo volume Reik precisava: “Mi sono interessato maggiormente al problema di un tipico
comportamento nei riguardi della vita, piuttosto che di quello tragicamente anormale. Questo è un
problema che compromette sempre più la nostra intera cultura. Voglio far notare questo aspetto della
odierna situazione umana” (ivi, p. 12).
5 L. von Sacher-Masoch, Venus im Pelz (1870); trad. di S. Formilli, Venere in pelliccia, RL Gruppo
Editoriale, Rimini 2010, p. 7.
6 Ivi, pp. 4-5.
7 J. Lacan, “Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien” (1960), in
Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 811; trad. a cura di G.B. Contri, “Sovversione del soggetto e dialettica del
desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 813.
8 Ibidem.
9 Cfr. per esempio J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme (1967-68), inedito,
lezione del 12 aprile 1967. Sulla lettura critica della dialettica hegeliana servo-padrone e
sull’interpretazione lacaniana di Marx vedi: P. Bruno, Lacan, passeur de Marx. L’invention du
symptôme, Erès, Toulouse 2010; B. Moroncini, Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014, pp. 99-126.
10 Cfr. É. Marty, Pourquoi le XXe siècle a-t-il pris Sade au sérieux?, Seuil, Paris 2011.
11 Cfr. J.-P. Sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, III, 3, § 1; trad. di G. Del Bo, L’essere
e il nulla, il Saggiatore, Milano 1997, p. 414.
12 Ivi, p. 428.
13 Ibidem.
14 “Per fortuna c’era Sartre”, esclama parlando del dominio dell’hegelismo e della fenomenologia
nel panorama filosofico del secondo dopoguerra francese: cfr. G. Deleuze, Dialogues, Flammarion,
Paris 1977, p. 13; trad. di G. Comolli, Conversazioni, ombre corte, Verona 1998, p. 18. Cfr. Id., “‘Il a
été mon maître’” (1964), in L’île déserte. Textes et entretiens 1953-1974, Minuit, Paris 2002, pp. 109-
113; trad. a cura di D. Borca, “‘È stato il mio maestro’”, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi,
Torino 2007, pp. 98-103.
15 Cfr. Id., “Desir et plaisir” (1977), in Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-95, Minuit,
Paris 2003, pp. 119-120; trad. a cura di D. Borca, “Desiderio e piacere”, in Due regimi di folli,
Einaudi, Torino 2010, p. 101: “Mi dico che non è casuale che Michel dia una certa importanza a Sade
e io al contrario a Masoch. Non basta dire che io sarei masochista e Michel sadico. Lo si potrebbe,
ma non è vero. Ciò che m’interessa in Masoch non sono i dolori, ma l’idea che il piacere interrompa
la positività del desiderio”.
16 Id., Pourparlers, 1978-1990, Minuit, Paris 20032, p. 198; trad. di S. Verdicchio, Pourparler,
Quodlibet, Macerata 2000, p. 192: “Credo che il ’68 sia stato la scoperta [dell’univocità del reale].
Coloro che odiano il ’68 o che ne giustificano la sconfessione considerano che sia stato simbolico o
immaginario. Ma in effetti non è mai stato così: fu un’intrusione del reale puro”.
17 Ivi, p. 195; trad. p. 189.
18 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, Minuit, Paris 1967, 20072, p. 87; trad. di G. De
Col, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1991, pp. 110-111.
19 Lettera di L. von Sacher-Masoch al fratello Karl dell’8 gennaio 1869, citata in W. von Sacher-
Masoch, Meine Lebensbeichte, Schuster, Berlin 1906; trad. di G. Bartoli, Le mie confessioni,
Adelphi, Milano 1998, p. 340. Cfr. G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit. p. 87; trad. p.
111.
20 K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844; trad. a cura di N.
Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, pp. 112-114.
21 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 61; trad. p. 79.
22 Cfr. ivi, pp. 53-54; trad. p. 68.
23 Nel corso della lezione del 27 maggio 1980 a Vincennes, Deleuze, nell’avvicinare masochismo,
amore cortese, forme della sessualità cinese, dirà che il masochista “è qualcuno che in una maniera
perversa – che lo porterà a una strana impasse – vive in modo assai rigoroso il fatto che il desiderio è
un processo continuo, e dunque ha orrore, un orrore affettivo, per tutto ciò che potrebbe interrompere
il processo. Di conseguenza non cessa di allontanare il piacere, che è un modo di interruzione
“gradevole” del processo. A profitto di cosa? A profitto, letteralmente, di un vero “campo
d’immanenza” del desiderio, in cui il desiderio non deve smettere di riprodurre se stesso”
(<www2.univ-paris8.fr/deleuze/article.php3?id_article=70>).
24 Id., Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 105; trad. p. 137.
25 Cfr. T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 98 e 151-167.
26 G. Deleuze, “Un manifeste de moins”, in C. Bene, G. Deleuze, Superpositions, Minuit, Paris
1979, p. 89; trad. di J.-P. Manganaro, “Un manifesto di meno”, in C. Bene, G. Deleuze,
Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978, p. 70.
27 L’intera settima sezione della Présentation de Sacher-Masoch è dedicata alla decisiva questione
dell’umorismo, sulla quale due anni dopo tornerà la sezione XIX di Logica del senso, annodando
intorno a essa non solo il tema della perversione, ma anche quelli dell’“arte delle superfici”, delle
“singolarità nomadi”, dell’“evento puro”: cfr. Id., Logique du sens, Minuit, Paris 1969, p. 166; trad.
di M. de Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, p. 127. Un bilancio critico sul valore
del libro su Masoch nell’itinerario deleuziano si ricava dagli studi raccolti in “Multitudes.
Masoch/Deleuze”, 25, 2006.
28 J.-P. Sartre, L’être et le néant, cit., III, 3, § 1; trad. p. 429 (corsivo nel testo).
29 Cfr. ibidem.
30 T. Reik, Il masochismo nel mondo moderno, cit., p. 213.
31 A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique II (1840), in Œuvres, II, Gallimard, Paris
1992, p. 708; trad. a cura di N. Matteucci, “La democrazia in America”, in Scritti politici, II, UTET,
Torino 1968-1969, p. 688.
32 Cfr. ivi, p. 709; trad. p. 688.
33 Resta utile in proposito la disamina storico-critica offerta da M. Cavina, Il padre spodestato.
L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007.
34 Cfr. J. Lacan, “D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose” (1957-58),
in Écrits, cit., pp. 531-583; trad. di G. Contri, “Una questione preliminare ad ogni possibile
trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., vol. II, pp. 527-579.
35 G. Deleuze, De Sacher-Masoch au masochisme, “Arguments”, 21, 1961, p. 42: “In generale la
psicoanalisi freudiana soffre di un’inflazione del padre. Nel caso particolare del masochismo, siamo
invitati a una ginnastica stupefacente per spiegare come l’immagine del Padre sia prima interiorizzata
nel Super-io, poi ri-esteriorizzata in un’immagine di donna. Spesso tutto avviene come se le
interpretazioni freudiane raggiungessero solo gli strati più superficiali e più individualizzati
dell’inconscio. Esse non entrano nelle dimensioni profonde in cui l’immagine di Madre regna per suo
conto, senza dovere nulla all’influenza del padre”.
36 Cfr. ivi, p. 46: “[Freud] non riuscì a cogliere il ruolo delle immagini originali: esse non si
spiegano se non con se stesse, sono insieme il termine delle regressioni e il principio di
interpretazione degli eventi in sé. I simboli non si lasciano né ridurre né combinare; al contrario, sono
la regola ultima per la combinazione dei desideri e del loro oggetto, costituiscono i soli dati
irriducibili dell’inconscio. L’unico dato irriducibile dell’inconscio è il simbolo stesso, e non un
ultimo simbolizzato”. Su questo “scheletro nell’armadio di Deleuze”, cioè la sua “ammirazione per
Jung” (cfr. S. Žižek, Notes on a Debate “From Within the People”, “Criticism”, 4, 2004, p. 662),
vedi i contributi di C. Kerslake, Rebirth Through Incest. On Deleuze’s Early Jungianism, “Angelaki.
Journal of the Theoretical Humanities”, 9, 2004, pp. 135-157; Id., Deleuze and the Unconscious,
Continuum, London 2007, passim.
37 La messa in parentesi dello junghismo e degli archetipi, e l’importanza conferita a diniego
feticista e struttura del fantasma masochista possono aver trovato i loro presupposti in due importanti
contributi psicoanalitici pubblicati su “Les Temps Modernes” nel gennaio e nell’aprile 1964 e
divenuti poi pressoché classici: O. Mannoni, “Je sais bien, mais quand même...”, in Clefs pour
l’imaginaire, ou l’Autre Scène, Seuil, Paris 1969; trad. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, “Sì, lo so, ma
comunque…”, in La funzione dell’immaginario. Letteratura e psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1972,
pp. 5-29 e J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Fantasme originaire, fantasmes des origines, origines du
fantasme, Hachette, Paris 1985; trad. di P. Lalli, Fantasma originario, fantasmi delle origini, origini
del fantasma, il Mulino, Bologna 1988.
38 G. Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch, cit., p. 59; trad. p. 73.
39 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme, cit., lezione del 19 aprile 1967:
“Incontestabilmente [Deleuze] scrive sul masochismo il miglior testo che sia mai stato scritto. […] È
un testo che davvero anticipa tutto ciò che vi dirò ora sulla via che abbiamo aperto quest’anno; non
c’è uno solo dei testi analitici che non sia interamente da riprendere, da rifare in questa nuova
prospettiva”.
40 Cfr. Id., Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre (1968-69), Seuil, Paris 2006, p. 134: “[…]
questo contratto su cui il nostro amico Deleuze ha messo così felicemente l’accento per supplire alla
fremente imbecillità che regna nella psicoanalisi”. Per la lettura lacaniana di Présentation de Sacher-
Masoch, cfr. D. Sigler, “Read Mr. Sacher-Masoch”: The Literariness of Masochism in the
Philosophy of Jacques Lacan and Gilles Deleuze, “Criticism”, 2, 2011, pp. 189-212. Più in generale,
sul rapporto di Deleuze con la psicoanalisi lacaniana, si veda la riflessione di M. David-Menard,
Deleuze et la psychanalyse, PUF, Paris 2005.
41 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. Le Sinthome (1975-76), Seuil, Paris 2005; trad. a cura di
A. Di Ciaccia, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 75. Si
vedano le ricostruzioni di M. Fiumanò, Masochismi ordinari, Mimesis, Milano-Udine 2016 e la
sintesi di M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, Raffello Cortina, Milano 2016, pp.
395-451.
42 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, cit., pp. 257: “Che il masochista
faccia della voce dell’Altro ciò a cui darà la garanzia di rispondervi come un cane, è l’essenziale
della cosa”.
43 Cfr. ibidem. Sulla voce in quanto oggetto a piccolo il rinvio d’obbligo è a Id., Le Séminaire.
Livre X. L’angoisse, Seuil, Paris 2004; trad. di A. Succetti, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi,
Torino 2007, pp. 264-277.
44 Ivi, pp. 258-259.
45 T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, cit., pp. 64-65, 154-158, 214-217.
46 Per un’introduzione alla questione si veda M. Dolar, A Voice and Nothing More, MIT Press,
Cambridge (Mass.) 2006; trad. a cura di L.F. Clemente, La voce del padrone, Orthothes, Salerno
2014.
47 M. Blanchot, “L’indestructible” (1962), in L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 191-
200; trad. di R. Ferrara, “L’indistruttibile”, in L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 2015, pp.
159-166.
Carmelo Colangelo insegna Filosofia morale all’Università di Salerno.
Disconoscimento sur place
RICCARDO PANATTONI

In Il freddo e il crudele1. Gilles Deleuze afferma che il concetto di


disconoscimento, almeno a un primo sguardo, può apparire come un
movimento molto più superficiale della negazione,2. eppure l’atto del
disconoscere ha una sua specifica modalità di messa in crisi del principio di
attualizzazione, tale per cui ci si rivolge a quest’ultimo senza accettarne la
validità. È un tipo di operatività in potenza che si mantiene sul punto
iniziale, sorgivo, della sua modalità e tende a contestare il giusto diritto di
ciò che inequivocabilmente sembra, in ogni modo, destinato a doversi
affermare. Introduce cioè una forma di sospensione sostanziale, una
neutralizzazione in grado di aprire, al di là di ciò che comunque appare
come dato, un non dato che non mira più ad alcuna realizzazione a venire.
Non si tratta quindi di contrapporre a un’apparente evidenza un criterio
capace di mostrarne un’altra altrettanto possibile, ma di sottrarre
all’accadimento in atto ogni principio di pura evidenza, senza per questo
negarne la fatticità. In questo senso la figura del masochista – almeno per
come viene evidenziata da Deleuze attraverso l’opera di Leopold von
Sacher-Masoch – è quella più adatta a esplicare questa modalità del
disconoscimento, mostrandone simultaneamente tre differenti processi. Il
primo è quello di riconoscere alla donna la presenza del fallo, attribuendole
così la capacità di poterlo far rinascere ogni volta per via partenogenetica,
perché in realtà alla vita non si nasce mai una sola volta, ma innumerevoli
volte: nascere è un’invenzione e non è detto che ci si riesca sempre. Il
secondo è quello di escludere completamente il padre da ogni ruolo relativo
a questa seconda nascita, evitando così di introdurre ogni principio
trascendente. Il terzo, infine, consiste nel liberare il piacere da ogni finalità
strettamente genitale e procreativa. La simultaneità di questi tre processi
incentrati sul principio del disconoscimento, si sorregge inoltre sulla
costellazione di altri quattro riferimenti essenziali: la sospensione, l’attesa,
il feticismo e il fantasma.

All’interno della teoria freudiana il feticcio è l’immagine sostitutiva di un


fallo femminile che si incarna in un oggetto determinato, l’ultimo che il
bambino ha visto prima di rendersi conto di quell’assenza inaccettabile e su
cui lo sguardo ritorna attraverso una forma di disconoscimento in atto. Si
determina così, per esempio, un feticismo rivolto verso la scarpa per uno
sguardo che ridiscende verso il piede. Non si tratta quindi tanto di un
oggetto in quanto tale, di un distoglimento dello sguardo dal corpo della
madre per dirigerlo verso qualcosa d’altro presente alla vista, ma di un
ritorno su una parte del corpo che non viene contestata, bensì
sovradeterminata e associata a un’oggetto che la copre mettendola in
evidenza. La scarpa è infatti l’oggetto del piede. Per questo il feticcio
sottostà alla legge della collezione, perché ogni scarpa, pur nella specificità
del suo riferimento singolare, rimarrà comunque l’ideale del piede
mancante, vero oggetto del desiderio sostitutivo. Dunque l’immagine
sostitutiva del fallo femminile è il piede assente, ideale, della scarpa che
rimane invece un oggetto reale da ricercare e, una volta trovato, da rendere
sempre sostituibile con un altro dello stesso tipo, ricercabile sempre di
nuovo. Di conseguenza non è tanto l’oggetto scarpa che permette di
mantenere il diritto all’esistenza dell’oggetto contestato, quanto il piede
mancante che l’oggetto scarpa reclama. Per questo immagine e
immaginario stanno decisamente insieme: l’immagine scarpa è
l’immaginario del piede, così come l’immaginario feticistico della scarpa è
la stessa immagine assente del piede.
La pulsione feticistica non corrisponde dunque tanto a un atto di
simbolizzazione sostitutiva, quanto a una focalizzazione rispetto a una
messa in scena teatrale, che viene fissata e congelata nella sua scenografia;
un’immagine perfettamente arrestata in se stessa, una vera e propria
fotografia alla quale è sempre possibile ritornare, attraverso la ricerca
dell’oggetto desiderato, al fine di evitare le conseguenze inaccettabili di un
movimento che si concatenerebbe in una inevitabile sequenza rivelativa. È
riconoscere all’esplorazione il criterio veritativo del dato di fatto, è lasciare
che tale esplorazione si perda nei meandri aleatori di quell’incastro non
realizzabile tra il piede e la scarpa, che rimane da ricercare senza soluzione
possibile. Ecco perché rispetto all’evidenza del visto non subentra alcun
rimosso, si tratta piuttosto dell’intromissione di un’opacità che si illumina
sull’oggetto feticcio assente, la scarpa, capace di avvolgere il piede come
parte sostitutiva della mancanza del pene: solo così il piede è il luogo
pulsionale sostitutivo del sesso femminile, ripreso come assente
nell’oggetto scarpa. È la ripresa e la dilatazione sospensiva dell’ultimo
istante in cui è ancora possibile credere al perfetto trasporto riflettente sul
corpo dell’altro. In questo modo la scoperta, l’imposizione del principio di
realtà, viene sconfessata dalla potenza in un reale immerso nei criteri di un
puro immaginario, senza che subentri alcuna necessità di un dispiegamento
immaginativo: la scarpa rimarrà comunque il solo condensato del piede.
Il feticcio non ha di conseguenza nulla della mera illusione sostitutiva, ma
esprime piuttosto uno stadio di intensificazione di un’esperienza singolare,
che non si rassegna a una verità oggettiva che deve valere per tutti. In
questo senso il feticismo è innanzitutto un disconoscimento, in quanto
sostenere che la donna non manchi del pene non deriva da una semplice
negazione, ma da una neutralizzazione difensiva; perché, sebbene la
conoscenza reale continui a sussistere, viene tuttavia introdotta una forma
sospensiva in grado di neutralizzarla. Inoltre, nonostante questa
neutralizzazione sembri anteporre i diritti dell’ideale contro il reale, il
feticcio non risponde tanto all’idealità di un mondo perfetto, quanto alla
capacità di munirsi di ali e di fuggire il mondo nel momento di apertura di
un sogno capace di trasformarlo. Non si tratta quindi tanto di negare il
mondo così per come è, o di volerlo distruggere al fine di instaurare un vero
e proprio principio idealizzante, ma piuttosto di una sospensione incentrata
su un disconoscimento che apra a un ideale, a sua volta sospeso nel
fantasma: il feticcio scarpa è il fantasma del piede come il tutto di un corpo
immortalato sulla visione attesa.
Su questo punto si evidenzia una differenza radicale rispetto al principio
che regge il movimento sadico, dove l’infinita ripetizione, l’accumulo, il
processo quantitativo reiterato che moltiplica e somma le figure di cui
usufruisce, non solo non ha alcun interesse di tipo feticistico, ma lo aborre
come il residuo di un legame possibile con le congiunture del tempo: la sua
coazione a ripetere passa attraverso i soli cerchi infiniti di una speculazione
destinata a perdersi in una perfetta solitudine. Anche se non si tratta in
effetti di una vera e propria solitudine, quanto di un reale annullamento di
ogni presenza attraverso un puro atto riflessivo. Sebbene infatti il modo di
esprimere i propri pensieri da parte del sadico mantenga comunque un
principio personale – attraverso il quale emerge un chiaro elemento
imperativo e descrittivo, dove le violenze descritte in ogni minimo
particolare appaiono come variazioni sulla ripetizione di uno stesso tema –,
egli si sente impegnato su un piano esclusivamente impersonale, che
riconosce come un livello più elevato rispetto a ogni dettaglio descrittivo. È
solo a un livello impersonale che è infatti possibile toccare la violenza
devastante di una dimostrazione in grado di subordinare a sé ogni singolo
elemento. Tanto è vero che quel modo di tratteggiare minuziosamente le
scene descritte non ha in fondo niente di scenografico, si tratta anzi di voler
dimostrare, attraverso il reiterato affastellarsi dei corpi, un mondo
assolutamente vuoto; o piuttosto pieno della sola traboccante emanazione di
Dio che, rivolgendosi esclusivamente verso se stesso, permette alla
creazione di emergere in tutta la sua indifferenza.
Per il sadico sono gli stessi corpi a svolgere la funzione di feticci, di meri
simulacri da oltrepassare per giungere alla simultaneità di un’immagine
senza tempo, senza divenire, decretando la perfetta immobilità di ciò che è.
Giunge così a evidenza, per Deleuze, una strana forma di spinozismo: un
naturalismo e un meccanicismo penetrati da uno spirito matematico. Per il
sadico infatti il vero tema è la natura, una natura sorpresa nei meandri
inavvicinabili dei suoi perfetti meccanismi, che solo uno spirito matematico
può cogliere come forme di pura intuibilità, trascendendo se stesso. Anche
lo stesso Krafft-Ebing3. lo aveva sottolineato: sebbene nell’atteggiamento
sadico si mantenga un elemento personale, questo tende completamente a
scomparire nella potenza impersonale che viene esercitata sulle vittime
attraverso disegni geografici o matematici. Per questo nell’opera di Sade le
descrizioni tendono – nonostante le loro inevitabili ripetizioni – a una più
alta funzione dimostrativa, incentrata sul principio di fondo della negazione
come processo attivo, in cui non si tratta tanto di stabilire, per esempio,
l’evidenza che la donna manchi effettivamente del pene, ma di affermare
come il feticcio scarpa non sia nient’altro che il momentaneo simulacro del
piede. Come cioè sia necessario distruggerlo al fine di liberare la parzialità
del corpo-piede alla naturalità del suo essere oggetto erotico. Tutto ciò che è
riconducibile all’umano, in un modo o nell’altro, non può che rimanere
prigioniero di una natura seconda, che deve solo essere consumata in una
reiterazione sempre più accelerata, in modo da spezzare ogni forma
espressiva e ritrovare quella continuità dell’atto che in realtà – come la sola
natura prima è in grado di mostrare in modo inequivocabile – non si è mai
interrotta. Ecco perché il sadico aborre la collezione. Al limite può accettare
il solo accumulo, purché non vi si riscontri alcun criterio ordinativo, dal
momento che il suo ideale resta il fatto di rimanere assolutamente senza
niente, espressione di un perfetto ascetismo.
Se dunque il movimento sadico, incentrato su di un principio speculativo
e analitico, si basa sul diretto processo impersonale della negazione, quello
masochista mette invece in atto, nei confronti dell’impersonalità della
natura, un potenziale disconoscimento, in cui il feticcio si rivela essere
l’oggetto fantasmizzato per eccellenza. Il fantasma si instaura e si sospende
nella contemporaneità delle due serie di personale e impersonale, giocando
sui limiti dei loro bordi comuni e interiorizzandone il processo. Per questo
Deleuze può affermare che nel masochismo esiste una vera e propria arte
del fantasma, perché tutto deve essere avvolto nel sogno anche quando non
si sta affatto sognando, ed è soltanto sulla forma liminare di
quest’esperienza che la soggettivazione attraversa le proprie reali
processualità. In modo tale che lo stesso feticcio si fa misura della forza
interiore del fantasma, introducendo indimenticabili momenti incentrati
sulla lentezza dell’attesa o sulla potenza della sospensione. Tanto è vero che
negli stessi romanzi di Masoch tutto culmina sempre nella sospensione, e
questo non soltanto perché i riti masochisti di supplizio e di sofferenza
implicano delle effettive sospensioni fisiche, ma soprattutto perché vi
troviamo la donna carnefice pronta ad assumere posizioni rigide che la
identificano con una statua, un ritratto o una fotografia: nel momento topico
di quando la frusta dall’alto sta per scendere a colpire la vittima, o nel
momento esatto in cui la pelliccia si socchiude per mostrare la presenza
parziale del corpo. Gesti che sembrano riflessi in uno specchio capace di
fissarne le pose. Delle cascate irrigidite – così Deleuze definisce queste
scene – dove la nitidezza delle immagini si staglia sul chiaroscuro di
sofferenze sospese in una drammaticità scenica.
Questa intromissione della forma-sogno nell’azione esprime il carattere
primordiale del fantasma: l’attenzione non deve quindi concentrarsi sul
gesto in quanto tale, non si tratta tanto di farlo emergere nella sua esclusiva
immobilità, capace di oscurare tutto ciò che lo circonda, ma di evidenziarlo
nel suo contrasto con l’azione di cui rimane comunque parte. Il gesto è il
sogno dell’azione, per questo le immagini sono cascate irrigidite di una
scena
teatrale, perché ciò che si evidenzia è un’esperienza che rimane incentrata
sull’attesa e sulla sospensione: sulla continua ripresa vibrante della sua
immobilità. È in questi termini che il masochista incarna la figura del
moroso, di colui che continua a rimandare e rinviare ciò che di per sé è già
accaduto. Questo meccanismo di rinvio sospensivo rimane allora del tutto
incomprensibile se non viene riferito alla struttura temporale che lo
sorregge.
Si tratta infatti di una forma di attesa che si sdoppia in due serie
simultanee: la prima rappresenta ciò che ci si attende e che al contempo si
coglie in un ritardo costitutivo, la seconda rappresenta invece ciò che ci si
aspetta e che con il suo arrivo potrebbe far precipitare l’atteso. Una tale
struttura non può che prevedere inevitabilmente una certa combinazione
altalenante di piacere e dolore. Se infatti l’attesa sembra prevedere l’apice
del piacere nella concretizzazione fattiva del suo fantasma, questa
eventualità non sarebbe altro che la negazione stessa dell’attesa in quanto
tale e quindi non corrisponderebbe affatto al suo desiderio, ma
rappresenterebbe il dissolvimento stesso del fantasma attraverso
l’introduzione del principio fattivo di realtà. L’attesa non sarebbe più un
vissuto allo stato puro, ma soltanto un passaggio intermedio in funzione del
suo oltrepassamento. Per vivere il piacere dell’attesa è dunque necessario
introdurre una forma di dolore che ne dilati lo svolgimento e ne disconosca
la finalità, in modo tale che l’attesa non possa mai coincidere direttamente
con l’atteso. Quest’ultimo tenderebbe infatti a corrispondere a ciò che ci si
aspetta, ma introducendo tale coincidenza lo si lascerebbe precipitare
nell’arrivo; si giungerebbe, in altri termini, all’apice del piacere e di
conseguenza al dissolvimento dell’attesa stessa. Nel suo movimento sur
place il masochista non è pertanto alla ricerca del dolore come forma
perversa di piacere, ma è preso nella consapevolezza che non può esserci
piacere senza attraversarne l’attesa: il piacere risiede pertanto
esclusivamente nel desiderio di attendere al piacere stesso. Precipitare verso
la scarica finale non sarebbe altro che una negazione di tale principio,
rappresenterebbe un’affermazione positiva incentrata sulla negazione di se
stessa e non potrebbe che introdurre un’inevitabile coazione a ripetere.
Ecco perché è proprio nell’uso del fantasma che il masochista si distingue
dal sadico. Quest’ultimo infatti lo utilizza come un semplice strumento
proiettivo che gli permetta di ritrovarlo poi in atto. Deleuze – per dare
esplicitazione a questo passaggio – riprende come esempio il momento in
cui Juliette4. suggerisce di rimanere per interi giorni senza occuparsi di
lussuria, di pensare a tutt’altro e poi, nell’oscurità, sdraiarsi e immaginare
gradualmente i più svariati tipi di sregolatezze. A un certo punto una
prenderà il sopravvento su tutte le altre, una forma di idea delirante che
dovrà essere messa per iscritto e poi eseguita il più in fretta possibile. L’uso
del fantasma è dunque necessario soltanto a deli-
neare nel modo più netto possibile la forma impellente del proprio desiderio
già in atto; il fatto di scriverlo è il riconoscimento della sua attualizzazione:
il godimento a venire non risiederà pertanto nella realizzazione fattiva di ciò
che il fantasma sembrerebbe reclamare, ma nel transitare, grazie al riscontro
dell’effettività della sua messa in atto, attraverso il suo dissolvimento. Il
godimento infatti non può che rivelarsi sempre più potente di qualsiasi
forma fantasmatica, anzi è l’esperienza in atto di liberazione da ogni legame
con l’immaginario, anche di quello che nell’oscurità è emerso in tutta la sua
limpidezza più potente. Per transitare nel puro atto reale del godimento, il
sadico non ha quindi solo la necessità di liberarsi del fantasma ma,
liberandosi di questo, simultaneamente constata come sia necessario sentirsi
liberi anche da se stessi, da ogni mero residuo di soggettivazione: in questo
modo a godere non sarà, in realtà, una vera e propria singolarità, ma Dio
stesso, in quella eterna creazione emanativa di se stesso che l’esperienza del
godimento dovrebbe essere. Soltanto a questo livello il movimento sadico
può trovare il suo fantasma fondamentale, rispetto al quale può aprire il
proprio reale contenzioso: come si gode da Dio?
L’uso del fantasma masochista passa invece proprio attraverso la
neutralizzazione del fantasma fondamentale di matrice sadica, non tanto
sostituendo il sogno all’atto, alla forza dimostrativa del continuo, ma
mantenendo l’apertura sognante come virtualità effettiva dell’atto di ogni
pura attualizzazione. Lo speculativo in fondo non risulta allora essere altro
che una parodia di Dio, così come il piacere non è nient’altro che una
parodia scenica del godimento. Per il masochista in effetti non esiste un
fantasma fondamentale, ma soltanto un carattere primordiale del fantasma.
In questi termini il masochismo non può mai essere inteso come un
semplice rovesciamento del sadismo, perché questo carattere primordiale
del fantasma lo porta a far sì che sia esercitata contro se stesso una
costrizione che non può in nessun modo essere definita sadica, poiché ha
come esclusivo principio una forma di sospensione presa in tutta la sua
incipiente potenzialità. Se il sadico passa di fatto attraverso un
dissolvimento della sessualizzazione – grazie a un continuo processo
incentrato sull’affermazione di un’esplicita e deliberata sessualità –, il
masochista invece è costantemente impegnato nel divenire che passa da una
desessualizzazione alla necessità di una nuova risessualizzazione, e soltanto
il fantasma può rivelarsi come il possibile teatro di questo processo sur
place. Si deve dunque concludere che sebbene il principio di piacere regni
su tutto, ciò non significa che governi tutto. Sebbene non vi siano infatti
eccezioni a tale principio, vi è tuttavia un residuo irriducibile al suo
distendersi, una pietra d’inciampo che si insinua in una vita: l’immanenza.
La vocazione del piacere masochista non è dunque rivolta all’esclusiva
ricerca del dolore come forma reale di godimento, ma chiama in causa il
godimento come il non luogo intrinseco al piacere stesso, in modo tale da
riconoscere la dinamica della sua attualizzazione, e simultaneamente,
attraverso l’uso del fantasma, di revocarne la finalità stessa: il
soddisfacimento non può che rimanere qualcosa di semplicemente
vagheggiato. Anche la vocazione messianica si presenta nelle stesse
identiche modalità: vi troviamo infatti in atto sia un riconoscimento che una
revoca di ogni vocazione fattizia. Giorgio Agamben lo evidenzia con
precisione nel suo libro Il tempo che resta.5. Riprendendo la Lettera ai
Romani di san Paolo egli mostra come la vocazione messianica non venga
qui introdotta per sostituire tutte le altre vocazioni, perché non
sufficientemente autentiche, troppo aderenti al mondano, e per stabilire
dunque, in questo modo, un inaccettabile confronto comparativo. La
vocazione messianica è piuttosto ciò che implica la vocazione stessa, è
un’urgenza che lavora e scava dall’interno ogni determinazione
vocazionale, senza tuttavia che si faccia semplice vocazione tra le altre.
Tanto è vero che la tensione messianica non è una modalità per orientarsi
verso un al di là o per assumere la capacità di mostrare come un’attitudine o
il suo opposto siano in realtà indifferenti. L’Apostolo, nella sua lettera, non
si limita a evocare negli stessi termini i piangenti così come i ridenti, i
piangenti e i non piangenti, ma chiama in causa precisamente i piangenti
come non piangenti e i ridenti come non ridenti. La modalità reale della
vocazione messianica rimane dunque sempre in relazione con la propria
revoca, in modo tale che il pianto rimarrà sempre teso verso il pianto, la
gioia verso la gioia e, in questa tensione di ogni vocazione fattizia verso se
stessa, ciascuna sarà al contempo revocata sull’insorgenza del proprio
“non”, senza che per questo sia necessario alterarne la forma.
Si tratta in altri termini di contrapporre l’uso al dominio: questa è
l’immanenza intrinseca alla vocazione messianica. Perché il “come non”
non ha un mero contenuto negativo, ma evidenzia come ogni vocazione non
costituisca né un diritto né un’identità, quanto la sola potenza che ne
permette un uso senza stabilirne alcuna titolarità. Si potrebbe declinare la
vocazione messianica nei termini di una depropriazione di ogni vocazione
possibile, il “come non” immanente al messianismo non può che
disconoscere di fatto ogni proprietà giuridico-fattizia, lasciando sul campo
della vita soltanto una “nuova creatura”, che non è altro che la rispondenza
all’uso di una vocazione abbandonata all’istante. Allo stesso modo tutti i
protagonisti dei lavori di Masoch sono ogni volta chiamati a una nuova
nascita, a divenire gli uomini che non sono mai stati, senza che questo
voglia semplicemente dire diventare degli uomini diversi, permettere che
sia riconoscibile un cambiamento fattizio nella realtà di quel determinato
soggetto. Nei suoi romanzi risuona continuamente come sia soltanto la
donna a essere chiamata a fare del protagonista un uomo, senza tuttavia
dare mai una vera e propria forma all’esito che questo impegno dovrebbe
raggiungere, ma ribadendo ogni volta come sia quella sola presenza il punto
di crisi attraverso cui il protagonista può cogliere che il proprio divenire
uomo non è altro che “non” fare come il padre: non assumerne mai il ruolo.
Troviamo così in Masoch, sovrapposte tra di loro, le figure di Cristo e di
Caino. Anche l’esperienza dell’ora nona della crocifissione deve dunque
subire un disconoscimento che la liberi da ogni valenza simbolica; nessun
lamento deve essere sollevato nei confronti dell’abbandono del padre,
perché il dolore di trovarsi crocifissi lo si deve al solo piacere inferto dalla
Madre Santa. Si tratta di un reale parto del figlio nella madre,
nell’immanenza della vita, in modo tale che il “tutto è compiuto” risuoni
ora, in quell’istante sospensivo, nel solo abbandono alla singolarità del
proprio esistere. È il disconoscimento di ogni possibile trascendenza; non vi
è in realtà nessun abbandono del padre verso il figlio, ma è il figlio che si fa
abbandono del padre, perché quella croce è il taglio rispetto a ogni criterio
di ricongiungimento oltre la vita: essa permette il solo perpetuo
congiungimento desessualizzato con la madre. È così che il figlio, su quel
taglio, non può che lasciar cadere all’istante ogni interrogazione sul mistero
della morte e rimanere “legato” al solo fantasma primordiale della nascita.
Anche Caino permane nel segno della croce. Ancora una volta è infatti la
madre a inchiodare il figlio liberandolo dalla volontà del padre e
partorendolo in un dolore che dà vita. Sarà soltanto in ragione di questa
trasformazione del concetto di vita che il figlio si potrà fare fondatore di
città. L’esperienza della croce non è dunque solo il disconoscimento del
padre, ma anche della naturalità della madre uterina: l’uomo nuovo nasce
da una donna orale che è parte essenziale del campo masochista. La donna
carnefice possiede infatti una determinata natura, ma questa natura deve
essere plasmata attraverso l’elemento della sua stessa perversione: deve
essere continuamente pervertita a se stessa. Infatti, ogni volta che la donna
carnefice entra in scena, non mostra mai alcuna valenza sadica; ogni suo
gesto incarna l’elemento irrigidito dell’infliggere sofferenza in una
prospettiva che appartiene esclusivamente al discorso masochista. La madre
orale è colei che impedisce alla donna carnefice di essere identificata con
un’inclinazione sadica; è colei che non ha alcun bisogno di riferirsi a una
figura paterna e che non mostra alcun desiderio di rispecchiarsi nella figura
del figlio: incarna soltanto – nella sua forza glaciale – la capacità di saper
rinunciare al proprio masochismo soggettivo.
Sulla croce non è dunque il figlio a morire, ma la somiglianza con il
padre. La madre, attraverso il dolore della croce, non fa altro che restituire
il figlio al piacere di una vocazione rivolta esclusivamente a se stesso,
permettendogli così di attraversare l’esperienza di una perversione in grado
di porlo sul punto d’insorgenza di tutta un’altra storia. Un contesto tematico
che si presenta come una sorta di rivisitazione del marcionismo. Se infatti
Cristo – come viene sostenuto da Marcione – è tutt’altro dal Dio ebraico
dell’Antico Testamento, in Masoch lo è perché incarna il disconoscimento
del Padre in nome del proprio essere nato esclusivamente dalla
partenogenesi di una donna. Cristo – allo stesso modo di Caino – non è
dunque chiamato a sconfiggere la morte, ma a santificare la nascita. La
morte non deve essere oltrepassata attraverso l’indicazione di un al di là
trascendente, ma sottoposta ancora una volta alla potenza del
disconoscimento: d’altronde non per niente nella stessa eresia marcionita si
invita a non procreare più.
Anche in questo caso si evidenzia una differenza sostanziale tra la
posizione sadica e quella masochista. La Madre Santa è colei che pone il
figlio in croce perché diventi a tutti gli effetti suo figlio e goda di una
nascita che deve a lei soltanto. La croce non rappresenta più la
contrapposizione simbolica alla vita in vista di una futura ricongiunzione
con il Padre; non si tratta più di dissolversi in quella perfetta indifferenza
emanativa di una natura prima, come per certi versi vorrebbe il sadico, ma
di esprimere il necessario radicamento in un’esclusiva natura seconda di cui
il sadico non sopporta i limiti sospensivi, neppure nel caso delle sue
contingenze assolute. L’invito di Marcione a non procreare più non diventa
pertanto altro che una dilatazione della struttura momentanea del tempo, in
cui nella vita non si trova altro che vita: lo stesso tempo messianico è
un’intensificazione del passaggio immanente della vita nella vita. Una
vocazione che si trova così in ogni istante revocata nell’attesa di se stessa,
come il distendersi di una modalità che non prevede più alcuna alternativa
tra la trascendenza nell’uno e la ciclicità di un tempo circolare destinato
eternamente a ripetersi: due forme che appartengono entrambe a una mente
che pretende ancora di poter speculare su rappresentazioni possibili. Il
fantasma primordiale del masochismo è il luogo, o il teatro, di questo punto
d’insorgenza, è l’affiorare aleatorio in ogni momento di un’altra scena, dove
la sospensione e il sogno sono gli strumenti fondamentali per non smettere
di fare qualcosa con la vita.
All’interno del discorso masochista diviene allora possibile cogliere
l’invito marcionita attraverso la figura dell’amore interrotto. A differenza
della posizione sadica, che per dissociare il godimento dalla procreazione
predilige i rapporti contronatura, la pratica dell’interruzione, privilegiata
invece dal masochista, fa della castrazione la condizione inaggirabile del
successo amoroso. Se divenire uomo significa infatti rinascere soltanto
dalla donna, il principio di castrazione si determina come la condizione
imprescindibile perché l’unione incestuosa e desessualizzata con la madre
sia possibile. La potenza del disconoscimento masochista si spinge in
questo modo fino a lambire il piacere sessuale in quanto tale. È in questo
senso che il masochista si presenta come colui che tergiversa
continuamente, che svia, che vive l’attesa allo stato puro e che poi
improvvisamente salta nell’interruzione. Ritardare il piacere sessuale,
dilatandone inusitatamente la temporalità, significa disconoscerne la realtà
in atto, ma nel momento stesso in cui la si attraversa, in modo tale da
identificarsi simultaneamente con l’uomo nuovo privo di sessualità. Ecco
perché rimane essenziale, all’interno di questo continuo processo di atti
sospensivi e improvvise interruzioni, che la simultanea risessualizzazione
avvenga sempre sur place, in una specie di salto in fase di stallo; e il tutto
all’interno di una scena teatralizzata in cui ne va della sessualità in quanto
tale: del carattere primordiale del suo fantasma.
Così, se il dolore masochista rimane assolutamente subordinato all’attesa,
l’essenziale sarà fare in modo che questo venga valorizzato in rapporto a
una ripresa che ne condizioni l’uso. Perché ciò che in realtà conta è
introdurre un’ulteriore forma di disconoscimento proprio all’interno del
rapporto esistente tra la ripetizione e il piacere. La ripetizione non deve
infatti essere vissuta come un comportamento relativo a un piacere ottenuto
e da ottenere di nuovo, a un piacere ritrovato, da ritrovare o da cercare per
riconoscerlo come ancora possibile: la ripetizione risponde piuttosto alla
singolare forma fantasmatica che restituisce il piacere a se stesso, lasciando
decadere ogni momento preliminare come preludio di un movimento
orientato al proprio fine. Nell’uso del fantasma primordiale piacere e
ripetizione si scambiano così simultaneamente il ruolo, in modo tale che i
processi di desessualizzazione e risessualizzazione avvengano nella sintesi
disgiuntiva, sur place, delle loro due serie. Attraverso questo comune punto
divergente i due movimenti, in sospensione su se stessi, lasciano che giunga
a espressione non più quella che si dovrebbe comunque indicare come
pulsione di morte, ma il solo fantasma del principio di piacere che trova
proprio lì, nella dilatazione assoluta di quei singoli momenti sospensivi, la
sua ultima parola ancora a venire.

Riccardo Panattoni insegna Etica e psicoanalisi all’Università di Verona.


1 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 1991.
2 S. Freud, La negazione (1925), in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. X, Boringhieri, Torino 1978.
Cfr. anche S. Benvenuto, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli 2015
e P. Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino
2013.
3 R. von Krafft-Ebing, Biografie sessuali. I casi clinici della Psychopathia Sexualis (1886), trad.
parziale di P. Giolla, Neri Pozza, Vicenza 2006.
4 D.A.F. de Sade, Juliette, ovvero le prosperità del vizio (1797), a cura di P. Guzzi, Newton
Compton, Roma 1993.
5 G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani”, Bollati Boringhieri,
Torino 2000.
Masoch oltre Nietzsche. Seduzione, autoaggressione e
ordalia del filosofo critico
ANDREA MUNI

Premessa
La resistenza psicologica e culturale che tutti proviamo di fronte a una
qualsiasi (pur minima, simbolica, teatrale) idea di autoaggressione o
sottomissione volontaria si riflette in innumerevoli espressioni del
linguaggio comune. Eppure il masochismo, termine che racchiude troppi
significati differenti per un’unica denotazione, non cessa di esercitare su
molti di noi un fascino misterioso. Da parte mia credo che in questo fascino,
antico e attualissimo nello stesso tempo, si nasconda un significato
filosofico e politico che siamo ancora lontani dall’avere ancora soltanto
accarezzato. Nella dinamica masochista, di cui Masoch è stato senz’altro un
grande attore, ma non certo il primo, si nasconde infatti un segreto che
meriterebbe di essere approfondito attraverso un’inedita genealogia. Invece
di indagare il “masochismo” da un punto di visto politico, filosofico o
psicoanalitico, mi piacerebbe piuttosto rovesciare il piano e provare a
ripensare alcune forme di seduzione politica, psicoanalitica e filosofica a
partire dalla peculiare dinamica seduttiva, e dal particolare rapporto di
potere, in gioco nella strategia masochista.
Nel fascio di problemi cui ci introduce il masochismo, inteso come
strategia e come modalità di produzione della verità, si declina infatti in
maniera del tutto singolare l’antichissimo tema della trasformazione di sé: il
ferirsi, l’autointaccarsi, il farsi violenza. Lo sdoppiamento e la divisione del
soggetto – concepiti anche in chiave politica come modalità di seduzione e
di trasformazione dell’altro – sono infatti il nocciolo del masochismo che,
ancora oggi, ci interessa e merita di essere approfondito. Le storie di
Masoch ci raccontano, in ultima istanza, proprio di come sia necessario
farsi del male per trasformarsi, per provare a se stessi una verità, e di come
tutto questo non si possa fare senza “un altro”; ma ci raccontano anche di
come “gli altri” non possano essere il supporto delle nostre trasformazioni
senza esserne, per questo, a loro volta intaccati. La seduzione masochista e
il rapporto che essa articola tra il soggetto, l’altro, il godimento e la verità,
ci riportano infatti a una dimensione del discorso e del rapporto
intersoggettivo che nella nostra cultura rimane a tutt’oggi velata, sincopata,
misconosciuta: quella ordalico-sofistica, in cui la verità non è fatta per
essere conosciuta, ma giocata, inflitta e subita, come un evento che si scrive
sui corpi.

L’orrore di Nietzsche
A eccezione del fatto che sono entrambi morti folli, che erano ammiratori di
Schopenhauer e che scrivevano in tedesco, tutto sembra dividere Nietzsche
e Masoch. In primo luogo la formazione cattolica e mistico-barocca dello
scrittore galiziano, radicalmente opposta a quella protestante di Nietzsche.
In secondo luogo, la storia familiare: da un lato Nietzsche, figlio di un
pastore protestante teneramente amato e prematuramente scomparso,
dall’altra Masoch, figlio di un questore cordialmente detestato. In terzo
luogo a dividerli troviamo le convinzioni politiche: da un lato Masoch, per
metà slavo e affascinato del panslavismo, vicino agli ambienti anarchici
bakuniniani e proudhoniani, simpatizzante delle rivolte dei contadini
piccolo-russi contro la nobiltà polacca e strenuo difensore dell’impero
transnazionale asburgico. Dall’altro lato Nietzsche: prussiano, acerrimo
nemico di qualunque forma di socialismo, gioiosamente ateo e, a suo modo,
nazionalista tedesco. Eppure, forse proprio a causa di questa siderale e
paradossale prossimità, mi è parso di poter rintracciare un’affascinante
complementarità in un punto decisivo del loro pensiero che mi sembra
perfetta per inoltrarci nel “masochismo” che (ancora oggi) ci interessa.
Nietzsche nella Genealogia ci racconta una specie di mito, una fiaba
grottesca. La storia di come i poveri, gli umiliati, gli ultimi, i malriusciti, i
giudeo-cristiani (per chiamarli col loro nome) sono stati capaci di sedurre i
“migliori” alla loro nuova, mostruosa e inquietante verità per mezzo di quel
“dio”, e di quella inedita “autoaggressività”, di cui gli antichi signori non
avrebbero letteralmente saputo che farsene. Nietzsche si ferma qui,
dicendoci a chiare lettere che se si addentrasse ulteriormente tra i vapori
malsani di questo ripugnante segreto rischierebbe di restarne contagiato
come da una malattia. Dopo aver osato scoperchiare con grande coraggio
un simile vaso di Pandora, egli sembra infatti proibirsi misteriosamente
nella Genealogia tutte le domande (e le risposte) decisive. Come hanno
fatto gli schiavi, a livello pratico, a sedurre i propri padroni? A ben vedere
infatti – Nietzsche ce lo lascia intuire, gli schiavi non hanno trasformato i
valori per mezzo della violenza ma, piuttosto, per mezzo della seduzione. E
dove avrebbero trovato, gli schiavi, la volontà di potenza necessaria per
compiere un così seducente e inaudito rovesciamento di valori? Risposta
(ancora velata) di Nietzsche: nella cattiva coscienza e nel ressentiment
covati per secoli nei confronti di quei “signori” che li dominavano, che
erano davvero più forti – e quindi più “veri” – di loro. Ma come hanno fatto
gli “schiavi” a dimostrare l’esistenza del loro dio, della loro nuova verità?
La risposta, spaesante e vertiginosa (che prendo a prestito da una celebre
sentenza di Lacan) è: amandolo, agendo come se quel dio e quella verità
fossero reali. Gli schiavi della Genealogia hanno dimostrato ai propri
signori l’esistenza e la superiore potenza del loro dio (della loro verità e,
quindi, del loro “io”) soffrendo e morendo da martiri per questi nuovi
valori, in loro nome.
Nietzsche si accorge nitidamente che la volontà di verità, la morale degli
schiavi, si è imposta nella storia dell’Occidente attraverso un’inedita e
spaventosa forma di seduzione “masochista” che ha contagiato i primi
“buoni” (i “signori”), inducendoli a riconoscersi a un certo punto della
storia come i nuovi “malvagi”. La volontà di verità – la volontà che esista
una separazione vero/falso che raddoppia quella morale (e cristiana) di
bene/male – si è instaurata storicamente nella psiche dell’uomo occidentale
a partire da questa sfida, da questa seduzione ordalico-sofistica che è
l’essenza della strategia masochista. Foucault non ha mancato di rilevare,
nelle Lezioni sulla volontà di sapere, fino a che punto la volontà di verità
sia soltanto il circoscritto (anche se molto longevo) episodio storico di una
più ampia, e strategica, volontà di sapere.
Non è possibile comprendere la dinamica su cui si fonda, in tutti i tempi,
l’esercizio seduttivo del potere senza indagare il fascino segreto che emana
dall’autoaggressione e dall’autosacrificio. L’uomo che non teme di
autoinfliggersi la verità che propugna, quella stessa verità a cui vorrebbe
piegare gli altri, è, in quasi tutte le culture della terra, l’uomo d’onore,
l’uomo glorioso, colui che ha il diritto di comandare gli altri e di intaccarne
i valori. Nietzsche trema nel realizzare che nessuno meglio degli schiavi
della Genealogia e del loro “pastore” ha saputo mettere in atto questa
perversa strategia di seduzione e vendetta, e inorridisce nel realizzare che
una simile potenza seduttiva è scaturita proprio da quelle due orrende
“malattie” che sono il ressentiment e la cattiva coscienza. Niente è meglio
delle sue parole per restituirci il sapore del suo sconcerto:

Ma questo è il fatto: sul tronco di questo albero della vendetta e dell’odio


[…] germogliò qualcosa di altrettanto incomparabile, un amore nuovo, la
specie d’amore più profonda e più sublime… Ma non si pensi che esso si
sia innalzato come la negazione di quell’odio […]. No, la verità è il
contrario! L’amore germogliò da questo come la sua corona, come la
corona del trionfo, con lo stesso impulso con cui le radici di quell’odio
affondavano sempre più profondamente e con sempre maggior bramosia
in tutto quanto era abissale e malvagio, quella corolla era sbocciata nel
regno della luce e dell’altezza con le stesse mete di quell’odio, verso la
vittoria, la preda, la seduzione. […] Non rientra nella magia nera di una
veramente grande politica della vendetta, di una vendetta lungimirante,
sotterranea, che guadagna lentamente terreno ed è preveggente nei suoi
calcoli, il fatto che Israele stesso abbia dovuto negare e mettere in croce
dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero
strumento della sua vendetta, affinché tutto il mondo, ovvero tutti i nemici
di Israele, potesse abboccare a questa esca?1.

È impressionante l’analogia tra questa citazione nietzschiana – che ci spiega


poeticamente il nocciolo della seduzione giudaico-cristiana – e la strategia
del masochista che Deleuze riassume nelle ultime pagine di Il freddo e il
crudele:

L’Io masochista è schiacciato solo in apparenza. Quale derisione, quale


umorismo, quale invincibile rivolta, quale trionfo sono celati in un Io che
si dichiara così debole? La debolezza dell’Io è la trappola tesa dal
masochista, che deve condurre la donna [l’altro giocatore/il Super-io
proiettato nel fuori] al punto idea-le della funzione che le è assegnata
[cioè quello di “altro”, di paradossale alleato]. Se il masochista manca di
qualcosa, manca piuttosto di Super-io e non di Io.2.
Nel corso della storia della cultura occidentale il masochista – dal cinico al
protocristiano, dalle mistiche tardo-medievali al Werther di Goethe e su fino
ai personaggi di Masoch – è essenzialmente colui o colei che mette in
discussione i valori dominanti spostando la questione della verità a livello
del corpo e delle verità che, attraverso di esso, si possono testimoniare o
smentire. Nietzsche ci accompagna fino a questa profonda ma oscura
intuizione: nell’odio e nell’interiorizzazione dell’aggressività – tipica di
coloro che hanno imparato a rivolgere contro se stessi la violenza che non
possono (o non vogliono) sfogare verso l’esterno, cioè verso chi li comanda
o verso chi li ama – si celano un’inaudita forma e un inesauribile serbatoio
di seduzione e potenza.
Nella Terza dissertazione della Genealogia Nietzsche non manca di
offrirci addirittura l’identikit del “capo” degli schiavi diventati padroni, del
grande stratega masochista. Egli è per Nietzsche il debole forte che ha
saputo guidare gli schiavi alla trasvalutazione dei valori: l’uomo dell’Ideale
ascetico, detto anche il “prete” o il “filosofo”. Per Nietzsche quest’uomo –
“forte” per diritto di nascita ma scartato dalla sua stessa “famiglia” – è
colui che ha insegnato ai sottomessi la strategia che permette di rovesciare
l’autodistruttività (la cattiva coscienza) e il ressentiment (l’invidia) in una
terribile arma di seduzione politica. Quest’uomo è per Nietzsche, fin dai
tempi più remoti, colui che sa suscitare negli altri – nei “signori” che,
disconoscendolo, ne hanno fatto un uomo del ressentiment e della cattiva
coscienza – una perturbante “paura di se stessi”.

Così fecero [i brahmani], da uomini di età terribili, con mezzi terribili: la


crudeltà verso se stessi, la ingegnosa automacerazione, furono il
principale strumento di questi eremiti e riformatori del pensiero assetati di
potenza. […] Ricordo la celebre storia del re Viçvamitra, che da
millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una
tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo.3.

Nietzsche, parlando dell’asceta e del filosofo, dimostra di conoscere alla


perfezione la potenza e la forza creatrice che si nascondono nella sua
peculiare reattività, nella sua conclamata cattiva coscienza e nel suo
radicato ressentiment: “Questo apparente nemico della vita, questo negatore
– appartiene davvero alle forze conservatrici e affermativamente creatrici
della vita”.4. A dispetto di quello che sarebbe piaciuto a Nietzsche, infatti,
sono stati proprio gli “schiavi”, guidati dall’uomo dell’ideale ascetico, ad
aver scoperto come – infliggendosi nella carne una verità – si seducono gli
altri e si sovvertono i valori (compreso quello “estremo” della verità stessa).
Il dio dei cristiani – e prima quello degli ebrei – non sono forse stati, in
questo senso, il più grande sofisma nella storia della cultura antica?
Il limite di Nietzsche è stato paradossalmente proprio quello di non
riuscire a riconoscersi in questa figura; quello di ostinarsi a considerare la
figura del “filosofo” come un semplice nemico esterno e non come una
parte di se stesso con cui fare i conti, convivere, imparare in maniera
autocritica a “saperci fare”. Nietzsche è stato infatti – nella sua vita e nella
sua stessa opera – proprio questo “filosofo”, quest’uomo dell’ideale
ascetico per antonomasia. Masoch e Nietzsche, entrambi borghesi, avevano
orrore del proprio mondo e del proprio ambiente culturale, orrore di un
mondo in cui non si riconoscevano e che non hanno fatto altro che
combattere con tutto il loro essere: nelle proprie vite, nelle loro opere e fin
dentro alla follia che purtroppo li ha accomunati. Entrambi avevano una tale
vergogna di sé che ne sono infine impazziti. Questo non per dirne male,
tutt’altro. La vergogna di sé – come ricorda maliziosamente Lacan nel
Seminario XVII5. – è una disposizione soggettiva imprenscindibile per ogni
intellettuale critico borghese che desideri davvero sovvertire – a partire da
una lotta con se stesso – i valori di cui è imbevuto. In effetti, quando
Nietzsche ci parla dell’uomo dell’ideale ascetico, del filosofo, egli sembra
parlarci proprio di se stesso:

Questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo


insaziato […] come potrebbe non essere anche il più malato tra tutti gli
animali? […] Quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per
magia, una moltitudine di più squisiti sì; proprio così, se si ferisce, questo
maestro della distruzione, dell’autodistruzione – è poi la ferita stessa che
lo costringe a vivere.6.

Il vantaggio di Sacher-Masoch e il doppio gioco


“masochista” dell’intellettuale critico
Masoch non è stato soltanto un letterato, uno storico e un filosofo. Egli è
stato anche, molto più di Nietzsche, un gran seduttore e un uomo d’azione
(che, tra l’altro, ha perfino combattuto una pur breve guerra). Un uomo
innamorato dei contadini (e delle contadine), un “padrone”, ma anche
qualcuno che godeva davvero nel trascorrere tempo alla pari, bevendo e
raccontando storie, con gli ultimi del proprio tempo (briganti, ebrei,
zingari). Masoch non ha mai smesso di scoprire e riscoprire, in quel mondo
umile e violento dei contadini, dei briganti, delle minoranze etniche e delle
comuni religiose una selvaggia felicità, una strana sintonia con gli aspetti
più spaventosi della natura, che la sua esistenza borghese e mondana
probabilmente gli precludeva. In questo senso non è forzato vedere in
Masoch una sorta di Pasolini ante litteram, che amava teneramente il
popolo slavo e le sue tradizioni, la sua mitologia matriarcale, la sua
“innocente” violenza (che, da storico, egli senz’altro conosceva più che
bene). Nella storia emotiva di Masoch tutti questi elementi sono collegati al
profondo amore che egli – ancora una volta come Pasolini – proverà sempre
per la madre e per la balia, entrambe slave. Masoch scopre fin da piccolo, e
non cessa di riscoprire nei suoi racconti, la millenaria capacità di vivere, di
sopravvivere, del popolo slavo; la sua tradizionale capacità di trovare la
felicità nella comunità, nelle soddisfazioni “banali” della vita. Soddisfazioni
che – al latifondista borghese che egli era stato costretto a diventare –
dovevano sembrare ormai precluse: lo sfogo violento, cantare, ballare e
bere insieme, la genuina tenerezza della famiglia, l’amore fugace e
selvaggio, l’amicizia disinteressata, la natura che (come la “sua” donna
slava) è insieme materna, fredda, bellissima e crudele. Tutti questi temi
sono ripresi con un’insistenza sintomatica nelle sue opere.
Se Nietzsche non smette mai di immaginare come proprio interlocutore
quel prussiano nazionalista che egli vorrebbe “rieducare”, Masoch è di
contro il più acerrimo nemico di un simile interlocutore. Egli è infatti un
avversario (non solo teorico) del nazionalismo tedesco e uno strenuo
difensore dei diritti dell’impero asburgico (che ritiene – a torto o a ragione –
l’unico organismo statale in grado di preservare le particolarità etniche e
religiose non solo della sua Galizia ma dell’intera area danubiana). È forse
anche per queste ragioni che Masoch, a differenza di Nietzsche, ha avuto
molto più agio nel riscontrare ed esaltare – proiettandola nei suoi racconti
sul popolo e sugli ultimi – quella superiore potenza “masochista” dei deboli
e degli schiavi che invece atterriva Nietzsche.
Il fatto che Masoch nei suoi racconti abbia a volte tradotto la propria
autoaggressività di borghese pentito nel rapporto masochista di un
protagonista maschile con delle donne non è affatto casuale. La donna slava
e contadina, infatti, è forse – per il borghese germanofono e mondano di
fine Ottocento – la migliore incarnazione del totalmente “altro”, dell’al di
qua della Legge.
Inoltre, sarebbe ingrato parlare – come hanno fatto alcuni, tra cui Deleuze
– di una banale idealizzazione della donna in Masoch. Non è la donna in sé
a essere idealizzata, ma tutto ciò che – più in generale – si oppone ai valori
borghesi. Nelle occasioni in cui la donna è dalla parte di questi valori (come
nel caso di Warwara – la protagonista di Il testamento, contenuto in Il
legato di Caino –, che lascia la propria fortuna in eredità a una cagnetta),
Masoch non esita a ridicolizzarla.
Gli scritti maggiori di Masoch non sono affatto tutti “masochisti”, e
bisogna ammettere che il pur magistrale libro di Deleuze non rende ancora
giustizia alla profondità della sua opera. Deleuze infatti, pur riabilitando
Masoch, aveva un interesse ben preciso in Il freddo e il crudele: corroborare
(giustamente) la tesi di Lacan – di cui in quegli anni è amico e discepolo –
sulla non complementarietà di masochismo e sadismo. La questione
centrale nelle opere di Masoch, però, non è tanto il rapporto con la donna in
sé, ma piuttosto l’insistenza di un’idea ordalica della giustizia (sommaria e
contadina, opposta a quella ordinaria) e della verità (che deve essere
qualcosa che si “prova” con e nel corpo, nell’etica).

La provocazione che vorrei lanciare è che Masoch si sia reso conto (meglio
di Nietzsche) che la seduzione masochista degli “schiavi” – intuita dal
filosofo tedesco nella Genealogia – non sia altro che un mito moderno, una
maschera del doppio gioco che il filosofo critico è chiamato a svolgere nella
società capitalista per far marcire dal di dentro i valori borghesi di cui egli
stesso è imbevuto. Lo “schiavo” nietzschiano forse, in ultima istanza, come
gli eroi e le eroine di Masoch, non è che una metafora dell’intellettuale
critico borghese e del compito grottesco, paradossale di cui questi deve farsi
carico per riuscire a essere all’altezza delle proprie parole.
L’intellettuale critico è l’uomo dell’ideale ascetico. È lui (Nietzsche,
Masoch, “noi”) che ha bisogno della seduzione masochista, è lui che deve
servirsene per scatenare negli attuali signori quell’odio di sé che – fin dai
tempi dei brahamani – i filosofi (quelli veri) sanno magicamente ispirare
negli umili e nei potenti.
Basta aver studiato un po’ di storia per sapere molto bene che i deboli
veri, i sottomessi, gli sfruttati non sono affatto dei “deboli”. Il fatto di
essere cristiani non ha impedito ai deboli “veri”, negli ultimi duemila anni,
di massacrare i forti non appena ne hanno avuto l’occasione (vedi, prima
del cristianesimo, le guerre sociali e le rivolte degli schiavi ai tempi
dell’antica Roma, o – in età cristiana – la rivolta degli zeloti a Tessalonica
durante il lungo crollo dell’Impero bizantino, o ancora le rivolte contadine
di Munster che hanno seguito la Riforma; o ancora – non più di
centocinquant’anni fa – la strage di Bronte nella Sicilia “liberata” dai
garibaldini). Non sono i deboli “veri” gli schiavi che ci interessano, Masoch
lo vede molto meglio di Nietzsche. I deboli veri, gli sfruttati, quando gli
salta la mosca al naso, non cercano mezzucci. Lo vediamo anche oggi,
mutatis mutandis, nel voto populista-sovranista attraverso cui gli strati più
poveri e più ignoranti della popolazione europea, una volta di più, stanno
giocando un brutto (e probabilmente autolesionistico) scherzo ai padroni, ai
ben nati, alle élites del vecchio continente.
Masoch si inoltra, e ci trascina, in questa zona desertica, glaciale dove ai
deboli e ai poveri è restituita la loro ferocia. Egli assiste ancora ragazzo, e
come figlio di questore, alla tremenda reazione dei contadini piccolo-russi
contro la nobiltà polacca (che a sua volta si era sollevata contro l’Impero
asburgico). Uomini impiccati agli alberi come frutti troppo maturi, ammassi
di cadaveri trasportati nei carretti come sacchi di patate che grondano
sangue leccato dai cani. Masoch vede la furia dei deboli, degli oppressi e
degli sfruttati (con cui peraltro, da “padrone” e da intellettuale critico,
solidarizza). Ma proprio per questo non può credere, nemmeno per un
istante, come sembra fare Nietzsche un po’ ingenuamente, che i deboli
“reali” non siano (da sempre stati) in grado – se portati al limite della
sopportazione – di rovesciarsi violentemente, subitaneamente (anche se
spesso solo fugacemente) in “forti”. Non vede alcuna bassezza nella loro
vita, nella loro realtà, e non la vede nemmeno nella loro fede in dio.
I romanzi “masochisti” dell’autore galiziano (come La venere in pelliccia
e La madre di dio) ci interessano e ci affascinano ancora oggi perché – a
differenza delle opere di Nietzsche – ci aiutano a capire per quale via un
uomo del ressentiment, un debole, un invidioso, un uomo dell’ideale
ascetico come un Salvini, una Le Pen o un qualsiasi leader populista-
sovranista, possa ottenere – proprio oggi, sotto i nostri occhi e tutt’altro che
miticamente – di essere amato e ascoltato da così tante persone (mentre i
“migliori” intellettuali del paese sono considerati – se va bene – dei pedanti,
e se va male dei farabutti). Sembra strano che nessuno si sia accorto del
fatto che la strategia politico-discorsiva dei nuovi sovranisti neofascisti è
proprio ordalico-sofistica (e quindi implicitamente masochista nel senso che
ci interessa). Che si tratti del rapporto con l’Europa a proposito dei conti,
della questione migranti, di diritto internazionale o di un qualsiasi tema
etico, il
leader sovranista si pone sempre teatralmente e seduttivamente nel discorso
come colui che si farà arrestare, punire, uccidere, piuttosto che venire meno
alla parola data. In questo modo egli si rappresenta, in maniera perfetta e
ipocrita (ma questo a livello strategico non ha alcuna importanza), come il
capo che tutti vorrebbero avere; come qualcuno che ci “mette la faccia”, che
mette il suo corpo davanti al tuo, che si espone per primo alle conseguenze
della verità che propugna. Anche se la cosa può apparire paradossale, è
proprio così che – seducendo gli altri – si trasformano i valori nel reale:
mostrando che si è pronti a rimetterci in proprio, in solido, per la verità che
si propugna. Non che i leader sovranisti e populisti facciano nulla di tutto
questo, hanno solo capito meglio degli altri che – per innescare una
potentissima identificazione – spesso basta rappresentare questo
atteggiamento.

Il materialismo storico, l’ordalia e la madre di dio:


l’al di qua della Legge
L’ultimo decennio del Novecento ci consegna Nietzsche e Masoch
diversamente ospedalizzati e ormai ammutoliti nella loro follia. Entrambi
hanno contribuito con la loro vita e la loro opera a dischiudere quell’abisso
che Marx per primo ha cominciato a indagare storicamente e che Freud ha
ricollocato all’interno del soggetto e del corpo umani. È sul bordo di questo
abisso che, credo, dovremmo ricollocare l’opera di Sacher-Masoch, ed è
anche qui che risiede il suo curioso vantaggio politico e strategico rispetto a
Nietzsche.
Marx è stato il primo a mettere in luce, nella sua critica alla filosofia del
diritto di Hegel e nella critica dell’ideologia tedesca, come non solo le
strutture statali, il diritto e la filosofia ma l’intera esperienza della
soggettività (leggi “coscienza”), siano un effetto sovrastrutturale del
rapporto di forza economico-politico che storicamente divide (e al
contempo grottescamente unisce, ancora oggi) sfruttati e sfruttatori. Se
osiamo prendere davvero sul serio questo discorso, siamo costretti a
inoltrarci in una spiacevole considerazione: gli intellettuali critici borghesi –
come erano Marx, Masoch e Nietzsche – non hanno mai avuto altra scelta
che quella di essere (a qualche titolo) autodistruttivi/autoaggressivi.
Seguendo l’amara lezione marxiana dovremmo ricordarci che un filosofo
davvero critico non può rinunciare, non può prescindere dal mettere in
campo delle pratiche a qualche titolo “autodistruttive” (e quindi, in senso
lato, masochiste) che gli permettano ordalicamente di prendere distanza dai
valori borghesi (oggi diremmo autoimprenditoriali) che lo governano dal di
dentro e che sono, al contempo, la vera causa del recente rigurgito
neofascista delle classi meno colte e/o più povere. Senza questa pulsione,
senza questo rapporto con la verità l’atteggiamento critico infatti cessa di
essere un valore e si trasforma in un boomerang, in un’arrogante posa tra le
tante che si possono acquistare al supermercato neoliberale delle identità
autoimprenditoriali.
Sacher-Masoch nei suoi romanzi, ben lungi dal parlarci banalmente di
sessualità o di perversione, ci parla tra le righe del valore della verità e del
“luogo” invisibile, dell’“altra scena”, in cui i valori si creano e deformano
storicamente. Masoch ci parla dell’al di qua della Legge, di quel tempo
logico in cui la verità, prima di funzionare come il discrimine tra il vero e il
falso, cioè come il fondamento di un sistema di valori, è qualcosa che le
persone si infliggono, e subiscono, a vicenda. Non è un caso che per fare
ciò egli chiami continuamente in causa delle pratiche ordaliche, dei rituali
in cui la statuizione della verità non si gioca a livello di una descrizione
oggettiva o di un qualche supposto accordo tra un atto e una legge o
modello. Nell’impressionante serie di situazioni ordaliche che troviamo nei
romanzi di Masoch la verità si manifesta piuttosto sempre come un evento,
come il momento in cui tra il soggetto e la verità che egli deve dimostrare,
che egli vuole essere, si frappone una prova; il momento in cui è necessaria
una dimostrazione di forza (ovviamente rivolta a qualcun altro), un
autodafè, in cui la sopportazione del dolore e l’erotizzazione di questo
dolore che io sono giocano la parte della “dimostrazione”. Il contratto
masochista in questo senso, oltre a essere una chiara parodia del modo
borghese di vivere i rapporti e i sentimenti, non c’entra nulla con una
qualsiasi venerazione della Legge, ma rappresenta piuttosto, ancora una
volta, molto più semplicemente, una “promessa” ufficiale, incancellabile,
che ci rimanda una volta di più alla dimensione ordalica del discorso e del
rapporto tra soggetto e verità.
È stato Foucault a mostrarci come il masochista, e il genealogista stesso,
siano in fondo la figura par excellence del pervertitore di valori, poiché la
loro strategia intacca – come sarebbe piaciuto a Nietzsche – il valore stesso
della verità. Nel gioco del genealogista/masochista la verità è riportata alla
sua dimensione corporale, materica, di sfida; quella dimensione del discorso
in cui la Verità – intesa come Legge o modello apofantico-descrittivo da
descrivere/definire/servire – non è la regola del gioco, ma la sua posta.

Il masochista non è chi trova il suo piacere nella sofferenza. È forse


piuttosto colui che accetta la prova della verità e vi sottomette il suo
piacere: Se sopporto fino in fondo la prova di verità, se sopporto fino in
fondo la prova alla quale mi sottoponi, allora io prevarrò sul tuo discorso
e la mia affermazione sarà più forte della tua. Lo squilibrio tra il
masochista e il suo partner attiene a questo, cioè che il partner pone la
domanda in termini apofantici: Dimmi qual è il tuo piacere, mostramelo;
spiegamelo attraverso la griglia di domande che ti pongo; permettimi di
constatarlo. […]
E il masochista risponde in termini ordalici: Io sopporterò sempre di più
di quello che tu puoi fare. E il mio piacere è in questo eccesso, sempre
rinviato, mai soddisfatto. Esso non è in ciò che fai [cercando di conoscere
apofanticamente la verità che sono], ma in quest’ombra vuota che
ciascuno dei tuoi gesti gli proietta davanti.
Alla domanda apofantica del suo partner il masochista non replica con
una risposta, ma con una sfida ordalica; o meglio, percepisce
[giustamente] una sfida ordalica e vi risponde: Al confine di ciò che puoi
immaginare essere me [moi], io [je] affermo il mio piacere.7.
I sistemi simbolici infatti si creano, si deformano, ma non si distruggono.
Qualcuno li crea, altri li fanno esistere e progredire nel tempo, altri ancora
cercano più o meno consapevolmente di intaccarli, deformarli, pervertirli.
Noi esistiamo, respiriamo in loro. In questa struttura, in questi sistemi di
valori, noi esistiamo come carne, parole, sangue e relazioni che li
trasformano incessantemente, mentre essi nello stesso tempo ci abitano,
vivono “dentro” di noi come pensiero, “valori” e in ultima istanza come
“io”. Che si chiami tutto questo vertiginoso teatro del mondo umano
materialismo storico, come ha fatto Marx; allotropo empirico-
trascendentale, come ha fatto Foucault; o semplicemente struttura, come
hanno fatto Lacan o Althusser, poco importa. Lo sdoppiamento del
soggetto, il suo essere al contempo vittima e agente della struttura e del
sistema di valori che con essa coincide è la questione fondamentale della
filosofia contemporanea. Il problema della migliore filosofia
contemporanea (Foucault compreso) è infatti ancora oggi quello di non
riuscire a rendere conto della divisione del soggetto facendo a meno del
riferimento a un soggetto della coscienza. Masoch, inteso come un
momento della storia delle pratiche strategiche masochiste, ci aiuta a capire
anche questo: che la divisione del soggetto non passa per il soggetto della
coscienza, che è in realtà l’effetto di discorso che strutturalmente la
maschera, ma piuttosto nella reversibilità attivo-passiva del soggetto etico,
del corpo parlante-patente che io sono.
Il soggetto-della-co(no)scienza e la verità intesa come descrizione vera di
una qualche realtà (soggettiva o empirica che sia) sono una coppia “logica”
che si sostiene a vicenda: non è possibile pensare un’esperienza alternativa
della soggettività senza dare un senso differente alla verità, ma al contempo
non è possibile pensare un altro senso della verità senza rinunciare alla
pacificante identificazione con il soggetto-della-co(no)scienza. La questione
decisiva è, dunque, quella del reciproco valore di verità e soggetto.
Una domanda su tutte, in Masoch, è urgente, pressante: come si trasformano
i valori? Risposta: risalendo al valore della verità. È in La madre di dio che
questa problematica si fa non solo esplicita, ma tocca addirittura un apice
poetico. Non è un caso che in molti, compreso Deleuze, abbiano salutato in
questo romanzo il vero capolavoro di Masoch. In La madre di dio il
protagonista (Sabadil), a differenza di quello della Venere in pelliccia
(Severin), trova infatti il coraggio di portare alle più estreme e drammatiche
conseguenze la propria fedeltà alla verità “altra” rappresentata dalla madre
di dio. In questo romanzo – che può anche apparirci di primo acchito
anacronistico e ridicolo – la madre di dio è un’esplicita metafora dell’al di
qua della Legge, del luogo in cui la Legge si fa. Mardona, la “madre” di
dio, è un personaggio in cui ritroviamo ante litteram tutto il fascino
lacaniano di un misterioso e seducente “moi, la verité, je parle”. A tal punto
la dimensione della voce come al di qua, come condizione del linguaggio, è
presente in quest’opera che possiamo sentire Mardona dire “dio ha parlato
attraverso la mia bocca”. La madre di dio sembra anticipare non soltanto
alcuni momenti lacaniani, ma anche alcune intuizioni di Foucault a
proposito di un’esperienza della soggettività e della verità che nella nostra
cultura restano strutturalmente mascherate, sincopate, dall’identificazione
dei soggetti etici con il soggetto-della-co(no)scenza.
[Si tratta] di mostrare che il soggetto universale della conoscenza non è
altro, in realtà, che un individuo storicamente qualificato secondo un certo
numero di modalità; di mostrare che la scoperta della verità consiste, in
realtà, in un certo modo di produrre la verità, per riportare così ciò che si
propone come verità di constatazione sullo zoccolo costituito in realtà dai
rituali, lo zoccolo delle qualificazioni dell’individuo che conosce, ovvero
sul sistema della verità-evento.8.

Allo stesso modo in cui il senso non esiste che come ricaduta incidentale,
effettuale, quasi volgare della materia grafica o sonora e del suo erotico
con-fondersi con la superficie corporea su cui viene a marchiarsi, a
scriversi, così tutte le “verità” che garantiscono un sistema di valori –
generando la polpa storica delle varie morali – in origine sono state tutte
delle non-verità, dei bruti pezzi di reale. Masoch, come e meglio di
Nietzsche, ci insegna anche questo: che c’è un momento, un luogo, in cui la
verità non è né vera né falsa: un’immanenza, un al di qua in cui essa –
prima di funzionare come un modello o regola trascendente – accade come
un evento.
Per una verità di questo genere [cioè diversa da quella implicata nella
volontà di verità], pertanto, il problema fondamentale non sarà mai quello
del metodo, bensì quello di una strategia. Tra questa verità-evento e chi ne
è preda, chi la afferra o chi ne è colpito, il rapporto non è analogo a quello
che lega l’oggetto al soggetto. Non è dunque un rapporto di conoscenza. È
piuttosto un rapporto contrassegnato dallo scontro, dall’urto [...].
Assomiglia a ciò che avviene nella caccia, e in ogni caso si tratta di un
rapporto bellicoso, reversibile, rischioso. Insomma, si tratta di un rapporto
in cui c’è dominazione e c’è vittoria, e dunque di un rapporto non di
conoscenza, ma di potere.9.

In La madre di dio, Sabadil, dopo aver conosciuto per caso Mardona in un


bosco e aver flirtato con lei, la cerca febbrilmente per tutta la regione,
finché un giorno scopre che la ragazza è la guida spirituale di una comune
religiosa dai costumi semplici e felici. Poco dopo, però, un ebreo chassidico
alla guida di un calesse gli rivela che Mardona non è solo la guida spirituale
della comunità, ma che tale comunità – che rifiuta ogni forma di
trascendenza – ritiene che dio esista solo in quanto spinozianamente
incarnato in una donna, venerata come Signore e Giudice Supremo (che ha
precedenza persino sulla giustizia ordinaria della contea). Sabadil, dopo
molte titubanze, e innamorato di Mardona dal primo momento, decide di far
parte della setta, ma il suo amore sensuale per lei e le calunnie di alcuni
discepoli “scismatici” producono una rottura durante la quale Sabadil osa
negare la divinità della madre di dio. Pentitosi poco dopo, il protagonista si
rimette ciecamente alle decisioni di Mardona, la quale con dolore lo
condanna prima alla crocifissione e poi a morte per empietà. Ma il punto
decisivo è che – fino all’ultimo istante – la madre di dio ricorda a Sabadil
che egli si sta sottomettendo “liberamente” al supplizio. Il giovane muore di
un supplizio che vuole, che desidera, poiché la sofferenza e la morte sono
per lui l’unico modo rimasto per testimoniare la sua fedeltà all’al di qua
della Legge rappresentato dalla madre di dio. Prima di crocifiggere Sabadil,
Mardona gli dice infatti con dolcezza: “Io non ti forzo, una parola dalla tua
bocca e ti rendo la libertà. Vuoi sopportare la punizione che ti infliggo o
no?”.10. E Sabadil le risponde: “Io sopporterò tutto quello che ordinerai”, e
più avanti: “Soffro volentieri poiché tu l’esigi”.11.
Un tentativo commovente di farci sentire sulla pelle l’impercettibile
differenza, lo scarto, il battito d’ali, che passa tra il mondo governato dalla
verità e il mondo al di qua: quello in cui la verità – prima di funzionare
come un regime di significazioni – è qualcosa che materialmente si infligge
e si patisce, che si marchia, si fa, si impone. Il vertiginoso specchio liquido
che separa il me che pensa dall’io che parla e ascolta.
Il finale del più celebre romanzo masochista di Masoch, Venere in
pelliccia, è in questo senso molto diverso da quello della Madre di dio: al
contempo più ironico e più amaro. Severin, il protagonista, a ben vedere
non ha il coraggio di tenere fede all’impegno preso con Wanda, la volubile
donna che ama, e in fondo – anche se di solito la cosa non viene quasi mai
messa abbastanza in risalto – la fine del romanzo ci restituisce un uomo
scaltrito, più sano e maturo, “curato”, ma al contempo irrimediabilmente
infelice e disilluso (simile allo “spirito libero” criticato da Nietzsche nella
Genealogia). Severin non ha nulla della bellezza che emana da Sabadil, così
come la bellezza di Mardona è incomparabile rispetto a quella (pur
stordente) di Wanda.
La madre di dio soffre nel richiedere l’estremo sacrificio a Sabadil, che
ama, dopo la sua morte rimane come catatonica per alcune ore. E quando
arrivano i servi della Legge, di quella vera, cioè la polizia e il prefetto della
contea, per evitare la carneficina dei suoi discepoli (che sono già pronti a
difenderla in armi), Mardona – la madre di dio – si offre ordalicamente ai
suoi giudici e futuri aguzzini affermando fino all’ultimo istante il suo diritto
insensato e ingiustificabile di essere l’al di qua della Legge: “Abbassate le
armi subito – comandò energicamente la madre di dio. […] Sopporterò
questa prova senza lamentarmi. Tese le mani sorridente e si lasciò
arrestare”.12.
Non vi è dubbio che le coppie Mardona-Sabadil e Wanda-Severin siano,
l’una rispetto all’altra, come la tragedia e la farsa. La tragedia che si svolge
in La madre di dio, come sarebbe piaciuto a Nietzsche, merita senz’altro il
posto d’onore nell’opera di Masoch; mentre la farsa – come è giusto – si
riduce a non essere altro che una parodia, una ridicola smorfia degli alti
motivi in gioco nella tragedia. Non a caso la tragedia (La madre di dio) si
svolge sul terreno prediletto da Masoch, quello del popolo slavo, del suo
sfruttamento, della sua giustizia sommaria e del suo stile di vita semplice,
violento e felice; mentre la farsa è calata in ambiente alto-borghese e flirta
esplicitamente col grottesco (al punto tale che, in più di un’occasione,
Severin ci svela la tentazione di ridere della propria tragedia). Il fatto che il
pubblico tedesco (colto e borghese) di fine Ottocento non abbia colto la
bruciante ironia della Venere in pelliccia potrebbe essere una spia
interessante per riflettere su quanto – già in quel tempo – l’esperienza
borghese della soggettività fosse qualcosa di più che una seconda natura.

Conclusione
In La madre di dio Masoch ci fa sentire nella carne, sulla pelle, proprio
questa dimensione della verità-evento che l’esperienza dominante della
soggettività tende a sincopare. Non solo, egli ci fa sentire anche fino a che
punto, ancora oggi, per vivere e socializzare un’esperienza della
soggettività differente – alternativa rispetto a quella che ne fa una sorta di
Legge “interiore” che ci abita e governa (Freud avrebbe detto Super-io) –
siamo spesso costretti a chiamare in causa l’idea della morte, della
sofferenza e dell’autodistruzione. Masoch ci racconta – a mezza voce – di
come in questa teatrale autoaggressione, in questa angosciante (ma
simbolica) pulsione di morte, si nasconda un’esperienza della soggettività,
di me stesso, che mi fa godere; un’esperienza di fronte alla quale
l’esperienza borghese, utilitaria, razionale ed edonista della soggettività non
tiene nemmeno per un secondo.
L’esperienza borghese della soggettività, pur con le sue importanti
trasformazioni storiche, è infatti talmente pervasiva da coincidere ormai con
il soggetto stesso, con ciò che ho l’abitudine descrittiva di chiamare “io”. Al
punto tale che la sola idea, la sola eventualità di poter vivere altrimenti mi
fa sprofondare di colpo in un’atmosfera masochista. Tutto questo perché –
pur non essendo affatto ogni forma di masochismo di per sé qualcosa di
rivoluzionario – bisogna ammettere che, al contrario, ogni pratica
rivoluzionaria, ogni scelta deviante rispetto all’orizzonte di valori che
costituisce l’esperienza borghese della soggettività (e il suo principio di
piacere) non può che essere strutturalmente percepita (da chi la mette in
pratica e la vive sulla propria pelle) come “masochista”.
Niente oggi è considerato più assurdo di agire contro il proprio interesse
individuale. Niente è considerato più malato e perverso di attentare
attraverso i propri atti e le proprie scelte semicoscienti alla dominante
esperienza economica dell’io. Se oggi – come ha detto Žižek – il genere
distopico ci mostra come sia più facile pensare la fine del mondo (cioè la
fine biologica della propria vita e dell’intero genere umano) che pensare la
fine del capitalismo, allo stesso modo nei romanzi “masochisti” di Masoch
possiamo vedere come a volte, per l’intellettuale critico borghese, sia più
facile immaginare di autodistruggersi fisicamente piuttosto che ammettere a
se stesso – in maniera meno melodrammatica – che è proprio giunto il
tempo di cominciare a vivere diversamente, il tempo di essere (almeno un
po’) all’altezza delle proprie parole.
Nietzsche ci ha lasciato molte poetiche indicazioni per guidarci in questo
pericoloso ma necessario cammino autodistruttivo, di cui non ha mai
smesso di avvertire l’intima urgenza (dallo Zarathustra e fino alla Volontà
di potenza):
Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi il contrasto. Non è una differenza
nel martirio: piuttosto, il martirio ha un altro senso. […] Il “Dio in croce”
è una maledizione scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di
liberarsene – Dioniso fatto a pezzi [invece] è una promessa di vita; la vita
rinasce in eterno e ritornerà in patria, tornerà dalla distruzione.13.
Ancora una volta vediamo come, forse proprio a causa del suo amore per le
lettere classiche (e delle sue pose aristocratiche), Nietzsche abbia avuto dei
grossi problemi non tanto a cogliere, quanto piuttosto ad accettare l’essenza
seduttiva del cristianesimo. Un’“essenza” che Masoch, invece, non solo
comprenderà a fondo, ma saprà addirittura far splendere oscuramente nelle
atmosfere gotiche dei suoi romanzi. Il cattolicesimo mistico-barocco,
eterodosso, per non dire eretico, gioiosamente e angosciosamente
masochista è stato storicamente – a partire dal Seicento, passando per il
romanticismo e giungendo alla psicoanalisi e all’irrazionalismo
novecentesco – il principale nemico interno della razionalità capitalista.
Invece di affrettarsi a fare una genealogia e una psicoanalisi del
masochismo, si potrebbe piuttosto riconsiderare oggi la pratica genealogica
à la Foucault/Nietzsche e l’etica implicata nelle “scoperte” della
psicoanalisi come due strategie masochiste interne all’esperienza capitalista
e borghese della soggettività. Un rovesciamento di prospettiva senz’altro
audace, che i protagonisti della stagione post-strutturalista francese sono
stati i primi a rilanciare nella contemporaneità. Se infatti abbiamo già visto
il contributo di Deleuze e Foucault a tale progetto, possiamo chiudere con
queste sibilline e poco frequentate parole di Lacan a proposito
dell’“essenza” dell’atto analitico:
[L’atto psicoanalitico] dovrebbe essere articolato all’interno di quello che
è l’orizzonte “masochista”. Sarebbe davvero molto istruttivo confrontare
l’atto analitico e la pratica masochista – senza ovviamente confonderli o
sovrapporli interamente. […] In un certo senso, infatti, si può dire che –
finché lo desidera – il masochista è il vero padrone. È il padrone del vero
gioco. Certamente può fallire, senza dubbio. Anzi, è quasi certo che
fallisca […] Ma quello del masochista è un fallimento felice, perché si
trova in una posizione tale per cui [sia che vinca, sia che perda] egli gode
in ogni caso, ed è per questo che è il padrone del vero gioco. È evidente
che non ci sogniamo neppure per un istante di imputare un tale successo
allo psicoanalista… Significherebbe veramente attribuirgli una fiducia
riguardo alla scoperta del proprio godimento che siamo ancora lontani dal
potergli accordare.14.

1 F. Nietzsche, La genealogia della morale (1887), trad. di F. Masini, in Opere, vol. VI, tomo II,
Adelphi, Milano 1986, p. 239.
2 G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col, SE, Milano 2007, p. 137.
3 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 108.
4 Ivi, p. 115.
5 J. Lacan. Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1991), trad. di C. Viganò e R.E.
Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 230. “[…] È questo che la psicoanalisi scopre. Con un po’ di
serietà vi accorgerete che questa vergogna [di vivere] si giustifica per il fatto di non morire di
vergogna, cioè per il fatto di tenere in piedi con tutte le vostre forze un pervertito discorso del
padrone – è il discorso universitario.”
6 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 115.
7 M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere (2011), trad. di M. Nicoli e C. Troilo, Feltrinelli,
Milano 2015, pp. 100-101 (trad. leggermente modificata).
8 M. Foucault, Il potere psichiatrico (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2010, p. 213.
9 Ivi, p. 212.
10 L. von Sacher-Masoch, La madre santa (1886), trad. di A. Sansone, SugarCo, Milano 1968, p.
192 (nel testo ho preferito usare il titolo dell’edizione italiana pubblicata da ES, Milano 1995, che
ricalca il titolo originale).
11 Ivi, p. 194.
12 Ivi, p. 202.
13 F. Nietzsche, La volontà di potenza (1901), trad. di A. Treves, Bompiani, Milano 2001, p. 554.
Cfr. anche Così parlò Zarathustra: “Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per
offrirsi in sacrificio o perire. […] Amo colui che vive per sapere, e che vuol sapere affinché, un
giorno, viva il super-uomo. E in tal modo egli vuole la propria distruzione”.
14 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris 2006, p. 352.
Discussioni
Il soggetto supposto intelligente
ANTONELLO SCIACCHITANO

Tutti i modelli sono falsi, ma alcuni sono utili.


Uno statistico bayesiano

Probabiliter conjicio corpus existere.


Cartesio, Sesta Meditazione

Se l’intelligenza è artificiale, la stupidità è


naturale?
“Intelligenza” è un termine più psicologico che filosofico; non ricorre, per
esempio, nel Dizionario di filosofia di Abbagnano. Da Cartesio a Nietzsche
il filosofo ha problemi a trattare nozioni teleologiche. Infatti molte
definizioni correnti di intelligenza presuppongono il finalismo. Si va dal
problem solving – nell’ipotesi che ogni problema o sia risolvibile o si
dimostri che è impossibile risolverlo, con tutti i gradi intermedi di difficoltà
– alla capacità di raggiungere un fine in situazioni complesse.1. La stupidità
sarebbe antiparallela all’intelligenza, estesa in diverse forme
dall’inadeguatezza rispetto allo scopo fino all’ostacolo attivo al suo
raggiungimento.2.
A ciò si aggiunga che la nozione di intelligenza non si autofonda. A
giudicare l’adeguamento dell’intelligenza ai suoi compiti – dell’intelletto
alla cosa – c’è sempre un’istanza esterna, “il terzo uomo” aristotelico, un
arbitro metaintelligente, non necessariamente intelligente nel senso della
definizione data. Alla fine si riconosce intelligente la prestazione utile al
potere. La meccanica quantistica è in questo senso intelligente perché
supporta più della metà del mercato informatico, pur su basi incerte (ma dà
risultati certi). Insomma, l’intelligenza sarebbe un attrezzo per fini di
economia politica.
Spunta il sospetto che l’intelligenza sia una facoltà psichica artificiale o
artificiosa, almeno tanto quanto la psiche stessa. Al confronto la stupidità
sembra più naturale, più “umana”. Certo, non siamo più a tempi del
Fedone. La città ha messo a morte Socrate e con lui la dimostrazione di
esistenza e immortalità dell’anima. Oggi esiste qualcosa di meno
dell’anima, ma forse più utile. Esiste la psiche o, freudianamente parlando,
l’apparato psichico. Che è ancora un attrezzo: serve a conversare con altri
apparati psichici, quindi a comandare e farsi comandare. (Si pensi al Super-
io freudiano.) Da qui la possibile autoreferenzialità della nozione di
intelligenza come ciò che serve all’intelligenza. Allora il discorso filosofico
si riapre.
Per esempio, si può cominciare a riconoscere che l’intelligenza scientifica
è tutt’altro dall’intelligenza psicologica. Non è né astuzia né adeguatezza; è
l’abilità a operare con il falso su congetture di lavoro, prima formulandole,
poi riducendone la falsità. Inoltre tale intelligenza è collettiva prima che
individuale; è somatica prima che psichica; appartiene al corpo collettivo,
cioè al falso. Lì, nel falso, l’intelligenza ha il proprio terreno di coltura.
Ogni civiltà ha il proprio falso, la propria menzogna civile collettiva, la
propria Culturlüge, come nella Nascita della tragedia dallo spirito della
musica la chiama Nietzsche e la scrive proprio con la C all’italiana. Si pensi
alle fake news e ai miti nazional-populisti che alimentano le pericolanti
politiche europee. In parallelo ogni cultura ha la propria forma di
intelligenza sia per mascherare sia per smascherare il falso di cui vive. Non
esiste, forse, l’intelligenza naturale.3.

Il mondo è complesso
L’ultima affermazione è in buona sostanza falsa. Il falso sembra
ineliminabile dal discorso sull’intelligenza. Il falso sembra parte integrante
e intrigante, al fondo la molla, dell’intelligenza. La probabile ragione è che
il mondo (inteso come stato epistemico o modello del reale inconoscibile) è
il luogo della complessità, dove l’intelligenza non può far altro che
formulare congetture false (leggi: da falsificare) su sistemi caotici.
Probabilmente c’è un gradiente dall’intelligenza naturale all’artificiale,
dall’intelligenza del lombrico a quella dell’uomo. Sarebbe uno sviluppo
parallelo a quello che prese le mosse dagli istinti sociali degli animali e
arrivò ai sentimenti morali dell’uomo, come vide Darwin.
È molto probabile che l’intelligenza naturale esista; sarebbe prodotta
dall’evoluzione delle specie che promuove la più adatta a riprodursi in certe
condizioni ambientali. Siccome tali condizioni variano, non c’è alcuna
direzione evolutiva predeterminata, a priori più di altre intelligente. Darwin
fu non poco astuto a localizzare l’intelligenza della natura nella selezione
naturale. Fu abile a smarcarsi dal finalismo e dal determinismo globale,
vigente ai suoi tempi, pur ammettendo come Newton il determinismo a
livello locale nel passare da una generazione all’altra. Ma con una
differenza sostanziale: oggi, il determinismo non determina più l’evento,
come pensava l’antico, ma la sua probabilità.4.
La selezione naturale opera nella contingenza, non nella teleo-logia.
Genera un ventaglio di possibilità e premia la migliore al momento, in una
sorta di campionato della vita, senza perseguire un progetto prestabilito.
Variabilità e casualità sono gli ingredienti dell’intelligenza naturale che ha
prodotto il nostro mondo complesso. In biologia si chiama biodiversità.
Dove c’è più diversità, lì c’è più bio. Questa è la premessa scientifica non
sempre gradita al potere, che tende a omogeneizzare l’ambito su cui si
impone. I migranti e i barbari restino fuori, dicono i barbari di dentro.
L’isolazionismo e il protezionismo degli odierni movimenti sovranisti e
populisti sono il portato di una controintelligenza sul breve periodo
intelligente. Non a caso quei movimenti sono sempre governati da un
Führer; il popolo c’entra poco e solo come soggetto a ipnosi. Non sappiamo
cosa sia l’intelligenza, ma empiricamente constatiamo che l’ipnosi politica,
seppure è il contrario dell’intelligenza, funziona in modo intelligente, nel
senso di finalizzare a disegni di potere il comportamento popolare.
Il Führer semplifica il complesso. Impone al falso la propria semplice e
autarchica verità: “Lo Stato sono io”. La dittatura si può definire il primato
violento dell’essere sul sapere, del “semplice” (da semel “una volta sola” e
plectere, “piegare”) sul “complesso” (da cumplecti, “abbracciare”). Ogni
dittatura, sia di destra sia di sinistra, fomenta l’ignoranza, imponendo la
verità unica del proprio catechismo… come piace al popolo. Il disegno
politico dittatoriale la sa lunga. Vulgus vult decipi, ergo decipiamur, si
sussurrava un tempo in Vaticano.
L’intelligenza è apprendere dall’esperienza
Non è mio compito tracciare la storia del programma di ricerca cibernetica
noto come “intelligenza artificiale”. Mi limito a constatare che l’appellativo
“artificiale” segnala l’approssimarsi del discorso scientifico e dei suoi
artefatti. Sono artificiali i linguaggi studiati in logica; artificiali, addirittura
non fonetiche ma ideografiche, le scritture dell’algebra; artificiali le
osservazioni computerizzate dei satelliti; artificiali gli esperimenti di
laboratorio, anche quando riproducono in vitro fenomeni verificati in vivo.
Forse non è artificiale l’intelligenza in sé; è l’approccio scientifico a
renderla tale. L’artificio, la simulazione, la prossimità al falso sono il prezzo
da pagare alla scienza; lì si radica la principale e più forte ragione delle
resistenze che la scienza suscita nell’intelligenza “naturale”, dalla
filosofica, ostile allo scientismo e al riduzionismo meccanicista, alla politica
avversa ai tecnici che pure sfrutta a suo servizio.
Le premesse al programma di ricerca sull’intelligenza artificiale furono
poste da McCulloch e Pitts con le loro reti neurali, i cui neuroni erano
simulati da funzioni logiche a soglia che calcolavano la congiunzione, la
disgiunzione e la negazione logiche dei loro input per dare i corrispondenti
output, a loro volta input di altri neuroni. La prima performance di questa
“intelligenza in estensione” fu nel 1958 il percettrone di Rosenblatt, una
rete neurale che poteva essere addestrata a riconoscere caratteri di stampa
mediante la minimizzazione della cosiddetta retropropagazione dell’errore.
Il programma di ricerca fu soffocato sul nascere dalla stroncatura di Minsky
e Papert, i quali dimostrarono che il percettrone non poteva discriminare tra
situazioni non lineari, come la negazione della disgiunzione.
Da allora si avviò un programma di ingegneria della conoscenza, una
forma di cognitivismo, mirante a costruire “sistemi esperti”, cioè
programmi per calcolatori, codificati da esperti nell’intento di rendere il
calcolatore altrettanto esperto degli esperti. Il programma fallì scontrandosi
con la complessità del reale,
di fronte alla quale ha dimostrato di non sapere apprendere ad apprendere. È
il meta-apprendimento la condizione epistemica fondamentale di ogni
forma di intelligenza. Lo stabilì Bateson nel 1964,5. ma la posizione era
stata guadagnata qualche secolo prima dalla Mathesis universalis
cartesiana, che passando per l’ars combinatoria di Leibniz arriverà fino alla
logica formale di Husserl e alla cibernetica di Wiener. Wiener ebbe il merito
di individuare l’anello di congiunzione tra la macchina e il vivente, sia
vegetale sia animale:6. la capacità di apprendere le cause dagli effetti per via
retroattiva – un’intuizione che superava l’uomo-macchina di Cartesio e La
Mettrie. Non è inutile ricordare l’etimo di “matematica” dal greco
manthano, che non significa “calcolare” ma “apprendere”. Si apprende
dall’esperienza, in particolare dall’esperienza del dolore.7. Sanno di soffrire
le macchine? Sanno di decadere? Che l’entropia aumenta?
Oggi il programma di ricerca sull’intelligenza artificiale si riapre proprio
sul tema matematico per eccellenza del machine learning, reso impellente
dalla necessità di gestire le enormi quantità di dati generati dalle moderne
tecnologie informatiche applicate ai processi produttivi. La questione è
come una macchina possa imparare senza un maestro che le dica cosa
apprendere, cioè confermi le prestazioni positive e corregga le negative.
Detto altrimenti, esiste un algoritmo di apprendimento per apprendisti senza
supervisori?
La congettura scientifica, tutta da verificare, è che tale algoritmo esista.
L’evoluzione naturale deve aver applicato qualcosa di simile a un algoritmo
di apprendimento senza supervisore, se è vero che in tre miliardi e mezzo di
anni la natura ha saputo generare la biodiversità che oggi conosciamo,
senza postulare un Disegno Intelligente che prestabilisse la direzione di
evoluzione del processo.
Oggi ci sono diverse scuole di machine learning. Tutte credono che esista
l’Algoritmo Definitivo, ma divergono sul modo di implementarlo. Tutte
hanno un tratto negativo in comune: sono antipopperiane. Per Karl Popper
le teorie non si possono indurre empiricamente dai dati.8. I dati servono solo
a confutare teorie escogitate fuori dal regime empirico.9. Invece questi
ricercatori, forse sulle orme di Pierre Duhem,10. cercano in vari modi di
estrarre un sapere dal reale – teorie immaginarie da dati reali – non in modo
fine a se stesso ma per estrarre ricorsivamente altro sapere dal reale. La
bontà dei loro algoritmi si misura proprio sull’efficacia autoreferenziale di
apprendere ad apprendere.
Pedro Domingos distingue cinque tribù di “apprendisti” in altrettanti
capitoli del suo libro L’algoritmo definitivo.11. Ci sono i simbolisti che sulla
base dell’empirismo di Hume si cimentano nel calcolo della deduzione
inversa; partono dal basso, dalle conseguenze, per “indovinare” le premesse
a monte. Su base neuroscientifica i connessionisti esplorano le possibilità di
estendere la legge di Hebb: due neuroni che “sparano” insieme, rinforzano
la loro connessione e in futuro spareranno probabilmente ancora insieme.
Gli evoluzionisti creano darwinianamente tanti programmi diversi a caso
che competono tra loro per il successo del calcolo. Dati gli effetti, i
bayesiani calcolano la probabilità inversa delle cause; a loro basta
conoscere la probabilità a priori delle cause e la verosimiglianza che un
certo effetto sia prodotto da una certa causa. Per il teorema di Bayes, che è
un teorema lineare, la probabilità delle cause cresce tanto più quanto più
verosimili sono i loro effetti osservati. Infine ci sono gli analogisti che
cercano nell’archivio (database) la configurazione più simile a quella data
(nearest neighbour), per classificarla nella classe di quella.
Quale strategia preferire? Tutte e nessuna. All models are wrong, scrisse
nel 1976, lo statistico bayesiano George Box sul “Journal of American
Statistical Association”. Undici anni dopo aggiunse la prudente postilla: but
some are useful. Commenta Pedro Domingos: “Per un bayesiano la verità
non esiste: si parte da una distribuzione a priori [delle probabilità] delle
ipotesi che, dopo aver visto i dati, diventa la distribuzione a posteriori [delle
probabilità], calcolate secondo il teorema di Bayes. […] Essere bayesiani
significa non dover mai dire che si è certi”.12. Ma essere incerti significa
essere tanto intelligenti da apprendere dall’esperienza.
Da psicoanalista mi sento di fare un’osservazione, credo pertinente al
tema dell’intelligenza artificiale, essendo l’intelligenza psicoanalitica una
forma di intelligenza tutt’altro che naturale (fuori dal buon senso), come
dimostrano tutte le forme di resistenza messe in atto contro la psicoanalisi.
Dove si impara dal transfert, cioè interagendo con l’altro. Tanti analizzanti,
segnatamente gli anoressici, non apprendono nulla dalla propria analisi, pur
sapendo tutto della propria malattia dai libri e dai media, perché sono inibiti
al transfert (al sapere) come al cibo. Finora gli approcci al machine learning
soffrono della stessa inibizione affettiva verso l’altro, uomo o robot che sia.

C’è un sapere nel reale


Sembra una boutade, quella dello statistico citato in esergo. Non è un
paradosso. Sintetizza la pratica dei test di significatività. Si testa un modello
partendo dall’ipotesi cosiddetta nulla; si suppone, cioè, che i suoi risultati
siano casuali e si calcola la probabilità che la loro configurazione, o una più
sbilanciata, sia casuale. Se tale probabilità è sotto la soglia prefissata di
significatività, si respinge l’ipotesi nulla e si accetta come vero il modello,
senza escludere che possa essere in minima parte falso. Nel caso del bosone
di Higgs la soglia fu fissata molto bassa; i famosi cinque sigma
corrispondevano alla probabilità dell’ipotesi nulla pari a meno di uno su 3,5
milioni.13.
Memore della mia frequentazione giovanile all’Istituto di biometria
dell’Università di Milano, in tema di intelligenza artificiale simpatizzo per
l’approccio bayesiano all’apprendimento, perché attraverso l’operazione di
inferenza probabilistica sa modificare il proprio capitale epistemico in base
all’esperienza. Se un sintomo ricorre più frequentemente in una forma
morbosa, la probabilità di diagnosticare quella forma aumenta, se ricorre
meno frequentemente diminuisce. A quelle simpatie si aggiunge ora
l’esperienza psicoanalitica, che ha molta familiarità con il falso. È falso
amore il transfert dell’analizzante sull’analista; è un falso godimento il
sintomo nevrotico; è un falso ricordo quasi ogni ricordo, è un passo falso il
lapsus; anche l’interpretazione dell’analista è per lo più falsa. Insomma,
l’intelligenza psicoanalitica, non diversa da quella scientifica falsifica il
falso. La doppia negazione apre l’intelligenza all’infinito, ci racconta
Hegel.14.
In breve, è falso il reale, che secondo Lacan è ciò che non cessa di non
scriversi. È reale pi greco, che non cessa di prolungare all’infinito la propria
scrittura decimale, essendo falso ogni troncamento del suo sviluppo alla
millesima, milionesima, miliardesima cifra.15. Poiché il reale è falso per
ogni epistemologia (per ogni modello), le mie simpatie – dicevo – vanno
all’apprendimento bayesiano che fa posto al falso. Le verosimiglianze
dell’effetto, data la causa, variano: se l’effetto si verifica, la verosimiglianza
aumenta, se non si verifica, diminuisce. Parallelamente varia la probabilità
della diagnosi delle cause.
Il presupposto del teorema di Bayes è l’esistenza di un sapere nel reale
che il teorema – una formula lineare e di semplice dimostrazione – si
propone di simulare. “C’è un sapere nel reale” è un hapax negli scritti di
Lacan, che l’analista parigino (forse anch’egli riconoscendo la teoreticità
dell’atto osservativo secondo Duhem16.) formulò nella lettera inviata nel
lontano aprile del 1974 agli psicoanalisti italiani della sua scuola.
All’analista tocca l’ingrato compito di portare alla luce un particolare
sapere nel reale, quello iscritto secondo Freud nella rimozione originaria e
articolato in rappresentazioni che non diventeranno mai del tutto consce.
Dico “ingrato” perché i rapporti tra sapere e reale non sono pacifici, come
ben sapeva Freud che localizzava nel reale un sapere unheimlich, segreto
eppure palese, familiare eppure estraneo, inatteso ma prevedibile, almeno a
posteriori (nachträglich) determinato, comunque perturbante, tale da
determinare perfino la rottura precoce del lavoro di analisi, quando
l’analizzante si aggira nei suoi pressi.
Certo, congetturare l’esistenza di un sapere nel reale sembra ragionevole,
benché difficile da dimostrare. È molto probabile che esista un sapere nella
materia; l’evoluzione naturale ha saputo portarlo alla luce nel giro di
qualche miliardo di anni, senza scomodare alcun ilozoismo. La cultura
potrebbe andare più in fretta, trasformando gli eoni in decenni. Non è un
caso. La meccanica quantistica ha scoperto l’entanglement (Verflechtung è
il termine di Schrödinger). Se di due elettroni accoppiati e lanciati in
direzioni opposte si misura lo spin di un elettrone, si sa immediatamente lo
spin dell’altro, qualunque sia lo spin misurato sul primo; tutto avviene come
se i due elettroni sapessero e si comunicassero informazioni sul proprio
stato telepaticamente a velocità infinita (vietata dalla relatività).
Da lì all’Algoritmo Definitivo il passo non è breve. È tuttavia alla portata
di tutti, non essendo legato a una particolare abilità matematica. I batteri e i
lombrichi non sanno del teorema di Pitagora. Eppure al nematode
Caenorabditis elegans basta un cervello di 302 neuroni per apprendere e
controllare il complesso coordinamento tra sensazioni e movimenti. A noi
basterebbe non dimenticare l’avvertimento di Cartesio che tutto il
verosimile è falso.17. È una legge epistemica, ma fonda la morale di ogni
attività intelligente: DUBITA! Nonostante i suoi neuroni multitasking il C.
elegans non ha ancora appreso a dubitare. Sa raggiungere certi fini
esistenziali ma non è ancora veramente intelligente; non ci sa fare con il
falso, non avendo imparato a dubitare.

Il corpo intelligente
Non si può parlare di intelligenza senza parlare di corpo.
Nelle righe precedenti ho inanellato i primi due anelli della catena
deduttiva: c’è un sapere nel falso, quindi c’è un sapere nel reale. Ora non mi
resta che concludere con il terzo anello: c’è un sapere nel corpo, inteso
come luogo reale del falso.18. Tentato da un certo lacanismo, direi che il
corpo lega in modo borromeo il sapere e il falso, senza legarsi direttamente
a nessuno dei due: tolto il corpo, falso e reale si slegano.19.
La ripartenza è da Spinoza. Il corpo di Spinoza è diverso da quello di
Cartesio. È res extensa ma pensa. Il corpo pensa pensieri falsi. Attenzione,
non sono falsi perché manchino di verità. Sono falsi perché non sono chiari
e distinti come quelli nella mente di Dio (o della Natura, che coordina
l’ordo idearum all’ordo rerum). Le passioni dell’anima sono false. Il tema
sarà ripreso da Lacan alla fine del seminario del 30 giugno 1954,20. dove
identifica le tre passioni ontologiche fondamentali e le colloca nel suo
algoritmo RSI: l’amore al giunto simbolico-immaginario, l’odio al giunto
reale-immaginario e la volontà d’ignoranza al giunto simbolico-reale, una
passione ben più forte delle altre due, regolarmente imposta al soggetto dal
proprio contesto, prima familiare e poi civile. Insomma per trattare le
passioni, o gli affetti, come li chiama Spinoza, ci vuole un’intelligenza
particolare, forse non del tutto naturale.
Nell’analisi degli affetti, l’intelligenza di Spinoza non esita ad affrontare il
falso. Gli affetti sono falsi pensieri pensati dal corpo; sono falsi – come
dicevo – non perché manchino di verità, ma perché sono pensati in modo
incompleto, oggi si direbbe in modo congetturale o probabilistico. Di quale
incompletezza si tratta?
Apro una parentesi didascalica. In logica si distingue tra due
incompletezze: sintattica e semantica; nella prima manca sia la
dimostrazione sia la confutazione di un asserto; nella seconda di un asserto
supposto vero, per esempio come conseguenza intuitiva di certe ipotesi, non
si riesce a derivarlo da quelle ipotesi con il calcolo sintattico rigoroso.
L’incompletezza sintattica è dell’intelligenza che non arriva a descrivere il
proprio mondo come unico. L’incompletezza semantica è dell’intelligenza
impotente a dominare tutto il proprio mondo in via algoritmica.21.
Formalizzata dai teoremi di Gödel, l’incompletezza sintattica è una
caratteristica comune a ogni forma di intelligenza sia umana sia artificiale,
purché dotata di una certa abilità a manipolare simboli, cioè purché sia
sufficientemente… intelligente.22.
Spinoza sembra optare per l’incompletezza sintattica dell’intelligenza
corporea o affettiva; quando sostiene che le idee pensate dal corpo sono
“confuse”, sembra intendere “indecidibili”; per loro, in particolare per gli
affetti, sembra non si possa dire se sono idee vere o false.23. Aristotele
direbbe che gli affetti non sono degli interi, perché rimane sempre qualcosa
fuori dalla loro area semantica. Ciò facilita la transizione di contenuti da un
affetto all’altro, per esempio dall’amore all’odio o viceversa; in psicoanalisi
il fenomeno si chiama transfert.
In realtà, fuori dall’affetto esiste ineliminabile l’altro. Qui forzo Spinoza a
compiere un passo che ritengo necessario ma che nell’Etica rimane
implicito nella dicotomia affetto-passione, uno attivo, l’altra passiva.
L’affetto risulta dall’azione del corpo dell’altro sul mio, che reagisce in
modo affettivo, cioè falso. Insomma, secondo il pensiero di Spinoza, che è
essenzialmente politico anche quando è etico, il corpo è originariamente un
collettivo che fa posto al corpo dell’altro.24. Perciò è il luogo del falso,
perché l’uno non sa cosa pensa l’altro, al di là di qualche schema ereditato
per via transgenerazionale e codificato nell’“altro generalizzato” secondo
Georg Herbert Mead,25. che non è molto sbagliato supporre come l’autentico
soggetto intelligente, depositario dell’intelligenza del gioco collettivo.
Pensare come e cosa pensa l’altro, è questo l’orizzonte dell’intelligenza
natural-artificiale; naturale perché è già in natura, artificiale perché tende a
intelligere oltre se stessa, fino nel corpo dell’altro. Il tema del corpo ritorna
nell’ambito della ricerca sull’intelligenza artificiale, dapprima con la
dicotomia hardware-software, poi nella costruzione di robot, dapprima
industriali, in seguito domestici. La coabitazione corpo-macchina ne ha
fatta di strada dai tempi di Lamettrie ai nostri smartphone.

Il tempo esiste, il tempo non esiste


Sono arrivato all’anello più astratto, il quarto, il più problematico e forse
pure più sintomatico della mia ricostruzione del concetto di intelligenza.
Riguarda il rapporto tra il tempo e la pratica dell’intelligenza, due termini di
per sé sfuggenti.
Schematizzo brutalmente. Per l’intelligenza antica il tempo esiste. È il
tempo storico, la durata secondo Bergson, che si analizza ricostruendo la
successione degli eventi, il consolidato scire per causas, basato sul
principio di ragion sufficiente: al tempo t0 c’è la causa C, al tempo t1 c’è
l’effetto E. La transizione da C a E è deterministica e irreversibile.
L’intelligenza storica consiste nel determinare la successione corretta, ossia
legale, a prescindere, almeno prima di Galilei e Pascal, da ambiguità e
incertezze probabilistiche. Oggi questo tipo di intelligenza è coltivata da
due approcci non proprio galileiani e tra loro in parziale conflitto: da una
parte la fenomenologia (in psichiatria con i vissuti di Minkowski), dall’altra
il cognitivismo e gran parte delle neuroscienze, in particolare nelle versioni
alla Edelman e Tononi, che a sua volta tenta di riprendere temi
fenomenologici, tipicamente quello della coscienza, attraverso la nozione di
informazione integrata.
Per l’intelligenza scientifica, invece, il tempo esiste poco e in modo
diverso dal tempo “naturale”.26. È anch’esso “artificiale”. In meccanica
classica il tempo è reversibile, quindi non distingue tra passato e futuro, che
sono simmetrici: il tempo della meccanica non è il tempo della vita
quotidiana, dove succedono cose irreversibili e non si torna al passato se
non sotto forma di ripetizione. In biologia il tempo è contingente;
riavvolgere il film dell’evoluzione biologica e riproiettarlo farebbe vedere
scenari completamente diversi, scriveva Stephen Jay Gould.27.
Nella fisica dei corpi macroscopici c’è un solo esempio di temporalità
deterministica e irreversibile: è rappresentato dalla seconda legge della
termodinamica, che stabilisce l’aumento irreversibile dell’entropia nei
sistemi isolati (ma esistono?) – la cosiddetta freccia del tempo. Tuttavia
anche in questo caso la temporalità è più apparente che reale: l’aumento
dell’entropia è legato ancora una volta a una componente essenziale
dell’intelligenza: l’ignoranza. Non conosciamo con esattezza i microstati di
un sistema, cioè posizioni e velocità di tutte molecole, di cui sono note le
masse. Conosciamo solo dei macrostati caratterizzati da una certa entropia e
il passaggio da stati meno probabili di minore entropia a stati più probabili
di maggiore entropia. Non a caso non si parla (o si parla poco) di entropia
in meccanica quantistica, dove compaiono probabilità ontologiche accanto
alle epistemiche e in ogni caso si trattano interazioni di poche particelle che
collidono.
Senza tempo cosa resta? Restano le interazioni tra componenti elementari.
Il tempo stesso è una correlazione tra stati, convenzionalmente posti in
successione lineare: uno prima e l’altro dopo. Ciò dà l’illusione della
temporalità. Time is a big illusion, diceva Einstein. Voleva dire che non è
un’illusione scientifica, ma forse filosofica.28. È compito dell’intelligenza
scientifica smontare l’illusione del tempo. In ultima analisi l’intelligenza
scientifica va veramente alla ricerca del tempo perduto o meglio di ciò che
si perde nel tempo.
Come le due differenti concezioni del tempo si incarnano nella pratica
dell’intelligenza? Anche qui schematizzo in modo selvaggio. Se il tempo
esiste, l’intelligenza è storica. Questo tipo di intelligenza è assunto come
“scientifico” dal cognitivismo, che mira a verificare il vero, come
nell’antica parresia. Se il tempo non esiste, all’intelligenza non resta altro
che falsificare il falso, cioè quel che ancora ignora. È chiaro che verificare il
vero, come avviene in ogni impianto ideologico (catechistico), è sterile; non
produce nuove informazioni, mentre falsificare il falso è fecondo di nuove
informazioni. Sarà quella scientifica un’intelligenza in progress? Galilei
sosteneva “ché quanto alla scienza, ella non può se non avanzarsi”.29. Il
tempo della scienza è tempo di sapere, non è cronologico.30.
È qui in atto la simmetria tra interpretare e falsificare, tra ermeneutica e
scienza. L’interpretazione attribuisce all’enunciato il valore di verità “vero”
(logica degli enunciati), in particolare estende tale valutazione a tutti gli
oggetti di un certo modello che verifica l’enunciato (logica dei predicati).
Simmetricamente, la falsificazione attribuisce all’enunciazione il valore di
verità “falso”; perciò fa uscire dal mondo “reale” e fa approdare in un altro
mondo che forse non esiste; da qui l’artificiosità dell’operazione
“intelligente”, praticamente una riduzione all’assurdo, di fatto inevitabile
quando si tratti di infinito.31. In ultima analisi si potrebbe dire con Aristotele
che l’infinito è il padre di tutte le falsità, quindi della vera intelligenza,
potrei dire, intendendo alla fine per intelligenza, soprattutto per quella
artificiale, l’abilità a trattare l’infinito, che non è proprio un oggetto
naturale.32.

Cosa c’entra la psicoanalisi?


Concludo con un riferimento alla psicoanalisi in quanto disciplina
potenzialmente scientifica. Lo è in teoria nella misura in cui nell’inconscio
freudiano non esiste il tempo.33. Ma lo è anche in pratica perché opera su un
aspetto epistemico imparentato sia al vero sia al falso: l’incerto. Un evento
incerto non è falso, perché può verificarsi (o essersi verificato), e non è
vero, perché può non verificarsi (o non essersi verificato). Come lo tratta la
psicoanalisi? Qui l’intuizione di Lacan, esposta nel Seminario XI,34. è
veramente pertinente. Risponde Lacan: con la congettura, come si fa ricerca
in laboratorio. Il soggetto in analisi suppone, ovviamente in modo falso, che
esista un soggetto – l’analista – che sappia qualcosa del suo desiderio
inconscio. Il soggetto supposto sapere è il cardine attorno al quale ruota il
transfert del lavoro psicoanalitico. A ogni giro di boa porta alla luce un
pezzo di verità inconscia, come se anche in psicoanalisi valesse
un’intelligenza che opera in modo probabilistico attraverso la logica
dell’incerto35. o la sua matematica.36.
Insomma, perché non concludere che l’intelligenza artificiale è
l’intelligenza matematica? Come tale è l’intelligenza che sa apprendere quel
che non sa, per primo quel che non sa di sapere, la realtà dell’inconscio di
me stesso e di tutti. Un piccola dose di furor mathematicus… ma senza
l’arroganza della verità, mitigata da una buona dose di falso, non guasta.
L’intelligenza della sapienza è prudenza: sa abitare la distanza dalla verità.
Non bisogna pretendere troppo dalla propria intelligenza. “I non sciocchi
sbagliano”, diceva uno psicoanalista francese.
Alla domanda di apertura di questo testo – se l’intelligenza è artificiale, la
stupidità è naturale? – risponderei citando Musil: “Se la stupidità non
assomigliasse al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento
tanto da venir confusa con essi, nessuno vorrebbe essere stupido”. La
stupidità ci riporta al rapporto con il reale. Allora parafraserei Musil così:
“Se l’intelligenza non contenesse della stupidità, nessuno vorrebbe essere
stupido”.37. Insomma, non esiste l’intelligenza allo stato puro; grazie a della
stupidità anche l’intelligenza più artificiale diventa naturale, cioè a portata
d’uomo. Non lontano da lì l’oltreuomo di Nietzsche ci strizza l’occhio. Ci
invita al salto antropologico dal naturale all’artificiale, dal filosofico allo
scientifico, dal vero al falso, attraversando come funamboli il baratro che li
separa sulla fune che li connette.38.

1 “L’intelligenza è la capacità di realizzare fini complessi”, M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani
nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), trad. di V.B. Sala, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 61.
2 Esemplare a questo proposito è la prima commedia di Molière, L’étourdit ou les contre-temps
(1658), dove Lelio intralcia sistematicamente l’operato del fedele Mascarillo, che traffica per
procurargli l’amata.
3 L’intelligenza per ingannare l’altro, tipica dell’isteria, è affatto innaturale.
4 È stato recentemente tradotto il saggio del 1932 di Alexandre Kojève, L’idea di determinismo
nella fisica classica e nella fisica moderna (trad. di S. Moreno, Adelphi, Milano 2018), che sviluppa
il tema dell’Intelligenza del “demone” di Laplace. Traggo da Kojève la distinzione tra determinismo
globale e locale.
5 G. Bateson, “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione” (1964), in Verso
un’ecologia della mente, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano 1976, p. 303.
6 Si veda il capitolo III di N. Wiener, Introduzione alla cibernetica (titolo originale: The Human
Use of Human Beings del 1950), trad. di D. Persiani, Boringhieri, Torino 1966, p. 74 sgg., dove
Wiener contrappone rigidità ad apprendimento. Sei anni prima Erwin Schrödinger si era impegnato a
definire che cos’è la vita (cfr. E. Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula dal punto di vista fisico
[1944], trad. di M. Ageno, Adelphi, Milano 1955), ma non affrontò il tema dell’apprendimento,
limitandosi alla trasmissione del codice genetico.
7 V.A.I. Telloni, “Mathemata pathemata: il dolore dell’apprendimento nella tragedia attica antica”,
in AA.VV., Matematica e letteratura. Analogie e convergenze, De Agostini Scuola, Novara 2016.
8 “La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto’”, K.R. Popper, Logica
della ricerca scientifica (1934), trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, p. 107. Più profonda
l’analisi di Alexandre Kojève. “A rigore di termini, le osservazioni non possono né confermare né
invalidare la teoria, la quale non si applica che alle serie infinite” (A. Kojève, L’idea di determinismo
nella fisica classica e nella fisica moderna, cit., p. 69).
9 All’epistemologia di Popper sfugge almeno il 50% delle teorie scientifiche, non essendo
falsificabili proprio gli enunciati probabilistici, tipici della meccanica quantistica e della biologia
evoluzionista. La probabilità delle ipotesi non è per lui riconducibile alla probabilità degli eventi,
l’unica matematizzabile (K.R. Popper, Logica della ricerca scientifica, cit., p. 279).
10 P. Duhem, “Alcune riflessioni sulla teoria fisica” (1892) e “Alcune riflessioni sulla fisica
sperimentale” (1894), in Verificazione e olismo, a cura di M. Fortino, Armando, Roma 2006.
11 P. Domingos, L’algoritmo definitivo (2015), trad. di A. Migliori, Bollati Boringhieri, Torino
2016, pp. 79-234.
12 Ivi, pp. 195-196.
13 Attenti alla doppia negazione! 3,5.10–6 non è la probabilità che il bosone di Higgs esista; è la
probabilità di ottenere dati come quelli del CERN in assenza della particella.
14 “L’infinito è la negazione della negazione, l’affermativo, l’essere che si è di nuovo ristabilito
dalla limitatezza”, G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16), trad. di A. Moni, Laterza, Roma-
Bari 1988, vol. I, p. 139.
15 C’è una bella poesia della Szymborska intitolata Pi greco. Un suo verso recita: “Tutte le sue
cifre successive sono iniziali”.
16 L’atto osservativo si inserisce in un discorso senza parole. Ricordo che nel Seminario XVI del 13
novembre 1968 Lacan sostenne che “l’essenza della teoria psicoanalitica è un discorso senza parole”.
17 “Considerai pressoché falso tutto ciò che non fosse nulla più che verosimile”, Cartesio, Discorso
sul metodo (1637), trad. di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2002, p. 101. In proposito va corretta
l’affermazione di Lacan che Cartesio cercasse la certezza (cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les
quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 202). Cartesio
cercava un modo “intelligente” di trattare il falso ubiquitario.
18 Ho sviluppato l’argomento in A. Sciacchitano, Il corpo pensante, “aut aut”, 330, 2006, pp. 73-
93.
19 Per i lacaniani, sto traducendo la catena RSI di Lacan; pongo il falso dalla parte del reale, il
sapere dalla parte del simbolico (visto in chiave sintattica) e il corpo dalla parte dell’immaginario.
20 J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1954), Seuil, Paris 1975, p. 298.
21 Tra il 1929 e il 1930 Kurt Gödel dimostrò la completezza semantica della logica dei predicati
del I ordine e l’incompletezza sintattica dell’aritmetica, se coerente. In logica l’incompletezza
sintattica fu introdotta già nel 1908 dal matematico olandese Luitzen Brouwer che nel suo
intuizionismo sospese il principio del terzo escluso, caposaldo della logica aristotelica.
22 Dopo Gödel sappiamo che condizioni sufficienti perché una teoria sia sintatticamente
incompleta sono che sia coerente, assiomatizzabile e tanto potente da rappresentare parte
dell’aritmetica (le funzioni ricorsive primitive).
23 “La falsità consiste nella privazione di conoscenza inerente a idee inadeguate, ossia parziali e
confuse” (B. Spinoza, Etica II, Prop. 35). In particolare sono false, cioè inadeguate, le idee che la
mente si fa delle affezioni corporee (ivi, Prop. 25). Consegue l’inadeguatezza della conoscenza
mentale del corpo (ivi, Prop. 24). Ciò non toglie che esista una logica del falso degna del nome di
intelligenza. “Le idee inadeguate e confuse si svolgono con la stessa necessità delle idee adeguate,
ossia chiare e distinte” (ivi, Prop. 36).
24 “Per mantenersi il corpo umano ha bisogno di moltissimi altri corpi da cui viene continuamente
come rigenerato” (B. Spinoza, Etica II, 4. Postulato).
25 G.H. Mead, Mente, sé e società (1934, postumo), trad. di R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, pp.
212-225.
26 Per lo sviluppo di questo tema rimando a C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017.
27 “Se ripetiamo un milione di volte il film della vita a cominciare da Burgess, dubito che tornerà
mai a svilupparsi qualcosa di simile all’Homo sapiens”, S.J. Gould, La vita meravigliosa (1989),
trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1995, p. 297.
28 Ad Einstein rispose Henri Bergson in Pensiero e movimento (1934), trad. di F. Sforza,
Bompiani, Milano 2000. Il contrasto Einstein-Bergson è paradigmatico della contrapposizione tra
scienza e filosofia: la prima a servizio del falso, la seconda del vero.
29 G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi (1633), in Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Napoli-
Milano 1953, p. 391.
30 Il tempo epistemico è anche il tempo della psicoanalisi. Cfr. A. Sciacchitano, Il tempo di sapere.
Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013.
31 La dimostrazione euclidea dell’infinità dei numeri primi è dall’antichità l’esempio fulgido di
dimostrazione per assurdo. Una vera e propria dimostrazione di intelligenza (cfr. Euclide, Elementi,
IX, 20). Peraltro non si dimentichi il paradosso: fu proprio l’elevato livello della performance
intellettuale euclidea a inibire lo sviluppo dell’intelligenza matematica occidentale per almeno due
millenni, soprattutto sul versante della generalizzazione.
32 Nel linguaggio di Aristotele l’innaturalezza dell’infinito sta nell’essere in potenza ma non
diventare mai in atto. L’infinito non è intero, nel senso che non ha nulla fuori di sé, ma ha sempre
qualcosa fuori di sé (cfr. Aristotele, Fisica, III, 206a-207a). Quindi non è concettuale. Parlando alla
Hegel, se l’intero è il vero, l’infinito è il falso. Quindi è ostico a qualunque intelligenza “naturale”,
poiché è vero che dal falso si deduce qualunque cosa. Oggi si direbbe che l’infinito è non categorico,
cioè ha molti modelli tra loro non isomorfi.
33 L’analista restituisce all’analizzante la sua temporalità attraverso le cosiddette “costruzioni in
analisi”. Allora, alla fine del suo percorso, Freud si chiede se l’analisi sia finita o infinita. Cfr. S.
Freud, Die endliche und die unendliche Analyse (1937, Analisi finita e infinita), in Gesammelte
Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. XVI, p. 57.
34 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964),
Seuil, Paris 1973, p. 209 sgg.
35 B. De Finetti, La logica dell’incerto, il Saggiatore, Milano 1989.
36 M. Li Calzi, La matematica dell’incertezza, il Mulino, Bologna 2016. La matematica moderna
segna la perdita delle certezze euclidee. Lo argomenta lo storico della matematica Morris Kline in
Matematica, la perdita della certezza (1980), trad. di M. Turchetta, D. Roubini e L. Bonatti,
Mondadori, Milano 1985.
37 R. Musil, Über die Dummheit (conferenza tenuta a Vienna l’11 marzo 1937 e ripetuta il 17
marzo 1937 su invito della Österreische Werkbund), Alexander Verlag, Berlin 1987, p. 6.
38 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883), trad. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2010,
Proemio, 3, p. 225 sgg.
Il mistero della passe
SERGIO BENVENUTO

Non discuterò qui il dispositivo inventato da Jacques Lacan, e adottato da


molte istituzioni lacaniane, detto passe.
Mi soffermerò piuttosto su quel che ne dice il filosofo Alain Badiou nei
suoi seminari su Lacan,1. cosa che mi permetterà di prendere le distanze da
una visione non solo della psicoanalisi, ma del rapporto tra sapere e vita, di
cui Badiou è importante esponente.

1. La passe era un modo per sfuggire a un inghippo fondamentale a cui


vanno incontro la maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche a
cominciare dall’IPA (International Psychoanalytic Association) quando si
tratta di cooptare qualcuno come psicoanalista. Per essere accettato come
analista, occorre che un candidato faccia un numero minimo di ore di
analisi didattica, fatta cioè con un analista al vertice della carriera detto
analista didatta, training analyst. C’è un’ambiguità profonda nella nozione
di analisi didattica, dato che essa da una parte sarebbe un’analisi come le
altre, ma dall’altra anche una sorta di esame, di test, attraverso cui
l’analizzante deve dimostrare di aver superato gran parte dei suoi problemi
e di essere pronto a esercitare come analista. Insomma, l’analista didatta è
da una parte l’analista, dall’altra il giudice, del candidato.2. Questo cozza
con il principio fondamentale della psicoanalisi clinica: il carattere
incondizionato dell’analisi, il non dover essere connessa ad alcuna altra
richiesta se non quella dell’analisi. Di solito poi l’analista didatta considera
il trainee, il suo candidato in didattica, come un suo diretto allievo; viene
insomma a crearsi un rapporto clientelare tra analista didatta e analista
cooptato.
Lacan, con la sua proposta della passe, tendeva a rovesciare
completamente la questione. La domanda a cui rispondere non doveva
essere più “come formare al meglio degli analisti che riconosceremo come
nostri pari?”, ma piuttosto “chi possiamo accettare come analista nella
nostra École freudienne de Paris?”. Almeno ufficialmente, l’École lacaniana
non si preoccupa di come formare analisti, ciascuno si forma come può e
con chi vuole. L’importante è che chi voglia essere Analyste de l’École (AE)
testimoni del fatto che abbia davvero svolto un’analisi, che insomma ci sia
stato atto analitico. Perché l’idea di fondo di Lacan è che se un’analisi è
stata veramente fatta, l’analizzante è in grado di essere anche analista:
diventare analista è il vero risultato di ogni analisi compiuta. Il punto quindi
non è tanto mostrare che si funziona bene da analista, ma mostrare che si è
fatta una vera analisi.
Chi vuole essere accolto come AE, il passant, si rivolge almeno a due
passeurs, che gli vengono attribuiti con un tiraggio a sorte. I passeurs sono
analizzanti in fine di analisi; i loro nomi vengono proposti dagli AE. Il
passant parla della sua analisi a questi passeurs, i quali a loro volta diranno
quel che hanno inteso di questa analisi davanti a una giuria di AE, e questo
in assenza del passant. È sulla base di quel che i passeurs avranno detto
dell’esperienza del passant che la giuria deciderà se il candidato può essere
accolto come analista della scuola.

2. Nel seminario del 21 dicembre 1994 Badiou evoca la passe per illustrare
in che senso Lacan debba essere considerato un antifilosofo. Tutto il
seminario di quell’anno è dedicato a Lacan, presentato appunto come
antifilosofo. Badiou annovera sei antifilosofi, tre nell’età classica (Pascal,
Rousseau, Kierkegaard), tre moderni (Nietzsche, Wittgenstein, Lacan). Egli
dice che infatti questi pensatori non si rivolgono ai filosofi (anche
Wittgenstein? C’è da dubitarne; a meno di non separare i logici dai filosofi),
ma ad altre figure. Per esempio, Pascal si rivolge essenzialmente al
libertino, Rousseau “al contadino che beve latte”, Kierkegaard alla donna…
Quanto a Lacan, egli si rivolge agli analisti, anche se spesso li deride,
soprattutto perché non leggono filosofia. “Voi analisti – dice in sostanza –
dovreste leggere seriamente la filosofia proprio per liberarvi dai cattivi
filosofemi che ostacolano la vostra pratica.” Ora, secondo Badiou, la passe
è un meccanismo che dovrebbe servire proprio a bloccare il filosofico
nell’analisi: la filosofia è ciò che non passa. Ovvero, il filosofico è la scoria
dell’analitico. Scrive:
Mostratemi un giorno la pattumiera di una passe – penso che sarebbe
piena di filosofia! È ciò che non passa! E perché è ciò che non passa, il
filosofico di una cura? Perché è tutto ciò che si è trovato di ermeneutico,
di piatto interpretativo, delle più svariate parlantine, di nefasta
totalizzazione, di coscienza di sé in un cogito centrato, di falso sapere
assoluto, dell’istanza trionfale del padrone che non rinuncia mai a sé, ecc.
Che cos’è tutto questo? Ovvio, è la filosofia! (p. 83)
Da notare che Badiou non si include nella serie antifilosofica. Certo esalta
gli antifilosofi, tra cui Lacan, ma lui stesso non pare abiurare la posizione di
filosofo. Dobbiamo considerare quindi la sua come una filosofia che si è
riconosciuta come scarto, pattumiera, una filosofia che ha accettato di
mancare l’atto. Perché è questo che accomuna tutti gli antifilosofi: contro le
astrattezze del filosofo che pretende di dire la verità, loro indicano ciò che
dà davvero senso, qualcosa dell’ordine dell’atto. Contro il primato
filosofico della verità, gli antifilosofi rivendicherebbero il primato del
senso. Per esempio, nel caso di Pascal, contro le verità teologiche l’atto di
conversione nel Dio cristiano. Nel caso di Rousseau, contro le verità
illuministe di Voltaire e di Hume, un appello mistico al primato del
sentimento. Nel caso di Wittgenstein, contro la pretesa di dire verità
filosofiche il primato della dimensione etica ed estetica.
Badiou cita l’esempio dato da Kierkegaard del rigattiere dove tra le
cianfrusaglie si trova una placca con su scritto: “Qui si stira”. Il tipico uso
erroneo della filosofia sarebbe equivalente a quello di chi prendesse alla
lettera quella scritta e pensasse che davvero dal rigattiere si stiri! L’atto
(stirare) è esterno alla filosofia-rigatteria, mentre gli antifilosofi vogliono
riportarci all’atto.
Ma Badiou sa che Lacan non oppone il senso alla verità, che Lacan
denuncia tutte le concezioni che indicano un senso ultimo della vita, a
cominciare dalla religione, che per lui è una macchina per dare senso alla
vita. Con Lacan, il gioco di Badiou si complica.
La verità però è che tutto il pensiero di Lacan si inscrive in una
dimensione di senso, anche se non viene dichiarata come tale: è l’idea che
in ultima istanza l’essere umano desidera e gode. L’essere umano non è una
facoltà contemplativa, vive nel desiderio, e in qualche modo riesce a
godere. Tutto il pensiero di Lacan si inserisce in un orizzonte molto forte di
senso, malgrado i dinieghi.
Dico subito che questa dicotomia tra filosofi e antifilosofi non mi pare
rendere giustizia alla filosofia, per lo meno non alle filosofie maggiori.
Potremmo dire che il nocciolo di tutte le grandi filosofie è antifilosofico,
nella misura in cui ogni filosofia tende a trascendere se stessa, a porre
qualcosa di essenziale sempre al di là del proprio dire. Ogni vera grande
filosofia apre all’atto.
Qui mi limiterò a evocare la scrittura di Platone, ovvero di una filosofia
che, secondo quel che si pensa, sarebbe l’acme della pretesa filosofica di
dire la vera verità. In realtà nei Dialoghi ciò che alla fine viene dato come
sapere positivo, ciò che viene chiamata “concezione platonica”, non è mai
la conclusione filosofica di una dialettica, ma l’appello, da parte di Socrate,
a una sophia che proviene da altri, da saggi, poeti, mistici, da Diotima…
Mai da altri filosofi. Perché, come dice la parola stessa philosophia, il
filosofo resta sempre nell’anticamera della verità, la quale può essere detta
solo al di là della filosofia, da un al di là a cui la dialettica filosofica non ha
mai diretto accesso. E questo vale per tutta la filosofia antica (ma potremmo
mostrare che vale anche per quella moderna), se ha ragione Pierre Hadot nel
dire che il filosofo nel mondo antico non era necessariamente l’autore di
una dottrina filosofica, ma qualcuno che aveva compiuto l’atto di scegliere
un certo modo di vivere, di orientarsi filosoficamente nel mondo. Per il
filosofo, la verità sin dall’inizio è detta da altri discorsi – religioso,
scientifico, poetico, sapienziale – mentre la filosofia si mantiene sempre
nello spazio del senso, ovvero dell’ante-verità, prima della verità. Dire la
verità è attività interdetta alla filosofia.
Quanto poi alla filosofia medievale, e in generale alla filosofia connessa
alla teologia, il suo carattere antifilosofico mi sembra evidente, nel senso
che quella filosofia si voleva ante-teologica, un’anticamera della fede. La
verità non era detta dalla filosofia ma dalla Rivelazione cristiana – questo
era ben chiaro anche prima di Pascal. E in effetti, che c’è di più
antifilosofico della frase di congedo dalla vita di Tommaso d’Aquino,
ovvero di bruciare come paglia tutta la sua opera? Ogni grande filosofia
vuol essere bruciata, non è solo Wittgenstein (nel Tractatus)3. a dire che
bisogna buttar via la scala con cui si è saliti.
Quindi, il primato del senso sulla verità – che Badiou attribui-sce a un
pugno di antifilosofi – è di fatto una costante, anche se non sempre
enunciata, riconosciuta, del discorso filosofico.

3. Dovendo certificare che c’è stato atto analitico, la passe presuppone


quindi che sia possibile un atto in qualche modo irriducibile. Scrive Badiou:

Ecco perché l’atto analitico non è un programma, la psico-analisi non è


un’antifilosofia programmatica. È un’antifilosofia che, del suo atto, può
sempre dire, almeno nella dimensione della fondazione freudiana:
qualcosa, qui, ha avuto luogo. Detto altrimenti: c’è stata analisi, per
sempre. (p. 85)

“C’è stata analisi, per sempre”: l’atto accade una sola volta, non è ripetibile.
Il programmatico riguarda il futuro, l’atto invece è qualcosa che c’è stato, si
irradia dal passato, e di cui occorre riconoscere l’irreversibilità. Ora, Badiou
non ci dice che cosa farebbe, in un’analisi, atto: diciamo che prende Lacan
e gli ana-listi sulla parola, si fida di loro. Loro – i membri dell’ecclesia
analitica – dicono che l’importante è che in un’analisi ci sia atto analitico e
non bla-bla-bla, e Badiou, come il credente si fida di quel che dice il papa o
il vescovo, ha fede nell’élite analitica, nelle giurie della passe. Ma non è
tanto questo il punto che voglio sollevare – la dimissione filosofica rispetto
a un supposto sapere sull’atto che viene delegato a una corporazione di
analisti di cui il filosofo non fa parte – quanto un altro: il carattere appunto
incorreggibile dell’atto (in questo caso dell’atto analitico), il suo essere per
sempre.
Badiou sottolinea in effetti l’importanza, per Lacan, del Ritorno a Freud.
Perché le analisi fatte e scritte da Freud – le Cinque analisi di Freud4. –
sarebbero il primo atto, l’atto inaugurale da cui tutti gli altri derivano. È
come se, scrivendo quei casi clinici, Freud avesse compiuto la prima passe,
e che a partire da quella tutte le altre, di tutti gli altri analisti che la
tenteranno, prenderanno validità. (Non diversamente, direi, da come la
religione cattolica legittima il potere del pontefice: come una ripetizione
della prima delega pontificale effettuata da Cristo nei confronti di Pietro.5.)
Freud avrebbe compiuto un atto, che si ripete – e ci si chiede a quali
condizioni si ripeta – nella storia, che si reitera in un meccanismo che deve
certificare l’essersi effettivamente compiuto di questo atto.
Si vede chiaramente quanto Badiou sposi una visione chiaramente
sacramentale della passe e dell’atto che essa dovrebbe certificare. Penso
qui ai sacramenti delle chiese cristiane, tenendo conto che sacramentum è
traduzione latina del greco mystérion: i sacramenti sono i Misteri della
chiesa, ovvero atti che ripetono un atto di grazia originario. Nella teoria
cristiana i Misteri hanno assunto il senso della donazione di un marchio, in
molti casi indelebile. Da notare inoltre che dei sette sacramenti o misteri
della chiesa cattolica, quattro accadono una volta sola, e i loro effetti sono
incancellabili: battesimo, conferma, ordine sacro (sacerdozio), matrimonio.
Sono atti che avvengono una volta sola nella vita perché irrevocabili, attivi
“per sempre” come Badiou dice dell’atto analitico. Il matrimonio cattolico è
indissolubile: anche se dopo i due sposi si possono separare, anche se
ognuno fa sesso con altri ecc., il soggetto resterà sposato fino alla morte
dell’altro, come un tatuaggio spirituale che durerà fino alla morte del
coniuge. Secondo la chiesa, certamente ogni sacramento è opera della
grazia divina, ma è a sua volta la ripetizione di un atto di grazia originaria
che discende da Cristo. L’analogia col modo in cui Badiou parla dell’atto
analitico con i misteri della grazia divina risulta evidente. Come ogni
sacramento discende dal primo atto sacramentale di Gesù, analogamente
ogni atto analitico discende dai primi atti compiuti da Freud. E questo anche
se Badiou non è credente, anzi si dichiara ateo e comunista (ma, come è ben
noto, anche nella storia e tradizione marxiste si sono strutturati modi di
pensare sacramentali del tutto simili a quelli ecclesiali, e ci si dovrebbe
chiedere perché).
In questa visione sacramentale e misterica della passe – ovvero della
conversione o metanoia, potremmo dire, di un analizzante in analista –
Badiou si chiede anche però in cosa consista l’atto che la passe dovrebbe in
qualche modo riconoscere. E Badiou lo connette – perché lo dice Lacan – al
matema. C’è atto quando c’è qualcosa dell’ordine del matema.
Matema, da cui viene matematica, era originariamente ciò che bisogna
sapere, ciò che bisogna imparare. Si tratta di una relazione puramente
formale (senza senso) strettamente connessa al sapere, quindi. Ora, Lacan
presenta il matema come ciò che nell’analisi – e non solo nell’analisi, ma
nelle scienze per esempio – è completamente trasmissibile. Qui, secondo
Badiou, l’antifilosofia di Lacan si separa da quelle dei suoi cinque
predecessori: ciò che qui prevale sulla verità non è il senso, ma il matema.
Ovvero qualcosa che è del tutto trasmissibile, e che nutre un sapere. E
difatti, nota Badiou, non ha importanza che i passeurs non siano dei geni e
che non intendano completamente quel che ha detto loro il passant; non ha
importanza che la giuria non sia composta da menti eccelse. Se atto
analitico c’è stato, il suo matema è trasmissibile e verrà comunque
riconosciuto.
Ora, credo che Lacan, col matema (lui che era stato allievo di Alexandre
Koyré) intendesse qualcosa come le equazioni della fisica, per esempio, le
equazioni di Newton sulla gravitazione universale. In effetti, basta avere
una conoscenza anche approssimativa della fisica per capire le equazioni di
Newton; le si capisce proprio perché non hanno senso. Sono pure
equivalenze formali, che tutti i fisici, anche quelli meno intelligenti,
possono intendere. Ora mi chiedo, però, se questo sia vero. Mi chiedo se qui
Lacan col matema, e Badiou al suo seguito, non mitizzino quel che accade
nella trasmissione umana, compresa quella scientifica.
Ai tempi di Lacan non si era sviluppata l’informatica, ma noi oggi
possiamo dire che il matema di Lacan è un software. In effetti un software è
perfettamente trasmissibile: lo si può mettere in qualsiasi computer, basta
che questo hardware sappia leggerlo, e funzionerà. Possiamo fare tutte le
copie che vogliamo di un software, esso resterà identico, lo si può
trasmettere integralmente. Del software possiamo dire quel che Lacan dice
della matematica, che è “scienza senza coscienza”. Ma è la stessa cosa per
la mente umana? Ovvero, la mente umana è identificabile al rapporto che
c’è tra software e hardware in un computer, come sostengono molti
cognitivisti? Non ne sono affatto convinto.
Un altro caso di perfetta trasmissibilità, abbiamo visto, è quella presunta
da certi atti simbolici religiosi come i sacramenti. In ogni caso, il sapere
religioso si vuole per lo più perfettamente trasmissibile anche quando si
ammette la grande variabilità delle interpretazioni. È come la Bibbia
ebraica, la Torah, testo assolutamente immodificabile, di cui non si può
cambiare nemmeno una virgola. Il permissivismo ermeneutico delle
religioni rinvia alla perennità del Testo sacro, che si suppone ispirato
direttamente da Dio. La psicoanalisi avrebbe allora qualcosa sia del
software che del sacramento religioso istituito da dio-Freud?
4. Si dà il caso che Badiou non sia interessato alle scienze vere e proprie. Le
evoca raramente, e quando parla di scienza, si riferisce quasi sempre a les
mathématiques. Sembrerebbe che per lui la scienza è sempre matemica, che
insomma il sapere sia matematico. Ovviamente ciascuno è libero di
interessarsi o meno alle scienze, di trovare stimoli filosofici nella
matematica piuttosto che nel sapere fisico, biologico, cosmologico…
Stupisce però che identifichi con la scienza la matematica un autore come
Badiou, il quale ammira Wittgenstein. Ora, la concezione della matematica
da parte del Wittgenstein del Tractatus è assolutamente chiara: la
matematica non è affatto una scienza! Certamente il sapere scientifico fa
continuamente uso della matematica, ma la matematica in sé non è un
sapere. Non ci informa affatto sul mondo. Piuttosto è una costruzione, un
gioco. Anche gli scacchi sono un gioco perfettamente matematico, ma non
possiamo dire che giocare a scacchi ci faccia conoscere qualcosa del
mondo. I teoremi degli scacchi ci fanno conoscere l’universo degli scacchi,
ma solo quello. Scambiare, come fa Badiou, matematica e scienze è il
segno, a mio avviso, di una rimozione del sapere scientifico (che Lacan
invece non operava). E, per quel che riguarda l’essere umano, una
rimozione del sapere biologico.
Ora, si può essere oggi più o meno darwiniani, si possono criticare anche
molti aspetti dell’attuale sintesi che mette assieme genetica e darwinismo,
credo però che di una cosa le scienze dell’evoluzione ci abbiano convinto:
che nella vita nulla si trasmette integralmente. C’è evoluzione, c’è storia
della vita, c’è straordinaria moltiplicazione delle specie, sbalorditiva varietà
della vita, perché il genoma – che possiamo considerare il matema
biologico – non si trasmette integralmente. Molto spesso avvengono degli
errori di trascrizione, si suppone del tutto casuali, ed è grazie a questi
continui errori di trascrizione che si dispiega la storia della zoé. È quel che
separa la vita, con la sua imperfezione, dalla gelida perfezione delle
macchine create dall’essere umano. La passe è certamente un meccanismo,
ma possiamo dire che un’analisi, e l’atto analitico che esso dovrebbe
effettuare, è una macchina? Certamente se fossimo computer avremmo
molti meno problemi di quanti non ne abbiamo, ma si dà il caso che, prima
di inventare la matematica, noi esseri umani siamo esseri biologici. E
questo non bisogna dimenticarlo mai. Altrimenti si cade nello spiritualismo,
e penso che, nel fondo, le teorie di Badiou siano spiritualiste.
Nella vita la trasmissione non è quasi mai completa e perfetta, dunque.
Ma questo è vero anche per la trasmissione dell’informazione tra umani. Da
un secolo ormai si fanno ricerche ed esperimenti sulla trasmissione
dell’informazione tra gli umani, e una cosa sembra da tempo evidente: il
trasmettere una qualsiasi informazione per lo più modifica, devia, stroppia,
fuorvia l’informazione originaria.6. Tra gli umani, l’informazione si
modifica sempre. E queste deformazioni nella trasmissione di solito
disegnano un senso, ovvero, il fatto che la fedeltà della trasmissione è
continuamente curvata, modificata, tradita dai desideri e dagli interessi
degli individui, insomma dalle loro pulsioni. Non esiste matema fuori dal
gioco pulsionale. Nei termini di Badiou: la verità nella trasmissione di un
sapere è continuamente plasmata dal senso umano, troppo umano, degli
individui.
Ora, questo è vero persino per le grandi formule della scienza, in cui
sembra coagularsi un pensiero perfettamente trasmissibile. Le equazioni di
Newton sono trasmissibili nella misura in cui esiste una comunità
scientifica internazionale che dà sensi convergenti a concetti come massa,
distanza, velocità, attrazione, spazio ecc. Ma se la comunità dei fisici si
dividesse secondo paradigmi diversi, se insomma i concetti di massa,
distanza, velocità ecc. cessassero di essere univoci, anche le equazioni di
Newton cesserebbero di essere univoche, ovvero cesserebbero di essere
completamente trasmissibili. Avrebbero diverse interpretazioni, perché ogni
comunità scientifica le interpreterebbe in modo diverso, e verrebbero
trasmesse diverse interpretazioni. Dietro la rigidità monumentale del
matema c’è un formicolare di forme di vita, c’è il costituirsi storico delle
corporazioni scientifiche, delle istituzioni accademiche e delle scuole.
Proprio perché gli esseri umani non sono macchine costruite secondo un
programma, ma esseri viventi soggetti sempre… a un cambiamento di
programma.
Capiamo quindi la strana convergenza, in Badiou, tra un discorso
sacramentale della passe e il richiamo alla perfetta trasmissibilità del
sapere. Per Badiou le Cinq psychanalyses sono il testo sacro della
psicoanalisi, nella misura in cui esse fanno atto: qui la scrittura coincide con
una prassi, con un agire. E ogni volta non si ripete un testo ma un matema,
il supposto sapere formale che fa di un atto un atto.
Tengo ad affermare la mia distanza, soprattutto etica, da una visione del
genere. La psicoanalisi è una pratica importante, decisiva, ma anche umile,
che procede a tentoni. La pratica analitica, così fragile e così sempre
esposta al sospetto di essere suggestione o prassi rieducativa, non dà
all’analista alcuna giustificazione per essere arrogante o apodittico. Gli
analisti non sono i sacerdoti di un sapere a loro riservato, come pensa
Badiou, ma i tutori di un setting che si è rivelato produttivo. Solo fino a un
certo punto l’analista sa quel che sta facendo e quel che accade, e resta
spesso lei stessa sorpresa dagli effetti che l’analisi produce. In questo senso
Lacan ha ragione nel dire che c’è un sapere inconscio di cui lo stesso
analista non sa nulla.
5. Benché Badiou forse avrebbe problemi ad auto-classificarsi nel campo
dello strutturalismo, credo che il suo pensiero illustri bene quello stile di
pensiero, quelle maniere concettuali che si chiamarono strutturalismo
francese. C’è un tratto distintivo dello strutturalismo a cui Badiou partecipa:
l’idea che le varie forme di vita umane siano descrivibili in termini
puramente formali, e che queste strutture formali siano discontinue. Il
modello era la teoria di Ferdinand de Saussure: ogni lingua è
sincronicamente (ovvero, in un momento dato) un insieme di distinzioni
formali che formano sistema. E passare da una lingua all’altra è saltare da
un sistema formale fonologico all’altro. Non credo che questa idea
esaurisca la concezione saussuriana del linguaggio, tutt’altro, ma è questa
idea di fondo ad aver ispirato le varie derive dello strutturalismo.
La teoria strutturalista della storia è quindi una teoria assolutamente
discontinuista: si “salta” da una struttura all’altra. Questo vale sia per la
storia collettiva, sia per quella individuale. Non diversamente dal gioco
degli scacchi: qui ogni mossa è un atto perfettamente discontinuo e
indivisibile, che ha il potere di cambiare l’assetto formale di tutta la partita.
La storia, in un’ottica strutturalista, è come una lunghissima partita di
scacchi. Questo spiega la convergenza di certo strutturalismo con le teorie
rivoluzionarie marxiste: si passa da una struttura sociale all’altra solo per
via rivoluzionaria, per salti, per ristrutturazioni violente e immediate degli
assetti sociali, e non per un mutamento continuo, lento, molecolare, non
percepito. Lo strutturalista ignora i processi continui, che gli appaiono
irrilevanti. Lo strutturalismo eredita la visione rivoluzionaria della storia
che dominò le concezioni politiche dei secoli XIX e XX.
In questa ottica, l’atto è un evento del tutto discontinuo, puntuale – è il
passaggio da un matema all’altro. Abbiamo detto che Badiou non ci porta
alcun esempio e nessuna dimostrazione di quel che possiamo riconoscere
come atto e quindi come matema nel caso di un’analisi; egli assume
dogmaticamente il discorso degli analisti-sacerdoti. Laddove invece la
funzione del filosofo dovrebbe essere quella di ri-pensare ciò che un’altra
disciplina (sia essa religiosa, scientifica, politica, psicoanalitica…) afferma
in modo da dispiegarne – come si dispiega un dépliant – il senso. La
filosofia, sin dagli inizi, ha svolto il ruolo di guastafeste di tutti i saperi, ed è
bene che guasti anche la festa della psico-
analisi ponendole domande perspicue e magari imbarazzanti, anziché farne,
per dir così, la teologia. Mi sembra che – per restare nel parallelo religioso
– Badiou voglia costruire una teologia della psicoanalisi lacaniana. Un
tempo la filosofia era concepita come ancilla theologiae, oggi pensatori
come Badiou ne fanno piuttosto una ancilla psychoanaliticae. Non
interroga il senso delle varie cose – di cui molte sorprendenti ed
enigmatiche – che Lacan dice. Le assume come Rivelazione.
Personalmente credo che nella pratica analitica siano più utili alcune
critiche rigorose e perspicue rivolte da alcuni filosofi alla psicoanalisi – per
esempio, quelle sollevate proprio da Wittgenstein, che piace a Badiou – che
da tutte le filosofie che indulgono a una timorata agiografia della
psicoanalisi. Una lettura come quella di Badiou certamente gonfia – inflates
dicono gli inglesi – il narcisismo degli analisti, ma trovo che il narcisismo
degli analisti sia troppo diffuso, per cui sarebbe molto più sano, a mio
parere, ridimensionarlo. La maturazione della pratica analitica avviene non
attraverso le apologie filosofiche, ma attraverso il duro scontro con critiche
spesso del tutto pertinenti, e spesso imbarazzanti. Il trionfalismo
psicoanalitico di Badiou – e di molti altri filosofi di indirizzo analogo – di
fatto danneggia la psicoanalisi.
Queste filosofie danno per scontato che la psicoanalisi si basi su una
Rivelazione, di cui Freud è stato l’artefice (e di cui Lacan, poi, sarebbe stato
il Nuovo Testamento). Come in ogni Rivelazione (religiosa, politica,
psicoanalitica) si afferma la coincidenza dell’atto e del simbolico, tipico di
ogni fede religiosa. Nella messa cattolica, il simbolo del corpo di Cristo
(l’ostia) diventa attualmente corpo di Cristo. Per il misticismo popolare,
reale e simbolico coincidono, mentre un atteggiamento illuministico porta a
scindere i due.

6. Badiou fa notare che in Lacan “tutto è sospeso, in ultima istanza,


all’enigmatica correlazione tra l’atto e il matema” (p. 146): ovvero, Lacan
sarebbe più che mai strutturalista. Perché è questo lo strutturalismo:
rimandare sempre a quell’evento misterioso di un atto che incide sul
matema, che produce o disloca un matema. Di più: l’analista si sostiene
grazie al desiderio del matema. Senza matema, l’analista non può
sopportare il proprio atto, dice Badiou, “senza il matema, lo travolge
l’orrore del suo atto” (ibidem). Affermazioni che io interpreto così:
all’analista non basta produrre effetti, egli deve elaborare un sapere di
quello che fa. Il matema è il sapere che l’analista ha del proprio atto. In
termini terra terra: l’analista deve capire quel che ha fatto e sta facendo,
altrimenti egli/lei è solo un “resto”.
In questo confronto abissale, irriducibile, tra atto e matema – tra l’agire
nel reale e il sapere formale che esso implica – viene eliminata, come
abbiamo detto, la scabrosità del continuo. Pensiamo a Saussure. Nel Corso
di linguistica generale,7. dopo aver descritto la lingua sincronicamente
come un sistema, Saussure parla però anche della lingua nello spazio e nel
tempo, ovvero della variabilità geografica delle lingue e del loro movimento
diacronico. In effetti, non ci rendiamo conto che la lingua che parliamo sta
mutando; non percepiamo il cambiamento perché esso è troppo lento.
D’altro canto, spostandoci nello spazio la lingua varia e diventa altra.
Saussure parlava della lingua del siciliano e di quella del piemontese: un
continuum di variazioni dell’idioma va dalla Sicilia al Piemonte, ma il
risultato è che, quando un piemontese e un siciliano si incontrano, non si
capiscono (stava parlando degli inizi del XX secolo…), diciamo che hanno
due matemi diversi. Il tempo e lo spazio attraversano trasversalmente i
sistemi – i matemi, potremmo dire – e li modificano senza sosta. È questa
dimensione trasversale, diciamo molecolare (come la chiamava Deleuze),
che certo strutturalismo rimuove, per cui si ritrova basito – bouché – di
fronte alle sorprese degli eventi del mondo e dei processi psichici. Badiou
ripete spesso che il filosofo è bouché di fronte alla matematica; bouché
significa che non ha accesso, che non capisce. Io trovo che un approccio
strutturalista rigido rende lo studioso (e anche l’analista) bouché nei
confronti degli eventi reali, che si svolgono sempre nello sporco del
continuo.
Del resto il linguaggio è fortemente strutturato a livello fonologico – ogni
fonema è un sistema di differenze da tutti gli altri fonemi della stessa lingua
– ma non ad altri livelli, che appaiono invece casuali e contingenti.
L’insieme lessicale di ogni lingua è debolmente strutturato, per esempio, le
parole di una lingua sono mere sedimentazioni di usi.
Ora, il molecolare ci rimanda a una figura che poi è stata oggetto di
trattamento matematico: il Caos. Lo strutturalismo non vuole vedere che
siamo – in particolare noi esseri umani, ma non solo – sugli orli del Caos.8.
Per Badiou, come per ogni strutturalista, il reale sono forme definite da
matemi. Per me invece il reale è il Caos, il fondo di rumore al di là di ogni
segnale. Là mi sembra che si disegni una divergenza fondamentale sul
modo di vedere il mondo e la storia. Ripensare il sociale, lo psichico,
l’economico… come qualcosa che continuamente emerge dal caos e in esso
riaffonda, ecco una prospettiva non strutturalista.

7. Insomma, sogno un approccio filosofico alla psicoanalisi che sia


finalmente laico, non nel senso freudiano di Laie come “non medico”: un
approccio che non abbia una visione sacramentale della psicoanalisi.
Auspico una filosofia della psicoanalisi veramente decostruttiva, non
diversamente da come la filosofia ha “decostruito” le pratiche scientifiche,
la matematica e la logica, le ideologie politiche… Decostruire non significa
criticare o demolire, ma mostrare il modo profondo di funzionare di una
pratica. Molto spesso la teoria psicoanalitica si riduce a una sublimazione
celebrativa della propria pratica, senza interrogarsi veramente sul
funzionamento di tale pratica. Certamente un’analisi mette in presenza di
svolte soggettive, di “atti”, di momenti cruciali di cambiamento, e tutto
questo va pensato anche filosoficamente: ma appunto, senza partire, come
fa Badiou, dall’idea che la concettualizzazione degli analisti sia ab initio
quella adeguata, quella più chiara. Insomma, uscire definitivamente dalla
psicoanalisi come sistema di Rivelazione (a opera di Freud e di Lacan) e
considerarla una pratica storicamente generata su cui il filosofo ha da
meditare. La psicoanalisi è prima di tutto una pratica sociale – “legame
sociale” lo chiamava Lacan, diverso da altri legami sociali, i quali sono pur
sempre legami – che va capita in relazione (per eguaglianze e differenze
rispetto) alle altre pratiche sociali della nostra epoca. Il mistero della
psicoanalisi va interrogato, non esaltato.
Per far questo, occorre abbandonare l’illusione strutturalista secondo cui
la descrizione di strutture equivale ipso facto a una spiegazione ultima delle
cose. Personalmente trovo molti contributi dello strutturalismo illuminanti:
esso ha reso intellegibili pratiche sociali e individuali che altrimenti
sarebbero tuttora del tutto opache, incomprensibili. E questo non solo in
linguistica, ma anche in storia, in antropologia, nell’analisi letteraria,
nell’arte… Ma rendere qualcosa intellegibile non è ancora spiegarlo, se per
spiegazione intendiamo l’operazione specifica delle scienze (del sapere,
direbbe Badiou) di delineare un sistema di cause. Troppo spesso lo
strutturalismo identifica intellegibilità e spiegazione: basta trovare una
forma a un fenomeno, e si pensa che si è spiegato interamente quel
fenomeno. Con questo non voglio dire che la psicoanalisi debba essere
esplicativa come ogni scienza cerca di esserlo, non penso che la psicoanalisi
sia una scienza. Ma essa è una pratica che produce degli effetti, che la stessa
psicoanalisi cerca di auto-spiegarsi, per dir così, e in questo sforzo la
filosofia può incunearsi, senza per questo genuflettersi di fronte al supposto
sapere ineffabile dell’analista.
La filosofia può essere utile soprattutto a superare una certa tentazione
dogmatica, che è presente in tutte le scuole di psico-analisi, ed è forte tra i
lacaniani. Il dogmatismo è quando l’analista fa appello alla propria
indescrivibile e indiscutibile pratica, grazie a cui può dire “le cose stanno
così” senza fornire alcuna chiarificazione e nessuno strumento per
criticarla. Spesso l’analista fa riferimento a un preteso sapere iniziatico che
sarebbe intrinseco alla propria pratica – ma quando poi gli analisti mettono
su carta la loro esperienza, si scopre che è un bluff. La pratica si rivela ben
diversa dalla sua idealizzazione teorica. Come nelle credenze religiose,
troppi psicoanalisti agiscono sul “prendere o lasciare: o hai fede, o sei
fuori”. Certo strutturalismo spesso è stato complice di questo oscurantismo.
La filosofia ha certamente un limite: non può mai essere un “mistero”,
anche quando certe volte assume uno stile visionario e profetico (come fu il
caso di Nietzsche e Benjamin, e di altri ancora). La filosofia è sempre una
Deutung, un’interpretazione ma non qualsiasi: Deutung è interpretare nel
senso di esporre nel linguaggio comune, di rendere comprensibili le cose a
tutti. Saremmo tentati di dire che la filosofia dovrebbe fare nei confronti
della psicoanalisi quel che Freud fece con i sogni, una Analysedeutung.
Questa vocazione chiarificatrice della filosofia cominciò già con la scelta
dei primi filosofi greci quando rinunciarono alla forma poetica e preferirono
generi più prosaici, per esempio il dialogo, che imita lo scambio comune
dei discorsi. Da qui il problema quando la psicoanalisi si misura con
qualcosa di “misterico”, come è l’analisi certamente, e specialmente la
passe da cui siamo partiti. Alcuni interpretano la Deutung filosofica nel
senso di una critica demistificatoria della psicoanalisi, ma non è l’unica
strada.
Prima ancora di essere un insieme di teorie, la psicoanalisi è una pratica
sociale, che prende varie forme. Come ogni pratica, compie degli atti,
insomma è “un mistero”. Ma il filosofo non può accontentarsi del modo in
cui gli analisti teorizzano (glorificano) questo mistero, lo deve esaminare in
relazione ad altre pratiche, lo deve laicizzare. La filosofia, per sua natura,
laicizza. È il suo limite, ma anche la sua forza.
È ben nota la leggenda di Talete che cade nel fosso guardando il cielo, e
viene così deriso dalla servetta trace.9. Ebbene, direi che, malgrado tutto, il
filosofo parla sempre alla servetta trace, non agli astronomi. Gli astronomi
hanno ancor meno da fare con la filosofia della gente comune. La gente
comune può anche ridere del filosofo, ma sotto sotto sa che egli si rivolge a
essa (in questo senso ogni vera filosofia è antifilosofica, per riprendere la
terminologia di Badiou). La Deutung filosofica non per questo respinge, o
disprezza, o demistifica il misterico che c’è nella vita umana, ma lo
considera da un’altra angolazione. Ovvero, si rivolge sempre a chi non è
ammesso al mistero, al sacramento: lo descrive non per iniziarlo a esso, ma
per rendere comprensibile ciò a cui l’uomo e la donna dell’agorà non ha
accesso. Così, per esempio, mi sembra chiaro che tutti i filosofi teologici
cristiani non si rivolgevano mai veramente ai credenti, ma ai miscredenti, a
chi non aveva accesso alla fede.
Questo carattere misterico è connesso in effetti a una dimensione che
spesso gli analisti camuffano, che è quella della ritualità. Far venire
l’analizzante più volte alla settimana lo stesso giorno e la stessa ora, farlo
stendere sul lettino o farlo sedere vis-à-vis, il fatto che l’analista non inizi
mai a parlare ma aspetti sempre che sia l’analizzante a prendere la parola, le
modalità di pagamento ecc., tutto questo si svolge in una certa routine che
ha tutti gli aspetti di una ritualità. E ben sappiamo che il mistero in senso
antico, ma anche il sacramento in senso cristiano, si svolgono in un contesto
rituale. Tuttavia questa efficacia rituale dell’analisi è qualcosa che la
filosofia dovrebbe interrogare, non inchinarsi semplicemente davanti a essa.
Si dirà che la situazione della filosofia di fronte al mistero analitico non è
diversa da quella della filosofia di fronte all’arte, per esempio. Certo
esistono varie teorie filosofiche sull’arte. Ma anche quando la filosofia
mette in rilievo il carattere ineffabile, non concettualizzabile,
dell’esperienza estetica, è pur vero che la filosofia, se si decide a dire
qualcosa di questa esperienza, non è semplicemente per alzare le braccia
per celebrare l’arte, ma per interrogarne la peculiarità come forma di vita.
La filosofia non può spiegare perché un brano musicale ci fa vibrare corde
profonde, mentre un altro brano simile non ci induce le stesse vibrazioni
(questo magari sarebbe più oggetto di una ricerca neuroscientifica); ma può
mettere almeno in evidenza che occorrono certe condizioni, che sono tutte
da descrivere, perché “il miracolo” dell’effetto d’arte si produca. La
filosofia si orienta sempre verso il prosaico, anche quando parla di ciò che
ci fa battere profondamente il cuore. Analogamente, per la psicoanalisi è
convocata a dirci le condizioni dell’atto, anche se questo è indicibile. E in
effetti, ogni analisi è un caso a sé.

1 A. Badiou, Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995 (2013), trad. a cura di L.F. Clemente,
Orthotes, Napoli-Salerno 2016. In particolare il Seminario III del 21 dicembre 1994.
2 Tra le critiche a questo assetto cooptativo, cfr. E. Fachinelli, Sull’impossibile formazione degli
psicoanalisti. Conversazione con Sergio Benvenuto (1987), “European Journal of Psychoanalysis”,
<journal-psychoanalysis.eu/sullimpossibile-formazione-degli-analisti-conversazione-di-sergio-
benvenuto-con-elvio-fachinelli1>.
3 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino
2012, 6.54.
4 Cinq psychanalyses è il titolo dato dall’editore francese (PUF), nel 1935, a cinque casi clinici di
Freud (il caso di Dora, del piccolo Hans, del presidente Schreber, dell’Uomo dei topi, dell’Uomo dei
lupi).
5 Mt 16,17-19.
6 Ho descritto questa ampia ricerca in S. Benvenuto, Dicerie e pettegolezzi, il Mulino, Bologna
2000.
7 F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), trad. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari
1992.
8 Per sapere di che cosa si tratta, cfr. J. Gleick, Chaos, The Viking Press, New York 1987.
9 Cfr. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria (1987), trad. di B.
Argenton, il Mulino, Bologna 1988.
Archivio Enzo Paci

A oltre quarant’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate
alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare
copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere
lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la
presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti
e biblioteca.
L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo
Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e
sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi
interessati.
Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in
possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto
copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente.
L’indirizzo al quale inviare il materiale è:

Archivio Enzo Paci


via Beato Angelico 5
20133 Milano

Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio


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