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Andrea Iengo

DOC da Relazione:
riconoscerlo,
affrontarlo,
superarlo.
Copyright © 2021 Andrea Iengo

Tutti i diritti riservati.


La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi
mezzo (compresi i formati digitali e le fotocopie), nonché la memorizzazione
elettronica, sono riservati per tutti i Paesi.
L’elaborazione del testo e delle appendici, anche se curata con
scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per
eventuali involontari errori, omissioni o inesattezze.

ATTENZIONE: La presente opera ha finalità meramente divulgativa e non


sostituisce la consulenza e l’assistenza di uno specialista, di un medico o di
uno psicologo.
. Tutti i documenti allegati, compresi i casi studio e le indicazioni pratiche,
costituiscono mere tracce esemplificative finalizzate esclusivamente ad una
migliore comprensione dell’argomento
Sommario

Sommario
Ringraziamenti
Prefazione
Introduzione
1: Un dubbio che ti logora piano piano
2: DOC: logica stringente che arriva all’assurdo
3: Che cosa succede nella mente di una persona che soffre di DOC
4: Problema quantitativo, plasticità neuronale, salto qualitativo
5: Un problema che coinvolge anche familiari e amici
6: Formazione del disturbo
7: I falsi ricordi nel doc: sei sicuro di ricordare quello che hai fatto?
8: Il problema dell’errata diagnosi
9: Gli errori che si commettono
10: Manovre terapeutiche
11: E ora?
12: La storia di giulia
13: La storia di amalia
14: La storia di isabella
Informazioni sull'autore
RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Amalia, Giulia e Isabella, senza le loro storie questo libro non
sarebbe stato scritto.
PREFAZIONE

In questo libro condividerò con te ciò che ho imparato in questi anni riguardo
al DOC da Relazione, ogni indicazione è stata testata direttamente da me e te
la descriverò nel modo più chiaro possibile.

Se vuoi essere seguito personalmente da me per superare il DOC da


Relazione puoi contattarmi qui: https://disturbossessivo.it/contatti/
INTRODUZIONE

“Dubita che di fuoco siano gli astri, dubita che si muova il sole, dubita che
menzognero sia il vero, ma non dubitare del mio amore” scriveva William
Shakespeare alla sua amata dama in nero e forse, senza volerlo, ha messo in
difficoltà tutti quegli amanti privi della sua stessa sicurezza.
Il poeta inglese proclamava il suo amore con la certezza che potrebbe avere
chiunque a cui domandassero se il suo sangue è rosso. E, dato che dalla sua
parte aveva l'immortalità dei grandi artisti, la solidità della sua convinzione è
diventata tutt'uno col concetto d'amore.
Gli artisti hanno il potere di trasformare i propri versi in modelli. E questi
modelli nella nostra mente possono diventare vere e proprie interpretazioni
del mondo che, ad esempio, ci portano a pensare che stiamo davvero vivendo
un amore solo se proviamo lo stesso trasporto di Romeo e Giulietta.
In effetti forse ognuno di noi si sentirebbe quantomeno infastidito se il
proprio partner gli dicesse: “Sì ti amo, ma non sempre allo stesso modo”.
Allo stesso tempo non possiamo non esserci riconosciuti almeno una volta
nella vita nei versi di Catullo:
Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.
Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato.
Perché sin da quando l'uomo ha avuto la possibilità di comunicare i propri
sentimenti, accanto all'amore ha sempre affiancato il dubbio: questa sorta di
entità che scaraventa la persona innamorata nel tormento. Non a caso lo
scrittore turco Mehmet Murat Ildan lo definisce “il diavolo in paradiso”.
Il fatto è che il dubbio per gli amanti non è un qualcosa di strano, anzi,
potremmo dire che è parte della normalità.
Ovviamente non sempre, ma in vari momenti del rapporto gli amanti possono
dubitare dei sentimenti dell'altro, delle sue intenzioni, al punto da cercare di
interpretare le sue parole, ponderandole di notte anche a costo di togliersi il
sonno, pur di scovare dei particolari che possano offrire una risposta
univoca.
Ma in questo libro voglio affrontare un tipo di dubbio diverso, quel dubbio
che stritola l'amante e lo porta a dubitare dei propri sentimenti, della propria
relazione, del futuro che si sta costruendo. E non mi riferisco a quel dubbio
più che normale che si prova all'inizio, durante i primi mesi, ma di quello che
colpisce nel bel mezzo di un rapporto, quasi dalla sera alla mattina, e che non
trova mai risposta. Parlerò di quel dubbio amoroso che genera solo domande
brutali, che colpiscono così duro da cambiare la persona, stravolgendo il suo
modo di pensare e il suo modo di agire.
Perchè non si tratta di un normale dubbio, bensì di un dubbio patologico, che
si trasforma in un vero e proprio disturbo ossessivo compulsivo, che prende il
nome di DOC da relazione.
Nel corso della mia carriera di psicoterapeuta ho incontrato persone che non
erano in grado di restare in una stanza che non fosse completamente in
ordine, così come uomini che dovevano lavarsi le mani almeno sei volte ogni
ora; ho incontrato chi alla fine di certe attività non poteva fare a meno di
ripetere più volte certe frasi, così come chi era terrorizzato dal dimenticare di
respirare, e posso dire con certezza che un ben preciso tipo di dubbio in
amore non è affatto diverso da questi DOC.
Non so cosa questo possa dire di me, ma ho concentrato tutto il mio lavoro
sullo studio della risoluzione dei DOC, trovando affascinante il modo in cui
la psicoterapia breve strategica sia in grado di aiutare le persone: negli anni
sono stato sorpreso da come certi cambiamenti avvengano in fretta, portando
il paziente ad abbandonare le sue ossessioni per riappropriarsi di quella vita
che gli avevano strappato via.
Ma in cosa consiste il DOC?
In breve non è altro che una paura che si trasforma in ossessione, sino al
punto di generare una serie di comportamenti che non si riescono più a
gestire. La donna che deve aprire e chiudere la manopola del gas dieci volte
prima di andare a dormire, in realtà ha paura di morire intossicata durante la
notte, e questa paura la porta a mettere in atto dei comportamenti (di fondo
per niente funzionali) al solo scopo di attutire quella sensazione.
Nel dubbio patologico tipico del DOC da relazione accade esattamente la
stessa cosa ed è proprio ciò che ti mostrerò nelle prossime pagine.
Ma non saremo soli, infatti con noi ci saranno anche Giulia, Amalia e
Isabella: sono tre pazienti che mi hanno dato il permesso di raccontare la loro
storia.
Quando ho spiegato quale fosse il mio progetto, sono state felici di offrire la
propria testimonianza. E questo perché tutte e tre raccontano la storia di una
donna che viveva un amore felice che di colpo è stato straziato dai dubbi. Ma
è difficile capire quando un dubbio è sano e quando invece è la
manifestazione di una vera e propria patologia.
Isabella, ad esempio, mi ha detto: “La cosa peggiore per me era vivere nei
sensi di colpa a causa di tutto quello che pensavo del mio compagno. Ed era
terribile, ci stavo male. Quando ho capito che non era colpa mia, ma che
effettivamente avevo un DOC, è stato un bel sollievo. Il problema non era
l'amore. Il problema era tutta un'altra cosa, molto più facile da superare”.
Ti racconterò le loro storie proprio per questo: non mi interessa solo mostrare
cosa è un DOC da relazione, ma il mio intento è dimostrare che si può
superare, che certe volte quando smetti di sentire le farfalle nello stomaco
potrebbe trattarsi della fine di una relazione, o forse potrebbe essere che c'è
qualcosa che impedisce a quelle farfalle di volare.
1: UN DUBBIO CHE TI LOGORA PIANO PIANO

La serata di Isabella col suo ragazzo è stata perfetta, eppure c'è qualcosa
che non va.
Mentre è stesa sul letto, pensa alla sua relazione con Marco, con cui sta da
nove anni. E piange.
È come se avesse appena raggiunto la consapevolezza che quella storia sia
finita: non solo la relazione ma tutti i sentimenti alla base.
E la dimostrazione è quella vocina nella testa che non la smette di farle
delle domande.
Perché non senti più niente?
E se fosse stata tutta un'illusione?
E se non fosse mai esistita questa storia?
Se fosse stata solo il frutto della tua immaginazione?
E se non l'avessi mai davvero amato?
Questa vocina la tormenta già da un po': si intrufola nei suoi pensieri e
vuole per sé tutta la sua attenzione, portando Isabella lontano da tutto il resto.
Mentre è stesa sul letto a piangere non riesce a zittirla e neppure a
silenziarla: queste domande la avvolgono come certezze, come se fossero più
solide e concrete del cuscino su cui poggia la testa.
Ha già provato a fare di tutto per liberarsene.
Nei giorni passati ha riguardato le vecchie foto di quando lei e Marco si
sono conosciuti, ritornando a quei giorni di dolcezza, di passione e scoperta,
nella speranza di mettere a fuoco tutte le sensazioni positive che dovrebbe
provare quando è con lui.
Ha osservato ogni foto con attenzione, come se stesse seguendo un
delicato rituale magico, grazie al quale tutti i vecchi sentimenti sarebbero
tornati in vita.
Ma non ha funzionato.
Ha provato anche a ragionare lucidamente su tutti i pregi di Marco,
elencando ogni sua singola qualità.
Eppure ogni volta che gliene veniva in mente una ecco che tornava la
vocina: “Ma l'amore non dovrebbe essere cieco? Lo sai anche tu, l'amore
mica bada a queste cose”.
Così la sua mente saettava velocemente alla ricerca di difetti, che
spuntavano nella sua memoria come germogli che crescono dieci volte più in
fretta del normale.
E la vocina, anche in questo caso, tornava a farsi sentire: “Ma se vedi tutti
questi difetti forse è perché non lo ami più?”
E ancora: “Se lo amassi davvero non dovresti neppure chiederti perché lo
ami”.
Mentre è sul letto e proprio non riesce a smettere di piangere, si dice che la
cosa più giusta da fare è lasciarlo.
É la cosa più corretta nei confronti di Marco.
Ma è anche la cosa più sana nei propri confronti, perché sente un‘esigenza
che striscia dentro tutto il suo corpo e la vuol fare scappare via da questa
relazione, per lasciarsela per sempre alle spalle.
E sarebbe facile, davvero ci vorrebbe poco.
Ma la sola idea la terrorizza, blocca quella voglia di scappare,
congelandola completamente.
È una donna imprigionata nel ghiaccio: vuole fuggire via, ma non può
muoversi.
E la cosa peggiore è che quella prigione non gliel'ha costruita nessuno: lei
è tanto la donna quanto il ghiaccio che la trattiene.
Così non può fare altro che restare stesa sul letto a piangere.
Almeno al momento non ha nessuna alternativa.
Isabella non lo sa ancora, ma soffre di DOC da relazione, una patologia
che si scatena proprio in questo modo: sino a qualche giorno prima non aveva
nessun dubbio sul suo compagno, ma di colpo ecco che emerge con
prepotenza un pensiero fisso che non la abbandona mai.
Un pensiero che porta con sé difficoltà a concentrarsi, crisi di pianto e che
conduce a terribili picchi di ansia e attacchi di panico.
Ma perché succede tutto questo?
E soprattutto cosa possiamo fare per evitarlo, o per superare questo
problema?
Partiamo dal principio: “disturbo ossessivo compulsivo da relazione” è
una denominazione piuttosto recente, infatti se ne parla per la prima volta nel
2014, ed è una particolare forma del così detto dubbio patologico.
Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo molto subdolo e
non semplicissimo da riconoscere perché, per quanto alcuni dei sintomi si
manifestino nel 13% della popolazione, si stima che solo tra l'1% e il 2% ne
soffra davvero.
Quando si manifesta come DOC da relazione, si presenta sotto forma di
dubbi ossessivi sul proprio partner e sulla relazione, nonché con una serie di
comportamenti compulsivi generati dalla necessità di gestire o alleviare il
disagio.
I dubbi possono prendere la forma di domande del tipo:
● Ma è davvero quello giusto?
● Oggi sento di non amarlo come al solito, forse non lo amo più?
● Se mi faccio delle domande forse non è vero amore?
● Perchè se lo amo mi sento attratto da altre persone?
● Se lo amassi non dovrei pensare continuamente a lui?

A queste si aggiungono il senso di colpa nei confronti dei propri dubbi, il


paragonare il proprio partner ad altri ipotetici partners o ex partner, il
visualizzare eventi del passato alla ricerca di rassicurazioni sulla propria
relazione (esattamente come faceva Isabella).
Ma il vero problema è che questi pensieri e comportamenti intrusivi
vengono percepiti come sbagliati e portano con sé vergogna, ansia e paura.
Ad esempio, una persona che soffre di DOC da relazione può avere dei
dubbi sul proprio compagno così costanti da non riuscire sempre a
concentrarsi come vorrebbe sulle altre cose. Questi dubbi la portano a
confrontare le qualità del suo partner con quelle di altre persone che conosce
(o anche che non hai mai incontrato più di una volta). Quindi all'ansia
generata dalle continue domande a cui non riesce a trovare una risposta, si
aggiunge la vergogna per tutto ciò su cui non riesce a smettere di rimuginare.
Tutto questo stress non fa altro che accumularsi, sino a quando non si
trasforma in ripetuti picchi di ansia o in veri e propri attacchi di panico.
Insomma, per quanto alcuni di questi comportamenti possano essere
comuni a molte più persone, solo in una minima parte raggiungono un tale
livello di intrusività da trasformarsi in patologia.
2: DOC: LOGICA STRINGENTE CHE ARRIVA
ALL’ASSURDO

Per comprendere il disturbo ossessivo compulsivo bisogna osservarlo nelle


sue due componenti fondamentali. La prima è la paura, composta da pensieri
intrusivi, come ad esempio la paura dei germi, che porta una persona a
percepire il mondo come un luogo pericoloso dove in qualsiasi momento può
infettarsi.
La seconda invece riguarda tutte le soluzioni che vengono messe in atto
per poter placare lo stress di questo continuo rimuginare, e che si manifestano
come gesti ritualistici ripetuti ossessivamente.
Nel caso della persona germofobica vista sopra, potrebbe trattarsi del
lavarsi le mani ogni venti minuti.
Nel DOC da relazione invece la paura riguarda il non amare più il proprio
partner, mentre la compulsione prende diverse forme.
Si manifesta, come abbiamo già visto, come dubbi costanti sul proprio
partner, facendo paragoni, ma anche attraverso azioni pratiche, come il
chiedere costantemente consiglio ad amici e conoscenti in cerca di
rassicurazioni, oppure l'evitare di andare in certi luoghi “perchè non so se
amo davvero il mio ragazzo e lì potrei incontrare un'altra persona e
innamorarmi follemente”.
Questi comportamenti sono patologici nel momento in cui si entra in un
meccanismo nel quale è impossibile trovare una soluzione, perché ogni
domanda che la persona si pone non trova quasi mai una risposta, e quando la
trova questa apre le porte ad altre nuove domande anch’esse senza risposta e
così via, in un circolo vizioso senza fine.
A questo punto è opportuno chiarire un elemento fondamentale: ogni
aspetto della nostra vita implica un certo grado di incertezza.
Ti faccio un esempio: immagina di voler misurare l’altezza del tuo
smartphone. Potresti procedere prendendo un metro e misurandolo;
probabilmente il valore che troverai non sarà perfetto, ma si fermerà a metà
tra due numeri. A quel punto potresti pensare di utilizzare uno strumento più
sensibile, che magari misuri anche i millimetri, ma anche avendo una stima
più precisa, in ogni caso non arriverai al valore esatto che stai cercando.
Potresti quindi passare ad uno strumento in grado di misurare anche i decimi
di millimetro e così via. Oppure potresti accettare l’incertezza, il fatto di
sapere che il tuo smartphone misura “più o meno” tot. Considera che in fisica
le dimensioni vengono indicate proprio in questo modo con l’intervallo di
incertezza “più o meno”.
Nel caso del dubbio patologico, la persona non è in grado di tollerare il
livello di incertezza che normalmente siamo chiamati ad affrontare.
I dubbi possono essere vari: possono riguardare l'amore per i figli, per i
genitori o per altre persone care, quindi non ricadono necessariamente sul
partner ma su tutte le relazioni significative.
Così come possono avere a che fare con il fatto stesso di amare qualcuno,
con l'appropriatezza della relazione, con l'aspetto fisico, o col modo in cui
l'altra persona dimostra il proprio amore.
Ci tengo a sottolineare ancora questo aspetto: è normale porsi domande di
questo tipo, ma quando diventano ossessive ecco che si trasformano in
patologia, perché si basano su un meccanismo di ragionamento perverso.
Anche in questo caso voglio farti un esempio.
Immaginiamo un giovane uomo che comincia a porsi questa semplice
domanda: “Sono eterosessuale oppure no?”
È importante comprendere che la risposta a questo interrogativo non ha
nulla a che fare con la logica e la razionalità, ma riguarda il campo delle
emozioni e delle sensazioni.
Ma che cosa succede se l’uomo vuole comprendere le emozioni con la
logica?
Semplicemente farà esattamente ciò da cui ci metteva in guardia la
maestra di matematica delle elementari: dividerà le mele per le pere. Ovvero:
cercherà di comprendere qualcosa usando una chiave interpretativa
completamente inadatta al contesto.
Quindi potrebbe iniziare ad analizzare tutto ciò che accade in lui mentre
guarda una bella donna o un bell'uomo, tenterà di controllare ogni sua singola
reazione, distaccandosi dal momento presente, da ciò che effettivamente sta
provando, per analizzarlo come se fosse sotto la lente di un microscopio.
Ed è qui che nascono i problemi, perché non possiamo vivere l'emozione e
analizzarla nello stesso momento.
Il giovane uomo potrebbe cercare di chiarire il suo dubbio baciando la
compagna per comprendere bene quello che prova. Ma nel momento in cui la
sua attenzione è focalizzata su quel dubbio, quel bacio non potrà far altro che
creare nuove domande.
Possiamo paragonare il meccanismo al guardare un film: puoi lasciarlo
scorrere sullo schermo e seguire la storia che mostra, per poi valutare se ti
piace o meno; oppure potresti scomporre ogni singolo secondo del film nei
24 singoli fotogrammi da cui è formato, cercando di capire se ti piacciano o
meno tutte le 130mila immagini di cui è composto. E, a quel che posso
saperne, nessuno si sognerebbe mai di guardare un film in questo modo!
Per dovere di cronaca un esperimento del genere è stato realmente fatto
nel 1993 dall’artista statunitense Douglas Gordon, con il film Psycho di
Alfred Hitchcock, che ha rallentato la pellicola a due fotogrammi al secondo,
per la durata complessiva di ventiquattro ore. Si trattò di una installazione
definita dai visitatori “straniante” e “disturbante”.
Insomma, anche in questo caso l’effetto non è stato per nulla piacevole.
Ma voglio farti un altro esempio per chiarire questo meccanismo:
immagina di fare una passeggiata in un posto che ti piace, puoi sentire l’aria
sulla pelle, il terreno sotto i piedi, gli odori che ti inebriano e anche qui puoi
decidere se goderti l’esperienza nel suo complesso o se scomporla cercando
di capire se ogni passo davvero ti piace, se ogni movimento dei tuoi piedi è
proprio come lo vorresti, o magari quella pietruzza su cui hai appena
poggiato il piede abbia rovinato irrimediabilmente la tua giornata.
Questo dà il via ad un processo perverso nel quale si cercano
disperatamente soluzioni in grado di rispondere con certezza ai dubbi,
innescando però delle azioni e dei pensieri che non fanno altro che alimentarli
e moltiplicarli.
Proseguendo lungo questa strada il giovane uomo potrebbe iniziare a
mettere in piedi dei veri e propri esperimenti sessuali, anche solo per riuscire
a capire ciò che gli sfugge. E, in casi estremi, questo giovane uomo potrebbe
arrivare a distaccarsi dalla realtà perché costantemente rapito dai dubbi sulla
sua identità sessuale.
Questa è la descrizione del meccanismo del DOC, che in modo analogo si
declina alle relazioni ma, come abbiamo visto, in questo caso l'elemento che
genera paura sarà il non essere certi dei propri sentimenti, e ogni
ragionamento messo in atto sarà volto alla ricerca della risposta che
definitivamente possa dare chiarezza alla qualità e alla quantità dei propri
sentimenti.
3: CHE COSA SUCCEDE NELLA MENTE DI UNA PERSONA
CHE SOFFRE DI DOC

Se i dubbi per Isabella cominciano in un momento sereno della relazione,


per Amalia la situazione è un po’ diversa: nella coppia ci sono un bel po’ di
tensioni. Sia ben chiaro, non riguardano tanto i sentimenti, quanto la gestione
della vita a due.
Col suo compagno ha deciso di andare a vivere insieme, ma vedono le
cose in modo un po’ diverso: lui vuole acquistare casa, mentre lei preferisce
affittarla.
Amalia fa un lavoro stagionale, che oltretutto non le permette di
guadagnare chissà quanto e non si sente sicura nel sobbarcarsi un mutuo.
E poi c’è anche quel corso per infermiera: il suo compagno sta insistendo
per farla iscrivere. Certo, sa che lui ha ragione: una volta finito, potrebbe
facilmente trovare un impiego stabile e con uno stipendio di gran lunga
migliore. Ma l’idea di dover fare qualcosa per aiutare gli altri al solo scopo di
pagarsi il mutuo proprio non riesce ad accettarla. E forse il fatto che lui
continui a non capire questo punto, la indispettisce non poco.
Ed è in questo contesto che i dubbi cominciano ad arrivare: a volte la
presenza del suo compagno la irrita, altra ha l’impressione di non sentire più
nulla nei suoi confronti. Così, per comprendere cosa se la sta accadendo,
inizia a fare ricerche su internet, sino a quando non si imbatte in uno
psicologo. Questi in un video dice che i dubbi sulla relazione, quando si
manifestano proprio nel momento in cui si sta per andare a vivere insieme,
spesso sono un sintomo del fatto che la persona ha smesso di credere in
quella relazione, o che comunque si tratta di una storia ormai conclusa.
Eppure quella sorta di sentenza non è una risposta sufficiente, infatti i
dubbi invece di placarsi si moltiplicano, diventano sempre più frequenti. E
più sono frequenti e più Amalia sente il bisogno di stare vicino al suo
compagno, ne percepisce costantemente la mancanza quando lui non è con
lei, terrorizzata dal fatto che da un momento all’altro questa storia possa
finire.
E forse non perché sarà lei a lasciarlo, ma lui.
A questo punto potremmo domandarci: che cosa sta succedendo nella testa
di Amalia?
Abbiamo già osservato i comportamenti e i pensieri, ma in questo
paragrafo vorrei andare un po' più in profondità, sino al punto in cui gli occhi
non possono guardare.
Infatti quando ci spostiamo nei circuiti cerebrali, possiamo notare nelle
persone con un DOC una disfunzione nei meccanismi della serotonina.
La serotonina è estremamente importante per il sistema nervoso centrale,
perché svolge varie funzioni che vanno dalla regolazione del tono dell'umore,
del sonno, della temperatura corporea, e arrivano a coinvolgere la sessualità,
l'empatia, le funzioni cognitive e la creatività.
Di conseguenza, le alterazioni nella funzionalità dei circuiti della
serotonina sono coinvolte in numerosi disturbi, tra cui anche il DOC.
Per quanto, in relazione alla causa organica, c'è da prendere in
considerazione un elemento molto importante: non possiamo dire con
certezza quanto sia il comportamento ad influenzare la chimica del cervello, e
quanto sia la chimica del cervello ad influenzare il comportamento.
Un'altra ipotesi sulle origini del DOC riguarda la disfunzione dei gangli
basali.
Questi sono un gruppo di nuclei subcorticali fortemente interconnessi con
la corteccia cerebrale, il talamo e il tronco encefalico, e sono associati alle
funzioni di controllo dei movimenti volontari, all'apprendimento procedurale
e delle abitudini, ai movimenti oculari, alla cognizione e all'emozione: una
loro disfunzione può provocare sintomatologie proprie del DOC.
Anche se ho preferito evitare di inserire in questo paragrafo un trattato di
psichiatria, è importante comprendere che quando si parla di DOC limitarsi a
bollare la faccenda con “si tratta di una fissazione”, come di solito si sente tra
i non addetti ai lavori, è un errore. Il DOC infatti è causato da (o produce)
delle alterazioni nella mente. Ovvero: esiste una vera e propria componente
neurofisiologica.
A questo punto è importante anticipare un elemento importante e che
approfondiremo più avanti: il cervello in caso disfunzioni non è condannato
ad accettarle, a farsi operare o ad imbottirsi di farmaci, perché è possibile
modificare la struttura cerebrale anche attraverso l'adozione di nuovi
comportamenti.
Ma adesso mettiamo via questo argomento, ho voluto inserirlo come
forma di rassicurazione: qualcuno leggendo sino a questo punto potrebbe
pensare che chi ha il DOC è condannato, ma per fortuna non è affatto così. È
esattamente l'opposto.
Quindi emergiamo dal cervello e torniamo a guardare una persona che
soffre di DOC da una prospettiva più ampia, anche perché se vogliamo
prendere in considerazione tutte le cause, non possiamo tralasciare l'ipotesi
psicoanalitica.
Freud infatti faceva rientrare il DOC tra le varie nevrosi che possono
manifestarsi durante la fase di sviluppo. Per quanto, nel suo libro “L'uomo dei
topi” ammise che il metodo psicoanalitico aveva delle difficoltà a gestire
questa patologia.

Non posso dire con certezza cosa accadeva nella mente di Amalia, ma
possiamo essere sicuri che bisogna prendere in esame gli elementi visti
sopra.
Mentre sviluppava un attaccamento morboso per il suo partner, accadde
una cosa molto particolare: trovò il blog di una ragazza che parlava di DOC
da relazione.
In un primo momento Amalia ne restò spiazzata: la ragazza descriveva
molte cose in cui si riconosceva, ma le sembrava quasi impossibile che
potesse esistere una patologia del genere.
Ma un “quasi impossibile” per chi soffre di dubbio patologico non è una
risposta, anzi, è uno spunto per altre domande, a cui Amalia cercò nuove
risposte, sino a quando non trovò in internet dei professionisti che ne
parlavano.
“Allora io ho questo” pensò e di colpo tutti i dubbi sparirono.
Non era lei a pensare quelle cose, aveva solo un DOC da relazione.
Fu come un improvviso cielo sereno che spezza la tempesta, come se un
mago invisibile avesse appena lanciato un incantesimo.
Purtroppo la magia durò solo qualche settimana.
4: PROBLEMA QUANTITATIVO, PLASTICITÀ NEURONALE,
SALTO QUALITATIVO

È evidente che il DOC è qualificato non tanto sulla tipologia di azioni che
la persona mette in atto, quanto sulla ripetizione ossessiva di quelle azioni.
È innegabile che lavarsi le mani per proteggersi da un’infezione – magari
dopo aver toccato qualcosa di sporco – sia un gesto sano e positivo, viceversa
lavarle per trenta minuti senza aver toccato nulla di particolare è patologico.
Bisogna comprendere che se questa azione viene ripetuta così tante volte è
perché c'è dietro un ragionamento che la sostiene, un'idea che dall'esterno può
apparire bizzarra ma che per i soggetti con DOC risulta più che logica:
quanto più si ripete un'azione più il risultato migliorerà.
Il problema è che la ripetizione eccessiva di un certo tipo di gesto per un
tempo abbastanza lungo porta la persona a modificare la struttura della sua
mente; così, senza neppure rendersene conto, se prima la persona si lavava le
mani per trenta minuti perché decideva di farlo, adesso mette in atto
quell'azione perché non è più in grado di farne a meno.
Per rendere chiaro questo punto è necessario fare un bel passo indietro.
Infatti per molti secoli la scienza ufficiale ha sostenuto che i circuiti
cerebrali fossero immutabili, cablati fin dalla nascita per produrre in ogni
persona esiti non modificabili dall'apprendimento. Tali convinzioni, però,
vennero spazzate via dalla scoperta della "neuroplasticità" quando il
neuroscienziato Eric Kandel vinse il Nobel per la medicina nel 2000 per aver
dimostrato che l'apprendimento può attivare geni in grado di modificare la
struttura neurale.
Kandel ricavò questa conclusione studiando il cervello di una lumaca di
mare, l’aplysia che, per attivare l’azione riflessa di protezione della sua
branchia, può contare su ventiquattro neuroni sensitivi e sei neuroni motori.
Con questo semplice organo nervoso, l’aplysia, adeguatamente istruita, è in
grado di imparare che quando riceve uno stimolo su una certa parte del corpo
deve proteggere la branchia, ritraendola.
Sfruttando la semplicità del suo organo nervoso, i neuroscienziati sono
riusciti a capire che lo stimolo ripetuto può attivare uno specifico gene che
porta alla crescita di nuove connessioni tra il neurone sensoriale e quello
motorio. In breve, la base biochimica dell’apprendimento.
Lo stesso meccanismo vale per noi esseri umani: se ricordi qualcosa di ciò
che hai letto sino a questo punto è perché il tuo cervello adesso è leggermente
diverso rispetto a quando hai iniziato a leggere.
Questo meccanismo, così evidente nella lumaca di mare, si ripete
all’infinito anche nel cervello degli esseri umani fin dal primo momento in
cui arriviamo al mondo. L’utilizzo del cervello modifica costantemente la sua
stessa architettura, e questa è anche la base delle differenze esistenti tra le
persone.
In breve, il nostro cervello si modifica in base alle esperienze che fa e,
quanto più queste esperienze si ripetono, più rendono istantanei certe
reazioni.
Nel caso di un soggetto affetto da DOC ecco che l'azione di lavarsi le
mani, più viene eseguita in modo ripetuto e costante, più smette di essere un
atto volontario, sino a trasformarsi in un vero e proprio bisogno, una
necessità di cui è impossibile fare a meno, proprio come se si fosse costretti
da una forza esterna.
Allo stesso modo chiedersi sporadicamente se va tutto bene nella nostra
relazione è sano perché dimostra attenzione e interesse nei riguardi dell'altra
persona, ma chiederselo continuamente in maniera ossessiva porta a
sviluppare un dubbio patologico e un DOC da relazione.
A questo dobbiamo aggiungere un ultimo punto: a differenza del credere
comune, il tentativo di controllare i nostri timori attraverso i processi logici è
destinato al fallimento. Anzi, si tratta di un qualcosa che non potrà fare altro
che rivoltarsi contro di noi.
Infatti il tentativo di usare la ragione per gestire le sensazioni così come le
emozioni (che si attivano attraverso i canali percettivi) e le reazioni
psicofisiologiche (non mediate dalla corteccia cerebrale bensì dal
paleoencefalo), fa in modo che la paura, anziché ridursi, cresca fino al panico.
Questo fenomeno non è stato semplicemente descritto dai pazienti con
DOC, ma è stato anche dimostrato grazie alle misurazioni in laboratorio delle
attività cerebrali di persone sottoposte a impulsi terrorizzanti, dalle quali
emerge come le prime fisiologiche reazioni di paura siano mediate da
strutture sottocorticali e come la reazione di panico scaturisca solo dopo
l'attivazione della corteccia cerebrale.
Come cantava Battisti: “Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi...
emozioni”.
Infatti il tentativo di tenere sotto controllo i propri timori attraverso il porsi
sempre nuove domande, e analizzare qualsiasi elemento è esattamente ciò che
porta alla perdita di controllo.
Quindi, una persona che teme di non amare più il proprio partner,
comincia a porsi una serie di domande nella speranza di arrivare a delle
conclusioni rassicuranti. Ma ogni risposta apre la porta a nuove domande,
sino al momento in cui la persona si perde nel caos assurdo dei propri
pensieri.
A tale riguardo, la storia di Giulia risulta essere molto più chiarificatrice:
lei aveva già sofferto di DOC.
Nei momenti stressanti della sua vita si manifesta il disturbo ossessivo
compulsivo, affiancato da orribili attacchi di panico. E di certo Giulia non sta
vivendo un periodo sereno quando l’ossessione si sposta dalle azioni ai dubbi
nei confronti del proprio ragazzo con cui sta da nove anni.
Non la smette di interrogarsi, di analizzare la realtà, cercando ogni minimo
dettaglio che possa essere rivelatore… ma anche lei senza alcun risultato.
Così lo allontana ma questo peggiora solo la situazione, portandola in una
spirale di ansia: ansia perché la storia è finita, ansia per la perdita di quel
ragazzo con cui aveva passato una fetta così grande della propria vita.
Ne sente la mancanza, sta male, vorrebbe fare qualcosa per tornare da lui,
non vuole perderlo, ma di nuovo quando gli telefona continua a non sentire
niente, se non le domande che l’hanno portata ad allontanarsi.
Si sente in colpa: lui non merita questo.
E questa non è una peculiarità di Giulia, anche Amalia e Isabella vivono il
senso di colpa e il terrore della perdita.
Perché il punto è che tutte e tre vogliono stare coi rispettivi partner, l’idea
di buttarli fuori dalla propria vita le devasta… ma proprio non riescono a
recuperare la certezza nei sentimenti.
Se non quelle innescate dai dubbi.
5: UN PROBLEMA CHE COINVOLGE ANCHE FAMILIARI E
AMICI

Già da ciò che abbiamo visto sino a questo momento, possiamo renderci
conto che il DOC da relazione risulta essere davvero debilitante per la
persona che ne è affetta. Ma se, invece di concentrarci sui dettagli
dell'individuo, utilizziamo una prospettiva più comprensiva, ci rendiamo
conto che ha effetti anche sui familiari di chi ha il disturbo, che ricevono
costantemente richieste di rassicurazione.
La persona che soffre di DOC da relazione non riesce a fare a meno di
interpellare amici e familiari, ponendo loro i propri dubbi, le proprie
incertezze, nella spasmodica ricerca di una risposta che possa mettere la
parola fine alle tribolazioni, giungendo con una chiarezza che fa svanire ogni
ombra.
Risposta che puntualmente non arriva e, se arriva, apre la porta a nuove
domande.
In alcuni casi può accadere persino che il partner venga coinvolto
all'interno di queste discussioni.
Gli studi scientifici sono stati in grado di misurare il livello di
compromissione che il DOC può causare sui familiari del paziente. Infatti
Stengler-Wenzke e colleghi hanno dimostrato che, comparata a quella della
popolazione generale, i familiari di pazienti affetti da questo disturbo
riferiscono una qualità di vita nettamente peggiore.
Attraverso un’indagine condotta con l’utilizzo del Medical Outcomes
Study 36-Item Short-Form Health Survey (SF-36) è stato evidenziato che i
familiari di pazienti affetti da DOC mostrano una compromessa qualità di
vita specificatamente a:
● salute fisica
● vitalità
● funzionamento sociale
Questo li porta a limitarsi a causa dell'insorgenza di problemi legati alla
sfera emotiva.
Inoltre, se si analizzano i fattori che sembrano essere indici di una più
scarsa qualità della vita, è interessante notare che per quanto riguarda il
punteggio relativo alla componente mentale ciò che risulta maggiormente
predittivo è la gravità del disturbo (punteggio totale alla YB-OCS).
Tra i disturbi mentali, infatti, il DOC è caratteristico proprio per la
consistenza e complessità con la quale tende a coinvolgere i familiari.
I familiari di pazienti ossessivo-compulsivi sopportano il carico di vivere e
prendersi cura di una persona che chiede costantemente rassicurazioni e
conforto.
La rilevanza di tale coinvolgimento (definito indiretto) è ampiamente
documentata in letteratura. Cooper e colleghi hanno riscontrato che l’82% dei
familiari riferisce limitazioni nella propria vita personale e sociale, e la stessa
percentuale riferisce che il carico sostenuto è gravoso.
Un esempio di dinamica che coinvolge i familiari di persone col DOC da
relazione può riguardare il tradimento.
Il paziente, per mettere alla prova i suoi dubbi, potrebbe decidere di tradire
il proprio partner, domandandosi se, proprio perché è stato in grado di
tradirlo, vuol dire che non lo ama. Quindi, per diradare questa spirale di
confusione, coinvolge amici e familiari, raccontando l'accaduto di nuovo alla
ricerca di rassicurazioni.
Se questa dinamica non sembra particolarmente fastidiosa messa su carta,
diventa un vero e proprio stillicidio quando viene vissuta nella realtà della
vita quotidiana.
Di nuovo, divertiamoci a cambiare prospettiva.
Immaginiamo che sei la madre di Marco, che ogni domenica sera riceve il
figlio e la compagna a pranzo. Ti piace la sua compagna e le sei molto
affezionata, spesso parlate, lei a volte ti racconta i suoi problemi e tu, giorno
dopo giorno, ti leghi sempre di più a lei.
Un giorno però tuo figlio ti racconta che l’ha tradita e ti chiede se questo
vuol dire che non la ama più.
Ora immagina la domenica successiva: la fidanzata di Marco si comporta
ignara di ogni cosa, ma tu sai tutto. È difficile gestire il rapporto, ti senti
costantemente in tensione, come se una parola sbagliata o anche solo una
parola di troppo possano far scoprire il tutto.
Ma andiamo avanti nel tempo, quando magari la fidanzata di Marco ti
chiede perché tuo figlio sia così strano e tu non sai cosa rispondere, la
rassicuri sapendo di mentire, e sperando che non lo venga mai a sapere.
E invece lo scopre ed ha una voce bassa ma ferma quando ti chiama al
telefono dicendo: “Pensavo che mi potessi fidare di te”.
Ma non è necessario osservare queste dinamiche così estreme, ci basta
anche solo osservare Isabella per notare quello che accade.
Quando non è stata più in grado di gestire i dubbi, ne ha iniziato a parlare
con sua madre. Periodicamente le confidava le sue incertezze, ma da quel
confronto non riusciva a trovare nessuna soluzione.
E intanto la madre era lì, presente per lei, frustrata dal fatto che ogni sua
singola parola non serviva a niente, ma era solo un modo per accentuare
quella sofferenza che la figlia non riusciva a strapparsi dal cuore.
Così i confronti si trasformarono in vere e proprie domande, buttate nella
discussione quasi per caso, ma in modo molto diretto: “Mamma, per te cosa
dovrei fare?”
“Se hai tutti questi dubbi allora forse è vero che non lo ami”.
Cos’altro avrebbe potuto rispondere la madre?
Ovviamente questa sentenza - anche abbastanza netta e precisa - non è
servita assolutamente a nulla. Così Isabella ha cominciato a parlarne col
proprio partner.
Fermiamoci di nuovo per immaginare cosa voglia dire: sei un uomo e vivi
la tua relazione in modo sereno, costruendo giorno dopo giorno un futuro che
sembra rendere felice la coppia. Poi però succede qualcosa. Non riesci a
capire bene cosa, ma ti rendi conto che la tua compagna ha un problema. Non
te lo dice in modo chiaro, ma lo capisci: ormai sai riconoscere a colpo
d’occhio quando è stressata e nervosa. E il fatto che non ti dia risposte chiare
a riguardo, inizia a farti pensare che forse si tratta di un qualcosa molto
diverso dal solito.
Poi un giorno viene da te e ti racconta tutto: che è da tempo che sta
pensando che l’amore è finito, che nota più i tuoi pregi che i tuoi difetti, che
guardandosi attorno non riesce a fare a meno di domandarsi come sarebbe se,
invece di stare con te, stesse col tuo collega di ufficio.
Quando osserviamo la storia da questa prospettiva, ecco che la richiesta di
rassicurazione si trasforma in un vero e proprio colpo al cuore.
Molti uomini al suo posto forse sarebbero scappati, oppure avrebbero
concluso la relazione perché effettivamente tutti quei dubbi erano troppi!
Ma per fortuna il compagno di Isabella le restò comunque accanto. Anche
se escludo il fatto che per lui sia stato facile, anzi.
Ecco, dinamiche di questo tipo, sono all’ordine del giorno tanto per i
familiari quanto per gli amici delle persone con DOC da relazione, il che
chiarisce perché risultino compromessi anche loro in modo così profondo.
6: FORMAZIONE DEL DISTURBO

È arrivato il momento di rispondere ad una domanda che forse hai


cominciato a porti dai primi paragrafi di questo libro: come si forma un
disturbo ossessivo compulsivo?
Come abbiamo visto il primo responsabile è il continuo ripetere un'azione
specifica.
Il cervello infatti è sempre in grado di imparare cose nuove, non importa
se queste siano sane o dannose.
Ad esempio una persona, quando riceve una notifica sullo smartphone,
potrebbe vivere una lieve tensione, che deriva dal fatto di non sapere di cosa
si tratti, e che allevia controllando il dispositivo. Nel ripetere costantemente
quell'azione, giorno dopo giorno, mese dopo mese, può accadere che la
persona provi lo stato di tensione anche quando non c'è alcuna notifica e che,
di nuovo, l’unico modo per porvi rimedio sia controllare lo smartphone. Il
che è quello che può succedere quando abbiamo una dipendenza da
smartphone.
Allo stesso modo, se abituiamo il nostro cervello a mettere in dubbio tutte
le sensazioni che proviamo per verificare se siano reali o meno, questi allora
imparerà a farlo automaticamente.
Si tratta dello stesso processo messo in atto quando abbiamo imparato a
scrivere: inizialmente abbiamo avuto bisogno di un lungo processo di
apprendimento, adesso basta prendere una penna in mano e ci ritroviamo a
scrivere delle parole senza nemmeno accorgerci della complessità dei
movimenti.
La seconda responsabile del DOC da relazione è l’idea di poter trovare
una risposta definitiva a tutti i nostri dubbi solo con il ragionamento. Nel caso
non fosse sufficiente, sottolineiamolo un'altra volta: è proprio questa l’idea
sbagliata che sostiene l’intero disturbo.
Sulla base di questa idea infatti vengono messe in atto tutta una serie di
azioni che, a poco a poco, vanno a definire e a strutturare il disturbo
ossessivo-compulsivo.
Azioni che, ad esempio, possono iniziare col tentativo di trovare una
risposta esaustiva a una domanda che per sua natura non ce l'ha. Per poi
passare a cercare questa risposta non più solo nella propria mente, ma anche
al di fuori.
Questa ricerca può avvenire in due modi: attraverso una costante richiesta
di rassicurazioni, oppure mettendosi alla prova.
Un paziente, quando chiede rassicurazioni, tendenzialmente non fa che
chiedere ad amici, familiari (o semplici conoscenti) di esprimere un giudizio
sul fatto che sia o meno innamorato del partner.
Ovviamente non si tratta sempre di richieste dirette, bensì velate, magari
buttate lì con una certa nonchalance, giusto per stimolare una discussione
sull’argomento; ma che vengono usate per spingere gli altri ad esprimere una
propria opinione sulla relazione.
Allo stesso modo chi soffre di DOC da relazione si potrebbe confidare con
un’amica riguardo i difetti del fidanzato, aspettandosi da lei un commento che
possa sciogliere i dubbi, come ad esempio “Secondo me non fa proprio per
te!”. O ancora: “Da come ne parli è chiaro che non lo ami”.
Generalmente in prima battuta le persone tendono a rassicurare,
minimizzando i difetti che il paziente è in grado di individuare con precisione
chirurgica, e risolvendo la questione facendo notare che sono tutte
sciocchezze di poco conto.
Ovviamente questo non basta e non sortisce mai l'effetto rassicurante che
si sperava.
Di conseguenza le domande aumentano, perché ogni risposta viene accolta
da un'obiezione, finché l'altra persona non potrà che sentirsi stanca, stremata
e annoiata da quello sproloquio, così finirà col chiudere la faccenda con una
frase del tipo: “Chi ama davvero lo sa, non ha bisogno di farsi domande”.
Ma la rassicurazione può anche essere cercata online. Isabella, ad
esempio, passava giornate intere cercando su internet qualcosa che potesse
placare i suoi dubbi.
Iniziando con ricerche molto semplici come: “Non so se amo il mio
ragazzo”.
Sino ad arrivare a cercare cose come questa: “Io non amo il mio ragazzo
ma forse penso di amarlo”.
Ma la sua storia non si ferma qui.
Perché dopo un po’ la reazione della madre non fu più quella accogliente,
di chi ascolta e dopo da una sua opinione (magari stizzita), e cominciò a
trasformarsi in un vero atto di accusa.
“Non stai facendo niente per stare bene” le diceva.
E cominciò a fare eco anche il padre: “Se volessi stare bene ti
impegneresti a stare bene”.
Il che non aiutava affatto Isabella: non è stata lei a scegliere quei dubbi,
non è stata lei a decidere di soffrire e il fatto che i suoi genitori non se ne
rendessero conto ma che, anzi, la accusassero, non faceva altro che
peggiorare le cose.
Si sente in colpa, tanto nei confronti dei suoi genitori (è evidente che
soffrano vedendola così) ma anche nei confronti del suo fidanzato.
Anche la modalità della messa alla prova può assumere varie sfumature,
ma sono tutte azioni che – dal punto di vista della persona – dovrebbero
essere in grado di testare la relazione. Queste possono riguardare il semplice
sentirsi con uno sconosciuto – che però viene vissuto come un vero e proprio
tradimento, con tanto di vergogna e senso di colpa – sino al consumare un
rapporto sessuale con un'altra persona, per capire se si è capaci di farlo.
Sia Isabella che Giulia si mettono alla prova con i profili social. Osservano
le foto di vari uomini e controllano quanto ne sono attratte - più o meno
rispetto ai rispettivi compagni? - analizzano il modo in cui il corpo reagisce,
il battito del cuore, il respiro o la semplice percezione della pelle. A volte si
chiedono se con uno di quegli sconosciuti potrebbero tornare a provare quello
che sentivano un tempo… e poi di nuovo continuano a scorrere, nell’illusione
che prima o poi arrivi un profilo che possa dare un segno certo.
Ma c’è una cosa che Giulia fa, a differenza di Isabella: passa ore e ore a
fissare le foto scattate insieme al suo fidanzato.
Ma non lo fa mica per abbandonarsi alla nostalgia e ai ricordi, affatto, il
vero motivo è un altro: quelle foto sono un test per lei. Osservandole
dovrebbe riuscire a evocare i suoi sentimenti e, di nuovo, poterli analizzare.
C’è una bella differenza tra osservare una vecchia foto per il piacere di
abbandonarsi ad un bel momento vissuto in passato, e il guardare una foto per
poter fare introspezione e, analizzare ogni singola pulsione, ogni singolo
pensiero, ogni singola emozione, al solo scopo di sezionarli alla ricerca di
quella risposta che comunque non esiste.
È la stessa differenza tra rivivere mentalmente un momento del passato,
abbandonandosi completamente ad esso, e l’analizzare un ricordo: nel primo
caso ti godi l’esperienza, nel secondo caso ti è impossibile, perché tutta la tua
attenzione è focalizzata sul giudicarlo.
Nel primo caso si tratta di un’azione sana, nel secondo si sta rientrando di
nuovo nel meccanismo della rassicurazione che, come una ragnatela, tira
sempre più giù nel vortice del DOC.
7: I FALSI RICORDI NEL DOC: SEI SICURO DI RICORDARE
QUELLO CHE HAI FATTO?

Un altro modo in cui il DOC da relazione si manifesta in tutta la sua


brutalità è attraverso i falsi ricordi.
Ti faccio subito un esempio pratico.
Oggi mentre prendi l'ascensore per arrivare al piano del tuo ufficio,
incontri una persona, resti con lei sino ad arrivare al tuo piano e poi esci dalla
cabina.
Se ti chiedessi come fai a sapere di non aver fatto sesso con quella
persona, tu probabilmente mi risponderesti una cosa del genere: “Lo so
perché me lo ricordo molto bene”.
Per chi soffre di DOC da relazione le cose vanno in modo molto diverso.
Il continuo dubitare sui sentimenti per il proprio partner porta a cercare
nella memoria degli episodi in cui sarebbe stato possibile tradirlo.
Attenzione: non sto parlando solo di momenti in cui effettivamente c'era la
possibilità e la voglia di tradire, magari perché si era con qualcuno con cui
c'era una certa attrazione, con cui si stava flirtando, ecc. Mi riferisco a
situazioni come quella dell'ascensore: effettivamente in quel luogo e in quel
tempo sarebbe possibile, anche se decisamente improbabile, consumare un
tradimento con uno sconosciuto, ma mancano tutti gli altri fattori per poterlo
fare.
Quindi, anche il solo passare del tempo a tu per tu con qualcuno può far
porre domande di questo tipo: “E se ci sono andata a letto e ora non lo
ricordo più?”
Questo fa sì che ogni singola interazione venga considerata a rischio, a
prescindere dall'aspetto della persona e delle sue doti caratteriali: il dubbio
patologico crea un meccanismo che fa pensare di essere irresistibilmente
attratti da quello sconosciuto incrociato una sola volta per strada... tanto da
non escludere la possibilità di essersi appartati dentro un portone per
consumare il tradimento.
Proviamo a ragionarci insieme: come possiamo fare ad avere una risposta
certa per una domanda del genere?
Per la maggior parte delle persone è ovvio: se non me lo ricordo è perché
non è successo.
Chi soffre di DOC da relazione può iniziare a farsi questa domanda: “Se
fosse successo e me ne fossi dimenticato, come farei a sapere se sia successo
o meno?”
Messa in questa forma la domanda ovviamente non ha più una risposta.
L’unica cosa su cui potevamo fare affidamento - la nostra memoria - è stata
essa stessa messa in dubbio.
Di conseguenza l'alternativa per arrivare ad una risposta è chiedere un
parere ad altre persone, che dovranno provare a rispondere a domande del
tipo: “Questa mattina al lavoro ho parcheggiato l’auto alle 8:51, ho timbrato
il cartellino alle 9:00, ho incontrato quel collega che non mi piace, ma che è
sempre molto carino con me, secondo te è possibile che abbia perso il
controllo e lo abbia baciato, oppure abbia potuto fare di peggio, anche se non
me ne ricordo?”
Chiunque non conosca questo problema troverà la domanda
completamente assurda, ma seguendo una logica stringente questa domanda
assurda non lo è per niente. Il problema è quindi proprio il non riuscire a fare
a meno di seguire una logica razionale fino a che non si arriva a fare pensieri
irrazionali.
Chi può dire che cosa ha fatto un’altra persona mentre eravamo assenti?
In effetti noi possiamo ritenere molto improbabile quello che la persona ci
racconta, ma saremmo pronti a mettere la mano sul fuoco per garantire che
non sia successo nulla?
8: IL PROBLEMA DELL’ERRATA DIAGNOSI

Torniamo da Giulia, perché nella sua storia c’è un elemento importante su


cui dobbiamo focalizzarci.
Quando si è presentato il DOC da relazione lei seguiva uno psicologo già
da cinque anni, che l’aveva aiutata a gestire alcune delle problematiche che
aveva dovuto affrontare. Avevano già svolto un lavoro eccellente, ma quando
è giunto il momento di affrontare il dubbio patologico le cose sono colate a
picco.
Durante i loro incontri lo psicologo la guidava a prendere in
considerazione gli eventi del suo passato, una strategia che sino a quel
momento aveva funzionato, ma che in questa occasione si dimostrava inutile,
anzi, tendeva a far peggiorare le cose.
“Analizzare il passato in questo caso è solo un modo per gettare del sale su
una ferita” mi ha raccontato Giulia. “Perché è solo un modo per stare male e
sentirsi peggio”.
A questo si aggiunse la sentenza dello psicologo: “Siete troppo diversi,
dovreste lasciarvi!”
Bisogna ribadire un concetto importante: dire ad una persona che soffre di
dubbio patologico che la propria relazione deve essere conclusa, è come
materializzare di fronte ai suoi occhi un mostro enorme e terrificante. Non
esiste una paura peggiore, e sentirsi dire che quella non è solo una paura ma
la realtà dei fatti, fa sprofondare la persona in un dolore ancora più grande.
Il problema è che riconoscere il dubbio patologico non è facile.
Se venisse nello studio di un terapeuta una persona dicendo “Io ho paura
che potrei confessare di aver commesso un omicidio, anche se non ho mai
ucciso nessuno” molto probabilmente lo psicologo comprenderebbe già dopo
pochi minuti di conversazione con quale patologia sta avendo a che fare.
Ma quando questo meccanismo non è così lampante ecco che riconoscerlo
diventa molto più complesso.
Quando il contenuto del dubbio sembra un normale problema, di quelli
che si affrontano comunemente negli studi degli psicologi, allora riuscire a
discriminare tra le due cose è praticamente impossibile se non si conosce
come funziona il dubbio ossessivo.
In queste circostanze da parte del terapeuta è fondamentale esercitare il
così detto dubbio diagnostico: ovvero mettere costantemente in dubbio la
propria diagnosi per verificare se sia corretta o meno e non affezionarsi alla
prima ‘etichetta’ che appiccichiamo al paziente, avendo il coraggio di
ammettere di aver sbagliato.
Quindi, possiamo immaginare il dubbio patologico come una di quelle
bocce di vetro con dentro una città e la neve finta: il paziente fisserà il suo
sguardo sul Colosseo in miniatura che vi è all’interno e perderà di vista la
sfera esterna, trasparente, ma fondamentale per comprendere il problema. Se
anche il terapeuta si lascerà trascinare tra tigri e gladiatori non riuscirà ad
aiutare il paziente a uscire fuori da questa boccia che lo imprigiona.
Inoltre dobbiamo stare anche attenti alle condizioni in cui il sintomo
principale sono gli attacchi di panico.
Quando chi soffre di DOC non riesce più a gestire le proprie compulsioni
(nel nostro caso quando la persona non riesce più a gestire i propri dubbi) è
molto facile che comincino gli attacchi di panico. Il percepire di non avere
controllo sui propri pensieri innesca un’ansia che cresce sempre di più sino
ad esplodere in veri e propri attacchi di panico, che possono presentarsi
periodicamente.
Di conseguenza non è raro che il professionista con cui ci si relaziona
possa non individuare subito il problema, è molto facile farsi distrarre
dall’elemento che balza immediatamente agli occhi; in fondo il DOC da
relazione è una patologia che è stata riconosciuta solo di recente.
Nel caso del DOC da relazione se viene trattato come un disturbo da
panico questo può addirittura peggiorare (ed è proprio grazie al mio lavoro
sul disturbo da attacchi di panico che sono riuscito a notare quanto grande
fosse l’incidenza del dubbio patologico).
Molto probabilmente anche lo psicologo di Giulia si è lasciato confondere,
concentrandosi sull’ansia della ragazza, sulle continue crisi di pianto e sugli
attacchi di panico.
Una situazione simile l’ha vissuta anche Isabella: tra i sensi di colpa per il
suo ragazzo, le accuse che le gettavano addosso i genitori, lacrime e ansia
erano all’ordine del giorno. A volte era in grado di passare interi pomeriggi
stesa a fissare il soffitto, in attesa dell’arrivo della notte e del sonno che,
almeno per qualche ora, l’avrebbe messa nella condizione di non sentire più
niente.
In certe giornate l’unico suo desiderio era di spegnersi, annullarsi,
dimenticare per qualche ora, meglio se per qualche giorno, tutto ciò che
ribolliva in lei.
Questi elementi sono così forti che è più che normale che un professionista
possa lasciarsi confondere.
Dopo la prima sessione, la sua psicologa chiese di poter svolgere il
colloquio successivo anche con la madre, per poter discutere con lei di
elementi del passato, di cui forse Isabella poteva non avere dei ricordi ben
precisi.
Nel terzo incontro, invece, a far compagnia ad Isabella c’era il suo
compagno, perché forse il problema era da ricercarsi nella coppia.
Il quarto incontro non avvenne neppure: di certo Isabella non sapeva quale
strada doveva percorrere per stare meglio, ma era sicura che non poteva
essere risolta da una terapia di coppia.
Per Giulia fu la stessa cosa: l’insistere del suo psicologo sul passato, la
portò molto velocemente a percepirsi come se stesse ulteriormente
affondando nelle sabbie mobili in cui trovava.
Proprio per questo, malgrado i risultati a cui era giunta negli anni grazie a
quel percorso, decise di interromperlo in fretta.
Adesso vorrei portare l’attenzione sul modo in cui è davvero facile - anche
per un professionista preparato - non rendersi conto di quale sia il vero
problema da affrontare.
Non è scontato ribadirlo, ma si tratta di una patologia riconosciuta solo nel
2014, che non ha ancora attratto a sé una vera e propria bibliografia di
riferimento.
Si racconta che i nativi americani, che costantemente osservavano le coste,
si accorsero dell’arrivo delle navi spagnole, solo quando l’equipaggio arrivò a
riva.
La loro mente non sapeva cosa fossero le navi e per questo non era in
grado di riconoscerle. Quindi, quando osservavano l’orizzonte, erano
completamente invisibili agli occhi degli indiani d'America, che
probabilmente le scambiarono per dei riflessi dell’acqua, oppure per
normalissime ombre create dalla foschia.
Malgrado questo, è interessante notare come sia Isabella quanto Giulia,
determinate a risolvere i propri problemi grazie all’aiuto di un professionista,
abbiano bruscamente interrotto i loro percorsi. In entrambi i casi le donne li
hanno riconosciuti disfunzionali.
In che modo se ne sono rese conto?
Nel modo più semplice possibile: si sono accorte che alla fine di quelle
sedute le cose non miglioravano affatto. La metafora che ha usato Giulia
rende perfettamente l’idea: quegli incontri non guarivano le ferite, ci
buttavano del sale sopra.
9: GLI ERRORI CHE SI COMMETTONO

Un elemento che non può che sorprendere all'interno di questa dinamica è


il modo in cui chi soffre di DOC da relazione continua a mettere in atto delle
azioni che, a conti fatti, amplificano solo il proprio dolore.
Se affrontiamo la cosa con distacco e senza neppure un briciolo di empatia
è facile: amico caro, hai paura e fai delle cose che non placano la tua paura,
anzi, la alimentano... perché non inizi ad essere furbo e smetti di farle?
Semplice, logico, lineare.
In fondo che ci vuole!
Forse ti sorprenderai, ma questa modalità non appartiene solo a chi soffre
di DOC, ma probabilmente la sperimentiamo tutti almeno qualche volta nella
vita.
Infatti sulla base degli studi condotti presso il Mental Research Institute di
Palo Alto e della ricerca trentennale in ambito clinico condotta da Paul
Watzlawick e Giorgio Nardone, è stato identificato il costrutto di tentata
soluzione.
Quando dobbiamo affrontare un problema, nella stragrande maggioranza
dei casi adoperiamo una strategia che è risultata efficace in passato per una o
più situazioni simili. Il che va benissimo se anche in questa occasione si
rivela vincente, ma diventa un bel problema quando risulta inefficace.
Infatti di fronte alla sua inefficacia, la persona, invece di spostarsi su altre
strategie, continua a perseverare, di volta in volta con un vigore maggiore.
Questo è il meccanismo della tentata soluzione e, come è facile intuire,
diventa parte integrante del problema perché, invece di risolverlo, lo
mantiene in vita, anzi, lo alimenta costantemente.
Risulta facilmente intuibile come questo meccanismo sia elevato a potenza
nei pazienti con il DOC e dia sempre maggiore energia al dubbio patologico,
creando l'illusione che prima o poi, continuando a fare le stesse azioni di
sempre, il risultato possa cambiare.
È importante chiarire un punto: le tentate soluzioni non sono solo quelle
che la persona mette in atto, ma anche quelle messe in atto da familiari e
amici, che perseverano nel dare aiuto in quegli stessi modi che non hanno
prodotto nessun risultato.
Facciamo degli esempi.

Chi soffre di DOC da relazione tenderà a fare dei lunghi ragionamenti,


cercando di venire a capo dei propri dubbi. Quando non riesce a risolvere il
dubbio ciò che farà sarà applicare ancora di più quello che non ha funzionato,
tenderà cioè a ragionare ulteriormente su quella cosa, peggiorando così la
situazione. Allo stesso modo, amici e parenti, quando saranno chiamati in
causa per rassicurare la persona con DOC da relazione, faranno del loro
meglio per spiegare razionalmente alla persona perché le cose sono in un
modo o in un altro. Anche quando si rendono conto che queste rassicurazioni
non sono sufficienti a tranquillizzare la persona, convinti che quella sia la
strada giusta, aumenteranno ulteriormente il livello di rassicurazioni, peccato
che sia proprio questo che alimenta il disturbo.

Quindi possiamo dire che cercare una soluzione sia parte del problema, ma
in realtà mancherebbe una sfumatura importante: è incaponirsi sulla
soluzione errata parte del problema.
E le soluzioni errate sono attraenti perché appaiono razionali, si parano di
fronte a noi come le strade più sagge da percorrere.
Purtroppo è solo un inganno.
Isabella non si era mai posta grandi domande sulla sua relazione, vivendo
il rapporto con la solita armonia che ogni tanto viene interrotta da qualche
screzio che non lascia tracce.
Eppure durante l'estate, le cose iniziarono a cambiare.
C'era sempre una vocina che si intrufolava nella sua mente alla fine di
questi litigi insignificanti.
Una vocina che faceva domande, metteva in discussione. Prima sottovoce,
poi in modo sempre più fragoroso.
E se quella vocina era lì, nella sua testa – una parte integrante dei suoi
pensieri – voleva dire solo una cosa: diceva il vero.
“Lo penso dunque è vero” è uno degli assunti più pericolosi della
psicologia popolare.
Per fare chiarezza iniziò a parlarne con la madre, che non poté fare altro
che darle il proprio punto di vista: se pensava quelle cose, evidentemente
aveva ragione, non lo amava più.
E sarebbe stata la risposta che chiunque altro le avrebbe potuto dare,
chiunque altro inconsapevole di ciò che stava accadendo nella sua mente,
incapace di rendersi conto di quel guazzabuglio interiore che stava vivendo e
che non può essere affrontato con la razionalità con cui gestiamo i soliti
dubbi della nostra vita.
Perchè è impossibile gestire qualcosa che non è razionale con la logica,
per lo stesso motivo che portava la nostra maestra a ripeterci che non si
possono dividere dieci mele per due fragole.
Giulia, invece, scorreva le fotografie sui social, cercando in ogni profilo
un segnale di attrazione, un movimento minimamente passionale (o
semplicemente ormonale) che dimostrasse la fine del suo amore. O, in
alternativa, una totale indifferenza, a prova che i sentimenti per il suo
compagno erano ancora vivi e solidi.
“Lo sento dunque è vero” è l’altro pericolosissimo inganno in cui
cadiamo.
Poi passava alle ricerche su internet, tra siti di specialisti, forum e
discussioni con persone che stavano vivendo la sua stessa crisi.
Lo stesso era per Amalia, alimentando giorno dopo giorno la frustrazione
derivante dal fatto che non importava quello che faceva, le cose continuavano
a peggiorare.
Di conseguenza è di vitale importanza comprendere quali sono gli errori
che si commettono in queste occasioni, proprio perché appaiono come le
soluzioni più logiche a cui tendere.
Il primo è la socializzazione, che si basa sull'idea comune che i problemi si
possano risolvere parlandone con altri, al grido di “bisogna buttare fuori ciò
che porti dentro!” Il che nella maggior parte dei casi può anche essere vero,
ma nel regno delle ossessioni le regole sono diverse: qui parlare del problema
è un modo per alimentarlo.
Non si fa altro che nutrire il mostro, rendendolo di volta in volta sempre
più grande, come una scimmia che, pasto dopo pasto, si trasforma
progressivamente in King Kong.
E il motivo è molto semplice: le persone con cui si parla non sono in grado
di riconoscere il problema e comunque non sarebbero capaci di gestirlo nel
modo opportuno (a meno che non siano dei professionisti formati sulla
patologia), quindi non possono fare altro che innescare quel meccanismo che
fa deflagrare ogni commento, ogni risposta, ogni opinione in tanti ulteriori
dubbi.
Quindi cosa dovrebbe fare una persona che soffre di dubbio patologico?
Può sembrare controintuitivo ma deve evitare di parlarne.
Se si alimenta il mostro, non ci può meravigliare che stia crescendo.
E il mostro quando non mangia può agitarsi, ruggire, oppure piangere
come un bimbo che vuole solo smettere di soffrire... in ogni caso, questo non
cambia il fatto che ogni boccone che gli offriamo lo aiuta a mantenersi in
vita, forte e sano.
Paradossalmente smettere di parlare dei propri dubbi può anche essere
molto confortante: quando raccontiamo un nostro problema a qualcuno, il
primo desiderio che abbiamo è che il nostro interlocutore ci comprenda.
Quando questo non accade, non è una sensazione piacevole, anzi. Amalia,
Isabella e Giulia non ricevevano mai il conforto che cercavano, perché quei
dubbi che possono sorgere in ogni relazione in loro scatenavano un dolore
inimmaginabile per tutti gli altri. Per questo quando un soggetto con il DOC
parla dei suoi problemi non riesce neppure a godere del sollievo della
comprensione, perché chi ha di fronte non può rendersi conto di ciò che sta
vivendo (in fondo neppure chi ne soffre se ne sta rendendo conto).
Smettendo di parlarne non si affama solo il mostro ma ci si sottrae
dall’esperienza urticante del cercare il conforto di qualcuno che non è in
grado di offrircelo.
Il secondo errore è la richiesta di rassicurazioni.
Anche in questo caso si tratta di una reazione logica: quando siamo assaliti
dai dubbi chiedere delle rassicurazioni avviene in modo spontaneo. Ma nel
regno delle ossessioni non ci si può fidare neppure delle rassicurazioni.
Quindi chi soffre di dubbio patologico potrà esserne davvero confortato per
un paio di minuti o per qualche ora, ma dopo un po' i dubbi continueranno a
grattare alla porta per poi entrare con tutta la loro irruenza.
La richiesta di rassicurazioni non viene fatta solo ad amici e parenti, nei
casi in cui la persona dovesse iniziare una psicoterapia, chiederà
rassicurazioni al proprio terapeuta. E nel caso questi non dovesse
comprendere che la persona che ha di fronte soffre di DOC da relazione,
involontariamente continuerà a perpetuare il meccanismo patologico.
Essendo il DOC da relazione un disturbo non facile da riconoscere, non è
insolito che un terapeuta non comprenda subito ciò è chiamato ad affrontare.
Un po' come è accaduto a Giulia che, in entrambe le terapie precedenti, ha
sviscerato tutto ciò che poteva essere analizzato nel suo rapporto, per poi
tornare ciclicamente a rivedere l’intero suo passato.
Purtroppo se il terapeuta non individua che chi ha di fronte soffre di DOC
da relazione, anche la terapia si trasforma in un altro strumento per
peggiorare ulteriormente il problema.
Un'altra soluzione a dir poco pessima sono i tentativi di risposta.
Anche in questo caso torniamo ad un concetto che abbiamo già preso
ampiamente in considerazione: nel dubbio patologico ci poniamo domande
per cui non esistono risposte, all'interno di un meccanismo dove ogni
elemento viene messo in discussione.
Ad esempio: nel momento in cui mi chiedo se amo o meno la mia partner,
è abbastanza semplice trovare una risposta; ma nel momento in cui continuo
domandandomi “Come faccio a sapere se la risposta che mi sto dando è
quella vera?” ecco che si entra in un loop a spirale dal quale è impossibile
trovare anche solo una via d'uscita.
Un altro esempio può essere quello di una donna che inizia a rimuginare in
questo modo: “Sono sicura di amare il mio ragazzo? Sì, certo che lo amo, è
tutta la mia vita. … ma se lo amo, allora perchè mi chiedo se lo amo?
L’amore non è mica una cosa razionale… ed io non dovrei farmi domande di
questo tipo. Allora è vero che non lo amo, e in questo momento mi sto solo
convincendo di amarlo perchè non riesco a stare senza di lui… forse perché
senza di lui non avrei niente. Quindi sto con lui solo per convenienza e non
perchè lo amo. O forse sto solo con lui perchè non voglio nessun altro nella
mia vita… quindi, sono sicura di amarlo oppure no?”
Questo esempio, per quanto possa sembrarti contorto, è una trascrizione
abbastanza fedele di quello che mi ha detto una mia paziente. Come puoi
vedere il loop si chiude così come è iniziato, il che è una cosa più frequente
di quanto si possa immaginare.
Inoltre più si tenta di trovare delle risposte a domande del genere più si va
a rinforzare nella propria mente l'importanza della domanda stessa. Un po’
come quando si inizia a giocare alle slot machine, e ogni moneta che
inseriamo all’interno aumenta il bisogno di continuare a giocare.
È questo il motivo per cui da una domanda si passa ad un’altra, poi ad
un’altra, poi ad un’altra e così via fino, a volte, a tornare addirittura indietro,
per riprendere così nuovamente lo stesso circolo vizioso.
Un'altra soluzione che potrebbe tentare chi soffre di DOC da relazione è
l'evitamento.
L'evitamento è una risposta razionale alla paura: quando temiamo
qualcosa, invece di andarle incontro, tendiamo ad andare in direzione
opposta. Quindi se una persona ha paura di tradire il proprio partner potrebbe
rinchiudersi in clausura come una suora per evitare tutte le occasioni di
peccato.
E se evitare una festa tra amici o una serata in un locale può non essere
così grave, ecco che la situazione inizia a degenerare quando ogni evento
viene percepito come un'occasione per tradire. Quindi, non è raro che si
finisca col lasciare gli studi, il lavoro e le amicizie per il terrore di tradire il
proprio compagno o la propria compagna.
Anche questa soluzione non fa altro che alimentare il problema, perché
ogni volta che si evita qualcosa che spaventa la si rende nella propria mente
sempre più terrificante.
In una commedia italiana di trent’anni fa, un uomo solo in strada si
accorge che qualcuno lo sta seguendo, così accelera il passo. Ma dopo
qualche secondo nota che anche la persona alle sue spalle sta accelerando il
passo; così inizia a correre. Dopo un po' si volta e si rende conto che c'è un
uomo dietro di lui che sta correndo. Mentre i due corrono, incontrano qualche
altro passante in strada che, vedendoli scappare, teme che siano inseguiti da
qualcuno di pericoloso e inizia a correre a sua volta. E così, dopo poco, le
persone che stanno fuggendo sono decine e decine.
Per farla breve: il primo uomo non era inseguito da nessuno, quello dietro
di lui era solo un passante, che vedendolo scappare spaventato ha fatto lo
stesso temendo per sé.
Anche se questa scena può sembrare buffa (e mi rendo conto che è molto
difficile renderla per iscritto), si avvicina molto alla descrizione del
meccanismo dell'evitamento: un timore giustificato – forse mi sta inseguendo
un malintenzionato – si trasforma in panico collettivo. Esattamente come
sopra: più evitiamo qualcosa più le diamo il potere di spaventarci.
Anche le ricerche su internet sono molto dannose: spulciare forum, siti
specializzati e blog di professionisti non è altro che l'ennesimo tentativo di
rassicurazione. Una rassicurazione che si fonde perfettamente alla
socializzazione nel momento in cui si trovano dei luoghi online dove è
possibile confrontarsi con gli altri utenti: è un po’ come incontrarsi in una
piazza popolata da sconosciuti con dubbi simili ai propri per alimentare tutti
insieme il proprio King Kong.
Infine c'è il mettersi alla prova, che si può manifestare, come nel caso di
Giulia, scorrendo i profili social alla ricerca di un brivido di attrazione. Ma ci
si mette alla prova anche quando ci si ossessiona a voler ascoltare il proprio
corpo: ad esempio mentre si sta col proprio partner. Così chi soffre di dubbio
patologico, ad esempio, potrebbe vivere un momento intimo come un test,
impegnandosi ad estrapolare tutte le sensazioni che prova, per poter decidere
se sono conformi o meno a ciò che si dovrebbe provare in momenti del
genere.
Il problema è che o viviamo l'esperienza oppure la analizziamo: quando ci
concentriamo sul nostro corpo, cercando di capire cosa stiamo provando, non
possiamo percepire altro che il nostro stato di tensione, tipico di un
ricercatore determinato a scovare ciò che vuole trovare a tutti i costi.
Insomma, vogliamo sentire le farfalle nello stomaco ma al massimo ci
sembra di osservarle immobili dentro una teca: meravigliose, ma morte.
Succede lo stesso quando proviamo ad analizzare la felicità. È molto
probabile che nei momenti in cui ti senti felice in realtà non c'è niente di
particolarmente diverso da altri momenti, proprio per questo se volessi
cercare i rapporti di causa ed effetto di quella gioia, potresti renderti conto
che non ci sono e, di conseguenza, non avresti nessun motivo per sentirsi così
bene.
Il bisogno di controllare le nostre sensazioni per analizzarle è ciò che ci
mette nella condizione di non sentire nulla.
Questi errori non sono tipici solo di chi soffre da DOC da relazione ma di
tutti i DOC. Il DOC da relazione infatti è una sotto specifica del disturbo da
dubbio patologico, che a sua volta è una forma particolare di disturbo
ossessivo-compulsivo. Questo implica che spesso oltre al DOC da relazione
sono presenti anche altri dubbi, o altre dinamiche ossessivo-compulsive, così
come pensieri intrusivi e rituali.
10: MANOVRE TERAPEUTICHE

Abbiamo visto che la logica ordinaria serve a poco contro un DOC, e


questo vale tanto nel ragionare quotidiano quanto nella psicoterapia.
Razionalizzare, parlare, confrontarsi, ricercare le ragioni nel passato,
magari sino ad arrivare ai primi anni di vita, per quanto possa esserci utile a
comprendere l'origine del problema, è una strada che porta il più lontano
possibile dalla sua soluzione.
Non solo per tutti i motivi visti sino a questo momento, ma perché trovare
la soluzione giusta ad un problema non necessariamente passa per l'analisi.
Ti faccio subito un esempio forse molto banale: se avessi di fronte a te una
porta chiusa e in mano un mazzo con cento chiavi, ti interesserebbe molto
poco la storia del fabbro che ha costruito la serratura, così come non credo
che analizzeresti il tipo di metallo di cui è composta ogni singola chiave.
Molto probabilmente cominceresti a dividere le chiavi tra quelle che hanno
una dimensione compatibile con la serratura e quelle che invece sono troppo
piccole o troppo grandi, poi daresti uno sguardo se sono o meno presenti
eventuali marchi identici tra chiavi e serratura e a quel punto cominceresti a
provare le chiavi che hai individuato come compatibili con la risoluzione del
problema.
Questo è l'approccio della psicoterapia breve strategica e si fonda su un
metodo che permette di sviluppare modelli d’intervento basati su obiettivi
prestabiliti e sulle caratteristiche specifiche del problema in questione,
anziché su teorie rigide e precostituite.
Con questo approccio si evitano le prospettive deterministiche, quindi si
mettono da parte tutte le questioni relative al principio di causa ed effetto,
limitandosi ad osservare i fenomeni così come si manifestano.
In fondo se è lì il problema è lì che, per forza di cose, dobbiamo agire per
cambiare la situazione.
Già Schopenhauer sottolineava l’influenza esercitata dalla teoria e dai
modelli nel rapporto degli individui con le realtà che avevano di fronte,
dimostrando come il solo avere una teoria di riferimento costringe ad
osservare gli elementi del problema in relazione a quanto possono essere
conformi o meno ad essa.
Dal regno della filosofia questa consapevolezza è entrata anche nella
moderna fisica quantistica, con Heisenberg e il principio di indeterminazione,
secondo cui l'osservatore influenza la realtà. Condizione già riconosciuta da
tempo dagli psicoterapeuti che devono sempre stare attenti alle proiezioni, al
transfert e al controtransfert.
Proprio per questo la psicoterapia breve strategica ritiene più funzionale
avere un approccio epistemologico costruttivista. Lo so, sembra un parolone,
ma in realtà altro non vuol dire che, invece di interpretare la realtà – o il
problema della persona in terapia – secondo i modelli prestabiliti, si
preferisce utilizzare il punto di vista della persona che ci chiede aiuto, poiché
un problema esiste solo in quanto percepito come tale, evitando così il rischio
di imporre un punto di vista e un insieme di valori esterno alla persona.
Questo significa che, nel caso in cui nessuna delle cento chiavi dovesse
aprire la porta, sarebbe inutile provarle di nuovo. Forse potrebbe essere più
utile riprovare girandole nel verso opposto... oppure, guardarsi intorno nella
stanza, per poi scoprire che c'era un'ultima chiave riposta su una scrivania a
cui non si era fatto caso.
Insomma, è sempre la soluzione che si deve adattare al problema e non
viceversa.
“Quando i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti”
come diceva Hegel.
Nelle prossime pagine, sempre con l'aiuto di Amalia, Giulia e Isabella,
vedremo in che modo è possibile gestire il dubbio patologico e mettere fine al
DOC da relazione.
Le loro storie forse sono la storia di centinaia di persone e se te le sto
raccontando è perché vorrei farti rendere conto che – se anche tu vivi il loro
stesso dolore – non sei solo. Non sei strano. Non sei sbagliato. Non c'è niente
di rotto in te.
Mettiamola così: hai a che fare con un gran bel problema, ma è un
problema che si può superare.
Amalia, Giulia ed Isabella credevano di impazzire, vagavano in un tunnel
stretto da cui non si intravedeva neppure un filo di luce. E forse allora, se
qualcuno avesse detto ad ognuna di loro che le cose sarebbero cambiate, che
tutto si sarebbe risolto, che la luce c'era, bisognava solo percorrere il tunnel in
un'altra direzione... forse sarebbero scoppiate a ridere o peggio, si sarebbero
sentite offese, perché chi aveva il coraggio di dire una cosa del genere non
poteva essere se non qualcuno che non aveva la più pallida idea di quello che
stavano vivendo.
La loro storia potrebbe risuonare con la tua, toccando alcune delle tue
stesse corde, per questo vorrei che riuscissi a seguire il loro suono, cercando
di costruire la loro stessa melodia, per comporre quella canzone di libertà di
cui forse hai dimenticato le parole.
Quindi, prima di tornare da loro, rivediamo bene quali sono le tentate
soluzioni disfunzionali:
● Socializzazione
● Tentativo di risposta
● Evitamento
● Richiesta di rassicurazione
È importante tenerle presenti perché l’approccio della psicoterapia breve
strategica al DOC da relazione potrebbe sintetizzarsi così: interrompere le
tentate soluzione.
In fondo, come abbiamo ampiamente dimostrato, il problema potrebbe
essere paragonato ad un piccolo petardo che esplode: di per sé può irritare ma
non è un vero problema. Ma se quello stesso petardo lo accendiamo sopra un
enorme barile di polvere da sparo (le soluzioni errate) ecco che avremo una
vera e propria deflagrazione.
Quindi partiamo dalla manovra terapeutica che si applica alla
socializzazione.
Abbiamo visto che socializzare consiste nel parlare del problema, mossi
dalla convinzione sbagliata che questo potrà farci stare meglio. Di
conseguenza la prescrizione terapeutica che agisce su questa tentata soluzione
prende il nome di “congiura del silenzio”. Quindi tanto il paziente quanto la
famiglia, insieme al partner, devono eliminare qualsiasi comunicazione che
abbia come oggetto il problema.
Secondo la psicologia popolare quando abbiamo dei problemi è
importante parlarne come se il solo parlare di un problema fosse un modo per
risolverlo, il cosiddetto "buttare fuori".
Ma quando si tratta di ossessioni il fatto stesso di parlarne provoca un
effetto catastrofico: è come se usassimo un fertilizzante speciale su una
pianta, che inizia a farla crescere a dismisura.
Questo accade per una serie di ragioni.
La prima è legata al fatto che quanta più attenzione diamo ad un problema,
tanto più questo diventa importante per noi.
La seconda ragione è legata al fatto che le persone con cui parliamo di
questi problemi non possono avere le competenze per gestirli adeguatamente.
Nella pratica quello che accade parlando del DOC da relazione è che chi ci
ascolta, non essendo in grado di comprendere il nostro disagio, lo metta
magari in relazione con delle esperienze che ha vissuto in prima persona, o di
cui ha sentito parlare da amici. Quindi farà dei commenti, o ci darà delle
risposte, ma queste avranno come effetto solo quello di farci sentire
profondamente incompresi.
Questo meccanismo però non accade una volta e basta, ma si reitera
giorno dopo giorno, e non fa altro che rendere il DOC da relazione sempre
più ingestibile.
Ma è necessario fare molta attenzione, perché la socializzazione del
problema può avvenire non solo parlandone a voce ma, soprattutto negli
ultimi anni, è frequente che se ne parli tramite gruppi Facebook, forum, e
commenti sui blog.
Queste iniziative, che nascono con le migliori intenzioni, rischiano di
diventare dei veri e propri amplificatori del disturbo: per quanto sia vero che
in un gruppo Facebook dedicato ci troviamo finalmente a parlare con persone
che hanno lo stesso nostro problema (o che pensano di averlo), è anche vero
che ci confrontiamo proprio con quelle persone che il problema non l’hanno
ancora risolto (se così fosse non avrebbero nessuna ragione per essere iscritte
a questi gruppi). Proprio per questo tutte le informazioni che ci daranno non
potranno che essere quelle che “loro ritengono corrette”. Ma immagino che
anche tu fino ad oggi abbia fatto quello che ritenevi essere corretto. Per
questo ora ti domando onestamente: chiederesti aiuto a te stesso per risolvere
un problema che non sei ancora riuscito a risolvere?
Ti faccio questa domanda perché voglio che ti rendi conto che seguendo
quelle indicazioni non farai altro che aggravare ulteriormente la situazione.
La congiura del silenzio lavora proprio su questo aspetto: da una parte
rende meno importante la percezione del problema, dall'altra evita il fatto di
farci sentire incompresi.
Infine evita anche di ricevere suggerimenti deleteri.
Ricordiamo che quando ci troviamo davanti ad un qualsiasi problema
dobbiamo intervenire contemporaneamente su due aspetti:
1. dobbiamo evitare che il problema peggiori, e
2. dobbiamo mettere in atto dei comportamenti che ci portino
fuori dalla situazione problematica.

Immaginiamo di tornare a casa e di trovare il pavimento allagato, è


sicuramente importante buttare fuori l'acqua, ma è altrettanto importante
scoprire da dove venga quell'acqua e bloccarne immediatamente l'uscita.
Altrimenti ci potremmo trovare nella situazione in cui passiamo ore ed ore ad
asciugare l'acqua dal pavimento, ma accanto a noi c'è un rubinetto aperto che
continua a perdere. È chiaro come in una situazione del genere qualsiasi
sforzo, anche se corretto, risulti assolutamente inutile.
Passiamo ora alla manovra terapeutica che si applica al tentativo di
risposta.
In questo caso la manovra si svolge in due fasi.
Nella prima fase, si aiuta la persona a sentire e poi a capire che ogni volta
che cerca di rispondere ad una delle sue domande apre la strada a delle nuove
domande, finendo così nel circolo vizioso del dubbio. Nella seconda fase la
persona viene istruita ad utilizzare la tecnica del blocco delle risposte.
Se soffri di DOC da relazione molto probabilmente - anche se magari
ancora non te ne rendi conto - la tua mente è continuamente attanagliata da
dubbi. Questi dubbi spesso prendono la forma di vere e proprie domande,
anche se non è necessario che abbiano una forma interrogativa. Nel caso delle
domande quello che succede è che ad ogni domanda che arriva, la tua mente
tenderà a dare una risposta.
Ma che cosa accade se quella domanda non ha una risposta esatta?
Accade che arriverà una nuova domanda, anche questa senza risposta.
Quindi finirai in un circolo vizioso di domande e risposte da cui è davvero
difficile uscire.
Questo tipo di domande sono anche chiamate “proposizioni indecidibili”,
o come si usa dire in terapia breve strategica “domande stupide”.
Ma che cosa accade se provi a dare una risposta intelligente ad una
domanda stupida?
Accade che inevitabilmente la domanda diventa essa stessa intelligente, o
meglio, apparentemente intelligente.
Ti faccio un esempio tanto banale quanto concreto.
“Preferisci mangiare il legno o il ferro?”
Questa domanda di certo non ha risposta (quantomeno perché è molto
improbabile che tu possa mangiare il legno e il ferro).
Ma cosa succede se cominci a rifletterci non soltanto per un secondo, ma
per ore intere, giorno dopo giorno, chiedendo anche consigli ad amici e
parenti per capire se effettivamente è più buono il legno o il ferro?
Semplicemente che la tua mente classifica quella domanda come
importante, quindi deve assolutamente trovare una risposta.
Per questo motivo il vero problema non risiede tanto nelle domande,
quanto nelle risposte che ci diamo. Ciò di cui dobbiamo avere davvero paura
non è il dubbio, che di per sé può essere anche sano, ma il nostro bisogno di
trovare una risposta definitiva a quel tipo di domanda.
È delle risposte che dobbiamo avere paura, non delle domande.
Per agire su questo meccanismo abbiamo due strade.
Come accennato, la prima consiste nel bloccare le risposte, perché se
riusciamo a bloccare le risposte, riusciremo ad inibire le domande.
In pratica è come se togliessimo benzina dal motore del DOC: per un po'
continuerà ad andare avanti con la benzina rimasta nel serbatoio, ma, ben
presto, se eviteremo di aggiungerne dell'altra, il motore si fermerà.
La seconda metodologia che possiamo applicare a questo tipo di tentata
soluzione è quella di trascrivere parola per parola il nostro dialogo mentale,
come se si trattasse di una sorta di dettato. Attenzione: non si tratta di
appuntarsi dei dubbi, ma di trascrivere parola per parola tutto quello che ci
passa per la testa, ogni volta che ci sentiamo sopraffatti dai dubbi.
Questo metodo può risultare piuttosto strano ed anche faticoso, ma, nel
caso in cui non riuscissimo ad applicare la prima metodologia, risulta essere
decisamente efficace.
Da un punto di vista tecnico quello che succede è che così facendo
sostituiamo un rituale con quello che in terapia breve strategica viene
chiamato “contro rituale”; cioè un rituale sostitutivo del rituale che vogliamo
eliminare.
Questo perché, nel momento in cui sostituisci un comportamento
compulsivo con un altro comportamento, ma di cui hai il pieno controllo,
prendi automaticamente anche il controllo del disturbo.
Ma qual è, invece, la manovra terapeutica da applicare alla richiesta di
rassicurazione?
Abbiamo osservato come ogni tentativo di rassicurare una persona con un
DOC da relazione non faccia altro che aumentare la sua ansia e la sua
preoccupazione. In questo caso le rassicurazioni vanno quindi interrotte di
concerto con il paziente e le persone care (familiari, amici, partner).
La persona dovrà ricordare di non chiedere rassicurazioni e gli altri, nel
caso in cui la persona non fosse in grado di rispettare questa prescrizione,
dovranno limitarsi a mandare indietro la domanda, senza mai rispondere e
senza mai entrare nel merito, ma semplicemente rispondendo: “Tu che ne
pensi?”.
Ricorda che le richieste di rassicurazione sono un modo per esternalizzare
i propri dubbi: quando richiedi delle rassicurazioni, infatti, non stai più
cercando di risolvere i dubbi con te stesso, ma coinvolgi delle altre persone in
questo processo. Nel caso di DOC da relazione ci troveremo, ad esempio, a
chiedere alle persone che sono intorno a noi delle opinioni sulla nostra
relazione, sull'amore in generale, fino anche ad arrivare a fare domande ad
altre persone sulla qualità delle nostre stesse emozioni.
Ormai però è inutile dire che se io non sono in grado di comprendere se
sono innamorato meno di una persona, di certo non lo comprenderà una
persona esterna, anzi quando proverà a rassicurarci ci farà solamente
innervosire ulteriormente.
Ma che cos'altro succede con la richiesta di rassicurazione?
Se delle persone esterne si prendono cura delle nostre domande stupide,
vuol dire che le stanno considerando domande intelligenti. Ciò farà in modo
che nella nostra mente queste domande diventino sempre più importanti, e
quindi ancora più insistenti.
Quindi come bisogna agire in queste circostanze?
Dato che la richiesta di rassicurazione non coinvolge solo chi ha il
problema, ma anche le persone che le sono vicine, è utile coinvolgere nella
terapia quantomeno le persone a cui si chiede più spesso consiglio. La
manovra terapeutica si muove attraverso due momenti diversi: il primo
consiste nel prescrivere alla persona di evitare qualsiasi richiesta di
rassicurazione, che sia questa esplicita o implicita. È molto frequente infatti
che le richieste di rassicurazione vengano fatte in maniera indiretta,
chiedendo delle opinioni generali alle persone… anche se in cuor nostro
sappiamo bene che stiamo affrontando un qualcosa di molto personale. È
importante dire che questo atteggiamento viene messo in atto molto spesso,
per non dire sempre, anche nella relazione con il terapeuta: infatti anche chi si
occupa della terapia dovrà essere estremamente attento a questa dinamica, per
evitare di rassicurare la persona, e quindi di contribuire al peggioramento
della situazione.
Te lo dico in modo diretto: se in questo momento qualcuno, ti sta
rassicurando, non sta facendo altro che danneggiarti ripetutamente.
Il secondo momento prevede il coinvolgimento delle persone vicine al
paziente: consiste nell’istruire queste persone a rispondere in un modo
completamente nuovo alle richieste di rassicurazione. Questa nuova modalità
serve ad evitare che la persona cada nel circolo vizioso di domande e
risposte.
Di solito viene usata una formula volta a mandare indietro la domanda, ad
esempio: "Tu che ne pensi?”.
Quindi tutte le persone coinvolte - siano amici, familiari, così come il
partner stesso - dovranno essere istruite e compatte nel rispettare questo tipo
di indicazione, pena il fallimento della terapia.
Ricordi la metafora del pavimento bagnato? Se anche solo uno dei
rubinetti di casa resta aperto non sarà possibile, per quanto ci sforziamo di
fare un buon lavoro, asciugare il pavimento.
In conclusione, vediamo la manovra terapeutica che si applica
all’evitamento.
Abbiamo già ampiamente mostrato come un DOC da relazione sia
debilitante, e come questo metta chi ne soffre nella condizione di evitare tutte
le situazioni che immagina come pericolose. Di conseguenza in alcuni casi
sarà necessario spingere la persona ad esporsi alle cose che più teme.
Ad esempio, se abbiamo una ragazza che cammina con lo sguardo basso
per paura di poter essere attratta da altri ragazzi, quello che dovremo fare sarà
mandarla a misurare deliberatamente l’attrazione che prova nei confronti
degli altri.
Si potrà procedere in maniera graduale: partendo magari da persone il più
possibile lontane dai suoi canoni estetici, ma a poco a poco dovremmo fare in
modo che la ragazza cominci a confrontarsi con la vista degli altri.
Solitamente questa manovra ha un effetto sorprendente: la ragazza si
renderà conto che tutto sommato le persone che la circondano non sono poi
così attraenti come temeva.
Anche in questo caso, è il cercare di evitare di provare attrazione per
qualcuno ci spinge a trovare attraente quella stessa persona.
Te lo ripeto: se ti sforzi di provare sgradevole qualcuno con molta
probabilità lo troverai attraente.
Per affrontare l’evitamento viene creato una sorta di rituale terapeutico
modellato sullo specifico rituale patologico per far collassare il problema su
sé stesso.

L’evitamento è un altro dei meccanismi tipici di un disturbo ossessivo-


compulsivo. In psicologia breve strategica l’approccio migliore per fare in
modo che una persona terrorizzata da qualcosa smetta di evitarla, bisogna
creare le giuste condizioni affinché sia in grado di affrontarla.
È implicito sottolineare che non serve a nulla accusare una persona se ha
così tanta paura da non riuscire a compiere una certa azione: come forse ti
sarai reso già conto, questo metodo non porta a nessunissimo risultato.
Ciò che è necessario, invece, è fare in modo che possa smettere di avere
paura, così che diventi semplice per lei compiere quell’azione. Infatti una
delle responsabilità del terapeuta è proprio quella di prescrivere dei
comportamenti che la persona possa mettere in atto.
Gli evitamenti possono essere molto diversi gli uni dagli altri e, per forza
di cose, è impossibile inserire all’interno di questo libro una manovra che
possa adattarsi ad ognuno di essi. La linea da seguire però è quella di
costruire delle situazioni artificiali che consentano alla persona di affrontare
le proprie paure, quasi senza rendersene conto.
Una volta che avremo affrontato in questo modo le nostre paure, una volta
che smetteremo di evitarle, ecco che l'ansia diminuirà, consentendoci
finalmente di affrontare quelle situazioni in maniera consapevole e
volontaria.
11: E ORA?

“Amore e dubbio non si sono mai rivolti la parola” ha scritto Kahlil


Gibran, che certamente è stato un poeta immenso, ma siamo onesti: di
psicologia ne sapeva davvero molto poco!
Purtroppo le mitologie dell’amore sono composte da queste certezze
romantiche ma pur sempre idealistiche… e ormai abbiamo compreso molto
bene che idealismo e realtà sono separate da un intero oceano; anzi, certe
volte sono completamente incompatibili, come l’olio di oliva e l’acqua.
Il DOC da relazione è una patologia che ci attacca e ci attanaglia,
scagliandoci in un baratro privo di certezze: siamo come delle bussole
impazzite, che cercano spasmodicamente il nord mentre la lancetta non la
smette di girare vorticosamente su sé stessa; ci rende bramosi di certezze,
mentre i dubbi sembrano essere più dell’aria, sino al punto in cui quasi manca
il fiato.
Allo stesso tempo il DOC da relazione potrebbe essere paragonato ad un
incendio furioso che brucia tutto ciò che c’è di buono nella vita di una
persona: comincia dalla relazione e dal rapporto amoroso, per poi divampare
e incenerire le altre relazioni, il lavoro, le occasioni di ritrovo, di divertimento
e di crescita.
La cosa peggiore è che spesso questo enorme dolore non viene compreso,
anzi, viene bollato come una qualsiasi “pippa mentale”, mentre chi ne soffre
viene additato come colpevole: colpevole di non godersi ciò che ha,
colpevole di essere incapace di vedere tutto ciò che di bello ha nella propria
vita.
Ma si tratta di una patologia, una sorta di virus che fa andare in tilt i nostri
sistemi, e che non solo ci rende vittime di un meccanismo di pensiero che non
siamo in grado di controllare.
Quindi torniamo ad uno dei punti più importanti: non è colpa tua.
Ma da questo momento è una tua responsabilità.
Ora sai bene qual è il meccanismo del dubbio patologico e hai tutte le
conoscenze necessarie per cominciare ad agire nella direzione che va verso il
tuo benessere.
Mi rendo conto che forse, dal punto in cui ti trovi adesso, una soluzione
sembra impossibile da trovare.
Per questo, dalla prossima pagina in poi, ti lascerò in compagnia di Giulia,
Amalia ed Isabella.
Sino a questo momento - seppur attraverso la scrittura - hai sentito la mia
versione, quella di uno psicoterapeuta che non ha mai sperimentato questo
dolore su di sé. Per questo ho deciso di lasciarti in compagnia delle tre donne
che ci hanno accompagnato in questo libro.
Voglio che ti confronti con loro perché più di me sanno ciò che stai
passando e forse sono le uniche che possono farti comprendere che la via
d’uscita esiste: puoi tornare davvero alla normalità e riappropriarti di te
stesso, della tua capacità di sentire, di sperimentare l’amore, così come tutti
quei meravigliosi sentimenti che lo affiancano. Hai la possibilità di
sbarazzarti di quelle voci che mettono tutto in dubbio e goderti i momenti con
la persona che ami.
.
12: LA STORIA DI GIULIA

Quella di seguito è la trascrizione dell’intervista che ho fatto a Giulia al


termine della terapia online svolta con me, i nomi e i riferimenti a luoghi o
situazioni che avrebbero potuto rendere identificabile le persone coinvolte
sono stati modificati, tutto il resto è la fedele trascrizione delle parole di
Giulia.
Terapeuta: Inizi a raccontarmi ciò che hai vissuto da quando ha iniziato a
capire che ci fosse qualcosa che non andava sino a quando hai cominciato a
chiarirti le idee.

Giulia: ad oggi posso dire che quando si sono manifestati i primi segnali di
DOC da relazione non mi rendevo conto di ciò che stava accadendo e non
sapevo cos'era. Anche la persona che mi aiutava a gestire quella situazione
era convinta che si trattasse di tutt'altro. Quindi ad un certo punto mi sono
convinta di averla superata, anche se non era così, visto che avevo lavorato su
aspetti completamente differenti. Quindi si è ripresentato quest'anno e andata
di nuovo in mille paranoie. Ho iniziato ad avere paura per il fatto che dal
giorno prima al giorno dopo non provavo più quello che avevo sempre sentito
per il mio ragazzo. Ho messo in discussione i sentimenti, i progetti e ogni
cosa che mi dava. Non sapevo se poteva darmi quello che volevo, né se io
potevo dargli quello che volevo dargli. Così l'ho allontanato, ho attraversato
un periodo bruttissimo, poi ho letto tanti articoli, ho parlato anche con delle
persone di famiglia che vi hanno conosciuto, e attraverso loro ho letto anche
il vostro materiale, e piano piano mi sono fatta da sola un'idea di quello che
poteva essere, anche attraverso le parole di altri psicologi che ho sentito.
Anche se mai nessuno ha mai capito quale fosse il vero problema. A parte
quella breve esperienza di due settimane con quella persona della quale se
solo sento il nome mi viene la pelle d'oca. Quindi ho finalmente individuato il
problema e ci abbiamo lavorato tanto.
T: quando ha sentito parlare del DOC da relazione per la prima volta?

G: ne ho sentito parlare precedentemente per altri problemi che ho avuto,


ma non pensavo che ne esistesse una variante legata alla relazione. Di questa
ho sentito parlare per la prima volta solo pochi mesi fa.

T: qual è la cosa che ti spaventava di più rispetto a questo problema?

G: quello che pensavo era: "questo problema ha messo in dubbio tutto, ha


messo in dubbio una relazione di nove anni" ma al tempo stesso, per il solo
fatto di avergli dato un nome, avevo la speranza di poterlo risolvere.

T: quindi è stato il fatto stesso di avergli dato un nome che le ha fatto


pensare di poterlo risolvere?

G: si esatto, di poterlo bloccare quantomeno

T: quali erano le sensazioni che avvertiva nei momenti critici?

G: prima di tutto tantissima ansia, una voragine allo stomaco. Avevo la


sensazione che tutte le cose che prima mi risultavano facili, come anche solo
portargli un bicchiere d'acqua, mi creassero problemi. In tutte quelle cose
quotidiane di una relazione avevo la sensazione che tutto, ma proprio tutto,
fosse da mettere in discussione. Tutto quello che faceva il mio ragazzo mi
creava dubbi, mi faceva sentire sbagliata... anche perché poi vivi i sensi di
colpa verso la persona che hai di fronte e si alimentano sempre di più ad ogni
tuo pensiero.... e tutto questo ti logora tantissimo.

T: parli del senso di colpa portato dal fatto stesso di dubitare?

G: si, mi faceva sentire come se lo stessi prendendo in giro,


involontariamente.

T: quindi tutto questo era generato dalla paura che tu potessi cambiare ciò
che provavi nei suoi confronti?

G: si, perché fino a due giorni prima, per me era una cosa che mi
scoppiava in petto, era un sentimento molto chiaro.

T: ricordi se è successo qualcosa nello specifico che può aver fatto scattare
questo tuo interrogarti sui tuoi sentimenti?

G: no, non è successo niente di specifico. Venivo da un periodo molto


stressante, pieno di cose. Ho sempre pensato che questo mio DOC, così come
anche i precedenti, si scatenava quando ero più sotto stress, quando non
riesco a gestire tutte le cose che ho attorno.
Con lui non c'è stato nessun evento particolare, è come se fosse iniziato
tutto dal nulla.
Appena ti succede provi ad analizzare qualunque cosa: forse è stato
questo, fosse è stato quello, anche una semplice litigata che non c'entra nulla
in quel momento che può sembrare che sia collegata al problema. Ma in
realtà quando ci lavori e ci rifletti sai che non è nemmeno quello. Ma in quel
momento ti appigli a qualsiasi cosa, è un continuo domandarsi e darsi una
risposta, che non è mai sufficiente... poi te ne fai un'altra altra, poi te ne fai
un'altra altra, poi te ne fai un'altra altra, ma non è mai abbastanza e cadi in un
loop.

T: dopo questo percorso ti sei accorta che avevi delle idee riguardo alla
relazione e l'amore che poi si sono rivelate errate?

G: sicuramente ho capito che per quanto può essere bello l'amore, in nove
anni di relazione
possono succedere degli eventi anche esterni alla coppia che possono
mettere in difficoltà la relazione stessa, anche senza toccare i sentimenti. E
questa era una cosa che prima non riuscivo a concepire. Così, anche se a
causa di questo problema ci siamo allontanati per un periodo, grazie al
sentimento che abbiamo sempre nutrito l'uno verso l’altro, tutto è andato
bene.
Quindi anche se il DOC mi ha fatto venire dei dubbi sia sul sentimento che
sulla relazione, andando avanti nel percorso di psicoterapia sono riuscita a
capire che non intaccava il sentimento.

T: in che modo è provato a risolvere questo problema quando ha iniziato


ad avere i primi dubbi?

G: la prima cosa stupida che fai è cercare domande e risposte sui siti
Internet, sentire delle persone che hanno vissuto la tua stessa cosa, ma
ovviamente leggendola sul sito non sai mai quanto sia, quindi la leggevi
cercando di rassicurarti, però non appena l'avevo letta mi dicevo "chissà se è
la stessa cosa che sto vivendo io".
Poi anche solo il fatto di provare a chiamarlo e a vederlo, e sentire l'ansia
per queste cose, per me era la prova che davvero non lo volessi più. Quando
poi ci siamo allontanati definitivamente, mi è caduto il mondo addosso, ed è
stata la prova del contrario, cioè che mi mancava tantissimo, che volevo
tornare da lui, perché avevo dei problemi con me stessa, che prescindevano
dalla nostra relazione.
T: facevi anche qualche altro tipo di verifica?

G: si, nella cartella preferiti dell'iPhone ho delle foto di noi due insieme,
che riguardavo per cercare di capire se i miei sentimenti per lui fossero
ancora forti. A volte riuscivo a rivivere le sensazioni che avevo provato in
quel momento, e questo mi dava un po' di forza, mi aiutava a capire che tutto
quello che stava succedendo era un problema che potevo risolvere.

T: secondo te qual è la cosa più importante da tenere presente per chi


soffre di questo problema? Se tu potessi parlare alla vecchia te, che cosa le
diresti?

G: la prima cosa che le direi è che ha bisogno di parlarne, ma non con una
persona qualunque, ma con qualcuno di competente. Dopo essere stata da
diversi psicologi ho anche capito che non tutti sono in grado di affrontare
quello che stai vivendo, quindi bisogna parlarne con chi può veramente
aiutarti. Quello che mi ha davvero aiutato è stato parlarne con una persona
che sa individuare il problema e che ti dà le indicazioni per risolverlo, non
una persona che ti dice "hai questo problema" ma poi concentra l'attenzione
su altre cose, che poi è quello che è successo a me.
Ad esempio la mia precedente psicologa non credeva che io potessi avere
una problematica del genere, le diceva che non vedeva la nostra relazione
come una relazione adatta a me, nel senso che vedeva il mio ragazzo non
adatto a me. Secondo lei eravamo persone diverse e questo non va bene.
Cercava sempre di trovare le risposte di oggi nel mio passato, sempre. Infatti
è stato proprio questo il motivo per il quale io ho un certo punto l'ho mollata,
non perché non mi abbia aiutato nel passato, ma a un certo punto ho visto un
blocco, io e lei continuavamo parlare sempre delle stesse cose del mio
passato, delle cose di 10 anni prima, delle cose che mi hanno fatto soffrire.
Continuava poi a mettere in discussione la mia relazione, dicendo "non fa per
te", quindi in questo modo era come se mi riportasse sempre indietro, a tutto
quello che avevo vissuto. Quindi metteva sempre sale sulle mie ferite, e poi
continuare a tirare sempre in ballo il fatto che la mia relazione non era giusta
per me. Le nostre sedute continuavano sempre in questo modo, era una specie
di limbo, non c'era mai uno scatto, non avevo mai una novità, qualcosa a cui
appigliarmi e dire "posso fare questo, o posso fare quello". Il suo consiglio
era "molla il tuo fidanzato" e questo andava in contrasto con i miei
sentimenti.
Questo per dire che non tutti riescono a capire realmente come funziona
questo problema.
Se hai dei dubbi e c'è una persona che ti ripete che quella relazione non fa
per te, non fa altro che alimentare ulteriormente i tuoi dubbi. Ad esempio,
dottor Iengo, ho trovato molto più facile seguire il suo approccio, quando
durante la nostra prima seduta, mi ha detto: “Magari non fa per te, però non è
adesso il momento in cui puoi rendertene conto, perché non sei lucida e devi
lavorare su altre cose ". Perché la verità è che in quel momento la relazione
col mio ragazzo era in secondo piano, e prendere una decisione era una cosa
da fare solo in un secondo momento.

T: quali sono gli errori da evitare quando si soffre di DOC da relazione?

G: innanzitutto è inutile dire "non pensarci" perché tanto farai quello tutto
il giorno. Più qualcuno ti dice di non pensarci, più ci penserai. Poi posso dire
che è dannoso cercare storie analoghe su Internet, anche se ora posso dirlo
con distacco, ma in quel momento era qualcosa di cui non riuscivo a fare
meno. Non giudicherei mai chi lo farà, perché è qualcosa che non si riesce a
controllare.
Un altro errore è quello di pensare che il problema che hai oggi dipenda
dal tuo passato, in alcuni casi potrebbe essere così, ma potrebbe anche non
essere così, quindi non è sempre necessario scavare negli errori e nelle brutte
avventure che hai avuto precedentemente. Semplicemente potrebbe essere un
problema che esiste oggi. Quindi uno degli errori è quello di cercare
necessariamente le risposte del passato, anche perché non serve per risolvere
le cose di oggi.

T: in che modo, se accadeva, le persone che ti vogliono bene peggioravano


la tua situazione?
G: facendo un po' quello che faceva anche la mia psicologa.
Rassicurandomi, dicendomi che poi mi sarebbe passato, che non era quello
che pensavo. Ovviamente per me era fondamentale che mi stessero vicino,
ma poi ti rendi conto che anche loro, non conoscendo il problema, tendevano
a ripresentartelo continuamente, dicendomi "Non è niente, non hai un
problema…"
Alla fine pensi di essere ancora più strana, visto che il problema e i
pensieri ce li hai.
Chi ne soffre, non può dire con tanta lucidità a chi gli è accanto di non
fargli domande di questo tipo, o di non dirgli che non ha un problema. Io in
realtà ci ho provato, ma già la mia risposta, mi faceva sentire doppiamente
sbagliata nei confronti della mia famiglia e delle persone che mi vogliono
bene.

T: il fatto di aver fatto delle sedute anche con la tua famiglia, pensi che ti
abbia aiutato?

G: sì, penso sia stato molto utile, anche se all'inizio, pur sapendo che viene
fatto per il tuo bene, è dura accettare che le persone a te care debbano
smettere di rassicurarti, perché magari hai bisogno di un abbraccio mentre
piangi, di una rassicurazione... e chi hai di fronte invece non ti risponde, non
ci dà più di tanto peso. Però poi questa cosa ti fa sentire meno sbagliata e
quindi ti senti meglio.

T: quando ha iniziato per la prima volta una psicoterapia?

G: quando andavo ancora al liceo.

T: avevi qualche paura, o qualche pregiudizio riguardo l'iniziare un


percorso di psicoterapia?

G: un po' di paura, perché successo nel periodo immediatamente


successivo ai problemi psicologici di mia madre, quindi temevo di
sprofondare anche io. All'inizio hai un po' di paura a doverti raccontare più
volte. Io ad esempio mi sono dovuta raccontare tre volte, con tre persone
diverse, e già la terza volta era come dire "Ancora? Devo ancora parlare di
me?”
Quindi è un po' stancante, però come tutte le cose devi dargli del tempo.
T: come ti sei trovata con la psicoterapia on-line?

G: avevo qualche pregiudizio, ho fatto il mio primo percorso di terapia on-


line con un'altra persona ed è andato molto male e ha confermato quello che
poteva essere il mio pregiudizio. Quindi quando si è trattato di affrontare
nuovamente un percorso on-line, l'ho fatto solo ed esclusivamente perché
c'era un'altra persona della mia famiglia che già aveva avuto un'esperienza
positiva, altrimenti penso che non lo avrei mai fatto. Quest'ultimo percorso
invece è andato molto bene, sono sempre riuscita a raccontare tutte le mie
cose.

T: ora che hai avuto modo di provare sia la terapia in studio sia quella on-
line hai delle preferenze?

G: per me ora è indifferente

T: qual è la cosa più difficile che ha dovuto fare durante la nostra terapia?

G: sicuramente non parlare del problema, non rispondere alle domande


che mi facevo da sola, a quelle che mi facevano gli altri... a non parlarne in
generale. Questa sicuramente è stata la cosa più difficile, tanto che l'ho
contattata più volte per sapere come rispondere a certe domande.
Ovviamente in alcune situazioni questo era difficile: quando il mio
ragazzo mi faceva una domanda e io dovevo non rispondere, questo poteva
anche fargli pensare che ci fosse qualcosa che non andasse. Per questo è stato
molto utile coinvolgere anche lui in una piccola parte della terapia, proprio
per spiegargli questo meccanismo. Ma il problema era il mio e dovevo
trovare io il modo di risolverlo senza cercare la risposta ai miei dubbi negli
altri.

T: quanto tempo ci è voluto per avere i primi risultati concreti?

G: credo circa due mesi e mezzo o tre mesi.

T: quindi cinque o sei sedute?

G: credo qualcuna in più

T: secondo lei quante volte ci siamo visti fino ad oggi?


G: credo una ventina di volte

T: ci crederebbe se le dicessi che ci siamo visti solo nove volte?

G: nove volte?

T: si

G: la mia percezione è completamente diversa, ci avrei messo la mano sul


fuoco che avessimo fatto almeno 15 sedute, ho avuto la percezione di aver
fatto molto di più.

T: quali sono i cambiamenti che hai ottenuto grazie alla psicoterapia?

G: innanzitutto ho acquisito la consapevolezza che nella vita non sempre


si può tenere tutto sotto controllo, che quindi qualche volta si può anche
cadere, ma l'importante è saper rialzarsi. Questo ti fa sentire più forte, questo
mi fa sentire in grado di poter affrontare nuovamente il problema qualora si
dovesse ripresentare. Il mio obiettivo era che la mia vita continuasse
tranquilla come avevo progettato.

T: c'è qualcosa che vorrebbe aggiungere?

G: vorrei dire che probabilmente quando ti accorgi di avere un DOC da


relazione, hai anche qualche altro tipo di DOC e quindi senza farti troppe
domande, senza troppe paure, come affronti quello da relazione puoi
affrontare anche altre problematiche.

T: sì, effettivamente è così, tanto che uno dei problemi principali che, se
per qualsiasi motivo il DOC smette di avere la relazione come tema, accade
che le persone smettano di cercare aiuto o interrompano una terapia pensando
di avere un problema completamente differente. In realtà tutte queste
tipologie di DOC basate sul farsi domande e darsi risposte rientrano nella più
ampia categoria chiamata "dubbio patologico". E il dubbio può cambiare
continuamente contenuto, per questo è importante riconoscere il meccanismo
del dubbio, perché se invece ci focalizziamo sul contenuto del dubbio,
cambiando continuamente, non riusciamo a stargli dietro.
13: LA STORIA DI AMALIA

Quella di seguito è la trascrizione dell’intervista che ho fatto ad Amalia al


termine della terapia online svolta con me, i nomi e i riferimenti a luoghi o
situazioni che avrebbero potuto rendere identificabile le persone coinvolte
sono stati modificati, tutto il resto è la fedele trascrizione delle parole di
Amalia.

Amalia: Tutto è iniziato quando abbiamo iniziato a cercare casa. Io e il


mio compagno eravamo in disaccordo su alcune cose, ad esempio io avrei
preferito affittare casa, mentre lui voleva comprarla. In quel periodo avevo un
lavoro stagionale e questo non mi consentiva di accendere un mutuo, mentre
lui spingeva affinché terminassi i miei studi di infermieristica, cosa che mi
avrebbe consentito di avere un buon lavoro nel giro di circa un anno.
Certo, avevo voglia anch'io di terminare gli studi, ma al contempo mi
sentivo in colpa perchè pensavo che se da un lato avrei aiutato gli altri,
dall’altro lo facevo perché mi serviva un lavoro per ottenere quello che
volevo, come costruirmi una famiglia, comprare casa, eccetera. E fare questo
lavoro per poter avere dei soldi mi faceva stare molto male.
Quindi è stato un momento molto stressante e ho iniziato ad avere i primi
dubbi... se era la persona giusta, se stessi facendo la cosa giusta eccetera.
Credo sia stato questo che ha un po' spinto fuori il disturbo.

Terapeuta: Quando è stata la prima volta che ha sentito il termine DOC da


relazione'?

A: Ho cercato su Google "paura di tradire il proprio fidanzato". All'inizio


mi sembrava fosse solo un disturbo da panico, tanto che ho seguito dei filmati
che credo forse abbiano addirittura peggiorato la situazione.
Avevo visto dei filmati di uno psicologo famoso su YouTube. Lui
continuava a dire che "se uno ha il panico prima della convivenza,
probabilmente quello non è ciò che davvero vuole". Questa affermazione,
questi video, hanno alimentato l'ansia.
In quel periodo ricordo che stavo malissimo, nemmeno i miei genitori mi
sostenevano, mi dicevano: "Devi prendere questa decisione e basta, non sei
più una bambina, se non sei sicura di stare con lui lascialo".
E anche questa cosa alimentava ancora di più il disturbo, però me ne rendo
conto solo adesso: in quel periodo avevo degli attacchi di panico
praticamente ogni mezz'ora e cercavo di far finta di niente.
Poi sono finita sul blog di una ragazza che raccontava di aver avuto questo
disturbo: all'inizio ero incredula, non pensavo che potesse esistere una cosa
del genere. Credo che ci siano molti tabù riguardo la psicologia e questi mi
davano la sensazione che se avessi raccontato la mia storia anche solo ai miei
genitori, le persone non mi avrebbero creduto.
Da lì mi sono tranquillizzata, mi sono detta: "Ok, soffri di questo
problema". E ho passato 5-6 mesi senza attacchi di panico. Ma poi è tornato.
Ho provato a contenerlo, ma senza successo. Ho provato a fare lunghe
passeggiate, ho provato a svagarmi, a dedicare del tempo a me stessa, a non
pensarci, ma era impossibile.
Avevo anche smesso di cercare su internet perchè c'era poco materiale.
Avevo visto che era un disturbo scoperto in America, studiato soprattutto
sulla popolazione più giovane, però ero molto incredula. Poi ho trovato un
altro psicologo che ne parlava e che consigliava la mindfulness. L'ho provata,
ma a dire la verità non ero costante.
Ricordo che un giorno, poco prima di entrare nella mia nuova casa, senza
ancora sapere che la scrittura fosse una delle modalità per affrontare questo
problema, la mia testa mi disse che avrei dovuto provare a scrivere. Era come
se la mia testa mi dicesse delle cose, ma in realtà ne provavo delle altre.
Sentivo che rischiavo seriamente di perdere il mio compagno per via di
questo problema.
Quindi prima di entrare nella casa nuova ho preso questo pezzo di carta e
ho scritto tutto quello che pensavo, per poi rileggerlo e vedere se era
veramente tutto quello che provavo, per tranquillizzarmi. Però, anche se ho
avuto una sorta di distacco, non mi ha tranquillizzato: ho letto delle cose che
non erano proprio belle.
Dopo di questo ho visto il suo blog, ho visto alcuni video, anche se sono
sempre stata molto scettica. Ricordo che guardavo questi video in macchina
perché non volevo farmi vedere dai miei familiari e dal mio compagno. Mi
dicevo che non potevo fare tutto da sola, ma che avevo bisogno di un aiuto,
ma anche la mia esperienza con gli psicologi è stata una brutta esperienza.
Ho fatto due percorsi, ma entrambi mi hanno portato da un'altra parte,
soprattutto l'ultimo. L’ho iniziato nei primi mesi della convivenza, andando
da questa persona che era una mia docente. Le ho detto tutto quello che
provavo e lei mi ha fatto questa domanda che mi ha proprio ammazzato: “Ma
è calato qualcosa nel suo sentimento verso il suo compagno?"
Io lì per lì sono rimasta in silenzio e poi gli ho detto "non lo so",
ovviamente questa risposta faceva pensare già al peggio, al che lei mi ha
detto che avremmo dovuto iniziare un percorso di coppia.
Io in quel periodo avevo parlato con il mio compagno, lo avevo messo al
corrente di tutta la mia situazione. Lui aveva notato che ogni volta che
andavo da lei stavo peggio e mi ha salvato. Mi ha detto: "Basta, non andiamo
da lei, perché ogni volta che vai da lei stai peggio. Questa cosa la risolviamo
Io e te, perché riguarda noi due. Io sto male a vederti così, voglio che la
risolviamo io e te. Se sei d'accordo vorrei che tu smettessi di andare da lei".
Nello stesso periodo abbiamo deciso di avere un figlio e in quel momento,
anche se eravamo nel bel mezzo di questa brutta situazione, avevamo deciso
tutti e due di lottare. Io facevo sempre riferimento a ciò che provavo prima
del disturbo, mi dicevo "Sono sempre stata innamorata di lui, e ho sempre
desiderato un figlio da lui, lo voglio anche adesso?"
Lo volevo e allora finalmente questo figlio è arrivato e ha migliorato la
situazione lì per lì. Io nella vita mi ero sempre detta: “Se avrai un figlio starai
meglio”. Quindi, è brutto da dire, ma è come se ogni volta pensassi a questa
cosa come motivo per avere un figlio.
Questa cosa era anche spinta dai miei genitori, che dicevano: "Un figlio
riunisce la coppia, migliora la situazione". Ma non è andata così. Sicuramente
mi ha aiutato a distogliermi, infatti quando ero incinta mi dicevo: "Hai un
figlio in grembo, non puoi stare così".
Quindi per me è stata dura. Ogni volta che avevo gli attacchi di panico, mi
dicevo "Non devi stare così perché sei incinta".
Ovviamente ne parlavo con i miei genitori, era inevitabile perché mi
vedevano molto giù.

T: Qual era la cosa che la spaventava di più rispetto al problema?

A: Il fatto che ci saremmo lasciati. Mi spaventava tanto l'idea di


incontrare un'altra persona e di innamorarmi di quella persona.

T: Nei momenti molto critici quindi c'erano dei veri e propri attacchi di
panico?

A: Mi sentivo prendere dal basso ventre. Mi arrivava come una sensazione


che inondava tutto il corpo, mi sentivo morire: è brutto da dire, ma in quel
momento pensavo fosse peggio della morte. Credo sia bruttissimo vivere con
questo disturbo

T: Si è accorta di avere delle convinzioni errate sull'amore e sulle


relazioni?

A: Il mio pensiero era continuamente influenzato da quello che chiedevo


agli altri. Chiedevo: "Ma tu come mi vedi con il mio compagno?" Loro mi
rispondevano che gli sembrava fosse tutto a posto.
Mia mamma e mio padre, non volendo, facevano dei discorsi che hanno
peggiorato la situazione. Capisco che anche loro fossero disperati. Mia
mamma, che ha sofferto anche lei gli attacchi di panico, mi diceva "Amalia,
lo so cosa si prova, sono stata nella stessa tua situazione, ne sono uscita da
sola, ce la farai, ne uscirai anche tu da sola".
Oppure mio padre mi diceva: “I dubbi ci sono sempre nella coppia, cosa
pensi che tra me e tua mamma sia sempre stato tutto rose e fiori? C'è sempre
un momento in cui ci si chiede se è la persona giusta oppure no, i dubbi sono
parte della vita, sempre”.
Oppure una cosa terribile che mi ha detto mia mamma è stata: "Pensi che
io non abbia mai avuto dubbi su tuo padre? Non sapevo più quello che
provavo, eppure nella coppia si va avanti lo stesso. Cosa fai, adesso scegli
un'altra persona?”
Questa cosa alimentava tutto, mi faceva rimanere male anche verso i miei
genitori, anche se credo che loro me lo dicessero solo per rassicurarmi e farmi
stare meglio. Ad esempio dicevano: "Lui è un bravo ragazzo, un ragazzo per
bene, sei sempre stata innamorata di lui, hai sempre detto ho paura di
perderlo, hai sempre detto sto troppo bene con lui, ho paura”. E quindi mi ero
quasi convinta che l'amore fosse una cosa fatta di cose brutte, che se tu non
provi nulla per una persona dopo tanti anni dovevi sopportare e stare lì.
Ero convinta di questo, quindi a volte quando avevo gli attacchi di panico
mi dicevo: "Amalia, ormai hai fatto la tua scelta, devi restare lì, non puoi
tornare indietro, se ti innamori di un altro farai finta di niente. Non fai niente.
Stai lì e basta".

T: Quali erano le domande specifiche che si poneva durante questo


periodo?

A: Se ero innamorata di lui, se dovessi tradirlo, se mi piacesse un'altra


persona, se poi la nostra storia dovesse finire.

T: E la costante di tutte queste domande era la paura?

A: Sì, non era la voglia di voler tradire, ma la paura di poterlo fare. Ormai
per me ogni cosa era diventata tradimento. Semplicemente guardare un
ragazzo per me era diventato una mancanza di rispetto verso il mio
compagno, anche se semplicemente lo guardavo passare. Quindi la mia testa
mi portava a farlo, perché ti spingi oltre per vedere quello che provi, per
vedere fin dove arrivi. Cercavo di chiudermi in casa, poi in alcuni momenti
mi dicevo: "Esci, vedi come ti comporti, come ti senti, e in base a quello
capirai".
E la risposta era sempre quella, cioè stavo male.

T: Quindi oltre a domande e risposte c'erano anche delle vere e proprie


verifiche basate sulle sensazioni fisiche?

A: Sì, di quello che sentivo dentro. Ho notato che più ero nei luoghi
affollati, più c'erano persone, più ero in situazioni nuove rispetto alla mia
routine, e più questa cosa mi portava al panico.
Ad esempio nei centri commerciali, oppure quando ero a passeggio con il
mio compagno, e mi chiedevo: "È lui che voglio qui in questo momento?"
Guardavo un ragazzo passare e mi immaginavo con lui per vedere che
cosa provavo.

T: C'è qualcosa che ha fatto a causa del problema di cui poi si è pentita?

A: C'è stato un momento, una sera, in cui ero appena andata a convivere,
c'era l'addio al nubilato di una mia cara amica. Quella sera mi veniva a
prendere mia cugina e il mio compagno restava da solo. Ricordo che io avrei
pianto ogni secondo, ero nella disperazione più totale. Quindi siamo andate in
questo locale, dove c'erano dei ragazzi. Quella sera è stato come se mi
avessero preso e mi avessero buttato nel fuoco dell'inferno: c'erano ragazzi
intorno a noi! In quel momento mi ricordo che ho detto: “Basta, mollo tutto,
non posso vivere così!"
Mi ricordo tutte le facce di tutti i ragazzi che c'erano. Quelli belli, quelli
brutti: Mi continuavo a domandare: “Se loro mi facessero delle avance, ti
piacerebbe?" E mi rispondevo sempre di sì.
Quella sera sono tornata alle 3 del mattino, il mio compagno era sveglio,
perché sapeva cosa stavo passando, e ricordo di avergli detto: “Basta,
lasciami! Facciamola finita".
E lui mi ha detto: "Ma è quello che vuoi?"
Ed io gli dissi "No, però lasciami tu".
Lui quella notte ha pianto tanto, è stata la cosa più brutta della mia vita.
Abbiamo dormito abbracciati, e abbiamo continuato la nostra vita.
Però penso che se lui fosse stato un altro a quest'ora non sarebbe stato più
con me. [piange]
Questa cosa è successa più volte, ricordo una volta di avergli detto: "Non
so più che cosa provo per te, ho troppi dubbi, mi faccio troppe domande".
Lui continuava a rispondere dando ragione a questa mia sensazione. Mi
diceva: "Se hai dei dubbi lo sai quello che senti, non vuoi stare più con me?"
E io gli dicevo: “No, non è così”.
E ricordo che anche in quel caso lui mi portò a mangiare fuori per
distogliermi da quella situazione, e per la seconda volta, ha continuato a stare
con me, mentre forse un'altra persona sarebbe andata via. [piange]

T: Con il senno di poi, qual è la cosa più importante da sapere per chi sta
soffrendo di questo problema?

A: Dopo aver iniziato la terapia, ho capito che è possibile provare delle


cose solo perché le hai costruite con i tuoi pensieri. Quindi dentro di noi,
sappiamo che è un serpente che si morde la coda, che è tutto un problema
mentale da sbrogliare, però quando arrivano questi pensieri e queste
sensazioni, sembrano molto più reali di ciò che proviamo in realtà.

T: Quali sono le cose che secondo lei andrebbero evitate?

A: Chiedere aiuto alla famiglia, o agli amici. È la prima cosa che si fa, ma
è la cosa che ti distrugge di più. Non parlarne con i familiari è una cosa molto
difficile per una persona come me, è molto difficile tenersi una cosa dentro,
ma credo mi abbia fatto maturare tanto, perché non sempre gli altri possono
risolvere i tuoi problemi.
Bisogna essere aiutati da un professionista, oltretutto se lo vai a dire in
giro le persone dicono che se hai dubbi sulla relazione vuol dire che non sei
più innamorato.
Un altro grande errore è quello di pensare di riuscire a risolvere questo
problema da soli. Purtroppo gli stessi ragionamenti che ti hanno incastrato in
questa situazione non possono portarti fuori. Adesso mi rendo conto di
quanto è cambiata la relazione tra me e il mio compagno, sembra una magia,
sembra che dico frottole ma non è così. Adesso riesco a sentire ciò che provo
per lui veramente, tutto va per il meglio, senza che alla fine tu faccia nulla,
semplicemente affidandoti ad una persona che ti aiuta a sbrogliare quel
grosso serpente attorcigliato che non sai da che parte prendere.
Ricordo che dentro di me dicevo (e l'ho detto anche ai miei genitori): "Io
ho un problema e ho bisogno che qualcuno lo sbrogli. Ho bisogno che
qualcuno mi sbrogli la testa"

T: È interessante che stia dicendo questo perché noi della relazione agli
inizi non abbiamo mai parlato.

A: Esatto.

T: Questo sottolinea ulteriormente come il meccanismo del dubbio sia


completamente estraneo a quella che è la relazione reale. Questo non vuol
dire che se hai un DOC da relazione, allora la tua relazione è necessariamente
perfetta. Ma vuol dire che il livello dell'ossessione e il livello della relazione
sono due livelli separati, che non si incontrano. Pertanto potresti avere un
DOC da relazione in una relazione perfetta, così come un DOC da relazione
in una relazione che invece effettivamente non fa per te.

A: Ho notato un abisso da come lei è intervenuto sulla mia situazione


rispetto agli altri psicologi, un abisso proprio. Anche nel modo in cui ha
gestito il percorso, l’obiettivo. Credo che nella vita chiunque può in piccola
parte supportare una persona in difficoltà, la prima cosa che si fa è ascoltarla
come, ad esempio, anche noi infermiere facciamo con un paziente. Già in
quel modo inizia una presa in cura. Le precedenti psicologhe hanno fatto
questo con me, con la differenza che, essendo in una posizione
gerarchicamente superiore, prendevo per veritiero quello che mi dicevano.
Le domande che mi facevano, per me rivestivano un'enorme importanza.
D'altro canto, quando sei in terapia tendi ad affidarti al terapeuta, una persona
che stai pagando per aiutarti a risolvere il tuo problema, quindi dai per
scontato che stia andando nella giusta direzione. Ma non sempre è così.

T: C'è stato qualcosa di peggiorativo nei percorsi di terapia precedenti?

A: Sì, tanto. Ora non voglio parlare male, ma innanzitutto bisogna


diffidare delle persone che non si pongono degli obiettivi. Nel suo caso ciò
che mi ha dato fiducia è stato il fatto che mi ha detto: "Io di solito faccio dieci
sedute, ci sono casi in cui ne potrebbe servire qualcuna in più, o qualcuna in
meno; però esiste anche la possibilità che tra noi non si instauri una giusta
relazione terapeutica, per cui potrei non capire bene il suo problema, o magari
potrebbe essere aiutata meglio da un altro collega".
Questo già mi ha dato fiducia, perché ero consapevole che non faceva
questo lavoro solo per soldi. Quando sono andata dalla prima psicologa (per
una questione non legata al disturbo ossessivo compulsivo), costava meno di
lei e ha iniziato a farmi parlare, prendeva appunti, ma quando c'è stato il
momento in cui ho capito che stavo un po' meglio, le ho detto: "Vorrei capire
quando è il momento in cui dovrei smettere questo percorso".
E lei mi ha risposto "Guardi, il percorso può anche non smetterlo, perché
comunque è un momento che lei si prende per sé stessa, per un suo benessere
psicologico, in un momento così impegnativo. Magari è un qualcosa di
positivo che lei si ritagli del tempo per venire da me".
Lì per lì ho fatto altre sedute, non le dico quante ne ho fatte, ma sono stata
due anni da lei con due sedute a settimana. Mi chiedeva 40 euro per carità,
però non è servita a un cavolo sinceramente.
Dopo sono tornata da lei, le ho detto che sentivo i sintomi del disturbo
ossessivo, ma lei spostava il discorso, diceva: “Lei deve riflettere su quello
che vuole veramente” e cose del genere. Sino a dirmi: “Non può farsi lei
autodiagnosi non esiste".
Anche io mi ero un po' irritata e ho deciso di interrompere il percorso, è
passato circa un anno, a quel punto ho incontrato quella docente che mi ha
fatto il corso di psicologia, mi aveva ispirato il suo modo di fare, faceva
anche un piccolo sconto per gli studenti. Quindi ho deciso di andare da lei.
Le ho parlato di questo mio problema, le ho detto esplicitamente quello
che ho riferito a lei, quello che sentivo, quello che provavo, le immagini, che
mi ero documentata su internet, che avevo scoperto del disturbo ossessivo
compulsivo da relazione e lei mi ha risposto chiedendomi: “Pensa che nel tuo
rapporto sia venuto a mancare qualcosa? “
Io sono stata zitta, poi le ho detto "Non lo so”.
E poi mi sono sentita male.

T: Quello che ha fatto con me quindi non è stato il suo primo percorso di
psicoterapia. C'era qualche paura che aveva nei confronti della psicoterapia?
A: Quando sono andata da questa psicologa non avevo detto niente in
famiglia, era un tabù per loro. Quando poi lo hanno scoperto, mia mamma è
rimasta molto male per il fatto che non glielo avessi detto. Mi diceva: "Che
vai a fare dalla psicologa, se reputi necessario andarci vacci, ma stai attenta".
Mio padre, che è un tipo molto curioso che ama leggere di filosofia e
psicologia, mi ha detto "Che vai a fare dalla psicologa, vengono fuori delle
cose tue che non sai neanche che hai!”

T: E alla luce del percorso fatto insieme, queste paure erano fondate?

A: No, quando ottieni i risultati non te ne frega niente di quello che


pensano gli altri. Sono dell'idea che ho avuto molta fortuna ad avere accanto
il mio compagno. Infatti quando gli ho detto del percorso psicologico mi ha
risposto: “Ok, non voglio condizionare le tue decisioni, fai quello che ti senti
di fare".

T: In che modo chi le voleva bene ha contribuito a peggiorare la


situazione?

A: I miei familiari tutte le volte che mi vedevano mi chiedevano "come


stai?". Ed era normale che io fossi esausta, il “come stai” tirava fuori delle
cose che poi mi facevano stare male. Nell'immediato mi sentivo un po'
meglio, ma a lungo andare la cosa peggiorava, perché poi a casa ci ripensavo.
Ripensavo le parole di mia mamma, ed erano sempre quelle parole: "Prima o
poi ce la farai da sola, ne uscirai, ne sono uscita io, puoi farlo anche tu... "
A volte anche il mio compagno mi ha fatto male. Magari in qualche
momento in cui stavo un pochino meglio gli dicevo: " Lo sai che oggi mi
sento bene?"
Lui mi diceva: "Quello che provi lo scoprirai più avanti..."
Questa cosa mi uccideva.
T: Aveva dei pregiudizi su quella che poteva essere la terapia on-line? È
cambiato qualcosa dopo la terapia?

A: Avevo dei pregiudizi, perché non sono una molto legata alla
tecnologia, mi sembrava tutto molto surreale. Sono sempre stata abituata a
fare le cose dal vivo, però a volte la disperazione ti porta anche a provare
cose nuove. Lei comunque si è approcciato in modo molto positivo verso di
me. Mi ha anche aiutato dicendomi: "Le concedo un breve colloquio
conoscitivo". E non le nego che ancora oggi questo modo di comunicare mi
lascia un po' stranita, perché non sono abituata.

T: Qual è la cosa più difficile che ha dovuto fare durante la terapia?

A: Trovare delle immagini (si riferisce alla prescrizione di immaginare


cinque diverse immagini erotiche ogni qualvolta nella sua mente se ne
presentasse una intrusiva che la metteva a disagio) quando mi immaginavo
con un ragazzo in situazioni intime. Dovevo immaginarlo altre quattro volte e
questa cosa era molto difficile per me, però sono molto determinata, e mi
ripetevo che dovevo farlo per il mio bene.

T: Che risultati ha ottenuto e in che tempi?

A: I risultati sono che io mi sento bene, sono tornata a vivere, è cambiata


completamente la nostra relazione, è cambiato tutto. Io sono molto più serena
ed è molto più sereno anche il mio compagno, mio figlio. Mi bastano le
piccole cose. Inizio ad apprezzare tante cose della vita che magari prima non
apprezzavo. Ma soprattutto mi sento molto più forte. Forte da sola. Io ero
molto legata ai miei genitori, ogni cosa la chiedevo a loro, ma adesso mi
sento in grado di aiutarmi da sola. Mi sento molto più forte. Il tempo passato
mi sembra molto poco, abbiamo fatto solo 4 sedute.

T: Che cosa consiglierebbe A chi ha appena scoperto di soffrire di questo


disturbo?

A: Di affidarsi a lei.

T: Cosa possono invece iniziare a fare in autonomia?

A: Innanzitutto non parlarne con nessuno se non con un professionista


competente, che abbia le capacità di svolgere il proprio lavoro e la
conoscenza e di non arrendersi mai.

T: Secondo lei come facciamo a capire se il professionista dall'altra parte è


in grado di aiutarci? Ovviamente qui non le chiedo di esprimere un'opinione
sulle competenze, dato che non avrebbe modo di rispondere.

A: Io mi sono affidata a lei perché ho letto e mi sono documentata su


quello che lei ha studiato. Non so se si ricorda, mi aveva risposto sul blog,
quando le ho scritto riguardo la mia situazione. E lei mi ha risposto in un
modo che avevo pensato fosse molto particolare. Ho notato che era una
persona colta. Quando poi ho letto il suo profilo, ho letto dei suoi studi, ho
visto che ha studiato ad Arezzo presso il Centro di Terapia Strategica, quindi
mi ha risposto in privato dicendomi che mi sarei potuta rivolgere ad un
professionista in grado di aiutarmi su questo tipo di disturbo anche dalle mie
parti. Però non mi fidavo.

T: E in che modo valuta se poi la terapia funziona o meno?

A: Dai risultati che si ottengono. Un'altra cosa che volevo aggiungere è


che io sono sempre stata molto onesta e quindi nel periodo peggiore non
riuscivo a dire al mio compagno: "Ti amo". Il mio compagno è stato molto
bravo, perché lui continuava a dirmelo, e io invece di rispondergli, stavo
zitta. Da un po' ho ricominciato a dirglielo perché sento di provare di nuovo
amore per lui, ed anche questo è un segno dei risultati ottenuti.
.
14: LA STORIA DI ISABELLA

Quella di seguito è la trascrizione dell’intervista che ho fatto ad Isabella al


termine della terapia online svolta con me, i nomi e i riferimenti a luoghi o
situazioni che avrebbero potuto rendere identificabile le persone coinvolte
sono stati modificati, tutto il resto è la fedele trascrizione delle parole di
Isabella.

Terapeuta: Com’è iniziata la sua esperienza con il DOC da relazione?

Isabella: Tutto è iniziato l'estate di due anni fa: è successo che


letteralmente da un giorno all'altro ho avuto dei piccolissimi episodi in cui mi
sono arrabbiata con il mio ragazzo. Abbiamo avuto dei piccolissimi screzi e
su questi episodi, che normalmente vengono considerati nulla, molto
lentamente ho iniziato a sentire nella mia testa una voce (ma non
letteralmente), delle domande che mi portavano sempre di più a riflettere su
quello che era successo. Domande che mi mettevano molto a disagio.
All’inizio erano molto offuscate, poi sempre più chiare, anche se il picco
effettivamente è stato quando il mio cervello si è convinto del fatto che per
quei piccoli episodi non amavo il mio partner.
E ne ero assolutamente distrutta e dispiaciuta. Perché io non ci volevo
credere, ma se la mia testa me lo proponeva, forse era vero.
Ma io non volevo che fosse vero, eppure se la tua testa lo dice vuol dire
che è vero, e quindi nella mia testa hanno iniziato a susseguirsi tutta questa
serie di passaggi. Attenzione però, non in maniera conscia, io non me ne
rendevo conto che effettivamente facevo delle domande e mi davo delle
risposte. Di questo me ne sono accorta con la terapia, prima lo facevo in
maniera del tutto involontaria e senza rendermene conto.
Ma effettivamente, entrando nella mia situazione, mi sono realmente
convinta del fatto di non amarlo.
Sono stata male per un giorno, e dopo gli ho detto di non amarlo più.
Questa cosa è stata veramente tragica, siamo andati avanti così per due mesi.
Devo dire che lui ha dimostrato di tenere veramente a me, ci siamo anche
lasciati una volta e lui ha fatto di tutto per riconquistarmi.
Ricordo che gli parlavo di questi pensieri, gli dicevo "non so se ti amo,
forse non ti amo perché mi sembra di sentire delle cose, ma poi cambio idea"
e soprattutto ne parlavo con mia madre tutti i giorni. O almeno fino a quando
il mio terapeuta non mi ha detto di smetterla.
Parlarne tutti i giorni con mia madre è stato veramente deleterio, perché
mi dava tutte le sue idee ed io dalle sue idee creavo nuovi dubbi.
Tutto è andato avanti fino a quando la situazione è degenerata e ho deciso
di rivolgermi ad una psicologa: le ho parlato di quello che sentivo e lei mi ha
dato le sue idee, che non mi hanno aiutato minimamente perché, al contrario
di come ho scoperto che andava curato davvero questo problema, lei cercava
di indagarlo entrandoci affondo e facendo ulteriori domande. Cercava di
tirare fuori delle verità che poi in realtà non c'erano.
Abbiamo anche fatto una seduta di coppia, non credo che sia servita a un
granché, a lui comunque è piaciuta, tanto che ci è tornato per altri motivi,
mentre io non ci sono più tornata. Anzi, lei stessa mi ha dato il riferimento di
uno psicologo nella città dove mi sarei trasferita.
Ma il giorno prima di andare da questo nuovo psicologo, ho scoperto da
sola l'esistenza del DOC.

T: Mi racconti che tipo di domande si faceva all'inizio di tutto questo.

I: Razionalmente erano molto ridicole, pensavo di amare o no il mio


partner a seconda di quanto tempo pensassi a lui, a seconda di come trattassi
gli oggetti che mi regalava. Se per puro caso mi capitava di togliermi un
regalo, ad esempio un orecchino o una collana, e metterla da qualche parte in
maniera noncurante, pensavo che questo volesse dire che io non lo amassi
perché non trattavo con cura gli oggetti che mi regalava.
Il fatto di non pensarlo continuamente era un chiaro segnale del fatto che
io non amassi questa persona. Poi, dopo poche settimane dalla comparsa di
questo DOC, si è aggiunto un altro sintomo: ho iniziato a fare estrema
attenzione a quanto notavo gli altri uomini per strada.
Mi è venuto un così gran terrore di tradire il mio fidanzato che evitavo di
andare alle feste, evitavo di andare fuori con le mie amiche, per il semplice
fatto di aver paura di poter incontrare qualcuno per il quale avrei lasciato il
mio fidanzato e con il quale mi sarei messa.
Quindi tutti questi enormi dubbi che avevo si manifestavano poi
effettivamente nella mia vita reale e la limitavano.
Inoltre pensi che, sebbene io sia atea, mi sono convinta che se avessi
pregato Dio mi sarebbe passato questo DOC. Prima ancora di sapere di avere
il DOC, quindi mi sono convinta che pregare mi potesse aiutare a stare
meglio. Penso di essere onesta se dico che veramente mentalmente le ho
provate tutte, prima ancora di sapere di avere il DOC, ho pensato che avrei
dovuto fare qualsiasi cosa per guarire, quindi razionalmente ho indagato ogni
possibile metodo di cura... è stata molto strana come cosa.

I: Quando ha sentito parlare di DOC per la prima volta?

T: Prima di aver avuto questo problema avevo già sentito parlare del
DOC, ma lo conoscevo nella forma più fisica, quello con le classiche
composizioni. Ricordo che solo una o due settimane prima di scoprire il DOC
da relazione, mi è capitato di vedere un video su YouTube, in cui c'è una
persona affetta da un DOC che si manifesta con compulsioni fisiche, che
parlava e mostrava i suoi rituali… non mi è passato nemmeno una volta per
la mente il fatto di poter avere questo tipo di problema.
Poi mi è capitato, dopo aver cercato per mesi i miei sintomi per capire che
cosa avessi, di trovare per caso il blog di una ragazza che sembrava avessi
scritto io: era terrorizzata, diceva fino al giorno prima di amare il suo ragazzo
senza problemi, mentre adesso le succedevano cose veramente assurde: “Mi
faccio un sacco di dubbi, non capisco niente”.
E un utente qualsiasi le ha risposto: "Prova a cercare on-line cos'è il DOC
da relazione".
Io, ormai disperata, ho cercato, ho iniziato ad informarmi, e mi si è aperto
il mondo, sono rimasta sconvolta, perché mi sono detta: "Allora non sto
impazzendo, la mia relazione forse è salva".
Appena ho visto come funzionava questo problema, mi sono ritrovata in
quasi ogni punto della definizione del meccanismo. Così la prima cosa che ho
fatto è stata contattare immediatamente uno psicologo specialista della zona
in cui vivevo, che mi ha dato appuntamento dopo pochi giorni.
Prima di incontrare lei, ricordo di essere stata dallo psicologo che mi era
stato indicato dalla prima psicologa: mentre io mi ero già fatta un'idea del
mio problema, lui la mise in dubbio, dicendo di non esserne convinto.
Cercava di farmi ragionare in maniera molto strana, di certo non in maniera
così precisa da poter trattare efficacemente i dubbi.
Ricordo che aveva degli elefanti sulla scrivania e mi diceva: "Guarda
questo è il tuo elefante bianco, qua ci sono tanti elefanti di vari colori, io
metto quel tuo elefante bianco, tu stessa razionalmente hai capito che devi
cercare di dare più importanza alla cura del tuo problema e quindi se
effettivamente, informandoti on-line hai capito che non devi dare troppa
importanza alle domande, allora vuol dire che questo è il percorso che devi
seguire".
Ma effettivamente, dopo averlo capito, avevo comunque bisogno di
conoscere delle tecniche per curare il problema. Così il giorno dopo sono
venuta da lei, perché cercavo una persona che mi aiutasse a trattare in
maniera specifica questi dubbi che avevo.

T: Quindi, se non ho capito male, nei due tentativi terapeutici precedenti


l'attenzione era sul contenuto specifico di pensieri.

I: Sì, con la prima terapeuta c'è stata addirittura una seduta con mia madre,
perché diceva che, essendo io una ragazza molto giovane, lei aveva bisogno
di conoscere i dettagli della mia vita precedente al periodo in cui riuscissi a
ricordare.
Qui facciamo una piccola digressione: io questo problema, in maniera
molto più sfumata, l’ho avuto sin da quando avevo 14 o 15 anni, ma andava e
veniva in poco tempo.
A 16 anni ho avuto anche una crisi di panico, che mi ha fatto finire in
ospedale. In quel periodo mi facevo problemi sul fatto di farmi problemi: era
una sorta di dubbio sul dubbio. E da quel momento in ospedale mi hanno
consigliato un altro psicologo, e anche quest'uomo aveva un modo molto
diverso di affrontare i problemi: cercava di tirare fuori rami di traumi infantili
che potessero causarmi un pensiero del genere. Anche in questo caso non
sono arrivata da nessuna parte.
Ma dato che ad un certo punto il problema si è risolto da solo, ho chiuso la
terapia dato che non ne avevo più bisogno.
Quindi ho già incontrati diversi psicologi per trattare questo problema.

T: Quali erano i sintomi specifici nei momenti di crisi? Quali erano ricavi
di ricerca che inseriva in Google?

I: Innanzitutto "Io non amo il mio ragazzo, ma forse mi sembra di amarlo,


ma non capisco perché". Cosa del genere, quindi veramente molto
arzigogolate, molto complesse; ma soprattutto quello che mi ha molto colpito
quando facevo queste ricerche era vedere che le persone si mettevano alla
prova per vedere se provavano davvero attrazione per altre persone. E in
quello mi sono ritrovata tantissimo, mi sono detta: "Sono io".
Le altre cose che ho scritto nella barra di ricerca sono: "grande ansia",
"grande paura", "grande terrore"... e queste cose nei sintomi del DOC non le
ho trovate.
Poi nei momenti critici, quando avevo dei forti attacchi, non potevo che
avere enormi crisi di pianto, urlavo anche, ci sono state delle volte in cui mi
sono distesa sul pavimento, guardavo il soffitto e piangevo da sola. Non
volevo parlare con nessuno, i miei genitori erano estremamente arrabbiati con
me, sono riusciti a supportarmi per le prime settimane, ma quando poi hanno
visto che non facevo niente per stare meglio, sono passati ad un altro tipo di
comportamento, cioè quello dell'accusa: “Non sei abbastanza forte, non fai
abbastanza, se tu volessi stare meglio avresti già iniziato a stare meglio,
invece fai la vittima e ti crogioli nel tuo dolore”.
Effettivamente li facevo soffrire, perché loro da un lato stavano male per
me e dall'altro mi accusavano del fatto che non stavo abbastanza bene. Quindi
parlavo con loro, e parlando con loro stavo ancora peggio. Passavo ore ed ore
della giornata con la testa tra le nuvole, non davo abbastanza attenzione allo
studio, facevo lunghissime passeggiate, andavo molto lontano, tornavo
veramente tardi, perché avevo bisogno di tempo per stare da sola.
Ricordo che passavo da momenti in cui volevo stare continuamente con il
mio partner a momenti in cui non volevo assolutamente stare con lui, a
seconda di quello che pensavo in quell’istante.
Se pensavo che per stare bene, per averlo, avessi bisogno di stare con lui,
allora facevo di tutto per stare con lui continuamente, infatti i miei stessi
genitori mi rimproveravano di dare poca attenzione a loro. Ma poi c’erano
periodi in cui pensavo che per stare con lui non dovessi stargli vicino, e da lì
poi pensavo: "Ma che relazione è se tu non vuoi stare con il tuo partner? Non
va bene così. Non si può vivere una relazione a distanza tutta la vita, una
relazione epistolare”. E allora pensavo che era meglio non stargli vicino.

T: Mi colpisce molto il primo termine di ricerca: "So di non amarlo, ma ho


il dubbio di amarlo"

I: Sì, o anche: “So di amarlo ma ho il dubbio di non amarlo”. In quella


famosa estate mi convincevo veramente di quello che pensavo, ci credevo
fermamente di non amarlo in quel momento, sapevo di non amarlo in quel
momento, però al tempo stesso non volevo stare senza di lui, e allora
pensavo: "Forse in realtà sono una persona cattiva, una donna sfruttatrice, io
non lo amo però voglio che sia nella mia vita". Poi mi chiedevo "Ma sono
sicura che se lo voglio nella mia vita allora non è che un pochino lo amo?"
Quindi in realtà questo voleva dire che lo amavo in maniera pura, senza
secondi fini. Però poi mi dicevo che se mi facevo dei dubbi allora voleva dire
che non lo amavo completamente. Quindi molto facilmente in quel periodo
credevo fermamente in quello che pensavo, in maniera del tutto completa...
ricordo anche che, parlandone con mia madre, le dicevo: "Senti mamma non
so come dire al mio ragazzo che non lo amo completamente ma che
comunque voglio stare con lui".
Mi ricordo che stavo cercando delle parole esatte per comunicargli un
pensiero del genere, perché ne ero veramente convinta. Lo facevo in treno, lo
facevo in macchina, lo facevo passeggiando, cercando continuamente dei
canali nei quali immettermi per comunicargli dei pensieri che nemmeno
sapevo quali fossero. Non sapevo quali parole usare, perché non sapevo cosa
pensavo esattamente, eppure cercavo delle parole per darmi le risposte alle
cose che pensavo... anche dialetticamente cercavo di darmi delle risposte a
domande che non avevo idea di quali fossero.

T: Questo è proprio il meccanismo tipico del dubbio.


I: Sì, molto dialettico.

T: Grazie alla terapia si è accorta di avere delle convinzioni errate sul


concetto di amore?

I: Certo, io sono sempre stata una ragazza molto romantica in generale,


non dico ingenua, ma sempre attratta dall'idea di trovare una persona da
amare in maniera sincera e che mi ami in maniera sincera.
Da quando ho questo DOC ho scoperto che non si può comandare l'amore,
e non lo si può catalogare, i sentimenti ci sono, ma le sensazioni variano, le
sensazioni possono essere di rabbia, ma il sentimento può rimanere, o può
anche essere il contrario, come mi è capitato di osservare in maniera più
lucida in alcune coppie.
Quindi curare il DOC mi ha anche aiutato a capire questo. Ad essere un
po' meno ottusa su quello che io pensavo potesse diventare l'amore... non che
non abbia ancora paura di perdere l'amore… però mi sto avvicinando più ad
una paura sana, questo l'ho acquisito nel tempo.
Ah, mi è venuta in mente un'altra domanda che mi ponevo. Mi dicevo:
"Come mi vesto? Come esco di casa questa sera per incontrare le mie
amiche? Se mi metto un bel vestito allora vuol dire che in maniera inconscia
voglio attirare lo sguardo di qualche altro ragazzo, quindi vuol dire che in
maniera inconscia io non amo il mio ragazzo, che, in maniera inconscia, io
voglio attirare lo sguardo di qualcun altro mettendomi questa bella gonna"

T: Su che cosa faceva dei controlli?

I: Controllavo le domande... qui siamo in un momento successivo l'inizio


della terapia, quando già mi aveva detto che non dovevo rispondere alle
domande, ma io provavo a controllare le domande: volevo impedirmi di
farmi le domande.
Volevo guarire dal DOC con la mia cura, con la volontà e la convinzione
di volerlo fare… quindi il mio controllo era proprio su quello, sulle domande
e anche ovviamente sul controllo delle sensazioni che provavo, sulle cose che
guardavo, sul modo in cui mi comportavo con gli altri.
Cercavo di avere il controllo anche sulle cose più piccole, controllavo
anche il mio partner sotto tantissimi aspetti, sia quelli fisici che
comportamentali: se avesse dei difetti, se aveva dei comportamenti che in
quel momento non mi piacevano particolarmente... quindi controllavo quegli
aspetti, controllavo come mi sentivo io a seconda di quei comportamenti, e da
lì in poi partivano tutta una serie di dubbi e di domande, che di conseguenza
cercavo di controllare e alle quali invece davo un sacco di risposte.

T: Quali erano i segnali che cercava come prova del fatto di non amare il
suo partner?

I: Una delle cose era quella che ho già detto riguardo al modo di vestirmi,
poi c'è questa cosa di cui un po' mi vergogno: succedeva che, uscendo di
casa, incontravo delle persone che potevano essere amici o amiche,
incontravo davanti a me un'altra persona, un altro uomo, che potevo
considerare ipoteticamente attraente.
Stavo molto attenta a come mi sentivo, e in qualsiasi momento mi sentivo
leggermente più attratta da un’altra persona. Così mi venivano in mente un
sacco di dubbi.
Facevo attenzione a come trattavo le cose del mio ragazzo, stavo attenta
alle cose che gli scrivevo quando gli scrivevo in chat. Quindi, se gli scrivevo
e mi sentivo tranquilla, allora forse lo amavo di più; se invece ero distratta da
altre cose e gli rispondevo in modo più frettoloso allora voleva dire che non
lo amassi abbastanza.
Facevo anche attenzione a quanto tempo pensavo a lui tanto… dopo due o
tre mesi di cura mi è capitato di andare a prendere una pizza con degli amici e
nel tragitto non ho pensato a lui. Questo in me ha sortito due effetti: da un
lato ero contenta di aver avuto un buco nei pensieri, ma dall’altro ho pensato
che, dato che in quel momento i pensieri ossessivi mi avevano lasciato libera,
allora voleva dire che avevo smesso di amarlo.

T: Le prove che cercava erano solo pensieri o anche sensazioni fisiche?

I: Cercavo di capire se ero attratta sessualmente da qualcun altro, cercando


proprio i segnali fisici di un’attrazione sessuale.
Ovviamente, osservando le sensazioni del mio corpo, a volte mi sembrava
che in minima parte fossero presenti, e questo mi faceva venire una forte
ansia.

T: Se potesse tornare nel passato e parlare alla vecchia sé stessa, che cosa
le direbbe per evitare di finire in questa trappola?

I: Le direi di non rispondere fin da subito alle domande. Quando una


domanda ti sembra che ti stia stravolgendo la vita, forse c’è qualcosa che non
quadra nella domanda, e se c’è qualcosa che non quadra non c’è bisogno di
indagare ulteriormente.
Se, quando ti fai una domanda sulla tua relazione, questa domanda ha una
risposta che magari non ti piace, che magari ti rende triste, ma che sai essere
giusta così, allora va bene.
Se invece questa domanda che ti fai sembra non avere mai una risposta, e
ti ossessiona continuamente, allora bisogna evitare di assecondarla, perché è
una domanda sbagliata.
Tra l'altro mi ricordo che, appena prima di questo dubbio, avevo il dubbio
inverso: cioè se lui amasse me. Non so come però mi sono detta che non
volevo avere quella domanda della mia vita, e dopo poco tempo, senza
cercare di trovare una risposta, quella domanda è scomparsa. Dopo qualche
giorno invece si è presentata "Sono io che amo lui oppure no?"
T: In che modo le persone che ti volevano bene ti hanno in realtà fatto
peggiorare il DOC?

I: Ci sono due situazioni distinte: la prima è quella in cui ero io ad andare


a chiedere conforto a loro, la seconda è quella in cui erano loro che mi
facevano delle domande o che mi davano dei consigli non richiesti.
All'inizio ero soprattutto io che cercavo conforto nelle parole degli altri,
queste persone cercavano ovviamente di essere sincere, e ovviamente per loro
il fatto che avessi questi dubbi voleva dire che non ero veramente innamorata
del mio ragazzo.
Invece, quando qualcuno mi diceva esattamente quello che volevo
sentirmi dire, allora subito dopo lo mettevo in dubbio.
Ricordo benissimo una telefonata che ho fatto con mia cugina: in quel
momento i miei dubbi erano concentrati sull'aspetto estetico del mio partner,
pensavo di non amarlo a causa di questi difetti. Così ho chiamato mia cugina
e le ho chiesto come funzionava per lei per quanto riguarda l'aspetto estetico
del suo ragazzo. Lei mi disse che per lei non era nulla di importante, che non
era qualcosa che intaccava il suo amore per lui. Poi mi ha detto che l'unica
cosa che dovevo capire era se lo amassi o meno.
In quel momento ricordo benissimo di aver chiesto a mia cugina: "Ma io
lo amo o no il mio ragazzo?" Cioè, volevo sapere da mia cugina se amassi o
meno il mio ragazzo perché io da sola non riuscivo a capirlo.
Poi chiedevo molto spesso consiglio a mia madre: sebbene mi conosca
benissimo, non sapeva affatto come funziona questo problema, e mi dava
proprio le risposte più sbagliate possibili; ovviamente con le migliori
intenzioni.
Poi c’è un altro aspetto: anche quando non chiedevo nulla, le persone che
mi volevano bene con i loro discorsi, o con i loro comportamenti, mi davano
materiale per le mie domande.
Ad esempio se vedevo una coppia che si lasciava, prendevo quello spunto
per chiedermi se potessi essere io a lasciare il mio partner; anche se
ovviamente non c'entrava nulla.
Oppure se vedevo delle coppie di amici o di conoscenti litigare tra loro,
magari rinfacciandosi qualche difetto, prendevo quello spunto e mi chiedevo
se anche il mio partner avesse quei difetti, e se a causa dei suoi difetti non
fosse il caso di litigare o di lasciarci.
In quei casi non erano gli altri che rispondono alle mie domande e mi
provocavano dei dubbi, ma sono io in prima persona che osservando gli altri
mi facevo venire i dubbi.

T: Durante questo percorso qual è stata la cosa più difficile?

I: Partiamo Innanzitutto col dire che l'ultimo anno è stato l'anno più
difficile della mia vita. Ovviamente è andato migliorando. Non dico che la
vita debba essere facile, ma questo problema sicuramente mi ha reso la vita
molto più complicata, molto influenzata sotto molti punti di vista: non
riuscivo neanche a capire come approcciarmi ad altri aspetti della mia vita,
perché poi il DOC si trasferiva anche su questi, quindi finivo per far
diventare tutta la mia vita un grande DOC.
Mi ricordo che ero così tanto triste di essere sveglia, perché essere sveglia
voleva dire pensare, che ero contenta quando andavo a dormire, perché
dormendo staccavo la spina, e almeno per un po' smettevo di soffrire. Ma poi
il problema è che il DOC si è trasferito nel sonno, e non mi lasciava in pace
nemmeno lì. In quel periodo non ero per niente contenta della mia vita, e ha
20 anni non è una bella cosa.

T: Qual è stato invece il compito più difficile che ha dovuto svolgere per
la terapia?

I: quello dei voti. [Alla paziente, spaventata di poter essere attratta dalle
persone che incrociava per strada, è stato prescritto di esporsi
quotidianamente a questa situazione, munita di un piccolo quaderno, sul
quale dare delle valutazioni estetiche a tutte le persone che incrociava]
Questa cosa mi faceva vergognare. Mi è anche capitato che una persona si
sedesse vicino a me sulla panchina e mi chiedesse che cosa stessi facendo. Io
gli ho risposto che stavo facendo un compito per l'università, e lui mi ha
detto: “Ah ok, perché mi sembrava che tu mi stessi guardando".
Questa cosa mi dava che un po' fastidio, dato che dovevo osservare anche
persone che normalmente non avrei mai guardato, perché completamente
distanti dai miei canoni estetici. Ma, nonostante questo, ero così disperata per
questa situazione che, anche se faceva freddo e se pioveva, uscivo comunque
tutti i giorni per fare questo compito.

T: Quanto ci è voluto per avere i primi risultati?


I: I primi due mesi di cura sono stati più critici, perché per i primi due
mesi non ho visto risultati. Quei due mesi li ho vissuti con lo stesso dolore
dei due mesi trascorsi prima di iniziare la terapia. Ma dopo questi primi 2
mesi ho iniziato ad avere i primi risultati. Anche se su alcuni aspetti mi
sembrava di fare dei passi indietro. Poi sono anche tornata nella mia città
d'origine, quindi da una relazione a distanza siamo tornati ad una relazione in
cui potevamo vederci più spesso. Mi sono quindi dovuta confrontare con i
problemi legati alla nostra differenza caratteriale: in quel momento i vecchi
dubbi sono andati in disparte per fare spazio a dei nuovi dubbi legati più a
una realtà concreta. Dopo circa 7-8 mesi la situazione si è stabilizzata in una
condizione in cui sto piuttosto bene.

Se anche mi torna qualche dubbio, dura molto poco, il DOC mi lascia in


pace, ed è molto raro ripensare ai vecchi dubbi. Adesso i pochi dubbi che mi
capita di farmi sono legati a situazioni concrete.

T: Quali cambiamenti ci sono stati nella quotidianità grazie a questo


percorso?

I: La prima cosa di cui mi sono accorta è stata che sono riuscita a tornare a
studiare in maniera decente: avevo estremo bisogno di riuscire a concentrarmi
nuovamente sui miei studi universitari, purtroppo la mia testa era intasata dai
dubbi e non riuscivo a studiare. Oggi non ci sono più giornate in cui il DOC
mi impedisce di studiare. Oltretutto mi accorgo anche di essere molto più
attenta a quello che mi dicono le persone. Prima ero spesso persa nei miei
pensieri e non riuscivo a concentrarmi, perdendo il filo del discorso.
Ho riacquisito il piacere di vivere una vita normale, passeggiare per la
strada, guardarmi intorno, apprezzare la mia vita, perchè prima anche solo
fare quella che pensavo fosse la cosa più bella del mondo per me non era
possibile.

T: Che cosa direbbe a chi sta leggendo ora questa intervista?

I: Innanzitutto ho l'impressione che con questa intervista non abbia dato


abbastanza onore alla vecchia me stessa, ci sono state un'infinità di dettagli
che avrei voluto dare, di cui ricordo la sofferenza, ma sinceramente non
riesco a ricordare quali fossero quelle cose che per me erano così importanti
prima di questo percorso.
Poi vorrei dire che bisogna avere fede e pazienza, non avere fretta: se inizi
un percorso, affidati e segui le indicazioni che ti vengono date, concentrati
bene su tutte le prescrizioni senza saltarne nessuna.

T: Come ha fatto a capire che poteva fidarsi di me per il trattamento di


questo problema? D'altronde ha iniziato ad avere risultati dopo 4 sedute,
mentre ha abbandonato un altro percorso dopo solo 3 incontri e un altro dopo
un solo colloquio.

I: Perchè avevo capito che il mio problema era quello del dubbio, e dato
che mi aveva detto che ci sarebbe voluto del tempo, capendo chiaramente che
il problema fosse quello, ho deciso di proseguire. Quindi non ho mai messo
in dubbio di voler proseguire il percorso, ma ero terrorizzata dal non riuscire
a guarire da questo problema abbastanza in fretta.
Vorrei anche aggiungere una cosa che penso sia molto importante: a me i
dubbi non si presentavano necessariamente sotto forma di domanda, a volte
erano come delle "accuse" dalle quali cercavo di difendermi. Quindi per un
periodo mi ero anche fatta i dubbi sul fatto che i dubbi non erano sotto forma
di domande, ma era come se la mia testa "sapesse la verità" facendomi queste
accuse. Ma è importante sapere che anche queste "assolute verità" non sono
altro che dubbi da DOC.
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INFORMAZIONI SULL'AUTORE

Andrea Iengo è psicologo psicoterapeuta, specialista in Terapia Breve


Strategica, si occupa del trattamento di disturbi ossessivo compulsivi
(www.disturbossessivo.it) e di disturbi d’ansia e panico (www.panico.help)

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