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«Io non vivo senza te» è una frase intesa spesso come il segno di un legame intenso, un
modo di dire usato per rappresentare una storia romantica. In troppi casi è invece l’espressione
di una vera e propria dipendenza, di una relazione malata che rende infelici molte persone, più
di frequente donne. La dipendenza affettiva è un disturbo ancora poco conosciuto, dal quale è
difficile liberarsi perché ha radici profonde nel cuore della famiglia d’origine, dove
sperimentiamo le prime forme di attaccamento e impariamo, quando va tutto bene, l’amore per
noi stessi. Ma se invece siamo stati bambini poco accuditi, trascurati, o addirittura abusati, o al
contrario figli troppo protetti, oggetto di attenzioni eccessive, allora possiamo sviluppare
rapporti nei quali il partner viene vissuto come un’ancora di salvezza, qualcuno che può riparare
le vecchie lacerazioni. In questo libro Ameya Gabriella Canovi condivide la sua lunga
esperienza di sostegno a dipendenti affettivi raccontando le loro storie e spiegando il disagio di
cui sono prigionieri, con le sue diverse manifestazioni: mendicare l’affetto o pretenderlo,
manipolare o sedurre l’amato, riprodurre situazioni sentimentali velenose, subire la frustrazione
di un desiderio di fusione mai soddisfatto. Con un approccio tanto rigoroso quanto ricco di
empatia, delinea inoltre un percorso di conoscenza di sé capace di disinnescare il «troppo
amore», il bisogno eccessivo dell’altro, e l’invadenza dei rimpianti e delle recriminazioni per
ciò che non si è avuto. Esplorare il proprio passato fino alle radici è il primo passo per riuscire a
risanare l’amore improprio o ricevuto male che c’è alla base di questa sofferenza e a costruire
nuove relazioni con responsabilità e libertà.
L’autrice
relazioni familiari e della dipendenza affettiva e ha una lunga esperienza di sostegno a persone
imprigionate in relazioni disfunzionali. Conduce seminari e corsi di crescita personale.
Collabora con Radio Capital.
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Instagram: ameyacanovi
Ameya Gabriella Canovi
DI TROPPO AMORE
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
Ai miei genitori,
mie preziose radici e ali.
Se solo potessi avervi ancora qui
per ascoltare tutti i racconti di chi c’era prima
e passarli avanti, a chi verrà.
Prefazione
di Selvaggia Lucarelli
«Sa, dottoressa, quando sono senza un compagno mi sento come un cane che trascina il
guinzaglio per terra, in cerca di un nuovo padrone. Mi faccio molta pena a vedermi così.»
LEDA
«Old addictions»
Quanto detto finora sulla dipendenza affettiva può accadere per ogni
dipendenza? In un certo senso sì, poiché per funzionare gli individui
ammaccati d’amore cercheranno con tutta probabilità un appiglio costante.
Andranno nel mondo a chiedere in maniera implicita una gratificazione non
avuta.
Per poter sviscerare il tema della morbosità relazionale vera e propria è
necessario comprendere cosa si intende per dipendenza e cosa accade nella
nostra psiche quando viviamo questa condizione. A mio avviso, la matrice e
l’origine di ogni dipendenza sono sempre affettive, ciò che cambia sono le
modalità in cui si manifesta. È necessario considerare il termine affetto in
senso più ampio come l’insieme di quelle tonalità, colorazioni e sfumature
emotive non solo in senso positivo, ma pulsionali in genere. Pertanto, pur
volendo trattare qui della disfunzionalità affettiva, un accenno alla
dipendenza da sostanze e alla sua implicazione psicologica mi sembra utile
per comprendere i meccanismi di cui parleremo in seguito e avvalorare
quanto sostenuto sopra.
L’uso di sostanze come traghettatrici da una realtà psichica a un’altra
appartiene alla storia dell’umanità. Nelle varie culture si utilizzano talvolta
sostanze durante particolari rituali per accedere a dimensioni parallele; la
comunità attribuisce a queste pratiche una valenza simbolica.
Di fatto, nella realtà contemporanea l’utilizzo di droghe che alterano la
percezione non è un tramite per una dimensione sacra o spirituale, come
potrebbe accadere in alcune società cosiddette primitive con l’uso di piante
allucinogene quali l’ayahuasca o il peyote. Da questa parte del mondo ci si
stordisce, per lo più con alcol o, oggigiorno, anche con droghe sintetiche.
È doveroso distinguere l’uso abituale o saltuario dall’abuso e dalla
dipendenza, che implica il non saper funzionare senza, e considerare sempre
le motivazioni di base che spingono una persona al consumo di sostanze
alteranti.
Perché, quindi, ci si droga?
Se si utilizza un approccio psicosociale, si possono individuare alcune
situazioni che portano a sballarsi: motivi personali, influenze di gruppi
esterni e condizionamenti sociali. Perciò si potrebbe ipotizzare che ci siano
fragilità individuali dovute alle proprie traiettorie di sviluppo, l’influsso di
una certa cerchia di amici o l’appartenenza a gruppi svantaggiati, e infine
l’effetto dei messaggi della cultura in cui si vive («Bevi X che ti farà
volare»).
Altre argomentazioni ci arrivano da studi scientifici.
L’ipotesi biopsicosociale offre interessanti spunti in campo neurologico,
assumendo che l’uso di droghe sarebbe favorito da una mancanza o un
eccesso di neurotrasmettitori. Non solo, ma ogni sostanza avrebbe un
neurotrasmettitore specifico: una carenza di serotonina o di noradrenalina,
per esempio, renderebbe più predisposti al consumo e all’abuso di droghe.
Nell’approccio psicodinamico – che si basa sulle teorie freudiane e
descrive la vita psichica come governata da una comunicazione costante tra
conscio e inconscio, e tra le istanze Io, Es e Super Io – l’uso di sostanze ha a
che fare con una fissazione ai primissimi stadi evolutivi, come abbiamo
visto, con il prendere, fagocitare, portare dentro e riempire, mangiare,
alterare, compensare.
Le teorie sistemiche concepiscono invece l’individuo inserito in un
macrorganismo, il sistema, a partire dalla famiglia, dove i membri sono in
forte relazione tra loro. Va da sé, pertanto, che un evento accaduto a
qualcuno che fa parte del gruppo si riverbera sugli altri componenti,
lasciando tracce indelebili di fragilità perpetuate.
In sintesi, a seconda della teoria di riferimento che adottiamo per
analizzare il problema, la dipendenza da sostanze può essere vista come una
piaga sociale, può diventare segno dei nostri demoni interiori o derivare da
un comportamento causato, appreso o trasmesso in famiglia. In ogni caso,
ciò che utilizziamo per stordirci evidenzia o sopperisce a un disagio
esistenziale e mira a lenire malesseri interiori, oppure ad accelerare o frenare
i ritmi parossistici dello stile di vita odierno. Ed è evidente che la nostra
società sancisce, sdogana e legittima l’uso di «altro» per stare meglio.
La sostanza dà la possibilità di rallentare, fuggire da o aprire a mondi
possibili, porta a togliere inibizioni, eccita o calma, ma soprattutto risponde
con un pronto supporto a un bisogno individuale. Dal punto di vista sociale,
l’uso di droghe può essere letto come pratica tribale, rito di passaggio, prova
di coraggio, password per accedere a un gruppo di pari, conformismo verso
rituali diffusi (come, volendo fare una generalizzazione, nei casi
dell’alcolismo dei giovani nelle neglette realtà montane, o del fumo di
hashish nelle periferie metropolitane, o del consumo di cocaina nel jet set e
così via).
Il tema che qui ci interessa resta, comunque, l’affettività di base che
spinge l’individuo ad appoggiarsi ad altro, in modo ricorrente e invischiante,
e soprattutto i meccanismi che portano a comportamenti di dipendenza.
Riconoscere il problema
«Dottoressa, come faccio a sapere se mi voglio bene?»
La domanda di Luca, sedici anni, ci fa riflettere.
A dire il vero è uno dei quesiti più frequenti: come si inizia a esserci per
sé?
Prima di tutto, è necessario distinguere un atteggiamento che nasce
dall’amor proprio da quello invece nocivo.
Il problema inizia a esistere quando un certo comportamento,
interiorizzato, fatto proprio e ripetuto, diventa compulsivo, fino a non poter
più farne a meno.
La dipendenza è definita come il bisogno di assumere la sostanza – nel
caso delle nuove dipendenze, mettere in pratica il comportamento
disfunzionale – con sempre maggior frequenza, poiché allevierebbe la
tensione e darebbe momentaneo piacere. Si crea così un loop distruttivo,
dove l’individuo si ritrova in una spirale di lotta infinita.
Nella dipendenza patologica vi è dunque un vero e proprio ciclo continuo,
in cui a uno stimolo emotivo iniziale (disagio, ansia, angoscia) seguono
urgenza, bramosia, craving, una sorta di fame ossessiva, tale da spingere ad
attuare la propria compulsione in modo impellente, pena una sofferenza
atroce. Dopo l’utilizzo della sostanza o l’attuazione del comportamento
disfunzionale, si avranno nuovamente lo stimolo, il malessere e così via da
capo.
Ad alcune persone può accadere di indulgere saltuariamente in pratiche
ripetute ed esorbitanti, come attuare condotte sessuali promiscue, o eccedere
in una corroborante attività sportiva per ore. Tuttavia, se l’astenersi dal
comportamento non causa reazioni e sintomi insopportabili, allora siamo in
presenza di un eccesso, ma non di una dipendenza. In questi casi, si
dovranno ricercare dentro di sé le cause, ma la differenza con chi invece ha
una dipendenza vera e propria sta nel grado di funzionamento. Chi esagera,
riuscirà a stare senza e funzionare ugualmente, chi dipende, sente che non
potrebbe reggere se abbandonasse certe abitudini. Spesso chiedo ai miei
pazienti: «Da uno a cento, quanto?»
Anche nel caso della dipendenza, all’inizio i comportamenti sembrano
essere soltanto ripetitivi, a volte rassicuranti poiché rituali moderni. Ma con
il tempo, ci si trova intrappolati. E da lì a poco la vita sembra ruotare tutta
intorno al momento in cui si fa quello. Si ha la sensazione di non riuscire a
fluire «senza», si avverte un senso d’incompletezza, se ne ha necessità
urgente per andare avanti. Salute, vita sociale, relazioni, affetti e denaro
vengono condizionati e danneggiati, e ci si ritrova a fare i conti con una
dipendenza di cui magari non sapevamo nemmeno l’esistenza.
#Frammento n. 3
Racconti occhi nel cuore
Senza te morirei
Secondo la teoria psicodinamica, la dipendenza affettiva può essere originata
dal non aver interiorizzato, mentre crescevamo, un «oggetto» buono, una
sicurezza che ci protegge dal di dentro. Altri studiosi postulano che la
capacità di stare con se stessi si raggiunga quando superiamo la paura di
sentirci separati da chi ci accudisce. Soltanto se da bambini impariamo a
sostare in quello spazio vuoto del senza impareremo a gestire l’assenza.
Lo psicanalista Wilfred Bion descriveva la dinamica psicologica di una
persona adulta dipendente come un mancato esito della rêverie, quell’attività
poetica in cui due menti si sognano e si pensano a vicenda. Se la madre, o
chi ne fa le veci, sente il figlio capace di essere autonomo e gli restituisce
un’immagine di sé come tale, il bambino adotterà quello sguardo e lo farà
suo. Se invece lo pensa fragile, incapace di sostare nell’attesa del
soddisfacimento di un bisogno, il figlio sarà insoddisfatto, appeso a qualcuno
per esistere.
Per Bion, dunque, noi pensiamo a noi stessi a partire dai pensieri con cui
siamo stati pensati mentre crescevamo, e chi ci accudisce può insegnarci a
rimanere in uno spazio vuoto, di attesa. Potremmo quindi dire che pensare è
saper aspettare, e in questa attesa possiamo imparare a fare compagnia a noi
stessi. Cosa che, come vedremo, è molto difficile per un dipendente
affettivo.
Se ciò che desideriamo con ardore non c’è, possiamo rappresentarlo
dentro di noi e non sentirne pertanto la mancanza, percependolo presente a
livello simbolico. È grazie al pensiero che trasformiamo l’assenza in
presenza.
Da neonati necessitiamo di cibo, contatto o soddisfacimento immediato;
se non giunge all’istante, crediamo fermamente che non avremo mai ciò che
desideriamo. Da bambini non conosciamo il tempo dell’attesa, viviamo un
unico eterno ora. Chi ci accudisce ci contiene, ci risponde e ci restituisce la
fiducia che qualcuno provvederà a soddisfarci. Da questa risposta
apprendiamo a gestire quello spazio vuoto e aspettiamo sereni ciò di cui
abbiamo bisogno, fino a quando non impariamo a cavarcela da soli. In
questo processo di contenimento, secondo Bion, con il pensarsi a vicenda la
madre, o chi per lei, e il figlio si sognano in maniera reciproca, si
immaginano presenti, fino a quando questa relazione «certa» si traduce in
una stabilità dentro il bambino. Pertanto, per crescere è indispensabile un
sostegno esterno, una base sicura che ci permetta di fare l’esperienza di
essere sostenuti, compresi, accettati, pensati. E che ci renda possibile
sperimentare un attaccamento sicuro, restituendoci un’immagine di noi stessi
capaci, amabili e degni. Questo passaggio, una volta interiorizzato, ci
consentirà di avere una base affidabile a cui tornare, una fonte rassicurante
che ci accompagnerà nella costruzione di un senso del mondo, ci
tranquillizzerà nei momenti bui e ci trasmetterà il messaggio implicito che il
posto più sicuro dove rifugiarci, dopo una tempesta, è sempre dentro noi
stessi.
In una dipendenza affettiva proprio tale passaggio sembra essere mancato:
il bambino che per qualche motivo non è stato rassicurato, sognato,
incoraggiato, contenuto e guidato a rimanere nell’attesa con fiducia, da
adulto dovrà fare i conti con questo tassello mancante. L’horror vacui nasce
proprio da una perdita di fiducia: chi chiama sente che la propria richiesta
cade nel vuoto e la risposta non arriva, interrompendo quel clima affettivo
necessario a infondere la certezza che qualcuno ci accoglierà. Il vuoto
diventerà perciò un nemico da combattere a tutti i costi, per fuggire da
quell’insicurezza lì originatasi. Per poter funzionare, si ricorrerà così a un
uso abnorme di appigli, di oggetti sostitutivi ai quali aggrapparsi per poter
restare in piedi.
Molto tempo dopo Bion, lo psicologo Jerome Bruner avrebbe sostenuto
con un’altra formula che nel processo di sviluppo l’individuo ha bisogno di
qualcuno – i genitori e altre figure che accompagnano il processo educativo
– che gli passi un messaggio rassicurante sul mondo. Bruner individuava
nella narrazione dei grandi ai piccini la trasmissione del sapere e molto altro:
chi è più grande tiene in grembo chi è più piccolo e, raccontando la vita, lo
contiene, fornendogli un’impalcatura (scaffolding), fino a quando non saprà
procedere senza doversi appoggiare.
Le società del mondo intero ritualizzano questo tipo di esperienze anche
attraverso simboli, per tramandare saperi e significati. Nella religione
cattolica, per esempio, il ricongiungimento con il padre che riabilita e
assolve gli errori avviene attraverso la comunione, rituale purificatorio,
salvifico e riparatorio. Il rifugio diventa immaginato, simbolico, spirituale.
«Padre nostro che sei nei cieli» diviene il contenitore a cui affidarsi con un
atto di fede, attraverso la preghiera.
In Occidente, assistiamo sempre più alla perdita della dimensione
spirituale, e tali pratiche non adempiono più alla loro funzione iniziale.
A quanto pare, potremmo dire che siamo una società senza sponde e
sprovvista di cielo.
Pertanto, se non l’abbiamo dentro, cercheremo conforto fuori, e il rischio
è che si creda di trovare quell’abbraccio risolutorio in una dipendenza.
Uno sguardo provocatorio e interessante ci giunge dall’arte
contemporanea, nelle opere di Damien Hirst, che nella sua Lullaby Spring
individua nel farmaco la nuova ostia in grado di risolvere qualsiasi
problema. Le installazioni di Hirst presentano gli oggetti della quotidianità
che rassicurano sul fatto che «basta un poco di zucchero e la pillola va giù» e
che c’è una medicina per tutto.
Come abbiamo accennato, il pensiero portante della cultura americana si
basa sulla concezione che l’individuo, nato dipendente, va reso autonomo
alla svelta. Pertanto, lo stile genitoriale così improntato indirizza da subito i
bambini a fare da soli. La madre non vede l’ora di verificare che il figlio
mangi, cammini, usi attrezzi, si allacci le scarpe, scriva e legga. Ogni
progresso è sottolineato e premiato. «Io» e «mio» sono le prime parole usate
dal bambino per autoaffermarsi nella fase di sviluppo del sé.
Con l’industrializzazione, nell’Ottocento la società rurale è stata
soppiantata da quella urbana, con conseguente modifica della struttura
familiare. Ponendo fine alla convivenza allargata e collettiva, i bambini sono
stati separati e divisi per comodità in età precise e affidati a strutture
educanti, mentre un tempo erano i fratelli maggiori o la comunità a
occuparsene.
Alla luce di quanto accade nelle società contemporanee occidentali, dove
crescita e svezzamento sono rapidi e forzati, alcuni interrogativi sorgono
inevitabili.
Questo processo di sviluppo non potrebbe essere causa della devastante
insicurezza che caratterizza gli adolescenti occidentali e li spinge a cercare
sostegno in altro? Il loro bisogno di certezze non potrebbe nascere da un
mancato supporto del mondo adulto, in preda alla fretta di esaurire il più
presto possibile il contenimento? In questa pressione a crescere veloci,
nell’accelerazione evolutiva che illude l’individuo di essere onnipotente, non
si perde la capacità di diventare responsabili di sé?
Si pensi allo slogan occidentale divenuto imperante: Yes, I Can!
La collettività di oggi è spesso sotto un incantesimo di insicurezza, dove
sottocute sembriamo avere tutti un po’ paura, posseduti in maniera
impercettibile da un terrore indefinito e senza nome. E da qui prende forma
un esercito di Narcisi e Narcise, con l’urgenza di specchiarsi chiedendo
conferme.
Questo, a mio avviso, potrebbe essere collegato anche allo smarrimento
che deriva dal non sentirsi connessi con le proprie radici. Se non sappiamo
da dove veniamo, non conosciamo il nostro bosco di appartenenza, è
probabile che ci sentiremo foglie staccate dal ramo, in preda al vento.
Molte volte coltiviamo anche sentimenti avversi verso la nostra famiglia
di origine, non di rado proviamo disprezzo o diamo giudizi negativi su uno o
più familiari. Custodiamo un archivio interno di «non abbastanza», «troppo»
o «troppo poco», un elenco infinito di «però», «tuttavia» e «ma», quando si
tratta di catalogare le cose ricevute o meno dai genitori. Abbiamo in mente
una versione migliore di loro, allora recriminiamo, rimpiangiamo, e così
facendo pecchiamo di estrema arroganza. Spesso ci sentiamo a credito dai
genitori, talvolta concediamo dall’alto benevolenza o compatimento. In
alcuni casi li idealizziamo. E anche questo non ci fa bene.
Ciò significa che dobbiamo accettare in maniera acritica fatti e misfatti di
chi ci ha preceduto?
No.
Vuol dire invece prendere il proprio posto, facendo la propria parte,
lasciando agli altri la loro, smettendo di revisionarli dentro di noi. Non
possiamo tornare indietro e aggiustare la nostra storia. Possiamo soltanto
prendere atto di come sono andate le cose, sospendendo le recriminazioni
inutili. Per capire chi siamo dobbiamo sapere da dove veniamo e che cosa
portiamo con noi.
Se disprezziamo le nostre radici restiamo attorcigliati al passato, senza
forza per procedere nella vita. Senza conoscere a fondo le nostre origini
faremo fatica a trovare una direzione, perciò vagheremo come fantasmi,
portatori di una domanda eterna: «Ti prego, dimmi chi sono, e dimmi che
vado bene così». Rischiando di dipendere da chi abbiamo di fronte.
«Lasciatemi morire,
lasciatemi morire,
e che volete voi, che mi conforte
in così dura sorte, in così gran martire?
Lasciatemi morire.»
CLAUDIO MONTEVERDI, Il lamento di Arianna, scena VII
«Sono una parte di tutto ciò che ho trovato sulla mia strada.»
LORD ALFRED TENNYSON
Cuore a papà
Moltissime mie pazienti vivono una storia simile a quella di Vera. Cercano la
sicurezza in un matrimonio, creano una famiglia, hanno figli, ma non sono
felici, come se l’esistenza che conducono fosse priva della dimensione della
gioia dell’avventura.
Nella sua opera Il disagio della civiltà, Freud sostiene che l’uomo abbia
barattato la felicità con la sicurezza. Una tipologia di mie pazienti sembra
corrispondere proprio a questa descrizione: sono per lo più donne realizzate
nella professione, che si sposano per amore e hanno dei bambini, ma poi
qualcosa del passato irrisolto presenta loro il conto e finiscono in una
relazione extraconiugale, soffrendo moltissimo.
La calamita è, quasi sempre, la chimica a livello sessuale, che diventa
colla insolvibile. La fisicità vissuta in maniera clandestina, staccata dalla
quotidianità, assume picchi stratosferici. Sebbene si vergognino di tradire il
marito, allo stesso tempo non riescono a staccarsi dall’uomo che incontrano
quando sono già impegnate e verso il quale si attiva una forte dipendenza
affettiva, così rimangono intrappolate nel gancio letale della fusionalità
raggiunta soprattutto attraverso l’atto sessuale. Le donne in questione
riferiscono di percepirsi vive, piene, intere soltanto in presenza di questo lui
investito di un ruolo idealizzato, che detiene il potere di farle sentire belle,
desiderabili, femmine. D’altro canto, la relazione domestica è altrettanto
necessaria in quanto rassicura, protegge e funge da nido che ripara.
Da un punto di vista psicologico, questa condizione è atroce per chi la
vive. La donna non riesce a immaginarsi senza la doppia situazione di
sicurezza e avventura, lecito e illecito. È come se non fosse consentito, nella
psiche, vivere tutto con una sola persona. Anche se all’inizio del rapporto
con il compagno ufficiale c’erano tutte le dimensioni, con il tempo queste si
scorporano e la sessualità domestica diventa piatta, quasi incestuosa, mentre
il desiderio è là fuori e proibito, tormentato.
L’amante, dal canto suo, in genere è a sua volta sposato, ma resta molto
meno coinvolto e quasi mai mette in dubbio di lasciare la famiglia.
Voglio sottolinearlo, non sempre l’uomo in questione è un narcisista.
Come ho sostenuto in precedenza, è bene ricordare che il seme della
dipendenza affettiva esiste a prescindere da chi si incontra. Rimane sopito e
latente dentro di noi, e se si viene attratti in un’orbita narcisistica ad alta
intensità, di sicuro le cose saranno molto dolorose. Ma possono esserlo a
prescindere, come nel caso di Vera e di molte altre donne che ho ascoltato.
Quasi tutte le mie pazienti che vivono questa condizione si separerebbero
per formare un nuovo nucleo familiare, come possedute dal miraggio che
con l’altro lui tutto sarà magico. L’uomo amante pare invece vivere la dualità
in maniera meno angosciata. Non è escluso che abbia più storie, causando
una sofferenza atroce alla donna che vive invece schiacciata tra l’incudine
dell’attrazione fuori dal matrimonio e il martello della promessa fatta alla
famiglia.
In maniera provocatoria, prescrivo, per finta, un mese di convivenza
forzata con l’amato e sospirato amante. Facciamo una vera e propria
simulazione: invito la persona a immaginare l’immondizia da portare via, i
lavori domestici da svolgere, i bambini con la febbre da accudire, le grane di
tutti i giorni. E provo a fare un percorso di de-idealizzazione del personaggio
che spesso esiste solo nella fantasia della persona, la quale ne fa un eroe, un
essere in cui tutto è romantico, passionale, poetico, orgasmico. Ma è
irrealistico che questa percezione duri nel tempo e regga la quotidianità di
una convivenza.
8
Narciso e il suo doppio, una coppia
«Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest, la mia settimana di lavoro e il mio riposo
la domenica, il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; pensavo che l’amore
fosse eterno: e avevo torto.»
W.H. AUDEN, Funeral Blues
L’idillio
Finalmente! L’incontro avviene in genere su una base chimica. Uno dei due
assume le vesti del portatore di una terra promessa dove ci si sente visti,
riconosciuti, amati, desiderati. La fusionalità è una caratteristica frequente; lì
per lì, tutto va bene.
Il crack
Dopo le primissime fasi della relazione (ma poi, lo è davvero?) avviene una
frattura. Può accadere una scena di gelosia improvvisa, un litigio per un
motivo futile, inaspettato: un segnale che viene regolarmente ignorato, per
troppa fame di idillio. Chi in un primo momento sembrava essere il portatore
della terra promessa cambia, all’improvviso. Si evidenzia qui ciò che Freud
definirebbe il perturbante (Das Unheimliche), un’emozione fatta di stupore e
paura, che turba e sconcerta ma è allo stesso tempo così familiare.
È proprio in questa fase che accade la svista: la persona che subisce la
sfuriata non presta la dovuta attenzione al segnale d’allarme, alle red flags.
Forse perché quella sensazione ambivalente e ambigua è così radicata dentro
di lei da ritenerla quasi dovuta e normale. O è una condizione già vissuta e
ripetuta con una persona amata, probabilmente un genitore che ha tolto
all’improvviso lo sguardo ritenuto amorevole, creando così un interrogativo
indelebile: Dove ho sbagliato?
La contrattazione: fammi, dammi, dimmi
Inizia la fase delle richieste, più o meno esplicite, di attenzioni e di modifica
del comportamento. Entrambi vogliono dall’altro qualcosa che non avranno.
Uno vuole di più, l’altro si svincola o impone le sue regole. Chi nega la
relazione, o la sminuisce abbassandone il volume, sembra avere il potere; chi
si dichiara più affamato tentenna, viene a patti, patisce, compiace, si arrende,
soccombe. Parte una catena di pretese, una litania a due voci di «Fammi»,
«Dammi», «Dimmi». Uno dei due dice: «Fammi felice» e l’altro ordina:
«Fammi spazio». Uno supplica: «Dammi attenzioni» e l’altro impone:
«Dammi tempo». Uno implora: «Dimmi che sono importante» e l’altro
esige: «Dimmi che sono Dio».
Il fondo dell’abisso
Quando si arriva a toccare il fondo, l’individuo avverte una totale perdita del
sé, vede la propria vita andare a rotoli e a un certo punto ha un’intuizione
improvvisa. Prevale, per fortuna, un istinto di sopravvivenza, e chi è
stremato sente che se non interrompe i contatti andrà in frantumi per sempre.
La rinascita
Arrivati fin qui, la persona che è rimasta a lungo in uno stato emotivo
disordinato trova dentro di sé ciò che spesso io chiamo con i miei pazienti «il
guizzo d’amor proprio» salvifico. È la fase in cui chi vive la dipendenza
affettiva a gravi livelli disfunzionali riesce a compiere un chiaro esame della
realtà e per un attimo si percepisce dall’esterno, si vede. E di conseguenza
vede l’altro e comprende a fondo la dinamica. Smette di colpevolizzarlo
«perché non vuole» e rivolge lo sguardo su se stesso, osservando come di
colpo vari frammenti di sé acquisiscano una forma coerente e integra. Se la
persona segue il percorso psicologico da tempo, spesso pronuncia frasi del
tipo: «Adesso capisco il senso di tutti i colloqui. Ora mi vedo, e vedo l’altro
per quello che è».
Arriva così il colpo di reni della resurrezione e del riscatto, per cui la
propria vita diventa più importante dell’altro.
Non è possibile prevedere i tempi in cui questo copione si compie, quanto
dura ogni fase. So, dopo aver raccolto centinaia di storie simili, che accade.
Le tappe descritte sopra fanno parte del ciclo della dipendenza relazionale.
Si può guarire.
Perché a un certo punto della nostra vita ci è accaduto di ammalarci nei
sentimenti.
13
Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida
La proiezione
È bene ricordare che spesso in una coppia disfunzionale entrambi i partner
proiettano sull’altro la figura genitoriale. Il dipendente cerca le attenzioni del
fuggitivo, percepito come un dio, potente e indispensabile. Chi scappa teme
il bisognoso e vede nel partner un genitore dolce ma fagocitante da cui
salvarsi.
La ferita narcisistica
Ciò che non si dice con chiarezza è che nella coppia disfunzionale
implorante/evitante, in genere, entrambi i partner hanno un’importante ferita.
Come abbiamo visto, o per l’assenza di uno o entrambi i genitori, o per la
presenza distruttiva, invadente, castrante. Perciò, chi sviluppa una
personalità evitante, ad alto tasso di narcisismo occulto, è attratto dall’altro
in quanto erogatore di morbidezza, tuttavia si concede di riceverla solo a
piccole dosi, mentre chi ha una dipendenza affettiva vuole l’amore non
ricevuto, o ricevuto male, a tutti i costi e non gli basta mai. Il primo desidera
un momento di vicinanza ma poi fugge, terrorizzato da un calore che lo attira
ma allo stesso tempo lo destabilizza, il dipendente si incolla, o ricerca la
fusione. Finendo così con il ritrovarsi solo e rigettato per il suo troppo
richiedere.
L’impotenza
Chi è molto ferito non tollera la frustrazione e l’impotenza. Di fronte al no
dell’altro, il dipendente mendica, si lamenta, chiede e pretende, mentre colui
che si nega adotta il silenzio punitivo, nel caso dell’evitante passivo-
aggressivo. Da questo suo sottrarsi alla relazione deriva un senso di potere
che lo fa sentire al sicuro, mentre il dipendente affettivo, impotente, si
dispera.
L’abbandono
Il dipendente affettivo non si percepisce come persona intera, integra, ma
concepisce se stesso solo in funzione di un altro, dal quale vuole essere
salvato. Al pensiero di perdere questa stampella, illusoria, a cui si aggrappa,
si sente morire.
Anche Narciso non tollera l’abbandono. Attenzione: non perché tenga al
partner, ma perché perde un componente del proprio pubblico, che deve
essere vasto, adorante, benevolo e devoto. In pratica, perde un follower.
Perciò, abbandona prima che lo faccia l’altro. E va alla ricerca del
successivo like per rimpiazzare.
Incredibile a dirsi, pure il fuggitivo narcisista evitante ha estremo bisogno
dell’altro. A differenza del mitico Narciso, che si specchia nel partner come
in un lago per brillare e nutrire la propria necessità di sentirsi invincibile e
grandioso, il Narci burbero e schivo usa l’altro per vendicarsi. Essendosi
sentito rifiutato, si nega al mondo, che punisce per rivalsa.
La fusionalità
Il dipendente ricerca in maniera spasmodica il senso di fusione e di
completamento che percepisce solo attraverso l’altro. L’evitante rifugge
questo stato, da cui teme di essere inghiottito.
Spesso i ruoli possono essere cangianti e interscambiabili: accade così che
chi insegue abbia un’improvvisa paura della vicinanza e chi viene inseguito
senta la mancanza del mendicante a cui negarsi ripetutamente. E la lotta
continua.
14
Hybris
«All’alba vincerò.»
GIACOMO PUCCINI, Turandot
TUTTE le opere liriche sono state tramandate come storie d’amore, quando non
lo sono affatto.
Nell’opera di Giacomo Puccini, la principessa Turandot aveva giurato che
non si sarebbe mai fatta possedere da un uomo, onorando la memoria di
un’antenata che era stata violentata quando la sua terra era finita in mano ai
tartari. Per impedire di essere avvicinata, formula tre enigmi che vari
pretendenti non riusciranno a risolvere, finendo poi decapitati. Calaf, il
principe tartaro spodestato e animato da un senso di rivalsa, vuole
conquistare la principessa di ghiaccio; una volta vista la bellezza di
Turandot, però, rimane folgorato ed entra in una sorta di delirio che gli fa
sfidare la sorte pur di averla in sposa. Si presenta dunque come il principe
ignoto e risolve tutti gli enigmi. Turandot supplica il padre di non
consegnarla a Calaf, ma non trova ascolto, allora avverte il principe che avrà
solo una sposa piena di rancore. Lui però non molla e rilancia: se Turandot
scoprirà il suo nome prima dell’alba, lui sacrificherà la propria vita per lei.
«All’alba vincerò» rappresenta proprio il senso di sfida di Calaf. E dunque
non ha nulla a che vedere con l’amore. Turandot usa ogni mezzo per scoprire
il nome e non ci riesce, ma prima dell’alba Calaf glielo rivela, in pratica
sottomettendosi, rinunciando alla vittoria e lasciando la propria vita nelle
mani della principessa. Dinanzi a questa prova di «amore» Turandot cede e i
due si sposano felici e contenti.
Mi sembra che questa storia, così nota, possa servirci per comprendere il
concetto di sfida che sembra attivarsi in una dinamica relazionale.
Mara Selvini Palazzoli, una delle prime terapeute della famiglia in Italia
negli anni Ottanta, definì hybris l’atteggiamento di tracotanza e accanimento
che sembra animare chi soffre di alcune patologie.
Vale anche per lo scenario delle relazioni disfunzionali: ciascun membro
della coppia, mosso da un profondo desiderio di riscatto, irretito in una cieca
illusione, sembra scegliere un partner difficile, la persona X come dicevamo,
perché gli permette di attuare la sfida. Non è quindi una pulsione
sadomasochistica ad animare questo tipo di rapporto, quanto il miraggio di
vincere contro l’altro e aggiustare così qualcosa di antico e irrisolto.
Osservando molte di queste dinamiche, ho riscontrato che ciò contro cui si
vuole vincere appartiene profondamente a sé. Torna qui il tema dello
specchio, così complesso da vedere e comprendere.
Facciamo un esempio: Matteo ed Elisa stanno insieme. Lei si sente poco
considerata e inizia a soffrirne molto; in una relazione sufficientemente sana,
valuterebbe se il partner corrisponde alla propria scala di valori, se è
abbastanza appagata dall’altro e se è lì che vuole restare. In caso di una
situazione poco idonea, scomoda e non ricambiata, la persona risolta, in
grado di soddisfare i propri bisogni, lascia il partner e cerca ciò che la
appaga. Nel frattempo, pur dispiaciuta, sa starsene con sé, godendosi le
proprie risorse.
Quando si attiva la hybris, invece, scatta un’urgenza di ottenere a tutti i
costi quello che si vuole. E meno lo si riceve, più la hybris aumenta. Così,
Elisa lotterà con tutte le forze per cambiare Matteo. Quello che forse Elisa
non vede è che ciò che lei vuole modificare nell’altro è un aspetto di se
stessa riflesso in lui. Pertanto, il suo accanimento porta ad alcune domande
che è utile porci in ogni faida relazionale.
Quello che chiedo, do? Davvero? Lo do perché mi viene naturale, o per
ricevere in cambio ciò che voglio?
Passaggio successivo: sono in grado di dare a me stesso ciò che vorrei
dall’altro? In caso di risposta negativa, la rabbia e il furore che provo
nascono dal fatto che in fondo è me stesso che voglio modificare? È perché
vedo specchiato nel partner qualcosa che in qualche modo mi appartiene?
Forse avverto come disfunzionale la mia incapacità di entrare in intimità che
vedo nell’altra persona, e la mancata abilità di restare intero e integro nella
relazione?
Riassumendo: avverto in maniera non chiara qualcosa in me che non mi
piace. Chiedo a te di aggiustarmi, ma mi rimandi lo stesso errore, che io
detesto. Allora me la prendo con te.
Lotto con te perché voglio aver ragione di me. E tu finirai con il fare
altrettanto.
Le posizioni sono speculari: ognuno vorrebbe sentire di avere lo scettro
del comando nella relazione. È brama di potere, è una tenzone egoica, non è
amore.
Il termine hybris è quindi qui rivisitato e usato per definire la lotta che
s’instaura tra i due amanti, uno dipendente e uno evitante, anche a forte
impronta narcisistica. La coppia invischiata in questa battaglia per la
supremazia sull’altro appare pertanto incapace di una comunicazione
autentica e innesca una guerriglia assurda, infinita, atavica. Ognuno vuole
prevalere, affermarsi, pena la sensazione che se non si vince c’è il rischio di
non esistere. Entrambi sono pertanto intrappolati in un legame fortissimo e
ambiguo, dove ciascuno è cieco e sordo ai bisogni dell’altro.
Hybris è ciò che spinge chi si sente più vulnerabile a subire in nome di un
futuro risarcimento, vissuto come rivincita. Perciò, chi attua questa sfida si
aspetta sostegno incondizionato anche dallo psicologo, non sa rispettare i
confini e facilmente si lascia invadere per paura di essere abbandonato,
rifiutato, escluso. Chi pecca di hybris si sente perdente e questo gli provoca
un profondo senso di frustrazione. Sembra pervaso da una nostalgia
indefinita, sebbene sia intrappolato nell’ostinazione, prova rabbia per la
propria imperfezione, si percepisce inferiore rispetto all’altro, ritenuto un
dio. Sa di avere già perso in partenza, ma non vuole lo stesso abbandonare la
speranza di riuscire ad acquistare quell’autonomia emotiva che tanto
desidera. Il sentimento di hybris rimane acceso e diventa motore stesso della
relazione, prendendo il posto dell’amore.
Giunti a questo punto, abbiamo guardato al microscopio ciò che si
nasconde tra le pieghe di una dinamica imperniata attorno a una dipendenza
affettiva, partendo da manifestazioni più significative con picchi estremi di
gravità per arrivare a diverse tonalità in cui tutti noi possiamo specchiarci in
gradi diversi di intensità.
Mi piace sottolineare ancora che l’approfondimento che stiamo qui
facendo per indagare queste modalità affettive non è mirato a individuare
colpevoli e fare processi, ma a cercare le radici da cui partono le nostre
terminazioni emotive.
Per provare a individuare le vostre, vi rimando alla Scheda di lavoro n. 2,
«Che coppia sei?» (vedi p. 233).
15
Love addiction, poisoned love
La mammina bambina
Durante gli incontri con le mie pazienti, non di rado si evidenzia un copione
che ho definito insieme con loro della mammina bambina. È un
atteggiamento che ci ricorda le protagoniste descritte nel testo principe della
dipendenza affettiva: Donne che amano troppo. Nella sua opera di
informazione, la psicoterapeuta Robin Norwood ha dato voce a centinaia di
donne rimaste intrappolate in una relazione infelice ad accudire un partner
rivolto altrove, magari alcolista.
L’atteggiamento accudente parafrasa quello materno, tipico della
codipendente, devota e immolata a salvare l’altro, abnegata e sacrificata. Ma,
a voler ben guardare, la donna che si propone come surrogato genitoriale in
realtà cerca lei stessa un genitore nell’altro, proprio come una bambina.
Tutta la relazione è infantilizzata: il maternage oscilla tra il voler prendersi
cura del partner e un disperato bisogno di essere adottata, tenuta, amata.
La mammina bambina promette accudimento in cambio di – illusoria –
protezione.
Purtroppo, quell’amore bramato non arriverà nei tempi e modi agognati.
La dipendente affettiva ha fame, ricordiamoci, una fame insaziabile, che
spesso definiamo con le mie pazienti «fame di favola». C’è un’illusione
costante che se darò tutta me stessa, se dirò sempre di sì, l’altro prima o poi
mi amerà e mi terrà con sé. Quando durante un colloquio arriviamo a questa
consapevolezza è un ottimo punto di svolta, perché emergono i meccanismi
reconditi di tutto quell’amore straripante, che altro non è che bisogno
disperato di essere riconosciuta. La mammina bambina viene smascherata, e
si scopre che tutta quella bontà ha un pizzico di manipolazione: mi renderò
così indispensabile che non potrai non scegliermi.
Peccato che a questa seconda parte l’altro non è interessato, perché prende
ma non restituisce.
Per quanto doloroso sia il processo, con le pazienti arriviamo a sorridere e
a cercare, con tanta delicatezza e determinazione, strategie per creare nella
relazione un passo di danza differente, che spesso consiste nello smettere di
dare incondizionatamente come farebbe una madre. Lo ricordiamo: una
relazione adulta può funzionare soltanto se c’è un giusto equilibrio tra il dare
e l’avere.
La crocerossina
La salvatrice è tanto buona quanto distante da sé. La sua ferita narcisistica è
molto antica, quando per esistere ha dovuto prendersi cura dei bisogni
emotivi di uno o entrambi i genitori. La sua missione è avere il controllo
sull’altro, che però non sa di agire: vuole possedere tutto di lui, i pensieri e la
vita. Ma dice di voler «aiutare».
In cosa differisce dalla mammina bambina? Mentre quest’ultima si
comporta da madre ma vorrebbe un padre, la crocerossina (di cui esiste
anche la versione maschile, il salvatore) è talmente abnegata che non vuole
nulla per sé. Non è in contatto con ciò che sente e necessita.
La piccola fiammiferaia
È la donna che percepisce se stessa affettivamente deprivata, con il padre (o
la madre) crudele o assente, e mendica amore senza trovarlo. Rischia però di
restare imprigionata in un vittimismo stereotipato (un punto su cui lavoriamo
molto durante i colloqui): gli abiti dell’orfanella talvolta diventano una
comoda uniforme da indossare nel mondo e, per paradosso, sono anche
difficili da togliere.
Posizionarsi nel ruolo della derelitta implica assumere che qualcuno ci
abbia derubato di qualcosa che ci spettava di diritto. Facciamo un esempio:
se io indosso i panni di chi ha subito danni e lì resto incollata, va da sé che la
responsabilità di chi sono non è mia, è di altri. E io quindi con questa postura
cerco di indurre benevolenza, carità, come il personaggio della fiaba di
Andersen, che è la rappresentazione della deprivazione, della solitudine e
della scarsità. Nella favola, la bambina vaga da sola al freddo la notte di
Natale, vendendo fiammiferi, in cerca di qualcuno che le dia qualche soldo.
Nessuno lo farà, e lei morirà di stenti, raggiungendo in cielo la nonna, unica
figura amorevole, mentre il padre cattivo la sfrutta e la manda per strada al
gelo.
Qual è la sua ferita narcisistica? Quella di essere maltrattata e non amata.
Questo crea un dolore profondo.
A differenza delle altre tipologie, la piccola fiammiferaia resta in contatto
con le proprie emozioni. È stata amata in parte da qualcuno, perciò conserva
l’empatia e ha ancora il coraggio di chiedere. Peccato che a furia di
elemosinare, il pericolo sia quello di perdere la dignità e di non coltivare
l’amor proprio. E se è questo il nostro copione, rischiamo di rimanerci
imprigionati a vita.
Dobbiamo elaborare e trasformare i traumi subiti, senza negarli. Le lesioni
vanno cicatrizzate, non dimenticate. Se guariamo la ferita, poi potremo
usarla come perno per librarci in volo.
La più bella del reame
La più bella del reame incarna invece la ragazza viziata, parente della
principessa sul pisello, ma più capricciosa ed estrema. Assomiglia un po’ ai
vari Narci che abbiamo descritto in precedenza; non può permettersi di non
competere, non riesce a riposare mai, e la sua ferita è molto profonda, anche
se non sembra.
Può seguire questo copione per due ragioni: o è stata cresciuta
nell’illusione di essere la migliore del mondo, o lo avrebbe tanto voluto. Di
fatto, si comporta come se si aspettasse che le acque si separino al suo
passaggio, e rimane in attesa di un applauso dato per scontato nel primo
caso, o preteso come risarcimento nel secondo.
Non può permettersi un fallimento, è convinta di poter dimostrare al
mondo quanto vale, e non è ammesso sbagliare. Per assuefazione al
successo, o per riscatto di una condizione che vorrebbe a tutti i costi.
«Lesa maestà», potrebbe essere il sottotitolo che l’accompagna. È tutto
suo, anche il passato del partner. Prova gelosia retroattiva, si paragona ad
altri, si dispera, teme che l’amato – si fa per dire, in quanto qui di amore non
possiamo parlare – troverà senz’altro qualcuno migliore di lei. Ha bisogno di
incessanti rassicurazioni, che però non bastano mai.
Invece che la più bella del reame, è facile che dentro si senta come le
sorellastre di Cenerentola, andando su tutte le furie se non è invitata al ballo.
È disposta a stracciare le vesti di qualsiasi rivale. Ma resta insoddisfatta
comunque e soffre, tantissimo. Perché dentro di sé sa o teme profondamente
di essere un bluff.
Il bravo ometto
Si comporta come un personaggio dei racconti di Edmondo De Amicis, il
bravo ometto protettivo e responsabile.
È il bimbo che doveva obbedire, reprimendo perciò la pulsionalità,
venendo così gratificato per le buone azioni. Come possiamo immaginare,
nella relazione adulta questo archetipo non è virile, e conserva una qualità
infantile che non aiuta a mantenere la coppia in un equilibrio armonioso.
«Mamma, guarda»
È un archetipo facilmente individuabile e riconoscibile in noi stessi quando
lo rappresentiamo, ed è abbastanza universale. Si tratta dell’esibizionismo
eccessivo e quasi ridicolo. Al maschile, vediamo l’uomo cresciuto che fa la
ruota del pavone, invia selfie con muscoli o la foto del pene in erezione. Sì,
accade, molto più spesso di quanto pensiamo. Lo scopo è provocare stupore,
scatenare la standing ovation.
Anche al femminile troviamo la ragazza che invia foto ammiccanti, in
posa, che ci ricorda tanto le bambine quando indossano il vestitino della
festa e lo esibiscono davanti alla mamma (o al padre, perché c’è anche
l’atteggiamento: «Papà, guarda»).
Sono residui fissi e irrisolti del narcisismo primario infantile di cui parlava
Freud, che è fisiologico e funzionale fino all’età prepuberale. A trenta o
cinquant’anni deve però far scattare l’allerta di un disagio. «Guardami!» è un
imperativo implorante, oggi a maggior ragione sui social.
Intendiamoci, a tutti, e sottolineo tutti, fa piacere essere riconosciuti,
anche se qualcuno con tratti evitanti o eccessivamente timido protesterà che
non è vero, e di esserne anzi infastidito. Ricordate la modalità opaca opposta
a quella abbagliante? Tant’è, ognuno in cuor suo sa di quante calorie di
apprezzamento necessita. Qui è opportuno ricordare che chi assume la
postura esasperata del «Guardami!» elemosina attenzioni da qualcuno. Forse
da un genitore distratto proiettato ora nell’età adulta in una relazione, in un
pubblico? O forse, essendo cresciuto in un humus di applausi, li ricerca
ancora nel mondo, come unica prova del proprio esistere?
La bimba di papà
Nella dinamica narcisisticodipendente a volte questi copioni si intrecciano.
Soprattutto per quanto riguarda le donne, un fattore importante sembra
avere, nella relazione, il rapporto avuto o mancato con il padre. In
particolare, la nostalgia di un padre adorante o trascurante muove queste
figure femminili, che replicheranno con tutta probabilità lo stesso schema.
Possiamo quindi aggiungere alle forme archetipiche elencate prima quello
della bimba di papà, che come gli altri ha sviluppato il proprio copione in
base ai messaggi ricevuti in famiglia.
Il modello disfunzionale del rapporto uomo-donna vissuto all’interno del
nucleo familiare sembrerebbe condizionare lo sviluppo della competenza
relazionale femminile, inducendo le donne che hanno vissuto un’esperienza
affettiva non appagante con il padre alla scelta di partner distanzianti. La
fragilità parrerebbe condurre queste persone verso relazioni amorose in cui
mendicano le attenzioni e le rassicurazioni mai ricevute, ora richieste in
maniera insistente al partner, la cui distanza emotiva è vissuta come
abbandono e rifiuto. Questo innesca in loro una serie di pensieri irrazionali,
confermando ciò che da sempre temono e pensano di se stesse.
Ciò si traduce in un grande timore di essere trascurate e nel desiderio di
essere amate e accudite da qualcuno, cercando di controllarlo attraverso il
fascino, la capacità di intrattenimento e la seduzione.
Come avviene per la principessa sul pisello o la più bella del reame,
osannate e ipergratificate dal papà, che chiedono al mondo lo stesso script
adorante, anche la bambina che si è sentita invisibile agli occhi del padre
finirà con l’avere pretese e aspettative e si ritroverà a elemosinare dal
partner.
Questo archetipo femminile sembra lasciare il cuore nella casa del padre e
avrà difficoltà, dopo un primo momento magari di gloria e passione per il
partner, a mantenere nella stessa relazione sessualità e sentimento.
Si crea pertanto in chi ha avuto questo tipo di ferita una scissione tra sesso
e affettività.
Come sostengono studiosi quali Wilhelm Reich e il suo allievo Federico
Navarro, la bimba di papà cresce avvinghiata a un’idea di padre eroicizzato,
oppure un fantasma, negato, rincorso, desiderato. E alla nostalgia di lui
consegna se stessa, per sempre. Nel suo immaginario di adulta, la figura
paterna assume un ruolo ingombrante ed epico, che le permetterà di vivere le
dimensioni affettive ed erotiche soltanto in maniera scissa.
Non di rado accade che le mie pazienti mi raccontino di avere un
matrimonio che somiglia di più a una società, o a una cooperativa che
funziona nella gestione della casa e dei figli, come nella storia di Vera,
narrata in precedenza. Ma da un punto di vista sessuale sono matrimoni
bianchi, e ce ne sono molti di più di quanto si sappia, a conferma di ciò che
sosteneva Freud a proposito della rinuncia alla felicità in nome della
sicurezza.
Nelle relazioni con una sessualità assopita o assente pare verificarsi
proprio questo. Le mura domestiche accolgono, proteggono una routine
rassicurante, ma passione ed erotismo sono fuori, altrove. Proprio come quel
padre?
Molto di frequente si sceglie un partner che sia socialmente approvabile,
gradito alla famiglia. E chi ha uno schema di fedeltà e adesione totali e
acritiche alle richieste dei familiari, rinuncia a una parte di sé in nome di
questa approvazione. Per poi vivere in maniera clandestina le parti
tralasciate, con quello che la società chiama tradimento e la persona chiama
bisogno vitale.
Questa carrellata non è di certo esaustiva, ma solo evocativa dei tanti ruoli
che è probabile incontrare in una dinamica narcisisticodipendente.
È evidente che nella dipendenza affettiva esiste un alto rischio di perdita
della capacità critica, della percezione di sé e quindi anche della percezione
obiettiva dell’altro, vissuto come irrinunciabile nutrimento.
In alcuni momenti si avverte qualcosa di distorto nella relazione, si sente
che è nociva e se ne vorrebbe fare a meno, ma la constatazione di essere
intrappolati in un modello dipendente fa sentire indegni, bisognosi,
incompleti e quindi spinge ancora di più verso l’abbraccio consolatorio del
partner. La dipendenza è vissuta come una prigione, ma al tempo stesso è
un’esperienza totalizzante ed eccitante, nel senso che niente è altrettanto
soddisfacente, al pari di una sostanza che da un lato inebria e dall’altro
avvelena. Purtroppo, chi è dipendente sente l’assenza dell’altro come
minaccia di morte. Non avendo un senso di completezza, non avendo
sviluppato una coscienza di sé in grado di funzionare autonomamente,
rischia di sentirsi frantumato e di andare in pezzi.
Il modello idealizzato e romantico della coppia come monade, che fa tutto
in tandem – «altrimenti cosa si sta insieme a fare» –, rende costantemente
necessarie le dosi di presenza dell’altro, così l’io della persona scompare per
lasciare lo spazio a un noi confusivo e colloso.
Le normali attività quotidiane sono trascurate, l’unica cosa importante è il
tempo trascorso insieme, perché sancisce l’esistenza del soggetto.
L’individuo non ha una sua progettualità, interessi propri, non ha un senso di
unicità se non in funzione dell’altro. Se la dipendenza è reciproca, la coppia
si alimenta di se stessa, finendo con l’affogare dentro la bolla relazionale.
Quando chiedo alla persona di riflettere se davvero sente di «avere»
l’altro, dapprima risponde: «Meglio di niente». Invito a una seconda
riflessione su cosa ha da perdere davvero e alla fine concordiamo su una
realtà: ciò che ha da perdere rinunciando alla relazione che la tormenta non è
tanto il partner, ma l’illusione di un rapporto che non c’è.
È qui che possiamo individuare l’elemento che accomuna il sentire di tutti
i personaggi descritti finora: l’horror vacui.
«Horror vacui»
Come abbiamo sottolineato più di una volta, il vuoto è ciò con cui un
dipendente affettivo fa i conti dentro di sé. Per averne ricevuto troppo o
troppo poco, quel nutrimento sperato e dovuto è arrivato in maniera distorta
e al posto dell’amore si è formato un buco incolmabile. Il partner dovrà
allora provvedere a riempire quei vuoti originari, investito – come un agente
salvifico – di aspettative di riparazione e risarcimento, determinando nella
maggior parte dei casi una relazione disturbata a causa dell’incapacità di
stabilire reciprocità di scambio affettivo.
Impotenza e frustrazione animano il dipendente affettivo, che vuole con
grande rabbia. Vuole che l’altro sia come dice lui, quando decide lui. Vuole
che sia presente, affettuoso, amorevole, che si occupi di lui, che lo ami al
posto suo. Non si assume la responsabilità della propria vita, ma ritiene il
partner colpevole della propria infelicità. Cieco riguardo a se stesso,
imprigionato nel ruolo di vittima, al posto di «Io» dice «Tu».
Il sentimento che anima il dipendente affettivo è ben diverso dall’amore
comunemente inteso. In apparenza, chi soffre di una dipendenza pensa di
dare molto, mentre in realtà prende e pretende, ma non lo sa. È convinto di
amare, quando invece cerca di «riempirsi». E per non essere lasciato, spesso
compiace, apparendo docile, affettuoso e sensibile.
Come dicevamo, nella dinamica narcisisticodipendente la chimica gioca
un ruolo importante. L’attività sessuale assume aspetti totalizzanti, a tratti
divoranti, tanto l’amplesso è fusionale.
Tuttavia, occorre fare una precisazione in proposito. Il grado di
eccitazione sessuale arriva a livelli altissimi soprattutto nelle prime fasi della
relazione, in particolare per il dipendente, che sente di esistere solo
attraverso l’altro. Ma trattandosi di un rapporto fortemente simbolico e
proiettivo, in cui cioè l’altro rappresenta una ferita del passato da guarire, le
due persone non si vedono davvero: vedono solo ciò che entrambi
rappresentano l’una per l’altra.
In definitiva, l’altro diventa un contenitore del vuoto originario
determinatosi al momento della separazione dal caregiver avvenuta in modo
disfunzionale.
Da qui la ricerca spasmodica di ritornare a quella sensazione di
appagamento primario, simbiotica, che le persone dipendenti sembrano
rincorrere, mendicare, bramare e pretendere dalla presenza dell’altro, al
punto da non tollerare rifiuto e abbandono.
17
Codipendenza, ovvero io ti salverò
«Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.»
LEV TOLSTOJ, Anna Karenina
COME ho detto all’inizio del libro, tra i diversi paradigmi teorici utili ad aiutare
le persone intrappolate in una dipendenza affettiva, quello che mi permette
di indagare più in profondità è l’approccio sistemico-relazionale, che da un
lato mi consente di osservare le dinamiche della relazione al microscopio,
dall’altro mi propone una lettura in prospettiva, guardando con un
cannocchiale tutta la famiglia di origine della persona.
Ritengo che studiare le famiglie sia affascinante e dia molte risposte per
comprendere a fondo la dipendenza relazionale. Nelle storie delle famiglie
troviamo i codici, le regole, le mancanze, ma anche le ricchezze e le risorse.
Due sono gli aspetti da considerare nello studio prospettico dei nuclei
familiari: l’omeostasi e la morfogenesi. In sostanza, nella famiglia esiste una
struttura di base che tende a restare stabile per una sorta di autoprotezione
del sistema, l’omeostasi, salvaguardando così un equilibrio che protegge la
sua sopravvivenza. Allo stesso tempo c’è un cambiamento continuo, definito
morfogenesi, che accompagna l’evoluzione degli individui. Queste due
dimensioni coesistono e danzano insieme, rendendo le famiglie un
caleidoscopio che al contempo muta e rimane uguale.
I passaggi evolutivi della famiglia avvengono attraverso movimenti
oscillatori costanti tra omeostasi e morfogenesi, tra processi innovativi e
pratiche che consolidano lo status quo: pur restando la stessa famiglia, in
essa convivono continui mutamenti. La sua identità è data dalla costante
tensione tra l’essere al contempo protagonista e risultato della
trasformazione.
La qualità dei legami relazionali e affettivi che si realizzano nella famiglia
è dunque capace di condizionare i processi necessari alla costruzione
dell’autonomia dell’individuo e, insieme con le caratteristiche biologiche e
fisiologiche del soggetto, è responsabile della personalità e del suo
funzionamento normale o patologico.
Come ci separiamo dalla nostra famiglia?
A volte questo passaggio può risultare molto difficile. Il processo
evolutivo che porta a individuarci come persone con una nostra identità
inizia nella primissima infanzia e procede a più riprese, a gradini irregolari:
crescendo, talvolta non vediamo l’ora di diventare grandi, per poi voler
subito dopo tornare piccoli ed essere accuditi.
È nell’adolescenza che ci giochiamo lo stacco finale, prendendo lo slancio
per spiccare il volo. In questa fase transitiamo da una condizione di
dipendenza a una sempre maggiore autonomia, ed è la tappa evolutiva più
delicata, perché ci avviamo ad assumerci la responsabilità di ciò che siamo,
facciamo e scegliamo. Un mancato compimento di questo processo può dare
origine, in seguito, a uno stato di confusione in cui non sappiamo bene chi
siamo e qual è il nostro posto nel mondo. Giunge tuttavia un momento in cui
è necessario «tradire» il nostro sistema per poter scoprire la nostra unicità.
Anche questo passaggio evolutivo ci spaventa.
La famiglia è lo scenario primario dove si compiono le prove di quanto
avverrà poi anche altrove. A lei il compito di tramandare valori, credenze e
mappe di senso, e di costituirsi palcoscenico per possibili cambiamenti. Essa
è al contempo luogo dove nascono e si sviluppano problematiche, ma anche
miniera di soluzioni possibili.
Pertanto, va da sé che il modello di (mal)funzionamento nella relazione si
impara nella famiglia di origine, prima che negli altri contesti sociali di
crescita che si incontrano durante le traiettorie di sviluppo.
Secondo alcune teorie, la famiglia segue leggi ben precise, atte a
mantenere l’ordine e la sopravvivenza del sistema. Possiamo osservare, e
anche dedurre in maniera logica, che in ogni sistema vige il principio di
appartenenza: ciascun componente ha diritto di appartenere e se qualcuno
viene escluso, questo avrà una ripercussione importante.
Inoltre, c’è un ordine gerarchico fatto di ruoli ben precisi da mantenere
che, se sovvertito, crea infelicità e disordine. Per esempio, se un figlio fa da
padre a un genitore, probabilmente da adulto porterà un bisogno non
ascoltato nella relazione con il partner e gli chiederà di fargli da genitore,
ricompensarlo, ripagarlo del pezzo di vita perduto a svolgere un ruolo non
suo. Altre volte un figlio «sposa» un genitore, cioè si comporta con lui da
coniuge, sovvertendo l’ordine.
Affinché ci sia equilibrio tra i membri, deve esistere un’equa distribuzione
del dare e avere. Tra i coniugi, per esempio, se uno dei due dà di più si
colloca nella postura di un genitore e finisce forse con il chiedere a un figlio
di compensare questo sbilanciamento.
Tra pari, il dare e avere resta equo, altrimenti si creano molti problemi, le
coppie naufragano e nelle famiglie si formano modelli disfunzionali.
I terapeuti sistemici individuano nella dipendenza affettiva un’espansione
di quanto vissuto e codificato nel nucleo affettivo originario: di conseguenza
possiamo ipotizzare che modelli distorti siano in grado di influire fortemente
sulle relazioni future. Nell’interazione all’interno della coppia non si
incontrano e confrontano soltanto due singoli ma due culture familiari.
Le famiglie con forte tendenza centripeta, a maglia stretta, daranno origine
a modelli comportamentali molto invischianti: i membri devono restare nei
paraggi, non tanto fisici, ma soprattutto psicologici. Si ricerca prima di tutto
la fusionalità, a scapito del riconoscimento dell’individualità di ciascun
membro. In altre parole, tutti devono sostenere gli altri in quanto la famiglia
è al di sopra di ogni cosa, va protetta e conservata e ha la precedenza sui
singoli. I componenti di questo tipo di famiglia tendono a ricreare un nucleo
coeso ma confuso e simbiotico, dai confini impermeabili verso l’esterno –
che rimane chiuso fuori – e dove è lasciato scarso spazio all’individuo. La
persona che ha acquisito questo modello vive una forte identificazione con il
clan di appartenenza e fatica a vedere se stessa come un’unità funzionante in
modo autonomo.
Nelle famiglie caratterizzate invece da un modello di disimpegno,
centrifugo, a trama larga, a bassa forza di coesione e identificazione con il
nucleo originario, l’individuo sarà propenso a instaurare legami dispersivi,
frammentati, sfilacciati.
Sia che le famiglie abbiano avuto un atteggiamento soffocante o
un’attitudine disgregante, la persona sarà portata a sviluppare un’affettività
contorta di dipendenza o di evitamento dell’affetto.
Dall’incontro di questi due modelli e delle varie combinazioni nascono
schemi relazionali più o meno funzionali.
Per comprendere come erano declinati i confini all’interno della famiglia,
a volte faccio una domanda molto semplice ai miei pazienti che soffrono di
dipendenza affettiva: in casa sua, prima di entrare nella stanza dell’altro, si
era soliti bussare? Dopo una pausa di stupore, il più delle volte la risposta è
no.
Ho potuto osservare che molte persone non si allontanano dalla famiglia
di origine nemmeno da sposate. Sia da un punto di vista psicologico sia
fisico. Ruggero, per esempio, dopo il matrimonio aveva scelto di vivere
nell’appartamento di fronte a quello dei genitori, in una villetta bifamiliare
alla periferia di una grande città, restando pertanto in una specie di bolla
degli affetti. Alla domanda se vi fosse l’abitudine di bussare prima di
entrare, o se esistessero porte da poter chiudere a chiave, mi rivelò che non
solo non c’erano chiavi, ma nemmeno le porte tra una stanza e l’altra, bensì
una sequenza di spazi aperti tra le due unità abitative.
Ruggero aveva chiesto alla moglie di trasferirsi nella casa in cui era
cresciuto e dove i genitori andavano e venivano indisturbati da un
appartamento all’altro. Il messaggio alla partner, che era stata inglobata nel
nucleo, era: «La mia famiglia di origine conta più della nostra, anche se
abbiamo figli. E conta anche più della tua».
Inutile dire che il nucleo secondario si è fratturato e la coppia si è
separata, mentre Ruggero non è riuscito ad allontanarsi dai familiari,
nonostante abbia fatto un percorso psicologico. Perché ci sono famiglie che
non lo permettono, e ci vuole molta forza per trasformare uno schema
tramandato da varie generazioni. Se il codice prevede che non si vada via e
che tutti interferiscano in tutto, facilmente l’elemento che si inserisce – in
questo caso la moglie – si sentirà piano piano estromesso, marginale, non
fondamentale. Ed è probabile che sceglierà di allontanarsi, mentre l’altro
rimarrà invischiato con la propria famiglia perché non vuole sentirsi in
colpa.
Più avanti torneremo sulle ombre psichiche che si affacciano quando
dobbiamo prendere decisioni che differiscono dalle norme del sistema e
implicano l’ipotesi di tradire il clan.
19
Galassie familiari
Con te e senza di te
In un’ipotetica famiglia dove tutti i componenti sono presenti e attivi,
l’individuo potrà sperimentare l’essere con e l’essere senza, grazie
all’acquisizione della capacità sia di essere in relazione sia di disimpegnarsi
per rivolgersi altrove, rapportandosi a volte con un genitore e a volte con
l’altro, o con entrambi allo stesso tempo. Questo gli consentirà poi di
esportare tali esperienze relazionali anche in altri contesti.
Sperimentando varie configurazioni, impariamo a stare, a lasciare, a
tornare, allargando o restringendo le interazioni a tu per tu, o a tre, o più
persone se siamo in una famiglia numerosa.
Se nel sistema ci sono modalità invischianti e confusive l’individuo non
apprende a svincolarsi, a rapportarsi in maniera adeguata, e resta
intrappolato nelle dinamiche affettive. Più in una famiglia vengono praticate
le varie possibili figure geometriche relazionali – mamma-figlio, mamma-
papà-figlio, padre-figlio, fratello-fratello, papà-figli e così via –, lasciando lo
spazio affinché ci si possa allenare alle tante combinazioni, più impariamo a
svincolarci e a rientrare nella relazione, senza voler stare sempre connessi, o
sempre distanti e scollegati.
È in questa alternanza tra con e senza che troviamo un punto fermo dentro
noi stessi, dove poter talvolta riposare «a maggese», come avrebbe detto lo
psicanalista Masud Khan, per coltivare quei momenti in cui godiamo della
nostra compagnia.
La funzione materna, tra le altre cose, ci insegna a nutrirci e a prendere
dentro di noi il mondo, o a lasciarlo fuori. Il ruolo del padre, o di chi ne
impersona i principi, rappresenta invece in maniera simbolica la spinta verso
l’esterno. A seconda di come interiorizziamo la sua figura, avremo più o
meno forza per esplorare il mondo.
Ogni relazione è pertanto una costante ondulazione, come una marea che
avanza e si ritrae, e il modo in cui porteremo avanti le nostre onde
relazionali dipende proprio dalle prove tecniche effettuate in famiglia.
Facciamo un esempio a cui abbiamo assistito tutti. Pensiamo a un
bambino piccolo che sperimenta lo scivolo per le prime volte al parco
giochi: lo farà in maniera molto diversa se a guidarlo in questa esperienza
sarà il principio materno o quello paterno. La mamma, per esempio, è facile
che metta il figlioletto sullo scivolo e lo tenga con le mani fino a quando non
sarà sceso. Il papà (o chi ne fa le veci) sistema il bimbo sullo scivolo ed è più
probabile che gli dica: «Scendi, dai, coraggio, scendi, vieni giù (dal papà)»,
e lo aspetterà in fondo, incentivando così la sua autonomia e incitandolo a
fare da solo.
Che cosa succede se questa doppia stimolazione, contenimento e
avventura, non accade?
La madre, o chi per lei, cercherà di sopperire a tutto, ma difficilmente
toglierà quelle mani: nel tentativo di ricoprire più ruoli, rischierà di tessere
una tela da cui, con ogni probabilità, il figlio faticherà a districarsi. L’eccesso
di cura potrà finire con l’ingabbiare le emozioni e le pulsioni di libertà del
bambino, rischiando senza volere di creare un ambiente ipercontrollante e
impedendo quello snodo delicato e necessario di autonomia.
Dal canto suo, per compiacere un genitore iperprotettivo il figlio può
finire con l’adeguarsi al suo volere. Quando questo accade, il genitore
diventa incapace di vedere il figlio nella sua dimensione di individuo a sé.
Così facendo, gli impedisce di essere indipendente, una persona altra e
diversa.
Per riassumere, possiamo dunque sostenere che una competenza
genitoriale smarrita e distratta può creare individui incerti, e di conseguenza
una società malferma e poco credibile.
Nel processo educativo, prima si tiene e poi si incoraggia verso il volo.
Sembra però che oggi stiamo facendo un po’ il contrario: vogliamo figli
intraprendenti a due anni, poi impediamo loro l’avventura nel mondo,
legandoli stretti alla gamba del tavolo della cucina e trasformandoli in
surrogati dei nostri genitori. Vediamo così padri e madri che da un lato
incitano i figli piccolissimi a superare il limite delle loro capacità,
accelerandone il processo di maturazione emotiva e cognitiva, mentre
dall’altro sembrano miopi rispetto ai reali bisogni affettivi della prole, che
spesso credono in modo erroneo di soddisfare con una pletora di oggetti
invece che con una sponda di contenimento emotiva capace di infondere
sicurezza.
Ed è soprattutto la sicurezza economica che pare essere perseguita e
garantita dal buon genitore attuale, scambiando il vero sguardo sul figlio con
il soddisfacimento dei bisogni materiali, invece di riconoscerlo, ascoltarlo
davvero e lasciarlo libero di esprimere i suoi bisogni affettivi. Nella rinuncia
a un ruolo che non gli appartiene più e nel transito da una forma di
genitorialità ormai oltrepassata a una nuova ancora da consolidare, si rischia
di perdere quel senso di responsabilità che il figlio, di conseguenza, non
apprende.
La famiglia sembra quindi in crisi, ma da ogni crisi nasce una
trasformazione.
Senza entrare in valutazioni qualitative, il compito della psicologia è
quello di rilevare ciò che accade nel mondo interiore riflesso in quello
sociale, per cercare di comprendere la nostra continua evoluzione, che mai
accade in maniera lineare e costante. Perciò possiamo soltanto monitorare le
problematiche della famiglia, riconoscendo tuttavia le nuove famiglie, con le
loro neonate risorse in divenire.
Se nel frattempo sentiamo di provenire da un nucleo familiare che poco
contiene e indirizza, cercheremo di riparare con relazioni esterne, utilizzando
meccanismi di consolazione e compensazione. Andremo a cercare
motivazioni e sostegno, senza trovare un bacino di rifornimento dentro di
noi, se nessuno ce lo ha insegnato.
Ancora una volta, precisiamo: abbiamo sì tutti bisogno gli uni degli altri,
ma non possiamo delegare loro la nostra forza. Se una persona avverte la
costante necessità di richiedere supporto, di essere guidata, approvata e
incoraggiata, tenderà appunto ad attingere all’esterno le ragioni per agire.
L’assenza di spinta interiore nelle scelte di vita forse le provocherà
irrigidimento e la indurrà a prendere decisioni immature, nonostante l’età
adulta, facendola così sentire distante da se stessa e deresponsabilizzata.
Da un punto di vista cognitivo, l’individuo emotivamente ammaccato
potrà percepirsi inefficace, incapace di fare scelte, e tenderà a valutare gli
altri come più potenti e autonomi. Anche questo lo condurrà a una continua
richiesta di assistenza e accudimento.
SONO stata arrabbiata tutta la vita con i miei genitori. Crescere con la
convinzione di essere figlia illegittima di due genitori adulteri mi ha fatto
sentire sbagliata, senza un posto definito nel mondo.
Nell’edificio dove mia madre aveva il negozio di parrucchiera, a Belo
Horizonte, le cose all’inizio andarono più o meno così: c’erano vari altri
italiani immigrati, tra cui un pittore che abitava al secondo piano. Lui era
un tipo affascinante e dalla vita rocambolesca: a diciannove anni si era
sposato in Italia e aveva avuto una figlia, poi però aveva lasciato la famiglia
ed era partito per girare il mondo facendo mille mestieri. Immagino sia stato
facile per mia madre farsi travolgere da quell’uomo avvolgente e simpatico,
con l’accento fiorentino e una verve invidiabile.
E così nacqui io.
Per una coppia clandestina era semplice all’epoca abitare in Brasile: lì
potevo avere tutti i cognomi che volevano, mi misero una sfilza di nomi,
quelli di battesimo delle nonne e il doppio cognome di madre e padre. La
faccenda andò ben diversamente quando tornammo in Italia.
Mi sarebbe tanto piaciuto poter scrivere che la storia d’amore dei miei
genitori, nata con una grande passione, avesse vinto nei secoli e che fossero
invecchiati insieme, dimostrando al mondo di aver fatto la scelta giusta.
Invece, dopo tre anni mio padre ricominciò a viaggiare con la scusa del
lavoro, e io lo vedevo solo tre volte all’anno, di passaggio. Mi restava la sua
nostalgia.
La mia infanzia di figlia di immigrati fu abbastanza triste: a parte le
lavoranti di mia madre e la famiglia del portinaio che abitava all’ultimo
piano dell’edificio, non avevo altri mondi. Stavo tutto il giorno in salone con
la mamma, le aiutanti e le loro storie di povertà, con figli avuti da vari
incontri.
In Brasile le famiglie mescolate erano all’ordine del giorno. Teresinha era
una mulatta chiara e aveva otto figli da sette uomini diversi, era sempre
incinta. Aveva solo quelli, li esibiva come trofei con foto in bianco e nero che
portava nel salone. Alcuni erano bianchi, il più grande era biondo con gli
occhi azzurri, figlio di un tedesco, diceva; uno era nato da una relazione
lampo con un indio, che poi la picchiava e aveva abusato della figlia
tredicenne mentre lei era al lavoro nel salone. Lei lo aveva cacciato e aveva
tenuto il bambino. Teresinha aveva un sorriso bello e caldo, era sempre
felice di far vedere la pancia gravida. Quando finiva il lavoro, prendeva
l’autobus di fronte al salone e tornava nella sperduta periferia, in una favela
dove aveva una casa incompiuta di mattoni, senza vetri. La vedevo che
portava grossi pacchi di carta pieni di cibo del supermercato e invidiavo
quei figli senza scarpe in quella casa con il cartone al posto delle finestre. Li
immaginavo liberi e allegri, mentre io ero sempre da sola.
Le lavoranti di mamma erano la mia finestra sulla vita: dalle loro storie
complicate imparavo l’umanità. Ero una bambina adulta, poi da adulta
avrei ritrovato quella bambina lì, rimasta indietro, presentandola al primo
fidanzato affidabile che trovai.
Una volta in Italia, per una strana legge che allora non capivo, dovettero
cambiarmi il cognome. Siccome i miei non erano divorziati, dovevo
chiamarmi come il marito di mia madre che se n’era andato dal Brasile, che
non ho mai conosciuto. In un anno, sperimentai tre scuole e tre cognomi
diversi.
Provavo molta vergogna.
Nessuno mi ha mai chiesto cosa volessi io. Era così. Fine.
In più, nel paese dove vivo tuttora non avevano mai visto uno straniero,
all’epoca. Parlavo un italiano inceppato, e mi dicevano che ero stupida,
molti coetanei mi ridevano in faccia. Solo dopo tanti anni, insegnando a
scuola, ho potuto capire che chi ha poca esperienza, o è molto povero dentro
di sé, per sentire di valere qualcosa se la prende con chi è più in difficoltà.
Adesso lo chiamano bullismo, allora pensavo di essere sbagliata io, nata da
due genitori che avevano combinato un casino enorme, mettendomi al
mondo in una parte strana del pianeta per poi portarmi da una città in un
posto piccolo come un francobollo, dove alcuni sbeffeggiavano quello che
non capivano.
Qualcuno resta così tutta la vita, fermo a denigrare gli altri.
Dato che mio padre era sempre assente, io diventai «il marito» di
mamma, dovendo capire la situazione e aiutare, adeguandomi a qualcosa
che non avevo scelto. Iniziai a lavorare a undici anni come cameriera nella
pizzeria del paese, poi passai a lavare i capelli nel negozio di mia madre. In
Brasile aveva costruito un piccolo impero, aveva molte aiutanti, faceva
parrucche, era rispettata, stava seduta e dirigeva gli altri. In Italia fu
costretta a ricominciare da zero: già allora il cambio della valuta era molto
sfavorevole, così dovette rimboccarsi le maniche. E io con lei, era scontato.
Nessuno mi ha mai chiesto se stavo bene, come mi sentissi con tutti quegli
scombussolamenti.
Ancora una volta, era così e basta.
Quando ci sono necessità di sopravvivenza, non esiste spazio per altro.
Inutile dire che dopo tutte quelle traversie cercai fidanzati ben più grandi
di me, tristi e noiosi ma con la testa sulle spalle, ai quali chiedevo di farmi
da base sicura e di cui non ero innamorata, ma soltanto bisognosa.
Poi la rabbia è esplosa e il fiume nero sotterraneo è venuto a galla. Credo
di aver studiato psicologia innanzitutto nel tentativo di curare le mie ferite,
forse tutti gli psicologi lo fanno.
Soltanto dopo molti anni ho compreso che, simbolicamente, i miei genitori
non avevano ricchezze da darmi, ma quei pochi centesimi di cui erano in
possesso me li avevano donati tutti. E ho capito che l’amore non aveva
soltanto una faccia, quella che avrei voluto io, ma era nascosto in un piatto
di minestra calda, in una notte passata in bianco quando avevo la febbre,
nel sostegno economico per farmi studiare, nell’incoraggiamento a
costruirmi una vita migliore della loro.
Allora mi sono resa conto che in tutto quel tempo passato a lamentarmi di
quello che non avevo avuto mi ero ammalata gravemente di ingratitudine.
Ho riguardato tutta la mia storia più e più volte, ho girato il mondo, ho
fatto decine di terapie, ho studiato il mio animo e quello altrui. E ho fatto
del mio lavoro la mia missione di vita. Ho scelto di aiutare le persone a non
perdere tempo nei rimpianti di quello che non hanno avuto. Le accompagno
a trovare tracce di amore dove prima vedevano, come me, solo dolore.
I miei genitori se ne sono andati da qualche anno, se potessi incontrarli di
nuovo anche solo per un minuto gli direi quello che non ho fatto in tempo a
dire loro: «Grazie».
20
La fedeltà allo schema familiare
Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il
regno di Dio». Gli disse Nicodèmo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse
entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?»
Vangelo di Giovanni, 3, 3-4
La parola magica
Quasi tutte le persone che chiedono il mio sostegno quando arrivano da me
sono arrabbiate con i genitori; alcuni hanno una sorta di tristezza nel cuore e
dicono di averli «perdonati».
Intendiamoci, come abbiamo detto prima, ci sono miliardi di padri e madri
che hanno commesso e commettono errori ogni giorno. E questo continuerà
ad accadere, poiché come esseri umani siamo imperfetti e fallibili. Non
voglio minimizzare i danni che genitori totalmente inconsapevoli, schiacciati
da ferite ataviche e traumi transgenerazionali, possano aver perpetuato;
vorrei invece riflettere con voi sull’opportunità o meno di restare invischiati
in questa rabbia da adulti.
In genere, quando intraprendiamo un percorso psicologico, siamo pieni di
idee e credenze errate che ci condizionano e governano la nostra vita. Uno
degli ingombri maggiori con cui facciamo i conti dentro noi stessi è
l’ingratitudine verso chi ci ha messo al mondo: lamenti, pretese, rimpianti,
recriminazioni per ciò che non ci è stato dato dai genitori ingrossano il fiume
del lamento che scorre copioso nei colloqui. Insieme con l’arroganza e la
supponenza.
Ricordo ancora l’unico colloquio che feci con Alberto, ventiquattro anni.
Si presentò cupo e spavaldo, entrò in studio camminando come uno sceriffo,
e la prima cosa che mi disse era che lui non aveva voglia di vivere, perché la
vita era uno schifo. Lavorava e guadagnava bene, e da cinque anni aveva una
ragazza da cui si sentiva dipendente. Disse anche che abitava ancora con i
genitori, separati in casa.
Di solito chiedo ai pazienti in maniera simbolica: «Dove le fa male?»
Poche volte ho visto una persona più arrabbiata. Rispose che la causa del suo
malessere era la madre, che aveva rovinato la famiglia perché non voleva più
stare con il marito. E aggiunse di disprezzare il padre perché lo vedeva
debole: «Ho dovuto perfino prestargli i soldi per finire di pagare la sua
officina, se non ci fossi stato io a parargli i debiti, sarebbe alla fame».
Alberto aveva descritto con due parole in maniera precisa ciò che la
filosofia sistemica intende per inversione della gerarchia, ritenendosi
migliore del padre e della madre, che aveva messo sul banco degli imputati
ergendosi a giudice della situazione coniugale. Si sentiva superiore ai
genitori, e lo dichiarava. Era così irretito e impegnato ad accusarli che non
aveva forza vitale per sé. Si occupava, con tracotanza, di faccende non sue.
Quando seguo una coppia che si sta separando, molto spesso affrontiamo
il delicato snodo di come comunicarlo ai figli. Questo passaggio è vissuto
con forte angoscia soprattutto perché, nella nostra società, non ci è chiaro
che la coniugalità e la genitorialità sono cose differenti. Cresciamo i bambini
sotto la campana illusoria che la coppia sia per sempre, supportati da una
cultura di sottofondo che avalla tutto ciò, a partire dalle fiabe dove «alla fine
tutti vissero felici e contenti». Tramandare questa chimera è irrealistico: ci si
sceglie, poi le cose talora prendono una piega diversa, ma non possono
essere i figli a decidere come devono andare le unioni tra adulti, a giudicare
e a sindacare.
Cercai di rimandare questo concetto ad Alberto, sottolineando anche
quanto giudizio ci fosse da parte sua verso il padre e la madre, definita una
rovinafamiglie. Con le sue affermazioni e convinzioni, Alberto dichiarava di
aver compreso di più della vita e di come si sta al mondo dei genitori,
arrogandosi il diritto di sapere che cosa andasse bene per loro. Sprovvisto di
un passaporto per la propria esistenza, gestiva quella della famiglia a suon di
giusto e sbagliato. Questo lo manteneva in una condizione di immaturità,
anche se lui non se ne rendeva conto. Va da sé che non fosse felice, ma torvo
e imbronciato.
In più, tutto questo attorcigliamento all’indietro gli causava una zoppia
nella sua relazione amorosa, in cui assumeva un ruolo infantile. Alberto era
furioso con la madre, ma era aggrappato alla fidanzata, dalla quale
dipendeva in tutto e per tutto, chiedendole in modo implicito di fargli da
genitore. Invertendo la gerarchia familiare, accade proprio così.
Non ho più rivisto Alberto, non era pronto ed era venuto in studio su
suggerimento della fidanzata, senza convinzione e senza una spinta evolutiva
propria. Ha preferito restare nella recriminazione, non riuscendo a sganciarsi
da quel pertugio impegnativo tra adolescenza e adultità. Magari con il tempo
ripenserà alla nostra consultazione e arriverà a quella parola magica che
dobbiamo a chi ci ha messo al mondo. Nel mio lavoro incontro ogni giorno
storie come quella di Alberto. Cambiano età, luoghi, ma quante volte
arrivano persone che si sentono superiori e disprezzano i familiari, quante!
Poiché è questo che intendeva il testo biblico citato all’inizio del capitolo,
di cui è protagonista il fariseo Nicodèmo. Egli non comprende ciò che Gesù
vuole dire con il «rinascere dall’alto». È proprio lì il punto: per quanto
dolorose siano state le nostre vicende in famiglia, per quanto possiamo non
essere d’accordo, da adulti sta a noi andare oltre.
Come si fa?
Con la parola magica: «Grazie».
Una volta che abbiamo compreso a fondo l’umanità della nostra progenie,
ne abbiamo esaminato i copioni e gli schemi appresi, possiamo risignificare
queste figure dentro di noi, liberandoci dal fardello del rancore, delle
aspettative a ritroso, delle pretese. Senza rimanere incancreniti su una
versione dei genitori irrealistica, ideale.
Durante i colloqui sento i pazienti fare un lungo elenco di ciò che non
hanno ricevuto mentre crescevano. Non mettiamo mai in dubbio che non
fosse così, ma il punto è un altro: cosa possiamo fare, ora, con la nostra
storia passata? Quello che ci è accaduto, per quanto doloroso, non possiamo
cambiarlo. Tuttavia, molto spesso l’elenco è a senso unico. Si tende a citare
ciò che non si è avuto, mai quello che invece si è ottenuto, che viene
minimizzato. Quando proviamo a stilare un inventario in positivo arriva un:
«Sì, però…» e riparte la lista delle mancanze.
Siamo vivi e spesso ingrati.
Perché l’amore che volevamo aveva un codice diverso. Forse era una
forma di amore improprio, come abbiamo detto. Se abbiamo ricevuto
carezze avremmo voluto giocattoli costosi. Se avevamo cibo e accudimento
avremmo voluto vestiti alla moda. Se avevamo abbracci avremmo voluto
elogi. Se avevamo oggetti avremmo voluto vacanze insieme. Siamo portati a
sommare le sottrazioni, mentre le provviste accumulate sembrano contare
poco o nulla.
Il problema è che porteremo questi bilanci negativi da sanare al partner, da
cui ci aspetteremo accudimento e risarcimento.
La sfida del diventare adulti è dunque elaborare queste mancanze e
farcene carico.
Attenzione: qui entra in gioco il concetto di perdono di cui dicevamo.
Sono d’accordo con chi sostiene che questo termine contenga una nota di
arroganza: chi perdona, automaticamente sale di un gradino sopra il
perdonato. Ma non si tratta affatto di perdonare qualcuno (chi siamo noi per
farlo? Una divinità?), e tanto meno di assolvere una persona che magari è
stata violenta o abusante, ma di lasciar andare ciò che è stato,
oltrepassandolo e traendone grande insegnamento.
È dunque questione di ripartorire noi stessi, individuandoci.
Si tende a fare molta confusione sul tema dell’accettazione: accettare non
significa giustificare, subire oppure rassegnarsi, ma accogliere quello che
accade ed è accaduto. No, non è nemmeno compatire, fare buonismo o fare
sconti, è liberarci dai nodi che ci aggrovigliano per poter andare via leggeri.
C’è un modo di dire zen che recita più o meno così: «Ciò che è, è».
Significa anche smettere di mitizzare i genitori e volerli dentro di noi perfetti
al passato.
Oscilliamo tutta la vita tra il desiderare che fossero o fossero stati diversi,
idealizzandoli nelle nostre fantasie archetipiche, e il demonizzarli per i loro
errori. Se accogliamo la loro imperfezione, saremo liberi di rinascere, questa
volta da adulti.
È un cambio di postura: restare impigliati in un lamento interiore ci
mantiene infantili e bloccati. Così facendo non abbiamo la forza, come
Alberto, di occuparci della nostra vita. Diverso l’esito del percorso
completato (anche se non si finisce mai!) da Andrea: visitate le cantine della
propria psiche, si è svincolato dalla fedeltà ai copioni infelici dei genitori, ha
restituito simbolicamente i pesi che non erano suoi e si è riportato in vita
dall’alto. Se comprendiamo di aver ricevuto il sufficiente, possiamo
risignificare tutta la nostra storia e riscriverla con gli occhi della gratitudine,
non fosse altro per il dono della vita, assumendoci la responsabilità di
procurarci ciò che non ci è stato dato prima.
C’è un testo di Gary Chapman, I 5 linguaggi dell’amore, che ha aperto
nuove riflessioni su ciò che intendiamo per amore.
Siamo abituati per temperamento, personalità, sistemi di credenza e
cultura, a pensare a una forma di amore. Se l’amore non arriva nei termini in
cui io lo identifico come tale, allora non esiste.
Chapman sottolinea invece come possano esserci vari tipi di linguaggi
amorosi, che si esprimono con codici differenti. Ne classifica cinque:
complimenti verbali, gesti fisici come baci e abbracci, doni materiali, atti di
servizio e condivisione di tempo di qualità. Se ci pensiamo, siamo piuttosto
inclini a definire l’amore attraverso parole dolci e atti fisici; molti
apprezzano anche i beni concreti.
Ciò che dobbiamo però qui riconoscere è che se l’amore non arriva come
vogliamo, non è detto che non ci sia. Molte persone non hanno un alfabeto
emotivo, non posseggono le parole e utilizzano altri linguaggi per tradurre i
propri sentimenti. Se, per esempio, siamo fissati per ricevere mazzi di fiori e
anelli con pietre preziose e il partner ha invece un altro repertorio amoroso e
ci porta il caffè a letto, o si occupa della manutenzione della casa e del prato,
questo ci suscita gratitudine? Sovente, anche a questa domanda mi sento
rispondere: «Beh, sì, però…»
È interessante guardare rovesciando la prospettiva, e valutando invece da
genitori dei nostri figli. Cambia subito la lente.
Durante un colloquio mi accade di proporre questo scenario: «Immagini
che al suo posto tra trent’anni ci sia qui di fronte a me suo figlio o sua figlia
che dirà le sue stesse cose, portando appresso una lista di mancanze,
aspettative e reclami su di lei come genitore. Cosa prova?» La persona inizia
a balbettare qualcosa, e perde tutta quell’aria altezzosa e sdegnata di pochi
minuti prima.
Se valutiamo noi stessi come genitori siamo più indulgenti, perché
sappiamo di aver fatto migliaia di errori, ma anche di aver dato l’amore che
avevamo. E talvolta era una specie di amore andato a male. Ma quello
avevamo e quello siamo stati in grado, in quel momento, di dare.
Ci sono scuole di pensiero che incitano a coltivare rabbia verso i genitori,
a sfidarli alla pari, a ribellarsi. Per mia esperienza, se non sei un quindicenne
in procinto di fiorire nella tua individualità e per cui mettersi di traverso è
necessario per poter diventare grande, coltivare rancore lede la salute di chi
lo fa.
Significa, come dicevamo, giustificare botte, angherie, umiliazioni
eventuali? No.
Significa lasciare lì tutto, e prendere soltanto ciò che ci fa bene.
La riconoscenza fa respirare meglio chi la pratica.
Una delle frasi ricorrenti che sento è: «Mio padre non mi ha mai detto che
ero bella, non mi ha mai fatto una carezza».
Quando porto l’attenzione sul fatto che le ha permesso, per esempio, di
frequentare un’università prestigiosa, o le ha regalato un’auto o una casa,
spesso il commento è lo stesso: «Beh, sì, però…»
Anche in situazioni di scarsità economica o di assenza di gesti affettuosi,
forse l’amore c’era, ma era improprio. Allora rimarco alla persona che, in
ogni caso, le è stata data la vita.
E ancora una volta mi sento ripetere: «Beh, sì, quello sì, però…»
Nella Scheda di lavoro n. 5, «Gratitudine» (vedi p. 253), sarà possibile
esplorare meglio questo tema.
SONO tornata in Brasile anni fa. Da sola. Il pretesto era di fare un’ennesima
formazione, mi sono iscritta a una scuola sistemica per psicologi e terapeuti
vari, i cui contenuti ho seguito online per molto tempo. Il corso richiedeva
poi un periodo di stage in presenza. Così andai, felice di tornare, dopo
decenni, nel Paese in cui sono nata. Mi sono organizzata per poter restare
qualche giorno nella mia città, Belo Horizonte; avrei poi proseguito per il
luogo dove si teneva il percorso residenziale intensivo, a Santa Catarina, nel
profondo sud del Brasile, ai confini con l’Argentina.
Arrivai a Belo Horizonte dopo un lungo viaggio. Ero ospite della mia
famiglia satellite, o meglio di una delle figlie del portiere dell’edificio in cui
mia madre aveva avuto il negozio, in Rua Espirito Santo. Grazie ai social
avevo recuperato i contatti con loro. Erano quattro sorelle, ben più grandi di
me, ora tutte nonne, con nipoti già adulti. Mi hanno accolta con un amore
che mi ha investita come una bomba. Ho sentito un senso di appartenenza
necessario, di guarigione, che mi scaldava e mi riconciliava con parti di me
rimaste lì intatte. Ho ripercorso con loro tutti i luoghi della mia infanzia,
riassaggiato i cibi, respirato gli odori. Per giorni abbiamo peregrinato per
le case dei figli, dei nipoti, mangiando pão de queijo e bevendo cafezinho.
Sono tornata nel mercato rionale dove andavo con mia mamma. Volevo
portare con me tutto, recuperare una parte della mia storia, di me.
Divorare tutto.
A Belo Horizonte mia madre aveva un’amica di Modena, Jole: lei e la sua
famiglia avevano aperto vari ristoranti lì, e avevano fatto fortuna. Sono
andata a trovarla un pomeriggio, portandole un fiore. Aveva quasi
novant’anni, allettata, ma lucida. Le ho stretto forte le mani, anche per mia
madre. Lei era una parte della mia famiglia, era ancora viva. Mi ha parlato
per ore di tutto, della vita e dell’Italia: dal suo letto guardava la TV
satellitare ed era informata sul suo Paese. Salutandomi, mi ha confessato di
essere stanca di vivere. Le ho detto: «Okay, quando te ne andrai salutami
mia mamma». Ho lasciato la sua casa che era buio, c’era un pioggia
leggera e malinconica. Nel cuore avevo un senso di pace e di serenità per
aver salutato una persona che sapevo non avrei mai più rivisto.
Ho preso un taxi per tornare dai «miei». Nel tragitto per raggiungerli mi
sono ricordata di quelle volte in cui io e mia madre la sera tornavamo a
casa dal salone in taxi. Poche, perché era costoso. Allora era un lusso, in
quel momento invece, guardando fuori dal finestrino quell’anonima ed
enorme metropoli del Sud America, ho sentito il sapore della solitudine in
cui mia madre abitava.
Nell’auto, con uno sconosciuto che guidava nel traffico caotico della sera,
in un posto sperduto nel mondo mentre pioveva, ho iniziato a piangere tutte
le lacrime che mia mamma non aveva mai pianto. Ho sentito di aver portato
il suo dolore senza saperlo, e allo stesso tempo ho riconosciuto il suo
coraggio, la sua forza, la sua dignità. Aveva vissuto per oltre vent’anni
lontana dai suoi affetti, senza una famiglia, senza un compagno. Senza. Del
tutto sola, con me. E il suo lavoro.
Di colpo, mi è esplosa dentro una gratitudine per lei che mi ha
sopraffatta, come se si fosse sciolto un macigno.
E l’ho vista.
L’ho vista come persona, finalmente. Non era più quella mamma che tutta
la vita avevo giudicato, criticato, snobbato, ritenuto difettosa: era un essere
umano.
Ho finito la mia formazione dopo alcune settimane.
In quel viaggio sono andata a riprendermi mia madre.
22
Che cos’è l’amor?
«I sentimenti di dolore, di piacere, o di qualità intermedia fra questi estremi sono il fondamento
della nostra mente.»
ANTONIO DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza
QUALI strategie possiamo adottare per arrivare a quel punto di recupero di noi
stessi di cui abbiamo appena parlato?
Iniziamo a osservare i nostri pensieri.
È risaputo che crediamo a ciò cui pensiamo. Per confermarlo, il classico
esempio è di supporre che qualcuno ci dica: «Non pensare a un elefante
bianco!» Dopo quest’ordine la mente non riuscirà a impedire e controllare il
pensiero dell’elefante bianco. L’attività pensante è un inarrestabile stream of
consciousness, un flusso continuo di coscienza; contraddistingue l’uomo ed
è un’abilità utile e adattiva, dalle potenzialità ancora inesplorate. È un
prezioso alleato, una facoltà che eleva gli esseri umani ai vertici della
classifica del regno animale.
Tuttavia, definire la cognizione è un compito complesso. Intelletto,
ragione, intelligenza, percezione e memoria sono tutte astrazioni che
definiscono l’attività primaria della mente umana: il pensiero.
Cervello e mente non sono la stessa cosa. La mente è un prodotto
culturale, un insieme di credenze, una lente con cui si guarda il mondo. Il
cervello è l’organo grazie al quale facciamo tutto questo. Per quanto ne
sappiamo finora, abbiamo tre aree cerebrali preposte a differenti funzioni:
una parte molto antica, detta cervello rettiliano, che governa le funzioni
primarie, ataviche, legate alla sopravvivenza; un cervello emotivo, situato
nell’area limbica, sede di funzioni che regolano le emozioni, e la
neocorteccia, la parte più recente ed evoluta, responsabile
dell’apprendimento, dei processi attentivi e di quelli razionali.
Cartesio identificava l’essenza dell’essere umano nel pensiero, creando
tuttavia un dualismo tra res extensa e res cogitans: divideva la natura umana
a metà, separando la parte che sente, la pelle, le sensazioni, da quella che
pensa. Filosofie e dottrine successive hanno cercato di unificare le varie
dimensioni dell’essere; interessanti a questo proposito gli studi del
neurologo Antonio Damasio, che invitano al superamento di quello che
definisce «l’errore di Cartesio». Nel suo saggio Emozione e coscienza,
Damasio ci esorta all’ascolto dei nostri sentimenti, per imparare a capire ciò
che proviamo.
Lo stretto intreccio di cognizione ed emozioni è alla base del nostro essere
umani, Damasio approfondisce pertanto da un punto di vista neurologico un
assunto già indicato nelle ricerche dello psicologo Daniel Goleman a
proposito dell’intelligenza emotiva.
Cosa hanno a che vedere queste argomentazioni con il tema della
dipendenza affettiva?
Il punto è che per poter curare gli affetti malati occorre poter cambiare
idea, attraversare emozioni e attuare comportamenti nuovi.
Il bisogno di calore e vicinanza è insito nell’essere umano, come lo è
quello di relazioni stabili, durature, soddisfacenti. Il confine tra
innamoramento, amore e dipendenza affettiva non è facilmente delimitabile,
poiché essere in relazione appaga un bisogno primario. Siamo animali
sociali, abbiamo bisogno del gruppo, dell’altro. Ma dimentichiamo un fattore
indispensabile: una volta adulti, necessitiamo prima di tutto di noi stessi.
Non poter vivere senza un’altra persona è un’idea irrazionale, è un
pensiero fuorviante. Credere di non poter esistere senza aggrapparci a
qualcuno è dipendenza. È il concetto di «aggrapparsi» a doverci far
riflettere. Un conto è incontrarsi da uno spazio pieno, che diventa vera
relazione, condivisione, un altro è utilizzare il partner come sostanza per
vivere. La differenza, come abbiamo ribadito più volte, sta in un mancato
sviluppo dell’abilità di saper essere con noi stessi, nel non aver sperimentato
e interiorizzato la presenza di una base salda che ci dia sicurezza
indipendentemente dalla presenza dell’altro.
Non avere acquisito la capacità di stare con noi stessi darà adito a molte
ombre dentro la nostra mente, affollandola di pensieri negativi e di emozioni
quali paura e angoscia. Con conseguenti comportamenti di dipendenza.
Fermarci sarà una tortura, stare nel senza, pure.
Le tecniche di meditazione possono essere un valido aiuto se apprese con
la giusta metodologia, e una volta compreso davvero cosa sia stare in
silenzio. Molte insegnano a bypassare il rullio costante dei pensieri,
incitando a riconoscere dentro di noi spazi di no mind, di non mente.
Attenzione! Ci sono molte credenze ingenue sul meditare.
Un mistico orientale ci esorta: «Meditazione è una lezione di
consapevolezza, di assenza di pensiero, di spontaneità, di essere totalmente
nella tua azione, all’erta, consapevole. Non è una tecnica, è un trucco. O lo
capisci, o non lo capisci».
Oggi la meditazione viene venduta e le sono associati verbi quali «fare»
meditazione, o «imparare» a meditare. Si tratta di invece uno stato naturale
dell’essere umano, purtroppo affievolito e coperto da una mente iperattiva
con cui ci identifichiamo.
Quando dico ai miei pazienti: «Non siamo i nostri pensieri», incontro
scettiscismo. È vero che siamo anche pensiero, ma abbiamo altre
dimensioni. Per prima cosa è necessario riconoscere che l’attività pensante è
una delle nostre componenti. E se le diamo molto spazio, senza coltivare
tutte le nostre possibilità, il rischio è che finiamo con l’escludere o
tralasciare altre dimensioni.
Ciò non significa che non dovremmo pensare, ma che non dobbiamo
prestare un’attenzione alta ed esclusiva a quel flusso incessante che processa
informazioni dall’esterno. Il problema non è il pensiero, quanto piuttosto che
ci identifichiamo con quello che pensiamo. Ciò a cui incitano i testi sacri
orientali a proposito di «trascendere la mente», lasciando andare i desideri
per perseguire una pace interiore, suona spaventoso e difficile. In realtà è un
semplice invito a non credere in modo cieco a ciò che pensiamo.
Facciamo un esempio: supponiamo che mi passino di continuo per la testa
frasi tipo: «Nessuno mi apprezza», «Non riuscirò mai a fare qualcosa di
buono», «Mario mi lascerà perché troverà qualcuno migliore di me» e così
via. Di conseguenza avrò un’alterazione emotiva, il mio umore peggiorerà e
forse potrò sviluppare sintomi fisici come ansia, palpitazioni, sudorazioni e
insonnia. Per lenire il malessere mi attaccherò al cellulare a controllare cosa
sta facendo Mario, perché sono sicura che non gli interesso e starà chattando
con un’altra, che di certo è più interessante, bella e affascinante di me. Se ci
badiamo, tutto questo non sta accadendo. Sono ipotesi, prodotte da una
catena di «e se».
Purtroppo, però, crediamo a questi pensieri che costituiscono la ricetta
perfetta per l’infelicità.
Talvolta, in maniera provocatoria, invito appunto i pazienti a scrivere la
loro ricetta dell’infelicità. Perché tutti noi abbiamo un sistema di credenze
molto ben organizzato a cui prestiamo fede. Tuttavia, un conto è se penso il
mondo come un’opportunità infinita, se credo con convinzione che sarò in
grado di trovare la mia strada e che la vita è nelle mie mani. Un altro è
pensare che mi andrà tutto male, che non ce la farò e non ci sarà nessuno per
me. Per la mente è sempre un pensiero. Il meccanismo che produce quel
pensiero è uguale sia in un senso sia nell’altro, ma le emozioni, gli stati
d’animo e i comportamenti che ne derivano saranno ben diversi.
Quando qualcuno arriva in studio da me per la prima volta, di solito per
una relazione infelice e disfunzionale, è pieno di idee erronee su se stesso, e
questo gli crea un grande malessere.
Per prima cosa osserviamo insieme quali sono le sue convinzioni, dopo di
che chiedo alla persona di ascoltarsi mentre pronuncia certe frasi, frutto di
un mindset preciso. Capita che faccia molta fatica a contattare le proprie
emozioni e sensazioni, perché non è abituato. Quando procediamo nel
percorso, porto l’attenzione di chi ho di fronte sul suo sistema familiare e
chiedo: «Di chi sono questi pensieri? Chi guardava il mondo con questi
occhiali? Di chi è quella voce che dice questo?» E ancora una volta
guardiamo alla famiglia, perché è lì che impariamo a osservare il mondo e
noi stessi. Certo, poi ci saranno la scuola, il calcetto, la discoteca, il bar. Ma i
primi occhiali che indossiamo hanno due lenti precise: mamma e papà, o chi
ne fa le veci. Se uno dei due non c’era, i nostri occhiali avranno un buco al
posto della lente, e noi guarderemo il mondo da lì. In alcuni casi mancano
entrambe le lenti. Qualunque sia lo sguardo attraverso cui abbiamo appreso a
guardare il mondo, è da qui che è necessario partire.
La meditazione può aiutarci a prendere le distanze dalle nostre credenze
limitanti, riconoscendo i pensieri e gli schemi che abbiamo ereditato e che ci
portano dritte all’infelicità, mantenendoci fedeli e aderenti al nostro sistema
di origine.
L’immagine che l’Occidente ha, in genere, di chi pratica la meditazione è
di una persona seduta nella posizione del loto con gli occhi chiusi, che ripete
«om» assumendo un’espressione greve. Insomma, qualcosa di molto serio,
impegnativo, adatto solo a qualche appassionato di yoga e altre discipline
esoteriche. In realtà quei mantra sono un insieme di suoni che riescono ad
agire sulla mente e con le loro frequenze hanno un’incidenza anche sul piano
fisico, permettendo alla coscienza di staccarsi dal piano sensoriale e produrre
onde cerebrali differenti.
«Ora ci medito», «Devo meditarci sopra», sono sinonimo di riflessione.
Pertanto, nel linguaggio comune il termine sembra venire scambiato, e a
volte sostituito, con l’attività cognitiva. Invece è l’opposto: è un non stare
nei pensieri, ma in un altro luogo che abbiamo dentro, che non ha un nome,
però c’è. È quello spazio da cui si guardano le cose senza volerle diverse,
così come fa il cielo che accoglie le nuvole e non le trattiene.
Alcuni studi scientifici dimostrano che la meditazione può aumentare il
potenziale intellettuale, ridurre patologie quali l’ipertensione e alleviare lo
stress e gli stati ansiosi. Gli esami di neuroimaging, che osservano le
modificazioni delle aeree cerebrali in seguito a diverse azioni o emozioni,
hanno rivelato che vi è un aumento dell’attivazione nella corteccia sinistra,
con evidente incremento nella produzione delle onde alfa, caratteristiche
dello stato di rilassamento. Altre ricerche dimostrano un calo di assunzione
di sostanze stupefacenti grazie all’utilizzo di pratiche meditative.
La meditazione incontra grande resistenza nella società attuale, a causa di
una diffidenza di natura per lo più socioculturale. L’invito è a superare ogni
forma di attaccamento e a non identificarci con ciò che pensiamo e crediamo
ci spaventa, per il timore inconscio di perdere noi stessi. Correre, produrre,
eccellere sembrano essere i mantra ai quali obbediamo ogni giorno, e il
silenzio fa paura, non siamo abituati a stare con noi stessi senza fare nulla.
Abbiamo quasi sempre qualcosa di acceso o connesso, siamo di continuo
interfacciati con l’altro, alla presenza di un cellulare che squilla, un
computer che invia file, un televisore che trasmette un programma.
Lo yoga, il training autogeno e la bioenergetica sono forme più
occidentalizzate, sdoganate e ora più diffuse. Altre pratiche sono invece
ancora molto lontane dall’ottica occidentale, come la meditazione Vipassana,
che consiste nello stare seduti a occhi chiusi osservando il respiro che entra
ed esce dal naso e scende nel ventre. Nello Zazen si osserva invece un muro
bianco seduti sui talloni, mentre un maestro di meditazione passa con un
bastone leggero a colpire il capo, da cui il detto «una bastonata zen», che
arriva inaspettata, mimando così il movimento inesorabile e imprevedibile
della vita. Lo scopo è quello di sviluppare quella capacità di restare
imperturbabili di fronte agli imprevisti della vita, coltivando un luogo dentro
di noi da cui osservare, senza identificazioni.
La trattazione della storia della meditazione e delle varie tecniche non
sono argomento di questo libro; si vuole solo sottolinearne il possibile
beneficio per chi ha un disagio affettivo, emozionale e relazionale.
Perché la meditazione è soltanto uno stato di veglia consapevole, dove
l’attenzione si concentra su ciò che accade hic et nunc. È un’estasi,
un’ubriacatura di esistenza: si è presenti, senza giudizio, consapevoli del
solo fatto di essere, senza bisogno di altro dall’esterno.
È l’ebbrezza di sentirsi pieni, unici, interi.
Come possiamo ben immaginare, a un dipendente affettivo questa appare
come un’utopia: la meditazione sembra esattamente il contrario di ciò che
pensa, vive e prova. Eppure, se una persona sente di non poter funzionare da
sola, di avere bisogno dell’altro come condizione vitale per esistere, la
meditazione può essere un valido sostegno per recuperare la relazione con se
stessa. Facendo amicizia con quel vuoto esistenziale, contattando altre parti
di sé in assenza di giudizio, potrà infatti acquisire maggiore serenità e
sicurezza.
Basta questo? No, ma aiuta.
Diversi studi hanno dimostrato che una pratica costante della meditazione
migliora lo stato di salute.
Il respiro è gratuito, la consapevolezza è una pratica che non richiede
farmaci, né fattori esterni, si è soli di fronte e se stessi.
Questo spaventa? Molto.
Ma ci si può fare amicizia, con la pratica.
Può sembrare bizzarro dire a qualcuno: «Chiudi gli occhi, lascia scorrere i
pensieri e respira», per liberarlo dalla dipendenza.
E invece.
#Frammento n. 7
Quattro case
«Se vogliamo essere felici, dobbiamo innaffiare il seme della consapevolezza che è in noi. La
consapevolezza è il seme dell’illuminazione, dell’attenzione, della comprensione, della
compassione, della liberazione, della trasformazione e della guarigione.»
THICH NHAT HANH, Lo splendore del loto
Intelligenza introspettiva
Gli psicologi Daniel Goleman e Howard Gardner hanno osservato tipi
diversi di intelligenze che appartengono agli esseri umani. In particolare
Gardner, riprendendo gli studi di Goleman, descrive intelligenze multiple
arrivando a classificarne, per ora, nove tipi, approntando anche test per
verificare quelle che ci caratterizzano maggiormente.
Il suggerimento di Gardner apre nuove prospettive: differenziando le varie
tipologie avremo per esempio chi sarà dotato in modo prevalente di
intelligenza matematica, visuo-spaziale o naturalistica, chi avrà una
predisposizione per le arti, l’estetica, le lingue, la speculazione filosofica e
così via. Generalizzando, potremmo dire, per esempio, che se in una persona
sembra predominare un’intelligenza di tipo interpersonale, è probabile che
sarà estroversa e adatta a un lavoro che comporti il contatto con il pubblico.
Se invece ha un punteggio maggiore nell’intelligenza intrapersonale, avrà
caratteristiche che la porteranno a indagare su se stessa e magari prediligerà
un lavoro solitario.
Sostenendo chi soffre di dipendenza affettiva, ho potuto riscontrare che
nella nostra società manca l’incoraggiamento a coltivare una forma di
intelligenza che tutti abbiamo: quella introspettiva, vale a dire la capacità di
riflettere su se stessi restando in ascolto di ciò che si sente e definendo quel
che si pensa. Questo non ci viene insegnato mentre cresciamo, nessuno ci
fornisce un alfabeto emotivo per decifrare le sfumature di ciò che sentiamo,
in modo tale da attrezzarci per la vita costruendo una grammatica degli
affetti a cui attingere. Allo stesso tempo, i processi educativi forniscono
spesso contenuti prefabbricati e incoraggiano scarsamente le opinioni
individuali.
Per lo più assistiamo a traiettorie di sviluppo deformate, dove il malessere
interiore resta senza nome, spesso nascosto e trascurato, e per lenirlo ci si
appoggia a qualcosa.
Vogliamo promuovere una cultura che porti le persone a non aggrapparsi
ad altri, o ad altro, con l’incessante richiesta: «Dimmi chi sono, fammi
felice, dammi certezze»? Allora iniziamo presto, non soltanto in famiglia,
ma anche dalla scuola.
Ho insegnato per circa trent’anni, svolgendo per lungo tempo due
professioni. Avendo a che fare per gran parte della vita con adolescenti, ho
sviluppato una mia visione di cosa funziona e perché. Mi sento dunque di
dire che la relazione tra docenti e alunni gioca un ruolo fondamentale nel
veicolare i contenuti: la scuola è la seconda agenzia formativa, subito dopo
la famiglia. Un docente che «arriva» emotivamente, curando al contempo
relazione e insegnamenti, è probabile che avrà allievi coinvolti e partecipi.
Senza dilungarmi in discorsi che ci porterebbero troppo lontano dal nostro
focus sulla dipendenza, mi piace però unire qui tutto ciò che finora ho
imparato nei vari contesti per poterlo condividere.
Ho vissuto a lungo in classe con chi stava transitando dall’infanzia
all’adolescenza, e ho potuto constatare che la differenza mentre si impara la
fa sempre il «sentirsi visto» da parte dell’alunno. Essere tenuto in mente e
sognato mentre si cresce, come sostiene il sociologo Danilo Dolci, è quello
che aiuta a diventare persone, oltre che allievi. Al di là dei contenuti offerti,
anche una relazione calda, talvolta pure burrascosa, non importa, fa da
contenitore saldo a chi è lì lì per sbocciare.
Ma che cosa c’entra con la dipendenza? Tantissimo, perché anche i
docenti molto possono nel prevenire uno stile affettivo che può virare verso
il malsano e il disfunzionale. È già sui banchi di scuola che si può al
contempo studiare e fortificare le proprie fondamenta per imparare, oltre ai
contenuti, «la vita», e come rimanere ancorati durante una tempesta.
L’amore si assorbe anche mentre si legge e si ascoltano spiegazioni, perciò
facciamo in modo che si apprenda ben presto a distinguere ciò che è
rispettoso da quello che è invece dannoso.
Come si diventa roccia? Imparando a lasciarsi lambire e scavare
dall’acqua.
Soltanto se integriamo gli opposti, accogliendo tempesta e bonaccia,
riusciremo a fortificarci. Per poter restare fermi è necessario imparare a
muoversi. Si vola se si ha un posto da cui partire e uno dove atterrare.
Perciò è importante familiarizzare con gli opposti, conoscersi nel
profondo. E in questo processo diventa indispensabile unire pensiero ed
emozione per tradurli in conseguenti comportamenti coerenti, praticando
l’osservazione di ciò che sentiamo e dei pensieri che abbiamo. Corpo e
mente, psiche e anima: tutto torna, quindi, a proposito di quanto dicevamo
della meditazione, dell’essere consapevoli e dell’allenarsi a stare presenti a
se stessi.
Se impariamo a farlo già a scuola, quando siamo ancora duttili, sarà più
facile.
Il «flow»
Durante il dottorato di ricerca ho potuto unire la mia esperienza di
insegnante e di psicologa. Il focus della mia indagine era proprio cercare di
cogliere quei momenti in classe in cui docenti e alunni procedono armoniosi
e insieme nelle traiettorie di apprendimento. Per svolgere le mie osservazioni
ho utilizzato anche il concetto di flow, studiato da Mihály Csíkszentmihályi,
psicologo ungherese emigrato negli Stati Uniti, teorico della psicologia
positiva e autore di diversi studi sulla felicità e sulla creatività. Due temi
fondamentali, se vogliamo promuovere il benessere (non solo scolastico) e
incoraggiare le persone a essere autonome.
Il flow è uno stato di equilibrio in cui sentiamo appunto di fluire
nell’accadimento di un evento, nel portare a termine un compito o una sfida,
poiché percepiamo che la difficoltà che stiamo affrontando è proporzionale
alle nostre risorse. In altre parole, è la sensazione di riuscire, di farcela: un
misto di eccitamento, fatica sopportabile e soddisfazione.
Al contrario, in assenza di flow, se ciò che facciamo è troppo facile
sperimenteremo noia, mentre se è troppo duro proveremo frustrazione,
rabbia e senso di impotenza.
Il flow, insomma, è una condizione imprescindibile per la creatività.
Cosa ha a che vedere la creatività con la dipendenza affettiva?
Spesso chiedo alle persone che mi portano un problema di dipendenza
affettiva qual è il loro rapporto con la creatività. È un passaggio importante,
in quanto essere in contatto con la fonte creativa che alberga dentro di noi
aumenta la nostra autostima e la fiducia in noi stessi.
Per definire la creatività dovremmo iniziare un’altra ampia trattazione, e
non è questo il nostro scopo. Tuttavia, ritengo necessario soffermarmi in
breve sul tema perché, in base alla mia esperienza con le persone sofferenti e
tormentate da un malanno sentimentale, ho potuto riscontrare che raramente
chi è in preda a una dipendenza affettiva è connesso con il proprio flusso
creativo. Anzi ne appare distante e scollegato. La creazione non viene mai
dal nulla, ma da un dialogo costante con quanti sono venuti prima, e che
hanno lasciato un segno dentro di noi.
Quando durante un colloquio indago il rapporto che la persona ha con la
creatività, talvolta ammutolisce. Al contrario di quanto spesso si crede,
creare non significa soltanto danzare, dipingere o cantare: è osare raccontare
se stessi, dare qualcosa di sé. Lo si può fare cambiando la disposizione dei
mobili in casa, indossando un certo colore o un particolare paio di scarpe,
oppure scegliendo le parole con cui esprimersi. Ogni attimo può essere
vissuto in maniera creativa o meccanica: sarà questo a fare la differenza.
Chi non ha consapevolezza della propria creatività dipende in maniera
grave da qualcuno, e poco osa esistere per se stesso. Lascia fare al mondo al
posto suo, mentre liberarsi da una dipendenza è imparare a funzionare in
maniera autonoma e, appunto, creativa. E non intendo sul lavoro! Ascolto
persone che svolgono professioni di grande responsabilità. Intendo invece a
livello affettivo ed emotivo.
Mi piace vedere la creatività come la fiducia in quel qualcosa che abita
dentro ognuno di noi e ci porta a dare un contributo individuale a ciò che già
c’è, ad aggiungere qualcosa di personale al mondo, la nostra interpretazione.
Per poterlo fare è necessario avere dentro una base di fiducia; occorre che
qualcuno ci abbia incoraggiato a sperimentare, a sostare nel dubbio, anche a
cadere, ma poi riprovare.
So bene che, in genere, chi soffre per una dipendenza affettiva vacilla in
questi passaggi. O perché le prime volte in cui sperimentava le proprie
domande al mondo non c’era nessuno a incoraggiarlo, oppure perché
qualcuno per «troppo amore», per proteggerlo, gli ha impedito di osare,
sostituendosi a lui, tarpandogli le ali o reprimendolo involontariamente in
nome di un amore improprio.
L’espressione creativa di sé è a mio avviso uno dei fattori protettivi per
quanto riguarda la dipendenza affettiva, oltre – come abbiamo visto –
all’essere stati pensati capaci, tenuti in mente, come direbbe Bion. Se
abbiamo un senso di confidenza, coraggio e apertura verso quei linguaggi
che sgorgano da dentro e che sono solo nostri, avremo l’ardire di provare a
esprimerci e affermarci. In alternativa, chiederemo con disperazione ad altri
di definirci.
Perciò, la creatività, il riconoscimento del flow e la meditazione sono tre
dimensioni che, se apprese, ricordate e riconosciute, possono aiutarci a
fortificarci, a creare quella stabilità fiduciosa ed equilibrata da cui
relazionarsi al mondo. Con una conseguente ricaduta sulla nostra autostima.
Se da un lato la creatività può essere incoraggiata e la meditazione
praticata, per quanto riguarda il flow non può essere forzato. Non è possibile
ordinare a qualcuno di entrare in quello stato in cui si percepisce di fluire
con la vita e con ciò che si sta facendo.
Possiamo però osservare la condizione di flow e imparare a riconoscerla
mentre accade, monitorando pensieri ed emozioni. A volte basta ricordarsi di
portare avanti due domande insieme: «Come ti sei sentito mentre?» E: «Cosa
ne pensi di questo che stai sentendo, apprendendo, imparando?»
Sembrano due interrogativi molto semplici, utili non solo nei contesti
scolastici per promuovere l’intelligenza introspettiva, ma anche nella vita
quotidiana di tutti noi. E sono gli stessi che utilizzo nel colloquio di
sostegno, in maniera sistematica.
Perché è importante osservare pensieri ed emozioni, sorprendere lo stato
di flow quando avviene, per trattare o prevenire la dipendenza affettiva?
Forse vi stupirete, ma sapete qual è una delle risposte più frequenti dei
miei pazienti? «Dottoressa, io non lo so cosa provo.»
Ecco perché vi invito, che siate docenti, genitori, o che siate
semplicemente seduti a riflettere mentre leggete questo libro, a chiedervi:
Cosa sento? Cosa penso di questo?
«A maggese»
Sostenere una cultura che promuova una forma di intelligenza che sia non
solo emotiva ma anche riflessiva e introspettiva, in grado di tenere dentro al
contempo emozioni e pensieri, porterà a sviluppare quella capacità che,
come abbiamo accennato, Masud Khan definiva l’abilità di restare «a
maggese». Vale a dire trovare un riposo dentro di sé, senza fare, senza
accelerare la vita in avanti o rimpiangerla all’indietro, ma contemplando in
maniera consapevole e meditativa il momento presente. E poi, una volta
praticato e vissuto questo spazio di presenza, riflettere anche sui raccolti
passati e immaginare quelli futuri.
Conoscere e riconoscersi è una tappa fondamentale per ognuno di noi, a
maggior ragione se si soffre per una relazione velenosa, ma possiamo farlo
soltanto se impariamo ad ascoltarci, a fidarci di noi stessi, a sentire che
abitiamo da padroni i pensieri, i momenti, le sensazioni. Altrimenti ci
perderemo in un sentire confuso, non autonomo, sconosciuto, diventando
facili prede di manipolatori affettivi.
Oltre a sviscerare la nostra storia dalle origini, possiamo meditare: che si
chiami mindfulness o semplice osservazione del respiro, ci aiuta nel
processo di consapevolezza necessario e imprescindibile se vogliamo essere
autonomi, con una buona autostima e amor proprio.
Coltivare un’intelligenza introspettiva fatta di ascolto di sé e autonomia di
pensiero getterà le basi per fluire con se stessi e condurre una vita espressiva
e creativa, che permetterà di recuperare o costruire la solidità interiore
necessaria per contrastare una dipendenza affettiva.
Com-passion
Recenti studi di un gruppo di ricercatori finlandesi hanno portato
l’attenzione sul concetto di compassione. Al di là del significato attribuitole
da alcune dottrine religiose, la compassione è un sentimento mosso da
empatia, che guida i comportamenti prosociali fin dalla primissima infanzia.
Secondo queste ricerche etnografiche condotte sul campo nelle scuole
dell’infanzia, l’empatia può essere riconosciuta quando tra pari ci sono
attitudini consolatorie e confortanti, che dimostrano già da una precocissima
età quanto sia importante coltivarla.
La compassione potrebbe dunque essere un obiettivo da riconoscere e
promuovere nei contesti educativi (e non solo). Un’attenzione agli
atteggiamenti empatici risulta infatti essere un fattore protettivo verso
condotte manipolatorie egoriferite e narcisismo esasperato. È un dato di fatto
che l’aggressività e la manipolazione siano dimensioni esistenti in una
persona fin dalla primissima età. Compito di chi educa è tenerlo presente e
aiutare a trovare strategie di autocontenimento e gestione degli impulsi.
Negarli, reprimerli, idealizzarli, fingere che non esistano non aiuterà a
imparare a gestire gli agiti aggressivi. Freud, per esempio, parlava di un
narcisismo primario infantile che è funzionale, e che, se non risolto, rimane
per tutta la vita come motore dell’individuo. Rinforzare comportamenti
mossi da empatia e compassione sarà molto utile, come lo sarà insegnare ai
bambini a veicolare l’aggressività in modo da non nuocere all’altro.
Tenere in mente come si può sentire l’altra persona e allo stesso tempo
prestare un’attenzione vigile verso quanto stiamo provando è un allenamento
a una delle forme più alte d’amore: includere il nostro sentire in quello
dell’altro, senza perdere di vista l’amor proprio e la nostra dignità, al
contrario di quanto accade in una relazione dipendente.
Promuovere una cultura dell’empatia può dunque aiutare a contrastare la
crudeltà narcisistica.
#Frammento n. 8
Ritrovare il filo
HO iniziato questo libro quando ero molto piccola e non avevo nessuno con
cui parlare, perciò mi immaginavo di raccontare. Vivevo in un mondo di
adulti che non avevano tempo per ascoltarmi né guardarmi. Solo da grande
ho capito che quando si deve badare a tirare avanti non c’è spazio per altro.
Poi ho continuato a racimolare pagine segrete nei meandri delle mie ombre,
ogni volta che ho sofferto per storie al veleno. La stessa sofferenza che,
molto tempo dopo, ho riconosciuto nelle narrazioni dei miei pazienti.
Solo ora, tuttavia, ho trovato il filo per portare tutto su un foglio scritto.
Anni di studio e altrettanti di lavoro di fronte ai racconti di chi è
sofferente per affetti contorti mi hanno portata a mettere insieme quello che
so, e quello che sono. Perché non si è mai estranei a ciò che si fa, e in quelle
storie ascoltate io rivedo un pezzetto di ognuno di noi.
Dopo tanto girovagare, ho chiesto aiuto al mare di Tellaro dove,
ascoltando il vento di tramontana che frastagliava le onde, sono andata a
raccogliere le parole impigliate nei pensieri, riordinando ciò che avevo
imparato in tutti questi anni. Con Loulou che, senza dire, aspettava il mio
scrivere.
Non potrei suggerire ai miei pazienti di incontrare se stessi se non lo
facessi io per prima.
Perciò, cara lettrice, caro lettore, spero che questo libro possa esserti di
aiuto, se finora hai incespicato illudendoti di risolverti attraverso un altro.
Hai tutto il mio supporto affinché un giorno non lontano tu possa guardare
il mare e sapere che in quel momento, in quell’esatto istante, non ti manca
nulla, perché tutto quel che ti serve sei tu. Ti auguro di sentirti e incontrarti,
e da questo tuo conoscerti tornare nel mondo, pronto a scambiare tutta la
bellezza che già sapevi di avere dentro di te.
In fine
CARA lettrice, caro lettore, in questa parte del libro troverai materiale di
autoanalisi e spunti di riflessione che accompagnano il testo, pensati per
aiutarti in un percorso di consapevolezza e conoscenza di te.
Potrai tornare qui ogni volta che vorrai.
Ti suggerisco di procurarti un quaderno di lavoro, che costruirai piano
piano, e di personalizzarlo e renderlo piacevole. Sarà come interagire con
qualcuno di prezioso che ti accoglie e riflette ciò che a poco a poco scoprirai:
il tuo sé consapevole. Ti servirà anche per coltivare quell’abilità che
abbiamo chiamato intelligenza introspettiva, il dialogo onesto con noi stessi.
Le schede sono state pensate con un ordine che rispecchia quello dei
capitoli del libro, ma nulla ti vieta di utilizzarle a piacimento.
Spero che incontrerai ombre e luci affascinanti.
Buon viaggio.
Scheda n. 1
Invito a cena con Narcisi
Perché farlo? Per osservare dal di dentro come si sentono queste persone.
O, se ti sei riconosciuto in una di loro in particolare, per prendere
consapevolezza del copione principale che maggiormente porti nel mondo,
ricordando che a tratti tutti siamo tutto, e che le tipologie non sono mai così
nette.
Useremo l’immaginazione, e il nostro obiettivo è quello di riconoscere e
familiarizzare con figure che è probabile incontrare nelle nostre interazioni
quotidiane.
Attenzione: per chi è molto arrabbiato con la figura del o della Narci, non
vogliamo qui né minimizzare, né giustificare. Bensì, attraverso questo
esercizio, entrare in contatto con quel mondo narcisistico spesso descritto
soltanto dalla superficie.
Il Narcibimbo
È colui che è rimasto intrappolato nello sguardo ammaliatore e seduttivo
della madre, il bimbo bello della mamma. Lo possiamo immaginare da
piccolo con il boccolo pettinato a banana, un po’ cicisbeo alla corte della
grande madre, che lo trattava forse come un suppellettile, il suo gioiello da
mostrare a tutti, esibendolo in cerca di un’ovazione di stupore, un coro di
ohhhhhh. Il padre è defilato, e ha una storia fusionale con la madre. È un
padre in panchina, fuori dalla partita, poiché la madre è posseduta dal
richiedere le performance del figlio, batte le mani, tutta contenta delle sue
prestazioni che ritiene speciali.
Il Narcibimbo andrà quindi nel mondo cercando di fare la ruota del
pavone. Intrappolato in quell’ohhhhhh, sarà interessato al partner solo finché
non otterrà quell’esclamazione, dopo di che andrà a cercarla da altre
compagne.
Se il dipendente affettivo si fissa su quella figura da cui voler amore, e
ahimè finirà con il non averlo, confermando così il suo triste copione, il
nostro Narci è interessato invece alla quantità di applausi, più che da chi
arrivano. È dunque il partner mordi e fuggi, seduce e se ne va. Proprio come
faceva la sua mamma quando lui era piccolo. Il dipendente affettivo dipende
dallo sguardo di una persona per volta (il presunto amato), mentre il Narci
dipende dal numero di applausi che gli arrivano da un pubblico, di cui entra
a far parte anche il partner (infatti ne ha spesso più di uno). Inutile mettersi
in lista per un eventuale matrimonio con lui: è inesorabilmente già sposato
con l’adorata madre.
Il Narciroyal
Il Narciroyal è la versione regale e aristocratica del Narcibimbo. In questo
caso la madre non faceva nessuna esclamazione e lui era appeso a un’alzata
di un suo magnanimo sopracciglio. Il Narciroyal cresce in un ambiente
affettivamente gelido e composto, il padre è altrove e lui vive all’ombra
della madre imperatrice, in attesa di un gesto di amore che non arriverà. Va
da sé che a sua volta nelle relazioni diventerà l’imperatore algido e
inarrivabile, perpetuando il copione materno e paterno dell’avarizia affettiva.
Anche qui, la relazione calda ed emotiva è impossibile, perché il Narciroyal
nutre una profonda rabbia per le donne.
Il Narcifiocco
È la versione povera e meno aristocratica del Narciroyal. Ha l’aspetto di un
bambino infiocchettato, tanto bello, tirato a lucido dalla mamma, in qualsiasi
situazione potremmo riconoscere quel fiocco. Il Narcifiocco è come il tipo
precedente, ma è ancora più caricaturale. Deve sempre essere simpatico,
brillante, pieno di boutades. Nasconde come tutti gli altri un profondo senso
di vergogna di sé, a ben guardarlo. (Possiamo far rientrare in questa tipologia
anche Il bravo ometto descritto nella sezione degli archetipi.) Entrambi
differiscono dal Narcibimbo perché hanno qualcosa di ancora più «ridicolo»
e quindi si presume che nel corso della loro infanzia abbiano sentito ancora
più vergogna.
Il Narcizitto
Non gli veniva chiesto di fare la ruota, ma di non esistere. Corrisponde alla
tipologia opaca di cui abbiamo già parlato. I genitori erano disconfermanti,
non disponibili. E lui in apparenza ha imparato bene: dimesso, ritirato,
falsamente modesto, gira per il mondo sotto mentite spoglie, indossando le
vesti dell’umile e docile possibile compagno. Perciò, attenzione: lì per lì non
ci accorgiamo di essere di fronte a un Narci!
Ma poi si trasforma nel più pungente e punitivo muro di gomma. Il suo
meccanismo di difesa preferito è un silenzio oppositivo, e sembra recitare
come un mantra la filastrocca: «Non mi hai fatto niente faccia di serpente,
non mi hai fatto male faccia di maiale». È assetato di rivalsa, per non essere
stato mai visto. Il contesto di crescita castrante e annullante ha suscitato in
lui fantasie di riscatto; la sua missione di vita è farla pagare a qualcuno. Una
volta impietosito dalla sua apparente timidezza, il partner si troverà a dover
decifrare quotidianamente un rebus, peggio del cubo di Rubik.
Varianti di questa tipologia riconoscibili nel mondo reale sono il
Narciriccio, molto introverso e silenziosissimo, e il Narcisolo, isolato e
sprezzante della folla. Questo gruppo ha striature ancora più complesse:
probabile che i genitori dessero messaggi ambivalenti e terribili, forse il
contesto di crescita era così disfunzionale che a questa tipologia è mancato
del tutto lo specchio, non lo hanno avuto nemmeno distorto. «Tu non esisti»
è stato il messaggio ricevuto. Forse andrà a specchiarsi attraverso la stessa
crudeltà che ha incrociato crescendo.
Il Narcistella
È uno dei più svantaggiati, anche se non sembra. A lui viene chiesto di
brillare, di diventare un Narcieroe, di compiere imprese grandiose per
appagare l’ego genitoriale, ed è quello che cercherà di fare usando qualsiasi
mezzo.
Se le altre tipologie sono succubi di una richiesta del materno, il
Narcistella ha sulle spalle una missione importante: ripagare il padre della
sua infelicità. Possiamo vedere tanti Narcistella in TV, o rampolli di famiglie
bene, schiacciati dalle aspettative. Spesso esiste un’omosessualità più o
meno latente, tenuta con forza nascosta per non deludere il padre. La vita è
un peso enorme per il Narcistella, che vive oppresso dalla richiesta paterna e
non ha trovato conforto nella madre, percepita dura e distante.
Il Narcitriste
Se ne sta in disparte e crede che il mondo ce l’abbia con lui, sembra pronto a
esplodere, ha un’autostima molto bassa. Si sente perseguitato e cova
un’invidia torva. Probabilmente ha dovuto rinunciare molto presto all’idea
che qualcuno si occuperà mai di lui. Non solo ha perso la fiducia, ha perso
anche la speranza.
Il Narcipalloncino
È tutto indaffarato a darsi arie; sbruffone e fanfarone, racconta le sue gesta
molto mediocri come se fossero epiche. Occupa molto spazio, ha un ego
ingombrante e petulante. Non lascia parlare, vuole l’attenzione e la ottiene
per esasperazione degli altri, che si sentono sollevati quando non c’è. Forse,
da piccolo doveva fare il giullare?
Il Narcivetro
Suscettibile, spaventato, perennemente avvilito, vorrebbe essere elogiato di
continuo, per potersi svalutare. Vive al coperto, dentro di sé, sogna rivalse e
nutre fantasie di riscatto della sua condizione, che vive come un’ingiustizia.
È così poco strutturato che può andare in pezzi per un nonnulla. La sua ferita
narcisistica sanguina con facilità.
Il Narcifuria
Qui ci avviciniamo alla polarità estrema dell’arcobaleno narcisistico, per il
grado di pericolosità in cui può sfociare, e abbandoniamo il tono ironico
tornando seri e preoccupati. Chi ha subito una ferita profonda di disconferma
di sé non impara né empatia né amore, anzi scambia l’affettività distorta per
relazione. Perciò in questa tipologia troviamo una rabbia che scorre
sottopelle ed è pronta a esplodere se non ottiene ciò che vuole. Rimandiamo
a testi scientifici e autorevoli la trattazione di una patologia talmente grave
che può sfociare in manipolazione estrema quale il gaslighting, la negazione
cioè della realtà, o in violenza psicologica e fisica. La negazione del valore
di sé è stata tanto estrema, distorta e atroce che per sopravvivere questo tipo
di personalità ha solo la ripetizione degli atti traumatici che ha subito e che
tenderà a replicare sull’altro per tentare di sfuggire alla propria impotenza.
A questa cena inviteremo anche alcune ragazze, con le quali abbiamo già
fatto conoscenza nel capitolo sugli archetipi: la principessa sul pisello, eterna
insoddisfatta; la piccola fiammiferaia, orfana e dimenticata da tutti; la più
bella del reame, pretenziosa ed esigente, che ritiene dovute le attenzioni del
mondo; la crocerossina, tanto buona e caritatevole; e la bimba di papà,
avvitata alla figura del padre o in positivo, nel caso lo abbia idealizzato, o in
negativo, se sente di avere un conto in sospeso con lui.
Una volta che avrai esaminato tutte le caratteristiche di ognuno dei tuoi
commensali e avrai scritto il loro nome su ogni cartoncino, ben visibile, ti
chiedo di osservarli. Prenditi alcuni minuti per riconoscere ogni tipologia,
datti tutto il tempo necessario per comprendere a fondo questi personaggi.
Puoi decidere di sceglierne uno e osservarlo più da vicino.
Perciò, metti il bigliettino con il suo nome su una sedia (o su un cuscino)
di fronte a te e immagina che sia davvero lì. Supponiamo che tu abbia scelto
il Narcibimbo. Guarda che postura assume, come si pone, immaginane la
voce, la gestualità.
Ora ti chiedo di sederti sulla sedia (o sul cuscino) del personaggio che hai
deciso di osservare. Com’è essere questo tipo di persona? Com’è provare a
metterti nei suoi panni?
Com’è essere Narcibimbo? Che sensazioni prova? Che vestiti indossa?
Che cibo predilige? Come si sente in mezzo agli altri? È in contatto con le
sue emozioni? Se sì, quali sono? E i suoi pensieri? Le sue priorità?
Se vuoi, prendi nota di una frase o di un’osservazione che ti viene in
mente. Magari avrai una comprensione, un flash.
Se vorrai, con i tuoi tempi, potrai esplorare tutte queste diverse
interpretazioni di ferite narcisistiche. Forse in alcune ti sei riconosciuto di
più e in altre meno: in ogni caso, nessun giudizio. Forse hai incontrato un ex
fidanzato, o il tuo vicino di casa, o un amico di infanzia, o la tua amica del
cuore. Queste personalità sono presenti intorno e dentro di noi, in parte.
Riconoscerle e farci amicizia ci aiuterà a non esserne spaventati e a
comprendere da dove nascono i loro comportamenti. Ribadiamo, non per
assolverle, o metterle sul banco degli imputati. E nemmeno frequentarle.
Conoscere qualcosa ci serve per riconoscere e scegliere i gradi di vicinanza
(o distanza) a cui vogliamo stare.
Terminato l’esercizio di immaginare di diventare quel personaggio, puoi
osservarli tutti dall’esterno, senza giudizio, vedendoli per quello che sono:
aspetti diversi della complessità del nostro essere umani. E lasciare a loro le
ferite, sapendo che non puoi essere tu a guarirle.
Ora puoi riporre i bigliettini in un sacchettino, e potrai estrarne uno e
ripetere l’esercizio ogni volta che vorrai, per guardare il mondo attraverso gli
occhiali di quella ferita.
Scheda n. 2
Che coppia sei?
LAVORARE con le coppie è molto affascinante, poiché mi trovo di fronte non due
persone, bensì due galassie familiari. Dietro a ognuno ci sono due sistemi
che si incontrano.
Dopo anni di esperienza, mi sono costruita uno schema per individuare
che tipo di coppia ho davanti. Questo non per rimanere in un recinto ristretto
e limitante, assolutamente no: se c’è una cosa che ho imparato è che le
etichette sono inutili e rimpiccioliscono il potenziale delle persone. Mi serve
solo come punto di partenza, per poi abbandonare qualsiasi riferimento una
volta che saremo nel mare aperto del percorso. Perciò ti invito a leggere
queste caratteristiche con molta elasticità, a grandi linee, perché il tutto è ben
di più dell’insieme delle parti. E così pure la coppia è ben di più di ciò che
crede di essere, ed è un insieme di risorse soltanto se chi la compone
conosce se stesso.
In questa scheda di lavoro ti propongo di esplorare lo schema della tua
coppia, se sei in una relazione, ma puoi esaminarne anche una passata, o una
ipotetica. Sarà divertente.
Gli scopi dell’esercizio, che puoi fare da solo oppure in due, sono:
Come per gli altri esercizi, scegli abiti comodi, un ambiente tranquillo e
un sottofondo musicale, se ti fa piacere. E circondati di tutti gli elementi e
stimoli piacevoli che ti aiutino non a distrarti, e a focalizzarti su sensazioni,
emozioni e comprensioni.
L’esercizio consta di due parti.
Step 1
Disegna sul foglio un cerchio, come se fosse un piatto. Fallo bello grande,
così potrai scriverci dentro.
Questo piatto è la tua relazione, presente o passata che sia.
Ora dividi il cerchio in modo da descrivere la percentuale di investimento
che hai fatto tu nel rapporto e quella che ha invece coperto il partner. Potrai
osservare, come in una torta, se la tua parte è del 40%, o dell’80%, e di
conseguenza vedere quanto ha investito l’altro. Metà? Un quarto?
È importante che mentre fai l’esercizio tu resti neutro, obiettivo, vero.
Senza giudizio, perché non c’è giusto o sbagliato.
Magari potrai stupirti di avere investito più del partner o, viceversa, molto
meno di quanto pensavi.
Step 2
Ora inserisci nei due scomparti del piatto gli ingredienti che ciascuno dei due
ha messo in questa relazione: magari nella tua parte ti verrà da scrivere cura,
accudimento, sesso, compagnia, stimoli culturali, soldi, dolcezza. E nella sua
desiderio, aiuto economico, presenza, tempo di qualità. Qualunque siano gli
ingredienti, scrivili.
Aggiungi però, tra gli ingredienti, anche le cose che chiedevate alla
relazione, per esempio rassicurazioni. Se ci pensi, quello che hai messo nel
piatto non è solo positivo: magari hai portato i tuoi bisogni insoddisfatti, la
tua richiesta di risarcimento, il tuo grido di aiuto, la pretesa di essere
riconosciuta. E lui altrettanto.
Una volta che hai scritto tutto quello che ti viene, rileggilo. E osserva di
nuovo la percentuale. Forse hai messo di più tu. Di che cosa? Di solitudine?
Di vuoti da riempire? E lui, invece? Bisogno di applausi? Richieste
implicite? Denaro? Tempo? Gelosia?
Qualunque cosa tu scopra, non giudicarla, accogli con semplicità il dato di
fatto che quando si incontrano due persone, si uniscono due galassie, le ferite
di ognuno e tutto quanto si portano dietro da generazioni. Ciò significa che
non si potranno mai cambiare i copioni? Sì che si potranno cambiare, ma per
poter modificare qualcosa occorre conoscere come è fatto e da dove si è
originato.
Tieni con te ogni intuizione che hai avuto durante l’esercizio e fanne
tesoro, mettila via per dopo. Puoi partire da queste consapevolezze per
creare lentamente una danza nuova, o un amore a seconda vista. Perché
l’incontro tra due persone è un insieme infinito di possibilità.
I naufraghi
Il termine che meglio definisce questa unione è disperazione. I due sembrano
perseguitati da una sorte avversa, spesso hanno alle spalle un passato di
droga, abusi, alcolismo, oppure uno dei due è affetto da una grave malattia;
in ogni caso, l’altro diventa un devoto salvatore.
Entrambi infelici, può darsi che uno dei due (o entrambi) ripeta un
copione familiare dove un coniuge aveva una dipendenza e l’altro viveva
sacrificando la propria esistenza. Se uno dei due partner risolve il problema
esistenziale che lo affligge, la coppia perde il perno su cui si regge.
La coppia di estranei
Si contraddistingue per il colore grigio. Ha attorno un alone sbiadito in una
vita sempre uguale, spenta, rassegnata. I partner non investono nella coppia e
non di rado uno dei due ha una situazione parallela, rifornendosi da qualcuno
che si presta a erogare ossigeno. Chiamo questa configurazione «bancomat
emotivo»: molte mie pazienti hanno il ruolo ingrato di battitore libero (per
modo di dire, in quanto single) che sta all’esterno, svolgendo la funzione
involontaria di rivitalizzante della coppia, e finiscono con il fare da polo di
rianimazione per l’unione agonizzante.
Tuttavia, questo è un legame incistato nella comodità, nell’abitudine,
talvolta nella codardia di non voler affrontare il disagio della separazione.
Perciò uno dei due preferisce attingere energia da fuori e mantenere lo status
quo, per continuare in questa routine che è sì opaca ma garantisce una sorta
di sicurezza senza scosse. È probabile che stiano insieme per non pagare un
altro affitto?
La coppia di cooperanti
Bimbi, casa, lavoro, scuola, corso di nuoto dei figli: la coppia di cooperanti
procede senza porsi troppi problemi. I due partner investono in misura
eguale in lavori forzati. Si fa un bambino, poi un altro ci vuole. Sono
omologati, partecipano alla vita della scuola, organizzano i compleanni, tutto
segue un iter prestabilito. La coppia che incentra lo stare insieme sulla
gestione dei figli collabora senza battere ciglio, con un misto di dedizione e
rassegnazione. A testa bassa, cresce bambini che sono il fulcro di ogni
attività. Sua maestà il figlio ha desessualizzato i partner, che non si separano
ma non si frequentano davvero. Tutti e due hanno come priorità il
mantenimento della cooperativa, o azienda a conduzione familiare. Alla
lunga, diventa una coppia di estranei.
C’è anche la versione Coppia Azienda. Più benestante, delega a
collaboratori (baby-sitter, tate, colf) l’andamento della gestione familiare.
Il cieco e il sordo
Sono infelici. Ma fingono di no. Lui non ascolta lei, lei non vede che lui non
c’è, o ha una dipendenza, o un’amante. Oppure lei ha un altro, e lui diventa
non vedente. Sembrano le tre scimmiette: «Non vedo, non sento, non parlo».
E la vecchiaia arriva pigramente.
La coppia salvagente
È una sorta di bolla che ruota attorno al problema di uno dei due. Potrebbe
essere la classica coppia dove lui ha un problema con l’alcol e lei dedica la
sua vita a salvarlo (o viceversa). Diventa così codipendente: vive con
l’orecchio teso, controlla gli orari, calcola gli itinerari casa-lavoro per
cronometrare e verificare se lui si ferma al bar. Svuota le bottiglie nel
lavandino, fa scenate in pubblico, minaccia di lasciarlo ma corre sempre in
suo soccorso, mettendolo a letto ubriaco e lavandolo se vomita. Di sé non sa
nulla, sa tutto dell’altro.
La coppia bianca
I matrimoni bianchi sono un fenomeno molto diffuso, ma se ne parla poco.
Spesso sono unioni serene, in cui ci sono affetto, stima, intesa, interessi
comuni, solidarietà e sostegno. Ci sono anche risate. Tuttavia, la sessualità si
è spenta o non è mai divampata.
La coppia è depolarizzata. Hanno perso l’attrazione magnetica di quelle
qualità opposte che si attraggono e ben si amalgamano. Questo tipo di
legame non si scioglie, si conserva intatto, anche se talvolta il rapporto
sessuale non accade proprio mai, nemmeno all’inizio della relazione. È un
segreto che resta sepolto all’interno della coppia, che agli occhi del mondo
pare funzionare. E in effetti va bene in tutto e per tutto, tranne che nel letto.
Ma i due non sembrano sentirne la mancanza, sopperiscono e sublimano con
tutto il resto. Poi arriva la terza età, e la coppia sa farsi compagnia e darsi
sostegno. È una cooperativa che nel tempo si è trasformata in una onlus.
Inossidabile.
I disgregati
Chi li vede non si capacita di come siano finiti insieme: sono agli antipodi,
distanti come il sole e la luna. Eppure, nel tempo resistono perché hanno un
collante segreto: il sesso. È la coppia che rivela che la sessualità non è mai
mancata. Tutto il resto è fantascienza.
I ghiaccioli
Non si guardano, non si sfiorano. Non investono nella relazione, non hanno
un patrimonio comune. Stanno insieme grazie alla freddezza che li
contraddistingue. Mantengono una sessualità spoglia e meccanica. Non c’è
dialogo, non c’è calore. Il gelo è il conservante naturale che li tiene insieme.
I «volemosebene»
Più che una coppia sembrano due fratelloni: fidanzati dal liceo, magari
hanno frequentato la stessa parrocchia e hanno avuto cinque o sei figli. Si
vogliono bene, sono sereni. Non sanno cosa sia la passione, ma in compenso
hanno la pace dei sensi, una tavolata di figli e tanti amici.
La coppia piccante
Tutta tacchi a spillo e calze a rete fino alla terza età, investe in erotismo. Lui
è attratto da lei, che resta sexy anche tra i fornelli. È possibile che si
dedichino allo scambio di coppia per aggiungere costante condimento al loro
ménage. Sono un’associazione al piacere invece che a delinquere e
rimangono in equilibrio attorno ad alti livelli di sensualità. Non si trascurano
mai, entrambi devoti al tempio della loro sessualità. Si impegnano talmente
tanto che arrivano alla fine del loro tempo insieme in un soffio, senza mai
accusare momenti di rallentamento. Alla faccia del tempo che passa.
La coppia Vinavil
Bisogna fare tutto insieme. Investono in una simmetria formale più che
sostanziale. Al mare, in piscina, in giardino prendono il sole con le sedie a
sdraio affiancate. Se uno si gira a pancia in giù, si gira anche l’altro. Se uno
si tuffa in acqua, ci va pure l’altro. Se lui mette un like a qualcuno lo mette
anche lei. Il must è fare tutto insieme. È la coppia fusionale, sulla carta. Non
ci stupiamo poi se uno dei due è su Tinder sotto mentite spoglie.
La coppia intonata
Sono molto consapevoli delle loro identità, hanno interessi individuali e di
coppia, che coordinano in maniera equilibrata. Ben conoscono i confini
l’uno dell’altro e creano zone di decompressione della relazione in caso di
mareggiate. Sono rodati, ben risolti e realizzati professionalmente.
Contribuiscono al 50%, ma è una percentuale morbida e mobile, creando un
giusto equilibrio di dare e avere. Hanno fatto pace con le famiglie di origine
che considerano come donatrici di vita, con gratitudine. Hanno lasciato alle
spalle le colpevolizzazioni e le tempeste e ora possono godere della
reciproca compagnia. Fra loro ci sono rispetto e affiatamento, e ognuno dei
due supporta l’altro senza indossare un ruolo genitoriale. Entrambi
polarizzano la coppia, componendo passi di danza complementari, senza
prevaricazioni o competizioni.
Ti senti disponibile?
Tra poco ti guiderò nella costruzione del tuo genogramma, cioè la storia
della tua progenie e di tutto ciò che può avere lasciato o creato una traccia
significativa nel tuo sistema familiare.
Per tutta la durata dell’esercizio, ti chiedo di restare in ascolto delle tue
emozioni, sensazioni e possibili resistenze, e di prestare attenzione al corpo.
Per prima cosa, scegli un posto confortevole. Cerca il piacere in quello
che fai, senza sforzo.
Creiamo un setting e iniziamo da ciò che ti serve.
La famiglia Buontemponi
Allegri e gioviali, accolgono volentieri ospiti improvvisi a cena, sono
morbidi, sono insieme. La priorità è essere buoni.
La famiglia Fintarelli
Attraenti, famosi, benestanti. E finti. Ma lo sanno solo loro. Da fuori non si
vede.
Sono pienamente modaioli, «appaio ergo sum». Mangiano poco,
cambiano più abiti che tovaglie; invece delle pentole acquistano borse
griffate e scarpe glamour. In compenso restano magri. La priorità è essere
belli, anzi splendidi, e perfetti.
La famiglia Ingozzetti
Hanno più scorte alimentari di un rifugio antiatomico. Le loro conversazioni
ruotano attorno alla pianificazione dei menù per i prossimi dodici natali.
Caschi il mondo, si cucina primo, secondo, contorno e dolce; il cibo non
deve mai mancare, altrimenti è una sciagura. La domenica, se non ci sono
due primi non è festa. Nel tempo libero si preparano manicaretti, i problemi
si risolvono a tavola: mangiando. La loro priorità è spostare l’attenzione sul
cibo. Forse per non sentire?
La famiglia Severini
Più che una famiglia sembra un tribunale. I pasti condivisi sono veri e propri
processi dove a turno ci si accanisce contro un componente, il quale viene
messo sul banco degli imputati e processato per direttissima, sminuito o
ridicolizzato per non aver buttato via l’immondizia o per aver detto una
parola ritenuta inopportuna dalla corte suprema. In casa regna un’atmosfera
di giudizio perenne. A tavola la tensione si taglia con il coltello. La priorità è
avere ragione.
La famiglia Canottaggio
Uno per tutti, tutti per uno. La classica famiglia a trame strette: ci si aiuta, a
qualunque costo. Tutti remano per tutti. A volte in un ambiente così si
soffoca. La priorità è soccorrersi.
La famiglia Vigilantes
Al posto degli occhi hanno delle telecamere, tutti controllano tutti, sanno
tutto di tutti. Dormono poco, sono molto impegnati: invece di vivere si
monitorano reciprocamente. La priorità è guardare gli altri per non guardare,
mai, se stessi.
La famiglia Paragoni
Vivono confrontandosi agli altri, che vedono sempre migliori. Sono dotati di
bassissima autostima e per nascondere il loro senso di inadeguatezza
spettegolano. Tagliano e cuciono su tutto e tutti. Hanno i vetri della casa
molto puliti: serve per guardare meglio all’esterno. La loro priorità è non
prendersi la responsabilità di far felici se stessi, preferiscono invidiare.
La famiglia Fantasmini
Ognun per sé, in comune hanno il cognome. Per il resto, ognuno guarda in
direzioni diverse. È un insieme di estranei, di monadi. La priorità è
andarsene, prima possibile.
La famiglia perfetta non esiste, esiste tuttavia un modo più funzionale che
incoraggia chi viene dopo ad andare nel mondo. La raffigurazione rispetta
l’asimmetria generazionale. Chi è più grande viene prima, chi viene dopo è
rappresentato più piccolo. I nonni stanno dietro ai propri figli, così come i
genitori stanno dietro e fungono da radici, dando forza ai figli che stanno
davanti e guardano la vita.
Scheda n. 5
Gratitudine
SIAMO giunti all’ultima tappa di questo nostro viaggio, e credo che la parola su
cui possiamo focalizzarci per sigillarlo e onorarlo è: grazie.
Attenzione, trigger warning: se hai avuto genitori molto disfunzionali,
abusanti e violenti, forse è meglio che tu non faccia questa scheda di lavoro
da solo, ma con l’accompagnamento di un professionista. Non c’è nulla di
male nel non voler andare oltre: rispetta il tuo vissuto, e lo rispetto anch’io,
invitandoti a chiudere il libro e fare qualcosa di piacevole proprio ora. Ti
ricordo che qualunque cosa ti sia accaduta, sei arrivato fin qui e di questo,
soltanto di questo, ti propongo di essere grato, se te la senti, senza sforzo. Ti
ringrazio per avermi seguita fino in fondo e ti auguro di prendere in mano le
redini della tua storia.
Per chi vuole procedere con l’esercizio, vorrei ricordare il significato del
termine gratitudine, che è molto di più di un semplice vocabolo: è una
dimensione umana.
Perciò ti chiedo di sederti comodo, ascoltando il tuo respiro.
Puoi scegliere di utilizzare una canzone che ti connetta con la tua
dimensione interiore: mentre scrivo sto ascoltando Glimpses di Alex Ebert.
***
Step 1
Prendi carta e penna e inizia a scrivere una lettera a uno dei tuoi genitori, poi
potrai farlo anche con l’altro.
Inizia con: «Cara mamma», o «Caro papà».
Ora elenca tutte le cose per cui hai provato un dolore che finora hai
ritenuto essere causato da lei o da lui. Adesso è giunto il momento di
metterlo nero su bianco.
Prenditi il tempo di scrivere quello che hai sempre pensato, cerca di
esternare tutto, ogni singolo dispiacere. Più sarai preciso, più sarà liberatorio.
Per esempio: «Cara mamma, per tanto tempo ho sentito risentimento per
te. Ho creduto che tu non ti fossi occupata a sufficienza di come stavo. Ti ho
ritenuto responsabile di non esserti presa cura del mio disagio interiore, non
mi sono sentita vista, hai lasciato che io affrontassi tutto da sola, fin da
quando ero piccola».
Se ti scendono le lacrime o emergono emozioni, non trattenerle, lasciale
scorrere, osservale.
Ora puoi fare la stessa cosa con l’altro genitore.
Per esempio: «Caro papà, mi hai molto ferita. Non mi sono mai sentita
riconosciuta né apprezzata. Non mi hai dato affetto, non mi hai mai
abbracciata. Non mi hai dato nulla», e così via.
Se non ti viene niente, va bene lo stesso. Se non senti di aver subito torti
dai tuoi genitori, pensa comunque a tutti coloro che invece recriminano ogni
giorno e lascia il cuore aperto per la seconda parte dell’esercizio.
Prima però prenditi una piccola pausa, lascia riposare ciò che hai scritto.
Puoi farti una tisana, o bere una bibita.
Step 2
Quando riprendi in mano il foglio, siediti in un’altra postazione, cambia
fisicamente posizione e prospettiva.
Ti suggerisco anche di mettere un’altra canzone: io, per esempio, sto
ascoltando Thank You for Hearing Me di Sinéad O’Connor.
Rileggi ciò che hai scritto e trasforma i «mi dispiace» in ringraziamenti.
Se avevi scritto: «Cara mamma, mi dispiace che tu non mi abbia
supportato», ora scrivi la stessa frase rovesciandola con un grazie: «Cara
mamma, grazie per non avermi supportato. Ho imparato a cavarmela da solo.
Grazie per avermi fatto lavorare da quando avevo undici anni. Mi hai
insegnato il valore del lavoro. Grazie per non avermi comprato il superfluo,
ma soltanto l’essenziale. Mi hai insegnato a non sprecare».
E puoi continuare a ringraziare per le cose che ti vengono in mente che
ora vedi e di cui ti senti grato.
«Grazie per tutte le notti che ti sei alzata per me quando ero piccolo,
quando ero malato. Grazie per avermi nutrito e per avermi comprato i vestiti
che mi servivano. Grazie per avermi permesso di studiare, per avermi dato
una casa. Grazie per la tua ansia, era il tuo modo di volermi bene.
Grazie per la tua dignità e compostezza.
Grazie per avermi dato quell’unica moneta che avevi. Ora le altre me le
guadagnerò io. Ho ricevuto abbastanza, mamma, grazie.
Lascio a te tutto quello che non è mio, il peso della tua infelicità, della tua
tristezza. Ti restituisco il tuo dolore. Tu sei più grande, io sono più piccolo e
non sta a me salvarti. Sono certo che troverai il modo per gestire il tuo
destino e fare della tua vita ciò di cui hai bisogno. Ci sarà sempre un posto
per te nel mio cuore, ma io ora sono adulto, e di me mi occupo io.»
Se non trovi nessun motivo per essere grato, se ti sei sentito così deprivato
e penalizzato, usa la parola magica del ringraziamento per il dono della vita
e prova a scrivere: «Grazie mamma (grazie papà) per la vita, che mi viene da
te, e che onoro. D’ora in poi ci penso io a me».
Ora porta l’attenzione alle tue sensazioni.
Ti auguro di sentirti leggero e in pace. E di trovare la voglia di
intraprendere quell’avventura affascinante che è il prenderci cura di noi
stessi, con consapevolezza.
Per dire grazie
A ME, per il mio coraggio, la mia tenacia e la mia passione. Per essermi fatta
compagnia anche quando la scrittura non fluiva. E per quando, invece, mi
veniva da piangere, scrivendo.
A tutte le persone che mi hanno consegnato la loro storia, scegliendomi
come custode dei loro segreti più preziosi. Con loro ho studiato la vita e
imparato l’umiltà di stare in ascolto, talvolta in silenzio, talora decidendo
quale parola restituire, con cura.
Ai «pazienti» che mi hanno donato un cameo e autorizzata a narrarne
stralci.
A tutti i miei maestri, i terapeuti che mi hanno raccolta, aiutandomi a
ricompormi, a ripensarmi e a ricostruirmi. Insegnandomi a non temere di
restare «a maggese» quando invece avrei voluto scappare ben lontano da me.
A Jerome Bruner, con il quale ho avuto la fortuna di passare una giornata
intera. Ai suoi occhi novantenni e saggi, e al suo sorriso mentre mi diceva:
«Non avere mai paura delle bufere. Portano sempre nuovi significati».
A chi mi segue ogni giorno sui social, e che so avere atteso con
trepidazione questo scritto, proprio come una gestazione. Con loro condivido
quello che sono e quello che so, ridendo e soffrendo insieme. Siamo una
community dal cuore grande.
A Doris Corsini, perché ha visto ben prima di me.
A Elisa Guidelli, per avermi detto in un pomeriggio in cui ero disperata:
«Vacci piano con gli avverbi».
A Maria Cristina Guerra, «ostetrica» ricca di intuito: grazie per averci
creduto subito, quando ancora questo libro era solo un embrione.
Ad Antonella Bonamici, solida àncora necessaria per dare ordine al mio
scrivere intricato.
A Manuela Aramu, per il disegno di copertina e le illustrazioni. Nei suoi
disegni trovate la sua bellezza.
Alla collega Francesca Treccani, meravigliosa biblioteca, per aver letto le
bozze e molto altro. Ha deciso che dovevo pubblicare un libro quando io
ancora non lo sapevo nemmeno.
A Marta Bellesso, per il suo sguardo e per non avermi mai mollata,
ricordandomi che ho anche un corpo. Senza di lei forse mi sarei atrofizzata
per sempre.
A Morena Silingardi, per aver letto della bozza soltanto una frase. Ma era
quella giusta. Lei sa di essere in debito di mille risate.
A Matilde D’Errico, per esserci stata in tutte le fasi delle bozze e avermi
accompagnata con la sua competenza, presenza e preziosa amicizia.
A Selvaggia Lucarelli, per avermi scelta e riconosciuta. È un onore per
me, e un’amicizia fertile.
A Gaëlle Rossi, per aver letto il manoscritto con tanto amore. E per
l’affetto e il supporto di tutti i giorni.
Agli amici e alle amiche che hanno messo una risata, un aperitivo e
buttato lì un: «Come va il libro?» quando a tarda notte mi sentivo talvolta
anche molto sola e sconclusionata, in balia di queste pagine.
A Pino, per le sue mani antiche che fanno ancora le tagliatelle per tutta la
nostra famiglia. Sanno di amore semplice e schietto, e vita, quella vera.
Grazie per avere fatto da nonno alle mie figlie, diventando sponda buona.
Come un donatore, è riuscito a trapiantare quello che è mancato.
A Stefano (Ra), che mi ha aiutata a portare le valigie mentre io vagavo per
le quattro case: ha sempre avuto fiducia, io a volte molto meno. Soprattutto
quando mi si appannavano le parole.
A Irene e Aurora. Essere la loro mamma è un’avventura incredibile,
scombussolante e intensa. Mi ricordano in ogni momento che l’amore è un
ponte che può passare a chi è davanti solo se pesca all’indietro. Ho dato loro
tutto quello che avevo: talvolta era un amore improprio, salato e di traverso.
Ma non ho mai smesso di pensarle capaci. Le tengo dentro. Lo sanno e si
avventurano nelle loro vite con la schiena dritta, scegliendo i loro sentieri.
A mio padre e a mia madre: onoro la vita che da lì arriva. E questo mi
basta. Da loro ho imparato il coraggio, l’avventura e la forza. E che tutto il
mondo può essere casa. E così ho potuto dirlo anche alle mie figlie.
Al mio albero, tutto, era quello giusto per farmi arrivare fino a qui.
A Loulou, per l’affetto, la pazienza e l’allegria: il suo scodinzolare è
samba del carnevale di Rio. E a gatto Enrico, per le endorfine prestate con le
sue fusa.
Alla bellezza ruvida e gentile del mare di Tellaro, al vento e ai gradini,
metafora delle tante cose che ho trovato mescolate alla vita.
Solo grazie. È la parola magica.
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Di troppo amore
di Ameya Gabriella Canovi
Proprietà Letteraria Riservata
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
I disegni sono di Manuela Aramu
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892742680
COPERTINA || ILLUSTRAZIONE DI MANUELA ARAMU | ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: SABRINA VENETO
«L’AUTRICE» || FOTO © IRENE FERRI
Indice
1.
Copertina
1.
L’immagine
Il2.libro
3.
L’autrice
2.
Frontespizio
3.
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
4. di iniziare
Prima
5.
#Frammento n. 1. Altrove
1.Due lenti con cui guardare
1.
2.Nei pensieri di un dipendente affettivo. L’errore di Eros
2.
3.La dipendenza affettiva
3.
6.
#Frammento n. 2. Da piccola
1.Addictions
4.
7.
#Frammento n. 3. Racconti occhi nel cuore
1.Un terrore senza nome. Le dipendenze patologiche non da sostanze
5.
2.La dipendenza dall’altro
6.
3.Copioni familiari
7.
4.Narciso e il suo doppio, una coppia
8.
5.ArcoNarci. Narci chi?
9.
6. Incontri
10.
7. Lo schema della relazione
11.
8. Passo a due
12.
9. Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida
13.
10.
14. Hybris
11.
15. Love addiction, poisoned love
12.
16. Archetipi e dipendenza affettiva
13.
17. Codipendenza, ovvero io ti salverò
14.
18. Ah, la famiglia!
15.
19. Galassie familiari
8.
#Frammento n. 4. La rabbia
1. La fedeltà allo schema familiare
20.
9.
#Frammento n. 5. Per amor tuo
1. Riconciliarsi con la propria storia
21.
10.
#Frammento n. 6. Recuperi
1. Che cos’è l’amor?
22.
2. Con cura
23.
3. Pensiero, dipendenza e meditazione
24.
11.
#Frammento n. 7. Quattro case
1. Mindfulness
25.
12.
#Frammento n. 8. Ritrovare il filo
13.
In fine
14.
Schede di lavoro
15.
Scheda n. 1. Invito a cena con Narcisi
16.
Scheda n. 2. Che coppia sei?
17.
Scheda n. 3. Il tuo albero
18.
Scheda n. 4. Famiglie
19.
Scheda n. 5. Gratitudine
20.
Per dire grazie
21.
Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
Prima di iniziare
#Frammento n. 1. Altrove
1. Due lenti con cui guardare
2. Nei pensieri di un dipendente affettivo. L’errore di Eros
3. La dipendenza affettiva
#Frammento n. 2. Da piccola
4. Addictions
#Frammento n. 3. Racconti occhi nel cuore
5. Un terrore senza nome. Le dipendenze patologiche non da sostanze
6. La dipendenza dall’altro
7. Copioni familiari
8. Narciso e il suo doppio, una coppia
9. ArcoNarci. Narci chi?
10. Incontri
11. Lo schema della relazione
12. Passo a due
13. Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida
14. Hybris
15. Love addiction, poisoned love
16. Archetipi e dipendenza affettiva
17. Codipendenza, ovvero io ti salverò
18. Ah, la famiglia!
19. Galassie familiari
#Frammento n. 4. La rabbia
20. La fedeltà allo schema familiare
#Frammento n. 5. Per amor tuo
21. Riconciliarsi con la propria storia
#Frammento n. 6. Recuperi
22. Che cos’è l’amor?
23. Con cura
24. Pensiero, dipendenza e meditazione
#Frammento n. 7. Quattro case
25. Mindfulness
#Frammento n. 8. Ritrovare il filo
In fine
Schede di lavoro
Scheda n. 1. Invito a cena con Narcisi
Scheda n. 2. Che coppia sei?
Scheda n. 3. Il tuo albero
Scheda n. 4. Famiglie
Scheda n. 5. Gratitudine
Per dire grazie
Copyright