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Il libro

«Io non vivo senza te» è una frase intesa spesso come il segno di un legame intenso, un
modo di dire usato per rappresentare una storia romantica. In troppi casi è invece l’espressione
di una vera e propria dipendenza, di una relazione malata che rende infelici molte persone, più
di frequente donne. La dipendenza affettiva è un disturbo ancora poco conosciuto, dal quale è
difficile liberarsi perché ha radici profonde nel cuore della famiglia d’origine, dove
sperimentiamo le prime forme di attaccamento e impariamo, quando va tutto bene, l’amore per
noi stessi. Ma se invece siamo stati bambini poco accuditi, trascurati, o addirittura abusati, o al
contrario figli troppo protetti, oggetto di attenzioni eccessive, allora possiamo sviluppare
rapporti nei quali il partner viene vissuto come un’ancora di salvezza, qualcuno che può riparare
le vecchie lacerazioni. In questo libro Ameya Gabriella Canovi condivide la sua lunga
esperienza di sostegno a dipendenti affettivi raccontando le loro storie e spiegando il disagio di
cui sono prigionieri, con le sue diverse manifestazioni: mendicare l’affetto o pretenderlo,
manipolare o sedurre l’amato, riprodurre situazioni sentimentali velenose, subire la frustrazione
di un desiderio di fusione mai soddisfatto. Con un approccio tanto rigoroso quanto ricco di
empatia, delinea inoltre un percorso di conoscenza di sé capace di disinnescare il «troppo
amore», il bisogno eccessivo dell’altro, e l’invadenza dei rimpianti e delle recriminazioni per
ciò che non si è avuto. Esplorare il proprio passato fino alle radici è il primo passo per riuscire a
risanare l’amore improprio o ricevuto male che c’è alla base di questa sofferenza e a costruire
nuove relazioni con responsabilità e libertà.
L’autrice

AMEYA GABRIELLA CANOVI, psicologa e PhD, è esperta nello studio delle

relazioni familiari e della dipendenza affettiva e ha una lunga esperienza di sostegno a persone
imprigionate in relazioni disfunzionali. Conduce seminari e corsi di crescita personale.
Collabora con Radio Capital.
www.ditroppoamore.it
Facebook: Di troppo Amore
Instagram: ameyacanovi
Ameya Gabriella Canovi

DI TROPPO AMORE
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
Ai miei genitori,
mie preziose radici e ali.
Se solo potessi avervi ancora qui
per ascoltare tutti i racconti di chi c’era prima
e passarli avanti, a chi verrà.
Prefazione
di Selvaggia Lucarelli

«UNA puntata con una psicologa? Ma non sarà una palla?»


Il mio incontro con Ameya Gabriella Canovi, agli inizi del 2021, è
preceduto da un punto di domanda poco simpatico (e lo scopre anche lei in
questo preciso momento, pensate). La storia è questa. Stavo scrivendo un
podcast sulle dipendenze affettive, avevo raccolto cinque storie di relazioni
dolorose destinate ad avere un forte impatto emotivo sugli ascoltatori e un
mio collaboratore propose di dedicare l’ultima puntata a un’analisi più
approfondita di tutte le vicende, in compagnia di uno psicologo. Una sorta di
chiacchierata per spiegare i meccanismi delle dipendenze affettive in
maniera più tecnica, con un’addetta ai lavori insomma.
Ecco, la parola «tecnica» mi aveva lasciata perplessa. Pensavo che un
racconto così emotivo si sarebbe trasformato in una gelida lezione di
psicologia, spezzando il pathos che tanto faticosamente si era creato grazie al
coraggio dei protagonisti del podcast, tutti sopravvissuti a storie laceranti,
qualcuno ancora con qualche ferita aperta. Il collaboratore però insisteva e
io, allora, avevo deciso di fare una sorta di casting cercando video di
psicologi su YouTube, con scarsa convinzione.
Ameya mi aveva mandato un messaggio simpatico tempo prima, l’avevo
inserita nella lista «da visionare». Beh, quando la ascoltai parlare in un video
fu subito «idillio», mi verrebbe da dire, ma questo è l’incipit classico di ogni
dipendenza affettiva e per fortuna tra me e Ameya è iniziato fin da subito un
rapporto affettuoso e complice, ma di dipendenza, al massimo, dai tortelli
verdi.
In quei giorni guardai davvero un sacco di video, ascoltai tantissimi
esperti, molti dei quali capaci di parlare di dipendenze affettive con passione
e competenza, ma Ameya possedeva una cosa in più: sapeva accarezzare
l’ascoltatore con morbida determinazione. Sapeva comprendere senza
retorica e senza pietismo. Ameya accompagnava «le vittime» in un percorso
che non era di compatimento e di semplice assoluzione «perché il
manipolatore è brutto e cattivo» (lo è pure, ma non ci importa), lei partiva
dal concetto di «responsabilità». Insomma, spiegava che un buon lavoro su
se stessi mette al riparo da tanto dolore e «disinnesca» le dipendenze.
E così Ameya è stata la protagonista dell’ultima puntata del podcast. Che
per me resta la più commovente e illuminante. Ancora oggi, nonostante
l’abbia ascoltata più volte, la sua voce avvolgente, le sue parole così lucide, i
suoi modi così accudenti ma senza sconti, mi fanno piangere come una
fontana. Altro che «troppo tecnica». C’è la tecnica, c’è lo studio, c’è
l’esperienza, ma in Ameya c’è soprattutto la capacità di miscelare il sapere
con il sentire. E questo libro è così, un manuale per comprendere e
decodificare senza mai la pagina fredda di chi sa ma non sente.
Avrei tanto voluto entrare in una libreria e trovare Di troppo amore su uno
scaffale, quando soffrivo di una dipendenza affettiva e non sapevo che nome
darle. Quando la mia capacità di analisi del problema non andava oltre «lui è
uno stronzo», «sto male ma senza di lui non riesco a vivere, quindi meglio
male con lui che all’inferno da sola», «prima o poi capirà quanto sono
incredibile». Non dico che il libro di Ameya mi avrebbe salvata (a me e a lei
non piacciono le formule consumate dal mainstream), ma mi avrebbe
senz’altro fornito gli strumenti per cominciare a pianificare la mia salvezza,
in vista del momento dello sfinimento e poi della riparazione. Avrei capito,
per esempio, perché pur sentendomi vittima di un narcisista-manipolatore
ero così rabbiosa. «Il Narci proietta sull’altro le proprie parti che considera
deboli e di cui si vergogna, in modo da poterle denigrare e aggredire
all’esterno. Dal canto suo, il dipendente prova molta rabbia per il Narci, che
ai suoi occhi pare vivere benissimo senza la sua vicinanza. L’uno invidia
l’altro per qualcosa», spiega Ameya in queste pagine. E spiega come i ruoli
possano confondersi in questa lotta autodistruttiva che è la dipendenza
affettiva, laddove non si desidera essere felici – perché è chiaro che quello è
un orizzonte inavvicinabile – ma si vuole vincere.
Mi sono chiesta spesso da dove arrivasse l’interesse di Ameya per questi
temi, già in tempi non sospetti, molto prima che le parole «narcisista» e
«tossico» finissero con l’intossicare, appunto, tutta la comunicazione in
materia, quando l’argomento è diventato di moda. Molto prima che
influencer ed esperti dell’ultima ora surfassero sul trend del momento
semplificando un tema complesso, banalizzandolo, convincendo le vittime di
essere solo inciampate in un uomo o in una donna cattivo/a e dunque
convincendole del fatto che con un buon identikit per riconoscere i cattivi si
sia in salvo. Intendiamoci, anche Ameya in questo manuale suddivide (non
senza tracce di ironia) vittime e narcisisti per tipologie, ma nemica delle
semplificazioni com’è, lo fa dopo lunghe premesse, indagando sulle cause
che ci rendono predisposti a quell’innesco malefico che è inizio della
dipendenza affettiva. «Il primo buco», come lo chiamo io.
Ma Ameya fa molto di più. E qui torno alla mia domanda di poche righe
fa: come mai si è appassionata a questa materia quando era di nicchia o
relegata nel cassetto Harmony dei problemi da cuori infranti?
Perché Ameya, in fondo, è una di noi. O meglio, lo è stata. Lo si scopre
capitolo dopo capitolo, quando in poche righe ogni volta, regala al lettore
parte di sé. Della sua storia. Quando svela la sua ferita primordiale. E il
come si è riappacificata con il dolore e i pezzi mancanti. Quando racconta
che a un tratto ha compreso quanto sua madre debba essersi sentita sola
mentre viveva in una città estranea e distante. Quanto la famiglia sia il
germe, ma non il destino. Quanto sia importante non «perdonare», ma lasciar
andare il rancore per quello che non è stato, quando è tempo di diventare
liberi. E leggeri.
Di troppo amore è tutto questo.
Una carta geografica per chi vuole comprendere. Una torcia nel buio per
chi soffre. Una panchina al sole per chi è guarito e guarda a quello che è
stato con l’espressione risolta della benevolenza.
Prima di iniziare

DELLA dipendenza affettiva si conosce ancora ben poco.


Al contrario di quanto si crede, non si tratta di cuori femminili infranti, né
di amori infelici, bensì di una vera e propria disfunzione relazionale che
affligge un’enorme quantità di donne e uomini, anche se secondo i dati
statistici questi ultimi sono molto meno frequenti.
Questo libro parla di quel malessere serpeggiante che è il bisogno
eccessivo dell’altro.
Sebbene la dipendenza relazionale sia la radice da cui possono talvolta
scaturire comportamenti violenti e storie tragiche in cui le donne arrivano a
morire per mano del partner, non parleremo qui degli esiti nefasti di queste
tristi vicende. Cercheremo invece di esaminare ciò che accade molto prima
nella psiche di chi ha un’affettività inceppata, che per fortuna non
necessariamente sfocia in epiloghi drammatici, pur causando una grande
sofferenza.
Perché ho sentito il bisogno di scrivere su questo tema?
Perché mi riguarda.
E ne ho fatto una mansione e una missione. Sono convinta che si possano
aiutare molte persone a uscire da un doloroso inferno ancora poco
analizzato. Dalla mia esperienza ventennale, la dipendenza relazionale
risulta essere un problema spesso sommerso, che va portato alla luce,
informando e suggerendo strategie preventive per riconoscerlo e
fronteggiarlo.
Purtroppo, nella cultura occidentale la dipendenza affettiva è legittimata
da luoghi comuni, e la troviamo sdoganata nei testi delle canzoni cantate a
squarciagola. Eros e Thanatos danzano abbracciati tutto il tempo e questo
confonde molto l’idea di amore, come vedremo.
Al momento la dipendenza dall’altro è ancora poco indagata dalla ricerca,
e per mancanza di sufficienti studi scientifici non è annoverata come vera e
propria patologia. Il DSM-5, Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders, Fifth Edition, manuale statistico delle malattie mentali e testo di
riferimento per gli addetti ai lavori, non definisce criteri diagnostici per la
dipendenza affettiva, mentre li classifica per il disturbo dipendente di
personalità vero e proprio. Come vedremo in seguito, chi soffre di un
disturbo dipendente di personalità fatica a prendere decisioni, soffre di ansia,
nutre numerose paure e insicurezze che si manifestano in molti ambiti. Può,
per esempio, avere timore ad affrontare un viaggio da solo o a fare scelte
importanti. Il dipendente affettivo invece sembra avere un nodo irrisolto
soprattutto per quanto riguarda la relazione, mentre è in grado di funzionare
in maniera ottimale in tutti gli altri contesti.
Nella versione del DSM-5 del 2013 vengono inserite le dipendenze
comportamentali, le new addictions, tra cui la dipendenza dal gioco
d’azzardo, dal lavoro, dal sesso e dallo shopping. Alcuni studiosi fanno
rientrare in questa classificazione anche la love addiction. Sebbene si debba
ancora indagare molto in merito, di fatto la dipendenza dall’altro è ben nota
a chi la prova.
È bene specificare che questo testo non vuole essere una trattazione
scientifica, né tanto meno esaurire l’argomento. L’intento è parlarne,
raccontando di chi è afflitto da un’idea dell’altro come ancora di salvezza. Ci
saranno parti talvolta più tecniche – in cui utilizzo una terminologia
specifica – che non ho voluto appesantire con riferimenti bibliografici. Altre
vogliono invece portare chi legge nel cuore del tema, perciò ho preferito
usare un linguaggio più colloquiale.
Partendo dallo stato dell’arte della letteratura scientifica, ho cercato di
esplorare i meccanismi che stanno a monte della dipendenza affettiva. Dopo
tanti anni di lavoro con le persone, posso dire che chi è afflitto da questa
malattia sentimentale, se così possiamo definirla, riuscirà a raggiungere un
benessere interiore soltanto affrontando i propri demoni, senza vie di fuga, e
facendo un lavoro preciso di conoscenza, esplorazione e inclusione delle
proprie ombre, cioè quelle parti di sé ritenute negative, irrisolte e oscure.
Nel libro ci sono quattro cornici che si intrecciano: parti teoriche, storie,
Frammenti e Schede di lavoro. Il racconto di alcuni vissuti accompagna i
concetti che analizzeremo, mentre nei Frammenti ho scritto qualcosa che mi
riguarda personalmente. Infine, nella parte conclusiva del testo vengono
suggeriti esercizi per affrontare la conoscenza di sé. Le ho chiamate Schede
di lavoro perché vogliono essere uno strumento di consapevolezza, senza
aspettative di curare alcunché. Il loro scopo è quello di far riflettere chi
accusa il malessere di vivere questa condizione psicologica. Le schede non
possono certo sostituirsi a interventi terapeutici, ma sono ulteriori stimoli per
esplorare il proprio mondo interiore, con cui fare amicizia e familiarizzare,
magari da affiancare a un percorso psicologico già in atto, o in attesa di
scegliere una psicoterapia, se necessaria.
Le vicende qui portate come esempio sono state ricostruite in modo da
tutelare la riservatezza dei protagonisti e rendere impossibile la loro
identificazione, ma permettono a chi legge di riconoscersi e specchiarsi nelle
varie situazioni, scoprendo che siamo tutti molto simili. Ciò di cui parleremo
è dunque vita autentica che, quando necessario, sono stata autorizzata a
narrare. Sono pezzi di me e di storie che ho vissuto e incontrato, arricchite,
sviscerate, mescolate e distillate. Qui ci siamo noi, tutti insieme.
#Frammento n. 1
Altrove

COME ci si scopre dipendenti affettivi? Io, sì proprio io che scrivo, ho sempre


saputo di avere un nodo affettivo contorto. Lo incontravo dentro di me
quando pensavo con struggimento a mio padre.
Ma iniziamo con ordine.
Pensandoci bene, è buffo usare la parola ordine per raccontare ciò che
dentro di sé si è sempre percepito come disordinato, parziale, spezzettato e
assente. Mi ci sono voluti anni, tanti, per trasformare quell’assenza nel suo
contrario, e riconoscere invece tutto quello che mi era stato dato, e arrivare
a esserne grata.
È soltanto quando sono riuscita a risignificare la mia storia che mi sono
sentita guarita dal dolore di quel padre idealizzato e intermittente, e di una
madre troppo presa a sopravvivere in un altro continente, coraggiosa e sola.
Ho potuto farlo grazie a un processo interiore alchemico di trasformazione,
con cui sono riuscita a cambiare sguardo.
Dopo anni di lavoro su me stessa, piangendo di fronte al mio terapeuta e
ai tanti maestri che mi hanno aiutata a guarire da una voragine affettiva,
sono arrivata a rappresentare dentro di me le figure genitoriali che avevo
dipinto come mancanti.
E lì, proprio lì, è accaduto il miracolo di non sanguinare più.
È grazie a tutto quanto mi è successo che ho potuto riconoscere e
ascoltare tante altre sofferenze, simili alla mia in una cosa: quel luogo
freddo e vuoto che solo un genitore percepito voltato verso l’altrove può
creare dentro di noi.
1
Due lenti con cui guardare

«Sa, dottoressa, quando sono senza un compagno mi sento come un cane che trascina il
guinzaglio per terra, in cerca di un nuovo padrone. Mi faccio molta pena a vedermi così.»
LEDA

SPESSO si trovano sulle riviste e nel web definizioni semplificate, spiegazioni


sommarie o improvvisate secondo le quali la dipendenza affettiva è causata
prima, e alimentata poi, da un Altro, percepito come cattivo e manipolatore.
Sebbene, come vedremo, esistano personalità estremamente malvagie e
contorte, la tesi che sosterremo qui è che nessuno ci può far sentire in un
certo modo se non ci sentiamo già così. Abbiamo il germe dell’insicurezza
annidato dentro, che può restare latente per anni senza manifestarsi, per poi
evidenziarsi con prepotenza di fronte a una precisa dinamica.
Tra coloro che ne soffrono, sono in molti a non saper dare un nome a quel
malessere occulto e pervasivo che avvelena le loro relazioni.
In questo libro cercheremo di comprendere da dove ha origine tutto questo
dolore.
Teniamo presente che ogni eccesso nasconde una carenza, e il troppo di
qualcosa copre spesso una fragilità, se ci pensiamo bene. Chi è solido,
radicato e realizzato non sente il bisogno di aggrapparsi a persone, sostanze,
comportamenti disfunzionali.
Se osserviamo la storia, ogni epoca ha le proprie dipendenze d’elezione,
nate da un dolore la cui manifestazione sembra mutare con il tempo. Per
esempio, in Occidente, a fine Ottocento troviamo un’immagine stereotipata
della donna che soffriva, rappresentata come fragile e malinconica,
moribonda per pene d’amor sospirato e perduto, mentre il corrispettivo
femminile di chi soffre oggi è forse quello della donna forzatamente
efficiente e in forma, più realizzata sebbene tormentata da una tristezza mista
a rabbia e impotenza.
Per quanto riguarda la rappresentazione dell’uomo dannato,
nell’Ottocento c’era il poeta maudit e bohémien perso nelle fumerie d’oppio.
Negli anni Settanta del secolo scorso il ritratto tipico era il giovane
tossicomane, figlio della cultura hippie, denutrito, sporco, capellone,
scassinatore di automobili per pagarsi la dose, trasformatosi poi nel più
elegante ed efficiente consumatore assiduo di cocaina. Vale a dire lo yuppie,
che per rimanere sulla cresta dell’onda nasconde le proprie fragilità e arriva
a fare uso di sostanze chimiche eccitanti, le smart drugs, per mantenere alte
le performance, con possibili conseguenti complicazioni cardiache dettate da
uno stile di vita ad alto stress. Arrivando ai giorni nostri, la figura che più
spesso causa problemi nelle relazioni con il mondo femminile è quella del
Narciso.
Se le malattie sono lo specchio del tempo in cui viviamo, allora è utile
tenere presente, oltre le caratteristiche specifiche dell’individuo e la sua
personale visione del mondo, anche l’ambiente geografico e climatico nel
quale è cresciuto, nonché la mentalità e il modo di vivere della comunità in
cui l’individuo è inserito.
Per questo, nel mio percorso professionale di psicologa clinico-sociale,
per far luce su questo tema ho scelto principalmente due pilastri teorici di
riferimento, e mi piace pensarli come due lenti attraverso cui guardare: la
psicodinamica e la teoria sistemica. La psicodinamica mi permette di
osservare alcuni meccanismi psichici di attaccamento, proiezione e
interiorizzazione; la teoria sistemica applicata allo studio delle famiglie mi
aiuta nell’analisi di quegli schemi familiari che tanto ci influenzano. Con le
persone con cui faccio un percorso di sostegno, questi approcci teorici mi
consentono di andare in profondità e all’indietro, là dove tutto è iniziato, per
accompagnarle fuori dal labirinto spinoso della dipendenza. Usiamo quindi
al contempo un cannocchiale e un microscopio. Tuttavia, ritengo che un
approccio integrato, che tenga conto e utilizzi anche le scoperte di altre
correnti teoriche, sia comunque prezioso per sviscerare i fili delle trame
invisibili che determinano una sofferenza. L’obiettivo è quello di contribuire
a un miglioramento nello stile affettivo di chi soffre.
Dopo aver ascoltato tante storie dannate, posso concludere che ogni
squilibrio relazionale sembra nascere nel cuore della famiglia di origine, nel
legame di attaccamento, che poi va a incistarsi in un tessuto sociale e
culturale. Chi vive o ha vissuto in contesti familiari, socioambientali, o
biopsicologici che non hanno permesso di fare l’esperienza di relazioni
sicure e contenenti, con molta probabilità chiederà al partner una
compensazione a questa mancanza. O, per paradosso, finirà con il negare il
proprio bisogno di amore, assumendo uno stile affettivo evitante, come
avremo modo di analizzare.
Altre scuole di pensiero non danno lo stesso valore al passato e si
concentrano sul presente, o intraprendono strade diverse per arrivare al
benessere del paziente. Per questo voglio precisare che quanto leggerete in
questo libro è frutto della mia esperienza sul campo, delle mie ricerche e dei
miei studi, ben sapendo che è solo uno dei tanti sguardi possibili sul tema.
Secondo quanto ho potuto osservare finora, chi non ha compiuto del tutto
la sua traiettoria di sviluppo affettivo può restare impigliato nella nostalgia
di quella fusionalità con i genitori che caratterizza i primi anni di vita. In
seguito, è probabile che vada così a ricercare la stessa sensazione di
appagamento in un’altra persona, o in una sostanza, o in un comportamento.
In una relazione si è in due ma, ricordiamolo, è prima di tutto con noi
stessi che siamo chiamati a fare i conti, con le nostre risorse e i nostri
fantasmi. Il bisogno dell’altro è primario e appartiene all’essere umano.
Come coniugare presenza e assenza rimane uno dei compiti di sviluppo più
importanti nel percorso di ciascun individuo.
Se tu, cara lettrice o caro lettore, mi accompagnerai in questo viaggio,
proveremo a esplorare quel fiume carsico oscuro di dolore che scorre
nascosto in chi vive imprigionato in una storia di dipendenza, per
comprenderlo e non lasciarsi più travolgere.
2
Nei pensieri di un dipendente affettivo. L’errore di Eros

«Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.


Nescio, sed fieri sentio et excrucior.»
CATULLO

IL mondo interiore di un dipendente affettivo pullula di illusioni.


In sostanza, il dipendente affettivo spera, immagina, talvolta pretende di
essere salvato. Chiede all’altro, in maniera implicita, di essere riparato da un
passato doloroso, o disfunzionale, in caso abbia ricevuto un troppo o un
troppo poco che finisce con l’essere deformante.
Nella nostra società è presente una frequente distorsione relazionale, data
in qualche modo per scontata nella visione comune. «Io non vivo senza te»
non è solo uno slogan ripetuto nelle canzoni e nei romanzi, ma un’idea
accettata nelle rappresentazioni sociali, un sentire che sembra appartenere a
un sistema di credenze condiviso e diffuso. Tuttavia, ciò che determina la
disfunzionalità non è il fatto di soffrire per amore, ma il non saper poi
elaborare l’abbandono dell’altro, il non essere in grado di ritornare a se
stessi, restando intrappolati nella sofferenza dettata dal rifiuto o dalla fine di
una relazione. Anche se l’altro non ci ricambia, non ci restituisce ciò che
diamo, rimaniamo avvinghiati, sacrificati, appesi e imploranti.
In una società liquida, mobile, rapida ed esasperata, l’individuo pare aver
perduto sponde di contenimento e punti cardine. Lo spazio riservato
all’incontro con l’altro sembra essere contaminato da sentimenti di bisogno
spasmodico, di rispecchiamento fine a se stesso (dimmi tu che io valgo), o di
diffidenza e paura.
Come mai accade?
Per trovare le cause occorre indagare, a mio avviso, le relazioni all’interno
della famiglia di origine. L’attuale disponibilità dei genitori a rendere facile e
indolore l’attraversamento degli stadi di sviluppo dei figli rende faticoso il
loro distacco dal nucleo familiare, ostacolando così il processo
d’individuazione di sé e favorendo quel particolare fenomeno, tanto diffuso,
della famiglia lunga, nella quale convivono più generazioni, a cui i giovani
restano aggrappati per la sopravvivenza.
Inoltre, negli ultimi decenni la famiglia ha subito, di pari passo con
l’evolversi della società, trasformazioni così profonde da poter parlare non
più di famiglia, ma di forme di famiglia. Poiché le dinamiche familiari sono
importanti per il tema delle dipendenze affettive, mi sembra utile fare
qualche osservazione in proposito.
Il padre normativo che dettava le regole è stato sostituito da due figure
intercambiabili nell’accudimento dei figli. I genitori hanno assunto un ruolo
paritario, per certi aspetti, nel crescere ed educare i bambini.
Fin qui, benissimo.
Il padre severo e autoritario degli anni Venti del Novecento si è
trasformato prima nel padre degli affetti, come lo descrive lo psichiatra
Gustavo Pietropolli Charmet, poi ha assunto un aspetto «evaporato»,
secondo la definizione dello psicanalista Massimo Recalcati.
Di fatto, il padre si è messo sì al fianco della compagna, ma poi sembra
essersi distratto, risultando perciò depotenziato. Come avremo modo di
vedere meglio, ne risulta una figura talvolta smarrita e ondivaga, che ha
perso le redini dell’autorità e assume una nuova posizione nella famiglia, che
ha a sua volta finito con l’avere confini più labili e incerti. Così come il
padre, infatti, nel tempo anche la famiglia normativa è diventata affettiva,
mutando la sua forma da verticale a orizzontale, e in questi passaggi le cose
sembrano essersi un po’ complicate.
Nel senso che dare affetto non significa ridurre contenimento. Anzi.
E ciò che ci aiuta a crescere è la diversificazione dei ruoli con cui
andremo a specchiarci. E parliamo di ruoli, non di genere. Sono le polarità a
insegnarci a stare al mondo.
Freud sostiene che un impellente bisogno dell’infanzia è di avere una
figura genitoriale di riferimento; tuttavia, come rilevato dalle ricerche
condotte nell’ambito della psicologia sociale, l’unità minima di interazione
non è la diade madre-bambino, ma la relazione triadica, i due genitori e il
figlio.
Nasciamo da due, che uno o entrambi ci restino o meno accanto.
Molto spesso chiedo: «Lei ha patito più ‘fame’ di padre o di madre?»
Non di rado la risposta è: «Di tutti e due, per motivi diversi».
Talvolta succede che uno dei due si defili, sul piano materiale o emotivo,
o che manchino entrambi, a livello fisico e affettivo. Altre volte, invece,
esiste un sottofondo caratterizzato da un «troppo»: troppo affetto che diviene
soffocante, troppa attenzione, troppa ansia. E l’eccesso crea le stesse storture
della carenza.
In ogni caso, che siamo stati accuditi o meno, per tutta la vita nella nostra
psiche saremo sempre in tre a dialogare: noi e i nostri genitori, avuti,
mancati, mancanti.
In questo gioco a tre, l’individuo può fare esperienza di essere con e senza
l’altro nello stesso momento. E quindi non importa il genere degli attori in
campo, «tre» è sempre la forma con cui facciamo i conti mentre cresciamo,
tenendo presente che sullo sfondo ci sono le voci di chi c’è stato prima e
prima ancora: la famiglia, anche quella ormai invisibile e distante negli anni,
ci accompagna come un bosco antico più o meno rigoglioso, pieno di alberi
e storie che compongono la nostra progenie.
Apprendiamo la relazione con l’altro dalla relazione più prossima, quella
con i genitori, e poi di seguito dalle altre persone che ci aiutano a crescere.
Secondo il modello ecologico dello sviluppo, l’evoluzione comprende cerchi
concentrici dei vari ambienti di appartenenza, dal più piccolo come la
famiglia a quelli via via più grandi come il quartiere, la scuola, la società,
dove si instaurano diversi tipi di relazioni. Nei vari ambiti l’individuo può
abbandonare le impalcature relazionali offerte dal nucleo originario per fare
esperienze allargate e individuarsi, con il sottofondo sempre presente del
ruolo contenitivo della famiglia, che diventa interiorizzato e agisce in
maniera simbolica in modo permanente. È proprio negli snodi delle fasi
evolutive, come vedremo, che incorporiamo forme relazionali che da adulti
ci permetteranno di instaurare rapporti affettivamente appaganti.
Perciò, se la domanda è dove apprendiamo l’amore, la risposta viene da
sé: da chi vediamo amare, o non amare, mentre cresciamo.
Le famiglie si caratterizzano come palcoscenici, dove si producono e si
tramandano universi di senso e un bagaglio di schemi, valori, codici e
significati. Tale processo sembra avvenire tramite micro oscillazioni,
registrabili nelle conversazioni della quotidianità, per esempio a tavola, dove
si scambiano idee e si costruisce una cultura comune, attraverso non solo
una rete fitta e delicata di relazioni, negoziate di continuo, ma soprattutto
grazie alle storie narrate e ascoltate, che diventano il canovaccio dei modelli
di riferimento. Consumando insieme i pasti si tramandano esempi, si creano
nuove credenze, si assimilano comportamenti, si riempie un album invisibile
di figurine con ciò che si può e non si può fare, e molte volte si spacciano
verità e punti di vista assoluti a cui finiremo con il credere, come vedremo in
seguito, in modo cieco e fedele.
Mentre cresciamo, quindi, siamo fisiologicamente immersi in una
condizione di totale dipendenza da chi ci accudisce, che ci fornisce anche le
«istruzioni per l’uso» della sopravvivenza. E, se siamo fortunati, transitiamo
accompagnati all’età adulta, in cui agiremo in maniera indipendente e
autonoma. La dipendenza effettiva e affettiva diventa perciò indispensabile
ed è naturale, fino a quando sentiremo di poter fare da soli, avendo
interiorizzato un legame saldo e protettivo che ci permetterà di funzionare
nel mondo. Questo non significa che non avremo più bisogno degli altri:
siamo esseri sociali e ci specchiamo gli uni negli altri. Secondo molti teorici
della psicologia dello sviluppo restiamo dipendenti tutta la vita, ma è
necessario distinguere la dipendenza infantile da quella adulta, definita
interdipendenza.
Se tutto va (abbastanza) bene, dunque, da piccoli e dipendenti diventiamo
adulti e autonomi.
E se invece il percorso assume un andamento tortuoso?
La disfunzionalità affettiva e relazionale si manifesta, per esempio,
attraverso alcuni tratti del carattere che possono irrigidirsi per proteggere
l’individuo da carenze dell’ambiente e dalle situazioni di disagio,
configurandosi con veri e propri disturbi.
Wilhelm Reich, uno dei primi allievi di Freud, sostiene che il carattere di
ogni persona si crea come risposta difensiva a uno stimolo esterno, di
frequente vissuto come trauma. A proposito della formazione del carattere,
Reich analizza anche la nascita della ferita narcisistica, tanto citata in questi
tempi: quando le figure genitoriali ridicolizzano il bambino, lo svalutano, lo
denigrano, si origina in lui un profondo senso di vergogna e umiliazione. In
modo simile, un bambino illuso e vezzeggiato in eccesso crescerà non
sperimentando mai la frustrazione, cullandosi nell’autoinganno di essere
immortale e speciale. Al primo fallimento, o evento percepito come tale, non
reggerà l’affronto, vivendo tutto come un insulto intollerabile. Secondo
questo processo pertanto potremmo sostenere che la ferita narcisistica nasce
da un mancato sguardo che accoglie, onesto e amorevole.
Quando intervengono storture di questo genere nella fase evolutiva, si
determinano schemi che poi, come vedremo, verranno portati come un
patrimonio disfunzionale nelle relazioni future.
Nella forma contemporanea di famiglia lunga alla quale ho accennato,
l’affettività ha assunto un ruolo centrale nell’allevamento dei figli, ma il
troppo amore ha creato alcune disfunzionalità. Un modo di dire popolare
suggerisce che «il troppo stroppia», crea cioè qualcosa di controproducente.
Secondo il mio punto di vista, il troppo equivale al niente: ricoprire il figlio
di affetto e oggetti, facendone un emblema sociale, il catalizzatore di ogni
attenzione, il simbolo compensatorio e riparatore, ha tolto alla genitorialità
l’aspetto più naturale, causando un paradosso all’interno della famiglia.
Vediamo genitori da un lato ancora distratti da tormenti insoluti e alle prese
con gli snodi verso l’autonomia dalla propria famiglia di origine, ma pronti
dall’altro a tramutarsi in genitori elicottero per salvare e proteggere i figli da
un possibile dolore che loro stessi non hanno risolto.
Quindi è tutta colpa dei genitori? Ma no.
I genitori, e altri prima di loro, danno ciò che hanno ricevuto e compreso.
Non si può dare quello che non si ha. Una volta capito questo, se siamo
pronti a crescere, poi faremo da soli.
Se la traiettoria di evoluzione non arriva a compimento, si sviluppa
incertezza; come spiegheremo meglio, questo può portare a ritirarsi in una
chiusura evitante e diffidente, o a rimanere dipendenti e bisognosi.
In entrambe le situazioni, si sente di non avere un’identità degna e
definita, di non contare, di non essere adeguati, utili o indispensabili. Resta
invece una paura recondita: che l’esistenza sia un po’ vana, vaga e senza
scopo. Pertanto, in questi casi il futuro, piuttosto che essere visto come un
«non ancora» carico di aspettative e di promesse, è considerato come un
tempo che sarà vissuto con noia, indifferenza, sconforto e incertezza. A
meno che non arrivi qualcuno a stanarci, a salvarci: idea che sembra
risolutoria ma non funziona, poiché su questa strada si va dritti verso una
dipendenza, non verso l’autonomia emotiva.
Ogni genitore si rapporta al figlio investendolo di una miriade di
significati che esulano dalla mera riproduzione genetica. Nella sua iniziale
totale dipendenza dalla madre e dal padre, il figlio rinforza la loro illusione
di avere una copia fedele di se stessi o di poter rinascere attraverso lui. A
livello inconscio, il bambino viene dunque ritenuto in grado di soddisfare tali
aspettative, e tenderà a conformarvisi per evitare o superare l’angoscia di
abbandono.
Il processo evolutivo del bambino, com’è auspicabile, si conclude con il
distacco dalle figure genitoriali interiorizzate, che gli permetterà di realizzare
la sua individualità in modo graduale e completo.
Per emanciparsi si presuppone che prima vi sia un legame, ciò che gli
studiosi dello sviluppo definiscono attaccamento alle figure che ci
accudiscono, che può essere saldo e sicuro, ma anche traballante e incerto,
ambivalente. Nel primo caso avremo la sensazione calda di avere un porto
sicuro dove tornare, che terremo dentro anche da adulti. Nel secondo, ci
sembrerà di cadere nel vuoto quando abbiamo bisogno di essere sostenuti, di
non sapere mai con certezza se saremo accolti, e ci sentiremo confusi, irretiti
in un moto perpetuo che oscilla tra paura di andare e spinta all’indipendenza.
Questa dinamica ci accompagnerà nella vita adulta, perché non riusciremo a
percepirci come autonomi e ciò ci porterà con molta probabilità a instaurare
relazioni dipendenti e compensatorie, ad aggrapparci all’altro come a
un’ancora.
Torniamo ora al mondo sentimentale del dipendente affettivo.
Innamorarsi è per tutti un’esperienza unica, che ci coinvolge in maniera
totale. L’incontro con l’altro rende tutto romantico e significativo, si provano
sensazioni gratificanti, inebrianti. L’amato rende splendente la vita e noi
stessi: ma se dalla beatitudine si passa all’ossessione, l’amore diventa
malattia.
Quando l’altro può essere considerato nocivo al pari di un veleno?
Per esempio, ci sono relazioni in cui l’amore è vissuto come sentimento
genitoriale, salvifico, dove uno dei due si accolla il peso dell’esistenza
dell’altro, deresponsabilizzato, volutamente protetto e accudito come in un
rapporto simbiotico tra madre e figlio: «E io avrò cura di te». Per quanto una
promessa di devozione e accudimento assoluti possa far sentire lusingato il
partner, la relazione amorosa non può essere un legame sostitutivo di quello
genitoriale.
Pertanto, in questo caso l’errore di Eros è andare a chiedere all’amato il
risarcimento di quanto pensiamo di non aver avuto dai genitori.
Ma questo non è l’unico errore che si può commettere. Nella relazione
amorosa sana, come vedremo in seguito, ci si incontra, nasce una storia più o
meno intensa e felice, si sta insieme se il rapporto è nutriente, appaga e
soddisfa il desiderio di condivisione, fisicità e affettività di entrambi.
Oppure, se le cose non vanno, ci si lascia.
In teoria, la trama affettiva dovrebbe svolgersi secondo questa
sceneggiatura. Nella realtà ci sono però molte coppie incapaci di stare
insieme e allo stesso tempo di lasciarsi. La relazione diventa conflittuale,
dolorosa, un supplizio che condiziona e pregiudica il benessere psicofisico.
Si innescano copioni più o meno fissi: A fugge, B insegue, mendica,
implora, non accetta di essere abbandonato.
Si attua così il copione né con te, né senza di te.
Spesso, a un’analisi approfondita, si scopre che all’origine di ciò che
accade in questi casi vi sono idee su di sé e sul mondo ben precise, la cui
radice è da ricercarsi nella fase evolutiva, che fanno sì che il dipendente
affettivo si crei intorno una determinata realtà, come una profezia che si
autoavvera.
Qui, l’errore di Eros consiste nel portare dentro la relazione amorosa i
propri buchi da riparare.
Lo ricordiamo: per esempio, se crediamo di non essere meritevoli di
amore, cercheremo in tutti i casi di boicottarlo, obbedendo in modo cieco
alla nostra credenza distorta. Se la nostra autostima è nulla, se ci percepiamo
privi di un’autoefficacia che ci permette di incidere sul mondo e di avere
relazioni sane e appaganti, la visione della nostra esistenza è catastrofica e
siamo convinti che resteremo sicuramente soli. Procederemo così per
verifiche, vagliando in ogni modo le nostre ipotesi, spingendo,
inconsapevoli, l’altro a staccarsi, per poi piangere, rincorrere, implorare.
Ecco avverarsi di nuovo la vecchia storia, la nostra convinzione originaria.
Tendiamo a ripetere ciò che già conosciamo.
Il fatto è che certi copioni possono sfociare in tragedie involontarie.
L’altro è voluto al punto da diventare una droga, si può arrivare a inseguirlo,
molestarlo, minacciarlo, rendendogli così la vita impossibile (stalking), o
adottare un comportamento violento perché non si riesce a tollerare la
frustrazione del no. Il divieto d’accesso fa sentire l’irraggiungibile una meta
da conquistare, l’altro viene visto come un dio, sempre più anelato,
ineluttabile e distante, pertanto nostalgicamente desiderato, rimpianto,
necessario, indispensabile.
Ne abbiamo un esempio ben narrato nel testo teatrale Anna Cappelli di
Annibale Ruccello, la trasposizione tragica di ciò che a livello simbolico
vorrebbe in realtà un dipendente affettivo: fagocitare l’altro, fondersi con lui
e attraverso lui esistere. Per poi comprendere, con disperazione, che non
basterà.
Mi dispiace Tonino, mi dispiace proprio tanto, credimi mi dispiace, ma era l’unica cosa che
potessi fare, veramente fare, veramente l’unica, l’unica! E non è che non abbia cercato un’altra
soluzione, ma erano tutte, non so come dire, provvisorie. Invece Tonino c’era bisogno di una
soluzione proprio definitiva. […] (taglia il prezzemolo scuotendo la testa mentre parla tra sé)
[…] Credimi, perché quello che ho fatto, Tonino, è solo un atto d’amore […]. Solo che io
adesso ho il mio piano, io e te, il mio piano, tutto mio, tu non mi abbandonerai mai più mai più,
non mi lascerai mai più… E lo sai perché Tonino? Perché io adesso ti mangio! Ti mangio tutto!
[…] Eh, pensa che non farò neanche la cacca per non perderti neanche un poco… certo sarà
difficile, sarà duro, pure doloroso! […] Tonino… da che parte posso cominciare? Dal cervello,
eh? […] Ah, cominciamo dal cuore? Dal cuore, dici? […] Ma chissà dove abitano i sentimenti!
[…] Ma perché adesso mi sembra tutto inutile? Questa cosa qui, tutto… Tonino, tu non mi
sembri più tu!… E allora io? Tonino… Tonino, amore mio… aiutami…
3
La dipendenza affettiva

«Ogni tipo di dipendenza è cattiva, non importa se il narcotico è l’alcol o la morfina o


l’idealismo.»
CARL GUSTAV JUNG

«All’alcol! La causa e la soluzione di tutti i problemi della vita!»


HOMER SIMPSON

LA dipendenza affettiva, in sintesi, è un attaccamento relazionale che crea


una sofferenza atroce nella persona che sente di non poter esistere se non
attraverso la presenza di un altro.
È diversa dal disturbo di personalità dipendente vero e proprio. Chi ha un
disturbo di personalità dipendente ha difficoltà a prendere decisioni, è
insicuro su tutto, fatica in ogni area della vita.
Il dipendente affettivo non rientra in questo profilo, poiché sembra avere
un problema «soltanto» nell’area degli affetti. Può funzionare in maniera
egregia nel lavoro e svolgere una professione di successo; tuttavia, nella
relazione pare regredire a un’età molto precoce. Le persone che chiedono il
mio sostegno, in percentuale molte più donne che uomini, hanno una carriera
soddisfacente, prendono aerei e decisioni con facilità. Eppure, c’è un tratto
che le accomuna tutte: affettivamente hanno un tassello mancante che le
rende tremanti nella relazione con l’altro.
Al contrario di quanto alcuni possano credere, la dipendenza non è causata
da una persona, perché il germe è presente dall’infanzia: come abbiamo
accennato nel capitolo precedente, se si è dipendenti da adulti significa che
una parte di noi è rimasta alle modalità infantili.
Vediamo come vanno le cose in fase di sviluppo.
Secondo la teoria psicodinamica, per crescere attraversiamo varie fasi,
fino all’adultità. La prima, che interessa ai fini della nostra argomentazione,
viene definita da Freud «orale»: è quella cioè in cui tutto l’universo del
bambino ruota attorno alla bocca, unico suo tramite con il mondo esterno.
Senza scendere in un’analisi che ci porterebbe troppo nello specifico, basti
ricordare che il modo in cui le primissime richieste del bambino saranno
esaudite da chi lo accudisce influenzerà tutte le sue relazioni future. Freud
sostiene che la modalità in cui la madre ama il figlio sarà la stessa, o molto
simile, a quella in cui l’adulto amerà chi incontrerà. È un’affermazione che
pare una sentenza, ma se ci pensiamo è piuttosto lineare. Quando necessita
di qualcosa, che può essere cibo o consolazione, il bambino lo chiede al
mondo attraverso il pianto con la bocca spalancata, implorando. Se il
nutrimento o la risposta consolatoria arrivano, sarà sazio e soddisfatto. E di
nuovo attraverso la bocca dirà al mondo, sorridendo, il suo piacere.
Cosa accade invece se la risposta, intesa come accudimento di un bisogno,
non arriva? Se la madre che lo nutre è preoccupata e ingorgata di pensieri o
se, insieme con il latte, il bambino riceve dubbi e sguardi distratti, che cosa
penserà di sé? Forse qualcosa come: Io non posso chiedere o desiderare.
Chi ha visto un bambino piccolo mentre si alimenta, avrà osservato quel
triangolo magico fatto di seno (o biberon, in questo caso la dinamica
psichica non cambia), occhi del bambino e occhi della madre (o di chi lo
allatta) che si parlano. È un dialogo, è una richiesta e una risposta fatta di
attenzione, ascolto, interazione, soddisfacimento reciproco. Talvolta la
madre (o chi ne fa le veci) ha gli occhi altrove, opachi di lacrime o di dolore.
Non può rispondere in maniera sufficiente e necessaria. Lì il bambino inizia
a imparare come il mondo gli risponde, e che cosa pensare di sé.
Attenzione: qui non si tratta di attribuire «colpe» a chi accudisce. Certe
vite sono piene di problemi. Magari l’ambiente è troppo denso di conflitti
per potersi coordinare con i bisogni del figlio, che resta affamato, in cerca di
qualcosa che gli spetta di diritto, come l’essere accudito. Dal canto suo, il
bambino nasce con un temperamento innato, che cambierà senz’altro le
risposte che riceverà dal mondo. Gli studi in proposito indicano infatti che il
modo in cui il bambino si pone è determinante per il tipo di rimandi che avrà
in cambio: i bimbi «facili» saranno probabilmente accolti da sorrisi e calma;
quelli dal piglio energico e nervoso, inclini al pianto, insonni o irrequieti,
susciteranno forse un viso accigliato e stanco e un comportamento irrigidito,
o altrettanto agitato.
Ciò che Freud spiegherebbe come fissazione alla fase orale, attorno ai due
anni, in sostanza sarebbe una sosta dello sviluppo, quando il bambino
percepisce di essere qualcosa di separato da chi lo accudisce. È uno snodo
delicato, questo: se la madre per sue ragioni non accoglie l’ambivalenza del
figlio lacerato tra bisogno di accudimento e desiderio di autonomia, e se il
bambino non ottiene quello che desidera, sentirà forse di non ricevere le
giuste risposte e pertanto di non aver diritto a desiderare. Resterà fermo di
fronte a questo dilemma, ed è probabile che, da grande, da un lato finirà con
il convivere con la negazione del desiderio, dall’altro urlerà in qualche modo
al mondo la propria disperazione per non essere stato accolto. Infine, si
abituerà a non avere sguardi, e alla frustrazione che ne consegue. Sarà
assuefatto a domandare e a non avere.
In altri casi, in risposta alle richieste di accudimento, il bambino viene
nutrito in maniera spropositata, quasi obbligato e forzato, in quantità e orari
decisi da chi lo accudisce. Anche qui, però, non c’è spazio per il desiderio: il
bambino ingozzato non fa in tempo a desiderare il mondo, che gli viene dato
senza che lui faccia sentire la propria voce. Per paradosso, questa
ipergratificazione lo indebolisce: gli viene negato il diritto al desiderio
proprio come accade al bambino alimentato nella scarsità.
Trovo queste ipotesi affascinanti, e quando indago sulla prima infanzia
delle persone che ascolto, posso distinguere dapprima sostanzialmente due
tipologie di individui che nella relazione adulta si pongono di conseguenza
con atteggiamenti che ho associato ad archetipi presenti nelle fiabe, e che
avremo modo di approfondire: la piccola fiammiferaia e la principessa sul
pisello. Nel primo caso si tratta di bambine cresciute deprivate di sguardi,
nell’altro di bambine ipergratificate. Tuttavia, c’è poi una terza tipologia, che
definirei della crocerossina, che incarna il ruolo salvifico della sacrificata,
che si spende e si abnega per l’altro. La salvatrice è cresciuta in un lampo,
non c’è stato spazio per i suoi bisogni, perché doveva occuparsi
emotivamente di quelli di uno o entrambi i genitori.
Poiché la maggior parte dei miei pazienti è donna, ho parlato al
femminile, ma torneremo su questi concetti più avanti e incontreremo i loro
corrispettivi maschili: è bene ricordare, infatti, che questi atteggiamenti si
ritrovano sia negli uomini sia nelle donne.
#Frammento n. 2
Da piccola

QUAND’ERO piccola, da grande volevo fare la scrittrice.


Sono nata in Brasile, a Belo Horizonte, da genitori italiani emigrati negli
anni Sessanta.
Entrambi erano già sposati, la loro era una relazione adultera, si dice
così.
In quegli anni non era semplice avere un figlio fuori dal matrimonio. Ai
miei genitori è accaduto di innamorarsi, senza il permesso del tempo. Poco
più che ventenni, con la terza elementare, mia madre e suo marito partirono
da un minuscolo paese dell’Appennino con una nave, andando in America,
come molti allora, a cercare fortuna. Mamma faceva la parrucchiera da
quando aveva quattordici anni, era stata a Milano a imparare da sola e poi
aveva comprato un casco, un pettine e un paio di forbici. Aveva aperto il suo
«salone» di fianco alla casa gestita dalla sua famiglia patriarcale, in un
piccolo fienile adibito a negozio. Si era fidanzata, frequentando, come molti
all’epoca, il suo ragazzo nella stalla, in mezzo alle mucche per non patire
freddo, poi si sposò e assieme al marito decisero di migrare. Mi raccontava
di non capire nulla del portoghese, ma ben presto si ingegnò, imparò e aprì
il suo salone di bellezza, con via via più lavoranti, diventando una
imprenditrice.
Poi però si innamorò perdutamente di un uomo bello e affascinante,
seduttore e sposato: mio padre. Il marito tornò in Italia. Mia madre rimase a
consumarsi per questo nuovo amore che ben presto se ne andò. Perché se un
uomo se ne va una volta, ha dentro questa cosa del dover andare. Lei restò
sola con una bambina piccola, in una città allora sperduta del Sud America.
Della mia infanzia ricordo solo qualche frammento, quasi sempre
doloroso o solitario. Adesso so che non era possibile chiedere spiegazioni,
perché non c’erano. Ben presto imparai che le cose stavano così, nient’altro
da aggiungere. Che se le persone sono spezzate, non possono donarsi intere
ai figli.
A Belo Horizonte, il negozio di parrucchiera di mia madre era in Rua
Espirito Santo n. 341, al piano rialzato. A un certo punto vi fu costruito un
soppalco in legno. Lì Nenem e Eudocia, due lavoranti dolci e silenziose,
tessevano capelli. Avevano un telaio con tre fili di nylon, agganciati stretti a
sinistra e poi allargati fino al lato destro. Sembrava un pentagramma
asimmetrico. Le ragazze del soppalco prendevano una ciocca di capelli veri
e costruivano una M nel mezzo, la tiravano tutta verso sinistra, e per magia
uscivano strisce di capelli che mia madre la domenica cuciva su cuffie per
ricavarne parrucche.
In quegli anni, ogni donna, almeno in Brasile, voleva una parrucca.
Dalle campagne venivano con il pullman in città ragazze con trecce
enormi, nere e lucide, per vendere la propria chioma, lunga fino ai lombi,
mai tagliata prima. Mamma diceva che erano capelli sani perché non li
lavavano mai.
Io passavo i pomeriggi accanto alle due lavoranti. Non perché fossi
interessata alla tessitura di capelli. Ero una bambina che aveva fame di
occhi e parole, con una madre impegnata a sopravvivere che passava le
domeniche china sulla macchina da cucire, dandomi le spalle. E con un
padre nomade, condannato come un Sisifo inquieto e tormentato, che
portava sulla schiena come un masso il suo destino di fuggitivo solitario.
Dov’è papà?
È in Amazzonia a lavorare nella foresta.
Quando torna?
Nel mio dialogo interiore di bambina riecheggiava una domanda perenne
come una canzone triste: Quando torni, papà?
Contavo i giorni che mi separavano da lui. Le volte che veniva si fermava
poco, sempre troppo poco, e ripartiva. Io mi aggrappavo alla maglietta con
cui dormiva per sentire il suo profumo. Cercavo di respirarlo, almeno le sue
tracce.
Di mio padre mi mancava tutto.
Le sue visite erano una gioia lampo, poi tornava il vuoto. Ogni volta il
distacco era una lacerazione, e restavo lì, bambina incompiuta, orfana di un
padre vivo sempre altrove.
In un altrove come mia madre, per motivi diversi.
Le parrucche invendute le abbiamo poi portate in Italia, quando siamo
tornate «per sempre», come diceva mamma. Ancora le conservo, insieme
con il ricordo del soppalco di legno dove una volta, non so perché, durante i
miei giochi di bambina sola, trovai una risma di carta che qualcuno aveva
lasciato lì, per caso. Ripensandoci, ne sento ancora l’odore. Da quel
momento porto dentro di me le pagine bianche di un racconto fitto di cose,
tra cui capelli venduti e lacrime mai piante, che fanno parte di me, e finora
non avevo mai scritto.
4
Addictions

«Old addictions»
Quanto detto finora sulla dipendenza affettiva può accadere per ogni
dipendenza? In un certo senso sì, poiché per funzionare gli individui
ammaccati d’amore cercheranno con tutta probabilità un appiglio costante.
Andranno nel mondo a chiedere in maniera implicita una gratificazione non
avuta.
Per poter sviscerare il tema della morbosità relazionale vera e propria è
necessario comprendere cosa si intende per dipendenza e cosa accade nella
nostra psiche quando viviamo questa condizione. A mio avviso, la matrice e
l’origine di ogni dipendenza sono sempre affettive, ciò che cambia sono le
modalità in cui si manifesta. È necessario considerare il termine affetto in
senso più ampio come l’insieme di quelle tonalità, colorazioni e sfumature
emotive non solo in senso positivo, ma pulsionali in genere. Pertanto, pur
volendo trattare qui della disfunzionalità affettiva, un accenno alla
dipendenza da sostanze e alla sua implicazione psicologica mi sembra utile
per comprendere i meccanismi di cui parleremo in seguito e avvalorare
quanto sostenuto sopra.
L’uso di sostanze come traghettatrici da una realtà psichica a un’altra
appartiene alla storia dell’umanità. Nelle varie culture si utilizzano talvolta
sostanze durante particolari rituali per accedere a dimensioni parallele; la
comunità attribuisce a queste pratiche una valenza simbolica.
Di fatto, nella realtà contemporanea l’utilizzo di droghe che alterano la
percezione non è un tramite per una dimensione sacra o spirituale, come
potrebbe accadere in alcune società cosiddette primitive con l’uso di piante
allucinogene quali l’ayahuasca o il peyote. Da questa parte del mondo ci si
stordisce, per lo più con alcol o, oggigiorno, anche con droghe sintetiche.
È doveroso distinguere l’uso abituale o saltuario dall’abuso e dalla
dipendenza, che implica il non saper funzionare senza, e considerare sempre
le motivazioni di base che spingono una persona al consumo di sostanze
alteranti.
Perché, quindi, ci si droga?
Se si utilizza un approccio psicosociale, si possono individuare alcune
situazioni che portano a sballarsi: motivi personali, influenze di gruppi
esterni e condizionamenti sociali. Perciò si potrebbe ipotizzare che ci siano
fragilità individuali dovute alle proprie traiettorie di sviluppo, l’influsso di
una certa cerchia di amici o l’appartenenza a gruppi svantaggiati, e infine
l’effetto dei messaggi della cultura in cui si vive («Bevi X che ti farà
volare»).
Altre argomentazioni ci arrivano da studi scientifici.
L’ipotesi biopsicosociale offre interessanti spunti in campo neurologico,
assumendo che l’uso di droghe sarebbe favorito da una mancanza o un
eccesso di neurotrasmettitori. Non solo, ma ogni sostanza avrebbe un
neurotrasmettitore specifico: una carenza di serotonina o di noradrenalina,
per esempio, renderebbe più predisposti al consumo e all’abuso di droghe.
Nell’approccio psicodinamico – che si basa sulle teorie freudiane e
descrive la vita psichica come governata da una comunicazione costante tra
conscio e inconscio, e tra le istanze Io, Es e Super Io – l’uso di sostanze ha a
che fare con una fissazione ai primissimi stadi evolutivi, come abbiamo
visto, con il prendere, fagocitare, portare dentro e riempire, mangiare,
alterare, compensare.
Le teorie sistemiche concepiscono invece l’individuo inserito in un
macrorganismo, il sistema, a partire dalla famiglia, dove i membri sono in
forte relazione tra loro. Va da sé, pertanto, che un evento accaduto a
qualcuno che fa parte del gruppo si riverbera sugli altri componenti,
lasciando tracce indelebili di fragilità perpetuate.
In sintesi, a seconda della teoria di riferimento che adottiamo per
analizzare il problema, la dipendenza da sostanze può essere vista come una
piaga sociale, può diventare segno dei nostri demoni interiori o derivare da
un comportamento causato, appreso o trasmesso in famiglia. In ogni caso,
ciò che utilizziamo per stordirci evidenzia o sopperisce a un disagio
esistenziale e mira a lenire malesseri interiori, oppure ad accelerare o frenare
i ritmi parossistici dello stile di vita odierno. Ed è evidente che la nostra
società sancisce, sdogana e legittima l’uso di «altro» per stare meglio.
La sostanza dà la possibilità di rallentare, fuggire da o aprire a mondi
possibili, porta a togliere inibizioni, eccita o calma, ma soprattutto risponde
con un pronto supporto a un bisogno individuale. Dal punto di vista sociale,
l’uso di droghe può essere letto come pratica tribale, rito di passaggio, prova
di coraggio, password per accedere a un gruppo di pari, conformismo verso
rituali diffusi (come, volendo fare una generalizzazione, nei casi
dell’alcolismo dei giovani nelle neglette realtà montane, o del fumo di
hashish nelle periferie metropolitane, o del consumo di cocaina nel jet set e
così via).
Il tema che qui ci interessa resta, comunque, l’affettività di base che
spinge l’individuo ad appoggiarsi ad altro, in modo ricorrente e invischiante,
e soprattutto i meccanismi che portano a comportamenti di dipendenza.

«New addictions»: nuove interpretazioni per dolori antichi


Con l’espressione new addictions si definiscono quei nuovi comportamenti
che creano dipendenza ma sono diversi rispetto alle dipendenze classiche,
quali quelle da tabacco, alcol e droghe. Internet, lavoro, shopping, chirurgia
plastica, gioco d’azzardo sono fra quelle individuate di recente. Tra queste
alcuni studiosi fanno rientrare la dipendenza affettiva.
Le nuove dipendenze sono subdole: certune all’inizio sono addirittura
incoraggiate, come l’acquisto e il possesso di beni di lusso, oppure
promosse, premiate e ammirate, come la dipendenza dal lavoro, che suscita
un grande riconoscimento sociale. In questo caso, la persona si sente
produttiva e la sua autostima ne beneficia, e arriva anche l’apprezzamento
dall’esterno.
Altre addictions passano inosservate, non vengono considerate
sconvenienti, come il fanatismo sportivo, la dipendenza dalla televisione, la
ricerca di informazioni in rete, il controllo continuo e compulsivo dei
messaggi e delle e-mail. Tutto ciò dà all’esterno l’immagine della persona
impegnata, inserita, cercata, e gratifica l’individuo con l’eventuale crescente
numero di follower e like ricevuti. Il rinforzo arriva dai social media in
modo imprevedibile, creando tensioni alternate a picchi di soddisfazione,
pertanto è ancora più potente: questo fa sì che si producano modificazioni
significative anche a livello della corteccia cerebrale, come l’aumento di
endorfine, che procura momentanei stati di benessere.
Il campo delle new addictions si è pertanto ampliato notevolmente,
arrivando a coinvolgere sfere della vita prima non ipotizzabili: si pensi
com’è facile oggi acquistare qualsiasi cosa con un click, e il senso di
onnipotenza che ne deriva.
Una riflessione a parte merita la dipendenza dalla tecnologia. Solo fino a
trent’anni fa pochi eletti avevano un telefono cellulare, quasi nessuno
possedeva un computer. Ora bambini in tenera età maneggiano con
disinvoltura cellulari sofisticati e apparecchiature elettroniche di cui le case
abbondano. Questo in sé non è nocivo: è sempre una questione di quantità e
di tipo d’uso. Purtroppo, è assodato che molto spesso siamo pervasi da un
senso di ansia costante, necessitiamo di continui aggiornamenti e notizie,
vogliamo essere rintracciabili ventiquattro ore su ventiquattro, siamo
disponibili a essere controllabili, invasi.
Vorrei precisare che qui il punto non è demonizzare la rete e dare alla
tecnologia la responsabilità di creare nuove dipendenze. La radice che ci
porta a sviluppare una dipendenza è dentro di noi, e la sua origine è ben
distante nel tempo; non attribuiamo pertanto colpe alla sostanza o al
bersaglio della dipendenza. Anzi, nell’ultimo periodo la rete ha permesso di
salvare l’attività scolastica, bloccata per la pandemia, e di svolgere molte
professioni da casa.
Ancora non sono state prodotte sufficienti ricerche per stabilire se le
restrizioni causate dal virus e la didattica a distanza siano correlate a un
incremento delle dipendenze e a comportamenti disfunzionali. Certo è che a
risentirne di più sono stati bambini e adolescenti, che si sono visti privare di
opportunità sociali proprio in una fase di sviluppo. Se da un lato i contatti
umani hanno subito un arresto, isolando in casa una generazione che già
dialogava con l’esterno attraverso la tecnologia, dall’altro occorre ricordare
che le privazioni possono essere foriere di enormi risorse.
Perciò è importante sottolineare che le nuove generazioni, sebbene
penalizzate e lasciate in un limbo a sé, spesso sviluppano formule di
sopravvivenza per adeguarsi alle richieste che via via si presentano,
dimostrando così di essere capaci di rigenerarsi. Ai giovani adulti va il
merito per esempio di sdoganare nuove possibili modalità di relazionare e
portarle alla luce anche attraverso la divulgazione sui social, utilizzando
sapientemente la tecnologia. Basti pensare al fenomeno del poliamore, forme
multirelazionali dove si hanno più legami amorosi in contemporanea: ci si
dice tutto e tutti sanno di tutti, senza apparenti problemi. I giovani usano le
app di dating per conoscersi, con naturalezza e senza morbosità.
Sappiamo ancora poco sui risvolti psicologici di queste modalità affettive,
ma è bene tenere presente che esistono e indagarne le conseguenze emotive.
Dobbiamo riconoscere che quella stessa rete così fertile e feconda in altri
modi intrappola e aggancia chi ha una predisposizione per la dipendenza,
adulti o adolescenti che siano. Questo aspetto, che potremmo definire dark,
può diventare molto nocivo e pericoloso.
Cosa hanno a che fare quindi queste riflessioni con il tema del libro?
Il fatto è che la radice delle dipendenze, nuove o antiche che siano, è una
distorsione affettiva che porta a cercare una protesi emotiva. Come abbiamo
anticipato, fra le nuove forme gli studiosi comprendono la love addiction, la
dipendenza affettiva, che si declina in uno spettro che va dal bisogno
spasmodico di approvazione alla dipendenza dal picco emotivo derivante dal
cambiare partner di continuo, quella sensazione di «farfalle nello stomaco»
tipica delle prime fasi della relazione, definita in inglese romance addiction.
Chi manifesta questo tipo di dipendenza sente il bisogno costante di fare
nuove conquiste. Quando accade, si raggiunge l’apice e ci si illude di avere
attenzioni, di essere importanti e di avere trovato la persona giusta. L’effetto
adrenalinico creato dal nuovo rapporto deve essere mantenuto sempre attivo;
se si attenua, si cerca un altro flirt e di nuovo si accelera, credendo che
questa volta sarà ancora più spettacolare. L’esigenza è quella di rivivere
sempre le fasi preliminari della relazione, più che la relazione vera e propria.
Ogni volta, all’inizio c’è un’eccitazione legata alla conquista, per cui tutto è
alle stelle, compresa la sessualità, per poi sfociare in tempi brevi nel
disinteresse.
Ciò che non è immediatamente riconoscibile è la ferita narcisistica che
questa dinamica implica, come anche l’aspetto di paura e di evitamento della
relazione. A tal proposito è interessante questa testimonianza di Valentina.
Mi succede che come un vampiro assetato di sangue cerco disperatamente una donna che
soddisfi la mia sete. Quando la trovo, la seduco. Per farlo, mi trasformo in quello che piace a lei
e faccio in modo che si fidi di me, mi prendo la sua bellezza, la sua energia, la sua vitalità, mi
«innamoro» ogni volta di questa sensazione inebriante. Una volta che ho raggiunto il senso di
sazietà, la donna inizia ad apparire ai miei occhi diversa, come se non avesse più quel fascino
che avevo visto all’inizio (forse gliel’ho assorbito tutto o forse vedevo dell’altro). Cominciano
ad affiorare altri lati di me, molto diversi da quelli che mostravo in fase iniziale e molto spesso
questi lati non piacciono. Quando scatta questa fase in me, ho bisogno di prendere e spostarmi
da un’altra parte, perché sento di nuovo la sete. Ho sempre temuto i famosi «vampiri
energetici» ma forse perché mi rispecchio in questa immagine.

La narrazione di Valentina ci ricorda che queste dinamiche possono avere


lo stesso andamento indipendentemente dall’orientamento sessuale e
dall’identità di genere, finendo con il ricreare il medesimo pantano emotivo.
Tra le varie forme di dipendenza da relazione troviamo anche la
codependence, codipendenza, caratterizzata dalla volontà in apparenza
nobile di aiutare, o addirittura salvare, il partner coinvolto in un
comportamento o stile di vita rischioso per la salute (droghe, alcol, gioco
d’azzardo). Come vedremo meglio, questa è una forma relazionale che si
sviluppa in qualcuno che già dall’infanzia doveva prendersi cura dei bisogni
emotivi di uno o entrambi i genitori, attuando in seguito nella relazione
adulta un ruolo salvifico nei confronti del partner.
Oggi sono sempre più diffuse forme surrogate e parzializzate della
relazione come la sex addiction, la dipendenza da condotte ipersessualizzate,
la porn addiction, la dipendenza dalla pornografia, e quella da cybersex,
sesso virtuale in rete, e dal sexting, sesso in chat, tutte pratiche che hanno
avuto un notevole incremento durante la pandemia, di cui non abbiamo
ancora sufficienti studi che ne attestino i numeri.
Molti ricercatori sostengono che le nuove dipendenze abbiano in comune
alcune caratteristiche essenziali con l’abuso di sostanze, come il desiderio
spasmodico di ripetere il comportamento, le alterazioni dell’umore, la
tolleranza e il bisogno di quantità sempre maggiori. In comune hanno anche
i sintomi dell’astinenza: malessere psichico e/o fisico che si manifesta
quando si interrompe o si riduce il comportamento. A causa del
comportamento disfunzionale dell’individuo, possono insorgere conflitti
intrapersonali, ma anche interpersonali con le persone vicine. Infine, c’è
molta fatica a interrompere il comportamento, pertanto compaiono frequenti
ricadute, in cui si tende a ricominciare l’attività o l’uso della sostanza dopo
averlo interrotto.
Nella lingua inglese si sono coniati neologismi per definire queste nuove
patologie, altrimenti conosciute con il termine addiction, fondendo il termine
alcoholic, che indica la persona alcolista, con i nomi delle singole
dipendenze, da cui shopaholic, foodaholic, sexaholic, workaholic.
A seconda della propria visione del mondo, per qualcuno il credo sarà
quindi: «Compro dunque esisto», per altri sarà: «Lavoro fino allo sfinimento
quindi sono», oppure: «Faccio sport estremo, rischio, allora ho un senso»,
«Ho un corpo da urlo, forgiato, modificato, perciò merito di vivere». O
ancora: «Resto connesso perché posso controllare ciò che accade». Da qui la
recentissima FOMO: fear of missing out, la paura di essere tagliati fuori da
ciò che accade e si dice sui social. E potremmo continuare di questo passo,
esplorando i comportamenti, le azioni, le credenze in cui molti paiono
trovare una ragione di vita.
Quello che occorre sottolineare è che queste patologie diventano
invalidanti per la vita della persona, al pari delle tossicomanie, e
pregiudicano la salute, rubano tempo e denaro, distruggono affetti.
Quali sono i pensieri e gli stati emotivi che portano ad attuare condotte
così nocive e distruttive? Tutte queste pratiche hanno in comune una serie di
malesseri: dalla difficoltà nelle relazioni al senso di solitudine e inutilità, dal
giudizio severo su di sé e sugli altri al sentimento di superiorità o inferiorità,
dalla scarsa autostima alla difficoltà di entrare in intimità con l’altro, dalle
azioni compulsive ai pensieri ossessivi e altri ancora.
Ciò da cui si scappa rifugiandosi in una dipendenza è la fragilità.
Si ha dentro un abisso infinito di solitudine, senso di inadeguatezza, dolori
antichi, bassa autostima. E aggrapparsi ad altro lì per lì sembra una soluzione
lenitiva. Ma soltanto lì per lì.
Il fil rouge è in quel disagio sommerso, che resta sopito e senza nome ma
scorre come un fiume sotterraneo dentro di noi, la cui sorgente cercheremo
di scoprire insieme in queste pagine.

Riconoscere il problema
«Dottoressa, come faccio a sapere se mi voglio bene?»
La domanda di Luca, sedici anni, ci fa riflettere.
A dire il vero è uno dei quesiti più frequenti: come si inizia a esserci per
sé?
Prima di tutto, è necessario distinguere un atteggiamento che nasce
dall’amor proprio da quello invece nocivo.
Il problema inizia a esistere quando un certo comportamento,
interiorizzato, fatto proprio e ripetuto, diventa compulsivo, fino a non poter
più farne a meno.
La dipendenza è definita come il bisogno di assumere la sostanza – nel
caso delle nuove dipendenze, mettere in pratica il comportamento
disfunzionale – con sempre maggior frequenza, poiché allevierebbe la
tensione e darebbe momentaneo piacere. Si crea così un loop distruttivo,
dove l’individuo si ritrova in una spirale di lotta infinita.
Nella dipendenza patologica vi è dunque un vero e proprio ciclo continuo,
in cui a uno stimolo emotivo iniziale (disagio, ansia, angoscia) seguono
urgenza, bramosia, craving, una sorta di fame ossessiva, tale da spingere ad
attuare la propria compulsione in modo impellente, pena una sofferenza
atroce. Dopo l’utilizzo della sostanza o l’attuazione del comportamento
disfunzionale, si avranno nuovamente lo stimolo, il malessere e così via da
capo.
Ad alcune persone può accadere di indulgere saltuariamente in pratiche
ripetute ed esorbitanti, come attuare condotte sessuali promiscue, o eccedere
in una corroborante attività sportiva per ore. Tuttavia, se l’astenersi dal
comportamento non causa reazioni e sintomi insopportabili, allora siamo in
presenza di un eccesso, ma non di una dipendenza. In questi casi, si
dovranno ricercare dentro di sé le cause, ma la differenza con chi invece ha
una dipendenza vera e propria sta nel grado di funzionamento. Chi esagera,
riuscirà a stare senza e funzionare ugualmente, chi dipende, sente che non
potrebbe reggere se abbandonasse certe abitudini. Spesso chiedo ai miei
pazienti: «Da uno a cento, quanto?»
Anche nel caso della dipendenza, all’inizio i comportamenti sembrano
essere soltanto ripetitivi, a volte rassicuranti poiché rituali moderni. Ma con
il tempo, ci si trova intrappolati. E da lì a poco la vita sembra ruotare tutta
intorno al momento in cui si fa quello. Si ha la sensazione di non riuscire a
fluire «senza», si avverte un senso d’incompletezza, se ne ha necessità
urgente per andare avanti. Salute, vita sociale, relazioni, affetti e denaro
vengono condizionati e danneggiati, e ci si ritrova a fare i conti con una
dipendenza di cui magari non sapevamo nemmeno l’esistenza.
#Frammento n. 3
Racconti occhi nel cuore

HO scelto di fare la psicologa. Che dovevo diventare un’insegnante lo decise


mia zia: perché, diceva, per una donna insegnare è comodo. Io amavo la
filosofia ma, siccome parlavo già due lingue (italiano e portoghese),
all’università mi iscrissi a Lingue straniere.
Con le lingue si lavorava di più, così era stato deciso.
All’inizio misi tutta me stessa nell’insegnamento. Dovevo essere la
migliore, altrimenti non sarei stata amata da mio padre. Diventai
bravissima, severa, creativa. Molte volte ero piuttosto esigente con gli
studenti, perdendo di vista la relazione. Col tempo, insegnare mi diventò
stretto, ma il rapporto con i ragazzi migliorò molto.
Sono sempre stata affamata di comprensione, di conoscenza. Avvertivo
dentro di me un buco strano e invisibile. Lo riempii di libri. Iniziai a studiare
per conto mio, di notte. Compravo testi di crescita personale, divorando
ogni tipo di scritti inerenti la consapevolezza. Ero una ricercatrice, mi
interessava tutto ciò che mi avrebbe permesso di conoscere a fondo me
stessa. Mi laureai in Psicologia studiando fino all’alba.
Scoprire il funzionamento della psiche mi ha portato tanto nutrimento. Ho
scritto due tesi di laurea sulla dipendenza affettiva e molte parti di questo
libro derivano anche da quei manoscritti.
Ho iniziato a pubblicare su un blog alla fine degli anni Novanta, che
all’epoca chiamai Amoredipendente, aveva molti lettori. Il tema era già
parecchio sentito e poco conosciuto. Con l’avvento dei social, grazie a
un’amica, aprii una pagina Facebook che scegliemmo di chiamare
Ditroppoamore, e vedevo dal numero di interazioni quotidiane quanto
interesse l’argomento suscitasse.
Dopo aver svolto un lungo tirocinio, aver superato l’esame di Stato ed
essermi iscritta all’albo degli Psicologi dell’Emilia Romagna, decisi che mi
sarei occupata di persone che vivevano un disagio relazionale. Scelsi la
formula del colloquio di sostegno per chi soffriva di un amore doloroso e
non riusciva a staccarsi, e iniziai a ricevere i pazienti in uno studio che
aveva poco più che due sedie, tra l’altro scomodissime. Ma le persone
arrivavano con il passaparola, e tornavano. Il termine paziente per me non
ha un’accezione di malattia, ma quella che deriva dal latino patiens,
resistente alla sofferenza. E le persone che da allora in poi ho incontrato
sofferenti lo erano.
Un giorno mi giunse una richiesta da una giovane donna di Arezzo,
Carola: «Dottoressa, mi riconosco in quello che scrive, possiamo vederci?»
Era il 2015, e credo quasi nessun psicologo allora in Italia facesse
consulenze online. Sapevo che in America era già da tempo una pratica
diffusa, perciò perché no? Dopo aver consultato gli organi preposti, ricevetti
una risposta che obtorto collo suonava più o meno così: «Meglio in
presenza, se possibile. Ma non potendo, valuti lei».
Sentivo che avrei potuto aiutare molte persone online. Il pagamento era
possibile con un bonifico, fare ricevute pure. Quindi le dissi: «Proviamo».
Carola era molto infelice, aveva figli, un matrimonio bianco e una storia
parallela e dannata con un regista, Achille, che la cercava al bisogno: lei,
come decine di miei pazienti, sentiva di esistere soltanto attraverso lo
sguardo dell’altro. Viveva appesa e sospesa, in attesa dei suoi messaggi, dei
suoi occhi. Lavorammo tanto sulle sue radici, indagando il rapporto con la
famiglia di origine. Riuscì a lasciare Achille dopo varie ricadute, ebbe un
paio di altre storie meno dolorose, ma sempre malsane, infine un giorno mi
disse: «Dottoressa, ora esisto, ci sono per me». E chiuse tutte le sue evasioni
da una vita che imparò ad abitare. Di recente mi ha scritto: «Cara
dottoressa, posso garantire che col tempo il benessere si consolida. Il nostro
percorso ha un effetto a lento rilascio, e ancora risuona tutto ogni giorno
dentro di me».
È stata la prima persona che mi ha chiesto di fare un percorso di sostegno
a distanza, non ci siamo mai conosciute dal vivo, ma la nostra relazione è
stata efficace e duratura. Ancora oggi, al pensarci a vicenda ci sorridiamo
da lontano, molto vicine.
Da allora lavoro in tutta Italia e all’estero, faccio colloqui di sostegno
con persone che soffrono per una relazione dolorosa, e dopo la pandemia
più nessun obtorto collo per i colloqui online, anzi. Ho approfondito il tema
della dipendenza affettiva e della difficoltà di relazioni, ho seguito decine di
corsi, ma i miei maestri più preziosi sono stati e rimangono i miei pazienti: è
grazie alle loro storie se ho acquisito le conoscenze più importanti.
5
Un terrore senza nome. Le dipendenze patologiche non da sostanze

«J’ai peur du sommeil comme on a peur d’un grand trou,


tout plein de vague horreur, menant on ne sait où.»
CHARLES BAUDELAIRE

Tra Oriente e Occidente


Nella valutazione della dimensione dipendenza-autonomia occorre prestare
attenzione al contesto socioculturale di riferimento, come sostengono vari
studiosi. Il concetto di dipendenza cambia, infatti, a seconda del luogo
geografico dove si nasce. L’organizzazione sociale si basa su valori, norme e
oggetti culturali condivisi, in cui il collettivo e l’individuale si compongono
in un processo biunivoco; pubblico e privato formano una totalità in cui
l’individuo danza costruendo i propri significati. Società più orientate verso
la competizione e l’accumulo del capitale fondano la loro economia sul
consumo dei beni. Altre società costruiscono i propri significati attorno a
valori più simbolici, religiosi, dove la dimensione dell’essere è privilegiata
rispetto all’avere. Tuttavia, le modalità e il grado di dipendenza sono in gran
parte influenzati dal tipo di cultura all’interno della quale si sviluppa il
rapporto con i genitori.
Nella cultura occidentale il termine dipendenza ha una connotazione di
solito negativa, riscontrabile in pressoché tutta la letteratura medica e
psicologica. In Oriente l’atteggiamento è diverso, più conciliante, e le radici
di questa differenza possono essere evidenziate a livello sia linguistico sia
socioculturale. In inglese to depend, «essere sospesi, essere appesi,
dipendere da», sono significati che implicano una posizione d’inferiorità o
subordinazione, mentre la parola indiana asrayana rimanda a concetti quali
«attaccarsi a, riposarsi su, cercare rifugio, appoggio, protezione, sicurezza».
Sul piano socioculturale, si può osservare come in Occidente siano stati
creati degli stereotipi a favore del termine indipendenza, che viene
positivamente associato alle guerre di indipendenza americane o europee,
mentre le nazioni dominate o colonizzate possono essere anche chiamate
dependencies.
Non stupisce, quindi, il fatto che studiosi e psicologi statunitensi tendano
ad apprezzare l’indipendenza personale come segnale di maturità e di
emancipazione sociale ed economica. I genitori americani accettano
l’iniziale dipendenza del bambino, ma in seguito ne favoriscono e
incoraggiano il distacco. Per paradosso, proprio in Nord America la
dipendenza – cibo, droghe, new addictions – è una patologia assai diffusa.
Nelle società capitalistiche avanzate che emulano il modello a stelle e
strisce, quali la Germania o i Paesi del Nord Europa, i figli sono spinti ad
abitare precocemente da soli e i genitori, una volta diventati anziani,
vengono affidati a strutture oppure a estranei, come badanti e collaboratori
domestici. Formalmente, dunque, le società capitalistiche sono autonome,
progredite, inneggiano all’indipendenza; l’autonomia è un valore
perseguibile e condiviso.
Il modello educativo vuole che il bambino si abitui molto presto a non
sporcarsi, a maneggiare la tecnologia, impari abilità sportive, insomma che
primeggi, competa e vinca. Se non socializza da subito, se non è popolare e
richiesto, il genitore si preoccupa e presto arriva, in maniera del tutto
irrazionale, a temere che ci sia qualcosa di sbagliato nel figlio.
L’individuo, incitato a funzionare in modo autonomo e produttivo, non
viene però istruito a sviluppare una relazione intima con se stesso. Esther
Buchholz, psicologa e professoressa di Psicologia applicata a New York,
scrisse molto sul tema, sostenendo che il bisogno di raccogliersi in se stessi è
fisiologico (addirittura già nella fase fetale), perché permette alla corteccia
cerebrale sollecitata di continuo di decongestionarsi dall’iperstimolazione.
Lo psicanalista e pediatra Donald Winnicott parlava di uno spazio
intermedio transizionale in cui il bambino, contenuto dalla presenza
rassicurante del genitore, fa esperienza del mondo e interiorizza la capacità
di stare da solo, e utilizza oggetti che testimoniano che è in atto tale rito di
passaggio. Per esempio, quando il bimbo sostituisce la figura materna con un
orsetto, trae sicurezza da quest’ultimo. Oppure quando inizia a giocare da
solo in presenza di chi lo accudisce: sono segnali di un tutore interno che
consola e fa compagnia. Tuttavia, quando questo passaggio avviene troppo
in fretta, o non avviene per niente, l’individuo non riuscirà a coltivare questo
spazio intermedio in cui sa che può entrare in relazione, ma può anche stare
da solo, sperimentando benessere e fiducia in se stesso e nel mondo. In
Occidente l’educazione allo stare in compagnia di sé per riflettere, osservare
le proprie emozioni e instaurare una vera relazione positiva con se stessi non
viene incentivata.
Ancora, in Occidente dopo la nascita il bambino viene per lo più
allontanato dalla madre e messo a dormire in un lettino separato; segue lo
svezzamento, se possibile accelerato. Nonostante il figlio sia spesso unico e
voluto, i genitori stessi desiderano riacquistare al più presto l’indipendenza
di cui godevano prima della sua nascita. Come sostiene la psicologa Barbara
Rogoff nei suoi studi antropologici, in altre civiltà, come quelle orientali,
parte di quelle africane e quelle maya guatemalteche, o ancora in alcune
tribù dei nativi d’America, così come tra gli inuit, abitanti del Quebec artico,
lo stile di accudimento e allevamento della prole parte da assunti di base
opposti alla società americana. Infatti, vengono insegnati comportamenti
collaborativi, anteposti alla riuscita personale. I bambini non sono ritenuti
incapaci, ma attori preziosi con un preciso ruolo nel costruire cultura. Essi
rimangono con gli adulti e i coetanei, non sono segregati e trattati come
diversi, né considerati impicci, ma vengono da subito inclusi nel gruppo, a
differenza delle nostre società, dove crescono in un mondo a parte e
parallelo, in attesa e preparazione dell’ora X, quella dell’ingresso nell’età
adulta. Anche in India, fin dalla nascita, il bambino è tenuto a stretto contatto
con la madre, in una famiglia spesso numerosa, dove i figli sono considerati
una ricchezza, talvolta l’unica. Il bambino cresce quindi sentendo di far parte
di un clan dove è onorato per ciò che è e non per ciò che fa, e da adulto
svilupperà con i familiari rapporti affettivi molto stretti, basati in genere su
un profondo senso di appartenenza, rispetto e collaborazione.
In Oriente la dipendenza è una condizione talvolta auspicabile: per lo

psicanalista giapponese Takeo Doi, il termine giapponese amae


indica una forma di dipendenza positiva. L’assunto di base è che l’individuo
nasce indipendente e lo sviluppo consiste in un processo di
«addomesticamento», di assoggettamento alla famiglia, che viene prima del
singolo. È necessario che il bambino, di per sé essere umano altro e distinto,
diventi devoto e affezionato a chi lo accudisce, come una sorta di
insegnamento affettivo. L’essere bisognoso non è ritenuto uno svantaggio,
ma anzi riconosciuto come diritto e in quanto tale accolto e coltivato.
Prendersi cura dell’altro è nobile compito, farsi accudire è accettato, perciò
l’educazione punterà a far acquisire un senso di appartenenza, partecipazione
e interdipendenza dai membri della famiglia.
Chi pratica questa cultura è protetto nei legami amorosi, una volta adulto?
Sarebbe interessante promuovere ricerche in questo senso, e analizzare quale
approccio educativo diventa fattore protettivo nella relazione adulta.

Senza te morirei
Secondo la teoria psicodinamica, la dipendenza affettiva può essere originata
dal non aver interiorizzato, mentre crescevamo, un «oggetto» buono, una
sicurezza che ci protegge dal di dentro. Altri studiosi postulano che la
capacità di stare con se stessi si raggiunga quando superiamo la paura di
sentirci separati da chi ci accudisce. Soltanto se da bambini impariamo a
sostare in quello spazio vuoto del senza impareremo a gestire l’assenza.
Lo psicanalista Wilfred Bion descriveva la dinamica psicologica di una
persona adulta dipendente come un mancato esito della rêverie, quell’attività
poetica in cui due menti si sognano e si pensano a vicenda. Se la madre, o
chi ne fa le veci, sente il figlio capace di essere autonomo e gli restituisce
un’immagine di sé come tale, il bambino adotterà quello sguardo e lo farà
suo. Se invece lo pensa fragile, incapace di sostare nell’attesa del
soddisfacimento di un bisogno, il figlio sarà insoddisfatto, appeso a qualcuno
per esistere.
Per Bion, dunque, noi pensiamo a noi stessi a partire dai pensieri con cui
siamo stati pensati mentre crescevamo, e chi ci accudisce può insegnarci a
rimanere in uno spazio vuoto, di attesa. Potremmo quindi dire che pensare è
saper aspettare, e in questa attesa possiamo imparare a fare compagnia a noi
stessi. Cosa che, come vedremo, è molto difficile per un dipendente
affettivo.
Se ciò che desideriamo con ardore non c’è, possiamo rappresentarlo
dentro di noi e non sentirne pertanto la mancanza, percependolo presente a
livello simbolico. È grazie al pensiero che trasformiamo l’assenza in
presenza.
Da neonati necessitiamo di cibo, contatto o soddisfacimento immediato;
se non giunge all’istante, crediamo fermamente che non avremo mai ciò che
desideriamo. Da bambini non conosciamo il tempo dell’attesa, viviamo un
unico eterno ora. Chi ci accudisce ci contiene, ci risponde e ci restituisce la
fiducia che qualcuno provvederà a soddisfarci. Da questa risposta
apprendiamo a gestire quello spazio vuoto e aspettiamo sereni ciò di cui
abbiamo bisogno, fino a quando non impariamo a cavarcela da soli. In
questo processo di contenimento, secondo Bion, con il pensarsi a vicenda la
madre, o chi per lei, e il figlio si sognano in maniera reciproca, si
immaginano presenti, fino a quando questa relazione «certa» si traduce in
una stabilità dentro il bambino. Pertanto, per crescere è indispensabile un
sostegno esterno, una base sicura che ci permetta di fare l’esperienza di
essere sostenuti, compresi, accettati, pensati. E che ci renda possibile
sperimentare un attaccamento sicuro, restituendoci un’immagine di noi stessi
capaci, amabili e degni. Questo passaggio, una volta interiorizzato, ci
consentirà di avere una base affidabile a cui tornare, una fonte rassicurante
che ci accompagnerà nella costruzione di un senso del mondo, ci
tranquillizzerà nei momenti bui e ci trasmetterà il messaggio implicito che il
posto più sicuro dove rifugiarci, dopo una tempesta, è sempre dentro noi
stessi.
In una dipendenza affettiva proprio tale passaggio sembra essere mancato:
il bambino che per qualche motivo non è stato rassicurato, sognato,
incoraggiato, contenuto e guidato a rimanere nell’attesa con fiducia, da
adulto dovrà fare i conti con questo tassello mancante. L’horror vacui nasce
proprio da una perdita di fiducia: chi chiama sente che la propria richiesta
cade nel vuoto e la risposta non arriva, interrompendo quel clima affettivo
necessario a infondere la certezza che qualcuno ci accoglierà. Il vuoto
diventerà perciò un nemico da combattere a tutti i costi, per fuggire da
quell’insicurezza lì originatasi. Per poter funzionare, si ricorrerà così a un
uso abnorme di appigli, di oggetti sostitutivi ai quali aggrapparsi per poter
restare in piedi.
Molto tempo dopo Bion, lo psicologo Jerome Bruner avrebbe sostenuto
con un’altra formula che nel processo di sviluppo l’individuo ha bisogno di
qualcuno – i genitori e altre figure che accompagnano il processo educativo
– che gli passi un messaggio rassicurante sul mondo. Bruner individuava
nella narrazione dei grandi ai piccini la trasmissione del sapere e molto altro:
chi è più grande tiene in grembo chi è più piccolo e, raccontando la vita, lo
contiene, fornendogli un’impalcatura (scaffolding), fino a quando non saprà
procedere senza doversi appoggiare.
Le società del mondo intero ritualizzano questo tipo di esperienze anche
attraverso simboli, per tramandare saperi e significati. Nella religione
cattolica, per esempio, il ricongiungimento con il padre che riabilita e
assolve gli errori avviene attraverso la comunione, rituale purificatorio,
salvifico e riparatorio. Il rifugio diventa immaginato, simbolico, spirituale.
«Padre nostro che sei nei cieli» diviene il contenitore a cui affidarsi con un
atto di fede, attraverso la preghiera.
In Occidente, assistiamo sempre più alla perdita della dimensione
spirituale, e tali pratiche non adempiono più alla loro funzione iniziale.
A quanto pare, potremmo dire che siamo una società senza sponde e
sprovvista di cielo.
Pertanto, se non l’abbiamo dentro, cercheremo conforto fuori, e il rischio
è che si creda di trovare quell’abbraccio risolutorio in una dipendenza.
Uno sguardo provocatorio e interessante ci giunge dall’arte
contemporanea, nelle opere di Damien Hirst, che nella sua Lullaby Spring
individua nel farmaco la nuova ostia in grado di risolvere qualsiasi
problema. Le installazioni di Hirst presentano gli oggetti della quotidianità
che rassicurano sul fatto che «basta un poco di zucchero e la pillola va giù» e
che c’è una medicina per tutto.
Come abbiamo accennato, il pensiero portante della cultura americana si
basa sulla concezione che l’individuo, nato dipendente, va reso autonomo
alla svelta. Pertanto, lo stile genitoriale così improntato indirizza da subito i
bambini a fare da soli. La madre non vede l’ora di verificare che il figlio
mangi, cammini, usi attrezzi, si allacci le scarpe, scriva e legga. Ogni
progresso è sottolineato e premiato. «Io» e «mio» sono le prime parole usate
dal bambino per autoaffermarsi nella fase di sviluppo del sé.
Con l’industrializzazione, nell’Ottocento la società rurale è stata
soppiantata da quella urbana, con conseguente modifica della struttura
familiare. Ponendo fine alla convivenza allargata e collettiva, i bambini sono
stati separati e divisi per comodità in età precise e affidati a strutture
educanti, mentre un tempo erano i fratelli maggiori o la comunità a
occuparsene.
Alla luce di quanto accade nelle società contemporanee occidentali, dove
crescita e svezzamento sono rapidi e forzati, alcuni interrogativi sorgono
inevitabili.
Questo processo di sviluppo non potrebbe essere causa della devastante
insicurezza che caratterizza gli adolescenti occidentali e li spinge a cercare
sostegno in altro? Il loro bisogno di certezze non potrebbe nascere da un
mancato supporto del mondo adulto, in preda alla fretta di esaurire il più
presto possibile il contenimento? In questa pressione a crescere veloci,
nell’accelerazione evolutiva che illude l’individuo di essere onnipotente, non
si perde la capacità di diventare responsabili di sé?
Si pensi allo slogan occidentale divenuto imperante: Yes, I Can!
La collettività di oggi è spesso sotto un incantesimo di insicurezza, dove
sottocute sembriamo avere tutti un po’ paura, posseduti in maniera
impercettibile da un terrore indefinito e senza nome. E da qui prende forma
un esercito di Narcisi e Narcise, con l’urgenza di specchiarsi chiedendo
conferme.
Questo, a mio avviso, potrebbe essere collegato anche allo smarrimento
che deriva dal non sentirsi connessi con le proprie radici. Se non sappiamo
da dove veniamo, non conosciamo il nostro bosco di appartenenza, è
probabile che ci sentiremo foglie staccate dal ramo, in preda al vento.
Molte volte coltiviamo anche sentimenti avversi verso la nostra famiglia
di origine, non di rado proviamo disprezzo o diamo giudizi negativi su uno o
più familiari. Custodiamo un archivio interno di «non abbastanza», «troppo»
o «troppo poco», un elenco infinito di «però», «tuttavia» e «ma», quando si
tratta di catalogare le cose ricevute o meno dai genitori. Abbiamo in mente
una versione migliore di loro, allora recriminiamo, rimpiangiamo, e così
facendo pecchiamo di estrema arroganza. Spesso ci sentiamo a credito dai
genitori, talvolta concediamo dall’alto benevolenza o compatimento. In
alcuni casi li idealizziamo. E anche questo non ci fa bene.
Ciò significa che dobbiamo accettare in maniera acritica fatti e misfatti di
chi ci ha preceduto?
No.
Vuol dire invece prendere il proprio posto, facendo la propria parte,
lasciando agli altri la loro, smettendo di revisionarli dentro di noi. Non
possiamo tornare indietro e aggiustare la nostra storia. Possiamo soltanto
prendere atto di come sono andate le cose, sospendendo le recriminazioni
inutili. Per capire chi siamo dobbiamo sapere da dove veniamo e che cosa
portiamo con noi.
Se disprezziamo le nostre radici restiamo attorcigliati al passato, senza
forza per procedere nella vita. Senza conoscere a fondo le nostre origini
faremo fatica a trovare una direzione, perciò vagheremo come fantasmi,
portatori di una domanda eterna: «Ti prego, dimmi chi sono, e dimmi che
vado bene così». Rischiando di dipendere da chi abbiamo di fronte.

La responsabilità: storia di Adele


Quando parlai per la prima volta con Adele, notai che non sorrideva mai.
Giovane donna torinese, con un lavoro di grande responsabilità che la
portava spesso a viaggiare, mi disse subito di essere malata d’amore. Figlia
di due architetti, aveva perso la madre per un cancro che l’aveva portata via
quando lei aveva soltanto diciotto anni e suo fratello Fabio quattordici. Il
padre si era subito riaccompagnato e pochi giorni dopo il funerale aveva
portato a casa una donna, che dormiva nel letto della moglie appena
scomparsa. Fabio, che si era trasferito molto presto in Francia per lavoro, da
due anni era in una comunità di riabilitazione per problemi di alcol e
cocaina. Adele si era innamorata di Pierluigi, sposato con figli adolescenti.
La teneva in ballo ormai da anni, e lei mi disse di essere sfinita, di non
poterne più di fare l’amante.
Pierluigi alternava momenti in cui, per sue stesse parole, «si prendeva
cura di lei», ad altri in cui la insultava e denigrava perché gli faceva
pressione per prendere delle decisioni. In breve, la storia aveva assunto l’iter
classico: inseguimenti e fughe, alternando chi fuggiva e chi inseguiva. Adele
chiedeva di più, Pierluigi prometteva una separazione che non arrivava,
adducendo motivazioni quali: «Mia moglie non lavora, appena troverà un
lavoro andrò via da casa… Quando i figli compiranno quindici, diciassette,
diciotto anni…» E il tempo passava.
Pierluigi però era geloso e possessivo, limitava Adele nelle sue scelte: in
pratica, lei era come in prigione e aveva paura di lui. Anche i ruoli di vittima
e carnefice si alternavano e ben presto, nel corso degli incontri, Adele
cominciò a rendersi conto che lo ripagava con la stessa moneta,
maledicendolo e denigrandolo. In un istante, nel suo mondo psichico, colui
che era visto come un dio diventava un demone, la persona considerata come
ossigeno vitale si trasformava in qualcosa di ripugnante che la faceva
vergognare ancor di più di quello che pensava di essere: una bambina
cattiva.
Nei periodi di lontananza da Pierluigi, Adele provava un’angoscia
insopportabile, una nausea persistente, fitte al ventre e affanno respiratorio:
erano i sintomi di un’astinenza fisica. Anche in presenza di lui aveva provato
dolore fisico, quando facendo sesso la prendeva con forza e lei, per il terrore
di perderlo, accettava tutto. Pensava che il suo ruolo fosse quello di rimanere
in attesa di ricevere qualche briciola, perché non credeva di meritare di più.
Accanto a questo, però, c’era anche qualcos’altro di irrinunciabile: la voglia
di vincere, la hybris, quel sentimento di sfida, indicato con un termine della
cultura greca antica, fatto di una sottile e sottesa arroganza di non accettare
che la realtà potesse essere diversa dai propri desideri. Da un punto di vista
affettivo, Adele era una bambina, e non sapeva gestire la frustrazione di
emozioni scomode.
Piano piano abbiamo iniziato a ricomporre il puzzle della sua storia
familiare: la madre era considerata un angelo, adorata da tutti. E il padre, dai
suoi racconti, assumeva forti tonalità istrioniche e narcisistiche. Dopo anni di
inferno con Fabio, che usava le sostanze per anestetizzarsi e si era isolato da
tutto e tutti, Adele era riuscita a convincerlo a entrare in una comunità. Fabio
e Adele erano più simili di quanto credessero: entrambi erano sopravvissuti
ma non volevano sentire il dolore che avevano dentro, né affrontarlo, né
tanto meno accettarlo. Allora si erano scelti una sofferenza più grande,
perché nel dolore si erano abituati a stare, convinti che non potesse esserci
altro che avvicinarsi piano piano alla morte, e inconsciamente alla madre.
Nei week-end Adele si occupava anche del nonno materno ormai
novantenne, vedovo e arrabbiato con il mondo, che rifiutava ogni aiuto
esterno. Ben presto ci fu chiaro che Adele si era sostituita in tutto e per tutto
alla madre e al copione della salvatrice. Abnegata, martire e diligente,
inseguiva la perfezione della figura materna idealizzata. Viveva di illusioni e
apparenze, doveva essere brava per emulare il fantasma della mamma, e i
tentativi di controllo e di repressione della propria personalità la portavano a
grandi sofferenze.
Il padre si era totalmente perso nel suo delirio adolescenziale, cambiando
compagna di continuo. Appariva perciò come una figura del tutto
deresponsabilizzata, incapace di ricoprire il proprio ruolo. Chiamava Adele
soltanto quando litigava con la fidanzata di turno, la ricattava, e se lei si
sottraeva la accusava di non essere disponibile per lui. Alla mia domanda se
fosse felice di essere convocata e trattata in quel modo, Adele rispose che le
andava bene, pur di avere quelle gocce di padre, anche se erano frammenti
avvelenati. C’era qualcosa dentro di lei di disperato e bisognoso, nonostante
la sua espressione sempre seria e composta.
Adele era preda di una proiezione: affamata di figure genitoriali perse per
strada per motivi differenti, aveva riposto tutto nella relazione malsana con
Pierluigi, che riproduceva in lei la stessa solitudine. Aveva briciole di padre
e accettava gocce di affetto al veleno nel rapporto con Pierluigi.
Dopo varie ricadute, è riuscita a lasciarlo. Lui ha continuato a pedinarla,
inviarle rose rosse e lettere accusatorie, facendo leva sui suoi sensi di colpa.
Come spesso accade in queste storie, Adele non accettava di sentirsi cattiva,
ma dentro oscillava tra un furore impotente e la vergogna da un lato, e il
bisogno di essere dentro una relazione capestro dall’altro. Quella era la
modalità che le era familiare, che aveva conosciuto e appreso nella relazione
con il padre, dispensatore di pochi atomi di amore. Per paura di non
appartenere più al suo clan, che prescriveva disponibilità e bontà infinite,
sottostava a una serie di umiliazioni.
Un giorno è stata convocata d’urgenza dalla comunità in cui si trovava il
fratello, perché Fabio, in preda alla disperazione durante una ricaduta, aveva
bevuto il profumo del compagno di stanza, dovendo ricominciare tutto il
percorso da capo. Il padre ancora una volta si era disinteressato e aveva
lasciato Adele sola nell’angoscia per quel fratello disperato e senza sponde.
Il problema della dipendenza affettiva di Adele e delle varie dipendenze di
Fabio stava proprio all’interno di questa trama sgangherata e instabile, dove
per funzionare tutti avevano bisogno di altro. Compresa la madre angelicata,
che viveva aiutando gli altri e dimenticando se stessa.
Come da copione classico di chi è invischiato in una dipendenza affettiva,
Adele non vedeva nessuno oltre Pierluigi, era totalmente immune a qualsiasi
altro uomo. Quando questo accade siamo di fronte a una profonda ferita di
abbandono. Adele, infatti, era orfana non soltanto di madre, ma anche di un
padre vivo. Iperaccudita da una madre angelica, Adele assume le vesti della
principessina fino alla nascita del fratellino, di cui sarà gelosa in quanto
viene spodestata dal trono. Ben presto però si ritroverà nei panni della
piccola fiammiferaia, con un padre capriccioso e pretenzioso, affogato nella
propria immensa ferita narcisistica. A Adele non resterà che supplicare
amore, anche con rabbia, ma lo chiederà a chi non può darle nulla, per
ritrovarsi così nello stesso stato d’animo da cui cerca di fuggire. Nel
tentativo di riparare se stessa, finisce con il perpetuare la propria angoscia.
Il primo passo è stato aiutarla a sostare in quello spazio scomodo in cui
sentiva di tradire la madre non rispettando il copione della ragazza dolce e
buona. Poi, come accade nel percorso di sostegno, a un certo punto Pierluigi
è diventato una comparsa negli argomenti dei nostri incontri. Il nodo centrale
era il padre, che aveva continuato a fare colpi di testa, fino a fuggire
all’estero con una donna, facendo perdere le proprie tracce. La sua
sparizione è stata un duro colpo da elaborare nei nostri incontri, ma abbiamo
utilizzato molte tecniche di consapevolezza, finché Adele ha avuto modo di
vedere la messa in scena della sua famiglia, ha abbandonato il copione
materno e si è liberata di una fedeltà pesante, dei sensi di colpa paralizzanti e
dell’urgenza di aiutare il padre e il fratello.
Fabio continua tuttora il suo percorso, è sereno e condivide la
riabilitazione con Adele, che ora mantiene «soltanto» il ruolo di sorella
maggiore, senza più assumere la postura salvifica che l’ha sempre
contraddistinta all’interno della famiglia. Il nonno ha accettato di vivere in
una struttura dove è ben accudito.
Laddove manca una sponda relazionale o entrambe, come sono mancati i
genitori di Adele, il percorso di sostegno fa da contenitore emotivo e
affettivo. Quello di Adele ha avuto un esito favorevole e positivo: ora ha una
vita piena di interessi, coltiva se stessa e le proprie passioni, si dedica a
frequentare persone con curiosità e si concede di sperimentare relazioni
restando integra, senza aggrapparsi.
Ciò che è mancato è stato restituito attraverso la relazione di fiducia e
affetto che lei e io, in quanto figura di supporto, abbiamo instaurato. Talvolta
mi manda i saluti dai suoi viaggi; lei sa che faccio il tifo per lei, la penso
leggera, capace di farsi felice, e che al bisogno potrà tornare a questo
ancoraggio che la tiene composta e compatta, permettendole di andare per il
mondo libera da fardelli, con dignità e responsabilità della propria vita.
6
La dipendenza dall’altro

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,


prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.»
DANTE ALIGHIERI, Inferno, Canto V, 100-107

«Lasciatemi morire,
lasciatemi morire,
e che volete voi, che mi conforte
in così dura sorte, in così gran martire?
Lasciatemi morire.»
CLAUDIO MONTEVERDI, Il lamento di Arianna, scena VII

L’AFFETTIVITÀ è un ambito che coinvolge l’individuo per tutta la vita e l’amore è


caratteristica peculiare dell’essere umano, che ha funzioni e capacità che
vanno oltre la fisiologia. Amare è ciò che ci rende partecipi alla vita: per
alcuni è la motivazione, il senso dell’esistenza.
Oggetto della filosofia e della letteratura, l’amore è stato analizzato,
definito, esaltato, cantato e narrato da un’infinità di autori. Eroine sofferenti,
tradite, a volte persino suicide popolano le pagine dei testi classici. Si pensi a
Didone, regina cartaginese perdutamente innamorata di Enea, come una
dipendente affettiva del mondo ellenico; oltraggiata nell’orgoglio, si toglie la
vita maledicendo Enea. Il sentimento di amore è sostituito dall’amante
abbandonata con una passione ugualmente viscerale: l’odio.
Altrettanto forte del desiderio di avere e possedere l’altro è quello di
vendetta e di rifiutare il partner amato e odiato al contempo (obbedendo a
Eros, la pulsione di vita, e Thanatos, la pulsione di morte, che coesistono in
noi, come direbbe Freud). Come Medea, che dopo il tradimento di Giasone
non regge il dolore e arriva a uccidere i propri figli per vendicarsi.
Talvolta il cosiddetto amore assomiglia più alla follia.
Altre volte, invece, un sentimento così elevato e umano come l’amore si
intreccia a un tormento che diventa dipendenza, fino a sfociare in una
malattia vera e propria. Sarebbe interessante analizzare le figure femminili
della letteratura con sintomi di dipendenza affettiva e fare un paragone con i
personaggi letterari semplicemente «innamorati», poiché in alcuni casi la
differenza è sottile, in altri evidente. Penelope, per esempio, è una moglie
fedele o dipende da Ulisse al punto da sospendere la propria vita in sua
assenza? Fiduciosa nel ritorno dell’amato, vive appesa e in attesa, si occupa
di tessere la propria tela, che disfa ogni notte. Ma a voler ben guardare,
anche Penelope potrebbe cantare «Io che non vivo senza te»?
L’essere umano prova sentimenti, instaura relazioni, e ne ha bisogno,
certo. Tuttavia, nell’immaginario comune non ci viene insegnato l’amor
proprio: l’amore cantato o scritto, dichiarato, pensato, sofferto è sempre per
l’altro.
Dove impariamo l’amore per noi stessi?
Lo apprendiamo là dove lo abbiamo percepito e respirato, o mai
incontrato. Dal modo in cui siamo stati trattati, curati, pensati, aspettati
mentre crescevamo, come dicevamo parlando dello sviluppo del bambino.
In teoria, l’individuo, una volta cresciuto, instaura relazioni amorose e
sociali, sviluppa una competenza emotiva e impara a gestire il proprio stare
con se stesso; sa altresì relazionarsi all’altro, essendo in grado di governare
la propria vita affettiva e le proprie emozioni in maniera appropriata. Ma in
realtà le cose non sembrano funzionare proprio così, viste le enormi
difficoltà di relazione che si manifestano nella coppia attuale.
Se osserviamo i rapporti affettivi, molte volte appariamo incapaci di
gestire emozioni, sentimenti, gelosia, libertà e spazi. Per esempio, quando
abbiamo paura di essere abbandonati o sentiamo la minaccia di una
separazione temiamo di perdere la persona amata, e in concomitanza con la
rottura di una relazione ci sembra di essere perduti. Cosa è successo a quel
legame con le figure di accudimento che avevamo interiorizzato durante la
prima infanzia, e che ci avrebbe permesso di sentirci al sicuro dentro di noi?
Molto probabilmente qualcosa non ha funzionato, oppure siamo rimasti
impigliati, privi della forza di individuarci, restando così fermi a un’idea di
amore infantilizzato, cioè improntato al bisogno.
All’altro, al partner, si chiede pertanto di diventare il riparatore eccelso,
gli si intima di offrire un accudimento mancato, magari avuto in modo
deficitario e distorto, o troppo intrusivo e fagocitante, che non ha reso
possibile l’esplorazione di uno spazio di separazione e individuazione.
Talvolta in fase evolutiva si incontrano eventi traumatici e si subiscono
abusi: questo incide in modo drammatico nell’affettività della persona, che
può andare a ricercare lo stesso copione o per riviverlo, poiché non sa
inscenare altra forma relazionale, o per ripararlo. Perché ricreiamo ciò che
abbiamo visto, conosciuto e assorbito.
È un determinismo inesorabile?
No, come vedremo subito, è un bagaglio di istruzioni per l’uso che
acquisiamo, volenti o nolenti. Fino a quando non ne diventiamo consapevoli,
faticheremo a non applicarle.
Siamo l’insieme delle storie che ci sono successe, sommate alle storie di
chi è venuto prima di noi nella famiglia da cui proveniamo.
7
Copioni familiari

«Sono una parte di tutto ciò che ho trovato sulla mia strada.»
LORD ALFRED TENNYSON

LO psichiatra John Byng-Hall, studiando le trame delle famiglie, definisce


come script un insieme di regole, modalità e schemi a cui i membri
aderiscono in maniera implicita, e osserva che i copioni familiari possono
essere riparati o ripetuti. Nella mia esperienza quotidiana, vengono molto
spesso ripetuti senza che ce ne accorgiamo.
Una delle frasi più frequenti durante i colloqui di sostegno è: «Non vorrei
mai essere come mia madre/mio padre». E dopo poco si scopre che il
comportamento più temuto, rinnegato, giudicato, criticato in quel genitore
riappare in tutta la sua evidenza nella vita della persona.
Spesso si cerca di riparare, ma si ripete senza volerlo.
Indagando nelle storie familiari, troviamo che le vicende riecheggiano da
una generazione all’altra, anche quelle più dolorose. Non a caso nella scuola
sistemica si parla di traumi transgenerazionali, in quanto si assorbono per
osmosi schemi anche molto disfunzionali, una sorta di DNA emotivo, come
mi accade di dire durante i colloqui.
Qualcuno potrebbe obiettare che secondo questa tesi saremmo tutti cloni
indistinti. Non è così: siamo eredi più o meno inconsapevoli che portano
avanti complessi e intricati script familiari.
Mi spiego. Supponiamo che in una famiglia vi siano generazioni di donne
che hanno dato alla luce un figlio e poi siano rimaste da sole, tornando alla
casa natia. La donna più giovane si sposa e ha un bambino, ma avverte un
forte disagio, come un richiamo inconscio, si sente strana, non allineata con
quanto la tradizione implicita della famiglia richiede, ed è attratta come sotto
un incantesimo a sciogliere il matrimonio e poter così rientrare in quella che
pensa come l’unica famiglia possibile: la sua di origine. Perciò, facilmente si
separerà e tornerà a vivere nel suo nucleo originario, o si sentirà fuori posto.
Insomma, tutto tende a riformarsi, anche nelle versioni più aggiornate.
Perché sentiamo in un luogo profondo e non ben definito dentro di noi che
abbiamo un codice a cui obbedire per appartenere.
È necessario comprendere le ragioni che portano le persone a cadere e
rimanere in situazioni così dolorose: in un certo qual modo, tutto è già
accaduto molto tempo prima. La relazione diventa un teatro dove rimettere
in scena vecchi personaggi e schemi interiorizzati, che si rivivono cercando
di guarirli del tutto.
Si replicano certi meccanismi perché li si sa a memoria, ma la ripetizione
del copione non è mai lineare. È opaca, non così riconoscibile, perché è una
«legge» sistemica molto potente, così profonda da non essere evidente a un
primo sguardo.
Anche i tentativi di liberarsi degli script ripetuti non sono così palesi. A
parole vorremo cambiare, poi ci sentiamo trattenuti, talvolta bloccati, e
vedremo perché. Ma vedremo anche come è possibile aggiornare il copione
aggiungendo la nostra versione.
Ci sono fili invisibili, codici scritti nel nostro DNA emotivo, impercettibili
eppure così riconoscibili, se ci pensiamo. Siamo un insieme di istruzioni
affettive, di vissuti sommati, e se indaghiamo a ritroso capiamo.
Ben descrive questa dinamica la prossima storia.

La ripetizione dello schema: storia di Emilia


Emilia viveva in Belgio ma la sua famiglia era italiana, di un paesino
sperduto e spopolato della Basilicata. I suoi si erano trasferiti per lavoro,
Emilia era nata e cresciuta a Bruxelles ma parlava un ottimo italiano. Mi
raccontò di non riuscire a intessere una relazione stabile: frequentava Alain
da parecchi anni, solo che lui non lo sapeva. Chiesi spiegazioni e lei mi
confermò che Alain si approcciava a lei in modo saltuario, specificando che
erano solo amici. Emilia si definiva una donna «a chiamata». Nel tempo
Alain aveva avuto fidanzate ufficiali, ma non si era mai voluto impegnare
con lei, adducendo varie motivazioni. Emilia aveva anche un quadro
personale molto complesso e presentava un insieme di dipendenze: in
gioventù aveva fatto uso di sostanze, ora abusava di farmaci e di alcol, era
molto sovrappeso e tempo prima aveva sofferto di bulimia. Si
iperalimentava, sprofondando il proprio malessere un paio di volte al mese
in abbuffate compulsive di cibo spazzatura, cioccolato e superalcolici.
Aveva uno sguardo dolce e malinconico e una grande capacità
introspettiva, pari alla volontà di fuggire da se stessa. Era consapevole e
autodistruttiva, in prigione dentro di sé. In apparenza Emilia aveva avuto
un’infanzia piuttosto lineare, senza grosse scosse. I suoi genitori erano
persone semplici, abituate a lavorare la terra; in Belgio avevano aperto una
piccola gastronomia di pasta fresca e prodotti tradizionali italiani, e questo
aveva permesso loro di far studiare l’unica figlia, che non aveva continuato
l’attività ma faceva un lavoro creativo.
Avemmo diversi colloqui in cui sembrava non accadere molto, c’era
qualcosa di estremamente immobile attorno a lei. Una vita che sulla carta
poteva scorrere, invece sembrava sospesa in un ambiente psichico
anaerobico, dove tutto restava uguale.
Tuttavia, a mano a mano che proseguivamo, Emilia riuscì a seguire un
regime alimentare salutare, abbandonò le abbuffate periodiche e smise di
eccedere con l’alcol, se non di tanto in tanto. Pur avendo eliminato molte
abitudini autolesionistiche, rimaneva però una profonda malinconia in lei.
Viveva in attesa che Alain si facesse vivo; lui arrivava come un tornado, la
travolgeva e poi scompariva. C’era un che di violento in queste incursioni
che lei gli permetteva, ma entrambi seguivano un copione ben preciso. Lui la
chiamava con tono festoso, la sommergeva di racconti dei suoi viaggi
all’estero per lavoro, senza mai chiedere nulla di lei, dando a intendere di
avventure, strizzandole l’occhio con un senso di complicità che percepiva
solo lui. Emilia si lasciava aggredire dalla sua presenza. Il luogo dei loro
incontri era sempre la minuscola casa di lei, affacciata sui tetti del centro
storico; talvolta uscivano a cena, e lui maldestramente si dichiarava senza
contanti, perciò pagava lei. Dormiva un paio di notti al mese da Emilia,
continuando ad accampare la scusa che stava facendo lavori di
ristrutturazione in casa.
Molto spesso chiedo dettagli sul luogo dell’amore dei miei pazienti,
poiché lo trovo fondamentale, così come chiedo di descrivermi l’ambiente
dove vivono. Il lavoro online mi fornisce dettagli che in studio non sono
presenti, si intravedono stralci di abitazioni, la scelta e la disposizione di
alcuni oggetti. Talvolta passa un animale domestico che aggiunge calore e
affettività, e anche dalle descrizioni delle case dei partner colgo aspetti e
sfumature utili. Qui l’informazione importante era la scelta di vedersi solo a
casa di lei, un particolare che si sarebbe rivelato determinante. Infatti, un
giorno Emilia arrivò in lacrime: un amico comune le aveva raccontato che
Alain viveva con una donna da anni e che aveva due figli. E l’amico era
molto stupito che lei non ne fosse a conoscenza.
Emilia era sotto shock: dovemmo arginare un maremoto emotivo che la
travolse.
Lui la riempì di altre fandonie, e Emilia si convinse; dopo alcuni mesi
tornò alla solita routine, accettando di rivedere Alain, che era arrivato a
mostrarle le foto dei figli, facendole credere che il ménage con la compagna
fosse solo una cooperativa senza sesso, in pratica un matrimonio bianco,
mentre con lei l’intesa sessuale era speciale. Fu molto persuasivo, e Emilia
lo lasciò fare volentieri: lo riaccolse nel suo letto, tornando a fare sesso con
lui periodicamente. Quando le chiedevo se fosse felice, lei mi guardava
stranita, come se non si fosse nemmeno posta il problema e si fosse arresa a
un destino inesorabile che indossava come un fardello macilento e sudicio. A
lei premeva quell’aggettivo: speciale.
Emilia sparì e sospese i colloqui. Mi mandava alcune mail di tanto in
tanto, sempre molto dolce e riconoscente per il percorso che aveva deciso di
interrompere. Tornò quando seppe, di nuovo da terze persone, che Alain si
era sposato.
Decidemmo allora di ricominciare i nostri incontri, che procedettero con
la solita docilità immobile di Emilia: ogni volta, portava con sé la
rassegnazione e la resistenza al cambiamento profondo.
Quasi per caso mi raccontò un fatto che rappresentò il nostro punto di
svolta: mi disse che il week-end successivo sarebbe andata a fare la cobaye
per la polizia della sua città che addestrava cani da difesa. Non capivo bene
il termine, e quando trovammo sul dizionario la traduzione scoprii che
Emilia sarebbe andata a fare la cavia, prestando il proprio corpo durante
l’addestramento dei cani, lasciandosi aggredire. Mi disse che sarebbero stati
stoppati all’ultimo dagli agenti, e questo la affascinava molto, in quanto le
procurava una scarica di adrenalina.
Tra noi scese un lungo silenzio.
Dal mio supervisore junghiano, lo psicanalista con cui ho fatto un
percorso che dura da tredici anni, al quale devo molto per la mia vita e per il
mio lavoro, ho imparato che quei silenzi sono un utero prezioso di
gestazione da cui rinascere a noi stessi. Il compito, difficilissimo, è aspettare
e sorreggere quei silenzi, senza forzare o riempire alcunché. Lasciando che
le epifanie accadano e gli insights si susseguano, qualora si affacciassero.
Chiesi poi a Emilia come mai si sottoponesse volontariamente a quella
procedura, e se ci fossero stati episodi di violenza agita o subita nella sua
famiglia. Lei ebbe un sussulto, come se all’improvviso, dopo tanto tempo, le
tessere del puzzle avessero composto un ologramma che ora entrambe
potevamo riconoscere con chiarezza.
Mi disse che il nonno materno era molto violento, che aveva picchiato la
moglie per tutta la vita, fino a quando l’aveva uccisa con una mazza,
fracassandole il cranio, finendo in carcere per il resto dei suoi giorni. Era
stato condannato con tutte le aggravanti, compresa la crudeltà. Emilia scoprì
così di avere questa attrazione per qualcosa di molto cruento, al limite del
masochismo, al punto da tollerare tutti i soprusi di Alain perché non li
sentiva umilianti ma «normali». La sua soglia del dolore era molto alta,
come se fosse ipnotizzata e attratta verso l’orlo del precipizio della
sofferenza.
Per moltissimo tempo le avevo domandato come si sentisse, ma la parola
umiliazione non era mai comparsa fino a quel giorno, in cui entrambe
avemmo quella rivelazione. Nel DNA emotivo di Emilia erano contenuti
entrambi gli archetipi, quello della persona annientata con violenza ma
anche quello dell’aggressore, che lei rivolgeva in maniera inconscia verso se
stessa, permettendo le incursioni massacranti di Alain e adottando condotte
autolesionistiche, abusando del proprio corpo e della propria salute.
Capita di frequente che quando si cresce in un ambiente velenoso si
diventi assuefatti. Se si assiste a episodi di violenza, non solo fisica, ma
psicologica, verbale, economica, la soglia di sopportazione diventa molto
alta, così può succedere che da adulti si lascino passare, sul lavoro o nelle
relazioni, comportamenti offensivi senza nemmeno rendersene conto.
Emilia aveva assorbito quella modalità, in maniera transgenerazionale,
portando tutto quel peso addosso. Mi disse poi che la madre era sempre stata
aggressiva con il padre, che lo umiliava di frequente, e si accorse solo in
quel momento di quanto la violenza verbale fosse considerata comune nella
sua famiglia, al pari dell’infelicità, tanto che lei non ci faceva neanche più
caso. Scoprì poi che replicava la modalità sottomessa e rassegnata del padre,
uomo docile ma con una bassa autostima e un senso di inferiorità che lo
hanno accompagnato tutta la vita.
Non posso dire che la resurrezione di Emilia sia stata immediata. Ci
vollero ancora colloqui e ricadute, faticava a dire di no ad Alain. Fino a
quando non lo incontrò in un bistrot con una ragazza asiatica molto giovane,
in atteggiamenti amorosi. In quell’occasione, finalmente, riuscì a sentire
tutta l’umiliazione fino a quel momento negata.
Solo se vediamo con chiarezza la dinamica che mettiamo in atto, e ne
riconosciamo la probabile origine, potremo cambiarla. È necessario
individuare le cose e dare loro un nome, per poi eventualmente modificarle.
Da quel giorno Emilia bloccò Alain. Aveva raggiunto il suo punto di non
ritorno. Tutti noi abbiamo un limite oltre il quale scatta l’istinto di
sopravvivenza. Dico spesso che «soltanto un guizzo di amor proprio può
salvarci davvero». E l’episodio in cui Alain amoreggiava con una giovane
che aveva meno della metà dei suoi anni ebbe un effetto deflagrante su
Emilia, che riuscì a contattare la sua dignità, persa così tante volte.
Il suo recupero è stato lento ma inarrestabile. Non ha più permesso a
nessun uomo di umiliarla. Ora ha una relazione in cui chiede e mette
rispetto, è sobria da molto tempo e ha fatto della salute una delle sue priorità.
Due week-end al mese dona il proprio tempo in un centro antiviolenza,
condividendo la sua storia e la forza che è scaturita dall’aver indagato e
scavato a fondo nel proprio abisso. Verso i suoi genitori si pone in maniera
ferma e gentile. A quella nonna trucidata ha restituito il peso simbolico che
portava, figurandosi di lasciare a lei il suo triste destino, con rispetto,
prendendo le distanze da quel vissuto così tragico. Ora il suo sorriso è
allegro e vitale, e Emilia non porta più fedelmente con sé tutte le ombre del
proprio copione familiare.
Ciò che è più difficile, in questi processi inconsci di ripetizione, è proprio
attraversare quello spazio in cui sentiamo di tradire i codici del nostro
sistema.

La sposa di papà: storia di Vera


Vera è una bellissima donna di quasi quarant’anni, svolge una professione di
grande responsabilità ed è sposata con Amedeo, un funzionario dello Stato.
Mi contattò online, durante la pandemia. Diceva di soffrire di ansia e
insonnia e temeva che il marito la tradisse. Tuttavia, diceva di avere ormai
un matrimonio bianco, e di aver scelto Amedeo solo perché approvato dai
suoi genitori. Avevano due bambini e dopo la nascita del secondo la loro
intimità era piano piano sfumata, per poi scomparire.
Poche volte ho incontrato un donna così bella, brillante, intelligente e
tanto infelice.
Vera non poteva permettersi nemmeno una sbavatura. Sedeva in maniera
regale e composta, aveva modi educati e un sorriso da principessa triste. Mi
aveva inviato delle foto della sua famiglia: i suoi figli erano impeccabili. Mi
disse che da piccola la madre la vestiva di velluto, con il colletto inamidato e
le scarpe di vernice. Qualcosa dentro di lei era rimasto fisso a
quell’immagine di sé. Vera non si concedeva nemmeno un errore. Le chiesi
come si sentisse a proposito del marito; mi rispose di volergli bene, ma che
soprattutto temeva il giudizio del padre se lo avesse lasciato.
Poco prima del lockdown Vera aveva incontrato un ex fidanzato,
Giovanni. Si erano molto amati, ma lei aveva scelto la carriera. L’antica
attrazione si ripresentò, sconvolgendo la vita impeccabile di Vera, che
sperimentava una scissione importante: voleva mantenere l’affetto e la
sicurezza che Amedeo le dava, ma allo stesso tempo sentiva pulsare la vita
attraverso gli incontri clandestini e le chat interminabili con Giovanni.
Questa scissione può portare anche ad ammalarsi. Vera, infatti, iniziò non
solo a soffrire di insonnia, ma anche ad avere attacchi di ansia generalizzata,
amplificata dalla situazione di forte incertezza e tensione collettiva causata
dal Covid-19. Viveva la casa come una prigione, con i bambini in didattica a
distanza e sia lei sia il marito in smart working; a volte l’escalation del
malessere prendeva correnti ascensionali fino a esplodere di fronte ai figli,
testimoni attoniti di quella situazione così gravida di malumori. Proprio lei,
sempre così perfetta, si ritrovava a fare scenate e a usare un linguaggio
violento tra le mura domestiche.
Alla fine del lockdown riprese gli incontri clandestini con Giovanni. Con
la scusa del lavoro, si assentava qualche week-end, conducendo una doppia
vita che non sapeva gestire a livello emotivo. Non voleva guardare la realtà,
non poteva permetterselo. Cercava di mettere una pezza a un matrimonio
tenuto in piedi per non deludere il padre: Vera apparteneva alla tipologia
principessa (infelice) sul pisello, sposata al padre che la voleva perfetta in
tutto. E così diventava la bimba (disperata) del papà, condannata a vivere
cuore e sessualità in maniera scissa.
Per poter riparare tutto questo, sapeva che si sarebbe dovuta separare e
che un amante non era certo la soluzione. Era invece un sintomo, e a Vera
sarebbe servito un lungo periodo per incontrare se stessa nel profondo e
capire chi fosse davvero, al di là dei precetti paterni, per diventare
emotivamente autonoma e scegliere una vita che le somigliasse.
Alla base di queste relazioni doppie c’è sempre un rapporto irrisolto con
un genitore. Nel caso di Vera, col padre. Un padre impigliato, non al proprio
posto di semplice genitore, né eroe né mostro, causa un pellegrinaggio
affettivo in cui si va a cercare ciò che pensiamo di non aver avuto, o che
abbiamo avuto male. E porta a mettere in scena movimenti inconsci di
ripetizione o tentate riparazioni del nostro copione affettivo.
Vera ha interrotto i colloqui con me e, per quanto io sappia, al momento
non ha ancora trovato il coraggio di separarsi. Di recente mi ha scritto una
lunga e-mail, dove ha dimostrato di avere la consapevolezza di molti suoi
meccanismi, però continua a non sentirsela di deludere il padre, al quale
resta legata da un amore cieco e fedele, immaturo e castrante. Vera cerca di
liberarsi dal proprio copione, ma ne rimane irretita e prigioniera. Ci vorrà
ancora molto lavoro per poter tradire quel padre dentro di sé e costruirsi una
propria identità.

Cuore a papà
Moltissime mie pazienti vivono una storia simile a quella di Vera. Cercano la
sicurezza in un matrimonio, creano una famiglia, hanno figli, ma non sono
felici, come se l’esistenza che conducono fosse priva della dimensione della
gioia dell’avventura.
Nella sua opera Il disagio della civiltà, Freud sostiene che l’uomo abbia
barattato la felicità con la sicurezza. Una tipologia di mie pazienti sembra
corrispondere proprio a questa descrizione: sono per lo più donne realizzate
nella professione, che si sposano per amore e hanno dei bambini, ma poi
qualcosa del passato irrisolto presenta loro il conto e finiscono in una
relazione extraconiugale, soffrendo moltissimo.
La calamita è, quasi sempre, la chimica a livello sessuale, che diventa
colla insolvibile. La fisicità vissuta in maniera clandestina, staccata dalla
quotidianità, assume picchi stratosferici. Sebbene si vergognino di tradire il
marito, allo stesso tempo non riescono a staccarsi dall’uomo che incontrano
quando sono già impegnate e verso il quale si attiva una forte dipendenza
affettiva, così rimangono intrappolate nel gancio letale della fusionalità
raggiunta soprattutto attraverso l’atto sessuale. Le donne in questione
riferiscono di percepirsi vive, piene, intere soltanto in presenza di questo lui
investito di un ruolo idealizzato, che detiene il potere di farle sentire belle,
desiderabili, femmine. D’altro canto, la relazione domestica è altrettanto
necessaria in quanto rassicura, protegge e funge da nido che ripara.
Da un punto di vista psicologico, questa condizione è atroce per chi la
vive. La donna non riesce a immaginarsi senza la doppia situazione di
sicurezza e avventura, lecito e illecito. È come se non fosse consentito, nella
psiche, vivere tutto con una sola persona. Anche se all’inizio del rapporto
con il compagno ufficiale c’erano tutte le dimensioni, con il tempo queste si
scorporano e la sessualità domestica diventa piatta, quasi incestuosa, mentre
il desiderio è là fuori e proibito, tormentato.
L’amante, dal canto suo, in genere è a sua volta sposato, ma resta molto
meno coinvolto e quasi mai mette in dubbio di lasciare la famiglia.
Voglio sottolinearlo, non sempre l’uomo in questione è un narcisista.
Come ho sostenuto in precedenza, è bene ricordare che il seme della
dipendenza affettiva esiste a prescindere da chi si incontra. Rimane sopito e
latente dentro di noi, e se si viene attratti in un’orbita narcisistica ad alta
intensità, di sicuro le cose saranno molto dolorose. Ma possono esserlo a
prescindere, come nel caso di Vera e di molte altre donne che ho ascoltato.
Quasi tutte le mie pazienti che vivono questa condizione si separerebbero
per formare un nuovo nucleo familiare, come possedute dal miraggio che
con l’altro lui tutto sarà magico. L’uomo amante pare invece vivere la dualità
in maniera meno angosciata. Non è escluso che abbia più storie, causando
una sofferenza atroce alla donna che vive invece schiacciata tra l’incudine
dell’attrazione fuori dal matrimonio e il martello della promessa fatta alla
famiglia.
In maniera provocatoria, prescrivo, per finta, un mese di convivenza
forzata con l’amato e sospirato amante. Facciamo una vera e propria
simulazione: invito la persona a immaginare l’immondizia da portare via, i
lavori domestici da svolgere, i bambini con la febbre da accudire, le grane di
tutti i giorni. E provo a fare un percorso di de-idealizzazione del personaggio
che spesso esiste solo nella fantasia della persona, la quale ne fa un eroe, un
essere in cui tutto è romantico, passionale, poetico, orgasmico. Ma è
irrealistico che questa percezione duri nel tempo e regga la quotidianità di
una convivenza.
8
Narciso e il suo doppio, una coppia

«Nec sine te, nec tecum vivere possum.»


OVIDIO, Amores

A UN certo punto della propria esistenza un dipendente affettivo


probabilmente si imbatterà in una dinamica narcisistica.
Perché accade?
Perché, avendo lui stesso una ferita narcisistica importante, sono schemi
che non solo si attraggono, ma si incastrano alla perfezione. Entrambe le
persone vagolano per il mondo in cerca di conferme, e tutte e due, per motivi
diversi, attribuiscono all’esterno il potere di confermare il loro valore.
Per quanto ho potuto osservare, come ho sottolineato, la dipendenza
affettiva esiste a prescindere da chi si incontra. Molto spesso un dipendente
affettivo trova un partner amorevole e presente: tuttavia, avendo una falla nel
proprio circuito emotivo, questo non basterà mai a farlo sentire abbastanza
amato, apprezzato, riconosciuto. Con molta probabilità, si sentirà escluso o
abbandonato se per un attimo il compagno rivolge lo sguardo altrove.
Ricordate le caratteristiche di chi non è mai sazio? Quando un dipendente
affettivo incrocia una persona con forti tratti narcisistici, si scatena l’inferno.
Perché, piaccia o no, è un match letale e perfetto, uno specchiarsi tra
concavo e convesso.
Nei capitoli precedenti abbiamo tratteggiato la psiche del dipendente
affettivo, perciò sappiamo che reitera in modo incessante la richiesta di
quello che in passato non ha avuto, o ha avuto male. Volendo aggiustare la
relazione attraverso il partner, è se stesso che vuole modificare. Cerca quindi
di recuperare mediante l’altro qualcosa che è rimasto irrisolto dentro di sé,
nel tentativo di riscrivere quel copione doloroso o distorto che però finirà
con il ripetere. Se non abbiamo ricevuto nulla proveremo a chiedere, ma
paradossalmente ci negheremo il diritto di ricevere, perché questo è lo
schema appreso: ricreiamo ciò che ci è familiare. Per una profezia
autorealizzante, andremo a scovare proprio chi non può dare, così verrà
perpetuato il copione del piccolo fiammiferaio (unisex), quello cioè di chi si
sente sempre ramingo e negletto. Se invece abbiamo alle spalle una storia di
ipergratificazione, cercheremo una persona che abbia il physique du rôle per
permetterci di recitare la nostra parte di eterni insoddisfatti.
Da chi è attratto in sostanza un dipendente affettivo?
Da chi non c’è.
Anche chi sembra esserci e dare troppo, alla fine non c’è. Poiché dare
presuppone vedere il reale bisogno, non affogare o allagare.
Quando parliamo di relazioni, le cose si complicano molto.
Con il mito dell’androgino Platone ha senza volere lasciato in eredità
all’umanità le istruzioni per uno script comportamentale. Uomo e donna, in
origine Uno, furono divisi e condannati a cercare la propria metà ideale per
completarsi di nuovo. Il mito è stato preso così alla lettera che siamo
cresciuti con questa convinzione: occorre per forza cercare un altro per
essere completi. Fino ad allora saremo delle mezze mele o, nell’era moderna,
single. Osservati, il più delle volte, con compatimento da chi è in coppia, o
da quelle rappresentazioni sociali che ci vogliono felicemente accasati, come
se attorno al significato attribuito alla singletudine ci fosse un alone
incompleto di negatività e manchevolezza.
Dalla metà del secolo scorso in poi, in ambito sociale e culturale si assiste
a una vera rivolta nei confronti della dipendenza. Come abbiamo detto, si
inneggia all’autonomia, anche precoce, i bambini sono svezzati in fasce,
allontanati in un letto per sé, in una cameretta a parte: occorre preparare un
individuo che funzioni presto e bene in modo autonomo. Si arriva a
ipotizzare addirittura un cyber-femminismo che fantastica di un utero
maschile per potersi liberare da un fardello che preclude le stesse possibilità
di evoluzione che paiono prerogativa del genere maschile.
L’autonomia è il must della società occidentale, a stampo individualistico:
bisogna lavorare in proprio, possedere una casa, essere automuniti. Tutto
questo sembra aver portato a un’estrema indipendenza.
Peccato che, a quanto pare, in maniera paradossale abbia invece prodotto
un tipo di società incentrata sulla dipendenza. Osservando i comportamenti
comuni, si nota infatti che per funzionare abbiamo bisogno di un accumulo
di cose, che per molti di noi diventano dipendenze in parte conclamate.
Stare bene con se stessi è un miraggio lontano: aggrapparsi a sostanze,
rituali consumistici o persone, visti e ritenuti come stampelle indispensabili
all’esistenza, sembra essere la soluzione più frequente. Nelle relazioni,
invece di trovare l’altra metà della mela come suggerito da Platone e vivere,
anche se ex mezzi, ricostituiti, si cerca di aggrapparsi, diventando
mendicanti di amore, oppure fuggitivi, innamorati solo della propria
immagine: in entrambi i casi, incapaci di entrare in un rapporto profondo,
vero e intimo con l’altro.
Diciamo spesso di volere a tutti i costi una relazione, ma manchiamo di
solito all’appuntamento più importante: quello con noi stessi.
Tante volte mi sento dire: «Dottoressa, vorrei tanto trovare qualcuno».
Porto allora la persona a riflettere che c’è già un rapporto da coltivare e di
cui godere: quello con se stessa. In genere la sua reazione è di sorpresa,
come se non ci avesse mai pensato. Nessuno ci insegna a frequentare in
maniera amichevole noi stessi, con accoglienza e introspezione. Il tempo del
sé non viene incentivato.
Questo accade perché ci sentiamo al sicuro se restiamo in superficie, a
pelo d’acqua della nostra vita. Siamo spesso persi in uno sterile gioco di
specchi, prigionieri di un narcisistico bisogno di conferma del nostro valore
e della nostra esistenza attraverso l’altro, che talvolta finisce con il diventare
un oggetto, non visto per ciò che è, ma solo usato come riempitivo.
Se la relazione raggiunge la patologia, occorre ricercarne i significati nella
ferita narcisistica che, a un esame approfondito, è presente in entrambe le
parti.
Ma come, Narciso non è sempre l’altro?
Come avevo anticipato, vorrei qui fare una piccola «rivoluzione»,
sospendendo la dialettica persecutoria in auge sul narcisista e se possibile
andando oltre, per osservare questo tema con una lente di ingrandimento.
Vediamo perciò da vicino chi è il Narciso di cui oggigiorno si narrano le
gesta sui media.
La definizione di narcisismo è complessa, come ha ben descritto lo
psichiatra Vittorio Lingiardi nel suo saggio Arcipelago N: occorre tenere in
mente che siamo di fronte a una tavolozza di colori con infinite sfumature,
pertanto è preferibile parlare di spettro narcisistico, che include le varie
differenze.
Supponiamo quindi di essere di fronte a un arcobaleno dove diverse
tonalità coesistono, come in un continuum che va da zero a cento. Su questo
arco possiamo posizionarci tutti, a diverse gradazioni e intensità. A un
estremo avremo una forma narcisistica cosiddetta sana, un sentimento che si
compone di amor proprio, autostima, apprezzamento e accoglienza di sé,
quello spazio in cui l’Io investe la pulsione vitale su se stesso, facendosi del
bene. All’estremo opposto avremo livelli di egoismo patologici, senso di
grandiosità, mancanza di empatia, con picchi di crudeltà e sadismo che
sfociano nella malattia psichiatrica. Soltanto un professionista – lo
psichiatra, lo psicoterapeuta – in grado di maneggiare test e sistemi di
classificazione può fare una diagnosi di disturbo narcisistico di personalità
vero e proprio. Essendo io una psicologa di sostegno, in caso di necessità,
invio ad altri professionisti, restando disponibile alla collaborazione.
Perciò, in generale, stiamo attenti ad abusare, snaturandone il senso,
dell’aggettivo narcisista, divenuto sempre più inflazionato e usato a
sproposito. In rete troviamo pagine e pagine accusatorie e persecutorie nei
confronti del cosiddetto narcisista. Quindi, per la stragrande maggioranza, un
uomo. Crudele, manipolatore, affascinante, truffatore affettivo, bugiardo,
meschino e chi più ne ha più ne metta.
Lo psicoterapeuta Alexander Lowen descriveva il narcisismo come
mancanza di sentimenti e umanità. Molti studi delineano e analizzano le
varie cause per cui le persone sviluppano questo tipo di funzionamento, e
rimando a quei testi chi voglia approfondire l’argomento in maniera più
scientifica.
Ciò che intendo esaminare qui non è dunque la grave patologia dove il
narcisismo si fa talvolta feroce e letale, ma quegli aspetti definiti «terra di
mezzo», cioè intermedi, individuabili nel vicino della porta accanto, in TV e
in qualche scampato flirt. Con tutto il rispetto per chi ha perso la felicità e la
serenità per mano di un narcisista patologico: non mi riferisco a quel genere
di personalità patologica di cui parlare in sedi scientifiche con un altro
linguaggio. Mi si autorizzi perciò qui a sdrammatizzare a proposito di quelle
grammature di narcisismo medio-basse, nocive ma non letali, allo scopo di
togliere tutto il potere che a tali personaggi viene di solito dato. Perché di
questo sono decisamente convinta: se identifichiamo determinati aspetti al
primo sguardo, saremo in grado di passare oltre e la dinamica non ci
sconvolgerà la vita.
In pratica, per un dosaggio medio di narcisismo, potremmo dire: «Se lo
conosci lo eviti». Spero che vedere gli aspetti narcisistici per ciò che in realtà
sono possa spaventare un po’ meno chi ha a che fare con gli spigoli e gli
ingombri del narcisista a impatto nocivo medio-basso.
Un invito a chi è arrabbiato con un narcisista per le truffe affettive subite:
qualunque cosa sia successa, restare avvinghiati alla rabbia non aiuta, poiché
il fuoco del rancore crea un legame profondo. Una volta conosciuto e
riconosciuto, spostiamoci e lasciamo a chi ha queste caratteristiche la
responsabilità delle sue azioni. E prendiamoci soltanto la nostra parte.
È importante sapere com’è strutturato questo personaggio, per evitare le
spine che feriscono, talvolta causando cancrene potenzialmente letali. Per
fortuna, nella maggior parte dei casi è possibile arrestare l’infezione.
Userò la descrizione al maschile per non riempire le pagine di asterischi; è
quindi possibile rileggere da capo rovesciando il genere, poiché ci sono
molte donne ad alta frequenza di narcisismo, anche se fanno meno scalpore.
Uomo o donna, quando entriamo in una relazione etero o di qualsiasi genere,
teniamo in mente la grammatura di narcisismo che l’altro e noi stessi stiamo
mettendo sul piatto.
9
ArcoNarci. Narci chi?

FIUMI di inchiostro sono stati spesi per definire la personalità narcisistica. Di


recente, come ho accennato, si è molto discusso sull’opportunità di parlare di
varie forme di narcisismo, o meglio delle sue gradazioni e sfumature, come
un arcobaleno emotivo in cui troveremo, al contrario di quanto si pensi, non
colori sgargianti, ma intensità diverse di dolore.
In apparenza siamo di fronte a persone talvolta brillanti, che riscuotono un
certo consenso.
Degli aspetti affascinanti delle personalità a forte impronta narcisistica si
parla poco. Ma se raccolgono tante conquiste, il e la Narci hanno un
ventaglio di risorse che permette loro di avere successo. Sanno benissimo
come ottenere quel mancato applauso tanto rincorso, perciò imparano presto
ad affinare le armi per avere ciò che vogliono, anzi che pensano sia loro
dovuto.
Quelli di una certa caratura risultano affascinanti, seduttivi, ammaliatori,
brillanti, si insinuano nei bisogni altrui facendo leva su insicurezze e
friabilità emotive, infiltrandosi tra quelle pieghe stropicciate di chi ha fame
di favola e spera ancora che arrivi un principe o una principessa a ripagarlo
di una storia storta.
È bene specificare che la struttura narcisistica si forma per difesa da
traumi e umiliazioni esterne, che possiamo sintetizzare in ferite da troppo o
troppo poco amore, proprio come la ferita di chi svilupperà poi uno stile
dipendente. Ciò che cambia è la forte componente di vergogna e umiliazione
preponderante nella struttura narcisistica, che tuttavia la persona nasconderà
nella parte più profonda di sé.
Il Narci classico, definito dallo psicanalista Herbert Rosenfeld «a pelle
spessa», ha una canzone intorno a sé il cui ritornello è: «Io, io, io». Ha un
portamento regale e va nel mondo a caccia di sudditi, pronti a osannare e
applaudire la sua grandiosità. Ma esistono tante sfumature di Narci, ed è
bene anche ricordare che ogni tipologia non è mai così definita e può
contenere contaminazioni delle altre; vi sono infatti classificazioni sulle
varie gradazioni di narcisismo, che vanno dalla grandiosità alla ritrosia.
Pertanto, è opportuno pensare a una gamma di nuance comportamentali in
cui potremo incappare, o in cui forse talvolta riconoscere anche noi stessi.
La persona narcisista tipica, quella che fa tanto rumore e che vorrei qui
definire abbagliante, presenta al mondo un falso sé e non è in contatto con la
propria realtà emotiva. Appare un po’ fanfarona, cerca sempre di
guadagnarsi il centro dell’attenzione. Vuole sentirsi ammirata, decanta i
propri successi quasi stupita, parla in terza persona, appare presuntuosa e
arrogante. Ritiene di essere così speciale da avere diritti particolari, cerca
corsie preferenziali, e in caso salta la fila, perché lei può e gli altri molto
meno. Facilmente riconoscibile, gioca allo scoperto, la sua presenza crea un
certo clamore e in alcuni casi incute timore. In una conversazione tende a
parlare solo di sé, persa in un delirio egoico esaltante le proprie epopee
eroiche. La sua unghia spezzata ha un peso ben maggiore dell’altrui
patologia oncologica. Narci si sente vittima dell’invidia, è priva di empatia e
del tutto disinteressata all’altro: se gli rivolge attenzione lo fa per poco
tempo e perché le serve, poi torna a spaziare con lo sguardo, immersa nei
propri importanti pensieri. Tuttavia, sa essere premurosa, se ha un tornaconto
fa sentire unica la persona, ma lo fa per riceverne l’applauso.
Esiste poi un tipo di narcisismo che potremmo dire opaco, dalla pelle
sottile: chi ne è affetto risulta assai suscettibile, chiuso dentro le proprie
recriminazioni, diffidente, talvolta livoroso, introverso e frangibile. Cosa
distingue qualcuno che è introverso da un narcisista che sta al coperto? La
rabbia sotterranea pronta a implodere, la sensazione di essere perseguitato in
modo ingiusto, le fantasie di riscatto e vendetta.
Ciò che accomuna interiormente tutte le differenti venature dello spettro
narcisistico è un falso sé, un senso segreto di inadeguatezza, inferiorità e
rivalsa, una lotta contro il mondo a cui devono chiedere approvazione,
ammirazione, conferme e giustizia.
Narci potrebbe aver sofferto di carenze empatiche e aver sviluppato
un’estrema suscettibilità, annegando nella propria vergogna di sé, come
avrebbe detto lo studioso del narcisismo Heinz Kohut. Oppure, secondo
quanto sostiene il suo collega Otto Kernberg, potrebbe avere una struttura
grandiosa e invadente, in cui la vergogna viene negata: resta il fatto che
l’altro, l’esterno, non è mai visto per ciò che in realtà è, ma solo in funzione
di colmare un vuoto profondo.
Dopo tanti anni di studio e osservazioni, ho potuto notare una costante:
quando sono di fronte a persone con forti componenti narcisistiche, siano
esse del tipo abbagliante o di quello opaco, se mi ascolto bene e non perdo il
contatto con me percepisco un senso di disagio e imbarazzo.
Fateci caso anche voi. Qualora ci accada di passare del tempo in cui si
manifestano queste dinamiche, ne usciamo con un senso di malessere vago e
indefinito. Ci resta addosso qualcosa di non ben specificato, che ci attrae e ci
spaventa allo stesso tempo. Pensiamo per esempio a qualche attore o attrice,
o a un personaggio che vediamo spesso in televisione: magari non cambiamo
canale ma restiamo un po’ perplessi e confusi, imbarazzati ma ipnotizzati.
Per esplorare un po’ più da vicino il mondo interiore di Narci, vi propongo
la Scheda di lavoro n. 1, «Invito a cena con Narcisi» (vedi p. 225).

La dannazione: storia di Carlo


Carlo arrivò da me perché il problema era lei.
Quasi quarantenne, orfano di madre da quando aveva vent’anni, una
sorella con cui aveva un rapporto distante e un padre despota, umiliante. La
mamma si era ammalata quando lui era ancora piccolo, e l’aveva quasi
sempre vista in un letto.
Carlo era un affermato professionista, abitava in una città a due ore dal
mio studio, ma preferiva fare tutti quei chilometri piuttosto che sentirci
online o trovare un sostegno più vicino. Aveva letto la mia pagina Facebook,
e secondo lui io potevo aiutarlo a capire Livia, la donna di cui diceva di
essere perdutamente innamorato.
Molti arrivano nel mio studio in cerca non tanto di una soluzione per sé,
quanto di una formula magica per aggiustare l’altro, e questo pareva il caso
di Carlo, che mi sembrò subito sprovvisto di sponde e punti cardine, come
un albero cresciuto in mezzo al cemento.
Quando arrivai a chiedergli di descrivere la casa in cui viveva, gli oggetti
che amava, come sceglieva quello di cui si circondava, lui, che indossava
abiti firmati, mi disse di dormire su un materasso per terra. Spesso non usava
le lenzuola, teneva il frigo vuoto, mangiava barrette proteiche e albumi al
ritorno dalla palestra. Aveva pochissimi mobili e nessuna pianta.
Risultava un bell’uomo: anche se non tanto alto, aveva un suo portamento,
con una folta criniera di riccioli neri, era educato, elegante, corretto, e per
vari incontri adottò quella che in psicologia si chiama compliance, la
collaborazione. Ben disposto e diligente, nonostante la distanza geografica
non saltava un colloquio e impiegava tutto il tempo a descrivere per filo e
per segno quanto fosse crudele la donna che diceva di amare, che lo rifiutava
e non accettava di convivere con lui. La sua affabilità aveva qualcosa di
stucchevole, artificiale, costruito, e sotto la sua pelle avevo riconosciuto un
copione: dietro quel fare incantevole e charmant, Carlo nascondeva ben
altro, si presentava sotto mentite spoglie. L’eroe senza macchia e senza paura
aveva un sottocute infestato dall’insicurezza e tanta rabbia verso le donne.
Con il procedere del percorso, mi raccontò di portare avanti in
contemporanea varie relazioni, mostrandomi il telefono come un trofeo,
indicando un elenco infinito di nomi femminili con cui chattava, anche
mentre era alla guida, nelle due ore che impiegava per raggiungere il mio
studio.
Pronunciava il nome di quelle donne con una nota di disprezzo, come se
fossero oggetti da collezionare. Il suo attaccamento a Livia sembrava essere
soltanto una sfida verso l’unica donna che non cadeva adorante ai suoi piedi.
Forse Livia aveva capito e ne aveva paura. Gli chiesi se lei fosse al corrente
delle sue tante altre storie e mi rispose: «Certo che no». Alla mia domanda
su cosa lo autorizzasse a comportarsi così con quelle donne ignare di cosa lui
in realtà facesse, scoppiò in una risata beffarda che si trasformò in un
ghigno: «Io posso», disse. «Molte sanno che sono un cane sciolto, sono loro
che mi cercano e insistono», aggiunse poi.
Carlo sembrava avere una pelle spessa. Con questo tipo di persona occorre
essere molto cauti nel portare alla luce ciò che non è abbagliante: avendo
come copertura della propria vergogna un’idea grandiosa di sé, di fronte a un
possibile sfregio la persona non reggerebbe, perché si riattiverebbe lo stesso
trauma primario dell’umiliazione che l’ha portata a sviluppare quel tipo di
corazza difensiva fatta di cinismo.
Durante un colloquio, Carlo mi raccontò di scrivere numerose lettere a
Livia, che lasciava nella cassetta della posta, portandole a mano. Altre volte
la aspettava con delle rose rosse nell’atrio dell’edificio in cui lavoravano.
Faceva di tutto per conquistarla, ma lei sfuggiva e reagiva in maniera brusca
e scostante. Alla mia domanda sul perché non riuscisse a fare a meno di lei,
lui mi guardò con gli occhi vuoti, senza trovare dentro di sé una risposta. Per
lui, Livia altro non era che un lago in cui specchiarsi e, proprio come a
Narciso, a Carlo non importava nulla del lago. Ciò che lo spingeva ad
accanirsi era il rifiuto di Livia, che forse avvertiva tutto il mondo sotterraneo
di Carlo. Giunse perfino al punto di coinvolgere le amiche di lei: le seduceva
e diventava il loro amante, confidando loro tutto ciò che lo addolorava in
Livia. Queste donne arrivarono a una a una a colludere con lui, sperando in
cuor loro di diventare la preferita del re.
Più Livia si negava, più Carlo precipitava nella sua furia, e mi confessò di
essere andato sotto casa sua a suonare mille volte il campanello, come fanno
molte persone che non accettano di essere lasciate. Lei non lo aveva fatto
entrare, ma era scesa a vedere cosa volesse. Una volta che l’aveva avuta di
fronte, avevano discusso e lui le aveva dato uno spintone, insultandola più
volte. Livia aveva reagito e aveva urlato, i vicini di casa si erano affacciati.
Carlo si era spaventato di se stesso.
Gli consigliai allora di rivolgersi anche a uno sportello per uomini
maltrattanti che aveva appena aperto nella sua città e continuammo i nostri
colloqui di sostegno, stabilendo strategie molto precise sulla gestione della
sua impulsività. Il nostro percorso fu affiancato anche da un medico
psichiatra psicoterapeuta che Carlo vedeva con cadenza regolare, dopo che
avuto anche episodi di insonnia e agitazione. Carlo si prese cura di sé,
aiutato da più figure di riferimento. Quando iniziò a stare meglio, andammo
a scavare nella sua memoria alla ricerca dell’origine di quella frustrazione
che non sapeva incanalare in maniera produttiva.
Esplosioni di rabbia non si erano mai più ripetute, ma Carlo continuava a
collezionare donne, alle quali confessava perfino di avere altre storie,
vantandosene. Loro restavano imprigionate nella sua rete, infelici e
bisognose, mentre lui lo era altrettanto senza saperlo, nonostante fosse così
sprezzante. Arrivò a dirmi che con una certa Nadia aveva fatto sesso «come
gesto di carità». Sessualizzava la propria ira e la riversava dentro quelle
donne possedute carnalmente con rabbia, soddisfatto di collezionarle, come
se fosse un serpente incantatore.
Soltanto dopo molti colloqui riuscimmo a contattare dentro di lui il dolore
per quella madre persa così presto. Lui l’aveva amata, ma non si era sentito
ricambiato. Pensando di fargli del bene, poco prima di morire lei gli aveva
detto di essere dispiaciuta di non averlo mai voluto, che era nato per sbaglio,
e gli aveva chiesto scusa per aver accudito di più sua sorella Claudia, dal
carattere più facile. Quella confessione in buona fede sul letto di morte
aveva dato conferma a quanto Carlo temeva da una vita: l’amore negato, e il
non essere stato il prediletto della madre. E questo dolore veniva ora
tramutato nella strage di conquiste e nell’odio mascherato da amore per
Livia, che avvertiva tutto questo mondo irrisolto dentro di lui e, forse non
fidandosi, si negava.
Il percorso proseguì affrontando il tema paterno: Carlo trasferiva su Livia
l’umiliazione e il disprezzo che avvertiva dal padre, cercando di umiliarla a
sua volta, appostandosi per litigare, accusarla. Perché facilmente faremo a
nostra volta ciò che ci hanno fatto, anche a chi ci tende una mano.
Così fanno molti uomini: di fronte a un no, non riescono a reggere
l’affronto del rifiuto. È bene ricordare che la frustrazione non è amore, ma
impotenza, insicurezza, senso di profondo vuoto interiore che chi porta
questa ferita cerca di nascondere in tutti i modi.
Grazie al lavoro fatto sulle emozioni, andando dentro il dolore antico di
non essere stato gradito ai genitori, Carlo contattò quella disperazione che
nascondeva dentro di sé, dietro alla facciata abbagliante. Ci fu un incontro
che segnò il nostro punto di svolta: immaginando di parlare con il padre, gli
disse quanto dolore aveva provato una volta che aveva ricevuto numerose
cinghiate per un mancato bel voto a scuola. E scoppiò a piangere, per la
prima volta dopo mesi che ci incontravamo. Da lì a poco venne a mancare
anche suo padre, ma Carlo non dimostrò afflizione o dolore. Sembrava quasi
contento adesso che, eccetto per la sorella che sentiva di rado, era solo al
mondo.
Frequentando il centro di sostegno per uomini maltrattanti, Carlo aveva
imparato a non aggredire più se si sentiva frustrato. Nei nostri colloqui fu
chiaro che aveva interiorizzato le modalità aggressive del padre e quelle
umiliate della madre. Avendole entrambe in sé, proiettava le sue parti ferite
su Livia, aggredendole in lei.
Finalmente lasciò perdere l’accanimento con Livia e si fidanzò con
un’altra ragazza. Mi disse che tuttavia continuava ad avere alcune relazioni
sporadiche clandestine, molte meno.
Anche se aveva imparato a gestire i suoi impeti di grandiosità e la sua sete
di conquista, non riuscimmo a terminare il nostro percorso. Mentre era alla
guida, Carlo fece un frontale con un’auto proveniente in senso opposto,
morendo sul colpo. Si suppone stesse scambiando messaggi con una donna
che non era la compagna.
Passarono alcuni mesi e sua sorella Claudia mi contattò, aveva il mio
numero e mi seguiva sui social. Carlo le aveva parlato di un percorso
psicologico che stava facendo, e avrebbe voluto fare un colloquio insieme
con la sorella per parlare dell’eredità su cui non riuscivano ad accordarsi.
Claudia venne da me per una consultazione, e mi pregò di raccontare la
loro storia sul blog che allora tenevo sulla dipendenza affettiva, sapendo che
talvolta pubblicavo, in forma anonima, lettere e storie che i lettori mi
inviavano. «Le donne devono ricordarsi che ci sono uomini come mio
fratello, a cui non basta una sola fidanzata. Sa quante ragazze mi hanno
chiamata per avere sue notizie? O mi contattano sui social chiedendo di lui?
Lo dica, dottoressa, di non stare in una storia condominiale come quelle che
creava lui, piene di gente. Forse se non avesse avuto tutte quelle donne a cui
scrivere sarebbe ancora qui. Lo dica, per favore.»
Lo faccio ora, qui.
10
Incontri

CHE cosa succede quindi se ci si imbatte in situazioni più o meno dolorose


come sopra descritto?
Talvolta inciampare in una relazione avvelenata diventa così pervasivo,
invalidante e pericoloso al punto da impedire alla persona di svolgere la
propria vita.
Nel mio lavoro di psicologa delle relazioni accolgo con rispetto la
sofferenza e le storie dolorose. E una volta compresa la dinamica, invito chi
ho di fronte a spostarsi da una postura vittimistica, dato che questo non aiuta
a prendere in mano la propria esistenza. Perché se è accertato che esistano le
vittime conclamate di truffatori affettivi, altra cosa è permanere in un
immobilismo accusatorio e lamentoso. Se poi questo accade, c’è un
vantaggio nascosto: il motivo è forse intuibile, ma lo analizzeremo meglio in
seguito. Di fatto, molto spesso ricerchiamo un lasciapassare che ci legittimi a
lagnarci con l’autorizzazione ufficiale.
La dinamica narcisisticodipendente è caratterizzata da un’affettività
intensa e passionale. All’inizio c’è sempre una tempesta, contraddistinta da
un bombardamento di aspetti positivi: seduzione, adulazione, interessi, elogi,
trasporto, slancio, entusiasmo. Poi però tutto diventa lugubre, compaiono da
entrambe le parti recriminazioni, colpevolizzazioni, senso di inadeguatezza,
svalutazione, angoscia e negazione.
Ciò che resta immutato è la tempesta.
Se intendiamo gli affetti come energie pulsionali, come ho detto in
precedenza, restano tali siano essi negativi o positivi. Eros e Thanatos, come
dicevamo, volteggiano e si fondono, diventando spesso irriconoscibili.
Correnti affettive ascensionali e discendenti si alternano, creando l’effetto
montagne russe. E da questo si diventa dipendenti, tanto da non riuscire più
a funzionare in una relazione senza fughe, rifiuti, abbandoni e ritorni, poiché
può risultare piatta e noiosa.
Ben presto la persona più bisognosa sente di essere «cosificata»,
diventando un oggetto preso e abbandonato a piacimento dall’altro, e questo
le crea un’enorme sofferenza. Tuttavia, è complice della situazione, essendo
in preda al mantra: «Tutto, ma tienimi con te». Come un analfabeta emotivo,
il dipendente affettivo è cieco da un occhio e non vede in prospettiva; il suo
sguardo finisce con l’assomigliare a quello miope di Narci, che ha gli occhi
rivolti a sé. Tutti e due annegano in un bisogno: uno di affetto, l’altro di
applausi, entrambi di conferme.
Dal canto suo, il dipendente affettivo continua a concedersi a chi non lo
terrà, riproducendo così la propria mappa interiore fatta di solitudine e
assenza dell’altro. Paradossalmente, questo lo farà sentire al sicuro,
risparmiandolo dal cambiamento, lasciandolo intatto e annodato alla
ripetizione del suo copione originario.
Il dipendente pare avere la sensibilità di cui il Narci è privo, ma entrambi
albergano un’estrema fragilità, che così bene il Narci nasconde a se stesso,
ostentando spesso una sicurezza che pare mancare al dipendente.
Oltre al bisogno, le vicende tra narcisista e dipendente implicano
vergogna, colpa e invidia, che è una componente importante in questo tipo di
relazioni.
Secondo uno schema psicodinamico che voglio semplificare, il Narci
proietta sull’altro le proprie parti che considera deboli e di cui si vergogna,
in modo da poterle denigrare e aggredire all’esterno. Dal canto suo, il
dipendente prova molta rabbia per il Narci, che ai suoi occhi pare vivere
benissimo senza la sua vicinanza.
L’uno invidia l’altro per qualcosa.
E ben presto compare pure una forte gelosia. Chi è più geloso, è il più
insicuro della relazione.
Ascoltando a lungo centinaia di storie, ho potuto riflettere sulla differenza
tra invidia e gelosia, giungendo alla conclusione che si invidia ciò che
pensiamo l’altro abbia in più, mentre si è gelosi di una qualità di cui ci
sentiamo privi.
Detto in altre parole, l’invidia ha a che fare con l’avere o meno qualcosa,
la gelosia riguarda l’essere. La differenza è sottile, ma significativa. Per
esempio: temo che Luca apprezzi Stella perché è più bella, magra, simpatica
di me. Invidio Mario perché ha un coraggio che io non ho. Spesso faccio
notare ai miei pazienti quanta ammirazione nascondono questi due
sentimenti.
Come vedremo nella storia di Nereide, si può invidiare una persona anche
per la vitalità che sentiamo essere morta in noi da molto tempo.

Il patto di infelicità: storia di Nereide


Nereide, quarantatré anni, aveva un negozio di articoli da regalo e viveva in
una grande città, aveva due bambini e un matrimonio vuoto, mi disse. La sua
unione con Marco assomigliava a una cooperativa in cui entrambi gestivano
i figli, suddividendosi i compiti.
La famiglia di origine di Nereide era di un piccolo paese nel Sud, dove lei
tornava ogni estate con i figli. Qui, a una festa in piazza, aveva incontrato
dopo molti anni Dario, un vecchio amore adolescenziale. In breve, aveva
cominciato a frequentarlo quando lui andava al Nord per lavoro, però non
era felice. Viveva un grande senso di colpa verso Marco e i loro figli, ma si
definiva scissa. Proprio come già abbiamo descritto.
Dell’incontro con Dario aveva bisogno come l’aria, come la vita. Lui era
stato chiaro fin dall’inizio: pur accettando incontri saltuari, non era disposto
a lasciare la famiglia.
Nereide era entrata in uno stato di totale anedonia, le mancava il piacere,
incapace di interessarsi o essere gratificata da qualsiasi attività, si definiva
un automa e sentiva di non vivere la propria vita.
Indagando la sua storia, mi raccontò di aver perso un fratellino da piccola.
Lei aveva dieci anni e lui sei; attraversando una strada al ritorno da scuola, i
due si erano accorti di aver lasciato cadere un pupazzo appeso alla cartella.
Nereide aveva chiesto al fratello di tornare indietro a prenderlo, nel
frattempo era arrivata un’auto a velocità sostenuta e lo aveva investito,
uccidendolo sul colpo, sotto i suoi occhi attoniti e impotenti di bambina.
Questo immenso evento traumatico aveva modificato la traiettoria della
vita di ogni componente della sua famiglia: il padre aveva iniziato a bere e la
madre era rimasta sepolta in uno stato depressivo.
Nereide mi confessò che da quel momento aveva smesso di vivere. Si
sentiva invisibile per i genitori, spariti in una sofferenza che la faceva sentire
colpevole, sbagliata, esclusa.
Da adulta, aveva intrapreso una lunga battaglia legale per difendere le
famiglie delle vittime di incidenti stradali non adeguatamente risarcite.
Durante il nostro percorso le chiesi se trovasse qualche nesso fra il trauma
subito in tenera età e la sua evidente dipendenza affettiva da Dario.
Scoprimmo che Nereide aveva scelto di condurre un’esistenza devitalizzata:
aveva fatto un patto emotivo con la sua famiglia, per cui pareva avessero
tutti deciso di rinunciare alla vita per metà, una sorta di compromesso per
restare accanto al fratello. Quell’anestesia sembrava scomparire soltanto in
presenza di Dario.
Nel corso di un colloquio ci fu il punto di svolta, quando Nereide ebbe un
profondo insight: non amava Dario. Voleva essere lui, e assorbirne la vitalità.
Proiettava inconsciamente in Dario la figura del fratello, e si concedeva di
essere vitale solo in sua presenza.
Per molto tempo abbiamo ritualizzato il saluto al fratello, fino a quando
Nereide è riuscita a inchinarsi a un destino crudele di cui era stata testimone.
Lavorando sul senso di colpa per essere rimasta in vita al posto del fratello,
abbiamo anche osservato come avesse interiorizzato l’autista assassino,
uccidendo una parte di sé per tutta la vita. Autoescludendosi, come
punizione, dal godere appieno di un’esistenza gioiosa che si negava.
Preferendo guardare fuori, la vita altrui.
Questo accade nei meandri del nostro inconscio. Introiettiamo parti di
dinamiche esistenziali incontrate nelle fasi di sviluppo, oltre ai genitori,
traduciamo e rappresentiamo dentro di noi figure archetipiche, in questo
caso il carnefice.
Una volta compreso e dipanato il groviglio in cui si era persa, Nereide non
ha più cercato Dario. In seguito si è separata da Marco e, una volta cresciuti i
figli, ha venduto il negozio per diventare guida turistica. Ora ha un
compagno con cui si permette di essere viva.
11
Lo schema della relazione

MOLTI aspetti narcisistici sono diventati riconoscibili grazie a forum di


discussione in cui viene descritto un prototipo di partner truffatore
sentimentale, responsabile di creare enorme sofferenza. Ed è innegabile:
maschio o femmina che sia, lo è sì, per la parte che gli/le compete. Ma l’altra
parte compie un passo di danza, componendo una coppia dannata. E per
eseguire questa danza servono due ballerini.
Comprendere come si dipana l’interazione tra i due serve a riconoscere in
tempo i campanelli d’allarme in chi spesso soccombe in maniera
drammatica, in genere, percentualmente, la donna.
Bisogna dirlo: entrambi i protagonisti di questa storia hanno fame.
In uno dei due partner la ferita narcisistica si manifesta come necessità di
essere adorato, assenza di empatia, incapacità di dare qualcosa in cambio,
mentre nell’altro predomina l’esigenza di vicinanza, di risarcimento e
riconoscimento, di calore e affetto. Questa persona ne ha così tanto bisogno
che spesso finisce con il sottomettersi e umiliarsi, lasciandosi invadere,
ingaggiando una condotta di totale devozione, arrendevolezza e
soggiogamento.
Il dipendente affettivo si lega, insegue e vuole amore da un partner che,
ripetiamo, non sa e non vuole dare, a causa di una storia personale
accidentata. Entrambi soffrono di una distonia affettiva: bisogno spasmodico
e allo stesso tempo terrore di un incontro vero e intimo con l’altro.
Agli occhi del lettore potrà sembrare strano che un male acuto d’amore
non si plachi con l’incontro profondo. Perché sì, è profondo: tutti i miei
pazienti riferiscono che «la chimica, dottoressa, la chimica, mai provato una
cosa così». Tuttavia, benché intenso, il contatto è frammentato e poi uno
fugge, l’altro insegue. La condanna dei due coinvolti nella dinamica è di non
poter restare aperti entrambi allo stesso tempo dicendosi l’un l’altro: «Io ti
vedo, sono qui, ti guardo».
In realtà, tutti e due scappano da quello spazio agognato soltanto a parole
dall’uno, temuto e negato dall’altro. «Rimani», sembra dire uno. «È troppo
per me», ribatte l’altro.
E inizia la danza infernale.
Attenzione: nel moto perpetuo narcisisticodipendente i ruoli possono, a un
certo punto, scambiarsi. La persona bisognosa e rifiutata può diventare
accusatoria, offensiva e rabbiosa per non aver ottenuto l’affetto implorato,
riversando aspettative che vengono di continuo disattese, affogando di
pretese il partner, che in realtà cerca tutt’altro. La parte più narcisista vuole
potere sul partner, desidera un teatro in cui esibirsi e raccogliere
ammirazione. E quando se ne accorge, chi rincorre va su tutte le furie.
Sentendo l’altro fuggire, avvia un duello all’ultimo sangue: si accanisce, non
molla, insiste e persiste fino allo sfinimento, attivando dentro di sé quel
senso di sfida agguerrita che diventa ragione di vita. Non è l’altro ciò per cui
si combatte: si lotta per cancellare l’onta di non essere voluti.
Talvolta si rasenta l’autodistruzione, pur di non darla vinta a «quello».
A questo punto del percorso, faccio una semplice domanda a chi ho di
fronte: «Quindi non chiude? Si accanisce?»
La prima risposta è: «Sono innamorata» (molto spesso si tratta di una
donna).
Faccio una seconda domanda, provocando: «O vuole vincere?»
E, dopo un breve silenzio, la risposta è: «Sì».
Queste storie nulla hanno a che vedere con l’amore: sono invece veri
giochi di potere al massacro. Sono peccati di hybris, un duello egoico.
Quando lo dico durante un colloquio, strabuzzano gli occhi stizziti. «Ma
come, ma che ne sa lei del mio amore?»
Appena sostengo che non si può amare un’altra persona a discapito di noi
stessi, nella stanza cala il silenzio.
Chi cerca un applauso nella relazione non è interessato al bisogno
dell’altro, vuole soltanto specchiarsi, come Narciso che vede solo se stesso,
dunque la persona dipendente resta mendicante di attenzioni, bussando a una
porta che sa già che non si aprirà. E questo è funzionale al suo copione,
ricordate? Come la ninfa Eco del mito greco, il personaggio che rincorre
l’altro è sempre secondario, non inizia mai un movimento autonomo, bensì
agisce sempre di conseguenza. Ad avere il potere nella relazione è colui che
si nega, al timone di una battaglia che a ben osservare perdono entrambi.
Perché qui di amore, ribadiamo, non ce n’è.
Checché si spendano lacrime e parole romantiche dedicate a chi si sottrae,
nemmeno chi dipende c’è.
E questo è uno scoop, in apparenza. Però, nei colloqui con chi soffre di
dipendenza affettiva e ha cominciato a guardare in quel fiume nero che gli
scorre dentro, arriva sempre il momento in cui la persona ammette di non
esserci, con grande onestà.
Perché, di fatto, sono entrambi i partner a non essere disponibili a un
incontro vero e profondo, così ripetono un eterno balletto fatto di rifiuti da
un lato, suppliche e inseguimenti emotivi dall’altro, stringendo un patto
silente di non avvicinarsi mai in contemporanea. Se i ruoli si invertono si ha
una stasi: i due non si riconoscono più e il fuoco della relazione si spegne.
Questo tipo di dinamica si nutre di fiamme, e a mantenere vivo l’incendio è
l’amore prima promesso in qualche modo, soltanto accennato o assaggiato,
poi negato e modificato.
L’amore solo abbozzato ha scopi differenti: la persona con tratti
narcisistici più marcati darà quel tanto che basta per agganciare l’altro e
resterà lì, con intenzione, fino all’arrivo dell’applauso che si è conquistata
usando la seduzione. Poi si sposterà verso altre mete. Il dipendente affettivo,
invece, continuerà a chiedere di più. «Non mi servi più», sembra dire l’uno.
«Non mi basta e ne voglio ancora», risponde l’altro. Comincia così un
braccio di ferro emotivo che assomiglia al gioco «guardie e ladri». È bene
ricordare che entrambi sono portatori di un dubbio su se stessi. Chi ha uno
sfregio narcisistico più profondo lo nasconde meglio. La dinamica fa da
detonatore al perenne dubbio del dipendente affettivo su di sé: Cosa ho che
non va? Se io fossi adeguato, amabile, di valore, allora lui starebbe con me.
Decodificare questo processo di pensiero è un passaggio essenziale nel
percorso, per poi cambiarne la rotta. È fondamentale riuscire a comprendere
che l’altro può sceglierci o meno, ma il nostro valore rimane immutabile.
Spesso mi sento dire: «Che poi, dottoressa, se lui fosse davvero
disponibile, io mica lo vorrei uno così».
«E quindi?» chiedo.
«Mi urta buttare via tutti questi anni. Allora cosa siamo stati insieme a
fare? All’inizio lui non era così. Prima o poi cambierà. Magari sono io che
sbaglio. Mi fa rabbia che con la nuova compagna lui sembri felice. Con le
altre non è così. Perché quando è in buona stiamo bene.» E conclude con una
dichiarazione nichilistica e svalutante: «Perciò, si vede che sono io il
problema».
Si torna sempre qui: al dubbio su di sé. Il dipendente affettivo, se
ricordiamo i suoi primi vagiti, è intrappolato come in un’ipnosi, è convinto
di non meritare amore, si sente incompleto e difettoso, quindi ingaggia una
lotta con l’altro nella speranza di poter aggiustare se stesso. Resta sotto
questo incantesimo, invischiato nella convinzione per cui sarà salvato solo se
l’altro lo vorrà, lo sceglierà, lo amerà. Questo non accade però con un
partner qualsiasi: deve avere determinati requisiti per interpretare quella che
io chiamo la persona X. L’uomo X, per esempio, si presenta con le carte in
regola per svolgere il proprio ruolo, come un portatore di terra promessa, che
è però soltanto un’illusione di quel risarcimento che il deprivato aspetta da
tutta la vita.
L’eterno insoddisfatto (vi ricordate chi è stato ipernutrito?) fa un
ragionamento analogo: Ho sempre avuto quello che volevo, possibile che
non riesca ad avere questo? (Un po’ come la Regina di Cuori di Alice nel
Paese delle meraviglie che grida vendetta.) Chi ha avuto tutto non sa gestire
la frustrazione, non ha sviluppato una muscolatura emotiva sufficiente per
reggere un no, e non si capacita di non poter avere, allo stesso modo di chi
non ha avuto nulla. È un paradosso, ma tant’è.
Riassumendo, è importante tenere presente che il timore della relazione
appartiene a entrambi, i due dannati che si sono incontrati, non per caso. In
maniera inconscia, tutti e due sembrano boicottare il legame affettivo e
instaurano una danza macabra di fuga e suppliche, in un tentativo distorto di
riavvicinamento che talvolta sfocia in una vera folie à deux, in cui odio e
amore si mescolano in un invischiante legame distruttivo. È sufficiente che
chi ha soltanto bisogno di specchiarsi in questa pseudo relazione senta di
perdere potere sull’altro per iniziare a investire di nuovo quel tanto che basta
per riagganciarlo. Ricevuta la conferma di aver recuperato quello che
considera un suddito, sposta di nuovo l’attenzione, lasciando confuso e
smarrito il dipendente, che rimane a tormentarsi per aver perso ancora una
volta le evanescenti grazie dell’altro.

Lo specchio: storia di Giulio e Maria


Giulio e Maria sono due persone che lavorano dietro le quinte del mondo
dello spettacolo. Abituati a fare una vita brillante in una grande città, sono
belli, nel pieno della vita, eleganti e dannati. E nella loro relazione si sono
specchiati reciprocamente, in un gioco infinito, senza saperlo.
Entrambi con un matrimonio lampo alle spalle, mi chiamarono per un
incontro di coppia online e litigarono tutto il tempo, le voci si
sovrapponevano e faticavo a capire le loro narrazioni. Lasciai correre alcuni
minuti perché mi serviva per capire chi sovrastasse di più chi.
Dopo di che, proposi un contratto: se avessero voluto essere seguiti da me,
avrebbero dovuto rispettare alcune regole, altrimenti il nostro colloquio
sarebbe stato interrotto.
Quando conduco colloqui con coppie, è una regola che mi sento di
stabilire, poiché c’è sempre uno che vuole più spazio, più tempo, più
attenzione. Più. E devo essere molto attenta, perché il mio compito è restare
in quello spazio di accoglienza e non parteggiare per uno dei due. Il tempo
da riempire deve essere equo, per permettermi di aiutarli meglio.
Mi raccontarono che erano andati a vivere insieme due settimane dopo il
loro primo incontro e il loro obiettivo era mantenere la relazione sempre
molto intensa in ogni aspetto. Facevano sesso ogni giorno, ma per poterlo
fare in maniera rocambolesca utilizzavano qualche volta cocaina, o alte dosi
di alcol. Amavano travestirsi.
Compresi subito che la loro unione era ad alta tensione; non mi stupivo
del fatto che spesso i giochi di ruolo erano molto spinti, al limite da essere
un pericolo per la loro salute. Quando andavano all’estero, Giulio e Maria
frequentavano locali per scambisti senza interagire, lui godeva del fatto di
esibire Maria, che si prestava a farsi mostrare. Lei, dal canto suo, amava
camminare per la città vestita di tutto punto con a fianco Giulio, il più figo,
diceva.
Ciò che li caratterizzava era questo rispecchiamento reciproco di cui
sembravano nutrirsi, senza tuttavia sentire empatia l’uno per l’altra. Maria
accusava Giulio di non vederla davvero, ma lei faceva lo stesso. Entrambi si
oggettificavano, usandosi a vicenda come lago, ricordando proprio ciò che
faceva Narciso. Maria rimproverava Giulio di non essere generoso e di non
farle regali, e sembrava non accorgersi della propria avarizia sentimentale.
Erano entrambi narcisisticamente avvolti da un copione di rivalsa di sé,
una lotta per il potere. Ognuno voleva dimostrarsi migliore dell’altro.
Dopo pochi colloqui si separarono, non riuscendo a gestire le loro pretese
nella relazione. Nell’ultimo colloquio sottolineai l’importanza per entrambi
di continuare un percorso individuale, dove ognuno intraprendesse un
cammino di consapevolezza, andando dentro a quella ferita narcisistica che
li aveva segnati tanto tempo prima.
Maria non accettava certi aspetti di Giulio e voleva cambiarli; allo stesso
tempo, anche Giulio non vedeva Maria. Tutti e due erano accecati dai propri
bisogni, chiedevano all’altro qualcosa che non erano in grado di dare a se
stessi, e ognuno di loro si riteneva migliore. Si specchiavano l’uno sulla
superficie dell’altro, senza riuscire a scorgere le acque tormentate nel
profondo di sé.
Tuttavia, Maria vedeva se stessa riflessa nella fragilità mascherata di
Giulio, e Giulio vedeva specchiata la sua vulnerabilità in Maria. I due
vivevano recitando un Io idealizzato e grandioso che nascondeva paure e
irrisolti, che si proiettavano entrambi: accusando l’altro negavano se stessi.
Si criticavano a vicenda, ma era il proprio io percepito errato che volevano
aggiustare, senza saperlo.
Non so più nulla di loro, se non che hanno continuato lo stile di vita
appariscente sui rotocalchi, cambiando ripetuti partner, compensando con
una vita patinata un enorme vuoto interiore da esplorare.
Ma c’è speranza che prima o poi quel malessere di non voler andare in
profondità dentro di sé sia sviscerato da un evento scatenante, e da lì ognuno
di loro potrà approfondire le proprie ferite irrisolte ricoperte di luci e lustrini.
12
Passo a due

«Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest, la mia settimana di lavoro e il mio riposo
la domenica, il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; pensavo che l’amore
fosse eterno: e avevo torto.»
W.H. AUDEN, Funeral Blues

LA dinamica narcisisticodipendente segue perciò uno schema preciso, ad


andamento ciclico e riconoscibile che possiamo riassumere così.

L’idillio
Finalmente! L’incontro avviene in genere su una base chimica. Uno dei due
assume le vesti del portatore di una terra promessa dove ci si sente visti,
riconosciuti, amati, desiderati. La fusionalità è una caratteristica frequente; lì
per lì, tutto va bene.

Il crack
Dopo le primissime fasi della relazione (ma poi, lo è davvero?) avviene una
frattura. Può accadere una scena di gelosia improvvisa, un litigio per un
motivo futile, inaspettato: un segnale che viene regolarmente ignorato, per
troppa fame di idillio. Chi in un primo momento sembrava essere il portatore
della terra promessa cambia, all’improvviso. Si evidenzia qui ciò che Freud
definirebbe il perturbante (Das Unheimliche), un’emozione fatta di stupore e
paura, che turba e sconcerta ma è allo stesso tempo così familiare.
È proprio in questa fase che accade la svista: la persona che subisce la
sfuriata non presta la dovuta attenzione al segnale d’allarme, alle red flags.
Forse perché quella sensazione ambivalente e ambigua è così radicata dentro
di lei da ritenerla quasi dovuta e normale. O è una condizione già vissuta e
ripetuta con una persona amata, probabilmente un genitore che ha tolto
all’improvviso lo sguardo ritenuto amorevole, creando così un interrogativo
indelebile: Dove ho sbagliato?
La contrattazione: fammi, dammi, dimmi
Inizia la fase delle richieste, più o meno esplicite, di attenzioni e di modifica
del comportamento. Entrambi vogliono dall’altro qualcosa che non avranno.
Uno vuole di più, l’altro si svincola o impone le sue regole. Chi nega la
relazione, o la sminuisce abbassandone il volume, sembra avere il potere; chi
si dichiara più affamato tentenna, viene a patti, patisce, compiace, si arrende,
soccombe. Parte una catena di pretese, una litania a due voci di «Fammi»,
«Dammi», «Dimmi». Uno dei due dice: «Fammi felice» e l’altro ordina:
«Fammi spazio». Uno supplica: «Dammi attenzioni» e l’altro impone:
«Dammi tempo». Uno implora: «Dimmi che sono importante» e l’altro
esige: «Dimmi che sono Dio».

La discesa agli inferi


Da qui in poi, possono scoppiare vere e proprie guerre. Uno dei due,
affranto, rimane e accetta l’impossibile. Pur cominciando ad avere coscienza
della nocività dei contatti con l’altro, innesca una sequenza fatta di pene
atroci, riconciliazioni, speranze. Il pensiero si fa ossessivo, insorgono
malesseri fisici, non di rado il corpo dà forti segnali di sfinimento: insonnia,
ansia, palpitazioni, perdita o eccesso di appetito. Si diventa sbadati, si
rischiano incidenti, si inizia a trascurare se stessi, non solo la salute, ma
anche gli affetti e il lavoro. L’intera esistenza sembra non funzionare più,
l’unica ragione di vita è l’altro.
Ciò che non si sottolinea di solito nell’analisi di questa dinamica è che si
reclama la presenza dell’altro, alle proprie condizioni, ma entrambi gli attori
in causa non sono presenti a se stessi.

Il fondo dell’abisso
Quando si arriva a toccare il fondo, l’individuo avverte una totale perdita del
sé, vede la propria vita andare a rotoli e a un certo punto ha un’intuizione
improvvisa. Prevale, per fortuna, un istinto di sopravvivenza, e chi è
stremato sente che se non interrompe i contatti andrà in frantumi per sempre.

La rinascita
Arrivati fin qui, la persona che è rimasta a lungo in uno stato emotivo
disordinato trova dentro di sé ciò che spesso io chiamo con i miei pazienti «il
guizzo d’amor proprio» salvifico. È la fase in cui chi vive la dipendenza
affettiva a gravi livelli disfunzionali riesce a compiere un chiaro esame della
realtà e per un attimo si percepisce dall’esterno, si vede. E di conseguenza
vede l’altro e comprende a fondo la dinamica. Smette di colpevolizzarlo
«perché non vuole» e rivolge lo sguardo su se stesso, osservando come di
colpo vari frammenti di sé acquisiscano una forma coerente e integra. Se la
persona segue il percorso psicologico da tempo, spesso pronuncia frasi del
tipo: «Adesso capisco il senso di tutti i colloqui. Ora mi vedo, e vedo l’altro
per quello che è».
Arriva così il colpo di reni della resurrezione e del riscatto, per cui la
propria vita diventa più importante dell’altro.
Non è possibile prevedere i tempi in cui questo copione si compie, quanto
dura ogni fase. So, dopo aver raccolto centinaia di storie simili, che accade.
Le tappe descritte sopra fanno parte del ciclo della dipendenza relazionale.
Si può guarire.
Perché a un certo punto della nostra vita ci è accaduto di ammalarci nei
sentimenti.
13
Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida

COSÌ come si etichettano in modo sbrigativo comportamenti narcisistici,


altrettanto si sta abusando nel definire la dipendenza affettiva, che va distinta
dal disturbo dipendente di personalità. E molto poco si parla invece della
personalità evitante.
La personalità dipendente è classificata al pari del disturbo narcisistico,
così come quello evitante, annoverati tra i disturbi di personalità. E, come
dicevamo, le persone sono caratterizzate da tratti più o meno evidenti in cui
compaiono percentuali più o meno marcate di aspetti ibridi.
Il disturbo dipendente conclamato ha tuttavia caratteristiche più
accentuate e riconoscibili. Chi soffre di una dipendenza affettiva ha un nodo
irrisolto nella relazione, ma sa funzionare negli altri ambiti della vita,
scegliendo un lavoro magari di grande responsabilità. Nel disturbo di
personalità dipendente vero e proprio, la persona ha il terrore di restare sola,
fatica a prendere qualsiasi decisione, vive una costante paura
dell’abbandono, al punto da consegnarsi in toto nelle mani di un altro. Ha
bisogno di approvazione e preferisce delegare ad altri la propria
responsabilità, manca di iniziativa e di autonomia.
Quando la dipendenza è patologica si diventa disfunzionali e incapaci di
agire senza un sostegno continuo e rassicurante. La personalità dipendente
non si ritiene in grado di scegliere, di pensare e pensarsi autonomamente.
Pretende risarcimenti, accudimento, mendica, rincorre, senza mai saper
sostare nello spazio della frustrazione. Di conseguenza le relazioni di chi ha
questo disturbo sono improntate al bisogno, che si trasforma in richiesta
fagocitante, urgenza di essere compensato, guarito, guidato.
Lo ribadiamo: non è necessario avere un disturbo di personalità per avere
una dipendenza affettiva o tratti narcisistici.
Ciò che dobbiamo tenere presente è che in una dipendenza affettiva gli
aspetti masochistici riguardano per lo più le relazioni, in cui c’è la tendenza
a essere abusati e a rimanere intrappolati in dinamiche disfunzionali e
violente, per paura della solitudine, dell’abbandono, oppure per incapacità di
interrompere o funzionare fuori da un rapporto, per quanto traumatico possa
essere. Questo accade perché si riattivano memorie e schemi del passato, e
una sorta di fedeltà che protegge la «tradizione» familiare, come sappiamo.
Chi ha una dipendenza affettiva non ama veramente, ha bisogno dell’altro.
Ma non un bisogno naturale e fisiologico, come tutti gli esseri umani, che
necessitano di un amore sano, scambiato e reciproco, fatto di vicinanza,
calore, affetto, riconoscimenti. Il bisogno dell’adulto dipendente affettivo ha
un che, involontario, di asfissiante. E il paradosso è che la persona ha una
paura terribile di essere amata: spasima e vuole qualcosa che teme, e la sua
condanna è di far in modo di non averlo.
Anche gli evitanti temono l’amore, e li incontro spesso nella mia
professione.
Come abbiamo visto, il dipendente ha avuto un arresto alla fase orale, per
poco o troppo accudimento, e chi manifesta una ferita narcisistica importante
ha sviluppato un profondo senso di vergogna di sé. Chi è evitante ha, invece,
subito la ferita narcisistica del rifiuto, gli è stato negato il diritto di esistere.
Se la ferita del classico dipendente affettivo ruota intorno al nutrimento,
inteso anche in senso simbolico, e quella del tipico Narci attorno alla
vergogna, all’inganno e all’illusione del suo valore speciale, nel caso
dell’evitante abbiamo a che fare con il non essere degno di ricevere nulla. Il
suo trauma è ancora precedente. Molto presto ha perso fiducia nel mondo,
non si è sentito voluto, per varie ragioni. Gli è stato dato il messaggio, o lui
l’ha recepito, che doveva occupare poco spazio, non disturbare. Pertanto, tra
queste tre figure l’evitante è il più sfiduciato: ciò che le accomuna tutte è lo
squarcio sanguinante della lesione narcisistica.
Tuttavia, è il processo difensivo a essere diverso nelle tre tipologie.
Il dipendente mendica e ha almeno la forza per chiedere, anche se a vuoto,
a chi non può dare. Infatti non ha perso la propria sensibilità e riesce a
entrare in empatia con gli altri. Il narcisista al contrario non è empatico, ma
pretende ed estorce, chiede al mondo di ammirarlo e rimandargli
un’immagine di sé valorosa, per coprire il suo enorme senso di vuoto
interiore. L’evitante si sottrae a un potenziale abbraccio, non può permettersi
di fidarsi, tanto meno di chiedere, perché è meglio non rischiare. Ha sensori
molto ricettivi e si ritrae, vive la relazione come un pericolo. Probabilmente,
oltre che sentirsi rifiutato o poco gradito, è stato fagocitato e invaso nei
propri confini. Perciò ha perso la fiducia e indossa la cappa protettiva
dell’anaffettività: il rapporto con l’altro è minaccia, rischio, insidia,
sottrazione.
L’evitante non accetta caramelle dagli sconosciuti, e finisce con il rifiutare
anche le carezze di chi gli dimostra affetto. Talvolta si comporta come un
animale ferito che morde la mano che lo nutre. Non si autorizza all’incontro;
anche se apre uno spiraglio nella propria barriera difensiva, subito dopo lo
sigilla, lasciando chi è lì con la sensazione di essere chiuso fuori dalla porta.
Molto spesso le pazienti riferiscono di un uomo passionale nel rapporto
sessuale e glaciale subito dopo: l’evitante è attratto dall’affettività acuta del
dipendente, però allo stesso tempo ne è spaventato. Vive una sorta di
nostalgia di un utero che prima l’ha accolto, ma forse l’ha anche inghiottito o
l’ha espulso con freddezza trattandolo come un corpo estraneo. Questa è la
sua personale percezione, non è detto che le cose siano davvero andate così,
ma la ferita la sente chi ce l’ha e non chi, anche senza volere, la infligge.
Come partner, pertanto, l’evitante apparirà sfumato e nebbioso, poco
espansivo, diffidente, erogatore di briciole, come ben descrive la
psicoterapeuta Umberta Telfener.
Nel tempo risulta un abbattitore emotivo, abbassa costantemente il volume
della relazione, si pone in maniera sfuggente ed è molto avaro di sé.
Al contrario del dipendente affettivo, che non vede l’ora di creare un
contatto e si racconta con generosità, chi è evitante temo non si concederà
nemmeno a chi chiede aiuto: probabile che arrivi chiuso a chiave dentro di
sé. Potrà apparire cordiale, formale, corretto e silenzioso, ma rimane
inaccessibile. Ci vogliono molta pazienza, accoglienza e calore affinché
possa fidarsi e aprirsi. Di fronte a questo tipo di persone, il rischio di
riattivare in loro il trauma del rifiuto è alto, perciò cerco di osservare ogni
dettaglio e di essere esplicita in ogni pensiero, non lasciando nulla di
sottinteso, poiché un evitante ti mette alla prova per confermare l’idea che ha
di sé. Avendo letto il mondo attraverso la ferita della sfiducia, cercherà di
scovare tracce di inganno e rifiuto in ogni contesto.
Non di rado il paziente evitante maschio riferisce di avere problemi a
lasciarsi andare durante il rapporto sessuale: soffre di eiaculazione ritardata o
non si autorizza a provare un orgasmo. In una coppia, etero o omosessuale
che sia, l’evitante ha paura di abbandonarsi tra le braccia dell’altro, non può
permettersi di ricevere, esercita un autocontrollo estremo e si dedica con
devozione al piacere altrui, finendo con il restare vigile ed emotivamente
distante. All’inizio il partner scambia questa dedizione per altruismo,
apprezzando le premure, le attenzioni e la delicatezza. Con l’andare del
tempo, però, nella coppia questo diventa un problema, poiché l’altro avrà la
sensazione costante di vivere una relazione da solo, a senso unico, senza
scambio emotivo.
A proposito del cercare l’amore dove non sgorga, a conferma di antichi
schemi, non di rado vediamo dipendenti tentare di legarsi a personalità
evitanti, o comunque a persone con forti tratti tipici dell’evitamento della
vicinanza all’altro.
La tipologia evitante fa molto meno clamore del più famoso Narci, ma
causa parecchi danni al dipendente affettivo. Per intenderci, chi ha come stile
relazionale l’evitamento porta con sé un messaggio implicito: stai lontano.
Pare indossare un cartello invisibile: «Vorrei avvicinarmi, ma non sono
sempre disponibile, anzi quasi mai».
Nulla attiva un dipendente più di un messaggio ambivalente: come una
calamita, ciò che lo attrae è una miscellanea di emozioni contrastanti. Il
muro emotivo di anaffettività che un evitante erge innesca una sorta di sfida
– ancora il peccato di hybris – nella psiche di chi dipende dall’altro,
mettendolo in contatto con emozioni antiche; intravede una speranza di
relazione perché percepisce schegge affettive dietro quella coltre difensiva, e
desidera infrangerla. Dal canto suo, chi ha una modalità evitante sente l’altro
come intrusivo, le sue richieste lo spaventano perché lo mettono in contatto
con un bisogno che lui stesso nega e non vuole ascoltare. Non se lo può
permettere o non è in grado di affrontarlo.
Perché il dipendente cerca di oltrepassare la barriera emotiva dell’evitante
e lo fa con tanta caparbietà? Perché stavolta spera di ottenere un risarcimento
di ciò che non ha ricevuto, o ricevuto male. E lo va a cercare nel deserto? Eh
sì, perché lì, proprio lì si attiva il senso di riscatto. È come cercare un’oasi
fertile nella siccità, è ancora più allettante.
Ora, possiamo immaginare quanto dolore provochi qualcuno che si
rinchiude in silenzi oppositivi e sparizioni punitive, che accenna affetto e poi
lo toglie a chi cerca vicinanza e accudimento e pare non esserne mai sazio.
Eppure, il dipendente è disposto a subire abusi emotivi pur di mantenere in
vita l’illusione della relazione, rimettendo in scena gli stessi schemi già
vissuti, anche se dolorosi e traumatizzanti. Nonostante cerchi humus, otterrà
la stessa aridità in cui è cresciuto. Confermando così l’idea che ha di sé.
Pertanto, riassumendo, potremmo schematizzare gli aspetti che
identificano la coppia disfunzionale caratterizzata da dipendenza affettiva ed
evitamento.

La proiezione
È bene ricordare che spesso in una coppia disfunzionale entrambi i partner
proiettano sull’altro la figura genitoriale. Il dipendente cerca le attenzioni del
fuggitivo, percepito come un dio, potente e indispensabile. Chi scappa teme
il bisognoso e vede nel partner un genitore dolce ma fagocitante da cui
salvarsi.

La ferita narcisistica
Ciò che non si dice con chiarezza è che nella coppia disfunzionale
implorante/evitante, in genere, entrambi i partner hanno un’importante ferita.
Come abbiamo visto, o per l’assenza di uno o entrambi i genitori, o per la
presenza distruttiva, invadente, castrante. Perciò, chi sviluppa una
personalità evitante, ad alto tasso di narcisismo occulto, è attratto dall’altro
in quanto erogatore di morbidezza, tuttavia si concede di riceverla solo a
piccole dosi, mentre chi ha una dipendenza affettiva vuole l’amore non
ricevuto, o ricevuto male, a tutti i costi e non gli basta mai. Il primo desidera
un momento di vicinanza ma poi fugge, terrorizzato da un calore che lo attira
ma allo stesso tempo lo destabilizza, il dipendente si incolla, o ricerca la
fusione. Finendo così con il ritrovarsi solo e rigettato per il suo troppo
richiedere.

L’impotenza
Chi è molto ferito non tollera la frustrazione e l’impotenza. Di fronte al no
dell’altro, il dipendente mendica, si lamenta, chiede e pretende, mentre colui
che si nega adotta il silenzio punitivo, nel caso dell’evitante passivo-
aggressivo. Da questo suo sottrarsi alla relazione deriva un senso di potere
che lo fa sentire al sicuro, mentre il dipendente affettivo, impotente, si
dispera.

L’abbandono
Il dipendente affettivo non si percepisce come persona intera, integra, ma
concepisce se stesso solo in funzione di un altro, dal quale vuole essere
salvato. Al pensiero di perdere questa stampella, illusoria, a cui si aggrappa,
si sente morire.
Anche Narciso non tollera l’abbandono. Attenzione: non perché tenga al
partner, ma perché perde un componente del proprio pubblico, che deve
essere vasto, adorante, benevolo e devoto. In pratica, perde un follower.
Perciò, abbandona prima che lo faccia l’altro. E va alla ricerca del
successivo like per rimpiazzare.
Incredibile a dirsi, pure il fuggitivo narcisista evitante ha estremo bisogno
dell’altro. A differenza del mitico Narciso, che si specchia nel partner come
in un lago per brillare e nutrire la propria necessità di sentirsi invincibile e
grandioso, il Narci burbero e schivo usa l’altro per vendicarsi. Essendosi
sentito rifiutato, si nega al mondo, che punisce per rivalsa.

La fusionalità
Il dipendente ricerca in maniera spasmodica il senso di fusione e di
completamento che percepisce solo attraverso l’altro. L’evitante rifugge
questo stato, da cui teme di essere inghiottito.
Spesso i ruoli possono essere cangianti e interscambiabili: accade così che
chi insegue abbia un’improvvisa paura della vicinanza e chi viene inseguito
senta la mancanza del mendicante a cui negarsi ripetutamente. E la lotta
continua.
14
Hybris

«Ti telefono o no, ti telefono o no


Io non cedo per prima
Mi telefoni o no, mi telefoni o no
Chissà chi vincerà.»
GIANNA NANNINI, Fotoromanza

«All’alba vincerò.»
GIACOMO PUCCINI, Turandot

TUTTE le opere liriche sono state tramandate come storie d’amore, quando non
lo sono affatto.
Nell’opera di Giacomo Puccini, la principessa Turandot aveva giurato che
non si sarebbe mai fatta possedere da un uomo, onorando la memoria di
un’antenata che era stata violentata quando la sua terra era finita in mano ai
tartari. Per impedire di essere avvicinata, formula tre enigmi che vari
pretendenti non riusciranno a risolvere, finendo poi decapitati. Calaf, il
principe tartaro spodestato e animato da un senso di rivalsa, vuole
conquistare la principessa di ghiaccio; una volta vista la bellezza di
Turandot, però, rimane folgorato ed entra in una sorta di delirio che gli fa
sfidare la sorte pur di averla in sposa. Si presenta dunque come il principe
ignoto e risolve tutti gli enigmi. Turandot supplica il padre di non
consegnarla a Calaf, ma non trova ascolto, allora avverte il principe che avrà
solo una sposa piena di rancore. Lui però non molla e rilancia: se Turandot
scoprirà il suo nome prima dell’alba, lui sacrificherà la propria vita per lei.
«All’alba vincerò» rappresenta proprio il senso di sfida di Calaf. E dunque
non ha nulla a che vedere con l’amore. Turandot usa ogni mezzo per scoprire
il nome e non ci riesce, ma prima dell’alba Calaf glielo rivela, in pratica
sottomettendosi, rinunciando alla vittoria e lasciando la propria vita nelle
mani della principessa. Dinanzi a questa prova di «amore» Turandot cede e i
due si sposano felici e contenti.
Mi sembra che questa storia, così nota, possa servirci per comprendere il
concetto di sfida che sembra attivarsi in una dinamica relazionale.
Mara Selvini Palazzoli, una delle prime terapeute della famiglia in Italia
negli anni Ottanta, definì hybris l’atteggiamento di tracotanza e accanimento
che sembra animare chi soffre di alcune patologie.
Vale anche per lo scenario delle relazioni disfunzionali: ciascun membro
della coppia, mosso da un profondo desiderio di riscatto, irretito in una cieca
illusione, sembra scegliere un partner difficile, la persona X come dicevamo,
perché gli permette di attuare la sfida. Non è quindi una pulsione
sadomasochistica ad animare questo tipo di rapporto, quanto il miraggio di
vincere contro l’altro e aggiustare così qualcosa di antico e irrisolto.
Osservando molte di queste dinamiche, ho riscontrato che ciò contro cui si
vuole vincere appartiene profondamente a sé. Torna qui il tema dello
specchio, così complesso da vedere e comprendere.
Facciamo un esempio: Matteo ed Elisa stanno insieme. Lei si sente poco
considerata e inizia a soffrirne molto; in una relazione sufficientemente sana,
valuterebbe se il partner corrisponde alla propria scala di valori, se è
abbastanza appagata dall’altro e se è lì che vuole restare. In caso di una
situazione poco idonea, scomoda e non ricambiata, la persona risolta, in
grado di soddisfare i propri bisogni, lascia il partner e cerca ciò che la
appaga. Nel frattempo, pur dispiaciuta, sa starsene con sé, godendosi le
proprie risorse.
Quando si attiva la hybris, invece, scatta un’urgenza di ottenere a tutti i
costi quello che si vuole. E meno lo si riceve, più la hybris aumenta. Così,
Elisa lotterà con tutte le forze per cambiare Matteo. Quello che forse Elisa
non vede è che ciò che lei vuole modificare nell’altro è un aspetto di se
stessa riflesso in lui. Pertanto, il suo accanimento porta ad alcune domande
che è utile porci in ogni faida relazionale.
Quello che chiedo, do? Davvero? Lo do perché mi viene naturale, o per
ricevere in cambio ciò che voglio?
Passaggio successivo: sono in grado di dare a me stesso ciò che vorrei
dall’altro? In caso di risposta negativa, la rabbia e il furore che provo
nascono dal fatto che in fondo è me stesso che voglio modificare? È perché
vedo specchiato nel partner qualcosa che in qualche modo mi appartiene?
Forse avverto come disfunzionale la mia incapacità di entrare in intimità che
vedo nell’altra persona, e la mancata abilità di restare intero e integro nella
relazione?
Riassumendo: avverto in maniera non chiara qualcosa in me che non mi
piace. Chiedo a te di aggiustarmi, ma mi rimandi lo stesso errore, che io
detesto. Allora me la prendo con te.
Lotto con te perché voglio aver ragione di me. E tu finirai con il fare
altrettanto.
Le posizioni sono speculari: ognuno vorrebbe sentire di avere lo scettro
del comando nella relazione. È brama di potere, è una tenzone egoica, non è
amore.
Il termine hybris è quindi qui rivisitato e usato per definire la lotta che
s’instaura tra i due amanti, uno dipendente e uno evitante, anche a forte
impronta narcisistica. La coppia invischiata in questa battaglia per la
supremazia sull’altro appare pertanto incapace di una comunicazione
autentica e innesca una guerriglia assurda, infinita, atavica. Ognuno vuole
prevalere, affermarsi, pena la sensazione che se non si vince c’è il rischio di
non esistere. Entrambi sono pertanto intrappolati in un legame fortissimo e
ambiguo, dove ciascuno è cieco e sordo ai bisogni dell’altro.
Hybris è ciò che spinge chi si sente più vulnerabile a subire in nome di un
futuro risarcimento, vissuto come rivincita. Perciò, chi attua questa sfida si
aspetta sostegno incondizionato anche dallo psicologo, non sa rispettare i
confini e facilmente si lascia invadere per paura di essere abbandonato,
rifiutato, escluso. Chi pecca di hybris si sente perdente e questo gli provoca
un profondo senso di frustrazione. Sembra pervaso da una nostalgia
indefinita, sebbene sia intrappolato nell’ostinazione, prova rabbia per la
propria imperfezione, si percepisce inferiore rispetto all’altro, ritenuto un
dio. Sa di avere già perso in partenza, ma non vuole lo stesso abbandonare la
speranza di riuscire ad acquistare quell’autonomia emotiva che tanto
desidera. Il sentimento di hybris rimane acceso e diventa motore stesso della
relazione, prendendo il posto dell’amore.
Giunti a questo punto, abbiamo guardato al microscopio ciò che si
nasconde tra le pieghe di una dinamica imperniata attorno a una dipendenza
affettiva, partendo da manifestazioni più significative con picchi estremi di
gravità per arrivare a diverse tonalità in cui tutti noi possiamo specchiarci in
gradi diversi di intensità.
Mi piace sottolineare ancora che l’approfondimento che stiamo qui
facendo per indagare queste modalità affettive non è mirato a individuare
colpevoli e fare processi, ma a cercare le radici da cui partono le nostre
terminazioni emotive.
Per provare a individuare le vostre, vi rimando alla Scheda di lavoro n. 2,
«Che coppia sei?» (vedi p. 233).
15
Love addiction, poisoned love

«Che hai, che abbiamo,


che ci accade?
Ahi il nostro amore
è una corda dura
che ci lega ferendoci
e se vogliamo
uscire dalla nostra ferita,
separarci,
ci stringe un nuovo nodo e ci condanna
a dissanguarci e a bruciarci insieme.»
PABLO NERUDA, L’amore

La proiezione: storia di Anna


Anna ha poco più di quarant’anni e incontra Giacomo, cinquantenne, sul
lavoro. Precisamente alla macchinetta del caffè. Entrambi sposati e con figli,
iniziano a guardarsi con intensità, a raccontarsi. Presto Anna scopre che
Giacomo ha un’amante da oltre quindici anni, Teresa, a sua volta sposata,
ma Giacomo non lascia la moglie perché, dice, vuole aspettare la maggiore
età dei figli. Nonostante Anna sappia di Teresa, tra i due nasce una passione
travolgente; Anna è la prima volta che tradisce.
Giacomo comincia a frequentare sia Anna sia Teresa durante la pausa
pranzo, rifiutandosi di chiudere con la sua «seconda sposa», come la chiama.
E rincasa puntuale ogni sera dalla moglie, dando all’esterno l’immagine del
marito intellettuale, posato, pantofolaio e perfetto.
Quando Anna arrivò in studio da me appariva una donna spenta,
tormentata, gli occhi enormi pieni di lacrime. Non mangiava e non dormiva
da giorni, si ossessionava al pensiero che Giacomo non licenziasse la prima
amante e la scegliesse come unica. Non era gelosa della moglie ma
dell’amante numero uno.
Tutti i partecipanti a questo carosello affollato, una storia a sei, non
avevano la minima intenzione di lasciare i rispettivi coniugi, ma preferivano
mantenere la propria sicurezza e vivere una sessualità e un’affettività
parzializzate all’esterno.
Mi colpì la caratteristica di questo patchwork relazionale: tre persone e
altrettanti partner, e nessuna poteva restare in piedi da sola, a tutte sembrava
mancare una gamba.
Anna è venuta da me per molto tempo. Viveva momenti di enorme
disperazione: il suo accanimento per Giacomo non aveva nulla a che fare
con l’amore, ma lei non lo sapeva. Era come posseduta, aveva proiettato
sull’amante la figura di un padre fuggitivo ed evanescente, così
rappresentato dentro di sé. Il dolore per non sentirsi scelta da Giacomo le
riacutizzava la ferita pregressa causata da un padre assente, intermittente,
altrove.
Proprio quell’altrove la attirava e la condannava a restare ai piedi di
Giacomo, a volte elemosinante e altre castrante e feroce, offensiva, rabbiosa,
delirante.
«Perché non mi vuole?» era il suo leitmotiv.
Quando le facevo notare che nemmeno lei era libera e disponibile,
trasaliva, trasognata.
Sembrava vivere sotto un incantesimo doloroso, in cui attuava il suo
rituale perenne. Lo implorava di vederla, lui si faceva pregare, ma poi
accondiscendeva, si creava un’escalation emotiva fatta di desiderio misto a
disperazione. Dopo aver divorato quel pasto di miele e fiele, Giacomo
spariva per settimane.
Lei si struggeva, lottava, lo insultava con messaggi chilometrici in cui
costruiva vere e proprie arringhe.
Teresa era la donna fissa del giovedì. E Anna odiava i giovedì. Correva in
studio da me in preda all’angoscia e ripeteva a se stessa: «Basta, basta». Poi
tornava a inseguirlo, farneticante. Lui la cercava di rado, fuggiva, faceva
senza. Lei invece nutriva per lui un attaccamento morboso e furioso, che
assomigliava più alla vendetta che all’amore. Sembrava volerlo tutto per sé
non per fargli del bene, ma per divorarlo, distruggerlo, punirlo. Sognava che
lui andasse a pregarla in ginocchio, per rifiutarlo trionfante.
Per farlo era disposta a tutto. Si ammalò di psoriasi, e durante le notti
insonni progettava piani contro Teresa. Arrivò a spedire lettere anonime alla
moglie di Giacomo, a fare telefonate mute a Teresa per sentire il tono della
sua voce; mi diceva che voleva capire se fosse felice. Cullava fantasie in cui
la sua rivale si ammalava e moriva, così finalmente Giacomo avrebbe scelto
lei. Invece, a macerarsi nella rabbia e nel dolore era sempre e soltanto Anna.
Non era però una persona ai margini: continuava a lavorare in maniera
brillante, faceva carriera, i figli crescevano, ma lei abitava all’inferno dentro
di sé.
Viveva una perenne tortura, inseguiva Giacomo, annusava l’aria per
scoprire se avesse il profumo di Teresa addosso, che aveva imparato a
riconoscere con maestria.
Mi raccontò di averlo osservato un pomeriggio in ufficio, e dalla camicia
le era sembrato che avesse appena avuto un incontro con Teresa nel
parcheggio: avrebbe giurato che al mattino i bottoni fossero allacciati in un
modo, mentre dopo pranzo risultavano in maniera asimmetrica e la camicia
era in disordine, si era ripresentato al lavoro scompigliato, come se si fosse
rivestito in fretta dopo un rapporto fugace. Spiava ogni indizio e aveva sotto
gli occhi la prova che lui preferiva Teresa, alla quale erano concessi
appuntamenti regolari e giorni fissi.
Teresa lavorava nel loro stesso edificio ed era ignara del dramma atroce
che la sola sua esistenza suscitava. Anna talvolta la incontrava, la scrutava
senza essere vista, voleva assorbirla, diventare lei, sebbene fosse, ai suoi
occhi, bruttina, di bassa statura e portasse tacchi assurdi, sempre a detta di
Anna. In più la descriveva con il naso adunco, la faccia deturpata da
fumatrice, miope, insignificante. Ma era lei la favorita del «re».
Un giorno, provando a smuovere i suoi fantasmi sotterranei, le chiesi se la
sua relazione più forte non fosse con Teresa, e se nella sua infanzia avesse
mai avvertito la presenza di una rivale. Dopo un po’, Anna scoppiò a
piangere e la sua narrazione si fece un fiume incontenibile. Si ricordò di una
notte in cui, avrà avuto undici anni, senza essere vista, aveva sorpreso il
padre nell’androne del suo palazzo ad amoreggiare con la vicina di casa.
All’improvviso in studio ci fu un silenzio fertile di comprensione.
«Cosa aveva provato quella bambina, Anna?» le chiesi.
Vergogna, eccitazione, invidia, senso di colpa?
Seguirono colloqui densi di comprensioni, in modo da dipanare la sua
ossessione più ancora che per Giacomo, per Teresa.
Ebbe un altro ricordo: aveva da poco conosciuto Giacomo al lavoro. Un
sabato pomeriggio era in piscina con i bambini e, combinazione, lo aveva
visto arrivare da solo. Aveva sentito uno strano tuffo al cuore: lui, con la
sacca in spalla, sembrava andare verso di lei. Si era apprestata a salutarlo,
eccitata, pensando che si sarebbe fermato nel lettino accanto al suo. Invece si
era accorta che lui non l’aveva nemmeno vista: aveva tirato dritto. Lei lo
aveva seguito con lo sguardo fino a quando lo aveva visto fermarsi davanti a
un ombrellone dove c’erano due donne. Una era Teresa. E aveva pensato che
avessero un appuntamento. Mi disse che quello era stato il trailer della loro
relazione: lei tutta speranzosa di essere vista e scelta, lui che
immancabilmente si rivolgeva altrove, preferendo l’altra donna. Senza mai
fermarsi da lei. Senza vederla. Aggiunse che forse aveva iniziato a odiarlo
quel giorno stesso.
L’amante di Giacomo le ricordava la donna con cui il padre aveva tradito
la madre. Il lavoro che doveva fare da un punto di vista emotivo e
psicologico era separarsi da quella doppia proiezione: doveva lasciare
l’illusione di Giacomo e, soprattutto, dividersi da Teresa dentro di sé. Con la
memoria ritornammo in quell’androne, rivivendo e frantumando le
emozioni: per renderle pensate e incluse mettemmo in atto la scena, le frasi,
e con un rituale liberatorio Anna comprese nel profondo che non doveva più
salvare la madre dalla relazione adultera del padre. Che un padre è un padre,
umano e imperfetto, e non un supereroe. E che non stava a lei risolvere
quanto accadeva fra i genitori. Una volta svelato l’incantesimo sotto cui
aveva vissuto per anni, Anna sciolse il debito che si era accollata di strappare
il padre (proiettato simbolicamente su Giacomo) dalle grinfie dell’amante,
vista come un’arpia, rivale della madre. E lasciò andare anche il segreto,
troppo grande per una bambina, che si era tenuta dentro per proteggere la
mamma, il papà, la famiglia.
Da quel momento riuscì a vedere Giacomo come un uomo bambino,
affamato di una madre che cercava in più donne, tenendole tutte a sua
disposizione, proprio come fa un poppante che richiede e pretende tutto dalla
figura materna. E nulla dà.
Finalmente Anna poté capire con chiarezza che lui non sceglieva Teresa
contro di lei, ma forse soltanto perché era una donna accogliente, sempre
disponibile, affidabile, senza impegno né richieste. Nella sua semplicità,
Teresa vinceva senza lode e senza infamia. Era solo più comoda.
Questo è uno dei passaggi più difficili in queste configurazioni relazionali
multiple, dove qualcuno spera, aspetta e lotta per vincere un posto ufficiale.
Se l’altro non ci sceglie non è perché non meritiamo, non valiamo, non
siamo adeguati. La realtà è molto più banale: l’altro ha altre priorità. Una
diversa scala valoriale. Non ci lascia lì per punirci, ma fa scelte pro se stesso.
Giacomo non seppe spiegarsi quel cambio di postura e tornò a cercarla nei
mesi successivi, timidamente, poiché temeva le reazioni impulsive e gli
insulti di Anna.
Mi raccontò che le aveva inviato un paio di volte gli auguri di Natale e lei
non gli aveva mai risposto. Le chiesi se c’era un «tiè» vendicativo in quella
non risposta, oppure un sano disinteresse neutro. Mi disse che non voleva e
basta. Un tempo avrebbe utilizzato qualsiasi pretesto, ogni ricorrenza o scusa
per mantenersi in contatto con lui e riagganciarlo.
Anna riconobbe quante volte aveva cercato di manipolare Giacomo, che
aveva tutte le caratteristiche del passivo-aggressivo evitante, abbottonato e
fuggitivo. Una volta smascherati i ruoli, lui non faceva più presa su Anna,
che ora ne vedeva le fragilità. Un uomo che necessita di circondarsi di un
harem è una persona irrisolta, forse inghiottita da una madre fagocitante, che
può prendere soltanto pezzi di donne e mai una donna intera.
Una volta sistemate tutte le tessere del puzzle, Anna perse ogni interesse
per Giacomo, riuscendo a deidealizzarlo, vedendolo come un uomo noioso,
senza argomenti, patetico, spento e fasullo. Aveva sostituito Anna con una
procace nuova collega, tale Nunzia, ignara del condominio in cui si stava
infilando. Anna vedeva tutto questo e riusciva a sorriderne. Il suo dio era
diventato una sagoma di cartone ingiallito, spelacchiato e ricurvo su se
stesso.
Oggi Anna è serena, i figli frequentano l’università e lei è diventata
insegnante di tango. Abbiamo attraversato insieme il suo inferno. Anna è
riuscita a tradurre tutte quelle emozioni occulte e irrisolte in una danza con
sé, diventando lei stessa la sua amante. L’ultimo messaggio che ho ricevuto
da lei è stato: «Dottoressa, ora riesco ad andare in quello spazio che
mendicavo a Giacomo attraverso il mio corpo. Non ho più bisogno di quel
copione, ho me».

Tu non mi basti mai


Come abbiamo visto, il dipendente affettivo adotta una serie di
comportamenti alternati: mendica, supplica, insegue, accusa, talvolta
manipola, seduce, vomita sull’altro tutta la sua frustrazione perché non
riesce a ottenere ciò che vuole: vincere. In realtà non gli importa molto di ciò
che prova il partner, e dei motivi che adduce per porre fine alla relazione o
prendere distanza, fare una pausa, recuperare un attimo di fiato. Lo vuole e
basta. Gli serve, ne ha egoisticamente bisogno: come di una sostanza, come
dell’aria.
Dalla letteratura risulta che il 90% circa dei soggetti dipendenti affettivi è
di sesso femminile, e il disagio affligge donne di età diversa: dalle post-
adolescenti (dai venti ai ventisette anni) fino alle adulte (dai quarantacinque
ai sessant’anni).
Il profilo della donna dipendente affettiva è ingannevole: se ci si aspetta
un tenero agnellino dimesso e tremante, si sbaglia di grosso. La maggior
parte delle persone che ho seguito e che seguo – l’ho sottolineato anche nelle
storie – fa un lavoro di responsabilità, ha una carriera brillante, spesso
viaggia da sola e si sostenta senza problemi. È nella relazione che si
risvegliano i fantasmi del passato e la donna pare regredire a una prima
infanzia, età in cui ha percepito di non poter desiderare l’altro, in genere un
genitore (talvolta entrambi), poiché non c’era. O c’era «troppo», in maniera
invasiva, inondante. Ragion per cui si sentirà appagata soltanto quando
accade il contatto fusionale, ma poi l’incantesimo si spezza di nuovo, o
perché l’altro, spaventato da tanta richiesta emotiva, fugge e attua condotte
evitanti, o perché sfortunatamente è un borioso narcisista che cerca solo
conferme di sé.
Se il partner non corrisponde e non appaga il bisogno di fusione, lei prova
un sentimento di rabbia profonda, che può diventare furore, e la spingerà in
tutti i modi a tentare di cambiare l’altro, a volerlo aggiustare.
Ciò che incanta e intrappola la dipendente affettiva è quel senso di
ebbrezza, pari all’effetto di una sostanza di cui si ha bisogno in dosi sempre
maggiori. La mancanza dell’altro la getta in uno stato di prostrazione,
proprio come se un bambino di un anno non trovasse subito disponibile il
genitore. Anche se dirige un ospedale, esegue interventi a cuore aperto o è a
capo di un’azienda dal fatturato esorbitante, è soltanto nella relazione che la
dipendente amorosa pare regredire a uno stadio infantile in cui si sente
smarrita e inutile senza il partner. Non vede se stessa proprio come non vede
l’altro. Pur bella, accogliente, empatica e sensibile da un punto di vista
emotivo, non riesce a vivere per sé.
Attorno ai pensieri della dipendente affettiva aleggia sempre la stessa
canzone: tu non mi basti mai.
È prosciugata dal suo stesso bisogno, come se avesse una missione unica
da compiere: recuperare se stessa attraverso l’amore rincorso del partner.
Poiché il pozzo dell’assenza, dell’altro e di sé, è in lei profondo e antico, e la
sua sete è insaziabile.
«Dammi di più» è il suo mantra, che recita crogiolandosi in una nostalgia
perenne, e le pare così familiare e rassicurante che, per paradosso, lì si
adagia, resta e si rassegna. Infelice.
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Archetipi e dipendenza affettiva

LE forme archetipiche sono modelli culturali a cui si fa riferimento nelle


società. Secondo Jung, nell’inconscio collettivo tutti noi creiamo delle
immagini che ci accomunano e che ci siamo costruiti per spiegarci il mondo.
Di seguito vi propongo una serie di archetipi che sono a mio avviso utili al
fine di approfondire ed esemplificare la nostra discussione. Alcuni
riguardano prettamente le figure femminili, altri quelle maschili, e talvolta
sono intercambiabili.
È bene ricordare che tutti noi abbiamo questi personaggi dentro il nostro
castello fatato interiore, agendoli talvolta o spesso, e tutti noi siamo e
possiamo essere tutto. Averli presenti ci dà modo di riconoscerci quando li
attuiamo o li vediamo interpretati dagli altri. Nelle dinamiche
narcisisticodipendenti spesso si incrociano questi copioni pescati tra gli
archetipi, e originati, come abbiamo visto, dai vissuti familiari.

La mammina bambina
Durante gli incontri con le mie pazienti, non di rado si evidenzia un copione
che ho definito insieme con loro della mammina bambina. È un
atteggiamento che ci ricorda le protagoniste descritte nel testo principe della
dipendenza affettiva: Donne che amano troppo. Nella sua opera di
informazione, la psicoterapeuta Robin Norwood ha dato voce a centinaia di
donne rimaste intrappolate in una relazione infelice ad accudire un partner
rivolto altrove, magari alcolista.
L’atteggiamento accudente parafrasa quello materno, tipico della
codipendente, devota e immolata a salvare l’altro, abnegata e sacrificata. Ma,
a voler ben guardare, la donna che si propone come surrogato genitoriale in
realtà cerca lei stessa un genitore nell’altro, proprio come una bambina.
Tutta la relazione è infantilizzata: il maternage oscilla tra il voler prendersi
cura del partner e un disperato bisogno di essere adottata, tenuta, amata.
La mammina bambina promette accudimento in cambio di – illusoria –
protezione.
Purtroppo, quell’amore bramato non arriverà nei tempi e modi agognati.
La dipendente affettiva ha fame, ricordiamoci, una fame insaziabile, che
spesso definiamo con le mie pazienti «fame di favola». C’è un’illusione
costante che se darò tutta me stessa, se dirò sempre di sì, l’altro prima o poi
mi amerà e mi terrà con sé. Quando durante un colloquio arriviamo a questa
consapevolezza è un ottimo punto di svolta, perché emergono i meccanismi
reconditi di tutto quell’amore straripante, che altro non è che bisogno
disperato di essere riconosciuta. La mammina bambina viene smascherata, e
si scopre che tutta quella bontà ha un pizzico di manipolazione: mi renderò
così indispensabile che non potrai non scegliermi.
Peccato che a questa seconda parte l’altro non è interessato, perché prende
ma non restituisce.
Per quanto doloroso sia il processo, con le pazienti arriviamo a sorridere e
a cercare, con tanta delicatezza e determinazione, strategie per creare nella
relazione un passo di danza differente, che spesso consiste nello smettere di
dare incondizionatamente come farebbe una madre. Lo ricordiamo: una
relazione adulta può funzionare soltanto se c’è un giusto equilibrio tra il dare
e l’avere.

La crocerossina
La salvatrice è tanto buona quanto distante da sé. La sua ferita narcisistica è
molto antica, quando per esistere ha dovuto prendersi cura dei bisogni
emotivi di uno o entrambi i genitori. La sua missione è avere il controllo
sull’altro, che però non sa di agire: vuole possedere tutto di lui, i pensieri e la
vita. Ma dice di voler «aiutare».
In cosa differisce dalla mammina bambina? Mentre quest’ultima si
comporta da madre ma vorrebbe un padre, la crocerossina (di cui esiste
anche la versione maschile, il salvatore) è talmente abnegata che non vuole
nulla per sé. Non è in contatto con ciò che sente e necessita.

La principessa sul pisello


È l’emblema della regalità esigente e mai paga. Secondo una lettura
psicodinamica, potremmo identificare la sua ferita in un appagamento mai
mancato e da nutrimento forzato: essendo stata ipergratificata, la persona
non ha potuto sentire il bisogno e il desiderio, le è stato rubato il tempo
dell’attesa, e la soddisfazione di ottenere risultati con le proprie forze. Non
ha dunque strategie per gestire la frustrazione, vuole sempre quello che non
c’è, si annoia facilmente, è ipercritica verso l’esterno, si lamenta spesso, non
si sente mai contenta. Nella relazione sarà l’eterna incontentabile a cui è
tutto dovuto.

La piccola fiammiferaia
È la donna che percepisce se stessa affettivamente deprivata, con il padre (o
la madre) crudele o assente, e mendica amore senza trovarlo. Rischia però di
restare imprigionata in un vittimismo stereotipato (un punto su cui lavoriamo
molto durante i colloqui): gli abiti dell’orfanella talvolta diventano una
comoda uniforme da indossare nel mondo e, per paradosso, sono anche
difficili da togliere.
Posizionarsi nel ruolo della derelitta implica assumere che qualcuno ci
abbia derubato di qualcosa che ci spettava di diritto. Facciamo un esempio:
se io indosso i panni di chi ha subito danni e lì resto incollata, va da sé che la
responsabilità di chi sono non è mia, è di altri. E io quindi con questa postura
cerco di indurre benevolenza, carità, come il personaggio della fiaba di
Andersen, che è la rappresentazione della deprivazione, della solitudine e
della scarsità. Nella favola, la bambina vaga da sola al freddo la notte di
Natale, vendendo fiammiferi, in cerca di qualcuno che le dia qualche soldo.
Nessuno lo farà, e lei morirà di stenti, raggiungendo in cielo la nonna, unica
figura amorevole, mentre il padre cattivo la sfrutta e la manda per strada al
gelo.
Qual è la sua ferita narcisistica? Quella di essere maltrattata e non amata.
Questo crea un dolore profondo.
A differenza delle altre tipologie, la piccola fiammiferaia resta in contatto
con le proprie emozioni. È stata amata in parte da qualcuno, perciò conserva
l’empatia e ha ancora il coraggio di chiedere. Peccato che a furia di
elemosinare, il pericolo sia quello di perdere la dignità e di non coltivare
l’amor proprio. E se è questo il nostro copione, rischiamo di rimanerci
imprigionati a vita.
Dobbiamo elaborare e trasformare i traumi subiti, senza negarli. Le lesioni
vanno cicatrizzate, non dimenticate. Se guariamo la ferita, poi potremo
usarla come perno per librarci in volo.
La più bella del reame
La più bella del reame incarna invece la ragazza viziata, parente della
principessa sul pisello, ma più capricciosa ed estrema. Assomiglia un po’ ai
vari Narci che abbiamo descritto in precedenza; non può permettersi di non
competere, non riesce a riposare mai, e la sua ferita è molto profonda, anche
se non sembra.
Può seguire questo copione per due ragioni: o è stata cresciuta
nell’illusione di essere la migliore del mondo, o lo avrebbe tanto voluto. Di
fatto, si comporta come se si aspettasse che le acque si separino al suo
passaggio, e rimane in attesa di un applauso dato per scontato nel primo
caso, o preteso come risarcimento nel secondo.
Non può permettersi un fallimento, è convinta di poter dimostrare al
mondo quanto vale, e non è ammesso sbagliare. Per assuefazione al
successo, o per riscatto di una condizione che vorrebbe a tutti i costi.
«Lesa maestà», potrebbe essere il sottotitolo che l’accompagna. È tutto
suo, anche il passato del partner. Prova gelosia retroattiva, si paragona ad
altri, si dispera, teme che l’amato – si fa per dire, in quanto qui di amore non
possiamo parlare – troverà senz’altro qualcuno migliore di lei. Ha bisogno di
incessanti rassicurazioni, che però non bastano mai.
Invece che la più bella del reame, è facile che dentro si senta come le
sorellastre di Cenerentola, andando su tutte le furie se non è invitata al ballo.
È disposta a stracciare le vesti di qualsiasi rivale. Ma resta insoddisfatta
comunque e soffre, tantissimo. Perché dentro di sé sa o teme profondamente
di essere un bluff.

Il bravo ometto
Si comporta come un personaggio dei racconti di Edmondo De Amicis, il
bravo ometto protettivo e responsabile.
È il bimbo che doveva obbedire, reprimendo perciò la pulsionalità,
venendo così gratificato per le buone azioni. Come possiamo immaginare,
nella relazione adulta questo archetipo non è virile, e conserva una qualità
infantile che non aiuta a mantenere la coppia in un equilibrio armonioso.

«Mamma, guarda»
È un archetipo facilmente individuabile e riconoscibile in noi stessi quando
lo rappresentiamo, ed è abbastanza universale. Si tratta dell’esibizionismo
eccessivo e quasi ridicolo. Al maschile, vediamo l’uomo cresciuto che fa la
ruota del pavone, invia selfie con muscoli o la foto del pene in erezione. Sì,
accade, molto più spesso di quanto pensiamo. Lo scopo è provocare stupore,
scatenare la standing ovation.
Anche al femminile troviamo la ragazza che invia foto ammiccanti, in
posa, che ci ricorda tanto le bambine quando indossano il vestitino della
festa e lo esibiscono davanti alla mamma (o al padre, perché c’è anche
l’atteggiamento: «Papà, guarda»).
Sono residui fissi e irrisolti del narcisismo primario infantile di cui parlava
Freud, che è fisiologico e funzionale fino all’età prepuberale. A trenta o
cinquant’anni deve però far scattare l’allerta di un disagio. «Guardami!» è un
imperativo implorante, oggi a maggior ragione sui social.
Intendiamoci, a tutti, e sottolineo tutti, fa piacere essere riconosciuti,
anche se qualcuno con tratti evitanti o eccessivamente timido protesterà che
non è vero, e di esserne anzi infastidito. Ricordate la modalità opaca opposta
a quella abbagliante? Tant’è, ognuno in cuor suo sa di quante calorie di
apprezzamento necessita. Qui è opportuno ricordare che chi assume la
postura esasperata del «Guardami!» elemosina attenzioni da qualcuno. Forse
da un genitore distratto proiettato ora nell’età adulta in una relazione, in un
pubblico? O forse, essendo cresciuto in un humus di applausi, li ricerca
ancora nel mondo, come unica prova del proprio esistere?

La bimba di papà
Nella dinamica narcisisticodipendente a volte questi copioni si intrecciano.
Soprattutto per quanto riguarda le donne, un fattore importante sembra
avere, nella relazione, il rapporto avuto o mancato con il padre. In
particolare, la nostalgia di un padre adorante o trascurante muove queste
figure femminili, che replicheranno con tutta probabilità lo stesso schema.
Possiamo quindi aggiungere alle forme archetipiche elencate prima quello
della bimba di papà, che come gli altri ha sviluppato il proprio copione in
base ai messaggi ricevuti in famiglia.
Il modello disfunzionale del rapporto uomo-donna vissuto all’interno del
nucleo familiare sembrerebbe condizionare lo sviluppo della competenza
relazionale femminile, inducendo le donne che hanno vissuto un’esperienza
affettiva non appagante con il padre alla scelta di partner distanzianti. La
fragilità parrerebbe condurre queste persone verso relazioni amorose in cui
mendicano le attenzioni e le rassicurazioni mai ricevute, ora richieste in
maniera insistente al partner, la cui distanza emotiva è vissuta come
abbandono e rifiuto. Questo innesca in loro una serie di pensieri irrazionali,
confermando ciò che da sempre temono e pensano di se stesse.
Ciò si traduce in un grande timore di essere trascurate e nel desiderio di
essere amate e accudite da qualcuno, cercando di controllarlo attraverso il
fascino, la capacità di intrattenimento e la seduzione.
Come avviene per la principessa sul pisello o la più bella del reame,
osannate e ipergratificate dal papà, che chiedono al mondo lo stesso script
adorante, anche la bambina che si è sentita invisibile agli occhi del padre
finirà con l’avere pretese e aspettative e si ritroverà a elemosinare dal
partner.
Questo archetipo femminile sembra lasciare il cuore nella casa del padre e
avrà difficoltà, dopo un primo momento magari di gloria e passione per il
partner, a mantenere nella stessa relazione sessualità e sentimento.
Si crea pertanto in chi ha avuto questo tipo di ferita una scissione tra sesso
e affettività.
Come sostengono studiosi quali Wilhelm Reich e il suo allievo Federico
Navarro, la bimba di papà cresce avvinghiata a un’idea di padre eroicizzato,
oppure un fantasma, negato, rincorso, desiderato. E alla nostalgia di lui
consegna se stessa, per sempre. Nel suo immaginario di adulta, la figura
paterna assume un ruolo ingombrante ed epico, che le permetterà di vivere le
dimensioni affettive ed erotiche soltanto in maniera scissa.
Non di rado accade che le mie pazienti mi raccontino di avere un
matrimonio che somiglia di più a una società, o a una cooperativa che
funziona nella gestione della casa e dei figli, come nella storia di Vera,
narrata in precedenza. Ma da un punto di vista sessuale sono matrimoni
bianchi, e ce ne sono molti di più di quanto si sappia, a conferma di ciò che
sosteneva Freud a proposito della rinuncia alla felicità in nome della
sicurezza.
Nelle relazioni con una sessualità assopita o assente pare verificarsi
proprio questo. Le mura domestiche accolgono, proteggono una routine
rassicurante, ma passione ed erotismo sono fuori, altrove. Proprio come quel
padre?
Molto di frequente si sceglie un partner che sia socialmente approvabile,
gradito alla famiglia. E chi ha uno schema di fedeltà e adesione totali e
acritiche alle richieste dei familiari, rinuncia a una parte di sé in nome di
questa approvazione. Per poi vivere in maniera clandestina le parti
tralasciate, con quello che la società chiama tradimento e la persona chiama
bisogno vitale.

Questa carrellata non è di certo esaustiva, ma solo evocativa dei tanti ruoli
che è probabile incontrare in una dinamica narcisisticodipendente.
È evidente che nella dipendenza affettiva esiste un alto rischio di perdita
della capacità critica, della percezione di sé e quindi anche della percezione
obiettiva dell’altro, vissuto come irrinunciabile nutrimento.
In alcuni momenti si avverte qualcosa di distorto nella relazione, si sente
che è nociva e se ne vorrebbe fare a meno, ma la constatazione di essere
intrappolati in un modello dipendente fa sentire indegni, bisognosi,
incompleti e quindi spinge ancora di più verso l’abbraccio consolatorio del
partner. La dipendenza è vissuta come una prigione, ma al tempo stesso è
un’esperienza totalizzante ed eccitante, nel senso che niente è altrettanto
soddisfacente, al pari di una sostanza che da un lato inebria e dall’altro
avvelena. Purtroppo, chi è dipendente sente l’assenza dell’altro come
minaccia di morte. Non avendo un senso di completezza, non avendo
sviluppato una coscienza di sé in grado di funzionare autonomamente,
rischia di sentirsi frantumato e di andare in pezzi.
Il modello idealizzato e romantico della coppia come monade, che fa tutto
in tandem – «altrimenti cosa si sta insieme a fare» –, rende costantemente
necessarie le dosi di presenza dell’altro, così l’io della persona scompare per
lasciare lo spazio a un noi confusivo e colloso.
Le normali attività quotidiane sono trascurate, l’unica cosa importante è il
tempo trascorso insieme, perché sancisce l’esistenza del soggetto.
L’individuo non ha una sua progettualità, interessi propri, non ha un senso di
unicità se non in funzione dell’altro. Se la dipendenza è reciproca, la coppia
si alimenta di se stessa, finendo con l’affogare dentro la bolla relazionale.
Quando chiedo alla persona di riflettere se davvero sente di «avere»
l’altro, dapprima risponde: «Meglio di niente». Invito a una seconda
riflessione su cosa ha da perdere davvero e alla fine concordiamo su una
realtà: ciò che ha da perdere rinunciando alla relazione che la tormenta non è
tanto il partner, ma l’illusione di un rapporto che non c’è.
È qui che possiamo individuare l’elemento che accomuna il sentire di tutti
i personaggi descritti finora: l’horror vacui.

«Horror vacui»
Come abbiamo sottolineato più di una volta, il vuoto è ciò con cui un
dipendente affettivo fa i conti dentro di sé. Per averne ricevuto troppo o
troppo poco, quel nutrimento sperato e dovuto è arrivato in maniera distorta
e al posto dell’amore si è formato un buco incolmabile. Il partner dovrà
allora provvedere a riempire quei vuoti originari, investito – come un agente
salvifico – di aspettative di riparazione e risarcimento, determinando nella
maggior parte dei casi una relazione disturbata a causa dell’incapacità di
stabilire reciprocità di scambio affettivo.
Impotenza e frustrazione animano il dipendente affettivo, che vuole con
grande rabbia. Vuole che l’altro sia come dice lui, quando decide lui. Vuole
che sia presente, affettuoso, amorevole, che si occupi di lui, che lo ami al
posto suo. Non si assume la responsabilità della propria vita, ma ritiene il
partner colpevole della propria infelicità. Cieco riguardo a se stesso,
imprigionato nel ruolo di vittima, al posto di «Io» dice «Tu».
Il sentimento che anima il dipendente affettivo è ben diverso dall’amore
comunemente inteso. In apparenza, chi soffre di una dipendenza pensa di
dare molto, mentre in realtà prende e pretende, ma non lo sa. È convinto di
amare, quando invece cerca di «riempirsi». E per non essere lasciato, spesso
compiace, apparendo docile, affettuoso e sensibile.
Come dicevamo, nella dinamica narcisisticodipendente la chimica gioca
un ruolo importante. L’attività sessuale assume aspetti totalizzanti, a tratti
divoranti, tanto l’amplesso è fusionale.
Tuttavia, occorre fare una precisazione in proposito. Il grado di
eccitazione sessuale arriva a livelli altissimi soprattutto nelle prime fasi della
relazione, in particolare per il dipendente, che sente di esistere solo
attraverso l’altro. Ma trattandosi di un rapporto fortemente simbolico e
proiettivo, in cui cioè l’altro rappresenta una ferita del passato da guarire, le
due persone non si vedono davvero: vedono solo ciò che entrambi
rappresentano l’una per l’altra.
In definitiva, l’altro diventa un contenitore del vuoto originario
determinatosi al momento della separazione dal caregiver avvenuta in modo
disfunzionale.
Da qui la ricerca spasmodica di ritornare a quella sensazione di
appagamento primario, simbiotica, che le persone dipendenti sembrano
rincorrere, mendicare, bramare e pretendere dalla presenza dell’altro, al
punto da non tollerare rifiuto e abbandono.
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Codipendenza, ovvero io ti salverò

Una dipendenza camuffata


Il termine codependence fu utilizzato primariamente per definire il partner
dell’alcolista. Negli Stati Uniti dagli anni Sessanta si sono costituiti gruppi di
autoaiuto chiamati Alcolisti Anonimi, AA. Caratteristica di questi gruppi è il
ritrovarsi in giorni fissi, alla presenza di un tutor, di solito un ex alcolista che
fa da supervisore. I soggetti si dispongono in cerchio e scelgono un tema su
cui dibattere. Il programma è preciso e si fonda su una procedura chiamata
«Dodici Passi»: coloro che lo seguono affrontano temi spirituali. In sintesi
l’assunto di base è che alla radice della dipendenza dall’alcol vi sia una
spiritualità perduta che è recuperata attraverso il programma. Ben presto ci si
è accorti che non esisteva solo il problema dell’alcolista, ma che egli era
inserito in un sistema familiare che viveva un disagio altrettanto grave. Si
sono costituiti così i gruppi Al-Anon. Il familiare di un alcolista ha
caratteristiche precise, come ben descrive Robin Norwood in Donne che
amano troppo.
Negli anni, il termine codependent ha iniziato a essere usato per riferirsi
alla persona che ha una relazione significativa con chi fa abuso di sostanze.
Chi si lega a un alcolista o a un tossicodipendente è animato dalla
speranza di salvarlo, di guarirlo dalla dipendenza. Dedica la propria vita al
recupero dell’altro. Lotta. Sopporta umiliazioni, sacrifici, deficit economici,
a volte vere e proprie violenze fisiche. Eppure, resta intrappolato nella
relazione, vi si aggrappa, non demorde. Il partner può avere una dipendenza
da alcol, droghe, gioco d’azzardo, sesso compulsivo. Il codipendente ha una
dipendenza dal partner, o, in maniera ancora più irrazionale, una dipendenza
dal volerlo controllare e salvarlo dal nemico e rivale: la dipendenza.
La definizione di codipendenza non ha mai trovato un consenso unanime
nella letteratura scientifica.
Il profilo del codipendente potrebbe essere riassunto in tal modo da tutti
gli studi fatti: è presente il tema del controllo ad alti livelli. La ragione di vita
diventa salvare l’altro, al punto da trascurare se stessi. Si decide al posto
dell’altro, ci si sostituisce all’altro, ci si indebita per l’altro, assumendo
responsabilità al suo posto, anche quando non richiesto.
C’è un disinteresse per i propri bisogni, mentre vengono date priorità alle
esigenze dell’altro.
Il codipendente definisce questo «amore», crede fermamente che in una
relazione si debba fare tutto insieme, e la sfida che nei capitoli precedenti
abbiamo descritto come hybris non è tanto con l’altro come nel caso
narcisisticodipendente, ma con la sostanza ritenuta rivale. Il copione è più o
meno così: io sto con te mentre tu mi tradisci con la bottiglia (o con la
cocaina eccetera).
Ma contro l’alcol (o una sostanza) non si potrà mai competere ad armi
pari.
Molto spesso a un codipendente è stato chiesto di essere buono, di aiutare
in famiglia, di sostituirsi a un genitore, o di salvare qualcuno, dovendo
crescere alla svelta. Dovendo diventare adulto troppo presto, da un punto di
vista affettivo resterà immaturo.
I codipendenti li potremmo definire da piccoli bambini camuffati da
adulti, e una volta cresciuti, adulti in realtà rimasti bambini.
Il codipendente doveva occuparsi dei bisogni emotivi di un familiare,
spesso un genitore; pertanto, inizia molto presto a negare se stesso, non
impara mai ad ascoltarsi, rimane confuso ed estraneo ai propri bisogni. Si
identifica pertanto nel crocerossino, tanto buono, serio, responsabile, e chi
più ne ha più ne metta. La piccola vedetta lombarda, il piccolo eroe che si
sacrifica per tutti, insomma.
Pia Mellody, autrice americana di vari testi sul tema, individua alcuni
indicatori cruciali per riconoscere la codipendenza: basso livello di
autostima, difficoltà a stabilire con l’altro confini ben marcati e sani, con
tendenza a invadere e a farsi invadere. Incapacità a riconoscere i propri
bisogni, chi si è, cosa si sente, insistenza nel voler aiutare a tutti i costi, e nel
prendersi cura dei bisogni e desideri altrui, dimenticando e trascurando i
propri con cui non si è in contatto.
Il disturbo di personalità dipendente, la dipendenza affettiva e la
codipendenza sono pertanto manifestazioni ben distinte. La codipendenza è
una dipendenza travestita da bontà d’animo, infatti viene spesso confusa con
il comportamento prosociale. In realtà, nelle pieghe nascoste della psiche del
codipendente c’è un dare per avere, come se dicesse: «Ti aiuto, così
diventerò indispensabile e non potrai fare a meno di me. Io vivo la tua vita, e
della mia non so niente e non mi curo».
La testimonianza di Amanda, riportata di seguito, descrive con efficacia
l’incapacità di prendersi cura di sé dei codipendenti.

Come vuole papà: storia di Amanda


«Mi chiamo Amanda, e ancora prima di perdere mia madre quando avevo
vent’anni, sono rimasta orfana di genitori vivi da piccola.
Una delle frasi della mia vita è: ‘Io ci sono cresciuta nella merda e quindi
riconosco l’odore prima che tu te ne renda conto!’
Da bambina ero costretta a ‘giocare’ a controllare mia mamma per vedere
se aveva bevuto, me lo chiedeva mio padre, e io avrei fatto qualunque cosa
per lui, pur di avere un briciolo della sua attenzione.
Invece di imparare a desiderare di essere abbracciata, io mi divertivo a
cercare come un agente segreto cartocci di vino rosso, che tuttora non riesco
neanche a far avvicinare al mio naso.
Ormai avevo sviluppato un intuito infallibile.
Vincevo sempre e trovavo quello che cercavo nei posti più disparati: nella
lavatrice, dietro al divano, nelle dispense più alte, avevo otto anni e mi
arrampicavo ovunque, pur di trovare l’alcol che mia madre nascondeva.
Nulla mi poteva fermare.
Io su di lei avrei sempre vinto e come un cane da tartufo mi sentivo
soddisfatta nel vedere che anche quella volta non mi ero sbagliata.
Il mio premio era non deludere mio padre. Del resto, se lei si fosse
comportata così io avrei potuto essere vista da lui come la sola donna che
meritava davvero il suo sguardo, l’unica fidanzata valida, perfetta, capace e
fedele!
Avevo giocato bene, avevo colto i segnali giusti: una ‘s’ pronunciata in un
certo modo, un dettaglio che solo io potevo percepire. Nessun altro, solo io.
Ero padrona di quella situazione, io controllavo e se avessi voluto avrei
trovato!
Perfino andando a rovistare nella pattumiera condominiale nelle ore serali
con il buio.
Ed è così che in me si insediò come schema quello del controllo, è così
che l’odore del marcio, della bugia, dell’ambiguità, per me ancora oggi è
facilmente riconoscibile.
Io ci arrivo prima ancora che il resto del mondo se ne renda conto e
purtroppo succede che, mentre le donne sane se sentono l’odore scappano, io
mi ci avvicino e me ne faccio carico. Perché quello era il ruolo che mi
veniva chiesto. La condizione per cui avrei ricevuto amore da mio padre.
Mia madre l’avevo data per persa già da piccolissima, lei non c’era. Stava
giorni interi a piangere sul divano, ubriaca. E mi costringeva ad ascoltare la
musica altissima, lì seduta per ore accanto a lei. Quando litigava con mio
padre, ci chiudeva fuori dalla porta, allora papà mi prendeva per mano e
andavamo a passeggiare solo io e lui. Mi sentivo una vera principessa ed ero
contenta quando lei beveva, così potevo stare da sola con mio padre.
Controllare e scoprire le bugie di mia madre era una sfida continua per
me, mi sentivo potente e importante. Ero la paladina della verità, e papà mi
incoraggiava in questo gioco perverso. Diventai l’aguzzino numero uno di
mia madre. L’ho ignorata per anni, mi sentivo crudele e giudicante. Ma ero
felice di esserlo, dovevo riscattarmi. La disprezzai talmente tanto da
maltrattarla, fino a poco prima che se ne andasse all’improvviso per un ictus,
pochi giorni dopo essere uscita da un ennesimo ricovero.
Ero furiosa con lei perché credevo che un bambino non avrebbe dovuto
giocare a trovare le prove degli errori dei propri genitori. Quando avevo
circa dieci anni mio padre mi disse: ‘Vieni con me, andiamo a cercare quella
poco di buono di tua madre’. E la trovammo con un suo amante tossico
mentre si facevano di alcol, droga, non so.
Dopo quella volta papà decise di separarsi, disse: ‘Dai che ce ne andiamo
da casa’, e per un po’ abitammo con mia nonna. Ero felice che avesse deciso
di lasciare mia madre e tutti i problemi che ci creava.
Ma quando avevo dodici anni lui si risposò, io sono rimasta ancora un po’
con mia nonna, e mia madre sempre ricoverata nei vari servizi di igiene
mentale.
Uno dei miei obiettivi da piccola era quello di diventare una psicologa per
minori in carcere o negli orfanotrofi, per poter aiutare quei bambini come me
senza nessuno. Perché era così che mi sentivo: anche se mia nonna faceva
quello che poteva, io dentro mi sentivo orfana, una trovatella, senza radici.
Mia madre, nei suoi periodi più bui, mi diceva sempre che una cattiva,
cinica e senza cuore come me non avrebbe mai potuto fare la psicologa e
comprendere quelle situazioni, e io probabilmente ci ho creduto, visto che
invece di fare una professione di aiuto mi ritrovo a fare la contabile per
un’azienda. Mi è rimasta la paura della sopravvivenza, so che devo badare a
me stessa e posso contare solo sulle mie forze.
Mio padre ha avuto altre due figlie, io economicamente mi sostento da
sola da quando avevo vent’anni. Non ho mai chiesto nulla a mio padre,
nemmeno un regalo. Mi sembra normale che lui si occupi delle sue figlie. A
volte m’invitano a cena, non mi aspetto nulla.
Solo dopo tanto tempo sono riuscita a guardare la mia storia con occhi
diversi, ma per anni mi sono sentita a credito, soprattutto da mia madre.
Con lei ero cattiva e fredda: ero un sergente che non tollerava i suoi
sbagli. Ai miei occhi lei era una nullità, per poi scoprire con il tempo che
anche io, in situazioni differenti, non ero poi molto diversa. Solo con il
percorso di sostegno ho compreso poi quanto, cercando di cambiare lei, era
me che non accoglievo. La sua fragilità mi faceva rabbia, e ritenermi
superiore era l’unico modo per non guardarmi allo specchio. Nelle relazioni
affettive facevo uguale, non bevevo né mi drogavo, ma utilizzavo la
relazione come sostanza.
Il controllore è fermo: guarda, osserva meticolosamente, si fissa su un
punto o una situazione per studiarne ogni minimo particolare che lo porterà
alla ‘vittoria’! Ecco, lo sapevo, anche questa volta avevo ragione, lui mi
tradisce, lei fa quello, lui non fa quell’altro.
Ma attenzione: è una vittoria passiva, un dispendio di energie immane, e
più adulti si diventa, più le situazioni che richiedono questa figura si fanno
giganti, complesse, enigmatiche e dolorose.
Una volta adulta, ho avuto relazioni disfunzionali con uomini invadenti
che parlavano sempre di sé. Io ho sempre accondisceso, tendo a rendermi
indispensabile, mi faccio in quattro, sempre disponibile, non dico mai di no.
Fino a poco tempo fa non uscivo con amiche, non lasciavo mai spazi vuoti
accanto al mio compagno, per terrore che li occupassero altre. Passavo ore a
controllare i suoi like sui social, a indagare la sua vita, a vedere se era online,
facendogli scenate su scenate. Lavorando con la mia dottoressa ho iniziato a
spostare lo sguardo su di me. Adesso mi prendo qualche week-end, mi
dedico ai miei interessi. Prima lo facevo solo per ripiego, se lui non fosse
stato libero, allora avrei organizzato qualcosa per riempire quel tempo. Ho
cambiato modi di guardare la mia famiglia, e dove vedevo solo dolore e
malattia ora vedo anche bellezza. Sto facendo pace con la mia fragilità.
Attraverso il far pace con mia madre e le sue vulnerabilità che l’hanno
portata a cercare conforto nelle sostanze, nell’alcol, proprio come io cerco
consolazione in un uomo che sia sempre lì, a portata del mio controllo.
È vero: io sono intuitiva nei confronti del mondo esterno, a tratti sembro
magica, non mi sfugge mai niente, ma non desidero più giocare al
controllore, non voglio più cercare i cartocci di vino, le bugie, i presunti
tradimenti. Vorrei invece conoscere me stessa, perché non ho mai imparato
ad ascoltarmi. Era l’altro che dovevo monitorare, sempre. Perciò ho bisogno
di fluire serenamente con la vita, imparando a fidarmi e a credere che io
valgo anche senza dover per forza dimostrare di essere all’altezza dello
sguardo di qualcuno.»

Io ti salverò: storia di Inari


Riporto qui la storia di Inari perché è stata una delle più significative che
abbia mai incontrato finora. Tuttavia, devo fare una premessa, in quanto il
contesto culturale in cui è avvenuta è stato arricchente e molto interessante
per me.
Anni fa, trascorsi alcuni mesi in Finlandia per il mio dottorato di ricerca,
continuando a lavorare da lì come psicologa online. Abitavo in uno
studentato per dottorandi e ricercatori di tutto il mondo che collaboravano
con l’Università di Helsinki. È stato uno dei periodi più intensi della mia
vita, per alcuni aspetti ricco di solitudine e introspezione. Là ho incontrato
accademici meravigliosi, empatici e preparatissimi, che mi hanno sostenuta
nell’arduo compito di portare a termine una ricerca scientifica.
Accanto a momenti durissimi di studio, ho fatto amicizia con tramonti che
lasciavano senza fiato e, poiché erano i mesi estivi, con una luce perenne che
incendiava i cieli della baia di Töölö.
Come dottoranda potevo affittare un appartamento che si affacciava sul
Mar Baltico, e lo studentato offriva, compresa nel canone, una lauta
colazione. A parte le mattine in cui andavo all’università per le riunioni, ero
sempre da sola con i miei dati da analizzare; perciò, il momento della
colazione in cui potevo parlare con altri studiosi come me era prezioso. Lì le
conversazioni erano molto simili: «Di cosa ti occupi? Hai già raccolto il
materiale? Quando presenti la tesi?»
Fu così che conobbi Inari, una ricercatrice di circa quarantacinque anni,
ospite come me dell’ateneo della capitale e che avevo già incrociato un paio
di volte. Inari insegnava in una prestigiosa università, viveva con il marito
Pekka e non avevano figli. Da un anno aveva vinto una borsa di studio per
una ricerca sugli adolescenti. Chiacchierando una mattina, le avevo detto che
mi occupavo di relazioni e di dipendenza affettiva, e che dovevo scappare
perché avevo un colloquio di sostegno online. Sembrava molto interessata,
così salutandola le lasciai l’indirizzo del mio sito, dove avrebbe potuto
approfondire l’argomento con l’aiuto del traduttore automatico.
Per alcuni giorni non la incontrai più, poi una mattina mi chiese di fare un
colloquio psicologico. Le tremava la voce e lì per lì non seppi risponderle,
combattuta tra la sua richiesta di aiuto e un setting così anomalo e insolito.
Alle mie obiezioni, mi ricordò che nello studentato c’erano molte stanze
dove poter fare riunioni e gruppi di lavoro. Una caratteristica meravigliosa
della Finlandia è proprio la gestione degli spazi, confortevoli come un
abbraccio caldo, forse per ripagare dei lunghi mesi con poca luce e clima
gelido.
Acconsentii, a patto di sospendere le eventuali future colazioni, per tenere
distinti i ruoli nei nostri incontri, poiché uno psicologo non può essere pari a
un amico e un colloquio di sostegno psicologico non può essere paragonato a
una chiacchiera da bar.
Prenotammo una meeting room e concordammo di trovarci per cinque
martedì di fila, a un orario pattuito, per dare una regolarità agli incontri. Per
comunicare usavamo l’inglese; non era la lingua madre di nessuna delle due,
e anche questo mi creava dubbi, ma Inari mi sembrava così affranta che per
un po’ sospesi le remore e decidemmo di vedere che cosa sarebbe accaduto.
Mi raccontò della sua relazione con Pekka, e mi disse che voleva fare i
colloqui per aiutare lui.
Quando una persona si presenta con un’affermazione del genere, mi è
abbastanza chiaro che ben presto incontreremo il copione del salvatore.
Infatti, Inari rivelò con reticenza che Pekka aveva vari problemi. Ex
dirigente della Nokia, ora non lavorava più e aveva numerose dipendenze:
giocava d’azzardo, si imbottiva di bevande energizzanti quando non abusava
di alcol, passava ore al computer. Ma soprattutto Pekka intesseva svariate
relazioni virtuali su siti per incontri online, e talvolta vedeva di persona le
sue amiche di chat, come le definiva lei.
Ogni volta che cercavo di farle domande su come si sentisse, lei spostava
il discorso su Pekka.
Anche questo era un aspetto da valutare e glielo dissi. Alla domanda su
cosa accadeva dentro di lei quando scopriva questi incontri, Inari si stupì e
rispose che apprezzava la sincerità di Pekka. Confessò poi che la sua vita
consisteva nel controllare da remoto gli orari del partner: sapeva
perfettamente quanto tempo stava in chat e con chi, e cosa si dicevano. Si
faceva mandare gli screenshot delle loro lunghe conversazioni ed esaminava
lei stessa i profili delle donne che Pekka le porgeva. Diceva di sapere tutto di
lui e che avrebbe tanto voluto aiutarlo a smettere tutti i suoi vizi, come li
chiamava.
Perché lui era buono, e lei conosceva la sua vera essenza, diceva.
Inari soffriva moltissimo, ma sembrava non rendersene nemmeno conto.
Lo portava lei a bere vino il venerdì verso sera, quando rientrava da
Helsinki, poi, all’ennesimo bicchiere, lo trascinava a casa e lo metteva a
letto. Se lui comprava troppe bevande energizzanti lei svuotava le lattine, gli
conteggiava le calorie che assumeva, gli dava i soldi per comprare il cibo, si
occupava lei di tutte le spese. Era arrivata a fargli una to do list per quando
lei non era a casa, durante la settimana, così Pekka aveva una scheda di
compiti da svolgere e di cose da non fare fino al suo arrivo nel week-end.
A mano a mano che procedevamo nei colloqui, Inari trovò il coraggio di
raccontare a voce alta una pratica che talvolta accadeva nella loro relazione.
Lui le svelava di essersi invaghito di una donna incontrata su un sito e le
mostrava le foto in cerca di approvazione. Dopo di che, se Inari
acconsentiva, lui proponeva alla donna un appuntamento, a patto che Inari
potesse accompagnarlo e cenare con loro, poi lui avrebbe proseguito
l’incontro in una stanza d’albergo pagata da Inari, che aspettava in auto. Con
una donna consenziente, Pekka si era spinto oltre e aveva chiesto se Inari
potesse sedersi in disparte nella stanza e guardare mentre si consumava l’atto
sessuale.
Inari raccontava tutto questo con voce sommessa e spenta, come se si
trattasse di un destino ineluttabile, quasi fosse anestetizzata e stesse parlando
di qualcun altro. Le chiesi se quella situazione le piacesse, e non riuscì a
rispondere, come se non si fosse mai posta quella domanda. Acconsentiva
perché, nella sua organizzazione interna, lo riteneva dovuto e necessario, pur
di non perderlo, diceva.
Perciò le chiesi se fosse d’accordo a tornare con il ricordo in quella
camera d’albergo e a descrivermi i dettagli, partendo dalle sue percezioni,
che luce ci fosse, com’erano i mobili. Gradualmente speravo riuscissimo ad
arrivare a contattare le emozioni che Inari per proteggersi aveva sepolto
dentro di sé, in un anfratto inaccessibile, come in un caveau blindato. Mi
disse che si era seduta per terra, la stanza era in penombra. E di aver
allungato lei a un certo punto i profilattici e i fazzolettini al marito. E di
essere rimasta lì, con il cappotto, in attesa che finissero. Poi gli aveva portato
una bibita energizzante, aveva aspettato che si rivestisse e l’aveva
riaccompagnato a casa.
Solo rivivendo la sequenza minuziosa di quel giorno Inari riuscì
finalmente a sentire la profonda umiliazione che aveva provato in tutti quegli
anni in cui, pur di avere il controllo totale sul compagno, aveva accettato
quelle situazioni senza provare piacere alcuno.
Nel percorso ci aiutò restare in silenzio e accogliere ciò che emergeva in
uno spazio protetto, di non giudizio. In questo caso, Inari aveva bisogno di
uno specchio in cui guardarsi e di dare un nome a se stessa. La mia presenza
era un’ancora, che permetteva alla tempesta di accadere, accogliendola con
fermezza e dandole dignità mentre infuriava.
Molti codipendenti non sanno di avere una dipendenza. Non sono
consapevoli di essere infelici, perché tutta la loro energia è protesa a
risolvere l’altro, dimenticandosi totalmente di sé. Possono passare una vita
intera in questo litigio con un rivale – la dipendenza dell’altro – che non sarà
mai sullo stesso piano.
Inari riuscì a vedere che Pekka aveva un problema anche con il sesso, e
poté ammettere che tutto quanto accadeva nella loro relazione era supportato
dal proprio atteggiamento compiacente. Pur di non perderlo, lei aveva
accettato e lottato, ma così facendo aveva tolto a Pekka ogni responsabilità,
sostituendosi a lui. In più finiva con il diventare complice delle sue condotte
promiscue.
Nei momenti più difficili Inari minacciava di lasciarlo, lo aveva fatto
migliaia di volte, ma poi non tollerava di sentirsi cattiva e soffriva molto
all’idea di lui abbandonato alla mercé di se stesso. Tornando ogni volta sui
suoi passi lo rimpiccioliva, rivestendo il ruolo di genitore e mantenendo lui
in quello del bambino incapace e irresponsabile. Entrambi legittimavano
questa danza in cui lei aveva l’illusione di poter padroneggiare la situazione
controllando le questioni pratiche, mentre Pekka, facendosi accudire in tutto
e per tutto, teneva invece le redini emotive nella relazione.
Tutti e due erano dipendenti dal controllo sull’altro, anche se non lo
sapevano; soprattutto Pekka teneva in pugno Inari con i suoi bisogni e le sue
pretese.
Quando tornai in Italia continuammo a sentirci online per diversi mesi, in
cui facemmo un importante lavoro di scavo negli script familiari di Inari, che
osservò quanto somigliasse alla madre e alla nonna, donne silenziose e
chinate, arrese a una vita in funzione degli altri. Emerse anche che il nonno
materno era un alcolista, e da bambina la madre a volte andava a cercarlo
sulla strada con una torcia, terrorizzata che fosse caduto scivolando sul
ghiaccio.
Poco a poco Inari riuscì a smettere di controllare Pekka, non tornò più a
casa nei week-end, si iscrisse in una palestra vicino allo studentato e non si
occupò più degli aspetti economici della famiglia. Pekka ricominciò a
lavorare part-time e decise di andare in terapia, con un supporto anche
farmacologico.
Quando abbiamo interrotto il nostro percorso Inari stava per lasciare
Pekka e trasferirsi in maniera stabile a Helsinki. Ogni Natale mi scrive e mi
manda una confezione di fiocchi d’orzo per fare l’ohrapuuro, il porridge che
mangiavamo insieme a colazione. Nella sua ultima mail mi ha detto che
frequenta un maestro di bel canto, ma non convivono.
18
Ah, la famiglia!

«Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.»
LEV TOLSTOJ, Anna Karenina

COME ho detto all’inizio del libro, tra i diversi paradigmi teorici utili ad aiutare
le persone intrappolate in una dipendenza affettiva, quello che mi permette
di indagare più in profondità è l’approccio sistemico-relazionale, che da un
lato mi consente di osservare le dinamiche della relazione al microscopio,
dall’altro mi propone una lettura in prospettiva, guardando con un
cannocchiale tutta la famiglia di origine della persona.
Ritengo che studiare le famiglie sia affascinante e dia molte risposte per
comprendere a fondo la dipendenza relazionale. Nelle storie delle famiglie
troviamo i codici, le regole, le mancanze, ma anche le ricchezze e le risorse.
Due sono gli aspetti da considerare nello studio prospettico dei nuclei
familiari: l’omeostasi e la morfogenesi. In sostanza, nella famiglia esiste una
struttura di base che tende a restare stabile per una sorta di autoprotezione
del sistema, l’omeostasi, salvaguardando così un equilibrio che protegge la
sua sopravvivenza. Allo stesso tempo c’è un cambiamento continuo, definito
morfogenesi, che accompagna l’evoluzione degli individui. Queste due
dimensioni coesistono e danzano insieme, rendendo le famiglie un
caleidoscopio che al contempo muta e rimane uguale.
I passaggi evolutivi della famiglia avvengono attraverso movimenti
oscillatori costanti tra omeostasi e morfogenesi, tra processi innovativi e
pratiche che consolidano lo status quo: pur restando la stessa famiglia, in
essa convivono continui mutamenti. La sua identità è data dalla costante
tensione tra l’essere al contempo protagonista e risultato della
trasformazione.
La qualità dei legami relazionali e affettivi che si realizzano nella famiglia
è dunque capace di condizionare i processi necessari alla costruzione
dell’autonomia dell’individuo e, insieme con le caratteristiche biologiche e
fisiologiche del soggetto, è responsabile della personalità e del suo
funzionamento normale o patologico.
Come ci separiamo dalla nostra famiglia?
A volte questo passaggio può risultare molto difficile. Il processo
evolutivo che porta a individuarci come persone con una nostra identità
inizia nella primissima infanzia e procede a più riprese, a gradini irregolari:
crescendo, talvolta non vediamo l’ora di diventare grandi, per poi voler
subito dopo tornare piccoli ed essere accuditi.
È nell’adolescenza che ci giochiamo lo stacco finale, prendendo lo slancio
per spiccare il volo. In questa fase transitiamo da una condizione di
dipendenza a una sempre maggiore autonomia, ed è la tappa evolutiva più
delicata, perché ci avviamo ad assumerci la responsabilità di ciò che siamo,
facciamo e scegliamo. Un mancato compimento di questo processo può dare
origine, in seguito, a uno stato di confusione in cui non sappiamo bene chi
siamo e qual è il nostro posto nel mondo. Giunge tuttavia un momento in cui
è necessario «tradire» il nostro sistema per poter scoprire la nostra unicità.
Anche questo passaggio evolutivo ci spaventa.
La famiglia è lo scenario primario dove si compiono le prove di quanto
avverrà poi anche altrove. A lei il compito di tramandare valori, credenze e
mappe di senso, e di costituirsi palcoscenico per possibili cambiamenti. Essa
è al contempo luogo dove nascono e si sviluppano problematiche, ma anche
miniera di soluzioni possibili.
Pertanto, va da sé che il modello di (mal)funzionamento nella relazione si
impara nella famiglia di origine, prima che negli altri contesti sociali di
crescita che si incontrano durante le traiettorie di sviluppo.
Secondo alcune teorie, la famiglia segue leggi ben precise, atte a
mantenere l’ordine e la sopravvivenza del sistema. Possiamo osservare, e
anche dedurre in maniera logica, che in ogni sistema vige il principio di
appartenenza: ciascun componente ha diritto di appartenere e se qualcuno
viene escluso, questo avrà una ripercussione importante.
Inoltre, c’è un ordine gerarchico fatto di ruoli ben precisi da mantenere
che, se sovvertito, crea infelicità e disordine. Per esempio, se un figlio fa da
padre a un genitore, probabilmente da adulto porterà un bisogno non
ascoltato nella relazione con il partner e gli chiederà di fargli da genitore,
ricompensarlo, ripagarlo del pezzo di vita perduto a svolgere un ruolo non
suo. Altre volte un figlio «sposa» un genitore, cioè si comporta con lui da
coniuge, sovvertendo l’ordine.
Affinché ci sia equilibrio tra i membri, deve esistere un’equa distribuzione
del dare e avere. Tra i coniugi, per esempio, se uno dei due dà di più si
colloca nella postura di un genitore e finisce forse con il chiedere a un figlio
di compensare questo sbilanciamento.
Tra pari, il dare e avere resta equo, altrimenti si creano molti problemi, le
coppie naufragano e nelle famiglie si formano modelli disfunzionali.
I terapeuti sistemici individuano nella dipendenza affettiva un’espansione
di quanto vissuto e codificato nel nucleo affettivo originario: di conseguenza
possiamo ipotizzare che modelli distorti siano in grado di influire fortemente
sulle relazioni future. Nell’interazione all’interno della coppia non si
incontrano e confrontano soltanto due singoli ma due culture familiari.
Le famiglie con forte tendenza centripeta, a maglia stretta, daranno origine
a modelli comportamentali molto invischianti: i membri devono restare nei
paraggi, non tanto fisici, ma soprattutto psicologici. Si ricerca prima di tutto
la fusionalità, a scapito del riconoscimento dell’individualità di ciascun
membro. In altre parole, tutti devono sostenere gli altri in quanto la famiglia
è al di sopra di ogni cosa, va protetta e conservata e ha la precedenza sui
singoli. I componenti di questo tipo di famiglia tendono a ricreare un nucleo
coeso ma confuso e simbiotico, dai confini impermeabili verso l’esterno –
che rimane chiuso fuori – e dove è lasciato scarso spazio all’individuo. La
persona che ha acquisito questo modello vive una forte identificazione con il
clan di appartenenza e fatica a vedere se stessa come un’unità funzionante in
modo autonomo.
Nelle famiglie caratterizzate invece da un modello di disimpegno,
centrifugo, a trama larga, a bassa forza di coesione e identificazione con il
nucleo originario, l’individuo sarà propenso a instaurare legami dispersivi,
frammentati, sfilacciati.
Sia che le famiglie abbiano avuto un atteggiamento soffocante o
un’attitudine disgregante, la persona sarà portata a sviluppare un’affettività
contorta di dipendenza o di evitamento dell’affetto.
Dall’incontro di questi due modelli e delle varie combinazioni nascono
schemi relazionali più o meno funzionali.
Per comprendere come erano declinati i confini all’interno della famiglia,
a volte faccio una domanda molto semplice ai miei pazienti che soffrono di
dipendenza affettiva: in casa sua, prima di entrare nella stanza dell’altro, si
era soliti bussare? Dopo una pausa di stupore, il più delle volte la risposta è
no.
Ho potuto osservare che molte persone non si allontanano dalla famiglia
di origine nemmeno da sposate. Sia da un punto di vista psicologico sia
fisico. Ruggero, per esempio, dopo il matrimonio aveva scelto di vivere
nell’appartamento di fronte a quello dei genitori, in una villetta bifamiliare
alla periferia di una grande città, restando pertanto in una specie di bolla
degli affetti. Alla domanda se vi fosse l’abitudine di bussare prima di
entrare, o se esistessero porte da poter chiudere a chiave, mi rivelò che non
solo non c’erano chiavi, ma nemmeno le porte tra una stanza e l’altra, bensì
una sequenza di spazi aperti tra le due unità abitative.
Ruggero aveva chiesto alla moglie di trasferirsi nella casa in cui era
cresciuto e dove i genitori andavano e venivano indisturbati da un
appartamento all’altro. Il messaggio alla partner, che era stata inglobata nel
nucleo, era: «La mia famiglia di origine conta più della nostra, anche se
abbiamo figli. E conta anche più della tua».
Inutile dire che il nucleo secondario si è fratturato e la coppia si è
separata, mentre Ruggero non è riuscito ad allontanarsi dai familiari,
nonostante abbia fatto un percorso psicologico. Perché ci sono famiglie che
non lo permettono, e ci vuole molta forza per trasformare uno schema
tramandato da varie generazioni. Se il codice prevede che non si vada via e
che tutti interferiscano in tutto, facilmente l’elemento che si inserisce – in
questo caso la moglie – si sentirà piano piano estromesso, marginale, non
fondamentale. Ed è probabile che sceglierà di allontanarsi, mentre l’altro
rimarrà invischiato con la propria famiglia perché non vuole sentirsi in
colpa.
Più avanti torneremo sulle ombre psichiche che si affacciano quando
dobbiamo prendere decisioni che differiscono dalle norme del sistema e
implicano l’ipotesi di tradire il clan.
19
Galassie familiari

«Il tutto è maggiore della somma delle sue parti.»


ARISTOTELE, Metafisica

LE famiglie sono galassie affascinanti e multiformi, e a seconda delle loro


configurazioni, da come hanno interpretato stabilità e cambiamenti, i loro
componenti andranno più o meno sicuri per il mondo. Dal momento che è la
famiglia il terriccio da cui sbocciamo affettivamente, da lì tutto inizia, e quel
luogo ci resterà o ci mancherà dentro sempre.
Anni fa, durante la stesura di una delle mie tesi di laurea, avevo utilizzato
dipinti di pittori famosi per studiare come la famiglia fosse raccontata nelle
diverse epoche storiche, per osservarne nei dettagli i segreti e le evoluzioni.
In tante raffigurazioni cinquecentesche la vediamo emblematica, iconica,
statica, astratta. In seguito la realtà quotidiana entra nei quadri, come
vediamo ne I mangiatori di patate, dove van Gogh evoca invece l’unione e
la fedeltà dei familiari negli stenti e nella fatica. Altre istantanee di vita le
troviamo ne La famiglia Bellelli di Edgar Degas: qui un presunto padre
austero è dipinto di spalle, anaffettivo e distante, in un contesto in apnea e
immobile. In epoca fascista, La famiglia del pastore di Sironi ci mostra un
padre possente e lavoratore, immenso e imperante sulla moglie ai suoi piedi,
inginocchiata a terra con il figlioletto. In altre assume forme cangianti. La
danza di Matisse raffigura alcune persone che ballano in cerchio creando un
movimento fluido. Supponendo che siano membri della stessa famiglia,
appaiono tutti sullo stesso piano e creano un balletto armonico che però non
si apre all’esterno. Come se si ipnotizzassero tra loro e si bastassero, poco
interessati ad altro.
Se ci pensiamo, non conosciamo famiglie così?
Nelle pubblicità dei nostri giorni troviamo poi la famiglia affettuosa e
patinata del Mulino Bianco, di un affetto talmente costruito che risulta
estraniante, stereotipato e utopistico. Con I Simpson, i ruoli genitoriali
vengono sovvertiti: i componenti iniziano a essere umani e ammaccati, la
madre ha più grinta del padre e lo sovrasta. E le fughe di notizie sulla stampa
ci mostrano le tante famiglie reali imperfette e dannate, rivelandoci orrori
nascosti sotto cortesi facciate.
Insomma, da come la vediamo rappresentata, possiamo dire che negli anni
la famiglia ha subito varie scosse telluriche di assestamento.
Al giorno d’oggi, assistiamo a un’ulteriore evoluzione dei nuclei affettivi,
come le famiglie arcobaleno, a cui vengono giustamente riconosciuti sempre
più diritti e legittimazioni.
Al mutare delle geometrie familiari muta anche la coppia, e con essa le
dinamiche genitoriali.
Come sostiene Pietropolli Charmet, è interessante tracciare il
cambiamento del ruolo del padre nella famiglia avvenuto nel tempo. Il padre
normativo delle società rurali lascia il posto al padre degli affetti, che si pone
non più come caput mundi, ma diviene orizzontale come la famiglia, in cui
tutti si occupano di tutto allo stesso modo. Egli assume così un ruolo un po’
evanescente, sempre più materno, non riesce più a porsi come elemento di
interruzione della relazione simbiotica madre-figlio e si propone come terzo
polo, finendo però con l’assumere un ruolo già esistente. Poiché la figura
paterna sembra essere assai in crisi e destabilizzata a livello psichico,
giuridico e sociale, il figlio vive la sua presenza quasi come un duplicato di
quella materna, una sorta di «mammo» che si preoccupa della vicinanza
affettiva in veste di compagno di gioco, di amico e di pari. Lo ricordiamo, un
padre resta tale al di là delle mansioni svolte all’interno dei processi di
accudimento della famiglia.
Perciò, il padre attuale sembra aver rinunciato all’autorità per avere il
benestare del figlio, spaventato di stabilire regole che nemmeno lui stesso
possiede con chiarezza. L’essere genitore adeguato, in grado di svolgere una
funzione normativa e di imposizione della disciplina, passa attraverso
l’approvazione dei figli; ciò allontana sempre più dalla posizione verticale
che segna l’asimmetria generazionale e conferisce autorità e rispetto al
ruolo.
Perché accade? Perché il padre degli affetti è sotto scacco perenne: teme
di perdere l’amore dei figli, e in maniera inconscia compete con il ruolo
materno. È, in ogni caso, un padre in preda a un bivio emotivo, in crisi e
senza bussola: è un padre in transizione, in bilico tra un modello passato e
uno nuovo non ancora ben definito.
Con questo non intendo sostenere una separazione dei ruoli in maniera
rigida e stereotipata, ma in ambito psicologico esistono forme archetipiche
nel nostro immaginario collettivo che incarnano dimensioni precise:
accoglienza, autorità, contenimento e nutrimento. E nella coppia genitoriale
tali dimensioni vanno declinate, svolte ed esercitate per favorire lo sviluppo
dei figli. È chiaro che sono aspetti sfumati, ma una polarità nella coppia va
mantenuta, anche nelle famiglie di genitori dello stesso sesso. Non ha
importanza chi fa che cosa, ma quel qualcosa va fatto da chi educa. Per uno
sviluppo armonico, gli opposti vanno forniti, coniugati e praticati. È la
pluralità di offerte emotive che dona una competenza con cui affrontare il
mondo. Se le abilità affettive, le regole con cui rispettare se stessi e il
mondo, la morbidezza e la fermezza non vengono rappresentate nelle varie
tonalità, non saranno interiorizzate e fatte proprie dai figli, che rischieranno
di avere un repertorio monocorde e sguarnito per affrontare la vita. Perciò,
non importa tanto il sesso dei genitori, quanto l’esercizio degli opposti da
includere e tenere in mente per crescere, perché è attraverso le polarità che
impariamo a stare in equilibrio.
Tornando alla famiglia, data la sua scomposizione in pluralità multiformi,
in configurazioni allargate, frammentate, sfrangiate, ricomposte, possiamo
ipotizzare che anche la coppia subisca un’alterazione, rischiando così di
perdere il suo ruolo centrale, finendo con l’essere messa da parte o con il
trasformarsi in altre geometrie.
La famiglia confusiva e senza identità di ruoli è ben raffigurata da un
pittore contemporaneo, Simone Boscolo, il quale descrive nei suoi quadri
l’assenza di ruoli e confini tra i componenti, disegnati senza volto, in un
insieme grigio e annebbiato, a tratti spettrale. Sono persone in bianco e nero
tutte ammassate sullo stesso piano, senza un prima e un dopo, che sembrano
altrove come fantasmi, assenti a se stesse, senza occhi per vedere, senza
volto per esprimere la propria unicità. E così pare essere la famiglia
contemporanea.
Anche se è doveroso dire che al momento in cui scrivo le cose stanno
cambiando di nuovo, poiché la pandemia e gli ultimi avvenimenti geopolitici
stanno incidendo in modo pesante anche sulle configurazioni familiari. I
disagi dovuti alle chiusure e alle restrizioni hanno avuto un grande impatto
su chi si è ritrovato più o meno costretto a convivere tutto il giorno tra le
mura domestiche, affrontando un’emergenza in apparenza senza fine, con
conseguenze emotive ancora da valutare a fondo.
Di fatto, paura, ansia, incertezze e frustrazione si sono sedute alla tavola
delle famiglie, già provate dai mutamenti di ruoli avvenuti. Per mia indole e
formazione professionale, cerco comunque di tenere aperte le porte, oltre che
ai cambiamenti, anche alle proposte positive che ogni periodo di forte crisi
porta con sé. Talvolta il vento sradica in modo brutale vecchi schemi, ma al
contempo permette la semina di nuove opportunità, pur restando vero che
sarà molto difficile dare certezze a chi sta crescendo se noi adulti non ne
abbiamo.
Forse, tra le tante cose che possiamo apprendere da questo durissimo
momento storico c’è la capacità di gestire le nostre fragilità con coraggio,
senza fingere che non esistano. E farne un punto di forza.
Va da sé che in queste mutazioni «genetiche» della famiglia rischiamo di
smarrirci durante i processi di separazione e individuazione che determinano
il nostro sviluppo. Abbiamo parlato di come il bambino interiorizzi forme di
amore accudente o meno, e quanto questo influirà sulle sue relazioni adulte.
Il pericolo è che abbia a fianco genitori Hänsel e Gretel, persi a loro volta in
un bosco emotivo incerto e dubbioso. E che senta di dover crescere in fretta
per sostenere quei genitori smarriti, lasciando così indietro parti di sé che poi
da adulto chiederà al partner, o tenterà di farlo. Fallendo miseramente.
Ancora una volta, stiamo forse dando la colpa ai genitori? Certo che no.
In ambito psicologico, non si parla mai di «meglio» o «peggio», ma si
parte con il rilevare ciò che accade e come incide nell’ipotesi di un disagio.
Nei colloqui con i mei pazienti la colpa è un personaggio impertinente,
costante e inutile ai fini del nostro percorso.
Inutile, sì, lo ribadisco.
Perché da un punto di vista psicologico la colpa ci mantiene piccoli e
immobili, ci paralizza e impedisce la nostra evoluzione. Perciò invito nella
nostra stanza di lavoro un personaggio più efficace: la responsabilità. Ma su
questo torneremo.
A mano a mano che cresciamo, ci troveremo quindi a fare i conti con il
gruppo a cui apparteniamo, e al contempo costruiamo chi saremo. Ma ancora
prima di essere inseriti in una rete relazionale con gli altri dovremo
affrontare il rapporto più importante della nostra esistenza: quello con noi
stessi.

Con te e senza di te
In un’ipotetica famiglia dove tutti i componenti sono presenti e attivi,
l’individuo potrà sperimentare l’essere con e l’essere senza, grazie
all’acquisizione della capacità sia di essere in relazione sia di disimpegnarsi
per rivolgersi altrove, rapportandosi a volte con un genitore e a volte con
l’altro, o con entrambi allo stesso tempo. Questo gli consentirà poi di
esportare tali esperienze relazionali anche in altri contesti.
Sperimentando varie configurazioni, impariamo a stare, a lasciare, a
tornare, allargando o restringendo le interazioni a tu per tu, o a tre, o più
persone se siamo in una famiglia numerosa.
Se nel sistema ci sono modalità invischianti e confusive l’individuo non
apprende a svincolarsi, a rapportarsi in maniera adeguata, e resta
intrappolato nelle dinamiche affettive. Più in una famiglia vengono praticate
le varie possibili figure geometriche relazionali – mamma-figlio, mamma-
papà-figlio, padre-figlio, fratello-fratello, papà-figli e così via –, lasciando lo
spazio affinché ci si possa allenare alle tante combinazioni, più impariamo a
svincolarci e a rientrare nella relazione, senza voler stare sempre connessi, o
sempre distanti e scollegati.
È in questa alternanza tra con e senza che troviamo un punto fermo dentro
noi stessi, dove poter talvolta riposare «a maggese», come avrebbe detto lo
psicanalista Masud Khan, per coltivare quei momenti in cui godiamo della
nostra compagnia.
La funzione materna, tra le altre cose, ci insegna a nutrirci e a prendere
dentro di noi il mondo, o a lasciarlo fuori. Il ruolo del padre, o di chi ne
impersona i principi, rappresenta invece in maniera simbolica la spinta verso
l’esterno. A seconda di come interiorizziamo la sua figura, avremo più o
meno forza per esplorare il mondo.
Ogni relazione è pertanto una costante ondulazione, come una marea che
avanza e si ritrae, e il modo in cui porteremo avanti le nostre onde
relazionali dipende proprio dalle prove tecniche effettuate in famiglia.
Facciamo un esempio a cui abbiamo assistito tutti. Pensiamo a un
bambino piccolo che sperimenta lo scivolo per le prime volte al parco
giochi: lo farà in maniera molto diversa se a guidarlo in questa esperienza
sarà il principio materno o quello paterno. La mamma, per esempio, è facile
che metta il figlioletto sullo scivolo e lo tenga con le mani fino a quando non
sarà sceso. Il papà (o chi ne fa le veci) sistema il bimbo sullo scivolo ed è più
probabile che gli dica: «Scendi, dai, coraggio, scendi, vieni giù (dal papà)»,
e lo aspetterà in fondo, incentivando così la sua autonomia e incitandolo a
fare da solo.
Che cosa succede se questa doppia stimolazione, contenimento e
avventura, non accade?
La madre, o chi per lei, cercherà di sopperire a tutto, ma difficilmente
toglierà quelle mani: nel tentativo di ricoprire più ruoli, rischierà di tessere
una tela da cui, con ogni probabilità, il figlio faticherà a districarsi. L’eccesso
di cura potrà finire con l’ingabbiare le emozioni e le pulsioni di libertà del
bambino, rischiando senza volere di creare un ambiente ipercontrollante e
impedendo quello snodo delicato e necessario di autonomia.
Dal canto suo, per compiacere un genitore iperprotettivo il figlio può
finire con l’adeguarsi al suo volere. Quando questo accade, il genitore
diventa incapace di vedere il figlio nella sua dimensione di individuo a sé.
Così facendo, gli impedisce di essere indipendente, una persona altra e
diversa.
Per riassumere, possiamo dunque sostenere che una competenza
genitoriale smarrita e distratta può creare individui incerti, e di conseguenza
una società malferma e poco credibile.
Nel processo educativo, prima si tiene e poi si incoraggia verso il volo.
Sembra però che oggi stiamo facendo un po’ il contrario: vogliamo figli
intraprendenti a due anni, poi impediamo loro l’avventura nel mondo,
legandoli stretti alla gamba del tavolo della cucina e trasformandoli in
surrogati dei nostri genitori. Vediamo così padri e madri che da un lato
incitano i figli piccolissimi a superare il limite delle loro capacità,
accelerandone il processo di maturazione emotiva e cognitiva, mentre
dall’altro sembrano miopi rispetto ai reali bisogni affettivi della prole, che
spesso credono in modo erroneo di soddisfare con una pletora di oggetti
invece che con una sponda di contenimento emotiva capace di infondere
sicurezza.
Ed è soprattutto la sicurezza economica che pare essere perseguita e
garantita dal buon genitore attuale, scambiando il vero sguardo sul figlio con
il soddisfacimento dei bisogni materiali, invece di riconoscerlo, ascoltarlo
davvero e lasciarlo libero di esprimere i suoi bisogni affettivi. Nella rinuncia
a un ruolo che non gli appartiene più e nel transito da una forma di
genitorialità ormai oltrepassata a una nuova ancora da consolidare, si rischia
di perdere quel senso di responsabilità che il figlio, di conseguenza, non
apprende.
La famiglia sembra quindi in crisi, ma da ogni crisi nasce una
trasformazione.
Senza entrare in valutazioni qualitative, il compito della psicologia è
quello di rilevare ciò che accade nel mondo interiore riflesso in quello
sociale, per cercare di comprendere la nostra continua evoluzione, che mai
accade in maniera lineare e costante. Perciò possiamo soltanto monitorare le
problematiche della famiglia, riconoscendo tuttavia le nuove famiglie, con le
loro neonate risorse in divenire.
Se nel frattempo sentiamo di provenire da un nucleo familiare che poco
contiene e indirizza, cercheremo di riparare con relazioni esterne, utilizzando
meccanismi di consolazione e compensazione. Andremo a cercare
motivazioni e sostegno, senza trovare un bacino di rifornimento dentro di
noi, se nessuno ce lo ha insegnato.
Ancora una volta, precisiamo: abbiamo sì tutti bisogno gli uni degli altri,
ma non possiamo delegare loro la nostra forza. Se una persona avverte la
costante necessità di richiedere supporto, di essere guidata, approvata e
incoraggiata, tenderà appunto ad attingere all’esterno le ragioni per agire.
L’assenza di spinta interiore nelle scelte di vita forse le provocherà
irrigidimento e la indurrà a prendere decisioni immature, nonostante l’età
adulta, facendola così sentire distante da se stessa e deresponsabilizzata.
Da un punto di vista cognitivo, l’individuo emotivamente ammaccato
potrà percepirsi inefficace, incapace di fare scelte, e tenderà a valutare gli
altri come più potenti e autonomi. Anche questo lo condurrà a una continua
richiesta di assistenza e accudimento.

L’albero della famiglia


Lo psicologo Bert Hellinger, partendo dalle teorie sistemiche, ha elaborato
un metodo per rappresentare le dinamiche familiari, mettendole in scena in
una sorta di drammaturgia degli eventi e degli affetti. L’individuo può così
vedere rappresentati il copione e la storia del proprio sistema, come se
assistesse dall’esterno a una scena di un film ricca di emozioni e azioni.
Osservando semplicemente ciò che è senza giudizi, la persona può fare
esperienza di una narrazione differente, e sperimentare script relazionali
alternativi, ritualizzandoli e guardandoli da altre prospettive. Per poterlo
fare, è indispensabile conoscere ed esplorare il proprio albero genealogico, la
propria progenie, anche attraverso l’aiuto di un prezioso strumento quale il
genogramma utilizzato dallo psichiatra Murray Bowen per la terapia
familiare.
Molto spesso, quando lo uso con i pazienti, ricostruiamo l’insieme di
persone, e delle loro storie, i fatti e gli eventi che hanno lasciato tracce ed
eventuali cicatrici nel sistema, cercando di andare il più indietro possibile.
Talvolta quando chiedo il nome dei nonni, la persona dice in modo
sbrigativo: «Mio nonno materno non l’ho conosciuto». Allora la fermo e la
faccio riflettere sul fatto che è esistito, che va ricordato, rappresentato dento
di sé, per dargli un posto, poiché se siamo lì a parlare è perché qualcuno ha
dato la vita ai suoi genitori, che a loro volta l’hanno messa al mondo. Così
torniamo indietro e con pazienza cerchiamo un posto e una storia per ogni
persona, rappresentandola come se la vedessimo su un palcoscenico; per
farlo, talvolta utilizzo piccole cose e bambolotti, detti oggetti metaforici.
Mettendo in scena le proprie dinamiche familiari si fa luce e si acquista
consapevolezza del vero senso di alcuni copioni ricorrenti. Per esempio,
chiedo di dirmi verso chi o cosa guardava quel nonno, o verso chi nel
sistema è rivolta la madre. È una domanda molto utile per cercare di
comprendere le motivazioni dei familiari ed elaborare i traumi
transgenerazionali, trovandone le origini remote che vengono tramandate e
ripetute.
Inscenando le trame della famiglia è possibile individuare dove si sono
create fratture, cicatrici e traumi, e riconoscere quel punto in cui si è
spezzato il filo dell’amore.
È questo lo scopo della Scheda di lavoro n. 3. «Il tuo albero» (vedi p.
243), in cui potrete ricostruire il vostro albero familiare.

Io come te, papà: storia di Andrea


Andrea mi chiamò un giorno al telefono e mi disse di aver bisogno di
guardarsi dentro poiché sentiva di non avere più energie per restare nella sua
situazione familiare.
Cinquantacinque anni, due figlie, sposato con Mara da trent’anni. Faceva
un lavoro fisico, arrivava in studio con gli scarponi e la tuta che usava al
lavoro e se ne scusava. Quando ci presentammo notai che aveva le mani
ruvide. Mi colpì una frase che pronunciò appena si sedette: «Dottoressa, mi
sento un sacchetto con tante biglie colorate dentro al cuore, ma sono chiuse
qui e non riesco a farle uscire».
Andrea parlava poco, ma diceva cose profonde e sempre pensate. Con
Mara le cose non andavano da tanto tempo, aveva sempre avuto tutto in
mano lei: la gestione delle figlie, la casa, le spese. Andrea avrebbe voluto
andarsene, ma non aveva risparmi suoi: aveva lasciato il potere alla sua
compagna. Ben presto scoprimmo che aveva assunto il ruolo di terzo figlio
della moglie, a cui non aveva mai raccontato la propria infelicità. Aveva
vissuto incistato in quel matrimonio come una comparsa, senza aver mai
portato un contributo emotivo. Ultimamente, arrivava a casa stanco dal
lavoro e usciva subito dopo per andare a correre, doveva allenarsi perché la
domenica partecipava a maratone nelle varie città del Nord Italia.
L’atteggiamento che manteneva da sempre era di evitamento, attuando un
silenzio punitivo passivo-aggressivo verso la moglie, per la quale diceva di
provare una rabbia dura e sorda.
Al quarto colloquio, mi annunciò che era andato via da casa: aveva
chiesto un appartamento vuoto a un amico e dormiva per terra. Aveva
comunicato la notizia alla famiglia attonita, ignara di cosa covasse in cuor
suo. Alla mia domanda di come si sentisse, mi rispose come un animale
tornato libero nel bosco.
Analizzando la situazione con Mara, Andrea rivelò di essersi sposato per
caso, senza convinzione. Della sua storia familiare raccontò di essere il
secondogenito di una madre immensa dentro di lui. Il padre era alcolista,
aveva abbandonato la moglie, e di lui ricordava solo silenzi e sguardi vuoti:
la paura di quel vuoto avrebbe accompagnato quasi tutti i nostri colloqui.
Disse di sentirsi paralizzato, di non riuscire a parlare con le figlie, che la
moglie gli metteva contro. Gli chiesi se avesse provato a mettersi nei panni
di Mara, che lo aveva visto uscire di casa da un giorno all’altro, del tutto
inconsapevole di ciò che stava accadendo. Lui rispose di no. Una delle sue
maggiori difficoltà era riuscire a entrare in contatto con l’universo emotivo,
suo e altrui. «Forse come suo padre?» gli domandai un giorno.
Andrea aveva un fisico snello e scattante, da podista; mi raccontò però di
essere stato un ragazzino obeso fino ai quattordici anni, poi aveva deciso di
imporsi un regime alimentare restrittivo. Aveva attraversato periodi atroci,
molto bui, di cui ricordava una solitudine profonda e tanto freddo. Da allora
Andrea aveva cercato di fingere di non avere dentro di sé la stessa paura del
vuoto del padre. Dopo avere spostato sul cibo la compulsione che il padre
aveva per l’alcol, era passato allo sport sfiancante e anche all’eccesso di
lavoro, che usava come una droga per sfinirsi.
Nella famiglia di origine, Andrea ricopriva il ruolo di marito della madre,
invertendo l’ordine nella gerarchia. Con la moglie aveva una relazione
gelida, da bambino ostinato, e reclamava da lei tutto il suo passato irrisolto.
Era irretito nel suo sistema: portava il peso del vuoto del padre e il dolore
della madre, rimasta sola ad accudire i figli, e questa fedeltà lo teneva in una
situazione di siccità affettiva.
Fino a quando ha avuto il coraggio di separarsi; così facendo è stato
costretto ad attraversare quello spazio scomodo di aver tradito il sistema,
autorizzandosi a creare un copione nuovo.
Abbiamo dovuto lavorare molto con il padre interiorizzato: Andrea aveva
dimostrato grandi resistenze nel processo di risignificazione della figura
paterna. Rifiutava talmente tanto quell’uomo zitto e stordito dall’alcol che
rischiava di diventare esattamente come lui, del tutto assente anche durante i
nostri colloqui. In alcuni momenti Andrea scompariva dentro a un silenzio
fatto di un muro inespressivo. Il mio compito è stato restare con lui davanti a
quel silenzio, senza averne paura. Se non lo temevo io, forse anche lui
poteva guardarlo e farci amicizia.
Ora Andrea ha una nuova compagna, Romina, e un buon rapporto con
Mara. È riuscito a ritrovare il posto di figlio nel suo sistema di origine, e
prova rispetto verso la madre, onorando la vita che le viene da lei. Ogni anno
mi scrive poche parole, il suo ultimo messaggio recitava più o meno così:
«Dottoressa, se esiste un grazie più del grazie, io così mi sento».
#Frammento n. 4
La rabbia

SONO stata arrabbiata tutta la vita con i miei genitori. Crescere con la
convinzione di essere figlia illegittima di due genitori adulteri mi ha fatto
sentire sbagliata, senza un posto definito nel mondo.
Nell’edificio dove mia madre aveva il negozio di parrucchiera, a Belo
Horizonte, le cose all’inizio andarono più o meno così: c’erano vari altri
italiani immigrati, tra cui un pittore che abitava al secondo piano. Lui era
un tipo affascinante e dalla vita rocambolesca: a diciannove anni si era
sposato in Italia e aveva avuto una figlia, poi però aveva lasciato la famiglia
ed era partito per girare il mondo facendo mille mestieri. Immagino sia stato
facile per mia madre farsi travolgere da quell’uomo avvolgente e simpatico,
con l’accento fiorentino e una verve invidiabile.
E così nacqui io.
Per una coppia clandestina era semplice all’epoca abitare in Brasile: lì
potevo avere tutti i cognomi che volevano, mi misero una sfilza di nomi,
quelli di battesimo delle nonne e il doppio cognome di madre e padre. La
faccenda andò ben diversamente quando tornammo in Italia.
Mi sarebbe tanto piaciuto poter scrivere che la storia d’amore dei miei
genitori, nata con una grande passione, avesse vinto nei secoli e che fossero
invecchiati insieme, dimostrando al mondo di aver fatto la scelta giusta.
Invece, dopo tre anni mio padre ricominciò a viaggiare con la scusa del
lavoro, e io lo vedevo solo tre volte all’anno, di passaggio. Mi restava la sua
nostalgia.
La mia infanzia di figlia di immigrati fu abbastanza triste: a parte le
lavoranti di mia madre e la famiglia del portinaio che abitava all’ultimo
piano dell’edificio, non avevo altri mondi. Stavo tutto il giorno in salone con
la mamma, le aiutanti e le loro storie di povertà, con figli avuti da vari
incontri.
In Brasile le famiglie mescolate erano all’ordine del giorno. Teresinha era
una mulatta chiara e aveva otto figli da sette uomini diversi, era sempre
incinta. Aveva solo quelli, li esibiva come trofei con foto in bianco e nero che
portava nel salone. Alcuni erano bianchi, il più grande era biondo con gli
occhi azzurri, figlio di un tedesco, diceva; uno era nato da una relazione
lampo con un indio, che poi la picchiava e aveva abusato della figlia
tredicenne mentre lei era al lavoro nel salone. Lei lo aveva cacciato e aveva
tenuto il bambino. Teresinha aveva un sorriso bello e caldo, era sempre
felice di far vedere la pancia gravida. Quando finiva il lavoro, prendeva
l’autobus di fronte al salone e tornava nella sperduta periferia, in una favela
dove aveva una casa incompiuta di mattoni, senza vetri. La vedevo che
portava grossi pacchi di carta pieni di cibo del supermercato e invidiavo
quei figli senza scarpe in quella casa con il cartone al posto delle finestre. Li
immaginavo liberi e allegri, mentre io ero sempre da sola.
Le lavoranti di mamma erano la mia finestra sulla vita: dalle loro storie
complicate imparavo l’umanità. Ero una bambina adulta, poi da adulta
avrei ritrovato quella bambina lì, rimasta indietro, presentandola al primo
fidanzato affidabile che trovai.
Una volta in Italia, per una strana legge che allora non capivo, dovettero
cambiarmi il cognome. Siccome i miei non erano divorziati, dovevo
chiamarmi come il marito di mia madre che se n’era andato dal Brasile, che
non ho mai conosciuto. In un anno, sperimentai tre scuole e tre cognomi
diversi.
Provavo molta vergogna.
Nessuno mi ha mai chiesto cosa volessi io. Era così. Fine.
In più, nel paese dove vivo tuttora non avevano mai visto uno straniero,
all’epoca. Parlavo un italiano inceppato, e mi dicevano che ero stupida,
molti coetanei mi ridevano in faccia. Solo dopo tanti anni, insegnando a
scuola, ho potuto capire che chi ha poca esperienza, o è molto povero dentro
di sé, per sentire di valere qualcosa se la prende con chi è più in difficoltà.
Adesso lo chiamano bullismo, allora pensavo di essere sbagliata io, nata da
due genitori che avevano combinato un casino enorme, mettendomi al
mondo in una parte strana del pianeta per poi portarmi da una città in un
posto piccolo come un francobollo, dove alcuni sbeffeggiavano quello che
non capivano.
Qualcuno resta così tutta la vita, fermo a denigrare gli altri.
Dato che mio padre era sempre assente, io diventai «il marito» di
mamma, dovendo capire la situazione e aiutare, adeguandomi a qualcosa
che non avevo scelto. Iniziai a lavorare a undici anni come cameriera nella
pizzeria del paese, poi passai a lavare i capelli nel negozio di mia madre. In
Brasile aveva costruito un piccolo impero, aveva molte aiutanti, faceva
parrucche, era rispettata, stava seduta e dirigeva gli altri. In Italia fu
costretta a ricominciare da zero: già allora il cambio della valuta era molto
sfavorevole, così dovette rimboccarsi le maniche. E io con lei, era scontato.
Nessuno mi ha mai chiesto se stavo bene, come mi sentissi con tutti quegli
scombussolamenti.
Ancora una volta, era così e basta.
Quando ci sono necessità di sopravvivenza, non esiste spazio per altro.
Inutile dire che dopo tutte quelle traversie cercai fidanzati ben più grandi
di me, tristi e noiosi ma con la testa sulle spalle, ai quali chiedevo di farmi
da base sicura e di cui non ero innamorata, ma soltanto bisognosa.
Poi la rabbia è esplosa e il fiume nero sotterraneo è venuto a galla. Credo
di aver studiato psicologia innanzitutto nel tentativo di curare le mie ferite,
forse tutti gli psicologi lo fanno.
Soltanto dopo molti anni ho compreso che, simbolicamente, i miei genitori
non avevano ricchezze da darmi, ma quei pochi centesimi di cui erano in
possesso me li avevano donati tutti. E ho capito che l’amore non aveva
soltanto una faccia, quella che avrei voluto io, ma era nascosto in un piatto
di minestra calda, in una notte passata in bianco quando avevo la febbre,
nel sostegno economico per farmi studiare, nell’incoraggiamento a
costruirmi una vita migliore della loro.
Allora mi sono resa conto che in tutto quel tempo passato a lamentarmi di
quello che non avevo avuto mi ero ammalata gravemente di ingratitudine.
Ho riguardato tutta la mia storia più e più volte, ho girato il mondo, ho
fatto decine di terapie, ho studiato il mio animo e quello altrui. E ho fatto
del mio lavoro la mia missione di vita. Ho scelto di aiutare le persone a non
perdere tempo nei rimpianti di quello che non hanno avuto. Le accompagno
a trovare tracce di amore dove prima vedevano, come me, solo dolore.
I miei genitori se ne sono andati da qualche anno, se potessi incontrarli di
nuovo anche solo per un minuto gli direi quello che non ho fatto in tempo a
dire loro: «Grazie».
20
La fedeltà allo schema familiare

LA fedeltà al sistema è un codice invisibile ma presente in ogni famiglia: i


membri sentono che per appartenere al clan non possono permettersi di fare
in maniera differente. Per esempio, se tutti hanno problemi economici,
l’avere successo e prosperità potrà far sentire troppo distante dallo schema la
persona che se ne allontana. Pertanto, il soggetto «pecora nera» che inizia un
movimento differente rispetto agli altri paga il prezzo di avere una coscienza
pesante, come sostiene Hellinger. In caso il codice familiare indichi che per
sopravvivere è necessario essere infelici, avventurandosi verso la felicità si
sentirà il peso di trasgredire questa regola.
Chi invece si uniforma agli schemi impliciti del proprio sistema sarà
infelice come gli altri, ma avrà la coscienza leggera. In tal caso prevale la
spinta a sentirsi uguali, invece che scrivere un nuovo copione da zero e
pagare lo scotto di una scelta diversa, con il timore di non appartenere più al
proprio clan.
Il pioniere che prova a cambiare lo script avvertirà tutto il peso di quella
scelta, anche se sente il dovere di portarla a termine. E saprà pure, se guidato
in quell’analisi, riconoscere per chi lo sta facendo. Per esempio: lo faccio io
per te, papà.
La filosofia sistemica di Hellinger definisce il sentimento che porta alla
fedeltà «amore cieco», distinguendolo dall’amore adulto, che è una forma di
amore consapevole e matura, un «amore che vede».
Se ci pensiamo, l’amore cieco è quello del bambino per un genitore. Non
è vero amore, è attaccamento funzionale, un bisogno atavico di
mantenimento dell’accudimento. Se il bimbo non si aggrappa al genitore sa,
da un punto di vista evoluzionistico, che non potrà sopravvivere. Perciò, in
quest’ottica è il figlio ad avere bisogno del genitore e non il contrario.
Una volta cresciuti, molti di noi restano irretiti in questa forma di
devozione verso i genitori, rischiando di idealizzarli: invece di «ribellarci» in
maniera fisiologica per individuarci e separarci psicologicamente, viviamo
un’eterna estensione affettiva di quelle figure. E continuiamo a proteggerle,
come reliquie. Portiamo i loro fardelli, cerchiamo di salvarli. O, al contrario,
rimaniamo attorcigliati nel giudicarli. Anche attraverso sentimenti negativi,
li manteniamo deificati, immensi dentro di noi. Certamente la loro presenza
è e sarà per sempre nelle nostre cellule, nei nostri schemi appresi, nei
modelli assorbiti, nei copioni respirati. Ma una volta adulti e consapevoli,
possiamo collocare i genitori al loro posto dentro di noi come coloro che ci
hanno messo al mondo e insegnato qualcosa sulla vita, dandoci ciò che
possedevano. Nient’altro.
E quindi, poi, vederli come persone.
Non di rado mi sento dire, e forse a lungo credo di averlo pensato anch’io:
«I miei genitori non mi hanno dato nulla». Ora, dopo aver scavato a fondo
dentro di me, e dopo tanti studi e molto lavoro con le persone, questa frase
mi rattrista perché indica una postura psicologica che fa restare immaturi
dentro. Non fosse altro che per la vita, ci è stato dato qualcosa di grande
valore; poi, a ben guardare, nella maggior parte dei casi siamo stati cresciuti,
mantenuti, nutriti, vestiti, accompagnati a scuola. Tuttavia, quello per molti
di noi sembra non contare, avremmo voluto la famiglia della pubblicità con
il papà che fa volare in alto il figlio sorridendo, in un bel giardino, in riva al
mare, con un cane che scorrazza mentre la mamma porta i biscotti, e poi tutti
si abbracciano. Invece per tanti non è andata per nulla così, ma siamo qui. E
siamo anche abituati a pensare che se l’amore non arriva come avremmo
voluto, non c’è stato. Invece magari sì: era un amore forse un po’ triste e
rattoppato, o ruvido, o preoccupato, scarno e stentato.
Era un amore improprio.
Vi invito a cercare comunque gocce di amore anche in un passato che vi
sembra storto. Sono certa che le troverete. Io le ho trovate, e quando insieme
con i miei pazienti le riconosciamo durante un colloquio è un momento
molto commovente, poiché si scioglie quell’ingratitudine che prima o poi ci
coglie tutti, come un virus pernicioso. E arriva un silenzio di comprensione.
In quell’esatto momento diventiamo, finalmente, adulti. Quando smettiamo
di recriminare all’indietro, lamentandoci all’infinito.
Vorrei fosse chiaro che qui non sostengo una forma buonista di amore a
tutti i costi per un genitore che magari è stato incurante, maltrattante e
abusante.
La tesi che voglio affermare è, invece, quella della libertà.
Se rimaniamo rancorosi con i genitori non siamo liberi, ma intrappolati.
Ciò che aiuta a crescere e ad assumere una postura adulta è considerarli
persone comuni, né dei né demoni, ma esseri fallibili, imperfetti, con
fragilità e ferite ereditate a loro volta. Abbiamo tutti in testa una versione
«livello pro» dei nostri genitori, un modello a cui facciamo riferimento, e
passiamo una vita a volerli adattare a quell’immagine perfezionata, a cercare
di aggiustarli nei nostri pensieri, oppure litigandoci concretamente. Eterni
adolescenti, evergreen, incarogniti e giudicanti.
Se da un lato la contestazione è un passaggio sacrosanto, fisiologico e
naturale durante l’adolescenza, restare bellicosi e aggressivi con i genitori
quando abbiamo cinquant’anni, oltre che inutile è una dichiarazione di
acerbità emotiva.
Queste argomentazioni, quando mi accade di scriverne, suscitano in alcuni
molte perplessità e reazioni talora violente. Capisco. Sono stata cintura nera
di lamentele, ho scritto pagine e pagine dentro di me di j’accuse. Per decenni
sono stata acerba e arrabbiata, accusatoria e giudicante verso i miei genitori.
Poi ho incontrato terapeuti che mi hanno aiutata a cambiare sguardo, e sono
rinata. Il giorno in cui ho fatto pace interiormente con gli inciampi commessi
dai miei genitori, e alcuni sono stati davvero macroscopici, ho provato un
sollievo talmente grande da scegliere come missione di vita l’aiutare chi è
impantanato nelle acque limacciose del tormento o del rimpianto per non
avere avuto «buoni» genitori.
Altolà: non si tratta di diventare magnanimi e salvifici nei loro confronti.
Spesso mi sento dire: «Ma io non sono arrabbiato con i miei genitori.
Hanno fatto tutto quello che potevano, li ho perdonati». Perdonati? Chi
siamo noi per perdonare chicchessia? Avremo modo di tornare su questo
concetto più avanti.
Oppure c’è chi dice: «I miei sono stati così buoni, sacrificati, sfortunati,
che sento di dover fare di tutto per loro, per ripagarli», dunque resta al loro
fianco senza fare la sua vita, ne porta il destino e le pene come un macigno.
Quindi qual è la posizione propizia per noi? Quella di esercitare il nostro
ruolo all’interno della nostra famiglia. Se siamo figli facciamo i figli, se
siamo genitori facciamo i genitori. Senza salti in avanti o all’indietro, senza
sostituirsi, proteggere o pretendere.
Diventare adulti significa desistere da quell’idea che avremmo dovuto
avere un passato migliore. E occuparci del presente con responsabilità.
Ciò che pensiamo di non aver avuto, diamocelo noi.
Si tratta di separarsi e individuarsi, lasciando lì le magagne dei genitori e,
una volta adulti, occuparsi delle opere di bonifica dei nostri terreni aridi, in
caso di scarsità affettive, o allagati da alluvioni emotive. Se siamo genitori,
vederci in questo passaggio è più facile. Dentro di noi, sappiamo che stiamo
facendo del nostro meglio. Da figli diventiamo molto più esigenti, se ci
pensiamo.
Soprattutto nel caso di genitori abusanti e maltrattanti questo passaggio
risulta doloroso ed è anche differente. Perciò voglio precisarlo bene, a
scanso di equivoci: un genitore violento è altamente pericoloso, e lo rimane
anche quando i figli sono adulti, poiché quello è il suo comportamento che è
stato interiorizzato.
Se anche i genitori non ci sono più, restano attivi dentro di noi, per
sempre.
Riconciliarsi con la propria storia non significa annullare i traumi,
giustificare soprusi e abusi, e fingere che non siano esistiti, ma dare loro una
collocazione elaborata e archiviata dentro alla nostra psiche. Il dolore non se
ne andrà mai, ma possiamo fare in modo di impedirgli di gestire la nostra
vita, invalidandoci. Far pace con ciò che ci è accaduto non comporta
frequentare o essere gentili con chi è stato sgradevole, ingiusto o abusante: si
tratta di lasciare la responsabilità di quanto è successo a chi ce l’ha, quindi di
prendere una distanza emotiva (spesso quella fisica non è sufficiente) e di
assumere le redini della propria vita, diventando adulti.
Io dico spesso ai pazienti che se un genitore aveva soltanto un centesimo
non avrebbe potuto dare loro mille euro.
Questa consapevolezza, per quanto triste, è una verità che possiamo
soltanto accettare. Starà a noi, da adulti, decidere cosa fare di quello che ci è
accaduto: come lo useremo per camminare nella vita farà la differenza. Certo
è più facile nel caso di un genitore «solamente» distratto, burbero, o
anaffettivo, mentre sarà molto più difficile risanarsi per chi ha subito
umiliazioni, percosse e abusi fisici. I segni nella psiche saranno indelebili,
perché nulla è più doloroso, mentre si cresce, di ricevere veleno da chi ci
aspettiamo ci nutra di nettare: è profondamente ingiusto e crudele.
Esistono infatti genitori che per fortuna vengono squalificati dal loro
ruolo. Il tessuto sociale e il percorso di sostegno, o nei casi necessari la
terapia, andranno ad agire come riparatori, recuperando la salute psicologica
di chi è vittima. Non è facile, no. Così come in chirurgia si fa il trapianto di
un organo malato, quei mostri distruttivi dovranno essere sostituiti con
nuove figure positive di riferimento, in modo da restituire fiducia, dignità e
autostima a chi è stato gravemente danneggiato. È molto doloroso, ma
ricomporre quelle lacerazioni è possibile solo se si lascia la zavorra
all’autore del gesto violento, che dev’essere chiamato a rispondere e a
pagare le conseguenze del suo reato.
Diventare adulti implica guardare con onestà alla nostra storia,
riconoscendo ciò che è. Se chi avrebbe dovuto accudire e sostenere non ha
saputo farlo, il rischio di mendicare amore nella relazione è alto, e altrettanto
elevata è la probabilità di ritrovare la stessa condizione di miseria affettiva,
per un’equazione emotiva dei sentimenti. Per fedeltà al copione. Come
prigionieri di un sortilegio, crediamo di dover ripetere gli schemi, anche se
dolorosi e atroci, che ci condannano a quel moto perpetuo relazionale.
Assorbiamo talmente tanto i messaggi che ci vengono dati che quegli agiti
feroci diventano parte integrante della nostra personalità, e questo ci porterà
ad accettarli come normali, poiché così ben conosciuti. Cosa ancora più
grave, diventeremo a nostra volta con tutta probabilità sterminatori: il
carnefice numero uno di noi stessi.
Lo faremo per lealtà, per ripetizione, per continuare una storia che si
perpetua finché non capiamo e interrompiamo il circuito perverso.
Se chi sta leggendo si riconosce in un passato estremo e così atroce, vorrei
si sentisse abbracciato e compreso. E in questi casi incoraggio ancora di più
a intraprendere un percorso di sostegno o, se necessaria, una psicoterapia:
apprendere a non perpetuare il ciclo dell’abuso della violenza è possibile, e
laddove siano mancate del tutto le relazioni protettive, tanto si può
ricostruire.
Come?
Una volta individuata la fedeltà al sistema, uno dei passaggi più difficili è
quello di modificare lo schema. È possibile farlo con un atto di grande
coraggio, inchinandosi con gratitudine alla vita ricevuta. Nel caso di
abbandono, trascuratezza, o addirittura nascita attraverso uno stupro, la cura
sarà un abbraccio immenso di riconciliazione con se stessi. È davvero arduo
lavorare su storie così dolorose, ma ciò che può aiutare è arrivare a vedere
come la vita abbia vinto, e come l’esistenza abbia fortemente voluto la
nostra nascita. Una volta acquisita questa consapevolezza, si può scegliere di
rimanere avvinghiati al dolore o di diventare protagonisti di una nuova
opportunità.
Questo libro però parla a tutti, anche a chi è stato soltanto sfiorato dalla
disattenzione eppure nelle relazioni si ritrova bucherellato e costantemente
denutrito. Migliorare la propria vita affettiva non solo è possibile, ma anche
necessario per costruire armonia dentro e attorno a noi.
Nella Scheda di lavoro n. 4, «Famiglie» (vedi p. 248) vi invito a indagare
le dinamiche della vostra famiglia di origine e di quella o quelle che avete
costruito.

La riparazione: storia di Ester


Quando Ester mi chiamò per il primo colloquio online, molti anni fa, sullo
schermo apparve una donna dai capelli corvini e gli occhi scuri, bellissima,
raffinata, educata nei modi, ma dal volto triste e accigliato. Capii subito che
quella tristezza non era solo sua, ma che si portava dentro un peso
improprio, molto antico.
Mi raccontò di essere figlia di due avvocati, la madre italiana e il padre
giordano, e di essere nata in Giordania, dove aveva vissuto per pochi anni.
Dopo il divorzio dei genitori era arrivata in Italia; il padre era rimasto in
Giordania, si era risposato e aveva avuto altri figli, lo sentiva di rado.
Mi disse di aver digitato su internet «dipendenza affettiva» e di aver
trovato il mio nome e il mio blog. Leggendo si era riconosciuta, così
iniziammo un percorso che durò a lungo. Fu una delle mie prime pazienti
online.
Ester soffriva in modo atroce per un uomo balordo e inconsistente, Oscar,
da cui voleva amore e riceveva ambiguità e tradimenti. Si prendevano e si
lasciavano, lei soffriva, si disperava, non si alzava dal letto per giorni, dopo
di che ci riprovavano. Lei gli chiedeva una serietà e un impegno che lui non
era in grado di darle. Tutti lo vedevano, soltanto Ester sembrava non voler
capire che stava cercando di cavare sangue da una rapa.
Il suo attaccamento a Oscar era morboso e a tratti inspiegabile; come in
tutte le storie di questo tipo, si trattava di ossessione e accanimento.
Ester aveva una vicenda familiare molto dolorosa: era cresciuta con una
mamma instabile che le raccontava tante bugie, e presto aveva dovuto farle
lei stessa da madre, invertendo così i ruoli. Ester era insofferente nei suoi
confronti, si vergognava di lei perché spesso faceva uso smodato di alcol e
aveva un aspetto trascurato, malsano e infelice. «Mia madre sembra una
barbona e io devo occuparmi di lei, anche se non voglio. Ma se non lo faccio
mi sento in colpa.»
Piano piano ricostruimmo tutta la sua storia. La madre l’aveva portata via
dalla Giordania quasi senza dire nulla al padre, facendo sparire le loro tracce
e impedendogli di occuparsi della figlia. A Ester, tuttavia, aveva raccontato
che lui si era disinteressato a loro e non inviava soldi per il suo
mantenimento; pur essendo benestante, accusava l’ex marito di averle ridotte
sul lastrico.
Così Ester era cresciuta con una mamma lamentosa, che la faceva sentire
in colpa per qualsiasi cosa, e un padre negato per il quale provava lo stesso
rancore che le aveva scaricato addosso la madre.
Ester si sentiva orfana di genitori vivi e cercava in Oscar la ricompensa: a
lui chiedeva in maniera implicita: «Salvami, risarciscimi, riconoscimi,
accudiscimi». Ma era la persona meno adatta a farlo, essendo guascone e
irrisolto a sua volta.
Oscar ed Ester incarnavano dunque l’esatto copione del bimbo devoto alla
mamma e della bimba disperata e sospirante per il papà lontano.
Accanendosi su questa non relazione, Ester manteneva in vita lo schema
di mancato accudimento in cui era cresciuta, confermando a se stessa che
non ci fosse nessuno per lei.
Sebbene avesse un ottimo lavoro, fosse una donna colta, avesse una casa
di proprietà e vari interessi, viveva in un deserto affettivo, scarno e buio. Era
sola e senza sponde, poteva contare soltanto su se stessa.
Dopo alcuni colloqui, un giorno mi disse di aver chiamato il padre per
salutarlo, e che lui era rimasto commosso dal suo interessamento. L’aveva
invitata una settimana in Giordania, per stare un po’ con i fratellastri. Dopo
molte remore, e con il mio incoraggiamento, Ester decise di andare. Non fu
tutto rose e fiori, fu un inizio. Ester percepì quanto diversa fosse la vita dei
fratelli, che avevano avuto il padre vicino, mentre lei aveva dovuto crescere
in fretta e prendersi cura degli squilibri emotivi della madre. Il paragone con
i fratelli fu una delle cose su cui lavorammo, e piano piano quel padre
rappresentato dentro di sé come cattivo e trascurante cominciò a cambiare
forma nei suoi pensieri.
Il mio lavoro con Ester fu di restituirle una trama differente. La madre
molto fragile le aveva erogato una storia piena di scarsa obiettività, si era
inventata un mostro proiettando su quell’ex marito le proprie ombre irrisolte.
Il segnale positivo che il nostro percorso stesse funzionando fu che Ester
parlava sempre meno di Oscar e si concentrava sulle proprie emozioni, che
aveva dovuto seppellire a lungo per poter gestire quella mamma bizzarra e
immatura.
Parlando con il padre, scoprì che la madre aveva rifiutato ogni aiuto da
lui, che riattaccava il telefono quando lui chiamava per sapere come stesse
Ester. Talvolta i genitori si vendicano del partner oscurandone l’immagine
fornita al figlio, e così aveva fatto la mamma di Ester.
A tal proposito, c’è un film per bambini molto interessante che tratta
proprio dell’esclusione di un antenato: Coco. L’avo era stato accusato di
essere un truffatore, ma il protagonista si reca nel regno dei morti e scopre
che invece era stato lui il truffato. Coco riporta allora la foto dell’antenato al
suo posto nell’altare della famiglia, ripristinando l’ordine.
E fu proprio questo il nostro lavoro: recuperare la figura paterna da
un’archeologia emotiva dolorosa, restaurarne l’immagine dentro di sé e
rimetterla al suo posto. Non per abbellirla, ma per darle un posto.
Da orco insensibile, piano piano lavorammo sul vedere il padre (e la
madre) come persone umane, e pertanto fallibili.
A mano a mano che emergeva la figura fragile del papà un po’ goffo e
incapace di lottare per mantenere un contatto con la figlia, Ester iniziò a
riconoscere e a dare un nome al dolore che aveva dentro, portato intonso da
risolvere a Oscar. Naturalmente, lui non aveva alcuna competenza per farlo,
sentiva quel macigno non suo e fuggiva.
Ester si rassegnò al fatto che Oscar non fosse la persona adatta a lei e
infine vide anche lui per quello che era: un ragazzo irrisolto, immaturo e
narciso. In compenso, cominciò ad andare spesso in Giordania, dove si legò
ai fratelli e alla moglie del padre, sentendosi inclusa, riconciliandosi con
quella parte delle proprie radici e provando finalmente un senso di
appartenenza. Più accoglieva quella parte della sua storia, più fortificava la
sua identità.
Dopo un paio d’anni decidemmo di sospendere i colloqui. Ester cambiò
città e lavoro, scegliendo secondo le proprie passioni. Prese piano piano le
distanze emotive dalla madre, accettandone dentro di sé la vulnerabilità, che
imparò a gestire senza lasciarsi più sommergere e invadere.
Continuammo a sentirci ogni tanto, fino a quando mi mandò l’annuncio
delle sue nozze: aveva conosciuto Eugenio, si erano fidanzati e avevano
deciso di sposarsi. Non era una relazione perfetta, ma era un rapporto adulto
e consapevole dei lati oscuri di entrambi. Poi mi arrivò una foto con il
pancione e più avanti quella di Eva, la loro bambina. Di recente Ester mi ha
inviato un’immagine dalla Giordania, dove ha portato la figlia a conoscere
quel pezzo della sua famiglia: nella foto il nonno tiene in braccio Eva,
sorridendo orgoglioso.
#Frammento n. 5
Per amor tuo

HO sempre saputo, o meglio sentito, di essere figlia di due persone


coraggiose e, seppur nella loro precaria istruzione, molto intelligenti e
ingegnose.
Mia madre aveva fatto solo la terza elementare, ma amava l’opera lirica,
sapeva a memoria i libretti, e non sbagliava un congiuntivo. Mio padre
avrebbe tanto voluto studiare. Era il quinto di sette figli ed era orfano del
padre, un invalido di guerra morto per complicazioni successive.
Papà non ci vedeva bene, ma nelle prime file in classe mettevano i figli
dei ricchi. Mi raccontava che andava con la madre a portare le lenzuola al
banco dei pegni per poter comprare da mangiare. I soldi per acquistare gli
occhiali non c’erano e siccome doveva sedersi in fondo all’aula non
imparava, così veniva anche insultato. Ripensandoci, quando da piccola mi
trasferii in Italia e mi dicevano che ero stupida, forse senza saperlo ho
ripetuto il suo copione, come per moltissime altre cose. Molto spesso nelle
famiglie funziona proprio così, rifacciamo in contesti diversi quello che
hanno fatto gli altri prima di noi.
Perché i copioni mica si devono studiare, li sappiamo e basta.
Perciò, mio padre mi chiedeva di essere intelligente. Tutti noi siamo amati
sotto condizione di un imperativo categorico che incombe sul nostro
contratto affettivo: io ero amata da lui se ero brava a scuola. Anzi no,
dovevo essere la migliore, la più brava della classe.
Conservo ancora le mie pagelle scritte in portoghese con le classifiche dei
primi tre migliori dell’anno. Solo in un paio non ero la prima. Perché pur di
avere una goccia di padre avrei scalato qualsiasi classifica. Mi sono
laureata tre volte, e ho aggiunto un dottorato di ricerca.
L’ho fatto per te, papà.
21
Riconciliarsi con la propria storia

Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il
regno di Dio». Gli disse Nicodèmo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse
entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?»
Vangelo di Giovanni, 3, 3-4

La parola magica
Quasi tutte le persone che chiedono il mio sostegno quando arrivano da me
sono arrabbiate con i genitori; alcuni hanno una sorta di tristezza nel cuore e
dicono di averli «perdonati».
Intendiamoci, come abbiamo detto prima, ci sono miliardi di padri e madri
che hanno commesso e commettono errori ogni giorno. E questo continuerà
ad accadere, poiché come esseri umani siamo imperfetti e fallibili. Non
voglio minimizzare i danni che genitori totalmente inconsapevoli, schiacciati
da ferite ataviche e traumi transgenerazionali, possano aver perpetuato;
vorrei invece riflettere con voi sull’opportunità o meno di restare invischiati
in questa rabbia da adulti.
In genere, quando intraprendiamo un percorso psicologico, siamo pieni di
idee e credenze errate che ci condizionano e governano la nostra vita. Uno
degli ingombri maggiori con cui facciamo i conti dentro noi stessi è
l’ingratitudine verso chi ci ha messo al mondo: lamenti, pretese, rimpianti,
recriminazioni per ciò che non ci è stato dato dai genitori ingrossano il fiume
del lamento che scorre copioso nei colloqui. Insieme con l’arroganza e la
supponenza.
Ricordo ancora l’unico colloquio che feci con Alberto, ventiquattro anni.
Si presentò cupo e spavaldo, entrò in studio camminando come uno sceriffo,
e la prima cosa che mi disse era che lui non aveva voglia di vivere, perché la
vita era uno schifo. Lavorava e guadagnava bene, e da cinque anni aveva una
ragazza da cui si sentiva dipendente. Disse anche che abitava ancora con i
genitori, separati in casa.
Di solito chiedo ai pazienti in maniera simbolica: «Dove le fa male?»
Poche volte ho visto una persona più arrabbiata. Rispose che la causa del suo
malessere era la madre, che aveva rovinato la famiglia perché non voleva più
stare con il marito. E aggiunse di disprezzare il padre perché lo vedeva
debole: «Ho dovuto perfino prestargli i soldi per finire di pagare la sua
officina, se non ci fossi stato io a parargli i debiti, sarebbe alla fame».
Alberto aveva descritto con due parole in maniera precisa ciò che la
filosofia sistemica intende per inversione della gerarchia, ritenendosi
migliore del padre e della madre, che aveva messo sul banco degli imputati
ergendosi a giudice della situazione coniugale. Si sentiva superiore ai
genitori, e lo dichiarava. Era così irretito e impegnato ad accusarli che non
aveva forza vitale per sé. Si occupava, con tracotanza, di faccende non sue.
Quando seguo una coppia che si sta separando, molto spesso affrontiamo
il delicato snodo di come comunicarlo ai figli. Questo passaggio è vissuto
con forte angoscia soprattutto perché, nella nostra società, non ci è chiaro
che la coniugalità e la genitorialità sono cose differenti. Cresciamo i bambini
sotto la campana illusoria che la coppia sia per sempre, supportati da una
cultura di sottofondo che avalla tutto ciò, a partire dalle fiabe dove «alla fine
tutti vissero felici e contenti». Tramandare questa chimera è irrealistico: ci si
sceglie, poi le cose talora prendono una piega diversa, ma non possono
essere i figli a decidere come devono andare le unioni tra adulti, a giudicare
e a sindacare.
Cercai di rimandare questo concetto ad Alberto, sottolineando anche
quanto giudizio ci fosse da parte sua verso il padre e la madre, definita una
rovinafamiglie. Con le sue affermazioni e convinzioni, Alberto dichiarava di
aver compreso di più della vita e di come si sta al mondo dei genitori,
arrogandosi il diritto di sapere che cosa andasse bene per loro. Sprovvisto di
un passaporto per la propria esistenza, gestiva quella della famiglia a suon di
giusto e sbagliato. Questo lo manteneva in una condizione di immaturità,
anche se lui non se ne rendeva conto. Va da sé che non fosse felice, ma torvo
e imbronciato.
In più, tutto questo attorcigliamento all’indietro gli causava una zoppia
nella sua relazione amorosa, in cui assumeva un ruolo infantile. Alberto era
furioso con la madre, ma era aggrappato alla fidanzata, dalla quale
dipendeva in tutto e per tutto, chiedendole in modo implicito di fargli da
genitore. Invertendo la gerarchia familiare, accade proprio così.
Non ho più rivisto Alberto, non era pronto ed era venuto in studio su
suggerimento della fidanzata, senza convinzione e senza una spinta evolutiva
propria. Ha preferito restare nella recriminazione, non riuscendo a sganciarsi
da quel pertugio impegnativo tra adolescenza e adultità. Magari con il tempo
ripenserà alla nostra consultazione e arriverà a quella parola magica che
dobbiamo a chi ci ha messo al mondo. Nel mio lavoro incontro ogni giorno
storie come quella di Alberto. Cambiano età, luoghi, ma quante volte
arrivano persone che si sentono superiori e disprezzano i familiari, quante!
Poiché è questo che intendeva il testo biblico citato all’inizio del capitolo,
di cui è protagonista il fariseo Nicodèmo. Egli non comprende ciò che Gesù
vuole dire con il «rinascere dall’alto». È proprio lì il punto: per quanto
dolorose siano state le nostre vicende in famiglia, per quanto possiamo non
essere d’accordo, da adulti sta a noi andare oltre.
Come si fa?
Con la parola magica: «Grazie».
Una volta che abbiamo compreso a fondo l’umanità della nostra progenie,
ne abbiamo esaminato i copioni e gli schemi appresi, possiamo risignificare
queste figure dentro di noi, liberandoci dal fardello del rancore, delle
aspettative a ritroso, delle pretese. Senza rimanere incancreniti su una
versione dei genitori irrealistica, ideale.
Durante i colloqui sento i pazienti fare un lungo elenco di ciò che non
hanno ricevuto mentre crescevano. Non mettiamo mai in dubbio che non
fosse così, ma il punto è un altro: cosa possiamo fare, ora, con la nostra
storia passata? Quello che ci è accaduto, per quanto doloroso, non possiamo
cambiarlo. Tuttavia, molto spesso l’elenco è a senso unico. Si tende a citare
ciò che non si è avuto, mai quello che invece si è ottenuto, che viene
minimizzato. Quando proviamo a stilare un inventario in positivo arriva un:
«Sì, però…» e riparte la lista delle mancanze.
Siamo vivi e spesso ingrati.
Perché l’amore che volevamo aveva un codice diverso. Forse era una
forma di amore improprio, come abbiamo detto. Se abbiamo ricevuto
carezze avremmo voluto giocattoli costosi. Se avevamo cibo e accudimento
avremmo voluto vestiti alla moda. Se avevamo abbracci avremmo voluto
elogi. Se avevamo oggetti avremmo voluto vacanze insieme. Siamo portati a
sommare le sottrazioni, mentre le provviste accumulate sembrano contare
poco o nulla.
Il problema è che porteremo questi bilanci negativi da sanare al partner, da
cui ci aspetteremo accudimento e risarcimento.
La sfida del diventare adulti è dunque elaborare queste mancanze e
farcene carico.
Attenzione: qui entra in gioco il concetto di perdono di cui dicevamo.
Sono d’accordo con chi sostiene che questo termine contenga una nota di
arroganza: chi perdona, automaticamente sale di un gradino sopra il
perdonato. Ma non si tratta affatto di perdonare qualcuno (chi siamo noi per
farlo? Una divinità?), e tanto meno di assolvere una persona che magari è
stata violenta o abusante, ma di lasciar andare ciò che è stato,
oltrepassandolo e traendone grande insegnamento.
È dunque questione di ripartorire noi stessi, individuandoci.
Si tende a fare molta confusione sul tema dell’accettazione: accettare non
significa giustificare, subire oppure rassegnarsi, ma accogliere quello che
accade ed è accaduto. No, non è nemmeno compatire, fare buonismo o fare
sconti, è liberarci dai nodi che ci aggrovigliano per poter andare via leggeri.
C’è un modo di dire zen che recita più o meno così: «Ciò che è, è».
Significa anche smettere di mitizzare i genitori e volerli dentro di noi perfetti
al passato.
Oscilliamo tutta la vita tra il desiderare che fossero o fossero stati diversi,
idealizzandoli nelle nostre fantasie archetipiche, e il demonizzarli per i loro
errori. Se accogliamo la loro imperfezione, saremo liberi di rinascere, questa
volta da adulti.
È un cambio di postura: restare impigliati in un lamento interiore ci
mantiene infantili e bloccati. Così facendo non abbiamo la forza, come
Alberto, di occuparci della nostra vita. Diverso l’esito del percorso
completato (anche se non si finisce mai!) da Andrea: visitate le cantine della
propria psiche, si è svincolato dalla fedeltà ai copioni infelici dei genitori, ha
restituito simbolicamente i pesi che non erano suoi e si è riportato in vita
dall’alto. Se comprendiamo di aver ricevuto il sufficiente, possiamo
risignificare tutta la nostra storia e riscriverla con gli occhi della gratitudine,
non fosse altro per il dono della vita, assumendoci la responsabilità di
procurarci ciò che non ci è stato dato prima.
C’è un testo di Gary Chapman, I 5 linguaggi dell’amore, che ha aperto
nuove riflessioni su ciò che intendiamo per amore.
Siamo abituati per temperamento, personalità, sistemi di credenza e
cultura, a pensare a una forma di amore. Se l’amore non arriva nei termini in
cui io lo identifico come tale, allora non esiste.
Chapman sottolinea invece come possano esserci vari tipi di linguaggi
amorosi, che si esprimono con codici differenti. Ne classifica cinque:
complimenti verbali, gesti fisici come baci e abbracci, doni materiali, atti di
servizio e condivisione di tempo di qualità. Se ci pensiamo, siamo piuttosto
inclini a definire l’amore attraverso parole dolci e atti fisici; molti
apprezzano anche i beni concreti.
Ciò che dobbiamo però qui riconoscere è che se l’amore non arriva come
vogliamo, non è detto che non ci sia. Molte persone non hanno un alfabeto
emotivo, non posseggono le parole e utilizzano altri linguaggi per tradurre i
propri sentimenti. Se, per esempio, siamo fissati per ricevere mazzi di fiori e
anelli con pietre preziose e il partner ha invece un altro repertorio amoroso e
ci porta il caffè a letto, o si occupa della manutenzione della casa e del prato,
questo ci suscita gratitudine? Sovente, anche a questa domanda mi sento
rispondere: «Beh, sì, però…»
È interessante guardare rovesciando la prospettiva, e valutando invece da
genitori dei nostri figli. Cambia subito la lente.
Durante un colloquio mi accade di proporre questo scenario: «Immagini
che al suo posto tra trent’anni ci sia qui di fronte a me suo figlio o sua figlia
che dirà le sue stesse cose, portando appresso una lista di mancanze,
aspettative e reclami su di lei come genitore. Cosa prova?» La persona inizia
a balbettare qualcosa, e perde tutta quell’aria altezzosa e sdegnata di pochi
minuti prima.
Se valutiamo noi stessi come genitori siamo più indulgenti, perché
sappiamo di aver fatto migliaia di errori, ma anche di aver dato l’amore che
avevamo. E talvolta era una specie di amore andato a male. Ma quello
avevamo e quello siamo stati in grado, in quel momento, di dare.
Ci sono scuole di pensiero che incitano a coltivare rabbia verso i genitori,
a sfidarli alla pari, a ribellarsi. Per mia esperienza, se non sei un quindicenne
in procinto di fiorire nella tua individualità e per cui mettersi di traverso è
necessario per poter diventare grande, coltivare rancore lede la salute di chi
lo fa.
Significa, come dicevamo, giustificare botte, angherie, umiliazioni
eventuali? No.
Significa lasciare lì tutto, e prendere soltanto ciò che ci fa bene.
La riconoscenza fa respirare meglio chi la pratica.
Una delle frasi ricorrenti che sento è: «Mio padre non mi ha mai detto che
ero bella, non mi ha mai fatto una carezza».
Quando porto l’attenzione sul fatto che le ha permesso, per esempio, di
frequentare un’università prestigiosa, o le ha regalato un’auto o una casa,
spesso il commento è lo stesso: «Beh, sì, però…»
Anche in situazioni di scarsità economica o di assenza di gesti affettuosi,
forse l’amore c’era, ma era improprio. Allora rimarco alla persona che, in
ogni caso, le è stata data la vita.
E ancora una volta mi sento ripetere: «Beh, sì, quello sì, però…»
Nella Scheda di lavoro n. 5, «Gratitudine» (vedi p. 253), sarà possibile
esplorare meglio questo tema.

Un sufficiente inchino alla vita: storia di Raylai


Ricordo bene la vicenda assai dolorosa di Raylai, trentacinque anni, nata in
Thailandia e adottata piccolissima da due coniugi romani. Si definiva molto
legata ai genitori adottivi, verso i quali si sentiva in debito e provava tanta
gratitudine, ma anche rabbia, una rabbia inspiegabile, soprattutto verso il
padre.
Quando le chiesi cosa sapesse delle sue origini, raccontò che la madre –
ritrovata poi grazie ai social – l’aveva partorita a soli quattordici anni in
seguito a una violenza carnale. Il motivo della richiesta di sostegno era che
Raylai aveva un matrimonio bianco con Peter, un ragazzo austriaco
incontrato a Roma, dove viveva. Non riusciva a essere moglie.
Le domandai se avesse mai collegato questo suo sentire con la sua storia.
E quanto c’entrassero i quattro genitori.
Mentre per lei era facile riconoscere il papà e la mamma adottivi dentro di
sé, non lo era affatto per quanto riguardava il padre e quella madre bambina,
costretta a darla in adozione. Mi disse di aver saputo che la mamma aveva
poi avuto altri tre figli maschi, che Raylai sentiva ogni tanto. Del padre
biologico non aveva notizie, probabilmente era morto. Sapeva solo che forse
era il signorotto potente del villaggio. Era molto difficile per lei, pertanto,
immaginare quale fosse la sua provenienza, e possiamo ben comprendere
quanto fosse arduo ringraziare per la vita un padre violentatore.
Quando introduco il tema della gratitudine per la vita ricevuta, in alcuni
pazienti vedo un vero terrore. Sebbene sia relativamente facile dire dentro di
sé «grazie» a una figura paterna assente e trascurante che però tutto sommato
ci ha in qualche modo permesso di crescere, diventa molto improbabile
riuscire a farlo verso un padre abusante. E se la persona rimane lacerata e
non vuole sciogliere quel grumo di dolore, è comprensibile e va rispettato.
Voglio infatti precisare che il viaggio di riconciliazione con la propria
storia è un passaggio molto delicato, talvolta ripido e spinoso, che spesso fa
sanguinare e non si può forzare. Sebbene, come abbiamo detto, non si tratti
di perdonare alcunché, ma di andare oltre per liberarsi di un peso immenso.
E non lo si fa per i genitori, ma per sé.
Non è necessario che i genitori siano vivi per poter sciogliere il groviglio
emotivo, poiché è tutto dentro di noi. E non comporta nemmeno abbracciarli
fisicamente, frequentarli, uscirci a cena o passare tempo insieme (chi ha
rapporti ostici ha molta paura di questo): è sufficiente riconoscere dentro la
propria psiche da dove arriva la vita.
La vita di Raylai non era stata voluta, pensata, donata. Era stata strappata
con la forza, sputata nel mondo a scapito di una quasi bambina.
Come più volte è stato affermato, chi non la conosce, la sviscera e la
rielabora, tenderà a ripetere la propria storia. Raylai, infatti, alla mia
domanda se avesse mai avuto pulsioni autolesionistiche, abbassò la testa
dicendo di aver fatto abuso di cannabis in passato e di avere avuto condotte
molto promiscue con uomini più grandi di lei, arrivando a farsi maltrattare. E
quando era adolescente si procurava graffi sulle cosce, fino a farsi
sanguinare.
Osservammo poi come si fosse inconsciamente caricata del destino della
madre, soltanto immaginato nelle sue ricostruzioni, e avesse cercato di
riparare il copione sposando un uomo mite e buono come Peter, nel quale
aveva continuato a cercare una figura paterna sana. Ma così facendo Raylai
restava imprigionata nel ruolo di una bimba di papà in negativo,
aggrovigliata dentro di sé al fantasma di quel padre biologico violentatore. E
non si autorizzava una sessualità piena e appagante con Peter, che usava
soltanto come base affettiva sicura, un surrogato genitoriale buono, innocuo,
desessualizzato.
Dapprima lavorammo sulla rabbia che provava verso il padre biologico,
che poi proiettava anche su quello adottivo, e in seguito ci concentrammo
sulla paura che immaginava avesse provato la madre.
Arrivammo a un punto di svolta del nostro percorso quando le proposi di
guardare alla sua storia con un semplice «grazie» per essere venuta al
mondo, lasciando al padre violentatore tutto il peso del gesto compiuto. La
responsabilità dell’accaduto non era certo sua, e tanto meno la madre
bambina aveva colpe. Invitai Raylai a guardare se stessa come un dono
fortemente voluto dalla vita, arrivata a lei a tutti i costi, e a prendere le
distanze emotive da quel padre, lasciando a lui ogni debito dei conti che
sarebbe stato tenuto a fare con la propria coscienza, ovunque fosse stato.
Infine, facemmo un inchino immaginario alla vita che le aveva fatto da
paternità protettiva, accompagnandola nel grembo dei genitori adottivi che
lei amava e riconosceva, nonostante sentisse anche rabbia per loro.
Mancava un volto dentro la psiche di Raylai, e lo abbiamo ricostruito
come si fa con un arto posticcio, una protesi o un organo trapiantato: al posto
del padre biologico abbiamo messo la vita, che l’aveva voluta e fatta nascere
comunque da quella madre che avrebbe potuto compiere altre scelte, come
abortire, uccidersi o ucciderla appena nata. Invece quella mamma aveva dato
uno spazio vitale a Raylai, che era venuta alla luce e poi era stata consegnata
a genitori che l’avrebbero potuta allevare. Vedere amore e generosità in
questo gesto ci ha commosse entrambe e siamo riuscite a trovare un intento
amorevole dove prima lei percepiva soltanto dolore.
Riuscire a cambiare le lenti con cui guardiamo il nostro vissuto è
portentoso.
Le figure di rifermento interiore per Raylai erano quattro, e a ognuna
doveva dare un luogo dentro di sé, poiché ciò che escludiamo ci perseguita.
La gratitudine, come abbiamo visto, è una chiave potente nel nostro
mondo interiore, diventa un passe-partout che ci connette con il mondo e
allo stesso tempo ci libera da fardelli non nostri.
Raylai si sentiva connessa soltanto alla famiglia di adozione, verso la
quale provava sentimenti contrastanti. È frequente, infatti, che i figli adottivi
invece di gratitudine nutrano un rancore immotivato per i genitori che hanno
dato loro un destino migliore. Da adulti, quando avranno una relazione, è
probabile che si sentiranno opachi e infelici.
Ascoltando varie storie di persone adottate, ho potuto osservare che i
contesti di appartenenza vanno tutti inclusi nel mondo psichico: la
connessione con le origini è altrettanto importante di quella in cui siamo poi
stati cresciuti. Tenere dentro di noi tutte le nostre mappe ci farà sentire
completi e integri. Se riusciamo a provare gratitudine per tutto ciò che
abbiamo attraversato e sappiamo trarne insegnamenti, questo ci renderà saldi
e meno propensi a cercare ancore di salvezza in una dipendenza affettiva.
#Frammento n. 6
Recuperi

SONO tornata in Brasile anni fa. Da sola. Il pretesto era di fare un’ennesima
formazione, mi sono iscritta a una scuola sistemica per psicologi e terapeuti
vari, i cui contenuti ho seguito online per molto tempo. Il corso richiedeva
poi un periodo di stage in presenza. Così andai, felice di tornare, dopo
decenni, nel Paese in cui sono nata. Mi sono organizzata per poter restare
qualche giorno nella mia città, Belo Horizonte; avrei poi proseguito per il
luogo dove si teneva il percorso residenziale intensivo, a Santa Catarina, nel
profondo sud del Brasile, ai confini con l’Argentina.
Arrivai a Belo Horizonte dopo un lungo viaggio. Ero ospite della mia
famiglia satellite, o meglio di una delle figlie del portiere dell’edificio in cui
mia madre aveva avuto il negozio, in Rua Espirito Santo. Grazie ai social
avevo recuperato i contatti con loro. Erano quattro sorelle, ben più grandi di
me, ora tutte nonne, con nipoti già adulti. Mi hanno accolta con un amore
che mi ha investita come una bomba. Ho sentito un senso di appartenenza
necessario, di guarigione, che mi scaldava e mi riconciliava con parti di me
rimaste lì intatte. Ho ripercorso con loro tutti i luoghi della mia infanzia,
riassaggiato i cibi, respirato gli odori. Per giorni abbiamo peregrinato per
le case dei figli, dei nipoti, mangiando pão de queijo e bevendo cafezinho.
Sono tornata nel mercato rionale dove andavo con mia mamma. Volevo
portare con me tutto, recuperare una parte della mia storia, di me.
Divorare tutto.
A Belo Horizonte mia madre aveva un’amica di Modena, Jole: lei e la sua
famiglia avevano aperto vari ristoranti lì, e avevano fatto fortuna. Sono
andata a trovarla un pomeriggio, portandole un fiore. Aveva quasi
novant’anni, allettata, ma lucida. Le ho stretto forte le mani, anche per mia
madre. Lei era una parte della mia famiglia, era ancora viva. Mi ha parlato
per ore di tutto, della vita e dell’Italia: dal suo letto guardava la TV
satellitare ed era informata sul suo Paese. Salutandomi, mi ha confessato di
essere stanca di vivere. Le ho detto: «Okay, quando te ne andrai salutami
mia mamma». Ho lasciato la sua casa che era buio, c’era un pioggia
leggera e malinconica. Nel cuore avevo un senso di pace e di serenità per
aver salutato una persona che sapevo non avrei mai più rivisto.
Ho preso un taxi per tornare dai «miei». Nel tragitto per raggiungerli mi
sono ricordata di quelle volte in cui io e mia madre la sera tornavamo a
casa dal salone in taxi. Poche, perché era costoso. Allora era un lusso, in
quel momento invece, guardando fuori dal finestrino quell’anonima ed
enorme metropoli del Sud America, ho sentito il sapore della solitudine in
cui mia madre abitava.
Nell’auto, con uno sconosciuto che guidava nel traffico caotico della sera,
in un posto sperduto nel mondo mentre pioveva, ho iniziato a piangere tutte
le lacrime che mia mamma non aveva mai pianto. Ho sentito di aver portato
il suo dolore senza saperlo, e allo stesso tempo ho riconosciuto il suo
coraggio, la sua forza, la sua dignità. Aveva vissuto per oltre vent’anni
lontana dai suoi affetti, senza una famiglia, senza un compagno. Senza. Del
tutto sola, con me. E il suo lavoro.
Di colpo, mi è esplosa dentro una gratitudine per lei che mi ha
sopraffatta, come se si fosse sciolto un macigno.
E l’ho vista.
L’ho vista come persona, finalmente. Non era più quella mamma che tutta
la vita avevo giudicato, criticato, snobbato, ritenuto difettosa: era un essere
umano.
Ho finito la mia formazione dopo alcune settimane.
In quel viaggio sono andata a riprendermi mia madre.
22
Che cos’è l’amor?

«Nell’aria della stanza


non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.»
ANTONIA POZZI, Convegno

«Chi non conosce l’amore felice


dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.
Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.»
WISLAWA SZYMBORSKA, Un amore felice

LA domanda che viene spontanea arrivati a questo punto potrebbe essere:


pertanto, com’è una relazione sana?
Definiamo prima cosa non lo è.
Non è struggimento, né nostalgia. Non è mancanza.
Tanto meno simbiosi, vampirismo affettivo o salasso emotivo.
Al contrario, è presenza piena, dentro di noi, mentre spesso della relazione
si percepiscono l’assenza, la mancanza e quello che non c’è.
Un rapporto che funziona non tiene sospesi in un eterno «chissà se tu mi
penserai». Se dobbiamo chiedere, allora forse non stiamo vivendo una
relazione che nutre. Perché l’amore non si chiede, e meno ancora si
elemosina.
D’altro canto, l’amore non soffoca, non castra né recinta l’altro.
La relazione è impegno e costruzione quotidiana.
Le pagine più intense della letteratura, le poesie che ci restano impresse
nella memoria, inneggiano a una forma d’amore sottratto.
Invece, l’amore che fa bene aggiunge.
Si somma a una pienezza di chi è già talmente sazio di vita che può
soltanto straripare e condividere. Tuttavia, è impossibile ricevere ciò che non
sappiamo dare a noi stessi.
Cosa non è salubre nel relazionarsi all’altro? Lasciarsi offendere,
denigrare, invadere, sminuire, insultare, ingannare, scansare, sfruttare,
umiliare.
È bene sottolineare (e promuovere nei contesti educativi) il fatto che una
relazione incentrata sulla svalutazione non è amore: il bisogno di dominare
l’altro non è indice di un rapporto funzionale.
Esistono vari luoghi comuni che incentivano una relazione malata. Uno di
questi è: «Un po’ di gelosia ci vuole».
La gelosia è un segno di insicurezza del partner, non una garanzia che
tenga a noi. Soprattutto, non è rispetto ma prevaricazione. Nasce dal
pensiero che qualcuno sia migliore, perciò ha a che vedere con un terzo, non
con chi si pensa di amare; implica dunque competizione e la paura di essere
«meno». In questo caso si usa l’altro come proprietà, come conferma del
proprio valore.
Qui potrebbe levarsi un coro di proteste per giustificare la gelosia.
Pensiamoci bene: la gelosia bypassa il partner, è una questione tra chi
prova quel sentimento e l’altra persona di cui è geloso. È un duello in cui si
vuole vincere, per celare il timore di essere inadeguati.
Se una persona è sicura di sé, può rilassarsi nell’avere il proprio sapore,
che è irripetibile. Invece, questo bisogno spasmodico di essere speciali copre
una ferita narcisistica che nasce dal timore di non essere abbastanza e fa
vedere il mondo come una minaccia. Tuttavia, piuttosto che creare
classifiche tra migliori e peggiori, è molto più proficuo considerarci unici,
perché questo è un dato di fatto. Con fragilità e risorse, abbiamo tutti un filo
che ci unisce: il nostro essere umani. Educare all’unicità è un passaggio
culturale importante per promuovere relazioni armoniose.
Se un compagno ci sceglie, e noi altrettanto, impedirgli la vita non lo
legherà a noi per sempre. È la scelta quotidiana a confermare e a sancire il
legame.
Molto spesso nella coppia uno dei due si sente solo. Questo è un chiaro
segnale, a mio avviso, di una mancata relazione con se stessi.
Una delle frasi più ricorrenti dei miei pazienti è: «Vorrei tanto avere una
bella relazione». Al mio indagare su quale sia il modo in cui si rapportano a
sé, rispondono in maniera infastidita, sbrigativa e vaga, come se non
contasse nulla. Ciò che importa è trovare attenzioni, affetto, passione e
desiderio dall’altro. Il mantra perenne di qualcuno sembra essere: «M’ama o
non m’ama?»
Molto poco si riflette sul punto di partenza opposto: M’amo o non
m’amo? E se non mi amo, come faccio a dare? A darmi? A ricevere?
Facilmente andrò a estorcere affetto, ma l’amore non può essere fame,
perché si rischia di inghiottire l’altro.
Intendiamoci, tutti noi abbiamo bisogno di amore. Ma non possiamo
tralasciare di darlo a noi stessi per poi chiederlo, aspettarlo, pretenderlo,
implorarlo, spremerlo.
L’amor proprio è un passaggio necessario: se non sappiamo riconoscere il
nostro valore, come potrà farlo il partner? E soprattutto, in base al
meccanismo della profezia autorealizzante, faremo in modo di verificare ciò
che pensiamo di noi stessi e leggeremo i comportamenti dell’altro in base a
questo. Pertanto, se crediamo di non essere degni d’amore, di non meritare
affetto e attenzioni, per la legge del rispecchiamento andremo a cercare
proprio una persona che ci rimanderà la conferma di ciò. Di conseguenza, se
vogliamo un compagno, prima di tutto siamo chiamati a esserlo per noi
stessi, per poi incontrare l’altro da uno spazio di gentilezza.
L’uomo o la donna della nostra vita siamo prima di tutto noi stessi.
Il problema è che a volte nessuno ci insegna la pratica di amor proprio e
dignità. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un messaggio eterno,
peccato che la similitudine non venga colta e ci si fermi alla prima
esortazione.
Dunque, qual è l’amore sano?
È quello reciproco, in cui si riesce a stare in un’armonia mobile, con
continui aggiustamenti, e dove si cerca un’intonazione. È quello che non si
aggrappa ai picchi adrenalinici per poi sprofondare nei crepacci tormentati
dell’insicurezza. Amare è riuscire a tenere in mente al contempo il bene di sé
e dell’altro, non può essere a discapito del partner e tanto meno di noi stessi.
È il supportarsi a vicenda di due persone intere e integre, non di due adulti
rimasti bambini, pieni di buchi e falle. È condividere ricchezza: ben diverso
dal pretendere un risarcimento.
La relazione sana sembra essere quella in cui le due individualità, ben
distinte, stanno l’una a fianco dell’altra e costruiscono insieme un equilibrio
in divenire, nonostante alcuni affondi e qualche stonatura. Non è cura l’uno
dell’altro, ma aver cura della relazione con l’altro. Coltivare il rapporto
insieme con l’altro è ben diverso dall’amore infantile e genitoriale; è invece
occuparsi di sé mentre si sta con il partner, senza tralasciarsi.
È bene tenere presente che in una coppia esistono tre compartimenti ben
precisi: lo spazio dell’io, quello del tu e quello del noi. L’essere individui
non può scomparire in un noi fusionale e inglobante, che avviluppa e
prevarica lo spazio del sé.
L’amore non tarpa, accompagna.
Ci sono persone che restano insieme per bisogno l’una dell’altra, altre che
si uniscono per scambiare – tempo, mansioni, accudimento –, infine esistono
quelle che si incontrano e creano un luogo tutto loro chiamato relazione,
adoperandosi entrambe per farla crescere e nutrirla.
Mi piace pensare che questo luogo prezioso del rapporto a cui in egual
misura gli amanti compartecipano in maniera creativa sia costituito da un
amore appropriato, dove dare e ricevere danzando insieme.
La coppia che funziona è ben differenziata nel suo tessuto, ma ha valori
compatibili, complementari, in tinta. Due persone possono risuonare insieme
se hanno una statura emotiva simile e bilanciata. Ognuna porta il proprio
contributo, con la chiarezza che è la relazione a dover essere nutrita, non se
stessi; il nutrimento arriva di conseguenza, per ricaduta ed esondazione
amorosa. Poiché prima ciascuno si è rifornito da sé. Ed entrambi i partner
sanno che per poter rifocillare le cambuse del rapporto bisogna arrivare
muniti di provviste sufficienti e non derelitti o denutriti.
E se l’amore finisce?
A mio avviso, l’amore non scompare, continua a muoversi, non si ferma.
In alcune coppie, quando tutto sembra finito, talvolta riappare. Qualcuno lo
chiama amore a seconda vista, che è la capacità di aggiornare lo sguardo, e
riconfigurarsi di nuovo.
Sia che siamo in una relazione nutriente e nutritiva, o che si sia fermata al
capolinea, ricordiamo sempre che quella con noi stessi è una storia d’amore
infinita e possibile.
23
Con cura

DOPO aver esaminato le possibili radici da cui nasce la dipendenza affettiva, il


lettore si starà chiedendo come si possa rimediare a un dolore così profondo,
rimasto sopito a lungo e mai rivelato fino a quando arriva una relazione
velenosa che costringe a fare i conti con noi stessi.
Come si fa? È la domanda che mi viene posta più di frequente.
Come se ne esce, dunque? Entrandoci.
Comprendendo prima di tutto che ciò che stiamo sentendo non è sbagliato,
è reale. E può essere accolto, elaborato e guarito, se solo lo attraversiamo
con coraggio e onestà verso noi stessi.
Così come una diagnosi non è qualcosa di statico, non può esserlo
nemmeno il percorso di recupero, che sarà invece un processo alchemico di
trasformazione in cui compariranno più ingredienti.
Nel Medioevo, pare che gli alchimisti, precursori della chimica moderna,
cercassero di trasformare il piombo in oro. Mi piace pensare a ciò che porta
a guarire dalla dipendenza affettiva come a un laboratorio dove si portano
materie prime grezze a cui insieme daremo una forma.
Carl Gustav Jung parlava di ombra, quella parte buia dove nascondiamo le
cose di noi che non ci piacciono e che purtroppo ci rincorrerà fino a quando
non avremo incluso e accolto come parti fondanti gli aspetti che giudichiamo
in maniera così negativa. Lavorare con le nostre ombre è molto interessante:
quando comprendiamo che ciò da cui scappiamo ci insegue, possiamo
fermarci e interrogarci su noi stessi. Di frequente non sappiamo farlo da soli,
e qui entra in gioco lo psicologo che ci accompagnerà a guardare negli occhi
quello che, per proteggerci, non vogliamo o non sappiamo vedere, ma ci
causa un grande malessere.
È opportuno ricordare che non siamo noi a essere difettosi, lo sono alcune
idee che abbiamo su noi stessi e sul mondo. Allo stesso tempo, per
difenderci e compensare queste credenze, nascondiamo – mettiamo appunto
nell’ombra –, rifiutiamo o rimuoviamo alcune emozioni, evitiamo di
guardarci, proiettiamo sull’altro aspettative e desideriamo ricompense
esterne.
Questo non può funzionare.
Guarire un dolore è un processo tortuoso, fatto di ricadute, ripensamenti,
avanzamenti e retrocessioni. Dobbiamo tenere presente che quella sofferenza
è la somma della nostra storia, dei copioni che ci hanno preceduto, del
dolore che in modo inconsapevole portiamo per qualcuno della nostra
famiglia, come abbiamo spiegato.
In un percorso psicologico occorre considerare tutti gli aspetti: il
temperamento della persona, la sua genealogia, ciò che è sepolto e rimosso,
le variabili che intervengono nel corso della sua esistenza. E, come spesso si
dice, non guariamo mai del tutto, così come non finiamo mai di conoscere
noi stessi. Possiamo però imparare a vivere non facendoci guidare dalle
nostre ferite, e così restare asintomatici, portatori sani di una ferita che
abbiamo conosciuto, lenito e che ora teniamo a bada.
In altre parole, i traumi lasceranno cicatrici, ma anche insegnamenti.
A un certo punto del percorso vedremo con chiarezza che tutto resta lì,
nitido dov’era. Solo che potremo osservarlo, riconoscerlo da una parte più
grande, nuova e «sana» di noi, che diventerà sempre più abile e allenata (mi
si consenta il termine poco ortodosso, ma che a mio avviso rende l’idea).
Mi piace pensare alle persone che accompagno in un percorso di recupero
non tanto come ad anime strappate, piene di squarci emotivi da ricucire, ma
bensì come miniere di risorse da portare alla luce e ampliare. Invece di
ridurre l’insulto da cui si è originata la dipendenza, aumentiamo le difese
immunitarie per fortificare l’organismo di chi ne è affetto.
In ambito psicologico, il vedere le cose con una sola lente si chiama
identificazione: spesso siamo così affondati nella lacerazione che filtriamo
da lì ciò che ci accade. Risanarsi significa implementare una seconda lente
che ci permetta di guardare in prospettiva, in modo tridimensionale,
relativizzando le proporzioni e le distanze, ridimensionando il passato e
affrontandolo con le risorse del presente.
Possiamo imparare a riconsiderare quel taglio che abbiamo dentro.
Attenzione, però: senza mai sottovalutarlo o sminuirlo. Non si tratta qui di
fingere che qualcosa non sia accaduto, o banalizzarlo, rimuoverlo, scordarlo.
Al nostro soffrire va data dignità e trovato un posto dentro di noi, ma allo
stesso tempo è possibile crearvi attorno aree allargate di potenziamento e
strumentazione da cui considerarlo. Aumentando la superficie guarita
possiamo fortificare le nostre risorse, così come il nostro organismo fa
quando produce gli anticorpi contro un virus.
Non siamo solo la nostra ferita, ricordiamocelo. Siamo molto altro.
Risanarsi vuol dire imparare a ricordare, a risignificare quello che ci è
successo, mettendolo in ordine, dandogli un senso e trasformandolo in elisir
di conoscenza che useremo per impreziosire la nostra vita. Perché posso
assicurarvi: una volta compresa la lezione che quel dolore aveva in serbo per
noi, ciò che avremo scoperto avrà un valore inestimabile.
Il primo passo per trasformare quella ferita è riconoscere che non siamo
inadeguati, ma che dovremo fare i conti con ciò che nel cammino si chiama
resistenza al cambiamento. Perché non è scontato o automatico che si voglia
cambiare davvero, anche se lo diciamo a parole, o investiamo tempo, energie
e denaro nella cura di noi stessi.
Come sappiamo, esiste una fedeltà agli schemi che abbiamo imparato,
assorbito, imitato, che va oltre la nostra volontà. E anche di questo dobbiamo
parlare durante un colloquio di sostegno.
La cosiddetta identificazione di una dipendenza affettiva non è
un’etichetta. È un punto di partenza in cui dichiariamo il territorio in cui ci
stiamo confrontando, ma ogni incontro è la somma di ciò che si è scoperto
fino a quel momento e di quello che la persona porta di sé e con sé, ed è un
continuo divenire di apprendimenti mutevoli. Perciò, una volta stabilito, per
esempio, che a grandi linee siamo in un ambito narcisisticodipendente, poco
importa chi fa cosa; conta invece la quantità di sofferenza che prova chi si
racconta allo psicologo, perché è lì che dobbiamo lavorare.
Iniziare un percorso di cura delle proprie ferite implica riconoscersi,
vedersi ed essere disposti a guardarsi. Ciò che scopriremo non sempre ci
piacerà, e dovremo fare i conti anche con quella che si chiama proiezione. È
probabile che proietteremo le figure genitoriali sulla figura scelta per
accompagnarci nel viaggio verso noi stessi, vorremo essere accolti e amati
senza condizioni. Dello psicologo in sé, come di un genitore, non serve
sapere molto. Ciò che cerchiamo è una casa comoda, ma non sempre lo sarà.
E proprio come accade per i genitori, anche il terapeuta non sarà come
vogliamo. Pertanto, diventano del tutto leciti pensieri critici, recriminazioni,
insoddisfazione.
Ciò che accade quando ci si siede l’uno di fronte all’altro (non importa se
online o meno) è una preziosa opportunità. Chi consegna la propria psiche a
una figura di sostegno è disponibile, più o meno, a mettersi a nudo di fronte
a qualcuno in grado di guidarlo nella conoscenza di sé, e di specchiare ciò
che è necessario vedere per poi mutarlo con consapevolezza.
La differenza tra una relazione comune e un supporto psicologico è che
chi guida il colloquio è ben consapevole dei meccanismi proiettivi, e da qui è
necessario partire.
Il percorso psicologico è un’immensa officina di riparazione, dove ogni
accadimento può essere utilizzato come opportunità. Perciò portare tutte le
scomodità e le ruvidezze che si incontrano è molto utile: qualsiasi elemento
emerga, strada facendo potrà essere una pietra su cui costruire comprensioni.
Una dinamica narcisisticodipendente può quindi essere riparata?
Possiamo imparare a funzionare, restando ben compensati, e senza
«sintomi», scegliendo di rimanere sobri e vigili.
Non c’è un’unità di misura univoca per valutare i grammi di narcisismo o
di dipendenza ai quali siamo di fronte. Così com’è difficile quantificare la
sofferenza, lo è altrettanto definire quanto si è guariti. Possiamo però
rilevare un bel grado di cicatrizzazione quando riusciamo a tenere dentro di
noi nello stesso tempo noi stessi e l’altro.
24
Pensiero, dipendenza e meditazione

«I sentimenti di dolore, di piacere, o di qualità intermedia fra questi estremi sono il fondamento
della nostra mente.»
ANTONIO DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza

QUALI strategie possiamo adottare per arrivare a quel punto di recupero di noi
stessi di cui abbiamo appena parlato?
Iniziamo a osservare i nostri pensieri.
È risaputo che crediamo a ciò cui pensiamo. Per confermarlo, il classico
esempio è di supporre che qualcuno ci dica: «Non pensare a un elefante
bianco!» Dopo quest’ordine la mente non riuscirà a impedire e controllare il
pensiero dell’elefante bianco. L’attività pensante è un inarrestabile stream of
consciousness, un flusso continuo di coscienza; contraddistingue l’uomo ed
è un’abilità utile e adattiva, dalle potenzialità ancora inesplorate. È un
prezioso alleato, una facoltà che eleva gli esseri umani ai vertici della
classifica del regno animale.
Tuttavia, definire la cognizione è un compito complesso. Intelletto,
ragione, intelligenza, percezione e memoria sono tutte astrazioni che
definiscono l’attività primaria della mente umana: il pensiero.
Cervello e mente non sono la stessa cosa. La mente è un prodotto
culturale, un insieme di credenze, una lente con cui si guarda il mondo. Il
cervello è l’organo grazie al quale facciamo tutto questo. Per quanto ne
sappiamo finora, abbiamo tre aree cerebrali preposte a differenti funzioni:
una parte molto antica, detta cervello rettiliano, che governa le funzioni
primarie, ataviche, legate alla sopravvivenza; un cervello emotivo, situato
nell’area limbica, sede di funzioni che regolano le emozioni, e la
neocorteccia, la parte più recente ed evoluta, responsabile
dell’apprendimento, dei processi attentivi e di quelli razionali.
Cartesio identificava l’essenza dell’essere umano nel pensiero, creando
tuttavia un dualismo tra res extensa e res cogitans: divideva la natura umana
a metà, separando la parte che sente, la pelle, le sensazioni, da quella che
pensa. Filosofie e dottrine successive hanno cercato di unificare le varie
dimensioni dell’essere; interessanti a questo proposito gli studi del
neurologo Antonio Damasio, che invitano al superamento di quello che
definisce «l’errore di Cartesio». Nel suo saggio Emozione e coscienza,
Damasio ci esorta all’ascolto dei nostri sentimenti, per imparare a capire ciò
che proviamo.
Lo stretto intreccio di cognizione ed emozioni è alla base del nostro essere
umani, Damasio approfondisce pertanto da un punto di vista neurologico un
assunto già indicato nelle ricerche dello psicologo Daniel Goleman a
proposito dell’intelligenza emotiva.
Cosa hanno a che vedere queste argomentazioni con il tema della
dipendenza affettiva?
Il punto è che per poter curare gli affetti malati occorre poter cambiare
idea, attraversare emozioni e attuare comportamenti nuovi.
Il bisogno di calore e vicinanza è insito nell’essere umano, come lo è
quello di relazioni stabili, durature, soddisfacenti. Il confine tra
innamoramento, amore e dipendenza affettiva non è facilmente delimitabile,
poiché essere in relazione appaga un bisogno primario. Siamo animali
sociali, abbiamo bisogno del gruppo, dell’altro. Ma dimentichiamo un fattore
indispensabile: una volta adulti, necessitiamo prima di tutto di noi stessi.
Non poter vivere senza un’altra persona è un’idea irrazionale, è un
pensiero fuorviante. Credere di non poter esistere senza aggrapparci a
qualcuno è dipendenza. È il concetto di «aggrapparsi» a doverci far
riflettere. Un conto è incontrarsi da uno spazio pieno, che diventa vera
relazione, condivisione, un altro è utilizzare il partner come sostanza per
vivere. La differenza, come abbiamo ribadito più volte, sta in un mancato
sviluppo dell’abilità di saper essere con noi stessi, nel non aver sperimentato
e interiorizzato la presenza di una base salda che ci dia sicurezza
indipendentemente dalla presenza dell’altro.
Non avere acquisito la capacità di stare con noi stessi darà adito a molte
ombre dentro la nostra mente, affollandola di pensieri negativi e di emozioni
quali paura e angoscia. Con conseguenti comportamenti di dipendenza.
Fermarci sarà una tortura, stare nel senza, pure.
Le tecniche di meditazione possono essere un valido aiuto se apprese con
la giusta metodologia, e una volta compreso davvero cosa sia stare in
silenzio. Molte insegnano a bypassare il rullio costante dei pensieri,
incitando a riconoscere dentro di noi spazi di no mind, di non mente.
Attenzione! Ci sono molte credenze ingenue sul meditare.
Un mistico orientale ci esorta: «Meditazione è una lezione di
consapevolezza, di assenza di pensiero, di spontaneità, di essere totalmente
nella tua azione, all’erta, consapevole. Non è una tecnica, è un trucco. O lo
capisci, o non lo capisci».
Oggi la meditazione viene venduta e le sono associati verbi quali «fare»
meditazione, o «imparare» a meditare. Si tratta di invece uno stato naturale
dell’essere umano, purtroppo affievolito e coperto da una mente iperattiva
con cui ci identifichiamo.
Quando dico ai miei pazienti: «Non siamo i nostri pensieri», incontro
scettiscismo. È vero che siamo anche pensiero, ma abbiamo altre
dimensioni. Per prima cosa è necessario riconoscere che l’attività pensante è
una delle nostre componenti. E se le diamo molto spazio, senza coltivare
tutte le nostre possibilità, il rischio è che finiamo con l’escludere o
tralasciare altre dimensioni.
Ciò non significa che non dovremmo pensare, ma che non dobbiamo
prestare un’attenzione alta ed esclusiva a quel flusso incessante che processa
informazioni dall’esterno. Il problema non è il pensiero, quanto piuttosto che
ci identifichiamo con quello che pensiamo. Ciò a cui incitano i testi sacri
orientali a proposito di «trascendere la mente», lasciando andare i desideri
per perseguire una pace interiore, suona spaventoso e difficile. In realtà è un
semplice invito a non credere in modo cieco a ciò che pensiamo.
Facciamo un esempio: supponiamo che mi passino di continuo per la testa
frasi tipo: «Nessuno mi apprezza», «Non riuscirò mai a fare qualcosa di
buono», «Mario mi lascerà perché troverà qualcuno migliore di me» e così
via. Di conseguenza avrò un’alterazione emotiva, il mio umore peggiorerà e
forse potrò sviluppare sintomi fisici come ansia, palpitazioni, sudorazioni e
insonnia. Per lenire il malessere mi attaccherò al cellulare a controllare cosa
sta facendo Mario, perché sono sicura che non gli interesso e starà chattando
con un’altra, che di certo è più interessante, bella e affascinante di me. Se ci
badiamo, tutto questo non sta accadendo. Sono ipotesi, prodotte da una
catena di «e se».
Purtroppo, però, crediamo a questi pensieri che costituiscono la ricetta
perfetta per l’infelicità.
Talvolta, in maniera provocatoria, invito appunto i pazienti a scrivere la
loro ricetta dell’infelicità. Perché tutti noi abbiamo un sistema di credenze
molto ben organizzato a cui prestiamo fede. Tuttavia, un conto è se penso il
mondo come un’opportunità infinita, se credo con convinzione che sarò in
grado di trovare la mia strada e che la vita è nelle mie mani. Un altro è
pensare che mi andrà tutto male, che non ce la farò e non ci sarà nessuno per
me. Per la mente è sempre un pensiero. Il meccanismo che produce quel
pensiero è uguale sia in un senso sia nell’altro, ma le emozioni, gli stati
d’animo e i comportamenti che ne derivano saranno ben diversi.
Quando qualcuno arriva in studio da me per la prima volta, di solito per
una relazione infelice e disfunzionale, è pieno di idee erronee su se stesso, e
questo gli crea un grande malessere.
Per prima cosa osserviamo insieme quali sono le sue convinzioni, dopo di
che chiedo alla persona di ascoltarsi mentre pronuncia certe frasi, frutto di
un mindset preciso. Capita che faccia molta fatica a contattare le proprie
emozioni e sensazioni, perché non è abituato. Quando procediamo nel
percorso, porto l’attenzione di chi ho di fronte sul suo sistema familiare e
chiedo: «Di chi sono questi pensieri? Chi guardava il mondo con questi
occhiali? Di chi è quella voce che dice questo?» E ancora una volta
guardiamo alla famiglia, perché è lì che impariamo a osservare il mondo e
noi stessi. Certo, poi ci saranno la scuola, il calcetto, la discoteca, il bar. Ma i
primi occhiali che indossiamo hanno due lenti precise: mamma e papà, o chi
ne fa le veci. Se uno dei due non c’era, i nostri occhiali avranno un buco al
posto della lente, e noi guarderemo il mondo da lì. In alcuni casi mancano
entrambe le lenti. Qualunque sia lo sguardo attraverso cui abbiamo appreso a
guardare il mondo, è da qui che è necessario partire.
La meditazione può aiutarci a prendere le distanze dalle nostre credenze
limitanti, riconoscendo i pensieri e gli schemi che abbiamo ereditato e che ci
portano dritte all’infelicità, mantenendoci fedeli e aderenti al nostro sistema
di origine.
L’immagine che l’Occidente ha, in genere, di chi pratica la meditazione è
di una persona seduta nella posizione del loto con gli occhi chiusi, che ripete
«om» assumendo un’espressione greve. Insomma, qualcosa di molto serio,
impegnativo, adatto solo a qualche appassionato di yoga e altre discipline
esoteriche. In realtà quei mantra sono un insieme di suoni che riescono ad
agire sulla mente e con le loro frequenze hanno un’incidenza anche sul piano
fisico, permettendo alla coscienza di staccarsi dal piano sensoriale e produrre
onde cerebrali differenti.
«Ora ci medito», «Devo meditarci sopra», sono sinonimo di riflessione.
Pertanto, nel linguaggio comune il termine sembra venire scambiato, e a
volte sostituito, con l’attività cognitiva. Invece è l’opposto: è un non stare
nei pensieri, ma in un altro luogo che abbiamo dentro, che non ha un nome,
però c’è. È quello spazio da cui si guardano le cose senza volerle diverse,
così come fa il cielo che accoglie le nuvole e non le trattiene.
Alcuni studi scientifici dimostrano che la meditazione può aumentare il
potenziale intellettuale, ridurre patologie quali l’ipertensione e alleviare lo
stress e gli stati ansiosi. Gli esami di neuroimaging, che osservano le
modificazioni delle aeree cerebrali in seguito a diverse azioni o emozioni,
hanno rivelato che vi è un aumento dell’attivazione nella corteccia sinistra,
con evidente incremento nella produzione delle onde alfa, caratteristiche
dello stato di rilassamento. Altre ricerche dimostrano un calo di assunzione
di sostanze stupefacenti grazie all’utilizzo di pratiche meditative.
La meditazione incontra grande resistenza nella società attuale, a causa di
una diffidenza di natura per lo più socioculturale. L’invito è a superare ogni
forma di attaccamento e a non identificarci con ciò che pensiamo e crediamo
ci spaventa, per il timore inconscio di perdere noi stessi. Correre, produrre,
eccellere sembrano essere i mantra ai quali obbediamo ogni giorno, e il
silenzio fa paura, non siamo abituati a stare con noi stessi senza fare nulla.
Abbiamo quasi sempre qualcosa di acceso o connesso, siamo di continuo
interfacciati con l’altro, alla presenza di un cellulare che squilla, un
computer che invia file, un televisore che trasmette un programma.
Lo yoga, il training autogeno e la bioenergetica sono forme più
occidentalizzate, sdoganate e ora più diffuse. Altre pratiche sono invece
ancora molto lontane dall’ottica occidentale, come la meditazione Vipassana,
che consiste nello stare seduti a occhi chiusi osservando il respiro che entra
ed esce dal naso e scende nel ventre. Nello Zazen si osserva invece un muro
bianco seduti sui talloni, mentre un maestro di meditazione passa con un
bastone leggero a colpire il capo, da cui il detto «una bastonata zen», che
arriva inaspettata, mimando così il movimento inesorabile e imprevedibile
della vita. Lo scopo è quello di sviluppare quella capacità di restare
imperturbabili di fronte agli imprevisti della vita, coltivando un luogo dentro
di noi da cui osservare, senza identificazioni.
La trattazione della storia della meditazione e delle varie tecniche non
sono argomento di questo libro; si vuole solo sottolinearne il possibile
beneficio per chi ha un disagio affettivo, emozionale e relazionale.
Perché la meditazione è soltanto uno stato di veglia consapevole, dove
l’attenzione si concentra su ciò che accade hic et nunc. È un’estasi,
un’ubriacatura di esistenza: si è presenti, senza giudizio, consapevoli del
solo fatto di essere, senza bisogno di altro dall’esterno.
È l’ebbrezza di sentirsi pieni, unici, interi.
Come possiamo ben immaginare, a un dipendente affettivo questa appare
come un’utopia: la meditazione sembra esattamente il contrario di ciò che
pensa, vive e prova. Eppure, se una persona sente di non poter funzionare da
sola, di avere bisogno dell’altro come condizione vitale per esistere, la
meditazione può essere un valido sostegno per recuperare la relazione con se
stessa. Facendo amicizia con quel vuoto esistenziale, contattando altre parti
di sé in assenza di giudizio, potrà infatti acquisire maggiore serenità e
sicurezza.
Basta questo? No, ma aiuta.
Diversi studi hanno dimostrato che una pratica costante della meditazione
migliora lo stato di salute.
Il respiro è gratuito, la consapevolezza è una pratica che non richiede
farmaci, né fattori esterni, si è soli di fronte e se stessi.
Questo spaventa? Molto.
Ma ci si può fare amicizia, con la pratica.
Può sembrare bizzarro dire a qualcuno: «Chiudi gli occhi, lascia scorrere i
pensieri e respira», per liberarlo dalla dipendenza.
E invece.
#Frammento n. 7
Quattro case

DURANTE la stesura di questo libro mi è accaduto di cercare un luogo solo mio


in cui farlo. Scrivere è un processo complesso, richiede concentrazione e
ispirazione.
E un posto.
Perché lo racconto? Perché questa esperienza è stata per molti versi
illuminante, e spero sia utile condividere con voi ciò che ho compreso.
Dapprima credevo che se solo avessi trovato il posto, la scrittura sarebbe
venuta da sé.
Grande, ingenuo errore.
Nonostante abbia la fortuna di vivere in un luogo splendido
sull’Appennino, avevo deciso di affittare una casa sul mare, per rifugiarmi
là con i libri e la mia cagnolina Loulou, solo noi e le onde d’inverno. Forse
l’esperienza della stesura della tesi di dottorato in Finlandia era stata così
bella che cercavo «quello», ma ripetere le esperienze non è scontato, anzi è
impossibile. Cercavo comunque un rifugio, una condizione psicoemotiva
simile. E a casa mia avevo troppe distrazioni.
Una lezione che ho ricevuto nel mio volere il luogo adatto dove ritirarmi
a scrivere è che la ricerca di una casa ha qualcosa che assomiglia a quella
di una relazione amorosa. Alla fine, la mia si è rivelata un’epopea grottesca
e allo stesso tempo preziosa.
Dapprima ho contattato una persona per una casa che sulla carta
sembrava suggestiva e lontana un po’ da tutto. Ma il flirt con quel
potenziale alloggio è naufragato prima di nascere: non siamo usciti a cena,
e neppure per un caffè. Tutto è sfumato nel nulla quando il proprietario mi
ha inviato per sbaglio un messaggio indirizzato all’amministrazione, dove
scriveva che sarebbe arrivata «quella là», cioè io, aggiungendo altre
affermazioni poco signorili. E io non avevo voglia di eleggere a dimora una
casa in cui ero considerata con fastidio.
Fatta solo di apparenza e svalutazione, la prima «relazione» tutto fumo e
niente arrosto non ha funzionato, o meglio è stata funzionale a confermarmi
che volevo andare dove mi sentivo gradita. Allo sfortunato e sbadato
padrone di casa ho detto, molto divertita, che è meglio prestare bene
attenzione prima di mandare i messaggi, e che quello non era il luogo che
stavo cercando. Au revoir. E quella per me rimane la casa zero.
Ho quindi riprovato, trovando un’altra promessa casa. Dopo avere deciso
di affittarla, ci sono arrivata una sera di inizio dicembre, buia di pioggia.
Ho trascorso una notte infernale, senza riscaldamento né acqua, dormendo
con il cappotto e imprecando contro me stessa per essermi cacciata in quella
situazione. La mattina seguente, ho constatato che la dimora era sì piena di
luce, aveva una vista maestosa in mezzo al verde e l’azzurro in lontananza,
ma non funzionava nulla. Chi doveva accogliermi non aveva nemmeno
verificato se tutto fosse a posto. Da questa abitazione così distratta ho
appreso che se c’è trascuratezza le cose non vanno. Con la casa uno è stata
dunque una relazione lampo, one night stand.
Mossa dal bisogno, ne ho cercata al volo un’altra, dove ho portato gli
scatoloni di libri, le cibarie e Loulou. Era modesta e scarna, e potendo non
l’avrei scelta, ma aveva un bel paesaggio attorno, di cui mi sono subito
innamorata. Tuttavia, è risultata essere una casa piena di promesse non
mantenute, proprio come certe relazioni. Lo scenario esterno era uno
spettacolo, l’interno non proprio. Il costo era esorbitante. Era un amore a
senso unico, il mio, non ricambiato.
Cosa ho imparato fin qui? Che il posto devi averlo dentro, prima di tutto.
Inutile cercare fuori.
In più, ciò da cui scappi ti rincorre.
Inoltre, quello che troviamo fuori riflette la nostra realtà interiore.
Ho compreso anche che ovunque andiamo cerchiamo tracce di amore,
quello che ci permette di riconnetterci con l’amore che abbiamo dentro.
Accade di sentirci chiusi, disconnessi, e anche che ci siano luoghi,
persone e situazioni propizie che ci aiutano a contattare la nostra essenza,
per questo ne abbiamo sete. Perché nasciamo con una domanda d’amore, e
se non impariamo a gestire questa richiesta sono guai. A volte le relazioni
sono proprio così: un gioco di specchi di ciò che fluisce o di cosa invece si
inceppa dentro di noi.
Di fatto, in quei giorni di ritiro e solitudine riflessiva ho compreso che ciò
che acquistiamo insieme con un etto di pane è anche amore. Che se
entriamo in un bar a prendere un caffè non beviamo solo quello, ma siamo
più felici se dentro la tazzina troviamo accoglienza e pure un sorriso. Quel
che conta, infine, è ciò che sta oltre il gesto. Tutto passa attraverso
l’affettività, e anche l’assenza di affetto è affettività: negata. I rimproveri,
come gli sgarbi, per esempio, sono affetti a rovescio, ma sempre affetti.
Mentre continuavo a scrivere e a cercare ispirazione, mi sono messa alla
ricerca di un altro posto e ho trovato la casa tre: onesta, affidabile, dove i
proprietari avevano pensato a ogni particolare, a tutto ciò che può servire.
Vi si respiravano ordine, dignità e funzionalità. In apparenza, era la
soluzione perfetta, proprio come con alcuni fidanzati: tutto giusto, tutto a
posto, una casa dove riordinare le idee e produrre. Ma senza emozioni, per
me. Io volevo sentire il rumore del mare.
Così, ogni tanto tornavo a passeggiare sotto le finestre chiuse della casa
due, quella anaffettiva che non mi ricambiava, rivivendo le emozioni di
quando una relazione era finita non per mia volontà. Quell’abitazione era
inaccessibile, proprio come qualcuno che non apre il cuore per paura di
darsi con generosità. Perché per dare bisogna avere, e permettersi poi di
condividere. Non è forse così che accade nelle relazioni? Chi non è stato
lasciato sentendosi dire: «Piuttosto che impegnarmi, sto da solo»?
Sotto quelle finestre chiuse non soltanto ho provato nostalgia per il
paesaggio che da lì vedevo, ma ho anche capito come si può guarire da un
amore non corrisposto.
Dato che la casa due mi suscitava molto materiale emotivo, ho cercato di
scoprire per quale ragione quel posto fosse così importante per me e ho
capito che era perché dalle sue finestre potevo ammirare una cornice
suggestiva che mi connetteva con qualcosa dentro di me.
Non mi mancava quella casa, mi mancavo io, e come mi sentivo lì. Mi
mancava quella versione di me.
Proprio come accade con certi amanti: non è la persona di cui senti la
mancanza, ma sono le sensazioni e i picchi emotivi che provavi quando eri
con lei.
È stata una comprensione folgorante.
E da allora ho smesso di sospirare in quel cortile: se mi mancavo io, ciò
che sentivo era roba mia. E come tale avrei potuto ricrearla, non con la
stessa situazione, poiché non era possibile, ma il mio compito era ritrovare
quella me lì, ispirata, connessa ed emozionata.
Perciò, dal rimpianto bisogna guarire. Come? Smettendo di idealizzare, e
guardando le cose per come sono davvero.
È necessario desensibilizzarsi da un amore malsano che provoca dolore.
In Brasile dicono matar a saudade, uccidere la nostalgia. La uccidi se non
la provi più, e non la provi più se capisci, in questo caso, che ciò di cui avevi
nostalgia era un ideale, non qualcosa di reale.
Per un tipico meccanismo di noi esseri umani, tendiamo a ricordare le
cose positive, molto meno quelle dannose. Ma per guarire bisogna tenere in
mente cosa non andava in un rapporto, e molto spesso ciò che non va è il
prezzo troppo alto che quei pochi momenti belli ci costano. Voglio
sottolinearlo: quanto costano quelle emozioni? Poche gocce di presunto
amore valgono tutto il resto? Nelle relazioni al veleno, una manciata di
infinito può compensare la discesa nell’abisso?
Se qualcuno ci ha fatto del male, per ripristinare l’obiettività occorre
immunizzarsi. Tornando all’esempio della casa due, ho deciso che per
guarire dal dispiacere di non poter più ammirare quel paesaggio sarei
tornata lì tutti i giorni, finché l’effetto «romantico» fosse sparito. All’inizio
hanno prevalso i ricordi dei bei tramonti, però poi mi sono ricordata il
prezzo sproporzionato dell’affitto e ho cominciato a guardare i tramonti da
altre posizioni altrettanto belle che prima non avevo notato, fissata su quello
scenario o niente. E non è così che accade in una dipendenza? Diventiamo
ciechi, non vediamo la realtà per come è.
Ricordiamoci però la tariffa emotiva che paghiamo, e teniamo presente le
cadute libere causate dal bagno di realtà quando scopriamo di aver investito
e di non essere stati ricambiati, o addirittura di essere stati ingannati. Il
pegno da pagare è sbilanciato, e se siamo noi a mettere la maggior parte
dell’energia non ne vale la pena, è bene lasciar perdere, spostarsi e cercare
una «casa» che ci ricambi.
Vale il principio del giusto equilibrio dare-avere, altrimenti non funziona,
e con tutta probabilità sentiremo rimpianto misto a rabbia. Se ci pensiamo
bene, forse ce l’abbiamo con noi stessi per aver permesso qualcosa da cui
avremmo potuto e dovuto difenderci.
Quando sospiriamo per qualcuno che ci ha fatto provare emozioni e poi
non ci ha più voluto, è probabile che stiamo sentendo la mancanza di noi
stessi in quei momenti in cui la relazione decollava: l’altro era solo un
tramite verso qualcosa di nostro. Saperlo ci aiuta a contattare quello spazio
anche in assenza di altri, e se ci riusciamo, poi entreremo in un rapporto
non per bisogno, ma per pienezza.
Un ulteriore passo verso la guarigione dell’amore che fa male è
aggiungere altro ai ricordi.
Mi spiego.
Se restiamo fissi ai momenti trascorsi in quella relazione e non ci diamo
opportunità di altro, di fare esperienze, di collezionare bellezza, è probabile
che cadremo nella sindrome del «come te nessuno mai».
Non si tratta della filosofia del «chiodo scaccia chiodo», ma di qualcosa
di molto più mobile e nobile: è mettere altra vita tra sé e l’esperienza
dolorosa, è spostarsi nello spazio e nel tempo da quella cristallizzazione, è
guardarsi attorno e autorizzarsi a progredire, ad aggiungere occasioni da
cui imparare ancora. E lo si fa togliendo la carica infiammatoria al vissuto
precedente, permettendogli di non bruciare più, diluendolo in mezzo a tanti
altri ricordi. Non per rinnegarli, ma per aggiungerne di nuovi che
stemperino e sciolgano il dolore.
Così, mi sono messa alla ricerca di un altro posto ancora, dove terminare
il libro.
E l’ho trovato.
Durante le passeggiate con Loulou vedevo una casa molto strana,
sembrava una torre con un balconcino che arrivava dritto nel mare. Un
luogo impervio e allo stesso tempo affascinante verso cui provavo un misto
di paura e rispetto, a picco sull’acqua, a un metro dagli scogli. Passandoci
sotto immaginavo come sarebbe stato scrivere lì, cullata dalle mareggiate,
con la risacca che restituisce ciò che gli è stato dato, riportandolo a riva
smussato, lavorato, ripulito. Pur sapendo di andare incontro a (apparenti)
scomodità, ho dato retta all’intuito: per paradosso, la casa quattro mi ha
accolta come nessuna delle altre. Ho sentito che era felice di ospitarmi.
Così, quel posto a un primo sguardo «difficile» si è rivelato l’avventura più
bella. Era pieno di grazia, al mio arrivo c’era persino cibo nel frigo. E una
bottiglia di vino del posto da bere al tramonto guardando il sole che ogni
sera offriva uno spettacolo incredibile.
Sviluppata su quattro piani, era una casa terra-tetto tipica di quella zona;
un tempo i marinai costruivano un piano per volta, a mano a mano che
racimolavano i soldi necessari. Per salire da un piano all’altro c’erano
gradini ripidissimi, quaranta in tutto, al posto del corrimano c’era una
corda. Era una casa con solo pareti e mare, senza Wi-Fi, come i fari esposti
alle tempeste. Di notte era facile immaginare le vicende di pirati saraceni e
pescatori arroccati, mogli che aspettavano e bambini che intrecciavano reti.
E poi tutte quelle scale, metafora di discese nelle cantine del nostro
inconscio e di salite verso la consapevolezza. Era proprio come il percorso
psicologico: una volta giunti all’ultimo piano, c’era serenità e pace. Ben
sapendo che poi si scendeva di nuovo.
Cosa ho imparato?
Non sono le cose facili a insegnarci di noi, ma quelle in cui ci misuriamo.
Attenzione: non c’è qui un invito ad accanirsi. Accanimento sarebbe stato
riprovare a entrare nella casa esigente, che non mi ricambiava. In quella in
salita, invece, c’erano sì ruvidità, ma anche accoglienza e bellezza. Ciò
significa che se non siamo ricambiati o apprezzati dove andiamo, non
dobbiamo accontentarci, ma continuare a cercare fino a quando sentiremo
di essere al nostro posto. Se non si danza tra dare e avere, non sarà una
relazione in grado di nutrire e farci evolvere. Perché la relazione è anche
impegno e costruzione quotidiani. Non è la discesa che ci fa crescere in un
rapporto, e nemmeno la salita a tutti i costi.
Con la casa uno, quella dove non funzionava nulla, non era possibile una
relazione; me ne sono andata, capita dal proprietario, dopo una notte.
Nella casa due, quella «dei sospiri», a dare di più ero io. Chi la
possedeva non si ricordava nemmeno come mi chiamassi, non era felice di
avermi lì, non mi «vedeva». Quando è così, inutile forzare alcunché, perché
la relazione può fluire solo se ci sono valori simili. È molto importante che
in ogni contesto in cui ci troviamo osserviamo se i nostri principi sono
condivisi: sul lavoro, in vacanza, dove portiamo le nostre energie. A
maggior ragione, in un rapporto amoroso.
Nella casa numero tre, quella funzionale, era lei a dare di più. Io non ero
ben disposta. Era tutto giusto, ma avevo bisogno di altro, semplicemente.
Ricordiamolo: in certe relazioni non c’è nulla di sbagliato, solo non fanno
per noi. E dobbiamo accettare che sia così anche per l’altro. Ci si piace o
non ci si piace.
Nella casa in salita c’era morbidezza. Ci siamo volute bene, al di là
dell’aspetto fisico e delle apparenze. Ci siamo riconosciute, viste e
apprezzate. Là mi sono sentita capita e ospitata davvero.
Ringrazio tutte le altre poiché mi hanno permesso di arrivare, apprezzare
e riconoscere quello che poi ho trovato. E così dovrebbe essere per ogni
relazione, anche quelle che valutiamo sbagliate.
Nella casa quattro ho terminato il libro. Perché ho scelto, in modo
consapevole, il luogo più impegnativo per concludere questo viaggio?
Hanno vinto il coraggio e il senso di avventura: se vogliamo entrare in
contatto con la nostra creatività è necessario allontanarsi dai terreni facili e
già battuti.
Senza dimenticare di stare nel centro.
Perché quando hai dentro un centro puoi scegliere e stare a vedere cosa
succede. Puoi rimanere a guardare il mare da un balconcino affacciato sugli
scogli e capire che avevi già tutto quello che cercavi. Bastava solo trovare
un posto che ti aiutasse ad ascoltarlo.
25
Mindfulness

«Se vogliamo essere felici, dobbiamo innaffiare il seme della consapevolezza che è in noi. La
consapevolezza è il seme dell’illuminazione, dell’attenzione, della comprensione, della
compassione, della liberazione, della trasformazione e della guarigione.»
THICH NHAT HANH, Lo splendore del loto

MEDITAZIONE, disidentificazione, distacco dalle cose mondane e dalle


preoccupazioni. Consapevolezza, osservazione, accettazione. Sono questi i
pilastri concettuali su cui si fonda la cultura spirituale della tradizione
orientale. Sufismo, taoismo, induismo, buddismo sono dottrine che hanno in
comune la trascendenza dai beni materiali, l’impermanenza di quelli terreni,
la pace interiore raggiungibile con il distacco e la concezione che l’universo
è uno, pertanto l’uomo è in armonia con la natura da cui non è separato.
L’identificazione con il proprio ego sembra essere la fonte di sofferenza
maggiore per l’uomo occidentale, che si riconosce nei propri pensieri, nel
proprio credo, nelle proprie verità assolute a cui sembra non essere disposto
a rinunciare.
Ma nella cultura classica vi sono segnali e indicazioni simboliche che
rimandano ai principi base della meditazione sviluppatasi in ambito
orientale. Ecco un esempio che cito spesso nei colloqui: nell’Odissea,
quando Ulisse incontra Polifemo, sostiene di chiamarsi Nessuno, salvandosi
la vita nel momento in cui rinuncia a identificarsi con l’eroe. Ciò che Omero
sembra voler affermare in maniera simbolica è che liberandosi di proposito
dall’identificazione con la gloria legata al suo nome, Ulisse sconfigge il
pericolo.
Ed è proprio la disidentificazione uno dei postulati più portanti della
corrente della mindfulness. Il termine, che significa «attenzione
consapevole», deriva dalla traduzione della parola sati, in lingua pali, usata
nelle prime pratiche del buddismo Theravada, risalenti a circa
duemilacinquecento anni fa. Il primo a sperimentare la pratica della
mindfulness in ambito terapeutico, negli anni Novanta, è stato il biologo e
scrittore Jon Kabat-Zinn.
La mindfulness riprende concetti e tecniche tipici della meditazione
buddista spogliandoli dei significati mistici, e consiste in un allenamento
costante all’attenzione vigile nei confronti di ciò che accade qui e ora,
all’osservazione senza giudizio. Non induce a subire in modo passivo ciò
che accade, ma propone una pratica continua all’accettazione di ciò che ogni
momento è, senza volere che sia diverso. Il concetto di isness, ripreso dalla
mindfulness, deriva da is – la terza persona singolare del verbo inglese to be,
«essere» – ed è di difficile traduzione. È usato dalla filosofia zen, come
semplice constatazione che «ciò che è, è».
Kabat-Zinn ha semplificato e adattato la pratica alla società odierna,
formulando un intervento poco strutturato dove alla persona viene richiesto
di seguire semplici istruzioni. Per esempio:

Sitting meditation: seduti con la schiena diritta su uno zafu, cuscino da


meditazione creato per favorire la posizione eretta, si osserva il respiro
(Vipassana).
Body scan: attenzione vigile al corpo e a ciò che accade, senza voler
modificare lo stato.
Walking meditation: camminare con consapevolezza percependo ogni
sensazione cinestetica.
Meditazione nella vita quotidiana: scopo ultimo della mindfulness è
creare un’abitudine al costante ascolto di sé. Da qui la sua applicazione
anche nell’alimentazione con il mindful eating.

Ciò che in pratica viene proposto è il decentramento dai pensieri.


Allenandosi a esplorare la propria mente e a riconoscere pensieri catastrofici
e boicottanti appena nascono, è possibile farli defluire, non dando loro
potere, indirizzandoli altrove, riconoscendo e accogliendo ciò che è, senza
giudizio.
Mindfulness non è accettazione passiva e rassegnazione. Non è nemmeno
garanzia di felicità. Molti luoghi comuni porterebbero a pensare che questa
pratica generi una specie di sorriso inscalfibile sul nostro viso e che tutto ci
scorra attorno mentre rimaniamo cristallizzati in una felicità immutabile e un
po’ ebete.
Si tratta invece di osservare ciò che c’è in quel momento, senza desiderare
che sia diverso, rimanendo presenti a se stessi e lasciando fluire i pensieri
senza identificarvisi, come fossero nuvole, sapendo che non siamo il nostro
pensiero.
Accettare di non essere soltanto le proprie idee, credenze e cognizioni,
come abbiamo visto, è molto difficile. Ma non siamo nemmeno solo le
nostre emozioni, siamo un insieme – che va oltre la somma – della nostra
storia, delle nostre risorse e possibilità, e delle nostre scelte.
Il punto di partenza di questo approccio è senz’altro il panorama cognitivo
del paziente: vi è la totale accettazione di ciò che la persona è, l’accoglienza
integrale di pensieri, emozioni e sensazioni. Viene praticata la defusione
cognitiva, cioè una sorta di diluizione consapevole che scioglie i pensieri,
togliendo loro enfasi e importanza.
Osservando continuamente ciò che accade nel momento, è possibile
coltivare la presenza vera di essere in ascolto di se stessi e di ciò che è.
Se ci facciamo caso, la nostra infelicità nasce dal contrastare le cose come
sono, e dal volerle aggiustare. Abbiamo un’altra possibilità: rimanere
nell’istante che viviamo. Ma molto spesso lottiamo contro quello che ci
accade, anticipando la vita o rimuginando a ritroso. Nessuno ci insegna a
fluire con semplicità con ciò che sta accadendo. Schiere di esortazioni sul
problem solving, nessuna istruzione per attuarlo.
Praticare la mindfulness, e ogni tipologia di meditazione in genere, non
significa arrendersi in modo passivo, ma partire dall’accadimento, dalla
realtà, senza negarla, spostarla o evitarla. Perché se scappiamo, ciò che
succederà in seguito diventerà immenso e potrà inghiottirci.
Quindi proviamo a stare, senza fuggire, e vediamo.
Raramente siamo nel semplice qui e ora. Il frullatore dei pensieri produce
in continuazione previews di ciò che sarà, o rimpiange ciò che è accaduto. In
questo modo la mente divaga e ci trasporta in una vita immaginata o
ricordata, facendoci perdere quello che abbiamo e sentiamo riguardo al
presente.
Sondando la nostra interiorità, conoscendo a fondo noi stessi, è possibile
rispondere alle pressioni della vita da uno spazio di consapevolezza. In
questo senso l’applicazione della mindfulness appare una ricca risorsa,
ancora molto esplorabile.
Ai teorici della Mindfulness va dato il merito di aver occidentalizzato la
meditazione, rendendola spendibile anche per chi ha resistenze verso le
discipline olistiche. Molti maestri orientali sostengono i medesimi concetti,
riprendendo i filosofi classici. Dal socratico «Conosci te stesso» al
«Semplicemente sii», il messaggio è lo stesso.
Può aiutare il dipendente affettivo, ma non solo lui, a riscoprire e indagare
la propria autenticità e unicità, permettendogli di passare da una modalità
relazionale dipendente a una autonoma senza il rischio di scomparire in
questo passaggio e perdersi nell’altro, o volerlo inghiottire. Quando
accettiamo di attraversare quel famoso vuoto, poi non ne abbiamo più paura
e iniziamo a vederlo come pieno di possibilità.
Con la consapevolezza del semplice fatto di esistere, allenando l’abilità a
stare con se stesso e godere della propria compagnia, è probabile che chi
dipende affettivamente riesca a non dover implorare la presenza dell’altro
per essere felice e possa invece assaporare la ricchezza di ogni attimo di vita.
Se non ora, quando?

Intelligenza introspettiva
Gli psicologi Daniel Goleman e Howard Gardner hanno osservato tipi
diversi di intelligenze che appartengono agli esseri umani. In particolare
Gardner, riprendendo gli studi di Goleman, descrive intelligenze multiple
arrivando a classificarne, per ora, nove tipi, approntando anche test per
verificare quelle che ci caratterizzano maggiormente.
Il suggerimento di Gardner apre nuove prospettive: differenziando le varie
tipologie avremo per esempio chi sarà dotato in modo prevalente di
intelligenza matematica, visuo-spaziale o naturalistica, chi avrà una
predisposizione per le arti, l’estetica, le lingue, la speculazione filosofica e
così via. Generalizzando, potremmo dire, per esempio, che se in una persona
sembra predominare un’intelligenza di tipo interpersonale, è probabile che
sarà estroversa e adatta a un lavoro che comporti il contatto con il pubblico.
Se invece ha un punteggio maggiore nell’intelligenza intrapersonale, avrà
caratteristiche che la porteranno a indagare su se stessa e magari prediligerà
un lavoro solitario.
Sostenendo chi soffre di dipendenza affettiva, ho potuto riscontrare che
nella nostra società manca l’incoraggiamento a coltivare una forma di
intelligenza che tutti abbiamo: quella introspettiva, vale a dire la capacità di
riflettere su se stessi restando in ascolto di ciò che si sente e definendo quel
che si pensa. Questo non ci viene insegnato mentre cresciamo, nessuno ci
fornisce un alfabeto emotivo per decifrare le sfumature di ciò che sentiamo,
in modo tale da attrezzarci per la vita costruendo una grammatica degli
affetti a cui attingere. Allo stesso tempo, i processi educativi forniscono
spesso contenuti prefabbricati e incoraggiano scarsamente le opinioni
individuali.
Per lo più assistiamo a traiettorie di sviluppo deformate, dove il malessere
interiore resta senza nome, spesso nascosto e trascurato, e per lenirlo ci si
appoggia a qualcosa.
Vogliamo promuovere una cultura che porti le persone a non aggrapparsi
ad altri, o ad altro, con l’incessante richiesta: «Dimmi chi sono, fammi
felice, dammi certezze»? Allora iniziamo presto, non soltanto in famiglia,
ma anche dalla scuola.
Ho insegnato per circa trent’anni, svolgendo per lungo tempo due
professioni. Avendo a che fare per gran parte della vita con adolescenti, ho
sviluppato una mia visione di cosa funziona e perché. Mi sento dunque di
dire che la relazione tra docenti e alunni gioca un ruolo fondamentale nel
veicolare i contenuti: la scuola è la seconda agenzia formativa, subito dopo
la famiglia. Un docente che «arriva» emotivamente, curando al contempo
relazione e insegnamenti, è probabile che avrà allievi coinvolti e partecipi.
Senza dilungarmi in discorsi che ci porterebbero troppo lontano dal nostro
focus sulla dipendenza, mi piace però unire qui tutto ciò che finora ho
imparato nei vari contesti per poterlo condividere.
Ho vissuto a lungo in classe con chi stava transitando dall’infanzia
all’adolescenza, e ho potuto constatare che la differenza mentre si impara la
fa sempre il «sentirsi visto» da parte dell’alunno. Essere tenuto in mente e
sognato mentre si cresce, come sostiene il sociologo Danilo Dolci, è quello
che aiuta a diventare persone, oltre che allievi. Al di là dei contenuti offerti,
anche una relazione calda, talvolta pure burrascosa, non importa, fa da
contenitore saldo a chi è lì lì per sbocciare.
Ma che cosa c’entra con la dipendenza? Tantissimo, perché anche i
docenti molto possono nel prevenire uno stile affettivo che può virare verso
il malsano e il disfunzionale. È già sui banchi di scuola che si può al
contempo studiare e fortificare le proprie fondamenta per imparare, oltre ai
contenuti, «la vita», e come rimanere ancorati durante una tempesta.
L’amore si assorbe anche mentre si legge e si ascoltano spiegazioni, perciò
facciamo in modo che si apprenda ben presto a distinguere ciò che è
rispettoso da quello che è invece dannoso.
Come si diventa roccia? Imparando a lasciarsi lambire e scavare
dall’acqua.
Soltanto se integriamo gli opposti, accogliendo tempesta e bonaccia,
riusciremo a fortificarci. Per poter restare fermi è necessario imparare a
muoversi. Si vola se si ha un posto da cui partire e uno dove atterrare.
Perciò è importante familiarizzare con gli opposti, conoscersi nel
profondo. E in questo processo diventa indispensabile unire pensiero ed
emozione per tradurli in conseguenti comportamenti coerenti, praticando
l’osservazione di ciò che sentiamo e dei pensieri che abbiamo. Corpo e
mente, psiche e anima: tutto torna, quindi, a proposito di quanto dicevamo
della meditazione, dell’essere consapevoli e dell’allenarsi a stare presenti a
se stessi.
Se impariamo a farlo già a scuola, quando siamo ancora duttili, sarà più
facile.

Il «flow»
Durante il dottorato di ricerca ho potuto unire la mia esperienza di
insegnante e di psicologa. Il focus della mia indagine era proprio cercare di
cogliere quei momenti in classe in cui docenti e alunni procedono armoniosi
e insieme nelle traiettorie di apprendimento. Per svolgere le mie osservazioni
ho utilizzato anche il concetto di flow, studiato da Mihály Csíkszentmihályi,
psicologo ungherese emigrato negli Stati Uniti, teorico della psicologia
positiva e autore di diversi studi sulla felicità e sulla creatività. Due temi
fondamentali, se vogliamo promuovere il benessere (non solo scolastico) e
incoraggiare le persone a essere autonome.
Il flow è uno stato di equilibrio in cui sentiamo appunto di fluire
nell’accadimento di un evento, nel portare a termine un compito o una sfida,
poiché percepiamo che la difficoltà che stiamo affrontando è proporzionale
alle nostre risorse. In altre parole, è la sensazione di riuscire, di farcela: un
misto di eccitamento, fatica sopportabile e soddisfazione.
Al contrario, in assenza di flow, se ciò che facciamo è troppo facile
sperimenteremo noia, mentre se è troppo duro proveremo frustrazione,
rabbia e senso di impotenza.
Il flow, insomma, è una condizione imprescindibile per la creatività.
Cosa ha a che vedere la creatività con la dipendenza affettiva?
Spesso chiedo alle persone che mi portano un problema di dipendenza
affettiva qual è il loro rapporto con la creatività. È un passaggio importante,
in quanto essere in contatto con la fonte creativa che alberga dentro di noi
aumenta la nostra autostima e la fiducia in noi stessi.
Per definire la creatività dovremmo iniziare un’altra ampia trattazione, e
non è questo il nostro scopo. Tuttavia, ritengo necessario soffermarmi in
breve sul tema perché, in base alla mia esperienza con le persone sofferenti e
tormentate da un malanno sentimentale, ho potuto riscontrare che raramente
chi è in preda a una dipendenza affettiva è connesso con il proprio flusso
creativo. Anzi ne appare distante e scollegato. La creazione non viene mai
dal nulla, ma da un dialogo costante con quanti sono venuti prima, e che
hanno lasciato un segno dentro di noi.
Quando durante un colloquio indago il rapporto che la persona ha con la
creatività, talvolta ammutolisce. Al contrario di quanto spesso si crede,
creare non significa soltanto danzare, dipingere o cantare: è osare raccontare
se stessi, dare qualcosa di sé. Lo si può fare cambiando la disposizione dei
mobili in casa, indossando un certo colore o un particolare paio di scarpe,
oppure scegliendo le parole con cui esprimersi. Ogni attimo può essere
vissuto in maniera creativa o meccanica: sarà questo a fare la differenza.
Chi non ha consapevolezza della propria creatività dipende in maniera
grave da qualcuno, e poco osa esistere per se stesso. Lascia fare al mondo al
posto suo, mentre liberarsi da una dipendenza è imparare a funzionare in
maniera autonoma e, appunto, creativa. E non intendo sul lavoro! Ascolto
persone che svolgono professioni di grande responsabilità. Intendo invece a
livello affettivo ed emotivo.
Mi piace vedere la creatività come la fiducia in quel qualcosa che abita
dentro ognuno di noi e ci porta a dare un contributo individuale a ciò che già
c’è, ad aggiungere qualcosa di personale al mondo, la nostra interpretazione.
Per poterlo fare è necessario avere dentro una base di fiducia; occorre che
qualcuno ci abbia incoraggiato a sperimentare, a sostare nel dubbio, anche a
cadere, ma poi riprovare.
So bene che, in genere, chi soffre per una dipendenza affettiva vacilla in
questi passaggi. O perché le prime volte in cui sperimentava le proprie
domande al mondo non c’era nessuno a incoraggiarlo, oppure perché
qualcuno per «troppo amore», per proteggerlo, gli ha impedito di osare,
sostituendosi a lui, tarpandogli le ali o reprimendolo involontariamente in
nome di un amore improprio.
L’espressione creativa di sé è a mio avviso uno dei fattori protettivi per
quanto riguarda la dipendenza affettiva, oltre – come abbiamo visto –
all’essere stati pensati capaci, tenuti in mente, come direbbe Bion. Se
abbiamo un senso di confidenza, coraggio e apertura verso quei linguaggi
che sgorgano da dentro e che sono solo nostri, avremo l’ardire di provare a
esprimerci e affermarci. In alternativa, chiederemo con disperazione ad altri
di definirci.
Perciò, la creatività, il riconoscimento del flow e la meditazione sono tre
dimensioni che, se apprese, ricordate e riconosciute, possono aiutarci a
fortificarci, a creare quella stabilità fiduciosa ed equilibrata da cui
relazionarsi al mondo. Con una conseguente ricaduta sulla nostra autostima.
Se da un lato la creatività può essere incoraggiata e la meditazione
praticata, per quanto riguarda il flow non può essere forzato. Non è possibile
ordinare a qualcuno di entrare in quello stato in cui si percepisce di fluire
con la vita e con ciò che si sta facendo.
Possiamo però osservare la condizione di flow e imparare a riconoscerla
mentre accade, monitorando pensieri ed emozioni. A volte basta ricordarsi di
portare avanti due domande insieme: «Come ti sei sentito mentre?» E: «Cosa
ne pensi di questo che stai sentendo, apprendendo, imparando?»
Sembrano due interrogativi molto semplici, utili non solo nei contesti
scolastici per promuovere l’intelligenza introspettiva, ma anche nella vita
quotidiana di tutti noi. E sono gli stessi che utilizzo nel colloquio di
sostegno, in maniera sistematica.
Perché è importante osservare pensieri ed emozioni, sorprendere lo stato
di flow quando avviene, per trattare o prevenire la dipendenza affettiva?
Forse vi stupirete, ma sapete qual è una delle risposte più frequenti dei
miei pazienti? «Dottoressa, io non lo so cosa provo.»
Ecco perché vi invito, che siate docenti, genitori, o che siate
semplicemente seduti a riflettere mentre leggete questo libro, a chiedervi:
Cosa sento? Cosa penso di questo?

«A maggese»
Sostenere una cultura che promuova una forma di intelligenza che sia non
solo emotiva ma anche riflessiva e introspettiva, in grado di tenere dentro al
contempo emozioni e pensieri, porterà a sviluppare quella capacità che,
come abbiamo accennato, Masud Khan definiva l’abilità di restare «a
maggese». Vale a dire trovare un riposo dentro di sé, senza fare, senza
accelerare la vita in avanti o rimpiangerla all’indietro, ma contemplando in
maniera consapevole e meditativa il momento presente. E poi, una volta
praticato e vissuto questo spazio di presenza, riflettere anche sui raccolti
passati e immaginare quelli futuri.
Conoscere e riconoscersi è una tappa fondamentale per ognuno di noi, a
maggior ragione se si soffre per una relazione velenosa, ma possiamo farlo
soltanto se impariamo ad ascoltarci, a fidarci di noi stessi, a sentire che
abitiamo da padroni i pensieri, i momenti, le sensazioni. Altrimenti ci
perderemo in un sentire confuso, non autonomo, sconosciuto, diventando
facili prede di manipolatori affettivi.
Oltre a sviscerare la nostra storia dalle origini, possiamo meditare: che si
chiami mindfulness o semplice osservazione del respiro, ci aiuta nel
processo di consapevolezza necessario e imprescindibile se vogliamo essere
autonomi, con una buona autostima e amor proprio.
Coltivare un’intelligenza introspettiva fatta di ascolto di sé e autonomia di
pensiero getterà le basi per fluire con se stessi e condurre una vita espressiva
e creativa, che permetterà di recuperare o costruire la solidità interiore
necessaria per contrastare una dipendenza affettiva.

Sì, ma gli altri?


Secondo Lev Vygotskij, pedagogista russo degli anni Trenta morto
giovanissimo e padre della scuola storico-culturale, noi ci strutturiamo grazie
agli altri: ogni cosa avviene sempre su due livelli, prima attraverso gli occhi
altrui e poi attraverso i nostri.
La teoria di Vygotskij è in contraddizione con quanto affermato finora?
Assolutamente no, siamo esseri umani e sociali; abbiamo visto in
prospettiva tutti i danni arrecati dal non essere stati contenuti in maniera
adeguata quando era ora.
Comprendere a fondo questo passaggio è fondamentale ai fini del nostro
discorso.
I cerchi sociali di cui facciamo parte ci formano, ci restituiscono uno
sguardo sulla realtà e su chi siamo, questo è innegabile. Il rimanere per
sempre ancorati a una domanda implorante di completarci e riempirci, però,
è un’altra questione. Impariamo a comprendere il mondo e noi stessi tramite
una cultura socialmente co-costruita, ma al contempo siamo tenuti a
coltivare la nostra unicità e interiorità. Le due cose non sono in
contrapposizione, coesistono.
Applicando il principio in campo educativo, è fondamentale ritenere i
bambini capaci di essere protagonisti attivi nel creare cultura.
Il concetto di agency è molto importante.
L’agency, agenticità, viene utilizzata in psicologia per definire quella
capacità di far accadere le cose, di sentirsi individui attivi, in grado di
incidere sulla realtà.
Attraverso il loro essere agenti e protagonisti compartecipi del processo
educativo, le giovani generazioni confermano quanto abbiamo sostenuto
all’inizio della nostra trattazione.
Pensarsi reciprocamente capaci e attori della propria vita è fondamentale
anche durante il sostegno psicologico. È importante che entrambi, chi
accompagna e chi chiede supporto, si fidino a vicenda, e insieme co-
evolvano nella relazione di aiuto.
Accogliere e supportarci gli uni con gli altri sono parte integrante del
nostro relazionarci. Coltivando rispetto e fiducia in noi stessi e nel prossimo,
potremo vederci e restituirci così gli uni agli altri, persone intere, integre e
uniche.

Com-passion
Recenti studi di un gruppo di ricercatori finlandesi hanno portato
l’attenzione sul concetto di compassione. Al di là del significato attribuitole
da alcune dottrine religiose, la compassione è un sentimento mosso da
empatia, che guida i comportamenti prosociali fin dalla primissima infanzia.
Secondo queste ricerche etnografiche condotte sul campo nelle scuole
dell’infanzia, l’empatia può essere riconosciuta quando tra pari ci sono
attitudini consolatorie e confortanti, che dimostrano già da una precocissima
età quanto sia importante coltivarla.
La compassione potrebbe dunque essere un obiettivo da riconoscere e
promuovere nei contesti educativi (e non solo). Un’attenzione agli
atteggiamenti empatici risulta infatti essere un fattore protettivo verso
condotte manipolatorie egoriferite e narcisismo esasperato. È un dato di fatto
che l’aggressività e la manipolazione siano dimensioni esistenti in una
persona fin dalla primissima età. Compito di chi educa è tenerlo presente e
aiutare a trovare strategie di autocontenimento e gestione degli impulsi.
Negarli, reprimerli, idealizzarli, fingere che non esistano non aiuterà a
imparare a gestire gli agiti aggressivi. Freud, per esempio, parlava di un
narcisismo primario infantile che è funzionale, e che, se non risolto, rimane
per tutta la vita come motore dell’individuo. Rinforzare comportamenti
mossi da empatia e compassione sarà molto utile, come lo sarà insegnare ai
bambini a veicolare l’aggressività in modo da non nuocere all’altro.
Tenere in mente come si può sentire l’altra persona e allo stesso tempo
prestare un’attenzione vigile verso quanto stiamo provando è un allenamento
a una delle forme più alte d’amore: includere il nostro sentire in quello
dell’altro, senza perdere di vista l’amor proprio e la nostra dignità, al
contrario di quanto accade in una relazione dipendente.
Promuovere una cultura dell’empatia può dunque aiutare a contrastare la
crudeltà narcisistica.
#Frammento n. 8
Ritrovare il filo

HO iniziato questo libro quando ero molto piccola e non avevo nessuno con
cui parlare, perciò mi immaginavo di raccontare. Vivevo in un mondo di
adulti che non avevano tempo per ascoltarmi né guardarmi. Solo da grande
ho capito che quando si deve badare a tirare avanti non c’è spazio per altro.
Poi ho continuato a racimolare pagine segrete nei meandri delle mie ombre,
ogni volta che ho sofferto per storie al veleno. La stessa sofferenza che,
molto tempo dopo, ho riconosciuto nelle narrazioni dei miei pazienti.
Solo ora, tuttavia, ho trovato il filo per portare tutto su un foglio scritto.
Anni di studio e altrettanti di lavoro di fronte ai racconti di chi è
sofferente per affetti contorti mi hanno portata a mettere insieme quello che
so, e quello che sono. Perché non si è mai estranei a ciò che si fa, e in quelle
storie ascoltate io rivedo un pezzetto di ognuno di noi.
Dopo tanto girovagare, ho chiesto aiuto al mare di Tellaro dove,
ascoltando il vento di tramontana che frastagliava le onde, sono andata a
raccogliere le parole impigliate nei pensieri, riordinando ciò che avevo
imparato in tutti questi anni. Con Loulou che, senza dire, aspettava il mio
scrivere.
Non potrei suggerire ai miei pazienti di incontrare se stessi se non lo
facessi io per prima.
Perciò, cara lettrice, caro lettore, spero che questo libro possa esserti di
aiuto, se finora hai incespicato illudendoti di risolverti attraverso un altro.
Hai tutto il mio supporto affinché un giorno non lontano tu possa guardare
il mare e sapere che in quel momento, in quell’esatto istante, non ti manca
nulla, perché tutto quel che ti serve sei tu. Ti auguro di sentirti e incontrarti,
e da questo tuo conoscerti tornare nel mondo, pronto a scambiare tutta la
bellezza che già sapevi di avere dentro di te.
In fine

L’ASSENZA di studi che ne riportino in maniera sistematica gli indicatori


descrittivi rende la love addiction un concetto nebuloso. Sebbene opaco, esso
tuttavia risulta così pregnante, pervasivo e talvolta molto invalidante per chi
ne soffre.
Quando, nella relazione d’aiuto, cerchiamo di definire quell’insieme di
bisogni, attaccamenti, recriminazioni ed emozioni contrastanti che è la
dipendenza affettiva e arriviamo a darle un nome, la persona che ne soffre
appare sollevata, come se fino a quel momento si fosse sentita l’unica al
mondo a provare quei sentimenti distorti e dannati. E si riconosce all’istante,
grata che qualcuno la aiuti a dare una forma a quella sofferenza confusa e
torbida, pesante come un fardello.
Nel corso del nostro indagare qui insieme questo tema, abbiamo toccato,
tra i vari argomenti, tre principali nodi interconnessi con la dipendenza
affettiva: il rapporto con i genitori, la dinamica narcisisticodipendente e
l’apprendere a stare con se stessi. Sono dimensioni spesso ritenute scomode,
che scatenano reazioni emotive anche molto forti. È innegabile che la
famiglia resta croce e delizia del nostro crescere, è il teatro dove facciamo le
prove dei copioni che poi andremo a riprodurre nel mondo. L’incontro o lo
scontro con una dinamica narcisistica è doloroso, e lascia o riapre cicatrici
importanti che devono condurci a interrogarci su noi stessi invece che
sull’altro. Infine, in una società dove «social» è uno degli aggettivi più usati,
promuovere la pratica di saper stare anche con se stessi è un invito
impopolare e in controtendenza, che suscita talvolta animate discussioni.
Molte sono le idee erronee sui tre macroassunti di base che abbiamo
analizzato. Le argomentazioni tipiche di chi non è disponibile a un cambio di
prospettiva sono note: «Io sono diverso dai miei genitori», «L’altro mi deve
amore e se non mi ama è probabile che sia un narcisista», «Io non so stare da
solo, perché non mi basto».
Questo libro parla a chi è pronto a prendersi cura di sé, diventando artefice
in prima persona della propria felicità.
Il web spesso pullula di riflessioni contro. Si cerca, ahimè, qualcosa o
qualcuno, sempre e comunque un bersaglio esterno a cui addossare colpe.
Come abbiamo visto, però, rimanere ancorati al concetto di colpa non ci
permette di crescere. Da questa parte del mondo, sembriamo una società che
evolve a gradoni, con ricadute e avanzate notevoli. È nel cuore dei singoli
che nasce la vera rivoluzione della preziosa conoscenza di sé.
Una volta sondato il nostro abisso, esorcizzati i nostri demoni, ringraziato
chi ci ha dato la vita (qualunque percorso la vita abbia fatto per arrivare a
noi), starà a noi, soltanto a noi, scegliere su che cosa investire. E questo non
vale solo a ritroso per i nostri genitori, ma vale anche per i nostri partner,
separati o meno. Se abbiamo figli, ringraziare la persona con cui abbiamo
messo al mondo qualcuno creerà pace. Non aizzare i figli contro, non
disprezzare o denigrare l’altro genitore li aiuterà ad apprezzare se stessi.
Possiamo trasmettere questa gratitudine ai nostri figli, dicendo che è proprio
per via di quell’incontro prezioso con l’altra parte che loro sono qui. E di
questo dono è possibile gioire e onorare la ricchezza. In tal modo li
autorizzeremo a connettersi con entrambe le loro radici, lasciandoli liberi di
amare anche l’altro genitore, senza doversi schierare, o farli sentire di
appartenere a un albero difettoso o sbagliato. Con questo sguardo ognuno
sentirà di avere il proprio riconoscimento, necessario e rassicurante. A
prescindere se ci siano o meno separazioni, ciò che «guarisce» è che ognuno
faccia la sua parte, portando il proprio peso senza scaricarlo su altri, vedi i
figli. E fare spazio all’amore dove esso rischia di incepparsi.
Il viaggio alla scoperta di sé è infinito, ma è anche un’esplorazione
affascinante. È un processo che possiamo fare guardando noi stessi negli
occhi, con coraggio e onestà. Lo psicologo può accompagnarci fin sulla
soglia, ma il passo oltre è solo e soltanto nostro. E una volta varcato il limen
della consapevolezza inizia un viaggio impagabile, che ci porta ad accogliere
tutto ciò che siamo. Allora comprendiamo che se non ci siamo per noi in
primis non potremo esserci veramente per nessuno, che se non coltiviamo un
rapporto amorevole con noi stessi chiederemo all’altro di guarirci, invece di
condividerci nella relazione.
Per ora il nostro dialogare si ferma qui. Con l’augurio che ognuno di noi
possa assaporare, con meraviglia e incanto, quel senso di avventura che
nasce quando decidiamo di prenderci per mano. Attimo dopo attimo la vita
bussa e ci invita: la consapevolezza è essere presenti e restituire ciò che
siamo. Con responsabilità, che è quell’abilità di rispondere al momento, che
è sempre e solo adesso. E da questo spazio l’incontro con l’altro sarà
pienezza, scambio fertile da cui costruire.
Schede di lavoro

CARA lettrice, caro lettore, in questa parte del libro troverai materiale di
autoanalisi e spunti di riflessione che accompagnano il testo, pensati per
aiutarti in un percorso di consapevolezza e conoscenza di te.
Potrai tornare qui ogni volta che vorrai.
Ti suggerisco di procurarti un quaderno di lavoro, che costruirai piano
piano, e di personalizzarlo e renderlo piacevole. Sarà come interagire con
qualcuno di prezioso che ti accoglie e riflette ciò che a poco a poco scoprirai:
il tuo sé consapevole. Ti servirà anche per coltivare quell’abilità che
abbiamo chiamato intelligenza introspettiva, il dialogo onesto con noi stessi.
Le schede sono state pensate con un ordine che rispecchia quello dei
capitoli del libro, ma nulla ti vieta di utilizzarle a piacimento.
Spero che incontrerai ombre e luci affascinanti.
Buon viaggio.
Scheda n. 1
Invito a cena con Narcisi

TI propongo di fare un gioco. In psicologia si chiama Gestalt, diamo cioè una


forma alle dinamiche che possiamo incontrare nelle nostre relazioni.
Gli scopi di questo esercizio sono:

1. raccontarti tante tipologie di personaggi che interpretano la ferita


narcisistica in maniera differente;
2. invitarti con una simulazione a diventare uno di loro, o anche tutti, se
vorrai prenderti il tempo di tornare di tanto in tanto a questa scheda.

Perché farlo? Per osservare dal di dentro come si sentono queste persone.
O, se ti sei riconosciuto in una di loro in particolare, per prendere
consapevolezza del copione principale che maggiormente porti nel mondo,
ricordando che a tratti tutti siamo tutto, e che le tipologie non sono mai così
nette.
Useremo l’immaginazione, e il nostro obiettivo è quello di riconoscere e
familiarizzare con figure che è probabile incontrare nelle nostre interazioni
quotidiane.
Attenzione: per chi è molto arrabbiato con la figura del o della Narci, non
vogliamo qui né minimizzare, né giustificare. Bensì, attraverso questo
esercizio, entrare in contatto con quel mondo narcisistico spesso descritto
soltanto dalla superficie.

Materiali: ti serviranno un sacchetto, dei bigliettini o cartoncini e un


pennarello.
Abbigliamento: ti suggerisco di vestirti comodo, come se dovessi
guardare una serie televisiva.
Sottofondo musicale: Maya Belsitzman, Reflections - Cello Solo. In
alternativa, una musica che ti ispiri.
Ambientazione: un tavolo e due sedie, oppure due cuscini per terra.
Scegli un luogo in cui ti senti a tuo agio, senza distrazioni o interferenze.
Immagina di essere in procinto di partecipare a una cena, dove incontrerai
i vari personaggi che ti descriverò di seguito. È molto importante che per
questa mezz’ora tu sospenda il giudizio e ascolti semplicemente le tue
emozioni.
Anche se è di tuo gusto bere alcolici, ti suggerisco di non farne uso mentre
esegui l’esercizio. Restare lucido ti aiuterà a percepire le sensazioni. È così
facile cercare di fuggire dalla consapevolezza, vero?
Se sei pronto, ti presento i tuoi commensali.
Buon appetito!
Nota bene: ogni personaggio può essere rovesciato nel genere opposto.

L’arcobaleno dei Narci, una specie variegata


Come abbiamo esemplificato nel capitolo ArcoNarci, aggiungiamo qui in
tono semiserio una vasta campionatura di Narci, ripetendo che nessuna
tipologia è statica, ma che possiamo avere sfumature ibride anche in modelli
collaudati.

Il Narcibimbo
È colui che è rimasto intrappolato nello sguardo ammaliatore e seduttivo
della madre, il bimbo bello della mamma. Lo possiamo immaginare da
piccolo con il boccolo pettinato a banana, un po’ cicisbeo alla corte della
grande madre, che lo trattava forse come un suppellettile, il suo gioiello da
mostrare a tutti, esibendolo in cerca di un’ovazione di stupore, un coro di
ohhhhhh. Il padre è defilato, e ha una storia fusionale con la madre. È un
padre in panchina, fuori dalla partita, poiché la madre è posseduta dal
richiedere le performance del figlio, batte le mani, tutta contenta delle sue
prestazioni che ritiene speciali.
Il Narcibimbo andrà quindi nel mondo cercando di fare la ruota del
pavone. Intrappolato in quell’ohhhhhh, sarà interessato al partner solo finché
non otterrà quell’esclamazione, dopo di che andrà a cercarla da altre
compagne.
Se il dipendente affettivo si fissa su quella figura da cui voler amore, e
ahimè finirà con il non averlo, confermando così il suo triste copione, il
nostro Narci è interessato invece alla quantità di applausi, più che da chi
arrivano. È dunque il partner mordi e fuggi, seduce e se ne va. Proprio come
faceva la sua mamma quando lui era piccolo. Il dipendente affettivo dipende
dallo sguardo di una persona per volta (il presunto amato), mentre il Narci
dipende dal numero di applausi che gli arrivano da un pubblico, di cui entra
a far parte anche il partner (infatti ne ha spesso più di uno). Inutile mettersi
in lista per un eventuale matrimonio con lui: è inesorabilmente già sposato
con l’adorata madre.

Il Narciroyal
Il Narciroyal è la versione regale e aristocratica del Narcibimbo. In questo
caso la madre non faceva nessuna esclamazione e lui era appeso a un’alzata
di un suo magnanimo sopracciglio. Il Narciroyal cresce in un ambiente
affettivamente gelido e composto, il padre è altrove e lui vive all’ombra
della madre imperatrice, in attesa di un gesto di amore che non arriverà. Va
da sé che a sua volta nelle relazioni diventerà l’imperatore algido e
inarrivabile, perpetuando il copione materno e paterno dell’avarizia affettiva.
Anche qui, la relazione calda ed emotiva è impossibile, perché il Narciroyal
nutre una profonda rabbia per le donne.

Il Narcifiocco
È la versione povera e meno aristocratica del Narciroyal. Ha l’aspetto di un
bambino infiocchettato, tanto bello, tirato a lucido dalla mamma, in qualsiasi
situazione potremmo riconoscere quel fiocco. Il Narcifiocco è come il tipo
precedente, ma è ancora più caricaturale. Deve sempre essere simpatico,
brillante, pieno di boutades. Nasconde come tutti gli altri un profondo senso
di vergogna di sé, a ben guardarlo. (Possiamo far rientrare in questa tipologia
anche Il bravo ometto descritto nella sezione degli archetipi.) Entrambi
differiscono dal Narcibimbo perché hanno qualcosa di ancora più «ridicolo»
e quindi si presume che nel corso della loro infanzia abbiano sentito ancora
più vergogna.

Il Narcizitto
Non gli veniva chiesto di fare la ruota, ma di non esistere. Corrisponde alla
tipologia opaca di cui abbiamo già parlato. I genitori erano disconfermanti,
non disponibili. E lui in apparenza ha imparato bene: dimesso, ritirato,
falsamente modesto, gira per il mondo sotto mentite spoglie, indossando le
vesti dell’umile e docile possibile compagno. Perciò, attenzione: lì per lì non
ci accorgiamo di essere di fronte a un Narci!
Ma poi si trasforma nel più pungente e punitivo muro di gomma. Il suo
meccanismo di difesa preferito è un silenzio oppositivo, e sembra recitare
come un mantra la filastrocca: «Non mi hai fatto niente faccia di serpente,
non mi hai fatto male faccia di maiale». È assetato di rivalsa, per non essere
stato mai visto. Il contesto di crescita castrante e annullante ha suscitato in
lui fantasie di riscatto; la sua missione di vita è farla pagare a qualcuno. Una
volta impietosito dalla sua apparente timidezza, il partner si troverà a dover
decifrare quotidianamente un rebus, peggio del cubo di Rubik.
Varianti di questa tipologia riconoscibili nel mondo reale sono il
Narciriccio, molto introverso e silenziosissimo, e il Narcisolo, isolato e
sprezzante della folla. Questo gruppo ha striature ancora più complesse:
probabile che i genitori dessero messaggi ambivalenti e terribili, forse il
contesto di crescita era così disfunzionale che a questa tipologia è mancato
del tutto lo specchio, non lo hanno avuto nemmeno distorto. «Tu non esisti»
è stato il messaggio ricevuto. Forse andrà a specchiarsi attraverso la stessa
crudeltà che ha incrociato crescendo.

Il Narcistella
È uno dei più svantaggiati, anche se non sembra. A lui viene chiesto di
brillare, di diventare un Narcieroe, di compiere imprese grandiose per
appagare l’ego genitoriale, ed è quello che cercherà di fare usando qualsiasi
mezzo.
Se le altre tipologie sono succubi di una richiesta del materno, il
Narcistella ha sulle spalle una missione importante: ripagare il padre della
sua infelicità. Possiamo vedere tanti Narcistella in TV, o rampolli di famiglie
bene, schiacciati dalle aspettative. Spesso esiste un’omosessualità più o
meno latente, tenuta con forza nascosta per non deludere il padre. La vita è
un peso enorme per il Narcistella, che vive oppresso dalla richiesta paterna e
non ha trovato conforto nella madre, percepita dura e distante.

Il Narcitriste
Se ne sta in disparte e crede che il mondo ce l’abbia con lui, sembra pronto a
esplodere, ha un’autostima molto bassa. Si sente perseguitato e cova
un’invidia torva. Probabilmente ha dovuto rinunciare molto presto all’idea
che qualcuno si occuperà mai di lui. Non solo ha perso la fiducia, ha perso
anche la speranza.

Il Narcipalloncino
È tutto indaffarato a darsi arie; sbruffone e fanfarone, racconta le sue gesta
molto mediocri come se fossero epiche. Occupa molto spazio, ha un ego
ingombrante e petulante. Non lascia parlare, vuole l’attenzione e la ottiene
per esasperazione degli altri, che si sentono sollevati quando non c’è. Forse,
da piccolo doveva fare il giullare?

Il Narcivetro
Suscettibile, spaventato, perennemente avvilito, vorrebbe essere elogiato di
continuo, per potersi svalutare. Vive al coperto, dentro di sé, sogna rivalse e
nutre fantasie di riscatto della sua condizione, che vive come un’ingiustizia.
È così poco strutturato che può andare in pezzi per un nonnulla. La sua ferita
narcisistica sanguina con facilità.

Il Narcifuria
Qui ci avviciniamo alla polarità estrema dell’arcobaleno narcisistico, per il
grado di pericolosità in cui può sfociare, e abbandoniamo il tono ironico
tornando seri e preoccupati. Chi ha subito una ferita profonda di disconferma
di sé non impara né empatia né amore, anzi scambia l’affettività distorta per
relazione. Perciò in questa tipologia troviamo una rabbia che scorre
sottopelle ed è pronta a esplodere se non ottiene ciò che vuole. Rimandiamo
a testi scientifici e autorevoli la trattazione di una patologia talmente grave
che può sfociare in manipolazione estrema quale il gaslighting, la negazione
cioè della realtà, o in violenza psicologica e fisica. La negazione del valore
di sé è stata tanto estrema, distorta e atroce che per sopravvivere questo tipo
di personalità ha solo la ripetizione degli atti traumatici che ha subito e che
tenderà a replicare sull’altro per tentare di sfuggire alla propria impotenza.
A questa cena inviteremo anche alcune ragazze, con le quali abbiamo già
fatto conoscenza nel capitolo sugli archetipi: la principessa sul pisello, eterna
insoddisfatta; la piccola fiammiferaia, orfana e dimenticata da tutti; la più
bella del reame, pretenziosa ed esigente, che ritiene dovute le attenzioni del
mondo; la crocerossina, tanto buona e caritatevole; e la bimba di papà,
avvitata alla figura del padre o in positivo, nel caso lo abbia idealizzato, o in
negativo, se sente di avere un conto in sospeso con lui.
Una volta che avrai esaminato tutte le caratteristiche di ognuno dei tuoi
commensali e avrai scritto il loro nome su ogni cartoncino, ben visibile, ti
chiedo di osservarli. Prenditi alcuni minuti per riconoscere ogni tipologia,
datti tutto il tempo necessario per comprendere a fondo questi personaggi.
Puoi decidere di sceglierne uno e osservarlo più da vicino.
Perciò, metti il bigliettino con il suo nome su una sedia (o su un cuscino)
di fronte a te e immagina che sia davvero lì. Supponiamo che tu abbia scelto
il Narcibimbo. Guarda che postura assume, come si pone, immaginane la
voce, la gestualità.
Ora ti chiedo di sederti sulla sedia (o sul cuscino) del personaggio che hai
deciso di osservare. Com’è essere questo tipo di persona? Com’è provare a
metterti nei suoi panni?
Com’è essere Narcibimbo? Che sensazioni prova? Che vestiti indossa?
Che cibo predilige? Come si sente in mezzo agli altri? È in contatto con le
sue emozioni? Se sì, quali sono? E i suoi pensieri? Le sue priorità?
Se vuoi, prendi nota di una frase o di un’osservazione che ti viene in
mente. Magari avrai una comprensione, un flash.
Se vorrai, con i tuoi tempi, potrai esplorare tutte queste diverse
interpretazioni di ferite narcisistiche. Forse in alcune ti sei riconosciuto di
più e in altre meno: in ogni caso, nessun giudizio. Forse hai incontrato un ex
fidanzato, o il tuo vicino di casa, o un amico di infanzia, o la tua amica del
cuore. Queste personalità sono presenti intorno e dentro di noi, in parte.
Riconoscerle e farci amicizia ci aiuterà a non esserne spaventati e a
comprendere da dove nascono i loro comportamenti. Ribadiamo, non per
assolverle, o metterle sul banco degli imputati. E nemmeno frequentarle.
Conoscere qualcosa ci serve per riconoscere e scegliere i gradi di vicinanza
(o distanza) a cui vogliamo stare.
Terminato l’esercizio di immaginare di diventare quel personaggio, puoi
osservarli tutti dall’esterno, senza giudizio, vedendoli per quello che sono:
aspetti diversi della complessità del nostro essere umani. E lasciare a loro le
ferite, sapendo che non puoi essere tu a guarirle.
Ora puoi riporre i bigliettini in un sacchettino, e potrai estrarne uno e
ripetere l’esercizio ogni volta che vorrai, per guardare il mondo attraverso gli
occhiali di quella ferita.
Scheda n. 2
Che coppia sei?

LAVORARE con le coppie è molto affascinante, poiché mi trovo di fronte non due
persone, bensì due galassie familiari. Dietro a ognuno ci sono due sistemi
che si incontrano.
Dopo anni di esperienza, mi sono costruita uno schema per individuare
che tipo di coppia ho davanti. Questo non per rimanere in un recinto ristretto
e limitante, assolutamente no: se c’è una cosa che ho imparato è che le
etichette sono inutili e rimpiccioliscono il potenziale delle persone. Mi serve
solo come punto di partenza, per poi abbandonare qualsiasi riferimento una
volta che saremo nel mare aperto del percorso. Perciò ti invito a leggere
queste caratteristiche con molta elasticità, a grandi linee, perché il tutto è ben
di più dell’insieme delle parti. E così pure la coppia è ben di più di ciò che
crede di essere, ed è un insieme di risorse soltanto se chi la compone
conosce se stesso.
In questa scheda di lavoro ti propongo di esplorare lo schema della tua
coppia, se sei in una relazione, ma puoi esaminarne anche una passata, o una
ipotetica. Sarà divertente.
Gli scopi dell’esercizio, che puoi fare da solo oppure in due, sono:

1. investigare sull’investimento nel rapporto da parte di entrambi i partner;


2. far luce su quali ingredienti portano nella relazione.

Materiali: un foglio di carta e una penna.

Come per gli altri esercizi, scegli abiti comodi, un ambiente tranquillo e
un sottofondo musicale, se ti fa piacere. E circondati di tutti gli elementi e
stimoli piacevoli che ti aiutino non a distrarti, e a focalizzarti su sensazioni,
emozioni e comprensioni.
L’esercizio consta di due parti.

Step 1
Disegna sul foglio un cerchio, come se fosse un piatto. Fallo bello grande,
così potrai scriverci dentro.
Questo piatto è la tua relazione, presente o passata che sia.
Ora dividi il cerchio in modo da descrivere la percentuale di investimento
che hai fatto tu nel rapporto e quella che ha invece coperto il partner. Potrai
osservare, come in una torta, se la tua parte è del 40%, o dell’80%, e di
conseguenza vedere quanto ha investito l’altro. Metà? Un quarto?
È importante che mentre fai l’esercizio tu resti neutro, obiettivo, vero.
Senza giudizio, perché non c’è giusto o sbagliato.
Magari potrai stupirti di avere investito più del partner o, viceversa, molto
meno di quanto pensavi.

Step 2
Ora inserisci nei due scomparti del piatto gli ingredienti che ciascuno dei due
ha messo in questa relazione: magari nella tua parte ti verrà da scrivere cura,
accudimento, sesso, compagnia, stimoli culturali, soldi, dolcezza. E nella sua
desiderio, aiuto economico, presenza, tempo di qualità. Qualunque siano gli
ingredienti, scrivili.
Aggiungi però, tra gli ingredienti, anche le cose che chiedevate alla
relazione, per esempio rassicurazioni. Se ci pensi, quello che hai messo nel
piatto non è solo positivo: magari hai portato i tuoi bisogni insoddisfatti, la
tua richiesta di risarcimento, il tuo grido di aiuto, la pretesa di essere
riconosciuta. E lui altrettanto.
Una volta che hai scritto tutto quello che ti viene, rileggilo. E osserva di
nuovo la percentuale. Forse hai messo di più tu. Di che cosa? Di solitudine?
Di vuoti da riempire? E lui, invece? Bisogno di applausi? Richieste
implicite? Denaro? Tempo? Gelosia?
Qualunque cosa tu scopra, non giudicarla, accogli con semplicità il dato di
fatto che quando si incontrano due persone, si uniscono due galassie, le ferite
di ognuno e tutto quanto si portano dietro da generazioni. Ciò significa che
non si potranno mai cambiare i copioni? Sì che si potranno cambiare, ma per
poter modificare qualcosa occorre conoscere come è fatto e da dove si è
originato.
Tieni con te ogni intuizione che hai avuto durante l’esercizio e fanne
tesoro, mettila via per dopo. Puoi partire da queste consapevolezze per
creare lentamente una danza nuova, o un amore a seconda vista. Perché
l’incontro tra due persone è un insieme infinito di possibilità.

Di seguito una carrellata di coppie tipiche, anche questo è un inventario


semiserio. Potrai riconoscere la tua coppia, o altre coppie di tua conoscenza.
Ricordati che le tipologie sono sempre ibride e sfumate.

La coppia turbo jet


Si dedica all’eccesso in tutto. Le parole chiave sono accelerazione, velocità,
tappe bruciate, e tutto deve essere splendido splendente. Più che nella
relazione, investono entrambi nel mantenere in vita l’immagine della
relazione.
È una coppia che non può permettersi mai di scendere a valle e vive di
picchi adrenalinici. E per mantenere lo stile dove tutto deve andare al
massimo è disposta a spendere tanto denaro (spesso più di quanto ne
guadagna) in vestiti, mobili e oggetti che sanciscano la sua «specialità»,
perché lo status conta più dell’essenza. Quando uno dei due perde smalto, la
coppia è destinata al naufragio.

I naufraghi
Il termine che meglio definisce questa unione è disperazione. I due sembrano
perseguitati da una sorte avversa, spesso hanno alle spalle un passato di
droga, abusi, alcolismo, oppure uno dei due è affetto da una grave malattia;
in ogni caso, l’altro diventa un devoto salvatore.
Entrambi infelici, può darsi che uno dei due (o entrambi) ripeta un
copione familiare dove un coniuge aveva una dipendenza e l’altro viveva
sacrificando la propria esistenza. Se uno dei due partner risolve il problema
esistenziale che lo affligge, la coppia perde il perno su cui si regge.

La coppia Hänsel e Gretel


Ciò che accomuna i componenti di questa coppia è il sentirsi perseguitati.
Spesso si uniscono in base a un ideale estremo, su cui investono tutte le loro
energie, per poi sentirsi due contro tutti. È principalmente un’ideologia o un
atteggiamento fanatico a tenerli insieme. Se uno dei due cambia idea, il
sodalizio decade.

La coppia di estranei
Si contraddistingue per il colore grigio. Ha attorno un alone sbiadito in una
vita sempre uguale, spenta, rassegnata. I partner non investono nella coppia e
non di rado uno dei due ha una situazione parallela, rifornendosi da qualcuno
che si presta a erogare ossigeno. Chiamo questa configurazione «bancomat
emotivo»: molte mie pazienti hanno il ruolo ingrato di battitore libero (per
modo di dire, in quanto single) che sta all’esterno, svolgendo la funzione
involontaria di rivitalizzante della coppia, e finiscono con il fare da polo di
rianimazione per l’unione agonizzante.
Tuttavia, questo è un legame incistato nella comodità, nell’abitudine,
talvolta nella codardia di non voler affrontare il disagio della separazione.
Perciò uno dei due preferisce attingere energia da fuori e mantenere lo status
quo, per continuare in questa routine che è sì opaca ma garantisce una sorta
di sicurezza senza scosse. È probabile che stiano insieme per non pagare un
altro affitto?

La coppia di cooperanti
Bimbi, casa, lavoro, scuola, corso di nuoto dei figli: la coppia di cooperanti
procede senza porsi troppi problemi. I due partner investono in misura
eguale in lavori forzati. Si fa un bambino, poi un altro ci vuole. Sono
omologati, partecipano alla vita della scuola, organizzano i compleanni, tutto
segue un iter prestabilito. La coppia che incentra lo stare insieme sulla
gestione dei figli collabora senza battere ciglio, con un misto di dedizione e
rassegnazione. A testa bassa, cresce bambini che sono il fulcro di ogni
attività. Sua maestà il figlio ha desessualizzato i partner, che non si separano
ma non si frequentano davvero. Tutti e due hanno come priorità il
mantenimento della cooperativa, o azienda a conduzione familiare. Alla
lunga, diventa una coppia di estranei.
C’è anche la versione Coppia Azienda. Più benestante, delega a
collaboratori (baby-sitter, tate, colf) l’andamento della gestione familiare.

Il cieco e il sordo
Sono infelici. Ma fingono di no. Lui non ascolta lei, lei non vede che lui non
c’è, o ha una dipendenza, o un’amante. Oppure lei ha un altro, e lui diventa
non vedente. Sembrano le tre scimmiette: «Non vedo, non sento, non parlo».
E la vecchiaia arriva pigramente.

La coppia zucchero filato


Tutta orsacchiotti, cioccolatini per San Valentino, pop-corn e serie Netflix.
Piena di cuoricini, è la coppia adolescenziale, tre metri sopra il cielo, anche
se hanno cinquant’anni suonati. Il loro investimento è una dura gara a chi
mette più like all’altro. È la versione edulcorata, diabetogena, della coppia
Hänsel e Gretel, ma il sodalizio è nello zucchero sopra ogni cosa. Con il
tempo diventa un amore stucchevole, che implode.

La coppia pigiama di flanella


Investe in calore. È una coppia sobria, pigra e adagiata sul divano. Il
pigiamone di flanella tiene caldo ed è perfetto per stare in casa a guardare un
film, ma invece di abbracciarsi l’un l’altro i partner abbracciano uno, due o
tre cani e un paio di gatti. Questa coppia si protegge dalle intemperie della
vita, ma dopo un po’ soffoca, perché non gira ossigeno.

La coppia ad alto volume


Investono in conflitto. Sono sempre sull’orlo della guerriglia, urlano e
bisticciano. Paradossalmente, per questa coppia il litigio è la benzina che la
alimenta. Ognuno dei due vuole vincere e usa l’altro per affermarsi. Non si
separano per non darla vinta al partner. Sono infelici, nel piatto mettono la
loro rabbia.

La coppia salvagente
È una sorta di bolla che ruota attorno al problema di uno dei due. Potrebbe
essere la classica coppia dove lui ha un problema con l’alcol e lei dedica la
sua vita a salvarlo (o viceversa). Diventa così codipendente: vive con
l’orecchio teso, controlla gli orari, calcola gli itinerari casa-lavoro per
cronometrare e verificare se lui si ferma al bar. Svuota le bottiglie nel
lavandino, fa scenate in pubblico, minaccia di lasciarlo ma corre sempre in
suo soccorso, mettendolo a letto ubriaco e lavandolo se vomita. Di sé non sa
nulla, sa tutto dell’altro.

La coppia «ma sì, dai»


Investono in ciò che pensano sia necessario essere. Si mettono insieme per
fretta, per il tempo che scivola via e bisogna pur avere un partner, un figlio,
una casa. Più frequente di quanto si pensi, questa coppia – che potremmo
anche definire must have – sta in piedi per la pressione sociale, per non
scontentare le famiglie di origine, senza interrogarsi, andando avanti per
inerzia. Tanto per.

La coppia bianca
I matrimoni bianchi sono un fenomeno molto diffuso, ma se ne parla poco.
Spesso sono unioni serene, in cui ci sono affetto, stima, intesa, interessi
comuni, solidarietà e sostegno. Ci sono anche risate. Tuttavia, la sessualità si
è spenta o non è mai divampata.
La coppia è depolarizzata. Hanno perso l’attrazione magnetica di quelle
qualità opposte che si attraggono e ben si amalgamano. Questo tipo di
legame non si scioglie, si conserva intatto, anche se talvolta il rapporto
sessuale non accade proprio mai, nemmeno all’inizio della relazione. È un
segreto che resta sepolto all’interno della coppia, che agli occhi del mondo
pare funzionare. E in effetti va bene in tutto e per tutto, tranne che nel letto.
Ma i due non sembrano sentirne la mancanza, sopperiscono e sublimano con
tutto il resto. Poi arriva la terza età, e la coppia sa farsi compagnia e darsi
sostegno. È una cooperativa che nel tempo si è trasformata in una onlus.
Inossidabile.

I disgregati
Chi li vede non si capacita di come siano finiti insieme: sono agli antipodi,
distanti come il sole e la luna. Eppure, nel tempo resistono perché hanno un
collante segreto: il sesso. È la coppia che rivela che la sessualità non è mai
mancata. Tutto il resto è fantascienza.

I ghiaccioli
Non si guardano, non si sfiorano. Non investono nella relazione, non hanno
un patrimonio comune. Stanno insieme grazie alla freddezza che li
contraddistingue. Mantengono una sessualità spoglia e meccanica. Non c’è
dialogo, non c’è calore. Il gelo è il conservante naturale che li tiene insieme.

I «volemosebene»
Più che una coppia sembrano due fratelloni: fidanzati dal liceo, magari
hanno frequentato la stessa parrocchia e hanno avuto cinque o sei figli. Si
vogliono bene, sono sereni. Non sanno cosa sia la passione, ma in compenso
hanno la pace dei sensi, una tavolata di figli e tanti amici.
La coppia piccante
Tutta tacchi a spillo e calze a rete fino alla terza età, investe in erotismo. Lui
è attratto da lei, che resta sexy anche tra i fornelli. È possibile che si
dedichino allo scambio di coppia per aggiungere costante condimento al loro
ménage. Sono un’associazione al piacere invece che a delinquere e
rimangono in equilibrio attorno ad alti livelli di sensualità. Non si trascurano
mai, entrambi devoti al tempio della loro sessualità. Si impegnano talmente
tanto che arrivano alla fine del loro tempo insieme in un soffio, senza mai
accusare momenti di rallentamento. Alla faccia del tempo che passa.

La coppia Vinavil
Bisogna fare tutto insieme. Investono in una simmetria formale più che
sostanziale. Al mare, in piscina, in giardino prendono il sole con le sedie a
sdraio affiancate. Se uno si gira a pancia in giù, si gira anche l’altro. Se uno
si tuffa in acqua, ci va pure l’altro. Se lui mette un like a qualcuno lo mette
anche lei. Il must è fare tutto insieme. È la coppia fusionale, sulla carta. Non
ci stupiamo poi se uno dei due è su Tinder sotto mentite spoglie.

La coppia intonata
Sono molto consapevoli delle loro identità, hanno interessi individuali e di
coppia, che coordinano in maniera equilibrata. Ben conoscono i confini
l’uno dell’altro e creano zone di decompressione della relazione in caso di
mareggiate. Sono rodati, ben risolti e realizzati professionalmente.
Contribuiscono al 50%, ma è una percentuale morbida e mobile, creando un
giusto equilibrio di dare e avere. Hanno fatto pace con le famiglie di origine
che considerano come donatrici di vita, con gratitudine. Hanno lasciato alle
spalle le colpevolizzazioni e le tempeste e ora possono godere della
reciproca compagnia. Fra loro ci sono rispetto e affiatamento, e ognuno dei
due supporta l’altro senza indossare un ruolo genitoriale. Entrambi
polarizzano la coppia, componendo passi di danza complementari, senza
prevaricazioni o competizioni.

Non c’è una tipologia di coppia migliore di un’altra. Ci sono gradazioni di


felicità, combinazioni vincenti e altre deleterie. Giusti dosaggi di complicità,
passione, e soprattutto una scala valoriale compatibile. Ma in ogni coppia
descritta sopra c’è un vantaggio. Anche l’infelicità lo è. Pensiamo perché.
La distribuzione degli spazi in una coppia in equilibrio, che funziona,
dovrebbe tenere conto dello spazio dell’io, dello spazio del tu, e della
relazione, lo spazio del noi, ai quali entrambi contribuiscono. Più o meno
così:
Scheda n. 3
Il tuo albero

IN questa scheda di lavoro ti propongo di ricostruire la tua storia familiare


attraverso il disegno del tuo albero genealogico.
In un sistema familiare è molto importante ricostruire le storie attraverso i
suoi componenti, ognuno dei quali ha un posto e un ruolo ben precisi. Se
qualcuno è escluso o dimenticato, nel sistema si crea una falla che reclamerà
attenzione. Se un familiare non sta svolgendo il proprio ruolo, è facile che
qualcun altro (tu?) ne prenderà il posto, forse portando il destino e il fardello
del suo dolore.
Perciò, dopo aver trattato a grandi linee la filosofia di riferimento a cui si
ispira questa scheda nel capitolo dedicato alle galassie familiari, ti propongo
ora di esplorare la tua appartenenza.
Gli scopi di questo esercizio sono:

1. raccogliere ricordi e notizie sulla tua progenie e rappresentare in


un’immagine la tua genealogia;
2. comprendere quali sono i temi principali della tua famiglia che arrivano
fino a te (e ai tuoi figli, se ne hai) e prendere consapevolezza di schemi
a cui magari non avevi prestato attenzione, che possono talvolta
appesantirti.

Ti senti disponibile?
Tra poco ti guiderò nella costruzione del tuo genogramma, cioè la storia
della tua progenie e di tutto ciò che può avere lasciato o creato una traccia
significativa nel tuo sistema familiare.
Per tutta la durata dell’esercizio, ti chiedo di restare in ascolto delle tue
emozioni, sensazioni e possibili resistenze, e di prestare attenzione al corpo.
Per prima cosa, scegli un posto confortevole. Cerca il piacere in quello
che fai, senza sforzo.
Creiamo un setting e iniziamo da ciò che ti serve.

Materiali: grandi fogli bianchi; pennarelli piacevoli da impugnare e dal


tratto gradevole (ricorda: è importante cercare il piacere in ogni dettaglio!)
Abbigliamento: vestiti comodi.
Sottofondo musicale: Badflower, Family.
Bibita: la tua preferita di quando eri piccolo (latte caldo e cacao,
camomilla, qualcosa di fresco).
Stimolo olfattivo: scegli un incenso, se ti piace, oppure accendi una
candela profumata o, se li ami, metti dei fiori in un vaso. Puoi circondarti di
stimoli visivi, olfattivi e uditivi, in modo da essere connesso con i cinque
sensi.

Prima di cominciare, o nei giorni precedenti al momento in cui deciderai


di fare questo esercizio, prendi un album di vecchie fotografie della tua
famiglia e scruta quelle immagini, cercando di cogliere sfumature che non
avevi mai notato. (Se non hai foto dei tuoi familiari, dei nonni o bisnonni,
dovrai attingere ai ricordi, o ai racconti.)
Com’era quel nonno? Quella zia sembrava felice in quel momento?
Quando sarai pronto, mettiti comodo e prendi un grande foglio bianco.
Scegli due colori e due forme geometriche per distinguere e rappresentare
le donne e gli uomini e inizia a disegnare, usando i simboli, il tuo albero
genealogico partendo dai tuoi figli, se ne hai. Scrivi i loro nomi, poi
risalendo scrivi il tuo nome accanto a quello dei tuoi fratelli, nell’ordine di
nascita, quindi i nomi dei tuoi genitori, dei tuoi nonni e così via.
A fianco di ogni persona scrivi una caratteristica, o un evento significativo
a lei legato.
I traumi, e tutto ciò che ha lasciato un segno o una cicatrice nel sistema,
sono importanti.
Cerca un aggettivo per definire ogni persona. Per esempio: nonno Mario,
alcolista/violento/lavoratore/molto povero/facoltoso/intelligente eccetera;
nonna Lucia, vedova/severa/amorevole e così via; bisnonna Anna, orfana a
cinque anni, anaffettiva/affettuosa/accudente…
Qualunque aggettivo o fatto significativo accaduto ti venga in mente,
scrivilo di fianco alla persona coinvolta.
Prova a evidenziare ogni evento traumatico e ogni aspetto che lascia una
cicatrice nel sistema: aborti spontanei o provocati (puoi mettere piccole
croci), morti precoci, perdite di denaro, malattie, persone disperse, figli
adottati o abbandonati o illegittimi, secondi matrimoni eccetera.
Dopo aver fatto una prima stesura, lascia il tuo albero e torna a leggerlo
dopo qualche giorno. Magari nel frattempo avrai acquisito qualche racconto
nuovo, o un ricordo.
Una volta completato, puoi vedere rappresentata lì la tua storia.
Non importa se non hai conosciuto alcune di quelle persone: sono esistite
tutte prima di te e hanno lasciato tracce, hanno un posto, appartengono. Sono
presenti in ogni tua cellula.
Come ti senti guardando il tuo albero?
Se non sai nulla di chi è venuto al mondo prima di te, anche questo è un
dato importante. Forse sei del tutto scollegato? Ti senti estraneo?
Ora scegli un’altra musica che ti porti in una dimensione senza tempo (per
esempio L’Orchestra Cinematique, Loki - Epic Version).
Osserva tutto ciò che ti attraversa, emozioni, consapevolezze, pensieri.
Annotali sul tuo quaderno di lavoro.
Ora hai di fronte la tua eredità emotiva, il tuo DNA familiare composto da
avvenimenti. Grazie a questa archeologia emotiva dei tuoi ricordi, avrai una
visione d’insieme. Oppure, se ci sono dei vuoti, prendine atto.
Riesci a individuare un filo rosso? Osservando gli eventi più significativi,
vedi se si ripetono dei copioni? Per esempio, c’è una catena di sofferenza?
Malattie? Morti precoci? Bambini non nati?
Cosa hai ereditato nel tuo DNA emotivo? Qual è l’emozione
predominante? Se dovessi estrapolare due aggettivi o sostantivi, uno per
ogni ramo di entrambe le tue radici, quali sarebbero? Qual è il patrimonio
che ti hanno lasciato? Cosa rimetti in pratica di ciò che hanno fatto loro?
Come tutto questo ti condiziona? Senti di ripetere il destino di qualcuno?
Porti il peso per qualcun altro? Ti accolli il dolore di un genitore?
Ora, con grande sincerità, rispondi a questa domanda: chi ti è mancato di
più, anche se era fisicamente presente?
Chiedo sempre: «Di chi ha implorato lo sguardo? Di mamma? Di papà?»
È molto importante che tu non giudichi ciò che troverai, osserva soltanto.
Potrai riguardare il tuo albero ogni volta che vorrai, come si guarda un
documento, senza volerlo diverso. Prendine atto.
È il tuo patrimonio culturale, familiare, genitoriale. Accoglilo, e infine
chiediti se sei pronto a cambiare certi schemi. A «tradire» quello che forse
ripeti per sentirti uguale. E se sei disposto a restituire i pesi, i dolori e tutto
ciò che non è tuo, ma che per amore cieco continui a portarti senza saperlo
sulle spalle.
Qualunque cosa tu senta e provi, non giudicarlo.
Se riesci, immagina dietro di te la presenza di queste persone che hanno
vissuto, attraversato sofferenze e grandi prove, e avvertine la forza. Se non la
senti, non preoccuparti.
Se ti viene, fai un profondo inchino dentro di te verso tutti loro, senti la
vita che arriva da quelle persone, e se ti nasce un grazie nel cuore, dillo
interiormente. Ma soltanto se è sincero. Se non arriva, tienilo in mente come
possibilità.
Riponi il foglio.
Se provi ancora rabbia, risentimento, o vorresti che le cose fossero andate
in maniera differente, allora ti suggerisco di lavorare su questi temi con un
bravo terapeuta sistemico relazionale. Non ti scoraggiare, è tutto molto
umano.
Se invece senti maggior chiarezza, sollievo o ti senti rinvigorito,
l’esercizio è stato utile e abbiamo raggiunto il nostro obiettivo.
Scheda n. 4
Famiglie

COME abbiamo visto, la famiglia è il primo nucleo dove impariamo a stare o a


non stare con l’altro, con gli altri.
In questa scheda di lavoro ti propongo di comprendere le dinamiche
relazionali familiari attraverso una rappresentazione grafica. Ti suggerisco di
fare prima quella della famiglia di origine e poi quella della tua attuale, se ne
hai una. E di confrontarle.
Gli scopi di questo esercizio sono:

1. osservare il ritratto della tua famiglia che hai interiorizzato;


2. portare consapevolezza sulle relazioni tra i membri della tua famiglia.

Materiali: carta e penna.

Come per gli esercizi precedenti, scegli il luogo adeguato e circondati di


tutte le piacevolezze.

Ti proporrò ora di disegnare un numero di cerchi quanti sono i


componenti della tua famiglia di origine. Decidi tu la grandezza e la
posizione dei cerchi nel foglio, come se fossero i componenti del tuo
sistema. Una volta che hai collocato le persone come se fosse una scena
teatrale – chi è vicino a chi, ognuno con le sue iniziali –, fai in ogni cerchio
due pallini che raffigurino gli occhi: in questo modo orienti gli sguardi dei
personaggi. Chi guarda verso chi? Se non guarda nessuno, cosa guarda?
Non leggere oltre fino a quando non hai finito il tuo disegno.
Cerca di farlo in maniera istintiva, non esiste giusto o sbagliato: c’è solo
una rappresentazione interiore, nella tua psiche, di come sono le relazioni
nella tua famiglia.
Una volta terminato il disegno guardalo senza giudizio, semplicemente
ascolta cosa provi. E cerca di comprendere come sono le relazioni tra i
membri della tua famiglia.
Ti è venuto da rispettare l’ordine gerarchico o secondo te, per esempio, il
cerchio di tuo fratello è più grande di quello di tuo padre?
C’è ordine? Chi è più piccolo viene rappresentato come tale? I membri si
guardano tra loro? Se non lo fanno, cosa guardano? Chi guardano?
A proposito della fedeltà ai copioni, chi ripete gli schemi di altri? Chi è
«sposato» con chi? Molto spesso un componente della famiglia resta accanto
a un genitore per proteggerlo, e ne porta i pesi: chi ha questo fardello nel tuo
sistema? C’è qualcuno che vuole salvare gli altri?
C’è felicità nella famiglia? Come si relazionano i membri tra loro? Quali
sono i sentimenti prevalenti?
Che emozione provi pensando a tutto questo? Quali comprensioni hai
avuto? Se tu avessi una bacchetta magica, che cosa cambieresti?
Puoi fare ora un secondo disegno di come ti piacerebbe fossero le cose.
Cosa hai modificato? E cosa senti di fronte a questo nuovo disegno?
Conserva i disegni e torna a guardarli di tanto in tanto, osservando se le
emozioni mutano, se li rifaresti uguali oppure li cambieresti.
Ricorda: non c’è giusto o sbagliato, ciò che è, è.

Di seguito alcune tipologie di famiglie in cui forse ti riconoscerai, per


quanto – ancora una volta – le categorie non siano nette e definite, perché
spesso viviamo in contesti sfumati, ibridi e contaminati.
La famiglia Sottozero
Nessuno si guarda, seguendo lo schema che abbiamo proposto sopra,
appaiono disgregati, disuniti, disomogenei. Una famiglia a trame molto
larghe. Non si esprimono i sentimenti, non ci si abbraccia. Il clima in casa è
gelido. La priorità è non far trapelare le emozioni.

La famiglia Buontemponi
Allegri e gioviali, accolgono volentieri ospiti improvvisi a cena, sono
morbidi, sono insieme. La priorità è essere buoni.

La famiglia Fintarelli
Attraenti, famosi, benestanti. E finti. Ma lo sanno solo loro. Da fuori non si
vede.
Sono pienamente modaioli, «appaio ergo sum». Mangiano poco,
cambiano più abiti che tovaglie; invece delle pentole acquistano borse
griffate e scarpe glamour. In compenso restano magri. La priorità è essere
belli, anzi splendidi, e perfetti.

La famiglia Ingozzetti
Hanno più scorte alimentari di un rifugio antiatomico. Le loro conversazioni
ruotano attorno alla pianificazione dei menù per i prossimi dodici natali.
Caschi il mondo, si cucina primo, secondo, contorno e dolce; il cibo non
deve mai mancare, altrimenti è una sciagura. La domenica, se non ci sono
due primi non è festa. Nel tempo libero si preparano manicaretti, i problemi
si risolvono a tavola: mangiando. La loro priorità è spostare l’attenzione sul
cibo. Forse per non sentire?

La famiglia Severini
Più che una famiglia sembra un tribunale. I pasti condivisi sono veri e propri
processi dove a turno ci si accanisce contro un componente, il quale viene
messo sul banco degli imputati e processato per direttissima, sminuito o
ridicolizzato per non aver buttato via l’immondizia o per aver detto una
parola ritenuta inopportuna dalla corte suprema. In casa regna un’atmosfera
di giudizio perenne. A tavola la tensione si taglia con il coltello. La priorità è
avere ragione.

La famiglia Canottaggio
Uno per tutti, tutti per uno. La classica famiglia a trame strette: ci si aiuta, a
qualunque costo. Tutti remano per tutti. A volte in un ambiente così si
soffoca. La priorità è soccorrersi.

La famiglia Apocalypse Now


Per loro la vita è come Squid Game, una lotta per restare in vita. Su di loro
incombe costantemente un senso di tragedia imminente. Mangiano ansia a
pranzo e cena. La priorità è sopravvivere.

La famiglia Vigilantes
Al posto degli occhi hanno delle telecamere, tutti controllano tutti, sanno
tutto di tutti. Dormono poco, sono molto impegnati: invece di vivere si
monitorano reciprocamente. La priorità è guardare gli altri per non guardare,
mai, se stessi.

La famiglia Paragoni
Vivono confrontandosi agli altri, che vedono sempre migliori. Sono dotati di
bassissima autostima e per nascondere il loro senso di inadeguatezza
spettegolano. Tagliano e cuciono su tutto e tutti. Hanno i vetri della casa
molto puliti: serve per guardare meglio all’esterno. La loro priorità è non
prendersi la responsabilità di far felici se stessi, preferiscono invidiare.

La famiglia Fantasmini
Ognun per sé, in comune hanno il cognome. Per il resto, ognuno guarda in
direzioni diverse. È un insieme di estranei, di monadi. La priorità è
andarsene, prima possibile.
La famiglia perfetta non esiste, esiste tuttavia un modo più funzionale che
incoraggia chi viene dopo ad andare nel mondo. La raffigurazione rispetta
l’asimmetria generazionale. Chi è più grande viene prima, chi viene dopo è
rappresentato più piccolo. I nonni stanno dietro ai propri figli, così come i
genitori stanno dietro e fungono da radici, dando forza ai figli che stanno
davanti e guardano la vita.
Scheda n. 5
Gratitudine

SIAMO giunti all’ultima tappa di questo nostro viaggio, e credo che la parola su
cui possiamo focalizzarci per sigillarlo e onorarlo è: grazie.
Attenzione, trigger warning: se hai avuto genitori molto disfunzionali,
abusanti e violenti, forse è meglio che tu non faccia questa scheda di lavoro
da solo, ma con l’accompagnamento di un professionista. Non c’è nulla di
male nel non voler andare oltre: rispetta il tuo vissuto, e lo rispetto anch’io,
invitandoti a chiudere il libro e fare qualcosa di piacevole proprio ora. Ti
ricordo che qualunque cosa ti sia accaduta, sei arrivato fin qui e di questo,
soltanto di questo, ti propongo di essere grato, se te la senti, senza sforzo. Ti
ringrazio per avermi seguita fino in fondo e ti auguro di prendere in mano le
redini della tua storia.
Per chi vuole procedere con l’esercizio, vorrei ricordare il significato del
termine gratitudine, che è molto di più di un semplice vocabolo: è una
dimensione umana.
Perciò ti chiedo di sederti comodo, ascoltando il tuo respiro.
Puoi scegliere di utilizzare una canzone che ti connetta con la tua
dimensione interiore: mentre scrivo sto ascoltando Glimpses di Alex Ebert.

***

Step 1
Prendi carta e penna e inizia a scrivere una lettera a uno dei tuoi genitori, poi
potrai farlo anche con l’altro.
Inizia con: «Cara mamma», o «Caro papà».
Ora elenca tutte le cose per cui hai provato un dolore che finora hai
ritenuto essere causato da lei o da lui. Adesso è giunto il momento di
metterlo nero su bianco.
Prenditi il tempo di scrivere quello che hai sempre pensato, cerca di
esternare tutto, ogni singolo dispiacere. Più sarai preciso, più sarà liberatorio.
Per esempio: «Cara mamma, per tanto tempo ho sentito risentimento per
te. Ho creduto che tu non ti fossi occupata a sufficienza di come stavo. Ti ho
ritenuto responsabile di non esserti presa cura del mio disagio interiore, non
mi sono sentita vista, hai lasciato che io affrontassi tutto da sola, fin da
quando ero piccola».
Se ti scendono le lacrime o emergono emozioni, non trattenerle, lasciale
scorrere, osservale.
Ora puoi fare la stessa cosa con l’altro genitore.
Per esempio: «Caro papà, mi hai molto ferita. Non mi sono mai sentita
riconosciuta né apprezzata. Non mi hai dato affetto, non mi hai mai
abbracciata. Non mi hai dato nulla», e così via.
Se non ti viene niente, va bene lo stesso. Se non senti di aver subito torti
dai tuoi genitori, pensa comunque a tutti coloro che invece recriminano ogni
giorno e lascia il cuore aperto per la seconda parte dell’esercizio.
Prima però prenditi una piccola pausa, lascia riposare ciò che hai scritto.
Puoi farti una tisana, o bere una bibita.

Step 2
Quando riprendi in mano il foglio, siediti in un’altra postazione, cambia
fisicamente posizione e prospettiva.
Ti suggerisco anche di mettere un’altra canzone: io, per esempio, sto
ascoltando Thank You for Hearing Me di Sinéad O’Connor.
Rileggi ciò che hai scritto e trasforma i «mi dispiace» in ringraziamenti.
Se avevi scritto: «Cara mamma, mi dispiace che tu non mi abbia
supportato», ora scrivi la stessa frase rovesciandola con un grazie: «Cara
mamma, grazie per non avermi supportato. Ho imparato a cavarmela da solo.
Grazie per avermi fatto lavorare da quando avevo undici anni. Mi hai
insegnato il valore del lavoro. Grazie per non avermi comprato il superfluo,
ma soltanto l’essenziale. Mi hai insegnato a non sprecare».
E puoi continuare a ringraziare per le cose che ti vengono in mente che
ora vedi e di cui ti senti grato.
«Grazie per tutte le notti che ti sei alzata per me quando ero piccolo,
quando ero malato. Grazie per avermi nutrito e per avermi comprato i vestiti
che mi servivano. Grazie per avermi permesso di studiare, per avermi dato
una casa. Grazie per la tua ansia, era il tuo modo di volermi bene.
Grazie per la tua dignità e compostezza.
Grazie per avermi dato quell’unica moneta che avevi. Ora le altre me le
guadagnerò io. Ho ricevuto abbastanza, mamma, grazie.
Lascio a te tutto quello che non è mio, il peso della tua infelicità, della tua
tristezza. Ti restituisco il tuo dolore. Tu sei più grande, io sono più piccolo e
non sta a me salvarti. Sono certo che troverai il modo per gestire il tuo
destino e fare della tua vita ciò di cui hai bisogno. Ci sarà sempre un posto
per te nel mio cuore, ma io ora sono adulto, e di me mi occupo io.»
Se non trovi nessun motivo per essere grato, se ti sei sentito così deprivato
e penalizzato, usa la parola magica del ringraziamento per il dono della vita
e prova a scrivere: «Grazie mamma (grazie papà) per la vita, che mi viene da
te, e che onoro. D’ora in poi ci penso io a me».
Ora porta l’attenzione alle tue sensazioni.
Ti auguro di sentirti leggero e in pace. E di trovare la voglia di
intraprendere quell’avventura affascinante che è il prenderci cura di noi
stessi, con consapevolezza.
Per dire grazie

A ME, per il mio coraggio, la mia tenacia e la mia passione. Per essermi fatta
compagnia anche quando la scrittura non fluiva. E per quando, invece, mi
veniva da piangere, scrivendo.
A tutte le persone che mi hanno consegnato la loro storia, scegliendomi
come custode dei loro segreti più preziosi. Con loro ho studiato la vita e
imparato l’umiltà di stare in ascolto, talvolta in silenzio, talora decidendo
quale parola restituire, con cura.
Ai «pazienti» che mi hanno donato un cameo e autorizzata a narrarne
stralci.
A tutti i miei maestri, i terapeuti che mi hanno raccolta, aiutandomi a
ricompormi, a ripensarmi e a ricostruirmi. Insegnandomi a non temere di
restare «a maggese» quando invece avrei voluto scappare ben lontano da me.
A Jerome Bruner, con il quale ho avuto la fortuna di passare una giornata
intera. Ai suoi occhi novantenni e saggi, e al suo sorriso mentre mi diceva:
«Non avere mai paura delle bufere. Portano sempre nuovi significati».
A chi mi segue ogni giorno sui social, e che so avere atteso con
trepidazione questo scritto, proprio come una gestazione. Con loro condivido
quello che sono e quello che so, ridendo e soffrendo insieme. Siamo una
community dal cuore grande.
A Doris Corsini, perché ha visto ben prima di me.
A Elisa Guidelli, per avermi detto in un pomeriggio in cui ero disperata:
«Vacci piano con gli avverbi».
A Maria Cristina Guerra, «ostetrica» ricca di intuito: grazie per averci
creduto subito, quando ancora questo libro era solo un embrione.
Ad Antonella Bonamici, solida àncora necessaria per dare ordine al mio
scrivere intricato.
A Manuela Aramu, per il disegno di copertina e le illustrazioni. Nei suoi
disegni trovate la sua bellezza.
Alla collega Francesca Treccani, meravigliosa biblioteca, per aver letto le
bozze e molto altro. Ha deciso che dovevo pubblicare un libro quando io
ancora non lo sapevo nemmeno.
A Marta Bellesso, per il suo sguardo e per non avermi mai mollata,
ricordandomi che ho anche un corpo. Senza di lei forse mi sarei atrofizzata
per sempre.
A Morena Silingardi, per aver letto della bozza soltanto una frase. Ma era
quella giusta. Lei sa di essere in debito di mille risate.
A Matilde D’Errico, per esserci stata in tutte le fasi delle bozze e avermi
accompagnata con la sua competenza, presenza e preziosa amicizia.
A Selvaggia Lucarelli, per avermi scelta e riconosciuta. È un onore per
me, e un’amicizia fertile.
A Gaëlle Rossi, per aver letto il manoscritto con tanto amore. E per
l’affetto e il supporto di tutti i giorni.
Agli amici e alle amiche che hanno messo una risata, un aperitivo e
buttato lì un: «Come va il libro?» quando a tarda notte mi sentivo talvolta
anche molto sola e sconclusionata, in balia di queste pagine.
A Pino, per le sue mani antiche che fanno ancora le tagliatelle per tutta la
nostra famiglia. Sanno di amore semplice e schietto, e vita, quella vera.
Grazie per avere fatto da nonno alle mie figlie, diventando sponda buona.
Come un donatore, è riuscito a trapiantare quello che è mancato.
A Stefano (Ra), che mi ha aiutata a portare le valigie mentre io vagavo per
le quattro case: ha sempre avuto fiducia, io a volte molto meno. Soprattutto
quando mi si appannavano le parole.
A Irene e Aurora. Essere la loro mamma è un’avventura incredibile,
scombussolante e intensa. Mi ricordano in ogni momento che l’amore è un
ponte che può passare a chi è davanti solo se pesca all’indietro. Ho dato loro
tutto quello che avevo: talvolta era un amore improprio, salato e di traverso.
Ma non ho mai smesso di pensarle capaci. Le tengo dentro. Lo sanno e si
avventurano nelle loro vite con la schiena dritta, scegliendo i loro sentieri.
A mio padre e a mia madre: onoro la vita che da lì arriva. E questo mi
basta. Da loro ho imparato il coraggio, l’avventura e la forza. E che tutto il
mondo può essere casa. E così ho potuto dirlo anche alle mie figlie.
Al mio albero, tutto, era quello giusto per farmi arrivare fino a qui.
A Loulou, per l’affetto, la pazienza e l’allegria: il suo scodinzolare è
samba del carnevale di Rio. E a gatto Enrico, per le endorfine prestate con le
sue fusa.
Alla bellezza ruvida e gentile del mare di Tellaro, al vento e ai gradini,
metafora delle tante cose che ho trovato mescolate alla vita.
Solo grazie. È la parola magica.
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Di troppo amore
di Ameya Gabriella Canovi
Proprietà Letteraria Riservata
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
I disegni sono di Manuela Aramu
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892742680

COPERTINA || ILLUSTRAZIONE DI MANUELA ARAMU | ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: SABRINA VENETO
«L’AUTRICE» || FOTO © IRENE FERRI
Indice

1.
Copertina
1.
L’immagine
Il2.libro
3.
L’autrice
2.
Frontespizio
3.
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
4. di iniziare
Prima
5.
#Frammento n. 1. Altrove
1.Due lenti con cui guardare
1.
2.Nei pensieri di un dipendente affettivo. L’errore di Eros
2.
3.La dipendenza affettiva
3.
6.
#Frammento n. 2. Da piccola
1.Addictions
4.
7.
#Frammento n. 3. Racconti occhi nel cuore
1.Un terrore senza nome. Le dipendenze patologiche non da sostanze
5.
2.La dipendenza dall’altro
6.
3.Copioni familiari
7.
4.Narciso e il suo doppio, una coppia
8.
5.ArcoNarci. Narci chi?
9.
6. Incontri
10.
7. Lo schema della relazione
11.
8. Passo a due
12.
9. Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida
13.
10.
14. Hybris
11.
15. Love addiction, poisoned love
12.
16. Archetipi e dipendenza affettiva
13.
17. Codipendenza, ovvero io ti salverò
14.
18. Ah, la famiglia!
15.
19. Galassie familiari
8.
#Frammento n. 4. La rabbia
1. La fedeltà allo schema familiare
20.
9.
#Frammento n. 5. Per amor tuo
1. Riconciliarsi con la propria storia
21.
10.
#Frammento n. 6. Recuperi
1. Che cos’è l’amor?
22.
2. Con cura
23.
3. Pensiero, dipendenza e meditazione
24.
11.
#Frammento n. 7. Quattro case
1. Mindfulness
25.
12.
#Frammento n. 8. Ritrovare il filo
13.
In fine
14.
Schede di lavoro
15.
Scheda n. 1. Invito a cena con Narcisi
16.
Scheda n. 2. Che coppia sei?
17.
Scheda n. 3. Il tuo albero
18.
Scheda n. 4. Famiglie
19.
Scheda n. 5. Gratitudine
20.
Per dire grazie
21.
Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
Prima di iniziare
#Frammento n. 1. Altrove
1. Due lenti con cui guardare
2. Nei pensieri di un dipendente affettivo. L’errore di Eros
3. La dipendenza affettiva
#Frammento n. 2. Da piccola
4. Addictions
#Frammento n. 3. Racconti occhi nel cuore
5. Un terrore senza nome. Le dipendenze patologiche non da sostanze
6. La dipendenza dall’altro
7. Copioni familiari
8. Narciso e il suo doppio, una coppia
9. ArcoNarci. Narci chi?
10. Incontri
11. Lo schema della relazione
12. Passo a due
13. Dipendenti ed evitanti, un’altra sfida
14. Hybris
15. Love addiction, poisoned love
16. Archetipi e dipendenza affettiva
17. Codipendenza, ovvero io ti salverò
18. Ah, la famiglia!
19. Galassie familiari
#Frammento n. 4. La rabbia
20. La fedeltà allo schema familiare
#Frammento n. 5. Per amor tuo
21. Riconciliarsi con la propria storia
#Frammento n. 6. Recuperi
22. Che cos’è l’amor?
23. Con cura
24. Pensiero, dipendenza e meditazione
#Frammento n. 7. Quattro case
25. Mindfulness
#Frammento n. 8. Ritrovare il filo
In fine
Schede di lavoro
Scheda n. 1. Invito a cena con Narcisi
Scheda n. 2. Che coppia sei?
Scheda n. 3. Il tuo albero
Scheda n. 4. Famiglie
Scheda n. 5. Gratitudine
Per dire grazie
Copyright

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