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LE CORNA STANNO
BENE SU TUTTO
Romanzo di un tradimento
Ho scritto questo libro perché…
… non ho mai avuto paura di condividere né il bello né il brutto. L’ho scritto
perché aiuta a crescere, a capirsi.
Potrebbe farvi del bene o semplicemente compagnia, a me è servito a
tanto. Se siete già passate per l’inebriante esperienza del tradimento, capirete
bene di cosa parlo. Se vi ci trovate nel mezzo, sentirete di non essere sole, né
le prime né le ultime… che voi direte: «Bella frase fatta del cazzo», ma
sappiate che è la verità! E se, invece, non avete mai avuto il privilegio di
indossare un bel paio di corna, che dirvi ragazze, beate voi! Siete una specie
rara, in via d’estinzione!
Questo libro l’ho scritto perché, quando mi sono trovata catapultata in una
realtà che non mi sembrava reale, avrei tanto desiderato una compagna di
sventure che potesse distrarmi, o capirmi. Questo libro l’ho scritto per voi.
Per raccontarvi che il vostro umore farà un giro infinito sulle montagne russe,
tra brividi e nausea, lacrime e sorrisi, giramenti di testa e adrenalina
pazzesca… ma quando il tempo scadrà, quando scenderete dalla giostra,
sarete più forti e più consapevoli di prima. Questo libro l’ho scritto per voi,
ma anche per me stessa.
L’aiuto di Stella è stato fondamentale: mi ha sopportata e supportata,
standomi accanto e aiutandomi. Ho buttato giù tutto quello che ho provato
nella maniera più chiara possibile… E sapete che vi dico? Che è stato figo!
Faticoso, doloroso, ma figo… Ho ripercorso eventi, ho ricordato dettagli, ho
fatto i conti con la realtà della mia storia e della mia vita. Mi sono scoperta
più forte e più coraggiosa di quanto pensassi. Mi sento più leggera. Mi sento
persino più alta… Sarà che le corna m’hanno fatto guadagnare qualche
centimetro? Chissà… Ma se non fosse stato per questo, forse non avrei scritto
neanche un libro. Nel brutto c’è sempre il bello!
Giulia De Lellis
Quando ho incontrato per la prima volta Giulia De Lellis…
… ho conosciuto una ragazza diretta, alla mano, divertente, entusiasta e
con una storia da raccontare. In lunghissimi pomeriggi di chiacchiere,
numerosi WhatsApp e svariate note audio, Giulia mi ha consegnato le sue
emozioni e le abbiamo tradotte nel libro che tra poche pagine leggerete.
Durante il nostro secondo appuntamento, mi ha chiesto perché avessi
accettato di scrivere con lei. Le ho risposto che l’ho fatto perché l’amore e le
sue complicazioni sono un argomento democratico, che ci mette tutti sullo
stesso piano. Perché le sfide non mi spaventano. Perché il tradimento è uno
dei temi più universali che ci siano. Soprattutto, perché mi sembrava figo
dimostrare che due donne apparentemente così diverse, come lei e me,
potessero trovare un linguaggio comune per parlarsi, capirsi, elaborare e
sdrammatizzare insieme.
Quello che leggerete di seguito è il risultato di questo esperimento letterario,
ma soprattutto umano, che abbiamo fatto. Si tratta di una storia di amore, di
tradimento, di delusione, di dolore e di rinascita (ma fa anche sorridere, ve
l’assicuro). Una storia di vita, insomma. Un viaggio nell’anima di una
giovane donna che si scopre candidamente cornuta.
IO
SCIOCCATA
Tremo. È aprile, ci sono 24 gradi e io tremo. Ho due felpe e due coperte
addosso, la primavera fuori e il gelo dentro. Non mangio. Non parlo. Non
piango. Non mi lavo da tre giorni e non mi sono neppure cambiata le
mutande. Fumo sigarette. Ne spengo una e ne accendo un’altra (e pensare che
non ho nemmeno il vizio). Non sento niente a parte questo freddo intenso che
mi taglia il petto, mi blocca il fiato, m’addormenta gli arti e mi paralizza qui,
in casa nostra, davanti al computer.
Non riesco a credere a quello che sto leggendo (okay, non ho due lauree,
non parlo perfettamente l’inglese, di storia e geografia so poco e niente, e coi
calcoli sono più lenta di un bradipo sotto oppiacei, d’accordo… ma di leggere
sono capace). E quello che leggo è chiaro: l’uomo che amo, che in questi
giorni è via per lavoro, mi ha tradita. Me l’ha fatto così, proprio sotto il naso,
davanti agli occhi, dietro le spalle (ma non troppo).
Leggo i messaggi. Li rileggo. Li imparo a memoria. Sono prove
inconfutabili. Non c’è spazio per i dubbi e per le interpretazioni fantasiose.
Certo, bisognerebbe capire i dettagli, ma ora non ho la forza. Non sento
niente, a parte il freddo. Magari esagero. Magari fraintendo. Magari sto
impazzendo. È tutto così chiaro e insieme così confuso. Sono sorda, assente,
spezzata. Incastrata tra l’incredulità e l’evidenza.
Mi state dicendo che il mio uomo non era solo mio? Mi state dicendo che
l’ho condiviso, a mia insaputa, chissà con chi e chissà quante volte?
Impossible. No. Non ci sto. Non può aver fatto questo, proprio lui, proprio a
me. Non ha senso, non capisco, non connetto: come può essere la stessa
persona che dice di amarmi? Come può l’amore essere causa di una simile
sofferenza?
Mi gira la testa, mi sudano le mani, all’improvviso perdo la sensibilità alle
gambe, il cuore rimbalza contro lo sterno, sta per scoppiare, forse è un
infarto, forse muoio adesso, Dio che male che sento. Sì, sono ipocondriaca,
ma non è questo il punto. Qualcosa ha smesso di funzionare, dentro e fuori di
me. Forse dovrei chiamare il medico. Forse dovrei chiedere aiuto a qualcuno.
Forse è solo un’allucinazione da cui mi sveglierò, perché non può essere
vero. Il mio angelo, il mio orgoglio, l’uomo che da quasi due anni amo con
tutte le mie forze, mi ha mentito, mi ha presa per il culo, mi ha tradita. Eppure
sa benissimo (cazzo, se lo sa) che non sono disposta a tollerare questo. Sa che
io il tradimento l’ho sperimentato fin da ragazzina, nella mia famiglia, e
conosco troppo bene le conseguenze che ha, per tutti. E ora invece tocca a me
attraversare il mio peggior incubo. Mi scappa la pipì. Sono così apatica che
fatico a gestire pure i bisogni fisiologici basilari. Entro in bagno. Mi guardo
allo specchio e non mi riconosco. Pallida da far spavento, una tragedia a cui
neppure il miglior contouring potrebbe porre rimedio, con due occhiaie che
testimoniano le nottate insonni degli ultimi giorni. Non riesco a chiudere
occhio. Appena mi infilo nel letto, penso alle ultime volte che abbiamo
dormito insieme, a quando abbiamo fatto l’amore, ai baci che ho dato e a
quelli che ho preso.
Resto imbambolata, seduta sul cesso, in trance. Come un automa stacco
tre foglietti di carta igienica, li piego, mi asciugo. Sono troppo stanca per
essere vigile e troppo a pezzi per dormire. E ho paura di dormire, perché se
mi addormento, faccio sogni terribili.
Vedo quel corpo che conosco in ogni suo centimetro, mischiato con
quello di una sconosciuta. Mi sveglio di botto con la tachicardia a mille e la
sensazione di dover vomitare il cuore, i polmoni e le budella tutte. Non
voglio dormire e non voglio stare sveglia.
Vorrei sparire. Vorrei non fosse vero. Vorrei non fosse successo a me, a
lui, a noi. Non riesco ancora a crederci, né a capire come o perché, ma la
nostra storia è andata a farsi fottere. Benvenuta, Giulia, nel mondo dei grandi,
dove la realtà rompe le favole, dove i prìncipi sono bugiardi e le principesse
sono cornute.
Capitolo 2:
STUPIDA
ME
Prendo coraggio e chiamo Alessandra. È pomeriggio, so che è al bar, ma qui
c’è un codice rosso sentimentale. Non posso più aspettare, ho bisogno di
parlarne con qualcuno. In fondo le amiche ci sono anche per questo, no?
Mica solo per scambiarsi consigli di make-up e fare serata. Le amiche vere,
intendo, quelle che mollano tutto e corrono in tuo soccorso, se ne hai
bisogno. Quelle che, quando stai annegando nella merda, diventano il tuo
giubbotto di salvataggio e ti tengono a galla.
«Sono al lavoro», mi ha detto.
«Inventati quello che vuoi, ma ti prego vieni adesso», le ho risposto.
E così ha fatto, portando con sé i rinforzi: Federica e Marina.
Quando le vedo entrare in casa, mi sembra di respirare per la prima volta,
dopo giorni in apnea.
Non so neppure da dove partire, come raccontare ciò che ho scoperto.
Non so cosa penseranno di lui, né cosa penseranno di me e del nostro
incantesimo infranto. Del sogno che si è rivelato una menzogna qualsiasi.
Neppure io so cosa penso di me, in effetti. Qual è il peccato di cui mi
sono macchiata, per meritare tutto questo? Sì, d’accordo, a 16 anni mi sono
fatta un tipo fidanzato, e non si fa, per carità! Ma se questi sono gli interessi,
il karma è più spietato di un narcotrafficante messicano!
Sono una scema, ragazze, lo so! Mi sento talmente stupida. Cosa
pensavo? Perché mi sono fidata così ciecamente? Perché non me ne sono
accorta prima?
Perché mi sono illusa che un narcisista potesse amare qualcuno all’infuori
di sé?
Perché non sono stata capace di fare “uno più uno”?
Come se quell’addizione fosse troppo complessa, per me. Aveva ragione
la prof. Canu: «La matematica è vita, è quotidianità e allena la mente». Ma io
non faccio neppure gli squat per allenare il culo (che vedono tutti), figuratevi
se alleno il cervello! Ed ecco le conseguenze…
Perché mi ha tradita? Dove ho sbagliato? Non sono stata abbastanza o
sono stata troppo?
Troppo presente, troppo scontata. Il mio amore incondizionato l’ha forse
soffocato? Oppure il problema è stato, semplicemente, che non ero perfetta in
senso assoluto? Cosa gli ho fatto mancare? Cosa avrei potuto fare
diversamente?
Stupida me. Stupida per non aver ascoltato quelle sensazioni così
sgradevoli che mi perseguitavano.
Stupida per aver creduto che le mie fossero solo paranoie (ragazze, se vi
dice «Sei pazza», vuol dire che c’avete preso, credetemi, è un fatto
scientifico)!
Stupida ad amare un dannato, con la presunzione di redimerlo. Com’è che
la chiamano? Sindrome da crocerossina. Eh già. Ha ragione mia sorella
Veronica, quando dice che sono cresciuta a pane e Cenerentola, che vedo
sempre il buono e non il marcio.
Che poi il problema è soprattutto uno: idealizzare il tipo con cui stiamo.
In pratica tu sei talmente rapita dal tuo sentimento, che in lui vedi anche
quello che non c’è: il grande amore della vita, l’uomo migliore per te, il padre
perfetto dei figli che un giorno avrai.
E mentre tu fluttui in queste suggestioni, alimentando quell’amore con
tutta la cura che puoi, quello che fa?
Se ne scopa altre.
Non so se compatirmi o condannarmi. Se sentirmi più una poveretta o una
cerebrolesa. Sono qui a colpevolizzarmi davanti alle mie amiche, mentre
l’uomo (o presunto tale) che avrebbe dovuto farmi sentire speciale e
importante, mi ha trattata come una pezza da piedi. Mi ha umiliata. Mi faccio
tenerezza e pena, allo stesso tempo. Mi pare quasi di meritare lo schifo che
sto vivendo.
Sono un fiume in piena. Parlo a mitraglietta.
Le ragazze tacciono. Non mi rispondono, non sanno neppure cosa dire.
Forse è un silenzio-assenso, il loro, la pensano come me: sono proprio
cretina! Mi sono fatta raccontare le favolette. Ho preferito pensare che fosse
il principe azzurro del cazzo con le piume in testa e il cavallo bianco, invece
di vedere la realtà.
Oddio, svengo.
«Calmati, tesoro», dice Federica.
No che non mi calmo. Sono su un’altalena che dondola tra la disperazione
e la furia, come posso a calmarmi? Ho di fronte il cadavere della mia
relazione e non riesco neppure a piangere, a versare una singola lacrima.
«Ordino un sushi», dice Marina.
Non mi va di mangiare, non ho fame. Insistono. Devo pur alimentarmi di
qualcosa, dicono. Devo avvisare la mia famiglia, dicono. Mia sorella lo sa
già. Domani dovrebbero arrivare qui, da Roma.
C’è una cosa che ho capito in queste ore: non c’è nulla che possa cucire la
ferita che mi sanguina dentro, ma avere accanto le persone importanti è
l’unico modo per sentirmi ancora viva. Per sopravvivere.
Non so cosa farei senza la mia famiglia e senza i miei amici.
Capitolo 3:
LO
SCHIFO
Sono schifata! Quanto? Prendete gli insetti, i topi di fogna, i piedi sporchi,
la puzza di sudore,i cassonetti della monnezza… tutto ciò che vi fa venire più
la nausea. Mettetelo insieme, sommate il disgusto al disgusto, e aggiungetene
altro,in quantità. Mescolate bene, fino a ottenere un composto di merda, e
infornate a 200°, per sempre!
Ripenso alle mattine in cui mi svegliavo al suo fianco,nel nostro letto e lo
guardavo ancora addormentato,sentendomi la donna più fortunata del pianeta.
Per carità, stavamo insieme da un pezzo, era routine,quotidianità, niente
di eccezionale. Eppure per me ogni giorno era una sorpresa, l’assoluto
stupore di essere accanto all’uomo che amavo.
Peccato che quello stesso soggetto, magari fino a poche ore prima, avesse
preso, toccato e baciato un altro corpo, un altro seno, un altro culo,
scivolando con sconcertante agilità tra le cosce di un’altra. Una qualsiasi.
Una che non significava niente. L’ennesima figurina in una collezione di
conquiste usa-e-getta.
Avrà almeno usato le precauzioni? Ve l’ho già detto,sono ipocondriaca.
Sento lo schifo spalmarsi a ritroso sui ricordi. Il nostro amore, svenduto
per il gusto di una seduzione in più,si trasforma in una sostanza viscida,
maleodorante,decisamente ignobile. Lo giuro: mi infilerei due dita in gola, se
mi aiutasse a stare meglio, come succede a volte, dopo certe sbronze. E
invece questo male non passa. La delusione che provo è immensa. Non
riuscirò più a guardarlo nello stesso modo, perché lui non è più la stessa
persona. Non lo conosco. Non so chi ho amato. Ha rovinato tutto… che
coglione!
Provo una tale repulsione, che non riesco neppure a incazzarmi con
quella, o quelle, che s’è sdraiato.
Sì, perché ormai sono quattro giorni che continuo ossessivamente a cercare
prove, a collezionare pizze in faccia e calci al cuore, ancora e ancora, come se
non bastasse mai. Come se dovessi conoscere tutti i retroscena più atroci, per
capire. Per credere all’incredibile.
«Cosa continui a fare?», mi ha chiesto Ilaria. «Tanto lo sai, ormai hai
capito, stop!», ha detto. E invece no.
E invece non riesco a fermarmi, mi sembra di non venirne a capo, di non
arrivare mai sulla vetta di questa montagna di merda.
Come si scoprivano i tradimenti prima dei social?
Una macchia di rossetto, un capello, un numero appuntato in agenda?
Come si faceva a sapere vita,morte e miracoli delle altre, senza Instagram?
No, perché io so tutto: altezza, colore dei capelli,taglia di reggiseno e di
punto vita, errori di stile,professione, gusti musicali e frequentazioni.
Una mappa puntuale delle sue infedeltà.
Più scopro e più soffro. So che non serve, so che sto esagerando, ma non
riesco a fermarmi.
Queste ipotetiche ragazze le ho contattate. Volevo farmi spiegare bene
come erano andate le cose e,mentre loro parlavano, morivo dentro.
Ciononostante sono stata brava: non le ho insultate, non le ho minacciate, non
ho neppure fatto ricorso alle bambole vudù. Nossignori.
Certo, sarei falsa se dicessi di aver avuto un tono amichevole o di averle
invitate per un weekend a Formentera tutte insieme, ovvio. Ma non ho
pensato che fosse colpa loro, non le conoscevo neppure, per me non
significavano nulla. Non era da loro che mi aspettavo rispetto, ma dal mio
compagno. Mi è molto chiaro, fin dal principio, che il problema è tra me e
lui,non tra lui e le altre.
Suona il campanello. Sono mia madre e mia sorella,giunte da Roma con
furore, a salvarmi. Dicono di aver trovato un’altra casa dove posso andare.
Domani vanno a pulirla. Io non riesco ancora a credere a quello che sta
succedendo. Non sono pronta, non ce la faccio.
Apro la porta, mentre loro raggiungono il terzo piano senza ascensore di
questo palazzo d’epoca nel centro della città. Dalla tromba delle scale sento
la voce di mami Sandra, e poi quella di Veronica, e alla fine,come un suono
soave capace di ricordarmi cosa c’è di bello al mondo, sento mia nipote
Matilde. Mia sorella ha portato pure lei, la bambina più bella dell’universo
(sono di parte, lo so, ma non importa).
La vedo sgranare gli occhietti, tendere verso di me le mani piccolissime,
sorridermi. La prendo in braccio,la bacio e mi ricordo chi sono. Capisco che
devo riprendermi e che devo uscire da questo tunnel di miseria umana nel
quale sono barricata da giorni.
Devo farlo per me stessa e per le persone che amo. Quelle che il mio
amore lo meritano davvero, intendo.
Capitolo 4:
L’ABBANDONO
Sono in un angolo del soggiorno, con un maglione addosso. Continuo ad
avere questo freddo che mi parte dalle ossa, mentre li osservo tutti.
S’affannano per aiutarmi. Non sono sola e questo fa di me una persona
fortunata (bisogna sempre cercare il bello nel brutto, no? Sì, insomma, vedere
l’aspetto positivo nelle situazioni che si vivono).
Ho fatto una storia su Instagram in cui ho annunciato che io e lui ci siamo
lasciati, senza entrare nel merito del perché e del per come. In fondo saranno
pure cazzi miei. Ho solo detto che non stiamo più insieme e che la colpa è di
entrambi. E che non si dica che non sono una signora!
Lui l’ha vista. Mi ha chiamata. Non ho risposto.
Ha chiamato le mie amiche. Non hanno risposto.
Rientrerà domani dal suo viaggio di lavoro, quindi devo abbandonare
questa casa, la nostra casa, oggi.
Giulia, appena entra, scrive STRONZO sul muro con il rossetto,
misurandosi in un’estemporanea performance di street art. La Fede, che ha
fame, sta mangiando una pizza e, come sempre, lascia le croste. Invece che
nella pattumiera, però, le butta sul pavimento. Peccato che domani, prima del
suo arrivo, passerà la signora delle pulizie a porre rimedio a questi micro atti
di vandalismo domestico.
Il Fani è steso a terra con le gambe per aria. Ha avuto un calo di pressione
per quante volte ha fatto su e giù, mentre portava via la mia roba. Alessandra
gli fa aria con un giornale. Nel frattempo Paolo, che ha il feticcio delle borse,
si occupa di riempire le mie di carta, così che il loro ottimale stato non venga
alterato dal trasloco. Le ragazze raccolgono i vestiti e le scarpe.
Io, in compenso, non riesco a fare niente. Assisto immobile alle pratiche
di smaltimento della mia anima. Alla rimozione coatta della mia identità da
questa casa.
Non muovo un dito, non ci provo nemmeno. Ho paura che se iniziassi a
impacchettare gli oggetti, avrei un crollo definitivo. Mi sento dissociata,
fratturata a metà. Da un lato so perfettamente cosa sta succedendo. Dall’altro
non posso davvero pensare di abbandonare tutto questo. Però devo, niente
sarà mai più come prima. Fa male, certo, ma ora non ho quel super potere,
che certe donne hanno, di perdonare le corna.
Sono riuscita soltanto a dare istruzioni precise a tutti: in questa casa non
deve rimanere traccia di me.
Niente, neppure un elastico, non un singolo indizio che ho vissuto qui.
Non la più piccola prova della mia esistenza. Via gli abiti, i soprammobili, le
fotografie appese, le spazzole, persino le mie vellutate dal frigo. Domani lui
rientrerà in casa e capirà che sono svanita, puff, andata via per sempre, questa
volta sul serio. E, mi dispiace, ma non abbiamo cinque anni.
Siamo giovani, sì, ma troppo adulti per pensare che i giocattoli siano belli
solo quando si rompono. E io sono rotta, anche se sembro integra, tenuta
insieme dai nervi tesi (e ancora non mi è scesa mezza lacrima).
«Abbiamo finito, andiamo?», mi fa Marina, a un certo punto.
«Devo farmi la doccia», rispondo.
«Be’, te la fai a casa nuova», mi dice.
«No, ragazzi, andate e grazie di tutto; lasciatemi qui per un’oretta, il
tempo di sistemarmi e vi raggiungo», dico.
Resto sola. Mi guardo intorno. È tutto così spoglio, così triste.
Talmente triste che, per la prima volta da quando l’ho scoperto, sento una
forza bruciante salirmi dalle viscere, arrampicarsi per l’esofago, raggiungere
le mani come fosse una scossa elettrica potentissima.
Con una collera improvvisa, m’avvento sui quadri appesi al muro, li tiro
giù, li sbatto contro il tavolo, le tele si strappano, le cornici si spezzano.
Scaravento i souvenir dei viaggi che abbiamo fatto insieme contro la parete,
ma sento che non è abbastanza. Vado in bagno e verso i suoi preziosissimi
cosmetici men-care nel cesso. Ancora non sono paga.
La PlayStation! La maledetta PlayStation! Finalmente ci gioco anche io…
a romperla, però! Prendo la consolle e la metto sotto l’acqua corrente nella
vasca.
Provo un fremito di piacere, ma non sono ancora sazia.
Magicamente, mi viene l’idea definitiva: i suoi vestiti!
Vado in cucina, dove cazzo sono? Eccole! Le forbici.
Le impugno e mi dirigo verso il suo guardaroba.
Prendo i capi, uno a uno, partendo dai suoi preferiti, e li riduco in
brandelli. Sono completamente posseduta dallo spirito di Beyoncé.
Parlo da sola. Adesso sì che sono pazza.
Continuo finché non ho accumulato qualche migliaio di euro di danni sul
pavimento e poi, come un palloncino che si sgonfia, mi accascio a terra, tra
quelli che ormai sono solo stracci, e FINALMENTE piango.
I singhiozzi mi graffiano la gola. Le lacrime mi gonfiano gli occhi. Il viso
si deforma nel dolore.
Quanto posso resistere così? Quanto male posso stare, ancora? Sono una
taglia 34, cazzo. Non c’è spazio in me per tutta questa disperazione!
In un moto di dignità decido di alzarmi e di ricompormi. Mi faccio la
doccia, finalmente. Con calma, con tutti i miei prodottini e le mie creme, che
porterò via nell’ultima valigia. La sensazione dell’acqua bollente sulla pelle è
dolce. Che crudeltà essermi negata questo piacere per giorni. Una nebbiolina
umida si solleva nell’ambiente e il vapore si condensa sullo specchio.
Sono lenta, me la sto godendo perché è l’ultima.
Quando ho finito, decido di salutare per sempre il nostro nido, la camera
da letto nella quale ci siamo conosciuti, scoperti, sorpresi, amati.
Raccolta nel cotone morbido del telo, mi stendo sul materasso. Osservo i
dettagli di questa stanza, tutti, come se volessi imprimerli nella memoria in
maniera indelebile. Non capisco perché voglio ricordare tutto.
Metto il silenzioso al telefono. Voglio essere sola, concentrata. Fisso il
soffitto, le travi di legno, i soprammobili, lo specchio. E poi il buio. Non
ricordo più niente. Mi addormento per ore, come un piombo.
Mi svegliano Veronica e Alessandra. Sono entrate in casa sfondando la
porta (danno più, danno meno… ben gli sta). Hanno la faccia stravolta,
terrorizzata.
«Non rispondevi al telefono, né al citofono né al campanello», mi dicono,
preoccupate.
Ma che pensavano? Che mi fossi calata una dose letale di Lexotan? Che
mi fossi strozzata con l’arricciaciglia?
Che mi fossi immolata come un capretto sull’altare di un amore
sbagliato? No, ragazze, state tranquille. Sto una merda, è vero, ma io non
sono debole.
Capitolo 5:
LA
RABBIA
Il tradimento è un coltello a due lame. Una la indirizzi verso di te,
quando ti colpevolizzi di qualunque cosa, cercando nei tuoi comportamenti le
ragioni della sua infedeltà. L’altra, la punti verso di lui, quando finalmente
riesci a sollevare il coperchio della rabbia che provi.
Io sollevo il mio coperchio nel momento in cui lascio casa nostra. Solo
allora riesco ad aprire quel vaso di risentimento, indignazione e ira. Sono
nervosa come una biscia morsa da una tarantola e vomitata da una iena. Sono
furente, accecata, assetata di vendetta.
Voglio spaventarlo, voglio terrorizzarlo, voglio toccare tutti i suoi punti
più delicati e voglio farlo con una mannaia. Voglio picchiarlo. Voglio
accanirmi sul suo bel viso da bravo ragazzo e spellarmi le mani a suon di
pizze in faccia. Di più. Voglio restituirgli il dolore che mi ha causato:
grammo per grammo, centimetro per centimetro.
Certe volte mi accorgo che fisso il vuoto, vado in stand by, mi blocco, ho
bisogno di spegnermi e riavviarmi.
In quei momenti mi perdo in pensieri di una tale violenza che neppure mi
riconosco. Io non sono così.
Io non sono questa.
Ecco un altro motivo per cui lo odio. Non è solo il fatto che mi ha
mancato di rispetto e questa cosa mi fa venire, per ovvie ragioni, le bolle al
cervello.
Sono proprio questi segni che mi vedo addosso, questo cinismo che mi
fermenta dentro, la purezza e l’ingenuità che mi ha strappato via senza
anestesia.
Come si può rimanere integri, d’altronde, quando tutto il tuo mondo
emotivo finisce sottosopra, quando il tuo amore si trova capovolto, a testa in
giù, appeso alle bugie che ti ha detto?
È rientrato in Italia e non s’è preso neppure il disturbo di chiamarmi, di
passare a vedere come sto. Non che l’avrei accolto, sia chiaro, ma capite
ragazze, almeno il gusto di vederlo strisciare come il verme che è. E invece,
un cazzo. Silenzio stampa. Embargo totale.
Che uomo!
«Ma perché, se tornasse lo riprenderesti?», mi chiede Alessandra.
«No, ma sei pazza?!», rispondo.
Cosa c’entra, però. Voglio che mi cerchi perché deve rendersi conto di
quello che m’ha fatto, deve vedere come sto, deve dimostrarmi che è
dispiaciuto, che è pentito, che si è reso conto di essere uno stronzo che
brucerà all’inferno nel girone degli stronzi. Deve dimostrarmi che gli trema la
terra sotto i piedi. Che la sua vita ora fa schifo, senza di me. Che ha paura.
E invece è sparito. Se al posto del mio cuore avesse schiacciato una cacca
di cane sul marciapiede, si sarebbe preoccupato di più. Per la suola delle sue
scarpe da mille euro, avrebbe temuto più di quanto tema per me. Questo è il
fatto, amiche: non valgo un cazzo, a quanto pare.
Che posso dirvi? Va bene così… mi sono scansata un fosso!
«Basta, usciamo!», dice Marina.
«Non mi va», rispondo.
«Mi dispiace, ma abbiamo appuntamento con i ragazzi e tu ora esci!»,
interviene Alessandra.
«Raga, ma mi vedete?». Sono struccata da una settimana, cosa devo fare
di più per far capire che non sono in me? Iniziare a parlare in cinese?
«Avanti, De Lellis, vai al trucco!», mi fanno.
Ma il problema non è mettermi un po’ di colore in faccia, ragazze. Il
problema è che casa mia, questa nuova, è vicina a casa sua. Molto vicina.
Troppo vicina. E questa è una città piccola. Troppo piccola.
Lui è tornato e io vado in embolia alla sola idea di incrociarlo. Non posso
manco pensarci. Non risponderei di me. Potrei scoppiare a piangere e perdere
definitivamente la dignità, anche se non c’è nulla di indegno nell’essere
ferita, lo so, ma questa sofferenza che provo, che è l’unica cosa che mi
rimane dell’amore che avevo, io la rispetto, voglio lavarmela in casa, come si
fa con certi panni sporchi di cui è meglio non si sappia in giro. Anche se la
mia casa ha vetri abbastanza trasparenti. Anche se è difficile e pesante tenere
privato questo lutto, questa perdita, quando sei Giulia De Lellis.
Potrei piangere, insomma. Oppure potrei assaltarlo e lanciargli contro
qualunque oggetto contundente a portata di mano e, francamente, preferirei
non diventare un caso di cronaca nera. Cioè, eviterei di finire a Porta a Porta
con Crepet e il plastico della scena del crimine…
«No, ragazze, mi dispiace, non si può fare», insisto.
«Vieni con me», dice la Fede, come se non m’avesse ascoltata per niente.
Mi prende per mano e mi accompagna in bagno. Le mie amiche sono
attente, presenti, pure troppo: da quando in qua ho bisogno di essere scortata
al cesso di casa? Non siamo mica in discoteca!
Inizia a rovistare tra i trucchi e tira fuori dal beauty tutto il necessario.
Maledetta, se mi conosce!
«E va bene!», rispondo, sfinita dalla loro insistenza, mentre mi sfilo la
felpa, mi lego i capelli e resto in canotta. La Fede mi guarda e mi chiede
quanto ho perso.
«6 chili», le dico.
«Elamadonna!».
«Tesò, pesavo 51 e sto a 45», confermo.
«Non tutto il male viene per nuocere…».
In che senso? Che le corna fanno dimagrire, questo è sicuro!
Quando la Fede torna di là e mi lascia sola, mi accorgo che sono
dimagrita, sì, ma non sono più bella. Le corna sono meglio della dieta, meglio
del fitness, meglio della liposuzione, per carità. Il problema è che dopo sei
comunque un cesso. Io questo vedo: un cesso. Gli occhi tristi, il viso teso, la
pelle tirata, la faccia contratta dal malessere che porto dentro.
Niente a che vedere con la Giulia sorridente e solare a cui sono abituata.
Una replicante, una controfigura sfigurata.
Una che può provare a vedersi più bella solo dopo un giro di spritz.
Famo un paio.
Alla fine esco e non lo incontro. Rientro a casa sollevata, come una
reduce di guerra: di positivo c’è che sono sopravvissuta; di negativo, c’è che
sto ancora una merda. Ma mi sento più forte di prima. Avevano ragione le
ragazze. Dovevo uscire, mettermi in ordine, svagarmi un po’. Mi ha fatto
bene, anche se non vi nascondo che il mio pensiero tornava spesso da quelle
parti lì…
Forse è questa la direzione, però!
Primo passo: concentrarsi sui piccoli momenti di benessere quotidiano,
quegli attimi di pausa, di distrazione dalle macerie del tuo cuore.
Secondo passo: concentrarsi sulla donna che sono e che voglio essere;
nessuno, mai, deve avere il potere di renderci diverse da quelle che vogliamo
essere. Neppure il più grande amore della vita. Neppure la delusione più
cocente. Manco il peggior rodimento di culo o il miglior trombatore del
secolo. Chi sono? Chi voglio essere? Questo conta.
Terzo passo: eliminare i fattori di disturbo. Per stare meglio, al posto delle
medicine, prendo le distanze da lui, che mi ha peggiorata e mi ha imbruttita,
da tutti i punti di vista.
E invece, sapete che c’è? Io sono bella: superficiale, sempliciotta, naïf,
tutto quello che vi pare, ma sono bella. E bella voglio apparire.
Capitolo 6:
RICOMINCIO
DA ME
Credo che gli esperti la chiamino “negazione”
o “rifiuto”. È una specie di fuga dal dolore, di assenza di fronte ai dispiaceri
della vita. Insomma: scopri che sei cornuta, ne soffri ferocemente, ti senti
cretina e violata nei tuoi valori, ti colpevolizzi, scleri, coltivi fantasie di
evirazione… ma in fondo c’è una vocina del cazzo che ti fa sperare che sia
solo un equivoco.
Un malinteso temporaneo. Un brutto sogno che finirà quando riaprirai gli
occhi e, a quel punto, lui ci sarà: bello come il sole, innamorato, liberato dal
peccato e con un paio di Manolo Blahnik della nuova collezione da regalarti,
in segno di pentimento.
Ecco, questa vocina secondo me dice una cazzata, però mi serve. Mi serve
perché sono state giornate infernali: ho il cuore a pezzi, ho dovuto affrontare
un trasloco e ho dovuto chiedere aiuto alla mia famiglia e ai miei amici. Io
sono una persona indipendente, sia chiaro, sono andata via da casa dei miei a
13 anni, lavoro da quando ne ho 15, mi sono sempre fatta il mazzo… capite,
sono abbastanza abituata a farcela da sola e a provvedere a me stessa.
Immaginate che fatica può essere, per me, chiedere aiuto. Però l’ho fatto,
perché è importante farlo. L’ho chiesto pure a una psicologa, pensate un po’.
Insomma, è un momento talmente difficile che non posso farcela a capire
davvero che questa storia è F-I-N-I-T-A. È una verità troppo amara, alla
quale non ero minimamente preparata. Io, che già mi vedevo col velo bianco
in testa, perché per me era lui, proprio lui, nient’altro che lui, per sempre lui e
blablabla. Ma lasciamo stare, altrimenti ricomincio a dirvi quanto sono
cretina e, invece, mi serve tutto il contrario di questo. Ho bisogno di gasarmi,
di credere in me, di sentirmi forte, di disintossicarmi. Questo mi serve, per
rimettermi in piedi.
Devo convincermi che ho fatto bene a mollarlo, che era una zavorra.
Devo dirmi che tanto pagherà per il male che m’ha fatto senza che io debba
neppure sporcarmi le mani. Devo accorgermi che tutti mi corteggiano, che il
mondo è pieno di manzi, il mare pieno di pesci e il cielo pieno di uccelli.
Così decido di organizzare la prima cena a casa nuova, la mia.
Invito gli amici più cari e il menù prevede: amatriciana di mamma e
tiramisù (che ce n’è bisogno), comprato in pasticceria. Il vino lo portano i
ragazzi.
Quando arrivano, metto su un po’ di musica.
Stappiamo e beviamo un bicchiere, due, tre.
Mangiamo. Ridiamo. Brindiamo alla mia nuova vita. Alla mia rinascita,
dicono. Sono tutti allegri, non so perché. Il loro buonumore mi contagia. Mi
sento meglio. Per la prima volta, dopo un paio di ere geologiche, riesco a non
pensare a lui, lo stronzo fedifrago e desaparecido. Riesco a dimenticare per
un istante la mia disfatta sentimentale e a godermi il presente, senza aver
paura del futuro, né disgusto del passato.
Eccola, ragazze, una briciola di pace! Un barlume di ritrovata serenità
che, tuttavia, non dura più d’un battito di ciglia, uno starnuto, una scoreggia:
proprio in quel momento, dopo giorni e giorni di interminabile silenzio, mi
chiama.
LUI.
Non rispondo. Mi gusto il piacere di ignorarlo, di far squillare il telefono
a vuoto, di trattarlo come una nullità. Gli altri, intorno a me, dicono cose…
sono frastornata, anche se non vorrei esserlo. Dovrei schifarlo come i piccioni
in piazza e, invece, il cuore mi batte forte. Sono incazzata. Sono emozionata.
Una botta d’adrenalina pazzesca, solo perché mi ha cercata.
Che tempismo straordinario, comunque! Dev’essere una specie di sesto
senso, o di telepatia. Un istinto animale che c’hanno certi uomini, come
quello dei cani che fiutano la paura o i tartufi. Così, senza vedermi né
sapermi, lui s’è accorto che il guinzaglio del mio cuore s’è allentato, per un
nanosecondo, una frazione di tempo minuscola nel dirupo di queste giornate
infinite, ed eccolo qua: pronto a stringermi di nuovo nella morsa di questo
amore sgangherato.
Gli altri, intorno a me, dicono cose. Tante cose.
Rispondigli. Dimenticalo. Ascoltalo. Affrontalo. Senti cosa ha da dirti.
Prenditi le risposte che vuoi. Mettilo con le spalle al muro. Puniscilo.
Annientalo. Dagli un’altra possibilità. Ma soprattutto dimenticalo.
Dimenticalo. Dimenticalo. Dimenticalo. Dimenticalo.
Come se, poi, dimenticare fosse facile.
Ma tanto si sa: siamo tutti Freud, col culo degli altri.
Capitolo 7:
IL
CONFRONTO
Mi richiama. Insiste. Non mi stupisce, è uno abituato a ottenere quello
che vuole. Lo ignoro. Mi chiama ancora. Silenzio il telefono, voglio
continuare a godermi la serata, ma non ci riesco. Una parte di me muore dalla
voglia di incontrarlo. L’altra, invece, lo considera morto e pensa che mi
troverei a parlare con un fantasma, una sagoma, una bugia deambulante.
D’altra parte non l’ho mai più visto. D’altra parte non ci siamo neppure
mandati a cagare guardandoci negli occhi. Almeno questo non avremmo
diritto di farlo?
Alla quinta chiamata, rispondo. Vuole vedermi, dice. Vuole parlarmi,
spiegarsi. D’accordo, gli faccio.
Vediamoci. Voglio proprio sentire cos’ha da dire in sua difesa. Voglio
proprio prendermi l’ennesimo schiaffo morale. Ne ho bisogno, mi dico.
Succede sempre così, in questi casi. Tu sai cosa è giusto fare, perché lo
sai, ma ciò non influisce minimamente sulle tue scelte. Con solenne slancio,
fai una mossa intelligente come asciugarsi i capelli sotto la doccia: lo rivedi.
Faccio un respiro profondo. Infilo le sneaker e la giacca. Afferro la borsa.
Mi scuso e saluto i ragazzi in fretta. Hanno capito. Ovviamente non sono
d’accordo.
Ma sticazzi…
Vado a prenderlo e quando sale in macchina, mi manca il fiato. Come
faccio a trovarlo ancora così bello, mentre lo odio? In pochi secondi
l’abitacolo si riempie del suo profumo e io annego in un improvviso, e
odioso, sollievo. Siamo io e lui, insieme, com’è normale e naturale che sia,
per me. Eppure, l’aria è diversa. Eppure, non siamo noi. Eppure è solo
un’illusione ottica dell’anima, questa. Una realtà doppia, come la sua vita.
Sono confusa, piena di rabbia, non riesco neppure a respirare. Lui non mi
sembra più lui.
Gli manca l’ossigeno (no, niente gas nervino, lo giuro!) e suggerisce di
andare nel punto più alto della città, o in ospedale…
C’ha visto lungo, fa bene ad aver paura!
Indovinate un po’? Alla fine non lo distruggo.
Ho voglia di prendere aria anche io, e così andiamo in uno dei nostri posti
preferiti, il primo dove siamo stati insieme, e forse pure l’ultimo. Lungo il
tragitto, non parliamo. Siamo scossi e imbarazzati, entrambi, in modo
diverso. Divisi da un velo impenetrabile di fallimento. Quando arriviamo,
parcheggiamo.
Scendiamo dall’auto, lasciando i finestrini aperti e la radio accesa. Ci
sediamo su un gradino e, dalla cima del promontorio, osserviamo i tetti delle
case e le luci delle vite, delle vie, delle automobili, dei locali.
Non l’avevo immaginato così, il nostro incontro.
Pensavo mi sarei trasformata in una wrestler, per non dire altro. Con il
mio temperamento mite, pensavo che l’avrei disintegrato, annientato,
distrutto. E invece non riesco neppure a essere irritata. Non riesco a reagire.
Lo ascolto parlare, mentre ammette le sue colpe, i suoi torti e le sue bugie. E
a ogni frase che pronuncia, il coltello va più giù, sempre più giù, arriva a
tagliarmi in un punto così profondo di me stessa che non sapevo neppure
esistesse. Non riesco neanche a guardarlo. Fisso il panorama, muta. La vita
cittadina sembra uno spettacolo lontano e noi sembriamo gli spettatori
alienati di una notte calma e spietata.
«Perché mi guardi così? Perché non mi parli?», chiede. «Cosa pensi di
me?», insiste.
Mi volto verso di lui, lo guardo e continuo a pensare che non ci siano
giustificazioni per quello che ha fatto.
Nulla di ciò che dice sposta di una virgola il male che sto vivendo. La
giuria del mio cuore non riconosce attenuanti, anche se è una giuria corrotta,
parziale e patologicamente innamorata.
Lo ascolto e mi accorgo che, da quando ho scoperto le sue magagne, non
ho fatto che torturarmi con le classiche domande: «Cosa ho sbagliato?»;
«Dove ho sbagliato?»; «Perché sono sbagliata?».
La risposta era così chiara, e io la vedo solo adesso: è sbagliato lui, tutto,
dalla punta degli alluci fino al ciuffo rigoglioso.
Lo osservo e mi sembra di vederlo nudo, per la prima volta da quando lo
conosco, spogliato delle sue pose e dei suoi alibi. Vedo un’anima accidentata,
come tutte, con i suoi danni, i suoi irrisolti, gli angoli bui dove non arriva il
sole della coscienza. Mamma mia, se me l’avessero detto che un giorno
l’avrei guardato con una tale delusione negli occhi, non c’avrei creduto. Guai
a chi me lo toccava! Guai a chi lo metteva in dubbio!
L’ho difeso sempre, a spada tratta, da qualsiasi critica.
Provo tenerezza per me e compassione per lui. Guardo e non vedo niente.
Solo confusione e distanza.
Vedo un estraneo, che conosco alla perfezione.
Vedo uno stronzo, che inevitabilmente amo.
Vedo una persona misera, che non merita tutto il dolore che sto vivendo.
In tutto ciò lui continua a parlare, Dio se continua a parlare, quante ne ha
da dire! In sostanza mi sento come se stessi mangiando un cucchiaino di
merda con lo zucchero a velo sopra. E lo so che, a questo punto, alcune di voi
vorrebbero sapere cosa ci siamo detti esattamente, entrare nel dettaglio,
approfondire… lo capisco, la curiosità è donna! Ma non odiatemi, ragazze
mie, se ci sono cose che preferisco tenere per me…
Capitolo 8:
POST
SBORNIA
Trascorro la giornata successiva all’incontro in uno stato di apatia
nostalgica. L’ho lasciato a casa che era quasi l’alba. In quel preciso momento,
in radio è passata Attenta dei Negramaro (che, qualora non la conosciate, è
una canzone struggente e distruttiva, almeno per me, perché era la nostra).
Ho guidato lentamente, fino a casa. Ho parcheggiato e sono rimasta
immobile, in macchina, con la fronte sul volante, per tipo un’ora. Una pazza
sola, allucinata, in un’automobile ferma, alle 5 del mattino, in una città
addormentata. Ero scioccata, disorientata, confusa.
Quando mi sono trascinata nel mio appartamento, mi sono buttata sul letto
senza neppure struccarmi (reato gravissimo, lo so). Ho dormito poco e male,
com’era prevedibile. E ora sono qui, in questa casa nuova e spoglia, che non
sento mia, tra queste pareti anonime, dentro le quali il mio dolore, la smania
impaziente di un suo cenno di vita, rimbomba, fino a farsi assordante.
Sono in pigiama da stamattina. Ho mangiato due gallette di riso con un
po’ di tonno al naturale.
È l’unico cibo rimasto in casa. Migro dal letto al divano e dal divano al
letto. Non ho voglia di sentire e vedere nessuno. Nessuno all’infuori di lui,
purtroppo.
E, invece, naturalmente, non mi ha scritto. Per carità, magari lo farà.
Magari stanotte era troppo fresco, appena successo, sapete com’è. E
stamattina sì, forse doveva ancora elaborare. E poi può essere che siano
arrivati gli alieni a rapirlo con un ufo, distogliendolo dall’urgenza di
scrivermi che mi ama alla follia, che non può vivere senza di me, che si sente
di morire all’idea di perdermi, eccetera. Invece, il nulla. Un cazzo.
Nel frattempo, che ve lo dico a fare, sto ripassando tutta la discografia dei
Negramaro.
DE LELLIS
MUST GO ON
Credo che gli esperti la chiamino “accettazione” e di base significa che sei
arrivata a un punto cruciale nel tuo percorso di recupero dalle corna. In
pratica: sei triste che ti vuoi ammazzare, ma non lo fai. E quindi, in un modo
o nell’altro, la vita va avanti.
Mi sono rimboccata le maniche, mi sono incollata un sorriso da deficiente
sul volto e ho ricominciato a vivere. L’ho fatto per me e per la gente che mi
vuole bene, ma anche per una questione di principio: non voglio consentirgli
di esercitare così tanto potere su di me. Sul mio umore. Sulla mia vita.
In tutto questo, inutile specificare che lui zero, manco per niente. Non
dico che avrebbe dovuto improvvisare una serenata sotto il mio balcone con
la banda comunale, ma pure un fiore demmerda. Non una dichiarazione
scritta col sangue, ma almeno una telefonata, un messaggio, un vocale… una
cazzo di GIF! E invece no! Il nulla cosmico.
Per fortuna, ho ripreso a lavorare, le cose procedono bene, sono contenta.
La mia agenda è fitta, il mio tempo libero è poco e lo spazio per rimuginare
pure.
Giro come una trottola e mi va benissimo così, per il momento. Lavorare
mi impegna, mi permette di pensare meno. Sapete com’è, quella tendenza
lievissima che abbiamo noi donne a over-analizzare le relazioni, fino a
perforare i timpani e frullarci i coglioni col minipimer? Ecco, se sei
incasinata, hai meno tempo per fermarti a osservare i resti scomposti del tuo
amore.
Ogni giorno va un po’ meglio. Poco, eh, pochissimo, ma un po’ migliora.
Il fatto è che bisogna avere pazienza. Non esistono corna da cui si
guarisca in poche ore. Non esistono tradimenti che non feriscano. Non esiste
nessun sortilegio, nessun antidoto, nessun manuale d’istruzioni che possa
metterci al riparo dai rischi di quell’attività spericolata che è amare qualcuno.
Non bisogna neppure pretendere l’impossibile, e cioè di tornare come nuovi.
Io non sono come nuova. Ho subìto un trauma permanente, ho una
cicatrice che non saprò mai nascondere davvero, neppure io che faccio i
tutorial beauty e, modestamente, ne so di fondotinta e correttore. E dunque sì,
ci sono momenti in cui mi manca tremendamente. Non dovrebbe succedere,
in teoria, considerato che lo odio (o, perlomeno, di questo mi sto
convincendo). Invece, a volte, quando entro in doccia, quando salgo in auto,
mentre viaggio, poco prima d’addormentarmi, ricompare la sua assenza. E,
spesso, quando chiunque mi chiede qualcosa di noi con quell’aria tutta
mortificata, mi intristisco tra me e me, ma non lo do a vedere.
E non so cosa darei per farlo tornare da me, e mi sento in contraddizione
con me stessa, ed è paradossale aspettare il soccorso di chi ci ha feriti, lo so.
È pure un po’ patetico, me ne rendo conto, sperare che l’amore, o il senso del
dovere, o il senso di colpa, o anche la semplice pietà umana, possano
spingerlo di nuovo tra le mie braccia… anche se lo allontanerei, in teoria,
perché so che non è giusto, il fatto che mi manchi non è un motivo valido per
riprendermelo, lo so.
A volte penso che basterebbe poco, quasi niente. Mi basterebbe vederlo
distrutto, come lo sono io; con la faccia deformata delle notti in bianco, come
la mia; basterebbe che mi dicesse che si sente una merda, come dovrebbe
sentirsi. Invece no, ancora non lo fa.
Mi dico che non è devastato come me. Forse non mi ama. Forse io lo amo
troppo…
Insomma, la fase di accettazione non è un granché ed è faticosa. Provo
tante emozioni, anche se i miei sentimenti sono meno lividi. Nervosismo,
sconforto, insofferenza. Però sto guardando la realtà, così com’è.
E sto capendo, con un pelo di lucidità in più, che non ero io a essere
sbagliata, pazza, squilibrata, ingenua o “Cenerentola”. Piuttosto, sarebbe
corretto dire che ero sincera, innamorata, leale, giovane e piena di fiducia.
E non penso di aver amato troppo, quanto di aver amato e basta. Nel
modo in cui si ama, che non è mai troppo, per definizione, se per “amore”
intendiamo “amore”. E non decine, centinaia e migliaia di altri significati
possibili.
Lo dichiaro ufficialmente: ho accettato quello che è successo e ho deciso
che è tempo di andare avanti, di stare bene, di conoscere gente, di ritrovare
me stessa.
Certo, non si può ordinare al proprio cuore di odiare una persona che si
ama, e non si può pretendere che la pancia comprenda tutte le impeccabili
analisi del cervello, ma io ci sto mettendo la mia buona volontà.
Che, a quanto mi dicono, è l’ingrediente base di tutte le imprese ben
riuscite.
Capitolo 10:
AHI-AHI-AHI…
Quando quello che credevi fosse il grande amore della tua vita finisce, le
giornate fanno un po’ tutte cagare.
Vivo una situazione che non ho scelto, perché vi ricordo che sono stata
costretta a smettere di amare, non me la sono cercata. Sto imparando a
conviverci ma ci sono giorni peggiori di altri, in cui quell’assenza diventa
opprimente, quasi insopportabile. Il giorno del compleanno o quello di
Natale, per esempio; ma anche la data dell’anniversario non scherza.
Non ci sentiamo da un po’, ormai, e oggi sarebbe stato il nostro
anniversario. Casualmente, io oggi non voglio esistere. Non voglio vedere,
non voglio sentire, non voglio pensare. Se potessi, eviterei pure di respirare.
Ho monitorato l’avvicinamento di questa macabra ricorrenza con la stessa
apprensione con cui di solito s’aspetta il giorno del giudizio. Per l’occasione
ho partorito una lunga lettera, che non gli ho inviato.
Ormai faccio così: quando ci sono cose che avrei bisogno di dirgli, le
scrivo e le salvo in una cartella sul mio telefono, che si chiama “Patetica”.
Oppure le giro ad Alessandra, o a Ilaria. Loro mi dicono che le mie lettere
sono fortissime, che io sono spaziale e che lui non mi merita. Il mio ego tira
un sospiro di sollievo, e finisce lì. Sappiate che è una tecnica pazzesca per
distendere i nervi dell’anima: provare per credere!
La ragione per cui non gli mando le parole che scrivo è che non gli
servono, dunque non gli interessano.
Queste lettere a nessuno, che appunto come una pazza nei momenti più
improbabili delle mie giornate, servono a me. Per fare ordine, per sfogarmi,
per capirmi. Soprattutto, per perdonarmi.
Ho chiesto a chiunque di non cercarmi, oggi. Di rispettare la mia
vedovanza. Di lasciarmi al mio sacrosanto diritto di autocommiserarmi. Sì,
perché ultimamente mi capita di piangere, più spesso di
prima, anche se è un pianto strano: non piango per lui, piango per noi. Piango
per me. Piango perché certe volte mi assale un tale senso di fallimento…
Anche oggi, non faccio che piangere. E lo so, so cosa pensate. So che vi
chiedete: «Com’è possibile? Dov’è il suo ritegno, il suo amor proprio?!».
Non ho una risposta da darvi. Forse è sul fondo della sua pattumiera, tra gli
scarti organici di una relazione andata a puttane. Non lo so. So soltanto che
questo giorno vorrei passarlo con una persona, una soltanto sulla faccia della
Terra, e quella persona è lui, per assurdo.
Chissà se almeno oggi si farà sentire! Che poi, perché sparisce così? Io, al
suo posto, mi comporterei diversamente, avendo sbagliato. Ma che dico, io
non avrei mai sbagliato come lui, non l’avrei neppure tradito. Io non sono
come lui!
Non è che ci sia un regolamento esplicito per vincere il mio perdono, sia
chiaro, ma se pensa di muovere un’unghia per me, o lo fa oggi o non lo fa
più. E se non fa niente, se non ci prova neppure a recuperare le ceneri di
questo amore, vuol dire che di me non gliene frega nulla, che non c’ho mai
capito niente, che sono una rincoglionita. Capite, ragazze: ho ben ragione di
piangere per me.
Sono le 15 spaccate quando il citofono suona per la prima volta.
Non riesco a crederci. Tremo. Il cuore mi scoppia.
Sono paralizzata. Lo vedo nel monitor del videocitofono.
Suona ancora.
Sa che sono in casa, che non potrei essere in nessun altro luogo oggi (mi
conosce troppo bene).
Suona ancora.
Sticazzi, rispondo.
«Sì?», dico nella cornetta, sperando di sembrare indifferente, ma non
ostile.
«Guarda qua!», sorride.
«Cosa?».
«Questa», risponde, sollevando in favore di camera un pacchetto della
mia pasticceria preferita.
No, va be’, non ci credo. È assurdo che si presenti così, dopo essere
sparito (maledetto), con la mia torta preferita (infame) e quel sorriso da
cicisbeo (ma quando invecchia questo? Quand’è che inizia a perdere i denti o
i capelli, per esempio?).
E sono pure a stomaco vuoto (le pellicine non le conto come cibo)!
«Sali», gli faccio, mentre con il dito premo un pulsante pericoloso, che
apre il portone del palazzo e, insieme, l’abisso della mia anima infranta.
Capitolo 11:
BRAVA
GIULIA
Avevo giurato a me stessa che nessun uomo avrebbe varcato la soglia di
questa casa. Ma lui non è uno qualsiasi. Sale le scale tutto pimpante, con
quell’aria da bello-bello-in-modo-assurdo. Lo saluto con un bacio sulla
guancia, educato, quasi formale. Quando si siede sul divano, mi colloco nel
punto opposto, il più distante possibile.
Siamo qui per parlare, del resto. Per avere una conversazione civile tra
due che si sono mollati e che si ritrovano casualmente insieme, in quello che
avrebbe dovuto essere il loro secondo anniversario.
Dunque parliamo: come stai, come non stai, non ci sentiamo da un sacco,
ma va’, davvero, certo, ahah, come no.
Recito la mia parte in questa messinscena. Sorrido, mentre lo odio. Mi
fissa e arrossisco. Un formicolio tiepido mi percorre, mentre un esercito di
minuscoli pizzichi mi sveglia la carne. Ma che fa, ci prova? No, va be’, non
ce la faccio. Distolgo lo sguardo. Il sangue mi bolle nelle vene. Le mani mi
prudono. Riconosco i vagiti di un istinto da killer. Cosa potrei fare? Cavargli
gli occhi con la pinzetta? Soffocarlo con un cuscino?
Ingaggiare un sicario?
Pare soffra, sicuramente meno di me. A tratti sembra che non si renda
neppure conto dello sconquasso che m’ha causato. Non è abbastanza turbato
di fronte alla monumentale merda che ha pestato. Mi fa incazzare. Mi urta il
sistema nervoso, più di quelli che in treno iniziano a raccontarsi vita, morte e
miracoli, spaccando le palle, mentre vorresti solo riposare. Il dramma,
l’aspetto più ridicolo di questa situazione, è che sono quasi felice che sia qui.
Avvicinati, mi fa. Ma col cazzo, penso, e mi alzo per tagliare due fette di
torta da impiattare. Ci sediamo per mangiare. Le sedie sono quattro, i posti
sono vicini, le nostre ginocchia si urtano, sotto il tavolo.
Diamo il via alla danza della seduzione, anche se ha più il sapore
dell’assedio.
Mi alzo per preparare due caffè. La macchinetta è in un angolo della
stanza, a fianco c’è la finestra che dà su un balconcino. Davanti, una poltrona.
Mi raggiunge, si avvicina, sento il suo respiro sulle spalle, il suo odore
nelle narici, la mancanza di lui in ogni cellula del corpo. Vorrei sprofondare.
Vorrei arrendermi, abbandonarmi, sono sull’orlo del precipizio e mi basta un
soffio per perdere l’equilibrio.
Non so come succeda esattamente, ma ci ritroviamo sulla poltrona,
insieme. Io in braccio a lui. In radio passa Puoi fidarti di me di Caccamo.
Sembra fatto apposta.
«È un po’ la nostra canzone», dice.
Scoppio a ridere.
«Perché non provi a fidarti di nuovo di me?», sorride.
Questo vaneggia, non ce la può fare, lo trovo peggiorato.
Lo ascolto, mentre mi dice tutto ciò che non aspettavo altro che sentire.
Lo osservo, mentre si insinua nelle crepe della mia razionalità, mentre mi
stringe il fianco, mentre mi strizza con la corda del desiderio.
Milioni di scintille bruciano invisibili, dietro il mio ombelico. Dio, quanto
mi manca. Dio, che stronzo.
Cosa devo fare?
Non ho il tempo di rispondere. Ci baciamo. Ci stringiamo. Ci tocchiamo
come se per la prima volta, dopo troppo tempo, sapessimo di essere nel corpo
giusto. Finalmente sento. Sento le sue mani, la sua bocca, il suo sapore. Sento
casa. Sento noi.
Facciamo l’amore ed è bellissimo. Siamo sudati,
bagnati, affannati. Ci guardiamo negli occhi, per tutto il tempo. È così
perfetto che fa male. Grondo amore, misto a tristezza. Trasudo passione, e
disincanto. Ho paura di scoppiare di vita. È incredibile. È intenso.
È finito. È venuto.
Fisso il soffitto. Non riesco a dire niente.
Brava Giulia, tu sì che sai resistere alle tentazioni.
Capitolo 12:
CHE CAZZATA!
Lo capisci subito quando hai fatto una cazzata. Non è questione di
intelligenza, quanto di puro istinto di sopravvivenza. È tipo l’allarme anti-
stronzi che suona all’impazzata nel tuo cervello.
Mi sento sporca. Lo odio. Mi faccio schifo.
Perché sono qui, stesa al suo fianco? Perché è qui, nel mio letto?
«Vado a fare la doccia», gli dico, alzandomi. «Vestiti e vattene, per
piacere», aggiungo, lasciando la stanza.
Alla fine ce l’ha fatta oh, ci è riuscito! Cos’è successo?
Dunque, gliel’ho data. Per cosa esattamente? Quale incredibile gesto ha
fatto per riavermi? Niente. Una tortina del cazzo. E io subito sciolta,
praticamente liquefatta, tra le sue braccia.
Entro in doccia per inerzia. Lavo i capelli grattandomi il capo in maniera
ossessiva. Forse voglio strapparmi il cervello a mani nude, per buttarlo nel
cesso. Come ho fatto? Come ho potuto farmi baciare, toccare, annusare? La
tragedia è che mi sono fatta pure quella maledetta depilazione definitiva!
Insomma ragazze, pensateci: ci sono situazioni in cui un inguine selvaggio
può salvarvi la vita.
«Giuli», mi volto, lo vedo che fa capolino dalla porta.
Non rispondo. Continuo a lavarmi.
«Giuli, ascoltami», sono delusa, soprattutto da me.
Sono una debole, è questa la verità.
«Non mandarmi via». Non avrei mai pensato di tornare a letto con l’uomo
che mi ha tradita.
«Davvero, Giuli». Eppure, eccomi qui, mentre lavo con l’acqua calda la
poraccitudine che ho dentro.
«Ho capito tante cose, stando lontani». Sapeva che ero vulnerabile, lo sapeva
eccome. Ma tanto cosa gliene frega a lui? L’importante è che abbia tutto
quello che vuole, ogni volta che vuole. Tutto, inclusa me.
«È il nostro giorno». D’altra parte io cosa gli dimostro, se non questo?
Che può disporre liberamente di me, che pendo dai suoi bicipiti, dal suo
sorriso, dai suoi occhi grandi…
«Che senso ha passare il nostro giorno divisi?», mi chiede.
Già.
E che senso ha, invece, cenare insieme come se nulla fosse? Che senso ha
riprovarci adesso? Posso farcela?
Posso reggere?
Come si scioglie questo laccio troppo stretto che mi lega a lui?
Qual è il vero punto di rottura, in questa storia?
Esco dalla doccia, mi passa il telo. Resta impalato come uno stoccafisso e
mi contempla. Sembra in uno stato di moderata venerazione. Ha un’aria così
beata.
Non si rende conto che mi ha persa. Anche se sono qui, mezza nuda,
davanti a lui, come milioni di altre volte.
Mi ha persa anche se mettiamo l’acqua a bollire sul fuoco, anche se
guardiamo una serie sul divano, anche se ceniamo insieme, anche se
parliamo, anche se ridiamo, anche se scopiamo. Mi ha persa, anche se non lo
sa.
Mi sono persa anche io, mi sa.
Ed è questa la cosa peggiore, molto più grave di perdere un uomo: perdere
se stesse.
Capitolo 13:
SINDROME
DI STOCCOLMA
Abbiamo ripreso a frequentarci. È così che si dice, no? Quando passi molto
tempo con lui, ci vai a letto, e nelle altre ore del giorno ti chiama e si
interessa di te, tutto carino e attento come non è mai stato (evidentemente il
senso di colpa ha dei risvolti positivi)… ecco, si dice ri-frequentando, giusto?
O, se preferite, siamo tornati insieme.
Lui è magicamente diventato il fidanzato modello.
Presente, impeccabile, ideale. Pare abbia appreso i rudimenti
dell’educazione amorosa, o visto un tutorial su YouTube, non saprei.
Insomma, all’improvviso è diventato come avrei sempre voluto che fosse.
Non è strano, ragazze? Questo fatto di amare qualcuno per come
vorremmo che fosse, invece che per come è? Di amarlo, nonostante il modo
in cui ci tratta? Di amarlo, nella speranza di cambiarlo?
Comunque sia, lui è diventato come volevo, problema risolto.
Sto bene, cioè sto meglio. Se siamo insieme sono felice, al settimo cielo.
A volte mi perdo a guardarlo, mi sento in paradiso. Al suo fianco, so che
sono al posto giusto nel mondo. Averlo vicino mi rasserena, mi solleva
dall’astinenza di noi. E poi si comporta in questo modo così premuroso,
sembra così innocuo.
Che ragione avrei per respingerlo? Posso farcela, posso gestirla. Possiamo
darci la nostra seconda chance. Tutti sbagliano. Dopo le crisi si cresce, si
rinasce, magari anche più forti di prima, no? Non si dice questo, di solito, in
certi casi? E perché non può valere anche per noi? Perché non posso godermi
in santa pace la mia vita? Perché devo sempre preoccuparmi di fare la cosa
giusta, o la scelta più razionale? Sono giovane, cosa vi aspettate che scelga,
tra i rimorsi e i rimpianti? Perché devo accontentarmi come fanno tutti,
quando posso vivere un amore straordinario? Corna a parte…
Il fatto è che lo amo, non ho dubbi, anche se ho perso tantissimo la stima
nei suoi riguardi. E credo che anche lui mi ami. In maniera malata, ma mi
ama. Io ci sto dentro, ne so più di voi. So cosa si prova, qui in trincea. So
come sto. Voglio dire: faccio mediamente trenta Instagram Stories al giorno,
mi capita spesso di vedermi in faccia, so tutto. So a cosa vado incontro, non
sono stupida. So anche che forse questa non è la scelta giusta, ma io con lui
mi sento viva.
Lo amo, lo voglio e il resto è solo un dettaglio che, per il momento,
preferisco omettere.
In questo periodo siamo uniti come non mai. Mi sento sua, più di prima.
Non sua vittima, ma sua compagna, sua alleata, la sua migliore amica. Mi ha
avvelenata?
Pazienza. Io sono dalla nostra parte. In fondo amare vuol dire anche
superare i problemi e andare avanti.
Oltre…
Il sentimento che proviamo è potentissimo. Non c’è vergogna e io non ho
paura di vivere seguendo il mio cuore fino in fondo. Ma sapete che c’è? Non
pretendo sappiate. Non pretendo capiate.
Vi chiedo solo di non giudicarmi. Anzi, giudicatemi pure, se non avete di
meglio da fare.
Tanto non me ne frega un cazzo.
Capitolo 14:
BUONGIORNO
GIULIA!
I secondi tentativi sono all’ordine del giorno in qualunque caso di corna che
si rispetti, e il mio non poteva fare eccezione.
Solo che, a parte il disagio di stare insieme a uno col patentino da stronzo,
a complicare la vita ci sono i giudizi degli altri. Di tutti gli altri. I genitori. Le
sorelle. Gli amici, le amiche. Non che mi tocchino più di tanto, ma ci sono.
Tutti sanno che stai sbagliando, che quello che stai facendo non ha senso, che
ti farai male, ancora di più. Tutti interpellano il tuo orgoglio, sperando che
facendo leva su quello tu possa rinsavire e mandarlo finalmente a cagare.
Io, però, ho fatto ciò che si fa sempre in questi casi: con il pretesto di non
crearmi rimpianti, ho legittimato la cazzata di tornarci insieme. Ho scelto di
concedere un’altra possibilità all’amore che provo.
Ho preferito pensare che quell’amore valga più del mio ego. Ho fatto
quello che mi sento di fare in questo momento… sbaglio? Pace all’anima,
devo arrivarci da sola.
Il fatto, più che altro, è che questo secondo tentativo non va mica tanto
bene. Anzi. Riesco a godere di una tranquillità apparente solo quando ce l’ho
a massimo due metri di distanza, per quei pochi secondi in cui riesco ancora a
farmi incantare dalle sue storie. Poi, appena non lo sento, appena non lo vedo,
appena non c’è, una colossale domanda mi sorge spontanea: MA CHE
CAZZO STO FACENDO?
Ho sempre pensato che il rispetto fosse il fondamento di qualsiasi
relazione, e che faccio? Torno con uno che ha fatto tutto tranne che
rispettarmi?
Ho sempre ritenuto che la fiducia fosse la prima cosa, la più importante di
tutte, e sto con uno che la mia l’ha disintegrata. Uno che mi ha resa una
maniaca del controllo, che ha moltiplicato all’ennesima potenza la mia folle
gelosia (che, già di suo, non era a basso dosaggio). Neppure quando
dormiamo insieme riesco a rilassarmi…
Ho sempre sognato di essere felice con il mio compagno, di creare una
famiglia piena di amore, di serenità. Di fare dei bambini che avrebbero avuto
un po’ di me e un po’ di lui, mischiati, insieme (mamma, sai che meraviglia
sarebbero stati i nostri figli!). E invece sono solo piena di ansie, di ossessioni,
di nevrosi. Sono irascibile, pesante, sono un conflitto vivente, quasi mi urto
da sola. Sono coperta di graffi e di lividi. Mi sento come se m’avessero
pestata di botte.
Dentro, però, dove non si vede, ma fa male uguale.
Ho sempre sperato che il mio uomo mi rendesse migliore, più forte,
persino più bella. E invece sono sempre più consumata da questo
compromesso che mi sforzo di accettare ma non riesco, non c’è niente da
fare…
Ho sempre pensato che sarei stata fiera dell’uomo che avrei avuto a fianco
e invece, non dico che mi vergogno a camminargli vicino, ma insomma, di
sicuro non mi sento più come prima. Essere tornati insieme mi sembra
incoerente verso me stessa e verso i miei valori. Quelli che ho accantonato
per provare a tornare con lui. Quelli di cui ho bisogno, la mia personale
Costituzione, nella quale c’è scritto che io del mio compagno mi devo fidare,
che in un rapporto ci vuole trasparenza, che l’amore deve dare e non togliere.
Soprattutto, che l’amore deve fare bene. Perché la prima cosa che l’amore
vuole è il bene dell’altro, altrimenti non è amore.
Due persone che si amano devono stare bene, entrambe, perché sono una
coppia.
Non una persona sola. Neppure una e mezza. Sono in due. E questo è
l’unico modo per riconoscere l’amore, e vale per tutti: deve farci stare bene.
Non so se è chiaro il concetto: DEVE FARCI STARE BENE. Possono
capitare i litigi o i periodi difficili, per carità, ma il valore finale deve essere
positivo, col +. I momenti belli devono pesare più di quelli brutti, sempre.
E lo so che a volte non vogliamo vedere né capire, e nessuno dovrebbe
giudicarci umanamente per questo. Il fatto, però, ragazze, è che dobbiamo
vedere e dobbiamo capire, altrimenti, da un certo punto in poi, diventiamo
sue complici, carnefici di noi stesse.
Quando ci concediamo certe debolezze romantiche che chiamiamo
“amore”, stiamo iniziando a prenderci in giro. Ci stiamo svilendo, ci stiamo
sminuendo. Ci stiamo trattando come ci tratta lui.
E lo so che c’è una parte di noi che pensa che non troveremo mai più un
amore altrettanto appagante, così ricco di tutto ciò che apparentemente ci
serve: chimica, intesa, complicità. Ma la verità è che la vita è troppo lunga
per pensare di sapere già cosa ci sarà nel nostro futuro. Ed è troppo breve per
essere sprecata ad amare chi non ci merita.
Come avrete capito, in questi giorni rifletto molto tra me e me. Lui ancora
non sa, ma presto scoprirà.
E riflettendo ho capito che non è così difficile, alla fine: quando fa
TROPPO male, ovunque quel male lo sentiate, che sia dentro oppure fuori,
non è amore.
Non è più amore.
Capitolo 15:
UOMINI
CHE “CI HANNO”
Una delle ragioni per cui subire un tradimento è così doloroso è che il
tradimento è un evento traumatico.
All’improvviso scopri che il confine tra il “Ti amo” e il “Vaffanculo” è
incredibilmente sottile, e tu l’hai oltrepassato.
Il tradimento è proprio uno tsunami: arriva, travolge ciò che incontra e
lascia devastazione. Non soltanto nella storia d’amore, ma proprio nella tua
testa, nella tua identità, a livello di autostima. E anche quando inizi a
ricostruire, pulisci le strade dai detriti, riattacchi l’elettricità, pianti i fiori
nuovi, convivi perennemente con il terrore che lo tsunami torni indietro ad
ammazzarti.
Lui non c’è. È andato via per lavoro. Non ci sarà per tre giorni.
È la prima volta, da quando siamo tornati insieme, che non sono partita
con lui. Che adesso è lontano, solo, libero.
«Come mai non vieni con me?», m’ha chiesto.
«Sono la tua fidanzata, non il tuo cane da guardia», ho risposto.
Sono chiusa in casa da non so più quante ore. «Esci, distraiti», mi ha
scritto Ilaria. No. Voglio stare qui, a concentrarmi per capire che cazzo sto
facendo.
Voglio passare il mio tempo a immaginare in ogni istante dove può
essere, chi può incontrare, cosa può fare.
Voglio mettermi sul capo la mia bella corona di corna, sentirne il peso e
guardarmi nello specchio, per vedere come sto. Un po’ come una punizione.
Sono una masochista, oltre che un’ipocondriaca, qualora non l’abbiate
capito…
Lui è naturalmente bravissimo. Si fa sentire. Mi aggiorna. Stamattina mi
ha pure mandato un mazzo di fiori. Dice che domani torna e andiamo a cena
fuori.
Naturalmente pensa che sia tutto normale, non ha idea di come io mi
senta, tanto è preso da sé. Del resto, non glielo dimostro, sembro determinata
e sicura di me, quasi arrogante, e figuratevi se immagina il mio stato d’animo
reale di sua spontanea iniziativa (è evidente che il giorno in cui Dio ha
assegnato l’empatia agli esseri umani, i maschi erano tutti impegnati a
guardare la finale della Champions).
Tutto normale. Tutto a posto. Solo che per me non è così normale essere
qui, in castigo, prigioniera di questo tormento. Per me non è normale
appartenergli così tanto, perché se appartengo così tanto a lui, non appartengo
più a me stessa, non sono libera. Sapete chi non è libero? Gli schiavi. E io
non voglio essere una serva nell’amore e nella vita. Non voglio essere di
qualcuno, ma con qualcuno, e tra quelle piccole preposizioni c’è un’enorme
differenza.
Mimì dice che lui non mi ama. Lui mi ha. E c’è un abisso, di mezzo, tra
gli uomini che ci amano e gli uomini che “ci hanno”. Anche se spesso li
confondiamo, li scambiamo, li sovrapponiamo.
Invece no. Dice che sono cose completamente diverse.
Gli uomini che ci amano non esercitano possesso su di noi. Non ci
limitano. Non ci controllano.
Non ci manipolano. Non ci mentono. Non ci usano.
Non ci prendono per il culo e con il nostro cuore non ci fanno lo
spezzatino di patate.
Gli uomini che “ci hanno”, invece, sono interessati solo ad averci e, in
linea di massima, quanto più ci hanno, tanto meno ci amano. Cercano solo
conferme del potere che riescono a esprimere su di noi. Molti, quando quel
potere lo perdono, impazziscono, si agitano, ci cercano, insistono. E noi
pensiamo che, tutto sommato, dài, ci tengono a noi. Povere illuse…
Ecco che li lasciamo fare, facciamo finta di non vedere, sopportiamo,
cambiamo, ci annulliamo, sbattiamo la dignità sotto le scarpe e ci infiliamo
l’orgoglio laddove non andrebbe infilato mai. Come se non bastasse,
cerchiamo tutte le attenuanti del caso: è un periodo difficile, è molto
stressato, è traumatizzato, poverino, è successo solo una volta, è stato solo un
momento di debolezza, è pentito, mi ha giurato che non lo farà più, ha capito.
E poi ci sono gli elefanti rosa che volano nei cieli di zucchero filato, nel
mondo della frutta candita.
Io non voglio un uomo che mi abbia, voglio un uomo che mi ami.
Mi sembra un principio corretto, no? Sì, lo so, sembra un trip, ma fidatevi
che, una volta entrate nel mood, siamo una spanna avanti!
Voglio un uomo che per me farebbe le stesse cose che io farei per lui.
Voglio un uomo che quando è al mio fianco si senta al posto giusto nel
mondo.
Voglio un uomo che abbia dei valori, con il quale io possa pensare di
costruire un futuro.
Voglio un uomo sano, che mi faccia dono di sé.
Voglio un uomo che forse non esiste, ma che di sicuro, in questo
momento, non può essere lui.
E mentre sono qui, sola, nel silenzio di questa casa estranea, soffocata dai
miei mille ragionamenti, mi accorgo che merito meglio di ciò che sto vivendo
e che dovrei pretendere di più per me stessa (oltre che da me stessa).
Mia sorella Veronica dice che è una questione di autostima e che dovrei
alzare il mio valore. Eh sì, va
be’. Una missione un po’ più facile non c’è? Tipo, che so, trovare l’elisir di
eterna gioventù o sconfiggere per sempre la fame nel mondo, come qualsiasi
Miss Italia che si rispetti?
Alzare il mio valore. Soltanto allora, dice, troverò un uomo alla mia
altezza, che mi rispetti, che mi piaccia da morire e che mi ami sinceramente;
con cui, magari, crescere insieme.
Sarebbe bello… sarebbe…
Capitolo 16:
IO,
LUI
E LA REALTÀ
Gli ho detto che preferisco cenare a casa, stasera.
Organizzo io, però da lui. Ho sei ore, prima del suo arrivo. Posso studiare
tutto, nei minimi dettagli. Deve essere una serata indimenticabile.
Esco a piedi. È una giornata bella e calda, di piena estate. Passo dal bar di
Alessandra, dove facciamo due chiacchiere al bancone, mentre bevo un caffè.
Poi vado in gastronomia, dove compro i suoi piatti preferiti: adora la pasta
con le vongole, la prendo.
Aggiungo tante verdure e un pescetto bianco. Passo in enoteca e scelgo
una bottiglia di ottimo vino rosso (sì, lo so, stona con il pesce, ma io bevo
solo quello).
Poi vado in uno dei miei negozi preferiti, scelgo delle candele profumate.
Adoro le candele profumate.
Chiudo il giro con un bel pigiamino nuovo per me (lo shopping è sempre
un grande carburante delle rinascite emotive).
Naturalmente, ho accuratamente ponderato l’outfit della serata. Capelli
lisci, belli, luminosi. Un filo di mascara. Labbra lucide ma non appiccicose,
come piace a lui. Scollata il giusto, con pantaloncino comodo. Voglio essere
stupenda, ma non voglio dare l’impressione di essermi sbattuta troppo per
esserlo.
Non ce n’è bisogno.
Quando ho finito di prepararmi, vado da lui. Infilo la chiave nella toppa,
giro quattro mandate e penso che è tutto così grottesco, così incoerente. Entro
in quella casa e provo un senso di nausea istantanea.
Come un morso che mi prende allo stomaco, che mi tira dentro, non so
spiegarvi. Gli ultimi tre giorni sono stati faticosi ma necessari. Respiro.
Questa volta sarò lucida, penso, mentre apparecchio la tavola e preparo
l’aperitivo. Attendo il suo arrivo. L’attendo al varco.
Finalmente rincasa e io sono tutta calma, carina, affettuosa. Gli chiedo del
viaggio, com’è andata, chi ha incontrato. Ceniamo insieme, è tutto perfetto.
Chiacchieriamo un po’. Ho voglia di parlare di noi. Lui non capisce (e
quando mai) ma mi asseconda.
Ti ricordi cosa hai pensato la prima volta che mi hai vista? E il primo
bacio? E quanto ci volevamo?
E quanto ci mancavamo? E la prima litigata? Te la ricordi, la prima
litigata?
Ripercorriamo insieme la nostra storia, gli snodi cruciali, i dissapori, gli
entusiasmi. È stato bello, davvero tanto. Poi arriviamo alle sue infedeltà.
«Perché vuoi riaprire la ferita?», mi chiede, con la sensibilità tipica di chi
non vede più in là dei propri addominali.
Non è neanche normale, pensa davvero che la mia ferita sia chiusa? Non
capisce che ci abbiamo solo messo sopra un cerotto, che c’è un’infezione e
che non voglio rischiare la cancrena? No, non lo capisce.
Adesso che la mia rabbia è più sfumata, voglio raccontargli come mi sono
sentita in quei giorni, quando ero in casa nostra, sola, a scoprire cose che non
avrei mai voluto sapere.
Non urliamo. Non ci insultiamo. Parliamo col cuore in mano, come forse
non abbiamo mai fatto. Sono positivamente impressionata dalla mia sicurezza
e dalla mia diplomazia. In questo momento siamo come due facce della stessa
sofferenza. La mia voce non trema, però. Le mie mani sono ferme. Ho la
faccia fracica di lacrime, ma sono razionale.
Il problema, in questo mio amore, è che non sono fiera della persona che
sono. Non è questa la donna che voglio essere. Non mi piaccio. Mi guardo
allo specchio e non mi riconosco. E anche se lo amo più di ogni altra cosa,
anche se preferirei staccarmi un braccio piuttosto che separarmi da lui, è di
me stessa che devo occuparmi, perché sono io la prima responsabile di me
stessa. Perché questa è la vita vera, non una favola, e qui non c’è nessun
uomo che mi possa salvare. Il mio principe sono io.
Non posso pretendere di essere amata, se prima non imparo ad amarmi.
Per la stessa ragione per cui non si può chiedere a un cane di miagolare, o a
un gatto di abbaiare, o a me di leggere l’opera completa di Dostoevskij. Per
dire…
E per amarmi, per rispettarmi, ora devo allontanarmi da lui.
Mi guarda muto, attonito. Non dice una parola, mentre i suoi occhi si
coprono di una patina lucida di lacrime. Che strazio.
«Ho valori troppo importanti, che non posso fingere di non avere», gli
dico, con dolcezza. «La forza di perdonare le corna o ce l’hai o non ce l’hai, è
un po’ come l’altezza», concludo, accarezzando il suo viso.
Vorrei che dicesse o facesse qualcosa. Qualunque cosa. Che mi
dimostrasse, in qualche modo, che non è accettabile quello che dico. Che ho
torto. Che dobbiamo restare insieme, che supereremo anche questa. Invece
resta immobile. Sguardo vitreo.
Encefalogramma piatto.
Quando si riprende, riesce a dire soltanto: «Tu sei una donna
straordinaria».
Io lo guardo, faccio un respiro profondo e lo abbraccio forte.
Subito dopo, vado via.
«Non pensi sia il caso di dormire con me stanotte?».
Sorrido e chiudo la porta.
Mi sento infinitamente triste, libera, potente.
Scendo le scale pensando che, finalmente, può andare a incasinare la vita
delle altre. Nella mia, ha già dato!
Quando sono in strada, lo sento chiamarmi dalla finestra: «GIULI», mi
urla. Forse è il momento, la volta giusta. Forse ha una formula magica che
possa riparare a tutto quello che è successo. E invece no.
Non dice nulla, non aggiunge niente. Mi guarda, arreso. Mi sembra
giusto…
Mi volto. Vado via.
È finita.
Capitolo 17:
CHIODO
SCACCIA
CHIODO
Una delle principali reazioni, quando una storia
finisce, è cercare subito un rimpiazzo. Si tratta del famoso “chiodo scaccia
chiodo” che dovrebbe, in teoria, aiutarti a distrarti, ad allontanarti da pensieri
infelici e a riscoprire te stessa, con la giusta dose di frivolezza. In pratica,
significa che flirti e ti sollazzi con altri ragazzi per far capire al tuo corpo che
è finita, che non è più suo, che la tua pelle non è più in esclusiva, che quella
relazione non c’è più.
I più grandi promotori del “chiodo scaccia chiodo”, di solito, sono gli
amici, quelli che ti spronano a tornare a vivere, a divertirti, a installare tutte le
dating app dell’universo e a richiamare quel tipo così figo che ti muore dietro
da secoli ma tu, sai, eri fidanzata con Casanova de noartri, e l’hai
friendzonato.
Io non so esattamente cosa ci sia di divertente nell’uscire con altri. Tutti
mi suggeriscono che devo farlo e dunque ci provo. Magari riesco a non
pensare a lui, mi dico. E invece il dilemma è che ottengo sistematicamente
l’effetto opposto. Provo con il primo e non va. Provo con il secondo e non va.
Mi fanno tutti schifo. La loro pelle, il loro odore. Puntualmente noto qualcosa
che me li fa calare in un secondo (ragazze, evitate di andare al sushi perché,
di sicuro, gli finirà un’alga in mezzo ai denti al primo appuntamento… una
cosa inammissibile).
C’avessi di fronte David Beckham, gli vedrei i pori troppo dilatati (anche
lui ha un’età, ormai). Davanti a Johnny Depp, mi concentrerei su un granello
di forfora (sicuro, con il capello lungo ce l’ha). A Tom Cruise, immaginerei
la fiatella!
… Mia nonna dice che, se continuo di questo passo, non mi mariterò
mai… certo il fatto che siano tutti casi umani, di sicuro, non aiuta!
È in quei momenti che, in genere, viene a bussarmi il suo ricordo e quasi
mi sta sul cazzo che trovo difetti a tutti, tranne che a lui! Okay, va bene, lo so:
i paragoni non si fanno, ma in questi casi è inevitabile… non prendiamoci per
il culo!
Sento che non amerò mai più in questo modo. Lo so. Da un lato mi
sembra una cosa positiva, perché amare così ostinatamente mi è costato caro.
Dall’altro, però, mi pare che la vita abbia perso il suo smalto scintillante. Mi
sembra che la promessa di un amore totale, appagante, pieno, sia solo una
truffa. E io mi sento truffata, da me stessa e da lui.
Lui, d’altra parte, quando ha scoperto che ho iniziato a frequentare altri
ragazzi, è resuscitato. Non ci crederete ma ha avuto persino una reazione.
Avete sentito bene: una r-e-a-z-i-o-n-e! Più di una sera mi è capitato di
trovarlo sotto casa: voleva salire, voleva parlare, ma io ho avuto la forza di
lasciarlo lì sotto, tra lo zerbino e il portaombrelli. Ci stava da Dio!
Certo, è un grande classico. Perde il controllo e sbrocca. Vedete, tutto
quadra. Mimì dice che è una caratteristica tipica, questa, degli uomini
infedeli, quelli che ci hanno: si cagano sotto, quando capiscono che non
esercitano più potere su di noi.
Che poi, vorrei tanto sapere: cosa cazzo vuole, esattamente? Come si
permette di fare pure il geloso, lui, con me? Cosa pensa che io gli debba
dimostrare, dopo che non è riuscito a tenere l’arnese nei suoi pregiatissimi
boxer, a tempo debito? Cosa vuole da me, adesso? Dovrebbe forse
lusingarmi, vederlo tanto provato? Dovrebbe intenerirmi? Dovrebbe
sconvolgermi?
Non sono io che ho rotto questo amore. Avrò avuto le mie colpe e le mie
responsabilità, come sempre succede, per carità. È così che si dice, vero? Che
quando due si mollano la colpa non è mai di uno soltanto. Presumo valga
anche per noi. E forse io un giorno capirò cosa ho fatto di male, in questa
storia.
Qual è l’errore che mi è valso tutto questo dolore. Ma adesso vado avanti
per la mia strada, che è la mia, non la sua e neppure la nostra.
Io procedo. Ho potere sulle mie gambe, sulle mie mani, sulla mia pancia,
sulla mia testa, sul mio culo. Il potere su di me, adesso, ce l’ho io.
E se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia è che deve restare
mio, sempre.
Adesso è finita e, se provasse davvero una piccola briciola dell’amore che
dice di provare, farebbe una semplice cosa: sparire e lasciarmi in pace.
Capitolo 18:
OPS!
Come dicono i saggi: meglio single che cornuta. Sono ufficialmente libera.
Non sono guarita, ma sto molto meglio. Sono super concentrata sul lavoro, i
progetti della nuova stagione mi esaltano, le prospettive sono incoraggianti.
Penso di essere molto fortunata, nella disgrazia, a fare un lavoro che mi piace
e che mi dà tante soddisfazioni.
Mi capita spesso di chiedermi come stia, o cosa faccia.
Chissà se gli manco almeno un po’, mi domando, a volte. Ma finisce lì,
niente di più. Mi sembra pure comprensibile, in fondo ci ho condiviso un bel
pezzo di vita, con quello stronzo.
Spesso si pensa che il tradimento ammazzi l’amore all’istante, di una
morte rapida e indolore, un bel colpo al cuore ed è fatta, come la striscia delle
ceretta brasiliana. Invece no, non è così. Il tradimento tramortisce l’amore e
poi lo avvelena, lo inquina, lo lascia crepare crudelmente, giorno dopo
giorno; lo condanna alla pena capitale, ma non te lo elimina dal cervello.
Magari fosse sufficiente scoprirsi cornuti per cancellare tutto. Per azzerare
qualsiasi traccia di un sentimento che era ossatura della tua identità. Ho
scoperto che non è così. Non è questo ciò che succede.
Ho deciso anche che giudicherò meno le persone, perché ho imparato che
certi dispiaceri si capiscono solo quando si vivono sulla propria pelle. Il
tradimento non è il peggiore in assoluto, lo so, succedono drammi più grandi
nella vita, ma subire un’infedeltà fa davvero molto male, e ci vuole tempo per
guarire.
Ho ancora tanti segni addosso.
Nel frattempo, ho capito che il nostro amore era quel genere di treno che
passa una sola volta nella vita. Il problema è che m’è passato sopra. M’ha
schiacciata.
Sono molto attenta a evitarlo. È da circa un mese che non lo vedo e non lo
sento. Non vado nei locali dove sono praticamente certa di trovarlo. Ho i miei
strumenti per stalkerare e capire se ho il via libera, oppure no. Provo a
ricostruire le mie abitudini, i piccoli rituali della mia quotidianità, lontano da
lui.
Mi comporto come una fine stratega, da un lato, e come una preda,
dall’altro.
La verità è che ho paura di rivederlo. Ho paura che i suoi occhi facciano
esplodere ordigni non ancora disinnescati. Dunque lo evito, e non mi importa
se le ragazze mi dicono che non ha senso, che è lui che dovrebbe nascondersi
e vergognarsi, non io. Non mi importa. Voglio soltanto proteggermi.
Sono arrivata al punto di invidiare quelli che hanno le storie a 10.000
chilometri di distanza. Certo, il fuso orario può essere un problema, limonare
su FaceTime non è come farlo dal vivo, e se nel letto hai freddo puoi al
massimo abbracciare la borsa dell’acqua calda. Ma almeno quelli, quando si
mollano, non rischiano un coccolone ogni volta che camminano in centro!
Tuttavia proteggersi non basta, mi dicono. Bisogna essere forti. Bisogna
affrontare le proprie paure, insistono. Alla fine, mi convincono a uscire per
andare a ballare.
«Tappati giù da gara», dice Paolino.
«Scegli il vestito più incredibile che hai, un bel tacco dodici, non accetto
giustificazioni», mi esorta il Fani.
Quando sono pronta, prima di uscire, mi guardo nello specchio e mi vedo
quasi figa, finalmente, per la prima volta dopo un sacco di tempo.
Sai che c’è? Stasera me la godo, penso, chiudendomi la porta alle spalle.
Arriviamo al locale e tutto procede per il meglio. Paolo offre il primo giro
di cocktail. Ballo. Rido. Parlo con chiunque. Io e Ale sembriamo le veline.
Tra l’altro anche lei è single… che ve lo dico a fare…
Sono in forma smagliante, a quanto pare. Non penso a niente. Sono
leggera. Sono svuotata. Sono alla fine del mio secondo bicchiere (che, per
me, vale come 5 dei vostri, considerata la mia resistenza all’alcol).
Chiamano il giro sigaretta. «Tutti fuori, ragazzi!».
Ci facciamo strada tra la gente, nel buio. Pienone.
Caos. Vorrei evitare di sentire mani estranee su tette e culo, quindi faccio
barriera come posso. Allungo il braccio per farmi spazio, tocco un fianco. Mi
è familiare.
Sento un odore. Mi volto e me lo trovo davanti.
Ebbene sì, è proprio lui.
«Ehi, Giuli».
Resto pietrificata, per un attimo, ma mi fa comodo, sembro più figa.
«Come stai? Che bella che sei… come vanno le cose?».
Le maledizioni mentali che mando alle mie amiche (per avermi portata lì,
invece di lasciarmi nel mio rifugio anti-ex) raggiungono una velocità
supersonica.
Dopodiché, indosso il mio miglior sorriso, che è la mia armatura, e lo
affronto.
«Bene, bene. E tu?».
«Bene, dài…».
Mi faccio spazio e mi allontano. In maniera elegante, non da sfigata.
Esco fuori. Prendo aria. Mi scende una lacrima, ma per fortuna ho un
mascara waterproof… tutto sotto controllo! Mi rendo conto di essere una
ragazza forte.
E allora sai che c’è? Proprio per questo, non scappo.
Rientro, lo cerco, lo trovo.
«Scusa se me ne sono andata via così, troppo chiasso, ti trovo in forma!».
Lui mi guarda, sorride, annuisce. Poi si fa serio, all’improvviso, sembra
quasi preoccupato: «Mi manchi da morire», dice. Mi spiega che non è vero,
che è tutta apparenza, che ciò che pubblica sui social non significa niente.
D’accordo. Gli credo! Pure lui mi manca, un casino. Ma adesso è tutto
sbagliato.
Lo abbraccio. Gli sorrido. Gli auguro un buon proseguimento di serata e
me ne vado.
Cazzo, ho il suo profumo addosso.
Sono ancora carica, però. Voglio godermi la serata!
Vedo il cubo.
Corro spedita.
«Ragazzi, tutti su!», dico ai miei amici.
Mi manda messaggi per tutto il resto della serata.
Mi chiede come tornerò a casa. Che carino, si preoccupa pure.
Ovviamente non rispondo.
A casa ci tornerò con le mie amiche. O, al massimo, con qualcun altro.
Mi sento forte, fiera di me.
Capitolo 19:
AMICI MAI
Quando per una lunga serie di circostanze ti ritrovi invischiata in un amore di
quelli che danno dipendenza, fai molta fatica a liberartene. Non importa
quanto bene o quanto male ti faccia l’altro, per te è importante averlo, farti
sempre una nuova dose di quella passione irrinunciabile. Sei anche convinta,
più o meno inconsciamente, che non sapresti vivere senza quella sostanza
emotiva che ti scorre nelle vene e nei tessuti. E la cosa sorprendente, poi,
quando invece ti ritrovi a dire «no, grazie», è che stai meglio. Subito.
Immediatamente. Esattamente come quando ti liberi da un vizio che ti piace
tanto, e che tanto ti nuoce.
La vita da single non è per niente male. Mi diverto con i miei amici e
passo molto più tempo con la mia famiglia, soprattutto con Matilde. Ogni
tanto concedo le mie attenzioni a qualche uomo, ma senza nessuna forma di
impegno. Ho ricominciato persino a dormire bene, nel lettone, da sola. È
anche meraviglioso avere un bagno tutto per me! Pensate un po’: se lascio
una crema in un posto, il giorno dopo la ritrovo lì! È f-a-v- o-l-o-s-o non
avere un uomo fissato con lo skin-care tra le palle.
Altra novità: ho ripreso tre chili. Mi sto concedendo delle libertà che
m’ero completamente negata, tipo i carboidrati e la pigrizia. Oh, se sapesse
che mangio una porzione intera di pasta, invece del petto di pollo ai ferri con
le verdure al vapore! Oh, se sapesse che faccio colazione, invece che con
l’avocado sul pane di segale, con la brioche con la marmellata all’albicocca!
Oh, se solo scoprisse che non m’alleno da tre settimane! Mi biasimerebbe
come se fossi un relitto umano, uno scarto della civiltà, una fallita!
Invece io sto da Dio! Tiè!
Sono passati circa due mesi dall’incontro in discoteca.
Da allora, non ci siamo mai più visti, sentiti o incontrati. Fino alla scorsa
notte quando, alle 3 del mattino, ha iniziato a chiamarmi. La prima, la
seconda, la terza volta. Alla fine ho pensato fosse successo qualcosa
(purtroppo ho una coscienza), e gli ho risposto (anche se, ufficialmente, per
me adesso può anche crepare).
«Giuli, sto male, vieni qui».
Avvicinati alla finestra.
«Ti prego, vieni a casa mia».
Aprila.
«Sono solo, ho bisogno di te».
Salta.
«Siamo stati insieme tanto, conosci i miei momenti, ho l’ansia».
L’ho ascoltato, impassibile. Ovviamente, non l’ho incitato al suicidio, ma
avrei potuto! Per l’ennesima volta, mi ha chiamata per un suo bisogno, una
sua esigenza, senza alcun riguardo per la mia vita, per il mio equilibrio,
neppure per il mio bioritmo, in questo caso. Ho fatto appello a una forza e a
una freddezza che normalmente non mi appartengono e, ladies and
gentlemen, sono riuscita a dirgli di no!
«Wow, il tuo egoismo ancora mi sorprende! Sai, anche io negli ultimi
mesi ho pensato di morire almeno trenta volte al giorno, ogni giorno, e tu non
c’eri. Anzi, tu eri la causa di quel malessere. Adesso impara a cavartela da
solo, io non ci sono più».
Dopo la telefonata non ho più chiuso occhio. Ora sono le 12 e sono uno
zombie. In casa mia ci sono Ilaria, che è venuta a trovarmi da Roma, e Mirko.
Il mio livello di felicità è medio, in una scala che va da Venditti a Battisti.
Stiamo valutando cosa fare per pranzo.
Alle 12.30 il telefono suona di nuovo. Sempre lui.
Gesù, ma è ossessionato. L’avessi capito prima, che bastava trattarlo un
po’ di merda per renderlo docile e servile! Prima lezione del corso di
addestramento degli stronzi: trattali male e falli soffrire. Fine del corso.
«Scusa per stanotte», esordisce.
Ottimo pretesto per richiamarmi, direi.
«Ti va di pranzare insieme?».
«Non mi sembra il caso».
«Dài, non puoi non concedermelo».
«Ti dico la verità: non ne ho voglia».
«Va be’, almeno un caffè al bar».
«Sì, ci manca solo questo…».
«Se non vuoi farti vedere in giro, facciamo da me, faccio il bravo,
prometto».
Dopo mesi di silenzio, una parte di me ha voglia di vederlo, di sapere
come sta. Non è che sia innamorata, semplicemente mi manca la persona che
faceva parte della mia vita, punto. E penso sia normale… si sa che l’abitudine
e la nostalgia a volte fottono.
«Ascolta, sono incasinata, non lo so se riesco, ti faccio sapere più tardi, in
caso», e riattacco.
In quel momento, inevitabilmente, parte il consueto processo alle
intenzioni nel mio cervello: andare o non andare? È solo un caffè, Vostro
Onore, in pieno giorno! Obiezione! Il caffè è a casa sua, il territorio meno
neutro del mondo.
Mi sento come Cappuccetto Rosso che si aggira nei pressi della tana del
lupo, mentre procedo allo sbaraglio su un terreno farraginoso, al quale
puntualmente si arriva dopo la fine di una relazione: possiamo essere quel
genere di ex mitologici che restano in buoni rapporti, diventano amici e si
confidano le cose, seppellendo l’ascia di guerra?
Mirko, saggio e prudente, suggerisce che potrebbe essere un po’
prematuro, a oggi, vederlo in amicizia.
«Tanto lo sappiamo che vuoi andare, inutile farsi mille para», interviene
Ilaria che proprio non lo può vedere, sarebbe capace di tirarlo sotto con la
macchina, se lo trovasse sul suo cammino. Ecco un fatto ovvio: per quanto
possiamo odiare i nostri ex, le nostre amiche li odiano di più. Il loro è un
sentimento deteriore e cristallino. Puro e assoluto.
(Grazie al cazzo, mica li amavano, loro).
D’altra parte, Ilaria mi conosce bene, forse più di tutti.
Sa quanto lui mi abbia ferita ma sa anche quanto mi abbia resa felice.
Invece di provare inutilmente a dissuadermi, preferisce prepararmi
emotivamente all’incontro. «Con che mood ci vai?», chiede.
Non c’è niente da fare: Ilaria è la mia persona, quel genere di amica che
capisce sempre quando è il momento di frenarmi e quando è il momento di
lasciarmi fare. Soprattutto, riesce a rispettare una scelta anche se non la
condivide. Non è da tutti…
Comunque sia, non so se sia possibile comportarsi da buoni amici dopo
aver spartito il sonno e la veglia.
Non so se si possa far finta di nulla, liberarsi davvero dai rancori del
passato, volersi bene in maniera sincera e disinteressata. Certo è che c’è un
vuoto doppio, sempre, nella fine di un amore. C’è l’amore che si spezza,
ovvio, ma c’è pure il rapporto umano. Ci sono gli amici in comune, i ricordi
belli, le abitudini, le esperienze condivise, i posti del cuore, le risate, tutta la
confidenza e l’intimità di chi ha vissuto insieme la quotidianità. E non lo so
se si possa chiamare amicizia, ma è triste pensare che di tutto quell’amore
non possa restare traccia, in alcun modo. Che di tutta quella vita condivisa
per anni non resti neppure un messaggio d’auguri il giorno del compleanno.
La verità è che gli addii mi spaventano da sempre, li odio. A volte, pur di
non perdere una persona, cerco di darle un ruolo nella mia vita,
indipendentemente da quale sia.
Per questo, senza aver ancora ufficialmente deciso di andare da lui, inizio
le operazioni di preparazione.
Lavo i capelli, li asciugo, li liscio con la piastra. Uso il burrocacao che
illumina ma non appiccica, come piace a lui. Un filo di mascara. Jeansettino
stretto, a vita alta. Un body nero, un po’ scollato ma semplice (che culo, è
anche stirato). Metto il chiodo, le scarpe fighe e lo chiamo.
«Dove sei?».
«A casa, passi?».
«Ho sessanta minuti», rispondo, «non un secondo di più».
«Va bene, ti aspetto!».
Raggiungo il suo portone. Citofono. Apre. L’idea di rivederlo mi
emoziona e mi disturba. Salgo le scale, mentre il cuore mi batte più forte del
normale. Inizio a sospettare che non saprò mai guardarlo negli occhi, senza
leggerci dentro tutta la nostra storia. Nuoto in un oceano di emozioni
contrastanti. Colo a picco nell’anima de li mortacci sua.
Capitolo 20:
SESSANTA MINUTI
Mi sorride, appena mi vede. Mi abbraccia, quando entro nel salotto. I raggi
del sole pomeridiano inondano la stanza. Riconosco l’odore di queste pareti.
Nonostante tutto, mi sento a casa.
Dopo qualche secondo, mi chiede se può dedicarmi una canzone. Così,
perché ogni volta che l’ascolta, pensa a me, dice.
Certo, ci mancherebbe! Non l’ha mai fatto in due anni… ma va be’!
Seleziona la traccia e poi canta Torna a casa dei Måneskin. Lo osservo.
Lo ascolto. Non capisco.
Stupenda la canzone, eh, ma che significa? Dice tutto ma non dice un
cazzo.
«Giuli, devo dirti delle cose», spiega. Il cuore mi salta in alto, fino al
cervello, poi rimbalza e torna giù, in picchiata, verso lo stomaco.
«Dimmi pure», rispondo, con esemplare disinvoltura, ma esemplare che
aiutatemi a dire e-s-e-m-p-l-a-r-e!
Mi spiega che non aveva ancora capito tutto il casino fatto, né tutto il
male procurato.
Ora sono passati un po’ di mesi, da quando la nostra vita è cambiata, da
quando casa sua si è svuotata, perché io non ci sono più. Ne ha fatta di strada,
anche professionalmente, è contento, ma c’è una cosa che proprio non riesce
a perdonarsi: aver fallito con me.
È QUASI arrabbiato con se stesso. QUASI si odia.
Vorrei interromperlo per spiegargli che può odiarsi totalmente e che, anzi,
dovrebbe essere brutalmente incazzato con se stesso. Ma rinuncio. Lo lascio
parlare.
È importante ascoltare gli uomini quando provano ad articolare un
pensiero sulle loro emozioni e sulle loro pulsioni. Non sono abituati come noi
a farlo. Magari dicono qualcosa di interessante o di sensato, che può aiutarci
a scoprire l’acqua calda.
Tende a sottolineare due punti fondamentali. Il primo è che non devo mai
mettere in dubbio l’amore che prova per me. Anche se a modo suo, mi ha
amata da morire, come mai nessuna prima, come mai nessuna poi. E anche
quando tutti, per mettermi contro di lui, diranno il contrario, io non devo
crederci mai.
Il secondo è che sono la donna più incredibile che abbia conosciuto (ah,
pensa), che mi ama ancora da morire (ma muoia, allora), che sono la persona
più straordinaria che abbia mai incontrato (sapesse quanto) e che il
sentimento che prova per me è folle, che andrà sempre oltre qualunque cosa
(purtroppo è già andato oltre… le mutande altrui).
«Perdonami, Giuli, un giorno, se puoi…», conclude.
È a questo punto che, sfinita da tutta questa intensità (non ne avete idea,
non sto qui ad ammorbarvi ancora, ma fidatevi…), combattuta tra la realtà
che conosco e la favola che mi racconta, piango. Piango come una bambina
di 5 anni che s’è sbucciata le ginocchia, o l’anima.
Piange anche lui. Ci asciughiamo le lacrime, ci prendiamo le mani. Mi
abbraccia.
È davvero finita.
Mentre sono lì che vacillo, in quella frazione di secondo in cui i miei più
saldi propositi tentennano, arriva il gran finale, i fuochi d’artificio, i botti che
mi danno la forza di capire che adesso basta. Mi fissa negli occhi, con lo
sguardo fermo.
«Ti amo e sarà sempre così».
All’improvviso tutto mi appare più chiaro e più amaro che mai. Gli
sorrido. Gli dico che l’ho perdonato, che gli credo: so che a modo suo, nella
sua maniera bizzarra, piena di difetti, di paranoie e di lacune, mi ha amata.
Gli dico che quello che abbiamo vissuto non si cancella, che farà parte di me
e che io non lo odierò mai, davvero. Ma le cose, purtroppo, hanno avuto un
esito diverso da quello che immaginavamo, e dobbiamo imparare ad
accettarlo, entrambi. Perché maturare significa anche questo: accettare che
anche nelle storie più belle, a un certo punto, la parola “fine” esiste.
«Ora devo andare», dico.
«Ma va’».
«Te l’avevo detto».
«Ma davvero resti solo un’ora?».
«Sì».
«Perché?».
«Ho da fare».
«Cosa?».
«Fatti i cazzi tuoi», rispondo, sorridendo.
«Sei assurda…», mi dice.
Resto paralizzata, qualche secondo, in silenzio.
Contemplo questo esemplare di stronzo che mi ha fatta crescere e soffrire,
piangere e sognare. Siamo all’epilogo della storia, ragazze. Per noi Miss Italia
finisce qui.
Mi sorride. È sempre bello. Sospiro. Lo saluto.
Mentre scendo le scale, mi chiama, dalla soglia della porta.
«Giuli, per qualsiasi cosa sono qua», mi dice.
«Anche io, tu sai», rispondo.
E vado via.
A SPASSO
CON ME
Ho bisogno di camminare. Da sola. Mi allontano da casa sua e, passo
dopo passo, mi accorgo che il mondo continua a girare su se stesso. Le
persone continuano a popolare il pomeriggio cittadino. I tavoli dei bar si
riempiono di avventori abituali e di turisti sudati.
I cani di razza, portati al guinzaglio da padroni ben vestiti, si annusano il
didietro. Mi fa sempre ridere quando lo fanno. Penso sempre che almeno,
loro, sono più diretti e più espliciti di molti esseri umani.
Mi osservo di profilo nelle vetrine dei negozi, mentre passo, e penso che
nella vita ci siano una serie di esperienze di merda che ti aiutano a crescere
(alla fine della fiera, se non fossi stata cornuta, non avrei scritto questo libro,
per esempio).
Per carità, non ve lo raccomando mica di subire un tradimento. Però sarei
falsa se nascondessi che, in una maniera inutilmente crudele, sono cresciuta,
dopo tutta questa storia.
Ho capito anche che le cose succedono sempre per una ragione. Devo
ancora scoprire quale, ma di sicuro ce n’è una…
Cammino ripensando alle sue parole. Ti ho amata da morire, ma a modo
mio. Questo ha detto. Ha sempre detto così: «Ti amo a modo mio».
Non sono la prima, certo, e neppure l’ultima che si sia sentita dire una
frase del genere. Solo che, per la prima volta, ci rifletto su.
Okay, mi ha amata a modo suo, ma che amore è un amore che non
prevede l’altra persona? Un essere umano diverso da noi, con cui incontrarsi
a metà strada e crescere insieme?
A cosa serve che mi ami, se sei disposto a farlo solo nel tuo modo, che
non è il mio e neppure un compromesso?
Posso fidarmi di chi mi ama a modo suo? Posso accontentarmi di chi non
fa neppure lo sforzo di capire cos’è l’amore secondo me? Di chi mi ama ma
non mi mette al primo posto? Di chi mi ama ma mi ferisce?
Arrivata a questo punto, penso di volere un amore che sia incontro,
fiducia, desiderio ardente, supporto e, qualche volta, diciamo la verità, pure
sopportazione.
Voglio un amore costruito e difeso ogni giorno, da entrambi. Voglio un
amore tra pari. Voglio un amore alla mia altezza. E non so se arriverà, non so
quando, e non so quanti altri errori farò nella mia vita (immagino molti). Ma
c’è una cosa che ho imparato, la più grande verità scoperta in questa
disavventura: non amate con tutta l’anima chi vi ama solo a modo suo.
Anzi, diffidate. Se potete, state alla larga. Rispedite gentilmente al
mittente.
Quelli che “Ti amo a modo mio”, in genere, tendono ad amare davvero
solo se stessi.
Parlo per esperienza.
Capitolo 22:
PERDONARSI
Mi incammino per raggiungere Ilaria e Mirko per un aperitivo. Sopra la mia
testa, il cielo si scioglie in tutte le sfumature del tramonto: l’azzurro,
l’arancione, il rosa, il violetto. So che, quando arriverò, i miei amici mi
guarderanno con la solita aria interrogativa e apprensiva, come se fossi
Britney Spears nel 2007.
Invece sono serena. Provo una pace inspiegabile. Mi sembra di profumare
di nuovo, come se la mia anima fosse più pulita, finalmente liberata.
Mentre procedo, seguendo le istruzioni del navigatore (ma dove cazzo è
’sto posto?), mi accorgo che, in fondo, per saper amare, bisogna saper
perdonare.
E penso che, forse, perdonarsi significa salvare il salvabile, recuperare
l’alito di amore sopravvissuto al disastro, quel pezzetto di umanità che ci
consente di non odiare completamente l’altro.
Forse perdonarsi significa trovare l’intelligenza per sollevarsi dalla rabbia
(che fa venire una quantità indecente di rughe, aivoja a idratare poi).
Forse perdonarsi significa non diventare dei mostri, né dentro né fuori, e
capire che le storie d’amore sono imperfette, tutte, e non sempre vanno come
vorremmo. Certe volte durano, e certe volte finiscono.
E certe volte, quando sono finite, bisogna lasciarle in pace.
Forse perdonarsi significa trattare se stessi con attenzione, rispetto,
onestà, cura. Darsi il buon esempio, perché se non siamo noi le prime a farlo,
non possiamo pretendere che lo facciano gli altri, ragazze. È come predicare
bene e razzolare male, è come il bue che dice cornuto all’asino (e il proverbio
non è certo casuale).
Soprattutto, perdonarsi significa anche perdonare se stessi. Per essersi
sentiti tanto stupidi, superficiali, ingenui, fragili, impotenti. Così lenti a
rimettersi in piedi, come se poi, in fondo, la cosa più importante non fosse
proprio quella: rialzarsi, presto o tardi, e procedere verso il futuro.
Forse perdonarsi è questa cosa qui, che non è tornare insieme, riprovarci,
fare come se nulla fosse accaduto.
Quello, a oggi, non riuscirei a farlo, ci ho provato, non va bene per me.
Non saprei dirimere quella matassa intricatissima di fiducia infranta, di
dignità calpestata e di intimità violata. Ma posso fare pace con la mia storia,
riporla in quel bagaglio invisibile che tutti portiamo sulle spalle, e andare
avanti.
Giro l’angolo e il vento fresco della sera mi arriva sulla pelle.
Porta sollievo. Ossigeno. Aria nuova.
Sento l’aroma del tempo che verrà.
Il domani offrirà doni che non posso prevedere, persino io che pretendo di
avere sempre tutto sotto controllo…
Ci saranno sorprese. Ci saranno colpi di scena. Ne sono fiduciosa.
Ho deciso che mi lascerò stupire dalla vita.
Voglio farlo davvero (me lo sono addirittura tatuato sul polso, come
promemoria).
Let it be, Giulietta.
Mi fido di me.
Capitolo 23:
SCEGLIERE
L’AMORE
Quando una storia finisce, sembra del tutto impossibile che si possa tornare
ad amare qualcuno. O che si possa, più in generale, credere ancora nei
sentimenti.
O meglio, nel genere umano.
Per nostra fortuna, però, l’amore è più forte di tutto!
Per la mia esperienza, posso dirvi che è fondamentale avere ancora
fiducia in questo sentimento, io non ho mai smesso, nonostante tutto. Non ho
mai smesso di cercare l’amore e l’ho trovato ovunque: nella forza di mia
madre, nella sensibilità di mio fratello, in un abbraccio di mio padre, nel
sorriso di mia zia, nelle coccole di mia nonna. L’ho trovato nelle serate a caso
con gli amici di sempre, e nei pomeriggi con Matilde.
L’ho trovato in un paio di occhi nuovi, nelle parole profonde di uno
sconosciuto che poi è diventato una parte importante, preziosa, ormai
indimenticabile di me.
Il fatto è che io l’amore lo respiro dappertutto, perché ce n’è un sacco
intorno a noi, di tanti tipi. Certe volte lo diamo per scontato, lo
dimentichiamo un po’. E invece l’amore è lì presente, sincero, leale. È nelle
parole che ci consolano, che ci spronano e che ci difendono.
L’amore è nel lavoro che facciamo, nei piccoli sfizi che ci togliamo e
nelle soddisfazioni che sappiamo prenderci.
L’amore è non diventare ciechi e cinici, non smettere di crederci, non
perdere mai la voglia di mettersi in gioco.
L’amore è ascoltarsi di più, giudicarsi di meno, non vergognarsi delle
ferite, non avere paura di ricadere e di alzarsi ancora. L’amore è il coraggio di
condividere e la libertà di godersi davvero.
Per la mia esperienza, posso dirvi che ho imparato a dare un peso diverso
alle cose, a me stessa, al mio tempo… saranno le corna? Sarà l’età che
avanza? Sarà che sto diventando all’improvviso saggia? Boh, chi lo sa?!
So soltanto che io scelgo l’amore, perché è l’esperienza più straordinaria
che si possa vivere (sul serio, è l’unica droga che fa bene!).
Scelgo l’amore perché mi fa sentire speciale. Scelgo l’amore perché mi fa
sentire normale.
Scelgo l’amore perché di amori ne esistono mille, mica uno soltanto.
Scelgo l’amore perché l’amore è una continua sorpresa…
… E a me le sorprese piacciono una cifra!
CONCLUSIONI
È stato faticoso scrivere questo libro, soprattutto emotivamente. All’inizio
non ero convinta, non volevo farlo. Avevo paura che fosse troppo doloroso
riaprire certi ricordi e rovistare nei cassetti più scomodi della memoria. E
avevo ragione: non è esattamente uno spasso mettersi lì a vivisezionare i
traumi sentimentali passati, perché di passato si tratta, anche se questa storia
ve l’ho raccontata al presente.
Forse è proprio per questo che sono riuscita a farlo: perché è passato del
tempo, e il tempo è un buon amico, è la medicina migliore, l’unica che possa
curare certe ferite.
Ero incerta, insomma, e poi sapete che non ho mai letto un libro… non
sarebbe stato ironico che il primo fosse proprio il mio? Quanto mi avrebbe
fatto strano leggermi?
Una parte di me, però, sapeva che ne avevo bisogno, per la stessa ragione
per cui ogni tanto si ha bisogno di mettere ordine nell’armadio: spalancare le
ante, tirare tutto fuori, dividere le stagioni e capire cosa vogliamo conservare.
Cosa ci serve davvero e cosa è solo un ingombro? Cosa va ancora di moda e
cosa è diventato inguardabile, come le sopracciglia sottili?
Così ho deciso di scrivere la mia storia, di andare fino in fondo senza
paura dei giudizi, con il coraggio di raccontarmi ancora un po’, come forse
non ho mai fatto. Se siete giunti fino a questa pagina, vuol dire che l’avete
letta, che ormai la conoscete. Certo, è possibile che il vostro fabbisogno di
gossip non sia perfettamente appagato. Forse avete trovato deludente non
scoprire tutti i retroscena di questo amore, così giusto e insieme così
sbagliato, ma capirete che c’è una parte di questo racconto che è giusto resti
solo mia.
La ragione vera per cui ho deciso di condividere questa esperienza con voi, al
pari di come condivido le mie intolleranze alimentari o i miei prodotti beauty
del cuore, è che spero che vi sia stato utile leggerla, almeno la metà di quanto
per me è stato utile scriverla.
A questo punto vi saluterei ma, prima di congedarmi, vi lascio un
riassunto dei consigli migliori che posso darvi, nel caso in cui anche voi
abbiate la vostra personale corona di corna.
Fatene buon uso, ragazze mie!
1. Non sentitevi troppo umiliate, le corna sono come la cellulite: prima o
poi ce l’hanno tutte e non esiste rimedio infallibile.
2. Ricordate che la vendetta migliore è continuare a godersi: fatevi belle,
uscite, prendete del tempo per voi, idratate la vostra pelle e, almeno una
volta alla settimana, concedetevi una bella piega, magari con un’amica o
con vostra mamma, non si sa mai che il parrucchiere è pure carino…
3. Non incazzatevi troppo con le altre, quelle con cui vi ha tradite e, se
potete, invece di pensare che quelle sono troie (e alcune, per carità, lo
saranno pure), pensate che la responsabilità è sempre dell’uomo che
avevate accanto.
4. Non comportatevi troppo come vittime, perché non lo siete. Le vittime
non hanno nessun potere, voi sì.
5. In ogni caso, con chiunque stiate, qualunque momento della vostra vita
stiate attraversando, ricordate sempre che l’amore aggiunge, non sottrae;
deve farci sentire migliori.
6. Non abbiate paura dei giudizi. Ascoltate i consigli ma ascoltate
soprattutto voi stesse. È bello che qualcuno si preoccupi per voi, ma
nessuno è voi. Solo voi sapete.
7. Ammettiamo però che se tutte le persone che vi vogliono bene, proprio
tutte, dalla prima all’ultima, dicono che lui è uno stronzo… forse hanno
ragione: lui è uno stronzo!
RINGRAZIAMENTI
Prima di tutto ringrazio me stessa.
Grazie Giulia per non esserti persa mai. O meglio, ogni tanto sì, ma come
è giusto che sia… però ho sempre ritrovato la mia strada e sono molto
orgogliosa di questo.
Faccio quello che voglio, che mi sento, sono una persona libera, davvero,
e questo mi appaga più di tutto.
Grazie a mia nipote Matilde.
Ora non sa leggere, è troppo piccola, ma un giorno magari troverà questo
libro e voglio che capisca più di tutti quanto io le sia stata grata.
Sì perché, piccola Molly della zia, devi sapere che in quei giorni tu più di
chiunque altro mi sei stata accanto. Appiccicata. Forse è nato lì il nostro
legame… io ti raccontavo cose che sappiamo solo io e te (o forse solo io…
ma va be’). Tu mi fissavi, mi ascoltavi come se percepissi in me tristezza e
volessi regalarmi gioie… non mi staccavi quegli occhioni di dosso, mai. Il
tuo profumo, le tue manine, i tuoi gesti e le tue parole insensate mi portavano
in un’altra dimensione e dimenticavo il resto.
Quindi grazie perché inconsciamente mi hai salvato la vita.
E lo fai ogni giorno… Gente, i bambini sono angeli in terra.
Credetemi…
Grazie alla mia famiglia, è quasi banale ma non posso non scriverlo, non
posso non ringraziarla. Grande, piena di esempi, di gioie, di errori, ma
soprattutto e più di tutto di amore.
La mia famiglia è tanto amore e questo mi basterà sempre.
Quindi grazie a tutti per l’amore immenso che mi avete sempre dato,
soprattutto in quei giorni.
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