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Via Camozzi, 1
00195 Roma
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www.edizionieo.it
ISBN 978-88-7641-959-1
Eric-Emmanuel Schmitt
ODETTE TOULEMONDE
E ALTRI RACCONTI
Traduzione dal francese
di Alberto Bracci Testasecca
...questi mazzi di fiori che partono
alla ricerca di un cuore
e non trovano che un vaso.
ROMAIN GARY
Biglietto scaduto
Wanda Winnipeg
«Che si fa, torniamo sulla barca o ci facciamo dare dei materassini qui?
Wanda... Wanda? Mi senti? Vuoi tornare in barca o preferisci metterti su
un materassino sulla spiaggia?».
Wanda riapre gli occhi, squadra Lorenzo, lo vede sorpreso dalla sua
distrazione, e decide:
«Andiamo a vedere i quadri del pittore, vi va?».
«Ma dài, saranno agghiaccianti!» ribatte Guido Farinelli.
«Perché no, magari ci ammazziamo dalle risate!» approva subito
Lorenzo, che non perde occasione di esibire la propria sottomissione a
Wanda.
Il gruppetto dei miliardari decide quindi che sarà una cosa divertente e
segue Wanda, che nel frattempo è andata ad abbordare Cesario.
«È lei che ci ha invitato a visitare il suo studio?».
«Sì, signora».
«Bene, vogliamo andare?».
Il vecchio Cesario impiega qualche secondo a reagire. Abituato a essere
trattato male, si stupisce che qualcuno gli si rivolga con tanta gentilezza.
Mentre il ristoratore prende sottobraccio il vecchio per spiegargli chi è
Wanda Winnipeg e quale grande onore gli stia facendo, Wanda osserva le
devastazioni del tempo su quello che una volta era il più bell’uomo della
spiaggia. Ha i capelli radi e grigi, i segni del troppo sole che ha preso e che,
anno dopo anno, ha logorato la sua pelle fino a trasformarla in un cuoio
flaccido, macchiato, granulato ai gomiti e alle ginocchia. Il corpo
rattrappito, ingrossato alla vita, non ha più niente a che vedere con l’atleta
statuario di una volta. Solo le pupille hanno conservato il loro raro colore di
ostrica verde, ma con la differenza che brillano un po’ meno.
Per quanto non sia poi troppo cambiata, lei non ha paura di essere
riconosciuta. Imbiondita, protetta dagli occhiali da sole, con la voce calata
di tono, l’accento russo e soprattutto l’alone della ricchezza, elude qualsiasi
tentativo di identificazione.
Entra per prima nel capannone e subito esclama:
«Ma è stupendo!».
In un attimo, supera tutti in velocità: gli altri non hanno più il tempo di
vedere quelle croste con i propri occhi, d’ora in poi le vedranno attraverso
lo sguardo di Wanda. In ogni dipinto trova qualcosa di cui stupirsi, di cui
meravigliarsi. Per una buona mezz’ora la taciturna Wanda Winnipeg
diventa entusiasta, chiacchierona, lirica come nessuno l’ha mai sentita.
Lorenzo non crede alle sue orecchie.
Il più sbalordito di tutti è Cesario. Silenzioso, attonito, si chiede se la
scena che vive stia accadendo veramente, si aspetta da un momento all’altro
la risata crudele o l’osservazione sarcastica che gli confermeranno che era
tutta una presa in giro.
L’ammirazione di Wanda è contagiosa, i ricconi si profondono ormai in
espressioni di apprezzamento.
«È davvero originale...».
«Sembra maldestro, ma ha una padronanza pazzesca».
«Lo stesso effetto che dovevano fare Van Gogh o Rodin o il Doganiere
Rousseau ai loro contemporanei» dichiara Wanda. «Su, cerchiamo di non
rubare troppo tempo a questo signore. Quanto vuole?».
«Eh?».
«Quanto vuole per questo quadro? Mi interessa per la casa di New York,
appeso proprio di fronte al letto, per essere precisi. Quanto?».
«Non so... Cento?».
Nel momento stesso in cui dice la cifra, Cesario si morde le labbra:
troppo alta, sente che le sue speranze si stanno per infrangere miseramente.
Per Wanda, cento dollari sono la mancia che lascerà l’indomani al
portiere dell’albergo. Per lui, è la somma che gli occorre per saldare il
debito con il negoziante di colori.
«Centomila dollari?» fa Wanda. «Mi sembra un prezzo ragionevole. Lo
prendo».
A Cesario ronzano le orecchie, è sull’orlo di un collasso, si chiede se ha
capito bene.
«Anche quest’altro me lo dà allo stesso prezzo? Starebbe così bene su
quell’enorme muro bianco di Marbella... Oh, la prego...».
Lui fa cenno di sì con la testa come un automa.
Il vanitoso Guido Farinelli, conoscendo il fiuto di Wanda per gli affari e
ansioso di non essere da meno, mette gli occhi su un’altra crosta. Quando
cerca di trattare sul prezzo, Wanda lo blocca:
«Ma ti prego, Guido! Non si contratta quando ci si trova di fronte a un
artista! È così facile e volgare avere i soldi, mentre avere il talento... e che
talento...».
Si gira verso Cesario.
«È un destino! Un fardello! Una missione. La giustificazione delle
miserie di una vita».
Poi Wanda chiama tutti a raccolta, posa sul tavolo gli assegni, specifica
che il suo autista passerà in serata a prendere le tele e lascia il vecchio
rintronato, con un filo di bava bianca sulle labbra. Si sta avverando la scena
che Cesario ha sognato per tutta la vita, ed ecco che non trova niente da
dire, riesce a stento a non crollare svenuto. Gli viene da piangere, vorrebbe
trattenere quella bella donna, dirle quanto è stato difficile campare
ottant’anni senza un briciolo di attenzione o di considerazione, vorrebbe
metterla a parte delle ore che ha passato da solo la notte a piangere e a dirsi
che forse, in fondo, era davvero soltanto un poveraccio. Grazie a lei è stato
lavato dalle miserie, dai dubbi, ha finalmente la certezza che il suo coraggio
non è stato inutile, che non si è intestardito invano.
Lei gli tende la mano.
«I miei complimenti, signore. Sono fiera di aver fatto la sua conoscenza».
È una bella giornata di pioggia
Hélène non ricordava di aver mai vissuto un momento perfetto. Fin dalla
più tenera infanzia il suo comportamento aveva suscitato lo sconcerto dei
genitori: non faceva che mettere a posto la sua cameretta, cambiarsi d’abito
alla minima macchiolina o sciogliersi e rifarsi le trecce fino a renderle
perfettamente simmetriche; era rabbrividita di orrore quando l’avevano
portata a vedere Il lago dei cigni perché – sola fra tutti – aveva notato
quanto poco rigoroso fosse l’allineamento delle ballerine, come i tutù non
ricadessero insieme e come, ogni volta, ci fosse una ballerina – mai la stessa!
– che spezzava il movimento collettivo; a scuola teneva le sue cose con gran
cura, e bastava che un compagno un po’ sciatto le rendesse un libro con gli
angoli arricciati per farla subito scoppiare a piangere e minare ulteriormente
la già scarsissima fiducia che nel segreto della sua anima tributava
all’umanità. Adolescente, aveva stabilito che la natura non è migliore degli
uomini quando aveva constatato che i suoi seni – magnifici, secondo
l’opinione generale – non avevano una forma esattamente identica, che uno
dei piedi si ostinava a misurare trentotto e l’altro trentotto e mezzo, e che
malgrado gli sforzi la sua statura non andava oltre un metro e settantuno:
un metro e settantuno, che razza di altezza è? Diventata grande, aveva
distrattamente studiato legge, frequentando le aule dell’università più che
altro per rifornirsi di fidanzati.
Poche ragazze avevano raggiunto il numero di avventure messo insieme
da Hélène, e quelle che ci erano andate vicino avevano inanellato amanti
per voracità sessuale o instabilità mentale. Hélène, invece, li aveva
collezionati per idealismo. Ogni nuovo ragazzo era finalmente quello
buono: nello stupore dell’incontro, nel fascino dei primi scambi, gli
attribuiva sempre le qualità a cui lei aspirava; qualche giorno e qualche
notte dopo, quando l’illusione cadeva e lui le appariva per quello che era, lo
abbandonava con la stessa fermezza con cui l’aveva attirato.
Hélène aveva il problema di voler fare coesistere due esigenze che
facevano a pugni tra loro: l’idealismo e la lucidità.
A forza di un principe azzurro a settimana, aveva finito per disgustarsi sia
degli uomini che di sé stessa. Nel giro di dieci anni, la ragazza entusiasta e
ingenua era diventata una trentenne cinica e disillusa. Il suo fisico, però,
non ne portava traccia, perché i capelli biondi le davano appariscenza, la
sua vitalità sportiva passava per allegria e la pelle luminosa conservava quel
vellutino pallido che dava a ogni bocca la voglia di baciarla.
Era stato Antoine a innamorarsi, quando l’aveva conosciuta nel corso di
un patteggiamento. Lei si era lasciata fare una corte spietata perché l’uomo
le era indifferente. Trentacinque anni, né bello né brutto, simpatico, con
carnagione, capelli e occhi beige, di notevole non aveva che l’altezza;
inerpicato sui suoi due metri, sembrava volersi scusare di sovrastare i suoi
simili sfoggiando un sorriso costante e tenendo le spalle leggermente
incurvate. Era opinione comune che avesse un cervello particolarmente
acuto, ma non c’era intelligenza che potesse impressionare Hélène, dato che
anche lei se ne sentiva tutt’altro che sprovvista. Inondandola di telefonate,
lettere spiritose, mazzi di fiori e inviti a serate originali, si era rivelato così
buffo, ostinato e vivace che Hélène, un po’ perché non aveva di meglio, e
molto perché nel suo erbario degli amanti non aveva mai spillato un
esemplare così gigantesco, l’aveva autorizzato a credere di averla sedotta.
Erano andati a letto insieme. La felicità di cui aveva goduto Antoine era
stata sproporzionata rispetto al piacere provato da Hélène, ma lei aveva
comunque tollerato che la storia continuasse.
Il loro legame durava ormai da parecchi mesi.
A sentir lui, stava vivendo il grande amore della sua vita. Ogni volta che
sedevano al ristorante la includeva puntualmente nei suoi piani per il
futuro: il grande avvocato, rinomato in tutta Parigi, la voleva per moglie e
madre dei suoi figli. Hélène sorrideva e taceva. Rispetto o paura che fosse,
Antoine non osava esigere una risposta. Ma si chiedeva cosa pensasse.
In realtà, neanche lei lo sapeva. Certo, l’avventura stava durando più del
solito, ma Hélène fingeva di non rendersene conto ed evitava di trarne
conclusioni. Trovava Antoine... come dire?... “gradevole”, sì, non poteva
scegliere parola più forte o più ardente per descrivere la sensazione che al
momento la tratteneva dal rompere la relazione. Presto l’avrebbe lasciato
comunque, perché avere fretta?
Tanto per tranquillizzarsi, aveva redatto la lista dei difetti di Antoine.
Fisicamente era un falso magro: da nudo, il suo lungo corpo esibiva una
pancetta da lattante che di sicuro sarebbe andata prosperando negli anni a
venire. Sessualmente faceva durare le cose, anziché ripeterle. E
intellettualmente, per quanto brillante – come dimostravano la sua carriera
e i suoi titoli di studio –, parlava le lingue molto peggio di lei. Dal punto di
vista morale si rivelava fiducioso, naïf al limite dell’ingenuità.
Tuttavia nessuna di queste tare giustificava una sospensione immediata
del rapporto, erano anzi imperfezioni che intenerivano Hélène: quel
cuscinetto di grasso tra il sesso e l’ombelico le offriva un’oasi rassicurante su
quel lungo e ossuto corpo maschile, non le dispiaceva poggiarvi la testa; un
lento momento di piacere seguito da un intenso sonno, ormai, le andava più
a genio che non una notte scombinata in compagnia di uno stallone, fatta di
corti appisolamenti inframmezzati da rapidi piaceri; la cautela con cui
Antoine si avventurava nelle lingue straniere era commisurata all’assoluta
perfezione con cui padroneggiava la propria lingua. Quanto al suo candore,
le comunicava una sensazione riposante. In società, le prime cose che
Hélène percepiva nella gente erano la mediocrità, la meschinità, la
vigliaccheria, la gelosia, l’insicurezza, la paura; forse perché quei sentimenti
erano presenti in lei, li individuava subito negli altri. Antoine invece era
portato ad attribuire al prossimo intenzioni nobili, motivazioni di valore,
ideali, come se non avesse mai sollevato il coperchio di un’anima per
scoprire fino a che punto puzzava e brulicava di vermi.
Siccome Hélène respingeva ogni tentativo di presentazione ai genitori, i
sabati e le domeniche erano dedicati agli svaghi cittadini: cinema, teatro,
ristorante, o gironzolare per mostre e librerie.
In maggio, l’opportunità di quattro giorni di ponte li aveva spinti a
partire: Antoine l’aveva portata in una villa delle Lande trasformata in
albergo, immersa tra la pineta e la spiaggia di sabbia bianca. Abituata alle
interminabili vacanze in famiglia sul Mediterraneo, Hélène era stata
contenta di scoprire l’oceano e i suoi roboanti cavalloni, di ammirare i
surfisti; aveva anche progettato di andare a prendere il sole sulle dune dei
nudisti...
Invece minacciava di piovere, e avevano appena finito di fare colazione
che il temporale si era scatenato.
«È una bella giornata di pioggia» aveva detto Antoine appoggiandosi alla
balaustra che affacciava sul parco.
Mentre lei aveva la sensazione di trovarsi imprigionata dietro uno
sbarramento d’acqua a catinelle, con la prospettiva di essere costretta a
sorbirsi ore cariche di noia, lui affrontava la giornata con lo stesso
entusiasmo che avrebbe avuto sotto un sole splendente.
«È una bella giornata di pioggia».
Hélène volle sapere cosa ci fosse di bello in un giorno di pioggia: lui le
parlò delle sfumature di colore che avrebbero preso cielo, alberi e tetti
quando, più tardi, sarebbero andati a fare una passeggiata, della selvaggia
potenza con cui l’oceano sarebbe apparso ai loro occhi, di come si
sarebbero stretti l’uno all’altra per camminare sotto l’ombrello, della gioia
che avrebbero provato tornando al calduccio, dei vestiti che avrebbero
messo ad asciugare accanto al fuoco, del tè caldo e del languore che tutto
ciò avrebbe suscitato in loro, delle occasioni che avrebbero avuto per fare
più volte l’amore, del tempo che avrebbero dedicato a raccontarsi le proprie
vite sotto le coperte, come bambini che solo una tenda ripara dalla natura
scatenata...
Lei lo ascoltava. La felicità che provava Antoine le sembrava astratta.
Non la sentiva. Ma una felicità astratta è sempre meglio che nessuna felicità,
così decise di credergli.
Quel giorno cercò di entrare nel modo di vedere di Antoine.
Durante la passeggiata in paese si sforzò di apprezzare gli stessi
particolari che colpivano lui: il vecchio muro di pietra piuttosto che la
grondaia bucata, il fascino del lastricato anziché la sua scomodità, l’aspetto
kitsch delle vetrine e non il loro ridicolo. Certo, aveva qualche problema a
estasiarsi di fronte al lavoro di un vasaio – trafficare con l’argilla in pieno
ventunesimo secolo quando il mondo pullula di insalatiere di plastica! – o a
commuoversi vedendo intrecciare un cestino di vimini, erano attività che le
facevano venire in mente la scuola, quelle spaventose lezioni di lavoro
manuale in cui era costretta a fabbricare oggetti mediocri che compleanni di
mamme e papà non bastavano mai a smaltire. Constatò sorpresa che i
negozi di anticaglie non comunicavano ad Antoine alcuna malinconia;
laddove lei sentiva odore di morte, lui apprezzava il valore degli oggetti.
Quando andarono a camminare sulla spiaggia e i piedi cominciarono a
sprofondarle in una sabbia pesante come cemento che il vento, tra un
rovescio e l’altro, non riusciva ad asciugare, Hélène non riuscì più a
trattenersi e sbottò:
«Al mare con la pioggia, tante grazie!».
«Ma scusa, a te cos’è che piace, il mare o il sole? Hai davanti a te l’acqua,
l’orizzonte. Pure l’immensità!».
Lei riconobbe che finora non aveva mai guardato il mare e la costa, si era
sempre limitata a prendere il sole.
«È una percezione povera, la tua: riduci il paesaggio al sole».
Hélène ammise che aveva ragione. In sua compagnia si rendeva conto,
non senza irritazione, che per Antoine il mondo era molto più ricco che per
lei, perché lui vi cercava occasioni di stupore e le trovava.
A pranzo si misero a tavola in un ristorante che, sebbene abbastanza
raffinato, aveva un look da trattoria popolare.
«E questo non ti disturba?».
«Cosa?».
«La mancanza di autenticità del locale, questo tipo di mobili, il servizio, il
fatto che tutto l’arredamento sia stato concepito per clienti come te, per
gente come te che ci casca. Turistico di alto livello, ma pur sempre
turistico!».
«Questo posto è reale, la cucina è reale, e io sono realmente in tua
compagnia».
La sincerità di Antoine la disarmava. Ciò nonostante insisté:
«Insomma, non c’è niente che ti dia fastidio qui?».
Lui si guardò discretamente intorno.
«Boh, mi sembra un’atmosfera gradevole, gente carina...».
«La gente è orribile!».
«Ma che dici? Sono normali».
«Toh, guarda la cameriera, là. È terrificante».
«Ma dài, avrà vent’anni, è...».
«Guardala. Ha gli occhi troppo vicini. Piccoli e attaccati l’uno all’altro».
«E allora? Io non me n’ero neanche accorto. E lei nemmeno, a quanto
pare. Ha tutta l’aria di essere una sicura del suo fascino».
«Buon per lei, sennò si ammazzava! E guarda quello, il sommelier: da
una parte gli manca un dente. Prima, quando è venuto al nostro tavolo, non
riuscivo a guardarlo in faccia, non l’hai visto?».
«Cioè, mi stai dicendo che non sei in grado di comunicare con qualcuno
solo perché gli manca un dente?».
«Sì».
«Guarda che un dente di meno non ti fa mica diventare una sottospecie
umana indegna di rispetto. Lo dici per provocarmi, il grado di umanità non
dipende certo da una perfetta dentatura».
Quando il pensiero di Antoine si condensava in grandi affermazioni
teoriche come quella, Hélène si sentiva goffa a insistere.
«Che altro?» chiese lui.
«Per esempio, quelli del tavolo accanto».
«Beh?».
«Sono vecchi».
«Ti pare un difetto?».
«Vorresti che fossi anch’io così? Con la pelle flaccida, la pancia, i seni
cadenti?».
«Se mi autorizzi, penso di poterti amare anche da vecchia».
«Non dire scemenze. E la ragazzetta, laggiù?».
«Cosa? Cos’ha quella poverina?».
«È un mostro. Non ha collo. Oddio, sarebbe più che altro da compatire,
visti i genitori...».
«Che hanno i genitori?».
«Il padre ha il parrucchino e la madre il gozzo!».
Antoine scoppiò a ridere. Non ci credeva, era sicuro che Hélène andasse
apposta a scovare i particolari strani per prodursi in una scenetta divertente.
Lei invece era realmente contrariata da ciò che le balzava agli occhi.
Quando un diciottenne dai capelli fluenti portò il caffè, Antoine le
sussurrò:
«E questo? È un bel ragazzo. Non avrai da ridire anche su di lui!».
«Ma non lo vedi? Ha la pelle unta e il naso pieno di punti neri. Poi ha dei
pori enormi... dilatati!».
«Sarà, ma secondo me tutte le ragazze della zona gli corrono dietro».
«Per giunta è della categoria “pulito fuori”. Attenzione! Igiene dubbia!
Unghia incarnita. Con uno così rischi la sorpresa, quando lo scarti».
«Stavolta mi sa che ti sbagli! Ho sentito che profumava di acqua di
Colonia».
«Appunto, pessimo segno! Quelli che si mettono litri di profumo non
sono di sicuro i più puliti».
Fu lì lì per aggiungere “credimi, so di cosa parlo”, ma tenne per sé
quell’allusione al suo passato di collezionista di uomini; dopotutto, non
sapeva quanto Antoine ne fosse al corrente, visto che per fortuna veniva da
un’altra università.
Antoine rideva talmente che lei non aprì più bocca.
Nelle ore che seguirono, Hélène ebbe la sensazione di camminare su un
filo teso nel vuoto: un attimo di disattenzione e sarebbe precipitata nel
baratro della noia. Più di una volta ne percepì bene lo spessore: la noia
l’attirava, la spingeva a saltare giù, a raggiungerla, le dava le vertigini, la
tentazione di tuffarsi. Si aggrappò quindi all’ottimismo di Antoine che,
inesauribile, con il sorriso sulle labbra, le descriveva il mondo così come lo
percepiva. Si afferrò a quella fede luminosa.
Sul finire del pomeriggio, tornati in albergo, fecero a lungo l’amore.
Antoine si dedicò talmente a darle piacere che Hélène, soffocando il
fastidio per i dettagli che la disturbavano, chiuse gli occhi e si sforzò di stare
al gioco.
Arrivò al tramonto spossata, senza che lui nemmeno sospettasse
l’ampiezza della lotta che aveva sostenuto con sé stessa durante quella
giornata.
Fuori, il vento sembrava voler abbattere i pini come fuscelli.
La sera, a lume di candela, sotto le travi dipinte del soffitto
pluricentenario, mentre sorseggiavano un vino inebriante il cui nome faceva
già venire l’acquolina in bocca, Antoine le domandò:
«A costo di diventare l’uomo più disperato del pianeta, questa volta
desidero che tu mi risponda: vuoi essere la donna della mia vita?».
Hélène aveva i nervi a pezzi.
«Disperato tu? Tu non ne sei capace! A te va bene tutto!».
«Ti assicuro che se mi rispondi di no starò molto male. Tutte le mie
speranze sono nelle tue mani. Sei l’unica che ha il potere di rendermi felice
o inconsolabile».
Tutto sommato, quel che Antoine le stava rifilando era il solito bla-bla di
una qualsiasi proposta di matrimonio, piuttosto banale... Ma dato che
proveniva da lui, da quei due metri di energia positiva, da quei novanta chili
di carne pronta a star bene, Hélène ne fu lusingata.
Si chiese se la felicità non potesse essere contagiosa... Amava Antoine?
No. Antoine la faceva sentire importante, la divertiva; la infastidiva anche,
con quel suo invincibile ottimismo. Pensò che forse quel che non
sopportava di lui era il suo essere così diverso da lei. Si può sposare il
proprio nemico intimo? Probabilmente no. Allo stesso tempo, però, lei che
si svegliava di malumore, lei che trovava tutto brutto, imperfetto, inutile, di
che cosa sentiva la necessità? Del proprio contrario. E non c’era dubbio che
Antoine lo fosse, il suo contrario. Per quanto non lo amasse, era evidente
che aveva bisogno di lui. O di qualcuno simile a lui. Ne conosceva altri? Sì,
di sicuro; al momento però non le venivano in mente. Poteva ancora
aspettare, forse sarebbe stato meglio. Ma per quanto tempo? Gli altri
sarebbero stati pazienti quanto lo era stato lui? E lei ce l’aveva la pazienza
di attendere ancora? Attendere cosa, poi? Se ne fregava degli uomini, non
aveva mai pensato di sposarsi, non era nelle sue intenzioni fare figli né
allevarli. Per giunta, il cielo non prometteva affatto di migliorare e
l’indomani sarebbe stato ancora più difficile sfuggire alla noia.
Per tutte queste ragioni rispose velocemente:
«Sì».
Gli amici chiamarono quello stato “depressione”. In realtà era molto più
grave.
Hélène ormai faceva la guardia a due recluse, e nessuna delle due aveva
più diritto di parola. Un mutismo che sanciva la volontà di non pensare più.
Non pensare più come l’Hélène che era stata prima di Antoine. Non
pensare più come l’Hélène di Antoine. Poiché entrambe le personalità
avevano fatto il loro tempo, non aveva più la forza di inventarne una terza.
Parlava poco, rifugiandosi nei rituali del buongiorno-grazie-buonasera, si
teneva in ordine, indossava sempre le stesse cose e aspettava la notte come
una liberazione anche se, insonne com’era, la trascorreva lavorando
all’uncinetto davanti alla televisione accesa senza prestare la minima
attenzione ai suoni e alle immagini, preoccupata solo della successione delle
maglie. A provvedere ai suoi bisogni aveva pensato Antoine: investimenti,
rendite, case; lei si limitava a fingere di ascoltare il contabile di famiglia una
volta al mese. I figli, quando alla fine abbandonarono ogni speranza di
riuscire a curarla o ad aiutarla, seguirono le orme del padre e si dedicarono
alle loro brillanti carriere scolastiche.
Passò qualche anno.
In apparenza Hélène invecchiava bene. Si prendeva cura del proprio
corpo – peso, pelle, muscoli, scioltezza – così come si tiene pulita una
collezione di statuette di porcellana in una vetrina. Le volte che si
sorprendeva allo specchio vi vedeva un oggetto da museo, la madre degna,
triste e ben conservata che viene tirata fuori di quando in quando per una
riunione di famiglia, un matrimonio, un battesimo e tutte quelle cerimonie
chiassose e pettegole, per non dire inquisitorie, che a lei costavano molta
fatica. Quanto al silenzio, non aveva allentato la vigilanza: niente pensava,
niente esprimeva, mai.
Un giorno, suo malgrado, le balenò un’idea.
E se facessi un viaggio? Antoine adorava viaggiare. O meglio, Antoine
aveva un unico desiderio al di fuori del lavoro: viaggiare. Visto che non ha
avuto il tempo di realizzare il sogno, potrei realizzarlo io al posto suo...
Fu questa stessa motivazione a impedirle di guardare oltre: neanche per
un attimo vi vide un ritorno alla vita, o un atto d’amore. Se avesse
immaginato, mentre preparava i bagagli, che stava andando alla ricerca
dello sguardo benevolo di Antoine sull’universo, si sarebbe vietata di
partire.
Un rapido saluto a Maxime e a Berenice, ed Hélène cominciò il suo
periplo. Viaggiare, per lei, consisteva nel girare il mondo passando da un
grande albergo all’altro. Così soggiornò in lussuose suite in India, Russia,
America e Medio Oriente. Ogni volta dormicchiava e sferruzzava di fronte
a uno schermo acceso che declamava in un’altra lingua. Ogni volta si
costringeva a partecipare a una qualche escursione perché Antoine
l’avrebbe rimproverata se non l’avesse fatto, ma i suoi occhi non si
sgranavano davanti a ciò che scopriva: verificava solo che le cartoline
esposte in albergo corrispondessero all’oggetto dal vero, niente di più...
Insieme alle sue sette valigie di marocchino blu pallido portava in giro la
propria incapacità di vivere. Solo la partenza da un posto per un altro, il
transito negli aeroporti, le difficoltà delle coincidenze la appassionavano un
po’, perché allora aveva la sensazione che stesse per succedere qualcosa...
Una volta arrivata a destinazione, ritrovava il mondo dei taxi, dei facchini,
dei portieri, dei ragazzi d’ascensore, delle cameriere, e tutto rientrava
nell’ordine.
Se pure non aveva più una vita interiore, ne aveva guadagnata una
esteriore. Spostamenti, arrivi in nuove località, partenze, necessità di
parlare, scoperta di valute differenti, scelta dei cibi al ristorante: intorno a
lei c’era un gran fermento, anche se nel profondo tutto rimaneva apatico.
Le sue traversie avevano finito per uccidere entrambe le prigioniere. Non
c’era più nessuno a pensare dentro la sua coscienza, né la Hélène
insoddisfatta né la Hélène moglie di Antoine. Era quasi più comoda quella
specie di morte totale.
In questo stato arrivò a Città del Capo.
Perché ne rimase colpita? Per quel nome, il Capo, che definiva quel
luogo come punta estrema della terra? Perché all’epoca dell’università si era
interessata al dramma del Sudafrica e aveva firmato petizioni in favore
dell’uguaglianza tra bianchi e neri? Perché Antoine aveva manifestato
l’intenzione di comprarvi un giorno una proprietà dove ritirarsi in
vecchiaia? Non lo sapeva... Fatto sta che, quando sbucò sulla terrazza
dell’albergo affacciata sull’oceano, il cuore prese a batterle forte.
«Un bloody mary, per piacere».
Altra stranezza: non ordinava mai un bloody mary! Non ricordava
neanche se le piacesse.
Fissò il cielo di un grigio intenso e notò che le nuvole, nere da quanto
erano gonfie, stavano per scoppiare. Si annunciava un temporale.
Non lontano da lei, altrettanto assorto, un uomo osservava lo spettacolo
degli elementi.
Hélène sentì un formicolio sulle guance. Che stava succedendo? Il sangue
le montava alla testa, una pulsazione brutale le faceva vibrare le vene del
collo, il cuore le batteva forte. Cercò l’aria. Che sia un attacco di cuore?
Perché no? Bisogna pur morire in qualche modo. Su, è arrivata l’ora.
Tanto meglio che sia qui, di fronte a un paesaggio grandioso.
Evidentemente quello era il suo punto d’arrivo. Ecco perché, salendo le
scale, aveva avuto il presentimento che stesse per accadere qualcosa di
importante.
Per qualche secondo Hélène aprì le mani, calmò il respiro e si preparò a
passare a miglior vita. Chiuse le palpebre, gettò la testa all’indietro e si
considerò pronta: accettava la morte.
Non accadde niente.
Non solo non perse i sensi, ma quando riaprì gli occhi fu obbligata a
constatare che si sentiva meglio. Cosa? Non si poteva comandare al proprio
corpo di morire? Non si poteva esalare l’ultimo respiro così, con la stessa
facilità con cui si spegne la luce?
Si girò verso l’uomo sulla terrazza.
Indossava un paio di pantaloncini da cui fuoriuscivano belle gambe
possenti, insieme slanciate e muscolose. Hélène gli fissò i piedi. Da quanto
tempo non guardava i piedi di un uomo? Aveva dimenticato quanto le
piacessero quelle larghe propaggini dalle caratteristiche così
contraddittorie, duri sui talloni e teneri sulle dita, lisci sopra e ruvidi sotto,
solidi al punto da sorreggere corpi massicci e fragili fino a temere le carezze.
Fece risalire lo sguardo dai polpacci alle cosce seguendo la tensione e la
forza nascoste sotto quella pelle, e si sorprese ad aver voglia di sfiorare quei
peli biondi, di sentire quel muschio leggero e tenero sotto il suo palmo.
Malgrado avesse percorso il mondo in lungo e in largo e visto migliaia di
abbigliamenti diversi, trovò audace il suo vicino. Come osava esibire le
gambe in quel modo? Non erano indecenti quei calzoncini?
Lo studiò meglio e capì di avere torto. Erano short più che normali, li
aveva visti addosso a centinaia di uomini. Allora era lui che...
Sentendosi osservato, l’uomo si voltò verso di lei e sorrise. Il suo viso
sfoggiava un’abbronzatura dorata segnata da rughe sincere, con qualcosa di
inquieto nel verde dell’iride.
Confusa, Hélène gli restituì il sorriso e si immerse di nuovo nello
spettacolo dell’oceano. Cosa avrebbe pensato quello lì? Che lo voleva
rimorchiare? Che orrore! Però le piaceva la sua espressione. Aveva un volto
onesto, sincero, pulito, anche se i suoi tratti denotavano una tendenza alla
tristezza. Che età avrà? La mia. Eh sì, qualcosa del genere, quarantotto...
Forse meno: abbronzato com’è, sportivo, con quelle sue belle rughette, non
sembra proprio il tipo che si spalma di creme solari.
Improvvisamente ci fu una specie di silenzio. Nell’aria gli insetti smisero
di ronzare. Poi, dopo quattro secondi, a solenne conferma che il temporale
era iniziato, cominciarono a cadere gocce pesanti e a rimbombare i tuoni.
La luce accentuò i contrasti, saturò i colori, e l’umidità si impadronì di loro
come l’onda di vapore che investe la costa durante un maremoto.
«Ah, che tempaccio!» esclamò l’uomo.
Fu la prima a stupirsi quando schiuse le labbra e disse:
«Tutt’altro. La frase giusta non è “che tempaccio”, ma “è una bella
giornata di pioggia”!».
L’uomo si girò verso Hélène e la guardò.
Sembrava sincera.
In quell’istante acquisì due certezze definitive: desiderava profondamente
quella donna.
E avrebbe fatto il possibile per non lasciarla mai.
L’intrusa
Davanti alla finestra che dava sui giardini del Trocadéro, Yasmine
osservava la pioggia che era giunta a riconciliare la terra con il cielo e a
sospendere l’epidemia di morte.
Alle sue spalle la stanza non era cambiata, sempre carica di libri, una
collezione preziosa per chiunque fosse interessato al Medio Oriente. Al
momento, né lei né suo marito avevano il tempo di sostituire i mobili e
l’arredamento; avrebbero fatto i lavori in un secondo tempo. Però non
avevano esitato un attimo a lasciare l’appartamentino sulla tangenziale, dove
vivevano stretti come sardine insieme ai due figli, e a trasferirsi lì.
Alle sue spalle, per l’appunto, Jérôme e Hugo scoprivano i piaceri della
televisione satellitare e non la smettevano di fare zapping.
«È stupendo, mamma, ci sono pure i canali arabi!».
Non si fermavano su alcun programma, erano più inebriati da quanti ce
n’erano che attratti dall’idea di seguirne uno.
Tornato a casa, suo marito le scivolò alle spalle e la baciò alla base del
collo. Yasmine si girò e aderì con il proprio petto al suo. Si abbracciarono.
«Sai che ho sfogliato l’album di famiglia? Somigli a tuo padre in maniera
impressionante!».
«Non lo dire».
«Perché? Ti fa male pensare che è morto in Egitto quando avevi sei
anni?».
«No, mi fa male perché mi fa venire in mente mamma. Mi scambiava
spesso per lui, mi chiamava Charles».
«Non ci pensare più. Cerca di ricordartela quando era in piena forma,
un’intellettuale brillante, piena di spirito, con la risposta pronta. È una
donna che mi ha sempre colpito molto. Cancella gli ultimi due anni».
«Hai ragione. Stava sola qui, con l’Alzheimer... Neanche lei sapeva più
chi fosse... La memoria l’aveva tradita, era convinta di essere più giovane,
credeva che l’anziana signora in cui si imbatteva davanti agli specchi fosse
un’intrusa. L’hanno ritrovata stesa davanti a uno specchio rotto con una
mazza da golf in mano, di sicuro voleva difendersi e ha colpito quando ha
creduto che l’altra stesse per colpire».
«Domenica l’andremo a trovare».
Yasmine carezzò François sulla guancia e, avvicinando le labbra,
aggiunse:
«Sta meglio, adesso che è regredita al tempo in cui non conosceva ancora
tuo padre. Non ci confonde più. Quanti anni pensa di avere ora?».
Lui si abbandonò con la testa sulla spalla di Yasmine.
«Certe volte mi auguro che arrivi presto il giorno in cui mia madre andrà
indietro nel tempo fino a tornare una neonata, così potrò stringerla tra le
braccia e dirle finalmente quanto le voglio bene. Un bacio d’addio, per me.
Per lei, un bacio di benvenuto...».
Il falso
E ra impaziente di rivederla.
Non riusciva a pensare ad altro mentre il pullman con a bordo la
piccola compagnia saliva i tornanti che conducevano alla cittadina siciliana.
Si domandò se aveva accettato quella tournée solo per tornare lì. Che
motivo avrebbe avuto, altrimenti? La pièce non gli piaceva affatto, la sua
parte ancora meno, e per entrambi i supplizi percepiva una paga da fame. Il
fatto è che non aveva molta scelta: o accettava questo genere di ingaggi, o
rinunciava per sempre a fare l’attore e si cercava ciò che in famiglia
chiamavano “un vero mestiere”. Erano anni che non aveva più la chance di
scegliersi i ruoli; il periodo del suo splendore era durato sì e no un paio di
stagioni, agli inizi, perché era bello come il sole e nessuno aveva ancora
capito che recitava come una capra.
A quell’epoca, e in quello stesso paese posato come una corona su una
montagna di roccia, aveva incontrato lei, la donna misteriosa. Chissà se era
cambiata. Probabile. Ma non più di tanto.
Del resto neanche lui era troppo cambiato, aveva conservato il suo fisico
da primo attor giovane malgrado non fosse più né giovane né primo attore.
Il fatto che fosse a corto di ruoli, però, non dipendeva dall’essere un po’
invecchiato – alle donne piaceva sempre –, bensì dalla mancanza di un
talento all’altezza del suo fisico. Ne parlava senza problemi, anche con
colleghi o registi, perché riteneva che l’aspetto e il talento fossero entrambi
doni di natura: lui era nato con uno e non con l’altro, e allora? Mica tutti
potevano avere una carriera ai massimi livelli. Fabio si accontentava di una
carrieruccia, gli bastava, perché quel che gli piaceva veramente non era
tanto recitare – altrimenti si sarebbe impegnato a migliorare –, ma fare la
vita dell’attore. I viaggi, il clima cameratesco, gli spettacoli, gli applausi, i
ristoranti, le amanti di una notte: era una vita decisamente più divertente di
quella che gli era stata predisposta dalla famiglia. Di una cosa sola era
sicuro: avrebbe fatto di tutto per evitare di riprendere il proprio posto nella
fattoria paterna.
“Un figlio di contadini con la bellezza di un principe” titolava uno dei
vari servizi che la televisione gli aveva dedicato agli inizi, quando Fabio era
apparso in uno sceneggiato che aveva appassionato l’Italia per un’estate
intera: Il principe Leocadio. Quell’interpretazione gli aveva procurato la
fama nonché migliaia di lettere da parte di ammiratrici: alcune provocanti,
altre adulatrici, altre intriganti, tutte innamorate. Sulla scia di quel primo
successo, era stato scritturato per il ruolo di uno spumeggiante miliardario
in uno sceneggiato franco-italo-tedesco e quella parte aveva decretato la sua
fine, sia perché l’effetto sorpresa legato al suo aspetto era stato di breve
durata, sia perché la complessità del nuovo personaggio, esagerato,
ambiguo, preda di sentimenti contraddittori, avrebbe richiesto le qualità di
un vero attore. Durante le riprese era stato soprannominato “il manichino”,
nomignolo di cui si era subito impossessata la stampa per commentare la
sua pietosa prestazione. Dopo questi primi exploit, Fabio era tornato
davanti alle telecamere in un paio di altre occasioni, una in Francia e una in
Germania, paesi nei quali il doppiaggio del brillante miliardario da parte di
attori professionisti aveva fatto durare un po’ più a lungo l’illusione del suo
talento. Poi basta. Più niente di importante. Quell’inverno, rivedendo su un
canale nostalgico gli episodi del Principe Leocadio in onda via cavo alle
quattro del mattino, la riscoperta di sé stesso l’aveva lasciato sgomento:
aveva odiato quella storia insipida, quei colleghi senza spessore spariti come
lui nel nulla, soprattutto quei costumi striminziti, quelle scarpe dai tacchi
ridicoli, quella messa in piega voluminosa che lo faceva sembrare un’attrice
americana di serie B, quel ciuffo che gli cadeva sull’occhio destro e che,
privandolo di mezzo sguardo, rendeva ancora più inespressivo il suo volto
regolare. Insomma, a parte i suoi vent’anni, non aveva trovato niente che
giustificasse la sua presenza sullo schermo.
Dopo la curva apparve il paese medievale, fiero, maestoso, con i bastioni
slanciati e le torri a mezzaluna che incutevano rispetto. Fabio si chiese se lei
vi abitasse ancora. Non sapeva neanche il suo nome, come avrebbe fatto a
ritrovarla? “Mi chiami Donatella” gli aveva mormorato allora: lì per lì aveva
creduto che fosse la sua vera identità, ma qualche anno dopo, ripensandoci,
si era reso conto che la ragazza gli aveva rifilato uno pseudonimo.
Perché quell’avventura l’aveva segnato a tal punto? Perché ce l’aveva
ancora in testa dopo quindici anni e dopo aver posseduto decine di donne?
Forse perché Donatella si era presentata misteriosa e tale era rimasta. Le
donne ci piacciono perché arrivano incastonate in un enigma, e smettono di
piacerci appena cominciano a intrigarci di meno. Loro credono che gli
uomini siano attirati solo da ciò che hanno tra le gambe, ma si sbagliano, gli
uomini sono molto più attratti dall’aspetto romantico che non dal sesso. Lo
dimostra il fatto che, se mollano, la colpa è più dei giorni che delle notti: le
giornate passate a discutere sotto la cruda luce del sole intaccano l’aura di
una donna molto più delle notti trascorse a fondersi l’uno nell’altra. Più di
una volta Fabio aveva avuto voglia di suggerire alle rappresentanti del gentil
sesso di puntare sulle notti e lasciar perdere i giorni, per conservare gli
uomini più a lungo. Però non lo faceva; un po’ per prudenza, per non farle
scappare, e molto perché era convinto che non avrebbero capito: vi
avrebbero trovato la conferma che gli uomini pensano solo a scopare,
mentre ciò che intendeva lui è che i più grandi donnaioli – lui per primo –
sono dei mistici in cerca di mistero che nella creatura femminile
preferiranno sempre quel che lei non dà a quello che concede.
Donatella gli era comparsa davanti una sera di maggio tra le quinte del
teatro municipale, dopo lo spettacolo. Ciò avveniva due anni dopo il suo
trionfale debutto televisivo, a declino ormai iniziato. Già allora nessuno lo
voleva più sullo schermo, ma, data la sua relativa notorietà, gli avevano
proposto un importante personaggio a teatro, il Cid di Corneille,
un’autentica maratona di tirate in versi che lui declamava con scrupolo
senza comprendere. Lasciando il palcoscenico, era molto più soddisfatto di
essere arrivato fino in fondo senza errori che non di aver recitato bene,
come un corridore fiero di aver coperto una distanza fuori del comune.
Sebbene all’epoca non fosse ancora così lucido riguardo a sé stesso, sentiva
che il pubblico lo apprezzava più che altro per il suo aspetto fisico, in
particolare per le gambe inguainate nella calzamaglia.
Prima dello spettacolo, qualcuno aveva lasciato davanti al suo camerino
un’immensa cesta di vimini piena di orchidee gialle e marroni. Nessun
biglietto d’accompagnamento. Durante la rappresentazione, ogni volta che
non toccava a lui declamare, Fabio era corso a scrutare la sala per cercare di
indovinare chi potesse avergli mandato quel regalo sontuoso, ma la luce dei
riflettori lo abbagliava impedendogli di vedere il pubblico protetto dalla
penombra, e poi c’era quella maledetta recita da portare a termine...
Finiti i composti applausi, Fabio si era precipitato in camerino, aveva
fatto una rapida doccia e si era cosparso di acqua di Colonia, sicuro che la
persona all’origine di quel regalo non avrebbe tardato a mostrarsi.
Donatella lo aspettava nel corridoio tra le quinte.
Fabio si era trovato di fronte una ragazza giovanissima che gli tendeva
graziosamente il polso, con i capelli lunghi legati da una coroncina di trecce.
Calato nell’atmosfera cavalleresca del proprio personaggio, gli era venuto
spontaneo prodursi in un baciamano anche se era un gesto che non
rientrava nelle sue abitudini.
«È lei?» aveva chiesto riferendosi alle orchidee.
«Sono io» aveva annuito la ragazza abbassando le pesanti palpebre dalle
ciglia nerissime.
Sembrava che gambe e braccia le spuntassero furtivamente da un
morbido vestito di seta o mussola – Fabio non avrebbe saputo dire –,
comunque qualcosa di leggero, aereo, prezioso, orientale, fatto apposta per
una donna dal corpo snello e aggraziato, una donna che non pesa. La pelle
bianchissima del braccio era circondata da un braccialetto da schiava,
sebbene il termine non le si addicesse affatto: più che una schiava, infatti,
sembrava colei che agli schiavi comanda, o che schiavi rende gli uomini; una
specie di Cleopatra, sì, una Cleopatra trapiantata su un cocuzzolo della
Sicilia, tanto imperiosa era la forza che emanava: un misto di sensualità,
timidezza ed energia selvaggia.
«La invito a cena. Le va di venire?».
Serviva una risposta? E d’altronde, lui le aveva risposto?
Fabio ricordava solo di averle dato il braccio ed essere uscito insieme a
lei.
Una volta fuori, mentre percorrevano le vie lastricate del centro storico
sotto una luna velata, aveva notato che la ragazza camminava a piedi nudi.
Accorgendosi del suo stupore, lei l’aveva anticipato:
«Sì, mi sento più libera così».
Aveva parlato con una tale naturalezza che lui non aveva trovato niente
da ribattere.
La passeggiata era stata magnifica; tra la frescura dei muri, la sera
spandeva nell’aria profumi di gelsomino, finocchio e anice. Sottobraccio,
erano saliti in silenzio in cima al paese, fino a un albergo a cinque stelle di
un lusso inimmaginabile.
Vedendola puntare verso l’entrata, Fabio aveva fatto per trattenerla: con
tutta la buona volontà, non si sarebbe mai potuto permettere di portare una
ragazza in un posto del genere.
«Non si preoccupi, sono avvisati. Ci aspettano».
Ed effettivamente, nella hall, tutti i membri del personale erano schierati
su due file e si inchinavano al loro passaggio. Mentre avanzava al centro di
quell’impeccabile corridoio, con quella donna da sogno al braccio, Fabio
aveva avuto la sensazione di condurre una sposa all’altare.
Sebbene fossero gli unici clienti del raffinatissimo ristorante, erano stati
guidati in un séparé per godere di una certa intimità.
Il maître si era rivolto alla ragazza con cortesia eccessiva, chiamandola
“principessa”. Lo stesso aveva fatto il sommelier. E lo stesso il cuoco. Fabio
ne aveva dedotto che la ragazza doveva essere un’altezza reale che
alloggiava in quell’albergo, e che probabilmente era per riguardo al rango se
le sue eccentricità venivano tollerate al punto che le era permesso venire a
cena a piedi nudi.
Avevano servito loro caviale e vini d’annata; le portate si erano susseguite
creative, gustose, insolite, mentre tra i due commensali la conversazione
rimaneva sul piano della poesia: avevano parlato dello spettacolo, di teatro,
di cinema, d’amore, di sentimenti. Fabio aveva capito subito che era meglio
non farle domande personali, perché al minimo accenno di indagine la
principessa si chiudeva a riccio. Aveva anche scoperto che il desiderio di
uscire con lui le era nato dai due sceneggiati che l’avevano reso famoso e
che lei aveva adorato; stupito, Fabio si era reso conto che, mentre lui era
molto colpito da lei in quanto tale, il trasporto di Donatella aumentava
quanto più lui si calava nella parte degli eroi romanzeschi interpretati in
passato.
Al dessert si era spinto fino a prenderle la mano; lei l’aveva lasciato fare.
Con una delicatezza nuova, degna dei suoi personaggi, Fabio le aveva detto
che desiderava una cosa sola: poterla stringere tra le sue braccia; lei aveva
avuto un brivido, aveva abbassato le palpebre, era stata di nuovo scossa da
un fremito, poi aveva mormorato in un soffio:
«Mi segua».
Si erano diretti verso lo scalone che conduceva alle camere. Donatella
l’aveva guidato fino alla propria suite, l’appartamento più sfarzoso che
Fabio avesse mai visto: un’esuberanza di sete e velluti arricchiti da ricami,
tappeti persiani, piatti d’avorio, sedie intarsiate, caraffe di cristallo, coppe
d’argento.
Lei aveva chiuso la porta e, sciogliendo il leggerissimo foulard che le
avvolgeva la gola, gli aveva fatto capire di essere sua.
Era stato merito dell’arredamento, degno di un satrapo orientale? Dei
vini e delle pietanze deliziose? Di quella donna così strana, selvaggia e
raffinata insieme, sofisticata e animale allo stesso tempo? Fatto sta che
Fabio aveva passato una notte d’amore superlativa, la più bella della sua
vita. Cosa che, dopo tre lustri, era in grado di certificare.
La mattina, allo spuntare del sole, era uscito dal suo fragile sonno di
amante e tornato alla realtà della sua giornata: c’erano da fare ottanta
chilometri per poi andare in scena pomeriggio e sera, l’appuntamento era
alle otto e mezza nella hall dell’albergo dove alloggiava la compagnia,
l’amministratore della tournée l’avrebbe di nuovo sgridato e multato. Fine
del sogno, quindi!
Si era rivestito in fretta, attento comunque a non fare rumore: era l’unico
modo per prolungare l’incanto.
Prima di lasciare la camera si era avvicinato all’immenso letto a
baldacchino sul quale giaceva ancora Donatella. Pallida, fine, esilissima,
dormiva con un sorriso sulle labbra. Fabio non aveva avuto il coraggio di
svegliarla. “Arrivederci!” le aveva detto in cuor suo. Ricordò di essere
arrivato a pensare che l’amava e che sempre l’avrebbe amata, poi era corso
via.
Quindici anni dopo, il pullman varcava le porte del paese per portare la
Compagnia delle Lumache Verdi al teatro comunale. Il direttore del teatro,
salito davanti, annunciò con espressione tetra che i biglietti prenotati non
arrivavano a coprire un terzo della sala. Neanche fosse colpa loro...
Quindici anni dopo, ciò che aveva pensato congedandosi da Donatella
era ancora vero... L’amava. Sì, l’amava ancora. Anche di più.
La storia non aveva avuto un finale, forse per questo durava ancora:
scapicollandosi giù per il paese, Fabio aveva raggiunto gli altri in tempo per
chiudere i bagagli, a cui l’organizzatore aveva avuto cura di aggiungere le
orchidee del suo camerino. Si era infilato in macchina – all’epoca, in quanto
primo attore, aveva diritto a una limousine con autista, non era relegato sul
pullman insieme al resto della compagnia –, si era riaddormentato, poi si
era ripromesso di telefonare all’albergo di lusso. Ma a causa del nuovo
teatro era stato necessario ripetere le entrate e le uscite di scena, e poi
recitare e recitare ancora.
Così aveva rimandato la telefonata, e in seguito non aveva più avuto il
coraggio di farsi vivo. La quotidianità aveva ripreso il sopravvento. Di
quell’avventura gli era rimasta un’impressione da sogno; più ci ripensava,
più gli era chiaro come Donatella in vari modi gli avesse fatto capire che
quella sarebbe stata una serata unica sia per lei che per lui, una meraviglia
senza domani.
Perché andarla a stuzzicare? si era chiesto; era una donna ricca,
altolocata, magari già sposata. Fabio si era quindi rassegnato a occupare il
posto che lei gli aveva attribuito: il capriccio di una sera. In fondo gli
piaceva l’idea di essere stato un uomo oggetto, un balocco tra le sue mani.
Si era divertito un mondo a impersonare una sua fantasticheria, e lei glielo
aveva domandato con una tale gentilezza, una tale eleganza...
Il pullman spense il motore: erano arrivati. La Compagnia delle Lumache
Verdi disponeva di due ore buone di libertà prima di ritrovarsi tutti in
teatro.
Fabio lasciò la valigia nella sua stanzetta e si incamminò verso l’albergo di
lusso.
Inerpicandosi per le viuzze pensava a quanto stupida fosse la sua
speranza. Come gli era passato per la testa di poterla rivedere? Se all’epoca
Donatella stava in quell’albergo, era proprio perché non ci abitava. Perché
mai avrebbe dovuto ritrovarcela ora?
“Difatti non vado a un appuntamento” concluse con amarezza. “E
nemmeno sto facendo una ricerca. È un pellegrinaggio. Una camminata nei
miei ricordi, nella memoria di un’epoca in cui ero giovane, bello e famoso,
di un tempo in cui suscitavo i desideri di una principessa”.
La vista dell’albergo lo intimorì più della prima volta, perché ormai
conosceva meglio il valore delle cose: e bisognava guadagnare proprio tanto
per prendere una stanza in un posto così!
Esitò a oltrepassare la soglia.
Mi cacceranno. Si vede subito che non ho i soldi neanche per un cocktail
al bar.
Per farsi coraggio si disse che era un attore, che aveva un bel fisico.
Decise di immergersi nel ruolo ed entrò.
Alla reception evitò gli impiegati giovani e si diresse verso un portiere
sessantenne che non solo aveva l’aria di aver lavorato lì quindici anni prima,
ma sembrava anche dotato della proverbiale memoria dei portieri.
«Mi scusi, sono Fabio Fabbri, attore. Sono stato qui quindici anni fa. Lei
lavorava già in questo albergo?».
«Sissignore, facevo il ragazzo d’ascensore. Che posso fare per lei?».
«Ecco, c’era una giovane donna molto bella, credo un’altezza reale. Se ne
ricorda?».
«Molte persone di sangue blu vengono da noi, signore».
«Si faceva chiamare Donatella, anche se non credo che... Il personale si
rivolgeva a lei chiamandola principessa».
L’uomo dalle chiavi d’oro sul bavero si mise a frugare tra i suoi ricordi.
«Vediamo, vediamo, la principessa Donatella, la principessa Donatella...
No, mi dispiace, non mi dice niente».
«Ma sì, sono sicuro che se la ricorda. Era giovanissima e molto bella, e
anche piuttosto eccentrica. Per esempio, andava in giro a piedi nudi».
Colpito dal particolare, l’uomo rovistò in un altro comparto della sua
memoria e a un certo punto esclamò:
«Ci sono! È Rosa».
«Rosa?».
«Rosa Lombardi!».
«Rosa Lombardi... Ero sicuro che Donatella fosse solo il nome di una
sera! Ha sue notizie? Torna ogni tanto? Che donna indimenticabile!».
L’uomo sospirò e si appoggiò al bancone con aria confidenziale.
«Certo che mi ricordo di Rosa... Faceva la cameriera qui. Era la figlia di
quello che lavava i piatti in cucina, Peppino Lombardi. Poveretta, si era
presa la leucemia da giovanissima. Sa, quella malattia del sangue... Le
volevamo tutti un gran bene. All’ultimo ci faceva talmente pena che
decidemmo di esaudire ogni suo capriccio fino a quando non fosse andata a
morire in ospedale. Povera creatura, non aveva neanche diciott’anni... Fin
da piccola ha sempre girato per il paese a piedi nudi. Per scherzare la
chiamavamo la principessa scalza...».
Odette Toulemonde
Dal canto suo, Balthazar Balsan stava trascorrendo una notte molto più
carnale. La bella Florence gli si era concessa senza alcun imbarazzo. Posto
di fronte al corpo perfetto di quella Venere nera, lui ce l’aveva messa tutta
per mostrarsi un buon amatore, ma tanto trasporto gli era costato un certo
sforzo, e aveva avuto la sensazione che anche a livello sessuale la stanchezza
cominciasse a farsi sentire. Le cose iniziavano a pesargli. Si chiese se,
volente o nolente, non fosse giunto a un giro di boa dell’età.
A mezzanotte, Florence volle accendere la televisione per seguire
l’importante trasmissione letteraria in cui sarebbe stato osannato il suo
libro. Balthazar non l’avrebbe permesso, se non vi avesse visto l’occasione
per godere di una tregua ristoratrice.
Appena il volto del temibile critico letterario Olaf Pims apparve sullo
schermo, Balthazar, per chissà quale istinto, sentì subito che stava per essere
aggredito.
Dietro gli occhiali rossi, gli occhiali del torero che si appresta a giocare
con il toro prima di ucciderlo, il critico assunse un’aria annoiata, per non
dire disgustata.
«Mi viene chiesto di recensire l’ultimo libro di Balthazar Balsan. E va
bene. Se almeno ciò fosse vero, se potessimo essere sicuri che è proprio il
suo ultimo libro, sarebbe senz’altro una buona notizia! Perché io sono
esterrefatto. Dal punto di vista letterario è una catastrofe. Tutto ci lascia
costernati: la storia, i personaggi, lo stile... Essere così pessimi, pessimi con
costanza, pessimi con regolarità, diventa quasi una performance, ci vuole
genio! Se si potesse morire di noia, sarei morto ieri sera».
Nudo nella camera d’albergo, con un asciugamano intorno alla vita,
Balthazar Balsan assisteva a bocca aperta alla propria demolizione in diretta.
Accanto a lui sul letto, Florence, imbarazzatissima, si dimenava come un
verme attaccato all’amo che cerchi di risalire in superficie.
Olaf Pims continuò tranquillamente il suo massacro.
«Provo un certo imbarazzo nel dire queste cose, tanto più che ho avuto
occasione di incrociare Balthazar Balsan in pubblico e mi è sembrato un
uomo piacevole, cordiale, molto curato, con un fisico un po’ ridicolo da
professore di ginnastica, magari, ma un individuo comunque frequentabile.
Insomma, il tipo d’uomo da cui una donna divorzia con piacere».
Con un sorrisetto, Olaf Pims si rivolse alla telecamera e parlò come se di
colpo si trovasse di fronte a Balthazar Balsan.
«Con l’alto senso del luogo comune che si ritrova, signor Balsan, un
lavoro così non lo deve chiamare romanzo, ma dizionario. Sì, dizionario
delle frasi fatte, dei pensieri vuoti. Nel frattempo, ecco cosa merita il suo
libro... la pattumiera, e in fretta».
Olaf Pims strappò in due la copia che teneva in mano e se la gettò con
disprezzo alle spalle. Balthazar incassò quel gesto come un uppercut.
Colpito anche lui da tanta veemenza, il presentatore del programma
domandò:
«Come spiega, allora, il suo successo?».
«Anche i poveri di spirito hanno diritto ad avere un eroe. Le portiere, le
cassiere, le parrucchiere che collezionano bambole del luna park e
fotografie di tramonti hanno probabilmente trovato il loro scrittore ideale».
Florence spense la televisione e si girò verso Balthazar. Se fosse stata
un’addetta stampa più esperta, gli avrebbe scodellato quel che si deve
obiettare in questi casi: quel Pims è uno pieno di astio che non sopporta il
successo dei tuoi libri, li legge con il preconcetto che tu voglia adescare il
pubblico, quindi vede demagogia là dove c’è naturalezza, sospetta un
intento commerciale dietro il virtuosismo tecnico, scambia per marketing il
tuo desiderio di interessare la gente, e in più si dà la zappa sui piedi
trattando i lettori da sottosviluppati incompetenti e rivelando così un
disprezzo sociale inaudito. Ma siccome era giovane, Florence era ancora
influenzabile; e siccome era mediocremente intelligente, non distingueva tra
cattiveria e senso critico: nella sua testa, quindi, il verdetto era stato
pronunciato.
Fu forse perché sentì su di sé lo sguardo commiserevole e sconsolato
della ragazza che quella sera Balthazar entrò in una fase depressiva.
Commenti ostili ne aveva sempre subiti, sguardi di pietà mai. Cominciò a
sentirsi vecchio, finito, ridicolo.
Da quella notte, Odette aveva riletto il Silenzio della pianura tre volte e lo
considerava uno dei romanzi migliori di Balthazar Balsan. A Rudy, il figlio
parrucchiere, finì per confessare l’incontro mancato con lo scrittore. Lui
capì che la madre ne soffriva, e non rise.
«Che volevi da lui? Cosa desideravi dirgli?».
«Che non solo i suoi libri sono belli, ma mi fanno bene. I migliori
antidepressivi del mondo, li dovrebbe passare la mutua».
«Beh, visto che non sei riuscita a dirglielo, perché non gli scrivi?».
«Non è strano che io scriva a uno scrittore?».
«Perché strano?».
«Una donna che scrive male che scrive a un uomo che scrive bene!».
«Beh, i parrucchieri calvi esistono».
Convinta dal ragionamento di Rudy, si piazzò nel salotto-sala da pranzo,
mise da parte per un po’ il lavoro delle piume e scrisse la lettera.
Neanche il tempo di finire la lettera, che Rudy schizzò fuori dalla camera
dove flirtava con il suo nuovo amichetto: in maglietta e mutande, tanta era
la fretta di annunciare a Odette che, stando a internet, proprio in quei
giorni Balthazar Balsan avrebbe firmato altre dediche nella vicina Namur.
«Così potrai portargli la lettera!».
Con la mano sinistra Olga sbriciolava una vecchia crosta di pane, con la
destra reggeva la scodella vuota.
Tatiana si avvicinò.
«Lo sapevi che hai diritto a un pacchetto di sigarette ogni due giorni?».
«Pensa un po’ che lo sapevo e che me le stavo pure fumando!».
La risposta era uscita dalla bocca di Olga come una fucilata: violenta,
impetuosa, bruscamente accelerata da una settimana di silenzio.
Al di là del tono aggressivo, Tatiana notò che Olga aveva parlato più del
solito: i rapporti umani dovevano mancarle... Ritenne quindi di poter
continuare.
«Visto che non ti sfugge niente, ti sarai accorta che nessuna di noi fuma.
Giusto un paio, quando ci sono le sorveglianti».
«Ehm... sì. No. Che vuoi dire?».
«Non ti sei chiesta cosa ci facciamo con le sigarette?».
«Me lo posso immaginare: le scambiate. È il denaro del campo. Perché,
me ne vuoi vendere qualcuna? Non ho niente da darti in cambio...».
«Sbagliato».
«Con che si paga allora, visto che soldi non ce ne sono?».
Olga scrutò Tatiana con una smorfia sospettosa, come se già sapesse che
stava per venire a conoscenza di qualcosa di disgustoso. Tatiana si prese
quindi il tempo di rispondere.
«Non vendiamo le nostre sigarette e nemmeno le scambiamo. Le usiamo
per qualcosa di diverso che fumare».
Conscia di aver stuzzicato la curiosità di Olga, Tatiana chiuse lì la
conversazione, ben sapendo che la propria posizione ne sarebbe uscita
rafforzata se fosse stata l’altra a venire da lei per sentire il seguito.
Quella stessa sera Olga si recò da Tatiana e la fissò a lungo, quasi
sfidandola a rompere il silenzio. Invano. Tatiana la ripagava con la stessa
moneta del primo giorno.
Olga finì per cedere.
«Beh, allora che ci fate con le sigarette?».
Tatiana si girò verso di lei e ne sondò lo sguardo.
«Ti sei lasciata dietro persone che ami?».
Per tutta risposta, il volto di Olga fu increspato da una contrazione di
dolore.
«Anche noi» proseguì Tatiana. «Ci mancano i nostri uomini. Ma la
preoccupazione per loro, alla fine, è la stessa che abbiamo per noi, stanno
solo in un altro campo. No, la tortura vera sono i figli...».
La voce di Tatiana si incrinò: la sua mente era appena stata occupata
dall’immagine delle due figlie. Solidale, Olga le posò un mano sulla spalla,
una mano robusta, forte, quasi maschile.
«Ti capisco, Tatiana. Anch’io ho lasciato una figlia. Per fortuna ha
ventun anni».
«Le mie ne hanno otto e dieci...».
Concentrata a trattenere le lacrime, non riuscì a continuare. D’altronde
non c’era altro da aggiungere.
La rude mano di Olga forzò la testa di Tatiana contro la propria spalla, e
l’eterna ribelle, la caporiona, la dura della baracca, avendo trovato qualcuna
più dura di lei, si abbandonò ad alcuni secondi di pianto sul petto di una
sconosciuta.
Passato l’attacco di commozione, Tatiana riprese il filo del discorso.
«Ecco a cosa ci servono le sigarette: togliamo il tabacco e conserviamo la
carta. Poi incolliamo le cartine l’una con l’altra e riusciamo a tirarci fuori
una pagina di carta vera. Guarda, ti faccio vedere».
Sollevata una tavola del pavimento, Tatiana estrasse da un nascondiglio
pieno di patate un frusciante mazzetto di fogli fatti di cartine di sigarette le
cui fini nervature erano ingrossate da suture e giunture, come una specie di
papiro millenario finito in Siberia per chissà quale aberrazione archeologica.
Lo posò con precauzione sulle ginocchia di Olga.
«Ora lo sai. Prima o poi una di noi uscirà, per forza... E porterà fuori i
nostri messaggi».
«Bene».
«Come avrai immaginato, c’è un problema».
«Sì, lo vedo. I fogli sono vuoti».
«Vuoti. Di qua e di là. Perché non abbiamo penna né inchiostro. Mi sono
persino fatta dare uno spillo da Lily per provare a scrivere con il sangue, ma
si cancella subito... In più, ho problemi a cicatrizzare. Mancanza di
piastrine. Denutrizione. Nessuna voglia di andare in infermeria a destare
sospetti».
«Perché mi dici queste cose? Che c’entro io?».
«Immagino che anche tu vorrai scrivere a tua figlia».
Olga lasciò trascorrere un buon minuto prima di rispondere in tono
ruvido:
«Sì».
«Allora ecco la proposta: noi ti diamo la carta e tu ci dai la matita».
«Cosa ti fa pensare che abbia una matita? È la prima cosa che ti levano
quando ti arrestano. E, come tutte, sono stata perquisita un’infinità di volte
prima di arrivare qui».
«I tuoi capelli...».
Tatiana indicò la folta criniera che faceva da aureola alla maschera severa
di Olga. Insisté.
«Vedendoti arrivare mi è subito venuto in mente che...».
Olga la fermò con la mano e, per la prima volta, sorrise.
«Hai visto giusto».
Sotto lo sguardo sbigottito di Tatiana si infilò una mano dietro l’orecchio,
frugò tra i ricci e, con gli occhi che le brillavano, tirò fuori una piccola
matita che porse alla sua compagna di detenzione.
«Affare fatto!».
È difficile dare una misura della gioia che riscaldò l’animo delle detenute
durante i giorni che seguirono. Insieme a quella piccola mina di grafite
venivano loro restituiti cuore, legami con il mondo di prima e possibilità di
mandare un abbraccio ai figli. La prigionia diventava meno pesante. Il senso
di colpa pure. Alcune di loro, infatti, provavano rimorso per aver anteposto
l’azione politica alla vita familiare, e ora che si trovavano relegate in fondo a
un gulag, con i figli affidati alla stessa società che avevano detestato e
combattuto, rimpiangevano di essere state delle militanti, si accusavano di
essere venute meno ai propri doveri rivelandosi delle pessime madri. Non
avrebbero fatto meglio, come tanti sovietici, a tacere e rifugiarsi nei valori
domestici? A salvare la propria pelle e quella dei propri cari anziché lottare
per la pelle di tutti?
Sebbene ogni detenuta avesse a disposizione parecchi fogli, non c’era che
una matita. Dopo molte riunioni, decisero che ognuna avrebbe avuto diritto
a tre pagine, poi il tutto sarebbe stato cucito in un unico quaderno pronto a
uscire non appena se ne fosse presentata l’occasione.
Seconda regola: ognuna era tenuta a redigere le proprie pagine senza
cancellature, in modo da usare la matita il meno possibile.
Le decisioni furono approvate quella sera stessa nell’entusiasmo generale,
ma già dal giorno dopo cominciarono a presentarsi le difficoltà. Di fronte
all’obbligo di concentrare il proprio pensiero in tre pagine, le donne si
lasciavano prendere dallo sgomento: dire tutto in tre pagine... Come fare
per mettere insieme tre fogli essenziali, tre pagine testamentarie che
esprimessero l’essenza del proprio vivere, tre papiri per lasciare la propria
anima e i propri valori in eredità ai figli, per indicare loro, e per sempre,
qual era stato il senso del proprio passaggio sulla terra?
L’esercizio si rivelò una tortura. Ogni sera dalle brande provenivano
singhiozzi. Alcune prigioniere persero il sonno, altre gemevano in sogno.
Ogni volta che le pause del lavoro obbligatorio lo permettevano,
cercavano di scambiarsi le idee.
«Io voglio raccontare a mia figlia perché sono qui e non con lei. Sperando
che mi capisca e, possibilmente, mi perdoni».
«Tre fogli di coscienza sporca per farti la coscienza pulita! Credi davvero
che sia una buona idea?».
«A me va di raccontarle come ho conosciuto suo padre, perché sappia
che è il frutto di una storia d’amore».
«Ah sì? Si chiederà come mai non hai continuato quella storia d’amore
con lei».
«Io ho voglia di raccontare alle mie tre di quando le ho partorite: sono
stati i momenti più belli della mia vita».
«Belli e brevi. Ma forse ci restano un po’ male che i tuoi ricordi si
limitino alla loro nascita, non credi? Parla anche di quello che è successo
dopo».
«Io scriverò tutto ciò che vorrei fare per loro».
«Mmm...».
Chiacchierando, scoprirono un particolare curioso: tutte avevano dato
alla luce figlie femmine. La coincidenza le divertì, e le stupì tanto che si
chiesero se la decisione delle autorità di incarcerare nel Padiglione 13 solo
madri di femmine non fosse stata intenzionale.
La novità non modificò comunque il loro rovello: cosa scrivere?
Ogni sera Olga alzava la matita e la offriva alla camerata:
«Chi vuole cominciare?».
Ogni sera la domanda cadeva nel vuoto. Il tempo scorreva in maniera
tangibile, come gocce di stalattiti dal soffitto di una grotta. Le donne, a testa
bassa, aspettavano che una di loro gridasse “Io” e liberasse per un po’ le
altre dal disagio, ma dopo qualche colpo di tosse e alcune occhiate furtive le
più coraggiose finivano per rispondere che volevano pensarci ancora.
«Io ho quasi le idee chiare... Domani, mi sa...».
«Sì, anch’io sto andando avanti, ma non sono ancora sicura...».
I giorni si susseguivano sferzati dalla tormenta o cristallizzati da brina
immacolata. Dopo aver atteso quella matita per due anni, passarono tre
mesi senza che nessuna la chiedesse o la accettasse.
Così la sorpresa fu grande quando una domenica, dopo che Olga ebbe
sollevato il lapis e pronunciato la frase rituale, Lily si precipitò a rispondere:
«Io, grazie».
Tutte si girarono stupefatte verso la bionda e pingue Lily, la più
sprovveduta tra loro, la più sentimentale, la meno volitiva. Insomma,
diciamolo: la più normale. Se avessero dovuto pronosticare quale
prigioniera avrebbe inaugurato la scrittura dei fogli, di sicuro Lily sarebbe
finita agli ultimi posti. Veniva prima Tatiana, forse Olga, magari Irina... ma
la banale e soave Lily?
Tatiana non poté fare a meno di balbettare:
«Sei... sei sicura... Lily?».
«Sì, credo di sì».
«Non è che ti sbagli, poi correggi... insomma, che sprechi la matita?».
«No, ci ho pensato bene. Dovrei farcela senza cancellature».
Scettica, Olga consegnò la matita a Lily. Mentre gliela dava, scambiò uno
sguardo d’intesa con Tatiana, quasi a confermarsi reciprocamente che
stavano commettendo una sciocchezza.
Nei giorni successivi, le donne del Padiglione 13 seguirono con gli occhi
Lily ogni volta che, seduta per terra, si isolava a scrivere alternando
inspirazione – occhi al soffitto – ed espirazione – spalle curve per
nascondere alle altre i segni che tracciava sulla carta.
Il mercoledì annunciò soddisfatta:
«Ho finito. Chi vuole la matita?».
Un silenzio di piombo accolse la domanda.
«Chi vuole la matita?».
Nessuna osava guardare le altre.
«Bene» concluse tranquillamente Lily. «La rimetto nella testa di Olga e
aspettiamo domani».
Olga si limitò a emettere un breve grugnito quando Lily le nascose
l’oggetto in mezzo al cespuglio di capelli.
Una persona diversa da Lily, meno buona, più smaliziata sulle
complessità dell’animo umano, avrebbe notato che le donne del padiglione
la guardavano ormai con gelosia, persino con un pizzico di odio. Come era
possibile che proprio Lily, praticamente un’idiota, fosse riuscita dove le
altre non ce la facevano?
Trascorse una settimana in cui ogni sera, a ogni donna, venne fornita
l’occasione di rivivere la propria sconfitta.
Finalmente, il mercoledì successivo a mezzanotte, mentre un concerto di
respiri indicava che la maggior parte delle donne dormiva, Tatiana, stanca
di girarsi e rigirarsi sul pagliericcio, si trascinò quatta quatta fino al letto di
Lily.
Lei sorrideva, lo sguardo fisso al soffitto buio.
«Lily, ti supplico, mi dici cosa hai scritto?».
«Certo. Lo vuoi leggere?».
«Sì».
Ma come? Il coprifuoco era passato da un pezzo.
Tatiana si rannicchiò presso la finestra. Al di là delle ragnatele si stendeva
un manto di neve pura reso azzurro dalla luna piena; storcendo il collo, la
donna riuscì a decifrare i tre fogli.
Lily si avvicinò e, con il tono della bambina che ha appena commesso una
sciocchezza, domandò:
«Allora, che ne pensi?».
«Lily, sei grande!».
E Tatiana la prese tra le braccia e la baciò più volte sulle guance paffute.
Il giorno dopo, Tatiana chiese a Lily due favori: il permesso di seguire il
suo esempio e il permesso di parlarne alle altre.
Lily abbassò le palpebre, arrossì come se le avessero offerto dei fiori e
cinguettò una frase fatta di gorgoglii e pigolii che significava sì.
Epilogo
15 agosto 2006
Nota sull’Autore
Eric-Emmanuel Schmitt è nato a St. Foy Les Lyon nel 1960. Ha studiato
musica al conservatorio di Lione e successivamente si è laureato all’École
Normale Supérieure di rue d’Ulm a Parigi. Ha insegnato filosofia
all’università di Chambéry. Come autore teatrale ha scritto diverse opere che
sono state rappresentate in tutto il mondo. I suoi romanzi sono tradotti in
molte lingue. Le Edizioni E/O hanno pubblicato, oltre a Odette
Toulemonde, da cui è stato tratto il film Lezioni di felicità, Monsieur
Ibrahim e i fiori del Corano, Piccoli crimini coniugali, Milarepa, La parte
dell’altro, La mia storia con Mozart, Quando ero un’opera d’arte, La rivale,
La sognatrice di Ostenda, Il visitatore, La rivale, Un racconto su Maria
Callas, Ulisse da Baghdad, Il lottatore di sumo che non diventava
grosso, Concerto in memoria di un angelo e La scuola degli egoisti.
Quarta di copertina dell’edizione cartacea