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Edizioni e/o

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Titolo originale: Odette Toulemonde et autres histoires


Copyright © 2006 by Éditions Albin Michel, S. A. – Paris
Copyright © 2007 by Edizioni e/o

Foto di copertina: Laurent Lufroy

ISBN 978-88-7641-959-1
Eric-Emmanuel Schmitt

ODETTE TOULEMONDE
E ALTRI RACCONTI
Traduzione dal francese
di Alberto Bracci Testasecca
...questi mazzi di fiori che partono
alla ricerca di un cuore
e non trovano che un vaso.

ROMAIN GARY
Biglietto scaduto
Wanda Winnipeg

I n pelle l’interno della Rolls-Royce. In pelle l’autista, guanti compresi. In


pelle le valigie e le sacche di cui è pieno il baule. In pelle il sandalo
intrecciato che precede la gamba sottile sul bordo della portiera. In pelle il
tailleur scarlatto di Wanda Winnipeg.
I facchini s’inchinano.
Wanda Winnipeg varca la soglia senza guardare nessuno né sincerarsi
che il suo bagaglio le venga dietro. E come potrebbe essere altrimenti?
Al banco della reception gli impiegati fremono. Impossibilitati a capire
dove punti la sua attenzione a causa degli occhiali neri che le coprono gli
occhi, si profondono in formule di benvenuto.
«Ben arrivata, signora Winnipeg. Siamo onorati che abbia scelto il Royal
Smeraldo. Faremo di tutto per rendere il suo soggiorno indimenticabile».
Accoglie quelle attestazioni di stima come dovute, senza rispondere, ma
gli impiegati vanno avanti come se anche lei partecipasse alla conversazione.
«Il centro benessere è aperto dalle sette alle ventuno, così come l’area
fitness e la piscina».
Wanda fa una smorfia. Terrorizzato, il responsabile dei servizi estetici la
anticipa:
«Naturalmente, se vuole, possiamo cambiare gli orari e adattarli alle sue
esigenze».
Il direttore, sopraggiunto di gran fretta, scivola alle sue spalle e squittisce
con il fiato corto:
«Signora Winnipeg, quale onore che lei abbia scelto il Royal Smeraldo!
Faremo di tutto per rendere il suo soggiorno indimenticabile».
Si è espresso con la stessa frase fatta dei suoi dipendenti. Wanda
Winnipeg non nasconde agli impiegati un sorrisino di scherno, come per
dire: “Mica tanto sveglio il capo, non è riuscito a inventarsi una frase
migliore della vostra”, poi si volta e gli porge la mano da baciare. Il
direttore non ha colto l’ironia e non la coglierà, perché la gran dama si
degna di rispondergli:
«Spero proprio che non rimarrò delusa. La principessa Matilde mi ha
parlato così bene di voi...».
Con un movimento riflesso dei talloni, a mezza strada tra il militare che
saluta e il ballerino di tango che ringrazia, il direttore accusa il colpo: ha
appena realizzato che sta accogliendo nel suo albergo non soltanto una delle
più immense fortune del pianeta, ma una persona che ha frequentazioni
assidue con il gotha mondiale.
«Lei conosce Lorenzo Canali, naturalmente...».
Wanda Winnipeg introduce con un gesto il suo compagno, un bellone
dai capelli lunghi e neri, lucidi come la cera, che fa un cenno di testa
accompagnato da un mezzo sorriso, perfettamente calato nel ruolo di
principe consorte che, consapevole del proprio rango inferiore, sa di
doversi mostrare più alla mano della regina.
Poi si dirige verso la suite a lei riservata, ben conoscendo i commenti che
seguono la sua scia.
«La credevo più alta... Bella, però! Sembra più giovane che in fotografia,
vero?».
Entrando nell’appartamento, sente subito che ci starà molto bene; ciò
nonostante ascolta con espressione scettica il direttore che gliene illustra le
meraviglie. Malgrado l’ampiezza dello spazio, il marmo in entrambi i bagni,
l’abbondanza di fiori, la qualità degli schermi televisivi, i preziosi intarsi dei
mobili, Wanda ha un’aria insoddisfatta. Fa notare che sarebbe utile un
telefono in terrazza, casomai desiderasse ricevere una chiamata senza
muoversi dalla chaise longue.
«Certo, signora. Giusto. Glielo faccio installare subito».
Wanda si guarda bene dallo specificare che non le servirà mai, che userà
comunque sempre il suo cellulare, perché vuole mantenere l’uomo nel
terrore fino al momento della partenza, in modo da essere sicura che la
servirà al meglio. Con un inchino, il direttore del Royal Smeraldo si
congeda e chiude la porta dietro di sé promettendole con effusione mari e
monti.
Finalmente sola, si stende su un canapè mentre Lorenzo e la cameriera
sistemano i vestiti negli armadi. È consapevole dell’effetto che provoca negli
altri: una cosa che la diverte sempre. Viene rispettata perché si riserva la
propria opinione, e temuta perché parla solo per esprimere un giudizio
negativo. L’effervescenza suscitata da ogni sua minima apparizione non è
dovuta né alla sua leggendaria ricchezza né al fisico ineccepibile, bensì a
una specie di alone mitico che la circonda.
Ma cosa ha fatto, alla fine? Secondo lei, il tutto si riassume in due
princìpi fondamentali: sapersi sposare e saper divorziare.
A ogni matrimonio Wanda ha salito un gradino della scala sociale.
L’ultimo, quindici anni fa, l’ha resa ciò che è oggi. È diventata famosa
sposando il miliardario americano Donald Winnipeg, le foto del
matrimonio sono state pubblicate sulle riviste di tutto il mondo, e a quelle
sono seguiti i servizi che le hanno proposto quando ha divorziato, uno dei
divorzi più ricchi e pubblicizzati degli ultimi anni e che l’ha fatta diventare
una delle donne più facoltose del pianeta.
Da allora, la sua vita da nababba fila liscia come l’olio. Per gestire i propri
affari, Wanda Winnipeg non fa altro che assumere gente molto qualificata:
se non funzionano, li silura senza rimorsi.
Arriva Lorenzo e cinguetta con la sua voce calda:
«Qual è il programma di oggi pomeriggio, cara?».
«Potremmo fare un tuffo in piscina e poi venirci a riposare in camera, che
ne dici?».
Lorenzo traduce nel proprio linguaggio i due ordini di Wanda: guardarla
nuotare due chilometri, poi scoparla.
«Ottimo, Wanda, mi sembra un programmino delizioso».
Lei lo gratifica di un sorriso: Lorenzo non ha scelta, ma è carino da parte
sua farsi vedere contento della propria sottomissione.
L’uomo si dirige verso il bagno con un’andatura lievemente ancheggiante
che ne mette in mostra la corporatura slanciata, la curva dei reni. Wanda
pensa con voluttà che tra poco potrà sprimacciare quelle natiche di maschio
a piene mani.
È la cosa che mi piace di più degli uomini, vai a sapere perché!
Nel suo monologo interiore, Wanda usa frasi semplici e colorite che
rivelano la sua origine popolare. Per fortuna è la sola a sentirle.
Riappare Lorenzo in camicia di lino e costume da bagno attillato, pronto
ad accompagnarla in piscina. È il compagno più professionale che Wanda
abbia mai avuto: non guarda nessun’altra donna, simpatizza solo con gli
amici di lei, mangia come lei, si alza alle stesse ore ed è costantemente di
buon umore. Assolve il proprio ruolo, indipendentemente dal fatto che la
cosa gli piaccia o meno.
A conti fatti è impeccabile. Detto ciò, neanch’io sono così male.
Wanda non si riferisce tanto al proprio aspetto quanto al proprio
comportamento: Lorenzo sarà pure un gigolo professionista, ma anche lei
ha le idee molto chiare su come si tratta un gigolo. Ancora qualche anno fa,
di fronte all’attitudine premurosa, galante, irreprensibile di Lorenzo le
sarebbero venuti dei dubbi, lo avrebbe sospettato di omosessualità. Oggi le
importa poco scoprire se Lorenzo si senta attratto dagli uomini o no, basta
che la scopi bene e ogni volta che lei ne ha voglia. Nient’altro. Non vuole
neanche sapere se, come tanti, vada di nascosto al cesso a iniettarsi nel pene
un prodotto che gli consente di presentarsi a lei lancia in resta...
Noi donne siamo così brave a fingere... Perché non ci dovrebbe andar
bene che fingano anche loro?
Wanda Winnipeg è giunta a quel punto felice nella vita di un’ambiziosa
in cui, alla fine, il cinismo produce saggezza: svincolata dalle esigenze
morali, gode della vita così com’è e degli uomini così come sono, senza
pigliarsela troppo.
Prende l’agenda e controlla il piano delle proprie vacanze. Wanda
Winnipeg odia annoiarsi, quindi prevede tutto in anticipo: serate di
beneficenza, visite in villa, rendez-vous con gli amici, escursioni in
acquascooter, massaggi, inaugurazioni di ristoranti, aperture di locali, balli
in costume. Non lascia spazio all’improvvisazione, persino le ore dedicate
allo shopping o alla siesta sono programmate. Tutto il personale, Lorenzo
compreso, ha una copia della sua agenda, e tutti avranno il dovere di
opporsi all’importuno che li assedierà per ottenere la presenza della signora
Winnipeg al proprio tavolo o al proprio party.
Rassicurata, chiude gli occhi. Un odore di mimosa la disturba. Si allarma,
si raddrizza, si guarda intorno inquieta. Falso allarme. È vittima soltanto di
sé stessa: quel profumo le ricorda che ha passato qui una parte della sua
infanzia, un tempo in cui era povera e non si chiamava Wanda. Nessuno lo
sa né lo deve sapere. Ha totalmente reinventato la propria biografia facendo
credere di essere nata in Russia, vicino a Odessa; il mito trova conferma
nell’accento che si è costruita e che mette così bene in risalto il suo timbro
rauco in tutte e cinque le lingue da lei parlate.
Alzandosi, scuote la testa e scaccia i ricordi. Addio, reminiscenze! Wanda
ha tutto sotto controllo: corpo, comportamento, affari, sessualità, passato.
Ora deve solo trascorrere delle vacanze magnifiche. D’altronde, ha pagato
per questo.

La settimana scorre a meraviglia.


Passano da una cena “squisita” a un pranzo “delizioso” a una serata
“divina”. Dovunque, le conversazioni del jet set sono identiche, e in un
attimo, neanche avessero trascorso l’intera estate sulla Costa Azzurra,
Wanda e Lorenzo sono in grado di discutere tranquillamente delle ultime
novità del Disco Privilège, del ritorno di moda dello string – «che idea
bizzarra, ma in fondo, se una se lo può permettere...» –, di quel gioco
“divertentissimo” in cui bisogna far indovinare i titoli dei film mimandoli –
«dovevate vedere Nick che cercava di farci capire Via col vento!» –,
dell’automobilina elettrica «ideale per andare in spiaggia, mia cara» e del
fallimento di Aristotele Paropulos, ma soprattutto dello schianto di quei
poveri Sweetenson con l’aereo privato – «un monomotore, ti giuro. Ma dico
io, non ti compri un monomotore se hai i soldi per comprarti un jet!».
L’ultimo giorno, una gita sullo yacht dei Farinelli – «ma sì, è il re del
sandalo italiano, quello sottile con il doppio laccio sulla caviglia. È l’unico»
– conduce Wanda e Lorenzo sulle placide acque del Mediterraneo.
Le donne capiscono subito cosa devono fare durante la traversata: salire
sul ponte e, quale che sia la loro età, esibire una plastica perfetta, seno sodo,
corpo slanciato e gambe senza cellulite. Wanda si presta all’esercitazione
con la naturalezza di chi sa di essere fatta meglio e di conservarsi meglio.
Lorenzo – decisamente esemplare – la cova con uno sguardo ardente da
innamorato. Divertente, no? Wanda riscuote qualche complimento che la
mette di buon umore e, con gaiezza accentuata dal rosé di Provenza, monta
insieme all’allegro gruppo di miliardari sullo Zodiac che li depositerà sulla
spiaggia di Salins.
Per loro è stata apparecchiata una tavola all’ombra dei tralicci di canne
sotto cui si estende il ristorante.
«Signore, signori, volete vedere i miei quadri? Ho la bottega in fondo alla
spiaggia. Se volete vi ci porto».
Chiaramente, nessuno risponde a quella voce umile. Proviene da un
vecchio che si è avvicinato mantenendosi a rispettosa distanza. Tutti
continuano a ridere e a parlare forte come se non esistesse. Lui stesso deve
avere l’impressione di non essere riuscito a farsi sentire, perché ricomincia.
« Signore, signori, volete vedere i miei quadri? Ho la bottega in fondo
alla spiaggia. Se volete vi ci porto».
Questa volta un silenzio indispettito sottolinea che lo scocciatore è stato
chiaramente identificato. Guido Farinelli lancia un’occhiataccia al
ristoratore, che con solerte obbedienza si avvicina al vecchio, lo prende per
un braccio e lo conduce via rimproverandolo.
La conversazione riprende. Nessuno si accorge che Wanda è impallidita.
L’ha riconosciuto.
Malgrado gli anni, malgrado il decadimento fisico – quanti ne avrà ormai,
ottanta? –, sentendo di nuovo quel tono di voce ha tremato.
Lì per lì scaccia con ostilità il ricordo. Detesta il passato. Detesta
soprattutto quel passato lì, il suo passato povero. Da quando è scesa dal
gommone, non le è mica venuto in mente che tanto tempo prima aveva
frequentato quella stessa spiaggia di Salins, che aveva calpestato quella
stessa sabbia punteggiata di rocce nere in un tempo dimenticato da tutti, un
tempo in cui non era ancora Wanda Winnipeg. Poi il ricordo si impone suo
malgrado, contro la sua volontà, e, stranamente, le trasmette un caldo senso
di felicità.
Con discrezione si gira a guardare il vecchio a cui il ristoratore, più in là,
ha offerto un pastis. Ha sempre quell’aria un po’ smarrita, quello stupore
infantile di chi non capisce bene il mondo.
Beh, neanche all’epoca era molto intelligente. A quanto pare non è
migliorato. Ma com’era bello!...
Si sorprende ad arrossire. Lei, Wanda Winnipeg, la donna dai miliardi di
dollari, sente la gola e le guance bruciarle come quando aveva quindici
anni...
Agitata, teme che i vicini di tavolo si accorgano del suo turbamento, ma
le chiacchiere, innaffiate dal rosé, continuano a intrecciarsi tranquille.
Con un sorriso decide di piantarli in asso, e silenziosamente, protetta
dagli occhiali scuri, torna nel suo passato.

Aveva quindici anni, allora. Secondo la biografia ufficiale a quell’età si


trovava in Romania, operaia in una fabbrica di sigarette; stranamente
nessuno si è mai preoccupato di verificare quel particolare che la rende così
romanzescamente simile a una Carmen uscita dalla miseria. In realtà, già da
qualche mese viveva non lontano da lì, a Fréjus, in un istituto per
adolescenti difficili, più che altro orfani. Sebbene non avesse mai
conosciuto suo padre, la madre – quella vera – era all’epoca ancora viva; ciò
nonostante i medici, per tenere la ragazza lontana dalla droga, avevano
preferito separarla da lei e dalle sue continue ricadute nel vizio.
Wanda non si chiamava Wanda, ma Magali. Un nome stupido che lei
odiava, forse perché nessuno l’aveva mai pronunciato con amore. Già allora
si faceva chiamare in un altro modo. Com’era in quegli anni? Ah sì, Wendy,
come l’eroina di Peter Pan. Mancava poco a Wanda...
E come rifiutava il proprio nome, allo stesso modo rifiutava la famiglia.
Entrambe le cose le sembravano un errore. Fin da piccola si era convinta di
essere stata vittima di uno scambio di identità: forse si erano sbagliati con le
culle. Si sentiva destinata al successo e alla ricchezza, invece si ritrovava a
vivere in una topaia a bordo strada insieme a una poveraccia drogata,
sporca e indifferente a tutto. Il suo carattere si formò sulla rabbia per
l’ingiustizia subita. Wanda decise allora di dedicare il resto della propria
vita alla vendetta, a raddrizzare i torti subiti: le dovevano i danni e gli
interessi, per quella partenza accidentata.
Capì subito che avrebbe dovuto farcela da sola. Pur non avendo un’idea
chiara del proprio futuro, sapeva per certo che non avrebbe potuto contare
sui diplomi, sia perché le sue chance scolastiche erano minate alla base da
studi caotici, sia perché, una volta messa in istituto di correzione per via di
alcuni furtarelli nei negozi, si era imbattuta solo in professori più attenti
all’autorità che ai contenuti pedagogici, in insegnanti specializzati che prima
di istruire i loro allievi dovevano educarli. Wanda pensò dunque che
sarebbe riuscita a venirne fuori solo attraverso gli uomini. Piaceva. Era
evidente. E a lei piaceva piacere.
Ogni volta che poteva, scappava dall’istituto per andare in bicicletta giù
alla spiaggia. Estroversa, curiosa, avida di allacciare rapporti, era riuscita a
far credere a tutti che viveva con la madre non lontano da lì. Siccome era
graziosa, l’avevano creduta e la trattavano come una del paese.
Smaniava per andare a letto con un uomo, ma con lo stesso stato d’animo
con cui altre, alla stessa età, hanno l’ansia di un esame difficile: nella sua
testa, era il diploma che le avrebbe permesso di chiudere per sempre la sua
dolorosa adolescenza e di lanciarsi nella vita vera. Però desiderava che
l’esperienza si realizzasse con un uomo vero, non con un ragazzo della sua
età; ambiziosa già allora, riteneva che un moccioso di quindici anni non
avesse granché da insegnarle.
Studiò il mercato dei maschi con la stessa scrupolosa serietà che vi
avrebbe dedicato per tutta la vita. A quell’epoca, in un raggio di cinque
chilometri, uno solo spiccava dalla massa: Cesario.
Wanda aveva raccolto le confidenze di donne che lo definivano l’amante
perfetto. Abbronzato, atletico, slanciato, non soltanto Cesario era dotato di
un fisico sul quale non c’era niente da dire – sotto gli occhi di tutti, del
resto, visto che viveva sulla spiaggia in costume da bagno –, ma adorava le
donne e faceva molto bene l’amore.
«Ti fa di tutto, piccola mia, di tutto, come se fossi una regina! Ti bacia
ovunque, ti lecca ovunque, ti mordicchia le orecchie, le chiappe, anche le
dita dei piedi, ti fa gemere di piacere, ci passa le ore, ti... Dammi retta,
Wendy, uomini che stravedono come lui per le donne non ce ne sono.
Molto semplice. Non c’è che lui. Ecco, il suo unico difetto è che non si
attacca. È scapolo fino al midollo. Non ce n’è una che sia riuscita a
trattenerlo. Ma non è una brutta notizia, vuol dire che abbiamo sempre la
possibilità di riprovarci, o comunque di farci dare una bottarella di quando
in quando, magari da sposate... Ah, Cesario...».
Wanda analizzò Cesario come se avesse dovuto scegliere una facoltà.
Le piaceva, e non solo perché le altre donne vantavano i suoi attributi. Le
piaceva veramente... Aveva la pelle liscia e compatta come caramello fuso...
gli occhi verde e oro circondati di un bianco puro come madreperla... i peli
biondi, dorati in controluce come un’aura luminosa che gli emanava dal
corpo... il torace magro, scolpito... e soprattutto il sedere: sodo, tondo,
carnoso, insolente. Fu contemplando Cesario di spalle che Wanda capì per
la prima volta di essere attirata dalle natiche degli uomini così come gli
uomini lo sono dai seni delle donne: un’attrazione che le sorgeva dalle
viscere, che le attizzava il corpo. Quando Cesario le passava accanto, faceva
fatica a non toccargli il culo, palparlo, carezzarlo.
Disgraziatamente Cesario le prestava poca attenzione.
Wanda lo accompagnava alla sua barca, scherzava con lui, gli proponeva
una bibita, un cono gelato, un gioco... Lui esitava qualche secondo, poi le
rispondeva con una cortesia venata di fastidio.
«Sei molto carina, Wendy, ma non ho bisogno di te».
Wanda schiumava di rabbia: forse Cesario non aveva bisogno di lei, ma
di sicuro lei aveva bisogno di Cesario! Più l’uomo faceva resistenza, più la
ragazza lo desiderava: doveva essere lui e nessun altro. Wanda voleva
inaugurare la sua vita di donna con il più bello, anche se era un poveraccio;
il tempo di andare a letto con i ricchi dal fisico sgraziato sarebbe venuto in
seguito.
Una notte gli scrisse una lunga e infiammata lettera d’amore, così carica
di speranza e abnegazione che, rileggendola, si commosse e ne concluse che
aveva la vittoria in pugno. Chi mai avrebbe potuto resistere a una tale
cannonata d’amore?
Cesario ricevette il messaggio. Quando lei gli si presentò davanti, la
guardò con espressione accigliata e le chiese freddamente di accompagnarla
al pontile. Sedettero di fronte al mare con i piedi a pelo d’acqua.
«Wendy, sei stata molto cara a scrivermi quel che hai scritto. Mi fai un
grande onore. Sei una brava ragazza, e anche molto appassionata...».
«Non ti piaccio? Ho capito, mi trovi brutta!».
Lui scoppiò a ridere.
«Ecco la tigre, pronta a mordere! No, sei molto bella. Anche troppo. È
proprio questo il punto. Io sono una persona perbene».
«Che vuol dire?».
«Che hai quindici anni. Non li dimostri, è vero, ma io so che ce li hai.
Dammi retta, è meglio che aspetti...».
«E se non volessi aspettare?...».
«Se non ti va di aspettare, fai quello che vuoi con chi vuoi. Ma io ti
consiglio di avere pazienza. L’amore non è cosa che si fa con chicchessia e
come che sia».
«È proprio per questo che ho scelto te!».
Stupito dall’ardore della ragazza, Cesario la guardò sotto una nuova luce.
«Sono commosso, Wendy. Stai sicura che ti direi di sì se tu fossi
maggiorenne, giuro. Verrei a letto con te e subito. Anzi, non avresti neanche
bisogno di chiedermelo, sarei io a correrti dietro. Ma siccome non lo sei...».
Wanda scoppiò in lacrime, il corpo scosso dalla disperazione. Cesario
cercò timidamente di consolarla, pur stando attento a respingerla ogni volta
che lei cercava di approfittarne per incollarsi a lui.
Qualche giorno dopo, Wanda tornò alla spiaggia. La reazione di Cesario
le aveva tirato su il morale: gli piaceva, sarebbe stato suo!
Aveva riflettuto sulla situazione e deciso di guadagnarsi la sua fiducia.
Assumendo l’aria dell’adolescente rassegnata alla propria sorte, smise di
provocarlo o di tormentarlo e lo studiò di nuovo, questa volta sotto
l’aspetto psicologico.
A trentotto anni, Cesario passava per quello che in Provenza chiamano
un glandeur, cioè un bel ragazzo che vive di niente, del pesce che pesca, e
che pensa solo a godersi il sole, l’acqua e le donne senza guardare al futuro.
Ma questo non era vero, Cesario aveva una passione: dipingeva. Nel suo
capannone di legno tra la spiaggia e la strada si accumulavano decine di
tavole – non aveva i soldi per comprarsi le tele –, pennelli consunti e tubetti
di colore. Sebbene nessuno lo considerasse tale, ai propri occhi Cesario era
un pittore. Se non si sposava, se non metteva su famiglia, se andava avanti
con una ragazza dopo l’altra non era per superficialità, come tutti
credevano, ma per sacrificio, per potersi dedicare interamente alla propria
vocazione artistica.
Purtroppo bastava un’occhiata per accorgersi che il risultato non valeva
lo sforzo: Cesario dipingeva una crosta dopo l’altra, non aveva
immaginazione né senso del colore né tratto. Nonostante le ore trascorse ad
applicarsi, non aveva speranze di migliorare perché la sua passione andava
di pari passo con una assenza totale di senso critico: scambiava i difetti per
qualità e le qualità per difetti, innalzava la sua scarsa perizia al rango di stile,
mentre distruggeva un certo equilibrio spontaneo dei volumi con il pretesto
che era “troppo classico”.
Nessuno prendeva sul serio le opere di Cesario, né i galleristi né i
collezionisti né la gente della spiaggia, e ancora meno le sue amanti:
un’indifferenza che, nella sua visione delle cose, gli confermava di essere un
genio; doveva solo continuare per la sua strada fino alla consacrazione
finale, fosse anche postuma.
Wanda capì la cosa e cercò di sfruttarla a proprio vantaggio con una
tecnica che mantenne anche in seguito per sedurre gli uomini, un metodo
che, usato bene, trionfa a colpo sicuro: l’adulazione. Più che rivolgergli
complimenti per il suo aspetto – Cesario se ne fregava di essere bello, lo
sapeva e ne approfittava –, doveva farsi vedere interessata alla sua arte.
Divorò un po’ di libri presi a prestito dalla biblioteca dell’istituto – storia
dell’arte, enciclopedia della pittura, biografie di pittori –, poi tornò da lui
con la preparazione adeguata a sostenere i propri argomenti. Lo mise
rapidamente al corrente di ciò che in cuor suo lui aveva sempre pensato: era
un artista maledetto. Come Van Gogh, si sarebbe scontrato con il sarcasmo
dei contemporanei e avrebbe goduto della gloria in un secondo tempo;
nell’attesa, non doveva dubitare del proprio genio neanche per un attimo.
Wanda prese l’abitudine di tenergli compagnia mentre pasticciava con i
pennelli e divenne esperta nell’arte di andare in delirio di fronte ai suoi
intrugli di colore.
Cesario era beato fino alle lacrime di aver incontrato Wanda. Non poteva
più fare a meno di lei. Incarnava ciò che lui non si era mai azzardato
nemmeno a sperare: l’anima gemella, la confidente, l’impresario, la musa.
Aveva ogni giorno più bisogno di lei, e ogni giorno dimenticava un po’ di
più la sua giovane età.
Accadde quel che doveva accadere: si innamorò. Wanda se ne rese conto
prima di lui e ricominciò a indossare abiti provocanti.
Ormai gli leggeva negli occhi la sofferenza di non poterla toccare. Cesario
riusciva ancora a trattenersi per onestà, perché era una persona perbene, ma
si vedeva che moriva anima e corpo dalla voglia di baciarla.
Wanda decise così che era arrivato il momento di assestargli il colpo di
grazia.
Per tre giorni non si fece vedere, puntando sul fatto che la sua assenza
l’avrebbe messo in agitazione. La sera del quarto giorno, a notte già
inoltrata, si presentò in lacrime al capannone.
«Sono disperata, Cesario, è la fine! Mi ammazzo!».
«Che succede?».
«Mia madre ha deciso che torniamo a Parigi. Non ci rivedremo più».
Le cose andarono come previsto: Cesario cercò di consolarla tra le sue
braccia; Wanda non si consolò, lui neppure; Cesario propose di bere un
goccio per tirarsi su; dopo qualche bicchiere, molte lacrime e altrettanti
strofinamenti, non riuscì più a controllarsi e fecero l’amore.
Wanda assaporò ogni istante di quella notte. Le ragazze del paese
avevano ragione: Cesario venerava il corpo femminile. Ebbe la sensazione di
essere una dea posata su un altare, quando lui la portò a letto e la rese
oggetto di culto fino al mattino.
Naturalmente, scappò via all’alba e tornò la sera recitando di nuovo la
scena della disperazione. Ogni notte, per qualche settimana, un Cesario
frastornato tentava di consolare l’amata adolescente tenendola a distanza;
poi, dopo troppi sfregamenti, abbracci e lacrime asciugate sulla palpebra o
sotto il labbro, finiva per perdere il controllo, abbandonare ogni principio
morale e amare la ragazza con l’impeto della passione.
Quando Wanda ebbe la sensazione di aver acquisito un sapere
enciclopedico sui rapporti che intercorrono tra uomo e donna a letto – dato
che lui aveva finito per insegnarle anche ciò che piace al maschio –,
scomparve.
Tornata all’istituto, non dette più notizie di sé, perfezionò l’arte della
voluttà in compagnia di qualche altro uomo, poi accolse con sollievo la
notizia che la madre era morta di overdose.
Libera, fuggì a Parigi, si tuffò nel mondo della notte e intraprese la sua
scalata sociale facendo leva sul sesso maschile.

«Che si fa, torniamo sulla barca o ci facciamo dare dei materassini qui?
Wanda... Wanda? Mi senti? Vuoi tornare in barca o preferisci metterti su
un materassino sulla spiaggia?».
Wanda riapre gli occhi, squadra Lorenzo, lo vede sorpreso dalla sua
distrazione, e decide:
«Andiamo a vedere i quadri del pittore, vi va?».
«Ma dài, saranno agghiaccianti!» ribatte Guido Farinelli.
«Perché no, magari ci ammazziamo dalle risate!» approva subito
Lorenzo, che non perde occasione di esibire la propria sottomissione a
Wanda.
Il gruppetto dei miliardari decide quindi che sarà una cosa divertente e
segue Wanda, che nel frattempo è andata ad abbordare Cesario.
«È lei che ci ha invitato a visitare il suo studio?».
«Sì, signora».
«Bene, vogliamo andare?».
Il vecchio Cesario impiega qualche secondo a reagire. Abituato a essere
trattato male, si stupisce che qualcuno gli si rivolga con tanta gentilezza.
Mentre il ristoratore prende sottobraccio il vecchio per spiegargli chi è
Wanda Winnipeg e quale grande onore gli stia facendo, Wanda osserva le
devastazioni del tempo su quello che una volta era il più bell’uomo della
spiaggia. Ha i capelli radi e grigi, i segni del troppo sole che ha preso e che,
anno dopo anno, ha logorato la sua pelle fino a trasformarla in un cuoio
flaccido, macchiato, granulato ai gomiti e alle ginocchia. Il corpo
rattrappito, ingrossato alla vita, non ha più niente a che vedere con l’atleta
statuario di una volta. Solo le pupille hanno conservato il loro raro colore di
ostrica verde, ma con la differenza che brillano un po’ meno.
Per quanto non sia poi troppo cambiata, lei non ha paura di essere
riconosciuta. Imbiondita, protetta dagli occhiali da sole, con la voce calata
di tono, l’accento russo e soprattutto l’alone della ricchezza, elude qualsiasi
tentativo di identificazione.
Entra per prima nel capannone e subito esclama:
«Ma è stupendo!».
In un attimo, supera tutti in velocità: gli altri non hanno più il tempo di
vedere quelle croste con i propri occhi, d’ora in poi le vedranno attraverso
lo sguardo di Wanda. In ogni dipinto trova qualcosa di cui stupirsi, di cui
meravigliarsi. Per una buona mezz’ora la taciturna Wanda Winnipeg
diventa entusiasta, chiacchierona, lirica come nessuno l’ha mai sentita.
Lorenzo non crede alle sue orecchie.
Il più sbalordito di tutti è Cesario. Silenzioso, attonito, si chiede se la
scena che vive stia accadendo veramente, si aspetta da un momento all’altro
la risata crudele o l’osservazione sarcastica che gli confermeranno che era
tutta una presa in giro.
L’ammirazione di Wanda è contagiosa, i ricconi si profondono ormai in
espressioni di apprezzamento.
«È davvero originale...».
«Sembra maldestro, ma ha una padronanza pazzesca».
«Lo stesso effetto che dovevano fare Van Gogh o Rodin o il Doganiere
Rousseau ai loro contemporanei» dichiara Wanda. «Su, cerchiamo di non
rubare troppo tempo a questo signore. Quanto vuole?».
«Eh?».
«Quanto vuole per questo quadro? Mi interessa per la casa di New York,
appeso proprio di fronte al letto, per essere precisi. Quanto?».
«Non so... Cento?».
Nel momento stesso in cui dice la cifra, Cesario si morde le labbra:
troppo alta, sente che le sue speranze si stanno per infrangere miseramente.
Per Wanda, cento dollari sono la mancia che lascerà l’indomani al
portiere dell’albergo. Per lui, è la somma che gli occorre per saldare il
debito con il negoziante di colori.
«Centomila dollari?» fa Wanda. «Mi sembra un prezzo ragionevole. Lo
prendo».
A Cesario ronzano le orecchie, è sull’orlo di un collasso, si chiede se ha
capito bene.
«Anche quest’altro me lo dà allo stesso prezzo? Starebbe così bene su
quell’enorme muro bianco di Marbella... Oh, la prego...».
Lui fa cenno di sì con la testa come un automa.
Il vanitoso Guido Farinelli, conoscendo il fiuto di Wanda per gli affari e
ansioso di non essere da meno, mette gli occhi su un’altra crosta. Quando
cerca di trattare sul prezzo, Wanda lo blocca:
«Ma ti prego, Guido! Non si contratta quando ci si trova di fronte a un
artista! È così facile e volgare avere i soldi, mentre avere il talento... e che
talento...».
Si gira verso Cesario.
«È un destino! Un fardello! Una missione. La giustificazione delle
miserie di una vita».
Poi Wanda chiama tutti a raccolta, posa sul tavolo gli assegni, specifica
che il suo autista passerà in serata a prendere le tele e lascia il vecchio
rintronato, con un filo di bava bianca sulle labbra. Si sta avverando la scena
che Cesario ha sognato per tutta la vita, ed ecco che non trova niente da
dire, riesce a stento a non crollare svenuto. Gli viene da piangere, vorrebbe
trattenere quella bella donna, dirle quanto è stato difficile campare
ottant’anni senza un briciolo di attenzione o di considerazione, vorrebbe
metterla a parte delle ore che ha passato da solo la notte a piangere e a dirsi
che forse, in fondo, era davvero soltanto un poveraccio. Grazie a lei è stato
lavato dalle miserie, dai dubbi, ha finalmente la certezza che il suo coraggio
non è stato inutile, che non si è intestardito invano.
Lei gli tende la mano.
«I miei complimenti, signore. Sono fiera di aver fatto la sua conoscenza».
È una bella giornata di pioggia

S tizzita, guardava la pioggia rovesciarsi sulla pineta delle Lande.


«Che tempaccio!».
«Tutt’altro, mia cara».
«Ma che dici? Vieni qui fuori: guarda quanta ne cade!».
«Appunto».
L’uomo uscì sulla terrazza e avanzò in direzione del giardino fino al muro
formato dalle gocce. Narici dilatate, orecchie dritte, gettò la nuca
all’indietro per sentire meglio l’aria umida sulla faccia, socchiuse gli occhi e
mormorò annusando il cielo color mercurio:
«È una bella giornata di pioggia».
Sembrava sincero.
Quel giorno Hélène acquisì due certezze definitive: la prima, che
quell’uomo la indispettiva profondamente; e la seconda, che avrebbe fatto il
possibile per non lasciarlo più.

Hélène non ricordava di aver mai vissuto un momento perfetto. Fin dalla
più tenera infanzia il suo comportamento aveva suscitato lo sconcerto dei
genitori: non faceva che mettere a posto la sua cameretta, cambiarsi d’abito
alla minima macchiolina o sciogliersi e rifarsi le trecce fino a renderle
perfettamente simmetriche; era rabbrividita di orrore quando l’avevano
portata a vedere Il lago dei cigni perché – sola fra tutti – aveva notato
quanto poco rigoroso fosse l’allineamento delle ballerine, come i tutù non
ricadessero insieme e come, ogni volta, ci fosse una ballerina – mai la stessa!
– che spezzava il movimento collettivo; a scuola teneva le sue cose con gran
cura, e bastava che un compagno un po’ sciatto le rendesse un libro con gli
angoli arricciati per farla subito scoppiare a piangere e minare ulteriormente
la già scarsissima fiducia che nel segreto della sua anima tributava
all’umanità. Adolescente, aveva stabilito che la natura non è migliore degli
uomini quando aveva constatato che i suoi seni – magnifici, secondo
l’opinione generale – non avevano una forma esattamente identica, che uno
dei piedi si ostinava a misurare trentotto e l’altro trentotto e mezzo, e che
malgrado gli sforzi la sua statura non andava oltre un metro e settantuno:
un metro e settantuno, che razza di altezza è? Diventata grande, aveva
distrattamente studiato legge, frequentando le aule dell’università più che
altro per rifornirsi di fidanzati.
Poche ragazze avevano raggiunto il numero di avventure messo insieme
da Hélène, e quelle che ci erano andate vicino avevano inanellato amanti
per voracità sessuale o instabilità mentale. Hélène, invece, li aveva
collezionati per idealismo. Ogni nuovo ragazzo era finalmente quello
buono: nello stupore dell’incontro, nel fascino dei primi scambi, gli
attribuiva sempre le qualità a cui lei aspirava; qualche giorno e qualche
notte dopo, quando l’illusione cadeva e lui le appariva per quello che era, lo
abbandonava con la stessa fermezza con cui l’aveva attirato.
Hélène aveva il problema di voler fare coesistere due esigenze che
facevano a pugni tra loro: l’idealismo e la lucidità.
A forza di un principe azzurro a settimana, aveva finito per disgustarsi sia
degli uomini che di sé stessa. Nel giro di dieci anni, la ragazza entusiasta e
ingenua era diventata una trentenne cinica e disillusa. Il suo fisico, però,
non ne portava traccia, perché i capelli biondi le davano appariscenza, la
sua vitalità sportiva passava per allegria e la pelle luminosa conservava quel
vellutino pallido che dava a ogni bocca la voglia di baciarla.
Era stato Antoine a innamorarsi, quando l’aveva conosciuta nel corso di
un patteggiamento. Lei si era lasciata fare una corte spietata perché l’uomo
le era indifferente. Trentacinque anni, né bello né brutto, simpatico, con
carnagione, capelli e occhi beige, di notevole non aveva che l’altezza;
inerpicato sui suoi due metri, sembrava volersi scusare di sovrastare i suoi
simili sfoggiando un sorriso costante e tenendo le spalle leggermente
incurvate. Era opinione comune che avesse un cervello particolarmente
acuto, ma non c’era intelligenza che potesse impressionare Hélène, dato che
anche lei se ne sentiva tutt’altro che sprovvista. Inondandola di telefonate,
lettere spiritose, mazzi di fiori e inviti a serate originali, si era rivelato così
buffo, ostinato e vivace che Hélène, un po’ perché non aveva di meglio, e
molto perché nel suo erbario degli amanti non aveva mai spillato un
esemplare così gigantesco, l’aveva autorizzato a credere di averla sedotta.
Erano andati a letto insieme. La felicità di cui aveva goduto Antoine era
stata sproporzionata rispetto al piacere provato da Hélène, ma lei aveva
comunque tollerato che la storia continuasse.
Il loro legame durava ormai da parecchi mesi.
A sentir lui, stava vivendo il grande amore della sua vita. Ogni volta che
sedevano al ristorante la includeva puntualmente nei suoi piani per il
futuro: il grande avvocato, rinomato in tutta Parigi, la voleva per moglie e
madre dei suoi figli. Hélène sorrideva e taceva. Rispetto o paura che fosse,
Antoine non osava esigere una risposta. Ma si chiedeva cosa pensasse.
In realtà, neanche lei lo sapeva. Certo, l’avventura stava durando più del
solito, ma Hélène fingeva di non rendersene conto ed evitava di trarne
conclusioni. Trovava Antoine... come dire?... “gradevole”, sì, non poteva
scegliere parola più forte o più ardente per descrivere la sensazione che al
momento la tratteneva dal rompere la relazione. Presto l’avrebbe lasciato
comunque, perché avere fretta?
Tanto per tranquillizzarsi, aveva redatto la lista dei difetti di Antoine.
Fisicamente era un falso magro: da nudo, il suo lungo corpo esibiva una
pancetta da lattante che di sicuro sarebbe andata prosperando negli anni a
venire. Sessualmente faceva durare le cose, anziché ripeterle. E
intellettualmente, per quanto brillante – come dimostravano la sua carriera
e i suoi titoli di studio –, parlava le lingue molto peggio di lei. Dal punto di
vista morale si rivelava fiducioso, naïf al limite dell’ingenuità.
Tuttavia nessuna di queste tare giustificava una sospensione immediata
del rapporto, erano anzi imperfezioni che intenerivano Hélène: quel
cuscinetto di grasso tra il sesso e l’ombelico le offriva un’oasi rassicurante su
quel lungo e ossuto corpo maschile, non le dispiaceva poggiarvi la testa; un
lento momento di piacere seguito da un intenso sonno, ormai, le andava più
a genio che non una notte scombinata in compagnia di uno stallone, fatta di
corti appisolamenti inframmezzati da rapidi piaceri; la cautela con cui
Antoine si avventurava nelle lingue straniere era commisurata all’assoluta
perfezione con cui padroneggiava la propria lingua. Quanto al suo candore,
le comunicava una sensazione riposante. In società, le prime cose che
Hélène percepiva nella gente erano la mediocrità, la meschinità, la
vigliaccheria, la gelosia, l’insicurezza, la paura; forse perché quei sentimenti
erano presenti in lei, li individuava subito negli altri. Antoine invece era
portato ad attribuire al prossimo intenzioni nobili, motivazioni di valore,
ideali, come se non avesse mai sollevato il coperchio di un’anima per
scoprire fino a che punto puzzava e brulicava di vermi.
Siccome Hélène respingeva ogni tentativo di presentazione ai genitori, i
sabati e le domeniche erano dedicati agli svaghi cittadini: cinema, teatro,
ristorante, o gironzolare per mostre e librerie.
In maggio, l’opportunità di quattro giorni di ponte li aveva spinti a
partire: Antoine l’aveva portata in una villa delle Lande trasformata in
albergo, immersa tra la pineta e la spiaggia di sabbia bianca. Abituata alle
interminabili vacanze in famiglia sul Mediterraneo, Hélène era stata
contenta di scoprire l’oceano e i suoi roboanti cavalloni, di ammirare i
surfisti; aveva anche progettato di andare a prendere il sole sulle dune dei
nudisti...
Invece minacciava di piovere, e avevano appena finito di fare colazione
che il temporale si era scatenato.
«È una bella giornata di pioggia» aveva detto Antoine appoggiandosi alla
balaustra che affacciava sul parco.
Mentre lei aveva la sensazione di trovarsi imprigionata dietro uno
sbarramento d’acqua a catinelle, con la prospettiva di essere costretta a
sorbirsi ore cariche di noia, lui affrontava la giornata con lo stesso
entusiasmo che avrebbe avuto sotto un sole splendente.
«È una bella giornata di pioggia».
Hélène volle sapere cosa ci fosse di bello in un giorno di pioggia: lui le
parlò delle sfumature di colore che avrebbero preso cielo, alberi e tetti
quando, più tardi, sarebbero andati a fare una passeggiata, della selvaggia
potenza con cui l’oceano sarebbe apparso ai loro occhi, di come si
sarebbero stretti l’uno all’altra per camminare sotto l’ombrello, della gioia
che avrebbero provato tornando al calduccio, dei vestiti che avrebbero
messo ad asciugare accanto al fuoco, del tè caldo e del languore che tutto
ciò avrebbe suscitato in loro, delle occasioni che avrebbero avuto per fare
più volte l’amore, del tempo che avrebbero dedicato a raccontarsi le proprie
vite sotto le coperte, come bambini che solo una tenda ripara dalla natura
scatenata...
Lei lo ascoltava. La felicità che provava Antoine le sembrava astratta.
Non la sentiva. Ma una felicità astratta è sempre meglio che nessuna felicità,
così decise di credergli.
Quel giorno cercò di entrare nel modo di vedere di Antoine.
Durante la passeggiata in paese si sforzò di apprezzare gli stessi
particolari che colpivano lui: il vecchio muro di pietra piuttosto che la
grondaia bucata, il fascino del lastricato anziché la sua scomodità, l’aspetto
kitsch delle vetrine e non il loro ridicolo. Certo, aveva qualche problema a
estasiarsi di fronte al lavoro di un vasaio – trafficare con l’argilla in pieno
ventunesimo secolo quando il mondo pullula di insalatiere di plastica! – o a
commuoversi vedendo intrecciare un cestino di vimini, erano attività che le
facevano venire in mente la scuola, quelle spaventose lezioni di lavoro
manuale in cui era costretta a fabbricare oggetti mediocri che compleanni di
mamme e papà non bastavano mai a smaltire. Constatò sorpresa che i
negozi di anticaglie non comunicavano ad Antoine alcuna malinconia;
laddove lei sentiva odore di morte, lui apprezzava il valore degli oggetti.
Quando andarono a camminare sulla spiaggia e i piedi cominciarono a
sprofondarle in una sabbia pesante come cemento che il vento, tra un
rovescio e l’altro, non riusciva ad asciugare, Hélène non riuscì più a
trattenersi e sbottò:
«Al mare con la pioggia, tante grazie!».
«Ma scusa, a te cos’è che piace, il mare o il sole? Hai davanti a te l’acqua,
l’orizzonte. Pure l’immensità!».
Lei riconobbe che finora non aveva mai guardato il mare e la costa, si era
sempre limitata a prendere il sole.
«È una percezione povera, la tua: riduci il paesaggio al sole».
Hélène ammise che aveva ragione. In sua compagnia si rendeva conto,
non senza irritazione, che per Antoine il mondo era molto più ricco che per
lei, perché lui vi cercava occasioni di stupore e le trovava.
A pranzo si misero a tavola in un ristorante che, sebbene abbastanza
raffinato, aveva un look da trattoria popolare.
«E questo non ti disturba?».
«Cosa?».
«La mancanza di autenticità del locale, questo tipo di mobili, il servizio, il
fatto che tutto l’arredamento sia stato concepito per clienti come te, per
gente come te che ci casca. Turistico di alto livello, ma pur sempre
turistico!».
«Questo posto è reale, la cucina è reale, e io sono realmente in tua
compagnia».
La sincerità di Antoine la disarmava. Ciò nonostante insisté:
«Insomma, non c’è niente che ti dia fastidio qui?».
Lui si guardò discretamente intorno.
«Boh, mi sembra un’atmosfera gradevole, gente carina...».
«La gente è orribile!».
«Ma che dici? Sono normali».
«Toh, guarda la cameriera, là. È terrificante».
«Ma dài, avrà vent’anni, è...».
«Guardala. Ha gli occhi troppo vicini. Piccoli e attaccati l’uno all’altro».
«E allora? Io non me n’ero neanche accorto. E lei nemmeno, a quanto
pare. Ha tutta l’aria di essere una sicura del suo fascino».
«Buon per lei, sennò si ammazzava! E guarda quello, il sommelier: da
una parte gli manca un dente. Prima, quando è venuto al nostro tavolo, non
riuscivo a guardarlo in faccia, non l’hai visto?».
«Cioè, mi stai dicendo che non sei in grado di comunicare con qualcuno
solo perché gli manca un dente?».
«Sì».
«Guarda che un dente di meno non ti fa mica diventare una sottospecie
umana indegna di rispetto. Lo dici per provocarmi, il grado di umanità non
dipende certo da una perfetta dentatura».
Quando il pensiero di Antoine si condensava in grandi affermazioni
teoriche come quella, Hélène si sentiva goffa a insistere.
«Che altro?» chiese lui.
«Per esempio, quelli del tavolo accanto».
«Beh?».
«Sono vecchi».
«Ti pare un difetto?».
«Vorresti che fossi anch’io così? Con la pelle flaccida, la pancia, i seni
cadenti?».
«Se mi autorizzi, penso di poterti amare anche da vecchia».
«Non dire scemenze. E la ragazzetta, laggiù?».
«Cosa? Cos’ha quella poverina?».
«È un mostro. Non ha collo. Oddio, sarebbe più che altro da compatire,
visti i genitori...».
«Che hanno i genitori?».
«Il padre ha il parrucchino e la madre il gozzo!».
Antoine scoppiò a ridere. Non ci credeva, era sicuro che Hélène andasse
apposta a scovare i particolari strani per prodursi in una scenetta divertente.
Lei invece era realmente contrariata da ciò che le balzava agli occhi.
Quando un diciottenne dai capelli fluenti portò il caffè, Antoine le
sussurrò:
«E questo? È un bel ragazzo. Non avrai da ridire anche su di lui!».
«Ma non lo vedi? Ha la pelle unta e il naso pieno di punti neri. Poi ha dei
pori enormi... dilatati!».
«Sarà, ma secondo me tutte le ragazze della zona gli corrono dietro».
«Per giunta è della categoria “pulito fuori”. Attenzione! Igiene dubbia!
Unghia incarnita. Con uno così rischi la sorpresa, quando lo scarti».
«Stavolta mi sa che ti sbagli! Ho sentito che profumava di acqua di
Colonia».
«Appunto, pessimo segno! Quelli che si mettono litri di profumo non
sono di sicuro i più puliti».
Fu lì lì per aggiungere “credimi, so di cosa parlo”, ma tenne per sé
quell’allusione al suo passato di collezionista di uomini; dopotutto, non
sapeva quanto Antoine ne fosse al corrente, visto che per fortuna veniva da
un’altra università.
Antoine rideva talmente che lei non aprì più bocca.
Nelle ore che seguirono, Hélène ebbe la sensazione di camminare su un
filo teso nel vuoto: un attimo di disattenzione e sarebbe precipitata nel
baratro della noia. Più di una volta ne percepì bene lo spessore: la noia
l’attirava, la spingeva a saltare giù, a raggiungerla, le dava le vertigini, la
tentazione di tuffarsi. Si aggrappò quindi all’ottimismo di Antoine che,
inesauribile, con il sorriso sulle labbra, le descriveva il mondo così come lo
percepiva. Si afferrò a quella fede luminosa.
Sul finire del pomeriggio, tornati in albergo, fecero a lungo l’amore.
Antoine si dedicò talmente a darle piacere che Hélène, soffocando il
fastidio per i dettagli che la disturbavano, chiuse gli occhi e si sforzò di stare
al gioco.
Arrivò al tramonto spossata, senza che lui nemmeno sospettasse
l’ampiezza della lotta che aveva sostenuto con sé stessa durante quella
giornata.
Fuori, il vento sembrava voler abbattere i pini come fuscelli.
La sera, a lume di candela, sotto le travi dipinte del soffitto
pluricentenario, mentre sorseggiavano un vino inebriante il cui nome faceva
già venire l’acquolina in bocca, Antoine le domandò:
«A costo di diventare l’uomo più disperato del pianeta, questa volta
desidero che tu mi risponda: vuoi essere la donna della mia vita?».
Hélène aveva i nervi a pezzi.
«Disperato tu? Tu non ne sei capace! A te va bene tutto!».
«Ti assicuro che se mi rispondi di no starò molto male. Tutte le mie
speranze sono nelle tue mani. Sei l’unica che ha il potere di rendermi felice
o inconsolabile».
Tutto sommato, quel che Antoine le stava rifilando era il solito bla-bla di
una qualsiasi proposta di matrimonio, piuttosto banale... Ma dato che
proveniva da lui, da quei due metri di energia positiva, da quei novanta chili
di carne pronta a star bene, Hélène ne fu lusingata.
Si chiese se la felicità non potesse essere contagiosa... Amava Antoine?
No. Antoine la faceva sentire importante, la divertiva; la infastidiva anche,
con quel suo invincibile ottimismo. Pensò che forse quel che non
sopportava di lui era il suo essere così diverso da lei. Si può sposare il
proprio nemico intimo? Probabilmente no. Allo stesso tempo, però, lei che
si svegliava di malumore, lei che trovava tutto brutto, imperfetto, inutile, di
che cosa sentiva la necessità? Del proprio contrario. E non c’era dubbio che
Antoine lo fosse, il suo contrario. Per quanto non lo amasse, era evidente
che aveva bisogno di lui. O di qualcuno simile a lui. Ne conosceva altri? Sì,
di sicuro; al momento però non le venivano in mente. Poteva ancora
aspettare, forse sarebbe stato meglio. Ma per quanto tempo? Gli altri
sarebbero stati pazienti quanto lo era stato lui? E lei ce l’aveva la pazienza
di attendere ancora? Attendere cosa, poi? Se ne fregava degli uomini, non
aveva mai pensato di sposarsi, non era nelle sue intenzioni fare figli né
allevarli. Per giunta, il cielo non prometteva affatto di migliorare e
l’indomani sarebbe stato ancora più difficile sfuggire alla noia.
Per tutte queste ragioni rispose velocemente:
«Sì».

Tornati a Parigi, annunciarono il fidanzamento e le prossime nozze. Gli


amici di Hélène erano ammirati.
«Come sei cambiata!» esclamavano.
Le prime volte Hélène non rispondeva; poi, tanto per capire dove
volevano andare a parare, li incoraggiava:
«Ah sì? Trovi? Veramente?».
Loro cadevano nella trappola e sviluppavano il concetto:
«Sì, non avrei mai creduto che un uomo potesse calmarti. Prima non ti
piaceva nessuno, non ti andava bene niente. Neanche te stessa. Eri spietata.
Eravamo sicuri che niente e nessuno sarebbero riusciti a interessarti per più
di qualche minuto: uomini, donne, cani, gatti, pesci rossi...».
«Antoine c’è riuscito».
«Qual è il suo segreto?».
«Non te lo dico».
«Forse è questo l’amore! Mai disperare».
Hélène non smentiva.
In realtà, lei sola sapeva di non essere affatto cambiata. Stava zitta e basta.
In cuor suo la vita continuava ad apparirle brutta, stupida, imperfetta,
deludente, frustrante, insoddisfacente; l’unica differenza era che i suoi
giudizi non varcavano più la soglia della sua bocca.
Alla fine, cosa le aveva dato Antoine? Una museruola. Hélène mostrava
meno i denti, teneva per sé quello che pensava.
E seguitava a sentirsi incapace di percepire le cose in maniera positiva. Su
un volto, su una tavola apparecchiata, in un appartamento, in uno
spettacolo coglieva ogni volta lo sbaglio imperdonabile che le impediva di
apprezzare ciò che vedeva. Nella sua testa continuava a rimodellare facce, a
correggere maquillage, a rettificare la posizione di tovaglie, tovaglioli e
coperti, a tirare giù tramezzi e drizzarne altri, a gettare mobili nella
discarica, a strappare tende, a rimpiazzare la protagonista sulla scena, a
tagliare il secondo atto, a eliminare il finale del film. Facendo la conoscenza
di persone nuove, continuava ancora a individuarne debolezze e mancanze,
solo che non esternava più il suo disappunto.
Un anno dopo le nozze, che Hélène definì “il giorno più bello della mia
vita”, mise al mondo un figlio. Quando glielo portarono lo trovò brutto e
molliccio, tuttavia Antoine lo chiamava “Maxime” e “tesorino”, e lei si
costrinse a fare altrettanto. Da allora, l’insopportabile piscione, cacone e
strillone che all’inizio le aveva squarciato le budella divenne per qualche
anno l’oggetto di tutte le sue attenzioni. Al primogenito seguì una piccola
“Berenice”, di cui Hélène detestò subito lo sfacciato ciuffo di capelli, ma
verso la quale adottò lo stesso comportamento da madre modello.
Hélène si sopportava così poco che aveva deciso di ignorare il proprio
giudizio e di guardare, in ogni circostanza, solo con gli occhi di Antoine.
Viveva in superficie, tenendo prigioniera dentro di sé l’Hélène che non la
smetteva di disprezzare, criticare, vituperare, che batteva invano alla porta
della cella e gridava attraverso le feritoie. Per garantirsi la commedia della
felicità, si era trasformata in carceriera di sé stessa.
Antoine la contemplava sempre con amore straripante, sussurrando “la
donna della mia vita” mentre le carezzava la vita o le stampava baci sul
collo.
«La donna della sua vita? Non è poi granché» diceva la prigioniera.
«È già qualcosa» replicava la carceriera.
Ecco. Non era la felicità, ma lo sembrava. Era una felicità per procura,
una felicità per induzione.
«Un’illusione» diceva la prigioniera.
«Non è vero» rispondeva la carceriera.
E la stessa cosa urlò Hélène quando vennero a dirle che Antoine era
appena crollato a terra in mezzo alla strada.
Attraversò di corsa il giardino, decisa a negare ciò che stavano cercando
di comunicarle. No, Antoine non era morto, non si era accasciato al suolo.
Per quanto debole di cuore, Antoine non poteva smettere di vivere così,
non poteva. Aneurisma? Ridicolo... Niente stroncava un gigante in quel
modo. Non si muore di certo a quarantacinque anni. Manica di idioti!
Banda di bugiardi!
Gettandosi a terra, invece, capì subito che quel corpo vicino alla fontana
non era più Antoine, ma un cadavere. Un altro. Un manichino in carne e
ossa che somigliava ad Antoine. Non percepiva più quell’energia che
irradiava Antoine, quella centrale elettrica a cui aveva così bisogno di
alimentarsi. Per terra non c’era che un suo doppio, pallido e freddo.
Raggomitolata su sé stessa, si mise a piangere, incapace di dire qualcosa,
tenendo tra le dita quelle mani già gelide che tanto le avevano donato. Il
medico e gli infermieri dovettero usare la forza per separare gli sposi.
«La comprendiamo, signora. Ci creda, la capiamo bene».
No che non capivano. Lei, che se non ci fosse stato Antoine non sarebbe
diventata moglie né madre, come avrebbe fatto adesso a diventare vedova?
Vedova senza di lui? Ora che Antoine non c’era più, come avrebbe saputo
che comportamento tenere?
Al funerale ignorò completamente le buone maniere e sbigottì la gente
con la violenza della sua disperazione. Sopra la fossa, prima che il cadavere
fosse calato sottoterra, si distese sulla bara e vi si avvinghiò per trattenerlo.
Solo l’insistenza dei genitori, e poi dei figli – quindici e sedici anni –, la
convinse a mollare la presa.
Il feretro discese nella buca.
Hélène si murò nel silenzio.

Gli amici chiamarono quello stato “depressione”. In realtà era molto più
grave.
Hélène ormai faceva la guardia a due recluse, e nessuna delle due aveva
più diritto di parola. Un mutismo che sanciva la volontà di non pensare più.
Non pensare più come l’Hélène che era stata prima di Antoine. Non
pensare più come l’Hélène di Antoine. Poiché entrambe le personalità
avevano fatto il loro tempo, non aveva più la forza di inventarne una terza.
Parlava poco, rifugiandosi nei rituali del buongiorno-grazie-buonasera, si
teneva in ordine, indossava sempre le stesse cose e aspettava la notte come
una liberazione anche se, insonne com’era, la trascorreva lavorando
all’uncinetto davanti alla televisione accesa senza prestare la minima
attenzione ai suoni e alle immagini, preoccupata solo della successione delle
maglie. A provvedere ai suoi bisogni aveva pensato Antoine: investimenti,
rendite, case; lei si limitava a fingere di ascoltare il contabile di famiglia una
volta al mese. I figli, quando alla fine abbandonarono ogni speranza di
riuscire a curarla o ad aiutarla, seguirono le orme del padre e si dedicarono
alle loro brillanti carriere scolastiche.
Passò qualche anno.
In apparenza Hélène invecchiava bene. Si prendeva cura del proprio
corpo – peso, pelle, muscoli, scioltezza – così come si tiene pulita una
collezione di statuette di porcellana in una vetrina. Le volte che si
sorprendeva allo specchio vi vedeva un oggetto da museo, la madre degna,
triste e ben conservata che viene tirata fuori di quando in quando per una
riunione di famiglia, un matrimonio, un battesimo e tutte quelle cerimonie
chiassose e pettegole, per non dire inquisitorie, che a lei costavano molta
fatica. Quanto al silenzio, non aveva allentato la vigilanza: niente pensava,
niente esprimeva, mai.
Un giorno, suo malgrado, le balenò un’idea.
E se facessi un viaggio? Antoine adorava viaggiare. O meglio, Antoine
aveva un unico desiderio al di fuori del lavoro: viaggiare. Visto che non ha
avuto il tempo di realizzare il sogno, potrei realizzarlo io al posto suo...
Fu questa stessa motivazione a impedirle di guardare oltre: neanche per
un attimo vi vide un ritorno alla vita, o un atto d’amore. Se avesse
immaginato, mentre preparava i bagagli, che stava andando alla ricerca
dello sguardo benevolo di Antoine sull’universo, si sarebbe vietata di
partire.
Un rapido saluto a Maxime e a Berenice, ed Hélène cominciò il suo
periplo. Viaggiare, per lei, consisteva nel girare il mondo passando da un
grande albergo all’altro. Così soggiornò in lussuose suite in India, Russia,
America e Medio Oriente. Ogni volta dormicchiava e sferruzzava di fronte
a uno schermo acceso che declamava in un’altra lingua. Ogni volta si
costringeva a partecipare a una qualche escursione perché Antoine
l’avrebbe rimproverata se non l’avesse fatto, ma i suoi occhi non si
sgranavano davanti a ciò che scopriva: verificava solo che le cartoline
esposte in albergo corrispondessero all’oggetto dal vero, niente di più...
Insieme alle sue sette valigie di marocchino blu pallido portava in giro la
propria incapacità di vivere. Solo la partenza da un posto per un altro, il
transito negli aeroporti, le difficoltà delle coincidenze la appassionavano un
po’, perché allora aveva la sensazione che stesse per succedere qualcosa...
Una volta arrivata a destinazione, ritrovava il mondo dei taxi, dei facchini,
dei portieri, dei ragazzi d’ascensore, delle cameriere, e tutto rientrava
nell’ordine.
Se pure non aveva più una vita interiore, ne aveva guadagnata una
esteriore. Spostamenti, arrivi in nuove località, partenze, necessità di
parlare, scoperta di valute differenti, scelta dei cibi al ristorante: intorno a
lei c’era un gran fermento, anche se nel profondo tutto rimaneva apatico.
Le sue traversie avevano finito per uccidere entrambe le prigioniere. Non
c’era più nessuno a pensare dentro la sua coscienza, né la Hélène
insoddisfatta né la Hélène moglie di Antoine. Era quasi più comoda quella
specie di morte totale.
In questo stato arrivò a Città del Capo.
Perché ne rimase colpita? Per quel nome, il Capo, che definiva quel
luogo come punta estrema della terra? Perché all’epoca dell’università si era
interessata al dramma del Sudafrica e aveva firmato petizioni in favore
dell’uguaglianza tra bianchi e neri? Perché Antoine aveva manifestato
l’intenzione di comprarvi un giorno una proprietà dove ritirarsi in
vecchiaia? Non lo sapeva... Fatto sta che, quando sbucò sulla terrazza
dell’albergo affacciata sull’oceano, il cuore prese a batterle forte.
«Un bloody mary, per piacere».
Altra stranezza: non ordinava mai un bloody mary! Non ricordava
neanche se le piacesse.
Fissò il cielo di un grigio intenso e notò che le nuvole, nere da quanto
erano gonfie, stavano per scoppiare. Si annunciava un temporale.
Non lontano da lei, altrettanto assorto, un uomo osservava lo spettacolo
degli elementi.
Hélène sentì un formicolio sulle guance. Che stava succedendo? Il sangue
le montava alla testa, una pulsazione brutale le faceva vibrare le vene del
collo, il cuore le batteva forte. Cercò l’aria. Che sia un attacco di cuore?
Perché no? Bisogna pur morire in qualche modo. Su, è arrivata l’ora.
Tanto meglio che sia qui, di fronte a un paesaggio grandioso.
Evidentemente quello era il suo punto d’arrivo. Ecco perché, salendo le
scale, aveva avuto il presentimento che stesse per accadere qualcosa di
importante.
Per qualche secondo Hélène aprì le mani, calmò il respiro e si preparò a
passare a miglior vita. Chiuse le palpebre, gettò la testa all’indietro e si
considerò pronta: accettava la morte.
Non accadde niente.
Non solo non perse i sensi, ma quando riaprì gli occhi fu obbligata a
constatare che si sentiva meglio. Cosa? Non si poteva comandare al proprio
corpo di morire? Non si poteva esalare l’ultimo respiro così, con la stessa
facilità con cui si spegne la luce?
Si girò verso l’uomo sulla terrazza.
Indossava un paio di pantaloncini da cui fuoriuscivano belle gambe
possenti, insieme slanciate e muscolose. Hélène gli fissò i piedi. Da quanto
tempo non guardava i piedi di un uomo? Aveva dimenticato quanto le
piacessero quelle larghe propaggini dalle caratteristiche così
contraddittorie, duri sui talloni e teneri sulle dita, lisci sopra e ruvidi sotto,
solidi al punto da sorreggere corpi massicci e fragili fino a temere le carezze.
Fece risalire lo sguardo dai polpacci alle cosce seguendo la tensione e la
forza nascoste sotto quella pelle, e si sorprese ad aver voglia di sfiorare quei
peli biondi, di sentire quel muschio leggero e tenero sotto il suo palmo.
Malgrado avesse percorso il mondo in lungo e in largo e visto migliaia di
abbigliamenti diversi, trovò audace il suo vicino. Come osava esibire le
gambe in quel modo? Non erano indecenti quei calzoncini?
Lo studiò meglio e capì di avere torto. Erano short più che normali, li
aveva visti addosso a centinaia di uomini. Allora era lui che...
Sentendosi osservato, l’uomo si voltò verso di lei e sorrise. Il suo viso
sfoggiava un’abbronzatura dorata segnata da rughe sincere, con qualcosa di
inquieto nel verde dell’iride.
Confusa, Hélène gli restituì il sorriso e si immerse di nuovo nello
spettacolo dell’oceano. Cosa avrebbe pensato quello lì? Che lo voleva
rimorchiare? Che orrore! Però le piaceva la sua espressione. Aveva un volto
onesto, sincero, pulito, anche se i suoi tratti denotavano una tendenza alla
tristezza. Che età avrà? La mia. Eh sì, qualcosa del genere, quarantotto...
Forse meno: abbronzato com’è, sportivo, con quelle sue belle rughette, non
sembra proprio il tipo che si spalma di creme solari.
Improvvisamente ci fu una specie di silenzio. Nell’aria gli insetti smisero
di ronzare. Poi, dopo quattro secondi, a solenne conferma che il temporale
era iniziato, cominciarono a cadere gocce pesanti e a rimbombare i tuoni.
La luce accentuò i contrasti, saturò i colori, e l’umidità si impadronì di loro
come l’onda di vapore che investe la costa durante un maremoto.
«Ah, che tempaccio!» esclamò l’uomo.
Fu la prima a stupirsi quando schiuse le labbra e disse:
«Tutt’altro. La frase giusta non è “che tempaccio”, ma “è una bella
giornata di pioggia”!».
L’uomo si girò verso Hélène e la guardò.
Sembrava sincera.
In quell’istante acquisì due certezze definitive: desiderava profondamente
quella donna.
E avrebbe fatto il possibile per non lasciarla mai.
L’intrusa

S tavolta l’aveva vista davvero! La donna era passata in fondo al salotto e


l’aveva fissata con aria stupita prima di sparire nell’ombra della cucina.
Odile Versini esitò: doveva inseguirla o scappare a gambe levate?
Che voleva quell’intrusa? Era già la terza volta... Le prime due incursioni
erano state così fugaci che Odile aveva pensato a un scherzo della propria
immaginazione, ma questa volta entrambe avevano avuto il tempo di
scambiarsi un’occhiata. Le era anche sembrato che l’altra, passata la
sorpresa, se la fosse filata con una smorfia di paura.
Senza pensarci oltre, Odile si lanciò sulle sue tracce.
«Vieni fuori, ti ho visto! È inutile che ti nascondi, non ci sono altre
uscite» gridò.
Odile si precipitò in ogni stanza: camera da letto, cucina, bagni. Nessuno.
Rimaneva solo lo sgabuzzino in fondo al corridoio.
«Esci di lì! Esci subito o chiamo la polizia».
Dal ripostiglio non giunse alcun rumore.
«Che ci fai a casa mia? Come sei entrata?».
Silenzio di tomba.
«Va bene, ti avevo avvertita».
Di colpo, Odile fu presa dal panico: che intenzioni aveva quella
sconosciuta? Febbrilmente indietreggiò verso l’ingresso, prese il telefono e
compose, non senza confondersi, il numero della polizia. “Su, sbrigatevi”
pensava, “quella sta per uscire dall’armadio e saltarmi addosso”. Superato
finalmente il messaggio di attesa, le rispose la voce sonora di un agente.
«Polizia di Parigi, sedicesimo arrondissement. Dica».
«Venite qui, presto. Una donna si è introdotta in casa mia. È nascosta
dentro lo stanzino del corridoio e si rifiuta di uscire. Fate presto, vi
supplico, potrebbe essere una pazza, un’assassina. Sbrigatevi, ho molta
paura».
Il poliziotto annotò nome e indirizzo e le assicurò che una pattuglia
sarebbe arrivata da lei entro cinque minuti.
«Pronto? Pronto? È ancora lì?».
«Mmm...».
«Come si sente, signora?».
«...».
«Rimanga al telefono, non attacchi. Brava. Così potrà dirmi se succede
qualcosa. Ripeta quel che le ho appena detto ad alta voce, in modo che la
persona senta e capisca che non è indifesa. Su, faccia così. Lo faccia».
«Sì, va bene, agente! Resto al telefono con lei, così se quella fa qualcosa
voi lo saprete subito!».
Aveva urlato talmente che non era riuscita a sentirsi. Era stata chiara?
Sempre che l’intrusa, malgrado la distanza, la porta e i cappotti, avesse
sentito le sue parole e si fosse scoraggiata.
Niente si muoveva negli angoli bui dell’appartamento, un silenzio più
angosciante di qualsiasi rumore.
«Pronto, è lì?» mormorò Odile al poliziotto.
«Sì, signora, non la lascio».
«Io... ho un po’ paura...».
«Ha qualcosa per difendersi?».
«No, niente».
«Non ha un oggetto da prendere in mano per spaventare quella persona,
casomai avesse la malaugurata idea di mostrarsi aggressiva?».
«No».
«Un bastone, un martello, una statuetta?... Si guardi intorno».
«Ah sì, c’è il bronzetto».
«Ecco, lo afferri e faccia finta che sia un’arma».
«Eh?».
«Dica che ora ha la pistola di suo marito e non teme più niente. Lo dica
forte».
Odile fece un respiro e vociò incerta:
«No, commissario, non ho paura. Ho la pistola di mio marito».
Poi sospirò resistendo all’impulso di farsi la pipì addosso: l’aveva detto
talmente male che di sicuro l’intrusa non ci aveva creduto.
«Allora, che reazione ha avuto?» chiese la voce all’altro capo del filo.
«Nessuna».
«Bene. È spaventata. Non si muoverà di lì finché non arrivano i nostri
uomini».
Pochi secondi dopo, Odile rispose ai poliziotti che suonavano al citofono,
poi aprì la porta e attese che l’ascensore arrivasse al decimo piano. Ne
uscirono tre baldi giovanotti.
«Là» disse lei. «È nascosta nello sgabuzzino».
Odile ebbe un fremito quando gli agenti tirarono fuori le armi e
imboccarono il corridoio. Per non assistere a uno spettacolo che i suoi nervi
non avrebbero sopportato, preferì rifugiarsi in salotto, da dove minacce e
intimazioni le giungevano confuse.
Meccanicamente, accese una sigaretta e si avvicinò alla finestra. Sebbene
fosse appena l’inizio di luglio, fuori l’erba delle aiuole diventava gialla e gli
alberi perdevano foglie rossicce. L’ondata di caldo aveva colpito place du
Trocadéro. Aveva colpito la Francia intera. Ogni giorno affinava la sua
opera di morte, ogni giorno i telegiornali davano l’elenco delle nuove
vittime: senzatetto che giacevano sull’asfalto bollente, anziani che morivano
come mosche negli ospizi, neonati che crepavano di disidratazione, senza
contare gli animali, i fiori, gli ortaggi, gli alberi... Del resto, non era un
merlo stecchito quello che vedeva là sotto, sull’aiuola della piazza? Rigido
come un disegno a inchiostro, con le zampe rotte. Peccato, è così carino il
fischio del merlo!...
Riempì in fretta un bicchiere d’acqua e lo trangugiò a scopo
precauzionale. Certo, era egoista pensare a sé stessa mentre tanta gente
moriva, ma che fare?
«Signora? Scusi, signora!...».
Fermi sulla soglia del salotto, i poliziotti ci misero un po’ per distoglierla
dalla sua meditazione sui disastri della canicola. Lei si girò.
«Allora, chi è?» chiese.
«Non c’è nessuno, signora».
«Come nessuno?».
«Venga a vedere».
Seguì i tre uomini fino allo sgabuzzino. Era pieno di vestiti e scatole di
scarpe, ma neanche un’intrusa.
«Dov’è?».
«Vuole che la cerchiamo insieme?».
«Certo».
I centoventi metri quadrati dell’appartamento vennero passati al setaccio
dai gesti cauti dei poliziotti: non c’era nascosta alcuna donna.
«Beh, sarete d’accordo con me che è molto strano» protestò Odile
accendendo un’altra sigaretta. «È passata dal corridoio, mi ha visto, è
rimasta interdetta ed è scappata in fondo alla casa. Come avrebbe fatto ad
andarsene?».
«Dalla porta di servizio?».
«Sempre chiusa a chiave».
«Andiamo a vedere».
Si recarono in cucina e constatarono che la porta che dava sulla scala di
servizio era effettivamente chiusa a chiave.
«Visto?» fece Odile. «Di qui non può essere passata».
«A meno che non abbia le chiavi. Anche perché come sarebbe entrata,
sennò?».
Odile vacillò. I poliziotti la sostennero e la aiutarono a sedersi. Si rese
conto che avevano ragione: per entrare e uscire, la persona che si era
introdotta in casa sua doveva avere le chiavi.
«È tremendo...».
«Ce la può descrivere?».
«Una vecchia».
«Come dice?».
«Sì, una vecchia. Con i capelli bianchi».
«Com’era vestita?».
«Non lo so. Normale».
«Aveva il vestito o i pantaloni?».
«Un vestito, mi pare».
«Siamo lontanissimi dall’immagine classica del ladro o dello scassinatore,
quindi. È sicura che non si tratti di qualcuno che magari non ha
riconosciuto?».
Odile li squadrò con una punta di disprezzo.
«Capisco la vostra osservazione, è logica, è il vostro mestiere. Ma vi prego
di tenere presente che ho trentacinque anni, non sono né vecchia né
rimbambita. Ho sicuramente più lauree di voi, sono una giornalista
indipendente specializzata nella questione mediorientale, parlo sei lingue e
nonostante il caldo mi sento benissimo. Fatemi dunque il piacere di
credermi se vi dico che non ho l’abitudine di dimenticare a chi metto in
mano le mie chiavi».
Stupiti, intimoriti dalla sua irritazione, i poliziotti chinarono la testa con
rispetto.
«Ci scusi, signora, abbiamo il dovere di valutare tutte le ipotesi. Capita
spesso di avere a che fare con persone fragili che...».
«Certo. Del resto anch’io ho perduto il mio sangue freddo, poco fa...».
«Vive sola qui?».
«No, sono sposata».
«Dov’è suo marito?».
Odile guardò l’agente sorpresa e divertita: le venne in mente che era un
sacco di tempo che nessuno le rivolgeva quella domanda tanto semplice,
“dov’è suo marito?”.
Sorrise.
«In Medio Oriente. È un famoso reporter, lui».
I poliziotti manifestarono la loro considerazione per il mestiere di Charles
sgranando gli occhi e osservando un rispettoso silenzio. Poi il più anziano
continuò l’inchiesta.
«Giustappunto, signora. Non potrebbe darsi che suo marito abbia dato il
proprio mazzo di chiavi a qualcuno?».
«Sta scherzando? Mi avrebbe avvertito».
«Non lo so».
«No, no, me l’avrebbe detto».
«Non gli potrebbe fare una telefonata, tanto per essere sicuri?».
Odile scosse la testa.
«Detesta essere chiamato quando sta dall’altra parte del mondo. Tanto
più per una storia di chiavi. È ridicolo».
«È la prima volta che succede una cosa del genere?».
«Cosa, la vecchia? No. È almeno la terza».
«Ci spieghi».
«Le altre volte mi sono detta che avevo visto male, che non era possibile.
Esattamente le stesse cose che state pensando voi in questo momento. Ma
stavolta sono sicura di non aver sognato, mi ha fatto una tale paura! Badi,
però: anche lei ha avuto fifa».
«Beh, signora Versini, a questo punto le posso solo dare un consiglio:
cambi immediatamente le serrature. Almeno andrà a letto tranquilla. Un
giorno o l’altro scoprirà come è andata, magari quando torna suo marito.
Ma nel frattempo potrà dormire in tutta serenità».
Odile annuì, ringraziò i poliziotti e li accompagnò alla porta.
Meccanicamente aprì un altro pacchetto di sigarette, accese la televisione
sul suo canale preferito, quello dell’informazione nonstop, e si mise a
riflettere cercando di considerare il problema da vari punti di vista.
Dopo un’ora, preso atto che le sue ipotesi non portavano a niente, alzò il
telefono e fissò un appuntamento con il fabbro per l’indomani.

«Duemila e duecento morti» annunciò lo speaker fissando i


telespettatori. «L’estate si sta rivelando micidiale».
Con le chiavi nella tasca della gonna, rassicurata sulla propria sorte dalla
consapevolezza di avere serrature nuove di zecca, Odile si abbandonava
affascinata alle notizie sugli effetti perversi del clima: fiumi in secca, pesci
morti, bestiame decimato, agricoltori imbestialiti, razionamenti di acqua ed
elettricità, ospedali straripanti, giovani interni promossi medici sul campo,
pompe funebri sopraffatte, becchini costretti a interrompere le vacanze al
mare, ecologisti infuriati contro il surriscaldamento del pianeta. Seguiva
ogni bollettino come il nuovo episodio di una palpitante telenovela, avida di
peripezie, desiderosa di nuove catastrofi, quasi delusa se la situazione non
era peggiorata. Teneva il conto dei morti con voluttà senza nemmeno
rendersene conto. L’ondata di canicola era uno spettacolo che non la
riguardava, ma che rendeva appassionante la sua estate distraendola al
contempo dalla noia.
Sul suo tavolo erano abbandonati un libro e parecchi articoli in sospeso.
Ma a Odile l’energia di dedicarsi al lavoro non veniva mai, fino a che editori
e caporedattori non la tempestavano di telefonate per strapazzarla. Già,
curioso mutismo anche quello... Forse erano pure loro prostrati dal caldo.
Magari morti. Non appena avesse avuto un attimo di tempo, o di voglia,
avrebbe fatto lei un colpo di telefono.
Si soffermò qualche secondo sui canali arabi, offesa che dedicassero così
poco spazio alla situazione meteorologica europea. È pur vero che da loro il
caldo...
Per sgravarsi la coscienza, decise di bere un bicchiere d’acqua.
Dirigendosi verso la cucina provò di nuovo la stessa strana sensazione:
l’intrusa era lì!
Tornò sui suoi passi, si guardò velocemente in giro. Niente. Eppure le era
sembrato... per un quarto di secondo le era apparso il volto della vecchia,
probabilmente riflesso su una lampada, sull’angolo di uno specchio o sul
piano lucido di un cassettone. L’immagine aveva colpito il suo cervello.
Durante l’ora che seguì ispezionò l’appartamento da cima a fondo. Poi
controllò una decina di volte che le vecchie chiavi non potessero in nessun
caso aprire le nuove serrature. Finalmente rassicurata, decise che aveva solo
immaginato di vedere la vecchia.
Tornò in salotto, riaccese la televisione e in quel momento, mentre si
dirigeva verso il divano, la vide distintamente in corridoio. Come l’ultima
volta, la donna si bloccò un attimo impietrita e fuggì.
Odile si lanciò sul divano e afferrò il telefono più vicino. La polizia
promise un intervento immediato.
Aspettando i poliziotti, Odile non aveva le stesse sensazioni della volta
precedente. Il giorno prima la sua paura era qualcosa di preciso, era
focalizzata sulla sconosciuta nello stanzino delle scope e sui motivi per cui si
trovava lì. Ora la paura aveva ceduto il posto al terrore e messo Odile di
fronte a un vero e proprio mistero: come aveva fatto a introdursi di nuovo
in casa sua con i sistemi di chiusura completamente cambiati?
Gli agenti la trovarono in stato di shock. Dato che erano gli stessi
dell’altra volta, capirono da soli cosa dovevano cercare nell’appartamento.
Odile non provò alcuna sorpresa quando, dopo la perquisizione,
tornarono in salotto e le annunciarono di non aver trovato nessuno.
«È spaventoso» disse. «Ho fatto sostituire le serrature stamattina,
nessuno oltre me possiede le nuove chiavi e questa donna è riuscita lo stesso
a entrare e a uscire».
I poliziotti sedettero di fronte a lei per prendere appunti.
«Ci perdoni l’insistenza, signora: è proprio sicura di aver rivisto la donna
anziana?».
«Sapevo che l’avreste detto. Non mi credete... Non mi crederei
neanch’io, se non l’avessi vissuto. Mi prendete per pazza, e non vi posso
biasimare... Capisco, capisco fin troppo bene... Probabilmente ora mi
consiglierete di farmi vedere da uno psichiatra. No, non protestate, è la
stessa cosa che direi io al vostro posto».
«No, signora. Ci atteniamo ai fatti. La donna anziana era la stessa di ieri,
vero?».
«Vestita in modo diverso».
«Somiglia a qualcuno?».
La domanda confermò a Odile che per i poliziotti era un problema di
ordine psichiatrico. Come dar loro torto?
«Se la dovesse descrivere, chi le farebbe venire in mente?».
Odile pensò: se dico che mi ricorda vagamente mia madre, mi
considereranno definitivamente una demente.
«Nessuno. Non la conosco».
«E cosa vuole, secondo lei?».
«Non ne ho idea, vi dico che non la conosco».
«Cosa teme che le possa fare?».
«Senta, agente, non si metta a fare della psicanalisi da bar con me! Lei
non è un medico e io non sono malata. Questa persona non è una
proiezione delle mie angosce né della mia fantasia, ma un’intrusa che si
infila in casa mia per non so quali ragioni».
Dato che si stava scaldando, i poliziotti borbottarono vaghe scuse, ma
proprio in quel momento Odile ebbe un’illuminazione.
«I miei gioielli! Dove sono i miei gioielli?».
Corse verso il comò accanto alla televisione, aprì il cassetto e tirò fuori
una piccola coppa vuota.
«Non ci sono più i miei gioielli!».
L’atteggiamento dei poliziotti cambiò all’istante. Non la prendevano più
per una spostata, il caso rientrava di nuovo nella logica della loro routine.
Lei elencò e descrisse gli anelli, attribuì loro un valore, e non perse
occasione di specificare quando e perché suo marito glieli avesse regalati,
poi firmò il verbale.
«Quando torna suo marito?».
«Non lo so. Non me lo dice mai».
«Ce la farà, signora?».
«Sì, non vi preoccupate, ce la farò».
Quando la lasciarono, tutto era ridiventato banale. L’intrusa era stata
ridimensionata al rango di una volgare ladra, per quanto si muovesse con
una cautela sconcertante. Tuttavia quella normalità mandò in pezzi i nervi
di Odile, che scoppiò in un pianto dirotto.

«Ondata di caldo: sale a duemila e settecento il numero delle vittime. Si


pensa che il governo voglia nascondere la cifra esatta».
Anche Odile ne era convinta. Secondo i suoi calcoli, il numero avrebbe
dovuto essere più alto. Non aveva di nuovo visto, proprio quella mattina, i
cadaveri di due passeri nella grondaia del cortile?
Suonò il campanello.
Dato che il citofono esterno era rimasto silenzioso, o era un vicino o era
suo marito. Anche se aveva le chiavi, ogni volta che rientrava dalla missione
Charles aveva l’abitudine di fermarsi in corridoio e suonare, per annunciare
che era tornato senza sorprendere troppo Odile.
«Mio Dio, speriamo che sia lui!».
Aprì la porta e barcollò di gioia.
«Amore, come sono contenta di vederti! Non potevi scegliere un
momento migliore per tornare».
Si lanciò su di lui e volle baciarlo sulla bocca, ma l’uomo, pur senza
respingerla, si limitò ad abbracciarla. “Ha ragione” pensò Odile. “Sono una
scema a eccitarmi così”.
«Come stai? Com’è andato il viaggio? Dov’è che sei stato, stavolta?».
Lui rispondeva alle domande, ma Odile aveva difficoltà ad afferrare le
risposte, e anche fare le domande giuste le costava una certa fatica. Dopo
un paio di occhiatacce seguite da sospiri marcati capì che lo stava un po’
innervosendo, ma non ci poteva fare niente, lo trovava talmente bello che
non riusciva a concentrarsi. Che fosse l’effetto dell’assenza? Più lo
guardava, più le sembrava irresistibile: trent’anni, bruno, senza un capello
bianco, la pelle abbronzata e sana, le mani lunghe e ben definite, torace
possente e vita stretta... Era proprio fortunata!
Decise di togliersi subito il peso della brutta notizia.
«Siamo stati derubati».
«Cosa?».
«Sì. Hanno rubato i miei gioielli».
Gli raccontò la storia. Lui la ascoltò pazientemente senza fare domande
né mettere in dubbio le sue parole. Odile notò soddisfatta la differenza di
reazione tra suo marito e i poliziotti. “Almeno lui mi crede”.
Terminato il resoconto di Odile, l’uomo si diresse verso la camera da
letto.
«Ti vai a fare una doccia?» domandò lei.
Ma lui riuscì subito dalla stanza con in mano un cofanetto.
«Ecco qua i tuoi gioielli».
«Come!?».
«Eccoli qua. Ho solo controllato nei tre o quattro posti dove li metti di
solito. Non ci avevi guardato, tu?».
«Mi sembrava... cioè, ero sicura... L’ultima volta erano nel comò del
salotto, accanto alla televisione... Com’è possibile che me ne sia scordata?».
«Non te la prendere, qualche dimenticanza capita a tutti».
Si avvicinò e la baciò sulla guancia. Odile era stupita: stupita di essere
stata così sciocca e stupita che la sua sciocchezza avesse suscitato quel gesto
affettuoso da parte di Charles.
Corse in cucina a preparargli da bere e tornò con un vassoio. Si accorse
allora che in ingresso non c’era alcuna valigia.
«Dove sono i tuoi bagagli?».
«Perché dovrei avere dei bagagli?».
«Torni da un viaggio...».
«Non abito più qui».
«Eh?».
«È tanto tempo che non abito più qui, non te n’eri accorta?».
Odile posò il vassoio e si appoggiò al muro per riprendersi. Perché era
così duro con lei? Sì, certo, l’aveva notato che non si vedevano più tanto
spesso, ma da lì a dichiarare che non vivevano più insieme! Cosa diavolo...
Si lasciò scivolare sul pavimento e cominciò a singhiozzare. Lui si
avvicinò, la prese tra le braccia e tornò gentile.
«Su, non piangere, non serve a niente. E non mi piace vederti così».
«Ma che ho fatto? Che ho fatto di male? Perché non mi ami più?».
«Smettila di dire stupidaggini. Non hai fatto niente di male. E io ti voglio
molto bene».
«Davvero?».
«Davvero».
«Come prima?».
Lui lasciò passare qualche secondo prima di rispondere, perché gli erano
venute le lacrime agli occhi mentre le carezzava i capelli.
«Forse anche più di prima...».
Odile si rilassò a lungo contro il suo ampio torace, rassicurata.
«Devo andare» disse lui facendola rialzare.
«Quando torni?».
«Domani. Al massimo tra un paio di giorni. Non ti agitare, ti prego».
«Non mi agito».
Charles se ne andò. A Odile si stringeva il cuore. Dove andava? E perché
aveva un’aria così triste?
Tornata in salotto, prese la coppa degli anelli e decise di riporla nel
cassettone della camera da letto. E stavolta non se ne sarebbe dimenticata.

«Quattromila vittime per il caldo».


L’estate si rivelava decisamente appassionante. Dal suo appartamento
con l’aria condizionata perennemente accesa – già, ma quand’è che Charles
l’aveva fatta installare? – Odile seguiva il teleromanzo della canicola
fumando una sigaretta dopo l’altra. Da un pezzo, ormai, si era messa
d’accordo con la portiera perché le andasse a fare la spesa. Ogni tanto le
dava qualcosa in più perché le preparasse anche da mangiare, visto che lei
non era mai stata una gran cuoca. Che fosse questo il motivo per cui
Charles prendeva le distanze? Assurdo...
Era la prima volta che Charles le infliggeva quella punizione: tornare a
Parigi e andare a dormire altrove. Odile si affannava a cercare nel loro
passato recente qualcosa che potesse spiegare quel comportamento, ma non
trovava niente.
E non era neanche la sua unica preoccupazione: era tornata la vecchia.
A più riprese.
Sempre la stessa storia: appariva e scompariva.
Odile non osava più rivolgersi alla polizia per via dei gioielli, perché in
realtà avrebbe dovuto dichiarare di averli ritrovati; oddio, forse li poteva
anche chiamare visto che, per quanto si fosse sbagliata, non stava mica
truffando qualcuno! Dopo la visita di Charles aveva subito buttato via la
denuncia di furto per l’assicurazione...
Sentiva tuttavia che i poliziotti non l’avrebbero creduta.
Tanto più che aveva finalmente scoperto l’obiettivo dell’intrusa, altra
cosa che i poliziotti avrebbero avuto serie difficoltà a credere! L’anziana
signora non era pericolosa, non era una ladra né una criminale, e aveva
ormai colpito abbastanza da svelare il suo vero intento: entrava lì per
cambiare di posto agli oggetti.
Proprio così. Per strano che possa sembrare, era l’unico scopo delle sue
visite a sorpresa.
Non solo i gioielli che Odile credeva ogni volta rubati venivano ritrovati
qualche ora più tardi in un’altra stanza, ma la vecchia dama li nascondeva in
posti sempre più bizzarri, ultimamente persino nel freezer.
“Diamanti nella ghiacciaia! Ma che ha nella zucca?”.
Odile ne aveva concluso che, se pure non era una criminale, quella
vecchia era cattiva.
“E matta. Completamente matta. Correre un rischio del genere per fare
degli scherzi così cretini! Ma la beccherò, uno di questi giorni, e allora
capirò”.
Suonò il campanello.
Aprì la porta e trovò Charles sul pianerottolo.
«Uh, che bello! Finalmente!».
«Scusami, non ce l’ho fatta a tornare prima come ti avevo detto».
«Non ti preoccupare, sei scusato».
L’uomo si mosse, e alle sue spalle apparve una ragazza.
«Ti ricordi Yasmine, vero?».
Odile non osò confessare che non aveva la più pallida idea di chi fosse
quella bella brunetta slanciata che lo seguiva. Ah, che strazio non avere
alcuna memoria per le fisionomie!... “Niente panico, mi verrà in mente”
pensò.
«Come no! Entrate».
Yasmine venne avanti, baciò Odile sulle guance e da quell’abbraccio,
sebbene continuasse a non riconoscerla, Odile sentì che la detestava.
Si trasferirono in salotto, dove si misero a parlare del caldo. Odile si
prestava strenuamente alla conversazione malgrado il suo cervello non
potesse fare a meno di vagabondare al di fuori delle frasi che si
scambiavano. “È assurdo, chiacchieriamo del tempo di fronte a una
sconosciuta come se niente fosse quando avremmo tante cose da dirci, io e
Charles”. All’improvviso troncò il discorso e fissò Charles.
«Dimmi la verità, ti mancano i bambini?».
«Eh?».
«Sì. In questi giorni mi sono chiesta cos’è che zoppicava tra noi, e mi è
venuto in mente che magari desideravi dei figli. In genere gli uomini
sentono meno quest’esigenza rispetto alle donne, ma... Vuoi un figlio?».
«Ce l’ho».
Odile credette di aver capito male.
«Come hai detto?».
«Che ce l’ho. Due. Jérôme e Hugo».
«Eh?».
«Jérôme e Hugo».
«Quanti anni hanno?».
«Due e quattro anni».
«E con chi li hai avuti?».
«Con Yasmine».
Odile si girò verso Yasmine. La ragazza sorrise. “Svegliati, Odile, è un
brutto sogno. Non è la realtà, questa”.
«Voi... voi... avete due figli... insieme?».
«Sì» confermò l’impicciona accavallando elegantemente le gambe, come
se niente fosse.
«E venite da me senza il minimo imbarazzo, con il sorriso sulle labbra, a
dirmelo? Siete dei mostri!».
Il seguito fu piuttosto confuso. Odile era talmente sconvolta dalla rabbia
che tra strilli e lacrime non capì più niente di quel che venne detto intorno a
lei. A più riprese Charles cercò di prenderla tra le braccia, ma ogni volta lei
lo respinse con violenza.
«Traditore! Traditore! È finita, hai capito? È finita! Vattene! Vattene
una volta per tutte!».
Più cercava di allontanarlo, più lui le si avvicinava.
Dovettero chiamare un medico, stendere Odile sul letto e somministrarle
di forza un sedativo.

«Dodicimila vittime per l’ondata di caldo».


«Alé!» esultò Odile davanti alla televisione.
Da qualche giorno la situazione era precipitata. Charles, rivelando tutta la
nefandezza del proprio carattere, pretendeva che lei lasciasse
l’appartamento.
«Mai, mi hai capito? Mai!» le aveva risposto Odile al telefono. «Non ti
permetterò mai di venire a vivere qui con la tua baldracca! Per legge queste
mura sono mie. E non ti far più vedere, perché non ti apro. Comunque, non
hai più le chiavi giuste».
Se non altro l’intrusa era servita a questo. Un dono della provvidenza, la
vecchia!
Più volte Charles aveva suonato alla porta per parlamentare. Lei aveva
rifiutato di ascoltarlo. Tenace, lui le mandò il medico.
«Odile, lei ha un esaurimento» dichiarò il dottor Malandier. «Perché non
si trasferisce per un po’ in una casa di cura? Le farebbe bene, potremmo
occuparci della sua salute molto meglio».
«Ce la faccio da sola, grazie. Certo, con tutti i problemi che ho, sono
anche in ritardo sulla consegna degli articoli, ma mi conosco: scriverò tutto
d’un fiato non appena starò meglio, in poche serate».
«Ma è ben per questo! È proprio per stare meglio che una casa di
cura...».
«Allo stato attuale nelle case di cura si muore, dottore, perché non hanno
l’aria condizionata. Qui invece c’è. Non segue le notizie? Sta imperversando
un’ondata di caldo, più devastante di un ciclone. Case di cura? Le chiami
case di sofferenza, piuttosto. Mortori. Case della morte. È stato lui a
mandarla? Per uccidermi?».
«Andiamo, Odile, non dica sciocchezze. Posso vedere di trovargliene una
climatizzata...».
«Sì, così mi drogano, mi riducono a un vegetale e mio marito ne
approfitta per prendersi l’appartamento e venirci a vivere con la sua
puttana! Mai! L’araba e i suoi bambini? Mai! Lei lo sapeva che ha due figli
con quella donna?».
«Odile, lei è in una condizione tale che da un momento all’altro le
faranno un ricovero coatto, senza neanche chiederle il suo parere».
«Bene, vedo che ha capito: dovrete portarmi via con la forza. Fino a quel
momento non farò un bel niente. Ora se ne vada e non torni più. Anzi, da
oggi cambio medico».
Quella sera Odile era talmente arrabbiata che pensò di togliersi la vita, e
non lo fece solo perché era una soluzione che sarebbe andata troppo a
genio a suo marito e a quell’orrida Yasmine.
No, Odile, riprenditi. Dopo tutto sei giovane... Quanti anni hai?...
Trentadue o trentatré, non me lo ricordo mai... Hai ancora una vita di
fronte a te, troverai un altro uomo, avrai una famiglia e dei figli. Charles
non ti meritava, tanto meglio averlo scoperto subito. Pensa se ti fossi
ostinata fino alla menopausa...
Di colpo, sentì il bisogno di parlarne con Fanny, la sua migliore amica.
Quanto tempo era che non la chiamava? Quell’estate rovente le aveva fatto
un po’ perdere il senso del tempo. Evidentemente, all’unisono con il resto
del paese e malgrado stesse rintanata nel suo ombroso appartamento,
soffriva la canicola più di quanto pensasse. Prese la rubrica del telefono, poi
la posò.
“Che lo cerco a fare? Se c’è un numero che so a memoria, è quello di
Fanny”.
Digitò le cifre sulla tastiera. Le rispose una voce impastata di sonno.
«Sì?».
«Scusi il disturbo, vorrei parlare con Fanny».
«Fanny?».
«Fanny Desprées. Ho sbagliato numero?».
«Fanny è morta, signora».
«Fanny! Quando?».
«Dieci giorni fa. Disidratata».
L’ondata di caldo! Mentre teneva scioccamente il conto dei morti davanti
alla televisione, non le era passato per la testa che tra le vittime della
carneficina ci potesse essere la sua amica. Riattaccò senza riuscire ad
aggiungere una parola né chiedere altri particolari.
Fanny, la cara Fanny, amica fin dalla scuola, con due figli appena nati...
Che tragedia, così giovane! Erano nate nello stesso anno... Quindi non
erano solo gli anziani e i bambini a soccombere, morivano anche gli adulti
nel pieno delle forze... Chissà chi le aveva risposto al telefono. Una voce
roca, sconosciuta... Magari un vecchio zio.
Traumatizzata, Odile ingurgitò una bottiglia d’acqua e si ritirò in camera
a piangere.

«Quindicimila morti» annunciò lo speaker con il viso squadrato come


una serranda.
«Presto quindicimila e uno» sospirò Odile aspirando la sigaretta, «perché
non lo so mica se ho tanta voglia di rimanere in un mondo così brutto».
Nessuna speranza di un calo delle temperature, nessun temporale
all’orizzonte, aggiunse il giornalista. La terra crepava di dolore.
Neanche per Odile si profilava una via d’uscita. L’intrusa veniva ormai
più volte al giorno a mischiare malignamente le sue cose. Odile non riusciva
più a trovare niente.
Dopo la partenza della portiera per il Portogallo – è inimmaginabile il
numero di portieri che devono esserci ad agosto in Portogallo –, la spesa e i
piatti cucinati le venivano portati su dalla nipote, una sfrontata
dall’andatura molle che masticava gomma americana e cambiava cinture
dalla mattina alla sera, una cretinetta con cui era impossibile scambiare tre
parole sensate.
Charles non si era più fatto vedere. Era quasi certamente lui quello che
telefonava e al quale Odile rispondeva semplicemente “No” prima di
riattaccare. Ma ormai la preoccupava meno. Molto meno. Era storia
vecchia. Anzi, era come se non fosse mai esistito. L’unico pensiero di Odile,
adesso, era il rinnovo dell’iscrizione all’università: non riusciva a mettersi in
contatto con il tizio che si occupava della pratica, forse perché d’estate il
personale era ridotto, e ciò la irritava parecchio.
Le era venuta una gran voglia di dedicarsi allo studio. Quando non si
rilassava guardando il canale d’informazione nonstop, passava ore a
lavorare leggendo libri sul Medio Oriente, studiando le lingue e pensando
seriamente a terminare la tesi di dottorato della quale aveva appena
abbozzato l’introduzione.
Anche il professore che doveva farle da relatore era introvabile.
Sembrava che la catastrofe climatica avesse annichilito il paese. Niente
funzionava più normalmente. Neanche i suoi genitori rispondevano più al
telefono. Probabilmente erano tutti scappati a rifugiarsi da qualche parte.
Approfittiamone per dedicarci alle cose essenziali, si diceva Odile
applicandosi per ore a perfezionare la struttura dei paragrafi e la fluidità
delle frasi. Tempo una settimana, devo assolutamente aver finito
l’introduzione.
Era talmente presa che non si curava più di bere a sufficienza. Per giunta,
l’aria condizionata cominciava a dare segni di cedimento: Odile metteva il
termostato su venti gradi, poi, dopo ore di sofferenza, lo ritrovava su trenta
o trentadue, o magari su quindici! Dopo una ricerca tutt’altro che facile,
ripescò libretto d’istruzioni e garanzia e chiamò l’installatore perché venisse
a riparare l’impianto. Il tecnico passò mezza giornata a verificare ogni
singolo apparecchio, per poi concluderne che non riusciva a spiegarsi il
guasto; forse c’era stato un falso contatto, comunque aveva ricontrollato
tutto e d’ora in poi l’impianto avrebbe funzionato alla perfezione.
Viceversa, fin dall’indomani, l’apparecchio di ogni stanza ricominciò a dare
le temperature più diverse e spesso farneticanti.
Odile non ritenne necessario richiamare il tecnico, perché aveva capito
benissimo l’origine di quel malfunzionamento: l’intrusa. Di sicuro la
vecchiaccia trovava divertente alterarle i comandi alle spalle.
Dato che tra il lavoro, il caldo e il poco bere cominciava a non farcela
più, Odile decise di appostarsi per sorprendere l’intrusa, coglierla con le
mani nel sacco e sistemare la faccenda una volta per tutte.
Quando fu sicura di essere sola, si nascose nel ripostiglio, spense la luce e
aspettò.
Quanto tempo rimase in agguato? Non avrebbe saputo dirlo. C’era quasi
da pensare che l’anziana signora avesse indovinato che qualcuno la stava
aspettando... Dopo qualche ora, tormentata dalla sete, Odile uscì dallo
sgabuzzino e tornò in salotto dove, Dio solo sa perché, provò l’improvvisa
voglia di un pastis. Aprì il mobiletto del bar, si versò un bicchiere e, dopo
un sorso, la sua attenzione fu attratta da una cosa molto strana.
Nella biblioteca c’era un libro con il suo nome – Odile Versini – scritto
sulla costola. Lo prese dalla mensola. Guardò la copertina e rimase
sconcertata: era la sua tesi, la tesi che stava ancora scrivendo! Scoprì che era
completa, terminata, stampata in quattrocento pagine, pubblicata da un
editore prestigioso che non si sognava nemmeno.
Che scherzo era quello?
Sfogliò le prime pagine e impallidì ancora di più. Vi ritrovava il tono
della sua introduzione, quella su cui stava penando da giorni, ma il testo era
scritto meglio, più strutturato, finito.
Cosa stava succedendo?
Sollevando la testa scorse l’intrusa. L’anziana signora la guardava
tranquillamente.
No, questo è troppo.
Girò su sé stessa, si precipitò allo stanzino, afferrò la mazza da golf che si
era preparata come arma e tornò in salotto per un chiarimento definitivo
con l’estranea.

Davanti alla finestra che dava sui giardini del Trocadéro, Yasmine
osservava la pioggia che era giunta a riconciliare la terra con il cielo e a
sospendere l’epidemia di morte.
Alle sue spalle la stanza non era cambiata, sempre carica di libri, una
collezione preziosa per chiunque fosse interessato al Medio Oriente. Al
momento, né lei né suo marito avevano il tempo di sostituire i mobili e
l’arredamento; avrebbero fatto i lavori in un secondo tempo. Però non
avevano esitato un attimo a lasciare l’appartamentino sulla tangenziale, dove
vivevano stretti come sardine insieme ai due figli, e a trasferirsi lì.
Alle sue spalle, per l’appunto, Jérôme e Hugo scoprivano i piaceri della
televisione satellitare e non la smettevano di fare zapping.
«È stupendo, mamma, ci sono pure i canali arabi!».
Non si fermavano su alcun programma, erano più inebriati da quanti ce
n’erano che attratti dall’idea di seguirne uno.
Tornato a casa, suo marito le scivolò alle spalle e la baciò alla base del
collo. Yasmine si girò e aderì con il proprio petto al suo. Si abbracciarono.
«Sai che ho sfogliato l’album di famiglia? Somigli a tuo padre in maniera
impressionante!».
«Non lo dire».
«Perché? Ti fa male pensare che è morto in Egitto quando avevi sei
anni?».
«No, mi fa male perché mi fa venire in mente mamma. Mi scambiava
spesso per lui, mi chiamava Charles».
«Non ci pensare più. Cerca di ricordartela quando era in piena forma,
un’intellettuale brillante, piena di spirito, con la risposta pronta. È una
donna che mi ha sempre colpito molto. Cancella gli ultimi due anni».
«Hai ragione. Stava sola qui, con l’Alzheimer... Neanche lei sapeva più
chi fosse... La memoria l’aveva tradita, era convinta di essere più giovane,
credeva che l’anziana signora in cui si imbatteva davanti agli specchi fosse
un’intrusa. L’hanno ritrovata stesa davanti a uno specchio rotto con una
mazza da golf in mano, di sicuro voleva difendersi e ha colpito quando ha
creduto che l’altra stesse per colpire».
«Domenica l’andremo a trovare».
Yasmine carezzò François sulla guancia e, avvicinando le labbra,
aggiunse:
«Sta meglio, adesso che è regredita al tempo in cui non conosceva ancora
tuo padre. Non ci confonde più. Quanti anni pensa di avere ora?».
Lui si abbandonò con la testa sulla spalla di Yasmine.
«Certe volte mi auguro che arrivi presto il giorno in cui mia madre andrà
indietro nel tempo fino a tornare una neonata, così potrò stringerla tra le
braccia e dirle finalmente quanto le voglio bene. Un bacio d’addio, per me.
Per lei, un bacio di benvenuto...».
Il falso

P ossiamo tranquillamente affermare che di Aimée Favart ce ne furono


due: l’Aimée di prima della separazione e l’Aimée di dopo.
Quando Georges le annunciò che se ne andava, Aimée impiegò vari
minuti a sincerarsi che non si trattasse di un incubo o di uno scherzo. Era
proprio lui che parlava? Era proprio a lei che si rivolgeva? Una volta
assodato che la realtà le stava assestando una mazzata, pensò bene di
controllare se fosse ancora viva. Questa seconda diagnosi richiese più
tempo: il cuore aveva smesso di battere, il sangue non circolava più, un
freddo silenzio marmoreo le aveva pietrificato gli organi e una contrazione
impediva ai suoi occhi di sbattere le ciglia... Eppure continuava a sentire la
voce di Georges – «Devi capirmi, cara, non possiamo più continuare così,
tutto finisce» –, a vederlo – la camicia aveva un’aureola di sudore sotto le
ascelle –, a sentire il suo sconvolgente aroma di maschio, quel profumo di
sapone e biancheria alla lavanda... Sorpresa, quasi delusa, ne dedusse che
stava sopravvivendo.
Dolce, premuroso, cordiale, Georges sbrodolava parole che
rispondevano a due esigenze contraddittorie: dire all’amante che la lasciava
e sostenere che non era poi la fine del mondo.
«Siamo stati felici insieme. I miei momenti migliori li devo a te. Sono
sicuro che morirò pensando a te. Però ho una famiglia. Del resto mi
ameresti ancora tu, se fossi davvero un uomo così, uno che se ne va, che
scappa dai propri impegni, che pianta in asso moglie, casa, figli e nipoti
come se niente fosse, con uno schiocco delle dita?».
Lei avrebbe voluto urlare “sì, ti amerei anche così; anzi, è ciò che aspetto
fin dal primo giorno”, ma come al solito non disse una parola. Non doveva
ferirlo. Non doveva assolutamente ferirlo. Il benessere di Georges era per
Aimée più importante del suo: così l’aveva amato per venticinque anni,
dimenticando sé stessa.
«Mia moglie ha sempre desiderato che andassimo a trascorrere la nostra
vecchiaia nel sud della Francia» continuò Georges, «e siccome tra due mesi
vado in pensione, abbiamo comprato una villa a Cannes. Ci trasferiamo
quest’estate».
Più che la partenza, fu l’espressione “trascorrere la nostra vecchiaia” che
la colpì. Dopo averle sempre descritto la sua esistenza familiare come una
prigione, con quel “trascorrere la nostra vecchiaia” Aimée scopriva che
Georges, in un altro mondo di cui non le aveva dato le chiavi, aveva
continuato a sentirsi il marito di sua moglie, il padre dei suoi figli.
“La nostra vecchiaia”: quindi Aimée non era stata che una parentesi. “La
nostra vecchiaia”: quindi, per quanto le avesse sussurrato parole d’amore,
per quanto avesse continuamente avuto bisogno del suo corpo, lei era
rimasta un capriccio. “La nostra vecchiaia”: alla fine aveva vinto l’altra, la
rivale, l’odiata, la temuta. Lo sapeva, almeno? Aveva la consapevolezza,
trasferendosi con il marito a Cannes, di lasciare dietro di sé una donna
svuotata, esangue, una donna che per venticinque anni aveva sperato di
prendere il suo posto e che, fino a cinque minuti prima, ci sperava ancora?
«Rispondimi, cara. Di’ qualcosa, ti prego...».
Lei lo fissò e spalancò gli occhi. Che fa? Si mette in ginocchio? Mi
accarezza la mano? Cos’ha in testa? Di sicuro, da un momento all’altro si
mette a piangere... Piange sempre davanti a me... È imbarazzante, non sono
riuscita una sola volta a farmi consolare, mi è sempre toccato essere io la
prima a rincuorarlo. Comodo: comportarsi da uomo quando gli conviene e
da donna quando gli serve.
Guardò il sessantenne ai suoi piedi ed ebbe l’improvvisa sensazione di
avere di fronte un completo estraneo. Se la parte razionale del suo cervello
non le avesse ricordato che si trattava di Georges, dell’uomo che da
venticinque anni idolatrava, sarebbe scattata in piedi gridando:
«Lei chi è? Cosa fa a casa mia? Chi la autorizza a toccarmi?».
E in quel momento, nell’istante stesso in cui decise che lui era cambiato,
cambiò lei.
Osservando quella larva dai capelli tinti che piagnucolava e le sbavava su
mani e ginocchia, Aimée Favart si trasformò nell’altra Aimée Favart, quella
che non credeva più all’amore.
Nei mesi che seguirono, naturalmente, ci fu un po’ di andirivieni tra la
vecchia e la nuova Aimée – dopo un pallido tentativo di suicidio, una notte
andò di nuovo a letto con lui –, ma in agosto, dopo che Georges si fu
trasferito, la nuova Aimée aveva definitivamente preso il sopravvento sulla
vecchia. O meglio, l’aveva soppressa.

Ripensava al suo passato con stupore.


Come ho potuto credere che mi amasse? Aveva solo bisogno di
un’amante bella, disponibile e cogliona.
Bella, disponibile e cogliona.
Bella lo era. Glielo dicevano tutti, fino a che non si era separata. Tutti
tranne lei stessa... perché, come molte donne, Aimée non possedeva la
bellezza che le sarebbe piaciuta. Piccola, snella, con i seni gracili, invidiava
le gigantesse tutte curve e soffriva di un complesso dovuto alla statura e alla
magrezza. Dopo la separazione si piacque di più, giudicandosi “fin troppo
carina per qualsiasi uomo”.
Disponibile lo era per mancanza di stima nei propri confronti. Figlia
unica di una madre che non le aveva mai rivelato l’identità del padre e la
trattava da fastidioso frutto del peccato, Aimée non aveva mai conosciuto il
mondo degli uomini; così, quando era stata assunta come segretaria nella
ditta di cui Georges era direttore, le era stato impossibile resistere a
quell’uomo più vecchio di lei che ai suoi occhi di vergine innocente
rappresentava contemporaneamente il padre e l’amante. Strani percorsi
segue il romanticismo! Le sembrava più nobile amare un uomo che non
avrebbe mai potuto sposare...
E cogliona? In Aimée, come in ogni essere umano, l’intelligenza e la
stupidità risiedevano in province separate, cosa che la rendeva brillante a
livello regionale e stupida a livello locale: nel senso che, pur rivelandosi
competente nel campo del lavoro, si dimostrava un’allocca quando si
avventurava nello spazio dei sentimenti. Cento volte le colleghe le avevano
consigliato di rompere con quell’uomo, e cento volte Aimée aveva
assaporato la voluttà di non seguire i loro suggerimenti. Loro parlavano con
la voce della ragione? Lei si faceva vanto di rispondere con quella del cuore.
Per venticinque anni, lei e Georges avevano condiviso la quotidianità del
lavoro, mai però la quotidianità coniugale! Il che aveva reso le loro
scappatelle più ricche e preziose, così come le carezze furtive rubate sul
lavoro. A casa sua lei non lo ebbe che con il raro pretesto di consigli
d’amministrazione interminabili. In venticinque anni, la loro coppia non
aveva avuto il tempo di logorarsi.
Tre mesi dopo essersi trasferito in Costa Azzurra, Georges cominciò a
scriverle. Più le settimane passavano, più la sua corrispondenza si faceva
ardente, appassionata. Merito dell’assenza?
Lei non gli rispondeva. Perché, sebbene le lettere fossero inviate alla
vecchia Aimée, era la nuova a riceverle. E quest’ultima, senza la minima
emozione, ne deduceva che Georges si era già stufato della moglie. Leggeva
con disprezzo quei fogli che infiorettavano il loro passato ogni volta di più.
Dà i numeri, il pensionato! Di questo passo, nel giro di tre mesi saremo
Giulietta e Romeo.

Mantenne l’impiego, giudicò il nuovo direttore un uomo ridicolo –


soprattutto quando le sorrideva – e si mise a praticare sport a oltranza. A
quarantotto anni, senza bambini perché Georges ne aveva già, decise che la
mancanza di figli non le sarebbe pesata.
«Per farmi rubare i miei anni più belli, farmi succhiare il cuore, e poi
vederli sparire e ritrovarmi ancora più sola? No, grazie. Tra l’altro, bisogna
essere cretine o incoscienti per aggiungere altri esseri a un pianeta che
l’inquinamento e la stupidità umana stanno mandando in malora».
L’azienda subì dei rovesci. Si rimpianse la partenza del signor Georges, il
vecchio direttore. Ci furono dei rimpasti, un piano di riassetto societario, e
a cinquant’anni Aimée Favart si ritrovò disoccupata senza che la cosa la
colpisse più di tanto.
Tra stage inutili e corsi di formazione a dir poco puerili, cercò senza
entusiasmo un altro impiego, poi cominciò ad avere problemi di soldi.
Senza rimpianti, si recò con il suo portagioie da un gioielliere.
«Quanto conta di ricavarne, signora?».
«Non lo so. Me lo dica lei».
«Il fatto è che... non c’è niente di valore, qua dentro. È tutta bigiotteria,
nessuna pietra preziosa, niente oro massiccio, nulla che...».
«Chiaro, me li ha regalati lui».
«Lui chi?».
«Uno che si dichiarava l’uomo della mia vita. Mi dava la paccottiglia, mi
dava, come i conquistadores agli indiani! E vuole sapere una cosa? Io ero
talmente fessa che mi piacevano. Insomma non valgono niente?».
«Non molto».
«Era un bastardo, vero?».
«Non lo so, signora. Certo è che se uno ama una donna...».
«Beh?».
«Se uno ama una donna, non le compra cose del genere».
«Ah, ecco! Ne ero sicura».
Aimée trionfava. Quanto al negoziante, si era semplicemente riciclato la
frase che usava di solito in un’altra situazione, quando cioè voleva
convincere un cliente ad acquistare un pezzo più costoso.
Pur uscendo dal negozio con tre banconote sparute, Aimée scoppiava di
soddisfazione: Georges non era altro che un porco schifoso, glielo aveva
confermato uno specialista.
Appena tornata a casa, aprì gli armadi e si mise a frugare alla ricerca dei
regali di Georges. Il bottino, oltre che magro, era di una qualità che faceva
pena. Un cappotto di coniglio. Indumenti intimi di nylon. Un orologio
grande come un’aspirina. Un taccuino di pelle senza marca che puzzava
ancora di capra. Indumenti intimi di cotone. Un cappello impossibile da
portare, tranne forse per un matrimonio alla corte d’Inghilterra. Una
sciarpa di seta con l’etichetta tagliata. Indumenti intimi di gomma nera.
Si gettò sul letto non sapendo se ridere o piangere. Nell’incertezza tossì.
Davanti a lei stavano i trofei di venticinque anni di passione! Il suo tesoro di
guerra...
Per sentirsi meno tapina, ritorse il suo disprezzo contro Georges. Con la
scusa che la moglie si sarebbe insospettita se avesse scoperto spese regolari
e non giustificabili, non era stato molto generoso con lei. Generoso, ma che
dico? Normale. Neanche normale. Uno spilorcio e basta.
E io che ne ero così fiera, che mi vantavo di non amarlo per i soldi! Che
ebete! Ero convinta di glorificare l’innamorato, invece tranquillizzavo il
tirchio...
Andando in salotto per dar da mangiare ai pappagallini, si fermò di
fronte al quadro appeso sopra la gabbia e per poco non soffocò di rabbia.
«Il mio Picasso! Questa è veramente la dimostrazione che mi prendeva
per un’imbecille».
Il quadro, un insieme di forme sparse, un puzzle di volti, un occhio qua,
un naso sopra, un orecchio in mezzo alla fronte, avrebbe dovuto raffigurare
una donna con il figlio. Aspetta un attimo! Ecco perché Georges aveva un
atteggiamento così strano, il giorno che gliel’aveva portato: pallido, le
labbra ceree, la voce ansimante. Mettendole in mano quella tela tremava.
«Per te. Con questo mi rimetto in pari. Per una volta, non si potrà dire
che non sono stato generoso».
«Cos’è?».
«Un Picasso».
Lei aveva tolto la stoffa che proteggeva il dipinto, aveva contemplato
l’opera e aveva ripetuto per convincersene:
«Un Picasso?».
«Sì».
«Un Picasso vero?».
«Sì».
Senza quasi il coraggio di toccarlo, per paura che un suo gesto sbadato lo
facesse scomparire, aveva balbettato:
«Non è possibile... Come hai fatto?».
«Cara, ti prego: questa è una cosa che non devi chiedermi mai!».
Lì per lì Aimée aveva interpretato quella riservatezza come il pudore di
un uomo che si era svenato per regalare qualcosa alla sua donna. In seguito,
ripensando alla sua espressione terrorizzata, era persino arrivata a pensare
che l’avesse rubato. Eppure sembrava così fiero del suo regalo... E poi era
una persona onesta.
Per cautela, Georges le aveva consigliato di dire a tutti che era un falso.
«Capisci, cara, è molto improbabile che una segretaria che vive in un
palazzone a equo canone possieda un Picasso. Ti prenderebbero in giro».
«Hai ragione».
«Peggio: se si venisse a sapere la verità, te lo ruberebbero subito.
L’assicurazione migliore, credimi, è dichiarare che è un falso fino a quando
non deciderai di separartene».
Così Aimée, alle rarissime persone che erano entrate in casa sua, aveva
mostrato il quadro chiamandolo “il mio Picasso, ovviamente falso” e
sottolineando la battuta con una risatina.
Con il senno di poi, il trucco di Georges le apparve diabolico: obbligarla
a insinuare con gli altri che il suo Picasso fosse falso perché lei sola si
persuadesse che era vero!
Tuttavia nelle settimane che seguirono provò dei sentimenti contrastanti:
da una parte era sicura dell’imbroglio, dall’altra sperava ancora di sbagliarsi.
Qualsiasi cosa fosse venuta a sapere in più su quella tela le avrebbe
provocato una delusione. Delusa di ritrovarsi povera o delusa di dover
rendere merito a Georges.
Il quadro di fronte a cui si fermava era diventato il ring in cui si
affrontavano la vecchia e la nuova Aimée: la prima, che aveva creduto
all’amore e al vero Picasso; la seconda, che vedeva la falsità sia di Georges
che del Picasso.
Il sussidio di disoccupazione si assottigliava, ma Aimée non riusciva a
trovare un impiego. Tanta era la paranoia di lasciarsi abbindolare, ormai,
che durante i colloqui di lavoro non si sforzava più di fare bella figura, e gli
intervistatori si trovavano di fronte una donna dura, secca, chiusa, in cui si
combinavano età, esigenze economiche e carattere difficile, incapace di
concessioni, pronta a sospettare di essere sfruttata, talmente sulla difensiva
da risultare aggressiva. Senza rendersene conto, si tagliava fuori da sola.
Quando ebbe raschiato via i suoi ultimi risparmi realizzò che, in
mancanza di una soluzione immediata, sarebbe precipitata nell’indigenza.
Automaticamente, corse verso il cassetto delle scartoffie e rovistò
freneticamente alla ricerca di un vecchio foglio su cui aveva segnato il
numero, poi telefonò a Cannes.
Le rispose una cameriera. Aimée la sentì ascoltare la sua richiesta e poi
perdersi nel silenzio di una grande casa. Dopo poco udì dei passi e
riconobbe il fiatone angosciato di Georges.
«Aimée?».
«Sì».
«Che succede? Lo sai che non mi devi chiamare da mia moglie».
In poche frasi, senza la minima incertezza, Aimée gli tracciò un quadro
apocalittico della propria situazione. Non che avesse bisogno di esagerare
molto per fargli capire lo stato pietoso in cui versava, ma la novità era la sua
recente corazza di cinismo che le impediva l’autocommiserazione, mentre
sentire all’altro capo del filo il respiro affannoso di Georges le procurava
una specie di rabbia.
«Georges, ti prego, aiutami» concluse.
«Venditi il Picasso».
Aimée credette di aver capito male. Cosa? Osava ancora...
«Sì, tesoro, venditi il Picasso. Te l’ho regalato per questo, per darti la
sicurezza, visto che non ti potevo sposare. Vatti a vendere il Picasso».
Aimée chiuse la bocca per non urlare. Ma che pensava quello lì, di
prenderla per un’imbecille fino alla fine?
«Vai da Tanaev, 21 rue de Lisbonne. È dove l’ho comprato. Attenta a
non farti fregare. Chiedi di Tanaev padre. Ora chiudo, sta arrivando mia
moglie. Arrivederci, mia piccola Aimée, ti penso continuamente».
Charles riattaccò. Vile e sfuggente come sempre.
Che sberla! Che sberla si era beccata! Se la meritava, però. Non avrebbe
dovuto chiamarlo.
Umiliata, Aimée si piantò davanti al quadro e scaricò la sua collera.
«Mai, mi senti? Non andrò mai da un mercante d’arte per avere la
conferma che sono stata una cogliona e che Georges era un porco! Lo so
già, grazie!».
Invece due giorni dopo, sotto minaccia di distacco della corrente se non
avesse pagato la bolletta, salì su un taxi e disse:
«21 rue de Lisbonne, per favore. Da Tanaev».
Sebbene a quell’indirizzo corrispondesse un portone con accanto un
negozio di abbigliamento per bambini, scese dalla macchina con il quadro
imballato sottobraccio ed entrò.
«Avrà lo studio nel cortile, o ai piani superiori».
Dopo aver scorso quattro volte l’elenco dei residenti di entrambe le ali
dell’edificio, cercò un portiere per farsi dare le nuove coordinate di Tanaev,
fino a quando capì che il portiere non c’era perché gli immobili dei ricchi, al
contrario di quelli dei poveri, si affidano ad anonime imprese di pulizia.
Per non lasciare nulla di intentato, prima di tornare indietro entrò nel
negozio di vestiti.
«Mi scusi, sto cercando il signor Tanaev padre. Credevo che...».
«Tanaev? È andato via da dieci anni».
«Ah. Sa dove si è trasferito?».
«Trasferito? Quella gente non si trasferisce, si eclissa. Punto e a capo».
«Che significa?».
«Che accumulato il bottino, bisogna andarlo a nascondere da qualche
parte. Dio solo sa dov’è, adesso: Russia, Svizzera, Argentina, magari alle
Bermuda...».
«Il fatto è che... vede... qualche anno fa mi ha venduto un quadro...».
«Oh, poverina!».
«Perché poverina?».
Il negoziante si rese conto che il viso di Aimée era sbiancato
completamente e si pentì di aver parlato troppo in fretta.
«Senta, signora, io non ne so niente. Sicuramente il suo quadro è
stupendo e vale una fortuna. Guardi, ho qualcosa per lei...».
Tirò fuori un biglietto da visita da una scatola piena di foglietti volanti.
«Ecco, vada da Marcel de Blaminth, rue de Flandres. Lui sì che è un
esperto».
Varcando la porta di Marcel de Blaminth, Aimée perse ogni speranza.
Sotto i pesanti tendaggi di velluto cremisi che assorbivano ogni suono e
ogni interferenza con l’esterno, schiacciata da tele monumentali con
tormentate cornici d’oro, ebbe la chiara percezione di non essere più nel
suo mondo.
Un’imponente segretaria con lo chignon le rivolse un’occhiata sospettosa
da dietro gli occhiali di tartaruga. Aimée farfugliò la sua storia, le mostrò il
dipinto e l’amazzone la condusse nello studio.
Prima del quadro, Marcel de Blaminth scrutò attentamente la visitatrice.
Aimée ebbe la sensazione che il tizio la passasse in rassegna dalle scarpe alla
collana, che valutasse provenienza e prezzo di ogni abito o monile che
portava senza degnare di uno sguardo la tela.
«Dove sono i certificati?».
«Non ne ho».
«L’atto di acquisto?».
«È un regalo».
«Sarebbe in grado di procurarselo?».
«Non credo. Quella... persona è sparita dalla mia vita».
«Capisco. Forse potremmo chiederne una copia al mercante che l’ha
venduto. Chi era?».
«Tanaev» mormorò Aimée vergognosa.
L’uomo inarcò un sopracciglio con aria di profondo disprezzo.
«La cosa si mette male, signora».
«Non potrebbe comunque...».
«Dare un’occhiata al quadro? Ha ragione, è la cosa più importante. Certe
volte, opere meravigliose tornano alla luce dopo aver seguito un percorso
tortuoso, magari losco. L’opera è l’unica cosa che conta, l’unica».
Cambiò occhiali e si avvicinò al Picasso. L’analisi richiese un po’ di
tempo. Esaminò la tela, toccò la cornice, prese qualche misura, studiò
alcuni particolari con la lente d’ingrandimento, arretrò di qualche passo,
poi ricominciò da capo.
Alla fine posò le mani sul tavolo.
«Non le farò pagare l’expertise».
«Ah».
«No, inutile aggiungere sventura alla sventura. È un falso».
«Un falso?».
«Un falso».
Per salvare la faccia, lei sghignazzò:
«È quel che ho sempre detto anch’io a tutti».
Tornata a casa, Aimée riappese il quadro sopra la gabbia dei pappagallini
e si costrinse a essere lucida, una dura prova che pochi esseri umani hanno
occasione di subire. Prese coscienza dei propri fallimenti in campo
sentimentale, in campo familiare e in campo professionale. Guardandosi
nella specchiera della camera da letto constatò che la sua linea, scolpita
dall’esercizio e dalla dieta macrobiotica, resisteva bene. Ma quanto ancora
sarebbe durata? Comunque sia, quel corpo di cui ora andava così fiera era
destinato unicamente alla specchiera dell’armadio, non voleva più
concederlo ad anima viva.
Si diresse in bagno con la ferma intenzione di pigrottare nella vasca e la
vaga idea di suicidarsi.
Perché no? È l’unica soluzione. Che prospettive mi rimangono? Non ho
lavoro, non ho soldi, non ho un uomo, non ho figli e presto sarò vecchia e
morirò. Un bel programmino... A rigor di logica, mi dovrei ammazzare.
Ma solo la logica la spingeva al suicidio, perché in realtà non ne aveva
alcuna voglia. La sua pelle desiderava il calore del bagno, la sua bocca
pregustava il melone con le scaglie di prosciutto che l’attendeva sul tavolo
di cucina. Con la mano accarezzò la linea impeccabile delle cosce e si
attardò sui capelli apprezzandone il serico vigore. Aprì l’acqua e gettò nella
vasca una capsula effervescente che sprigionò nell’aria un profumo di
eucaliptus.
Che fare? Continuare a sopravvivere o no?
Suonò il campanello. Era la portiera.
«Signora Favart, le interessa affittare la camera degli ospiti?».
«Non ho camere per gli ospiti».
«Ma sì, la stanzetta che dà sullo stadio».
«La uso per cucire e stirare».
«Beh, se ci mettesse un letto, potrebbe affittarla a una studentessa. Col
fatto che l’università è qui accanto, vengono continuamente a chiedermi se
ci sono camere libere... Sarebbe un buon modo per arrotondare, in attesa di
trovare un altro lavoro. Che non tarderà, ne sono sicura».
Infilandosi nella vasca, emozionata, Aimée si sentì obbligata a ringraziare
Dio, al quale non credeva, per averle inviato una soluzione al suo problema.

Nei dieci anni che seguirono, affittò la cameretta a ragazze che


studiavano nel vicino ateneo. Quella piccola entrata supplementare,
sommata al minimo sociale, le bastava per sopravvivere in attesa della
pensione. Ospitare inquiline diventò il suo vero mestiere, e sviluppò una
tale esperienza nel selezionarle che avrebbe potuto scrivere così i sei
comandamenti della saggia locatrice:
1° Esigere il mese anticipato e procurarsi il recapito esatto e verificato dei
genitori.
2° Fino all’ultimo giorno comportarsi con la locataria da padrona di casa
che tollera un’intrusa.
3° Preferire le sorelle maggiori alle sorelle minori: sono più docili.
4° Preferire le piccoloborghesi alle altoborghesi: le ragazze della piccola
borghesia sono più pulite e meno indisponenti.
5° Non lasciarle mai cominciare a parlare della loro vita privata,
altrimenti finiscono per portarsi a casa dei ragazzi.
6° Preferire le asiatiche alle europee: più educate, più discrete,
addirittura riconoscenti; certe volte arrivano persino a farvi dei regali.
Per quanto Aimée non si attaccasse a nessuna delle sue studentesse, le
piaceva il fatto di non vivere da sola. Le quattro parole al giorno che
scambiava le bastavano, in più adorava far sentire a quelle giovani oche il
peso della sua maggiore esperienza.
La sua vita sarebbe potuta andare avanti così per un pezzo, se il dottore
non avesse individuato sul corpo di Aimée degli ingrossamenti sospetti;
venne fuori che era un cancro generalizzato. La notizia – indovinata, più
che appresa – le tolse un peso: non aveva più bisogno di lottare per
sopravvivere. Il suo unico dilemma fu se affittare ancora la camera per
quella stagione o no.
In ottobre aveva appena accettato, per la seconda volta consecutiva, una
giovane giapponese di nome Kumiko che doveva laurearsi in chimica, una
studentessa molto discreta alla quale parlò in tutta franchezza.
«Succede questo, Kumiko: ho una malattia grave che mi costringerà a
trascorrere parecchio tempo in ospedale. Non credo di poter continuare a
ospitarti».
Il dolore della ragazza la stupì talmente che in un primo momento ne
fraintese la causa, attribuendo quelle lacrime alla preoccupazione della
straniera di ritrovarsi in mezzo alla strada; poi però capì che la giapponese
era davvero dispiaciuta di quanto le stava succedendo.
«Io la aiuto. Io la vengo a tlovale in ospedale. So cucinale, le plepalo cibo
sano. Io mi plendo cula di lei. Anche se andlò a stale alla città univelsitalia,
io semple tlovelò tempo pel lei».
“Povera figliola” pensò Aimée. “Alla sua età ero anch’io innocente e
gentile come lei. Quando avrà vissuto tanto quanto me, si smonterà”.
Travolta e annichilita da quelle dimostrazioni di affetto, Aimée non ebbe
il coraggio di mandarla via e le confermò la camera in affitto.
Presto non fu più in grado di lasciare l’ospedale.
Kumiko andava a trovarla ogni sera. Era l’unica visita che riceveva.
Aimée non era avvezza a tanta sollecitudine. Un giorno accoglieva il
sorriso di Kumiko come un nettare che le permetteva di credere che
l’umanità non fosse tutta marcia; un altro giorno, non appena scorgeva il
viso affettuoso della giapponese, si scagliava contro quell’intrusione nella
propria agonia: non si poteva neanche morire in pace! Kumiko attribuiva
gli sbalzi d’umore all’aggravarsi della malattia; così, malgrado gli improperi,
le sgridate e gli insulti, perdonava l’ammalata senza venire meno alla
propria compassione.
Una sera la giapponese commise un errore di cui non si rese conto, ma
che modificò l’intero comportamento di Aimée. Il medico aveva messo al
corrente la paziente che il nuovo trattamento si stava rivelando deludente.
Traduzione: non ne ha per molto. Aimée non aveva battuto ciglio. Aveva
anzi provato una sorta di vile sollievo, intravedeva l’armistizio: basta lottare,
basta cure stremanti. Veniva finalmente liberata da quell’inquietante tortura
che è la speranza. Doveva solo morire. Fu dunque con una certa serenità
che annunciò a Kumiko il fiasco terapeutico. La giapponese, però, reagì con
passione. Pianse. Gridò. La abbracciò. Urlò. Si ricompose. Scoppiò di
nuovo in lacrime. Quando alla fine ritrovò la parola, prese il cellulare e
chiamò tre persone in Giappone; mezz’ora dopo annunciava trionfalmente
a Aimée che, se fosse andata a curarsi laggiù nella sua isola, si sarebbe
potuta sottoporre a un tipo di terapia che in Francia non era ancora
arrivato.
Inerte, infastidita da quella dimostrazione d’affetto, Aimée non vedeva
l’ora che Kumiko se ne andasse. Quella ragazzetta stava cercando di
complicarle la morte! Come si permetteva di tormentarla parlandole ancora
di guarigione?
Decise di vendicarsi.
L’indomani, quando all’ospedale spuntò la faccia gialla di Kumiko,
Aimée spalancò le braccia e la chiamò a sé.
«Mia piccola Kumiko, vieni ad abbracciarmi!».
Dopo un po’ di singhiozzi e altrettanti teneri abbracci, con un tono
patetico inframmezzato da sospiri, Aimée si produsse in una grande
dichiarazione d’affetto secondo cui Kumiko era diventata come una figlia
per lei, sì, la figlia che non aveva mai avuto e che la accompagnava nei suoi
ultimi momenti di vita facendole sentire che non era sola al mondo.
«Oh amica, mia giovane amica, mia grande amica, mia unica amica...».
Ricamò così bene sul tema che finì per commuoversi lei stessa, fingendo
meno ed esprimendosi meglio.
«Tu sei buona, Kumiko, sei buona come lo ero io alla tua età, a vent’anni,
quando credevo alla correttezza della gente, all’amore, all’amicizia. Sei
anche ingenua come lo sono stata io, mia povera Kumiko, e probabilmente
un giorno rimarrai delusa al pari di me. Sai, cara, provo pena per te. Ma
cosa cambia? Tieni duro, resta come sei il più a lungo possibile! Avrai tutto
il tempo di sentirti tradita e delusa».
A un certo punto si ricordò del piano: la vendetta. E riprendendosi
continuò:
«Per sdebitarmi, e darti la possibilità di credere nella bontà umana, ti
voglio fare un regalo».
«No, non lo voglio».
«Sì, invece. Ti lascerò la sola cosa di valore che possiedo».
«No, signola Favalt, no».
«Ti lascio in eredità il mio Picasso».
La ragazza rimase a bocca aperta.
«Hai presente il quadro sopra la gabbia dei pappagallini? È un Picasso.
Un vero Picasso. Dico a tutti che è falso per non suscitare invidie o
scatenare i ladri, ma tu puoi credermi, è un vero Picasso».
La giapponese divenne cerea, impietrita.
Aimée ebbe un brivido. Mi crede? Pensa che sia una copia? Chissà se ne
capisce di arte...
Dagli occhi a mandorla spuntarono le lacrime e Kumiko si mise a gemere
disperata:
«No, signola Favalt, tenga lei il Picasso, gualisca! Lo venda, semmai, così
io la polto in Giappone a fale cula».
Uff, l’ha bevuta, pensò Aimée, e subito rincarò:
«È per te, Kumiko, per te, ci tengo. Su, non perdiamo tempo, mi restano
pochi giorni ormai. Ecco qua, ho preparato un testamento. Vai velocemente
a cercare due testimoni in corridoio, così potrò morire con la coscienza
tranquilla».
Davanti al medico e all’infermiera, Aimée mise le firme che servivano. I
testimoni siglarono. Scossa dalle lacrime, Kumiko infilò in tasca il
documento e promise che sarebbe tornata l’indomani di buonora. Il suo
congedo fu intollerabilmente lungo, la giapponesina continuò a lanciarle
baci fino a sparire finalmente in fondo al corridoio.
Felicemente sola, Aimée sorrise al soffitto.
Povera tonta, pensava, sogna pure di essere ricca: più ci speri e più ci
rimarrai male dopo la mia morte. Allora sì che avrai una buona ragione per
piangere. Fino a quel giorno, mi auguro di non vederti più.
Forse il Dio al quale Aimée non credeva la sentì, perché il mattino dopo,
alle prime luci dell’alba, entrò in coma. Qualche giorno più tardi, senza aver
più ripreso conoscenza, una dose di morfina la fece passare a miglior vita.

Quarant’anni dopo, la regina mondiale dell’industria cosmetica Kumiko


Kruk, una delle più cospicue fortune del Giappone nonché ambasciatrice
dell’Unicef, anziana signora adorata dai media per il suo successo, il suo
carisma e la sua generosità, così spiegava alla stampa le sue iniziative
umanitarie:
«Ho deciso di investire una parte delle mie rendite nella lotta alla fame e
nell’assistenza ai più poveri in ricordo di una mia grande amica francese di
gioventù, Aimée Favart, che sul letto di morte mi regalò un quadro di
Picasso la cui vendita mi ha permesso di fondare la mia azienda. Ha voluto
farmi questo dono inestimabile anche se per lei ero poco più di una
sconosciuta. Da allora, mi è sempre sembrato naturale utilizzare i miei soldi
per alleviare, a mia volta, le pene di altri sconosciuti. Quella donna, Aimée
Favart, era amore puro. Credeva nell’umanità come nessuno. Mi ha
trasmesso i suoi valori e questo, al di là del Picasso, è certamente il suo
regalo più importante».
Tutto per essere felice

L a verità è che non sarebbe successo niente, se non avessi cambiato


parrucchiere.
La mia vita avrebbe continuato a scorrere tranquilla in un’apparente
felicità, se non fossi rimasta così colpita dal look pazzesco di Stacy al ritorno
delle vacanze. Un’altra persona! Da borghese di mezza età sfiancata da
quattro gravidanze, il nuovo taglio corto la trasformava in una bella bionda
sportiva e dinamica. Sul momento ho pensato che si fosse accorciata le
ciocche per sviare l’attenzione da un felice intervento di chirurgia estetica –
cosa che fanno tutte le mie amiche quando si sottopongono a un lifting –,
ma una volta appurato che non aveva subìto operazioni mi persuasi che
aveva trovato il parrucchiere ideale.
«Ideale, cara mia, ideale! Si chiama Atelier Capillaire, in rue Victor
Hugo. Me ne avevano già parlato, ma sai com’è, con i parrucchieri succede
un po’ come con i mariti: andiamo avanti anni convinte di avere già il
migliore!».
Evitai di fare ironie su quanto mi sembrasse pretenzioso quel nome,
“Atelier Capillaire”, e mi annotai che dovevo chiedere di David a nome suo.
«Un genio, cara, un vero genio!».
La sera stessa avvertii Samuel della mia futura metamorfosi.
«Credo che cambierò pettinatura».
Stupito, mi studiò per qualche secondo.
«Perché? Stai benissimo così».
«Oh, se fosse per te! Sei sempre contento, non mi critichi mai...».
«Che fai, mi accusi di ammirazione incondizionata, adesso? Cos’è che
non ti piace in te?».
«Niente. Ho solo voglia di cambiare...».
Lui registrò accuratamente la mia dichiarazione come se, al di là della sua
frivolezza, svelasse riflessioni più profonde; il suo sguardo indagatore sortì
l’effetto di spingermi a cambiare argomento e poi andarmene: non avevo
nessuna voglia di servire da test per il suo acume. Anche se la qualità
principale di mio marito è l’attenzione che mi dedica, certe volte lo trovo un
po’ pesante: ogni minima frase che dico viene passata al setaccio, analizzata,
sviscerata talmente che spesso, per fare una battuta, dico alle mie amiche
che ho la sensazione di aver sposato il mio psicanalista.
«E ti lamenti pure!» rispondono loro. «È bello, intelligente, ti ama,
ascolta tutto quello che dici e avete un sacco di soldi! Che vuoi di più dalla
vita? Figli?».
«No, non ancora».
«Allora hai tutto per essere felice».
“Tutto per essere felice”: non c’è formula che mi venga ripetuta più
spesso. Mi chiedo se la usino con la stessa frequenza anche con gli altri o se
sia un trattamento riservato a me. Non faccio in tempo a esprimermi con un
minimo di libertà che mi sbattono in faccia questa frase: “tutto per essere
felice”. È come se mi urlassero “tappati la bocca, non hai il diritto di essere
insoddisfatta”, come se mi sbattessero la porta in faccia. Eppure non voglio
fare la lagna, cerco solo di enunciare con correttezza – e humour – alcune
piccole sensazioni di disagio... Forse è il tono, simile a quello di mia madre,
con qualcosa di umido e piagnucoloso, a dare l’impressione che mi lamenti.
O è il mio status di ricca ereditiera ben maritata a vietarmi di sfoggiare in
società qualunque pensiero appena un po’ complesso? Un paio di volte,
malgrado la cautela, ho avuto paura che dalle mie frasi trasparisse il segreto
che nascondo, ma il timore è durato lo spazio di un brivido, perché sono
sicura di sapermi controllare alla perfezione. A parte me e Samuel – e alcuni
specialisti vincolati dal segreto professionale –, il resto del mondo lo ignora.
Mi recai dunque in rue Victor Hugo, all’Atelier Capillaire, e là dovetti
davvero riandare con la memoria al miracolo che avevano fatto su Stacy per
sopportare l’accoglienza che mi venne inflitta. Sacerdotesse in camice
bianco mi tempestarono di domande sulla mia salute, la mia alimentazione,
le mie attività sportive e la cronistoria dei miei capelli con lo scopo di poter
redigere il mio “bilancio capillare”; dopodiché mi lasciarono per dieci
minuti su dei cuscini indiani in compagnia di una tisana alle erbe che
puzzava di sterco di vacca prima di introdurmi al cospetto di David, il
quale, neanche si degnasse di ammettermi nella sua setta dopo il
superamento di una difficile prova, mi annunciò solennemente che si
sarebbe occupato di me. Il peggio fu che mi sentii obbligata a ringraziare.
Salimmo al piano di sopra, dove un superbo salone dalle linee semplici e
sobrie era stato arredato in stile “attenti, sono ispirato dalla millenaria
saggezza indiana” e dove un’armata di vestali scalze offriva i propri servigi:
manicure, pedicure, massaggi.
Mentre David mi studiava con attenzione, gli osservavo la camicia aperta
sul petto villoso chiedendomi se fosse un requisito essenziale per diventare
parrucchiere. Poi, lui partorì la sua decisione:
«Accorcerò un po’ i capelli accentuando leggermente il colore alla radice,
poi li farò lisci sul lato destro e voluminosi sul sinistro. Una vera e propria
asimmetria. Lei ne ha bisogno. Altrimenti il suo viso, troppo regolare, si
ritrova chiuso in prigione. Dobbiamo liberare la sua fantasia. Aria, presto, ci
vuole aria. Serve l’inaspettato».
Per tutta risposta sorrisi, ma se avessi avuto il coraggio di essere sincera
l’avrei piantato in asso: detesto quelli che hanno le idee chiare, tanto più se
si avvicinano al mio segreto fino quasi a intuirlo. Tuttavia, nel caso
specifico, ritenni più saggio sorvolare e servirmi di quel figaro per acquisire
un aspetto che mi avrebbe aiutato a dissimulare ancora meglio il mio
segreto.
«In viaggio verso l’avventura» dissi in tono incoraggiante.
«Vuole che ci occupiamo delle sue mani, nel frattempo?».
«Con piacere».
Fu in quel momento che il destino si scatenò. David chiamò una certa
Nathalie che stava sistemando dei prodotti su mensole di vetro, la quale,
appena mi vide, lasciò cadere quel che aveva in mano.
Un fracasso di flaconi rotti turbò il santuario del cuoio capelluto.
Nathalie farfugliò delle scuse e si buttò carponi per rimediare al disastro.
«Non sapevo di farle quell’effetto» scherzò David per sdrammatizzare.
Annuii, ma non c’ero cascata: avevo percepito il panico di quella
Nathalie, una ventata sulla mia guancia. Era stata proprio la vista della
sottoscritta a spaventarla. Ma perché? Sono abbastanza fisionomista, ero
sicura di non conoscerla. Ciò nonostante provai a frugare tra i miei ricordi.
Quando si rialzò, David le disse con un tono pacato, teso dall’irritazione:
«Bene, Nathalie, ora io e la signora la staremmo aspettando».
Lei impallidì di nuovo torcendosi le mani.
«Io... non mi sento bene».
David mi lasciò per qualche istante e si trasferì in anticamera con lei.
Qualche secondo dopo riapparve seguito da un’altra impiegata.
«Sarà Shakira a prendersi cura delle sue mani».
«Nathalie sta male?».
«Cose femminili, credo» affermò con un disprezzo in cui accomunava
tutte le donne e i loro umori incomprensibili.
Rendendosi conto di aver detto qualcosa di vagamente misogino, cambiò
registro e tornò al tono mondano.
Uscendo dall’Atelier Capillaire fui costretta ad ammettere che Stacy
aveva ragione: quel David era un genio in fatto di forbici e colore. Ogni
vetrina diventò uno specchio di fronte a cui fermarmi per ammirare,
riflessa, quella bella e sorridente sconosciuta.
Samuel restò senza fiato quando mi vide spuntare in salotto, ma confesso
di aver ritardato e preparato con cura la mia entrata in scena. Non solo mi
fece i complimenti senza staccarmi gli occhi di dosso, ma volle per forza
portarmi alla Maison Blanche, il mio ristorante preferito, perché tutti
vedessero com’era bella la donna che aveva sposato.
Tanta allegria mi fece completamente dimenticare l’incidente della
manicure terrorizzata. Ma la voglia di tornare all’Atelier Capillaire era tale
che non riuscii ad aspettare di averne realmente bisogno, così decisi di
sottopormi anche ad altri trattamenti estetici, e l’incidente si riprodusse.
Non appena mi vedeva, Nathalie entrava in confusione. Tre volte ci andai
e tre volte fece l’impossibile per non avvicinarmi, non salutarmi, evitare di
servirmi; oppure scappava a trincerarsi nel retrobottega.
Il suo comportamento era talmente inspiegabile che finì per incuriosirmi.
Doveva avere una quarantina d’anni come me, portamento snello, vita
sottile, bacino piuttosto largo, braccia magre con mani lunghe e forti.
Quando si inginocchiava a testa china per prodigare le sue cure, emanava
umiltà. Per quanto lavorasse in un posto estremamente chic e alla moda,
non si atteggiava, come le sue colleghe, a ministressa del lusso, andava per la
sua strada come una serva devota, silenziosa, quasi schiava... Se non avesse
fatto di tutto per sfuggirmi, l’avrei anche trovata simpatica... Avevo
scandagliato gli angoli più riposti della mia memoria, ed ero ormai sicura di
non averla mai incontrata prima; e neanche potevo essere stata causa
involontaria di un suo insuccesso professionale, visto che come presidente
della Fondazione per le Belle Arti contemporanee non mi occupo di
assunzioni.
Mi bastarono poche sedute per mettere a fuoco la sua paura: voleva a
tutti i costi evitare di farsi notare da me, nient’altro. Non provava né odio
né rancore nei miei confronti, cercava solo di diventare trasparente nel
momento stesso in cui apparivo io. Ovviamente finii per non staccarle più
gli occhi di dosso.
Giunsi alla conclusione che nascondesse un segreto. Da brava esperta in
finzioni, ero sicura del mio giudizio.
Fu così che commisi l’irreparabile: la seguii.
Piazzata dietro le vetrine della birreria accanto all’Atelier Capillaire, con
un cappello in testa e il volto coperto da grandi occhiali da sole, attesi
l’uscita delle impiegate. Come immaginavo, Nathalie salutò velocemente le
colleghe e imboccò da sola l’entrata della metropolitana.
Io mi infilai dietro di lei, contenta di aver previsto la situazione ed
essermi munita di biglietti.
Mi mossi con una tale prudenza che non mi notò né sulla banchina né al
momento del cambio di treno, ma c’è da dire che l’ora di punta aiutava
parecchio. Sballottata dagli scossoni, spintonata dai passeggeri, trovavo
quella situazione assurda e divertente insieme. Mai avevo pedinato un uomo
e meno che mai una donna; il cuore mi batteva all’impazzata come quando,
da piccola, sperimentavo un nuovo gioco.
A place d’Italie uscì dalla metro ed entrò in un supermercato. Lì
rischiammo più volte di incrociarci perché, pratica del luogo, lei prendeva
quel che le serviva per la cena muovendosi con rapidità, senza estraniarsi
dall’ambiente circostante come si fa sui trasporti pubblici.
Alla fine, con in mano i sacchetti della spesa, si addentrò nelle stradine
della Butte-aux-Cailles, quartiere popolare, un tempo rivoluzionario,
costituito da modeste case operaie; fino ai primi del Novecento erano
dimore proletarie in cui venivano ammucchiati i poveri, i derelitti, i respinti,
quelli da tenere accuratamente ai margini della capitale; un secolo dopo, i
nuovi borghesi riacquistavano quelle stesse case a peso d’oro per comprarsi
la sensazione, visto il prezzo pagato, di possedere un palazzetto privato nel
cuore di Parigi. Com’era possibile che una modesta impiegata abitasse in un
posto del genere?
Mi tranquillizzai vedendola passare oltre le vie residenziali e fiorite e
inoltrarsi nella zona rimasta popolare. Magazzini. Fabbriche. Lotti vuoti
dove si accumulavano ferraglie. Si infilò in un grosso portone di tavole
sbiadite, attraversò un cortile ed entrò in una minuscola bicocca grigia con
le persiane malmesse.
Ecco. Ero arrivata alla fine della mia indagine. Mi ero divertita, ma non
avevo saputo niente. Che altro potevo tentare? Lessi sui campanelli i nomi
dei sei abitanti del cortile e dei locali annessi. Nessuno mi evocava niente;
riconobbi giusto il nome di un famoso trapezista e ricordai che tempo
prima, alla televisione, avevo visto un servizio in cui veniva citato quel
cortile come il luogo dove l’artista preparava i suoi numeri.
E allora?
Non avevo fatto alcun progresso. Anche se non mi ero per niente
annoiata, quel pedinamento non aveva portato a nulla. Continuavo a
ignorare perché quella donna andasse nel panico ogni volta che mi vedeva.
Stavo per fare dietrofront quando vidi qualcosa che mi costrinse ad
appoggiarmi contro il muro per non cadere. Era mai possibile? Stavo
diventando pazza?
Chiusi gli occhi e li riaprii, come per cancellare dalla lavagna del cervello
la fantasia che la mia immaginazione avrebbe voluto scrivervi. Mi
raddrizzai, poi guardai un’altra volta la figura che scendeva velocemente per
la via.
Ma sì, era proprio lui, Samuel.
Mio marito Samuel, ma con vent’anni di meno...
Il giovanotto veniva avanti con noncuranza, portando sulle spalle uno
zainetto pieno di libri con la stessa disinvoltura di una sacca sportiva; il
ronzio musicale delle cuffie infilate nelle orecchie imprimeva al suo passo
un andamento molleggiato.
Passò davanti a me, mi sorrise educatamente, attraversò il cortile ed entrò
in casa di Nathalie.
Impiegai parecchi minuti prima di riuscire a muovermi. Il mio cervello
aveva capito subito, ma una parte di me faceva resistenza, negava. La cosa
che non mi aiutava ad ammettere la realtà è che quando l’adolescente mi era
passato accanto, con la sua pelle bianca e liscia, i capelli folti, le lunghe
gambe dal passo ondeggiante e sfrontato, avevo sentito per lui un desiderio
prepotente, come se mi fossi brutalmente innamorata. Avevo avuto voglia di
prendergli la testa fra le mani e di mangiargli le labbra. Che mi stava
succedendo? Di solito non ero così... di solito ero proprio il contrario...
L’incontro a sorpresa con il figlio di mio marito, un suo sosia esatto con
vent’anni di meno, suscitava in me un’esaltazione amorosa. Invece di
provare gelosia verso quella donna, come prima cosa avevo avuto voglia di
gettarmi fra le braccia di suo figlio.
Decisamente, non facevo mai niente di normale.
Il che è probabilmente la ragione per cui era successo quel che era
successo...
Ci misi qualche ora per ritrovare la strada. In realtà camminai senza meta,
quasi incosciente, fino a che, già con il buio, la vista di una stazione di taxi
mi ricordò che dovevo tornare a casa. Per fortuna, quella sera Samuel era
stato trattenuto a un congresso: non fui costretta a dargli spiegazioni né
ebbi la possibilità di domandargliene.

Nei giorni che seguirono mascherai il mio sconforto accampando


un’emicrania che mise Samuel in apprensione. Ora lo guardavo con occhi
diversi prendersi cura di me: sapeva che io sapevo? Sicuramente no. Ma se
aveva una doppia vita, come faceva a mostrarsi così devoto?
Preoccupato del mio stato, fece in modo di lavorare un po’ meno per
poter tornare ogni giorno a pranzo a casa. Nessuno, se non avesse visto
quello che avevo visto io, avrebbe potuto sospettare di mio marito. Si
comportava in maniera perfetta. Se recitava, era il più grande attore del
mondo. La sua tenerezza sembrava reale, sarebbe stato impossibile simulare
l’ansia che trapelava da lui o fingere il sollievo che provava ogni volta che
mi inventavo un miglioramento.
Cominciai a dubitare: non di aver visto il figlio di Samuel, ma che lui
frequentasse ancora quella donna. Mi chiesi se ne fosse al corrente. Sapeva
di aver avuto un figlio con quella lì? Forse era una storia vecchia, un
amorazzo del passato. Magari quella Nathalie, quando aveva saputo che
Samuel si sposava con me, ci era rimasta male e gli aveva nascosto di essere
incinta tenendosi poi il bambino. Che età avrà avuto il ragazzo?
Diciott’anni... quindi subito prima che io e Samuel ci innamorassimo... Finii
per convincermi che era andata proprio così. La sedotta e abbandonata gli
aveva scodellato un figlio a tradimento. Probabilmente era per questo che
aveva paura quando mi vedeva; il rimorso doveva esserle piombato addosso
tutto insieme. Del resto, se devo essere sincera, non aveva l’aria di una
persona cattiva, semmai di una donna tormentata dalla malinconia.
Dopo una settimana di finti mal di testa, decisi di stare meglio. Sollevai
me e Samuel dalle nostre reciproche preoccupazioni e mi raccomandai che
recuperasse il lavoro arretrato; di rimando, lui mi fece giurare di chiamarlo
al minimo accenno di peggioramento.
Mi trattenni alla Fondazione per non più di un’ora, giusto il tempo di
assicurarmi che non avessero bisogno di me. Poi, senza avvertire nessuno,
mi immersi nel ventre di Parigi e presi la metropolitana per place d’Italie,
come se quel luogo strano e minaccioso potesse essere raggiunto solo per
via sotterranea.
Non avevo un piano né una strategia prestabilita, ma dovevo
assolutamente corroborare la mia ipotesi. Ritrovai senza troppi problemi la
stradina grigia in cui abitavano quel ragazzo e sua madre e mi misi seduta
sulla prima panchina che mi consentiva di tenere d’occhio il portone.
Cosa speravo? Di abbordare i vicini, chiacchierare con la gente che
abitava lì. In un modo o nell’altro, informarmi.
Dopo due ore di attesa vana mi venne voglia di fumare. Strano per una
che non fuma, vero? Sì. La cosa mi divertiva. Era un po’ di tempo, in fondo,
che facevo solo cose inconsuete: seguire una sconosciuta, prendere i mezzi
pubblici, scoprire il passato di mio marito, appostarmi su una panchina,
comprare sigarette. Così mi misi in cerca di una tabaccheria.
Che marca prendere? Non avevo alcuna esperienza di sigarette.
«Le stesse» dissi al tabaccaio che aveva appena servito un cliente
abituale.
Lui mi tese un pacchetto aspettandosi che, da buona drogata avvezza al
prezzo dei suoi piaceri, gli porgessi la cifra esatta. Gli detti una banconota
che mi sembrava andasse bene, in cambio della quale, bofonchiando, lui mi
rese altre banconote e parecchie monete.
Girandomi mi imbattei in lui.
Samuel.
Cioè, Samuel giovane. Il figlio di Samuel.
Il mio sussulto lo fece ridere.
«Mi scusi, l’ho spaventata».
«No, sono io distratta. Non m’ero mica accorta che dietro di me ci fosse
qualcuno».
Lui si scansò per lasciarmi passare, poi comprò delle mentine. Cordiale
ed educato come il padre, pensai. Provavo una simpatia immensa per lui;
anche di più, qualcosa di indicibile... Come se, inebriata dal suo odore,
dalla sua vicinanza animale, non volessi rassegnarmi a vederlo andare via.
Lo inseguii per strada, chiamandolo:
«Scusi! Mi scusi!...».
Stupito che una donna della mia età gli si rivolgesse dandogli del lei –
chissà quanti anni mi dava –, si guardò in giro per essere sicuro che ce
l’avessi proprio con lui, poi mi aspettò sul marciapiede di fronte.
Inventai una frottola.
«Mi perdoni il disturbo. Sono una giornalista e sto preparando un
servizio sui giovani d’oggi. Le posso rubare qualche minuto? Mi piacerebbe
farle alcune domande».
«Come, qui, così?».
«Magari seduti a un tavolino, nel bar dove mi ha messo paura».
Sorrise, l’idea lo attirava.
«Che giornale?» chiese.
«Le Monde».
Il movimento delle sopracciglia indicò che era lusingato di collaborare
con un giornale così prestigioso.
«Vengo volentieri, ma non credo di essere rappresentativo dei giovani
d’oggi. Un sacco di volte mi sento così sfasato...».
«Non voglio che si senta rappresentativo dei giovani d’oggi, voglio che sia
rappresentativo di sé stesso».
La mia frase lo convinse, e mi seguì.
Davanti a due caffè cominciò la conversazione.
«Non prende appunti?».
«Lo farò quando la memoria non mi aiuterà più».
Mi gratificò di uno sguardo ammirato, senza sospettare il bluff.
«Quanti anni ha?».
«Quindici».
Istantaneamente la mia ipotesi principale andò in frantumi. Quindici anni
prima, io e Samuel eravamo già sposati da due anni...
Accusai un calo di zuccheri per giustificare l’agitazione, alzarmi, fare
qualche passo nel locale e rimettermi seduta.
«E cosa vuole fare nella vita?».
«Mi piace il cinema. Sogno di diventare regista».
«Quali sono gli autori che preferisce?».
Portato su un argomento che lo appassionava, il giovane divenne
inarrestabile, cosa che mi dette il tempo di pensare alla domanda successiva.
«Questa passione per il cinema le viene dalla famiglia?».
Lui scoppiò a ridere.
«No. Sicuramente no».
Sembrava molto fiero di possedere gusti che si era trovato da solo, che
non gli erano stati inculcati.
«Sua madre?».
«Mia madre è più il tipo da telenovela. Sa, quei polpettoni che vanno
avanti per settimane con segreti di famiglia, figli illegittimi, delitti passionali
e compagnia...».
«Che lavoro fa?».
«Lavoretti. Prima si prendeva cura degli anziani a domicilio, l’ha fatto
per un sacco di tempo. Ora lavora in un istituto di bellezza».
«E suo padre?».
Lui si irrigidì.
«C’entra con la sua inchiesta?».
«Non pretendo la minima indiscrezione da parte sua. Ma può stare
tranquillo, nell’articolo lei sarà citato con un nome fittizio, e comunque non
dirò niente che possa far riconoscere né lei né i suoi genitori».
«Ah, beh, va bene».
«Quello che mi interessa è il rapporto che lei ha con il mondo degli
adulti, il suo modo di percepirlo, di proiettarci il suo futuro. In questo
senso i rapporti che ha con suo padre sono rivelatori. A meno che non sia
morto, nel qual caso le chiedo di scusarmi».
Mi era improvvisamente passato per la testa che magari Nathalie gli aveva
fatto credere che Samuel fosse morto per giustificarne l’assenza. Rabbrividii
all’idea di aver urtato quel povero ragazzo.
«No, non è morto».
«Ah... È andato via?».
Esitò. Soffrivo quanto lui del suo dilemma.
«No, lo vedo spesso... Per ragioni sue, non vuole che si parli di lui».
«Come si chiama?».
«Samuel».
Ero annichilita, non più in grado di recitare il mio ruolo né di continuare
l’intervista. Accampai un nuovo calo di zuccheri per alzarmi, andare fino al
bancone e tornare. Svelta! Svelta! Inventa qualcosa!
Quando mi rimisi seduta, vidi che un mutamento l’aveva subìto lui. Era
rilassato, sorrideva, aveva voglia di confidarsi.
«In fondo le posso anche raccontare tutto, visto che metterà nomi falsi».
«Certo» risposi cercando di non tremare.
Si spinse indietro sulla seggiola per mettersi a suo agio.
«Mio padre è un tipo straordinario. Non vive con noi, anche se sta con
mia madre da sedici anni».
«Come mai?».
«Perché è sposato».
«Ha altri figli?».
«No».
«Perché non lascia la moglie, allora?».
«Perché è pazza».
«In che senso?».
«È completamente di fuori. Si ammazzerebbe subito. Come minimo. È
capace di tutto. Credo che mio padre provi per lei un misto di pietà e
paura. Per compensare, con noi è adorabile, ed è riuscito a convincere
mamma, me e le mie sorelle che non si poteva fare in altro modo».
«Ah, ci sono delle sorelle?».
«Sì, due. Più piccole. Dieci e dodici anni».
Sebbene il ragazzo andasse avanti con il racconto, io non riuscivo più a
sentire una parola tanto la testa mi ronzava. Non capii niente di quello che
diceva – e che avrebbe dovuto interessarmi al massimo grado – perché il
mio cervello si impuntava sempre su quanto ero appena venuta a sapere:
Samuel aveva un’altra famiglia, una famiglia completa, ma restava da me
con il pretesto che ero una squilibrata.
Non ricordo se riuscii a trovare una scusa plausibile per la mia fuga
precipitosa, sta di fatto che chiamai un taxi e, non appena fui protetta dai
finestrini della macchina, mi lasciai andare a un pianto dirotto.

Nessun periodo fu peggiore di quello che seguì.


Avevo perduto ogni punto di riferimento.
Samuel mi faceva l’effetto di un totale estraneo. Ciò che credevo di
sapere di lui, la stima che provavo per lui, la fiducia sulla quale era fondato
il nostro amore, tutto era svanito: conduceva una doppia vita, amava
un’altra donna in un altro quartiere di Parigi, una donna da cui aveva avuto
tre figli.
I figli, soprattutto, mi torturavano, perché era un terreno sul quale non
potevo competere. Un’altra donna poteva essere una rivale con cui entrare
in concorrenza, per quanto su certi aspetti... Ma i figli...
Piansi giornate intere senza riuscire a nasconderlo a Samuel. Dopo aver
cercato invano di instaurare un dialogo, lui mi supplicò di tornare in fretta
dal mio psichiatra.
«Il mio psichiatra? Perché mio?».
«Perché è quello dove sei già stata».
«Perché hai detto “mio”? È stato inventato per curare me, solo me?».
«Scusa. Ho detto il “tuo psichiatra” quando avrei dovuto dire il “nostro”,
visto che ci siamo andati insieme per anni».
«Già, per quanto è servito!».
«Invece è stato molto utile, Isabelle. Ci ha permesso di accettarci per
quello che siamo e di vivere il nostro destino. Ti prenderò un
appuntamento».
«Non voglio andare da uno psichiatra! Non sono pazza!» urlai.
«È vero, non sei pazza. Ma quando uno ha mal di denti va dal dentista, e
quando ha male all’anima va da uno psichiatra. Fidati. Non ti voglio lasciare
in questo stato».
«Perché, stai pensando di lasciarmi?».
«Ma che hai capito? Sto dicendo esattamente il contrario, che non ti
voglio lasciare così!».
«Lasciarmi. Hai detto “lasciarmi”, sì o no?».
«Sei veramente sull’orlo di un esaurimento, Isabelle. E ho la sensazione
che invece di calmarti io ti infastidisca».
«Questa almeno l’hai detta giusta!».
«Hai qualcosa contro di me? Allora dillo e facciamola finita».
«Facciamola finita! Lo vedi? Mi vuoi lasciare...».
Mi prese tra le braccia e, malgrado mi dimenassi, mi immobilizzò
dolcemente stringendomi a sé.
«Ti amo, mi senti, Isabelle? E non ti voglio lasciare. Se avessi voluto,
l’avrei già fatto molto tempo fa. Quando...».
«Lo so. Inutile parlarne».
«Invece ci farebbe bene parlarne, ogni tanto».
«No. È inutile. Argomento tabù. Non si entra. Divieto d’accesso. Basta».
Lui sospirò.
Contro il suo petto, contro le sue spalle, cullata dal tono caldo della sua
voce, riuscivo a calmarmi. Appena se ne andava, ricominciavo ad
arrovellarmi. Mi domandai perché Samuel restasse con me. Per i miei soldi?
Dall’esterno chiunque avrebbe risposto di sì, visto che lui era un semplice
consulente editoriale in un grande gruppo mentre io avevo ereditato svariati
milioni nonché un cospicuo parco immobiliare; ma riguardo al mio
patrimonio avevo capito da un pezzo l’attitudine scrupolosa di Samuel:
dopo sposati aveva continuato a lavorare per non dipendere da me e
potermi comprare dei regali con i suoi soldi, aveva declinato i miei tentativi
di donazione e insistito perché restassimo in regime di separazione dei beni.
Il contrario di un marito avido e interessato. Ma perché rimaneva con me se
aveva moglie e figli da un’altra parte? Forse non amava abbastanza quella
donna da dividere la vita con lei. Sì, forse era così... Non osava dirglielo...
Lei aveva un’aria così banale... Samuel si serviva di me per evitare di restare
incastrato con la manicure... In fondo preferiva la mia compagnia... E i figli?
Conoscevo Samuel, come faceva a resistere al dovere e al desiderio di vivere
con loro? Ci voleva un motivo molto valido per privarsi dei figli... E quale
sarebbe stato? Io? Io che non gliene potevo dare? O era per vigliaccheria?
Vigliaccheria congenita, quella che le mie amiche sostengono essere la
caratteristica principale degli uomini... A fine pomeriggio, senza essere
arrivata a una conclusione, decisi che la cosa più sensata l’aveva detta il suo
giovane figlio: a quanto pare ero una squilibrata.
Il mio stato peggiorava. Quello di Samuel pure. Per una sorta di strana
empatia, aveva gli occhi stanchi segnati dalle occhiaie, i tratti tesi
dall’apprensione, e lo sentivo respirare a fatica quando saliva le scale per
raggiungermi in camera mia dove stavo barricata.
Mi implorava di aprirmi, di spiegargli il mio dolore. Naturalmente
sarebbe stata la cosa migliore, eppure io mi rifiutavo. Fin da bambina ho
praticato una specie di virtù al contrario: evito sempre la soluzione giusta.
Sono sicura che, se gli avessi parlato o gli avessi chiesto di parlare, avremmo
evitato la catastrofe...
Ostinata, dura, ferita, tacevo e lo guardavo da nemica. Da qualunque
punto di vista considerassi la cosa, lo percepivo come un traditore: o si
prendeva gioco di me, o si prendeva gioco della sua amante e dei suoi figli.
Teneva troppo a entrambe le cose o non teneva a niente? Avevo di fronte a
me un indeciso o l’uomo più cinico della terra? Chi era?
Questi sospetti mi stremarono. Sconvolta, senza più preoccuparmi di
bere e di mangiare, diventai talmente debole che mi somministrarono
parecchie iniezioni di vitamine e finirono per idratarmi via flebo.
Neanche Samuel sembrava granché in forma. Però rifiutava di prendersi
cura di sé: ero io quella che stava male. Godendo della sua angoscia come
una vecchia amante rosicchia il suo ultimo osso d’amore, non mi passò per
la testa di andare oltre il mio egoismo ed esigere che ci si occupasse di lui.
Chiamato con tutta probabilità da Samuel, venne a trovarmi il mio
vecchio psichiatra, il dottor Feldenheim.
Sebbene morissi dalla voglia di confidargli quel che avevo dentro, per tre
visite riuscii a resistere.
Alla quarta, stanca di girare intorno all’argomento, gli raccontai la mia
scoperta, cioè l’amante, i figli, la famiglia clandestina.
«Alla buonora! Ce l’abbiamo fatta» disse. «Era ora che sputasse fuori il
rospo».
«Ah sì? Crede? Forse ciò soddisferà la sua curiosità, dottore, ma per me
non cambia niente».
«Mia cara Isabelle, a rischio di sorprenderla, e soprattutto di essere
radiato, romperò la riservatezza alla quale sono tenuto per professione: ne
ero al corrente da anni».
«Che?».
«Dalla nascita di Florian».
«Florian? Chi è Florian?».
«Il ragazzo che lei ha intervistato, il figlio di Samuel».
A sentir nominare con tanta familiarità quelli che distruggevano il mio
matrimonio e la mia felicità, sentii il sangue montarmi alla testa.
«È stato Samuel a dirglielo?».
«Sì, quando è nato il bambino. Ritengo che fosse un segreto troppo
grande per lui solo».
«Un mostro!».
«Non corra troppo, Isabelle. Ha considerato la quantità di aspetti difficili
che presenta la vita di Samuel?».
«Sta scherzando? Ha tutto per essere felice».
«Non faccia la finta tonta con me, Isabelle. Non dimentichi che io so.
Sono al corrente della rara malattia che l’ha colpita e...».
«Stia zitto».
«No. Tacere porta più problemi che soluzioni».
«Comunque nessuno sa cosa sia».
«L’impotenza femminile? Samuel lo sa bene. Ha sposato una donna
bella, simpatica, seducente, che adora, e non è mai riuscito a fare l’amore
con lei. Non è mai entrato in lei. Non ha mai potuto godere insieme a lei. Il
corpo di sua moglie gli è precluso, Isabelle, malgrado gli innumerevoli
tentativi, malgrado le terapie. Si rende conto della frustrazione che certe
volte gli suscita tutto ciò?».
«Certe volte? Sempre! Dica pure sempre! Mi odio, per questo. Ma per
quanto me la prenda con me stessa, tutto resta come prima. Certe volte
preferirei che mi avesse lasciato quando l’abbiamo scoperto, diciassette anni
fa».
«Invece è rimasto. E sa perché?».
«Sì, per i miei milioni!».
«Non giochi con me, Isabelle».
«Perché sono pazza!».
«Isabelle, per piacere: non con me. Perché?».
«Per pietà».
«No, perché l’ama».
Un denso silenzio interiore mi pervase. Era come se una coltre di neve mi
avesse completamente ricoperto.
«Sì, Samuel l’ama. Anche se continua a essere un uomo come tutti gli
altri, un uomo che ha il bisogno naturale di penetrare la carne di una donna
e avere dei figli, lui l’ama e continuerà ad amarla. Non è riuscito a lasciarla.
Del resto, non la vuole lasciare. Il matrimonio con lei l’ha obbligato a una
vita da santo, il che legittima il suo desiderio di provare esperienze al di
fuori. Un giorno ha incontrato un’altra donna; ha pensato che mettendosi
con Nathalie, facendoci addirittura un bambino, gli sarebbe venuta la voglia
di andarsene. Ma non è stato così. Si è visto costretto a imporre alla sua
nuova famiglia la distanza, l’assenza. Non credo che i figli sappiano la
verità, ma Nathalie sì, la conosce e la accetta. Capisce bene, quindi, che da
sedici anni la vita è tutt’altro che semplice per Samuel. Si ammazza di lavoro
per portare soldi a due case, regali per lei e di che vivere per loro; si sfianca
per rendersi disponibile e attento su due fronti; non si occupa di sé, solo di
lei e di quegli altri. A questo aggiunga che è macerato dal senso di colpa. Ce
l’ha con sé stesso perché vive lontano da Nathalie, dal figlio, dalle figlie. E
ce l’ha con sé stesso perché da troppo tempo nasconde la verità alla
moglie».
«Ebbene, che faccia la sua scelta! Che tagli! Che torni da loro! Non sarò
certo io a oppormi».
«Non lo farà mai, Isabelle».
«E perché?».
«Perché l’ama».
«Samuel?».
«L’ama di un amore divorante, appassionato, incomprensibile,
indistruttibile. L’ama».
«Samuel...».
«Più di ogni cosa al mondo...».
Su quelle parole, il dottor Feldenheim si alzò e se ne andò.
Piena di una dolcezza nuova, smisi di accanirmi contro me stessa o
contro un Samuel che mi pareva estraneo. Mio marito mi amava. Mi amava
talmente da nascondermi la sua doppia vita e imporla invece a una donna,
lei sì, capace di aprirgli il proprio corpo e dargli dei figli. Samuel...
Lo attesi sognante. Non vedevo l’ora di prendergli la testa fra le mani,
depositargli un bacio sulla fronte e ringraziarlo per il suo amore incrollabile.
E gli avrei dichiarato il mio, il mio maledettissimo amore pieno di dubbi, di
furore, di gelosia, il mio orrido, sudicio amore che improvvisamente si era
depurato. Avrebbe capito che io capivo, che non doveva nascondermi
niente, che anzi desideravo cedere una parte della mia ricchezza alla sua
famiglia. Se era sua, sarebbe stata anche mia. Gli avrei fatto vedere che
sapevo passare sopra alle convenzioni borghesi. Come lui. Per amore.
Alle sette, fece un salto Stacy a chiedere mie notizie. Fu contenta di
trovarmi sorridente e calma.
«Che bello vederti così, dopo settimane di pianti dirotti. Sei un’altra
persona».
«Stavolta non è merito dell’Atelier Capillaire» dissi ridendo. «È che ho
capito di aver sposato un uomo meraviglioso».
«Samuel? Il sogno di ogni donna!».
«Sono fortunata, no?».
«Tu? Da far schifo. Certe volte trovo quasi arduo restare tua amica: hai
tutto per essere felice!».
Stacy se ne andò alle otto. Determinata a emergere una volta per tutte
dall’apatia, scesi di sotto per aiutare la cuoca a preparare la cena.
Alle nove, visto che Samuel non era ancora tornato, decisi di allarmarmi.
Alle dieci ero a pezzi. Gli avevo già lasciato venti messaggi, il suo
telefonino registrava i miei appelli senza rispondere.
Alle undici ero talmente divorata dall’ansia che mi vestii, tirai fuori la
macchina e, senza riflettere, mi diressi verso place d’Italie.
Alla Butte-aux-Cailles trovai il portone spalancato e gente che andava e
veniva intorno alla bicocca grigia.
Mi precipitai dentro, la porta era aperta, traversai l’anticamera, avanzai
verso la luce e trovai Nathalie prostrata su una poltrona, circondata da figli
e vicini.
«Dov’è Samuel?» chiesi.
Nathalie alzò la testa, mi riconobbe. Un’ombra di panico attraversò i suoi
occhi neri.
«La supplico» ripetei, «dov’è Samuel?».
«È morto. Poco fa. Alle sei. Un attacco di cuore mentre giocava a tennis
con Florian».
Perché non riesco mai ad avere una reazione normale? Invece di crollare,
singhiozzare e urlare, mi girai verso Florian in lacrime e lo strinsi forte
contro il mio petto per consolarlo.
La principessa scalza

E ra impaziente di rivederla.
Non riusciva a pensare ad altro mentre il pullman con a bordo la
piccola compagnia saliva i tornanti che conducevano alla cittadina siciliana.
Si domandò se aveva accettato quella tournée solo per tornare lì. Che
motivo avrebbe avuto, altrimenti? La pièce non gli piaceva affatto, la sua
parte ancora meno, e per entrambi i supplizi percepiva una paga da fame. Il
fatto è che non aveva molta scelta: o accettava questo genere di ingaggi, o
rinunciava per sempre a fare l’attore e si cercava ciò che in famiglia
chiamavano “un vero mestiere”. Erano anni che non aveva più la chance di
scegliersi i ruoli; il periodo del suo splendore era durato sì e no un paio di
stagioni, agli inizi, perché era bello come il sole e nessuno aveva ancora
capito che recitava come una capra.
A quell’epoca, e in quello stesso paese posato come una corona su una
montagna di roccia, aveva incontrato lei, la donna misteriosa. Chissà se era
cambiata. Probabile. Ma non più di tanto.
Del resto neanche lui era troppo cambiato, aveva conservato il suo fisico
da primo attor giovane malgrado non fosse più né giovane né primo attore.
Il fatto che fosse a corto di ruoli, però, non dipendeva dall’essere un po’
invecchiato – alle donne piaceva sempre –, bensì dalla mancanza di un
talento all’altezza del suo fisico. Ne parlava senza problemi, anche con
colleghi o registi, perché riteneva che l’aspetto e il talento fossero entrambi
doni di natura: lui era nato con uno e non con l’altro, e allora? Mica tutti
potevano avere una carriera ai massimi livelli. Fabio si accontentava di una
carrieruccia, gli bastava, perché quel che gli piaceva veramente non era
tanto recitare – altrimenti si sarebbe impegnato a migliorare –, ma fare la
vita dell’attore. I viaggi, il clima cameratesco, gli spettacoli, gli applausi, i
ristoranti, le amanti di una notte: era una vita decisamente più divertente di
quella che gli era stata predisposta dalla famiglia. Di una cosa sola era
sicuro: avrebbe fatto di tutto per evitare di riprendere il proprio posto nella
fattoria paterna.
“Un figlio di contadini con la bellezza di un principe” titolava uno dei
vari servizi che la televisione gli aveva dedicato agli inizi, quando Fabio era
apparso in uno sceneggiato che aveva appassionato l’Italia per un’estate
intera: Il principe Leocadio. Quell’interpretazione gli aveva procurato la
fama nonché migliaia di lettere da parte di ammiratrici: alcune provocanti,
altre adulatrici, altre intriganti, tutte innamorate. Sulla scia di quel primo
successo, era stato scritturato per il ruolo di uno spumeggiante miliardario
in uno sceneggiato franco-italo-tedesco e quella parte aveva decretato la sua
fine, sia perché l’effetto sorpresa legato al suo aspetto era stato di breve
durata, sia perché la complessità del nuovo personaggio, esagerato,
ambiguo, preda di sentimenti contraddittori, avrebbe richiesto le qualità di
un vero attore. Durante le riprese era stato soprannominato “il manichino”,
nomignolo di cui si era subito impossessata la stampa per commentare la
sua pietosa prestazione. Dopo questi primi exploit, Fabio era tornato
davanti alle telecamere in un paio di altre occasioni, una in Francia e una in
Germania, paesi nei quali il doppiaggio del brillante miliardario da parte di
attori professionisti aveva fatto durare un po’ più a lungo l’illusione del suo
talento. Poi basta. Più niente di importante. Quell’inverno, rivedendo su un
canale nostalgico gli episodi del Principe Leocadio in onda via cavo alle
quattro del mattino, la riscoperta di sé stesso l’aveva lasciato sgomento:
aveva odiato quella storia insipida, quei colleghi senza spessore spariti come
lui nel nulla, soprattutto quei costumi striminziti, quelle scarpe dai tacchi
ridicoli, quella messa in piega voluminosa che lo faceva sembrare un’attrice
americana di serie B, quel ciuffo che gli cadeva sull’occhio destro e che,
privandolo di mezzo sguardo, rendeva ancora più inespressivo il suo volto
regolare. Insomma, a parte i suoi vent’anni, non aveva trovato niente che
giustificasse la sua presenza sullo schermo.
Dopo la curva apparve il paese medievale, fiero, maestoso, con i bastioni
slanciati e le torri a mezzaluna che incutevano rispetto. Fabio si chiese se lei
vi abitasse ancora. Non sapeva neanche il suo nome, come avrebbe fatto a
ritrovarla? “Mi chiami Donatella” gli aveva mormorato allora: lì per lì aveva
creduto che fosse la sua vera identità, ma qualche anno dopo, ripensandoci,
si era reso conto che la ragazza gli aveva rifilato uno pseudonimo.
Perché quell’avventura l’aveva segnato a tal punto? Perché ce l’aveva
ancora in testa dopo quindici anni e dopo aver posseduto decine di donne?
Forse perché Donatella si era presentata misteriosa e tale era rimasta. Le
donne ci piacciono perché arrivano incastonate in un enigma, e smettono di
piacerci appena cominciano a intrigarci di meno. Loro credono che gli
uomini siano attirati solo da ciò che hanno tra le gambe, ma si sbagliano, gli
uomini sono molto più attratti dall’aspetto romantico che non dal sesso. Lo
dimostra il fatto che, se mollano, la colpa è più dei giorni che delle notti: le
giornate passate a discutere sotto la cruda luce del sole intaccano l’aura di
una donna molto più delle notti trascorse a fondersi l’uno nell’altra. Più di
una volta Fabio aveva avuto voglia di suggerire alle rappresentanti del gentil
sesso di puntare sulle notti e lasciar perdere i giorni, per conservare gli
uomini più a lungo. Però non lo faceva; un po’ per prudenza, per non farle
scappare, e molto perché era convinto che non avrebbero capito: vi
avrebbero trovato la conferma che gli uomini pensano solo a scopare,
mentre ciò che intendeva lui è che i più grandi donnaioli – lui per primo –
sono dei mistici in cerca di mistero che nella creatura femminile
preferiranno sempre quel che lei non dà a quello che concede.
Donatella gli era comparsa davanti una sera di maggio tra le quinte del
teatro municipale, dopo lo spettacolo. Ciò avveniva due anni dopo il suo
trionfale debutto televisivo, a declino ormai iniziato. Già allora nessuno lo
voleva più sullo schermo, ma, data la sua relativa notorietà, gli avevano
proposto un importante personaggio a teatro, il Cid di Corneille,
un’autentica maratona di tirate in versi che lui declamava con scrupolo
senza comprendere. Lasciando il palcoscenico, era molto più soddisfatto di
essere arrivato fino in fondo senza errori che non di aver recitato bene,
come un corridore fiero di aver coperto una distanza fuori del comune.
Sebbene all’epoca non fosse ancora così lucido riguardo a sé stesso, sentiva
che il pubblico lo apprezzava più che altro per il suo aspetto fisico, in
particolare per le gambe inguainate nella calzamaglia.
Prima dello spettacolo, qualcuno aveva lasciato davanti al suo camerino
un’immensa cesta di vimini piena di orchidee gialle e marroni. Nessun
biglietto d’accompagnamento. Durante la rappresentazione, ogni volta che
non toccava a lui declamare, Fabio era corso a scrutare la sala per cercare di
indovinare chi potesse avergli mandato quel regalo sontuoso, ma la luce dei
riflettori lo abbagliava impedendogli di vedere il pubblico protetto dalla
penombra, e poi c’era quella maledetta recita da portare a termine...
Finiti i composti applausi, Fabio si era precipitato in camerino, aveva
fatto una rapida doccia e si era cosparso di acqua di Colonia, sicuro che la
persona all’origine di quel regalo non avrebbe tardato a mostrarsi.
Donatella lo aspettava nel corridoio tra le quinte.
Fabio si era trovato di fronte una ragazza giovanissima che gli tendeva
graziosamente il polso, con i capelli lunghi legati da una coroncina di trecce.
Calato nell’atmosfera cavalleresca del proprio personaggio, gli era venuto
spontaneo prodursi in un baciamano anche se era un gesto che non
rientrava nelle sue abitudini.
«È lei?» aveva chiesto riferendosi alle orchidee.
«Sono io» aveva annuito la ragazza abbassando le pesanti palpebre dalle
ciglia nerissime.
Sembrava che gambe e braccia le spuntassero furtivamente da un
morbido vestito di seta o mussola – Fabio non avrebbe saputo dire –,
comunque qualcosa di leggero, aereo, prezioso, orientale, fatto apposta per
una donna dal corpo snello e aggraziato, una donna che non pesa. La pelle
bianchissima del braccio era circondata da un braccialetto da schiava,
sebbene il termine non le si addicesse affatto: più che una schiava, infatti,
sembrava colei che agli schiavi comanda, o che schiavi rende gli uomini; una
specie di Cleopatra, sì, una Cleopatra trapiantata su un cocuzzolo della
Sicilia, tanto imperiosa era la forza che emanava: un misto di sensualità,
timidezza ed energia selvaggia.
«La invito a cena. Le va di venire?».
Serviva una risposta? E d’altronde, lui le aveva risposto?
Fabio ricordava solo di averle dato il braccio ed essere uscito insieme a
lei.
Una volta fuori, mentre percorrevano le vie lastricate del centro storico
sotto una luna velata, aveva notato che la ragazza camminava a piedi nudi.
Accorgendosi del suo stupore, lei l’aveva anticipato:
«Sì, mi sento più libera così».
Aveva parlato con una tale naturalezza che lui non aveva trovato niente
da ribattere.
La passeggiata era stata magnifica; tra la frescura dei muri, la sera
spandeva nell’aria profumi di gelsomino, finocchio e anice. Sottobraccio,
erano saliti in silenzio in cima al paese, fino a un albergo a cinque stelle di
un lusso inimmaginabile.
Vedendola puntare verso l’entrata, Fabio aveva fatto per trattenerla: con
tutta la buona volontà, non si sarebbe mai potuto permettere di portare una
ragazza in un posto del genere.
«Non si preoccupi, sono avvisati. Ci aspettano».
Ed effettivamente, nella hall, tutti i membri del personale erano schierati
su due file e si inchinavano al loro passaggio. Mentre avanzava al centro di
quell’impeccabile corridoio, con quella donna da sogno al braccio, Fabio
aveva avuto la sensazione di condurre una sposa all’altare.
Sebbene fossero gli unici clienti del raffinatissimo ristorante, erano stati
guidati in un séparé per godere di una certa intimità.
Il maître si era rivolto alla ragazza con cortesia eccessiva, chiamandola
“principessa”. Lo stesso aveva fatto il sommelier. E lo stesso il cuoco. Fabio
ne aveva dedotto che la ragazza doveva essere un’altezza reale che
alloggiava in quell’albergo, e che probabilmente era per riguardo al rango se
le sue eccentricità venivano tollerate al punto che le era permesso venire a
cena a piedi nudi.
Avevano servito loro caviale e vini d’annata; le portate si erano susseguite
creative, gustose, insolite, mentre tra i due commensali la conversazione
rimaneva sul piano della poesia: avevano parlato dello spettacolo, di teatro,
di cinema, d’amore, di sentimenti. Fabio aveva capito subito che era meglio
non farle domande personali, perché al minimo accenno di indagine la
principessa si chiudeva a riccio. Aveva anche scoperto che il desiderio di
uscire con lui le era nato dai due sceneggiati che l’avevano reso famoso e
che lei aveva adorato; stupito, Fabio si era reso conto che, mentre lui era
molto colpito da lei in quanto tale, il trasporto di Donatella aumentava
quanto più lui si calava nella parte degli eroi romanzeschi interpretati in
passato.
Al dessert si era spinto fino a prenderle la mano; lei l’aveva lasciato fare.
Con una delicatezza nuova, degna dei suoi personaggi, Fabio le aveva detto
che desiderava una cosa sola: poterla stringere tra le sue braccia; lei aveva
avuto un brivido, aveva abbassato le palpebre, era stata di nuovo scossa da
un fremito, poi aveva mormorato in un soffio:
«Mi segua».
Si erano diretti verso lo scalone che conduceva alle camere. Donatella
l’aveva guidato fino alla propria suite, l’appartamento più sfarzoso che
Fabio avesse mai visto: un’esuberanza di sete e velluti arricchiti da ricami,
tappeti persiani, piatti d’avorio, sedie intarsiate, caraffe di cristallo, coppe
d’argento.
Lei aveva chiuso la porta e, sciogliendo il leggerissimo foulard che le
avvolgeva la gola, gli aveva fatto capire di essere sua.
Era stato merito dell’arredamento, degno di un satrapo orientale? Dei
vini e delle pietanze deliziose? Di quella donna così strana, selvaggia e
raffinata insieme, sofisticata e animale allo stesso tempo? Fatto sta che
Fabio aveva passato una notte d’amore superlativa, la più bella della sua
vita. Cosa che, dopo tre lustri, era in grado di certificare.
La mattina, allo spuntare del sole, era uscito dal suo fragile sonno di
amante e tornato alla realtà della sua giornata: c’erano da fare ottanta
chilometri per poi andare in scena pomeriggio e sera, l’appuntamento era
alle otto e mezza nella hall dell’albergo dove alloggiava la compagnia,
l’amministratore della tournée l’avrebbe di nuovo sgridato e multato. Fine
del sogno, quindi!
Si era rivestito in fretta, attento comunque a non fare rumore: era l’unico
modo per prolungare l’incanto.
Prima di lasciare la camera si era avvicinato all’immenso letto a
baldacchino sul quale giaceva ancora Donatella. Pallida, fine, esilissima,
dormiva con un sorriso sulle labbra. Fabio non aveva avuto il coraggio di
svegliarla. “Arrivederci!” le aveva detto in cuor suo. Ricordò di essere
arrivato a pensare che l’amava e che sempre l’avrebbe amata, poi era corso
via.
Quindici anni dopo, il pullman varcava le porte del paese per portare la
Compagnia delle Lumache Verdi al teatro comunale. Il direttore del teatro,
salito davanti, annunciò con espressione tetra che i biglietti prenotati non
arrivavano a coprire un terzo della sala. Neanche fosse colpa loro...
Quindici anni dopo, ciò che aveva pensato congedandosi da Donatella
era ancora vero... L’amava. Sì, l’amava ancora. Anche di più.
La storia non aveva avuto un finale, forse per questo durava ancora:
scapicollandosi giù per il paese, Fabio aveva raggiunto gli altri in tempo per
chiudere i bagagli, a cui l’organizzatore aveva avuto cura di aggiungere le
orchidee del suo camerino. Si era infilato in macchina – all’epoca, in quanto
primo attore, aveva diritto a una limousine con autista, non era relegato sul
pullman insieme al resto della compagnia –, si era riaddormentato, poi si
era ripromesso di telefonare all’albergo di lusso. Ma a causa del nuovo
teatro era stato necessario ripetere le entrate e le uscite di scena, e poi
recitare e recitare ancora.
Così aveva rimandato la telefonata, e in seguito non aveva più avuto il
coraggio di farsi vivo. La quotidianità aveva ripreso il sopravvento. Di
quell’avventura gli era rimasta un’impressione da sogno; più ci ripensava,
più gli era chiaro come Donatella in vari modi gli avesse fatto capire che
quella sarebbe stata una serata unica sia per lei che per lui, una meraviglia
senza domani.
Perché andarla a stuzzicare? si era chiesto; era una donna ricca,
altolocata, magari già sposata. Fabio si era quindi rassegnato a occupare il
posto che lei gli aveva attribuito: il capriccio di una sera. In fondo gli
piaceva l’idea di essere stato un uomo oggetto, un balocco tra le sue mani.
Si era divertito un mondo a impersonare una sua fantasticheria, e lei glielo
aveva domandato con una tale gentilezza, una tale eleganza...
Il pullman spense il motore: erano arrivati. La Compagnia delle Lumache
Verdi disponeva di due ore buone di libertà prima di ritrovarsi tutti in
teatro.
Fabio lasciò la valigia nella sua stanzetta e si incamminò verso l’albergo di
lusso.
Inerpicandosi per le viuzze pensava a quanto stupida fosse la sua
speranza. Come gli era passato per la testa di poterla rivedere? Se all’epoca
Donatella stava in quell’albergo, era proprio perché non ci abitava. Perché
mai avrebbe dovuto ritrovarcela ora?
“Difatti non vado a un appuntamento” concluse con amarezza. “E
nemmeno sto facendo una ricerca. È un pellegrinaggio. Una camminata nei
miei ricordi, nella memoria di un’epoca in cui ero giovane, bello e famoso,
di un tempo in cui suscitavo i desideri di una principessa”.
La vista dell’albergo lo intimorì più della prima volta, perché ormai
conosceva meglio il valore delle cose: e bisognava guadagnare proprio tanto
per prendere una stanza in un posto così!
Esitò a oltrepassare la soglia.
Mi cacceranno. Si vede subito che non ho i soldi neanche per un cocktail
al bar.
Per farsi coraggio si disse che era un attore, che aveva un bel fisico.
Decise di immergersi nel ruolo ed entrò.
Alla reception evitò gli impiegati giovani e si diresse verso un portiere
sessantenne che non solo aveva l’aria di aver lavorato lì quindici anni prima,
ma sembrava anche dotato della proverbiale memoria dei portieri.
«Mi scusi, sono Fabio Fabbri, attore. Sono stato qui quindici anni fa. Lei
lavorava già in questo albergo?».
«Sissignore, facevo il ragazzo d’ascensore. Che posso fare per lei?».
«Ecco, c’era una giovane donna molto bella, credo un’altezza reale. Se ne
ricorda?».
«Molte persone di sangue blu vengono da noi, signore».
«Si faceva chiamare Donatella, anche se non credo che... Il personale si
rivolgeva a lei chiamandola principessa».
L’uomo dalle chiavi d’oro sul bavero si mise a frugare tra i suoi ricordi.
«Vediamo, vediamo, la principessa Donatella, la principessa Donatella...
No, mi dispiace, non mi dice niente».
«Ma sì, sono sicuro che se la ricorda. Era giovanissima e molto bella, e
anche piuttosto eccentrica. Per esempio, andava in giro a piedi nudi».
Colpito dal particolare, l’uomo rovistò in un altro comparto della sua
memoria e a un certo punto esclamò:
«Ci sono! È Rosa».
«Rosa?».
«Rosa Lombardi!».
«Rosa Lombardi... Ero sicuro che Donatella fosse solo il nome di una
sera! Ha sue notizie? Torna ogni tanto? Che donna indimenticabile!».
L’uomo sospirò e si appoggiò al bancone con aria confidenziale.
«Certo che mi ricordo di Rosa... Faceva la cameriera qui. Era la figlia di
quello che lavava i piatti in cucina, Peppino Lombardi. Poveretta, si era
presa la leucemia da giovanissima. Sa, quella malattia del sangue... Le
volevamo tutti un gran bene. All’ultimo ci faceva talmente pena che
decidemmo di esaudire ogni suo capriccio fino a quando non fosse andata a
morire in ospedale. Povera creatura, non aveva neanche diciott’anni... Fin
da piccola ha sempre girato per il paese a piedi nudi. Per scherzare la
chiamavamo la principessa scalza...».
Odette Toulemonde

C almati, Odette, calmati.


Era talmente esuberante, impaziente, entusiasta che aveva la
sensazione di librarsi in volo, staccarsi dalle vie di Bruxelles, sottrarsi al
corridoio delle facciate e superare i tetti fino a raggiungere i piccioni in
cielo. Tutti quelli che vedevano la sua leggera silhouette venire giù dal Mont
des Arts percepivano in quella donna con una piuma tra i capelli qualcosa
del volatile...
Stava andando a vederlo! Sul serio... L’avrebbe avvicinato... Forse
addirittura toccato, se lui le avesse dato la mano...
Calmati, Odette, calmati.
Per quanto avesse passato i quarant’anni, il cuore le andava in palla come
un’adolescente. Ogni volta che un attraversamento pedonale la costringeva
ad attendere il proprio turno sul marciapiede, le sue cosce venivano
percorse da un pizzicorino, le caviglie minacciavano di scattare, avrebbe
voluto saltare al disopra delle macchine.
Di fronte alla libreria si snodava la fila delle grandi occasioni; le dissero
che c’era da aspettare tre quarti d’ora per arrivare davanti a lui.
Acquistò il nuovo romanzo, che tutte le librerie esponevano impilato in
piramidi belle come alberi di Natale, e cominciò a parlare del più e del
meno con le sue vicine di coda. Sebbene fossero tutte lettrici di Balthazar
Balsan, nessuna si rivelava così assidua, precisa e appassionata come Odette.
«Il fatto è che ho letto tutti i suoi libri, dal primo all’ultimo, e tutti mi
sono piaciuti» diceva per giustificare la sua scienza.
Fu molto fiera di constatare che conosceva l’autore e le sue opere meglio
di chiunque altra. Proprio perché lei era di origini modeste, perché faceva la
commessa di giorno e la piumaia di sera, perché sapeva di avere
un’intelligenza mediocre, perché arrivava in autobus dalla ex città mineraria
di Charleroi, non le dispiacque affatto scoprirsi superiore in qualcosa
rispetto alle borghesi di Bruxelles: superiore in quanto fan.
Al centro del negozio, troneggiante su una pedana, circondato da
un’aureola di riflettori che lo illuminavano come nei salotti televisivi a cui
era abituato, Balthazar Balsan si concedeva all’incombenza delle dediche
con diligente buon umore. Dopo dodici romanzi e altrettanti trionfi non
sapeva più se quegli autografi lo divertivano o no: da una parte lo annoiava
la ripetizione monotona del gesto, dall’altra gli piaceva incontrare i suoi
lettori. In quel periodo, tuttavia, sentiva più la fatica che il desiderio di
scambiare due chiacchiere. Continuava per abitudine, più che per voglia; si
trovava in quella difficile fase della carriera in cui non aveva più bisogno di
spingere la vendita dei propri libri, ma non voleva rischiare di perdere
lettori. E anche la qualità... Si chiedeva se il suo ultimo lavoro non fosse il
classico “libro di troppo”, quello non più fuori dal comune, non più così
necessario come gli altri, ma per il momento rifiutò di lasciarsi contagiare
dal dubbio, anche perché era un dubbio che lo assaliva a ogni nuova
pubblicazione.
Tra le facce anonime aveva notato una bella donna, una mulatta in seta
fulva cangiante che, in disparte, camminava da sola avanti e indietro.
Sebbene impegnatissima al telefonino, di quando in quando lanciava verso
lo scrittore occhiate scintillanti.
«Chi è?» chiese Balsan al responsabile commerciale.
«La sua addetta stampa per il Belgio. Vuole che gliela presenti?».
«Sì, per favore».
Contento di interrompere per qualche istante la sequela degli autografi,
trattenne con insistenza la mano che Florence gli aveva porto.
«Per qualche giorno mi occuperò di lei» mormorò la donna, turbata.
«Ci conto» assentì lui con calore voluto.
Le dita della ragazza risposero bene alla pressione del suo palmo, un
bagliore di consenso le attraversò le pupille, e Balthazar seppe di aver vinto:
non avrebbe passato la notte da solo in albergo.
Ringalluzzito, con la testa già rivolta all’imminente trastullo sessuale,
rivolse alla lettrice successiva un sorriso da orco e le domandò con voce
vibrante:
«Allora, cosa posso fare per lei, signora?».
Odette fu così sorpresa dall’energia virile con cui le aveva parlato che
perse istantaneamente la favella.
«Mmm... Mmm... Mmm...».
Incapace di spiccicare parola.
Balthazar Balsan la guardò senza vederla, con cordialità professionale.
«Ha con sé una copia del libro?».
Odette non si mosse, sebbene avesse un esemplare del Silenzio della
pianura stretto contro il petto.
«Vuole che glielo firmi?».
A prezzo di uno sforzo colossale, la donna riuscì ad abbozzare un cenno
di assenso.
Lui tese la mano per prendere il libro; Odette fraintese il gesto,
indietreggiò, pestò i piedi della signora dietro di lei, si rese conto di aver
frainteso, afferrò il volume e glielo consegnò con un movimento così brusco
che per poco non lo colpì alla testa.
«A chi lo dedico?».
«...».
«È per lei?».
Odette annuì.
«Come si chiama?».
«...».
«Il suo nome!».
Odette, rischiando il tutto per tutto, aprì la bocca e mormorò
deglutendo:
«...dette!».
«Scusi?».
«...dette!».
«Dette?».
Sempre più a disagio, sentendosi soffocare, al limite del collasso, Odette
tentò di articolare un’ultima volta:
«...dette!».

Qualche ora dopo, seduta su una panchina, mentre la luce si ingrigiva


lasciando che l’oscurità risalisse dal suolo al cielo, Odette non si era ancora
decisa a rimettersi in viaggio per Charleroi. Sgomenta, leggeva e rileggeva il
frontespizio su cui il suo autore preferito aveva scritto “per Dette”.
Ecco fatto, aveva fallito l’unico incontro della sua vita con lo scrittore dei
suoi sogni, i figli l’avrebbero presa in giro... E a ragione: s’era mai vista una
donna della sua età che non riuscisse a declinare il proprio nome e
cognome?
Appena salita sull’autobus dimenticò l’incidente e durante il tragitto di
ritorno si staccò gradualmente da terra, perché fin dalla prima frase il nuovo
libro di Balthazar Balsan la inondò di luce e la trasportò nel suo mondo
romanzesco cancellando crucci, vergogna, conversazioni dei vicini, rumori
delle macchine e il triste paesaggio industriale di Charleroi. Grazie a lui
fluttuava nell’aria.
Tornata a casa, camminando in punta di piedi per non svegliare qualcuno
e soprattutto per evitare che le facessero domande sul suo fiasco, si mise a
letto appoggiata ai cuscini, con la faccia rivolta al panorama incollato al
muro che rappresentava le ombre cinesi di due innamorati sullo sfondo di
un tramonto marino. Non riuscì a staccare gli occhi dalle pagine, e spense la
luce del comodino solo dopo aver finito il libro.

Dal canto suo, Balthazar Balsan stava trascorrendo una notte molto più
carnale. La bella Florence gli si era concessa senza alcun imbarazzo. Posto
di fronte al corpo perfetto di quella Venere nera, lui ce l’aveva messa tutta
per mostrarsi un buon amatore, ma tanto trasporto gli era costato un certo
sforzo, e aveva avuto la sensazione che anche a livello sessuale la stanchezza
cominciasse a farsi sentire. Le cose iniziavano a pesargli. Si chiese se,
volente o nolente, non fosse giunto a un giro di boa dell’età.
A mezzanotte, Florence volle accendere la televisione per seguire
l’importante trasmissione letteraria in cui sarebbe stato osannato il suo
libro. Balthazar non l’avrebbe permesso, se non vi avesse visto l’occasione
per godere di una tregua ristoratrice.
Appena il volto del temibile critico letterario Olaf Pims apparve sullo
schermo, Balthazar, per chissà quale istinto, sentì subito che stava per essere
aggredito.
Dietro gli occhiali rossi, gli occhiali del torero che si appresta a giocare
con il toro prima di ucciderlo, il critico assunse un’aria annoiata, per non
dire disgustata.
«Mi viene chiesto di recensire l’ultimo libro di Balthazar Balsan. E va
bene. Se almeno ciò fosse vero, se potessimo essere sicuri che è proprio il
suo ultimo libro, sarebbe senz’altro una buona notizia! Perché io sono
esterrefatto. Dal punto di vista letterario è una catastrofe. Tutto ci lascia
costernati: la storia, i personaggi, lo stile... Essere così pessimi, pessimi con
costanza, pessimi con regolarità, diventa quasi una performance, ci vuole
genio! Se si potesse morire di noia, sarei morto ieri sera».
Nudo nella camera d’albergo, con un asciugamano intorno alla vita,
Balthazar Balsan assisteva a bocca aperta alla propria demolizione in diretta.
Accanto a lui sul letto, Florence, imbarazzatissima, si dimenava come un
verme attaccato all’amo che cerchi di risalire in superficie.
Olaf Pims continuò tranquillamente il suo massacro.
«Provo un certo imbarazzo nel dire queste cose, tanto più che ho avuto
occasione di incrociare Balthazar Balsan in pubblico e mi è sembrato un
uomo piacevole, cordiale, molto curato, con un fisico un po’ ridicolo da
professore di ginnastica, magari, ma un individuo comunque frequentabile.
Insomma, il tipo d’uomo da cui una donna divorzia con piacere».
Con un sorrisetto, Olaf Pims si rivolse alla telecamera e parlò come se di
colpo si trovasse di fronte a Balthazar Balsan.
«Con l’alto senso del luogo comune che si ritrova, signor Balsan, un
lavoro così non lo deve chiamare romanzo, ma dizionario. Sì, dizionario
delle frasi fatte, dei pensieri vuoti. Nel frattempo, ecco cosa merita il suo
libro... la pattumiera, e in fretta».
Olaf Pims strappò in due la copia che teneva in mano e se la gettò con
disprezzo alle spalle. Balthazar incassò quel gesto come un uppercut.
Colpito anche lui da tanta veemenza, il presentatore del programma
domandò:
«Come spiega, allora, il suo successo?».
«Anche i poveri di spirito hanno diritto ad avere un eroe. Le portiere, le
cassiere, le parrucchiere che collezionano bambole del luna park e
fotografie di tramonti hanno probabilmente trovato il loro scrittore ideale».
Florence spense la televisione e si girò verso Balthazar. Se fosse stata
un’addetta stampa più esperta, gli avrebbe scodellato quel che si deve
obiettare in questi casi: quel Pims è uno pieno di astio che non sopporta il
successo dei tuoi libri, li legge con il preconcetto che tu voglia adescare il
pubblico, quindi vede demagogia là dove c’è naturalezza, sospetta un
intento commerciale dietro il virtuosismo tecnico, scambia per marketing il
tuo desiderio di interessare la gente, e in più si dà la zappa sui piedi
trattando i lettori da sottosviluppati incompetenti e rivelando così un
disprezzo sociale inaudito. Ma siccome era giovane, Florence era ancora
influenzabile; e siccome era mediocremente intelligente, non distingueva tra
cattiveria e senso critico: nella sua testa, quindi, il verdetto era stato
pronunciato.
Fu forse perché sentì su di sé lo sguardo commiserevole e sconsolato
della ragazza che quella sera Balthazar entrò in una fase depressiva.
Commenti ostili ne aveva sempre subiti, sguardi di pietà mai. Cominciò a
sentirsi vecchio, finito, ridicolo.

Da quella notte, Odette aveva riletto il Silenzio della pianura tre volte e lo
considerava uno dei romanzi migliori di Balthazar Balsan. A Rudy, il figlio
parrucchiere, finì per confessare l’incontro mancato con lo scrittore. Lui
capì che la madre ne soffriva, e non rise.
«Che volevi da lui? Cosa desideravi dirgli?».
«Che non solo i suoi libri sono belli, ma mi fanno bene. I migliori
antidepressivi del mondo, li dovrebbe passare la mutua».
«Beh, visto che non sei riuscita a dirglielo, perché non gli scrivi?».
«Non è strano che io scriva a uno scrittore?».
«Perché strano?».
«Una donna che scrive male che scrive a un uomo che scrive bene!».
«Beh, i parrucchieri calvi esistono».
Convinta dal ragionamento di Rudy, si piazzò nel salotto-sala da pranzo,
mise da parte per un po’ il lavoro delle piume e scrisse la lettera.

Caro signor Balsan,


non scrivo mai perché, anche se possiedo l’ortografia, non ho la poesia. E
troppa me ne servirebbe, ora, per farle capire l’importanza che lei ha per me.
La verità è che le devo la vita. Senza di lei mi sarei ammazzata una ventina di
volte. Vede come scrivo male? Una volta basta e avanza!
Ho sempre amato un solo uomo, mio marito Antoine. È ancora bello,
magro e giovane come una volta. Incredibile come non sia cambiato. C’è da
dire che è morto da dieci anni, e questo aiuta. Non l’ho voluto rimpiazzare. È
il mio modo di amarlo sempre.
Così ho cresciuto da sola i miei figli, Sue Helen e Rudy.
Rudy mi sembra che funzioni; fa il parrucchiere, si guadagna da vivere, è
allegro, affettuoso. Ha la tendenza a cambiare ragazzo un po’ troppo spesso,
ma in fondo ha diciannove anni, si diverte.
Sue Helen è un’altra storia. È ispida per natura, sempre imbronciata.
Brontola persino la notte, in sogno. Sta con un cretino, una specie di
scimmione che traffica con i motorini tutto il giorno e non porta mai un soldo
a casa. Da due anni vive a casa nostra. E ha un problema... gli puzzano i piedi.
In tutta franchezza, prima di conoscerla trovavo spesso brutta la mia vita,
brutta come una domenica pomeriggio a Charleroi quando il cielo è basso,
brutta come una lavatrice che ti molla quando ne hai bisogno, brutta come un
letto vuoto. Ogni notte mi veniva l’impulso di prendere dei sonniferi e farla
finita. Poi, un giorno, ho letto un suo romanzo ed è stato come se avessero
aperto le tende e lasciato entrare la luce. Attraverso i suoi libri lei fa vedere
che in ogni vita, anche nella più misera, c’è di che essere contenti, di che
ridere, di che amare. Fa vedere che le persone insignificanti come me hanno in
realtà un grande merito, perché ogni piccola cosa gli costa più che agli altri.
Grazie ai suoi libri ho imparato a rispettarmi, ad amarmi un po’. A diventare
l’Odette Toulemonde che esiste oggi: una donna che apre le persiane ogni
mattina con piacere e con piacere le richiude ogni sera.
I suoi libri avrebbero dovuto iniettarmeli per vena quando è morto il mio
Antoine, avrei risparmiato tempo.
Un giorno, il più tardi possibile, quando lei andrà in paradiso, il Signore si
avvicinerà e le dirà: “C’è un sacco di gente che la vuole ringraziare per il bene
che ha fatto sulla terra, signor Balsan”, e in mezzo a questi milioni di persone
ci sarà Odette Toulemonde. Odette Toulemonde che le chiede scusa per non
aver avuto la pazienza di aspettare quel momento.
Odette

Neanche il tempo di finire la lettera, che Rudy schizzò fuori dalla camera
dove flirtava con il suo nuovo amichetto: in maglietta e mutande, tanta era
la fretta di annunciare a Odette che, stando a internet, proprio in quei
giorni Balthazar Balsan avrebbe firmato altre dediche nella vicina Namur.
«Così potrai portargli la lettera!».

Alla libreria di Namur, Balthazar Balsan non arrivò da solo: lo


accompagnava il suo editore, venuto da Parigi per tirargli su il morale, cosa
che aveva avuto come effetto immediato di deprimerlo ancora di più.
“Se il mio editore decide di venire a passare qualche giorno con me vuol
dire che le cose vanno molto male” si diceva.
La verità è che i critici, come i lupi, cacciano in bande, e l’attacco di Olaf
Pims aveva scatenato la muta. Quelli che avevano tenuto a freno il loro
risentimento o la loro indifferenza verso Balsan non ebbero più remore,
quelli che non l’avevano mai letto sentivano comunque di dover esprimere
il loro rancore nei confronti del successo, e quelli che non avevano
un’opinione in merito ne parlavano lo stesso perché non si poteva non
partecipare alla polemica.
Balthazar Balsan si dimostrò incapace di replicare. Non era il suo campo,
detestava le offensive, mancava di aggressività. Del resto, si era messo a
scrivere romanzi con l’unico intento di cantare la vita, la sua bellezza, la sua
complessità. Se qualcosa poteva suscitargli indignazione erano le grandi
cause, non la propria. Così non sapeva far altro che soffrire e aspettare che
passasse la buriana, al contrario del suo editore, che avrebbe gradito
sfruttare meglio quell’effervescenza mediatica.
A Namur i lettori in attesa erano meno che a Bruxelles, perché già nel
giro di pochi giorni apprezzare Balthazar Balsan era diventato “da sfigati”.
In compenso, lo scrittore era molto più cordiale con chi si avventurava fino
a lui.
Del tutto ignara di quello scompiglio, dato che non leggeva i giornali né
seguiva le trasmissioni culturali, Odette non immaginava nemmeno che il
suo scrittore stesse passando dei momenti così cupi. Meno elegante della
prima volta, ma resa coraggiosa dal bicchiere di vino bianco che Rudy
l’aveva obbligata a trangugiare nel bar di fronte, si presentò fresca e
fremente al cospetto di Balthazar Balsan.
«Buongiorno, mi riconosce?».
«Ehm... sì... ci siamo incontrati... mi sembra... l’anno scorso... Mi dia una
mano...».
Per niente offesa, anzi ben contenta che avesse dimenticato la sua ridicola
figura del martedì precedente, Odette lo sollevò da ulteriori ricerche.
«No, scherzavo. Non ci siamo mai visti».
«Ah, mi pareva. Sennò me ne sarei ricordato. Chi ho l’onore di...?».
«Toulemonde. Odette Toulemonde».
«Scusi?».
«Toulemonde, mi chiamo così».
Sentendo quel buffo patronimico, Balthazar pensò che la donna lo
prendesse in giro.
«È una battuta!».
«Come dice?».
Rendendosi conto di aver fatto una gaffe, Balthazar si riprese.
«Beh, non c’è che dire, un nome originale...».
«Non nella mia famiglia!».
Odette gli porse una copia nuova da firmare.
«Le dispiace scrivere solo “per Odette”?».
Balthazar, distratto, volle essere sicuro di aver capito bene.
«Odette?».
«Sì, sì, Odette. Eh, sul nome mi hanno fatto un bello scherzo, i miei!».
«Perché dice così? Odette è magnifico...».
«È orrendo!».
«No».
«Sì!».
«È un nome proustiano».
«Pru... che?».
«Proustiano... Alla ricerca del tempo perduto... Odette de Crécy, la donna
di cui Swann è innamorato...».
«Io conosco solo dei barboncini che si chiamano Odette. Dei barboncini
e io, ma addosso a me è un nome che dimenticano tutti. Forse per farlo
ricordare dovrei mettermi il collare e farmi arricciare i peli».
Lui la scrutò, non tanto sicuro di aver capito bene, poi scoppiò a ridere.
Piegandosi leggermente in avanti, Odette gli porse una busta.
«Tenga, è per lei. Quando le parlo dico solo sciocchezze, così le ho
scritto».
Poi scappò via con un frullio di piume.

Sprofondato nella macchina che l’avrebbe riportato a Parigi in


compagnia del suo editore, per un attimo Balthazar fu tentato di leggere il
messaggio ma, quando vide la carta da lettere kitsch sulla quale si
intrecciavano ghirlande di rose e rami di lillà sostenuti da angioletti culoni,
rinunciò ad aprirla. Olaf Pims aveva ragione, era uno scrittore per cassiere e
parrucchiere, e aveva i fan che si meritava! Sospirando, infilò comunque la
lettera nella tasca interna del cappotto scamosciato.
A Parigi lo aspettava una discesa agli inferi. Non solo la moglie,
sfuggente, assorta nel proprio lavoro di avvocato, non mostrò alcuna
comprensione per quanto gli stava accadendo, ma scoprì anche che il figlio
di dieci anni era costretto a battersi contro quei vigliacchi dei compagni di
scuola che gli sfottevano il padre. Messaggi di solidarietà ne ricevette pochi,
e nessuno dall’ambiente letterario, ma forse questa era colpa sua, visto che
non lo frequentava. Chiuso nell’enorme appartamento dell’Île Saint-Louis,
fissando un telefono che non squillava – anche questa era colpa sua: non
dava il numero a nessuno –, considerò con obiettività la propria esistenza e
cominciò a pensare di aver fallito.
Certo, sua moglie Isabelle era una bella donna, ma fredda, tagliente,
ambiziosa, ricca di famiglia, molto più abituata di lui a muoversi in un
mondo di predatori. Il fatto che si fossero autorizzati reciprocamente ad
avere relazioni extraconiugali non era forse segno che a tenere insieme la
coppia era più il collante sociale che non il legame amoroso? Certo,
possedeva un appartamento in pieno centro che faceva invidia, ma gli
piaceva veramente? Niente di ciò che si trovava sui muri, alle finestre, sugli
scaffali e sui divani era stato scelto da lui: se n’era occupato un arredatore.
In salotto troneggiava un pianoforte a coda che nessuno suonava, derisorio
status symbol, e il suo studio era stato concepito per apparire sui giornali
illustrati, visto che Balthazar preferiva scrivere al bar. Cominciava a rendersi
conto di vivere in una scenografia. Peggio, in una scenografia che non era la
sua.
A che gli era servito il suo denaro? A mostrare che aveva sfondato, che si
era fatto strada in una classe sociale da cui non proveniva... Malgrado tutto
indicasse che era ricco, niente di quanto possedeva lo arricchiva realmente:
una contraddizione che, per quanto ne avesse una vaga consapevolezza, non
l’aveva mai seriamente afflitto, perché Balthazar trovava la salvezza nella
fiducia che nutriva per la propria opera. La quale, ora, veniva attaccata...
Lui stesso era assalito dai dubbi: c’era almeno un romanzo di valore tra
quanti ne aveva scritti? Era davvero l’invidia l’unico motivo di quegli
attacchi? E se quelli che lo condannavano avessero avuto ragione?
Fragile, emotivo, abituato a trovare il proprio equilibrio nel creare, quello
stesso equilibrio gli era però precluso nella vita vera. Non sopportava che il
dibattito interiore confinato fino a quel momento dentro di sé – ho un
talento all’altezza di quello che vorrei avere? – fosse diventato pubblico. Al
punto che una sera, quando un’anima disinteressata gli raccontò che la
moglie frequentava assiduamente Olaf Pims, tentò il suicidio.
La cameriera filippina lo trovò privo di sensi, ma non giunse troppo tardi.
Al pronto soccorso riuscirono a fargli riprendere conoscenza, poi, dopo
qualche giorno in osservazione, fu trasferito in una clinica psichiatrica.
Là si chiuse in un salutare silenzio. È probabile che nel giro di qualche
settimana avrebbe finito per rispondere ai validi e premurosi psichiatri che
cercavano di rimetterlo in sesto, se l’arrivo inaspettato della moglie non
avesse cambiato il corso della cura.
Quando sentì lo scatto metallico della portiera, quasi non ebbe bisogno
di verificare dalla finestra che si trattava proprio di Isabelle e del suo carro
armato appena parcheggiato in giardino. Con un balzo raccolse le sue cose,
prese il cappotto, aprì la porta che dava sulla scala esterna, si scapicollò giù
controllando nel contempo di avere ancora un duplicato delle chiavi, corse
verso l’automobile di Isabelle e partì mentre lei saliva in ascensore.
Guidò senza meta per parecchi chilometri, sconvolto. Per andare dove?
Non faceva differenza. Ogni volta che gli veniva in mente qualcuno da cui
rifugiarsi, al solo pensiero di dover dare delle spiegazioni rinunciava subito.
Seduto in macchina in un’area di servizio dell’autostrada, mentre
rimuginava un caffè troppo zuccherato che sapeva di cartone, si accorse del
rigonfiamento nella tasca interna del cappotto.
Non avendo di meglio da fare, aprì la lettera. Quando vide che la sua
ammiratrice aveva aggiunto alla missiva un cuore rosso di pannolenci orlato
di piume, come se già la carta non fosse abbastanza di cattivo gusto,
sospirò. Cominciò a leggere senza entusiasmo; quando ebbe finito,
piangeva.
Steso sul sedile reclinato dell’automobile, rilesse la lettera venti volte fino
a impararla a memoria. A ogni lettura l’anima candida e calda di Odette lo
travolgeva. Le ultime parole erano un vero e proprio balsamo che si
riversava su di lui.

Un giorno, il più tardi possibile, quando lei andrà in paradiso, il Signore si


avvicinerà e le dirà: “C’è un sacco di gente che la vuole ringraziare per il bene
che ha fatto sulla terra, signor Balsan”, e in mezzo a questi milioni di persone
ci sarà Odette Toulemonde. Odette Toulemonde che le chiede scusa per non
aver avuto la pazienza di aspettare quel momento.

Quando Balthazar sentì di aver sfruttato appieno l’effetto riconfortante di


quelle parole, accese il motore e decise di andarne a trovare l’autrice.
Quella sera Odette preparava un’île flottante, il dessert preferito della
feroce Sue Helen, figlia postadolescente con i denti metallizzati
dall’apparecchio che passava da un colloquio di lavoro all’altro senza mai
riuscire a strappare un impiego. Quando suonò il campanello, stava
montando a neve le chiare d’uovo e canticchiava. Contrariata per
quell’interruzione nel bel mezzo di un procedimento tanto delicato, Odette
si asciugò rapidamente le mani, non si curò di indossare qualcosa sopra la
sottoveste di nylon che aveva addosso e, sicura che si trattasse di una vicina
di pianerottolo, andò ad aprire.
Rimase a bocca aperta alla vista di un Balthazar Balsan debole, distrutto,
con la barba lunga e una sacca da viaggio in mano, che la fissava febbrile
brandendo una busta.
«Mi ha scritto lei questa lettera?».
Confusa, Odette pensò che stesse per farle una scenata.
«Sì... ma...».
«Uff, finalmente l’ho trovata!».
Il suo sospiro di sollievo lasciò Odette interdetta.
«Ho solo una domanda da farle» continuò l’uomo, «vorrei che lei mi
rispondesse».
«Sì?».
«Mi ama?».
«Sì».
Senza esitazioni.
Per Balthazar era un istante prezioso, un istante che gustava appieno
senza pensare a quanto la situazione potesse essere imbarazzante per
Odette.
Lei, sfregandosi le mani per il disagio, non osava dire ciò che realmente la
tormentava. Poi non riuscì più a trattenersi:
«Le chiare a neve...».
«Come dice?».
«Ho un problema... È che stavo montando a neve il bianco delle uova e...
sa... le chiare a neve, se uno le lascia troppo...».
Imbarazzata, accennò un gesto che mimava l’afflosciarsi dell’albume
montato.
Balthazar Balsan era troppo sconvolto per riuscire a seguirla.
«In realtà avrei anche un’altra domanda» disse.
«Sì».
«Gliela posso fare?».
«Sì».
«Posso davvero?».
«Sì».
Abbassando gli occhi come un bambino preso in castagna, senza il
coraggio di sostenere lo sguardo della donna, Balthazar chiese:
«Mi permette di restare da lei qualche giorno?».
«Come?».
«Risponda solo sì o no».
Odette, impressionata, rifletté due secondi ed esclamò con molta
naturalezza:
«Sì, ma svelto, per piacere, che ho le uova che si smontano!».
Poi prese la sacca e tirò dentro Balthazar.

Fu in questo modo che Balthazar Balsan, senza che a Parigi nessuno lo


immaginasse lontanamente, si trasferì a Charleroi in casa di Odette
Toulemonde, commessa di giorno e piumaia di notte.
«Piumaia?» domandò lui una sera.
«Cucio le piume sui costumi delle ballerine. Sa, le riviste, le Folies
Bergère, il Casino de Paris, quelle cose lì... Arrotondo quel che guadagno in
negozio».
Balthazar scopriva una vita agli antipodi della sua: senza gloria, senza
soldi, eppure felice.
Odette aveva un dono: la gioia. Dentro di sé ci doveva essere un
complessino jazz che suonava in continuazione motivetti trascinanti e
melodie trepidanti. Non c’era difficoltà che riuscisse a smontarla. Di fronte
a un problema, cercava la soluzione. Poiché l’umiltà e la modestia erano
insite nel suo carattere, e non le passava per la testa che dovesse meritare di
meglio, non si sentiva mai frustrata. Così, quando illustrò a Balthazar il
casermone di mattoni in cui abitava insieme ad altri inquilini assistiti dai
servizi sociali, gli mostrò solo le logge dipinte in colori pastello tipo gelato
estivo, i balconi ornati da fiori di plastica, i corridoi decorati di macramè,
gerani o quadri di marinai con la pipa in mano.
«Quando uno ha la fortuna di abitare qui, non se ne vuole più andare.
Tranne che con i piedi in avanti, naturalmente... È un piccolo paradiso,
questo posto!».
Bendisposta verso l’umanità intera, Odette riusciva a vivere in armonia
con persone che erano il suo esatto contrario perché non sentiva il bisogno
di giudicare. Così, non fosse altro che nel corridoio comune, simpatizzava
con una coppia di fiamminghi arancioni abbonati all’abbronzatura
artificiale, a dosi massicce di carotene e ai club di scambisti, fraternizzava
con un’impiegata del comune secca e perentoria che sapeva tutto di tutti, si
scambiava ricette con una giovane tossica già madre di cinque figli che
talvolta aveva delle crisi di rabbia e graffiava i muri, e andava pure a
comprare pane e carne per il signor Wilpute, un pensionato invalido e
razzista, con la giustificazione che “dirà pure delle stupidaggini”, ma era
pur sempre un essere umano.
In famiglia dimostrava lo stesso genere di apertura mentale;
l’omosessualità sfrenata del figlio Rudy le causava meno imbarazzo del
muso di Sue Helen, che attraversava un periodo difficile. Sebbene la figlia
non facesse che respingerla, Odette cercava con tatto di aiutarla a sorridere,
ad avere pazienza, a guadagnare fiducia in sé stessa e, magari, a separarsi da
Polo, il suo ragazzo, un parassita muto, ingordo e maleodorante che Rudy
chiamava “la cisti”.
Balthazar fu accettato in quell’angusto focolare domestico senza
domande, come se fosse stato un cugino di passaggio al quale l’ospitalità è
dovuta. Non poteva fare a meno di confrontare quell’accoglienza con il
proprio comportamento – o quello di sua moglie – quando degli amici
chiedevano di essere ospitati a Parigi. “E gli alberghi a cosa servono?”
scattava ogni volta Isabelle, furiosa, prima di far capire ai maleducati che
sarebbero stati talmente pigiati l’uno sull’altro che tutti si sarebbero trovati
a disagio.
Dal momento che nessuno gli faceva domande, neanche Balthazar si
chiese cosa stesse facendo lì, e ancor meno perché ci restasse. Intanto che la
precisazione gli veniva risparmiata riacquistava le forze, senza accorgersi di
quanto quello scombussolamento sociale e culturale lo riportasse alle
proprie origini. Figlio di madre ignota, Balthazar aveva vissuto in varie
famiglie adottive, modeste, brava gente che per qualche anno aggiungeva un
orfanello ai propri figli. Fin da piccolo aveva optato per la via di fuga
“dall’alto”, cioè attraverso il successo negli studi: aveva deciso che la sua
vera identità sarebbe stata intellettuale. Grazie a borse di studio aveva
imparato il greco, il latino, l’inglese, il tedesco e lo spagnolo, aveva
svaligiato le biblioteche pubbliche per farsi una cultura, si era preparato ed
era stato ammesso all’École Normale Supérieure, una delle più prestigiose
scuole di Francia, dove aveva conseguito varie lauree: una serie di prodezze
accademiche che avrebbero dovuto condurlo a un lavoro conformista, tipo
professore universitario o addetto a un gabinetto ministeriale, se strada
facendo non avesse scoperto il proprio talento per la scrittura e deciso di
consacrarsi alle lettere. Curiosamente, nei suoi libri non descriveva
l’ambiente di cui era entrato a far parte dopo l’ascesa sociale, ma quello in
cui aveva passato i suoi primi anni: ciò spiegava probabilmente
l’armoniosità della sua opera e il consenso popolare, e certamente il
disprezzo dell’intellighenzia. Diventare un membro della famiglia
Toulemonde lo riportava a piaceri semplici, a considerazioni prive di
ambizione, al puro gusto di vivere in mezzo a gente che ha calore.
Se non che, parlando con i vicini, scoprì che a detta di tutto l’immobile
era l’amante di Odette.
Quando negò la cosa con Filip, il vicino di casa scambista che aveva
attrezzato una palestra di body building in garage, questi gli disse di non
prenderlo in giro.
«Sono anni che Odette non vede un uomo. Ma ti capisco: non c’è niente
di male a farsi del bene! Odette è una bella donna. Neanch’io mi tirerei
indietro, se ci stesse».
Sconcertato, sentendo che smentire rischiava di diventare sconveniente
per la reputazione di Odette, Balthazar tornò nell’appartamento carico di
nuovi dubbi.
“Forse la desidero senza rendermene conto. Non ci avevo mai pensato.
No, non è il mio genere di donna... è troppo... non lo so... comunque no,
assolutamente... E poi ha la mia età... Se dovessi avere delle voglie, me ne
sceglierei una più giovane... Il fatto è che niente è normale in questo posto.
Non so neanche cosa ci faccio qui”.
Quella sera, trovandosi solo con Odette perché i ragazzi erano andati a
un concerto pop, la guardò con occhi diversi.
Alla luce tenue del lampadario, carezzata da un maglione di lana
d’angora, intenta a cucire un mazzetto di piume su un’armatura di strass, le
sembrò molto carina. Cosa che prima gli era sfuggita.
Forse ha ragione Filip... perché non ci ho pensato?
Sentendosi osservata, Odette sollevò la testa e gli sorrise. L’imbarazzo si
dissipò.
Per avere la scusa di avvicinarsi a lei, Balthazar posò il libro e versò il
caffè nelle tazze.
«Lei ce l’ha un sogno, Odette?».
«Sì... Andare al mare».
«Sul Mediterraneo?».
«Perché sul Mediterraneo? C’è il mare anche qui, forse meno bello, ma
più discreto, più riservato... Diamine, il Mare del Nord».
Sedendo accanto a lei per riempirsi un’altra tazza, Balthazar le appoggiò
la testa sulla spalla. Lei ebbe un fremito. Incoraggiato, lui le passò le dita sul
braccio, sulla spalla, sul collo. Odette tremava. Alla fine Balthazar protese le
labbra.
«No, per piacere».
«Non le piaccio?».
«Non faccia lo stupido... certo che sì... Ma è meglio di no».
«Antoine? È il ricordo di Antoine?».
Odette chinò la testa, si asciugò una lacrima e dichiarò con una grande
tristezza, come se stesse tradendo il marito defunto:
«No, non è per Antoine».
Balthazar ne concluse che aveva via libera e incollò le labbra su quelle di
Odette.
Uno schiaffo secco gli bruciò la guancia. Poi, in totale contraddizione, le
dita di Odette si precipitarono sul viso dell’uomo per coccolarlo, per
cancellare il colpo.
«Oh, mi scusi, mi scusi».
«Non capisco. Non vuole...».
«...farle male? Oh, no davvero, mi scusi».
«Non vuole venire a letto con me?».
La risposta fu un secondo schiaffo, dopodiché Odette, inorridita, si alzò
dal divano, fuggì dal salotto e corse a rinchiudersi in camera sua.

L’indomani, dopo una notte trascorsa nel garage di Filip, Balthazar


decise di partire per evitare di infilarsi ancora di più in una situazione
assurda. Dirigendosi verso l’autostrada, ebbe comunque la premura di
passare dal salone in cui lavorava Rudy e mettergli in mano una mazzetta di
banconote.
«Io sono costretto a tornare a Parigi. Tua madre è stanca e sogna di
andare al mare. Prendi questi soldi e affittale una casa sulla spiaggia, vedi
tu. E soprattutto non dirle mai che te li ho dati io. Fai finta di aver avuto
una gratifica. D’accordo?».
Senza aspettare la risposta, Balthazar si rimise in macchina.
A Parigi, durante la sua assenza, la situazione si era calmata, già si parlava
di altre cose. Il suo editore era sicuro che con il tempo Balthazar avrebbe
riconquistato la fiducia dei lettori e dei media.
Per evitare di incrociare la moglie, fece un rapido salto a casa in un’ora in
cui lei lavorava, lasciò un biglietto per rassicurarla del suo stato attuale –
chissà poi se era preoccupata –, riempì una valigia e partì per la Savoia dove
il figlio si trovava in settimana bianca.
Ci sarà pure una camera libera nei paraggi!
Una volta ritrovato il padre, François non volle più lasciarlo. Dopo
qualche giorno passato a sciare con lui, Balthazar si rese conto che era stato
troppo assente, che aveva da recuperare un enorme arretrato di presenza e
di amore con il figlio.
Inoltre non poteva fare a meno di riconoscere in lui le sue stesse fragilità
e ansie croniche. François voleva farsi accettare dagli altri somigliando a
loro, ma allo stesso tempo soffriva di non essere abbastanza sé stesso.
«Si avvicinano le vacanze, che ne diresti di andare al mare? Io e te da
soli».
La risposta fu un ragazzo urlante di gioia che lo abbracciava.

Il giorno di Pasqua, Odette si trovava per la prima volta in vita sua di


fronte al Mare del Nord. Intimidita, tracciava dei disegni sulla sabbia.
L’infinito delle acque, del cielo, della spiaggia le sembravano un lusso al
disopra dei propri mezzi; aveva la sensazione di approfittare di uno
splendore che non le spettava.
All’improvviso, sentì un calore forte sulla nuca e le venne da pensare
intensamente a Balthazar. Girandosi lo vide là, sulla diga, che teneva per
mano il figlio.
Fu un ritrovarsi intenso ma delicato, ognuno attento a non ferire l’altro.
«Sono tornato, Odette, perché mio figlio ha bisogno di lezioni. Lei ne dà
sempre?».
«Lezioni di cosa?».
«Di felicità».
I Balsan furono alloggiati nella casetta in affitto come se fosse naturale
che si piazzassero là, e le vacanze cominciarono.
Dopo che la vita ebbe trovato il proprio corso, Odette sentì il bisogno di
spiegare a Balthazar il motivo dei suoi schiaffi.
«Non voglio venire a letto con lei perché so che non vivremo insieme. Lei
è di passaggio nella mia vita. È entrato e uscito».
«Sono tornato».
«Se ne andrà di nuovo... Non sono scema, non c’è un futuro comune tra
Balthazar Balsan, grande scrittore parigino, e Odette Toulemonde,
commessa di Charleroi. È troppo tardi. Se avessimo vent’anni di meno,
forse...».
«L’età non ha niente a che vedere con...».
«Sì, invece. L’età vuol dire che le nostre vite sono più dietro che davanti a
noi, vuol dire che lei è sistemato in un’esistenza e io in un’altra. Parigi e
Charleroi, soldi e non-soldi: i giochi sono fatti. Possiamo incrociarci, ma
non possiamo più incontrarci».
Balthazar non sapeva esattamente cosa volesse da Odette, ma sentiva di
avere bisogno di lei.
A parte questo, la loro storia non aveva senso. Forse faceva bene lei a
impedirgli di andare verso la banalità del rapporto amoroso... E se invece si
fosse sbagliata? Non si stava in qualche modo vietando di avere un corpo?
Non si stava infliggendo una sorta di vedovanza insensata dalla morte di
Antoine?
Questo aspetto gli risultò particolarmente chiaro una sera in cui nella
casa da pescatori si improvvisarono delle danze. Lanciata in un samba,
liberata dalla musica, Odette si muoveva con sensualità aggraziata e
maliziosa, svelando una femminilità lasciva e insolente che lui non le
conosceva. In quei minuti, accennando qualche passo accanto a lei, da come
le anche e le spalle si sfioravano Balthazar capì che a letto ci si sarebbe
trovato molto bene.
Al chiaro di luna, Odette gli fece una confessione ingenua.
«Sa, Balthazar, io non sono innamorata di lei».
«Ah».
«No, non sono innamorata. Io l’amo».
Lui accolse quella dichiarazione come la più bella che avesse mai
ricevuto, anche più bella di quelle che aveva inventato per i suoi libri.
Per tutta risposta, le porse la cartellina di lucertola contenente il nuovo
romanzo che stava scrivendo da quando l’aveva ritrovata.
«Si chiamerà La felicità degli altri. È la storia di vari personaggi che
cercano la felicità senza trovarla. Falliscono perché hanno ereditato o
adottato concezioni della felicità che non fanno per loro: soldi, potere,
matrimoni che danno lustro, amanti con le gambe lunghe, macchine da
corsa, attico a Parigi, chalet a Megève e villa a Saint-Tropez, tutti cliché.
Malgrado il successo non sono felici perché vivono la felicità degli altri, la
felicità secondo gli altri. Devo a lei questo libro. Guardi all’inizio».
Alla luce della candela schermata, Odette contemplò la prima pagina.
C’era scritto “Per Dette”.
Si sentì così leggera che ebbe l’impressione di aver sbattuto la testa sulla
luna. Per poco non le scoppiò il cuore. Cercando di riprendere un respiro
normale, si portò la mano al petto e mormorò:
«Calmati, Odette, calmati».
Anche se a mezzanotte si baciarono solo sulle guance augurandosi sogni
d’oro, Balthazar prevedeva che sarebbero diventati automaticamente amanti
nei due giorni che rimanevano.
L’indomani lo attendeva una brutta sorpresa. Tornato da una gita in
bicicletta in compagnia di François, Rudy e Sue Helen, trovò la moglie e
l’editore che lo aspettavano in salotto.
Quando vide Isabelle, pensò a un colpo basso e fece per scagliarsi contro
di lei, ma Odette lo trattenne.
«Non se la prenda con sua moglie. L’idea di questa riunione è mia e solo
mia. Si sieda e assaggi un dolcetto, sono fatti in casa. Io vado a prendere da
bere».
Agli occhi di Balthazar la scena che seguì fu surreale. Era impantanato in
un incubo: Odette era diventata miss Marple alla fine di un’indagine,
quando intorno a un tè e qualche pasticcino riunisce i personaggi del giallo
per spiegare loro la vicenda e trarre le conclusioni.
«Balthazar Balsan mi ha dato molto con i suoi libri. Ho sempre creduto
che non sarei mai stata in grado di ricambiare quanto mi ha donato, fino a
quando, per un concorso di circostanze, qualche settimana fa viene a
cercare rifugio da me. Presto dovrà tornare a Parigi dato che, alla sua età e
con la fama che ha, non si ricomincia una vita a Charleroi. Però non osa.
Prima di tutto perché si vergogna, ma principalmente perché ha paura».
Odette si girò verso Isabelle che, alla parola “paura”, aveva fatto
un’espressione scettica.
«Paura di lei, signora! E sa perché? Perché lei non lo ammira più.
Dovrebbe essere fiera di suo marito: rende felici migliaia di persone. Forse,
nel mucchio, ci sono piccole segretarie e minuscole impiegate come me, ma
proprio di questo si tratta: il fatto che Balthazar riesca ad appassionare e a
trascinare noi che leggiamo poco, che non siamo colte come lei, dimostra
che ha più talento degli altri! Molto di più! Sa, signora, può anche darsi che
Olaf Pims scriva dei libri magnifici, però mi ci vuole un dizionario e un
tubetto d’aspirina solo per capire di che sta parlando. È uno snob che si
rivolge solo alle persone che hanno letto tanti libri quanto lui».
Porse una tazza di tè all’editore accompagnandola con uno sguardo
carico di disapprovazione.
«E lei, signore. Lei deve difendere di più il suo autore con i parigini che
lo insultano e gli fanno venire la depressione. Quando si ha la fortuna di
frequentare simili tesori, bisogna occuparsene! Oppure cambiare mestiere,
caro signore. Prenda un biscotto al limone, sono la mia specialità».
Terrorizzato, l’editore obbedì. Odette si rivolse di nuovo a Isabelle
Balsan.
«Crede che suo marito non l’ami? Che non l’ami più? Forse anche lui lo
crede... Però mi sono accorta di una cosa: ha sempre la sua foto con sé».
Isabelle, colpita dalla semplicità di Odette, abbassò la testa e divenne
sincera.
«Mi ha talmente tradita...».
«Ah, se pensa che un uomo non debba farsi le sue storie e andare a
curiosare altrove, doveva prendersi un cane, signora, non un uomo! E
anche in questo caso, tenendolo a catena. Io, il mio Antoine che amavo
tanto e che amo altrettanto vent’anni dopo, non avevo dubbi che avesse
avuto delle storie con altre donne. Diverse, forse più carine, o
semplicemente con un altro odore. Ciò non toglie che era tra le mie braccia
quando è morto. Le mie braccia. Guardando me. E questo è un regalo che
conserverò per sempre...».
Per un attimo lottò contro la commozione in cui era precipitata senza
averlo previsto, poi si forzò a continuare.
«Balthazar Balsan tornerà da voi. Ho fatto tutto quello che ho potuto per
rimettervelo in sesto, per ridarvelo in forma, sorridente, allegro, perché
uomini come lui, francamente, così buoni, così dotati, così maldestri, così
generosi, non si possono lasciare affogare. Io tra due giorni tornerò a
Charleroi, al negozio, e non vorrei che il mio operato andasse perduto...».
Balthazar contemplava addolorato Odette che faceva pubblicamente a
pezzi la loro storia d’amore. La odiava per il tormento che gli stava
infliggendo. Gli sembrava che avesse un’espressione torbida, sconvolta, una
faccia da pazza, ma sentiva che era inutile opporsi. Se lei aveva deciso che
doveva essere così, niente le avrebbe fatto cambiare idea.
Prima di rimettersi in strada, Balthazar e Isabelle fecero una camminata
in mezzo alle dune. Né l’uno né l’altra erano convinti che sarebbero riusciti
a vivere di nuovo insieme, ma avevano deciso di provarci per François.
Mentre tornavano alla casa da pescatori incrociarono un’ambulanza che
lacerava l’aria con il suo ululato: Odette aveva appena avuto un attacco di
cuore.

Finché la sua vita rimase appesa a un filo, tutti restarono a Blieckenbleck.


Quando il reparto di rianimazione la dichiarò fuori pericolo, l’editore,
Isabelle e suo figlio tornarono a Parigi.
Quanto a Balthazar, riuscì a farsi prolungare l’affitto della casetta. Si
prese cura di Rudy e Sue Helen, avvertendoli però che avrebbero dovuto
tenere nascosta alla madre la sua presenza lì.
«Più in là... Quando starà meglio...».
Ogni giorno accompagnava i ragazzi all’ospedale e li aspettava su una
poltroncina in mezzo a piante verdi, vecchine in vestaglia e pazienti erranti
con la loro flebo appesa a un’asticella.
Alla fine Odette recuperò le forze, il colorito e la presenza, e si stupì che
qualcuno le avesse messo la fotografia di Antoine sul comodino.
«Chi l’ha messa?».
I ragazzi confessarono che era stata un’iniziativa di Balthazar, le dissero
che era rimasto a Blieckenbleck e si era occupato di loro come un padre.
A vedere l’emozione della madre, gli apparecchi cardiologici impazziti, la
danza dei diagrammi verdi che misuravano il ritmo del battito, i ragazzi
capirono che Balthazar aveva avuto ragione ad aspettare che entrasse in
convalescenza, e non ebbero dubbi che il primo malore della mamma era
stato causato dal fatto che aveva respinto Balthazar e il cuore non le aveva
retto.
Il giorno dopo, emozionato come se avesse avuto quindici anni, Balthazar
entrò in camera di Odette. Portava due mazzi di fiori.
«Perché due?».
«Uno da parte mia e uno da parte di Antoine».
«Antoine?».
Balthazar sedette accanto al letto e indicò sorridendo la foto del marito.
«Io e Antoine siamo diventati buoni amici. Mi ha accettato. Ha capito
che la amo quanto basta per avere diritto al suo rispetto. Quando lei è stata
in pericolo, mi ha confessato che si era rallegrato un po’ troppo in fretta:
credeva che sua moglie andasse a raggiungerlo. Poi c’è rimasto male di aver
avuto un pensiero così egoista. Ora è tranquillizzato dal suo miglioramento,
sia per lei che per i suoi figli».
«Cos’altro le ha detto?».
«Non le piacerà...».
Balthazar si chinò rispettosamente verso Odette e mormorò:
«Ha detto che la affidava a me...».
Agitatissima, toccata nel più profondo del cuore, Odette si mise a
singhiozzare in silenzio.
«E non ha chiesto il mio parere?» cercò poi di scherzare.
«Antoine? No. Sostiene che lei ha testa dura».
Chinandosi ancora, aggiunse con una tenerezza irresistibile:
«Gli ho risposto... che sono d’accordo».
Finalmente si baciarono.
Subito, gli apparecchi cardiologici si misero a fibrillare: una specie di
allarme ripetuto per avvertire il personale di soccorso che un cuore stava
andando in tilt.
Balthazar si staccò dalle sue labbra e mormorò guardandola:
«Calmati, Odette, calmati».
Il più bel libro del mondo

arrivo di Olga suscitò nelle donne un fremito di speranza.


L’ Non che Olga avesse un’aria particolarmente rassicurante: lunga e
secca, con gli ossi delle mascelle e dei gomiti sporgenti sotto la pelle
scura, entrò senza degnare di uno sguardo le altre abitanti del padiglione.
Sedette sul pagliericcio sbilenco che le avevano assegnato, sistemò le sue
cose sul fondo della cassapanca di legno, ascoltò la guardiana sbraitarle in
faccia il regolamento come se lo gridasse in alfabeto morse, sollevò per un
attimo il capo quando questa le indicò i bagni, poi, andata via la
sorvegliante, si sdraiò sulla schiena, fece scrocchiare le dita e si immerse
nella contemplazione delle travi annerite del soffitto.
«Avete visto che capelli?» mormorò Tatiana.
Le altre prigioniere non capirono cosa intendesse.
La nuova ostentava una chioma spessa, crespa, robusta, fitta che le
raddoppiava il volume della testa: una salute e un vigore solitamente
appannaggio delle africane... ma Olga, nonostante la carnagione olivastra,
non aveva alcun tratto negroide e, visto che si trovava in Siberia in un
campo di concentramento per donne che non la pensavano in maniera
ortodossa, veniva con tutta probabilità da una città dell’Unione Sovietica.
«Beh, che hanno i suoi capelli?».
«Secondo me è caucasica».
«È vero, certe volte le caucasiche hanno la paglia in testa».
«Sono proprio brutti quei capelli, hai ragione».
«Macché, sono magnifici. Io, che li ho lisci e sottili, avrei adorato averli
come lei».
«Piuttosto la morte. Sembra crine».
«A me sembrano peli di... zone intime!».
L’ultima osservazione, fatta da Lily, sollevò un coro di risatine soffocate.
Tatiana aggrottò le sopracciglia e riportò il silenzio nel gruppo
dichiarando:
«Potrebbero nascondere la soluzione».
Desiderose di compiacere Tatiana, che tutte consideravano il capo
sebbene fosse una detenuta come le altre, le donne si spremevano le
meningi per cercare di capire ciò che non arrivavano a capire: quale
soluzione avrebbe mai potuto fornire la capigliatura di una sconosciuta alle
loro vite di devianti politiche in rieducazione forzata? Quella sera il campo
era sepolto sotto una coltre di neve. Fuori era buio pesto, a parte un’unica
lanterna che la bufera faceva di tutto per spegnere, e la temperatura sotto
zero non aiutava certo la riflessione.
«Vuoi dire che...?».
«Già. Voglio dire che si possono nascondere un sacco di cose in una
criniera del genere».
Tutte osservarono un rispettoso silenzio. Alla fine una azzardò:
«Pensi che abbia portato una...».
«Sì».
Lily, una graziosa biondina che malgrado i rigori del lavoro, del clima e
del cibo immondo continuava a essere pasciuta come una figlia di papà, si
permise di dubitarne.
«Dovrebbe averci pensato...».
«Perché no?».
«Beh, a me, prima di arrivare qua, non sarebbe mai venuto in mente».
«Infatti sto parlando di lei, non di te».
Sapendo che Tatiana l’avrebbe comunque spuntata, Lily non raccolse
l’offesa e si rimise a cucire l’orlo della gonna di lana.
Fuori si udiva il gemito gelido della tormenta.
Lasciate le compagne, Tatiana percorse il corridoio centrale della
camerata, si avvicinò al letto della nuova e si fermò aspettando un segno che
le facesse capire di essere stata notata dall’altra.
Un focherello stentato agonizzava nella stufa.
Dopo qualche minuto di assoluta mancanza di reazioni, Tatiana si decise
a rompere il silenzio.
«Come ti chiami?».
Una voce profonda pronunciò “Olga” senza che nessuno vedesse
muoverle le labbra.
«E perché sei qui?».
Il viso di Olga non si mosse. Una maschera di cera.
«Eri la fidanzata di Stalin e lui si è stufato di te, vero? Come tutte noi
qui!».
La battuta era quasi un rituale con cui venivano accolte quelle che si
ribellavano al regime stalinista, ma le parole di Tatiana scivolarono sulla
sconosciuta come un ciottolo sul ghiaccio.
«Io mi chiamo Tatiana. Vuoi che ti presenti le altre?».
«Avremo tempo, no?».
«Certo che avremo tempo... Passeremo mesi in questo buco, anni... forse
ci moriremo...».
«Appunto, avremo tempo».
Per tagliare corto, Olga chiuse gli occhi e si girò contro il muro, voltando
così le spalle ossute a ogni ulteriore conversazione.
Rendendosi conto che non ne avrebbe cavato di più, Tatiana tornò dalle
compagne.
«È una dura. Meglio. Ci sono più probabilità che...».
Con un cenno di approvazione, tutte, Lily compresa, decisero di
attendere.

Nelle settimane che seguirono, la nuova concesse a stento una frase al


giorno, e anche quella bisognava tirargliela fuori a forza: un comportamento
che consolidò le speranze delle pensionanti di più vecchia data.
«Sono sicura che ci ha pensato» finì per dire Lily, sempre più convinta a
ogni ora che passava. «Ha proprio l’aria di quella che ci ha pensato».
Costretto dalla nebbia a un perenne grigiore, il giorno apportava una luce
fievole. Quando la nebbia si diradava, uno schermo impenetrabile di nuvole
opprimenti gravava sul campo come un’armata di sentinelle.
Visto che nessuna riusciva a guadagnarsi la fiducia di Olga, puntarono sul
fatto che alla prima doccia avrebbero scoperto per forza se la nuova
nascondeva... Ma il freddo era tale che nessuna se la sentiva di spogliarsi:
l’impossibilità di asciugarsi e il riscaldamento improbabile limitavano le
donne a una toilette furtiva, minimale. Tra l’altro, in un mattino di pioggia,
scoprirono che la chioma di Olga era talmente folta che le gocce vi
scivolavano sopra senza penetrarvi, come una cuffia impermeabile.
«Pazienza» decise Tatiana. «Dovremo correre il rischio».
«Di chiederglielo?».
«No. Di farglieli vedere».
«E se è una spia? Se è stata mandata per tenderci una trappola?».
«Non ha l’aria di una spia» disse Tatiana.
«È vero, non ne ha per niente l’aria» confermò Lily tirando un filo del
suo cucito.
«Invece sì che ne ha l’aria! Che ne sai che non fa la scorbutica, la dura, la
muta, quella che non viene a patti con nessuno, apposta per conquistarsi la
nostra amicizia?».
Era stata Irina a fare questo ragionamento, sorprendendo le altre e
sorprendendosi lei per prima della coerenza di quel che diceva. Lo stupore
non le impedì di continuare:
«Io stessa non saprei fare di meglio, se mi affidassero l’incarico di spiare
una baracca di dissidenti politiche. Ti fai passare per una taciturna, una
solitaria, e poco a poco raccogli le confidenze di tutte. È più furbo che
mostrarsi cordiale, no? Forse si è appena infiltrata tra noi la più scaltra
informatrice dell’Unione Sovietica».
Lily ne fu subito così convinta che si punse il polpastrello con l’ago.
Spuntò una goccia di sangue, che lei guardò con terrore.
«Devo farmi cambiare di baracca, e in fretta!».
Intervenne Tatiana:
«Il tuo ragionamento è giusto, Irina, ma è pur sempre un ragionamento.
Il mio intuito mi dice il contrario. Secondo me ci possiamo fidare, è una
come noi. Anzi, più dura di noi».
«Aspettiamo ancora, però, perché se ci beccano...».
«Sì, aspettiamo. E soprattutto, cerchiamo di esasperarla. Non parliamole
più. Se è una spia messa qua per denunciarci, andrà nel panico e cercherà di
avvicinarsi a noi. Al minimo passo, ci svelerà la sua tattica».
«Ben detto» approvò Irina. «Ignoriamola e teniamo d’occhio la sua
reazione».
«È spaventoso...» sospirò Lily leccandosi il dito per affrettare la
cicatrizzazione.

Per dieci giorni nessuna prigioniera del Padiglione 13 rivolse la parola a


Olga. In un primo momento sembrò che lei neanche se ne accorgesse; poi,
quando se ne rese conto, il suo sguardo divenne più duro, quasi minerale.
Peraltro non accennò il minimo gesto per rompere quel silenzio di ghiaccio.
Accettava l’isolamento.
Dopo la minestra, le donne si riunirono intorno a Tatiana.
«È la prova, no? Non ha battuto ciglio».
«Sì, è spaventoso...».
«Per te, Lily, è tutto spaventoso...».
«Ammetterete che è una cosa da incubo: essere respinta dal gruppo,
rendersene conto e non muovere un dito per evitare l’esclusione! È quasi
disumano... Mi chiedo se questa Olga abbia un cuore».
«Tu che ne sai che non soffre?».
Lily smise di cucire e appuntò l’ago in un grumo del tessuto: non ci aveva
pensato. Subito gli occhi le si riempirono di lacrime.
«L’abbiamo fatta soffrire?».
«Immagino che soffrisse anche prima. Forse ora soffre un po’ di più».
«Poverina! Colpa nostra...».
«Però credo che possiamo contare su di lei».
«Hai ragione» esclamò Lily asciugandosi le lacrime con la manica.
«Diamole fiducia. Mi fa troppo male pensare che è una carcerata come noi
e che aggiungiamo dolore al dolore rendendole la vita impossibile».
Qualche minuto di consultazione, e le donne decisero che avrebbero
corso il rischio di svelare a Olga il loro piano. Se ne incaricò Tatiana.
Poi il campo ripiombò nel suo torpore. Fuori era tutto ghiacciato,
qualche scoiattolo furtivo frugava nella neve tra le baracche.

Con la mano sinistra Olga sbriciolava una vecchia crosta di pane, con la
destra reggeva la scodella vuota.
Tatiana si avvicinò.
«Lo sapevi che hai diritto a un pacchetto di sigarette ogni due giorni?».
«Pensa un po’ che lo sapevo e che me le stavo pure fumando!».
La risposta era uscita dalla bocca di Olga come una fucilata: violenta,
impetuosa, bruscamente accelerata da una settimana di silenzio.
Al di là del tono aggressivo, Tatiana notò che Olga aveva parlato più del
solito: i rapporti umani dovevano mancarle... Ritenne quindi di poter
continuare.
«Visto che non ti sfugge niente, ti sarai accorta che nessuna di noi fuma.
Giusto un paio, quando ci sono le sorveglianti».
«Ehm... sì. No. Che vuoi dire?».
«Non ti sei chiesta cosa ci facciamo con le sigarette?».
«Me lo posso immaginare: le scambiate. È il denaro del campo. Perché,
me ne vuoi vendere qualcuna? Non ho niente da darti in cambio...».
«Sbagliato».
«Con che si paga allora, visto che soldi non ce ne sono?».
Olga scrutò Tatiana con una smorfia sospettosa, come se già sapesse che
stava per venire a conoscenza di qualcosa di disgustoso. Tatiana si prese
quindi il tempo di rispondere.
«Non vendiamo le nostre sigarette e nemmeno le scambiamo. Le usiamo
per qualcosa di diverso che fumare».
Conscia di aver stuzzicato la curiosità di Olga, Tatiana chiuse lì la
conversazione, ben sapendo che la propria posizione ne sarebbe uscita
rafforzata se fosse stata l’altra a venire da lei per sentire il seguito.
Quella stessa sera Olga si recò da Tatiana e la fissò a lungo, quasi
sfidandola a rompere il silenzio. Invano. Tatiana la ripagava con la stessa
moneta del primo giorno.
Olga finì per cedere.
«Beh, allora che ci fate con le sigarette?».
Tatiana si girò verso di lei e ne sondò lo sguardo.
«Ti sei lasciata dietro persone che ami?».
Per tutta risposta, il volto di Olga fu increspato da una contrazione di
dolore.
«Anche noi» proseguì Tatiana. «Ci mancano i nostri uomini. Ma la
preoccupazione per loro, alla fine, è la stessa che abbiamo per noi, stanno
solo in un altro campo. No, la tortura vera sono i figli...».
La voce di Tatiana si incrinò: la sua mente era appena stata occupata
dall’immagine delle due figlie. Solidale, Olga le posò un mano sulla spalla,
una mano robusta, forte, quasi maschile.
«Ti capisco, Tatiana. Anch’io ho lasciato una figlia. Per fortuna ha
ventun anni».
«Le mie ne hanno otto e dieci...».
Concentrata a trattenere le lacrime, non riuscì a continuare. D’altronde
non c’era altro da aggiungere.
La rude mano di Olga forzò la testa di Tatiana contro la propria spalla, e
l’eterna ribelle, la caporiona, la dura della baracca, avendo trovato qualcuna
più dura di lei, si abbandonò ad alcuni secondi di pianto sul petto di una
sconosciuta.
Passato l’attacco di commozione, Tatiana riprese il filo del discorso.
«Ecco a cosa ci servono le sigarette: togliamo il tabacco e conserviamo la
carta. Poi incolliamo le cartine l’una con l’altra e riusciamo a tirarci fuori
una pagina di carta vera. Guarda, ti faccio vedere».
Sollevata una tavola del pavimento, Tatiana estrasse da un nascondiglio
pieno di patate un frusciante mazzetto di fogli fatti di cartine di sigarette le
cui fini nervature erano ingrossate da suture e giunture, come una specie di
papiro millenario finito in Siberia per chissà quale aberrazione archeologica.
Lo posò con precauzione sulle ginocchia di Olga.
«Ora lo sai. Prima o poi una di noi uscirà, per forza... E porterà fuori i
nostri messaggi».
«Bene».
«Come avrai immaginato, c’è un problema».
«Sì, lo vedo. I fogli sono vuoti».
«Vuoti. Di qua e di là. Perché non abbiamo penna né inchiostro. Mi sono
persino fatta dare uno spillo da Lily per provare a scrivere con il sangue, ma
si cancella subito... In più, ho problemi a cicatrizzare. Mancanza di
piastrine. Denutrizione. Nessuna voglia di andare in infermeria a destare
sospetti».
«Perché mi dici queste cose? Che c’entro io?».
«Immagino che anche tu vorrai scrivere a tua figlia».
Olga lasciò trascorrere un buon minuto prima di rispondere in tono
ruvido:
«Sì».
«Allora ecco la proposta: noi ti diamo la carta e tu ci dai la matita».
«Cosa ti fa pensare che abbia una matita? È la prima cosa che ti levano
quando ti arrestano. E, come tutte, sono stata perquisita un’infinità di volte
prima di arrivare qui».
«I tuoi capelli...».
Tatiana indicò la folta criniera che faceva da aureola alla maschera severa
di Olga. Insisté.
«Vedendoti arrivare mi è subito venuto in mente che...».
Olga la fermò con la mano e, per la prima volta, sorrise.
«Hai visto giusto».
Sotto lo sguardo sbigottito di Tatiana si infilò una mano dietro l’orecchio,
frugò tra i ricci e, con gli occhi che le brillavano, tirò fuori una piccola
matita che porse alla sua compagna di detenzione.
«Affare fatto!».

È difficile dare una misura della gioia che riscaldò l’animo delle detenute
durante i giorni che seguirono. Insieme a quella piccola mina di grafite
venivano loro restituiti cuore, legami con il mondo di prima e possibilità di
mandare un abbraccio ai figli. La prigionia diventava meno pesante. Il senso
di colpa pure. Alcune di loro, infatti, provavano rimorso per aver anteposto
l’azione politica alla vita familiare, e ora che si trovavano relegate in fondo a
un gulag, con i figli affidati alla stessa società che avevano detestato e
combattuto, rimpiangevano di essere state delle militanti, si accusavano di
essere venute meno ai propri doveri rivelandosi delle pessime madri. Non
avrebbero fatto meglio, come tanti sovietici, a tacere e rifugiarsi nei valori
domestici? A salvare la propria pelle e quella dei propri cari anziché lottare
per la pelle di tutti?
Sebbene ogni detenuta avesse a disposizione parecchi fogli, non c’era che
una matita. Dopo molte riunioni, decisero che ognuna avrebbe avuto diritto
a tre pagine, poi il tutto sarebbe stato cucito in un unico quaderno pronto a
uscire non appena se ne fosse presentata l’occasione.
Seconda regola: ognuna era tenuta a redigere le proprie pagine senza
cancellature, in modo da usare la matita il meno possibile.
Le decisioni furono approvate quella sera stessa nell’entusiasmo generale,
ma già dal giorno dopo cominciarono a presentarsi le difficoltà. Di fronte
all’obbligo di concentrare il proprio pensiero in tre pagine, le donne si
lasciavano prendere dallo sgomento: dire tutto in tre pagine... Come fare
per mettere insieme tre fogli essenziali, tre pagine testamentarie che
esprimessero l’essenza del proprio vivere, tre papiri per lasciare la propria
anima e i propri valori in eredità ai figli, per indicare loro, e per sempre,
qual era stato il senso del proprio passaggio sulla terra?
L’esercizio si rivelò una tortura. Ogni sera dalle brande provenivano
singhiozzi. Alcune prigioniere persero il sonno, altre gemevano in sogno.
Ogni volta che le pause del lavoro obbligatorio lo permettevano,
cercavano di scambiarsi le idee.
«Io voglio raccontare a mia figlia perché sono qui e non con lei. Sperando
che mi capisca e, possibilmente, mi perdoni».
«Tre fogli di coscienza sporca per farti la coscienza pulita! Credi davvero
che sia una buona idea?».
«A me va di raccontarle come ho conosciuto suo padre, perché sappia
che è il frutto di una storia d’amore».
«Ah sì? Si chiederà come mai non hai continuato quella storia d’amore
con lei».
«Io ho voglia di raccontare alle mie tre di quando le ho partorite: sono
stati i momenti più belli della mia vita».
«Belli e brevi. Ma forse ci restano un po’ male che i tuoi ricordi si
limitino alla loro nascita, non credi? Parla anche di quello che è successo
dopo».
«Io scriverò tutto ciò che vorrei fare per loro».
«Mmm...».
Chiacchierando, scoprirono un particolare curioso: tutte avevano dato
alla luce figlie femmine. La coincidenza le divertì, e le stupì tanto che si
chiesero se la decisione delle autorità di incarcerare nel Padiglione 13 solo
madri di femmine non fosse stata intenzionale.
La novità non modificò comunque il loro rovello: cosa scrivere?
Ogni sera Olga alzava la matita e la offriva alla camerata:
«Chi vuole cominciare?».
Ogni sera la domanda cadeva nel vuoto. Il tempo scorreva in maniera
tangibile, come gocce di stalattiti dal soffitto di una grotta. Le donne, a testa
bassa, aspettavano che una di loro gridasse “Io” e liberasse per un po’ le
altre dal disagio, ma dopo qualche colpo di tosse e alcune occhiate furtive le
più coraggiose finivano per rispondere che volevano pensarci ancora.
«Io ho quasi le idee chiare... Domani, mi sa...».
«Sì, anch’io sto andando avanti, ma non sono ancora sicura...».
I giorni si susseguivano sferzati dalla tormenta o cristallizzati da brina
immacolata. Dopo aver atteso quella matita per due anni, passarono tre
mesi senza che nessuna la chiedesse o la accettasse.
Così la sorpresa fu grande quando una domenica, dopo che Olga ebbe
sollevato il lapis e pronunciato la frase rituale, Lily si precipitò a rispondere:
«Io, grazie».
Tutte si girarono stupefatte verso la bionda e pingue Lily, la più
sprovveduta tra loro, la più sentimentale, la meno volitiva. Insomma,
diciamolo: la più normale. Se avessero dovuto pronosticare quale
prigioniera avrebbe inaugurato la scrittura dei fogli, di sicuro Lily sarebbe
finita agli ultimi posti. Veniva prima Tatiana, forse Olga, magari Irina... ma
la banale e soave Lily?
Tatiana non poté fare a meno di balbettare:
«Sei... sei sicura... Lily?».
«Sì, credo di sì».
«Non è che ti sbagli, poi correggi... insomma, che sprechi la matita?».
«No, ci ho pensato bene. Dovrei farcela senza cancellature».
Scettica, Olga consegnò la matita a Lily. Mentre gliela dava, scambiò uno
sguardo d’intesa con Tatiana, quasi a confermarsi reciprocamente che
stavano commettendo una sciocchezza.
Nei giorni successivi, le donne del Padiglione 13 seguirono con gli occhi
Lily ogni volta che, seduta per terra, si isolava a scrivere alternando
inspirazione – occhi al soffitto – ed espirazione – spalle curve per
nascondere alle altre i segni che tracciava sulla carta.
Il mercoledì annunciò soddisfatta:
«Ho finito. Chi vuole la matita?».
Un silenzio di piombo accolse la domanda.
«Chi vuole la matita?».
Nessuna osava guardare le altre.
«Bene» concluse tranquillamente Lily. «La rimetto nella testa di Olga e
aspettiamo domani».
Olga si limitò a emettere un breve grugnito quando Lily le nascose
l’oggetto in mezzo al cespuglio di capelli.
Una persona diversa da Lily, meno buona, più smaliziata sulle
complessità dell’animo umano, avrebbe notato che le donne del padiglione
la guardavano ormai con gelosia, persino con un pizzico di odio. Come era
possibile che proprio Lily, praticamente un’idiota, fosse riuscita dove le
altre non ce la facevano?
Trascorse una settimana in cui ogni sera, a ogni donna, venne fornita
l’occasione di rivivere la propria sconfitta.
Finalmente, il mercoledì successivo a mezzanotte, mentre un concerto di
respiri indicava che la maggior parte delle donne dormiva, Tatiana, stanca
di girarsi e rigirarsi sul pagliericcio, si trascinò quatta quatta fino al letto di
Lily.
Lei sorrideva, lo sguardo fisso al soffitto buio.
«Lily, ti supplico, mi dici cosa hai scritto?».
«Certo. Lo vuoi leggere?».
«Sì».
Ma come? Il coprifuoco era passato da un pezzo.
Tatiana si rannicchiò presso la finestra. Al di là delle ragnatele si stendeva
un manto di neve pura reso azzurro dalla luna piena; storcendo il collo, la
donna riuscì a decifrare i tre fogli.
Lily si avvicinò e, con il tono della bambina che ha appena commesso una
sciocchezza, domandò:
«Allora, che ne pensi?».
«Lily, sei grande!».
E Tatiana la prese tra le braccia e la baciò più volte sulle guance paffute.
Il giorno dopo, Tatiana chiese a Lily due favori: il permesso di seguire il
suo esempio e il permesso di parlarne alle altre.
Lily abbassò le palpebre, arrossì come se le avessero offerto dei fiori e
cinguettò una frase fatta di gorgoglii e pigolii che significava sì.

Epilogo

Mosca, dicembre 2005.


Dagli avvenimenti sopra narrati sono trascorsi cinquant’anni.
La persona che scrive queste righe è in visita in Russia. Il regime sovietico
è caduto, i campi di concentramento non ci sono più, il che non vuol dire
che sia scomparsa l’ingiustizia.
Nei saloni dell’ambasciata francese incontro gli attori che da anni
portano in scena i miei lavori teatrali.
Una di loro, una donna di una sessantina d’anni, mi prende il braccio con
una sorta di affettuosa familiarità, un misto di sfrontatezza e di rispetto. Ha
un sorriso che trasuda bontà. Impossibile resistere a quelle pupille color
malva... La seguo fino alla finestra del palazzo da cui si gode il panorama
delle luci di Mosca.
«Vuole che le faccia vedere il più bel libro del mondo?».
«Veramente speravo di scriverlo io, ma a quanto sento è troppo tardi. Lei
mi annienta. Ma ne è sicura? È proprio il più bel libro del mondo?».
«Sì. Per quanti libri belli si possano scrivere, questo è il più bello».
Ci accomodiamo sui divani troppo grandi e troppo usati che arredano le
pareti di tutte le ambasciate del mondo.
La donna mi racconta la storia di sua madre, una certa Lily, che ha
trascorso vari anni nel gulag, poi la storia delle donne che con lei hanno
condiviso la prigionia e infine la storia del libro così come ve l’ho appena
raccontata.
«Il quaderno ce l’ho io, perché mia madre è stata la prima a uscire dal
Padiglione 13. Riuscì a portarlo fuori cucito nella sottogonna. Ora mamma
è morta e le altre pure, ma di quando in quando le figlie delle sue compagne
lo vengono a sfogliare da me: prendiamo il tè, parliamo delle nostre mamme
e rileggiamo il libro. Hanno affidato a me il compito di conservarlo.
Quando io non ci sarò più, non so che fine farà. Chissà se lo vorrà qualche
museo. Ne dubito. Eppure è il più bel libro del mondo. Il libro delle nostre
madri».
Avvicina il suo volto al mio come se volesse baciarmi, invece mi strizza
l’occhio.
«Lo vuole vedere?».
Prendiamo appuntamento.
L’indomani salgo il gigantesco scalone che conduce all’appartamento
dove la signora vive con la sorella e due cugine.
In mezzo al tavolo, tra tè e biscottini, mi aspetta il libro, un quaderno di
fogli fragilissimi che i decenni hanno reso ancora più friabili.
Le signore mi piazzano su una poltrona dai braccioli logori e comincio a
leggere il più bel libro del mondo, scritto da donne che combattevano per la
libertà, da ribelli che Stalin considerava pericolose, dalle indomite madri del
Padiglione 13 che avevano dedicato tre fogli ciascuna alle loro figlie
temendo di non rivederle mai più.
Su ogni pagina era scritta una ricetta di cucina.
Postfazione

Questo libro rientra nel campo della scrittura proibita.


Un anno fa mi venne offerta la possibilità di realizzare un film. Dovendo
lavorare sodo per prepararmi, per imparare a padroneggiare il linguaggio
dell’immagine, dell’inquadratura, del suono, della sceneggiatura, non mi fu
possibile scrivere. Inoltre, il giorno prima dell’inizio delle riprese mi
presentarono un contratto in cui mi impegnavo a non sciare e non fare
sport violenti, e mentre lo firmavo mi fecero anche capire che sarebbe stato
opportuno che non scrivessi: attività per la quale, del resto, difficilmente
avrei avuto il tempo.
La provocazione era troppo grande.
Così, durante le riprese e il montaggio, approfittai delle rare ore libere
per isolarmi dal resto della troupe e scrivere sul bordo dei tavoli, la mattina
a colazione o la sera nelle camere d’albergo, alcune novelle che avevo in
testa da un pezzo. Assaporai di nuovo il piacere della scrittura clandestina,
quella dell’adolescenza: mentre riempivo le pagine ritrovavo il gusto dei
piaceri sospetti.
Di solito sono i film a essere tratti dai racconti. Qui è stato il contrario.
Non solo il film mi ha portato a comporre delle novelle, ma una volta finito,
tanto per fare ancora una volta le cose all’inverso, ho deciso di trasformare
il soggetto originale del film in un racconto.
Il film si chiama Odette Toulemonde, il racconto pure. Confrontando le
due forme, tuttavia, ai cultori di cinema e di letteratura non sfuggiranno
alcune differenze, quelle scaturite dal tentativo di raccontare la stessa storia
con due linguaggi e utilizzando mezzi diversi: nel libro le parole, nel film le
immagini in movimento.

15 agosto 2006
Nota sull’Autore

Eric-Emmanuel Schmitt è nato a St. Foy Les Lyon nel 1960. Ha studiato
musica al conservatorio di Lione e successivamente si è laureato all’École
Normale Supérieure di rue d’Ulm a Parigi. Ha insegnato filosofia
all’università di Chambéry. Come autore teatrale ha scritto diverse opere che
sono state rappresentate in tutto il mondo. I suoi romanzi sono tradotti in
molte lingue. Le Edizioni E/O hanno pubblicato, oltre a Odette
Toulemonde, da cui è stato tratto il film Lezioni di felicità, Monsieur
Ibrahim e i fiori del Corano, Piccoli crimini coniugali, Milarepa, La parte
dell’altro, La mia storia con Mozart, Quando ero un’opera d’arte, La rivale,
La sognatrice di Ostenda, Il visitatore, La rivale, Un racconto su Maria
Callas, Ulisse da Baghdad, Il lottatore di sumo che non diventava
grosso, Concerto in memoria di un angelo e La scuola degli egoisti.
Quarta di copertina dell’edizione cartacea

Otto incantevoli favole contemporanee nello stile dell’autore di Monsieur


Ibrahim e i fiori del Corano: lievi, profonde, divertenti, malinconiche. Il
tema è la felicità: un paradossale miraggio a portata di mano che spesso non
vogliamo o non possiamo raggiungere. Eppure è lì, presente anche in una
giornata di pioggia, come nel racconto in cui Hélène, perfezionista sempre
insoddisfatta, incontra Antoine, che vede ovunque bellezza ed equilibrio.
Le ci vorranno molti anni per capire che aveva ragione lui: il tempo di un
amore prima distratto, poi stupito, dopo ancora tragico e infine convinto e
benefico.
Otto racconti, otto donne, otto storie d’amore. Dalla commessa alla
spietata miliardaria, dalla trentenne delusa a una misteriosa principessa
scalza, passando per mariti ambigui e amanti vigliacchi, è una galleria di
personaggi indimenticabili che Eric-Emmanuel Schmitt racconta con
tenerezza nella loro ricerca della felicità.
Odette Toulemonde, oltre a essere uno dei racconti di questa raccolta, è
anche un film realizzato dallo stesso Schmitt.

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