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ALLO SPECCHIO

di Liliana Paganini

La signora Livia il martedì e il sabato andava dal parrucchiere.


Il marito e i figli la prendevano in giro e dicevano: “Continuando così, a furia di
shampoo, tinture e phon ti ritroverai pelata come un uovo!“. Livia si limitava a
sorridere e a non prendere in considerazione una eventualità così catastrofica.
Non si seccava neanche quando il marito, nelle giornate storte, la rimproverava
di spendere troppo; lei, tranquillamente, rispondeva: ”Non mi pare di gettare
dalla finestra chissà quali cifre! E poi, una donna della mia età , se non si cura, è
da buttar via”. Di fronte a questo enunciato nessuno aveva più niente da dire e il
pranzo riprendeva, come sempre, in silenzio.
In fondo chi poteva rimproverarle qualcosa (cosa potevano rimproverarle)?
Livia era una buona madre, una brava moglie e, soprattutto un’accortissima
economa. Per sé spendeva pochissimo, faceva anche diversi chilometri a piedi
per trovare negozi in cui le cose costassero poco e fossero di buona qualità .
Per il mangiare poi, inventava pietanze buonissime con niente. Era una
campionessa delle offerte speciali. Non decideva mai in anticipo cosa preparare,
si affidava agli sconti che trovava di volta in volta nei supermercati.
L’unica sua stravaganza consisteva in questa sua mania per i capelli. In fondo lo
si poteva considerare una specie di hobby. E chi non ne aveva?
Alfredo, il marito, aveva sempre i suoi bei posti allo stadio e non perdeva mai
una partita del campionato. Per non contare poi tutti i soldi che spendeva al
circolo o per il poker con gli amici.
Marco e Andrea, i figli, cambiavano sport ogni sei mesi, prima c’era lo sci, poi il
surf, poi il motocross e infine le ragazze, che per quanto non si potessero
annoverare tra gli hobby, pure, essendo i ragazzi molto incostanti e anche
attraenti, si ritrovavano ogni settimana con nuove conquiste da invitare al
cinema, in pizzeria, agli aperitivi…beh alla loro età era naturale, ma di soldi non
ne risparmiavano certo!
Che c’era di male se Livia aveva cura dei suoi capelli? Era l’unico ricordo della
gioventù . Infatti il taglio, il colore, per quanto artificiale, non differivano affatto
dall’immagine di lei nelle vecchie foto. In quanto al resto, invece, sarebbe stato
difficile riconoscere in quel corpo, appesantito da due gravidanze e da tanta
noia, la silhouette di un tempo. Neanche allora la si poteva considerare una
bellezza, però aveva un certo “non so che” nello sguardo che la rendeva
attraente, e poi non le mancavano stile ed educazione. Ma quel “non so che” dove
era andato a finire dopo 25 anni di un matrimonio sbagliato? Quasi sempre sola,
in casa passava delle ore davanti allo specchio, cercando di ritrovarlo. La luce
della giovinezza però sembrava essersi spenta come la vecchia insegna di un
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negozio fallito. Soprattutto in quei momenti avrebbe desiderato qualcuno vicino
che la consolasse della gioventù perduta.
Faceva il giro delle stanze e i suoi passi riecheggiavano senza risposta nella casa
medio borghese, di un quartiere semicentrale, in una città qualunque.
Allora, prima che montasse la marea dell’angoscia, Livia si era già cambiata
d’abito e, scesa in strada, correva verso il suo parrucchiere.
Il negozio di Mimmo aveva forse come unico pregio quello di trovarsi
vicinissimo, girando l’angolo da casa sua, in sostanza nello stesso isolato.
Per il resto non differiva particolarmente dagli altri negozi di parrucchiere dei
dintorni, tuttavia lei non lo avrebbe mai cambiato con un altro. Merito in parte
degli specchi che rivestivano tutte le pareti, ma soprattutto del tocco delicato
delle mani di Mimmo sui suoi capelli.
Ecco il vero motivo per cui, due volte alla settimana, entrava in quel negozio.
Non era per sentirsi a posto o per farsi bella, ma solo perché qualcuno
l’accarezzasse.
E chi sapeva farlo meglio, in tutto il quartiere, era proprio Mimmo. D'altronde,
prima di conferirgli un premio fedeltà così singolare, Livia aveva frequentato
tutti gli altri parrucchieri della zona, ma nessuno si era dimostrato all’altezza di
Mimmo. I motivi erano tanti: alcuni, anche molto bravi, erano troppo affollati e
non si soffermavano, durante lo shampoo, in quelle gustose grattatine che
sembravano riattivare anche i pensieri, altri permettevano ai lavoranti di usare
guanti di gomma che si frapponevano, come sipari anti incendio, al sospirato
contatto umano, altri ancora come in un rituale privo di spiritualità , ti
maneggiavano meccanicamente, pensando ai fatti loro o, peggio, continuavano
discorsi con vecchie clienti, cosicché il tradimento era manifesto.
Nella sua smania di trovare il parrucchiere giusto, anni prima, quando si era
appena trasferita nel quartiere con tutta la famiglia, aveva chiesto in giro quale
fosse il migliore della zona. Molte vecchiette ammiccando le avevano caldamente
raccomandato Oreste, che si trovava a pochi isolati da casa sua. Considerando
l’entusiasmo che suscitava, decise di andare a provarlo. Si aspettava un salone,
se non lussuoso, almeno gradevole, invece si ritrovò in un locale modesto e, nello
stesso tempo, volgarmente pomposo.
L’accolse una svogliata shampista che la fece accomodare su una poltroncina
rossa di similpelle, oggi direbbero ecologica, di legno dorato in stile rococò . A
fianco, un tavolino anni sessanta, chiaramente rimediato o smesso da qualche
casa, sorreggeva riviste scandalistiche. Livia lo guardò come si guarda un
sacchetto di spazzatura da scendere ai cassonetti. Girando lo sguardo, si accorse,
che oltre lei, c’erano due signore, una al lavaggio e all’altra, Oreste, stava
terminando una messa in piega che Livia considerò non eccezionale, nonostante
il sorriso beato sulle labbra della settantenne, che poco dopo pagando, ringraziò
per il lavoro e lasciò anche una mancia.
Quando, dopo una mezzora, arrivò il suo turno al lavaggio, non avvertì una
premura particolare da parte della shampista: le grattatine erano superficiali e
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distratte e soprattutto, alla sua richiesta di una maschera ristrutturante, nessun
massaggio le risollevò il morale, coccolandola. Allorché finalmente fu ceduta alle
cure di Oreste, si dispose a prestare molta attenzione, per evitare una messa in
piega sciatta, come quella che aveva notato sulla signora che era appena uscita.
Osservò con occhio critico questo coiffeur così osannato dalle vecchiette del
quartiere. Era un uomo di taglia media, ben formato, non bello, tuttavia neanche
sgradevole. Oreste, dopo averla studiata nello specchio, le chiese che preferenze
avesse per la piega: riccia o liscia e se gradiva spazzola o phon. Fin qui si disse
Livia siamo nella norma e si rilassò sulla poltroncina in similpelle. Oreste,
accostò e strusciò fra loro le mani, poi si mise al lavoro. Man mano che
procedeva, le poneva domande di carattere privato: se era sposata, se aveva figli,
se abitava nel quartiere... e a poco a poco che socializzavano si accostava sempre
più , allorquando arrivò a Livia, sulle sue spalle, l’impatto inequivocabile con
quello che sembrava un membro grosso ed eretto. Inutile dire che ne provò un
profondo disgusto che le provocò un sobbalzo e un rossore improvviso, ma forse
questa reazione non venne ben interpretata dall’intraprendente parrucchiere
che anzi, pensando che il rossore fosse stato l’evidente segno di un gradimento,
si lanciò in un balletto ritmico che mimava l’atto sessuale sulle sue spalle e sui
suoi avambracci. Livia, paonazza, con i capelli per metà ancora bagnati, raccolse
la borsetta e, dicendo: “Ma come si permette?” imboccò la porta e si dette alla
fuga. “Ecco perché le vecchiette erano così entusiaste!” Pensava, mentre con
passo da bersagliere stava tornando a casa,
“Ma poi sarà stato veramente il suo pene o un falso attributo? Come poteva
restare in quello stato per otto ore al giorno? “, si domandava.
Due giorni dopo la signora del IV piano, la vedova settantenne di un generale,
incontrandola in ascensore, le chiese con uno sguardo complice: “A proposito,
signora, è poi andata da Oreste?” Livia, per un attimo immaginò l’anziana donna
con tutto quel balletto erotico sulle spalle, e le venne da ridere. Riuscì a frenarsi
e disse: “No, sa? Volevo andarci l’altro giorno, ma ero in un’altra zona e sono
entrata nella prima parruccheria che mi è capitata”.
Da Mimmo, invece, tutto si svolgeva come in un rito: Samantha, la figlia più
piccola, apriva la porta e faceva accomodare le clienti, la maggior parte delle
quali aveva preso un preciso appuntamento, su una delle poltroncine davanti
allo specchio da cui non si sarebbe più mossa per tutto il trattamento; anche il
lavaggio avveniva lì, il lavandino munito di ruote si spostava in tutte le
postazioni.
Poi, nello specchio, arrivava lui, Mimmo. Parlava quanto bastava, sorridendo né
troppo né poco, d’altronde conosceva i desideri di quasi tutte le sue clienti e gli
bastava un’occhiata per decidere se ci fosse bisogno di un taglio, di una
sfumatura diversa di colore o se si trattasse solo di dare una pettinatina.
Dava istruzioni per lo shampoo e spariva per ritornare, sempre nello specchio,
quando meno te lo aspettavi, a controllare che tutto si svolgesse secondo le sue
prescrizioni.
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Livia era felice di affidarsi a lui e si lasciava manipolare con lo stesso piacere che
provano i neonati nell’essere cambiati e sballottolati di qua e di là . Non
incoraggiava le chiacchiere presa com’era dall’assaporare ogni sensazione le
venisse donata. Lo guardava attraverso lo specchio e le sembrava che potesse
essere una specie di spirito. Si stupiva delle volte, tornata a casa, che non
apparisse mai riflesso sullo specchio del comò della camera da letto o della
toletta ereditata da sua madre.
Pensandoci bene si poteva dire che lei e Mimmo non si erano mai visti di
persona, ma sempre attraverso questo schermo che rimanda le immagini
ribaltate, anche perché, poi, quando tutto era concluso e ci si alzava
faticosamente da quel letargo per riappropriarsi delle proprie decisioni e
responsabilità , avvicinandosi lentamente alla cassa per pagare, lui era già sparito
ad occupare le sensazioni di qualche altra cliente e ci si ritrovava di fronte alla
figlia maggiore Deborah, che come per incanto, sapeva sempre perfettamente
quale tipo di trattamento era stato effettuato e quanto bisognasse pagare.
E se a quel punto, Livia si girava cercandolo con lo sguardo, lo vedeva riflesso
su tutte le pareti, ma non avrebbe potuto giurare, quale, tra tutte le immagini che
le giravano intorno riflesse, fosse quella reale.
Mimmo rappresentava un casto tradimento a un marito del quale era stata
innamorata sì e no per sei mesi. Che poteva farci? Non era colpa sua. E non era
colpa neanche del marito se lui l’aveva amata ancora meno. Doveva forse
confessarsi colpevole per queste piccole emozioni? Oltretutto non si sentiva
assolutamente attratta da Mimmo, né provava per lui alcun sentimento.
L’attrazione, semmai, era per le sue mani, che con tocco esperto prendevano
possesso della sua testa, carezzandola, e insinuandosi con delicatezza anche
nelle sue orecchie. Non poteva nascondersi che in certi pomeriggi, quelle mani le
avevano fatto provare qualche brivido di sensualità , riflesso anche quello.
Doveva trattarsi piuttosto di un qualche ricordo rimasto assopito nel suo corpo
di ragazza quasi cinquantenne, che destandosi, per non si sa quale motivo, la
riportava su una spiaggia, di notte, in una estate leggendaria. Un ricordo che era
durato un attimo come se sbadigliando, si fosse girato dall’altra parte e avesse
ripreso a dormire. Un ricordo, a pensarci bene, che non ricordava proprio più .
Forse non le apparteneva neanche, perché non evocava nessuna immagine
precisa. Nessun volto si faceva strada nella sua mente, nessuna località di mare
che lei potesse riconoscere. Solo una sensazione di freschezza e di libertà nei
piedi nudi che toccavano una sabbia sconosciuta, l’emozione di avere qualcuno
accanto a lei che l’avvolgeva come il vento di una calda, antica estate. Ma tutto
ciò , non c’era mai stato fra i suoi ricordi! Doveva essere una memoria presa in
prestito da qualche sua amica o compagna di scuola, certamente dotata di più
fantasia. Ma Livia non si preoccupava di questo, contava solo che in quel
momento, con il tocco delle mani di Mimmo, il ricordo invadesse la sua mente e
quei brividi leggeri e sensuali il suo corpo, e lei nello specchio rivedesse
finalmente quel certo “non so che” nei suoi occhi.
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