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L'autore
Cristiano Governa
CRISTIANO GOVERNA (1970) vive e lavora a Bologna. è giornalista, scrittore e autore per cinema e
teatro. Collabora o ha collaborato con diversi quotidiani, fra i quali “La Repubblica”, “Il Domani di
Bologna”, il “Corriere della Sera”, “l’Osservatore Romano” e periodici, “Il Venerdì”, “D” di
Repubblica, “D Lui” e “GQ”. Ha pubblicato il romanzo noir Il catechista (Aliberti) e le raccolte di
racconti Le lettere cattive (Pendragon) e Baranowski (Croce Editore).
www.giunti.it
www.bompiani.it
ISBN 978-88-587-8322-1
“Ciao, grazie per aver chiamato, e benvenuto in diretta su Radio Alaska. Chi sei?”
“Ciao, sono Carlo.”
“Ciao, Carlo, che fai stasera?”
“Niente, sono stanco morto. Ho traslocato.”
“Che bello, Carlo, mi fa piacere. Un bel posto?”
“Via Mirasole n. 23.”
“Ehi, niente vie, Carlo. Non serve dare l’indirizzo, non si mai quali birichini possono essere in
ascolto.”
“Questo vale anche per i birichini.”
“Cioè? Spiegati.”
“Anche loro non sanno chi sono io.”
“Questo è vero, Carlo.”
“Per il resto come va?”
“Non saprei.”
“Carlo, perdonami, ma non sei di molte parole, e poi devo dirti che hai la voce un po’ strana. Qualcosa
non va?”
“In effetti sì.”
“A cosa pensi?”
“A un assassino.”
“Caspita, Carlo, non posso e non voglio entrare nei particolari… ma dev’essere una notte curiosa la
tua.”
“Nemmeno tanto.”
“Be’, se pensi a un assassino…”
“Sono noiosi.”
“Chi?”
“Gli assassini.”
“Ah, se lo dici tu…”
“Lo dico io.”
“Senti, sei solo o con la tua ragazza?”
“Con Silvana.”
“Ah, bene, un saluto allora anche a Silvana. Magari volete che metta un brano tutto per voi?”
“Lei non può sentirti.”
“Ma scusami allora, Carlo, davvero non capisco perché mi hai chiamata, qua in diretta a Radio Alaska
a pochi minuti da mezzanotte?
“Non lo so neanch’io. Qua è tutto strano, c’è luce anche di notte. È una mansarda…”
“Una mansardina sotto i portici di via Mirasole… in un posto così dovreste essere al sicuro, nessuno
vi cercherà…”
“Questo non si può mai dire… Comunque siamo arrivati a metà pomeriggio, abbiamo finito di portare
su gli scatoloni, siamo scesi qua sotto in un’osteria a mangiare qualcosa e poi siamo tornati in casa. Ci
siamo seduti in terra nella stanza ancora mezza vuota e abbiamo acceso la radio. Lei dorme. Io non ci
riesco.”
“Quindi non volevi dirmi qualcosa di particolare?”
“Penso di no…” (seguono alcuni secondi di silenzio) “è che sono felice, e ho tanta paura… Vorrei che
tu fossi qui.”
Una volta, avrò avuto sedici anni, ho telefonato, era un numero negli A.A.A. del Carlino, le nostre
letture preferite da ragazzi.
Avevo letto un annuncio che recitava Nano e me ne vanto. Con un amico del liceo, stronzo come me, lo
chiamammo. Avevamo un piano, ma saltò tutto appena sentimmo l’accento sardo. Piangevamo dal ridere,
in una cabina del telefono, solo perché non avevamo uno straccio di sensibilità verso l’estro della vita.
Poi, quasi vent’anni dopo, ci ho provato sul serio. Ho telefonato a una ragazza che aveva messo un
annuncio. Mi ha risposto una voce di donna italiana e capendo il mio imbarazzo ha iniziato a essere
posticciamente seduttiva. Mi chiamava “tesoro”, nessuna delle mie fidanzate lo ha mai fatto. Andava tutto
per il meglio, ma poi… Quella voce. Non l’ho mai dimenticata.
Fu a causa di quella voce che restai prima ammutolito e poi riappesi il telefono.
Mentre la tizia mi diceva che aveva voglia di vedermi, che mi avrebbe fatto stare bene, ho sentito in
sottofondo la voce di un bambino, per quello che potei sentire direi che aveva cinque o sei anni. Faceva i
compiti. Ripeteva a memoria, o magari rileggeva ad alta voce, una poesia. La riconobbi subito perché
anch’io, trent’anni prima, la dovetti ricopiare sul quaderno: era La trombettina di Govoni.
Mia sorella Paola dice che sarei dovuto restare al telefono, che le poesie sono stronzate da
inchiavabili e che comunque una telefonata è sempre più importante.
“Cazzo te ne frega se quello ricopia una poesia?” diceva Paola. “Questa tua supponenza del dispensare
compassione, nel percepire chiunque più a mal partito di te, fa abbastanza cagare. Eri un ciccione che
voleva scopare e dall’altra parte c’era un bambino immerso nei quaderni e nelle matite colorate. Chi dei
due faceva più pena?”
Mia sorella è una suora di clausura, una clarissa.
Non mi stupisce che l’ordine monastico, di quando in quando, le appoggi un calcio in culo e, in attesa
che se la riprendano, me la ritrovi in giro per casa.
Qualche volta, di sera, balliamo.
DOV’È MARTINA?
Il sergente Fantini è un topo d’ufficio, uno di quelli che non escono mai dalla questura e dagli archivi:
è questa la gente che ci salva il culo.
Fantini è uno bravo anche se non lo sa. Non ho mai capito se lo sia perché non lo sa o viceversa, ma
forse non è così importante.
Lui è un vecchio artigiano di un’arte ormai scomparsa: la telefonata. Le mail e chat dei cellulari hanno
rattrappito la capacità di far domande a una voce e non a uno schermo. Le voci e gli schermi rispondono
diversamente, andrà detto.
Fantini odia uscire, non saprei dire se si tratti di una sorta di idiosincrasia verso la gente o semplice
pigrizia, ma pur di non recarsi a casa di qualcuno a far domande venderebbe l’anima al diavolo. Il suo
vantaggio è che un tipo come il Diavolo non ha gli strumenti per capire Fantini.
Nessuno ricorda di averlo mai visto scendere a prendersi un caffè o magari anche solo per farsi due
passi. In qualche misteriosa maniera ha convinto il mondo e le sue “informazioni” a salire da lui, al
secondo piano. A qualunque ora.
“Capisco,” dice durante la telefonata e all’improvviso tace. Per alcuni secondi. E lì, ci cascano e
forniscono informazioni. La gente non regge il silenzio, e Fantini lo sa benissimo.
La mattina arriviamo e lui è lì, la sera ce ne andiamo e lui è lì. E così, quando c’è un’indagine, lui è il
mio telefono, la mia voce che parla con quelle che non conosco.
Lo tratto male, spesso con sufficienza.
Un po’ perché non sono mai stato capace di dire alle persone preziose che lo sono, un altro po’ perché
la regola di un commissario televisivo trendy è la maleducazione, è così che le praticanti legali perdono
la testa.
Della sua vita privata non so praticamente nulla. E nulla gli ho mai chiesto. Il nostro non è un mestiere
dove ti venga voglia di sapere le cose di quelli su cui non devi indagare. Ci piace tenerci qualche segreto
a portata di mano, avere il lusso di saperne poco di qualcuno.
L’unica cosa che so è che legge un libro. O meglio, si accompagna con esso: Hagakure, il codice del
samurai. È da anni ormai che vedo, sulla sua scrivania, quel testo. Di quando in quando lo apre, ne scorre
qualche pagina, alza gli occhi come per riflettere e lo ripone. Sono anni che dura questa manfrina.
Una volta, approfittando di una delle rarissime assenze per malattia di Fantini, sono andato alla sua
scrivania e ho fatto un gioco. Si trattava di una specie di strana cerimonia che avevo visto fare a due
tedesche in spiaggia quando ero ragazzo: lasciar cadere un libro in terra e leggere la pagina su cui resta
aperto, provando a trarne una qualsiasi indicazione circa la propria esistenza.
Mi bastò quello che lessi per non aprirlo mai più:
Quando ero giovane, tenevo un diario in cui annotavo quotidianamente i miei errori. Non c’era singolo giorno in cui non fossi costretto ad
aprirlo venti o trenta volte.
UNA COSA SU SILVANA
Arrivati in ufficio faccio accomodare i genitori di Martina, la presunta ragazza sparita. Stanno seduti
come due che guardano la TV, fissano me e il sergente come se fossimo la puntata di qualcosa.
Una delle grandi catastrofi delle serie televisive sul crimine e sui commissari è questa sorta di
addestramento lessicale e comportamentale che si deposita nel cervello di chi poi avrà sul serio a che
fare con noi. Sotto questo aspetto ha fatto più danni un generale dei RIS che un qualunque assassino
seriale.
Le persone fanno più paura delle storie che guardano in TV per spaventarsi. “Tanto adesso c’è
l’incidente probatorio,” senti dire al bar, la mattina, mentre capisco che la trasformazione dei bar in
“bistrò” mi costringerà a prendere il caffè in casa.
Si aspettano di avere a che fare con un profiler di serial killer, oppure con medici legali che passano la
vita a smangiucchiare tramezzini fra i cadaveri putrefatti. Il tutto, s’intende, avendo sempre la battuta
giusta. O che ne so, una giovane asiatica in tacchi a spillo che da un frammento di pelle dell’assassino
risale a quando il killer andava in vacanza coi nonni a Igea Marina. E a quella “maledetta sera” in cui
vomitò le canocchie.
Confidano nell’assurdo, li rincuora che sia una caricatura a occuparsi delle loro disgrazie. Hanno in
testa Criminal Minds, NCIS e Law & Order, mica il fatto che per mesi non siamo riusciti a prendere Igor,
uno che scappava per Budrio.
Io di Budrio ho un gran ricordo.
Ci ho tenuto per mano l’amore della mia vita. Silvana.
Tutte le volte che la TV faceva il punto sulle indagini di questo assassino in fuga, più che a quando lo
avrebbero preso pensavo che Igor sarebbe stato un nome perfetto per stare di fianco a quello di lei. Igor e
Silvana avrebbero potuto aprire ogni tipo di negozio insieme. Un parrucchiere per signora, una merceria,
un negozio d’abbigliamento per serate scapricciate nella bassa bolognese, ma soprattutto una cartoleria.
Che poi è il mio sogno. Aprirne una con Silvana. Passare le mattine d’inverno a odorare le gomme e i
quaderni, a rispettare i pennarelli.
Io avrei anche il nome, per la nostra cartoleria, una volta ho preso il telefono e gliel’ho detto: Ad un
tratto. Non disse nulla.
Tre mesi fa Silvana ha perso un occhio in un incidente, l’ho saputo da suo fratello che fa il postino in
centro a Bologna. “È caduta con la bici,” mi ha detto Valerio prima di raccontarmi la faccenda
dell’occhio, “anche se ti ha lasciato, un occhio è sempre un occhio…” spiegava. Credevo volesse dire
“Chiamala”, tanto più che, poco tempo prima, lei mi aveva piantato in maniera francamente piuttosto
curiosa.
Lo feci, lei fu sbrigativa, sembrava quasi assente.
Ci dicemmo cose alla rinfusa senza dirci, realmente, alcunché.
Ma forse non è questo il momento per parlarne.
Fatto sta che Silvana non risponde più alle mie chiamate.
Non posso nemmeno andare a farle un saluto e dirle quelle cose che non servono.
Che è sempre la più bella, per esempio. Perché nel caso non lo sia più lei lo sa perfettamente. Ma sono
curioso di vedere la faccia di Silvana senza un occhio, se per caso è quello destro che le baciavo mentre
lei ancora dormiva, prima di alzarmi e uscire. Nel caso sia davvero quello, be’, allora c’è un punto di lei
nuovo di zecca, tutto da baciare.
Per “festeggiare” la perdita dell’occhio le ho fatto fare una maglietta, un regalo di quelli simpatici,
così simpatici che se due non si amano non possono trovarlo simpatico. Less is more. Così le ho fatto
scrivere sulla maglietta.
Appena ho risolto questo caso gliela porto. È deciso.
Ci sono rimasti tre occhi in due, sono più che sufficienti.
LA SPARIZIONE
Detto questo, ho conosciuto decine di genitori il cui figlio o figlia “non è come gli altri”, e questa è
un’indicazione molto utile perché ci fornisce un primo dettaglio essenziale: che la loro figlia è
esattamente come le altre.
Più in generale devo dire che i genitori moderni non mi sento di biasimarli, non più dei miei genitori
intendo, che erano due persone perbene e in subordine, dettaglio non del tutto irrilevante, si amavano.
Una volta non c’era scampo all’amore. Quanto tempo è che non scoppia una guerra, una di quelle vere,
quelle che arrivano gli attacchi aerei di notte e tu fai venire mattina seduto sul pianerottolo con gli altri
condomini? Avete mai visto morire un amore nato sotto la guerra? Scommetto di no.
Comunque, tornando a noi, credo che capire i figli non sia obbligatorio. E dopo che li hai capiti?
Capire non risolve la vita.
Non voglio dare alibi a ’sti due che ho davanti, ma la storia dei ragazzi che vanno capiti mi ha un po’
rotto i coglioni. Un ragazzo è un ragazzo, e già per questo non ha bisogno d’altro che noi ci si tolga di
mezzo. Noi siamo nei guai, non lui.
C’è un punto della vita, il più drammatico, nel quale gli altri si aspettano che tu sia felice, perché hai
una bella famiglia, un bel lavoro ecc. Non sentono ragioni.
Occhio a sentirti triste, la gente s’incazza se non sei felice, ti pesta a colpi di complimenti. I lividi
dell’affetto. In realtà basterebbe trovare per una sera il server impallato e non poter andare nella
categoria latinas and fried potatoes di YouPorn, per rendersi conto della situazione. Semidisperata.
Guardo il padre di Martina e provo a mettermi nei suoi panni.
Hai sposato una sorta di capoufficio, sei al culmine della distanza dalla tua infanzia, hai perduto i tuoi
genitori, nemmeno una briciola dell’odore che si sprigionava dagli armadi dei tuoi nonni è rimasta
nell’aria. Solo gli orologi e le sveglie delle loro case, misteriosamente, funzionano ancora. Sei solo come
un cane e devi pure capire tua figlia.
Ma capiscimi tu, stronza.
Ecco perché quando sparisce una ragazzina di quindici anni io tendo a non fare drammi lì per lì.
Qualche volta, sparire ed essere al sicuro sono sinonimi.
“E questi Riguzzi,” riprendo, “non hanno nulla di utile da riferirci? Sono gli ultimi che l’hanno vista se
ho capito bene?”
“No, l’ultima è la loro figlia, l’amica di Martina.”
“L’abbiamo chiamata questa sera verso le otto. Ci ha detto che ieri notte hanno dormito insieme, si
sono svegliate e dopo colazione sono andate a scuola. Hanno preso l’autobus in via Castiglione, davanti
alla farmacia, poi, arrivata davanti alla sua scuola, Martina è scesa mentre la Sandra è rimasta
sull’autobus.”
“E perché?”
“Perché lei non va alla stessa scuola di Martina, anche Sandra è al liceo ma va alla scuola pubblica, le
Bastiani. Due fermate dopo.”
“Okay, quindi vostra figlia stamattina è scesa dall’autobus da sola e nei cento metri tra la fermata e la
scuola è sparita? Ho capito bene?”
“Perfettamente, commissario,” dice la madre mostrandomi il pollice come faceva Fonzie.
“Tutto qua?”
“Tutto qua,” dice il padre, “e apre le braccia.”
In questi momenti io so fare una cosa importante. Finta di nulla. Far finta di nulla è una delle acrobazie
fondamentali del mestiere che mi sono scelto.
Serve a non fare preoccupare chi hai davanti e far in modo che non capiscano quello che stai pensando.
E quello che stai pensando è una vecchia regola del male: chi sparisce andando a scuola non torna più.
“D’accordo,” riprendo, “allora vi faccio accomodare col sergente nell’altra stanza per i dettagli del
verbale e vi chiedo anche se avete con voi una foto della ragazzina.”
“L’avevo già preparata,” dice la madre quasi contenta, e fanno per andarsene dal mio ufficio.
“Ah, una cosa,” fermo la donna mentre il marito è già sulla porta, e abbasso il tono di voce, “quella
cosa del pollice, sa il pollice su per dirmi ‘tutto okay’?”
“Sì?”
“Non lo faccia mai più.”
CARLO DORME
Dopo una notte di riposo niente è più chiaro di quando sei andato a letto, le notti non portano consiglio
ma solo rimorsi. Se hai dormito hai solamente dormito.
Appena sveglio faccio un po’ di prove di ottimismo, quando andavo dallo psicanalista mi disse che era
come iniziare la giornata con un bel bicchiere d’acqua calda.
L’ottimismo ormai lo assumiamo per endoscopia, siamo costretti a provare entusiasmo per ogni cosa,
pena l’isolamento. L’ottimismo, così come l’acqua calda appena svegli, aiuta a cagare. Nel caso vi sia
sfuggito.
E allora provo a dirmi che magari la faccenda di quella ragazzina scomparsa mentre andava a scuola
potrebbe, durante le mie ore di sonno, essersi risolta.
Ma non sarà così, ci pensavo ieri notte tornando a casa, alla storia dei ragazzini scomparsi mentre
vanno a scuola. Al fatto che raramente li rivedremo.
Non c’è scampo.
Qualcuno li ha attesi e, prima di quel giorno spiati, pedinati, ascoltati. Magari ci ha pure scambiato
quattro chiacchiere, nel tragitto fra casa e la scuola.
Nulla è mai lasciato al caso, perché far del male a un bambino è una cosa seria, non si può
improvvisare. Come per i migliori musical, la riuscita sta nella meticolosità delle prove.
Sotto la doccia penso che magari stavolta siamo di fronte a un serial killer, il mio primo serial killer.
Magari un giorno lo arresterò e, se gioco bene le mie carte, potrei addirittura incontrare Franca Leosini,
quella che chiede agli stupratori e agli assassini se hanno nostalgia della nonna o robe del genere.
Anch’io potrò finalmente andare nei talk televisivi e farmi corteggiare dalle milf che in TV usano
parole come “incidente probatorio”, “tracce ematiche” o “luminol”.
Non avete idea di quanto si chiavi a parlare di cronaca nera.
Potrei sedurle dopo la trasmissione, in quelle bettole con le luci bianche sparate e i cessi sporchi.
Alternerei ai toni densi dell’esperto televisivo un’aria guascona, scanzonata e un po’ laida. Tanto laida
da sembrar loro uno che ha fatto il classico. Potrei portarle a mangiare il sushi, e poi, con le mani ancora
puzzolenti di pesce, agguantarle per i capelli e far sgranchire le gambe alla loro nomea di “tigri del
ribaltabile”.
Ma non ci conto più di tanto.
A Bologna gli assassini seriali non hanno mai tempo, c’è troppo da fare la sera. Nessun mostro
sceglierebbe Bologna, magari finendo a presidiare i vernissage, sudare attorno ai frizzantini di Arte Fiera
o ritrovare una vecchia amante-collega d’ufficio all’inaugurazione di un nuovo bistrò dove, prima, c’era
una stalla.
Radiologi in mocassini e tizie che fanno l’ufficio stampa si fronteggiano in schermaglie amorose fra
alitate di mojito e un frenetico consultare WhatsApp per non dar l’idea di esser liberi da impegni.
Uccidere non ha più senso in una città che pullula di influencer.
E poi a Bologna le vere vittime seriali ci sono già, sono le parole. Nessuna cosa è ancora descritta
come l’abbiamo conosciuta da bambini, il cibo adesso si chiama “food”, se ne parla ovunque, dalle
librerie alle camere ardenti.
Le salumerie non hanno più i nomi del titolare del negozio, Oreste o Amedeo, adesso sono tutte
“vecchie baite” o “boutique” di qualche punto del maiale e, al bancone, ciò che resta di un uomo veste
tirolese.
I racconti della nonna, quelli dove lei stessa ti diceva che non c’era niente di magico ad aver cagato in
un baracchino in cortile per tutti gli inverni della sua infanzia, adesso si chiamano storytelling.
Usare parole straniere per dire che faremo una brutta fine si chiama vision di una città.
Mentre mi vesto noto che ho un messaggio nella segreteria telefonica del cellulare, è di mia sorella.
Paola.
L’ora in cui lo ha lasciato mi mette in un leggero stato di preoccupazione. 5.23, dice la segreteria.
Carlo ho trovato una cosa. Per favore, appena puoi vieni da me. Carlo, te lo ripeto, ho trovato una
cosa. Sbrigati.
Mia sorella è alta 1.72, ha quarantun anni, bionda naturale.
Cosa può aver trovato, alle cinque del mattino, una clarissa?
Perché, dalla voce, sembra spaventata?
COME ČIKATILO
Prima di entrare in ufficio mi viene in mente la storia del Mostro di Rostov in Unione Sovietica.
Si chiamava Andrej Čikatilo, fra gli anni settanta e i novanta uccise più di cinquanta persone, molti
erano giovani e fra questi tanti bambini. Faceva loro esattamente quello che state pensando. Solo che
piangeva, di rabbia, mentre lo faceva.
Dove li incontrava?
Nel tragitto fra casa e scuola.
Come arrivavano a scuola questi ragazzini? Grazie a una linea ferroviaria che univa gli angoli più
sperduti della Siberia.
Un giorno un poliziotto salì su quella linea ferroviaria e, dopo settimane di appostamenti, lo presero.
E se invece di salire in ufficio e farmi spedire qua la Sandra Riguzzi mi facessi anch’io un giretto
sull’autobus? Sullo stesso autobus che prendeva Martina, facendomi tutto il tragitto, da casa della ragazza
fino alla fermata della scuola?
Chiamo un taxi e mi faccio portare in via San Mamolo, sotto casa di Martina.
In cinque, sei minuti al massimo, sarò là.
È tantissimo tempo che non prendo l’autobus, che non vedo Bologna dai finestrini in mezzo a tanti
sconosciuti.
Mi fa sorridere l’idea di farmi un giro panoramico della città in compagnia di ragazzi che si godono le
ultime vacanze, persone che si recano al lavoro e anziani che sono lì per il solo fatto che c’è qualcuno da
guardare, per farsi compagnia.
Forse c’è anche lui su quell’autobus, quello che ha rapito Martina. Magari inizia adesso la nostra
partita.
Mi emoziona chiedere i biglietti dell’ATC all’edicola. Lo facevo per andare a scuola, tanto tempo fa,
“Devi sempre essere in regola Carlo”, diceva mia madre quando me li consegnava assieme a una Girella.
Se sono un uomo in regola (e fisicamente faccio schifo al cazzo) lo devo a lei.
Nessuno ti salva e ti fotte come una madre, la tua gratitudine verso questo dolce olocausto è un
fenomeno noto ai più col nome di “figlio unico”. Lo so anche se non lo sono.
Eccolo, il 13. Sta arrivando.
Non so se faccio questa cosa per via delle indagini o perché, in fondo, ne ho proprio voglia.
E POI È SCESA
Se una storia diventerà o meno una faccenda da cronaca nera è scritto sui campanelli del condominio:
uno con questo nome, per esempio, Sergio Lividi, finisce dritto nel talk televisivo di prima serata.
Parenti e condomini scalpitano per pronunciare frasi come “Non ce lo aspettavamo minimamente” o
“Era una persona così perbene…” col vestito della domenica.
Figuriamoci se ritroveremo il cadavere della ragazzina… Uno dei must è la frase “Non si può morire
così”, come se esistesse un abbecedario della morte dove attingere i modi nei quali è più o meno consono
farsi ammazzare.
I condomini sono pieni di suggerimenti su come vivere e di regole su come farti ammazzare. Ricordo
che in occasione del delitto di Garlasco, sbucarono due cugine della defunta, le gemelle K (Le gemelle K,
che razza di titolo per un noir fulminante o magari una canzone del grande Jannacci). Si erano prese la
briga di ritoccare le foto della cuginetta morta per esserci anche loro, si era anche scomodato Fabrizio
Corona per due come loro.
Questo è un grande paese.
La morte di qualcuno serve a fare il punto su parentela e vicinato, la cronaca nera è la grande anagrafe
della decenza di una nazione.
Non è mai l’assassino il personaggio più inquietante.
Simenon lo aveva capito perfettamente.
Quando in una faccenda di morte la persona che farà più paura sarà l’assassino, potremo finalmente
stare tranquilli. Saranno finalmente di nuovo “Fatti di gente perbene” e un grande passo per questo paese.
Eccomi qua davanti alla porta del vicino. Lividi, c’è scritto sul campanello, sembra una promessa.
Suono il campanello ma nessuno risponde.
Riprovo.
Niente.
Sento aprirsi una porta, al piano di sopra, un lento cigolio.
“Guardi, che Lividi non c’è,” mi fa una voce di donna. “È da un paio di giorni che non lo sento
rientrare.”
Mi affaccio sulla tromba delle scale per dare un volto a questa voce e c’è una signora sui sessanta,
sessantacinque anni al massimo, che con la mano mi fa cenno di salire.
Salgo.
“Parisini Elide, molto lieta,” dice tendendomi la mano.
“Piacere, Carlo.”
“Carlo… e poi?” fa lei. Sto per dirle il mio cognome quando riprende: “Intendo, Carlo, okay, ma lei è
della polizia, giusto? La ragazzina scomparsa, lei è qua per indagare… non è vero?”
La cosa più efficace del condominio è la diffusione di ciò che “non si deve sapere”, segreti e miserie
sono il telegiornale del vicinato.
“Lei che ne sa di Martina, signora? Come fa a sapere che è scomparsa?”
“Ma che domande fa?” mi risponde la tizia e spalanca la porta di casa per farmi entrare.
Un bell’appartamento, il classico appartamento da benestanti, molto grande e poco curato. Per motivi a
me ignoti chi ha parecchi soldi vive nella trascuratezza.
Mi aggiro per l’appartamento cercando di capire chi sia la signora Elide.
“Lei vive sola qua?”
“Sono vedova.”
“Niente figli?”
“Tre. Uno di trenta, una di venticinque e l’ultimo di venti. Sono tutti e tre a Londra. Ma sono vedova lo
stesso.”
“Tutti e tre a Londra?”
“Sì, esatto. Noi siamo una famiglia benestante e in questi casi, i figli di famiglie come la nostra vanno
a Londra per fare qualche ‘esperienza’. La chiamano così. Vanno a fare i camerieri o a lavorare in un
pub.”
“E poi?”
“E poi restano per sempre lì, a fare i camerieri o a spillare birra nei pub.”
“Capisco.”
Passeggio per la casa, la signora Parisini lascia che la esplori.
Nel salotto c’è un divano in pelle di colore bianco, un tavolo in vetro sul quale sono appoggiati oggetti
inutili come quelli che regaliamo a Natale dopo che qualcuno li ha regalati a noi.
Elefanti d’Afriche più vicine ad Avellino che al Madagascar, posaceneri, fermacarte e un pizzico di
giornalismo d’inchiesta. Quei volumi fatti da gente che sa tutto dei “poteri forti” e molto meno della
consecutio temporum, e poi comunque da un po’ di tempo non mangiano più carne. E si sentono da Dio.
“Poteri forti”… Mia sorella va giù di testa quando sente questa definizione, mi viene in mente quando
legge il giornale a casa mia, scuote un po’ il capo e poi lo abbassa e mi fa: “Ma come parliamo?”
“Eh?” dico io, “a cosa ti riferisci…”
“Guarda qua,” prosegue, “adesso ‘Uno vale uno’, amore mio, e se uno non vale un cazzo? Però, oh,”
dice immergendosi di nuovo nella lettura, “è un bel passo avanti, dopo una vita a prenderlo nel culo dai
‘poteri forti’, adesso finalmente sarà il vicino di casa a fotterci senza pietà. E non credo abbia fatto il
classico, sai…”
Torno a concentrarmi sulla signora Elide.
“Tutta roba con cui si può ammazzare qualcuno,” dice sorridendo mentre brandisce un elefantino in
alabastro. “Lei ha letto La donna della domenica?”
“Certo, signora, ma lì l’arma per uccidere non era mica un elefantino…
“Era un fallo di pietra se non sbaglio, no?” domanda la signora facendo cenno di seguirla.
S’infila in un corridoio che ci porta in quella che penso sia la sala da pranzo, quella dove si intrattiene
quando ha ospiti.
Lungo il corridoio vedo la casa (enorme) di una donna sola.
Tracce di vite custodite dalle stanze vuote dei figli, i due bagni, un piccolo stanzino a vetri ricolmo di
piante. Ne ha davvero tante. Le amiche più fedeli, suppongo.
La sala è un grande spazio arredato con mobili costosi ma senza un criterio preciso, un salone che dà
sulla cucina da un lato e con un angolo ripostiglio con scope e altri oggetti per le pulizie dall’altro. Un
canestrino da basket si staglia, curiosamente, sulla porta del bagno. Il terzo.
“Veniamo a noi, commissario, credo non voglia perdere tempo. I commissari non hanno mai tempo.”
La signora è molto preparata, ha capito che devo in qualche modo interrogarla. Anzi lei usa il termine
migliore…
“Vuole sentirmi sul signor Lividi, vero? Sapere che tipo è?”
“Perché lo pensa?”
“Perché è sparita una ragazzina e, al suo stesso pianerottolo non è rincasato il vicino di casa. Un uomo
solo, di mezza età… Se ne vedono di ’ste cose…”
“Quali cose, signora?”
“Ha capito, commissario, che fa, lei, non la guarda la TV?”
“La guardo, signora, ma se lei fosse più chiara faremmo prima.”
“Ah, ma io non so niente…”
Ecco la frase chiave. “Io non so niente.” Quando vi dicono questa cosa avete la certezza di essere di
fronte al testimone che fa per voi, alla persona che più di ogni altra, può esservi di aiuto.
“C’è solo quella cosa lì, quella della disgrazia…”
“Quale disgrazia, signora?”
“Ah, ma allora non lo sa?”
“Eh no, signora, vede, qua fra noi due, sono io quello che non sa le cose.”
“Il signor Lividi aveva una famiglia, una moglie e un figlio.”
“Eh, e allora?”
“Sono morti. Una disgrazia.”
“Come sono morti? Cosa è successo?”
“Una casa al mare, sa le case nei luoghi di vacanza? Lividi e la sua famiglia avevano una piccola
casetta a Cervia sulla riviera.”
“Ebbene?”
“La moglie e il figlio, di tanto in tanto, andavano al mare nel weekend d’inverno. Non sempre, eh, ogni
tanto, quattro o cinque volte lungo tutto l’inverno. Poi, con l’avvicinarsi della primavera intensificavano
la loro presenza in quella casa. Arrivata l’estate si trasferivano praticamente lì. Lui restava qua a
lavorare e li raggiungeva nei fine settimana.”
“Che lavoro faceva?”
“Lavorava in una ferramenta del centro, non so dirle di più. Martelli, catene, chiavi, lucchetti… quelle
robe lì.”
“Calamite…” butto lì io.
“Calamite,” fa lei.
“Okay, andiamo avanti,” dico.
“E quindi,” riprende Elide, “purtroppo le case del mare sono riscaldate, spesso, con bombole di gas o
comunque hanno impianti che godono di scarsa manutenzione. Sono saltati in aria, una notte di luglio.”
“Luglio?” domando, “si accende la caldaia a luglio?”
“Eh, ma potrebbe darsi,” dice Elide, “fu quel luglio di qualche anno fa, quello con le temperature in
picchiata, che fa, non ricorda, commissario? C’erano quindici gradi… Era già un weekend di quelli
dedicati al mare, ma quell’anno l’inizio di luglio fu bruttissimo, un tempaccio. Freddo. Pioggia. Si dice
che quella settimana avesse temperature di quasi quindici gradi sotto la media.”
“Mah,” rispondo poco convinto, “non mi pare che…”
“Infatti le ricostruzioni si divisero tra due ipotesi,” m’interrompe la signora.
“Sentiamo.”
“Inizialmente dissero che era successa una di quelle cose che non ti fa capire bene come sia accaduto,
un malfunzionamento, una perdita di gas, mi sembra, fatto sta che nel cuore della notte i vicini avevano
sentito un’esplosione e poi erano arrivate le fiamme. La donna e il ragazzino erano ancora a letto quando
li hanno trovati.”
“E dopo?”
“E dopo si arrivò a formulare un’altra ipotesi. La seconda… era per via del ragazzo…”
“Quale ragazzo?”
“Il figlio di Lividi, aveva tredici anni, ed era un po’ strano…”
“In che senso?”
“Commissario, su… era un po’ ritardato, aveva qualcosa che non andava.”
“Ah.”
“Meglio non saprei dirlo… E così si pensò che il ragazzo avesse potuto involontariamente
manomettere il gas, il boiler insomma, magari aveva freddo… Il resto se lo immagina…”
“Un’altra sfortuna comunque.”
“No,” dice ferma la signora Elide, “non so come definire tale ipotesi, ma credo che la parola ‘sfortuna’
non vada bene. Non sia giusta…” tace per un attimo e riprende: “Fra poco saranno tre anni.”
“Lui come ne è uscito?” domando.
La signora si alza dal divano, cerca le sigarette su una mensola e ne accende una.
“Lei conosce la canzone di Ivano Fossati che si chiama Vola?”
“Francamente no.”
“A un certo punto dice: Non sono morto né guarito, ma ci ho provato, era un mio diritto e non è
servito… Le grandi canzoni valgono per gli amori e per i lutti, commissario, lei crede che da una
faccenda del genere se ne esca? Che ci sia una via di fuga da queste cose?”
“Non saprei,” le dico pur sapendo che ha ragione, “penso tocchi andare avanti. La vita va avanti…”
“La vita va avanti,” ripete la signora, “non le suona vagamente violenta questa frase, commissario?”
“Devo pensarci,” rispondo sorridendo.
È una donna intelligente. Le donne intelligenti sono sempre utili alle indagini.
“Comunque,” riprende, “lui è andato avanti, quello sì. Purtroppo però non è andato da nessuna parte.”
“Cioè?”
“Mi spiego meglio, non si è messo a vagare singhiozzando per il quartiere, tantomeno si è chiuso in
casa restando a letto per mesi, semplicemente è diventato più cortese, più gentile con tutti. La gentilezza
di chi ha perduto tutto dovrebbe sempre mettere in allarme, commissario.”
La signora fa avanti e indietro nel salotto, come fossero vasche di una gara di nuoto, oscilla fra me e la
finestra.
Poi si volta e mi fa: “Lei crede che possa essere accaduto qualcosa? Qualcosa di brutto, intendo?”
Mi alzo e saluto lasciandole il mio biglietto da visita senza perdere l’occasione di pronunciare quello
che in parecchi film sarebbe il “minimo salariale” del commiato fra uno sbirro e una testimone: “Se
dovesse venirle in mente qualcosa, non esiti a chiamarmi.”
In realtà, tutto quello che c’era da dire me lo ha già detto.
E aveva tutta l’aria di saperlo.
LA STANZA DI MARTINA
Dato che ci sono, più per offrire una rassicurante idea di efficienza che per reale convinzione di utilità,
suono al campanello di casa di Martina e chiedo ai suoi genitori di poter fare un sopralluogo nella
cameretta della ragazza.
Loro, i genitori, ne restano entusiasti.
Gli investigatori della TV adorano perlustrare la cameretta di una ragazza scomparsa. Sono convinti
che aprendo cassetti, frugando negli armadi e mappando i poster appesi al muro e i peluche sul letto, di
potersi avvicinare alla soluzione. Che ci sia, da qualche parte, qualcosa che spieghi o indirizzi le
indagini.
Questi stessi investigatori non vi dicono due cose.
Che quasi mai c’è un indizio decisivo. E che, quando ne scopri uno, sei sempre il terzo (dopo la
vittima e l’assassino) ad averci messo le mani.
Avrebbe potuto accorgersene addirittura anche una madre o magari un padre, perché tutto nella vita di
una ragazzina di quindici anni è “indizio” e nulla conduce necessariamente a lei.
Le ragazze non esistono.
Sono bambine che si stanno trasformando in donne.
Non le troverete più nell’innocenza e non sono ancora arrivate alla rassegnazione. Questo per le
ragazze è il tempo degli sbagli; vi attendono negli errori. E gli sbagli non lasciano segni nei quaderni, tra
i pupazzetti, sugli zaini e spesso nemmeno dentro i PC. Gli sbagli li conoscono i pomeriggi, molto spesso
quelli d’estate. Tocca scovare qualcuno che fosse lì in quei pomeriggi.
La camera di Martina è la perfetta sintesi di tutto questo.
C’è un po’ di tutto e non porta a niente.
C’è un letto con un lato rivolto verso la parete e un piumino rosa.
Sugli armadi, più per dovere da adolescente che per convinzione, ci sono foto di un paio di attori del
momento, quelli molto in voga per un tempo molto limitato. Apprezzàti per fare tutto e molto male, al
punto tale da esser noti a chiunque.
Oltre a loro un altro ragazzo, “strappato” da una rivista di campeggio. Unica accelerazione vagamente
legata al capolino degli ormoni.
Noto una borsa del volley femminile (Polisportiva Casalecchio). Vuota. Non fa alcun odore e questo è
strano.
Sulla scrivania un portapenne verosimilmente acquistato in una gita scolastica, Saluti dal lago di
Garda c’è scritto.
Sul davanzale della finestra, una piantina dai fiori rosa scuro in un vaso.
I peluche sono tutti in terra, in un angolo della stanza, sul letto Martina sta sola.
Ha incorniciato un puzzle che ritrae una serra. Salta all’occhio perché colpisce la intuibile difficoltà di
tale puzzle dove tutto, fiori a parte, è verde. Ma soprattutto, quale ragazzina di quindici anni, oggi, fa un
puzzle?
Apro qualche cassetto, ci trovo dentro chiavette USB, quaderni, cuffiette per iPad.
Portachiavi antistress e la tessera della rete tranviaria.
Tutti oggetti che, assieme al suo PC, verranno sezionati dai nostri tecnici.
Non ci troveranno niente. Un commissario queste cose le sa.
“Da qualche parte ci dev’essere la scatola,” dice la madre di Martina restando sulla soglia della
stanza.
“Quale scatola?” domando io.
“Aveva una scatola con le sue cose, quelle più personali.”
“E che aspettavate a dirmelo, scusi?”
“Non so,” dice la madre, “pensavo che fossero tutte cose da ragazzina, perlopiù inutili. Guardi che non
c’è niente lì dentro.”
“Lei fruga in quella scatola?”
“Sì,” risponde, un po’ in imbarazzo, e se ne torna verso il salotto.
Dal corridoio sento che a voce alta dice: “Provi in basso, nell’armadio dei vestiti.”
La scatola in effetti c’è.
LA SCATOLA
È una scatola riciclata, probabilmente una di quelle che conteneva le strenne natalizie, panettoni,
spumanti, cotechini ecc. È rossa e marrone, molto grande, almeno mezzo metro di altezza, quasi il doppio
in larghezza. La apro.
Ci sono dei CD, una ventina almeno.
Qualche vinile, direi una dozzina.
Un mangianastri.
Un blister di pillole anticoncezionali.
Un pugno di libri.
Una collezione di una trentina di puffi.
E altre cianfrusaglie.
Altri portachiavi antistress (una tartaruga e un orsetto), fotografie del mare, e poco altro.
I libri sono quasi tutti di fiabe. Andersen sotto al caminetto, per esempio, e ancora qualcosa dei
fratelli Grimm e di Esopo. Fra i pochi non di fiabe, ce ne sono tre un po’ strani da rinvenire nella camera
di una ragazzina: Le lettere di Berlicche di C.S. Lewis, La noia e Gli indifferenti di Moravia.
Anzi ce n’è un altro, forse questo merita un discorso a parte. Martina ha una vecchia edizione della
Promessa di Dürrenmatt.
Ogni commissario dovrebbe aver letto La promessa.
Narra dell’assassinio di una ragazzina di sette anni, Gritli Moser, ritrovata in un bosco. Ma soprattutto
spiega la differenza fra quello che i giallisti raccontano e come la gente ammazza. I dettagli che il male
sceglie per rivelarsi, hanno un talento banale che non s’insegna nelle scuole di scrittura. Uccidere è una
specie di short story scritta male ma con una grande visione.
Nella Promessa capiamo che la realtà che i commissari si trovano davanti non è diversa da quella
della letteratura, semplicemente (a differenza della letteratura) non è raccontabile.
“Si fa così fatica a dire quello che si vede” fa dire Sciascia a un brigadiere che sta appuntandosi su un
taccuino la scena di un delitto. S’intitola Una storia semplice quel libro. Ed è quello che ogni
commissario sogna, di trovarsi di fronte a una storia semplice.
Mi colpisce, tornando alla Promessa, che Martina abbia questo libro che di fatto parla di una ragazzina
prima scomparsa e poi ritrovata uccisa. Del dolore dei genitori di lei e della promessa che il
commissario fa alla madre della piccola: “Lo troverò.”
Fra i suoi dischi c’è roba che vorrei potermi portar via. Piacerebbero a mia sorella.
Ci sono cose di cui nessuno ha colpa fino a una certa età, come Jovanotti, ma anche un 45 giri dei
Matia Bazar Aristocratica, True degli Spandau Ballet e Steppin’ Out di Joe Jackson (questi ultimi tre
Paola li gradirebbe non poco). E ancora, il 45 giri di Sei forte papà di Gianni Morandi, quello della
sigla di Mork & Mindy (un vecchio telefilm degli anni settanta-ottanta) e un rovinatissimo (solo vinile
senza copertina) di Giovanni telegrafista di Jannacci.
C’è una scatola di plastica che di fatto è un piccolo beauty con una serie di rossetti e altri trucchi per il
viso. Mai aperto.
Una manciata di biglietti di cinema e un paio di concerti; Vasco e una cosa al Teatro Comunale, il Così
fan tutte di Mozart. Di questo ha pure il libretto di sala.
Un pattino.
Mi colpisce una vecchia litografia. Risale a fine Ottocento e mostra una sfarzosa festa di carnevale
lungo le strade di Venezia, uomini e donne della nobiltà cittadina, danzano e festeggiano. Sui loro volti,
maschere.
Una vecchia mappa turistica di Parigi, alcune guide di viaggio, tutte su Parigi.
Un paio di post-it di amiche di scuola, con cuoricini e TVB d’ordinanza.
Non ci sono fotografie se non del mare.
Martina in foto è una ragazza banale. Ha capelli castani, occhi castani, è alta su per giù un metro e
sessantacinque, è una di quelle ragazze che si dimenticano per sempre.
Segni particolari: nessun segno particolare.
LE GRAZIE CATTIVE
Ogni clausura che si rispetti è a due passi dal centro di una città, devono sentirla bene la loro
solitudine.
Si tratta di una struttura vagamente gotica, molto grande e certamente antichissima, che comprende sia
il convento vero e proprio sia la chiesa. Nel cortile interno c’è un giardino immenso con fiori perlopiù
incolti e un chiostro al cui centro c’è un pozzo. Ogni luogo di fede deve sembrare deserto.
In una cripta è custodita la mummia di Santa Caterina, come cecchini invisibili le clarisse vigilano da
dietro la grata. Un paio di ore la settimana aprono la cripta ai fedeli che vogliono vedere o chiedere
grazie alla Santa.
Avete mai visto chi chiede miracoli?
Fa paura.
Paola mi accoglie in strada sul portone d’ingresso della chiesa.
“Devo dirti una cosa,” faccio io, “sono alle prese con la sparizione di questa ragazzina e…”
“No,” dice mia sorella, “te la dico io una cosa.” E mi prende per mano.
Mi conduce in una delle rientranze della navata centrale, nei pressi di un leggìo in legno su cui è
poggiato un voluminoso libro.
“Lo vedi questo?” dice aprendo quel volume e scorrendo qualche pagina. “È il diario delle grazie. In
questo libro, e in tanti altri come questo, sono raccolte le firme, i pensieri o le richieste di grazia dei
fedeli che vengono a far vista alla mummia della Santa.”
“Eh, e allora?”
“E allora lasciami parlare. Sai, Carlo,” parte mia sorella, “la fortuna del cattolicesimo è che nessuno
legge questi volumi, quello che c’è dentro. Nessuno si prende la briga di frugare tra le grazie.”
“Che c’è lì dentro?”
“Tutto. Ma proprio tutto. Ci sono persone che chiedono alla Santa di intercedere in questioni di salute,
pregano o fanno voti per la guarigione di un loro parente e talvolta di loro stessi. Dai tumori al mal di
testa, passando per le paralisi e il coma. Chiedono di tutto.”
“Pure l’amore magari,” dico io, “come alle cartomanti…”
“Perché non dovrebbero? Certo che chiedono l’amore,” sorride mentre sfoglia le pagine, “e a questo
proposito devo dirti che spesso pregano per ottenere una cosa particolare.”
“Cosa?”
“Non invocano l’arrivo di un amore o di quello della vita, l’hanno già avuto quello. Chiedono la
riparazione di un danno.”
“Un danno?”
“La maggior parte delle persone pensa di averlo già incontrato l’amore della vita ma purtroppo, per
via di qualche miseria reciproca, se lo è visto scivolare dalle mani. È rotto ma custodiscono i pezzi. Non
li buttano. Chiedono una specie di colla grazie alla quale rimettere tutto insieme.”
“Capisco.”
“No,” dice mia sorella, “non capisci un cazzo, ma non è una novità.”
“Paola, lo sai che quando parli in questo modo, io…”
“Quelli chiedono un miracolo” riprende lei, “anzi penso si riferiscano al più duro e misterioso dei
miracoli: il perdono.”
“Ci vuole una Santa con le palle,” le dico scherzando, “e poi?”
“E poi chiedono altre cose, più banali, la promozione scolastica del nipote o la vittoria della squadra
del cuore. Cose del genere.”
“Bene,” dico io, “tutto molto bello. Ma io che ci faccio qui?”
“Tu qui,” dice lei prendendomi la testa e mettendomela sopra le pagine del volume, “ci fai questo…”
Mia sorella inizia sfogliare le pagine in cerca di qualcosa finché, a un certo punto, trova quello che
stava cercando e, puntando il dito sotto le parole, inizia a leggere.
Cara Santa, comincio a stancarmi della tua pigrizia.
Ti comporti come se niente fosse. Anche tu.
Che ne è stato delle morti che ti ho comandato? Non ho ancora avuto alcuna notizia in tal senso. Non è mancata la precisione da parte
mia, questo non puoi davvero dirlo. Hai tutti i loro nomi.
E non può esser per via della misericordia, i Santi non perdonano. Quasi comincio a dubitare del tuo potere, della tua forza. Il tuo tempo
sta per esaurirsi.
Se i tuoi miracoli non arriveranno, arriverò io.
Li prenderò uno per uno, esattamente come avevo chiesto a te di fare. Di fronte al mare.
Non riesco a spiccicare una parola, mia sorella mi guarda come a dire “E adesso?”
“Quando l’hai vista questa cosa per la prima volta?” le domando.
“Ieri sera, ecco perché ho iniziato a cercarti con insistenza.”
“Hai fatto bene,” le dico un po’ spiazzato.
“Lo so.”
“I nomi,” proseguo, “dice che le ha pure dato i nomi di quelli da ammazzare…” sto per riprendere la
parola ma m’interrompe:
“Ho già controllato, sia nelle pagine indietro che in quelle avanti…”
“E quindi?”
“Niente. Glieli avrà dati ‘in privato’.”
“Senti, Paola,” biascico oggettivamente scosso, “così su due piedi, io non so cosa dirti, lascia che
faccia mente locale. Adesso però devo andare,” faccio avviandomi verso l’uscita della chiesa, “c’è
quella faccenda della ragazzina…”
“Lo immagino,” risponde lei senza muoversi di un passo.
Poco prima di uscire, mentre faccio il segno della croce, mi sorge una curiosità.
“Senti, ma come mai tu passi le sere a leggere cose di questo tipo?”
“Perché non ho il filarino.”
Una delle poche cose esatte che sento ripetere spesso nei talk televisivi sulla cronaca nera è questa:
“Le prime ore sono le più importanti. Un caso o si risolve in breve tempo o mai più.”
C’è sempre un giornalista o una criminologa in tanga che, in un consesso televisivo di cuoche, quello
dell’associazione consumatori, politici che “parlano come mangiano” (ve la meritate questa definizione)
e vincitori di qualche talent, puntualizza queste cose.
È proprio così, è un dato di fatto.
Ma il sergente Fantini, come tanti altri, presta troppa importanza ai fatti. Non è che i fatti non dicano la
verità, semplicemente non la conoscono. I fatti sono come i genitori, fanno quello che possono.
Il sergente è contento perché, come dice lui: “Almeno sappiamo dove iniziare a cercarla.” Io invece
credo che cercarla significhi capire come mai si trovava lì.
E perché non era sola in quel bar a Cervia.
Chi sia con lei me lo potevo immaginare, ma arrivato in questura ne ho le ultime conferme.
In ufficio, davanti al computer che passa le immagini della telecamera a circuito chiuso del bar di
Cervia, mi attendono i genitori di Martina.
È la madre a prendere la parola.
“Non capisco, sembra lui… il nostro dirimpettaio di pianerottolo, Sergio.”
“Il vedovo,” precisa il marito lasciando nuovamente la parola alla moglie.
“Ma che sta succedendo, commissario?”
“Non lo so, signora,” le rispondo, “quel che è evidente è che o c’è qualcosa tra questo signore e vostra
figlia o lui l’ha rapita.”
“Qualcosa che? Ce l’ha rapita quello schifoso…”
“Si calmi, signora, mi dica quello che sa di questo tizio.”
“Sappiamo quello che si sa dei vicini, il lavoro, le disgrazie e il modello dell’auto parcheggiata in
garage. Tipica famiglia bolognese, gente tranquilla… Lui lavorava in una ferramenta, lei era casalinga.
Sappiamo che ha perso moglie e figlio in un incidente domestico, e poco altro.”
“Mi dica di più. Ne parla come se fosse una cosa così…”
“Un’esplosione nella casa delle vacanze. Era estate e lui era a Bologna a lavorare. Moglie e figlio
invece erano nella casa al mare, anche noi fra l’altro l’affittiamo da quelle parti. Tutto qua.”
“Buongiorno e buonasera,” aggiunge il marito, “il nostro rapporto era questo. Cortesie, chiacchiere sul
tempo… Nulla di più, nulla di meno.”
“Non vi viene in mente altro? Con vostra figlia com’era? Scherzavano?”
“Affatto,” dice la signora, “anche con lei buongiorno e buonasera. Era gentilissimo ma oltre non
andava.”
Decido di riguardare con loro le immagini della telecamera del bar. Li ha ripresi entrare e uscire, il
barista ci ha detto che sono stati seduti a un tavolino e visto che non c’era posto a sedere, hanno diviso
quello stesso tavolino con una donna, una signora, bardata di pareo, pronta per la spiaggia.
Questa dobbiamo identificarla, sentirla e interrogarla, potrebbe esserci utile perché lei è l’unica ad
averli sentiti parlare insieme, cosa fondamentale.
“La troverete?” mi domanda la madre.
“Ci conti,” proseguo. “La conosce, per caso?”
La donna guarda un po’ meglio il fermo immagine dal quale, in effetti, non si vede granché.
“Boh, a me sembra di aver già visto un po’ tutti… Anche questo volto in qualche modo mi è un po’
familiare ma…”
“Ma?…” la incalzo.
“Non mi viene in mente nulla di preciso,” dice e vedo che si sta impegnando a ricordare ma non riesce
a fare di più.
È la prima volta che si sente che è una madre.
“Suo marito?” dico voltando il PC verso l’uomo affinché possa riconoscere o meno la tizia.
“Sa che anche a me questo volto è vagamente familiare?”
“Eh, ma è certo di riconoscerla?”
“Temo di no… mi è familiare, ma sa… comunque no, non so che dirle. Credo che se davvero la
conoscessi ne ricorderei il nome. Vorrei poter fare di più.”
“Sta facendo del suo meglio, mi creda,” dico al padre, “state andando bene,” dico loro e sorrido.
“Questa donna,” e ritorno a indicare il volto femminile del fermo immagine, “può essere molto utile,
da come parlavano avrà potuto cogliere se la ragazzina era lì a forza, se c’era in lei un comportamento
innaturale o cose del genere.
“Dalle riprese noi quei due li vediamo bene solo quando entrano, lui davanti e lei dietro. Abbiamo
appena il tempo di capire che sono loro. Tutto il resto, il perché siano lì, perché lui l’abbia rapita o che
altro stia accadendo non siamo in grado di evincerlo.”
“Commissario,” dice il padre della ragazza. “Martina è in pericolo?”
“Non lo so,” rispondo al signor Baruffetti, “in queste vicende niente è certo: e questo è il vostro
tormento tanto quanto la mia fortuna.”
I genitori di Martina capiscono che abbiamo finito.
È un brutto segno quando i parenti degli scomparsi diventano bravi a muoversi con la polizia.
Acquisiscono dimestichezza nelle cerimonie del male. È lì che iniziano a perdere.
Mentre escono dal mio ufficio li guardo prepararsi, lungo il corridoio. Si vestono l’un l’altra,
reciprocamente. Lui regge il leggerissimo soprabito estivo della signora, e lei attende per fargli infilare
la giacca. Per la prima volta hanno sembianze di una famiglia.
Contano su di me.
A ’sto punto l’unica cosa certa qua è che il questore Ventura vorrà parlarmi.
E io so già cosa mi tocca.
VENTURA HIGHWAY
Arrivato a casa, prima di fare la valigia, chiamo Paola per informarla delle ultime, che starò via per
qualche giorno. Le piace che le racconti del mio lavoro.
E poi, non sono tranquillo per quella storia delle grazie cattive.
Anche mia sorella un po’ mi preoccupa. Non le fa bene tutta questa eccitazione, credo. È in crisi
religiosa.
A dire il vero, non ho mai capito perché sia entrata nelle clarisse. Fin da quando eravamo bambini, ho
sempre pensato che un giorno sarebbe stato necessario fare irruzione nella vita di Paola e sottrarla alle
grinfie di un uomo.
Metterla in salvo.
Non avrei mai immaginato che sarebbe stato Dio quello da cui salvarla.
Le prime volte che me la sono ritrovata in casa e le ho chiesto spiegazioni, lei mi ha risposto che
l’Ordine delle clarisse “l’aveva invitata a una seria e profonda riflessione circa la natura della sua fede”.
A quanto potevo capire era un modo carino per dire che l’avevano allontanata. Per questo, non fidandomi
troppo delle mie intuizioni (fare il commissario non mi rende più sensibile ma solo più preciso) un giorno
ho deciso di andare direttamente dalla badessa.
Di questa faccenda che Paola facesse dentro e fuori dal convento, che entrasse e uscisse come fosse un
saloon dove fare una sosta, io dovevo capirci qualcosa di più.
Ma com’è possibile, mi domandavo, che glielo lascino fare? In fondo anche quello è un mestiere, avrà
le sue regole.
E così un pomeriggio d’estate in cui non avevo niente da fare mi dissi: “Quasi quasi faccio un salto
dalla badessa del convento, suor Ornella.” L’avevo vista sì e no due o al massimo tre volte, Paola mi
parlava di lei come di una donna “taciturna e risoluta”.
Sono due aggettivi che si danno a un fuggiasco pericoloso, non a una sposa di Dio.
Quel pomeriggio lo ricordo come fulminante.
Tanto più che entrare nel convento di Santa Caterina a Bologna fa sempre uno strano effetto.
Di quando in quando mi piace rivederlo nella mia testa, come un film.
Inizio sempre allo stesso modo, con me che apro il portone della chiesa e cerco l’acqua benedetta per
farmi il segno della croce.
L’acqua è finita.
Ed eccomi lì dentro, camminare spedito verso la sagrestia.
Penso a Paola sentendomi in colpa, se solo sapesse che sono qua a parlare con la badessa – mi ripeto
– si arrabbierebbe a morte.
“È permesso?” dico entrando nella porticina della sagrestia dove suor Ornella siede a un tavolo in
legno lunghissimo.
“È permesso,” dice lei in tono affermativo e prosegue a scribacchiare con la matita su un quadernino.
Suor Ornella veste di nero, ovviamente, ha il capo coperto e un corpo non piccolo. Gli occhi sono
fessure, persiane intelligenti dalle quali filtra quello che vuole lei.
Delle suore non immaginiamo mai nulla, non notiamo nemmeno se sono alte, basse, magre o grasse.
Sono tutte uguali eppure indescrivibili, come si spiega questo gioco di prestigio?
“Sono il commissario Vento, signora badessa, forse la disturbo,” dico, “ma sono preoccupato per
Paola, mia sorella…”
“Di che si preoccupa?” dice la suora continuando a scrivere.
“No, insomma, mi pare che in questi anni Paola abbia dato un po’ di problemi alle clarisse.”
“Problemi…” dice la sorella senza alzare lo sguardo.
“Sì, be’, ci siamo capiti, mi pare che voi per prime vi siate accorte della sua irrequietezza che la porta,
come dire, ad andare un filo contro corrente non le pare? Tanto è vero,” proseguo, “che ogni tanto la
spedite via per un po’… Mi domandavo se questo è normale.”
Suor Ornella mi guarda, chiude la matita dentro al quaderno e si alza per raggiungere la piccola
libreria della sagrestia.
“Irrequietezza…” dice a bassa voce come se quella parola fosse un segnalibro dal quale ripartire.
Nel frattempo, mentre sembra cercare un volume, prosegue: “Qua nessuno spedisce a casa nessun
altro.”
“Ma come, scusi, mia sorella…” non faccio in tempo a continuare che suor Ornella mi interrompe:
“Sua sorella non viene cacciata, scappa. Dalla lavanderia per la precisione.”
“Ah, lei lo sa?”
“Mi pare evidente.”
“E perché la lasciate aperta la lavanderia?”
“Si rende conto,” dice la suora, “delle domande che sta facendo?”
“Tenga,” mi dice, “legga la pagina dove ho fatto una piccola piega,” e mi mette in mano un quaderno su
cui sono riportate alcune frasi di autori della letteratura. Intravedo nomi familiari e altri più o meno
sconosciuti.
La suora punta il dito su una riga di Chesterton: Una cosa morta può andare con la corrente, ma solo
una cosa viva può andarvi contro.
“Lei legge Chesterton, sorella?”
“Me lo ha dato Paola,” risponde suor Ornella e si avvia verso il lungo tavolo in legno lasciandomi in
mano il quadernetto, tutto questo non prima di avermi ammonito, “lo rimetta a posto per favore, ci sono
cose importanti lì dentro.”
Lo scorro rapidamente e noto una cosa stupefacente.
Nella prima metà del quaderno sono riportati tutti i risultati della Fortitudo, una delle due squadre di
basket cittadine.
A quanto posso vedere ci sono tutte le gare dei campionati degli anni settanta, qualche ritaglio di
giornale delle giornate più importanti, e tutti i tabellini dei giocatori, partita dopo partita.
Mi viene da sorridere e rimettendo a posto il quaderno provo a dare spiegazioni a suor Ornella:
“Ecco, vede, Paola è fatta così, una confusione assoluta, mischia tutto…”
“A cosa si riferisce?” domanda la suora.
“Be’, ’sta cosa del basket prima degli aforismi di Chesterton e degli altri…”
“Il basket è mio,” puntualizza Ornella proseguendo a scrivere su un altro quaderno. “Sono ricordi,
commissario.”
“Ricordi?”
“Ricordi. Lei non ne ha?”
“E li mette lì, nei quaderni delle clarisse assieme alle frasi sulla fede?”
“Lei ha posti migliori dove metterli, signor Vento?”
“Lasci stare,” rispondo imbarazzato e provo a riportarla al punto, “ma allora che vogliamo fare con la
vocazione di mia sorella? C’è o non c’è? È una clarissa o che? Lei crede che dovrei aiutarla a…” La
vecchia sorride continuando a scrivere. Scuote la testa. “Voglio dire,” la incalzo, “questo convento non è
una palestra da cui si può entrare o uscire a proprio piacimento, ci saranno delle regole, no?”
“Delle regole me ne occupo io,” risponde la donna, “non si preoccupi. Vede, commissario, a lei dà
nell’occhio che sua sorella ogni tanto scappi, a me che puntualmente ritorni.”
“Va bene, ho capito, lei qua è al comando della baracca… ma anche lei, sorella, dovrà pur render
conto a qualcuno, a un vescovo di zona o qualcosa del genere?”
“Del render conto a qualcuno me ne occupo io,” dice, ancora più ferma.
“E Dio allora?” provo a stanarla, “che ne penserebbe Dio di tutte queste anomalie?”
“Del rapporto fra Dio e le anomalie me ne occupo io,” dice, e prosegue: “Magari per lei questo
increscioso problema di una clarissa che scappa dalle lavanderie per stare con suo fratello rischia di
incrinare la cristianità, commissario, ma credo che Dio veda tutta questa faccenda con minor
apprensione.”
“Ah, lei conosce il punto di vista di Dio, sorella?”
“In tutta la sua fra-gi-li-tà,” scandisce suor Ornella alzando lo sguardo dal quaderno.
“Ho capito, sorella,” le dico sconfortato e un po’ innervosito. E mentre mi infilo il cappotto, lei si alza
pigramente per accompagnarmi fino al portone della canonica.
“Allora non c’è di che preoccuparsi,” concludo sfottendola mentre esco e m’infilo sotto al portico, “si
occupa di tutto lei.”
“Magari,” risponde la badessa, in piedi sotto al portico, nella prima luce della sera.
La mia Paolina…
Da qualche mese ci sta riprovando, con la clausura, intendo.
Se la sono ripresa.
Lei entra ed esce dal convento ormai come un lavoratore a chiamata, sembra che il suo reale equilibrio
consista esattamente in quel dentro e fuori dalla vita monastica.
Che niente di definitivo la faccia felice e che nulla di precario la faccia vivere.
La chiamo subito.
“Ciao, Carlo, allora? Il questore che ha detto?”
“Di cosa?”
“Di quello che ti ho fatto leggere,” replica Paola stizzita, “di quella grazia farneticante, del mare…
ecc…”
“E che c’entra, scusa?” faccio io, “mica gliene ho parlato…”
“Perché?”
“Perché sono alle prese con un rapimento, no?”
“E secondo te queste due faccende non sono collegate?” domanda Paola.
“Mah,” faccio io, stranito, “non saprei… cioè…”
“Dunque, Carlo, una cinna e un uomo spariscono e vengono avvistati al mare.”
“E tu come lo sai?”
“Guarda che la TV ha già diffuso la notizia: un uomo ha rapito una ragazzina e li hanno visti a
Cervia…?”
“La TV? Il telegiornale regionale della sera? Dannazione.”
“E questo avviene proprio in concomitanza dei giorni successivi a quelli in cui qualcuno ha scritto
quelle cose sul libro delle grazie. Allora, messa così non ti sembra collegata?”
“Se i due fossero vestiti da Madonna e San Giuseppe forse sì, ma per ora…”
“Va bene,” dice lei, “mettiamo che la faccenda non sia collegata, tu non pensi di dover indagare su chi
sta reclamando morti davanti al mare? Senti, facciamo così…”
“No, Paola,” la interrompo, “tutte le volte che mi dici ‘facciamo così’ immagino dove andiamo a
parare…”
“Che ti costa? Fammi vedere gli incartamenti, i documenti dell’indagine, io provo a capire se c’è
qualcosa che collega quelle righe a questa storia, al rapimento della ragazzina, eh? Che ne dici?”
“Ho detto scordatelo, non gioco a Starsky & Hutch con una suora…”
“Ah no, ciccio?” fa lei, “però quando ti ho risolto il caso della ‘zoppa’… o magari quando ho capito
chi era l’esibizionista, il tizio che mostrava l’uccello alle praticanti legali dietro al tribunale, facevi
meno lo schizzinoso…”
“Ascolta, Paola,” le dico provando a stare calmo, “la zoppa era zoppa, per l’appunto, e in quanto tale
in quell’inseguimento lungo via Saffi io e te partivamo leggermente favoriti, non trovi? Quanto
all’esibizionista, sappi che nel rapporto ho dovuto omettere che è stato il tuo primo filarino quando avevi
quattordici anni, e comunque alle praticanti legali fa piacere se qualcuno si mostra intraprendente…”
“Senti, cretino, se poi trovano il cadavere della ragazzina domani? Tu come la metti? Magari proprio
davanti al mare, come richiesto alla Santa…” chiude mia sorella.
“Ma che dici, stai farneticando…”
“Allora guarda, arrivo da te verso le 22 e vediamo gli incartamenti, se non trovo nulla facciamo che
sono due vicende separate e decidi tu.”
“Ma scusa, chi ti dice che ho portato il faldone delle indagini a casa?”
“Carlo, io sono una clarissa… Non provare a barare con me. Ci vediamo fra un’ora e mezza.”
“Va bene.”
“Ah, Carlo, NON FARE le seppie ripiene.”
“Guarda che son buone.”
“Le scaravento in strada, giuro, eh. Un piatto di pasta andrà benone…”
“La pasta di sera…”
“Che mi frega, io dopo scopo.”
NOTTI AL TELEFONO
Ho cucinato.
Bucatini guanciale, fichi e pecorino.
Se Paola non fosse una suora starebbe miagolando qualcosa di carino attorno alle mie natiche.
Lo so, esagero, ma quando cucino così bene mi sento uno di quei cuochi che vanno in TV a urlare in
faccia ai disoccupati che non sanno scaloppare il tonno…
“Buona. Buona, eh, la pasta,” dice Paola finito di cenare, “certo la tua fissa di mischiare dolce e
salato…”
“Non è una mia fissa sono le regole base dell’alta cucina.”
“Non lo metto in dubbio è che io dell’alta cucina tendo a sbattermene e distinguere le cose fra quelle
che mi piacciono e quelle che non mi piacciono, sai come quando nella Bibbia si dice che dobbiamo
‘dire: «Sì, sì», «No, no»’. A ogni modo era buona,” dice con fare consolatorio, “senti, io allora mi porto
l’incartamento a letto in canonica, me lo studio stanotte e domattina all’alba tu passi lì, facciamo
colazione e te lo restituisco.”
“Finirò nei guai per colpa tua.”
“Sarebbe ora, Carlo, che tu finissi in un guaio, uno qualsiasi…”
“Domattina alle 6.30 sono in via d’Azeglio, tu esci, facciamo colazione, mi restituisci il faldone delle
indagini e io me ne vado in questura.”
“Ci sto, fratellino. Senti, i miei dischi come stanno?” conclude passando il dorso della mano sui vinili
infilati nella libreria.
Paola fa sempre questa domanda quando viene a cena. Credo consideri i suoi dischi un po’ come figli
lasciati in collegio.
Io vivo a casa nostra, quella della nostra famiglia intendo, io, lei e i nostri genitori. Camera di mia
sorella è diventata il mio studio ma le sue cose sono rimaste lì, non le ho mai toccate.
Soprattutto i dischi.
Paola ha centinaia di audiocassette, CD, vinili, e un giradischi ancora funzionante. Aveva la passione
della musica, divorava riviste del settore e il suo primo lavoro fu in una radio privata. Aveva una
trasmissione, andava in onda una notte la settimana. Radio Alaska si chiamava. Accettava le richieste ma
non le dediche. Metteva di tutto, dal pop italiano a quello internazionale, passando per il soul, la new
wave, il punk, la musica elettronica.
Mi piaceva perché parlava, ma non parlava come a casa, era un po’ diversa.
L’ipotesi che un manipolo di sconosciuti la stesse ascoltando dava a Paola quella necessità di misura
che non le impediva di affrontare ogni cosa, ma la costringeva a farlo nella maniera che mamma e papà
avrebbero sempre sognato.
Se invece che in convento le suore potessero vivere in radio, i miei genitori avrebbero considerato
Paola “sistemata”. Avrebbe avuto tutto, Dio, le canzonette e quelle chiacchiere che la fanno sentire viva.
Quando potevo stavo sveglio per ascoltarla, a letto, con le cuffiette. L’ho fatto fino a quando, di
nascosto, lo facevano anche i miei.
Squilla il telefonino.
Ah, per inciso, molto bene la telefonata notturna che sveglia il commissario. Un classico. Me ne
compiaccio.
La voce è quella cantilenante di Ventura, il questore.
“Commissario, lei ancora non è partito?”
“Veramente no, pensavo domani mattina con calma.”
“Bravo commissario,” dice sarcastico Ventura, “non indugi mai nella frenesia… Allora mentre si
rilassa tenga conto che puntualmente, per non farci mancare nessun peso appoggiato sui nostri coglioni,
abbiamo anche il nostro bel morticino adesso…”
Mi alzo in piedi di scatto.
“L’ha uccisa? Ha ucciso la ragazzina?”
“Eh, sarebbe facile allora…”
“Che è successo?”
“Succede che a Cervia, è stato trovato in spiaggia un cadavere.”
“E che c’entra con noi?”
“Con noi niente, commissario, con quei due coglioni in fuga magari… Ma questa è roba che deve
scoprire lei… Il cadavere è quello di una donna, tale Romualdi Fernanda, titolare di un centro estetico
specializzato nella ricostruzione e decorazione delle unghie, nonché nota influencer (quantomeno in
riviera). Nonché, e ho finito, assolutamente identica alla signora che, in quel bar di Cervia, era seduta al
tavolino con la ragazza e il suo aguzzino.”
“Ha ammazzato la donna…”
“E qua viene il bello…”
“In che senso?”
“Nel senso che è vero che quella donna che ha parlato coi nostri due amici in fuga è morta, ma è il
come che ci incasina ancora di più le cose…”
“Che intende, dottor Ventura?”
“Arresto cardiaco.”
“Arresto cardiaco? Nessuna ferita, nessun segno di lotta?”
“Niente commissario. Morte naturale, sembra. Detto questo, caro Carlo, le confesso che io trovo poco
naturale che l’unica tizia che ha parlato con quei due, la mattina dopo se ne va al creatore e vedrà che
anche il giudice per le indagini preliminari sarà d’accordo.”
“Ho capito ma, se non ha addosso ferite o altri segni che indichino una morte violenta, questa ‘tizia’
come la chiama lei resta una che ha avuto un infarto.”
“No, commissario,” replica il questore, “è una che ha avuto un infarto dopo aver parlato con il vedovo
e la ragazzina.”
“Mi sta dicendo che portano sfiga?”
“Adesso c’è di mezzo il weekend, oggi è venerdì, ma vedrà che lunedì il medico legale saprà dirci
qualcosa di più preciso. Nel frattempo, commissario, faccia un bidè sommario e se ne vada a Cervia che
a naso non sarà semplice da srotolare questa matassa… Adesso parte ‘tutta la macchina’, lo sa, vero?”
“Eh, lo so…”
“Arriveranno i giornalisti a fare sempre più domande e rompermi le palle. E lo sa, vero, che quando il
Bologna fa cagare, le pagine della nera s’impennano? Gol, morti e figa sono i tre pilastri
dell’informazione. Quando va bene.”
“E quando va male?”
“Disgrazie, redenzione e turismo consapevole. E il sociale,” continua sconfortato, quasi affranto, “il
sociale, commissario, ci sta franando addosso.”
“Quindi gol, morti e figa?” dico io. “Tutto qua?”
“Esatto, ma gol non ne facciamo, le donne in circolazione sembrano dei pechinesi cocainomani,
restano i morti. Su quelli, in un modo o nell’altro, puoi sempre contare…”
“Signor questore, la vuol sapere una bella locuzione dialettale per dire che uno è morto?”
“Sento che le è imprescindibile Carlo…”
“No,” riprendo io, “è che mio nonno aveva un modo stupendo… Leggeva i necrologi per vedere se era
morto qualche suo amico e quando sbucava un nome familiare, chiudeva la pagina. Provava ad andare
con la memoria a un aneddoto che lo ricollegasse al morto: ‘Pensa che una volta io e…’, e mi raccontava
una cosa che aveva fatto o vissuto insieme al morto, o magari semplicemente sentito raccontare e
rielaborata un po’, i morti sono sceneggiatori pignoli. E alla fine lo diceva in dialetto… ‘Eh, anc lu lè
l’ha pighè i tvaiù’: anche lui lì ha piegato i tovaglioli. Non lo trova sensazionale?”
“E poi il GIP ,” riprende Ventura senza darmi la minima soddisfazione, “il giudice per le indagini
preliminari, gliel’ho detto prima, vedrà che adesso avremo fra i coglioni anche il GIP vedrà… Mi aiuti, la
prego…”
La chiosa della sua telefonata, tutta sempre in tono cantilenante e con voce stanca, è una bestemmia.
Più che un oltraggio, direi una sconfortata considerazione circa la Madonna. Fa tenerezza sentire
bestemmiare Ventura, prima di tutto perché a quanto ricordavo era credente, e poi perché non ha l’aria di
un gesto di spregio, sembra più il suo modo per chiedere aiuto. Un tentativo di svegliare la Madonna dal
suo inconcludente torpore e stimolarla a una più efficace interazione col presente.
“Stiamo tutti facendo fatica,” si giustifica, “anche lei (la Madonna) ogni tanto va pungolata.”
“Ma che fa, questore,” lo sfotto un po’, “bestemmia?”
“Ma si figuri,” risponde Ventura, “sto facendo team building.”
PARTENZA
Sono poco più delle sei del mattino, sto andando in convento a salutare mia sorella, riprenderò gli
incartamenti che nottetempo avrà “esaminato” e poi andrò a Cervia.
Questa faccenda della morta complica tutto.
Devo correre.
Una donna che resta secca, un misterioso rapitore e una ragazzina che sembra non esista, della quale
non si sa nulla.
Non è successo un cazzo per tutta l’estate e in meno di due giorni il finimondo. La capacità di
scocciatura che hanno i criminali improvvisati è inimmaginabile: rapiscono all’alba, fuggono col caldo,
uccidono dopo cena e si fanno prendere quando inizi a divertirti.
Ore 6.30.
Questa è un’ora molto da fiction.
Dovrei fare una passeggiata sotto i portici, vedere le prime serrande aprirsi, annusare l’odore del pane
che sbuca, furtivo, dai vicoli.
Ricordare qualcosa che da tempo non mi veniva in mente. Magari un amore. Oppure un trauma
professionale, chessò, una volta dove, in una sparatoria con alcuni malviventi, è rimasto colpito a morte
un bambino.
Ma io non ho mai avuto sparatorie.
O forse dovrei camminare assorto, fare progetti per il futuro, e magari incrociare lo sguardo con una
donna elegante e misteriosa. Un commissario di quelli della TV farebbe così.
Ma io se la mattina non cago non penso a tutte queste cose.
Arrivo fuori dal convento e mia sorella è in strada.
Fa su e giù nervosa sotto al portico. Ha in mano il faldone delle indagini, maneggia una fotografia e
sorride scuotendo la testa.
“Dimmi: è questo quello che l’ha rapita?” mi fa, e mi mostra la foto del signor Lividi contenuta nei
documenti. E senza che io possa risponderle riprende: “Dài, ti prego, dimmi che è questo monumentale
coglione quello che è sparito con la ragazzina che cercate?”
“Be’, sì, questo è il signor Sergio Lividi, il dirimpettaio di Martina e a quanto pare è sparito anche
lui.”
“Con lei?”
“Pare di sì. Ma perché me lo chiedi così,” le domando, “pescando a cavolo una foto da un mucchio di
carte, e parlando senza conoscere i dettagli?”
“Perché io non conosco i dettagli ma conosco lui, questo qua…” e indica la faccia di Lividi.
“Lo conosci?”
“Lo conosco, lo vedo spesso.”
“In che senso?”
“È un cliente, qua, della baracca,” fa lei indicando con un cenno della testa la chiesa davanti al
convento.
“Questo viene a messa?”
“Non hai capito,” prosegue Paola, “questo viene quasi tutte le sere alla messa vespertina delle 18.30.
Inverno, estate, autunno, primavera, questo da oltre un anno è sempre qua.”
“E che fa?”
“E che vuoi che faccia? Siede quando gli dicono di sedere, si alza quando gli dicono di cantare e canta
in playback.”
“Ma tu gli hai mai rivolto la parola?”
“Le solite cose, un cenno del capo per salutarci dopo che avevo iniziato a vederlo spesso, qualche
parola sul tempo, cazzate.”
“E lui?”
“E lui lo stesso, frasi di circostanza, anche se… adesso che ci penso…”
“Adesso cosa?”
“Mah, non è una cosa utile è solo un po’ strana…”
“Sono quelle le cose utili,” le dico, “vai avanti.”
“Per qualche tempo, un paio di volte, forse tre, mi lanciò qualche input musicale…”
“Musicale?”
“Sì, cazzate, ti ripeto, però… boh, mi pareva strano…”
“Ma fai un esempio.”
“Non so, in estate l’anno scorso ricordi che ci furono quei sette, otto giorni di maltempo, era molto
anomalo ricordi?”
“Eh, e allora?”
“Una sera stava aiutando una tizia anziana, una vecchina secca che pure lei frequentava la baracca, a
prender posto sulle panche prima della messa vespertina, e mentre la tizia si sedeva lentamente lui mi
salutò col consueto cenno del capo e fece: ‘E la chiamano estate…’ e sorrise.”
“Eh,” dico io.
“Eh, cosa? Idiota,” fa mia sorella, “la canzone di Bruno Martino E la chiamano estate, hai presente?”
“Ah, sì. Tutto qua?”
“Ma sì, tutto qua, cose così… le buttava lì di quando in quando. Niente di particolarmente profondo.
Ricordi quando è morto il padre della mia migliore amica del liceo, Serena, che sono andata al suo
funerale a Milano?”
“Eh.”
“Prima di partire, ci fu la messa. Lasciai il borsone su una panca. Lui attese che io passassi dal suo
lato per guadagnare l’uscita e mi salutò dicendo: ‘La valigia sul letto è quella di un lungo viaggio’…”
“Julio Iglesias?”
“Esattamente, Se mi lasci non vale.”
“Più che una mente criminale mi pare un discreto idiota. Pensi che volesse qualcosa da te?”
“Carlo, tesoro, le donne che rivolgono la parola alle suore è perché non lo sono diventate, gli uomini
di quell’età è per chiavarle…”
“Paola,” mi surriscaldo, “lo sai che mi manda in bestia quando fai la scurrile…”
Lei ride, si diverte a vedermi diventare paonazzo.
“Cucciolo,” fa lei provando ad accarezzarmi, ma io le sposto la mano dalla faccia, “si accalora lui…
Purino…” e ride di nuovo.
“E tu che altro hai fatto?”
“Che avrei dovuto fare? Io vado alla messa e alla fine rientro nella clausura, mi piace così. È solo un
modo per vedere gente. Sempre la stessa, un manipolo di sei, sette vecchie e lui. Sedute in prime fila ci
sono due vedove che stanno in via d’Azeglio, dietro di loro i coniugi Chiarini che avevano la merceria in
via dei Carbonesi.
“In una panca, verso il fondo, una donna di quelle sempre in nero, col velo addirittura. Una
rompicazzo, sai quelle vecchie con un piede già all’altro mondo? Era quella che ti dicevo prima, hai
presente? Tossiva in continuazione, dev’essere una delle devote a Santa Caterina.
“E poi, una fila davanti a lei, c’è questo tizio. Siede da solo, in un lato della navata. E se ne sta lì per
tutta la funzione.”
“Non ci posso credere, ma cosa sta succedendo?”
“Aspetta che te lo spiego io,” dice Paola, “entrando per un attimo in clausura e uscendone alcuni
secondi dopo con una specie di borsone da viaggio. “Qua è sparita una ragazzina ed è stata rapita da uno
scocomerato che chiede alla Santa di far fuori la gente in spiaggia…”
“Ahhhh, ancora ’sta storia, ma cosa ne sai che è lui a chiedere quelle grazie cattive?”
“Io so solo quello che leggo. Che c’è scritto qua,” e mi mostra un punto del verbale circa l’ultima volta
che Alessandra, l’amica di Martina, l’ha vista. Il punto nel quale lei in autobus ha ricevuto una cosa dal
signor Lividi. È scritto qua, vedi? Dice che lui la mattina in cui la tizia è sparita le aveva dato una cosa…
che cosa?”
“C’è scritto, una calamita.”
“Okay. Tieni, divertiti,” e mi mette in mano un sacchettino trasparente, pieno di piccole calamite “la
vedi questa bustina?”
“Certo che la vedo.”
“Bene, è di questa che volevo parlarti: lo sai che c’è dentro?”
“Immagino, calamite.”
“Ecco, adesso viene il bello, sai dove l’abbiamo rinvenuta? Sul leggìo delle grazie. A fianco del
volume nel quale la gente chiede i miracoli. Una sera, chiudendo la chiesa, ho notato questa manciata di
piccole calamite dentro a una bustina. Questa qua,” indica. “Qualcuno le aveva dimenticate dopo aver
chiesto una grazia, magari le aveva appoggiate per scrivere. Poi le ha scordate lì.”
“E voi che avete fatto?”
“Che dovevamo fare Carlo? Chiamare l’FBI perché avevamo trovato delle calamite? Dài,
sbrighiamoci,” aggiunge guardandosi a destra e sinistra in strada. “Dove hai la macchina?”
“La macchina? È al suo posto, nel garage dietro casa, ma che vuoi fare?”
“Che voglio fare secondo te? Vengo anch’io. Un po’ di mare non ha mai fatto male a nessuno. Per
ora…” e ride.
“Tu hai voglia di scherzare,” le dico accelerando il passo e facendo per andarmene, ma lei sa sempre
come chiudere un discorso (tipico di chi parla poco): “Ho detto che vengo in Romagna con te,” afferma
perentoria. “Se rompono i coglioni alla Santa, la faccenda riguarda anche me,” e sorride imbracciando il
borsone da viaggio che aveva già preparato. “Oh, in auto guido io, eh, che con te arriviamo a Natale.”
E poi fa quella cosa che ho sempre odiato, si china di scatto con la mano aperta per afferrarmi le palle.
E io faccio un urletto, il solito urletto “da frocio libanese” come dice lei.
Che poi, se non avessi il terrore della risposta che può darmi, glielo chiederei come fa a sapere che i
gay libanesi urlano in questo modo.
27 maggio 1999, 23.41
Radio Alaska
“… manca poco lo so, giugno è alle porte e vi immagino pronti per il mare… Forse anch’io presto ci
tornerò. Dicono che mi farebbe bene. Se mio fratello si decide, se muove quel culone dalla seggiola del
bar sotto casa, allora forse…
“Comunque Bologna non è male in estate, è una specie di mare anche lei, a saperla guardare. Vedremo,
insomma. Di certo non farò l’errore di aver fretta, aspetterò il momento giusto. Di sentirlo, nell’aria…
come le canzonette estive, quelle che mio fratello proprio non sopporta, non accetta la santità delle cose
sciocche…”
Siamo appena entrati in tangenziale e dalla questura nessuno mi ha ancora chiamato, il sergente Fantini
dovrebbe dirmi in quale albergo mi hanno sistemato.
Albergo… pensione direi, date le ristrettezze della polizia.
Poi io dovrei chiamare quell’albergo e spiegare che non sono solo ma c’è una persona, mia sorella,
con me. Tanto, se è un commissario a chiederlo, una doppia uso singola diventa sempre una matrimoniale.
Qualunque posto sia io già me lo vedo.
Sarà uno di quei postribolini ostentatamente spartani, anzi “a conduzione familiare”, un cesso ma da
più generazioni.
I tedeschi per esempio ci cascano tutti. Basta non cambiare insegna e lasciare il nome della nonna che
aprì quella pensione negli anni cinquanta e il gioco è fatto.
Poco importa se adesso lì dentro ci lavorano solo cubiste o pregiudicati, basta che l’insegna dica
“Pensione Lucia” e il cuore della gente inizia a battere.
Ce l’ho già davanti agli occhi.
Il parcheggio c’è, ma al tuo posto auto c’è “momentaneamente” il motorino (anzi, “il motore”, come lo
chiamano laggiù) del moroso della figlia della cuoca.
La stanza è già pronta. Tanto, è sporca.
Sarà uno di quei luoghi con la polverina gialla lungo il battiscopa del pavimento, la moquette nei
corridoi, e l’odore di ascelle negli armadi delle stanze.
Alla reception ci sarà una tizia dall’età indefinibile, fra i 17 e i 55, sempre una tizia comunque, ti
tratterà in modo sbrigativo e vagamente ospedaliero (come le infermiere che danno del tu ai vecchi
ricoverati) che starà a te riclassificare come “informale”.
Avrà le ciabatte e sarà meno abbronzata di quanto ti immagineresti possa essere una che lavora al
mare.
Fa schifo al cazzo ma la scoperesti lo stesso, perché anche tu (in Romagna, ti è più chiaro) fai schifo al
cazzo.
Sarà ruvida fintanto che le farai un complimento, meglio se dozzinale, da lì ti tratterà in modo diverso,
con affettuoso tornaconto.
Per qualunque motivo le rivolgessi la parola, non perderà occasione per ripeterti che lì vengono un
sacco di famiglie e che i bambini si trovano bene. Tu non glielo hai mai chiesto, ma lei ti dirà sempre che
la Romagna è l’ideale per le famiglie.
E anche per i ragazzi.
Ma anche per i nonni ai quali affidano i nipotini.
Insomma, qualunque cosa tu le chieda, lei ti dirà che lì “si sta bene, dài…”. Quel “dài” messo alla fine
di ogni frase è la firma nascosta, le impronte sul cadavere.
Mia sorella trova dozzinali questi miei ragionamenti.
“Chi scopa è taciturno,” chiosa quando m’inerpico nelle mie considerazioni sulle zone di mare.
“Tu non hai problemi con la Romagna, che è un posto bello peraltro, tu hai problemi punto e basta,”
precisa Paola. “Non siamo ancora arrivati e ti stai già lamentando. Uno che non sta bene di testa odia i
posti dove gli altri sono felici. Sono dolente, tesoro, ma non sei unico e prezioso,” chiosa mia sorella. “È
solo troppo tempo che non vedi la figa.”
Ecco che mi trilla il telefono, è Fantini.
Arrivare in Romagna significa scoprire le strade statali. Quelle che costeggiano la città o le campagne
attorno a Bologna non sono nemmeno lontane parenti delle strade romagnole.
Percorrendo la cervese avverti un senso di beffa insopprimibile.
Vedi questa sfilza di mobilifici per tinelli che non diventeranno mai salotti, piccole rivendite di frutta
col nome proprio di donna, elettrauto senza auto dentro e con un cane che gira da solo nel cortile.
Pesce. La scritta “Pesce” è ovunque, insegne di ristoranti promettono “Specialità pesce”. Ma c’è, in
questi luoghi, un senso di male, di dolore irriducibile. Il loro essere a pochi chilometri dal mare. La beffa
dell’esserci andati vicini, destinati a star lì, in attesa di chi, poco più in là, è stato felice.
Si fermerà poche ore.
Per una pizza, per una frittura di pesce in quei luoghi che hanno nomi in romagnolo, o magari anche
solo per far gonfiare i pneumatici prima di riprendere bagagli e famiglia e andare via.
Le strade romagnole sono una specie di Texas.
Ogni tragedia ha la musica che si merita, me lo ricorda mia sorella che, implacabilmente canta quella
canzone di Concato su quei due che percorrono la stradina romagnola e a un certo punto, anche se è
autunno, gli viene voglia di far l’amore, e allora lui le dice che possono andare nel campo di un
contadino che non avranno freddo, perché lui ha il plaid…
“Guidi un po’ tu?” mi fa accostando l’auto al ciglio della statale. “Tanto lo so che adesso arriva la
domanda… ‘Ti piace Concato?!’…” mi dice mentre ripartiamo.
Accelero e faccio per aprire bocca, ma Paola mi interrompe.
“… eccola, lo sapevo che arrivava.”
“Sai che questa è una di quelle cose su cui non mi sono mai soffermato troppo?” riprendo io con
sufficienza continuando a guardare la strada.
“Ah già, tu solo roba colta… Paolo Conte magari, eh, meglio ancora il fratello Giorgio che non ha
avuto successo e quindi ti fa sentire ancora più figo. Quanto vi piace la gente che non ha avuto successo
ma ha notorietà, in fondo è una speranza per quelli come te…”
“Sei seria, cretina? Sono due fuoriclasse. Non eri tu stessa a dirlo in radio: ‘E adesso se riuscite a non
piangere non voglio più avere a che fare con voi’ quando passavi Sparring Partner di Conte?”
“Sì, sì,” dice Paola col finestrino abbassato e i capelli che le si muovono davanti alla faccia,
“piemontesi ricchi di famiglia che cantano firulì firulà… E poi tutto il jazz, come ogni professionista che
abita in centro, su YouPorn guarda solo l’anal, però la domenica ascolta Coltrane… Bravo, bravo…”
“Senti,” rispondo irritato, “quante volte ti devo dire che a me queste parole in bocca a te… YouPorn,
anal e tutte ’ste robe, danno fastidio… Sei una suora…”
“Io veramente credevo di essere tua sorella. Quindi ti danno fastidio perché sono consacrata a Dio,
non perché siamo nati dallo stesso buco…”
“Ma lo fai apposta a parlare così?”
“E tu lo fai apposta a non farlo mai?” e poi come quando era bambina, sorride un attimo prima di dire
la verità: “Io amo Conte, idiota,” e mi carezza la faccia col dorso della mano.
Lo fa sempre questo gesto, o meglio lo fa dopo avermi preso in giro. Anche la mamma faceva così
quando era troppo tempo che non sorridevo.
“Comunque,” le dico, “a me ’sta canzone sembra una cagata, non capisco cosa ci trovi nella storia di
due che accostano l’auto e vanno a far l’amore in camporella nel podere di un contadino.”
“Ci trovo che il contadino li vede e non dice niente perché lui, tanti anni fa, qui ci veniva con
Maria… sarà certamente una cazzata come dici tu, ma è una cazzata onesta. È difficile, sai, non
prendersela con chi è felice.”
“Intanto oggi Maria lo avrà mandato affanculo e sarà sposata con uno che vende ricambi auto ma
almeno, se deve scoparla, lo fa sul letto.”
“Tu hai mai fatto l’amore sporcandoti, Carlo? Per terra, in un campo di barbabietole? Perché parli di
cose che non conosci?”
“Dio a te ti fa male, sai…”
“Mai abbastanza,” sospira lei ridendo di me e appoggiando la testa sulla mia spalla, come avessimo
viaggiato tutta la notte e potessimo finalmente riposare.
Fin da bambini, andare in auto, ci faceva questo effetto.
Parlavamo, litigavamo, ci veniva sonno e poi lei s’addormentava. Io no.
Nel primo sonno sentivo che batteva i denti, e aveva qualche piccola scossa, poi man mano che
passavano i minuti tutto spariva. I brividi del primo sonno di Paola, quelle mandibole serrate prima di
sognare e la bava sul cuscino.
Se solo potessi tornare ad avere tutto questo ogni sera prima di dormire…
Siamo a Cervia.
Prima di arrivare alla pensione voglio subito fermarmi in quel baretto, quello sulla spiaggia dove
hanno visto i due.
Voglio parlare col proprietario e provare a capirci qualcosa.
Ivan, credo che si chiami, e mentre provo a ricordarne il cognome e cerchiamo parcheggio sul
lungomare penso alle stronzate che dice mia sorella, e la sveglio dandole un colpetto sulla gamba.
“Ma tu ti ricordi La ricostruzione del Mocambo?” le butto lì.
“La canzone di Paolo Conte?” dice a occhi ancora mezzi chiusi, “ma certo.”
“È un capolavoro.”
“È solamente la tua vita, Carlo” fa lei stirandosi le braccia, “tu tendi a confondere le due cose.”
“Ma ti ricordi quando l’ascoltavamo insieme, eh? Tu che facevi mentre io singhiozzavo?”
“Io ero felice, Carlo.”
“Eri felice perché piangevo?”
“Sì. Piangevi così di rado, Carlo…”
DETTA “NORA”
“Senti, Carlo, ricapitoliamo,” dice mia sorella mentre ci avviciniamo al lungomare di Cervia, “dimmi
se ho capito bene. Dunque, abbiamo un vedovo, uno sfigato anonimo di più di cinquant’anni che ha rapito
una ragazzina di quindici. Per una coincidenza inspiegabile il tizio è quello stesso uomo che io vedo da
più di un anno alla messa vespertina delle 18.30, e probabilmente è lo stesso scocomerato che ha scritto
quelle robe farneticanti nel libro di grazie della Santa. Lasciando, anche qua Dio sa il perché, una bustina
di calamite vicino al volume.
“La ragazzina probabilmente è stata rapita dopo esser scesa dall’autobus che la portava a scuola.
“Da allora si sono perse le tracce dei due. Un paio di giorni dopo sbucano in una ripresa della
telecamera a circuito chiuso di un baretto sulla spiaggia di Cervia. Stanno parlando con una che non
sappiamo se e come e perché li conosca, sappiamo che è una che decora le unghie.”
“Vabbè, farà anche altro, è un’estetista.”
“Okay, certo,” prosegue Paola, “unghie e gang bang, diciamo, questo è il suo core business. La mattina
dopo questa viene trovata morta sul lettino della spiaggia. Le ha ceduto il cuore, dicono. Poi, una
manciata di ore prima che i due prendessero un caffè con la tizia delle unghie nel tuo account arriva una
mail in cui il tizio ti sfida, ti dice che stanno partendo per il mare e che faranno fuori un po’ di gente. La
mail ha come oggetto ‘Batticuore’. Ho dimenticato qualcosa?” conclude Paola.
“No, direi di no. La situazione è questa.”
“Tu che ne pensi?”
“Io?”
“A me,” dice mia sorella, “sembra che tutto fili perfettamente, sia pur nel delirio, s’intende. Il
vedovo,” spiega, “è andato giù di testa dalla morte della sua famiglia, le atrocità che scrive nel libro
della Santa ne sono una prova e così…”
“E così rapisce una vicina di casa che fa le superiori, la porta al mare e già che c’è prende un caffè
con una che decora le unghie, e questa, già che c’è pure lei, il giorno dopo si fa venire un infarto? Per te
questo sarebbe ‘tutto chiaro’, sorellina?”
“Carlo, quello è un pazzo, il bello dei pazzi è che puoi derubricare tutto a che sono pazzi e così la sera
esci presto dall’ufficio. Dài, un po’ d’incongruenze ci stanno…”
“No, Paolina, è un pazzo troppo preciso per i miei gusti. Speriamo intanto di saperne di più su questa
Fernanda…”
Ma torniamo a Ivan.
Ha uno “spezzato”, nel senso che arriva indossando una camicia bianca (modello “capriccio di
Briatore”) aperta fin poco sopra il pube e un paio di braghini da bagno, di quelli che vendono alle
edicole in allegato alle riviste di figa e orologi.
Porta i capelli lunghi, tenuti indietro da un cerchietto.
“A volte davvero non lo capisco,” dice Paola a bassa voce verso il mio orecchio.
“Chi?”
“Dio,” fa lei squadrando Ivan come si seziona un pesce marcio. “Se Dio fosse un po’ meno
superficiale sarebbe questo qua il morto.”
“Mi faccia indovinare? Lei è il commissario…” ci saluta Ivan sedendosi con noi al tavolino all’ombra
che avevamo individuato. Ci dà la mano all’americana, come faceva Alberto Castagna quando scendeva
dal pullman di Stranamore.
“Ha indovinato,” gli dico, “piacere, commissario Carlo Vento.”
“Lei è qua per la Nora, suppongo?”
“Chi è Nora?”
“La morta,” risponde lui con un sorriso a mille denti, “la influencer della riviera…”
“Ma non si chiamava Fernanda e faceva l’estetista, ricostruzione unghie ecc.?”
“Ma sì, certo, aveva un salone di bellezza-piadineria…”
“Salone-piadineria?”
“Ma sì, commissario, qua tutto finisce in piadina. Dietro al salone c’è un piccolo parcheggio che dà
sulla statale. Lì si può mangiare la piadina.”
“Ah, ecco.”
“Si chiamava Fernanda,” continua Ivan, “ma da quando aveva iniziato con quelle robe lì di internet e
poi, la domenica, la rubrica sulle pagine locali si era fatta il nome d’arte, ha capito? ‘Nora’.”
“Fernanda detta Nora…” ripeto io cercando una bottiglietta d’acqua perché il mix di caldo e stronzate
mi sta già salendo alla testa.
“Ma sì, queste donne di spettacolo…”
“E ’sta cosa dell’influencer e di internet cos’è?”
“Qua Nora è un’istituzione, commissario, si vede che lei viene poco da queste parti…”
“Il lavoro, sa…” mi difendo.
“A ogni modo aveva uno di quei robi lì, un blog, dove caricava video che rimandava poi anche dalla
sua pagina Instagram e Facebook.”
“Come si chiamava ’sto blog?”
“La piada sul tetto che scotta,” fa Ivan tutto orgoglioso.
“E adesso se hai i coglioni,” dice Paola rivolta a me, “chiedigli come si chiamava la trasmissione, la
diretta che faceva dagli stabilimenti…”
“Mare mare mare ma che voglia di…” risponde Ivan felice come un bambino e facendo di sì con la
testa mentre strizza l’occhiolino. “Oh,” prosegue, “gli stabilimenti se la litigavano, eh, faceva un paio di
giorni qua, un paio di giorni là… Tutta l’estate su e giù per la costa. Casadei è roba vecchia, dottor
Vento,” dice tenendo la mano aperta da un lato della bocca.
“E in queste dirette che faceva?” domando sconsolato, giochicchiando con la bottiglietta d’acqua.
“Nei video c’era lei in spiaggia che per mezz’ora tutti i giorni leggeva e commentava notizie, dava
consigli di cucina, su dove andare a cena, che vestiti erano giusti per questa stagione… cose così.”
“Ho capito e dove li registrava ’sti video?”
“Gliel’ho detto, lungo il litorale romagnolo, più precisamente nella fetta di mare che stava fra Cervia,
Milano Marittima, Zadina, Riccione… Iniziava nei weekend di maggio e finiva a settembre inoltrato. Era
un personaggio, anche se, penso, lo fosse solo da queste parti. È il nostro bello, sforniamo gente famosa
che nessuno conosce” e ride.
“Tutti i giorni ha detto?”
“Sì, in alta stagione sì, ma in generale solo nei weekend. Poi… poi spariva. Con l’inverno qua
spariamo tutti.”
“E che faceva in inverno?”
“Quello che fanno tutti, suppongo.”
“E cioè? Lei per esempio che fa in inverno?”
“Non lo so, sto lì…” fa lui ridendo e cercando una sponda complice in mia sorella.
Paola ci interrompe. “Carlo, lo vedi questo ‘semplice’,” dice indicando il tizio ma sorridendogli,
ricambiata, “in inverno lui sta lì e ‘boh, dài, vai avanti, santo iddio’… giusto?”
“Giusto,” fa Ivan.
“E poi cos’altro faceva Nora?” proseguo io.
“Ha fatto anche i provini per fare la meteorina su un’emittente regionale,” riprende Ivan, “l’hanno
scartata di poco, sa? Doveva anche fare la TV, andare sulla RAI, eh,” dice abbassando la voce come se
stesse smerciando un po’ di fumo, “sa, quella serie coi bambini col cancro… che si piange…? Doveva
fare una dottoressa che s’innamora dello zio di uno di dieci anni che ha solo tre mesi di vita.”
“Stupendo. Possiamo andare avanti?” dice mia sorella, “e Nora oltre al blog e le dirette Facebook
faceva altro?”
“Paola, per favore…”
“Guardi che,” ci tiene a precisare, Ivan, “ha fatto la sua bella gavetta, eh, come tutti… presentava
sagre, feste di paese, faceva le pubblicità dei ristoranti nelle TV private, animazione nelle discoteche…
qua senza gavetta non si arriva mica al successo,” dice e scoppia a ridere toccandomi la gamba con la
sua sotto al tavolino.
“Insomma la conosceva, la vedeva da queste parti…” gli domando.
“Soprattutto vedevo quei due meloni… le tette. Nora era rifatta, ma molto bene, aveva tutte le sue
cosine al loro posto…”
“Va bene, ho capito. Aveva un compagno, qualcosa?”
“Ma non saprei, sa, Nora era una persona molto aperta, sensibile, amava un po’ tanta gente.”
“Tutta insieme?” interviene mia sorella.
“Vuoi finirla?” le ringhio a bassa voce.
“Mah, soprattutto proprietari di piccoli pub,” continua Ivan, “gestori di discoteche, qualche avvocato
sopra i sessanta…”
“L’amour toujours,” dice Paola, facendo l’occhiolino a Ivan.
“Eh sì, un ‘gran tour’ come dici te,” risponde lui squadrandola in modo che mi fa imbestialire…
“Parli con me,” dico al gestore, “adesso che abbiamo assunto informazioni su Nora, quello che volevo
chiederle è di quei due, quelli che erano seduti al tavolino con lei.”
“Va bene.”
“Lei li aveva mai visti? Li conosceva?”
“Mai visti prima.”
“Mi racconti quello che sa, così facciamo prima.”
“Quello che so è che non appena ho visto la foto della ragazzina scomparsa, ho chiamato i carabinieri
dicendo che l’altro giorno l’avevo vista mettersi al tavolo con Nora, perché non c’era posto. Hanno preso
un gelato, un caffè assieme a un altro tizio, un tipo strano, hanno parlato per un po’. Una roba veloce,
un’oretta al massimo. Così i carabinieri mi hanno chiesto se avevo un sistema di registrazione immagini
del chiosco e, nel caso, di vedere le registrazioni. E poi niente, commissario, poi ieri mattina hanno
trovato Nora morta sul lettino.”
“Nient’altro?”
“No.”
“Ma scusi, questi due si sono materializzati dal nulla, non hanno mai preso un caffè qua da lei, o
affittato un ombrellone?”
“Commissario, ho un piccolo stabilimento sulla spiaggia. Io le facce le vedo bene, sono tutto il giorno
illuminate dal sole. Quei due lì non li avevo mai visti prima in vita mia.”
“E l’ultima volta in cui lei ha visto Nora quando è stata?”
“La mattina dopo il caffè preso con quei due. Era prestissimo. Ecco, questo magari è l’unico
particolare un po’ strano, praticamente era l’alba. Ho pensato che avesse dormito in spiaggia, qualche
volta le succede, lei sa come vanno certe cose…”
“No, ma fa lo stesso, vada avanti.”
“Mi ha salutato come tutte le volte che la vedevo, si è fatta un bagno, si è data un po’ di crema e si è
messa a dormire al sole. È stata lì tutta la mattina. Sdraiata. Io passavo su e giù fra gli ombrelloni, i
bagnanti facevano su e giù e lei dormiva.”
“E invece era morta,” dico io.
“Per me era semplicemente una davanti al mare,” risponde lui aprendo le braccia.
“Cosa può aver fatto prima?” domando.
“Quello che fa sempre, io penso che chi va al mare fa sempre le stesse cose, in fondo è per questo che
qua è più facile uccidere qualcuno. Prima avrà fatto il bagno di notte,” e assume un tono mediamente
mellifluo, “le piace fare ’sta cosa,” continua abbassando la voce, “e poi si sarà data una sciacquata sotto
la doccia e infine si sarà addormentata. In attesa dell’alba. Prendeva sempre il sole di prima mattina.”
“Lei crede che fosse con qualcuno?”
“Nora era sempre con qualcuno. Da maggio a settembre non era sola nemmeno al cesso…”
“Sa con chi potesse essere?”
“Prenda l’elenco del telefono e cerchi un nome a caso…” dice Ivan, “siamo in estate, commissario.”
“Va bene, ho capito. Speravo lei potesse esserci utile. La ringrazio,” dico facendo per andarmene, ma
lui assume un tono furbo.
“Secondo me, commissario, io sto per esserle abbastanza utile,” dice Ivan frugandosi con una mano
dentro ai braghini da mare.
Non capisco cosa stia facendo.
“Se sta per masturbarsi davanti a noi lo sposo,” mi avverte Paola, “sento di poter lasciare il convento
e seguire il corso dell’amore.”
“Ecco,” fa Ivan e mette sul tavolo un tovagliolino di quelli per il caffè.
“Ecco cosa?”
“Questa qua era per terra, sotto al tavolo dove son stati seduti quei tre. Dev’essere caduto quando ho
spostato i posacenere per svuotarli. Era lì sotto secondo me…”
“È una sua intuizione?”
“Io non son mica tanto intelligente, io lo so cosa si pensa quando uno mi vede.”
“Ma non è vero,” gli dico.
“Che burlone che sei,” fa mia sorella…
“Ma ho memoria,” prosegue lui guardando Paola in modo diverso, come di sfida. “Dopo che abbiamo
visto le immagini a circuito chiuso coi carabinieri sono tornato a quel tavolino dove erano seduti i tre.
Volevo vedere se c’era qualche traccia, qualche indizio.”
“Questo è uno di quelli che guarda Quarto Grado,” bisbiglia mia sorella.
“Vabbè, e quindi?”
“E quindi commissario lei m’insegna che attorno a dove son successe delle cose, talvolta, se ne
trovano altre. Di cose. Questo qua, il bigliettino dico, secondo me l’aveva lasciato la ragazzina sotto al
posacenere. Poi sa com’è, noi passiamo a svuotare i posacenere e il bigliettino vola via senza che ce ne
accorgiamo.
“Ma per fortuna si era incastrato, proprio sotto il tavolo, in una fessura delle assi in legno. Lo legga,
commissario,” dice Ivan, piegando il tovagliolino in due e infilandomelo nella tasca della camicia,
“vedrà che secondo me ne resterà contento…”
“Ma scusi, lei perché non lo ha consegnato immediatamente ai miei colleghi?”
Ivan si avvicina e abbassa la voce, ha un tono complice, quasi divertito…
“Aspettavo la TV, commissario, di solito in queste cose arriva sempre la TV…” sussurra al mio
orecchio con alito caldo, da fogna di Calcutta, “mi stia bene, dottor Vento,” saluta prima di andarsene, “i
miei omaggi, cara,” butta lì verso mia sorella.
“A chi ha detto cara, ’sto coglione?” dice lei e si alza come per seguirlo in spiaggia e attaccare briga.
“Stai qua, scema” la fermo e l’abbraccio.
Rido. S’incazza sempre subito Paolina.
Mentre raggiungiamo l’ombrellone zompettando sulla sabbia rovente, prendo dal taschino dalla
camicia il bigliettino rinvenuto da Ivan.
Non ci vuole molto per leggere l’unica parola che conteneva: Aiuto.
NON SAPPIAMO NIENTE
Torniamo alla pensione, mentre decido di farmi una doccia Paola mi chiede di prendere l’iPad di
lavoro.
Vuol dare di nuovo un’occhiata agli “incartamenti”, cioè gli aggiornamenti sulle indagini in tempo
reale.
Fantini ha messo una cartella su Google Drive.
La morte di una persona non occupa più alcuno spazio e così come nelle case sparisce la carta dei
giornali, nelle scrivanie degli sbirri spariscono (anche se più lentamente) i faldoni sui morti. I morti sono
dentro ai PC, in cartelle adiacenti a quelle delle nostre vacanze, o alle immagini salvate da PornHub.
L’odore del progresso è come il tanfo del retrobottega in un negozio di fiori: colori e vita in vetrina,
puzza di marcio nel retro.
Comunque, Paola vuole vedere Nora, la foto della morta e quelle della scena del ritrovamento.
Le passo il tablet.
“Divertiti.”
Nora è stata trovata la mattina sul lettino del bagno Ivan.
Lui ricorda di averla salutata al suo arrivo, questo significa che è morta dopo, durante la mattinata in
spiaggia.
“Appesi all’ombrellone c’erano vestiti da gran sera, non esattamente la roba con la quale vai al mare,”
dice Paola e poi entra in un silenzio tombale, scorrendo le fotografie di Nora.
“Soffriva di cuore?”
“Macché,” rispondo, “guarda il file con il suo stato di salute, mai avuto nulla, nemmeno una piccola
avvisaglia o un lieve soffietto.”
La donna aveva tratti mediorientali, abbronzatissima.
Una di quelle more in tutto, procaci ma col naso “importante”, che potrebbe benissimo essere la figlia
di un diplomatico egiziano.
Anche se la vedo dura che un diplomatico egiziano chiami una figlia Fernanda. Sarebbe bello, però.
Mentre mi lavo Paola non pronuncia parola, immagino sia assorta davanti allo schermo. Se ne sta lì in
silenzio e guarda gli scatti della polizia scientifica.
Esco dal bagno in accappatoio.
“E allora?”
“Mah, niente,” risponde lei chiudendo il tablet, “mi sembra una morta normale.”
“Mi fa piacere.”
“Anche se” prosegue, “oltre al vestito troppo elegante ci sarebbe ’sta faccenda degli attrezzi da lavoro,
delle sue cosine per decorare le unghie…”
“Eh, e perciò? Che intendi?”
“Vicino al lettino, sul portaoggetti dell’ombrellone vedo che hanno ritrovato un po’ di cose che
probabilmente lasciava sotto al lettino, cose che usava normalmente per il mare, crema solare, la crema
per la maschera facciale, lozioni per capelli, ma c’era anche un’altra cosa: l’astuccio coi suoi strumenti
di lavoro.”
“E allora?”
“A che le servono di notte in spiaggia?”
“Non ti sto capendo.”
“Dico che una che esce la sera per incontrarsi con qualcuno in spiaggia al mare, non ha in mente di
fargli le nuvolette rosa sulle unghie.”
“Vai avanti,” le dico finendo di asciugarmi i capelli.
“Al contempo,” prosegue Paola, “era vestita da gran sera.”
“Quindi?”
“Mah, se devo solo pittare le unghie di qualcuno non sto a vestirmi così e comunque ho tutto il giorno
per farlo. Non vorrei ignorassimo che magari anche lei, Fernanda, la sera al mare esce per lo stesso
identico motivo per cui escono le altre.”
“Sarebbe?”
“Ti sembrerà pazzesco, ma anche Fernanda detta Nora, la sera al mare si fa bella per prendere i suoi
chilometri di cazzo.”
“Senti, lo sai che mi dai fastidio quando parli così?”
“Ancora con ’sta storia? No, caro, a te dà fastidio che io mi conceda il lusso di farlo. Che è diverso.
Tu pensi che consacrarsi a Dio significhi ridursi alla disperazione, ma voi non avete idea di quanto sia
bello, di quanto ci si diverta con Dio.”
“Vabbè,” cambio discorso, “aveva gli strumenti del laboratorio e allora?”
“E allora,” dice Paola accarezzandomi la pancia mentre mi infilo la maglietta, “magari quella era al
contempo una serata galante ma anche di lavoro.”
Anche se non ho capito bene cosa voglia dire, aspetto a farle altre domande. Voglio pensarci sopra.
Mentre rifletto sulle cose che Paola sta dicendo squilla il telefono, è la voce di Fantini che gracchia
parole scomposte.
“Non mi metta in vivavoce se c’è sua sorella nei paraggi…” è la frase che cattura la mia attenzione.
CON GARBO
Una sensazione strana… Sono parole che mi suonano familiari, già sentite, ma non so dove.
Non faccio in tempo a terminare questo pensiero che Paola impreca in modo sospetto, cambia
espressione, stringe il cellulare nella mano e poi lo lancia sul letto interrompendo la comunicazione.
Sembra sconvolta.
“Ma che cazzo fai? Sei scema? Fantini stava…”
“È Garbo,” fa lei, scuote la testa e sorride nervosamente, “è Garbo” prosegue e mi guarda.
“Garbo chi?” faccio io, “Paola, non sto capendo niente.”
“Quelle parole,” prosegue Paola visibilmente spaventata, massaggiandosi le tempie con le mani. Si
siede sul letto e riparte: “È una canzone di Garbo, un cantante italiano degli anni ottanta. Si chiama Vorrei
regnare.”
“Oh, tutte le paghette di mamma e papà in quei dischi di merda qualche risultato lo hanno ottenuto…”
“Carlo,” dice mia sorella alzandosi e abbracciandomi, “forse siamo in pericolo.”
“Che vuoi dire?”
“Ci conosce.”
“Ma chi?”
“Il vedovo. Conosce te, certo, ma anche me.”
“Perché?”
“Quella canzone, per un po’ di tempo è stata la sigla finale della trasmissione che facevo in quella
radio privata. Radio Alaska si chiamava la trasmissione, ricordi? C’era questo brano come sigla
finale…”
“Ma certo, ecco! È vero…”
Ha ragione, ora ho capito dove avevo già sentito quelle parole.
“Okay, va bene, Paola, ma che vuol dire? Può essere una casualità.”
“Ma la finisci di credere al caso, coglione? Lo capisci che di causale in questa faccenda non c’è
nulla?!” strilla lei.
È visibilmente spaventata, si mangia le unghie e non risponde.
“E va bene,” dico io, “ascoltava la tua trasmissione, e quindi…?”
“E quindi lui sa che io sono con te. Lui sa di me. Cretino! Veniva in chiesa, citava canzoni… Non ci
arrivi?”
“Calmati, Paola. Ascolta…”
“Che vuole da me, Carlo? Quel tipo mi tallonava, capisci?”
Nel frattempo Fantini richiama.
“È caduta la linea… Che fa, commissario, non vuole sapere come finisce la mail?”
“Eccerto, Fantini,” gli dico mentre Paola cerca dell’acqua in camera.
“C’è un indirizzo, è di un locale notturno probabilmente: Blue Coconut, viale Ceccarini 23,
Riccione.”
“E basta?”
“No, dopo l’indirizzo un’ultima riga.”
“Spara.”
“Sono io a regnare.”
Paola scoppia a piangere.
“Oh, qua però si mangia bene secondo me,” dice Paola arrivata nel cortile, puntando il buffet degli
antipasti. “Ci fermiamo a cena vero?”
“Per forza.”
“Ma tecnicamente,” riprende, “noi perché siamo venuti qua? Perché c’era questo indirizzo nella mail?”
“Certo, voglio prima dare un’occhiata all’ambiente e poi capire come mai ci hanno voluti qua. Magari
a fine cena faccio un po’ di domande in giro, al titolare del posto, ai camerieri… mostro la foto dei due
che cerchiamo e sento se qualcuno li conosce. In alternativa…”
“In alternativa?” fa mia sorella.
“Si faranno vivi loro.”
“Dici che sono qua?”
“Sanno che ci siamo noi, puoi starne certa.”
“E va bene, ma secondo te perché ci hanno fatto venire qua?…”
“Siediti,” le dico spingendola verso un tavolino e guardandomi attorno in attesa di capire chi e da dove
ci sta osservando, “ceniamo intanto.”
Il mio mestiere non è solo fatto di domande ma anche di ottusità, c’è un momento in cui andare avanti
senza porsi troppi quesiti, far ruzzolare avanti la palla e vedere cosa succede.
Bisogna fidarsi degli assassini.
“Ha prenotato?” domanda una cameriera bloccandoci poco prima di prender posto. Sto per rispondere
di no quando Paola prende la parola: “No, ma lui è un commissario. Sa, indaga su faccende di morti,
rapimenti di minori e cose così. Noi ci faremmo una bella grigliatina…” conclude sfregandosi le mani.
“Scusi?” risponde la cameriera stranita, mentre mia sorella infila una mano dentro la giacca ed estrae
il mio tesserino da sbirro prima che io riesca a fermarla.
“Visto? Commissario Vento. Carlo Vento. Adesso che vi conoscete mi dica la cosa più importante, nei
sughi di pesce ci mettete il pomodoro o li lasciate in bianco, cioè di pesce?” chiude sedendosi e
facendomi cenno di prendere anch’io posto.
“Il pomodoro, penso,” risponde la cameriera vagamente stordita.
“Eh, ma certo,” fa Paola scuotendo la testa e aprendo il menù, “il pomodoro ovunque mettono.”
“Paola… per favore…”
“Così tutto sa di pomodoro,” continua mia sorella.
“La scusi,” intervengo, “è una suora.”
Mentre provo a dare spiegazioni mi rendo conto che non ho esattamente migliorato la situazione. Ma
non è questo che mi preoccupa. Io so perfettamente perché siamo qua.
L’ipotesi che mia sorella lo ignori la rende ai miei occhi tenera, una bambina ingenua.
Con tutta la fatica che fa per essere colpevole…
Ero ragazzo a Bologna quando, nell’arco di un inverno come tanti altri, sbucarono dei localini (tutti
poco fuori città) dove si ballava musica latino-americana. Non credo che esista una sciagura peggiore di
quel genere di musica, ma finché l’impatto di quell’obbrobrio si abbatteva sui suoi stessi fruitori non era
così grave. La vera indecenza di una moda non sta in ciò che porta ma in quello che lascia.
Tutto accadde velocemente, nessuno intervenne…
Ballare sui tavoli.
Sarebbe bastato frantumare le mucose del setto nasale alla prima mentecatta che decise di farlo e tutto
sarebbe stato risolto.
E io magari stasera non avrei qua davanti ’ste tizie in trenta centimetri d’acqua intente a ballare i Santa
Esmeralda con le scarpe in una mano e il ditino dell’altra rivolto verso l’alto, come a dire alle complici:
“Te la ricordi?”
Ballare sui tavoli.
Senza che ve ne fosse alcuna stringente necessità, in quei localini nella bassa emiliana, frotte di addette
alla poltrona in studi odontoiatrici furono addestrate a salire sui tavoli e ballarci sopra.
E noi non abbiamo fatto niente per impedirlo.
Non escludo che ’ste tizie, appena messo piede sul tavolo dove avevano appena finito di cenare, con
un cenno della mano invitassero gli altri a raggiungerle, come un demone che fa gli onori di casa nel suo
girone infernale.
Ballare sui tavoli.
Ecco perché stasera devo assistere a tutto questo: le porno zie coi calli in piscina a sculettare prolassi
davanti a chi attende la panna cotta.
E hanno paura dell’ISIS…
“Mi dica però qualcosa di questo Gonzalo. Chi è? Come mai era con loro?” riprendo.
“Ma come, commissario, lei non sa chi è Gonzalo? È un’istituzione qua…”
“Un’altra ‘istituzione’…” dico pensando a come Ivan aveva definito Nora. “Per Dio, no, non so chi sia
Gonzalo, si vede che abbiamo una differente idea delle istituzioni…”
E lì vedo che il titolare si alza, si porta una mano aperta sul ventre, l’altra poco sopra la testa e allarga
una delle due gambe.
Inutile sperare in un ictus, è esattamente come temo…
“Salsa e merengue, bachata, zumba… Gonzalo è il maestro di balli sudamericani più famoso del
lungomare. Tutte le estati fa questa specie di scuola di ballo itinerante su e giù per la riviera…”
“Dimenticavo,” dico, “qua fanno tutti ‘su e giù’… c’è qualcuno che stia fermo davanti al mare?”
“Da Cervia a Riccione lo conoscono tutti,” prosegue Michelle, “roba sudamericana,” dice, “ma mica
solo quello, eh, anche altri balli più da discoteca… Guardi lui li sa tutti.”
“Immaginavo… Può sedersi adesso?” gli domando mentre mia sorella sta tornando al tavolo.
“Maestro di balli sudamericani,” le dico voltandomi un secondo verso di lei, per aggiornarla sulle
indagini.
“E cos’altro, sennò?” dice Paola infilando le dita nei totani fritti come faceva da piccola.
“Mi dica qualcosa di più su questo Gonzalo.”
“È bellissimo, avrà una quarantina d’anni, alto un metro e ottanta, carnagione ovviamente scura (credo
sia di Caracas). Fa le sue lezioni di ballo la mattina, negli stabilimenti più chic, diciamo così. Domattina
è ancora in questo qua davanti, nello stabilimento Arnaldo, dalle 10 alle 12. Penso si fermi ancora un po’
ma so che domenica sarà a Cervia.”
“Dunque non ha una scuola tutta sua, diciamo che performa in spiaggia?”
“Macché scuola… a che serve una scuola quando uno ha il mare? Lui insegna ai bagnanti sul
lungomare. A pagamento, eh, mica è gratis.”
“E durante l’inverno dove insegna?”
“In inverno torna ad Ascoli.”
“Ad Ascoli?”
“Sì, sì, ha sposato una signora di Ascoli, la vedova di un norcino…”
“Un norcino?”
“Sì, sa, uno di quelli che facevano insaccati, un mastro norcino. Si dice, no?”
“E lui ha sposato la vedova di un norcino?”
“È il freddo, commissario,” dice Michelle, “quelli che lavorano le carni stanno sempre nelle celle
frigorifere, al gelo. Chi lavora al freddo ci finisce presto, commissario…”
“Vabbè,” provo a riprendere il filo, “e in inverno vive e lavora nel negozio di alimentari della tizia.
Torniamo ai nostri due che sto cercando. Gonzalo le ha detto come si erano conosciuti?”
“In effetti no, ma so che stamattina erano in spiaggia, Martina e Sergio si sono iscritti e hanno fatto
un’ora di lezione di bachata sul bagnasciuga.”
“Il vedovo? La bachata?…” fa mia sorella.
“È ’sto cazzo di caldo, Paola,” le dico, “’sta minchia di forno che rende gli idioti dei perfetti idioti.
Nient’altro?” domando al ristoratore.
“No, di più non so, si vede che hanno fatto amicizia.”
“Ma fra di loro com’erano, come parlavano? La ragazzina le sembrava in qualche modo intimorita?”
“Ma sta scherzando, commissario?”
“No, chiedo,” rispondo guardando verso mia sorella che alza le spalle come a dire “non ci capisco più
nulla”.
“Era sempre lei a parlare, mah, chiacchieravano del più e del meno, cazzate, tipo il caldo o
l’allergia…”
“Allergia?”
“Sì, Gonzalo ne soffre parecchio di quelle robe, passa mezza estate a starnutire e a grattarsi gli
occhi… ‘Ma prenditi qualcosa di serio, antistaminici o cose così,’ gli dico, ma lui niente. Sa, uno di
quelli con l’ossessione dei prodotti naturali? Quelli che preferiscono star male facendo le cose giuste
piuttosto che guarire. È un testone.”
“Capisco. E tornando alla ragazzina, con l’uomo che era con lei come si comportava?”
“Non si guardavano nemmeno, le ripeto, commissario, era come sedere a un tavolo con un morto, cioè
Sergio, ma la cosa buffa è che solo lui sembrava sereno, in controllo della situazione.”
“Gonzalo era agitato?”
“Agitato non direi, però era strano, come se li studiasse. Se non lo conoscessi direi che sembrava un
po’ spaventato.”
“Spaventato? E allora perché ha accettato il loro invito a pranzo?”
“Perché ogni cosa che è gratis è nel cuore di Gonzalo, comunque, scherzi a parte, gliel’ho detto,
sembrava un po’ strano. Ma sarà una mia suggestione. A ogni modo potrete chiederlo a lui domattina, alle
10 in spiaggia parte la sua lezione di ballo per le villeggianti.”
“Se è ancora vivo…” bisbiglia Paola mentre giocherella con la mollica di pane e poi, capendo che
Michelle l’ha sentita, gli fa l’occhiolino.
“E quindi questo è tutto,” domando, “c’è qualcosa d’altro che voleva dirmi?”
“È difficile sapere se c’è altro che vorremmo dire, commissario. Lei non trova?”
“Occhio,” fa mia sorella, “che gli è scappata una gran risposta…”
“Dovevano rivedersi?” lo incalzo.
“Che ne so, più o meno come si rivedono tutti qua al mare, la mattina dopo in spiaggia o la sera stessa
a far due passi sul lungomare. Più che sapere se dovevano rivedersi, posso assicurarle che era
impossibile il contrario e cioè non incontrarsi più. Il mondo è piccolo, commissario, il mare ancora di
più.”
UN MOVIMIENTO SEXY
Mattina.
Arriviamo in spiaggia piuttosto presto e il primo sollievo è che Gonzalo è vivo. “Se di sollievo si può
parlare,” precisa mia sorella quando le segnalo il fatto.
Eccolo.
Sta ultimando di chiacchierare con le signore radunate sul bagnasciuga prima di far partire la sua
lezione di bachata. Le ascolta, scherza con loro mentre si passa la protezione solare. Mentre parlano
sembrano tutte fidanzate con lui. Le tocca tutte, una a una. Nei punti dove “ancora si può”, non proprio
sulle tette ma vicino, non proprio sul culo ma sulla bassa schiena.
Poi raggiunge il suo ombrellone, si toglie la maglietta, i pantaloncini e resta in costume da bagno.
Un sorso d’acqua, una spruzzatina di spray nasale (le allergie di cui mi parlava Michelle) ed è pronto.
Basta vederlo mentre fende la spiaggia in direzione bagnasciuga, ha tutti gli occhi addosso. Anche
quelli dei maschi. Gli uomini rispettano solo quelli che scopano. E lui sembra uno di questi.
Gonzalo, si capisce subito, è il re del bagno Arnaldo, il tratto di spiaggia nel quale opera è il suo
regno.
La potenza di questi personaggi in un bagno vacanziero è data dalla quantità di estranei che sostengono
di conoscerlo e di esserne amici. Tutti quanti, al nostro arrivo in spiaggia, ostentano amicizia, talvolta
alle soglie dell’intimità, con Gonzalo.
Faccio un po’ di domande più precise e quello che esce è che nessuno, realmente, sa qualcosa di più di
quanto si vede a occhio nudo: che fa corsi di balli latino-americani.
Solo al mare è possibile stare tutto il giorno a contatto con gli altri senza che nessuno, in realtà, sappia
qualcosa di te.
“Posso fare anch’io la lezione di bachata?” domanda mia sorella, come se fossi nostro padre.
Non ho nemmeno la forza di oppormi, di dirle che la pena, il senso di strazio che proverei per lei nel
vederla in tali circostanze, sarebbero quasi letali.
Ogni cosa nuova la fa felice, è terribile ma è così.
Il problema è che quella gioia dura qualche minuto, una felicità farfalla che muore prima del tramonto,
prima che quella cosa nuova abbia finito le presentazioni.
“Vai,” le rispondo sistemandomi nel baretto della spiaggia, rassegnato ad attendere per poter parlare
con il nostro ballerino.
Ma ignoravo il peggio.
Il peggio è che per quell’oretta che ci attende, quella nella quale il maestro di danza impartisce la sua
lezione, siamo tutti (anche quelli che non partecipano) costretti ad assistere ugualmente.
Il maestro è infatti microfonato. E non è tutto.
La musica e la sua voce sono collegati all’altoparlante della spiaggia. La sua lezione si stende sui
lettini e sulle vite dei bagnanti come il lenzuolo dell’ambulanza copre il cadavere di un morto
sull’asfalto, dopo un incidente stradale.
Alla lezione partecipano praticamente solo donne.
Quello che vedo da lontano sono due cose.
La prima è che hanno forme diverse, si va dalle superinfisicate, quelle che hanno perduto l’inverno in
palestra, a quelle rotonde, ormai prive di alcuna linea, dei Barbapapà col perizoma.
Eppure sembrano tutte identiche.
A dispetto del loro differente “personalino”, a dispetto di ogni differenza di sagoma, peso o età, c’è
qualcosa in quei balli che le incatena a una somiglianza, una sorta di violenta democrazia della gioia
dissimulata.
Il tratto primario infatti di queste danze è l’ostentazione del sorriso, di una foia che da domestica si
trasforma in planetaria per la sola vista del mare. La catena dello schiavo che, per qualche misterioso
motivo, incatena lo schiavo stesso più quando lo “libera” in vacanza di quando lo imprigiona nei meandri
del lavoro quotidiano.
La vera catena è ciò che si nutre della nostra libertà, non della schiavitù, e il demone dell’entusiasmo
ne è l’unità di misura.
Fa un caldo terrificante.
Anche uno col fisico di Gonzalo lo patisce, si sarà fermato due o tre volte durante la lezione che si è
appena conclusa.
Vedo che mia sorella gli sta parlando…
Gonzalo la ascolta con fare stupito mentre raduna le sue cose su un lettino in riva al mare.
Devo esser io a fare le domande, mi sbrigo e vado a requisire il ballerino per interrogarlo.
Paola viene verso di me e dice: “Tutto a posto!”
“Tutto a posto che?”
“Gli ho detto chi sei e che vorresti fargli qualche domanda.”
“Scusa, ma non potevo presentarmi da solo?”
“Amore mio, tesoro,” risponde lei carezzandomi la guancia col dorso della mano, “quello non è un
essere umano è un maestro di balli latino-americani, non puoi arrivargli davanti e dirgli che sei un
commissario e che hai bisogno d’informazioni. Tenderebbe a svicolare, o peggio ancora a mentire.”
“E questo come lo sai?”
“Ma non vedi che lavoro fa?” dice indicandolo mentre ci sta raggiungendo sotto al suo ombrellone.
“E perché mai dovrebbe fidarsi di te, di una a cui ha appena fatto lezione?”
“Il ladro si fida solo di chi ha derubato,” chiude mia sorella.
Non lascio nemmeno che il tipo finisca di parlare, mi alzo e mi precipito, per come il mio corpo
consente, verso la prima fila degli ombrelloni.
Paola corre con me.
Anzi, davanti a me, dato che impiega molto meno ad arrivare in prima fila, a pochi metri dal mare.
Inizia pure a cercare di metter a fuoco i numeri degli ombrelloni.
“Il 23 le urlo ansimante,” per ricordarle il numero.
E finalmente arrivo anch’io in prima fila.
“È questo,” dice lei, indicando un ombrellone sotto al quale ci sono due sedie da mare, quelle da
bagnino.
Ma non c’è nessuno.
Nessun borsone appeso, niente indumenti che penzolino dai sostegni sotto l’ombrellone. Niente
ciabatte in terra.
“Sono andati via,” fa lei.
Andiamo da Arnaldo, il titolare del bagno per chiedere informazioni.
Arnaldo è molto disponibile.
“Sì certo, lo hanno preso ieri mattina e oggi,” risponde scartabellando fra le prenotazioni, “ecco qua,
guardi Sergio Lividi e sua figlia.”
“Non è sua figlia…” dico senza voltarmi verso di lui mentre fisso il foglietto della prenotazione e la
firma del vedovo.
Non so come o perché ma quella firma mi è familiare. Come se non fosse la prima volta che la vedo…
“Hanno pagato in anticipo, due giorni. Ieri e oggi.”
“Sono già andati via? Sa se magari avevano intenzione di restare, prolungare la prenotazione?”
domando.
“Non ho idea, io dopo che mi hanno pagato non ricordo più niente. Sa… volti… parole… il mare
sciacqua tutto… La spiaggia è un posto perfetto per dimenticare,” conclude ridendo e sistemandosi un
testicolo negli slip.
“Curioso,” gli dico io, “un suo collega di un altro stabilimento, dice che lui un volto sotto al sole non
lo dimentica più.”
“Al mare ognuno può dire quello che vuole,” dice Arnaldo alzando le spalle, e capisco di odiare il
mare esattamente per questo.
“Erano qua,” dice Paola ferma, in piedi, scrutando la distesa di ombrelloni aperti. “Non sapevano che
eravamo a un passo da loro…”
“Questo è quello che credi tu,” le dico, “a me pare che il nostro Sergio lo sappia perfettamente dove
siamo e dove saremo. Sta giocando con noi. Ma non capisco a cosa stia giocando. Quale sia lo scopo di
questo minuetto.”
Fa caldo, questa stronzata che al mare si stia meglio è un mantra disperato di chi non si rassegna ad
aver speso soldi per sudare e crepare come avrebbe potuto fare a casa.
Decidiamo di berci una bibita assieme ad Arnaldo, al chiosco della spiaggia. Per un attimo stiamo
bene, quella mezz’ora di pace che volevamo diventa quasi un’ora chiacchierando fra di noi.
Mentre pago le bibite con Paola un grido di aiuto rimbomba in tutta la spiaggia.
“Aiutoooo! aiutooooo! venite!…” urla una donna.
Fendendo la gente che, incuriosita, si era alzata dai propri lettini, mi accorgo che quel grido di aiuto
proviene dall’ombrellone di Gonzalo.
In una decina di secondi di corsa sulla sabbia rovente io e Paola siamo lì, raggiungiamo l’ombrellone
di Gonzalo intravedendo il suo braccio penzolare, come abbandonato, dal lettino.
È tardi.
“È il cuore,” dice un tizio sollevando l’orecchio che aveva appoggiato al petto di Gonzalo.
“Sono un poliziotto,” grido con voce ferma facendomi largo nel capannello di persone che nel
frattempo si era formato.
“Sono un medico,” risponde il vicino di ombrellone, “e questo è un infarto. Appena mi sono accorto di
quanto stava accadendo ho provato immediatamente a rianimarlo con l’aiuto del bagnino. Tutto inutile,”
conclude.
“A un certo punto mi sembrava che avesse come degli spasmi, che si dimenasse dal dolore…” dice una
signora, “prima si è portato le mani al volto e poi sullo stomaco. O forse era sul petto,” conclude.
“Magari si è spaventato perché si è sentito arrivare l’infarto!” dice un tizio seduto sotto l’ombrellone a
fianco.
“Lei ha visto qualcosa?” gli domando.
“No, io leggo il giornale…”
Non c’è più nulla da fare.
Gonzalo è lì, privo di vita, sdraiato sul lettino.
Gli occhi chiusi sotto gli occhiali da sole.
Trovato come lo avevamo lasciato.
Guardo il suo corpo, scolpito, bronzeo quasi, e quei capelli folti, ordinatamente arginati dal cerchietto.
Se non fosse morto sarebbe l’immagine della salute.
Nessuna morte è normale, ma quella è ancor meno normale delle altre. Io e mia sorella siamo gli unici
in tutta la spiaggia a saperlo.
A questo punto è meglio se torniamo alla pensione per fare il punto della situazione. Altro non
possiamo fare.
“Chiamate la polizia e fate in modo che facciano tutti i rilievi del caso,” dico al gestore dello
stabilimento.
“Quali rilievi?” fa lui, “noi abbiamo chiamato l’ambulanza…”
È buffo come, dopo che uno è morto, la gente chieda prima l’ambulanza della polizia.
“… perché d’estate sembra quasi più torrida la notte del giorno? Radio Alaska non vi lascia da soli, in
questo caldo. Due Torri Network, solita sera, solita ora sui 103.1 MHz. Chissà, magari è vero quello che
dice Fiumani, che dietro le serrande abbassate c’è qualcuno che ha coraggio da vendere e fa
l’amore…”
Fa caldo. Lo so, l’ho già detto anche troppe volte in questo viaggio e il dirlo non sortisce di certo
alcun effetto, ma fa caldo e non riesco a darmi pace.
E per giunta abbiamo finito l’acqua, visto che beviamo come cammelli. Per questo esco dalla nostra
stanza e scendo a prendere un paio bottiglie alla reception.
Ma non appena sorpasso il gabbiotto del portiere, lo vedo.
C’era da aspettarselo però.
Ritrovarselo qua, al mare, appena fuori dalla hall della mia pensione, seduto nel giardinetto antistante.
Ludovico.
Possiamo quindi dire che Cervia e Milano Marittima sono la stessa cittadina, ma divisa da un vetro
invisibile.
Quel vetro consente di dare due nomi diversi alla stessa operazione: eutanasia.
A Cervia si lasciano morire le famiglie, a Milano Marittima i single. La fine delle prede, la fine dei
cacciatori, ma sempre fine è.
Chi organizza la scena questo lo sa bene, e ha cura negli arredi affinché ogni candidato all’aldilà si
senta a casa. E così l’ingresso a Milano Marittima si trasforma in un tunnel di locali moderni, tutti
identici per anima e destinazione, il nulla.
La musica latino-americana, neoplasia morale dell’estate, si diffonde da questi posti nei quali una
ragazza tatuata in jeans corti strappati all’altezza di dove, una volta, aveva i peli del pube.
Apre birre pretenziose, tutte artigianali, tutte con lo stesso sapore della Moretti e taglia continuamente
piadine che riesce, miracolosamente, a servirti sempre gelide.
Mentre lo fa, balla, si muove, spesso anche da sola, come gli spasmi della lucertola alla quale tagli la
coda.
In questi localini la gente è stanca.
Tutti sembrano esser lì perché non hanno la forza di alzarsi, come colti da malore, si siedono prima di
passare all’altro mondo.
La tizia che dobbiamo incontrare si chiama Enza Sardo ed è, lei stessa, un rebus.
Nel cervello piccolo e ottuso di un funzionarietto di polizia come me, l’amica di una specie di vamp
come Nora è lei stessa una Nora. Ti attendi una sorta di milf abbronzata, con un po’ di cose rifatte e un
paio di matrimoni andati male. Tatuata ovunque e con piercing invisibili che sai benissimo dove ti
aspettano.
Continua a fare un caldo insopportabile e questo rende ancora più inspiegabile come mai Paola abbia
deciso di indossare l’abito da clarissa.
“Ne ho voglia,” è stata l’unica risposta che ho ricevuto.
“Ma non hai caldo?” le ho detto.
“Ah, ecco,” ha risposto, “ora ho capito come mai i conventi e i seminari si stanno svuotando, è per via
del fatto che gli abiti talari fanno caldo. È per star freschi insomma.”
Quando Paola non vuole rispondere, dice cose intelligenti, te le lascia in bocca come un osso per cani.
“Se sono intelligenti sapranno cosa fare,” è solita dire circa le sue risposte strane.
La vedo stanca e nervosa, è chiaramente insofferente, io la conosco.
“Paolina,” le dico mentre camminiamo verso il ristorante, e mia sorella si fa seria, inizia a respirare, a
fare lunghi respiri come quando è incazzata e ha l’incipit puntuale di ogni piazzata “Senti, Carlo”.
“Senti, Carlo,” dice Paola, “pensavo, ma la vogliamo finire di inseguire ’sti due coglioni? Di fare il
loro gioco? Ma basta. Te lo dicevo anche prima con le buone… Non si capisce più chi è l’inseguitore e
chi è il fuggiasco. E prima ti invita al mare e poi parla della mia trasmissione, fanno i simpatici ballando
in acqua a due metri da noi. Mi pare chiaro, lui l’ha soggiogata e magari pure drogata. Le ha fatto il
lavaggio del cervello.
“Carlo, ascoltami, torniamo a Bologna mi pare l’unico piano sensato. Appena sentiranno la nostra
mancanza si faranno vivi.”
“Sentiranno? Si faranno? Che c’entra la ragazzina?” domando.
“Mi ha rotto i coglioni anche lei,” sbotta mia sorella camminando un metro avanti a me, “a quell’età
dovrebbe andare a scuola di giorno, a lezione di pianoforte il pomeriggio e passare la sera in chat a
mostrare il culo a un architetto per una ricarica telefonica. Che vada a cagare anche lei.”
“Paola, ma mi sembri una matta…”
E a questo punto si ferma e si volta verso di me.
“Vuole davvero noi? Bene, sa dove trovarci. Funziona con Dio funzionerà con gli assassini.
Aspettiamolo dove siamo più forti Carlo, tu a Bologna io in convento.”
“Tu con Dio fai così?”
“Sì, ma lui non bara. Ci discuto e me ne vado. Viene sempre a riprendermi. Andrà detto che lui un
piccolo vantaggio ce l’ha…”
“Sarebbe?”
“Sa benissimo che non sono mai andata via.”
“E quindi questa sarebbe la tua strategia?” le chiedo. “Fare la valigia e tornarcene a Bologna in attesa
che l’assassino si presenti a suonare a casa mia o bussi in convento da te?”
“Esatto. Vuole uccidere? Che muova il culo. Vuole che lo inseguiamo per tutta la Romagna? Se lo
scorda. Hai la sua mail, no? Scrivigli che ci ha annoiati, vedrai come corre…” e chiude, come sempre
accade dopo una sfuriata, con una frase in dialetto, dolce ricordo della nonna Adalgisa: “Và ban a fèr dal
pugnàtt, te, la cinna e il vedovo…”
Penso che Paola abbia le sue ragioni, ma prima di ogni altra cosa vorrei sentire questa amica di Nora.
Se per caso ha qualcosa d’importante da dirci. Ci calmiamo ed entriamo nel ristorante.
Enza ha quarantatré anni, ed è l’opposto di quello che mi aspettavo.
È bassa, magrissima, ha carnagione chiara e capelli biondi, a caschetto.
Porta occhiali con lenti rotonde.
Il suo aspetto non è certo quello della milf a caccia di avventure, direi piuttosto del topo da biblioteca.
Enza, si vede subito, è una che ci frega tutti. E quelli che ti fregano, di solito, hanno indicazioni molto
utili alle indagini.
Ci attende seduta e al nostro arrivo non si alza.
Ci dà la mano continuando a mangiare i grissini.
“Enza,” dice stringendo prima la mano di Paola e poi la mia.
“Lei saprà perché siamo qua…”
“Più che altro io non so perché vi portate le suore,” mi interrompe alzando lo sguardo verso mia
sorella che sta spulciando il menù.
“Ah no, mi scusi, sa, lei è mia sorella, mi accompagna in questo viaggio. È un problema se resta con
noi durante la nostra chiacchierata?”
Enza smette di mangiare i grissini, prende il bicchiere di vino, ne ingoia il contenuto e, sempre
fissando mia sorella risponde: “No.”
“Quindi lei era amica di Nora,” dico provando a rientrare nel discorso.
“Penso di sì, ordiniamo?”
“Eh sì, dài,” la sostiene Paola, “io sto morendo di fame.”
All’arrivo del cameriere ordiniamo.
Io prendo una pizza con le vongole, mia sorella i tagliolini allo scoglio.
“Vuole sapere cose c’è nello ‘scoglio’?” le chiede il cameriere.
“Sì, ma non ora, grazie, son pensieri che mi tengo per la sera…” risponde, la cretina, che sembra
godere nel metter in imbarazzo gli estranei.
“Voglio il pesce fritto,” dice Enza.
“La fritturina di paranza o solo quella di totani e gamberi?” domanda il cameriere.
“Va bene il pesce fritto,” fa Enza alzando le spalle. “Mi porti il pesce fritto,” insiste Enza quasi
sgarbata, fissando il risvolto della tonaca di Paola.
“Come vi siete conosciute? Eravate amiche d’infanzia? Colleghe?” dico alla tizia per saperne qualcosa
di più circa il suo rapporto con Nora.
“No.”
“No cosa?”
“No, nel senso che non ho la più pallida idea di dove Nora abbia trascorso l’infanzia e non siamo
colleghe.”
“Ah, capisco. E quindi come vi siete conosciute?”
“Facebook.”
“Avete amici, amiche in comune?”
“No,” ripete seccamente Enza che, nel frattempo, ha ricominciato a divorare grissini.
“Cercavo su Facebook e ho trovato il suo profilo. Così le ho chiesto l’amicizia.”
“Così? A casaccio?”
“No, non era affatto a casaccio. Le ho detto che cercavo.”
“Ah, e cosa cercava?”
“Gente.”
Mia sorella percepisce la strana durezza del personaggio e prova a inserirsi nella chiacchierata per
ammorbidire il clima.
“Io su Facebook ricevo un paio di foto di cazzi al mese.”
Lei il clima, lo ammorbidisce così.
“Ma tu sei su Facebook?” le domando sgomento.
“Certo,” fa lei.
“Ma con che nome?”
“Col mio,” risponde, quasi stupita.
“Cioè tu sei su Facebook?”
“Esatto, c’è qualcosa che non va? Ci sono tutti. Anzi, se ne stanno andando tutti da Facebook, anche se
sono ancora tutti lì. Dicono di andarsene, ogni tanto minacciano di chiudere il profilo, oppure fanno
‘pulizia’ (la chiamano così) nella lista degli amici. Ma alla fine nessuno si sposta. Comunque,” conclude
rivolta a me, “non ci scrivo mai nulla. Posto canzoni da YouTube. Diciamo che dopo la fine di Radio
Alaska è l’unico modo che ho per metter su un po’ di musica…”
“Che tipi di cazzo le arrivano?” domanda Enza, interrompendoci.
“Mah, i soliti, niente di che,” risponde Paola.
“Paola, santo Iddio!” le dico vergognandomi come un cane.
“Facebook,” dice Enza scuotendo la testa come una maestrina di fronte a un tema pieno di banalità e,
per la prima volta, fa un sorrisino.
“Scusate, possiamo proseguire?” le interrompo infastidito. “Allora, senta, non perdiamo tempo, in
questura mi hanno detto che lei sa con chi dovesse uscire Nora la sera in cui è stata uccisa.”
“Aveva un movimento,” dice Enza.
“Ah, ecco,” faccio io cercando mia sorella con lo sguardo, “che tipo di movimento?”
“Un movimento,” ripete scocciata Enza verso mia sorella, come a dirle “spiegaglielo”.
Nel frattempo sono già arrivate le portate.
Enza mangia la frittura con le mani, le posate per lei sembrano inutili orpelli. Prende i pesciolini della
paranza a gruppi, anche in modo grossolano, e li mette in bocca. Usa le mani come i bambini quando
pescano le caramelle, come piccole gru.
A un certo punto prende il suo cellulare e scorre fra i messaggi. Apre la schermata della chat con Nora,
quella dove la nostra influencer le comunica cosa avrebbe fatto quella sera.
Mi lascia il telefono di fianco alla pizza e prosegue a mangiare la sua frittura.
Non posso entrare nei dettagli, quando ci vediamo ti spiegherò tutto, ma ho un po’ paura, devo ammetterlo. E comunque era da tempo
che non sentivo un’attrazione di questa intensità. Eravamo a fare il bagno in mare. Lei era a qualche metro da me ed è successa una
cosa inspiegabile, ho sentito naturale rivolgerle la parola.
Una specie di magnetismo.
Sai com’è, una chiacchiera tira l’altra, un po’ di sole sul bagnasciuga e poi ci siamo fatti un caffè nel baretto della spiaggia. Abbiamo
chiacchierato del più e del meno, guarda che abbiamo tante cose in comune, sai?
Va appresso a un tipo strano, un vedovo, se ho ben capito. L’ho conosciuto, ma non saprei che dirti di lui tranne il fatto che ha uno
sguardo smorto, triste e un po’ inquietante. Eppure familiare.
Non so che rapporto ci sia fra quei due. Non credo nemmeno che siano parenti, quando erano con me non si rivolgevano nemmeno la
parola. Lui sembra tenere d’occhio attentamente tutto quel che fa, la fissa in continuazione.
Ma stasera saremo sole. Io e lei. La ragazzina.
Non chiedete a uno che fa il mio mestiere come sappia le cose che sa, perché lui per primo non è in
grado di rispondere.
Ma adesso sono convinto che la strategia di Paola sia giusta. E che le “prede” siamo noi. Non
chiedetemi come faccio a saperlo, cosa mi induca a esserne così sicuro.
La chiacchierata con Enza mi ha fatto capire che siamo di fronte a qualcosa di più complesso e
sofisticato di un banale rapimento di una ragazzina da parte di uno sporcaccione. Qua c’è qualcosa che
passa dal cervello, lui in qualche modo la controlla, le è entrato in testa. La plagia.
A ogni modo quei due sono tornati a Bologna, o lo faranno a breve. Questa è l’unica cosa di cui sono
sicuro.
“Ce ne andiamo,” dico a Paola, “torniamo a casa.”
“E così è già finito il nostro viaggio? Questa è l’ultima sera?” dice Paola leccando il suo gelato mentre
passeggiamo per il porto canale di Cesenatico.
“Breve ma intenso,” le rispondo sorridendo e cercando di non cadere in acqua.
Il porto canale di Cesenatico è un posto bello.
Una passeggiata lungo (per l’appunto) il canale che fende il paese, una striscia d’acqua dove sono
“parcheggiate” barche e barchette, una sorta di canale veneziano al mare. Senza Venezia.
Ai due lati del canale si srotolano i soliti piccoli infiniti argomenti del mare lontani dal mare,
negozietti di ogni tipo e ristoranti.
Souvenir di souvenir.
Vetrine che mischiano cartoline, collane di corallo e giochi gonfiabili, con trattorie o locali da
aperitivo.
“Però ti ho portata a Cesenatico, in questura non lo sanno, credono che stia ancora facendo il segugio
per Riccione…”
“E quei due?” domanda Paola.
“Avevi ragione tu, te l’ho detto. Li attenderò come l’orso fa coi salmoni, nel ritorno a casa, prima della
cascata. A Bologna.”
“Quindi stasera è solo nostra?” domanda mia sorella.
“Solo nostra, Paolina,” le dico e le offro il braccio.
Sento la sua mano infilarsi sotto al mio braccio e stringere.
Si regge a me.
La musica non esiste ormai più, i localini e i ristoranti sono gli ultimi luoghi che ne custodiscono il
vizio. Ormai è impossibile cenare al suono delle posate e delle parole di chi hai di fronte.
Sono le dieci, abbiamo fame e stiamo cercando un luogo che abbia un tavolo per due.
Le luci della sera e quelle dei lampioni del porto canale si mischiano sul viavai a criceto (su e giù per
lo stesso tratto di canale) delle persone.
Riconosco, a distanza di cinquanta metri le note di una canzone che promanano da uno di quei
ristoranti.
E non sono il solo a riconoscerle.
Sento Paola tirare come un cane che ha sentito un odore familiare, e corre (trascinandomi) come una
bambina verso ciò che le era stato promesso.
Decido per una volta di non fare domande, che i dieci minuti che seguiranno saranno la sua vacanza, la
sua prima vacanza da tanto tempo a questa parte.
Ogni volta che chi ami è sul punto di esser felice c’è qualcosa di terribile che ti prende alla gola.
Suppongo sia come quando tuo figlio corre verso il mare, per fare il bagno. Come sarà felice in acqua, e
chi avrà il coraggio di riportarlo a casa?
In questo sta il ricatto del mare.
All’improvviso Crazy for You di Madonna investe quella fetta di Cesenatico, i cento metri quadri
davanti al ristorante Peppino.
Paola sfila la presa del mio braccio e con la sua mano raggiunge la mia.
Mi prende come un fidanzato, fende le persone a passeggio e si dirige verso la musica come un
pipistrello sbatte sulla luce.
Non le vedo il volto, ma mi accorgo che le persone la guardano e si scansano.
Per una volta nella vita, le è facile sfiorare quello che vuole.
I tavolini di Peppino sono tutti pieni, le persone sgusciano crostacei o tòcciano il pane nel sugo delle
cozze.
Paola raggiunge il punto nel quale un’altra manciata di coppie, in piedi, sta lentamente danzando sulle
note di Madonna.
Non sembra esserci nulla di diverso dal solito lento per coppiette in una sera di mare. Tacchi, ascelle
e agonia.
Raggiunto il punto nel quale la musica è più forte, direi colto il centro di essa, Paola si volta verso di
me e mi abbraccia portandomi a sé.
“Appoggiati, dài… fa’ la donna,” mi dice, e non posso far altro che renderla felice.
Appoggio la testa sulla sua spalla.
Stiamo ballando.
Siamo praticamente fermi. Il nostro movimento è un lievissimo ondulare come quello di una canna a
ridosso di un fiume in una sera d’autunno, in balìa di un refolo di vento.
Paola piange.
“Tutte le cose,” bisbiglia, “sento tutte le cose, Carlo…” Poi si allontana una decina di centimetri da me
per potermi guardare in faccia. “E non ci sei altro che tu qua.”
“Va tutto bene?” le chiedo.
Lei riappoggia la mia testa sulla mia spalla.
E accelera impercettibilmente il nostro muoverci, la piega più pericolosa è a ridosso di un carrello di
branzini, schivato con una mossa repentina dei fianchi.
“Hai fatto il culo a Dio,” dice. E ride facendo la cosa che, fin da bambino, ho sempre odiato: mi morde
l’orecchio.
“È il tuo modo per dirmi che sei felice?” domando.
“È il mio modo di pregare,” risponde.
Ridiamo, come quando a casa della nonna avevamo finito la scatola dei biscotti e sapevamo che da lì a
poco avremmo dovuto renderne conto a qualcuno. La paura prima della strigliata è il diamante segreto
delle marachelle.
“Non sono mai stata così vicina alla vita,” dice.
Crazy for You sta per finire.
Sento che lei mi stringe di più, sembra la moglie di un soldato che ha accompagnato il marito al treno
per il fronte.
E così, come prima di una guerra che nemmeno vedrà, fa quello che occorre in questi casi, mi dà un
bacio.
Appoggia per un secondo le sue labbra sulle mie.
Senza aprirle.
Un semplice bacio, come quelli che dimentichiamo sulle guance di mezzo mondo. Un bacio che non
chiede d’esser altro di quel che è, che vuol fare solo il suo mestiere. Con onestà. Eppure, come per noi,
anche per lui questa sera è diversa.
Paola si stacca e mi guarda. “Abbiamo dato un altro dispiacere alla mamma?” ride.
E smette di piangere.
Stavolta è lei ad appoggiare la testa sulla mia spalla, posso tornare a fare l’uomo. La gente ci ignora,
sembriamo invisibili. Finalmente non siamo più niente.
Carlo e Paola.
VUOLE LEI
Tornati in stanza valuto come fare quello che voglio fare, l’idea di tornare a Bologna e provare a
essere io a condurre il gioco.
La decisione è presa anche se non so, una volta a Bologna, come muovermi.
Qualcosa m’inventerò.
Mia sorella di sera non si lava mai, è sempre troppo stanca.
Penso che farò una doccia, di solito i commissari delle serie TV quando hanno un problema o scopano
con una ex o fanno la doccia.
A naso farò una doccia.
So anche perfettamente che postura assumere sotto il getto d’acqua, appoggerò le mani al muro e terrò
la testa rivolta verso il basso, lasciando che lo spruzzo mi bagni per alcuni minuti i capelli, e poi
lentamente reclinerò la testa facendo in modo che l’acqua mi bagni il viso e mi lisci la chioma
all’indietro.
Per un inspiegabile motivo, fatto questo, la soluzione è più vicina.
In TV, dopo questa scena, c’è la pubblicità.
Ma non faccio in tempo a togliermi i vestiti che noto un SMS di Fantini: Mail.
Non lo richiamo, so già dove devo andare.
Apro il cellulare e trovo una nuova mail dal nostro vedovo.
Mi piacerebbe poter dire a Paola che aveva ragione, ma purtroppo credo che non potrò dirle più nulla
di questa storia…
Lei deve proteggersi, commissario. La pelle, intendo, ha una carnagione piuttosto chiara. Si vede che è un tipo vulnerabile.
Posso farle una domanda indiscreta? Cosa c’è fra lei e sua sorella? Vi guardavo ballare poco fa e, devo ammetterlo, ho provato una
specie d’invidia. Eravate intimi.
Quanti potrebbero baciare una sorella senza uscirne, in qualche modo, uccisi? Cosa siete insieme voi due?
La mia curiosità è tutta per la sua compagna di viaggio, commissario, penso sarà la prossima persona che mi piacerebbe incontrare. A
modo mio.
Ah, scusi, quasi dimenticavo, se scende alla reception troverà un’ottima crema solare. La usi. Anche lei, a suo modo, è in pericolo,
commissario…
Finito di leggere la mail mi cade il telefonino sul letto, resta illuminato e la luce colpisce una porzione
del volto di Paola.
Dorme.
Un’ora fa ci stringevamo in un lento e adesso questa mail di minacce.
Ma in fondo non è cambiato nulla.
Tocca ancora a me difenderla.
“Chi sta inseguendo chi?” mi chiedeva Paola. Aveva ragione.
Non riesco a pensare ad altro mentre chiamo la reception per aver notizie di quella crema solare.
“Non andartene,” dice mia sorella sdraiata su un fianco, dandomi le spalle.
“Non lo farò,” le rispondo, con la sicurezza di un amante, “credevo dormissi.”
“Credeva dormissi…” sibila infilando le mani sotto al cuscino e rannicchiando le ginocchia vicino al
ventre.
La posizione fetale è il suo piano di volo nel sonno, fin da bambina.
“In effetti c’è un pacchetto per lei, commissario,” dice al telefono il portiere di notte controllando
nell’apposito “alveare” delle chiavi alle sue spalle.
La crema è in un plico, una posta celere consegnata nel pomeriggio da un corriere. Devono anche aver
speso un bel po’, è senza etichetta, una di quelle creme solari naturali, costosissime, immagino. Me la
metto in tasca, poi ci penseremo.
Ma il punto non è questo scherzetto della crema, il fatto è che sapevano dov’ero. E volevano che io lo
sapessi.
Paola aveva capito tutto.
Mi hanno atteso, seguito, osservato.
Ci hanno attesi, seguiti, osservati.
Credevo di essere sulle loro tracce ma era il contrario, le loro tracce erano le bricioline di pane
disseminate da Hansel e Gretel.
Nessun assassino è più pericoloso di chi vuole essere trovato.
E nessun assassino che vuole essere trovato è più pericoloso di quello che vuole far del male a mia
sorella.
TU NON MORIRAI
È ora di andare.
“Ehi… Paola… svegliati, lo sai, si torna a casa…” le dico con lei ancora mezza addormentata,
“seguiremo la tua strategia.”
Lei sorride con gli occhi ancora chiusi. “La strategia della clarissa…” dice con la bocca ancora
impastata mentre allunga le braccia confidando che io mi chini sul letto e mi faccia abbracciare.
L’accontento.
Dopo l’ultima mail che ho appena letto ho fretta sul serio, voglio tornare a Bologna con lei, metterla al
sicuro.
Poi, una volta messa al riparo mia sorella, ce la vedremo io e il vedovo.
“Siamo felici noi?” chiede Paola mollando la presa dell’abbraccio e sedendosi sul letto con la faccia
appena sveglia.
“Siamo felici, noi” le dico sorridendo mentre riempio un po’ alla rinfusa le borse coi suoi abiti.
“Datti una mossa, Paola,” la incalzo, “scendo alla reception a pagare e per quando risalgo in camera
voglio trovarti pronta. Vèstiti. I bagagli te li ho fatti io.”
“Ti aspetto, tigre” fa, la scema.
Mentre striscio il bancomat davanti alla proprietaria della pensione, alcune domande mi frullano nella
testa.
Cerco di mettere insieme i pezzi di questa storia, di capire perché Sergio Lividi stia facendo tutto
questo, come faccia a farlo e perché per tutto questo delirio abbia dovuto portare con sé una ragazzina. E
se lei sia lì volontariamente, cosa del tutto improbabile, o sia stata in qualche modo plagiata. Com’è che
il vedovo la tiene in pugno? C’entrano qualcosa le calamite?
Un puzzle impossibile da metter insieme se non lo becco.
Mentre risalgo in camera le parole di mia sorella mi rimbombano in testa. “Tu vuoi una spiegazione
delle cose, mentre a volte, la spiegazione, è nelle cose. E devi lasciarla dov’è. Capire come sono andate
le cose non dice granché delle stesse. Carlo, prima o poi dovrai accettare l’idea che capire è una pratica
per cretini.”
Arrivato in camera la vedo nuda, davanti allo specchio, col cellulare in mano.
Il mio. Lo avevo lasciato sul comodino.
Mi guarda dallo specchio, senza voltarsi.
Piange.
“Vuole me,” dice.
Sta ferma per qualche secondo. Come se le avessero sparato una sostanza paralizzante.
Poi inizia a vestirsi come una bambina rassegnata alla scuola, per la prima volta in tutta questa storia
la sento realmente in pericolo.
“Andiamo,” dice tenendo con due mani la borsa davanti a sé. “A parte Dio ho solo te. Speriamo
bastiate,” conclude uscendo dalla stanza d’albergo e infilandosi giù per le scale.
Parliamo davvero con le persone solo quando le sentiamo in pericolo. Succede con gli ammalati, con
gli amori che finiscono.
E con le suore, suppongo.
È al pericolo che i rapporti umani devono gratitudine.
Appena entrati in auto, alla volta di Bologna, sento che è il momento giusto per fare “quel discorsetto”,
una cosa che, per rispetto l’uno dell’altra, abbiamo sempre finto che fosse chiara, ma così non è.
La situazione che stiamo vivendo mi consegna la forza per affrontare il tema della sua vocazione.
Avanti, Carlo, mi dico mentre scorro i colori degli ombrelloni sul lungomare e il vento caldo invade la
nostra piccola auto, adesso!
“Paola, senti, c’è una cosa che…”
“Finalmente,” m’interrompe guardando fuori dal finestrino senza che possa nemmeno un po’ godermi il
mio stesso preambolo.
“Finalmente che?” le dico.
“Vuoi sapere di me e di Dio, la faccenda della fede e tutto il resto. Perché sono finita nelle clarisse…”
“In effetti è così,” dico e proseguo meschinamente colloquiale: “Sai… pensavo che, pur avendone
profondo rispetto, forse non ho mai realmente compreso la tua scelta. Ne abbiamo parlato, ovvio, ma ho
sempre avuto l’impressione che stessimo solo argomentando senza mai entrare sul serio nel cuore della
faccenda. Come mai sei finita in quel convento?”
“Ah, tu,” spingendo su quel “tu”, “non sai come mai? Direi che sono io talvolta a non averlo capito del
tutto. Io so solo quello che sento, ma non so che nome dare e quali parole metter in bocca a quel che
sento. Io sento di dover esser lì. Di dover stare nei suoi paraggi. Che solo così, ad esempio, tu sei salvo.”
“Io? Che c’entro io?”
“Ma pensi che credere in Dio significhi salvarsi il culo?”
“Non lo so io credo che…”
“Ascolta, Carlo, Dio per me è la distanza fra la felicità che vorrei tu avessi, la protezione di cui hai
bisogno e quel poco che io posso davvero fare per tutto questo.”
“Ma io,” riprendo, “non ho bisogno di Dio…”
“Ah,” dice sorridendo verso il mare, “giusto, tu hai uno stipendio e fai spesso controlli alla prostata, tu
non hai bisogno di Dio, hai il tuo gruzzoletto per comprarti i Fonzies e un tizio ti infila un dito in culo
ogni anno. E chi sta meglio di te, vecchia roccia?” dice sfottendomi e dandomi un pugnetto sulla spalla,
“incredibile come ancora certa gente possa sentirsi sola, con Masterchef in prima serata, vero, Carlo?”
“Non ti pare di banalizzare un po’ la vita di chi non crede?”
“Mi pare che chi non crede si sia già messo avanti col lavoro in tal senso, ma non voglio convincerti.
Non credo in Dio perché mi sento sola, credo perché questa solitudine (se Lui c’è) è la cosa più preziosa
che io abbia. Da questa solitudine io posso arrivare a chiunque, a te, alla mamma che non c’è più, a papà,
a mio figlio.”
“Tuo figlio, Paola? Non credi serva un uomo prima di tuo figlio?”
“Certo che serve. Ma a me. Mio figlio c’è già, da qualche parte dietro un vetro che dà su di noi, su
ognuno di noi. È più vivo di me e di te. Di tanto in tanto mi guarda, fa la sua vita dietro al vetro e aspetta.
Come tutti.”
Anche lei sente suo figlio, come me. Le prendo la mano tenendo solo la sinistra sul volante e lei me la
stringe.
“Hai cagato stamattina?” mi domanda.
“Ma che c’entra, Paola?” dico io spiazzato.
“Madonna…” riprende lei, “non ha cagato, adesso sarà isterico tutto il giorno… Come faranno i
commissari stitici a prendere i cattivoni, eh?” domanda con tono di sfottò.
Suppongo che faccia così perché non vuole più parlarne e l’accontento. Ma poi, dopo un paio di minuti
silenziosi, è lei a stupirmi di nuovo.
“A ogni modo…” dice lasciando sospeso il discorso e si protende verso il suo borsone nei sedili
posteriori dell’auto, “a ogni modo…” fruga in una tasca interna, tira fuori un quadernino di quelli di
scuola, con gli animali sopra, e me lo consegna, “ecco, fermati,” conclude, “guido io da qua a Bologna.
Tu hai da leggere ora. Per comodità partirei da questo,” mi incoraggia sistemandosi al mio posto mentre
io giro attorno all’auto per prendere quello del passeggero, e apre il quaderno a una pagina ben precisa.
Mi metto a leggere mentre ripartiamo.
“È un brano di Flannery O’Connor,” dice Paola, “un estratto da un suo racconto. La conosci?”
“Veramente no.”
“Una scrittrice americana.”
“E poi? Tutto qua, non hai altro per descrivermela?”
“Allevava pavoni, credeva che nella misteriosa tonalità di blu della loro coda si nascondesse il
segreto della fede. Se ne convinse vedendoli scappare,” prosegue mia sorella guardando l’asfalto. “Vedi,
qualche volta un pavone le scappava dal cortile e finiva in strada, se ne stava fermo nel bel mezzo di una
strada di campagna. Di quando in quando, passava qualche camion proprio lungo quella strada. Il pavone
se ne disinteressava. E apriva la coda.”
“Tutto qua?”
“No, non è tutto qua. Per la legge dei grandi numeri, qualunque altro tipo di animale, galline, gatti,
maiali, sarebbe stato investito prima o poi.”
“E quindi?”
“Nessuno dei pavoni fu mai investito. Aprivano la coda e si riparavano dietro a quel blu. Il pavone non
faceva alcunché per spostarsi di fronte alle auto e ai camion che arrivavano. Il misterioso blu deposto
nella coda, quella bellezza indecifrabile, costringeva chiunque a tenerne conto. Era un argomento che
oltrepassava le parole e i pensieri e agiva direttamente nel sangue.”
“Ma,” domando “sei seria, Paola?”
“Leggi, idiota,” conclude voltando lo sguardo sul lungomare.
Quand’era possibile, tentava di sfuggire a questi pensieri, di guardar le cose normalmente, di non vedere più di quanto gli stava davanti e
di non oltrepassarne, con gli occhi, la superficie. Aveva l’aria di temere che se avesse permesso al suo sguardo di soffermarsi un attimo
di più di quanto occorreva per riconoscere una cosa – una vanga, una zappa, i quarti posteriori del mulo attaccato all’aratro, il solco
rosso ai suoi piedi – quella cosa si sarebbe levata improvvisamente dinnanzi a lui, estranea e spaventosa, esigendo che la nominasse, e la
nominasse senza errori, e lui sarebbe stato giudicato dal nome che le avrebbe dato. Tarwater faceva il possibile per evitare il rischio di
questa intimità con il creato…
(Il cielo è dei violenti, Flannery O’Connor)
“Mah,” le dico, “qua secondo me racconta che…”
“Non fare il coglione,” mi blocca, infastidita mia sorella. “Non dirmi cosa racconta, lo so. Non ho
altro da aggiungere.”
“Ah no?”
“È una linea, Carlo, tutto qua,” prosegue facendo con la mano il gesto come di una barriera, “a un certo
punto devi decidere se ti basta tutto quello che c’è prima di quella linea, o se vuoi oltrepassarla e vedere
le cose da lì. Intimità con il creato.
“Hai presente quando mancavano pochi minuti all’ora di cena, e la tavola a casa era già apparecchiata
ma papà e mamma finivano di mettere le ultime posate, gli ultimi bicchieri prima di chiamarci?”
“Certo.”
“Ricordi cosa facevamo?” sorride, e prosegue, “apparecchiare ci annoiava, e allora ce ne stavamo in
fondo al corridoio che dava sul salotto e, da lontano, li spiavamo mentre finivano di preparare la tavola.
Li guardavamo portare in tavola le pietanze, ultimare la scena. Due bambini che spiano chi li ha messi al
mondo. Intimità con il creato. Cosa doveva fare Dio, più di così?” domanda Paola con gli occhi lucidi.
“Telefonarti? ‘Intimità con il creato’, è tutto qua Carlo.”
“Non so cosa dire, io quello che tu ricordi non lo chiamo Dio ma famiglia, almeno fino a oggi…”
faccio io.
Ma lei riprende: “Non mi bastava riconoscere le cose, volevo dar loro un nome per collegarle a chi le
aveva messe lì per me. Sta a te decidere, se ti basta dar un volto ai tuoi genitori, alla persona che ami,
una forma agli oggetti che usi, un indirizzo al lavoro che fai, o se vuoi dare un nome preciso a tutte queste
cose, sapere dove ritrovarle. Ma soprattutto sapere chi le ha messe lì. A chi appartiene quello che ti fa
felice?
“Così come, al culmine dell’intimità, sussurriamo l’essenza irriducibile di chi stringiamo a noi, Dio è
una faccenda d’intimità, la necessità di oltrepassare una linea.
“L’istinto di conservarsi mettendosi a repentaglio perché solo da lì, dal precipizio di tutto, puoi vedere
sul serio. E se è da lì che cadi, sei salvo. Accade anche agli innamorati. Tanto più che solo gli innamorati
credono davvero. E qua siamo all’altra fase.”
“Quale altra fase?”
“Ma non capisci?” dice Paola quasi spazientita. “Senza Dio gli innamorati sono dei bugiardi. Quando
sei innamorato puoi dire ogni cosa a chi ami, promettere felicità, viaggi, case, persino figli se tutto è a
posto nei nostri corpi. Ma c’è solo una cosa che non puoi promettere ed è l’unica cosa che vuoi quando
guardi chi ami.”
“Che cosa?”
“‘Tu non morirai’.”
“Tu non morirai?”
“Esatto, che niente andrà perduto. Innamorandoti metti in dubbio la morte. Ma vedendola agire di
continuo, casa per casa, fra le persone, le cose, gli amori stessi, ti serve qualcuno che si occupi della
faccenda. Dio è la frase finale di ogni dichiarazione d’amore. Quella che tu non puoi dire.”
“‘Tu non morirai’…” sibilo contando gli ombrelloni mentre la nostra auto percorre il lungomare di
Cervia.
“Proprio così.”
“E tu come sai tutte queste cose su Dio e sul fatto che solo gli innamorati…”
“Quando hai un problema chiedi a Dio di risolverlo,” chiude Paola, “quando ami gli chiedi di esistere.
E io, parecchio tempo fa, mi sono innamorata.”
“Immagino sia impossibile chiederti di chi?”
“No, anzi, direi che ne hai pieno titolo, ciccio,” risponde Paola accostando l’auto sul lungomare e
rivolgendo lo sguardo verso di me, “io ero innamorata di te. Io volevo te. Ma non potevo averti, non
completamente. Mi pare ovvio.
“Serviva un ripiego e, per quanto ho potuto vedere, Dio era il meglio sul mercato. Se non potevo
amare ho scelto l’amore. Meglio di te c’era solo chi ti aveva pensato prima di me.”
VERSO CASA
Molto bene.
Benissimo. Davvero.
Il colpo di scena della sorella clarissa di clausura innamorata del commissario ciccione, immagino le
fusa che mi farebbe uno sceneggiatore di questi qua moderni.
Quelli che credono di potersi permettere le infradito, la supponenza di chi (finendo in TV) pensa di
poter mostrare i piedi.
Taccio, taccio e non la guardo.
“Non essere in imbarazzo, Carlo,” dice mia sorella riprendendo la strada, “è incredibile come dire
cose naturali tolga naturalezza ai dialoghi non trovi? Li intossichi…”
Non ho nemmeno il tempo di rispondere che vengo salvato dallo squillo del cellulare.
È Fantini.
“Commissario, ha visto la nuova mail allora?…”
“Sì, l’ho vista.”
“Questo stronzo se la prende con sua sorella, adesso…”
“Non preoccuparti, Fantini, a Paola ci penserò io. Stiamo tornando a Bologna. Sono certo che Lividi
sarà già lì e… ”
Mia sorella mi prende il telefono di mano e dice: “Fantini, stiamo entrando in galleria … Carlo dice se
potete sentirvi fra un po’ che deve guidare e la linea va e viene!”
E riattacca.
“Ma sei scema?”
“Adesso hai da fare, Carlo.”
“Da fare? Ma che cazzo dici?”
“Adesso io starei concentrata su un altro fatto,” dice Paola mentre volta piano piano la testa seguendo
un punto del lungomare.
“E sarebbe?”
“Che Lividi non ti attende a Bologna.”
“No?”
“Per me,” prosegue Paola e allunga il collo per vedere dal finestrino lato guidatore, “è quello lì fermo,
seduto sul muretto del lungomare…”
Avete presente quei pistolotti che facevo sulle cose che un commissario sentiva? Sul fatto che, anche
senza sapere il perché, io fossi certo che quei due erano già tornati a Bologna?
Ecco, queste sono le tipiche stronzate che i commissari della TV raccontano stando seri. Assumendo
un’aria quasi messianica.
Ci ho provato anch’io, volevo togliermi il capriccio, ma sono stato subito punito.
“Commissario,” dice Lividi venendomi incontro, “mi sono permesso di offrire io le bibite…”
“Oh. Sergio, ti ringrazio. Però noi adesso dobbiamo andare a Bologna,” ma a questo punto lui mi
prende per un braccio e fa: “Posso chiederle una cosa anomala?”
“Dipende, vediamo…”
“Immagino che lei ora stia per chiamare una volante e che con loro, seguito dalla sua auto, io
raggiungerò Bologna. Non è così?”
“Sì, è così.”
“Bene. Lei troverebbe particolarmente bizzarro che io le chiedessi, mentre attendiamo la polizia, di
potermi sdraiare qua, su questo lettino e prendere un po’ di sole? Magari sarà l’ultimo per un bel po’ di
tempo…” dice sorridendo.
“No,” farfuglio, “non lo trovo ‘particolarmente’ bizzarro. Non ci sono problemi. Io però starò a un
centimetro da te, fino all’arrivo della volante,” gli dico mentre gesticolo verso Paola, che è rimasta in
auto, come a dirle tutto a posto, “fra poco ce ne andiamo”.
Sergio si spoglia.
Solo la camicia, i pantaloni li tiene. Si vede che sotto avrà le mutande e non il costume.
Non avevo fatto caso al curioso ciondolo che ha al collo.
A prima vista poteva sembrare una di quelle pietre di poco valore, alle soglie della bigiotteria, quelle
cose che di solito sono in omaggio con le riviste femminili in estate.
Le calamite non sono una novità in questa storia.
A Bologna glielo chiederò, adesso mi pare stanco.
Sembra uno come tanti mentre si passa la crema solare su tutto il petto, in faccia, un pochino dietro al
collo e sulle spalle. E si sdraia sul lettino, sotto al sole. Si è portato tutto sotto l’ombrellone, le sue cose,
i vestiti ordinatamente appesi, c’è anche la mia giacca che avevo dimenticato al chiosco.
Lo guardo sdraiato, con gli occhi chiusi, sembra stanco morto.
“Voleva andassimo a Parigi,” dice Sergio senza voltarsi verso di me.
“La città degli innamorati…” dico io.
Lui sorride, e guarda verso il mare. “Ah, commissario…”
“Dimmi, Lividi, cosa c’è’.”
“Posso farle un’altra domanda?”
“Spara.”
“Perché mi dà del tu?” dice poco prima di chiudere gli occhi incrociando le mani dietro la testa.
UN CUORE MATTO CHE TI VUOLE BENE
C’è garbino.
Questo era il vento che ricordavo come pericolo al mare.
Da piccoli era un vero e proprio nemico.
“Niente pedalone oggi,” diceva papà, “c’è garbino, un vento insidioso che vi porta al largo senza che
ve ne accorgiate…”
Un vento pericoloso.
Che dal mare potesse venire una minaccia è stata la lezione più importante dell’infanzia.
Un bambino adora il mare, lo fa senza alcun plausibile motivo. Si fida e basta. L’idea che uno così, uno
come il mare, possa portare un’insidia nella tua vita di bambino è talmente lontana, talmente
inimmaginabile…
Eppure.
Il primo vero (piccolo) pericolo di un’infanzia arriva da ciò che ogni infanzia attende di più, desidera
di più: dal mare.
Se fossi uno sceneggiatore di quelle serie TV, saprei metter giù ’sto pensiero in modo efficace, ne farei
uno snodo chiave, molto simbolico, della faccenda. E invece sono qua, con mia sorella intenta a frugare
nella radio in caccia di musica che non troverà mai e ad attendere che la volante che ho richiesto venga a
prendersi un vedovo che si sta abbronzando. Forse un assassino.
Dall’auto lo tengo d’occhio, ma quello a scappare non ci pensa nemmeno.
“Ma quanto ci mettono?” domanda Paola guardando l’ora sul cellulare, “cos’è, siccome sei un
commissario se la prendono comoda? Pensano che se succede qualcosa tu lo blocchi con una mossa di
karate?”
“Ahahah,” rido scuotendo la testa, “ci manca giusto il karate.”
“Magari nel corpo a corpo ti scende anche l’altro testicolo…”
“Paola, non sopporto quando parli così, per Dio!”
“Ma che vuoi? Non avevi quel problema fin da ragazzo? Avresti dovuto operarti ma poi…”
“Paola!” la interrompo, “ne possiamo riparlare quando avremo consegnato l’assassino alla volante?”
“Madonna, che carattere…” dice lei e abbassa il sedile dell’auto per farsi un riposino.
“Almeno gli hai chiesto,” domanda senza voltarsi verso di me, “perché ha ucciso Nora e Gonzalo?”
“Lo stavo lasciando parlare… le confessioni io, le incasso così…”
“E l’hai incassata?”
“Torno da lui, non mi sento di lasciarlo troppo per conto suo…”
“Svegliami quando arrivano i nostri.”
Mentre mia sorella dorme mi viene voglia di domandare al vedovo cosa intendesse dire circa l’ultima
cosa che mi ha chiesto. Questo mio vizio di partire dando del lei a qualcuno e poi, man mano che la
conversazione prosegue, passare al tu.
Mi avvicino alla spiaggia e lo raggiungo, è ancora immobile dopo quasi mezz’ora. Sotto al sole.
“Sergio, cosa intendevi dire con la domanda sul darti del tu?” dico a Lividi che si gode il sole a occhi
chiusi sul suo lettino mentre mia sorella, che evidentemente non aveva tutto questo sonno, mi ha raggiunto
in spiaggia.
“Mi sono rotta i coglioni di sentire ’sto cazzo di trap.”
“Cosa?”
“La radio, dico, un disastro. Ma tu, Carlo, hai idea di cosa ci sia alla radio oggi? Cazzo, erano anni
che non la sentivo.”
“Sei sempre così… sempre a fare la difficile…”
“Ma non sarete voi a fare i facili? Avete idea di cosa sia oggi la radio? Solo merda che gorgheggia e
vocalizza su canzoni senza la canzone dentro, porcate confezionate bene quindi, la peggior merda fra la
merda, quella che si ‘pettina’. E poi i conduttori, tutta gente a cui gli ascoltatori telefonano, magari
dall’auto… ‘Ciao, chi sei? Cosa stai facendo?’ ‘Stasera apericena? È venerdì, ti scateni?’”
“A proposito, Paola,” riprendo pensando al fatto che il vedovo fosse un suo ascoltatore e volendo farle
una sorpresa, “lo sai che Sergio… Sergio,” dico rivolto al vedovo, “vuoi dirglielo tu?”
Lividi non risponde, immobile, a occhi chiusi e braccia incrociate sotto la testa.
Sento Paola prendermi la mano come facevamo in ospedale quando la mamma entrava e la vedevamo
rassicurarci col suo borsone di vestiti sulla barella.
Me la stringe e fissa ammutolita Sergio inerte, senza vita.
“E adesso a chi tocca, Carlo?” domanda Paola sedendosi sul muretto della spiaggia.
Vedo che vorrebbe piangere, ma ha talmente paura che non ci riesce. Vado verso di lei, le carezzo via i
capelli dal volto accaldato e l’abbraccio.
“Andiamo a casa,” le dico e la stringo a me fissando il mare.
LA ROMAGNA, DETTO FRA DI NOI
Pochi minuti dopo la scoperta del cadavere di Lividi è arrivata la volante, ho parlato coi colleghi.
Sergio è morto, speravo avrebbe vuotato il sacco una volta in commissariato. Poteva fare il bravo e
venirmi un po’ più incontro, e invece mi ha lasciato qua da solo, sulla via del ritorno, con un mucchio di
domande senza risposta.
Mi trovo a rimuginare su quel poco che sono riuscito a fargli dire, ma mi viene solo un forte mal di
testa.
In auto fa caldo, provo a concentrarmi su quello.
Il finestrino abbassato fa entrare l’aria rovente, è un supplizio stare in macchina con una che non
tollera la climatizzazione.
Guardo il paesaggio.
“Tears for Fears… Lo sapevate? Il loro nome è stato ispirato dalla cosiddetta primal scream therapy
dello psicologo americano Arthur Janov… Questa pratica ha acquisito grande notorietà dopo che nel
1970 John Lennon è diventato paziente di Janov… Ma quale pratica psicologica può dirsi anche solo
vagamente efficace se non ha come esito immediato quello di sparare Yōko Ono nello spazio a calci nel
culo?”
“Carlo, senti,” dice Paola ticchettando sul computer, “cominciamo a fare quello che ti ha chiesto
Fantini, vuoi?”
“Okay, accendi il PC.”
“Pensavo,” riprende Paola, “che forse c’è qualcosa che ti è sfuggito ma non sul vedovo o sulla
ragazzina, ma sui morti.”
“Quali morti? I primi due o ci metti dentro anche Sergio?”
“Io penso che chi ha ucciso i primi due abbia ucciso anche Sergio.”
“Ma Paola, per Dio, eravamo lì io e te con Gonzalo, e anche con Sergio nell’ultimo caso, questo ha
preso, si è messo sotto al sole e mezz’ora dopo era morto.”
“Morto come gli altri,” precisa mia sorella, “arresto cardiaco anche lui, e nessuno che li abbia sfiorati.
Non può essere, dài, qualcosa ci sarà sfuggito.”
“Cosa è sfuggito?”
“Puoi farmi rivedere tutte le cose della scientifica, i risultati delle autopsie (le avranno disposte no?), i
referti, le analisi sui corpi e il resto? Fantini ha aggiornato tutto, vero?”
“Paola, dove credi di essere, a Los Angeles? Ci vuole tempo per queste cose, soprattutto per avere i
risultati delle autopsie. Arriveranno, non temere. Ma per adesso dobbiamo fare con quel che abbiamo, e
se Fantini dice di cercare tra le fotografie della scena dei delitti (ti piace se li chiamo delitti?), io intanto
farei così. Ecco qua,” le dico aprendo la cartella delle indagini sul portatile, “serviti pure, sai dove sono
i documenti…”
“Dobbiamo ripartire da qua, da loro,” fa Paola, “i morti parlano tanto quanto i vivi, sai…”
“Risparmiami le faccende religiose, Paola, abbi pietà…”
“Non c’entra nulla la religione, è una questione di udito, ma degli occhi, però.”
“Udito degli occhi? E cos’è?”
“È una capacità di notare ciò che pur avendolo sotto gli occhi non riusciamo a vedere.”
“Non ti capisco,” le dico.
“Provo a spiegarmi meglio,” risponde. “Gli occhi hanno una vista, e con quella vedono ciò che è in
primo piano, ciò a cui sbattono contro. Poi c’è un’altra specie di vista, una forma di udito, di risonanza,
che gli occhi riescono a sviluppare, ma solo in seconda battuta.”
“Cioè?”
“È un po’ come quando t’imbatti in una bella donna: la prima cosa che vedi è che è bella. Solo
osservandola bene, qualche tempo dopo, ti accorgi che sotto i capelli lunghi, una delle due orecchie è a
sventola. A me è capitato, con suor Ornella,” Paola sorride. “Vedi, Carlo, le cose invisibili fanno rumore,
dobbiamo sentire quel rumore, osservando in ciò che ci sembra normale ciò che normale non è.”
“Dici che dovrei guardare meglio?” le domando. “Che forse qualcosa mi è sfuggito e ce l’ho sotto gli
occhi… è questo che intendi?”
“Vabbè, senti, vuoi la pizza o no?” m’interrompe Paola.
“Certo,” rispondo, “a parte che te l’ho proposto io e poi ogni essere umano decente di solito è
sollevato dalla proposta di ordinare una pizza, comunque dopo mangiato due miei uomini ti scortano in
convento e tu non esci mai più finché questa storia non sarà finita, okay?”
“Mmm,” dice. Pare un assenso.
Prendo il plico dei dépliant con le pizzerie d’asporto in zona. Alcune hanno l’effigie di Pulcinella,
altre del Vesuvio, altre ancora richiamano il tema del mare.
Io ho un tic, una specie di hobby che credo di esser l’unico a praticare in Italia: leggo sempre, in fondo
a un libro o anche a questi stessi dépliant, dove sono stati stampati. E me lo segno.
In città deve esserci un boss dei dépliant per pizze d’asporto, perché tutti e tre i diversi fogli che mi
ritrovo sul tavolo hanno la stessa stamperia “Vignocchi” in via Agucchi.
“Tu come la vuoi, Paola?” dico mentre sono al telefono con la pizzeria.
“Margherita.”
“Io voglio questa invece,” dico e metto in tasca il foglietto dopo averla ordinata.
“Venti minuti,” dicono dall’altra parte della cornetta.
“Venti minuti,” dico a Paola.
“Fammi vedere, merdone,” dice mia sorella ridendo e provando a strapparmi di mano il dépliant della
pizzeria mentre io, divertito, lotto per non farglielo leggere, “fammi vedere che cazzo ti mangi…” e
riesce nel suo intento, mi strappa il menù e inizia a cercare.
“Fa’ vedere… ‘Faraglioni’ si chiama?” mi dice e prosegue: “Tu, Carlo, pensi mai a come ci
costringono a chiamare le cose in pizzeria o al pub? Ti ricordi quando da ragazzi sceglievamo i panini da
ordinare al pub e tu, grasso e sfatto di pugnette, non battevi ciglio nell’ordinare un ‘Temptation Macho’?
O magari un ‘Bucaniere’…”
“Francamente no, ma vai avanti.”
“Ah no, cucciolo? Secondo me ti ricordi eccome,” mi dice, e ha ragione ma non vorrei dargliela vinta,
“e ti ricordi, di fronte a quei nomi dei panini o delle pizze che distruggevano la dignità della fatica di
mamma e papà, io cosa facevo per ordinare?”
“Sì,” ammetto senza volgere lo sguardo a lei, “lo ricordo.”
“Ahhh, se lo ricorda,” mi incalza “e allora dimmi cosa facevo per ordinare?”
“Prendevi il menù davanti al cameriere e col dito indicavi quello che volevi. Questo pur di non
pronunciare quei nomi cretini.”
“Ah, vedi che ti ricordi, scemo…”
“Ma non capisco cosa c’entri questo con l’ordinare una pizza d’asporto…”
“Stai per telefonare a un sottoscala da cui risponderà una escort per pakistani che sta facendosi le
unghie dei piedi, e dalla cassa della pizzeria ‘napoletana’ emetterà un suono gutturale per dire al
pizzaiolo cingalese di mettere un po’ di roba scaduta, rifiutata dai canili, su una colata di gomma che
chiama impasto. E tu, Carlo Vento, commissario, per avere tutto questo le dirai ‘Vorrei una Faraglioni’.”
“Ma a te che te ne frega?”
“Me ne frega tesoro,” e mi carezza i capelli mentre mi allontano verso la cucina, “perché sono
fondamentalmente questi i motivi per cui non scopi mai.”
“Ma piantala. Cretina…”
“Sai cosa c’è sulla tua pizza, lo sai, Carlo? Aspetta che te lo leggo: bufala campana, pomodori
pachino, calamari, zucchine e prosciutto cotto. Portamela qua, fammela vedere, quella che due ore dopo
averti visto chiamare ‘Faraglioni’ ’sta roba, ti prende in bocca l’uccello…”
“Paola, ascolta, se continui a esprimerti così io ti butto fuori di casa. Te l’ho già detto, a me non frega
un cazzo di come ti regoli con la religione, di come tu possa parlare in questo modo e continuare a
presentarti a messa o a vestirti da clarissa, ma con me su ’ste cose non si scherza. Io non sono Dio.”
“Ma dài?” dice Paola ridendo, “non sei Dio? Eppure decidi tutto, conosci tutto e fissi le regole per
tutto. Si vede che è un tic allora… Non sei Dio ma decidi come ci si debba comportare con un suo abito
addosso…”
“Falla finita.”
“È incredibile come chi non crede sia più disperatamente attaccato ai peggiori cliché del
cattolicesimo. ‘Dio non c’è ma copriti il culo’, è così, Carlo?”
“Non ti rispondo nemmeno…”
Nel mezzo della discussione suonano alla porta, nemmeno dieci minuti e le nostre pizze sono già qua.
Il ragazzo delle pizze chiede conferma: “Allora, abbiamo una Margherita…”
“… e una Faraglioni!” lo interrompe Paola guardandomi e mandandomi piccoli baci con le labbra.
“Esatto. Una Faraglioni,” conferma il giovane fattorino.
Paghiamo e lo salutiamo.
“Non puzza.”
“Che dici, Paola?”
“No, dico, il primo fattorino che non puzza d’ascella… sono sbalordita.”
“Sei anche una miserabile razzista, Paola…”
“Non ho capito,” dice mia sorella, “Ettore, il mio filarino del liceo puzzava come una capra, ma se lo
facevo notare mi dicevate che suo padre era un cardiologo molto bravo a golf. Se il fattorino pakistano
puzza d’ascella sono razzista. Certe volte la violenza di voi radical fa degli skinhead di periferia degli
amministratori di condominio.”
“Io radical? Guarda che ti sbagli…”
“Dici? Non vedi la paura che hai di dare alle cose il loro nome?”
“In che mondo vorresti vivere, Paola?”
“In un posto dove la ‘gente perbene’ mi faccia vergognare un po’ meno dei banditi. O perlomeno dove
le ascelle hanno pari diritti…” e poi ride scuotendo la testa. “Una Faraglioni…” e dice: “Nessuna donna
può essere razzista, Carlo. Ricordatelo bene.”
“Perché?” le domando.
“Non lo so,” risponde. “Ma senti come suona bene?”
Veniamo interrotti da un trillo, quando sto per mettermi a mangiare squilla sempre il telefono. Sembra
lo facciano apposta.
“Vado io,” dice Paola e raggiunge il mio cell che era rimasto nell’altra stanza.
“Ti richiameranno,” m’informa tornata in cucina.
“Ma chi era?” domando.
“Se era Fantini te lo passavo, tranquillo.”
Abbiamo finito la pizza, siamo in salotto, in silenzio.
Con la TV spenta e la finestra spalancata.
“Senti, Carlo,” dice Paola mentre clicca da una cartella all’altra del PC, “qua si parla ovunque di
arresto cardiaco anche se, a quanto leggo su Google Drive, stanno ultimando anche altre analisi e
accertamenti…”
“Cercano quello che non si vede, Paola, mancano ancora i risultati approfonditi delle autopsie,” le
ricordo, “ma ti ho detto pure questo, dovrebbe mancare poco.”
“Okay,” fa lei, “quindi al momento ‘nada’, niente di niente. Ma ti pare possibile? Tutti e tre arresto
cardiaco?”
“Cos’è che non ti convince?”
“Che sia invisibile,” dice Paola, “qualunque vita cessa perché il cuore si ferma… Cercano quello che
non si vede, dicevi… Senti, Carlo, nei documenti ci sono anche le fotografie del ritrovamento dei
cadaveri, no? Il luogo…”
“Direi di sì,” mi avvicino al PC per guardare insieme a lei, “eccole qua.”
Apriamo la cartella giusta e arriviamo a quella con le foto scattate al momento del ritrovamento dei
corpi.
“Ma qua non c’è niente,” fa Paola.
“Come, niente, non vedi?” le indico le foto, “questa è la nostra Nora, quella delle unghie, qua abbiamo
invece l’istruttore di balli sudamericani, ecco… le due ‘istituzioni’… e infine Sergio, anche lui stecchito,
anche lui sul lettino…”
“No, Carlo, non dicevo questo, quello che vorrei sapere è se esiste un inventario fotografico degli
oggetti…”
“Quali oggetti?” domando.
“Degli oggetti rinvenuti vicino ai cadaveri, delle cose che avevano con loro quando sono morti,”
spiega lei. “Insomma, qualcosa che sia nella foto ma non la vediamo anche se c’è, ricordi? Il rumore per
gli occhi…”
“Mah, sì, direi di sì…” frugo un po’ su Google Drive e trovo la lista degli oggetti che i tre morti
avevano con loro.
“Ecco, questa è Nora… le sue cose, astuccio per tagliare le unghie, cellulare, fermacapelli, ciabatte e
il suo nécessaire con i prodotti di bellezza. Maschera per il viso, lozione per capelli, crema solare. Le
solite cose da donna.”
“Tutta roba normale, non ci vedo nulla di insolito…”
“Vediamo Gonzalo,” dice Paola cliccando. “Ecco qua, zainetto da mare, con costume di ricambio, telo
di ricambio, crema solare, una scatola di preservativi, portafogli e la roba per le allergie. Nulla di che.”
“Cellulare?”
“Sembra che non l’avesse con sé, è scritto qua nei documenti.”
“Boh, andiamo avanti.”
“Anche qua, che ci trovi di particolare? Un bel niente…”
“In effetti,” prosegue mia sorella, “dài, apriamo il file di Sergio.”
“Che vuoi aprire, eravamo lì, io a un millimetro da lui e tu in auto, ma eravamo lì. Questo aveva i
vestiti, le scarpe, portafogli, niente di speciale, guarda… Portachiavi e ’sto ciondolo con la calamita. Ah
già, certo, le calamite… be’, ecco, magari questa è la cosa che non vediamo, no, Paola?”
“No.”
“Come, no?”
“Perché questa è oggettivamente una cosa anomala. ’Sta faccenda delle calamite sarà importante,
fondamentale probabilmente, ma è troppo anomala per non saltare agli occhi… quindi la vediamo.”
“Ah, e perciò?”
“Perciò,” prosegue, “io cerco altro,” e spulcia con la faccia fissa sul PC, il file. “Paracetamolo,” dice
vedendo una scatola di Tachipirina. “Aspetta,” esclama, e torna all’improvviso nella cartella di Nora,
“mi è venuta in mente una cosa…”
Fruga tra le fotografie…
“Eccolo qua!”
“Ecco cosa?” le domando.
“Aspetta, aspetta,” dice Paola e apre la cartella degli effetti personali di Gonzalo, “e rieccolo qua!”
“Ma cosa?” le dico con la faccia attaccata allo schermo.
“Nora assumeva dei farmaci? Sai per caso se prendesse qualcosa?”
“E che cazzo ne so, boh.”
“Questo piccolo portapillole blu,” fa mia sorella, “guarda un po’ cosa abbiamo trovato.”
“Eh, dimmi un po’ cosa abbiamo trovato, una tizia che ha un portapillole, uau, alla CIA sarebbero già
con l’uccello in mano…”
“Alla CIA se quello stesso identico modello di portapillole si trovasse anche fra gli effetti personali di
Gonzalo farebbero meno i cretini,” dice mostrandomi le due fotografie dei portapillole affiancate sul PC.
“Uno di Nora, uno di Gonzalo. Identici,” conclude mia sorella con aria soddisfatta. Ma non fa in tempo
a esultare, anche se non si sa per cosa, che squilla il telefono. Ancora.
È Fantini finalmente. Metto il vivavoce.
“Eccoci qua, commissario, ha dato un’occhiata agli effetti personali dei deceduti come le avevo
chiesto?”
“Sì, lo stiamo facendo.”
“Ecco, bene. Senta, commissario, volevo parlarle di un paio di cosine strane alle quali non riesco a
dare un significato… per ora le definirei curiosità…”
“Salve, Fantini,” dice Paola rivolta verso il mio cellulare, “scusi l’intromissione, ma prima che lei
parta col suo discorso avrei anch’io una curiosità…”
“Soddisfare le curiosità delle clarisse… quale onore, sorella.”
“Prima di tutto chiami ‘sorella’ sua sorella, Fantini.”
“Mi scusi,” dice il sergente, “guardi che io non…”
“Non è che per caso fra gli oggetti di Nora e Gonzalo lei ha fatto caso a due portapillole?”
“Sono per caso quelli identici, di colore blu?” aggiunge Fantini.
“Esatto,” fa Paola con un sorriso a tutta bocca, “che ne pensa?”
“Penso che mi ha soffiato la prima curiosità.”
“Ah, ecco e che altro ha pensato?” continua Paola.
“Di aprirli,” prosegue Fantini. “Le cose identiche in mano a gente diversa, portano spesso nello stesso
posto.”
“Bella frase, sergente, ce la segniamo, ma mi dica che c’era dentro ai portapillole?”
“Calamite.”
Io e Paola ci guardiamo. Mia sorella inizia a fare su e giù per la stanza e borbotta fra sé: “Gliel’hanno
date loro… ma perché?”
“La seconda faccenda che mi aveva incuriosito è un’informazione a cui lì per lì non avevo dato peso,
una sciocchezza, vedrà…”
“Non sto nella pelle, Fantini.”
“È che…”
“Insomma?…”
“Insomma, è che ieri ho chiamato in questura Enza per confermare la sua deposizione precedente e
farle vedere gli effetti di Nora rinvenuti quella mattina. E mi ha detto una cosa strana, commissario.”
“È cioè?”
“Be’, si è stupita che ci fosse un tubetto di crema solare tra i suoi oggetti. Enza dice che Nora non ha
mai usato la crema solare in vita sua, non la ama e poi nemmeno le serve. In inverno si fa le lampade al
centro bellezza e a maggio dopo una settimana di mare è già nera come il carbone. E c’è dell’altro.”
“Dimmi.”
“Enza ha detto, leggo dal verbale: ‘La gente di mare, quelli che ci vivono, non usa creme.’”
“E questa cos’è, una frase da almanacco quotidiano? Saggezza cinese?”
“No, commissario, è la frase di una che è nata e vive al mare.”
“Okay,” dico camminando nervosamente, “si è data la crema… ma lo fanno tutti, è una cosa
normale…”
“No, commissario, stia attento: è un gesto normale che Nora normalmente non fa. Ho pensato potesse
essere un dettaglio rilevante, così ho chiamato anche la vedova di Gonzalo. Si ricorda? Nel verbale lei
ha riportato che si era dato la crema mentre parlavate. E infatti la crema è anche nei suoi effetti.”
“Fantini, sei inarrestabile stamani.”
“Sempre una sagoma, lei… Comunque, la cosa buffa è che la vedova mi ha detto esattamente la stessa
cosa.”
“Niente crema? Manco lui la usava?”
“Commissario, lei ha presente di che carnagione era Gonzalo? E se non bastasse, la vedova ha
aggiunto che gli faceva schifo usare la crema, quel senso di unto…”
“Però se l’è messa, pure lui, c’ero io in spiaggia…”
“Posso aggiungere un elemento, commissario?”
“Spara.”
“Se l’è messa dopo aver incontrato i nostri due fuggiaschi ed aver passato del tempo con loro. Così
come Nora. Ha presente quel piccolo beauty con cui Nora è andata via dopo l’incontro coi due? Secondo
me dentro, assieme al portapillole, c’era della crema solare.”
“Ci scommetteresti?”
“Io non scommetto mai, commissario, mia moglie invece è patita, sta sempre alla SNAI. Sa che una
volta giocò il Genoa…”
“Fantini…”
“Certo, mi perdoni. Allora guardi, entrambi hanno fatto una cosa normale, assolutamente banale, che
però di solito non fanno. Mai. A questo punto, commissario, mi pare evidente che circa l’utilizzo della
crema solare o hanno cambiato idea o qualcuno li ha costretti a cambiarla.”
A questo punto taccio, ma Fantini prosegue.
“Però qua mi sono arenato,” e continua: “All’inizio ho creduto che questo potesse essere un indizio
importante, commissario. Ma poi ho pensato che tra gli effetti del vedovo la crema non c’è e quindi ho
lasciato perdere… mi aspetto sempre troppo dalle curiosità,” conclude ridendo.
Lascio che la sua risata rimbombi nella stanza. Guardo nel vuoto, poi mia sorella si alza di scatto.
“Fantini, ti ringraziamo, ma adesso dobbiamo scappare,” dice e chiude la conversazione.
“Ma scusa, Paola, che modo è?” domando. Mentre lei schizza in camera mia e fruga nella valigia del
mare ancora da disfare, capisco anch’io come stanno le cose.
“Carlo ce l’hai ancora?”
“Cosa?”
“La crema, idiota!”
Prendo la giacca di lino bianco, quella che avevo quando incontrammo Sergio.
Nella tasca c’è ancora il tubetto di crema solare.
“Te ne sei data un bel po’, eh?” mi dice, “è completamente vuoto… ma quando hai trovato il tempo per
prendere il sole?”
La guardo e colgo nei suoi occhi un cenno d’intesa.
“Ce l’avevo nella giacca l’altra mattina quando abbiamo beccato Sergio sul lungomare. A un certo
punto faceva caldo siamo andati a berci una cosa. Mi sono tolto la giacca e l’ho lasciata vicina a lui. Poi
ho raggiunto te che mi aspettavi in auto. L’avrà presa in quel momento.”
“Mi sa che vuole anche te…” dice Paola facendo finta di riderci sopra.
Paola riapre una cartella del PC. La vedo scorrere rapidamente le foto dei reperti.
“Vieni un po’ qua tu…” mi ordina e indica con la testa lo schermo del PC.
“Vedi?”
“Cosa dovrei vedere?” le domando.
“Guarda,” dice aprendo la foto con gli effetti personali di Nora, “questa è la crema solare. Un tubetto
beige con le scritte in verde.”
“Eh, okay. Vai avanti.”
“E questa è la crema di Gonzalo.”
“È identica …” dico.
“Tubetto beige e scritte in verde,” e prosegue: “Ma soprattutto, amore mio, per una volta ho trovato
rassicurante che tu sia un ciccione bianco cadaverico che odia il sole… Guarda,” conclude impugnando
la crema regalata a me.
È senza etichetta. Ma il tubetto è identico agli altri due.
Studiamo gli involucri, i tubetti, la grafica degli oggetti rimanda alla medesima erboristeria.
“Aspetta, aspetta,” fa lei lavorando attorno alle fotografie sul computer. “Adesso ingrandisco bene le
foto,” dice. Poi all’improvviso si volta verso di me. E chiude lo schermo del PC.
“Il sole di Elide,” fa Paola, massaggiandosi le tempie.
“Il sole di Elide…” rispondo senza il coraggio di guardarla. “Come Elide Parisini, la vicina di casa di
Sergio e Martina!” aggiungo mentre mi alzo e apro il frigo per prendere da bere.
“Hai capito la vecchina,” dice Paola guardandomi e sentendo che abbiamo finalmente trovato una
strada da percorrere. “Richiama subito Fantini… digli che…”
“No,” la interrompo “è presto. Qualcosa ancora non mi torna… e poi voglio andarci prima io, da
solo…”
“Da lei?” fa mia sorella.
“Da lei,” rispondo.
Taccio, vago per casa con la bottiglia d’acqua gelata in mano. È un gesto che adoro fare quando sento
che le indagini sono a una svolta. Fare bene il mio mestiere però significa sapere distinguere fra una
svolta e quella giusta.
“Ecco, vedi,” riparte mia sorella, “se tu non mangiassi la pizza ‘Faraglioni’, adesso potresti chiamare
in questura dicendo che hai trovato qualcosa, anzi la frase esatta sarebbe ‘forse ci siamo’, e poi andare a
sbronzarti a casa della tua ex. La scopi e domattina, mentre lei ancora dorme, le dai un bacio in fronte
senza svegliarla, ma te ne vai perché…”
“Paola,” le dico prendendole il viso fra le mani, “io devo andare in questura e tu devi tornare in
convento.”
“Ho le chiavi. Forse vado, forse no. Ho un mezzo giro con uno…”
“Te lo do io il mezzo giro, tu adesso scendi, qua sotto trovi due sbirri che ti porteranno in clausura. E,
per Dio, ci resti.”
“Per Dio?” sorride Paola, carezzandomi la guancia col dorso della mano. “Siamo bravi, Carlo?” fa
appena in tempo a dire che io sono già uscito di casa.
SPRAY
Le telefonate di Fantini sono sempre “qualcosa”, quando ti chiama sembra che ti guardi in faccia.
Mentre cammino penso che forse dovrei proporlo per una promozione, credo se lo meriti.
Senza lui a fare da filtro con l’universo delle indagini, GIP , avvocati, medici legali, questore, gente da
interrogare e compagnia cantante io sarei perduto. Sarei costretto a fare tutte quelle cose del mio lavoro
che, di fatto, mi impediscono di fare il mio lavoro. Non so se mi spiego.
Credo che io e lui siamo una buona squadra, a me capitano le cose e lui prova a metterle insieme.
Da dietro la scrivania. Con un telefono e i suoi occhi.
Avvicinandomi allo stabile nel quale vive la signora Elide faccio attenzione a che non mi vedano i
giornalisti – sono ovunque quando salta fuori un caso del genere –, ma soprattutto i genitori di Martina.
Non sono uno di quei commissari sulla cui spalla, nei telefilm, piangono i parenti delle ragazze
scomparse. Non riesco a rialzargli la testa, fissarli con un sorriso guascone e dir loro: “Andrà tutto bene,
adesso andate a casa.” Alla fine a casa ci vanno da soli, e io le bugie le dico solo a quelli che amo.
Che mi affrontino senza che io abbia ritrovato la loro figlia, con l’indiziato principale del rapimento
morto stecchito e soprattutto, con l’indiziato che non sono più sicuro sia indiziabile di qualcosa, non mi
pare il caso.
Salgo le scale e raggiungo il piano della signora Elide, suono al campanello e mi preparo mentalmente
le domande da farle.
Provo a metter tutto insieme, capisco che il segreto di questo caso potrebbe celarsi tutto in quel
pianerottolo, ma oltre alla prima domanda “Cosa ci fanno dei prodotti di erboristeria con sopra il suo
nome nei pressi di ogni infartato della costa adriatica?”, non so ancora cosa chiederle.
E se lei mi dice: “E che ne so?”, io come proseguo?
Non faccio in tempo a suonare che la signora Elide apre la porta.
“Commissario, che bella sorpresa.”
“Buongiorno, signora, vedo che stava uscendo, quello è il carriolino per andare a fare un po’ di spesa,
non è così?”
“Ma sa, commissario,” dice rientrando in casa e spalancandomi la porta come per farmi entrare, “noi
vecchi in realtà la spesa non la facciamo più. A un certo punto,” e si toglie il soprabito allungando verso
di me la mano perché le consegni la giacca, “ogni giorno, compriamo qualcosa. Ma quel qualcosa non è
la spesa. La spesa serve alle famiglie e da vecchi le famiglie non ci sono. Puoi aver mille figli e tremila
nipoti, ma da vecchio non hai nessuno. Lo si vede dalla scelta dei prodotti, sa? Si inizia a comprare tutto
non più per ‘uno’ ma per poco. Due mele. Qualche patata. Quei biscotti vecchi, quelli ‘di una volta’ dico,
quando chiedo alle commesse del supermarket dove sono. Una volta la settimana un po’ di pasta fresca,
magari tagliatelle che, puntualmente, sono sempre troppe. Commissario, la spesa è la movida dei vecchi,
è ciò che resta della sera quando non ne hai più una.”
“Ma che dice, signora Parisini,” mi siedo sul divano e lei fa lo stesso, nella poltrona di fronte a me,
“lei non è vecchia.”
“Non più in effetti,” conviene lei, “adesso sono sola.”
“Be’, avrà anche lei le sue passioni… Ha tantissimi libri e…” la butto lì, per vedere come reagisce:
“È una serra, quella?”
Per un attimo si scuote, poi con pacatezza si alza in piedi.
“Ah, commissario, venga, che le mostro una cosa bella…” dice facendomi strada nel corridoio. Da lì
entriamo in una stanza, una ventina di metri quadri, non di più.
È, in effetti, quella specie di piccola serra che avevo a malapena intravisto la prima volta che ero stato
qua.
“Questo è il mio regno, vede?”
Mi trovo davanti a un piccolo laboratorio pieno di provette, alambicchi e ampolle da un lato e
dall’altro una piccola selva di piante.
“Che cosa ci fa qua, signora?”
“Questo è il mio regno, commissario, era il mio mestiere prima che andassi in pensione. Io sono
erborista.”
“Ah, ecco,” faccio io portandomi al naso qualche provetta.
Sono tutte molto profumate, essenze.
La signora ha anche parecchie piante esotiche.
“Sono molto rare e di conseguenza fragilissime,” mi dice mentre cammino fra questa folta vegetazione
riprodotta in casa sua.
Una specie di piccola giungla colorata.
“Venga qua,” dice, “le faccio vedere un capolavoro…” e mi avvicina a una pianta dai fiori penduli
color porpora. “‘Digitale’, è così che si chiama, non è splendida? Appartiene alla famiglia delle
Scrofulariacee. Pascoli ci scrisse una poesia. Ma davvero lei, commissario,” prosegue assumendo un
tono di domanda, “non è mai stato nostro cliente? Antica erboristeria Parisini, l’avrà sentita nominare,
era in via Sant’Isaia…”
“No, mi dispiace.”
“In realtà era lì solo dagli anni settanta, ma oggi se non chiami ‘Antica’ la tua bottega nessuno ti prende
sul serio.”
“Ha ragione, signora,” dico tornando in sala accomodandomi sul divano.
“Quindi non ha mai sentito parlare della mia erboristeria?”
“In effetti no, però io preferisco le farmacie, sa com’è, io adoro guarire…”
La signora ride.
“Eh, ha ragione commissario, ma anche quelli come noi sono utili. Le farmacie curano i malati, noi i
sani.”
“La guarigione dei sani… è un concetto interessante, signora.”
Ce ne restiamo seduti in salotto un po’ a parlare di niente, come si fa prima di confessare.
Di cose come la TV che fa schifo o di quanto lei ami leggere.
Le racconto della mia curiosa passioncella per i poeti dialettali romagnoli, Nino Pedretti in
particolare. Lei finge di conoscerlo e se ne compiace.
Non si dovrebbe mai arrestare un vecchio, è sempre un errore.
Ma non so come finirà questa mattina.
Non so nemmeno come portare il discorso dove voglio condurlo e allora invece di portarcelo ci salto
direttamente sopra.
“Ha letto di Sergio Lividi?”
“Sì, certo. È morto, lo so.”
“Cosa pensa?”
“Di chi muore? Non me ne occupo, penso a chi resta e in questo caso penso a Martina a dove possa
essere.”
“Come fa a sapere che è viva?”
La signora si fa seria, e si alza.
Prende il cellulare che ha nel soprabito e lo apre.
“Mi ha mandato un SMS ieri sera.”
“A lei?”
“La stupisce?”
“Prima di tutto vorrei sapere perché non le è saltato in mente di riferircelo subito… E poi come ha
fatto a scriverle? La questura dice che i cellulari di Sergio e Martina sono irrintracciabili, molto
probabilmente prima che sparissero devono averli bruciati…”
“Azzardo un’ipotesi?”
“Sarebbe?”
“Ne ha preso un altro? Come la vede come ipotesi?”
“Ma dove, come?”
“Che ne so, magari l’ha rubato durante il viaggio…”
E qua mi viene in mente che il cellulare di Gonzalo non è mai stato ritrovato. Potrebbero aver bruciato
la scheda e usato il cellulare con una scheda nuova.
“È ovvio che hanno fatto così, questo lo sappiamo,” preciso.
La signora Parisini mi mostra l’SMS da un numero privato.
Sto bene, Elide. Se bene è una parola che ha senso usare dopo aver visto il mare. Sto finendo di fare quel che devo fare, non
preoccuparti per me.
Ti scrivo perché sono io a esser preoccupata per te. Tu non lo sai ma verranno. E verranno presto. Ti penso nei pomeriggi che erano i
nostri.
“Ma perché lei non ci ha detto niente, scusi? Lei ha intralciato le indagini…”
“Perché sta bene e a me basta questo.”
“E chi glielo dice che quella che le scrive è Martina?”
“Guardi qua,” dice la signora indicandomi come era firmato il messaggio: Despina.
“Despina? E chi cazzo è?”
“Che ne so… Si firmava così con me, si vede che le piaceva quel nome particolare.”
“E lei si aspetta che io le creda?”
“Mi aspetto che almeno controlli, che verifichi dal mio telefono e nelle lettere che mi scriveva se
davvero si firmasse così, Despina. E nel caso che si metta tranquillo.”
“E perché dovrei essere tranquillo? C’è una ragazzina da sola in giro per la regione, una scia di gente
infartata dove passa lei e quello che credevo l’avesse rapita che è stato depositato di fronte al mare,
nell’esatto punto di Cervia dove aveva la casa e ha perduto moglie e figlio. Ma devo stare tranquillo.”
“Lei sa badare a se stessa, quando lo riterrà opportuno tornerà a casa,” dice Elide parlando di Martina
con la stessa sicurezza con la quale ne parlava Sergio.
“No, guardi, signora,” le dico, “qua non siamo a Chi l’ha visto?, qua non possiamo aspettare che un
bonzo dell’Himalaya in transito da Molinella contatti la redazione della trasmissione e dica di aver
dormito sotto le stelle con la ragazzina. Qua io devo portarla a casa e basta. Non sto prendendo nessuno,
cazzo, mi muoiono tutti davanti, io quanto è vera la Madonna ’sta cinna la riporto a casa a calci nel
culo…”
Mi sto scaldando e la vecchia Elide se ne accorge.
“Commissario, su, mi dica perché è qua, Martina mi ha detto che sarebbe venuto, vorrei sapere come
mai…”
“Ah, siamo al dunque. Bene.”
Prendo lo zaino che ho con me ed estraggo il PC.
Lo accendo e cerco le foto degli effetti personali dei morti.
“Guardi, signora, non giriamoci troppo attorno,” le dico, “lei c’entra qualcosa con questa storia,
vero?”
La signora Elide raggiunge la cucina e si siede al tavolo, io la seguo. Si versa del caffè.
“Ne vuole?” dice.
“Certo, giusto un goccio, grazie.”
Ne beve un po’ e si mette la testa fra le mani fissando fuori dalla finestra.
“Ho due domande da farle,” mi dice la signora Parisini, “prima di rispondere alla sua, s’intende. Ma
non so scegliere quale farle per prima.”
“Provi con quella di cui ha più paura.”
“Lei sta per mostrarmi la foto di una crema solare. Non è così, commissario?”
“La seconda domanda,” la incalzo, “quale sarebbe?”
“Non serve più,” risponde la signora alzandosi e raggiungendo la finestra.
Guarda fuori, il muoversi delle auto.
Io penso a Fantini e quel favore che gli ho chiesto circa il medico legale di Cesena, ho bisogno di far
passare altro tempo.
“Lei come mai era così intima di Martina?”
“Intima,” ride, “non saprei se è il termine adatto. È quasi ora di pranzo, commissario, vuole fermarsi
qua per un piatto di pasta mentre le racconto un po’ di cose? Le assicuro che non abbiamo fretta…”
“D’accordo,” rispondo, fra l’altro questo mi consente di guadagnare un’altra ora almeno in attesa di
Fantini e della sua chiamata.
Elide inizia ad apparecchiare, sembra felice di aver ospiti. Il culmine della gioia lo raggiunge nel
constatare di avere poca pasta in dispensa. “Sa, commissario che avrò sì e no cento grammi di pasta? Io
mangio poco, e non aspetto nessuno…”
“Ma vanno bene, non si preoccupi.”
“Come ‘vanno bene’?” fa la signora, “lei da solo ne mangerà almeno duecento grammi, lei è grasso…”
“Prima di tutto grasso sarà suo zio, signora, in secondo luogo sarò felice di rendere più ricca la nostra
pasta,” mi alzo e raggiungo il frigo, “vediamo cosa c’è qua…”
Credete che ci voglia coraggio a fare il mio mestiere?
Il coraggio, quello vero, è osservare il frigorifero dei vecchi, vedere come esso muoia prima di loro.
Ma non mi perderò l’occasione di cucinare…
“Signora, siamo salvi.”
“Dice?”
“Ma certo, sono zucchine queste, vero?”
“Direi di sì,” fa lei abbassandosi per vedere assieme a me dentro al frigo.
“E questo,” dico aprendo un cartoccetto di formaggio, “è pecorino, no?”
“Sì, lo è.”
“Signora, le rivelo un segreto, una casa che ha olio, aglio, prezzemolo, una verdura e un po’ di
formaggio, ha un piatto di pasta.”
“È davvero un bel segreto, commissario, e quale sarebbe la casa in cui ci sono aglio e prezzemolo?”
“Okay, non importa. Facciamo una pasta zucchine e pecorino, va bene?”
“Buona, la mangio con piacere. È da tanto tempo che un uomo non cucina per me.”
Allora io le sorrido e rispondo: “Non sono un uomo, sono un commissario, Elide.”
E lei sorride insieme a me, e si mette una mano sotto al mento come se le fosse venuto in mente
qualcosa d’importante. E riparte: “Se vuole come dessert ho due ovetti Kinder.”
“Come dessert?” dico io guardandola come fosse matta.
“C’è la sorpresa, mi piacciono.”
Mi metto a cucinare mentre Elide apre un cassetto.
“Mi dica, signora, mi parli di Martina, mi aiuti a capire chi è…”
“Stavo proprio andando a cercarle una cosa che forse potrebbe servirle… A ogni modo, non penso di
poter dire esattamente chi sia Martina eppure sento di conoscerla bene. Questo è il suo mistero secondo
me,” prosegue Elide raggiungendomi nella zona cucina. “Tutto cominciò un pomeriggio d’estate di due
anni fa. Sentii suonare alla porta, aprì ed era lei. Io la conoscevo come la figlia dei vicini, qualche
scambio di parole ogni tanto, e nulla di più. Lei entrò in casa passando fra lo spazio che c’era fra il mio
corpo e la porta. Si mise seduta. Non diceva una parola.
“Le chiesi se ci fosse qualcosa che non andava, se qualcosa la preoccupasse. ‘Non c’è niente,’ rispose,
seduta sul divano con le gambette che penzolavano senza toccar terra. ‘E allora?’ ‘Non c’è niente,’ ripeté
Martina. Col tempo compresi che con la stessa frase aveva risposto a due domande diverse.
“Lì per lì mi preoccupai, devo ammetterlo. Credevo fosse in una specie di stato confusionale, che
fosse in realtà accaduto qualcosa a casa e allora decisi che avrei atteso fosse lei a rivelarmi cosa stesse
accadendo.
“‘Dimmi delle cose,’ fece entrando nel laboratorio dove producevo i miei intrugli, le creme, le tisane,
il collirio e tutte le cose da erboristeria insomma.
“Le spiegai cosa facevo. La mia passione, ciò che mi tiene viva. ‘Va bene così,’ mi disse e tornò a
sedersi sul divano. ‘Dalla finestra ci guardi mai?’ mi chiese. Mi parve una domanda strana ma proprio
mentre iniziavo a risponderle m’interruppe. ‘M’annoio. Non c’è niente.’
“E allora feci quello che una signora in pensione fa, davanti a una ragazzina in un pomeriggio d’estate:
racconta. Le raccontai la mia vita, quello che mi era successo. Una vita tranquilla, senza troppe disgrazie
(il numero minimo prescritto dal destino) e senza picchi particolari di felicità, lì il destino è più vago nel
promettere. Lei ascoltava, tutto, con rispettosa avidità. Le informazioni per lei erano come ‘vedere
gente’. Me ne era grata. Le raccontai della mia infanzia, della giovinezza e poi dell’età matura, dagli
amori al lavoro, la famiglia e la casa, tutto fino a oggi.
“Ma davvero, commissario, non si aspetti nulla di speciale. Ci vollero meno di tre quarti d’ora. Non
me ne resi conto, ma la mia vita dura una quarantina di minuti.
“‘E domani?’ disse. ‘Domani cosa?’ le domandai. ‘La tua vita già la so, domani cosa t’inventerai per
me?’ poi si alzò, prese un’albicocca dal tavolo e se ne tornò in casa sua.”
“Tutto qua?” domando io alla signora Elide. “Voglio dire, questa partenza a lei sembra normale in un
rapporto fra una signora in pensione e una ragazzina?”
“Non so, commissario, non mi sono mai soffermata su quale sia la partenza normale di un rapporto fra
una signora in pensione e una ragazzina. A me è andata bene anche questa. Tanto più che da lì a poco
tempo, pomeriggio dopo pomeriggio, fu lei che iniziò ad aprirsi.”
“E cosa diceva? Di che parlava?”
“Aveva un modo strano di raccontare le cose, questo lo ammetto, preoccupava quando raccontava. Era
come se la normale narrazione degli eventi contenesse per lei, o per chi era protagonista di tali eventi,
una specie di pericolo.”
“Non capisco,” le dico, e continuo: “Guardi che è ora di buttare la pasta, mi dia questi spaghettini.”
“Come sa che ho gli spaghettini?”
“Dia qua,” dico spazientito, calo la pasta e proseguo: “Non mi sta dicendo niente, signora, sembra la
cronaca di un delirio.”
“Lei non capisce, non è grave, ed è per questo che prima cercavo quella cosa nei cassetti. A volte
cercava di esprimersi attraverso le lettere… parlava di Dio… Commissario, quante sono le ragazzine che
parlano di Dio? Eccola qua,” dice porgendomi una lettera di Martina. Il francobollo è di due estati fa, la
stessa in cui si erano conosciute.
“È una lettera, me la spedì tre settimane dopo quel nostro incontro, era pieno agosto, si trovava in
vacanza in Romagna coi suoi. È il racconto di una sera,” dice Elide, “ma suppongo contenga parecchie
cose che possono esserle utili, quantomeno a capire chi sta inseguendo.”
“Di che parla?”
“Di un ragazzo strano,” risponde la donna, “un ragazzo che cercava suo padre.”
“Si spieghi meglio.”
Apre la busta ed estrae la lettera.
È scritta con una di quelle Bic verdi. Mi colpisce la scelta di quel colore.
“Leggo io,” fa Elide inforcando gli occhiali e inizia a leggermi alcuni stralci della missiva:
Tre giorni fa era ferragosto. Io e la mia famiglia stavamo cenando in uno dei tanti chioschetti in riva al mare.
Un ragazzo di quattordici, quindici anni, spinge a mano la bici fino all’ingresso del ristorante.
Cerca suo padre.
“Papà, dove sei?” dice a voce sostenuta con un filo di preoccupazione. E ancora, con voce sempre più forte e inquieta: “Papà, dove
sei?”
Allora ci accorgiamo veramente di lui. Fino a quel momento era solo un ragazzo che cercava suo padre, ma adesso, dato che grida e
disturba, è diventato l’unico elemento in grado di attirare la nostra attenzione: un problema.
Indossa pantaloncini corti, ciabatte infradito e la canottiera di una squadra di basket NBA (i Memphis Grizzlies), una di quelle che
restano nei negozi perché nessuno le compra e solo dopo che sono state vendute quelle più famose, se ne dimezza il prezzo e viene
svenduta negli scampoli.
Il ragazzo non cerca con gli occhi fra i tavoli.
Lui chiama suo padre, lo vuole subito, ne ha bisogno adesso. Sembra reclamarlo al mare. Non fruga con lo sguardo fra i clienti e tanto
meno lo cerca fuori, sul lungomare, lui ha lo sguardo fisso oltre la sabbia, verso le onde, e grida: “Papà, dove sei?”
“Papàaaa, dove seiiii!” grida spingendo sulle corde vocali, quasi a renderle gambe per correre.
Resta sempre fermo, immobile.
Ha gli occhiali con montature particolari, mi ricorda John Turturro in Barton Fink. Tu l’hai visto, Elide?
La donna smette di leggere, e si rivolge a me: “Vede? Era capace di raccontarti due cose
contemporaneamente, quello che le stava succedendo e chi era lei. In quanti ci riescono? Comunque,
questo strano ragazzo combinò un bello scompiglio in quel ristorante… e Martina, nello scompiglio, dà il
meglio di sé,” conclude Elide e ricomincia a leggere:
I secondi sembrano minuti, siamo passeggeri su un aereo che sta precipitando e ognuno si mostra per quel che è.
Ma, più in generale, quei tavolini in riva alla spiaggia iniziano a dividersi in due silenziose tribù.
La prima è quella disturbata dalle grida del ragazzo, non hanno il coraggio di ammetterlo, ma confidano nella presenza di un “direttore di
sala” che possa intervenire e portarlo via. Non vogliamo gente che cerca il proprio padre, mentre sgusciamo le cozze.
La seconda tribù è quella che, silenziosamente, senza più riuscire a proferire parola, pagherebbe oro perché la richiesta del ragazzo
“Papà, dove sei?” venga interrotta da due sole parole: “Sono qui”.
Non accadrà, perché, esattamente come per parlare coi cani, Dio si esprime attraverso ultrasuoni. Un privato alfabeto che si scrive
dentro lo stomaco di chi assiste alla performance della vita quando, feroce, fa irruzione in un chiosco sulla sabbia.
Credere in Dio è una sensata allucinazione, la doverosa pretesa che prima ancora di occuparsi di lui, di quel ragazzo, Dio esista.
“Sbrigati, Dio, è tuo,” imploriamo in silenzio, risucchiando l’ultima parte di uno spaghetto fra le labbra.
Fatico io stessa a non prendermi a sberle nel trovarmi a pensare che la prova di quelle due parole (“Sono qui”) eravamo noi, patetica
tribù in doposole, sul precipizio sul mare in una sera d’estate.
“Lo conosco, non è uno normale…” abbiamo sentito dire all’aiuto cuoco che ha messo fuori la testa per un secondo.
Che osservazione bizzarra è sostenere di conoscere qualcuno, non trovi, Elide? Tu lo diresti mai?
“No, commissario,” riprende Elide abbassando la lettera, “da quando conosco Martina non mi
verrebbe più in mente di dire una cosa del genere…”
“C’è altro?” domando.
“Sì,” dice la donna, “prima di tutto suppongo vorrà sapere come finisce questa vicenda della serata e
del ragazzo che cerca suo padre,” e riprende la lettura:
Poi, il tempo di iniziare a preoccuparsi sul serio e il ragazzo spinge via la sua bici.
Ci lascia soli, senza di lui.
“A posto, è tutto a posto,” dice il titolare del ristorante.
Unico sollievo in punto di morte sarà ripensare a quelli che, dopo tale rassicurazione, sono tornati di buon umore e, come iene dopo la
palestra, hanno ricominciato ad avere appetito.
“Il mare stimola la fame” dicono, hanno proprio ragione.
Qualche giorno dopo, con la curiosità che ogni dolore reclama, mi sono fermata fuori da quello stesso ristorante per consultare il menù
appeso alla porta d’ingresso.
Volevo sapere come si chiamava ciò che stavo mangiando mentre tutto accadde.
Come avevano chiamato quell’insalata di polipi nel menù.
E così ho scoperto che mentre un ragazzo un po’ strano cercava suo padre, ero alle prese con un “Trionfo d’estate”.
“Tutto qua?”
“No, manca qualcosa,” fa Elide, e conclude cercando nel cassetto un’altra busta, più piccola.
“Questa è l’ultima cosa che mi ha scritto,” dice Elide, “è arrivata qualche giorno fa.”
“E lei, di nuovo, non ci ha detto nulla… Ma andiamo avanti, perché questo biglietto la incuriosisce?”
domando.
“Lo legga…” fa lei.
Ah, Elide, senti, se dovesse mai succedermi qualcosa, ti prego di rileggerti la lettera sul “Trionfo d’estate”. Credo che potrebbe servirti a
un paio di cose. Non preoccuparti per me, questa è una di queste due cose.
L’altra la scoprirai tu stessa, magari quando ti verrà naturale estrarre questa mia corrispondenza e mostrarla a chi avrai di fronte…
Con affetto, tua
Despina
“Non è male, no?” dico a Elide mentre sforchettiamo quei cinquanta grammi a testa di pasta con le
zucchine e il pecorino.
“Commissario, lei sarebbe un affarone per una donna…”
“Eh certo,” proseguo, “va bene ma, a parte la lettera…” e la signora m’interrompe.
“Commissario, la lettera è la cosa più chiara e inequivocabile di cui io disponga per parlarle di
Martina. Però, se posso permettermi, mi meraviglio di lei…”
“In che senso?” chiedo.
“Credevo che la lettera le avrebbe stimolato un’altra curiosità…”
“Sarebbe? Me ne parli lei, signora, che io in estate sono rincoglionito.”
“Be’,” fa Elide, “c’è un piccolo dettaglio di cui forse, magari mi sbaglio, sarebbe giusto che lei
venisse a conoscenza… questo forse metterebbe quella lettera in una luce un po’ diversa.”
“Mi dica, sono qua apposta.”
“No, sarà cosa da poco magari… Ma lei ha capito chi era quel ragazzo un po’ ‘tocco’, diciamo così,
che cercava suo padre davanti al mare?”
“No, ma sento che lei sta per colmare questa mia lacuna, non è vero?” rispondo sarcastico.
“Era Ilario, il figlio del signor Lividi.”
E io sbotto: “Il figlio di Lividi? Cioè, ma…”
“Che c’è, commissario?”
“Che c’è? Scusi, se Martina era al mare a cena coi suoi e ha visto il figlio di Lividi vuol dire che
Sergio e la sua famiglia andavano in vacanza quantomeno da quelle parti… Quei due cretini dei genitori
della ragazza mi hanno detto che conoscevano il vedovo, hanno accennato al figlio, ma…”
“Commissario,” m’interrompe Elide, “temo allora di poterle essere parecchio utile su questo
dettaglio…”
“Dica subito!”
“Non andavano al mare nella stessa zona, la famiglia di Martina e quella di Sergio frequentavano
proprio lo stesso bagno… credevo che lo sapesse… Mirna 33.”
“Non lo sapevo no! Diavolo porco, a quei due non è saltato in mente che avrebbe potuto essermi
d’aiuto… dopo chiamo Fantini e mi sentono… anzi, lo sentono…”
“Non è per cattiveria, Carlo, mi creda,” spiega Elide e riprende: “La famiglia di Martina andava a
Cervia, esattamente al Bagno Mirna da almeno una decina d’anni. Stessa spiaggia stesso mare di Sergio e
dei suoi. Se non gliel’hanno detto era perché ormai nemmeno se ne accorgono. Non era una coincidenza
era solo una ‘cosa da bolognesi’. È troppo ‘quotidiano’ per saltarci in mente. Ci spostiamo per finire ad
abbronzarci di fianco al vicino di casa. Per noi è normale.”
“Senta, Elide, ma che problemi aveva quel ragazzo, il figlio di Lividi?”
“Gliel’ho detto, era ‘speciale’, così si direbbe adesso qua nel nostro quartierino benestante. Sa come
lo chiamo io?”
“Cosa?”
“Il nostro quartiere di ricchetti radical?”
“No, mi dica.”
“Quartierino Gauche Caviar.”
“Buffo. E quindi?”
“E quindi in un posto così infernale da preoccuparsi dei nomi delle cose ma non del loro destino, non è
infrequente che ragazzi lievemente handicappati come era Ilario, vengano definiti ‘speciali’ senza la
minima preoccupazione che lo siano anche i loro giorni, speciali.”
“Non sa altro di lui? Del giovane…”
“La cosa più grande e più terribile, così come spesso mi accadeva, l’ho saputa da Martina.”
“E poi?”
“E poi che?”
“No, dico, altre cose che dovrei sapere su Martina, su voi due… mi aiuti, Elide…”
“Guardi che non c’è molto altro, non so se sia poco quello che le ho raccontato, ma è quasi tutto. Che
crede? Non stavamo mica tutto il giorno a farci confessioni, non lei, perlomeno. La nostra frequentazione
è stata una specie di sete reciproca, la mia di parlare un po’, di avere compagnia, quella di Martina non
so esattamente di cosa. Veniva qua un paio di pomeriggi la settimana, proseguì anche per tutto l’inverno,
fine settimana esclusi.”
“Che faceva nei fine settimana?”
“Francamente non lo so. Il venerdì spariva fino al lunedì successivo, questo è tutto.”
“Questa cosa me l’hanno già detta,” interrompo la signora, “ma possibile che nessuno sapesse che fine
faceva ’sta ragazzetta nei weekend?”
“Più che possibile, commissario,” continua Elide, “perché una persona non sempre scompare al
presente, talvolta scompare al passato. A quanto pare, infatti, lei, e così i suoi genitori, solo adesso vi
state preoccupando di dove fosse finita in quei weekend d’inverno, cosa stesse facendo.”
“D’accordo, Elide, torniamo a voi.”
“Gliel’ho detto, commissario, mi ascoltava parlare del più e del meno, cercava in ogni cosa un
appiglio per arrivare alla successiva. Davvero, è stata come una vicina di casa con la quale io
chiacchieravo e lei, di tanto in tanto, rispondeva raccontando qualcosa che lì per lì faticavo a capire.
“Ci siamo fatte compagnia come due pensionate. In fondo ormai oggi siamo tutti pensionati, vecchi e
giovani abbiamo tutti la stessa vita. Lo capisco quando vado a fare la spesa,” prosegue Elide, “una volta
la mattina vedevo solo anziani, gente in pensione al supermercato. Adesso invece vedo ragazzi e ragazze
di ogni età. Fino a qualche anno fa, a quell’ora sarebbero tutti stati in ufficio o magari in fabbrica. Ora
sono tutti a comprare pomodori. Uomini e donne persino, gente di mezza età che ha tempo la mattina. Ci
dev’essere un legame tra il fatto che molte persone amano cucinare e l’aumento dei suicidi.”
“Non ha altre cose, ricordi, dettagli che pensa potrebbero essermi utili? Chessò, un posto dove andava
di solito, una specie di rifugio?”
La signora si ferma un secondo e un piccolo sorriso fa capolino sulla sua bocca.
In quel momento squilla il mio cellulare, è Fantini.
Mi apparto nel laboratorio domestico della signora, fra alambicchi, provette, creme, polverine e piante
di ogni tipo.
Finita la conversazione con Fantini mi accorgo che, dato il volume del mio cellulare (sono un filino
sordo, devo ammetterlo) la donna ha sentito tutto.
Si alza e la vedo entrare nella stanza delle piante, la serra.
La raggiungo senza aprire bocca, è seduta su un piccolo sofà nella sua camera-laboratorio. Ha il
gomito della mano destra appoggiata al bracciolo e la mano stessa a reggerle la testa.
“Va bene,” dice alzandosi e aprendo un armadio, “prendiamo un po’ di cose.”
“Quali cose?” dico io mentre la signora Parisini estrae un po’ di abiti dall’armadio e li poggia sul
divano.
“Immagino io debba venire con lei, commissario, sono in arresto non è così?”
“Lei crede, signora? Mi dica perché dovrebbe essere in arresto, mi aiuti sia gentile…”
Elide viene davanti a me e col dorso della mano mi sfiora la guancia: “Mio figlio maggiore, Enrico, ha
circa la sua stessa età. Lei è solo un filo più… ‘robusto’, ho detto bene?” aggiunge sorridendo, facendomi
capire di aver sostituito l’aggettivo “grasso”.
“È un bravo ragazzo, Enrico?” le domando prendendole delicatamente la mano ancora appoggiata sul
mio viso.
“Tutti lo sono,” dice sedendosi e fissando gli abiti preparati per la partenza. E riprende: “La
telefonata, commissario… l’ho sentita… lei sta cercando veleni, non è così?”
“Temo di sì, Elide.”
La signora Parisini a quel punto alza lo sguardo e fissa, come per un ultimo saluto, le sue piante, la sua
serra privata.
Guarda quella vegetazione imprigionata in una stanza come se fosse il suo unico e grande amore, prima
di dirgli addio.
“Lì troverà tutto il veleno che vuole, commissario. Per curiosità,” riprende, “ha già in mente un nome,
un tipo di veleno?”
“Aconitina,” le rispondo senza la forza di guardarla in faccia.
“Le mie piante… più sono belle e più fanno male,” conclude prima di rialzarsi e infilare i suoi abiti in
un borsone da basket, probabilmente quello che usava uno dei suoi figli quando faceva sport. “Troverà
tutto il veleno che vuole commissario, lo ha trovato Martina, lo troverà anche lei…”
“Che intende?”
“Una cosa inutile,” risponde, “quasi irrilevante: che non sono stata io. Anche se sono stata io, capisce
cosa intendo? Lei dopotutto mi ha chiesto se io c’entravo con questa storia. Bene, adesso ho capito come.
Le guardi,” mi dice stendendo la mano verso la serra, “queste piante vengono da tutto il mondo.”
E si addentra nella sua giungla domestica.
“Questa gliel’ho già fatta vedere,” dice sfiorando con le dita la pianta dai fiori rosa scuro. “Era la sua
preferita. Digitale purpurea… Buffo, eh? Pensi che porta questo nome perché il suo fiore a campanula ha
la forma di un ditale, quello da cucito. Si diceva che questa pianta, messa fuori sul davanzale della
finestra, fosse un incantevole rifugio per esseri soprannaturali. Le fate amano dormirvi. Lo sa che la
digitale uccide alterando direttamente il ritmo cardiaco? Ma non è quella che sta cercando,
commissario,” aggiunge e raggiunge un altro angolo della serra.
“È questa,” dice indicando una pianta, “la guardi. Aconito. Il principio attivo della pianta è l’aconitina,
si trova nelle radici e nel tubero che possono essere ridotte facilmente in una polvere di color bianco-
giallo. Sta bene anche nelle creme solari,” prosegue sorridendo in modo amaro, “è uno dei veleni più
potenti che si conoscano. Non esistono antidoti. Diversamente dalla digitale purpurea uccide in
pochissimi minuti, anche in questo caso però, la morte avviene per difficoltà respiratorie che producono
infine un arresto cardiaco. Ma questo lei lo sa già, non è vero?” mi dice fissandomi negli occhi.
Gira attorno alla pianta, la circumnaviga come fosse un continente misterioso e promettente.
“Pensi,” riprende, “che nella mitologia greca si narra che Cerbero, il cane che custodiva gli Inferi,
portasse nella bava i semi di aconito. E quando Ercole l’ha rapito per portarlo sulla Terra, la rabbia del
cane era tale che la sua saliva, a contatto col suolo, ha fatto nascere la pianta di aconito.
“Questa pianta viene anche conosciuta come ‘l’erba del diavolo’ perché è tanto bella quanto mortale:
il suo veleno può essere assorbito dalla pelle, tenendo semplicemente un mazzo di aconito in mano.”
Elide si aggira fra le piante come una maestra di campagna fra le sue allieve, con amore e
riconoscenza. Rimane un altro po’ ad ammirare i vasi, poi esce dalla serra, non prima di essersi voltata
per un’ultima volta.
Sorride e cerca un golfino da mettersi.
“Fa un po’ freddo,” dice, frugando nel salottino di casa e prosegue, durante la caccia, “quella ragazza,
lei lo avrà capito, commissario, ha bisogno d’aiuto. E badi bene,” precisa, “io non so cosa sto dicendo
mentre dico questo. Forse andrebbe seguita da una psicologa, forse dal sistema di assistenti sociali,
magari andrebbe infilata in psicoterapia, ma forse il suo bisogno di aiuto è ogni giorno più inderogabile,
più stringente…”
“Forse è tardi,” dico, “c’è un limite oltre il quale l’aiuto può far irruzione in una vita, dopo si chiama
‘cura’, ‘controllo’, ‘detenzione’. Fino a un certo punto della vita,” continuo, “sei ancora in tempo per
essere aiutata, dopo la priorità è aiutare gli altri, metterli al riparo da quello che puoi fare loro.”
“Il limite,” domanda Elide, “è quindici anni?”
Non rispondo, non sono solito dare ad altri risposte circa domande che anch’io continuo, inutilmente, a
pormi.
“Lei ha capito che sta male Martina?”
“Ogni minuto che passa, mi è sempre più chiaro, signora. Ma il mio mestiere è prenderla. Fermarla.”
Elide riprende la parola, mentre si chiude con perizia i bottoni del golfino: “Comunque, tanto per la
cronaca, non ho estratto io il veleno da una di queste piante, non sono io ad aver preso le radici, chessò,
dall’aconito e averle tritate finemente per poi infilarle nelle creme. Le dico questo perché, a naso, credo
che le cose saranno andate così. Adesso mi dica, commissario, che io abbia involontariamente fornito a
Martina informazioni circa come le cose belle uccidono, o che in uno dei nostri pomeriggi sia stata lei a
prendere le radici e usarle, ci rende diverse? Questo mondo gliel’ho spalancato io.”
“Non sia sciocca…”
“No, ascolti, commissario, le chiedo: chi uccide e l’assassino sono sempre la stessa persona?”
La signora Elide non attende la mia risposta, si china verso la digitale come una madre per rialzare il
figlio caduto dalla bici e si protende verso l’aconito, ispeziona anche questo.
Sfiorando alcune foglie riparte: “Cosa ti hanno fatto?” dice rivolta alla pianta. “Cosa hai fatto?”
conclude.
Ascolto quello che Elide mi dice, ma mentre parla il mio cervello è altrove.
Fisso quel borsone da basket dentro cui infila i suoi abiti, pigiandoli senza piegarli. Un anziano che
non piega le cose è uno che pensa di non tornare più.
Quel borsone mi ricorda tanti altri borsoni fatti in tutta fretta in casa mia, e in tante altre della città:
rassegnati preparativi per un viaggio in ospedale.
Ognuno di noi ha visto qualcuno conficcato, suo malgrado, in tale cerimonia. La distanza fra ciò che ci
portiamo e dove infiliamo le nostre cose, pigiami da signora in puzzolenti borse da sport.
Questo è il male di vivere. Essere un assassino è davvero poca cosa al confronto.
Sul borsone da basket c’è una scritta che viene a salvarmi, a farmi sentire in casa per un attimo in
questo volo senza rete: S.G. Fortitudo 1901.
“Era bravo suo figlio?” domando a Elide mentre la signora infila l’ultimo paio di ciabatte nella sacca.
“No,” risponde alzando la testa e sorridendomi.
“È per questo che ha smesso allora?”
“No,” dice nuovamente. “Non era bravo ma non avrebbe mai smesso,” conclude la signora Parisini,
“avrebbe giocato per tutti i giorni, per tutta la vita.”
I colleghi della squadra mobile hanno appena portato in questura la signora Elide.
La vedo dietro al finestrino nell’auto della polizia e mi sembra di essere lontanissimo dall’aver fatto
qualcosa di giusto.
Il mio mestiere. Mi consolo così, dicendomi che questo è solo il mio mestiere.
Gli eventi che si stanno susseguendo mi hanno definitivamente messo in confusione.
Prima c’era un sospetto rapitore morto, poi una ragazzina ancora in giro (speriamo viva) ma non
sappiamo dove e adesso infine una gentile pensionata che ha un arsenale di piante velenose in casa.
Chi di questi devo mettere in salvo?
Di chi devo avere paura?
Il vero problema è il bizzarro: il grande rivale di ogni indagine. Orrore o abominio non turbano un
commissario, così come nessun piano perfetto è talmente perfetto da non avere falle. Ma il bizzarro è una
deviazione. Una strada sconosciuta verso un luogo dove, presumibilmente, chi ci attende sarà in
vantaggio su di noi.
Anch’io sto andando in questura, ma vado a piedi.
Ormai sono le 16, Fantini avrà così tutto il tempo per raccogliere la sua deposizione e poi staremo a
vedere. Prima di domattina nulla accadrà.
E a me farà bene fare due passi.
Tanto più che… lungo la strada che da via San Mamolo porta in questura c’è il piccolo vicolo dove
abbiamo abitato io e Silvana.
20 luglio 2000, 23.32
Radio Alaska
“… un po’ come quando ai cadaveri, nei primi giorni successivi al decesso, continuano a crescere
unghie e capelli, c’è un punto in cui gli amori sono finiti, ma continuano in qualche modo a vivere. Quelle
ore residue… Se solo potessero durare per sempre…”
Dell’amore del nostro commissario e la sua Silvana, andrà ricordata una cosa.
Piuttosto semplice.
Il numero 23 di via Mirasole era stata la loro prima casa.
Più che casa, una soffitta.
L’aveva trovata lei, aveva fatto tutto lei, o meglio solo ciò che veniva da lei sembrava vivere nei fatti
concreti, nelle cose di tutti i giorni.
A lei, la vita, riusciva.
Era una soffitta monolocale di trentanove metri quadri, con l’angolo da letto dipinto di rosa, e il
salottino che sembrava arredato da uno Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, improvvisamente
caduto in disgrazia.
Mobili anni settanta, colori vintage, un divano polveroso e un terrazzino dove morivano incustodite le
piante più belle che avesse mai visto.
“Io sono mia figlia,” gli disse lei una sera, prima di cena, davanti a un fornelletto da campeggio.
Lui capì che si era spinto a una forma di amore più grande della custodia dell’amore stesso, comprese
di aver varcato un giardino di carne che, solamente respirando, avrebbe rischiato di contaminare e
uccidere. Ma peggio ancora aveva compreso che quel giardino si sarebbe fatto uccidere per amore.
La guardò addormentarsi a bocca aperta, quella sera stessa, e le carezzò i capelli nel primo minuto di
sonno, dandole il mondo che non possedeva.
Si vergognò della polvere sui libri, dei mobili appartenuti ad altri, delle bottiglie lasciate a metà sui
tavoli e di quel frigorifero che avevano inventato dietro una finestra, confidando nel mestiere
dell’inverno.
Si sedette vicino al letto dove riposava la sua “bambina” e la sposò senza dirglielo, fra le due e le due
e mezza di una notte di novembre.
Senza muoversi e senza bisogno di valigie la raggiunse nell’infanzia, e le chiese scusa di quello che
avrebbe fatto prima di conoscerla.
Chiese di perdonargli certi sogni dispari, i mestieri giusti nei posti sbagliati, e i viaggi nei posti freddi
per la paura di vedere il mare senza la certezza di ritornarci.
Le chiese di sbagliarsi con lui prima che con gli altri e la bambina acconsentì, sapendo che Carlo era
l’errore più giusto del mondo.
Lui non le parla da quella notte, eppure è convinto che lei abbia accettato di sposarlo.
Però così, all’indietro, perché il futuro è volgare.
MESMERISTA
Siamo in auto, non sono nemmeno le 6.30 e la città è ancora deserta, ci dirigiamo lungo via San Felice
verso il Bar Mauro, e il mio cellulare trilla.
A quest’ora del mattino non c’è che una persona che può chiamarmi…
“Anton Mesmer.”
“Che dici, Elio? Non capisco?”
“È lui la chiave nel nostro caso, commissario.”
“Chi sarebbe ’sto Mesmer, un pregiudicato? Un complice dell’assassino?”
“In effetti,” prosegue Elio, “una specie di complice può darsi lo sia. Ma temo sia morto da un paio di
secoli.”
“Fantini, a quest’ora io non capisco niente, aiutami…”
“Franz Anton Mesmer,” dice, “era una sorta di medico, guaritore, psicanalista dell’Ottocento, un tizio
piuttosto controverso alla sua epoca. I suoi detrattori sostengono fosse indaffarato a trafficare con le vite
delle persone. Con i loro malanni. E con le loro teste. Diceva di poterle guarire.”
Paola sta sentendo dal vivavoce e, al solo nominare Mesmer, sembra illuminarsi di curiosità e
guardarmi come un povero ignorante… Scuote la testa come a dire “Non è possibile”. “Fallo parlare, eh,
non rompere i coglioni adesso,” mi intima.
“Vede, commissario,” riparte Elio, “finalmente ho capito. Se cercavo un indizio nei volumi che i nostri
due fuggiaschi leggevano alla libreria Tritone, cose di vario tipo, dalla demonologia alla negromanzia
passando per l’esoterismo, non avrei mai trovato nulla. Bisogna cercare dopo aver trovato, non prima,
commissario. Solo che le cose che troviamo non le riconosciamo subito come ‘cose che abbiamo
trovato’, molto spesso le ignoriamo.”
“Elio, puoi spiegarti meglio?”
“Ieri pomeriggio ho raccolto la deposizione della signora Elide, le cose necessarie per il verbale.”
“Eh, okay, e allora?”
“E allora mi ha molto incuriosito.”
“La cosa dei veleni… eh? Le piante… pazzesco.”
“No, direi di no.”
“Ah, una vecchia tiene in casa un arsenale di veleno e tu lo trovi normale?”
“Dato che non lo teneva per usarlo, direi di sì, a me pare chiaro che…”
“Fantini, qua le deduzioni le faccio io,” gli dico e poi riparto: “Scusa, eh, ma era tanto tempo che
desideravo trattare male un mio aiutante, nei telefilm lo fanno sempre…”
“Nei pessimi telefilm, commissario, nei libri migliori, quelli come me valgono oro e sono tenuti in
palmo di mano.”
“Andiamo avanti allora, cosa ti ha incuriosito?”
“Prenda tutta la sua chiacchierata con la signora Elide, no?”
“Eh, vai avanti.”
“Io e lei abbiamo trovato cose diverse.”
“Cioè?”
“Lei ha trovato il veleno, io Despina.”
“Despina?”
“Non è così che si firmava Martina? Me lo ha riferito la signora Elide.”
“Sì, mi pare quello il nome.”
“Ecco, mi sono permesso di fare qualche indagine su chi fosse ’sta Despina.”
“Fantini,” lo interrompe mia sorella, “lei è un gran maschio,” e ride soddisfatta.
“E chi è ’sta Despina?” dico io riprendendo le redini.
“Lasci per favore che io ci arrivi per gradi, mi faccia partire dalla fine.”
“Parti da dove cazzo vuoi, Fantini, basta che tu mi faccia capire qualcosa.”
“Vede, commissario, nel bene o nel male Mesmer era molto conosciuto nella seconda metà del
Settecento. Era un medico, o forse qualcosa che gli somigliava.
“Studiò a lungo l’opera di Paracelso, medico del Cinquecento, che sosteneva che le cause, e i rimedi,
delle malattie vanno cercati nelle forze dell’universo, che influiscono sulle nostre condizioni fisiche. Tra
queste individuò il magnetismo, immaginandolo come un ‘fluido’ sottile e invisibile emanato dal suo
corpo, e con il quale pretendeva di curare vari disturbi. Si convinse della necessità che il magnetismo e
l’ipnosi interagissero. Che questo avrebbe portato risultati.
“Pare che abbia ottenuto qualche successo nella cura di alcuni disturbi psichici, per esempio di quella
che allora si chiamava isteria femminile.”
“E la medicina di allora che ne pensava?”
“A Parigi, dove si recò dopo essere stato espulso dall’Austria, i suoi metodi furono sottoposti
all’esame di una commissione scientifica. Questa sostenne che Mesmer era in buona fede, ma che le
guarigioni erano dovute probabilmente a suggestione.”
“Guarigioni?” lo interrompo, “di che tipo?”
“Eh, sui casi specifici devo ancora documentarmi per bene commissario, e lo farò grazie ai libri che
ho qua sulla scrivania.”
“Il puntooo, Fantini…?”
“Il punto è, commissario, che, come avrà capito, Anton Mesmer durante la sua carriera di guaritore
aveva il vizietto di ipnotizzare il paziente. Di fare due passi dentro al suo cervello. Chissà se ne era
davvero in grado, magari riusciva a spingerlo verso l’infanzia più segreta e remota o verso le paure più
radicate e nascoste… lei ha idea di quante cose possa fare uno che entra nella sua testa?”
“Ma non hai detto che era un guaritore? Dove vuoi andare a parare?”
“Esatto, diceva di essere un guaritore, ma il tema non era cosa lui fosse ma come lo facesse. Ipnosi e
magnetismo, commissario…”
“E perciò cosa mi vuoi dire?”
“Sto andando a dirle che fra le proprie mani e il punto del corpo sul quale venivano poste, Mesmer per
far scorrere il proprio magnetismo usava delle calamite.”
“Le calamite, Carlo! Quelle che il vedovo e la ragazza si scambiavano! Che hanno dato a Nora e
Gonzalo!” esclama Paola.
“Un guaritore?” domando io.
“O magari uno che conosce il pertugio attraverso cui entrare nella testa della gente?” rilancia Elio e
prosegue. “Secondo Mesmer la guarigione poteva essere ottenuta applicando al corpo dei magneti che
riequilibrassero il fluido bio-cosmico.
“Magnetismo e ipnosi, non perda mai di vista questo binomio. Poi sa come vanno queste cose, col
passare del tempo, Mesmer ridusse l’uso dei magneti a favore della relazione col paziente, ma pochi ne
capirono l’importanza e l’ipnosi venne relegata ai teatranti di strada che ne favorirono l’uso popolare.”
“No, Fantini, non so come vanno queste cose, ma questa pista è buona, ne sono sicuro.”
Io intanto sono spiazzato. Paralizzato. Non so più cosa dire, ma Fantini vorrebbe continuare:
“Commissario,” ripete dall’altra parte del telefono, “commissario, è ancora lì?”
“Certo, Elio, sono solo senza parole.”
“Si tenga il silenzio per quello che ancora non le ho detto…”
“Perché, c’è altro?”
“Manca Despina.”
“Avanti.”
“Anton Mesmer era un frequentatore di corti e di regnanti, di persone importanti, facoltose e di artisti.
A tal riguardo era amico fraterno di Mozart. Lei conosce Mozart, vero, commissario?”
“Non mortificare, vai avanti.”
“Ecco, allora se conosce Mozart avrà visto a teatro il suo Così fan tutte.”
Paola prende la parola col vivavoce: “Fantini, che cazzo vuole che abbia visto questo qua? Questo
oltre Derrick e Colpo Grosso non andava!”
“Fallo finire,” la interrompo.
“Ma scusi, le suore possono dire ‘cazzo’?” domanda Elio.
“Le suore sono al mondo, Fantini,” dice mia sorella alzando la voce affinché Elio possa sentire bene,
“non ci crederà, ma stirare le mutande dei cardinali o fare le badanti alle suore più anziane non è la
nostra vera vocazione…”
“Sentite, possiamo andare avanti?”
“E allora,” prosegue Elio, “se lei avesse visto il Così fan tutte non sarebbe all’oscuro circa l’identità
di Despina. Era un personaggio dell’operetta in questione, una cameriera che a un certo punto, per
‘guarire’ due innamorati pone sul loro capo delle calamite… Se vuole proseguo, ma…”
“Non serve, Fantini,” dico accostando. “Direi che per stamattina, siamo a posto.”
“È sicuro?”
“Finora siamo stati di fronte a un mesmerista,” riprendo io. “Qualunque cosa voglia dire…”
“O una mesmerista, commissario?”
VUOLE ANCHE TE
Eccola.
Siede composta, quasi con rispetto, su una panca di legno dietro la grata della clausura. In silenzio.
Tiene le mani sulle ginocchia, al suo fianco c’è uno zaino.
Sembra una ragazza che aspetta di partire.
Ha una camicia bianca un po’ rovinata e un paio di pantaloni lunghi, blu. Gli occhi sono arrossati, i
capelli poco curati, probabilmente se li è accorciati da sola con un paio di forbici, durante il viaggio.
Trasmette un’idea di sfinito.
È qui per uccidere, anche se non sappiamo come e chi.
Vuole fare del male e al tempo stesso sembra in pericolo anche lei; è esattamente questa la sua
pericolosità.
“Non si è mossa da lì,” dice Paola, “l’ho notata mentre sistemavo i messali sulle panche per la messa
vespertina. Mi è venuto un colpo.
“Immagino,” la tranquillizzo.
“No, non credo.”
“Perché?”
“Non mi ero accorta di lei, seduta nell’ombra dietro la grata della clausura. Chissà da quanto tempo se
ne stava lì. È che a un certo punto ho sentito qualcosa. Cantava.”
“Cantava?”
“Piano, a bassa voce. Come un sibilo.”
“Cosa?”
“La sigla finale di Radio Alaska, la mia vecchia trasmissione. Vorrei regnare. Vorrei regnare sulle
cose che cambiano… Non pronunciava esattamente le parole, la cantava con una specie di svagatezza.
Come una bimba che se ne va a zonzo in bici e segue un motivo sopra pensiero. Prima ancora di poterla
distinguere nella penombra ho capito che era lei.”
“È quello che voleva,” rispondo a Paola. “Tutto è andato esattamente come lei ha deciso. È sparita
quando ha voluto sparire, abbiamo pensato quello che voleva pensassimo e, anche adesso, sta accadendo
quello che vuole lei. Mai visto nessuno ‘regnare’ più di lei. Ma ora non scappa più, fuori da qua ci sono
due volanti della polizia e altre due sono nell’altra uscita del convento e nel cortile.”
“Non so,” risponde mia sorella, “a te sembra che sia la quantità di gente a impedirle di fare quello che
vuole? La gente attorno a lei muore senza che Martina la sfiori con un dito. Non crederai che siano le
pistole o le manette a fermarla?”
“Io non voglio fermarla, Paola.”
“Eh?”
“Voglio che mi porti dove ha deciso di portarmi, fino a quel ‘punto’.”
“E una volta lì?”
“Una volta lì ci penso, okay?”
“Per me sei impazzito…”
“Paola, mettitelo bene in testa, si gioca alle sue regole. Si vince o si perde la partita, ma le regole le ha
poste Martina. Senti, adesso io entro in clausura e le parlo…”
“È fuori discussione, tu là dentro non entri. Quello non è un bar.”
“Ma che dici, io sono un commissario, entro dove voglio.”
“Non qua, Carlo. In questo luogo non ci sono solo le regole di Martina. Entro io e la faccio uscire, se
vuoi possiamo sederci qua sulle panche della chiesa, nella navata centrale. Ma tu in clausura non entri.
Nessun uomo può.”
“E tu, allora?” le dico per alleggerire la tensione.
“Io vesto da donna,” risponde Paola sorridendo per incoraggiarmi, e si avvicina alla porticina che
dalla sagrestia conduce nella clausura.
Con la chiave giusta apre e lascia la porta socchiusa.
Ne filtra una specie di luce.
“Succede solo in chiesa, in certe stanze della canonica,” mi dice Paola come una madre che rivela al
figlio un segreto decisivo, “che dal buio esca una specie di luce,” e si ferma a fissare la traccia di luce
che s’infila in sagrestia. “Credo sia quello che mi ha fregata.”
Martina esce dalla clausura, s’infila nello spiraglio di luce della sagrestia e si dirige in chiesa.
Io e Paola la seguiamo.
Si siede nella navata laterale a sinistra, a un paio di metri dal libro delle grazie, in corrispondenza
della statua di Santa Caterina.
La fissa e senza toglierle gli occhi di dosso si rivolge a noi:
“Lo sapete che ‘disgrazia’ vuol dire ‘evento privo di grazia’?…” si prende un paio di secondi, “Ho
provato a restarne fuori…” dice fissando la statua della Santa, “speravo fosse Lei a sporcarsi le mani,” e
fa una pausa che, non so perché, mi fa gelare il sangue nelle vene. “Così ci siamo tutti,” conclude. E ci
guarda, come per dire “Avanti, vi ascolto”.
Ma, dato che rimaniamo in silenzio è di nuovo lei a prendere la parola.
“Voi quando siete sfiniti, senza più forze, cosa fate?”
“Mah, non saprei,” dice Paola con un filo di voce, “magari cerco un posto al riparo da tutto, dove
sentirmi a casa.”
“E così ci siamo già risparmiati la prima domanda,” dice Martina, senza mai togliere lo sguardo
dall’altare. “Avevamo tutti contro, io e Sergio,” prosegue guardando nel vuoto, “esiste un modo più certo
di incatenare due persone l’una all’altra? Lui aveva contro il destino, io il futuro. Vuole conoscere la
differenza, commissario? La chieda a sua sorella.”
“A mio sorella?” domando.
Nessuna risposta, tantomeno di Paola.
“Veramente,” dico io, “non avevo ancora iniziato, stai facendo tutto tu,” e a quel punto Martina si volta
verso di noi e riparte.
“Comunque sulla cosa della stanchezza… non parlo di oggi,” prosegue, “mi riferisco a un anno e
mezzo fa circa, quando ho iniziato a venire qua.”
“Un anno e mezzo fa?” chiede Paola.
“Voi credete che io sia stanca perché mi avete inseguito, ma siete sicuri che sia andata così? Quelli
come me non sono stanchi alla fine, ma all’inizio di ogni cosa.”
“All’inizio?” domando.
“Il momento peggiore è sempre l’inizio. Perché promette. Quindici anni…” dice Martina fissandosi i
dorsi delle mani, “a questa età non siamo altro che gente nei guai. Eppure ci invidiate,” continua, “vi
manca la felicità? No, vi mancano i guai. Quelli perbene. Vedete i bambini giocare e li credete felici, gli
adolescenti scopare e li credete in Paradiso. Non conoscete la disperazione del giocare e la solitudine di
chi si spoglia al buio. Se solo sapeste cosa pensiamo togliendoci una maglietta, quanto avremmo bisogno
d’amore un attimo prima di fare l’amore…”
“Tu che ne sai di queste cose?” le chiedo.
“Volete sapere se mi ha toccata,” riprende Martina, “se abbiamo fatto l’amore… La risposta è sì, per
sempre. E anche la seconda domanda è andata, così non perdiamo tempo.”
“Quindi…” dico, ma m’interrompe di nuovo.
“Sì, commissario, ho quindici anni e ho già fatto l’amore,” risponde, “e lei?” mi chiede voltandosi
verso di me.
“Sì,” sorrido, “anch’io.”
Martina annuisce con la testa, come se fosse contenta per me.
“Sono i ‘giorni felici’ del resto, no? L’adolescenza, dico…” e continua, “è questo che pensate di noi.
Ma c’è qualcosa, come un sospetto, che ti prende la gola durante i momenti di felicità. Una piccola pena
senza nome, nascosta, insistente in ogni gioia. Che cos’è, commissario, lei lo sa?
“Il problema è che la felicità non è ‘felice’” prosegue, voltandosi verso mia sorella. E poi la fissa
come a sfondarle gli occhi con i suoi. “Io ti conosco,” le dice e tace per un po’, “ti conosco molto bene.”
Paola è in imbarazzo, sembra imbalsamata e al contempo rapita da Despina e questa cosa mi
preoccupa. Il magnetismo di cui tutti avevano parlato lo sto vedendo in azione adesso, davanti ai miei
occhi.
“E sapete qual è la cosa buffa in tutto questo?” continua la ragazzina parlando di nuovo a entrambi.
“Che anche noi vi invidiamo. Che a quindici anni vorremmo la vostra vita. Un lavoro. Una casa. Un uomo
da tradire. Un Dio da perdere, di quando in quando,” dice voltandosi verso Paola.
“Io non l’ho mai perso,” risponde mia sorella.
“Tu non l’hai ancora trovato,” dice Martina. “Una cosa per volta, Paola. Una cosa per volta…”
E abbassa la testa come per riposarsi un po’.
“La felicità non è felice?” le domando provando a rimettere in moto la conversazione.
“C’è da diventarci matti, vero? Non risolve la vita. È sufficiente esser stati felici una volta per capire
che non c’è scampo, anche se non sai da cosa…” riprende Martina, “e voi lo avete capito, basta guardare
le vite che vi siete costruiti. Al riparo dalla felicità e dalle sue insidie. E fate bene.
“‘Sistemàti’. È così che dite di voi quando avete un lavoro e una casa con qualcuno che abbia i vostri
stessi orari. Sistemàti. Va bene un lavoro. Va bene una casa. Perfino un matrimonio,” conclude. “Quante
cose v’inventate per non correre il rischio di vivere…”
“Perché pensi questo?” chiedo.
“Perché quando si vive sul serio si ha così tutto da perdere da non aver in realtà più nulla da perdere,
non so se mi capisce; si è pronti a uccidere, commissario. È per questo che chiamate ‘perbene’ la gente
che di vita non ne ha nemmeno una. Quella gente è la vostra garanzia di quiete. Una quiete senza pace.” E
si volta verso Paola. “Tu non morirai. Ricordi? Ne parlavi in radio, in quella tua trasmissione, fra una
canzonetta, una poesia e le telefonate degli ascoltatori. Non dicevi così? Non era questa la condizione
minima per non farsi saltare la testa con un proiettile, se per caso ti fossi innamorata? Avevi ragione,
Paola,” prosegue la ragazzina quasi come una resa, “sei stata una scoperta per me. Mi sono ascoltata per
mesi le cassette delle tue trasmissioni, erano diventate una forma di preghiera quotidiana. Mi domandavo,
ascoltandoti, come potesse esserci in natura qualcosa di così simile a me. Eravamo in intimità. Con
Sergio ho capito chi volevo, ma con te ho capito chi ero.”
Paola si muove, e si avvicina di qualche passo alla ragazzina.
“Ricordi, Paola, quando volevi regnare sulle cose che cambiano? Quante cose abbiamo in comune io
e te,” e fa un gesto che immediatamente arresta, come a tenderle la mano.
Per sfiorarla.
Sento che Martina sta giocando con mia sorella, una sorta di corteggiamento pericoloso, sull’orlo di un
burrone.
Paola non riesce a dire niente. La guarda con fare materno e al contempo inquieto, sembra spaventata
di quanto la ragazzina sta dicendo.
Ma c’è di peggio. So che, in qualche punto di lei, mia sorella è lusingata da quanto sta sentendo.
“Esci, per favore,” dico a Paola.
“E chi mi fa le domande, tu?” dice Martina appoggiando la mano destra sulla panca, al suo fianco.
Paola capisce e si siede di fianco a lei.
“Vuoi che lui esca?” dice Martina a Paola.
“No,” risponde mia sorella, “va bene così.”
“Va bene così,” chiosa la ragazzina.
“Paola, tu lo sai,” riprende Martina, “la questione qua non è una faccenda come s’immagina tuo
fratello. L’assassino, il movente, l’inseguimento e la cattura…” e si mette una mano alla gola, come un
riflesso dopo un improvviso spavento. “La noia…”
“Cosa vuoi dire?” le chiedo.
“La noia,” riprende, “questo insopportabile rimbombo che sfonda ogni attimo. Dicevano sarebbe
passata, andata via col tempo, crescendo. Che bastava aspettare. Non è così, non va mai via e tu diventi
la sua dimora.
“Lei ti abita e ogni sera rincasa, stanca della sua giornata, si mette a tavola e ti fissa. Non fa nulla di
speciale, non è come il dolore o la disperazione che ti fanno sembrare inutile arrivare a domani. Lei
viene dal domani, è dal futuro che ti raggiunge tornando indietro, come uno che pedala più veloce di te e
ti aspetta. E dal futuro ha un’unica notizia: non c’è niente. Non c’è niente perché hai già tutto e tutto non
basta. E così mi ero rassegnata, da giovani è importante rassegnarsi.”
“Perché ti fa così paura la noia?” domando.
“Non mi spaventa affatto, mi ammazza. Ma è come lo fa. Il mondo ruzzola avanti sulla noia e se non
puoi sfuggirle magari ci entri in società.”
“Che intendi?” chiedo.
“In un posto mediamente decente voi commissari passereste la giornata indagando sempre, di continuo,
sullo stesso delitto: qualcuno ha ucciso un pubblicitario,” sorride, sembra capire quanto sta dicendo,
intenderlo sul serio. E riparte: “Ci pensi, su cosa si basa la pubblicità? Sesso, paura, noia. Quelle sono le
tre porte dell’essere umano. Gli spot prima duravano un minuto, poi trenta secondi, poi quindici, adesso
cinque secondi. Sesso e paura stanno perdendo smalto, la noia no. Lei impone il suo ritmo, velocità. Ma
non è tutto qua.
“Ogni cosa che si produce e si vende, dalle scarpe alle serie TV, dalle vacanze ai telefonini, dalla
politica ai libri, non serve alla cosa per la quale era stato pensato. Dare una rotta certa alla deriva, a
organizzare il naufragio: a questo serve.
“Persino la bontà è organizzata, gli ‘altri’ sono la pubblicità che facciamo a quanto siamo sensibili.
Come la cyclette, un po’ di esercizio di bontà alla settimana ci consente di restare realmente indifferenti
ma con la coscienza a posto. Il passo successivo sono le camere a gas, ma con il karaoke.
“La nostra navigazione ha un mare calmo, senza vento, quello più pericoloso. Solo seguendo gli istinti
dettati dalla noia risolveremo ogni nostro problema; siamo risolti, Paola, te l’ho già detto, calmi ma senza
pace. Quello che abbiamo non ci serve, ma se non c’è siamo fritti. A chi dobbiamo la trasformazione
della tragedia del vivere in farsa?”
“La noia,” dice Paola guardando Martina da capo a piedi, come se fosse al cospetto di un miracolo.
“Mi sembra pazzesco,” m’inserisco, “che tu, alla tua età, parli in questo modo e…”
“Tu quanti anni avevi quando dicevi, più o meno queste cose, in radio?” dice Martina rivolta a mia
sorella.
Paola tace e la guarda.
Martina continua e sempre rivolgendosi a mia sorella fa: “Se tuo fratello sta per dirmi che ho tutta la
vita davanti tu, per favore, intervieni?”
Paola sorride. Non mi piace. Vedo la velocità con la quale Martina si sbrana l’identità di chi ha di
fianco, ti partorisce ingoiandoti.
“È difficile vivere così. Lo so,” le dice mia sorella.
“Difficilissimo. Eppure,” riprende Martina, “in questa ciotola di fango che è la vita ci lamentiamo
delle scarse porzioni, chiediamo alla scienza di scrivere un nuovo atto della nostra agonia. La nostra
ossessione,” prosegue, “sarà esistere più a lungo dimenticando di vivere più in largo.
“Presto, di questo passo, i più vivi fra di noi arriveranno a provare nostalgia delle malattie e
ricorderanno il tanfo degli ospedali come l’ultimo abbraccio di un compagno di scuola.
“La noia, commissario, sempre lei…” continua la ragazza, “e allora, per non annoiarsi, cosa resterà?
Se l’amore non è bastato, se la famiglia non ha funzionato, se il lavoro si compra in saldo la dignità che ti
sottrae, se il tempo libero è in realtà la catena più stritolante di questi schiavi del ritmo senza suono? Che
fare? Se il futuro è un bambino senza occhi, che ne sarà di noi?
“Però vede, commissario, anche questa situazione ha il suo lato positivo: gli annoiati sanno
riconoscere i vivi e i morti. Abbiamo capacità di giudizio senza più voglia di giudicare. Lontani
dall’imprecisione della gioia o dalla negatività della frustrazione, siamo solo noi che sappiamo capire
chi è vivo e chi è morto.
“E allora qua veniamo a noi,” dice Martina.
“A noi chi?” domando.
“A quello che lei si aspetta accada oggi, qua dentro. Lei vuole capire, no, commissario? Ci sono dei
morti, lei è quello che spiegherà alla società cosa è successo…”
Scuote la testa e ricomincia: “Ci volevamo bene, basterebbe questo. Io e Sergio, mi creda, ai vivi non
abbiamo torto un capello. Come ha fatto la vita con Sergio io ho fatto con lei,” dice alzando le spalle. “Se
lo fa Dio lo chiamate ‘disegno’. Noi abbiamo ritagliato quel disegno. C’è da sperare che in tutti questi
anni trascorsi a fare il commissario, lei abbia compreso la differenza fra le vittime e gli innocenti. Non
sempre coincidono. Sergio è innocente.”
Martina tossisce, si stropiccia gli occhi. Poi apre il suo zainetto e cerca un fazzoletto di carta, si soffia
il naso e ricomincia: “Pregare Santa Caterina era come avvertirla. Che non avrei tollerato altro male per
lui. E che se non se ne fosse occupata lei ci avrei pensato io a riportare grazia nella vita di Sergio. E la
grazia inizia con la pace, i conti a posto col destino.”
Guarda Paola e ne percepisce l’imbarazzo.
“Ricordi Gold degli Spandau, Paola? La mettevi spesso in radio. Ti piaceva quel punto nel quale lui
per dire a lei che erano intimi, complici usava quella locuzione bellissima, Remember we were partners
in crime? Così diceva. Ogni grande amore è un crimine in fondo. Io e Sergio eravamo partners in crime.
“Avevamo vinto la noia: quando accade sei dentro una storia d’amore. E da lì partì tutto quanto…” e
continua: “Eravamo innamorati, fa strano che vi aspettiate vergogna da parte mia. Lei, commissario, e tu,
Paola, col ‘mestiere’ che fai… Non reggete a due che s’innamorano se non ci sono le ‘condizioni’ per
amarsi, non è così? Però le condizioni, un po’ come i rapitori, le dettate voi. Tipo l’età.
“Lei lo sa, commissario, cosa si prova ad amare qualcuno? Rabbia. Quando ami, ma sul serio, vuoi
uccidere. Vedi la distanza fra la purezza del tuo uomo e il piano che la vita ha per lui. Un piano che vedi
saltare, giorno dopo giorno, il meccanismo della felicità che va progressivamente bloccandosi e gli
esseri umani disseminati attorno a te sono i chiodi infilati nell’ingranaggio.
“Cosa vuol dire volere giustizia per chi ami? Saperlo così al sicuro, nella vita che gli somiglia, nella
vita che gli spetta, da poter fare a meno di te. Amare vuol dire sperare di non servire più, che la morte
non rubi più niente. Amare un uomo vuol dire vederlo come un bimbo in costume da bagno in un mondo
senza mare.
“‘Io non posso amarti ma non so fare a meno di te,’ mi disse Sergio. Qual era il mio piano?” mi guarda
Martina. “Volevo solo portare Sergio al mare, fare giustizia e avere un segreto tutto per noi. Come in ogni
storia d’amore, prima o poi si finisce al mare e si lascia qualche morto per strada. Saremmo scappati a
Parigi, dopo.”
Sorride un po’ e si gratta la testa. Ha i capelli sporchi, non se li lava da parecchio.
“Lo sento che mi state giudicando,” riparte, riponendo il fazzoletto nella tasca, “ma io ho un metodo
infallibile con quelli che giudicano…”
“Sarebbe?” domando io.
“Li faccio parlare d’amore. Stia a vedere, commissario,” dice voltandosi verso di me e poi si rivolge
a mia sorella.
“Paola, tu perché eri al mare con lui? A inseguirmi su e giù per la riviera?”
“Non saprei…” farfuglia titubante. Ma poi si calma e parla più ferma: “Ne avevo bisogno. Volevo fare
un piccolo viaggio con Carlo…” prosegue sempre più spaesata.
“Anch’io…” risponde Martina e riprende: “Perché soffri, Paola?”
“Perché non posso avere chi amo.”
“Anch’io. Di cosa hai paura, Paola?”
“Del dolore di chi amo.”
“Anch’ io. E dimmi, lo chiedi a Dio?”
“Cosa?”
“Di occuparsi della ‘faccenda’? Di salvare chi ami?”
“Certo. Ogni giorno.”
“Anch’io, solo che tu ti fidi ancora di lui, io ho dovuto, come si dice in questi casi, diversificare
l’investimento…”
“Scusate se m’intrometto,” le interrompo, “posso capire anch’io di cosa state parlando?”
“Davvero non lo capisci, Carlo?” risponde mia sorella con lo sguardo verso Martina ma prendendomi
per mano.
Nel frattempo la nostra Despina si alza e raggiunge il libro delle grazie. Inizia a sfogliarlo, ne legge
svagatamente qualche stralcio… e ricomincia:
“Per questo io reclamavo le grazie, mi meraviglia,” continua rivolgendosi a Paola, “che tu non lo
sappia, ma i miracoli sono le speranze di chi non crede più. Eppure, in qualche modo, io stavo ancora
pregando e nessuno è più vicino a uccidere di chi prega.”
“È pazza,” dico sottovoce a mia sorella.
“No,” interrompe Paola senza staccare gli occhi da lei, “non lo è.”
“Come fai a dirlo?” chiedo a mia sorella, preoccupato che le due continuino a fissarsi negli occhi.
“E adesso dimmi, Paola,” domanda Martina, “perché hai avuto paura di me? Avrei mai potuto
ucciderti?”
Paola la fissa senza dire niente, la ragazzina fa lo stesso. Qualche secondo dopo mia sorella inizia a
sorridere.
“Sarebbe come ammazzarmi da sola,” le dice Martina.
Paola raggiunge Martina proprio sotto la Santa.
“Quando ti sei innamorata di lui?” domanda mia sorella.
“Un attimo dopo che non aveva più niente,” risponde la ragazza, “mai visto un uomo più bello. Aveva
appena perduto tutto, moglie, figlio e cosa ha fatto? È tornato per un attimo in spiaggia. Come quando nei
primi giorni dopo il tuo decesso capelli e unghie continuano a crescerti – a proposito, ti dice qualcosa
questo esempio, Paola?” e riparte, “che stupenda vita è quella brevissima reazione di spaesamento,
quell’inconscio, quasi meccanico non accettare gli avvertimenti della fine?
“Sergio ricordava quella mattina alla perfezione,” spiega Martina, “mi raccontò che vagava su e giù
per la passerella bianca che divideva gli ombrelloni del bagno Mirna 33. Chiedeva solo di esser visto.
Davvero. Chiunque, sano di mente, si sarebbe innamorato di Sergio quella mattina. Anche tu Paola.
Anche lei, commissario.”
“Ma,” intervengo, “non c’era motivo per esser lì in spiaggia a fare su e giù, era solo sconvolto.
Capita.”
“È esattamente questo,” risponde Martina, “nessun plausibile motivo. Gli era rimasto il mare ed è
andato lì. Sembrava cercare le parole per chiedergli aiuto. Lo faceva suo figlio, lo ha fatto anche lui.”
Su questa faccenda del figlio sto per chiedere una cosa, ma Martina non mi lascia parlare e prosegue:
“Il mare è l’unico che non puoi uccidere. Si uccidono i colpevoli o gli innocenti, ma non si uccide la
morte, commissario.
“‘Come se niente fosse.’ Questa era la cosa che Sergio ripeteva circa la mattina dopo la tragedia. Si
riferiva a quello che accadde al mare, la mattina dopo la disgrazia, quando, per colpa di un boiler, sua
moglie e suo figlio saltarono per aria nel sonno.
“Accadde tutto fra le due di notte e le dieci del mattino. Otto ore che cambiano la vita. Otto ore. A
volte ci penso: sarei in grado di fare giustizia in otto ore?
“Sergio partì da Bologna alle due di notte (quando i vicini di casa al mare lo avvertirono che ‘era
successo qualcosa’). È buffo come la scienza e la tecnologia facciano miracoli ma sia ancora il telefono a
parlare di morte. Per quando arrivò a Cervia, l’incendio era stato domato e i resti – carbonizzati – della
sua famiglia erano già nei sacchi neri.
“Non c’è quasi niente da dire nel perdere tutto. In compenso ci sono parecchie cose da fare, scartoffie,
firme. Fotocopie. Fece quanto andava fatto, così mi disse. E credo sia stato proprio in quegli istanti di
una notte nella quale ancora non ci conoscevamo così bene che io mi sono innamorata di lui. Fu una notte
di dolore e ordine, finì che era mattina, pochi minuti alle dieci.
“Ricordava tutto al millimetro Sergio. Mi disse,” prosegue Martina, “che raggiunse l’auto parcheggiata
nel vialetto dietro casa e che in quel momento qualcosa in lui ‘si fece sentire’. Entrando nel veicolo si
accorse del mare, era lui a raccogliere la sua attenzione. Scese dall’auto e, come telecomandato, si
diresse verso la spiaggia.
“Aveva la tuta indossata in fretta e furia la notte prima, un completo Kipsta di Decathlon: era un regalo
di suo figlio al quale aveva promesso di rimettersi in forma. E i regali dei figli sanno farsi trovare.
“Solo, spaesato e sotto al sole, il mio Sergio davanti al mare percorse la passerella in marmo bianco
che spartiva le file di ombrelloni e la gente sdraiata sui lettini. Si avvicinava all’acqua come fosse una
faccenda personale. Quasi a chiedergliene conto.
“La sua era una famiglia normale. Una moglie che forse non amava più, un figlio da amare all’infinito.
Ma la morte li colse lì, come se l’ultima parola spettasse a lui, al mare. Fu solo guardando le onde mentre
nelle orecchie aveva il rumore della spiaggia che sentì che i suoi erano morti. E allora, si voltò e
percorse in senso contrario la passerella, come una diva senza spettacolo, devota all’abitudine più che
alla performance, e ripassò in mezzo alle famiglie sistemate sotto gli ombrelloni. Tutto quello che lui non
aveva più. La morte è la vita che prosegue ma solo per gli altri.
“Ogni scena banale e quotidiana, dai bambini indaffarati nei castelli di sabbia alle signore tramortite
sotto al sole, sembrava comunicargli la più dolorosa delle notizie: che il mondo che si era fermato era
solo il suo.
“La morte di chi ami non è non vederli più, non è quanto ti mancheranno, ma il fatto che non manchino
agli altri. Che nessuno li pianga senza alcun plausibile motivo.”
Senza alcun plausibile motivo… mi fa venire i brividi sentire Martina parlare come mia sorella.
“Ma ancora non era questo ciò che lo uccise definitivamente. ‘Come niente fosse,’ ripeteva. Era
disposto ad accollarsi quello che era successo, a pagare il prezzo del dolore purché qualcosa, qualunque
cosa nella vita degli altri, smettesse di esser quello che era fino a quel momento. Voleva una piccola
cosa, un baratto cattivo, forse, ma umano; che anche la vita altrui perdesse qualcosa. O che almeno
facessero finta.
“Un po’ d’imbarazzo degli estranei, magari, tanto per cominciare.
“Gli sarebbe bastato uno sguardo non sostenuto di un vicino d’ombrellone, avvertire qualche lettino
più in là un cortese rifiuto a fare il bagno, o una donna che, turbata dall’accaduto, dimenticasse la
protezione solare. Un ragazzo che spegnesse il telefonino o che, sarebbe stato il massimo, lo lasciasse
suonare senza rispondere. O un padre bloccato, che non riuscisse a baciare il proprio figlio mentre
Sergio passava di lì. Un castello di sabbia lasciato al suo destino.
“E invece niente. Tutti hanno semplicemente continuato a fare quello che facevano fino al giorno prima.
Come se niente fosse. Con feroce indifferenza. Erano sotto al sole, commissario, e sotto al sole li ho
cercati.”
Martina sta sbrogliando la matassa, dovrei rendergliene merito, sta facendo il mio lavoro, insomma, e
a me non resta che ricopiare il compito.
Ma Paola mi preoccupa.
La ascolta come si scruta uno specchio…
“Quand’è,” domando, “che vi siete parlati dopo la disgrazia?”
“Fu in ascensore,” risponde Martina, “una ventina di giorni dopo l’incendio. Finita l’estate. Non
sapevo come comportarmi e allora feci una roba scema, davvero stupida. Poco prima del terzo piano
spinsi il pulsante ALT. L’ascensore si bloccò di colpo.
“Sergio, visibilmente sbalordito, mi fissava in attesa di una spiegazione. Non riuscivo a dirgli
nemmeno una parola, ero bloccata anch’io. Come l’ascensore.
“Poi, prima che lui provasse a spingere il pulsante dell’allarme mi venne in mente di prendergli la
mano diretta verso la pulsantiera e baciarla sul dorso. L’ho portata alla bocca con entrambe le mie mani.
E l’ho baciata come fosse la mano di un Re. Durò un secondo, poi lui si riprese la mano. ‘Grazie,’ disse.
“Mi ringraziò. Ero in quell’ascensore per salvargli la vita senza che lui ne avesse più realmente una.
Lo capì. Fu gentile.
“Ci liberarono quasi subito. Sentivamo le voci dei vicini che ci dicevano di non preoccuparci, che
avevano già chiamato il pronto intervento. Che da lì a poco saremmo stati in salvo. In salvo… capisce,
commissario? Io e Sergio, in salvo.”
“Martina, ascolta,” interviene mia sorella, “vuoi bere qualcosa? Hai fame?”
“Cosa mi stai domandando, Paola,” risponde la ragazzina, “perché fra di noi, parli così?”
“Senti,” continua mia sorella, “io lo so che hai bisogno di parlare, e avremo tempo per farlo se
vuoi…”
“Tu credi?” risponde Martina. “Il tempo… ne parli come di una cosa che sarete voi a concedermi…
Vede, commissario,” dice rivolgendosi a me, “lei sa alcune cose, ma gliene mancano altre. Lei sa dove ho
preso i prodotti di erboristeria in cui ho messo il veleno,” e continua, “lei sa che l’unica colpa di Elide è
stata quella di avere la passione delle piante e dell’erboristeria. Era una donna gentile: molti piani di
sterminio iniziano così. Con la cortesia.”
“Ascoltami,” la incalzo, “smettila di comportarti come Hansel e Gretel e lasciarci le tue bricioline da
seguire. Se vuoi dirci come stanno le cose, fallo e basta.”
“Per esempio?” fa la ragazzina.
“Per esempio,” rispondo, “Sergio è morto esattamente nel lembo di spiaggia, il medesimo
stabilimento, dove andava con la sua famiglia prima della disgrazia. In quel punto del pianeta ha avuto il
suo grande dolore e in quello stesso punto è morto. Mi vuoi dire che è un caso? Che uno che perde moglie
e figlio davanti a un pezzo di mare e poi, quasi due anni dopo, ci resta secco anche lui davanti a quello
stesso pezzo di mare è un caso?”
“Spiegare la precisione della casualità è il suo mestiere. Come darle torto, commissario, però tenga
conto che io del caso, ho smesso di preoccuparmene. Troppe vite scorrono o si fermano sul caso. Da
quella di Sergio alla sua.”
“La mia? Che ne sai della mia?”
“Io adoro le vite, conoscerle, intendo. Cosa c’è di più bello delle vite? Di entrare in esse e osservarne
dinamiche, meccanismi, speranze, delusioni? Gli altri mi annoiano, le loro vite no. Buffo.”
“Ho capito, ma cosa sai di me, anzi, prima di tutto come fai a sapere di me?”
“Esattamente come so degli altri: avendone notizia.
“Sergio mi regalò un mangianastri e le cassette con le puntate di Radio Alaska. Ma secondo me questo
lo sa già,” e mi guarda per cercare consenso. “Gli innamorati condividono le passioni,” prosegue. “Sua
sorella fu una scoperta. Decisiva, direi, e ho iniziato, diciamo così a frequentarla.”
“Frequentarmi?” dice Paola, “ma se io non ti ho mai vista…”
“E non è questo il bello, Paola?” chiude Martina. “Tu,” risponde spingendo su quel “tu”, “non mi hai
mai vista.”
E di nuovo s’interrompe per quella fastidiosa tossetta.
Dopo i colpi di tosse, Martina resta curiosamente rossa, come una bambina scoperta durante una
marachella.
Paola la guarda diversamente, come un luogo nel quale ha l’impressione di esser già stata ma non
ricorda quando, e in quale viaggio. Prova a metterla a fuoco, a studiarne la corporatura… Quella
tossetta…
“Questa tossetta, tu ce l’hai sempre?” domanda alla ragazzina per poi volgere lo sguardo verso di me.
Martina sorride. “Visto?”
“Visto che?” dico io.
Paola si alza dalla panca e gira attorno a Martina per guardarle le spalle, per vederla in figura intera
da seduta.
E prosegue senza toglierle lo sguardo da dosso ma parlando con me: “Carlo, ricordi che ti parlai di
quando Sergio veniva alla messa vespertina, tutte le sere alle 18.30? Delle poche persone, sempre le
stesse, che c’erano in chiesa a quell’ora?”
“Sì, vagamente.”
Paola continua a girare attorno a Martina che, quasi annoiata, si strofina il naso col fazzoletto e
prosegue: “Ti dissi di una donnina, sempre in fondo alla navata, vestita di nero e col fazzoletto nero in
testa, sul volto un foulard scuro tirato su fino al naso.”
“E allora?”
“Ce l’hai davanti,” dice Paola fissando Martina.
“Che dici?”
“La tossetta, questa tossetta è la stessa che ti dicevo provenisse da quella che io credevo essere una
vecchina costantemente raffreddata…”
“Sa, che i vecchi non hanno allergie, commissario?” riprende Martina mentre Paola, scuotendo la testa,
va a sedersi qualche posto più in là. “È come se lo spegnersi della vita diminuisse i fastidi. Non si
ammalano più, aspettano solo di morire,” dice la ragazza.
Sento la forza di Martina, avverto con nitidezza che è lei a condurre questa specie di primo
interrogatorio e non intendo lasciarle campo libero…
“E avanti, vediamo, di me cosa sai?” dico riprendendo la parola.
“So dove trovarla, commissario,” fa lei.
“In che senso? Conosci il mio indirizzo? Embè, sta sulle pagine gialle…”
“Ho detto che so dove trovarla, non dove lei abita. Gli indirizzi servono agli estranei.”
Mi convinco che sia arrivato il momento di alzare i toni e provo a dare una sferzata alla faccenda.
“Tu sei una mesmerista,” le dico indicandola, “io voglio sapere,” e Martina m’interrompe:
“Magari, commissario… Ma faccia la domanda che vuole fare.”
“Quale stregoneria hai usato per convincere Nora e Gonzalo a usare la crema?”
“Nessuna stregoneria, commissario, che parole piccolo borghesi che usa…” si alza e passeggia.
“Crede occorra un piano diabolico per far spalmare una crema solare al mare?”
“Tu non volevi risultare un’assassina, non è così?” dice Paola rivolta alla ragazza e prosegue: “E se
volevi salvarti si vede che avevi un piano. Un futuro…”
“Non essere volgare Paola, quella parola, ‘futuro’, in bocca te davvero non me l’aspetto. E comunque
avevo ben più di un piano, avevo Sergio. Ma poi… Sergio,” precisa Martina guardando fissa nei miei
occhi, “era una persona perbene…”
Scuote la testa, guarda altrove come se stesse rivedendo nella sua testa la scena finale di un film.
“E allora gli ho chiesto una cosa, la più importante che un’innamorata possa chiedere… Nessuno mi
aveva mai detto ‘no’. Nessuno può dirmi no. Solo lui lo ha fatto. Ecco com’è andata.”
“‘Ecco come andata,’ dici… ma qua più andiamo avanti con i dettagli e meno ci capisco.”
“Sa che si vede, Carlo? E comunque, questo è un problema suo. Meno male che c’è sua sorella, stia
tranquillo che…”
Sparo tutte le domande che ho da fare come un kamikaze ubriaco che colpisce in mezzo alla folla, nella
speranza di centrare il bersaglio senza conoscerlo…
“Perché lui mi scriveva?” chiedo, “quelle mail dall’account ‘ioelei’”, perché ci ha voluti al mare con
voi?”
Martina sorride e scuote la testa incredula.
“Da quanto tempo è che lei è commissario?”
“Non sono cose che ti riguardano.”
“Dice? A ogni modo non è stato lui. Io vi ho voluti assieme a noi in questo viaggio, in fondo eravamo
due coppie. Credo che abbiamo parecchie cose in comune, noi quattro,” e sorride con fare complice,
“volevo fossimo tutti insieme per la prima e ultima volta. In una vita appena decente avremmo tratto le
conclusioni del nostro somigliarci, dando a questa condizione il nome che è giusto abbia: ‘Conoscenti’.
Participio presente del verbo conoscere, aver compreso chi si ha davanti.
“Quell’account, ‘ioelei’, per un commissario significa: ‘Io e la ragazzina che ho rapito’. ‘Io e lei
commissario’, nel senso di Io, Martina e lei, Carlo.”
“Volevi uccidere anche me,” dico a Martina provando a incastrarla, “mi hai mandato in albergo la
crema solare che poi ha ucciso Sergio. Un bel modo di socializzare coi ‘conoscenti’.”
Martina sorride.
“Le mancano ancora un po’ di pezzi, commissario. Al momento opportuno saprà tutto, non abbia
timore. Peraltro, permette una domanda?”
“Dimmi.”
“Lei è solito usare prodotti che le vengono regalati da sospetti assassini?”
“Certo che no.”
“Ecco,” fa Martina, “qua siamo al momento chiave della storia, perché dopo che le ho fatto recapitare
la crema, tutto è precipitato…”
“Non capisco,” dico.
“Okay, possiamo andare avanti allora, no?” chiude lei con un sorriso di scherno. “Lo capirà. Non
abbia fretta,” prosegue, “Sergio si è fermato e ha fatto di testa sua, per la prima e ultima volta nella nostra
storia.”
Paola prende la parola, si rivolge a me come per mettermi in salvo da un pestaggio: “Carlo, non lo
vedi? Ti dice quello che vuole. Ti sta già dicendo tanto e se ha iniziato a parlare andrà fino in fondo
probabilmente. Ma lo farà come e quando vuole lei,” conclude guardando Martina, che a sua volta guarda
Paola e risponde: “Per amor di precisione, Paola, io a tuo fratello ho già spiegato tutto, per filo e per
segno.”
Io e Paola restiamo come due scemi: “Questo lo chiami dare spiegazioni?” la incalzo, “mi hai spiegato
tutto?”
La ragazza sorride di nuovo.
“Si fidi, commissario, se le dico che le ho già spiegato tutto non vuol dire che questo è il momento in
cui lei metterà insieme tutti i dettagli.”
“E Pedretti allora?” la incalzo. “Che io amavo le sue poesie tu come hai fatto a saperlo?”
“Ne ho avuta notizia dalla radio, una delle sue telefonate durante la trasmissione di sua sorella. Ogni
tanto lei chiamava a Radio Alaska e leggeva una poesia, mi colpì questa cosa,” prosegue, e per un attimo
si illumina, “di solito la gente chiedeva canzoni, o magari rispondeva a Paola circa le sue sparate sulla
vita o magari l’amore, la religione.
“Lei no, commissario. Come uno spasimante intimidito, usava il telefono per condividere qualcosa di
importante, diceva ‘Oggi ho trovato questa, senti…’ E anch’io sentivo. Certe poesie erano capolavori, me
le annotavo. Le cercavo. È incredibile,” chiosa la ragazza scuotendo la testa, “fate di tutto per esser visti
o ascoltati, e se uno vi vede o vi ascolta, la vostra vita va a rotoli.”
Martina gioca su tutto, ma seriamente.
Lo sta facendo anche con noi. Eppure, nel giocare ci sta dicendo tante cose. Ha ragione lei su questo.
Vedo che è stanca e quelle come lei, quando sono stanche, non confessano.
Avrò tempo nei prossimi giorni, magari con la psicologa della questura, di interrogare Martina e tirarle
fuori la verità.
“I miei genitori…” dice la ragazza e lascia sospesa la frase.
“Dimmi,” faccio io.
“Cosa farete per loro, adesso?”
“Come mai ti preoccupi di loro?”
“Come mai?” dice sorridendo, “lei è mai stato figlio, commissario?”
“Certamente, che domande.”
“Ecco. Io quasi mai,” prosegue Martina, “giusto un paio di volte, in età molto piccola. Poi li ho
adottati. L’ho dovuto fare, come si fa con quegli orfani che vengono lasciati fuori dai conventi e non
riesci a liberartene.
“Mi è piaciuto amarli per forza, chissà se lo hanno capito. Eppure è andata così,” continua, “qualcuno
li ha consegnati a me. Non li ho scelti e temo di non somigliare a nessuno dei due, in quasi nulla. Con mio
padre ho in comune l’allergia,” e prosegue: “Ogni anno verso aprile e fine agosto fatichiamo a respirare.
I pollini e tutte quelle robe lì. Certe notti c’incontriamo in cucina, sa come fanno nei film americani e si
fanno un tramezzino al pollo?”
“Come no,” dico io.
“Ecco noi ci vedevamo in cucina per una boccata di Ventolin, la nostra dose di cortisone per poter
respirare. Aspettavamo insieme che facesse effetto, seduti al buio. E poi andavamo a letto.
“La cucina s’illuminava solo quando lui, di quando in quando, apriva il frigorifero per bersi un po’ di
latte. Non sapeva cosa dirmi e come farlo. C’è gente che sa parlarti per dirti che non sa cosa dirti. Lui no.
Prendeva tempo, stava lì con me. Io dovevo sentire il ‘rumore’ del suo silenzio e tirarne fuori quel che
andava tirato fuori. Una sera mi disse: ‘Prendi la pillola?’”
“E tu cosa hai risposto?” faccio io.
“Non ne ho avuto il tempo,” riprende Martina. “‘Comunque sono fatti tuoi,’ disse mio padre, più
spaventato dal sembrare uno che voglia intromettersi piuttosto che dall’ipotesi che io fossi innamorata.
Mi rassicurava che questo non lo spaventasse, mi faceva sentire protetta anche se lui non credo lo abbia
mai capito.
“‘Fai a modo,’ disse prima di tornare a dormire e quando passai davanti alla loro stanza, lungo il
corridoio, vidi che non aveva preso sonno. Aveva gli occhi aperti.
“‘Ciao,’ mi disse col labiale, per non svegliare mamma. Mi mandò un bacio con la mano, dal letto. Fu
un bel papà per quella sera.”
“E con tua madre, hai qualcosa in comune?” domanda Paola.
“Una sera in TV c’era uno di quei film per famiglie, sa quelli che ogni anno s’inventano modi sempre
più spinti per parlare di cose sempre più banali?”
“Ah certo, tipo…” Ma lei riparte.
“C’era una scena di due a letto, un uomo e una donna, si capiva che avrebbero finito per fare sesso. Lui
inizia a spogliarla e lei, quasi grata, gli dice una scarica di robe volgarissime. Mia madre ebbe una
reazione da bambina, spiazzata. ‘Mo’ va là, va là,’ iniziò a dire. ‘Che sciocchezze’ fece rivolta a me, in
una condizione che non si era mai verificata: rossa di vergogna e sorridente. Mio papà dormiva. Le
guardavo le pantofole da casa, sa, quelle a forma di cervo che si compravano anche in cartoleria, e
pensavo a quanto avrebbe meritato di poter dire un po’ di volgarità. Che tutto quel suo vivere vagamente
indegno, incatenata al nulla delle mode e all’ostentazione, altro non era che una penuria di porcherie
bisbigliate a papà. Che mia madre, esattamente come ogni altra, era quello che poteva.
“Si mostra ridicola perché non ha i coglioni di accettarsi perbene. In quel quarto d’ora, io e lei davanti
alla TV con papà addormentato sul divano, siamo stati una famiglia. O qualcosa del genere.”
Sento le sirene delle volanti fuori dal convento. Sono arrivate. Forse è il momento di fare tutti una
pausa e riparlare fra un po’ di ore. Magari domani.
“Martina, io devo portarti in questura, avrai tempo per riflettere e per parlare. Per liberarti e aiutarci a
capire.”
“Tutto questo tempo avrò?” mi dice quasi schernendomi. “Uau! Andiamo,” conclude avviandosi e
riprende: “Lei lo sa, commissario, lo sa vero, che se io voglio in prigione non ci arrivo nemmeno? Lei lo
sa vero che se io voglio posso uscire come e quando mi pare?”
Noi restiamo in silenzio, abbiamo l’impressione che non stia scherzando ma chiederle come pensa di
fare non servirà a saperlo… “Ma siete fortunati,” riprende, “perché tutto sommato, a questo punto, potrei
anche morire. In fondo, quel che dovevo fare è fatto… più o meno…”
Paola le si avvicina accompagnandola all’uscita della chiesa e la prende per un braccio, ma senza
stringerla. Fa solo in modo che la ragazzina si volti verso di lei e le dice: “Tu non morirai.”
Martina sorride, sfiora la guancia di Paola col dorso della mano e le risponde: “Sei solo una
bambina.”
Poi infila la mano nell’acquasantiera e si fa il segno della croce.
“Martina,” dice Paola, “un’ultima cosa. Perché mi dài del tu?”
Quando fanno a me questa domanda, non so rispondere.
La ragazza esce per prima, non scapperà. Ad attenderla c’è mezza squadra mobile di Bologna, io
guardo Paola ferma tra il portone della chiesa e la strada, due diversi tagli di luce la colpiscono in
faccia.
Le lucine dei neon e dei negozi sotto al portico e la luce residua della sera che fa capolino in via
Urbana.
Le dividono il volto a metà.
Per la prima volta, forse, la vedo come è in realtà: una donna divisa fra me e Dio.
“Parlerà?” domando a Paola guardando l’auto della polizia infilarsi nei viali.
“Lo ha già fatto,” risponde, “e comunque sì, parlerà. Anzi continuerà a farlo, in qualche modo.”
“Quella ragazza non sta bene,” dico a mia sorella mentre Martina entra nell’auto della polizia, “ha
bisogno di cure.”
“Ha bisogno di cura,” risponde Paola cercando di riportare il suo volto solo dal lato della luce.
“… dicono che l’estate sia la stagione degli amori e della follia, mai come nei mesi torridi la gente si
bacia e ammazza… A volte penso che cronaca rosa e cronaca nera non sono altro che il primo e il
secondo tempo di un film nel quale, a quanto pare, abbiamo recitato anche noi…”
Paola esplora quei trentanove metri quadri come un continente lontano e a lei sconosciuto, del quale ha
solo immaginato ogni cosa.
Si avvicina al lucernario.
“Quando piove questo è bello?” mi fa. Poi entra nel bagno. “E se uno deve andare in bagno… questo è
il bagno,” prosegue, come se stesse spiegando a me che in quel poco di mondo c’era tutto il mondo, dal
cielo al pisciare.
Ci sediamo per terra, come faccio quando sono solo.
Ma bussano.
Chi potrebbe bussare alla porta di una mansarda dove chi ci ha vissuto non vive più e dovrebbe esser
vuota?
Eppure…
FANTINI SULLE SUE GAMBE
“Morta?” dico io. “Ma come ha fatto? Le avete lasciato prendere qualcosa, chessò, una bottiglietta
d’acqua, un cazzo di merendina, qualcosa che abbia avuto il tempo di avvelenare?”
“No, commissario, posso garantirle,” prosegue Elio, “che non ha preso nulla di nulla. Solo una
bottiglietta d’acqua che ho preso e aperto io dalle nostre macchinette.”
“Nel tragitto allora…”
“Il viaggio dalla chiesa alla questura è breve,” risponde Fantini, “ho chiesto ai colleghi, niente.”
Paola piange.
“Che sta succedendo…” sento che dice, cercando un fazzoletto nel borsone per la notte e poi alza gli
occhi e raggiunge di nuovo il lucernario e grida verso le stelle: “Che cazzo fai? Che cazzo stai facendo?
Che cos’hai in mente?”
“Ma che cazzo combina ’sta ragazzina?” aggiungo ad alta voce.
“Commissario, posso azzardare un’ipotesi?” dice Elio.
“Figurati, Fantini, senza le tue ipotesi noi qua saremmo a corto di tesi.”
“Guardi ogni cosa per quello a cui serve. La sua destinazione. I veleni li usiamo per fare del male. Le
calamite a Mesmer servivano per curare. A me sembra tutto anche piuttosto semplice: Martina uccide e
guarisce. Paro paro. Non so se sia questo l’ordine ma direi che la sostanza rimane,” termina Fantini.
Per qualche secondo il silenzio regna sovrano. Ognuno di noi probabilmente sta pensando a quello che
ha detto Elio.
Io comunque ormai non ho più la forza di parlare.
Penso solo a domattina. Quando dovrò raccontare a tutti, al questore, ai genitori di Martina, quello che
è successo. Che siamo in mezzo a un incubo nel quale la gente sparisce e muore da sola.
Che non ho salvato nessuno. E non ho preso nessuno.
Mentre penso al casino in cui mi trovo Fantini si alza, e prende un pacchetto di caramelle dalla tasca
della giacca buttata per terra a qualche metro di distanza.
“Io adesso avrei altre due cose da dirle, commissario, e non so da dove cominciare.”
“Cioè,” gli chiedo, “non è ancora tutto? Non abbiamo finito?”
“A dirla tutta, commissario, non siamo mai stati così lontani dalla fine.”
“Che stai dicendo, Elio?” gli domando allarmato.
Mia sorella torna a sedersi vicina a me, in terra al mio fianco, come quando mamma ci raccontava le
fiabe prima di dormire mentre noi eravamo sul tappeto del tinello. Poi, ci prendeva di peso in braccio
uno per volta e ci metteva a letto.
Scuoto la testa, ed Elio riprende.
“Sono due cose diverse quelle che devo dirle, una è quella che sta accadendo, proprio adesso, mentre
noi siamo qua. L’altra è una mia piccola, personale ricostruzione degli eventi,” ed estrae dalla tasca dei
pantaloni tre fogli di carta piegati con cura.
“Qua c’è la sua deposizione, di Martina intendo, me la sono stampata e ho segnato un po’ di cose
curiose…”
“Curiose…” sottolineo.
“Sì, commissario, curiose, è quello lo spiffero dal quale entra la verità. Il curioso.”
“Prosegui, Elio.”
“La ragazza ‘studiava’ da mesmerista, con discreto profitto direi. Noi sappiamo che questo tale Anton
Mesmer pensava di essere un guaritore, no?”
“Sì,” lo seguo, “e credeva di poter controllare un fluido che, trasmesso ai pazienti, li avrebbe guariti.”
“E il fluido si trasmetteva imponendo calamite sugli organi malati dei pazienti,” chiude Paola.
“E interagendo coi pazienti stessi anche attraverso l’ipnosi,” aggiungo io.
“Va tutto bene,” dice Fantini, “avete tutti ragione, ma ancora siamo lì. Come riesce a fare questo?”
“Che intendi, Elio?” e lui inizia a masticare la caramella, la rompe dopo averla tenuta in bocca per un
po’.
“Ipnotizza. Ci siamo fissati troppo, a mio modesto avviso, sul quello che voleva fare Mesmer e ci
siamo dimenticati su cosa faceva per raggiungere il suo obiettivo.”
“Carlo…” mi dice Paola, “se è così…”
“Se è così,” prosegue Fantini, “non so se fossimo davanti a una guaritrice, ma di sicuro eravamo di
fronte a una ragazzina che sosteneva di avere una dote molto insidiosa: diceva di saper ipnotizzare o
quantomeno di avere gli strumenti per provarci.”
“Chi ce lo garantisce?” dico io.
“Più che garantircelo, i fatti lo lasciano supporre,” riprende Fantini. “Le creme usate da quelli che di
solito non le usano, per esempio. O lo stato catatonico di Sergio…”
“Vabbè, può anche averli meramente convinti,” fa mia sorella.
Fantini non risponde, la guarda e riparte: “Mesmer entrava nella testa dei suoi pazienti, e ci faceva un
giretto.”
“Okay,” dice mia sorella, “ma poi, fatto quel che doveva fare ne usciva, l’ipnosi finisce: uno torna
normale e la testa si ‘chiude’ come una saracinesca…”
“Magari è così, sorella,” dice Elio, “ma forse per aprire una testa e chiuderla servono due chiavi
diverse talvolta. Una che apre soltanto e una che chiude soltanto.”
“Non sto capendo, Fantini,” lo incalzo, “aiutami.”
“Ascolti, commissario, ragioniamo in generale e sulla base di quanto ho avuto modo di studiare in
questi giorni. E se le dicessi che prima di svegliare il paziente dall’ipnosi pare sia possibile impartirgli
un ordine, un comportamento da tenere in futuro? Magari attraverso una determinata parola, a volte anche
uno schiocco di dita?”
“Una parola chiave?” dice Paola.
“Direi più come una sorta di campana, un grilletto che scatta e che, nella testa del paziente, dà vita a un
meccanismo inconscio che lo richiama a eseguire l’ordine che gli è stato dato…”
“In buona sostanza…” fa Paola, ma io la interrompo.
“In buona sostanza,” proseguo io fissando Fantini come ad avere conferma, “dici che è possibile avere
una forma di controllo di qualcuno anche dopo che hai terminato l’ipnosi… Come se infilassimo una
bomba a orologeria nella testa di una persona.”
“È possibile?” risponde Elio. “C’è chi sostiene lo sia, chi no e chi sì ma entro certi limiti,” deglutendo
definitivamente la caramella, “io opterei per il no, ma mi sa tanto che andiamo verso il ‘sì ma entro certi
limiti’. Il problema sarebbe se la risposta fosse solo ‘Sì’. Mi sa tanto che questa faccenda tocchi a noi
appurarla.”
“E quel ‘campanello’, quella parola d’ordine che scatena tutto?” dice Paola.
“Resta un segreto, fra lei e loro,” dice Elio. “Solo che loro non lo sanno.”
“Il segreto perfetto…” dico io.
“E pertanto, se ho ben capito,” prosegue mia sorella, “lei ipotizza che Martina non solo fosse capace
di ipnotizzare ma, peggio ancora, anche di controllare i gesti futuri delle persone: legandoli a questa sorta
di ordine inconscio a cui avrebbero ubbidito al presentarsi della parola d’ordine, o di quello che lei
chiama ‘campanello’.”
“È una possibilità. Vedo che ha capito,” dice Fantini, “e allora, ecco, io non vorrei che forse…”
“Forse?” domando io.
“Che forse ci siamo concentrati troppo sulle calamite e troppo poco sui morti.”
“I morti?”
“‘I morti insegnano a piangere’ dice un vecchio proverbio del Sud, lo conosce, commissario?”
“No, Elio. Ma tu sei del Sud?”
“No, perché?”
“Possiamo andare avanti?” dice Paola, “quando vi vedo interagire mi sembra di essere alle
comiche…”
“Ah no, tutto qua,” riprende Fantini, “questa sarebbe la prima ipotesi che volevo condividere con voi,
avanti non saprei andare.”
“Era questa la prima cosa, Elio?” gli domando.
“Sì. Più o meno questa era la prima.”
“Allora ascolta, Elio, e ascolta anche te, Paolina, che lo so che ’ste fregnacce ti gasano, guarda il
vestito che indossi… Cerchiamo di stare coi piedi per terra e di accettare che i fatti siano tutto quello che
deve guidarci. Vi prego,” proseguo, “toglietevi dalla testa certe elucubrazioni. Non sperate di raccattare
qualche aiuto nel mondo dell’esoterismo o del mesmerismo o di quel che cazzo che vi passa per la testa.
Qua c’è una che avvelena. E sappiamo come lo ha fatto. Punto. Non ci serve altro.”
“Io infatti, commissario, sono totalmente d’accordo con lei,” riattacca Fantini, “se mi sono ridotto a
certe elucubrazioni è per via della seconda cosa che ho da dirvi. Questa mi ha un filino destabilizzato…”
“Come mai?” chiede mia sorella.
“Perché vede, Paola,” riprende Elio, “io sono un tipo semplice, un po’ all’antica direi, e di solito
quando uno incontra l’assassina, lei confessa e dopo la trovate stecchita, il caso è chiuso.”
“E stavolta invece?” fa lei.
“E stavolta non lo so,” dice Elio, “mi pare che la faccenda s’ingarbugli.”
“Okay, perfetto, direi che siamo pronti per la seconda cosa che avevi da dirci,” intervengo, “suppongo
che alla luce di quanto hai appena detto tu abbia già iniziato… spara.”
“Non credo che lei sia pronto.”
“Ma che cazzo dici?”
“Gliela dico lo stesso, ma si fidi, nessuno sarebbe pronto a una cosa del genere.”
“Che cosa è successo, Elio?”
“Vede,” riprende passeggiando attorno a noi, “oggi è stato un pomeriggio strano. Le dispiace se
cammino mentre parlo? Mi aiuta.”
“Fai come credi, Elio.”
“I pomeriggi belli o quelli brutti non sono quasi mai pericolosi, sono quelli strani che fanno disastri.
Lei saprà che la questura di Bologna è collegata con tutti i database delle questure italiane.”
“Lo so, certo.”
“Quando succede qualcosa di brutto, la gente chiama la polizia e da un secondo dopo che loro sono
arrivati, inizia a esserci perlomeno una traccia di quanto sta accadendo.”
“Elio, vuoi venire al punto?”
“Eh, commissario, qua casomai è il contrario, sono i punti che confluiscono su di noi. Oggi mi sentivo
proprio come quel tizio della CIA nei Tre giorni del Condor: sulla sedia a rotelle davanti a una gigantesca
mappa della regione. Nel mio cervello, ogni quarto d’ora, una lucina si accendeva, era la spia di
qualcosa. Ma una di quelle lucine rischia d’incasinare un po’ le cose. Verso le 16.30 ricevo una chiamata
da quel suo amico, il giornalista…”
“Ludovico?”
“Esatto.”
“Che voleva?”
“Avvertirci.”
“In che senso?”
“Mi chiama e mi dice: ‘È successa una cosa strana in uno studio di architetti a Mantova.’”
“A Mantova?”
“Eh sì, commissario, la città di Virgilio… c’è stato?”
“Un paio di volte credo, ma vai avanti. Cosa c’entriamo noi con Mantova?”
“Speriamo niente, commissario. Speriamo niente.”
“E Ludovico che cazzo ne sa di quello che accade a Mantova? Non ha motivo per avere notizie da
lassù…”
“Di solito i buoni giornalisti sono quelli che hanno informazioni che non hanno motivo di avere…”
“Va bene…”
“E allora gli chiedo (a Ludovico) di dirmi cosa è successo, il motivo della sua chiamata di
‘avvertimento’. Ed ecco, mi dice che si tratta dello studio dell’architetto Giacomo Franzò, un tizio di
origini siciliane.”
“E mi fa piacere, ma vuoi venire al dunque?”
“Lo studio è in uno stabile di cinque piani, a pochi passi dal centro. Franzò è un appassionato di attici,
ci vive in un attico a Mantova, se ne è preso uno a Milano e pure il suo ufficio è un attico, all’ultimo
piano di quello stabile.
“Ludovico mi ha detto che oggi, verso ora di pranzo, la giovane ragazza di bottega dell’architetto, tale
Silvia Chiaraluce (ventotto anni) finito di lavorare ha salutato tutti ed è uscita dallo studio per la pausa
pranzo.”
“Fantini, sono tutto un fremito, ti prego, vieni…”
“Al dunque? Ci arriviamo subito, commissario. Be’, Ludovico mi ha riferito che, come ogni giorno, la
Chiaraluce ha chiamato l’ascensore. Mentre attendeva ha scambiato qualche chiacchiera con un altro
collega che è rimasto in studio e l’ha salutata dalla porta. L’ha vista entrare in ascensore e ha chiuso la
porta dello studio.”
“E allora?” chiede mia sorella.
“E allora, Elio? Ci racconti tutto il pranzo della giovane Silvia?”
“È duretta, commissario, perché la ragazza è uscita dall’ascensore in orizzontale.”
“Morta?” domanda Paola.
“Mortissima,” conferma Fantini. “Infarto.”
“Non sto capendo più niente. La giovane praticante di uno studio d’architetti è entrata in piedi in
ascensore ed è uscita sdraiata, okay. Che vogliamo fare, chiamiamo la CIA? Elio, vuoi spiegarmi perché
Ludovico ti ha telefonato?”
“È la stessa cosa che gli ho chiesto io, commissario, e scommetto che ho aggiunto quello che avrebbe
detto lei.”
“Cioè?”
“Gli ho detto che per quanto anomalo è sempre possibile che una giovane mantovana abbia un attacco
di cuore, sa oggi i giovani… hanno questa vita… e poi si drogano,” dice abbassando la voce come una
vecchina.
“Giusto, Fantini, mi piace ’sta cosa dei giovani che si drogano, vedrai, questa sarà una che pippa dalla
mattina alla sera e le sarà partita la pompa… sai se ha tatuaggi? Quelle coi tatuaggi…” dico rivolto a mia
sorella mentre lei mi guarda sconsolata, scuotendo la testa come a dire “Sei un poveretto…”
“Oh, non ci crederà,” continua Fantini, “anche questa sua considerazione è pressoché la stessa che ho
messo lì sul tavolo a Ludovico che però mi ha segnalato che lui poteva anche essere d’accordo, in linea
di principio, ma che tanto per cominciare l’architetto non era ‘una ragazza mantovana’.”
“Eh, lo so io…” dico con tono sempre meno in controllo, “sta’ a vedere dove finiamo…” dico a Paola.
“Finiamo a Zadina,” dice Fantini, “provincia di Cesena,” aggiunge.
“A due passi dal mare… da quel mare” s’intromette Paola guardando verso di me.
“Paolina, sta buona, eh,” le dico, “non ti ci mettere anche tu. E poi, Fantini, cosa è successo, cosa hai
detto a Ludovico?”
“Ah, commissario, avrebbe dovuto sentirmi, ho chiuso col botto.”
“Cioè?”
“Ah, gli ho detto: ‘Adesso non è che ogni tizia a cui si ferma misteriosamente il cuore c’entra col
nostro caso.’”
“Bravo, Elio, hai fatto bene, e lui che ha risposto?”
“Non ha dato una risposta. Ha fatto una domanda.”
“Quale domanda?”
“‘Nemmeno se la tizia cui si ferma il cuore ha una calamita nel giacchetto?’”
Per qualche secondo stiamo zitti tutti e tre, Fantini, Paola e io.
Mia sorella decide di rompere il ghiaccio e parte: “Al mondo ogni giorno muoiono milioni di
persone…” e fa una pausa.
Durante la pausa Fantini la fissa, insistentemente, come se volesse usare gli occhi come esca per
estrarre qualcosa da lei.
“Oh,” aggiunge Paola, “la gente che muore con una calamita nel giacchetto è già più rara, eh…”
Elio non dice niente, sta in silenzio.
Credo tocchi a me dire qualcosa.
“Ragazzi, vi state facendo suggestionare… Fa l’architetto, magari la calamita è un oggetto di lavoro, o
semplicemente un pezzo di un giochino, sapete quelle soprese degli ovetti al cioccolato per bambini, o
magari ancora è un regalo di qualcuno… Dài,” dico a Paola e Fantini, “toglietevi dalla faccia
quell’espressione da fanatici. Rispettate la logica, per pietà…”
Tacciono e si guardano imbarazzati.
“Può essere di Zadina,” riprendo, “di ’sta nerchia, di quello che vi pare, può avere un garage pieno di
calamite che noi con questa storia abbiamo chiuso. La gente muore, i cuori si fermano. Le calamite sono
in vendita nelle ferramenta. Stop. Anzi,” proseguo guardando Elio, “aspetta che cerco la luce giusta per
dirlo,” e mi metto sotto il lucernario: “Il caso è chiuso. Stop.”
“E chi lo dice?” fa mia sorella.
“Lo dico io che sono un commissario. Tu sei una suora e non rompi i coglioni, per cortesia.”
Poco prima di giungere a piano terra Fantini fa una cosa strana, supera velocemente me e mia sorella
che eravamo davanti a lui. Con un guizzo ci è davanti e arriva per primo giù, fermandosi ben prima del
portone che dà sotto al portico.
Non si muove, mi guarda, sorride con cortese compostezza.
“Abbiamo finito? È tutto?” gli domando prima di uscire ed infilarci nella volante che ci attende.
“Magari, commissario. Abbia pazienza, manca un’ultima cosa e, non vorrei azzardare ipotesi, credo
che dopo, sì, avremo ‘abbastanza’ finito.”
“Che significa ‘abbastanza finito’?” dice Paola.
“Per quanto sarà possibile,” risponde Elio. “La fine è un dettaglio da spartire con gli estranei. Lei ha
letto Hagakure, sorella, il codice del samurai?
“E tu lo hai letto, Fantini?” risponde Paola sfottendolo.
“Dovrebbe, sorella,” dice lui sorridendo, fermo impalato davanti alla buchetta della posta.
“Commissario,” riprende, “quando ha preso la chiave prima c’era altro? Ha sentito qualcosa infilando la
mano?”
“Le solite pubblicità di pizzerie, Elio,” rispondo, “e altra robaccia.”
“Guardi meglio,” fa lui, “a quanto mi è stato riferito, c’è dell’altro. Martina parla poco,” continua, “ma
scrive parecchio. E di bugie non ne dice.”
Frugo con la mano nella vecchia buchetta della posta.
C’è un sacco di cartaccia, dépliant e una busta, una lettera.
Non ha francobollo.
Despina, c’è scritto. Nient’altro.
“Sapevi che era qua?” domando a Fantini.
“La deposizione,” risponde ed esce avviandosi verso la volante. “Lei verrà a piedi, vero,
commissario? Vorrà leggersela facendo due passi.”
“Ci vediamo là,” saluto Fantini mentre rigiro la lettera fra le mani.
“A presto, sorella,” si congeda lui da Paola che lo trattiene dopo avergli dato la mano, e gli chiede:
“Allora, cosa dice il codice del samurai?”
“La fine è importante, in tutte le cose,” risponde Elio entrando nell’auto della polizia.
Chiude lo sportello e un attimo prima di dare l’ordine per tornare in questura vedo che abbassa il
finestrino, mi guarda e fa:
“Commissario, una curiosità, posso?”
“Spara.”
“Perché mi dà sempre del tu?”
LA LETTERA
Vede, lei sa parecchie cose ma fatica a metterle insieme, come un bimbo davanti ai Lego e senza le istruzioni.
Gli eventi di quella mattina, quella successiva alla morte della moglie e del figlio di Sergio, io li conosco. Me li ha raccontati lui, certo, ma
io li conoscevo già. Noi c’eravamo, lì in spiaggia intendo. Se è stato da Elide avrà già capito parecchie cose.
La più importante lasci che gliela dica io: ero in spiaggia quella mattina, non si accorse di me e della mia famiglia, era sconvolto. Ero lì a
pochi metri da lui dopo che gli era stato portato via tutto e non ho fatto nulla. Questo era il mio tormento.
Ero solo una bambina e i tormenti dei bambini finiscono male, commissario.
Volevo rimediare, strappare al mare la certezza di esser l’unico assassino impunito in circolazione. Sapevo chi volevo uccidere. Chi lo
meritava. Gli estranei, o meglio, degli estranei molto precisi: quelli che anche se c’erano non c’erano. Quelli che “vanno avanti” come se
nulla fosse.
Avevano nomi e cognomi. Ha presente quel quaderno rubato nel gabbiotto della spiaggia, quello del bagno Mirna? Lei sa fare il suo
lavoro e saprà già cosa c’era lì dentro… Nomi e cognomi di coloro che erano in spiaggia, in quello stabilimento, quel giorno. Rintracciarli
è stato facile, noi assassini dobbiamo tanto a Zuckerberg.
Quando hai quindici anni e ami un uomo di cinquantadue non hai molte possibilità di progettare. Vendicarsi col destino del tuo uomo è il
regalo più grande che puoi fargli. Rimediare al tuo ritardo. Come i bambini piccoli, quando prendono tutto quello che trovano in casa e lo
portano sul tavolo dei genitori per dir loro che li amano, io gli offrivo le vite degli indifferenti. Forse lui non avrebbe mai avuto il coraggio
di andare fino in fondo: la violenza necessaria per guarire.
Ma per questo c’ero io, Despina.
Sennò a cosa servono le ragazzine?
Vede, commissario, giocavo col tempo. In prima battuta mi serviva convincerla che fosse Sergio l’assassino, il tutto senza che ci fosse
alcuna prova contro di lui. E poi farla virare verso Elide così che, prima o poi, sarebbe tornato in quella casa a chieder conto dei suoi
prodotti per “la guarigione dei sani”.
La signora Marta, quella della libreria esoterica, l’ha già incontrata, per caso? Ha visto la mia squadra, commissario?
Tutti coinvolti, nessuno colpevole. Era tutto previsto. Per lui, il mio grande amore. E se qualcosa fosse andata storta, al massimo
avrebbero preso me, mentre qualcuno avrebbe avuto cura di lui. Di Sergio. Lo avrebbe messo al riparo, come quando ti mettono un
cappotto sulle spalle e ti dicono: “È tutto finito, andiamo a casa.” Paola, magari. Mi fidavo di lei come di me stessa, ma questo adesso lo
sa, commissario.
Non potevo tollerare due cose: quello che era stato fatto a Sergio e di esserci stata anch’io, quella mattina, in spiaggia.
Metta insieme tutto questo e capirà perché Sergio è morto, al posto di chi è morto. Gli avevo chiesto una cosa, una sola, la più grande di
un amore… Ma lui non ha avuto il coraggio di uccidere lei, si figuri me.
Senza lei fra le scatole io e Sergio saremmo stati liberi. Lei probabilmente sarebbe stato il primo morto che non meritava di morire ed è
stato lì che ho perso Sergio. Quando l’uomo che ami ti dice “Io non sono un assassino”, l’hai perduto, per sempre. E così ho pensato di
metterlo in salvo, almeno lui. Ma a quanto gli ho proposto lui ha detto no.
Quello che gli ho chiesto era ancora peggio di uccidere lei, signor commissario. Non c’è stato nulla da fare.
Se davvero avevo questo magnetismo, se addirittura ero una mesmerista, come mai proprio l’uomo che amavo non ha fatto quello che
gli ho chiesto? Non ha detto nulla, mi ha preso le mani e se le è portate sulla faccia. “Vai a casa,” mi ha detto, “e studia.” Ha buttato le
calamite a terra e si è incamminato sul lungomare.
A quel punto, senza Sergio, tutto quello che era accaduto era troppo, anche per me. E poi gli indifferenti sono come il mare, non lo
svuoterai un secchio per volta.
Dal mare non si guarisce.
Speriamo che le basti, gliela spieghi così a chi le chiederà se avevo un tornaconto personale per uccidere o se, per finire in ridere, ero
pazza. Deve rassegnarsi, commissario, ad aver fatto unicamente il suo mestiere, magari anche lei solo per poter riderci sopra, per
continuare a sperare…
Diranno che sono “pazza” e probabilmente questa è senz’altro una delle cose che sono, le altre (esclusa sua sorella) non importano a
nessuno. Il buffo è che in qualche modo, noi e anche voi (lei e Paola) stiamo stati bene in questi giorni.
Dev’essere qualcosa del genere, la felicità, rincorrersi fra intimi.
“Sento ancora quel rumore in testa,” disse Sergio una delle prime volte che uscimmo insieme. Eravamo al cinema, durante l’intervallo
del film. “Il sottofondo della spiaggia, quella mattina maledetta…” mi disse stringendomi la mano e guardando verso lo schermo ancora
vuoto. Poi tornò il buio.
Io ho provato a far tacere quel rumore. A fare un po’ di silenzio.
E questo è tutto, commissario, come vede io e lei in fondo siamo colleghi.
Facciamo giustizia.
Lei ha preso l’assassina, io i colpevoli. Talvolta non coincidono.
“La vita va avanti.” Là fuori c’è gente che riesce dire cose del genere. Li tenga d’occhio commissario, sono più assassini di me.
Despina
Un commissario di quelli della TV adesso, dopo aver terminato di leggere questa lettera, abbasserebbe
gli occhi per un attimo.
E poi, con rabbia controllata e in controluce, la scaglierebbe verso la tavola (ancora non sparecchiata
da sera prima).
In una buona puntata di un giallo per la TV, la storia sarebbe finita.
Dovrei chiudere il caso, finire in una bettola, ordinare un piatto di qualcosa che, praticamente, non
toccherei e andare a casa con una bottiglia di qualche superalcolico.
Svegliarmi domattina, infilare la testa nel lavandino dopo averlo riempito di ghiaccio, e attendere che
la sbronza passi.
Inutile dire che nel mio letto, senza che io ricordi minimamente come questo sia possibile, dovrebbe
esserci una biondina ancora nel primo sonno, tatuata fino al buco del culo. Ricca di famiglia ma
svogliata.
Però saprebbe dipingere.
Non funziona così nella mia vita.
Si vede che io non faccio parte di quella fetta di gente che sa fare il commissario, anzi, io devo essere
uno un po’ duro di testa.
Infatti c’è ancora una cosa che non mi torna.
Martina come è morta?
IL DITO E LA LUNA
Passa poco meno di un minuto dalla chiusura della telefonata con Fantini che una domanda fa capolino
nella mia testa: a chi è che mancava un mignolo?
Io ho in mente che in questa storia… qualcuno…
Ma sì, la vecchia sull’autobus!
Quella che parlava con l’amica di Martina, nel tragitto che ogni mattina le portava a scuola…
Provo a richiamare Elio.
Il cellulare non prende. Oppure è staccato.
Mi precipito anch’io in via Galliera.
Forse Fantini è in pericolo.
LA LIBRERIA TRITONE
Salgo di corsa le scale che conducono al piano rialzato, vedo la porta dello studio “Notaio Tritone” ed
entro.
Trovo Fantini e la signora che chiacchierano amabilmente.
“Commissario,” dice Fantini come se fossi arrivato a un party, “si unisca a noi, venga.”
“Piacere,” dice la signora e si presenta dandomi la mano, “Marta.”
“Salve,” rispondo ancora affaticato. “Carlo. Si ricorda di me?”
“Sono vecchia,” risponde e mi spinge per un braccio verso la finestra, “venga ben qua, alla luce.”
“No,” prosegue, “non mi ricordo di lei. Però se vuole può favorire,” mi dice e solleva un tovagliolo di
carta sotto al quale c’è una stupenda ciambella fatta in casa.
“Fantini, tu ne avrai già mangiata mezza, no?”
“Be’, no, sa,” balbetta, “qua c’è anche una questione di cortesia, di non voler mortificare…”
“E se fosse avvelenata?” dico a Elio a mezza voce.
“Commissario,” risponde ridendo, “lei si fa troppo suggestionare dal suo lavoro, sembra uno di quei
commissari della TV.”
“A me no,” dice la signora, “i commissari in TV sono dei gran maschi.”
“Signora,” riprendo la parola innervosito, “io so che lei la mattina prende l’autobus che fa tutta via San
Mamolo e arriva in centro.”
“E si sente soddisfatto?”
“Eh?”
“No, dico,” prosegue, “adesso che ha sfoderato questa informazione io dovrei confessarle qualcosa?”
Guardo Fantini che ride come un pazzo, e rivolgendomi a lui: “’Sta vecchia mi sta pigliando per il
culo?”
Fantini non respira dal riso, deve sedersi per calmare gli spasmi.
“Senti, nonna,” dico alla tizia allungando il collo oltre il bancone, “io ti sfracasso, Dio bono, hai
capito? A me non frega un cazzo se ne sai di streghe o sei lingua in bocca con Belzebù, io ti sbatto dentro,
ti…”
“Ma questo dà sempre del tu a tutti?” dice la signora rivolta a Fantini, e poi riprende più seria dopo
avermi messo a fuoco nella sua memoria: “Adesso mi ricordo. Era sull’autobus, faceva domande su
Martina, credo sia qua per lei. Non è così?”
“Martina è morta,” le dico.
La signora fa due passi verso la stanza che funge da sala di lettura, cambia espressione, sembra che la
sera sia calata sui suoi occhi.
Si volta verso di me e poi torna a camminare dandomi le spalle. Entra nella sala studio e raggiunge un
tavolo, lo sfiora con la mano, restando in piedi.
“Stavano qua,” inizia.
“Sergio e la ragazza?”
“Sì, loro, gli innamorati.”
“Lo sapeva?”
“Cosa?”
“Che si amavano.”
“Bastava avere gli occhi, commissario.”
“E a lei non sembrava un rapporto un filino ‘improprio’? Lui più di cinquant’anni anni, lei quindici?”
“Dipende, commissario.”
“Da cosa?”
“Da chi erano quei due,” e prosegue, “lei li conosceva, commissario?”
“Be’, no…”
“Quindi valuta quel rapporto come ‘improprio’ solo perché lei sarebbe morta molto prima di lui… E
invece guarda un po’… Direi che tutti i baci che si son dati erano sacrosanti…”
“Senta, come mai venivano qua?”
“È una storia lunga.”
“Quindi prima cominciamo e prima finiamo, avanti…”
“I vecchi fanno sempre la stessa domanda,” riprende la signora, “soprattutto sugli autobus. Ogni
mattina, quando prendo il 13 vedo un sacco di giovani, ragazze e ragazzi…”
“E anche di vecchi, sugli autobus la mattina ci sono un sacco di persone anziane…” controbatto.
“Ci andiamo per loro, per attaccare bottone.”
“Cosa?”
“Li vedo, sa, gli sguardi delle persone… i più cretini si domandano cosa ci spinga a occupare posti
sugli autobus a quell’ora. Siamo soli. E sugli autobus a quell’ora c’è la vita, i ragazzi.”
“Lei ha attaccato bottone con Martina?”
“Le ho chiesto quello che chiedo a tutte, sono sempre imbronciate ’ste cinne la mattina… sembra che
vivere sia un dispetto…”
“Cosa le ha chiesto?”
“‘Come siamo seri stamattina, cos’è ’sto broncio, cosa c’è che non va?’”
“E lei che ha fatto?” chiedo alla signora.
“Ha risposto. E mi creda, siamo di fronte a una rarità.”
“Perché?”
“Lei non ha figli, vero?”
“No, in effetti no, ma…”
“I ragazzi non rispondono, commissario. A ogni modo, fatta la domanda Martina mi rispose, al volo,
entro un attimo. ‘Amo un uomo di cinquantadue anni, è vedovo…’ E me lo ha indicato come fanno le
ragazzine con le amiche per far vedere il suo ‘bello’ e vantarsi un po’. Mi ha detto tutto, subito. Con
sicurezza e coraggio. Era una ragazzina diversa dalle altre. Sembrava venire da un altro mondo.
Inscalfibile. Non so dirle meglio questa cosa, ma sembrava quella che Camus definì un’invincibile
estate.”
“E poi, cos’altro?”
“‘Mi sembra un po’ grandino per te,’ le ho detto.”
“E lei?”
““È più piccolo di me. Devo proteggerlo…’ Così le ho chiesto come pensava di fare, di portare avanti
una cosa così complicata.”
“E Martina?”
“‘C’è una Santa che sta occupandosi della faccenda,’ mi disse, ‘ma credo che presto dovrò farle una
visitina’. ‘Che fai, chiedi conto ai Santi di quello che non succede?’ “‘Li trovo pigri talvolta.’ Avrei
potuto pensare che non stesse bene, che fosse una mezza matta, sa, una di quelle devote che arrivano
vergini al matrimonio ma col culo sfondato…”
“Signora! Ma come parla? Ma possibile che io sia l’unico a non esprimermi in questa maniera in
città?”
“Veramente,” interviene timidamente Fantini, “ci sarei anch’io…”
“Ma non era così,” dice la signora Marta, “sentivo che non era esattamente così… ‘Mi piacerebbe che
fuggisse con me…’ mi disse.”
“E lei che ha risposto?”
“‘Potresti ipnotizzarlo,’ le ho detto per prenderla in giro e riderci sopra. Ma lei si è fatta seria,
attentissima.
“Io ovviamente dicevo per ridere. Ma lei mi ha chiesto: ‘Lei sa come si fa?’ E io per scherzare ho
risposto: ‘Non con chi si ama, mia cara…’. E così ha iniziato a farmi un sacco di domande strane, mattina
dopo mattina, per quasi tutta quella settimana. Poi non la vidi per qualche giorno. Ci rivedemmo un
lunedì, sempre sul 13.”
“Come sa che era lunedì?”
“Tutti sappiamo sempre quando è lunedì. Mi sparò in faccia quel nome, e ho capito che faceva sul
serio.”
“Quale nome?”
“Despina, del Così fan tutte di Mozart, guariva gli innamorati, proprio quello che Martina credeva le
servisse. E così le rivelai il segreto di Despina… Le parlai di lui…”
“Di Mozart?”
“Di Mesmer, commissario! Voleva saperne di più su di lui, sul suo lavoro e in generale sul tema
dell’ipnosi.”
“Cosa pensa la incuriosisse?”
“Una cosa quasi impossibile, certamente pericolosa. La possibilità di scavare nelle teste e di
conseguenza nelle vite altrui ma soprattutto la possibilità di aver un controllo su di esse. Di ‘Regnarci’,
come ripeteva.
“Le dissi che era davvero un curioso caso del destino che io avessi questa libreria… e la invitai a far
un salto da me, pregandola di mantenere il più stretto riserbo. E così fece.”
“E poi?”
“E poi me li vidi arrivare, insieme, un pomeriggio di qualche tempo dopo.
“‘Sei qua per ipnotizzarlo,’ le dissi per scherzare, dato che mi parve fossero già molto ‘vicini’, non so
se capisce cosa intendo…”
“Capisco, prosegua.”
“Lei rispose: ‘No, con lui non funzionerebbe, giusto?’ Ma poi mi accorsi che cercavano tutti i libri
riguardanti Anton Mesmer. A proposito, mi scusi, non le ho chiesto se conosce Mesmer, se sa cos’è il
mesmerismo intendo?”
“Sì, insomma, ci stiamo documentando… un medico-guaritore… uno che usava il magnetismo e
l’ipnosi…” rispondo guardando anche Fantini che annuisce con la testa.
La signora si avvicina a uno scaffale e inizia a cercare. Nel frattempo racconta: “La scienza si nutre di
mondanità, commissario. In ogni epoca le scoperte passano dai laboratori, certamente, ma anche da
salottini del proprio tempo. Mesmer in quei salottini sapeva il fatto suo.
“Era un uomo piuttosto famoso all’epoca, conosceva Newton, Mozart e pare avesse addirittura
rapporti anche con la Casa Bianca. Seguiva le applicazioni del magnetismo secondo le indicazioni di
padre Hell, un personaggio illustre che si dedicò solo marginalmente alla pratica del magnetismo. Questi
riteneva che fosse molto efficace con persone affette da malattie dei nervi.”
“E otteneva dei risultati?” le chiede Elio.
“Mi ricordo per esempio di una tale signorina Paradis…” inizia la signora.
“Sempre donne, sempre signorine?” domando e Marta annuisce prima di proseguire.
“Ne curò la cecità. Stava ottenendo qualcosa, ma poi i genitori della ragazza impedirono a Mesmer di
continuare a curarla.”
“E…”
“Tornò cieca.”
“Altri casi?” le domando.
“Uno, in particolare,” prosegue Marta, che nel frattempo ha preso un libro dallo scaffale e lo apre
arrivando al punto che le serviva, “ecco qua,” dice indicando col dito una fotografia di una ragazza con la
camicia di forza, “nel 1773 guarì una tale signorina Österlin, un caso di isteria femminile in giovane età.
A seguito del suo intervento, la giovane ebbe prima una fortissima crisi, convulsioni, rantoli, e poi guarì.
Mesmer si convinse che la crisi altro non era che un’accelerazione della malattia e delle sue fasi. Era la
crisi stessa dunque, opportunamente indotta, che stava spingendo la ragazza verso la guarigione.”
“Questo immagino fosse un dato importante,” dico.
“Certo,” continua la signora, “perché significa che la guarigione non si ha ristabilendo un equilibrio ma
favorendo il corso della malattia.”
“Mi scusi,” interviene Elio, “io però ho letto che la medicina del tempo, pur riconoscendogli impegno
e magari anche buonafede, era più propensa a definire tali episodi di guarigione come frutto di
suggestione.”
“Verissimo,” risponde Marta riponendo il volume, “ma dimenticavano una cosa.”
“Cosa?”
“Che la suggestione, talvolta, funziona. Più in generale, commissario, lei non ha l’impressione che la
società in cui viviamo si basi sulla suggestione? Politica, pubblicità, lo stesso amore,” e conclude, “a
ogni modo, per quanto ne so lei ha per le mani una storia che si spiega benissimo da sola, senza star a
disturbare Mesmer.”
“Ecco,” intervengo in maniera un po’ brusca, “allora anche lei come me non crede che questa ragazzina
fosse una mesmerista?”
“Io ritengo che sia assolutamente irrilevante, prima di tutto perché io non sono affatto certa che
Mesmer avesse davvero i poteri che diceva di avere o dei limiti di essi…”
“Oh, ecco, e in secondo luogo?”
“In secondo luogo, se ho ben intuito cosa vuole sapere, lei mi sta facendo una domanda sbagliata,” dice
Marta tornando dietro il bancone della libreria.
“Me lo dica lei allora cosa voglio sapere e come devo chiederglielo…”
“Lei, commissario, vuole sapere se Martina era in grado di avere una qualche forma di controllo sulle
menti e sui comportamenti altrui, ed è una vecchia domanda, mi creda, vecchia quasi di secoli…”
“E la risposta?”
“La risposta per quanto mi riguarda è probabilmente no. Se lei è una persona di un certo tipo se ne
andrà da qua pensando al mio ‘no’, qualcun altro non dormirebbe la notte su quel ‘probabilmente’ e la
piccola, strettissima, fessura che lascia aperta.”
“Signora, di cosa sta parlando?”
“Lei vuole chiedermi se è possibile agire su qualcuno ‘programmandolo’ per fare qualcosa,
successivamente al termine dell’ipnosi? Non è così? Si chiama ‘suggestione post-ipnotica’. Qua siamo un
passo oltre la trance ipnotica. Viene chiesto a una persona di fare o dire qualcosa dopo che sarà uscita
dalla trance ipnotica. A volte le persone fanno questa cosa. Purtroppo l’idea di suggestione post-ipnotica
ha favorito la convinzione per cui sotto ipnosi si ubbidisce all’ipnotizzatore. Il fatto è che sotto ipnosi si
possono fare molte cose, nessuna di queste però va contro alla persona ipnotizzata.”
Io ed Elio ci guardiamo, come a dire “La fai tu la domanda?”
“Mi perdoni, signora, ma il mio collega Fantini deve chiederle una cosa…”
“Io, commissario?” fa lui. “E vabbè. Signora, perdoni la singolarità della domanda, ma lei crede che
sia possibile convincere qualcuno che di solito non usa la crema solare a usare una crema solare
avvelenata?”
“Se non sa che è avvelenata direi di sì. Ma lei pensa che occorra un mesmerista per questo?”
“No?” domando.
“Basta anche una ragazzina dal fascino magnetico,” dice Marta fissandomi negli occhi, “una alla quale
non puoi dire di no.” La signora si fa seria, cambia tono e dice: “Ora che lei ha capito cosa mi voleva
chiedere, io ho capito perché me lo sta chiedendo. È per via di quel che è accaduto al mare, vero? Ne ho
letto sui giornali…”
“Se le dico che non posso dirle di più capirà…”
La signora sorride come a dire “Immaginavo”, e si avvicina di nuovo agli scaffali, dai quali estrae un
libro molto malconcio, piuttosto vecchio direi.
“Allora, commissario, le sono stata utile?” chiede mentre posa quel libro sulla fotocopiatrice, aperto a
una pagina ben precisa. “È quasi ora di pranzo, se non ha altre domande io…”
“Sì, mi ha dato una mano signora, anche se non esco da qua con una risposta definitiva, inscalfibile.”
“Vede, commissario,” dice Marta prendendo la fotocopia, piegandola e infilandola in una busta da
lettere, “Mesmer, come tanti altri aveva ben chiaro che il cervello è una stanza e ci si può entrare. Di
epoca in epoca, quello che è possibile fare in quella stanza assume sviluppi nitidi e altri decisamente
inattesi. Nessuna cosa che riguardi la mente umana è mai da considerarsi del tutto ‘nota’ o prevedibile.
Tale principio vale anche per la mia risposta. Le basta?”
“Mesmer…” dico scuotendo la testa, “sono passati quasi trecento anni, signora…”
“Lei sta scherzando col passato, commissario. Io nei suoi panni farei molta attenzione. Il passato è
imprevedibile.”
E ci accompagna alla porta lasciandola aperta affinché noi si possa uscire.
“Non è poi così complicato, commissario,” conclude Marta mentre le sfiliamo davanti, “voleva entrare
nella testa di chi amava, ma non era possibile e allora ha provato con tutti gli altri. Se non poteva guarire
il suo uomo lo avrebbe perlomeno vendicato. Per qualche motivo molto curioso e molto triste, vendicare
è più facile che guarire, uno che fa il suo mestiere dovrebbe saperle queste cose.
“Questa è per lei,” dice infilandomi la busta con la fotocopia nella tasca della giacca.
Poi scende le scale fino al portone e la vediamo sparire a piedi, nel viavai mattutino.
Mentre corro lungo via Galliera continuo a chiamare Paola ma il suo cellulare è staccato.
Oh, basta che siano in pericolo di vita e staccano tutti il cellulare.
Nella corsa mi viene in mente quello che ha detto Fantini circa il fatto che di solito, dopo che
l’assassino confessa e crepa non c’è tanto altro che possa accadere.
E invece in questa cazzo di faccenda più cose si chiudono e più casini compaiono. Quasi quasi adesso
seguo il consiglio di mia sorella, la sua strategia, anche a ’sto giro prendo e me vado. Se ne ha proprio
voglia, che sia questa storia a raggiungermi e non io a inseguirla…
Sono stronzate, lo so per conto mio, ma l’alternativa sarebbe far mente locale sulla corsa di un povero
ciccione fra le auto e i semafori di Bologna.
Arrivo davanti alla chiesa in un bagno di sudore ed entro col fiatone.
Paola è in piedi, a riordinare le candele sotto la statua di Santa Caterina, non le dico nemmeno “Ciao,
come stai”, la prendo per un braccio, la porto fino all’acquasantiera all’ingresso della chiesa e vado
subito al punto.
Per non agitarla provo a farla ridere, ho sempre fatto così fin da piccolo, e lei non ha mai riso.
Vedendomi simpatico percepiva di essere in pericolo.
“Cosa c’è di solito dentro l’acqua benedetta?”
“Acqua.”
“Non ha subito alcun processo particolare?”
“Sì, un vecchio prete di ottant’anni ci ha fatto sopra il segno della croce, così…”
“Così…?”
“Così c’è Dio,” dice Paola scoppiando a ridere.
“Che tu sappia siete soliti mettere estratti di piante velenose nell’acqua benedetta?”
Paola diventa seria. “No, che io sappia no,” prosegue fissandomi negli occhi.
“Niente aconito, dunque, nell’acqua di Dio?”
“Di solito no,” mi risponde sedendosi sulla panca della chiesa.
“Quante persone hanno intinto la mano da ieri sera ad adesso nell’acquasantiera?”
“Nessuno, Carlo.”
“Possibile?”
“Non ci crederai,” dice mia sorella, “ma da ieri sera qua non è venuto nessuno, siamo stati ‘chiusi per
inventario’.”
“Che significa?”
“Che vuoi che significhi, Carlo? Che di solito, quando una scocomerata confessa dentro la canonica di
aver fatto secca un po’ di gente, nella giornata successiva siamo un filino stressate noi ‘sorelle’. Le auto
della polizia, il casino… e soprattutto quella cinna… ma sai che ci ha bruciato l’uscita segreta? La
lavanderia… Comunque, la curia ha deciso,” prosegue dandomi uno schiaffetto sulla guancia, “la chiesa
starà chiusa per un paio di giorni.”
“E i fedeli?”
“E i fedeli si attaccano al cazzo, come in estate…”
“Che c’entra l’estate?”
“Qual è il momento in cui le persone sole sono ancora più sole?” domanda mia sorella.
“Ah, ho capito, è vero, d’agosto.”
“Ecco, e come sono la metà delle chiese in estate, esattamente nel periodo peggiore?”
“Chiuse,” dico io.
“Esatto. Come le salumerie o le sale Bingo. E sai qual è la cosa misteriosa, che mi fa tremare il
cuore?”
“No.”
“Che ancora qualcuno cerchi Dio,” e conclude voltandosi verso di me. “Nonostante noi.”
Vedo che c’è qualcos’altro che vuole dire e aspetto che lo faccia, senza forzarla. Le uscirà tutto fuori,
come quando era bambina. Basta attendere.
“Voleva vendicare il suo amore,” dice con lo sguardo altrove, “e magari, se le cose si mettevano male,
consegnarlo a me. Curare il male dell’indifferenza e quello della disgrazia. Ha solo trascurato un piccolo
dettaglio.”
“Quale?”
“Che gli innamorati non uccidono chi amano.”
“Spiegati meglio.”
“Voglio dire che in fondo, come dicevi anche tu, con quella personalità che si ritrovava, col suo
magnetismo, l’ipnosi le sarebbe servita solo con Sergio, solo con lui avrebbe dovuto ‘giocare sporco’
per costringerlo a ucciderla.”
“E quindi?”
“E quindi o lei è una piccola meravigliosa ciarlatana, o il cervello di un innamorato non accetta
stregonerie. Lì qualcosa si è inceppato, ricordi cosa ha detto? ‘Volevo portarlo con me, ma lui non è un
assassino’, e allora le sarebbe bastato metterlo in salvo.
“Lei sarebbe stata l’ultimo pezzo a cadere.
“Ti sembrerà folle,” prosegue Paola, “ma che lui fosse sotto una specie d’incantesimo, diciamo, e ne
sia uscito solo per dire no, per dire io non ucciderò chi amo, è una spiegazione che a me per esempio
basterebbe.”
“Davvero tu ci crederesti?”
“Ho detto una cosa diversa,” fa mia sorella, “che mi basterebbe… Te lo ha detto lui stesso,” prosegue.
“‘Non potevo staccarmi da lei.’ Aveva la lucidità di capirlo ma non la forza di intervenire sugli eventi.”
“Guarda che succede anche nei matrimoni questo, eh, non è raro…”
“Non in tutti i matrimoni si gioca con Mesmer e le sue calamite.”
“Ahhh, ancora con ’ste fregnacce… senti, Paola, io devo andare in questura a raccontare la verità, i
fatti… hai capito?”
“Carlo, ancora non ti è chiaro che la verità e i fatti sono due cose diverse?”
“Okay,” le dico, “e noi che c’entravamo?”
“Prima di tutto c’entravo io, Carlo, voleva me. Nella sua testa, in qualche modo, ne era sicura: di
Sergio mi sarei occupata io. Un uomo che perde moglie e figlio ridiventa a sua volta figlio. Ma di chi? Io
e te eravamo le persone di cui si fidava; lo avrebbe affidato a noi.”
“Ma è una pazzia, Paola…”
“Ci ha trattati come una famiglia,” continua mia sorella, “una famiglia che si era scelta, ascoltandoci,
conoscendoci. Si è persino presa la briga di venire in chiesa a spiarmi, a esaminarmi. Voleva esserne
sicura.”
“E di me?” la incalzo. “Come faceva a sapere che io fossi uno di cui fidarsi?”
“Si fidava di me,” riprende lei, “delle mie scelte. Dei miei sogni, impossibili quanto i suoi. Aveva
capito tutto prima di te.”
“Voleva farmi secco, Paola.”
“Non aveva alternative, e aveva ragione; tu l’avresti presa. Lo ha solo capito troppo tardi.”
Cammino nervoso su e giù per le navate della chiesa.
“È finita, Paola, chiudiamo questa storia.”
“Ma sì, che importa in fondo…” dice mia sorella riponendo l’attrezzo per raschiare la colatura della
cera, prima di bloccarsi in piedi davanti a me.
“Hai paura, Carlo?” mi dice.
“Di cosa?”
“Lo sai…” fa lei sistemandomi la camicia dentro ai pantaloni.
“Ah, parli della tipa morta a Mantova?”
“No, parlo della tipa di Zadina, con le calamite nel giubbottino morta a Mantova.”
“Ascolta,” le domando con tono pacato come a farla ragionare, “tu credi ancora che una ragazzina
possa aver sfondato i limiti della scienza e del cervello umano ed esser riuscita a scovare un punto della
mente che risponda ai suoi ordini? Ma ragiona,” le dico, “un conto è che lei pensasse di esserne in grado,
un altro è esserlo davvero… Fra l’altro, alla fine, non ci credeva più nemmeno lei…
“La Chiaraluce è una tizia cui si è fermato il cuore, a Mantova, in un ascensore… Okay, aveva delle
calamite addosso… ma magari anche il nostro amministratore di condominio ne ha… Forse era un
portafortuna, un regalo di un innamorato… Son cazzi suoi adesso,” dico per sfotterla bonariamente. “Ma
ragioni, Paola? Vabbè che tu credi ai cherubini…”
“Mi spiace per te, ma io credo soprattutto ai cherubini…” e sorride, curiosamente felice. “Se solo
avessimo quel maledetto quaderno…” riprende passandosi le mani sulla faccia. È stanca.
“Non sbucherà.”
“Cosa?” dice Paola.
“Il quaderno, Martina l’ha distrutto, ne sono certo. Farlo sparire era l’unico modo per tenerci in
scacco. Per sempre…”
“E se… e se avesse fatto lo stesso anche con noi senza che ce ne fossimo accorti?” prosegue.
“Ma basta, finiscila… che dici?”
“Pensaci,” fa lei. “Siamo stati qua, soli soletti, nelle sue mani. In balìa di Despina. Chi ti dice che
domattina non mi troverai avvelenata, o che io non mi butti sotto un tram, o magari non venga a casa tua
con un trinciapolli e ti apra la gola? Saresti in grado di impedirlo?”
Mi siedo anch’io sulla pensilina a lato del confessionale.
E rifletto.
“Io ho Dio a cui chiedere di impedirlo, tu che fai, senti Fantini come è messo per i prossimi
cinquant’anni?”
Ed è puntuale, il trillo del mio cellulare…
“È proprio Elio,” dice Paola mentre continua nelle cose in cui è indaffarata.
“Chissà perché,” inizia Fantini, “per dire cose tremende usano parole così buffe, vero, commissario?”
“A cosa ti riferisci, Fantini?”
“Ho capito, sa, che crede? Ho visto com’è sfrecciato via dopo che le ho detto quella cosa sul segno
della croce di Martina.”
“E quindi?”
“E quindi… digitale, commissario, è arrivato in via informalissima il responso del medico legale.
Intossicazione da digitossina. Si chiama così il tipo di veleno che ha fermato il cuore di Martina.”
“Così potente da averla uccisa solo perché ci si è bagnata le dita e magari, passandoselo sulla fronte e
sulle labbra, ne ha bevuto qualche goccia?”
“Evidentemente…” risponde.
“Era anche questa una pianta della serra di Elide, a vederla sembrava così soave…”
“Anche le cose soavi uccidono, commissario, la saluto…” dice Elio prima di riattaccare.
Tutte le volte che risolvo un caso, mi viene la tentazione di tornare qua, al bar Calypso e telefonare a
Silvana.
Si trova in Cirenaica, a Bologna.
In periferia.
Non fu il posto dove io e lei prendemmo il primo caffè insieme, è stato il bar fuori dal quale le ho dato
appuntamento per dirle che era morta mia madre.
Non volevo dirglielo per telefono.
Glielo dissi in strada, mentre chiudeva la macchina, le dissi che tutto il dolore era finito e che potevo
finalmente iniziare ad avere paura. Paura di non rivederla più, mia madre.
Circa il dolore sbagliavo, ma la cosa peggiore era che ne fossi convinto. Pensavo davvero che il male
fosse diverso dai viaggi, che non lasciasse ricordi, fotografie.
Fu così terribile quella mattina che la ricordo con sollievo.
Esiste una specie di bene in ciò che ci ha uccisi, una forza riparata che da un angolo di te sembra dirti:
“Non ti ho tolto nulla, ho solo fatto un po’ di spostamenti.”
Se tutto va bene è Dio.
Di quel giorno ricordo che anch’io, come tanti, sono riuscito a dire la frase più cretina di tutte: “Forse
è stato meglio così.”
Credo sia stata la mattina in cui più di ogni altra mi sono mostrato pateticamente ridicolo.
Ricordo che addirittura mangiai qualcosa al bar, mentre Silvana sedeva ai tavolini interni con mio
padre e Paola.
Mi guardavano come se il morto fossi io.
A me, invece, loro sembravano bellissimi, era come se mia madre li avesse radunati per una fotografia.
Dietro di loro c’era il muro delle caramelle, quelle che ormai solo i vecchi bar di periferia tengono
sfuse e vendono a peso.
Quelle alla mela che piacciono ai vecchi, quelle di liquerizia e mou, e i “fruttini” colorati.
Come sempre, anche quel giorno Silvana fu di poche parole e la sera facemmo una specie di amore.
“Mi sento osservata,” disse quasi intimidita, con un filo di voce, mentre le spostavo i capelli dagli
occhi. “Tua madre.”
Gli sceneggiatori delle serie TV adorerebbero questo siparietto finale, mi ci gioco le palle. Il
commissario che dopo aver rischiato la vita fa un salto al bar e ci trova il suo grande amore.
Ne farebbero una sorta di piccolo inchino di commiato.
O magari trasformerebbero Silvana in una specie di moglie del tenente Colombo, sapete quella donna
che lui evoca e descrive (nei suoi vizi e virtù) di continuo, ma che non si vede mai?
Loro sì, gli sceneggiatori, che saprebbero come farmi felice, farebbero in modo che lei fosse qua,
adesso al Calypso ad attendermi.
Come una vedova inconsolabile.
Ma Silvana non c’è.
Io però sono stufo di attenderla come in un film. Forse è arrivato il momento di rendere banale la
nostra storia, ora vado nell’angolo fra il bancone e le caramelle e la chiamo.
Le dico magari che la porto al cinema. Ci piaceva, soprattutto quando il film finiva ma ancora non era
tornata la luce.
Le telefono dal “fisso”, un vecchio apparecchio con ancora la scritta “SIP ”, sono pronto a pagare gli
“scatti”.
Le faccio una di quelle telefonate da scemo che fanno quelli che ti amano e non sanno come
trasformare le parole in ritmo.
Ho deciso, la chiamo e le dico tutto, tutto quanto.
Non so bene da dove cominciare ma so come finire: vorrei dirle che perdere un occhio non è grave e
che tutto il mondo in meno che vedrà, se crede, posso raccontarglielo io.
Che non si perde niente, Silvana.
NELL’EQUILIBRIO
La mattina dopo aver risolto un caso è bellissimo andare in ufficio. È una sensazione simile a quando
torni a casa da scuola, dopo aver dato l’ultima interrogazione dell’anno scolastico.
La scuola non era ancora finita, le vacanze non sono ancora arrivate e tu fai la cosa più bella del
mondo: aspetti.
Ti godi quei giorni di passaggio fra la fatica e la spensieratezza che, talvolta, è deludente rispetto la
sua stessa attesa.
Di morti ne arriveranno altri, vorrei ben vedere, ma nel frattempo passeggio nei corridoi della questura
con la familiare sicumera di un pornodivo discreto che non vuol farti pesare le sue misure.
Mentre passo davanti all’ufficio di Ventura sento una voce, quasi un rantolo che dall’interno si rivolge
a me:
Niente sembra sopravvivere alla chiusura della stagione balneare. Anche uccidere diventa poco più di
una pratica da archiviare quando arriva l’autunno.
Al momento, circa la bizzarra vicenda di queste persone che sono andate al mare, non emergono altre
informazioni a riguardo.
Per quanto concerne la telefonata di Carlo Vento a Silvana Ciuffo riteniamo poco elegante rivelarne il
contenuto.
Vi basti, per ora, sapere che lei ha pianto sebbene da un occhio solo. Tuttavia, per completezza
narrativa si ritiene necessario, quantomeno pertinente, riportare il testo dell’ultima breve telefonata che
quella stessa notte il commissario Carlo Vento ha fatto al suo fedele aiutante Elio Fantini. Poi, per
adesso, basta così.
“… che poi, alla fine, trasmettere in radio è solo un modo per farvi compagnia. Non lasciarvi soli.
“Ma io, se potessi, se sapessi anche solo lontanamente come fare, vorrei essere il silenzio, farne uno
perfetto… tutto per te…”
P.S. Se occorre dirlo, i personaggi e le circostanze di questo libro sono il frutto della mia fantasia o di
ciò che essa coglie (e prova a stravolgere) nella realtà.
In città non ho, giusto per fare un esempio, riscontri circa la vita un po’ sui generis che faccio condurre
alla mia clarissa così come non mi risulta che esista un convento disposto ad assecondare certe
“stranezze”. Più in generale vi pregherei di tener conto che avete letto un libro, non il verbale di
un’assemblea di condominio (che peraltro, se ben scritto, è sempre un grande romanzo).