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Fabrizio Silei

Se il diavolo
porta il cappello

Romanzo
ISBN 978-88-6715-395-4

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Illustrazione di copertina di Nick Sharratt

In copertina: foto di Fabrizio Silei

Text Copyright © Jacqueline Wilson, 2010


Copyright © 2013 Adriano Salani Editore S.p.A.

Gruppo editoriale Mauri Spagnol


Milano

www.salani.it

Prima edizione digitale 2013

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Al popolo degli uomini che attraversò l’inferno,
e al cattivo ragazzo che sono stato.

« Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi


non tenerla tutta per te. Cerca di com-
prendere con umiltà il prossimo, aiuta il
debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il
perseguitato, l’oppresso: loro sono i tuoi
migliori amici ».
(dall’ultima lettera di Nicola Sacco
al figlio Dante, 1927)

« Disse Yahweh a Caino: ‘Dov’è Abele, tuo


fratello?’ Egli rispose: ‘Non lo so. Sono
forse io il custode di mio fratello?’ »
(Genesi 4, 9)
Se il diavolo porta il cappello
I

Qualche volta lo sogno, o forse no, forse lo immagino soltan­


to, nel dormiveglia. Ha l’uniforme sporca di terra e un elmet­
to di ferro in testa. Urla parole incomprensibili ai compagni.
Il crocevia è solo un pugno di case dalle facciate di crema
avariata. Gli abitanti sono fuggiti da tempo, sembrava non
ci fosse anima viva e invece al­l’im­prov­vi­so, come sbucando
dal nulla, è comparso un panzer sulla strada e dalle finestre
hanno preso a sparare. Dal rumore e dalla frequenza dei col­
pi sembrano mitragliatrici. Non possono far altro che na­
scondersi dietro le cantonate delle case. Gli occhi bene aper­
ti, il cuore che batte a contare ogni secondo. Ma non doveva­
no essersi ritirati tutti i tedeschi?
Forse questi non sono stati abbastanza veloci, oppure so­
no rimasti indietro apposta con l’ordine preciso di far perde­
re del tempo agli Alleati e di permettere ai compagni nelle re­
trovie di rinforzare la difesa o di fuggire.
Loro sono una piccola squadra mandata in avanscoperta,
l’unica cosa da fare è darsela a gambe e tornare indietro ad
avvertire la compagnia, ma quando si voltano si accorgono
che altri tedeschi si sono appostati fra le macerie alle loro
spalle e, allora, non resta che combattere nella speranza che
arrivino i nostri.
Una viuzza laterale sembra ancora sgombra, fra i fischi
dei proiettili e le mitragliate. Guardandosi l’un l’altro dai lo­
ro rifugi improvvisati, capiscono subito che quella è, forse,
l’unica salvezza. Ci si aggrappano, e si fanno cenno a vicen­
da di provare a scattare fin là approfittando dei compagni

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che sparando a tutto spiano sui nemici copriranno loro le
spalle. Sì, loro due sono gli unici che ce la possono fare per­
ché gli altri sono troppo lontani e verrebbero di sicuro bec­
cati.
Al cenno convenuto i compagni aprono il fuoco all’im­
pazzata sulle posizioni nemiche e loro due, lui e il suo ami­
co, hanno la possibilità di scappare. Scattano veloci come
lepri e, chissà come, guadagnano incolumi l’angolo della
via. Corrono a precipizio verso il bosco. La salvezza è lì a
portata di mano e già il loro pensiero va ai compagni che
hanno lasciato nei guai, a quei ragazzi che hanno attraver­
sato l’oceano per venire a morire sotto queste zolle di terra
rossa e magnifica, fra queste colline dove non torneranno
mai un giorno in visita con le loro mogli e i loro bambini.
Adesso non resta che correre a chiamare i rinforzi: forse,
se saranno veloci e gli altri riusciranno a non farsi snidare ce
la faranno, e tutto finirà bene.
Corrono accaldati verso la salvezza, fra l’odore di macerie
e di biancospino, quando... una raffica di colpi giunta da
chissà dove li raggiunge entrambi. Lui sbarra gli occhi incre­
dulo, quasi non fa in tempo a pensare a lei, a immaginarsi il
suo viso ancora una volta, che la coscienza si spegne e un ri­
gurgito di sangue risale dallo stomaco uscendo dalla sua
bocca. La testa affondata nei ciuffi d’erba polverosa del bor­
do della strada. Gli occhi azzurri come i miei sbarrati ad an­
ticipare il cielo. Un altro uomo posa il mitra ritirandosi dal
quadro della finestra di una casa diroccata, si accende una
sigaretta e guarda i corpi distesi lungo la via, ma senza gioia.
Anche lui non ha più voglia di niente.

Sì, mi dico, è così che deve essere andata. È tanta la strada


dai nostri posti al confine. Sono tante le occasioni di morire;
è stupido sperare. E mi tornano in mente le distese di croci
bianche del cimitero che ogni anno per i Santi andiamo a vi­

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sitare io e mia madre. A ogni croce corrisponde la foto di un
ragazzo in uniforme, un guantone da baseball, qualche gio­
cattolo, conservati come reliquie nella casa di due anziani o
nella valigia segreta di una donna che ha smesso di sperare e
alla fine si è rifatta una vita e una famiglia con qualcun al­
tro. « Un fiore per ogni tomba » mi dice mia madre passan­
domi i papaveri rossi che abbiamo raccolto uno a uno. « An­
che se lui tornerà, me lo sento che è vivo e che tornerà ».

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II

Oltre la finestra grigio cenere, oltre le orecchie brunite del-


le lepri, oltre le nuvole basse del pomeriggio, sul filo della
collina, in bilico fra cielo e terra, c’era lei. Nera e bassa co-
me una vecchia matrona, la casa dormiva di sbieco sul
pendio e tagliava il passo alle altre case che, un chilometro
più in là, assorellate dalle loro facciate chiare e immacola-
te, disegnavano la via buona ed erano ancora paese.
Disteso sulla collina, con un filo di fieno fra i denti,
guardavo in lontananza la tana nera in cui vivevo e pensa-
vo che quella specie di capanna era come me, come noi, e
che, nonostante gli sforzi della mamma e di Nandina per
metterla a posto e darle un aspetto decente, sarebbe sem-
pre rimasta uno stupido fienile bruciacchiato sul limitare
del paese e non una casa vera.
« Tu, Dario, che cosa ne dici? » domandai, e poi mi roto-
lai nell’erba e spostandomi di fianco risposi:
« Hai ragione, Ciro. Hai proprio ragione: è una tana di
volpe, mica una casa! »
Mi piaceva parlare con mio fratello perché lui ero io e io
dovevo essere un po’ anche per lui dato che era morto di
polmonite ad appena tre anni ed era il mio gemello.
Io non ero mai solo, c’era sempre Dario con me e a me
toccava di vivere per due come a lui era toccato di morire
per entrambi.
A volte pensavo che il più fortunato fra noi fosse lui, ma
poi riflettendoci bene capivo che era lo stesso, visto che
eravamo gemelli. Eravamo uguali. Dunque poteva benissi-

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mo darsi che io fossi morto e Dario vivesse anche per me.
Infatti, riflettevo, se prendi due sassi uguali e li rigiri fra le
mani a occhi chiusi gettandone infine uno nel fiume, non
potrai mai sapere quale dei due hai gettato e quale tieni
ancora in mano. I due sassi in realtà sono una cosa sola,
divisa fra le tue mani e il fiume: fra la terra e il cielo.
Anche il marmista del paese si era sbagliato e quando
mia madre gli aveva portato l’unica nostra foto insieme
perché ci tagliasse via Dario e lo mettesse sulla piccola la-
pide di marmo bianco, aveva detto: « Sì, sì, non si preoccu-
pi, signora, che ci penso io ».
E ci aveva pensato. Così adesso era il mio volto che si
trovava sulla lapide del cimitero e quello di Dario ci era
stato reso con accanto l’ellisse vuota, il buco del fratello
mancante.
Questa storia della foto sbagliata l’ho scoperta anni do-
po. Non posso certo ricordarla dal momento che avevo so-
lo tre anni; ma la vecchia Nandina, la padrona della casa
in cui viviamo e l’unica che ci voglia veramente bene fra
tutti, mi ha raccontato tutta la scena e di quanto si era ar-
rabbiata la mamma.
« Roba da matti! Mettere un vivo sulla tomba di un mor-
to! »
Aveva urlato e sbraitato finché il tipo con gli occhi da
pesce lesso e la faccia annoiata non le aveva detto: « Signo-
ra, ma cosa vuole che sia? I gemelli sono uguali, l’uno vale
l’altro. Piuttosto: è proprio sicura che non si sia sbagliata
lei, invece? »
Per cambiare la foto secondo il tizio sarebbero occorsi
altri soldi. Soldi che non avevamo dal momento che per il
piccolo funerale mamma si era indebitata fino al collo e
quel bastardo di mio nonno aveva fatto finta di nulla.
Così, sotto la logica incalzante del marmista, anche lei
aveva lasciato perdere. Solo si era voltata verso di me se-

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ria, e ravversandosi un ciuffo di capelli neri dietro l’orec-
chio si era chinata e mi aveva abbracciato forte. Alla fine,
esausta, rivolgendosi a Nandina che l’accompagnava, ave-
va concluso: « Forse ha ragione lui. Ma sì, forse è davvero
la foto di Dario. Del resto, erano due gocce d’acqua! »
Nonostante ciò, minacciosa, guardandomi dritta negli
occhi, mi aveva intimato: « Tu, comunque sia, vedi di non
morire che altrimenti ti riempio di botte. Avanti, promet-
ti! »
Avevo solo tredici anni ma lo ricordo come fosse oggi.
Quel giorno sulla collina tirai fuori una piccola mela selva-
tica dalla tasca e iniziai a mangiarla. Era aspra e profuma-
ta: un morso per me con la mano sinistra e uno per Dario
con la mano destra. Io e Dario eravamo una cosa sola e ci
mangiavamo la nostra mela, quando sentimmo urlare in
lontananza: « Ciroooo! Ciroooo! »
Era la voce della mamma che ci arrivava appena dalla
casa sulla collina. Non so perché, ma ripensandoci negli
anni a venire, si è rafforzata in me la convinzione che tutto
sia iniziato con quel grido. Ci alzammo e prendemmo a
correre attraverso il campo di fieno segato e secco, ispido
come il manto di una gigantesca bestia addormentata.
Tutta la collina era un animale addormentato e bisognava
far presto per non fare inquietare la mamma e per non sve-
gliarlo.

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III

« Ciroooo! Ciroooo! »
Ciro è un nome del Sud e mia mamma me lo aveva mes-
so perché mio padre, che prima di passare di qui era stato
a Napoli, chiamava tutti i ragazzi così. Forse pensava che
Ciro volesse dire ragazzo. Poco importa, tanto mamma era
l’unica che mi chiamava così, per tutti gli altri io ero l’ame-
ricano, o, peggio ancora, il bastardo di Mara, la figlia di Si-
garo.
In tutto il paese io e mio fratello eravamo gli unici ad
avere i capelli d’un biondo quasi bianco, gli occhi chiaris-
simi e tante, tante lentiggini. Così quando passavamo, cioè
quando passavo io che ero anche un po’ Dario, non potevi
non accorgerti di noi e non pensare che, se non eravamo
turisti stranieri, di certo c’era sotto qualcosa.
Quando arrivai la mamma era arrabbiata e stanca mor-
ta perché con il ciuco malato aveva dovuto spingere da so-
la la carriola con le lenzuola bagnate dal fiume fino a casa;
con il rischio che si rovesciassero per terra e tutto il lavoro
della mattina andasse in fumo.
« Ciro! Dove ti eri ficcato? Avevi detto che mi avresti aiu-
tato! »
Scrollai le spalle, come sempre irascibile, e di malavo-
glia le presi dalle mani la carriola e continuai a spingerla
nell’ultimo tratto di salita. Avrei voluto dirle che era colpa
di Dario, ma lei non voleva assolutamente che rammentas-
si mio fratello e, se lo facevo, andava su tutte le furie: « Tuo

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fratello è morto! È già abbastanza doloroso senza che tu
faccia finta che non sia così! »
Le avevo spiegato il mio ragionamento, ci aveva provato
anche Dario, ma lei non voleva saperne e seguitava a scuo-
tere la testa e a minacciare di farmi chiudere in manico-
mio se non la smettevo.
« Prendi Bigio e portalo da Angelino. Digli che sta male
e non vuol più mangiare. Digli che lo guarisca perché se
muore siamo rovinati! »
« Non mi va di andarci, lo sai! » protestai rabbioso.
« Non fare storie. Vai, sii gentile e spiegagli la questione.
Altrimenti quando torna tuo padre te la vedi con lui. Io de-
vo andare a lavare la Signora ».
Mamma aveva trentatré anni ed era bellissima, la ragaz-
za più bella del paese. Ci aveva messi al mondo tredici an-
ni prima, nove mesi dopo il passaggio del fronte. Io non le
somigliavo per niente. Io somigliavo a mio padre che lei
aveva conosciuto e sposato in quei giorni. Un soldato ame-
ricano che non avevo mai visto e che per quel che ne sape-
vo poteva essere morto pochi chilometri più avanti in quel-
la maledetta guerra. Nonostante ciò la mamma non aveva
voluto risposarsi con nessuno e continuava a parlare di lui
come se fosse andato in paese a comperare le sigarette e
stesse per tornare da un momento al­l’al­tro.
Quattro matti eravamo, io e mio fratello mezzi morti e
mezzi vivi, il mio padre inesistente e lei lì che lo aspettava
certa che ritornasse, vivendo in una casaccia nera situata
sul profilo curvo dell’orizzonte. A pensarci mi ci arrabbia-
vo e, come se non bastasse, da un po’ di tempo io e Dario
avevamo sempre fame e sul nostro costato segaligno aveva
iniziato a crescere qualche pelo biondo, lungo e finissimo.

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IV

Se Dario fosse stato ancora vivo come si deve avrei detto a


mia madre di mandarci lui da Angelino. Ma così era gioco-
forza che ci andassimo insieme. Bigio era troppo impor-
tante per noi e se avessimo atteso ancora non ce l’avrebbe
più fatta a camminare fino da quella specie di ‘strego’.
« Fallo camminare piano, non gli salire in groppa e non
lo picchiare. Se si ferma usa la gentilezza » mi aveva racco-
mandato mamma.
Ma io allora la gentilezza non la conoscevo, mentre la
rabbia, l’odio e la voglia di vendicarmi mi facevano com-
pagnia per tutto il giorno e facevano sì che, insieme con
Dario che cercava inutilmente di farmi ragionare, me la
prendessi con chi non c’entrava nulla: un vecchio rospo,
qualche nido, i vetri di una casa di paese, la tana di un tas-
so, o uno dei ragazzi della piazza.
Quei porci, capeggiati da Saverio, il figlio del ciabattino,
ci davano la caccia prendendoci a sassate e gridandomi
bastardo quando erano tutti insieme; ma piangevano co-
me bambine quando ne beccavo qualcuno da solo fuori
dal paese e gliela facevo pagare facendomi leccare le scar-
pe e prendendolo a pugni se si rifiutava.
Non conoscevo la gentilezza, e nemmeno la paura cre-
devo di conoscere, dal momento che la rabbia è un gatto
selvatico più forte della paura e se la mangia in un bocco-
ne, come un uccello di nido.
Eppure da Angelino non ci andavo volentieri perché, a
dispetto del nome, mi metteva male. Mentre scendevo giù

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per la mulattiera, fra le macchie di rovi in fiore e il profu-
mo delle acacie e del sambuco che si fletteva sui tonfi del
torrente preparandosi da lì a qualche mese a pasturare i
cavedani esplodendo in un tripudio di bacche nere, pensa-
vo a tutte le storie che si raccontavano su di lui: a quelle
che raccontava Nandina sulla sua bravura da curatore e a
quelle, ben peggiori, che avevo sentito in paese.
È uno strego, diceva la gente. Altrimenti perché se ne
sta sempre da solo con quelle bestie? Che se ne fa di tutti
quei libri scritti in lingue incomprensibili? E soprattutto
perché veste di nero e non si toglie mai quello strano cap-
pello a bombetta? Nemmeno in chiesa se lo toglie!
La peggiore di tutte era l’Acrimene che, quando le don-
ne erano in cerchio a cucire sotto l’ombra dei terrazzi della
via, raccontava di come le notti di luna piena l’avessero vi-
sto ballare nell’aia di casa con le sue capre e accopparsi
con loro. Diceva proprio così: accopparsi, per dar vita a de-
moni cornuti metà uomo e metà bestia. Forse non c’era da
crederle perché era la stessa che si chinava a confabulare
alle nostre spalle quando passavo con la mamma e Bigio
per distribuire i pacchi delle lenzuola lavate ai signori del
paese e allo scrittore. Quelle megere parlavano di noi sus-
surrando e scuotevano la testa in senso di disapprovazio-
ne. Una volta, al nostro passaggio nella via principale, in-
sieme al battito della macchina da scrivere dello scrittore,
l’avevo sentita pronunciare chiaramente, sottovoce, la pa-
rola donnaccia.
Non so se mamma l’aveva sentita, io avrò avuto sì e no
undici anni e per diversi pomeriggi nei giorni a venire, col-
mo d’odio e di bile, mi affacciai all’angolo della via fino a
che un giorno, in un’ora in cui cuciva da sola, non la vidi
rientrare in casa e ritirare dentro al portone socchiuso il
grande tombolo finemente ricamato e la piccola sedia.
Veloce come una faina avevo traversato la via e mi ero

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infilato nel portone. Al fresco, nell’andito ombroso, svelto
avevo sfilato a manciate gli spilli dal tombolo vedendo i
fiori del ricamo decomporsi e poi mi ero calato i pantaloni
e avevo fatto pipì sul groviglio di fili, sul tombolo e dentro
il sacchetto con il rocchetto di cotone. Ahh! Beatitudine!
Non la reggevo più. Mi ero bevuto apposta un intero litro
d’acqua e avevo mangiato degli asparagi di bosco crudi
perché puzzasse come si deve. Avreste dovuto vedermi,
mentre con il sorriso beato davo libero sfogo al mio risen-
timento. Non avevo ancora terminato l’opera quando sen-
tii il rumore di una serratura sul pianerottolo del primo
piano. Di corsa uscii, traversai furtivamente la strada e ri-
guadagnai l’angolo del palazzo.
Anche quella volta dal­l’ap­par­ta­men­to dello scrittore
giungeva il rumore della macchina da scrivere che sem-
brava impazzita e si diffondeva nella via cadendo sulle no-
stre teste. Quando sentii urlare mi sporsi appena a spiare
la scena. Nel mezzo della strada deserta la lunga e lugubre
sagoma grigia della donna piangeva e imprecava volgendo
gli occhi al cielo. Poi, come per istinto, corse verso la mia
direzione e io e Dario ce la filammo a gambe appena in
tempo. La sentimmo che ci urlava da lontano: « Bastardo!
Ti ho riconosciuto sai? Sei il bastardo di quella donnac-
cia! »
Non m’importava. Anzi, c’è ancora più soddisfazione a
vendicarsi quando l’altro lo sa e risi, risi di gusto mentre
correvo per la strada. Nella testa rivedevo il fiore ricamato
disfarsi come il filo delle sue calunnie e gioivo. Gettando-
mi sul ciglio erboso della strada risi fino alle lacrime e
poi, di colpo... iniziai a piangere. Così, senza motivo, per
il solo fatto che tutti i dispetti del mondo non avrebbero
potuto far tornare mio padre e che fino ad allora io rima-
nevo pur sempre un bastardo e mia madre una donna
senza marito. Piansi perché aveva ragione, e come aveva

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ragione con me poteva avercela con Angelino. Ed è per
questo che non mi piaceva andarci. Per il timore di ritro-
varmi metà uomo e metà asino, metà Ciro e metà Bigio.
Ero già due fratelli in uno e questo poteva bastarmi.

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V

Angelino abitava nel borro degli Amaioni, che non ho mai


capito che cosa fossero, ma che allora immaginavo essere
i demoni che di certo lo abitavano. Per giungervi bisogna-
va lasciarsi alle spalle il paese, il lago e le colline tappezza-
te dai campi e salire su per il bosco sul crinale del monte,
per poi ridiscendere in una piccola gola dalla parte oppo-
sta. Un posto davvero popolato da demoni e dalle paure
degli uomini. Dicevano che ad andarci di notte ti potevi
imbattere nel Giamba, un dannato che era vissuto da quel-
le parti più di un secolo fa e secondo la leggenda si era fat-
to seppellire lì, nel punto più profondo del bosco, per non
udire le campane delle chiese dei paesi vicini. In molti era-
no pronti a giurare di averlo visto vagare nelle notti di luna
piena con la sua casacca di bottoni d’oro, che rilucevano
come tanti occhi.
Allora dovevi urlare per salvarti: ‘Giamba! Tirami la
gamba, tiramela bene fino a che non viene!’
Non sapevo che pensare, ma una cosa era certa: anche
di giorno avrei preferito girarci al largo.
Per arrivare da Angelino bisognava discendere un sen-
tiero stretto e sassoso che sporgendosi su alti dirupi sta-
gnava nell’ombra quasi totale di grandi castagni. Era per
colpa di quel sentiero che Tullio e Pasquale se n’erano do-
vuti andare a lavorare da parenti, uno in Francia e l’altro
in Svezia. Le cose erano andate così: poveri contadini sen-
za lavoro, si erano indebitati per comperare due muli e
con questi trasportavano la legna sperando di ripagarli

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piano piano e di dare da mangiare alle famiglie. Un giorno
però uno dei muli carico di legna era scivolato proprio lì
tirandosi dietro l’altro al quale, per colmo di sfortuna, l’a-
vevano legato con la cavezza. Per poco non c’erano finiti
anche loro.
Il peggio però arrivava nel punto più basso del bosco. A
metà del tragitto si giungeva a un ponte di corde e legno
che attraversava un orrido profondo e roccioso sul fondo
del quale scorreva un torrente come una riga d’argento.
Ho detto che allora non avevo paura di niente ma non è ve-
ro: di quel ponte traballante e mezzo marcio avevo paura
eccome. Quando camminandoci sopra lo sentivo oscillare
sulle corde e cigolare mi venivano i brividi, la testa mi gi-
rava e mi si stringeva il culo. Se poi facevo tanto di guarda-
re giù mi sentivo perduto e un sudore freddo mi inumidiva
la schiena. Allora mi dicevo che non ero io ad aver paura e
davo la colpa a Dario litigando con lui fra me e me. Era co-
me se avessi lasciato a lui la parte buona e debole di me
stesso e io mi ostinassi a non voler provare nulla di tutto
ciò. Eppure, proprio per questa vertigine che provavo e per
questa grande paura che mi immobilizzava, non facevo
che arrampicarmi sugli alberi e sui muri nel desiderio di
mettermi alla prova. Mi dava così fastidio aver paura del­
l’al­tez­za, di qualcosa, che, anziché fuggire le situazioni dif-
ficili, mi ci infilavo con ostinazione, me le andavo a cerca-
re. Vecchi muri da capperi, alberi con nidi d’uccello, tutto
andava bene per dimostrare a me stesso che non avevo
paura, ma quel ponte era davvero troppo e se potevo lo evi-
tavo come la peste. Alla fine avevo imparato ad affrontare
alcuni ostacoli quotidiani, come l’albero per uscire e rien-
trare dalla finestra di camera mia, ma a tratti, solo a tratti,
Dario prendeva il sopravvento e la paura mi attanagliava
lo stomaco facendomi girare la testa. Oltre il ponte poi, co-
me se non bastasse, quasi nascosta in un boschetto di

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querce, c’era l’omonima ‘Chiesa degli Amaioni’, come la
chiamava la gente del posto. Era una chiesa di pietra ab-
bandonata ma ampia e imponente pur nella pochezza del-
le sue dimensioni. Il tetto sfondato e le volte diroccate era-
no grandi artigli neri e rattrappiti che si stagliavano contro
il cielo. Un tempo doveva averci vissuto un eremita, ma
adesso, sconsacrata e malandata com’era, era divenuta
davvero un luogo del demonio. Anche di giorno, dal lugu-
bre campanile contornato da bianchi faggi secchi simili a
preistoriche colossali zampe d’uccello proveniva un la-
mento sofferto e incessante che solo a un orecchio più at-
tento si rivelava come il tubare dei piccioni che rimbom-
bava dentro alla cassa del campanile. Sulle pareti interne
rimaste in piedi di recente erano state tracciate delle scrit-
te e dei numeri con il carbone e sull’altare di pietra massic-
cia c’erano macchie di sangue secco o di vernice scura.
Nandina diceva che ci avevano trovato teste di gallo nero e
teschi umani trafugati dai sepolcri che, celati da una boto-
la, si trovavano al di sotto del suo pavimento. Segno, que­
st’ul­ti­mo, che lì aveva preso ad andarci qualcuno, forse lo
stesso Angelino, a adorare il demonio e a compiere sacrifi-
ci in suo nome. Allertati, anche i carabinieri ci avevano fat-
to un giro, avevano preso atto delle scritte e di tutto il resto
e se ne erano andati per non tornare mai più.
Io, per me, anche prima che vi comparissero quei segni
inquietanti l’avevo vista sempre di sfuggita, allungando il
passo e lanciandole rapide occhiate dal sentiero. Insom-
ma, mi ci ero sempre tenuto alla larga e l’avrei fatto anche
quel giorno se non fosse stato per l’ordine di mia madre.
Bigio camminava piano e non stava bene, aveva il pelo
brutto e gli occhi lucidi come una bolla di sapone nera. Per
il sentiero procedeva a fatica e sudava schiumando saliva
dalla bocca. Ogni tanto pestava qualche pietra e si scuote-

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va tutto e più di una volta rischiò di cadere anche lui nel
dirupo.
C’erano dei punti alti qualche decina di metri. Quando
ci arrivavamo lasciavo il canapo con il quale lo guidavo e
mi addossavo alla parete, camminando di lato, senza guar-
dare giù, sperando in cuor mio che lui non inciampasse
proprio lì. Se così fosse andata, a poco mi sarebbe servito
tenere la cavezza in mano, se non a finire nel dirupo insie-
me a lui. Alla fine giungemmo al ponte e sentii che i mu-
scoli delle gambe mi si erano induriti come sassi e trema-
vano per la tensione. Era l’ultimo ostacolo e bisognava af-
frontarlo.
Il peggio era che qualche asse mancava, e nell’allungare
il passo per posare il piede su quella dopo non si poteva fa-
re a meno di guardare giù. Più di una volta mi era capitato
di rimanere impietrito con le mani sulle corde e di sudare
freddo non riuscendo a procedere per la paura e non sa-
pendo più tornare indietro. Poi avevo capito che il trucco
stava nel tenersi alle corde, guardare in alto e solo con la
coda dell’occhio alle assi per non mancarle, procedendo
spediti e contando fino a trenta.
Trenta passi tutti d’un fiato per poi lasciarsi cadere tre-
manti sull’erba del costone opposto con il cuore che batte-
va all’impazzata. Adesso che dovevo guidare Bigio però
non potevo farmela tutta d’un fiato contando fino a trenta
e avrei dovuto aiutarlo procedendo al­l’in­die­tro e guidan-
dolo passo passo.
Bigio dovette sentire la mia paura, perché quando pro-
vai a tirarlo sulla passerella si impuntò e non volle saperne
di muoversi. Lo spinsi, lo tirai e poi, esasperato, persi la te-
sta, stroncai un ramo da un castagno e presi a percuoterlo
senza pietà per farlo avanzare.
Dario mi supplicava di smettere, di rammentare le rac-
comandazioni di mamma e piangeva, ma io sentivo la rab-

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bia e la paura crescere dentro di me e non trovavo niente
di meglio che prendermela con quel somaro figlio di ca-
gna.
Bigio prese a ragliare disperatamente e i suoi lamenti
rimbombarono nella gola dell’orrido come un fosco presa-
gio. Con le poche forze scalciò al­l’in­die­tro e per poco non
mi colpì.
« Cretino d’un mulo! Io ti ci butto in questo burrone se
non ti muovi! » gli urlai esasperato e presi a percuoterlo
ancora più forte.
« Non fare così, lascialo stare! È malato! »
La voce di Dario era solo un remoto brusio dentro la
mia testa. Fu a questo punto che successe: dal folto del bo-
sco si fece avanti un uomo con la camicia scura e venne
verso di me zoppicando.
Prima che potessi rendermene conto mi strappò la maz-
za di mano e la gettò nella gola.
Mi voltai in preda all’affanno e lo guardai fisso negli oc-
chi. La bocca mi tremava dalla rabbia. Vide le lacrime di
Dario sul mio volto e rimase interdetto.
Mi venne voglia di dargli una spinta e di scappare per la
vergogna di essere stato sorpreso in quella situazione, ma
l’uomo fece qualcosa che non mi aspettavo, che nessuno
aveva mai fatto con me: mi porse la mano e pronunciò il
suo nome. « Mi chiamo Salem » disse con uno strano ac-
cento.
Asciugando gli occhi di Dario con le maniche della ca-
micia, lo guardai meglio e mi accorsi subito che era uno
zingaro.
Quella mano tesa, possente e abbronzata, da uomo, era
ancora nell’aria e attendeva di essere stretta. Avrà avuto
trent’anni: il volto ben rasato dalla mascella larga come
una bozza di pane, un orecchino d’oro al lobo sinistro e un

25
foulard verde, legato alla maniera dei pirati intorno alla te-
sta.
Allungai la mia mano e quella di Dario verso la sua e la
strinsi forte ricevendone in cambio una stretta ancora più
salda:
« Ciro! » dissi. « E... »
« E...? » mi domandò.
Giudicai non fosse il caso di dirgli di Dario e così dissi:
« E questo è il mio ciuco! »
« Che ti ha fatto per trattarlo così, Ciro? » mi domandò
con un tono autoritario. E disse proprio ‘Ciro’, non disse
‘ragazzo’, pronunciò il mio nome.
« È malato e non vuol passare il ponte » mormorai.
« Pensi di farglielo passare con le botte? » mi domandò
calmo scrutandomi con quegli occhi verdi e lontani, che
quasi sprofondavano dentro la sua testa: lucertole nasco-
ste dentro la tana dei suoi pensieri.
« No » dissi. « Solo che mi ha fatto perdere la pazienza ».
« Lo vedi come trema? Ha la febbre. Lascialo tranquillo
che adesso è inutile insistere. Semmai ti andrebbe un caf-
fè? »
« Un caffè? » domandai stupito e notai che i suoi occhi
verdi erano chiazzati d’azzurro e di castano.
« Seguimi » mi ordinò e prima che potessi rispondere si
avviò zoppicando verso il bosco.

26
VI

Camminavo dietro di lui e pensavo che quel tipo aveva


qualcosa che non mi andava. Quegli occhi, forse, o quella
bocca, umida e gonfia, come quella di una donna. C’era in
lui qualcosa di volgare, ma dietro i suoi occhi ardeva an-
che quella che mi parve da subito la fiamma di un’intelli-
genza fuori dal comune. Forse era solo il fatto che fosse
uno zingaro a farmi dubitare di lui. Magari era un ladro,
magari nel bosco mi avrebbe aggredito per derubarmi. Lo
sanno tutti come sono gli zingari. Ma poi riflettei che non
avevo nulla di nulla con me, solo dei vecchi vestiti e un ciu-
co malato e mi detti una calmata. In fondo era stato genti-
le e mi aveva stretto la mano, come si fa fra uomini. Come
al solito era Dario il sospettoso, era lui che dentro di me
continuava a ripetermi di fare attenzione.
Mi tornarono in mente le parole di mia madre, pronun-
ciate tanti anni prima. « Promettimi di fare attenzione,
promettimi di non morire! » e mi vidi disteso sull’erba con
la gola squarciata e la camicia impregnata di sangue.
Nascosto da un boschetto di noccioli, in una piccola ra-
dura, c’era il suo bivacco e un piccolo fuoco acceso contor-
nato da pietre. La brezza agitava i rami facendo risuonare
le foglie verdi e fitte come tante monete e l’aria profumava
di more per via dei rovi che si alzavano su un lato del pic-
colo spiazzo. Vicino al suo zaino giacevano un fascio di
ombrelli nuovi di zecca legati insieme e uno strano basto-
ne: una specie di tozza gruccia che aveva intagliata sulla
sommità del manico la testa di un cane nero. Come se mi

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avesse letto nel pensiero mi disse sarcastico: « Siediti, Ciro,
non aver paura, non ti taglierò la gola ».
« Non ho paura di niente! » dissi scontroso, e mi resi
conto di essere contento che pronunciasse il mio nome.
Solo mia madre, Nandina e don Caldine, il prete che mi fa-
ceva scuola quando mi avevano cacciato dalla pubblica,
mi chiamavano per nome.
« Bravo. Fai bene a non aver paura. Mi sembri un tipo in
gamba. Prendiamoci un caffè come due vecchi amici » mi
propose, sorridendomi con l’aria di chi la sa lunga.
Soffiò ad arte sulla brace per farla arrossare, e ci mise
sopra una tazza di smalto tutta sbeccata dopo averla riem-
pita con del­l’ac­qua versandocela da una borraccia.
« Perché devi portare quel ciuco di là dal ponte? »
« Da Angelino » spiegai. « Lui saprà curarlo come si deve
perché è uno strego ».
Annuì con la testa mostrando di aver capito e non chie-
se altro. Ne fui contento perché detestavo i curiosi. Poi si
frugò in tasca e cominciò a prepararsi una sigaretta. Con
quattro gesti e una leccata completò l’opera e la batté due
o tre volte sulla coscia prima di accenderla. Si lasciò anda-
re sull’erba e immerse i suoi occhi verde-gatto nell’azzurro
accecante del cielo di quella mattina. Sentii il profumo
dolciastro del tabacco sotto il mio naso e vidi la sua mano
scura che mi porgeva la cicca. La presi con la punta delle
dita e portandomela alle labbra aspirai cominciando subi-
to a tossire come un cavallo.
« Piano » m’istruì. « Devi far piano ».
Divenni rosso per la brutta figura e sentii Dario che ri-
deva dentro di me. Era la prima volta che provavo a fuma-
re una sigaretta vera e non dei pezzi di clematide. Ma l’uo-
mo non rise e non mi prese in giro. Riprese la sigaretta
dalle mie mani e mi fece vedere come dovevo fare. Io lo
imitai sforzandomi di non tossire. Poi mi lasciai cadere

28
an­ch’io al­l’in­die­tro con la testa che mi girava e affondai a
mia volta gli occhi nel cielo. Mi sentivo la gola arsa e piena
di sapore, mi sentivo un uomo. Due passeri si rincorreva-
no garruli da una fronda al­l’al­tra di un giovane nocciolo
giocando come due innamorati.
« Vuoi provare anche tu, Dario? » mi venne da dire. E
quando lo sentii rispondermi di sì, diedi un’altra tirata.
Salem mi scrutò e senza mostrare alcuna sorpresa mi
chiese con chi stessi parlando. « Anche al ponte sembravi
uno che litigava con se stesso: non lo picchiare! E intanto
giù mazzate su quel povero somaro ».
L’orzo era pronto, tiepido e profumato, bevemmo a tur-
no dalla tazza e l’uomo continuò a guardarmi attendendo
una risposta.
Lo guardai fisso negli occhi e tesi la mano:
« Piacere, Dario! Sono il fratello di Ciro ».
Salem mi guardò a lungo per accertarsi che non lo stes-
si prendendo in giro. Quando capì che non scherzavo si fe-
ce serio e i suoi occhi si velarono di tristezza come se aves-
se saputo tutta la storia.
« Piacere, io sono Salem » ripeté, come aveva fatto con
me la prima volta e senza fare domande si alzò e si mise a
cercare in giro con il suo passo claudicante. Estrasse un
coltello a scatto dalla tasca, sussultai senza darlo a vedere,
ma lui non ci badò e dandomi le spalle si chinò, l’aprì fa-
cendolo scattare e tagliò via un grosso ramo di scopa pren-
dendo a spazzare con quello il terreno per cancellare le sue
impronte.
« Distruggi quel fuoco e disperdi la cenere. Ce ne andia-
mo » mi disse rimettendosi in tasca il serramanico.
Obbedii, ma, mentre calciavo i sassi caldi d’intorno,
non potei fare a meno di pensare che cancellasse le im-
pronte perché era un assassino o un evaso ricercato e brac-
cato dalla polizia.

29
« Stai scappando? C’è qualcuno che ti cerca? » doman-
dai.
Girato di spalle, continuando a cancellare le impronte
mi rispose. « Sono un rom, uno zingaro... e uno zingaro
deve sempre guardarsi le spalle. Uno zingaro sta sempre
scappando. La vita ci ha insegnato che è meglio non la-
sciar tracce ».
Poi si avvicinò d’improvviso, mi tese la mano e agitando
forte la mia in una stretta terribile disse: « Piacere Vadim!
Piacere Olga! Piacere Suduslav, Aronne, Janus, Cefka,
Sunta, Rubina... »
E così dicendo mi scosse sempre più forte il braccio,
finché non lo mollò con la rabbia di chi rinunci a compiere
un’impresa più grande di lui. Come se quella sfilza di nomi
avesse avuto un inizio ma non potesse avere una fine.
I suoi occhi pieni di ardore si accesero infine di una luce
disperata, di un bagliore che scintillava al di là di un velo
lucido: qualcosa di simile a una lacrima e tutt’altro da
quella allo stesso tempo. Mi chiesi se non fossero tutti suoi
fratelli e sorelle, se davvero un uomo solo potesse vivere
per tutta quella gente, ma mi guardai bene dal fare do-
mande.

Quando arrivai da Angelino con Bigio ero ancora incredu-


lo per quanto avevo visto fare a Salem. Prima l’aveva ca-
rezzato a lungo sul muso sussurrandogli nelle orecchie
frasi sdolcinate come se fosse stato la sua innamorata, poi
si era tolto il foulard rivelando dei capelli ricci e fitti che
sui lati erano già brizzolati e glielo aveva legato intorno
agli occhi in modo che lui non potesse vedere dove anda-
va. Infine l’aveva anche baciato sul muso mostrando una
commozione che mi era sembrata teatrale e fuori luogo.
« Gli animali » mi aveva detto. « È su di loro e sui bambi-

30
ni, sui deboli, che si misura la nostra umanità » e aveva
sorriso in un modo che non m’era piaciuto.
Poi, sempre parlandogli con dolcezza l’aveva guidato
sulla passerella e io ero rimasto immobile a guardarli on-
deggiare sul fragile viluppo di assi mezze marce e di corde.
Lo vidi tirarsi dietro zoppicando la sua gamba rigida e per
la prima volta sospettai fosse fatta di legno. Tenendosi con
una mano alla corda del ponticello, Salem si era tirato die-
tro Bigio senza incontrare resistenze; in prossimità del
tratto con le due assi mancanti gli aveva tolto la benda e,
carezzandolo, l’aveva aiutato a non mettere i piedi nel pic-
colo spiazzo vuoto. Da un momento al­l’al­tro mi ero imma-
ginato di vederli precipitare nell’orrido, invece ce l’avevano
fatta.
Quando era stato il mio turno di passare, con Dario che
se la faceva sotto, l’avevo fatto come sempre a passo spedi-
to, tutto d’un fiato, vergognandomi della sua paura e guar-
dando in alto.
Salem mi aveva detto di tenermi il fazzoletto dal mo-
mento che al ritorno mi sarebbe servito per fare lo stesso.
« Credi di esserne capace? »
« Ma come faccio a ridartelo? » avevo obiettato, certo
com’ero che non l’avrei mai più rivisto. Senza nemmeno
pensare che al ritorno, a costo di metterci ore, avrei di cer-
to fatto la strada più lunga salendo in groppa al ciuco gua-
rito.
« Non preoccuparti. Il mondo è piccolo. Ci sarà occasio-
ne. Tu portalo sempre con te ».
« Grazie » avevo mormorato, poco convinto.
« Hai visto come si fa? Devi prenderlo con le buone. Gli
animali sono come le donne e i bambini. Si ottiene più con
la dolcezza che con la forza. Devi imparare a controllare la
tua rabbia. Ne hai così tanta che basterebbe per una man-

31
dria di bufali. La prossima volta che ci vedremo, se ti va,
mi dirai dove la trovi tutta questa rabbia ».
Mi ero adombrato. Come si permetteva?
« Va be’. Ci vediamo, Dario » mi disse cogliendo il mio
disappunto e mi strinse la mano dicendomi: « Bada a tuo
fratello. Troppa rabbia è pericolosa da portare in giro ».
Mio malgrado Dario aveva detto per me: « Ci penso io! »
Ma subito io avevo tirato via la mano scappando senza sa-
lutarlo e tirandomi dietro il somaro. La sapeva troppo lun-
ga quello zingaro. Mi conosceva da pochi minuti e già par-
lava con Dario di me. Era solo uno sporco zingaro. Che se
ne andasse al diavolo. Sperai con tutto me stesso di non
vederlo mai più e mi ripromisi di gettar via quel cavolo di
foulard verde acqua alla prima occasione.

32
VII

Quando Nandina apre la persiana, nella luce abbagliante del


mattino, a volte la immagino. La camerata è ampia e lumi­
nosa e dalle grandi finestre listate di bianco entra la luce ver­
de e accecante del parco che inonda ogni cosa. I comodini e
i letti diventano candidi e sull’impiantito di marmo chiaro si
disegnano i grandi telai degli infissi e perfino la materia ac­
quosa e imperfetta dei vetri lavorati a mano.
È un luogo senza fretta e senza tempo. È così che lo im­
magino. Uno dei malati getta via le coperte e i vestiti rivelan­
do un corpo magro e ossuto da vecchio, ricoperto di peli
ispidi e grigi come quelli di un fauno. Prende a correre urlan­
do frasi inconsulte e le suore accorrono coprendosi il volto
per non essere offese dalle sue vergogne, da quell’orrore. Suo­
nano un campanello all’impazzata e intervengono enormi
infermieri. Lo inseguono mentre salta di letto in letto con un
ritmo da comica del cinema muto e quando lo afferrano lo
legano avvolgendolo come un baco da seta in una camicia di
forza. Il matto sputa, impreca, sbarra gli occhi, fa orribili
boccacce e si contorce come un bruco colpito da una becca­
ta d’uccello.
Lui dal letto d’angolo guarda tutta la scena e non può
trattenersi dal ridere per quella fuga surreale. Anche gli altri
pazienti ridono, non tutti però. Alcuni sembrano non accor­
gersi di nulla. Uno seguita a contare i suoi milioni immagi­
nari e si guarda intorno sospettoso; nella camerata vicina la
vecchia Mary con la sua nuvola di capelli grigi si ferma un

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istante richiamata da quelle grida e riprende instancabile a
cullare la sua bambola di pezza con amorosa tenerezza.
Ristabilitasi la calma è già ora della visita. Il dottore arri­
va seguito da due suore bianche come angeli e si ferma pa­
ziente presso ogni letto. Riflette a lungo, lisciandosi il pizzo
brizzolato. Quando il caso lo impone si toglie gli occhiali do­
rati e si preme il pollice e l’indice sugli occhi stropicciandoli
con cura. Poi rinforca gli occhiali e si può star certi che ades­
so saprà cosa dire.
« Proviamo a sospendere le iniezioni » oppure: « Aumen­
tiamo la dose di mezzo milligrammo ».
La suora più giovane prende appunti coscienziosamente.
Lui conosce la scena a memoria. La vede oramai ogni
mattina da mesi. Adesso che non ha più la fasciatura gli
sembra di stare bene e la ferita alla testa non si vede quasi
più. I capelli l’hanno sommersa. Presto giunge la domanda
consueta, proferita dalla voce affabile del dottore che tradi­
sce la sua simpatia per quel reduce meno matto degli altri.
« Allora? Come andiamo oggi? »
Seguono le stesse domande sempre uguali: « Come si
chiama? Quando è nato? Dove è nato? Il nome dei suoi ge­
nitori? » Va tutto bene, va sempre meglio, fino a che le do­
mande non si avvicinano al presente.
« Dove si è ferito alla testa? »
« Non lo so, non ricordo nulla ».
« Dove ha combattuto? Ricorda il nome del suo coman­
dante? Di uno dei suoi compagni almeno? »
« No. Non ricordo nulla. Come devo dirglielo? » risponde
lui, un po’ esasperato dalle medesime domande.
« Ha una ragazza? »
Un attimo di silenzio. Gli occhi che frugano al­l’in­die­tro
su una lavagna nera come l’inchiostro.
« Non lo so. Non lo so! Non mi ricordo nulla degli avveni­
menti recenti! »

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« Ho capito. Ho capito. Non si agiti. Cosa ha mangiato ie­
ri a pranzo? »
« Delle uova al prosciutto ».
Il dottore guarda la suora che annuisce soddisfatta.
« Chi ha realizzato l’ultimo fuori campo alla partita degli
Yankee di domenica scorsa? »
« Joe DiMaggio ».
« Bene! Molto bene. Presto la dimetteremo e potrà tornar­
sene a casa con il suo congedo ».
« Ma migliorerò, dottore? Mi tornerà in mente qualcosa
degli ultimi anni? »
« Forse... Non è escluso. Può darsi. Ma lei ricorda già mol­
te cose. Non deve disperarsi. C’è stato come un black-out
nella sua memoria. Il trauma ha cancellato un pezzo dei
suoi ricordi recenti, ma quelli più lontani, quelli che servono
all’identità non hanno subito danni. La memoria a breve sta
tornando a funzionare. Forse con il tempo ricorderà ogni co­
sa. Il cervello è un organo strano, un mistero insondabile per
certi versi ».
E poi, quasi a tradimento, il medico spara un’altra do­
manda, come per coglierlo di sorpresa e infilare al­l’im­prov­vi­
so una strada nella quale procedendo normalmente sia dive­
nuto impossibile svoltare:
« Nostalgia dell’Italia? È bella questa Italia di cui tutti fa­
voleggiano? »
« Non lo so dottore. Come devo dirglielo? Non ci sono mai
stato ».

35
VIII

Dalla sommità della strada, in quel giorno senza nubi, ol-


trepassato l’orrido e risalito un boschetto di faggi, vidi giù
nella piccola valle, seminascosta dalle fronde delle acacie,
la casa di Angelino. Era una casa colonica, ricavata mu-
rando le pietre lisce e scure del fiume e, a dispetto delle
malelingue, non aveva proprio nulla di strano. Le capre
nel recinto ruminavano con le loro facce ossute e indiffe-
renti dal­l’espres­sio­ne quasi umana; su un muretto assolato
si crogiolava, intento a leccarsi la zampa posteriore solle-
vata, un vecchio gatto bianco spelacchiato e macilento e la
sua ombra a forma d’uccello si allungava sulle pietre ro-
venti dell’aia.
Vidi Angelino nell’orto in maniche di camicia, con la
bombetta nera che gli copriva le corna da diavolo. Era la
prima volta che ci andavo da solo, senza la mamma, e mi
resi conto che io, cioè... che Dario, inspiegabilmente, quel
giorno non aveva paura di lui. Doveva essere per via della
luce. Vedere quel­l’uo­mo già anziano intento a sarchiare le
zucche, con le maniche della camicia arrotolate e tutto
quel sole... Insomma: ‘Tutte storie’ mi dissi, per farmi co-
raggio. Era tanto che non lo vedevo. Avevo avuto paura di
lui perché ero piccolo e ascoltavo i discorsi della gente. Ma
adesso avevo tredici anni: ‘Il diavolo non sarchia le zucche
e, forse, non esiste neppure e sono tutte storie...’ rimuginai
fra me per farmi coraggio.
Pensavo così scendendo con Bigio l’ultimo tratto del
viottolo e poi presi a chiamarlo come mi aveva raccoman-

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dato di fare la mamma. Un cane maculato ci venne subito
incontro iniziando ad abbaiare come un forsennato. Ange-
lino corse e lo richiamò con una voce tenue e acuta, quello
obbedì subito e tornò a distendersi indifferente all’ombra
di una tettoia di lamiere. Prima ancora che potessi aprir
bocca Angelino guardò Bigio, lo esaminò attentamente
prendendogli il muso fra le mani bianche e mi chiese da
quanto tempo stesse così male.
« Due, tre giorni » gli dissi.
Mi prese la cavezza dalle mani e lo portò all’ombra di
un melo carezzandolo con decisione.
« Ci penso io » sussurrò senza guardarmi negli occhi.
« Grazie » mormorai di malavoglia, meravigliato della
sua capacità prodigiosa di capire al volo perché ero lì e che
cosa volessi. « Quando posso tornare e quanto costerà? »
Scosse la mano nell’aria, come per mandar via un catti-
vo pensiero.
« Lo farò sapere a Nandina » disse. Quando andava in
paese si fermava qualche volta a salutare la mia vecchia.
Finalmente, dopo anni che non lo vedevo da vicino, po-
tevo guardarmelo bene, come non avevo mai fatto le poche
volte che l’avevo incrociato. Aveva il volto bianco che, im-
merso com’era nell’ombra perenne della tesa del cappello,
sembrava quasi di cera. Di più: lavato con la soda, sembra-
va quel volto senza un pelo di barba; una castagna tolta
troppo presto dal riccio e sbucciata, ecco cosa sembrava!
Gli occhi erano dello stesso nero della sua bombetta, vi-
vidi come quelli di uno scoiattolo o di un topo, ma difficili
da fissare perché non ti guardavano mai in faccia. A volte
mi ricordava un senatore romano, un busto di marmo
bianco che avevo visto una volta in un parco cittadino con
la mamma.
« Vuoi bere un po’ d’acqua? » mi domandò.
Come faceva a sapere che avevo sete? E se mi avesse

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somministrato una pozione per trasformarmi in una ca-
pra? Tuttavia decisi di rischiare, dissi di sì e mi fece acco-
modare in casa.
Mentre mi versava un bicchiere d’acqua fresca i miei
occhi si abituarono alla penombra della stanza e presero a
vagare sulle pareti tutte ricoperte di scaffali colmi di libri.
Anche sul tavolo c’erano dei libri e alcuni erano scritti in
uno strano alfabeto che non avevo mai visto. Pensai subito
a dei libri di magia e mi venne in mente una domanda alla
quale solo un mago avrebbe potuto rispondere. Ne feci
un’altra però, molto più semplice.
« Sono vostri tutti questi libri? »
Angelino annuì, guardandosi imbarazzato la punta del-
le scarpe.
« Tutti? »
« Sì » ammise cincischiandosi la punta delle dita bian-
che come neve. « Ti piacciono? »
« Di che parlano? »
Pescando in una botte con un ramaiolo riempì un altro
bicchiere e me lo porse: « Sono libri inglesi, russi e tede-
schi » mi spiegò.
« Voi conoscete l’inglese, il tedesco e tutte queste lin-
gue? »
« L’inglese lo leggo, è una bella lingua... semplice, sem-
plice. Anche il tedesco, ma è più complicato. Sai, il latino
mi aiuta, mi fecero studiare un po’ da prete da ragazzo ».
‘Da prete?’ pensai, immaginandomelo in tunica nera
con le corna rosse.
« Sapete tante cose voi, eh? » domandai sospettoso, la
cattiveria che mi saliva dentro perché improvvisamente mi
sentivo meno di quel topo bianco.
« No. Io non so quasi nulla » si schermì. « Quel poco che
so l’ho imparato dai libri. Loro, i libri, sanno quasi tutto ».

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« Siete straniero? » domandai, convinto che per sapere
le lingue bisognasse essere stranieri per forza.
« No, sono un contadino figlio di contadini, ma le storie
mi hanno stregato e ho voluto imparare un po’ di russo, di
inglese... colpa di Dostoevskij » disse, accennando impac-
ciato un timido sorriso e indicando gli scaffali.
Quel nome, ‘Dostoevskij’, e quello ‘stregato’ mi fecero
sussultare. Un nome da demone e un’ammissione di colpe-
volezza che in altri tempi, secondo quanto avevo appreso
durante gli anni di scuola da don Caldine, avrebbero potu-
to costargli la vita.
Non potevo certo perdere quell’occasione, lasciarmi
sfuggire quell’opportunità. Così sparai la mia domanda.
« Si può leggere nel futuro? » gli chiesi a bruciapelo.
Per la prima volta mi guardò di sfuggita sollevando ap-
pena la testa.
« Come, nel futuro? » mi domandò a sua volta perplesso,
riabbassandola subito.
« Come avete fatto prima indovinando perché ero qui e
la mia sete » dissi, smascherandolo e mettendolo ancora di
più a disagio.
Stavolta mi fissò un lungo istante, dilatando gli occhi in
un’espressione perplessa, quasi spaurita.
« Bigio, ad esempio: guarirà? È possibile sapere come
andrà? » domandai infervorandomi.
« È un sogno antico » rispose, di nuovo guardandosi im-
pacciato la punta delle dita candide. « Diciamo che ci sono
buone probabilità che guarisca. Io sono ottimista ».
Si stava prendendo gioco di me?
« E sapere se una persona che non si vede più da anni è
ancora viva? C’è un modo di saperlo? » gli domandai illu-
minandomi mio malgrado per quella speranza.
« Andrebbero fatte delle ricerche » disse quieto, intuen-
do forse a che cosa mi riferissi, dal momento che tutti sa-

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pevano che ero un bastardo e che mia madre aspettava il
marito americano facendosi ridere dietro da tutta la pro-
vincia.
Quella sua pacatezza, quel modo di fare timido e impac-
ciato, quella voce flebile, come se avesse avuto compassio-
ne di me, sortirono in me un’irritazione profonda che si
univa a quella appena provata con lo zingaro. La sua re-
missività risvegliava in me il carnefice che è in ognuno di
noi e avrei voluto adesso, scomparsa ogni traccia di paura,
scuoterlo afferrandolo per le braccia per obbligarlo a par-
lare. Preso dall’ansia di sapere, scoprii le carte desideran-
do che lui facesse altrettanto: « Ma con la magia. Con un
rito, una sfera di cristallo. Qualcosa del genere. Non ci può
dire se qualcuno è vivo o morto, o che cosa sta facendo? »
Attesi che si togliesse il cappello rivelando le sue corna
contorte e mi traesse a sé sghignazzando a squarciagola.
Immaginai di dovergli dare la mia anima in cambio, ed ero
quasi pronto a farlo pur di sapere. Invece mi guardò sba-
lordito e rattristato piegando la testa abbassata di lato. Co-
me impaurito dalle mie parole balbettò: « No! Io no ».
« Non può o non vuole? » domandai ancora minaccioso,
sentendo il nervoso montarmi alla testa.
« Non posso » ammise, sussurrando appena, con la testa
bassa e le mani che si tormentavano l’un l’altra animate da
scatti nervosi.
« Ma allora a che servono tutti questi libri? » dissi alzan-
do la voce deluso. « A niente di niente! » seguitai esaspera-
to. « A che serve sapere tutto se poi non si può sapere quel-
lo che più ci preme! Tanto varrebbe bruciarli » conclusi,
ben comprendendo che l’idea lo inorridiva, che quei libri
erano tutta la sua vita; quasi avessi voluto punirlo per la
sua impotenza e allo stesso tempo provocarlo per farlo
uscire allo scoperto, per fargli dire la verità.
« Sono storie. Le storie non servono a nulla e servono a

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tutto » mi rispose in un sussurro, la testa sempre china co-
me un bambino che si senta in colpa. « Adesso devo curare
Bigio, arrivederci » tagliò corto, e scappò via lasciandomi
solo nella cucina.
Mi resi conto di averlo offeso con i miei modi terribili.
Di nuovo mi veniva voglia di piangere, guardai tutti quei
libri aperti e lessi un titolo: Dizionario russo-italiano.
Scossi la testa e scappai via sbattendo la porta. Se quel­
l’uo­mo era un diavolo e conosceva tutte le lingue del mon-
do doveva sapere anche che fine aveva fatto nostro padre;
se invece era solo un povero scemo sopraffatto dalla sua ti-
midezza non avrebbe dovuto avere tutti quei libri, indovi-
nare ogni cosa e saper curare gli animali. Ero stato così
pazzo dal provocarlo e per poco non avevo ceduto all’im-
pulso irrefrenabile di strappargli il cappello di testa, met-
tendolo infine di fronte alle sue responsabilità per obbli-
garlo a dirmi tutta la verità.
La gola mi faceva male e gli occhi mi bruciavano. « Do-
stoevskij! Dosto...! » mi ripetevo quel nome da demone cor-
rendo con Dario su per il sentiero, e nella mano stringevo
ancora il foulard verde dello zingaro.
« Sei stato molto scortese... molto! » mormorò Dario den-
tro di me e io lo feci tacere con una bestemmia.

41
IX

La sera dopo cena, prima che ci addormentassimo, mam-


ma ce lo raccontava spesso. « Sono stata fortunata » affer-
mava abbracciandoci e i suoi occhi prendevano a luccicare
nella penombra della stanza. « Vostro padre è l’uomo più
buono e più bello che una donna possa desiderare ».
Parlava al presente, come se fosse lì, e allora an­ch’io mi
dovevo adeguare per non farla arrabbiare. Tutte le volte ri-
petevo la stessa domanda: « Com’è papà? Mi racconti co-
me vi siete conosciuti? »
Ci provava gusto a raccontare, le faceva bene, lo faceva
volentieri e così mi raccontava di questo suo principe in
uniforme, con i capelli d’oro come i miei e un sorriso spa-
valdo e franco, aperto. Mi raccontava del più bel­l’uo­mo
che avesse mai visto, che era rimasta conquistata dalla sua
gentilezza, e delle poche parole italiane che si erano scam-
biati camminando sotto la luna quell’estate del 1944, quan-
do il fronte passò da qui e lei era sfollata in campagna a
casa della zia Anita.
Forse, già in quella prima sera si erano baciati ed era
iniziata la mia avventura in questo mondo.
Mentre ballavano tutti per la gioia dell’arrivo degli ame-
ricani, una ragazza, sfuggendo alla sorveglianza della zia
troppo grassa e pigra, era andata incontro all’amore tenen-
do per mano un ragazzo poco più grande di lei, un princi-
pe azzurro come quelli delle fiabe, giunto dal­l’al­tra parte
del mondo per salvarla dai fascisti e dai tedeschi infami.
Un amore lungo una settimana, segreto, fatto di fughe

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notturne, di poche parole fraintese e di baci. Da uno di
quei baci – non comprendevo bene come, nonostante i
miei tredici anni – dovevamo essere nati io e Dario. Pensa-
te che bacio per generare due gemelli! Un amore disperato
e travolgente, una fiamma che toglie la ragione e che li ave-
va portati di fronte al prete di nascosto a notte fonda. Don
Caldine, svegliato da gran colpi alla porta e appreso con
sconcerto quanto i due avevano già combinato, dopo es-
sersi assicurato che mio padre fosse un cattolico battezza-
to, si era visto costretto a celebrare quell’unione. Loro
neanche sembravano rendersene conto, volevano sposarsi
e basta, due ragazzini con un sorriso beota sulla faccia che
non riescono a distogliere i propri occhi da quelli del­l’al­
tro; ma lui aveva accettato lo stesso, mosso dal timore, poi
rivelatosi fondato, che le conseguenze di quell’amore aves-
sero potuto svergognare la mamma, facendone da lì a
qualche mese una ragazza madre senza marito.
Il giorno dopo c’erano i documenti, ma suo marito non
c’era più perché il battaglione era partito all’alba, mentre
lei stava ancora dormendo. Ordine improvviso: ‘Si avanza!’
Chissà se lui aveva tentato di avvertirla, se era stato col-
to dalla tentazione di disertare, di correre da lei per la-
sciarle una promessa e un ultimo bacio. Chissà... mi do-
mandavo ogni volta, man mano che gli anni passavano e la
malizia cresceva come un fungo storto e velenoso dentro
di me. Chissà se davvero era un ragazzo ingenuo e inna-
morato come lo ricorda la mamma. Magari era solo un
soldato, con una donna a ogni tappa, una promessa e una
conquista da dimenticare subito come una ciliegia dopo
che si è sputato il nocciolo.
Ma allora perché sposarla? Mi rincuoravo. Adesso di lui
non le rimaneva che il ricordo dei baci e delle promesse
che si erano scambiati in uno strano miscuglio di parole e
di accenti: « Tornero, I’ll come back da tu, amorre mio! »

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Transitato il fronte, ritiratisi i tedeschi, seppelliti i mor-
ti, il nonno, saputo del matrimonio dalla mamma, l’aveva
schiaffeggiata dandole della sgualdrina, l’aveva chiusa in
casa e poi era corso a minacciare don Caldine intimando-
gli di annullare il matrimonio e di bruciare i libri.
La immagino la sua faccia da orso tarchiato con gli oc-
chi che strabuzzano fuori dalle orbite come quelli di un
matto, mentre avanza nella chiesa e si ferma nella penom-
bra al centro della grande navata urlando: « Prete! Prete!
Vieni fuori, prete! »
Avevano litigato. Quel cinghiale irsuto di mio nonno,
nodoso come un legno, con le mani grandi come badili si
era gettato sul povero prete: un omuncolo magro e arruffa-
to, un anacoreta digiunante all’apparenza, che però si era
rivelato tenace e coriaceo come un gambero. Si erano az-
zuffati, morsi, strappati manciate di capelli, ma anche sot-
to la minaccia della morte, con le mani del nonno sulla go-
la, il prevosto si era rifiutato di separare ciò che Dio aveva
unito. Da quel giorno il nonno non aveva più messo piede
in chiesa e non aveva più smesso di maledire Dio e tutti i
santi per la sua sventura.
Non ancora sazio, appena uscito dalla chiesa si era di-
retto verso la campagna, dalla sorella. Durante il tragitto
s’era preparato una mazza di nocciolo e a ogni passo l’ave-
va provata facendola sibilare nell’aria come una serpe. A
sangue aveva picchiato sua sorella Anita, colpevole di non
aver vigilato su mia madre e di aver dormito lasciandola
andare in giro con americani, cani e porci: ‘con i nemici
del fascismo e della Patria!’
Mio nonno, da fascista convinto, si sentiva colpito nel­
l’ono­re, disonorato lui e la famiglia al pensiero che sangue
del suo sangue si fosse mischiato con quella genia di don-
nicciole bionde proveniente da oltreoceano.
Ogni volta che in vita mia avevo incrociato il suo sguar-

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do ci avevo letto il suo disprezzo. Se fossi somigliato alla
mamma o a lui forse avrebbe potuto sopportarmi, ma io
ero in tutto e per tutto l’effige di quell’americano che glie­
l’ave­va fatta sotto il naso. Io ero la bandiera bionda che
sventolando per le vie del paese urlava ai quattro venti la
sua vergogna.
Quando mia madre segregata in camera sua si era ac-
corta di essere incinta, di fronte al vomito e ai malori, la
disperazione del nonno aveva toccato il culmine. Ossessio-
nato dalla sua sventura per un mese aveva tramato per tro-
varle un marito, un uomo che attratto dalla bellezza di lei
e dai suoi soldi potesse sposarla e tacere. Uno dopo l’altro
le aveva presentato vecchi commendatori, il becchino del
paese, scapoli incalliti oramai destinati alla solitudine,
perfino un suo servo che era stato volontario in Libia ed
era tornato senza le orecchie.
Ma mia madre non aveva voluto saperne. Allora l’aveva
fatta uscire di casa e se l’era tirata dietro fino in città senza
mai rispondere alla sua richiesta di chiarimenti. Io l’ho sa-
puto molto dopo; lei a vent’anni era ingenua come una
bambina, ma con il naso delle bestie in pericolo, con l’i-
stinto delle gatte che spostano i gattini un attimo prima
che il contadino li prenda per gettarli nella cloaca, aveva
salito le scale di quella casa di città intuendo ogni cosa.
Forse c’era da ringraziare quella ragazzina con gli occhi
neri e pesti e le mani sul ventre, sorretta da un’altra donna
che doveva esserle madre, se aveva capito. I quattro si era-
no incrociati per le scale, lei aveva visto le due donne e
aveva compreso.
A due passi dal calvario aveva smesso di chiedere dove
stessero andando e, rimasta indietro di qualche scalino
con la scusa di aggiustarsi un sandalo, ancor prima che il
nonno potesse capacitarsene, si era voltata di scatto ed era
scappata giù per quelle scale puzzolenti di cloroformio.

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Aveva sentito i passi affannati del padre dietro di lei, le sue
urla di richiamo nell’ultimo tratto dell’andito buio; mentre
già le mani cercano, armeggiano, con quel diavolo di ser-
ratura del portone, ce la fanno a farla scattare, smuovono
la grande anta, intravedono la luce e via, di corsa, per la
strada di città, senza più fermarsi, incurante delle urla di
lui che con il suo panzone ha oramai rinunciato a inse-
guirla e se ne sta, ombra minuscola in lontananza, appog-
giato al muro a riprendere fiato mormorando: « Maledetta,
vipera maledetta! »
Non era più tornata a casa, e da quel giorno si erano
parlati solo una volta, di fronte al prete. Lui le aveva detto:
« Se ti ostini a tenerlo, tu sei come morta per me. Non
aspettarti più nulla e non cercarmi mai più! »
E lei gli aveva risposto l’unica cosa che poteva rispon-
dergli in chiesa: « Amen ».
Con i vestiti che aveva addosso mia madre era uscita
dalla villa, e senza un soldo. Senza sapere a chi chiedere
aiuto era tornata da don Caldine, che l’aveva accolta pres-
so di sé.
Situazione provvisoria, anche in vista della nascita del
bambino. Nessuno immaginava che si sarebbe trattato ad-
dirittura di due gemelli. Vivemmo per due anni presso la
parrocchia, in quattro, con le elemosine della gente e mia
madre che già lavava i panni per mantenerci e accudiva gli
infermi facendo loro il bagno e altri servizi. Quando l’anno
dopo mio fratello Dario morì per via della polmonite, morì
anche il marito di Nandina e ci trasferimmo da lei, all’ulti-
mo piano di una casa ricavata da un vecchio fienile che,
come si vedeva dalle travi annerite e per metà carbonizza-
te e dall’intonaco dal quale riaffioravano tenaci chiazze
gialle e brune, era stato bruciato dai tedeschi in fuga e
spento dai contadini.

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Tuttavia la bellezza di mia madre era troppo grande
perché si potesse viver tranquilli. Un fiore profumato, per
quanto tu lo nasconda, attira inesorabilmente verso di sé
ogni sorta di insetti, dalle farfalle agli scarafaggi.

47
X

Quel giorno, di ritorno dallo strego, con l’amaro in bocca


per il suo rifiuto di rivelarmi la verità su mio padre, arrivai
di fronte a casa e ci trovai il carro funebre del becchino
Giuffrida con la scritta Pompe Funebri sulla portiera ol-
traggiata da tutti i graffi che ci avevo fatto io con il mio
temperino per spregio.
« Se scopro chi è che mi graffia l’auto, arrestare lo fac-
cio, di sicuro! »
Quel porco d’un siciliano stava di nuovo ronzando in-
torno alla mamma, non mollava. Avessi avuto qualche an-
no in più l’avrei preso a calci, ma ero solo un ragazzo.
Un giorno del 1950 era arrivato in paese con la vecchia
madre vestita di nero, una valigia di cartone e nient’altro.
Dove avesse trovato i soldi per iniziare l’attività era un mi-
stero per tutti. Al­l’ini­zio la gente ci aveva fantasticato so-
pra, poi si era rassegnata e aveva lasciato perdere. Le ra-
gazze del paese non lo guardavano perché era un terrone e
per via del suo lavoro. Solo la figlia grossa e guercia della
lattaia andava a pulirgli la bottega e a sistemare i morti in-
sieme a lui, e si diceva che ogni tanto nel retrobottega, fra
bare e catafalchi più o meno sfitti, facessero all’amore.
Corsi giù al fiume e li trovai che parlavano mentre mam-
ma sbatteva i panni sulle pietre, con le mani lesse e arros-
sate dal­l’ac­qua e dal sapone come quelle di una vecchia.
Vederla così mi faceva rabbia. Potevamo essere dei si-
gnori, potevamo vivere alla villa con il nonno, i servitori e
l’autista, e invece...

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Non so da quanto tempo stessero parlando, so solo che
senza un motivo preferii rimanere nascosto dietro un ciuf-
fo di canne e continuare ad ascoltare.
Alto e magro, tutto rivestito di scuro come un dameri-
no, un garofano appassito all’occhiello, Giuffrida se ne sta-
va in piedi a pochi passi da lei e, attento a non infangarsi le
scarpe lucide, guardava la mamma come se avesse voluto
mangiarsela. Anche così, con le mani rotte e la schiena do-
lorante, con il volto accaldato e la faccia contratta per la
fatica di sollevare e sbattere le lenzuola sulla pietra, era
bellissima.
Lui, invece, con il volto scavato, le occhiaie nere e quei
baffi alla Clark Gable, sembrava già uno dei suoi clienti
steso nella bara. Fumava tenendo la sigaretta sul labbro
pendulo e con una lima da donna si nettava l’unghia del
mignolo che, orribile, sarà stata lunga più di tre centime-
tri. Gli occhi sotto la tesa del cappello strabuzzavano per
cogliere i movimenti del corpo di lei, delle braccia tornite
e forti, dei seni pieni sotto la veste.
« Donna Mara, questa non è cosa per voi. Non è vita che
vi si confà. Io tante volte ve lo dissi e ce lo ripeto. Se mi di-
te di sì a vossia e al picciriddu non mancherà più nulla. Ha-
io già pallato e ripallato con vostro padre, d’accordo iè... »
Era sempre il solito ritornello, ripetuto con ostinazione.
La mamma si alzò per mettere il lenzuolo nella cesta, visi-
bilmente infastidita da quella presenza. Con il dorso della
mano si ravversò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Era un gesto che faceva spesso e che turbava anche me,
perché nel farlo sembrava ancora più bella: un’eroina ro-
mantica, la libertà che guida il popolo alla rivolta sulle
barricate come l’avevo vista una volta in un libro sulla ri-
voluzione francese.
« Ve l’ho detto mille volte » esordì esasperata dalla sua

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insistenza. « Se mio padre è d’accordo perché non vi sposa-
te lui? »
L’uomo si fece verso di lei d’un passo, stando attento a
posare i piedi sull’asciutto e le disse serio, risentito, quasi
minaccioso: « Donna Mara, voi mi avete fatto uscire pazzo,
ma in giro a mia non mi ci dovete prendere. Con tutto
quello che tengo da fare al negozio, non mi dovete far ped-
dere tempo ».
« E allora andate! Andate a lavorare, che an­ch’io tempo
da perdere non ce n’ho! »
L’uomo si guardò intorno e fulmineo l’afferrò per un
polso: « Una fimmina ribelle siete! Quando fate così me
piacete ancora dippiù! » e si chinò con il volto su di lei per
baciarla.
Lei scostò il volto e presa alla sprovvista cadde al­l’in­die­
tro sulle lenzuola e il bucato, gridando: « Ma siete impazzi-
to! Ma che vi piglia! »
Iniziò a spingerlo e a scalciare con tutta la sua forza
mentre questi la teneva per i polsi e avvicinava il volto al
suo nel tentativo di baciarla.
Immaginai il suo alito fetido e corsi fuori dal mio na-
scondiglio gridando a mia volta: « Mamma! »
Quando l’uomo mi vide rimase di sasso, mollò la presa e
si rialzò ricomponendosi. Mia madre si sollevò imprecan-
do contro di lui. Non piangeva ma era arrabbiatissima e
gli urlava contro di andarsene al diavolo e di non farsi più
vedere. Raccolse impigliato nella sua veste il garofano
malconcio che il tipo aveva all’occhiello e glielo scagliò
malamente in faccia.
« Ma guarda questo disgraziato! » urlava adesso risenti-
ta. « Aspetta che torni mio marito e ti faccio sistemare per
le feste, brutto vigliacco! »
« Ma quale marito, donna Mara! Non la fate tanto lunga

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la commedia. Quello o è morto e sepolto o sta in America
con mogghie e figghi! »
A quelle parole mamma si avventò come una furia su di
lui e gli diede una spinta. L’uomo barcollò, tentò di ripren-
dersi inutilmente, cadde al­l’in­die­tro e precipitò con un
tonfo nel fiume bagnandosi da capo a piedi.
Corsi ad abbracciarla. « Avanti, Ciro, facciamo le corna,
tocca ferro che questo porta pure iella! »
Ci esibimmo in gesti scaramantici. Passata la tensione,
vedendo quel pappagallo a bagno, mia madre si abbando-
nò a una risata liberatoria. L’uomo riguadagnò la riva, il
Borsalino sformato in mano, da strizzare. L’acqua che gli
usciva dai gambali dei pantaloni, il vestito moscio e mez-
zo, che sembrava infilato a forza in una gruccia di legno.
Lo guardavo con tutto l’odio che avevo in corpo e ridevo
an­ch’io di gusto, sfacciatamente, per ferirlo. Si avvicinò a
noi su tutte le furie.
« Me la pagherete! » farfugliò umiliato, e quando vide
come mi sganasciavo, prima che potessimo rendercene
conto, mi interrogò risentito. « Cos’hai da ridere, tu, ba-
stardo? Come ti pemmetti? » e con la sua mano ossuta da
cadavere mi mollò uno schiaffo in pieno volto e si allonta-
nò di corsa temendo la nostra reazione.
Non ci aspettavamo un gesto del genere e rimanemmo
basiti. Imbambolato sentivo la guancia che mi bruciava e
le urla di mia madre che raccoglieva dei sassi e glieli tirava
dietro: « Vigliacco! Prendersela con una donna sola e un
bambino! Non farti più vedere, vigliacco! »
Quel beccamorto scomparve verso la strada e giuro che
non versammo neanche un lacrima per lo schiaffo, né io,
né Dario. Mia madre mi toccò la guancia attraversata da
un lungo graffio vermiglio che sanguinava.
« Oh! Madonnina! Ma cosa ti ha fatto con quello schifo
di unghia? »

51
In quel momento giurai a me stesso che me l’avrebbe
pagata cara, e un altro nome andò ad aggiungersi alla lista
già lunga delle mie vendette.
Oh, se me l’avrebbero pagata, lui, il nonno, l’Acrimene,
le Svizzere spocchiose, quei puzzoni della piazza. Tutti l’a-
vrebbero pagata cara! Traboccavo d’odio, di cattiveria. Per
questo don Caldine non mi aveva ancora passato a comu-
nione nonostante avessi l’età per la cresima, perché quan-
do nel buio del confessionale gli raccontavo i miei terribili
propositi di vendetta non mostravo pentimento e allora
lui, trafelato, asciugandosi la fronte con un fazzoletto, mi
spiegava e rispiegava che senza pentimento non poteva as-
solvermi, e così stando le cose, la comunione me la potevo
sognare.
Mentre mamma mi medicava nel fresco della grande
stanza disadorna, le dissi a bruciapelo: « E se avesse ra­
gione? »
« Chi? Cosa? » mi chiese, subito all’erta.
« Il beccamorto. Se papà fosse morto? »
« No » mi disse tranquilla. « Non dirlo neanche per
scherzo. È vivo e tornerà, basta sapere aspettare ».
« Ma sono tredici anni che aspettiamo e non ci è mai ar-
rivata neanche una lettera. Come fai a essere certa che è
vivo? »
« Lo so e basta. Certe cose si sentono, qui » disse, e si
toccò all’altezza del cuore. « Lo so come so che noi siamo
vivi. E poi... l’America è lontana ».
Abbassai la testa. Il graffio mi bruciava. « Speriamo »
dissi poco convinto.
Allora fece quello che faceva sempre quando era stanca,
mi mandò ad accendere la radio, l’unica cosa che si era
comprata a forza di sacrifici; come se la notizia del ritorno
di mio padre avessero dovuto darla al radiogiornale. La
nuova musica proveniente dall’America invase la stanza.

52
La prendemmo per un buon segno e insieme sguaiatamen-
te, nella penombra di quel pomeriggio, ballammo un libe-
ratorio boogie-woogie. Stringevo le sue mani e guardavo le
travi abbrustolite del soffitto girare e girare, e girare...

53
XI

La immagino alle volte come l’ho vista in un rotocalco illu­


strato nella sacrestia. Chiudo gli occhi e la vedo e so cosa ac­
cade.
La diga è enorme, si leva contro il cielo come una fetta di
polenta grigio cenere fra alte montagne a bloccare il passag­
gio di un immenso fiume grande quanto quel mare che io
non ho mai visto e che ci separa. Il giornale diceva che per
costruirla sono giunti operai da tutta l’America, che la paga
è buona, ma il lavoro estremamente pericoloso. Fra loro c’è
anche lui, giunto da chissà quale cittadina per guadagnare
in fretta i soldi necessari per il biglietto.
Sotto il sole rovente, quegli uomini coraggiosi salgono
sulla lieve struttura di tubi che riveste la diga e solo quando
il sole sta per tramontare smettono di lavorare, di piegare fer­
ri, preparare cemento, urlarsi l’un l’altro dalle impalcature.
Da lontano i tubi della grande struttura spariscono e diven­
tano una ragnatela appena visibile, sulla quale lui e gli altri
si muovono come ragni, o forse come piccole mosche intrap­
polate.

Mia madre ha me. Le basta guardarmi per ricordarsi di lui.


Ogni tanto la sorprendo che mi guarda e sorride con la testa
che di certo rincorre i loro ricordi sempre più lontani. Ma
lui, lui non ha nemmeno una foto. Così stando le cose, è
possibile che ogni giorno il volto di lei diventi più incerto,
che vada sfocando, sbiadendo. Per questo temo che un gior­
no al posto del volto di mamma nella sua memoria rimanga

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solo una macchia rosa. Perché se c’è qualcosa che può ri­
chiamarlo a noi è la sua bellezza, la sua bellezza che non
muta nonostante tutto, fiore fermo in attesa del ritorno del
suo giardiniere.

Camminano sul vuoto, su una striscia di cemento poco più


larga di un metro, con gli attrezzi in spalla, le funi, le carru­
cole, senza mai temere che guardando giù possano cadere
nel profondo della valle. Non sono eroi, semplicemente lavo­
rano, discendono il viottolo artificiale sulla grande parete
inerte fino alle loro baracche, mentre il sole si abbassa dietro
la montagna e colora di arancio il vasto orizzonte, fa rilucere
i boschi di abeti, il rosso degli aceri più a valle, infiamma le
vette su a monte, che conservano un bianco residuo di neve
eterna.
Nelle baracche alla sera la stufa è accesa e ciascuno diste­
so in branda rincorre i suoi pensieri fra l’odore della resina
del pino che scoppietta e frigge e qualche volta fa fumo. C’è
chi ha lettere da scrivere, chi guarda la foto della moglie e dei
figli; chi conta i risparmi e furtivo li nasconde meglio che
può fra le sue cose; chi fuma guardando le travi del soffitto e
pensa alla sua bella.
Alle volte cantano, ridono e scherzano. Ogni tanto bevono
fino a stordirsi per ammansire i pensieri. Sulla parete il ca­
lendario ammazza i giorni lentamente, troppo lentamente, e
intanto l’inverno avanza, la montagna cambia colore e ab­
bandona il mantello autunnale, diventa spoglia e con l’arri­
vo della neve, quando la volpe lascerà le impronte tutto d’in­
torno, quando i rifornimenti non potranno più arrivare, bi­
sognerà sospendere, chiudere tutto e tornare a valle, prende­
re i treni e tornarsene a casa.
Manca poco oramai. E lui conta i soldi, nella mente, e
spera che il biglietto per la nave non sia aumentato nel frat­
tempo, ci toglie quanto gli servirà per un abito e un nuovo

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paio di scarpe, perché quello che ha è davvero troppo mal­
concio. Chiude gli occhi e immagina la grande nave mentre
approda nel porto di Napoli. Vede la gente che si affaccia dal­
la quarta classe e saluta l’Italia, l’Italia ritrovata degli emi­
granti che ritornano a salutare i parenti e non riconoscono i
luoghi. Nemmeno gli amici d’infanzia riconoscono, se non
in un nipote o in un figlio che è il ritratto di com’era il padre
da giovane e li accompagna di corsa verso un vecchio come
loro.
Passerà da casa prima di partire.
Non sarà facile dirlo alla madre, però, che non sta nean­
che bene e ha bisogno di soldi per le medicine. E si lamenta
di tutti i suoi mali e geme la notte ruttando di continuo nel­
l’al­tra stanza. Sta morendo, morirà da un momento al­l’al­tro.
Sono trent’anni, da quando lui è nato, che morirà da un mo­
mento al­l’al­tro e se la sordità non fosse giunta a soccorrere
suo padre, l’avrebbe già uccisa lui che non ne può più di sen­
tirla lamentarsi.
Ha sperperato una fortuna, il pover’uomo, e l’hanno vista
tutti i dottori della nazione e con tutti, lei, quasi analfabeta,
s’è presa la soddisfazione di non guarire.
La immagino con la faccia pallida e affranta, una ma­
schera tragica che dice: « Ma perché figlio mio vuoi tornare
in Italia? »
« Vado a prendere mia moglie » risponde lui sorridendo.
« La mia bella moglie italiana ».
Scuote la testa, implacabile: « Lascia perdere. Ci sono tan­
te belle ragazze qui delle nostre. Non dare questo dolore a
una madre che credeva di non riabbracciarti mai più quan­
do sei partito per la guerra. Lascia perdere che son passati
tredici anni; vedrai che se era bella come dici si sarà risposa­
ta e avrà i figli grandi oramai ».
« Mi ha promesso di aspettarmi, e io l’ho promesso a lei »
le risponde lui sorridendo con una faccia da angelo.

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Dal letto la donna si tira su, si stringe la testa del figlio al
cuore e ripete: « Lascia perdere, fallo per me, promettimi che
non mi lascerai qui sola, vecchia e malata. Sai che ne mo­
rirei ».
« Ma... » protesta il figlio debolmente.
« Prometti! »
« Prometto... » sussurra a malincuore.
Il padre guarda la scena con un giornale in mano, si toglie
gli occhiali, li mette nel taschino che la bretella verde rasenta
come una serpe troppo dritta, scuote la testa rassegnato e
pensa: « Ci seppellirà tutti ».

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XII

Ci pensavo sempre più spesso alla mamma, oramai la


quinta elementare l’avevo fatta, due anni alla scuola pub-
blica fra botte e zuffe con i compagni, con la seconda ripe-
tuta due volte per colpa di insegnanti che pensavano di
piegarmi senza riuscirci e altri tre anni da don Caldine do-
po che avevo dato un calcio negli stinchi al preside ed ero
stato espulso. Sì, con la scuola avevo chiuso per sempre e
dovevo cercarmi un lavoro. Insomma, non ne potevo più
di vederle fare quella vita. Tutto il mondo ci cambiava in-
torno; avevo tredici anni, era il 1958, i contadini lasciava-
no i campi e andavano a lavorare nelle fabbriche, le ultime
tracce della guerra stavano pian piano dissolvendosi, non
c’erano più case diroccate, macerie, o cose del genere. Na-
scevano altre strade, passavano più auto, più vespe, il non-
no aveva comperato una Lancia meravigliosa e a volte lo
vedevo passare dalla strada principale del paese. Alcuni
avevano perfino la televisione e il frigorifero in casa.
Tutto cambiava, la Storia ci accerchiava da ogni lato, ci
scorreva accanto lambendoci appena, ma la nostra vita
sembrava ferma all’immediato dopoguerra, in quella casa
schifosa, senza niente di niente. Come nella favola della
Bella Addormentata sembrava che un incantesimo avesse
fermato il tempo il giorno in cui mia madre sposa bambi-
na aveva baciato mio padre con la promessa di riabbrac-
ciarlo non appena fosse finita la guerra.
Invece la guerra era finita da tredici anni, io ero diventa-
vo ogni giorno più alto, ma davvero era come se io e lei

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continuassimo a vivere nell’estate del 1944. A volte pensa-
vo che senza saperlo fossimo noi gli autori di quel prodi-
gio, che bloccassimo il tempo per permettere a mio padre
di tornare e che, se un giorno lui avesse bussato alla nostra
porta, la lancetta del­l’oro­lo­gio si sarebbe disincagliata an-
che per noi. Il tempo avrebbe ripreso a scorrere e noi tutti
ci saremmo ritrovati di colpo nel presente, senza più stenti
e privazioni, con il divano e la televisione, il frigorifero pie-
no e tutto il resto. Non so perché ma mi immaginavo la
mamma al telefono che sorrideva e parlava del più e del
meno con qualcuno.
Come dicevo, però, avevo tredici anni e non era più tem-
po per me di favolette, non potevo certo continuare a spe-
rare in un miracolo. Dovevo darmi da fare e in fretta, dove-
vo trovare dei soldi, tanti soldi e trovarli subito per libera-
re me, Dario e mia madre da quell’incantesimo.
Bigio era guarito oramai da qualche settimana, quando
mi decisi a parlargliene. Proprio quel giorno mamma tor-
nò a casa con una faccia strana e le nubi di un temporale
scolpite sulla fronte.
« Che cosa è successo? » le domandai con il cuore in go-
la per l’apprensione.
« La signora Cresti » mi spiegò. « Una delle mie clienti
migliori. Oggi mi ha detto che non avrà più bisogno di me
e dei miei servizi ».
« Perché? »
« È quello che le ho chiesto. ‘L’ho scontentata in qualche
cosa, signora?’ e lei tutta emozionata e sorridente: ‘No! No!
È che mio marito mi ha regalato la lavatrice!’ »
« Ci mancava anche la lavatrice » commentai sconsola-
to. « Maledetto progresso! »
« Non dire ‘maledetto’, non importa dire parole, non ser-
ve a nulla » mi riprese lei, e io mi avvicinai per abbracciar-
la e consolarla.

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« Bisogna che mi trovi an­ch’io un lavoro » le sussurrai
nel­l’orec­chio, e mi parve di sentire il ticchettio lento e pen-
soso della macchina da scrivere dello scrittore, ma poi ca-
pii che doveva trattarsi di uno dei tarli dell’armadio che
aveva preso a cantare rodendo il legno di buona lena. Ri-
manemmo abbracciati, prese a dondolarmi come se fossi
ancora un neonato. Profumava di sapone di Marsiglia.
« Non lo so » disse come fra sé. « Sei ancora un bambino e
poi... che lavoro vuoi fare? Mica ci sono tante fabbriche
qui da noi ».
« Qualcosa troverò » la rassicurai. « Voglio solo che tu
mi dia il permesso ».
Mi guardò rassegnata, la faccia stanca e la schiena ri-
curva che decretavano la sua resa.
« Va bene... » mi disse. « Ma adesso fammi andare che
non tutti hanno ancora la lavatrice e ho bel po’ di panni da
lavare ».
Fece due passi e si fermò pensierosa. « Comunque... »
mi disse. « Solo fino a che non torna tuo padre, poi te ne
tornerai a scuola! Intesi? »
Annuii, per farla contenta. Scappai via subito dopo
pranzo e non tornai che a tarda sera.
Quando fui di nuovo solo sul viottolo polveroso mi ri-
cordai di Dario che giaceva addormentato dentro di me.
« Bisogna trovare un lavoro, dei soldi » gli dissi calcian-
do le pietre del viottolo con rabbia.
« Lo so » mi rispose. « C’ero an­ch’io sai? An­ch’io abbrac­
ciavo la mamma ».

Era seduto all’ombra di un fico. Ripensandoci oggi di certo


non era lì per caso. Lo zingaro aspettava me. Non aveva
più gli ombrelli ma degli occhiali neri come quelli dei cie-
chi.
Si alzò appoggiandosi alla gruccia con la testa di cane

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nero e mi salutò cordialmente alzando la grande mano
scura.
Era già pomeriggio e faceva caldo. Vidi la sua sagoma
in controluce stagliarsi sul giallo accecante della strada.
« Toh! » disse, con quell’accento indefinibile. « Guarda
chi si rivede. Come state, ragazzi, e come sta il vostro ciu-
co? »
Neanche stavolta mi piacque, eppure, in un modo che
non saprei spiegare, ero attratto irresistibilmente da lui,
come lo sono a volte i ragazzi da certe figure d’eroi dei fu-
metti. Si tolse gli occhiali scuri e li intascò. Non lo sapevo
ancora, ma era la cosa più simile a un padre che mi fosse
mai capitata.
Ci stringemmo la mano e prendemmo a camminare
fianco a fianco. Andava svelto, nonostante la gamba e l’an-
datura zoppicante.
« Siete cieco oggi? » domandai sarcastico.
« Cieco e sordo, se occorre » disse strizzando l’occhio.
« Fingersi ciechi è un ottimo modo per guardare lasciando
agli altri l’illusione di non essere riconosciuti ». Ma cambiò
subito discorso: « Sono occhiali da sole, non ne hai mai vi-
sti? » mi domandò. Me li ritrovai in mano e li inforcai.
« Così sembri proprio un americano » mi disse.
Fui felice che l’avesse detto.
« Ma dove vai così di fretta? »
« Vado a cercarmi un lavoro! » affermai con enfasi. « Per
non morire di fame e per non vedere mia madre spezzarsi
la schiena tutti i giorni lavando nel fiume i panni degli al-
tri ».
Sospirò, gettando gli occhi al cielo con fare melodram-
matico: « Eh sì, la fame... il lavoro ».
Ne fui infastidito. « Ciao! » dissi. E allungai il passo ren-
dendogli gli occhiali.

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Mi richiamò indietro: « Il foulard? Hai ancora il mio
foulard? »
« Sì » ammisi. « Me l’ero scordato ». E lo tirai fuori dalla
tasca dei pantaloni tutto appallottolato e sgualcito.
Lui lo esaminò, lasciando trasparire un filo di delusione.
« Ti andrebbe » mi domandò, « di fumare una sigaretta
con un vecchio amico? »
« Non vogliamo prendere il vizio » rispose Dario anche
per me.
« Bravo! Fai bene. Allora fumerò io e parleremo un po’ ».
« Grazie » dissi. « Devo andare, sarà per un’altra volta ».
Dio solo sa quanto mi sarebbe piaciuto fermarmi a par-
lare con quel­l’uo­mo, ma nel corpo e negli arti avevo come
un presentimento, una smania che mi sussurrava di scap-
pare, di andarmene per la mia strada. Così mi avviai.
« Peccato » disse vedendomi allontanare. « Pensavo ti in-
teressasse lavorare, fare un bel po’ di soldi. Si vede che ho
capito male ».
« Non ho zecchini d’oro da seminare in nessun campo
dei miracoli! » dissi sarcastico, sentendomi Pinocchio alle
prese con il Gatto e la Volpe.
Parve offendersi, s’adombrò: « Se la pensi così, come
non detto » e, sollevando di scatto da terra la punta di quel-
la specie di gruccia, si lasciò cadere di colpo a sedere sul­
l’er­ba del ciglio. Frugandosi nelle tasche rintracciò l’occor-
rente e prese a fabbricarsi una sigaretta.
Non aveva bisogno di dire nient’altro. L’amo era gettato,
e vidi me stesso avvicinarmi nuotando come un pesce in-
genuo verso la sua esca.
« Di che si tratterebbe? » domandai.
« Di soldi, di cos’altro stiamo parlando sennò? »
« È una cosa legale? »
« Siediti, e falla finita con tutti questi sospetti! »
Mi sedetti accanto a lui sul ciglio della strada.

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« Tu hai tredici anni e stai andando a cercare un lavoro.
È una cosa legale? È giusto che a tredici anni tu debba già
lavorare? E poi... pensi che siano tutti ad aspettare te in
paese? Pensi che lo troverai questo lavoro? La gente va in
America a trovare lavoro! »
Andare in America a cercare mio padre era il mio sogno
segreto, ma a parte questo non ci avevo pensato. In effetti
non era facile che qualcuno mi volesse. Ero diverso da tut-
ti, con i miei capelli biondi, e le mie malefatte erano note
in paese. Niente di grave: vetri rotti, piccoli dispetti, qual-
che vendetta come quella dell’Acrimene. Pensandoci bene
c’erano anche i ragazzi che avevo picchiato costringendoli
a leccarmi le scarpe perché mi urlavano ‘bastardo’. Viveva-
no in paese e dovevano avere un padre e una madre.
« Mettiamo pure che ti assumano » seguitò, vedendomi
riflettere. « Cosa sai fare? Niente, quindi ti fanno un piace-
re, ti diranno che ti insegnano un mestiere e che dovresti
pagare per questo. Insomma, alla fine tornerai a casa con
la schiena rotta e con quattro soldi. Sai cosa succederà se
continuerete, tu e Dario, a camminare in quella direzio-
ne? » indicò la strada che portava in paese facendo una
smorfia, neanche avesse condotto dritti all’inferno.
Feci un gesto per invitarlo ad andare avanti. I suoi occhi
verdi ingoiavano i miei; mi aveva passato la mano sopra la
spalla parlandomi.
« Diventerai uno schiavo, un servo. Ecco cosa succede-
rà! Il tuo tempo non sarà più tuo, la tua vita non sarà più
tua. Ti comanderanno questo e quello e magari ti rovinerai
la salute per portare a casa un pezzo di pane. È legale tutto
ciò? È giusto? »
Ero confuso, lo investii con la mia reazione: « Cos’altro
dovrei fare, mettermi a rubare? È questo che vuoi propor-
mi, rubare, ammazzare, imbrogliare... »
Rise di gusto mostrando i denti chiari.

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« Parola mia, sei un fenomeno! » esclamò battendosi il
palmo della mano sulla coscia, divertito. « Sei pieno zeppo
di pregiudizi. Pensi che siccome sono uno zingaro debba
per forza uccidere e rubare. Eppure non mi sembri il tipo
da leggere romanzi! »
Diventai rosso, ma lui seguitò incurante: « Subito dopo
la guerra avevo appena vent’anni. Sai come ho vissuto?
Come ho mangiato pur di non ridurmi a fare lo schiavo? »
Dilatai gli occhi per incoraggiarlo a continuare.
« Andavo a sminare dalle parti di Carrara. Mi avevano
spiegato come fare e per ogni spoletta che riuscivo a to-
gliere, per ogni mina che disinnescavo, mi davano un tan-
to. Non era difficile, ma era un lavoro che nessuno voleva
fare. Altre volte svuotavo le bombe inesplose per prendere
la polvere, cercavo l’ottone dei bossoli di mitragliatrice per
rivenderlo, e così via.
« Ogni volta che toglievo una spoletta rischiavo la vita. È
un lavoro facile, occorre sangue freddo e mano ferma, ma
ha un difetto, quel lavoro: si sbaglia una volta sola. Ho vi-
sto gente perdere occhi, braccia e gambe per un pezzo di
pane. Bisogna volersi male per accettare quel lavoro, biso-
gna avere dentro tanto da rimproverarsi... ecco tutto ».
Si avvide mio malgrado dell’occhiata che avevo gettato
alla sua gruccia. « No! Questa è un’altra storia, una storia
anche peggiore. Non c’entra niente ».
« Ma adesso le mine e le bombe non ci son... »
Mi interruppe spazzando via con un gesto della mano la
mia obiezione e seguitò, gli occhi pieni d’ardore.
« Rubare, dici! E non sai neanche cosa vuol dire. Cosa
vuol dire rubare? Cosa vuol dire questo è mio e quello è
tuo? Forse che gli uomini non nascono tutti uguali sulla
stessa Terra? Tutti nudi come mamma li ha fatti? Una fo-
glia di fico ciascuno avevamo e un po’ di secoli dopo, con
la forza e la violenza, con l’invenzione del potere e della

64
guerra, ecco che pochi hanno molto: ville, palazzi, servi ed
eserciti, e altri, molti altri, la maggioranza degli altri, non
ha nulla, neanche gli occhi per piangere. Passano fili spi-
nati, chiudono campi e sequestrano fonti dicendo: ‘È mio!’
Non è rubare, questo? Non è approfittarsi degli altri? »
A quelle parole mi venne in mente mio nonno. Era pro-
prio così che si era arricchito quel figlio d’un cane, con il
mercato nero e con l’usura, approfittando del bisogno del-
la gente durante la guerra. Aveva rubato sempre, ma anzi-
ché essere in galera passava al volante della sua Lancia co-
lor sabbia marina ed era rispettato da tutti. Ci pensavo di
continuo: teneva così tanto al rispetto da ripudiare la figlia
che aveva infangato il buon nome della famiglia. Anche
oggi forse sarebbe bastato che mamma gli avesse dato ret-
ta e avesse sposato qualcuno disposto a prendersi anche
me, qualche vecchio ricco e bavoso, ma lei continuava a
dire di no, che il marito ce l’aveva e l’avrebbe aspettato.
Mi vennero in mente le mani di mamma, i debiti e gli
anni di pigione che dovevamo a Nandina per quel piano
del fienile bruciacchiato nel quale vivevamo. Da subito,
aveva smesso di chiederceli.
« Tanto sono vecchia, che ne faccio dei soldi? Me li rida-
rete quando torna l’americano! » diceva ogni volta e rideva
con la dentiera che le ballava, ma senza cattiveria. Come si
ride di una cosa che succederà di certo. Una nonna era per
me, Nandina, che ci aveva accolti in casa sua per rimedia-
re qualcosa da mangiare e aveva finito con il condividere le
nostre disgrazie e le nostre speranze. Per non parlare del
pane, che divideva con noi, come fossimo stati da sempre
un’unica famiglia.
Pensavo a tutte queste cose e lui seguitava a parlare co-
me avrebbe fatto un filosofo o un politico. A un certo pun-
to mi venne in mente don Caldine e cosa avrebbe detto se

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lo avesse sentito, così gli dissi: « Tu parli come un comuni-
sta! »
Rise. « Ma quale comunismo! Marx ha ragione, ragione
nell’analisi, ma l’unica risposta è l’anarchia, io sono un
anarchico e se lo sono lo devo a Bakunin, un vecchio cava-
tore di Massa Carrara che mi ha insegnato a capire il mon-
do e a ragionare con la mia testa! A Bakunin e a mio padre,
che per rendermi più forte ha voluto che imparassi a leg-
gere e a scrivere.
« Altro che rubare! Riprendersi quello che è nostro per
rifiutare il ricatto del capitale, di chi ci vuole schiavi. Ridi-
stribuire, come diceva Campanella, aveva ragione Tomma-
so Moro... Quelli sì che erano grandi uomini, grandi pen-
satori. Li hanno fatti fuori. Il potere, l’industria, i potenti e
perfino i disgraziati s’inventano sempre un modo per far
fuori chi vive libero e la pensa in un altro modo.
« Anche gli americani come te... L’America, la patria
della libertà dicono... e poi hanno fatto fuori due galantuo-
mini, due anarchici come Nicola Sacco e Bartolomeo Van-
zetti, che non avevano fatto nulla di male... Pace all’anima
loro ».
Non mi offesi, evitai di fare domande su tutti quei nomi
e lui seguitò: « Prendere a chi ha troppo, a chi si merita di
essere derubato perché ha rubato in sovrappiù a sua volta.
Caro Ciro, i ricchi sono una brutta razza, bisogna fargliela
pagare. Finché esisteranno i ricchi esisteranno anche i po-
veri, lo capisci? L’anarchia è possibile e gli zingari la prati-
cano da sempre... Liberi come il vento ce ne andiamo, e fi-
gli del vento stesso. Per questo nessuno ci può soffrire...
capisci? »
Tutti quei discorsi e quei nomi mi avevano confuso. Ma
quelle due parole ‘fargliela pagare’ avevano risvegliato in
me il mio proposito di rivalsa. La sete di vendetta, così ra-
dicata nel mio animo da farsi arsura. Forse non sarei stato

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più solo, non più solo un ragazzo che aspetta di crescere,
ma un anarchico che presenta il conto ai suoi aguzzini.
Mi piaceva quella parola, altro che ladro: A-nar-chi-co!
Come se avesse atteso il momento giusto per chieder-
melo mi domandò: « Che cosa ti sei fatto alla faccia? »
Non risposi, domandai soltanto: « E allora? Che vorresti
fare? »
Prima che iniziasse a spiegarmi molte altre cose, nel bel
mezzo del viottolo sbucò una lepre, rizzò le orecchie, an-
nusò l’aria e rimase per un attimo indefinibile a guardarci.
Poi la vedemmo scappare via con tre lunghi balzi e scom-
parire nel bosco.
« Sei un gemello, vero? » mi domandò d’un tratto Salem,
gli occhi fissi sulla strada deserta.
« Sì » risposi semplicemente, quasi sbalordito.
« An­ch’io » mi disse. « Forse per questo ci capiamo » e
non aggiunse nient’altro.

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XIII

Disteso sul mio materasso zeppo di foglie di castagno guar-


davo le stelle nel cielo fuori dalla finestra e ripensavo alle
parole di Salem. Anche lui era un gemello, anche lui aveva
qualcuno identico a sé da qualche parte, o forse, come me,
non l’aveva più e lo conservava dentro di sé. Inspiegabil-
mente sentii che doveva essere così. Altrimenti come avreb-
be fatto a scoprire Dario? Nonostante ciò non ero certo di
voler accettare la sua proposta, ma ero consapevole di ave-
re un segreto da conservare e le sue parole mi tornavano
alla mente, confuse insieme a tutti quei nomi di pensatori.
Da Gesù Cristo a Robin Hood, non aveva trascurato nessu-
no, e tutti sembravano dar ragione a noi: ‘Prendere ai ric-
chi per dare ai poveri’, dove i ricchi erano gli altri e i pove-
ri noi, naturalmente. Una lista avrei dovuto fare, come mi
aveva chiesto, dal momento che da qualche parte bisogna
pur cominciare. Invece non la feci, ma quella notte mi ad-
dormentai e sognai la gamba della Signora. Non mi era
mai successo prima di allora, non ci avevo mai pensato e
adesso, dopo anni, mi tornava in mente.
Oramai ero grande e non capitava più, ma per anni la
mamma mi aveva portato con lei dalla Signora.
La chiamavamo Signora e lei ne aveva piacere, ma si
chiamava Algisa. Io ci andavo di malavoglia e volentieri al-
lo stesso tempo. Volentieri perché abitava con il marito in
un casa a due piani color rosa passita, che dava sulla piaz-
za e aveva un piccolo curatissimo giardino sul retro con
grandi piante di ortensie blu. Quando c’era suo marito mi

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dava un cioccolatino e mi insegnava a giocare a dama. Era
un uomo magro, sempre allegro, ma d’un’allegria malinco-
nica che lo rendeva meditabondo e pensieroso. Sul grande
naso aveva degli occhiali spessi di tartaruga, sul fondo dei
quali si perdevano piccolissimi i suoi veri occhi. Il merco-
ledì pomeriggio chiudeva il negozio di gioielliere e giron-
zolava fra il salotto e il giardino. Con me era gentile e il sa-
lottino del piano terra era fresco d’estate e caldo d’inverno.
Su una grande credenza scura erano distesi in mostra cen-
tinaia di souvenir portati in dono dai paesani che al ritor-
no dai loro viaggi erano passati a riferire ogni cosa alla Si-
gnora. Un modo come un altro di viaggiare o di illudersi di
averlo fatto. In quei mercoledì, dalla finestra aperta senti-
vo la macchina da scrivere dello scrittore canticchiare nel
silenzio del pomeriggio e vedevo Saverio e i ragazzi della
piazza che saputo della mia venuta mi facevano la posta,
ma che finché ero con mia madre non potevano farmi
niente anche se io, quand’ero solo nel salottino, facevo la
linguaccia e mostravo loro il culo nudo dalla finestra.
Ci andavo poco volentieri, invece, perché la Signora
pretendeva che io salissi su in camera, dove c’era il suo
odore terribile, e che mi chinassi a baciarla sulla guancia
sudata. Lo facevo impietrito e lei esclamava ogni volta ma-
liziosa: « E bravo il mio americanino! » e scoppiava a ride-
re sussultando, spiando la reazione di mia madre e sten-
tando a riprendere fiato. Ma non era per lo schifo, era per
la paura che salivo malvolentieri. La Signora mi faceva
paura per la sua enormità ragnesca e da piccolo sospetta-
vo che un giorno o l’altro si sarebbe mangiata il marito. Il
suo corpo riempiva tutto il letto a due piazze, che era stato
rafforzato da un fabbro con grosse longarine ferroviarie.
Aveva i capelli neri lunghissimi che teneva legati in una
treccia massiccia come un pitone d’Africa e un viso ampio,
da bambola deformata da uno specchio di giostrai, anima-

69
to da occhi neri e cattivi. La testa era tutt’uno con la gran-
de pappagorgia, le braccia erano mortadelle enormi e la
bocca piccola come quella di un bimbo e piena di dentini
bianchi. Teneva con sé una figlia di primo letto che era
l’opposto di lei, magra e ossuta, che dalla madre aveva ere-
ditato solo i capelli lunghi e neri. Marta doveva essere più
giovane di mia madre, ma si era come avvizzita anzitempo
e sembrava già vecchia. Sempre in casa fin da bambina,
sempre sola con la madre, aveva un volto serio e adirato e
non sorrideva mai.
Tutti i mercoledì, quando la Signora faceva il bagno,
mia madre ci andava per aiutare la figlia a capovolgerla e
vedeva la gamba che non c’era. O, meglio, non la vedeva.
La gamba c’era e non c’era. Non c’era quella vera, taglia-
ta via di netto, ma ce n’era un’altra molto moderna per al-
lora, lavorata ad arte da un artigiano di Bologna nell’im-
mediato dopoguerra: una gamba di ragazza che stava in
piedi chiusa a chiave nell’armadio della Signora da dodici
anni.
In paese dicevano che il marito se l’era comprato, nel
senso che, sommerso dai debiti, era stato costretto a spo-
sare la vedova storpia per non perdere la gioielleria di fa-
miglia. La Signora infatti, in paese lo sapevano tutti, face-
va prestiti e la figlia sin da piccola si occupava di annotare
tutto su un librettino rosso, di consegnare i soldi e di ri-
scuoterli dai creditori per poi arrotolarli in tanti cilindretti
e nasconderli dentro la gamba di legno cava che oramai
straripava da ogni parte. Evidentemente una cassaforte gli
sarebbe sembrata una spesa inutile e delle banche non si
fidavano.
Tutte queste cose me l’aveva dette suo marito Carlo. Co-
me sempre giocavamo a dama. Avrò avuto dieci anni e lui,
rimpinzandomi di cioccolatini, mentre la figliastra e mia
madre lavavano la Signora, per farmi compagnia aveva

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preso a bere da una bottiglietta verde portata in dono da
qualche creditore alla Signora da un pellegrinaggio: un li-
quore alle erbe monastico, ma evidentemente micidiale.
Al quarto bicchierino, divenuto rosso come un tacchi-
no, aveva iniziato a farsi vento e a ridere e poi mi aveva
detto: « Avranno finito di lavare la balena? »
Avevo riso di gusto della sua audacia e incoraggiato dal-
la mia complicità mi aveva snocciolato, un bicchiere dopo
l’altro, tutta la storia.
« Com’è piena! Com’è piena! Uhhh! » diceva ridendo di
contentezza.
« Cosa? »
« La gamba di Moby Dick nascosta nell’armadio. Guar-
da qua! » mi disse rigirando il proprio portafoglio vuoto.
« Io niente! » e giù risa. « Ma la balena ha la gamba piena di
milioni! Che il diavolo se le prenda tutte e due, lei e quella
spilorcia della sua figliola! Lasciare un uomo senza nean-
che i soldi per il caffè! Che se ne farà nella tomba dei suoi
milioni? »
Così, in quel lontano pomeriggio appresi del suo matri-
monio forzoso, della gamba piena di milioni, e soprattut-
to, scoprii l’origine di tutta quella ricchezza. Particolare
quest’ultimo che non era un segreto per nessuno, dal mo-
mento che il destino aveva colto la Signora con le mani nel
sacco.
Non era sempre stata così, la Signora: un tempo, come
testimoniavano le foto di ragazza sulla credenza, era stata
normale e quasi bella. Bella e povera, perché proveniva da
una famiglia di seggiolai, dove si mangiava una sera sì e
una sera no, e aveva sposato un netturbino che adulava il
Duce ed era morto volontario in Abissinia nel ’36. Sola con
una bambina, dopo stenti e privazioni, con l’arrivo della
guerra e dei raid aerei si era accorta della paura che hanno

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gli uomini per quelli che lei con sprezzo del pericolo chia-
mava ‘I fuochi di San Giovanni’: i bombardamenti.
‘E quante storie per due fuochi d’artificio!’ si diceva per
farsi coraggio. Così, quando suonava l’allarme antiaereo,
tutti scappavano nei rifugi, ma lei no, lei usciva fuori come
se niente fosse e con i nervi d’ac­ciaio, in tutto quel disa-
stro, si approfittava delle porte lasciate aperte nella fretta
d’uscire, delle finestre socchiuse e, agile come un furetto,
penetrava nelle case e le svuotava di soldi, oro e oggetti di
valore.
Si era fatta ricca grazie al suo coraggio, rideva di gusto
quando vedeva gli altri lasciar tutto e scappare come topi.
Sennonché un giorno una bomba colse in pieno proprio la
casa nella quale si trovava e una scheggia le scempiò la
gamba. Quando i proprietari tornarono, la trovarono fra le
macerie e al­l’ospe­da­le dovettero amputarle la gamba. Inu-
tile chiedere cosa ci facesse in casa loro, con la loro roba
nelle tasche. Ma come si fa a denunciare una disgraziata
mezza morta, coperta di calcinacci e imbrattata di sangue
dalla testa ai piedi? Così aveva perso la gamba, ma quella
gamba adesso se l’era rifatta piena di milioni e la teneva
nell’armadio prendendosi il gusto di vedere strisciare tutto
il paese ai suoi piedi a chiedere, supplicare, portare regali.
Gli stessi che aveva derubato venivano a riverirla adesso
che era probabilmente la donna più ricca del paese.
Dopo il matrimonio, la passione per i dolci e la difficoltà
a muoversi con le grucce fecero il resto. Oramai aveva pre-
so l’abitudine di restare a letto sempre più a lungo. Manda-
va la figlia in paese a portare le lettere ai suoi creditori, a
comprare bignè e torte alla panna e alla crema per cui an-
dava matta e a spiare tutti. Sapeva tutto di tutti e si faceva
riferire ogni cosa da chi andava a trovarla. Al tempo di
questa storia era stata presa dalla paura di morire. Non
riusciva infatti a comprendere come una donna tanto ricca

72
potesse subire la medesima sorte dei poveracci. Lei che
aveva perfino la televisione in camera!
Che andasse al diavolo anche lei. Ripensai a tutte queste
cose e alla fine presi un foglio di carta sul quale avevo ap-
puntato le parole NONNO e BECCAMORTO e ci aggiunsi
con la mano tremante SIGNORA.
Fu allora che Dario dentro di me mostrò la sua vera na-
tura e mi disse che lui non voleva saperne, che mi sarei
messo nei guai e non voleva essere coinvolto.
« E allora te ne resterai a casa e ci andrò da solo! » gli
dissi irritato da quei suoi modi da angioletto, da bravo
bambino. Dissi così, ma dentro di me fiorì un pensiero cat-
tivo e pensai: ‘Te ne resterai nella tomba e ci andrò da solo!’
Oggi so che fu quel giorno che Dario iniziò a morire an-
che per me.

73
XIV

Da casa mia oltre il fiume si stendeva una striscia di bosco


larga che verso l’interno si infoltiva e risaliva sul Monte
Vespro per poi ridiscendere in crepacci dalla parte dell’or-
rido, dove viveva Angelino. Proseguendo verso sud, invece,
si diradava per diventare pianura tappezzata da campi
d’erba medica, di grano o da foreste di girasoli alti quanto
un ragazzo. Lì, incastrato fra i campi e i margini di un bo-
sco, era stato ricavato tanti anni prima un ampio lago arti-
ficiale che serviva a innaffiare i terreni. Un altro mondo,
un regno fantastico e silenzioso: fatto di cannicci fitti e
brumosi, di nidi galleggianti, di lunghi pennacchi in fiore
e di canti serali. Un mondo che si poteva guardare e indo-
vinare appena dalla riva buona, quella che dava sui campi,
oppure affrontare con un barchino da pesca per guada-
gnare quella impervia e boscosa, alla quale era impossibile
arrivare costeggiando il fiume; anche se vi si poteva giun-
gere dai boschi adiacenti camminando un bel po’ dai mar-
gini della bandita attraverso uno stradone polveroso e as-
solato.
Arrivare dal lago: quella fortuna era toccata anche a me
grazie a don Caldine e alla sua passione per le carpe. Ogni
tanto mi portava con lui a pesca e così sapevo dove teneva
il suo barchino e qualche volta lo prendevo in prestito per
fare un giro da solo e raggiungere la riva opposta, una spe-
cie di isola verde fra i campi, ombreggiata, relativamente
vicina al paese, eppure in qualche modo nascosta agli oc-
chi del mondo dal momento che i cacciatori non potevano

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andarci e i funghi vi crescevano raramente, cosicché a nes-
suno conveniva fare tanta strada, né dal nostro, né dal pae-
se vicino.
In quel bosco sul lato opposto del grande bacino artifi-
ciale animato da voli silenti e tuffi improvvisi, si erano ma-
lauguratamente nascosti alcuni partigiani durante la guer-
ra per sfuggire ai tedeschi e allora loro, l’estate del 1944,
avevano dato fuoco al canneto e da lontano s’era vista
un’alta colonna di fumo, fra voli d’airone e di folaghe che
tentavano di mettersi in salvo. Così li avevano circondati
dai due lati e, una volta presi, li avevano fucilati tutti quan-
ti, anche i ragazzi poco più grandi di me che portavano il
fazzoletto rosso al collo.
A destra del lago c’era un vecchio casotto abbandonato
vicino al quale la società elettrica aveva costruito una cabi-
na ora in disuso. Salem mi aveva detto: « Non dirmi niente
adesso. Se sei d’accordo e ti convinci che quel che dico è
giusto, sabato verso le cinque vieni al lago, ti aspetterò al
casotto abbandonato, lo conosci? »
Avevo annuito ed ero scappato, ma adesso, alle cinque
del sabato, stavo percorrendo la strada verso il lago a pas-
so svelto, con la mia lista nella tasca dei pantaloni, ancora
indeciso sul da farsi. A mia madre avevo detto che sarei
andato a pescare e sarei tornato tardi, quasi a notte. Sape-
vo che l’avrei trovata addormentata come un sasso e non si
sarebbe accorta dell’ora.
Nessuno è più pazzo e imprevedibile di uno zingaro.
Quando fui sul posto mi sembrò che non ci fosse, e invece
mi trovai accecato dal riflesso di uno specchio che luccica-
va colpito dal sole dal­l’al­tra parte del lago. Un segnale. Mi
riparai con la mano e lo vidi sul­l’al­tra riva. Fumava seduto
su una pietra come su un trono.
Mi fece un cenno. Immaginai il suo solito sorriso da
lontano e risposi agitando le braccia, mentre alle mie spal-

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le sbucavano due uomini come dal nulla. Erano zingari e
mi fecero segno di seguirli senza fiatare.
Salimmo sul barchino di don Caldine e io gli feci notare
che non era roba loro. Ma loro risero, e mi spiegarono che
l’avevano solo preso in prestito e ce n’erano diversi nasco-
sti fra le vetrice su questo lato del lago.
Uno dei due mi sembrò anziano, basso e pelato, era
grosso soprattutto all’altezza del ventre, come nascondes-
se un’anguria sotto la canottiera, e aveva una catena d’oro
al collo con il volto della Madonna. Ci sedemmo e ci salu-
tammo.
« Rolandos » disse, tendendo la mano e mostrò anche un
dente d’oro sul davanti. « E lui è Paco, ma lo chiamiamo
Scheggia ».
L’altro era sulla trentina, alto e lungo e mentre mano-
vrava il barchino con la pertica scorrendo lungo la riva, si
voltò a farmi un cenno di saluto. Solo allora mi resi conto
di quanto fosse bello, aveva un volto da marajà e degli oc-
chi grandi e lucidi, che ispiravano fiducia.
Mi presentai an­ch’io, stavolta senza preoccuparmi, dal
momento che Dario non era lì con me. Il lago riluceva co-
me un grande specchio scintillante; in quell’ora luminosa
alcuni uccelli in lontananza nuotavano tranquilli caccian-
do di tanto in tanto la testa sott’acqua. Da quella distanza
non seppi capire se fossero anatre o folaghe. Il benessere
di quell’ora, del mio trovarmi lì, fu presto contagiato da
una malinconia profonda che mi prese lo stomaco per aver
lasciato a casa Dario o forse, soprattutto, perché sapevo
che c’era qualcosa di sbagliato nel mio essere lì.
Avrei dovuto temere quella gente, sentire un po’ di pau-
ra, come ne avevo avuta il primo giorno con Salem. Non
sapevo nemmeno dove mi stessero portando, non conosce-
vo le loro intenzioni, eppure, forse proprio perché non c’e-
ra Dario con me, mi scoprivo quieto, tranquillo, fiducioso

76
come se fossi stato fra vecchi amici. Improvvisamente, in-
spiegabilmente, mi fidavo di Salem.
Guardai lungo la riva le macchie nerastre dei girini e
sporgendomi dal barchino ne catturai due nel palmo della
mano. Avevano la coda e già anche le zampe posteriori. Ne
ebbi pietà lasciandoli ricadere nel lago. ‘Devono essere tut-
ti gemelli’ pensai. Che cosa stupida che era la vita: da mi-
gliaia di girini sarebbero nate e diventate adulte sì e no due
corbelli di rane.
L’urtare della barca sulla riva mi destò dai miei pensieri.
« Caro Ciro! Benvenuto! » disse Salem venendomi in-
contro. « Ti presento Paco detto Scheggia e Rolandos. Do-
vresti sentire come suona la chitarra Paco, ma presto lo
sentirai! »
« Ci siamo già presentati » precisai, di nuovo diffidente.
« Sai... Fanno parte dell’affare. Non penserai che io e te
si possa fare tutto da soli. Uno storpio e un ragazzo? » sor-
rise della sua frase, come di uno scherzo. « E Dario? » mi
domandò poi Salem, che toccava sempre quel tasto com-
piacendosi di essere l’unico a capire.
« Dario non ci sta, è rimasto a casa » risposi.
Si fermò un attimo perplesso a grattarsi la cute sotto i
capelli ricci, infilando le dita nel foulard verde. « Peccato »
affermò serio. « Ci avrebbe fatto comodo la sua prudenza.
L’importante è che tenga la bocca chiusa » mi ammonì.
« Lo farà. Garantisco io per lui » dissi, sentendomi stu­
pido.
« Già » ammise senza sarcasmo. « Su questo non c’è
dubbio ».
« Ma adesso andiamo, prima che si faccia tardi, stasera
sei nostro ospite! »
Al termine del sentiero, laddove il bosco iniziava a infit-
tirsi, mi attendeva una sorpresa che mi fece trasalire. Dap-
prima sentii della musica, poi vidi del movimento e dei

77
carri in legno con le finestre, decorati e dipinti, disposti in-
torno a un fuoco insieme a qualche vecchia automobile e
una o due roulotte malconce. Mi fu subito chiaro che c’era
una carovana accampata nella radura. Sfilai accanto ad al-
cuni cavalli intenti a mangiare dal loro sacco che erano
stati legati al fresco delle querce. La musica cessò improv-
visamente, sentii parlare e ridere e presto intravidi un fuo-
co e infilandomi fra i carri dietro gli altri mi ritrovai gli oc-
chi di tutti quegli zingari puntati addosso.
Devo ammettere che alcune facce erano tutt’altro che
rassicuranti. Li guardai a mia volta a bocca aperta. Non
avevo mai visto niente del genere. Sul fuoco bolliva una
grossa pentola e seduto su una bassa sedia intagliata stava
un uomo anziano, dal volto tondeggiante e fiero, con due
grandi mustacchi, le mani adornate da grossi anelli e un
gilè ricamato. Pensai subito che dovesse essere il capo.
Non sapevo ancora che gli zingari non hanno capi, ma ri-
spettano gli anziani se meritano rispetto. Intorno a lui sta-
vano altri uomini con le camicie bianche e il corpetto, i ra-
gazzi e le donne mi mangiavano con gli occhi e ridevano
coprendosi la bocca e sussurrandosi a vicenda nelle orec-
chie. Una vecchia con il volto ricoperto di rughe finissime
rise di gusto mostrando la bocca sdentata; le ragazze ave-
vano gonne lunghe e colorate e occhi lucidi e scuri come
fiori notturni.
Salem salutò il patriarca con rispetto e gli sussurrò
qualcosa nel­l’orec­chio, l’altro annuì serio e si alzò batten-
do le mani perché si facesse silenzio.
« Miei cari, abbiamo ospite, un giovane gagiò amico di
Salem » disse rinunciando alla sua lingua perché io capis-
si. « Egli è qui per aiutarci, accogliamolo come fratello e
speriamo che l’oro dei suoi capelli e l’azzurro dei suoi oc-
chi sconfiggano tenebre e siano segno di fortuna buona! »
Poi si voltò verso di me e mi disse: « Benvenuto alla no-

78
stra tavola che è grande quanto la terra e vasta quanto il
cielo. Che Santa Sara, la Santa nera protettrice dei sinti,
benedica la tua venuta ».
Prima che potessi dire anche solo grazie mi abbracciò
così forte da togliermi il fiato e subito fu portata un’altra
sedia uguale alla sua e fui fatto sedere al suo fianco con Sa-
lem alla mia destra. Non mi ero ancora ripreso che una
vecchia si alzò strascicando i piedi nelle ciabatte logore e
rimestò il pentolone dal quale saliva un profumino molto
invitante. Furono serviti i bambini, poi i vecchi e le donne,
ma prima di tutto fui servito io che ero l’ospite. Mi sentivo
un esploratore accolto con tutti gli onori da una tribù di
cannibali, e sul piatto mi fu versato un ramaiolo di una
pietanza che non seppi riconoscere. C’erano del vino e del
tè e Salem mangiava di gusto invitandomi a fare altrettan-
to. Portai alle labbra la pietanza e fui investito da un pro-
fumo di spezie. Non l’avrei detto, ma era veramente squisi-
ta. Quando seppi da Salem che l’aveva cucinata la vecchia
con le sue mani e che si trattava di carne di porcospino do-
vetti fare uno sforzo per non scappare via e vomitare tutto
nel bosco. Quella cena davvero non finiva più: preferii de-
dicarmi a uno strano salame piccante che chiamavano pu­
zú­stra e a un altro piatto, il šukló xabén, ma alla frase ‘inte-
riora di gallina’ smisi di fare domande e non volli saper al-
tro sugli ingredienti. Avevo fame, e capii presto che se vo-
levo togliermela dovevo smetterla di domandare.
Tutti mangiavano di gusto e ridevano della mia buf­
fezza.
« Perché ridono? » domandai a Salem.
« Ridono della tua stranezza. Non gli capita spesso di
vedere un gagiò da vicino ».
Di nuovo quella parola. « Ma cosa vuol dire gagiò? »
« Loro sono sinti, zingari, e tu sei un gagiò, un ‘non zin-
garo’, e io sono un rom, un altro tipo di zingaro ».

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« Gagiò è un’offesa? »
« Diciamo che non è un complimento. Sei stato sfortu-
nato: secondo loro potevi nascere sinto o rom, potevi esse-
re libero e... invece sei solo un gagiò ».
Rise di gusto. L’anziano si voltò verso di me e mi disse:
« Noi lavoriamo tutti, noi non rubare, noi lavoriamo: cesti,
rame, ma maledetta plastica! Noi vendiamo le cose... noi
siamo brava gente, ma maledetta plastica! Non vogliamo
problemi con la polizia. Specialmente adesso. Per questo
noi nascosti. Se loro ci vedono pensano che noi rubiamo e
ci mandano via, ma adesso noi dobbiamo restare qui, è
troppo importante restare qui. Salem è un rom, lui sì ruba,
attento a lui... » e si mise a ridere beffardo guardando Sa-
lem.
An­ch’io guardai Salem, interdetto. Fece un gesto come
per dirmi di non badarci, di lasciar perdere, e rise anche
lui, scambiandosi pacche sulle spalle con il vecchio.
Finalmente la cena finì, a un cenno del vecchio una chi-
tarra comparve nelle mani di Paco e due fisarmoniche fra
le mani di un uomo e di un ragazzino.
« Questi sono gli zingari che piacciono a voi! » mi disse
Salem beffardo. Poi si fece tutto silenzio.
Il vecchio iniziò a parlare in una lingua che non capivo,
con un suono lieve e misterioso che a tratti si induriva:
una corteccia amara caduta per caso nel miele che colava
dalla sua bocca. Salem prese a sussurrarmi la traduzione
in un orecchio: « Prima degli altri canti, suoniamo la pre-
ghiera dei nostri morti. Cantiamo soltanto perché non sta
bene parlare dei morti e dar loro fastidio ».
Dopo un attimo di silenzio partì una musica, un canto
struggente. Di lì a poco tutti gli occhi si bagnarono, i più
anziani presero a piangere sommessamente e Salem pian-
se con loro.
Poi il vecchio mi disse guardandomi negli occhi: « Tu

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hai mangiato con noi, ma potresti ancora tradirci, devi
giurare sui tuoi morti. Se ci tradirai dopo aver giurato sui
tuoi morti sarai perduto e per questo non dovrai farlo ».
Io lo guardai e gli parlai senza vergogna: « Ma non so su
chi giurare, ho un fratello gemello mezzo morto che vive
ancora dentro di me e un padre che non so dove sia, non
so se è morto, capisce? »
L’uomo mi guardò lasciando trasparire una grande
compassione e allungò la mano tozza e inanellata a carez-
zarmi la guancia, a sfiorare il graffio che ancora vi si legge-
va. Fu fatta avvicinare una donna anziana che tolse delle
carte da chiromante dal grembiule e le distese per terra, su
un’asse portata per l’occasione.
Scozzò le carte, mi fece tagliare il mazzo con la sinistra,
e poi iniziò a roteare la mano sulle carte creando una spe-
cie di vortice caotico. Tutti gli occhi erano su di noi, e nel
silenzio si poteva udire il gracidare delle rane in amore
provenire dal lago.
« Scegli » mi disse. « E ti dirò se tuo padre è vivo ».
Guardai Salem, che annuì rassicurandomi.
Speranzoso scelsi la carta e la voltai, la zingara voltò al-
tre carte, le mosse e poi disse: « Vedo una donna molto im-
portante, una donna forte nella tua vita a cui sei molto le-
gato ».
‘La mamma’ pensai annuendo.
Voltò un’altra carta. « Quante donne! Ma questa è una
vecchia che ti vuole molto bene ed è molto furba. Poi vedo
un uomo, ma non è tuo padre, è un parente, è qualcuno
che non ti vuole bene ».
Mi venne in mente subito mio nonno.
« Adesso indicamene una ».
L’indicai, la voltò e i suoi occhi si riempirono di terrore.
« La Bestia! » mormorò guardando il vecchio, Salem e
tutti gli altri a uno a uno. « Capovolta! » disse, e un brivido

81
passò negli astanti. Ripeterono il nome nella loro lingua.
Guardai la carta orribile che raffigurava il diavolo peloso
come un caprone e puzzolente di zolfo con il suo forcone.
Voltò anche le altre carte. Rifletté un attimo.
« Il ragazzo è in pericolo, bisogna proteggerlo! » disse
senza curarsi che io la sentissi.
« La Bestia è vicina » disse il vecchio. « Lo sapevamo ».
Grosse rughe apparvero sulla sua fronte e i suoi denti si
serrarono per la rabbia.
Se volevano spaventarmi ci erano riusciti benissimo. Il
cuore mi batteva a mille. Che si stessero prendendo gioco
di me?
Il vecchio parlò a voce alta. « Il ragazzo è un gemello, va
protetto come se fosse un nostro figlio. Da oggi non sarà
più soltanto un gagiò per noi, sarà Ciro... Ciro del popolo
degli uomini ».
Del mio giuramento, per quella e per le sere a venire,
non si parlò più.
Con un gesto, come per scacciare quella presenza male-
fica, il vecchio fece partire una musica lieve e tutti presero
a danzare. Le mani di Paco volavano sulla chitarra, ma la
musica, che pure avrebbe dovuto essere allegra, era incri-
nata in profondità da una vena di malinconia.
Suonavano piano per paura che qualcuno li udisse pas-
sando nei dintorni e tenevano i carri a cerchio per coprire
la vista del piccolo fuoco.
Salem era strano, pensieroso. Fu allora, forse per disto-
gliermi dai cattivi pensieri, che mi invitò ad alzarmi e a fa-
re due passi; dato che non ballavo, potevamo parlare dei
nostri affari.
Mi alzai volentieri. Salem mi salvò portandomi via con
sé, perché fra le donne e gli uomini che ballavano intorno
al fuoco e i bambini piccoli che si muovevano fra le loro
gambe, c’erano anche ragazzi e soprattutto ragazze della

82
mia età. Le ragazze erano zingare tutte uguali, con le loro
facce scure e i lunghi capelli neri, zingare come se ne in-
contrano ovunque, e se le avessi riviste non avrei saputo ri-
conoscerle. Ma a un certo punto una di loro si voltò e mi
guardò con occhi incredibilmente belli e mi sorrise. Avrà
avuto quindici anni, o comunque sia mi sembrò più gran-
de di me, e riuscì a catturare la mia attenzione con la sua
bellezza. Rimasi imbambolato, a bocca aperta come uno
sciocco di fronte a un prodigio. Non avevo molta pratica
con le femmine, a scuola da bambino le odiavo perché era-
no delle smorfiose che mi prendevano in giro per i miei
abiti rattoppati e i miei capelli color del grano, ma la bel-
lezza, quella sì, la conoscevo per averla avuta sempre ac-
canto fin dalla nascita, e su di me aveva un grande ascen-
dente. Tuttavia, guardando quella ragazza ballare con una
grazia da airone intorno al fuoco, provai qualcosa che non
avevo mai provato prima: la gola mi si asciugò e fui preso
da un gran caldo. Ci guardammo ancora e sentii il mio
cuore battere ogni secondo, mentre le mani in un’unica
onda di calore mi si inumidirono di colpo. Fui grato a Sa-
lem per il suo invito. Davvero non avrei saputo come com-
portarmi e dove guardare se fossi rimasto e, da lì in avanti,
molto probabilmente, avrei fatto la figura dello sciocco.
Ci sedemmo sul retro dell’accampamento sugli scalini
di un carrozzone di legno che mi ricordava i carri dei pio-
nieri che una volta avevo visto al cinema di Gariburdera.
La notte era fresca e nel cielo un filo di luna limpidissima
si sforzava di illuminare la notte riuscendo appena a ca-
rezzare la sommità degli alberi e il contorno del bosco. Mi
aspettavo che mi chiedesse della lista, e invece tirò fuori
un altro discorso, che non c’entrava nulla di nulla e al qua-
le non feci gran caso.
Mi chiese del professore che era arrivato da poco in cit-
tà, se lo conoscevo, e quando era arrivato e se l’avevo mai

83
visto o ci avevo mai parlato. Pensai dovesse curarsi. Gli
dissi ciò che sapevo, e non era granché. Il tipo faceva vita
ritirata, io non l’avevo mai visto e anche Nandina alla qua-
le non sfuggiva nulla l’aveva visto solo una volta. Parve de-
luso. Allora gli dissi della gamba della Signora piena di mi-
lioni, ma non parve eccitarsi particolarmente all’idea. Co-
sì, stavolta fui io a essere deluso.
« Non ancora » disse serio. « Tieni queste informazioni
da parte per quando sarà il momento ».
« Ma come? »
Non riuscivo a comprendere questo disinteresse: mi
aveva portato fino a lì con mille discorsi e adesso che gli
stavo dando ciò che cercava, neanche mi ascoltava.
Ne approfittai per cambiare discorso.
« Quella carta, che cosa significa? » domandai.
« Niente » mi rassicurò. « Gli zingari sono superstiziosi,
esagerano sempre ».
Ma avevo visto bene i suoi occhi quando la chiromante
l’aveva voltata, e sapevo che stava mentendomi.
« Di mio padre però non mi ha detto niente ».
« Le carte dicono ciò che ritengono sia più importante
dire... »
Fummo interrotti dalla ragazza che avevo visto e che mi
aveva guardato. Evidentemente era venuta a cercarci. Si
sedette accanto a noi.
« Vi disturbo? Dovete parlare? »
La guardai sedersi e mi sentii avvampare. Salem ci pre-
sentò e io strinsi le sue dita affusolate nella mia mano ma-
dida. Seppi così che si chiamava Mercedes.
Rimanemmo in silenzio. Salem propose che mi facessi
leggere la mano da lei ed elogiò la sua bravura divertito.
Lei mi prese la mano chiara capovolgendola fra le sue
che quasi si confondevano con il buio. Si chinò a guardar-
la da vicino e sentii il suo fiato di colomba sulle dita.

84
« Voglio sapere solo di mio padre » dissi. « Non mi im-
porta di tutto il resto. C’è scritto se mio padre tornerà? »
Lei guardò la linea della vita troncata in due da una pie-
ga netta come un taglio che, come mi spiegò, indicava un
prima e un dopo. Poi valutò toccandolo il monte della for-
tuna e disse che era molto potente. Chini sulle mani i no-
stri capelli si sfioravano e sentivo il suo profumo di mu-
schio selvatico.
‘Non è vero che gli zingari sono sporchi’ pensai. Infine
mi guardò dritto negli occhi. Era davvero bellissima. La
donna più bella che avessi mai visto, più bella anche della
mamma. Trepidante attesi il suo responso. Il suo volto fu lì
a un palmo dal mio. Finalmente la sua bocca si aprì in un
sorriso e mormorò: « Sì, certo che tornerà ».

85
XV

Per quanto ne so poteva anche essere un poco di buono. An­


che se mi piace pensare che non sia così. Incastrato però,
questo sì, potrebbero averlo incastrato.
Adesso lo vedo. La porta si apre e lui viene spinto avanti
da una guardia in uniforme. Indossa già quella specie di pi­
giama e si guarda attorno spaurito. Volge gli occhi al cielo e
vede le celle, arrampicarsi una sul­l’al­tra, corridoio sopra cor­
ridoio, scala su scala, come in un gioco di scatole cinesi.
Dalle inferriate si sporgono i volti della feccia del­l’uma­ni­
tà. Basta guardarsi intorno per capire, per sentire che di in­
nocenti non ce ne sono. Se c’erano, dopo poco che erano là
dentro, avevano smesso di esserlo.
Dal cielo viene giù una luce smunta, livida e le facce grot­
tesche lo guardano storcendo la bocca come in un incubo,
allungano le mani dalle inferriate per ghermirlo al suo pas­
saggio. Da un’ala al­l’al­tra, da un piano al­l’al­tro, fischiano,
chiamano, provocano facendo colare sul pavimento tutta la
loro cattiveria, la rabbia di chi è costretto a muoversi avanti
e indietro in pochi metri e ha la mente offuscata dalla pazzia
ipnotica del leone fatto prigioniero.
« Ehi, signorina! »
« Abbiamo un biondino! »
« Vieni qua, dammi un bacino! »
La testa gli esplode dalla paura, è tentato di guardarsi in­
torno disorientato, di gettare per aria l’asciugamano e la ga­
vetta che regge fra le mani tremanti e scappare, ma sa che
non deve mostrare di aver paura. Lo sa per istinto, sa che de­

86
ve farsi forza e non cedere adesso o sarà in loro balia per
sempre. Allora fissa gli occhi sul colletto blu, inamidato, del­
la guardia che lo precede. Vede il sudore che vi si fa strada
con una macchia screziata di un blu più intenso. Sente l’o­
dore di sudore e di dopobarba del tipo che procede sicuro
nella sua uniforme con il manganello in mano e gli fa stra­
da, gli volta le spalle certo che da quel biondino non avrà
problemi.
Allora le urla si attenuano, svaniscono quasi e rimane so­
lo quella macchia che si fa strada sul colletto, sotto la pelle
che si tira a ogni passo, perfettamente rasata anche lì, anche
sul collo.
La forma di quella macchia gli ricorda il contorno scre­
ziato di certe spugne marine viste su un giornale, ma anche
i funghi, i funghi del legno che ha visto in Italia sui tronchi
dei larici e che da quelle parti chiamano orecchi di lepre o
scarpe di gnomo.
Non riesce a ricordarlo, possibile che non riesca a ricor­
darlo? Rammenta perfettamente il volto della vecchia che
glielo spiega vicino a Pennabilli nelle Marche. Sente il sapore
del tartufo sulla lingua perché quella vecchia era straordina­
ria a trovare i tartufi, ma non ricorda esattamente il nome
che la gente dà lì alle ceppaie del larice. Adesso che la guerra
è passata, avranno ricostruito la strada e forse anche una
scuola in quel piccolo borgo dove furono accolti come libe­
ratori a polenta e tartufo.
Pensa tutte queste cose e sente le lacrime salirgli agli occhi
e incrinargli la gola fattasi dura come un calice di cristallo.
Allora respira, gli occhi fissi sulla macchia che avanza, e
ricaccia le lacrime nel calice, e sa che non deve pensarci per­
ché se ci pensa sarà perduto. Eppure, la mente gli ritorna di
continuo alla sua moglie italiana bella come una dea.
Il suo carceriere ha avuto pietà. Sa che ha combattuto in

87
Italia come suo genero che c’è morto e gli dice, confidenzial­
mente prima di spingerlo dentro la cella:
« Era meglio se eri morto anche tu. Se morivi là, forse ti
sarebbe toccato il paradiso. Invece così sei finito all’inferno
prima del tempo ».
Quando la minuscola cella si chiude si avvede subito che
c’è uno che dorme disteso sulla branda inferiore del letto a
castello e un odore sgradevole e rancido lo investe togliendo­
gli il fiato. Pian piano le voci si placano e anche i più aggres­
sivi smettono di chiamare. Gli promettono di incontrarlo
presto, lo minacciano, qualcuno manda dei baci di benve­
nuto beffardo.
Lui rimane in piedi per paura di svegliare l’uomo che dor­
me ma, nel posare gli asciugamani logori, la gavetta gli cade
in un frastuono d’inferno. La raccoglie allarmato ma l’altro
neanche si sveglia, abituato com’è a dormire con ogni sorta
di rumore.
‘Vent’anni. Vent’anni’ pensa, e si avvicina alla parete, ci
appoggia la testa in cerca di un po’ di refrigerio, batte piccoli
colpi con la fronte nel muro ruvido, perché quel pensiero gli
è insopportabile.
Uscirà vecchio da quella cella e non sarà mai più quello di
prima.
L’ha detto in tutte le lingue che lui non c’entrava, l’ha ur­
lato con tutto il fiato che aveva in corpo, ma non gli hanno
creduto.
Sì, più ci penso e più mi dico che è così che potrebbe esse­
re andata.

88
XVI

Che valore può avere la profezia di una giovane zingara


inesperta? Anche Angelino che forse era un diavolo l’aveva
detto: non si può leggere il futuro. E poi gli zingari sono
bugiardi e di certo Mercedes aveva detto così per farmi
piacere. Eppure, nonostante tutto ciò, l’idea di quel re-
sponso mi confortava. Mia madre doveva aver ragione.
Raccontai tutto a Dario, ma lui non rispose, ancora im-
bronciato per la mia assenza. Lo sentivo dentro di me che
mi teneva il muso.
Verso le nove Nandina entrò in cucina per scaldare il
latte, non mi vide, venne in camera e mi scosse delicata-
mente come faceva lei afferrandomi la maglia con le mani
ossute.
« La notte leoni e la mattina... » sentenziò, lasciando in
sospeso la frase. « Sei tornato tardi, stanotte. Ti approfitti
di quella povera donna che la sera crolla e non la sveglie-
rebbero neanche le cannonate, ma io sono stata in pensie-
ro. Dov’eri? »
« A pescare al lago » mentii. « Mi sono addormentato sul-
la riva e quando mi sono svegliato erano già le quattro ».
« Bel modo di farsi mangiare vivo dai cinghiali! »
Risi delle sue paure da contadina. « Così a crudo? Senza
neanche un filo d’olio o un pizzico di sale? » scherzai.
« E i pesci? Dove sono i pesci? » mi incalzò astuta.
« Avevo pescato solo due piccole tinche, le ho ributtate.
Non valeva la pena, povere bestie ».
« Ahhh! Ecco! » commentò beffarda, gli occhi piccoli e

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furbi come quelli di una bimba. « Sei un fenomeno. Lasci
la canna a casa e riesci lo stesso a pescare due tinche. Non
è mica da tutti. Pensi di far fessa Nandina tu, eh? »
Cercai una scusa, nella testa, ma già sapevo che era inu-
tile con lei.
« Non dirlo alla mamma. Ha già tanti pensieri » la pre-
gai.
« Non ti chiedo dov’eri per risparmiarti una bugia di
fronte al Padre Eterno. Sappi però che la notte, la gente
per bene sta a casa, a giro ci vanno le bestie notturne, i la-
dri e gli assassini! »
Dario rise compiaciuto dentro di me.
« Ma no! » dissi. « Non faccio niente di male ».
« Quando ti viene un’idea conta prima fino a cento, e
pensa a quella povera donna. Ci mancherebbe solo che ti
succedesse qualcosa o ti mettessi nei guai ».
Non sapevo davvero che dire. Nandina era sempre stata
così, capace di metterti a nudo con quattro discorsi. Le sue
parole rimestarono la mia coscienza e nuovi sensi di colpa
presero a lievitare.
« Te l’avevo detto! » incalzò Dario.
Me la rifeci con lui nei pensieri:
‘Vuoi lasciarmi in pace, per favore? Vuoi star zitto! Non
eri morto, tu?’
« Non lo so » mi rispose. « Questo dipende da te. Hai sem­
pre detto di no... e adesso? »
‘E adesso chetati!’ gli urlai nella mente, e uscii di casa
con un diavolo per capello.
Non ci fu tempo però per pensare a quello che avevo
detto e per chiedergli scusa, perché con il latte erano arri-
vate anche le notizie dal paese. Se ne parlava ovunque, nel-
le botteghe e nelle piazze.
« Se c’è la mano, ci sarà anche il morto! » diceva la gente.
« Ma dove l’hanno trovata? »

90
« Nel bosco, laggiù nel borro degli Amaioni. Nel bosco
sopra casa di Angelino! »
« Lo dicevo io! »
La notizia affilava le lingue come la pietra dell’arrotino
le lame e presto Nandina venne con tutta la storia e ce la
raccontò, guardandomi storto come per capire se io, con
la mia assenza notturna, ci entrassi qualcosa.
Andando a caccia con il cane di mattina presto, il vec-
chio Casprini aveva sparato a un gruppo di cinghiali arri-
vandogli sottovento ma, come al solito, non ne aveva preso
nemmeno uno e gli esperti al bar scuotevano il capo e di-
cevano che con un fucile a pallini da fagiani aveva fatto
male anche a provarci. Il cane però era corso sul posto ed
era tornato con una mano tutta mangiucchiata in bocca.
Al pover’uomo per poco non era preso un colpo. Trattavasi
di una mano d’essere umano tagliata di netto. Tutta la zo-
na era stata frugata da capo a piedi per trovare il corpo del
malcapitato, ma senza esito. Esclusa l’ipotesi che qualcu-
no se la fosse tagliata volontariamente o per sbaglio e l’a-
vesse poi lasciata lì, non potendosi interrogare gli uccelli
notturni e le allodole, era stato fermato Angelino come
principale sospettato.
Alcuni erano emozionati dall’avvenimento che giunge-
va, dopo anni di tranquillo tran tran paesano, come un
balsamo a ridestare il gusto e la gioia di vivere di chi sente
sfilargli accanto il male, ma può guardarlo passare rima-
nendo al sicuro intorno al tavolo del biliardo o sotto il ca-
sco della parrucchiera. Altri, invece, vecchie beghine o ma-
dri ansiose, presagivano l’inizio di sventure senza fine,
chiudevano le porte a tre mandate e spolveravano i croci-
fissi, convinti com’erano che il diavolo sarebbe andato a
scovarli fin nel loro letto.
Io immaginavo Angelino al cospetto del Maresciallo Ta-
gliafossi. Lì avrebbe pur dovuto togliersi il cappello e far

91
vedere le corna. Rabbrividii all’idea di ciò che avevo ri-
schiato sfidandolo e pensai con rammarico che quella ser-
pe velenosa dell’Acrimene aveva in qualche modo sempre
ragione.
La notte seguente lo sognai. Eravamo di nuovo in casa
sua e io con una mano sul tavolo e il bicchiere d’acqua nel­
l’al­tra urlavo: « A che servono tutti questi libri! A niente,
ecco, tanto varrebbe bruciar... »
Non facevo in tempo a finire la frase che lui, smettendo
improvvisamente di cincischiarsi le mani, sollevava la te-
sta e mi guardava con due occhi rosso rubino e con un ge-
sto rapidissimo estraeva dalla manica una mannaia e ca-
landola con tutta la sua forza mi tagliava a metà le dita
della mano poggiata sul tavolo.
Nel sogno vidi le punte delle dita schizzare via come ca-
vallette e cadere sul pavimento. Mi svegliai urlando e subi-
to mi accertai di avercele tutte contandole a una a una e
controllandone l’integrità. Mia madre, sfinita, non sentì,
ma Nandina accorse in vestaglia.
« Cosa urli? » mi domandò. « Sei tutto sudato. Hai avuto
un incubo. Così impari ad andartene in giro solo di notte! »
Bevvi del­l’ac­qua.
« Ho sognato lo strego! » le dissi.
« Chi? »
« Angelino, quello che hanno arrestato ».
« Ma va’. Angelino? » rise. « L’hanno già rilasciato. Cosa
vuoi che c’entri quel povero diavolo con la storia della ma-
no? Tu, piuttosto, sei sicuro di non saperne nulla? »
Questa poi. Il povero diavolo era innocente, e io sospet-
tato.
La guardai. « Te lo giuro! » le dissi, e lei capì che stavolta
non mentivo.
Ridendosela tornò verso il suo letto e dovetti trattener-
mi da non tirarle dietro il bicchiere per la stizza.

92
*

Quando tornai all’accampamento raccontai tutto a Salem.


Questi, saputo della mano, si lasciò sfuggire un’esclama-
zione nella sua lingua e disse: « Evidentemente c’è qualcu-
no a cui piace tagliare a pezzi la gente in paese. Bisogna
stare attenti, non farsi vedere, se ci notano daranno subito
la colpa a noi zingari. È sempre così, è il prezzo di vivere
liberi e di non possedere nulla. Presto si accorgeranno che
siamo qui. Un pescatore o una guardia venatoria arriverà
in paese a prendere un punch e dirà che giù al lago si sono
accampati gli zingari. Le persone sbarreranno le porte con
più attenzione e smetteranno di far allontanare da casa i
bambini. Le guardie notturne staranno più all’erta, qual-
cuno inizierà a dormire con un occhio aperto e tutto di-
venterà più complicato ».
Non seppi come commentare, l’avrei fatto an­ch’io: sa-
pendo degli zingari avrei sbarrato la porta per paura che
venissero a rubarmi la mia miseria. Invece ero andato ad
avvertirlo degli ultimi avvenimenti con il barchino di don
Caldine e appena messo piede nell’accampamento tutti i
bambini mi si erano fatti incontro gridando: « Ciro! Ciro!
Ciro! » e abbracciandomi come un buffo fratello maggiore.
Almeno per loro non ero il bastardo: un giorno per tutti
loro, nella loro memoria di uomini adulti, sarei divenuto
Ciro del popolo degli uomini, Ciro degli zingari, come ave-
va detto il vecchio, ma ancora non lo sapevano. Ero solo
un essere buffo con cui giocare.
Gli anziani e gli uomini si riunirono subito, Salem man-
dò i bambini a svegliare chi dormiva ancora, un uomo che
intrecciava un paniere di vetrice seduto di fronte al suo
carro rosso e verde che aveva su scolpita la faccia primiti-
va di una Madonna nera si interruppe e venne verso di noi
scuotendosi i pantaloni.

93
Quando seppero della mano ne rimasero fortemente
impressionati. Alcuni fecero segni di scongiuri e una vec-
chia urlò nella loro lingua che era il segno! Era il segno!
Sfortuna! Sfortuna! Disse che era così che faceva la Bestia
e nominò il nome di una città straniera che non avevo mai
udito e che dimenticai subito.
Parlarono a lungo, nella loro lingua, sovrapponendosi,
senza che io potessi capire più di qualche parola. Il vec-
chio, in italiano perché an­ch’io capissi, consigliò di non
accendere più fuochi, di non suonare più musica, che si
razionassero le provviste per farle bastare, di fare attenzio-
ne ai bambini e di non farsi vedere. Nessuno doveva allon-
tanarsi dall’accampamento, se non i custodi. Disse proprio
così, i custodi. « La Bestia è vicina » disse. « Occorre essere
certi, occorre muoversi in fretta ».
Guardai Salem per capire. Ero di nuovo senza Dario,
senza la mia paura. Ma anche la rabbia era svanita dentro
di me e i miei pensieri si accavallavano su questa storia
della Bestia e della mano tagliata. Allora presi a raccontar-
gli di Angelino. Mi ascoltò, anche lui senza dare molto pe-
so al mio racconto.
« È lui la Bestia? » domandai.
« Non credo proprio » mi disse risoluto.
« Sai chi è? »
« Forse » rispose. « Ma occorre essere sicuri ».
Ancora una volta quello zingaro si trasformava sotto i
miei occhi: zingaro, ladro, anarchico e ora esperto di de-
moni e cacciatore di bestie maligne. Non ero mai stato co-
sì confuso.
« Te la senti ancora? » mi domandò.
« Non lo so. Questa cosa della Bestia mi agita. Non so se
me la sento di andare fino in fondo. Ho promesso a mia
madre di non morire ».
« Non si dovrebbero fare promesse come quella, dal mo-

94
mento che il destino non dipende da noi » mi ammonì se-
rio.
« Avevo tre anni quando l’ho promesso ».
« Bene! Domani sera noi faremo la prima uscita. Se
cambi idea vestiti di scuro e fatti trovare alla chiesina di
Sant’Anna poco fuori paese verso mezzanotte ».
« Altrimenti? »
« Altrimenti niente. Tieni la bocca chiusa, vai per la tua
strada e buona fortuna! »
« Ci penserò » dissi.
« Ricordati comunque che non dipende da te. Se ti può
consolare, da qualche parte è tutto già scritto ».
Ci stringemmo la mano.
« Oppure da qualche parte qualcuno sta scrivendo » dis-
si, e mi avviai.
Ma la mia mattinata non era ancora finita. Quando tor-
nai indietro, mentre mi inoltravo nel sentiero del lago, fui
aggredito alla spalle e afferrato saldamente da un esile
braccio intorno alla gola. Un lama comparve sotto il mio
mento quando feci per muovermi e voltando appena gli
occhi riconobbi un bambino dell’accampamento che ave-
vo già notato e che non doveva avere ancora dieci anni.
« Non ho nulla! » urlai. « Non ho nulla da rubare! »
Poi sentii le sue labbra parlarmi piano nel­l’orec­chio:
« Tu lascia stare mia sorella, tu non guardi lei e non parli
lei più. Se tu parli lei io ammazzo te! »
« Mi ha solo letto la mano! » supplicai.
Ci fu un rumore di passi e una mano adulta e scura si
avventò sul braccio del bambino che mi fu letteralmente
strappato di dosso e volò a terra nella polvere.
Mi voltai e vidi uno zingaro sui trent’anni, insolitamen-
te alto, dal portamento fiero e il fisico possente di un gi-
gante dai lineamenti quasi indiani. Gli urlò delle parole di
rimprovero nella loro lingua, e l’altro gli si rivoltò urlando

95
a sua volta e mostrando il coltello con una foga che mi fece
pensare a un serpente a sonagli. Poi scappò via.
L’uomo rimasto mi disse: « Devi stare più attento, picco-
lo gagiò. Noi sinti non vi vogliamo intorno alle nostre don-
ne ».
Tentai di dire qualcosa, ma lui scomparve di nuovo nel
bosco e per un po’ lo sentii che mi seguiva da lontano, in-
visibile come un’ombra. Pensai che volesse accertarsi che
non tornassi indietro. Quando arrivai al barchino ci trovai
Mercedes seduta dentro che penzolava i piedi nel­l’ac­qua.
Così, con i capelli luccicanti nel sole e la pelle ambrata era
ancora più bella della prima volta che l’avevo vista e le ave-
vo parlato.
« Ciao! » mi disse.
« Ciao! » risposi, mio malgrado felice di vederla lì. « Ho
appena conosciuto uno dei tuoi fratelli. Forse sarà meglio
che tu mi dica quanti ne hai e di che stazza ».
Rise della battuta rivelando i denti bianchi e i suoi occhi
di gazzella scintillarono. « Ho solo quello e una sorella
maggiore. Scommetto che è venuto a cercarti con il col­
tello ».
« Già! » ammisi.
« Tutta scena. Mio padre non c’è più e lui è l’unico uomo
in famiglia. Si allena a fare il fratello geloso ».
« Se è così mi sembra gli riesca bene ».
« Quando torno a casa gli insegnerò io a farsi i fatti
suoi » disse. « Non avrai mica paura di lui? »
« Chi, io? Io non ho paura di nessuno ».
Lasciò andare il discorso, come se si fosse trattato di
una cosa di poca importanza, e mi si avvicinò.
« Allora ci aiuterai? Aiuterai Salem? »
« Non lo so. Che differenza c’è fra me e uno dei vostri ra-
gazzi? »
« Tu conosci il paese, la gente, le strade ».

96
« L’ho pensato an­ch’io. Pensavo volesse una lista, invece
non ci pensa nemmeno più ».
« Ci pensa, ci pensa, dagli tempo. Imparerai come ragio-
nano gli zingari, lui poi è un rom ».
« Già, siete strani da capire ».
« Senti chi parla. Il signor Capelli d’oro! »
« Non volevo offenderti ».
« Allora ci aiuterai o no? »
« Non lo so. Devo riflettere ».
« Che bisogno hai di riflettere? Sempre a riflettere, voi
gagé: ma avete acqua o sangue nelle vene? Aiutaci! Fallo
per me! »
Era diventata focosa, passionale, mi stava vicina vicina
e mi guardava dritto negli occhi.
« Per te? » deglutii, abbassando lo sguardo mio malgra-
do imbarazzato.
« Sì, per me! » disse decisa.
« Forse lo farò » mormorai impressionato da quell’ardo-
re e da quella richiesta così sfacciata.
« Grazie! » mi disse, e rapida si sporse verso di me ba-
ciandomi. Sentii il suo profumo selvatico e la morbidezza
della sua bocca sulle labbra, feci per abbracciarla a mia
volta come nei film ma lei era già scappata. Rideva e ride-
va, coprendosi la bocca. Volò su per il viottolo sempre ri-
dendo come una pazza e io ero lì indeciso come al solito:
non sapevo se sentirmi preso in giro o spiccare il volo sul
lago e roteare nel blu come una rondine o un martin pe-
scatore. Mi toccai le labbra incredulo. Era il mio primo ba-
cio.

97
XVII

Trascorsi il giorno seguente in preda a un’agitazione in-


contenibile. Cercai di dormire al pomeriggio, come mi
aveva detto di fare Salem, ma senza riuscirci. La Bestia
che indicava un pericolo mortale, la mano ritrovata nel bo-
sco e ora anche quel bacio. Avevo tredici anni e, nonostan-
te la mia ostentata cattiveria, ero puro come un angelo e
nessuno mi aveva spiegato mai nulla. Le galline facevano
le uova, le api fecondavano i fiori e gli uomini facevano i fi-
gli, per quel che ne sapevo e che mi avevano sempre detto,
poteva bastare un bacio. Girai intorno a Nandina per un
bel po’ senza avere il coraggio di chiederle nulla e poi mi
ritrovai in chiesa, da don Caldine. Quel­l’uo­mo mi aveva in-
segnato tutto ciò che sapevo. Con la sua pazienza da vec-
chio prete ostinato mi aveva insegnato a scrivere, leggere e
far di conto e poi i Romani, i Greci, gli Etruschi e le api.
Ma il capitolo baci l’aveva saltato.
La Pieve era situata un po’ fuori dal paese, sulla sommi-
tà di una collina mal lievitata, al termine di una stradina
piana, dal ciglio alto, costeggiata da rovi di more, case co-
loniche e orti colmi, a seconda della stagione, di baccelli,
ciliegie e fichi da rubare. Sul davanti aveva un grande pra-
to circondato da un muretto e al suo fianco pisolavano
quieti tre grandi cipressi appuntiti. D’impianto romanico,
nella sua semplicità disadorna la Pieve era bellissima e il
rosone dietro l’altar maggiore esplodeva di colori sul tufo
giallo crema delle pareti illuminando le grandi colonne,
l’altar maggiore, e una madonnona pallida e severa, in abi-

98
to scuro. Era questa la Madonna che aveva gettato scompi-
glio fra i fedeli il giorno che il farmacista aveva proposto di
portarla in processione come facevano i vecchi il tredici
agosto, come Madonna della neve, anziché il sette novem-
bre, come Madonna dei dolori. Usanza quest’ultima intro-
dotta da un prete di Pescara verso l’inizio del secolo, che,
testuali parole dello speziale: ‘Delle cose di qui non ci ave-
va mai capito un emerito piffero’.
Tutti avevano detto la loro e alla fine si erano create due
fazioni l’un contro l’altra armate, fra maldicenze, dispetti e
velenosissime lettere anonime.
« Dolori! »
« Neve! »
« Dolori! »
« Neve! »
Don Caldine l’aveva ribattezzata la Madonna della di-
scordia e aveva risolto il problema dismettendo ogni sorta
di processione, così adesso la Madonna sembrava ancora
più imbronciata del solito.
Quando entrai nella chiesa fresca e ombrosa, mi lanciò
un’occhiata torva dal suo piedistallo. Non le badai. Io cer-
cavo il mio mastro pievano e lo trovai che stava sisteman-
do delle candele: la fiamma dei suoi capelli bianchi e arruf-
fati rivelava la sua presenza nell’abside destro sotto il qua-
dro di Sant’Antonio da Padova. Di soppiatto gli arrivai alle
spalle, e quando si accorse di me si voltò di soprassalto.
« Ecco il mio fenomeno! Te lo sei fatto il segno della cro-
ce entrando? » mi chiese subito polemico.
« Sì! » mentii, ancora con il fiatone per la corsa che ave-
vo fatto e guardai il quadro del santo con Gesù bambino in
piedi sulle sue ginocchia che additava il cielo.
« Devo parlarle urgentemente! » dissi facendomi serio.
Spiccio e risoluto come al solito, voltò gli occhi al cielo

99
a invocar pazienza: « Vieni, seguimi di là in sacrestia. Sen-
tiamo che hai combinato ».
Esitai un po’ imbarazzato.
« Allora? »
Tanto valeva andare subito al sodo.
« Ho... ho... »
« Hai? » leggermente strabico mi guardava con l’occhio
torvo, piegando di lato la testa ossuta, sulla quale fiaccola-
va la massa scomposta dei suoi capelli bianchi.
« Ho baciato una ragazza ».
« Però. L’ho detto che sei un fenomeno! »
« Forse non mi sono spiegato bene. Mi ha baciato lei ».
« Bello stomaco! » commentò sarcastico.
« Ma sono pronto a prendermi le mie responsabilità »
dissi. « Anche se è stato un bacio a tradimento ».
« Chi è questa sciagurata che dà baci a tradimento? »
« Non la conosce: una ragazza di città! » mentii.
« Siete fidanzati? » indagò.
« Non lo so. Però mi ha baciato e se dovesse nascere un
bambino... insomma... cosa devo fare? »
Sgranò gli occhi sospettoso e si chinò in avanti a scru-
tarmi per accertarsi che non mi stessi prendendo gioco di
lui. Quando vide l’angoscia nei miei occhi seguitò con tono
inquisitorio: « E com’è stato questo bacio? »
« Bellissimo! » risposi d’impulso.
« Chi se ne frega! » urlò esasperato. « Com’è stato, cosa
avete fatto! »
« Sulle labbra, veloce e... umido » spiegai sempre più
preoccupato, abbassando gli occhi per l’imbarazzo.
« Quanti? »
« Uno, solo uno... piccolo! »
Sorrise improvvisamente divertito. Poi si ricompose fa-
cendosi serio e accigliato nel lungo abito nero.
« Dunque temi che lei possa essere rimasta incinta? »

100
« Sì » ammisi. « Come successe alla mamma con il bab-
bo ».
« Già! » convenne serio, schioccando la lingua. « Di certo
bisognerà che tu ti sposi, ti trovi un lavoro e tutto il resto il
prima possibile ».
Lo guardai sconsolato.
« Avrai tutte le spese del matrimonio. Poi potrebbero es-
sere due gemelli, come nel caso di tua madre, o addirittura
tre! »
Solennemente delineò tutto il quadro appuntando im-
placabile le spese con una matita sul retro di una busta: la
casa, i lenzuoli, il latte, il biberon... Non so come fece, non
gli stavo dietro e mi sentivo morire: arrivò a venti milioni
di lire in un battibaleno.
« Ci sono non pochi problemi, come vedi, ma il proble-
ma più grosso per questo bambino sarà un altro ».
« Quale? » domandai con un fil di voce, oramai floscio
come un cencio sul tavolo della sacrestia, con lo stomaco
sottosopra agitato da una gran voglia di vomitare.
« Quello d’avere un padre carciofo, che a tredici anni
non sa come si fanno i bambini e si riproducono gli ani-
mali! Bastasse un bacio il mondo strariperebbe di neonati,
bischero! Levati di qui che non c’ho tempo da perdere! E
quando passi da un pollaio guarda cosa fa il gallo con la
gallina! »
Me ne andai deluso, umiliato, lungo la via, con una gran
voglia di strozzare quel prete o di fare come il marito di
Nandina, uomo religiosissimo, che per quella strada aveva
seminato migliaia di bestemmie.
Nandina me lo raccontava divertita, quasi con orgoglio.
« Era sempre in contatto con Dio, lui! Cosa avrebbe fatto
senza quella consolazione! »
Gustavo, così si chiamava, faceva il carraio nell’Ortac-
cio, vicino alla piazza. Costruiva i carri e faceva anche le

101
ruote. Forse poco preciso, certo poco paziente, quando ar-
rivava a infilarci il cerchio di ferro non gli c’entrava mai.
Allora dalla disperazione prendeva a bestemmiare come il
giorno del castigo a ogni martellata e sempre imprecando
sfilava per il paese con la ruota sbilenca per andare a com-
pletare l’operazione sul sagrato della Pieve, in modo che
‘Lui là sentisse meglio!’
Dava un colpo di martello a destra e il cerchio usciva a
sinistra, e viceversa, all’infinito: un colpo, una bestemmia.
A sera, quando finalmente riusciva nel suo intento, incre-
dulo poggiava la ruota alle colonne del portico, entrava in
chiesa e metteva una candela alla Madonna, poi recupera-
va la ruota, la rizzava e la rispingeva fino in bottega, zitto,
a testa bassa, pentito, vergognandosi della gente che anda-
ta e ritorno lo spiava dalle finestre. Giunto in bottega si in-
ginocchiava sotto un altarino con l’immagine di San Giu-
seppe falegname e diceva un rosario dietro l’altro fino a
sentirsi meglio. Il giorno dopo toccava al­l’al­tra ruota!
Calcolando che un carro ha due o quattro ruote, mi misi
a pensare a quante bestemmie poteva aver detto Gustavo
in vita sua riuscendo comunque, secondo la moglie, a gua-
dagnarsi il paradiso perché, nel bene e nel male, era sem-
pre rimasto in contatto con Dio. « Ci litigava come con
me » mi spiegava Nandina. « È così che succede, quando ci
si vuole bene. Mica come questi atei d’oggi, non sanno più
né bestemmiare, né pregare, lo ignorano. Loro sì che gli
toccherà l’inferno! »
Ogni volta che mi veniva voglia di bestemmiare pensavo
a Gustavo, ma poi pensavo anche che lui diceva il rosario e
che io, il rosario, non c’avevo voglia di dirlo e allora tanto
valeva non bestemmiare da subito. Anche perché quel
giorno il pensiero di non esser più padre mi alleggeriva l’a-
nima e nel camminare lungo la strada mi sembrava di vo-

102
lare. Avevo anche promesso, però. Quel bacio, a pensarci
ora, era stato come un bollo su un documento. Il bacio l’a-
vevo preso, e Bestia o non Bestia, quella notte sarei dovuto
andare.

103
XVIII

Con l’ansia di far tardi, stando attento a non farmi sor-


prendere da Nandina, mi ero calato dalla finestra lungo il
tubo della grondaia e da lì sul ramo del noce per ridiscen-
dere da quello fino a terra. Dal­l’età di dieci anni avevo ini-
ziato piano piano a scalare il noce, ogni giorno un po’ più
in alto, per sfidare la mia paura dell’altezza, e adesso pote-
vo farlo senza far rumore. Il nostro cane non abbaiò, rico-
noscendomi. La notte profumava di fieno e d’erba. Ebbi un
brivido. Ancora una volta avevo lasciato Dario a casa con
la sua prudenza. Forse dormiva, dal momento che stavolta
non aveva detto nulla. Forse, se quella mattina fosse stato
con me, avrei dovuto dividere il bacio di Mercedes con lui
e ne sarei stato geloso. Come avrei fatto a sposarmi Merce-
des con lui dentro di me? Mica potevo sposare due donne,
ed essere lì con le mie labbra quando lui baciava la sua?
Non ci avevo mai pensato prima. La luna non c’era più.
Salem sapeva il fatto suo. Camminando sul viottolo nel
buio, stentavo a vedere la strada nera e distinguevo appena
il contorno degli alberi. Presto fui circondato da migliaia
di lucciole che salendo su si confondevano con le stelle di
un cielo immenso. Potevo distinguere perfettamente il
grande carro. Per un attimo credetti che mi sarebbe basta-
to allungare la mano per toccarlo. Presi a far finta di volare
nell’universo, in quel pulviscolo di luci, oramai lontano
mille miglia dalla Terra. Ancora non potevo nemmeno im-
maginare che presto l’uomo sarebbe sbarcato sulla Luna,
ma ero certo che se fosse accaduto qualcosa del genere, a

104
farlo accadere sarebbero stati gli americani. Ero orgoglio-
so che dentro di me, dentro il sangue del bastardo, ci fos-
sero tracce dei pionieri che avevano lottato con gli indiani,
vinto la guerra e costruito i grattacieli. Quando sentivo
qualcuno elogiare una macchina o un prodotto dicendo
che era americano, iniziavo a pensare che an­ch’io dovevo
essere migliore, dal momento che là, in America, tutto era
più grande e più bello. Sognavo di andarci an­ch’io in Ame-
rica, a cercare mio padre. Ma intanto procedevo a passo
svelto verso un’avventura che non mi ispirava per niente:
come cavolo avevo fatto a ritrovarmi membro di una ban-
da di zingari?
E perché, facendomi questa domanda, rivedevo gli oc-
chi verdi di Mercedes e mi si chiudeva la gola?
Pensai di essere stato il primo ad arrivare alla marginet-
ta di Sant’Anna, ma mi sbagliavo. Il fischio improbabile di
un uccello notturno rivelò la presenza di Salem, Rolandos
e Paco nascosti dietro il tabernacolo.
Salem mi guardò facendomi segno di tacere, poi sussur-
rò: « Hai camminato lungo la strada? »
« Sì ».
« Ti ha visto qualcuno? »
« No ».
« Meno male. Non si cammina lungo la strada! »
« Mettiti questo » mi ordinò passandomi un cappello di
lana nera. Poi con del carbone prese a sporcarmi la faccia.
« Ricordati di lavarti il viso prima di rientrare in casa
stanotte ».
Loro non ne avevano bisogno, avevano rinunciato alle
immacolate camicie gitane per vestirsi di scuro, e nel buio
scorgevo solo il bagliore dei loro occhi.
« Andiamo, venite dietro di me e camminate senza far
rumore ».
Mi accorsi che aveva fasciato l’estremità del bastone

105
con una palla di stoffa. Tirò fuori di tasca una torcia elet-
trica, Paco la coprì con le mani e guardarono l’ora in un
orologio a cipolla. « Fra un po’ verranno a prenderlo come
tutti i venerdì. Giusto, Scheggia? »
Paco assentì.
Camminammo per i campi, evitando di passare vicino
alle poche case fuori dal paese per non fare abbaiare i ca-
ni, e presto giungemmo alla piccola villa del Bani.
« Ma qui non ci abita nessuno » mormorai.
« È stata presa in affitto da pochi mesi » mi spiegò Sa-
lem, e ci acquattammo nell’erba dietro una fitta siepe dal
lato opposto della strada.
Mi sussurrò in un orecchio: « Tutti i venerdì, verso mez-
zanotte e quaranta, arriva un’auto a prelevare il proprieta-
rio. Nessuno rimane in casa, abbiamo controllato. Ci sono
due cani da guardia che se ci fiutano inizieranno ad ab-
baiare, bisogna stare sottovento. Adesso non resta che
aspettare ».
A mezzanotte e quaranta mi attendeva una sorpresa. Vi-
di arrivare la Lancia di mio nonno che ci sfilò di fronte
portandosi in prossimità del cancello della villa. Quella ca-
rogna scese e suonò il campanello, altre tre sagome rima-
sero nell’auto e non mi fu possibile capire chi fossero. Su-
bito due grossi cani neri corsero al cancello e presero ad
abbaiare rabbiosamente contro di lui. Lo sentii mormora-
re: « Bestiacce! »
Salem mi passò un binocolo militare. Guardai l’uomo
seduto sul sedile posteriore dell’auto dalla nostra parte: il
suo viso era in ombra, ma aveva aperto il vetro per scuote-
re fuori dal finestrino la cenere della sigaretta e sulla mano
magra illuminata dalla luce della villa notai un particolare
familiare: l’unghia del mignolo era esageratamente lunga.
Il nonno rimase ad attendere e presto il cancello si aprì e
ne uscì una figura non troppo alta che ammansì i cani con

106
un ordine duro e tagliente, pronunciato in una lingua stra-
niera.
A quell’ordine notai che Salem e gli altri si guardarono,
sgranando gli occhi. Il nonno aprì la portiera per far salire
davanti il tipo. Aveva i capelli grigi e un paio di baffi a
spazzola e portava dei grandi occhiali a specchio nascosti
per metà dalla tesa di un cappello floscio.
Stava per salire in auto quando Paco, spostando appena
una gamba, fece schioccare un rametto sotto di lui. Salem
mi spinse il binocolo verso il basso perché non si accorges-
sero del riflesso e abbassammo la testa. Fra l’erba conti-
nuavo a scorgerlo con gli occhi socchiusi. Rimase fermo a
scrutare nella nostra direzione un tempo indefinibile, sem-
brò annusare l’aria come un segugio, fece due passi verso
di noi e abbassò gli occhiali sul naso guardando nel buio,
poi li risollevò e salì in auto. Il motore si avviò e sparirono
dietro la curva.
« Adesso aspettiamo fino a che siamo certi che non torni
indietro perché ha dimenticato qualcosa. È trascurando
certi particolari che si finisce dietro le sbarre » spiegò Sa-
lem.
Aspettammo almeno dieci minuti, ma a me sembrarono
tre ore. Poi Paco si alzò e con tre balzi si portò contro il
muro della villa. Da un sacchetto estrasse tre bocconi e li
lanciò nel giardino. Subito i cani corsero verso l’esca. Mi
resi conto che tutto era calcolato al millesimo: dopo altri
dieci minuti Paco riattraversò e scosse il cancello. Nessu-
no accorse. Con la torcia illuminò il prato rilevando le sa-
gome dei cani addormentati.
Ci fece segno e attraversammo di corsa. Intanto con una
specie di grimaldello Paco aveva vinto la serratura del can-
cello, ci aveva fatto entrare e se l’era richiuso alle spalle.
Tutto taceva. Guardai quei molossi respirare nel sonno e
pensai a cosa ci sarebbe accaduto se si fossero svegliati

107
prima del tempo. Girammo tutta la casa e scorgemmo una
piccola finestra lasciata socchiusa al primo piano.
« Ciro. Tocca a te. Scheggia è troppo grande, non ce la fa
a passare dalla finestrina: arrampicati e poi aprici dal­l’in­
ter­no, così non lasceremo segni di scasso ».
Guardai la finestra.
« Pensi di farcela? » mi domandò Rolandos vedendomi
esitare.
Annuii, ma le gambe mi tremavano. Niente rami o rocce
a cui tenersi: una parete verticale, ma quel fifone di mio
fratello non era con me, avrei potuto anche farcela. Salem
mi indicò gli appigli nel muro con la torcia, erano quasi
inesistenti. Poi Rolandos si poggiò al muro con il suo pan-
zone e Paco gli saltò sulle spalle issandosi in piedi. Salem
mi aiutò a salire a mia volta sulle spalle di Paco. Lo feci ac-
cucciandomi. La colonna umana mi traballava sotto i pie-
di. Subito si resero conto che non ero proprio il massimo
dell’agilità. Tenendomi all’edera con le dita provai a solle-
varmi in piedi, ma facendolo commisi l’errore di guardare
giù.
« Svelti! » disse Rolandos che reggeva tutti e inspirava
ed espirava come un maratoneta.
Le gambe mi tremavano troppo, deglutii, provai a solle-
varmi e fui in piedi. Non dovevo guardare giù, ma al da-
vanzale della piccola finestra mancava ancora un buon
mezzo metro.
« Non ce la faccio! » dissi.
« Forza, arrampicati! » mi ordinò Salem. E con la pila
mi guidò dal basso. « Metti un piede lì e una mano là ».
Ma quelli non erano appigli, erano sporgenze di pochi
millimetri. Mi attaccai all’edera che avevo sotto di me.
« No! » mi urlò Salem. « Non ti regge! Così cadi! »
Mi sentivo morire. Improvvisamente ero un bagno di

108
sudore e mi resi conto che non avrei saputo più andare né
avanti né indietro.
« Soffro di vertigini! » mi lamentai.
« E perché non l’hai detto? »
« Pensavo che fosse un problema solo di Dario! »
« Forza, devi farcela, abbiamo perso tempo prezioso ».
« Spingetelo. Ciro, prova ad aggrapparti al davanzale ».
Con uno sforzo sovrumano Rolandos si fletté sulle gam-
be molleggiando due volte e Paco fece lo stesso sopra di
lui. Infine mi lanciarono in alto come una molla. « Ora! »
urlò Salem. Mi aggrappai con una mano all’edera nel pun-
to in cui era più spessa e mi tirai su. Con l’altra mano af-
ferrai il davanzale mentre l’edera cedeva e si staccava leg-
germente dal muro. Niente di fatto. Adesso penzolavo dal
davanzale appeso con una sola mano. Quanto avrei potuto
resistere in quel modo? Forse qualche secondo.
« Tirati su! »
« Non ce la faccio! Sto cadendo! »
Salem prese il suo bastone e lo passò a Paco, che solle-
vandolo tentò di fornirmi un qualche appoggio per i piedi.
Tenendolo con la mano dalla parte della punta che Salem
aveva imbottito per non far rumore, se lo puntò sulla fron-
te e presto sentii il manico intagliato a forma di testa di ca-
ne nero sotto i miei piedi.
« Spingiti con il piede destro! » mi suggerì.
Grazie all’appoggio improvvisato e instabile della gruc-
cia riuscii a spingermi su e ad afferrare con entrambe le
mani il davanzale di pietra serena. Mi sollevai con uno
sforzo tremendo e finalmente ricaddi in avanti con i gomi-
ti su una sorta di lavabo di graniglia. C’era poca luce.
« Non toccare niente, e stai attento a non spostare nul-
la » mi ordinò Salem e richiamandomi mi gettò la torcia
che afferrai al volo. Gli altri erano piegati in due a ripren-
dere fiato.

109
« Bell’acquisto hai fatto! » commentò Paco con il segno
della gruccia stampato in fronte.
« Meno male che siamo gente di circo » disse Rolandos
sfinito quando riuscì a riprendere fiato.
« Non ci resta che sperare che trovi le porte interne tutte
aperte. Abbiamo perso otto minuti preziosi » dichiarò Sa-
lem consultando l’orologio da tasca.
Riuscii a orientarmi nella casa e a trovare le scale. Non
toccai nulla e feci attenzione a richiudere le porte che tro-
vavo chiuse e lasciare aperte le altre, come mi aveva spie-
gato Salem. Passando vidi un bel po’ di cose di valore e
sorrisi compiaciuto. Sfilando nel salotto scorsi una mac-
chia bianca su un divano e la illuminai. Un enorme gatto
dal pelo lungo mi soffiò contro iracondo quando si trovò la
luce negli occhi. Sobbalzai e lui scappò sotto il divano.
Corsi nel corridoio, aprii la porta ai miei complici girando
a mano la maniglia della serratura dal­l’in­ter­no. Mi sorpre-
si quando vidi entrare solo Salem. Senza bisogno di ordini
Rolandos si era portato verso il cancello a fare da palo e
Paco era rimasto sulla porta.
« Andiamo! » mi incitò Salem. « Abbiamo dieci minuti,
vieni con me, non urtare e non toccare nulla, però ».
Non capivo il perché di tutte quelle cautele. Eravamo lì
per rubare e non sapevo proprio come lo si potesse fare
senza toccare niente. Aprimmo tutte le stanze. In una c’era
un gabinetto medico attrezzato con una sedia bianca e due
lettini da visite. C’era anche un mobile con degli strumenti
medici, siringhe, bisturi, lacci, e altra roba del genere. Sa-
lem, fino a quel momento così coraggioso, si guardò intor-
no con gli occhi sbarrati. Lo guardai e vidi il terrore nei
suoi occhi. Mi accorsi che aveva preso a sudare e i denti gli
battevano come un telegrafo. Lasciò andare la maniglia e
richiuse la porta poggiandosi un istante al muro per ri-
prendere fiato, ma non entrò nella stanza. Pensai a un im-

110
provviso malore, ma quando nella penombra vidi che ri-
prendeva colore, evitai di infastidirlo con le mie domande.
In un’altra stanza trovammo uno studio tappezzato di ten-
de rosse, con al centro un tavolo tondo dagli strani segni
dipinti sopra in oro. Su una scrivania c’era un teschio
umano di alabastro e una pistola accendisigari. Stendardi
con simboli e scritte esoteriche. Salem osservò la libreria e
i trattati medici in francese e tedesco che conteneva. Prese
a frugare dappertutto, senza cambiare di posto a nulla, pe-
rò. Spostò tutti i quadri, e mentre spostava quello dietro la
scrivania fece in tempo a vedere un biglietto cadere da sot-
to la cornice. Dietro il quadro c’era una cassaforte. Non
c’era tempo di aprirla, rimise il foglio al suo posto sotto la
cornice del quadro.
« Il nostro amico è molto astuto » disse.
Poi aprì uno schedario, si mise a consultare dei docu-
menti, trovò un doppio fondo e un pacco di lettere. Le
scorse rapidamente, fino a che un sorriso non illuminò la
sua faccia.
Su una lettera c’era scritto ‘Buenos Aires’ ma il resto non
era scritto in italiano e non mi interessava granché, non al-
meno quanto sembrava invece interessare a Salem che les-
se tutta la lettera e sfogliò anche le altre rapidamente.
« Adesso andiamo, non c’è più tempo » disse gettando
un occhio al­l’oro­lo­gio e rimettendo tutto perfettamente a
posto.
Un fischio ci richiamò dal giardino.
Quando uscimmo c’era Paco, anche lui con un orologio
in mano. Mentre stavamo per chiuderci la porta alle spalle
il gattaccio bianco corse fuori fra i nostri piedi. Salem si
fermò di colpo.
« Non c’è tempo per recuperarlo! » disse. E rientrando
socchiuse la finestra con le inferriate. « Penserà di averla
lasciata aperta e che il gatto sia uscito di là » mi spiegò.

111
Ero meravigliato dell’intelligenza e dell’accortezza di
quel­l’uo­mo, ma – sant’iddio – dopo tutto quel lavoro non
avevamo rubato niente, nulla di nulla!
Mi guardai le braccia escoriate che avevo sfregato sul
davanzale e sul muro. Ma non c’era tempo per protestare.
Traversammo il giardino di corsa, ma a metà del tragit-
to ci trovammo di fronte uno dei due molossi. Era enorme,
con gli occhi rossi e diabolici. Mi sentii gelare. Il cane rin-
ghiò mollemente contro di noi. Rimanemmo impietriti per
un istante, e Salem estrasse il coltello. Sentii lo scatto, lo
guardai mentre lo bilanciava sulla punta delle dita pronto
a lanciarlo. Non ce ne fu bisogno, la belva sbadigliò e con
un mugugno ricadde a terra addormentata. Di corsa ci
chiudemmo il cancello alle spalle e riguadagnammo il na-
scondiglio, con il cuore in gola. Non facemmo in tempo ad
abbassarci che l’auto del nonno ricomparve. Erano stati
via solo un’ora e mezzo, come tutti i venerdì. Quando l’au-
to svoltò dopo aver lasciato il dottore per ripartire ebbi pe-
rò un’altra sorpresa: sul sedile posteriore vidi la figlia della
Signora.
L’uomo entrò nel cancello armeggiando con una grossa
chiave. I cani gli andarono incontro sonnacchiosi, lui si
fermò a esaminarli perplesso. Disse qualcosa che non ca-
pii e si avviò verso la porta di casa.
Sulla via del ritorno Paco e Rolandos interrogarono Sa-
lem, ansiosi di sapere cosa avesse scoperto.
« Allora? »
Lui sorrise e fece di sì con la testa.
« Ma non hai preso nulla! » protestai. « Che ci abbiamo
guadagnato? »
« La certezza » mi rispose lui, e io capii una volta di più
che in questa storia non ci capivo nulla.
« Non dimentico mai una faccia quando la vedo, e meno
che mai quella » disse agli altri due indicandosi la fronte.

112
« Ce l’ho scolpita in testa come fosse di marmo. Ma adesso
ho anche la certezza ».
Loro sembravano soddisfatti, ma io ero arrabbiatissimo
con quel cavolo di zingaro. Mi ero quasi rotto l’osso del
collo per la sua certezza. Avevo visto l’argenteria, il casset-
to con dei soldi e la pistola dalla canna lunga che Salem
aveva guardato compiaciuto ma non aveva nemmeno toc-
cato, la cassaforte dietro al quadro che neanche avevamo
cercato di aprire e tanta altra roba di valore. Nonostante
tutto questo ben di dio lui mi aveva ordinato di non tocca-
re nulla e si era messo a cincischiarsi con un fascio di let-
tere e dei documenti. Lo maledii dentro di me con tutta la
rabbia che avevo e allungai il passo per la mia strada.
« Aspetta, Ciro! » mi richiamò.
« Cosa devo aspettare? Perché non hai preso niente? Era
pieno di cose di valore! Bel ladro che sei! »
Si affrettò claudicante verso di me e mi passò il braccio
dietro la schiena posandomi rassicurante la mano sulla
spalla.
« Fermati. Cerca di ragionare. Lascia che ti spieghi! »
Mi fermai stringendo i denti e sentii il suo odore arri-
varmi trasportato dal fresco della notte: un odore di tabac-
co e di cuoio che per il resto della mia vita avrei associato
al suo ricordo. Adesso si era fatto veramente buio, un buio
intenso nel quale brancolavamo come ciechi seguendo ap-
pena il tenue chiarore della strada.
« Ciro! Ragazzo mio! » mi blandì. « Devi avere pazienza.
Hai visto che ho pensato a tutto. Ma non siamo ladri di
polli. Arraffare qualcosa a che serve? Solo a mettere in al-
larme il padrone di casa, e allora spuntano inferriate, cate-
ne, lucchetti, e addio il colpo grosso. Quello che ci sisteme-
rà per tutta la vita. Capisci? »
« Vuoi dire che era solo un sopralluogo? »
« Già, proprio così. Solo un sopralluogo ».

113
« Ho capito, potevi dirmelo, però » dissi abbassando la
testa e fui contento di tutto quel buio.
Giunti all’altezza del grande gelso ci separammo. Loro
presero verso il lago, sempre senza accendere le torce, e io,
da solo, diretto verso casa.
Pensavo oramai di aver già avuto la mia dose di avven-
ture per quella notte e invece il peggio doveva ancora suc-
cedere. Qualcuno aveva disteso al­l’im­prov­vi­so una tovaglia
grigia sopra al cielo e le stelle erano sparite. Dopo un po’
che camminavo in quella tazza di caffè nero appena ri-
schiarata da rade lucciole oramai giunte al termine delle
loro fatiche, cominciai a sentire qualcosa. Sì, bastava ten-
dere l’orecchio per percepire il rumore di altri passi che
procedevano nel buio venti o forse trenta metri più indie-
tro, a tempo con i miei.
Mi fermai più d’una volta di scatto per sorprendere il
rumore dei passi del mio inseguitore che subito si immo-
bilizzava a sua volta.
« Chi c’è? » urlai.
Ma nessuno rispose. Sforzando gli occhi mi sembrò di
scorgere la sagoma scura d’un uomo sul bordo della strada,
immobile e silenziosa come cosa morta. Non rispondeva.
« Chi sei? Cosa vuoi? C’è nessuno? »
Il bagliore di alcune lucciole tardive su quella figura che
vedevo o forse immaginavo soltanto dovette fare il resto e
subito la paura si impossessò di me gelandomi il sangue.
Presi a correre e allora fui certo di essere seguito perché la
sagoma si mosse prendendo a camminare a sua volta. Per
lo meno così mi sembrò, ma oramai in preda al panico
non ero più certo di quel che vedevo. Voltandomi a guar-
dare il mio inseguitore lo vidi come nessuno l’aveva mai vi-
sto e per poco non stramazzai a terra con il sangue tramu-
tato in acqua: alto e spettrale, con i bottoni luminescenti
sulla vecchia casacca, Giamba, il dannato che aveva voluto

114
farsi seppellire nel fondo del borro degli Amaioni per non
sentire le campane delle chiese dei due paesi vicini, mi in-
seguiva sulla strada in piena notte per prendersi la mia
anima e la mia vita.
Preso dalla disperazione presi a urlare con tutto il fiato
che avevo in gola come mi aveva insegnato Nandina:
« Giamba tirami la gamba, tiramela bene fino a che non
viene! »
Nel momento stesso in cui già sentivo le sue mani gher-
mirmi e il suo fiato da morto sul mio collo, il rumore dei
passi cessò e voltandomi a guardare mentre correvo a più
non posso lo vidi, grazie al sopraggiungere d’un improvvi-
so chiarore, che lasciava la strada e scompariva nel campo.
‘La Bestia, la Bestia!’ pensai.
Con le ali ai piedi, il cuore in gola e con la sensazione di
avercelo ancora alle calcagna, feci tutta la strada di corsa
ripetendo a voce alta la formula scaramantica di Giamba,
con la milza che mi doleva e i polmoni in fiamme. Salii sul
noce dimentico di ogni esitazione e vertigine e in un atti-
mo m’infilai tremante nel mio letto dopo aver sbarrato
porte e finestre senza far rumore.
Fra Giamba, la Bestia, cani neri grandi come leoni, fine-
stre irraggiungibili dalle quali penzolavo in bilico sul nulla
e proprietari armati che mi sorprendevano in casa loro,
passai una notte devastata dagli incubi. Mi destai più volte
e per non farmi sopraffare dalla paura presi a pensare a
lei. Con una parte di me avevo sempre pensato a lei fin dal
primo giorno, e dopo che lei mi aveva baciato ero diventa-
to un altro. Neanche a Dario l’avevo detto, non sapevo più
dove fosse finito e non lo cercavo come per paura che sco-
prisse il mio segreto, il segreto di un desiderio: prenderla
fra le braccia e stringerla a me per risentire il profumo de-
lizioso della sua bocca.

115
XIX

Una cosa è certa: non sa neanche che esisto. La città è gran­


de e piena di torri di vetro che di notte si illuminano dando
vita a strisce di luci, fari e insegne di tutti i colori.
È abituato a vedere passare la gente avanti e indietro e il
suo lavoro consiste nel conoscere tutti gli inquilini del palaz­
zo, aiutarli a portare su la spesa, aprire loro la portiera del
taxi, chiamare l’ascensore, fare complimenti ai loro bambi­
ni, essere sempre educato e cortese, sorridere, parlare del
tempo che fa o che farà, non fare entrare estranei, scacciare i
venditori ambulanti, gli accattoni e gli scocciatori.
Non è male e si fanno buone mance, e si ha quasi gratis
un posto nel sottosuolo dove dormire, litigare con la moglie
e crescere i figli.
Sua moglie fa la commessa da film americano, così come
lui fa il portiere da film americano. Lei incarta i pacchi, ha i
capelli tagliati alla Marilyn Monroe, ma è solo carina, pas­
sabile forse, certo non bellissima, niente a che fare con
mamma.
Si conoscono fin dal college, e lei ha continuato a scriver­
gli e ad aspettarlo quando è partito per la guerra. Lei era lì
quando lui è tornato. Se l’era quasi dimenticata, ma lei c’era
e noi eravamo di là dal­l’ocea­no. È una brava donna, senza
troppe ambizioni, senza grilli per la testa e di certo fuma,
perché in America fumano tutti e bevono il whisky a tutte le
ore del giorno e della notte per via della moda.
Forse ho anche una sorella con i capelli identici ai miei,
di qualche anno più piccola, però. Me la immagino in bian­

116
co e nero, tutta l’America e anche mio padre li immagino in
bianco e nero e la colpa è del cinematografo. Don Caldine ha
ragione, tutti quei film americani pieni di baci, whisky e pi­
stole ci rovineranno la vita. Io li guardo lo stesso, però,
quando Gariburdera li proietta nella piazza legando un gran­
de lenzuolo fra due platani. È un appassionato del cinema­
tografo e con il suo proiettore fa sognare tutta la piazza nelle
sere d’estate. La gente esce fuori con le sedie, si affaccia alla
finestra, ai terrazzi, urla, inveisce contro i cattivi e fa dispe­
rare Gariburdera che non riesce a far capire al paese che al
cinema ci si sta in silenzio, anche se è gratis. Invece alla pri­
ma sparatoria i ragazzi delle prime file cominciano a ululare
come indiani o a fare gli spari con la bocca e la mano messa
a revolver. Allora lui deve rincorrerli e prenderli a scapaccio­
ni per farli star zitti.
Io non potrei andarci da solo per via di Saverio e degli al­
tri. Prima di vedere il film dovrei massacrarli di botte e sono
troppi e ci sono i genitori. Ma ci vado con don Caldine perché,
mi dice, lui deve andarci per controllare quanto sta degene­
rando il mondo e per tenere d’occhio i peccatori del suo greg­
ge. Così la domenica tuona contro il cinematografo immora­
le, spudorato e violento e anziché fare la predica fa la critica
cinematografica dell’ultimo film proiettato, ci trae la morale,
lo spunto edificante, la minaccia. Ma intanto non si perde
nemmeno un film e io posso andarci con lui e lo sento sussul­
tare guardando le immagini. Si lascia coinvolgere come un
bambino e a tratti finisce per urlare contro il cattivo di turno
ricomponendosi subito, imbarazzato. Oppure si alza urlan­
do: « Cosa guardate, svergognati? » quando c’è una scena d’a­
more e tutti, bambini compresi, ridono.
C’è poco da prendersela, un uomo deve fare le sue scelte e
lui ha fatto la sua. S’è sposato la fidanzata americana e ha
fatto finta di nulla, ma non potrà mai scordarsi, finché vivrà,
la sua bella moglie italiana. Non si può dimenticare la mam­

117
ma. Come si fa? È troppo bella. Così quando con l’ombrello
aperto, sotto il cielo fradicio di New York o di Chicago, o di
chissà quale altra stramaledetta città, apre la portiera agli in­
quilini e dice sorridendo: « Buonasera signora! », gli capiterà
forse di pensare a com’era bella la sua sposa bambina italia­
na, a come poteva essere la sua vita qui con noi. E allora una
ruga sotto il berretto dell’uniforme gli si formerà sulla fronte
e si sentirà un po’ vigliacco, un po’ più stupido e vecchio, si
sentirà. Ben gli sta! Così impara ad abbandonarci.

118
XX

Senza che io lo sapessi le nubi che avevano offuscato il cie-


lo la notte prima non erano che l’avanguardia di un eserci-
to: una perturbazione estiva che calando da Nord si an-
nunciava minacciosa e cupa come il mio umore della mat-
tina dopo.
Mia madre mi svegliò presto senza voler sentir storie e
quando vide il cuscino nero e il mio volto annerito dalla
brace si mise le mani nei capelli. Non sapevo che dirle.
Dissi che dalle travi annerite doveva essere caduta della fu-
liggine durante la notte sul cuscino e così rigirandomi mi
dovevo essere ridotto in quello stato. Mi guardò poco con-
vinta, ma per mia fortuna aveva fretta e non indagò oltre.
Pensierosa mi dette un pacco di camicie pulite da portare
allo scrittore in paese raccomandandomi di lavarmi bene
la faccia e di fare in fretta perché presto sarebbe scoppiato
un temporale. La lasciai che guardava perplessa la trave
annerita sopra il mio letto e il cuscino.
L’aria si era rinfrescata, mi infilai protestando un ma-
glione rappezzato che era stato del marito di Nandina,
presi con me il pacco e un vecchio ombrello d’incerato.
Rifeci tutta la strada della sera prima fino in paese; man
mano che il cielo si scuriva livido e le nubi avanzavano co-
prendo il sole, l’aria tersa e azzurra si macchiava d’un gial-
lo quasi africano. Fui contento di non essere morto fra i
campi, perché mi tornavano in mente le calme parole di
Salem. C’era un tesoro da dividere: quel tizio che si faceva
passare per un professore ma non aveva aperto nessuno

119
studio in città e non insegnava nulla doveva essere pieno
di grana come un uovo. Riflettendo ero ammirato dalla
precisione e dalla perizia con la quale aveva organizzato
tutto il colpo: le polpette per i cani, gli orari studiati ad ar-
te, davvero niente era stato lasciato al caso, e Salem poteva
stare pur certo che al momento buono an­ch’io sarei stato
della partita. Se c’era un tesoro, dopo la notte prima, dal
momento che quella Bestia dannata del Giamba non mi
aveva ucciso e non ero morto di paura, io avrei avuto dirit-
to alla mia parte.
Nella mia fantasia saremmo andati a vivere in una villa
con i servitori, la mamma avrebbe parlato al telefono –
oramai questa cosa del telefono era una fissazione – e Nan-
dina, la mia dolce Nandina, avrebbe vissuto con noi e sa-
rebbe andata ogni giorno in paese con una carrozza da
contessa tirata da una pariglia di cavalli bianchi. Io avrei
sposato Mercedes e anche lei avrebbe vissuto con me e i
nostri figli e forse anche Salem sarebbe rimasto...
Tutti i conti tornavano come in una fiaba nei miei sogni.
Giunsi all’entrata del paese che il cielo mugghiava come
un toro alla catena e lunghi squarci luminosi anticipavano
ogni tuono di pochi secondi. Aprii l’ombrello per riparar-
mi dai primi goccioloni che presto divennero un acquaz-
zone estivo senza precedenti trasformando la strada in un
torrente.
Ripensavo alla sera prima e sapevo che stavolta non
avrei potuto dare la colpa a Dario. Lui non c’era, lui era so-
lo a casa dove l’avevo lasciato, solo nella terra fredda e im-
pietosa di un cimitero di campagna, ma io lo stesso avevo
avuto paura. Una paura terribile, senza precedenti.
Insieme alla mia paura mi era tornata in mente la storia
del nonno bambino che una volta mi aveva raccontato la
mamma. Adoravo le storie da sempre e ne domandavo di
continuo. Nandina era formidabile nel raccontare e nel ga-

120
rantire che le sue erano tutte storie vere. Ma anche mam-
ma ne sapeva qualcuna e così una volta mi aveva racconta-
to quella del nonno. Già a dodici anni mio nonno Sigaro
aveva dovuto iniziare a lavorare, come cercavo di fare an­
ch’io, a mio modo. Ma a lui avevano dato un carro con un
cavallo. Fumava il sigaro già a dodici anni e la sera suo pa-
dre, un uomo mangiato dai dolori che a malapena poteva
muoversi dal letto alla strada, l’aiutava insieme ad altri a
caricare il carro di damigiane d’olio e di vino, farina di ca-
stagne, farro e altre vettovaglie. Così, a sera partiva da do-
ve stavano i suoi e viaggiava tutta la notte per arrivare al
mare dalle parti di Livorno la mattina dopo. Il peggio però
veniva all’altezza di San Rossore, quando attraversava il
bosco e la macchia, a quei tempi popolati da briganti e da
ladri. Nel racconto mitico che me ne aveva fatto mia ma-
dre, mio nonno si fermava poco prima di inoltrarsi nel fol-
to della vegetazione e prendeva del fango dalle pozze della
strada per poi pressarlo con le mani dentro ai campanelli
della bardatura del cavallo perché i briganti nascosti nella
macchia non lo sentissero arrivare e corressero ad aggre-
dirlo per rubargli ogni cosa. Poi, con il cuore in gola, estra-
eva la pistola dalla foggia antiquata e procedeva lentamen-
te attraversando tutto il bosco animato da inquietanti ru-
mori d’animali notturni, per risbucare, con la prima alba,
dal­l’al­tra parte e vedere il mare che annunciava la fine del
suo lungo viaggio. Lì, il carro veniva svuotato e riempito di
altre merci. Lui arrotolava i soldi ficcandoseli nelle mutan-
de e riprendeva la strada di casa.
Così era iniziata la sua fortuna, e la guerra l’aveva trova-
to uomo maturo e scaltro, abbastanza spregiudicato e
astuto per centuplicarla con il mercato nero e l’usura.
Nonostante l’odiassi avevo sempre creduto di avere ere-
ditato anche un po’ di quel suo coraggio di ragazzo, ma
adesso, adesso che per gelosia, per non dividere il bacio di

121
Mercedes con lui, avevo relegato Dario fuori da me, non
avevo più nessuno a cui attribuire le mie paure. Adesso,
per la prima volta dopo tanti anni, ero solo e dovevo fare i
conti con i miei limiti e le mie debolezze.
La pioggia sferzante del temporale, che cantava sul mio
ombrello e picchiava sulla strada allagata lavandomi i pie-
di attraverso la bocca delle scarpe rotte, dovette penetrare
anche dentro la mia anima. Istintivamente mi strinsi al
petto il pacco con le camicie per difendermi da un improv-
viso brivido di freddo e mi ritrovai il volto bagnato dalle la-
crime. Inspiegabilmente sentii in me il legno morbido del
fico palpitare dentro la scorza dura del carpine nero che
mi ero sempre creduto d’essere. Ebbi pena di me e di noi
tutti.
« Perché non ritorni? Perché? » mormorai con le labbra
tremanti e poi, vergognandomi della mia debolezza, mi la-
sciai andare e presi a imprecare contro l’acqua e contro il
cielo esplodendo in orrende bestemmie. Da lì a poco fui
una bestia adirata con il mondo e perfino il cielo parve te-
mermi, visto che si placò il temporale e le nubi si aprirono
lasciando filtrare un sole incerto.
Da un po’ i tuoni erano cessati e presto potei chiudere
l’ombrello trovandomi stremato a camminare con il pac-
chetto in mano e le vecchie scarpe zuppe. Si era alzato un
vento fresco, quasi freddo. Oramai in paese camminavo
svelto lungo il marciapiede, a ridosso delle case, quando
sentii qualcosa sfrecciarmi vicino al­l’orec­chio. Era una
pietra che rimbalzò nel muro e mi finì fra i piedi.
Subito sentii urlare: « Eccolo là, il bastardo. Avanti, ve-
nite! »
Altri sassi partirono dal gruppo dei ragazzi e uno mi
colpì sulla schiena mentre già correvo via a tutta velocità.
Ma per fortuna ero arrivato, e svelto mi infilai nel portone
dello scrittore. Dalla tromba delle scale sentivo frenetico il

122
ticchettio della macchina da scrivere che era tutt’uno con
il battito affannato del mio cuore. Mi chiusi alle spalle il
portone appena in tempo e lo sprangai con la stanghetta.
Sentii i loro calci dal­l’al­tra parte e le loro voci ridanciane:
« Stavolta sei preso, bastardello mio! »
« Stavolta non ti salva nessuno, vedrai che festa che ti
facciamo! »
Avevo riconosciuto la voce di Saverio, il figlio del ciabat-
tino, e qualcuna delle altre, ma salii fino al pianerottolo e
mi arrampicai tirandomi su con le braccia e puntando i
piedi sul muro per guardare da una finestrina.
Erano sette. C’era anche la Simonetta e due più piccoli
che non contavano, ma Saverio, Giovanni e gli altri due
avevano la mia età e, sebbene da soli non valessero gran-
ché, non potevo certo affrontarli tutti insieme e armati di
sassi.
Saverio partì con la sua specialità:
« Americano con i capelli color del grano, sarai figlio di
un cane o di un nano? »
Gli altri risero di gusto sbellicandosi. Incoraggiato, Sa-
verio continuò. Niente da dire, era davvero un poeta:
« Bastardo, dove l’hai messa la bella mammina, l’hai la-
sciata con un tedesco o con un russo a far la signorina? »
E giù, ancora risate, mentre a ognuna di quelle offese lo
stomaco mi si stringeva e sentivo dentro di me una rabbia
cieca. Trattenevo a malapena l’impulso di aprire la porta e
di saltargli al collo per strozzarlo con le mie mani.
Non si erano mai spinti così oltre. Quei nuovi lazzi era-
no troppo anche per loro: qualcuno, qualche adulto dove-
va averli istruiti ad arte. Non so perché, ma pensai subito
all’Acrimene. Me la vidi mentre li chiamava a mangiare
una fetta di torta in casa sua e casualmente prendeva a
raccontargli i particolari di tutta la storia, rendendo l’amo-

123
re che mi aveva generato una faccenda sordida e vergo-
gnosa.
Da sempre avevo questo vizio e questo dono di immagi-
narmi le cose, come se a figurarsele nella testa diventasse-
ro vere.
A fatica raccolsi il pacco e salii un altro piano di scale
per bussare alla porta dello scrittore. Lì, il rumore dei bat-
titi della macchina da scrivere era quasi insopportabile e
mi trapanava l’orecchio. Lessi il nome sul campanello, ma
preferii bussare. Dopo un po’ la porta si aprì d’uno spira-
glio e una catenella di sicurezza si tese. Nessuno si affac-
ciò, però, e mi sembrò che per tutto il tempo la macchina
continuasse a battere all’impazzata.
Senza chiedermi neanche chi fossi, una mano d’uomo si
infilò nella fessura e mi fece segno di passargli le camicie.
Lo feci e la mano prese il pacco lasciandomi lì ad aspettare
senza dire nulla, come se non avesse avuto la voce per par-
lare.
Sentii i suoi passi allontanarsi per cercare dei soldi.
Non l’avevo mai visto. Avevo sempre e solo udito il ru-
more della sua macchina da scrivere per la via. Talvolta
quel ticchettio mi era sembrato di udirlo perfino nei campi
o al lago, confuso fra il gracidare delle rane e il frinire del-
le cicale o, addirittura, nel muto, silente palpitare delle
stelle.
La mano lasciò cadere nella mia i soldi pattuiti, ma non
mi sfiorò.
« Signore? » domandai. « Posso entrare un momento? Ci
sono dei ragazzi che vogliono picchiarmi per strada, forse
c’è un’altra uscita dalla quale potrebbe farmi scappare ».
Non rispose. La macchina batteva alle sue spalle come
se lui non si fosse mai alzato. Pensai che forse c’era qual-
cun altro che scriveva anche per lui.
« Ma sono in sette, se esco dal portone mi prenderanno

124
a sassate! Li mandi via almeno, urli loro di andarsene! » lo
supplicai.
La porta si chiuse di scatto, come se avessi parlato al
vento. A quel maledetto sembrava non importare nulla di
me, del mio destino.
Discesi le scale con i soldi in mano. Avevo cercato di ve-
derlo in viso sporgendomi, ma la porta si era richiusa pri-
ma che potessi riuscirci. Di nuovo mi aggrappai alla grata
della finestrella e mi tirai su per guardare sul marciapiede
e nella strada. Meravigliandomi scoprii che dei ragazzi
non c’era più traccia e pensai che si fossero nascosti per
tendermi un agguato. Aspettai ancora un po’, poi recupe-
rai l’ombrello, aprii il portone e imbracciandolo come un
fucile armato di baionetta corsi via di filata aspettandomi
di essere investito da una gragnola di pietre.
Invece nessun attacco si consumò a mie spese. Eppure
ero certo che Saverio non avrebbe rinunciato così facil-
mente, dopo che gli avevo fatto leccare le mie scarpe qual-
che tempo prima. Forse i genitori li avevano richiamati, o
qualcuno doveva averli cacciati. Poco importava. Cammi-
nando svelto, presi a fischiettare con l’ombrello verde pog-
giato sulla spalla come un fucile e tornai verso casa rigi-
randomi in tasca le monete dello scrittore. Stavo già quasi
per uscire dal paese, quando mi avvidi del nodo fatto alla
camicia quella mattina e mi ricordai della commissione
che dovevo fare per Nandina. Ripiegai lungo l’alto muro
del convento e sfilai di fronte a una grande siepe di rosma-
rino strappandone un rametto. Lo stropicciai e l’avvicinai
al naso per odorarlo. Non ricordavo più da quanto tempo
non mangiavo un arrosto come Dio comanda. Inebriato da
quell’aroma mi venne fame, entrai dalle Svizzere con la vo-
glia di mangiare tutto il negozio, ma con le tasche vuote,
dal momento che non potevo tornare da mamma senza i
soldi delle camicie.

125
« Buongiorno! » dissi.
La vecchia svizzera si alzò senza rispondere al saluto.
Era mezzo cieca e venne fin sotto il mio viso per vedere chi
fossi. Sentii il suo fiato rancido e vidi la forfora fra i radi
capelli bianchi che portava legati a crocchia sopra la nuca.
Quando capì chi ero chiamò allarmata la figlia.
« Caterina! » urlò con una voce stridula. « Vieni subito!
Senti un po’ che vuole questo! » e si rimise a sedere nella
sua poltrona risistemandosi la coperta sulle gambe.
La figlia sbucò fuori dal retrobottega. Lunga e ossuta,
sembrava la sorella minore della madre e mi salutò sbriga-
tivamente guardandomi sospettosa le mani e le tasche dei
calzoni. Sul davanti del banco c’erano dei barattoli di arin-
ghe sotto sale aperti sui quali banchettavano le mosche, e
delle strisce di stoccafisso. Dalle Svizzere non mancava
nulla: dal caffè allo spago, dal fil di ferro al latte, qualsiasi
merce potevi trovarcela anche se a un prezzo a volte quasi
doppio che negli altri negozi. A differenza degli altri, però,
le Svizzere facevano credito e il loro negozio era sempre
aperto, sabato, domenica e feste comandate, dalla mattina
alle sette fino alla mezzanotte di ogni giorno.
Si favoleggiava che fossero ricche come contesse, ma
vestivano come delle befane, sempre con gli stessi abiti
scuri e polverosi. In lutto da vent’anni del marito la prima,
del padre la seconda, vivevano praticamente in bottega e si
recavano nel loro palazzo solo a tarda sera. Un palazzo che
era posto a poche decine di passi dal negozio e nel quale
nessuno aveva mai avuto accesso da dopo la morte dello
Svizzero. Lo Svizzero, chiamato così per il suo portamento
signorile, era stato direttore del­l’uf­fi­cio postale per qua-
rant’anni e per tutto quel tempo non aveva mai speso nulla
del suo stipendio vivendo dei frutti del negozio. Bastava
fare un rapido calcolo per comprendere quanto fossero
ricche e, va anche detto, che mai la ricchezza si sposò me-

126
glio con l’avarizia. Basti pensare che le due, pur dormendo
nel freddo palazzo dalle grandi arcate, con tanto di biliar-
do ottocentesco e mobili in stile, vivevano per lo più nel
negozio e la sera, quando si recavano a riposare sorreggen-
dosi l’un l’altra, guardinghe per l’incasso della giornata che
portavano con sé, preferivano fare i loro bisogni nel­l’or­to,
anche d’inverno. Le avevano viste dalle finestre i vicini,
mentre si calavano i lunghi mutandoni mostrando il bian-
co dei corpi cadaverici! Meglio rischiare una polmonite
piuttosto che commettere l’imprudenza di riempire la fos-
sa biologica e di ritrovarsi a dover spendere chissà quanto
per svuotarla, magari da lì a vent’anni.
« Che vuoi? » mi domandò bruscamente la figlia, con il
fiato che le profumava di caramella all’anice.
« Sono venuto da parte di Nandina per prendere del pa-
ne e del... » non feci in tempo a completare la frase.
« Ce li hai i soldi? » mi chiese, e succhiò la caramella
strizzando gli occhi per mettermi a fuoco in una smorfia
perfida da coniglio.
« No... » balbettai. « Mi ha detto di segnare ».
« Di’ a Nandina che il conto si è allungato troppo ed è
troppo che non lo salda. Finché non l’ha pagato, non per
cattiveria, ma non posso farle più credito ».
Rimasi di sasso.
« E quanto sarebbe lungo questo conto? » domandai.
« Di che t’impicci tu? Dille così e basta! » tagliò corto.
Guardai gli scaffali ricolmi di vasi di vetro pieni di zuc-
chero, farina, caramelle, mentine, liquerizie. Sfilai gli oc-
chi sulla pubblicità del gelato e del caffè e sentii la testa
che mi girava per l’umiliazione. Mi sarebbe piaciuto tanto
aver preso un po’ di soldi al professore straniero quella se-
ra con Salem, per poterli usare adesso. Avrei tirato fuori
dalle tasche il rotolo delle banconote, l’avrei srotolato ed
estraendo due miseri biglietti rossi glieli avrei gettati in

127
faccia e avrei comprato questo e quello, sprezzante. Imma-
ginavo che gli occhi della donna si sarebbero fatti avidi e i
modi garbati e servili e avrebbe preso a propormi questo e
quello, e allora io le avrei detto: « Non voglio altro, che me
ne faccio di questa immondizia? Tenga, non c’ho tempo da
perdere! » e sarei uscito come un gran signore.
Invece uscii rabbioso, sbattendomi la porta dietro le
spalle. La vecchia appisolata sobbalzò quando il vetro tril-
lò e sentii il campanello della porta tintinnare dentro il
mio stomaco. Ero fuori di me dalla rabbia. Dunque Nandi-
na era in difficoltà più di quanto credessimo io e mamma?
Ma perché? Non aveva la pensione del marito?
Camminando a passi veloci sulla strada sentii di nuovo
l’odore di anice della Svizzera nel naso. Non lo sapevo an-
cora, ma da quel giorno quel profumo avrebbe ridestato in
me il medesimo malessere che stavo provando, impeden-
domi per sempre di avvicinare alla bocca una di quelle
schifose caramelle.
‘Devo ricordarmi di dire a Salem delle Svizzere’ mi dissi
fra me. ‘Anche loro stanno bene nella lista!’
« Tornerò con la mia banda di zingari anarchici e vi
svuoterò il materasso! Brutte befane! » conclusi ad alta vo-
ce, oramai troppo lontano perché qualcuno mi sentisse.
Sì, perché scommettevo che tutti i soldi dello Svizzero e
delle due donne fossero nascosti in quel loro palazzo da
qualche parte. Io li avrei trovati un giorno e le avrei lascia-
te in mutande. Gliela avrei fatta pagare! Oh, se gliel’avrei
fatta pagare!

128
XXI

Giunsi a casa per l’ora di pranzo e per tutto il tempo Nan-


dina mi guardò storto e armeggiò cuocendo dell’erba in
una grande pentola. Non feci domande. Ma lei, senza farsi
sentire, mi sottopose a uno dei suoi interrogatori, approfit-
tando delle uscite di mia madre che saliva spesso al piano
di sopra per rassettare le camere.
« Come stai? »
« Bene! » risposi deciso.
« Bene un cavolo. Stasera ci penso io a te e se non va via
così ti faccio segnare il malocchio ».
« Ma quale malocchio? T’ho detto che sto bene ».
« Sei una testa calda! » mi minacciò con il suo dito no-
doso indicandomi la sua pozione. « Vedrai! »
« Che cos’è? » le domandai.
« Erba da paura. Con gli urli che facevi stanotte ce ne
vorrebbe un lago! Non ci pensi a quella donna?... Va a giro
la notte lui, tutto tinto di nero... e ha ancora il latte alla
bocca, e poi non dorme dalla paura! Pagherei chissà cosa
per sapere che cosa stai combinando. Ma lo scoprirò, ec-
come se lo scoprirò ».
Dovevo aver sognato ancora ed essermi agitato nel son-
no. Improvvisamente mi sentii spiato, nudo, e la cosa mi
dette fastidio. Per la prima volta da quando ci aveva accolti
in casa sua mi rivoltai male. « Senti! » le dissi. « Pensa agli
affari tuoi! Io fo quello che voglio, mica sei mia nonna! »
Mi guardò cattiva, dura: « Certo che non sono tua non-
na. Il tuo, di nonno, neanche ti guarda quanto sei lungo.

129
Ma io ti ho visto nascere, furfante! » e prima che potessi di-
re alcunché mi afferrò per l’orecchio e mi trascinò in ca-
mera sua.
Tirava mica poco. Mi sarebbe bastato darle un calcio, o
una gomitata nelle costole per liberarmi, ma come si fa?
Quella vecchia matta mi voleva bene e an­ch’io gliene vole-
vo. Ma non volli darle la soddisfazione di urlare, anche
perché non volevo che sentisse la mamma.
Con l’orecchio in fiamme mi lasciai trasportare fino al
cassettone. L’aprì e cercò dentro fra le canottiere di suo
marito. Dopo un po’ che ci frugava tirò fuori una spilla da
balia che reggeva con un nastrino rosso legato a fiocco una
medaglia di latta ovale, ampia come una moneta da cento
lire. Vidi che sopra c’era raffigurata l’effige della Madonna
che schiacciava la testa al serpente con il piede.
Senza sentir ragioni mi trasse a sé e sollevatami la ma-
glia me la appuntò alla camiciola dalla parte del cuore. Poi
bisbigliò una strana formula piena di santi e, infine, mi la-
sciò andare uno scappellotto leggero.
« Speriamo che ti protegga » asserì minacciosa. « Guai a
te se te la togli! Lo sa Dio cosa stai combinando e in che
pasticcio ti sei cacciato! »
Aveva gli occhi lucidi per la preoccupazione. Mi fece te-
nerezza. Quella donna mi voleva bene. Non che non lo sa-
pessi, l’avevo sempre saputo, ma...
L’abbracciai, oramai ero più alto di lei.
« Scusa » mormorai. « Sei più che una nonna per me ».
Respirò, lasciandosi cullare un istante che durò solo un
battito d’ali di farfalla, e mi respinse indietro subito penti-
ta della sua debolezza.
« Eeehhh! » mugolò per schermirsi. « Quante moine!
Non sono mica ancora una vecchia scema che si scioglie
per due abbracci, sai! »
Ma si vedeva che era contenta e un po’ imbarazzata.

130
« Piuttosto » mi disse. « Non dimenticarti mai che hai
promesso a tua madre di non morire ».
« Ma certo... » le dissi.
Ci fu un attimo di silenzio nel fresco pomeridiano di
quella stanza. Fuori una manciata di balestrucci ruppero
in grida sfiorando il vetro della finestra per poi subito
scomparire.
« E ricordati che per una madre un figlio in galera è qua-
si peggio di un figlio morto ».
« Non ti preoccupare » la rassicurai, e tornati in cucina
presi a sparecchiare la tavola dalle poche cose che c’erano
addentando i resti di un pezzo di pane.
« Dove te ne vai a vagabondare oggi pomeriggio? »
« Vado a cercare lavoro ».
« Siiì. Lavoro! Attento ti faccia male trovarne troppo! »
mi canzonò. « E poi stamattina ti sei dimenticato di passare
dalle Svizzere come ti avevo detto. Ti avevo chiesto di pren-
dere un chilo di pane, un po’ di salame e del latte. Neanche
con i nodi alla camicia ti ricordi le cose! Dove ce l’hai la te-
sta? Pagherei per sapere cosa mi stai combinando ».
« Dalle Svizzere ci sono passato » mormorai abbassando
lo sguardo.
« E dov’è la roba che ti ho chiesto di prendere? »
« Non... non me l’hanno data » sussurrai.
« Come non te l’hanno data? »
« La figlia mi ha detto di dirti che il conto è troppo lungo
e non è saldato da troppo tempo ».
Nandina s’abbuiò pensierosa.
« Mah! Venire a dire a te certe cose? Che non le ho sem-
pre pagate forse? Vecchie pettegole! »
« Ma come hai fatto a far allungare il conto? » doman-
dai.
« Mangiando tutti i giorni! Come ho fatto? Non sono co-
se che ti riguardano. Vai, vai! »

131
La lasciai pensierosa e irritata. Mamma scese da sopra
dove aveva riordinato le camere e Nandina mi fece degli
occhi minacciosi che mi invitavano chiaramente a non fa-
re parola della questione con lei.
« Hai un orecchio tutto rosso » notò guardandomi. « Mi
sa che digerisci male: dicono così quando uno è rosso e
l’altro no ».
« Può darsi » ammisi, e guardai Nandina che si voltò per
non farsi vedere che reprimeva un sorriso.
Ma se la casa era sua, non si comprava mai nulla per sé
e aveva la pensione del marito, come faceva a non avere
soldi? Per quanto ci pensassi non riuscivo a capirlo. Scesi
le scale di corsa e feci tutta la strada a passo spedito verso
il lago. Salem, lo zingaro, avrebbe dovuto darmi dei soldi,
e subito anche.
L’aria conservava un filo di freschezza, ma il cielo era
un piatto di ceramica azzurra appena rigovernato e di
nuovo il sole splendeva alto e fiammante. Solo il verde de-
gli alberi e il giallo dei campi erano più intensi, odorosi e
ancora pregni del ricordo del temporale.
Correvo da Salem per reclamare un anticipo, per deci-
dere il da farsi e per non perdere la mia parte di tesoro. Co-
sì almeno continuavo a ripetermi, ma nonostante quell’ur-
genza e la nuova scoperta circa le difficoltà di Nandina,
dentro di me sapevo che ritornavo all’accampamento so-
prattutto per Mercedes, perché desideravo più d’ogni altra
cosa rivederla. Anche se rivedendola non avrei saputo cosa
fare o dire: questo l’ammetto. Ero curioso anche di sapere
come si sarebbe comportata e cosa mi avrebbe detto, e in
cuor mio avevo tanta paura che non mi rivolgesse neanche
la parola o si fosse già pentita del nostro bacio.
Affrontai il lago con il barchino di don Caldine e avan-
zando fra i pennacchi di vetrice guadagnai il largo. A quel­
l’ora del pomeriggio il lago era uno spettacolo. Le cicale,

132
chissà perché, non frinivano più, i ranocchi tacevano, e la
distesa d’acqua verde e azzurra nella quiete della vasta
campagna mi sembrò il luogo più tranquillo del creato. A
più riprese una grande libellula mi si posò sulla sommità
del remo. La guardai smettendo di muoverlo: un essere per-
fetto, lavorato in filigrana dalle mani di un orafo meticolo-
so. I suoi occhi erano due pietre verdi e lucenti, il blu inten-
so del corpo e le ali adamantine facevano di lei il gioiello
più prezioso che io avessi mai visto. Ma a renderla tanto
bella era la vita che ci scorreva dentro. Se solo avessi osato
catturarla, pensai, impalandola su uno spillo, sarebbe dive-
nuta nera e grigia, polverosa e opaca, sarebbe morta.
Per la prima volta realizzai che gli zingari erano un po’
come quella libellula, come degli animali selvatici: non po-
tevi imprigionarli senza ucciderli, così almeno mi sembra-
va di capire da dopo che li avevo conosciuti più da vicino.
Giunsi all’accampamento mentre uno zingaro faceva
ballare su due zampe un piccolo cane bianco per il diverti-
mento dei bambini che gli giravano intorno. Gli uomini e
le donne dovevano essere nei carri per una pennichella po-
meridiana. Rimasi per un po’ a godermi lo spettacolo e poi
chiesi di Salem. Mi indicarono una roulotte malandata at-
taccata a un catorcio di furgoncino ancor più malridotto.
Bussai e Salem venne ad aprirmi avvolto in una coperta.
Alle sue spalle intravidi una figura femminile che giaceva
nel letto, con i capelli lunghi e neri. Salem si chiuse la por-
ta alle spalle e urlò qualcosa nella sua lingua per far capire
alla donna che usciva.
« Dormivo » mi disse stirandosi sulla porta.
« Devo parlarti! » dissi deciso.
Nella fretta si era dimenticato il bastone, così mi prese
sottobraccio appoggiandosi a me e ci avviammo. Sentii
che odorava di donna e ripensai a Mercedes e al suo pro­
fumo.

133
Mi venne da domandargli chi fosse la donna nel carro,
ma per pudore non lo feci, non erano affari miei e tutte le
ragazze dell’accampamento avevano i capelli lunghi, neri e
lucenti.
« Sediamoci qui » mi disse, e ci accomodammo su un
masso all’ombra dei pini.
« Ieri sera con quel cane ce la siamo vista brutta eh? »
dissi per iniziare il discorso.
Non mi rispose. Tirò fuori il coltello, l’aprì, lo bilanciò,
si alzò e da più di sette metri lo lanciò e lo piantò dritto in
un albero.
« Caspita! » dissi ammirato.
« Ho fatto anche il lanciatore di coltelli sai? Un giorno ti
insegnerò come si fa » mi spiegò divertito.
Si sedette di nuovo e mi fece segno di recuperare l’arma.
Mi alzai, lo feci e tornai a sedermi vicino a lui restituendo-
gli il coltello a serramanico. Un airone bianco poco lonta-
no frugava tenacemente fra l’erba con il lungo becco, ci vi-
de e si alzò in volo allarmato.
Non avevo più paura di lui, non mi sembrava più tanto
misterioso e canaglia. Forse stavo diventando troppo simi-
le a lui per temerlo. Giocherellai un po’ con un rametto di-
segnando per terra e infine, facendomi coraggio dissi: « Ho
bisogno di soldi! Puoi anticiparmi qualcosa? »
« Un gagiò che chiede soldi a uno zingaro? » rise di gu-
sto rivelando i denti perfetti.
« Non sto scherzando. O mi dai dei soldi o faccio un col-
po da solo. Ti ho segnalato mio nonno, la Signora con la
gamba piena di milioni e poi ci sarebbero le Svizzere... »
Il suo interesse si ravvivò e gli raccontai delle due vec-
chie, del negozio e della fortuna che dovevano avere na-
scosta in casa. Mi ascoltò attentamente di sicuro registran-
do ogni parola nella sua mente e facendomi qualche do-

134
manda per saperne di più. Volle sapere anche della Signo-
ra, stavolta, e ne fui felice.
« Allora, le spenniamo? » lo incitai.
« Pazienza » mormorò, come riflettendo fra sé. « Ci vuo-
le pazienza ».
« Pazienza un corno! » esclamai alzandomi in piedi.
« Sono stanco di morire di fame. Non me ne frega nulla del
tuo professore, ho bisogno di soldi. Prendiamoci la gamba
della Signora e filiamo! Non ci capisco più nulla, la Bestia
ieri sera per poco non mi divora. Riusciamo a entrare nel-
la villa del tipo, è piena di roba, di soldi e si lascia lì tutto
perché nella cassaforte c’è un tesoro che attende. Ma in-
tanto che attende io, mia madre e Nandina moriamo di fa-
me. Insomma devo capirci qualcosa di più o faccio da so-
lo. Tu non mi hai detto la verità! Mi vuoi fregare? Vuoi tor-
narci da solo, vero? »
Mi meravigliavo io stesso delle mie parole e del mio
scatto, della mia insofferenza. Salem non si offese, per pri-
ma cosa volle sapere di Giamba e della sera prima...
Glielo raccontai e lui rise divertito.
« Eh! Tu ridi! Avrei voluto vedere te al mio posto! Quella
era la Bestia! »
« È proprio vero. Vedere un gagiò, un non zingaro, che
sorride è più raro che vedere una mucca che fa un uovo »
sentenziò. « Ma un uomo saggio ride quando può, sa bene
che ci sarà molto da piangere nella vita! »
Poi mi guardò e mi domandò: « Dunque non ti fidi di
me? E i tuoi scrupoli morali dove sono finiti? Rubare è
peccato! Oh che brutta cosa! » mi fece il verso, gli occhi da
gatto furbi, beffardi.
« Se devo fidarmi devi dirmi la verità. Voglio sapere la
verità o ognuno per la sua strada ».
Sul suo volto passò un’ombra e improvvisamente non fu

135
più lo stesso: « La verità! » mormorò, più triste che sarca-
stico. « Lasciala perdere, la verità ».
Infilò la mano in tasca ed estrasse un portafoglio di
cuoio. Vidi che dentro c’era solo un grande biglietto da
diecimila lire piegato in quattro. Lo prese, lo spiegò e me
lo dette.
« Ecco qua. Consideralo un anticipo. Ma vedi di darti
una calmata ».
Presi la banconota, la ripiegai e me la misi in tasca.
« Grazie » mormorai. Erano i primi soldi che riuscivo a
guadagnarmi, e mi sembravano tantissimi.
« Adesso però voglio sapere di te e di Dario e soprattutto
da dove viene tutta questa rabbia che ti porti in corpo ».
Quel demonio aveva scelto il momento giusto: senza
che lo capissi, in quell’attimo aveva comperato la mia sto-
ria. Gli raccontai della mamma ripudiata dal nonno, di me
e di Dario che era morto e non era morto, dei debiti di
Nandina e dei ragazzi che mi urlavano bastardo e mi pren-
devano a sassate. Parlai e parlai fino a non poterne più e la
mia rabbia venne fuori, sgorgò, divenne palpabile e intrise
l’aria della piccola pineta e del pomeriggio. Salem ascolta-
va, senza fiatare. Improvvisamente, a forza di raccontare
mi ritrovai domo, svuotato. Accaldato mi tolsi la maglia
perché mi sembrava di scoppiare. Stavo meglio, era la pri-
ma volta che raccontavo tutta la nostra storia a qualcuno,
e provai un po’ di vergogna, come di chi si ritrovi a girare
nudo in una piazza, ma non ero pentito di averlo fatto.
« Adesso sai tutto » gli dissi. « E io invece non so nulla di
te. Ora puoi dirmi chi sono Vadim, Olga, Suduslav, Aron-
ne, e tutti gli altri? »
Si stupì che ricordassi un bel po’ di quei nomi. C’era del-
la gratitudine nel suo sguardo.
Ci sono dei patti che legano gli uomini e ai quali è diffi-

136
cile sottrarsi. Se vuoi sapere la storia di qualcuno, raccon-
tagli la tua.
Salem prese fiato, come se parlare gli costasse uno sfor-
zo enorme e si trasformò sotto i miei occhi.
Il bel trentenne dal sorriso furbo e la risata pronta mutò
volto, si curvò, calarono sul suo viso contratto le rughe de-
gli anni e gli occhi precipitarono nelle orbite, simili a ragni
nascosti nell’imbuto della loro ragnatela. Fu come se una
folata di vento l’avesse invecchiato di vent’anni. Dopo
un’ultima esitazione iniziò a raccontare.
« Gli zingari non parlano mai dei loro morti » mi spiegò.
« I morti vanno lasciati tranquilli. Ma visto che tu me lo
chiedi, pretendi... insomma, se domandi hai diritto a una
risposta. Ma è una storia lunga e terribile, è giusto che tu
lo sappia. Sei sicuro di volerla ascoltare? »
Feci di sì con la testa e deglutii. Niente mi piaceva più
delle storie e ancora pensavo che nessuna potesse essere
peggiore della mia.
Il silenzio era rotto soltanto dal canto delle cicale che
avevano ripreso a muovere gli archetti e a pizzicare le cor-
de delle loro cetre ossessive e monotone. Salem, per la pri-
ma volta da quando lo conoscevo, si fece il segno della cro-
ce e prese piano a parlare.
« Nel 1944 avevo sedici anni e anche mio fratello Emil
ne aveva sedici ».
Lo guardai meravigliato. Sì, erano due gemelli ed erano
zingari. Quando aveva capito che anche io ero un gemello
spaiato, una sola scarpa di quella che fu una coppia, un
paio d’occhiali con una sola lente, una bilancia con un solo
piatto; quando aveva sentito la mia rabbia e il mio sforzo
di conservare Dario vivo dentro di me, era tornato a cer-
carmi.
Me lo confessò con una sorta di disperazione nella voce.
« Non chiedermi perché, forse l’abitudine e il senso di col-

137
pa di chi ha cercato di proteggere senza riuscirci i più pic-
coli di lui. Ho sentito che dovevo farlo e le carte la sera, in-
torno al fuoco, hanno dimostrato che non mi sbagliavo,
che eri in pericolo ».
Avrei voluto protestare, stanco di sentire ancora quella
storia delle carte, ma non dissi nulla per non interrom-
perlo.
Rammento tutta la storia come se me la stesse ancora
raccontando, la vedo scorrere di fronte a me come la im-
maginai allora, in quell’estate, nel bel mezzo del crepusco-
lo di quella che era stata la mia infanzia.
È un pomeriggio del 1943, due ragazzi zingari quasi
identici corrono fra la gente del mercato. No! Non corro-
no, scappano a tutta velocità, urtano le persone, fanno ca-
dere una vecchia, rovesciano bancarelle, fanno rotolar me-
le, la gente impreca.
Scappano e i fascisti gli sono dietro. Scappano perché li
inseguono, anche se non hanno fatto proprio niente. Scap-
pano perché sono zingari, e mentre scappano ripensano
agli avvertimenti degli anziani della compagnia.
C’era la guerra. Gli anziani, i loro vecchi, lo annusavano
nell’aria il montare dell’odio, della rabbia. Lo conoscevano
da lungo tempo, per un istinto mai sopito che gli apparte-
neva e si legava al­l’e­spe­rien­za di mille lutti, di umiliazioni
e di fughe improvvise, immemori, radicate dentro di loro,
nei meandri della loro storia, nei recessi più nascosti del
loro cuore.
Ma a cosa servono gli avvertimenti dei vecchi quando si
ha vent’anni? Loro, caparbi, erano voluti andare al merca-
to lo stesso. Me li figuravo come due eroi, due fratelli astu-
ti, scaltri, come me e Dario, in fuga dai fascisti nel merca-
to, inseguiti da una folla inferocita pronta a linciarli. Quel-
la volta, mi spiegò Salem, se l’erano cavata per miracolo e

138
per la pietà di una donna che li aveva nascosti in casa sua
fino a tarda sera.
In fondo era la mia storia, la storia di chi scappa per
sfuggire a una sassaiola. Ma i fascisti non potevo parago-
narli ai ragazzi di paese che mi inseguivano ogni tanto. Gli
uomini vestiti di nero del suo racconto non si fermavano
nemmeno di fronte a donne e bambini. Capii che per loro
gli zingari erano meno di nulla: asociali, da cacciare, da
eliminare, valevano meno delle bestie.
Presto la paura, quel sentimento che io temevo più di
ogni altro, si impossessò di loro, delle donne e dei bambini
e tutti capirono che non avrebbero potuto più nasconder-
si, che non c’era posto al mondo dove avrebbero di nuovo
potuto vivere liberi. Ogni volta che incontravano altri zin-
gari si scambiavano le storie delle loro sventure rinforzan-
dosi l’un l’altro nella convinzione che i tempi si facevano
ancora più difficili e che alle donne sorprese sole, battute e
perfino uccise, ai ragazzi martoriati e seviziati, si sarebbe-
ro aggiunti altri morti. Non c’era mazzo di carte in tutta
Europa che non prefigurasse la sventura per gli zingari e
qualcuno diceva che ciò dipendesse dalla paura nascosta
nella mano tremante che lo tagliava.
« Ma che cosa avevate fatto? » domandai sbalordito a
Salem.
Mi guardò sconsolato, come se ancora tardassi troppo a
capire. Poi disse: « Niente! Eravamo zingari, e questo ba-
stava! »
C’era poco da meravigliarsi: an­ch’io il primo giorno che
l’avevo incontrato avevo temuto per me e per la mia borsa
inesistente.
Poi seppi com’era successo. I fascisti li avevano cattura-
ti tutti una sera d’aprile del 1943. Si erano accampati vici-
no a una fonte con i carri in circolo e il fuoco acceso ad ar-
rostire un po’ di carne rimediata da un contadino e infissa

139
sullo spiedo; qualcuno sentì il latrato dei cani e fece cessa-
re le fisarmoniche che suonavano allegre. Tutti si fermaro-
no un istante ad ascoltare, con il cuore in gola. Non fecero
in tempo a fare altro, però, perché dal bosco alle loro spal-
le sbucarono tante sagome nere. Era una squadriglia di
una decina di arditi, di fascisti, e li circondarono imbrac-
ciando i fucili.
Salem poi mi raccontò di Gemma. Aveva trent’anni, fu
presa dal panico e impaurita tentò di scappare con il suo
bimbo di pochi mesi in braccio per guadagnare il bosco:
una raffica di mitra strappò l’aria e la fermò nella sua cor-
sa. Cadde a terra. Dopo il primo sconcerto la rabbia e la
paura si impossessarono di loro. La pelle accapponata, la
pena per quelle creature, lo stupore per l’insensatezza del
gesto. Urlarono e le donne piangendo presero a lamentarsi
e a strillare come pazze. Saro, il marito della donna uccisa,
disperato si avventò su un fascista afferrandogli il fucile,
ma il capo del manipolo fece un passo verso di lui e lo fred-
dò sparandogli alla testa con una pistola. Poi sparò due
colpi in aria e urlò loro di fare silenzio sbavando di rabbia.
Rimasero di sasso, sconvolti lo fissarono a chiedergli ra-
gione del suo gesto, certi di scorgere un demone irsuto e
non un uomo sotto quelle uniformi, d’essere vittime d’una
legione di mostri. Invece era un uomo, con la faccia scava-
ta e fine da impiegato del catasto. Non badava a loro ma
imprecava stizzito perché il sangue di Saro gli aveva spor-
cato la divisa, gli occhiali e la faccia con un fiotto rosso e
violento. Prese a calci il poveretto già cadavere con rabbia
e intimò agli altri di obbedire se non volevano fare la stes-
sa fine.
Urlò ordini pallido ed elettrizzato, con gli occhi sgranati
e folli come quelli del Duce quando parlava dal balcone nei
cinegiornali. Dovunque si voltassero c’erano fascisti arma-
ti. Alcuni sorridevano, pareva si divertissero.

140
« Non abbiamo fatto niente! » disse il padre di Salem
che era il vecchio della carovana. Ma quello che comanda-
va e aveva sparato a Saro non lo degnò d’una risposta, lo
ignorò.
« Perquisiteli e se hanno armi, coltelli, o cose del genere
disarmateli. Poi ricordatevi di lavarvi le mani! Non vorrei
vi infettaste » ordinò l’uomo e ridendo prese a tentare di ri-
pulirsi dagli schizzi di sangue con un fazzoletto bianco e
un’espressione di schifo sul volto.
Erano atterriti, increduli. In breve le mani degli assassi-
ni furono su di loro, li perquisirono uno a uno, uomini e
donne e perfino i bambini, palpandoli rudemente. Uno dei
fascisti fece un segnale con una lampada e dalla sommità
della strada, dove erano rimasti nascosti fino ad allora, ca-
larono due camion. Scesero a fari accesi nella notte come
elefanti grigi e lenti dagli occhi luminosi.
Furono fatti salire sui camion a forza di spinte, colpi
con il calcio del fucile e urla. Non fu loro permesso di pren-
dere nulla. Tremavano di paura e intanto la carne di quella
che avrebbe dovuto essere la loro cena era già carbone. Do-
vettero lasciare tutto, i carri, i cavalli, i vestiti, la roba da
mangiare... Tutto. Non ebbero il tempo di prendere nulla,
non gli fecero prendere nulla! Quando pigiati nei camion
arrivarono alla sommità della salita, con i fascisti che pun-
tavano i fucili per impedir loro di fuggire e li spintonavano,
videro giù nella valle vicino alla fonte i carri e tutti i loro
averi in fiamme. I cavalli vagavano sconsolati rifuggendo il
fuoco. Li avevano staccati dai carri. Di loro, almeno, aveva-
no avuto pietà. Intanto dalle alte lingue di fuoco si stacca-
vano scintille bellissime che volavano verso il cielo in lente
volute. Sperarono che Dio abbassando lo sguardo dal cielo
per guardarle si accorgesse di loro.
Salem mi disse che in un certo modo fu così.
« Almeno una creatura si salvò quella notte, protetta

141
dalle braccia della madre morta » mormorò. « Volle la San-
ta nera degli zingari che quel piccino piangesse troppo pia-
no e che il suo pianto fosse coperto dalle urla delle donne
e dai pianti disperati di noi tutti. Fedor fu tratto in salvo da
una donna la mattina dopo: una contadina che lo sentì
piangere lo tolse infreddolito e affamato dal seno freddo
del cadavere di sua madre e l’allevò.
« Questo dovrebbero sapere i carnefici di ogni tempo.
Che per quanto si sia spietati c’è sempre qualcuno che si
salva e che un giorno tornerà a cercarci ».
« Che ne è stato di Fedor? » non potrei trattenermi dal
domandare con un sussurro.
« Quando tornai da quelle parti, con il bisogno assurdo
che ha l’uomo di rivedere i luoghi che decretarono la sua
sfortuna, seppi da una vecchia che si era salvato e che una
donna l’aveva cresciuto come un figlio ».
Era andato di nascosto, lo aveva visto passare mentre
andava a scuola e aveva saputo che il suo nuovo nome era
Mario. Ma il bambino lo aveva guardato impaurito, come i
gagé guardano gli appartenenti al popolo degli uomini.
Così, non aveva avuto cuore di dirgli neanche una parola.
Continuò a narrare, e ascoltandolo vidi quei poveretti
salire sul treno bestiame, senza nulla da mangiare o da be-
re, né una coperta, senza parlare del latte per i bambini.
Piangevano tutti. Uno dei suonatori aveva la fisarmonica
addosso quando fu fatto salire sul camion e la tenne stret-
ta: così, pover’uomo, suonò tutta la notte una canzone zin-
gara per consolare i loro cuori terrorizzati. Doveva essere
una sonata di festa e divenne malinconica e scura, mentre
il treno attraversava la notte a passo d’uomo fermandosi a
ogni stazioncina.
Salem ed Emil andavano con il pensiero alle loro ragaz-
ze di allora, che erano di un’altra compagnia e che non
avrebbero rivisto mai più.

142
« La mattina dopo arrivammo a Bolzano e ci internaro-
no nel campo allestito nel quartiere di Gries. Là c’erano
anche gagé: ebrei, prigionieri politici, disgraziati di tutte le
sorte » mi spiegò Salem. Sperai che la sua storia finisse lì,
e che gli zingari fossero semplicemente rimasti prigionieri
fino alla fine della guerra.
E invece quel racconto non finiva mai. Presi a sbadiglia-
re senza farmene accorgere, dal fastidio che mi dava sentir
raccontare certe cose.
Per la prima volta videro un vero lager, con tanto di mu-
ra, torrette, baracche e filo spinato. Quasi nulla da man-
giare: un po’ di latte o di zuppa insipida. Si indebolirono,
qualcuno si ammalò, e poi, neanche lui sapeva spiegarmi
come, si erano ritrovati su un treno per Auschwitz pieno
zeppo di zingari come loro, delle più diverse provenienze:
c’erano sinti, rom, kalé e altri ancora.
Auschwitz. Rammentai che quella parola l’aveva pro-
nunciata con terrore anche la vecchia zingara la prima se-
ra. Ciò nonostante per me, beata ignoranza, non significa-
va ancora nulla: Dostoevskij, Auschwitz, tutte e due erano
solo parole difficili da pronunciare.
Ancora un istante e avrei saputo. Quel maledetto treno
era arrivato ad Auschwitz alla metà di maggio del 1943. La
nonna di Salem e altri anziani erano già morti a Bolzano,
di fame e di stenti, e qualcun altro morì durante il viaggio.
Lì, cominciarono a comprendere che era solo questione
di tempo e sarebbero morti tutti.
« Eravamo abituati alla diffidenza e all’odio della gente,
ma questo chi poteva immaginarlo! La morte alitava sui
nostri volti il suo fiato fetente e non sapevamo ancora che
essa può avere un volto d’uomo, indossare un’uniforme.
Allora non sapevamo che pochi mesi prima, il 26 febbraio,
era arrivato il primo trasporto di zingari ad Auschwitz e

143
già in marzo duemila zingari erano stati uccisi nelle came-
re a gas » mi raccontò Salem.
‘Uccisi? Camere a gas?’ Ma di cosa stava parlando?
Seguitò, implacabile. Adesso aveva perso il controllo,
scuoteva la testa, ci si arrabbiava fra sé e sé:
« Molti, i vecchi specialmente, non vogliono sentirne
parlare e non ne parlano, ma Dio mio! Dio mio! Qualcuno
deve sapere... ricordare. Porrajmos! Distruzione! » scandì
forte, alzando la voce.
La sciagura del popolo zingaro aveva dunque avuto ini-
zio. Ignari di tutto, dopo un viaggio massacrante durato
giorni e giorni erano arrivati in Polonia per scoprire che
un pezzo d’inferno era stato trasferito anzitempo sulla ter-
ra apposta per loro.
Immaginai i loro occhi poggiati alle fessure delle assi
del carro bestiame. Gli occhi dei bambini piangono e guar-
dano fuori. Il treno traversa i prati fioriti, vedono case e
paesi in lontananza, e di certo sembra loro incredibile che
qualcuno continui a vivere normalmente, ad alzarsi e an-
dare nei campi o nelle fabbriche mentre a loro accade tut-
to questo.
La linea ferroviaria attraversò una striscia di terra brul-
la e grigia. Sentirono il treno rallentare ancora, stridere,
immettersi negli scambi e penetrare più a fondo dentro le
mura. Capirono subito che li attendeva un altro lager, che
li avevano trasferiti.
‘Arbeit Macht Frei?’
Avevano sentito dire cose terribili a Bolzano, da altri
prigionieri, ma non avevano voluto crederci. Quando i va-
goni si aprirono e il grande campo pieno di baracche e di
edifici comparve loro di fronte, gli furono addosso dei te-
deschi in uniforme con i cani lupo al guinzaglio, e intima-
rono loro di scendere e di allinearsi sul marciapiede.
Non è difficile figurarsi la scena. Avranno cercato di sta-

144
re uniti, di non separarsi, si saranno guardati intorno
smarriti, non capendo cosa stesse loro succedendo ancora
e cosa sarebbe loro accaduto.
« Poi lo vidi » disse Salem a questo punto, sollevando gli
occhi su di me con un moto di disgusto sulle labbra: « Per
la prima volta in vita mia lo vidi in quel giorno maledetto,
e nel momento esatto in cui lo guardai i suoi occhi si posa-
rono su di me e sorrise, la bocca come un filo esangue al di
sotto del naso ».
Quel­l’uo­mo indossava un camice bianco da dottore, e
sfilò di fronte a loro con un militare vicino che lo seguiva
passo passo. Separò dal gruppo alcuni vecchi malandati,
quelli in condizioni più precarie degli altri. Salem sperò
che scegliesse anche suo padre e che tutti loro fossero de-
stinati a un ospedale, per essere curati. Invece, coloro che
furono scelti quel primo giorno, non li videro mai più.
Come seppe da lì a poco, ad Auschwitz c’era una sola
micidiale medicina pronta a curare tutti i loro malanni: la
camera a gas.
Quando il medico fu all’altezza sua e di suo fratello si il-
luminò e fece far loro un passo avanti. Altri, più lontano,
lungo la banchina fecero o avevano fatto quello stesso pas-
so. Furono raggruppati con la forza, dal momento che per
nessun motivo avrebbero voluto separarsi dalle loro fami-
glie. Si ritrovarono insieme a un gruppo di bambini e ra-
gazzi: Salem e suo fratello Emil erano tra i più grandi.
A questo punto del racconto gli occhi fissi di Salem pre-
sero a lacrimare come una fontana, ma senza un singhioz-
zo. Rapito da quella visione se li asciugò con il suo foulard
verde.
« Istintivamente tutti si strinsero a noi, come avrebbero
fatto con i loro genitori. Li guardai e capii che dietro quel-
la selezione c’era un’assurda, incomprensibile logica: era-

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vamo tutti coppie di gemelli eccetto qualcuno che era af-
flitto da nanismo ».
Sfilando fino al loro settore, senza sapere ancora dove li
portassero, li videro. Videro gli ebrei. Cadaveri ossuti,
scheletri che camminavano per un prodigio imperscruta-
bile; teschi rasati, con gli occhi affondati nelle orbite, ma
camminavano ancora. I bambini presero a piangere im-
pauriti. Non riuscivano a staccare loro gli occhi di dosso, e
ciò che era più spaventoso era il loro modo di guardarli: li
guardavano con pietà. Quei morti viventi avevano pietà di
loro.
A un tratto Salem si fermò, come colpito da un presen-
timento. « Ma... » disse. « Io ti racconto tutte queste cose,
ma tu ne sai qualcosa di Auschwitz, dei milioni di persone
che sono morte nelle camere a gas? »
« Sì! » mentii. Un caldo tremendo che faceva sudare si
era impossessato di me. Degli ebrei me ne aveva parlato
don Caldine una volta. Ma in realtà ne sapevo ben poco.
Nonostante ciò sentivo che non era il momento di fare do-
mande.
Mi scrutò scettico, poi continuò: « Gli ebrei venivano ra-
sati e gli veniva dato un sudicio pigiama a righe, ma a noi
no. I nazisti sapevano per esperienza che gli altri prigio-
nieri non ci volevano perché eravamo zingari. Così non
fummo rasati e uniformati, no! Ai miei genitori e agli altri
del gruppo che erano sopravvissuti alla prima selezione fu-
rono date delle baracche famigliari nel settore B2, nello zi-
geunerlager. Ognuno di loro ebbe la fascia con il triangolo
nero degli antisociali e un numero tatuato sul braccio e
preceduto dalla Z di zingaro ».
Anche ad Auschwitz non c’era posto per loro: perfino al­
l’in­fer­no li avrebbero messi da parte.
« Capisci a che punto si spinge l’odio e il pregiudizio nei
nostri confronti? Prendi degli esseri umani, li riduci pelle e

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ossa, togli loro tutto, uccidi loro coniugi e figli e loro anco-
ra si preoccupano e protestano perché il loro vicino di po-
sto è uno zingaro! Sì, perché uno zingaro può rubarti il
cucchiaio o gli zoccoli! » sentenziò Salem con amarezza.
Aveva alzato la voce. Si fermò, asciugandosi il volto con
il suo foulard. Dal campo lo chiamò un ragazzino perché
tornasse al carro.
« Va’ via! » gli urlò. « Adesso ho da fare! Lasciaci in pa-
ce! »
Il bambino girò i tacchi e tornò verso il carro. Lui ripre-
se cercando di ritrovare il filo della storia.
« Ti dicevo che agli zingari furono date le baracche, ma
erano così sporche e così pietose che tutti si ammalavano
di tifo e talvolta le loro guance si bucavano mangiate da
vermi invisibili per non so quale peste. Uno zingaro in gab-
bia è la cosa più triste che si possa vedere... »
Incredibilmente, Salem mi spiegò che nonostante tutto
la vita continuava e addirittura nascevano i bambini. Que-
gli uomini resi quasi scheletri generavano bambini. Si
amavano, si attaccavano alla vita e lei continuava a germo-
gliare, sbocciava anche da quei rami secchi, da quelle don-
ne con ‘il ventre freddo come una rana d’inverno’.
Non è difficile immaginare la fine di quei poveri angeli
nati dove a nessun essere dovrebbe esser concesso di na-
scere. Salem, suo fratello e gli altri gemelli vedevano i loro
genitori e parenti dalla rete e ci parlavano alle volte, per-
ché a loro era toccata la baracca di fianco, il kinderlager.
Un altro trattamento, avevano: li facevano lavare e man-
giare meglio degli altri, per quanto non molto: erano pre-
ziosi, e presto capirono perché.
Si interruppe ancora. Tremava. Si sollevò la manica e
mi mostrò un numero preceduto da due lettere: ZW.
« Zwillinge! Gemelli! » mi spiegò, e seguitò il suo racconto.
L’ascoltavo incredulo, ipnotizzato da quella storia terribi-

147
le. I gruppi di gemelli comprendevano individui delle età
più diverse. Salem e suo fratello erano i più anziani e a lo-
ro spettò la funzione di Zwillingsvater: capogemelli o pa-
dre dei gemelli. Quando capii che naturalmente avevano
iniziato a sentirsi responsabili delle loro vite, a cercare di
proteggere i più piccoli, capii anche tutto il resto, e di chi
erano quei nomi che aveva pronunciato il primo giorno.
Si fermò, la sua voce divenne un sussurro impastato, di-
stinguevo appena le parole: « Mio Dio! » disse. « Erano solo
bambini. Noi eravamo più grandi e avremmo dovuto pro-
teggerli ma non potevamo. Non c’è niente di peggio. Vive-
vamo in un assurdo gioco di specchi nel quale volti identi-
ci si scambiavano la paura che colava dai loro occhi ».
Prese a tremare come per un improvviso brivido di fred-
do: « Almeno una volta al giorno l’ala terribile dell’Angelo
bianco, così veniva chiamato il dottor Möller, calava su di
noi. Blandiva i più piccoli con bustine di zucchero: lo chia-
mavano zio Möller, uno zio terribile... »
A questo punto del racconto, uno zingaro ci venne in-
contro tenendo per mano il bambino che Salem aveva
scacciato poco prima e lo chiamò.
« Che c’è? » domandò Salem con un gesto della mano,
senza abbastanza fiato per alzare la voce.
« Mandreo deve parlarti! »
Gli andai dietro, reclamando con il mio silenzio il resto
della storia. Come se mi leggesse nel pensiero mi disse:
« Devo andare, adesso, c’è bisogno di me. Il resto, se trovo
il coraggio, te lo racconterò un’altra volta ».
Scappò via, sparì dentro a uno dei carri, e fu in quel mo-
mento che vidi aprirsi la porta della sua roulotte, quella
dov’era disteso al mio arrivo. Apparve Mercedes con una
catinella d’acqua, e la vuotò nella polvere. ‘Allora era lei di-
stesa sul letto con Salem?’ pensai. ‘Allora era il suo profu-

148
mo quello che avevo sentito su Salem. Ma come può esse-
re? È una ragazzina, è poco più grande di me’.
Mi salutò con la mano e mi venne incontro sorridendo.
Non fece in tempo però. Avevo dentro di me una sensazio-
ne strana, mai provata in passato, e scappai via prima che
lei potesse raggiungermi. Di nuovo sentii la rabbia crescer-
mi in seno, mi girava la testa e per l’improvviso calore do-
vetti slacciarmi il colletto. La rabbia urtava contro la storia
di Salem e la pena che provavo, vi si mescolava dandomi
un malessere che m’impediva di arrabbiarmi con lui, di
odiarlo come desideravo. A pensarci bene non ne avevo il
diritto, ma ero geloso di Salem, di Mercedes. Li immaginai
che si baciavano e quell’immagine mi respinse peggio d’un
topo morto coperto di mosche. Arrivato al barchino vi salii
e remai con tutta la forza per fuggire il più lontano possi-
bile da lì. Don Caldine mi aveva sempre raccomandato di
sfilare lungo la riva, dove la pertica pescava, invece quel
giorno tagliai di traverso. Ero fuori di me. Troppi pensieri,
troppo dolore mi si agitavano dentro rimestati ora, come
se non bastasse, dal mestolo della gelosia. Mi spinsi troppo
al largo. La pertica non toccava più il fondo e così nella fo-
ga della vogata mi sbilanciai in avanti e caddi nel­l’ac­qua.
Non sapevo nuotare e mi ritrovai sott’acqua in un regno
scuro e verdastro illuminato a tratti dai riflessi paglierini
della luce del sole che penetravano come lame incerte la
superficie del lago. Con gli occhi aperti vidi una tinca sfila-
re di fronte a me e dopo un attimo di immobilità incredula
toccai il fondo con i piedi e mi spinsi su prendendo ad an-
naspare. Risalii insieme a una nuvola di fango e invece di
emergere picchiai la testa contro lo scafo della barca, aprii
la bocca e bevvi, tornando giù. Non so dove trovai la forza,
ma mi impedii di tossire e annaspai ancora raggiungendo
la superficie, stavolta all’aria aperta. Tossii mettendo fuori
la testa, ma subito capii che non potevo stare a galla, non

149
ci riuscivo. Allora gridai aiuto con tutto il fiato, e per fortu-
na alla fine con la mano destra riuscii ad afferrarmi al bor-
do basso del barchino. Mi sforzai di mantenere la calma
per non capovolgerlo e battendo i piedi lo spinsi verso la
riva. Ero esausto e continuavo a tossire tenendomi su,
traumatizzato da quella caduta, da quell’imprevisto e ba-
nale faccia a faccia con la morte. Non avevo mai imparato
a nuotare e mi ero preso un bello spavento. Risalii sulla
barca da dietro e remando con le mani tornai a recuperare
la pertica che galleggiava al centro del lago. Solo allora in
lontananza vidi l’ombra di un uomo uscire dal lago, tirarsi
su tutto bagnato sulla riva e riguadagnare il bosco. Forse,
chiunque fosse, si era gettato per soccorrermi e, visto che
ce l’avevo fatta da solo, era tornato sui suoi passi.
Giunto a riva, lasciai la barca malamente nascosta nel
canneto e fuggii.
Sebbene l’incidente avesse placato i miei bollenti spiriti,
mi bastava ripensarci per inorridire.
« Schifosi! Schifosi! » ripetevo a voce alta, calciando la
polvere della riva e infilai la strada che portava in paese.
« Maledetti zingari! Maledetti schifosi! »
Il racconto di Salem mi aveva turbato e mi impediva di
accanirmi contro di loro come avrei avuto voglia di fare.
Ma quella sorta di tradimento mi faceva troppo male e non
riuscivo a non pensare che fosse avvenuto per colpa delle
loro usanze, del loro essere zingari.
Così pensando, con la testa che mi scoppiava per l’im-
provviso dolore, bagnato da capo a piedi, cominciai a
piangere lacrime di rabbia e a sputare pulendomi la bocca
con il dorso della mano per cancellare la traccia, anche so-
lo il ricordo del bacio di Mercedes:
« Sgualdrina! » urlai con tutto il fiato che avevo in gola.
« Sgualdrina! » ben sapendo che avrei potuto dire ben di
peggio.

150
XXII

Che andasse al diavolo lui e la sua storia di lager e dispera-


zione. Magari se l’era inventata di sana pianta. No! Questo
no. Nessuno meglio di me sapeva che non era così. Anche
il suo piano per rapinare il professore, pensavo, calando
verso casa spossato, doveva andare al diavolo. Una grave
mollezza si era impadronita di me. Non m’importava più
di nulla, non volevo saperne più nulla dei suoi progetti e
dei suoi furti da ladro schifoso. Avrei rubato, sì certo! Ora-
mai ero deciso a vendicarmi e a liberare mia madre e Nan-
dina dalla miseria e non vedevo altro mezzo. Ma da solo:
non avevo nessun bisogno di quella gente.
Svoltato che ebbi l’ultima curva sterrata, da dietro un’e-
norme macchia di ginestre comparve la casa. Corsi giù,
traversai l’aia di mattoni sconnessi e, in punta di piedi per
non farmi sentire, entrai nel piccolo ingresso che conduce-
va alla scala del piano superiore e immetteva in cucina.
Non avevo voglia di incontrare nessuno, ma avevo fame e
alla cena mancavano ancora troppe ore. Avrei mangiato
qualsiasi cosa per recuperare le forze. Come feci per entra-
re in cucina però sentii delle voci e mi venne istintivo fer-
marmi per non avere a che fare con Nandina. In quelle
condizioni non avrei sopportato i suoi rimproveri e teme-
vo di esagerare nella mia reazione.
Riconobbi la sua voce insieme a un’altra, esitante e bas-
sa, maligna, che conoscevo. Avvicinai l’occhio alla fessura
che la porta accostata aveva lasciato fra la pietra e i cardi-
ni e lo vidi. Angelino, strego o diavolo che fosse, era lì con

151
il suo cappello nero in testa e stava parlando con Nandina.
Lei era in piedi di fronte al­l’ac­quaio di graniglia e tirava
via con un colino l’erba che aveva fatto bollire quella mat-
tina nel pentolone.
« Occorrono altri soldi » sussurrò lui con il suo fare da
bambino timido, quasi rammaricato.
« Non ne ho più! Sono mesi che ti do tutta la mia pensio-
ne, quasi non mangio per darteli » replicò dura Nandina.
« Che posso farci? Tanti soldi per te sono nulla per loro!
Se vogliamo ottenere lo scopo... »
« Ci sono progressi, almeno? » domandò Nandina esa-
sperata.
« Sembra di sì, sembra che siano vicini ».
L’uomo si cincischiava la punta delle dita come se stes-
se appallottolando della mollica immaginaria. Glielo ave-
vo già visto fare il giorno che gli avevo portato Bigio.
« Speriamo che non ci stiano prendendo per il naso! »
disse Nandina dubbiosa.
« A me sembra una cosa seria » la tranquillizzò lui, allar-
gando le mani come per dire: ‘Poi se non lo è, c’è poco da
fare’.
Nandina, finito di scolare l’erba, si asciugò le mani al
grembiule e gli si avvicinò. Tendendo l’orecchio riuscii a
sentire che gli diceva: « Dimmi piuttosto di quel sangue:
davvero era fresco? »
Non credevo alle mie orecchie. Trattenni un’esclama-
zione e maledii il vizio che avevo di ascoltare di nascosto i
discorsi degli altri.
Angelino sollevò il volto cereo e i suoi occhi neri e lucidi
da topo brillarono: « Conosco quel posto, quell’altare, e
quella macchia non c’era, non era ancora nera. Era san-
gue. Lo conosco il sangue. I Know the Blood ».
« Cosa? » domandò Nandina.
La strana formula aveva colpito anche me, pensai fosse

152
un rito magico. Non sapevo ancora della sua mania di ri-
petere talvolta le frasi in inglese o in tedesco.
« Niente » rispose. « Speriamo bene. Adesso devo andare
a dar da mangiare alle capre ».
Nandina infilò le mani ossute nella tasca del grembiule
e tirò fuori dei fogli da mille lire. Non so quanti fossero ma
so che glieli dette e lui li prese: « Questi sono gli ultimi!
Non mi chiedere più niente! » gli disse dura. « E speriamo
che servano a qualcosa ».
« Non abbiamo altra possibilità. Dobbiamo fidarci ».
sussurrò lo strego, e si avviò nella mia direzione. Feci ap-
pena in tempo a nascondermi dietro alla porta che questa
si spalancò di colpo e lui passò oltre.
Rimasi accucciato dietro la porta. ‘Che mi venga un col-
po se ci capisco qualcosa’ pensai. Improvvisamente il mon-
do si trasfigurava sotto i miei occhi, si riempiva di malvagie
assurdità e di misteri. Di storie a metà, come quella di Sa-
lem, e di amori schifosi. Mi venne voglia di entrare e di af-
frontare Nandina per chiederle conto di ciò che avevo udi-
to, ma non ne ebbi il coraggio. Ero esausto e zuppo.
Come se non bastasse, quella sera mi ritrovai in piedi in
mutande dentro alla tinozza grande del bucato. Nandina
non volle sentire ragione e mia madre le diede man forte
ridendo divertita:
« Un po’ d’acqua non può certo farti male! »
Non ero più un bambino e senza mutande mi sarei ver-
gognato. Nandina con una tazza prendeva l’acqua verde
dal pentolone e me la versava sulle mani. Volle che mi ba-
gnassi le tempie, le ginocchia, dietro le orecchie, sotto ai
piedi e tutte le congiunture per tre volte di seguito, metico-
losamente.
La luce della lampadina da venti candele sopra l’acquaio
di graniglia lumeggiava i nostri contorni e immaginai le
nostre sagome come quelle che avevo visto in un quadro

153
del Seicento nella pieve di don Caldine: san Giovanni Bat-
tista che battezza il Cristo con la santa Maria Maddalena
che li guarda dalla nicchia di fianco, anche lei annerita dal
fumo delle candele.
Istruito da Nandina, anche se di malavoglia, ripetei:
« Col nome di Gesù e di Maria la paura la vada via! »
« Col nome di Gesù e di san Pietro la paura torni indie-
tro! »
Secondo lei avremmo dovuto ripetere l’operazione altre
due volte quella settimana, nei giorni senza la erre, come
lunedì e giovedì o sabato e domenica. Ma poteva scordar-
selo. Non mi sarei fatto più beccare alla sprovvista.
« Guarda! Guarda! » diceva a mia madre meravigliata.
« Guarda come si raggruma! Che paura che deve avere
avuto questa creatura! »
Guardai an­ch’io nel­l’ac­qua raccolta nel catino ai miei
piedi e la vidi. L’acqua prima limpida e verde si era raggru-
mata in una poltiglia scura, come fosse stata infestata da
microscopici girini.
« Huuu! Quanta paura! Ma che ti è successo? Ecco per-
ché urlava così, stanotte » esclamò Nandina.
Anche mia madre era meravigliata, guardava la trasfor-
mazione che l’acqua aveva subito e guardava me.
Fu allora che mi voltai e lo vidi in fondo alla stanza, per
la prima volta fuori da me, seduto sopra la madia, etereo
come un fantasma. L’avevo lasciato a casa da solo da gior-
ni e ora Dario compariva e mi guardava e rideva beffardo,
come a dire: ‘Sei finito bene senza di me!’
Non l’avevo mai visto così, per conto suo: si stava allon-
tanando da me, diveniva un’altra cosa. Camminò traver-
sando la stanza, si soffermò sulla porta, agitò la mano eva-
nescente in un saluto e disse con una voce esile che solo io
potei udire: « Buon bagno! »
Improvvisamente non vidi più nulla. Mia madre e Nan-

154
dina mi coprirono la testa e presero a strofinarmi con un
telo di lino. Ridevano dei miei capricci facendomi il solle-
tico apposta. Scontroso, risi an­ch’io, e protestai nonostan-
te il bambino che ero fosse contento di quei lazzi. Mentre
mi rivestivo, Nandina travasò ancora l’acqua morchiosa e
scura in una bacinella e attese che fossi pronto. Mangiam-
mo patate cotte nella cenere e formaggio tutti insieme co-
me sempre, e dopo cena mi disse: « Vieni con me, segui-
mi! » Riprendemmo la bacinella. L’acqua dopo aver ripo-
sato era divenuta una poltiglia densa, davvero paurosa. La
seguii fino al fiume guardandola avanzare piano piano, at-
tenta a non versare quell’intruglio. Sul greto del fiume mi
passò la bacinella e pretese che ce la versassi io lentamen-
te. Invece ce la gettai ridendo in uno splendido schizzo che
rilucette come una manciata di diamanti nella caligine
della sera.
« Con il nome di Gesù e di Maria la paura la vada via! »
le urlò dietro patetica Nandina.
Con l’acqua mi sentii uscire dal corpo anche la paura;
quel­l’ac­qua lavò via anche la mia rabbia, la gelosia e tutto
il resto. Mi sentii improvvisamente leggero, domo, pacifi-
cato nel fresco della sera estiva. Contento di esistere e di
essere al mondo, di non essere morto affogato nel lago.
Più tardi, sotto le coperte ripensai a quella giornata, al
racconto di Salem, ai capelli neri di Mercedes e poi mi ad-
dormentai di botto.
Allora arrivarono i sogni a cercare di spiegare l’inspie-
gabile, a confondermi ancora di più le idee.

Nel sogno siamo tanti e tutti gemelli. Ci muoviamo nell’a-


ria caliginosa di un tramonto improbabile al centro di una
steppa brulla e grigia. Ma non siamo liberi, siamo circon-
dati da un grande quadrato di rete e di filo spinato. Dentro
il quadrato ci sono solo dei giochi da bambini: un giostra

155
rossa, uno scivolo verde, un’altalena, ma non abbiamo vo-
glia di giocare. Ci sono io e con me c’è anche Dario, in car-
ne e ossa, con una lucertola tatuata sul braccio, identica
alla mia. Ci sono due Salem identici, due Mercedes identi-
che. C’è anche mia madre, anzi, ce ne sono tre, identiche.
Ci sono due Nandine, ma una di loro è un uomo, un ge-
mello maschio, e capisco che è suo marito a essere divenu-
to nel mio sogno il suo gemello. Sulle nostre teste, minac-
ciose e scure si addensano improvvise le nuvole di un tem-
porale imminente, sporche di terra, arse da una luce livida
e gialla. Anche noi siamo sporchi e grigi. In un angolo due
gemelli cercano di suonare una fisarmonica tirandola co-
me una fune e strizzandola ma, per quanto facciano, la fi-
sarmonica non emette suono. Ecco, adesso lo capisco, il
sogno è muto, non ci sono suoni e io, io solo fra tutti, sono
nudo. Mi vergogno, mi vergogno tanto, ma nessuno sem-
bra farci caso. Ognuno ha gli occhi negli occhi del suo ge-
mello, e i gemelli più piccoli si attaccano alle nostre gambe
e ci guardano.
Due di loro, afferrandosi con le piccole unghie alle mie
gambe nude, mi dicono, senza voce: « Papà! Papà! »
Io vorrei dir loro che non sono il loro padre, ma la voce
non mi esce.
A questo punto arriva un uomo da fuori e si avvicina.
Da prima piccolissimo all’orizzonte si accosta alla rete: in-
dossa un camice bianco da dottore e un cappello nero.
Quando si fa più vicino vedo che ha il camice macchiato di
sangue fresco e il suo volto, che fino a quel momento è sta-
to una macchia bianca, diventa sotto i miei occhi il sorriso
timido di Angelino. Sento i suoi occhietti da topo su di me.
Fa un cenno a Salem che si avvicina a Mercedes. Due
Salem si avvicinano a due Mercedes, estraggono un paio
di cesoie enormi e tagliano tutti i capelli a entrambe.

156
Dario mi riscuote da quella scena e mi indica in un an-
golo della recinzione una torretta alta, di legno pietrificato
e grigio che non avevo notato.
In cima alla torretta, poggiati al balconcino decorato
con vasi di gerani dal colore acceso, ci sono dei signori ele-
ganti, vestiti a festa. Guardano la scena e ridono muti, sgo-
mitandosi l’un l’altro e indicandomi. Mi copro con le mani
meglio che posso e solo allora li riconosco, sono l’Acrime-
ne, mio nonno, la Signora, il becchino dall’unghia schifosa
divenuta nel sogno lunga dieci centimetri e c’è anche Save-
rio che ride a crepapelle di una risata muta. Loro sono a
colori come i gerani e i giochi, non grigi come noi, come
tutto il resto.
Quando mi volto per guardare ancora le due Mercedes
ce n’è solo una, ma non è più lei. È caduta per terra nella
polvere come un fantoccio ed è uno scheletro orribile, con
pochi ciuffi di capelli neri in testa, il vestito di Mercedes
indosso, e i suoi denti bianchi accesi in un terrificante sor-
riso d’ossa.
Allora urlo con tutto il fiato che ho in corpo, spalancan-
do la bocca fino a ingoiare tutto il sogno, ad aspirare il mio
incubo, la steppa, i gemelli, i giochi, Angelino, l’altalena e
gli spettatori.
Urlo con tutta la forza che ho e faccio tremare le mura,
immagino l’urlo che esce di casa sospingendo un san Pietro
alato che corre sul fiume, aspira sorvolandolo la morchia
nera della mia paura e velocissimo la riporta indietro fino
a me. Poi si accosta invisibile alla mia bocca urlante e ce la
risoffia dentro, come uno sciame di api nere e velenose.
Stavolta accorse anche mia madre, insieme a Nandina,
entrambe allarmatissime. Mi dettero da bere, mi consola-
rono, mi chiesero cosa avessi sognato. Tremavo come un
fantoccio legato a fili invisibili, ma non rispondevo, non ri-

157
spondevo. Quando finalmente mi addormentai e la mia te-
sta smise di rimuginare, di cercare un significato nell’incu-
bo, era già mattino.
Quel giorno mi lasciarono dormire fino all’ora di pranzo.

158
XXIII

Quando mi svegliai una nuova tristezza albergava nella


mia anima. Cercai Dario dentro di me, ma non lo sentii.
Allora lo chiamai a mezza voce, ma non ricomparve. Non
avevo più Salem come amico, l’orgoglio e la gelosia mi im-
pedivano di tornare al campo degli zingari. Anche in paese
non avevo amici, solo nemici, persone delle quali mi sarei
volentieri vendicato e nient’altro. Il sorriso muto dell’Acri-
mene del sogno mi tornò in mente insieme alle parole di
dileggio di Saverio. Non era neanche rabbia quel giorno,
era voglia di andare a cercarlo per vendicarmi e di trovare
dei soldi al più presto per Nandina, che, ne ero certo, dove-
va essere ricattata da Angelino o raggirata da altri che, tra-
mite lui, le promettevano chissà quali insperati vantaggi.
Presi la fionda dal mio nascondiglio e mi riempii le ta-
sche di sassi. Nel pomeriggio ero già al bordo del paese, vi-
cino a casa del calzolaio, appostato in attesa, con la voglia
di buttarmi sul mio nemico non appena fosse uscito di ca-
sa e di picchiarlo facendogli chiedere pietà. Forse se mi
fosse riuscito, dopo sarei stato meglio. O forse no, riflettei
fra me, forse non mi sarebbe bastato. A un certo punto
pensai che ero solo un ragazzino sciocco e vigliacco. Non
era di lui che dovevo vendicarmi, ma dell’Acrimene. Quale
modo migliore avrei potuto escogitare se non quello di ru-
barle tutti i suoi soldi? Se fossi riuscito a derubarla avrei
preso due piccioni con una fava. Avrei trovato i soldi e l’a-
vrei punita una volta per tutte per aver offeso me e mia
madre. Se invece avessi picchiato Saverio non avrei risolto

159
un bel nulla. Lasciai la mia postazione e risalii a piedi da
via Roma. In prossimità di casa sua feci capolino dall’an-
golo della cantonata e vidi che le donne non c’erano. Forse
era presto per lavorare e sarebbero giunte verso le quattro,
dopo il riposo pomeridiano. La sedia dell’Acrimene era
nel­l’in­gres­so del palazzo, la scorgevo dal portone lasciato
aperto. Attesi, non so neanche io cosa. Rammentai le paro-
le del mio maestro: ‘Pazienza, ci vuole pazienza!’
La mia attesa fu premiata. Dopo un bel po’ la vidi arri-
vare, tirò la sedia sul marciapiede e si mise a cucire al suo
posto. Così stando le cose me ne sarei anche potuto anda-
re, ma il destino a volte si diverte a tentarti e ti tende delle
trappole a cui non puoi sottrarti. Da una porta a vetri dieci
passi più avanti si affacciò la signora Incenzi e cortese le
domandò se voleva unirsi a lei per prendere un caffè. Con
l’aprirsi della sua porta a vetri che dava sul marciapiede,
l’odore della bevanda si sparse per la strada. Vidi l’Acrime-
ne protendere la testa e muovere il naso come una grossa
nutria. Accettò, e tenendo il lavoro in grembo camminò
piegata fin sull’uscio dell’Incenzi. Fu invitata a entrare:
« Solo cinque minuti » disse. « Ho lasciato anche la porta di
casa aperta » e sparì con la signora oltre la tenda di tulle.
‘La porta di casa aperta’? Capii subito che quella era la
mia occasione, che la vendetta mi veniva servita su un
piatto d’argento. Il cuore mi batteva a più non posso. Guar-
dandomi intorno e controllando le finestre per paura che
qualcuno mi scorgesse, attraversai di corsa la strada, infi-
lai il portone e fui nell’andito ombroso. Inutile dire che la
macchina da scrivere accompagnò i miei passi lungo la
via. Feci di corsa le scale in punta di piedi e sul primo e
unico pianerottolo trovai la porta di casa dell’Acrimene
chiusa, ma con la chiave nella serratura. Girai la chiave,
spinsi e la porta si aprì. Non aveva chiuso dal momento
che stando in strada di fronte al portone nessuno sarebbe

160
potuto salire senza passarle proprio sotto il naso e quindi
essere visto. Mi ritrovai nel­l’ap­par­ta­men­to profumato di
fiori d’arancio secchi e di varichina. Aprii una biscottiera
che stava su un piccolo frigorifero moderno e ne trassi
fuori due biscotti al cioccolato. Me li infilai in bocca e pre-
si a masticare. Poi, istintivamente procedetti e andai in ca-
mera. C’era un letto a una piazza con la coperta a fiori, e
una piccola acquasantiera di bachelite gialla inchiodata al
muro sopra al comodino, nella quale galleggiava morta
una zanzara. Aprii i cassetti del comò e ci guardai dentro
facendo attenzione a non buttare all’aria ogni cosa. Nel
primo cassetto c’erano calze, busti, mutande, e lo richiusi
subito con un senso di repulsione. Nel secondo invece c’e-
rano documenti, un cofanetto di caramelle Sperlari pieno
di monete fuori corso e un sacchetto di nylon robusto e
opaco. Dentro c’erano delle foto in bianco e nero, e quan-
do l’aprii me le ritrovai in mano. Un ragazza carina e sor-
ridente rivelava i lineamenti dell’arpia e stringeva il brac-
cio di un giovanotto, anche lui sorridente, con i baffi arric-
ciati e l’uniforme da fante. Poi c’erano delle lettere. Ne
aprii una: erano lettere d’amore. In una calligrafia splendi-
da e riccioluta qualcuno le scriveva dei suoi bellissimi oc-
chi azzurro cielo e formulava promesse d’amore per l’eter-
nità.
Riconobbi nel­l’uo­mo la stessa faccia che stava incorni-
ciata sulla parete con l’alone nero dei morti intorno, i li-
neamenti malamente ritoccati con il carboncino e i botto-
ni dell’uniforme che il fotografo aveva fatto rilucere con
due colpi di biacca. Il tipo era morto, c’avrei scommesso la
testa.
In un’altra foto c’era una bimba, con una cuffietta rica-
mata e due guanciotte floride, dietro di lei un paesaggio di-
pinto e una mano anonima che la reggeva in equilibrio di
fronte al fotografo.

161
Non so quanto tempo passai a guardare quelle foto e a
leggere la lettera. So solo che la voglia di vendicarmi e di
rubare mi passò d’un botto, improvvisamente. Rimisi tutto
al suo posto e richiusi il cassetto. Nel farlo però il legno del
cassetto gracchiò rumorosamente sfregando sulla guida
del mobile priva di cera. Sentii nel­l’al­tra stanza una voce
di donna esclamare: « Mio Dio! Chi c’è? » e dei passi che
correvano via. Si chiuse la porta alle spalle dando due
mandate e corse giù per le scale gridando « Aiuto! Aiuto! »
Ero perduto. Corsi alla porta e cercai di aprirla ma non
ce la feci: aveva girato la chiave nella toppa e l’aveva lascia-
ta nella serratura. Fra non molto avrebbe fatto gente, sa-
rebbe tornata con degli uomini o con delle guardie. Tre-
mai al pensiero di essermi cacciato in trappola. Guardai la
finestra che dava sulla strada già sapendo che era troppo
alta e immaginai mia madre che piangeva e si disperava
per me al commissariato. Non feci in tempo a rammari-
carmene però, perché dei passi pesanti corsero su per le
scale, sentii la chiave che girava. Santo cielo, ero in trap-
pola!
Non so dirvi la mia meraviglia, quando all’aprirsi della
porta mi comparve di fronte lo zingaro con la faccia da in-
diano che mi aveva salvato dal piccolo accoltellatore.
Mi fece segno di tacere tirandomi a sé, richiuse la porta
come l’aveva trovata e a questo punto sentimmo le voci giù
al portone che salivano le scale. Ci portammo sul pianerot-
tolo superiore. L’uomo mi aiutò a salire su una finestrella
e mi spinse su un tetto. Fu subito chiaro che lui non ci sa-
rebbe passato. Lo guardai interrogativo e mi fece segno di
andare. Seppi poi che si era gettato di corsa per le scale,
aveva travolto due carabinieri mandandoli a gambe all’a-
ria come birilli, dato un pugno al salumiere che aveva ten-
tato di trattenerlo, ed era sparito in fondo alla via.
Corsi sui tetti, temendo di cadere e rotolare giù schian-

162
tandomi nella via principale. Le gambe mi tremavano, su-
davo freddo. Ogni tanto le coppe delle tegole si spezzavano
sotto i miei piedi mandando uno schiocco sordo. Cercai di
calmarmi. Ero lontano, il peggio era passato. Mi appoggiai
a un enorme comignolo per prendere fiato e lo rividi anco-
ra; seduto su un fumaiolo poco lontano, che lasciava pen-
zolare i piedi nel vuoto agitandoli come fanno i bambini
sulla riva dei fiumi quando se li bagnano. Era grigio, anco-
ra più inconsistente, e si confondeva fra i ciuffi di nuvole
di quel pomeriggio. Voltò verso di me il suo volto identico
al mio eppure così diverso, improvvisamente così altro da
me. Sentii i suoi pensieri, beffardi, giunti fin lassù a pren-
dermi in giro: « Lo sapevo che non eri capace di rubare. Te
l’avevo detto! »
Poi lo vidi che saltava leggero dal camino, infilava le
mani in tasca e andava oltre, scompariva a passo deciso
nel nulla, senza preoccuparsi di cadere.
Proseguii sui tetti fino a che trovai da camminare, te-
nendomi lontano dal bordo, risalii via Roma e, per mia
fortuna, trovai fra i comignoli un degradare di tetti e potei
scendere dalla parte dei capanni, approfittando di un albe-
ro di fico bello robusto. Non era troppo alto e sebbene le
gambe mi tremassero non vedevo l’ora di scendere e filar-
mela. Mi gettai sui rami della chioma, afferrandoli. Si pie-
garono sotto il mio peso, e uno si ruppe, ma riuscii quasi
subito ad afferrarmi al tronco principale e discendere sen-
za difficoltà. Pensai compiaciuto che senza Dario stavo di-
ventando una scimmia.
Oramai ero giunto all’altezza della sommità del paese.
Tremavo dall’emozione e correvo come se dietro di me
avessi avuto un intero branco di cani randagi e affamati.
L’avevo scampata bella. Rallentai il passo facendomi
forza e per la strada mi imbattei negli avventori del bar
parrocchiale. Nessuno badava a me. Tesi l’orecchio. Già

163
parlavano di uno zingaro, una specie di gigante che aveva
tentato di rubare in casa dell’Acrimene e atterrato la forza
pubblica con un soffio.
Ancora pochi passi e al capannello successivo gli zinga-
ri erano diventati due, un uomo e un donna, enormi. Ave-
vano sparato? C’è chi diceva di sì, non era chiaro.
Il cuore mi balzò in gola, mi fermai ad ascoltare se ave-
vano colpito a morte il mio salvatore oppure no. Quando
capii che tutti parlavano per sentito dire proseguii calando
la lunga via rasente il muro.
Riflettevo: ‘Ma che ci faceva quello zingaro lì, sbucato
dal nulla e pronto a salvarmi?’ Senza rendermene conto
ero giunto a metà della via principale e iniziai a risentire il
monotono battito della macchina da scrivere accavallarsi
ai miei pensieri.
Forse lo zingaro stava passando di lì e aveva visto tutta
la scena. Mi aveva riconosciuto e si era prodigato per aiu-
tarmi. Ma cosa ci faceva, nel pieno del pomeriggio, uno
zingaro in paese? Non avevano detto che si sarebbero
mantenuti nascosti? Era la seconda volta che il misterioso
personaggio interveniva a togliermi dai guai, e mi riusciva
difficile credere che si trattasse di un caso. Pensai che co-
munque sarei dovuto tornare al campo almeno per ringra-
ziare quello zingaro che mi aveva salvato, anche se non
avevo nessuna voglia di vedere Salem e temevo di imbat-
termi in Mercedes.
Pensavo tutte queste cose con le mani in tasca, cinci-
schiando inavvertitamente un pezzo di carta. A un certo
punto mi resi conto di che cos’era e tirai fuori tutto ripie-
gato l’ampio pezzo da diecimila lire che mi aveva anticipa-
to Salem. Preso dall’esasperazione e dalla gelosia me l’ero
completamente dimenticato, si era bagnato ed era asciuga-
to nelle mie tasche. Ringraziai di non averlo perso nel lago
e che, per fortuna, la sera del lavaggio con l’erba da paura

164
quelle diecimila lire non fossero cadute fra i piedi di Nan-
dina e di mia madre mentre armeggiavano con i vestiti. Co-
me avrei potuto giustificare il possesso di tutti quei soldi?
Improvvisamente mi venne un’idea. Voltai per la via pa-
rallela ed entrai dalle Svizzere come il protagonista di un
film western che si rechi alla resa dei conti. Aprii la porta
così bruscamente che il campanellino fece tre giri e la vec-
chia sobbalzò sulla poltrona subito all’erta. Sgranò gli oc-
chi amplificati dalle lenti enormi come avrebbe fatto una
civetta svegliata nel pieno del giorno e urlò il suo allarme:
« Caterina! » gridò, con un richiamo secco e acuto, da
rapace qual era. Ancora scombussolato per la fuga, mi feci
forza e dissi a voce alta: « Nandina mi ha mandato a salda-
re il conto! »
La figlia mi guardò sospettosa. Dopo il nostro ultimo in-
contro temette forse che potessi estrarre la mia Colt e spa-
rarle in fronte un proiettile per ogni foglio da mille lire che
le dovevamo. Quando capì che non scherzavo lesta aprì la
cassa, sollevò la cassetta dei soldi e con quei ragni pallidi
che erano le sue mani adunche e frenetiche, estrasse e pre-
se a sfogliare un libriccino nero. Lesse, avvicinandolo al
volto e poi mi guardò maligna e disse con soddisfazione,
certa di farmi chinare la testa: « Sono cinquemilasettecen-
to lire! »
Sostenni il suo sguardo, contento di avere abbastanza
soldi, e indicai le strisce di liquirizia nel barattolo di vetro
a fianco alla cassa: « Mi dia anche tre di queste ».
« Prima i soldi! » disse diffidente, con un sorriso bef­
fardo.
Infilai la mano in tasca e, come avevo immaginato la
volta prima, le gettai sul bancone diecimila lire.
Quando le vide si illuminò, le guardò sospettosa e le af-
ferrò. I ragni presero a stropicciarne la carta per ricono-
scerne la consistenza, poi si portò verso il vetro della fine-

165
strella che dava sul retro e ce le accostò. La banconota ri-
mase sospesa fra il suo occhio glauco e il vetro sporco di
cacche di mosca della finestra.
« Bene » disse infine, soddisfatta dell’esame, e con quelle
mani schifose prese dal barattolo tre strisce di liquirizia e
le mise in un sacchetto di carta. Me lo passò e prese ad ar-
meggiare alla cassa. Mise sul piattino le monete e voltan-
dosi tirò su il grembiule e la sottana, armeggiò con il fagot-
to di vestiti che le ricopriva con mille strati d’ali di falena
nera il corpo ossuto e voltandosi mi contò da un fagotto di
mille lire quattro banconote e dal cassetto i restanti spic-
cioli.
Mentre uscivo, la vecchia e la giovane cantilenarono al­
l’uni­so­no un saluto per me e per Nandina.
« Maledette! » pensai e provai a immaginarmi le loro fo-
to da bambine sul comò senza riuscirci. Di certo quelle
due arpie bambine non lo erano mai state. Con la liquiri-
zia che si scioglieva in bocca e mi macchiava labbra e ma-
ni, masticando di gusto tutto quel sapore, rifeci la strada
fino a casa.
In qualche modo avrei dovuto dire a Nandina del conto
saldato, o lei lo avrebbe pagato due volte. Ma ve lo imma-
ginate quante domande mi sarei beccato in cambio?
Decisi di lasciar perdere per non essere costretto a in-
ventare un sacco di balle. Poi ebbi un’idea, mi fermai dal
tabaccaio e comperai una busta da lettere, mi feci prestare
una matita, tenni gli spiccioli per me e spostandomi in un
angolo con la mano sinistra scrissi sulla lettera: per Nandi-
na Faini.
Il tipo mi tenne d’occhio sospettoso. Mi voltai dandogli
le spalle furtivo e scrissi: Il conto delle Svizzere è stato paga­
to. Meglio sarà se non domanderete da chi.
Dentro misi le quattromila lire meno gli spiccioli che
tenni per me e andai a piedi fino alla chiesa lasciando tutto

166
nella cassetta delle elemosine di don Caldine. Ne uscii ras-
serenato: il prete non mi aveva visto e io mi sentivo il bene-
fattore anonimo giunto al momento giusto, il Conte di
Montecristo come l’avrei visto pochi anni dopo al cinema
da Gariburdera.

167
XXIV

Qualche volta mi fermavo a sedere su un ciglio della strada o


su uno scalino e mi piaceva immaginare come sarebbe stato
vederlo tornare. Mi è sempre piaciuto figurarmi le cose, ve­
derle nella mente e ogni volta avevo tutta una serie di ritorni
da scartare come preziosi cioccolati d’alta pasticceria per gu­
starmeli uno a uno, poco a poco.
I miei preferiti erano i più strepitosi e inverosimili e, for­
se, un poco infantili. C’era quello nel quale io, Nandina e la
mamma eravamo a tavola e il postino arrivava con una let­
tera e saliva affannato le scale più in fretta che poteva. Sulla
lettera c’era un grande francobollo con George Washington,
mamma apriva la lettera con mani febbrili e poi a metà della
lettera doveva sedersi. Nandina, più in frenesia di lei, le ver­
sava un bicchiere d’acqua e lei, anziché berlo, ci tuffava le
dita e si spruzzava il bel volto rosato, ma senza smettere di
tenere la busta con l’altra mano. Poi con il cuore che le bat­
teva all’impazzata, mi passava la lettera e mi diceva, leggila,
leggila tu Ciro, a voce alta, ma leggi piano.
Io allora l’aprivo e sopra c’era scritto in grande: STO AR­
RIVANDO! PAPÀ.
Non facevo in tempo a finire di leggere che si sentiva un
gran rumore nel cielo e affacciandosi alla finestra si vedeva
un biplano rosso ronzare sopra la casa, con il pilota piccolo
piccolo che agitava la mano. Infine l’aereo voltava e si prepa­
rava ad atterrare, il ronzio faceva vibrare la casa e noi tutti
tremavamo di gioia e di trepidazione. Di colpo gli ulivi del

168
campo sparivano e l’aereo atterrava perfettamente, mentre
già si correva fuori verso di lui.
Sì, comunque fosse andata una cosa era certa, mio padre
non poteva giungere di fronte a mia madre al­l’im­prov­vi­so,
tutto d’un tratto, perche Tonio mi aveva spiegato che avreb­
be potuto non reggerle il cuore.
Tonio lo incontravo alle volte nel bosco a raccogliere baffi
di ulivistro e corde di vitalbe che mischiava con il salcio col­
tivato, rosso e sbucciato, per ricavarne degli splendidi panie­
ri. Lui, catturato dai tedeschi dopo l’Armistizio, era stato
due anni prigioniero in un lager in Germania e quando era
tornato a casa a piedi, aveva prima incontrato la sorella che
lavorava nei campi e per non comparire di botto di fronte
agli anziani genitori e alla madre, aveva mandato quest’ulti­
ma ad avvertire a casa. « Ma fa’ piano! » le aveva raccoman­
dato. « Fa’ piano, che non gli venga un coccolone! »
Gli c’era voluto del bello e del buono per convincere la so­
rella che era proprio lui perché da prima lei, magro e sciupa­
to com’era, non l’aveva riconosciuto e stentava a crederlo.
Così come lei aveva dovuto sbracciarsi un bel po’ per con­
vincere i genitori che era tornato, perché questi in cuor loro
non ci speravano più e l’avevano già dato per morto e di­
sperso.
Per questo dovevo essere io a incontrare per primo mio
padre e a preparare la mamma. E per lo stesso motivo non
avrei detto a lui che io ero suo figlio, per non farlo crepare
sul posto dall’emozione.
Non avevano riconosciuto Tonio dopo due anni, chissà
se si sarebbero riconosciuti dopo tredici. Io in fondo ero la
misura del tempo perduto. Anno dopo anno, per il solo fatto
di crescere, rappresentavo agli occhi di mia madre l’amplifi­
carsi di una distanza, la misura di uno iato, la gerla che con­
tiene gli anni perduti e li rappresenta.
Se mai mio padre fosse tornato io avrei fatto di tutto per

169
ricongiungere e legare. Sì, anno dopo anno giuravo a Dio
che se avesse fatto tornare mio padre sarei divenuto il più
bravo dei ragazzi e se ero così cattivo la colpa era solo sua
che non lo faceva tornare. Non mi sembrava difficile da ca­
pire, specie se uno è Dio. Ma lui, non so, forse l’aveva presa
su con me e non lo faceva tornare lo stesso.

170
XXV

Di rubare mi era passata la voglia, per due giorni avevo va-


gabondato per i boschi in cerca di nidi con la testa che an-
dava sempre a Mercedes. A dire il vero alla Bestia non pen-
savo quasi più e iniziavo a credere che anche il Giamba,
per quanto reale, potesse essere stato frutto della mia sug-
gestione. Eppure, anche nel folto del bosco mi capitava di
sentirmi seguito, una sensazione, o forse una fissazione
che mi faceva fermare per guardarmi intorno e gridare:
« Dario! Dario! Sei tu? »
Infine, la mattina del terzo giorno, mi decisi a fare la
strada fino al lago e all’accampamento, con l’intenzione di
ringraziare il mio salvatore. Dalle voci che erano giunte fi-
no a noi, sembrava che non avesse sparato nessuno e che
lo zingaro fosse sparito nel nulla lasciando i suoi insegui-
tori con un palmo di naso. Naturalmente, con lui non c’era
mai stata nessuna donna.
Quando giunsi all’accampamento e i ragazzi mi videro,
corsero subito a chiamare Salem, come se avessero ricevu-
to quell’ordine.
« Ciro, Ciro! » gridavano.
Lui uscì dalla sua roulotte scalcinata e mi venne incon-
tro. Per un istante immaginai Mercedes al­l’in­ter­no, distesa
nel letto e l’odio si ravvivò dentro di me come brace sopita
sulla quale si soffi. Il pensiero mi era insopportabile.
« Ecco il nostro Arsenio Lupin che s’è messo in pro-
prio! » mi disse Salem sprezzante. « Cosa credevi di fare?
Vuoi rovinare tutto? Hai combinato un bel casino! Ti ave-

171
vo dato diecimila lire, non ti bastavano? Dovevi per forza
metterci tutti nei guai? »
Lo guardai con gli occhi carichi di risentimento, la testa
un poco bassa per l’umiliazione che subivo di fronte ai
presenti.
« Rubare in pieno giorno e farsi chiudere nel pollaio co-
me una volpe stupida! »
Dai carri venivano fuori uomini, donne e bambini per
assistere alla scena.
« Dov’eri finito? » mi urlò ancora Salem. « Perché sei tor-
nato? Per dirmi che ti sei messo in proprio e restituirmi i
soldi? »
« No! » mormorai, sapendo che questo mi sarebbe stato
impossibile dal momento che non li avevo più. « Sono tor-
nato solo per ringraziare il mio salvatore ».
« E pensi di trovarlo qui? Pensi che siamo degli stupidi,
che lui se ne starà qui dopo che l’hanno visto in faccia ad
aspettare che vengano ad arrestarlo? »
Parlava a voce alta, non l’avevo mai visto così arrabbia-
to. Sollevai gli occhi da terra e vidi che una donna dai lun-
ghi capelli neri si era accostata a lui e l’abbracciava. Gli
disse qualcosa in un orecchio, forse in mia difesa.
« Va be’! Inutile piangere sul latte versato » seguitò lui
recuperando un po’ di calma. « Ti credevo più furbo, ecco
tutto! »
Il cuore mi si era riaperto a quella vista, non mi impor-
tava più nulla degli occhi di tutti su di me, guardavo solo
quella donna, i capelli di quella donna.
« Su, voi: sgombrate, non c’è nulla da vedere. Ciro è tor-
nato e ha fatto un bel casino. Con lui me la vedo io! »
Un’anziana donna sdentata disse qualcosa nella loro lin-
gua agitando la mano in modo tutt’altro che amichevole.
Altri annuirono e anche un altro zingaro, magro e co-

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perto di vestiti cenciosi, parlò indicandomi con fare pole-
mico.
« Sì » disse Salem. In italiano, perché io capissi. « Sarà
punito! Su questo non c’è dubbio, ma il nostro tribunale
non può giudicarlo, non è uno zingaro. Me ne occuperò
io ».
Piano piano sgombrarono tutti. Rimase solo la donna
mora, che si teneva stretta a lui.
« Non essere troppo duro » gli disse piano.
« Chi è lei? » chiesi speranzoso indicandola.
Salem mi guardò stupito dalla domanda: « Mia mo-
glie! » disse. « La sorella di Mercedes, che hai conosciuto ».
Poi si tolse la cinghia di cuoio dai pantaloni e mi disse:
« Adesso puoi scegliere. Puoi andartene e non tornare mai
più, o beccarti dieci colpi con questa per il casino che hai
combinato ».
Gli zingari guardavano dalle finestre dei carri, e alcuni
fingevano di essere immersi in altre occupazioni lì intorno,
ma tendevano l’orecchio per seguire la scena e guardavano
di nascosto.
« Non ho paura! » affermai, con un gran sorriso. Mi sen-
tivo leggero e le cinghiate non potevano più farmi alcun
male.
« Sollevati la camicia sulla schiena e appoggiati a quel
carro! » mi intimò serio.
Lo feci. Salem si avvicinò e lasciò andare una frustata
che sibilò nell’aria. Una lunga serpe rossa prese a bruciare
sulla mia schiena. Strinsi i denti ma non urlai.
Attesi il secondo colpo per un istante. Quando mi parve
farsi troppo lungo mi voltai a guardarlo, la mano gli tre-
mava, perle di sudore punteggiavano la sua fronte. Facen-
dosi forza dette un altro colpo, più debole, quasi finto.
Fu allora che Mercedes, che da dietro un carro aveva se-

173
guito tutta la scena, si rivelò, corse verso di me e si frappo-
se fra noi.
« Lascialo stare! » disse. « Che diritto hai? Non sei suo
padre! »
Oh! Come l’amai in quel momento, tenera, dolce creatu-
ra, mentre con gli occhi verdi da tigre e lo sguardo irato si
gettava fra me e Salem convinta di salvarmi, senza sapere
che io ero già salvato, che ogni malinteso era stato chiari-
to, che ben più tremende nerbate avevano percosso il mio
cuore quando l’avevo creduta sua.
Salem sembrò colpito da quelle parole, e mi ricordai
della storia che mi aveva raccontato.
« No... » ammise lasciando cadere la cinghia nella polve-
re e coprendosi il volto con le mani. « Non sono io il padre.
Non sono io il padre dei gemelli! Ero così giovane. Non è
stata colpa mia... »
Lo disse guardandosi intorno, con gli occhi di un matto.
Guardò gli altri a uno a uno. Improvvisamente fu un altro,
sua moglie corse ad abbracciarlo e sorreggerlo, io mi rica-
lai la camicia sulla schiena magra e bianca e mi voltai. Ero
preoccupato per lui, e dimentico della mia schiena in fiam-
me corsi a sorreggerlo insieme a Mercedes.
Gli zingari erano rimasti fermi, guardavano la scena a
testa bassa. Mercedes mi guardò negli occhi, rammaricata
delle sue parole.
« Grazie! » le dissi. « Ma non dovevi... quel che è giusto è
giu... »
Non feci in tempo a terminare la frase che era già scap-
pata scomparendo nell’accampamento.
Salem si divincolò da tutti noi e camminò verso il suo
carro.
« Non posso far del male a un bambino! » gridò prima di
entrare rivolgendosi agli altri che da dov’erano lo guarda-
vano con gli occhi pieni di compassione. « Anche se ha

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sbagliato non posso fargli del male! Io non sono un nazi-
sta! Non lo sono! » urlò disperato e rabbioso. Seguirono al-
tre parole in una lingua che non compresi. Poi sparì nel
carro con sua moglie.
Ero dispiaciuto per lui e felice per Mercedes e ciò che
aveva fatto allo stesso tempo, davvero non mi attendevo
che succedesse nient’altro quel giorno e, invece, senza che
noi lo sapessimo era già successo tutto. Le cose erano an-
date proprio come aveva pronosticato Salem a suo tempo.
Dopo il tentato furto e la fuga dello zingaro, la gente
aveva aperto gli occhi, si era messa a cercare. Se una vespa
ti sfugge non vai a cercare lei, cerchi il nido che abita e lo
affumichi. I carabinieri avevano cercato un po’ in giro e
non avevano trovato nessun accampamento, così avevano
concluso che si trattasse di uno zingaro sbandato venuto
da fuori.
Non era facile scovarli, avvezzi com’erano a nasconder-
si da secoli. Quel che non era riuscito alle forze dell’ordine
riuscì a un disgraziato. Sì, stavolta fu un poveraccio a tro-
varli. Capita spesso che i più sfortunati si facciano la pelle
fra loro.
Il Caccia non capiva granché, era uno sciocco, ma a co-
stui la natura aveva dato il dono di saper catturare gli ani-
mali. Di più, si sarebbe detto che a lui lepri e fagiani saltas-
sero in grembo, per questo lo chiamavano il Caccia. Erano
tanti in paese a non riuscire a capacitarsi del perché il
buon Dio avesse voluto dare al povero scemo questa dote
invidiabile, e più di una volta i cacciatori si erano prodiga-
ti in scherzi poco carini ai danni del pover’uomo.
Uno fra questi era passato alla storia e rimasto nella
memoria della gente come fatto da tramandarsi di genera-
zione in generazione nelle sere d’inverno, passate a veglia
di fronte al camino. Nandina me lo aveva raccontato. I
suoi detrattori, del resto, non si erano resi conto che di

175
molti di loro non sarebbe rimasta traccia, mentre del Cac-
cia per anni e anni a venire non si sarebbe dimenticato
nessuno. Il Caccia sarebbe sempre stato lo sciocco che
aveva quasi catturato l’Antìfana e scovato gli zingari.
Per capire chi era costui occorre raccontare cosa quel
poveretto aveva dovuto subire dai suoi compaesani. Un
giorno, ad esempio, tutti d’accordo si erano messi a parla-
re in modo che lui sentisse d’un animale che era giunto
nel bosco e che nessuno era mai riuscito a catturare: l’An-
tìfana!
« È un animale straordinario e terribile » diceva la gen-
te. « Dicono che abbia una catena al collo: forse è scappato
a qualche strega che lo teneva prigioniero! »
Un altro si sarebbe reso conto dello sforzo che facevano
donne e uomini nel trattenere le risa, ma il Caccia no. Con
decisione si avvicinò a quegli uomini e disse loro:
« Non preoccupatevi. Se è un animale come dite, ci pen-
so io a catturarlo! »
Tutti fingendosi molto spaventati lo incitarono e lo se-
guirono, mentre lui con il petto gonfio d’orgoglio attraver-
sava fiero il paese dirigendosi verso il bosco dov’era stata
vista la terribile Antìfana.
« Dove andate, Caccia? » gli chiedeva la gente dalle fine-
stre e per la strada.
E lui a tutti rispondeva lapidario e deciso: « Vado nel
bosco a catturare l’Antìfana! »
Gli dissero che l’animale era stato visto nei pressi di
una grotta e presto ve lo condussero per scoprire che fuori
dalla grotta, fuoriuscendo da una lunga galleria che vi si
inoltrava, c’era niente di meno che una spessa catena rug-
ginosa.
Il Caccia seguito dalla gente la vide subito e chinandosi
l’afferrò saldamente.
« L’ho presa! » proclamò contento. « Adesso la tiro fuo-

176
ri! » e così dicendo prese a tirare con tutte le sue forze per
stanare il misterioso essere.
Inutile dire che dal­l’al­tro lato della piccola galleria, na-
scosti fra i cespugli, c’erano diversi uomini del paese che
tiravano malamente la catena strascicando il poveretto
nella polvere fin quasi dentro la grotta e poi mollavano la
catena d’un botto divertendosi a vederlo indietreggiare
mentre, ebbri e felici di potersi sfogare a dovere una volta
tanto, emettevano spaventosi grugniti, ululati e altri terri-
bili rumori.
Lo strattonarono a lungo, senza pietà, con la gente che
lo incitava a non mollare e se la rideva alla grossa sotto i
baffi.
Ma il Caccia sembrava non badarci. Sudato fradicio,
con le mani indolenzite e sanguinanti, le ginocchia sbuc-
ciate e i vestiti oramai impolverati e malridotti, teneva gli
occhi fissi sulla catena e cercava disperatamente di doma-
re il prodigioso animale, l’essere più terribile e crudele che
gli fosse mai capitato di incontrare nel bosco.
Alla fine dovette cedere, esausto, e crollò a terra mollan-
do la presa. Solo allora, contenti della propria bravata, tut-
ti iniziarono a ridere di lui e gli rivelarono che l’Antìfana
non esisteva, che era stato tutto uno scherzo.
« Ma certo che c’era. Non l’avete sentita? Dovevate senti-
re come tirava, com’era enorme e crudele! »
Annichiliti da quanto il Caccia andava dicendo loro, con
il senso di colpa e di vuoto che pian piano si sostituiva alle
risa sempre più flebili, lo riaccompagnarono verso il paese
sconcertati dalla forza e dalla convinzione che il poveretto
aveva messo nella sua lotta.
Da quel giorno il Caccia non smise più finché visse di
cercare l’Antìfana e forse anche quella sera la stava cercan-
do, quando oltre la pineta sentì delle voci e sgusciando

177
carponi nell’erba alta sotto gli occhi degli zingari di vedet-
ta, giunse nella radura e vide la compagnia.
Spaventato dai terribili zingari che nella sua mente si fi-
gurava simili a sanguinari pellerossa, ed eccitato come un
bimbo, tornò in paese in volata con la sua bicicletta ruggi-
nosa e l’attraversò urlando: « Gli zingari! Ci sono gli zin­
gari! »
E così, quel giorno, mentre rinsaccavo la camicia nei
pantaloni, due zingari di sentinella fischiarono forte e poi
corsero verso di noi sbraitando a loro volta: « I carabinieri!
I carabinieri! »
Sentii le grida delle donne, i pianti dei bambini piccoli
strappati ai loro giochi dall’accorrere delle madri. Gli uo-
mini vennero fuori dai carri e ci raggiunsero. Salem, che si
era appena disteso sul letto per scacciare dal cuore e dalla
mente i suoi fantasmi, si rialzò di scatto e come se qualcu-
no l’avesse colpito con un secchio d’acqua gelata fu di nuo-
vo se stesso. Non c’era più tempo per la malinconia e per i
rimorsi.
Ce li trovammo addosso da ogni parte: quattro carabi-
nieri, tutti quelli in servizio alla piccola stazione del paese,
accompagnati da una decina di cacciatori con la doppietta
in spalla piombarono su di noi. Probabilmente il mare-
sciallo, temendo di avere la peggio, aveva chiesto aiuto alla
sua squadra di cinghialai in assetto da guerra.
Per un attimo mi sembrò di essere precipitato dentro la
storia di Salem e un brivido mi raggelò. Quelli non erano
più zingari, quel gruppo di persone che un attimo prima
aveva reclamato per me le frustate, erano la mia gente, ba-
stardi come me, misconosciuti e maltrattati. Se dovevo
scegliere fra i miei paesani pasciuti e maligni e quella ge-
nia di uomini liberi e perseguitati, io sceglievo gli zingari!
Il maresciallo si fece incontro al gruppo con la sua aria
bonaria, ma autorevole.

178
« Chi è che comanda qui? » domandò deciso.
L’anziano che avevo visto la prima sera si fece avanti.
Sembrava ancora più vecchio, disse: « Nessuno! Non ab-
biamo caporioni, noi: siamo gente libera. Ma io sono il più
vecchio e tutti hanno avuto le orecchie da Dio! »
« Non potete stare qui! Chi vi ha dato il permesso? »
« Permesso? » domandò il vecchio mentre tutti gli altri
mormoravano e protestavano. « Hanno forse bisogno di un
permesso gli uccelli del cielo per volare liberi? Non faccia-
mo male a nessuno, siamo brava gente! »
Alcuni dei cacciatori risero a quelle parole e uno di loro,
il Nardi, che era un arrogante presuntuoso, si affiancò al
maresciallo e sentenziò: « Siete dei ladri. Non vi vogliamo! »
Il vecchio lo guardò: « Sempre la stessa storia. Gli zinga-
ri per il sol fatto d’esser tali devono rubare, secondo voi!
Solo pregiudizi. Qui non si ruba, si lavora! » spiegò il vec-
chio indicando un paiolo di rame lavorato a mano, ma fu
interrotto da un’altra risata del Nardi e di alcuni dei cac-
ciatori.
« In ogni modo » disse il maresciallo riprendendo la pa-
rola: « C’è stato un tentativo di furto in paese. Uno zingaro
alto e grosso, con il volto scuro, è scappato via e per fortu-
na non ha fatto in tempo a rubare nulla. Lo stiamo cer-
cando ».
« Se non ha rubato nulla perché lo cercate? » chiese Sa-
lem a bruciapelo.
Il maresciallo rifletté un attimo, preso alla sprovvista da
quell’obiezione: « Per tentato furto e violazione di domici-
lio! » disse, recuperando la sua sicurezza.
Paco intervenne: « Non c’è nessuno fra noi che corri-
sponda alla vostra descrizione! »
« Lo vedremo subito » ribatté il maresciallo. « Voglio tut-
ti fuori dai carri e voglio controllare che siano tutti vuoti! »

179
« Non abbiamo niente da nascondere » dichiarò il vec-
chio zingaro.
Presto furono tutti fuori. Alcuni cacciatori fecero il giro
dei carri rovistando malamente fra le cose altrui. Istintiva-
mente, mi mescolai fra gli zingari. Il salumiere, che aveva
tentato di trattenere il fuggiasco e l’aveva visto bene, si fe-
ce avanti vestito da cacciatore e ci guardò uno per uno at-
tentamente.
Neanche a dirlo aveva il volto rubicondo, come una mor-
tadella, e gli occhi azzurri e grandi come quelli di un bam-
bino. Il Nardi l’accompagnò durante l’ispezione. Quando
giunsero alla mia altezza non mi riconobbe, mi aveva visto
solo qualche volta anni prima. Commentò con disprezzo:
« Guardate questo! Anche biondo e con gli occhi chiari si
vede lontano un miglio che è uno zingaro. Ce l’hanno scrit-
to in faccia! »
Sorrisi impudente, e guardai Mercedes, che se ne stava
con il gruppo delle donne in disparte e aveva i bellissimi
occhi verdi colmi di stizza, o forse di paura.
Il maresciallo si rivolse al salumiere: « Allora? C’è? » do-
mandò.
Questi sembrò riflettere, guardò gli uomini più alti uno
a uno e replicò: « No, non c’è, lo riconoscerei fra mille. Ho
il suo volto scolpito in mente, se ci fosse lo riconoscerei ».
« Ve l’ho detto, noi non rubiamo! Siamo artisti, artigia-
ni! » disse il vecchio.
« Sì, sì... certo... » borbottò il maresciallo ironico. « Piut-
tosto quando siete arrivati? »
« Ieri notte » mentì il vecchio e così facendo sbagliò per-
ché i segni delle ruote nella terra erano secchi, e tutto l’ac-
campamento faceva pensare il contrario, dai chiodi per i
fili dei panni piantati negli alberi e già arrugginiti, alle in-
numerevoli impronte lasciate dai cavalli durante il tempo-
rale tutto d’intorno.

180
« Bugiardo! » disse il maresciallo, improvvisamente ag-
gressivo. « In nome della legge, vi ordino di sgomberare!
Non vi voglio nel mio territorio, nessuno vi vuole. Prende-
te le vostre sudice carabattole e andate via! »
« Ma... » disse il vecchio.
« Niente ma! Tornerò domani sera e se sarete ancora
qui forse questi solerti cacciatori torneranno senza di me e
vi convinceranno che rimanere non è stata una buona
idea. Insomma, adesso che si sa che siete qui... è bene che
sappiate che la legge non è in grado di proteggervi. Ho solo
quattro uomini come vedete. Visto che siete nomadi, vi
conviene circolare. Altrimenti che nomadi siete? »
Risero tutti della battuta, anche Zanatta, il giovane ap-
puntato con la faccia imberbe e gli altri carabinieri. Poi il
Nardi si fece avanti e disse: « Inutile dire che da oggi in
poi qualsiasi cosa succeda in paese vi riterremo responsa-
bili. Provatevi a rubare un solo pollo e ve la faremo pagare
cara! »
Capii solo allora la gravità della situazione e cosa avevo
combinato con la mia bravata. Desiderai che Salem mi
avesse colpito mille volte sulla schiena, certo che provare
un dolore atroce mi avrebbe fatto sentire un po’ meglio.
Ascoltai il bruciore dell’unica cinghiata che avevo preso,
ma non mi parve sufficiente per quanto stava accadendo.
Il destino aveva voluto che io mi trovassi lì e vedessi il
risultato del mio colpo di testa. Avevo visto quei cacciatori
frugare senza riguardo in quei carri che erano casa d’altri,
gettar fuori la roba senza rispetto, spostandola con il fucile
come per paura di infettarsi. Saputo degli zingari si erano
preparati, tolto il grembiule da negozianti o la tuta da ope-
rai erano divenuti in pochi istanti giustizieri arroganti e
beffardi. Volevano difendere le proprie cose da quella mi-
naccia, ma non mostravano alcun rispetto per le cose degli

181
altri. Come se gli zingari non avessero alcun diritto. Come
se ciò che non era loro valesse meno di niente.
« Ce ne andiamo, ce ne andiamo! » disse il vecchio rasse-
gnato, e alzò una mano a indicare il cielo. « Contro la pre-
potenza però, nell’ultimo giorno Dio verrà per giudicare i
vivi e i morti... » Ma il maresciallo interruppe la sua profe-
zia: « Intesi allora, voglio essere generoso, avete ventiquat-
tro ore! Domani a quest’ora torneremo e del vostro passag-
gio non dovrà essere rimasta alcuna traccia ».
Si allontanarono subito, senza dire niente. Gli uomini e
le donne tornarono ai carri a testa bassa, rassegnati a un
destino che li accompagnava da secoli. Iniziarono a toglie-
re i panni appesi ad asciugare, i fili e le altre cose che ave-
vano disposto intorno ai carri.
Salem prese a cantare con tono grave:
« Addio Lugano bella / o dolce terra pia! Scacciati senza
colpa / gli anarchici van via... »

Era una bella canzone. Il tono andò scemando, divenne un


mormorio malinconico e infine tacque. Mi affiancai a lui,
pieno di sensi di colpa: « Mi dispiace » dissi.
Scosse la mano nell’aria: « Bah! Lascia perdere, prima o
poi doveva succedere, era previsto anche questo. Piuttosto
voglio dirti una cosa, seguimi ».
« Che c’è? » domandai.
« È a proposito di Mercedes ».
Sussultai.
« Ho visto come la guardi: lasciala perdere, Ciro. Di-
menticala, è meglio per te ».
« Perché dici così? » domandai, meravigliato da come
quel­l’uo­mo mi leggeva dentro.
« Mercedes ha il fuoco negli occhi » mi spiegò sedendosi
in riva al lago. « Tutti si innamorano di lei, ma è una sinta.
Presto si sposerà e sposerà un sinto. Non hai speranze. Ti

182
conviene lasciar perdere. Te lo dico da amico. Domani la
carovana parte, non la rivedrai più ».
« Come? Si sposerà? Ha appena quattordici anni » dissi
con un filo di voce.
« Se è per questo noi ci sposiamo anche prima ».
« E se la sposassi io? »
« Tu? » mi guardò divertito.
« Sì, io! » ribattei guardandolo deciso negli occhi.
« Se fosse una rom come me non avresti abbastanza sol-
di per pagare la dote alla famiglia, per comprarla. Merce-
des vale milioni per quanto è bella. Ma lei è una sinta e sta
a lei decidere chi sposare: però non sposerà mai un gagiò.
Sceglierà un sinto, faranno una fuga d’amore e si spose-
ranno. Funziona così da loro, poi torneranno e riceveran-
no la benedizione della famiglia e dei genitori. Insomma,
se scappasse con un gagiò come te disonorerebbe la fami-
glia e questo nessuna ragazza sinta lo desidera ».
« Ma che razza di usanze avete? » chiesi sbalordito.
« Hanno. Ti ho appena detto che io sono un rom, la no-
stra compagnia aveva usanze diverse dai sinti con cui vivo.
Comunque non puoi capire le nostre usanze se non sei uno
zingaro ».
« Però tu sei un rom e hai sposato una sinta » ribattei.
« È stato un caso, ero rimasto solo, mi hanno preso con
loro perché condividiamo lo stesso scopo. Ma sono diversi
da come eravamo noi ».
« Pensavo che gli zingari fossero zingari e basta ».
« Sì e no... Insomma: pensavi male » ribatté infastidito.
« Voi gagé pensate sempre di sapere tutto e invece non sa-
pete niente ».
Mi accoccolai, la schiena curva, giocherellai un po’ con
un rametto, il cuore a pezzi e poi dissi: « Ma allora perché
mi ha baciato? »

183
« Ti ha baciato? » mi domandò sinceramente meravi-
gliato.
« Sì » ammisi, subito pentito della mia confidenza.
« Perché è una strega, come tutte le donne » commentò
duro, ma sorrise, esitò... « Ma c’è anche del­l’al­tro. Se te lo
dico prometti che non scapperai con un diavolo per capel-
lo come un bambino? »
« Lo prometto ».
« Sai cosa penso? Forse l’ha fatto perché voleva esser cer-
ta che tu venissi all’appuntamento. Per noi era importante
che tu venissi ».
« Ma che bisogno c’era? »
« Saresti venuto se non ti avesse fatto promettere in
qualche modo? »
« Mah... » ero senza parole.
« Forse sì, o forse no... Ma in questa faccenda non pos-
siamo permetterci di lasciare niente al caso. Lei doveva
convincerti ed evidentemente ha scelto di farlo con un ba-
cio ».
Mi sentivo umiliato, offeso, c’ero cascato come un creti-
no: erano d’accordo, era tutto scritto, fin dal principio.
Avevo voglia di mandarlo al diavolo e scappare via.
« Ma perché me lo dici adesso? »
« Perché non mi serve un ragazzo innamorato e per-
ché... non voglio che tu ci resti male in seguito ».
Mi alzai.
« Andate tutti al diavolo » dissi scuotendomi la polvere
dai calzoni. Feci due passi e mi fermai: avevo promesso.
« Le avevi detto tu di baciarmi? » domandai.
« No! Non avrei mai potuto chiederle una cosa del gene-
re. Come fare a convincerti non era deciso. Ha scelto lei di
farlo. Per una ragazza zingara è una cosa che non si fa. Le
zingare non sono quelle dei libri, sono molto fedeli e serie,

184
non come le donne gagé » disse con un certo disprezzo nel-
la voce.
« Giuralo ».
« Cosa? »
« Che non le hai chiesto tu di baciarmi! »
Mi guardò dritto negli occhi: « Ciro, ragazzo mio... te lo
giuro ».
Ero veramente a terra, ma ero contento che il bacio fos-
se fuori dal loro patto, che fosse in qualche modo vero, an-
che se solo un poco. Era pur sempre il mio primo bacio.
Ma aveva ragione quel demonio d’Angelino, al­l’uo­mo
non è dato di conoscere il proprio futuro.
« Hai avuto paura poco fa, con quei fucili e le unifor-
mi? » domandai a Salem per cambiare discorso.
« No, la paura è un’altra cosa ».
« Vuoi finire di raccontarmi la storia del­l’al­tro giorno? »
« Sì » ammise. « Credo di dovertelo ».
Mi accucciai e con un pezzo di canna presi a giocherel-
lare con delle piccole vetrice smuovendole silenziosamente
nel­l’ac­qua bassa.

185
XXVI

Si accese una sigaretta sedendomisi accanto e stese la


gamba rigida di fronte a sé sul declivio della sponda.
Anche stavolta, mentre raccontava abbassò il volto e i
capelli gli coprirono il viso, come se si nascondesse ai miei
occhi, come se solo in quella specie di penombra che fa un
uomo quando si piega su se stesso e riflette gli fosse possi-
bile affrontare quei pensieri e ricominciare il suo racconto.
« Dove siamo stati interrotti? » mi domandò quasi so-
vrappensiero.
« Il dottore » gli rammentai. « L’Angelo bianco ».
« Sì, lo chiamavamo così per il suo camice svolazzante.
Candido come neve... »
Così seppi il resto della storia. Quel medico divenne pre-
sto il loro peggior incubo. Altro che angelo bianco: diven-
ne l’angelo della morte. Venivano a prendere i gemelli a
due a due o a gruppi e li portavano all’ambulatorio. Da pri-
ma tutto sembrava loro normale. Il dottore qualche volta
era gentile con i bambini, li visitava, li faceva ritrarre.
Salem mi raccontò di una ragazza che faceva splendidi
ritratti dei gemelli, dei volti e di particolari dei loro visi. Al
loro ritorno i bambini riferivano di essere stati misurati.
Gli misurava la testa, la mandibola.
« Studiava, il dottore! » esclamò Salem sarcastico. « Noi
eravamo le sue cavie, la sua grande occasione, altro che to-
polini: la storia gli metteva a disposizione dei bambini, dei
gemelli, la sua ossessione, in gran quantità! »
I racconti dei bambini cambiarono presto: presto quei

186
ragazzini cominciarono a essere sottoposti alle più strane
e inutili sevizie, mascherate da esperimenti medici e scien-
tifici. Salem volle risparmiarmi i macabri particolari. Mi
disse solo che dentro quell’ambulatorio veniva fatto molto
più di quanto io, con la mia fantasia più cattiva, sarei riu-
scito a immaginare. Dal seguito del suo racconto seppi che
il terribile dottore scambiava il sangue ai gemelli senza
preoccuparsi del loro gruppo sanguigno, li infettava iniet-
tandogli la malaria, o bruciava loro gli occhi con liquidi
schifosi per schiarirglieli, arianizzarli, ma non volle rac-
contarmi di più.
Quei poveretti tornavano da Salem e suo fratello pian-
gendo, sofferenti, stanchi, moribondi e loro non potevano
far altro che consolarli, che carezzarli.
« Dio mio! » esclamò Salem esasperato. « Ci chiedevano
aiuto, soccorso e noi non potevamo far nulla. Solo conser-
varli meglio che potevamo fino a che l’orco non tornava,
come nella più spietata delle fiabe ».
Infine, dopo tutto ciò, veniva il giorno in cui non torna-
vano. Salem mi aveva spiegato che, in seguito, una volta fi-
nita la guerra, aveva scoperto che dopo gli esperimenti i ge-
melli venivano uccisi con un’iniezione di fenolo nel cuore,
simultaneamente. Per quel pazzo fanatico era importante
che i gemelli morissero nello stesso istante.
Ma ancora non era finita. Il gioco non era finito. Allora
veniva il momento dell’autopsia... Chissà perché erano
morti? Li tagliava a pezzi, li apriva, sadicamente, senza
nessuno scopo, senza capire alcunché.
Questa inutilità angustiava Salem più di ogni altra cosa:
« Se almeno avesse debellato una terribile malattia, o fatto
chissà quale scoperta utile al mondo, avremmo potuto dire
in seguito che il nostro sacrificio era servito a qualcosa.
Ma da quello scempio non venne mai nulla di buono. Dalla
morte, non nasce nulla... soltanto altra morte ».

187
Per quel mostro, Salem e suo fratello erano preziosi
perché si occupavano degli altri, ma presto sarebbe tocca-
to anche a loro.
Mi presi le ginocchia e le abbracciai. Avevo freddo. Ero
sgomento, non ce la facevo più ad ascoltarlo. Alzai gli oc-
chi sulla superficie del lago che scintillava. Sulla sponda
opposta c’era il mondo degli uomini, alle nostre spalle gli
zingari sistemavano i carri, attaccavano i cavalli... Noi non
appartenevamo più a nessuna delle due sponde, sorvolava-
mo il campo della morte e procedevamo insieme, uno a
fianco al­l’al­tro, così come secondo don Caldine avevano
fatto Dante e Virgilio addentrandosi nell’inferno.
Rammentavo alcuni passi che mi aveva spiegato e l’im-
pressione che mi avevano fatto. Ripensavo a come quell’in-
ferno fosse tutto sommato sciocco e risibile in confronto a
quello, terreno, nel quale adesso, prendendomi per mano e
segnandomi per sempre con il suo ricordo, mi conduceva
Salem.
Ero solo un ragazzino e, senza capire la crudeltà della
mia domanda, non potei fare a meno di chiedere: « Ma non
potevate ribellarvi, fare qualcosa? Morti per morti, almeno
combattere! »
Seppi così un’altra parte della storia. Mentre loro veni-
vano sottoposti a tutto ciò, nello zigeunerlager la vita an-
dava avanti. Dal reticolato del kinderlager, Salem chiedeva
informazioni a suo padre sulla famiglia e le sorelle. Il po-
veretto, malato e affamato, era ridotto l’ombra di un uo-
mo. Le condizioni in cui vivevano quegli scheletri che era-
no stati i loro cari erano disumane.
Un giorno arrivò in visita al settore degli zingari un pez-
zo grosso, vide quell’inferno, a suo modo ebbe pietà di loro
e ordinò che fossero tutti ‘liquidati’, come dicevano loro.
Non sopportava tutto quel disordine.
Rimasi sbigottito.

188
« Sì! » seguitò Salem annuendo. « Fu presa la decisione
di liquidare tutti gli zingari e vennero a prenderli ».
Non li trovarono impreparati, però. Non sapeva nean-
che lui per quale motivo, per quale sommo atto di pietà,
ma il comandante del lager degli zingari li aveva avvertiti.
Era il 16 maggio del 1944 e successe una cosa incredibi-
le. I tedeschi andarono a prendere gli zingari, come sem-
pre senza attendersi nessuna forma di resistenza.
Ma almeno quella volta non fu così. Gli zingari si erano
muniti di armi rudimentali, pezzi di legno, schegge di ve-
tro e di ferro forgiate a mo’ di coltelli, insieme a un bel po’
di disperazione e di attaccamento alla vita. Con queste ar-
mi per proteggere i figli e i bambini, uomini e donne lotta-
rono contro le SS selvaggiamente e con una tale furia da
riuscire a farli desistere dal loro proposito. Le madri si get-
tarono sui nazisti incuranti della propria vita e difesero
con le unghie e con i denti le loro creature. Molti degli zin-
gari caddero sotto i colpi di fucile, ma riuscirono a far de-
sistere i loro aguzzini.
Ancora oggi nessuno lo sa: i libri di Storia non lo ricor-
dano. Ma la rivolta degli zingari fu una delle poche che ci
furono ad Auschwitz e senz’altro la più coraggiosa e me-
morabile.
Per la prima volta dal­l’ini­zio del racconto di Salem rifia-
tai, e lo guardai con l’abbozzo di un sorriso di speranza
sull’angolo delle labbra.
Ma lui scosse la testa, addolorato. Il loro destino era co-
munque segnato. Oramai era stato deciso. Il 2 agosto 1944
le SS vennero pacificamente a prendere mille persone, gli
uomini e le donne più forti con il pretesto di mandarle a
lavorare, e divisero la popolazione zingara dello zigeuner-
lager lasciando solo i più deboli, le donne meno forti e i
bambini.
Suo padre non fu scelto perché oramai moribondo: sa-

189
lutò le sorelle di Salem convinto di riabbracciarle dopo.
Invece, alla sera fu decretato il coprifuoco. Duemilaotto-
centonovantasette zingari, tutti gli amici di Salem, suo pa-
dre, suo zio, le sue cugine, i suoi nipoti, la sua gente, furo-
no portati dallo zigeunerlager B2E al crematorio N5, e
vennero uccisi.
La mattina dopo, quando lui, suo fratello Emil e gli altri
si accostarono alla rete, lo zigeunerlager era deserto. Per
giorni interi vollero credere che davvero li avessero solo
spostati, e per tutto il tempo seguitarono a farsi coraggio
l’un l’altro, a sperare.
Gli zingari non c’erano più... Allora su Auschwitz-Birke-
nau calò il silenzio della morte. Fino a quel giorno i prigio-
nieri ebrei delle baracche avevano sentito le voci e le grida
dei bambini zingari che, nonostante si trovassero nel cuore
dell’inferno, giocavano come sempre giocano i cuccioli. La
vita contenuta nelle loro risa e nei loro pianti, nei litigi e
nelle filastrocche, nelle voci di quei fanciulli aveva solleva-
to i loro cuori. Dopo il 2 agosto, non ci fu più nulla ad Au-
schwitz a ricordare a quei derelitti che la vita continuava.
Da quel giorno una cappa grigia calò definitivamente su
Auschwitz. La Nera Signora si abbottonò il mantello nero
e la sua vittoria sui mortali fu totale e completa.
Intanto anche i gemelli sparivano lentamente, giorno
dopo giorno. I nazisti li strappavano dalle mani di Salem e
di suo fratello che non sapevano come curarli, come pro-
teggerli. Tornavano a sera orribilmente scempiati, pian-
gendo impauriti di un pianto inconsolabile, e tutto durava
fino al giorno in cui non tornavano più. Quel calvario se-
guitò fino a che non arrivarono altri zingari del­l’età di Sa-
lem e di Emil e anche per loro venne il momento di rag-
giungere l’ambulatorio. Come mi disse Salem ‘Si era al­
l’ini­zio di gennaio del 1945’.
Lo sentii trasalire. Respirò, intuii la sua bocca improv-

190
visamente asciutta quando riprese a parlare. « Non potrò
mai dimenticarlo » disse. « Nessuna lingua d’uomo riuscirà
mai a raccontare quell’inferno ».
Dopo la visita, i ritratti, le misurazioni, il dottore dallo
sguardo freddo e indifferente li distese su due lettini af-
fiancati e lui e suo fratello Emil furono legati con delle cin-
ghie ancora prima di poter tentare una qualche reazione.
Li tranquillizzò con un moto della mano professionale e
misurato. Aveva un canarino in una gabbia vicino alla fine-
stra, che nella memoria Salem ricordava come l’unica cosa
colorata in tutto quel grigio. Ogni tanto si fermava a fargli
dei complimenti e a tubare con lui con piccole espressioni
graziose. Il canarino, come se avesse sentito la morte che
imperversava in quel luogo, non cantava più e lui si diceva
rattristato della faccenda con il suo assistente in un tede-
sco che i due intuivano appena. Faceva una faccia triste e
rammaricata per quell’inconveniente. Li guardò e sembrò
riflettere a lungo su cosa avrebbe fatto di loro. I due fratel-
li si guardarono dai lettini oramai terrorizzati. Sapevano
per esperienza, per aver visto come tornavano i gemelli,
che tutto era possibile.
Infine, cinguettando verso il suo canarino che ostinata-
mente gli negava il suo canto, sembrò colto da un’improv-
visa ispirazione. I suoi occhi si illuminarono, la sua voce si
fece dura e il tono supponente. Iniziò a dettare al giovane
assistente, un medico polacco di origine ebraica sottratto
temporaneamente dal settore degli ebrei.
Fuori dalla finestra il grigio del campo, e la voce sprez-
zante di una donna delle SS che giungeva fino a loro. Lo ri-
cordava perfettamente. Ce l’aveva con qualcuno, probabil-
mente con dei bambini che lavavano le gavette della cuci-
na, e presto sentirono dei colpi di pistola.
Rabbrividirono, ma lui non fece una piega, si voltò ver-

191
so la finestra, guardò fuori ed esplose in un’espressione di
disprezzo: « Luridi ladri! » disse.
« Un covo di pazzi, ecco dove eravamo finiti! » seguitò
Salem. « Di assassini con la legge dalla loro parte. Loro
erano tutto e noi non eravamo più nulla, non avevamo
neanche noi stessi, nemmeno più i nostri cari. Guardai il
dottore negli occhi desiderando che morisse con tutto me
stesso. Pregai che un infarto lo colpisse a morte lì di fronte
a me, e la sua faccia si impresse in quella prima visita, se
così si può chiamare, per sempre, a fuoco, nella mia me-
moria. Giurai a me stesso che se fossi uscito vivo da lì sa-
rebbe stata la sua fine. Da quel giorno durante ogni appun-
tamento studiai il suo modo di muoversi, di guardare, di
camminare, finché non fui certo di poterlo riconoscere fra
mille. Indifferente al mio sguardo carico d’odio e alle ma-
ledizioni che lanciava mio fratello, si avvicinò a me con del
cotone imbevuto di alcool e iniziò a strofinarmi la gamba
scoperta mentre l’assistente, sudando freddo a sua volta,
aveva lasciato perdere gli appunti e mi teneva fermo ».
Con grande soddisfazione aveva ripetuto l’operazione
con suo fratello chiamando un altro infermiere che tenes-
se la sua gamba. Poi, da un cassetto aveva estratto un bi-
sturi e un righello di legno.
Sorridendo compiaciuto aveva praticato un taglio nella
gamba di Salem, lo aveva misurato attentamente e poi ave-
va ripetuto l’operazione con suo fratello imitando la posi-
zione del taglio e la lunghezza. Strinsero i denti per il dolo-
re fino a che la gamba di ciascuno di loro ebbe tre tagli
uguali. Poi il dottore prese un ferro arrugginito che quasi
si sbriciolava, probabilmente un pezzo di un’anta di una
porta rimasto fuori a marcire nella terra, e lo strofinò con
foga sulle ferite sorridendo ed esaltandosi per la sua genia-
le trovata.

192
Disse qualcosa ai presenti in tedesco e Salem capì la pa-
rola ‘tetanus’.
Aspramente, per la prima volta dal­l’ini­zio di quella tor-
tura, si rivolse a loro facendogli capire che non dovevano
toccare le ferite, e gliele fasciò personalmente senza disin-
fettarle. Se avesse trovato le bende manomesse per loro sa-
rebbe stata la fine!
Tornarono nella baracca zoppicando. Le loro gambe
pulsavano come se dentro vi avessero fasciato enormi oro-
logi da tasca doloranti.
Inutile dire che le ferite peggiorarono subito, e non po-
tevano nemmeno aprirle per vedere cosa succedesse per
paura di essere eliminati per aver compromesso quello
schifo di esperimento. Furono richiamati più volte, sia per
lavarle e disinfettarle, sia per aggiungere altri tagli e infet-
tarli nelle maniere più impensabili.
Presto le loro gambe si ridussero in pessime condizioni,
poi venne la febbre e la gamba di suo fratello Emil peggio-
rò a una velocità pazzesca divenendo gonfia, livida e piena
d’acqua. Capirono che sarebbero morti di tetano e di qual-
che altra infezione.
Durante una delle ultime visite il signor Möller si arrab-
biò molto non capendo come mai due esseri identici, trat-
tati alla stessa maniera, avevano una progressione così di-
versa della malattia. Li esaminò a fondo, poi verso metà
gennaio sparì improvvisamente e andò via da Auschwitz,
probabilmente con l’intenzione di tornare da lì a poco.
« Io stavo malissimo, gli altri mi assistevano come pote-
vano » disse Salem con queste esatte parole. « Una sera la
febbre di mio fratello si alzò e dopo una nottata di delirio
morì. Non mi dissero nulla, e non potei assisterlo essendo
in fin di vita a mia volta. Di quei giorni ricordo le voci,
qualcuno che diceva: ‘Se ne sono andati! I tedeschi se ne
sono andati!’ E poi quel dottore, quel russo che facendomi

193
reggere da altri soldati, una cinghia di cuoio fra i denti, mi
incideva la gamba con una sega da chirurgo fino a farmi
perdere i sensi per l’atroce dolore ».
Quando si svegliò era in un ospedale da campo, stava
meglio. Non sapeva nemmeno lui con quali intrugli il rus-
so lo avesse salvato, ma presto costatò che il salvataggio gli
era riuscito solo in parte: non aveva più la gamba dal gi-
nocchio in giù. Controllò con le mani. Era uno storpio, lo
sarebbe stato per il resto della sua vita, ma era vivo. L’in-
ferno si era richiuso troppo in fretta alle sue spalle, aveva
fatto in tempo a scappare, ma non a togliere la gamba dal-
la porta.
Cercò suo fratello fino a che non seppe che era morto
giorni prima. I prigionieri del­l’ospe­da­le raccontavano del-
le fosse comuni, di una casetta di legno colma di neonati
morti sui quali si aggiravano topi enormi e di altri indicibi-
li orrori. Sapeva già che fine facevano i gemelli, sapeva già
dei forni, sapeva che se era sopravvissuto lo doveva a quel
pazzo che li aveva protetti perché diventassero le cavie dei
suoi esperimenti e fossero uccisi da lui personalmente.
Pianse tutte le lacrime che ancora gli rimanevano, poi lo
caricarono su un treno della croce rossa e un giorno fu
scaricato in Italia.
Non credevo alle mie orecchie. In quell’attimo seppi che
la mia storia era una specie di barzelletta. Un bambino
senza padre che tutti prendono in giro? Cosa c’era di tragi-
co, di tremendo? Se ne poteva ridere a gran voce in piazza
senza che nessuno ci trovasse niente da ridire. Tutta la mia
sete di vendetta era ridicola, se paragonata a quanto era
successo a quel­l’uo­mo. « Non avevo più una vita, ma avevo
uno scopo! » disse ancora Salem. « Mai avrei creduto di ri-
trovare l’amore e l’amicizia di qualcuno, mi ero indurito
come un pezzo di cuoio e cercavo solo vendetta. Come te il
giorno che ti incontrai nel bosco, non pensavo ad altro che

194
a vendicarmi. Su mio fratello, le mie sorelle, i miei genitori
e tutti i piccoli dello zigeunerlager giurai che non avrei
avuto pace fino a che non avessi catturato quel mostro per
quello che ci aveva fatto, per averci impedito di morire in-
sieme agli altri e averci fatto responsabili dei gemelli più
piccoli e suoi complici inconsapevoli e involontari.
« La vendetta però ti può annientare, è un’erba maligna
che corrode chi la coltiva. Oggi non lo cerco più per vendi-
carmi. Non solo per quello almeno. Lo cerco perché è giu-
sto che io lo trovi. Perché debbo trovarlo e guardarlo negli
occhi ».
Grazie a lui capii che il desiderio di vendetta non può
bastare da solo a sorreggere la vita di un uomo, che biso-
gna mutarla in qualcos’altro per non morirne: in sete di
giustizia.
Se c’era riuscito lui, forse, potevo farcela an­ch’io.
Capii che non c’era altro da dire e non dissi nulla. Cam-
minammo insieme, entrammo nell’accampamento già
mezzo smantellato e lui si avviò deciso fino a un mastello
di legno colmo d’acqua, si lavò la faccia e tornammo verso
la riva del lago. Non aveva fermezza, seguitava a cammi-
nare e io dietro di lui come un cagnolino. Staccai una cima
di acetosa, la ripulii dalle foglie con le mani e presi a suc-
chiare e masticare lo stelo per scacciare la sete. La bocca
mi si riempì di un delicato sapore di limone. Finalmente ci
fermammo. A lungo rimanemmo seduti vicini a fissare gli
uccelli che volavano fra i canneti e cantavano in lontanan-
za. Lo zingaro mi abbracciò scrollandomi come per farsi
perdonare il suo racconto.
« Che brutte bestie che siamo! » dissi.
Annuì sconsolato.
« Allora il piano è andato a farsi benedire? » domandai
dopo un po’, più che altro per sapere se lo avrei più rivisto.
« Niente affatto, non mollo » mi disse.

195
« Per i soldi? Sono così importanti? »
« Affatto, i soldi non c’entrano nulla ».

Mi sentivo ancora male per quella brutta storia, quando


sulla strada comparve Mercedes e lui subito mi salutò pas-
sandomi una mano fra i capelli. « Lascia perdere » mi av-
vertì serio. « Ricordati cosa ti ho detto » e si avviò verso i
resti del campo.
Lei venne verso di me, era stata ad aspettarmi vicino al
barchino e non vedendomi arrivare mi aveva cercato. « Ti
ha picchiato? » mi chiese preoccupata.
La guardai, era ancora più bella e si preoccupava per
me. Il sole giocava con i suoi capelli, le faceva rilucere gli
occhi e le labbra tumide e delicate. Pensai a quante ragaz-
ze come lei, a quanti bambini come suo fratello, non erano
più tornati a casa.
« No... » mormorai. « Sarebbe stato meglio. Mi ha rac-
contato una storia ».
« Una brutta storia, suppongo » disse lei avvicinandosi.
« La più brutta che abbia mai sentito » ammisi ancora
scosso dalle parole di Salem.
Annuì, e divenne triste: « Il Porrajmos ».
« Cosa? »
Mi spiegò che significa ‘distruzione’ e che era così che il
popolo degli uomini chiamava quanto gli era successo. I
vecchi non ne parlavano mai. Anche lei non ne sapeva
niente prima che Salem diventasse marito di sua sorella e
le raccontasse tutto.
« Guai a parlare dei morti! » mi spiegò. « Nemmeno la
vecchia Petra che è una narratrice di storie ne parla mai:
non parlano mai dei morti. Eppure basta passare vicino a
una ferrovia perché gli anziani comincino a tremare. L’ho
visto con i miei occhi. Una volta si accampavano dove c’e-
ra l’acqua, adesso dove c’è l’acqua e si è il più possibile lon-

196
tani dai treni, da quelle maledette rotaie che hanno ingoia-
to i nostri cari ».
Avevano ancora paura di quei carri bestiame che come
cucchiai avevano imboccato la morte facendo scempio di
loro.
« Ma lui è un rom, vero? » le domandai, senza motivo.
« Sì, Salem non è un sinto, l’abbiamo preso con noi per-
ché era solo un cane sciolto e in gamba come una faina.
Non sempre sinti e rom vanno d’accordo, ma il nonno ha
detto che era pur sempre uno zingaro e aveva patito le no-
stre stesse sofferenze. Insomma, alla fine l’ha ripagato
scappando con mia sorella e sposandosi di nascosto. Mio
padre è morto pochi anni fa e mio nonno che poteva fare?
Oramai erano sposati ».
Una speranza traversò il mio cuore rapida come un
proiettile e mi vidi con Mercedes che correvamo nel bosco
tenendoci per mano, con tutta la compagnia alle calcagna
che ci inseguiva per fermarci. Sempre correndo ci scam-
biavamo gli anelli e quando ci raggiungevano mostravamo
le vere alzando le mani e tutti si mettevano a cantare e far
festa.
Fu come se mi leggesse nel pensiero: « Con i gagé è di-
verso, però. Da piccola mia madre per non farmi allonta-
nare dal campo mi diceva di stare attenta perché i gagé ru-
bavano i bambini e non avevano cuore ».
« La stessa cosa Nandina la diceva a me degli zingari »
dissi, e ridemmo. Entrambi ridemmo di gusto.
Poi un crepitare di rami alle nostre spalle ci fece voltare.
Guardammo nel folto del bosco senza vedere nessuno.
« Adesso devo andare » mi disse. « Può essere mio fratel-
lo, quel rompiscatole! »
Non so con quale coraggio le afferrai una mano e le do-
mandai:
« Allora ve ne andate? »

197
Si voltò e sentii il suo profumo carezzarmi il volto.
« L’hai sentito anche tu cosa hanno detto i gagé. E non
scordarti di chi è la colpa! » mi rimproverò bonariamente.
« Ma dove? » le domandai rammaricato dalle sue parole.
« Come farò a rivederti? »
Tirò via la mano dalla mia e sorrise maliziosa scappan-
do nel bosco senza voltarsi e senza dire una parola. Non ri-
se, però, come aveva fatto quel primo giorno.
Tornai a casa sconsolato, strascicando i piedi nella terra
gialla della strada. Immagini d’amore e morte si accavalla-
vano sui miei occhi stringendo il mio stomaco in una mor-
sa d’angoscia.

198
XXVII

Forse stava già tornando da noi, era già in viaggio sulla na­
ve. Non è facile per me immaginare il transatlantico che va
da Napoli a New York a cavallo di un oceano dal nome che
rimbomba, come il mare nelle conchiglie: A-tlan-ti-co. Io, il
mare, a tredici anni non l’ho ancora mai visto se non nei ro­
tocalchi illustrati. Ma nel 1956 succede dell’Andrea Doria e i
giornali riportano la notizia; e io la divoro rimanendo terro­
rizzato e affascinato allo stesso tempo dalle fotografie e dalla
terribile tragedia. È lì che ho visto la grande nave. Mitica,
enorme balena di metallo lucente, la nave è come una città
galleggiante e oscura sulla quale gli uomini, dalla prima alla
terza classe, formicolano, si agitano, mangiano, si amano e
respirano.
Sotto i loro piedi gli abissi che diedero origine alla vita fer­
mentano onda su onda, immensi, gravidi di mostri marini
di tutte le specie, silenti e allo stesso tempo capaci di rendere
i giganti dei mari dei gusci di noce, nient’altro che questo.
È una questione di prospettiva, mi dico: dal cielo una cit­
tà può sembrare un punto e dalla Terra la Luna è un’ostia.
Si ha l’impressione di poter allungare la mano per prenderla
e mangiarla: amen! Così è anche per la grande nave. Adesso
lo so: un bruscolo nel­l’ocea­no se la guardi dal cielo. Quando
ci sei sopra però senti il ferro, i grandi bulloni, le scalette, i
fumaioli. Respiri il ponte immenso come un campo di gra­
no, ti paragoni alle ancore colossali e brunite che pesano
centinaia e centinaia di chili, e ti senti sicuro. Da vicino la
nave è inamovibile e se il mare rimane fermo e quieto sei

199
pronto a scommettere che nulla potrà smuoverla dalla sua
rotta.
Se mio padre aveva provato a tornare doveva averlo fatto
con una nave come quella... Magari anche la nave di mio pa­
dre era affondata, come il Titanic del quale mi aveva raccon­
tato don Caldine. Magari se n’era andato in bocca ai pesci
mentre cercava di tornare da noi, senza che neanche lo so­
spettassimo.
Certo che se uno torna, se ha intenzione di tornare, prima
scrive, manda due righe: ‘Sto arrivando!’ Invece noi non
avevamo mai ricevuto nemmeno una riga. Né da lui, né da
nessun altro.
Eppure, se mi sforzavo, con la mia mania di vedere le co­
se, di figurarmele vere di fronte agli occhi come in un film, lo
vedevo che fumava guardando il mare notturno poggiato al­
la ringhiera in ferro sulla grande fiancata, incurante delle
onde che come pareti verticali si innalzavano altissime di
fronte a lui.
Troppi giorni in cabina possono far uscire pazzo un uo­
mo. La cabina diventa peggio d’una prigione se non esci, fai
due passi, bevi qualcosa al bar, ceni nella sala ristorante.
Lo vedevo mentre pagava mostrando involontariamente il
portafoglio pieno di grana, come dicevano i gangster nei film
di Gariburdera. Lo seguivo a notte fonda, fra l’odore d’olio, di
mare e di petrolio mentre tornava verso il suo ponte, nella ca­
bina.
Eccolo appoggiato alla balaustra di tubi di ferro. Due tipi,
due che non aveva neanche notato, gli si avvicinano sorri­
dendo mentre fuma l’ultima sigaretta della giornata guar­
dando il mare.
« Scusi, ha da accendere? »
Si volta, quasi sovrappensiero, con l’immagine di lei an­
cora in testa, prende l’accendino d’ac­ciaio lucente e mentre

200
porge la fiamma al primo, l’altro si porta alle sue spalle e lo
colpisce con un piccolo sacchetto di sabbia sulla nuca.
Un gemito, cade per terra, sente appena le mani dei due
farabutti che lo frugano e gli prendono il portafoglio con tut­
ti i suoi risparmi. Poi, d’un tratto, il sopraggiungere di un
rumore di voci allegre che si avvicina li getta nel panico, li fa
sobbalzare. Lo prendono di peso, ha perso i sensi e lo butta­
no oltre il parapetto. Non urla nemmeno, nessuno se ne ac­
corge; i due salutano un gruppo dal­l’a­spet­to alticcio, coppie
che vengono dalla sala da ballo e cercano di tornare verso le
cabine ridendo a crepapelle delle solite sciocchezze di cui ri­
dono i ricchi.
Il tonfo è coperto dal rumore del mare e delle macchine,
qualche gabbiano disturbato dalla manovra stride, si libra
assonnato sopra l’oceano prima di posarsi di nuovo sulla
spalletta poco più in là e rimettere la testa sotto l’ala.
L’impatto con l’oceano è duro, il mare è un marciapiede
di cemento che si apre appena; il freddo è subito una morsa,
un artiglio che lo avvinghia alle gambe, gli ridà la coscienza
in un istante... mormora appena « Maledet...! » si agita, sente
i vestiti pesargli zuppi sulle gambe e sul corpo, beve a grandi
boccate il brodo salato del mare, e poi sparisce senza che
nessuno si accorga di lui, inghiottito da tutto quel blu.

201
XXVIII

Quando fui di fronte all’uscio di casa, vidi appoggiata al


muretto della piccola aia di pietre sconnesse la bicicletta
nera di don Caldine. Una gallina rosso rame era saltata
sulla sella e becchettava la pelle consunta del sellino come
impazzita. La scacciai con una mano ed entrai.
Nandina e mia madre erano intorno al tavolo con il vec-
chio prete. Ancora una volta la fiamma dei ribelli capelli
bianchi mi rivelò la sua presenza nella penombra della
stanza. Un bicchiere macchiato di vino rosso, ma vuoto,
giaceva di fronte a lui.
« Che c’è? » domandai.
Ma Nandina seguitò a parlare e mi fece cenno di seder-
mi: « Non capisco proprio chi possa essere stato » disse ad
alta voce, rimuginando fra sé.
« Sarà stato tuo padre? » ipotizzò poi rivolgendosi a mia
madre.
Lei scosse la testa e strinse le labbra scettica.
« E allora? »
La busta, con la scritta che vi avevo vergato, giaceva sul
tavolo.
« Bisogna che vada a sentire dalle Svizzere chi ha paga-
to il conto ».
Sussultai, e i suoi occhi da furetto mi furono subito ad-
dosso.
« Tu ne sai qualcosa di questi soldi? » mi domandò illu-
minandosi improvvisamente.

202
« Magari! » dissi, sforzandomi di ridere. « Da dove sbu-
cano? Che storia è questa? »
Colto di sorpresa, scelsi questa strada e mi resi conto di
aver sbagliato. Da lì a poco le Svizzere avrebbero confer-
mato che ero stato io a pagare il conto e allora cosa avrei
potuto dire? Eppure nella lettera avevo scritto ‘Guai a voi!
Non domandate!’
« Che vuoi che ne sappia lui » disse il prete. « Di certo è
stato qualcuno che sa che ne hai bisogno. La provvidenza
di Dio si manifesta per le strade più impensabili. Ma una
cosa è certa: la persona che ti ha fatto questo dono non
vuol far sapere chi è... mi chiedo io se non sia oltraggioso
o pericoloso cercare di scoprirlo, o non sia da ingrati...
non sia fargli un dispetto. Se avesse voluto far sapere chi è
l’avrebbe fatto. Invece scrive esplicitamente: Meglio sarà se
non domanderete da chi!
« Il mio consiglio è quello di non domandar nulla a nes-
suno, pagarci una delle cambiali che hai, e chi non sa non
ha colpe. Se invece tu dovessi sapere da chi vengono, ti po-
tresti trovare nelle condizioni di non poterli accettare. Mi
capisci? »
Io ripresi fiato, sperando che Nandina seguisse il consi-
glio di don Caldine e non mi scoprisse.
« Non saranno mica soldi suoi, priore? » esclamò Nandi-
na lanciandogli una delle sue occhiate radiografiche.
Il prete sostenne lo sguardo e scosse la testa.
« Magari! » disse. « Ne sarei felice, ma è come ho detto ».
Voltandomi mi avvidi che mia madre era diventata
bianca come un cencio.
« Cambiali? » domandò sgranando gli occhi.
Il prete si rese conto di aver rivelato più di quanto gli
era consentito e si portò una mano alla bocca chiedendo
scusa a Nandina: « Scusami, credevo che lo sapessero »
borbottò serio.

203
Sembrava vero e se non avessi conosciuto bene don Cal-
dine avrei potuto credere a un errore. Più probabilmente,
invece, aveva fatto la commedia per farci sapere che Nan-
dina era indebitata.
« Ecco, lo sapevo! » disse mia madre subito in ambasce.
« La colpa è nostra che non siamo mai in grado di pagarti
l’affitto, della roba che compri sempre anche per noi... »
Seguitava a colpevolizzarsi, camminando avanti e in-
dietro come una volpe in gabbia: « Ma quante sono? Quan-
te ne hai firmate? »
« Che cos’è una cambiale? » chiesi, intuendo che doveva
trattarsi di qualcosa di gravissimo.
Nessuno si degnò di rispondermi. Nandina si alzò e dis-
se: « Sciocchezze! »
« Ma come li hai spesi tanti soldi da dover ricorrere alle
cambiali? » domandò mia madre incredula.
Nandina non mangiava quasi nulla e aveva due o tre ve-
stiti per tutte le stagioni e le occasioni.
Mia madre le guardò le mani e il collo: « Hai venduto an-
che l’oro! » le disse. « La fede e la collana della Madonna! »
Nandina sospirò.
« Sei malata? » domandò ancora la mamma.
Allora non ne potei più e disperato intervenni:
« Lo so io che ne ha fatto! È lo strego che la ricatta: non
so perché, ma la ricatta! L’ho visto io che gli dava dei soldi!
Le avrà fatto il malocchio! » dissi tutto d’un fiato.
Nandina sollevò il volto che s’era raggrinzito come una
patata vecchia e mi guardò con due occhi che avrebbero
trapassato un tacchino di venti chili come uno spiedo. Nel
medesimo istante mi sentii afferrare l’orecchio dalle mani
ossute di don Caldine: « Ma che dici? Ti sei impazzito! Ma-
locchio! Ti insegno io a diffamare la gente! »
Mia madre a bocca aperta non ci capiva più nulla.

204
« È vero! » insistetti, liberandomi da quella presa: « L’ho
visto io! »
« Angelino non c’entra! » disse risoluta e improvvisa-
mente dritta e imperiosa Nandina. « Gli ho solo reso quan-
to mi aveva prestato! Comunque... » affermò con la voce
dura di chi non ammette repliche, « cosa ci faccio con i
miei soldi è affare mio e di nessun altro! »
Poi mosse la mano ossuta a taglio nell’aria con un colpo
secco e contemporaneamente guardò negli occhi mia ma-
dre e concluse dura: « Chiusa la discussione! »
La sera, sotto le coperte, raggiunsi la mamma che era
preoccupatissima e volle che le raccontassi per filo e per
segno quanto avevo sentito del dialogo fra Angelino e Nan-
dina.
Neanche lei ci capiva nulla e davvero, forse, nessuno
avrebbe più fatto parola di tutta la faccenda se il mattino
di due giorni dopo, mentre risalivo dal fiume con lei spin-
gendo la carriola piena di lenzuola appena lavate, non
avessi visto quegli uomini.
Erano in due, di mezza età, elegantemente vestiti e ave-
vano con loro un ragazzo più o meno della mia età, anche
lui vestito da signorino.
Gli uomini armeggiavano con delle carte topografiche
vicino a un cavalletto e il ragazzino reggeva un’asta a stri-
sce bianche e rosse come fosse stata una lancia a venti me-
tri da loro, sul filo della collina d’ulivi.
Mia madre li guardò da lontano e fece la faccia di chi
non si aspettava nulla di buono da quell’apparizione.
« Vai a chiamare Nandina! » mi disse allarmata pren-
dendomi dalle mani la carriola e io lo feci di filata.
I due uomini vedendola sfoderarono un gran sorriso e si
impettirono, sollevando il cappello in segno di saluto con
la mano dal centro del campo:
« Buongiorno, signora! » urlarono per farsi sentire.

205
« Buongiorno! » rispose mia madre gettando loro una
lunga occhiata sospettosa.
Da lì a poco tornai sull’aia con Nandina che si allontanò
da me e li raggiunse. La vedemmo discutere animatamen-
te e a un certo punto sentii che Nandina alzava la voce e
indicava loro l’auto sull’aia.
Intanto facendo un largo giro avevo raggiunto il ragaz-
zino vestito da damerino, con i pantaloni alla zuava e la
camicia bianca sul filo della collina.
« Che fai con quella lancia a strisce? » gli domandai.
Mi guardò, squadrandomi da capo a piedi con un movi-
mento sussiegoso della testa.
« Non è una lancia » mi corresse brusco. « È una stadia.
Ignorante! »
Già mi prudevano le mani, chiesi ancora: « E a che ser-
ve? »
« Per misurare il terreno » mi rispose con l’aria di un
gran professore.
« E come mai sei venuto a misurare proprio qui? » do-
mandai.
« Perché mio padre mi ha detto che presto questo terre-
no e quel fienile bruciacchiato saranno della banca e la
banca lo venderà a qualcuno che ci farà una villa, o qual-
cosa del genere » mi spiegò con una erre strascicata e
ostentata che ebbe il potere d’irritarmi ancora di più.
« Veramente questa casa è di Nandina! » dissi.
« Ma c’è l’ipoteca, le cambiali, presto non sarà più sua ».
Non sapevo cos’era l’ipoteca, ma potevo intuire che era
roba poco buona e non avevo voglia di chiederglielo per
non dargli soddisfazione e fare ancora di più la figura del­
l’igno­rante.
« Ah! » dissi, e poi gli strappai di mano l’arnese. « Fammi
vedere un po’ questa lancia! »
« Ridammela! » mi disse.

206
« Ma sei sicuro che non è una lancia? »
« Ridammela! » fece per riprendermela e con una mano
aperta sul suo brutto muso lo spinsi indietro. Finì con il
culo sull’erba macchiandosi i pantaloni chiari di verde e
di terra.
Non si era ancora rialzato che ribadii: « Secondo me è
una lancia! »
« No! È una stadia! » piagnucolò ripulendosi i pantaloni.
« Ridammela subito! Papà! Papà! » gridò.
Suo padre stava parlando con Nandina, alzò la mano e
gli sorrise come per dire che adesso stava parlando e non
poteva dargli retta.
Quella richiesta d’aiuto paterno mi fece ancora più rab-
bia.
« Scommetti che è una lancia? » dissi. Feci due passi in-
dietro e prendendo la rincorsa la lanciai giù dal poggio e
rimasi a guardarla infilarsi in una macchia di rovi.
Vedendo quella scena il tipo mi si gettò addosso e mi
abbrancò stretto. Non sapeva neanche fare a botte. L’affer-
rai per le orecchie: strillava come un maialino. Misi la mia
gamba destra dietro le sua e lo spinsi di nuovo a terra. Do-
vetti trattenermi perché mi era venuta una grande voglia
di dargli un pugno sul naso. Avevo già male alle orecchie
per quanto urlava.
I due uomini corsero verso di noi e lo soccorsero, al che
pensai bene fosse il caso di levare le tende e mi portai a di-
stanza di sicurezza gustandomi la scena.
« La stadia... » singhiozzò il lattante.
Nandina aveva un sorriso che tratteneva a stento. Disse:
« Adesso sarà il caso di slegare il vecchio Brando e farlo
sgambare un po’. Un cane da guardia ha bisogno di un po’
di moto ogni tanto! »
I tre filarono di corsa fino all’auto.
Uno dei due, giunto all’altezza di mia madre e di Nandi-

207
na, disse: « Mi meraviglio di lei, signora. Permettere tutto
questo! Ma la pagherete, è solo questione di tempo, ora-
mai, e dovrete sloggiare! » Una volta dentro l’auto girò sul
prato a tutta velocità e dal finestrino abbassato ci urlò:
« Selvaggi! »
In un’altra circostanza avremmo riso, ma quella volta lì
non ne avevamo nessuna voglia, perché sapevamo che
quel che aveva detto quel tizio era vero.
« Torneranno » disse mia madre, e poi, rivolta a Nandi-
na: « Questa poi! Hai ipotecato anche la casa? Ma per-
ché? »
Nandina, offesa, rifece la sua faccia da patata raggrinzi-
ta e replicò dura, esasperata: « Perché spero che serva a
qualcosa. Del resto è mia... posso farne quello che voglio! »
La sera stessa, disperato, corsi al campo degli zingari.
Salem mi aveva detto che il piano andava avanti, forse
avrei fatto in tempo a salvare la casa e Nandina. Quando ci
giunsi però non c’era più nessuno, le ventiquattro ore era-
no trascorse da tempo e gli zingari avevano mantenuto la
loro parola, erano spariti nel nulla, come un soffio di vento.

208
XXIX

Sin da quando ero piccolo, c’erano dei giorni in cui venivo


preso dall’entusiasmo e mi aspettavo che lui arrivasse da un
momento al­l’al­tro. ‘Oggi è il giorno giusto!’ continuavo a ri­
petermi, anche se poi il giorno giusto non era mai e crescen­
do avevo smesso di provare quella sensazione. Fino a che
non mi addormentavo. In quei giorni, mi figuravo di sentire
arrivare un’auto nell’aia.
Allora non solo la Bianchina di Minosse, ma anche la
Lancia del nonno sarebbero sprofondate nella terra dalla ver­
gogna di fronte all’auto di mio padre. Perché in quei giorni
mio padre non sarebbe arrivato a piedi come un povero cri­
sto qualunque, ma a bordo d’una macchina sportiva ameri­
cana tutta lucente e tutta curve. Così lunga e larga da passa­
re a malapena dalle strade del paese. Sì, forse mio padre sa­
rebbe stato ricco, ricco sfondato come immaginavo dovesse­
ro essere tutti gli americani.
Ed eccomi, seduto al suo fianco vestito da signorino ame­
ricano, impettito e fiero mentre con l’auto sfiliamo in via Ro­
ma lentamente e tutte le persone ci chiamano dalle finestre e
accorrono. I commercianti e gli artigiani lasciano il lavoro
ed escono sul marciapiede. Il padre di Saverio con le scarpe
ancora in mano e il grembiule lurido di mastice puzzolente,
l’Acrimene con l’ago fermo a mezz’aria e la bocca a ‘O’. Tutti
sono esterrefatti, e perfino lo scrittore, che immagino barbu­
to con una gran faccia da panettone, si mostra alla finestra.
I bambini corrono dietro l’auto e io tiro caramelle a tutti e
qualcuno applaude. Non sono più il bastardo, il figlio della

209
puttana figlia di Sigaro, ma sono Ciro Baker, Figlio di Jona­
than Baker e di Mara Baker.
Cavolo che bel pensiero che era quello! Qualche volta me
lo ripassavo nella mente più volte per assaporarmelo fino in
fondo, come si fa con i confetti per farli durare di più.

210
XXX

Ero disperato: adesso eravamo davvero alla rovina. Fra un


po’ non avremmo avuto più nemmeno una casa dove stare
e ci saremmo dovuti mettere a girare con un vecchio carro.
Saremmo diventati degli zingari in tutto e per tutto, senza
nulla di nulla, senza un tetto sulla testa, sempre in fuga, di
luogo in luogo, ancor più disprezzati e umiliati.
Incominciavo a credere che Salem avesse abbandonato
la partita e fosse andato via con la moglie e gli altri, segui-
tando il suo viaggio.
Nessun sogno mi soccorreva più, non c’era più una ban-
da di pirati o anarchici da immaginare, nessuna speranza
di recuperare la nostra condizione con un furto colossale
da mille e una notte.
Avrei potuto rapinare mio nonno da solo, ma già avevo
visto che razza di ladro da quattro soldi ero e avevo pro-
messo a me stesso che non mi ci sarei più azzardato.
Come se non bastasse, provavo ancora quella sensazio-
ne di essere seguito. Braccato dalla Bestia o da Giamba?
Per quanto mi guardassi intorno, però, non vedevo nessu-
no: più probabilmente ero soltanto colmo di presentimenti
e di timori. Altro che erba da paura: mi ci sarebbe voluto
un miracolo! Davvero non mi aspettavo niente di buono
dal futuro. Man mano che mi riavvicinavo al paese con
l’ennesima consegna di lenzuola lavate e stirate, si acuiva
il ticchettio che trasformandosi in vento, pioggia, rane e
grilli faceva da sfondo silente a quei giorni e che ora udivo

211
chiaro e implacabile come quello della macchina da scri-
vere dello scrittore che non avevo mai visto.
Se avessi potuto vederlo, pensai quel giorno, forse tutta
questa storia di Salem sarebbe crollata come un castello di
carte. Se avessi potuto guardarlo negli occhi anche solo un
secondo, forse non sarebbe accaduto nulla di quanto dove-
va ancora accadere. Io avrei potuto illudermi che non era
vero niente, che nessuno aveva mai fatto del male al popo-
lo degli uomini, agli ebrei, ai bambini. Era un pensiero
stupido che non valeva nulla, come i miei vaghi progetti
solitari. Lo lasciai correre via lungo la strada insieme alle
foglie morte e ai lanicci di polvere. Se almeno avessi potu-
to rivedere Mercedes, o partire con lei lasciando Dario con
la mamma! Ma di Dario, oramai da giorni non v’era più
traccia. Ci pensavo sempre meno, ero sempre di più solo
con me stesso e come se non bastasse fra pochi giorni
avrei compiuto quattordici anni. Quattordici anni! Mi
sembrava incredibile.
Avevo già consegnato le lenzuola alla fruttivendola e
stavo tornando indietro in paese con i pochi soldi in tasca
per mia madre, quando mi fermai a pensare e giudicai im-
prudente passare di fronte a casa di Saverio. Per precau-
zione decisi allora di fare un giro largo, costeggiando il
paese dalla parte esterna per poi riprendere la strada prin-
cipale una volta fuori. Senza rendermene conto mi com-
portavo già come uno zingaro.
Ero sicuro di aver fatto bene a evitare la via principale
ma quando sbucai nella piazzetta del Furia, all’altezza del-
le pompe funebri, per colmo di sfortuna mi imbattei pro-
prio in Saverio e nel suo gruppo. Avevano con loro anche
un nuovo amico, che riconobbi subito dall’abitino elegan-
te: era il ragazzo della lancia che era venuto a misurare la
terra con il padre per conto della banca. Certo lui non
avrebbe preso le mie difese. Oramai ero avanzato troppo.

212
Prima che mi vedessero mi ficcai dentro al negozio aperto
del beccamorto per attendere che passassero oltre e riusci-
re a filarmela al momento giusto. Invece non sloggiarono,
avevano un gesso e si misero a giocare a campana sull’a-
sfalto pulito del piccolo spiazzo. Veramente non me ne an-
dava bene una! Sentii dei passi scendere dal piano superio-
re e delle risate. Non potevo certo uscire per finire in bocca
a Saverio e al mio nuovo nemico, né farmi trovare in casa
d’altri senza motivo. Così mi nascosi precipitosamente die-
tro una specie di paravento che copriva un ammasso di co-
rone da morto e di fiori appassiti. Era certo l’avanzo di un
funerale che giaceva nascosto in attesa di essere buttato.
Da una fessura spiai con il cuore in gola e vidi la grossa
figlia guercia della lattaia scendere le scale con il Giuffri-
da. Lui la stringeva a sé e le baciava il collo mordendoglie-
lo con i denti aguzzi. La balena chiocciava; trattenne le ri-
sa, lo spinse via e corse a chiudere la porta con doppia
mandata. Lui la raggiunse e l’abbracciò da dietro abbarbi-
candosi a lei.
« Sono o non sono un genio? » le sussurrò in un orec-
chio stringendola in un abbraccio passionale.
« Sì, sì... » sussurrava lei sempre ridendo.
« Con questo professore i milioni faremo: è pieno di sol-
di e se è i cadaveri che vuole, noi glieli serviamo bell’e
pronti!
« L’altra volta mi ha dato cinquemila lire. Stavolta però
ne voglio almeno dieci! »
« Ma non sarà rischioso? L’altra volta s’è perso la ma-
no! » disse la strabica.
Deglutii e sobbalzai nello stesso tempo.
« In effetti nessuno c’ha pensato, ma se qualcuno avesse
fatto uno più uno o la mano non fosse stata rovinata dalle
bestie e l’avessero riconosciuta, tutti in galera finivamo! »
ammise il beccamorto pensieroso e aggiunse: « Per questo

213
voglio esserci an­ch’io con quella banda di fanatici e per
questo ci chiedo più soldi. M’importa assai a me del demo-
nio e di tutti quei discorsi. Mica sono fesso come Sigaro e
gli altri. Loro hanno i milioni e io pure li voglio. Possono
fare tutti i riti che credono per me e tagliuzzare tutti i mor-
ti che vogliono, che tanto i morti non sentono dolore ».
Lei si era seduta su un catafalco, e strinse a sé l’uomo
come una mamma appoggiandogli la testa sul seno ciclopi-
co. Lui si era inginocchiato ai suoi piedi e lei gli passava la
mano grossa e tozza fra i capelli ricci e unti di brillantina.
« A me però questa cosa dell’adorare il demonio e quel
professore mi fanno paura. Questa cosa che facciamo è
peccato mortale » disse, affranta come una bambina.
Lui si sollevò severo guardandola dritto negli occhi, o
almeno in uno, giacché l’altro andava per conto suo: « Ue’?
Quale peccato, morti sono, mica li uccidiamo noi. Nessu-
no soffre, nessuno s’accorge di nulla. E io nel demonio non
ci credo, credo solo nei soldi! Sai come ha abbindolato Si-
garo e la Signora? Con la storia della giovinezza: questi
pensano che lui li farà vivere più a lungo con i suoi intrugli
e i suoi riti stralunati. Se per giocare ai loro giochi hanno
bisogno dei morti qui c’è l’emporio che fa per loro! » escla-
mò divertito il siciliano e, così dicendo, si alzò e con fare
da prestigiatore si portò sul fondo della stanza vicino ad
alcune bare issate su dei carrelli con le ruote.
Il polline dei fiori aveva un profumo acre di marcio.
Sentii prudermi il naso e salirmi agli occhi uno starnuto.
Lacrimando mi portai la maglia al volto e ci respirai den-
tro per reprimerlo.
« Un trucco perfetto è! » continuò. « Nessuno può accor-
gersi di nulla, signori e signore! A destra una bara chiusa
piena di sassi imballati e inchiodati al fondo per il peso
corrispondente a quello del defunto. Al centro la bara
aperta con il defunto identica alla prima. I parenti assisto-

214
no alla chiusura della bara sul quale viene messo un cartel-
lino con il nome del defunto. Si chiude la bara e si crea
una distrazione. L’ultima volta tu sei svenuta, tutti ti han-
no soccorso e io ho spostato il cartellino sulla bara colma
di sassi spingendola avanti e spostando di lato l’altra con il
defunto. Cerimonia e sepoltura dei sassi e il defunto è ri-
masto qui pronto a essere tagliato a fette dagli amici di
quel pazzo fanatico del professore ».
« Eppure sembra tanto una brava persona » mormorò la
donna.
L’avevo visto all’entrata del paese nei cartelloni degli an-
nunci funebri: giorni prima c’era stato il funerale d’un vec-
chio di ottantasette anni che non conoscevo. Nonostante
avessi solo tredici anni, guardavo sempre gli annunci mor-
tuari, un’abitudine che avevo preso al tempo in cui don Cal-
dine mi permetteva ancora di fargli da chierichetto. Se il
morto faceva la messa funebre nella sua pieve, per me c’era
la mancia assicurata dai parenti dei defunti, figli, mariti o
mogli che fossero. Quei fiori dovevano essere stati usati per
l’occasione ed erano già da buttare. Probabilmente il bec-
chino aveva già venduto un altro morto e chissà quanti pri-
ma di allora. I garofani specialmente mi facevano prudere
terribilmente il naso con il loro odore putrescente. Lo stro-
picciai; il beccamorto si rigettò sulla cicciona e prese a ba-
ciarla e ad abbracciarla mugolando di passione.
Mi ci veniva da ridere e sperai con tutto me stesso che
raggiungessero il retrobottega, per potermela filare. Inve-
ce, accadde ben di peggio: senza nessun preavviso uno
starnuto mi salì al naso ed esplose. Rimasi di sasso.
« Zitta! » disse Giuffrida, subito allarmato, interrompen-
do i suoi amoreggiamenti per voltarsi. « Lo sentisti? »
« No » disse la donna attenta, gli occhi come due uova
fritte gettate a casaccio nel tegamino.
« C’è qualcuno? » urlò, e venne verso il paravento.

215
Scattai di corsa fino alla porta lasciandoli a bocca aper-
ta e feci per aprirla. Gridai anche aiuto ai miei nemici là
fuori armeggiando con la chiave. Ma la porta era spranga-
ta chissà come e subito i due mi furono addosso. La ciccio-
na mi mise la mano molliccia sulla bocca. Puzzava di bril-
lantina. Mi divincolai e gliela morsi con ferocia. Urlai an-
cora. Scalciavo come un cavallo impazzito mentre l’uomo
mi teneva avvinto da dietro con entrambe le braccia bloc-
candomi le mie e sollevandomi da terra. Lo martoriai ben
bene sulle ginocchia ma non mollò la presa.
La donna prese a picchiarmi con la mano libera sulla te-
sta per ritorsione. Era arrabbiatissima e lasciava piovere
scapaccioni a tutt’andare.
« Tappagli la bocca! Tappagli la bocca con qualcosa! »
urlava il tipo.
« Ma morde! »
Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ma presto mi
resi conto che dei ragazzi là fuori non v’era più traccia. Se
n’erano andati. Poco dopo la donna mi infilò un panno in
bocca. Sgranai gli occhi, divenni rosso, tossii cercando di
respirare con il naso. Tornò con una fune, mi legarono co-
me un salame chinandosi su di me e mi portarono a brac-
cia nel retrobottega.
Mentre mi divincolavo, rischiando di morire soffocato,
Giuffrida prese ad andare avanti e indietro e a bestemmia-
re contro il destino infame.
« Che si fa ora? » chiese la donna terrorizzata guardan-
domi lì per terra e tormentandosi le mani.
« Lasciami pensare! Lasciami pensare! » le urlò lui in
preda a un’agitazione mai vista.
« Sleghiamolo e lasciamolo andar via, facciamolo pro-
mettere che non dirà nulla » disse la donna con una voce
da bambina stupida. Improvvisamente era come inebetita,
imbambolata.

216
« Ma lo capisti che ha sentito tutto? Che sa tutto? Vuoi
finire in prigione? » la investì l’uomo urlando, le vene del
collo gonfie, gli occhi sbarrati e il volto ancora più bianco.
« Oddio! Oddio! » piagnucolò lei.
« Lasciami pensare, lasciami pensare! »
Si aggirò ancora per la stanza a grandi passi cercando
di riconquistare la calma. Le mani gli tremavano.
Dopo un po’ andò verso la donna che si era accasciata
su una sedia e sembrava ebete. Si guardava la mano mor-
sicata e livida e la carezzava come un gatto.
« Guarda cosa mi ha fatto » gli disse, con la medesima
voce da bimba.
Lui le prese le guance flaccide fra le mani e si chinò su
di lei occhi negli occhi, per quanto possibile: « Andrà tutto
bene. Devi aver fiducia in me » le disse scuotendola, come
avesse voluto ipnotizzarla.
Lei annuì: « Va bene » disse. « Però... » esitò un istante.
« Promettimi che mi sposi! »
L’uomo trasalì a quel pensiero così fuori luogo. « Ma sì
che ti sposo. Chi vuoi che sposi se non te? »
Lei sorrise. Qualsiasi idiota si sarebbe accorto che dice-
va per dire, ma lei voleva sentirsi dire quelle parole.
« Che facciamo? »
« Portiamolo dal professore. Lui saprà cosa fare. Ci pen-
serà lui! »
« Oddio! Ma che ne farà? »
« Una volta consegnato la cosa non ci riguarda, l’impor-
tante è che se lo prenda ».
« Va bene » cedette la donna e, colta da tremore, si strin-
se in un abbraccio delle sue braccia tornite.
A quel pensiero mi sentii morire an­ch’io, e sarei morto
davvero perché non riuscivo più a respirare dal naso e mi
agitavo in un’inutile danza da bruco. Appena in tempo si
accorsero di me: ero diventato tutto rosso e non ce la face-

217
vo più. Mi tolsero lo straccio minacciandomi di non urlare
e mi legarono un fazzoletto intorno alla bocca. Non potevo
più che mugolare e stimai fosse meglio non farlo per poter
respirare un po’ anche dalla bocca.
Di lì a poco successe una cosa incredibile che mi fece
sudare freddo e sbarrare gli occhi: mi presero in due e mi
sollevarono per poi mettermi in una bara aperta. Incredu-
lo, urlando nella mente vidi che calavano su di me il coper-
chio. Mi sentii perduto. Era l’incubo peggiore che potessi
avere e fui certo che se fossi sopravvissuto quel sogno mi
avrebbe tormentato per il resto della mia vita. Il terribile
incubo di essere seppellito vivo. Presto fu il buio completo,
mi mancava l’aria, c’era da impazzire. Fui colto da un at-
tacco di panico senza precedenti. Sarei sicuramente morto
se il coperchio non si fosse riaperto quasi subito. Vidi ri-
comparire la luce con sollievo e riconoscenza. Giuffrida
chinandosi come uno spettro su di me infilò un’asse di le-
gno fra il coperchio e la cassa per permettermi di respira-
re. Rimase uno spiraglio d’aria, ma mi ritrovai pratica-
mente sepolto vivo, nel buio appena scalfito da un filo di
luce bianca, con il velluto rosso dell’imbottitura del coper-
chio che incombeva su di me e odorava di polvere. Sperai
con tutto me stesso che non mi seppellissero e iniziai a
piangere dalla paura e a tremare mentre lo stomaco mi ri-
mandava su il pranzo contorcendosi in terribili singulti.
La notte con Giamba, la Bestia e tutto ciò che mi era ac-
caduto fino ad allora era niente in confronto a quanto mi
stava succedendo.
Accostarono il carro funebre all’entrata del negozio e
caricarono la cassa con me dentro. Smisi di agitarmi per
risparmiare energie, giacché ero legato troppo stretto e
sentivo le corde tagliarmi i polsi e le caviglie. Allora ascol-
tai la strada per tutto il tragitto e quando sentii i sassi sotto
le ruote e i cani abbaiare, fui certo di essere arrivato alla

218
villa del professore. Il carro funebre entrò nella cantina pa-
dronale: sentii una voce parlare in una lingua straniera e
ricacciare i cani fuori dalla cantina, e il portone che si ri-
chiudeva. Poi la voce, quasi senza alcuna inflessione, parlò
in italiano e ordinò:
« Portatelo di sopra! »
Il suono di quella voce mi fece gelare il sangue.
Una porta si chiuse e i due, frenetici, aprirono la bara.
Vidi una volta di mattoni rossi altissima sopra la testa e le
loro facce grottesche chinarsi su di me. Mi tirarono su e
mi trascinarono di peso, come un fagotto, lungo le scale.
Giuffrida e la donna mi trasportarono nello studio che ri-
conobbi subito per averlo visitato con Salem la famosa
notte del sopralluogo. La donna per poco non inciampò
nel gatto bianco che scappò via soffiando.
« Bestiaccia! » mormorò.
Dallo studio fui introdotto di peso nel gabinetto medico
che con Salem avevamo visto e che l’aveva fatto sudare e
trasalire preda di un improvviso malore.
Mi stesero sul lettino e mi ci legarono con delle fasce di
contenimento che ci erano fissate, poi sciolsero la corda e
la sfilarono via facendomi passare dalla vecchia ragnatela
alla nuova. Mi guardai intorno: c’era un armadio bianco a
vetri da ospedale pieno di attrezzi, bisturi, tenaglie, forbi-
ci, siringhe e bottiglie. Rividi la libreria che avevo già visto,
e un altro lettino da visita identico al mio lì vicino. Sbarrai
gli occhi nella penombra della stanza: su quel letto, legato
così come avevano legato me, c’era Dario, c’era un altro
me stesso che mi guardava con commiserazione, come se
avesse avuto pietà di me. Lo chiamai più volte nella mente,
ma non mi rispose; chiuse gli occhi e attese, come un fan-
tasma oramai grigio cenere, un’idea, un residuo del fratel-
lo che avevo portato dentro di me per tanti anni.
« Mio Dio! »

219
La porta era stata lasciata aperta e mi giunsero le voci
del Giuffrida e della donna che spiegavano concitatamente
come erano andate le cose.
« Imbecilli! » rispose l’altra voce con disprezzo. « Chi è? »
« È il nipote di Sigaro » spiegò il beccamorto.
« Sì, il figlio della lavandaia » puntualizzò la donna e
poi, malauguratamente aggiunse: « Aveva fatto due gemel-
li, ma uno le morì ».
« È un gemello? » chiese freddamente la voce.
Li immaginai annuire nella penombra delle scale.
La voce comandò irritata:
« Andate via... Ci penso io ».
Scesero le scale e lui li seguì di certo per aprir loro la
porta impedendo che fossero sbranati dai cani.
Sentii le ruote del carro funebre chioccolare sulla ghiaia
del piazzale e i cani abbaiare furiosamente, poi tutto tac-
que fino a che un passo pesante echeggiò per le scale fa-
cendosi sempre più vicino.
Guardai Dario. Dormiva, o forse teneva gli occhi chiusi
senza dire nulla per farmi dispetto.
La paura mi afferrò allora con un artiglio d’ac­ciaio alla
base del collo, gli occhi mi si riempirono di lacrime e tutte
le preghiere che mi ero dimenticato mi tornarono alle lab-
bra come un fiume che esondi improvvisamente, un getto
disperato d’acqua che tenti di salire fino al cielo per chie-
dere perdono e pietà al suo dio.
Dopo un’attesa che mi parve infinita, la porta si aprì e
una sagoma umana vi si stagliò contro, alzò la mano e ac-
cese una lampada fioca in un angolo della stanza. Solo al-
lora mi avvidi che indossava un camice bianco, e tutto mi
fu chiaro.
L’uomo fece un passo avanti e il suo volto si illuminò.
Aveva dei baffi a spazzola e i capelli in ordine che corona-
vano una faccia qualunque, una faccia insignificante, che

220
però, chissà come, con i suoi occhi mobili e scuri, emana-
va qualcosa di terribile.
« Bist du ein Zwilling? » disse e poi tradusse, sorridendo,
d’un sorriso inquietante: « Tu sei un gemello, eh? » seguitò,
parlando come fra sé. « Niente è più inutile di un solo ge-
mello. Niente mi fa più arrabbiare!
« L’ho detto mille volte » scandì, con quel suo accento
insopportabile. « I gemelli dovrebbero morire nello stesso
istante ».
Iniziai a tremare scosso da brividi, e non riuscii a pro-
nunciare una sola sillaba. I denti mi si erano serrati in una
morsa di terrore sul fazzoletto e non riuscivo, per quanto
mi sforzassi, nemmeno ad aprire bocca.
Allora capii tutto. Come avevo fatto a non capirlo pri-
ma? Improvvisamente mi fu tutto chiaro: quel­l’uo­mo era
la Bestia di cui parlava la zingara, l’angelo della morte di
cui mi aveva parlato Salem nel suo racconto. I miei sospet-
ti si tramutarono in realtà, e le tessere del mosaico si alli-
nearono di colpo nella mia mente. Ero finito nelle mani
del dottor Möller, uno dei peggiori criminali e sadici che la
Storia avesse mai partorito. Ecco perché non avevamo
preso niente la sera del furto: Salem cercava la certezza e
l’aveva trovata. Non cercava i soldi, cercava forse la ven-
detta o piuttosto una qualche forma di giustizia. Ma ades-
so Salem se n’era andato con gli zingari e nessuno mi
avrebbe più soccorso. Io ero finito nella sua storia, ci ero
precipitato dentro... ero lui. Io e Dario eravamo lui e suo
fratello Emil.
La vita a volte è veramente insensata e malvagia.
Tremando, tentavo con tutto me stesso di urlare o di
dire qualcosa, ma la paura e il fazzoletto me l’impedivano.
Guardai verso Dario e seppi in quell’attimo che era morto
e che presto l’avrei seguito nella tomba, come era accadu-

221
to a tanti ragazzi come noi, a tanti gemelli per la mano as-
sassina di quel­l’uo­mo.
Lo ascoltavo mentre armeggiava nella fioca luce della
stanza dall’armadio bianco, con la sua ombra nera e terri-
bile resa enorme dalla lampada che incombeva sulla pare-
te. Sentii il rumore del metallo e del vetro che si urtavano,
lo schiocco di una fiala che si rompeva. Infine si voltò con
una siringa di vetro fra le mani, piena di liquido giallo. La
sollevò e fece scorrere alcune gocce lungo l’ago lucente, di
fronte ai propri occhi, poi fece un passo, mi si avvicinò e si
chinò su di me. Mi afferrò il braccio con forza e sentii la
sua mano bruciare sulla mia pelle. Tentai di sottrarmi ma
fu inutile. Avvicinò l’ago alla vena, sentii la puntura e il li-
quido che vi penetrava e finalmente urlai, urlai con tutto il
fiato che avevo in corpo. Lui non fece una piega, si sollevò,
con dell’ovatta mi deterse il punto dell’iniezione e mi guar-
dò, con il volto sfigurato dalla luce radente della lampada
che evidenziava le rughe come tagli neri. Di lì a poco sentii
le forze mancarmi, la vita fuggire da me, pensai con ram-
marico alla mamma, alla quale tanti anni prima avevo
promesso di non morire, cercai di tenere gli occhi aperti
ma fu inutile. Mormorai « Perdono! » e chiusi gli occhi: ero
morto.

222
XXXI

Il pensiero peggiore di tutti era una specie di incubo. In quel


terribile sogno mio padre rideva, rideva e rideva! Rideva di
noi. Mi faceva rabbia allora, e l’odiavo. Sì, quando mi veni­
va quel pensiero l’odiavo perché pensavo che forse, forse non
è che non potesse tornare. Forse, non voleva tornare.
E perché sarebbe dovuto tornare nell’Italia povera e con­
tadina che aveva visto, quando lui veniva dall’America? L’A­
merica della tecnologia e dei grattacieli, l’America della cioc­
colata e della Coca-Cola.
Biondo, con il volto screziato d’efelidi, gli occhi azzurri e
il sorriso intonso d’una pubblicità del dentifricio, sedeva al
bancone moderno d’un bar americano.
Li avevo visti come al solito in un film, questi ragazzi
americani con le sigarette pendenti dal labbro, il juke-box, le
macchine da corsa o le moto e tante tante ragazze con la mi­
nigonna pronte a distribuire baci come caramelle.
Seduto lì al suo bancone, fra le insegne colorate di quel
mondo sorridente, con il ciuffo imbrillantinato e i capelli ri­
gati dal pettine, estraeva di tasca delle foto di ragazze, le mo­
strava e parlava. Sorseggiando una bibita o un whisky parla­
va delle sue conquiste italiane con un ragazzino moro, che lo
ascoltava a bocca aperta, ammirato, e rideva con lui aggiu­
standosi di continuo gli occhiali da sole sulla testa.
« Questa era una ragazza di Roma. Ti piace? La portavo a
ballare e la seconda sera l’ho baciata in piazza di Spagna, do­
po averla fatta bere un bel po’ ».

223
« Come si chiamava? » chiedeva il ragazzino controllando
con la mano di avere il ciuffo a posto.
« Tiziana. Dovresti vedere come ballava! E come baciava,
poi! »
I due ridevano, sguaiatamente, in una maniera oscena e
volgare, come se si sentissero i padroni del mondo.
« E questa? » domandava il ragazzo indicando una mora.
« Questa... Vediamo se ho appuntato il nome dietro... »
Le passavano in rassegna tutte a una a una, ragazze di tut­
t’Ita­lia, e dove non c’era una foto c’era una storia. Lui com­
mentava a voce alta, e poi al ragazzino veniva in mente una
domanda, la domanda fatidica: « E la più bella, qual era la
più bella di tutte? »
Quando il tipo faceva questa domanda ero contento che
la mamma non avesse avuto una foto da dargli e non aves­
sero fatto in tempo a scattarsene una.
« La più bella si chiamava Mara » diceva illuminandosi
mio padre. E poi con fare complice si avvicinava al­l’orec­chio
del tipo e gli sussurrava divertito: « Pensa che l’ho anche spo­
sata e non fa altro che spedirmi lettere chiedendomi di tor­
nare! »
Ne tirava fuori alcune dalla tasca del giubbotto e gliele
mostrava.
« Ma sono scritte in italiano. Cosa c’è scritto? »
Allora lui lo guardava divertito e rispondeva: « E che ne
so? » poi ne appallottolava una ridendo e la lanciava nella
sputacchiera facendo un canestro perfetto. Sì, non era un ce­
stino dei rifiuti, nei miei pensieri era proprio una sputac­
chiera come quella dei film western.
A questo punto i due ordinavano un’altra birra o che so io
e non la smettevano più di ridere. Allora riprendevo il co­
mando della mia immaginazione e lo giustiziavo. Lo facevo
andare in bagno e dopo che beato si era vuotato la vescica,

224
eccolo che usciva dal bar e saliva sulla sua moto, una moto
bellissima.
Sorridendo spensierato e forse un poco alticcio, bucava
uno stop sulla strada di casa e faceva appena in tempo a vol­
tarsi sentendo il muggito terribile della tromba di un autotre­
no rosso fiammante. Poi, l’impatto, la moto si sfracellava e
lui sbatteva contro il muso prominente del camion e vi ri­
maneva spiaccicato sopra come un gatto. Trecento metri più
avanti il camion si fermava e allora si apriva la portiera e
scendeva l’autista. Non compariva però l’anfibio di un ca­
mionista colossale o lo stivale di un cow-boy, compariva la
mia scarpa e a saltare giù dal camion ero io.

225
XXXII

Non potrò mai dimenticarlo: fu il fresco della notte a sve-


gliarmi. Con la bocca impastata e la testa che mi girava ri-
aprii gli occhi e confesso che mi ci volle un bel po’ a ram-
mentarmi tutta la storia e a capire dov’ero. Non so quanto
tempo ero stato incosciente. Doveva avermi drogato con
un potente sonnifero. Potevano essere passate poche ore
dall’iniezione, ma anche giorni, forse settimane. Non ero
in grado di dirlo. Mi ripresi poco a poco. Sopra di me c’e-
rano la luna e la notte stellata circondate da una cornice di
mura diroccate. Sotto di me, lo percepivo attraverso la sot-
tile vestaglia che avevo indosso, il freddo della pietra. Fi-
nalmente mi riebbi del tutto e capii dove mi trovavo. Non
poteva essere vero, si trattava di un incubo o, più probabil-
mente, ero già morto e quello era l’inferno. Voltai lo sguar-
do attorno e vidi le scritte sulle mura. Mio Dio! Ero disteso
sull’altare della chiesa degli Amaioni! Feci per alzarmi dal­
l’al­ta­re e ancora una volta mi resi conto che non potevo:
mi ci avevano legato.
Però ero vivo. Miracolosamente vivo. La paura e il fred-
do mi restituirono tutta la mia lucidità. Mentre tornavo
definitivamente in me e gli alberi bianchi e le mura d’intor-
no smettevano di girare e ridivenivano nitidi dentro i miei
occhi, incominciai a sentire un lugubre canto che proveni-
va dal nero del bosco e si avvicinava. Raccolsi le forze e
tentai di fare di tutto per liberarmi, ma fu impossibile. In-
fine voltai la testa di lato e li vidi: in fila indiana avanzava-
no verso di me. Demoni o uomini che fossero, indossavano

226
un lungo abito nero e tutti erano incappucciati. Alcuni te-
nevano dei ceri accesi in mano e il canto incomprensibile
si faceva sempre più terribile e vicino. Davvero ero precipi-
tato nel cuore dell’inferno e quelli erano demoni? Trasalii,
mi feci forza e urlai più forte che potei. Allora uno degli in-
cappucciati mi si avvicinò e mi legò di nuovo una pezzuola
attraverso la bocca. Avevo gli occhi sbarrati. Mi avvidi che
alcuni degli incappucciati in processione portavano a
braccia una portantina con sopra una solenne figura di no-
tevoli dimensioni incappucciata a sua volta.
Per un istante pensai che si trattasse del diavolo in per-
sona e che da lì a poco si sarebbe rivelato. Invece quello
che guidava il gruppo, l’unico vestito di rosso, si fece avan-
ti e si portò dietro l’altare e sopra di me che lo guardavo
esterrefatto, sudando come una fontana nonostante il fre-
sco del borro. Vidi che l’uomo aveva fra le mani un libro
antico con degli strani caratteri sulla copertina.
‘Angelino’ pensai.
Pronunciò solennemente un po’ di formule in una lin-
gua simile al latino che usava don Caldine a messa e tutti
si avvicinarono all’altare e mi circondarono.
Poi parlò in italiano e mi resi subito conto che non era
la voce di Angelino, ma di qualcun altro.
« Stasera niente morti, stasera il rito sarà più completo.
Stasera abbiamo un vivo, un ragazzo, un consanguineo.
La sua giovinezza sarà balsamo nell’attimo stesso in cui lo
dedicheremo al maestro per le nostre vite e risorgeremo da
lui! »
Aveva un tono esasperato, da fanatico. Li contai istinti-
vamente: con il personaggio sul baldacchino saranno stati
una decina.
Si volse alla sua destra e invitò al suo fianco un altro in-
cappucciato più basso.
« A te riconquistare la tua giovinezza! » l’esortò, ed estra-

227
endolo dalla manica gli passò un pugnale d’oro dalla fog-
gia antiquata.
Rimasi impietrito. L’incappucciato esitò un istante e
poi lo prese con le mani tremanti. Si portò più vicino all’al-
tare. Esitò, con una mano si sistemò il cappuccio, forse
con l’intento di asciugarsi il sudore della fronte al di sotto
di quello o di vederci meglio.
« Avanti! Non è questo il momento di esitare » lo riprese
l’altro.
Questi respirò e sollevò in aria il pugnale in direzione
del mio cuore. Era davvero molto più basso del­l’al­tro e
sembrava poco convinto.
Allora tutti i presenti, come eccitati da quella visione,
presero a incitarlo. Sembravano impazziti, e lo spronava-
no con un canto cupo sempre più incalzante che somiglia-
va a un suono di tamburi proveniente direttamente dall’ol-
tretomba.
Stavolta era davvero la fine. Tutti erano esaltati dalla
propria follia. L’uomo con il pugnale in aria tremava ma,
per mia fortuna, esitava ancora a sferrare il colpo.
Il capo con il cappuccio e l’abito rosso lo riscosse mala-
mente: « Forza. Riconquista la tua giovinezza e il tuo ono-
re. Uccidi questo bastardo ».
L’uomo non reagì subito. Riabbassò il pugnale, prese
fiato, poi lo risollevò in aria sopra di me che lo guardavo
con occhi supplicanti ed empi di terrore. Cercai di ritirar-
mi dentro me stesso, sentivo i glutei strizzarsi in attesa del
colpo comprendendo che sarebbe giunto da lì a poco, che
stavolta il tipo mi avrebbe colpito a morte con il pugnale
senza più esitazioni. Il coltello era giunto alla sommità del
triangolo delle braccia sopra la sua testa che dalla mia vi-
suale racchiudeva il triangolo del cappuccio. Non tremava
più. Fu chiaro che stava per sferrare il colpo, e in quel­
l’istan­te ebbi come un’illuminazione: riconobbi i suoi oc-

228
chi e urlai nella mente. Lui abbassò di colpo il coltello sul
mio cuore e io serrai i miei occhi in attesa della fitta sul co-
stato.
La fitta ci fu, ma il coltello, come picchiando contro uno
scudo invisibile, sgusciò di lato e l’uomo mi cadde quasi
addosso, rialzandosi terrorizzato da quel prodigio. Guardò
l’altro, spaventato, come se non credesse a quanto era ap-
pena successo.
« Colpisci! Colpisci! » lo incitò ancora l’altro, implaca-
bile.
L’incappucciato traballò, la folla rumoreggiò disorien-
tata da quanto aveva appena visto succedere e tacque. Spe-
rai che l’uomo morisse per l’improvviso sopraggiungere
d’un infarto, invece si chinò, s’appoggiò all’altare, respirò
una boccata d’aria e dopo una manciata di secondi lenti
come carri funebri alzò nuovamente il coltello per aria. Il
canto riprese monotono, chiusi gli occhi ancora e pregai
attendendo il secondo colpo. Prima che potesse calarlo an-
cora su di me un sibilo attraversò l’aria, sentii il tonfo di
un corpo che cadeva e riaprii gli occhi. L’incappucciato
rosso aveva raccolto l’arma lasciata cadere dal­l’al­tro e si
stava gettando su di me. Non abbastanza in fretta però,
perché dal­l’al­to un gigante gli si era gettato addosso e gli
aveva afferrato il polso, serrandogli da dietro il collo con il
braccio possente. Vidi la loro lotta, ma subito il mio pro-
tettore ebbe la meglio, e lo mise a terra con un pugno sulla
testa. Con lo stesso coltello che avrebbe dovuto uccidermi
mi liberò e mi sollevai a sedere sull’altare. Istintivamente
mi portai la mano al cuore, e sotto la tunica che mi aveva-
no infilato sentii con le mani la medaglietta della Madonna
che Nandina mi aveva appuntato sulla canottiera. La pal-
pai con le dita: quella placchetta di metallo larga poco più
di un centimetro mi aveva davvero salvato la vita e ora era
ammaccata, quasi piegata in due. Sarebbe bastato che il

229
colpo fosse giunto pochi millimetri più a destra o a sinistra
e sarei morto stecchito. Mi feci il segno della croce ringra-
ziando Dio per quel miracolo e mi guardai intorno. Ovun-
que mi sembrò che ci fossero zingari che avanzavano e si
gettavano sugli incappucciati mettendo fine alla loro fuga.
Ai piedi dell’altare vidi il mio carnefice con un coltello a
serramanico piantato in pieno petto. Riconobbi il coltello
di Salem. Mi chinai su di lui e gli tolsi il cappuccio, anche
se ero oramai certo di chi fosse: mio nonno.
Un incappucciato mi si fece incontro. Feci per scappa-
re, ma lui si tolse il cappuccio e vidi che era Salem. Mi sa-
lutò appena, sembrava ammattito. Si gettava sugli altri in-
cappucciati catturati dagli zingari e li smascherava, pieno
di disappunto. Si era sostituito a uno di loro che aveva
stordito in prossimità della strada sorprendendolo a par-
cheggiare l’auto in un viottolo per recarsi al raduno, e per
mia fortuna era giunto appena in tempo, prima che mio
nonno sferrasse la seconda coltellata. Da lì a poco erano
corsi fuori dai loro nascondigli anche gli altri zingari per
catturare gli incappucciati.
Salem si portò verso il capo vestito di rosso che aveva
lasciato per ultimo, due zingari lo sollevarono da terra e
lui gli strappò malamente il cappuccio. Ne venne fuori un
tizio pelato dagli occhi cattivi, con due baffetti alla D’An-
nunzio. Vidi la sua faccia offuscarsi per la delusione men-
tre gettava via il cappuccio scarlatto imprecando di rabbia.
Esausto camminai fuori dalla chiesa, vidi la grossa figura
della portantina che era stata fermata dagli zingari, men-
tre arrancando si trascinava per terra e un’altra cercava di
sostenerla. Rolandos le aveva tolto il cappuccio e la rico-
nobbi. Era la Signora, che piangeva e si lamentava melo-
drammatica, mentre vicino a lei c’era la figlia che la conso-
lava.
Mi allontanai ancora. Avevo freddo, schifo di tutto e del

230
mondo. Stremato mi appoggiai a un albero e vomitai un
denso muco, perché non c’era nulla nel mio stomaco da vo-
mitare. Mentre ero lì, con lo stomaco che mi si spezzava per
i conati, mi sentii puntare qualcosa di freddo sulla schiena.
Mi voltai dopo un ultimo singulto, ripulendomi la bocca
con il dorso della mano, la gola che mi bruciava, la bocca in
fiamme.
Sobbalzai. Giuffrida era in piedi di fronte a me. Indos-
sava la tunica nera, ma si era liberato del cappuccio e mi
minacciava con una rivoltella.
« Tu vieni con me! » mi intimò, gli occhi bianchi sbar-
rati balenavano nel buio. « E se qualcuno tenta di fermar-
mi ti faccio fare una brutta fine! »
Che potevo fare: nessuno si accorse di noi. Mi spinse giù
per il viottolo fino al ponte e m’intimò di attraversarlo.
La luna si era coperta e i rami erano ossute mani nere
che graffiavano le nubi. Santo cielo! Quella maledetta not-
te non accennava a finire! Tutto il male del mondo si river-
sava su di me deciso ad annientarmi in un modo o nel­l’al­
tro.
« No! » dissi. « Sul ponte no! Sparami se vuoi, ma non lo
passo il ponte! »
Mi spinse avanti facendomi cadere sulle assi. Ero scal-
zo, quasi nudo: sotto la tunica corta e leggera avevo solo la
canottiera che mi aveva salvato. Il ponte ondeggiò sotto i
miei piedi e vidi dalle fessure l’orrido nero nel quale di cer-
to sarei caduto da lì a poco.
Non lo sapevo ancora ma quel giorno compivo quattor-
dici anni. Quella era la mia lugubre festa di compleanno.
L’uomo mi fu addosso. « Alzati! » mi disse, e fece per tirar-
mi su per un braccio.
Raccolsi tutte le forze e gli lasciai andare un pugno in
faccia e dei calci nelle gambe con i piedi nudi. La pistola
gli sfuggì di mano e cadde nel precipizio. Allora mi afferrò

231
per il collo con le sue mani da morto e mi tirò su. Sentii le
unghie graffiarmi la pelle e le mani stringere senza pietà.
Presto mi mancò l’aria. Disperatamente mi attaccai con
una mano alla corda del ponte e con l’altra alla sua tunica.
Mollò la presa e respirai, mi teneva per la nuca e mi spin-
geva perché io mi rifiutavo d’avanzare. Oramai eravamo al
centro del ponte che ondeggiava come un grande serpente
in fuga. Mi voltai al­l’im­prov­vi­so e mi fiondai su di lui col-
pendolo con una testata in pieno petto. Incurante del dolo-
re, mi afferrò per le braccia e prendemmo a lottare. Mi
battevo tenendomi stretto alle corde, opponevo resistenza
e intanto urlavo aiuto con tutto il fiato che avevo in corpo.
« Zitto, maledetto! O ti butto di sotto! »
Salem nel frattempo si era accorto della mia assenza,
sentì le urla e con altri corse verso il ponte. Quando ci
scorsero da lontano giurarono che quella notte, vedendo-
mi con la mia veste bianca, la pelle candida e i capelli bion-
di, mentre lottavo disperatamente con l’uomo vestito di
nero, pallido e lugubre, avevano visto l’angelo di Dio lotta-
re contro le tenebre! L’eterna lotta fra il bene e il male si
era reificata sotto i loro occhi.
Mi divincolai, lui ora mi voleva solo superare, fuggire, e
io senza volere gli impedivo la strada aggrappandomi tena-
cemente alle corde in preda al panico. Fui colpito da un
pugno ossuto in piena faccia che mi intorpidì il labbro su-
periore, sentii un sapore dolciastro sui denti, ma non mol-
lai. Feci un’altra cosa: non so come, mi afferrai con le mani
a entrambe le corde, sollevai le mie gambette bianche e
colpii l’uomo in pieno petto. Fece un passo al­l’in­die­tro, pe-
stò la sua veste, sbilanciandosi, e sentii un crack assurdo
sotto di noi. Una gamba gli era sprofondata nelle assi mar-
ce e nel tentativo di aggrapparsi alla corda che funzionava
da spalliera e di tirarsi su aveva inclinato il ponte che si era
avvolto su se stesso come un elastico. Questione di un

232
istante, e la terra ci era mancata sotto i piedi. Urlai e non
seppi fare di meglio che reggermi alle corde ancora più for-
te. Adesso ciondolavamo nel vuoto come due salami. Guar-
dai giù. Lui era appeso solo per una mano. Mi guardò sup-
plichevole: non avrebbe resistito a lungo. Con uno sforzo
inumano, digiuno com’ero, tirai su le gambe come un gin-
nasta e mi afferrai a un intrico di assi incrociandocele co-
me avrebbe fatto un acrobata stretto al trampolino. Ne eb-
bi pietà, vidi la paura dentro i suoi occhi e allora tesi la ma-
no per soccorrerlo. L’uomo, oramai stremato, tirò su la
mano libera facendo forza su quella con l’appiglio e fece
ondeggiare il ponte.
Salem, che guardava la scena con Rolandos, Paco e gli
altri, mi urlò: « No! Non farlo! »
Ma non potevo non farlo: la sua mano volò e si aggrap-
pò alla mia graffiandola a sangue con l’unghia schifosa che
si spezzò nello scontro.
Poi prese a tirarsi su, incurante del fatto che mi stava
strappando il braccio, e anche delle mie urla di dolore.
« Così fai cadere anche me! » gli urlai imprecando. Ma la
paura si era impossessata di lui, sgambettava, e alla fine
riuscì ad aggrapparsi con le gambe al grumo di assi avvol-
te e marce. Quando fu di nuovo ben serrato alle funi guar-
dò gli zingari sul­l’al­tro lato e tentò di passare l’orrido te-
nendosi alle assi e al sartiame meglio che poteva e lascian-
domi al mio destino. Io ero immobile, paralizzato, dolo-
rante ed esausto. La sua fuga faceva ondeggiare ancor più
il ponte, mi sentivo una farfalla avvolta a bozzolo nella tela
del ragno. Il pensiero dello strapiombo sotto di me mi ter-
rorizzava, e non riuscivo a staccare gli occhi dal Giuffrida
e dal suo tentativo di fuga. A un certo punto si fermò: le
braccia dovevano fargli male, allo stremo delle forze non
riusciva a continuare oltre. Fece un ultimo sforzo. Era
quasi giunto al termine del ponte, grondava di sudore, si

233
fermò a guardarmi, dette un’occhiata agli zingari sul­l’al­tro
lato e riprese la sua arrampicata. Era quasi in salvo quan-
do le funi cedettero alle sue sollecitazioni e il ponte si stac-
cò. Precipitò nel vuoto con un urlo terribile sotto i miei oc-
chi, e io con lui mi ritrovai a volare nel vuoto appeso al
groviglio del ponte. Se avesse ceduto anche l’altra estremi-
tà sarei stato perso. Invece sbattei violentemente contro la
parete del crepaccio e cercai di farmi scudo con le gambe
meglio che potevo. Fortunatamente la chioma di un arbu-
sto attutì il colpo lasciandomi una bella dose di graffi. Non
ce la facevo più, non avevo più forza nelle braccia, nelle
mani. Era davvero la fine. Dopo tutto quello che avevo pas-
sato, era destino che morissi nel peggiore dei modi, preci-
pitando nell’orrido, schiantandomi sulle pietre del torren-
te insieme a quel beccamorto del Giuffrida.
« Resisti! » mi gridò Salem da sopra. « Non mollare, ti
tiriamo su! »
Tentarono di tirarmi su, ma le corde e le assi si impi-
gliavano negli arbusti. Allora, mentre alcuni reggevano le
cime per assicurarsi che tenessero, il mio gigante si calò
giù, arrivò alla mia altezza, mi sorrise e mi disse di affer-
rarmi stretto alla corda che si era legato a croce intorno al
petto. L’abbracciai da dietro, e risalimmo, o meglio fu lui a
risalire, a forza di braccia e di gambe come se stesse facen-
do una passeggiata in montagna. Ero ammirato dal suo
coraggio. Fummo tirati su dal ciglio, e lui cadde a terra a
riprendere fiato, esausto ma contento e sorridente per aver
portato a termine la sua missione.
Mi aveva salvato un’altra volta. Come seppi in seguito
era stato il mio custode, mi aveva seguito giorno e notte
senza mai perdermi di vista. In seguito avrei riso capendo
che la sensazione d’essere seguito era reale. Salem me l’a-
veva messo alle calcagna dalla prima sera e anche il Giam-

234
ba non era altro che lui che mi scortava fino a casa ri-
schiando di farmi morire di paura.
Dopo il mio tentato furto si era dovuto nascondere e a
malincuore mi aveva affidato a un altro ‘custode’. Questi
non mi aveva più visto uscire dal becchino, il carro fune-
bre lo aveva facilmente seminato e allora era andato a
chiamare rinforzi. Fortunatamente la villa era sorvegliata
da Paco, e quando avevano unito le informazioni avevano
anche temuto che fosse troppo tardi. Stavano per far irru-
zione quando delle persone erano giunte in macchina dal
professore e le avevano viste caricare il mio corpo nel ba-
gagliaio. Non gli restava altro che sperare che fosse il cor-
po di un vivo, prendere la targa dell’auto, rintracciarla e
seguire ogni loro mossa per ritrovarmi. Non se n’erano
mai andati tutti, non ero stato abbandonato... come aveva
ordinato il vecchio la prima sera, avevano fatto il loro do-
vere per proteggermi dalla Bestia. Se però l’iniezione fosse
stata letale neanche loro avrebbero potuto proteggermi, e
questo solo per colpa mia. Se non avessi costretto Ruk, co-
sì si chiamava il mio salvatore, a nascondersi con il mio
tentato furto, di certo sentendomi urlare lui sarebbe pene-
trato di forza nel fondo delle pompe funebri e mi avrebbe
portato via con sé stendendo con tre schiaffi entrambi i
miei aggressori.
Ma la questione importante adesso era un’altra. Già. Me
l’ero quasi dimenticato. Tremando come una foglia, vera-
mente sfinito dagli avvenimenti della serata, ripresi fiato:
« L’hai preso? » domandai a Salem.
« No! » disse, non c’era. « È furbo quel maledetto! È sali-
to sull’auto con gli altri, ma si è dileguato prima della loro
schifosa cerimonia e non sappiamo quando e come. Io ho
steso uno dei membri della setta al margine del bosco e
dopo essermi incappucciato sono corso a confondermi fra
gli altri appena in tempo per salvarti la buccia. Quel ba-

235
stardo deve aver capito tutto per tempo e tagliato la corda.
Oppure non è neanche salito in auto. Forse era un’altra
persona fin dal primo momento ed è rimasto alla villa
scappando con comodo ».
« Grazie per la buccia » dissi. E poi agitandomi in preda
a una sorta di delirio: « Ma, allora bisogna correre alla vil-
la! Fermarlo ».
« Ci avevo pensato, avevo lasciato qualcuno di guardia
anche lì. Ma lui doveva già aver subodorato qualcosa e se
l’è filata con l’auto prima che i nostri arrivassero. Sarà già
su una nave per il Sud America. E loro sono ancora là a fa-
re la guardia a una villa vuota... »
« Non è facile mettere il sale sulla coda al diavolo, male-
detto! » disse Rolandos.
« No » lo riprese Salem amaramente. « Il diavolo non
c’entra, quello è un uomo, magari malvagio come il demo-
nio, ma un uomo come me e come voi, e non avrò pace fi-
no a che non avrà pagato per i suoi delitti ».

Oramai troppo stanco anche per muovere pochi passi,


chiesi a Rolandos di tornare sul luogo del sacrificio e cer-
care per me il libro dell’incappucciato. Mi guardò sbigotti-
to. « Mi serve » gli spiegai, e lui mi accontentò scuotendo la
testa e ritornò con il libro da lì a poco.

Gli incappucciati si rivelarono persone della zona e delle


città vicine. Fanatici, appassionati d’esoterismo, di messe
nere e di sedute spiritiche e disgraziati disposti a fare qual-
siasi cosa per tre soldi. Gli uni e gli altri raggruppati pa-
zientemente insieme da una mente geniale e ossessiva co-
me quella dell’avvocato Costantini noto per essere anche
un grande appassionato di cultura egizia, piramidi e cata-
combe. Nessun problema per un personaggio importante e
potente come lui, presidente del Consiglio provinciale, as-

236
setato di potere e padrone praticamente del piano regola-
tore della sua città e del tribunale, ad assoldare clienti di
dubbia reputazione e debitori dal momento che il mondo
è sempre pieno di disgraziati e di manodopera a buon mer-
cato. C’era voluta molta più astuzia e pazienza per convin-
cere la Signora, mio nonno Sigaro, alcuni notabili e perso-
naggi della zona. Ma il magro e ossuto avvocato con il suo
monocolo d’altri tempi e il lungo bocchino d’avorio era do-
tato di un carisma formidabile, era insomma un vero lea-
der. A uno a uno li aveva individuati, circuiti e lusingati
carpendone le debolezze, solleticando i loro desideri e le
loro vanità più inconfessabili. La Signora l’aveva incontra-
ta in studio per una pratica di terreni e subito aveva scorto
nei suoi occhi la paura di morire che si trasformava in vo-
race brama d’avere sempre di più. Più o meno allo stessa
maniera era andata con mio nonno Sigaro, accecato co­
m’era dalla sua vanità e afflitto dai primi dolori della vec-
chiaia che gli si presentavano ingiustamente proprio ades-
so che aveva ottenuto ciò per cui aveva sempre lottato ed
era uno degli uomini più ricchi del paese. Iniziò da prima
invitandoli a questo o quel ricevimento, poi prese a presta-
re loro dei libri e a riunirli presso la sua villa per raccontar
loro strane storie di resurrezione e di eterna giovinezza, di
faraoni egiziani vissuti centinaia di anni. Le scenografiche
sedute spiritiche erano state in grado di evocare di fronte
ai loro occhi gli spiriti dei grandi uomini del passato, tutti
a sentir loro, da Giulio Cesare a Napoleone, avevano otte-
nuto ciò che volevano dal Supremo maestro in persona,
dalla magia nera ed erano caduti in disgrazia dimentican-
dosi di venerarlo. Con mille astuzie e stratagemmi li aveva
infine convinti che tutto sarebbe stato possibile se solo l’a-
vessero chiesto nel modo giusto all’entità giusta. Le messe
nere presso la chiesa degli Amaioni erano state la logica
conseguenza e si erano rivelate inizialmente poco più di

237
un macabro gioco. A ogni luna piena vi si recavano e a far-
ne le spese erano dei poveri galletti neri, o qualche gatto
del medesimo colore, infilzato e sgozzato senza pietà dal­
l’av­vo­ca­to che vestito di porpora rossa guidava la cerimo-
nia brandendo un coltello egizio e invocando Osiride e il
diavolo. Organizzava prove presso la sua villa, comperava
libri antichi e s’informava su ogni novità. L’incontro ca-
suale con il professore appena arrivato in paese li aveva
presto portati a una scoperta: condividevano la medesima
passione per l’occulto. Ma quel­l’uo­mo dall’accento stranie-
ro, dallo sguardo glaciale e lontano, sembrava saperne mil-
le volte di più dell’avvocato dimostrando di essere un mae-
stro senza scrupoli in possesso di segreti inarrivabili. Di
certo a volte guardandolo lo stesso avvocato veniva preso
dai brividi come se di fronte a lui non ci fosse un uomo,
ma il diavolo in persona. Con l’arrivo del professore e il
coinvolgimento del Giuffrida, che come sapemmo in se-
guito da alcune carte trovate alla villa a mio nonno e alla
Signora doveva i soldi presi in prestito per iniziare l’attivi-
tà, il gioco aveva avuto un’escalation: dai polli e i gatti si
era passati a sacrificare i morti e farli a pezzetti. A tutti lo-
ro era parso di trarne giovamento in salute e in potenza,
ma per fare le cose come si deve, il professore era stato
chiaro, occorreva sacrificare i vivi e tanto meglio se fossero
stati gemelli. Io costituivo in qualche modo la loro prova
generale. La sera della loro cattura Salem aveva preso su i
loro indirizzi dai documenti, e fatto loro firmare una con-
fessione nella quale raccontavano come avevano ucciso Si-
garo durante una messa nera e gettato il povero Giuffrida
nell’orrido. Doveva ringraziare suo padre, che a differenza
degli altri zingari, aveva sempre fatto in modo che lui im-
parasse a leggere e scrivere, mandandolo a scuola dovun-
que ci fosse qualcuno disposto a insegnargli. Adesso Salem
sperava che lo spettro di quella confessione, insieme alla

238
paura e alle botte che avevano preso dagli zingari quella
sera, fossero sufficienti a far loro passare qualsiasi voglia
d’occulto.
Quella stessa sera mio nonno fu sistemato nella villa del
professore come se fosse stato lui a pugnalarlo durante
una lite. Salem si preoccupò di gettare all’aria tavoli e se-
die imitando l’azione con Rolandos. Inutile dire che dei
soldi e dei documenti non v’era più traccia. I cani erano
morti per mano del suo padrone che nella fuga precipitosa
non poteva certo portarseli con sé. Dovevano essere gemel-
li, pensai cupamente.
Anche la Signora con la figlia al seguito era giunta a ca-
sa di mattina presto dopo che i suoi complici malconci l’a-
vevano riportata fino alle auto lasciate nascoste nel bosco
lungo la provinciale.
Non era cosa da zingari chiamare i carabinieri come
avremmo fatto noi.
Il giorno dopo ero ancora debole e rimasi a letto. Nandi-
na mi aveva fatto una tazza di brodo caldo e le poche volte
che mi ero assopito avevo finito con l’urlare nel sonno e
agitarmi, per ritrovarmi di nuovo sveglio.
« Nel pomeriggio verrà il dottore » mi disse mamma.
« Magari ti darà un calmante... ti farà un’iniezione per farti
dormire ».
Non poteva immaginare quanto fossero poco opportu-
ne quelle parole, nessun dottore mi si sarebbe più avvici-
nato con una siringa per un bel pezzo.
Raccontai a mamma quanto potetti e nel pomeriggio
Salem venne a trovarmi con Rolandos, Ruk, Paco e... c’era
anche Mercedes.
Era ancora più bella. Mamma e Nandina non sapevano
come comportarsi, specialmente Nandina che si trovava la
casa piena di zingari. Entrambe un po’ diffidenti offrirono
loro da bere: gli avevo raccontato che erano stati gli zinga-

239
ri a salvarmi e anche Nandina tutto sommato li accolse
con piacere.
« Meglio gli zingari che le banche! » disse. « Tanto non
c’è più nulla da rubare! »
Avevamo riso di gusto, anche se non c’era molto da ride-
re. Mi rammentai che presto avremmo dovuto andarcene e
dopo quello che avevo passato mi ripromettevo, appena in
forze, di affrontare anche lo strego. L’avrei affrontato per
farmi rendere i soldi di Nandina e riscattare l’ipoteca. Era-
no rimaste poche le cose che potevano farmi paura, ora-
mai avevo quattordici anni.
La mamma e Nandina uscirono per lasciarci parlare
tranquillamente.
Sentendomi uno stupido, con rammarico dissi a Salem:
« Niente tesoro, dunque. Non hai mai voluto rubare... mi
hai solo preso in giro, ti interessava solo catturare il pro-
fessore. Certo che mi c’è voluto un bel po’ a capirlo ».
Poi gli raccontai dei nostri guai con la banca e con l’ipo-
teca e conclusi dicendo: « Peccato: un tesoro mi avrebbe
fatto comodo ».
Ridemmo, della mia battuta. Salem mi aveva ascoltato
attentamente, come al solito, e mi disse che dovevo avere
fiducia, che tutto prima o poi si sarebbe aggiustato.
Gli chiesi quando sarebbero partiti guardando negli oc-
chi Mercedes.
« Oggi stesso, caro amico! » mi disse Salem. « Devo con-
tinuare la caccia. Purtroppo abbiamo perso una grande
occasione. Ma se penso a cosa avrebbe potuto farti, ringra-
zio il cielo che ti abbia solo ceduto alla banda di fanatici
che capeggiava ».
Mi raccontò come si erano messi sulle sue tracce quasi
un anno prima: il professore era tornato dal Sud America
con un nome falso, come dimostravano le lettere che aveva
trovato nella villa, ed era stato visto e riconosciuto da uno

240
zingaro sopravvissuto alla stazione di Genova. Avuta la no-
tizia, Salem si era messo, insieme alla sua compagnia, sul-
le sue tracce. Adesso che gli era sfuggito avrebbe tenuto gli
occhi aperti, letto i giornali, ascoltato ogni notizia da radio
scarpa, come chiamava lui il passaparola della strada, e
prima o poi si sarebbero incontrati ancora. Sarebbe anda-
to anche in Sud America se necessario, a cercarlo nella lo-
calità dalla quale erano state spedite le lettere che aveva-
mo visto insieme la sera del sopralluogo. Era contento che
sul misterioso personaggio pendesse anche un mandato di
cattura per l’uccisione di mio nonno. Lo guardai, vidi la
malinconia sul fondo dei suoi occhi e fui certo che avrebbe
trascorso la sua vita a caccia di quell’incubo, e che non
avrebbe avuto pace fino a che non gli avesse presentato il
conto. Di più, sentii che neanche dopo l’avrebbe avuta, che
quella possibilità gli era stata strappata per sempre. Pro-
babilmente avrebbe continuato a cercare altri dottor Möl-
ler nella speranza di sentirsi un po’ meglio.
Infine, quel­l’uo­mo che, come ho detto, era la cosa più
vicina a un padre che avessi mai avuto, mi abbracciò e af-
fondando nella sua spalla mi sciolsi in lacrime risentendo
l’odore di cuoio e di tabacco della sua pelle.
Anche Rolandos e Paco mi strinsero la mano e mi ab-
bracciarono.
« Ti ricorderemo sempre come uno di noi » disse Rolan-
dos imbarazzato. « Per noi non sei più un semplice gagiò,
sarai sempre nei nostri pensieri come Ciro... Ciro del po-
polo degli uomini ».
« Degli zingari » lo corressi, sapendo che avrebbe capito.
Ci abbracciammo forte e ci baciammo, poi uscirono
tutti, solo Mercedes rimase indietro... si avvicinò al mio
letto, mi carezzò la fronte senza dire niente e si chinò su di
me come quel primo giorno baciandomi sulla fronte.
« Addio! » mi disse. « Addio Ciro degli zingari! Sei stato

241
coraggioso e sei stato il mio primo bacio, non ti dimenti-
cherò ».
Il suo profumo mi commuoveva, mi sforzai di non pian-
gere, di essere un uomo e dissi: « Addio, an­ch’io non ti di-
menticherò. Anche tu sei stata il mio primo bacio. Forse
un giorno... »
Mi chiuse le labbra con l’indice e mi fece cenno con gli
occhi di non dire nulla.
Uscì come una visione. Li sentii dalla mia stanza che sa-
lutavano mia madre e Nandina, ascoltai le loro voci con le
lacrime che mi rigavano il volto, e ancora non sapevo che
non li avrei mai più rivisti.
Allora mi parve di vedere Dario uscire dietro di loro.
Lo chiamai.
Si voltò dalla soglia e mi parlò. Aveva il volto grigio, ras-
segnato, tanto diverso dal mio. Mi disse solo: « È finita, da
giorni non pensi più a me, c’è una tomba che mi aspetta,
devo andare ».
« Ciao » gli dissi, come inebetito. Avrei voluto supplicar-
lo di restare, ma era inutile, era troppo tardi e lo sapevo.
Uscì.
Nemmeno lui avrei più rivisto.

242
XXXIII

La mattina dopo mi alzai, stavo un po’ meglio e a tratti ero


riuscito a dormire senza che gli incubi mi destassero.
Seppi dalla mamma che era arrivata una lettera di ulti-
matum per Nandina e che da lì a pochi giorni la banca si
sarebbe presa la casa e il podere. Allora non ci vidi più:
questa ulteriore novità, che pure m’attendevo, mi fece
uscire letteralmente di testa. Possibile che non avessi mai
pace? Mi vestii e senza dire nulla camminai fino da don
Caldine, gli chiesi in prestito la bicicletta e feci tutto il giro
dei campi per finire dalla parte opposta dell’orrido, dal
momento che il ponte non c’era più e chissà quando e se lo
avrebbero ricostruito.
Adesso basta: dovevo sapere. La notte prima mi ero im-
possessato del libro dell’incappucciato, certo che fosse uno
di quelli di Angelino e che anche lui entrasse in tutta la sto-
ria, adesso a ogni pedalata lo sentivo sfregarmi sul costato,
al di sotto della maglia. Di certo quel demonio era riuscito
a sfuggire agli zingari, dal momento che non l’avevano cat-
turato. Ora però mi recavo risoluto ad affrontarlo. Ram-
mentavo quello che aveva detto a Nandina il giorno che li
avevo spiati mentre parlavano in cucina: « Tanti soldi per
te sono nulla per loro! » e immaginavo che quei ‘loro’ fosse-
ro gli incappucciati della setta e lei pagasse costretta da
chi sa quale ricatto, forse per difendere la mia stessa vita.
Mentre pedalavo sulla stessa bici su cui ancora piccolo
avevo imparato insieme a don Caldine, pensavo a tutti i
modi che conoscevo per riconoscere uno strego o una stre-

243
ga senza alcun dubbio. Nandina me li aveva spiegati una
volta ed erano più d’uno. I ragazzi si divertivano a contare i
passi alle donne, perché se una si girava prima del tredice-
simo e inveiva contro di loro, certo era una strega. Oppure
avrei potuto incrociare due spille da balia e metterle nel­
l’ac­quasantiera della chiesa. In quel modo Angelino non sa-
rebbe riuscito a uscire dalla chiesa dopo la messa, non
avrebbe potuto oltrepassare la porta e l’avrei scoperto.
Se non avessi temuto la sua furia l’avrei chiesto diretta-
mente a don Caldine perché si diceva che durante la messa
il prete, al momento di pronunciare le parole ‘Orate Fra­
tres’, vedesse alzarsi di statura le streghe, o comunque tra-
sformarsi in qualche modo e che per questo pronunciasse
le parole a occhi chiusi o bassi per evitare la spiacevole vi-
sione. Ma no! Poche storie: la cosa migliore era affrontarlo
e farsi rendere il maltolto con le buone o con le cattive.
Dopo più di un’ora arrivai da Angelino e calai fino alla
casa. Avevo affrontato Georg Möller e visto in faccia la
morte più volte: avevo visto il coperchio di una bara chiu-
dersi sulla mia testa, ero stato ucciso con un’iniezione che
avevo creduto mortale, ero stato pugnalato al cuore e sal-
vato miracolosamente dalla Santa Vergine. Avevo lottato
sul ponte ed ero quasi caduto nell’orrido, e adesso avrei af-
frontato anche quell’essere viscido e insulso, diavolo o
strego che fosse, e gli avrei dato tanti di quei pugni da con-
vincerlo a lasciare andare Nandina e a restituirle tutti i
suoi denari. Non ero più un bambino, adesso mi sentivo
un uomo.
Per strada avevo raccolto un bastone di castagno spesso
e nodoso. Camminando presi a cantare per farmi coraggio
le poche strofe che ricordavo della canzone anarchica udi-
ta da Salem:
« Banditi senza tregua / andrem di terra in terra / a predi­

244
car la pace / e a bandir la guerra! / La pace per gli oppressi /
la guerra agli oppressor! »
Quando fui sull’aia urlai: « Angelino! Angelino! » con
tutta la rabbia che avevo in corpo. Il cane alla catena ab-
baiò furiosamente e le capre presero a belare impaurite.
Le immaginai trasformarsi in un’orda di demoni per ag-
gredirmi, ma non avevo paura. Mi sentivo un leone, un
eroe.
Mi avvicinai alla porta e ci bussai sopra con la mazza
senza tanti complimenti.
Angelino venne ad aprirmi subito, allarmato, con il cap-
pello da signore e la camicia bianca arrotolata sulle brac-
cia pallide. Mi guardò e fece un timido sorriso ipocrita in-
vitandomi a entrare.
« Sì? » mi domandò.
Tolsi il libro con gli strani caratteri da sotto la maglia e
lo gettai malamente sul tavolo. Poi gli dissi con la voce
più dura che trovai in me:« T’ho riportato il libro! »
Lui mi guardò il bastone come se non l’avesse visto pri-
ma e si rese conto della mia alterazione. Si avvicinò al li-
bro meravigliato e lo sfogliò con la punta delle dita bian-
che: « Non è uno dei miei » mi disse facendo una faccia
sorpresa da santerellino.
Pensava di fregarmi con quattro moine?
« E adesso veniamo a Nandina! » dissi a voce alta bran-
dendo il bastone. « Lo sai che per colpa tua le prenderanno
la casa? »
Aveva la testa china, come sempre, la sollevò sgranando
gli occhi topeschi. « La casa? Per colpa mia? »
Davvero sembrava non capire.
« Sì! » gli spiegai ignorando la sua commedia. « E io so-
no venuto a riprendere tutti i soldi che ti ha dato. Ridam-
meli, strego, o te la vedrai con me! »
Attesi un attimo che si rivelasse. Mi aspettavo di vederlo

245
levitare, farsi enorme e rosso ed esplodere in una risata
beffarda da diavolo. Invece sgranò gli occhi impaurito.
« Non ce li ho più » mi disse. « Io e Nandina li abbiamo
spesi! »
« Poche storie! Chi credi di prendere in giro! Devi ridar-
meli! » e così dicendo picchiai minaccioso il bastone sul ta-
volo.
« Non ce li ho più » insistette. « Nandina me li ha dati
per spenderli e io li ho spesi, spediti! »
« Spediti a chi? Dove? » chiesi curioso di sapere che cosa
si sarebbe inventato ancora. E, avvicinandomi, l’afferrai
per la camicia. Ero alto come lui, lo strattonai malamente.
Barcollò e si appoggiò al muro riparandosi il volto con le
mani pallide. Sembrava fatto di ricotta. Non accennò nes-
suna reazione, si coprì il volto e la testa tenendosi il cap-
pello e scivolò lungo il muro sedendosi ai miei piedi. Solle-
vai il bastone pronto a colpire. Invece fu lui a colpirmi.
Davvero quello che disse non poteva farlo di più: « In Ame-
rica » sussurrò.
« In America? » ripetei come un ebete, e il bastone mi
cadde di mano.
« Per quale motivo hai mandato tutti i suoi soldi in Ame-
rica? »
Allora si alzò e andò fino alla scrivania. Tremante mi
guardava con gli occhi colmi di paura.
« Non volevamo dirtelo. Perché tu non ti facessi illusio-
ni, per non deluderti... » balbettò, e aprì il cassetto.
Tirò fuori un pacco di lettere e di ricevute e lo poggiò
sul tavolo di fronte a me.
« Nandina non sarà contenta » aggiunse rammaricato.
« Ma visto che non mi credi... »
Le raccolsi e le guardai. Erano scritte in inglese. Lessi
l’intestazione: Smith Brothers Investigative Services Agency
New York. Tentai anche di leggere il contenuto, ma non ci

246
capivo nulla. Decifravo solo il nome di mia madre e di mio
padre. Lei compariva in alcune lettere come Miss Baker, il
suo cognome da sposata e il mio.
« Che significa? Che c’è scritto? »
Come al solito, si guardò le punte delle dita.
« Ricordi quando venisti da me a chiedermi se leggevo il
futuro con Bigio? »
Annuii.
« Quel giorno capii che volevi sapere di tuo padre e ne
parlai con Nandina. Le dissi che forse c’era un modo ma
sarebbero occorsi tanti soldi. Allora abbiamo assunto per
corrispondenza un investigatore privato di New York, una
delle migliori agenzie, con l’unico difetto di costare ogni
giorno tanti soldi... dollari. E poi le spese per i viaggi, gli
spostamenti ».
« Ma... » non sapevo che dire, ero senza parole. Sentii la
forza scivolare via da me e la rabbia fluire via con lei.
« Per trovare tuo padre » aggiunse.
« Ma allora il cappello? Le stregonerie? Dostoevskij? »
mormorai mortificato.
« Come il cappello? » mi domandò, dimostrando di non
capire.
« Perché porti sempre il cappello? »
Angelino abbassò gli occhi e diventò rosso dalla vergo-
gna. Poi, lentamente si portò la mano alla tesa e si tolse la
bombetta.
« Vedi, non ho i capelli: mi vergogno » disse candida-
mente con tono di scusa. E dopo aver passato la mano sul-
la testa completamente calva e bianca, si rimise il cappello.
Nessuno in tutta la storia del mondo poté o potrà mai
sentirsi più stupido di come mi sentii io quel giorno. Imba-
razzato oltre ogni dire mi guardai attorno smarrito e solo
allora mi resi conto che sugli scaffali non c’erano più i li-
bri. O meglio, ce n’erano rimasti solo poche decine.

247
« I libri? » mormorai atterrito, in preda a un subitaneo
presentimento.
« Li ho venduti » bisbigliò rammaricato Angelino guar-
dandosi le scarpe.
« Arrivavano i conti dall’America e Nandina non aveva
abbastanza soldi... » spiegò. « Erano libri d’un certo valore
e allora... »
« Ma sono la cosa più importante che avevi. Quella a cui
tieni di più! » gli dissi.
Allargò le braccia in un gesto rassegnato e imbarazzato
insieme. Fu troppo anche per me, per il mio cuore di pie-
tra. Sentii le lacrime bagnarmi gli occhi e la gola lacerarsi
come un frutto maturo e doloroso. D’istinto mi gettai su di
lui, su quell’omuncolo che due minuti prima avrei voluto
picchiare senza pietà. Prima che potesse indietreggiare
l’abbracciai stretto come un lottatore. Sentii il suo corpo
irrigidirsi nell’abbraccio, lo sentii balbettare, traballare in
preda a un disagio incontenibile per quel contatto. Bagnai
con le mie lacrime la sua camicia profumata di borotalco e
ripetei mille volte scusa, scusa! Scivolai giù in ginocchio ai
suoi piedi stringendogli le gambe. Quando mi resi conto
del fastidio che gli causava quel contatto, lo lasciai e mi co-
prii il volto perché non avevo più il coraggio di guardarlo.
Era rimasto lì incredulo e imbarazzato al centro della
stanza con il volto latteo pervaso da un lieve rossore.
Mi toccò appena la testa con la punta delle dita, tentò
un sorriso malriuscito e ritirò subito la mano come se
scottassi. Mi rialzai. Non so dire quanto tempo ero rima-
sto in ginocchio di fronte a lui.
Oh mio Dio, come mi sentivo piccolo e misero di fronte
a quell’omuncolo che a petto a me era un gigante. Mai un
nome era stato più ben allocato, mai una creatura più ete-
rea e irraggiungibile, proprio come se fosse disceso da un
altro mondo.

248
Sollevai il volto asciugandomi le lacrime e tirando su
con il naso: « Te li ricomprerò tutti » balbettai fra i sin-
ghiozzi. Stavolta ero io a non avere il coraggio di alzare gli
occhi, di guardarlo. « Non so come, ma ti giuro che un
giorno te li ricomprerò tutti! »
Fece un gesto con la mano come per dire di lasciar per-
dere, che non importava. E io scappai via richiudendomi
la porta alle spalle. « Tutti te li ricomprerò! » ripetei ancora
agli alberi e alla polvere della strada e non ebbi neanche il
coraggio di chiedergli se quegli investigatori americani,
dopo essersi presi tutti i suoi libri, i soldi di Nandina e la
nostra casa, avessero trovato almeno una traccia di mio
padre.
Pedalai a tutta velocità lungo la strada maestra, bagnan-
do la strada con le mie lacrime. ‘Stupido! Stupido!’ mi ri-
petevo fra le labbra tremanti.

249
XXXIV

Impulsivo! Come sempre ero stato impulsivo e cattivo.


Avevo aggredito quel pover’uomo, quell’angelo di nome e
di fatto e adesso mi vergognavo di me. Mi sarei sotterrato
in un campo di malerba dalla vergogna. Non avrebbe mai
potuto perdonarmi e, anche se lo avesse fatto lui, io non
avrei potuto farlo. Colpa del mio carattere, come sempre,
di quel senso d’ingiustizia che mi gravava addosso e mi fa-
ceva scattare per mordere rendendomi peggio d’un cane
rognoso.
Mi sentivo una vittima, mi sembrava di aver subito chis-
sà quali ingiustizie, e invece ero un carnefice, con il cuore
strapieno di alibi e l’esistenza costellata di cattive azioni
dettate dalla mia rabbia.
Le rammentai tutte, dalla distruzione del ricamo dell’A-
crimene alle scarpe che fra schiaffi e botte avevo fatto lec-
care più volte a Saverio e ai ragazzi di paese. Mi ricordai
della fabbrica fuori paese che non aveva voluto assumere
mia madre e alla quale una notte avevo rotto tutti i vetri
con la mia fionda. Rividi il mio furore nel lanciare i rospi
nel mezzo del fiume e tutti i calci e i morsi che avevo dato
senza pietà a insegnanti e professori che negli anni aveva-
no cercato di domarmi, fino a farmi cacciare.
A casa nei giorni seguenti avevo cercato di non pensarci
più e di essere gentilissimo con Nandina. Sapevo cosa ave-
va tentato di fare per me probabilmente facendosi deruba-
re come un’ingenua da quell’agenzia americana che aveva
continuato a prendere i suoi soldi, magari, incominciavo a

250
credere, senza fare proprio un bel niente per cercare mio
padre.
Mi sentivo responsabile. Io, con la bramosia che avevo
di avere un padre, ero stato la causa della sua rovina. Ora
dovevo trattenermi a stento dall’abbracciarla ogni momen-
to perché conoscevo il suo segreto e sebbene bruciassi dal-
la curiosità, non avevo la faccia di chiedere che cosa aveva
concluso quell’agenzia, se aveva o meno trovato traccia di
mio padre. Continuavo a ripetermi che a questo punto, se
avessero trovato qualcosa me l’avrebbero pur detto, e così
non ebbi nemmeno il coraggio di dirlo alla mamma, per-
ché, ne ero certo, saperlo l’avrebbe fatta stare ancora peg-
gio. Povera mamma, incredula, senza capire come e per-
ché e senza osare chiedere nient’altro a Nandina aveva vi-
sto arrivare altre lettere dalla banca e infine anche l’ufficia-
le giudiziario.
Sì, l’ufficiale giudiziario era arrivato insieme a un au-
tunno precoce e ventoso che aveva spruzzato di giallo gli
alberi intorno e fatto ingiallire di botto il fico dietro al poz-
zo. Stavolta non avevamo potuto fare o dire alcunché. In
piedi, vicino alla porta di quella che era stata casa nostra e
che da lì a poco non lo sarebbe stata più, avevamo assistito
amareggiati e inermi alla misurazione del piccolo podere e
della proprietà.
Il ragazzino ben vestito e il padre avevano scorrazzato
impunemente per il podere con la loro lancia bicolore e il
cavalletto e insieme a loro si erano portati anche l’appun-
tato Zanatta, originario di Treviso ma in forza alla locale
stazione dei carabinieri: un ragazzetto impettito che parla-
va con un accento buffo e che per tutto il tempo non aveva
staccato gli occhi da mia madre. Nandina aveva messo su
un carapace coriaceo e spesso. Chiusa nel suo mutismo,
dura, amareggiata, mi dissuase dall’avvicinarmi al signori-

251
no per tentare un secondo tiro con la lancia stringendomi
la mano, quasi graffiandomela.
« È inutile » mi disse. « Stai buono, stavolta non c’è nulla
da fare ».
Ero stanco, improvvisamente stanco di zuffe, stanco di
mordere, stanco di tutto. Nandina guardò il cielo e si fece
il segno della croce.
« Che vi vada di traverso » mormorò, e sputò nella polve-
re del piazzale prima di rientrare in casa.
A cena eravamo tutti seri e immusoniti. Lei disse: « Una
casa è una casa e nient’altro. Sono stata fortunata che la
guerra l’abbia lasciata in piedi anche se abbrustolita. Farò
finta che l’abbia centrata una bomba ».
Da giorni oramai mia madre aveva smesso di chiedere e
aveva iniziato a cercare un altro posto per noi e per Nandi-
na, senza dirle nulla.
Don Caldine si era prodigato per farci accogliere presso
il convento delle suore della carità, almeno per qualche
tempo.
Come se non bastasse l’ufficiale giudiziario aveva fatto
un elenco... un inventario, come seppi che si diceva, di tut-
ti i mobili e i beni di Nandina. Una cassapanca di cipresso,
un tavolo da cucina di noce. Ci aveva diffidato dal portarli
via giacché non erano più nostri. Così, al momento di an-
dare non restava altro da fare che riempire qualche valigia
di cartone dei nostri beni personali: scarpe, vestiti, foto-
grafie, qualche pentola, e una sedia troppo sgangherata,
che nemmeno l’ufficiale giudiziario aveva degnato di uno
sguardo.
Il bosco dietro la casa rosolato dall’autunno incipiente
si era fatto rosso e giallo: una fiamma che annunciava la
nuova stagione e la fine definitiva dell’estate.
Ci guardavamo attorno, animali straniati costretti a ri-
conoscere in ogni angolo, in ogni ombra, in ogni crepa,

252
una parte di noi stessi. Quando arrivai a riporre in valigia
dei calzettoni di lana vidi la busta con la foto di Dario e il
cerchio tagliato via dov’era stata la mia faccia.
In quell’attimo mi ricordai di lui, mi resi conto che in
quei giorni avevo perduto anche lui e per la prima volta fui
certo che quella fosse la sua foto. Furtivamente la presi e
me la nascosi sotto la maglia. Recuperai un vecchio cac-
ciavite da un cassetto e un paio di forbici. Oramai indiffe-
rente al destino della casa tolsi lo stucco ai vetri della fine-
stra di cucina facendone una palla gialla e, senza dire nul-
la, mi avviai. La mattina dopo sarebbero venuti a prender-
ci con un carro, ma quel pomeriggio volli correre al cimi-
tero con in testa un’idea balzana che, tuttavia, dovevo at-
tuare.
Era un cimitero di campagna appena fuori dal paese,
circondato da un muro che sul retro si alzava per fare da
parete alla piccola cappellina, alle cappelle signorili e ai
forni.
Chi pensa che la morte renda tutti uguali dovrebbe ricre-
dersi. Mio nonno era stato seppellito nella cappella che da
tempo si era fatto erigere. Sul suo sepolcro una statua di
Maria Vergine finemente lavorata nel marmo avrebbe pian-
to in eterno il tiranno, non si capiva bene perché. Dal mo-
mento che era stata lei a salvarmi, io sospettavo che anzi-
ché piangere sorridesse, coprendosi il viso con le mani per
non farsene accorgere. Il Giuffrida aveva avuto il suo forno
nell’angolo più riparato e ricordandomelo pensai a quante
bare con i sassi dovevano essere state seppellite lì, e a che
fine dovevano aver fatto le povere spoglie spregiate e mar-
toriate da quei matti al seguito del professore.
Mi rammentai di non aver raccontato nulla della fac-
cenda e della mano e pensai che fosse meglio così, dal mo-
mento che lui era morto e non poteva certo pagare più di
così e che la verità, una volta che la si fosse saputa, avreb-

253
be procurato troppo dolore ai parenti delle vittime. Forse
un giorno, scavando il cimitero, qualcuno avrebbe scoper-
to tutto. C’era solo da sperare che avvenisse il più tardi
possibile. Certo, così facendo la guercia figlia della lattaia
non avrebbe pagato alcunché, ma non aveva forse già pa-
gato abbastanza avendo perso la sua illusione d’amore? E
poi non era neanche tutta piena di mente, come si poteva
prendersela con quell’essere?
Spinsi il cancello arrugginito che cantò cupo e presi a
girare fra le tombe. Sentii gli occhi dei morti su di me. Mi
guardavano dagli ovali delle fotografie esalando ognuno
una storia di vita e di morte, quest’ultima giunta più o me-
no anzitempo.
Camminando in quel labirinto di sassolini chiari, mi
portai verso il muro più esposto, là dove c’erano le lapidi
dei morti che erano stati dissotterrati e raccolti nell’ossa-
rio: lapidi piccole, con il solo nome e la data, targate mille-
ottocento e qualcosa, sporche, piene di muschio e mac-
chiate di nero dalle gore della pioggia e dalla muffa. Senza
un fiore, senza nulla.
Ai piedi di quel muro c’erano le tombe dei bambini. Su-
bito mi ritrovai circondato. Alcune erano bellissime, con
cherubini paffuti che soffiavano nelle trombe d’oro, in tut-
te c’era la volontà dei genitori di dare il massimo, in segno
del loro amore e del loro dolore. Se fossero stati principi
ogni tomba sarebbe stata scolpita nel diamante.
Teresina, morta di morbillo al­l’età di due anni, mi guar-
dava con la faccia furba e paffuta.
Giacomo, con il grembiule della scuola, bambino mo-
dello strappato all’amore inconsolabile del padre e della ma­
dre, dei nonni e degli amici di famiglia tutti.
Abbassai gli occhi continuando a sentirmi guardato da
loro e procedetti verso la povera croce di ferro battuto sot-
to la quale riposava il marmo bianco con il nome di Dario

254
e l’ovale d’ottone nel quale ero imprigionato io sotto al ve-
tro opaco e polveroso.
Ripensai all’ultima volta che avevo visto Dario.
« C’è una tomba che mi aspetta » mi aveva detto. E ades-
so era lì, sotto quel marmo, per colpa mia.
Non eravamo più una cosa sola divisa fra la terra e il
cielo. Lui era lui e io ero io. Sentii la commozione serrarmi
la gola ma mi impedii di piangere.
Estrassi di tasca il cacciavite, lo puntai sotto l’orlo della
cornice d’ottone e con una pietra che mi ero procurato pic-
chiai forte sul manico. Il cacciavite penetrò sotto l’ottone:
facendo leva sollevai la cornice e il vetro e presto ebbi la
mia foto sbiadita nelle mani.
Non c’era più alcun dubbio, ero io.
Sovrapposi alla mia foto ingiallita quella nuova di Dario
che avevo portato con me e con le forbici prese dal cestino
del cucito di Nandina la tagliai a misura. Poi misi la sua al
posto della mia sulla lapide, stuccai bene la cornice e il ve-
tro lungo il bordo per renderli stagni, e picchiettai lungo il
bordo perché si incastrasse meglio possibile. Tornò al suo
posto. Anche se non era più salda come prima ci stava.
L’immagine di mio fratello mi guardò dalla sua tomba.
Io guardai la mia, quasi identica, ingiallita e sporca e mi
riconobbi. La misi in una tasca, nel­l’al­tra misi il cacciavite
e le forbici e mi avviai verso il cancello, lo oltrepassai e lo
richiusi alle mie spalle prendendo a camminare verso casa
senza voltarmi.

255
XXXV

La mattina dopo ci alzammo presto, rassegnati a lasciare


la casa, le valigie già pronte, le poche cose accatastate vici-
no alla porta. Senza il fiume sotto casa la mamma non
avrebbe potuto più lavare i panni. Guardando Nandina,
che aveva sperperato tutti i suoi poveri averi per noi, ri-
pensando ai libri di Angelino, che aveva venduto per noi,
mi domandavo come persone così generose e straordina-
rie potessero vivere sotto lo stesso cielo che dava cibo e vi-
ta a esseri umani come il professor Möller.
Nandina girò la chiave nella porta e se la mise in tasca.
Era una chiave lunga e nera. Ci guardò e sorrise, del suo
gesto puerile.
« L’apriranno con un calcio. Ma ho sempre chiuso la
porta uscendo di casa e voglio farlo anche oggi ».
Sarebbe venuto a prenderci il treccone con la sua ape e
saremmo saliti sul cassone insieme alle nostre poche cose,
come dei profughi. Don Caldine l’aveva pregato di fargli
questo piacere, e quello, sebbene di malavoglia, non aveva
potuto tirarsi indietro. Così, quando sentimmo il rumore
di un motore che sopraggiungeva, pensammo subito a lui.
Invece no! Era l’ombrellaio, era Minosse. Minosse aveva
una Bianchina nuova di zecca di cui andava fierissimo, ca-
rica di ogni ben di dio e sebbene quel tipo di commercio
fosse oramai al tramonto, seguitava a passare ogni tanto
dai contadini a vendere bottoni, riparare ombrelli e porta-
re notizie.

256
Entrò di volata sull’aia e uscì dall’auto con un giornale
in mano sventolandolo tutto eccitato.
« Donne! Donne! » gridò tutto emozionato, il naso eter-
namente rosso per il vizio di sbevazzare che era tutt’uno
con lui. « È successa una cosa incredibile! »
Ci avvicinammo incuriositi. Ma non avevamo tanta vo-
glia di novità, trovandoci a viverne una che si dibatteva nei
nostri stomaci come una serpe chiusa nella bottiglia del
latte.
« Cosa è successo? T’han fatto papa? » domandò Nandi-
na sarcastica.
Ma lui non le badò, sagace rispose: « Sì e son venuto a
cercarti per fare la papessa! Guarda qui piuttosto! »
« Non s’ha voglia di tanti discorsi, siamo rovinati! » disse
Nandina.
« Rovinata? » si fermò interdetto Minosse. « T’hanno for-
se rapinato anche te? »
« In un certo senso... » disse Nandina cupa.
« Allora non tu sei la sola, guardate! »
Stese il giornale aperto sul cofano della Bianchina e ce
lo fece vedere prendendo a raccontare.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie! Mi figurai tut-
ta la scena.
La mattina del giorno prima la figlia della Signora si era
alzata ed era andata nella stanza della madre. La Signora
dormiva ancora, oramai riavutasi dal grave declino fisico e
‘pissicologico’, così diceva lei alla figlia gonfiandosi d’im-
portanza, seguito agli avvenimenti della famosa notte. La
figlia entrò, guardò la stanza e si accorse subito di un par-
ticolare che non quadrava. La finestra che dava sul terraz-
zo era socchiusa. Possibile? Che l’avessero dimenticata co-
sì la sera prima? Eppure era quasi certa di averla chiusa: lo
faceva sempre. Colta da un presentimento la figlia aveva
svegliato la madre, si era fatta dare da lei la chiave dell’ar-

257
madio che teneva legata in seno e l’aveva aperto. Anzi, non
ce n’era stato bisogno perché l’aveva trovato aperto.
Un urlo, accompagnato da un frenetico battere di mac-
china da scrivere, aveva attraversato il paese squarciando-
lo come un foglio di carta. Nel vetro della finestra c’era un
foro circolare e la gamba piena di milioni non c’era più.
Immaginai una figura agile che la gettava dal balcone pas-
sandola a un’altra sagoma, più bassa e tondeggiante.
Le due donne avevano sottoposto il marito, ancora in-
tontito dal sonno, a un estenuante interrogatorio condito
da insulti fino a che non si erano convinte che l’uomo non
c’entrava. Il simulacro artificiale dell’arto l’avrebbero ritro-
vato in un fosso fuori paese gli stradini tre giorni dopo.
Come se ciò non bastasse, a quell’urlo, quasi nello stes-
so istante, aveva fatto eco dal­l’al­tra parte del paese quello
delle due Svizzere che si erano afflosciate scoprendo una
finestra del palazzo aperta e il loro tesoro scomparso. Rac-
contarono che tutti i loro soldi erano nascosti in due dami-
giane di vetro, camuffate fra quelle piene di vino nella
grande cucina.
Anche nei paesi vicini i ladri avevano agito nelle notti
precedenti e solo ora, incoraggiati dall’evolversi degli avve-
nimenti, i derubati si erano decisi a parlare.
La pagina titolava: SERIE DI AUDACI FURTI ANCHE
NEL RESTO DELLA PROVINCIA.
Compresi presto che la stessa sorte era toccata a tutti gli
incappucciati che la sera della messa nera nel bosco erano
stati privati dei documenti e del portafoglio dagli zingari.
Sotto gli occhi increduli di mia madre e di Nandina mi
misi a ridere a crepapelle di soddisfazione e dentro di me
mi immaginavo la faccia da impunito di Salem che mi
strizzava l’occhio.
‘Diavolo di uno zingaro!’ pensai. ‘Mi ha fregato! Ci ha
fregato tutti!’

258
Ma le notizie non erano finite. Come si seppe da lì a po-
co, anche la casa di mio nonno Sigaro era stata trovata
con la porta forzata e la cassaforte aperta. Non mancava
neanche un soldo, ma qualcosa doveva essere sparito se è
vero che non si riuscì a trovare nessun testamento. Il no-
taio che l’aveva redatto si guardò bene dal dire che anche
a lui era sparita la sua copia e che faceva parte dei deruba-
ti e del gruppo degli incappucciati. Così mia madre, come
parente più prossima, era destinata a ereditare ogni cosa.
Io, Nandina e la mamma appresa la notizia ci abbrac-
ciammo, e le suore della carità si strinsero intorno a noi.
Potevamo vivere tutti nella villa, e invece andammo tutti
con Nandina alla banca per rilevare le cambiali e l’ipoteca.
Era una questione affettiva e di principio, disse la mamma.
« Alla faccia del damerino con la lancia! » rincarai con-
tento.
Il direttore ci accolse con tutti gli onori e si mostrò molto
rammaricato. Scoprimmo così che le cambiali erano state
acquistate insieme all’ipoteca da un distinto e imponente
signore indiano con tanto di turbante che vestiva elegantis-
simo e che era giunto accompagnato dal suo maggiordomo
zoppo. Una sorta di principe insomma. La loro descrizione
mi ricordò da vicino qualcuno e pensai subito a Salem e al
mio salvatore. Insomma, ci spiegò che non era più la banca
la padrona del debito ma costui, che prima o poi si sarebbe
fatto vivo.
E infatti, di lì a pochi giorni, Nandina ricevette una let-
tera con scritto: Mai carta bruciò così bene. Abbiate cura di
Ciro! Firmato: Il principe degli elefanti.
Nella busta c’era anche una chiave per me: era la chiave
di una cassetta postale. Quando andai ad aprirla ci trovai
un piccolo pacco. Una volta a casa l’aprii e vidi che era pie-
no di fogli da diecimila lire. Non credevo ai miei occhi, alla
mia fortuna. Conteneva un biglietto con scritto: La tua

259
parte! Salem. Buona fortuna. E sotto, come una sorta di ci-
tazione, una frase fra virgolette: ‘Ricorda, figlio mio, la feli­
cità dei giochi non tenerla tutta per te’.
Con tutti i beni e le proprietà del nonno, avremmo potu-
to vivere tranquillamente, ma con quei soldi fantasticavo
già di ristrutturare la casa di Nandina e fare tante altre co-
se, come ad esempio comperarci una bicicletta e dei libri,
tanti libri, una caterva di libri per Angelino.
Questa storia finiva davvero nel migliore dei modi. Ri-
tornai a scuola oramai deciso a fare del mio meglio e tornò
l’inverno. Angelino e Nandina, a cui alla fine avevo chiesto
dell’esito delle indagini da loro pagate in America, mi mo-
strarono una lettera dell’agenzia di alcune settimane pri-
ma che faceva grandi promesse e mi spiegarono poco con-
vinti che gli americani erano sulle tracce di mio padre e
della sua famiglia e che dovevo avere pazienza perché l’A-
merica era piena di Baker. Continuavamo a vivere da Nan-
dina invece che alla villa e pensavamo già di venderla per-
ché tutto là dentro ci ricordava mio nonno. Una mattina
mi infilai gli scarponi nuovi e decisi di andare in paese a
comperare dei regali di Natale nonostante la prima neve, o
forse proprio per questo.
La frase che mi aveva scritto Salem, e che solo molti an-
ni dopo scoprii essere quella che l’anarchico Nicola Sacco
aveva scritto al figlio Dante prima di essere giustiziato in-
nocente sulla sedia elettrica nel 1927 insieme a Bartolo-
meo Vanzetti, mi ritornava alla mente di continuo: Ricor­
da, figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te.
Pensai a quanto avevo sofferto e già fantasticavo su quan-
to avrei potuto fare per coloro che ancora soffrivano. Ero
il ragazzo più felice del mondo, pensavo di non poter desi-
derare nulla di più e invece... lo ricordo come fosse ora...

260
Cammino sulla strada bianca lungo la discesa che porta in
paese. Tutto è coperto di neve e dalla mia bocca esce un
fiato caldo che si addensa come se fumassi. Ogni tanto mi
chino, faccio una palla e la tiro contro un albero. Il sole fa
brillare i miei capelli e rende la neve d’intorno abbagliante.
Le mani mi si gelano dentro ai guanti zuppi. A un certo
punto vedo una sagoma in fondo alla strada che procede
verso di me. Qualcuno che inspiegabilmente viene a piedi
verso la campagna. Mi avvicino piano tenendolo d’occhio
fino a riuscire a distinguere i suoi lineamenti. Adesso lo ve-
do: anche se siamo ancora lontani ho una vista magnifica.
È un uomo alto che procede a passo svelto, con la giac-
chetta in spalla per non sudare sotto il sole che picchia.
Vedo i suoi occhi azzurri ma non il colore dei suoi capelli,
e allora lo so. In quell’attimo lo so, e sono certo che non
possono esserci dubbi. Non chiedetemi come, lo so e ba-
sta. Lascio cadere la neve dalle mani e corro a precipizio
giù per la discesa seminando le mie orme sulla strada in-
tonsa. I miei piedi battono il manto bianco come carta e le
orme scure che vi si imprimono sembrano parole. Tic!
Tac! Toc! E so che è lui. Non so cosa farò o cosa dirò, ma
corro. E mente corro verso di lui lo metto a fuoco, mi sof-
fermo, è un uomo anziano, non è lui... eppure. Mi avvicino
e lui mi guarda come se fossi un fantasma, si toglie il cap-
pello, ha i capelli bianchi.
Mi avvicino senza capire. Non può essere lui, è troppo
vecchio, penso deluso.
« Chi cerca? » domando per rendermi utile.
« Are you Ciro? » mi chiede e non capisco come faccia a
conoscere il mio nome.
Allora tira fuori una foto dalla tasca interna della giac-
ca. Me la mostra. C’è un uomo giovane che gli somiglia e
un ragazzino che somiglia a me e Dario, sembra proprio la
mia foto.

261
Poi me ne mostra un’altra di un giovane in uniforme
con i capelli biondi come i miei. Le lacrime mi salgono agli
occhi e la gola mi si chiude. Lo abbraccio e anche lui mi
abbraccia con gli occhi lucidi. Poi prendo la sua mano an-
ziana nella mia del medesimo colore. È ancora in forma il
mio nonno americano, alto e possente, e camminiamo con
il sole in faccia sulla distesa bianca della pagina.
Penso a tutte le domande che ho da fargli su mio padre
e faccio appena in tempo a immaginare come sarà ritro-
varlo nelle sue parole che la macchina smette di battere, il
foglio viene strappato via dal rullo, in un fischio leggero, e
la mia storia finisce.

262
Epilogo

Dopo tanto rimuginare, immaginare, sognare, abbiamo infi­


ne scoperto il motivo che poteva aver indotto mio padre o la
sua famiglia a non rispondere alle nostre lettere. Era così
semplice, così ovvio che io e la mamma ci siamo dati cento
volte degli stupidi per non averci pensato, per tutti gli anni di
inutile speranza. Dovevamo prevedere che dietro a tutto ci
fosse lo zampino di mio nonno Sigaro. L’avremmo anche
maledetto, quel vecchio pazzo, se non fosse che maledire i
morti non sta bene. Quando capimmo come erano andate le
cose non potemmo fare a meno di pensare che aveva avuto
ciò che si meritava.
Nella cassaforte della villa trovammo tutte le lettere che
mia madre aveva scritto a mio padre e alla sua famiglia e
che l’impiegato delle poste corrotto dal nonno doveva aver
sottratto alla spedizione facendosele pagare lautamente, cer­
to che nessuno se ne sarebbe mai accorto. Erano aperte: il
despota doveva averle lette schiumando di rabbia per le pa­
role d’amore che mia madre mandava a suo marito inutil­
mente. Perché non le avesse bruciate era un mistero anche
per noi.
Rammentai con rabbia come ogni volta ero corso a infila­
re le lettere della mamma nella cassetta rossa della via. Come
ogni volta ero corso incontro al postino chiedendogli se c’era
posta per noi, speranzoso. Quel farabutto ipocrita scuoteva
la testa rammaricato, e io tornavo indietro giorno dopo gior­
no sempre più avvilito.
Fu così per molti anni fino a che mia madre iniziò a pen­

263
sare a un cambio d’indirizzo o a un errore nella sua trascri­
zione e smise di scrivere. Smise di scrivere ma continuò a
pregare.
Se solo una volta avessimo spedito la lettera dalla città il
mio nonno americano sarebbe giunto prima a raccontarmi
di mio padre con l’aiuto di Angelino che lo traduce. Ma era­
vamo così ingenui e buoni, così fiduciosi. Evidentemente ci
voleva Angelino per ripescare mio padre, quel diavolo d’un
angelo che parla tutte le lingue del mondo. Sì, Angelino e Sa­
lem, due esseri umani che per il resto dei miei giorni non po­
trò mai dimenticare. Due stelle cadenti. Due esseri assurdi e
improbabili che con la loro scia avevano attraversato il cielo
buio della mia esistenza e illuminato a giorno la mia vita. La
mia vita cambiata: si può trovare un padre in un nonno e
un figlio in un nipote, uniti dall’amore per la medesima
mancanza. Ma per mia madre era diverso, lei aspettava il
suo uomo e non smise mai di sperare.
Ci penso mentre infilo un altro foglio nella macchina e
faccio frinire il rullo posizionando la carta per iniziare un’al­
tra storia: forse è tutto qui il segreto di questo strano mestie­
re che poi, a forza di immaginarmi le cose, sono finito a fare:
nel rammentare che niente è come sembra e che a ogni passo
c’è il rischio di pagare ‘gli scorni di chi crede che la realtà sia
quella che si vede’.

264
Ringraziamenti

Questa storia parla di zingari, come, spesso con disprezzo,


li chiamiamo noi; e del ‘popolo degli uomini’, come amano
definirsi loro per distinguersi da noi gagi, vale a dire non
uomini, stranieri. Un incrociarsi di punti di vista che fa
sorridere e riflettere.
Gli zingari di questa storia, inevitabilmente, trattandosi
di un romanzo, sono quelli che ci piacciono e che, sebbene
costituiscano uno stereotipo positivo, non esistono solo
nei film: belli, folcloristici, artigiani straordinari, circensi,
lettori del futuro e suonatori di strumenti tradizionali; e
quelli che ci piacciono meno: poveri, nel peggiore dei casi
denutriti, invecchiati anzitempo e qualche volta, solo qual-
che volta, ladri.
Parlare di queste culture ha richiesto un certo studio e
molta attenzione, il che non esclude eventuali imprecisioni.
Inesattezze invece non dovrebbero essercene riguardo
al racconto che Salem fa della sua terribile esperienza e
del Porrajmos: la Shoah degli zingari. Ho dedicato molto
tempo all’ascolto di testimonianze, di esperti dell’argo-
mento e alla lettura di documenti e saggi per raccontare
questa terribile pagina di storia ancora poco conosciuta,
così come quasi sconosciuta è la rivolta degli zingari di
Auschwitz che si racconta brevemente nel libro tramite
Salem e che ancora oggi costituisce una pagina di resisten-
za senza precedenti. L’ho raccontata nel solo modo che ri-
tenevo legittimo, attraverso le parole di un ipotetico testi-
mone, riprendendo spunti e punti da testimonianze reali.

265
Il dottor Möller è evidentemente ispirato alla figura del
terribile dottor Mengele: molto fedelmente, nella parte che
racconta degli eventi nel lager e degli esperimenti sui ge-
melli, totalmente di fantasia laddove la vicenda del perso-
naggio storico si intreccia con quella del protagonista del
romanzo.
Si ha un certo disagio nel trasformare in fiction pagine
così dure e crudeli della Storia umana e credo che sia dun-
que giusto chiarire sempre cosa del racconto di fantasia
sia fedele alla Storia reale e cosa no.
Per questo motivo, nonostante il lieto fine quasi fiabe-
sco della rocambolesca storia di Ciro, il terribile dottor
Möller si salva e scappa. Perché il lettore non dimentichi
che Mengele e molti nazisti che come lui si erano macchia-
ti di crimini inenarrabili morirono nel proprio letto senza
scontare un solo giorno di carcere. In questo senso il rac-
conto non vuole essere salvifico, ma vuole rammentare che
la Storia non è quasi mai giusta, e che sta a noi uomini
cercare di renderla tale con le nostre azioni di tutti i gior-
ni, le nostre parole e le nostre scelte.
Ma ho intitolato questa nota finale ringraziamenti e
quindi procedo nel ringraziare tutti i sinti e i rom con cui
ho parlato durante la stesura del romanzo per cercare di
capire qualcosa di più sulla loro vita e la loro storia; Alber-
to Maria Melis che non ha letto il romanzo e non è re-
sponsabile di eventuali mancanze, ma mi ha dato alcuni
suggerimenti lessicali importanti su queste culture che
ben conosce e delle quali ha scritto; il professor Marcello
Pezzetti la cui fondamentale e chiarificante lezione-testi-
monianza sullo zigeunerlager e la rivolta degli zingari di
Auschwitz-Birkenau ho ritrovato insieme ad alcune signi-
ficative e struggenti testimonianze video di sopravvissuti
nel DVD collegato alla pubblicazione A forza di essere ven­
to edita da EDA (Editrice A) dedicato a Fabrizio De André

266
e agli zingari. Una pubblicazione che dovrebbe essere in
tutte le biblioteche scolastiche e che spero questo romanzo
contribuirà a far conoscere. Ancora sono grato a Valenti-
na Paggi, che aveva lavorato al mio primo romanzo in Sa-
lani insieme all’impareggiabile Donatella Ziliotto e che
ho volentieri ritrovato in questo lavoro con la sua consueta
empatia e precisione. Infine, ma non da ultimo, un grazie
particolare a due lettori d’eccezione e oramai cari amici,
che mi hanno fatto l’onore di leggere il libro in anteprima
con grande attenzione e passione: Roberto Denti e Gian-
na Vitali, che dal­l’al­to della loro esperienza hanno caldeg-
giato la sua pubblicazione dandomi preziosi consigli. E,
naturalmente, un doveroso ringraziamento va anche a Eu-
genio Montale, per aver scritto Satura, e la frase che ter-
mina questo libro.

267

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