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LUCIA ROGLIERO

HERBERT ZAMBELLI

PASODOBLE

ROMANZO

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Prologo

La notte è calata su Napoli. In una villa lontana dal traffico caotico del centro, la mano guantata di un uomo gira la manovella di un vecchio grammofono.

La puntina si appoggia dolcemente sul vinile e dalla tromba di ottone, accompagnate da un leggero fruscio, le note della “Primavera” di Vivaldi riempiono la stanza.

Le mani cominciano a muoversi all’altezza del viso, al pari di un direttore d'orchestra intento a dirigere la Filarmonica.

L'uomo tiene gli occhi chiusi dietro un paio di occhiali tondi, il viso è sorridente; ciuffi di capelli riccioluti fuoriescono da una cuffia colorata. Seguendo il ritmo della musica inizia a danzare, muovendosi

nella stanza come fosse una ballerina.

A parte mascherina e cuffia, è nudo.

In estasi, i piedi si muovono all'unisono con le mani.

Si ferma un istante, afferra un bisturi dal tavolino, e riprende a danzare in direzione del centro della stanza; Lì, un uomo nudo, bendato e imbavagliato è appeso a un gancio, le dita dei piedi a sfiorare il

pavimento.

Il bisturi, rapido, fende l’aria con movimenti incrociati. La pelle del viso si apre lasciando sgorgare il sangue sulle guance e sul collo. L’uomo si divincola nel tentativo di evitare i fendenti.

«Stai fermo, altrimenti i tagli vengono tutti storti» sibila Roberto, mentre continua a tagliare il corpo dell’uomo appeso. Per ogni colpo di lama, un giro di danza e una risata sguaiata.

«Vedi come è strano il destino? Volevi farti mia sorella e mia sorella si è fatta te. Lei è brava ad ammaliare, ma lo è soprattutto nel riconoscere i maiali!» sentenzia a denti stretti, mentre la piccola lama

affilata entra nel fianco, squarciandogli la pelle.

L’uomo emette un grugnito ovattato dal bavaglio, il sangue scende fluido sulle gambe nude, finendo la corsa sul pavimento; una macchia rossa si espande sotto di lui.

Roberto ama appendere le sue vittime, gli ricordano i prosciutti messi a stagionare nella cantina della casa famiglia. Si nascondeva spesso là sotto: l’odore e la vista dei pezzi di carne appesa lo

eccitavano.

Prova la stessa sensazione quando uccide e sevizia le vittime con i suoi giochi, si sente vivo e onnipotente.

Una voce proveniente dal buio di un angolo della stanza lo distoglie dal suo macabro lavoro. La sorella lo osserva immobile, non partecipa mai a questi riti di sangue; lui vuole che veda, come una sorta

di monito. Si rabbuia: un altro ricordo si insinua nella sua testa.

«È tardi, dobbiamo andare a prepararci per il lavoro.»

«Uffa, adesso mi hai rovinato il gioco, non mi diverto più. Quante volte devo dirti che devi stare zitta?»

«Scusami, ma non voglio che si faccia tardi.»

Stizzito, toglie il bavaglio e la benda all’uomo, quasi privo di sensi. Si dirige verso il tavolino e solleva la puntina del vinile, nella stanza cala il silenzio; posa il bisturi sul tavolo vicino e afferra un coltello.

«Mi prepari un buon caffè?» chiede Roberto, guardando la sorellastra ancora seduta.

«Certo, fratellone, come desideri.»

«Ci sono le sfogliatelle in frigo, ne mangerei due, mi è venuta fame.»

La ragazza annuisce con la testa e lo lascia solo nella stanza.

Roberto, fischiettando, si avvicina alla vittima appesa, solleva la testa per i capelli e lo guarda dritto negli occhi spenti, poi, con forza lo trafigge all’altezza dell’ombelico. Gli occhi dell’uomo si chiudono e

il corpo si abbandona all’abbraccio del suo aguzzino.

Un veloce movimento a destra, infine indietro e la lama si separa dal corpo, portandosi dietro le viscere che, con un rumore acquoso, rovinano a terra srotolandosi come un gomitolo. I piedi nudi

dell’assassino riprendono la danza pestando volutamente la pozza di sangue che si è formata sotto il corpo della vittima.

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Roberto, compiaciuto, ride in maniera sguaiata osservando il viso ingrigito dell’uomo di fronte a lui: ha saziato la sua sete ancora una volta e, giunto al termine della rappresentazione, si inchina a

ringraziare il suo pubblico.

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CAPITOLO PRIMO

IL COMMISSARIO

ELENA 03.05 – 14:00

Il sogno della mia vita si è finalmente avverato. Ma non avrei mai pensato che mi avrebbe costretta a separarmi da Stefano e Clara. O forse, non l’ho preso in considerazione proprio

perché sapevo cosa avrebbe comportato. Avevo sempre immaginato, in caso di promozione, di dirigere il commissariato di Genova, mia città di adozione, ma Giovanni Stagnaro, capo

della polizia, è stato lapidario. Napoli o morte. E con morte intendeva dire che se non avessi accettato la promozione e il relativo trasferimento, avrei detto addio a qualsiasi altra

possibilità di carriera.

Prima di prendere una decisione ho voluto parlarne con mio marito e con la giovane donna che sento ormai come mia figlia. Sapevo già cosa avrebbero detto ancor prima di parlare, ma

la loro approvazione non mi ha reso più sollevata per la decisione che stavo per prendere. Ho condiviso con Stefano gli ultimi vent’anni della mia vita; i momenti belli, facili da vivere, e

i momenti brutti, quelli che piegherebbero anche i più ottimisti. E Clara. La mia dolce Clara. Sono solo tre anni che è con noi, da quando - aveva diciassette anni - ne abbiamo avuto

l’affido, ma il legame che si è creato tra noi tre è qualcosa di speciale. Distaccarmi da loro ha lo stesso effetto del sale su una ferita, di un bacio desiderato e non dato.

Quando ho ricevuto la sua telefonata, avevo chiuso da poco il mio caso sul killer delle pensionate, con grande sollievo della città e del questore Giuseppe Nicolini. La scrivania, così

come il mobile basso del mio ufficio, erano ancora ingombri di fascicoli, cartelle. Sulla lavagna appesa alla parete resisteva lo schema degli assassini, con date, nominativi, ricoveri,

come a ricordarmi di quanto era stato duro chiuderlo. Proprio questi ultimi erano stati il punto di svolta del caso.

Sono arrivata in città solo da un paio di giorni e il caos del traffico mi ha già stordito. Ero preparata a questo e, a onor del vero, pensavo peggio; Napoli sconta il suo essere metropoli, né

più né meno come Roma.

Mi hanno messo a disposizione uno degli appartamenti riservati agli ufficiali in una palazzina nei pressi del commissariato, lontano dal centro, ma appena possibile cercherò qualcosa di

appropriato in zona. Ho ancora qualche giorno prima della nomina ufficiale, per cui ho tutta l’intenzione di rilassarmi e non pensare al nuovo incarico.

Affacciata alla finestra del mio appartamento, osservo i palazzi che ho di fronte: nessuna vista mare. Non posso fare a meno di ripensare a ciò che potevo ammirare dalla finestra della

mia casa a Genova; situata sulle alture, abbraccia un ampio tratto di mare, perennemente macchiato dalle scie di qualche nave cargo o passeggeri. Nelle giornate migliori riesco a

scorgere le barche dei pescatori all’orizzonte, il volo dei gabbiani al loro seguito, pronti a tuffarsi sui loro avanzi. Ho lasciato questo, assieme ai miei affetti più cari, per un’altra città e

altri legami con il mio passato.

Ho lasciato la mia città, i miei affetti per un’altra che ne contiene altrettanti, seppur diversi . Maledetta malinconia. Qualche anno fa è stato inaugurato il nuovo padiglione di massima

sicurezza del carcere, intitolato a mio padre. Era uno di quei poliziotti di vecchio stampo. Se doveva arrivare al suo scopo, non si faceva molti scrupoli nell’oltrepassare i limiti fissati dal

regolamento e dalla deontologia. E in più di un’occasione ha finito per pestare i piedi alle varie famiglie che controllavano Napoli. Durante una retata fu giustiziato per vendetta da un

mandante di don Gino Esposito, capo banda della omonima famiglia.

Nonostante i nostri rapporti non fossero idilliaci, la sua morte mi ha sconvolto, e oggi vengo a dirigere uno dei commissariati vicino a lui, o quantomeno al suo nome.

«Pronto? Totò!» L’ho chiamato prima, ma il telefono ha squillato a vuoto.

«Elena? Che piacere sentirti. A che devo la telefonata?»

«Sono a Napoli! Nuovo incarico.»

«No… ma davvero? Ti hanno fatta questore?»

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«Esagerato, solo commissario e nemmeno l’unico.»

«Scusa se non ho risposto prima, ma ero in ospedale per dei controlli.»

«Come mai? Non stai bene?»

«No, tranquilla, solo controlli di routine. A quarant’anni noi maschietti dobbiamo fare la revisione, dovresti saperlo.»

«Ahahah, stronzo. Senti dobbiamo assolutamente vederci, stasera ti andrebbe?»

«Uhm, no, ho un impegno e non mi posso liberare. Sai, una cena tra checche, e nemmeno troppo simpatiche.»

«Oh, da quando hai scoperto di essere gay sei diventato alquanto perfido.»

«Hai ragione, tesoro. Però sono libero a pranzo, se vuoi.»

«Ok, facciamo a pranzo, passi a prendermi?»

«Certo, dimmi dove stai e passo a prenderti alle tredici.»

«Via Bernardo Cavallino 145.»

Sentire Totò dopo tanto tempo mi ha riportato alla mente il periodo in cui stavamo assieme. Eravamo giovani entrambi, io ero quasi al termine della mia transizione e lui aveva appena

completato i suoi studi universitari. Due caratteri completamente diversi: io determinata a entrare in polizia nonostante i tanti pregiudizi, lui spensierato, incosciente e con idee poche

chiare su cosa fare della sua vita. Poi gli eventi ci hanno portato a separarci, ma il sentimento che ci univa era puro e sincero. Lasciarlo era stato straziante, ma era l’unica cosa da fare.

Per me e per lui. Ora il corso degli eventi ci fa incontrare nuovamente.

Ho ancora tempo prima di prepararmi per l’appuntamento con Totò; una volta preso servizio, so già che i giorni passeranno senza che me ne accorga. Senza indugiare, inizio a sistemare

i miei effetti personali nell’armadio della nuova casa, un bilocale senza anima. La porta di ingresso si apre su un piccolo soggiorno con angolo cottura, nel quale una cucina di piccole

dimensioni ispira poca fantasia culinaria; al centro, un tavolo e quattro sedie. Una camera da letto in arte povera, composta da un letto matrimoniale, un armadio a due ante e un comò.

Roba dozzinale, insomma.

Tranquilla, mi dico, ci resterai poco qui, mentre guardo rassegnata il mio alloggio. Non finisco il pensiero che il telefono sul tavolo inizia a squillare.

«Amore!» Sentivo il bisogno di sentire la sua voce.

«Ciao, Elena? Ti sei sistemata?»

«Lo stavo facendo in questo momento. Ho appena iniziato a mettere i vestiti nell’armadio.»

«Come è la casa, racconta.»

«Non hai una domanda di riserva?» rido prima di continuare. «Che devo dirti? Certo non è casa nostra. È piccola e per niente accogliente; alle pareti ci sono alcune foto che sembrano

ritagliate dalle riviste e altre di parate della polizia.»

«Un’allegria, insomma. Un bilocale, giusto?»

«Sì. Piccolo. Come mi giro sono già in un’altra stanza» rido ancora e sento la sua risata dall’altra parte. Sono qui da due giorni e già mi manca. Mi manca il suo sorriso, i suoi occhi

rassicuranti, i suoi baci.

«Come sta la mia bimba? L’hai accompagnata tu a scuola? Mangia?» una dopo l’altra, snocciolo una serie di domande da mamma in apprensione.

«Le manchi. Ieri si è rannicchiata sul divano, di fianco a me, mentre guardavamo la tele. Ha poggiato la testa sulla mia spalla, come è solita fare con te. Pensa che indossava una delle

felpe che hai lasciato qui.»

«Cucciola...» il sentire queste parole ha su di me un effetto cascate del Niagara: gli occhi non riescono a trattenere il flusso di lacrime di gioia mista a tristezza.

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«E tu, amore mio?»

«Io... io sento la tua mancanza in un letto ormai troppo grande per me. Cerco di non pensarci; se non altro ho Clara con me, e il lavoro. Tanto lavoro» Percepisco una velata malinconia

nella sua voce, ma so che mai mi avrebbe impedito di seguire la mia strada.

«Adesso vado, Stefano. Ho tanto da sistemare ancora e poi, devo sicuramente comprare qualcosa. A presto, amore mio.» Una stretta al petto mi costringe a inventare una scusa per

chiudere la chiamata. È già dura essere lontana da loro e il non avergli detto che devo uscire con Salvatore mi fa sentire in colpa. È geloso, ma non è questo il caso e il motivo per cui non

l’ho fatto. Non gli è mai andato a genio e non so perché.

Sistemati gli abiti e acquistati i beni di prima necessità al market poco distante da casa, ho giusto il tempo per prepararmi prima che Totò passi a prendermi. Un look casual andrà più che

bene per l’occasione.

Un jeans e una maglietta, e il richiamo alla città è sistemato.

Alle tredici, puntuale come è sempre stato, Totò mi avvisa con un sms che è in attesa sotto casa. Preso un giubbotto e lo zainetto, infilo le scale della palazzina e mi ritrovo per strada

davanti a una BMW nera sistemata alla bell’e meglio in uno stallo per disabili, lui appoggiato al cofano anteriore.

«Sai che potrei multarti per questo?» c’è poco da fare, il mio senso civico la fa sempre da padrone.

Mentre lo riprendo per il suo parcheggio creativo, ne approfitta per avvicinarsi e darmi due baci sulle guance.

«Che rottura! Non cambierai mai tu, vero?» l’ho sempre punzecchiato per il suo pressapochismo in tutto quello che fa, e mi diverte farlo ancora per vederlo scattare.

«Dai, andiamo a mangiare qualcosa, ho una fame tremenda. Abbiamo molto da raccontarci. Quanto è che non ci sentiamo? Due, tre anni almeno?»

«Anche quattro, se proprio vogliamo essere precisi.»

«Ah, così tanto?» a volte non mi rendo conto di quanto il tempo passi in fretta e di quante cose dimentichiamo.

Inglobati nel traffico caotico della città partenopea, impieghiamo un'ora buona per raggiungere un locale nei pressi del porto. Tra un’imprecazione e l’altra, ne approfitta per descrivermi

la città e le sue peculiarità, buone o cattive che siano.

Seduti al tavolo di una delle tante pizzerie di Napoli, ci osserviamo. Non ha più la chioma fluente di quando ci siamo conosciuti, però i capelli sono ancora belli neri. Troppo neri per non

essere tinti.

«E così ti hanno promossa. Ne ha fatto di strada, la bella Elena; da semplice assistente a commissario» pronuncia con enfasi l’ultima parola, scimmiottando i padrini della mafia.

«Sai bene quanto fossi e sia tutt’ora determinata. Niente e nessuno può fermarmi.»

«Il tuo maritino? Come se la passa a difendere politici corrotti?»

«Ti sbagli di grosso. Lui disdegna quel genere di persone, i corrotti intendo. Gli altri li difende spesso, ma solo se li ritiene innocenti. E tu, invece? Con chi te la fai?» È un continuo

rimbeccarci, come in uno scambio a tennis.

«È una cosa seria, questa volta; si chiama Gigi-... Luigi. Ha quarant’anni, ma è ancora un fiore, bello e dolce.»

«Buon per te, allora. Mi fa piacere che abbia trovato la tua strada. Tutto sommato non ho fatto male a darti una sferzata, eh?»

«Sei stata parecchio stronza, a dir la verità. Ho sofferto parecchio prima di trovare un equilibrio. Ma se non l’avessi fatto, non avrei mai conosciuto Giggino.»

«Sbagli. Se non l’avessi fatto non avresti trovato te stesso» vederlo abbassare gli occhi sul piatto e ciondolare la testa in segno di assenso mi fa capire quanto avessi ragione all’epoca. E

adesso.

«Dimmi di te, invece. Come va con...?»

«Stefano. Molto bene. Mi ama, lo amo, non potrei chiedere di più. E poi... abbiamo una figlia» lo dico con tutto il mio orgoglio.

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«Figlia?» Strabuzza gli occhi alla notizia.

«Adottata, ovviamente. La abbiamo avuta in affido e qualche mese fa abbiamo perfezionato l’adozione con il consenso della mamma.»

«In effetti è quello che desideravi da sempre, e vedo che sei riuscita a ottenerlo. Non ti fermi davanti a nulla, brava.»

«Come sempre!»

«Le hai già detto di te?»

«Del fatto che sono transgender, intendi? Sì, è stata una delle prime cose che ho ritenuto corretto dirle.»

«Come l’ha presa?»

«Ha solo detto, “Impossibile! Sei troppo bella.” Poi ha voluto sapere tutto al riguardo, cosa mi ha portato a farlo, quando ho iniziato, che operazioni ho fatto. Insomma, mi ha sottoposta a

un interrogatorio.»

«Senti, a proposito, hai ancora tutto lì sotto?» ride, nascondendo la bocca dietro la mano.

«Ovvio!»

Raccontare le vicende personali ha portato via gran parte del tempo, passato a disquisire di pizza e di altri racconti da comari. Pagato il conto, il rientro verso casa è stato più frenetico e

confuso dell’andata.

«Grazie del pranzo, Totò. Quando me lo farai conoscere questo Giggino?»

«Vedremo. A presto, Elena, tanto dovrò mostrarti la bellezza della città; sicuramente hai in mente solo i tanti cliché che girano su Napoli.»

Lo abbraccio, felice di averlo rivisto. Ormai gli voglio bene come a un fratello.

«A presto, Totò.»

***

Che stupida! Perché non ci ho pensato prima? Rientrata a casa, ho visto la lettera con l’invito a una festa alla quale non posso assolutamente mancare. Quale occasione migliore per non

sentirmi una perfetta idiota che si aggira annoiata e conoscere questo benedetto Giggino? Senza indugiare pesco il cellulare nella borsa, dopo un paio di squilli mi risponde preoccupato.

«Elena, tutto bene?»

«Sì, Totò, tranquillo. Senti, devo andare a un evento giovedì prossimo; non ho ben capito chi lo organizzi, ma so che ci sarà qualche politico locale e le istituzioni della città; sono stata

invitata in veste di nuovo commissario e non mi va di andare da sola. Che ne dici se mi accompagnate tu e Giggino?»

«Può essere un’idea; ne parlerò con lui e ti darò una risposta in questi giorni.»

«Perfetto!»

«Ciao, Elena.»

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CAPITOLO SECONDO

I FRATELLI

IRENE 04.05 – 6:30

Spenta la sigaretta nel posacenere sul comodino di fianco al letto, comincio a vestirmi con calma, evitando di fare troppo rumore per non svegliare la sconosciuta di fianco a me.

Non ricordo il suo nome, però lei ricorda perfettamente il mio: questa notte lo ha pronunciato tante volte mentre le davo piacere. Tra uno sbadiglio e l’altro, cammino per le varie stanze

di una casa che non conosco. Al secondo tentativo trovo la cucina. Apro il frigorifero, l’occhio mi cade su delle uova. Sento il viso trasformarsi in una smorfia. Nella casa-famiglia dove

ho vissuto ci rifilavano sempre uova all’occhio di bue per colazione, senza sale. La cosa più disgustosa che abbia mai mangiato. Odiavo quel posto, l’unico aspetto positivo è stata la

vicinanza di mio fratello.

Immersa nei ricordi, percepisco un movimento alle mie spalle e un suono indistinto come lo scatto di un obiettivo. Mi giro per controllare e la vedo appoggiata alla porta, nuda e

sorridente.

«Trovato cosa vorresti per colazione?» mi chiede con sguardo ammiccante, avvicinandosi per darmi un bacio.

Il mio sguardo si sofferma sul suo seno, mi viene una mezza idea di cosa vorrei mangiare.

«Perdonami, non volevo svegliarti, cercavo un po’ d’acqua. Sono a posto così, grazie» replico sorridendo.

«Non fare colazione è da psicopatici» ride. «Posso prepararti delle uova, se vuoi» continua.

Rifiuto gentilmente la proposta, d’altronde, come potrebbe sapere? Tornata in camera da letto, indosso le scarpe lasciate sparse per terra: è il momento di andare.

«È stato un piacere…» mi sforzo di ricordare il suo nome.

«Ginevra» mi aiuta, guardandomi risentita.

«Ginevra» ripeto in automatico. «Un vero piacere, ci si vede in giro» la saluto distratta mentre cerco le chiavi dell’auto all’interno della borsa e mi avvio alla porta.

«Sarà difficile se non mi lasci il tuo numero di telefono, Irene.»

Con un sorriso mi fermo e le scrivo ciò che vuole su un foglio. La mia tattica ha funzionato, ho grandi piani per lei.

Tornata a casa e fatta una doccia, mi rivesto per andare a lavoro. Prima di uscire lancio un saluto a mio fratello, lo sento rispondere frettolosamente; non si è accorto che ho dormito

altrove.

Durante la mattinata, tra una scartoffia e l’altra, nel mio ufficio si presenta un nuovo cliente: il signor Tassinari. Imprenditore, sulla quarantina, con un matrimonio appena finito alle

spalle e tanta voglia di godersi la ritrovata vita da scapolo. Dopo aver depositato trentamila euro su un nuovo conto, il suo interesse si sposta su di me. Senza rendersi conto di quanto è

invadente, mi invita subito a cena.

Rifiuto con garbo, ma se ci tiene tanto presto sarà al centro delle mie attenzioni. Prima, però, devo finire un lavoro che ho già iniziato, non mi piace lasciare le cose in sospeso.

Chiuso l’ufficio torno da Ginevra, sarà protagonista di un’uscita interessante. Prima di presentarmi da lei, nel pomeriggio l’ho chiamata per invitarla a passare la serata insieme.

Parcheggiata l’auto, aspetto pochi minuti prima di vederla uscire dal portone e salire in macchina; seduta accanto a me, sorride raggiante e mi dà un generoso bacio sulle labbra.

«Non credevo ti saresti fatta sentire così presto» è decisamente pimpante.

«Sono piena di sorprese» sorrido, inserendo la marcia.

«Dove mi porti?» sento che non mi stacca gli occhi di dosso.

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«A mangiare la pizza migliore di Napoli, ho una fame da lupi» rispondo continuando a fissare la strada. «Poi ti mostro dove abito» concludo con un sorriso sghembo.

«Si prospetta un’ottima serata!» conclude sognante, poggiando la sua mano sulla mia, stretta sul cambio.

Sedute a tavola non smette di parlare della sua famiglia, è quasi snervante. Per fortuna le pizze che abbiamo ordinato arrivano presto. Mangio velocemente, facendo giusto un cenno di

assenso durante le pause del suo monologo. Avrei preferito saltare questa parte, ma l’esperienza mi ha insegnato che certe prede vanno conquistate con calma.

«La tua famiglia?»

«Come, scusa?» la sua domanda mi riporta alla realtà.

«Sto monopolizzando la serata, parlami un po’ di te» accenna un sorriso mentre sfiora con le dita il dorso della mia mano.

«Vivo con mio fratello, della nostra famiglia siamo rimasti solo noi due» noto l’imbarazzo nei suoi occhi che si spostano dai miei. «Tranquilla, non sei stata indiscreta. Ti va di ordinare

il dolce?»

Coglie la palla al balzo e dedica immediatamente la sua attenzione al menù, grata di avere un motivo per cambiare discorso. Ginevra non conosce il particolare hobby che condivido con

mio fratello.

Ignara dei programmi che ho in serbo per lei, a fine serata, arrivate a casa, la faccio accomodare in salotto.

«Ti porto qualcosa» mi allontano con una scusa invece di sedermi accanto a lei sul divano.

Raggiunta la cucina, verso del limoncello in due bicchieri e, assicurandomi di non essere vista, faccio cadere alcune gocce di sonnifero in uno dei due.

«Tra le tue qualità devo aggiungere anche “ottima padrona di casa”» commenta con voce soave mentre sorseggia il liquore e si inumidisce le labbra giocando con la lingua.

L’effetto è quasi immediato, dopo pochi secondi si accascia su di me.

La stendo sul pavimento, recupero delle corde, lego mani e piedi. Poi, la trascino per le caviglie fino al garage.

I giochi stanno per avere inizio.

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ROBERTO 04.05 – 22:00

La mia amata sorellina mi ha portato il dessert per stasera.

Parcheggio sul vialetto fuori casa, mentre supero il cancello d'ingresso mi accorgo che la luce del garage è accesa; sorridente entro in casa. Quando il mio vero io comincia a emergere,

solo una cosa può appagarmi: la morte. Faccio una doccia veloce e scendo nella stanza dei giochi.

Il mio regalo è disteso a terra, pronto per soddisfarmi.

Irene dal suo angolo mi sorride: «Bentornato, fratellino… sorpresa.»

Il mio giocattolo è una delicata signorina dai capelli biondi, non molto in carne, gambe lunghe e un discreto seno. Le tolgo i vestiti, si sta svegliando e devo fare presto.

Con una catena lego le braccia al gancio, la isso e la osservo dondolare.

Il rumore della catena che si avvolge termina con un sobbalzo che fa svegliare il mio dessert.

Due occhi azzurri si guardano attorno smarriti.

La musica si diffonde nella stanza, vado all’armadio degli attrezzi e scelgo un punteruolo per il ghiaccio e un coltello da cucina che appoggio sul tavolo accanto al grammofono.

Mi avvicino alla ragazza, passo il punteruolo prima sul viso e poi sul resto del corpo.

Al contatto dell’acciaio la sua pelle freme, cerca di divincolarsi; irritato le do un ceffone sul viso: «Stai ferma, cazzo!».

Il naso le sanguina, ma rimane immobile, quasi tramortita. Le prendo il mento con una mano e le appoggio il punteruolo vicino all’occhio.

«Questi occhi così belli, che sono serviti per ammaliare uomini e donne senza ritegno, che hanno mostrato eccitazione durante le tue notti lussuriose e che adesso verranno purificati

dall'acciaio freddo» pian piano infilo il punteruolo nel bulbo oculare della donna, la sento urlare, anche se il suono è ovattato dal bavaglio. Sfilo il punteruolo e lo getto a terra.

Dall’armadio prendo un paio di forbici, mi avvicino ondeggiando verso la ragazza che, muovendosi, cerca di liberarsi.

Le prendo il seno destro e taglio il capezzolo, faccio la stessa cosa con il sinistro. Lei comincia a dimenarsi e a urlare più forte, io a ridere sguaiatamente.

Mi inginocchio, apro le grandi labbra e le taglio il clitoride, la troietta si piscia addosso e mi fa scivolare le forbici per terra.

Emette l’ultimo urlo, poi perde i sensi.

Ho ancora voglia di sangue.

Prendo il coltello dal tavolo, senza perdere il ritmo della musica di sottofondo mi avvicino al suo viso, sento i miei capelli ondeggiare, un colpo secco e le recido la carotide.

Il sangue schizza oltre il cellophane che ricopre il pavimento sotto di lei.

Dovrò smacchiare con la candeggina per eliminare ogni residuo, ma non sarò io a pulire.

La slego e la lascio cadere a terra, voglio andare oltre.

Ho ancora fame.

Spengo il grammofono, con l’accetta presa dall’armadio vado verso il corpo, disteso in modo innaturale sul cellophane, e comincio a colpirla: prima le braccia e poi le gambe, colpi

secchi, precisi.

Gli arti, liberati, scivolano sulla pozza di sangue.

Altro colpo e la testa si stacca dal tronco.

Non riesco a fermarmi, continuo a colpire fino a che, stremato, l'ho ridotta in tanti pezzi che, sparsi sul pavimento, sembrano tessere di un puzzle pronto per essere ricomposto.

Lascio scivolare l’accetta dalla mano che con un tonfo cade a terra, guardo mia sorella: «Adesso tocca a te sistemarla dentro l’auto, la dobbiamo nascondere. Io vado a fare una doccia,

poi mangerò qualcosa, mi è venuta fame» non aspetto risposta, fischiettando salgo in bagno e mi getto sotto l’acqua calda.

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IRENE 05.05 – 01:30

La luna è al massimo del suo splendore e conferisce alla cava una discreta visibilità anche a quest’ora della notte. Percorriamo una stradina con ai lati cumuli di macerie, materassi

consumati e lavatrici scassate. La quinta sinfonia di Beethoven riempie l’abitacolo della macchina. Mio fratello guida e nel mentre racconta i dettagli del suo ultimo gioco. «Dividi e

conquista» dice, si riferisce al fatto che dentro il portabagagli sono nascosti quattro sacchi neri e ognuno di essi contiene alcune parti di Ginevra. Ascolto e fumo in silenzio mentre

continua a sproloquiare sul suo operato.

«Ci siamo, qui andrà bene» decide.

Scendiamo dall’auto e recuperiamo i sacchi. Spostare corpi e scavare buche comporta una notevole fatica; i miei colleghi sono convinti che faccia palestra, ma il mio vero “sport” è

questo. Il mio fisico si è adattato agli sforzi, tanto che accuso sempre meno la fatica mentre continuiamo a scaricare la macchina.

«Porta questi laggiù, dove ci sono quelle due poltrone sfondate, sono i meno pesanti. Poi non venirmi a dire che non ti voglio bene» pronuncia con ironia l’ultima parte della frase.

«Mai pensato, sei sempre così premuroso» rispondo con dolcezza. Non mi presta attenzione, è troppo impegnato nella sua opera.

Mi incammino verso il punto indicato e scosto qualche rifiuto per nascondere i sacchi. Faccio molta attenzione a non lasciare tracce del mio DNA; col tempo siamo diventati esperti nel

nascondere i corpi delle nostre vittime. Torno indietro, ma dopo pochi passi vedo Roberto arrivare verso di me con una tanica di benzina.

«Che fai?»

«Ti va di fare un bel falò?» il suo sorriso non ammette repliche.

«Certo, quello che desideri.»

Il suo capriccio ci porta via un’altra ora, sono le tre del mattino.

«Dobbiamo andare, potrebbero notare le fiamme e insospettirsi» sussurro guardandomi intorno.

«Siamo nella terra dei fuochi, sorellina, queste cose sono normali!» ride prendendomi in giro.

«Hai ragione, ma non voglio preoccupazioni inutili, andiamo a casa?» chiedo quasi supplicando.

«Come siamo suscettibili! E va bene. Però hai rovinato il divertimento» pronuncia con tono acido.

Ricopriamo con della terra i resti ormai bruciati del corpo. L’odore che hanno sprigionato ha impregnato i nostri vestiti ed è nauseante. Puzziamo di morte e questo contribuisce a fare

alzare la nostra adrenalina.

Tornati a casa e dopo aver fatto una doccia, aspetto il tempo necessario perché lui si addormenti prima di uscire nuovamente. Le immagini di mio fratello che trucida la nostra vittima

sono ancora vivide nella mia mente. Per notti come queste c’è solo una soluzione. Guido fino alla mia destinazione. Una volta arrivata, busso alla porta e attendo.

«Sono le cinque del mattino, Irene, che ci fai qui?» domanda vedendomi sulla soglia.

«Non ha importanza» le dico.

L’afferro per i capelli e la bacio con trasporto. Lei non si oppone e mi accoglie con un gemito. Chiude la porta alle mie spalle con un calcio e mi trascina verso il letto. L’adrenalina si

trasforma in furia e poi in desiderio, la spingo contro il muro, le tolgo la vestaglia. Indossa solo un perizoma, che le strappo via mentre cerca di sfilarselo.

«Li fanno troppo sottili» sussurro mentre scendo tra le sue gambe.

Una smorfia di piacere nasce nella sua bocca. La guardo un’ultima volta prima di concentrarmi sulla parte più profonda di lei. Chiude gli occhi e inclina la testa, abbandonandosi.

***

Al mattino mi sveglia la suoneria del cellulare. Rispondo senza guardare il numero sul display.

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«Dove sei?»

Riconosco il tono, si è svegliato irritato per qualcosa.

«Sono dovuta uscire presto, ho molto da fare in ufficio» mi costringo a mentire, ammettere che ho dormito fuori senza avvisarlo aumenterebbe il suo disappunto.

«Torna a casa, ho visto i notiziari. Dobbiamo parlare del nuovo commissario.»

«Porterà problemi?»

«Irene, quando mai abbiamo avuto problemi?» riattacca con una sonora risata.

Mi dirigo in bagno per lavarmi il viso, la giornata non è iniziata nel migliore dei modi, per poco mio fratello non scopre il mio piccolo segreto. Esco dal bagno e raccolgo i miei vestiti,

improvvisamente mi sento tirare per un braccio e cado di nuovo sul letto.

«Ciao, straniera» mi saluta lei con un bacio sulle labbra. «Devi già andare via?»

«Buongiorno, purtroppo sì, questioni di famiglia» rispondo concedendole un altro bacio.

«Posso prima cercare di convincerti a fare colazione insieme?»

«Mi dispiace, Sara, devo andare.»

Mi allontano da lei e riprendo a vestirmi, noto il suo sguardo furioso.

«È sempre così. Arrivi quando vuoi alle ore più impensate, scopiamo e poi vai via! Da quanto tempo va avanti così? Non so nulla di te o della tua famiglia, non so nemmeno che lavoro

fai!»

«Ed è meglio così, credimi, e poi il mio lavoro è una gran rottura» rispondo allacciandomi i jeans.

«Non può continuare così, non sono la tua puttana!»

«Non ho mai detto questo» replico con noncuranza mentre mi infilo una scarpa.

«E guardami negli occhi quando ti parlo, razza di…»

Non le viene la parola, di conseguenza mi lancia un libro posato sul comodino.

«Che tu sia per me il coltello, di Grossman. Ottima lettura, mai pensato di provare Bulgakov?» cerco di farla calmare.

«Smettila! Mi sono stancata di come vanno le cose! Non ho nemmeno il tuo numero di telefono! Ma in che mondo vivi? Le persone normali si cercano!»

«Stai dando per scontato che io sia normale?» commento mantenendo il mio tono ironico.

«D’accordo, Irene, va bene. Se per te è tanto difficile creare rapporti, questa è l’ultima volta che ci vediamo. Trovati qualcun’altra con cui sfogarti quando ne avrai bisogno.»

Non ci penso neanche, non ho nessuna intenzione di rinunciare all’unica cosa che, nella mia vita, è solo per me. Mi avvicino a lei e le blocco le braccia prendendola per entrambi i polsi.

«Forse non ci siamo capite. Tu sei mia. Ho bisogno di te» la fisso negli occhi.

«Tu…» cerca di rispondere, ma è troppo tardi, scendo di nuovo fra le sue gambe «… sei una stronza» alla fine si arrende.

Qualche minuto più tardi sono in macchina, torno a casa da Roberto. Prima di raggiungerlo faccio tappa alla sua pasticceria preferita per comprargli qualche sfogliatella. Spero così di

ammorbidirlo.

«In città è arrivato il nuovo commissario, Elena Masala. Cerca di scoprire tramite le tue conoscenze in banca quanto più possibile di lei, chiaro?» ha le mani sporche di ricotta e ricoperte

di zucchero a velo, ogni morso è avido di piacere. Nonostante questo, l’ordine scaturito dalla sua voce è irremovibile.

«Certo, fratellone, c’è qualcos’altro che posso fare?»

«Trovami un altro maiale, voglio dare a Elena il benvenuto che merita nella nostra città.»

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CAPITOLO TERZO
LA FESTA

IRENE 07.05 – 09:30

Sono passati due giorni dai compiti che mi ha affidato Roberto. Per quanto riguarda Elena, cerco di raccogliere informazioni dai miei clienti, ma non è facile e finora ho avuto poco

successo. Per la questione del maiale, senza neanche sforzarmi troppo, ho preparato in ufficio proprio quello che mi serve.

«Buongiorno, signorina» mi saluta sornione.

«Buongiorno, signor Tassinari, in cosa le posso essere utile oggi?»

«In tante cose, mia cara. Per cominciare, potresti versare questo assegno sul mio conto?»

È una cifra consistente. A quanto pare, vuole stupirmi con le sue finanze. Decido di stare al gioco.

«Certo, desidera altro?» utilizzo la voce più sensuale che riesco a trasmettere.

«Beh, ci sarebbe una festa, stasera. Mi chiedevo se ti piacerebbe essere la mia accompagnatrice.»

«Oh, mi piacerebbe tantissimo.»

Si sporge oltre la mia scrivania e mi prende la mano.

«Passo a prenderti alle ventuno e trenta?» mi chiede sfiorandola con le labbra.

Gli scrivo su un foglietto l’indirizzo mentre trattengo la nausea che mi provoca l’odore del suo dopobarba, gli rispondo che per quell’ora sarei stata pronta. Lui sorride, sicuro di aver

fatto colpo; io, d’altra parte, sono molto curiosa di sapere a quale festa mi porterà. Tassinari mi sposta un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, i suoi occhi non lasciano spazio

all’immaginazione e quello che sta pensando è chiaro come il sole. Sono tentata di ricambiare il suo sguardo ammiccante, pregustando la conquista, ma non è questo il momento. Fingo

imbarazzo e guardo altrove con un mezzo sorriso. Lui, soddisfatto, mi saluta e se ne va, accennando l’impegno di una riunione. Osservo la sua schiena mentre si allontana da me, e penso

alla possibilità di portare un altro passatempo a mio fratello. La notizia della festa lo soddisferà sicuramente, ma voglio fare di più per lui, molto di più. Una doppia esecuzione! Perché

no? Ne rimarrà deliziato.

Poco prima di chiudere l’ufficio, vado a sistemarmi in bagno. Slaccio un bottone della camicia evidenziando la scollatura che, benché non sia generosa, lascia intravedere un seno sodo.

Il tessuto di raso accentua la sporgenza dei capezzoli. Cerco di ravvivare i capelli con le mani, alcune ciocche più chiare di altre rimandano un riflesso biondo. Osservo allo specchio il

mio viso ovale: il trucco è sbiadito, così ripasso le labbra sottili con un rossetto e il contorno degli occhi con una matita nera.

Il fisico alto e atletico, con le gambe affusolate strette in un paio di collant, farà il resto.

Una volta fuori dal bagno, punto un mio collega di cui è nota la facilità con cui cede al fascino femminile. Una preda così facile da farmi quasi annoiare, basta un’allusione al sesso e

Palumbo cade come una foglia secca. Senza perdere tempo lo invito nel mio ufficio, gli offro un bicchiere del mio limoncello che tengo nel cassetto della scrivania per le occasioni

speciali. La dose di narcotico è leggera, comincia a fare effetto quando arriviamo alla macchina: si addormenta sul sedile mentre guido verso casa. Un pesce nella rete, la mia rete, creata

apposta per il divertimento del mio amato fratello.

Le luci del salotto sono accese, Roberto è già arrivato. Trascino l’ingenuo in garage passando dall’esterno del giardino. Prima di andare alla festa con Tassinari, c’è tempo per un altro

gioco.

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ROBERTO 07.05 – 19:00

Sono sicuro che stasera mia sorella mi farà un regalo. L’ho sentita arrivare e parcheggiare l’auto fuori dal garage.

Non vado a riceverla, mi metto seduto sul divano in soggiorno. Dopo qualche minuto, lei arriva sorridendo e si siede per terra davanti a me.

«Che ridi a fare?» le chiedo quasi divertito.

«Fratellino, ho una bella sorpresa.»

«Spero sia qualcosa di speciale, sai che ho aspettative alte.»

«Vedrai, ho già pensato a tutto» mi dice. «Prima di portarti nella tua stanza, ti devo dire una cosa.»

Fa una piccola pausa e poi mi guarda negli occhi. «Sono stata invitata a una festa e se, come credo, saranno tutti snob, avrò finalmente la possibilità di far abboccare un pesce grosso che

ci darà informazioni su Elena Masala. Inoltre, se il mio piano funziona, a fine serata avrai una seconda preda!»

I miei occhi si illuminano e comincio a ridere. «Sorellina, dobbiamo prepararci bene, essere astuti, non dobbiamo farci scoprire!»

«Fidati di me, so come fare. Adesso vieni a giocare un po’» mi dice prendendomi per mano «c’è un premio che ti aspetta.»

La seguo senza dire nulla, sto assaporando mentalmente la mia vendetta. L'arrivo del commissario ha fatto risvegliare in me ricordi che pensavo rinchiusi in un luogo della mia mente

non più accessibile, invece, come un uragano, sono tornati, pronti a diventare la mia rivincita.

Entro nella stanza sognante e lo vedo appeso, il mio trofeo, un ometto di mezza età stempiato e impaurito.

Avvio il grammofono, mentre ballo infilo i guanti e la mascherina.

Un tango risuona per tutta la stanza. Con la mente mi ritrovo nel fienile della casa famiglia, sono con uno dei miei fratellastri, ha cercato di toccare mia sorella e deve essere punito. L’ho

legato a una trave e lo sto picchiando.

Scuoto la testa, il passato non deve distogliermi dal mio divertimento. Prendo in mano la katana che ho preparato sul tavolo e continuo a ballare.

«Sorellina mia, mi hai reso felice» la caviglia sinistra si stacca di netto a fil di lama e il piede cade con un tonfo secco.

Ancora nel fienile, la mia mano sferra un pugno nello stomaco del ragazzino legato, gli tolgo il fiato.

Barcollo con in mano la katana, inizio a non distinguere il passato dal presente, a ogni colpo inferto vengo ricacciato con la mente in quel fienile, mi fermo un secondo, ascolto la musica

e mi rimetto a ballare.

«Dobbiamo pianificare ogni cosa» anche il piede destro fa la stessa fine del sinistro.

Il mio pugno finisce sul viso del ragazzo, gli faccio saltare un paio di denti, dal dolore comincia a piangere.

L’uomo urla forte, questo mi aiuta a tornare nel presente.

Quella prima volta, nel fienile, ho attivato tutto quello che sono oggi, non ho ucciso il ragazzino, ma nessun altro ha più toccato mia sorella da quel giorno. I ricordi svaniscono del tutto,

torno alla stanza e ricomincio a ballare.

«Ancora non è il momento della vendetta» la gamba sinistra, da sotto il ginocchio, vola per qualche centimetro e cade a terra rotolando.

L’uomo rantola, il sangue esce a fiotti e schizza in ogni direzione.

«Devo riscaldarmi, devo preparare qualcosa di epico» gamba sinistra e gamba destra, entrambe fino all’inguine, cadono sul pavimento e scivolano sul sangue rosso vivo che si sta

espandendo sul cellophane e per buona parte della stanza.

Sono mesi che uccido vittime scelte a caso da mia sorella tra deviati e barboni.

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Poi, la nuova ala di massima sicurezza del carcere prende il nome dell'assassino di mio padre, e la figlia, Elena Masala, è diventata il nuovo commissario. Questo sposta i miei giochi

verso una vendetta, lei pagherà per i peccati del padre, mi divertirò ancora di più.

Mentre immagino il dolore e la sofferenza che farò provare al commissario, prendo mia sorella per mano, mi avvicino al corpo ormai esanime della vittima di turno e do l’ultimo colpo di

spada leggermente sotto i capezzoli: viscere e organi escono appena il mezzo tronco tocca terra, il cuore fa ancora un paio di battiti prima di fermarsi sul pavimento come un pesce che

muore fuori dall’acqua, annaspando in cerca della vita.

Lascio cadere la spada e abbraccio mia sorella, e proprio tra ciò che è rimasto del corpo cominciamo a ballare un paso doble, il ballo della mia vendetta.

Da oggi in poi, Napoli dovrà avere paura di noi.

«Balla, sorella, balla con me» le dico volteggiando insieme nella stanza.

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ELENA 07.05 – 21:30

Come promesso, Totò mi avvisa del suo arrivo. Il messaggio, da un numero non presente in rubrica, mi ha un po’ spiazzata, ma ha avuto l’accortezza di firmarsi e avvertirmi che verrà

pure il compagno. Almeno adesso riuscirò a dare un volto al ragazzo del quale non smette di decantarne le lodi.

Diretti verso la festa sento gli occhi di Giggino – seduto dietro – addosso. Quando sono passati a prendermi e sono scesi entrambi per salutarmi, ho avuto come l’impressione che Totò

volesse rassicurarlo, mettendogli un braccio sulla spalla. Un bel ragazzo, leggere movenze femminili e delicato. Dieci centimetri in più e sarebbe stato perfetto: o forse sono io fuori

misura, che con i tacchi sfioro il metro e ottanta.

«Da quanto state assieme?» rivolgo la domanda a tutti e due, ma lo sguardo è puntato sugli occhi del ragazzo seduto dietro, riflessi sullo specchietto della visiera parasole.

«Tre anni.» Totò anticipa la risposta di Giggino che, forse, risentito dall’essere stato preceduto, precisa: «Tre anni e tre mesi, per l’esattezza!»

Lasciata la macchina al parcheggiatore, entriamo nella sala con Totò tra di noi che ci tiene a braccetto, come a voler sottolineare chi è il cavaliere di questo insolito trio. Do una rapida

occhiata in giro per rendermi conto che, a parte poche persone del commissariato, non conosco nessun altro; sul fondo della sala due ampie porte si aprono su una terrazza nella quale è

allestito il buffet. Mi sgancio dal suo braccio e gli sussurro che esco a prendere un aperitivo. Il mio invito ufficiale mi costringe a rendere onore alle personalità presenti, questore in testa.

Ho sempre vissuto con fastidio questi eventi mondani, frequentati da persone altolocate che non perdono occasione per sbatterti in faccia la loro posizione privilegiata, spesso conquistata

a danno di qualcun altro. Oltre il questore è presente il commissario capo, entrambi accompagnati dalle rispettive consorti. Persone squisite, che per fortuna non hanno dirottato il

discorso sul lavoro, parlandomi solo della bellezza di Napoli, fatta di tradizioni, quartieri da visitare e prelibatezze da assaggiare nei suoi vicoli caratteristici. Grazie a loro, e alle persone

che mi sono state presentate nel corso della serata, il tempo è volato; con la scusa di raggiungere gli amici con i quali sono venuta, mi congedo con la promessa di rivederci in situazioni

meno formali.

Lasciate le nuove conoscenze mi ricongiungo con Totò e Giggino. I loro sguardi, nel momento in cui si incontrano, esprimono l’amore che li unisce e che conferma ancora una volta

quanto avessi ragione su di lui.

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IRENE 07.05 – 21:30

Osservo la macchina parcheggiata fuori dal cancello, oltre la siepe: è arrivato puntuale. Decido di farlo aspettare dieci minuti in più solo per il gusto di fargli accrescere il desiderio. Poi,

scendo la piccola scalinata esterna e lo raggiungo in macchina. Mi squadra dalla testa ai piedi con un sorriso compiaciuto, e parte.

Mi porta alla festa più noiosa che abbia mai visto. Ci sono babà ovunque e una sfilza di grossi e pomposi maiali che fanno a gara a chi è più influente. Mi viene la nausea.

In momenti come questo apprezzo infinitamente quello che facciamo io e Roberto.

«Ho notato un mio caro amico, posso presentarvi?» mi chiede Tassinari.

«Ma certo, se è affascinante come te, molto volentieri» rispondo con voce suadente, siamo passati a darci del tu. Ci addentriamo nella folla e, tra profumi inebrianti e bicchieri di

champagne pericolosamente in equilibrio, ci dirigiamo verso un gruppo di persone. Tassinari si insinua nel loro discorso come se fosse stato sempre presente alla conversazione.

«Lui è Salvatore Gallo!» dice presentandomi uno degli uomini del gruppo, anche se dal suo sguardo sembra desiderare più di un'amicizia.

«Alberto Tassinari! Che piacere incontrarti, ma dimmi, chi è questa splendida signora con te?» risponde l’altro in evidente imbarazzo, cercando di sviare lo sguardo su di me.

«Lei è la signorina Irene Formisano, il tuo accompagnatore chi è?» chiede Tassinari, vedendo che Salvatore è affiancato da un uomo. Le sue fantasie perverse stanno sicuramente

prendendo forma nella sua mente, immaginando chissà quali scenari.

«Piacere di conoscerla, sono Luigi Varone, il compagno di Totò» l’accompagnatore di “Totò” si presenta cercando di porre fine agli equivoci.

Non so come riesco a trattenere le risate, questo incontro è la cosa più imbarazzante che abbia mai visto. Luigi, avvinghiato a Salvatore, marca il territorio, mentre Tassinari, ancora

immerso nelle sue fantasie, non viene scalfito minimamente dalla cosa.

«Piacere di conoscervi, Luigi e Salvatore» sorrido gentilmente, cercando di smorzare la tensione.

Continuo a non sopportare questa festa, ma grazie a Totò vengo a conoscenza di un dettaglio molto interessante.

«Vorrei presentarti una persona, una mia vecchia amica, persona veramente squisita.»

«Molto volentieri» risponde Tassinari. «Di chi si tratta?»

«Elena Masala. Probabilmente, se hai seguito i notiziari, ne avrai già sentito parlare, è il nuovo commissario» risponde Totò, vantandosi di quanto sia importante la sua conoscenza.

«Ma non mi dire! Sarà un vero piacere conoscerla. Dov’è adesso?» replica Alberto con una chiara nota di invidia nella voce.

«Si è allontanata un attimo per una telefonata. La vado a cercare, aspettatemi qui.»

Il cuore mi batte a mille, guardo Totò allontanarsi, l’emozione mi fa tremare le mani. Roberto mi ha ordinato di raccogliere informazioni su di lei. Nemmeno nei miei sogni più rosei mi

poteva venire in mente di incontrarla proprio qui, stasera. Prendo al volo un bicchiere e assaggio lo champagne per calmarmi, le bollicine mi solleticano il palato mentre aspetto, non

vedo l’ora di conoscere la mia nuova preda.

18
ELENA 07.05 – 22:30

«Scusate» la vibrazione del telefono in tasca arriva nel momento in cui un paio di persone si avvicinano a noi. Non ho potuto fare a meno di notare l’imbarazzo crescere sul viso di Totò.

Lo conosco abbastanza bene da capire che non è per niente contento di questo incontro. Appena posso, soddisferò la mia curiosità di sapere chi siano.

«Sì, pronto» lasciato il gruppetto, mi allontano per rispondere. È il numero del commissariato. «Dimmi, Gargiulo. Non riesco a sentirti bene. Cosa hanno trovato? Un cadavere? Va bene,

mandami immediatamente una macchina, mi trovo alla Bersagliera.»

Chiusa la telefonata, informo Totò che devo andare via per questioni di lavoro. Con calma gli dirò cosa è successo.

19
IRENE 07.05 – 22:30

Una bambina al parco giochi, ecco come mi sentivo sino a un attimo fa, la situazione era perfetta, non avrei potuto chiedere di meglio. Salvatore torna e ci informa che Elena è dovuta

andare via per una chiamata dalla centrale. Rammaricata per l’occasione sfumata, cerco di sfruttare al meglio il momento. Così, parlando con Totò, vengo a conoscenza della famiglia del

commissario lasciata a Genova, di come si sono conosciuti lei e Salvatore nel periodo universitario e, fatto ancora più importante, della sua trasformazione fisica, elemento che darà a

Roberto un motivo in più per odiarla.

Sembra Natale, tutte queste informazioni regalate da uno sconosciuto piovono dal cielo. Felice delle mie scoperte, non vedo l’ora di condividerle con mio fratello. Con una scusa mi

allontano per telefonargli.

«Sorellina! Come va?»

«Molto bene! Non puoi immaginare chi ho incontrato!» rispondo.

«Raccontami tutto.»

«Ho incontrato un caro amico della nostra Elena, mi ha dato molte informazioni utili sul suo conto. Per poco non incontro anche lei, ma è dovuta andare via presto.»

«Ottimo! Veramente ottimo, perché non hai seguito il nostro commissario?»

«Purtroppo era fuori dalla mia portata. Inoltre, ti ricordo che ho qui la mia preda.»

«Non mi interessa della tua preda! Abbiamo un obiettivo più grande. Non vorrai deludermi, sorellina» sussurra con voce tagliente, la rabbia trattenuta a fatica è palese.

«No, Roberto, assolutamente no» rispondo rattristata.

«Molto bene» riprende freddamente. «Ora devo lasciarti, questi turni extra in ospedale mi stanno uccidendo» ride sguaiatamente a una battuta che capisce solo lui e chiude la chiamata.

Torno dal gruppo che questa sera mi sta regalando così tante sorprese e noto che Luigi e Tassinari sorreggono Salvatore.

«Cos’è successo? Sapevo di non poter lasciare tre uomini da soli» cerco di scherzare.

«Siamo appena tornati dal bagno, Salvatore ha rimesso, è tutto sudato e ora si sente debole. Non so cosa gli stia succedendo» risponde Luigi, evidentemente preoccupato.

«Stai tranquillo, Giggino, saranno state le ostriche, non avrei dovuto mangiarne così tante» boccheggia Totò con la sua irriducibile ironia.

«Forse è meglio chiamare un’ambulanza» propone Tassinari.

Improvvisamente, mi viene un’idea per recuperare la fiducia di Roberto.

«Possiamo accompagnarlo noi, ho delle conoscenze in ospedale» propongo.

«Davvero?» vedo il volto di Luigi illuminarsi.

«Certamente! Possiamo andare subito se volete» lo rassicuro.

Senza aspettare un altro secondo ci avviamo al parcheggio, salgo nella macchina di Luigi e Salvatore, con Tassinari subito alle nostre spalle.

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ROBERTO 07.05 – 22:30

La sera in ospedale trascorre tranquilla tra cambi di flebo e qualche prelievo urgente; tutto è come al solito. Mentre sono in cucina a consumare un panino che ha portato un mio collega,

la caffettiera fischia sul fornello e tra un morso e l’altro preparo le tazze sul tavolo.

Vengo interrotto dallo squillo del telefono, mi scuso con i miei colleghi e mi metto in disparte per rispondere.

«Sorellina, come va la serata?»

«Molto bene, non sai questa sera cosa ho scoperto» mi dice.

«Raccontami tutto.»

«Ho incontrato un caro amico della nostra Elena, mi ha dato molte informazioni utili sul suo conto. Per poco non incontravo anche lei, ma è dovuta andare via per una chiamata di

lavoro.»

«Ottimo! Veramente ottimo, sorellina, perché non hai seguito il nostro commissario?»

«Purtroppo era fuori dalla mia portata. Inoltre ti ricordo che ho qui la mia preda.»

«Non mi interessa della tua preda! Abbiamo un obiettivo più grande. Non vorrai deludermi, sorellina» sussurro con voce tagliente.

«No, fratellone, assolutamente no.»

«Molto bene» dico seccato. «Ora devo lasciarti, questi turni extra in ospedale mi stanno uccidendo.»

Chiudo il telefono prima che lei mi risponda, faccio due respiri per calmarmi e poi con un sorriso entro in cucina.

Mentre sorseggio il mio caffè, la mente divaga, la festa poteva essere il nostro appiglio per avvicinarci al commissario, non riesco a concludere il pensiero che il cellulare vibra, lo apro,

ma non riesco a leggere il messaggio, perché un collega arriva dal corridoio chiamandomi.

«Roberto, hanno telefonato dal PS, è in arrivo una probabile intossicazione alimentare.»

«La ventisette è libera, mettilo lì. Preparo i documenti per l’accettazione e arrivo.»

Prendo cartella e sfigmomanometro e con mille pensieri in testa mi dirigo verso la stanza ventisette.

Fuori dalla stanza vedo mia sorella, l’ira mi sale velocemente. “Che cazzo ci fa qui?”, penso.

«Aspettami in sala d’attesa che arrivo» le sussurro mentre le passo accanto, fulminandola con lo sguardo.

Poi, sfoggio il mio sorriso migliore ed entro nella stanza. «Buonasera, sono Roberto Esposito, responsabile della chirurgia. Devo farle alcune domande, il medico sta arrivando, non si

preoccupi, è in buone mani.»

Sbrigata la parte burocratica, resto con il medico durante la visita e ordino alla mia collega di fare gli esami ematici e somministrare la terapia prescritta.

Devo raggiungere mia sorella, sono furioso, ma devo trattenermi perché non è sola, vicino a lei c’è un uomo che appena mi vede si avvicina parlando a voce alta. «Dottore, mi dica, è

grave?»

Lo fisso, capisco la sua preoccupazione, avere una persona cara in ospedale rende tutti fragili. Gli sorrido e gli metto una mano sulla spalla per cercare di confortarlo. «Non sono un

medico, sono il responsabile infermieristico del reparto, stiamo facendo tutti gli esami del caso.»

«Posso entrare in stanza per salutarlo?» mi chiede.

«Certo che può, solo un saluto, però, è notte e ci sono pazienti che stanno riposando, tornerà domani con più calma.»

Appena entra nella camera, prendo il braccio di mia sorella e lo stringo violentemente. «Che cazzo ci fai qui?»

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«Lasciami parlare, Roberto, mi fai male, rilassati, ma tu non li leggi i messaggi?»

«Mi dici di rilassarmi, di leggere… Il nostro commissario è in giro, e probabilmente ha trovato il corpo a pezzi, e tu, invece di seguirlo, hai portato un finocchio in ospedale…»

«È l’amico del commissario, quello nella stanza, sono riuscita a farlo portare qua.»

Lascio la presa e lei si massaggia il braccio per il dolore.

«Ok, lui è l’amico di quel commissario, e adesso è qui?»

«Esatto, e non sai cosa ho scoperto su di lei, so dove abita, dove lavora, e persino chi frequenta. Roberto, l'abbiamo in pugno…»

Non le faccio finire la frase, la bacio sulla bocca, cerco di contenermi, anche se in quel momento l’euforia sta diventando quasi ingestibile.

 Ho voglia di sangue.

«Mi mancano poche ore alla fine del turno. Appena arrivo a casa mi racconti ogni cosa, ho bisogno di sfogarmi, prima vedrò di trovare qualche puttanella in giro.»

«Non ti serve» mi dice. «Ho Tassinari che mi aspetta in auto, te lo preparo per quando torni.»

«Perfetto, preparerò anche la batteria con i cavi, sarà una serata elettrizzante.»

Mi giro e mi dirigo in guardiola sorridente.

Tutto sta prendendo la forma che voglio, ho tutto il tempo per preparare la mia vendetta.

Il paziente della ventisette sarà la pedina vincente.

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ELENA 07.05 – 22:45

Ferma davanti all’entrata della Bersagliera, attendo l’arrivo della macchina mandata dal mio assistente. Non passa molto che una Giulia grigia sbuca dall’incrocio. L’alto numero di giri

del motore mi dice che era in piena velocità prima di svoltare. Con uno stridore di gomme arresta la sua corsa a pochi metri da me, oltre le macchine parcheggiate. Dal finestrino

abbassato l’autista mi saluta, invitandomi a salire. È uno di quelli che ancora non conosco; uno sbarbatello di primo pelo. Come è arrivato, riparte. La forte accelerazione della macchina

mi inchioda al sedile di fianco a lui. Per sicurezza ho messo la cintura e mi mantengo alla maniglia sopra la mia testa.

«Dove siamo diretti?» Gargiulo mi ha comunicato al telefono il luogo del ritrovamento, ma spezzare il silenzio dell’autista con le informazioni richieste mi aiuta a farmi un’idea di

quello che troveremo.

«È nell’area delle cave dismesse di Chiaiano, commissario. Ci vorrà una mezz’oretta per arrivare.»

«Chi l’ha trovata?»

«I vigili del fuoco. Sono intervenuti per uno dei soliti incendi. In quella zona spesso ci vanno a dormire barboni e per scaldarsi accendono dei fuochi. Appena spento si sono resi conto

che c’era altro» terminata la ricostruzione, fa una pausa prima di continuare: «Immagino che non saranno rimasti molti indizi con tutta quell’acqua.»

«Già. Quello che non ha distrutto il fuoco, probabilmente è stato spazzato via dai pompieri» rifletto su quello che ha detto l’agente. Non è così sbarbato come pensavo. Se non altro ha

capacità di ragionamento.

«Come ti chiami?» mi volto leggermente nella sua direzione, mentre a sirene spiegate avanziamo a gran velocità nel traffico della notte. Sembra che qua non si interrompa mai, a quanto

ho visto in questi pochi giorni.

«Giulio Iannone.» Avrà sì e no ventotto anni.

«Sei di qua?»

«No, di Salerno. Siamo quasi arrivati, commissario.»

«In che zona siamo?» Non ho ancora avuto modo di inquadrare le varie località.

«Non siamo distanti dal commissariato. Abbiamo impiegato molto perché lei si trovava dall’altra parte della città.»

«La prossima volta vedrò di farmi trovare in ufficio.»

«Scusi?» Perplesso dalla mia risposta, prossimo a fermarsi, giunti sul posto, travolge alcune cassette di legno buttate ai margini di un’area verde. «Ma porc–» strozza in bocca la

bestemmia che stava per esplodere.

«Tranquillo. Quando ci vuole ci vuole.» Scendo dall’auto con un sorriso di compiacimento dell’agente; non mi interessa passare per il classico stellato troppo attento al regolamento. Se

l’avessi ripreso non avrei guadagnato il suo rispetto e nemmeno la sua fiducia.

Fatti pochi passi rimpiango subito di non essere qui con la mia piccola Volvo e con le mie scarpe di riserva che tengo nel portabagagli. Sembra fatto apposta, ma le volte che riesco a

vestirmi in maniera decente per una cena o una festa, ricevo una chiamata per un sopralluogo. Anche oggi dovrò stare attenta a non rompermi il tacco su qualche pietra o fosso.

La luna piena consente una discreta visibilità; le fotoelettriche dei mezzi presenti, unitamente ai lampeggianti accesi, creano un’aurora artificiale che si spande nella notte, rendendo

superfluo l’utilizzo di torce per arrivare alla scena primaria. I vigili del fuoco hanno già spento il rogo, di cui resta solo una colonna di fumo azzurrognolo che si mantiene visibile nel

cielo. Alcuni di loro stanno avvolgendo le manichette, altri si attardano parlando con i miei uomini. C’è anche la scientifica che lavora. Scruto il terreno per cercare di capire dove posso

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evitare di affondare nel terreno, reso limaccioso dalla copiosa quantità di acqua utilizzata. Il primo passo, fatto in quello che ritenevo un punto asciutto, inghiotte il mio piede destro per

metà. Pazienza, mi dico, un altro paio di scarpe da buttare. Vado avanti, con la sola premura di non cadere o storcere una caviglia.

«Buonasera, signori, sono il commissario Elena Masala.» A parte un paio di agenti e il mio assistente Gargiulo, non conosco gli altri, né tantomeno i vigili del fuoco presenti. Ricevo una

serie di saluti e qualche sguardo alle mie gambe scoperte. Poco male.

«Buonasera, Elena.» Gargiulo mi si fa vicino assieme a uno dei pompieri.

«Questo è il responsabile della squadra intervenuta stasera, De Rosa.»

«Che mi sapete dire?» A quanto mi ha detto Iannone in macchina, tutta l’area delle cave è ricoperta da vegetazione spontanea da quando è stata dismessa e spesso viene utilizzata come

discarica abusiva.

«Abbiamo ricevuto una chiamata in centrale che ci avvisava di un incendio. Uno dei nostri abita in zona e ha verificato che si trattava di poca roba, per cui siamo intervenuti solo con una

squadra. È una zona boschiva e l’area è soggetta a tutela. Adesso è tutto in sicurezza, per cui, se non ha bisogno di noi, ritiriamo tutto e rientriamo alla base.»

«Sì, grazie. Per il momento non abbiamo più bisogno. Eventualmente ci sentiremo per il rapporto.»

Da una catasta dalla forma indefinita che trasuda ancora acqua si sperdono nel cielo volute di fumo simili a trecce in assenza di gravità. Tutto attorno al punto del rogo, nonostante l’area

sia considerata patrimonio da tutelare, altri mucchi di rifiuti, frigoriferi dismessi, scaldabagno arrugginiti.

«Non è un bello spettacolo, eh.»

«No, direi di no» rispondo a Gargiulo in automatico, mentre mi faccio un’idea del posto.

«Del cadavere che mi sai dire?» Ci avviciniamo a un altro mucchio di rifiuti visibilmente anneriti dal fuoco.

«Non vi so dire molto per il momento. Stiamo aspettando il magistrato per poter muovere il corpo. Ma dal poco che è rimasto dei vestiti trovati vicino al corpo, potrebbe trattarsi di una

donna, sempre che gli indumenti fossero i suoi e non già presenti.»

«Nemmeno il tempo di prendere servizio e già mi trovo un cadavere per le mani.»

«Vi abituerete in fretta, Elena. Qui, tra vittime di camorra, regolamenti di conti tra clan e femminicidi non ci si annoia mai, purtroppo.»

Percepisco nella sua voce una sorta di rassegnazione a quello che ha detto. Anche se nel corso degli anni si è avuta una importante riduzione degli omicidi, è pur vero che la Campania

resta la regione con il più alto tasso di questo genere di crimini.

«Ecco Gualtieri.» Edoardo Gualtieri, sostituto procuratore e noto rompipalle. Temo che sentirò il suo fiato sul collo nei prossimi giorni.

«Dottore, buonasera.» Aspetto che si avvicini per stringergli la mano e riferirgli le prime impressioni.

«Commissario. Che mi dice?»

«Il cadavere è stato rinvenuto dai vigili del fuoco intervenuti per lo spegnimento di un rogo. Dopo una breve perlustrazione hanno notato alcuni mucchi di sacchi bruciati dal quale

spuntava qualcosa e hanno avvertito la centrale. Aspettavamo lei per lasciare il campo libero alla scientifica.»

«Va bene, potete rimuovere il corpo e proseguire i rilievi. Aspetto il suo rapporto domattina. A proposito, benvenuta a Napoli.» Poche parole, dopo aver compilato le sue scartoffie.

Ricevuto il benestare, gli uomini della polizia mortuaria recuperano il cadavere e lo chiudono in un sacco impermeabile, prima di collocarlo nel contenitore metallico e portarlo

all’obitorio.

Dovrò attendere l’esame autoptico, prima di farmi una vaga idea di chi sia e di come sia morta. I resti di vestiti rinvenuti sembra non lascino dubbi sul fatto che fosse una donna. O

qualcuno che li vestiva.

«Iannone!» chiamo l’agente fermo vicino al nastro che delimita l’accesso all’area.

«Comandi, commissa’!»

24
«Qua abbiamo finito, mi accompagni a casa, per favore.»

«Vi siete fatta un’idea, commissario?» Passata l’emergenza, la sua guida è più morbida mentre siamo sulla strada del rientro, senza scossoni e manovre nervose. Come la sua voce:

probabilmente ha capito che, nonostante la differenza di grado, può parlare tranquillamente.

«Niente di che per il momento, l’unica cosa che pare chiara è che indossasse abiti femminili.»

«Quindi nessuna certezza che è una donna.»

«Sei sveglio, Giulio» dico mentre guida nel traffico notturno.

«Commissa’, Napoli è chin’ e femminielli e transessuali. Non mi stupirei che sia una di loro. Spesso finiscono in giri strani e spariscono dalla circolazione senza che nessuno li cerchi.»

«Sì, conosco questo problema. Ad ogni modo, lo scopriremo nei prossimi giorni.»

Giunti sotto casa, lo ringrazio e nel salutarmi mi sorprende: «Commissa’, spero non vi siate fatta una brutta idea quando ho parlato di femminielli. So che… insomma che voi siete…»

«Ianno’, nun te preoccupa’. Ho capito bene cosa intendevi dire. Buonanotte» non posso fare a meno di sorridere appena chiuso lo sportello della volante e mi arriva il saluto di risposta

dell’agente dal finestrino abbassato. Le voci corrono sempre veloci.

25
CAPITOLO QUARTO

IL REGALO

IRENE 08.05 – 00:30

Continuo a massaggiarmi il braccio dove Roberto ha affondato la presa, vedo i segni rossastri della sua mano sulla pelle. Quell’ingrato. Cosa gli costa ascoltarmi prima di uscire fuori di

testa? Gli ho appena portato su un piatto d’argento l’amichetto della commissaria e un’altra preda.

Percorro le scale per andare verso il parcheggio, dove quel pollo mi sta aspettando. Dopo più di due ore con Salvatore e Luigi in pronto soccorso, Tassinari si è limitato ad andare e

venire dal bar dell’ospedale e a fare quattro chiacchiere con Luigi per calmarlo. Mentre svolto verso l’uscita, incrocio lo sguardo di un’infermiera decisamente niente male. “Peccato,

sarà per la prossima volta”.

Salgo in macchina e Tassinari è raggiante: «Finalmente ci siamo liberati di Totò, ora posso averti tutta per me.»

Povero ingenuo, è lui che adesso si trova nelle mie mani.

«Ti va di accompagnarmi a casa? È stata una serata movimentata» parlo con tono sensuale poggiando la mano sulla sua sul cambio.

«Ma certo, mia cara» risponde con un sorriso e gli occhi puntati sul mio seno.

Prende la statale, casa nostra è poco fuori città, in una periferia di Napoli non certo famosa per la movida. Io e Roberto viviamo in una villetta a due piani abbastanza isolata in quel

quartiere. Abbiamo costruito la nostra casa in modo tale da apparire assolutamente anonima all’esterno. Il giardino è circondato da alte siepi che Roberto si occupa personalmente di

tagliare, nessuno può avvicinarsi al nostro regno.

Apro il cancello, Tassinari parcheggia di fronte al garage.

«Posso lasciare l’auto dentro?» chiede preoccupato.

I furti sono frequenti, certo, ma questa sera tutte le sue preoccupazioni stanno per essere messe a tacere. Con un sorriso accomodante rispondo: «Stai tranquillo, nessuno può entrare e poi

non vorresti vedere quello che ha mio fratello nel garage.»

«Scommetto che è pieno di scatoloni e cianfrusaglie!» commenta ridendo sguaiatamente.

Inizia sempre più a irritarmi, non vedo l’ora di farlo fuori, ma devo fare le cose per bene. Lo faccio accomodare in casa, lui si perde a osservare le varie stanze, ogni tanto partorisce un

commento poco interessante del tipo “Queste lampadine al neon rendono la stanza cupa.”

«Posso offrirti un limoncello?» domando per mettere fine ai suoi vaneggiamenti.

«Volentieri, ma prima non vuoi offrirmi qualcos’altro?»

Si avvicina e inizia a baciarmi sul collo, sento la sua barba strofinarmi contro la pelle e il solito dopobarba che mi fa venire la nausea. Lo lascio continuare, devo metterlo a suo agio e

fargli credere che ha la situazione sotto controllo.

Con frenesia inizia a diventare sempre più bramoso, le sue mani premono sul mio corpo, mi concedo quanto basta permettendogli di spogliarmi solo della camicia, poi mi allontano da

lui per farmi osservare seminuda.

«Dove vai?» domanda contrariato per aver interrotto sul più bello.

«A prenderti da bere, le cose migliori vanno gustate con calma» rispondo con voce suadente.

26
Senza lasciargli il tempo di rispondere, mi trovo già in cucina a preparare due bicchieri di limoncello. Con un movimento veloce recupero anche le gocce di sonnifero che ho nella borsa

e ne verso un po’ nel suo bicchiere. Tassinari ha ormai uno sguardo vincitore, posso immaginare chiaramente il film che si è venuto a creare nella sua testa: qualche sorso di liquore e poi

dritti in camera a concludere la serata in bellezza.

“Sì, bravo, continua a sognare” sorrido di rimando al suo sguardo.

Subito dopo aver trangugiato il primo bicchiere lo vedo accasciarsi sul divano.

«Che mi succede? Mi sto sentendo strano» boccheggia guardandomi confuso.

«Oh, beh, ti ho drogato» rispondo semplicemente.

«Drogato?» biascica con l’ultimo briciolo di lucidità che gli è rimasto.

«Tecnicamente è solo sonnifero, ma credo che questo non ti interessi più» commento guardando il maiale ormai addormentato.

Prendo una delle corde dallo sgabuzzino e gli lego mani e piedi, lo imbavaglio anche se non è necessario: il garage è completamente insonorizzato. Anche di questo Roberto si è

occupato personalmente.

Incredibile quante risorse ha il mio fratellone.

Sollevo il corpo da sotto le braccia e lo trascino fino alla scala che collega l’interno della casa al garage. Spingo il corpo, che rotola giù per i gradini. La stanza è illuminata dal bagliore

che proviene dalla cucina, ormai la conosco a memoria; a parte il gancio appeso al soffitto, l’armadio dove ci sono giochi di Roberto e il vecchio comodino in mogano sul quale poggia il

grammofono, la stanza non ha altri arredi. Infilo il gancio tra le corde che stringono le mani di Tassinari, sollevo il corpo addormentato con l’aiuto della carrucola fino a che penzola

come un salame, mi fermo a osservarlo ciondolare, i piedi sfiorano il pavimento, poi avvicino una sedia e aziono nuovamente la carrucola: lascio Tassinari seduto assicurandomi che i

nodi siano ben stretti. Salgo le scale per tornare in casa, faccio una doccia, ho voglia di fare una visita a Sara, ma dopo l’ultima discussione non abbiamo più parlato. In più, Roberto è

stato categorico nel dirmi di non lasciare mai nessuno da solo prima del suo arrivo. Boccio l’idea e mi infilo a letto. Dicono che la notte porti consiglio, io spero solo che mi risparmi

dagli incubi.

27
ROBERTO 08.05 – 06:00

La prima parte della notte sembra non passare più, la mia mente vaga tra il paziente della ventisette e il regalino che mia sorella sta preparando a casa.

Dagli esami effettuati risulta una semplice intossicazione alimentare, domani verrà dimesso e io non sarò al lavoro, devo inventarmi qualcosa per trattenerlo.

Chiamo Intelisano, un medico appena arrivato, giovane e inesperto, gli racconto del paziente dicendogli che deve essere controllato con alcuni esami strumentali; lui, d'accordo con me,

mi comunica che per i giorni successivi prescriverà tac ed ecografia.

Ottimo, l’ecografista è malleabile, lo pagherò per refertare una sospetta calcolosi biliare, così guadagno ancora due giorni: mi serve tempo per cercare un posto in ospedale dove

nasconderlo prima di portarlo a casa.

I pensieri e l’organizzazione della degenza forzata mi fanno passare il turno di notte.

Saluto i miei colleghi rimarcando la visita del paziente della stanza ventisette, mi vesto velocemente e vado a prendere l’auto al parcheggio: mi aspetta la colazione e la mia bellissima

sorpresa.

Parcheggio l’auto sul vialetto di casa, spengo il motore e rimango un attimo nell’abitacolo.

Sono stanco, la notte è stata piena di emozioni e di lavoro; ho per le mani l’uomo che mi porterà dritto al nuovo commissario, Elena Masala, la persona che pagherà per la morte di mio

padre.

***

Fui accolto in una casa-famiglia quando avevo dodici anni. Mio padre era un malavitoso, uno dei boss più potenti di Napoli. Era stato ucciso durante una retata per mano del

commissario Masala, il padre di Elena. Lo scoprii leggendo vecchi giornali dell’epoca. Fu proprio mentre leggevo quelle pagine ingiallite che si insinuò in me il seme della vendetta, che

sarebbe germogliato più avanti negli anni.

Di mio padre mi è rimasto solo un vecchio grammofono, lo stesso che mi ha accompagnato durante la mia infanzia nella casa-famiglia e che ora uso durante i miei giochi.

Mi libero dai pensieri e scendo dall’auto, entro in casa, preparo il caffè, ne riempio una tazzina e la porto a Irene che dorme in camera sua.

Mi siedo sul bordo del letto con la tazzina in mano, la osservo dormire, è girata sul fianco; le coperte la coprono fino al viso, i capelli lunghi le cadono sugli occhi chiusi, la bocca è

semiaperta.

Mi avvicino piano e le do un bacio dolce sulle labbra. Lei apre gli occhi, sgranandoli.

Mi scosto velocemente e le sorrido porgendole la tazza di caffè. «Buondì, volevo svegliarti delicatamente. Caffè?»

Si mette seduta sul letto, coprendo il corpo seminudo con le lenzuola, prende la tazzina e beve un sorso di caffè, poi mi guarda e dice: «Posso sapere perché questo slancio di delicatezza

stamattina?»

«Non posso essere felice? Voglio farmi perdonare per stanotte, sono stato esagerato nel trattarti così dopo quello che hai fatto, non meritavi le parole che ti ho detto» attendo un attimo e

quando vedo il sorriso disegnarsi sulle sue labbra mi alzo dal letto e, mentre mi dirigo verso la porta, le dico: «Forza, vestiti e raggiungimi in cucina, devi portarmi dal mio regalo.

Intanto, vado in auto e prendo il gioco che mi serve, vedrai che ci divertiremo non poco.»

Non la guardo alzarsi dal letto, il mio pensiero è già oltre.

Scendo velocemente le scale, prendo le chiavi dell’auto ed esco. Dal portabagagli prendo un borsone. Ho dovuto spendere non poco per ciò che contiene, ma sono sicuro che ne varrà la

pena. L’ho fatto preparare da un mio amico ed è in auto da giorni in attesa di essere usato, e Tassinari è la vittima adatta.

Rientro in casa, lei mi sta aspettando in cucina.

28
In silenzio la prendo per mano e scendiamo nel garage, pronti per il gioco. Come sempre, mentre scendo le scale mi trasformo, come se entrassi nel mio girone infernale, dove la feccia

trova la sua punizione.

Tassinari è legato a una sedia in mezzo alla stanza e dorme.

Appoggio il borsone in terra e ne estraggo una batteria di auto modificata. In mezzo ai due poli è posizionata una rotella per aumentarne il voltaggio.

Alla base di un pungolo di metallo escono due cavi di diverso colore, uno rosso e l’altro nero, con due pinze che ho inserito ai poli della batteria; la punta del pungolo è divisa in due, a

forma di cucchiaio, quel simpatico oggetto l’avevo trovato andando a curiosare nei siti che parlavano di torture.

Attacco il pungolo alla batteria, Tassinari russa come un maiale e mi fa ancora più schifo.

«Sorellina, portami un secchio d’acqua.»

Senza parlare, esce dalla stanza e dopo qualche minuto ritorna con ciò che le ho chiesto.

Vado al grammofono, la quinta di Beethoven è una scelta azzeccata. Alzo il volume, prendo un po’ di acqua dal secchio con le mani e la getto sul viso di Tassinari, che si sveglia di

soprassalto. Imbavagliato e legato alla sedia, comincia a mugolare quando il suo sguardo intravede mia sorella.

«Buongiorno, maialino» gli dico ridendo sguaiatamente. «Vedi cosa capita a correre dietro a ogni donna che ti fa qualche moina? Alla fine ti ritrovi legato e impaurito. Sei stato

giudicato da me come colpevole e la pena è la morte. La tua vita lasciva non ha più motivo di continuare» resto in silenzio un attimo, voglio fargli raccogliere le idee. Accendo la

batteria, l’apparecchio emette un sibilo sinistro e dalle punte del pungolo escono due piccole scintille; appena li vede sgrana gli occhi e io rido di nuovo. Mi avvicino a lui portando dietro

anche il secchio. «Sorellina, mi serve il tuo aiuto stavolta, sali e vai a prendere una spugna, intanto spiego al maiale cosa gli farò.»

Mentre lei esce dalla stanza, io sono ormai vicino a Tassinari che continua a muoversi sulla sedia nel tentativo di liberarsi, gli sferro un pugno nel ventre per farlo smettere, lui si piega

dolorante prima di rimanere immobile.

«Prima di iniziare ti racconto qualcosa che può interessarti. Vedi, questo oggetto è utilizzato per dare piccole scosse agli animali, soprattutto mucche, per riportarli in gruppo.

Normalmente è utilizzato a bassi voltaggi per far muovere le bestie, ma, e qui entra in gioco il mio giocattolo, se leggermente modificato può dare scosse importanti fino a ustionare la

parte toccata, e se mettiamo anche un po’ di acqua in quella zona, la scossa diventa ancora più forte.»

Irene è dietro di me con la spugna imbevuta di acqua. «Sorellina, tu non devi far altro che bagnare con la spugna le zone che ti indicherò» non la guardo, so che non apprezza prenderne

parte, ma non m’importa, il gioco è mio e decido io chi partecipa.

Vado al grammofono e alzo un po’ il volume, la musica mi dà il giusto ritmo. «Bagnagli le mani» le dico, poi mi giro verso il maiale, mentre lo fisso dritto negli occhi gli dico: «Adesso

sentirai una piccola scossa, tanto per farti capire quello che proverai.»

Appoggio il pungolo sulla mano di Tassinari; al contatto l’arto si contrae, un gemito di dolore esce dalla bocca imbavagliata, resto fermo qualche secondo con il pungolo premuto sulla

pelle, tanto da lasciare un punto rossastro.

«Vedo che non ti piace molto, ma ti posso assicurare che andando avanti ti piacerà ancora meno.»

Vado verso la batteria e aumento il voltaggio.

«Questo oggettino, poi, è stato utilizzato per le torture, e le parti del corpo più usate per quel tipo di utilizzo adesso le testeremo su di te.»

Lo vedo terrorizzato, grosse gocce di sudore gli scendono lungo il corpo, ritorno vicino a lui, il pungolo emette fasci di elettricità, mi inginocchio di fronte; i suoi occhi sono impauriti, io

mi eccito sempre di più.

Dico a Irene di bagnare i capezzoli, avvicino la punta a uno di questi e, appena il pungolo entra in contatto, vedo vibrare il corpo di Tassinari. Un urlo smorzato dal bavaglio gli esce

dalla bocca, sembra in preda alle convulsioni; sento l’odore dolciastro della carne che brucia, mentre il sangue si raggruma velocemente.

29
Appena stacco il pungolo dal suo corpo, smette di tremare e comincia a respirare pesantemente. Lo schiaffeggio per tenerlo sveglio, Irene gli bagna i testicoli come da mia indicazione,

lo tocco e il corpo vibra più forte.

Ha gli occhi fuori dalle orbite, i piccoli capillari, rossi e gonfi, sembrano pronti a rompersi in ogni istante.

Vederlo vibrare sulla sedia mi esalta, stacco e rimetto il pungolo sui testicoli solo per il gusto di vederlo prima rilassarsi e poi fremere nuovamente.

La musica finisce dando il via al gran finale. Libro come una ballerina su una melodia che solo io sento. Vado alla batteria, alzo al massimo e sempre volteggiando torno da lui.

Lo guardo negli occhi ormai semi chiusi e gli dico: «Addio, maialino».

Gli pianto il pungolo con forza nella bocca bucando il bavaglio.

Mi allontano velocemente, il viso si illumina come una lampadina, mentre il corpo vibra in preda agli spasmi.

Si piscia addosso e mentre il volto del maiale sta per prendere fuoco spengo la batteria.

Nel silenzio della stanza un suono gutturale esce da Tassinari, il corpo si ferma di colpo, lasciando l’uomo esanime con la testa piegata verso il basso. Fumo grigio esce dal suo cranio

rasato.

Irene è ferma vicino a lui con gli occhi sgranati e la bocca aperta, mi avvicino e l’abbraccio baciandola sulla guancia. «Forza, sorellina, adesso dobbiamo confezionare il corpo per il

commissario, ho intenzione di regalarle una cosa che non scorderà tanto facilmente.»

Devo sistemare il corpo per il ritrovamento, ma sono ancora troppo eccitato da quello che ho appena fatto.

Sento l’odore di Irene: un misto di paura ed eccitazione.

Avvicino la mia bocca al suo orecchio e le sussurro: «Devi ancora pagare l’uscita di qualche giorno fa, non penserai di passarla liscia…» le afferro il collo con la mano, percepisco il suo

respiro farsi più veloce.

«Roberto, che intenzioni hai? Mi avevi promesso che non sarebbe più successo…» non la lascio finire, con violenza la lancio facendola sbattere contro il tavolo.

Mi avvicino, la prendo per i capelli e le sollevo il volto. «Se stai zitta, tutto finirà presto, ma… se osi dire solo una parola ti assicuro che sarà tutto più doloroso.»

La giro e la spingo contro il tavolo, le sollevo la gonna e le strappo le mutandine.

Lei sbatte il viso sul grammofono, singhiozza, ma non me ne curo, sono troppo sopraffatto dall'eccitazione.

L’apparecchio colpito riprende a mandare musica, ogni colpo che do è un salto della puntina che, strisciando sul vinile, emette uno stridio.

Dopo averla scopata, cado a terra stremato.

Irene, in silenzio, si sistema alla meglio, non mi guarda nemmeno e corre di sopra.

Io, sdraiato a terra, rido sguaiatamente.

Mi sento un dio.

Resto sdraiato ancora qualche minuto, poi mi sistemo.

Devo preparare il corpo di Tassinari per il commissario, ho bisogno di Irene, ma la lascio stare, ha già pagato a sufficienza.

30
IRENE 08.05 – 08:00

“Non ha fatto nulla di male” mi ripeto mentre salgo le scale che portano al piano superiore.

Lo sento ancora su di me, ansimante, con le mani che mi stringono avide.

“Non ha fatto niente” dico a me stessa, le gambe tremanti.

“L’ho fatto arrabbiare, me lo sono meritato” mi guardo nuda davanti allo specchio del bagno, nuovi lividi si sono aggiunti sulla mia pelle. Gli occhi sembrano aver perso qualche anno di

vita.

Apro il rubinetto dell’acqua calda ed entro nella doccia.

“Me lo sono meritato” mi tremano le mani.

“Me lo sono meritato” strofino il mio corpo con vigore.

“Me lo sono meritato” sposto la testa sotto il soffione e le mie lacrime si mescolano al flusso di innumerevoli sottili getti d’acqua.

Quando finisco di lavarmi sono di nuovo io.

Archivio l’accaduto in uno dei cassetti della mia memoria assieme a tante altre cose. Anni e anni di sofferenze, bloccate in un punto imprecisato dentro di me, che sento spingere per

uscire. È mio fratello, lui tiene a me e io tengo a lui. Ha bisogno di me, come può gestire i suoi giochi? Senza di me non ha il suo fidato braccio destro. Così, indosso la mia corazza e

ancora una volta dimentico.

Torno al piano inferiore e ignoro Roberto, evito di pensare a quello che mi ha fatto perché non voglio di nuovo percepirlo addosso. Lo sento parlare di un’idea per presentarsi al meglio

al commissario ma, per il momento, la cosa non mi interessa. Per sfogare la tensione accumulata decido di andare a correre, ho poca voglia di stare in casa con lui.

Tornata a casa non lo vedo, sicuramente si trova a smanettare con la sua vittima. Inizio a prepararmi un toast, prendo tre arance per farmi una spremuta. Questa calma, mentre preparo da

mangiare, mi aiuta a rilassarmi; siedo a consumare un pasto leggero e nel frattempo ascolto suoni indefiniti provenire dal garage. Inizio a essere un po’ curiosa di sapere cosa stia

facendo. Bevo un sorso di spremuta e butto giù l’ultimo boccone del toast al tacchino, sciacquo con cura i piatti prima di metterli nella lavastoviglie, prendo una lunga e lenta boccata

d’aria e scendo in garage.

Il puzzo mi prende allo stomaco, sento quello che ho appena finito di mangiare tornarmi su nella bocca. Roberto è così concentrato sul cadavere che non si accorge nemmeno della mia

presenza alle sue spalle. Lo sta pulendo, vedo staccargli i bulbi oculari e un altro conato di vomito si fa largo nello stomaco. Non riesco a sopportare questa puzza; così, senza dirgli

nulla, torno al piano di sopra. Devo prepararmi per andare al lavoro.

Un altro pomeriggio noioso a sentire quei pomposi babbei parlare dei loro soldi e dei loro investimenti.

Non ne posso più. Non fosse per la paga, sicuramente cercherei un altro posto.

«Avete visto Tassinari?» domanda il direttore al collega dello sportello cinque. «Doveva passare in ufficio per il solito versamento.»

«No, signore, oggi non si è fatto vedere.»

Evito lo sguardo del mio titolare e mi dedico a compilare il bilancio dell’ultimo mese.

Il tempo sembra essersi fermato: ogni volta che il mio capo chiede dov’è finito Tassinari sento un irrefrenabile voglia di urlare: “È morto!”, ma devo mantenere la calma.

31
ROBERTO 08.05 – 20:00

Per comprare ciò che mi serve non posso usare i canali tradizionali, ma il mondo moderno ci ha regalato la possibilità di avere qualsiasi cosa a portata di mano, con una carta prepagata e

pigiando un tasto.

Internet è un mondo da esplorare, e se Google e gli altri motori di ricerca sono la punta di un iceberg, come spesso accade, sotto la punta esiste un mondo sconosciuto dove puoi trovare

qualsiasi cosa, devi semplicemente prendere fiato e immergerti: ti troverai nel Deep Web.

Non lo trovi sui motori di ricerca, devi sapere come muoverti, una volta entrato diventi Alice nel Paese delle meraviglie.

Dai pedofili che scambiano le loro perversioni a chi vuole costruire una bomba. Io cerco i miei giochi. Mi serviva una macchina per l’imbalsamazione? Pochi click, una carta di credito

gonfia e il mio desiderio si è avverato. L’ho acquistata un paio di settimane fa non sapendo quando l’avrei usata. Mi è arrivata a casa in un pacco anonimo insieme alla formalina.

Tassinari e il commissario mi hanno dato la gioia di poterla provare.

Ora mi mancano solo i barattoli e le scatole da imballaggio. Prima di lavorare su Tassinari, vado a comprare le ultime cose.

Il corpo del maiale dovrà essere un trofeo da recapitare al mio caro commissario Masala.

Esco di casa e rientro poco dopo con ciò che mi serve per la mia piccola creazione e per il passo successivo.

Pulisco il corpo per bene in ogni sua parte, tolgo i bulbi oculari, cucio le palpebre e gli incollo due monete, cucio anche la bocca e gli altri orifizi.

Per preparare la macchina per l'imbalsamazione mi ci vuole quasi l'intera giornata: inserisco un tubo nella carotide di destra, il primo passaggio serve per fluidificare il sangue iniettando

nel corpo un anticoagulante, poi, tramite un sistema di pompaggio, sostituisco il sangue con la formalina. L'odore pungente e dolciastro di quella sostanza è nauseante, ma il divertimento

è impagabile.

Terminato con la formalina, pratico un’incisione sul fianco ed estraggo polmoni, fegato, pancreas e cuore. Ricucio il fianco e metto gli organi nei barattoli pieni di formalina.

Poi taglio il dito medio di Tassinari; adoro conservare una piccola parte delle mie vittime.

Sono quasi commosso mentre osservo il mio trofeo disteso sul cellophane.

Mi presenterò alla Masala con un capolavoro.

E, come nella mitologia greca, le due monete incollate sugli occhi serviranno a Tassinari per pagare Caronte, il traghettatore degli Inferi.

«Quando arrivi salutami Lucifero e digli che voglio un posto al suo fianco quando sarà il mio turno.»

Mentre mi accingo a terminare di imballare il porco, Irene entra nella stanza.

«Ti serve una mano?» dice con voce fredda e distaccata. Non la guardo negli occhi.

«Dobbiamo mettere Tassinari nella sua auto e portarlo davanti alla casa del commissario, l’indirizzo è sul tavolo, vuoi farlo tu?»

«Sì, mi serve un po’ d’aria.»

Senza dire altro mettiamo il corpo di Tassinari nella sua auto.

Mentre Irene si prepara per la consegna speciale, io imballo i barattoli con gli indirizzi di destinazione.

Li consegnerò di persona, prima di farmi una chiacchierata con il commissario.

Sarà l’inizio della mia personale rivalsa e il gioco si farà ancora più divertente.

32
IRENE 08.05 – 20:00

Le luci dell’abitazione sono tutte spente, tranne quelle del garage. Possibile che sia ancora alle prese con quel corpo? Scendo le scale per controllare e immediatamente mi copro il naso

con la mano, il fetore è aumentato durante il pomeriggio. Roberto è chino su dei pacchi, li sta sigillando. Accanto a lui il cadavere, o quello che ne è rimasto, avvolto in un telo.

«Ti serve una mano?» domando, e nel farlo mi accorgo della freddezza nella mia voce.

«Dobbiamo mettere il corpo nella sua auto e portarlo davanti alla casa del commissario, l’indirizzo è sul tavolo, vuoi farlo tu?» non mi guarda nemmeno negli occhi, come se la mia

presenza fosse inutile.

«Mi serve un po’ di aria» rispondo.

Questa breve gita in città mi aiuterà a distrarmi dal comportamento di mio fratello.

Senza parlarci, carichiamo il corpo nell’auto di Tassinari.

Devo prepararmi, la prima cosa a cui penso sono le telecamere. Se in periferia, dove abitiamo io e mio fratello, abbiamo arginato il problema, in quella zona della città non si può dire lo

stesso. Così decido di travestirmi. Prendo degli abiti che serbo per ogni evenienza, taglie diverse dalla mia, più grandi. Possiedo un baule dove nascondo alcuni souvenir delle mie

vittime. Una di queste, Emilia, mi ha lasciato un set di parrucche. Ne prendo un paio: una, di un vivace biondo platino, la indosso alla meglio con un foulard. Quando mi specchio ho un

non so che decisamente alla Marylin. La seconda parrucca, rosso fuoco, la sistemo con cura in uno zaino logoro assieme a dei jeans chiari, una felpa nera e un paio di Converse. Infine,

mi porto dietro un vecchio marsupio che utilizzo per fare jogging e degli occhiali.

Arrivata alla macchina, Roberto è ancora impegnato a suddividere i pacchi regalo. Ha lavorato tutto il giorno per dare il via alla sua vendetta: ora è il mio turno.

Parto alla volta dell’indirizzo assieme al corpo di Tassinari steso nel bagagliaio a farmi compagnia. Come sempre, Napoli è caotica e attiva anche di sera, la cosa non mi dispiace,

sicuramente è utile per eludere le telecamere stradali. In meno di mezz’ora arrivo a destinazione. Parcheggio la macchina a pochi metri di distanza dalla palazzina dove abita il

commissario; dalle finestre si può intravedere movimento da parte degli inquilini. Mi chiedo se Elena Masala stia passando una tranquilla serata in casa. In ogni caso le sue giornate,

presto, avranno una svolta.

Ora devo solo andarmene senza lasciare tracce. Il mio piano è semplice ma complesso allo stesso tempo: chiamo un taxi e mi faccio accompagnare alla stazione centrale. Salgo a bordo

di uno degli ultimi treni regionali per Castellammare di Stabia, un viaggetto di un’ora circa. Sono consapevole che la stazione pullula di telecamere e che potrebbero risalire con facilità a

quale biglietto ho comprato, ma mi reputo molto più sveglia di loro. Nei treni regionali, ferraglie scassate e fatiscenti, non ci sono telecamere, in realtà è già tanto se ci sono i sedili.

Aspetto che nessuno mi guardi ed entro in bagno. È lurido. Tolgo i vestiti e indosso i jeans e la felpa che porto nello zaino, cambio anche scarpe e parrucca. Da bionda appariscente mi

trasformo in una rossa mozzafiato. Via il foulard e su gli occhiali. Sistemo nel marsupio portafogli e chiavi e metto tutto quello che non mi serve nello zaino logoro. Faccio un po’ di

forza sul finestrino bloccato e lo apro, gettando via il vecchio travestimento: ciao ciao Marilyn!

Torno a sedermi, il vagone è semi deserto e nessuno ha fatto caso al mio cambio di personalità. Scendo a Torre del Greco, a metà strada tra Napoli e Castellammare. Come nei migliori

film di spionaggio, supero indenne l’uscita della stazione e chiamo un altro taxi.

«Dove la porto, signorina?» lo sguardo dell’autista è puntato sullo specchietto retrovisore.

«A casa, per favore» rispondo dandogli l’indirizzo. Servono diversi minuti prima di arrivare, così, rilassata sul sedile, chiudo gli occhi.

È stata una giornata stancante.

33
CAPITOLO QUINTO

LE INDAGINI

ELENA 08.05 – 07.00

Da quando sono a Napoli i miei ritmi sonno-veglia sono andati a farsi benedire; non so se dipenda dal cambio di letto o dal fatto che mi manca avere Stefano che russa al mio fianco.

Quel ronzio sommesso ha su di me un effetto calmante e allo stesso tempo mi infonde sicurezza. Se continua così, dovrò decidermi a prendere qualcosa per dormire.

Con una tazza di caffè in mano guardo fuori dalla finestra: palazzi, niente altro che palazzi. Cazzo, quanto mi manca la vista di casa mia. La sveglia del telefono, impostata per le sette,

mi ricorda che sono già in piedi da un’ora. Sì, dovrò fare qualcosa, o mi etichetteranno come una stacanovista se continuo ad arrivare in ufficio prima di tutti.

Alle sette e trenta passo davanti al piantone che mi saluta con poca verve. Negli occhi gli si legge tutta la pesantezza del turno che sta per concludersi. Prese le scale fino al primo piano,

percorro tutto il corridoio fino al mio ufficio. Un locale grande e freddo, paragonato a quello che occupavo nella questura di Genova e che nel corso degli anni avevo reso a mia

immagine e somiglianza. Qualche quadro e alcune piante a cui rivolgere dolci parole quando le innaffiavo. Chissà chi penserà a loro, adesso.

Se non altro ho guadagnato in mobilio: una grande scrivania in mogano e una libreria dello stesso materiale, stipata di codici, prontuari e manuali vari; alla destra del tavolo un divano e

un paio di poltrone con annesso tavolino centrale con piano di cristallo.

In bella vista sul piano di mogano, un fascicolo; immagino contenga il rapporto della notte precedente. Prima che il corridoio si riempia dei saluti gioviali dell’inizio turno e dei

sommessi auguri di chi smonta, sciolgo i lacci del faldone e ne tiro fuori una cartelletta grigia. Scritto a mano, un semplice a carico ignoti appuntato sopra. Contiene solo il rapporto

preliminare degli agenti intervenuti sul posto la notte prima con orario, nomi dei presenti e del personale intervenuto. Nulla che possa servirmi a farmi un’idea di ciò che è successo in

quella cava. Finché non avremo il rapporto del medico legale possiamo tenere il caso in stand by. Acceso il computer, controllo le varie comunicazioni arrivate dal ministero. Solite

integrazioni a ordinanze dirigenziali arrivate nei giorni precedenti, proposte di encomi ad agenti. Niente che mi interessi direttamente. Dietro la mia porta il brusio mi comunica che è

iniziato il mio turno di lavoro. Due colpi veloci e decisi di nocche e Gargiulo si affaccia nello spicchio di porta.

«Buongiorno, Elena, lo prendiamo un caffè?»

«Buongiorno, Luigi. Arrivo.» Prima di uscire chiudo a chiave il cassetto dove avevo messo la fondina con la pistola d’ordinanza.

Raggiunta la macchinetta posta vicino alle scale, gustiamo un caffè passabile parlando di lavoro.

«Conosci qualcuno in patologia?» Sono diversi anni che è in polizia e sono sicura che potrà essermi di aiuto.

«Certo, che vi serve? Per il cadavere di ieri?»

«Sì. Vorrei sapere chi e quando faranno l’autopsia.» Soffio dentro il bicchiere prima di buttare giù il caffè in due sorsi, e il fumo si allontana in un vortice caldo.

«Ne conosco un paio all’Istituto di Anatomia, posso sentirli e vedere se riescono a farselo assegnare. Sono precisi e attenti.»

«Sì, chiamali e mettigli un po’ di fretta. Voglio sapere subito chi è, come è morta e come l’hanno fatta a pezzi. Per il momento diamo per scontato che sia una donna. Ora sento Riccio,

vediamo se abbiamo in archivio qualche altro caso simile.»

Lasciato Gargiulo al telefono, raggiungo l’ufficio dell’ispettore Daniele Riccio, situato nel lungo corridoio speculare al mio. Se non altro queste camminate faranno bene ai miei glutei.

Lo trovo al telefono, intento a prendere degli appunti. Appena si accorge della mia presenza mi fa cenno di entrare e senza dire nulla occupo una delle sedie di fronte a lui. Osservo

l’ufficio, l’orecchio teso ad ascoltare cosa dice. Sta seguendo il caso delle rapine ai compro oro: cinque solo in questa settimana. Da quel che sento presumo stia parlando con qualcuno

che ha visto o sentito qualcosa, ma non mi sembra molto convinto. Sulla scrivania, ordinata, tiene un portafoto in argento stile prima comunione o simile. Nella foto c’è lui assieme a una

donna e un bambino: sicuramente la sua famiglia.

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«Scusi, Elena. Non riuscivo a staccarmelo.» Si abbandona sullo schienale, come liberato da un forte stress.

«Una segnalazione?»

«Sì. Il problema è che, da quando i commercianti hanno messo una ricompensa per chi darà informazioni utili, passo metà del tempo a rispondere a mitomani o a persone che non hanno

visto una beneamata minchia. Mi passi il francesismo.»

«E questo chi era dei due?» Rido della mia e della sua risposta. «Lascia perdere, senti…»

«Mi dica.»

«Ieri abbiamo rinvenuto un cadavere smembrato e carbonizzato, ma ancora non abbiamo idea di chi sia.»

«Quello della cava? Me ne hanno parlato stamani.»

«Proprio quello! Tu sei qui da parecchio ormai; a memoria, ti ricordi qualcosa di simile?»

Prima di rispondere appoggia la testa al bordo superiore dello schienale, lo sguardo fisso verso l’alto, le mani giunte sotto il mento e i gomiti sui fianchi. Poi, con un movimento lento,

quasi teatrale, torna a guardare me per un attimo. Mi sono sempre chiesta quale sia il pensiero degli uomini con i quali lavoro; apparentemente sembrano rispettarmi, e per i più è così;

ma gli altri, soprattutto i nuovi, che pensano di me? Come affrontano il dover rendere conto a una donna, per di più transgender?

«Per quanto ricordi, ci sono stati diverse vittime carbonizzate, qualcuna mutilata, come segnale della camorra per punizione a seguito di uno sgarro. Ma non ricordo nulla di simile, però.

Non avete rinvenuto documenti o qualcos’altro che possa essere d’aiuto?»

«Nulla, come ti ho già detto. Ma anche se ci fossero stati, sono andati distrutti. Appena avrò il rapporto autoptico, sapremo se è stato rinvenuto qualche oggetto sulla vittima. Per il

momento non abbiamo niente in mano. Ti lascio lavorare, se hai novità fammi sapere» accenna un movimento quando mi alzo dalla sedia per andare via. Non so se fatto per rispetto al

ruolo che rivesto o solo come atto cavalleresco.

«Non mancherò, Elena.»

Ripercorro i due corridoi fino al mio ufficio. Mentalmente ho contato i passi che separano la mia porta da quella di Riccio: 164. Occhio e croce dovrebbero essere circa 110 metri

considerando la mia altezza.

Un trillo mi avvisa dell’arrivo di un messaggio. Il riconoscimento facciale del cellulare lo sblocca all’istante. È di Totò: Ciao Elena, sono Giggino. Totò è ricoverato in ospedale. Si è

sentito male alla festa e io sono preoccupato. Cavoli, povero Salvatore, dovrò farci un salto. Rispondo al suo messaggio con la richiesta dell’indirizzo dell’ospedale e per farlo sentire

meno solo aggiungo un emoji abbraccio al testo.

Appoggiato il telefono devo riprenderlo per rispondere a Gargiulo.

«Dammi buone notizie...Va bene, grazie.»

Ha appena parlato con il patologo che effettuerà l’autopsia al cadavere della cava, prevista per il pomeriggio. Spera di potermi consegnare il referto in tarda serata. Nel frattempo

Giggino ha risposto al messaggio durante la chiamata, con le indicazioni della clinica.

Non ho idea di dove sia e come arrivarci, ma forse so chi può aiutarmi. Chiamo il piantone per sapere se Iannone è già andato via. Anche se dovrebbe aver finito il turno, deve redigere il

suo rapporto. Ottenuta conferma, gli dico di farlo aspettare. Percorro ancora una volta il corridoio fino alle scale e poi giù, fino agli uffici interni alla portineria.

«Iannone! E allora? L’abbiamo finito questo rapporto?» Al tono imperioso della mia voce sobbalza sulla sedia e la penna tenuta tra le dita in quel momento vola all’altro capo del tavolo.

«Ue’ commissa’, m’ha preso uno spavento. Non pensavo scendeste così presto.»

«Debole di cuore, Giulie’?»

«No, ma quando mai. È che ero concentrato sul rapporto e non vi ho sentita entrare.»

«Sicuro? Sennò ti faccio trasferire all’ufficio immigrazione» lo prendo palesemente in giro, generando negli altri presenti risolini di scherzo.

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«No, commissa’, vi assicuro che sto bene.» Alla sua risposta, i risolini trattenuti si trasformano in una risata generale, insinuando – finalmente – in lui il dubbio di essere preso in giro.

Davanti alla porta del mio ufficio trovo uno degli ispettori che indagano sugli omicidi del Vomero. Tutte persone di sesso maschile tra i venti e i quarant'anni con forti legami con alcune

famiglie della camorra. Sono palesi regolamenti di conti e, fosse per me, li lascerei a decimarsi tra loro; la cosa che non quadra, però, è che di solito si sparano in mezzo alla strada.

Questi, invece, scompaiono senza lasciare traccia per diverso tempo per poi riapparire cadaveri. E nemmeno tutti.

«Ciao, Martino, a che punto siete? Non dirmi a un punto morto perché non mi fa ridere. Accomodati dentro.»

«Punto cadavere? Stamani ne abbiamo trovato un altro, era scomparso un mese fa dopo che era uscito dalla pizzeria in cui lavorava.»

«Dove?» Ne abbiamo ripescato uno nelle acque del porto con le classiche scarpe di cemento, roba da mafia che pensavo non utilizzassero più; un altro, ritrovato con la testa staccata in

fondo a una cisterna di gasolio che, per una concomitanza di eventi, è stata svuotata e ispezionata. Tutti ritrovamenti avvenuti per caso e che, data la modalità con le quali si è tentato di

farli scomparire, dovevano portare a un occultamento definitivo.

«Chiuso dentro il bagagliaio di un'auto nello sfasciacarrozze di Torre del Greco. L’auto doveva essere compattata domani, assieme a un’altra decina.»

Antonio Martino, 44 anni, ispettore capo da cinque. Due matrimoni alle spalle, cinque figli e un sesto in arrivo dall’attuale moglie. La domanda è: perché? Sbagliare una volta va bene,

due è avere speranza, ma tre? Nelle pause tra una frase e l’altra compie potenti aspirate dalla sigaretta elettronica appesa al collo. Probabilmente è la pressione che ha sulle spalle.

«Come avete fatto a trovarlo? Una soffiata?»

«No, questa volta l’hanno trovato i carabinieri del NOE durante una delle ispezioni di rito in materia di tutela ambientale. L’auto era nei pressi del compattatore che si trova a ridosso

degli uffici dell’attività. Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e il gran caldo dei giorni scorsi ne ha accelerato il processo di liquefazione. Buona parte della sostanza è

colata sul terreno dal fondo del bagagliaio e, a quanto mi hanno riferito, l’odore era talmente forte che un paio di loro hanno vomitato.»

«Capito, quindi anche questo l’abbiamo trovato per culo.»

«Praticamente sì. Pure questo era destinato a scomparire per sempre e ancora non abbiamo un’idea precisa su questi omicidi.»

«Il fatto che appartenessero tutti a diverse famiglie della camorra fa pensare che si tratti di un regolamento di conti, e il buon senso direbbe di guardare in quella direzione; ma perché

rapirli e poi farli sparire?»

«Ci stiamo lavorando, speriamo di trovare qualche informazione dall’interno, ma sembra che tutti abbiano la bocca cucita questa volta. E di quello della cava che ne pensa? Stesso

movente?»

«A naso direi di no, e per due motivi. Uno: salvo smentita, è una donna, e già questo lo escluderebbe dal caso; due: non volevano nasconderlo, ma solo cancellare le tracce. Stasera saprò

qualcosa in più. Ora devo andare, un amico è stato ricoverato in ospedale e devo passare a trovarlo. Se ci sono novità aggiornami.»

Raccattate le mie cose, raggiungo l’uscita del commissariato con l’intenzione di farmi chiamare un taxi dal piantone.

***

Diretta verso la clinica, osservo il biglietto da visita del mio autista e non posso fare a meno di sorridere: Gennarino Pisciotta.

«Ti chiami davvero Gennarino?»

«Sì commissa’, mio padre era un poco brillo quando mi registrò all’anagrafe. Con mamma erano soliti dire quando nasce Gennarino, come sarà Gennarino e così, a furia di ripeterlo, al

momento opportuno si è confuso.»

«Sì, posso immaginare la scena. Da dove vengo io sono successe cose simili per via dell’alcol.»

«Da dove venite, commissa’?»

«Da Genova, ma sono originaria della Sardegna.»

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«Ah, la Sardegna. Sono stato a Porto Cervo, lo conoscete commissa’? Sapete che mio nonno era di là?»

«Con un cognome come quello, non avevo dubbi sulle tue origini. Comunque, la conosco bene e di solito la evito, soprattutto in estate. Se vuoi conoscere la mia terra, cambia zona,

Porto Cervo non ha nulla a che vedere con noi. Certo, la Costa Smeralda ha il suo fascino, ma ci sono zone altrettanto belle, se non di più.»

Grazie alla compagnia di Gennarino il traffico caotico di Napoli è sembrato non esistere. Presumo che il complesso che scorgo sia la clinica dove è ricoverato Totò.

«Allora la prossima volta che decido di andare addumann a vuje. Commissa’. Siamo arrivati e questa corsa è offerta da Gennarino.»

«Non dovrei accettare, ma sono sicura che ci rivedremo presto. Grazie, Gennari’.»

«Statt buon, commissa’.»

Raggiunto l’ingresso della clinica individuo su un grande tabellone il piano della chirurgia. Prendo al volo l’ascensore appena arrivato che mi porta subito al reparto di Totò. Tra la folla

di parenti in visita, blocco un’infermiera e chiedo il numero della stanza.

«Ventisette, in fondo a sinistra.»

Arrivata alla stanza, vedo subito Totò sdraiato. Il viso è tirato e ha gli occhi chiusi.

«Totò» sussurro il suo nome per non disturbare il paziente del letto accanto, ma non reagisce alla mia voce. Stringo la sua mano e quello che ottengo è solo un mugugno. Probabilmente è

stato sedato per i dolori. Giggino non mi ha saputo dire molto sul ricovero e vorrei saperne qualcosa in più. Lo lascio riposare e busso alla porta della sala medici, posta a metà del

corridoio.

«Mi scusi, vorrei notizie sul paziente Salvatore Gallo» rivolgo la domanda a una dottoressa giovane che mi guarda storto.

«Lei chi è, un parente?»

«No, sono un’amica.»

«Mi spiace, possiamo dare informazioni solo ai parenti» con fare acido risponde e tenta di liquidarmi chiudendo la porta.

«Senta, sono il commissario Elena Masala e devo avere notizie sul signor Salvatore Gallo.» Non avrei voluto usare la carta jolly, ma questa stronzetta mi ha costretta a tirarla fuori.

«Ah… sì… Ecco… Aspetti che chiedo al collega.»

Dopo aver confabulato con il medico anziano torna da me con il sorriso stampato sulla bocca.

«Commissario, il signor Gallo ha una sospetta infezione allo stomaco e deve essere sottoposto ad alcuni accertamenti medici.»

«Grazie della disponibilità, arrivederci.» Disponibilità un cazzo, acida! Tornata nella hall, recupero il biglietto da visita ricevuto prima: «Gennarino…vieni a prendermi?»

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ILARIA 11.05 – 08.00

Mio padre mi ha svegliata intorno alle otto di mattina chiedendomi di andare in ufficio per parlarmi di una cosa. Lavoro con lui da circa tre anni come investigatrice privata. Dopo

l’università ho cercato lavoro come interprete ma senza successo, così ho iniziato a seguire le sue orme, noto investigatore privato del gruppo investigazioni “Occhio Privato”.

Non è il mio lavoro, ma mi diverto nel seguire casi semplici, per la maggior parte tradimenti o fughe d’amore; alcune volte mio padre mi ha portato insieme a lui per seguire quelli più

complessi.

Mi ha insegnato quasi tutto del mondo investigativo, dall’utilizzo di microspie e microtelecamere, a come fare appostamenti e seguire persone senza essere visti; sono diventata

discretamente brava.

Mi alzo svogliatamente e mi preparo per andare in ufficio. Prima, però, farò un salto in pasticceria per comprare

i babà che piacciono a mio padre. Non so cosa voglia, ma con il dolce mi paro le chiappe a ogni evenienza.

«Ti sta aspettando, non mi sembra incazzato, ma i babà faranno colpo di sicuro». Maria la nostra tutto fare, ricambia il mio saluto rassicurandomi sull’umore del capo.

«Almeno lo addolcisco un pochino» le dico strizzando l’occhio.

Entro nell’ufficio di mio padre, lui dietro la scrivania è al telefono, probabilmente con un cliente, mi fa il segno di stare zitta e di sedermi, io da brava figlia mi siedo in religioso silenzio.

Attendo qualche minuto e, finita la telefonata, gli sorrido e gli avvicino il vassoio.

«Figlia mia, tu sai come farmi sorridere di prima mattina.»

«Sono la tua figlia prediletta, non ricordi?»

«Prediletta perché sei unica, comunque, voglio parlarti di un lavoro» dice mentre addenta il babà chiudendo gli occhi per gustare meglio il sapore.

«Papà, vorrei stare calma ancora per un po’, non puoi mandare qualcun altro…»

«Tesoro, so che stai ancora male per quello stronzo, ma devi uscirne e secondo me questo caso può servire per non pensarci; fidati del tuo vecchio padre» mi dice dolcemente.

Ho rotto da poco una storia che durava da dieci anni e mi sono chiusa in me stessa. Ho smesso di lavorare per qualche mese e mio padre mi ha lasciato fare; dopo la morte di mamma lui

è tutto per me, un padre, un amico; forse ha ragione, devo ricominciare a vivere.

«Di cosa si tratta?» gli dico sbuffando. Lui sorride, mangia un altro babà e mi mostra la foto di una ragazza. Carina, bionda con gli occhi azzurri. Nella foto sorride con in mano un

mazzo di fiori e in testa l’alloro della laurea.

«È Ginevra Russo, scomparsa da circa una settimana. La polizia sembra non riuscire a trovarla e i genitori mi hanno chiesto di indagare.»

«Sarà scappata con l’amante oppure…»

«Anch'io l'ho pensato, ma i genitori mi dicono che non c’era nessun attrito con lei, il rapporto tra di loro era molto tranquillo. Vive da sola da circa quattro anni, loro l’aiutano ogni tanto,

ma è indipendente.»

Attendo un attimo, una persona scompare senza un motivo apparente, solo poche cose possono essere successe e non mi piace nessuna di loro.

«E che dovrei fare io?»

«Voglio che tu vada a casa loro e ci parli, se poi ti accorgi che ne vale la pena, accetta il caso. Tesoro, so che stai pensando al peggio, ma tutti hanno il diritto di conoscere la verità,

compresi i genitori, e tu sei brava a parlare con le persone, in certi casi.»

Dicendo così mi ha fregata, puntando sul mio ego mi ha fatto accettare il caso.

Mi dà il kit base e l’indirizzo della famiglia; abitano nella zona ricca di Napoli.

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Salgo in auto e vado a casa dei genitori di Ginevra, inconsapevole di dove mi sto cacciando.

***

Arrivo dai Russo che sono passate le dieci di mattina.

La villa è immersa in un giardino piantumato, una schiera di giardinieri sta potando siepi e tagliando l’erba. Il rombo della mia auto, una vecchia Porsche con la marmitta bucata, li fa

girare all’unisono.

Parcheggio nel vialetto poco distante dalla porta d’entrata. Mi sembra di essere in un film, di quelli americani, con la villa bianca e il giardino tutt’intorno.

Suono alla porta e mi apre un uomo; da come è vestito deduco che sia il maggiordomo. «Buongiorno, sono Ilaria Coppola, investigatrice» gli mostro la tessera che tengo nel portafoglio.

«Ho un appuntamento con i signori Russo.»

«La prego, mi segua» dice con una voce mono timbrica. Mi fa accomodare in un ampio salone. «I signori saranno qui tra un attimo, gradisce qualcosa da bere?» mi chiede facendomi

accomodare su un divano a tre posti.

«Un bicchiere d’acqua, se possibile» annuisce e in silenzio esce dalla stanza.

Il salone è arredato in stile antico, una lunga libreria copre l’intera parete di destra; in fondo alla sala un ampio camino con pietre a vista, e sulla sinistra una finestra coperta da tende a

sbalzo. Fuori i giardinieri continuano a lavorare senza sosta.

Qualche istante dopo entrano nella sala i genitori di Ginevra, seguiti dal maggiordomo con la mia acqua, poggia il bicchiere sul tavolino di fronte al divano ed esce dalla stanza.

Mi alzo e mi presento, il padre mi stringe la mano e mi invita ad accomodarmi, loro si siedono sul divano di fronte a me.

«Allora» inizio «mi hanno detto che vostra figlia manca da una settimana e che vive da sola. Non e mai capitato altre volte che non si facesse sentire per così tanto tempo?»

«Vede, signorina Coppola, Ginevra dopo la laurea aveva deciso di essere indipendente, non voleva in nessun modo che noi la aiutassimo» mi dice il padre con la voce rotta

dall’emozione, nonostante sembri un uomo orgoglioso, i suoi occhi azzurri lasciano trasparire la tristezza di quanto sta accadendo. «Le abbiamo solo preso un appartamento in centro,

dove lavora in un ristorante come cameriera per potersi mantenere» si ferma con il racconto.

«E quindi, con voi che rapporti ha?»

«I rapporti sono buoni» risponde la madre. «Ci si sente ogni giorno, la domenica viene a pranzo qui, quindi il non sentirla per qualche giorno ci ha fatto subito preoccupare, mio marito è

andato a casa sua, noi abbiamo la chiave, ma nessuna traccia di nostra figlia; i vestiti e tutte le sue cose sono al loro posto e si capisce che non rientra a casa da giorni, i piatti sporchi nel

lavandino, odore di chiuso.»

Sfilo il notes dalla giacca e comincio ad annotare alcune cose.

Mi informano che dopo quarantotto ore dalla scomparsa hanno avvisato la polizia e che in tutto questo tempo non sono riusciti a trovare la figlia, così, consigliati da amici, hanno

chiamato noi.

Mi raccontano di una ragazza orgogliosa e tenace, che non ha voluto nessun aiuto per la ricerca di un lavoro dopo la laurea in giurisprudenza; loro hanno delle conoscenze, ma lei ha

voluto farcela da sola.

«Allora, mi sta molto a cuore la vostra situazione e ho deciso di accettare l’incarico» dico. «Ho bisogno di alcune cose, la chiave dell’appartamento di Ginevra e sapere chi frequenta, se

ha degli amici, un ragazzo…»

Il padre si irrigidisce: «Non sappiamo molto delle sue amicizie, sappiamo che frequentava delle ragazze, ma con noi ha sempre parlato poco di chi frequentava, ha voluto lasciarci fuori

dal suo mondo, nonostante non le avessimo mai impedito nulla.»

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«Non sono qui per giudicare, forse sono stata poco delicata, e me ne scuso, ma ho bisogno di sapere cosa fa vostra figlia quando non lavora. Non posso escludere nulla, nemmeno un

sequestro per ricatto, anche se, da quanto ho capito, nessuna chiamata è stata fatta a voi in quel senso.» Annuiscono.

Il padre mi dà le chiavi dell’appartamento di Ginevra e, sbrigate le fasi burocratiche, mi congedo da loro.

«Vi terrò aggiornati nel caso trovassi qualche indizio importante. Andrò anche in questura e cercherò di capire che passi hanno fatto; se doveste essere contattati, avvisatemi; cercherò di

risolvere il caso velocemente.»

«Me la riporti a casa, è tutto quello che abbiamo.»

«Farò del mio meglio… un'ultima cosa, c’è qualcuno che vuole farvi del male?» faccio la domanda secca e senza mezzi termini; il padre mi guarda un po’ stizzito.

«Signorina Coppola, sono un imprenditore, in questo paese c'è sempre qualcuno che non apprezza come lavoro, ma non credo che Ginevra ne sia coinvolta.»

«Questo lo vedremo, comunque grazie del vostro tempo, mi farò risentire al più presto.»

Fortuna che era una cosa semplice. Il mio paparino mi ha dato una bella gatta da pelare. Con le chiavi e l'indirizzo, vado a casa di Ginevra, spero di trovare qualcosa che mi possa far

capire che vita fa questa ragazza.

Ginevra abita in un bell’appartamento di una palazzina in centro ristrutturata da poco, è all’ultimo piano e si può arrivare solo con l’ascensore: un quadrilocale con un ampio soggiorno e

cucina a vista, divisi solo da una lunga penisola. Un corridoio porta alle due camere da letto e ai due bagni.

In questa casa c’è puzza di chiuso, si capisce che non è vissuta da tempo. Metto i guanti e comincio a cercare indizi.

Trovo alcuni indizi interessanti: nel letto sfatto alcuni capelli di lunghezza e colore diverso, nel lavandino, oltre ai piatti, due calici da vino sporchi di rossetto, in un posacenere sul

comodino alcuni mozziconi di sigaretta della stessa marca. Imbusto ogni reperto etichettandolo e scatto alcune foto.

Un oggetto mi colpisce più delle altre: attaccata al frigorifero c’è la foto di una donna, sembra colta di sorpresa. Non è Ginevra, forse la sua compagna, ma è l'unica foto che ho trovato in

casa. Prendo anche quella.

Esco da casa di Ginevra e mi dirigo verso il laboratorio a cui ci appoggiamo per far analizzare le prove, spero di trovare qualcosa utile per scoprire cosa può essere successo a questa

ragazza.

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ELENA 12.05 – 08:00

Alle otto in punto entro nel portone del commissariato con la mia tazza piena di caffè americano in mano. La mia insonnia continua a giocarmi brutti scherzi e oggi ha fatto sì che

prendessi sonno tardissimo, con il risultato di non sentire la sveglia impostata per le sette. Se non altro, la vicinanza del mio appartamento all’ufficio mi permette di sfruttare fino

all’ultimo tutti i minuti disponibili.

Per le nove ho una riunione con gli ispettori della squadra investigativa per un aggiornamento sui casi aperti; vedremo se ci sono novità. Ho bisogno di risultati e di arrivare a chiuderli il

primo possibile.

Controllo la posta elettronica con la speranza di trovare l’e-mail del patologo con i risultati dell’esame autoptico. Bingo! Arrivata alle 22.45. Come promesso, è stata eseguita nel

pomeriggio e si è protratta per diverse ore, a giudicare dall’ora di invio del messaggio. Tralasciando la parte medico scientifica con l’esposizione dei risultati degli esami compiuti, mi

concentro sulle conclusioni. Almeno sono scritti in italiano! In base alle analisi antropometriche effettuate risulta essere un soggetto di età femminile con un’età approssimativa di 30/35

anni, razza caucasica. L’esame del bacino rileva che non ha portato a termine gravidanze e dall’analisi dell’apparato scheletrico, per quanto gravemente compromesso dalle lesioni

operate con uno utensile a lama pesante, non risulta aver subito fratture ante mortem. Non è dato sapere se il corpo sia stato sezionato ante o post mortem. Il tronco superiore, sezionato

tra la base del collo e la zona lombare, presenta ustioni di terzo grado che hanno interessato maggiormente la parte posteriore; si ipotizza che fosse in posizione prona e che l’azione del

fuoco non abbia colpito direttamente la zona in esame. Questo ha permesso di rilevare che alla vittima sono stati asportati entrambi i capezzoli completi di areola. Tale particolare,

riconducibile a sevizie operate presumibilmente in vita, ha consentito di accertare che, a un esame più approfondito degli organi genitali, sia stato asportato anche una porzione di

clitoride. La mancanza di protesi ortopediche e odontoiatriche non permette di effettuare controlli incrociati. Campioni di tessuto sono stati mandati in laboratorio per esame istologico,

tossicologico e DNA. Fottuto pervertito!

Ora non resta che aspettare l’esame del cadavere trovato nell’auto dal demolitore e sperare di trovare qualche elemento che possa portarci al responsabile. Sbrigata l’ordinaria

amministrazione, fatta di circolari, comunicazioni interne e mandati di cattura, iniziano a bussare alla mia porta i partecipanti del briefing mattutino.

«Entrate e accomodatevi. Saltiamo i convenevoli, ché già mi girano abbastanza dopo aver letto il referto del patologo. Si tratta di una ragazza, trenta, trentacinque anni. Non sappiamo di

dove sia, sicuramente europea o giù di lì. Oltre a essere stata fatta a pezzi e bruciata, il bastardo si è divertito a tagliare capezzoli e clitoride» rivolta a Gargiulo, faccio un sunto del

referto dell’autopsia.

Perplesso, Luigi arretra la parte superiore del tronco. «Mi puzza un po’ questa cosa, non sono pratiche della camorra.» Gli occhi strizzati e le labbra arricciate rispecchiano il dubbio

espresso a voce.

«Ho pensato la stessa cosa, ma volevo sentire il tuo parere. Su questa cerchiamo di indagare in tutte le direzioni, senza escludere nulla. Controllate tutte le denunce di scomparsa per

ragazze tra i 25 e i 40 anni dell’ultimo anno e poi incroceremo il DNA. È l’unico elemento utile che possiamo utilizzare.» Mentre Gargiulo appunta le mie direttive, sposto lo sguardo su

Martino.

«Andiamo avanti. Antonio?»

«Siamo riusciti a ricollegare tutte le vittime alla famiglia Casalabria. Gestiscono diverse attività a Napoli e provincia, ma dietro la facciata legale di lavasecco self-service, pizzerie e

ristoranti, se ne intrecciano altrettante illegali; passano dallo spaccio alla prostituzione e si presume anche l’usura.»

«Come ci siete arrivati?» Appuntate anche queste informazioni, insisto con lui.

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«Un confidente ci ha suggerito di verificare in quella direzione e abbiamo trovato riscontro. Pare che alcune delle loro iniziative si siano sovrapposte a quelle dei Pizzuto, altra famiglia

nota alle cronache. Quindi confermerebbe la tesi del regolamento di conti. Resta solo da capire perché farli sparire. Di solito si tende a mandare un messaggio chiaro con esecuzioni

pubbliche.»

«E se invece fosse premeditato? Cioè, se si volesse tenere nascosto il mandante per evitare una risposta?»

«Può essere.» Il dubbio che gli ho instillato lo rende pensieroso, a vedere la penna che sbatte ripetutamente sul labbro inferiore.

«Ok, verifica e fammi sapere. Ora levatevi dalle palle.» Accompagno l’invito a uscire con un bel sorriso.

42
ILARIA 12.05 – 12:00

Per avere i primi risultati sulle impronte che ho trovato in casa di Ginevra devo aspettare.

Tutto sembra nebuloso. Una ragazza della Napoli bene sparisce senza lasciare la minima traccia.

In che guai si è cacciata? Mentre raggiungo il commissariato, alla radio ascolto la notizia del ritrovamento, durante la notte, di un corpo carbonizzato in una cava; dai primi accertamenti

sembra appartenere a una donna. Scaccio il pensiero che possa essere Ginevra, anche se non posso permettermi di escludere a priori questa ipotesi. Devo cercare di avere notizie in

commissariato, spero di trovare la persona giusta.

Prima di andare in questura mi fermo a pranzare, ho bisogno di fare il punto della situazione. Chiamo mio padre e gli racconto quanto accaduto.

«Figlia mia, pensavo di averti dato un caso semplice, invece… se vuoi mando un altro al tuo posto…»

«Ma che scherzi? Ormai ci son dentro, voglio portarlo avanti e spero di arrivare alla soluzione, papà.»

«Sei brava, vedrai che farai un ottimo lavoro.»

Saluto mio padre, pago il pranzo e mi rimetto in auto alla volta del commissariato di Arenella.

Arrivo intorno alle due del pomeriggio, vado verso il piantone, intento a compilare dei moduli. «Buongiorno, sono Ilaria Coppola, investigatore privato, vorrei sapere chi segue i casi di

persone scomparse.» Svogliatamente il piantone alza lo sguardo per verificare il tesserino.

«Deve parlare con il commissario Elena Masala, ma in questo momento non credo sia possibile.»

«Capisco, le ruberei solo qualche minuto. Sto seguendo il caso di una ragazza scomparsa da una settimana e vorrei avere delle notizie su come sta procedendo la ricerca.»

Con sufficienza compone il numero diretto. «Commissario, qui ci sta qualcuno che vorrebbe informazioni su una persona scomparsa… una investigatrice, secondo quello che dice il

tesserino... Okay»

L’agente abbassa la cornetta e mi guarda svogliatamente «Oggi deve essere particolarmente di buon umore. Salga le scale, prenda il corridoio a sinistra. Ultima stanza a sinistra.»

Seguo le indicazioni del piantone e busso alla porta.

«Avanti.»

«Salve, sono Ilaria Coppola, investigatrice, commissario Masala?»

«Sono io» mi dice con voce seccata. E meno male che doveva essere di buon umore. «Mi dica.»

«Sto seguendo un caso di persona scomparsa, una ragazza di nome Ginevra Russo, e vorrei avere notizie in merito alle indagini.»

«Mi ascolti, non ho tempo in questo momento. Bussi alla stanza di Gargiulo, lo trova all’inizio del corridoio.»

«Le faccio solo una domanda, se posso, ha qualche indizio sul corpo della donna trovato nella cava stanotte? Magari un nome o altro» lei mi guarda stizzita.

«Secondo lei, se avessi qualche indizio lo verrei a dire a lei? Buona giornata» indica la porta e mi invita a uscire.

Bel caratterino, il commissario, devo cercare notizie su di lei, potrebbero servirmi.

Il vicecommissario non ha nessuna novità sul caso di Ginevra, nulla che io non sappia già, a parte che è l’ennesimo caso di persona scomparsa avvenuta negli ultimi mesi.

Le sparizioni non hanno un legame, a parte le zone, tutte intorno al centro città, ma è poco per fare supposizioni. Esco dal commissariato con poco e nulla. Per il momento devo aspettare

i risultati dal laboratorio e nel mentre cerco informazioni su Elena Masala.

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ROBERTO 12.05 – 08:00

La preparazione del corpo di Tassinari mi ha portato via l’intero giorno di riposo e non posso non andare al lavoro. Sono sempre molto ligio durante la mia normalità.

Arrivo in orario, essere responsabile di reparto mi dà una certa autonomia nel gestirmi. Dopo aver preso consegna e salutato i miei colleghi, prima del giro con il medico, che di solito

avviene in tarda mattinata, mi chiudo in guardiola e studio attentamente la cartella del paziente della ventisette. Il suo nome è Salvatore Gallo, un informatore farmaceutico di mezza età;

non so che legame abbia con il commissario, ma da quello che mi ha detto Irene, devono essere stati intimi.

Nel luogo di lavoro mi sono ripromesso di non fare nulla di avventato, deve rimanere la mia zona di protezione se qualcosa dovesse andare storto. Controllo la terapia, gli aggiungo un

potente sonnifero da somministrare per via endovenosa che lo terrà calmo fino a domani e dopo l’ecografia con mezzo di contrasto lo porterò nei sotterranei in un magazzino in disuso,

fino a che non decido il da farsi.

Preparo la finta dimissione e la nascondo in un cassetto della scrivania chiuso a chiave. Mentre mi sto rilassando, sento una voce che mi chiama. «Responsabile, le devo parlare…» è il

compagno di Salvatore Gallo.

Apro la porta della guardiola e con un sorriso smagliante: «Mi dica, signor…?»

«Mi chiami Giggino, vorrei chiederle notizie del mio compagno, Salvatore, lo vedo sempre assonnato e non capisco se sia un bene».

Mi avvicino e gli rispondo in modo calmo ed educato. «Stiamo ancora facendo dei controlli, ha preso una bella batosta, è normale che sia un po’ assonnato. Inoltre gli stiamo

somministrando antidolorifici a base di morfina che danno sonnolenza, cerchiamo così di fargli sentire meno dolore.»

Lui continua imperterrito a riempirmi di domande «Adesso mi scusi, ma devo iniziare il giro dei pazienti. Le chiedo gentilmente di rimanere in camera del suo compagno, non potrebbe

stare in ospedale a quest'ora, con lei faccio un’eccezione, ma la prego, resti in camera, altrimenti mi mette nei guai» continuo a fissarlo con un sorriso, appoggiandogli una mano sulla

spalla.

Mi guarda in silenzio per un secondo, cerca di dire altro, ma sta zitto, si gira e se ne va. Lo guardo dirigersi verso la stanza ventisette e sparire dietro la porta. Faccio il giro con il medico

e nell’istante in cui arriviamo alla ventisette mi svincolo con una scusa: meno Salvatore mi vede, più sono irriconoscibile. Devo restare nell’ombra.

Finita la giornata, saluto e me ne vado. Devo ancora preparare le spedizioni per domani, che recapiterò dopo il turno in ospedale. Non vedo l’ora.

Arrivo a casa. Io e mia sorella non ci parliamo, in silenzio mangio un boccone al volo e mi chiudo nel garage. Quando risalgo a casa è già sera, mi faccio una doccia e vado a dormire.

Sogno della mia casa-famiglia e di come ho iniziato a uccidere. Sono nel fienile intento a catturare un topolino di campagna, il roditore è veloce, ma riesco a prenderlo e imprigionarlo in

un barattolo: non può respirare, resto a guardarlo annaspare in cerca di ossigeno per riempire i polmoni. Sono eccitato nel vederlo impazzire, mi dà euforia e ci vuole quasi una notte

prima che muoia. Quello che faccio dopo è ancora più eccitante: con un coltello gli taglio coda e zampe, poi cerco di aprirgli la pancia, ma il coltello è troppo grande e finisco per

sezionarlo in due.

È stato il mio primo esperimento. Da lì in poi ho affinato tecnica e modalità, adoravo cercare metodi sempre nuovi per provocare dolore. Non mi sono fermato ai topi, pian piano ho

usato animali sempre più grandi e più complicati da uccidere, fino a che sono arrivato al mio primo omicidio, il mio compagno di stanza. Ero stufo che piangesse tutte le notti perché

bagnava il letto. Gli ho risolto il problema per sempre. L’ho evirato mentre dormiva e ho aspettato per vedere quanto sangue avrebbe perso prima di mettermi a urlare e chiamare aiuto.

Sono arrivati un attimo dopo la sua morte; io, in lacrime, gli ho raccontato che aveva impugnato un coltello nascosto sotto il cuscino e si era tagliato dicendo che avrebbe risolto il suo

problema della pipì a letto.

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CAPITOLO SESTO

LA TELEFONATA

IRENE 13.05 – 07:30

Il suono della sveglia mi fa sobbalzare dal letto, apro gli occhi e guardo fuori dalla finestra. La giornata è particolarmente gradevole; lo stesso non si può dire del mio umore. Indosso

controvoglia il solito tailleur per andare al lavoro.

In banca il direttore è ancora convinto che Tassinari tornerà a fare i soliti versamenti; cerco di fingere sorpresa quando mi domanda se ho ricevuto sue notizie. Povero fesso, non lo

rivedrai mai più.

Oggi devo sostituire un mio collega allo sportello: le ore passano in un turbinio di assegni, bonifici, pagamenti vari. La noia mi assale, l’unico avvenimento che cattura la mia attenzione

è una cliente venuta ad aprire un nuovo conto. La ragazza somiglia incredibilmente a Sara e ricordo che sono passati giorni dall’ultima volta che sono andata a trovarla.

Improvvisamente ho un nuovo scopo per questa giornata, decido di passare da lei durante la pausa pranzo.

Finito di sistemare gli ultimi file nel sistema, mi fiondo in macchina e guido verso casa sua, busso alla porta ma nessuno risponde. Ha cambiato casa?

La cosa mi sembra inverosimile, busso ancora, questa volta più forte.

«Non ti aprirà nessuno, a meno che tu non decida di buttare giù la porta.»

Mi giro verso la direzione da cui proviene quella voce e la vedo: dalle buste che tiene in mano si intravedono pane, uova e della frutta. Il suo aspetto trasandato le conferisce un’aria

tremendamente sexy. “O forse sono io che non la vedo da troppo tempo”, penso.

«Ti hanno mangiato la lingua?» incalza, notando come la scruto.

«No, cioè, volevo dire, ciao» dico d’un fiato. «Hai bisogno di una mano con quelle?» indico i sacchetti della spesa.

«Se non ti spiace» nel dirlo me li passa senza troppi complimenti. Traballo pericolosamente sui tacchi.

Sento il tintinnio delle chiavi con cui armeggia nella serratura e dopo qualche secondo la porta viene aperta. Entro nella casa che mi ha ospitato tante volte senza chiedermi nulla in

cambio.

«Lo hai finito, poi, Grossman?» domando cercando di sondare il suo umore.

«Oh sì, ho anche iniziato Bulgakov, come mi avevi suggerito!» ruggisce mentre mette a posto il latte nel frigo.

«Davvero?» chiedo stupita. Noto che non mi guarda in faccia.

«Certo che no. Cosa vuoi, Irene? Probabilmente non ci avrai fatto caso, dall’alto della tua arroganza, ma sono ancora impegnata a essere arrabbiata con te.»

Questa volta è glaciale.

D’accordo, forse me lo sono meritato.

«Mi sei mancata. Volevo sapere come stai» doso la voce per non sembrare troppo persuasiva.

Quel trattamento lo riservo alle mie vittime, lei è diversa.

«Dovrei sentirmi lusingata? Non ci casco. Sei qui solo per una sveltina, come sempre.»

Chiude con forza il frigorifero e prende a sistemare le mele nel centrotavola.

«Puoi smetterla di muoverti e mi guardi in faccia?» domando gentilmente.

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«Che cos–» si ferma e si gira. Forse qualcosa nella mia espressione la convince che sono lì solo per vederla senza altri scopi. Sembra addolcirsi e viene ad abbracciarmi. Restiamo lì,

ferme, in piedi, senza dire una parola: con i pomodori e la pasta ancora da sistemare.

Pranziamo insieme e quasi inevitabilmente ci ritroviamo a letto.

«Come ti sei fatta questi lividi?» osserva guardandomi nuda.

«Non ha importanza» per non farla insistere le tappo la bocca incollando le mie labbra alle sue.

Nel pomeriggio, prima di andare, mi scrive il suo numero di telefono su di un post-it; salvo il numero sul mio cellulare e ripongo il tutto nella borsa. Torno al lavoro più serena, inizia a

capire che il modo migliore per farmi restare è lasciarmi andare. Non possiamo avere una relazione sana, rabbrividisco al solo pensiero della reazione di Roberto se venisse a scoprire di

lei.

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ILARIA 13.05 – 09:00

Il telefono mi sveglia di soprassalto.

«Pronto?» dico ancora assonnata.

«Ilaria, sono Jerry. Ho i primi risultati, se vuoi venire ne parliamo.»

«Dammi il tempo di svegliarmi e arrivo. Grazie, Jerry, a più tardi.»

Bene, almeno avrò qualcosa su cui lavorare.

Mi alzo e prendo un caffè veloce mentre mi vesto.

Arrivo al laboratorio intorno alle dieci, Jerry mi sta aspettando nel suo ufficio.

«Toc toc, posso?» dico e attendo l’invito.

«Entra, Ilaria. Sono contento di vederti, come stai? Sai che è un coglione, vero? Io non mi sarei mai lasciato scappare una persona splendida come te.»

«Sto meglio, anche se non è facile dopo dieci anni, ma vedrò di andare oltre. Torniamo a noi» taglio corto, fatico ancora a parlare di un passato che non voglio ricordare, inoltre ho un

caso da seguire e quello ha priorità su ogni cosa.

«Come vuoi, torniamo a noi. Le impronte che mi hai portato sono di tre uomini e una donna, che sono stati a casa di Ginevra» si ferma un attimo prima di riprendere. Quando si

interrompe in quel modo mi piace poco, significa che le notizie non sono delle migliori. «Un gruppo di impronte non hanno riscontro in nessun database, è come se appartengano a un

fantasma, ma spero nel DNA, anche se a questo punto dubito di trovare qualcosa.»

«Questo è un problema, se non riesco a trovare qualcosa con ciò che abbiamo mi ritrovo impantanata» non ci voleva questo, ho sperato di avere buoni riscontri, invece manca un pezzo

del puzzle. «Hai per caso delle foto di queste persone?»

«Le foto possono essere viste solo dalla polizia, noi abbiamo dei limiti in quanto laboratorio privato, mi spiace.»

«Non fa nulla, altro?»

«Per il DNA ci vorranno ancora un paio di giorni.»

«Perfetto, intanto lavorerò su questi nomi, posso farti una domanda?»

«Chiedi pure, Ilaria.»

«Sai qualcosa sul commissario Elena Masala? Ho avuto a che fare con lei ieri, mi sembra un personaggio tosto.»

«Esatto, mia cara» mi risponde. «È il nuovo commissario, deve essere arrivata qui da pochi giorni, figlia del commissario Masala a cui hanno dedicato la nuova ala di massima sicurezza

del carcere. Prima di arrivare a Napoli lavorava a Genova. Una sorta di promozione, se essere trasferiti a Napoli può essere considerata tale» Jerry termina con non poco sarcasmo. «Una

cosa la so, anzi, due per essere precisi» replica. «La prima è che va tutte le sere nella palestra vicino al commissariato per tenersi in allenamento, mentre la seconda e qualcosa di più

personale...»

Lo fisso con aria interrogativa, sembra quasi imbarazzato. «Se lo ritieni importante, informami, altrimenti lascia stare.»

«Elena Masala trent’anni fa all’anagrafe era un uomo, ma nonostante tutto è riuscita a farsi strada in un mondo di bigotti, sino a diventare commissario.»

Elena Masala comincia a piacermi, devo comunque giocare bene le mie carte, ma con lei ho paura che non sia facile.

Saluto Jerry, mi ha dato un buon modo per avvicinare il commissario: mi sarei iscritta in palestra, così magari riuscirò a perdere in qualche modo i chili messi nella mia fase depressiva.

Per prima cosa però devo controllare i nomi che Jerry mi ha passato. Senza le foto è un po’ complicato trovare informazioni, ma i social network sono un buon punto di partenza per

trovare qualcosa.

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Passo il resto della giornata al pc, risalgo a tutti i nomi e riesco a interrogarli per telefono.

Nessuno di loro sa che fine abbia fatto Ginevra.

I tre uomini lavorano con Ginevra nel ristorante, e spesso andavano a casa sua per passare le serate sfidandosi a giochi di società vintage. L’ultima volta che hanno visto Ginevra è stato

circa dieci giorni prima, al lavoro, e nessuno di loro si è accorto di qualche suo comportamento strano.

La ragazza si chiama Alice ed è la compagna di Ginevra da circa un paio di anni, anche se non vivono insieme.

Alice mi racconta che Ginevra nell’ultimo periodo frequentava anche un'altra ragazza. Purtroppo, di questa nuova fiamma lei non sa nulla, io invece un'idea me la sto facendo.

La nuova amante di Ginevra è l’unica persona che sembra essere un fantasma, nessun account sui social.

Comincio a sospettare che la ragazza nella foto trovata sul frigo a casa di Ginevra sia importante per risolvere il caso.

Mi tocca veramente andare in palestra.

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ROBERTO 13.05 – 19:00

Ieri sera ho preparato l’occorrente per la mia piccola missione. Nel bagagliaio del furgone ci sono i quattro pacchi che devo consegnare, più una borsa con il cambio.

Ho trovato una divisa da fattorino di una società che ormai è fallita, il berretto ha lo stemma cucito sulla visiera; inoltre, ho pensato di indossare un paio di lenti a contatto colorate di

azzurro e la mattina della consegna, dopo anni, taglierò i miei baffetti alla don Chisciotte.

Roberto andrà al lavoro con il nuovo look, senza baffi. Ho comunque mantenuto i capelli riccioluti perché sotto il berretto non vedono.

Preparo l'itinerario impostandolo sul satellitare. A fine turno devo recuperare un furgone bianco, anonimo, che ho rubato in una zona di periferia. La mia auto la lascio in ospedale nel

parcheggio a pagamento.

Mi sono creato delle bolle di consegna fittizie usando l'indirizzo della casa di Genova del commissario. Ho studiato un po' in questi giorni, devo essere pronto per ogni evenienza.

Andrò a casa del commissario e poi in questura con l’ultima “sorpresa”, poi lascerò il furgone in una via poco trafficata, dietro il commissariato.

Ora che sono tornato al lavoro, ho un’ultima cosa da fare, organizzare la finta dimissione di Salvatore dopo l’ecografia. L’esame è previsto un’ora prima della fine del mio turno.

Tutto sta andando come previsto: Salvatore è tornato dalla visita, sono entrato in camera e gli ho iniettato il sonnifero nella flebo, lo sento che russa soavemente.

Controllo che intorno non ci sia nessuno, lavorando lì so dove passare per evitare personale e telecamere. Prendo l’ascensore e scendo nei sotterranei, nascondo Salvatore in un

magazzino utilizzato come archivio, nessuno controllerà, mi basta una giornata e poi lo sposterò in un luogo più sicuro.

Sistemo la barella dietro l’ultimo scaffale, rallento la velocità della flebo per allungare il tempo della somministrazione. «Dormi, dormi, mio bel bambino» gli dico cantilenando, e

mentre sorrido me ne vado, lasciandolo lì, che russa.

Ritorno in reparto, prendo la lettera di dimissione che ieri ho fatto firmare a Intellisano, ne faccio una copia e la metto in cartella.

Avviso il mio collega che il paziente della ventisette se n’è andato dopo l'ecografia, visto che non è risultato nulla. I pochi vestiti che ha lasciato li metto in un sacchetto e li porto con

me, conservo il suo cellulare. Saluto e me ne vado.

Sono euforico, anche se un piccolo tarlo si sta insinuando dentro di me, comincio ad avere una sorta di timore che qualcosa possa andare storto, continuo a ripassare mentalmente il

piano. Prendo la mia auto e la porto nel parcheggio dei visitatori, chiamo un taxi e mi faccio portare nel luogo di consegna del furgone.

Tutto prosegue senza il minimo intoppo.

Arrivato al furgone, indosso gli abiti che ieri ho sistemato nella borsa e raggiungo la casa del commissario, consegno i pacchi al portinaio che li ritira senza fare domande.

Al commissariato, invece, mi fanno aspettare. Sono teso, ho in mano i due pacchi, voglio uscire velocemente, più mi trovo allo scoperto e più è pericoloso.

Dopo circa una ventina di minuti arriva un poliziotto in divisa.

«A chi devo consegnare il pacco, mi scusi?» mi chiede svogliatamente.

Fingo di guardare la bolla. «Al commissario Elena Masala, provengono da Genova.»

«E chi è il mittente?»

«Sulla bolla c’è segnata ogni cosa, io devo solo consegnare, se per cortesia me la firma… così posso proseguire il mio giro, ho ancora un sacco di consegne da fare.»

Controlla la bolla per qualche minuto, poi alza lo sguardo e firma mentre mi squadra, io continuo a sorridere.

«Lasci i pacchi al piantone e torni a fare il suo lavoro» non aspetta risposta, si gira e svanisce dietro una porta.

Ho rischiato, ma la paura che ho provato mi ha in qualche modo elettrizzato di più.

Torno al furgone, mi cambio dietro nel cassone, metto jeans e una felpa con cappuccio.

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Appoggio l’ultimo organo in bella vista sul sedile dell’autista. Il cuore di Tassinari galleggia in un barattolo trasparente.

Scendo dal furgone e indisturbato mi allontano dando le spalle alle mura del commissariato.

Torno alla mia auto in taxi. Ho fatto tutto quasi in apnea, appena seduto sul sedile della mia auto riprendo a respirare normalmente.

Prima di tornare a vedere il mio recluso devo fare la cosa più divertente della giornata: chiamare la Masala e presentarmi.

Prendo il cellulare che ho rubato a Salvatore e compongo il numero del commissariato.

«Pronto, commissariato di Arenella, desidera?»

«Buonasera, signorina, potrei parlare con il commissario Elena Masala, per cortesia?»

«Chi la desidera?»

«Sono un cittadino ligio al dovere che ha notizie sul corpo rinvenuto nella cava.»

La centralinista non dice nulla, attendo qualche istante e poi sento la voce del commissario.

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ELENA 13.05 – 19:00

Siamo a un punto morto delle indagini. Il rapporto del patologo ha confermato che la donna ha subìto delle torture prima di essere uccisa con un’arma da taglio che ne ha provocato la

fuoriuscita degli intestini. Ora non resta che aspettare i risultati dell’esame del DNA e il confronto con i campioni delle donne scomparse ultimamente.

Anche questa giornata è finita, per fortuna, non vedo l’ora di andare in palestra per scaricare un po’ di tensione e poi farmi un bagno rigenerante, ne ho proprio bisogno. Non finisco di

programmare la serata che lo squillo della linea interna mi blocca nel momento in cui sto per uscire dall’ufficio.

«Sì? Chi? Va bene, passamelo.» L’agente del centralino mi passa la chiamata di un tizio che ha informazioni sulla vittima della cava. Speriamo bene.

«Pronto!»

«Buonasera, commissario.»

«Chi parla?»

«Non importa chi sono, importa ciò che ho da dirle.»

«Senta, non mi faccia perdere tempo, non mi piacciono i giochetti» la voce al telefono è impostata, penso che abbia visto troppi film in televisione.

«No, nessun gioco, anche se giocare mi stuzzica parecchio.»

«Sentiamo che ha da dirmi. Sappia che le telefonate sono tutte registrate.»

«So che sono registrato, quindi mi ascolti attentamente, non ripeterò. Appena sotto casa sua c’è un’auto parcheggiata ormai da un paio di giorni.»

«Sotto casa mia? Che auto?»

«Una Mercedes nera con i vetri oscurati.»

Appunto su un post-it le informazioni che mi comunica: Mercedes nera.

«Mandi qualcuno a controllare, non mi dica che è sola o che essendo nuova nessuno le dà ascolto.»

«Ha parlato di informazioni sulla vittima che potrebbero interessarmi, non vedo cosa c’entri questo» nel frattempo che parlo con questo idiota, mando un WhatsApp a Gargiulo con

l’informazione dell’auto da controllare.

«Un'altra cosa, ci sono dei pacchi da ritirare in portineria, sia a casa sua che in commissariato… tempus fugit, commissario.»

Prima che possa chiedere qualcosa in merito, chiude la telefonata. Questa cosa mi fa imbestialire. Sono qui tutto il giorno e nessuno mi ha avvisata. Alzo la cornetta del telefono e

chiamo il piantone.

«Ci sono dei pacchi per me? E che cazzo aspettavate a farmelo sapere? Che arrivasse Natale?» Aggredito dal mio tono di voce, il piantone riesce solo a farfugliare qualche parola senza

senso. Nel giro di qualche minuto bussa alla mia porta aperta; appese nelle mani, due scatole rivestite di carta da pacchi avana.

«Appoggiali lì!» Ancora furiosa, indico un punto indefinito sulla scrivania. «Quando li hanno portati?» Indecisa se chiamare o meno gli artificieri, osservo i due pacchi uguali: circa

cinquanta centimetri di altezza per trenta di larghezza.

«Stamani. Io li ho notati quando ho preso servizio alle 14, ma non sapevo per chi fossero e se avessero già avvisato.»

«Ok, ok. Puoi andare adesso. Ah, Micheli, se richiama il tizio di prima cercate di rintracciare la telefonata.» Il cellulare sulla scrivania inizia a vibrare: Gargiulo. «Dimmi... Cazzo! Un

altro cadavere? Allontana tutti, chiama la scientifica e vieni in ufficio da me. Ora!»

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Un cadavere impacchettato nel bagagliaio di un’auto e due pacchi per me. Temo per ciò che ci troverò dentro. La bolla di consegna indica la provenienza da Genova, con l’indirizzo di

casa mia. Furbo! Con attenzione incido il nastro utilizzato per chiudere la carta di uno dei pacchi. Eliminata questa, compio la stessa azione sul nastro che chiude la scatola di cartone. La

torcia del cellulare mi aiuta a controllare sotto i lembi del cartone.

«Bene, nessun filo.» Con più tranquillità apro la scatola mentre Luigi irrompe nella mia stanza.

«Eccomi, che accade?» lo vedo fisso sulla soglia, ammutolito alla vista di ciò che ho estratto dal pacco.

«Maronn ro Carmine! Porca troia! Ma che è?»

«Un polmone, se i miei studi di anatomia non mi ingannano.» Dentro un barattolo di vetro sigillato c’è l’organo che galleggia in un liquido chiaro. Se tanto mi dà tanto, è formaldeide.

«E chisto che tene?» Incuriosito dal ritrovamento, Gargiulo apre la seconda scatola che contiene un altro barattolo di vetro.

«L’altro polmone, presumo.» In quell’istante squilla il telefono interno, e il mio sesto senso anticipa quanto riferisce il piantone.

«Passamelo!» Cerco di mantenere tutta la calma possibile; devo ottenere maggiori informazioni possibili da questo squilibrato e metto il vivavoce in modo che anche Luigi possa sentire.

«Cucù, commissario, le piacciono i miei regalini? Sarei curioso di vedere la faccia che ha fatto quando li ha aperti.»

«La mia faccia? Ho provato sconcerto nel pensare che esistano persone malate come lei. Di chi sono?»

«Sono di un maiale.»

«Un maiale? Presumo umano, vero? Chi è lei?» Senza rispondere continua a blaterare e appunto le ennesime informazioni che mi fornisce: furgone parcheggiato, pacchi a casa mia,

scoprire chi è e cosa manca.

«Adesso mi ascolti attentamente, qualcuno avrà recuperato il corpo nell’auto e i pacchi a casa sua, ma non è tutto. C’è un furgone parcheggiato con quello che manca. Chi è deve

scoprirlo lei, io le procuro solo il lavoro.»

Senza perdere tempo, Gargiulo esce dalla stanza per andare a recuperare gli altri pacchi e verificare la presenza del furgone.

«Perché questi regali e queste informazioni?»

«Ho un conto in sospeso con lei, commissario.»

«Con me? Sto iniziando a innervosirmi, se vuole che le dia ascolto deve darmi qualcosa in più, se no la conversazione si chiude qui» forzo la mano, ma so bene che non mi dirà quello

che voglio sapere.

«Non faccia la boriosa… Pensate che il corpo in discarica sia opera della camorra?»

«Lei come sa del cadavere della cava? Quindi è lei il responsabile, bene.»

«Non doveva essere un gioco, ma lei mi stimola.»

«Sono contenta di provocarle un orgasmo, ma le ho già detto che non mi piacciono i giochetti.»

Vuole giocare al gatto e al topo con me; glielo concedo, vediamo dove va a parare. Spero che riescano a rintracciare la chiamata, ma se è furbo come immagino, probabilmente chiama

da una cabina o da un cellulare che non ci porterà a nulla.

«Ci sono vari corpi sparsi per la città con la mia firma, commissario; due li avete perché io ho deciso di farveli trovare, gli altri non credo li troverete mai. In più ho un probabile bonus

regalo solo per lei.»

Ancora informazioni da segnare: altri due cadaveri e un bonus per me!

«Questi dove li trovo? Chi sono?»

«Commissario, è lei che indaga, un po’ di iniziativa, su.»

«Glielo concedo, e li troverò. E troverò te, lo sai vero?» Ho l’adrenalina a mille, questo tira e molla mi sta provando mentalmente.

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«Io so chi è lei, ma lei cosa sa di me? Come è, Genova, meno calda di Napoli?»

In quel momento Gargiulo rientra con due pacchi di uguale foggia ma più piccoli. Li appoggia sulla scrivania e con la stessa procedura dei precedenti li apre. Ancora due barattoli e altri

due organi: dalle dimensioni sembrano un fegato e probabilmente una milza.

«Non ci vuole molto a sapere che sono di Genova, è su tutti i giornali» dice di conoscermi, ma quello che riferisce è di dominio pubblico.

«Il cambio del sesso come è stato? Difficoltoso?»

«Il cambio di sesso? Dai, puoi fare di meglio, stupiscimi.» Rido ai suoi tentativi di impressionarmi.

«L’adozione come è stata? Complicata? Tutti quegli occhi che la guardavano con aria interrogativa, io sono un passo davanti a lei.»

La notizia dell’adozione di Clara non è stata resa pubblica, per quanto non ci fosse nulla da nascondere. Con un WhatsApp chiedo a Stefano se è tutto a posto. Nel giro di un paio di

minuti mi risponde ok, seguito da un paio di punti di domanda. Più tardi lo chiamerò.

«Va bene, mi hai convinto, pare che sappia chi sono. Ti prometto una cosa: se torci un solo capello alla mia famiglia ti strappo le palle!»

«Questo è solo l’inizio, e stia tranquilla, non toccherò la sua famiglia; è lei che voglio.»

«Vuoi me? Sai dove trovarmi, allora.»

«Mi sento onnipotente, decido io sulla vita e sulla morte. Adesso, con grande dispiacere la devo lasciare, ciao ciao, commissario, mi saluti casa.»

Con le ultime farneticazioni da megalomane, mi saluta e chiude la comunicazione. Ora ho seriamente un problema da risolvere.

«Lui’, vai a controllare questo furgone» spedito Gargiulo a verificare la presenza del mezzo, richiamo il centralino.

«Avete rintracciato la chiamata? Arrivo!»

Sbatto giù il telefono e volo in centrale operativa, al piano di sotto. L’operatore mi ha comunicato che forse abbiamo una traccia.

«Ditemi che abbiamo rintracciato la chiamata.» Butto la frase nel vocio della sala, non sapendo a quale agente rivolgermi.

«Commissario!» Alla destra del lungo bancone si alza una mano.

«Dimmi…»

«Andrea Pirro, commissario. Siamo riusciti a geo localizzare la seconda chiamata, ma per poter rintracciare l’intestatario dell’utenza dobbiamo attendere la risposta dell’operatore

telefonico. Ad ogni modo, il cellulare si è agganciato alle celle della zona dell’Orto Botanico. Purtroppo, non è durata abbastanza da permetterci di definire l’indirizzo.»

«Merda! È come non avere nulla in mano. Non abbiamo nient’altro che possa darci indicazioni più precise. Appena avete risposte per il nominativo chiamatemi al cellulare.»

Uscita dalla sala operativa chiamo Gargiulo, a questo punto dovrebbe aver trovato tutto.

«Luigi, che mi dici?»

«Abbiamo trovato anche il furgone e temo non ti piacerà il contenuto. Nel bagagliaio dell’auto abbiamo trovato un cadavere avvolto in un telo e chiuso con lo spago a mo’ di rollata di

carne. Il furgone appartiene a una società di trasporti. In bella vista sul sedile ci ha lasciato un cuore a bagno dentro un barattolo di vetro. Il sostituto procuratore ha appena autorizzato la

rimozione del cadavere e tutti e due i mezzi verranno spostati nel garage della scientifica. Dai documenti dell’auto siamo risaliti al proprietario. Si tratta di un certo Alberto Tassinari, 55

anni, ingegnere e titolare di una importante impresa edile, la AL. TA S.r.l. Abbiamo effettuato dei controlli in archivio e il suo nome è saltato fuori in alcune indagini per usura, dalle

quali però ne era uscito pulito. Adesso dovremo ricostruire i suoi ultimi spostamenti e rintracciare le persone che l’hanno visto o avvicinato in questi giorni.»

«Infatti, non mi piace per niente. La scientifica ha trovato qualcosa nell’auto?»

«Hanno repertato una serie di tracce biologiche, impronte digitali; insomma, le solite cose che si trovano in tutte le macchine. Appena avranno riscontri mi comunicheranno i risultati.»

«Va bene, io me ne vado adesso, e ti consiglio di fare altrettanto. Domani sarà una giornataccia.»

«A domani.»

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ROBERTO 13.05 20.00

Non aspetto risposta, riattacco, ho fatto la mia prima mossa.

Adesso devo essere più cauto, sposterò Salvatore questa sera, non posso aspettare domani.

Vado con l’auto nella zona dei sotterranei, il badge mi permette di aprire ogni porta.

Trovo Salvatore ancora sognante sulla barella, inietto altro sonnifero nel venflon e tolgo la flebo.

Porto la barella vicino all’auto e metto Salvatore nel bagagliaio.

L’eccitazione è alle stelle, tutto sta andando come voglio io.

Ho bisogno di uno sfogo, so come fare.

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ILARIA 13.05 – 20:30

Compro un completo nero e mi armo di sacca sportiva, mi iscrivo in palestra dove spero di incontrare Elena Masala. Sono due gli orari in cui il commissario va in palestra, la mattina

prima di entrare in servizio oppure la sera. La vedo arrivare dopo le 20, mentre sonnecchio sulla cyclette.

È vestita in modo appariscente, con un paio di leggings fucsia super aderenti con disegni colorati, sembra pensierosa e ricambia i saluti svogliatamente, è molto femminile nelle

movenze, che fosse stata uomo in una vita passata lo nasconde molto bene. Per mia sfortuna si mette al vogatore. Fingere di remare non mi piace, avrei preferito una corsetta sul tapis

roulant. Salgo sul vogatore a fianco, ma già alla terza vogata le braccia cominciano a chiedere pietà e i polmoni si incendiano di colpo.

«Deve rallentare il ritmo, se no schiatta prima di cinque minuti» mi dice sorridendo.

«Più che rallentare, mi fermo, non ho un muscolo che non mi chieda misericordia.»

«Perché è venuta qui? Non credo per allenarsi.»

«Anche se mi servirebbe, ha ragione, volevo parlare con lei.»

Smette di vogare e mi guarda: «Coraggio, le offro da bere e facciamo due chiacchiere, ma non posso parlarle di indagini aperte, signorina…»

«Grazie al cielo si è fermata» replico quasi senza fiato. «Mi chiamo Irene Coppola e, sì, bevo volentieri qualcosa con lei.»

Andiamo verso il bar della palestra dove ordina due beveroni a base di frutta e verdura di un colore verdastro, ma il sapore non è malvagio.

Lei ne beve una lunga sorsata e poi mi chiede: «Su cosa sta indagando?»

«Indago sulla scomparsa di una ragazza, il suo nome è Ginevra Russo, i familiari non hanno sue notizie da circa una settimana» bevo un sorso dell’intruglio. «Visto che il caso lo segue il

suo commissariato, volevo avere delle informazioni.»

«Non ne so molto, non seguo i casi di persone scomparse, ma proverò a chiedere. Ma sappia una cosa, è solo una delle tante che ogni anno spariscono.»

«Questo lo so, l'ho letto sui giornali; ho anche sentito che avete trovato il corpo di una donna carbonizzata in una cava.»

«Di quello non posso dirle niente, visto che è un caso ancora aperto, l'unica cosa che posso dire è che non sappiamo di chi si tratti.»

«Ho paura che il corpo sia della ragazza in questione, ma se non mi può dire altro, la ringrazio di aver risposto comunque.»

Lei mi sorride e segna su un tovagliolino del bancone il suo numero di telefono. «La prossima volta che vuole parlare con me non venga in palestra, mi chiami. Visto che mi sta

simpatica facciamo un patto, se io ho qualche novità la informo, lei faccia altrettanto con me.»

Accetto di buon grado, avere il commissario di polizia dalla mia parte può essermi utile. La ringrazio per la compagnia e mi congedo lasciandole il mio biglietto da visita. Rispetto a

quando l'ho incontrata al commissariato è diventata una persona affabile.

Chiamo mio padre e gli racconto quanto è accaduto, poi telefono ai genitori di Ginevra e li informo sul prosieguo delle indagini; fatto questo me ne torno tranquillamente a casa. Non è

stata una giornata da buttare del tutto.

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ELENA 13.05 - 20:30

Da quando sono a Napoli, la palestra è il mio unico momento di svago in cui riesco a staccare da tutto. Dopo essermi cambiata a casa, raggiungo la palestra di corsa per scaldarmi e

prendo posizione sul vogatore; la bassa intensità dell’attrezzo mi consente di non sollecitare troppo i muscoli. Una donna occupa quello libero a fianco a me: senza verificare

l’impostazione dello sforzo, si impegna come se stesse partecipando a una finale dei giochi olimpici. In quel momento, mi rendo conto di averla già vista nel mio ufficio.

«Rallenti o non durerà molto su quell’attrezzo.» Chissà perché ho l’impressione che non abbia la minima idea di cosa stia facendo.

«Più che rallentare è meglio che mi fermi. Ho i muscoli in fiamme.»

«Che ci fa qui? E non mi dica per allenarsi.» Continuando il mio movimento la guardo, mentre sfiancata si abbandona mollemente.

«Dovrei farlo, ma in realtà volevo parlare con lei.»

Interrompo la vogata e, come se fossi in acqua, un abbrivio immaginario mi porta a riflettere su questa donna. Sentiamo che vuole.

«Va bene, le offro qualcosa da bere e ci facciamo due chiacchiere, ma non mi chieda nulla dei casi aperti, signorina...?» In ufficio sono stata parecchio scortese con lei, in fondo sembra

simpatica.

«Ilaria Coppola, accetto volentieri.»

«Andrea, mi fai due dei tuoi magici intrugli?» Osservo l’addetto al bar mentre butta nel frullatore due mele e due cetrioli; dopo aver riempito due bicchieri, li guarnisce con un rametto di

basilico.

«Su cosa sta indagando?» bevuto un sorso del mix, torno alla donna. È giovane, esuberante e determinata, visto che mi ha seguita fin qui. Spero sappia cosa fa.

«Sto indagando su una ragazza scomparsa. Si chiama Ginevra Russo… La sua famiglia non ha notizie da poco più di una settimana e so che ve ne state occupando voi.»

«Può essere, non mi occupo delle persone scomparse e le assicuro che sono tante. Posso provare a informarmi.»

«Lo so, ho letto sul giornale le statistiche. Ho letto anche che avete trovato un cadavere carbonizzato alla vecchia cava.»

«Sì, il caso è ancora aperto e non le posso dire nulla, se non che ancora non sappiamo chi sia.»

«Temo possa essere lei, ma capisco che non mi possa dire nulla in merito. La ringrazio comunque di avermi voluto rispondere.»

«Andrea, mi passi una penna, per cortesia?» segnato il mio numero su un tovagliolino, lo passo con un sorriso a Ilaria. «Chiamami la prossima volta, la palestra non fa per te. Mi stai

simpatica e probabilmente sei anche brava. Se scopro qualcosa ti avviserò, ma tu farai altrettanto, ok?»

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CAPITOLO SETTIMO

PASO DOBLE

ROBERTO E IRENE 13.05 – 21:00

Sfreccio per le strade di Napoli, che si rianima per vivere la notte.

Devo soddisfare l’impulso di uccidere che ho dentro di me.

Mi dirigo verso la periferia, trovo una ragazza sul ciglio di una stradina secondaria, vestita con un intimo molto più piccolo di quello che deve contenere, una pelliccia finta la copre un

po’, cammina ondeggiando su tacchi vertiginosi.

Accosto e abbasso il finestrino, lei si ferma e si appoggia alla portiera. «Bisogno di compagnia, tesoro?» ha l’aria svogliata.

Non le rispondo, apro la portiera e lei sale. «Sei un uomo di poche parole, andiamo verso quella via» mi dice indicando una traversa poco distante.

Faccio qualche centinaio di metri e poi mi fermo dove mi ha indicato, è la parte più buia della strada, lontano da occhi indiscreti.

Toglie la gomma dalla bocca, prende il preservativo dalla borsetta che ha a tracolla, sfila la finta pelliccia. «Mi paghi prima, tesoro, sono cinquanta bocca e fica, se vuoi il culo sono

cento.»

Prendo cinquanta euro, abbasso pantaloni e slip, mentre lei prende il preservativo in bocca e scende su di me. Non è molto brava, troppo veloce. La capisco, se mi fa venire velocemente

non mi deve scopare, ma il mio intento è un altro.

Le prendo la testa e la spingo verso il basso, lei cerca di divincolarsi senza riuscirci, mi appoggia le mani sulle gambe per cercare di sollevarsi, inutilmente. Da sotto il sedile prendo il

coltello a serramanico e con un colpo netto, mentre è ancora su di me, le recido la carotide. I suoni gutturali che escono dalla sua bocca e il sangue caldo sulle mie cosce mi fanno venire.

Chiudo gli occhi per godermi meglio il momento.

Assaporo la calma che si fa spazio dentro di me, prendo il mio trofeo, è una cosa che faccio su ogni vittima, una parte di chi mi ha dato piacere. Le taglio il lobo dell'orecchio sinistro e

poi apro la portiera e getto fuori il corpo.

Mi guardo, sono macchiato di sangue, ma non m’importa. L’auto sembra un mattatoio, schizzi rossi hanno sporcato il cruscotto, il cristallo anteriore, buona parte del mio sedile, il

cambio; qualche schizzo ha raggiunto il sedile posteriore. Ci penserò poi. Accendo l’auto e mi dirigo verso casa, lasciando il corpo della donna riverso sul selciato, come una bambola di

pezza con la testa semi recisa.

Sono più lucido, ripenso a Salvatore nel baule dell’auto. Appena arrivato a casa, lo porterò nella stanza. Tengo per necessità una gabbia per animali di grossa taglia, lo metterò lì fino a

che non decido di immolarlo per il mio commissario.

Parcheggio l’auto davanti al garage. In casa la luce è accesa, ottimo, Irene mi sta aspettando, ho l'amichetto nel ba seule e devo sistemarlo.

Entro sorridente, sono giorni che non ci parliamo, voglio fare pace. Lei è seduta in cucina che sorseggia un limoncello, appena mi vede sporco di sangue sgrana gli occhi. «Che cosa hai

combinato?» mi dice avvicinandosi.

«Avevo bisogno di sfogarmi, una puttana di meno in giro, niente di grave… ero troppo esaltato, sorellina. Ora dobbiamo portare il nostro pezzo finale in garage. È nel baule dell’auto che

dorme come un angioletto.»

Si avvicina, cerca di abbracciarmi, ma io malamente la sposto, ho il sangue della puttana addosso e non voglio che si sporchi.

Andiamo verso la macchina, apro il portabagagli, Totò è ancora addormentato.

Non ha fatto nessun movimento quando lo abbiamo sollevato, io per le spalle e Irene per le gambe.

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Attraversiamo tutta la cucina fino ad arrivare alla porta che conduce al garage, scendiamo le scale con poca fatica, l’adrenalina che circola in corpo ci rende insensibili allo sforzo fisico.

Appena arrivati nella stanza accendo la luce col gomito e proseguo verso la gabbia. La utilizziamo poco, un cumulo di polvere ricopre il fondo, di solito preferisco il gancio. Nessuno

sopravvive abbastanza da restare giorni in nostra compagnia. Questa nuova dinamica ci rende euforici.

«Per quanto ancora dormirà? Vuoi che gli tappi la bocca?» mi domanda mentre, come un marinaio, stringe i nodi sui polsi dell’animale.

«L’ho drogato per bene, vedrai che ne avrà ancora per parecchio, sorellina, e no, non mettergli nulla alla bocca, può urlare quanto gli pare, da qui non lo sentirà nessuno» le dico mentre

comincio a salire le scale. «Mi dovrei dare una ripulita, vado a farmi una doccia. Finisci tu?»

«Tranquillo, ci penso io» sento la tensione tra noi due scemare, tutto è tornato come prima, fischietto mentre vado verso la camera, mi sento onnipotente.

***

Resto seduta per terra davanti a Salvatore per qualche minuto, sono ancora su di giri, tutto sembra andare per il verso giusto e anche Roberto sembra più sereno. Sistemo un secchio

accanto al nostro nuovo ospite e gli metto vicino una bottiglia d’acqua. Una volta finito, torno in casa, ho avuto un’idea per festeggiare insieme la riuscita del piano. Mi avvicino alla

porta del bagno, sento l’acqua della doccia scorrere, busso due volte.

«Dimmi!» risponde tra un fischio e l’altro.

«Che ne diresti di andare a ballare?» gli propongo, trasmettendo entusiasmo.

«Una delle nostre serate? Perché no! Preparati, sorellina, stasera paso doble, ole!»

Mi avvio verso la mia camera canticchiando e ballando, sarà una serata elettrizzante.

La discoteca dove di solito ci sfoghiamo è in centro, suonano musica latino americano. Quando vogliamo liberarci dai pensieri, ci rinchiudiamo lì. È la nostra zona di comfort. Durante la

serata non siamo fratello e sorella, ma due partner che ballano.

Qualche ora dopo siamo nel mezzo della pista, balliamo sulle note di una versione remix di “Bamboleiro”. Il suo viso è sereno, decido di dargli una ragione in più per essere tranquillo.

«Penserò io al nostro animaletto, sei stato in gamba, fratellone.»

Roberto non si espone più di tanto, la sua reazione è misurata, probabilmente perché siamo in mezzo ad altre persone. Con un sorriso smagliante ordina due giravolte, poi mi ferma e mi

stringe.

«Brava sorellina» sussurra nel mio orecchio. «Sai sempre come rendermi fiero di te.»

«Tu, però, devi stare attento. Ci siamo esposti troppo questa volta, non voglio più rischiare.»

«Esposti? Sono stato molto attento a non farmi riconoscere in commissariato!» urla, ma la sua voce è ovattata dalla musica.

«Rilassati, ti sto solo dicendo di non fare colpi di testa. Sei tornato a casa ricoperto di sangue. E se ti avesse fermato una pattuglia?»

«Avrei raccontato che avevo appena ucciso una gallina!» ribatte e si abbandona alla sua risata più maligna.

«Dobbiamo stare attenti fin quando non avremo qualche dettaglio in più su Elena» gli accarezzo il volto e la sua smorfia di potere diventa un sorriso sincero. «Promettimi che non farai

più questi colpi di testa. Fallo per me.»

«Va bene, sorellina, solo perché sei tu.»

«Grazie, lo apprezzo molto.»

A metà serata, mentre entrambi siamo travolti dal divertimento e dall’alcool, qualcosa cambia.

Noto una ragazza. Lei mi osserva, io cerco di evitarla, ma non riesco a sfuggire al suo sguardo. Balla rivolta verso di me, accarezza il suo partner e guarda me, sorride e guarda me. Inizio

a desiderarla, devo cercare un modo per farle capire di raggiungermi in bagno, lontana da Roberto. Mi giro a guardare nella sua direzione, lui sembra non essersi accorto delle mie

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intenzioni, balla con altre donne e beve di continuo dal suo bicchiere. Continuo il mio gioco di seduzione con quella sconosciuta fin quando, con la scusa di prendere da bere, mi si

avvicina al bar. Sono tentata di parlarle, ma mio fratello mi anticipa, raggiungendomi.

Ordina altre birre per entrambi, poi, all’improvviso, ha uno scatto d’ira e mi trascina via.

«Mi sono rotto di restare, andiamo» mi dice alzando la voce.

«Ma siamo appena arrivati, non mi va di tornare» cerco di protestare sapendo già che è inutile.

«Non ti ho chiesto permesso, ho detto che torniamo a casa, punto» ribatte, gelido.

«Sei il solito guastafeste» sbuffo.

Non dice altro, mi prende per un braccio e andiamo verso il parcheggio.

***

Sono un fascio di nervi, il pensiero che la mia sorellina sia come tutti gli altri, bramosa di desiderio, mi fa alterare, mi sento messo da parte, non deve accadere, stasera pagherà con il

sangue.

Irene, in auto, tenta di ammorbidirmi inutilmente.

Non le rispondo, stringo i pugni, non vorrei farle del male mentre è alla guida. Lei non molla e continua a parlare. «Un penny per i tuoi pensieri» mi chiede ironica.

Non l’ascolto neppure, per me sta semplicemente dando aria ai denti, la fisso e le dico deciso. «Voglio che ti metta subito all’opera per scoprire cosa sa il commissario su Tassinari.»

«Certo, come vuoi» risponde in modo stizzito, pagherà anche questo.

Entriamo in casa, quando siamo in cucina lei si gira verso di me e urla: «Si può sapere che cazz…» non la faccio finire, le mollo uno schiaffo sul viso che la fa traballare.

«Lo sai cosa sei? Una lurida puttanella. Eri con me e facevi le moine alla ragazza di fianco a noi.»

«È per questo che ce ne siamo andati, o c’è altro?» mi chiede sfregandosi il viso. «Se sei frustrato perché la bionda guardava me e non te, questo non giustifica il tuo comportamento da

str...»

Le do un pugno in pieno stomaco, la prendo per i capelli, le alzo la testa e la fisso. «Non ti azzardare a parlarmi in questo modo, mi sa che è ora di rimetterti al tuo posto» il colpo e così

forte che Irene si piega sulle gambe, respira a fatica. Un altro pugno in pieno viso e la faccio franare a terra priva di sensi.

Comincio a camminare nervosamente per la stanza, sento che ho bisogno nuovamente di sfogarmi, su di lei stavolta.

La metto sulle mie spalle e la porto in garage, tremo per la rabbia che sento invadere il mio corpo.

La spoglio, le lego i polsi e la isso al gancio in mezzo alla stanza.

La guardo dondolare con la testa piegata in avanti, mi giro e vado verso l’armadio, estraggo la frusta e avvicinandomi a Irene la faccio schioccare per terra. Lei si sveglia, mi vede e

sgrana gli occhi. Non ho acceso il grammofono, voglio che le sue urla siano l’unica musica che si senta nella stanza.

***

Apro gli occhi di scatto e sento salire il terrore quando riconosco dove mi trovo. Ho visto tanti maiali attaccati a questo gancio, adesso è il mio turno.

I miei sentimenti sono confusi, non so cosa stia vincendo tra rabbia, paura e confusione. Lui è qui di fronte a me, agita una frusta come un domatore di leoni. Il buio intorno a noi è

spezzato dal bagliore di una candela accesa vicino al grammofono.

«Non devi mai più contraddirmi» schiocca la frusta. Ho uno spasmo per tutto il corpo, non riconosco il suono che esce dalla mia bocca.

«Se siamo insieme, tu sei mia e di nessun altro» un'altra ferita sulla schiena.

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Mi contorco dal dolore, cerco di liberarmi ma la stretta del gancio è salda e più mi divincolo più mi fa male la schiena. Sento il respiro di Totò che dorme beatamente alle mie spalle,

vorrei essere drogata anch'io come lui in questo momento.

«È l’ultima volta che mi rendi ridicolo davanti alle persone facendo la troietta lesbica, già sopporto poco questo tuo lato, va bene solo se serve a portarmi maiali, ma quando siamo

insieme non devi azzardarti» la sua voce è tagliente come una lama.

«Basta, Roberto!» urlo tra un gemito e l’altro. «Ti prego, fratel…»

Altro schiocco, altra ferita, altro urlo e sangue.

Il dolore è talmente forte che sento di poter svenire da un momento all'altro, ma non posso. Percepisco la schiena lacerata e il sangue caldo colarmi lungo le gambe fino a terra. Ogni

“plic” causato da una goccia che cade è una pugnalata in più per la mia anima.

È accecato dall'ira, non riesce a calmarsi. Più colpisce e più sembra adirarsi. Continua a frustarmi come se fossi un animale, non sua sorella. Lacrime mi rigano il volto per il dolore e la

rabbia. Non ho più paura, è stata sostituita dallo spirito di sopravvivenza, mi dico che devo essere forte e aspettare che finisca il suo sfogo.

“O forse mi ammazza adesso?” penso.

Sento uno strappo, vedo brandelli della mia pelle sul pavimento mentre ondeggio, il sangue schizza in varie direzioni e sento l’odore ferruginoso nell’aria. Comincio a respirare a fatica.

Mi perdo in un limbo, il mio corpo è anestetizzato dal dolore. Le ultime forze stanno per sparire.

Finalmente si ferma, lo sento ansimare velocemente, è arrivato al limite. Getta la frusta per terra, si avvicina, ormai ho la vista appannata. Allenta la corda che mi stringe i polsi

lasciandomi franare nuda a terra. Il tonfo che faccio cadendo a peso morto mi fa riprendere i sensi per qualche secondo. Apro gli occhi quel tanto che basta per vedere le gambe di

Roberto sparire su per le scale. Cerco di raggomitolarmi su di un fianco, ho le braccia informicolate. Sento qualcosa di viscido, capisco che è il mio sangue che sta formando una

pozzanghera sotto di me, dovrei medicarmi ma non ho le forze. Voglio solo cadere in un lungo sonno, nuda e ferita sul pavimento. Chiudo gli occhi.

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CAPITOLO OTTAVO

L’OSPITE

ELENA 14.05 – 08:30

Informato il questore e il procuratore sul responsabile dei due omicidi e sul mio coinvolgimento, mi hanno assegnato del personale aggiuntivo e, soprattutto, hanno dato priorità alla

autopsia sull’ultimo cadavere, prevista per questa mattina. Il questore non ha comunque evitato di farmi pressioni sull’avanzamento delle indagini per raggiungere dei risultati. Pur

confermando la fiducia per la mia nomina, ho percepito nella sua voce un velo di insoddisfazione.

Rientrata nel mio ufficio, rifletto sui ritrovamenti e sulla telefonata ricevuta. Dimostra di conoscermi bene, visti i riferimenti a fatti personali non di dominio pubblico. Qual è il

collegamento con me? Purtroppo, senza avere un nome, sono tutte domande alle quali adesso non posso dare una risposta.

«Eccomi qua, Elena.» Mentre riflettevo, ho chiesto a Gargiulo di passare da me per fare il punto della situazione.

«Grazie, Luigi. Ho il fiato sul collo del questore, per cui siediti e ragioniamo su quello che abbiamo. Partiamo dalla vittima della cava, anche se non abbiamo nulla in mano» Dal

fascicolo estraggo la foto della scena del ritrovamento e il rapporto del patologo.

«L’unica cosa certa, o quasi certa, è che si tratti di una donna di circa 35 anni, bianca. È stata seviziata, le hanno asportato alcune parti, è stata fatta a pezzi e bruciata. Fin qui ci siamo,

ok?»

«Tutto corretto, dobbiamo chiederci il perché di tutto questo» come in una partita a ping pong, risponde e mi dà lo spunto per nuove domande.

«Esatto, partiamo dalla fine. Perché l’hanno bruciata?»

«Per cancellare le tracce.»

«Ok. Che tracce si potrebbero cancellare? Forse le impronte digitali, ma evidentemente non sa che sono comunque recuperabili. Una possibile violenza carnale. Che altro?» man mano

che espongo le opzioni segno tutto su un foglio preso dal cassetto della stampante.

«Sì, ok. Ma visto che le hanno tagliato i capezzoli, avrebbero potuto tagliare anche le dita per nascondere l’identità.»

«Indubbiamente, ma così facendo hanno di fatto impedito ogni tipo di possibile riconoscimento facciale.»

«Ok, ha senso. Andiamo avanti. Perché l’hanno fatta a pezzi? Sempre per evitare riconoscimenti o perché avevano intenzione di disperdere le varie parti in luoghi diversi?»

«Può essere, Luigi, o magari trasportare piccoli sacchi dava meno nell’occhio di un cadavere intero. A questo, temo che non potremo rispondere adesso.»

«Ci rimane il perché delle mutilazioni e il motivo dell’uccisione.»

«Se fosse un omicidio singolo, e non lo è, avrei ipotizzato una semplice sevizia. Ma il ritrovamento del nuovo cadavere e degli organi consegnati a parte ci deve far pensare a qualcosa di

diverso.» Lo guardo negli occhi, cercando la risposta nelle sue iridi azzurre.

«Un trofeo!» Come se sapesse cosa ho in mente, mi dà la risposta più plausibile.

«Un feticista! E questo potrebbe anche giustificare lo smembramento del corpo. E spingendoci ancora in là, potrebbe essere il movente dell’omicidio.» Per la prima volta, da quando

sono arrivata a Napoli, sento il corpo vibrare durante le indagini. Buon segno.

Sposto il fascicolo alla mia destra e apro quello sulla seconda vittima. Dal suo interno prendo le foto scattate in macchina e sul furgone e il rapporto della scientifica che passo a

Gargiulo.

«Alberto Tassinari, 55 anni, titolare di una impresa edile. Ancora non abbiamo i risultati dell’autopsia, ma che sappiamo di lui?»

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«Come ti ho già detto ieri, oltre a essere ingegnere, è stato inquisito un paio di volte per usura, ma senza nessun risultato. Pare che le vittime tutt’a un tratto abbiano deciso di ritrattare,

togliendo di fatto il capo di imputazione» per maggior sicurezza legge gli appunti dal blocchetto che si porta sempre dietro.

«La scientifica che ha trovato?» Con un gesto del mento indico il rapporto che tiene in mano.

«Sono state rilevate quattro serie di impronte. Una è di Tassinari; una appartiene a un certo Simone Capranica, un balordo che bazzica al porto e saltuariamente si imbarca sui

pescherecci. Ma non è il nostro uomo: è stato arrestato il 25 marzo ed è tutt’ora a Poggioreale.»

«Ok, le altre due serie?»

«Le altre due, invece, non hanno dato riscontro nei database. Se troveremo un possibile sospettato potremo confrontarle, ma al momento non ci dicono nulla.»

«E ti pareva.» Sbuffo, e con una matita blocco i capelli dietro la nuca in uno chignon improvvisato. «Voglio sapere vita morte e miracoli di questo Tassinari. Voglio sapere chi

frequentava, con chi lavorava e, se è necessario, pure quante volte andava al cesso. Voglio i suoi spostamenti delle ultime due settimane: se aveva un’impresa edile avrà avuto dei

cantieri, una banca di riferimento, fornitori e clienti. Attaccati al telefono e chiama il suo ufficio, ci sarà una segretaria, mi auguro» nel frattempo che Gargiulo recupera le informazioni

che ho richiesto, creo uno schema su una grande lavagna bianca a fianco alla mia scrivania. In alto a sinistra attacco con una piccola calamita la foto del cadavere della prima vittima.

Sotto questa, e poi a scendere, inserisco i dati di cui siamo a conoscenza e le ipotesi più realistiche fatte finora. A destra della prima foto attacco nello stesso modo quella di Tassinari e

ne scrivo il nome sopra. Avere le informazioni sempre visibili mi aiuta a ragionare e a creare ogni possibile ricostruzione.

Il rumore della cornetta rimessa al suo posto mi riporta a Gargiulo: «Che hai scoperto?»

«Ho parlato con la segretaria, mi ha dato tutte le informazioni che potrebbero servirci. Ora invierà per e-mail la lista dei fornitori e dei clienti. Ha tre conti bancari in altrettante banche.

Mi ha anche detto che passava quasi tutti i giorni per effettuare dei versamenti. Ci invia anche nomi e indirizzi di queste.»

«E questo potrebbe essere collegato alla sua attività di usuraio e anche un possibile movente per la sua uccisione.»

«Già. Sarebbe interessante riuscire a mettere le mani sulla lista dei suoi “clienti”. Magari l’assassino è uno di loro che si è stancato di pagare un debito infinito» nel nominare le possibili

vittime di Tassinari, disegna nell’aria delle virgolette con le dita. Se potessi ucciderei chi ha questo pessimo vizio.

«Interessante, ma difficile. Delle sue eventuali frequentazioni ti ha detto qualcosa? Ha una moglie? Una fidanzata? Parenti?»

«Non era sposato né fidanzato, ma non ha fatto accenno a nessuna frequentazione. Magari i parenti potrebbero saperne qualcosa in più. Ora recupero la sua scheda dal database e provo a

contattarli.»

«Pronto!» L’orologio sulla scrivania indica le 12.30, l’autopsia dovrebbe essere terminata. «Sì, me lo invii direttamente, lo stampo io» riaggancio la cornetta. «Era il patologo, mi sta

inviando il rapporto. Non mi ha accennato molto, a parte che il corpo è stato svuotato e imbalsamato. Per dimensioni e peso è quasi certo che gli organi che hanno consegnato siano i

suoi. Per avere la certezza dovremo aspettare gli esami istologici e quelli del DNA.»

«Imbalsamato? Ma con chi abbiamo a che fare?» Perplesso, si aggiusta gli occhiali sul naso.

«Direi con un pazzo, ma se ci pensi è una bella notizia. Per compiere questa operazione ci vuole un macchinario apposito e non è che lo trovi al Brico sotto casa. Contattiamo tutti i

produttori di queste macchine. Vediamo se riusciamo a beccarlo così, ‘sto stronzo.»

Stampo il rapporto arrivato nel frattempo e mi posiziono davanti alla lavagna per aggiornare i dati. Leggo velocemente il referto autoptico saltando i dati biometrici e mi concentro sulla

modalità.

«Si evidenzia sul lato sinistro del corpo, nella zona delle coste fluttuanti, una incisione di circa venti centimetri dalla quale sono stati estratti polmoni, fegato, milza e cuore. L’esame

della scatola cranica ha evidenziato che il cervello si è liquefatto, il che potrebbe far pensare a una scarica elettrica ad alto voltaggio... Le bruciature rinvenute su mani, zona genitale,

capezzoli e cavità orale fanno ipotizzare che si sia stato sottoposto a una sorta di elettrocuzione… successivamente il sangue è stato sostituito con formalina… il dito mignolo destro

risulta essere stato tranciato con un attrezzo compatibile con una cesoia.»

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«Deve avere uno stomaco forte, questo tizio. Ricordo una puzza tremenda di questo liquido. Oltre a tutto il lavoro di anatomia che ha fatto.»

«Il suo stomaco è quello che mi preoccupa di meno. Insomma, l’ha svuotato e riempito di formalina; confezionato gli organi asportati e conservati sotto lo stesso liquido e inviati a noi.

Che fine ha fatto il mignolo?»

«Nei due mezzi non c’era e nemmeno assieme agli organi. L’ha tenuto come ricordino.»

«C’è chi conserva mutandine e chi conserva orecchini. A questo piacciono alcuni pezzi delle sue vittime» dopo aver segnato i punti salienti su Tassinari, recupero borsa e cellulare per

rientrare a casa.

«Luigi, io ora scappo, ci sentiamo nel pomeriggio e vediamo di contattare i parenti di questo Tassinari e alcuni dei clienti visti negli ultimi giorni. Domattina faremo il giro delle banche.

Vai a mangiare pure tu. Ci aspetta una lunga sera.»

«Ora vado anche io, avviso mia moglie. Buon pranzo, Elena.»

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ILARIA 14.05 – 08:00

Dopo l’incontro con il commissario, in palestra, ho passato una notte insonne, ogni muscolo chiedeva pietà.

Ho un buco nelle informazioni sulla scomparsa di Ginevra; la persona che sembra essere la più presente in casa i giorni precedenti alla scomparsa è anche la persona di cui non riesco a

trovare nessuna informazione.

Mi è venuta voglia di una colazione americana a base di pancetta, uova e pancake.

Vado verso il centro, vicino al luogo di lavoro di Ginevra ho visto un bar che fa proprio al caso mio.

Mentre sono immersa nei miei pensieri con in bocca un pancake intriso di sciroppo d’acero, i miei occhi si fermano su un dépliant di una banca.

“Banco Cooperativo di Napoli, la banca vicina a te” sotto quella dicitura, in bella posa, un gruppo di persone sorridenti, una di loro assomiglia alla ragazza della foto sul frigo a casa di

Ginevra.

Prendo il volantino, quel volto mi si ripresenta dietro il volantino in un riquadro. Nella foto ha un paio di occhiali e sorride, la didascalia riporta il nome e cognome e mansione “Irene

Formisano, responsabile finanziario”.

Prendo il volantino, pago la colazione lasciata a metà e mi dirigo verso l’indirizzo della banca.

Arrivo troppo tardi, l’orario di apertura al pubblico è terminato, la banca riapre nel pomeriggio. Non voglio perdere tempo, devo cercare notizie su questa ragazza, così vado da un amico,

un genio del computer che mio padre usa in casi estremi, e questo sembra essere uno di quelli.

Luca mi apre la porta in mutande, è ancora addormentato nonostante l’ora di pranzo sia passata da un po’.

«Ilaria, potevi avvisarmi che stavi arrivando.»

«Non è la prima volta che vedo un uomo in mutande, Luca, ho bisogno di te per un caso.»

«Dammi qualche minuto, vado a darmi una rinfrescata. Tu intanto prepara il caffè, le cialde sono vicino alla macchinetta» dice mentre entra in bagno.

Preparo il caffè. Dieci minuti dopo, Luca ritorna, si è messo solo una maglietta. Prima di bere il caffè si avvicina al pc per accenderlo.

«Dimmi, che ti serve?» chiede mentre sorseggia il caffè. Gli passo il dépliant dove ho cerchiato il nome e la foto della ragazza.

«Voglio notizie su questa persona, sembra che nei database non ci sia traccia, mi serve per un caso che seguo.»

Non aggiunge altro, comincia a digitare velocemente sulla tastiera, attendo in silenzio. Quando è al pc il resto del mondo non esiste, cambia addirittura espressione del volto; gli occhi

sono letteralmente incollati allo schermo e le dita pigiano veloci sulla tastiera quasi ritmicamente. Qualsiasi cosa potrebbe succedere in questo frangente non lo distoglierebbe da ciò che

sta facendo.

«Allora, questa ragazza è difficile da trovare» dice continuando a guardare lo schermo.

«Se fosse stato semplice non ti avrei disturbato.».

«Questo e indubbio, ma è risultato complicato anche per me, sembra non avere vita social di nessun tipo, Facebook, Instagram, ecc… Nulla, sono dovuto entrare nel server dell’INPS per

trovare qualcosa. Oltre al nome e all’età, ho trovato l’indirizzo di casa sua. Inoltre, con un altro programmino non molto lecito, ho scoperto che ha un fratello un po’ più vecchio di lei

che fa il responsabile infermieristico nel reparto di chirurgia al Santa Paola.»

«Beh, non avere una vita social non è un reato.»

«Vero, ma queste persone sembrano uscire dal nulla.»

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«Stampami ciò che hai trovato, sono le due del pomeriggio, tornerò a fare un giretto in banca per vedere di parlare con questa Formisano. Grazie, Luca, sei stato utilissimo» lo bacio sulla

guancia. Ho in mano il primo vero indizio.

Trovare questa persona può darmi una svolta nell'indagine e capire cosa è successo a Ginevra.

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IRENE 14.05 – 08:30

So di sognare, ma è tutto talmente reale che vorrei durasse per sempre.

Sono tornata alla casa-famiglia, gioco con la mia amica Simona e insieme costruiamo collane coi fiori raccolti in giardino. Suor Patrizia viene a chiamarci per il pranzo, un enorme

tacchino ripieno campeggia sulla tavola come nei migliori film americani. Con la lama di un coltello affilato mi taglio un dito. Simona cerca di medicarmi. Suor Patrizia mi sgrida e mi

passa il coltello sulla schiena. Il dolore mi trafigge il petto, è insopportabile, talmente penetrante che prego di svegliarmi. Brucia, lo sento mentre cerco di abbassare il respiro. Devo

calmarmi. Mi guardo intorno e vedo le prime luci del mattino riflettere attraverso i vetri del garage.

Improvvisamente ricordo perché sono qui.

Tutto incomincia a ruotare, sono debole e una pozza di sangue scuro mi copre dalla testa ai piedi. Da quanto mi trovo per terra?

«Liberami!» sento urlare alle mie spalle, mi giro e vedo Totò che si dimena come un animale selvaggio in gabbia.

«Ora non ho la forza di subire anche te, stai zitto» rispondo di rimando.

«Liberami, razza di psicopatica!» continua a urlare, sbattendo violentemente i piedi contro le sbarre che lo rinchiudono.

Decido di ignorarlo, può urlare quanto vuole, in quell’angolo dell’inferno non lo sentirà nessuno.

Mi alzo a fatica. Perdo l’equilibrio un paio di volte e quando finalmente le gambe smettono di tremare mi siedo per qualche secondo. Cerco di controllare il resto del corpo tastandolo

delicatamente dappertutto. Roberto è stato abile e scaltro, non mi ha colpita in punti visibili. Riprendo fiato per qualche secondo, ogni movimento mi fa sanguinare le ferite.

«Dovresti fare qualcosa per quei segni sulla schiena» probabilmente ha capito che agitarsi non serve. Forse crede che utilizzare un tono più amichevole lo aiuterà, mi giro a guardarlo e

noto il suo viso trasfigurato dalla paura.

«Stai tranquillo, non morirò dissanguata davanti a te, saresti una pessima compagnia» riesco a ironizzare perfino in quel momento.

«Cosa ci faccio qui? Sei Irene, giusto? Ci siamo conosciuti a quella festa. Cosa diavolo ci faccio qui!?» spara una raffica di domande, disperato.

«Forse non lo avrai notato, ma al momento sono leggermente occupata a evitare di morire di setticemia. Non ho tempo di stare qui a darti spiegazioni» rispondo, distratta da un’altra fitta

di dolore in mezzo le scapole.

«Luigi mi troverà! Sarà già andato da Elena per informarla della mia scomparsa! Te la ricordi, vero? Il nuovo commissario di Napoli!» cerca di intimidirmi, ma i suoi tentativi vengono

resi vani dalla voce tremante.

Ignoro le sue lagne e faccio uno sforzo che mi sembra sovrumano per rimettermi in piedi.

«Se mi liberi posso darti una mano» tenta di convincermi.

«Bella mossa, ma tu resterai lì. Ora, scusami, ma non posso stare qui tutto il giorno.»

Devo trovare un modo per curarmi, prima di svenire nuovamente dopo la perdita di tutto questo sangue. Prendo uno dei teli di cellophane che Roberto usa per raccogliere le foglie in

giardino e me lo avvolgo come una coperta, lentamente inizio a salire un gradino per volta fino a ritrovarmi nuovamente in casa. Mio fratello è poco più avanti, non gli dico una parola,

passo oltre e mi chiudo in camera mia. Mi lavo alla bell’e meglio, ma ho bisogno di aiuto per medicarmi e mi viene in mente solo una persona. Chiamo al lavoro per informare della mia

assenza, invento una scusa abbastanza credibile, indosso qualche abito sgualcito, raccolgo un po’ di bende dal bagno e dopo qualche minuto mi ritrovo a casa di Sara.

«Cosa ti è successo?» esclama terrorizzata quando mi apre la porta.

«Niente, ho avuto una serata molto impegnativa in un night club» sorrido per tranquillizzarla. Mi tolgo i vestiti e continuo: «Mi dai una mano a disinfettare queste ferite?»

Lei guarda la mia schiena, noto una smorfia di disgusto sul suo viso attraverso l’immagine riflessa dello specchio di fronte a me.

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«Non è possibile che questo te lo sia fatto in un night club!» commenta sconvolta.

«Perché no? Usano fruste anche lì» replico stendendomi sul letto.

«Ti va di dirmi quello che è successo o devo chiamare la polizia?» inizia a passarmi il disinfettante sui tagli che ormai hanno smesso di sanguinare, poi, con molta delicatezza, mi srotola

una benda lungo tutta la schiena.

«Niente polizia, per favore, fidati di me» rispondo.

Non è molto sicura, ma alla fine la convinco che non è necessario chiamare le forze dell’ordine.

Mi sono trattenuta da lei fino all’ora di pranzo, riposando sul suo letto. È strano il modo in cui mi fa sentire. Per tutta la vita mi sono occupata di mio fratello e ora, per la prima volta,

qualcuno si occupa di me.

«Credo di provare qualcosa per te» le dico mentre si trova in cucina a preparare il caffè.

«È per questo che tutte le volte scappi?»

«Non lo so, perché dovrei scappare da te?» domando.

«Perché hai paura di cosa potrebbe succedere se mi lasciassi entrare nella tua vita.»

Non rispondo, è la verità dopotutto, ma lei non può e non deve sapere quanto c’è in gioco e quello che è realmente la mia vita. Desidero che rimanga la mia isola felice quando le cose

con mio fratello diventano troppo complicate, me lo merito in fondo.

«Non dici niente?» insiste la sua voce dalla cucina, dopo qualche secondo di silenzio.

«Stavo solo pensando che sto bene con te e non voglio che questo cambi» rispondo sorridendo e prendendo la tazzina che ha lasciato sul comodino.

Man mano che trascorro le ore in questo paradiso tranquillo ho il tempo di riflettere sulle cose importanti che non possono più essere trascurate. La giornata volge verso sera e non ho

ancora scoperto nulla sulle indagini di Tassinari; in più, c’è qualcuno in gabbia ad aspettarmi.

«Mi puoi prestare dei vestiti?»

«Non stiamo ancora insieme e già vuoi rubarmi i vestiti?» ironizza dandomi un bacio sulle labbra. «Puoi prendere quello che vuoi» conclude con un velato doppio senso. Purtroppo, in

questo momento non posso coglierlo. Scelgo una gonna e una camicia dal suo armadio e mi infilo in bagno.

«Dove hai intenzione di andare?» mi chiede affacciandosi alla porta.

«Mi sono ricordata di una cosa importante che ho da fare al lavoro» le mezze verità sono la mia specialità.

Prendo la borsa e le chiavi della macchina ed esco, non prima però di aver salutato Sara con un bacio molto più lungo del solito e la promessa che sarei presto tornata.

Guido un po’ per la città, raggiungo il mare per schiarirmi le idee. Il comportamento di mio fratello è stato crudele e mi ha ferita, ma sono profondamente legata a lui e so che se la nostra

vendetta si concluderà come pensiamo, le cose torneranno come un tempo e saremo di nuovo inseparabili. Sono ancora arrabbiata con lui, ma non posso perdere di vista l’obiettivo.

Trascorro il pomeriggio nei miei pensieri. Verso sera decido che è giunta l’ora di rientrare. Lungo la strada squilla il cellulare. Rispondo: è mio fratello.

«Dove sei?» mi chiede una voce fredda dall’altra parte del telefono.

«Sto tornando a casa, avevo delle cose da sistemare» rispondo, non potendo scendere troppo nei dettagli.

«Il nostro animaletto domestico ha bisogno di cure, compragli qualcosa da mangiare o lo faccio morire di fame» è elettrizzato da tutto quel potere.

«Ci serve in buona salute, non fare cazzate, arrivo subito» replico irritata.

Chiudo la telefonata e mi dirigo verso un fast food nelle vicinanze per prendere un panino al nostro ospite, non ci si può certo lamentare della nostra ospitalità.

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ILARIA 14.05 – 15:30

Mi avvicino al primo sportello libero, sono accolta da un ragazzo sorridente.

«Buongiorno, signorina, posso aiutarla?»

«Buongiorno, vorrei parlare con Irene Formisano per la stipula di un prestito»

«Ha un appuntamento?»

«In verità no, ma un amico mi ha parlato bene di lei, così mi sono fidata.»

«Purtroppo la signorina Formisano non è in sede oggi, se vuole le segno un appuntamento.»

«No grazie, ci penso e le faccio sapere» lo saluto.

Sto per andarmene, quando da un ufficio esce una donna molto agitata.

«Mio fratello viene qui praticamente ogni giorno, per parlare con quella donna, non è possibile che non sappiate nulla!»

«Signora Tassinari, le assicuro che se avremo informazioni le faremo sapere, purtroppo la signorina Fornisano oggi non è in sede, quando rientra la faccio chiamare direttamente da lei»

replica un uomo calvo sulla porta dell'ufficio.

«Mi auguro che non sia successo nulla di grave a mio fratello!» incalza la donna. «Altrimenti qualcuno la pagherà cara».

La vedo correre fuori dalla banca, la seguo e riesco a intercettarla sulla scalinata che porta alla strada.

«Mi scusi, signora Tassinari?» urlo per farla fermare. «Potrei parlarle un attimo?»

«Non ho molto tempo, mi scusi ma ho impegni di lavoro.»

«Le ruberò pochi minuti, il tempo di un caffè» accetta la proposta, forse ha bisogno di sfogarsi con qualcuno e io sono al posto giusto.

Mi presento e le racconto di cosa mi sto occupando.

«Capisco, mi spiace per la famiglia, ma io che c'entro?»

«Vede, signora, volevo sapere quando è scomparso suo fratello.»

Mi racconta di averlo sentito un paio di giorni prima, era contento perché sarebbe andato a una festa accompagnato da una ragazza che aveva puntato qui in banca. Fa il nome di Irene, io

resto in silenzio, forse ho trovato un legame, ed è quello che mi serve.

La lascio sfogare e poi mi congedo, le dico che se avrò qualche informazione la contatterò.

Per la prima volta dall’inizio della mia indagine, ho una pista. Per seguirla devo andare a casa della Formisano, è l’unico modo per capire se ha a che fare con la sparizione di Ginevra.

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ROBERTO 14.05 – 08.00

Mi sveglio presto, stordito e confuso. So cosa ho fatto a Irene, ma se l’è meritato, sa che non deve permettersi di amoreggiare con le donne in mia presenza.

Faccio una doccia veloce, mi preparo un caffè e vado in camera sua; il letto è rifatto, non è salita dal garage, ma non mi preoccupo di controllare.

Sul letto vedo la sua borsa aperta, la prendo e la svuoto sul copriletto; in mezzo alle cianfrusaglie vedo un post-it con un nome e un numero di telefono: Sara. Chi è? Forse un regalino

che vuole farmi, oppure una che si sbatte?

Prendo il biglietto e lo metto in tasca, rimetto tutto in borsa e torno in cucina.

Irene arriva dalla scala del garage, coperta con un telo di cellophane, non mi guarda, mi passa di fianco strisciando i piedi. La vedo salire le scale reggendosi sul corrimano. Sto per dirle

di non sporcare in giro con il suo sangue, ma mi trattengo.

Devo andare al lavoro, pulirò l’auto nel pomeriggio, chiamo un taxi e mi faccio portare in ospedale.

Durante il tragitto la radio riporta la notizia del ritrovamento di un uomo in un'auto vicino alla casa del commissario. Non fanno descrizioni, sorrido, so chi è.

Arrivato in ospedale, vado a cambiarmi e poi salgo in reparto.

«Roberto, scusa, devo parlarti.»

«Dimmi, Ivana, veloce che devo andare a sistemare le cartelle, ne ho un'infinità e mi ci vorrà tutta la mattina.»

«Ieri, quando te ne sei andato, si è fatto vivo il compagno del ventisette, era parecchio agitato, soprattutto dopo che gli ho riferito che era stato dimesso, sembrava non lo sapesse.»

«Non so che dirti, quello secondo me è isterico, e se il suo compagno non l’ha informato noi non possiamo farci nulla.»

«Sì, ma…» incalza la mia vice «ha detto che non finirà qui, che ha amici potenti, io mi sono preoccupata.»

«Rilassati, tesoro, se qualcuno arriva a chiedere informazioni mandalo da me. Adesso scusami, vado in guardiola» mi giro e mi dirigo verso il mio studio.

La mattina passa lenta, se non mi sfogo in qualche modo scoppio, devo trovare qualcosa da fare. Mi viene in mente il biglietto che ho preso dalla borsa di Irene, lo tolgo dalla tasca, lo

prendo e mi avvicino al pc.

Faccio ricerche nel Deep Web partendo dal numero di telefono. La trovo in una foto a colori, informazioni generali e indirizzo. È una ragazza sulla trentina, vive poco lontano da dove

Irene lavora.

Prendo nota dell’indirizzo. Questa sera andrò a farle una visitina e cercherò di persuaderla a lasciare stare Irene.

Porto a termine il mio lavoro, vado in cucina e rimango con i miei colleghi sino a fine turno, poi ritorno verso casa.

Irene non c’è, ma non importa, scendo in garage, prendo la canna e lavo la mia auto dentro e fuori. Mi ci vuole l’intero pomeriggio. Finito, rientro in casa e mi faccio una doccia prima di

andare a trovare l’amichetta della mia sorellina.

Ci vogliono circa una ventina di minuti per arrivare a casa di sara, lascio la macchina poco distante dal portone.

Sono indeciso, non mi sono mai avvicinato alle vittime, è Irene che le procura, io l’aspetto a casa; e poi lei non deve essere per forza una vittima, voglio solo che lasci stare la mia

sorellina.

Scendo dall’auto e mi avvio verso la casa, una palazzina con pochi appartamenti. Ho nome e cognome, quindi vado sul sicuro, suono il campanello e attendo.

Nessuna risposta, forse non è in casa.

Sto per andarmene, ma la vedo arrivare dalla strada di fronte, fingo di passare oltre e quando lei entra la seguo, stando qualche passo indietro per non destare sospetti.

Apre la porta del suo appartamento, e mentre sta per chiuderla io entro spingendola a terra.

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«Chi cazzo sei?» mi dice alzandosi da terra.

«Ti chiedo scusa, ma avevo bisogno di parlarti, sono stato un po’ avventato.»

«Esci da casa mia o chiamo la polizia!» cerca di prendere il telefono dalla borsetta, io con forza gliela strappo dalle mani e la lancio in corridoio. «Cerca di stare tranquilla, so che non è

facile, ma se mi fai spiegare, andrà tutto bene.»

«Stare calma? Entra in casa mia, mi sbatte in terra, mi strappa la borsa dalle mani e dovrei stare calma? Ma lei è pazzo!»

«Sara, ascoltami, se ti tranquillizzi tutto andrà per il meglio, altrimenti mi vedrò costretto a essere poco educato. Adesso andiamo in cucina, ci sediamo e ti spiego.»

Non mi fa finire di parlare, con uno scatto tenta di raggiungere la porta, la intercetto prendendola per i fianchi, lei cerca di urlare, ma con una testata la metto fuori gioco.

Involontariamente, ho trovato il mio sfogo. Grazie, sorellina.

La porto in cucina e la metto su una sedia. Devo trovare qualcosa per legarla. Nel cassetto degli utensili da cucina trovo dello spago. Perfetto, è quello che mi serve.

Le lego i polsi, prendo uno straccio e le chiudo la bocca, ho bisogno che non urli, sono ancora indeciso sul da farsi.

Dal ceppo dei coltelli poggiato sul ripiano prendo quello più affilato, la pubblicità di quel set dice che sono talmente affilati che tagliano l'alluminio come se fosse burro; sono curioso di

sapere come taglia la carne, magari lo scoprirò poi.

Prendo una sedia e mi siedo di fronte a Sara, resto in silenzio ad aspettare il suo risveglio.

Passano una decina di minuti abbondanti prima che riapra gli occhi. Quando mi vede cerca invano di urlare, ma ne esce un suono ovattato, il bavaglio sta facendo il suo lavoro.

«Ben svegliata, principessa» le dico in modo sarcastico. «Devo parlarti, tu devi stare zitta e attenta, se mi prometti che non urli ti tolgo il bavaglio. Se emetti anche solo un suono, giuro

su Dio che ti sgozzo senza pensarci. Allora, posso fidarmi?»

Annuisce, le tolgo il bavaglio e lei resta in silenzio, le lacrime cominciano a scenderle dagli occhi sgranati per la paura.

«Ti prego, non farmi del male» mi dice singhiozzando. «Non so chi sei, ma se mi liberi non farò nulla, te lo prometto» trema mentre mi supplica di lasciarla andare. Sono contento di ciò,

mi piacciono quando sono remissive.

«Stai tranquilla» le dico con una voce calma. «Se mi ascolterai, tutto andrà per il meglio. Mi presento, sono il fratello di Irene, quella che ti scopi, sono qui per chiederti un favore»

prendo un fazzoletto dalla tasca e le asciugo le lacrime. Al contatto, lei si ritrae impaurita.

«Lei non sa che sono qui, se lo sapesse si incazzerebbe a morte, quindi dovrai fare una semplice cosa, mandarle un messaggio dove le dici che non vuoi più vederla.»

Mi guarda con aria interrogativa. «Perché mi chiedi questo? Non capisco.»

«Vedi, io e la mia sorellina abbiamo un rapporto particolare, lei mi serve lucida e collaborante, non entro nel merito, ma tu con la tua presenza sei un intralcio.»

Smette di singhiozzare, mi guarda e cambia modo di porsi, ha capito che c’è un solo modo in cui finirà, fa un timido sorriso e cambia tono di voce, comincia a non piacermi. «Scordatelo,

Irene ha bisogno di un’amica, soprattutto adesso che ho capito con chi ha a che fare. Sei tu che gli hai procurato i tagli sulla schiena e i lividi sul corpo, vero? Stronzo pervertito» si

interrompe un attimo, vede il mio cambio di umore, invece di ritornare remissiva rincara la dose. «Povero illuso, sappi che Irene oggi è venuta da me, abbiamo passato una bellissima

giornata, non so se lei mi ami, ma con me cerca quella normalità che tu non le puoi dare, io la faccio sorridere e stare bene.»

«Non c'è nulla di normale nel vostro rapporto, due donne che fanno porcate non può definirsi un rapporto» non mi fa finire.

«Invece il vostro rapporto è normale, tu che ti sfoghi su di lei quando le cose non vanno è normale, tu che pensi di scopartela è normale; se vuoi veramente bene a tua sorella, lasciala

libera di essere sé stessa, di decidere chi o cosa vuole essere.»

Ha colpito nel segno, le sue parole mi fanno male, ha ragione, il nostro rapporto è malato, ma a me serve, il resto non conta nulla.

L'ira prende il sopravvento, con un colpo netto le taglio i lati della bocca che si scompone in un ghigno.

Lei smette di colpo di ridere, e mentre sta per urlare le pianto il coltello nel petto.

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È proprio vero, il coltello penetra nel suo corpo come se fosse un panetto di burro.

Chiude gli occhi e china la testa verso il basso.

Ha smesso di respirare.

«Cazzo, non doveva finire così. Brutta stronza, non potevi startene zitta e ascoltarmi? No, dovevi prendermi per il culo.»

Devo calmarmi.

Rimango seduto per qualche minuto con gli occhi chiusi, mi tranquillizzo, li riapro e penso: “Voglio provare se il coltello scuoia bene.”

Mi alzo dalla sedia e mi metto all’opera. Preparo un bello spettacolino per chi la troverà.

Prima di uscire prendo il suo telefonino dalla borsa, lo userò per mandare un messaggio a Irene al mio rientro a casa.

Mentre sono in auto, chiamo la mia sorellina, è tutto il giorno che non ci sentiamo, voglio capire che sta combinando, abbiamo anche un animaletto in casa da accudire.

«Dove sei?» le chiedo con voce fredda.

«Sto tornando a casa, avevo delle cose da sistemare» mi risponde anche lei molto stizzita. Devo sistemare il rapporto con lei, ho un po’ esagerato l’altra sera.

«Il nostro animaletto domestico ha bisogno di cure, già che ci sei compragli da mangiare o lo farò morire di fame» dico sghignazzando.

«Ci serve in buona salute, non fare cazzate, arrivo subito» come al solito non le rispondo, riattacco e mi concentro sulla guida.

Irene è già in garage al mio arrivo, mi sta aspettando, devo per forza interagire con lei, oltre alle frustate adesso c’è anche l’amante a cui ho appena dato il benservito, non posso farmi

vedere troppo arrabbiato.

Così, entro in garage sfoggiando il mio miglior sorriso. «Ciao, sorellina, come sta il nostro animaletto?»

Lei è seduta per terra vicino a lui, gli lancia un hamburger all’interno della gabbia e lui prontamente lo rilancia fuori.

«Non vuole mangiare, sto provando in tutti i modi, ma sembra inutile» mi dice.

«Vediamo se io riesco a essere più incisivo» prendo il pungolo, accendo la batteria, mi avvicino alla gabbia e mi siedo accanto a lei, le accarezzo il viso dolcemente e lei si ritrae. «Non

succederà più, te lo prometto, sono stato leggermente esagerato, ieri.»

«Leggermente esagerato, Roberto? Se per te frustarmi come ieri sera è stato leggermente, non immagino cosa sia esagerato!» dice alzando la voce.

«Mi son fatto prendere la mano. Anche tu, però, fare la puttanella… sai che mi infastidisce» mi accorgo che ha delle grosse bende sulla schiena, come ha fatto a medicarsi? Una vaga

idea ce l’ho. L’ha aiutata la sua amante, voglio vedere cosa mi racconta. «Povera sorellina, penso sarà stato difficile medicarti da sola le ferite…»

Lei tentenna un attimo, poi risponde. «Sì, leggermente complicato, comunque non voglio parlare di questo, abbiamo da accudire l’animaletto» mi dice secca.

«Che bel rapporto avete, tu sei uno psicopatico e lei una lesbica con problemi affettivi, proprio un duo perfet…» dice Totò cercando di prenderci in giro. Non lo faccio finire, gli do una

scossa con il pungolo. Al contatto sobbalza picchiando la testa contro le sbarre. «Non sei stato interpellato, cerca di stare zitto e di mangiare. Altrimenti...» altra piccola scossa.

«Cacciatelo nel culo, il panino!» risponde.

«Sorellina, abbiamo un eroe, il nostro animaletto è un eroe… ascoltami attentamente, tu adesso mangi quel fottuto panino, le patatine e, se te lo ordino, anche il sacchetto, altrimenti ti

faccio brillare come l’albero di natale, sono stato chiaro?» un’altra scossa, più lunga e intensa, gli fa digrignare i denti, prende il panino e comincia a mangiarlo.

«Bravo il mio animaletto, ma quanto sei dolce mentre mangi» gli dico ridendo.

«Ho incontrato il tuo amichetto, l'altra mattina, sculetta bene, sai?, era preoccupato che ti trattassimo bene. Due froci del cazzo che si amano, mi veniva da vomitare, ma mi sono dovuto

trattenere, sentivo l'odore di morte su di lui» mi fermo e lo guardo mentre con gli occhi sgranati mi ascolta, rincaro la dose. «La fortuna sua è che mi incontra dove lavoro, se fosse qui ti

assicuro che gli avrei già aperto il cranio per vedere se il suo cervello è bacato.»

Smette di mangiare di colpo. «Sei un lurido figlio di puttana, non azzardarti a tocc…» l'ennesima scossa lo fa sobbalzare.

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«Roberto, che ne facciamo di lui?»

«Ho in mente di usarlo per attirare il commissario in trappola, è giunto il momento di chiudere i giochi» dico mentre guardo il mio biglietto vincente. «Non so come ucciderlo, però, sono

un po’ a corto di idee» dico, lui si ingozza con un pezzo di pane nel sentire quelle parole.

«Io lo taglierei a pezzi» dice Irene. «Poi lo regalerei al commissario» Salvatore è attonito, lo vedo con gli occhi persi nel vuoto che mastica lentamente.

Taglio corto, mi sono stancato di parlare, do a Totò una scossa più potente che lo fa svenire, cade a terra, ciò che resta del panino gli cade dalla mano e rotola fuori dalla gabbia.

«Che spreco di cibo» dico schifato.

Mi alzo e ripongo il pungolo. «Sorellina, mentre dorme dagli una lavata con la canna, puzza da fare schifo, io vado a letto, oggi è stata una giornata piena e intensa» salgo le scale

ridendo. Irene non sa ciò che ho fatto, mi gusterò la sua reazione, ma non oggi, il corpo è ancora troppo caldo.

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CAPITOLO NONO

INCONTRI

ELENA 16.05 – 10:00

Sentire i parenti di Tassinari non ci ha portato a nulla. La mamma è ricoverata in una residenza per anziani con un Alzheimer in fase 4: in pratica non si ricorda nemmeno come si

chiama, inutile perderci tempo. Stando a quanto ha dichiarato la sorella Anna, questo Tassinari è un onesto imprenditore e non sa darsi una ragione su quello che gli è capitato. Quando le

è stato chiesto che ne pensasse in merito alle denunce subite per usura, ha sbottato e giustificato i fatti come semplice invidia da parte di concorrenti fuori mercato o clienti scontenti del

lavoro ricevuto. A questo punto, o dice la verità o era completamente all’oscuro della doppia vita del fratello. Prima di richiedere i documenti dei conti bancari, decido di fare una

chiacchierata con gli impiegati che lo seguivano. «Lui’, la segretaria ha mandato l’elenco delle banche di Tassinari?»

«Sì, è arrivato ieri sera per e-mail, l’ho già stampato e messo in cartella; sono solo quattro, per cui dovremmo sbrigarcela in poco tempo, traffico permettendo.»

«Vediamo di cavarne un ragno dal buco, almeno da questo. Devo dare buone notizie al questore e togliermelo dalle palle. Hai recuperato l’elenco delle aziende che vedono macchine per

l’imbalsamazione?»

«Sì, devo solo stamparlo e iniziare a contattarle. A proposito, Elena, hanno chiamato dall’Istituto di Patologia. Hanno detto di richiamarli. È una cosa urgente.»

«Magari hanno trovato un biglietto nello stomaco con il nome dell’assassino. Sentiamo che vogliono. Tienimi aggiornata su cosa ti dicono» pronta per uscire, poggio borsa e occhiali

sulla scrivania e chiamo il patologo.

«Sono la dottoressa Masala, mi avete cercato stamani. Sì, attendo» La mano a coprire il microfono, chiedo a Gargiulo di portarmi un caffè per affrontare la giornata.

«Sì, mi dica… Quando? Ha fatto bene a chiamarmi, mi mandi una copia del referto appena possibile… e anche una foto, se possibile… Bene, a presto.»

«Era il dottor Pisano. Mi ha raccontato due cose interessanti. Ieri notte gli hanno portato il cadavere di una prostituta. È stata riconosciuta dalle colleghe e sembra che la morte sia

avvenuta 24, 30 ore prima del ritrovamento, quindi intorno alle ventuno della notte precedente.»

«Dovrebbe avere qualche attinenza con i nostri casi?» l’espressione del suo viso denota perplessità.

«Pare di sì. Durante la preparazione per l’autopsia, l’assistente si è reso conto che alla poveretta, oltre a recidere la carotide, hanno tagliato un lobo. Ora, le cose sono due: l’assassino ha

la mano tremolante e mentre le passava la lama sul collo ha preso anche l’orecchio, oppure…»

«Oppure si è tenuto un pezzo per ricordo.» È bastato poco per far perdere l’incertezza a Gargiulo.

«Abbiamo a che fare con una mente disturbata. Una persona che si diverte a fare pezzi, imbalsamare, spedire organi e tenersi ricordini delle vittime.»

«La seconda cosa interessante?»

«Finalmente abbiamo un nome per la vittima della cava. Si tratta di una ragazza scomparsa attorno al sei maggio scorso. Hanno confrontato i dati del DNA forniti dalla famiglia con

quelli prelevati dal cadavere. I genitori avevano denunciato la scomparsa un paio di giorni dopo.»

«Come mai due giorni? Non se sono accorti prima?»

«No. Viveva sola e non hanno dato troppo peso al non sentirla.»

«Se non altro avranno un corpo su cui piangere. Dovrò andare a parlare con loro e cercare di capire chi frequentasse.»

Sono abituata a vedere persone morte; per quanto continui a provare sdegno per le azioni del genere umano, senza riuscire a capacitarmi di ciò che porta un senziente ad ucciderne un

altro, riesco comunque a rimanere distaccata dal dolore che tutto questo provoca. Ma quando mi trovo a dover comunicare la notizia a un genitore, un marito, un figlio, è come se quel

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dolore privato diventasse mio, fino a provare lo stesso sconforto che vive chi la riceve. Solo allora il mio non è più un lavoro, un qualcosa di cui mi devo occupare perché mi pagano. Si

trasforma in un fatto personale.

Prima di uscire per recarci in banca, scrivo il nome sotto la foto della prima vittima e inserisco la nuova sulla lavagna con la dicitura: sconosciuta.

Arrivati al primo istituto bancario, capisco che sarà una mattinata lunga. I sistemi antintrusione ci bloccano per via della pistola e siamo costretti a mostrare il tesserino in attesa che

qualcuno si decida a farci entrare. Una volta dentro, mi faccio indirizzare dal direttore, al quale spiego la situazione e pongo le mie domande di rito.

«L’ultima volta che è stato qui?»

«Ho visto personalmente Alberto la settimana scorsa. Ci conosciamo da una vita e stavo seguendo un suo investimento per la costruzione di un complesso residenziale. Ancora non

riesco a capacitarmi che sia morto. Chi è stato?»

«Stiamo indagando per accertarlo. Dato che, a quanto mi riferisce, dimostra di conoscerlo bene, sapeva dei suoi problemi giudiziari?»

«Purtroppo sì. In quell’occasione erano stati bloccati i suoi conti e avevamo fornito tutti i documenti relativi ai suoi rapporti con noi. Nonostante tutto, ho sempre creduto alla sua

innocenza.»

«Ovviamente. Un’ultima domanda, dottor Varriale: le ha mai parlato di qualche minaccia, di qualcuno che gli creasse problemi?»

«Commissario, siamo a Napoli. Non vorrei dire una cosa ovvia, ma chiunque gestisca un’attività ha a che fare con problemi di natura varia. Da lì a essere ucciso, poi…»

«Il duro mondo degli affari… Se dovesse venirle qualcosa in mente, mi faccia sapere.»

Lasciata la banca raggiungiamo la seconda a piedi, poco lontana.

«Si è accorta dell’imbarazzo del direttore?» Al mio fianco sul marciapiede, Gargiulo mi interroga su qualcosa che avevo ben notato.

«Ho visto, sì. Non mi stupirebbe se fosse connivente in questa storia di usura; ma non ha molta importanza adesso. Penso che non sia quello il motivo per il quale è stato ucciso e

nemmeno le eventuali minacce ricevute.»

La visita alle due successive banche si ripete come da copione. Solito problema per l’accesso e nessuna informazione utile. Oltretutto, pare che non fosse nemmeno tanto abituale come

cliente, dato che nei giorni precedenti alla scomparsa nessuno lo aveva visto; l’impiegato incaricato di seguirlo lo ricorda come una persona un po’ fuori dalle righe, ma senza nessun

motivo che possa darci aiuto.

«Facciamoci anche questa e poi rientriamo. Da che parte si trova?»

«Piazza Nazionale, dobbiamo prendere la macchina e sperare di non perderci nel traffico.»

Dopo una buona mezz’ora, transitiamo davanti alla sede della banca e riusciamo a parcheggiare in una traversa dietro l’angolo. Grazie alla concomitanza con alcune guardie giurate in

attesa davanti alla porta, tesserino alla mano, entriamo subito.

«Sono il commissario Masala, il direttore?»

«In fondo a sinistra, seconda porta.»

«Grazie.» Seguendo le indicazioni dell’impiegato che ci ha fatto entrare, busso alla porta semiaperta. La targhetta alla sua destra riporta il suo nome: Alessandro Pisacane.

«Dottor Pisacane, Elena Masala, l’ispettore capo Luigi Gargiulo» espletate le presentazioni, snocciolo il problema e gli rivolgo le stesse domande fatte in precedenza agli altri.

«Guardi, devo dire che, per quanto mi dispiaccia, non conoscevo bene il signor Tassinari. Il nostro rapporto è sempre stato molto distaccato ed esclusivamente di natura professionale.

Posso aggiungere che come persona era alquanto sgradevole, però.»

«Si spieghi meglio.» Incuriosita dall’ultima affermazione mi irrigidisco sulla sedia di fronte a lui.

«Ho notato che era solito rivolgersi alle donne con fare lascivo, battute di cattivo gusto.»

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«Capisco. Si riferisce alle impiegate?» Con la coda dell’occhio vedo Luigi che annota le informazioni sul suo taccuino.

«Sì, ma è capitato anche con qualche cliente. La farei parlare con la persona che lo segue… seguiva, ma è uscita giusto poco fa ; la dottoressa Formisano, se vuole la può trovare nel

pomeriggio.»

«La ringrazio molto, dottor Pisacane, ci è stato molto utile. Tornerò nel pomeriggio e se dovesse ricordare qualcos’altro, non esiti a contattarmi.»

«Senza mancare, dottoressa. La saluto.» Fatto il giro della scrivania, ci accompagna fino alla porta. La camicia inamidata nasconde a fatica i dorsali sviluppati e la stretta di mano

vigorosa denota sicurezza.

Al rientro in ufficio trovo l’e-mail del dottor Pisano con il referto dell’esame autoptico. Conferma quanto mi ha riferito in precedenza al telefono e la tesi sul souvenir. La direzione del

taglio inferto sulla carotide non è compatibile con quella applicata al lobo dell’orecchio. È il nostro uomo. Stampo tutti gli allegati e attacco la foto sulla lavagna, sopra il nome: Cveta

Savić, 22 anni.

«Nomen omen.»

«Che intendi dire, Luigi?» Mi giro a guardare Gargiulo con curiosità.

«Cveta significa fiore in slavo. E come un fiore è stata recisa nel pieno della sua giovinezza.»

«Non sapevo conoscessi la lingua. Hai altri segreti?»

«Ho dei carissimi amici bielorussi e una di loro si chiama proprio così. A parte qualche altra parola, il resto è turco.» Giocando sulle parole stempera la serietà del momento.

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IRENE 16.05 – 07:00

Mi sveglio prima del solito, devo sistemare il mio ospite e poi andare al lavoro. È un po’ come avere una palla al piede, non vedo l’ora di liberarci di lui. Scendo in garage con una

bottiglia d’acqua e un sacchetto con dentro dei biscotti. Totò dorme raggomitolato in un angolo, la sua espressione non è serena nemmeno nel sonno. Lascio in un punto facile da

raggiungere, una volta sveglio, quello che gli ho portato e prendo il secchio che usa per i bisogni. È la parte più disgustosa, più di quando pulisco il sangue lasciato dai maiali. A

quell’odore ferruginoso mi sono abituata, ma a quello della pipì, di primo mattino, proprio no. Salgo in casa e svuoto il secchio nel gabinetto, una volta pulito torno in garage. Totò si è

svegliato, beve dalla bottiglia che gli ho lasciato e mastica un biscotto.

«Buongiorno!» saluto con esuberanza fasulla, tanto per metterlo a suo agio. Lui non risponde.

«Oh, andiamo! Ti ho perfino portato dei biscotti! Quanti psicopatici conosci che portano biscotti ai propri ospiti?»

«Quelli davvero malati» pronuncia con un’ottava di voce troppo alta che smaschera la paura. Lo vedo fissarmi con uno sguardo di puro odio dal suo angolo.

«Su, su, non fare lo schizzinoso. Se tutto va bene, tra poco sarà finita» lo rassicuro anche se, subito dopo, mi viene il dubbio che non sia proprio quella la frase giusta da dire.

«Vorrai dire che tra poco mi ucciderete!» sputa la frase con rabbia.

«È incredibile come salti fuori l’arroganza quando ormai non si ha più nulla da perdere. Dovresti essere grato, perlomeno, che non ti si lasci morire di stenti. Quella sarebbe un’orribile

morte e noi, ti assicuro, vogliamo che la tua dipartita abbia un senso» ho già iniziato a salire le scale mentre pronuncio quest’ultima frase.

«Siete dei bastardi!»

«Buona giornata anche a te» chiudo la porta alle mie spalle

Durante la pausa pranzo torno a casa per portare da mangiare a Salvatore: nonostante la sua scarsa collaborazione, voglio che il suo tempo nella gabbia abbia un minimo di umanità;

delle torture se ne occupa Roberto fin troppo bene.

«Ti ho portato un libro, sai leggere, vero?» domando. «Non fare scherzi, ho un aggeggio a portata di mano che può folgorarti in qualsiasi momento» noto una luce strana nei suoi occhi

mentre si avvicina per prendere il libro. Bagliore che si spegne subito, al ricordo di cosa ha subito la sera precedente.

«Moby Dick? Fai sul serio?» sfoglia il libro con diffidenza.

«Che c’è? Preferisci Orgoglio e Pregiudizio?» lo rimbecco sedendomi di fronte a lui.

«Tu pensi davvero che me ne stia qui a leggere?»

«Dal drastico calo che ha subito la tua voce sospetto passi molto del tuo tempo a urlare, ma qui è tutto insonorizzato, perciò ti consiglio di usare il tempo che ti rimane in modo più utile»

sono sincera, rapportarmi con una vittima è diverso rispetto ad ammazzarla immediatamente. Prendermi cura di lui lo avvicina molto a un animale domestico.

«Te lo hanno mai detto che non si familiarizza con chi ucciderai? Sei un carnefice? Sii carnefice» mi guarda dritto negli occhi.

«Il lupo è mio fratello» rispondo.

«Quindi tu chi saresti?»

«Magari sono solo il braccio destro. Buon Moby Dick» mi alzo e lo saluto.

«Perfino i cani migliori possono essere abbandonati dai propri padroni. Anche tu, un giorno, potresti finire su quel gancio; anzi... è già successo» ascolto la sua voce beffarda mentre

salgo un gradino dopo l’altro, con la coda dell’occhio osservo nella sua direzione e lo vedo appoggiarsi alle sbarre, immerso nella lettura.

***

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Nel pomeriggio torno in banca, il tempo trascorre lento e noioso, ma qualcuno arriva a scombussolare la mia tranquillità. Sento bussare alla mia porta, sollevo lo sguardo per vedere chi è

arrivato. Quasi mi ribalto dalla sedia: il commissario Elena Masala è proprio davanti ai miei occhi.

Da giorni non faccio altro che pensare a un modo per avvicinarla, per sapere a che punto è con le indagini su Tassinari e, a questo punto, anche sulla scomparsa di Salvatore. Ora posso

recuperare l’occasione sfumata alla festa, quando per un soffio l’ho mancata. Immaginavo una persona fredda, invece davanti a me c’è un viso sorridente, vestita in modo casual con un

paio di scarponcini bordeaux ai piedi.

Un mezzo sorriso sulle labbra nell’attesa del permesso per entrare nel mio ufficio. In un attimo mi si gela il sangue. Perché è qui? Mi vuole arrestare? No, se fosse venuta per arrestarmi

non sarebbe sola. È qui per interrogarmi! Non ci può essere altra spiegazione, in qualche modo sono risaliti a me. Devo mantenere la calma e stare al gioco.

«È permesso?» chiede lei educatamente sulla soglia.

«Buongiorno, si accomodi pure!» mi alzo e faccio cenno alla sedia di fronte la mia scrivania. «In cosa posso esserle utile?»

«Sono il commissario Elena Masala.»

Istintivamente sollevo le sopracciglia per mostrare sorpresa. Deve sicuramente nutrire dei sospetti altrimenti non sarebbe venuta a parlarmi.

«Sono passata stamani per delle informazioni sul signor Tassinari, e il dottor Pisacane ha accennato alcuni suoi comportamenti anomali» si accomoda nella seduta di fronte la mia e

accavalla le gambe.

«Mi spieghi meglio, cosa intende per comportamenti anomali?» mi siedo dopo di lei e inizio a sistemare senza una logica alcuni fogli sparsi sulla scrivania, in realtà cerco di raccogliere

la calma evitando di guardarla.

«Ha fatto riferimento ad atteggiamenti molesti verso clienti e impiegate. Visto che era un cliente che seguiva lei, vorrei sapere se può confermare» pone la domanda implicita con tono

educato.

Con la coda dell’occhio la vedo seguire i miei movimenti con attenzione.

«Alberto... mi scusi, il signor Tassinari era un nuovo cliente. Avevo da poco preso la gestione delle sue pratiche e, per quanto mi riguarda, avevamo un rapporto strettamente

professionale.»

«Chiama tutti i suoi nuovi clienti per nome? Ho notato una certa confidenza» con falsa cortesia mi fa notare la mia incoerenza.

«Ha ragione, per il tipo di lavoro che svolgevamo preferiva avere meno formalismi. Per questo avevamo un buon feeling» mi gratto la fronte e noto che la mia pelle inizia a sudare.

«Capisco, questo feeling contemplava anche frequentazioni di altro tipo?»

Evidenzia la parola chiave che ho usato facendomi capire che non le è sfuggita, devo stare più attenta.

«Non so se si possa definire frequentazione, però la settimana scorsa mi ha chiesto di accompagnarlo a una festa. Se posso, perché tutte queste domande?»

«Pensavo lo sapesse. Il signor Tassinari è stato ritrovato morto e stiamo ricostruendo i suoi ultimi movimenti. La festa quando si è svolta?»

Questa donna mi mette a disagio, ha una calma glaciale e un tono spaventosamente professionale. Sembra ne sappia molto di più, ma possono essere mie congetture. Penso a mio fratello

e a quanto gli sarebbe piaciuto assistere alla scena, ma subito dopo con una smorfia di orrore domando:

«Alberto? Ucciso? Qui in banca è un po’ che si notava la sua assenza. La festa era giovedì, dopo avermi riportata a casa non l’ho più visto. Come è morto?»

«Non posso dirle i dettagli, stiamo ancora indagando. Sono qui perché probabilmente lei è tra le ultime persone che lo hanno visto vivo. È sicura di non averlo più sentito?» inizia a

osservare la stanza come a voler fingere di non essere realmente interessata alla risposta.

Non sembra una domanda, l’imposizione nella voce è evidente, sta conducendo un vero e proprio interrogatorio. So dove vuole andare a parare, ma non mi voglio far cogliere

impreparata.

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«Guardi, l’unica cosa strana è che dopo la festa abbiamo accompagnato un invitato all’ospedale. Poi, io e Alberto siamo andati via e abbiamo concluso la nostra serata. Da quel giorno

non l’ho più visto. Sono forse sotto accusa, commissario? In tal caso, vorrei prima parlare col mio avvocato» senza volerlo mi metto sulla difensiva e subito dopo cerco di riprendere il

controllo.

«Non è un interrogatorio, conosco i suoi diritti e l’avrei chiamata direttamente in centrale in quel caso. Questo invitato ha un nome? In quale ospedale lo avete accompagnato?»

Elena si sistema meglio sulla sedia, sembra non avere ottenuto tutte le informazioni per cui è venuta. Inoltre, il suo tono formale contribuisce a mantenere una certa distanza fra noi due.

«Un certo Salvatore, mi perdonerà ma non ricordo il cognome. Lo abbiamo accompagnato al Santa Paola, subito dopo siamo andati via.»

Lancio l’amo sperando di capire se è già a conoscenza della scomparsa di Salvatore, in questo modo otterrò anch’io quello che voglio. La reazione non è quella che mi aspetto, Elena non

dà l’impressione di essere preoccupata per lui, continua a puntare su Tassinari.

«Per caso è Salvatore Gallo? Poi, come avete concluso la serata, se non sono troppo indiscreta?»

A questo punto posso scegliere se rimanere sul vago, oppure darle una piccola soddisfazione. Decido di fare quello che so fare meglio, le dico una mezza verità. Stiamo giocando al gatto

col topo.

«Se non ricordo male, è proprio lui. Commissario, posso darle del tu?» provo a portare la conversazione su toni amichevoli. «A lui sarebbe piaciuto finire la serata in un modo. Però, se

devo essere sincera, non è esattamente il mio tipo.»

«Sì, prego… Senti, Irene, una curiosità… perché sei andata alla festa con lui?»

Mi drizzo sulla sedia, queste domande incalzanti iniziano a darmi fastidio. Il mio nervosismo è dettato dal ticchettio della penna. Per cercare di mascherare il mio disagio continuo a

utilizzare un modo di fare amichevole.

«Sai, in questo mondo dire di no a un cliente potrebbe pregiudicare gli affari. Sapevo che a quella festa avrebbero partecipato persone influenti e mi sono detta che ne sarebbe valsa la

pena» calcolo bene le parole e aggiungo: «C’è stato un momento in cui il comportamento di Alberto poteva mettermi a disagio, ma la cosa con me non poteva funzionare perché sono

attratta dalle donne. In ogni caso, non credo che il mio orientamento sessuale possa essere argomento di discussione.»

Concludo in modo lapidario, spero di averle fatto capire che è l’ora di finirla con le domande e a quanto pare ci riesco. Elena accenna un mezzo sorriso e si alza dalla sedia.

«Grazie per le preziose informazioni, per ora siamo a posto così.»

Le stringo la mano e l’accompagno all’uscita. Mentre guardo la sua schiena allontanarsi, penso al giorno in cui la nostra vendetta sarà finita.

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ELENA 16.05 pomeriggio

Come promesso in mattinata, nel primo pomeriggio torno in banca per incontrare l’impiegata indicata dal direttore.

Individuato il suo ufficio, busso alla porta aperta ed entro.

«Signora Formisano? Ha qualche minuto per me?»

Preso posto sulla sedia di fronte a lei, mi presento. Sembra sorpresa di vedermi. O almeno, il movimento impercettibile delle sopracciglia me lo fa pensare. D’altronde, non capita tutti i

giorni di trovarsi la polizia in ufficio. Diversi anni fa ho seguito dei corsi sul linguaggio non verbale. Vediamo se il suo corpo mi racconta qualcosa di diverso rispetto alle sue parole.

In breve le racconto della conversazione tenuta con il direttore della filiale in merito ad Alberto Tassinari e alle sue avance. Se era solito comportarsi così con clienti e impiegate, niente

di strano che lo abbia fatto anche con lei.

La prima reazione è di indifferenza, poi mi invita a spiegare meglio che intendo per comportamento anomalo. Nel mentre, raccoglie una serie di fogli ordinati in vari mucchi sulla

scrivania e li infila dentro una cartella. Le cose sono due: o è molto disordinata o sta prendendo tempo per la risposta; mentre mi accomodavo ho scorto una serie di nomi diversi sugli

stampati.

«A quanto mi ha riferito il dottor Pisacane, era solito assumere atteggiamenti molesti nei confronti della clientela e del personale femminile. Può confermare?»

La osservo mentre riporta lo sguardo sul mio, distolto in precedenza. Una bella donna. Avrà circa quarant'anni, niente fede, nessuna foto sulla scrivania; come se non abbia interesse a far

conoscere la sua vita privata. O magari non ne ha una.

Mi parla del rapporto tra lei e la vittima – professionale, tiene a precisare – e rimarca che era un nuovo cliente. Una cosa stona, però. Lo ha menzionato per nome, prima di correggersi.

La incalzo su questo aspetto singolare e si giustifica spiegando che lui preferiva mantenere un rapporto meno formale. Si gratta nervosamente la fronte e non posso fare a meno di notare

la leggera imperlatura di sudore che la rende lucida. Eppure, la temperatura è controllata dall’aria condizionata, non c’è caldo.

Sono curiosa di sapere se la confidenza chiesta contemplava anche altro. Nel chiederlo, sottolineo con enfasi il feeling di cui mi ha parlato. Ancora un’altra precisazione da parte sua e un

altro tassello: sono stati assieme a una festa. Ci sarà altro? Improvvisamente arriva la curiosità di conoscere il motivo della mia visita e di tutte queste domande. Sembra che non sappia

che Tassinari è morto. A quanto ho capito veniva quasi tutti i giorni.

Senza scompormi e senza troppi dettagli, la informo della morte e le chiedo la data della festa.

Per un attimo intravedo le labbra contrarsi in un accenno di sorriso. Magari condivide il giudizio del direttore sulla vittima, anche se non me ha fatto cenno.

«Alberto? Ucciso?» stupore, ancora la vittima chiamata per nome. Sono certa che dietro ci sia molto più di quanto mi racconta.

«Non posso dirle i dettagli, stiamo ancora indagando» se lui l’ha accompagnata a casa, potrebbe essere l’ultima ad averlo visto vivo. Insisto su questo aspetto. Purtroppo non è stato

possibile stabilire una data di morte per via del trattamento subito.

«È sicura di non averlo più sentito da allora?» alla mia richiesta risponde con un altro dettaglio interessante della serata. Mi racconta di aver accompagnato in ospedale qualcuno presente

alla festa. Poi si mette sulla difensiva e manifesta l’ipotesi di avere un avvocato. Allento un po’ la presa su di lei e la rassicuro.

A questa donna devo tirare fuori le parole con le pinze e ancora sono costretta a chiedere precisazioni. In un attimo capisco che sta parlando della festa di sabato scorso alla quale ho

partecipato e che l’invitato era Salvatore. Questo spiega la sensazione di familiarità del suo viso provata quando sono entrata. È la donna che si è avvicinata a Totò durante la serata;

dovrò chiamarlo per avere conferma di questo. E se tanto mi dà tanto, l’uomo in sua compagnia doveva essere Tassinari. Persevero sulla vittima e sulla conclusione della serata. Mi fa

capire che lui avrebbe voluto concluderla a letto, ma che non era il suo tipo. Da chi è attratta? Certo, non si può dire che fosse un bell’uomo, Tassinari. A meno che… La mia innata

curiosità, aiutata dalla sua richiesta di maggior confidenza, mi porta a chiederle il perché della compagnia alla festa. La reazione immediata è di imbarazzo e nervosismo. Picchietta la

penna sulla scrivania, poi si abbandona a confidenze come fossimo grandi amiche. Mi spiega la scelta dell’opportunità di essere inserita in un certo ambiente, del comportamento un po’

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irritante di Tassinari e del perché non avrebbe funzionato con lei. È attratta dalle donne. Avevo immaginato bene. Per chiudere la discussione, aggiunge stizzita che non è argomento di

cui discutere.

Per ora mi basta quanto ho sentito; inoltre, il suo tono mi comunica che non ha intenzione di dirmi altro. Avrò comunque occasione di verificare quanto mi ha detto su Tassinari e sulle

sue frequentazioni.

Mantenendo il mio solito distacco intimidatorio, la saluto e lascio il suo ufficio.

***

«Ciao, Luigi, passo a prenderti e facciamo un salto a casa dei genitori di Ginevra Russo. Sarò lì tra una ventina di minuti. E recupera il fascicolo, per cortesia.»

Raggiunta la macchina di servizio, rientro in commissariato per recuperarlo. Avrei dovuto aggiornare il questore sugli ultimi sviluppi, ma non posso esimermi da questo incontro. Magari

riesco a ottenere qualche informazione utile.

«Guida tu, faremo prima. Novità dalle aziende per quelle macchine?» con un gioco di gambe passo da un sedile all’altro e do una lettura veloce al fascicolo della vittima. Trentadue anni,

single, nessun precedente; Antonio Russo ha un’azienda informatica, la signora non lavora. La classica brava ragazza, stando a questi pochi dati. Spero che i genitori sappiano dirmi

qualcosa di più.

«Ne ho sentito qualcuna e le risposte sono state più o meno simili. In Italia non si pratica l’imbalsamazione di corpi umani, al contrario di quella animale. La tassidermia, così l’hanno

chiamata; in sostanza, gli animali impagliati. Le aziende contattate non hanno ricevuto ordini da privati e nemmeno da strutture sanitarie, ma bisognerebbe contattare le aziende straniere

per avere una certezza su un eventuale acquisto. Ecco, siamo arrivati, abitano in questa villa.»

«Ne riparleremo.»

Superato il cancello, aperto dopo esserci presentati al videocitofono, lasciamo l’auto davanti all’ingresso L’uomo alla porta ci invita a seguirlo in un grande salone. Con fare distratto, mi

guardo intorno in attesa che arrivino i padroni di casa. Alle pareti ci sono diversi quadri, appesi secondo un ordine ben stabilito. Una serie di dipinti di paesaggi allineati su una invisibile

linea; un’altra di riproduzioni di piante officinali disposte in maniera diversa, quasi disordinata, ma che nel complesso formano un grande rettangolo. Tendaggi pesanti, e immagino

costosi, alle finestre.

«Buonasera, sono Antonio Russo.»

Seguito dalla moglie, entra il padre di Ginevra. I visi sono contriti. Perdere una figlia, per di più in maniera drammatica, deve essere stato un duro colpo per loro. Non oso immaginare

come potrei reagire io se dovesse accadere qualcosa a Clara.

«Sono Elena Masala, lui è Luigi Gargiulo. Siamo profondamente dispiaciuti per quanto accaduto a vostra figlia e faremo di tutto per trovare il responsabile della sua morte.»

«La ringrazio. Vede, Ginevra è… era la nostra unica figlia… tutto ciò che abbiamo costruito... creato era per il suo futuro… e ora non abbiamo più nulla, tutto è inutile.»

«Immagino e capisco il vostro dolore e sconforto… ho necessità di farvi alcune domande per chiarire aspetti poco chiari sulla sua scomparsa e sulla morte.»

«Non so cos'altro possiamo aggiungere a quanto già comunicato. Anche all’investigatrice abbiamo detto la stessa cosa.»

«Sì, sono al corrente della signora Coppola. So che significa ulteriore pena per voi, ma vi prego di dirmi ancora una volta quanto potete ricordate.»

«D’accordo. Ginevra, come già detto, viveva in un appartamento in centro e lavorava come cameriera in un bar lì vicino.»

«Mi scusi, signor Russo, senza nulla togliere al lavoro di cameriera, come mai Ginevra aveva scelto un lavoro, diciamo, non alla sua altezza? Mi pare di ricordare che fosse laureata.»

«Ha ragione. Dopo la laurea abbiamo tentato di convincerla a entrare in uno studio legale, ma il suo desiderio di indipendenza è stato più forte.»

«Senta, delle sue frequentazioni che altro ci può dire? Ci risulta che fosse single, ma sicuramente aveva degli amici, magari un’amica più intima con la quale confidarsi.»

Il disagio dei signori Russo è palpabile. La mamma di Ginevra non ha ancora detto una parola e non vorrei che cedesse a una crisi di pianto se sforzata a parlare.

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«Onestamente non saprei che dirle» tiene la mano poggiata sulle gambe della moglie e, dopo averla guardata per un istante, continua. «Non ci raccontava molto della sua vita, delle

persone che frequentava, in maggioranza donne.»

«Capisco. Ha parlato di un appartamento, avrebbe una copia delle chiavi? Non abbiamo trovato effetti personali nella zona del ritrovamento.»

«Ne avevamo una copia, ma l’abbiamo data alla signora Coppola. Dovrei averne un’altra in ufficio, ma prima di lunedì non riuscirei a fargliela avere.»

«Va bene. Mi pare sia tutto per il momento, se dovesse venirvi qualcosa in mente chiamatemi senza problemi.»

Mentre stavamo per lasciare la stanza, diretti verso l’uscita, arrivò la domanda che temevo, pronunciata dalla signora Russo. Non so perché, ma, tornata sui miei passi, prendo la sua

mano tra le mie e con voce calma e rassicurante mento spudoratamente.

«No. Abbiamo motivo di credere che sia morta senza soffrire.»

«Prendete il responsabile e fategliela pagare per quello che ha fatto alla mia povera bambina.»

Non l’ho sentita parlare da quando sono entrata, ma le parole espresse sono cariche di rabbia e odio miste a dolore. Un dolore indicibile.

«Farò tutto il possibile, mi creda.»

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ILARIA 16.05 – 21:00

Mi apposto fuori casa di Irene verso sera. Vive in una zona poco trafficata. L’edificio, una villetta libera sui lati, è contornata da una siepe molto ben curata che fa da barriera.

Riesco a intravedere un vialetto e la porta di un garage sulla destra della casa. Le finestre del secondo piano sono accese. Bene, devo solo aspettare che esca per qualche motivo.

Scatto qualche foto alla villetta, e poi attendo.

Alle 5.30 del mattino sento il cancello del vialetto aprirsi, con mia sorpresa vedo uscire un uomo, riccioluto, non molto alto ma carino.

Si avvicina a un’auto parcheggiata di fronte l’abitazione e parte. Potrebbe essere il fratello, mi viene l'idea di seguirlo e usare lui per arrivare a Irene.

L'auto entra nel parcheggio riservato ai dipendenti dell'ospedale. Mi apposto accanto all'ingresso e dopo qualche minuto lo vedo arrivare.

Fingo di inciampare scendendo dalle scale e lui mi prende al volo.

«Attenta, signorina, si è fatta male?» mi chiede sorridendo.

Da vicino è ancora più carino, porta un paio di occhiali tondi, ha gli occhi scuri, quasi neri. «Penso di aver preso una storta, la ringrazio, se non ci fosse stato lei avrei fatto un bel

ruzzolone.»

«Nulla accade per caso, riesce a camminare?»

«Ci provo» rispondo, appoggio il piede e fingo di non potermi reggere, lui mi riprende.

«Facciamo così, la porto in pronto soccorso, almeno le faranno un paio di controlli.»

Lo ringrazio per la gentilezza e mi accompagna in pronto soccorso dove parla con uno degli infermieri dopo che mi ha fatto sistemare su una sedia a rotelle.

Torna dopo qualche minuto, sempre sorridente. «Adesso si prenderanno cura di lei, io devo andare…»

«Grazie, non le ho nemmeno chiesto come si chiama» dico mentre civetto un po’.

«Mi chiamo Roberto Esposito.»

«Piacere, Roberto, mi chiamo Ilaria, sono in debito con lei.»

«Per così poco» mi risponde.

«Per sdebitarmi le offro un aperitivo, posso?»

Resta un attimo in silenzio, poi prende un foglio e scrive un numero di cellulare.

«Mi mandi un messaggio anche per dirmi come sta e organizziamo l'aperitivo.»

Lo ringrazio, ho l'appiglio che mi serve e un aperitivo vale il gioco. È comunque molto carino, un’uscita per un aperitivo mi può fare solo bene.

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ROBERTO 17.05 – 06:00

Sono passati un paio di giorni da quando ho ucciso Sara, con mia sorella c'è una sorta di calma apparente che sicuramente franerà con il ritrovamento della sua amichetta.

Le cose comunque stanno andando come previsto. L'animaletto è sempre più puzzolente, io mi avvicino poco, lascio che sia Irene a farlo, fosse per me l'avrei già fulminato, ma per ora

serve vivo.

Come ogni mattina, arrivo al lavoro controvoglia, il non poter uccidere mi dà tristezza, mi mancano le urla, le preghiere, ma soprattutto il sangue.

Mentre sono assorto nei miei pensieri, sento un urlo che mi risveglia appena in tempo per prendere tra le braccia una donna che sta cadendo dalla scalinata all’ingresso dell’ospedale.

«Attenta, signorina, rischia di farsi male» le dico sorridendo.

Ha un viso simpatico, occhi grandi ed espressivi, un po' in carne.

Mi domanda scusa, si chiama Ilaria. Cerco di farla camminare, comincio a essere in ritardo e questo mi indispone, ma non riesce ad appoggiare il piede.

La porto al pronto soccorso, parlo con un mio collega e la faccio sedere su una sedia a rotelle.

Adesso sono davvero in ritardo, ma non so, c'è qualcosa in lei che mi porta ad essere gentile. Forse, per una volta una sconosciuta mi guarda senza avere paura di me, la saluto e in

risposta mi invita a bere un aperitivo per ringraziarmi.

Può essere un buono sfogo mentre aspetto di riprendere con i giochi, così le do il numero di telefono. «Chiamami che ci mettiamo d'accordo, fammi sapere anche come stai» le dico

congedandomi.

La giornata al lavoro scorre tranquilla, sento squillare il cellulare. È un messaggio di Ilaria che mi informa che è andato tutto bene e che ha una leggera distorsione alla caviglia. Mi

ringrazia per quanto ho fatto e mi chiede se stasera gradisco di andare a bere un aperitivo con lei. Accetto di buon grado la sua offerta e ci mettiamo d'accordo per le 18. Mi aspetterà

all'ingresso dell'ospedale.

La notizia dell'aperitivo mi ha messo di buonumore, mi cambio velocemente e arrivo all’ingresso dell’ospedale con venti minuti di anticipo.

Lei, invece, arriva con undici minuti di ritardo, indossa un completo molto aderente e una minigonna sopra il ginocchio.

«Vedo che non zoppichi molto» le dico.

«Mi sono imbottita di antidolorifici, non potevo venire a un appuntamento zoppicando, che figura avrei fatto» risponde.

«Dove vuoi andare?» le chiedo.

«Conosco un posto in centro, dove oltre ai cocktail buoni danno parecchio da spiluccare.»

«Sei mia ospite, per me va bene, a patto che guidi io.»

Mi lancia le chiavi dell'auto e partiamo per il centro, sono sempre più convinto che può essere uno sfogo alternativo prima della resa dei conti con il commissario, devo solo essere

normale per una volta.

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ILARIA E ROBERTO 17.05 - 18:00

Passo circa tre ore in pronto soccorso tra lastre e visite. Un giovane medico mi dà un antidolorifico che non mando giù, visto che non ho nulla.

Ringrazio ed esco dall’ospedale fingendo di zoppicare.

Torno a casa, chiamo mio padre e gli racconto gli sviluppi.

«Figlia mia, ho l'impressione che stia diventando un caso complicato, non vorrei che ti cacciassi nei guai.» Ha ragione, se le cose stanno così, Irene Formisano è coinvolta in due

sparizioni, ma sono così vicina alla soluzione che non voglio mollare proprio ora.

«Fidati di me, ho il contatto con il commissario, se le cose si complicano la chiamo e mi faccio aiutare.»

«Stai comunque attenta, ricordati cosa ti ho insegnato: siamo investigatori, non forze dell'ordine, lasciamo le cose pericolose a chi lo fa per lavoro. Non ho intenzione di perderti o di

vederti ferita» rimane in silenzio un attimo, poi riprende con la voce tenera da padre. «Sei come tua madre, testarda, so che, qualsiasi cosa ti possa dire, non cambierai idea, quindi ti dico

solo di stare attenta, ti voglio bene.»

«Anche io, papà, e starò attenta, te lo prometto. Adesso devo andare, ti tengo informato, ok?»

Mi saluta con la voce emozionata, ho un po' di timore, non so cosa aspettarmi, ma la curiosità di sapere cosa sia successo a Ginevra e a Tassinari è forte. Prendo il telefono e mando un

messaggio a Roberto. Voglio essere veloce e riuscire a farmi portare dalla sorella; devo essere scaltra e dovrò sfoggiare tutta la mia femminilità: anche se un po' abbondante, so cosa

mostrare.

Mi risponde quasi subito, ci mettiamo d’accordo per incontrarci all'entrata dell'ospedale intorno alle 18.00, lui deve finire il turno.

Metto un vestito nero aderente quanto basta per evidenziare le forme giuste, mi trucco leggermente, calzo un paio di scarpe con un leggero tacco. Manca poco all'incontro, ma decido di

farlo aspettare un po’.

Lui mi aspetta in fondo alle scale d'ingresso, lo saluto con un bacio sulla guancia, sembra imbarazzato.

Decidiamo di prendere la mia auto, a fine serata lui prenderà un taxi per recuperare la sua.

Guida lui, durante il tragitto non parliamo, è concentrato sulla strada, sembra impacciato di stare al volante di una macchina non sua.

Arriviamo al locale, apre la portiera e mi fa scendere dall’auto, da perfetto gentiluomo, lo prendo sottobraccio ed entriamo. Parliamo del più e del meno, mi racconta che lavora come

responsabile in chirurgia da ormai qualche anno, io gli dico che faccio l'insegnante di spagnolo in una scuola in periferia. È una persona affabile, quando racconta di sé si perde alzando

gli occhi come se sognasse, devo comunque stare all'erta.

***

Simpatica ragazza, un po’ in carne, ma simpatica. Continuo a pensare che possa essere un buon diversivo, prima di terminare la mia vendetta. Ho sempre evitato i rapporti interpersonali,

le persone che gravitano intorno a me sono colleghi e sottoposti o possibili vittime inconsapevoli dei miei giochi. Lei mi piace e ancora non ho deciso se ucciderla o scoparla.

Magari la scoperò prima di ucciderla.

Continuiamo a parlare, spesso non ascolto nemmeno quello che dice, la mia mente vaga tra il commissario, l'animaletto in garage e su come reagirà Irene alla scoperta di Sara. Mi scappa

un sorriso.

«Ti vedo divertito» mi dice, la guardo.

«Mi piace parlare con te» le rispondo mentendo.

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Dell'ultima parte del discorso non ho sentito nemmeno una parola. Guardo l'orologio: sono quasi le otto di sera e voglio tornare a casa. La guardo fisso negli occhi e le prendo la mano

delicatamente.

«Non voglio essere avventato, ma mi piaci, se ti va possiamo continuare a parlare a casa mia, oppure ci diamo appuntamento un altro giorno.»

***

Resto di stucco alla proposta, sembra troppo facile, mi sta invitando a casa sua. Un piccolo campanello d'allarme risuona nella mia testa, ma in fondo è quello che voglio, so che vive con

la sorella, nella borsa ho messo alcune microspie, se accetto l'invito potrò nasconderle in casa loro e seguire Irene senza rischiare.

«Non so se è il caso, non ci conosciamo, potresti essere un serial killer» dico sorridendo.

«Potrei, ma anche tu potresti esserlo, ti va se rischiamo?»

Colpita dalla risposta, accetto l'invito, lui paga il conto e torniamo alla macchina.

La casa di Roberto la conosco dall'esterno, devo comunque fingermi sorpresa.

«Sembra enorme! Vivi tutto solo?»

«In verità no, abito con mia sorella, ma a quanto vedo non è in casa.»

Peccato, Irene non c'è, magari rientrerà presto.

La casa sembra davvero molto ampia. All’ingresso, una scalinata sale al piano di sopra, dove immagino ci siano le stanze da letto. Il corridoio del piano terra finisce con due porte, e

secondo la mappa che mi sono costruita mentalmente lì in fondo dovrebbe esserci il garage.

Mi fa accomodare in cucina: è spaziosa ed è divisa dal soggiorno da un muro con un arco al centro.

«Beh, con una casa così grande rischiate di non incontrarvi per giorni» scherzo.

«Cosa ti offro da bere? Del vino, oppure preferisci qualcosa di più forte?»

«Del vino va bene, intanto posso andare in bagno? Voglio darmi una rinfrescata, quando torno voglio sapere un po' di voi, se ti va» mi alzo e mi avvicino accarezzandolo su una spalla,

lo sento irrigidirsi.

«L'ultima porta a destra in fondo al corridoio.»

Prendo la borsa e vado in bagno, nascondo una cimice sullo specchio sopra il lavandino. Fingo di lavarmi le mani e poi, uscendo dal bagno, prima di tornare in soggiorno, provo ad

aprire l'altra porta. Ma è chiusa a chiave. Metto una cimice sullo stipite.

Torno da lui che mi aspetta seduto sul divano in soggiorno, una leggera musica risuona in filodiffusione per l'intera stanza, mi accomodo al suo fianco.

«Quindi vivi con tua sorella, di che cosa si occupa?»

«Lavora in una banca, vicino al centro, lavoro poco interessante a suo dire, ma utile per la gestione del nostro denaro.»

«Beh, tu sei un infermiere, lavoro nobile.»

«Non esageriamo, diciamo che è un lavoro che mi piace e mi porta a interagire con le persone.»

La conversazione sta un po' decadendo, comincio a vedere Roberto agitato, mi avvicino e cerco di baciarlo, ma Irene entra in casa in quell’istante.

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ROBERTO 17.05 - 19:30

Forse ho fatto un errore a portarmela a casa, ma ormai è qui, devo solo decidere se scoparla e sbatterla fuori di casa o farle anche la festa in garage. Prendo i bicchieri, verso il vino e mi

accomodo sul divano.

Eccola.

Si siede vicino a me, mi fa ancora qualche domanda, le rispondo quasi a monosillabi, comincia a infastidirmi, il mio pensiero è sempre più verso i giochi in garage.

I pensieri di Ilaria invece sono molto diversi dai miei, si avvicina al mio viso, si ferma un attimo e poi tenta di baciarmi...L’arrivo di Irene mi salva, entra in soggiorno e si ferma davanti

al divano, sorpresa e irritata.

«Sorellina, non pensavo di vederti così presto.»

«Ciao, fratellone, vedo che hai compagnia, spero di non aver interrotto niente!»

«Figurati, ti presento una mia amica, Ilaria Coppola, l’ho conosciuta oggi in ospedale, mi è letteralmente caduta in braccio» dico ridendo. Ilaria si alza dal divano e tende la mano a Irene.

«Piacere, sono contenta di poterti conoscere.»

«Il “piacere” è sempre un qualcosa di relativo» Irene non ricambia la stretta.

Devo svincolarmi dalla situazione, così, mentre poso il bicchiere sul tavolino di cristallo, con un gesto veloce lo faccio scivolare dalle mani facendolo cadere sui pantaloni. Imprecando

mi alzo.

«Vi lascio sole a parlare, io vado a cambiare i pantaloni, odio le macchie, voi conoscetevi un po’, sono sicuro che al mio ritorno la tensione sarà svanita» non aspetto risposte,

velocemente salgo di sopra.

Oltre a indossare un paio di pantaloni puliti, compongo il messaggio sul cellulare di Sara, devo fare in modo che Irene esca di nuovo.

Porto il cellulare con me e poi scendo dalle scale. Mi fermo un attimo, le sento chiacchierare, mando il messaggio e poi, fischiettando, rientro in soggiorno.

Parlano amabilmente, quasi ci rimango male. Preferirei vedere la nostra ospite addormentata sul divano. Quando Irene se ne andrà me la scoperò di sicuro.

«Ti stavo aspettando, ho avuto un contrattempo, devo uscire. Puoi venire un attimo a controllare una spia della macchina che si è accesa?» capisco che la calma di Irene è solo apparente,

devo cercare di tranquillizzarla.

«Certo, dammi un secondo che ti raggiungo» mi avvicino a Ilaria e la bacio sulla bocca. «Se ti va di aspettarmi, poi io e te concludiamo quello che abbiamo lasciato in sospeso» lei

annuisce ricambiando il bacio. Senza dire altro, esco di casa e raggiungo Irene alla macchina.

«Ma dico, ti sei ammattito? Portare persone in casa? Coi problemi che abbiamo? Da te non me lo aspettavo, Roberto.»

«Cerca di abbassare la voce, forse ho fatto una cazzata, ma avevo bisogno di un attimo di sfogo, sono giorni che non gioco con nessuno e comincio a non poterne più.»

«Bene, visto che sai di avere fatto una cazzata, lascio a te libera scelta su come finirla. Non sporcarmi il marmo che l’ultima volta ci ho messo giorni per lucidarlo. Il nostro ospite ha

stancato anche me, quando decidiamo di farla finita? Non ne posso più di pulirgli il vaso da notte, mi disgusta.»

«Penso proprio che non la ucciderò, sai, almeno non stanotte, voglio divertirmi in altro modo. A proposito, ho bendato l’animaletto perché mi dava sui nervi, e gli ho dato anche qualche

goccia di più, penso dormirà almeno fino a domani; la facciamo finita presto. Se tutto va come deve andare, domani a quest'ora saremo lontani e liberi.»

«Prima, però, vuoi scoparti la coniglietta. Gentile da parte tua, non fossi tua sorella ti direi di andare a quel paese. D’accordo, a questo punto penso che ti lascerò casa libera per un po’,

non aspettarmi sveglio.»

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«Sorellina gelosa, sai che ci sei solo tu, ma se non la scopo la uccido, quindi, visto che mi hai pregato di tenere un profilo basso, me la scopo. Tu fai con calma quello che devi fare, io

rientro e concludo la serata.»

«Sarà bene che te lo ricordi, ho parlato di basso profilo e tu mi porti una buzzurra in casa. Vorrei che saziassi i tuoi istinti e poi le dessi il ben servito entro domani» non riesco a

replicare, sale in auto e parte, mi giro e rientro in casa. Ilaria mi aspetta ancora seduta, mi avvicino e la guardo negli occhi. «Allora, dove eravamo rimasti?»

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IRENE 17.05 - 19:30

È stata una giornata particolarmente pesante in banca. Dopo gli ultimi sviluppi su Tassinari e i vari interrogatori di Elena, in sede sono tutti nervosi. Ormai non si parla di altro e mi sento

sempre più sotto pressione, il mio malumore diventa palpabile, tanto più se a questo aggiungiamo il fatto che ogni mattina mi tocca pulire i bisogni di Totò.

Prendo il vialetto di casa e mi ritrovo davanti una macchina che non conosco, una carretta mezza rotta che non capisco come faccia a stare in piedi. Per un momento penso sia il

commissario, arrivata a casa nostra per arrestarci, poi torno lucida ed entro, curiosa di scoprire chi sia il nostro ospite.

La scena che mi ritrovo davanti è quantomeno bizzarra: Roberto, sul divano, è avvinghiato a una sgualdrina delle sue. Di solito non le porta in casa, trovarlo qui mi infastidisce. A me

certe cose non sono concesse.

Lui, sornione, mi vede e mi saluta. Mi presenta la nuova amichetta, lei si alza e mi viene incontro con la mano tesa, i suoi occhi verdi risaltano particolarmente sul vestito nero che

indossa, si è fatta bella per mio fratello senza sapere che non rivedrà la luce del sole. Irrigidita da quella vicinanza improvvisa, le dico una battuta poco carina di rimando, Roberto si

accorge di averla fatta grossa e si versa del vino sui pantaloni pensando di non essere visto. “Il solito simpatico”, penso, con una scusa va in camera a cambiarsi, lasciandomi come

sempre con la patata bollente fra le mani. Cosa vuole che faccia? La devo impacchettare? Mentre valuto cosa farne di lei, la ragazza decide di interrompere il silenzio imbarazzante.

«Ti chiedo scusa per l’intrusione di questa sera, Roberto è stato molto carino con me, tutto è cominciato con un aperitivo innocente, poi… da cosa nasce cosa.»

«Scusami tu, Ilaria, sono giorni molto stressanti al lavoro. Non volevo essere sgarbata» cerco di recuperare la calma, a questo punto posso solo stare qui a scambiare due chiacchiere col

nuovo passatempo di mio fratello. Spero solo di vederlo tornare in fretta.

«Mi spiace, e come mai sei così tesa? Se ti serve uno sfogo io sono qui.»

Ma tu guardala, starebbe bene con mio fratello, il suo tono gentile e amichevole nasconde una gran paracula. Devo decidere se rispondere o meno. Per quanto ne so, tutto quello che le

posso dire andrà comunque nella tomba con lei da qui a poche ore, quindi perché no? Mi sfogo davvero.

«Sei molto gentile, ti ringrazio. È morto un nostro cliente, a quanto pare io potrei essere tra le ultime persone ad averlo visto per l’ultima volta. Ieri sono venuti a interrogarmi in ufficio,

insomma, un gran divertimento.»

«Un divertimento di cui si farebbe volentieri a meno, vedrai che le cose si sistemeranno, Napoli è una città strana, non è il primo a sparire, ho letto sui giornali che ci sono state parecchie

sparizioni nell’ultimo periodo...»

Mi ritrovo molto interessata dalla risposta, magari posso chiederle cosa sa e capire se queste sparizioni sono state collegate a qualcuno. «Davvero? Non leggo molto i giornali, hanno

qualche idea su chi ci sia dietro?»

«Non ne so molto, i giornali dicono che la polizia brancola nel buio, il resto non lo conosco, comunque sono convinta che tutto si sgonfierà al più presto.»

«Lo spero davvero, in una città come la nostra si fa presto a dimenticarsi di una notizia per spostare l’attenzione sulla prossima.»

Sento il suono del mio cellulare provenire dall’interno della mia borsa, lo prendo e trovo un messaggio di Sara. Non la sento da giorni e a giudicare dal testo sembra una questione

urgente. È la prima volta che mi cerca da quando ci siamo scambiate il numero di telefono, decido di andare da lei questa sera stessa, subito dopo il ritorno di Roberto. Nel frattempo,

Ilaria continua a fissarmi, la cosa mi mette leggermente a disagio e non so come uscire dalla discussione. Provo a buttare la solita frase di circostanza che si usa in quei casi.

«Raccontami un po’ di te, cosa fai nella vita, a parte cascare in braccio alla gente?»

«Quello lo faccio per hobby, nella vita faccio la professoressa in una scuola superiore in periferia, insegno spagnolo.»

«Non male, avrai viaggiato parecchio. Quale meta mi consiglieresti di visitare se volessi scappare?»

«Ho viaggiato poco, purtroppo, ma ho un ricordo bellissimo del Messico, vuoi fuggire da tuo fratello? Non mi sembra così impossibile da gestire.»

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«Ah no, lui è molto tranquillo. Vedrai, ti piacerà, sa essere molto incisivo. Però, sai, avrei proprio bisogno di una vacanza, terrò in considerazione il Messico.»

Passi sulle scale ammorbidite dal tappeto, e il fischiettio di Roberto tutto allegro, ci informano che è arrivato. Sembra divertirsi, colgo la palla al balzo per togliere il disturbo.

Prima di andarmene, però, voglio parlare con lui. Ci sono alcune cose non chiare, con una scusa mi faccio seguire da lui in giardino.

«Ma dico, sei ammattito? Portare estranei in casa? Coi problemi che abbiamo? Da te non me lo aspettavo, Roberto.»

«Cerca di abbassare la voce, altrimenti ci sente...»

Continuiamo a discutere per un po’, lui non sembra voler uccidere Ilaria e la cosa mi dà sui nervi: da quando lascia in vita qualcuno? Devo essere io l’unica complice. Lo punzecchio

nuovamente per poi salire in macchina e partire velocemente, senza dargli il tempo di rispondere. Mentre lui è impegnato con la professoressa, io mi dedicherò alla mia oasi felice.

***

Dopo che i miei mille tentativi di chiamarla e suonare il campanello sono andati a vuoto, forzo la serratura ed entro. La prima cosa che percepisco è che la è casa congelata, come se le

finestre fossero rimaste aperte in una fredda nottata di novembre. Siamo a maggio, le finestre sono tutte chiuse, questo freddo non è normale. La chiamo, ma nessuno risponde; esploro le

stanze continuando a chiamarla fin quando arrivo in camera da letto.

La trovo esanime sul letto, col condizionatore portatile puntato contro. Il freddo proviene da lì. Qualcuno ha fatto in modo che il corpo non si deteriorasse velocemente. Corro subito di

fianco a lei, la guardo, la pelle del viso è stata scuoiata, staccata con una precisione e un’abilità che conosco bene. Mi guardo intorno ed eccolo lì, il trofeo lasciato da lui: la faccia

deformata dai tagli riposta ordinatamente sul comodino, la smorfia la fa assomigliare alla maschera di una tragedia greca. Urlo, la scuoto, ma so che non serve a niente, la pugnalata che

le ha spaccato il cuore non le permetterà più di svegliarsi. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e la testa inizia a scoppiarmi, una disperazione folle mi avvolge, il mio angolo di paradiso

è stato profanato.

Trattengo un conato di vomito e mi sento pervadere dall’orrore. Ho visto tante volte mio fratello squartare e sventrare vittime, ma lei non doveva essere una nostra vittima è qualcosa mi

si spezza dentro.

Qualche giorno fa ero stesa su questo letto, con lei che si prendeva cura di me. È questo che ne ha ricavato: la morte. Mi accorgo che il mio cervello si spegne completamente, mi va bene

così, voglio solo continuare a piangere e disperarmi.

Non so per quanto tempo sono rimasta abbracciata al suo corpo.

Finalmente gli spasmi e il dolore si sono calmati, torno pian piano in me. La accarezzo per un’ultima volta, poi la avvolgo in un sacco nero e la porto in macchina. Devo eliminare le

tracce, potrebbe essere un collegamento a me. Le è sempre piaciuto il mare, così guido fino alla parte estrema della città e la getto in un canale. Se la corrente svolgerà il suo lavoro,

domattina sarà libera nel Tirreno.

Torno a casa distrutta, il dolore fisico e mentale è insopportabile. Vedo la macchina di Ilaria ancora parcheggiata. Salgo per le scale ed entro in camera di Roberto, lo trovo addormentato

con lei. Mi trattengo, faremo i conti in un altro momento. Mi dirigo verso la mia stanza e sprofondo sul letto, in uno stato di vuoto e oblio.

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CAPITOLO DECIMO

LA FUGA

ILARIA 17.05 - 20:00

Irene è arrivata al momento giusto, che fortuna. Roberto pare imbarazzato, che sia succube della sorella? Mi alzo e le porgo la mano che lei rifiuta. Rimango di stucco.

Roberto si rovescia, fingendo spudoratamente, il vino sui pantaloni e con una scusa sale in camera.

Rimango con Irene, ho ciò che voglio, ma prima di farle domande preferisco che sia lei a iniziare un dialogo.

Non ci vuole molto, dopo un veloce scambio di battute comincia a sfogarsi, mi racconta di essere stata interrogata da Elena sulla scomparsa di Tassinari.

Mi sembra tutto troppo facile, non mi conosce nemmeno, eppure mi racconta cose molto particolari, io rispondo a ogni sua domanda, ma mi tengo vaga.

Roberto, dopo essere tornato in salotto, accompagna all’auto la sorella. Prima di uscire, mi bacia: capisco le sue intenzioni per la serata, onestamente non mi dispiace fermarmi qui per

una notte. Quando rimango sola, metto una microspia in soggiorno, me ne resta una, la piazzerò nella camera da letto di Roberto.

Lui rientra in casa, si avvicina e mi guarda. «Allora, dove eravamo rimasti?» gli rispondo baciandolo appassionatamente.

La notte passa in un lampo, Roberto non è male a letto.

Mi sveglio con il suo lato vuoto, sento dei rumori in cucina.

Cerco di svegliarmi, attendo per un attimo, poi mi alzo e mi vesto. Prima di andare, saluterò Roberto che deve essere giù; ho la simpatia di Irene e questo mi può bastare.

Scendo in cucina, ma non trovo nessuno, sento delle grida provenire dalla porta che dovrebbe dare al garage.

Mi avvicino lentamente, le urla si fanno più forti; i due fratelli stanno litigando pesantemente.

Scendo metà della rampa di scale e nel mentre accendo la videocamera del cellulare.

Non riesco a vedere molto, ma quello che sono riuscita a catturare con la telecamera mi basta: risalgo velocemente le scale ed esco di casa.

Devo chiamare un taxi appena sarò in strada, non posso prendere l’auto, il rumore della marmitta potrebbe richiamare la loro attenzione.

Mentre mi dirigo verso la casa di Elena, la chiamo.

«Elena, scusami se ti disturbo, sono Ilaria Coppola. Ho appena assistito a un dialogo alquanto strano tra due persone, parlavano degli omicidi su cui stai indagando» mi risponde di

raggiungerla a casa sua e mi dà l’indirizzo che comunico al tassista.

Ho dormito con un mostro e nemmeno me ne sono accorta. Mentre raggiungo la casa di Elena, per la tensione mi metto a piangere.

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ROBERTO E IRENE 18.05 - 07:00

A giudicare da quello che dice il display della sveglia, sono passate quattro ore, non ho dormito un granché. Il cuscino è bagnato di lacrime. Controllo se mio fratello è sveglio: sia lui

che Ilaria dormono ancora. Ho bisogno di distrarmi, così scendo in garage dal nostro ospite. Lo trovo sveglio e provato dalle tante ore di solitudine. Puzza come una capra, forse dovrei

portargli dei vestiti puliti, ma non credo saranno molto utili nei suoi ultimi giorni.

«Allora, vi siete ricordati che esisto?» domanda con una spavalderia fuori luogo.

«Guarda che ci metto poco a lasciarti marcire nello sporco, vedi di portare un po’ di rispetto» rispondo stizzita. Non ho voglia di parlare con lui, non in questo momento.

«Che cosa ti prende?» osserva i miei spostamenti da dietro le sbarre in modo attento.

Tenta di toccarmi un braccio quando gli passo vicino per prendere il secchio, ma gli schiaffeggio la mano.

«Non toccarmi o ti sparo seduta stante» prendo la pistola dall’armadio dove Roberto conserva i suoi giochi per essere più convincente. La sistemo nella cintura dei pantaloni per tenerla a

portata di mano nel caso in cui voglia fare scherzi. Lui sprofonda indietro nella gabbia, allontanandosi da me.

«Torno subito, per colazione cosa desidera?» chiedo con tono acido.

«Vai al diavolo.»

«Ti porto del latte, e ringrazia se non ci sputo dentro.»

***

Apro gli occhi, vedo Ilaria al mio fianco, russa leggermente con la bocca aperta.

Mi alzo dal letto, sono stato già troppo vicino a lei, mi viene noia ora, sento che in cucina qualcuno si muove. Irene è rientrata, sono un misto di tensione e curiosità, chissà come ha

preso la morte della sua amichetta.

Resto in camera fino a che mi accorgo che la cucina è di nuovo silenziosa, mi metto un paio di pantaloni e rimango a torso nudo. Faccio le cose con molta calma, prendo un caffè prima

di scendere in garage.

Irene è intenta a sistemare l’animaletto, non ne trovo il senso visto che morirà a breve, sfoggio il mio solito sorriso. «Buongiorno, sorellina.»

Quello che succede dopo è la parte inaspettata.

Mi ritrovo la canna della pistola dritta in faccia. «L’hai uccisa» mi dice con tutta la rabbia che ha in corpo, vedo i suoi occhi trasformati, respira velocemente, continuo a sorridere e alzo

le mani, devo cercare di essere il più calmo possibile

«Credevi che non avrei posto rimedio alla tua fuga? A dire il vero, l’avrei anche lasciata viva, ma sai come vanno queste cose, mi son fatto prendere la mano…e poi quel coltello era

troppo interessante» cerco di tergiversare, ma percepisco che se faccio una mossa sbagliata mi spara sul serio, forse ho esagerato con Sara, ma ormai piangere sul latte versato non serve

a nulla.

«Mi stai parlando veramente di coltelli? Era importante per me, cazzo! Ma tu no, tu non devi avere rivali, come se ci potessero essere!» la sua voce è rotta dai singhiozzi, le tremano le

mani, comincio a essere seriamente preoccupato che mi voglia sparare in faccia. «Perché, Roberto? Dammi solo un buon motivo.»

«Irene, ti ripeto, la cosa mi è sfuggita di mano, ero lì solo per parlarle, aveva un caratterino niente male, comunque sapeva troppo, ti sei fatta medicare da lei, sapeva di me e immagino

cosa pensava. Era un disturbo per te, siamo alla fine, devi essere lucida» comincio a indietreggiare verso il tavolino, nel cassetto tengo una pistola, solo io so che si trova lì, continuo a

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parlare con voce calma guardandola negli occhi. «Ragiona, non puoi permetterti distrazioni, un minimo errore e siamo entrambi fottuti. Adesso, per cortesia, abbassa la pistola e

parliamo con calma, ti ricordo che abbiamo un ospite, anzi due, non facciamo cazzate.»

«Ma guarda un po’, tu che dici a me di non fare cazzate! Hai ucciso una prostituta e sei andato in giro per tutta la città ricoperto di sangue, hai ucciso Sara e mi dici di avere tutto sotto

controllo. Notizia dell’ultima ora, Roberto, io ho sempre avuto tutto sotto controllo! Senza di me a pararti il culo chissà dove saresti ora.»

«Sparagli!» urla l’animaletto.

«Taci, tu, stupido verme, ti ho detto che oggi non sono in vena di parlare con te.»

Appena vedo Irene togliermi lo sguardo di dosso per dare retta all’animale, velocemente apro il cassetto, estraggo la pistola e la punto verso di lei, “stallo alla francese”.

«Cosa fai? Vuoi uccidere anche me?» sorride beffarda.

«Mettila così, sorellina, se premi il grilletto l’unico che si salva in questa stanza è l’animaletto in gabbia, che è l’unico che dovrebbe morire, a te la scelta.»

Mi sto giocando l'ultima carta, mi interessa poco vivere, ma se morissi ora avrei il rimpianto di non aver portato a termine la mia piccola vendetta.

«Quindi, Irene, a te la scelta.»

«Sparagli!» urla ancora l’essere in gabbia, non gli faccio dire altro, sparo a qualche centimetro da lui senza colpirlo.

«Il prossimo è in testa, non intrometterti in discussioni famigliari, sono stato chiaro? La nostra professoressa si sta svegliando, o spari o metti giù la pistola e mi lasci andare a controllare

se è ancora nel mondo dei sogni.»

***

Lo guardo negli occhi, l’odio che provo non accenna a diminuire, capisco che a lui non interessa veramente nulla dei miei sentimenti, ma è concentrato, ancora una volta, solo su quello

che ha intorno.

Punto la pistola contro il grammofono e sparo due colpi. Uno per me, uno per Sara.

«Quei colpi sarebbero dovuti finire nella tua testa. Sei mio fratello, l’unica persona che mi resta, per anni ho dovuto tenere la mia vita sotto le tue mani. È ora di finirla, concludiamo il

nostro piano e poi ognuno per la sua strada.»

Le mie parole gli hanno fatto sicuramente male, scorgo una piccola increspatura nelle sue labbra, che riesce a malcelare con un mezzo sorriso.

«Ok! Ne discuteremo alla fine, sai che non potrei mai vivere senza di te, finiamo tutto e poi, con calma, ne riparliamo.»

Lo fisso negli occhi per cercare qualche segno di incertezza nelle sue parole ma, almeno in quel momento, sembra sincero. Forse per paura che gli legga troppo dentro, forse perché Totò

sta iniziando a frignare troppo rumorosamente, gira lo sguardo verso la gabbia e dice scocciato: «Adesso tieni a bada l’animaletto, io salgo e decido che farne di Ilaria. Quando tornerò,

comunque, non sarà più un problema.»

Poso la pistola nell’armadio accanto a me e lo vedo prendere le scale senza dire una parola. Ancora una volta mi ritrovo a seguire i suoi ordini. Dentro di me so che nulla cambierà anche

alla fine del piano, mio fratello tornerà ad avere il suo potere su di me, come sempre.

«Dovevi sparare quando ne avevi la possibilità» sussurra Totò dal fondo del suo buco.

Mi giro e lo guardo con disprezzo, cosa ne sa lui del caos che ho dentro? Faccio un profondo respiro per recuperare la calma. «Un’altra parola e ti ucciderò in un modo che nemmeno

immagini.»

Qualcosa nel mio tono di voce lo convince, si siede sui centimetri di polvere accumulati da giorni e rimane in silenzio a osservarmi. Il dolore per la perdita di Sara mi divora, guardo il

grammofono di nostro padre distrutto e penso a quei colpi che sarebbero dovuti finire nella testa di mio fratello. Poi, sento una lancia trafiggermi il petto, il pensiero di perdere anche lui

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è insopportabile. Lui è la mia famiglia, la persona che ho sempre protetto, nonostante tutto. Qualcosa sta cambiando, lo sento, ma la guerra che ho in testa non conosce ancora un

vincitore.

Guardo Salvatore, continua a fissarmi con un misto di disprezzo e paura, la mia rabbia non è ancora scemata, così, decido di divertirmi un po’ con lui.

***

Sono riuscito a farla calmare, non sono ancora pronto a staccarmi da lei, ma se mi avesse provocato ancora avrei premuto il grilletto, le ho perdonato di avermi rotto il grammofono,

questo è già un passo avanti.

Manca davvero poco all’epilogo, mi serve solo il commissario ora e so come farla arrivare da me.

Voglio una degna fine.

Mentre salgo, sono arrabbiato, ma so come sfogarmi, ucciderò Ilaria; prima, però, mi divertirò ancora un po’. Entro in camera e rimango fermo davanti al letto vuoto, Ilaria è scappata,

questo può risultare un problema, devo anticipare la chiamata al commissario, dormirò più tardi.

Scendo di nuovo in garage, Irene sta giocando con l'animaletto, è seduta di fronte alla gabbia e lo pungola provocandogli spasmi.

«Se continui così, lo uccidi e non avremo più l'appiglio con il commissario. Comunque, abbiamo un piccolo problema, Ilaria se n'è andata.»

«Come sarebbe “andata”? Spero che troverai una soluzione!»

«Sono frastornato, il grammofono rotto, la fuga di Ilaria, l'unica soluzione è anticipare la chiamata, che ne dici?»

«A questo punto è l’unica cosa da fare, ma sei sicuro sia fuggita? Hai controllato per tutta la casa? Se si fosse nascosta?»

«Non c'è, ti assicuro, la furbetta ha lasciato l'auto qui, se fosse scappata con quella vecchia carretta l'avremmo sentita, comincio a pensare che non sia una professoressa.»

«Se fosse così, tra poco avremo la casa circondata da pattuglie, bisogna fare alla svelta.»

«Irene, un bel respiro e relax, adesso chiamo il commissario e chiudiamo.»

«Come faccio a mantenere la calma? Qui un passo falso e siamo fregati! Non ho nessuna intenzione di passare il resto dei miei giorni dietro le sbarre! Fai quello che devi fare e toglici da

questo casino.»

«Va bene, mi sto comunque divertendo.»

Chiudo gli occhi un istante, mi concentro sull'obiettivo.

Nessuno mi può fermare.

«Perfetto, sono pronto, che lo show abbia inizio.»

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ILARIA 18.05 - 08:00

Arrivo a casa di Elena che sono passate da poco le otto.

Sono agitata e continuo a tremare, non riesco a metabolizzare l’enorme pericolo che ho passato.

Elena mi apre la porta con il viso assonnato, mi rimetto a piangere, lei con dolcezza mi fa entrare e mi abbraccia. «Adesso ti siedi, ti calmi e mi racconti che cosa hai visto.»

Mi rilasso sedendomi sul divano nel soggiorno, incrocio le mani e le dico: «I genitori di Ginevra Russo mi hanno assunto per cercare informazioni sulla scomparsa della figlia. Tramite

una foto trovata in casa sua sono risalita a Irene Formisano: l’ho pedinata sino a casa sua e ho scoperto che vive con il fratello.»

«Ma per caso la Formisano lavora in banca?»

«Sì, proprio lei, mi ha parlato del tuo interrogatorio. Comunque, sono riuscita a entrare in casa sua seducendo il fratello… Elena, ho passato la notte con lui.»

«Non sapevo che avesse un fratello, dove lavora?» mi domanda mentre mi porta un bicchiere di acqua.

«Si chiama Roberto Esposito, lavora come responsabile al Santa Paola.»

«Ma tu come le sai tutte queste cose?»

«Te lo dico più tardi, adesso non è il caso, ti posso mostrare cosa ho sentito questa mattina» dico ricordandomi delle microspie. Attivo la videocamera del cellulare e le faccio ascoltare le

registrazioni. A un certo punto, la vedo incupirsi.

«Che succede?»

«Ho riconosciuto la voce di un mio caro amico.»

In quell’istante mi accorgo che la microspia della camera si è attivata, accendo l’applicazione e mostro le immagini a Elena. Si vede Roberto che, probabilmente, cerca me.

«Tesoro, dove sei, continuiamo il nostro tête-à-tête» sentire la sua voce mi fa rabbrividire.

Mentre Elena si prepara, io continuo a osservare Roberto che va di stanza in stanza, continuando a chiamarmi “tesorino”, fino a che non lo vedo sparire dietro la porta che dà sul garage

per ricomparire sulle scale. Chiudo il cellulare mentre sento Roberto che dice: «Sorellina, abbiamo un problema.»

Elena ritorna e mi dice che chiama la centrale per organizzare un’irruzione a casa dei due fratelli. Mentre prende il cellulare per chiamare il commissariato, le arriva una telefonata, la

vedo rasserenata. «Totò, sei tu?» un attimo dopo il suo viso cambia espressione.

95
ELENA 18.05 - 08.00

L’incontro di venerdì sera con il questore non è stato come me lo immaginavo; come l’altra volta aveva un tono severo e per nulla contento e, seppur non abbia fatto riferimento a me,

sono più che sicura che il vero obiettivo della sua delusione fossi io. Certo, i progressi fatti con le indagini non sono molti; ho un responsabile di alcuni degli omicidi, anche se mi manca

il suo nome. Quanto al movente, sono più che certa che abbia a che fare con i loro stili di vita. Tassinari è risultato frequentare club privati e locali di scambisti. Un comportamento non

proprio morigerato, insomma, mentre la seconda vittima è una prostituta. L’unico lato positivo è aver dato un nome alla prima vittima, anche se questo non ci ha portato da nessuna

parte.

In queste due settimane a Napoli, non ho ancora preso il ritmo del sonno e il caldo che trasuda dai muri dell’appartamento, unito ai pensieri dell’indagine, non mi fa dormire come vorrei.

Sono sveglia da quanto? Una, due ore? La debole luce che filtra dalle persiane mi suggerisce che possono essere le 6, 6 e trenta del mattino. Se fossi a Genova e con mio marito di fianco

nel letto, di sicuro saprei che fare; qui posso solo sperare di dormire ancora un po’.

Apro gli occhi e l’immagine surreale di me in volo su una sconfinata prateria scompare, sostituita da un trillo fastidioso. Maledico me e chi mi ha proposto la promozione. Assieme a chi,

all’alba, non ha altro da fare che chiamare. Chi cavolo è a quest’ora?

«Pronto!» mi auguro che il tono imperativo possa far pentire chi risponde. «Vieni, via Bernardo Cavallino 145.»

Qualche minuto dopo Ilaria Coppola è alla mia porta in lacrime. Quello che mi ha anticipato al telefono non mi piace per nulla. Come fosse tra le persone più care, la abbraccio per

confortarla, invitandola a sedersi e a raccontarmi i dettagli di quello che ha visto. Le mani giunte sulle gambe mi trasmettono il forte senso di stress che deve aver provato. Appena si

rilassa, mi racconta di come Irene Formisano sia stata, probabilmente, l’ultima persona ad aver visto Ginevra Russo, scomparsa da qualche giorno.

«Come lo sai?»

«I genitori mi hanno assunto per cercare informazioni sulla sua scomparsa e grazie a una foto ritrovata in casa sua sono appunto risalita a Irene.»

Ho già sentito questo nome, Irene Formisano, e non può essere una coincidenza. Ilaria me ne dà subito conferma per aver sentito parlare della chiacchierata con lei. Il resoconto prosegue

con la menzione del fratello di lei, di cui non ero a conoscenza. Avrei dovuto verificarne la scheda, ma non ho avuto modo e tempo di farlo. La voce di Ilaria, incrinata dal pianto

precedente, si fa più bassa; dalla cucina le porto un bicchiere d’acqua mentre mi informo su chi sia e dove lavori questo fratello.

«Roberto Esposito, lavora come responsabile al Santa Paola» un’altra coincidenza? È la stessa clinica dove è ricoverato Totò. Ora che ci penso è parecchio che non lo sento, bisogna che

lo chiami più tardi.

Incuriosita da queste informazioni, le chiedo come abbia fatto a reperirle e il modo in cui devia la risposta mi fa capire che deve aver accesso a canali non proprio ortodossi, ma l’attività

di investigatore privato è spesso al limite del legale. Come se si fosse improvvisamente ricordata qualcosa, prende il cellulare e mi fa ascoltare ciò che ha registrato la mattina. Voci di un

uomo e di una donna; litigano e parlano di una prostituta uccisa, poi sento distintamente una terza voce che conosco. Devo aver cambiato espressione, perché Ilaria si allarma.

«Che succede?»

«Ho riconosciuto la voce di un caro amico» mi dico che è impossibile che possa essere lui, è ancora ricoverato. O, almeno, lo spero.

Come prima, avvicina il cellulare e mi fa vedere il video di una microspia che ha nascosto nella villetta. L’uomo sentito prima sembra che stia cercando qualcuno; probabilmente lei,

fuggita senza che se ne accorgesse.

«Ok, ho sentito abbastanza. Fammi cambiare e pensare a come muovermi.»

Senza perdere molto tempo mi do una sistemata e infilo i vestiti buttati sul letto dalla sera prima.

96
«Ora chiamo la centrale e organizzo un’irruzione in quella casa. Qualunque cosa stia accadendo, ci sono tutti i presupposti per andare a controllare» in quel momento il telefono mi

squilla in mano.

«Totò!» leggere il suo nome sul display solleva il mio umore. Questo significa che il prigioniero non è lui.

«Totò, che fine hai fatto?» con un tono tra il preoccupato e il felice, rispondo, ma bastano pochi secondi per farmi ripiombare nell’incubo vissuto qualche giorno prima: l’unica

differenza è che ora ho impresso nella mente il volto il nome di quell’uomo. Interrotta la comunicazione, spiego tutto a Ilaria e le do istruzioni su cosa fare dopo che sarò uscita. So di

correre un grosso rischio, ma non ho nessuna alternativa.

97
ROBERTO 18.05 - 08:30

Mentre cerco il cellulare dell'animaletto chiedo a mia sorella come si sente, la vedo agitatissima.

«Sono pronta, non vedo l’ora di concludere il nostro piano. Anche il nostro ospite è contento di rivedere la sua amica.»

«Non so quanto sarà contento con un bel buco in testa… Bando alle chiacchiere, facciamo questa telefonata» prendo il telefono di Salvatore, cerco tra le sue ultime chiamate, pigio il

tasto e attendo.

«Totò, che fine hai fatto?»

«Buongiorno, commissario, mi spiace deluderla, ma il suo amichetto è impossibilitato a risponderle.»

«Immagino tu sia Roberto, o sbaglio?»

Sa chi sono, adesso poco importa, tutto sta andando secondo i miei piani, ma l’idea di giocare un po’ con lei mi diverte alquanto. «Vedo che gli anni in accademia le son serviti per capire

chi sono, visto che siamo saliti a un livello successivo, posso darle del tu?»

«Ormai siamo intimi, prego» mi risponde con sarcasmo, questa cosa mi disturba, ma non posso aspettarmi niente di diverso da un commissario, non riesco a capire nulla per telefono,

devo averla qui per divertirmi al meglio.

«Non allarghiamoci, intimi mi sembra esagerato, diciamo conoscenti» le rispondo a tono.

«Vedo che il sarcasmo non ti è molto familiare. Veniamo al dunque.»

«Non mi piace essere sarcastico, amo essere diretto. Allora, le cose sono semplici, se tu ci tieni a rivedere il tuo amichetto, devi seguire attentamente le mie indicazioni, altrimenti sarò

costretto ad anticipare la sua dipartita» non faccio giri di parole, vado dritto al punto, mi serve qui con ogni mezzo.

«Totò è vivo? Lo voglio sentire» quanto interesse per quell’animaletto, ma se il prezzo per avere lei qui è farlo squittire, l’accontenterò.

«Sorellina, accontentiamo il commissario, fagli sentire l’animaletto.»

Irene prende il pungolo elettrico e dà a Totò una scarica discretamente forte, Totò urla dal dolore, io comincio a ridere.

«Bastardo!» urla il commissario, ho la sua attenzione, adesso farà ciò che voglio.

«Contenta? Adesso ascolta attentamente ciò che devi fare, ti manderò l’indirizzo tra poco, devi venire sola, se sento una sirena lo uccido, se vieni con qualcuno lo uccido, non usare una

volante. Sono stato chiaro?»

«Insomma, non mi lasci molta scelta su questo. Verrò sola.»

«Commissario, hai fatto la scelta giusta, finalmente saremo faccia a faccia.»

«Non vedo l’ora! Rimpiangerai di avermi messo in questa situazione.»

«Ciao ciao, a presto.»

Riattacco e mando la mia posizione dal telefono di Totò, poi mi siedo sul tavolino e aspetto.

Un po’ di musica mi aiuterà a rilassarmi nell’attesa, ma, ahimè, il grammofono è inutilizzabile.

Ho iniziato a uccidere per il mero gusto di farlo, mi diverte vedere la paura negli occhi delle mie vittime, il potere che ho è unico, decido della loro morte. Se poi, grazie a Irene, le

persone che uccido sono deviati, è più gustoso ancora, ho la sensazione che stia ripulendo il mondo dalla feccia.

L'arrivo di Elena Masala, poi, ha cambiato ogni cosa, sono affiorati in me ricordi sepolti, accendendo di nuovo una fiamma che avevo spento da tempo: la vendetta.

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Faccio salire Irene ad aspettare di sopra. Sono minuti interminabili, fino a quando sento la porta di ingresso aprirsi e mia sorella parlare. Ha inizio l’epilogo della mia vendetta, mi

preparo vicino alla gabbia, come un cacciatore in posa vicino alla sua preda.

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CAPITOLO UNDICESIMO

IL GARAGE

ELENA 18.05 - 09.30

Come da istruzioni, ho raggiunto la casa dei fratelli seguendo la posizione inviata su WhatsApp. Esposito è stato lapidario: andare sola e con un taxi. Chiusa la chiamata con lui, ho

pregato Gennarino di venirmi a prendere il prima possibile. Raggiunta Bagnoli, si è destreggiato tra le tante vie fino a che il segnale GPS ci ha portato all’indirizzo comunicato. Con

l’auto ferma davanti alla villetta, mi guardo attorno: un passo carrabile con il cancello aperto e nessuno in giro. Probabilmente mi stanno osservando da dietro la tenda di una delle

finestre o dallo spioncino dell’ingresso. Pago la corsa e lo mando via, non so cosa potrà succedere e non voglio possa essere coinvolto in una eventuale sparatoria. Attendo che si sia

allontanato e con fare guardingo mi avvicino al cancello; il corpo solido della mia pistola d’ordinanza spinge sulle costole, mentre passo dopo passo percorro gli ultimi metri che mi

separano dalla porta d’ingresso.

«Ben arrivata, commissario, ti stavamo aspettando.»

A conferma delle mie sensazioni, la porta si apre quando sono a pochi passi. «Irene Formisano. Le mie intuizioni su Tassinari erano corrette. Sei stata l’ultima a vederlo vivo e

sicuramente anche morto.»

«Molto arguta, Elena, devo ammettere che sei brillante come dicono. Ma ora torniamo a noi, prego, da questa parte; mi perdonerai, ma devo perquisirti.»

Superata la soglia di ingresso mi blocca, prima di condurmi dal fratello. Avrei dovuto lasciare la pistola a casa, ma anche sapendo che mi avrebbero controllato, ho preferito portarla

dietro.

«Lo immaginavo, ma non potevo venire disarmata.»

«Chiaramente no, ma non ti servirà la pistola… e nemmeno il serramanico. Dunque, siamo pronte, ti porto a conoscere mio fratello.»

«Da buona sarda, lo porto sempre con me» speravo che non fosse così attenta, ma seguendo il profilo delle gambe è arrivata fino alle caviglie, trovando la mia pattadese infilata nei

calzini. Con le mani dietro la schiena mi fa scendere lungo una scala che porta a un garage. Entrando nel cortile ho visto la porta metallica.

«Commissario, è un piacere conoscerla di persona, avrei messo della musica per creare un po’ di atmosfera, ma purtroppo Irene mi ha privato del mio grammofono… Sorellina, legale le

mani.»

Eccomi faccia a faccia con il mostro; si tiene a distanza di fronte a me. Una di quelle persone che potresti trovare in fila al supermercato e non sospettare nulla. Devo giocare bene le mie

carte e tenere il punto il più possibile. Al fianco di Irene e con le mani legate, inizio il solito gioco di botta risposta con l’uomo. Intanto, esploro il mio campo visivo per studiare i

possibili ostacoli e punti di riparo.

«Peccato, adoro la buona musica, meno chi me la vuole proporre.»

«Elena, non ti fidare di loro, sono delle belve!» dalle mie spalle arriva la voce familiare di Totò. Sentirlo vivo mi fa tirare un sospiro di sollievo, anche se il pensiero che potremmo

morire tutti e due è forte. Mi giro il tanto che basta a vedere che è chiuso in una gabbia metallica.

Merda! Con tutta la calma possibile cerco di rassicurarlo.

«Totò, stai bene? Stai tranquillo, ti tirerò fuori di qui.»

«Per ora sta bene. Adesso, sistemati i convenevoli, arriviamo a noi.»

«Ora hai me, libera lui e possiamo ragionare.»

«Tempo al tempo, prima non vorresti sapere il motivo di tutto questo, commissario Elena Masala?»

100
«Illuminami, voglio proprio capire come la tua mente perversa ci abbia portato a questo punto» devo guadagnare tempo fino a che non arriverà Iannone. Avrei potuto e dovuto avvisare

la squadra mobile, ma il rischio che questo folle possa reagire male è troppo alto. Senza motivo, o forse irritato dal mio tono canzonatorio, si avvicina alla gabbia con un oggetto

metallico appuntito.

L’urlo di dolore di Totò mi fa capire che l’ha sfiorato con un pungolo elettrico per animali. Folle e perverso. Come se nulla fosse successo, riprende il suo racconto con tono pacato.

101
ROBERTO 18.05 - 09:30

Mentre parlo con il commissario, mi avvicino all’armadio delle meraviglie, lo apro e mi fermo a guardare.

«Sono indeciso se l’animaletto lo scuoio oppure gli sparo… facciamo la conta, Ambarabà ciccì coccò…» tiro fuori il mio revolver, ho sempre amato le pistole a tamburo. «Caro

commissario, facciamo un gioco insieme, un proiettile, sei domande, ogni risposta sbagliata è un giro del tamburo.»

«Tu sei folle, io non mi presto a giochetti del genere» mi dice con aria di sfida.

«Risposta sbagliata» giro il tamburo della pistola, la punto alla testa di Totò, tiro indietro il cane e poi “click”.

«Riformulo la domanda, giochi oppure no?» dico alzando la voce.

«Mi pare di non aver alternative» risponde.

«Bravo il mio commissario, vedi come è semplice dare le risposte giuste? Allora riprendiamo, sai perché ti trovi qui?»

«Perché mi hai voluto tu qui.»

«Non ti dice nulla il nome Gino Esposito?» chiedo seccato.

«Sì, è la causa della morte di mio padre.»

«Risposta sbagliata» vedo l’animaletto sudare, premo ancora la canna alla tempia e “click”. «Tuo padre, avendo ucciso il mio, ha dato il via a quello che sono oggi. Fino a qualche giorno

fa tu per me non eri che uno sputo, qualcuno da disprezzare per la sua sessualità deviata, poi, quando sei arrivata, mi hai fatto riaffiorare dei ricordi non piacevoli» nella mente mi

passano le immagini della mia infanzia nella casa-famiglia e di come sono arrivato a uccidere per sentirmi vivo. «Ti faccio una domanda, commissario, come era tuo padre?»

«Per quanto mi ricordo, era uno stronzo, ma onesto. Puoi dire lo stesso di tuo padre?» continua a provocarmi con le sue risposte, il gioco sta andando troppo avanti.

«Più che stronzo era uno senza spina dorsale, visto che non ti ha ucciso sapendo che sei uno scherzo della natura.»

«Questo insulto detto da uno psicopatico non lo prendo in considerazione. Adesso è il mio turno. Sulla base di cosa scegli le tue vittime?»

«Le domande qui le faccio io» altro giro del tamburo, altro “click”, dannata pistola a tamburo, penso. «Sono particolarmente buono e ti rispondo, io non scelgo nulla, è la mia sorellina

che mi procura le vittime, lei me le porta a casa e io mi diverto, a parte alcuni incidenti di percorso, questo è il mio modus…»

«Come speri di uscire da questa situazione? Non penserai che sono venuta da sola.»

Basta, il gioco per me è finito, la guardo dritta negli occhi. «Ho qualcosa che mi permetterà di uscire da qui, quella cosa sei tu, fino a che ti avrò in pugno non mi faranno nulla.»

«Allora ti servo viva.»

La guardo sogghignando, lancio il revolver per terra ed estraggo la pistola che ho nella cinta dei pantaloni.

«Tu sì, lui no.»

102
ILARIA 18.05 - 10.00

Lascio uscire di casa Elena, poi chiamo il numero che mi ha dato.

«Pronto, sono Iannone.»

«Salve, lei non mi conosce, mi chiamo Ilaria Coppola, mi ha dato il suo numero il commissario Masala.»

«Mi è arrivato ora il messaggio del commissario, cinque minuti e sono sotto casa sua, poi mi spiegherà che succede.»

Il pensiero di tornare in quella casa mi fa rabbrividire, ma non posso lasciare Elena da sola con quei pazzi.

Esco da casa di Elena, Iannone arriva qualche minuto dopo e ripartiamo sgommando.

Gli racconto quanto accaduto. Non dice nulla, si concentra sulla guida che è decisamente sportiva. Venti minuti dopo siamo fuori dalla casa dei fratelli.

«Che facciamo, chiamiamo rinforzi?» gli chiedo.

«Se chiamiamo rinforzi quelli ammazzano il commissario, lei adesso mi ascolta attentamente, resti in macchina mentre io cerco di entrare. Se non mi vede uscire tra mezz’ora chiami i

rinforzi.»

Non aspetta una mia risposta, esce dall’auto, impugna la pistola e si dirige verso la casa.

Lo vedo avviarsi verso la porta d’entrata, aprirla con una certa facilità e sparire all’interno. Dovrei ascoltarlo, ma l’impulso di seguirlo è più forte, così prendo la pistola dalla borsetta e

lo seguo.

Lo raggiungo mentre sta per scendere in garage, si accorge del mio arrivo, mi guarda, sbuffa e poi mi fa cenno di stare zitta.

In silenzio, scendiamo le scale.

Arrivati a metà, lui si gira: «Resta dietro di me e coprimi» annuisco.

Tutto poi succede in un attimo.

Arriviamo per assistere all’esecuzione dell’uomo in gabbia, Iannone alza la pistola e spara verso Roberto colpendolo a una spalla, poi si porta dietro l’armadio per coprirsi, io tento di

fare la stessa cosa ma vengo raggiunta alla gamba da un proiettile.

Zoppicando, riesco a raggiungere Iannone dietro l’armadio.

Il dolore è forte, comincio a vedere annebbiato, poi diventa tutto buio.

Vengo svegliata da Iannone.

«Come stai?»

«Ho un dolore folle alla gamba.»

«Ti ha preso di striscio, nulla di grave, la paura ha fatto il resto. Sono scappati!»

«Che è tutto ‘sto fumo?»

«Hanno lanciato un fumogeno, riesci a camminare?»

Riesco a mettermi in piedi aiutata da lui, usciamo di casa in tempo per vedere i fratelli partire a gran velocità, Elena è con loro.

Saliamo in macchina e mentre li seguiamo Iannone avvisa la centrale per informare dell’inseguimento.

«Allacciati la cintura che tra un attimo cominciamo a ballare» dice mentre accelera per raggiungerli.

103
IRENE 18.05 - 10.30

Devo ammettere che la situazione mi sta divertendo, è un po’ che tengo Elena sotto tiro e assisto al gioco tra lei e mio fratello. Certo, ci sono stati momenti in cui mi sarebbe piaciuto

ucciderla e farla finita con questo teatrino, ma non posso decidere così a bruciapelo le sorti di questo momento. Mi sento molto tesa, tenere la pistola puntata contro la testa di Elena mi

conferisce uno strano potere. Non ho mai ucciso nessuno, questa non è la mia parte, a me spetta “impacchettare”. Forse, per la prima volta, riesco a capire le emozioni di mio fratello.

La scena sta per concludersi, siamo arrivati all’atto finale, il mio fratellone ha ucciso Salvatore senza troppi complimenti ed Elena è esplosa in una imprecazione. A un tratto, dalle scale

parte un colpo di pistola che ferisce Roberto, il mio sguardo si sposta velocemente nella direzione da cui è provenuto il colpo, sugli ultimi gradini appaiono le sagome di Ilaria e di un

poliziotto. Lo sbirro sta puntando la pistola nella mia direzione e contemporaneamente Roberto spara un altro colpo di risposta. I due si tuffano dietro l’armadio per cercare riparo, sento

un grido di dolore, è di Ilaria, è stata colpita dal proiettile.

Ora la dinamica è complicata, ci troviamo con un ostaggio e due impiccioni armati; anche noi siamo armati ma, a differenza loro, giochiamo in casa. Siamo nel nostro territorio e non ci

possono battere.

«Sto bene, sorellina, pensiamo a sistemare questi guastafeste» guardo Roberto, a quanto pare anche lui è della mia stessa idea.

Dobbiamo pensare a come riuscire a scappare con Elena e toglierci dai piedi quei due; mentre rifletto, mi ricordo che dentro al cassetto, dove una volta c’era il grammofono, abbiamo

lasciato dei souvenir. Uno dei quali fa proprio al caso nostro. Mio fratello capisce al volo le mie intenzioni, mi regala tempo provocando il poliziotto. Apro il cassetto e afferro una

granata fumogena prima che rotoli verso il fondo.

Roberto ha un sorriso spaventoso, gli occhi iniettati di sangue, nonostante la ferita e la situazione dannatamente complicata sembra che si diverta un mondo. La spalla gli sanguina e

immagino gli provochi un dolore tremendo, ma l’adrenalina che ha in corpo in questo momento sembra renderlo immune.

Ha capito che sono pronta, aspetta il mio segnale.

Ilaria probabilmente è svenuta, non si sente più la sua voce. Elena parla con l’agente e cerca di tranquillizzarlo, riesce a mantenere il suo sangue freddo anche in questa situazione, per un

secondo provo ammirazione nei suoi confronti, poi prendo un respiro e urlo:

«Ora basta teatrini, andiamo!» strappo la linguetta afferrandola tra i denti e lancio la granata.

Il fumo inizia a espandersi all’istante, Roberto corre verso di me per aiutarmi a prendere Elena, saliamo le scale uno di fianco all’altro.

Arrivati fuori casa mi passa le chiavi e mi ordina di guidare. Saliamo nella sua auto, loro due seduti dietro, sento Roberto sghignazzare e dire qualcosa a Elena ma non presto attenzione,

accendo l’auto e parto di colpo.

Sposto lo sguardo sullo specchietto retrovisore e dopo un po’ vedo apparire un’auto, aguzzando la vista noto il poliziotto alla guida e Ilaria accanto a lui già sveglia.

Spingo sull'acceleratore:

«Ora che facciamo? Ci stanno inseguendo!» urlo preoccupata.

«Stai tranquilla, sorellina, vai verso il porto, ho un’idea pazzesca» è in uno stato di eccitazione che non ho mai visto.

«Non facciamo cazzate, Roberto, tra un attimo avremo tutta la polizia alle costole» lo rimprovero.

«Appunto, voglio divertirmi un po’, fai come ti dico.»

Non ho scelta, seguo le sue indicazioni e mi ritrovo a sfrecciare per le strade della città. Più di una volta striscio contro la fiancata delle auto parcheggiate e faccio volare via qualche

specchietto, all’ennesimo colpo vola via anche il mio. A un tratto sento sirene ovunque intorno a noi, è una situazione surreale, in ogni strada che imbocco vedo luci blu in lontananza.

104
Prendo una stradina secondaria e mi ritrovo davanti alla stazione, sterzo bruscamente per evitare dei pedoni e curvo per invertire la marcia, per poco non colpisco in pieno un motorino

che viene dal senso opposto; mentre mi allontano lo vedo andarsi a schiantare contro un’auto parcheggiata poco più avanti.

«Cosa diavolo facciamo quando arriviamo al porto?» domando a mio fratello, che nel frattempo si sta godendo la scena.

«Vai verso i container, e poi verso il porticciolo.»

«È un’informazione un po’ generica, non ti pare?» rispondo ironica.

«Voi due riuscite a scherzare anche in questo momento? Siete al capolinea, non riuscirete a scappare» commenta Elena.

A quanto pare Roberto non è d’accordo, col calcio della pistola la colpisce alla nuca e passa sul sedile davanti.

Le auto della polizia ci tallonano e altre sembrano aggiungersi alla fine di ogni stradina che superiamo. In lontananza vedo il mercato del pesce, svolto bruscamente e cambio direzione

per infilarmi tra le bancarelle: davanti a noi si crea il panico. Cassette di legno si frantumano sotto le ruote, tavoli e pesci di ogni genere volano in aria, pedoni si lanciano via dalla strada

per evitare la nostra corsa, urla e imprechi ci raggiungono.

«Ottimo, da qui faremo prima!» sento Roberto rallegrarsi. «Sei pronta a saltare?»

«Che hai in mente?» lo guardo con la coda dell’occhio e noto il suo sorriso.

«Guida verso il porticciolo, quello grande dove attraccano le navi mercantili, saltiamo in acqua.»

«Ma sei impazzito? Moriremo!» urlo spaventata a morte.

Non so se sia peggio il piano di mio fratello o ciò a cui andremo incontro se ci prendono.

«Se fai ciò che ti dico andrà tutto bene, abbassa i finestrini, appena siamo in acqua usciamo, il mare non è profondo ma è sporco, servirà per poterci nascondere. Loro saranno concentrati

a salvare il commissario e noi avremo tutto il tempo per scappare.»

Sembra il piano più pazzo del mondo, ma arrivati a questo punto posso veramente stupirmi? Aspetto un po’ prima di rispondergli, raggiungo il porticciolo che mi ha indicato ed

effettivamente vedo l’acqua molto sporca, spero abbia ragione anche sulla parte del “poco profonda”.

Apriamo entrambi i finestrini anteriori e con un ultimo colpo sul pedale porto la macchina al limite dei giri. A mano a mano che ci avviciniamo al molo, la macchina slitta sull’asfalto

reso scivoloso dalla salsedine e dall’umidità del mattino. Perdo il controllo e il veicolo si butta a folle velocità verso dei bancali di legno. Uno di essi è inclinato. Ci finisco contro e,

come se fossimo sulle montagne russe, la macchina prende il volo. L’impennata è spettacolare, saliamo talmente in alto che a un certo punto sembra di galleggiare per aria; poi,

inevitabilmente, la macchina perde quota. Un tonfo, l’acqua si solleva intorno al veicolo e subito dopo invade l’abitacolo attraverso i finestrini spalancati: trattengo il fiato prima di

trovarmi a sprofondare.

Stacco la cintura e mi infilo nello spazio lasciato dal finestrino aperto, intorno a me l’acqua è così scura che non riesco a vedere nulla. Roberto mi appare accanto come per magia, mi

prende la mano e inizia a nuotare verso l’alto, tirandomi con sé. Una volta tornati a galla, noto che siamo molto lontani dal punto del salto, vedo una macchina con lo sportello lasciato

aperto sul bordo del porticciolo.

«Coraggio, nascondiamoci» dice Roberto col respiro affannato.

Iniziamo a nuotare nella direzione opposta e troviamo riparo dietro un panfilo. Riusciamo a salire a bordo per riprendere fiato, stesi sul legno bagnato dai nostri vestiti, aspettiamo il

momento giusto per fuggire.

105
ELENA 18.05 - 11.00

In un attimo succede il finimondo. Dalla sua posizione impugna la pistola da dietro la schiena e spara in direzione di Totò. La fiammata che proviene dalle scale, unita al boato

amplificato dallo spazio stretto, anticipa il colpo che raggiunge Esposito alla spalla. Per tutta risposta, si gira e spara nella sua direzione colpendo a sua volta la persona sulle scale.

«No... Totò… figlio di puttana, ti pentirai anche di questo.» La rabbia trattenuta fino a quel momento esplode in un urlo minaccioso. Sento il peso di quanto è accaduto a Totò, ma dentro

me so bene che era tutto previsto. Era solo una pedina nelle mani di un pazzo.

Ormai la situazione è degenerata, le voci si sovrappongono dalle due parti della barricata come in un brutto film. Con Iannone e l’investigatrice riparati dietro un armadio metallico, Irene

si fa scudo con il mio corpo, pistola in pugno. Le deflagrazioni nell’ambiente chiuso hanno avuto il risultato di rendere tutto confuso e ovattato. Minacce, rassicurazioni, insulti; tutti

parlano ma nessuno si muove dalla propria posizione. Fino a che, da un cassetto del tavolo addossato al muro, Irene estrae un fumogeno che lancia in mezzo alla stanza. L’aria si fa

irrespirabile per il fumo che sale, la vista si annebbia; sento qualcuno trattenermi per il braccio. È l’ora della fuga e fuori non c’è nessuno a bloccarli. Irene, sempre alle mie spalle e

protetta da Roberto che tiene sotto tiro Giulio e Ilaria, mi tira per un braccio in direzione delle scale.

Fuori dalla casa mi buttano sul sedile posteriore dell’auto parcheggiata nel cortile. Con Roberto seduto al mio fianco, Irene a gran velocità si butta nel traffico della periferia, mentre il

rumore di colpi di pistola mi avverte che Iannone è fuori dalla casa.

«Finalmente vicini, commissario.»

I pochi centimetri che ci separano amplificano l’odio che provo verso questo essere che sghignazza mentre mi parla. La preoccupazione sul volto della donna alla guida mi fa capire che

ci stanno inseguendo.

«Vai verso il porto, ho un’idea pazzesca.»

«Non facciamo cazzate, Roberto, tra un attimo avremo tutta la polizia alle costole.»

«Appunto, voglio divertirmi un po’, fai come ti dico.»

Idioti! Si stanno dirigendo verso una delle zone più intasate e controllate di Napoli. Tengo il pensiero per me, prima che possano cambiare idea. Mi auguro che nel frattempo Iannone

abbia allertato la squadra mobile. I continui slalom tra le macchine in movimento mi sballottano senza che abbia la possibilità di tenermi da nessuna parte. La guida irresponsabile di

Irene causa diversi incidenti a chi proviene in direzione contraria ed è costretto a evitare lo scontro. Roberto, seduto di traverso, guarda di continuo avanti e indietro per vedere chi è al

nostro inseguimento. Il suono inconfondibile delle sirene arriva alle mie orecchie come il tintinnio della campana a scuola. Può ancora succedere di tutto, potrebbero spararmi, ma

perderebbero il loro unico ostacolo alle pallottole.

«È finita, Roberto» rinfrancata dalle volanti dietro di noi, stuzzico Esposito.

«Vai verso i container, e poi verso il porticciolo.»

Un movimento rapido della sua mano e un dolore indecifrabile alla nuca. Poi, accasciata sul sedile, un botto, la sensazione di essere più leggera, come se volassi. Stordita dal colpo

ricevuto, capisco di essere finita in acqua, ma le mani ancora legate mi impediscono qualsiasi movimento. La macchina imbarca acqua che entra copiosa dai finestrini aperti e il suo

livello cresce in modo rapido. Penso di perdere sangue dalla nuca perché il contatto con l’acqua salata aggiunge fastidio al dolore. In qualche modo mi sollevo a cercare gli ultimi respiri

della mia vita; ho sempre pensato che avrei voluto una morte rapida e indolore, e invece mi ritrovo a guardarla negli occhi, impotente. Si dice che in questi momenti si riviva la propria

vita come in un film; io vedo quello che non potrò più fare: continuare ad amare. Inizio ad annaspare, le ultime sacche d’aria si sono esaurite e la macchina lentamente scende sotto il

pelo dell’acqua. Trattengo l’ultimo respiro fino a farmi scoppiare la testa che già pulsa per il dolore. Infine, rassegnata a dover soccombere, respiro. Solo in quel momento si può capire

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quanto sia sottovalutato un così semplice atto. Al pari di cascata di lava, un bruciore improvviso mi attanaglia la gola fino ai polmoni. Più acqua entra e più la spasmodica ricerca di aria

ne fa entrare ancora, in un loop destinato a concludersi in breve.

Un senso di nausea improvvisa mi fa rimettere e tossire; la gola brucia da morire. Ho un gran peso sul petto e ho creduto di essere baciata. Forse un sogno. Man mano che metto a fuoco

riconosco su di me Iannone e la figura di un altro uomo con le mani appoggiate sul mio seno. In quel momento ricordo le ultime parole di Roberto Esposito, foriere di una pessima idea.

Le parole di Giulio mi arrivano confuse, ma il suo sorriso e l’abbraccio che mi stritola le rendono inutili. Sento altre sirene, un vociare. Sdraiata su una barca godo della mia vista sul

cielo blu, fino a che altre mani mi stendono su una barella e altre ancora mi applicano una maschera sulla bocca. La pressione forzata dell'aria mi aiuta a regolarizzare il respiro e,

nonostante aumenti il mio già fastidioso mal di testa, rende più chiaro ciò che accaduto. Chiusa nell’auto sott’acqua ho creduto di vedere qualcuno che mi strattonava. Ora, vedendolo

fradicio e avvolto in una coperta, so chi mi ha salvato la vita. Spostata la maschera dalla bocca, riesco a fatica a pronunciare qualcosa, prima di essere caricata sull’ambulanza: «Grazie,

'uagliò.»

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CAPITOLO DODICESIMO

DUE SETTIMANE DOPO

ELENA 20.05

Due giorni di ospedale sono stati sufficienti a recuperare le forze dopo il volo in mare. I medici mi hanno spiegato che l’intervento tempestivo di Giulio e, contrariamente alla mia

percezione, la minima quantità di acqua ingurgitata hanno permesso di non creare danni irreversibili o da lungo recupero. Il colpo alla nuca, inferto molto probabilmente con il calcio

della pistola, mi ha lasciato in uno stato di confusione che non mi ha permesso di rendermi conto di quanto mi stava accadendo in quel momento. La sensazione di fluttuare nell’aria,

come mi ha spiegato Stefano in ospedale, era data dall’impatto dell’auto contro un cordolo del molo che l’ha fatta impennare prima di ricadere di piatto sulla superficie del mare. Fatto

che ha permesso alla macchina di affondare più lentamente e permettere il mio salvataggio. Appena ha saputo cosa fosse successo – avvertito da Luigi – ha preso il primo volo e mi ha

raggiunta in ospedale. Vederlo accanto a me, dopo aver corso il rischio di non vederlo più, ha confermato quanto non potrei vivere senza di lui.

Senza voler sentire ragione dei sanitari e del questore, tre giorni dopo sono seduta alla mia scrivania a leggere il rapporto della perquisizione nella casa dei due fratelli in fuga.

Nell’armadio del garage sono stati ritrovati diversi barattoli di varie dimensioni contenenti parti umane a bagno nella formaldeide e riconducibili ad almeno una ventina di vittime. Per

nostra fortuna, Esposito ha provveduto a etichettare la maggior parte dei barattoli con nome e cognome, e renderci così più semplice collegarli ad alcuni casi di persone scomparse. Il

laboratorio della scientifica si occuperà di estrarne il DNA e dare così conferma anche per quelli privi di nome. In questi giorni di pausa forzata ho ripensato spesso alle dinamiche di

Esposito. Una personalità disturbata, alla quale l’abbandono e la prolungata permanenza in una casa-famiglia e i soprusi subiti dalla madre affidataria hanno fatto scattare una molla,

rendendolo un soggetto pericoloso fin da piccolo. Un potere imposto anche sulla sorellastra, per quanto ho potuto vedere in quel frangente.

Gargiulo ha attivato fin dal momento della fuga imponenti posti di blocco su tutte le strade che escono dalla città, nelle stazioni dei treni e aeroporti; se dovessero tentare di abbandonare

il paese avrebbero poche possibilità di riuscirci. Non avrò pace finché i due fratelli non saranno catturati e assicurati alla giustizia. Dalla mia poltrona osservo le foto appese alla lavagna

e cerco di trovare una risposta alla crudeltà di tanto dolore inferto. Non mi capacito di come la mente umana possa arrivare a tanto nei confronti di un proprio simile o di un animale.

Forse, quando dicono che dovremmo estinguerci, hanno proprio ragione.

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IRENE 03.06

Sono passate due settimane da quando abbiamo rischiato di farci prendere e mezza polizia ci ha inseguiti per tutta Napoli. Ricordo quei momenti con grande spavento mentre mio fratello

non smette di gongolare dalla gioia: “Hai visto che scena?” e ancora “Parleranno di noi per un bel pezzo, sorellina”, oppure “Il nostro caro commissario si ricorderà di noi.”

Queste sono le frasi più ricorrenti mentre si vanta della riuscita della sua vendetta. Certo, Elena è ancora viva, lo schianto in acqua non è servito a ucciderla; ma Roberto ha una visione

dalle lunghe prospettive e per ora gli basta esserle sfuggito dalle mani e averle procurato un bello smacco da digerire.

Dopo lo schianto in acqua, siamo riusciti ad allontanarci dal porto attraverso un dedalo di stradine secondarie. C’è voluto parecchio prima che in lontananza non si sentissero più le sirene

delle volanti alla nostra caccia, ci siamo intrufolati in un parcheggio e poi abbiamo rubato un’auto. Rimanere a Napoli era troppo pericoloso, così abbiamo trovato rifugio in questo

casolare nelle campagne di Nola, non lo usiamo spesso, ma in situazioni complicate è l’ideale.

Nelle lunghe ore in questa casa, il tempo trascorre tra letture di giornali e notiziari per restare informati sulle vicende, siamo l’argomento più gettonato nei talk show e questo mi dà un

certo senso di orgoglio, benché l’idea di dire addio alla mia privacy non mi entusiasmi particolarmente. Travestirsi è ormai d’obbligo anche per fare la spesa e, purtroppo, evito le lunghe

passeggiate anche quando vorrei non vederlo. Con me è tornato quello di sempre, progetta viaggi all’estero e mi parla come se tra me e lui non ci siano mai stati contrasti nell’ultimo

mese. Sembra davvero aver dimenticato tutto quanto: la stessa cosa non si può dire di me.

La verità è che a questo punto credevo di essere già lontana da Roberto, dopo la fuga ho pensato di andare in un’altra città, Roma magari, o Milano, ma lui è stato irremovibile sul fatto

di dover andare all’estero. Ha già preso accordi con un contatto dei suoi che si occupa di passaporti e documenti falsi. Ormai sono giorni che aspettiamo siano pronti per poter partire. Il

contante che è in nostro possesso è stato recuperato dai nostri nascondigli e riposto in due borsoni, tutto è pronto per la grande partenza.

Le sere nella tranquilla campagna di Nola passano silenziose e miti. L’unico rumore è quello del bollitore che fischia per avvisarmi che il tè è pronto. Apparecchio sul tavolino in salotto,

mio fratello, allegro, guarda il solito talk show dopo cena. Trasmettono la notizia dell’ultimo atto di bullismo in una scuola del centro, poi il tono del giornalista cambia, trasformato

inevitabilmente dalla gravità dei fatti. «Senti qua, sorellina» sogghigna, mentre alza il volume.

“Continuano le ricerche dei due fuggitivi che per giorni hanno terrorizzato Napoli con efferati omicidi. Le autorità, sotto la guida del commissario Elena Masala, non rilasciano

informazioni sul lavoro svolto. Passiamo la linea al nostro inviato che si trova davanti alla casa degli orrori…”

«Te l'avevo detto che l’erba andava tagliata. La vuoi una sfogliatella?» rispondo con noncuranza, stanca delle continue volte in cui si rallegra nel vedere programmi in cui si parla di noi.

«Quanti problemi, l’avevo tagliata una settimana prima, e non avevo molto tempo per rendere presentabile un pezzo di terra. Dammene due» è talmente assorbito dal suo stato euforico

che anche il suo l’appetito è aumentato.

«Vacci piano, dovrò andare di nuovo al supermercato a fare spesa se continui a mangiare così, siamo in fuga, non in villeggiatura» sottolineo cercando di riportarlo un attimo coi piedi

per terra.

Probabilmente la cosa ha avuto effetto perché con tono serio e replica: «Dobbiamo velocizzare i tempi, nonostante siamo bravi, ho timore che possano arrivare a noi. I passaporti

dovevano essere già pronti» intravedo una piccola crepa nella sua facciata da vincitore, cerco di tranquillizzarlo.

«Ci sono un po’ di problemi con le tempistiche, il nostro uomo mi ha detto che col polverone che si è alzato nel darci la caccia devono stare attenti.»

«Dovremo diventare marito e moglie per un po’» accenna un sorriso. «Spero la cosa non ti infastidisca.»

«No, certo, saremo la brutta copia di Brad Pitt e Angelina Jolie, fratellone» rispondo, rassegnata al fatto che la mia vera risposta non gli interessi.

Questa situazione mi irrita, non possiamo continuare così, abbiamo concordato che quando tutto sarà finito ognuno prenderà la sua strada. Ma io sono ancora qui, legata a lui. Cerco di

esprimere il mio disappunto.

«Ti ricordi cosa ci eravamo detti prima di tutto questo casino?»

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«Mi sfugge il nesso con i passaporti, poi sono successe troppe cose, non mi ricordo» lo conosco bene, so che mente e la mia idea sembra non piacergli.

«Va bene fingersi marito e moglie per scappare, ma una volta arrivati a destinazione vorrei poter prendere la mia strada» pronuncio queste parole in modo glaciale e forse sbaglio.

Mi guarda negli occhi per qualche secondo, in silenzio, chissà quali pensieri girano nella sua testa, probabilmente è più teso o forse è solo la mia immaginazione.

«Per ora pensiamo alla fuga, poi il resto verrà di conseguenza. Comunque non capisco il motivo per cui dobbiamo dividerci, se è per la tua amichetta, ne troverai un’altra e ti prometto

che non la toccherò.»

Non riesco a capire se mi faccia più male l’assenza di empatia nei miei confronti o la superficialità che ha usato per parlare dei miei sentimenti.

«Fin quando continuerai a parlare così, non capirai mai il vero motivo che mi spinge ad allontanarmi da te. Sei tutto quello che ho, ma sei anche il motivo per cui ho voglia di cambiare

vita. Cosa ci è successo?»

Rimane spiazzato, nella sua mente forse l’unica cosa che non ha mai previsto è proprio questa. Lui che calcola ogni singolo movimento per non incorrere in errori, non ha pensato che

sua sorella potrebbe voltargli le spalle.

«Non continuare, Irene, pensiamo alla fuga, se poi tutto andrà bene ne riparleremo, non è il momento.»

Non è il momento, certo, mi vuole liquidare così. In tutti questi anni non è mai stato il momento. Mi alzo dal divano, sento la sua presenza diventare ingombrante e non voglio più stargli

vicino.

Prendo le tazze di tè, prima di portare il vassoio in cucina lo guardo. «Sono sempre queste le parole che usi, ne riparleremo, non è il momento. La nostra vendetta è finita, non ho più

niente che mi leghi a te, il nostro hobby di uccidere chiunque ci capiti a tiro non mi diverte più. Mi sono stancata di questa vita, ora voglio la mia» sputo fuori tutto quello che mi dilania

il petto e me ne vado girandogli le spalle. Una mano mi prende per i capelli e mi tira indietro, il vassoio cade rumorosamente per terra e in un attimo il pavimento è ricoperto da cocci. La

violenza con cui mi spinge verso di lui è pari a quella che sento nella voce quando mi urla contro.

«Tu sei mia e di nessun altro! Tu respiri perché io ti lascio respirare, tu vivi perché io decido che puoi vivere. Sei mia e di nessun altro» resta fermo a guardarmi, il suo viso a pochi

centimetri dal mio. Trattengo le lacrime, mi lascia andare. «Pulisci questo disastro, io vado a letto, per me la questione è chiusa.»

Lo fisso mentre imbocca il corridoio e sparisce nella sua stanza. La rabbia monta dentro di me, le lacrime non vogliono smettere di scendere, ma sono lacrime diverse questa volta. Non

voglio accettare di essere ancora bloccata qui, ho creduto davvero che dopo la fine della vendetta verso il commissario avrei potuto andarmene e godermi la vita. A sentire mio fratello,

invece, sono legata a lui indissolubilmente e per sempre. Questo non lo accetto, non più. Ripenso agli ultimi mesi, alle volte che ho subito e taciuto. Ripenso a Sara e a quello che mi ha

tolto, non posso permettermi il lusso di un altro simile errore. Mentre ricordo tutto ciò che ho subito a causa sua, arriva un messaggio sul mio cellulare, il testo dice che il nostro fornitore

ha finalmente pronti i nuovi passaporti, indicando luogo e orario di consegna di lì a un’ora.

Non credo tanto nel destino, ma lo prendo come un segno. È arrivato il momento di fare qualcosa, prendo un respiro e mi guardo attorno come a voler raccogliere le idee o il coraggio.

Lo sguardo cade sul televisore, dove in quel momento stanno rimandando in onda le foto segnaletiche di me e Roberto, con in sovraimpressione un numero di telefono da chiamare.

Annoto le cifre.

Ho sentito dire che ci sono momenti nella vita in cui a un tratto le cose ti si fanno chiare, come la visione completa di un puzzle alla fine del gioco. Se faccio un passo indietro, la visione

che mi si presenta davanti, in questo momento, è molto chiara. Mio fratello è tutta la mia famiglia, lo amo profondamente e lui a modo suo ama me. Quel modo, però, non mi va più

bene. Così con uno slancio di audacia scrivo un biglietto a Roberto.

Racimolo dei contanti e sistemo in un borsone qualche vestito. Prima di uscire indugio sulla soglia e guardo indietro. Questa è l’ultima volta in cui mi sentirò “a casa”.

Poco dopo aspetto al punto accordato per il ritiro della merce, un’auto mi passa davanti e si ferma poco più in là. Qualcuno scende e mi viene incontro, fa cadere un sacchetto davanti a

me, lo raccolgo e me ne vado. Lascio una busta con dentro del denaro sulla panchina dov’ero seduta.

Con il passaporto in mano la libertà non è più un sogno, recupero il numero che ho segnato, tamburello con le dita sul cellulare prima di avviare la telefonata.

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«Polizia, buonasera» risponde la voce fredda del centralinista.

«Sono Irene Formisano, vorrei parlare col commissario Elena Masala» sento un fremito nella mia voce. Riprendo subito il controllo, devo essere sicura di quello che sto facendo.

«Certo, io sono Jack lo Squartatore» ovviamente non mi crede, non che sperassi di essere presa sul serio al primo colpo.

«Guardi, non ho tempo da perdere. Ho delle informazioni importanti per il commissario. Per provarvi che sono io, dite a Elena che so dov’è il lobo della prostituta. Richiamerò tra

mezz’ora per parlare con lei» concludo la telefonata senza attendere risposta. Sono certa che mi crederanno, alcuni dettagli non sono stati divulgati dalla stampa. Aspetto mezz’ora, nel

frattempo cambio luogo per evitare di essere intercettata, quando richiamo risponde lo stesso agente.

«Polizia, buonasera.»

«Il commissario è lì? Sono Irene Formisano» breve e diretta, questa volta molto più convincente.

Sento un suono indefinito, qualche secondo di silenzio e la linea passa alla persona che cerco.

«Sono Elena Masala» risponde senza giri di parole, fredda e calcolata.

«Buonasera, Elena.»

Benché il nostro ultimo incontro sia finito con un tuffo in mare, ora mi serve più da viva che da morta.

«Mi hanno detto che hai informazioni per me» continua a essere distaccata.

«Esatto. Potrei dirti dove si trova Roberto, prima però vorrei stringere un accordo» esito, voglio sondare il terreno.

«Che genere di accordo?» noto un certo grado di curiosità nella voce, nonostante questo capisco che è diffidente nei miei confronti.

«Vorrei l’immunità in cambio della cattura di mio fratello» centellino le informazioni, dandole solo quel tanto che basta per farle capire dove voglio arrivare. Lei non sembra cedere.

«Mi dispiace, ma non dipende da me, in ogni caso sei coinvolta quanto lui.»

«Sai bene che non è così, lo hai sentito ammettere la sua colpevolezza sugli omicidi. Certo, sono coinvolta anch’io, ma come vittima.»

«Così sembra, ma chi mi assicura che non sia un discorso premeditato?» continua a essere sospettosa e decido di cambiare strategia. Divento più diretta.

«È un dubbio lecito, capisco di non poterti far cambiare idea. Ma hai visto quanto è pericoloso mio fratello, ti assicuro che continuerà a uccidere e non ti lascerà mai in pace.»

«Proverò a dare per buono quello che dici, ma sono obbligata a parlarne prima col questore» risponde. Non posso mollare la presa, non in questo momento.

«Mi dispiace, questa è l’offerta, prendere o lasciare. Ho deciso di scappare e se non cogli l’attimo le informazioni verranno via con me» a questo punto non ho più carte da giocare.

Passa un minuto di silenzio, immagino Elena riflettere per decidere la cosa migliore da fare. Mi guardo attorno preoccupata di sentire arrivare volanti con le sirene accese. Poi un respiro,

e infine:

«Va bene, correrò il rischio, ma sappi che se non dovesse essere come dici, il tuo nome sarà su tutti i giornali internazionali» un’apertura, finalmente.

Racconto al commissario tutto quello che le serve per catturare Roberto, di lì a poco ci sarà un gran trambusto nelle campagne di Nola. Getto via il telefono che ho utilizzato per

effettuare le telefonate e parto diretta all’aeroporto di Fiumicino. Percorro per quasi quattro ore strade secondarie, resto lontana dall’autostrada per evitare i posti di blocco, anche se sono

travestita non voglio correre rischi.

Durante il tragitto mi chiedo più volte se mio fratello sia già stato catturato, quali siano state le sue sensazioni in quel momento, se mi odi. Alcune lacrime mi rigano il viso mentre

silenziosamente guido nella notte. Una volta arrivata a destinazione compro un biglietto di sola andata, mi appresto a raggiungere il gate per l’imbarco. Passo i controlli facilmente. Salgo

su un aereo pronto per il decollo, atterro dopo molte ore in una nuova terra, dove iniziare una nuova vita.

La felicità ha un sapore agrodolce, su uno schermo leggo “Cancún”; non ho mai saputo chi fosse davvero la ragazza che quella sera mi ha consigliato di visitare questo luogo, ma in

qualche modo le sono grata. La libertà mi dà il benvenuto in Messico.

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ELENA 03.06

Sono passate due settimane ormai, e di quei due nessuna traccia. Nonostante la diffusione delle loro foto e di alcuni possibili travestimenti elaborati dal grafico della scientifica, non

abbiamo ricevuto nessuna segnalazione utile al numero indicato. Sono state effettuate diverse perquisizioni nelle case delle campagne attorno a Napoli e nell’hinterland, ma senza nessun

risultato positivo. I fratelli sembrano volatilizzati nel nulla e i casi sono due: o sono ancora nascosti, magari più lontano di quanto pensiamo, o in qualche modo sono riusciti a espatriare

eludendo i rigidi controlli.

Grazie ai campioni di DNA prelevato ai reperti organici abbiamo dato un nome alla vittima trovata nella cava e la possibilità ai genitori di piangere su una tomba. I fascicoli del caso,

contrassegnato ancora come aperto, riposano dentro una scatola nel mobile del mio ufficio; solo la cattura del responsabile potrà dare pace ai nomi racchiusi nel cartone. Nuovi casi sono

stati aperti e chiusi, nuove foto compaiono sulla lavagna assieme a congetture e idee, ma la mente torna sempre là, a quella ferita aperta che richiederà parecchio tempo prima di potersi

rimarginare. A quell’amico morto per il solo motivo di essermi vicino.

Persa nei miei pensieri, lascio squillare il telefono interno più del dovuto, prima di decidermi a rispondere.

«Pronto… Sicuro che non sia l’ennesimo mitomane? Cosa? Arrivo!» quando ormai pensavo che tutto fosse ben lontano dall’avere una soluzione, ecco che questa mi si presenta da sola.

Dal centralino mi hanno avvertita che ha chiamato una donna, asserendo di essere Irene Formisano e di avere informazioni per me. Per confermare la sua identità ha menzionato

particolari non diffusi alla stampa. A breve richiamerà e vuole parlare con me. Staremo a vedere.

Come se volassi, percorro il lungo corridoio e le due rampe di scale senza sentire il suono dei miei passi. Raggiunta la sala operativa, attendo che richiami. Passata una manciata di

minuti, ecco la telefonata che aspettavo. L’operatore mi passa il segnale sulla cuffia che sollevo dal collo. Come sempre, il mio tono freddo e distaccato non permette alle emozioni di

filtrare.

«Sono Elena Masala.»

«Buonasera Elena, sono contenta che stai bene» è lei, riconosco la voce. Mi appare meno fredda dell’ultima volta in cui l’ho sentita.

«Mi hanno detto che hai informazioni per me.»

«Esatto. Potrei dirti dove si trova Roberto, prima però vorrei stringere un accordo» percepisco un’incrinatura nel tono della donna, come se quanto detto le sia costato fatica.

«Che genere di accordo?»

«Vorrei l’immunità in cambio della cattura di mio fratello» ecco la falla nel muro del rancore che aspettavo. Faccio sollevare l’operatore dalla sedia girevole e prendo il suo posto,

imprimendo alla seduta piccoli movimenti circolari.

«Mi dispiace, ma non dipende da me, in ogni caso sei coinvolta quanto lui.»

«Sai bene che non è così, lo hai sentito ammettere la sua colpevolezza sugli omicidi. Certo, sono coinvolta anch’io, ma come vittima» so che è così, ma non posso ammetterlo con lei.

Devo tirare questa trattativa dalla mia parte.

«Così sembra, ma chi mi assicura che non fosse un discorso premeditato?»

«È un dubbio lecito, capisco di non poterti far cambiare idea. Ma hai visto quanto è pericoloso mio fratello, ti assicuro che continuerà a uccidere e non ti lascerà mai in pace.»

«Proverò a dare per buono quello che dici, ma sono obbligata a parlarne prima col questore.»

«Mi dispiace, questa è l’offerta, prendere o lasciare. Ho deciso di scappare e se non cogli l’attimo le informazioni verranno via con me.»

Come un pescatore che deve stare attento a non forzare la preda allamata, devo capire quanto ancora posso tirare prima di perdere la mia possibilità di catturare Roberto. Due, tre

secondi, il tempo che impiego a elaborare i diversi scenari, poi la resa. Devo rischiare il mio culo.

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«Va bene, correrò il rischio, ma sappi che se non dovesse essere come dici, il tuo nome sarà sui terminali dell’Interpol e su tutti i giornali internazionali.»

Chiusa la chiamata con le informazioni nella mia testa, chiamo il questore e gli racconto tutto. Nell’arco di un’ora il piano per la cattura di Roberto è organizzato. Da Roma viene

richiesto l’intervento di una squadra dei NOCS e il supporto aereo di un elicottero nel caso tentasse la fuga nella campagna attorno al casolare. Due ore dopo, lasciata l’autostrada dei

Due Mari nei pressi di Visciano, attraversiamo le campagne nolane prima di fermarci a una distanza di sicurezza dal punto indicato da Irene. La giornata volge all’imbrunire, appena cala

il sole avrà luogo l’incursione. Accertata la presenza in casa dell’obbiettivo, il comandante della squadra dà il via libero ai suoi uomini; grazie ai visori notturni dotati di termo camera

riescono a scorgere i movimenti di Roberto Esposito senza necessità di luce artificiale. Mantenendomi diversi metri dietro la squadra operativa, equipaggiata di divisa blu scuro, pistola e

mitraglietta, faccio fatica a seguirne i movimenti. Non a caso il loro motto Icut Nox Silentes significa silenziosi come la notte. E invisibili, aggiungo io. Nel silenzio assoluto accerchiano

l’immobile stando ridossati alle pareti. Nel preciso momento in cui, in due finestre opposte del casolare, vengono lanciate due flash bang, l’aria è smossa dall’elicottero che sorvola la

scena e che spezza il frinire dei grilli. L’esplosione delle bombe abbaglianti illumina per pochi secondi la casa; dal mio punto di osservazione vedo buttare giù la porta e gli uomini

entrare con le armi spianate. Il faro del velivolo crea un fascio di luce sull’intera zona e il rumore assordante per la bassa quota tenuta rende difficile comunicare. Ormai è fatta: mi

avvicino per godermi il momento in cui Roberto viene portato fuori ammanettato e trattenuto da due uomini con il passamontagna. Stanotte potrò dormire un sonno diverso, appagante e

domani sarà un altro giorno.

113
ROBERTO 03.06

Questo periodo di latitanza mi sta eccitando parecchio, seguire i telegiornali che parlano di noi mi diverte, vedere Elena Masala che parla abbattuta ha un gusto particolare, non sono

riuscito del tutto nella mia vendetta, ma mi rifarò. Prima o poi il commissario avrà ciò che si merita.

La cosa che mi manca di più è uccidere, devo stare tranquillo, le passeggiate sono precluse, mi sento un topo in gabbia, devo cambiare aria al più presto.

Le notti sono agitate, dormo male e poco; i sogni, sempre più vividi, spesso riguardano la casa-famiglia e Irene.

Mi preoccupa la mia sorellina, da giorni la sento persa nei suoi pensieri, risponde a monosillabi, in modo freddo e distaccato. Intuisco cosa le sta succedendo, ho bene in mente quanto è

successo nel garage prima della telefonata al commissario, devo solo cercare di tergiversare ancora un po' fino a che non saremo lontani dal commissario e da Napoli. Inoltre, le ho già

fatto passare liscia avermi rotto il grammofono, l'unica cosa che mi legava a mio padre.

Il motivo della vendetta, mio padre, boss malavitoso, con due figli che non ha voluto vicino, forse per difenderli dal suo mondo oppure perché ininfluenti nella sua vita. Sono andato alla

ricerca di chi fosse, studiando ogni singolo anfratto della sua vita, lo ho amato talmente tanto che quando ho saputo della sua morte per mano del padre di Elena, una sorta di rottura

dentro di me ha fatto diventare il mio piccolo sfogo la partenza verso ciò che sono diventato, un killer che nel sangue trova la redenzione.

Irene in tutto ciò è quella zona di confort che mi aiuta a non soccombere a me stesso.

Le mie paure sul cambiamento di Irene si fanno reali, mentre guardiamo l'ennesimo programma che parla di noi. Lei inizia a fare strani discorsi su una libertà che vorrebbe, io cerco con

la mia calma di farle capire che non è il momento, ma lei insiste, mi dice qualcosa sulla sua nuova vita e lì succede l'inevitabile.

Una cosa odio più di tutte, l'essere attaccato, lei lo sa e forza su questo.

Con violenza le ricordo chi detta le regole fra noi, la guardo negli occhi, mentre le tiro i capelli le mie parole escono come una lama pronta a ucciderla. La vedo piangere, per la prima

volta quelle lacrime, invece di eccitarmi, mi fermano, nei suoi occhi non vedo paura, ma un vuoto incolmabile, rabbrividisco e la lascio andare, vorrei dirle qualcosa, ma come sempre

capita, l'unica cosa che le dico è un ordine.

Ci penserò domani, voglio solo dormire e dimenticare tutto.

***

Mi sveglio di soprassalto, il sonno è stato pieno di incubi. Guardo l'orologio, sono da poco passate le tre di notte. Vado in soggiorno, è vuoto, in camera Irene non c’è. Torno in

soggiorno, sono preoccupato di quell’assenza, mi metto sul divano a pensare in silenzio.

Capita che lei esca per andare a fare la spesa, ma non è mai uscita di notte.

La paura comincia a farsi più forte, un sentimento strano che provo raramente, “Non può essere, è tutto uno scherzo, non l’ha fatto", penso.

Cerco di scacciare quei pensieri, ma tutto si concretizza in un istante quando lo vedo: un post-it è appeso al frigorifero, sotto la foto di Sara.

Mi alzo dal divano, vado verso il frigo, lo prendo in mano, mentre getto a terra la foto.

In un istante tutto crolla.

Mentre inizio a leggerlo sono talmente frastornato che non mi accorgo del rumore di sirene sempre più vicine, non bado all’elicottero che vola sopra casa mia né al vociare quasi fuori

dall’uscio di casa; stordito dalla forte luce non sento le finestre frantumarsi e la porta divelta dai cardini, non percepisco nemmeno le voci degli agenti che mi intimano di alzare le mani e

inginocchiarmi.

L’unica cosa che mi rimane in mente di questo istante non è la fine della mia fuga, ma le poche righe scritte sul biglietto:

Caro fratellone,

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c’è una cosa che mi hai insegnato: prendere, senza chiedere mai.

Ho cercato di venirti incontro, ma tu non mi hai capita, speravo di non dover arrivare a questo.

Mi prendo la mia libertà.

Con tutto il mio affetto.

Irene

In quell'istante tutto il mio mondo finisce. Con le mani alzate, non ho nemmeno la voglia di ribellarmi. Mentre mi portano via, come in un flashback, rivivo tutta la mia vita con lei: i

giorni nella casa-famiglia, le botte date per difenderla, i suoi sotterfugi per coprire ciò che facevo, il mio primo omicidio, lei che si prende cura di me coprendo ogni traccia, il corso di

infermiere, l'arrivo a Napoli e i primi omicidi con lei sempre pronta a portarmi ciò che chiedevo, il suo sorriso quando rientra con il regalo per me, tutto in un attimo si sgretola sotto i

miei occhi.

Non posso permettere una cosa di questo tipo, non può vivere senza di me, o io senza di lei, siamo fatti per stare insieme è questa l’unica moneta per la libertà.

Sono stato tradito dall'unica persona che non avrei immaginato, ma il tempo mi aiuterà nel trovare un modo per sistemare tutto.

Vedo il commissario che mi guarda sorridendo, ricambio lo sguardo.

«Buonasera, commissario, avrei tanta voglia di battere le mani, ma come vede non ne ho la possibilità» anche con lei non ho finito, ma tutto a suo tempo. «So chi l'ha aiutata a

prendermi, e se non fossi stato tradito sareste ancora in alto mare.»

Non sento nemmeno la risposta, giro il pensiero sul mio grammofono, l’ultimo ricordo di un padre mai visto, ma immaginato, il grammofono che ha segnato ogni gioco fatto mentre la

musica mi faceva da colonna sonora, quel grammofono che ha guidato nei balli me e Irene, il grammofono da cui sono uscite per la prima volta le note del nostro paso doble, il

grammofono che sotto i colpi di pistola si è frantumato come il mio mondo.

Mentre mi portano al commissariato, l'unica cosa che nascondo è quel biglietto. Già nella mia testa, mentre l’auto sfreccia per le vie di Nola a sirene spianate, sto creando il mio ritorno.

Sono la fenice, potete bruciarmi, ma io mi solleverò sempre.

115
EPILOGO

ROBERTO

«Esposito, si svegli» sono assopito sul letto dell'ospedale, imbottito di sedativi per tenere a bada il dolore che mi sono procurato.

Non è stato facile, ma alla fine, dopo l'ennesima bevuta della mia urina, sono riuscito ad avere un'infezione con annesso shock settico.

Questo mi ha portato, dopo cinque anni, a essere ricoverato in ospedale, sempre sotto custodia ma con maggiori possibilità di fuga.

Cinque fottuti anni, rinchiuso in una cella di isolamento nell'ala di massima sicurezza dedicata al padre di Elena Masala; il caso non è stato benevolo con me, cinque anni durante i quali

l'unica cosa che mi ha tenuto in vita è quel biglietto, so a memoria cosa c'è scritto, lo recito come un mantra in ogni momento, mi vendicherò, Irene pagherà ogni cosa.

In carcere scopro quanto vale un cognome, ed Esposito apre porte inimmaginabili. Nonostante sia in isolamento, ricevo qualsiasi cosa di cui ho bisogno, essere il figlio di un boss ha i

suoi privilegi.

Così progetto e attuo la mia fuga, con il cuore indurito e la mente che si sgretola pian piano. Mentre sono in degenza, i miei nuovi amici mi prelevano dalla mia stanza con un'ambulanza

e mi portano in una cascina usata dai boss durante la latitanza.

Resto una settimana, il tempo per preparare il mio viaggio verso un'altra vendetta.

Mi raso a zero, curo la barba, cambio il colore degli occhi, così Roberto Esposito, killer seriale e fuggitivo, lascia il posto ad Alberto Montone, imprenditore siderurgico.

Cinque anni, sì, Irene pagherà ogni singolo minuto di quei cinque cazzo di anni in cui mi ha lasciato a marcire da solo in una cella.

So dove trovarla, i miei nuovi amici mi confermano che lei, la mia cara sorellina traditrice, vive in quel luogo.

Mentre compro il biglietto aereo, alla televisione passano la notizia della mia fuga, ma non mi importa, con in mano quel biglietto ormai logoro, mi addormento in prima classe, continuo

a recitare il mio mantra. Esco dall'aeroporto sotto l'azzurro cielo messicano e il mio unico pensiero è: "Sorellina, sono arrivato a infrangere i tuoi sogni."

Poi, terminato con Irene, avrò un'amica da andare a salutare.

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IRENE

Il mare si infrange sotto le rocce ai miei piedi, ammiro l’orizzonte e quei colori unici che riesce a regalarmi al tramonto. Cosa ci faccio qui? Aspetto.

Arriverà, non so quale sarà il giorno, ma questo mi sembra un buon posto per attendere di scoprirlo. Siedo su un cumulo di scogli sotto il faro. L’oceano ha consumato la pietra e tutto ha

l’odore del sale. È diventato il mio posto preferito, il fascio di luce illumina a intermittenza le navi lontane indicando la via. Una musica caraibica risuona da lontano.

Questa notte ho fatto un sogno: bevevo Margarita sotto il mio ombrellone, un paio di manette sono cadute sull’asciugamano. Ho alzato lo sguardo e ho visto Elena, aveva il viso rilassato

e mi sorrideva.

“Lo sapevi che doveva finire così, mettile da sola”.

Sorrido tra me, aveva ragione, so come deve finire.

Il sole cala e le prime stelle iniziano a brillare: “Non oggi” penso, così torno a casa.

***

Sono passati anni, ogni giorno è un regalo e ogni giorno vado al faro. Ho scritto delle lettere, sono state molto terapeutiche, ho cominciato a godermi le piccole cose come la sabbia sotto

i piedi o l’odore del caffè al mattino. Ho trovato nuovi amici, per la maggior parte turisti. Mi sono stabilita a Cancún da tre anni e sapere che tutti quelli che passano di qui prima o poi

vanno via mi permette di creare legami senza preoccupazioni. Nessuno conosce la mia vecchia vita, ho tenuto il nome scritto sul passaporto e per tutti sono la guida che conosce i

migliori locali per bere mojito in città. La cosa non mi dispiace. Sono riuscita a crearmi nuove storie e nuovi amori, tutti rigorosamente temporanei.

***

Anche questa sera sono al faro, in questo periodo dell’anno il sole tramonta con qualche ora di ritardo. È il mio momento preferito della giornata e spero che, in qualche modo, lui lo

sappia.

Siedo al mio solito posto quando qualcuno, senza dire una parola, arriva accanto a me.

Mi giro per guardare chi sia e mi affiora un sorriso sulle labbra. È cambiato parecchio, ma nonostante questo riconosco i suoi passi: «Ce ne hai messo di tempo» torno a guardare

l’oceano.

Voglio imprimere quest’immagine nella mente, prima che tutto sparisca.

«Cinque anni» lo sento rispondere.

«Poteva andare peggio» ironizzo.

«Poteva andare peggio.»

Silenzio.

Restiamo su quello scoglio per dei minuti infiniti, poi decido di parlare.

«Immagino tu sia qui per uccidermi.»

«Il piano era quello. Ora ti ho vista e ho deciso di rimandare. Mi sei mancata, sorellina» fissa una nave in lontananza e pian piano arriva con lo sguardo nella mia direzione.

«Vorrei poter dire lo stesso di te, fratellone.»

Rimaniamo ancora in silenzio. Entrambi rivolti verso l’oceano.

Come di consuetudine, da un locale poco lontano, inizia a diffondersi musica latina. Non ho scelto questo luogo senza una ragione. Volevo che, in qualsiasi momento, in qualsiasi

giorno, ci fosse della buona musica da ascoltare.

117
«Ti va di ballare?» mi propone.

«Volentieri, ci speravo.»

Ci alziamo e restiamo in equilibrio sullo scoglio, la pietra rettangolare e piatta ci permette di avere abbastanza spazio per fare qualche passo. Mentre ci muoviamo osservo mio fratello, il

carcere gli ha conferito un aspetto vissuto che prima non aveva, nei suoi occhi vedo la stessa follia, ma anche una lucidità e una maturità diversa. Fredda e calcolata. Incattivita dal

tempo.

«Ho conservato il tuo biglietto.»

Il suo viso è illeggibile. «Volevo sapere se, alla fine, hai trovato quello che cercavi.»

«È una buona domanda, ho sorvolato un intero oceano per scoprirlo. Sai, alla fine, volevo capire come fosse una vita diversa» rispondo guardandolo negli occhi. «Senza di te.»

«E com’è?» tiene lo sguardo fisso anche lui e, per un attimo, percepisco tutto il dolore che si porta dietro.

«Credo che la risposta la conosciamo entrambi.»

La musica cambia e iniziano le note di un paso doble, mi fanno tornare in mente il grammofono di nostro padre e le volte in cui siamo stati complici ballando. Man mano che la musica

prosegue ci muoviamo lungo la roccia, come due farfalle che improvvisano una danza mortale.

Sento Roberto stringermi e capisco che sta lottando contro il suo stesso istinto. Una lotta che non posso vedere si sta combattendo nella sua anima e io, per la prima volta, non posso

aiutarlo.

Questo è il momento in cui mi sento veramente libera.

«Devo chiederti un’ultima cosa, Irene.»

«Certo, dimmi pure.»

«Comunque vada, promettimi che finiremo quello che abbiamo iniziato.»

Una nuova consapevolezza, il suo intento si è trasformato.

«Te lo prometto» sussurro, non posso negargli questo, non dopo quello che sta facendo.

«Sarai mia per sempre» pronuncia la frase come un dogma indissolubile.

Si possono dire tante cose di mio fratello, ma non che non mi ami. Ha deciso di darmi le stesse possibilità di sopravvivenza. Per me rinuncia al potere che ha sempre tenuto tutto per sé.

Mi avvolge in un abbraccio, le sue labbra si posano sulla mia fronte e poi sento uno strappo dal profondo dello stomaco che mi sposta, catapultandomi lontana dalla roccia. Ci ritroviamo

entrambi in volo.

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ELENA + ILARIA

Ho sei anni e sono al mare con la mia famiglia. Mio padre mi sta insegnando a nuotare tenendo la mano sotto la mia pancia e mi dice di muovere le gambe e le braccia. All’improvviso il

cielo si fa scuro, ma io continuo senza curarmi di niente, sicura, con lui che mi protegge, di fianco a me. Muovo gli arti ed è una sensazione unica, di libertà. Il cielo scuro si fa ora grigio

e diventa un tutt’uno con l’acqua; un’unica tonalità dal basso fino al limite superiore visibile. Mi giro a cercare il volto amico di mio padre e non lo vedo, non vedo più nulla attorno, solo

tanto grigio, e non me ne curo. Proseguo a nuotare e mi rendo conto di essere sotto il pelo dell’acqua, in apnea, ma non sono più il bambino che ero prima. Sono la donna di oggi, i miei

capelli lunghi fluttuano davanti al viso nell’alternanza delle bracciate. In debito d’ossigeno provo a sollevare la testa, ma uno spesso strato di ghiaccio mi impedisce di tirarla fuori. Il

freddo intenso dell’acqua polare mi blocca i muscoli e ogni movimento è come una staffilata che brucia le carni, mentre con la spinta di braccia e gambe scivolo sotto la superficie

trasparente in cerca di un punto dal quale uscire. Sento i polmoni scoppiarmi nel petto e la mente annebbiarsi, fino a che una mano penetra il ghiaccio e mi afferra per tirarmi fuori. Non

vedo la faccia, ma solo una divisa blu da poliziotto e appena riesco a prendere un respiro mi ricaccia sotto.

Come una molla scatto a sedere sul letto, il respiro affannato come se avessi trattenuto davvero il fiato. L’intero corpo è percorso da centinaia di perle di sudore che corrono in una gara

senza vincitori né vinti, fino a imprimerne la forma umida sul lenzuolo. Ancora quel sogno, sempre lo stesso maledetto e ricorrente sogno da cinque anni. Ho iniziato a farlo sei mesi

dopo la cattura di Roberto Esposito e a nulla sono valse le sedute dallo psicologo della polizia, come non sono serviti i tranquillanti assunti per troppo tempo e poi messi da parte. È come

se qualcosa fosse rimasto in sospeso quel giorno, ed è lì nell’ombra che mi aspetta.

«Ciao, bambina, ancora quel sogno?» vicino a me, Stefano mi stringe la mano, ormai abituato anche lui ai miei sonni disturbati.

«Sempre quello.»

Gli occhi cercano la sveglia sul comodino: 04:16. Anche questa notte è andata. Come tutte le precedenti, eccetto sporadici casi. Mi giro su un fianco e mi infilo nel suo abbraccio

protettivo, portando il mio corpo a contatto del suo con la testa dell’incavo del suo collo, le braccia raccolte sul petto. Mi inebrio dell’odore della pelle sotto il mio naso e tanto basta a

farmi riprendere un battito regolare. La mano che mi accarezza la schiena mi rassicura, come la mano di mio padre sotto la pancia.

«Vai più giù…» un solo sussurro nel suo orecchio.

***

Sono ormai sei mesi che sono rientrata a Genova dopo aver preso un periodo di aspettativa. I quattro anni e mezzo passati a Napoli, con i soliti alti e bassi, sono stati ricchi di esperienza,

posso dire che il bilancio è più che positivo. Ho avuto modo di conoscere persone meravigliose, colleghi all’altezza del ruolo che ricoprono, ma soprattutto veri amici. Una di questi è

Ilaria, con la quale sono rimasta in stretto contatto dopo quella maledetta giornata. Più volte mi ha confessato di non riuscire a dimenticare l’esperienza drammatica di quelle ore,

l’omicidio a sangue freddo, anche per via della ferita alla gamba rimediata in quel frangente. Sentiva la città andarle stretta; percepiva presenze inesistenti e ogni volto che vedeva si

trasformava nel ghigno di Roberto Esposito mentre uccideva Totò. Poco tempo dopo ha lasciato la sua professione per dedicarsi a quello che utilizzava come copertura. Ora insegna

spagnolo in una scuola di un paesino sperduto del bergamasco. Nelle nostre lunghe telefonate mi racconta di come ora quell’episodio le sembri non essere mai accaduto e che, in fondo,

aveva bisogno di tranquillità per ricominciare a vivere.

Come capitato a Ilaria, non sono riuscita a percepire Napoli come casa mia; per quanto sia una città dalle mille sfaccettature, accogliente, la lontananza dai miei cari ha prevalso sulla mia

capacità di adattamento. Quattro anni e mezzo lontana dalla mia famiglia, in un continuo toccata e fuga per godere di brevi e intensi momenti di normalità. Dopo l’arresto del padre di

Clara per tentato stupro su una ragazza della sua età, che gli è costato l’allontanamento da casa, oltre alla pena detentiva, abbiamo perfezionato l’adozione e ora è ufficialmente nostra

figlia.

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Riprendere la consuetudine di una vita in comune, fatta di coccole e preparazione di pasti, mi ha fatto tornare la donna che ero prima di accettare l’incarico a Napoli; affacciarmi alla

finestra e apprezzare la vista sul golfo, bestemmiare per il solito traffico e girare per le vie del centro sotto braccio a Clara in cerca di qualcosa di sfizioso da indossare. E come tutte le

cose belle, anche questa è destinata a subire una battuta d’arresto con una telefonata.

«Pronto.»

«Elena, sono Luigi.» Il tono da funerale non lascia presagire nulla di buono.

«Ciao, Luigi, che è successo?»

«Mi hanno appena chiamato dal carcere. Roberto Esposito è riuscito a fuggire. Stiamo ancora cercando di capire cosa sia successo, ma ha approfittato di un trasferimento in ospedale per

scappare.»

«Cazzo! Vengo giù immediatamente» nel sollevarmi dal divano il libro appoggiato sulle gambe vola al centro della sala.

«No, Elena. Ho appena sentito il questore e ha detto che è meglio si tenga lontana da Napoli. Sa benissimo che quello vuole farle la festa. Pensa sia il caso che le venga assegnata una

scorta, per sicurezza.»

«Non se ne parla neanche. Non posso starmene con le mani in mano mentre quello scorrazza libero. Devo parlare con lui, ci sentiamo Luigi.»

Lancio il telefono sul divano senza sapere che pensare. «Cazzo, cazzo, cazzo!» Ogni parola accompagnata da una manata sulla fronte. Riprendo il telefono e cerco il numero del

questore.

«Dottor Murolo, sono Elena Masala. Ho appena parlato con Luigi Gargiulo e mi ha riferito dell’evasione di Esposito. Senta… Ma io… Sì, lo capisco, però… Va bene, ma sappia che non

sono d’accordo sulla sua decisione. Buongiorno.» Non c’è stato verso di far sentire ragioni. Come riferito da Luigi, ritiene che sia meglio che non torni giù e che con tutta probabilità

Roberto Esposito cercherà di espatriare come ha fatto Irene Formisano. Ancora non mi ha perdonato la decisione di non perseguirla in cambio delle informazioni per la cattura del

fratello. Ma senza il suo aiuto non lo avremmo mai catturato e dato un nome alle sue vittime. Fanculo alla procedura.

***

«Clara, a che ora esci dall’università?»

«Alle 12, Elena.»

«Ok, passo a prenderti io, quindi non farti accompagnare da Andrea. Ti ha detto se viene?»

«No, non può venire, ha gli allenamenti di calcio e prima deve tenere il fratellino. Ci vediamo dopo.»

La blocco sulla porta prima che esca da casa. Ormai è una donna fatta, anche se per me resta sempre la ragazzina conosciuta otto anni fa. Otto anni nei quali sono successe parecchie

cose. L’ho conosciuta timida e indifesa e ora me la ritrovo adulta e fidanzata e, se tutto va bene, quest’anno prenderà la laurea in giurisprudenza, come Stefano. Abbiamo provato in tutti

i modi a farle cambiare idea, ma l’aiuto ricevuto da Daniela Ferrando del centro Petalo Rosa le ha segnato la vita. Senza di lei non avrebbe conosciuto noi e non avrebbe avuto la

possibilità di vivere una seconda vita senza problemi. “Ci sono decine di altre ragazze e donne come me, e non posso stare a guardare.” Che avremmo potuto dirle? Oggi è il suo

compleanno, e per l’occasione abbiamo deciso di mangiare fuori. Non sto più nella pelle per vedere la faccia che farà al momento della sorpresa. Puntuale come promesso, alle 12 la

attendo fuori dalla facoltà, parcheggiata sul marciapiede.

«Ciao tesoro.»

«Ciao ma’» un bacio sulla guancia e via, di nuovo nel traffico. Lasciata la macchina nel parcheggio vicino alla questura, mia sede di lavoro per molto tempo, raggiungiamo a piedi il

ristorante su via Aurelia.

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«Ti sei mai pentita di questa scelta, Clara? Dell’adozione, intendo» Sottobraccio a lei, come sempre quando usciamo, le faccio la domanda che mi ha sempre frullato in testa e che non le

ho mai rivolto.

«Pentita? Perché dovrei pentirmi?» Perplessa, mi guarda e rallenta il passo, si blocca, costringendomi a imitarla. L’espressione del suo viso è divertita, mi guarda come se avessi detto

chissà quale diavoleria. Le persone sul marciapiede, davanti e dietro noi, ci passano a fianco mentre proseguono la loro marcia.

«Buongiorno, commissario» la voce familiare alle mie spalle è come una inaspettata scarica di adrenalina. D’improvviso una fitta al fianco, di quelle che troncano il respiro. Il volto di

Clara si fa serio, mentre le gambe cedono e mi accascio a terra una smorfia lo trasforma in una maschera di paura. Con la mano al fianco la guardo cercando di sorriderle e farle pensare

che, in fondo, tutto andrà bene.

FINE

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