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LA RECLUTA FRANCESCO LUPINI

E IL MORTO DEL MOLISE

Patrizio Cossa
A mio padre
INCIPIT

"Ma dove cazzo sono finito?"


Cartina alla mano, occhiali da sole calati sul naso e camicia completamente
sudata, la recluta Francesco Lupini si aggira per strade a lui sconosciute.
Si accosta vedendo due signore sedute su delle sedie di paglia.
Spegne il motore del pandino verde bottiglia, tira fuori la testa dal finestrino a
manovella e chiede: "Scusate, per Monte...rotuli?"
Le signore si guardano.
Guardano la recluta Francesco Lupini.
Si guardano di nuovo.
Lui guarda loro, si guarda nello specchietto retrovisore e attende.
Poi la signora più anziana delle due chiede a sua volta: "d chi s figl tu?"
Silenzio.
"Come scusi?"
"Mena me, d chi s figl tu?"
Silenzio.
La recluta Francesco Lupini fa un cenno di saluto con la testa, sorride
imbarazzato e si allontana sgommando verso la strada davanti a lui.
Sul cartello seminascosto da un grosso ramo di un albero non tagliato alle
sue spalle c'è una scritta bianca:
<Benvenuti in Molise>.
CAPITOLO 1

Poco dopo, fermo sul ciglio di una strada di campagna, la recluta Francesco
Lupini sta parlando al telefono con un suo superiore.
"Commissario, io sono arrivato qui a Monterotuli, ma non ho capito
esattamente che devo fare"
La comunicazione è a singhiozzo.
"...aro. Non m... I... zzo."
"Commissario qui prende male, non la sento."
Si sposta un attimo a destra.
"Lupini, a me hai già rotto il cazzo, sia ben chiaro."
"Ora prende bene Commissario"
"Ecco. Ascoltami bene perché non te lo ripeterò. Tu devi cercare il prete, Don
qualche cosa, lasciargli le carte che ti hanno dato e tornare indietro. E se non
te lo ricordi, leggi quel cazzo di bigliettino che ti ho lasciato."
"Ma quindi non lo sapete neanche voi cosa sono queste carte?"
"No. Per questo ci vai tu. Lupini sei un pirla."
E attacca.
La recluta Francesco Lupini si sente solo e infreddolito, pur facendo 40 gradi
in quella calda estate.
C'è un distributore al centro di un bivio, l’unico nell’arco di chilometri, ma è
praticamente abbandonato; la benzina è ancora calcolata in Lire e ci sono
spesse catene collegate ai bocchettoni dell'erogatore.
Accanto al distributore c'è un cartello che indica la strada per “Monterotuli -
1450 abitanti”, una sorta di mulattiera che sale ripida fino al cuore della
montagna.
La recluta Francesco Lupini sale sul suo pandino verde bottiglia e si avvia per
la strada; poco prima della curva un ragazzo sta facendo l'autostop per salire
verso il paese. La recluta Francesco Lupini lo guarda, poi tira dritto: non è
solito caricare persone sconosciute in macchina.
Il ragazzo cambia dito, e dal pollice passa al medio, in direzione del pandino
verde bottiglia e poi riprende la sua ricerca di qualcuno per farsi trasportare.
Il pandino si muove con difficoltà su quella strada sterrata; tra buche e caldo
le sospensioni chiedendo pietà al cospetto del Dio dei motori. La recluta
Francesco Lupini continua a tenere il volante dritto, fino a che non sente il
suono di una campanella che si avvicina: in realtà non è la campanella ad
avvicinarsi a lui, ma lui ad avvicinarsi al passaggio a livello che si sta
lentamente chiudendo.
Rallenta fino a fermarsi e aspetta.
Aspetta.
Aspetta.
Dopo 5 minuti si decide a spegnere il motore per non consumare altra
benzina; una volta girata la chiave, il suono assordante delle cicale invade
l'abitacolo e diventa un grido disperato di aiuto di milioni di insetti costretti a
vivere sotto quel sole accecante.
Milioni di insetti più la recluta Francesco Lupini.
La situazione è surreale: da solo in mezzo al nulla, sotto un sole cocente,
fermo ad aspettare un treno che non vuole passare.
Dopo altri 5 minuti un timido “Tuuu...tuuu...” si affaccia dal fondo dei binari,
per diventare lentamente ma costantemente più potente e prepotente.
Sembrava dovesse arrivare un siluro di dimensioni epiche, invece si affaccia
la copia del trenino Thomas con solo due vagoni; talmente lento che la
recluta Francesco Lupini riesce a leggere sulla fiancata la scritta LA
FRECCIA DEL MOLISE.
Al passaggio della “Freccia”, le due sbarre di legno si alzano con uno
sbadiglio e il pandino verde bottiglia può riprendere il suo cammino, lasciando
alle spalle il suono delle cicale e il loro grido di pietà.
La strada del paese è una sola, che arriva fino al Castello in cima alla
montagna, senza altri cartelli che indicano la giusta direzione.
Timidamente ai lati della strada iniziano le prime costruzioni, prima più larghe
e spaziose, poi sempre più attaccate al ciglio della strada. Le case sono
costruite talmente vicine che il pandino verde bottiglia fatica a passare e la
recluta Francesco Lupini si sbriga a chiudere gli specchietti per non rischiare
di spaccarli.
Non è convinto che possa essere la strada giusta, pensa sia impossibile
riuscire a passare per quei vicoli con una macchina e soprattutto bisogna
avere sangue freddo e destrezza nella guida, due cose che decisamente lui
non ha.
La speranza è che quella strada sia almeno a senso unico.
Una volta superate le prime case, parcheggia in una piccola piazza all'ombra
di un grosso albero, probabilmente un ciliegio con dei rami spezzati, spegne
l’auto e si accorge di una cosa: non c'è assolutamente nessuno.
L'unico rumore è quello del motore del pandino verde bottiglia che smette
fievolmente di borbottare.
A parte l'albero, nulla proietta ombra a terra, il sole è al suo picco massimo e
non c'è modo di ripararsi: le persiane delle case sono chiuse, forse per
oscurare il sole o forse perché vuote, e l'insegna del “Bar Amarsiunpo’”
davanti a lui è spenta e le porte chiuse.
Un gatto rosso a strisce nere sta bevendo dai rimasugli della vaschetta di una
fontanella, anch'essa chiusa.
La recluta Francesco Lupini tira fuori un fazzoletto di carta dalla tasca e cerca
di asciugarsi la fronte, per quanto possibile.
La sigla del tg proveniente da una casa, lo fa voltare verso destra, come
ipnotizzato dal canto della sirena, prende le scale che salgono lungo il vicolo
chiamato “Vico del sole” e arriva su un piccolo spiazzo, dove si trova davanti
ad un altro bar, il “Bar Centrale”.
Le porte del bar sono spalancate, solo una tendina di quelle con i lunghi fili di
plastica fa da divisorio con l'esterno. Si fa coraggio e varca la soglia
facendosi strada tra quelle liane di plastica, ma scopre una tragica verità: se
possibile dentro fa ancora più caldo che fuori.
Dietro al bancone c’è un signore anziano che sta pulendo un bicchiere con
uno straccio sporco, di conseguenza il bicchiere non sarà mai pulito.
Il bar è buio, con un forte odore di muffa e di chiuso, il televisore è sospeso a
circa due metri e mezzo di altezza, sorretto da una impalcatura artigianale
fatta di pezzi di ferro e tronchi di albero.
Probabilmente un tronco spezzato di un albero di ciliegio.
La signorina del tg regionale sta dando le indicazioni per salvarsi da questa
ondata di caldo anomala: non uscire nelle ore calde, bere tanta acqua e
mangiare frutta.
Esattamente il contrario di quello che sta facendo lui, senza contare
l’innalzamento della temperatura all’interno del locale.
Al centro del bar campeggia un enorme tavolo da biliardo, con il suo panno
verde non perfettamente tirato e i birilli fermi al centro, il punteggio è statico
sul 54 a 9.
Un partitone, pensa la recluta Francesco Lupini.
Intorno al tavolo ci sono alcune sedie dove evidentemente si svolge la
movida del paese e da dove il pubblico si gode lo scontro con le stecche.
Nell'angolo a destra del bar, poco prima di una porta socchiusa, c'è un
signore addormentato, con la bocca aperta e il cappello calato sugli occhi, il
suo russare è così forte che la recluta Francesco Lupini stenta a credere che
sia prodotto da un essere umano.
Due mosche si rincorrono intorno alla bocca dell'uomo addormentato.
Che sia morto?
“Scusi, dovrebbe esserci un bed&breakfast qui vicino”
Il signore anziano al bancone non si scompone, continuando a sporcare il
bicchiere già sporco.
La recluta Francesco Lupini si schiarisce la voce.
"Ehm... mi scusi, cercavo il bed & breakfast..."
Nessuna reazione.
“FANTI’! appiccia a machinett!”
La tenda si scosta e fa il suo ingresso una signora corpulenta con un grosso
vassoio in mano pieno di piccoli cannoli ricoperti di zucchero a velo e crema
gialla.
Il signore alza lo sguardo, sbuffa imprecando e si tocca dietro l'orecchio così
da attivare un puntino verde accanto al lobo sinistro che inizia ad accendersi
e spegnersi a ritmo.
La recluta Francesco Lupini rimane fermo a guardare questa scena surreale,
in cui la signora prende posto dietro al bancone e sposta con un sapiente
colpo di anca il signore che inizia a bestemmiare in una lingua sconosciuta e
si chiude dietro la cassa, spegnendo di nuovo l’apparecchio acustico.
“Lo scusi, sa, ma sienza a macchinetta nun sente bene”
La signora con una vocina flebile si sforza di parlare un italiano più
comprensibile possibile e sembra assurdo alla recluta Francesco Lupini che
poco prima l’aveva sentita urlare con quella voce così forte e potente.
“Si, buongiorno. Ecco io… Stavo cercando il bed&breakfast”
La signora lo guarda con attenzione.
Cerca un particolare distintivo, qualcosa di specifico.
Poi lo guarda dritto negli occhi e dice:
“Di chi si figl' tu?”
Ancora? Ma perché tutti volevano sapere la discendenza della recluta
Francesco Lupini?
“No, non sono di queste parti, io cerco solo un bed&breakfast”
“Oh no, ecch ste cose nun ce le tenimme”
“Scusi?”
“Ecch... qui... queste cose non le abbiamo”
“Non c'è un posto dove dormire?”
“Dormire? Ahhhh... Ma voi cercate Turucc”
“Chi?”
“Voi volete dormire?”
“Si”
“Volete fare colazione quando vi scetate… vi svegliate?”
“Certo”
“E allora avite a i' da Turucc”
“E chi sarebbe?”
“È quello che gestisce la locanda del paese”
“Il bed&brekfast”
“A locanda del paese!”
“Il b&... La locanda del paese. Giusto”
“Che mo, locanda è un parolone, è la casetta sua che ha trasformato in
locanda dove ci dormono gli stranieri come voi”
“Ma quann c veng'n i stranieri ecche!”
Dice una voce dall'angolo del bar.
Poteva essere stato l'uomo addormentato, ma è rimasto nella stessa
posizione di prima, ancora con la bocca aperta e le mosche intorno.
Poteva essere stato l’uomo alla cassa, ma ha ancora l’apparecchio acustico
spento.
“Statt zitt tu. Dicevo che dovete andare in fondo a questa strada e poi trovate
la scritta La Locanda. È facile”
“Ma devo prendere la macchina per arrivare?”
Il silenzio diviene assordante.
Poi il boato.
Tutti iniziano a ridere.
La signora del bancone tenendosi la mano sulla pancia.
Il signore dietro la cassa sbattendo i pugni sul tavolo.
L'uomo addormentato sghignazzando da sotto i baffi.
Anche le mosche sembrano ridere.
“Figl mi, qui non si usa la macchina. Il paese è talmente piccolo che pure se
parti mo’ arrivi in anticipo”
E mentre le risate scemano, la recluta Francesco Lupini saluta cordialmente,
apre le tendine di plastica e si incammina per la strada indicata dalla signora.
Il vicolo ha delle scale incredibilmente ripide e si fa fatica a pensare che
qualcuno possa percorrerle ogni giorno, anche più volte al giorno, basti
pensare che la recluta Francesco Lupini ha già il fiatone, e sta andando in
discesa.
Mentre scende, una signora anziana e minuta sale portando da sola due
casse di acqua, una per mano, e con l’agilità di uno stambecco se ne va
canticchiando e salutando.
Forse in questo paese hanno scoperto il segreto della vita eterna e non
vogliono condividerlo con nessuno?
La recluta Francesco Lupini arriva davanti ad un campanello con scritto a
pennarello: “La locanda”, doveva essere quello, anche perché intorno c'era
ben poco, solo scale e case con scritto: vendesi.
Dopo aver premuto il pulsante, il campanello di rimando suona l'inno d'Italia
ad un volume assordante e il vicolo funge da cassa di risonanza per
amplificare quel rumore impossibile da nascondere.
La porta si apre mentre “L’Italia chiamò” si avvia alla conclusione e la recluta
Francesco Lupini ha giusto il tempo di riprendersi dallo spavento quando da
dietro lo stipite compare un ragazzo alto e grosso, con i capelli corti e gli
occhi scavati.
Sembra la versione inquietante di Lurch degli Addams.
“Ugh”
Forse è l'anello mancante nella catene evolutiva, l’unione tra l’uomo e la
scimmia, non c'è altra spiegazione.
“Salve, sono la recluta Francesco Lupini, dovrei avere una prenotazione”
Dice d’un fiato mentre manda giù saliva e sudore.
L’uomo scimmia lo guarda dall'alto in basso, controllando ogni singolo
dettaglio del nuovo ospite, come a volerlo schedare mentalmente.
Poi la sua voce parte dal fondo di una caverna e crea un tremore vocale,
dicendo:
“Voi siete chillo pel morto del lago?”
“Scusi... ha detto… Morto?”
CAPITOLO 2

Affacciato alla piccola finestrella che dà sul vicolo, la recluta Francesco


Lupini, come un novello rabdomante, cerca una tacca per poter telefonare al
suo Commissario.
Purtroppo quel paese sembra decellularizzato, in nessun punto si riesce a
fare una telefonata o peggio ancora a collegarsi ad internet.
Deve assolutamente dire al Commissario Giuliani, suo diretto superiore, che
c'è un morto, che lo hanno scambiato per qualcuno che non è, che lui non è
in grado di gestire una situazione con un morto, che pensava di essere lì per
far firmare un foglio, non per un morto.
Lo aveva già detto morto?
In quel paese, in quella stanza, in quel momento, il tempo è come sospeso e
la recluta Francesco Lupini si sente tagliata fuori dal mondo.
Si guarda intorno, la stanza è piccola e a tratti claustrofobica, arredata in un
falso stile antico, con una toletta di ceramica e accanto un mobiletto di
plastica dell'Ikea.
Sul letto c'è la foto del Presidente della Repubblica, a cui la recluta Francesco
Lupini fa un cenno di rispetto, il crocifisso d'ordinanza, a cui la recluta
Francesco Lupini fa un cenno di reverenza e la foto di una signora arcigna
non meglio identificata a cui la recluta Francesco Lupini fa un timido cenno
con la mano.
Ogni punto d'appoggio della camera ha sopra un centrino fatto a mano, di un
bianco sporco usurato dal tempo, ma che dona alla stanza un senso di
regalità e antichità.
C'è poi un piccolo armadio con dentro uno specchio leggermente appannato
e una stampella di legno antico.
Nel complesso poteva andare peggio, ma poteva anche andare decisamente
meglio.
La recluta Francesco Lupini si sente d’un tratto incredibilmente triste, come
non succedeva dal funerale della nonna materna, l'unica a cui aveva voluto
veramente bene da piccolo. Ecco, si sente come quel giorno, vestito con un
completino nero nettamente più grande di lui, un mazzetto di fiori in mano e la
testa china, mentre gli dicevano che la nonna sarebbe stata via per un pò.
“Ma poi torna a giocare?” - “No, purtroppo non torna più” - “Che peccato”.
Ecco, questo è il suo stato d'animo in questo momento, prima di sentire dei
colpi alla porta.
Non ha intenzione di vedere nessuno, tantomeno quella specie di buttafuori
da discoteca, quindi fa finta di non sentire, ma è praticamente impossibile non
sentire qualcosa dentro quella stanza di tre metri per tre.
Alla seconda scarica di colpi alla porta, la recluta Francesco Lupini si lancia
contro la maniglia, pronto a dar sfogo a tutta la sua frustrazione.
“Che succ...”
Le parole si fermano in gola.
E non solo le parole.
“Ciao, sono Leandra, la sorella di Tony”
Pausa.
“Chi?”
“Sono Leandra”
Altra pausa.
“Si, scusami. Questo lo avevo capito. Chi è questo Tony?”
“Dovresti averlo incontrato prima”
“Non si chiamava Turacciolo? O una cosa simile”
Leandra sorride e in quel momento la recluta Francesco Lupini capisce il
motivo della sua presenza lì. Non lì in quella stanza in mezzo al nulla di un
paese sconosciuto, ma proprio perché fosse lì sulla terra, in quel momento
preciso, davanti a quella ragazza.
Aveva trovato lo scopo della sua vita.
Si immagina mentre passeggia mano nella mano con lei, in una notte stellata,
giocando in riva ad un fiume, prendendo un gelato.
Un riccio di panna gli finisce sul naso, lei lo scansa con il dito e se lo porta
alle labbra, sorridono e continuano a passeggiare.
Poi si trovano sotto la Tour Eiffel, lui la prende a sé e la bacia, lei si tocca la
pancia con le mani, sorride dolcemente e lui si inginocchia mostrandole un
anello.
E poi a casa nuova, con gli scatoloni da disfare, il bambino nella culla e loro
sempre felici.
Il giardino che li vede crescere, invecchiare, mano nella mano fino a che…
“Hey. Ci sei?”
Chiede un pò spaventata la ragazza, non vedendo risposta dal suo
interlocutore.
“Oddio. SÌ, scusami. Mi sono incantato. Dicevi?”
“Dicevo di Turuc. Sarebbe il diminutivo di Antonio. Tony...tonino... turucc...”
“Ah, Capisco.”
Non stava capendo, ma poco importava, poteva anche parlare del bosone di
Higgs, avrebbe lo stesso sentito uscire dalla bocca le note di Mozart.
“Comunque piacere sono la recluta Francesco Lupini”
“Bello. Un po' lungo. Posso chiamarti Francesco?”
“Come più ti piace.”
“Sei qui per il morto del lago?”
E d'improvviso la primavera nell'aria diviene un gelido inverno e poi di colpo il
corpo esanime della recluta Francesco Lupini ricade nelle maglie dell'inferno,
fino a sbattere contro la realtà. Ecco perché era lì, non per la casetta sul lago
con il giardino, i figli e un cane, ma c’era un morto tra loro e questa cosa
rischiava di distruggere i suoi progetti d’amore.
“Veramente...”
“Meno male che c'è un vero poliziotto, così sapremo la verità.”
Come glielo spiega che lui non sa nulla di questo morto e che è lì per tutt’altro
motivo?
“Senti, ti ho portato una bottiglietta d'acqua fresca e del pane fatto nel forno di
Leonardo, è buonissimo. C'è anche della marmellata, quella la facciamo noi
direttamente con le albicocche dell'albero di casa. Quest'anno è stato
particolarmente ricco. Metto tutto qui sul tavolino. Ora devo andare ma ci
vediamo più tardi. Se ti va.”
“Mi va! Cioè, sì sono qui... Tanto non devo andare da altre parti... Quindi non
lo so, vediamo dopo. Se ne ho voglia... Va beh, ciao”
E chiude letteralmente la porta in faccia all'amore.
Quando va in ansia inizia a dire frasi senza senso, a contraddirsi nello stesso
discorso e a diventare felice o triste nell’arco di un singolo pensiero. Ed è
quello che ha appena fatto.
“Cretino, demente, idiota, stupido, deficiente...”
La recluta Francesco Lupini continua a picchiarsi in testa usando i peggiori
epiteti che aveva imparato fin da piccolo: come aveva potuto fare una
devastante figura di merda davanti ad una ragazza così bella? Davanti alla
madre dei suoi futuri figli.
“Magari perché sei un demente”
Si guarda intorno. Chi ha parlato? Forse è stata la foto del Presidente, forse
Gesù o la signora arcigna, fatto sta che continua a rimproverarsi fino a che
non sente la campana della chiesa suonare.
Tre rintocchi.
Guarda l'orologio.
Le 15.00.
Guarda il foglietto con le istruzioni lasciate dal Commissario Giuliani:
“Monterotuli – B&B - firmare documenti – ore 10.00 bar Amarcord con ex
prete”.
Diciamo che poteva anche mettere due parole in più, sembra un telegramma
di condoglianze più che dei dati per un appuntamento.
Ora si scopre pure che c'è un morto.
Ah ma lui non è lì per questo, non ha nulla a che fare con questa faccenda, ci
sono i poliziotti del posto per fare le indagini.
Lui è un pinguino, come si dice in gergo poliziesco, è appena entrato, non sa
come funzionano queste cose.
Sa solo che deve portare delle carte, farle firmare a Don qualcosa e tornare a
Roma.
Semplice.
Certo, Leandra potrebbe andare via con lui, ma dopo averla trattata così male
forse poteva anche andare da solo.
Fa troppo caldo per fare un giro di perlustrazione del paese, è stanco dal
viaggio e soprattutto affamato; ha mangiato giusto un panino in un piccolo
autogrill, o almeno questo è quello che gli avevano venduto visto che più che
un panino sembrava cartone compresso con dentro delle foglie di plastica. Lo
stomaco brontola al pensiero di quel non pranzo e la recluta Francesco Lupini
addenta un pezzo di pane intingendolo direttamente nella marmellata e
bevendo l'acqua come un assetato nel deserto.
Il pane è fragrante, croccante sulla crosta e morbido all'interno, con un
profumo di legno e casa. Il primo morso lo riporta ad una dimensione di
bambino, di culla dove stare al sicuro, di coccola della mamma; il secondo lo
accarezza dolcemente sulla testa come a dire “Va tutto bene”.
E poi la marmellata.
Non aveva mai assaggiato una frutta così... frutta.
È piena, avvolgente, come un buon vino o come il bacio di passione dato da
una bella donna.
Dato da Leandra.
Molto probabilmente le labbra di Leandra dovevano sapere di quella
marmellata.
Rimane stregato dalla bontà di quella merenda dall'apparenza frugale, ne
vorrebbe ancora ma la stanchezza è troppa per poter fare il bis, per questo si
butta sul letto provando a schiacciare un pisolino, più tardi sarebbe andato in
giro a chiedere qualche informazione ulteriore.
Più tardi, ora ha sonno.

Ho un sogno ricorrente.
Non so esattamente l'età, ma credo di avere intorno ai 6-7 anni.
Giochiamo a nascondino con altri bambini, alcuni mi sembra di conoscerli,
altri no.
Uno di loro inizia a contare.
Io mi nascondo in un cunicolo stretto e lungo.
Sorrido, penso che non mi troverà mai nessuno qui dentro.
Sento gli altri che vengono presi.
Uno ad uno.
Poi mi chiamano, urlano il mio nome, ma io lo so che è solo per farmi uscire
allo scoperto.
Non mi fregano.
Sorrido.
Poi le urla smettono.
Sento il suono delle cicale, vedo il sole che scende lentamente.
Non sorrido più.
Chiamo qualcuno, prima timidamente, poi più forte.
Ho le braccia e le gambe indolenzite.
Non riesco ad uscire, il cunicolo è troppo stretto, sono incastrato.
Urlo più forte.
Piango.
Si sono dimenticati di me.

La recluta Francesco Lupini apre di colpo gli occhi, completamente sudato.


Il respiro è affannato.
Dove sono?
La campana della chiesa lo riporta alla realtà, di soprassalto.
Riprende contatto con il mondo esterno, mentre la campana continua a
suonare.
“Ma quanti rintocchi ha fatto? È rotta anche la campana in questo paese?”
Con gli occhi ancora appannati dal sonno guarda il suo orologio, sono le
22.00.
Le 22.00?
Ha dormito come un ghiro, sicuramente complice il caldo e il completo
silenzio del paese. Non è abituato a quella quiete, viene dalla capitale dove
tutto è traffico, clacson e mortaccitua.
Si alza a fatica e guarda fuori dalla finestrella che dà sul vicolo, un timido
lampione illumina le scale che portano alla piazza da una parte e al buio più
totale dall'altra.
Ora ha realmente fame, prende le chiavi della stanza, il portafoglio, il cellulare
e apre la porta in cerca di qualcuno per procacciarsi del cibo.
“Leandra?” chiede timidamente mentre scende le scale del B&B “C'è
nessuno?”.
“Ugh” gli risponde da dietro le spalle una voce spuntata dal nulla.
“Mavaffanculo” dice tutto d'un fiato la recluta Francesco Lupini, mentre si
porta una mano al petto, sicuro di avere un infarto.
“Scusate” risponde Turucc, mostrando le mani enormi in segno di preghiera.
“No, scusa tu, Tony...Tonuccio...Turaccio... non volevo rispondere così ma mi
sono spaventato. Senti, ma si può mangiare in questo paese?”
Turucc fa segno di seguirlo, accompagnandolo alla porta d'ingresso dove ci
sono i fogli per le prenotazioni e dei piccoli depliant colorati dove su uno di
questi c'è scritto: Ristorante da Marione – cucina tipica di Monterotuli.
La recluta Francesco Lupini ringrazia e esce in strada, senza però aver
chiesto le indicazioni per arrivare da Marione. Prova a bussare di nuovo ma
nessuno risponde.
Incredibile, Turucc come arriva, sparisce. Tipo Houdini.
Decide di prendere l'unica strada conosciuta, quella che porta alla piazza
centrale, da lì avrebbe chiesto in giro. Anche perché è l’unica strada
illuminata mentre dall’altra parte c’è l’ingresso verso il nulla de La storia
infinita.
Finita la rampa di scale finisce anche il suo fiato; pur non avendo mai fumato,
si ritrova i polmoni di un ottantenne e per ogni gradino parte un “Oppelà” di
sostegno.
Il Bar Centrale è chiuso e la recluta Francesco Lupini segue il suono di una tv
accesa che proviene dal vicolo laterale.
Il Bar Amarsiunpo’ affaccia sulla piazza e ha le sedie di finto acciaio girate
sopra i tavolini e la luce del frigo che illumina l’interno, sul lato opposto della
piazza c’è un ragazzo seduto che si gira una sigaretta. All’inizio la recluta
Francesco Lupini non lo riconosce, poi guardando meglio vede un dito medio
alzato nella sua direzione e capisce che il ragazzo è quello che prima gli ha
chiesto un passaggio e che ora finalmente ha trovato un modo per salire in
paese.
In tv stanno dando le repliche di Techetechetè e una signora di spalle ride e
piange contemporaneamente, la recluta Francesco Lupini si avvicina piano,
cercando di non rovinare quel momento di pathos tra la signora e la sua
trasmissione e timidamente saluta con la mano.
La donna lancia un grido, come se dietro di lui ci fosse il pagliaccio di It con in
mano un palloncino rosso.
“Uh signore benedetto! Non vi avevo sentito!”
“Perdonatemi, non volevo spaventarvi”
“Ma che spavento… ero solo persa. Ecche ci steano i ricordi! Eh… belli li
tempi fuiuti”
La recluta Francesco Lupini accenna un sorriso facendo finta di aver capito
per non dispiacere la signora.
Anche se non ha capito.
“Ma ditemi, ditemi. Avete bisogno di quaccosa?”
“Sì, purtroppo per il caldo mi sono addormentato e ho fatto tardi. Non ho
pranzato e cercavo un posto per cenare”
“Fije mi. A quest’ora, qui a Monterotuli steano tutti a ruorm!”
“Come scusi?”
“Sì. Dicevo, a quest’ora in paese dormono praticamente tutti, ma siete
fortunato, ho ancora un paio di cose in frigo, se volete ve le scaldo. Ma non vi
aspettate niente di particolare, è roba fatta qui al volo”
“Magari! Mi fareste veramente felice, grazie mille.”
“E allora mettiti comodo. Ci diamo del tu, vero? Irene ti serve subito”
La signora scompare dietro il bancone, senza neanche aspettare risposta
mentre la recluta Francesco Lupini cerca di ribaltare una sedia sopra al
tavolino, scoprendo che il finto acciaio non è finto per nulla. Tutto sembra
incredibilmente pesante e faticoso da affrontare in questo paese. Che stesse
invecchiando male? Pensa mentre si siede. Eppure doveva compiere 40 anni
tra poco, doveva essere nel fiore degli anni, nel punto massimo della sua
virilità e saggezza, la mezza età che gli avrebbe conferito quel fascino sale e
pepe irresistibile per le donne.
E invece sta lì, seduto sul trono di spade con lo stomaco in subbuglio e i più
grandi successi di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia di sottofondo.
Mentre pensa allo scorrere della vita, la signora Irene arriva con un vassoio e
una bottiglia di vino.
Li dispone sul tavolo in maniera ordinata e inizia la spiegazione dettagliata.
“Qui ci sono le Tanne e checucce, fatto co le tanne di fiori di zucchina, le
zucchine di Zio Antonio, l’aglio, il pomodoro fresco e la pancetta di maiale.”
“Cosa sono le Tanne?”
“Le tanne… le tanne. Come le chiamate. Tipo le cime. Le punte, ecco, le
punte!”
“Ok, chiaro”
“Queste sono le scurpelle, fatte con farina, acqua e sale e fritte nell’olio”
“Leggere”
“Usale se vuoi tipo pane! Oppure da sole, vire tu. E alla fine c’è il dolcetto: ru
sanguinate”
“E cos’è?”
“Assaggialo, poi ti dico. Qui c’è il vino di Giacomino, è un pò forte ma non c’è
niente di chimico, solo uva e sole e i piedi per schiacciarlo”.
E portando via il vassoio, Irene si allontana dal tavolo.
La recluta Francesco Lupini si guarda intorno, la piazza è di nuovo vuota e il
ragazzo dell’autostop è sparito. Da solo, inizia ad assaggiare timidamente,
soffiando sulle tanne fumanti. L'esplosione di sapore in bocca è detonante,
l’amaro, l’acido, il dolce, il piccante. Tutto insieme in un unico piatto, e la
croccantezza della pancetta che da il tono giusto a tutto il resto. Non crede di
aver mai assaggiato una cosa del genere, le sue papille gustative festeggiano
l’arrivo del nuovo anno con mesi di anticipo.
Usa le scurpelle per accompagnare il piatto e il fritto incredibilmente non unto
di quel pane croccante invade la sua bocca creando uno strato ulteriore
rispetto al palato.
Ora può riconoscere ogni singolo elemento della ricetta, scomposto in frazioni
di piacere che lentamente abbandonano la bocca per proseguire dall’esofago
allo stomaco.
Prende il bicchiere di vino per far scendere il boccone che non vuole
terminare la sua corsa e quella è la mazzata definitiva.
BAM.
Il vino è acido, forte, corposo, pieno.
Come se un vichingo avesse preso una mazza chiodata e avesse colpito il
petto della recluta Francesco Lupini con tutta la sua forza.
Spalanca gli occhi e guarda in faccia la morte.
Ma la morte è dolce come il miele.
Come nel finale di Ratatouille, la recluta Francesco Lupini torna al suo posto,
dopo un viaggio psichedelico che l’ha condotto nei meandri oscuri della sua
anima.
Finito il tripudio di sapori, si concede quello che sembra essere un dolce.
L’aspetto non è dei migliori, il colore marrone scuro e la compattezza non
danno grandi speranze, ma la fame è ancora latente, nonostante le tanne e le
scurpelle.
Quindi addenta quel tronchetto di felicità e il tempo si prende una pausa.
Fuoco, fiamme, l’inferno in terra.
Gli occhi come braci di un camino, il magma centrale di un vulcano.
E immediatamente questo delirio lascia il posto alla dolcezza, allo zucchero,
al mosto, ai pinoli croccanti e alla pace dei sensi.
Torna sulla terra sconvolto, sudato e ansimante per quel piatto ancestrale che
lo ha riportato nel ventre materno.
“Cosa diavolo è?”
Chiede la recluta Francesco Lupini in direzione di Irene.
Lei ride avvicinandosi.
“È fatto da pane raffermo sbriciolato, mosto cotto, pinoli, uvetta, olio, sugna,
pepe e peperoncino. Ah e ovviamente sangue di maiale”.
Lo stomaco gli si rivolta. Sta per vomitare ma trattiene il conato, pensando
alla festa che si era svolta nella sua bocca fino a qualche istante prima di
conoscere gli ingredienti.
Irene si siede davanti a lui e lo guarda sorridente.
“Soddisfatto?”
“Non avrei potuto sperare in meglio. Meno male che non dovevo aspettarmi
niente di particolare!”
“E ora ditemi. Voi chi siete?”
“Non ci davamo del tu?” chiede sorridendo.
“Giusto. Tu chi si?”
“Finalmente qualcuno che non mi chiede chi siano i miei genitori”
Irene ride di gusto, di quelle risate che ti trascinano e ti fanno dimenticare i
problemi.
Anche la recluta Francesco Lupini si fa coinvolgere da quella risata, senza
capirne il reale motivo.
“Sì” continua mentre la risata scema “Lo fanno qui al paese. Ci si conosce
tutti e quindi se non conosco te, sicuramente conoscerò i tuoi genitori.”
“Ah, ma io non sono di qui. Sono la recluta Francesco Lupini”
Irene si alza di scatto dalla sedia e si sistema il vestito.
“Uhhh… voi siete. Commissario, mi scusi non l’avevo riconosciuta”
“Ma che commissario, sono una semplice recluta, non serve tutto questo
clamore” sorride bonario per sedare la situazione di imbarazzo.
Irene lentamente torna a sedere.
“Sono qui perché devo incontrare un prete, o ex prete, non ho ben capito”
“Don Carlo!”
“Ah, quindi è un prete”
Irene sorride.
“Non esattamente. Magari ve lo spiegherà lui domani. Ci tiene alla sua storia”
Le chiacchiere fanno perdere la cognizione del tempo, mentre Irene spiega la
storia del paese e sparecchia il tavolo facendo avanti e indietro verso il
bancone.
Racconta del Bar Amarsiunpo’, che piano piano si è ritagliato il suo spazio in
un paese che ha più bar che abitanti.
Racconta di suo marito che all’inizio non voleva seguirla in questo progetto
ma che poi alla fine si è lasciato convincere e ora è il primo che attacca e
l’ultimo a staccare perché gli piace stare in mezzo alla gente.
La recluta Francesco Lupini ascolta realmente interessato, gli sono sempre
piaciuti i racconti delle persone, le storie dietro l’apparente normalità, gli
spaccati di vita di perfetti sconosciuti che entrano nel tuo quotidiano. Non si
sente stanco, ma il bar sta chiudendo e non sembra ci siano altre persone in
giro per il paese, quindi l’unica alternativa è avviarsi di nuovo verso la
locanda.
Dopo aver salutato Irene, si alza e passeggia lentamente per i vicoli,
cercando di digerire la cena e annusando l’aria fresca che si muove sinuosa
lungo le scale.
La notte porta pensieri e dubbi, per questo la recluta Francesco Lupini ne ha
paura, ma non può nascondersi più di tanto, un giorno dovrà affrontare
queste paure.
Ma non stanotte.
Stanotte ci sono le stelle, mai viste così tante tutte insieme, da casa sua ci
sono solo lampioni accesi e insegne dei pub, pensa mentre torna al B&B.
Alza gli occhi, una stella cade lasciando dietro di sé una lunga scia di luce.
Esprimi un desiderio, esprimi un desiderio.
La recluta Francesco Lupini chiude gli occhi e spera.
CAPITOLO 3

La campana della chiesa suona otto rintocchi e la recluta Francesco Lupini si


sveglia di soprassalto dopo una notte fatta di strani sogni e di pensieri agitati.
La bocca è impastata, forse il sangue di maiale, forse lo strutto o il vino fatto
in casa, sta di fatto che il suo stomaco non è abituato a tutto questo
sconquasso.
Ha bisogno di un caffè.
Forte.
Molto forte.
Si veste con una camicia a scacchi a maniche corte e dei pantaloni color
cachi, un colore che lui personalmente odia, ma una volta una ragazza gli
aveva detto che andavano bene con i suoi occhi e da quel giorno ha
comprato solo pantaloni color cachi.
Aperta la porta, trova una busta attaccata alla maniglia.
Dentro c’è un pezzo di pane ancora caldo, dei barattolini con scritto
MARMELLATA di vari gusti e una busta di carta con dentro del burro
artigianale.
Non può crederci.
Si siede sul letto a mangiare quella colazione rustica e incredibilmente buona,
che immediatamente riattiva le sue funzioni vitali, anche se manca ancora
l’essenziale: il caffè.
Prende la bottiglietta di acqua avanzata dal giorno prima, la mette nello
zainetto e esce in cerca del corroborante liquido nero.
Il B&B sembra vuoto, avrebbe voluto vedere Leandra ma è sparita dopo la
sua figuraccia del giorno prima. E come darle torto. Un amore buttato al
vento, una famiglia distrutta ancor prima di nascere. Ma se incontrarsi è
veramente il loro destino, qualcosa dovrà succedere, o almeno così spera.
Mentre sale le scale, si sente osservato, o meglio spiato da dietro una delle
finestrelle che affacciano sul vicolo, si gira di scatto ma nulla si muove, se
non un cane randagio che girovaga senza meta.
Delle urla provengono dalla piazza, sembrano quelle di una accesa
discussione e la recluta Francesco Lupini, nel pieno delle sue facoltà di
poliziotto, si precipita a controllare se c’è bisogno di lui, ma al suo arrivo vede
davanti al tavolo del bar di Irene soltanto tre signore che stanno litigando in
maniera composta ma con toni molto alti.
“T’agg ritt nietre” dice la prima alzandosi in piedi.
“Stette bonn” risponde la seconda mentre tira giù di forza la prima.
“Alloc vire tu...” fa eco la terza, cercando di scartare la prima.
Sul tavolo c’è un piattino con tre cornetti e altrettanti caffè che si stanno
freddando a causa della lite tra le partecipanti.
Che spreco.
La recluta Francesco Lupini riprende fiato dopo la corsa che, seppur breve, è
comunque in salita e lui non ha ancora bevuto il caffè, o almeno questa è la
giustificazione che si dà per avere il fisico di un ultracentenario.
Arrivato in piazza cerca posto in un tavolo relativamente distante dalle tre
signore che continuano a discutere come se niente fosse.
Da dietro il bancone del bar Amarsiunpo’ appare Irene che con il suo passo
deciso punta dritto al tavolo della recluta Francesco Lupini.
“Ue! Buongiorno! Com’è andata la notte? Avite diggerito tutto?”
“Certamente, era tutto squisito.”
Non voleva raccontare nel dettaglio i suoi movimenti intestinali e creare crepe
appena arrivato, e poi era veramente tutto buono, se non fosse stato così
tardi per attivare il processo digestivo prima di addormentarsi, sarebbe stata
una cena perfetta.
“Che vi porto?”
“Un caffè, grazie mille”
“E da mangiare niente? Guardate che poi vi sciupite”
Sorride, come fa una mamma in apprensione per un figlio.
“E va beh, anche un cornetto. C’è vegano?”.
Si crea il gelo nel caldo torrido della piazza.
Le tre donne al tavolo smettono di discutere, guardando in direzione di Irene,
che a sua volta ha gli occhi fissi sulla recluta Francesco Lupini.
“Che?”
“Vegano. Come si dice? Senza...”
“Vita!”
Termina la frase una voce non definita dal tavolo delle tre donne, che
immediatamente ricominciarono a parlare tra di loro in maniera leggermente
meno animata di prima.
“No, mi dispiace, non le teniamo ste ccose moderne. Abbiamo però i cannoli
fatti da me, la crema la preparo io tutt’e matine”
“Va bene allora, vada per il cannolo.”
Le signore al tavolo iniziano a parlottare tra di loro, guardando in direzione
della recluta Francesco Lupini, che si sente leggermente messo in mezzo in
quel bisbiglio costante.
“Non ci fate caso” dice Irene per tranquillizzare la situazione “qui in paese
non succede mai niente e quando arriva qualcuno di nuovo, tutta l’attenzione
si accentra in un punto. Ma poi passa”
“Immagino. Una curiosità: ma perché discutono?”
“In realtà è una cosa che fanno tutte le mattine, litigano per…Posso?”
Chiede indicando la sedia e sedendosi senza aspettare conferma.
“Si chiamano tutte e tre Maria, sono amiche da… uuhhh… va beh, sono
amiche da una vita e ogni santa matine che Dio manda in tierra,
s’appiccicano per decidere chi paga la colazione.”
“Accidenti, tematiche importanti per una discussione così accesa!”
Irene lo guarda, poi inizia a ridere di gusto, tanto da coinvolgere nella risata
anche la recluta Francesco Lupini che non credeva di aver fatto una battuta
così esilarante.
“Voi tenite ragione, in realtà è più una scena quella che fanno, perché alla
fine pagano a turno, un giorno una e un giorno l’altra. Però hanno a fa
ammuina. Cioè. Devono farsi sentire!”. Le ultime parole sono dette con voce
un pò più forte, in direzione delle tre Marie che fanno finta di niente
continuando a parlare. Irene se ne va portandosi dietro il vassoio vuoto,
canticchiando una canzone tra le labbra.
“Facite ammuina” è una cosa che sentiva spesso dire a suo padre, ex militare
aveva un trascorso in marina e lì c'era una regola non scritta che consisteva
nel farsi vedere affaccendati anche quando non c’era nulla da fare.
Era una specie di comando che veniva urlato quando passava un alto
ufficiale: da quel momento chi era a poppa correva a prua, chi era sotto
andava sopra e viceversa, creando un movimento frenetico che aveva tutta
l’apparenza di una importante manovra militare.
Quando invece, era solo un bel casino organizzato.

La curiosità, come predetto da Irene, cala in fretta e la recluta Francesco


Lupini guarda meglio le tre signore al tavolo che hanno smesso di osservarlo.
Maria Crema, ribattezzata così perché è quella che ha il cornetto alla crema
davanti a sé, ha corti capelli bianchi, magra e scattante, sembra una
ragazzina anche se le rughe non riescono a mentire così bene. È sempre in
piedi, non riesce a stare ferma, le altre due continuano a dirle di fermarsi un
secondo ma lei risponde secca: “Tengo affà”, guardando l’orologio come il
bianconiglio di Alice. Ma anche se sembra in costante ritardo, resta li a
mangiare pezzettini di cornetto e a bere il caffè, impaziente di congedarsi
dalle amiche.
Ha una maglietta a maniche corte, blu scuro a tinta unita, di quelle che si
trovano al mercato in confezione da 3x5 euro, un jeans e un paio di scarpe
da ginnastica.
Non ha tempo per vestirsi bene, vuole solo essere comoda e a proprio agio.
Maria Cioccolato invece ha i capelli neri come la notte, forse tinti, anche se
sembra impossibile trovare un colore che assorba così tanto la luce da
apparire buio come l’universo stesso. I suoi occhi sono ugualmente neri, vispi
e attenti, non perdono un movimento in tutta la piazza, come uno scan 3d
costantemente attivo. È piccola di statura e anche i suoi oggetti sono
proporzionati: ha una piccola borsa, un cellulare piccolo e un piccolo porta
pasticche d’argento da cui ogni tanto prende quella che sembra essere una
caramella.
Lei è vestita con un pantalone lungo nero e sopra una camicia bianca a
maniche corte con le maniche a palloncino e sembra una eterna bambina in
un enorme parco giochi.
Ultima del trio, Maria Pistacchio, ha sempre una sigaretta tra le dita, anche se
in realtà fuma pochissimo, fa giusto una tirata, poi lascia che il vento fumi per
lei. Quando la sigaretta si sta per spegnere, se ne accende subito un’altra,
creando intorno a sé una nube di vapore denso. È la più alta delle tre, bionda
tendente al bianco, in gioventù doveva essere stata una modella o qualcosa
di simile, lo si vede dal suo atteggiamento fiero e dal voler essere sempre al
centro dell’attenzione.
Oppure poteva essere stata una maestra elementare, una delle due opzioni.
Ha un completo rosso scuro, gonna stretta sotto il ginocchio e giacca aperta
su una maglietta bianca, sembra debba fare la giuria di un concorso, invece
sta litigando per un cornetto in un bar di un paese del Molise.
La recluta Francesco Lupini si diverte a raccontare le storie delle persone che
non conosce, lo fa fin da piccolo, quando doveva accompagnare il nonno
nelle interminabili file alla posta per ritirare la pensione. Allora si sedeva da
una parte e iniziava a guardare chi c’era nella stanza e a immaginare le loro
vite in base a dettagli anche minuscoli. La signora in fila, ben truccata, era
sicuramente una donna in carriera che andava di fretta, che aveva preferito il
lavoro alla famiglia e che la sera quando tornava a casa era sola col suo
gatto, visto i peli sulla giacca, e il suo bicchiere di vino rosso; l’uomo con la
cravatta e il colletto sporco di rossetto aveva chiaramente l’amante, ma
all’anulare sinistro c’è solo l’impronta della fede, senza l’anello, segno che
vuole fare lo scapolone durante il giorno; il ragazzo con lo zaino sulle gambe
aveva una cotta per la sua amica accanto a lui, ma non sapeva come dirglielo
e non voleva essere friendzonato.
Forse da lì, da quelle infinite giornate passate alle poste, gli era partita la
vocazione per mettere insieme gli indizi, per analizzare i fatti e per scoprire
quello che c’è dietro al fare il poliziotto, per risolvere i casi e capire chi poteva
essere il colpevole.
Anni di Jessica Fletcher e Tenente Colombo avevano dato la spinta finale per
arruolarsi e sconfiggere il crimine non solo a Cabot Cove.
Ma il fomento iniziale si è andato a scontrare con la dura realtà e fino a quel
momento era rimasto relegato dietro una scrivania, a compilare moduli e
scartoffie, senza avere la possibilità concreta di andare in azione. E forse, a
pensarci bene, non aveva neanche tutta questa voglia di buttarsi nella
mischia, di vedere sangue e morti, ma preferiva raccontarsi in testa le storie
degli altri, senza però vivere realmente la sua, di storia.
Anche perché il sangue gli ha sempre creato problemi, ogni volta che doveva
fare un prelievo doveva sdraiarsi sul lettino, senza guardare l’ago e il cotone
sterilizzato e chiudendo gli occhi fino alla fine dell’operazione.
Dopo l’operazione doveva rimanere sdraiato qualche minuto e alla fine il
Dottore, che ormai lo conosceva bene, gli regalava anche un lecca lecca per
il suo non coraggio.
Mentre pensa a tutto questo, gli compare magicamente davanti al naso un
caffè nero fumante e un cannolo con dentro una crema talmente gialla da
sembrare un pezzo unico con la frolla intorno. Solo una spolverata di
zucchero a velo fa capire dove finisce uno e inizia l’altro.
“Le uova sono di Lillina, per questo sono così gialle.”
La recluta Francesco Lupini non sa se questa Lillina sia una signora del
paese o una gallina speciale, ma assaggia lo stesso il dolcetto perdendosi
completamente nella morbidezza di quel paradiso formato mignon.
“È buone ve?”
“Mmmmm...mmm…”
Non riesce a parlare, non servono le parole o forse non esistono, per
commentare l’idillio nelle sue papille gustative.
Perso in quel girone di lussuria, non sente arrivare qualcuno alle sue spalle.
“Mi sa che noi due abbiamo un appuntamento” dice l’uomo dietro di lui.
La recluta Francesco Lupini si gira per guardare chi lo ha chiamato, la luce
del sole alle sue spalle lo colpisce dritto negli occhi, lasciando solo una
sagoma nera che gli si avvicinava. L’uomo è avvolto nella luce, come l’angelo
dei dipinti della chiesa.
“Fei foff allo?”
“Come prego?”
La recluta Francesco Lupini manda giù l’ultimo pezzo di cannolo che gli è
rimasto in gola, ma provando a parlare respira lo zucchero a velo che si
inchioda sulla glottide e lo fa diventare paonazzo in cerca di aria pulita.
Manda giù un po’ di acqua cercando di non morire in quella piazza e si dà un
contegno. Finalmente dopo essere tornato a respirare quasi normalmente,
cerca di pulirsi la bocca e la maglia sporca di zucchero ma così facendo
amplia la macchia su tutta la camicia e i pantaloni color cachi.
“Mi scusi. Lei è Don Carlo?” riesce a dire allungando una mano sporca di
bianco.
L’uomo fa un piccolo inchino senza stringere la mano e dice: “Chiamami
Carlo, non sono più un prete”.
Perfetto, sono le dieci del mattino e ha già fatto la sua prima figura di merda.
Don Carlo, o meglio Carlo, non è molto alto ma è un uomo affascinante,
capello color sale e pepe talmente perfetto che sembra finto, muscoli su tutto
il corpo, anche in posti dove normalmente non dovrebbero esserci muscoli.
Ha una camicia bianca aperta sul petto, da cui esce un ciuffo di peli anche
loro sale e pepe e un crocifisso d’oro agganciato ad una collanina sempre
d’oro.
“Mi scusi, non sapevo.”
“Ma no, figurati. Mi chiamano tutti Don. Anzi, possiamo darci del tu? Vedo che
hai già fatto colazione, posso offrirti altro?”
“No, la… ti ringrazio. Io sono la recluta Francesco Lupini, mi hanno detto di
parlare con te”
“Sì, il Capitano Manfredi mi ha chiesto di accoglierti. Non mi ha detto molto,
ma credo di doverti accompagnare sul lago di Lerino, così potrai parlare con il
Dottor Madonno, ti dirà lui cosa sa del caso.”
“Ecco, a tal proposito, io veramente…”
Ma le sue parole si perdono nel vento perché Maria Cioccolato e Maria
Pistacchio arrivano di corsa circondando Don Carlo.
“Buongiorno Don” dice civettuola MC (Maria Cioccolato).
“Buongiorno Don” fa eco MP (Maria Pistacchio).
“Buongiorno a voi signore belle, come state?”
La recluta Francesco Lupini vorrebbe dire che c’è stato uno sbaglio e che lui
non è chi credono sia ma le due donne prendono in ostaggio il Don e lo
portano al loro tavolo, per offrire dolci e chiacchiere apparentemente senza
sosta; l’ex prete dal canto suo riesce solo a mimare il numero 10 con le dita e
indicare la piazza, come a dire ci vediamo qui tra dieci minuti.
La situazione sta diventando un pelo più complicata di quello che aveva in
testa.
La recluta Francesco Lupini paga la colazione e si dirige verso il B&B per
raccogliere i fogli da consegnare e i documenti lasciati in camera,
abbandonando Don Carlo nelle grinfie delle tre Marie, anche se MCr (Maria
Crema) se ne sta momentaneamente in disparte.
Mentre scende le scale del vicolo vede il gatto rosso con le strisce nere del
giorno prima, che nuovamente cerca da bere dalla ciotola vuota della fontana
chiusa: mosso a compassione prende la bottiglietta che ha nello zaino, ne
rovescia quasi tutto il contenuto nella ciotola e non trovando un secchio
adatto, la rimette dentro per eventualmente riempirla più avanti. Il gatto inizia
a bere avidamente e la recluta Francesco Lupini pensa di aver appena
acquistato un punto karma.
I punti karma sono tipo buoni della spesa, ogni volta che compi una buona
azione acquisisci punti su un ipotetico raccogli punti karma, quando fai
qualcosa di male i punti vengono scalati. Se vai sotto il minimo consentito, la
sfiga si abbatte su di te, ma se accumuli tanti punti positivi avrai sempre una
dose di scorta di fortuna.
O almeno così gli raccontava la nonna per farlo addormentare.
Arrivato al B&B, nota la porta della camera socchiusa; che strano, era sicuro
di averla chiusa a chiave. Si avvicina lentamente per vedere se c’è un ladro e
per sfruttare il fattore sorpresa, apre di scatto la porta, ma la bretella dello
zaino si incastra sulla maniglia della porta, facendolo cadere miseramente ai
piedi di Leandra.
“Oddio, che spavento!”
Da quella posizione poteva vedere i piedi della sua futura moglie e la
bassezza a cui era arrivato con quella ennesima figuraccia.
“Scusami tu, pensavo fosse un ladro”
“Ahah… ladri a Monterotuli? Praticamente impossibile”
Il suono della sua risata era quello di un coro di angeli scesi dal cielo.
“Stavo rimettendo a posto la tua stanza, credevo fossi uscito. Ecco, guarda,
ho rifatto il letto e ti ho messo qualcosa da mangiare sulla scrivania.”
Poteva la perfezione divina essersi incarnata in un solo essere?
“Tu che fai? Ti stai ambientando?”
“Io sto andando con Don Carlo. Che poi non è don, ma tutti lo chiamano don
e io ho provato a chiedere perché ma poi MC e MP lo hanno portato a
mangiare il cornetto e io sono tornato a casa, ma tra 10 minuti dobbiamo
vederci o almeno così credo abbia detto, non ho capito ma faccio finta di sì e
ok vado, ciao.”
Ed esce prendendo al volo il plico con i documenti dal tavolo, senza dare il
tempo a Leandra di reagire.
A quale profondità poteva scendere la miseria umana quando si supera la
soglia limite della vergogna?
A testa bassa e con il cuore distrutto, la recluta Francesco Lupini sale
lentamente le scale che lo portano all’appuntamento, ancora incredulo sul
suo comportamento di qualche istante prima. Continua a borbottare tra sé e
sé, scuotendo la testa, salendo le scale, dandosi del pirla senza appello,
maledicendo se stesso e la sua vergogna costante, con le sue mani sudate
quando vede qualcosa di bello e la sua non reattività al mondo.
L’unica nota positiva sono le montagne che si vedono in lontananza da dietro
il tetto basso del bar, lui non è mai stato un tipo da mare, forse più da lago,
ma la montagna era la sua vera pace dei sensi, il posto dove ricaricare le
batterie in maniera del tutto naturale.
Da lontano sente invocare il suo nome, nel marasma dei suoi lamenti interiori,
vede Don Carlo che lo chiama a gran voce, cercando di divincolarsi dalla
morsa delle tre Marie.
La scena è praticamente la stessa di come l’aveva lasciata dieci minuti prima:
il Don al tavolo con le signore, Irene che girovaga per i tavolini vuoti facendo
finta di pulirli e ordinarli e il gatto rosso con le strisce nere che però ora è
addormentato sotto l’albero. Sembra un dipinto di Hopper, se non fosse per il
rumore di sottofondo e la campana della chiesa che suona le 11.00 del
mattino.
Con uno scarto da Serie A, Don Carlo dribbla le signore e si dirige a passo
svelto verso la recluta Francesco Lupini al suono di “Signore, scusate ma
devo andare”.
Una volta raggiunto, lo aggancia sotto il braccio e i due si allontanano a
passo svelto.
“Quando quelle tre iniziano, non la smettono più”.
La recluta Francesco Lupini sente nella stretta decisa della mano tutta la
forza del braccio del Don, sicuramente frutto di palestra e dedizione.
Non certo come lui che si dedica all’ozio e al riposo, orgoglioso di non aver
mai pagato un annuale in palestra.
“Dov’è che andiamo?”
“Ci incontriamo con il Dottor Madonno, il patologo forense del paese.” Il Don
si fa più vicino, abbassando la voce come a confessare un segreto.
“In realtà, lavora come medico di base, anche perché da queste parti non
succede mai nulla. Ma da quando hanno scoperto il cadavere sembra di
essere sul set di Don Matteo. Lui è tornato ai suoi vecchi fasti e io sono
perfetto come Terence Hill, no?”
Sorride, anche se la situazione non ha nulla di divertente, ma evidentemente
la novità in un contesto così chiuso porta al non ragionare sulle conseguenze
delle proprie parole.
“Ecco, a questo proposito, io vorrei dire che…”
“Prendiamo la mia macchina, ok?” dice il Don interrompendolo e procedendo
a passo svelto.
I due si incamminano per vicoli stretti e scale ripide, salgono e scendono
senza una apparente logica, fino ad arrivare ad un’altra piazzetta più piccola,
dove ci sono alcune macchine parcheggiate.
I fari di una jeep nera lucida lampeggiano alla pressione del pulsante e il Don
entra agile e si aggiusta al posto di guida.
La jeep nera lucida è parcheggiata molto vicino al muro d'una casa e la
recluta Francesco Lupini fa fatica ad entrare, cercando di sguisciare tra lo
sportello e l’intonaco a vivo, senza rovinare la portiera e senza perdere la
possibilità di respirare normalmente. Una volta entrato sul lato passeggero, il
sedile è un pò troppo in avanti ma non riesce a trovare la leva per spingerlo
indietro e non vuole disturbare il fiume di parole di Don Carlo, quindi si spinge
le ginocchia al petto e mette a fatica la cintura.
La guida del Don è quella di chi conosce perfettamente le stradine, ogni
curva e ogni buca dell’asfalto, addirittura corre mancando di pochi millimetri i
muri delle case, senza scomporsi minimamente.
La recluta Francesco Lupini invece è terrorizzato da questa evoluzione della
Parigi-Dakar molisana e ad ogni frenata si vede proiettato sull’asfalto con
intorno la polizia che fa le foto e dice: “Peccato, era un bravo ragazzo,
salutava sempre”.

Durante il viaggio Don Carlo descrive le bellezze del paesaggio intorno, i


piccoli comuni che si avvicendano dal finestrino, i formaggi tipici
sottolineando che: “Sai, qui è terra di stracciata, burrata e mozzarelle…”,
abbellendo il tutto con gli aneddoti dei paesini "Lì c'era il mostro di Agnoni.
Anche se in realtà si è scoperto essere solo una montatura per fare turismo,
ma per tanti anni c’è stato il terrore per strada”.
Ma la recluta Francesco Lupini non ascolta una sola parola, vuole solo
scendere dalla macchina, possibilmente tutto intero.
“Ti chiederai perché ci sono io ad accompagnarti e non il Capitano Manfredi”
“Eh già. Me lo stavo proprio chiedendo”
“Il Capitano Manfredi è un mio vecchio amico, anche se lui è decisamente più
vecchio di me” e colpisce con la mano aperta il braccio della recluta
Francesco Lupini che abbozza un sorriso mentre impreca per il dolore.
“Ora credo che il Capitano sia a Termoli, al mare, beato lui. E mi ha chiesto di
portarti dal Doc per sbrigare le carte e poi sei libero. Almeno così ha detto,
ma sicuramente tu saprai cosa fare”
La speranza è che Don Carlo non si accorga dell’imbarazzo della recluta
Francesco Lupini: imbarazzo nel non sapere chi sia questo Capitano
Manfredi, imbarazzo nel non conoscere il Doc ma soprattutto imbarazzo nel
non sapere che carte dover sbrigare.
Dopo circa dieci minuti di strade asfaltate e mulattiere, la jeep nera lucida
arriva a Pozzalli, un piccolo paese alle spalle di Monterotuli, dove è presente
un centro specializzato in Veterinaria e Ortopedia.
Nessuno aveva mai capito come le due cose, la cura degli animali e le ossa
umane, potessero essere collegate tra loro, ma il centro è da sempre
un'eccellenza del Molise e ne hanno anche parlato al TgR.
La struttura è in cima ad una piccola collinetta, in mezzo al nulla e le sue
pareti bianche si incastrano perfettamente nell’azzurro del cielo e nel verde
delle montagne intorno, creando una dissonanza di immagini interessante.
Se non fosse per la scritta enorme “NOSTRA SIGNORA DEL MOLISE” sulla
porta di ingresso, potrebbe sembrare un centro commerciale.
O un'enorme bara a cielo aperto.
Toccato suolo, la recluta Francesco Lupini vorrebbe inchinarsi e baciare la
terra come il Papa Giovanni Paolo II dopo l’atterraggio, ma si limita ad un
sospiro per riassettare lo stomaco in subbuglio.
Incredibilmente il telefono riprende vita e arrivano la valanga di messaggi
arretrati dei giorni precedenti:
- 5 chiamate MAMMA CELL
- 2 numeri sconosciuti (probabilmente call center)
- 106 messaggi nella chat del gruppo del quartiere dove lo ha inserito a
forza la mamma per cercargli una fidanzata.
- 1 messaggio del Commissario con scritto: “sono in barca, non rompere
il cazzo”
Proprio del Commissario ha bisogno in questo momento, deve capire cosa
fare e soprattutto come muoversi.
Qui tutti lo pensano un esperto del settore, un vero e proprio detective della
scientifica, ma soprattutto qualcuno informato dei fatti; in realtà lui è lì solo
perché non c’è nessuno in giro, è agosto e le pratiche scomode le fanno fare
ai novellini.

Il telefono squilla dall’altra parte, senza una apparente risposta, poi la voce
del Commissario fa tremare il terreno sotto i piedi.
“Chi cazzo è?”
“Ehm… Commissario, sono la recluta Francesco Lupini”
“Lupini che cazzo vuoi, ti ho detto che sto in barca”
“Sì, ha ragione. Ma qui la situazione è peggiorata, c’è un morto”
“E che vuoi da me?”
La recluta Francesco Lupini si guarda intorno per sapere se è da solo, poi
abbassa la voce e chiede titubante.
“E che ci devo fare?”
“Dagli un bacio e vedi se si sveglia. Lupini, non mi devi rompere le palle, io
sono in vacanza. Mi spieghi che cazzo c’entri tu con un morto? Ti ho mandato
lì perché di tutto il dipartimento nessuno voleva smazzarsi questo impiccio
sotto Ferragosto. Devi solo far firmare le carte per un minore da
accompagnare in comunità, non è che ci vuole una laurea! Ora vai, fai firmare
dove devono firmare e poi torna a lavorare.”
La conversazione si chiude così, con un sentore di un vaffanculo iniziale
strozzato dal click del telefono e l’angoscia di non sapere da che parte
sbattere la testa.
Guardandosi intorno la recluta Francesco Lupini capisce di essere rimasto
solo, Don Carlo è scomparso e la porta d’ingresso è accostata.
Spinto anche dal caldo cocente che non dà tregua, cerca una zona d’ombra
dove ripararsi ed entra dall’ingresso chiedendo permesso.
Nessuno risponde al suo richiamo, sembra tutto spento in quella sala
d’aspetto vuota, forse hanno sbagliato giorno, forse è meglio tornare indietro.
Ma non ha le chiavi della macchina e senza navigatore è un uomo perso,
abbandonato nel centro del nulla senza possibilità di fuga.
La sala d’attesa ha una sola porta aperta che dà sul corridoio centrale e la
recluta Francesco Lupini inizia a chiamare sottovoce qualcuno per farsi
aiutare.
“Don Carlo? Don… C’è nessuno?”
L’unico rumore della struttura viene dall’ultima porta del corridoio, lasciata
semiaperta da qualcuno, come fosse un invito ad entrare o a scappare a
gambe levate.
Se fosse stato un film dell’orrore i protagonisti avrebbero detto: “Ok,
dividiamoci” ma la recluta Francesco Lupini è solo e l’unica cosa che vuole
realmente fare è tornare a casa sua.
“È permesso?” chiede sottovoce.
La porta si apre con un cigolio inquietante, come se non bastasse tutta quella
situazione. La stanza è asettica, con una lampada accesa su di una scrivania
ben ordinata. Ci sono diverse celle d’acciaio sulla parete e sul tavolo
operatorio vicino la finestra c’è un telo bianco che ha la strana forma di un
corpo morto.
“Don Carlo?”
“Non c’è nessun Don Carlo qui… ci sono solo io!”
Il telo bianco si alza e scopre il corpo di un uomo che con la bocca aperta e le
mani protese in avanti cerca di afferrare la recluta Francesco Lupini.
Che non ha altra possibilità che svenire.
CAPITOLO 4

Ogni volta che chiudo gli occhi vedo le sue mani.


Rugose, stanche e secche.
Ma che cercavano di darmi delle carezze d’amore.
Avevano però talmente tanti calli che invece di amore
quelle mani portavano graffi e dolore.
E più mi ritiravo distante, più la facevo soffrire.
E non volevo farle del male.
Una volta mi ha portato lei alle giostre
ha detto a tutti che ce l’avrebbe fatta
che non era così vecchia
Ed è lì che una volta mi sono perso.
Giocavo sull’altalena e mi sono girato un attimo.
Lei non c’era più.
O forse ero io che non c’ero, non lo so.
Sta di fatto che ho iniziato a chiamarla a gran voce
ma nessuno mi è venuto incontro.
Quando mi hanno trovato, lei era disperata.
Ed ero io a consolarla.

Alcune gocce d’acqua iniziano a rigare il viso della recluta Francesco Lupini,
ma la sua reazione non è quella che ci si aspetta.
Al cadere di un intero bicchiere d’acqua fredda come uno schiaffo in pieno
viso, si alza di scatto e resta sull’attenti, come quando in caserma gli
facevano gli scherzi per tirarlo giù dalla brandina.
“Recluta Francesco Lupini a rapporto. Sono sveglio”
“Riposo, recluta. Riposo. Sei tra amici”
La voce di Don Carlo è calma e suadente e fa dimenticare per un attimo la
situazione appena accaduta, ma la presenza del non morto accanto a lui fa
vacillare le braccia del giovane poliziotto che si ritrae indicandolo terrorizzato.
“Ma lui… è vivo?”
“Sì, ed è anche un cretino” fa eco Don Carlo, ridendo e dando una pacca
sulla spalla al Lazzaro resuscitato.
“Piacere, sono il Dottor Eusepio Madonno. Mi scuso per prima, volevo fare
uno scherzo, credevo che voi gente di città foste più coraggiosa”, la sua
risata aspirata risuona nella stanza vuota, tra i tavoli di acciaio e la
strumentazione medica.
La recluta Francesco Lupini si poggia sul lettino, cercando di riprendersi dallo
spavento ma soprattutto cercando di capire cosa sia realmente successo.
“Vi darei un ricostituente, ma qui ho solo sonniferi e a cadere svenuto siete
già bravo da solo”, ride ancora il Dottor Madonno mentre lo fa accomodare
sul tavolo di acciaio, quello dove poco prima era avvenuto il miracolo.
“Devi scusarlo, lui è Doc. Fa sempre scherzi cretini. Anche se questa volta
diciamo che gli è riuscito particolarmente bene”.
Don Carlo sorride e il Dottor Madonno prosegue a produrre quel suono
aspirato che sembra il rumore di una macchina quando non parte il motore.
“Ora un attimo di serietà” riprende le fila Don Carlo, sedando gli animi e
cercando un minimo di professionalità in quella situazione surreale. “Veniamo
a noi, lui è il poliziotto che segue le indagini, arriva direttamente da Roma e
credo voglia vedere il corpo.”
L’unica cosa che riesce a dire la recluta Francesco Lupini è: “Ma veramente
io…il corpo?”.
Il Dottor Madonno cerca qualcosa nelle tasche, tira fuori un paio di carte di
cioccolata e le poggia sul tavolo e alla fine estrae il mazzo di chiavi legato ad
un portachiavi a forma di pallina da tennis.
“Sa, sono contento che sia qui, un vero poliziotto per un vero crimine. Da
queste parti non succede mai niente e dopo tutto questo tempo mi fa strano
fare quello per cui ho realmente studiato”
“In che senso?”
“Che in realtà io ho studiato come anatomopatologo e ho un master in
Patologia Forense, ma qui mi ritrovo a curare animali e le anche rotte, vista
l’età media nelle zone circostanti”
Ride alla sua battuta come se fosse la cosa più divertente della storia e deve
poggiare la mano sul tavolo per non rischiare di cadere.
La recluta Francesco Lupini abbozza un timido sorriso, guardando Don Carlo
che fa un'espressione del tipo “Non farci caso, fa sempre così” provando a
riportare un minimo di ordine in tutto quel caos.
Se c’è una cosa che la recluta Francesco Lupini sa fare è rimandare i
problemi, è un procrastinatore di livello avanzato; se ci fossero le olimpiadi di
procrastinazione lui li vincerebbe l’anno successivo.
Una volta è riuscito a rimandare talmente tante volte la visita dal dentista per
una carietta non curata che ha perso un dente e ora ha un buco in fondo a
destra, per questo evita di ridere troppo, perché ha paura che si veda quel
baratro dato dalla non cura di sé stesso.
E comunque rimandare la vista di un morto rientra sicuramente nelle sue
priorità, non avendo nessuna intenzione di restare a guardare.
“Ma… cos’è questa struttura?” chiede per guadagnare tempo prezioso.
“Questo è il centro di eccellenza per la Veterinaria e l’Ortopedia di tutto il
Molise. In realtà abbiamo anche una parte di Pronto Soccorso e Maternità,
ma i nostri punti forti sono gli animali e le anche degli anziani. E qui non
mancano nessuno dei due”
E giù a ridere.
Forse in una vita passata poteva essere stato un comico.
Sicuramente non in questa.
“E tu come ci sei finito qui, visto che hai studiato da anamolopa…sologo”
“Anatomopatologo e ho un master in Patologia Forense. Cercavo lavoro, io
vengo da Campobasso ma lì avevano già tutti i posti occupati e dopo qualche
anno mi hanno chiamato qui con la prospettiva di poter fare carriera. Ma il
tempo passava e la carriera restava qui, ho provato anche a fare domanda
per venire a Roma, ma niente da fare. E alla fine che ti devo dire, mi sono
affezionato al territorio e alle persone” fa cenno verso Don Carlo che ricambia
con un piccolo inchino della testa “e quando vieni da queste parti fai fatica ad
andartene”
“Scusate, è tutto molto romantico, ma io dovrei andare a casa, ho una
famiglia” dice Don Carlo, troncando le speranze di una ulteriore perdita di
tempo.
La recluta Francesco Lupini allora decide di fare l’unica cosa che può dargli
un tono in questa situazione.
Cercare di scappare in bagno.
Ma ormai è troppo tardi.
Il Dottor Madonno apre una botola quadrata dalla parete di acciaio davanti a
lui, facendo scorrere un piano di appoggio con sopra un sacco nero chiuso
con una zip.
Era come nei film.
Ma nei film nessuno parla di senso di nausea e puzza di morte.
Una volta aperta la zip, il tanfo di laguna si impregna sui vestiti e sulle pareti
della stanza, lasciando il disgusto nel palato dei tre presenti.
La recluta Francesco Lupini cerca di ricacciare in fondo un conato, mettendo
una mano sulla bocca e facendo finta di tossire per poi fare cenno verso l’alto
come a dire “Credo sia l’aria condizionata. Brr…”.
Il corpo del ragazzo è gonfio, di colore nero-verdastro coperto di vesciche,
anche se si percepisce la tonicità del muscolo e la stazza di quello che fino a
poco tempo prima doveva essere un giovane culturista. La pelle delle mani e
dei piedi è rugosa, come se fosse un anziano signore, anche se il resto si è
conservato incredibilmente bene.
A parlare ora è il Dottor Madonno che si trasforma e diventa immediatamente
professionale e serio, come se elencare le caratteristiche di un cadavere lo
toccasse nel profondo.
Scandisce la voce, piccolo colpo di tosse e parte con la sua arringa.
“Lui è Matteo Biondini, figlio di Ugo Biondini, il magnate dei trasporti molisani.
La morte è avvenuta per annegamento nel lago di Lerino. Lo hanno trovato
trafitto dalla spada di San Michele sulla cima della chiesa”
“In che senso?” chiede la recluta Francesco Lupini cercando di costruire
mentalmente la planimetria di un possibile incidente del genere.
La parola passa a Don Carlo, esperto di aneddoti e chiacchiere.
“Ti spiego. Devi sapere che il lago di Lerino è un lago artificiale. Prima, dove
ora c’è il lago, sorgeva il piccolo paese di Lerino, appunto, ma la posizione
all’interno dell’insenatura della valle portava parecchi problemi: intanto le
continue inondazioni durante l’inverno e poi le possibili frane dalle montagne
intorno.
Si decise nei primi anni ‘50 di trasferire il paese sulla parte pianeggiante in
alto e di trasformare l’insenatura in un lago artificiale che portasse acqua e
elettricità attraverso le turbine idroelettriche e soprattutto trasformarlo in un
posto caratteristico per i visitatori. Ogni 3 o 4 anni, quando il lago viene
completamente prosciugato per manutenzione, emergono parti del vecchio
paese, come se fosse un luogo fantasma da cui riaffiorano i morti.”
“E mai paragone fu più azzeccato” sottolinea il Dottor Madonno.
“Già. Perché ad un certo punto c’è stato bisogno di una manutenzione
straordinaria non prevista, perché un guasto al depuratore ha reso l’acqua
stagnante. Quindi mentre l’acqua scendeva, i turisti presenti hanno visto
qualcosa di strano: un corpo che usciva dall’acqua, immobile, trafitto da una
spada che altri non era che la punta della statua che era presente sulla cima
della chiesa del vecchio paese. Il destino a volte è strano.”
Un attimo di silenzio aiuta tutti a recuperare le forze dopo il racconto
dell’accaduto. Sembra impossibile trovarsi davanti a questa scena, sembra
impossibile che un ragazzo possa morire in questo modo.
“Ma come fa un corpo a scendere così in profondità e a conficcarsi su una
spada?” chiede la recluta Francesco Lupini tirando fuori tutte le sue
conoscenze in fatto di serial crime.
Il Dottor Madonno si mette i guanti in lattice e indica un punto del collo del
corpo riverso sulla tavola di acciaio.
“Vedi qui? Questo è il segno di una corda intorno al collo. Tipico di chi vuole
farla finita.”
“In che senso?” sembra un disco rotto, riesce solo a dire questa frase.
“Corda. Sasso. E giù. Glugluglu.”
Il Dottor Madonno fa il gesto di chi sta affogando e lentamente cade a terra.
Si rialza e cerca di darsi un tono, facendo un piccolo colpo di tosse e
tornando a spiegare tecnicamente quello che si vede.
“L’adipocere, noto anche come cera cadaverica, è una sostanza grigiastra e
dura che si forma durante la decomposizione, ma in particolare nei corpi
immersi in acque fredde. Questo processo si verifica nell’arco di alcuni mesi
quando il tessuto adiposo sotto la pelle inizia a saponificarsi. Poiché le basse
temperature inibiscono la produzione di batteri, questa cera può aiutare a
conservare il corpo. Per questo non c’è stata decomposizione anche se il
corpo verosimilmente è lì da quando è scomparso Matteo, ossia circa due
mesi fa.”
“E in due mesi nessuno ha denunciato la scomparsa?” chiede incredulo la
recluta Francesco Lupini
“Certo, la sua fidanzata e promessa sposa Leandra”.
Aspettate.
“Aspettate”
Quella Leandra?.
“Quella Leandra?”
Don Carlo fa cenno di sì con la testa.
La sua Leandra?
Questo è meglio non dirlo.
Ok, cerchiamo di darci una calmata, facciamo tutti un bel respiro e via che si
riparte con la giostra della vita.
Leandra, la donna dei suoi sogni, la futura madre dei suoi figli, quella con cui
invecchierà, eccetera eccetera, è promessa sposa a qualcuno?
E ora questo qualcuno è morto.
Se l’avesse conosciuta prima, sarebbe stato messo nella lista dei sospettati,
ma fortunatamente ora aveva la possibilità di farsi avanti, magari per
consolare il suo dolore.
Sono brutte cose da pensare, ma in quel momento aggrapparsi all’idea di
avere un briciolo di speranza con Leandra lo aiuta a dimenticare il tanfo di
morto sotto il suo naso.
“Quindi si è… suicidato?”
“Così sembra.”
“E perché avrebbe dovuto farlo? Cioè ci sono i presupposti per crederlo? Era
strano ultimamente o sapete se voleva farla finita?”
Ma cosa sta dicendo? Perché sta facendo tutte queste domande? Come se
realmente potesse indagare su questo caso e non fosse invece un pinguino
della polizia.
Un pinguino è l’ultimo arrivato, quello che si veste con la divisa perfettamente
stirata, che non è mai entrato in una volante, che sta dietro la scrivania e a
cui danno tutte le incombenze più rognose, soprattutto ad agosto.
Ecco, esattamente questo era lui.
“In realtà sì” dice Don Carlo, mentre si gratta la leggera barba sale e pepe
che lo rende ancora più affascinante.
La sua pausa dà enfasi all’argomentazione e crea un hype di curiosità
incredibile, tanto che gli altri due restano in attesa di una spiegazione che
tarda ad arrivare.
“Matteo e Leandra non erano in ottimi rapporti”
Un punto in più per la recluta Francesco Lupini.
“Questo faceva parte delle confessioni di un ex prete?”
Don Carlo e il Dottor Madonno sorridono, poi è quest'ultimo a parlare.
“Non era certo un segreto il loro rapporto, in paese tutti lo sapevano, magari
qualcuno faceva finta di niente, qualcuno girava la testa dall’altra parte per
non vedere”
“Non vedere cosa?” chiede ingenuamente la recluta Francesco Lupini.
“I segni” risponde il Dottor Madonno chinando il capo.
“I segni?”
“Lividi, a volte nascosti da una sciarpetta, altre volte da una gonna più lunga.
Ma il più delle volte erano le teste a girarsi e non le dita ad indicare il
colpevole”.
Il sospiro di Madonno fa capire che la ferita è ancora aperta, e non quella del
corpo ma la cicatrice che lascia l’onta della vergogna, di quando non si ha il
coraggio di parlare e di ribellarsi a certe situazioni.
Fa male vedere qualcuno ferito e far finta di niente.
“Ma perché nessuno ha parlato?”
"Perché il padre di Matteo non solo è un magnate dei trasporti molisani. Ma è
anche uno ben inserito in certi giri. Tutti lo sanno, ma nessuno sa niente. Non
so se è chiaro”
La recluta Francesco Lupini ha molto chiara la situazione, purtroppo è il tipo
di situazione che lo manda ai matti, quella per cui sarebbe pronto ad
esplodere come una bomba atomica.
Non aveva mai sopportato i soprusi e ancor meno le minacce, erano
qualcosa di abominevole e smuovevano in lui qualcosa di ancestrale.
Da piccolo ricordava ancora di essersi messo tra un compagno di classe
bullizzato e dei ragazzini più grandi e di aver fatto scudo col suo corpo.
Ne aveva prese talmente tante che per poco non finiva in ospedale, ma il
ragazzo che aveva aiutato si era salvato grazie a lui e i ragazzi erano stati
riconosciuti e denunciati proprio dalla piccola recluta Francesco Lupini.
Una volta a casa, credeva di ricevere encomi e lodi, ma prese il resto delle
botte che si erano dimenticati i ragazzi, perché così imparava a farsi gli affari
suoi.
Buon vecchio papà, che tu possa marcire in pace.
Chissà cosa avrebbe fatto oggi vedendo la sua Leandra marchiata da un
bruto senza vergogna.
Forse avrebbe dismesso i panni del giovane indifeso e avrebbe preso
finalmente il mantello da supereroe che era appeso all’ingresso della sua
anima.
O forse no.
“Va tutto bene?”
Don Carlo cerca di risvegliarlo mentre è perso nei suoi labirinti interni.
“Scusate, ero preso dal racconto. Quindi non andavano d’accordo, ma non mi
avete detto perché voleva farla finita”
“Su questo posso rispondere io” dice Don Carlo facendo un piccolo passo
avanti.
“Durante una confessione, Matteo mi disse che…”
“«Il sacerdote non deve in alcun modo testimoniare su un fatto che gli è stato
rivelato sotto il segreto della confessione. Infatti, egli non conosce il fatto
come uomo, ma come ministro di Dio, e il vincolo del segreto sacramentale è
più stretto di quello di qualsivoglia precetto umano»” la recluta Francesco
Lupini interrompe Don Carlo e cita a memoria un passo sentito mille volte
nella sua infanzia.
“San Tommaso d’Aquino. E tu come lo sai?”
“Ho un passato molto religioso. Ma sta di fatto che non puoi parlare di un
segreto in confessione. Pena la sco…”
“Scomunica. Che ormai è bella che andata. Quindi direi che posso parlarne,
no?”
Sorride e subito la situazione sembra distendersi, Don Carlo ha un modo di
placare gli animi proprio del buon pastore, di colui che ha la situazione sotto
controllo e che riesce a tranquillizzare chiunque solo con la sua presenza.
“Giusto, scusami. Sono partito d’istinto, non so cosa mi sia preso. Prego.
Continua”
“Dicevo. Durante una confessione Matteo mi disse che si sentiva oppresso
dal suo ruolo, dall’essere figlio di un boss, così lo chiamò, e di non riuscire a
sostenere lo sguardo di tutto il paese. Era un violento ma in realtà scaricava
la sua rabbia repressa per un'infanzia difficile. Quando vivi nel lusso tutti
pensano che tu sia fortunato e ti guardano con invidia e disprezzo. Ma Matteo
era nato nella famiglia sbagliata, fatta di soldi, botte e droga. E fin da subito
aveva capito che per farsi rispettare doveva far parlare le mani e non
ragionare col cervello. Era un bravo ragazzo ma messo su una strada difficile
da percorrere.”
Prende fiato, come a trattenere quel fiume in piena fatto di emozioni e di
sogni infranti, poi guarda il corpo del ragazzo sul tavolo e una lacrima sembra
scendere sul bordo del suo occhio. La asciuga con un piccolo gesto e
continua a parlare.
Anche il Dottor Madonno ha la testa bassa, quasi a non voler ricordare quella
vergogna, quei momenti e quella umiliazione.
“Era pressato dal suo mondo, avrebbe voluto cambiare vita e non ci riusciva,
forse tutto questo lo ha portato al finale di partita. Forse…O forse se avessi
detto io qualche parola in più di conforto magari…”
“Non è colpa tua, non è colpa di nessuno. Doveva andare così”, la mano del
Dottor Madonno si posa sulla sua spalla, mentre Don Carlo alza gli occhi al
cielo e cerca di scacciare via quel ricordo. Prende aria nei polmoni, fa rifluire
il sangue ormai congelato e si batte le mani sul petto per un ultimo mea culpa
che non sarà mai l’ultimo.
“E il biglietto?” chiede con tutta l'ingenuità del mondo la recluta Francesco
Lupini, rompendo quel momento di raccoglimento cristiano.
“Quale biglietto?”
“Generalmente chi fa un gesto del genere, un gesto studiato, tanto da portarsi
dietro una corda e cercare un sasso per buttarsi nell'acqua, lascia sempre
qualcosa di scritto”
“Non saprei, dovresti chiedere al Capitano Manfredi, ma ora credo sia
sdraiato sotto l’ombrellone con un cocktail in mano e l’ultima cosa che vuole è
sentir parlare di un morto. Magari però puoi andare in commissariato, ti
daranno sicuramente tutte le carte. Ti accompagno se vuoi.”
Ecco.
La realtà bussa alla porta e chiede il conto.
Come dire a tutti che c’è un malinteso? Come spiegare al paese intero, a Don
Carlo, alla sua amata Leandra, che lui non c’entra nulla in mezzo a tutto
questo casino?
Come fa la recluta Francesco Lupini a tirarsi fuori da questa situazione
assurda?
Basta, è ora di agire, non si può sempre procrastinare.
Quando una cosa è giusta, va fatta subito, senza indugi, senza…
Ma proprio mentre sta per prendere coraggio, il corpo si irrigidisce, le pupille
si dilatano e i suoi occhi vedono qualcosa che non dovrebbe esserci.
“E quello cos’è?”
“Cosa?”
“Quello”
“È Matteo. Il morto.”
“Sì. Chiaro. Intendo dire: quel segno sul collo. Puoi girarlo per favore?”
Il Dottor Madonno sulle prime non capisce la richiesta, è incredulo ma si
affida a quelle parole in maniera meccanica, girando il corpo e lasciandolo
abbandonare sul fianco destro.
Il collo è violaceo ma nasconde un disegno.
Più che un disegno è un tatuaggio.
Ma più che un tatuaggio, quello è un marchio.
E il ricordo di quel marchio fa vacillare le gambe della recluta Francesco
Lupini.
CAPITOLO 5

Carlo Maria Lupini è stato Questore della Repubblica per quasi 40 anni.
Carriera onorata, medaglie al valor civile esposte in ordine sulla mensola del
caminetto in salotto, affiancate da foto col Papa, foto col Presidente della
Repubblica, foto con un attore americano di cui non si ricordava bene il nome
e poi una foto del matrimonio con Maria Adele Guglielmo in Lupini, sua fedele
consorte nel bene e nel male, in salute e in malattia finchè morte non vi
separi, amen.
Nella foto c’è una sorridente Maria Adele, giovane e innocente, che stringe in
mano il suo bouquet di roselline bianche, vestita nel suo lungo abito ricamato
a mano con un pizzo leggero a disegnarne i contorni. Le era sempre piaciuto
quel vestito anche se purtroppo non aveva più avuto occasione di rimetterlo,
ma Maria Adele lo guarda appeso nell’angolo sinistro dell’armadio e sogna un
giorno di donarlo a sua nuora per il matrimonio del figlio.
Nella foto però c’è un particolare, anzi due.
Il primo è un accenno di protuberanza addominale non dovuta all’ansia o al
troppo cibo, bensì ad una dolce attesa che così dolce non era.
Il matrimonio venne organizzato in fretta per riparare al danno e non far
parlare troppo il quartiere, ma si sa, il quartiere ama parlare e le voci girano
veloci, quindi tutti sapevano ma nessuno parlava troppo.
Anche perché Carlo Maria Lupini è sempre stato un uomo retto, tutto d’un
pezzo, che non lasciava spazio agli errori ma soprattutto ambizioso e
concentrato. Quando voleva una cosa, la otteneva, a costo di passare sopra
qualcosa o qualcuno.
Laurea in Economia, commissario di polizia a 30 anni superando
brillantemente il concorso pubblico, Specializzazione in “Scienze della
Sicurezza” e via tutta la trafila
– Commissario Capo
– Vice Questore Aggiunto
– Dirigente (primo dirigente, dirigente superiore ovvero questore, dirigente
generale).
Fino ad arrivare a diventare il più giovane Questore della Repubblica Italiana.
Ahh… Carlo Maria Lupini. Un uomo ligio al dovere, mai un capello fuori
posto, mai una parola di troppo, mai una perdita di controllo.
Fuori casa.
Dentro casa, invece, avveniva la trasformazione.
Quando tornava a casa si slacciava la cravatta, poggiava la giacca dai colori
tenui sullo schienale della sedia e iniziava a bere.
Da quel momento, Carlo Maria Lupini diventava l’uomo nero, il Babau dentro
l’armadio di notte, il mostro da cui scappare nei film di paura.
Da buon poliziotto conosceva le tecniche per farsi dire la verità, sia con le
buone che con le cattive e generalmente a pagarne le conseguenze era la
giovane Maria Adele che incassava i colpi senza urlare, ma piangendo nel
silenzio della sua stanza solitaria.
I lividi erano nascosti, in sezioni calcolate del corpo, per non lasciare tracce
evidenti e per mantenere il buon nome della famiglia.
E quindi sorrisi e galanterie fuori, schiaffi e saponette nel calzino dentro.
Il secondo particolare della foto è un puntino nero che esce dalla manica
della camicia di Carlo Maria Lupini, qualcosa che ad un primo sguardo si
perde fagocitata dal contesto.
Ma a guardar bene si capisce che quello è un disegno. Anzi no, un tatuaggio.
Un serpente arrotolato intorno ad un pugnale, con occhi di fuoco e lingua
biforcuta.
Un simbolo di qualcosa.
La recluta Francesco Lupini lo vedeva sempre quando la mano del padre
picchiava la schiena della madre, quando il serpente prendeva vita e si
scatenava sul corpo della giovane ed esile donna che chiedeva invano pietà.
Vedeva gli occhi rosso sangue, il pugnale come estensione della mano
paterna e il braccio come arma di convincimento.
“Se vuoi una cosa, devi fare di tutto per ottenerla e nessuno deve mai
ostacolarti”, continuava a dire Carlo Maria Lupini al figlio, mentre finiva di
lavorare dietro l’enorme scrivania di mogano nel suo studio.
Alle pareti c’erano i ritagli di giornale con tutte le imprese di suo padre, una
galleria di ricordi e di celebrazioni per pompare un ego già spropositato.
Ma da nessuna parte c’era una foto di famiglia, non una foto di lui da
bambino, non un ricordo per sapere se almeno un giorno erano stati felici.

Il momento preferito della recluta Francesco Lupini era la cena, quando tutti e
tre si sedevano a tavola e dicevano insieme le preghiere, mano nella mano, a
partire da papà Carlo Maria Lupini. Ognuno chiedeva a Gesù qualcosa, chi di
proteggere la casa, chi di proteggere la famiglia, chi di proteggere la madre.
L’unico appiglio sano era la nonna paterna, una donna piccola di fisico ma
grande di cuore, con cui riusciva a parlare e a giocare senza sentirsi
sbagliato.
Giocavano a nascondino nel cortiletto interno del palazzo dove vivevano e lui
vinceva sempre perché a nascondino era un vero campione; o almeno così
pensava, senza valutare che forse la nonna chiudeva un occhio quando i
piedi uscivano fuori dal suo nascondiglio perfetto e rivelavano la posizione del
piccolo Francesco Lupini.
Purtroppo la sua scomparsa è arrivata quando era al liceo, nel pieno della
sua crescita, lasciandolo da solo a giocare a nascondino.
Una sera, davanti al caminetto acceso, Carlo Alberto Lupini stava leggendo
alcune carte di un maxi arresto che avevano effettuato, sorridendo al
pensiero del suo grande operato. Maria Adele Guglielmo in Lupini cuciva un
centrotavola con i suoi ferri corti da lavoro e la non ancora recluta Francesco
Lupini era immerso nella lettura del suo fumetto preferito, quando ad un certo
punto alzò il naso dalle avventure di Batman e chiese candidamente: “Papà,
che vuol dire quel tatuaggio sulla tua mano?”.
Maria Adele Guglielmo fece cadere i ferri corti, ma non riuscì ad alzarsi, il
terrore le aveva paralizzato le gambe, lasciandola come il gomitolo di lana a
cui stava lavorando.
“Non è niente amore, lascia stare papà che sta lavorando”
“Ma io voglio sapere” ripetè con l’innocenza di un bambino che non sa.
“Voglio sapere, papà, voglio sapere, voglio sapere…”
Maria Adele Guglielmo cercò di portare via il figlio mentre Carlo Alberto Lupini
si alzò lentamente, lentamente si slacciò la cintura dei pantaloni e lentamente
ma senza sosta cominciò a colpire il piccolo Francesco Lupini fino a lasciarlo
tramortito a terra.
Le urla del piccolo si mischiavano al pianto della madre e alla ferocia del
padre, mentre il serpente ancora una volta prendeva vita e si portava via quel
grammo di innocenza perduta.
Quando la rabbia passò, a terra rimase un corpo sanguinante e la
disperazione di qualcosa che si era rotto per sempre. “Non lo chiedere mai
più” furono le ultime parole di Carlo Alberto Lupini prima di veder svenire il
figlio.
Crescendo i lividi spariscono anche se le cicatrici restano vive sull’anima, ma
di quella situazione, di quel ricordo, nessuno ha mai più fatto cenno. Certo ci
sono state altre botte, altre cinghiate, altri occhi di serpenti accesi, ma
l’abitudine modifica il pensiero e i giorni si fanno via via più veloci, fino al
raggiungimento della maturità.
Francesco Lupini è in camera sua, la stanza è cambiata con lui e i poster dei
super eroi hanno lasciato spazio alle gigantografie dei gruppi rock preferiti. La
camera è piccola ma ha tutto quello che gli serve, un letto a castello che è da
sempre la sua fortezza, sotto la scrivania con il vecchio pc riciclato da suo
cugino, un armadio con le magliette sgualcite e una libreria con tutta la
collana dei gialli classici, alternati a libri di cucina dei grandi chef stellati e a
qualche fumetto che ancora faceva capolino dal suo passato.
Sognava la fine della scuola, concluso il liceo avrebbe fatto il cuoco nelle navi
da crociera, girando per 6 mesi e stare gli altri 6 in un’isola tropicale a godersi
i soldi guadagnati. E dopo qualche anno di lavoro duro, di gavetta nelle
brigate, si sarebbe staccato e con i soldi guadagnati avrebbe aperto un
piccolo street food, dove avrebbe venduto solo ciotoline di sughi e pane
fragrante, una idea geniale: LA SCARPETTERIA e il logo sarebbe stato
quello di Cenerentola che mangia.
Un posto dove poter fare la scarpetta senza essere visto male dagli altri, con
prodotti genuini e cucinati a dovere.
E a mezzanotte, tutti a casa!
Aveva l’acquolina in bocca al solo pensiero.
Ma i sogni hanno una particolarità, spariscono al sole del giorno e anche
quello di Francesco Lupini era destinato a crollare miseramente sotto il colpo
ben assestato delle parole paterne: “Tu farai la carriera militare”.
Punto.
Niente repliche, niente obiezioni, niente sguardi di intesa.
“Ma…”
La decisione era già presa, l’unico che doveva convincersene era la neo
recluta Francesco Lupini.
Gli occhi di brace del padre, che guardano quelli vuoti del figlio, in una sfida
già persa in partenza, ascoltando i frammenti di cuore che si scompongono e
cadono a terra, senza lasciare traccia.
Davanti allo specchio mentre prova disperatamente a fare un perfetto nodo
Windsor, senza successo, sente alle sue spalle le mani amorevoli e
distaccate della madre che con delicatezza lo fanno ruotare su se stesso
come un ballerino goffo.
Maria Adele Guglielmo in Lupini muove le dita in maniera rapida e chirurgica,
spostando, alzando e inserendo la stoffa della cravatta nella giusta sequenza,
fino a creare il nodo esatto.
“Anche tuo padre non è mai stato bravo” disse anticipando le parole della
recluta Francesco Lupini.
“Quindi c’è qualcosa che non sa fare” ironizza mentre si guarda allo
specchio.
“Vedi… tuo padre in realtà…” non riusciva a trovare le parole giuste,
cercando di soppesare ogni pausa e ogni fiato, per non cadere in fallo, per
non cadere a terra col corpo e con l’anima.
“Tuo padre è un brav’uomo” lo disse d’un fiato, quasi a volersene convincere,
come se, dicendolo piano le parole potessero mutare di forma e diventare
altro da quel che sono, ossia una bugia a cui nessuno crede veramente.
“Quello sul braccio è un simbolo, si fanno chiamare I Timorati di Dio. Sono un
gruppo, sparso nel mondo, di uomini pii, dediti alla parola del Signore, che
della Bibbia hanno preso la parte più antica, quella dove le regole vanno
seguite alla lettera e dove chi non le segue è un impuro che va riportato sulla
giusta via. Il serpente è il demonio e la spada è quella di San Michele che lo
trafigge e lo sconfigge e San Michele è anche il protettore della polizia. Se lo
fece quando entrò nel suo reggimento e nel tempo, insieme agli altri Timorati
hanno cercato di portare l’ordine nel caos. Senza badare troppo alla forma,
ma solo puntando alla sostanza, al risultato. La propria vita è sacra e non si
tocca. Guai a farsi del male, pena la dannazione eterna. Poi però ci sono le
vite degli altri, quelle inutili. Loro li chiamano “le zavorre”, quelli che non
servono alla società, quelli di cui si può fare a meno per il bene finale.”
Era distrutta da questa confessione, che forse stava facendo più a se stessa
che non al figlio.
“Non sempre però quello che può sembrare giusto è sbagliato e viceversa…”
fece una lunga pausa, come a cercare le parole, come a trovare il coraggio
per dirle.
“Lui è un bravo uomo. Non guardarlo così, ha sempre pensato a noi e… alla
fine ci vuole bene. Non dirgli che ti ho detto il significato del tatuaggio, per
favore. Sarà il nostro piccolo segreto. Ora però vai che si fa tardi” e una
lacrima scende mentre veloce la mano la cancella, portandosi dietro i ricordi
e i lividi.
Ma come poteva dimenticare?
Come poteva far finta di non aver sentito quelle botte e di non aver visto quei
colpi?
Uscì dalla porta di casa e la luce del sole gli fece chiudere gli occhi, mentre
sullo sfondo vedeva la sagoma di suo padre.
Forse sorrideva.
Forse era orgoglioso.
O forse si stava solo sbarazzando di un’altra zavorra.
CAPITOLO 6

“Questo cos’è?” chiede il Dottor Madonno.


“Sembra un tatuaggio, e anche fatto male” sottolinea Don Carlo inchinandosi
per guardare meglio da una prospettiva più libera.
“Tu che ne pensi? Hey… Va tutto bene?” chiede Don Carlo vedendo cedere
le gambe della recluta Francesco Lupini.
“Sì. Credo. Potrei prendere un pò di aria?” si avvicina alla porta uscendo dalla
stanza.
“Li facevo più forti questi di città”
“Piantala” dice il Don uscendo anche lui dalla stanza.
La recluta Francesco Lupini raggiunge barcollando l’uscita dell’istituto, una
volta fuori, carica i polmoni di aria come se riemergesse dal fondo degli
abissi. Quel segno, quel marchio, quei ricordi.
È troppo tutto insieme e lo stomaco non resiste all’ondata di schifo,
riversando a terra il pane fragrante e la marmellata fatta in casa.
“Va tutto bene?” ripete ancora una volta Don Carlo sperando questa volta di
avere una risposta e allungandogli un fazzoletto pulito.
“Sì… credo sia stata l’aria condizionata e l’odore forte” risponde mentre si
pulisce la bocca.
“Può capitare. Madonno c’è abituato, a lui non fa più effetto. Vuoi mangiare
qualcosa?”
“No, per carità. Sto bene, vorrei solo tornare in paese”
“Certo, anche se credo che le curve possano far peggio, sai?”
La recluta Francesco Lupini non aveva considerato questo dettaglio non di
poco conto: per arrivare a Monterotuli avrebbe dovuto affrontare quasi 20 km
di curve tra tornanti e paesini, salite e discese, radici e rallentamenti, senza
potersi fermare per dar libero sfogo ai movimenti gastrici.
“Magari possiamo mangiare qualcosina”
“Bravo, così si fa. Ti porto a mangiare una specialità di queste parti” dice
mentre è già con un piede nella jeep nera lucida.
Decidono di non parlare, uno perché assorto nei suoi ricordi, l’altro perché sa
bene quando le parole sono solo una inutile aggiunta.
La strada è breve, non devono fare troppa strada, ma quella manciata di
metri per la recluta Francesco Lupini sembrano migliaia di chilometri verso
l’infinito, che lo portano indietro nel tempo e gli fanno rivivere momenti che
pensava sepolti in fondo al cuore.
Come poteva essere lo stesso tatuaggio?
In un posto sperduto, in mezzo al nulla, come poteva esserci un altro
Timorato di Dio?
Non poteva essersi sbagliato, non poteva essere un errore: il tatuaggio è
quello, esattamente come quello di suo padre, stessa proporzione, stessi
colori, stesso identico tratto.
E allora?
Non aveva una spiegazione per questo, ma la luce di una certezza si fa
strada nella sua testa.
“Non può essere un suicidio” esclama con convinzione.
“Come scusa?”
“Ho detto che non si è suicidato”
“Matteo? E come lo hai capito?”
“È lunga. Ma ti dico che non può essere un suicidio. Ne sono sicuro”
Don Carlo resta in silenzio, guardando la strada dritta, fino a che non curva a
destra in maniera brusca e si ferma.
“Che succede?”
“Siamo arrivati”
In mezzo al nulla, al centro di due strade che si incrociano, la recluta
Francesco Lupini si guarda intorno, spiazzato.
“Ma non dovevamo andare in un ristorante?”
“Non ho parlato di ristorante, ti ho detto che ti avrei portato a mangiare una
specialità di queste parti”.
Scende dalla jeep nera lucida e si incammina verso un baraccotto costruito
con del legno di recupero e sul cui tetto troneggia la scritta <‘o Musso>.
“Ferdinà, fammen rue, va” dice Don Carlo lasciando sul tavolo una banconota
da 5 euro.
“Cos’è?”
“È un tonico, fidati”.
Intorno a loro solo il paesaggio incastrato tra le montagne, qualche macchina
fa capolino passando veloce senza salutare e nel cielo il sole è talmente forte
da sembrare più vicino del normale, come se fosse curioso di sapere chi
sono questi umani che ce l’hanno tanto con lui.
Dopo qualche minuto, quello che chiamano Ferdinando posa sul bancone
due vassoi di alluminio con dentro dei pezzi di quella che sembra carne rosa,
con una fetta enorme di limone accanto e una forchetta di plastica di
accompagno.
I due si siedono ad uno dei lungo tavolo di legno con delle panche traballanti
a far da sedie, accanto a loro altri due signori stanno mangiando e bevendo
in allegria.
“Mettici il limone, il segreto sta tutto lì".
Don Carlo inizia a mangiare di gusto, mentre Ferdinando porta una bottiglia di
vetro con scritto: “PITTILICCHIO ‘19”. Il liquido all’interno dovrebbe essere
vino ma è di un rosso talmente intenso da sembrare sangue.
Oltre alla bottiglia, compaiono magicamente due bicchieri di vetro, di quella
tipologia ottagonale, tipica degli anni ‘80, presenti in quasi tutte le case
italiane e rappresentativa nei film americani che parlano di noi, con la tovaglia
a scacchi, le polpette sugli spaghetti e questi bicchieri con dentro vino rosso.
La recluta Francesco Lupini prende titubante la forchetta, spreme la fetta
enorme di limone e addenta poco convinto un pezzo di quella che sembra
carne rosa.
Il pepe, il limone, il sale e la carne fanno il resto.
Si risveglia la mente, si apre la pancia, lo stomaco fa il giro su se stesso
come un atleta di ginnastica artistica alle Olimpiadi.
Ed è un 10 secco da parte dei giurati.
Le papille gustative esplodono insieme alle paure e alle ansie, il tutto
mischiato in un semplice morso che svela la natura callosa e gommosa della
carne e tutto il suo sapore che si attacca direttamente alle pareti della gola.
“Cosa cazzo è? Dio, Scusami, non volevo. Cazzo, ho detto Dio invano. Va
beh.”
Don Carlo ride di gusto mentre addenta un altro pezzo dal suo vassoio di
alluminio.
“Si chiama ‘o musso, il muso del porco, del maiale. Sono pezzi di naso,
muso, orecchie, un po' di tutto”.
Un conato fa capolino dall’esofago, facendosi strada verso l’alto in cerca
dell’uscita, ma la recluta Francesco Lupini riesce a rimandarlo giù insieme ad
un altro boccone di musso.
La risata di Don Carlo spezza quel momento di tensione che si è creato e la
pacca sulla schiena aiuta a far scendere la specialità di queste parti creando
un clima più disteso, dove anche la recluta Francesco Lupini riesce per un
istante a cancellare dalla mente l’immagine del serpente.
Riempiono i due bicchieri fino all’orlo e poi giù a bagnare il naso del porco
direttamente nella gola, scaldando ancora di più quella giornata torrida
d’estate.
Finita la porzione, finisce anche il vino che scende giù piacevole come la
carezza di un amico, lasciando spazio alla pace e alla voglia di stare insieme.
“Ora che la pancia è piena, vuoi provare a svuotare il cervello?” chiede Don
Carlo mandando giù l’ultimo goccio del suo bicchiere.
“È tipo una confessione?” scherza la recluta Francesco Lupini mentre una
bolla d’aria risale il cavo orale e si infrange sulla sua mano chiusa a mò di
pugno.
“Già. Tipo.”
Ci pensa un attimo, cerca le parole in testa per poi farle uscire in ordine dalle
labbra, ma è come se un muro rallentasse il processo comunicativo, come se
un fantasma del passato volesse ricacciare nel pozzo profondo quei ricordi
sepolti da cumuli di polvere e dolore.
“Partiamo dall’inizio. Spiegami perché secondo te non può essere un suicidio”
La voce di Don Carlo è pacata, lenta, misurata, di quelle che ti fanno parlare
anche se non vuoi e da bravo confessore resta in ascolto senza fretta, senza
forzare la mano per estrapolare una verità scomoda.
Questo fa sì che la recluta Francesco Lupini si abbandoni in quel mare di
pensieri facendo uscire dalla bocca tutto quello che non ha mai raccontato
neanche a se stesso, aggiungendo lacrime ai ricordi e spingendo l’anima in
un labirinto dal quale è difficile uscire.
“Mio padre faceva parte di questa che possiamo chiamare… una setta. Una
sorta di loggia massonica, tutta votata alla lettura della Bibbia. Ma come in
tutti gli estremismi, anche una cosa che potenzialmente potrebbe essere
positiva, diventa il male assoluto. La loro interpretazione della Bibbia si
concentrava sulla parte dell’Antico Testamento, quello dove c’è Dio ma un po’
più, diciamo concreto, per usare un termine leggero.”
Don Carlo ascolta, annuisce lentamente.
“Ogni giorno dovevo leggere le preghiere e imparare a memoria passi della
Bibbia, prima di mangiare dovevamo ringraziare il Signore e dovevamo
procedere per la giusta via indicata da Lui. Solo che il concetto di “giusto” per
mio padre è sempre stato un po’ labile, o meglio se ti mettevi sulla sua via…
ne pagavi la giustezza.”
Un accenno di sorriso fa sembrare la situazione più tranquilla, mentre, dentro,
il mare è in subbuglio ed è talmente agitato da far riemergere antiche paure
chiuse in gabbia.
“Ma su una cosa non c’era margine di errore: il suicidio non era contemplato.
Mai. Devi sapere che mio padre aveva un fratello gemello, anche se di
gemello avevano solo l’aspetto fisico. Mio zio era dolce e gentile, sempre
attento agli altri e generoso. Non aveva figli e mi trattava come se fosse un
secondo padre.
Quando ero piccolo giocavamo insieme, mi ha insegnato a giocare a carte,
mi faceva i trucchi di magia e tante altre cose.
Solo che più io crescevo e più lo vedevo stanco, ma sempre sorridente.
O forse semplicemente stava cambiando il mio sguardo verso il mondo, non
lo so. So solo che un giorno sento una telefonata di mia madre, dice che mio
zio ha provato a suicidarsi.
Depressione.
Si era buttato di sotto, giù dalla finestra, ma fortunatamente un albero aveva
attutito la caduta, procurandogli solo un braccio e qualche costola rotte e
parecchi lividi. Da quel giorno, però, non ho mai più rivisto mio zio. Mai.
Perché mio padre l’ha praticamente bandito da casa, lo ha eliminato dalla sua
vita, ha distrutto foto e ricordi di quello che era stato il suo gemello. Se glielo
chiedevi, lui era figlio unico.”
La recluta Francesco Lupini fa una pausa, inspira l’aria calda del sole estivo e
espira ricordi e solitudine.
“Diceva che la vita è sacra, che il giuramento fatto a Dio era inviolabile e che
guai a farsi del male, a ferirsi o peggio ancora a fare quello che aveva fatto
l’uomo che un tempo chiamava fratello. Lui ora era figlio unico e non c’è mai
stato modo di fargli cambiare idea”.
Quando il racconto finisce, Don Carlo semplicemente poggia una mano sulla
gamba del suo interlocutore.
Questo gesto, semplice e gentile, depotenzia il torrente che invade il cervello,
facendo defluire l’acqua attraverso canali secondari e riportando il livello di
guardia ai limiti sopportabili, lasciando così la recluta Francesco Lupini
svuotato ma più leggero, con i suoi fantasmi di poco più distanti.
“Non deve essere stato semplice”
Fa cenno di no con la testa.
“Immagino. Quindi da quello che dici non può essersi fatto del male da solo”
“Se faceva parte dei Timorati di Dio, no. Nella maniera più categorica. La
propria vita andava salvaguardata oltre ogni altra cosa. E quel tatuaggio è
talmente particolare che non può essere un caso.”
Don Carlo ci pensa un attimo, cerca di fare mente locale e poi convinto dice:
“Devi dirlo subito al Capitano Manfredi, è fondamentale”
“Ecco. Ora però dovrei fare un’altra confessione”
Questa volta ad essere spiazzato è Don Carlo, non capendo dove stia
andando a finire la discussione.
“Che succede?”
“Ecco, vedi… In realtà io non sono stato chiamato qui per questo caso. Cioè.
Non sapevo neanche ci fosse un morto.”
“Come no?”
“No. Io dovevo incontrarti per farti firmare un foglio, un documento per un
minore che è stato spostato dalla comunità di Roma alla tua parrocchia. Sono
beghe legali che fanno fare agli ultimi arrivati, io non c’entro niente con tutto
questo. E neanche il mio Commissario sapeva di questa storia.”
“Ma allora perché mi hai mentito?”
“Non ho tecnicamente mentito, ho omesso.”
Don Carlo lo guarda con un misto di compassione e svogliatezza.
“Ok, ok. Non ho detto niente perché… perché volevo sentirmi importante.
Potevo far parte di una indagine vera, non fare il galoppino con queste
cartacce da portare in giro. E poi sei tu che mi hai coinvolto.” prova a
giustificarsi senza grande successo.
“In effetti il Capitano Manfredi mi aveva solo detto che saresti arrivato e che
avrei dovuto accoglierti. Io pensavo fossi qui per indagare ma evidentemente
l’errore è stato reciproco.” Sorride creando delle fossette irresistibili agli angoli
della bocca.
Sicuramente molte devote si sono sentite sole dopo la sua dipartita
ecclesiastica.
“Non ho scuse. Ho sbagliato, lo so.”
“Sì. Hai sbagliato. Ma senza questo errore forse non avremmo mai saputo la
verità. Ora sei, come si dice… una persona informata sui fatti? Comunque sai
qualcosa in più di quello che sa la polizia e in più sei un poliziotto vero”
“Recluta. Cioè in realtà sono un Agente semplice, ma mio padre mi chiamava
sempre Recluta e mi è rimasto addosso.”
“Recluta, Agente, ma sempre della polizia fai parte, o è una bugia anche
questo?”
“No, no. Questo è vero.”
“Ecco, quindi puoi in qualche modo collaborare alle indagini, vedrai che il
Capitano Manfredi sarà solo che felice di questo supporto”

“Assolutamente no! Ma cui cazz è chesto che arriva e fa il lavoro nostro? Ma


soprattutto comme cazz s’è permuss di inquinare le prove di un caso di
omicidio?”
“Capitano, in realtà senza di lui pensavamo fosse un suicidio e non un
omicidio”
“Ma chi se ne fotte! Questo viene da Roma per rubarci il lavoro? Alloche vi!
Mo sento Giuliani e gliene dico quattro. Che pensa che non abbiamo gente
boni qui in Molise?”
L’ira del Capitano Manfredi è implacabile, anche se mentre parla al telefono si
trova con un mojito in mano, sdraiato comodamente sul lungomare di Termoli,
mentre guarda di sottecchi l’animatrice del villaggio che si tuffa dal bordo
della piscina. In sottofondo si sente la moglie che cerca blandamente di
placarlo, ricordandogli che è cardiopatico e che deve prendere la pasticca per
la pressione.
Dall’altra parte della cornetta, nella caserma di Monterotuli, l’appuntato
Carmine Marcolfi cerca solo di riportare i fatti, arginando l’ira funesta del
pelide Manfredi, evidentemente senza successo.
Accanto a lui la recluta Francesco Lupini e Don Carlo ascoltano l’invettiva
senza poter intervenire, ma guardando l’appuntato Marcolfi cedere sotto i
colpi incessanti del nemico.
Ad un tratto Don Carlo fa un cenno con la mano, alzando il dito per indicare il
telefono, prendendo la cornetta.
“Pronto”
“Chi cazzo è?”
“Capitano Manfredi, sono Don Carlo”
“Oh, mi scusi Don Carlo, non l’avevo riconosciuta, come sta?”
“Io bene, voi come state?”
“Bene. Cioè. Stavo bene, fino a che non mi hanno riportato queste notizie
agghiaccianti”
“Lo capisco, anche io non sapevo. È stato tutto un mio errore, il malinteso è
partito da me.”
“Ma non si scusi, veramente. Anzi, sono io a scusarmi con lei Don Carlo,
perché l’ho coinvolta in tutto questo. Quando il Commissario Giuliani mi ha
detto che avrebbe mandato qualcuno, la comunicazione non era delle migliori
e sicuramente il conguacchio è capitato lì. Come il telefono senza fili. E l’ho
anche coinvolta in questo delirio. Me ne dispiaccio. Per farmi scusare appena
torno le offro una bella cena di pesce a lei e alla sua consorte”
“Grazie mille Capitano, ma non c’è problema. Guardi, le spiego un attimo la
situazione.”
E nel raccontare con il suo tono pacato e rassicurante, anche il Capitano
dall’altra parte della cornetta sembra accettare la proposta, senza opporre
troppe resistenze.
Don Carlo saluta ripetutamente fino a chiudere la comunicazione, poi si volta
verso l’appuntato Carmine Marcolfo e verso la recluta Francesco Lupini.
“Dice che puoi aiutare. Come persona informata dei fatti. Senza però
inquinare le prove o fare di testa tua. Ma devi far affidamento a questo
distretto per tutte le comunicazioni.”
“Mi sembra ottimo”
“E io devo starti accanto”
“Ottimo anche questo”
I due escono dall’ufficio dell’appuntato come due vecchi amici che hanno
appena fatto una marachella e sono riusciti a non farsi sgridare, anche se in
realtà quello a cui stanno andando incontro è decisamente peggio di una
strigliata.
CAPITOLO 7

Arrivato in piazza, la recluta Francesco Lupini ha solo bisogno di mettersi


sotto la doccia, lavarsi via i pensieri e magari farsi anche un sano riposo. Il
Bar di Irene è chiuso e i tavolini spogli sono occupati da un paio di piccioni
che finiscono di banchettare con i resti di chi c’è stato.
Il gatto rosso a strisce nere non pare interessato ai pennuti, ma stancamente
si trascina in cerca di ombra sotto l’albero.
Se rinasco voglio rinascere gatto, anzi questo gatto, pensa la recluta
Francesco Lupini mentre scende le scale per tornare al B&B.
Davanti alla porta scopre l’amara verità: nella fretta di andare all’incontro con
Don Carlo ha dimenticato le chiavi della stanza e ora per entrare deve
suonare il campanello.
Non ha mai avuto così tanta avversione per l’Inno d’Italia.
Sulla cavalcata del “turutu, turutu, turututtuuttuttutuuu” si apre la porta e si
affaccia Leandra in tutto il suo splendore.
“Scusami, ho dimenticato le chiavi”
“Non preoccuparti, sono qui apposta”
Il suo sorriso è qualcosa di magico, la sua voce è velluto che scivola sulla
pelle lasciandoti quella sensazione di benessere sul corpo, è come se si
conoscessero da sempre e l’impulso di abbracciarla è forte.
Il cervello però si ferma ad un “Come va?”
“Bene, grazie. Hai già risolto il caso?”
Ah, già il caso.
Ah, già, ma lei è coinvolta.
Lei è…
“Tu sei la sua promessa sposa”
Niente, il cervello non riesce a fermarsi in tempo.
È come se mancasse un filtro tra quello che pensa e quello che dice.
Leandra ci mette un attimo a capire le sue parole, poi collega i pensieri e un
velo di tristezza le copre gli occhi, creando una barriera infinita tra i due, un
muro di ghiaccio che, dalle profondità della terra, arriva fino alla punta dei
capelli della recluta Francesco Lupini.
Lui sente di aver fatto un errore fatale, un autogol all’ultimo minuto, una gaffe
imperdonabile.
O come si dice in gergo poliziesco: una bella figura di merda.
“Scusami, non volevo”
“Non preoccuparti. Sì sono io. Ora però devo andare a… fare un po’… di
spesa. Scusa” e va via salendo velocemente le scale che portano in piazza,
lasciandolo solo a pensare alle sue parole e a come poter fermare la lingua la
prossima volta.
Se mai ci sarà una prossima volta.
Entra sconsolato in camera, ha bisogno di lavarsi, di cambiarsi e di una voce
amica da ascoltare.
Il cellulare non prende, avrebbe voglia di chiamare la madre, l’unica donna
che ancora gli è rimasta accanto nonostante tutto, ma la tecnologia stenta ad
arrivare per i vicoli di questo paese e il pensiero di tornare a casa è forte.
Che ci sta a fare qui, a giocare al detective, lontano chilometri da casa, con la
donna della sua vita ad un passo fisicamente ma a pianeti di distanza
emotivamente?
Forse è meglio rifare le valigie, far firmare le carte a Don Carlo e tornare a
casa, alla sua scrivania ordinata, alle melanzane sott'olio di zia e ai panini
con sopra l’olio per merenda.
La recluta Francesco Lupini si spoglia, lascia i vestiti ordinati sul bordo del
letto e si infila nella doccia, sperando che l’acqua calda trascini via i pensieri
e la pesantezza.
Le immagini di poco prima si riaffacciano nella mente: il corpo tumefatto di
quel giovane ragazzo, il tatuaggio, suo padre e la cinta sulla sua schiena.
Troppe cose tutte insieme, troppo per una sola persona, troppo per lui.
Almeno l’acqua è calda, la doccia confortevole anche se piccolina e gli
asciugamani incredibilmente morbidi. Negli alberghi, quelle poche volte che
era andato in albergo, aveva sempre trovato degli asciugamani rigidi e ruvidi,
come carta abrasiva che non asciugava la pelle, ma portava via direttamente
il primo strato di cute, lasciando il muscolo all’aria aperta.
Ormai è deciso, niente può fermarlo, il ritorno nella sua Roma caotica e
accogliente lo aspetta.
Pensa a sua madre, alla carbonara che sicuramente gli preparerà al ritorno,
lo fa sempre perché sa che è il suo piatto preferito anche se non dovrebbe
perché poi la sera puntualmente sta male con lo stomaco.
Pensa alla sua camera e ai libri che mancano da leggere, principalmente
gialli, per vedere se riesce a scoprire prima degli altri chi sia l’assassino.
Pensa ai chilometri da percorrere con il suo pandino verde bottiglia e
soprattutto a dove ha messo le chiavi.
Mentre sceglie con cura i vestiti da indossare, vede a terra un foglio di carta
fare capolino da sotto la porta di ingresso.
Strano, non c’era niente prima, forse gli sarà caduto dalla tasca?
Lo raccoglie e lo guarda distrattamente.
Gli occhi si sbarrano.
La mano che tiene l’asciugamano si apre, lasciandolo in costume adamitico,
senza nessuna protezione dal mondo esterno.
Apre di corsa la porta ma non c’è più nessuno.
Fortunatamente, anche perché è ancora nudo come un verme e se lo avesse
visto Leandra le sue possibilità di suscitare interesse in lei sarebbero scese
sotto il livello minimo consentito dalla legge.
Chiude la porta, cerca a tastoni l’asciugamano per terra senza staccare gli
occhi dal foglio e rilegge con le labbra le parole scritte sopra.
LASCIA STARE I MORTI E TORNATENE A CASA, SE NON VUOI FARE LA
STESSA FINE.
Una minaccia.
Una minaccia in vecchio stile.
Non sa se essere preoccupato o onorato di questa cosa.
Lui, che viene minacciato da uno sconosciuto, neanche nei suoi migliori libri
gialli avrebbe mai avuto la speranza di vivere questo momento.
E invece eccolo lì, completamente nudo, con in mano un asciugamano e un
foglio di carta.
Foglio di carta semplice, scritto a mano, penna blu.
Chissà da quanto tempo è lì; cercare qualcuno per i vicoli non porterebbe a
nulla, ma sicuramente una cosa questo messaggio l’ha fatta: ha fatto tornare
alla recluta Francesco Lupini la voglia di restare a Monterotuli.
Se c’è una cosa che proprio non sopporta sono le minacce.
Fin da piccolo, quando il nonno gli diceva “O mangi questo o niente cena”, lui
era capace di non cenare per giorni, facendosi venire i crampi allo stomaco
ma rimanendo fermo sulle sue convinzioni.
Anche crescendo la cosa non è migliorata e per lui la frase: “O questo o
niente” lo lasciava sempre con il niente in mano.
Era entrato in polizia anche per non dover sottostare ai ricatti, per poter
difendere quelli che venivano ricattati e soprattutto per poter mangiare quello
che voleva senza sentirsi sotto pressione.
E ora, in un posto dimenticato da Dio, in un vicolo bagnato dal sole, in una
stanza con un crocifisso, la foto del Presidente e il quadro di una signora
imbarazzata dalla sua nudità, gli viene fatta una minaccia così pesante.
Vattene o sarà peggio per te.
È la molla che stava aspettando per rimanere.
In cuor suo non voleva veramente abbandonare questo caso, chissà se mai
gli sarebbe ricapitata un’altra occasione del genere e avere il via libera per
poter seguire da vicino gli eventi gli fa brillare gli occhi.
Si veste, mette il foglietto in tasca e esce dalla stanza alla ricerca di un caffè.
Magari freddo.

Fuori dalla stanza il caldo è veramente intenso e non accenna a scendere,


forse non è stata una grande idea uscire a quell’ora, ma non riesce a stare in
camera, ha bisogno di smaltire la rabbia dopo quella minaccia.
I gradini sembrano incredibilmente più ripidi con l’afa che sale dal basso e le
ombre che si formano sembrano miraggi nel deserto.
Decide di continuare per la strada, non è ancora andato da solo oltre il vicolo,
magari esplorando il paese può trovare qualcosa di interessante.
Dopo alcuni interminabili gradini, finalmente arriva ad una piazza piccolina
ma ben curata, ci sono due scalinate di rimpetto, da una parte c’è un palazzo
bianco con la scritta MUNICIPIO, con accanto due bandiere una italiana e
una europea, l’altra scalinata invece conduce alla chiesa, una grande
struttura medievale con mattoni in rilievo e guglie sulla parte alta.
Alzando lo sguardo la recluta Francesco Lupini vede qualcosa di arancione
incastrato in una rientranza, non capisce bene cosa sia, sembra quasi…
Sembra quasi un pallone.
Uno di quelli che usava anche lui da piccolo, che finivano sempre sotto le
macchine lungo la strada dove giocava con gli amici e per andarlo a togliere
ci si sporcava di fango e grasso.
È proprio un pallone, ma per lanciarlo così in alto e soprattutto per farlo
restare così ben incastrato, chi lo ha lanciato deve essere stato un fenomeno
e avere una forza incredibile.
Oltre il pallone, c’è l’orologio e la campana per richiamare i fedeli.
Suona ogni quarto d’ora, o almeno così crede di aver capito la recluta
Francesco Lupini, perché ogni tanto non ricorda di averla sentita scandire tutti
i passaggi.
Ora sono quasi le 16, tra poco capirà se suona o no.
La porta del municipio è chiusa, fuori c’è un cartello con gli orari per trovare il
sindaco, dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 16.
In alternativa c’è addirittura il numero di cellulare.
Cercando riparo dal sole, entra nella chiesa e scopre che l'interno è molto più
scarno dell’esterno.
Un altare bianco, un enorme crocifisso in legno con sopra un Gesù
estremamente sofferente ma con un fisico invidiabile e lateralmente la statua
di un angelo che trafigge con una spada un serpente che sta cercando di
morderlo.
San Michele.
Ancora.
Sembra quasi una persecuzione o forse l’universo vuole dirgli qualcosa.
“Posso aiutarla?”
La vocina viene dal basso, anche se è incredibilmente alta e stridula.
La recluta Francesco Lupini si volta ma non vede nessuno, poi scende con lo
sguardo e vede una suorina, piccola e robusta allo stesso tempo, con un
lungo velo nero a coprirle i capelli.
Se non fosse per l’accenno di barba l’avrebbe scambiata per una delle statue
della chiesa.
“Scusi, non l’avevo vista”
“Non c’è problema, succede praticamente a tutti. Sono Suor Giuseppina.”
“Piacere, recluta Francesco Lupini.”
“Posso aiutarla?”
“Non lo so. Non so perché sono entrato”
“Anche questo succede praticamente a tutti.”
I due sorridono per la battuta e la tensione iniziale si scioglie velocemente.
“C’è Don Carlo?”
“No, ormai ha tolto i voti” risponde la suora con un lieve sospiro.
“Sì, mi scusi, è vero. Non so perché credevo fosse qui”
“Oh sì, lui passa sempre, da una mano. È un collaboratore pastorale, lo
chiamano così ora, anche se semplicemente il legame con queste mura va
oltre l’amore terreno. Comunque sta per arrivare, credo sia andato a Pozzalli
con qualcuno ma non ne so di più”
“Chiaro.”
“Se vuole pregare, la chiesa è sempre aperta, e soprattutto qui fa fresco”
È vero, nella navata centrale della chiesa c’è molta aria e le porte spalancate
sui due lati aiutano a creare una corrente leggera ma costante, una sorta di
ventilatore naturale che fa asciugare il sudore sulla schiena e che crea un
piccolo brivido alla recluta Francesco Lupini.
“Grazie, magari ripasso più tardi, non c’è niente di urgente.”
Salutata suor Giuseppina, esce nel caldo di quel pomeriggio che ancora
martella i fianchi, perdendosi nuovamente per i vicoli di Monterotuli ma
vedendo in lontananza i merli di un castello.
Essendo un paese medievale, la vita, e di conseguenza le strade, si
diramano tutte dal castello che domina la vallata ed è il punto di incontro della
movida dell’epoca.
Le gambe stanche lo conducono lentamente per una ripida salita fino ad
arrivare all'imponente porta di ingresso del castello Pignatello la cui effige
narra: CODESTO EST LO CASTELLO DE LO PRINCIPE PIGNATELLO. EST
FATTO DIVIETO DI COMBATTIMENTO ET DI BESTEMMIA ALCUNA. PENA
GOGNA ET ESECUZIONE CAPITALE.
Evidentemente cazzotti e Santi da queste parti sono sempre stati di uso
quotidiano.
La porta è aperta e la strada che conduce alla corte interna del castello ha
una via lastricata di ciottoli bianchi, come nelle migliori tradizioni
cavalleresche.
Continuando a camminare per questa stradina costeggiata dal muro di cinta e
dalla facciata laterale del castello, la recluta Francesco Lupini arriva nel
grande giardino con siepi tagliate perfettamente e fiori colorati sugli angoli
delle finestrelle. Sembra tutto fermo e tutto vivo, in un mix incredibile tra
passato e presente, tra vita e morte, tra sogno e realtà.
Un uomo vestito con una salopette di jeans è di spalle e sta passando una
scopa di saggina sul viottolo, cercando di spostare le foglie morte dell’enorme
ulivo piantato al centro del giardino senza però spostare di troppo i sassolini
bianchi a terra.
Un lavoro praticamente impossibile.
“Salve”
L’uomo continua nel suo compito certosino.
“Scusi”
La scopa di saggina separa le foglie dai sassi.
“Ehilà”
La mano della recluta Francesco Lupini si poggia sulla spalla dell’uomo che
immediatamente fa un salto felino di quasi mezzo metro per ricadere
rovinosamente a terra, abbandonando la scopa di saggina come se fosse
fatta di fuoco.
“Ma cu cazz…”
“Mi scusi, la stavo chiamando”
L’uomo si toglie le cuffiette dalle orecchie e tenta di rialzarsi.
“La aiuto?”
“Facc io”
“Mi scusi non volevo farle paura”
“Ma vire tu cu cazz re spavento. Chi si tu?”
“Sono la recluta Francesco Lupini”
“E che cazz vuò?”
“Stavo facendo un giro”
“Ecche, mo vire re girà luntane”
Risponde seccato rimettendosi le cuffiette e continuando a fare il suo lavoro.
Accidenti, credo che l’aria del castello faccia male, pensa mentre torna sui
suoi passi ripercorrendo la strada lastricata.
Guardando verso l’alto vede un movimento, qualcosa che lo incuriosisce: da
una delle finestre chiuse si affaccia una donna o almeno così sembra, poi la
tendina si richiude e l’immagine svanisce.
Sta per chiedere spiegazioni a Mister Simpatia ma decide che è meglio
continuare a cercare un caffè, ne ha necessità.
CAPITOLO 8

Continuando per la strada del castello si finisce in un dedalo di stradine e


scale partorite dalla mente di Escher fino ad arrivare ad una piazza.
Anzi, a LA piazza.
Sempre la stessa.
Stesso Bar, stessa gente, stessi tavoli.
Sembra uno di quei film francesi dove il protagonista non riesce ad uscire
dalla stanza perché qualche entità misteriosa lo tiene legato lì e ogni volta
che ci prova c’è un motivo diverso per restare.
Almeno in questo caso c’è una cosa buona: può prendere un caffè.
Al tavolino, le tre Marie continuano a discutere su chi debba pagare la
colazione. La recluta Francesco Lupini si avvicina al bancone di Irene e le
dice una cosa a bassa voce, poi si siede tranquillamente al suo tavolo
aspettando il risultato delle sue azioni.
Arriva Irene con un vassoio con sopra un cornetto alla crema, uno alla
cioccolata e uno al pistacchio e sorridente dice: “Sono già pagati” indicando il
gentil cavaliere.
Le signore si fermano, si guardano e si lasciano andare ad un enorme sorriso
che accoglie tutta la piazza.
Gli fanno cenno di accomodarsi con loro e rubano una sedia dal tavolino
vicino.
“Ma che bel pensiero” dice Maria Crema
“Veramente gentile” ribatte Maria Cioccolato
“Umhf” conclude Maria Pistacchio assaggiando un pezzo del suo cornetto.
“Non fare la scostumata”
“Lei è stato veramente gentile”
“Non mi dia del lei. Possiamo darci del tu?”
“Ovviamente” dice Maria Crema
“Certo” ribatte Maria Cioccolato
“Umhf” conclude Maria Pistacchio finendo il suo cornetto.
“La scusi, ma con gli estranei è sempre nu poco guardinga” dice sottovoce
Maria Crema, ma non così tanto sottovoce da non far arrivare il messaggio a
chi di dovere.
“Voi siete qui pe lu morto, giusto?” chiede Maria Cioccolato guardandolo fisso
negli occhi.
“Scostumata!”
“Ma no, si figuri. Sì, cioè, in realtà no. Ma diciamo che ora sono un semplice
ficcanaso”
“Paraculo”
“Come scusi?”
“Da noi, qui in paese, si dice paraculo. Uno che si fa gli affari degli altri.”
spiega Maria Crema.
“Non lo sapevate?”
“Pensate, a Roma invece paraculo è uno che si fa gli affari suoi”.
“Com’è, come non è, sempre brutte persone sono i paraculi.” e così dicendo
Maria Pistacchio si alza per andare al bancone da Irene.
“Ma che ha?”
“Avrà litigato con suo marito”
“Ma quella non è sposata”
“E allora è solo stronza”
Ridono insieme, di quella presa in giro tra amiche che si conoscono da una
vita e che possono dirsi di tutto, in faccia e dietro la schiena.
Anche la recluta Francesco Lupini sorride, rivedendo in loro la relazione che
la madre ha con due sue amiche storiche; anche loro prendono sempre il
caffè la mattina insieme e sparlano di chiunque passi per la strada, dicendo
che quella è troppo vestita, quello è troppo scoperto, quella con quel taglio di
capelli mamma mia… non risparmiano nessuno, ridendo per ogni commento,
senza però alcuna cattiveria.
Lo fanno per passare il tempo, così come fanno le tre Marie litigando ogni
mattina su chi deve pagare la colazione.
“Comunque, avete già visto il poveretto”
“Poveretto ru cazz”
“Maria!”
“Eh ma quando ci vuole. Chello menava, e pure forte!”
“Parlate di Leandra?” le interrompe la recluta Francesco Lupini.
“Eh. Chella figlia sì che è na poverina. Atro che isso. Signore scusami”
Maria Crema si fa velocemente un segno della croce guardando in alto.
Quindi le parole di Don Carlo erano vere, in paese tutti sapevano.
“E poi, mica si vattono le uaglione incinta”
“Come scusi?”
“Ho detto, mica si colpiscono le ragazze incinte”
“Chi era incinta?”
“Leandra, chi sennò?”
Quindi Don Carlo non aveva detto tutta la verità.
Forse aveva omesso dei dettagli davanti al Dottor Madonno?
O forse non lo sapeva.
“Ma era un segreto?”
“Che?”
“La gravidanza”
“E sì, o segreto ru pulcinella”
“Tutti in paese sanno tutto. Un paese di paraculi. Paraculi alla molisana però,
non alla romana”
O forse semplicemente Don Carlo non voleva dirlo proprio a lui.
Il ritorno di Maria Pistacchio interrompe la conversazione, facendola virare su
argomenti più neutri.
“Eppure dice che tra un po’ piove”
“Ma che piove che fanno 50 gradi”
“L’estate chiu cauda degli ultimi ruciente anni”
“Dice treciente”
“Se mo! Due”
“Tre”
E riparte la discussione, che non trova vincitori e non ha perdenti, ma è solo
un modo per far trascorrere il tempo in un paese che è senza tempo, in uno
spazio dove il mondo sembra essersi fermato e aver trovato una nuova
dimensione.

La recluta Francesco Lupini torna al suo tavolo, finalmente prende il suo caffè
e si avvicina al bancone per pagare.
“Ma no, questo ve lo offro io” dice Irene sorridendo.
“E perché?”
“Perché siete stato così gentile con loro tre e mi piacciono i giovani educati”
Lo sguardo è quello di una mamma orgogliosa del figlio, di chi vede nelle
nuove generazioni una speranza per il futuro e di chi è felice di conoscere
belle persone.
“Irene, toglimi una curiosità. Sono passato ora al castello, ma ci vive
qualcuno?”
“Dentro? No, ci fanno solo qualche evento ogni tanto. Perchè?”
“Perché mi sembrava di aver visto una tenda spostarsi e una donna guardare
da dietro i vetri”
“Ahahahah, hai visto Carmela”
“E chi è?”
“Donna Carmela di Pignatello, la padrona del castello”
“Che fa anche rima. Quindi qualcuno ci vive”
“No, lei era la padrona del castello, nel senso che è morta trecento anni fa”
“E allora chi ho visto?”
“Voci dicono che il suo fantasma giri ancora per il castello e si fa vedere solo
ai puri di cuore. Lo vedi che ho fatto bene a offrirti il caffè?”
E se ne va ridendo, lasciando un alone di inquietudine nel cuore della recluta
Francesco Lupini che mette il portafoglio in tasca ed esce nella piazza.
Una volta fuori, sente suonare le campane, un richiamo per i fedeli che
seguono il flauto magico del pifferaio, fino ad arrivare nel sacro luogo dello
spirito.
Anche lui si incammina verso la chiesa, convinto sempre di più di dover
parlare con Don Carlo per farsi spiegare le sue omissioni.
Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri,
parole, opere e omissioni per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
L’atto di penitenza è la preghiera che più racchiude il senso di colpa inculcato
in lui dal padre, perché in quella frase c’è la sintesi completa del suo credo: la
colpa è solo tua.
Per tutto.
Per quello che fai, per quello che pensi, per quello che dici ma anche per
quello che non fai e non dici.
Per tutto.
È colpa tua.
Il suo sesto senso era il senso di colpa.
Come se vivere e gioire non fosse contemplato dal Vangelo, come se l’atto di
penitenza e l’atto di dolore fossero la sintesi di una dottrina secolare.
Con questi pensieri e con lo spirito rinfrancato dalla gioia di avvicinarsi al
Signore, si ritrova davanti all’ingresso della chiesa, con il grande portone
spalancato e quell’odore di incenso che lo riporta indietro nel tempo, a
quando da bambino faceva il chierichetto per la parrocchia dove il padre lo
aveva mandato a studiare e “giocare”, o almeno quella era la scusa.
Lì aveva imparato tutte le preghiere a memoria, a forza di disciplina e di
sberle dietro il collo. Le mani delle suore sapevano essere veramente forti
quando volevano e, soprattutto, molto convincenti.
Lì aveva imparato come si aiuta nella messa, quali sono i rituali da eseguire,
quando ci si deve alzare, inchinare, tirare su le mani, abbassare le mani,
inginocchiarsi e chiedere i soldi per lo show.
Lì soprattutto aveva imparato quanto fosse vero il concetto che la religione è
l’oppio dei popoli.
Ma soprattutto lì aveva capito che l’astinenza per un prete può giocare brutti
scherzi.
Scuote il capo per scacciare quei pensieri e percepisce addosso una strana
sensazione.
Si sente come… osservato.
Alza gli occhi e vede tutta la chiesa che lo guarda, da ogni angolo e lato della
navata le facce si girano e i sussurri nelle orecchie indicano lo straniero
venuto dalla città.
La recluta Francesco Lupini si sente in imbarazzo, cerca una faccia amica ma
non la trova in mezzo alle dita che non fanno niente per smettere di indicarlo.
“Tranquillo, tra poco la piantano”.
Si gira e vede Leandra illuminata dalla luce del tardo pomeriggio filtrata
attraverso il rosone centrale e, se possibile, è ancora più bella di quello che
ricordava.
“Sono attratti dal nuovo come le falene dalla luce. Tra poco però non sarai più
una novità e passeranno ad altro. Vieni, sediamoci in fondo”.
I due si siedono su una delle ultime panche, mentre gli altri prendono posto
più vicino possibile al pulpito.
Il doppio scampanellio annuncia l’inizio delle funzione, come prima di un
round di pugilato.
“Quelli lì in prima fila” dice Leandra sottovoce indicando una coppia anziana
ben vestita “sono i Favaretti, lui lo chiamano solo Don Fefè, qui tutti lo
conoscono e lo rispettano. Se hai bisogno di qualcosa, evita di andare da lui,
altrimenti gli dovrai un favore per il resto della tua vita”.
Mentre parlano, un ragazzo si avvicina a Don Fefè e gli stringe la mano con
devozione, lui gli dà una pacca sul viso e lo rimanda a sedere al suo posto.
“Lì nell’angolo, ma forse lo hai già conosciuto, c’è l’appuntato Carmine
Marcolfi. Le forze dell'ordine qui a Monterotuli si riducono ad una unità.
Carmine è l'unico carabiniere del paese, anche perché la criminalità è
praticamente azzerata, in quanto ci si conosce tutti e non c'è possibilità di
vandalismo o similari.
Anche se, ogni volta che Carmine beve un po’ più del normale, racconta un
fatto che si perde nella notte dei tempi e che ormai nessuno sa più
identificare come realtà o come fantasia.”
“Racconta, sono curioso”
“Allora… Carmine era appena entrato nell'Arma dei Carabinieri quando
intercetta dalla sua volante la chiamata di una donna che chiede aiuto.
Dice di essere a casa con un ladro che vuole ucciderla.
Carmine non ci pensa due volte, parte di corsa sgommando per i vicoli di
Monterotuli e arriva al paese vicino, dove la donna chiedeva aiuto.
E qui la storia si complica e ad ogni racconto si arricchisce di dettagli.
La prima volta che ha detto a tutti cosa era successo, Carmine è entrato e ha
trovato la donna a terra, con un graffio in volto e un uomo che stava
vomitando nel bagno perché si era lasciato andare al troppo alcool.
La seconda volta, la donna era a terra, in una pozza di sangue, il volto
tumefatto e l'uomo era in piedi al centro della stanza che urlava il suo nome.
Nella terza versione, la porta di casa era chiusa e Carmine ha dovuto
sfondarla con una vigorosa spallata per buttarla giù, trovando la donna
praticamente morta e l'uomo in piedi sul tavolo che urlava parole senza
senso, completamente sporco di sangue.
Carmine ha estratto la pistola e ha intimato all'uomo di sdraiarsi a terra,
mentre praticava il massaggio cardiaco alla donna, che, in una versione
parallela era anche incinta.
Fatto sta che in tutte le versioni Carmine riesce a salvare la donna e a far
arrestare l'uomo che si dichiara colpevole di “troppo amore”.
Da quel giorno Carmine ha raccontato quella storia milioni di volte, anche
perché quello è stato il suo primo e ultimo caso.”
La sua risata è squillante anche se nascosta dalla mano.
Alcune signore si girano per intimare il silenzio.
Ma la recluta Francesco Lupini è rapito completamente da quel suono
melodioso e da quel canto della sirena che lo lascia senza fiato.
“Scusami, ti sto disturbando, magari volevi partecipare alla messa”
“No, no. Nessun disturbo, anzi raccontami altro. Quello laggiù, chi è? L’ho
incontrato al castello e non è stato un incontro proprio piacevole”
“Quello è Lino, il custode del castello Pignatello. L'età di Lino è l'incognita più
grande di Monterotuli.”
Tre donne entrano di corsa nella chiesa, rallentano il passo, fanno un piccolo
inchino e un veloce segno della croce, per poi prendere posto nelle file
centrali.
Sono le tre Marie che hanno evidentemente fatto tardi.
“Dicevo. Addirittura il TGR ha intervistato Lino tante volte per capire il suo
segreto di lunga vita.
Dice di aver fatto la guerra, la prima, ma che era già grande quando è andato
al fronte.
La seconda non l'ha fatta sul campo perché congedato con onore.
Dice di aver conosciuto il re in persona, di essere andato da lui a cena per un
evento che ora non ricorda.
Ma se hai bisogno di sapere la storia di qualcuno, se vuoi scoprire come sono
andati veramente i fatti, devi parlare con Lino.
Ogni sera si siede al tavolino del bar, con la sua pipa e racconta un aneddoto.
A volte racconta più volte sempre lo stesso, ma lo arricchisce, cambia i
dettagli, sposta persone e date.
Ma nessuno ci fa veramente caso.
È come andare al cinema all'aperto e i bambini ne sono affascinati.
Ogni ruga è una storia, un solco della pelle un anno di vita, come nel tronco
degli alberi. perché mi guardi?”
“Scusa, mi sono incantato”
La faccia rossa, la gola secca.
Si è fatto beccare come a scuola.
Scoperto dalla maestra a spiarla da sotto la cattedra.
Leandra sorride imbarazzata, abbassando lo sguardo.
L’ingresso del prete e di Don Carlo lo salvano da una enorme gaffe, o figura
di merda come dicono i francesi, mentre si alzano in piedi per ascoltare il
discorso del prete.
“Fratelli e sorelle, siamo qui oggi per ascoltare la parola di Nostro Signore e
per farci illuminare dalla sua Grazia.”
“Chi è quello che parla?”
“Lui è Don Camillo, è il prete di Roccamannolfi, lo hanno mandato qui in
prestito finché non si insedia il nuovo prete. Don Carlo gli fa da chierichetto.”
La messa inizia con le letture, le preghiere, il piegarsi ripetutamente delle
ginocchia e i canti del piccolo coro di Monterotuli, diretto dalla signora Maria
Assunta che, in cuor suo, è convinta di dirigere la Filarmonica di Berlino e che
segretamente sogna di fuggire un giorno da quel piccolo paese di montagna
per calcare i grandi palchi internazionali.
Ma per ora continua a dare il LA bemolle con la sua tastiera Bontempi per far
partire “Il Signore è il mio pastore, nooon manco di nuu-uullaaaa”.
Quando è il momento del Vangelo, Don Camillo si alza e si avvicina al
pulpito.
La lettura parte con il Salmo 15:2-3.
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente,
non dice calunnia con la lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulto al suo vicino.
Per poi continuare con Giovanni 1:6
Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre,
mentiamo e non mettiamo in pratica la verità.
Queste parole suonano alla recluta Francesco Lupini come un monito per
chiedere a chi sa di parlare, come un appello di Don Camillo alla ricerca della
verità.
Ma è nell’omelia che il prete decide di dare libero sfogo ai suoi pensieri.
“Le parole di oggi sono parole forti, di speranza ma anche di onestà. perché
non si può avere pace se dentro di noi c’è la guerra, non si può credere nella
luce se abbiamo dentro l’ombra. Chi sa la verità deve perseguirla, chi
conosce la strada deve indicarla agli altri.”
Don Carlo annuisce soddisfatto, sentendo in queste parole un chiaro segnale
di aiuto alla comunità: chi sa, parli.
Alcune teste nelle prime file annuiscono, altre sussurrano all’orecchio del
vicino chissà cosa, altri ancora sono persi nei loro pensieri e non danno
ascolto alle parole del prete che dall’alto del suo scranno chiede di dire tutta
la verità, nient’altro che la verità.
“Lo giuro”
“Come?”
“No, scusami, ero sovrappensiero”
Leandra accenna un sorriso, spostandosi una ciocca di capelli dal viso e
tornando ad ascoltare le parole di Don Camillo che, nel frattempo è tornato
dietro l’altare per continuare la funzione.
C’è qualcosa nel suo profilo che la fa sembrare la Vergine di alcuni dipinti
rinascimentali, quella bellezza efebica che non ha tempo e che non permette
pensieri sconci.
Anche se ogni tanto la recluta Francesco Lupini qualche pensiero sconcio lo
ha fatto.
Ma in chiesa non si può dire.
Magari si confesserà dopo con Don Camillo. O al bar con Don Carlo.

Finita la messa i fedeli tornano alle loro abitudini, chi a casa a cucinare, chi al
bar a bere, chi nei vicoli a perdersi nel piacere.
Le tre Maria passano accanto alla recluta Francesco Lupini facendo un
piccolo inchino di riverenza e si allontanano verso l’uscita, lui invece resta
ancora un po’ tra le panche che si vanno svuotando.
“Io torno al B&B, tu che fai?” chiede Leandra aggiustandosi il rosario di legno
che tiene al collo.
“Io resto ancora un po’, volevo fare due chiacchiere con Don Carlo”
“Ah. Ok”
E si allontana.
Che ci sia rimasta male?
Aspetta.
Forse è un invito.
Forse voleva stare un po’ con lui.
Forse la recluta Francesco Lupini è un pirla.
Forse.
Ma per il momento Don Carlo ha la priorità.
Forse.

L’odore di incenso è l’ultimo ad uscire dalla chiesa; dopo che i fedeli si sono
lentamente ritirati, anche Don Camillo esce salutando le varie signore
incontrate per la strada e si avvia nel lungo vicolo che porta alla piazzetta
sottostante.
Dopo qualche minuto esce anche Don Carlo, vestito in abiti civili e
visibilmente accaldato.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“No grazie, non bevo”
“Perché sei in servizio?”
“No, perché sono astemio”
“Dillo piano. Da queste parti essere astemio è peggio che essere un
assassino!”
Sorride dandogli una pacca sulla spalla e facendo segno di seguirlo in
sacrestia.
La comicità di Don Carlo è qualcosa che ancora non riesce ad inquadrare
bene, ma magari il black humor è una caratteristica tipica di quelle parti,
soprattutto quando c’è un morto e un ipotetico assassino nelle vicinanze.
Una volta in sacrestia, Don Carlo inizia a cercare qualcosa nei mobiletti, poi
prende due bicchieri e li poggia sul tavolino.
“No, veramente non bevo”
“Ma questo non è alcolico. Lo fa la signora Anna, me lo porta ogni settimana,
è un tonico naturale incredibile. E soprattutto con questo caldo è un
toccasana”
In quella stanzetta dietro l’altare passa una corrente fresca e leggera, come
se ci fosse un ventilatore acceso da qualche parte.
Si sta veramente bene e il tonico della signora Anna scende giù che è un
piacere, fresco e corroborante. Non è niente male.
“Allora, piaciuta la messa?”
“Sì.”
“Ma non sei qui per la messa, giusto?”
“No.”
“Avanti figliolo, cosa ci fa qui? Confessati”
“Veramente mi aspettavo una confessione da te”
“Addirittura.” Sorride alzando le mani in gesto di resa. “E che avrei fatto per
dovermi confessare?”
“L’omissione è una colpa, no?”
Don Carlo beve un sorso di tonico, guarda avanti a sé un punto fisso, come
se vedesse realmente qualcosa o qualcuno, ma in realtà ci sono solo i
paramenti di Don Camillo poggiati su un porta abiti.
“Chi te lo ha detto?”
“Maria Cioccolato”
“Chi? Va bene, lascia stare, non è importante. Mi stai chiedendo del bambino,
giusto?”
“Giusto”
“Non te l’ho detto perché non lo ritenevo importante ai fini dell’indagine.”
“Beh, sapere che picchiava Leandra mentre era incinta non è cosa da poco,
non trovi?”
Don Carlo riflette sulle parole della recluta Francesco Lupini, cercando di
pesare come rispondere a quest’ultima affermazione.
Manda giù un altro goccio, poi continua a parlare.
“Hai ragione, non l’ho detto perché sento addosso il peso della colpa.
Leandra veniva a confessarsi da me, mi raccontava quello che succedeva ed
era preoccupata. Ma io non potevo parlarne con nessuno, non me lo diceva
in via amicale, c’era il sigillo sacramentale. E pur potendolo fare qualcosa,
non sarei mai andato a denunciarlo alla polizia, doveva essere lei in prima
persona, doveva mostrare i lividi e raccontare la sua versione. Ma anche lei
aveva paura. E si sentiva sbagliata”
“In che senso?”
“Nel senso che pensava fosse giusto ricevere quelle botte. Quando me lo
raccontava giustificava sempre la situazione, vuoi perché aveva fatto tardi,
vuoi perché non aveva preparato la cena, vuoi perché Matteo era nervoso.
C’era sempre un motivo valido per ricevere uno schiaffo.”
Lo stomaco della recluta Francesco Lupini si chiude di colpo, come se
avesse lui stesso ricevuto un violento cazzotto. Non riesce a pensare alla
povera Leandra vittima di quel bastardo, colpita ripetutamente sulla pelle e
nell’anima.
Proprio come era successo a lui.
E sentirsi in colpa solo per essere al mondo, perché si prova un briciolo di
felicità, perché si vorrebbe avere un minuto di pausa da tutto, ma chi hai
intorno ti fa sentire non abbastanza.
Proprio come era successo a lui.
Forse è questo quello che ha visto in quella ragazza, forse ha guardato il suo
stesso buio nei suoi occhi e ci ha visto l’abisso.
Quando scendi così in basso, quando arrivi in fondo, riconosci subito chi c’è
stato, come un linguaggio segreto, come una setta a cui appartenete in tanti
e che solo chi è sceso in profondità riesce a comprendere veramente.
Ma in questo caso non servono tatuaggi sulla pelle, basta solo vedere il
sorriso velato che si stampa sul volto e gli occhi costantemente coperti da
una nebbia sottile.
Quando arrivi in fondo, ti innamori del fondo stesso.
Beve anche lui un goccio di tonico, ha bisogno di qualcosa di forte per
riattivare il suo corpo.
Il sapore è dolce, a tratti stucchevole, ma quando scende da un senso di
sollievo alla gola, riuscendo quasi a identificare il percorso del liquido che
lentamente arriva fino al basso ventre.
I due non riescono a guardarsi negli occhi, pressati dai propri sensi di colpa,
uno per non aver aiutato una donna in difficoltà, l’altro per non essersi aiutato
quando era bambino.
“E il bambino ora dov’è?” chiede la recluta Francesco Lupini.
Altro silenzio, altro imbarazzo, altri sguardi che non si incrociano.
“Purtroppo la notte in cui Matteo è scomparso c’è stata una furente litigata.
Sono i vicini di casa che hanno chiamato la polizia. Lo hanno visto uscire
sbattendo la porta e urlando qualche imprecazione, Leandra lo ha rincorso
per qualche metro, poi si è accasciata al suolo, tenendosi con una mano il
viso e con l’altra la pancia, poi è svenuta. Quando è arrivata l’ambulanza non
c’era più niente da fare. L’hanno portata di corsa in ospedale ma sono riusciti
a salvare solo lei. Il bambino è arrivato morto, era prematuro e non ce l’ha
fatta a sopravvivere ai colpi”.
È troppo, decisamente troppo.
La recluta Francesco Lupini finisce d’un sorso il tonico e resta immobile
cercando di non fare rumore, come se volesse sparire in quel preciso istante.
Ho bisogno di uscire, ha bisogno di aria.
Senza salutarsi si alza ed esce dalla sacrestia, lasciando Don Carlo solo con
la sua bottiglia e le sue spine nel cuore.
Attraversa la navata e l’odore di incenso si fa più intenso, il cambio di
temperatura è forte e il caldo estivo si fa sentire nonostante sia tardo
pomeriggio.
La statua di San Michele lo guarda in un misto di pena e disprezzo, dall’alto
del suo piedistallo, mentre trafigge il serpente che si contorce sulla sua
gamba.
Il volto del Santo si confonde con quello del padre, la spada diventa la sua
cintura e il serpente a terra è la recluta Francesco Lupini.
La chiesa inizia a girare, le pareti si scambiano di posto in una danza che
sembrerebbe quasi poetica, se non fosse così fastidiosa.
“Don Carlo mi ha mentito” pensa la recluta Francesco Lupini.
“Quel tonico era alcolico”.
E poi il buio.
CAPITOLO 9

Sogno spesso di volare, lo so che lo fanno tutti, ma nei miei sogni io non
sono ancora nato.
Sono in un limbo, completamente nudo e vedo la terra da lontano, come se
fossi una stella.
Ma riesco a vedere tutti i dettagli della terra, vedo il verde degli alberi e
l’azzurro del mare, vedo le cime delle montagne e lo scorrere dei fiumi, vedo
le strade e le case, le persone e perfino i loro pensieri.
Vedo mia madre che sta sul letto insieme a mio padre.
Vedo lui nudo sopra di lei che si muove e si dimena, mentre lei guarda il
soffitto con gli occhi spalancati.
Piange in silenzio, mentre lui suda e grufola come un maiale in calore.
Quando ha finito si gira dall’altra parte del letto, si accende una sigaretta e
guarda fuori dalla finestra tutto soddisfatto.
Lei resta nella stessa posizione, coprendosi lentamente con il lenzuolo prima
di rannicchiarsi in posizione fetale.
Ed è la stessa posizione che ho io in questo momento, perso tra le stelle in
attesa di nascere.
Mia mamma mi diceva sempre che il Dottore le aveva dato pochi mesi per
provarci, perchè aveva un fibroma all’utero e bisognava operare.
O rimaneva incinta o dovevano raschiare tutto.
Ho lottato per mesi contro il fibroma, siamo cresciuti insieme fino a che uno
dei due non ha vinto sull’altro.
Ma per farlo, sono dovuto uscire prima del previsto.
E ogni volta, nel mio sogno, inciampo in una nuvola e inizio a precipitare,
urlando: “È troppo presto, è troppo presto”.
Ma la corsa non si arresta e io cado sempre più velocemente verso la terra,
sfiorando montagne, alberi, tetti e finestre, per arrivare su quel letto di
ospedale, guardando mia madre distrutta da dietro un vetro di una
incubatrice.
E mio padre fuori a fumare, mentre scuote la testa come a dire “Non sarà mai
forte abbastanza”.

“Lasciatelo respirare, per favore. Fate spazio”


La recluta Francesco Lupini cerca di aprire gli occhi, ma vede tutto sfocato.
Ombre si muovono lentamente intorno a lui, come nei sogni di quando era
bambino.
“Quante sono?”
“Cosa?”
“Queste, quante sono?”
“Non so cosa siano queste”
“Oddio è cieco. Oddio Signore salvaci” dietro di lui si è radunato il piccolo
coro di Monterotuli formato dalle signore anziane del paese che iniziano a
intonare Camminerò nella tua strada Signor, come se questo potesse in
qualche modo essere d’aiuto o di supporto emotivo.
“Ma che cieco, è solo svenuto.” Dice Don Carlo, tenendogli la testa tra le
mani.
“Mi senti? Riesci a sentirmi? Ricordi chi sei?”
“Sono… sono la recluta Francesco Lupini”
“Bravo. Ora dimmi, quante sono queste dita?”
Cerca di rialzarsi ma lo stomaco e la testa gli fanno un male cane.
“Resta giù, hai sbattuto su una panca e hai perso un po’ di sangue”
Le signore dietro sono quasi giunte al secondo ritornello, alzando il volume su
Dammi la mano voglio restare per sempre insieme a teeeeee
“Signore, per cortesia, lasciatelo respirare”
Don Carlo cerca di disperdere la piccola folla che si è radunata davanti
l’ingresso della chiesa.
“Cosa è successo?”
“Si vede che il caldo ti ha dato alla testa, ti hanno trovato le signore qui per
terra e hanno iniziato a cantare”
“Ma non potevano chiamare un'ambulanza?"
“E come ci arriva qui tra i vicoli? Almeno sentendole cantare sono arrivati tutti
gli altri”
La recluta Francesco Lupini si alza a fatica, massaggiandosi la testa e
trovando la mano sporca di sangue.
“È solo una ferita lieve, magari però dopo vai dal Dottor Madonno a farti
vedere”.
Don Carlo lo aiuta ad alzarsi e congeda il piccolo coro dell’Antoniano che,
strozzando il Che gran tesoroooo io trovai in quel dììììì, che dissi al
Signòòòore così… tornano alle loro rispettive faccende.
“Vieni, ti porto a casa mia, tanto sto qui dietro, così medichiamo anche la
ferita”
Poggiandosi alla spalla di Don Carlo, i due si incamminano lentamente verso
il vicolo che dalla chiesa porta alla canonica, un passo dopo l’altro.
“Credo sia stato il caldo. E anche quel tonico”
“Ma dai, credevo fossi abituato a ben altro. Eccoci, siamo arrivati”
Don Carlo cerca nelle tasche le chiavi e con una mano tenta di inserirle nella
fessura, ma non ci riesce e il mazzo cade a terra sparpagliando le varie chiavi
in giro per il vicolo.
“Scusami, non voglio suonare il campanello, altrimenti…”
Il pianto di un bambino si perde e si amplifica tra i vicoli del paese, come una
sirena antiaerea che avvisa dell’imminente pericolo.
“Ecco fatto. Non c’è più bisogno delle chiavi” e così dicendo suona il
campanello di casa.
Dopo qualche secondo la porta si apre e appare sull’uscio una bella donna,
segnata in volto dalla stanchezza ma che ha in sé un fascino particolare,
come nascosto e sopito.
In braccio tiene l’artefice della sirena, un bambino minuto e paonazzo in viso
e con i pugni stretti in segno di protesta.
“Lei è mia moglie Anna e lui è il piccolo Michele”
Don Carlo prende il piccolo Michele e se lo porta al petto, cercando di
tranquillizzare quel pianto inconsolabile che rischia di svegliare tutta la
regione.
“Piacere. Voi siete il commissario?”
“Non esattamente. Sono la recluta Francesco Lupini, piacere mio”
“Anna, fallo sedere, non è stato bene.”
“Che avete avuto?”
“Niente, forse un colpo di sole”
“Eh, ci sta, fa caldo da queste parti. Venite, sedetevi qui che vi porto il caffè”
Anna sparisce in cucina mentre la recluta Francesco Lupini si accomoda su
una delle due poltrone del salottino, messe a trenta gradi davanti al
caminetto.
Il luogo perfetto per leggere e parlare, senza tv, senza radio, senza
distrazioni.
Solo un tavolino basso e dei libri impilati.
La testa gira ancora ma la lucidità sta lentamente tornando.
Sul caminetto c’è una foto di Don Carlo con Anna, abbracciati davanti al
Colosseo, in una tipica posa da turisti che visitano Roma, e vicino
un'istantanea di loro due sotto la Torre di Pisa e una su un cammello vicino le
Piramidi.
Sembrano molto felici e in sintonia.
Sul lato destro del caminetto c’è una foto del piccolo Michele in una culletta
piccolissima, mentre dorme beato come solo i bambini sanno fare. Sembra
impossibile guardare quel viso angelico e associarlo al pianto allucinante di
pochi istanti prima, come se fossero due bambini diversi.
I libri sul tavolino sono totalmente diversi uno dall’altro: c’è un libro che si
chiama NIENTE PANICO - Come sopravvivere alla paternità, un giallo di
Agatha Christie, la bibbia per bambini e un romanzo rosa.
Ad ognuno il suo.
L’odore del caffè arriva con netto anticipo rispetto alla sua presenza fisica,
come un araldo che annuncia l’ingresso di sua maestà il Chicco.
“Ve l’ho messo già zuccherato e girato” e poggiando il vassoio sul tavolino,
Anna resta in piedi in un angolo della stanza a controllare se il suo lavoro
viene apprezzato.
Ecco.
Come spiegarle che lui il caffè lo prende amaro e che anche mezzo
cucchiaino gli provoca conati di vomito?
“Ci stanno problemi?”
“No, per carità. Aspetto solo si freddi un po’. Grazie mille”.
La situazione surreale non accenna a placarsi, mentre la recluta Francesco
Lupini gira lentamente il cucchiaino nella tazzina, sperando di annullare
l’effetto dolcificante dello zucchero.
Lo squillo del telefono risolve drasticamente l’impasse, facendo uscire di
scena Anna che, scusandosi, si avvia nell’altra stanza, lasciando la possibilità
di poter buttare il caffè incriminato nella pianta accanto al caminetto.
“Finalmente si è addormentato dopo la poppata. Tutto ok?”
Chiede Don Carlo trovando la recluta Francesco Lupini con una tazzina vuota
in mano, rivolto verso la pianta.
“Sì… sì. Stavo guardando questa meravigliosa pianta”
“È una Monstera Adansonii Variegata, una pianta molto rara e soprattutto
difficilissima da mantenere. Ma mia moglie è un fenomeno. Pensa che basta
un goccio di acqua in più o in meno e muore subito. È la nostra gioia, dopo
Michele, ovviamente.”
“Ovviamente”
“Come ti senti? Vuoi altro caffè?”
“No, grazie. No. Sto bene. Sto meglio. Scusami, in che senso dopo la
poppata?”
“Sì, dopo che ha bevuto il latte si addormenta sempre”
“Ma Anna era qui”
“Ahahah… Benvenuto nel nuovo millennio, sai che noi padri possiamo
allattare anche con il biberon?”
“Sì, scusami. Hai ragione. Non intendevo questo.”
“Ma lo so, ti sto prendendo in giro. Michele è nato prematuro e Anna ha avuto
poco latte. Abbiamo da subito integrato con il latte artificiale per farlo crescere
bene. Che per me è stata una manna dal cielo, perché ho potuto anche io
provare la gioia dell’allattamento, con tutte le dovute diversità, ovviamente.
Ma quando Michele mi guarda e io gli do da mangiare mi sento invincibile,
come se fossi un essere superiore, mi fa sentire vicino a Dio. Con tutto il
rispetto, ovviamente.”
“Ovviamente”
Nel parlare di allattamento i due non si accorgono dell’ingresso di Anna, che li
ascolta in un angolo senza fiatare.
Poi si gira e si allontana, asciugando una lacrima senza farsi vedere, anche
se è troppo lenta per il suo intento.
“Va tutto bene?” chiede la recluta Francesco Lupini.
“Sì, ma ogni volta che parliamo del poco latte lei si mortifica, come se fosse
una sua colpa. Come se non fosse una buona madre. Sai, in paese sono tutti
pronti a criticare, anche quando non c’è assolutamente bisogno. E se non fai
le cose esattamente come ci si aspetta, sei un cattivo genitore. Anche se in
realtà qui il più pulito tiene a rogne”
Sorride per la battuta mentre si siede sulla poltrona per bere il suo caffè.
“Comunque io un giro dal Dottor Madonno me lo farei, siete sbattuto. Magari
vi dà un ricostituente o qualcosa per tenervi su, altrimenti rischiate di svenire
ogni quarto d’ora.”
“Sicuramente ci passerò. Ma posso farti una domanda?”
“Certo”
“Come mai ti sei… spretato? Come si dice?”
“Ahaha… si, si dice così. Mi sono spretato perchè mi sono innamorato di una
donna meravigliosa.”
E così dicendo guarda verso l’altra stanza, sorridendo.
“Stavo servendo messa, quando ad un tratto lei è entrata dal fondo della
navata, sembrava un angelo. Era la descrizione che Dante fa di Beatrice nel
cantico del Paradiso. Ma io ero un prete e lei già fidanzata, quindi tutto
questo non poteva esistere, se non nelle mie fantasie. Ma anche quelle, per
un uomo nella mia situazione, non erano permesse.
O la chiesa o l’amore.”
Dice quest’ultima frase con una punta di rimorso, come se la ferita non si
fosse ancora totalmente rimarginata.
“Una sera eravamo in canonica, stavamo mettendo a posto dopo la messa e
lei ha voluto aiutarmi. Le nostre mani si sono sfiorate mettendo a posto una
sedia, il brivido che ho sentito, la scossa che ha pervaso il mio corpo, è stata
la miccia che ha fatto detonare la mia fortezza.”
Mentre parla, si avvicina alle foto e le prende in mano con delicatezza, come
se avesse paura di rompere quella fragilità e quella normalità tanto cercata e
tanto sofferta.
“Ci abbiamo messo tre anni, tre anni in cui io sono andato in un convento
lontano, per capire cosa realmente provassi. Lei mi ha aspettato e quando
sono tornato, l’ho trovata fuori dalla porta.”
Sorride, conscio della sua fortuna nell’aver incontrato la persona della sua
vita.
Chissà se la recluta Francesco Lupini avrebbe parlato così di Leandra, un
giorno.
“Ora però iate alla casa, tanto c’è poco da fare qui. Quello che avevamo
scoperto lo abbiamo detto alla polizia e non so se ci sono altri indizi da tirare
fuori dal cilindro”
La recluta Francesco Lupini stava per dire del biglietto sotto la porta ma il
pianto di Michele lo interrompe, mentre Don Carlo scatta in piedi salutando
con la mano.
“Ora scusami, vado”.
Anna arriva pulendosi le mani con un canovaccio.
“Vi accompagno.” facendo strada verso la porta.
“Ci sarete stasera alla festa?”
“Che festa?”
“C’è una ricorrenza stasera. Si chiama “Come ce magnava na vota”. È una
festa che facciamo tutti gli anni in piazza, ci sono tante bancarelle e tutti
portano qualcosa di tipico da mangiare. Le signore rispolverano vecchie
ricette tramandate dalle nonne e si assapora quel gusto di casa.”
“Allora volentieri, ci sarò. A più tardi”
E uscendo dà un’ultima occhiata alla Monstera Adansonii Variegata che
lentamente ma inesorabilmente sta puntando le sue foglie verso il pavimento.
Il sole è calato anche se il caldo non accenna a passare.
Ora è tardi per andare dal Dottore, magari domani mattina farà un salto per
farsi controllare.
Adesso è tempo di tornare a casa e riposare un po’, magari chiedendo a
Leandra se vuole andare con lui alla festa, per rimediare alla figuraccia di
poco prima.
In piazza fervono i lavori per la serata, le signore portano cestini di dolci,
teglie di paste e tegami di sughi da scaldare, mentre gli uomini tagliano,
incollano e inchiodano le tavole per fare le bancarelle.
Turucc sta tenendo sulla testa un banco lungo almeno due metri con la
facilità con cui si potrebbe tenere un foglio di carta, mentre i bambini giocano
intorno al gigante buono e si arrampicano come se fosse una parete da
scalare.
Lui accenna un “Ugh” e poggia a terra il tavolo che fa un rumore sordo e
inquietante.
Poi si gira e torna a giocare con i bambini, rincorrendoli per la piazza con le
mani protese in avanti, come un enorme zombie buono.
Ad un tratto una pallina di carta finisce sulla testa di Turucc, lui neanche se
ne accorge ma all’arrivo della seconda e poi della terza, la tua testa si gira
per capire la matrice di quell’attacco.
Tre ragazzi sono seduti sul muretto vicino la fontanella chiusa, uno ha i
capelli biondo platino, evidentemente tinto anche perché il contrasto con le
sopracciglia è palese e quasi fastidioso agli occhi.
Molto probabilmente è lui il capetto di questo mini gruppo, formato da un altro
ragazzo della stessa età molto più corpulento del primo, capelli rasati e
maglietta nera con il logo di una band musicale sconosciuta e il terzo un
ragazzetto magro e allampanato, con un evidente problema di acne giovanile
e gli occhi spenti coperti da un lungo ciuffo nero.
Il capetto biondo lancia un’altra pallina sempre in direzione di Turucc che la
intercetta e la blocca con una mano.
Il gigante sta per attaccare quando una voce amica lo ferma per tempo.
“Dai, lasciali stare. Juaglio! E vu? Nun tenite affa?”
“Stemmo pazziando”
“Ieta a pazzià ru nata patte, va”
I ragazzi si alzano e se ne vanno, mentre Leandra accarezza la mano del
fratello e lo riporta al B&B.
Passano davanti alla recluta Francesco Lupini che si rende disponibile ad
aiutare, ma i due salutano a malapena e continuano a scendere le scale.
Immobile davanti a questa scena, non sapendo cosa fare, decide di restare
ancora un po’ lì sulle scale, in attesa di veder scomparire i due fratelli e poter
scendere anche lui per tornare a casa.
Nel frattempo i bulletti stanno dando fastidio ad altri ragazzi nel vicolo
accanto, come se il paese fosse il loro, come se potessero decidere le sorti
del mondo, senza sapere che il mondo, di loro, non ha alcun interesse e che
fuori da quel vicolo sono semplicemente dei ragazzi a cui non sono state date
le dovute attenzioni da piccoli.
La recluta Francesco Lupini scende le scale e arriva all’ingresso del B&B,
apre la porta e si trova davanti Leandra che fa per uscire.
“Scusami”
“No, scusa tu. Mi dispiace per la scena di prima, sono stata scortese e non ti
ho salutato”
“Non preoccuparti. Ma chi erano quei ragazzini?”
“Stronzetti. Oddio, scusami, non volevo”
“Ma che. Quando ci vuole, ci vuole. Non preoccuparti.”
Sorride e anche lui si ritrova a sorridere di riflesso.
Forse sono i neuroni specchio.
O forse è semplicemente innamorato.
“Stasera vieni alla festa?”
“Sì, anche perchè ho già fame”
“E allora preparati, perchè ci sarà veramente di tutto! La signora Cecilia sta
sfornando baci di dama dalle 8 di stamattina. Ora scappo che vado a dare
una mano all’organizzazione. Ci vediamo dopo”
E così dicendo sale le scale con passo svelto senza voltarsi indietro.
“Ma lo sai che hai anche un gran bel cu..”
“Ugh?”
Il pensiero ad alta voce della recluta Francesco Lupini viene interrotto dal
suono gutturale di Turucc che si materializza alle sue spalle.
“Ma mi dici come cazzo fai a muoverti senza fare rumore?”
“Io leggero…”
“Eh”
E in quel “eh” c’è un vaffanculo grande quanto la stazza di quel gigante
buono.
Una volta in camera, si butta sul letto per ripensare a quello che è successo
in quella folle giornata, dal cadavere alla lettera di minaccia, ad una donna
incinta che perde il figlio sotto i colpi di chi diceva di amarla.
Ma c’è qualcosa che non gli torna, un dettaglio che nei film generalmente
riaffiora quando si sta per scoprire l’assassino.
Forse non è ancora il momento, o forse semplicemente questo non è un film.
La musica e le risate percorrono i vicoli del paese e arrivano nelle stanze
delle case come se ci fossero dei microfoni ad amplificarli, sembra di stare lì
anche se si è comodamente sdraiati sul divano.
La recluta Francesco Lupini si dà una sistemata ai capelli, si guarda nello
specchio della toeletta ed esce, smosso dalla curiosità di sapere come ce
magnava na vota, ma soprattutto spinto dal suo stomaco che brontola.
In piazza ci sono praticamente tutti.
C’è la Monterotuli Swing-Pop Band, il gruppo musicale formato da ex
lavoratori con il pallino della musica che ogni tanto si incontrano e
strimpellano qualche accordo, anche se il risultato non è niente male.
C’è Irene che gira per i tavoli cercando di servire tutti contemporaneamente,
aiutata dal marito e da quelli che sembrano i figli, anche perché sono
praticamente identici a lei, ma con qualche anno di meno.
C’è Don Carlo circondato dalle tre Marie e dalle signore del paese che non
fanno altro che ciangolare per tentare di richiamare l’attenzione del prete che
invece ha occhi solo per la moglie e il piccolo nella culla.
C’è Leandra che mette gli addobbi per la festa e aiuta a distribuire i bigliettini
per ritirare le birre, accanto a lei Turucc sta impilando perfettamente delle
casse d’acqua una sull’altra.
C’è l’appuntato Carmine Marcolfi che, preciso nella sua divisa immacolata,
controlla e gestisce il flusso di acquirenti verso le libagioni, mangiando ogni
tanto un biscotto preso di straforo da uno dei banchetti.
C’è anche Don Fefè con accanto il capetto della banda di prima, il ragazzino
biondo tinto, che chiede qualcosa all’orecchio del Don e poi si allontana con
50 euro in mano. Ora capisce perché quel ragazzino si sente padrone del
paese, forse perché lo è, forse perché il figlio di Don Fefè si può permettere
di fare tutto, anche di prendere per il culo chi non se lo merita.
La recluta Francesco Lupini ha fame e cerca un posto a sedere, sperando di
poter assaggiare qualcosa di buono e di nuovo.
Irene si avvicina sorridente ma evidentemente affaticata.
“Che ti porto?”
“Che c’è di buono?”
“Qui è tutto buono!” fa un'espressione offesa, per poi scoppiare a ridere.
“Aspettate vi port u menù” e così dicendo sparisce tra i tavoli.
Dopo qualche istante ricompare con in mano un foglio di carta rosa scolorito.
“Se c’è qualcosa che non capite, ve lo spiego io”.
Il menù prevede:

Antipasti:
lu ciabbuotte: fiori di zucca, farina, sale,
acqua, lievito;
scurppelle: farina, acqua, sale, fritte nell'olio;
tanne e checucce,
impanata di rape e fagioli,
baccalà arracanate,
pane giallo, pizza gialla e bianca;

I Primi:
sagnetelle, cavati cavatieglie, petacelle,
tagliuline, pasta rattata, frascatieglie.

I Secondi:
sanguinate: sangue di maiale, pane raffermo
sbriciolato, mosto cotto, pinoli, uvetta, olio,
sugna, pepe e peperoncino;
velo: fegato di maiale, velo, alloro, sale, aglio;
panonda: carne di maiale di capocollo, pane,
aglio e peperoncino.

I Dolci:
sciarune con le iete;
sciarune casce e iova;
sciarune col grano;
sciarune con riso;
ciamelle: uova, farina, olio, zucchero, latte,
lievito;
sciapeppe: stessa pasta delle ciamelle fatta a
forma di un pupazzo e infornato;
muste cuotte: succo di uva bollito fino a che
non si addensi, tipo miele.

Praticamente non ha capito ¾ di quello che c’è scritto, neanche la parte dove
si spiegano gli ingredienti.
Ricorda solo il sanguinate, che si era promesso di rimangiare solo davanti
alle porte dell’inferno, e di aver assaggiato le Tanne e le Scurpelle, quindi
decide di affidarsi al caso e di indicare le prime due cose del foglio.
“Vorrei le sagnatelle e la pa..panonda, si dice così?”
“Bravo. Ve le porto subito. Volete una scurpella per accompagnare tutto?”
“E via, va.”
“Facite buono” e se ne va con l’ordine stampato a mente.
Chissà come fanno quelli che non si segnano nulla e riescono a ricordare
tutto a memoria. C’era un ristorante sotto casa della recluta Francesco Lupini
dove la sua finta famiglia del Mulino Bianco andava il martedì sera,
rigorosamente vestiti bene che non sia mai qualcuno possa dire qualcosa.
Mamma casalinga, papà picchiatore, figlio sottomesso.
In quel ristorante c’era un cameriere anziano, c’era da sempre ed era
diventata un'istituzione del quartiere.
Non c’era un menù cartaceo, ma lui ripeteva a memoria tutte le portate del
giorno, per ogni tavolo, e se non avevi capito l’ultima cosa, lui ricominciava
dall’inizio come le poesie di Natale dei bambini.
E anche quando c’erano tavolate da dieci persone e ognuno prendeva un
piatto diverso, lui non segnava nulla ma portava esattamente le richieste alle
persone giuste.
Incredibile.
Mentre è distratto dai suoi pensieri, l’odore di ceci e fagioli diventa talmente
forte da riportarlo sulla terraferma. Sotto i suoi occhi appare, in tutto il suo
splendore, un sontuoso piatto di sagnatelle e il profumo diventa una calda
coccola autunnale mentre si guarda il tramonto in una baita di montagna.
“Ma questa non può essere una porzione per uno solo”
“Qui gli uomini si mantengono in forma”
Che strano.
La voce non è quella di Irene.
La recluta Francesco Lupini alza gli occhi per unire un volto a quelle parole.
“Oh. Non sapevo facessi anche la cameriera”
“Non trovo mio fratello, doveva aiutarmi” dice Leandra mentre poggia sul
tavolo una birra media con poca schiuma e una scurpella ancora bollente.
“Ora lo cerco. Intanto, buon appetito”
“Grazie ma… Io non bev..” niente, ormai stava già servendo ad un altro
tavolo.
La recluta Francesco Lupini non riesce a trattenersi oltre, ha fame e voglia di
assaggiare questa delizia, quindi affonda la forchetta nelle sagnatelle
strabordanti di olio e sughetto dei ceci, con il condimento che resta attaccato
alla pasta quasi non volesse abbandonarla.
Leggermente piccante, retrogusto di bosco, punta di rosmarino amaro.
Il sapore è letteralmente divino, creando un vortice di perdizione per cui è
impossibile fermarsi al primo boccone. E poi ancora un altro e un altro fino a
trovarsi col piatto vuoto e la pancia piena.
Non si capacita della voracità con cui ha finito quel piatto, senza lasciare
scampo ad ogni singolo lembo di pasta.
Non contento prende la scurpella e fa la scarpetta, unendo il grasso della
frittura con l’umido del sugo e creando la quintessenza della bontà.
Può un piatto di pasta dare dipendenza? Forse sì.
Ma non è finita, perché distratto dal primo non si è accorto dell’arrivo del
secondo: la panonda, un muro di berlino fatto di carne, uova e pane.
“Scusa, ma con questo che ci dovrei fare?” chiede disperato a Irene mentre
passa tra i tavoli.
“Quello si mangia! Buon appetito”
Praticamente la panonda è un filone di pane (non è una esagerazione, è un
filone di pane) tagliato orizzontalmente in più parti e farcito con:
livello 1 - frittata alta almeno un centimetro
livello 2 - peperoni cotti sulla brace e spellati
livello 3 - carne di maiale
livello 4 - pancetta affumicata
Il tutto condito con peperoncino e aglio.
La convenzione di Ginevra l’ha messa tra le armi da non poter usare in
battaglia.
Ma questo il Molise non lo sa e continua a produrre questo concentrato di
colesterolo e bontà estrema.
Il primo morso ti colpisce dritto in faccia, come un destro sul ring.
Il secondo mena ai fianchi, facendoti inarcare la schiena.
Il terzo, se arrivi al terzo, ti costringe al ko tecnico.
Ma quanto può essere buono finire al tappeto così.
Per mandare giù quella torre di Babele avrebbe bisogno di un litro di acqua
ma non vede né Leandra né qualcuno all’orizzonte per chiedere qualcosa e
davanti ha solo la birra bionda e invitante.
Non ha mai bevuto, o meglio ci ha provato da giovane ma non gli è mai
piaciuto più di tanto. Niente vino e niente super alcolici, alle feste era quello
che portava a casa tutti in macchina, essendo l’unico sobrio della
combriccola.
Proprio in quel momento, in quella frazione di secondo che divide la
razionalità dal peccato, ecco proprio lì, la recluta Francesco Lupini prende in
mano la birra ghiacciata e ne manda giù un lungo e interminabile sorso.
Più che un sorso, sembra essere una bella boccata.
Quasi tutta.
O meglio.
Tutta.
Poggiando il bicchiere vuoto sul tavolo, sente su di sé gli occhi del paese, che
lo guardano e lo studiano come se fosse l’ultimo dodo rimasto sulla terra.
La musica si interrompe, in una scena che rasenta il surreale.
Sta per aprire bocca ma involontariamente un reflusso gastro esofageo fa
emettere un suono che più che umano sembra un verso gutturale dei primi
uomini.
A nulla vale tapparsi la bocca, ormai è tardi per recuperare.
Silenzio.
Poi il boato.
L’applauso della folla festante fa ripartire la musica e le facce soddisfatte dei
presenti sembrano dire: “Benvenuto a casa”.
Anche Leandra sorride mentre continua a distribuire bevande e cibo ai tavoli.
Non si è mai sentito così imbarazzato e allo stesso tempo così ben voluto.
È una sensazione strana, il corpo sembra più leggero e la mente vaga senza
una reale meta. Per lui che ha fatto della lucidità il suo mantra, quello stato di
lieve torpore, dovuto anche all’abbuffata di cui sopra, lo fa stare bene.
Si gode il fresco di una serata estiva, con la musica, il buon cibo e le voci di
un paese che ora non sembra così tanto distante.
Tra le voci in lontananza, però, gli sembra di sentire un rumore sordo, un
tonfo che gli ricorda qualcosa di antico.
Sembrano le voci di chi si sta divertendo a pestare qualcuno.
Sembrano i pugni dati attraverso un cuscino per non lasciare le tracce.
Sembrano le botte che suo padre dava alla madre in camera, per non farsi
vedere.
La recluta Francesco Lupini si alza in piedi di scatto, forse un po’ troppo di
scatto.
La testa gira come una trottola.
Torna a sedersi e ci riprova, ma con più calma, avvicinandosi alla fonte di
quel rumore familiare.
Lungo le scale, accanto alla piazza, si snoda un vicolo buio, dove la lampada
in alto è rimasta priva della sua energia e non dà la possibilità di vedere bene
cosa stia accadendo.
Ma le voci dei tre ragazzini sono inconfondibili.
E il rumore secco è quello del corpo di Turucc che sta cercando di difendersi.
La recluta Francesco Lupini sta per urlare quando viene interrotto da dietro le
sue spalle.
“Hey, ma che cazzo fate?”
Leandra corre in soccorso del fratello, ma uno dei tre ragazzi le dà una spinta
e la butta a terra, facendola cadere sull’uscio di una casa che affaccia sulle
scale del vicolo.
La recluta Francesco Lupini sta per intervenire quando vede letteralmente
volare sopra la sua testa il ragazzo che ha appena colpito Leandra.
Il secondo fa più o meno la stessa fine, scaraventato via con una sola mano.
Il biondino, invece, resta sollevato a venti centimetri da terra, con i piedi che
cercano il terreno ma che invece trovano solo l’aria.
“Mettimi giù, razza di gigante stupido”
E il gigante esegue l’ordine lanciandolo ancora più lontano del primo.
I tre ragazzi si rialzano velocemente e scappano continuando a dire “Non
finisce accussì. Mio padre te la farà pagare. E tu, strunz ru poliziott, pure te
statt accuort!”.
Finalmente la recluta Francesco Lupini esce dal suo stato di trance ipnotica e
si avvicina a Leandra per sollevarla.
Il braccio di Turucc svetta in aria pronto a scendere come una scure.
“No, fermo, sono io.”
L’ira del gigante si ferma, mentre anche lui si abbassa per prendere in braccio
la sorella svenuta.
I tre scendono i gradini del vicolo semi buio, cercando a tastoni di non
inciampare, per poi risalire un paio di vicoli dopo e trovarsi davanti
all’ingresso del b&b.
“Portala in camera da me”.
Apre la porta e fa spazio per farli entrare.
Turucc la adagia sul letto e le sposta i capelli che le coprono il viso.
Alla tenue luce della lampada sul comodino, Leandra sembra ancora più
bella, anche se leggermente tendente al morto.
I suoi occhi si aprono lentamente.
“Hey”
“Hey”
“Bentornata”
Sorride.
Buon segno.
Si passa una mano dietro la testa.
C’è del sangue.
Non è un buon segno.
“Non è niente, è solo un graffio” dice Leandra cercando di tranquillizzare i
presenti, e forse anche se stessa.
“Domani ti porto dal Dottore, tanto devo andarci anche io”
“Che hai?”
“Sono svenuto”
“Ah sì, ne parlano tutti”
“Perché?”
"Perché in paese si fa così.”
“Ah”
Cerca di tirarsi su ma la testa gira e fa ancora male il taglio.
“Avete qui acqua ossigenata e garze?”
“Credo ci sia qualcosa, Turucc puoi andare a prendere quello che c’è?”
“Uhg”
“Stai tranquillo, sto bene.”
“Uhg” ed esce a malincuore, anche se è palese che vorrebbe restare accanto
alla sorella.
“Come ti senti?”
“Sto meglio. Grazie per essere intervenuto”
“Veramente ha fatto tutto tuo fratello. Li ha scaraventati via come pezzi di
carta. Perché non si è difeso prima?”
"Perché lui sa di far male, sa di essere grosso e forte. Fin da piccolo lo
picchiavano perché aveva dei ritardi, perché era diverso. Una volta a scuola
ha dato uno schiaffo ad un bambino che gli stava dando fastidio. Il bulletto è
finito all’ospedale e Turucc è stato cacciato da scuola. Da quel momento non
si arrabbia mai, tranne quando qualcuno se la prende con me.”
“Anche io mi sono arrabbiato perché se la sono presa con te”
“Lo so, per questo ti ho ringraziato”
La mano di Leandra si poggia delicatamente sulla guancia della recluta
Francesco Lupini che, complice la birra e i fumi dell’alcool, si lascia andare a
quel tocco morbido e delicato, avvicinandosi al viso della giovane donna
sdraiata sul letto.
Gli occhi si chiudono, le labbra si protendono in avanti, il volto ruota
leggermente per evitare uno scontro a colpi di naso.
Il suo respiro, l’odore della sua pelle, chissà com’è il sapore delle sue labbra.
Sta per scoprirlo quando.
“Uhg”
“E che cazzo!”
“Ah, grazie mille. Lascia, faccio da sola.” e così dicendo, Leandra prende
dalle mani del fratello l’ovatta impregnata di acqua ossigenata e la passa
delicatamente dietro la testa dove sente dolore.
Il taglio è solo superficiale, niente di cui realmente preoccuparsi, ma una
visita dal Dottore quando si sbatte la testa è sempre cosa buona e giusta.
Il rumore della festa entra nella stanza come se la banda che suona fosse lì
in camera con loro, le parole, le chiacchiere, anche le confidenze delle
persone arrivano chiare e nitide.
La recluta Francesco Lupini accosta le finestre per cercare di attutire quel
delirio di cibo e vita.
“Lasciamola riposare” dice a Turucc cercando di accompagnarlo fuori, ma
riuscire a spostarlo è una impresa titanica.
“Sto bene, vai tranquillo” fa eco Leandra mentre poggia la testa sul cuscino.
“Ugh?”
“Io dormo per terra, non ti preoccupare”.
Veramente ha capito cosa ha detto? Non lo sa. Fatto sta che Turucc esce
dalla stanza accostando la porta.
La recluta Francesco Lupini chiude la porta e resta così a fissare la mostra,
cercando le parole giuste e il coraggio per dirle.
“Vedi Leandra, mi dispiace per prima. Forse la birra, forse la serata
movimentata, non lo so. È che ogni tanto inciampo nel pensiero di te ed è un
piacevole dolore. Ecco, c’è che mi piaci. L’ho detto, mi piaci da quando ti ho
vista e vorrei solo proteggerti e farti star bene. Quando ti vedo sento di
conoscerti, di averti già vista prima, forse in un’altra vita. Ora mi prenderai per
matto ma…”
Si gira per guardarla negli occhi, ma gli occhi di Leandra sono chiusi e il
sonno ha preso il sopravvento sulle belle parole d’amore.
Sospira guardandola dormire, sembra ancora più bella così.
Magari domani troverà il coraggio per dirle di nuovo quello che prova.
Si siede a terra, ai piedi del letto, cercando una posizione comoda, sarà una
lunga notte ma ne è valsa la pena.
Con gli occhi chiusi, Leandra sorride, continuando a far finta di dormire.
CAPITOLO 10

La sveglia non è delle migliori.


A 20 anni puoi dormire anche appeso ad una corda come Spiderman, ma
quando superi i trenta scopri un mondo fatto di acciacchi, doloretti e difficoltà
che non pensavi di avere.
Da aggiungere ai suddetti malanni, la posizione non comodissima del dormire
con il culo sul pavimento e la testa reclinata all’indietro sul bordo del letto.
Ma soprattutto, la recluta Francesco Lupini si sveglia con un mal di testa
allucinante.
“Ma che cazz..” dice asciugando un filo di saliva dal lato della bocca.
“Si chiama post sbronza” dice Leandra entrando con un vassoio e
poggiandolo sul tavolino.
L’odore del caffè caldo risveglia i sensi sopiti e rende leggermente lucidi i
pensieri appannati.
“Ma non ero ubriaco”
“Ah no? Sei stato tutta la notte a parlare nel sonno”
“E che ho detto?”
“Lasciamo stare” risponde lei sorridendo e sedendosi sul bordo del letto.
“Come stai?”
“Meglio, grazie. Te l’ho detto, era solo un graffio, non mi fa male nulla”
“Dovresti denunciarli” dice la recluta Francesco Lupini mentre addenta un
pezzo di cornetto caldo e fragrante.
Dio che buono questo cornetto.
“Ma no, sono ragazzi, non serve”
“E invece serve. Devono capire che non possono fare quello che vogliono”
“Purtroppo gente così può fare quello che vuole”
E un velo di tristezza si poggia su quegli occhi stanchi e provati dalla nottata.
“Mi dispiace, scusami, non sono affari miei. Però stamattina andiamo dal
Dottore insieme, va bene?”
“Va bene”
Leandra si alza dal letto e fa per uscire.
“Hey”
“Sì?”
“Grazie per ieri” dice lei imbarazzata.
“Grazie a te” risponde lui ancora più imbarazzato.
“Di cosa?”
“Di te”
Lei esce sorridendo dalla stanza, lasciandolo da solo, col suo caffè caldo e il
suo sorriso ebete.
Decide di farsi una bella doccia e di prepararsi per andare dal Dottor
Madonno, magari può dargli qualcosa anche per questo mal di testa atroce.
Ma a questo serve l’alcool? Se i postumi sono così forti non ha molto senso
bere.
Anche se senza alcool non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi così tanto a
Leandra e a provare a baciarla, o dirle anche solo la metà delle parole che le
ha detto ieri.
Quanto è bella, però.
Quando esce dalla stanza non trova nessuno nel piccolo ingresso che fa da
reception del B&B e decide di andare su al bar ad aspettare Leandra.
I rimasugli della sera prima sono rinchiusi in un angolo della piazza in attesa
del servizio di nettezza urbana, mentre i tavoli del bar sono puliti e pronti
all’uso.
Solita scena, solito gatto, solite Marie che discutono.
“Buongiorno signore”
“Buongiorno” dice Maria Cioccolato.
“‘Giorno. Umfh” dice Maria Pistacchio.
“Buongiorno a voi, come state? Che faccetta sbattuta che tenite. Vi è piaciuta
la festa ieri?” dice Maria Crema.
“Non ho dormito bene. Sì, molto interessante”
“Ma poi ve ne siete iuto presto” dice Maria Pistacchio.
“Già. Diciamo che c’è stato un po’ di trambusto.”
“Lu fije di Don Fefè?” chiede sottovoce Maria Cioccolato.
“Shhhh… ma che te s’impazzita?” Maria Pistacchio si affretta ad azzittire
l’amica, guardandosi intorno per controllare se qualcuno abbia sentito
qualcosa.
Anche se intorno non c’è nessuno, tranne loro.
“Ehhh e che ho detto!?”
“Chello tiene rrecchie ovunque”
"Vabbuo. Era per… voi sapite chi?”
“Sì. Diciamo di sì” Risponde titubante la recluta Francesco Lupini.
Attimo di pausa.
“Voi site nu bravo juaglione” dice Maria Cioccolato senza un apparente
motivo.
“Grazie. Perché?”
"Perché tenite gli occhi buoni”
“Grazie…” sorridono dolcemente. “Posso offrirvi qualcosa?”
“No, grazie” dice Maria Pistacchio
“Nun pazziamm” aggiunge Maria Crema
“Anzi offriamo noi. Che prendite?” corregge Maria Cioccolato
“No, grazie, aspetto una persona”
“Ahhhh….” e giù di gomitino con la Maria accanto.
“Cosa?”
“No dico… stete aspettando chella bella uagliona”
“Faciteve i cazzi vustri” interviene Irene portando tre cornetti e un caffè che
lascia davanti alla recluta Francesco Lupini.
“Lo prendete amaro, giusto?”
“Sì, amaro. Grazie mille”
Soffia sulla tazzina bollente e il fumo si perde nella piazza.
“Alloch, vi. È arrivata la bella uagliona…”
Dal vicolo accanto alla piazza scende le scale Leandra, con un vestitino
leggero a fiori che la fa sembrare la protagonista di quel film con lei sdraiata
sul letto di petali di rose.
“Ci sono, andiamo con la tua?”
“Eh?”
“Dico, andiamo con la tua macchina? La mia è dal meccanico”
Oddio, non ha pulito la macchina, non ha minimamente pensato che
sarebbero andati con il suo pandino verde bottiglia.
Ogni volta che frena, da sotto i sedili escono cataste di fogli e pezzi di carta,
valanghe di scontrini arrotolati, stralci di pensieri e ricordi abbandonati.
“Certo, certo. Andiamo con la mia. Che problema c’è?” dice iniziando a
sudare non per il caldo della giornata torrida.
Leandra si incammina mentre la recluta Francesco Lupini si volta a guardare
le tre Marie che si danno di gomito e fanno l’occhiolino in segno di
approvazione.
Sul tavolino in lontananza, il caffè continua a fumare da solo.

Lo sportello del pandino verde bottiglia cigola quando viene aperto, come se
fosse il rantolo di un condannato a morte che chiede pietà per farla finita.
Quando Leandra sale, l’odore di chiuso, umidità e un vecchio Arbre magique
al mango & frutto della passione la colpiscono violentemente in viso,
causandole un lieve giramente di testa.
“Scusami, dovevo portarla a lavare ma era chiuso”
“No, tranquillo, non preoccuparti. La mia è dal meccanico da aprile.”
“Accidenti, che cosa è successo? Un incidente grave?”
“No, semplicemente Bernardino, il meccanico del paese è in vacanza ma si è
dimenticato di lasciare fuori dal garage la mia macchina e nessuno ha le
chiavi della serranda. Quindi devo aspettare che torni dal Brasile per potermi
spostare in autonomia.”
“Mi dispiace”
“E di che? Quando vivi da queste parti non hai bisogno della macchina, puoi
tranquillamente muoverti a piedi o chiedere un passaggio ad un amico” dice
facendo l’occhiolino.
Lo sfiato del pandino verde bottiglia è il segnale di avviamento del motore,
mentre nella testa della recluta Francesco Lupini risuonano le parole:
PASSAGGIO AD UN AMICO…. AD UN AMICO… AMICO…
Quindi questo era? Un amico?
È stato friendzonato senza neanche il tempo di provarci?
Forse per quello che ha detto ieri? Perché è stato eccessivo? O forse perché
non lo è stato?
Passando per i vicoli stretti che costeggiano le case si trovano costretti a
chiudere gli specchietti del pandino verde bottiglia onde evitare di peggiorare
la situazione della carrozzeria e, una volta usciti sulla Strada Nuova, poter
dare gas in direzione di Pozzalli.
“Ecco, vedi? Lui è Pasquale”
“Chi?”
“Quel ragazzo lì, che sta seduto sul ciglio della strada. Anche lui non ha la
macchina e ogni volta chiede uno strappo a chi sale o a chi scende”
Nello specchietto retrovisore la recluta Francesco Lupini vede il ragazzo che
alza lentamente il dito medio in direzione del pandino verde bottiglia.
Svoltato a sinistra al bivio, la strada inizia a diventare familiare e le piccole
casette di campagna macchiano il paesaggio intervallando i campi coltivati
con le balle di fieno già raccolte.
“Ma hai ancora le cassette?”
“Sì, questa macchina è un po’ vecchia e lo stereo è quello originale. Anche se
non va molto, prende giusto due stazioni radio e se metti una cassetta non
originale si mangia il nastro e lo sputa fuori violentemente”
Sorride Leandra, come se fosse la battuta più divertente della storia, e lui si
sente l’uomo più fortunato della terra.
“Come va la testa?”
“Molto meglio, grazie. La tua invece? Passata la sbornia?”
“Oh sì, non ricordo molto di ieri sera” finge schifosamente.
“Io qualcosa sì, soprattutto quando stavo per addormentarmi”
Lei accenna un sorriso malizioso, voltandosi verso il finestrino.
Il fuoco si impossessa del volto della recluta Francesco Lupini, facendolo
diventare paonazzo e senza fiato.
“OH GUARDA SIAMO ARRIVATI”, il suo tono di voce è di due ottave più alto
del normale e la frase esce più come una richiesta di soccorso che come una
affermazione neutra, tanto che Leandra sobbalza sul sedile e si volta a
guardare il profilo dell’ospedale.
Una volta parcheggiato, il pandino verde bottiglia emette l’ultimo flebile sibilo
e soffia via l’aria dal radiatore.
Per cavalleria entra prima Leandra, mentre la recluta Francesco Lupini si
ferma nel parcheggio per fare una telefonata, ora che il telefono torna a
vivere.
“Mamma”
“Hey! Eccoti finalmente, ma che fine hai fatto?”
“Eh, storia lunga, sono qui in Molise”
“Ancora?”
“Già.”
“Ma stai bene? Ti fanno mangiare?”
“Sì mamma sto bene e sto mangiando di tutto”
“E questo è l’importante. Dove sei?”
“Ora sono in ospedal..”
Non riesce a finire la frase
“ODDIOMADONNAMIAMADREDELCIELOAIUTAMITU!!!! Dove seiiii????
Oddioooooooo….. Mi sento male, oddio mi sento male…portatemi i sali…”
“Mamma… mamma… fermati!!! Sto bene, sto bene”
“Ah sì? E allora che ci fai allora in ospedale?”
“È che ieri sono svenut..”
“OOOOOOODDDDDIOOOOOMIOOOOOSANTISSIMOINCORONATOOOO
O… Aspettami, dimmi dove sei che ti vengo a prendere subito!!!!!”
“MAMMA!!! SMETTILA! Sto bene, ho avuto un mancamento per il troppo
caldo ma sto benissimo. E poi sarà stato l’alcool…”
“MA TU SEI TUTTO SCCEEEMO! ECCOLA LÀ, HO FATTO IL FIGLIO
CRETINO!!! PURE ALCOLIZZATO!”
“Ma che dici! Era una birra piccola e poi il casino c’è stato dopo con la rissa”
“AHHHH…”
Click.
Quando la madre parte con le sue ansie, nulla può fermarla.
Certo, raccontata così la giornata di ieri sembrava molto movimentata e in
parte lo era stata, senza contare che aveva sorvolato su Leandra e sul fatto
che avesse dormito in camera con lei.
Chissà come l’avrebbe presa la mamma.
“Tutto ok?” chiede Leandra avvicinandosi lentamente.
“Sì, sì. Era mia madre. Si preoccupa per me”
“Mi sembra il minimo, è quello che farebbe ogni madre” e nel dirlo il cielo nei
suoi occhi si fa più scuro.
"Già. Ma tu hai già fatto? Come stai? Che dice il Dottore?”
“Niente di che, è un graffio, te l'avevo detto. Sto bene, giusto un po’ di riposo.
Ti sta aspettando, ora tocca a te.”

“Spogliati”
“Ma veramente ho solo un po’ di mal di testa”
“Sì ma tutto passa per la prostata, devo controllare” dice il Dottor Madonno
mentre si mente un guanto di lattice.
“Sto scherzando! Ahahahah! vedessi che faccia hai fatto. Dai, sdraiati sul
lettino. E tieniti i pantaloni!”
La recluta Francesco Lupini sorride a quello che dovrebbe essere uno
scherzo simpatico e si mette comodo sul lettino.
Lui che fin da piccolo ha sempre fatto tutto quello che gli veniva detto,
quando andava dal dottore ha sempre trovato difficile fare una cosa:
respirare.
Non che andasse in apnea, ma quando il dottore diceva: “Fai un bel respiro.
Un altro. Un altro…” inspirava e espirava così veloce che ogni tanto restava
senza fiato e gli girava la testa.
Quando ha capito, col tempo, che poteva anche respirare più lentamente,
ormai era tardi.
“Dimmi un po’ che è successo”
“Niente di che, sono svenuto”
“Ma allora è un vizio il tuo”
“Credo sia il caldo, mi sono trovato davanti alle scale della chiesa e sono
andato giù”
“Avevi mangiato?”
“Mangiato anche troppo, qui avete una concezione del cibo un po’… diciamo
abbondante”
Il Dottor Madonno ride di gusto e si tocca la pancia gonfia come farebbe
Babbo Natale con le mani sulla cintura.
“Hai perfettamente ragione. Qui siamo rimasti al dopoguerra, quando hai
vissuto la fame non vuoi più farla provare a nessuno. E questo è un paese
per vecchi, lo dovresti aver capito. E sul sonno come sei messo?”
“Male. A parte il primo giorno quando sono arrivato che sono crollato come
una pera cotta, in realtà sto dormendo malissimo.”
Avrebbe voluto spiegare che in realtà l’ultima notte ha dormito male perché il
pavimento non è il miglior materasso del mondo, ma sarebbe stato lungo da
spiegare.
“Se vuoi posso darti un aiutino” e nel dirlo il Dottor Madonno si gira e prende
una boccettina bianca con dentro un liquido gelatinoso trasparente.
“Propofol. Lo uso qui da me per le anestesie, ma se preso in piccole dosi ti fa
dormire come un bambino e non ha postumi. Un po' di acqua, due gocce di
questo e ti svegli e stai una bomba. Certo, se ne prendi troppo ti ammazza,
ma per quello serve un medico, no? Ahahaha!”
Quando si parla con un personaggio come il Dottor Madonno, uno non sa mai
se sta scherzando o se sta facendo sul serio.
Forse il modo più facile per capirlo è essere diretti.
“Ma sei serio o stai scherzando?”
“Ahahahah. Scherzo. Forse. Ahhahah. Comunque pensa che ne faceva uso
anche Matteo, qualche volta me lo chiedeva per dormire. E ogni tanto mi
sparisce pure qualche boccetta dallo studio, secondo me qualcuno qui dello
staff…” e fa il cenno di rubare qualche bottiglietta. “Dai, annusa, senti, sa
come di… fiori” e mette sotto il naso della recluta Francesco Lupini la
boccetta di Propofol.
“E dai!” Scansa la bottiglietta provocando le risa del dottore, anche se l’odore
gli resta per un pò nelle narici.
“Come sei sofisticato! Comunque ti prescrivo un ricostituente, sei un po’
deboluccio. Mangi frutta e verdura a sufficienza?"
“Normalmente sì, ma qui la verdura si fa solo intinta nella sugna di drago”
“Ahahahah… Hai perfettamente ragione. Ma cerca di mangiare un po' meglio,
te lo consiglio e prendi queste in farmacia, ne prendi una pasticca appena
sveglio, prima di colazione mi raccomando”.
La recluta Francesco Lupini mette in tasca la ricetta e ringrazia il Dottore,
uscendo nella calda e assolata giornata che non accenna a smorzare la
temperatura.
Unica nota positiva, Leandra è ancora lì, all’ombra di un enorme pino
secolare che troneggia al centro del giardino antistante l’ingresso.
È sdraiata a terra e guarda il cielo come solo i bambini sanno fare, con quella
attenzione e quella cura di chi ancora crede nei sogni e nella magia.
Quando lo vede, gli fa segno di sdraiarsi accanto a lui sull’erba asciutta.
Non è un grande amante della natura in quanto tale; per carità è un fervente
sostenitore della biodiversità, della cura per il cambiamento climatico e della
protezione delle specie in via di estinzione, ma da lì a saltare nelle
pozzanghere di fango e a rotolarsi tra le balle di fieno c’è un abisso.
Ora però, a contatto con l’erba tagliata da poco, all’ombra di quel pino, vicino
a Leandra, la recluta Francesco Lupini si sente bene.
Si sente veramente bene.
“Guarda, lo vedi il nido di pappagallini?”
“Dove?” chiede lui coprendosi la mano per intercettare i raggi del sole che
filtrano tra i rami.
“Lì, vedi?” E così dicendo si avvicina alla sua spalla, per indicare un punto
imprecisato verso l’alto.
Il suo odore, il profumo dei suoi capelli, il calore del suo corpo a contatto,
anche se attraverso i vestiti, provoca una scossa elettrica che parte
dall’alluce e arriva fino alla fronte.
Altro che ricostituente.
Leandra è il suo booster naturale, la sua dose giornaliera da prendere prima
e dopo i pasti, la panacea di tutti i mali.
“Lo stai vedendo?”
“Sì. Cioè, no, aspetta. Ah sì, eccolo, quello verde. Sì!”
“Bello, vero?”
“Bellissima. No, bellissimo. Sì, bellissimo.”
“Che ti ha detto?”
“Il pappagallo?”
“Scemo, il Dottore”
“Ah, che dovrei mangiare meglio e dormire di più”
“Credo abbia ragione”
“Mi vedi sciupato?”
“Un po’”
E ride.
E il sole si fà più forte quando lei ride.
“Dai, andiamo, si sta facendo tardi e ho un po’ di fame.” propone ad un tratto
Leandra.
“Anche io, ci mangiamo una cosa?”
“Magari. Altrimenti cucino io”
“Sai cucinare?”
“Come ti permetti? Sono molisana, ho la cucina nel DNA!” e lo colpisce su un
braccio con fare fintamente offeso.
“Scusami, non sapevo fosse congenito”
“Certo, sappiamo cucinare, bere e fare l’amore. Questo è il nostro motto”
La recluta Francesco Lupini arrossisce mentre sorride e pensa alle sue
parole, alla sua bocca che le pronuncia, al suono che provoca nelle sue
orecchie.
E non solo nelle sue orecchie.
“Dai, tirati su”
“Emm… senti, prendi le chiavi, io devo… fare una telefonata importante. Mi
aspetti in macchina?”
“Va tutto bene?”
“Certo, vai, non preoccuparti. Arrivo subito.”
Leandra si allontana mentre la recluta Francesco Lupini cerca
disperatamente di pensare a qualcosa di brutto per far passare un evidente
imbarazzo nel basso ventre.
La prof di matematica.
La tabellina del 7.
La morte del suo gatto Fuffy.
Niente da fare.
Serve qualcosa di più drastico per smontare l’impalcatura nei piani bassi.
Chiude gli occhi e pensa alla sua prof di matematica, con la faccia del suo
gatto che canta “7x1=7” e lentamente la situazione torna alla normalità.
Fortunatamente nessuno si è accorto di niente.
Una volta tornato in pieno possesso delle sue facoltà mentali e fisiche, torna
in macchina e mette in moto il pandino verde bottiglia.
“Tutto bene?”
“Sì, grazie, era una telefonata dura… difficile! Una telefonata difficile.”
Lui guarda dritto la strada davanti a sè, sudando.
Lei guarda fuori dal finestrino, sorridendo.
Arrivati sulla Strada Nuova, dopo il cartello di ingresso del paese, l’appuntato
Carmine Marcolfi fa segno di fermare l’auto e di spegnere il motore.
“Va tutto bene?”
“Si, niente di grave, ma dovete fermarvi. Sta passando il corteo”
“Che corteo?”
“Il funerale. Per la signora Palumbo”
“Oddio, è morta la signora Palumbo?” Leandra è molto scossa dalla notizia.
“Era una tua parente?”
“No, ma qui in paese tutti la conoscevano. Era da tanto che non si vedeva,
però”
“Sì” conferma l’appuntato Carmine Marcolfi “si era fatta male all’anca ed era
in cura da Madonno, purtroppo le cose sono andate peggiorando. Sì che era
in là con l’età”
“Quanti anni aveva?” chiede la recluta Francesco Lupini.
“92”
“Giovane” sottolinea in modo sarcastico.
“Eh sì” ribatte in tono sincero l’appuntato Carmine Marcolfi.
“Soffriva tanto, forse meglio così” conclude Leandra e tutti annuiscono a testa
bassa, come si fa generalmente in questi casi.
Se non hai qualcosa di intelligente da dire, annuisci e abbassa la testa, così
diceva sempre sua nonna.
E così fa anche questa volta.
Il suono della banda anticipa l’arrivo del corteo, il tamburo marca il tempo
mentre una singola tromba stona su alcune note alte.
Il carro cammina piano, nero e lucente anche se si vede che ha i suoi anni
anche lui.
Forse vorrebbe andare in pensione, ma chi se lo prende un carro funebre da
rottamare?
Subito dietro, scorrono i 5 elementi della banda che suonano forte come se
fossero in 500 e poi, oltre don Camillo con un chierichetto, ci sono solo due
persone al seguito, una signora vestita di nero che piange disperata e una
donna più giovane che la accompagna.
“Quella è la sorella più piccola, accompagnata dalla badante” dice l’appuntato
Carmine Marcolfi indicando le due donne.
“E non c’è nessun altro?” chiede Leandra dispiaciuta.
“Purtroppo no, sono praticamente o tutti morti o tutti fuori dal paese e non
sono potuti venire. Poveraccia, da sola pure da morta”
Leandra non ci pensa due volte, scende dalla macchina e fa segno alla
recluta Francesco Lupini di seguirla.
“Dove andiamo?”
“Le facciamo compagnia, tanto mi è passata la fame. Dai, andiamo”
A lui non è passata per nulla la fame, anzi, ma come rifiutare una proposta
del genere? E poi detta da lei.
Certo, l’ultimo funerale a cui era andato era quello della nonna, ma poco
importava, anzi forse poteva essere catartico per rivivere quel momento e
finalmente togliersi l’ombra del senso di colpa dalla pelle.
Parcheggiato il pandino verde bottiglia, i due iniziano a seguire il corteo che
procede ad una lentezza disarmante.
Attraversano la piazza centrale, imboccano il vicolo che gira verso destra e si
incamminano lungo la strada che porta al cimitero del paese.
Per arrivare, però, devono affrontare una salita abbastanza ripida che lascia
senza fiato i due ragazzi, la sorella con la badante, i membri della banda che
continuano a suonare e anche il carro che è stanco di questo va e vieni.
Ma, per ogni grande salita, si sa, c’è sempre una grande discesa.
La strada si inclina prepotentemente, scendendo a valle con una pendenza
oltre il limite consentito dalla legge.
Il carro prende velocità, anche la banda suona più velocemente, passando da
una marcia funebre e una marcetta quasi militare e il gruppetto si trova ad
ansimare per mantenere il passo con la defunta in prima linea, fino all’arrivo
nello spiazzo davanti al cimitero.
Le mura del cimitero di Monterotuli sono basse con grosse pietre bianche a
vista e ciuffi di muschio e fiorellini tra le fessure.
Per entrare si passa da un enorme cancello in ferro battuto, con sopra la
scritta “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”, accanto a due enormi
angeli intagliati nella roccia, con i volti corrucciati e erosi dal dolore.
Diciamo che non è il monito migliore per un posto del genere.
Don Camillo riprende fiato dopo la corsa, maledicendo mentalmente la strada
in discesa e il carro che ha i freni che non funzionano bene.
Dalla macchina scendono due signori, che quanto a età non hanno nulla da
invidiare a chi c’è dall’altra parte del cancello; i due si caricano sulle spalle la
piccola bara di legno e la portano dentro.
“Andiamo” dice decisa Leandra
“Dove?”
“Dentro”
“Ma no, dai, mi sembra indelicato”
“Indelicato è lasciare sola una donna che per tutta la vita ha sofferto. Sei un
insensibile” e entra senza voltarsi indietro.
“No, Leandra, aspetta…”
E così dicendo si ritrovano a camminare vicini verso il loculo, per l’estremo
saluto della signora Palumbo.
Don Camillo legge alcune pagine del Vangelo, senza troppo entusiasmo e poi
chiede:
“Qualcuno dei presenti vuole dire qualcosa?”
La sorella piange disperata e fa cenno di no con le dita.
La badante conosce a malapena l’italiano e in realtà sta ascoltando una
puntata del suo podcast preferito con una cuffietta nell’orecchio.
Don Camillo indica Leandra.
Leandra indica la recluta Francesco Lupini.
La recluta Francesco Lupini non sa più chi indicare.
“Prego” lo invita Don Camillo.
“Ma veramente…”
Leandra lo spinge, nascondendo un sorriso sotto un falso pianto commosso.
Questa me la paghi, sussurra mentre prende posto davanti al feretro.
“Ecco. Tutti noi… amavamo… lei.”
E il piccolo gruppo annuisce.
“E siamo grati per quello che è successo”
“In che senso?” chiede Don Camillo.
“... nel senso… Cioè, che abbia smesso di soffrire”
Il piccolo gruppo annuisce ancora.
“Quando amiamo qualcuno, vorremmo che non le succedesse mai nulla di
male e soffriamo per la sua sofferenza, come se per osmosi fossimo in
contatto diretto con la sua mente.” prende un tempo, guarda Leandra che lo
guarda a sua volta, poi continua.
“Quando amiamo qualcuno, ci perdiamo nei suoi ricordi, vaghiamo senza
meta finché non sentiamo il suono della sua voce, l’odore della sua pelle, il
calore del suo corpo. Ed è una fortuna poter stare accanto a chi si ama,
perché vuol dire aver trovato l’altra parte di noi. Platone diceva che un tempo
gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la
distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li
spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria
metà, trovando la quale torna all’antica perfezione.”
Leandra sorride arrossendo, mentre Don Camillo, la sorella Palumbo e la
badante lo guardano senza capire il senso delle sue parole.
“Questo per dire… per dire… che la signora era amata e che siamo stati
fortunati nel conoscerla, perché abbiamo trovato l’altra metà di noi stessi
grazie a lei. Amen.”
“Sia lode a Dio”
“Lode a Dio”
“Amen”
“Amen”.

“Sei stata perfida!”


Si incamminano su quella che era la discesa impervia e che ora è diventata
una salita insormontabile.
“Ahahah… Dovevi vederti, eri così buffo.”
“Non è stato per nulla divertente”
“Per me sì” Leandra ride mettendosi una mano davanti la bocca.
“E poi hai detto delle cose bellissime. Ma non è che eri innamorato della
signora Palumbo?”
La recluta Francesco Lupini abbassa la testa, in un misto tra imbarazzo e
risentimento.
Ed è questo misto di emozioni che non gli fa percepire cosa sta succedendo
intorno a lui.
Le labbra di Leandra sono incollate alle sue.
Il suo sapore.
Il suo odore.
Il mondo si ferma.
Anche le statue degli angeli sorridono.
Mentre le due metà ritornano ad essere un corpo solo.
CAPITOLO 11

A scuola c’era un gruppetto di quelli che oggi chiameremmo bulli, ma che in


realtà erano semplicemente degli adolescenti teste di minchia.
Prendevano di mira, a turno, qualcuno della scuola per vessarlo e fargli degli
scherzi.
Tranne me.
Io non facevo i turni.
Io avevo il cartellino da timbrare ogni giorno.
Ogni singolo giorno dal primo al quarto liceo venivo picchiato e derubato della
mia merenda.
All’inizio ho provato a dirlo a casa, ma mio padre mi ha semplicemente “dato
il resto” delle botte che mancavano, dicendo che se non ero in grado di
difendermi da solo era inutile continuare a vivere in questo brutto mondo.
L’unica che mi ha dato una mano è stata mia nonna paterna.
Una volta, tornato a casa con un occhio nero e con il naso pieno di fazzoletti
sporchi per tentare di fermare l’emorragia, mi ha preso da parte e mi ha
portato in camera sua.
“Vedi, nipote mio, devo farti vedere una cosa”.
Ha aperto un vecchio album di famiglia, dove c’erano le foto di lei da giovane,
di lei con i genitori e le sorelle più piccole.
E poi c’era una foto in bianco e nero, sbiadita dal tempo, di mia nonna da
giovane con un lungo kimono bianco e una cintura scura.
“Questo si chiama GI, il kimono lo portano le geishe.”
“Ma che vuol dire?”
“Vuol dire che tua nonna ha fatto arti marziali per tanti anni da giovane ed è
cintura nera di Ju Jitsu"
“Di cosa?”
Ride di gusto, le piace ricordare il passato, le piace rivedere quelle foto e
pensare al tempo che ha vissuto.
Non rimpiange nulla dell’esser diventata grande, dell’essere invecchiata,
perché in ogni ruga c’è un pezzo della sua storia, dentro ogni segno c’è una
persona amata e una odiata. C’è lei in ogni piega della pelle.
“Se vuoi” mi dice “posso insegnarti qualcosa”
“Ma in cosa consiste?”
“Il Ju Jitsu è un’arte orientale di difesa personale. Non è di attacco, anche se
puoi usarla anche per quello, ma solo se sei veramente in pericolo.
Principalmente serve a parare i colpi e immobilizzare l’altro, in modo tale da
poter scappare quando la situazione è tranquilla. Non devi mai colpire per
primo, devi attendere e parare. Ti piacerebbe?”
“Oh sì, nonna, ti prego.”
Da quel giorno, tutti i giorni finita scuola, facevamo un’oretta di allenamento
nella camera di mia nonna, e lei alla sua veneranda età ancora riusciva a
finalizzarmi, così si dice quando l’altro ti mette a terra e non riesci più a
muoverti.
A volte mi faceva più male lei che i bulletti di scuola.
Finché un giorno, ho iniziato a capire qualcosa.
L’ultimo giorno del quarto anno di liceo, me lo ricordo come fosse ora, il
gruppetto si è avvicinato.
Erano particolarmente euforici per la fine della scuola e volevano scaricare su
di me la loro felicità.
Il primo è partito con un pugno in faccia, ma incredibilmente sono riuscito a
schivarlo.
Non solo.
Ho preso il suo polso e ho sfruttato la sua velocità per buttarlo a terra,
mettendo un ginocchio sulla sua schiena.
Gli altri due sono rimasti spiazzati, poi si sono avvicinati insieme, come fanno
le vere merde che attaccano in branco.
Quello alto si è lanciato su di me e anche in questo caso è finito
rovinosamente a terra.
I ragazzi della scuola hanno iniziato a formare un capannello intorno a noi,
come nei film americani quando parte una rissa in galera.
Il terzo si è scagliato titubante contro di me, ma ha fatto la stessa fine dei suoi
compagni.
Mi sono avvicinato, stavo per colpirli ma ho pensato alle parole di mia nonna,
al fatto di difendermi e di non attaccare se non per necessità estrema.
Ho guardato il capetto negli occhi, tenendo il bavero della sua camicia con
una mano e l’altra pronta a scagliarsi contro tutte le angherie subite.
La folla intorno mi incitava a colpirlo.
L’adrenalina era tanta.
Ma non ne valeva la pena.
L’ho lasciato andare, orgoglioso di me.
Da quel giorno non mi hanno più dato fastidio e ho passato il mio quinto anno
di liceo mangiando la mia merenda e con il setto nasale in perfetto ordine.
Peccato che mia nonna non sia riuscita a vedermi.

Dopo aver riaccompagnato Leandra a casa, la recluta Francesco Lupini


parcheggia il pandino verde bottiglia sotto il vicolo del B&B e cerca un angolo
di ombra per recuperare le idee.
L’unico pensiero ora sono le labbra di lei.
Dopo quel primo bacio ne sono arrivati altri e altri e altri fino a togliersi il fiato
a vicenda.
Come due adolescenti si sono lasciati andare alla passione dei baci, davanti
l’ingresso di un cimitero ormai vuoto, con tanta vita da uccidere anche la
morte.
Quando si sono staccati, lui l’ha guardata negli occhi, in quegli occhi così
profondi da nascondere un universo infinito.
Quegli occhi che raccontano storie, che intrecciano vite e che parlano di loro.
Si guarda attraverso i suoi occhi e vede un uomo innamorato, vede un uomo
felice, vede finalmente se stesso.
Libero.
Lei sorride e si morde il labbro inferiore, portandosi via quel che resta del
rossetto rosa carne che aveva messo la mattina. L’altra parte è rimasta sulle
labbra della recluta Francesco Lupini.
In macchina si sono dati appuntamento per la sera stessa, per vedersi
ancora, magari complice il buio, magari senza tutti gli sguardi del paese
addosso, magari in una camera comoda.
Sotto casa di Leandra, lui l’ha baciata ancora, lei si è staccata sorridendo e
sussurrando “Dai… Ci vedono”.
“E che vedano”
“Dai, smettila, ci vediamo dopo…”
E ancora un bacio, un ultimo.
Ora la fame è passata completamente, i succhi gastrici hanno lasciato il
posto alle farfalle che volano leggere nello stomaco e ogni altra funzione
vitale è ridotta al minimo.
Tranne per la sete.
Quella è rimasta e anzi si fa sentire, dopo essersi consumati la bocca a
vicenda.
Ha sete, il caldo è atroce e a quest’ora è tutto chiuso.
Cerca nello zaino, dovrebbe esserci ancora la bottiglietta d’acqua del giorno
prima o almeno le poche gocce che restano.
Trovato il Sacro Graal la delusione è tanta: non c’è più niente di trasparente
all’interno.
Anzi, in realtà qualcosa c’è, ma non sembra esattamente acqua.
Sembra più qualcosa di trasparente e gelatinoso poggiato sul fondo.
La recluta Francesco Lupini apre la bottiglia e ne annusa il contenuto, non
sembra propriamente acqua.
Eppure l’odore non è del tutto nuovo.
Sembra più… banana.
FLASH.
Leandra porta la colazione in camera, sorridendo.
FLASH.
Leandra poggia sul tavolo una bottiglia di acqua e del pane croccante con la
marmellata.
FLASH.
Lui mangia avidamente e beve dalla bottiglia, poi dorme tutto il pomeriggio
finché non lo sveglia la campana.
FLASH.
Lui dà l’acqua al gatto rosso con le strisce nere in piazza.
FLASH.
Il gatto rosso con le strisce nere cade addormentato.
FLASH.
Dottor Madonno nel suo studio dice che non ha ricostituenti.
FLASH.
Le bottigliette di sonniferi.
FLASH
“Comunque ogni tanto mi sparisce qualche boccetta, secondo me qualcuno
dello staff…”
FINE DEI FLASH.
“Ma che cazzo?”

La recluta Francesco Lupini si appoggia al muro della casetta di mattoni che


dà il via al vicolo, il mondo gli sta crollando addosso e lui non trova un
appoggio solido dove sprofondare.
Non è possibile, continua a ripetere mentalmente.
“Non è possibile” continua a sussurrare mentre lentamente scende a terra e
si siede sui gradini di cotto e marmo.
No, forse sta sognando, forse è solo una casualità, forse è solo nella sua
testa.
Non è possibile che qualcuno lo abbia addormentato con un sonnifero.
E soprattutto non è possibile che quel qualcuno sia Leandra.
Ma la domanda vera è: perché lo avrebbe fatto?
Si passa una mano tra i capelli, ha bisogno di tempo per pensare e
soprattutto di qualcosa che lo possa tirare su, forse in camera c’è ancora un
pezzo di pane.
Sempre che non sia avvelenato.
Ma che gli viene da pensare!
Sicuramente non c’è connessione tra le cose, era solo stanco e si è
addormentato, il cambio di clima, il caldo, il viaggio, sono cose che possono
provocare sonno.
Però anche un sonnifero provoca sonno.
E se non fosse stata lei a preparare la colazione? Magari l’ha fatta Turucc.
L’ha sempre guardato male, da quando è arrivato, magari ce l’ha con lui per
qualcosa.
Anche se non sembra proprio il tipo che mette del sonnifero in una bottiglia di
acqua, magari ti dà uno schiaffo e ti attacca al muro per farti svenire.
E allora perchè?
Ok, non è neanche detto che quel liquido sia quello che pensa, magari è
semplicemente la posa dell’acqua.
Come l’olio.
Forse il troppo caldo ha sciolto le molecole del…
Ok.
Deve fare una prova.
Apre la bottiglia, chiude gli occhi, beve l’ultimo goccio rimasto e aspetta.
Aspetta.
Aspetta.
Vedi? Non succede nulla.
Poi buio.

“Giovanotto, va tutto bene?”


Quando riapre gli occhi si trova davanti una signora anziana e minuta che
poggia a terra le casse di acqua che sta portando su per il vicolo.
“Vi sentite male?”
“No, mi scusi, credo sia stato il caldo.”
E così dicendo la recluta Francesco Lupini si rialza a fatica, tenendosi la testa
tra le mani e raccogliendo i pezzi del suo cuore infranto.
“Volite nu biccher e vino?”
“No, grazie, sono a stomaco vuoto”
“Ah, ma allora è pe chillo. E lo potevate dire subbito, no? Venite che vi
preparo quaccosa”
E così dicendo la signora si prende in braccio le due casse di acqua e si
avvia agile e leggera sulle scale che portano a casa sua.
La recluta Francesco Lupini cerca di rialzarsi da terra ma, nel tirarsi su
velocemente, la testa gira come su una giostra e deve di nuovo sedersi.
“Non ha postumi il cazzo” dice a voce bassa ricordando le parole del Dottor
Madonno.
Quindi la sua teoria è giusta, qualcuno voleva farlo addormentare appena
arrivato.
“Venite, non facite complimenti”
La voce della signora affacciata in finestra lo distoglie dai suoi pensieri.
Deve mangiare assolutamente, anche se lo stomaco si è chiuso in preda alle
paure e al dolore di quello che è appena successo.
La donna della sua vita che lo anestetizza.
Incredibile.
La porta di casa della signora è accostata e la recluta Francesco Lupini
chiede permesso prima di entrare.
“Trasite, trasite che sto apparecchianne”
Forse trasite vuol dire entrate, non è molto convinto ma non ha altra scelta.
La porta dà direttamente su una scaletta a chiocciola molto stretta che fa
accedere al piano superiore.
Come diavolo ha fatto quella signora così minuta a portare due casse di
acqua su per queste scalette? E soprattutto così in fretta.
Arrivato in cima alle scale, la stanza si apre lasciando posto ad un grande
salone con cucina a vista, stufetta a legna e una vecchia tv sintonizzata su
Rete4.
A terra c’è un comodo tappeto intrecciato e due poltroncine bianche messe in
direzione della tv, con in mezzo un tavolino di legno scuro, che fa da
contrasto con il resto dei mobili chiari.
Vicino alla finestra che dà sul vicolo c’è una grande credenza con le ante in
vetro; dentro tanti bicchieri in fila come soldati pronti per una battaglia che
non si combatterà mai.
“Venite, venite, assettatevi qui. Scusate ma l’ho fatto al volo”
E sul tavolo, come per magia, appare un sontuoso piatto di pasta al sugo,
una sorta di dita affusolate ricoperte di un ragù magico.
“Si chiamano cazzutilli co la ventricina. Come li chiamate voi? Ah sì, cavatelli!
Assaggiate, assaggiate… Comme sò?”
“Bgufiii” la recluta Francesco Lupini non riesce a parlare per quanti cavatelli
ha messo contemporaneamente in bocca, sono decisamente troppo buoni
per essere un piatto reale, forse è ancora svenuto sulle scale e sta sognando.
“E quando avete finito, questo l’ho fatta mo mo”
E da sotto un canovaccio appare per magia un ciambellone talmente alto da
sfidare la forza di gravità e andare contro ogni legge della fisica moderna.
È un concentrato di morbidezza, soffice e delicato come una nuvola, con
sopra una lieve spolverata di zucchero a velo che diventa caramello a
contatto con la superficie ancora calda.
La recluta Francesco Lupini vorrebbe fare la scarpetta con il ciambellone ma
cerca di darsi un contegno, anche se la tentazione è forte.
Mette da parte il piatto vuoto, taglia una abbondante fetta di ciambellone e
morde quella delizia senza ritegno.
Forse è morto e quello è il paradiso.
Una casetta di montagna in un paesino sperduto, viziato da una signora che
sembra sua nonna.
Ci poteva stare come paradiso.
Una volta finito il pasto improvvisato, la signora entra con due tazzine di caffè
e si siede davanti a lui.
“Ora che vi siete ripreso, mi presento. Mi chiamo Cecilia.”
“Piacere mio, sono la recluta Francesco Lupini. Grazie mille per l’ospitalità”
“Lo so chi siete, tutti vi conoscono in paese. Quando arriva qualcuno nuovo
non passa certo inosservato. Ma ditemi un po’, come mai siete svenuto?
Troppo caldo?”
“Troppi pensieri”
“Eh. Chelli ti ammazzano. Altro che. E c’entra una donna?”
“Come lo sapete?”
“Quando un uomo sviene è sempre per una donna. O perché è innamorato o
perché è stato lasciato. Voi a quale appartenete?”
“Credevo di essere innamorato ma forse mi ha lasciato”
“Allora tocca svenire il doppio”
La signora Cecilia sorride in maniera genuina, socchiudendo gli occhi piccoli
e neri e lasciando spazio alle rughe che raccontano una vita.
Una vita fatta di fatica, di scale, di casse d'acqua e di passione.
Una vita fatta di sorrisi anche quando c’era da piangere.
“Comunque voi dovete fare qualcosa, mangiate meglio che stete deprito”
“Deprito?”
“Sciupato. Troppo magro. Certo che poi svenite. Avete preso qualcosa?”
“Il Dottor Madonno mi ha dato un ricostituente”
“Eh, bono quello!”
“Il ricostituente?”
“No, il Dottore”
Lo sguardo della signora Cecilia si fa più cupo, un ricordo si muove agli
angoli degli occhi e si condensa in una lacrima che viene intercettata
velocemente da un dito rugoso e stanco.
“Che è successo? Se posso permettermi…”
Il lungo silenzio che segue è pieno di vita e di dolore.
E di morte.
“Mio marito. Era ricoverato lì, soffriva di artrite. Un dolore ogni notte, urlava e
piangeva come na criatura. E poi l’abbiamo ricoverato lì, dal Dottore” e nel
dire Dottore, la voce si fa mezzo tono più alta, mentre la bocca si contrae in
una espressione di disprezzo.
“E poi?”
“E poi non è mai più tornato a casa. È un incompetente.”
Abbassa la testa, non riesce a sopportare il peso di tutta quella colpa, quel
senso di impotenza e di frustrazione nel non essere riuscita a tenere in vita il
suo amore.
La recluta Francesco Lupini allunga spontaneamente la mano e la avvicina a
quella della signora Cecilia, in un gesto intimo e gentile, come se i due
fossero grandi amici.
Il dolore fa avvicinare le persone, più del tempo stesso.
“Non è colpa vostra”
“Lo so. Me lo dico tanto, ma non è facile.”
Prende un fazzoletto arrotolato nella manica e si asciuga naso e occhi.
“Sapete” dice mentre finisce di asciugarsi. “Io e mio marito ci siamo
conosciuti su un treno. All’epoca i treni mica andavano così veloci come oggi
e per fare un pezzo di strada ci mettevi una vita”.
Si alza e prende una foto dalla mensola.
Nella foto c’è una ragazza piccola ma atletica, con i capelli lunghi e neri e gli
occhi pieni di vita e accanto a lei c’è un uomo, alto e forte, in tenuta da
militare.
I due sorridono, alla foto e all’amore.
“Io stavo andando a Roma, ero con mia sorella più grande e stavamo
andando dai miei zii. Lui aveva finito il congedo e stava tornando in caserma.
Siamo capitati in due posti vicini, per caso, anche se il caso secondo me non
esiste. Mi ha detto: <Scusate, sono tutto solo qui e mi annoio, ma non voglio
rubarvi del tempo. Posso chiedervi solo cinque minuti di chiacchiere?
Guardate, metto qui il mio orologio da polso, se dopo cinque minuti non
sappiamo più che dire, facciamo finta di niente. Altrimenti andiamo avanti altri
cinque minuti. Che ne pensate?>”
Sorride, persa nel ricordo di quell’incontro, con il corpo lì ma con la mente su
quel treno.
Poi continua a raccontare.
“Aveva un sorriso che ti conquistava e un modo di fare a cui non potevi dire di
no.
Abbiamo parlato per cinque minuti, che poi sono diventati altri cinque e altri
cinque. Siamo scesi insieme dal treno e non smettevamo di parlare. Quei
minuti sono diventati giorni, poi mesi, poi anni. Ci siamo sposati e ogni volta
lui metteva sul tavolo l’orologio e diceva <Altri cinque minuti>. Anche quando
litigavamo, per fare la pace dicevamo che potevamo sfogarci per cinque
minuti, poi basta. Quando l’ho visto andare via sulla barella, mi ha sorriso e
ha detto: <Stai tranquilla. Conta altri cinque minuti e torno>. E non è più
tornato.”
La vita è strana, fa così male e così bene nello stesso momento, come se
fosse una pozione dolcissima che ti può uccidere.
La signora Cecilia si soffia ancora il naso, poggia la foto sul comodino,
accanto all’orologio da polso fermo e si aggiusta i capelli.
“Va beh, ora però non ci buttiamo giù” dice mettendo le tazzine di caffè sul
vassoietto.
“Dite. Come vi state?”
“Sto meglio, grazie. Ma veramente avete cucinato questo ciambellone ora?”
“Certo”
“Poi mi dovete dare la ricetta, allora.”
“Quella mai, me la porterò nella tomba”
E ride, per scacciare i ricordi e per allontanare la morte ancora un po’.
“Ora però andate in farmacia, prendetevi qualcosa che vi tira su e riposate,
siete stanco, si vede”
“Sì, farò così, grazie mille. Per tutto.”

Quando esce di casa la recluta Francesco Lupini si sente leggermente


sollevato, anche se il pensiero di quello che è successo continua ad
assillarlo. Leandra, la sua Leandra, quella che pochi minuti prima lo aveva
baciato, lo aveva anche addormentato appena arrivati. Ma come è possibile?
Come fa a convivere nello stesso corpo la donna perfetta e una spietata
anestesista?
Forse è una sua perversione, un gioco erotico.
Ma che va pensando!
Il consiglio della signora Cecilia è giusto, ha bisogno di qualcosa per tirarsi su
e di farsi anche una bella dormita.
Davanti a sé ha due opzioni: una ripida scalinata che porta direttamente
davanti la porta di ingresso della farmacia oppure la strada che allunga il
percorso ma è decisamente meno impegnativa, soprattutto al ritorno.
Perché se le scale a scendere sono facili, a salire diventano praticamente
impossibili.
L’unica cosa sicura è che restare fermo non può essere un'alternativa utile,
soprattutto sotto il sole.
Opzione 1, le scale.
Magari usando l’opzione 3, scale all’andata e strada lunga al ritorno.
Ogni volta che la recluta Francesco Lupini fa le scale, fin da quando era
piccolo, ha il vizio di contare mentalmente quanti gradini ci sono. E alcune
volte, quando è particolarmente stressato, se salta un gradino deve
ricominciare da capo.
Lo fa per avere tutto sotto controllo, lo fa perché è convinto che così facendo
eviterà di scivolare su un gradino e morire con la testa schiacciata.
Ma no, non ha manie di controllo, non serve sottolinearlo ogni volta.
La colpa è dei gradini.
Perché i gradini fanno così, sono infami e ti fanno scivolare e poi ti ritrovano
in posizioni assurde che per fare la sagoma del tuo cadavere con il nastro
adesivo serve un geometra a parte.
Questa volta i gradini sono 72, stretti, vicini e ripidi.
72 possibili cadute.
72 volte che è scampato alla morte.
Le scale finiscono direttamente sulla strada, senza strisce pedonali e senza
segnalazione, un ulteriore modo utile per morire felicemente.
Dall’altra parte del marciapiede c’è l’insegna di una piccola farmacia, con la
croce verde lampeggiante e una spada con un serpente arrotolato intorno.
Come il tatuaggio di suo padre.
Come quello sul collo di Matteo Biondini, il morto del lago.
Casualità? Io non credo, come direbbe qualcuno.
La porta ha un campanello elettrico che segnala l’ingresso dei clienti, ma
ormai le batterie sono quasi esauste e invece di riprodurre quello che un
tempo era uno scampanellio ora è diventato il latrato di un cane agonizzante.
Dal fondo del magazzino si sente una voce che dice “Nu moment. Arriv” ma
non si vede nessuno arrivare.
Poi dei passi, piccoli e leggeri, ma ancora nessuno all’orizzonte.
Finché da dietro il bancone non appare un omino piccolo e con una striscia di
capelli solo all’altezza delle tempie, che inforca un paio di occhiali molto
spessi e un camice bianco e ben stirato.
“Dite”
La recluta Francesco Lupini non coglie immediatamente la domanda.
“Dite”
Fa eco il piccolo farmacista da dietro il bancone.
“Sì, scusate. Vorrei questo” e così dicendo tira fuori dalla tasca la ricetta del
Dottor Madonno.
Il piccolo farmacista guarda il foglio, guarda la recluta Francesco Lupini,
riguarda il foglio e dice: “Me stete pijando pel culo?”
“Come scusi?”
“State pazziann? Che rubbè chesta?”
Il piccolo farmacista, infastidito dalla perdita di tempo, dà indietro il foglio alla
recluta Francesco Lupini che lo prende in mano e capisce l’equivoco.
In tasca ha ancora la minaccia di prima, quella che ha trovato sotto la porta in
camera sua.
“No, mi scusi, questo è… uno scherzo di un amico. Ecco, questa dovrebbe
essere la ricetta” dice tirando fuori un foglio dall’altra tasca.
Mentre apre la ricetta qualcosa cattura la sua attenzione.
Più che qualcosa, una lettera.
Anzi due.
La L e la M della minaccia sono identiche a quelle della ricetta.
A guardar bene in realtà anche i fogli bianchi sono gli stessi, stessa grana,
stesso formato, stessa penna.
Mio Dio.
La minaccia viene dal Dottor Madonno.
“Vi sentite bene giovanotto?”
“Sì, sì. Tutto a posto. Credo.”
“Forse vi serve qualcosa di più forte di questo ricostituente” dice mentre
impacchetta il medicinale in un foglio con il logo della farmacia.
La recluta Francesco Lupini resta con i due foglietti in mano, guarda il primo,
poi il secondo e scuote la testa. Non si capacita di tutto questo.
Prima Leandra vuole addormentarlo o peggio ancora, avvelenarlo.
Ora scopre che Madonno gli ha mandato una lettera di minaccia.
Aspetta…
E se le due cose fossero collegate?
Se Leandra e Madonno avessero un piano insieme?
E se Leandra e Madonno stessero insieme?
E se Leandra e Madonno fossero la stessa persona?
“18 euro”
“Come?”
“Sono 18 euro, per la medicina”
“Ah sì, scusi.”
Pagamento, apertura della porta, latrato del cane agonizzante, chiusura della
porta.
Forse sta giocando ad un gioco molto più grande di lui.
Forse veramente deve lasciar perdere tutto, lo stanno mettendo in mezzo
come il gatto col topo e lui non ha gli strumenti per affrontare tutto questo.
Vorrebbe solo tornare a casa, con i sughi pronti di sua madre, con le
scartoffie da compilare e la scrivania piena del lavoro degli altri.
Nei film è tutto più facile, nelle serie tv ad un certo punto il poliziotto viene
aiutato da qualcuno e risolve il giallo, senza stare troppo a girarci intorno.
Ma questo non è un film, al massimo può essere classificato come libro giallo
di serie B.
E poi chi ambienterebbe un libro giallo in Molise?
Seduto sul muretto davanti la farmacia, la recluta Francesco Lupini guarda i
due foglietti senza vederli realmente, incapace di comprendere fino in fondo il
quadro complessivo, come se mancasse un tassello fondamentale.
Forse è lui il tassello che manca, quello che non combacia con nulla e che fa
perdere tempo perché sembra un pezzo di cielo, ma in realtà è un angolo di
una bottiglia.
Non riesce a mettere a fuoco e la testa inizia a pulsare, come se volesse
uscire dal cervello.
Forse è tempo di prendere il pandino verde bottiglia e tornare a casa, come
voleva fare, come GIUSTAMENTE voleva fare, lasciare in mano a qualcuno
tutto questo casino, qualcuno che sa fare il mestiere e conosce le regole del
gioco.
Ha voluto puntare al tavolo dei grandi e ha miseramente perso.
Glielo diceva suo padre, che non avrebbe fatto nulla nella vita, ogni volta che
interveniva con una domanda gli diceva che non si disturba chi sta veramente
lavorando e quel veramente lo sottolineava per umiliarlo ancora di più.
“Oh vire u strunz”.
Non sa se le parole sono solo nella sua testa o se esistono nella realtà,
anche se non ricordava il padre con un accento del sud Italia.
Lentamente la testa della recluta Francesco Lupini si gira per dare un corpo a
quella voce che non sapeva riconoscere.
Forse un po' troppo lentamente si gira, perché non si accorge dello spintone
che lo colpisce e lo fa andare contro la porta della farmacia.
Il cane agonizzante smette di latrare e finalmente muore in pace.
“E mo senza lu gigante, si solo nu strunz”
Il capetto biondino, figlio di Don Fefè, lo guarda con aria di sfida, si sente
forte perché accanto a lui ci sono i suoi fidati sgherri e sa che il paese è suo,
qui comanda lui e si fa come dice lui.
“Ragazzino, non ho voglia di discutere”
“Avite sentito? Ra guardia non vuole discutere. Ci dispiace, la stiamo
disturbando?”
E giù a ridere.
“Dai, andate che ho altri problemi”
“Simm noi i tuoi problemi”
E così dicendo il capetto biondo si lancia contro la recluta Francesco Lupini
con un diretto puntato al naso.
Ma quando impari una cosa da piccolo, ti resta impressa in automatico.
Come quando studi le lingue da bambino e te le porti dietro sempre, anche se
le parli poco.
In una frazione di secondo riaffiorano alla mente le giornate passate in
camera della nonna, i pugni presi e quelli schivati, gli allenamenti dopo
scuola, i bulletti in cortile.
Così quando il pugno sta per arrivare, la testa scatta in automatico di lato e il
colpo va a vuoto.
E colpisce direttamente la porta, facendo tornare in vita il campanello.
Il capetto biondo ci resta male, si massaggia la mano e torna sui suoi passi
per riparte alla carica, puntando questa volta allo stomaco e si lancia di testa
come un ariete, pronto a sfondare le barriere nemiche.
Ma questo non fa altro che scoprire il punto debole dell’avversario, ossia il
suo collo, quindi la recluta Francesco Lupini come una tenaglia afferra la
testa del capetto biondo e la chiude tra le sue braccia.
Lateralmente si avvicinano gli altri due, con uno schema collaudato di chi non
sa affrontare la vita da solo e allora circonda i problemi per farli fuori.
Ma questa volta il problema conosce le arti marziali.
Quello alto con l’acne in viso si lancia contro la recluta Francesco Lupini che,
senza mollare la presa, si gira portandosi dietro il capetto biondo e lo usa da
scudo contro gli attacchi laterali. Anche l’altro basso e rasato tenta l’affondo,
ma un calcio proprio li dove fa più male lo lascia immobile e agonizzante.
È pronto a far cadere a terra il capetto biondo, ora che gli altri due sono a
bada, ma una voce secca e perentoria lo immobilizza.
“Statte ferm!”
La stretta si allarga, la testa sbuca e la situazione torna ad una apparente
normalità.
“Papà, ha cominciato lui” dice il capetto biondo, come fanno tutti i bambini
beccati dai genitori.
“Statte zitt. Ho visto tutto, ero qui dietro, strunz. Cammena alla casa, con te
facciamo i conti ropp”
“Ma…”
A volte non servono le mani per colpire un uomo, a volte basta uno sguardo.
Lo sguardo di tuo padre pieno di disprezzo, rancore e rabbia.
Quello sguardo che la recluta Francesco Lupini conosce bene.
E che ora stava incenerendo il capetto biondo che se ne va a testa bassa.
“Permettete” dice allungando la mano “Piacere Don Fefè”
“Recluta Francesco Lupini, per servirla” risponde stringendo a sua volta la
mano e cercando di recuperare un minimo di compostezza.
“Dovete scusarlo, a volte quando uno ha troppo, finisce per non avere una
cosa importante: la fame”
“In che senso?”
“Nel senso che se nasci povero, hai fame e voglia di riscatto. Vuoi salire, vuoi
diventare come gli altri, hai bisogno di crearti una posizione. Quando invece
hai la pancia piena, che te ne fotte della vita e degli altri. Mio figlio ha da
sempre la pancia piena, e questo è stato il mio più grande errore. Ma ora ci
penso io, non vi preoccupate”.
“Non sono preoccupato. So che farete tutto il meglio per lui”
"Già… Ma dove avete imparato quelle mosse?”
“È stata mia nonna”
“Ah. Grandi donne le nonne.”
“Già.”
“Buona giornata.”
“Buona giornata a voi, don Fefè.”
Si gira sui suoi tacchetti che lo fanno sembrare leggermente più alto e si
allontana con accanto le sue guardie del corpo.
Quando finalmente è solo, la recluta Francesco Lupini si guarda intorno per
vedere se la situazione è tornata alla normalità, e poi sviene.

“Tenete, bevete un bicchiere d’acqua e prendete le pasticche che vi ho dato”.


L’omino farmacista, dopo aver schiaffeggiato il viso del povero addormentato,
gli avvicina alle labbra un bicchiere di acqua fresca.
“Ma voi stete proprio ‘nguaiato, fije mi. Però, c’è da dire che avite affrontato
quel uaglione in maniera esemplare. Bravo. Ci voleva qualcuno che lo
rimettesse a posto suo”
“Gr…grazie” la recluta Francesco Lupini tenta di alzarsi lentamente, bevendo
l’acqua e mandando giù il ricostituente.
“È proprio nu strunzett”
“Si, ho notato”
“Mena, me, ora iatevene alla casa e riposate nu poche. Tenite na faccia
sbattuta”
Si alza, si aggiusta la maglietta e saluta l’omino farmacista mentre
abbandona l’opzione “scale” per prendere l’opzione “strada più lunga” e
tornare finalmente al B&B.
Necessita di una doccia e di un po’ di riposo, le ultime ore sono state a dir
poco massacranti.
Una volta arrivato in camera, trova un biglietto sul letto.
“Grazie per oggi, è stato molto divertente. Ci vediamo stasera, ho prenotato
da Leonardo. Leandra” e dietro al foglietto c’è un disegno con le indicazioni
per arrivare alla pizzeria <Da Leonardo - specialità pizza>.
Ah, giusto.
Con tutto questo delirio si è dimenticato di Leandra.
Dell’addormentatrice folle.
Della machiavellica Leandra.
Adesso che ci pensa, forse anche quel bacio era falso e voleva solo
avvelenarlo con le sue labbra carnose da vipera.
Quelle labbra carnose così morbide e calde e delicate e morbide già lo ha
detto?
Basta.
È stata lei ad addormentarlo e ora ha bisogno di spiegazioni, poi chiederà
anche a Madonno la sua versione.
Si butta sotto la doccia, si dà un minimo di contegno e si sdraia sul letto.
Ripensa alla giornata.
Al funerale, al bacio, alla bottiglietta di acqua, al ciambellone, al foglio di
minaccia, alla rissa sventata.
Quante cose succedono in un paese che non dovrebbe neanche esistere.
Ricorda che una volta sul giornale aveva visto una scritta su un muro: IL
MOLISE NON ESISTE.
Ma il NON era stato cancellato e al suo posto c’era scritta una R.
RESISTE.
Il Molise resiste.
Ed è così, resiste agli attacchi delle persone, resiste alle prese in giro, alle
botte dei bulletti. Resiste alla voglia di cambiare, al passato che ti divora,
resiste alla tradizione e al futuro.
Il Molise resiste.
E anche lui deve farlo.
Perché forse per la prima volta si sente a casa, si sente in un posto dove non
deve chiedere sempre permesso, si sente libero di essere se stesso.
Si sente un po’ “Molise” anche lui.
Perché qui anche se tutto sembra falso, tutto suona come vero, perché
ognuno fa esattamente quello che vuole e gli altri accettano questa unicità,
non provano a cambiarti ma decidono o di averti accanto o di lasciarti andare
per la tua strada.
Chissà come sarebbe cambiata la sua vita se fosse cresciuto qui, che scelte
avrebbe fatto, che percorso avrebbe seguito.
La recluta Francesco Lupini resiste.
La campana della chiesa suona otto rintocchi lunghi, è ora di andare a
mangiare qualcosa, anche se la pasta della signora Cecilia ancora resta
stabile nel tragitto dello stomaco.
Ma deve uscire, per incontrare Leandra e chiarire una volta per tutte,
guardandola negli occhi.
Odia non capire le cose.
E ora ci sono decisamente troppe cose che non sta capendo.
Esce dalla stanza, chiudendo la porta a chiave dietro di sé. Controlla la
mappa disegnata da Leandra. Non è chiarissima, ma diciamo che il paese è
talmente piccolo che non dovrebbe esserci troppa difficoltà ad orientarsi.
Scende le scale e si dirige dalla parte della farmacia, verso quella che
chiamano la piazzetta.
Arrivato in fondo al vicolo, la strada si snoda per lunghi passaggi costeggiati
dalle case, che formano una barriera simile ad un tunnel di una giostra.
La recluta Francesco Lupini ha dentro di sé mille dubbi, mille domande da
fare e mille risposte che vorrebbe ascoltare. Non sa come affronterà la
questione, ma sicuramente deve chiedere a Leandra se c’entra qualcosa con
il sonnifero oppure no.
Magari invece non c’entra nulla e lei ha solo portato l’acqua in camera,
magari è capitato per errore dentro una bottiglietta chiusa dall’esterno…
Certo.
Matirendicontodellacazzatachedici?
No, non funziona.
Pensando e ripensando, neanche si accorge di essere arrivato in piazzetta e
di trovarsi sotto l’insegna luminosa con scritto PIZZERIA DA LEONARDO -
Specialità pizza.
Evidentemente ci tengono a sottolineare che qui si fa la pizza.
Speriamo sia buona.
Due mani da dietro gli coprono gli occhi, l’odore è inconfondibile ma finge di
non riconoscerlo.
“Chi sono?”
“Mmmm… Don Carlo?”
“Scemo…” dice Leandra facendolo girare e schioccandogli un bacio sulla
guancia.
La recluta Francesco Lupini si ritrae involontariamente e il suo gesto non
passa inosservato.
“Beh? Che succede?”
“Ho bisogno di parlarti” dice lui con una voce distrutta dal dolore.
“Questa è una delle frasi di cui ho più paura nella vita”
“Possiamo andare in un posto un po’ appartato?”
“Questa invece è una frase che generalmente mi piace…”
Gli strappa un sorriso, anche se non c’è molto da ridere.
Si incamminano su quella che chiamano la strada della ruspa, il motivo del
nome si perde nella notte dei tempi, forse perché ci passavano le prime ruspe
nel dopoguerra per andare a ricostruire i paesi distrutti dalle bombe.
È la strada degli innamorati o di chi ha un segreto da nascondere, perché da
un certo punto in poi finiscono i lampioni e la strada è illuminata solo dalle
stelle.
E stasera ce ne sono talmente tante che sembra giorno.
“Allora, mi vuoi dire che è successo?”
Il silenzio è rotto solo dal frinire dei grilli che sembrano urlare in coro: baciala
e fregatene!
“Allora?”
“Dovresti dirmelo tu. Senti. Se ti dico bottiglietta e sonnifero, ti viene in mente
qualcosa?”
Improvvisamente l’aria si fa gelida, Leandra si irrigidisce e un brivido percorre
la schiena della recluta Francesco Lupini.
Allora è vero, non voleva crederci ma era così.
L’aveva addormentato.
“Ascolta. Credimi, io… io non volevo”
“Cosa non volevi? Ti è caduto per sbaglio del sonnifero dalle mani? Lo hai
preso per caso dallo studio di Madonno e hai deciso di portarmelo per
colazione?”
Non riesce a darsi pace, è qualcosa che non concepisce e che la sua mente
fatica a comprendere.
“Ascoltami. Avevo paura. Tanta.”
“Ma di cosa?”
“Di te”
“Di me?” dice lui completamente spiazzato.
“Sì. Ho saputo che era arrivato un poliziotto da fuori per la morte di Matteo.
Sono entrata nel panico.”
“Ma ti rendi conto che questo è il comportamento di chi è colpevole?”
“Sì, lo so. O meglio, lo so ora, ma quando ti ho visto entrare non ci ho capito
più niente. Sapevo che avresti accusato mio fratello”
“Tuo fratello? E ora che c’entra?”
Ora quella completamente spiazzata è Leandra.
“Ma come, scusa, non stai accusando mio fratello?”
“A parte il fatto che non sto accusando nessuno, ma poi che c’entra tuo
fratello?”
“Mio fratello non era in buoni rapporti con Matteo, anzi lo odiava proprio. Una
volta sono finiti alle mani ma, come avrai notato, mio fratello è tanto buono
quanto forte.”
“Sì, me ne sono accorto”
“Lui non voleva fargli del male, ma quando ha visto che Matteo mi stava
colpendo, è intervenuto. Matteo è finito all’ospedale e per fortuna non lo ha
denunciato, altrimenti ora lo avrebbero mandato chissà dove. Lontano da
me.”
Una lunga pausa dà modo ai pensieri di muoversi leggeri in quella luminosa
serata estiva. E ogni stella è un pensiero che si rincorre, formando una
galassia di preoccupazioni e non detti.
“Dove hai trovato il sonnifero?”
“Me lo ha dato Madonno, proprio per mio fratello. Ogni tanto si agita e ha
bisogno di una mano per addormentarsi. Lo tengo chiuso nello sportelletto
del bagno di casa mia, l’ho preso e l’ho messo nella tua acqua. Avevo
bisogno di pensare. Non volevo far scappare mio fratello, altrimenti sarebbe
risultato ancora più colpevole, non potevo scappare io con lui perché era
facile collegare tutto a me e allora ti ho addormentato e sono andata da Don
Carlo.”
“E perché da lui? Non è più un prete”
“No, non lo è. Ma è pur sempre un amico ed è l’unica persona che mi è stata
accanto tutto questo tempo, che conosceva la mia storia e che mi ha
supportato. Tutti gli altri mi hanno voltato le spalle, hanno fatto finta di nulla
per paura o per vergogna. Quando sono arrivata da lui mi ha detto che avevo
fatto una stupidaggine, che non serviva addormentarti e che soprattutto sarei
passata per colpevole”
“Eh”
“Appunto. Mi ha detto semplicemente di lasciar andare le cose e di seguire
da vicino l’andamento dell’indagine, senza preoccuparmi, visto che non ho
nulla da nascondere”.
Da qualche parte, in un angolo della mente, la recluta Francesco Lupini si
ripete queste ultime parole, come se qualcosa gli stesse sfuggendo.
C’è una sensazione di disagio, un misto di fastidio e di dolore.
A volte sono proprio le incomprensioni che avvicinano. Hanno un non so che
di familiare e intimo. Ecco che quindi in questa sensazione, gli sale subito il
dubbio.
Quasi come se…
“Quindi ti sei avvicinata solo per sapere delle indagini?”
Ecco cosa aveva capito.
Lo stava sfruttando, era tutta una messa in scena.
Si ferma, respira, guarda in alto e, come un moderno Jedi, vede tra le stelle la
faccia di suo padre che gli dice: “Beh, ma così bella, come pretendi che
potesse avere interesse per te?”
“Ma..”
“Quindi mi hai sfruttato?”
“Ma no! Che dici!”
Non servono le parole in questi casi, a volte serve solo il silenzio e la
sincerità.
“Ti giuro. All’inizio volevo avere delle informazioni… Aspetta”
La recluta Francesco Lupini si gira e se ne va, ripercorrendo la strada della
ruspa fino ai primi lampioni, alle case illuminate e alla piazzetta con l’insegna
della pizzeria.
“Ti giuro, a me piaci veramente”.
Le ultime di Leandra parole si perdono nel vento.
Forse era meglio fermarsi all’essere stato anestetizzato, forse ora avrebbe
ancora il cuore intatto.
Si sente stanco e affranto, devastato da una sensazione che non ricordava
più o che forse non aveva mai vissuto.
Era sempre stato lasciato dalle sue ragazze, ma mai nessuna aveva provato
a ingannarlo in questa maniera.
Neanche a narcotizzarlo, se è per questo.
Ma questa volta la ferita è profonda e fa un male tremendo.
Supera la piazzetta, la pizzeria, il vicolo, le scale e arriva davanti la porta del
B&B.
È troppo stanco per mettersi in macchina, domattina partirà senza voltarsi
indietro.
Vuole solo dormire, senza sogni, senza ricordi, senza pensieri.
E senza Leandra.
CAPITOLO 12

Il sole del mattino passa attraverso le persiane lasciate aperte dalla sera
prima e colpisce in pieno volto la recluta Francesco Lupini che, lamentandosi,
si gira dall’altra parte, cercando di riprendere il sogno da dove lo ha lasciato.
Sta sognando di essere su una baita di montagna, con il caminetto acceso e
un bel tappeto di pelo bianco a terra.
Lui è su una poltrona, sta leggendo un libro, quando la porta si apre ed entra
Leandra.
Bellissima.
Lei si avvicina, lui si alza, si stanno per baciare ma lei si trasforma in un
serpente che tenta di morderlo sul collo.
Si sveglia di soprassalto.
Diciamo che il suo subconscio non ha bisogno di troppe interpretazioni.
Si guarda allo specchio e vede un uomo sbattuto, con le occhiaie marcate e
qualche capello bianco di troppo.
Si dà una sciacquata al viso, si lava i denti anche se non mangia da ieri a
pranzo e manda giù una pasticca di ricostituente.
Dovrebbe andare dal Dottor Madonno stamattina per parlare del foglietto, ma
ha veramente senso?
Forse ha ragione lui, sempre se è lui che ha scritto la minaccia, ormai non è
più sicuro di nulla.
Forse deve andare via e lasciare stare i morti del lago.
Prende la valigia dal piccolo armadio, mette dentro le magliette che ha usato,
lo spazzolino e il dentifricio, la cartellina con i documenti e si veste per uscire.
Lascia le chiavi della stanza sul tavolino nella piccola reception all’ingresso, il
conto lo manderanno direttamente in commissariato a Roma, e si incammina
per il vicolo in direzione del pandino verde bottiglia.
Ormai è deciso, addio Molise, addio Monterotuli, addio cibo paradisiaco,
addio Leandra…
Quest’ultimo addio fa più male degli altri, ma è necessario per continuare a
vivere.
Mentre cerca le chiavi della macchina sente un rumore provenire da un
cespuglio dietro di lui.
“Shhhhh….”
Si gira ma non vede nulla, se non il gatto a rosso strisce nere che tiene tra le
zampe una lucertola che prova a dimenarsi, senza troppo successo.
“Heyyyyy”
Ma che cazz…
“Chi è?”
“Song io”
Guarda a destra e a sinistra, ma niente.
Forse se lo sta immaginando, è solo la sua mente che cerca di scappare dal
corpo.
“Qui, nel cespuglio, sbrigatevi!”
Eh no, quale immaginazione: quel cespuglio parla e lo sta chiamando.
“Ma chi c’è?”
“Sono io, Maria, venite presto!”
Maria Cioccolato è nascosta dietro il cespuglio e fa cenno alla recluta
Francesco Lupini di avvicinarsi.
“Venite qui, prima che ci scoprano”
“Ma… Maria. Non mi sembra il caso. Io sono… diciamo… impegnato”
“In che sen… Ma che vi frulla ‘n capa? Potrei essere vostra madre! Venite qui
e sbrigatevi, prima che ci vire quacceduno”
La recluta Francesco Lupini entra nel cespuglio e prova ad evitare i rametti
più appuntiti che cercano di conficcarsi nella retina e nelle parti sensibili e
scoperte del suo corpo.
Ad aspettarlo c’è Maria Cioccolato, quella più piccolina delle tre Marie, con i
suoi capelli nero pece e la sua minuscola borsetta in mano.
“Che ci facciamo qui?”
“Devo dirvi una cosa, ma non voglio che le altre mi sentano”
“Dite”
“Ecco, voi state ancora lavorando sul caso del morto, giusto?”
“Beh, tecnicamente…”
“Bene. Ascoltatemi. Voi lo sapete che Leandra era incinta, giusto?”
“Sì, l’ho saputo”
“E sapete pure di chi era?”
“In che senso? Era di Matteo, no?”
Maria Cioccolato lo guarda in un misto di compassione e dolcezza.
Gli fa una carezza sul viso come farebbe una mamma col figlio scemo.
“Voi tenite gli occhi buoni, ma non capite nu cazzo, ve’?”
La recluta Francesco Lupini si stringe nelle spalle cercando di capire se
quello è un complimento o un'offesa.
“Leandra aspettava sì un figlio, ma non da Matteo”
“Come no? E chi era il padre?”
“Qui sta il bello. Non si sa.”
“Se non si sa, allora perché non doveva essere di Matteo?”
“Perché Matteo non…” e Maria Cioccolato fa il cenno con la mano.
“Maria!!!”
“Shhh…steteve zitte. Non mi fate dire cose volgari”
“Non lo dite, ma lo fate con i gesti”
“Sentite, ho poco tempo, le altre mi stanno aspettando. Volete sapere o no?”
“Sì”
“Eh. E allora steteve zitt e ascultate. Bene, tutti i giorni la famiglia di Matteo
andava in chiesa a pregare San Michele e la Madonna per fargli la grazia di
avere un nipote. Matteo però diciamo che non poteva avere figli… non so se
avete capito…”
“Sì, sì, ho capito, andiamo avanti”
“Quando Matteo ha scoperto della gravidanza, all’inizio si è incazzato…
pardon, se l’è presa. Poi però ha pensato di fare buon viso a cattivo gioco e
ha detto a tutti del lieto evento. I genitori hanno ringraziato San Michele e
hanno organizzato in fretta e furia le nozze, per non far vedere troppo la
pancia della sposa. Il problema, però, è che a Matteo non andava sempre
bene. Ogni tanto beveva e quando lo faceva gli saliva la carogna e…”
“Questa parte la so, picchiava Leandra”
“Già” annuisce Maria Cioccolato abbassando la testa, anche lei con i sensi di
colpa per aver visto e non aver fatto nulla.
“Ma qualcuno saprà di chi era questo bambino”
“Girano tante voci, alcune assurde, altre verosimili. Ma ora nun pozzo parlà.”
“Mariaaaa” la voce perentoria di Maria Pistacchio risuona per tutto il vicolo,
attraversando strade e scalinate, arrivando fino al nascondiglio dentro il
cespuglio.
“Devo andare. Chiedete a Madonno. Lui sa. Steteve accort!’’ e mentre lo
saluta esce in strada e si sistema la maglia, togliendosi delle foglioline dalla
spalla.
Appena in tempo per intercettare l’arrivo delle altre due.
“Ma dov’eri?” chiede Maria Crema.
“Mi erano cascati gli spicci dalla borsa, li stavo raccogliendo”
“Andiamo che oggi tocca a me pagare” dice Maria Pistacchio
“Non ci pensate” ribatte Maria Crema.
Maria Cioccolato si gira per l’ultima volta verso il cespuglio dove la recluta
Francesco Lupini è ancora rannicchiato cercando di dare un senso a tutte le
informazioni che gli sono arrivate addosso nelle ultime ore.
A fatica esce dal cespuglio, restando impigliato in un ramo adunco che gli
strappa un pezzo di maglietta.
Impreca mentre controlla lo strappo.
Era la sua maglietta preferita.
Alzando lo sguardo, incrocia quello del ragazzo a cui non ha dato il
passaggio il primo giorno, che lo scruta e lo giudica, poi alza di nuovo il dito
medio e si allontana.
Gran bella giornata e sono solo le 9.00 del mattino
.
Ok, troppe informazioni tutte insieme.
Troppi incastri, troppi indizi, troppi nomi da ricordare.
Allora direi che è giunto il momento, quello che la recluta Francesco Lupini ha
sempre odiato di ogni giallo che si rispetti ma che evidentemente gli serve per
fare chiarezza nel suo cervello.
Signore e signori è arrivato:

IL MOMENTO DELLO SPIEGONE

NB: Per quei pochi che non lo sapessero, lo spiegone è il ricapitolo di quanto
scoperto fino a questo momento e che aiuta chi sta conducendo le indagini,
in questo caso la recluta Francesco Lupini, a fare chiarezza su tutti gli indizi
appresi fin ora.

Ecco quindi quello che sa.


- Un giovane ragazzo, Matteo Biondini, di una famiglia non propriamente
onesta, viene trovato sul fondo di un lago artificiale, con una spada di
una statua conficcata nel petto.
- Si pensa ad un suicidio, ma la storia non regge perchè ha un tatuaggio
sul collo che lo collega ad un gruppo di fanatici religiosi, contrari ad ogni
forma di dolore autoinferto, financo il suicidio.
- Il giovane è promesso sposo alla bella Leandra, la quale viene picchiata
ripetutamente dal di cui Matteo e nessuno in paese fa nulla.
- Leandra è incinta, tutti sono felici, tranne Matteo perché è impotente e
non può essere suo il figlio.
- Il Dottor Madonno sa tutto ma non dice nulla, anzi cerca di allontanare
la recluta Francesco Lupini con una lettera minatoria.
- Nell’ultimo giorno di vita di Matteo, c’è una lite furibonda con Leandra e
lei perde il bambino, mentre Matteo sparisce nel nulla.

Dovrebbe essere tutto, ma anche con lo spiegone, non riesce a venire a capo
di nulla.
Eppure nei film funziona. Accidenti.
Deve parlare con Madonno.
Tanto l’ospedale si trova sulla strada per tornare a Roma, così almeno si sarà
tolto un sassolino dalla scarpa prima di riprendere la routine di casa.
Vuole capire il perché della lettera e di tutte queste bugie, ma soprattutto è
curioso di sapere di chi era il figlio di Leandra.
Sale sul pandino verde bottiglia e si incammina per i vicoli di Monterotuli ma,
vuoi la distrazione, vuoi la velocità sostenuta, vuoi la sicurezza di passarci
anche quando palesemente non ci si passa, il botto è inevitabile.
Prima uno, poi l’altro specchietto saltano a contatto stretto con le pareti delle
case che costeggiano la strada.
Decisamente una gran bella giornata.
Era riuscito a salvarli in questi giorni, li ha sempre chiusi e ora che sta per
tornare a casa…
Forse i suoi punti karma sono finiti.
Niente panico: al primo meccanico proverà a trovare un’alternativa.
Adesso è il momento di ripartire, non userà gli specchietti laterali ma almeno
la macchina ancora va.
Scende lungo la strada nuova, ripercorrendo quei posti che erano sconosciuti
fino a poco fa e che ora sono diventati incredibilmente familiari.
Ripensa al bar, a Irene, alle tre Marie, a Don Carlo, alla signora Cecilia.
Ripensa a Leandra, anche se non vuole ripensarci.
La piazzetta, la chiesa, il pallone incastrato, l’Inno d’Italia come campanello.
Sorride, anche se l’amaro finale che lascia non è quello di una buona bevuta.
Lascia questa terra sconosciuta che ora sembra così tanto simile a lui e che
lo ha accolto a braccia aperte, tornando in una città che non lo conosce e non
ha nessuna intenzione di ascoltare la sua storia.
Senza neanche accorgersene è arrivato all’ospedale, ha guidato con il pilota
automatico, come quando conosci la strada talmente bene da poterti perdere
nei tuoi pensieri.
Parcheggia il pandino verde bottiglia davanti all’ingresso dell’ospedale e
scende sul selciato, quando vede in lontananza il Dottor Madonno che sta
parlando con qualcuno.
Da così lontano non riesce a vedere bene chi sia, vede solo dei lunghi capelli
legati in una coda alta.
Leandra.
Si ferma e si accuccia dietro un grosso pino al centro dello spiazzo, sperando
di non essere stato visto..
Leandra saluta, sale in macchina e se ne va.
Il Dottor Madonno aspetta qualche istante, poi si gira in direzione della recluta
Francesco Lupini e dice: “Guarda che ti ho visto, stai giocando a
nascondino?”
“Veramente… Mi erano cascati gli spicci dalla borsa, li stavo raccogliendo”
“Come?”
A Maria Cioccolato era venuta meglio la battuta.
“Niente. Entriamo un attimo? Volevo chiederti una cosa”

Il Dottor Madonno fa strada per entrare nel suo ufficio, raccoglie da terra una
cartellina medica che caduta e si siede dietro la sua scrivania.
La recluta Francesco Lupini prende posto davanti a lui.
“Qual buon vento ti porta qui? Sei svenuto di nuovo?”
“No. Cioè sì, ma niente di grave. Ecco, io. Stavo partendo”
“Te ne vai?” era sinceramente dispiaciuto, o almeno così sembrava.
“Sì. Ma prima ho bisogno di una informazione. Che ci faceva Leandra qui?”
“Lei? Passa spesso a salutarmi e soprattutto le do le medicine per il fratello.
Era questo che volevi sapere?”
“No. Volevo sapere di questo”
Prende il foglio dalla tasca e lo mette sulla scrivania.
“Hai scritto tu questo?”
“Sì.”
Cazzo. Non era preparato ad una risposta del genere.
Cioè, sapeva che era lui l’autore, ma non pensava avrebbe confessato così
facilmente.
E ora non sa come andare avanti.
“Ora vorrai sapere perché…”
Ecco. Bravo.
“Sì, esattamente questo. Vorrei sapere perché?"
Il Dottor Madonno si alza e guarda fuori dalla finestra.
Dalla distanza il rumore delle sirene delle ambulanze si mischiano in un solo
canto che ipnotizza chi lo ascolta, forse per questo si chiamano sirene.
“Nella mia carriera ho aiutato tante persone. Alcune in maniera ordinaria,
altre in maniera non convenzionale”.
“In che senso?”.
Il Dottore prende fiato, forse è la prima volta che confessa una cosa del
genere, i pensieri si accavallano e si rincorrono, in un filo sottile tra ciò che è
giusto e ciò che non lo è.
“Qui da me vengono molte persone anziane, persone che hanno vissuto una
vita intensa, fatta di ricordi, di gioie e di dolore. Persone che hanno visto
morire i propri cari, che hanno visto nascere figli e nipoti. Uomini e donne che
hanno lasciato su questa terra un pezzo di vita e che ora vogliono solo
riposare. Ma la società, la famiglia, quelli che dicono di volerci bene, in realtà
si accaniscono contro il nostro dolore, senza ascoltare chi realmente sta
soffrendo. Molte volte chi viene qui vuole semplicemente dormire senza
svegliarsi più. E diciamo che io alcune volte do loro la possibilità di mettere
fine alla sofferenza”
Oh.
Mio.
Dio.
Il Dottor Madonno sta confessando di aver ucciso delle persone?
“Mi stai dicendo che hai ucciso delle persone?”
“Non è tecnicamente così. L’eutanasia purtroppo non è ancora consentita da
noi, non c’è una legge seria sul fine vita e le persone si trovano a pregare Dio
di portarle via, non di farle restare. La prima signora aveva 92 anni e
combatteva contro un cancro da quasi dieci. Era distrutta, voleva solo porre
fine a questa agonia e soprattutto alleggerire anche quelli intorno a lei che si
stavano rovinando la vita ma che si accanivano per tenerla ancora un pò con
loro, in un disperato urlo egoistico. Un giorno lei mi ha chiesto di aiutarla. Mi
ha sussurrato piangendo che non voleva più continuare questa tortura.
Quella notte non dormii, e neanche le notti successive, pensando a cosa
stavo per fare.
Poi però, quando le ho dato una dose più alta di sonnifero, ho visto nel suo
sguardo la felicità, mi ha sussurrato: <grazie>. Poi ha chiuso gli occhi ed è
andata. Finalmente felice.”
La recluta Francesco Lupini è totalmente spiazzato da questa confessione.
Non riesce a muoversi, ha paura di rompere un equilibrio talmente fragile da
poter frantumare la stanza in mille pezzi.
Il Dottor Madonno fa fatica a respirare, deglutisce mandando giù saliva e
rimpianti, come se la storia del ringraziamento fosse più per se stesso che
per gli altri.
“Tutto questo cosa c’entra con il messaggio di minaccia?”
“Non era una minaccia, diciamo che era un avvertimento.”
“Ok, cosa c’entra con l’avvertimento?”
Da fuori il rumore delle auto e delle sirene continua incessante.
“Hai saputo del bambino, giusto?”
“Il figlio di Leandra?”
Quanta sofferenza in un solo uomo, come un moderno Atlante che deve
sorreggere il mondo senza poter mai guardare l’orizzonte. Tutta la vita scorre
davanti agli occhi del Dottor Madonno, una vita fatta di sacrifici, di amore, di
morte e di dolore. Una vita votata per gli altri, ma a lui chi ci pensa?
“Matteo era uno stronzo”
Una confessione? La recluta Francesco Lupini non era preparato.
Cazzo perchè non è mai pronto quando serve?
“Sì” riesce a dire per non fermare il flusso di coscienza.
“Con Leandra si è comportato come un assassino, la colpiva e sapeva dove
farlo”
Istintivamente la recluta Francesco Lupini si tocca il braccio sinistro, come se
un livido di tanti anni prima fosse tornato a far male in questo momento.
“E io ero sempre qui a curare le sue ferite, a convincerla a denunciarlo. Ma lei
non voleva, aveva paura, aveva il terrore di una sua reazione. E io mi sentivo
morire dentro.”
“Eri innamorato di lei?” chiede con un filo di voce.
“Di Leandra? Ma non scherziamo. Potrebbe essere mia figlia” e sorride solo
con la bocca, non con gli occhi che restano tristi e velati.
“Ero disperato nel vederla soffrire e i sensi di colpa di non poterla aiutare mi
stavano devastando. Aspettavo solo il momento di vederla sdraiata su un
tavolo freddo. Sapevo sarebbe successo prima o poi, ma sono troppo pavido
per fare qualcosa.”
“Uccidere Matteo non mi sembra una cosa da pavidi”
Il Dottor Madonno lo guarda cercando di capire bene il significato delle sue
parole, piegando le sopracciglia come a formare un enorme punto
interrogativo sulla sua fronte.
“Ma che stai dicendo? Io non ho ucciso Matteo!”
“Ma… pensavo… cioè credevo mi stessi dicendo”
“Non ho mai detto una cosa del genere né tantomeno l’ho mai fatto.”
Era sincero o almeno così sembrava dal suo volto e dalla sua reazione
sconvolta.
La sirena dell’ambulanza questa volta si ferma proprio davanti la finestra
dell’ufficio del Dottore, entrando prepotente come uno schiaffo in pieno viso.
“Ho semplicemente detto che Matteo era uno stronzo e sono felice, anche se
non dovrei dirlo, che si sia tolto dalla vita di Leandra. Certo, magari poteva
andarsene in un’altra città, ma sicuramente così ha lasciato vivere una donna
e un figlio in pace”.
“In che senso?”
La porta si spalanca, l’infermiera entra di corsa.
“Dottore, c’è un’emergenza. Un incidente, un ragazzo sta perdendo molto
sangue, lo abbiamo portato in sala operatoria. Presto!”
Il Dottore scatta in piedi e si dirige a passo svelto verso l’uscita del suo ufficio.
“Mi ricattava. Diceva di volerlo dire a tutti.” Respira a fatica, ma sa di dover
tornare nel suo ruolo professionale, ha una vita da salvare.
Se non la sua, almeno quella del suo paziente.
“Chi ti ricattava? Matteo?”
“No. Aspetta. Finiremo di parlare più tardi, ora devo andare” dice uscendo
velocemente e lasciando la porta aperta.
La recluta Francesco Lupini resta seduto sulla sedia, fissa la scrivania ormai
vuota, ripensando alle parole del Dottore.
Cosa avrà voluto significare?
Ci sta arrivando, lentamente, ma sta ricostruendo il puzzle, tassello per
tassello.
È una storia più ingarbugliata di quello che pensa, decisamente più
complicata di come era partita.
Ma un dettaglio gli continua a tornare in mente, come una mosca che sbatte
sul vetro chiuso di una finestra e non si accorge che a pochi centimetri c’è la
via di uscita.
Rumore di passi dietro le sue spalle.
La porta si chiude con un timido cigolio.
“Hai fatto presto a tornare” dice la recluta Francesco Lupini senza voltarsi.
Il freddo sul collo lo riconosce bene.
È il freddo del ferro.
È il freddo di una canna di pistola puntata su di lui.
CAPITOLO 13

Ore 9.00
Leandra si sveglia tardi, ha preso anche lei un goccio di Propofol, aveva
bisogno di un sonno senza sogni, per cancellare l’amaro della sera prima.
Ha sempre cercato di salvare le apparenze, di vivere come gli altri le avevano
detto di fare, nascondendo sotto il tappeto la polvere che proveniva dalla sua
anima.
Ma ormai quella polvere è diventata talmente tanta da creare dune e
avvallamenti nel terreno e il rischio di cadere è elevato.
Ha bisogno di respirare, ha bisogno di prendere in mano la sua vita, di essere
lei quella che gestisce il suo tempo.
Si guarda allo specchio, lascia cadere l’asciugamano e si controlla il corpo
nudo, si trova gradevole anche se Matteo non perdeva occasione per
sottolineare i suoi errori.
Hai poco seno, il tuo lato b è inutile, hai messo un po’ di pancetta?
Con la punta delle dita sfiora il basso ventre dove la cicatrice della sua
perdita è ancora visibile.
Quanto ha sofferto, quanto dolore ha dovuto sopportare.
Sei donna, devi soffrire. Così diceva sua madre.
Così diceva Matteo.
Anzi, lui non lo diceva, lo faceva direttamente.
Ma adesso basta, non vuole più quella vita, non è più quella Leandra, ora è
una donna libera, è una donna nuova che sa cosa vuole e che vuole
prendersi ciò che le spetta.
E nessuno si metterà tra lei e il suo sogno.
Si veste e esce, deve andare dal Dottor Madonno.
Ore 9.00
Irene sta preparando i vassoi per la colazione, ci sono i cannoli ripieni, i
cornetti e ne ha tenuto uno “vegano” per la recluta Francesco Lupini, se lo è
fatto mandare direttamente dal forno di Isernia per fargli una sorpresa.
Quando vede salire le tre Marie sa che la giornata può finalmente avere
inizio, anche se stamattina sono un pò in ritardo.
Maria Cioccolato si toglie le ultime foglioline dalla giacca, mentre Maria
Pistacchio e Maria Crema continuano a parlare senza sosta.
“Che hai stamane? Si tutta scapigliata” le chiede Maria Crema.
“Ho fatto le ore piccole ammassera” risponde con tono vanitoso.
“Ma smettila” le dice Maria Pistacchio guardandola male.
Quando si siedono, anche Irene si siede con loro, per scambiare due
chiacchiere e fumare una sigaretta.
Le tre fanno colazione, discutono per chi debba pagare e poi si dividono,
ognuna per la propria strada, buttando però l’occhio alle altre fino a quando
non scompaiono dalla visuale.
Irene si guarda nello specchio orizzontale che c’è dietro il bancone,
attraverso le bottiglie di liquore e di whisky e si trova un po ' sbattuta. Poi si
gira e dice al marito di sostituirla, deve andare un attimo a casa, lascia il
grembiule e esce.

Ore 9.00
Il Dottor Madonno è in ospedale, sta mettendo a posto le cartelle cliniche del
giorno precedente, cercando di fare un po’ di ordine nel suo caos mentale e
fisico.
Dovrebbe dimagrire, perdere almeno venti chili, così gli ha detto il
nutrizionista e così ha risposto la sua coscienza.
Sa che non potrà andare avanti troppo a lungo così, per il suo bene e per il
bene di chi ha intorno.
Il cuore è un organo molto delicato e spingere tutto quel peso in giro non è un
compito semplice, ormai anche quando fa qualche gradino deve fermarsi per
riprendere aria.
Eppure ci ha provato a mettersi a dieta, ci ha provato tante volte e ogni volta
ha miseramente fallito, tornando peggio di come era partito.
Forse dovrebbe farsi seguire da qualcuno bravo, forse dovrebbe capire
l’origine di questa sua voglia di mangiare o forse semplicemente dovrebbe
farla finita.
Così come ha aiutato gli altri, forse potrebbe prendere una dose più
sostanziosa, dormire senza svegliarsi e risolvere così tutti i problemi.
Cancellare i sensi di colpa, per quello che ha fatto.
Il rumore della macchina lo distrae dai suoi pensieri e lo riporta alla realtà,
facendogli cadere dalle mani la cartella medica di un paziente.
Fuori nel giardino dell’ospedale c’è Leandra che sta scendendo dalla
macchina.

ore 9.00
Don Carlo sta dando il latte al piccolo Michele, lo tiene in braccio guardandolo
con gli occhi dell’amore, come se il resto intorno non esistesse più.
Sua moglie è in camera, stanotte hanno fatto a turno e lei è rimasta sveglia,
quindi ora prova a dormire per recuperare le forze.
Avere una famiglia è più complesso di quello che credeva prima e soprattutto
un figlio ti porta a credere di non poter avere mai più la vita di un tempo.
Latte, ruttino, ninne.
Finalmente riesce a metterlo nella culletta, dorme tranquillo e beato, non sa
cosa sta succedendo nel mondo e non gli interessa, sa solo che è amato e
questo gli basta.
Dovremmo imparare dai bambini, il concetto stesso di amore.
Don Carlo si guarda allo specchio, si ravviva i capelli e si mette una maglietta
pulita e apre la porta lentamente, per non fare rumore.
Prende le chiavi della jeep nera lucida e esce.
Davanti la porta, saluta con un piccolo gesto una donna che sta passando,
poi si infila in un vicolo stretto e sparisce.

ore 9.00
Il capetto biondo si sta specchiando nella sua stanza, i lividi sono evidenti ma
brucia più la vergogna dei segni sulla pelle.
Deriso e umiliato davanti ai suoi compari da un pivellino di città e soprattutto
incenerito dalle parole di suo padre che lo ha trattato come un bambino.
Questa notte non è riuscito a prendere sonno, aveva bisogno di sfogarsi, di
ubriacarsi per non sentire il dolore nelle ossa e il senso di fallimento per
quella vita che non gli appartiene.
Ha avuto tutto, subito, senza dover neanche chiedere.
Ha preso quello che voleva e se non lo voleva, lo riceveva lo stesso.
E ora che ha tutto, gli manca qualcosa.
Gli manca la fame.
La voglia di migliorare, di crescere, di diventare qualcuno.
Ma come si diventa migliori di Don Fefè?
Come si migliora se stessi se si è cresciuti pensando di essere il migliore?
Ha la testa che gli esplode, vorrebbe solo spaccare i muri per sfogare la sua
frustrazione.
E sa bene quale sia il suo obiettivo.
Prende la giacca, prende lo zainetto e esce.
Deve risolvere una situazione e deve farlo adesso.
CAPITOLO 14

“Per favore, non fate scenate e non agitatevi, va bene?”


La recluta Francesco Lupini alza istintivamente le mani in alto.
La puzza di fumo la riconosce.
“Non è una rapina, non provate neanche lontanamente a fare il furbo.
Abbassate quelle mani e alzatevi lentamente. Non fate scherzi e andrà tutto
come deve andare”.
La voce della donna è familiare, quasi protettiva.
Una voce che però stride con la pistola che tiene in mano.
Perché?
“Posso sapere perché?”
La donna mette la pistola nella borsetta, continuando a puntarla contro la
recluta Francesco Lupini.
“Capirete tutto a tempo debito, ora usciamo da qui”
Con la mano libera indica l’uscita dalla stanza, aprendo lentamente la porta.
“Evitiamo di fare gesti strani, non vorrei che qualcuno si facesse male, non
siete d’accordo?”
“Maria, ascoltate”
“Silenzio” dice tra i denti Maria Pistacchio mentre lascia il passo e aspetta il
suo turno per uscire.
La recluta Francesco Lupini esce lentamente dalla stanza, guardandosi
intorno e cercando qualcuno a cui chiedere aiuto.
Ma la vita nell’ingresso di un ospedale non è così semplice, ognuno ha i suoi
problemi e i suoi dolori, ognuno cerca conforto negli altri senza però riceverlo.
Nessuno di loro, però, ha una arzilla signora che gli punta contro una pistola.
“Andiamo con la vostra macchina, così la togliamo da qui davanti” dice Maria
Pistacchio uscendo alla luce calda di una giornata che sembra bella.
Guarda quella donna, alta, bionda, gelida.
Lo ha sempre trattato male, forse ora sta per capirne le motivazioni.
Ma non avrebbe mai pensato di arrivare a farsi puntare una pistola addosso e
di morire in un paesino sperduto nel cuore del Molise.
Decisamente i punti karma della recluta Francesco Lupini sono precipitati
sotto la soglia minima, pensa entrando nel pandino verde bottiglia e
mettendosi alla guida, mentre Maria Pistacchio si mette sul sedile di dietro.
“Così non provate a fare scherzi”
“Dove andiamo?”
“Intanto mettete in moto, vi guido io.”
Il rombo di tuono del pandino verde bottiglia fa girare metà ospedale, ma
nessuno si accorge di quello che sta accadendo al suo interno.
Con uno sbuffo, la macchina parte, uscendo dal parcheggio dell’ospedale.
“Comunque devo dirvi che come poliziotto siete pessimo. Vi ho pedinato da
quando siete usciti dal paese e non ve ne siete neanche accorto”
In effetti non si era accorto di nulla, ma a sua discolpa c’era un motivo.
Gli specchietti erano penzolanti a terra e non si era curato troppo di guardarsi
indietro. Forse era una metafora di quello che stava provando?
“Girate qui”.
I due prendono una stradina sterrata, mettendo a dura prova le sospensioni
del pandino verde bottiglia e dopo circa 10 minuti di buche e dossi, svoltano a
destra, dove c’è un appezzamento di terra incolto.
La fitta vegetazione ha preso il sopravvento e ha deciso di occupare
abusivamente quello che prima doveva essere un orto a tutti gli effetti.
Spento il motore, il suono prepotente delle cicale sovrasta anche i pensieri
che si rincorrono nella mente della recluta Francesco Lupini.
Davanti a loro c’è una cascina abbandonata, fatta di mattoni e di intonaco
rovinato, con una parte di tetto crollata a causa delle intemperie e del non
utilizzo.
Su quel che resta dei muri ci sono delle scritte con lo spray, alcune
inneggiano alla Anarkia, altre raccontando di cosa fa una certa Paola con
parti del suo corpo, solo però se ben retribuita.
La scena è quella tipica dei film di spionaggio, c’è tutto: una casa
abbandonata, un tetto scoperto, un rapimento, mancano solo gli uccelli che
volano via quando entra il protagonista.
Maria Pistacchio fa cenno alla recluta Francesco Lupini di scendere dalla
macchina, mentre lei continua a puntargli la pistola contro.
I due si incamminano verso quello che un tempo doveva essere l’ingresso
della cascina ma che ora è un buco tra i due muri portanti.
“Entra” dice perentoria la simpatica signora.
Una volta dentro, un piccolo stormo di piccioni scappa impaurito dalle
presenze estranee.
Ora il quadro è completo.
Nella stanza vuota ci sono due sedie, una di fronte all’altra e degli scatoloni
contenenti vecchi materiali per la ricostruzione che, ovviamente, non è mai
avvenuta.
Tra le sedie c’è una scatola bassa che funge da tavolino, con sopra un foglio
di carta bianco e una penna.
“Scusami per il prelievo poco piacevole, non sapevo come altro contattarti”
La voce viene da dietro le loro spalle.
È la voce di un uomo.
La voce è pacata, lenta, misurata, di quelle che ti fanno parlare anche se non
vuoi.
“Don Carlo?”
“Già. Eccomi qui. Grazie mille Maria, ancora una volta sei stata
fondamentale” e nel dire questo prende dalle mani della signora la pistola e la
punta contro la recluta Francesco Lupini.
Maria Pistacchio si mette davanti quello che era l’ingresso e controlla che non
ci sia nessuno all’orizzonte.
“Ma perché?” chiede la recluta Francesco Lupini mentre fa un passo verso
l’ex prete.
“Ah..ah.. fermo lì. Muoviti piano, per cortesia, non vorrei partisse un colpo per
sbaglio. Siediti.”
“Perché?” ripete ossessivamente mentre si muove verso la seduta.
“Non lo hai capito? Allora non sei così sveglio come poliziotto. Diciamo che
l’ho sospettato quando ti ho visto la prima volta, ma non pensavo potessi
collegare quel cazzo di tatuaggio con quei fomentati dei Timorati di Dio.
Altrimenti nessuno avrebbe sospettato di un suicidio.”
I due si siedono uno davanti l’altro, come per giocare una partita a scacchi
virtuale, dove però Don Carlo è in netto vantaggio e sta per fare scacco
matto.
Poi l’intuizione.
Quel tarlo che lo ha solleticato da tempo ma che non ha mai messo a fuoco.
“Tuo figlio… Michele… è il figlio di Leandra, giusto?” dice la recluta
Francesco Lupini collegando i pezzi. Il puzzle stava prendendo forma, anche
se ormai era troppo tardi.
Don Carlo si mette comodo sulla sedia, abbassa le spalle e poggia la pistola
sulla gamba.
“Dai, allora non sei così cretino. Ci sei arrivato. Come l’hai capito?”
La recluta Francesco Lupini riordina i pensieri, come in un Matrix virtuale in
cui le immagini scorrono veloci e si incastrano su un'enorme parete fatta di
pensieri, parole e opere.
Ma soprattutto omissioni.
“Madonno ha detto che Matteo, morendo, ha lasciato vivere in pace una
donna e suo figlio. Quindi in realtà il figlio di Leandra è vivo. E a far due
calcoli doveva essere prematuro, settimino probabilmente. Come Michele. E
ora mi è chiara anche la reazione di tua moglie, il poco accudimento, il rifiuto
nel dargli il cibo.”
“E bravo sto cazzo di Lupini. Te lo hanno suggerito o hai fatto tutto da solo?”
Ride Don Carlo, anche se è una risata amara la sua, di chi vuol dimostrarsi
più sicuro di sè di quanto non lo sia in realtà.
Mentre i due parlano, Maria Pistacchio si avvicina per ascoltare e si posiziona
dietro la sedia del condannato a morte.
“Sì. Michele è figlio di Leandra, bravo. Ma non sai ancora di chi sia. Chi è il
padre”.
Pausa teatrale, molto scenica, anche troppo.
“Il padre di Michele sono io. Michele è mio figlio. È figlio dell’amore, figlio di
due persone adulte e consenzienti che hanno deciso di dare luce alla loro
passione.”
Maria Pistacchio posa la mano sullo schienale della sedia e preme con una
forza eccessiva, colpita duramente da quelle parole che lasciano capire i suoi
sentimenti e i suoi rimorsi.
La recluta Francesco Lupini ha la mente che si muove veloce per capire
come comportarsi, ma il corpo è lento e si abbandona sulla sedia.
Non ha possibilità di fuga, non sa come uscire da questa situazione.
Anzi, è sicuro che non ne uscirà.
Ma ha bisogno di tempo per pensare.
E procrastinare è la sua specialità.
“Quindi è per lei che hai lasciato la Chiesa, non per tua moglie.”
“Mia moglie Anna è stata una pedina, una pedina utile per una partita molto
più grande. L’ho conosciuta poco prima di Leandra e sentivo che lei mi voleva
veramente bene. Ma io ero preso dalla mia carriera, dalla chiesa e dal
provare a diventare vescovo, o cardinale”
“Sarebbe stato bellissimo” cinguetta Maria Pistacchio da dietro la sedia,
guardando Don Carlo con occhi sognanti.
“Per me Anna era una brava ragazza, nulla di più. Poi però è arrivata
Leandra, veniva sempre a messa, prima solo la domenica, poi anche nelle
altre funzioni. Mi aiutava, gestiva la sagrestia, era sempre premurosa e
attenta con i fedeli. E nel confessionale mi raccontava di quel porco, di quella
bestia di Satana che la picchiava e la costringeva alle cose più turpi. E io mi
mordevo la lingua e le mani perché ero impotente.”
Stringe la pistola con forza e la paura che possa partire un colpo fa
allontanare di qualche passo Maria Pistacchio che si trova proprio in
traiettoria.
Il ricordo di quei momenti suscita passione e violenza in Don Carlo, la vena
sul collo si gonfia e le parole escono come macigni dalla bocca.
Fa un respiro, si calma e continua il suo racconto.
“Poi una sera, durante un violento temporale, siamo rimasti bloccati in chiesa.
Non potevamo uscire e ci siamo messi ad aspettare che spiovesse. Abbiamo
parlato, questa volta però non da prete e confessore, ma da amici. E più
parlavamo e più sentivamo crescere in noi un sentimento. Senza neanche
accorgercene, si siamo baciati e da quel momento non abbiamo più smesso.”
Sorride al ricordo di quel tempo, di quando tutto sembrava possibile e di
come l’amore possa superare ogni barriera, anche quella religiosa.
“E a tua moglie cosa hai detto? Perché l’hai sfruttata?”
A questa domanda il volto di Don Carlo si fa serio.
“Non parlerei di sfruttamento. Anna è una brava donna e nel tempo ho
imparato a volerle bene, come si vuol bene ad un cucciolo”
Don Carlo ride per la sua battuta di cattivo gusto.
Maria Pistacchio accenna un sorriso.
La recluta Francesco Lupini serra i pugni.
“Ma non potevo lasciare la chiesa per Leandra, almeno non ufficialmente.
Dovevo trovare un diversivo, qualcosa per spostare l’attenzione e Anna era
perfetta. Le ho detto che dovevo andare in un convento per capire bene i miei
sentimenti e invece avevo preso un piccolo appartamento verso Agnone e
Leandra mi veniva a trovare ogni volta che poteva. La passione ha incontrato
l’amore e finalmente ho capito cosa volesse dire tenere a qualcuno.”
Le sue parole sono un torrente che inonda e trascina con sé tutto quello che
trova sulla sua strada.
A sentirle bene sono parole aberranti, che gelano il sangue, soprattutto per la
lucidità e il distacco con cui vengono pronunciate.
Ma non è finita, la voglia di confessare è tanta e Don Carlo ha voglia di
essere ancora una volta al centro dell’attenzione.
“Quando Leandra veniva da me con i lividi addosso, avrei voluto togliermi la
tonaca e andarlo a colpire, ma non potevo. Non potevo perché non avrei
dovuto sapere.”
“O forse perché sei un codardo” dice in un moto d’istinto la recluta Francesco
Lupini. Tanto ormai siamo alle battute finali, almeno può togliersi qualche
sassolino dalla tasca.
Don Carlo scatta in piedi e punta la pistola in direzione dell’altra sedia.
I due si guardano fissi negli occhi, la tensione ferma l’aria nella stanza.
Poi lentamente si siede.
“Sì, forse hai ragione. Matteo era allenato e molto grande, non avrei mai
potuto avere la meglio. Sarebbe stato solo un inutile spreco di energie.
Dovevo aspettare il momento giusto.”
“E il momento è arrivato, no?”
“Già.”
Si gratta l’accenno di barba sale e pepe che gli circonda il mento, ricordando
quella sera come se stesse accadendo in questo istante.
“Praticamente tutte le sere Matteo usciva a bere con gli amici e io
praticamente tutte le sere entravo a casa di Leandra e ci amavamo senza
freni. Quando mi ha detto di essere incinta è stato il giorno più bello della mia
vita, più di quando ho preso i voti. Ormai ero un uomo libero, non avevo il
vincolo della chiesa, a casa mi aspettava una donna che mi faceva
compagnia ma che non mi dava quella passione di cui avevo bisogno. Di cui
avevamo bisogno. Leandra, invece, era tutto questo, era vita.”
Si ferma ancora, ha vomitato le parole di corsa, come se non volesse perdere
l’occasione per confessarsi un’ultima volta.
“La sera in cui… Matteo è tornato più ubriaco del solito… Io ero appena
uscito dalla finestra, l’ho sentito rientrare e urlare. Ha iniziato a colpirla
dicendo che era una puttana, che voleva sapere il nome del padre e che
piuttosto l’avrebbe uccisa pur di non farla partorire. Ha continuato a
picchiarla, fino a farla svenire. Era convinto di averla uccisa, quando è uscito
in strada era tutto sporco di sangue. Si è incamminato verso il lago, io ero in
macchina e l’ho seguito. Quando la strada si è fatta più buia, ho accostato e
sono sceso.
Gli sono andato incontro, ho preso una siringa con dentro il Propofol che
avevo preso da Madonno e gli sono arrivato alle spalle. Neanche se n’è
accorto, l’idiota. È andato giù senza fare un fiato. L’ho caricato in macchina e
sono partito”
“E Maria che c’entra in tutto questo?” chiede la recluta Francesco Lupini
cercando di sopravvivere qualche istante in più.
Ed è proprio lei a rispondere.
“Il Signore ci ha fatto incontrare. Evidentemente questo era il suo volere. La
sua macchina si è fermata proprio davanti casa mia, come se il destino lo
avesse chiamato a me. Ho aperto la finestra e l’ho visto, con lo sguardo
perso e le mani che gli tremavano. Sono scesa di corsa, avevo ancora la
vestaglia da camera addosso. Lui mi ha spiegato tutto e io non ho esitato un
istante: era per la Carità di Dio che dovevamo farlo, dovevamo salvare quella
povera donna e porre fine a questo scempio”
“Ma avete ucciso un uomo”
“Tacete voi, che ne sapete di cosa sia l’amore per il Signore”
Forse il Signore a cui fa riferimento Maria Pistacchio è Dio, forse è Don Carlo.
Non si sa.
“E una volta deciso il da farsi” continua Maria Pistacchio “lo abbiamo portato
al lago, gli abbiamo legato una corda al collo con un masso e lo abbiamo
buttato giù. Ci è voluto tanto, pesava quel ragazzo! Ma alla fine la corrente se
lo è portato lentamente via. Ci sembrava un buon piano, ma non avevamo
contato lo svuotamento del lago.”
“E l’arrivo di un poliziotto inutile” sottolinea Don Carlo.
“Quindi Madonno” sussurra la recluta Francesco Lupini, come a seguire un
suo processo mentale “si riferiva a te quando diceva che minacciavi di dire a
tutti il suo segreto? Cioè che aiuta i pazienti a..”
“Morire! Sì, li uccide e finirà all’inferno per quello” dice Don Carlo con una
inaspettata luce negli occhi.
Maria Pistacchio lo guarda ammirata, folgorata da tanto ardore e potenza
cristiana, come se in lei si risvegliasse l’animo temerario e impavido degli
antichi crociati che combattevano gli eretici in Terra Santa.
“Sì. Quando Leandra è andata all’ospedale, Madonno è riuscito a salvare lei
e il piccolo Michele. Non gli ho detto che era mio, ma gli ho detto che sarebbe
stato meglio portarlo via e metterlo in un luogo sicuro, per non lasciare che
Matteo i suoi genitori potessero separarlo dalla madre o peggio fare del male
a tutti e due. Madonno non era d’accordo, ma diciamo che sono riuscito a
convincerlo”
Sorride, abbassa la pistola, si compiace di quello che ha fatto.
“Quindi Leandra non sa nulla?”
“No, lei non sa che nostro figlio è vivo, non sa che ho fatto fuori quella merda
umana e non sa nulla di tutto questo. Quando ho preso il piccolo Michele, l’ho
portato a casa e ho detto ad Anna che era stato abbandonato davanti la porta
della canonica. Lei voleva un figlio, anche io ma non certo da lei. Allora l’ho
convinta a tenerlo e a far finta di averlo avuto noi. Siamo partiti la notte stessa
dicendo che volevamo prenderci una vacanza. Quando siamo tornati
eravamo in tre. Qualcuno ha provato a fare i conti, ma abbiamo detto che
eravamo già al quinti mese e che la pancia non si vedeva tanto ma che
volevamo farlo nascere al mare. Qualcuno ci ha creduto. Qualcuno ha fatto
finta di crederci.”
“Ma perchè non lo hai detto a Leandra?”
Forse è questa la domanda più complicata.
Perché architettare questo piano senza metterla a conoscenza?
“Perché, se fosse successo qualcosa, non volevo farle del male, crearle
problemi”
Maria Pistacchio ha un gesto di stizza.
“Maria, con te è diverso.” Anticipa Don Carlo. “Noi due siamo uniti da
qualcosa di più forte, forse divino e spirituale. Lo sai.”
Maria Pistacchio fa finta di accettare questa risposta, anche se il sangue
ribolle come un tizzone sotto la cenere.
“E poi sei arrivato tu. Inutile poliziotto che neanche doveva esserci. Inizi a
fare domande in giro, fai parlare la gente, capisci che non è suicidio e scassi
il cazzo agli altri. Capisci che sfiga la vita?”
“Grande sfiga. Ma ora se mi uccidi sicuramente qualcuno verrà a cercarmi”
Don Carlo accenna un sorriso.
“A parte cu ti caga? Tua madre? E poi per questo ti ho preparato un bel
foglio”
La recluta Francesco Lupini guarda davanti a sé, il foglio bianco e la penna e
inizia a capire.
“Una bella lettera d’addio. Hai capito che la tua vita fa schifo e che non vuoi
più andare avanti. Scrivi quello che ti pare, tanto non lo leggerà nessuno. Poi
un colpo in testa e ciao.”
Mentre parla, Maria Pistacchio si avvicina per passare carta e penna alla
recluta Francesco Lupini.
È il momento, ora o mai più.
Quante volte lo aveva visto fare nei film, l’eroe che approfitta di una
distrazione e con un’abile mossa si libera del suo carceriere e lo lascia a terra
aspettando i rinforzi.
Si gira di scatto, prende la mano di Maria e la fa ruotare, come gli aveva
insegnato sua nonna.
Scatta in pied…
BANG!
Rumore.
Dolore.
Sangue.
Altro dolore, ma più forte.
Urla.
La recluta Francesco Lupini guarda a terra, vede formarsi una macchia di
sangue.
Le gambe cedono.
Il proiettile è entrato nella coscia.
La mano di Don Carlo è ancora tesa, con la pistola puntata e la canna
fumante per il colpo appena partito.
“Ti avevo detto di stare fermo. Ora devo ucciderti”
Si avvicina lentamente, Maria Pistacchio fa un paio di passi indietro, ancora
scioccata dalla situazione.
Don Carlo punta la pistola e gira la faccia dall’altra parte.
La recluta Francesco Lupini chiude gli occhi.
Vede le sue nonne, sua madre, quello stronzo del padre.
Vede Leandra su un letto di rose, che lo aspetta a braccia aperte.
La sua bocca si schiude lentamente.
Poi sente la sua voce.
“Fermati Carlo!”
In che senso? Perché nel film della sua vita dovrebbe sentire la voce di
Leandra che parla con Don Carlo?
Apre gli occhi.
Don Carlo ha le braccia in alto, la pistola ancora nella mano destra.
Un poliziotto gliela toglie mentre un secondo lo ammanetta.
Qualcuno prende anche Maria Pistacchio.
“Io ti amo” dice Don Carlo guardando Leandra.
“Anche io” dice Maria Pistacchio guardando Don Carlo.
L’appuntato Carmine Marcolfi coordina gli altri poliziotti, tutto tronfio nella sua
divisa, mentre una barella porta via la recluta Francesco Lupini verso
l’ambulanza.
Leandra si avvicina.
“Ce l’hai fatta”
“A fare che?”
“A trovare l’assassino”
“Ah sì, giusto. Ahia… Ma tu come hai fatto a trovare me?”
“Ti ho visto che tentavi di nasconderti dietro l’albero, poi ho visto entrare
Maria con un fare strano e vi ho visti uscire insieme. Vi ho seguiti ma non ve
ne siete neanche accorti”
“Sì, gli specchietti sono rotti”
“Non ho capito, ma me lo racconterai dopo.”
“Va bene. Ora posso svenire?”
“Sì”
E sviene.
CAPITOLO 15

Le foglie sono passate dal verde al rosso e alla fine sono cadute a terra
lentamente. Quando si sta in mezzo alla natura, lo scorrere del tempo è
scandito dalle piante e dalla terra, da come muta e da come accoglie la
nuova stagione.
Sono passati due mesi.
Due mesi da quando Don Carlo e Maria Pistacchio sono stati arrestati, con
l’accusa di omicidio e di concorso in omicidio.
Due mesi da quando la recluta Francesco Lupini si è operato alla gamba per
estrarre il proiettile che, fortunatamente, non ha creato grossi danni e se l’è
cavata con una bella fasciatura stretta e un po’ di riposo.
Due mesi da quando Leandra tutti i giorni è andata a trovarlo per portargli da
mangiare che lo vede deprito.
Quando è uscito dall’ospedale è andato a trovare Irene al bar e lei gli ha
organizzato una bella festa.
C’erano tutti, le due Marie un po’ tristi per l’assenza della loro amica,
l’appuntato Carmine Marcolfi che raccontava delle sue gesta e ogni volta
aumentava il numero di colpi sparati e di malviventi consegnati alla giustizia.
Da quella mattina era già la quarta volta che raccontava cosa era successo.
C’era Madonno che beveva in un angolo, il suo segreto era ancora suo,
anche se la questione non si era conclusa, almeno non per lui. Sapeva che
un giorno avrebbe dovuto affrontare i suoi mostri, per questo continuava a
bere, per non sentire la voce della sua coscienza.
C’era Don Fefè e la sua cricca, insieme al figlio e i suoi compari. Il capetto
biondo era finalmente riuscito a parlare con suo padre e gli aveva detto quello
che provava, senza filtri, della sua voglia di crescere e di uscire dall’ombra
del padre. Don Fefè aveva capito e lo aveva mandato a studiare a
Campobasso, così lui tornava i we per stare in famiglia e si faceva le ossa
lontano da casa.
C’erano tutti.
Quando è andato via, gli hanno riempito il pandino verde bottiglia di ogni cosa
da mangiare e da bere.
“Vieni via con me” dice la recluta Francesco Lupini a Leandra.
“Non posso, questa è casa mia, qui ho tutto, non posso andarmene. E poi c’è
il piccolo Michele. Perché non resti tu?”
Lui ci pensa, la guarda negli occhi e poi guarda le cime delle montagne che
lentamente si coprono di bianco per la neve in arrivo.
“Non posso. Ho degli impegni a Roma, come faccio?”
Le dà un bacio sulla guancia che sa di addio.
Leandra abbassa la testa, la recluta Francesco Lupini anche.
“Un’ultima cosa, Don Carlo non mi ha mai detto cosa è successo tra voi dopo
che Matteo….”
Leandra sospira, il vento spinge da nord e le scompiglia leggermente i capelli,
rendendola incredibilmente ancora più bella.
“Quando Matteo è scomparso io mi sono chiusa in me stessa, non perché
sentissi la sua mancanza, ma perché mi ritenevo responsabile di quanto
accaduto. Il mio senso di colpa mi diceva che era sparito a causa mia. Nello
stesso momento Carlo è partito senza dirmi nulla e quando è tornato era con
un figlio, felice e innamorato. Mi ha chiesto di parlare ma non volevo, l’ho
evitato per tanto tempo, poi è arrivata la notizia di Matteo.”
La recluta Francesco Lupini le sposta una ciocca di capelli dagli occhi, in un
gesto intimo e innocente.
Sale sul pandino verde bottiglia e mette in moto, finalmente ha riparato gli
specchietti ma ugualmente non si guarda indietro, non vuole vederla
piangere.
Non vuole vedersi piangere.
Supera i vicoli, scala la marcia in salita, si sposta agile lambendo le case e
arriva sulla Strada Nuova.
Il telefono prende di nuovo.
Poco, ma prende.
Quel tanto che basta per chiamare casa.
“Pronto?”
“Mamma, sono io”
“Amore di mamma, come stai?”
“Bene, sto tornando a casa”
“Meno male, sono contenta, mi hai fatto tanto preoccupare. Sai che sei uscito
anche sul giornale? L’ho ritagliato e l’ho appeso in camera. Ha chiamato
anche il tuo Commissario, dice che non è riuscito a chiamarti sul telefono e
ha provato qui a casa. Dice di prenderti il tempo che ti serve e poi vi sentite.
Che persona gentile.”
“Eh già.”
“Ma che hai? Stai male? Ti hanno fatto mangiare?”
“Sì mamma, sto bene.”
“Ti sento triste.”
“Ma no, è che… niente.”
“Dai, lo sai che a mamma puoi dire tutto”
“È che… vorrei altri cinque minuti.”
“In che senso cinque minuti?”
Ripensa a Cecilia, all’orologio, ai bivi della vita.
Alle scelte che uno fa, consciamente o inconsciamente ogni giorno, anche
solo cambiando il percorso per andare in ufficio.
Mentre passa sotto al bivio che porta verso l’autostrada, davanti al vecchio
benzinaio chiuso, la recluta Francesco Lupini vede un dito sollevato.
Questa volta è un pollice.
Ci pensa un attimo, rallenta.
Poi si ferma.
“Mamma, senti, non vengo stasera a cena, ho da fare.”
“E quando torni?”
“Non lo so, mi sa che resto ancora un po’ qui, forse altri cinque minuti.”
Mette giù la chiamata, mentre fa inversione a U e si accosta davanti al
ragazzo fermo all’angolo della strada.
“Ti serve un passaggio?”.
Il ragazzo sorride, abbassa il braccio con cui stava facendo l’autostop ed
entra nel pandino verde bottiglia.
“Di chi si fije tu?” chiede la recluta Francesco Lupini in uno stentato dialetto.
Mette in moto e parte.
Direzione Monterotuli.
1451 abitanti.
RINGRAZIAMENTI

Grazie a tutti quelli che hanno creduto nel tempo alla recluta Francesco
Lupini, in primis all’editore Federico Pancaldi senza il quale tutto questo,
come al solito, non sarebbe stato possibile.
Grazie a Giorgia e Selina per la spinta e il coraggio che mi danno per ogni
progetto.
Grazie a Paolo, Enzo, Loredana e il premio Incipit per aver dato corpo a
questa storia.
Grazie a Gianluca per la consulenza poliziesca.
Grazie al Comune di Monteroduni per il sostegno e per il patrocinio gratuito,
nello specifico grazie al sindaco Nicola Altobelli.
Grazie a Ferdinando, Antonio “Pittilicchio”, Carmine, Ettore, Irene, le 3 Marie,
e a tutti quelli da cui ho tratto spunto per i personaggi.

Ma soprattutto grazie al Molise per (r)esistere.

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente


esistenti è da ritenersi puramente casuale.

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