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La Recluta Francesco Lupini e Il Morto Del Molise
La Recluta Francesco Lupini e Il Morto Del Molise
Patrizio Cossa
A mio padre
INCIPIT
Poco dopo, fermo sul ciglio di una strada di campagna, la recluta Francesco
Lupini sta parlando al telefono con un suo superiore.
"Commissario, io sono arrivato qui a Monterotuli, ma non ho capito
esattamente che devo fare"
La comunicazione è a singhiozzo.
"...aro. Non m... I... zzo."
"Commissario qui prende male, non la sento."
Si sposta un attimo a destra.
"Lupini, a me hai già rotto il cazzo, sia ben chiaro."
"Ora prende bene Commissario"
"Ecco. Ascoltami bene perché non te lo ripeterò. Tu devi cercare il prete, Don
qualche cosa, lasciargli le carte che ti hanno dato e tornare indietro. E se non
te lo ricordi, leggi quel cazzo di bigliettino che ti ho lasciato."
"Ma quindi non lo sapete neanche voi cosa sono queste carte?"
"No. Per questo ci vai tu. Lupini sei un pirla."
E attacca.
La recluta Francesco Lupini si sente solo e infreddolito, pur facendo 40 gradi
in quella calda estate.
C'è un distributore al centro di un bivio, l’unico nell’arco di chilometri, ma è
praticamente abbandonato; la benzina è ancora calcolata in Lire e ci sono
spesse catene collegate ai bocchettoni dell'erogatore.
Accanto al distributore c'è un cartello che indica la strada per “Monterotuli -
1450 abitanti”, una sorta di mulattiera che sale ripida fino al cuore della
montagna.
La recluta Francesco Lupini sale sul suo pandino verde bottiglia e si avvia per
la strada; poco prima della curva un ragazzo sta facendo l'autostop per salire
verso il paese. La recluta Francesco Lupini lo guarda, poi tira dritto: non è
solito caricare persone sconosciute in macchina.
Il ragazzo cambia dito, e dal pollice passa al medio, in direzione del pandino
verde bottiglia e poi riprende la sua ricerca di qualcuno per farsi trasportare.
Il pandino si muove con difficoltà su quella strada sterrata; tra buche e caldo
le sospensioni chiedendo pietà al cospetto del Dio dei motori. La recluta
Francesco Lupini continua a tenere il volante dritto, fino a che non sente il
suono di una campanella che si avvicina: in realtà non è la campanella ad
avvicinarsi a lui, ma lui ad avvicinarsi al passaggio a livello che si sta
lentamente chiudendo.
Rallenta fino a fermarsi e aspetta.
Aspetta.
Aspetta.
Dopo 5 minuti si decide a spegnere il motore per non consumare altra
benzina; una volta girata la chiave, il suono assordante delle cicale invade
l'abitacolo e diventa un grido disperato di aiuto di milioni di insetti costretti a
vivere sotto quel sole accecante.
Milioni di insetti più la recluta Francesco Lupini.
La situazione è surreale: da solo in mezzo al nulla, sotto un sole cocente,
fermo ad aspettare un treno che non vuole passare.
Dopo altri 5 minuti un timido “Tuuu...tuuu...” si affaccia dal fondo dei binari,
per diventare lentamente ma costantemente più potente e prepotente.
Sembrava dovesse arrivare un siluro di dimensioni epiche, invece si affaccia
la copia del trenino Thomas con solo due vagoni; talmente lento che la
recluta Francesco Lupini riesce a leggere sulla fiancata la scritta LA
FRECCIA DEL MOLISE.
Al passaggio della “Freccia”, le due sbarre di legno si alzano con uno
sbadiglio e il pandino verde bottiglia può riprendere il suo cammino, lasciando
alle spalle il suono delle cicale e il loro grido di pietà.
La strada del paese è una sola, che arriva fino al Castello in cima alla
montagna, senza altri cartelli che indicano la giusta direzione.
Timidamente ai lati della strada iniziano le prime costruzioni, prima più larghe
e spaziose, poi sempre più attaccate al ciglio della strada. Le case sono
costruite talmente vicine che il pandino verde bottiglia fatica a passare e la
recluta Francesco Lupini si sbriga a chiudere gli specchietti per non rischiare
di spaccarli.
Non è convinto che possa essere la strada giusta, pensa sia impossibile
riuscire a passare per quei vicoli con una macchina e soprattutto bisogna
avere sangue freddo e destrezza nella guida, due cose che decisamente lui
non ha.
La speranza è che quella strada sia almeno a senso unico.
Una volta superate le prime case, parcheggia in una piccola piazza all'ombra
di un grosso albero, probabilmente un ciliegio con dei rami spezzati, spegne
l’auto e si accorge di una cosa: non c'è assolutamente nessuno.
L'unico rumore è quello del motore del pandino verde bottiglia che smette
fievolmente di borbottare.
A parte l'albero, nulla proietta ombra a terra, il sole è al suo picco massimo e
non c'è modo di ripararsi: le persiane delle case sono chiuse, forse per
oscurare il sole o forse perché vuote, e l'insegna del “Bar Amarsiunpo’”
davanti a lui è spenta e le porte chiuse.
Un gatto rosso a strisce nere sta bevendo dai rimasugli della vaschetta di una
fontanella, anch'essa chiusa.
La recluta Francesco Lupini tira fuori un fazzoletto di carta dalla tasca e cerca
di asciugarsi la fronte, per quanto possibile.
La sigla del tg proveniente da una casa, lo fa voltare verso destra, come
ipnotizzato dal canto della sirena, prende le scale che salgono lungo il vicolo
chiamato “Vico del sole” e arriva su un piccolo spiazzo, dove si trova davanti
ad un altro bar, il “Bar Centrale”.
Le porte del bar sono spalancate, solo una tendina di quelle con i lunghi fili di
plastica fa da divisorio con l'esterno. Si fa coraggio e varca la soglia
facendosi strada tra quelle liane di plastica, ma scopre una tragica verità: se
possibile dentro fa ancora più caldo che fuori.
Dietro al bancone c’è un signore anziano che sta pulendo un bicchiere con
uno straccio sporco, di conseguenza il bicchiere non sarà mai pulito.
Il bar è buio, con un forte odore di muffa e di chiuso, il televisore è sospeso a
circa due metri e mezzo di altezza, sorretto da una impalcatura artigianale
fatta di pezzi di ferro e tronchi di albero.
Probabilmente un tronco spezzato di un albero di ciliegio.
La signorina del tg regionale sta dando le indicazioni per salvarsi da questa
ondata di caldo anomala: non uscire nelle ore calde, bere tanta acqua e
mangiare frutta.
Esattamente il contrario di quello che sta facendo lui, senza contare
l’innalzamento della temperatura all’interno del locale.
Al centro del bar campeggia un enorme tavolo da biliardo, con il suo panno
verde non perfettamente tirato e i birilli fermi al centro, il punteggio è statico
sul 54 a 9.
Un partitone, pensa la recluta Francesco Lupini.
Intorno al tavolo ci sono alcune sedie dove evidentemente si svolge la
movida del paese e da dove il pubblico si gode lo scontro con le stecche.
Nell'angolo a destra del bar, poco prima di una porta socchiusa, c'è un
signore addormentato, con la bocca aperta e il cappello calato sugli occhi, il
suo russare è così forte che la recluta Francesco Lupini stenta a credere che
sia prodotto da un essere umano.
Due mosche si rincorrono intorno alla bocca dell'uomo addormentato.
Che sia morto?
“Scusi, dovrebbe esserci un bed&breakfast qui vicino”
Il signore anziano al bancone non si scompone, continuando a sporcare il
bicchiere già sporco.
La recluta Francesco Lupini si schiarisce la voce.
"Ehm... mi scusi, cercavo il bed & breakfast..."
Nessuna reazione.
“FANTI’! appiccia a machinett!”
La tenda si scosta e fa il suo ingresso una signora corpulenta con un grosso
vassoio in mano pieno di piccoli cannoli ricoperti di zucchero a velo e crema
gialla.
Il signore alza lo sguardo, sbuffa imprecando e si tocca dietro l'orecchio così
da attivare un puntino verde accanto al lobo sinistro che inizia ad accendersi
e spegnersi a ritmo.
La recluta Francesco Lupini rimane fermo a guardare questa scena surreale,
in cui la signora prende posto dietro al bancone e sposta con un sapiente
colpo di anca il signore che inizia a bestemmiare in una lingua sconosciuta e
si chiude dietro la cassa, spegnendo di nuovo l’apparecchio acustico.
“Lo scusi, sa, ma sienza a macchinetta nun sente bene”
La signora con una vocina flebile si sforza di parlare un italiano più
comprensibile possibile e sembra assurdo alla recluta Francesco Lupini che
poco prima l’aveva sentita urlare con quella voce così forte e potente.
“Si, buongiorno. Ecco io… Stavo cercando il bed&breakfast”
La signora lo guarda con attenzione.
Cerca un particolare distintivo, qualcosa di specifico.
Poi lo guarda dritto negli occhi e dice:
“Di chi si figl' tu?”
Ancora? Ma perché tutti volevano sapere la discendenza della recluta
Francesco Lupini?
“No, non sono di queste parti, io cerco solo un bed&breakfast”
“Oh no, ecch ste cose nun ce le tenimme”
“Scusi?”
“Ecch... qui... queste cose non le abbiamo”
“Non c'è un posto dove dormire?”
“Dormire? Ahhhh... Ma voi cercate Turucc”
“Chi?”
“Voi volete dormire?”
“Si”
“Volete fare colazione quando vi scetate… vi svegliate?”
“Certo”
“E allora avite a i' da Turucc”
“E chi sarebbe?”
“È quello che gestisce la locanda del paese”
“Il bed&brekfast”
“A locanda del paese!”
“Il b&... La locanda del paese. Giusto”
“Che mo, locanda è un parolone, è la casetta sua che ha trasformato in
locanda dove ci dormono gli stranieri come voi”
“Ma quann c veng'n i stranieri ecche!”
Dice una voce dall'angolo del bar.
Poteva essere stato l'uomo addormentato, ma è rimasto nella stessa
posizione di prima, ancora con la bocca aperta e le mosche intorno.
Poteva essere stato l’uomo alla cassa, ma ha ancora l’apparecchio acustico
spento.
“Statt zitt tu. Dicevo che dovete andare in fondo a questa strada e poi trovate
la scritta La Locanda. È facile”
“Ma devo prendere la macchina per arrivare?”
Il silenzio diviene assordante.
Poi il boato.
Tutti iniziano a ridere.
La signora del bancone tenendosi la mano sulla pancia.
Il signore dietro la cassa sbattendo i pugni sul tavolo.
L'uomo addormentato sghignazzando da sotto i baffi.
Anche le mosche sembrano ridere.
“Figl mi, qui non si usa la macchina. Il paese è talmente piccolo che pure se
parti mo’ arrivi in anticipo”
E mentre le risate scemano, la recluta Francesco Lupini saluta cordialmente,
apre le tendine di plastica e si incammina per la strada indicata dalla signora.
Il vicolo ha delle scale incredibilmente ripide e si fa fatica a pensare che
qualcuno possa percorrerle ogni giorno, anche più volte al giorno, basti
pensare che la recluta Francesco Lupini ha già il fiatone, e sta andando in
discesa.
Mentre scende, una signora anziana e minuta sale portando da sola due
casse di acqua, una per mano, e con l’agilità di uno stambecco se ne va
canticchiando e salutando.
Forse in questo paese hanno scoperto il segreto della vita eterna e non
vogliono condividerlo con nessuno?
La recluta Francesco Lupini arriva davanti ad un campanello con scritto a
pennarello: “La locanda”, doveva essere quello, anche perché intorno c'era
ben poco, solo scale e case con scritto: vendesi.
Dopo aver premuto il pulsante, il campanello di rimando suona l'inno d'Italia
ad un volume assordante e il vicolo funge da cassa di risonanza per
amplificare quel rumore impossibile da nascondere.
La porta si apre mentre “L’Italia chiamò” si avvia alla conclusione e la recluta
Francesco Lupini ha giusto il tempo di riprendersi dallo spavento quando da
dietro lo stipite compare un ragazzo alto e grosso, con i capelli corti e gli
occhi scavati.
Sembra la versione inquietante di Lurch degli Addams.
“Ugh”
Forse è l'anello mancante nella catene evolutiva, l’unione tra l’uomo e la
scimmia, non c'è altra spiegazione.
“Salve, sono la recluta Francesco Lupini, dovrei avere una prenotazione”
Dice d’un fiato mentre manda giù saliva e sudore.
L’uomo scimmia lo guarda dall'alto in basso, controllando ogni singolo
dettaglio del nuovo ospite, come a volerlo schedare mentalmente.
Poi la sua voce parte dal fondo di una caverna e crea un tremore vocale,
dicendo:
“Voi siete chillo pel morto del lago?”
“Scusi... ha detto… Morto?”
CAPITOLO 2
Ho un sogno ricorrente.
Non so esattamente l'età, ma credo di avere intorno ai 6-7 anni.
Giochiamo a nascondino con altri bambini, alcuni mi sembra di conoscerli,
altri no.
Uno di loro inizia a contare.
Io mi nascondo in un cunicolo stretto e lungo.
Sorrido, penso che non mi troverà mai nessuno qui dentro.
Sento gli altri che vengono presi.
Uno ad uno.
Poi mi chiamano, urlano il mio nome, ma io lo so che è solo per farmi uscire
allo scoperto.
Non mi fregano.
Sorrido.
Poi le urla smettono.
Sento il suono delle cicale, vedo il sole che scende lentamente.
Non sorrido più.
Chiamo qualcuno, prima timidamente, poi più forte.
Ho le braccia e le gambe indolenzite.
Non riesco ad uscire, il cunicolo è troppo stretto, sono incastrato.
Urlo più forte.
Piango.
Si sono dimenticati di me.
Il telefono squilla dall’altra parte, senza una apparente risposta, poi la voce
del Commissario fa tremare il terreno sotto i piedi.
“Chi cazzo è?”
“Ehm… Commissario, sono la recluta Francesco Lupini”
“Lupini che cazzo vuoi, ti ho detto che sto in barca”
“Sì, ha ragione. Ma qui la situazione è peggiorata, c’è un morto”
“E che vuoi da me?”
La recluta Francesco Lupini si guarda intorno per sapere se è da solo, poi
abbassa la voce e chiede titubante.
“E che ci devo fare?”
“Dagli un bacio e vedi se si sveglia. Lupini, non mi devi rompere le palle, io
sono in vacanza. Mi spieghi che cazzo c’entri tu con un morto? Ti ho mandato
lì perché di tutto il dipartimento nessuno voleva smazzarsi questo impiccio
sotto Ferragosto. Devi solo far firmare le carte per un minore da
accompagnare in comunità, non è che ci vuole una laurea! Ora vai, fai firmare
dove devono firmare e poi torna a lavorare.”
La conversazione si chiude così, con un sentore di un vaffanculo iniziale
strozzato dal click del telefono e l’angoscia di non sapere da che parte
sbattere la testa.
Guardandosi intorno la recluta Francesco Lupini capisce di essere rimasto
solo, Don Carlo è scomparso e la porta d’ingresso è accostata.
Spinto anche dal caldo cocente che non dà tregua, cerca una zona d’ombra
dove ripararsi ed entra dall’ingresso chiedendo permesso.
Nessuno risponde al suo richiamo, sembra tutto spento in quella sala
d’aspetto vuota, forse hanno sbagliato giorno, forse è meglio tornare indietro.
Ma non ha le chiavi della macchina e senza navigatore è un uomo perso,
abbandonato nel centro del nulla senza possibilità di fuga.
La sala d’attesa ha una sola porta aperta che dà sul corridoio centrale e la
recluta Francesco Lupini inizia a chiamare sottovoce qualcuno per farsi
aiutare.
“Don Carlo? Don… C’è nessuno?”
L’unico rumore della struttura viene dall’ultima porta del corridoio, lasciata
semiaperta da qualcuno, come fosse un invito ad entrare o a scappare a
gambe levate.
Se fosse stato un film dell’orrore i protagonisti avrebbero detto: “Ok,
dividiamoci” ma la recluta Francesco Lupini è solo e l’unica cosa che vuole
realmente fare è tornare a casa sua.
“È permesso?” chiede sottovoce.
La porta si apre con un cigolio inquietante, come se non bastasse tutta quella
situazione. La stanza è asettica, con una lampada accesa su di una scrivania
ben ordinata. Ci sono diverse celle d’acciaio sulla parete e sul tavolo
operatorio vicino la finestra c’è un telo bianco che ha la strana forma di un
corpo morto.
“Don Carlo?”
“Non c’è nessun Don Carlo qui… ci sono solo io!”
Il telo bianco si alza e scopre il corpo di un uomo che con la bocca aperta e le
mani protese in avanti cerca di afferrare la recluta Francesco Lupini.
Che non ha altra possibilità che svenire.
CAPITOLO 4
Alcune gocce d’acqua iniziano a rigare il viso della recluta Francesco Lupini,
ma la sua reazione non è quella che ci si aspetta.
Al cadere di un intero bicchiere d’acqua fredda come uno schiaffo in pieno
viso, si alza di scatto e resta sull’attenti, come quando in caserma gli
facevano gli scherzi per tirarlo giù dalla brandina.
“Recluta Francesco Lupini a rapporto. Sono sveglio”
“Riposo, recluta. Riposo. Sei tra amici”
La voce di Don Carlo è calma e suadente e fa dimenticare per un attimo la
situazione appena accaduta, ma la presenza del non morto accanto a lui fa
vacillare le braccia del giovane poliziotto che si ritrae indicandolo terrorizzato.
“Ma lui… è vivo?”
“Sì, ed è anche un cretino” fa eco Don Carlo, ridendo e dando una pacca
sulla spalla al Lazzaro resuscitato.
“Piacere, sono il Dottor Eusepio Madonno. Mi scuso per prima, volevo fare
uno scherzo, credevo che voi gente di città foste più coraggiosa”, la sua
risata aspirata risuona nella stanza vuota, tra i tavoli di acciaio e la
strumentazione medica.
La recluta Francesco Lupini si poggia sul lettino, cercando di riprendersi dallo
spavento ma soprattutto cercando di capire cosa sia realmente successo.
“Vi darei un ricostituente, ma qui ho solo sonniferi e a cadere svenuto siete
già bravo da solo”, ride ancora il Dottor Madonno mentre lo fa accomodare
sul tavolo di acciaio, quello dove poco prima era avvenuto il miracolo.
“Devi scusarlo, lui è Doc. Fa sempre scherzi cretini. Anche se questa volta
diciamo che gli è riuscito particolarmente bene”.
Don Carlo sorride e il Dottor Madonno prosegue a produrre quel suono
aspirato che sembra il rumore di una macchina quando non parte il motore.
“Ora un attimo di serietà” riprende le fila Don Carlo, sedando gli animi e
cercando un minimo di professionalità in quella situazione surreale. “Veniamo
a noi, lui è il poliziotto che segue le indagini, arriva direttamente da Roma e
credo voglia vedere il corpo.”
L’unica cosa che riesce a dire la recluta Francesco Lupini è: “Ma veramente
io…il corpo?”.
Il Dottor Madonno cerca qualcosa nelle tasche, tira fuori un paio di carte di
cioccolata e le poggia sul tavolo e alla fine estrae il mazzo di chiavi legato ad
un portachiavi a forma di pallina da tennis.
“Sa, sono contento che sia qui, un vero poliziotto per un vero crimine. Da
queste parti non succede mai niente e dopo tutto questo tempo mi fa strano
fare quello per cui ho realmente studiato”
“In che senso?”
“Che in realtà io ho studiato come anatomopatologo e ho un master in
Patologia Forense, ma qui mi ritrovo a curare animali e le anche rotte, vista
l’età media nelle zone circostanti”
Ride alla sua battuta come se fosse la cosa più divertente della storia e deve
poggiare la mano sul tavolo per non rischiare di cadere.
La recluta Francesco Lupini abbozza un timido sorriso, guardando Don Carlo
che fa un'espressione del tipo “Non farci caso, fa sempre così” provando a
riportare un minimo di ordine in tutto quel caos.
Se c’è una cosa che la recluta Francesco Lupini sa fare è rimandare i
problemi, è un procrastinatore di livello avanzato; se ci fossero le olimpiadi di
procrastinazione lui li vincerebbe l’anno successivo.
Una volta è riuscito a rimandare talmente tante volte la visita dal dentista per
una carietta non curata che ha perso un dente e ora ha un buco in fondo a
destra, per questo evita di ridere troppo, perché ha paura che si veda quel
baratro dato dalla non cura di sé stesso.
E comunque rimandare la vista di un morto rientra sicuramente nelle sue
priorità, non avendo nessuna intenzione di restare a guardare.
“Ma… cos’è questa struttura?” chiede per guadagnare tempo prezioso.
“Questo è il centro di eccellenza per la Veterinaria e l’Ortopedia di tutto il
Molise. In realtà abbiamo anche una parte di Pronto Soccorso e Maternità,
ma i nostri punti forti sono gli animali e le anche degli anziani. E qui non
mancano nessuno dei due”
E giù a ridere.
Forse in una vita passata poteva essere stato un comico.
Sicuramente non in questa.
“E tu come ci sei finito qui, visto che hai studiato da anamolopa…sologo”
“Anatomopatologo e ho un master in Patologia Forense. Cercavo lavoro, io
vengo da Campobasso ma lì avevano già tutti i posti occupati e dopo qualche
anno mi hanno chiamato qui con la prospettiva di poter fare carriera. Ma il
tempo passava e la carriera restava qui, ho provato anche a fare domanda
per venire a Roma, ma niente da fare. E alla fine che ti devo dire, mi sono
affezionato al territorio e alle persone” fa cenno verso Don Carlo che ricambia
con un piccolo inchino della testa “e quando vieni da queste parti fai fatica ad
andartene”
“Scusate, è tutto molto romantico, ma io dovrei andare a casa, ho una
famiglia” dice Don Carlo, troncando le speranze di una ulteriore perdita di
tempo.
La recluta Francesco Lupini allora decide di fare l’unica cosa che può dargli
un tono in questa situazione.
Cercare di scappare in bagno.
Ma ormai è troppo tardi.
Il Dottor Madonno apre una botola quadrata dalla parete di acciaio davanti a
lui, facendo scorrere un piano di appoggio con sopra un sacco nero chiuso
con una zip.
Era come nei film.
Ma nei film nessuno parla di senso di nausea e puzza di morte.
Una volta aperta la zip, il tanfo di laguna si impregna sui vestiti e sulle pareti
della stanza, lasciando il disgusto nel palato dei tre presenti.
La recluta Francesco Lupini cerca di ricacciare in fondo un conato, mettendo
una mano sulla bocca e facendo finta di tossire per poi fare cenno verso l’alto
come a dire “Credo sia l’aria condizionata. Brr…”.
Il corpo del ragazzo è gonfio, di colore nero-verdastro coperto di vesciche,
anche se si percepisce la tonicità del muscolo e la stazza di quello che fino a
poco tempo prima doveva essere un giovane culturista. La pelle delle mani e
dei piedi è rugosa, come se fosse un anziano signore, anche se il resto si è
conservato incredibilmente bene.
A parlare ora è il Dottor Madonno che si trasforma e diventa immediatamente
professionale e serio, come se elencare le caratteristiche di un cadavere lo
toccasse nel profondo.
Scandisce la voce, piccolo colpo di tosse e parte con la sua arringa.
“Lui è Matteo Biondini, figlio di Ugo Biondini, il magnate dei trasporti molisani.
La morte è avvenuta per annegamento nel lago di Lerino. Lo hanno trovato
trafitto dalla spada di San Michele sulla cima della chiesa”
“In che senso?” chiede la recluta Francesco Lupini cercando di costruire
mentalmente la planimetria di un possibile incidente del genere.
La parola passa a Don Carlo, esperto di aneddoti e chiacchiere.
“Ti spiego. Devi sapere che il lago di Lerino è un lago artificiale. Prima, dove
ora c’è il lago, sorgeva il piccolo paese di Lerino, appunto, ma la posizione
all’interno dell’insenatura della valle portava parecchi problemi: intanto le
continue inondazioni durante l’inverno e poi le possibili frane dalle montagne
intorno.
Si decise nei primi anni ‘50 di trasferire il paese sulla parte pianeggiante in
alto e di trasformare l’insenatura in un lago artificiale che portasse acqua e
elettricità attraverso le turbine idroelettriche e soprattutto trasformarlo in un
posto caratteristico per i visitatori. Ogni 3 o 4 anni, quando il lago viene
completamente prosciugato per manutenzione, emergono parti del vecchio
paese, come se fosse un luogo fantasma da cui riaffiorano i morti.”
“E mai paragone fu più azzeccato” sottolinea il Dottor Madonno.
“Già. Perché ad un certo punto c’è stato bisogno di una manutenzione
straordinaria non prevista, perché un guasto al depuratore ha reso l’acqua
stagnante. Quindi mentre l’acqua scendeva, i turisti presenti hanno visto
qualcosa di strano: un corpo che usciva dall’acqua, immobile, trafitto da una
spada che altri non era che la punta della statua che era presente sulla cima
della chiesa del vecchio paese. Il destino a volte è strano.”
Un attimo di silenzio aiuta tutti a recuperare le forze dopo il racconto
dell’accaduto. Sembra impossibile trovarsi davanti a questa scena, sembra
impossibile che un ragazzo possa morire in questo modo.
“Ma come fa un corpo a scendere così in profondità e a conficcarsi su una
spada?” chiede la recluta Francesco Lupini tirando fuori tutte le sue
conoscenze in fatto di serial crime.
Il Dottor Madonno si mette i guanti in lattice e indica un punto del collo del
corpo riverso sulla tavola di acciaio.
“Vedi qui? Questo è il segno di una corda intorno al collo. Tipico di chi vuole
farla finita.”
“In che senso?” sembra un disco rotto, riesce solo a dire questa frase.
“Corda. Sasso. E giù. Glugluglu.”
Il Dottor Madonno fa il gesto di chi sta affogando e lentamente cade a terra.
Si rialza e cerca di darsi un tono, facendo un piccolo colpo di tosse e
tornando a spiegare tecnicamente quello che si vede.
“L’adipocere, noto anche come cera cadaverica, è una sostanza grigiastra e
dura che si forma durante la decomposizione, ma in particolare nei corpi
immersi in acque fredde. Questo processo si verifica nell’arco di alcuni mesi
quando il tessuto adiposo sotto la pelle inizia a saponificarsi. Poiché le basse
temperature inibiscono la produzione di batteri, questa cera può aiutare a
conservare il corpo. Per questo non c’è stata decomposizione anche se il
corpo verosimilmente è lì da quando è scomparso Matteo, ossia circa due
mesi fa.”
“E in due mesi nessuno ha denunciato la scomparsa?” chiede incredulo la
recluta Francesco Lupini
“Certo, la sua fidanzata e promessa sposa Leandra”.
Aspettate.
“Aspettate”
Quella Leandra?.
“Quella Leandra?”
Don Carlo fa cenno di sì con la testa.
La sua Leandra?
Questo è meglio non dirlo.
Ok, cerchiamo di darci una calmata, facciamo tutti un bel respiro e via che si
riparte con la giostra della vita.
Leandra, la donna dei suoi sogni, la futura madre dei suoi figli, quella con cui
invecchierà, eccetera eccetera, è promessa sposa a qualcuno?
E ora questo qualcuno è morto.
Se l’avesse conosciuta prima, sarebbe stato messo nella lista dei sospettati,
ma fortunatamente ora aveva la possibilità di farsi avanti, magari per
consolare il suo dolore.
Sono brutte cose da pensare, ma in quel momento aggrapparsi all’idea di
avere un briciolo di speranza con Leandra lo aiuta a dimenticare il tanfo di
morto sotto il suo naso.
“Quindi si è… suicidato?”
“Così sembra.”
“E perché avrebbe dovuto farlo? Cioè ci sono i presupposti per crederlo? Era
strano ultimamente o sapete se voleva farla finita?”
Ma cosa sta dicendo? Perché sta facendo tutte queste domande? Come se
realmente potesse indagare su questo caso e non fosse invece un pinguino
della polizia.
Un pinguino è l’ultimo arrivato, quello che si veste con la divisa perfettamente
stirata, che non è mai entrato in una volante, che sta dietro la scrivania e a
cui danno tutte le incombenze più rognose, soprattutto ad agosto.
Ecco, esattamente questo era lui.
“In realtà sì” dice Don Carlo, mentre si gratta la leggera barba sale e pepe
che lo rende ancora più affascinante.
La sua pausa dà enfasi all’argomentazione e crea un hype di curiosità
incredibile, tanto che gli altri due restano in attesa di una spiegazione che
tarda ad arrivare.
“Matteo e Leandra non erano in ottimi rapporti”
Un punto in più per la recluta Francesco Lupini.
“Questo faceva parte delle confessioni di un ex prete?”
Don Carlo e il Dottor Madonno sorridono, poi è quest'ultimo a parlare.
“Non era certo un segreto il loro rapporto, in paese tutti lo sapevano, magari
qualcuno faceva finta di niente, qualcuno girava la testa dall’altra parte per
non vedere”
“Non vedere cosa?” chiede ingenuamente la recluta Francesco Lupini.
“I segni” risponde il Dottor Madonno chinando il capo.
“I segni?”
“Lividi, a volte nascosti da una sciarpetta, altre volte da una gonna più lunga.
Ma il più delle volte erano le teste a girarsi e non le dita ad indicare il
colpevole”.
Il sospiro di Madonno fa capire che la ferita è ancora aperta, e non quella del
corpo ma la cicatrice che lascia l’onta della vergogna, di quando non si ha il
coraggio di parlare e di ribellarsi a certe situazioni.
Fa male vedere qualcuno ferito e far finta di niente.
“Ma perché nessuno ha parlato?”
"Perché il padre di Matteo non solo è un magnate dei trasporti molisani. Ma è
anche uno ben inserito in certi giri. Tutti lo sanno, ma nessuno sa niente. Non
so se è chiaro”
La recluta Francesco Lupini ha molto chiara la situazione, purtroppo è il tipo
di situazione che lo manda ai matti, quella per cui sarebbe pronto ad
esplodere come una bomba atomica.
Non aveva mai sopportato i soprusi e ancor meno le minacce, erano
qualcosa di abominevole e smuovevano in lui qualcosa di ancestrale.
Da piccolo ricordava ancora di essersi messo tra un compagno di classe
bullizzato e dei ragazzini più grandi e di aver fatto scudo col suo corpo.
Ne aveva prese talmente tante che per poco non finiva in ospedale, ma il
ragazzo che aveva aiutato si era salvato grazie a lui e i ragazzi erano stati
riconosciuti e denunciati proprio dalla piccola recluta Francesco Lupini.
Una volta a casa, credeva di ricevere encomi e lodi, ma prese il resto delle
botte che si erano dimenticati i ragazzi, perché così imparava a farsi gli affari
suoi.
Buon vecchio papà, che tu possa marcire in pace.
Chissà cosa avrebbe fatto oggi vedendo la sua Leandra marchiata da un
bruto senza vergogna.
Forse avrebbe dismesso i panni del giovane indifeso e avrebbe preso
finalmente il mantello da supereroe che era appeso all’ingresso della sua
anima.
O forse no.
“Va tutto bene?”
Don Carlo cerca di risvegliarlo mentre è perso nei suoi labirinti interni.
“Scusate, ero preso dal racconto. Quindi non andavano d’accordo, ma non mi
avete detto perché voleva farla finita”
“Su questo posso rispondere io” dice Don Carlo facendo un piccolo passo
avanti.
“Durante una confessione, Matteo mi disse che…”
“«Il sacerdote non deve in alcun modo testimoniare su un fatto che gli è stato
rivelato sotto il segreto della confessione. Infatti, egli non conosce il fatto
come uomo, ma come ministro di Dio, e il vincolo del segreto sacramentale è
più stretto di quello di qualsivoglia precetto umano»” la recluta Francesco
Lupini interrompe Don Carlo e cita a memoria un passo sentito mille volte
nella sua infanzia.
“San Tommaso d’Aquino. E tu come lo sai?”
“Ho un passato molto religioso. Ma sta di fatto che non puoi parlare di un
segreto in confessione. Pena la sco…”
“Scomunica. Che ormai è bella che andata. Quindi direi che posso parlarne,
no?”
Sorride e subito la situazione sembra distendersi, Don Carlo ha un modo di
placare gli animi proprio del buon pastore, di colui che ha la situazione sotto
controllo e che riesce a tranquillizzare chiunque solo con la sua presenza.
“Giusto, scusami. Sono partito d’istinto, non so cosa mi sia preso. Prego.
Continua”
“Dicevo. Durante una confessione Matteo mi disse che si sentiva oppresso
dal suo ruolo, dall’essere figlio di un boss, così lo chiamò, e di non riuscire a
sostenere lo sguardo di tutto il paese. Era un violento ma in realtà scaricava
la sua rabbia repressa per un'infanzia difficile. Quando vivi nel lusso tutti
pensano che tu sia fortunato e ti guardano con invidia e disprezzo. Ma Matteo
era nato nella famiglia sbagliata, fatta di soldi, botte e droga. E fin da subito
aveva capito che per farsi rispettare doveva far parlare le mani e non
ragionare col cervello. Era un bravo ragazzo ma messo su una strada difficile
da percorrere.”
Prende fiato, come a trattenere quel fiume in piena fatto di emozioni e di
sogni infranti, poi guarda il corpo del ragazzo sul tavolo e una lacrima sembra
scendere sul bordo del suo occhio. La asciuga con un piccolo gesto e
continua a parlare.
Anche il Dottor Madonno ha la testa bassa, quasi a non voler ricordare quella
vergogna, quei momenti e quella umiliazione.
“Era pressato dal suo mondo, avrebbe voluto cambiare vita e non ci riusciva,
forse tutto questo lo ha portato al finale di partita. Forse…O forse se avessi
detto io qualche parola in più di conforto magari…”
“Non è colpa tua, non è colpa di nessuno. Doveva andare così”, la mano del
Dottor Madonno si posa sulla sua spalla, mentre Don Carlo alza gli occhi al
cielo e cerca di scacciare via quel ricordo. Prende aria nei polmoni, fa rifluire
il sangue ormai congelato e si batte le mani sul petto per un ultimo mea culpa
che non sarà mai l’ultimo.
“E il biglietto?” chiede con tutta l'ingenuità del mondo la recluta Francesco
Lupini, rompendo quel momento di raccoglimento cristiano.
“Quale biglietto?”
“Generalmente chi fa un gesto del genere, un gesto studiato, tanto da portarsi
dietro una corda e cercare un sasso per buttarsi nell'acqua, lascia sempre
qualcosa di scritto”
“Non saprei, dovresti chiedere al Capitano Manfredi, ma ora credo sia
sdraiato sotto l’ombrellone con un cocktail in mano e l’ultima cosa che vuole è
sentir parlare di un morto. Magari però puoi andare in commissariato, ti
daranno sicuramente tutte le carte. Ti accompagno se vuoi.”
Ecco.
La realtà bussa alla porta e chiede il conto.
Come dire a tutti che c’è un malinteso? Come spiegare al paese intero, a Don
Carlo, alla sua amata Leandra, che lui non c’entra nulla in mezzo a tutto
questo casino?
Come fa la recluta Francesco Lupini a tirarsi fuori da questa situazione
assurda?
Basta, è ora di agire, non si può sempre procrastinare.
Quando una cosa è giusta, va fatta subito, senza indugi, senza…
Ma proprio mentre sta per prendere coraggio, il corpo si irrigidisce, le pupille
si dilatano e i suoi occhi vedono qualcosa che non dovrebbe esserci.
“E quello cos’è?”
“Cosa?”
“Quello”
“È Matteo. Il morto.”
“Sì. Chiaro. Intendo dire: quel segno sul collo. Puoi girarlo per favore?”
Il Dottor Madonno sulle prime non capisce la richiesta, è incredulo ma si
affida a quelle parole in maniera meccanica, girando il corpo e lasciandolo
abbandonare sul fianco destro.
Il collo è violaceo ma nasconde un disegno.
Più che un disegno è un tatuaggio.
Ma più che un tatuaggio, quello è un marchio.
E il ricordo di quel marchio fa vacillare le gambe della recluta Francesco
Lupini.
CAPITOLO 5
Carlo Maria Lupini è stato Questore della Repubblica per quasi 40 anni.
Carriera onorata, medaglie al valor civile esposte in ordine sulla mensola del
caminetto in salotto, affiancate da foto col Papa, foto col Presidente della
Repubblica, foto con un attore americano di cui non si ricordava bene il nome
e poi una foto del matrimonio con Maria Adele Guglielmo in Lupini, sua fedele
consorte nel bene e nel male, in salute e in malattia finchè morte non vi
separi, amen.
Nella foto c’è una sorridente Maria Adele, giovane e innocente, che stringe in
mano il suo bouquet di roselline bianche, vestita nel suo lungo abito ricamato
a mano con un pizzo leggero a disegnarne i contorni. Le era sempre piaciuto
quel vestito anche se purtroppo non aveva più avuto occasione di rimetterlo,
ma Maria Adele lo guarda appeso nell’angolo sinistro dell’armadio e sogna un
giorno di donarlo a sua nuora per il matrimonio del figlio.
Nella foto però c’è un particolare, anzi due.
Il primo è un accenno di protuberanza addominale non dovuta all’ansia o al
troppo cibo, bensì ad una dolce attesa che così dolce non era.
Il matrimonio venne organizzato in fretta per riparare al danno e non far
parlare troppo il quartiere, ma si sa, il quartiere ama parlare e le voci girano
veloci, quindi tutti sapevano ma nessuno parlava troppo.
Anche perché Carlo Maria Lupini è sempre stato un uomo retto, tutto d’un
pezzo, che non lasciava spazio agli errori ma soprattutto ambizioso e
concentrato. Quando voleva una cosa, la otteneva, a costo di passare sopra
qualcosa o qualcuno.
Laurea in Economia, commissario di polizia a 30 anni superando
brillantemente il concorso pubblico, Specializzazione in “Scienze della
Sicurezza” e via tutta la trafila
– Commissario Capo
– Vice Questore Aggiunto
– Dirigente (primo dirigente, dirigente superiore ovvero questore, dirigente
generale).
Fino ad arrivare a diventare il più giovane Questore della Repubblica Italiana.
Ahh… Carlo Maria Lupini. Un uomo ligio al dovere, mai un capello fuori
posto, mai una parola di troppo, mai una perdita di controllo.
Fuori casa.
Dentro casa, invece, avveniva la trasformazione.
Quando tornava a casa si slacciava la cravatta, poggiava la giacca dai colori
tenui sullo schienale della sedia e iniziava a bere.
Da quel momento, Carlo Maria Lupini diventava l’uomo nero, il Babau dentro
l’armadio di notte, il mostro da cui scappare nei film di paura.
Da buon poliziotto conosceva le tecniche per farsi dire la verità, sia con le
buone che con le cattive e generalmente a pagarne le conseguenze era la
giovane Maria Adele che incassava i colpi senza urlare, ma piangendo nel
silenzio della sua stanza solitaria.
I lividi erano nascosti, in sezioni calcolate del corpo, per non lasciare tracce
evidenti e per mantenere il buon nome della famiglia.
E quindi sorrisi e galanterie fuori, schiaffi e saponette nel calzino dentro.
Il secondo particolare della foto è un puntino nero che esce dalla manica
della camicia di Carlo Maria Lupini, qualcosa che ad un primo sguardo si
perde fagocitata dal contesto.
Ma a guardar bene si capisce che quello è un disegno. Anzi no, un tatuaggio.
Un serpente arrotolato intorno ad un pugnale, con occhi di fuoco e lingua
biforcuta.
Un simbolo di qualcosa.
La recluta Francesco Lupini lo vedeva sempre quando la mano del padre
picchiava la schiena della madre, quando il serpente prendeva vita e si
scatenava sul corpo della giovane ed esile donna che chiedeva invano pietà.
Vedeva gli occhi rosso sangue, il pugnale come estensione della mano
paterna e il braccio come arma di convincimento.
“Se vuoi una cosa, devi fare di tutto per ottenerla e nessuno deve mai
ostacolarti”, continuava a dire Carlo Maria Lupini al figlio, mentre finiva di
lavorare dietro l’enorme scrivania di mogano nel suo studio.
Alle pareti c’erano i ritagli di giornale con tutte le imprese di suo padre, una
galleria di ricordi e di celebrazioni per pompare un ego già spropositato.
Ma da nessuna parte c’era una foto di famiglia, non una foto di lui da
bambino, non un ricordo per sapere se almeno un giorno erano stati felici.
Il momento preferito della recluta Francesco Lupini era la cena, quando tutti e
tre si sedevano a tavola e dicevano insieme le preghiere, mano nella mano, a
partire da papà Carlo Maria Lupini. Ognuno chiedeva a Gesù qualcosa, chi di
proteggere la casa, chi di proteggere la famiglia, chi di proteggere la madre.
L’unico appiglio sano era la nonna paterna, una donna piccola di fisico ma
grande di cuore, con cui riusciva a parlare e a giocare senza sentirsi
sbagliato.
Giocavano a nascondino nel cortiletto interno del palazzo dove vivevano e lui
vinceva sempre perché a nascondino era un vero campione; o almeno così
pensava, senza valutare che forse la nonna chiudeva un occhio quando i
piedi uscivano fuori dal suo nascondiglio perfetto e rivelavano la posizione del
piccolo Francesco Lupini.
Purtroppo la sua scomparsa è arrivata quando era al liceo, nel pieno della
sua crescita, lasciandolo da solo a giocare a nascondino.
Una sera, davanti al caminetto acceso, Carlo Alberto Lupini stava leggendo
alcune carte di un maxi arresto che avevano effettuato, sorridendo al
pensiero del suo grande operato. Maria Adele Guglielmo in Lupini cuciva un
centrotavola con i suoi ferri corti da lavoro e la non ancora recluta Francesco
Lupini era immerso nella lettura del suo fumetto preferito, quando ad un certo
punto alzò il naso dalle avventure di Batman e chiese candidamente: “Papà,
che vuol dire quel tatuaggio sulla tua mano?”.
Maria Adele Guglielmo fece cadere i ferri corti, ma non riuscì ad alzarsi, il
terrore le aveva paralizzato le gambe, lasciandola come il gomitolo di lana a
cui stava lavorando.
“Non è niente amore, lascia stare papà che sta lavorando”
“Ma io voglio sapere” ripetè con l’innocenza di un bambino che non sa.
“Voglio sapere, papà, voglio sapere, voglio sapere…”
Maria Adele Guglielmo cercò di portare via il figlio mentre Carlo Alberto Lupini
si alzò lentamente, lentamente si slacciò la cintura dei pantaloni e lentamente
ma senza sosta cominciò a colpire il piccolo Francesco Lupini fino a lasciarlo
tramortito a terra.
Le urla del piccolo si mischiavano al pianto della madre e alla ferocia del
padre, mentre il serpente ancora una volta prendeva vita e si portava via quel
grammo di innocenza perduta.
Quando la rabbia passò, a terra rimase un corpo sanguinante e la
disperazione di qualcosa che si era rotto per sempre. “Non lo chiedere mai
più” furono le ultime parole di Carlo Alberto Lupini prima di veder svenire il
figlio.
Crescendo i lividi spariscono anche se le cicatrici restano vive sull’anima, ma
di quella situazione, di quel ricordo, nessuno ha mai più fatto cenno. Certo ci
sono state altre botte, altre cinghiate, altri occhi di serpenti accesi, ma
l’abitudine modifica il pensiero e i giorni si fanno via via più veloci, fino al
raggiungimento della maturità.
Francesco Lupini è in camera sua, la stanza è cambiata con lui e i poster dei
super eroi hanno lasciato spazio alle gigantografie dei gruppi rock preferiti. La
camera è piccola ma ha tutto quello che gli serve, un letto a castello che è da
sempre la sua fortezza, sotto la scrivania con il vecchio pc riciclato da suo
cugino, un armadio con le magliette sgualcite e una libreria con tutta la
collana dei gialli classici, alternati a libri di cucina dei grandi chef stellati e a
qualche fumetto che ancora faceva capolino dal suo passato.
Sognava la fine della scuola, concluso il liceo avrebbe fatto il cuoco nelle navi
da crociera, girando per 6 mesi e stare gli altri 6 in un’isola tropicale a godersi
i soldi guadagnati. E dopo qualche anno di lavoro duro, di gavetta nelle
brigate, si sarebbe staccato e con i soldi guadagnati avrebbe aperto un
piccolo street food, dove avrebbe venduto solo ciotoline di sughi e pane
fragrante, una idea geniale: LA SCARPETTERIA e il logo sarebbe stato
quello di Cenerentola che mangia.
Un posto dove poter fare la scarpetta senza essere visto male dagli altri, con
prodotti genuini e cucinati a dovere.
E a mezzanotte, tutti a casa!
Aveva l’acquolina in bocca al solo pensiero.
Ma i sogni hanno una particolarità, spariscono al sole del giorno e anche
quello di Francesco Lupini era destinato a crollare miseramente sotto il colpo
ben assestato delle parole paterne: “Tu farai la carriera militare”.
Punto.
Niente repliche, niente obiezioni, niente sguardi di intesa.
“Ma…”
La decisione era già presa, l’unico che doveva convincersene era la neo
recluta Francesco Lupini.
Gli occhi di brace del padre, che guardano quelli vuoti del figlio, in una sfida
già persa in partenza, ascoltando i frammenti di cuore che si scompongono e
cadono a terra, senza lasciare traccia.
Davanti allo specchio mentre prova disperatamente a fare un perfetto nodo
Windsor, senza successo, sente alle sue spalle le mani amorevoli e
distaccate della madre che con delicatezza lo fanno ruotare su se stesso
come un ballerino goffo.
Maria Adele Guglielmo in Lupini muove le dita in maniera rapida e chirurgica,
spostando, alzando e inserendo la stoffa della cravatta nella giusta sequenza,
fino a creare il nodo esatto.
“Anche tuo padre non è mai stato bravo” disse anticipando le parole della
recluta Francesco Lupini.
“Quindi c’è qualcosa che non sa fare” ironizza mentre si guarda allo
specchio.
“Vedi… tuo padre in realtà…” non riusciva a trovare le parole giuste,
cercando di soppesare ogni pausa e ogni fiato, per non cadere in fallo, per
non cadere a terra col corpo e con l’anima.
“Tuo padre è un brav’uomo” lo disse d’un fiato, quasi a volersene convincere,
come se, dicendolo piano le parole potessero mutare di forma e diventare
altro da quel che sono, ossia una bugia a cui nessuno crede veramente.
“Quello sul braccio è un simbolo, si fanno chiamare I Timorati di Dio. Sono un
gruppo, sparso nel mondo, di uomini pii, dediti alla parola del Signore, che
della Bibbia hanno preso la parte più antica, quella dove le regole vanno
seguite alla lettera e dove chi non le segue è un impuro che va riportato sulla
giusta via. Il serpente è il demonio e la spada è quella di San Michele che lo
trafigge e lo sconfigge e San Michele è anche il protettore della polizia. Se lo
fece quando entrò nel suo reggimento e nel tempo, insieme agli altri Timorati
hanno cercato di portare l’ordine nel caos. Senza badare troppo alla forma,
ma solo puntando alla sostanza, al risultato. La propria vita è sacra e non si
tocca. Guai a farsi del male, pena la dannazione eterna. Poi però ci sono le
vite degli altri, quelle inutili. Loro li chiamano “le zavorre”, quelli che non
servono alla società, quelli di cui si può fare a meno per il bene finale.”
Era distrutta da questa confessione, che forse stava facendo più a se stessa
che non al figlio.
“Non sempre però quello che può sembrare giusto è sbagliato e viceversa…”
fece una lunga pausa, come a cercare le parole, come a trovare il coraggio
per dirle.
“Lui è un bravo uomo. Non guardarlo così, ha sempre pensato a noi e… alla
fine ci vuole bene. Non dirgli che ti ho detto il significato del tatuaggio, per
favore. Sarà il nostro piccolo segreto. Ora però vai che si fa tardi” e una
lacrima scende mentre veloce la mano la cancella, portandosi dietro i ricordi
e i lividi.
Ma come poteva dimenticare?
Come poteva far finta di non aver sentito quelle botte e di non aver visto quei
colpi?
Uscì dalla porta di casa e la luce del sole gli fece chiudere gli occhi, mentre
sullo sfondo vedeva la sagoma di suo padre.
Forse sorrideva.
Forse era orgoglioso.
O forse si stava solo sbarazzando di un’altra zavorra.
CAPITOLO 6
La recluta Francesco Lupini torna al suo tavolo, finalmente prende il suo caffè
e si avvicina al bancone per pagare.
“Ma no, questo ve lo offro io” dice Irene sorridendo.
“E perché?”
“Perché siete stato così gentile con loro tre e mi piacciono i giovani educati”
Lo sguardo è quello di una mamma orgogliosa del figlio, di chi vede nelle
nuove generazioni una speranza per il futuro e di chi è felice di conoscere
belle persone.
“Irene, toglimi una curiosità. Sono passato ora al castello, ma ci vive
qualcuno?”
“Dentro? No, ci fanno solo qualche evento ogni tanto. Perchè?”
“Perché mi sembrava di aver visto una tenda spostarsi e una donna guardare
da dietro i vetri”
“Ahahahah, hai visto Carmela”
“E chi è?”
“Donna Carmela di Pignatello, la padrona del castello”
“Che fa anche rima. Quindi qualcuno ci vive”
“No, lei era la padrona del castello, nel senso che è morta trecento anni fa”
“E allora chi ho visto?”
“Voci dicono che il suo fantasma giri ancora per il castello e si fa vedere solo
ai puri di cuore. Lo vedi che ho fatto bene a offrirti il caffè?”
E se ne va ridendo, lasciando un alone di inquietudine nel cuore della recluta
Francesco Lupini che mette il portafoglio in tasca ed esce nella piazza.
Una volta fuori, sente suonare le campane, un richiamo per i fedeli che
seguono il flauto magico del pifferaio, fino ad arrivare nel sacro luogo dello
spirito.
Anche lui si incammina verso la chiesa, convinto sempre di più di dover
parlare con Don Carlo per farsi spiegare le sue omissioni.
Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri,
parole, opere e omissioni per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
L’atto di penitenza è la preghiera che più racchiude il senso di colpa inculcato
in lui dal padre, perché in quella frase c’è la sintesi completa del suo credo: la
colpa è solo tua.
Per tutto.
Per quello che fai, per quello che pensi, per quello che dici ma anche per
quello che non fai e non dici.
Per tutto.
È colpa tua.
Il suo sesto senso era il senso di colpa.
Come se vivere e gioire non fosse contemplato dal Vangelo, come se l’atto di
penitenza e l’atto di dolore fossero la sintesi di una dottrina secolare.
Con questi pensieri e con lo spirito rinfrancato dalla gioia di avvicinarsi al
Signore, si ritrova davanti all’ingresso della chiesa, con il grande portone
spalancato e quell’odore di incenso che lo riporta indietro nel tempo, a
quando da bambino faceva il chierichetto per la parrocchia dove il padre lo
aveva mandato a studiare e “giocare”, o almeno quella era la scusa.
Lì aveva imparato tutte le preghiere a memoria, a forza di disciplina e di
sberle dietro il collo. Le mani delle suore sapevano essere veramente forti
quando volevano e, soprattutto, molto convincenti.
Lì aveva imparato come si aiuta nella messa, quali sono i rituali da eseguire,
quando ci si deve alzare, inchinare, tirare su le mani, abbassare le mani,
inginocchiarsi e chiedere i soldi per lo show.
Lì soprattutto aveva imparato quanto fosse vero il concetto che la religione è
l’oppio dei popoli.
Ma soprattutto lì aveva capito che l’astinenza per un prete può giocare brutti
scherzi.
Scuote il capo per scacciare quei pensieri e percepisce addosso una strana
sensazione.
Si sente come… osservato.
Alza gli occhi e vede tutta la chiesa che lo guarda, da ogni angolo e lato della
navata le facce si girano e i sussurri nelle orecchie indicano lo straniero
venuto dalla città.
La recluta Francesco Lupini si sente in imbarazzo, cerca una faccia amica ma
non la trova in mezzo alle dita che non fanno niente per smettere di indicarlo.
“Tranquillo, tra poco la piantano”.
Si gira e vede Leandra illuminata dalla luce del tardo pomeriggio filtrata
attraverso il rosone centrale e, se possibile, è ancora più bella di quello che
ricordava.
“Sono attratti dal nuovo come le falene dalla luce. Tra poco però non sarai più
una novità e passeranno ad altro. Vieni, sediamoci in fondo”.
I due si siedono su una delle ultime panche, mentre gli altri prendono posto
più vicino possibile al pulpito.
Il doppio scampanellio annuncia l’inizio delle funzione, come prima di un
round di pugilato.
“Quelli lì in prima fila” dice Leandra sottovoce indicando una coppia anziana
ben vestita “sono i Favaretti, lui lo chiamano solo Don Fefè, qui tutti lo
conoscono e lo rispettano. Se hai bisogno di qualcosa, evita di andare da lui,
altrimenti gli dovrai un favore per il resto della tua vita”.
Mentre parlano, un ragazzo si avvicina a Don Fefè e gli stringe la mano con
devozione, lui gli dà una pacca sul viso e lo rimanda a sedere al suo posto.
“Lì nell’angolo, ma forse lo hai già conosciuto, c’è l’appuntato Carmine
Marcolfi. Le forze dell'ordine qui a Monterotuli si riducono ad una unità.
Carmine è l'unico carabiniere del paese, anche perché la criminalità è
praticamente azzerata, in quanto ci si conosce tutti e non c'è possibilità di
vandalismo o similari.
Anche se, ogni volta che Carmine beve un po’ più del normale, racconta un
fatto che si perde nella notte dei tempi e che ormai nessuno sa più
identificare come realtà o come fantasia.”
“Racconta, sono curioso”
“Allora… Carmine era appena entrato nell'Arma dei Carabinieri quando
intercetta dalla sua volante la chiamata di una donna che chiede aiuto.
Dice di essere a casa con un ladro che vuole ucciderla.
Carmine non ci pensa due volte, parte di corsa sgommando per i vicoli di
Monterotuli e arriva al paese vicino, dove la donna chiedeva aiuto.
E qui la storia si complica e ad ogni racconto si arricchisce di dettagli.
La prima volta che ha detto a tutti cosa era successo, Carmine è entrato e ha
trovato la donna a terra, con un graffio in volto e un uomo che stava
vomitando nel bagno perché si era lasciato andare al troppo alcool.
La seconda volta, la donna era a terra, in una pozza di sangue, il volto
tumefatto e l'uomo era in piedi al centro della stanza che urlava il suo nome.
Nella terza versione, la porta di casa era chiusa e Carmine ha dovuto
sfondarla con una vigorosa spallata per buttarla giù, trovando la donna
praticamente morta e l'uomo in piedi sul tavolo che urlava parole senza
senso, completamente sporco di sangue.
Carmine ha estratto la pistola e ha intimato all'uomo di sdraiarsi a terra,
mentre praticava il massaggio cardiaco alla donna, che, in una versione
parallela era anche incinta.
Fatto sta che in tutte le versioni Carmine riesce a salvare la donna e a far
arrestare l'uomo che si dichiara colpevole di “troppo amore”.
Da quel giorno Carmine ha raccontato quella storia milioni di volte, anche
perché quello è stato il suo primo e ultimo caso.”
La sua risata è squillante anche se nascosta dalla mano.
Alcune signore si girano per intimare il silenzio.
Ma la recluta Francesco Lupini è rapito completamente da quel suono
melodioso e da quel canto della sirena che lo lascia senza fiato.
“Scusami, ti sto disturbando, magari volevi partecipare alla messa”
“No, no. Nessun disturbo, anzi raccontami altro. Quello laggiù, chi è? L’ho
incontrato al castello e non è stato un incontro proprio piacevole”
“Quello è Lino, il custode del castello Pignatello. L'età di Lino è l'incognita più
grande di Monterotuli.”
Tre donne entrano di corsa nella chiesa, rallentano il passo, fanno un piccolo
inchino e un veloce segno della croce, per poi prendere posto nelle file
centrali.
Sono le tre Marie che hanno evidentemente fatto tardi.
“Dicevo. Addirittura il TGR ha intervistato Lino tante volte per capire il suo
segreto di lunga vita.
Dice di aver fatto la guerra, la prima, ma che era già grande quando è andato
al fronte.
La seconda non l'ha fatta sul campo perché congedato con onore.
Dice di aver conosciuto il re in persona, di essere andato da lui a cena per un
evento che ora non ricorda.
Ma se hai bisogno di sapere la storia di qualcuno, se vuoi scoprire come sono
andati veramente i fatti, devi parlare con Lino.
Ogni sera si siede al tavolino del bar, con la sua pipa e racconta un aneddoto.
A volte racconta più volte sempre lo stesso, ma lo arricchisce, cambia i
dettagli, sposta persone e date.
Ma nessuno ci fa veramente caso.
È come andare al cinema all'aperto e i bambini ne sono affascinati.
Ogni ruga è una storia, un solco della pelle un anno di vita, come nel tronco
degli alberi. perché mi guardi?”
“Scusa, mi sono incantato”
La faccia rossa, la gola secca.
Si è fatto beccare come a scuola.
Scoperto dalla maestra a spiarla da sotto la cattedra.
Leandra sorride imbarazzata, abbassando lo sguardo.
L’ingresso del prete e di Don Carlo lo salvano da una enorme gaffe, o figura
di merda come dicono i francesi, mentre si alzano in piedi per ascoltare il
discorso del prete.
“Fratelli e sorelle, siamo qui oggi per ascoltare la parola di Nostro Signore e
per farci illuminare dalla sua Grazia.”
“Chi è quello che parla?”
“Lui è Don Camillo, è il prete di Roccamannolfi, lo hanno mandato qui in
prestito finché non si insedia il nuovo prete. Don Carlo gli fa da chierichetto.”
La messa inizia con le letture, le preghiere, il piegarsi ripetutamente delle
ginocchia e i canti del piccolo coro di Monterotuli, diretto dalla signora Maria
Assunta che, in cuor suo, è convinta di dirigere la Filarmonica di Berlino e che
segretamente sogna di fuggire un giorno da quel piccolo paese di montagna
per calcare i grandi palchi internazionali.
Ma per ora continua a dare il LA bemolle con la sua tastiera Bontempi per far
partire “Il Signore è il mio pastore, nooon manco di nuu-uullaaaa”.
Quando è il momento del Vangelo, Don Camillo si alza e si avvicina al
pulpito.
La lettura parte con il Salmo 15:2-3.
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente,
non dice calunnia con la lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulto al suo vicino.
Per poi continuare con Giovanni 1:6
Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre,
mentiamo e non mettiamo in pratica la verità.
Queste parole suonano alla recluta Francesco Lupini come un monito per
chiedere a chi sa di parlare, come un appello di Don Camillo alla ricerca della
verità.
Ma è nell’omelia che il prete decide di dare libero sfogo ai suoi pensieri.
“Le parole di oggi sono parole forti, di speranza ma anche di onestà. perché
non si può avere pace se dentro di noi c’è la guerra, non si può credere nella
luce se abbiamo dentro l’ombra. Chi sa la verità deve perseguirla, chi
conosce la strada deve indicarla agli altri.”
Don Carlo annuisce soddisfatto, sentendo in queste parole un chiaro segnale
di aiuto alla comunità: chi sa, parli.
Alcune teste nelle prime file annuiscono, altre sussurrano all’orecchio del
vicino chissà cosa, altri ancora sono persi nei loro pensieri e non danno
ascolto alle parole del prete che dall’alto del suo scranno chiede di dire tutta
la verità, nient’altro che la verità.
“Lo giuro”
“Come?”
“No, scusami, ero sovrappensiero”
Leandra accenna un sorriso, spostandosi una ciocca di capelli dal viso e
tornando ad ascoltare le parole di Don Camillo che, nel frattempo è tornato
dietro l’altare per continuare la funzione.
C’è qualcosa nel suo profilo che la fa sembrare la Vergine di alcuni dipinti
rinascimentali, quella bellezza efebica che non ha tempo e che non permette
pensieri sconci.
Anche se ogni tanto la recluta Francesco Lupini qualche pensiero sconcio lo
ha fatto.
Ma in chiesa non si può dire.
Magari si confesserà dopo con Don Camillo. O al bar con Don Carlo.
Finita la messa i fedeli tornano alle loro abitudini, chi a casa a cucinare, chi al
bar a bere, chi nei vicoli a perdersi nel piacere.
Le tre Maria passano accanto alla recluta Francesco Lupini facendo un
piccolo inchino di riverenza e si allontanano verso l’uscita, lui invece resta
ancora un po’ tra le panche che si vanno svuotando.
“Io torno al B&B, tu che fai?” chiede Leandra aggiustandosi il rosario di legno
che tiene al collo.
“Io resto ancora un po’, volevo fare due chiacchiere con Don Carlo”
“Ah. Ok”
E si allontana.
Che ci sia rimasta male?
Aspetta.
Forse è un invito.
Forse voleva stare un po’ con lui.
Forse la recluta Francesco Lupini è un pirla.
Forse.
Ma per il momento Don Carlo ha la priorità.
Forse.
L’odore di incenso è l’ultimo ad uscire dalla chiesa; dopo che i fedeli si sono
lentamente ritirati, anche Don Camillo esce salutando le varie signore
incontrate per la strada e si avvia nel lungo vicolo che porta alla piazzetta
sottostante.
Dopo qualche minuto esce anche Don Carlo, vestito in abiti civili e
visibilmente accaldato.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“No grazie, non bevo”
“Perché sei in servizio?”
“No, perché sono astemio”
“Dillo piano. Da queste parti essere astemio è peggio che essere un
assassino!”
Sorride dandogli una pacca sulla spalla e facendo segno di seguirlo in
sacrestia.
La comicità di Don Carlo è qualcosa che ancora non riesce ad inquadrare
bene, ma magari il black humor è una caratteristica tipica di quelle parti,
soprattutto quando c’è un morto e un ipotetico assassino nelle vicinanze.
Una volta in sacrestia, Don Carlo inizia a cercare qualcosa nei mobiletti, poi
prende due bicchieri e li poggia sul tavolino.
“No, veramente non bevo”
“Ma questo non è alcolico. Lo fa la signora Anna, me lo porta ogni settimana,
è un tonico naturale incredibile. E soprattutto con questo caldo è un
toccasana”
In quella stanzetta dietro l’altare passa una corrente fresca e leggera, come
se ci fosse un ventilatore acceso da qualche parte.
Si sta veramente bene e il tonico della signora Anna scende giù che è un
piacere, fresco e corroborante. Non è niente male.
“Allora, piaciuta la messa?”
“Sì.”
“Ma non sei qui per la messa, giusto?”
“No.”
“Avanti figliolo, cosa ci fa qui? Confessati”
“Veramente mi aspettavo una confessione da te”
“Addirittura.” Sorride alzando le mani in gesto di resa. “E che avrei fatto per
dovermi confessare?”
“L’omissione è una colpa, no?”
Don Carlo beve un sorso di tonico, guarda avanti a sé un punto fisso, come
se vedesse realmente qualcosa o qualcuno, ma in realtà ci sono solo i
paramenti di Don Camillo poggiati su un porta abiti.
“Chi te lo ha detto?”
“Maria Cioccolato”
“Chi? Va bene, lascia stare, non è importante. Mi stai chiedendo del bambino,
giusto?”
“Giusto”
“Non te l’ho detto perché non lo ritenevo importante ai fini dell’indagine.”
“Beh, sapere che picchiava Leandra mentre era incinta non è cosa da poco,
non trovi?”
Don Carlo riflette sulle parole della recluta Francesco Lupini, cercando di
pesare come rispondere a quest’ultima affermazione.
Manda giù un altro goccio, poi continua a parlare.
“Hai ragione, non l’ho detto perché sento addosso il peso della colpa.
Leandra veniva a confessarsi da me, mi raccontava quello che succedeva ed
era preoccupata. Ma io non potevo parlarne con nessuno, non me lo diceva
in via amicale, c’era il sigillo sacramentale. E pur potendolo fare qualcosa,
non sarei mai andato a denunciarlo alla polizia, doveva essere lei in prima
persona, doveva mostrare i lividi e raccontare la sua versione. Ma anche lei
aveva paura. E si sentiva sbagliata”
“In che senso?”
“Nel senso che pensava fosse giusto ricevere quelle botte. Quando me lo
raccontava giustificava sempre la situazione, vuoi perché aveva fatto tardi,
vuoi perché non aveva preparato la cena, vuoi perché Matteo era nervoso.
C’era sempre un motivo valido per ricevere uno schiaffo.”
Lo stomaco della recluta Francesco Lupini si chiude di colpo, come se
avesse lui stesso ricevuto un violento cazzotto. Non riesce a pensare alla
povera Leandra vittima di quel bastardo, colpita ripetutamente sulla pelle e
nell’anima.
Proprio come era successo a lui.
E sentirsi in colpa solo per essere al mondo, perché si prova un briciolo di
felicità, perché si vorrebbe avere un minuto di pausa da tutto, ma chi hai
intorno ti fa sentire non abbastanza.
Proprio come era successo a lui.
Forse è questo quello che ha visto in quella ragazza, forse ha guardato il suo
stesso buio nei suoi occhi e ci ha visto l’abisso.
Quando scendi così in basso, quando arrivi in fondo, riconosci subito chi c’è
stato, come un linguaggio segreto, come una setta a cui appartenete in tanti
e che solo chi è sceso in profondità riesce a comprendere veramente.
Ma in questo caso non servono tatuaggi sulla pelle, basta solo vedere il
sorriso velato che si stampa sul volto e gli occhi costantemente coperti da
una nebbia sottile.
Quando arrivi in fondo, ti innamori del fondo stesso.
Beve anche lui un goccio di tonico, ha bisogno di qualcosa di forte per
riattivare il suo corpo.
Il sapore è dolce, a tratti stucchevole, ma quando scende da un senso di
sollievo alla gola, riuscendo quasi a identificare il percorso del liquido che
lentamente arriva fino al basso ventre.
I due non riescono a guardarsi negli occhi, pressati dai propri sensi di colpa,
uno per non aver aiutato una donna in difficoltà, l’altro per non essersi aiutato
quando era bambino.
“E il bambino ora dov’è?” chiede la recluta Francesco Lupini.
Altro silenzio, altro imbarazzo, altri sguardi che non si incrociano.
“Purtroppo la notte in cui Matteo è scomparso c’è stata una furente litigata.
Sono i vicini di casa che hanno chiamato la polizia. Lo hanno visto uscire
sbattendo la porta e urlando qualche imprecazione, Leandra lo ha rincorso
per qualche metro, poi si è accasciata al suolo, tenendosi con una mano il
viso e con l’altra la pancia, poi è svenuta. Quando è arrivata l’ambulanza non
c’era più niente da fare. L’hanno portata di corsa in ospedale ma sono riusciti
a salvare solo lei. Il bambino è arrivato morto, era prematuro e non ce l’ha
fatta a sopravvivere ai colpi”.
È troppo, decisamente troppo.
La recluta Francesco Lupini finisce d’un sorso il tonico e resta immobile
cercando di non fare rumore, come se volesse sparire in quel preciso istante.
Ho bisogno di uscire, ha bisogno di aria.
Senza salutarsi si alza ed esce dalla sacrestia, lasciando Don Carlo solo con
la sua bottiglia e le sue spine nel cuore.
Attraversa la navata e l’odore di incenso si fa più intenso, il cambio di
temperatura è forte e il caldo estivo si fa sentire nonostante sia tardo
pomeriggio.
La statua di San Michele lo guarda in un misto di pena e disprezzo, dall’alto
del suo piedistallo, mentre trafigge il serpente che si contorce sulla sua
gamba.
Il volto del Santo si confonde con quello del padre, la spada diventa la sua
cintura e il serpente a terra è la recluta Francesco Lupini.
La chiesa inizia a girare, le pareti si scambiano di posto in una danza che
sembrerebbe quasi poetica, se non fosse così fastidiosa.
“Don Carlo mi ha mentito” pensa la recluta Francesco Lupini.
“Quel tonico era alcolico”.
E poi il buio.
CAPITOLO 9
Sogno spesso di volare, lo so che lo fanno tutti, ma nei miei sogni io non
sono ancora nato.
Sono in un limbo, completamente nudo e vedo la terra da lontano, come se
fossi una stella.
Ma riesco a vedere tutti i dettagli della terra, vedo il verde degli alberi e
l’azzurro del mare, vedo le cime delle montagne e lo scorrere dei fiumi, vedo
le strade e le case, le persone e perfino i loro pensieri.
Vedo mia madre che sta sul letto insieme a mio padre.
Vedo lui nudo sopra di lei che si muove e si dimena, mentre lei guarda il
soffitto con gli occhi spalancati.
Piange in silenzio, mentre lui suda e grufola come un maiale in calore.
Quando ha finito si gira dall’altra parte del letto, si accende una sigaretta e
guarda fuori dalla finestra tutto soddisfatto.
Lei resta nella stessa posizione, coprendosi lentamente con il lenzuolo prima
di rannicchiarsi in posizione fetale.
Ed è la stessa posizione che ho io in questo momento, perso tra le stelle in
attesa di nascere.
Mia mamma mi diceva sempre che il Dottore le aveva dato pochi mesi per
provarci, perchè aveva un fibroma all’utero e bisognava operare.
O rimaneva incinta o dovevano raschiare tutto.
Ho lottato per mesi contro il fibroma, siamo cresciuti insieme fino a che uno
dei due non ha vinto sull’altro.
Ma per farlo, sono dovuto uscire prima del previsto.
E ogni volta, nel mio sogno, inciampo in una nuvola e inizio a precipitare,
urlando: “È troppo presto, è troppo presto”.
Ma la corsa non si arresta e io cado sempre più velocemente verso la terra,
sfiorando montagne, alberi, tetti e finestre, per arrivare su quel letto di
ospedale, guardando mia madre distrutta da dietro un vetro di una
incubatrice.
E mio padre fuori a fumare, mentre scuote la testa come a dire “Non sarà mai
forte abbastanza”.
Antipasti:
lu ciabbuotte: fiori di zucca, farina, sale,
acqua, lievito;
scurppelle: farina, acqua, sale, fritte nell'olio;
tanne e checucce,
impanata di rape e fagioli,
baccalà arracanate,
pane giallo, pizza gialla e bianca;
I Primi:
sagnetelle, cavati cavatieglie, petacelle,
tagliuline, pasta rattata, frascatieglie.
I Secondi:
sanguinate: sangue di maiale, pane raffermo
sbriciolato, mosto cotto, pinoli, uvetta, olio,
sugna, pepe e peperoncino;
velo: fegato di maiale, velo, alloro, sale, aglio;
panonda: carne di maiale di capocollo, pane,
aglio e peperoncino.
I Dolci:
sciarune con le iete;
sciarune casce e iova;
sciarune col grano;
sciarune con riso;
ciamelle: uova, farina, olio, zucchero, latte,
lievito;
sciapeppe: stessa pasta delle ciamelle fatta a
forma di un pupazzo e infornato;
muste cuotte: succo di uva bollito fino a che
non si addensi, tipo miele.
Praticamente non ha capito ¾ di quello che c’è scritto, neanche la parte dove
si spiegano gli ingredienti.
Ricorda solo il sanguinate, che si era promesso di rimangiare solo davanti
alle porte dell’inferno, e di aver assaggiato le Tanne e le Scurpelle, quindi
decide di affidarsi al caso e di indicare le prime due cose del foglio.
“Vorrei le sagnatelle e la pa..panonda, si dice così?”
“Bravo. Ve le porto subito. Volete una scurpella per accompagnare tutto?”
“E via, va.”
“Facite buono” e se ne va con l’ordine stampato a mente.
Chissà come fanno quelli che non si segnano nulla e riescono a ricordare
tutto a memoria. C’era un ristorante sotto casa della recluta Francesco Lupini
dove la sua finta famiglia del Mulino Bianco andava il martedì sera,
rigorosamente vestiti bene che non sia mai qualcuno possa dire qualcosa.
Mamma casalinga, papà picchiatore, figlio sottomesso.
In quel ristorante c’era un cameriere anziano, c’era da sempre ed era
diventata un'istituzione del quartiere.
Non c’era un menù cartaceo, ma lui ripeteva a memoria tutte le portate del
giorno, per ogni tavolo, e se non avevi capito l’ultima cosa, lui ricominciava
dall’inizio come le poesie di Natale dei bambini.
E anche quando c’erano tavolate da dieci persone e ognuno prendeva un
piatto diverso, lui non segnava nulla ma portava esattamente le richieste alle
persone giuste.
Incredibile.
Mentre è distratto dai suoi pensieri, l’odore di ceci e fagioli diventa talmente
forte da riportarlo sulla terraferma. Sotto i suoi occhi appare, in tutto il suo
splendore, un sontuoso piatto di sagnatelle e il profumo diventa una calda
coccola autunnale mentre si guarda il tramonto in una baita di montagna.
“Ma questa non può essere una porzione per uno solo”
“Qui gli uomini si mantengono in forma”
Che strano.
La voce non è quella di Irene.
La recluta Francesco Lupini alza gli occhi per unire un volto a quelle parole.
“Oh. Non sapevo facessi anche la cameriera”
“Non trovo mio fratello, doveva aiutarmi” dice Leandra mentre poggia sul
tavolo una birra media con poca schiuma e una scurpella ancora bollente.
“Ora lo cerco. Intanto, buon appetito”
“Grazie ma… Io non bev..” niente, ormai stava già servendo ad un altro
tavolo.
La recluta Francesco Lupini non riesce a trattenersi oltre, ha fame e voglia di
assaggiare questa delizia, quindi affonda la forchetta nelle sagnatelle
strabordanti di olio e sughetto dei ceci, con il condimento che resta attaccato
alla pasta quasi non volesse abbandonarla.
Leggermente piccante, retrogusto di bosco, punta di rosmarino amaro.
Il sapore è letteralmente divino, creando un vortice di perdizione per cui è
impossibile fermarsi al primo boccone. E poi ancora un altro e un altro fino a
trovarsi col piatto vuoto e la pancia piena.
Non si capacita della voracità con cui ha finito quel piatto, senza lasciare
scampo ad ogni singolo lembo di pasta.
Non contento prende la scurpella e fa la scarpetta, unendo il grasso della
frittura con l’umido del sugo e creando la quintessenza della bontà.
Può un piatto di pasta dare dipendenza? Forse sì.
Ma non è finita, perché distratto dal primo non si è accorto dell’arrivo del
secondo: la panonda, un muro di berlino fatto di carne, uova e pane.
“Scusa, ma con questo che ci dovrei fare?” chiede disperato a Irene mentre
passa tra i tavoli.
“Quello si mangia! Buon appetito”
Praticamente la panonda è un filone di pane (non è una esagerazione, è un
filone di pane) tagliato orizzontalmente in più parti e farcito con:
livello 1 - frittata alta almeno un centimetro
livello 2 - peperoni cotti sulla brace e spellati
livello 3 - carne di maiale
livello 4 - pancetta affumicata
Il tutto condito con peperoncino e aglio.
La convenzione di Ginevra l’ha messa tra le armi da non poter usare in
battaglia.
Ma questo il Molise non lo sa e continua a produrre questo concentrato di
colesterolo e bontà estrema.
Il primo morso ti colpisce dritto in faccia, come un destro sul ring.
Il secondo mena ai fianchi, facendoti inarcare la schiena.
Il terzo, se arrivi al terzo, ti costringe al ko tecnico.
Ma quanto può essere buono finire al tappeto così.
Per mandare giù quella torre di Babele avrebbe bisogno di un litro di acqua
ma non vede né Leandra né qualcuno all’orizzonte per chiedere qualcosa e
davanti ha solo la birra bionda e invitante.
Non ha mai bevuto, o meglio ci ha provato da giovane ma non gli è mai
piaciuto più di tanto. Niente vino e niente super alcolici, alle feste era quello
che portava a casa tutti in macchina, essendo l’unico sobrio della
combriccola.
Proprio in quel momento, in quella frazione di secondo che divide la
razionalità dal peccato, ecco proprio lì, la recluta Francesco Lupini prende in
mano la birra ghiacciata e ne manda giù un lungo e interminabile sorso.
Più che un sorso, sembra essere una bella boccata.
Quasi tutta.
O meglio.
Tutta.
Poggiando il bicchiere vuoto sul tavolo, sente su di sé gli occhi del paese, che
lo guardano e lo studiano come se fosse l’ultimo dodo rimasto sulla terra.
La musica si interrompe, in una scena che rasenta il surreale.
Sta per aprire bocca ma involontariamente un reflusso gastro esofageo fa
emettere un suono che più che umano sembra un verso gutturale dei primi
uomini.
A nulla vale tapparsi la bocca, ormai è tardi per recuperare.
Silenzio.
Poi il boato.
L’applauso della folla festante fa ripartire la musica e le facce soddisfatte dei
presenti sembrano dire: “Benvenuto a casa”.
Anche Leandra sorride mentre continua a distribuire bevande e cibo ai tavoli.
Non si è mai sentito così imbarazzato e allo stesso tempo così ben voluto.
È una sensazione strana, il corpo sembra più leggero e la mente vaga senza
una reale meta. Per lui che ha fatto della lucidità il suo mantra, quello stato di
lieve torpore, dovuto anche all’abbuffata di cui sopra, lo fa stare bene.
Si gode il fresco di una serata estiva, con la musica, il buon cibo e le voci di
un paese che ora non sembra così tanto distante.
Tra le voci in lontananza, però, gli sembra di sentire un rumore sordo, un
tonfo che gli ricorda qualcosa di antico.
Sembrano le voci di chi si sta divertendo a pestare qualcuno.
Sembrano i pugni dati attraverso un cuscino per non lasciare le tracce.
Sembrano le botte che suo padre dava alla madre in camera, per non farsi
vedere.
La recluta Francesco Lupini si alza in piedi di scatto, forse un po’ troppo di
scatto.
La testa gira come una trottola.
Torna a sedersi e ci riprova, ma con più calma, avvicinandosi alla fonte di
quel rumore familiare.
Lungo le scale, accanto alla piazza, si snoda un vicolo buio, dove la lampada
in alto è rimasta priva della sua energia e non dà la possibilità di vedere bene
cosa stia accadendo.
Ma le voci dei tre ragazzini sono inconfondibili.
E il rumore secco è quello del corpo di Turucc che sta cercando di difendersi.
La recluta Francesco Lupini sta per urlare quando viene interrotto da dietro le
sue spalle.
“Hey, ma che cazzo fate?”
Leandra corre in soccorso del fratello, ma uno dei tre ragazzi le dà una spinta
e la butta a terra, facendola cadere sull’uscio di una casa che affaccia sulle
scale del vicolo.
La recluta Francesco Lupini sta per intervenire quando vede letteralmente
volare sopra la sua testa il ragazzo che ha appena colpito Leandra.
Il secondo fa più o meno la stessa fine, scaraventato via con una sola mano.
Il biondino, invece, resta sollevato a venti centimetri da terra, con i piedi che
cercano il terreno ma che invece trovano solo l’aria.
“Mettimi giù, razza di gigante stupido”
E il gigante esegue l’ordine lanciandolo ancora più lontano del primo.
I tre ragazzi si rialzano velocemente e scappano continuando a dire “Non
finisce accussì. Mio padre te la farà pagare. E tu, strunz ru poliziott, pure te
statt accuort!”.
Finalmente la recluta Francesco Lupini esce dal suo stato di trance ipnotica e
si avvicina a Leandra per sollevarla.
Il braccio di Turucc svetta in aria pronto a scendere come una scure.
“No, fermo, sono io.”
L’ira del gigante si ferma, mentre anche lui si abbassa per prendere in braccio
la sorella svenuta.
I tre scendono i gradini del vicolo semi buio, cercando a tastoni di non
inciampare, per poi risalire un paio di vicoli dopo e trovarsi davanti
all’ingresso del b&b.
“Portala in camera da me”.
Apre la porta e fa spazio per farli entrare.
Turucc la adagia sul letto e le sposta i capelli che le coprono il viso.
Alla tenue luce della lampada sul comodino, Leandra sembra ancora più
bella, anche se leggermente tendente al morto.
I suoi occhi si aprono lentamente.
“Hey”
“Hey”
“Bentornata”
Sorride.
Buon segno.
Si passa una mano dietro la testa.
C’è del sangue.
Non è un buon segno.
“Non è niente, è solo un graffio” dice Leandra cercando di tranquillizzare i
presenti, e forse anche se stessa.
“Domani ti porto dal Dottore, tanto devo andarci anche io”
“Che hai?”
“Sono svenuto”
“Ah sì, ne parlano tutti”
“Perché?”
"Perché in paese si fa così.”
“Ah”
Cerca di tirarsi su ma la testa gira e fa ancora male il taglio.
“Avete qui acqua ossigenata e garze?”
“Credo ci sia qualcosa, Turucc puoi andare a prendere quello che c’è?”
“Uhg”
“Stai tranquillo, sto bene.”
“Uhg” ed esce a malincuore, anche se è palese che vorrebbe restare accanto
alla sorella.
“Come ti senti?”
“Sto meglio. Grazie per essere intervenuto”
“Veramente ha fatto tutto tuo fratello. Li ha scaraventati via come pezzi di
carta. Perché non si è difeso prima?”
"Perché lui sa di far male, sa di essere grosso e forte. Fin da piccolo lo
picchiavano perché aveva dei ritardi, perché era diverso. Una volta a scuola
ha dato uno schiaffo ad un bambino che gli stava dando fastidio. Il bulletto è
finito all’ospedale e Turucc è stato cacciato da scuola. Da quel momento non
si arrabbia mai, tranne quando qualcuno se la prende con me.”
“Anche io mi sono arrabbiato perché se la sono presa con te”
“Lo so, per questo ti ho ringraziato”
La mano di Leandra si poggia delicatamente sulla guancia della recluta
Francesco Lupini che, complice la birra e i fumi dell’alcool, si lascia andare a
quel tocco morbido e delicato, avvicinandosi al viso della giovane donna
sdraiata sul letto.
Gli occhi si chiudono, le labbra si protendono in avanti, il volto ruota
leggermente per evitare uno scontro a colpi di naso.
Il suo respiro, l’odore della sua pelle, chissà com’è il sapore delle sue labbra.
Sta per scoprirlo quando.
“Uhg”
“E che cazzo!”
“Ah, grazie mille. Lascia, faccio da sola.” e così dicendo, Leandra prende
dalle mani del fratello l’ovatta impregnata di acqua ossigenata e la passa
delicatamente dietro la testa dove sente dolore.
Il taglio è solo superficiale, niente di cui realmente preoccuparsi, ma una
visita dal Dottore quando si sbatte la testa è sempre cosa buona e giusta.
Il rumore della festa entra nella stanza come se la banda che suona fosse lì
in camera con loro, le parole, le chiacchiere, anche le confidenze delle
persone arrivano chiare e nitide.
La recluta Francesco Lupini accosta le finestre per cercare di attutire quel
delirio di cibo e vita.
“Lasciamola riposare” dice a Turucc cercando di accompagnarlo fuori, ma
riuscire a spostarlo è una impresa titanica.
“Sto bene, vai tranquillo” fa eco Leandra mentre poggia la testa sul cuscino.
“Ugh?”
“Io dormo per terra, non ti preoccupare”.
Veramente ha capito cosa ha detto? Non lo sa. Fatto sta che Turucc esce
dalla stanza accostando la porta.
La recluta Francesco Lupini chiude la porta e resta così a fissare la mostra,
cercando le parole giuste e il coraggio per dirle.
“Vedi Leandra, mi dispiace per prima. Forse la birra, forse la serata
movimentata, non lo so. È che ogni tanto inciampo nel pensiero di te ed è un
piacevole dolore. Ecco, c’è che mi piaci. L’ho detto, mi piaci da quando ti ho
vista e vorrei solo proteggerti e farti star bene. Quando ti vedo sento di
conoscerti, di averti già vista prima, forse in un’altra vita. Ora mi prenderai per
matto ma…”
Si gira per guardarla negli occhi, ma gli occhi di Leandra sono chiusi e il
sonno ha preso il sopravvento sulle belle parole d’amore.
Sospira guardandola dormire, sembra ancora più bella così.
Magari domani troverà il coraggio per dirle di nuovo quello che prova.
Si siede a terra, ai piedi del letto, cercando una posizione comoda, sarà una
lunga notte ma ne è valsa la pena.
Con gli occhi chiusi, Leandra sorride, continuando a far finta di dormire.
CAPITOLO 10
Lo sportello del pandino verde bottiglia cigola quando viene aperto, come se
fosse il rantolo di un condannato a morte che chiede pietà per farla finita.
Quando Leandra sale, l’odore di chiuso, umidità e un vecchio Arbre magique
al mango & frutto della passione la colpiscono violentemente in viso,
causandole un lieve giramente di testa.
“Scusami, dovevo portarla a lavare ma era chiuso”
“No, tranquillo, non preoccuparti. La mia è dal meccanico da aprile.”
“Accidenti, che cosa è successo? Un incidente grave?”
“No, semplicemente Bernardino, il meccanico del paese è in vacanza ma si è
dimenticato di lasciare fuori dal garage la mia macchina e nessuno ha le
chiavi della serranda. Quindi devo aspettare che torni dal Brasile per potermi
spostare in autonomia.”
“Mi dispiace”
“E di che? Quando vivi da queste parti non hai bisogno della macchina, puoi
tranquillamente muoverti a piedi o chiedere un passaggio ad un amico” dice
facendo l’occhiolino.
Lo sfiato del pandino verde bottiglia è il segnale di avviamento del motore,
mentre nella testa della recluta Francesco Lupini risuonano le parole:
PASSAGGIO AD UN AMICO…. AD UN AMICO… AMICO…
Quindi questo era? Un amico?
È stato friendzonato senza neanche il tempo di provarci?
Forse per quello che ha detto ieri? Perché è stato eccessivo? O forse perché
non lo è stato?
Passando per i vicoli stretti che costeggiano le case si trovano costretti a
chiudere gli specchietti del pandino verde bottiglia onde evitare di peggiorare
la situazione della carrozzeria e, una volta usciti sulla Strada Nuova, poter
dare gas in direzione di Pozzalli.
“Ecco, vedi? Lui è Pasquale”
“Chi?”
“Quel ragazzo lì, che sta seduto sul ciglio della strada. Anche lui non ha la
macchina e ogni volta chiede uno strappo a chi sale o a chi scende”
Nello specchietto retrovisore la recluta Francesco Lupini vede il ragazzo che
alza lentamente il dito medio in direzione del pandino verde bottiglia.
Svoltato a sinistra al bivio, la strada inizia a diventare familiare e le piccole
casette di campagna macchiano il paesaggio intervallando i campi coltivati
con le balle di fieno già raccolte.
“Ma hai ancora le cassette?”
“Sì, questa macchina è un po’ vecchia e lo stereo è quello originale. Anche se
non va molto, prende giusto due stazioni radio e se metti una cassetta non
originale si mangia il nastro e lo sputa fuori violentemente”
Sorride Leandra, come se fosse la battuta più divertente della storia, e lui si
sente l’uomo più fortunato della terra.
“Come va la testa?”
“Molto meglio, grazie. La tua invece? Passata la sbornia?”
“Oh sì, non ricordo molto di ieri sera” finge schifosamente.
“Io qualcosa sì, soprattutto quando stavo per addormentarmi”
Lei accenna un sorriso malizioso, voltandosi verso il finestrino.
Il fuoco si impossessa del volto della recluta Francesco Lupini, facendolo
diventare paonazzo e senza fiato.
“OH GUARDA SIAMO ARRIVATI”, il suo tono di voce è di due ottave più alto
del normale e la frase esce più come una richiesta di soccorso che come una
affermazione neutra, tanto che Leandra sobbalza sul sedile e si volta a
guardare il profilo dell’ospedale.
Una volta parcheggiato, il pandino verde bottiglia emette l’ultimo flebile sibilo
e soffia via l’aria dal radiatore.
Per cavalleria entra prima Leandra, mentre la recluta Francesco Lupini si
ferma nel parcheggio per fare una telefonata, ora che il telefono torna a
vivere.
“Mamma”
“Hey! Eccoti finalmente, ma che fine hai fatto?”
“Eh, storia lunga, sono qui in Molise”
“Ancora?”
“Già.”
“Ma stai bene? Ti fanno mangiare?”
“Sì mamma sto bene e sto mangiando di tutto”
“E questo è l’importante. Dove sei?”
“Ora sono in ospedal..”
Non riesce a finire la frase
“ODDIOMADONNAMIAMADREDELCIELOAIUTAMITU!!!! Dove seiiii????
Oddioooooooo….. Mi sento male, oddio mi sento male…portatemi i sali…”
“Mamma… mamma… fermati!!! Sto bene, sto bene”
“Ah sì? E allora che ci fai allora in ospedale?”
“È che ieri sono svenut..”
“OOOOOOODDDDDIOOOOOMIOOOOOSANTISSIMOINCORONATOOOO
O… Aspettami, dimmi dove sei che ti vengo a prendere subito!!!!!”
“MAMMA!!! SMETTILA! Sto bene, ho avuto un mancamento per il troppo
caldo ma sto benissimo. E poi sarà stato l’alcool…”
“MA TU SEI TUTTO SCCEEEMO! ECCOLA LÀ, HO FATTO IL FIGLIO
CRETINO!!! PURE ALCOLIZZATO!”
“Ma che dici! Era una birra piccola e poi il casino c’è stato dopo con la rissa”
“AHHHH…”
Click.
Quando la madre parte con le sue ansie, nulla può fermarla.
Certo, raccontata così la giornata di ieri sembrava molto movimentata e in
parte lo era stata, senza contare che aveva sorvolato su Leandra e sul fatto
che avesse dormito in camera con lei.
Chissà come l’avrebbe presa la mamma.
“Tutto ok?” chiede Leandra avvicinandosi lentamente.
“Sì, sì. Era mia madre. Si preoccupa per me”
“Mi sembra il minimo, è quello che farebbe ogni madre” e nel dirlo il cielo nei
suoi occhi si fa più scuro.
"Già. Ma tu hai già fatto? Come stai? Che dice il Dottore?”
“Niente di che, è un graffio, te l'avevo detto. Sto bene, giusto un po’ di riposo.
Ti sta aspettando, ora tocca a te.”
“Spogliati”
“Ma veramente ho solo un po’ di mal di testa”
“Sì ma tutto passa per la prostata, devo controllare” dice il Dottor Madonno
mentre si mente un guanto di lattice.
“Sto scherzando! Ahahahah! vedessi che faccia hai fatto. Dai, sdraiati sul
lettino. E tieniti i pantaloni!”
La recluta Francesco Lupini sorride a quello che dovrebbe essere uno
scherzo simpatico e si mette comodo sul lettino.
Lui che fin da piccolo ha sempre fatto tutto quello che gli veniva detto,
quando andava dal dottore ha sempre trovato difficile fare una cosa:
respirare.
Non che andasse in apnea, ma quando il dottore diceva: “Fai un bel respiro.
Un altro. Un altro…” inspirava e espirava così veloce che ogni tanto restava
senza fiato e gli girava la testa.
Quando ha capito, col tempo, che poteva anche respirare più lentamente,
ormai era tardi.
“Dimmi un po’ che è successo”
“Niente di che, sono svenuto”
“Ma allora è un vizio il tuo”
“Credo sia il caldo, mi sono trovato davanti alle scale della chiesa e sono
andato giù”
“Avevi mangiato?”
“Mangiato anche troppo, qui avete una concezione del cibo un po’… diciamo
abbondante”
Il Dottor Madonno ride di gusto e si tocca la pancia gonfia come farebbe
Babbo Natale con le mani sulla cintura.
“Hai perfettamente ragione. Qui siamo rimasti al dopoguerra, quando hai
vissuto la fame non vuoi più farla provare a nessuno. E questo è un paese
per vecchi, lo dovresti aver capito. E sul sonno come sei messo?”
“Male. A parte il primo giorno quando sono arrivato che sono crollato come
una pera cotta, in realtà sto dormendo malissimo.”
Avrebbe voluto spiegare che in realtà l’ultima notte ha dormito male perché il
pavimento non è il miglior materasso del mondo, ma sarebbe stato lungo da
spiegare.
“Se vuoi posso darti un aiutino” e nel dirlo il Dottor Madonno si gira e prende
una boccettina bianca con dentro un liquido gelatinoso trasparente.
“Propofol. Lo uso qui da me per le anestesie, ma se preso in piccole dosi ti fa
dormire come un bambino e non ha postumi. Un po' di acqua, due gocce di
questo e ti svegli e stai una bomba. Certo, se ne prendi troppo ti ammazza,
ma per quello serve un medico, no? Ahahaha!”
Quando si parla con un personaggio come il Dottor Madonno, uno non sa mai
se sta scherzando o se sta facendo sul serio.
Forse il modo più facile per capirlo è essere diretti.
“Ma sei serio o stai scherzando?”
“Ahahahah. Scherzo. Forse. Ahhahah. Comunque pensa che ne faceva uso
anche Matteo, qualche volta me lo chiedeva per dormire. E ogni tanto mi
sparisce pure qualche boccetta dallo studio, secondo me qualcuno qui dello
staff…” e fa il cenno di rubare qualche bottiglietta. “Dai, annusa, senti, sa
come di… fiori” e mette sotto il naso della recluta Francesco Lupini la
boccetta di Propofol.
“E dai!” Scansa la bottiglietta provocando le risa del dottore, anche se l’odore
gli resta per un pò nelle narici.
“Come sei sofisticato! Comunque ti prescrivo un ricostituente, sei un po’
deboluccio. Mangi frutta e verdura a sufficienza?"
“Normalmente sì, ma qui la verdura si fa solo intinta nella sugna di drago”
“Ahahahah… Hai perfettamente ragione. Ma cerca di mangiare un po' meglio,
te lo consiglio e prendi queste in farmacia, ne prendi una pasticca appena
sveglio, prima di colazione mi raccomando”.
La recluta Francesco Lupini mette in tasca la ricetta e ringrazia il Dottore,
uscendo nella calda e assolata giornata che non accenna a smorzare la
temperatura.
Unica nota positiva, Leandra è ancora lì, all’ombra di un enorme pino
secolare che troneggia al centro del giardino antistante l’ingresso.
È sdraiata a terra e guarda il cielo come solo i bambini sanno fare, con quella
attenzione e quella cura di chi ancora crede nei sogni e nella magia.
Quando lo vede, gli fa segno di sdraiarsi accanto a lui sull’erba asciutta.
Non è un grande amante della natura in quanto tale; per carità è un fervente
sostenitore della biodiversità, della cura per il cambiamento climatico e della
protezione delle specie in via di estinzione, ma da lì a saltare nelle
pozzanghere di fango e a rotolarsi tra le balle di fieno c’è un abisso.
Ora però, a contatto con l’erba tagliata da poco, all’ombra di quel pino, vicino
a Leandra, la recluta Francesco Lupini si sente bene.
Si sente veramente bene.
“Guarda, lo vedi il nido di pappagallini?”
“Dove?” chiede lui coprendosi la mano per intercettare i raggi del sole che
filtrano tra i rami.
“Lì, vedi?” E così dicendo si avvicina alla sua spalla, per indicare un punto
imprecisato verso l’alto.
Il suo odore, il profumo dei suoi capelli, il calore del suo corpo a contatto,
anche se attraverso i vestiti, provoca una scossa elettrica che parte
dall’alluce e arriva fino alla fronte.
Altro che ricostituente.
Leandra è il suo booster naturale, la sua dose giornaliera da prendere prima
e dopo i pasti, la panacea di tutti i mali.
“Lo stai vedendo?”
“Sì. Cioè, no, aspetta. Ah sì, eccolo, quello verde. Sì!”
“Bello, vero?”
“Bellissima. No, bellissimo. Sì, bellissimo.”
“Che ti ha detto?”
“Il pappagallo?”
“Scemo, il Dottore”
“Ah, che dovrei mangiare meglio e dormire di più”
“Credo abbia ragione”
“Mi vedi sciupato?”
“Un po’”
E ride.
E il sole si fà più forte quando lei ride.
“Dai, andiamo, si sta facendo tardi e ho un po’ di fame.” propone ad un tratto
Leandra.
“Anche io, ci mangiamo una cosa?”
“Magari. Altrimenti cucino io”
“Sai cucinare?”
“Come ti permetti? Sono molisana, ho la cucina nel DNA!” e lo colpisce su un
braccio con fare fintamente offeso.
“Scusami, non sapevo fosse congenito”
“Certo, sappiamo cucinare, bere e fare l’amore. Questo è il nostro motto”
La recluta Francesco Lupini arrossisce mentre sorride e pensa alle sue
parole, alla sua bocca che le pronuncia, al suono che provoca nelle sue
orecchie.
E non solo nelle sue orecchie.
“Dai, tirati su”
“Emm… senti, prendi le chiavi, io devo… fare una telefonata importante. Mi
aspetti in macchina?”
“Va tutto bene?”
“Certo, vai, non preoccuparti. Arrivo subito.”
Leandra si allontana mentre la recluta Francesco Lupini cerca
disperatamente di pensare a qualcosa di brutto per far passare un evidente
imbarazzo nel basso ventre.
La prof di matematica.
La tabellina del 7.
La morte del suo gatto Fuffy.
Niente da fare.
Serve qualcosa di più drastico per smontare l’impalcatura nei piani bassi.
Chiude gli occhi e pensa alla sua prof di matematica, con la faccia del suo
gatto che canta “7x1=7” e lentamente la situazione torna alla normalità.
Fortunatamente nessuno si è accorto di niente.
Una volta tornato in pieno possesso delle sue facoltà mentali e fisiche, torna
in macchina e mette in moto il pandino verde bottiglia.
“Tutto bene?”
“Sì, grazie, era una telefonata dura… difficile! Una telefonata difficile.”
Lui guarda dritto la strada davanti a sè, sudando.
Lei guarda fuori dal finestrino, sorridendo.
Arrivati sulla Strada Nuova, dopo il cartello di ingresso del paese, l’appuntato
Carmine Marcolfi fa segno di fermare l’auto e di spegnere il motore.
“Va tutto bene?”
“Si, niente di grave, ma dovete fermarvi. Sta passando il corteo”
“Che corteo?”
“Il funerale. Per la signora Palumbo”
“Oddio, è morta la signora Palumbo?” Leandra è molto scossa dalla notizia.
“Era una tua parente?”
“No, ma qui in paese tutti la conoscevano. Era da tanto che non si vedeva,
però”
“Sì” conferma l’appuntato Carmine Marcolfi “si era fatta male all’anca ed era
in cura da Madonno, purtroppo le cose sono andate peggiorando. Sì che era
in là con l’età”
“Quanti anni aveva?” chiede la recluta Francesco Lupini.
“92”
“Giovane” sottolinea in modo sarcastico.
“Eh sì” ribatte in tono sincero l’appuntato Carmine Marcolfi.
“Soffriva tanto, forse meglio così” conclude Leandra e tutti annuiscono a testa
bassa, come si fa generalmente in questi casi.
Se non hai qualcosa di intelligente da dire, annuisci e abbassa la testa, così
diceva sempre sua nonna.
E così fa anche questa volta.
Il suono della banda anticipa l’arrivo del corteo, il tamburo marca il tempo
mentre una singola tromba stona su alcune note alte.
Il carro cammina piano, nero e lucente anche se si vede che ha i suoi anni
anche lui.
Forse vorrebbe andare in pensione, ma chi se lo prende un carro funebre da
rottamare?
Subito dietro, scorrono i 5 elementi della banda che suonano forte come se
fossero in 500 e poi, oltre don Camillo con un chierichetto, ci sono solo due
persone al seguito, una signora vestita di nero che piange disperata e una
donna più giovane che la accompagna.
“Quella è la sorella più piccola, accompagnata dalla badante” dice l’appuntato
Carmine Marcolfi indicando le due donne.
“E non c’è nessun altro?” chiede Leandra dispiaciuta.
“Purtroppo no, sono praticamente o tutti morti o tutti fuori dal paese e non
sono potuti venire. Poveraccia, da sola pure da morta”
Leandra non ci pensa due volte, scende dalla macchina e fa segno alla
recluta Francesco Lupini di seguirla.
“Dove andiamo?”
“Le facciamo compagnia, tanto mi è passata la fame. Dai, andiamo”
A lui non è passata per nulla la fame, anzi, ma come rifiutare una proposta
del genere? E poi detta da lei.
Certo, l’ultimo funerale a cui era andato era quello della nonna, ma poco
importava, anzi forse poteva essere catartico per rivivere quel momento e
finalmente togliersi l’ombra del senso di colpa dalla pelle.
Parcheggiato il pandino verde bottiglia, i due iniziano a seguire il corteo che
procede ad una lentezza disarmante.
Attraversano la piazza centrale, imboccano il vicolo che gira verso destra e si
incamminano lungo la strada che porta al cimitero del paese.
Per arrivare, però, devono affrontare una salita abbastanza ripida che lascia
senza fiato i due ragazzi, la sorella con la badante, i membri della banda che
continuano a suonare e anche il carro che è stanco di questo va e vieni.
Ma, per ogni grande salita, si sa, c’è sempre una grande discesa.
La strada si inclina prepotentemente, scendendo a valle con una pendenza
oltre il limite consentito dalla legge.
Il carro prende velocità, anche la banda suona più velocemente, passando da
una marcia funebre e una marcetta quasi militare e il gruppetto si trova ad
ansimare per mantenere il passo con la defunta in prima linea, fino all’arrivo
nello spiazzo davanti al cimitero.
Le mura del cimitero di Monterotuli sono basse con grosse pietre bianche a
vista e ciuffi di muschio e fiorellini tra le fessure.
Per entrare si passa da un enorme cancello in ferro battuto, con sopra la
scritta “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”, accanto a due enormi
angeli intagliati nella roccia, con i volti corrucciati e erosi dal dolore.
Diciamo che non è il monito migliore per un posto del genere.
Don Camillo riprende fiato dopo la corsa, maledicendo mentalmente la strada
in discesa e il carro che ha i freni che non funzionano bene.
Dalla macchina scendono due signori, che quanto a età non hanno nulla da
invidiare a chi c’è dall’altra parte del cancello; i due si caricano sulle spalle la
piccola bara di legno e la portano dentro.
“Andiamo” dice decisa Leandra
“Dove?”
“Dentro”
“Ma no, dai, mi sembra indelicato”
“Indelicato è lasciare sola una donna che per tutta la vita ha sofferto. Sei un
insensibile” e entra senza voltarsi indietro.
“No, Leandra, aspetta…”
E così dicendo si ritrovano a camminare vicini verso il loculo, per l’estremo
saluto della signora Palumbo.
Don Camillo legge alcune pagine del Vangelo, senza troppo entusiasmo e poi
chiede:
“Qualcuno dei presenti vuole dire qualcosa?”
La sorella piange disperata e fa cenno di no con le dita.
La badante conosce a malapena l’italiano e in realtà sta ascoltando una
puntata del suo podcast preferito con una cuffietta nell’orecchio.
Don Camillo indica Leandra.
Leandra indica la recluta Francesco Lupini.
La recluta Francesco Lupini non sa più chi indicare.
“Prego” lo invita Don Camillo.
“Ma veramente…”
Leandra lo spinge, nascondendo un sorriso sotto un falso pianto commosso.
Questa me la paghi, sussurra mentre prende posto davanti al feretro.
“Ecco. Tutti noi… amavamo… lei.”
E il piccolo gruppo annuisce.
“E siamo grati per quello che è successo”
“In che senso?” chiede Don Camillo.
“... nel senso… Cioè, che abbia smesso di soffrire”
Il piccolo gruppo annuisce ancora.
“Quando amiamo qualcuno, vorremmo che non le succedesse mai nulla di
male e soffriamo per la sua sofferenza, come se per osmosi fossimo in
contatto diretto con la sua mente.” prende un tempo, guarda Leandra che lo
guarda a sua volta, poi continua.
“Quando amiamo qualcuno, ci perdiamo nei suoi ricordi, vaghiamo senza
meta finché non sentiamo il suono della sua voce, l’odore della sua pelle, il
calore del suo corpo. Ed è una fortuna poter stare accanto a chi si ama,
perché vuol dire aver trovato l’altra parte di noi. Platone diceva che un tempo
gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la
distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li
spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria
metà, trovando la quale torna all’antica perfezione.”
Leandra sorride arrossendo, mentre Don Camillo, la sorella Palumbo e la
badante lo guardano senza capire il senso delle sue parole.
“Questo per dire… per dire… che la signora era amata e che siamo stati
fortunati nel conoscerla, perché abbiamo trovato l’altra metà di noi stessi
grazie a lei. Amen.”
“Sia lode a Dio”
“Lode a Dio”
“Amen”
“Amen”.
Il sole del mattino passa attraverso le persiane lasciate aperte dalla sera
prima e colpisce in pieno volto la recluta Francesco Lupini che, lamentandosi,
si gira dall’altra parte, cercando di riprendere il sogno da dove lo ha lasciato.
Sta sognando di essere su una baita di montagna, con il caminetto acceso e
un bel tappeto di pelo bianco a terra.
Lui è su una poltrona, sta leggendo un libro, quando la porta si apre ed entra
Leandra.
Bellissima.
Lei si avvicina, lui si alza, si stanno per baciare ma lei si trasforma in un
serpente che tenta di morderlo sul collo.
Si sveglia di soprassalto.
Diciamo che il suo subconscio non ha bisogno di troppe interpretazioni.
Si guarda allo specchio e vede un uomo sbattuto, con le occhiaie marcate e
qualche capello bianco di troppo.
Si dà una sciacquata al viso, si lava i denti anche se non mangia da ieri a
pranzo e manda giù una pasticca di ricostituente.
Dovrebbe andare dal Dottor Madonno stamattina per parlare del foglietto, ma
ha veramente senso?
Forse ha ragione lui, sempre se è lui che ha scritto la minaccia, ormai non è
più sicuro di nulla.
Forse deve andare via e lasciare stare i morti del lago.
Prende la valigia dal piccolo armadio, mette dentro le magliette che ha usato,
lo spazzolino e il dentifricio, la cartellina con i documenti e si veste per uscire.
Lascia le chiavi della stanza sul tavolino nella piccola reception all’ingresso, il
conto lo manderanno direttamente in commissariato a Roma, e si incammina
per il vicolo in direzione del pandino verde bottiglia.
Ormai è deciso, addio Molise, addio Monterotuli, addio cibo paradisiaco,
addio Leandra…
Quest’ultimo addio fa più male degli altri, ma è necessario per continuare a
vivere.
Mentre cerca le chiavi della macchina sente un rumore provenire da un
cespuglio dietro di lui.
“Shhhhh….”
Si gira ma non vede nulla, se non il gatto a rosso strisce nere che tiene tra le
zampe una lucertola che prova a dimenarsi, senza troppo successo.
“Heyyyyy”
Ma che cazz…
“Chi è?”
“Song io”
Guarda a destra e a sinistra, ma niente.
Forse se lo sta immaginando, è solo la sua mente che cerca di scappare dal
corpo.
“Qui, nel cespuglio, sbrigatevi!”
Eh no, quale immaginazione: quel cespuglio parla e lo sta chiamando.
“Ma chi c’è?”
“Sono io, Maria, venite presto!”
Maria Cioccolato è nascosta dietro il cespuglio e fa cenno alla recluta
Francesco Lupini di avvicinarsi.
“Venite qui, prima che ci scoprano”
“Ma… Maria. Non mi sembra il caso. Io sono… diciamo… impegnato”
“In che sen… Ma che vi frulla ‘n capa? Potrei essere vostra madre! Venite qui
e sbrigatevi, prima che ci vire quacceduno”
La recluta Francesco Lupini entra nel cespuglio e prova ad evitare i rametti
più appuntiti che cercano di conficcarsi nella retina e nelle parti sensibili e
scoperte del suo corpo.
Ad aspettarlo c’è Maria Cioccolato, quella più piccolina delle tre Marie, con i
suoi capelli nero pece e la sua minuscola borsetta in mano.
“Che ci facciamo qui?”
“Devo dirvi una cosa, ma non voglio che le altre mi sentano”
“Dite”
“Ecco, voi state ancora lavorando sul caso del morto, giusto?”
“Beh, tecnicamente…”
“Bene. Ascoltatemi. Voi lo sapete che Leandra era incinta, giusto?”
“Sì, l’ho saputo”
“E sapete pure di chi era?”
“In che senso? Era di Matteo, no?”
Maria Cioccolato lo guarda in un misto di compassione e dolcezza.
Gli fa una carezza sul viso come farebbe una mamma col figlio scemo.
“Voi tenite gli occhi buoni, ma non capite nu cazzo, ve’?”
La recluta Francesco Lupini si stringe nelle spalle cercando di capire se
quello è un complimento o un'offesa.
“Leandra aspettava sì un figlio, ma non da Matteo”
“Come no? E chi era il padre?”
“Qui sta il bello. Non si sa.”
“Se non si sa, allora perché non doveva essere di Matteo?”
“Perché Matteo non…” e Maria Cioccolato fa il cenno con la mano.
“Maria!!!”
“Shhh…steteve zitte. Non mi fate dire cose volgari”
“Non lo dite, ma lo fate con i gesti”
“Sentite, ho poco tempo, le altre mi stanno aspettando. Volete sapere o no?”
“Sì”
“Eh. E allora steteve zitt e ascultate. Bene, tutti i giorni la famiglia di Matteo
andava in chiesa a pregare San Michele e la Madonna per fargli la grazia di
avere un nipote. Matteo però diciamo che non poteva avere figli… non so se
avete capito…”
“Sì, sì, ho capito, andiamo avanti”
“Quando Matteo ha scoperto della gravidanza, all’inizio si è incazzato…
pardon, se l’è presa. Poi però ha pensato di fare buon viso a cattivo gioco e
ha detto a tutti del lieto evento. I genitori hanno ringraziato San Michele e
hanno organizzato in fretta e furia le nozze, per non far vedere troppo la
pancia della sposa. Il problema, però, è che a Matteo non andava sempre
bene. Ogni tanto beveva e quando lo faceva gli saliva la carogna e…”
“Questa parte la so, picchiava Leandra”
“Già” annuisce Maria Cioccolato abbassando la testa, anche lei con i sensi di
colpa per aver visto e non aver fatto nulla.
“Ma qualcuno saprà di chi era questo bambino”
“Girano tante voci, alcune assurde, altre verosimili. Ma ora nun pozzo parlà.”
“Mariaaaa” la voce perentoria di Maria Pistacchio risuona per tutto il vicolo,
attraversando strade e scalinate, arrivando fino al nascondiglio dentro il
cespuglio.
“Devo andare. Chiedete a Madonno. Lui sa. Steteve accort!’’ e mentre lo
saluta esce in strada e si sistema la maglia, togliendosi delle foglioline dalla
spalla.
Appena in tempo per intercettare l’arrivo delle altre due.
“Ma dov’eri?” chiede Maria Crema.
“Mi erano cascati gli spicci dalla borsa, li stavo raccogliendo”
“Andiamo che oggi tocca a me pagare” dice Maria Pistacchio
“Non ci pensate” ribatte Maria Crema.
Maria Cioccolato si gira per l’ultima volta verso il cespuglio dove la recluta
Francesco Lupini è ancora rannicchiato cercando di dare un senso a tutte le
informazioni che gli sono arrivate addosso nelle ultime ore.
A fatica esce dal cespuglio, restando impigliato in un ramo adunco che gli
strappa un pezzo di maglietta.
Impreca mentre controlla lo strappo.
Era la sua maglietta preferita.
Alzando lo sguardo, incrocia quello del ragazzo a cui non ha dato il
passaggio il primo giorno, che lo scruta e lo giudica, poi alza di nuovo il dito
medio e si allontana.
Gran bella giornata e sono solo le 9.00 del mattino
.
Ok, troppe informazioni tutte insieme.
Troppi incastri, troppi indizi, troppi nomi da ricordare.
Allora direi che è giunto il momento, quello che la recluta Francesco Lupini ha
sempre odiato di ogni giallo che si rispetti ma che evidentemente gli serve per
fare chiarezza nel suo cervello.
Signore e signori è arrivato:
NB: Per quei pochi che non lo sapessero, lo spiegone è il ricapitolo di quanto
scoperto fino a questo momento e che aiuta chi sta conducendo le indagini,
in questo caso la recluta Francesco Lupini, a fare chiarezza su tutti gli indizi
appresi fin ora.
Dovrebbe essere tutto, ma anche con lo spiegone, non riesce a venire a capo
di nulla.
Eppure nei film funziona. Accidenti.
Deve parlare con Madonno.
Tanto l’ospedale si trova sulla strada per tornare a Roma, così almeno si sarà
tolto un sassolino dalla scarpa prima di riprendere la routine di casa.
Vuole capire il perché della lettera e di tutte queste bugie, ma soprattutto è
curioso di sapere di chi era il figlio di Leandra.
Sale sul pandino verde bottiglia e si incammina per i vicoli di Monterotuli ma,
vuoi la distrazione, vuoi la velocità sostenuta, vuoi la sicurezza di passarci
anche quando palesemente non ci si passa, il botto è inevitabile.
Prima uno, poi l’altro specchietto saltano a contatto stretto con le pareti delle
case che costeggiano la strada.
Decisamente una gran bella giornata.
Era riuscito a salvarli in questi giorni, li ha sempre chiusi e ora che sta per
tornare a casa…
Forse i suoi punti karma sono finiti.
Niente panico: al primo meccanico proverà a trovare un’alternativa.
Adesso è il momento di ripartire, non userà gli specchietti laterali ma almeno
la macchina ancora va.
Scende lungo la strada nuova, ripercorrendo quei posti che erano sconosciuti
fino a poco fa e che ora sono diventati incredibilmente familiari.
Ripensa al bar, a Irene, alle tre Marie, a Don Carlo, alla signora Cecilia.
Ripensa a Leandra, anche se non vuole ripensarci.
La piazzetta, la chiesa, il pallone incastrato, l’Inno d’Italia come campanello.
Sorride, anche se l’amaro finale che lascia non è quello di una buona bevuta.
Lascia questa terra sconosciuta che ora sembra così tanto simile a lui e che
lo ha accolto a braccia aperte, tornando in una città che non lo conosce e non
ha nessuna intenzione di ascoltare la sua storia.
Senza neanche accorgersene è arrivato all’ospedale, ha guidato con il pilota
automatico, come quando conosci la strada talmente bene da poterti perdere
nei tuoi pensieri.
Parcheggia il pandino verde bottiglia davanti all’ingresso dell’ospedale e
scende sul selciato, quando vede in lontananza il Dottor Madonno che sta
parlando con qualcuno.
Da così lontano non riesce a vedere bene chi sia, vede solo dei lunghi capelli
legati in una coda alta.
Leandra.
Si ferma e si accuccia dietro un grosso pino al centro dello spiazzo, sperando
di non essere stato visto..
Leandra saluta, sale in macchina e se ne va.
Il Dottor Madonno aspetta qualche istante, poi si gira in direzione della recluta
Francesco Lupini e dice: “Guarda che ti ho visto, stai giocando a
nascondino?”
“Veramente… Mi erano cascati gli spicci dalla borsa, li stavo raccogliendo”
“Come?”
A Maria Cioccolato era venuta meglio la battuta.
“Niente. Entriamo un attimo? Volevo chiederti una cosa”
Il Dottor Madonno fa strada per entrare nel suo ufficio, raccoglie da terra una
cartellina medica che caduta e si siede dietro la sua scrivania.
La recluta Francesco Lupini prende posto davanti a lui.
“Qual buon vento ti porta qui? Sei svenuto di nuovo?”
“No. Cioè sì, ma niente di grave. Ecco, io. Stavo partendo”
“Te ne vai?” era sinceramente dispiaciuto, o almeno così sembrava.
“Sì. Ma prima ho bisogno di una informazione. Che ci faceva Leandra qui?”
“Lei? Passa spesso a salutarmi e soprattutto le do le medicine per il fratello.
Era questo che volevi sapere?”
“No. Volevo sapere di questo”
Prende il foglio dalla tasca e lo mette sulla scrivania.
“Hai scritto tu questo?”
“Sì.”
Cazzo. Non era preparato ad una risposta del genere.
Cioè, sapeva che era lui l’autore, ma non pensava avrebbe confessato così
facilmente.
E ora non sa come andare avanti.
“Ora vorrai sapere perché…”
Ecco. Bravo.
“Sì, esattamente questo. Vorrei sapere perché?"
Il Dottor Madonno si alza e guarda fuori dalla finestra.
Dalla distanza il rumore delle sirene delle ambulanze si mischiano in un solo
canto che ipnotizza chi lo ascolta, forse per questo si chiamano sirene.
“Nella mia carriera ho aiutato tante persone. Alcune in maniera ordinaria,
altre in maniera non convenzionale”.
“In che senso?”.
Il Dottore prende fiato, forse è la prima volta che confessa una cosa del
genere, i pensieri si accavallano e si rincorrono, in un filo sottile tra ciò che è
giusto e ciò che non lo è.
“Qui da me vengono molte persone anziane, persone che hanno vissuto una
vita intensa, fatta di ricordi, di gioie e di dolore. Persone che hanno visto
morire i propri cari, che hanno visto nascere figli e nipoti. Uomini e donne che
hanno lasciato su questa terra un pezzo di vita e che ora vogliono solo
riposare. Ma la società, la famiglia, quelli che dicono di volerci bene, in realtà
si accaniscono contro il nostro dolore, senza ascoltare chi realmente sta
soffrendo. Molte volte chi viene qui vuole semplicemente dormire senza
svegliarsi più. E diciamo che io alcune volte do loro la possibilità di mettere
fine alla sofferenza”
Oh.
Mio.
Dio.
Il Dottor Madonno sta confessando di aver ucciso delle persone?
“Mi stai dicendo che hai ucciso delle persone?”
“Non è tecnicamente così. L’eutanasia purtroppo non è ancora consentita da
noi, non c’è una legge seria sul fine vita e le persone si trovano a pregare Dio
di portarle via, non di farle restare. La prima signora aveva 92 anni e
combatteva contro un cancro da quasi dieci. Era distrutta, voleva solo porre
fine a questa agonia e soprattutto alleggerire anche quelli intorno a lei che si
stavano rovinando la vita ma che si accanivano per tenerla ancora un pò con
loro, in un disperato urlo egoistico. Un giorno lei mi ha chiesto di aiutarla. Mi
ha sussurrato piangendo che non voleva più continuare questa tortura.
Quella notte non dormii, e neanche le notti successive, pensando a cosa
stavo per fare.
Poi però, quando le ho dato una dose più alta di sonnifero, ho visto nel suo
sguardo la felicità, mi ha sussurrato: <grazie>. Poi ha chiuso gli occhi ed è
andata. Finalmente felice.”
La recluta Francesco Lupini è totalmente spiazzato da questa confessione.
Non riesce a muoversi, ha paura di rompere un equilibrio talmente fragile da
poter frantumare la stanza in mille pezzi.
Il Dottor Madonno fa fatica a respirare, deglutisce mandando giù saliva e
rimpianti, come se la storia del ringraziamento fosse più per se stesso che
per gli altri.
“Tutto questo cosa c’entra con il messaggio di minaccia?”
“Non era una minaccia, diciamo che era un avvertimento.”
“Ok, cosa c’entra con l’avvertimento?”
Da fuori il rumore delle auto e delle sirene continua incessante.
“Hai saputo del bambino, giusto?”
“Il figlio di Leandra?”
Quanta sofferenza in un solo uomo, come un moderno Atlante che deve
sorreggere il mondo senza poter mai guardare l’orizzonte. Tutta la vita scorre
davanti agli occhi del Dottor Madonno, una vita fatta di sacrifici, di amore, di
morte e di dolore. Una vita votata per gli altri, ma a lui chi ci pensa?
“Matteo era uno stronzo”
Una confessione? La recluta Francesco Lupini non era preparato.
Cazzo perchè non è mai pronto quando serve?
“Sì” riesce a dire per non fermare il flusso di coscienza.
“Con Leandra si è comportato come un assassino, la colpiva e sapeva dove
farlo”
Istintivamente la recluta Francesco Lupini si tocca il braccio sinistro, come se
un livido di tanti anni prima fosse tornato a far male in questo momento.
“E io ero sempre qui a curare le sue ferite, a convincerla a denunciarlo. Ma lei
non voleva, aveva paura, aveva il terrore di una sua reazione. E io mi sentivo
morire dentro.”
“Eri innamorato di lei?” chiede con un filo di voce.
“Di Leandra? Ma non scherziamo. Potrebbe essere mia figlia” e sorride solo
con la bocca, non con gli occhi che restano tristi e velati.
“Ero disperato nel vederla soffrire e i sensi di colpa di non poterla aiutare mi
stavano devastando. Aspettavo solo il momento di vederla sdraiata su un
tavolo freddo. Sapevo sarebbe successo prima o poi, ma sono troppo pavido
per fare qualcosa.”
“Uccidere Matteo non mi sembra una cosa da pavidi”
Il Dottor Madonno lo guarda cercando di capire bene il significato delle sue
parole, piegando le sopracciglia come a formare un enorme punto
interrogativo sulla sua fronte.
“Ma che stai dicendo? Io non ho ucciso Matteo!”
“Ma… pensavo… cioè credevo mi stessi dicendo”
“Non ho mai detto una cosa del genere né tantomeno l’ho mai fatto.”
Era sincero o almeno così sembrava dal suo volto e dalla sua reazione
sconvolta.
La sirena dell’ambulanza questa volta si ferma proprio davanti la finestra
dell’ufficio del Dottore, entrando prepotente come uno schiaffo in pieno viso.
“Ho semplicemente detto che Matteo era uno stronzo e sono felice, anche se
non dovrei dirlo, che si sia tolto dalla vita di Leandra. Certo, magari poteva
andarsene in un’altra città, ma sicuramente così ha lasciato vivere una donna
e un figlio in pace”.
“In che senso?”
La porta si spalanca, l’infermiera entra di corsa.
“Dottore, c’è un’emergenza. Un incidente, un ragazzo sta perdendo molto
sangue, lo abbiamo portato in sala operatoria. Presto!”
Il Dottore scatta in piedi e si dirige a passo svelto verso l’uscita del suo ufficio.
“Mi ricattava. Diceva di volerlo dire a tutti.” Respira a fatica, ma sa di dover
tornare nel suo ruolo professionale, ha una vita da salvare.
Se non la sua, almeno quella del suo paziente.
“Chi ti ricattava? Matteo?”
“No. Aspetta. Finiremo di parlare più tardi, ora devo andare” dice uscendo
velocemente e lasciando la porta aperta.
La recluta Francesco Lupini resta seduto sulla sedia, fissa la scrivania ormai
vuota, ripensando alle parole del Dottore.
Cosa avrà voluto significare?
Ci sta arrivando, lentamente, ma sta ricostruendo il puzzle, tassello per
tassello.
È una storia più ingarbugliata di quello che pensa, decisamente più
complicata di come era partita.
Ma un dettaglio gli continua a tornare in mente, come una mosca che sbatte
sul vetro chiuso di una finestra e non si accorge che a pochi centimetri c’è la
via di uscita.
Rumore di passi dietro le sue spalle.
La porta si chiude con un timido cigolio.
“Hai fatto presto a tornare” dice la recluta Francesco Lupini senza voltarsi.
Il freddo sul collo lo riconosce bene.
È il freddo del ferro.
È il freddo di una canna di pistola puntata su di lui.
CAPITOLO 13
Ore 9.00
Leandra si sveglia tardi, ha preso anche lei un goccio di Propofol, aveva
bisogno di un sonno senza sogni, per cancellare l’amaro della sera prima.
Ha sempre cercato di salvare le apparenze, di vivere come gli altri le avevano
detto di fare, nascondendo sotto il tappeto la polvere che proveniva dalla sua
anima.
Ma ormai quella polvere è diventata talmente tanta da creare dune e
avvallamenti nel terreno e il rischio di cadere è elevato.
Ha bisogno di respirare, ha bisogno di prendere in mano la sua vita, di essere
lei quella che gestisce il suo tempo.
Si guarda allo specchio, lascia cadere l’asciugamano e si controlla il corpo
nudo, si trova gradevole anche se Matteo non perdeva occasione per
sottolineare i suoi errori.
Hai poco seno, il tuo lato b è inutile, hai messo un po’ di pancetta?
Con la punta delle dita sfiora il basso ventre dove la cicatrice della sua
perdita è ancora visibile.
Quanto ha sofferto, quanto dolore ha dovuto sopportare.
Sei donna, devi soffrire. Così diceva sua madre.
Così diceva Matteo.
Anzi, lui non lo diceva, lo faceva direttamente.
Ma adesso basta, non vuole più quella vita, non è più quella Leandra, ora è
una donna libera, è una donna nuova che sa cosa vuole e che vuole
prendersi ciò che le spetta.
E nessuno si metterà tra lei e il suo sogno.
Si veste e esce, deve andare dal Dottor Madonno.
Ore 9.00
Irene sta preparando i vassoi per la colazione, ci sono i cannoli ripieni, i
cornetti e ne ha tenuto uno “vegano” per la recluta Francesco Lupini, se lo è
fatto mandare direttamente dal forno di Isernia per fargli una sorpresa.
Quando vede salire le tre Marie sa che la giornata può finalmente avere
inizio, anche se stamattina sono un pò in ritardo.
Maria Cioccolato si toglie le ultime foglioline dalla giacca, mentre Maria
Pistacchio e Maria Crema continuano a parlare senza sosta.
“Che hai stamane? Si tutta scapigliata” le chiede Maria Crema.
“Ho fatto le ore piccole ammassera” risponde con tono vanitoso.
“Ma smettila” le dice Maria Pistacchio guardandola male.
Quando si siedono, anche Irene si siede con loro, per scambiare due
chiacchiere e fumare una sigaretta.
Le tre fanno colazione, discutono per chi debba pagare e poi si dividono,
ognuna per la propria strada, buttando però l’occhio alle altre fino a quando
non scompaiono dalla visuale.
Irene si guarda nello specchio orizzontale che c’è dietro il bancone,
attraverso le bottiglie di liquore e di whisky e si trova un po ' sbattuta. Poi si
gira e dice al marito di sostituirla, deve andare un attimo a casa, lascia il
grembiule e esce.
Ore 9.00
Il Dottor Madonno è in ospedale, sta mettendo a posto le cartelle cliniche del
giorno precedente, cercando di fare un po’ di ordine nel suo caos mentale e
fisico.
Dovrebbe dimagrire, perdere almeno venti chili, così gli ha detto il
nutrizionista e così ha risposto la sua coscienza.
Sa che non potrà andare avanti troppo a lungo così, per il suo bene e per il
bene di chi ha intorno.
Il cuore è un organo molto delicato e spingere tutto quel peso in giro non è un
compito semplice, ormai anche quando fa qualche gradino deve fermarsi per
riprendere aria.
Eppure ci ha provato a mettersi a dieta, ci ha provato tante volte e ogni volta
ha miseramente fallito, tornando peggio di come era partito.
Forse dovrebbe farsi seguire da qualcuno bravo, forse dovrebbe capire
l’origine di questa sua voglia di mangiare o forse semplicemente dovrebbe
farla finita.
Così come ha aiutato gli altri, forse potrebbe prendere una dose più
sostanziosa, dormire senza svegliarsi e risolvere così tutti i problemi.
Cancellare i sensi di colpa, per quello che ha fatto.
Il rumore della macchina lo distrae dai suoi pensieri e lo riporta alla realtà,
facendogli cadere dalle mani la cartella medica di un paziente.
Fuori nel giardino dell’ospedale c’è Leandra che sta scendendo dalla
macchina.
ore 9.00
Don Carlo sta dando il latte al piccolo Michele, lo tiene in braccio guardandolo
con gli occhi dell’amore, come se il resto intorno non esistesse più.
Sua moglie è in camera, stanotte hanno fatto a turno e lei è rimasta sveglia,
quindi ora prova a dormire per recuperare le forze.
Avere una famiglia è più complesso di quello che credeva prima e soprattutto
un figlio ti porta a credere di non poter avere mai più la vita di un tempo.
Latte, ruttino, ninne.
Finalmente riesce a metterlo nella culletta, dorme tranquillo e beato, non sa
cosa sta succedendo nel mondo e non gli interessa, sa solo che è amato e
questo gli basta.
Dovremmo imparare dai bambini, il concetto stesso di amore.
Don Carlo si guarda allo specchio, si ravviva i capelli e si mette una maglietta
pulita e apre la porta lentamente, per non fare rumore.
Prende le chiavi della jeep nera lucida e esce.
Davanti la porta, saluta con un piccolo gesto una donna che sta passando,
poi si infila in un vicolo stretto e sparisce.
ore 9.00
Il capetto biondo si sta specchiando nella sua stanza, i lividi sono evidenti ma
brucia più la vergogna dei segni sulla pelle.
Deriso e umiliato davanti ai suoi compari da un pivellino di città e soprattutto
incenerito dalle parole di suo padre che lo ha trattato come un bambino.
Questa notte non è riuscito a prendere sonno, aveva bisogno di sfogarsi, di
ubriacarsi per non sentire il dolore nelle ossa e il senso di fallimento per
quella vita che non gli appartiene.
Ha avuto tutto, subito, senza dover neanche chiedere.
Ha preso quello che voleva e se non lo voleva, lo riceveva lo stesso.
E ora che ha tutto, gli manca qualcosa.
Gli manca la fame.
La voglia di migliorare, di crescere, di diventare qualcuno.
Ma come si diventa migliori di Don Fefè?
Come si migliora se stessi se si è cresciuti pensando di essere il migliore?
Ha la testa che gli esplode, vorrebbe solo spaccare i muri per sfogare la sua
frustrazione.
E sa bene quale sia il suo obiettivo.
Prende la giacca, prende lo zainetto e esce.
Deve risolvere una situazione e deve farlo adesso.
CAPITOLO 14
Le foglie sono passate dal verde al rosso e alla fine sono cadute a terra
lentamente. Quando si sta in mezzo alla natura, lo scorrere del tempo è
scandito dalle piante e dalla terra, da come muta e da come accoglie la
nuova stagione.
Sono passati due mesi.
Due mesi da quando Don Carlo e Maria Pistacchio sono stati arrestati, con
l’accusa di omicidio e di concorso in omicidio.
Due mesi da quando la recluta Francesco Lupini si è operato alla gamba per
estrarre il proiettile che, fortunatamente, non ha creato grossi danni e se l’è
cavata con una bella fasciatura stretta e un po’ di riposo.
Due mesi da quando Leandra tutti i giorni è andata a trovarlo per portargli da
mangiare che lo vede deprito.
Quando è uscito dall’ospedale è andato a trovare Irene al bar e lei gli ha
organizzato una bella festa.
C’erano tutti, le due Marie un po’ tristi per l’assenza della loro amica,
l’appuntato Carmine Marcolfi che raccontava delle sue gesta e ogni volta
aumentava il numero di colpi sparati e di malviventi consegnati alla giustizia.
Da quella mattina era già la quarta volta che raccontava cosa era successo.
C’era Madonno che beveva in un angolo, il suo segreto era ancora suo,
anche se la questione non si era conclusa, almeno non per lui. Sapeva che
un giorno avrebbe dovuto affrontare i suoi mostri, per questo continuava a
bere, per non sentire la voce della sua coscienza.
C’era Don Fefè e la sua cricca, insieme al figlio e i suoi compari. Il capetto
biondo era finalmente riuscito a parlare con suo padre e gli aveva detto quello
che provava, senza filtri, della sua voglia di crescere e di uscire dall’ombra
del padre. Don Fefè aveva capito e lo aveva mandato a studiare a
Campobasso, così lui tornava i we per stare in famiglia e si faceva le ossa
lontano da casa.
C’erano tutti.
Quando è andato via, gli hanno riempito il pandino verde bottiglia di ogni cosa
da mangiare e da bere.
“Vieni via con me” dice la recluta Francesco Lupini a Leandra.
“Non posso, questa è casa mia, qui ho tutto, non posso andarmene. E poi c’è
il piccolo Michele. Perché non resti tu?”
Lui ci pensa, la guarda negli occhi e poi guarda le cime delle montagne che
lentamente si coprono di bianco per la neve in arrivo.
“Non posso. Ho degli impegni a Roma, come faccio?”
Le dà un bacio sulla guancia che sa di addio.
Leandra abbassa la testa, la recluta Francesco Lupini anche.
“Un’ultima cosa, Don Carlo non mi ha mai detto cosa è successo tra voi dopo
che Matteo….”
Leandra sospira, il vento spinge da nord e le scompiglia leggermente i capelli,
rendendola incredibilmente ancora più bella.
“Quando Matteo è scomparso io mi sono chiusa in me stessa, non perché
sentissi la sua mancanza, ma perché mi ritenevo responsabile di quanto
accaduto. Il mio senso di colpa mi diceva che era sparito a causa mia. Nello
stesso momento Carlo è partito senza dirmi nulla e quando è tornato era con
un figlio, felice e innamorato. Mi ha chiesto di parlare ma non volevo, l’ho
evitato per tanto tempo, poi è arrivata la notizia di Matteo.”
La recluta Francesco Lupini le sposta una ciocca di capelli dagli occhi, in un
gesto intimo e innocente.
Sale sul pandino verde bottiglia e mette in moto, finalmente ha riparato gli
specchietti ma ugualmente non si guarda indietro, non vuole vederla
piangere.
Non vuole vedersi piangere.
Supera i vicoli, scala la marcia in salita, si sposta agile lambendo le case e
arriva sulla Strada Nuova.
Il telefono prende di nuovo.
Poco, ma prende.
Quel tanto che basta per chiamare casa.
“Pronto?”
“Mamma, sono io”
“Amore di mamma, come stai?”
“Bene, sto tornando a casa”
“Meno male, sono contenta, mi hai fatto tanto preoccupare. Sai che sei uscito
anche sul giornale? L’ho ritagliato e l’ho appeso in camera. Ha chiamato
anche il tuo Commissario, dice che non è riuscito a chiamarti sul telefono e
ha provato qui a casa. Dice di prenderti il tempo che ti serve e poi vi sentite.
Che persona gentile.”
“Eh già.”
“Ma che hai? Stai male? Ti hanno fatto mangiare?”
“Sì mamma, sto bene.”
“Ti sento triste.”
“Ma no, è che… niente.”
“Dai, lo sai che a mamma puoi dire tutto”
“È che… vorrei altri cinque minuti.”
“In che senso cinque minuti?”
Ripensa a Cecilia, all’orologio, ai bivi della vita.
Alle scelte che uno fa, consciamente o inconsciamente ogni giorno, anche
solo cambiando il percorso per andare in ufficio.
Mentre passa sotto al bivio che porta verso l’autostrada, davanti al vecchio
benzinaio chiuso, la recluta Francesco Lupini vede un dito sollevato.
Questa volta è un pollice.
Ci pensa un attimo, rallenta.
Poi si ferma.
“Mamma, senti, non vengo stasera a cena, ho da fare.”
“E quando torni?”
“Non lo so, mi sa che resto ancora un po’ qui, forse altri cinque minuti.”
Mette giù la chiamata, mentre fa inversione a U e si accosta davanti al
ragazzo fermo all’angolo della strada.
“Ti serve un passaggio?”.
Il ragazzo sorride, abbassa il braccio con cui stava facendo l’autostop ed
entra nel pandino verde bottiglia.
“Di chi si fije tu?” chiede la recluta Francesco Lupini in uno stentato dialetto.
Mette in moto e parte.
Direzione Monterotuli.
1451 abitanti.
RINGRAZIAMENTI
Grazie a tutti quelli che hanno creduto nel tempo alla recluta Francesco
Lupini, in primis all’editore Federico Pancaldi senza il quale tutto questo,
come al solito, non sarebbe stato possibile.
Grazie a Giorgia e Selina per la spinta e il coraggio che mi danno per ogni
progetto.
Grazie a Paolo, Enzo, Loredana e il premio Incipit per aver dato corpo a
questa storia.
Grazie a Gianluca per la consulenza poliziesca.
Grazie al Comune di Monteroduni per il sostegno e per il patrocinio gratuito,
nello specifico grazie al sindaco Nicola Altobelli.
Grazie a Ferdinando, Antonio “Pittilicchio”, Carmine, Ettore, Irene, le 3 Marie,
e a tutti quelli da cui ho tratto spunto per i personaggi.