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Giovannino Guareschi

DIARIO CLANDESTINO 1943-1945

Ai miei compagni che non tornarono

Egli pensa che, questa notte, nel Lager nessuno guarderà il cielo del nuovo anno: pensa ai compagni
che non sono tornati, ma che un giorno ritroverà.
Sulle strade ferrate corre silenzioso un treno fantasma. È un treno che ha girato per tutte le strade
ferrate di Germania, di Polonia, di Russia, di Jugoslavia e ha fatto sosta in tutti i campi di
concentramento, ed è un convoglio che non finisce mai perché è il treno che porta le anime dei
morti in prigionia. Ora corre per le strade ferrate d'Italia si ferma soltanto quando c'è da caricare
l'anima di un ex-deportato. E quando fra cinquanta o sessant'anni, avrà caricato le anime di tutti i
reduci, prenderà l'aereo binario che porta dove Dio vuole, e nessuno in terra lo vedrà più.
Egli sa che un giorno il treno fantasma si fermerà alla stazione del suo paese, e anche lui salirà e
ritroverà così i compagni perduti.
E, nell'attesa, si consola di ogni anno che passa.

ISTRUZIONI PER L'USO

Questo "Diario clandestino" è talmente clandestino che non è neppure un diario.


E ciò sia detto a parziale rettifica del titolo e a conforto di chi, leggendo la parola "diario", drizza
sospettoso le orecchie.
Non è un diario, uno dei soliti diari dove si può leggere che il tal giorno il protagonista ha fatto la tal
cosa, il tal giorno ha pensato la talaltra e via discorrendo; uno dei soliti diari nei quali l'autore si
mette al centro dell'universo come se egli ne costituisse il perno.
In verità io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per due anni, annotai diligentissimamente
tutto quello che facevo o non facevo, tutto quello che vedevo e pensavo. Anzi, fui ancora più
accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi portai a casa tre librettini con
dentro tanta di quella roba, da scrivere un volume di duemila pagine.
E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina per scrivere e cominciai a decifrare e
sviluppare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo
giorno.
Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario completo. Allora lo rilessi
attentamente, lo limai, mi sforzai di dargli un ritmo piacevole, indi lo feci ribattere a macchina in
duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia.
Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero
che essa è l'unica cosa di cui non mi sono mai pentito.
E – direte voi – le pagine di questo libro, di dove son saltate fuori?
Accadde dunque che io, come milioni e milioni di altre persone, mi trovai invischiato nell’ultimo
grosso pasticcio che ha rattristato il nostro disgraziatissimo mondo.
Adesso io non ricordo bene come siano andate le cose: chi partecipa a una guerra di solito ha un
sacco di cose da fare nel piccolissimo settore a lui affidato, e non ha quindi la possibilità di
aggiornarsi sull'andamento generale della faccenda. Perciò non sa se sta vincendo o se sta perdendo,
e alla fine, non sa se ha vinto o perso la guerra.
Inoltre il pasticcio risultò così grosso e complicato che oggi, a quasi cinque anni di distanza dalla
fine, la gente sta ancora litigando per mettersi d'accordo su chi ha vinto e chi ha perso, su chi aveva
torto e chi aveva ragione. Su chi erano gli alleati e su chi erano invece i nemici.
Ci furono dei nemici, infatti, che si trovarono improvvisamente alleati, degli alleati che si trovarono
nemici. E, alla parte esterna, si aggiunse la parte politica interna e l'annessa guerra che fece
schierare i padri contro i figli, le mogli contro i mariti, il nord contro il sud, l'est contro l'ovest, tanto
che lo storico obbiettivo che voglia effettivamente fare della storia onesta dovrebbe limitarsi e
scrivere:"In un mondo di pazzi, i più pazzi furono vinti dai più pazzi".
Appunto perché gli uni erano più pazzi degli altri e gli altri erano più pazzi degli uni.
Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, migliori di me e peggiori di me, mi trovai
invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di
italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo–americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e
nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra
in scatola.
Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il
peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza
medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo
cataclisma senza odiare nessuno.
Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso.
Dopo di che uno capisce che uno come io, scritto il diario dovessi bruciarlo, nomi, fatti,
responsabilità, considerazioni carattere storico e politico, tutto è stato bruciato e doveva bruciare
assieme alle cartelle del diario.
Per venire alla mia storia, dirò che io assieme a un sacco d’altri ufficiali come me, mi ritrovai un
giorno del settembre 1943 in Polonia, poi cambiai altri campi, ma dappertutto la faccenda era la
stessa dei campi di prigionia, ed è inutile insistervi perché chi non è stato in prigionia in questa
guerra, ci è stato nell’altra o ci andrà nella prossima. E se non ci è stato o non ci andrà lui, ci saran
stati suo figlio, o ci andranno suo figlio, o suo padre, o suo fratello, o qualche suo amico.
L’unica cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in prigionia conservai la mia
testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: "Non muoio neanche se mi
ammazzano!".
E non morii.
Probabilmente non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.
Rimasi vivo anche nella parte interna e continuai a lavorare. E oltre agli appunti del diario da
sviluppare poi a casa, scrissi un sacco di roba per l’uso immediato.
E così trascorsi buona parte del mio tempo passando da baracca a baracca dove leggevo la roba
appunto di cui questo libriccino vi dà un campionario. La roba che, nelle mie intenzioni d’allora,
doveva essere scritta e servire esclusivamente per il Lager e che io non avrei mai dovuto pubblicare
fuori del Lager.
E invece, trascorsi alcuni anni, fu proprio questa l’unica roba che mi è parsa ancora valida. E,
disperse al vento le ceneri del "Gran Diario", ho scelto nel pacchetto di cartaccia unta e bisunta
qualche foglietto, ed ecco il "Diario clandestino".
Il quale diario, come dicevamo, è tanto clandestino che non è neppure un diario, ma secondo me
potrà servire, sotto certi aspetti, più di un diario vero e proprio a dare un'idea di quei giorni, di quei
pensieri e di quelle sofferenze.
Perché è l'unica roba valida, sicuramente valida che possa oggi essere pubblicata.
È l’unico materiale autorizzato, in quanto io non solo l’ho pensato e l’ho scritto dentro il Lager: ma
l’ho pure letto dentro il lager. L’ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti lo hanno
approvato.
In questo libro l'unica parte arbitraria, l'unica non approvata dall'assemblea dei miei compagni di
Lager è l'appendice, apparsa su un settimanale dopo il nostro ritorno in sede. Il resto è collaudato.
Di fronte ai miei compagni di Lager io rimango sempre il numero 6865, e perciò conto
esclusivamente per uno. Là, in quella sabbia e in quella malinconia, ognuno si spogliò dei suoi
panni e della sua crosta e rimase nudo. E si mostrò quello che veramente era.
E non serviva il fatto che Tizio avesse un gran nome, un grado importante: ognuno contava per
quello che valeva.
Vale a dire contava per una unità. E ognuno era considerato e stimato per quello che faceva.
Eravamo tutti coi piedi saldamente poggiati alla realtà. Per quasi due anni abbiamo vissuto nella
vera democrazia dei galantuomini: oggi molti di questi nostri compagni coprono posti importanti
nella Vita pubblica e privata di questa finta democrazia di finti galantuomini.
E forse, purtroppo, alcuni di essi non saranno più i galantuomini d'allora perché l'uomo è sempre il
prodotto dell'ambiente nel quale vive. Per essi, anzitutto, è questo libercolo. Perché possano
respirare un po' dell'aria di allora.
Non abbiamo vissuto come i bruti.
Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata
nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non
ci hanno sconfitti.
Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire.
Ci stivarono in carri di bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le
cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, decine di
migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato.
Il mondo ci dimenticò.
La Croce Rossa Internazionale non poté interessarsi di noi perché la nostra qualifica di Internati
Militari era nuova e non contemplata.
Dei due generali, parimenti nefasti alla storia dell’Italia, che – schierati in campi avversi – potevano
per noi militari fare o dire qualcosa, l’uno ci era palesemente nemico per ragioni politiche, l’altro ci
ignorava nel modo più assoluto perché distratto dalla politica.
Non pretendevamo aiuti materiali: ci sarebbe bastata una parola. Chi avrebbe potuto dirci questa
parola, o la diceva cattiva o non la diceva.
Avevamo costruito degli apparecchi radio che non esito a chiamare miracolosi e che basterebbero a
dimostrare come sappiano essere d'ingegno formidabile gli italiani quando debbono lottare contro le
avversità. Ascoltammo milioni di parole in ogni lingua: non sentimmo mai una parola per noi nella
nostra lingua.
Le vecchie mummie della politica pettegolavano di politica al sud, mentre al nord i giovani
avvelenati dalla politica si scannavano al piano e al monte.
La Patria si affacciava ogni tanto alla siepe di filo spinato, ed era vestita da generale, ma sempre
veniva a dirci le solite cose: che il dovere e l'onore e la verità e il giusto erano non nella volontaria
prigiona, ma in Italia dove petti di italiani aspettavano le scariche dei nostri fucili.
Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo
la nostra civiltà.
Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l'università, il teatro, i concerti, le mostre d'arte,
lo sport, l'artigianato, le assemblee regionali, i servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca,
il centro radio, il commercio, l'industria.
Ognuno si trovò improvvisamente nudo; tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado,
bene o male guadagnati. E ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua
effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà.
E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo dove ognuno
era stimato per quello che valeva e dove ognuno contava per uno.
Niente mutò nel Lager: sempre la stessa sabbia, sempre le stesse baracche, sempre la stessa miseria.
Ma c'era tutto quello di cui abbisogna un uomo civile per vivere con civiltà in un mondo civile.
Tutto. Anche la canzonetta di moda che sentivate fischiettare e canticchiare dappertutto. C'era una
canzonetta civile, perché, parole e musica, era la fedele espressione del sentimento di tutti. Un
nobile sentimento.
Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica. E se, ancor
oggi, molti dei ritornati guardano ancora sgomenti la vita di tutti i giorni tenendosene al margine, è
perché l’immagine che essi si erano fatti, nel Lager, della Democrazia, risulta spaventosamente
diversa da questa finta democrazia che ha per capitale degli intrighi e che ha filibustieri vecchi e
nuovi al timone delle varie navi corsare.
Sono i delusi: forse i più onesti di tutti noi volontari del Lager.
Ai delusi e a coloro che si sono consolati sono rivolte queste pagine. È la voce del numero 6865 che
parla. È la stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora.
Non ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire sul nostro
lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di Lager. Da quelli vivi e da quelli
morti.
Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia.
Agli altri, a coloro che non hanno vissuto la nostra umile avventura, non so che effetto faranno
queste paginette. Forse li annoieranno.
D'altra parte anche io mi sono annoiato tante volte laggiù.
Magari li potrà interessare il volumetto in sé: vale a dire la prigionìa vista da un umorista.
Comunque il libro è qui. Se la vedano i miei ventitré lettori. Se non va bene, vuol dire che la
prossima prigionia farò meglio.

L'AUTORE
dicembre 1949

1943
LETTERE AL POSTERO

Postero mio diletto,


dopo una tremenda esperienza come l’attuale, l’umanità è ben decisa a non lasciarsi trascinare in
avventure belliche, e questa – come tutti sanno benissimo – sarà l’ultimissima guerra che affliggerà
l’orbe terracqueo.
Per la qual cosa anche tu, postero mio diletto, un bel giorno troverai nella casella della posta una
cartolina che ti inviterà a presentarti immediatamente a una determinata caserma, dove ti forniranno
di utensili atti a danneggiare il prossimo tuo come te stesso. E, in seguito, per un determinato
susseguirsi di vicende, forse ti troverai – come ora si trova il tuo sciagurato padre – in un campo di
concentramento.
Io non sono in grado di precisare se l’uomo che ti farà la guardia dall’alto d’una torretta sarà
inglese, o russo, o francese, o tedesco, o italiano.
Posso però assicurarti che, a qualunque nazionalità appartenga, costui si darà da fare con ogni cura
per collocarti una pallottola fra le scapole se tenterai di uscire dal recinto. E questo ti deve bastare.
E per questo io ritengo utile cosa spiegarti, sulla base delle mie esperienze, come si possa andare a
finire in un campo circondato da un filo spinato.

***

Una mattina d'autunno, vestito della mia bella divisa di tenente d'artiglieria, mi trovavo «nei ranghi»
in mezzo all'ampio cortile d'una caserma, quando risuonò lo squillo dell'attenti e accadde qualcosa
di straordinario, di meraviglioso.
I miei tacchi cozzarono l'un contro l'altro e diedero uno schiocco formidabile.
Per apprezzare l'avvenimento secondo la sua esatta portata, occorre fare un passo indietro e riandare
alla lunga e dolorosa storia della mia cosiddetta «scarsa attitudine militare».
In una giornata squallidissima di novembre, io arrivai nella città più nebbiosa d'Italia e riuscii a
rintracciare, non senza difficoltà, la caserma di cui parlava la cartolina precetto.
«Da domani tu prendi il comando della costituenda sesta batteria contraerea», mi disse uno che
pareva avere molta autorità. E poiché io gli facevo notare che mai in vita mia, e neppure in sogno,
avevo avuto la ventura di conoscere pezzi contraerei, data la mia specialità di artigliere «pesante
campale»:
«Ciò non ha importanza» mi rispose il personaggio, mentre a un suo cenno un sottufficiale mi
metteva tra le braccia un enorme fascio di moduli e registri.
«Piuttosto» continuò il personaggio consegnandomi personalmente e solennemente un pennino
«tieni presente che questa è la tua spettanza mensile. Vedi dunque di non infastidirmi l'anima con
inutili richieste di supplementi».
Aprendomi la porta per farmi uscire, il personaggio mi consigliò amichevolmente d'impiantare
subito il giornale di contabilità e il ruolino tascabile.
«Sono la base di tutta la faccenda» mi spiegò.
Lo ringraziai del consiglio e chiesi dove avrei potuto sistemarmi coi miei scartafacci, ma quegli si
mise a ridere.
«In fureria, perbacco! Ogni reparto deve possedere la sua fureria.»
«E di grazia, dov'è la mia fureria?».
«Uh, questi ufficiali di complemento!» gridò infastidito il personaggio. «Sono domande da farsi?
Gira, domanda, e troverai bene, in caserma, un locale da adibire a fureria!».
«Ma io...», balbettai.
«Arrangiati!» urlò quegli sbattendomi la porta in faccia.
«Crikk» fece il pennino che, intanto, era caduto per terra e che io avevo schiacciato col piede.
«Addio, spettanza mensile!» lo salutai malinconicamente.
***

Girai a lungo per tutta la caserma sempre col mio fascio di carta tra le braccia, ma tutti si
stringevano nelle spalle quando chiedevo se qualcuno conoscesse l'esistenza di un locale vuoto da
adibire a fureria. Offersi inutilmente venti lire al piantone del «Magazzino V.E.» che — mi si disse
— era un'autorità in caserma. Invano spiegai al maresciallo del «Minuto Mantenimento» che il
momento era grave, che la nazione avrebbe tratto notevoli vantaggi dalla costituzione di una nuova
batteria contraerea, ma che — per costituire la batteria in questione — era necessario un locale da
adibire a fureria.
Rispose che al massimo — tanto per dimostrare la sua simpatia verso la nazione — era disposto a
farmelo intonacare e imbiancare, il locale: però il locale lo dovevo trovare io.
A forza di girare trovai invece un bravo giovane il quale mi disse che — secondo lui — apparteneva
alla mia costituenda batteria e si offrì gentilmente di farmi da furiere. Lo presi in forza subito e così
gli passai il fascio di cartaccia e continuammo assieme le ricerche. ma dopo un certo tempo —
constatando che non potevo pretendere di impiantare una fureria peripatetica — presi una decisione
importante e, seguito dal mio furiere viaggiante, uscii dalla caserma.
«Questa è la nostra fureria» spiegai, arrivati che fummo alla stanza da letto che avevo affittato la
mattina stessa. «Io andrò a dormire all'albergo. Tu prenditi un piantone che vada a chiamarti, di
volta in volta, gli uomini che ti servono per assumere le tue informazioni e lavora tranquillo.»
Gli firmai all'uopo una settantina di permessi in bianco.
Eccettuato il fatto che, a cagione del continuo andirivieni di militari di truppa, la gente trasse delle
arbitrarie conclusioni e, di conseguenza, la casa della mia affittacamere risultò completamente
screditata, si può dire che la faccenda funzionò egregiamente per tutto il tempo che dovettero durare
le mie ricerche in caserma. Ma la cosa venne qualificata «poco militare» e si cominciò a guardarmi
con diffidenza.
Accaddero altri piccoli episodi che aumentarono gradatamente questa diffidenza finché si giunse al
famoso « fattaccio del cappuccino ».
Una mattina i miei sessanta uomini mi comunicarono dolenti di essere rimasti tutti senza caffè a
causa di una certa confusione in cucina, e io non trovai dì meglio che inquadrarli, accompagnarli
fuori della caserma e offrir loro (di tasca mia) un caffelatte bollente, scaglionando quindici uomini
in ciascuno dei quattro caffè più vicini.
Questo fatto venne giudicato con tanto sfavore che nacque e si diffuse la leggenda della mia «scarsa
attitudine militare». Leggenda che mi danneggiò non poco in quanto essa spinse l'autorità
competente a togliermi, poco dopo, il comando della ormai costituita batteria contraerea.
Cosicché mentre io — se fossi stato inviato in zona d'impiego — avrei avuto senz'altro l'occasione
di vedere un pezzo contraereo, essendo invece rimasto al Deposito non potei mai avere questa
soddisfazione. Cosa di cui, nella mia qualità di artigliere contraereo, ancora mi dolgo amaramente.
Ma ciò che, allora, mi rattristò maggiormente la vita fu la faccenda dello schiocco.

***

I colonnelli sognano?
Sì: i colonnelli sognano come i comuni mortali di complemento. E sognano tutto quanto può
sognare un comune mortale di complemento.
Non esiste nel regolamento restrizione alcuna al riguardo dei sogni, e non è raro perciò il caso di
colonnelli in Servizio Permanente Effettivo i quali sognano addirittura angeli. Angeli dai capelli
d’oro e dalle ali azzurre, angeli che scendono dal cielo planando dolcemente come gli angeli sognati
dai poeti e dai fanciulli, ma che, atterrando davanti ai colonnelli, si mettono sull’attenti con uno
schiocco di tacchi secco e preciso. Takk!
Se esistono, nel nostro o nell’altro mondo, creature mortali o immortali che (per ragioni tecniche e
artistiche) debbono camminare scalze, queste sono proprio gli angeli. Ma è tale e tanto, nei
colonnelli, l’amore per lo schiocco, che gli angeli stessi (quando intervengono nei sogni di qualche
colonnello) non trascurano mai d’infilarsi un buon paio di stivali corredati – nel caso specifico di
angeli di cavalleria e d’artiglieria – di robusti e tintinnanti speroni. E si presentano sempre così, con
un formidabile schiocco di tacchi.
Orbene, postero mio diletto, sapendo quale importanza i colonnelli annettano allo schiocco, tuo
padre, anima gentile, trovandosi in quotidiano contatto con un vecchio colonnello, poteva trascurare
il particolare dello schiocco?
E lo schiocco fu appunto la mia maggiore preoccupazione d’allora, tanto più in quanto ben sapevo
che, solamente con una adeguata serie di buoni schiocchi, avrei potuto sfatare la leggenda della mia
«scarsa attitudine militare».
Ma il destino mi fu sempre avverso.
Cambiai tre paia di stivaloni e sei paia di speroni: feci blindare i tacchi, richiesi il parere autorevole
d’un pedicure e di un maniscalco, presi ripetizioni private da un ex maresciallo di cavalleria, studiai
lungamente davanti allo specchio, feci un calco in gesso dei miei piedi per meglio comprenderne
l’impostazione, mi allenai, studiai con amore, ma all’applicazione pratica, era come se i miei tacchi
fossero di gelatina di pollo e i miei speroni di burro: Ploff...
E ogni ploff accendeva nel nobile viso del signor colonnello una smorfia di dolore.
La prova più tremenda – e si ripeteva due volte ogni giorno – era quella della mensa. Allora non
soltanto il signor colonnello era spettatore della mia miseria, ma un intero consesso di brillanti
ufficiali.
Entravo nella sala e, appena mi avvistavano, si faceva silenzio di tomba e gli occhi erano tutti sopra
di me, e le orecchie erano tutte tese. Salutavo col braccino graziosamente levato, come era prescritto
allora, e battevo i tacchi con disperata forza.
Come se un pezzo di burro cadesse in un mucchio di farina: Ploff...
Il signor colonnello scuoteva il capo sospirando e tutti riprendevano a mangiare mentre io vedevo
accendersi sopra la testa d’ognuno dei presenti una di quelle nuvolette famose dei giornali per
bambini e, dentro ogni nuvoletta, era scritto a caratteri fiammeggianti: «Scarsa attitudine militare».
Mi misi d’accordo con un sottotenente effettivo abilissimo negli schiocchi, il quale sedeva al posto
più vicino alla porta.
Io sarei entrato e, mentre salutavo, lui avrebbe schioccati di tacchi di sotto il tavolo. Ricorsi cioè al
doppiaggio, ma, dopo due sole prove, abbandonai l’impresa: la prima volta lo schiocco avvenne un
buon minuto dopo del mio scatto; la seconda lo schiocco avvenne mentre io stavo ancora
camminando.
E così continuai i miei ploff, e il signor colonnello ne soffriva come se, ogni volta, gli conficcassi
uno spillone nel cuore.
Ploff! Ploff! Quante volte udii il dannato, vergognoso ploff?
Ma una mattina d’autunno, mentre io ero «nei ranghi» in mezzo al cortile d’una caserma, squillò
l’attenti e – come dicevo al principio della mia storia – accadde qualcosa di meraviglioso.
I miei tacchi cozzarono e si udì uno schiocco formidabile:
Takk!
«Finalmente!», esclamai trionfante.
Poi guardai i mei piedi e tutto fu chiaro, e io mi sentii meno trionfante: non calzavo più i soliti
stivali, ma due zoccoli con suole di legno alte sei centimetri.
Ero prigioniero.

***

Fu così, postero mio, proprio così. E la prossima volta ti racconterò come ci arrivai, nel cortile di
quella grande caserma polacca.
Nel frattempo saluta la mamma, la nonna e la Carlottina, e fa il bravo a scuola, e impara a contare
fino al numero 6865. Che poi sono io,
tuo padre.
(Lettura al giornale parlato «La Campana»
Lager XB – Sandbostel – 1944).

LA MADONNA NERA
20 settembre

Mi pare di camminare per le strade d'una città spopolata dalla peste. La poca gente che si vede in
giro cammina in fretta, come inseguita, e guarda di sfuggita i dieci prigionieri preceduti dal capitano
della Gestapo e seguiti dal sospettoso Dolmetscher. Sguardi fugaci; ma in quegli occhi è un lungo
discorso che l'interprete non può capire ma che gli altri comprendono.
Czestochowa contava, fino al settembre del 1939, centottantamila abitanti: entrate le truppe
tedesche, essi furono ridotti in pochi giorni a centotrentamila. Cinquantamila vennero trasferiti non
si sa in quale località di questo o dell'altro mondo: però sembra che non soltanto gli uomini, ma
anche le case siano state deportate, perché Czestochowa è una città che si sviluppa in ampiezza, con
vialoni e piazze immense. E le rade costruzioni sono tutte tristi: a meno che pure le case, qui, non
abbiano un'anima e non risentano, nell'estetica, della tragedia che opprime da quattro anni questa
gente.
Aria di sospetto, occhi che spiano dietro le gelosie semichiuse, botteghe serrate e — nelle vetrine di
quelle aperte — lo squallido scatolame della miseria che vuole illudersi a ogni costo di non essere
tale: polveri per fare i dolci, polveri per fare gli sciroppi, estratti vegetali, polveri per fare il sapone,
sacchetti d'erba secca. Qualche vasetto di vetro con bastoncelli di liquirizia e pasticche colorate per
dare anche ai bambini l'illusione che la guerra ha risparmiato qualcosa.
«Bar Patria»: una parola italiana sull'insegna d'un piccolo caffè deserto dà un colpo al cuore, come
scoprire d'improvviso, in una folla straniera, un volto consueto.
Il vento corre per le strade e ulula nella mia testa vuota. Mi sembra d'essere il disperato, il quale, un
giorno, indossa l'unico abito elegante che gli è rimasto e va a passeggiare sul Corso tra le belle
donne e i possidenti, e si ferma davanti alle vetrine degli orefici, ed entra nel miglior caffè per
domandare di qualcuno. Sente che quello non è più il suo mondo e che vi cammina abusivamente.
Adesso io l'ho dimenticato, ma so perfettamente che — appena il cancello si sarà richiuso alle mie
spalle — mi ricorderò di aver fame da un mese.

***

Il Santuario è in cima a una collinetta, e appena entrati nel viale che essa sovrasta, il capitano della
Gestapo si ferma e parla con l'interprete, che poi traduce:
«Il signor capitano dice questa collina è alta centotrentasei metri sopra il livello del mare».
È l'unica cosa che ha reputato degna di venir ricordata, essendo l'altitudine un dato positivo,
matematicamente controllabile, a differenza dei dati storici o artistici interessanti un monumento. E
ciò è molto tedesco.
All'ingresso del Santuario subentra una guida che parla in tedesco, e uno dei prigionieri traduce ad
alta voce.
Il Santuario è un blocco d'edifizi disposti in qualche modo attorno a un campanile altissimo. In
origine era un semplice monastero appartenente all'ordine di Sant'Antonio abate, incorporato poi
nell'ordine domenicano. Dopo il 1200, entrato il monastero in possesso della famosa Madonna di
San Luca, e diventato perciò mèta di grandi pellegrinaggi, la chiesuola del convento si ingrandì fino
a diventare Basilica consacrata.
Ogni priore e ogni potente signore polacco aggiunse qualcosa all'edificio, che risultò così una
enciclopedia architettonica. E anche l'aereo campanile di marmo nero che pare costruito da un
architetto che — disegnata la guglia — la cancellava ogni volta esclamando: «Mettiamoci ancora
qualcosa. Tanto ce n'è di spazio prima d'arrivare a toccare i piedi di San Pietro!».
È un sacro baraccone, in complesso, con tutt'attorno la più colossale Via Crucis che si conosca,
costituita da quattordici gruppi statuari con personaggi doppi del naturale, su alti piedestalli a
distanza di cinquanta metri l'uno dall'altro.
E con una tal profusione di marmo e di finto marmo — all'interno della Basilica — che quando si
esce vien fatto di battere col tacco i ciottoli bianchi e neri del sagrato, per sentire se sono di pietra o
di legno dipinto.
In certi punti il Santuario ha della cittadella militare, e in verità gli ottantadue monaci del convento,
con quegli stivaloni neri che si intravedono sotto la tonaca bianca, hanno del soldato travestito.
(Tutti gli uomini di Polonia hanno del soldato travestito).
Effettivamente si tratta d'un Santuario formidabile, perché spezzò la furia degli assalti svedesi,
ussiti, russi e sassoni. Nel 1709 gli svedesi riuscirono a conquistare quell'imprendibile fortezza
difesa da soli 220 fra monaci e signori. Ma erano in 18.000, perché in 12.000 non c'erano riusciti.
La guida segnala in proposito palle di cannone incastrate qua e là nei muri.

***

Dappertutto, sul sagrato, sui gradini, sulle chiavi di volta, sugli ornati delle balaustre, sulle
decorazioni murali, sulle guglie del campanile, si ripete l'emblema della palma coi due leoni
rampanti e il corvo recante un pane nel becco. Riassume la leggenda di Sant'Antonio nel deserto.
Un corvo, ogni mattina, gli portava mezzo pane, e, quando San Paolo — una volta l'anno — lo
andava a trovare il corvo portava un pane intero. Quando Sant'Antonio morì, due leoni gli
scavarono la fossa con gli artigli.
La guida spiega, poi — sottovoce — fa una postilla: «In origine, l'uccello col pane nel becco era
un'aquila. Ma vennero i russi, e tolsero l'aquila e misero un corvo. Poi vennero questi altri, e tolsero
anche il pane».

***

Dal sagrato si vede tutta la città, e boschi immensi, che chiudono l'orizzonte e che erano, un tempo,
proprietà del convento. «In questo grande cortile, durante il pellegrinaggio per la festa della
Madonna Nera, esiste l'attrezzatura per confessare e comunicare cinquantamila persone al giorno.
«Dall'altare lassù, dietro quella vetrata apribile, si celebra la messa all'aperto per le centinaia di
migliaia di fedeli che si assiepano ai piedi della collina. Esiste un perfetto impianto di
altoparlanti...».
La guida continua a spiegare pedante, ricordando coscienziosamente il prezzo dell'impianto, la ditta
che lo fece, e io guardo giù, dove centinaia di migliaia di polacchi si adunavano. Passa soltanto una
donna in stivaloni che cammina in fretta e — fungendo da termine di riferimento — permette di
valutare con crudele esattezza la disperazione di quella solitudine.

***

È l'ora di entrare nella Basilica per la cerimonia quotidiana.


La Madonna Nera di Czestochowa è — dicono — la più antica Madonna del mondo, essendo stata
ritratta sul vero da San Luca, vent'anni dopo la morte di Cristo, utilizzando il legno della stessa
tavola sulla quale Maria si chinò nel pianto quando le fu crocifisso il Figliolo.
Questa tavoletta ha una storia molto interessante perché rimase 320 anni a Gerusalemme, 400 a
Costantinopoli, 400 in Ungheria, e si trova da 770 anni a Czestochowa; fu rapita e sciabolata nel
1430 dagli ussiti boemi (è ferita anche da una fucilata tartara) e venne incoronata nel 1717 da
Clemente X. È custodita in una cappella in cui l'oro, l'argento e le pietre preziose sono in tale
quantità da incutere un senso di sgomento e di preoccupazione. Oltre un certo limite, la ricchezza
cessa di appartenere alla realtà e diventa impensabile e inammissibile. L'immagine sta dentro una
nicchia sopra l'altare, coperta da una targa d'oro massiccio pesante otto quintali che si alza a
saracinesca. Alle 4.45 d'ogni pomeriggio, l'immagine viene mostrata ai fedeli e si svolge una breve
cerimonia religiosa, mentre un organo suona un inno composto da Perosi nel 1909, quando fu ospite
qui, del convento.
(Nomi italiani si incontrano dappertutto: c'è uno scultore Fontana che rimase qui, dal 1690 al 1726,
a lavorare attorno a un altare della Basilica. Un colossale gruppo statuario, monolitico, con nuvole
di tufo fiorentino di dieci tonnellate l'una, che danno un senso d'oppressione, come se dovessero
sciogliersi da un momento all'altro e piovere cemento).

***

Entriamo nella Basilica e ci troviamo in mezzo a una folla di donne e bambini, davanti a un altare
che è tutto un racconto fiabesco di ori e di luci, mentre un organo suona. Dopo un mese di vita in
ambienti dove ogni cosa trasuda sporcizia e disperazione, dove ogni parola è un urlo, ogni comando
è una minaccia, trovarsi d’improvviso in quell’aria serena, in mezzo a quel barbaglio d’oro, a quella
calda onda di musica!...
Mi arresto perplesso sull’entrata, poi riprendo ad avanzare, e mi sembra d’essermi sfilato dal mio
corpo coperto di stracci e d’averlo lasciato lì sulla porta, tanto mi sento leggero.
La targa d'oro della nicchia sopra l'altare si alza lentamente, e appare l'immagine miracolosa che —
così nera in mezzo a quello scintillìo — è ancora più misteriosa e ancora più affascinante.
Si leva un canto dalla folla, e pare la voce stessa della Polonia: un dolore dignitoso di gente usa da
secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre e che non muore mai.
Quando la targa d'oro si riabbassa, suona una fanfara che ha note piene di passione disperata e turba
profondamente.
«La fanfara ha stonato parecchio, oggi, perché mancavano i migliori elementi» spiega la guida.
Ed è così, ed erano soltanto stonature quelle note piene di passione disperata. D'accordo. Ma chi ci
crede? Ogni cosa in Polonia, ogni gesto, ogni accento, parla della passione polacca.
La sera si alza dai boschi azzurri che recingono Czestochowa: dal sagrato del Santuario si vede la
luna pallidissima che si prepara per lo spettacolo notturno. E si vede, a sinistra, la Nordkaserne
immensa, e si vedono le torrette ai limiti estremi del reticolato di cinta.
«Il campanile possiede uno dei più perfetti carillon del mondo» spiega la guida.
«E com'è che non lo si sente mai suonare?».
«Tutte le campane di Polonia tacciono in segno di lutto dal giorno dell'occupazione», spiega
sottovoce la guida. «Riprenderanno a suonare il giorno della liberazione».
I prigionieri scendono verso la città, ed io penso a quelle campane che da quattro anni sono mute.
Sentirò suonare le campane di Polonia?

LA PORTICINA DELLA MORTE


31 ottobre

Molti dei cappotti russi distribuiti ai meno abbienti hanno una piccola toppa sul petto o sulla
schiena. Una piccola toppa rotonda che chiude il buco attraverso il quale entrò una pallottola e uscì
un'anima.
Il mio cappotto ha una piccola toppa proprio in corrispondenza del cuore. Ed è ben cucita, e di
panno spesso, ma — dal forellino che essa copre — entra un sottile soffio d'aria gelida anche
quando non c'è vento e il sole è tiepido.
E il cuore duole, trafitto da quello spillone di ghiaccio.
LETTERE AL POSTERO

Postero mio diletto,


nella mia prima lettera, ti ho spiegato come, una bella mattina, io mi ritrovai nel cortile della
Nordkaserme di Czestochowa. Ti racconterò come ci arrivai.

***

Era dunque la sera dell'8 settembre 1943, quando improvvisamente la radio comunicò che tutto era
finito. Tanto è vero che, la mattina seguente, io mi ritrovai regolarmente in caserma, ma tutelato da
un corpo di guardia affatto diverso da quello solito, sia come divisa, sia come armamento e sia —
disgraziatamente — come nazionalità.
Anche l'estetica generale della caserma era mutata, e ciò grazie a un certo numero di proiettili di
artiglieria acconciamente inseriti nei fastigi architettonici della facciata.
In altre parole: i tedeschi ci avevano catturato.
«E l'epica difesa?» tu mi chiederai.
Ti basti un episodio, postero mio: il più drammatico.
Eravamo assediati oramai, e si attendeva da un istante all'altro l'inizio dell'attacco. Io comandavo
venticinque uomini a difesa della porta carraia.
Ritornò il caporale che avevo mandato al magazzino materiali.
«Quante bombe a mano hai avuto?» domandai.
«Niente!» rispose. «Dice il signor maggiore che se non c'è un buono regolare lui non dà neanche
uno spillo. Non vuole grane».
«Bene» dissi. «Quante munizioni per moschetto abbiamo?».
«Soltanto un caricatore a testa».
«Non importa» gridai. «Economizzate i colpi. Ognuno miri il proprio uomo!».
«E come si fa?» obiettò uno. «Sono tutti nascosti dentro i carri armati...».
«Ognuno miri il proprio carro armato!» urlai.
Questo per la storia. Per la cronaca sarà bene avvertire che tutto era finito, ma nel senso che erano
cominciati i guai nostri.
Cosicché, verso il mezzogiorno, i soldati vennero avviati verso la periferia, e tutti gli ufficiali
furono trasferiti dalla caserma all'Ulcera Gastrica, chiamata anche Mensa di Presidio. E il pensiero
di portarci a colazione era davvero gentile.
Ma, disgraziatamente, prima di noi un grosso Panzer tedesco era passato attraverso la sala del
ristorante, mentre per la cucina erano passati gli uomini al seguito del Panzer stesso. Cosicché
trovammo più conveniente ritirarci a sbadigliare nei locali del Circolo, al piano superiore.
La notte ci arrangiammo come il buon Dio volle. Il signor colonnello si accomodò sul biliardo
assieme all'aiutante maggiore in prima.
Povero signor colonnello: ricordo che russava in do diesis maggiore come la marcia del
Tannhäuser, e questo notturno omaggio al genio musicale del grande ex-alleato era quanto mai
gentile e significativo.
Io dormii sopra il pianoforte, e durante la notte sognai la nostalgica canzone del Camerata Richard.
Il giorno seguente — dopo un animato scambio d'idee con un maggiore delle S.S. — ci trasferimmo
in Cittadella.
«Una Cittadella?», tu mi chiederai. «E cos'è mai?»
Figurati che un architetto di tempi trascorsi abbia disegnato con estrema cura la pianta di un'opera
fortificata da adibire ad alloggio dei soldati e al ricovero dei loro mezzi bellici.
L'architetto si è studiato di far sì che la dislocazione dei servizi sia quanto mai logica e funzionale,
ma, disgraziatamente, terminato il suo lavoro, il valentuomo deve assentarsi, e Flik, il cane
prediletto, azzanna il grande foglio del progetto e lo riduce in minuti pezzetti.
La cameriera, per rimediare al disastro, raccoglie i brandelli di carta e li incolla insieme come capita
capita.
L’architetto arriva, vede lo scempio e dapprima si dispera, poi saggiamente scuote le spalle
esclamando: «Tanto è lo stesso!». E trasmette il progetto così com’è all’autorità militare che lo
approva entusiasticamente e lo passa alle maestranze, le quali – su quelle basi – costruiscono
l’edifizio.
Questa è una Cittadella. E questo ti spiega — per esempio — perché, girando per una Cittadella o
caserma che dir si voglia, ora ti imbatti in una stanza a forma di piramide triangolare con la porta
d'accesso al vertice della piramide stessa; ora in una latrina con la sedietta allogata sul soffitto; ora
in un balcone che si apre su un corridoio; ora in un portone di tre metri che si spalanca sul vuoto
all'altezza del terzo piano; ora nello scolo d'un acquaio che si scarica dentro la cappa di un camino.
Nell'agosto del 1932, nella Cittadella di P., io incontrai un soldato stranamente abbigliato e con una
grande barba bianca.
«Ma tu», gli domandai, «di che classe sei?».
«Del 1879».
«E sei ancora in servizio?».
«Signornò» rispose «mi hanno congedato nel 1904, ma non sono ancora riuscito a trovare
l'uscita...».
Queste, figlio mio, sono le Cittadelle sul tipo di quella di A., e per fortuna, dopo pochi giorni, ci
tolsero di là e ci portarono in un Lager, così la nostra condizione migliorò notevolmente.
Dio ti scampi dalle Cittadelle, postero mio! Le Cittadelle sono – oltre al resto – di una esigenza
straordinaria. Non esiste in esse un pezzettino d’intonaco bianco che non abbia da comunicarti, a
caratteri di scatola, ordini perentori: "Osare!"; "Credere, obbedire, combattere"; "Marciare, non
marcire!"; "Chi si ferma è perduto"; "Rinnovarsi o morire!"...
Sul muro di un caratteristico locale a piccoli scomparti, trovai scritto a caratteri cubitali: "Correre!".
E ciò, pure considerando la fretta imposta dallo stato di emergenza, costituiva una pretesa esagerata.
Nella Cittadella di A. notai parecchie cose interessanti, e tra l’altro vidi per la prima volta in vita
mia un cavallo tedesco.
Era un cavallo pieno di dignità e di marzialità: un cavallo — lo si vedeva benissimo dallo sguardo
fiero e da ogni suo atto — perfettamente compreso della gravità del momento e della missione che
era chiamato a compiere ai fini della ricostruzione di una più grande Europa equina.
Era attaccato con un complesso sistema di cinghie a uno speciale calessino tutto di ferro e ghisa. Un
calessino tanto generosamente fornito di leve, manovelle, ingranaggi, freni a mano e freni a pedale
da far ragionevolmente supporre che possedesse pure una frizione, un acceleratore e un cambio di
velocità.
E il meraviglioso consisteva nel fatto che ognuno dei mille buchi delle cento cinghie era numerato
in modo ben visibile. Il che, aggiunto al resto, induceva a pensare a un vittorioso esperimento di
meccanizzazione del cavallo.
Il sottopancia, in verità, era tanto tirato, che il nostro cavallo — con quel suo vitino di vespa —
somigliava piuttosto a una ballerina dell'Opera di Vienna. In compenso il sottocoda gli penzolava
un buon palmo sul treno posteriore. Ma si vede che il regolamento tedesco aveva stabilito — per
quel determinato tipo di cavallo — che il sottopancia fosse agganciato al buco n. 27 e il sottocoda al
buco n. 12. E il nostro eccellente animale non fastidio rivelava nel suo contegno generale, ma —
caso mai — una certa umiliazione per essere stato costruito dalla madre con misure non conformi al
regolamento tedesco.
Io credo che se il Dio dei cavalli gli avesse detto: «Chiedi e ogni cosa ti sarà concessa!» il nostro
cavallo avrebbe chiesto senza esitazione che la divina bontà gli snellisse il ventre e gli spostasse in
giù di venti centimetri la coda e gli annessi sottostanti.
***

Quanto tempo rimasi nella Cittadella di A.? Non m'interessa. L'importante è che, un giorno, ne uscii
per salire sul treno che doveva portarci al di là delle Alpi. Fu in quell'occasione che vidi per l'ultima
volta la mia vecchia bicicletta.
Ero riuscito a portarla con me dalla caserma all'Ulcera Gastrica e, di lì, alla Cittadella. Ma qui non
vollero caricarla sull'autocarro che doveva condurci alla stazione.
Discutemmo parecchio e, alla fine, fui ridotto al silenzio da una argomentazione precisa:
«Noi abbiamo ordine di internare ufficiali italiani, non biciclette italiane».
La lasciai abbandonata malinconicamente contro un muro, sotto una grande scritta a stampatello:
«Bisogna arrivare nudi alla mèta».
Ho finito, postero mio diletto. Saluta la nonna, la Carlottina e la mamma, e sii sempre buono e
onesto: così anche tu, un giorno, diventerai un numero com'è oggi il 6865, che poi sono io,
tuo padre.
(Lettura al giornale parlato «La Campana»
Lager XB – Sandbostel – 1944).

LILY MARLEN
4 novembre

In una pagina di Wiechert ho incontrato Lily Marlen:


«...Ogni volta che la fila entrava nella luce d'un lampione, sugli elmi e sulle armi risplendevano i
fiori autunnali, d'uno splendore irreale, e aleggiavano sopra la minacciosa oscurità della grigia
colonna, come una benedizione che una mano invisibile avesse sparso per errore...».
Indubbiamente è lo stesso fanale della canzone, e sotto quel fanale Lily Marleen guarda la colonna
passare e cerca di ravvisare, sotto gli elmi tutti uguali, il volto del giovanissimo Franz. E anche nella
pagina di Jedermann si avverte, come soffio di gelo alitante nei vuoti della colonna in marcia verso
l'ultimo disperato sforzo e la sconfitta autunnale, la stessa angoscia che stringe il cuore del soldatino
di Lily:

Quando nel fango — debbo camminar


sotto il mio bottino — mi sento vacillar...

E nel senso delle parole di Wiechert e in quello delle note gravi della canzone, trovo la stessa aria di
cupa epopea: gente che marcia contro i decreti del destino. E lo sa, e va ugualmente:
«... come poi la musica tacque, altro non si sentì che l'usuale, incessante passo della truppa,
qualcosa di minaccioso e fatale nella calma notturna, e il duro schiocco degli zoccoli del cavallo
sulle pietre della strada...».
Sembra il finale di "Lily Marlen": quei colpi di tamburo che assomigliano a lugubri rintocchi. Tan...
Tan... Ta.

Dammi una rosa — da portar sul cuor


legala col filo — dei tuoi capelli d'or...

Fiori in "Jedermann" come in "Lily Marlen": là autunnali, qui primaverili. E questo mi dà —


ripensando alla canzone in queste ambigue e ansiose giornate — il senso di una inesorabile
rispondenza. La storia si ripete, ma le scadenze stagionali possono mutare1. Ammesso che un
presagio aleggi tra le note malinconiche di Lily Marlen.
Quando udii per la prima volta Lily Marleen i tedeschi stavano folgorando sui campi di tutta Europa
e il mondo tremava.
Ma io dissi: «Non è una canzone di guerra, è un triste presentimento»: ...qualcosa di minaccioso e
fatale...

PAZZIA
10 dicembre

Gente passa le giornate riempiendo fogli di schizzi e di piante. Riordinano la casa, rifanno la
mobilia, studiano l'opportunità o meno di collocare un caminetto nella stanza di soggiorno.
Questa è nostalgia, è bisogno di attorcere più saldamente a un appiglio l'altro capo del filo che li
lega alla vita.
Gente si getta deliberatamente nella mischia delle conferenze e delle discussioni storiche, politiche,
filosofiche, artistiche e letterarie. Discutono di Proust, di Croce, di Marx, di Cézanne e di Leopardi.
Questo è istinto di conservazione, è necessità di iniettare nell'aria limacciosa del Lager l'ossigeno
che permetta il sopravvivere dello spirito.
Gente si aggira di baracca in baracca, di letto in letto, a sollecitare pareri sulla situazione: e quando
finirà, e se avverrà una cosa o avverrà l'altra.
Questa è debolezza di carattere, ma — più che altro — è vizio nato dalla noia e dall'inazione.
Gente, invece, trascorre il suo tempo parlando esclusivamente di mangiare, pensando
esclusivamente al mangiare.
E questa è pazzia.
La fame c'è, e grava sulle nostre spalle in ogni azione della giornata e, la notte, popola i nostri sogni
di visioni dolorose, e tutti l'accéttano con rassegnazione come cosa fatale, come un morbo
inguaribile.
Ma per costoro la fame è diventata pazzia.
Parlano continuamente di mangiare. Descrivono pranzi, cene, cenette, colazioni, merende.
Descrivono panini imbottiti. Redigono in collaborazione ponderatissime liste di pranzi storici da
celebrare al ritorno.
C'è chi raccoglie indirizzi di locande con distinte di piatti caratteristici e compila guide
gastronomiche d'Italia.
Altri annota accuratamente migliaia di ricette dei più complicati ammennicoli culinari.
L'eterno e vano parlare di cibarie e l'eterno e vano pensare al mangiare hanno aumentato il
desiderio. E lo stomaco, nell'accesa immaginazione di costoro, ha assunto la dimensione adeguata al
desiderio stesso: la dimensione di un bigoncio.
È una forma di pazzia che annebbia d'angoscia i cervelli, e questi poveretti cacciano fuori tutte le
ossa e diventano gialli più ancora per paura della fame che per la fame stessa.

LA LETTERA

1
Effettivamente la guerra finì nel maggio di due anni dopo.
Ci diedero il primo modulo—lettera, e si trattava di un foglio con molte istruzioni in tedesco e
alcuni spazi bianchi da riempire in italiano. La metà destra del foglio era riservata alla risposta, e
bisognava star bene attenti a non confondere l'una parte con l'altra e a scrivere chiaro, a matita e
sopra le righe punteggiate, come vogliono appunto le convenzioni internazionali che tutelano il
diritto delle genti.
Ci diedero pure una doppia cartolina ripiegabile corredata di severe istruzioni in francese, e la parte
seconda di quest'altro ingegnoso meccanismo postale, appiccicata convenientemente su un pacco
confezionato come da norme, avrebbe permesso a detto pacco di partire dall'Italia e di viaggiare
verso la nostra temporanea residenza.
Il capitano N. mi disse preoccupato che si trattava di 24 righe in tutto, e il capitano C. aggiunse che
se si considerava che oltre al resto noi avremmo dovuto far entrare nelle 24 righe le istruzioni
dettagliate riguardanti i pacchi, la faccenda si sarebbe subito appalesata molto grave.
«Bisognerà arrivare alla massima concisione» concluse il capitano M.
Ci disponemmo coscienziosamente al lavoro, comunicandoci via via il risultato dei nostri studi
personali.
Il capitano N., desiderando notizia sull'andamento della della casa e degli affari, dopo adeguata
riflessione, espresse la prima formula ingegnosa: «Notìziami andamencàsa e andaffàri».
Si trattava di un virtuosismo di concisione, e il capitano N. venne classificato a pari merito col
capitano C, il quale, intendendo che la consorte gli mettesse nel pacco la sua divisa di panno e tutto
il corredo di lana, propose uno snellissimo: «Pàccami pannàbito e lancorrèdo».
Approvammo, e mettemmo allo studio il problema più difficile: spiegare in poche parole come si
dovesse confezionare un robusto pacco di 5 kg., usando la cedola all'uopo inviata, evitando di
introdurre in esso pacco carte, medicinali, liquidi infiammabili, e avendo invece cura di farci entrare
per esempio sigarette, tabacco, crema d'orzo e farina di frumento.
Fu un lavoro lungo, ma rallegrato da un pregevole risultato:
«Robustizzàte pacco pentachìlo a 1/2 cedola all'uopàta evitando medicincarte et infiammabili.
Paccàte sigartabacco, cremòrzo, frumfarina...».
Ricordai allora le colonne di annunci economici e il loro gergo, ma non risi: anzi, ripensai alle
vecchie pagine con una nuovissima nostalgia.
O colonne dense e grigie, voi — con bizzarre parole che parevano sforbiciate da un telegrafista
avaro — ci narravate di illibate quarantenni desiderose relazionare scopo matrimonio; di
stenodattilo disposte migliorare; di piedaterra discreti; di lettifamiglia avidi di impiegati stabili; di
ammobiliate termobagno assetate di parastatali.
O colonnine grigie, voi ci raccontavate di automobili straoccasione pronte a rollare dolcemente
sugli asfalti circondanti laghi azzurri; di torni a revolver attesi con ansia in officine sonanti; ci
raccontavate di agenzie discretissime; di affari vantaggiosissimi, di onesti pensionati, di offerte di
impiego. E io, ripensando a voi da questo recinto, dopo aver per
tanto tempo sorriso sulle vostre strane parole, provo una sottile nostalgia.
O pagine grigie, strampalata letteratura a dieci lire la riga, scopro ora che avevate una vostra poesia.
Una poesia piena di fremiti, un ritmo potente: la poesia del lavoro, il ritmo della vita.
Udendo le strane parole architettate per la nostra lettera, ripensai alla pagina grigia degli annunci
economici e a un ritmo che ora è spezzato. Oggi io penso a una pagina tutta bianca, squallidamente
deserta, con, in fondo, un solo annuncio di cinque millimetri, un piccolo annuncio di una sola riga
pazza e disperata:
«Un bambino cerca ogni sera il suo papà lontano».

***

«Robustìzza pacco pentachilo a 1/2 cedola all'uopàta...».


Ripensai alle bizzarre parole dell'ultima pagina di un "Corriere" di tempi lontani e alla stenodattilo,
al lettofamiglia e al termobagno. Ma non risi, e dissi che per me la formula andava bene e che
anch'io l'avrei adottata. Poi mi ritirai dal consesso e mi accinsi a riempire di lettere piccole piccole
le mie ventiquattro righe. Scrissi col lapis, sopra la punteggiatura, come vogliono appunto le
convenzioni internazionali che tutelano il diritto delle genti:
«Signora, robustizza pacco pentachìlo a 1/2 cedola all'uopàta evitando medicincarte et infiammabili.
Pàccami lancorrèdo, sigartabacco e seccacastagne. Se però credi castagne ben cotte possano giovare
al bambino, non inviarle. Non mi manca niente. Di una sola cosa ti prego: che la sera della vigilia di
Natale tu imbandisca la tavola nel modo più lieto possibile. Fai schiodare la cassa delle stoviglie e
quella della cristalleria; scegli la tovaglia migliore, quella nuovissima piena di ricami; accendi tutte
le lampade. E prepara un grosso albero di Natale con tante candeline, e prepara con cura il Presepe
vicino alla finestra, come l'anno scorso.
«Signora, io ho bisogno che tu faccia questo. Il mio pensiero ogni notte varca il reticolalo: lo so, ti
riesce difficile figurarti il mio pensiero che varca il reticolato. Il pensiero è un soffio di niente e non
ha volto: e allora figurati che io stesso, ogni notte, esca dal recinto. Figurati un Giovannino leggero
come un sogno e trasparente come il vento delle serenissime e gelide notti invernali.
«Io, ogni notte, approfitto del sonno degli altri e mi affido all'aria e trasvolo rapido gli sconfinati
silenzi di terre straniere e città sconosciute. Tutto è buio e triste sotto di me, e io affannosamente
vado cercando luce e serenità. Rivedo la Madonnina del Duomo, ma le strade e le piazze non sono
più quelle di un tempo, e stento a ritrovare il nostro quarto piano.
«Signora, non dire che sono il solito temerario se entro in casa dal tetto: anzi, loda la mìa prudenza
se non mi avventuro lungo le macerie della scala. E poi il tetto è scoperchiato e si fa più presto.
Riconosco lo scheletro delle nostre stanze e ricerco i nostri ricordi nascosti sotto i rottami dei muri
crollati. Tutto è buio, freddo e triste anche qui, e soltanto se la luna mi assiste riesco a scoprire sui
brandelli delle tappezzerie che ancora pendono alle pareti, i riquadri chiari e la topografia del nostri
mobili.
«Per le strade deserte, cammina soltanto la paura vestita di luna. Su un brano di tappezzeria dell'ex-
anticamera vedo un fiorellino. Uno strano fiore nero a cinque petali. Signora, rammenti quando
Albertino decorò le nostre stanze con la piccola sciagurata mano intinta nell'inchiostro di China?
Inutilmente vago a ricercare vestigia di giorni lieti fra le pareti dell'uffìcio; le pareti non ci sono più,
e il grande edifìcio è un cupo mucchio di cemento annerito dai fumo.
Fuggo dalla città buia e silenziosa, e rivedo i luoghi dove, zitella, tu mi conoscesti zitello. Ma anche
qui è squallida malinconìa, e io mi rifugio alla fine nella casupola dove si accatastano i miei ultimi
effetti e i miei primi affetti. Tu dormi. Albertino dorme, mia madre, mio padre dormono.
«Tutti dormono, e cercano forse di ritrovare in sogno il mio ignoto, lontano rifugio. I nostri mobili
si affollano disordìnatamente nelle esigue stanze immerse nell'ombra, e dentro le polverose casse
del solaio le parole dei miei libri si sono gelate.
«Signora, io cerco un po' di luce, un po' di tiepida serenità, e invece non trovo che buio e freddo, e
non posso ravvisare nel buio il volto di mio figlio, e sui laghi e sulle spiagge tutto è spento e
abbandonato, tutto è silenzio, e io rinavigo verso il recinto e torno al mio pagliericcio portando il
gelo nelle ossa del numero 6865.
Signora, bisogna che, almeno la notte di Natale, il mio pensiero, fuggendo dal recinto, possa trovare
un angolo tiepido e luminoso in cui sostare. Voglio tanta luce: voglio rivedere il vostro volto, voglio
rivedere il volto dell'antica serenità. Altrimenti che gusto c'è a fare il prigioniero?».
Qui ebbi la sensazione che le 24 righe stessero per finire, e mi interruppi. Le righe erano in effetti
138, e io avevo riempito le 24 mie, le 24 della risposta e altri cinque foglietti che stazionavano nei
paraggi. Con estrema cura cancellai tutto e ricominciai da capo:
«Signora, robustizza pacco pentachìlo a 1/2 cedola all'uopàta evitando medicincarte e infiammabili.
Pàccami lancorrèdo e sigartabacco...».
Poi pensai che probabilmente La censura avrebbe sospettato nel «pacco pentachìlo» chi sa quale
diavoleria esplosiva, e conclusi malinconicamente che, come al solito, quando si deve scrivere a
casa non si sa mai cosa dire.
(Dalla conversazione "Natale 1943" — Lager di Beniaminovo
24 dicembre 1943).

CRONACA PREVENTIVA

Quanti anni fa? Non contiamo gli anni defunti. Non contiamoli mai, i nostri anni: c'è già chi tien
conto dei nostri anni passati e avvenire.
Allestimmo anche un grande albero di Natale, allora, e i regali erano scritti su cartellini. A me ne
toccò uno con scritto sopra: «1 chilogrammo di torrone». E ne fui felice, perché a me il torrone è
sempre piaciuto moltissimo.
Poi il tenente Roberto Rebora lesse una sua poesia. La ricordo benissimo:

Verso il Natale 1943

Dall'immobile veglia delle case


nasce il magro mattino invernale
in predilette contrade.
Una luna s'indugia
sopra i torpidi tetti
sorvolando mura chimeriche,
ricordi di valli nel cuore favolose
di giardini dolenti d'amorosa pietà.
Nelle strade trasognate ancora
moti umani esitanti
tentano il vero. Sillabe appena, pure.
L'alto cielo intercede sordamente:
una violenza muta nell'intrico
d'immagini perdute.
Esce lo spazio dagli occhi risvegliati
lungamente temendo
la parola di lode. Cauta
la terra opererà il suo inizio, ancora.
Ora valgono i nomi vaganti per le vie
toccate dal deserto Natale.

Era una gran bella poesia, allora: adesso non la capisco più. La poesia bisogna sentirla, non capirla.
Poi io lessi le mie malinconie, e Coppola suonò con la sua fisarmonica alcune sue delicatissime
musiche.
E fuori il cielo era sereno, e io pensavo al domani e vedevo, nell'ombra, affollarsi attorno al
reticolato le mie azioni dell'avvenire.
Oggi invece vedo soltanto le mie azioni del passato, e sospiro ripensando alla baracca del campo
333.

***

Prima d'andare a letto, ieri sera, m'è girata per il capo una bizzarria: ho aperto in silenzio l'armadio
della stanza da letto, ho tolto da un sacchetto il vecchio giubbetto azzurro che portavo laggiù, e l'ho
indossato. E ho allacciato i cinque bottoni dorati.
Poi, si capisce, non ho più potuto trattenere il fiato, e il pancione è ritornato giù e i cinque bottoni
sono schizzati via come palle da schioppo.
Uno d'essi, dopo un breve saltello sul cuscino, si è impigliato fra i riccioli della fronte dell'Albertino
più piccolo, e pareva una stella scivolata giù dal cielo.
Poesia e pancia.
A Milano, fra qualche anno: «Bei tempi quelli di Beniaminovo!».
Lager di Beniaminovo — 24 dicembre 1943
(Dalla conversazione «Natale 1943» — Lager di Beniaminowo
24 dicembre 1943).

1944

LA TORRETTA
15 gennaio 1944

Dovunque guardi, sullo sfondo scopri la torretta, vigile e onnipresente come l'occhio di Dio. Di quel
Dio che — essi dicono — è con loro, e che è molto diverso dal nostro, e che ha un nome misterioso
e grottesco: Gott.

ETERNO PERICOLO
20 gennaio

Racconti di guerra: Russia, Croazia, Albania, Montenegro, Africa, cielo, mare. Qui si vivono mille
vite, la guerra si moltiplica in mille episodi, e non è più una parola, ma un concetto di spaventosa,
terrificante, infernale evidenza. Anche per chi non l'ha vissuta.
Ma domani la storia diventerà letteratura, e si faranno recensioni ai libri, non alla guerra. E si dirà
— come per Remarque —: «Che bel libro!». E nessuno dirà: «Che orrore di guerra!».

BARACCHE
29 gennaio

Le baracche sembrano vagoni interrati nella sabbia fino al piano del pavimento. Una dietro l'altra:
un convoglio annegato nella rena. E pare impossibile che, un giorno, esso possa riemergere e
riprendere il movimento. Ma un giorno dovrà rimettersi in moto.

BARACCA 18

Una delle centomila costruzioni dell'architettura di guerra: una capanna di legno scuro, col fosso e il
rincalzo di terra tutt'attorno. Una capanna lunga e bassa, lunghissima e bassissima sotto lo
sconfinato cielo della pianura polacca.
Baracca 18.
Una piccola Arca di Noè navigante in mezzo a un Diluvio di malinconia. E dentro, ogni specie di
esseri, dalla pulce al poeta, dal topo al parastatale.
Baracca 18.
Quando v'entrammo per la prima volta, tutti ristemmo aggruppati davanti alla porta, muti al
cospetto di quelle tre file di lettiere deserte, e gli occhi vagavano sgomenti lungo le pareti nude, su
quel pavimento polveroso e sconnesso. Indugiavano sgomenti sulle finestre prive di telaio.
Ristemmo così, coi sacchi e le cassette stretti fra le braccia, come miseri emigranti che si trovassero
d'improvviso nella stiva squallida e inospitale della loro nave.
Ristemmo muti, sgomenti: e il tempo batteva col martello dei secondi sul silenzio di ghiaccio, e
pareva che ci picchiasse in testa, e non dovesse finirla più.
Ma d'un tratto un grido crepitò nell'aria:
«Il martello del capitano Novello!».

***

Ricorderò qui il più sciagurato meccanismo dell'universo. Era esso il prodotto del nefando incrocio
d'una tenaglia, una pinza, un troncafilo, uno scalpello, una lima, un cacciavite, un'ascia e un «piè di
porco». Ogni centimetro cubo di questo orrendo Minotauro del regno minerale rappresentava
qualcosa di diverso, e tutto l'insieme costituiva un martello degno d'essere riprodotto, come
documento d'infame ambiguità, nelle riviste per la purezza della razza dei martelli.
«Il martello del capitano Novello!».
Era esso il connubio orrendo del più esecrabile praticismo americano col più riprovevole astrattismo
di certa pittura picassiana.
Una macchina dannata che aveva vissuto le peripezie d'una turbinosa avventura nella steppa: allora
il titolare aveva perso tutto, ma il martello s'era salvato grazie alla miracolosa ingiustizia che regola
talvolta il funzionamento delle umane cose.
«Il martello del capitano Novello!».
Fu quello il grido che crepitò nel silenzio di ghiaccio, e la Baracca 18 diventò il girone diciottesimo
dell'inferno. Eravamo in ottanta allora, e ognuno aveva alcune centinaia di chiodi da sistemare a
favore del conforto personale e collettivo. Perciò, a qualunque ora del giorno e, fino a sera tarda, il
grido dannato si ripeteva.
Quanti chiodi confisse il meccanismo? Dico ventimila, e non c'è da stupirsi. L'italiano possiede il
senso del chiodo. Mettete un italiano all'ombra dell'unica palma esistente al centro d'un deserto
sconfinato. Il giorno dopo vedrete la giacca dell'italiano dondolare appesa a un chiodo confitto nel
tronco della solitaria pianta.
L'italiano ha il senso del chiodo: e sa trovare un chiodo sempre e dovunque. Il mio bambino, a soli
tre mesi, senza aver mai potuto allontanarsi dalla sua culla, fu da me sorpreso mentre succhiava un
grosso chiodo. Nella Lomellina, nel 1912, un bambino nacque con un chiodo in mano.
«Il martello del capitano Novello!».
Quante volte il dannato grido risuonò nella Baracca 18? Ogni tanto arrivavano nuovi ospiti da altri
campi. Entravano nella baracca, deponevano per terra il loro bagaglio, poi, senza un istante di
esitazione, chiedevano il martello del capitano Novello. Erano aggiornatissimi, sapevano già tutto,
per lo stesso miracolo grazie al quale, pur senza possibilità di collegamento, in tutti i settanta campi
d'internamento la minestra si chiamava "sbobba", le sigarette si chiamavano "zampironi", e
l'operazione d'abbrustolimento del pane era detta del "crostinare".
Arrivavano i nuovi compagni, e le loro prime parole tendevano alla ricerca del maledetto martello.
E il martello continuava a battere: tok, tok, tok, come un orologio infernale che scandisse i minuti
della nostra dolorosa noia picchiandoci colpi sulla testa.
Io lo odiai, il martello del capitano Novello.
E il giorno in cui vennero a fare l'ispezione in baracca per togliere gli eventuali utensili proibiti dai
regolamenti, mi sentii Maramaldo, e la mia mano spinse l'odiato strumento al centro della tavola in
bella vista. Il soldato tedesco notò l'attrezzo, ma non lo toccò neppure. Si limitò a guardarlo con
disprezzo profondo. Figlio di quella terra nella quale fiorisce la più pura razza ariana di utensili, egli
avrebbe certamente provato ribrezzo solo toccando quel mostruoso incrocio anglo—giudaico di
praticismo americano e di surrealismo ebreo.
vidi un giorno lo strumento scindersi in due per la rottura del perno. Gioii perché, pure avendo in sé
tutti gli utensili necessari per la riparazione di un perno, il meccanismo non poteva usarli a proprio
favore, come accade per il famoso tipo di matita col temperino fissato nella parte opposta alla punta.
Ma uno sciagurato alpino alto due metri trovò modo di ripararlo.
«Il martello del capitano Novello!».
Lo nascosi fra i trucioli del mio cuscino, ma la notte stessa sognai che il martello mi configgeva un
chiodo nella nuca. Svegliatomi, mi accorsi che l'arnese, venuto a galla sul truciolo, tentava di
ficcarmi uno spigolo in testa. La notte seguente lo celai nel pagliericcio, dalla parte dei piedi. Quella
volta feci un sogno più orrendo ancora: Torquemada in persona infieriva su di me strappandomi con
una tenaglia rovente il pollice del piede sinistro.
Il mio stesso grido mi risvegliò: effettivamente l'alluce già ricordato era stretto fra le ganasce
dell'utensile dannato.
«Il martello del capitano Novello!»
Un giorno il martello scomparve. Ci fu chi disse che aveva optato per la Repubblica, ci fu chi
insinuò che si fosse ucciso
per amore, affogandosi in qualche buca.
Ricomparve in baracca dopo venti giorni, reduce — si vedeva benissimo — da chi sa mai quali
intemperanze scandalose.
Fu trattato da martel prodigo: amorosamente ripulito, accarezzato, lucidato, ingrassato.
Riprese a martellare più arrogante di prima. E lo subimmo senza più ribellarci.
Poi cambiammo campo e, nel nuovo, la sera del 5 maggio 1944, sorpreso all'aperto da un
sottufficiale tedesco mentre — assieme a un sottotenente della 67 — attentava alla vita di un grosso
chiodo infisso in un palo, il martello del capitano Novello venne catturato e scomparve dalla
circolazione.
Adesso, ogni tanto — durante la silenziosa ora della noia pomeridiana, o nel cuore della notte — si
sentono battere sulle pareti della baracca, ora qua ora là, dei colpi concitati.
È lo spirito di quello che fu il martello del capitano Novello, che viene a chiedere vendetta.

SIGNORA GERMANIA

Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati e fai la guardia perché io non esca.
È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano, i miei
ricordi.
E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le
cose proibite dai tuoi regolamenti.
Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile,
signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d'importanza
essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire.
E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c'è anche una grande carta topografica al
25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella
giustizia divina.
Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall'ira farai
baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio
corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino
al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s'è visto s’è visto.
L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma
dentro ce n'è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno.
E questa è la fregatura per te, signora Germania.
(Dalla conversazione «Baracca 18» Beniaminovo — 1944).

I TEDESCHI
3 febbraio

Mettono acqua in una marmitta, dosano la carne e le polveri e gli estratti, chiudono il coperchio a
tenuta ermetica, mettono il lucchetto, accendono il fuoco e, quando una certa valvola fischia, la
minestra è pronta.
I tedeschi fanno così anche la guerra: buttano nel pentolone carne d'uomini, dosano polveri piriche,
estratti di scienza militare, abbassano il coperchio della disciplina, mettono il lucchetto
dell'intransigenza, accendono il fuoco e aspettano che il fischio annunci che la guerra è vinta.
Ma il fischio non si sente, e la pentola scoppia.

VOCI
12 febbraio
Voci indelebili: la voce del tenente R. Una voce — già manierata per la suadente parlata veneta —
stemperata nella melassa. Parole scritte su carta moschicida dolce e appiccicosa.
Nella baracca parlano contemporaneamente in cento; alcuni martellano, altri cantano: ma è una
manifestazione acustica intermittente, oscillante nell'intensità, che passa dal putiferio al brusìo, dal
chiasso al silenzio.
Costui, invece, parla come acqua che fila da un rubinetto guasto. E, nei momenti di abbassamento e
negli istanti di silenzio, si ode la voce del tenente R.
L'ordito di un ricamo che ora si vede e ora no; che è ora sopraffatto dal sovrapporsi dei punti e ora è
nudo; ma che c'è sempre, e se non si vede si indovina.
Ricorderò la voce del tenente R. Egli parla e parla con precisa intensità: dolcissimo, appiccicoso.
Parla eternamente di bistéche e torteléti, di riséti e di oseléti, di biscòti e di fritéle, di pachi.
E io soffro, come soffrivo ascoltando la voce di latta che, quand'ero a casa, elencava alla radio i
piatti del menù propagandistico del giorno:
«Primo: l'America non potrà intervenire perché... ».
«Secondo: la flotta inglese non potrà più agire perché...».

LA FOLLA

Nella folla l'individuo dà il peggio di sé. Per questo, forse, i popoli che più sanno annullare la
propria personalità in una disciplina ferrea e sentita, atta a fare di un popolo una massa compatta,
sono portati irrimediabilmente alla guerra e all'odio di razza.
Il popolo italiano non corre questo pericolo. Tutt'al più può esserne vittima innocente.
UN PO' DI LUCE
20 febbraio

Quattro perle nere scintillano incastonate nel suo cuore rosso. Quattro piccoli soli neri brillano nel
cielo grigio della sua malinconia. Gli occhi dei suoi bambini, che lo guardano da tutti gli angoli.

PROBLEMA E SOLUZIONE

Si appassionano ai problemi del futuro, individuano tutte le cose che non vanno e, alla fine,
concludono che l'Italia, per star bene, deve fare come la Svizzera.
Costoro (quanti!) sono più pazzi degli altri, i quali asserivano che l'Italia, per star bene, doveva
dominare su tutto l'orbe terracqueo. Almeno là c'era il precedente degli antichi romani.

PASSI SULLA SABBIA

Una notte gli era apparsa in sogno la figlia e gli aveva detto: «Per te la guerra finirà ai primi di
marzo».
Egli lo raccontò ai compagni di baracca e se ne rallegrava.
Il sogno si ripeté un mese dopo, quando egli già da una settimana era ricoverato all'infermeria, e
quasi ogni notte lo trovavano giù dal letto a fare il fantasma, che cercava invano le musiche
composte per il «Fabbricatore di Dio», la sua opera alla quale lavorava da anni.
Il sogno si ripeté, ed egli lo mandò ancora a dire ai compagni di baracca: «Per me la guerra finirà ai
primi di marzo».
Quattro giorni dopo, la notte del 2 marzo 1944, il capitano Musella cessava di vivere.
Era un uomo piccolo e minuto e, quando lo si vedeva aggirarsi per il campo, pareva che il peso di
quello sconfinato cielo polacco incombesse tutto su di lui, tanto s'era fatta dolorosa la curva della
sua schiena. E, non più prigioniero, ma compositore, pensandolo al cospetto della tesi massiccia del
«Fabbricatore di Dio» si aveva la sensazione che su quelle spalle magre gravasse l'immane fardello
d'Atlante. Invece il compositore sapeva dominare le cose più grandi di lui, ma l'immenso cielo di
piombo schiacciò il prigioniero.
Era arrivato ai primi di gennaio dal campo di Deblin, dove, pentagrammando con estrema cura
rovesci di buste, aveva concertato Grieg e Bach ricostruendoli a memoria e, creata miracolosamente
un'orchestra e istruiti cori e cantanti, aveva organizzato dei concerti per alleggerire la pesante
malinconia dei compagni.
Era un uomo piccolo e minuto che pareva volesse soltanto parlare e parlare, e che chiedeva soltanto
di lavorare e lavorare,
quasi temesse di non arrivare in tempo ad esprimere tutte le parole e tutta la musica che il destino
gli aveva assegnato, parlò e lavorò assieme a noi nel teatrino di Beminovo, ma non poté fare tutto
quello che avrebbe voluto, perché per lui la guerra finì ai primi di marzo.
Nel tardo pomeriggio del 3 marzo millenovecentoquarantaquattro, il vento correva nel cielo, e sopra
le creste dure della terra raggrinzita dal gelo, I prigionieri s'erano distesi in due lunghissime file dal
cancello dell'infermeria alla porta delle Kantine. Triste rassegna d'indumenti strani e di facce
stranite.
Si udì dapprima un lagnoso salmeggiare, e pareva una preoccupante voce di minaccia che
ingigantisse nell'aria deserta. Poi all'improvviso, inaspettati e illogici come un sopruso, sullo sfondo
melmoso del baraccamento esplosero i colori del drappo disteso sulla bara.
Già per la seconda volta vedevamo quei colori, ma costava troppo di vederli. La prima fu il 9
febbraio, quando il capitano Cipriano Colombi — primo di noi — uscì dal recinto. Primo di coloro
che —— non optanti — allora potevano uscire dal campo
soltanto così.
Nevicava, quella mattina, ma sul candore quei colori parevano ugualmente illogici e inammissibili,
come sulla tetraggine del pomeriggio di marzo. Essi infatti rappresentavano, in ogni ora e in ogni
stagione di noi reclusi, una realtà troppo precisa, in un luogo dove tutto era soltanto disperato
sogno.
Via via che la bara si appressava oscillando sulle magre spalle dei portatori, i prigionieri salutavano,
ritrovando una dimenticata energia. Ed era tutto un crepitare di zoccoli, e pareva una barca che
avanzasse in un angusto canale serpeggiante, aprendosi un solco nel ghiaccio.
Passò ondeggiando la barca della Morte, e il ghiaccio crepitò ai miei piedi.
Nella notte il vento gelò e attese il mattino nascosto nei boschi. La luna si fermò nel cielo deserto, e
tutto fu immobile nel cielo e sulla terra.
E la Morte passeggiò fra le baracche.
Nessuno poteva impedirle di entrare nel campo, e questo era l'unico diritto che si concedeva agli
uomini senza diritti.
La Morte si aggirò quella notte tra le baracche e raccontò a chi non dormiva una delle sue singolari
storie di fantasmi:
«Nella Kantine c'è un catafalco, e presso il catafalco c'è il pianoforte che serve per la Messa.
«A un tratto un uomo piccolo e minuto appare miracolosamente, si siede al pianoforte e le sue dita
trasparenti sfiorano leggere i tasti. Egli suona.
«Egli ripassa la sua opera; ha ritrovato finalmente lo spartito che invano cercava all'infermeria
quando — vivo — faceva il fantasma».
Quella notte la Morte si aggirò fra le baracche, e chi non dormiva udì passi sulla sabbia e musica
lontana.
(Dalla conversazione «Baracca 18» Lager di Beniaminovo — 1944).

SEI MESI
9 marzo

Sei mesi, seimila giorni. La noia altera le proporzioni, e i minuti non sono più frazioni d'ora, ma
elementi d'eternità.
Inginocchiato sulla sabbia, lavo le secchie della minestra e guardo le mani. Dove sono le mani d'un
tempo? Livide e scarnite, scoprono un gioco iroso di tendini e vene gonfie e contorte. Sopra la pelle
s'è appiccicata una minuta ragnatela d'unto, e il pollice e l'indice della sinistra hanno le punte nere,
abbrustolite dalle cicche disperate.
Vado a pompare acqua, e le due secchie mi strappano le braccia, e mi pare di dovermi infossare
nella sabbia fino al ginocchio, trascinato in giù da quell'immane peso.
Mi lavo, e le mie mani scoprono una sconosciuta architettura d'ossa, e mi pare di lavare un altro.
Mi seggo al tavolo per scrivere, e la schiena mi si spezza: le parole mi pesano sulle spalle come
sacchi di sabbia.
Mi specchio in una pozzanghera, e vedo navigare sul mio capo nuvole così lontane e indifferenti
che sembrano appartenere a un altro mondo. A un mondo nel quale gli uomini hanno oramai ripreso
la vita consueta, mentre quassù uomini dimenticati continuano una fatica inutile e maledetta.
Sei mesi, seimila giorni.
Nel mio calendario si allineano i giorni morti: ogni giorno che passa lo cancello con una crocetta a
lapis, e ripenso agli anni disperati del collegio, ai mesi cupi della scuola militare.
Anche allora tracciavo una crocetta su ogni giorno che passava. Ma allora sapevo che dovevano
essere cinque lunghi anni, e poi sei eterni mesi.
Qui non so niente. Qui è come gettare secchie di cemento in una buca di terra. Quante secchie per
colmarla? Soltanto una, o ancora diecimila?
Alla fine, uomini appunteranno sul petto della giubba croci orgogliose e tintinnanti. Uomini, invece,
potranno appuntare sul petto del logoro giubbetto soltanto le umili crocette a matita dei loro giorni
morti.

RACCONTINO
12 marzo

Di là dal reticolato passa correndo un turchestano piccolo, con la giubba verde.


Mi grida: «Ehi!» e mi butta, senza fermarsi, mezza pagnotta.
Poi correndo s'allontana, piccolo, leggero, sorridente ed educativo come un raccontino del mio
vecchio libro di lettura.

RITORNO
15 marzo

Una mano s'è aggrappata al sacco del mio stomaco e tenta di strapparlo. Allenta per qualche istante
la stretta, ma subito la rinnova più dura.
Conosco quella mano che già mi fece tanto patire dodici mesi fa. Risento la bocca impastata dalla
lattiginosa soluzione di bario; rivedo su misteriose negative fotografiche la macchiolina racchiusa in
un circoletto.
Rivedo sul mio comodino scatole e tazze, boccette e bicchieri. Anche il cibo alle volte è medicina, e
allora bisogna scegliere con cura, dosare, pesare.
Qui due soldati arrivano a mezzogiorno con un bigoncio colmo di roba fumante, lo depongono sul
pavimento polveroso, sfilano il palo e se ne vanno.
La broda spessa fa urlare di gioia la gente che sorveglia attenta il riempirsi delle ciotole di alluminio
allineate sulla tavola. Ma per me sarebbe come ingollare cemento, e mi rifugio in cuccetta.
Ritrovo le mie lagrime.
I miei trentacinque anni mi guardano stupiti. Mi sembra di veder piangere un bambino.
Scopro su note strade campestri, bianche di polvere e di sole, un uomo camminare col suo zaino in
spalla.
L'acqua è ferma nel fossetto che costeggia la via. Nell'aria densa e bollente galleggiano ancora
rintocchi di campana. Una gallina canta. Mezzogiorno laggiù, come qui. L'uomo si ferma davanti a
un cancello chiuso.
Chi apparirà per primo nel rettangolo nero della porta? Egli aspetta immobile, e sul bianco della
strada si disegna precisa l'ombra del cancello chiuso; ma non si vede l'ombra dell'uomo che è
aggrappato al cancello.
Ritrovo le mie lagrime. Mi sento abbandonato da tutti, anche da me stesso, anche dalla mia carne,
perché pure la mia carne sembra appartenere a un passato lontano.
E invano attendo che qualcuno appaia sul rettangolo della porta. Fra me e loro, fra il mio fantasma e
la vita, ci sono le mie lagrime disperate, e tutto sembra scritto sull'acqua tremolante.
PRIMAVERA DEL PRIGIONIERO

Le poche patate che danno "alla mano" ogni tre giorni, hanno ora dei lunghi germogli pallidi e molli
come vermi.
Dev'essere primavera.

IL SOGNO

A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là
del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno.
Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d'esser vivi.
Di queste inutili giornate fatte di grammi, di cicche o di miseria, la sola parte attiva, la sola parte
vitale saranno i nostri sogni.
Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori
ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire.
Sediamoci fuori della baracca: proiettiamo le visioni del nostro desiderio sullo schermo del cielo
libero e sogniamo (gli occhi bene aperti e la mente vigile) costruendo noi stessi la trama della
vicenda immaginaria, soggettisti, registi, attori, operatori e spettatori del nostro sogno.
Il sole — miracolo di questo cielo oppresso da nuvole cupe — illumina il paesaggio del mio sogno
ed è, perciò, uno smagliante mattino d'estate.
Ignoro come io possa essere arrivato fin qui, e inutile sarebbe cercare di saperlo: non esistono
uffici—informazioni, nei sogni. So che il piazzale ——nel quale cammina soltanto un uomo in
divisa quasi militare e con una sacca sulle spalle — è il piazzale antistante la stazione della mia
città.
E — quel che più conta — so che quel solitario uomo sono io. Mi sono visto benissimo mentre mi
specchiavo nell'acqua della vasca al centro della quale Vittorio Bòttego — insidiato da due bronzei
selvaggi — si chiede se valeva proprio la pena d'esplorare l'Omo e il Giuba.
Vedo, controluce, il profilo della mia città. Davanti a me — come per accogliermi con un colossale
abbraccio di cemento, si spalanca a semicerchio la enorme torta del monumento a Giuseppe Verdi2.
Il Cigno di Busseto non s'accorge neppure di me. Dal bassorilievo dell'altare centrale, continua
imperterrito a scrutare verso la stazione : cupo, accigliato, nervosissimo, quasi attendesse con
impazienza l'arrivo del bagaglio contenente i suoi vestiti e il suo cappello, stanco com'è di fare
l'allegoria, nudo come un verme e con in testa quella scomoda corona d'alloro a larghe tese.
Non mostrano d'accorgersi di me le Opere Verdiane d'ambo i sessi che — ritte sui piedestalli a piè
d'ogni colonna della smisurata macchina ximenesiana — tutelano, con la loro cementizia
immobilità, la bronzea irritazione del Maestro.
Soltanto il Coro del Nabucco — che è un signore solitario, alloggiato fuori mano, nello spessore
dell'emiciclo — quando gli passo davanti mi sussurra qualcosa.
(Il sole fa scintillare i tetti delle case, ancora umidi di rugiada, e l'aria è piena di polvere d'oro...).
Hai ragione, vecchio Nabucodònosor. Dici bene: l'aure dolci del suolo natal...

***

Entro nella città ancora addormentata, e il mio passo sulle pietre deserte sveglia un cartello che
dorme appollaiato su una colonnina.

2
Fu demolito dopo l'occupazione anglo-americana un po' perché era stato sinistrato, ma, soprattutto, per festeggiare la
riacquistata libertà.
«Pedoni sul marciapiede!» borbotta di malumore. Lo prego di non fare il brontolone, di lasciarmi
godere un po' di sole. È tanto tempo che sogno di camminare libero in mezzo a una strada assolata!
Torno adesso dai campi di concentramento...
«Sì, ma torni a piedi, e quindi, per me, sei un pedone e i pedoni debbono camminare sul
marciapiede!».

***

Cammino in mezzo alle rotaie del tram e traverso la piazza ancora muta e spopolata. Mi avvio verso
l'imbocco della strada stretta che conduce fuori barriera, ma qualcuno mi chiama:
«Giovannino, non lo saluti neppure il tuo vecchio caffè? Togli dal mucchio una poltrona di vimini e
siediti un momentino. Fra mezz'ora arriverà il garzone e tirerà su la saracinesca. Poi verranno il
padrone, le bariste, la cassiera bionda e i tuoi amici. Siedi che chiacchieriamo un po'! Sapessi
quante di cotte e di crude ne hanno dette su di te, i tuoi amici... ».
«Basta, vecchio caffè. Adesso m'interessa soltanto quello che hanno pensato di me i miei di casa. Io
sono rimasto laggiù per loro, non per gli amici; e per loro ritorno, non per gli amici».
Mi inoltro nella strada stretta piena d'ombra e di silenzio, e il mio passo risuona sulle pietre deserte
e sveglia un'eco addormentata sotto un vecchio porticato.
«Tà, tà, tà... ciao, Giovannino! Ti riconosco dal passo» dice l'eco. «Tu hai camminato tanto tempo
sulla sabbia molle che non te lo ricordavi neppure più che il tuo passo ha una voce. Ora la ritrovi
identica a quella di prima, quando all'alba uscivi dalla tipografia e tornavi a casa, e camminavi
come ora sulle pietre deserte. Te l'ho custodita gelosamente, la voce del tuo passo, nascosta in una
crepa del muro. Senti? Tà, tà, tà...».
Sfocio nel vialone, alla periferia, e lì tutto è luce smagliante.
«Giovannino,» sussurra un ippocastano «fermati. Non ti rammenti più? Ti appoggiavi a me, la sera,
quando aspettavi lei...».
«Giovannino, io sono la vostra panchina», sussurra un vecchio sedile di pietra. «Siediti. Parlami di
te; parlami di lei. Io vi parlerò di voi...».
Ci sono ancora sei chilometri da percorrere a piedi, fra i campi, prima d'arrivare a casa.
Saluto senza fermarmi: «Arrivederci, giovinezza...».
Ecco la strada bianca coi pali del telegrafo in fila. Ed è tutto un sussurrare festoso.
«Bentornato, signor Giovannino!», mi salutano la siepe, gli alberi, il fossatello erboso.
Sono brave cose di campagna, brave cose all'antica, piene di riguardo: «Bentornato signor
Giovannino!».
Esse mi parlano mentre cammino: vorrebbero dirmi di fermarmi un po', vorrebbero offrirmi
qualcosa, ma non osano. Mi hanno visto bambino: mi regalavano violette, more, sassolini rotondi.
Mi nascondevano quando marinavo la scuola. Un giorno un olmo mi regalò un uccellino, e il fosso
una libellula azzurra che pareva di cristallo.
Ma adesso sono cresciuto e ho i baffi, ed essi non osano più offrirmi un prugnolo o una foglia di
gaggìa da far suonare sotto la lingua.
Accetto un filo d'erba da masticare.
Tanto per gradire.
Cammino masticando il filo d'erba. Dopo quella svolta vedrò d'improvviso la mia casa, ed essa,
udendo la mia voce, si sveglierà di soprassalto e spalancherà' stupita gli occhi di tutte le sue finestre.
Alla svolta c'è una cappelletta col sedile davanti, e sul sedile c'è qualcuno che mi chiama con voce
un po' lontana. «Giovannino!».
O vecchia, o vecchissima nonna Giuseppina: perché hai abbandonato la tua placida tomba coperta
d'erba e sei venuta fin qui? Sarei venuto io, nonna Giuseppina, a trovarti e a portarti il fiore che ho
colto laggiù, in quella triste terra. L'ho qui nel portafogli, nonna Giuseppina: te l'avrei portato e ti
avrei raccontato tutto.
«Lo so, Giovannino, ma non ho avuto la pazienza di attenderti e ti sono venuta incontro».
«Aspetti da tanto, nonna Giuseppina?».
«Dal giorno in cui sei partito. Sono mesi e mesi che sto qui a parlare di te con questa buona
Madonnina. Ti conosce anche lei: ti ha visto passare mille volte di qui con la tua borsa di scolaretto
a tracolla. Dallo a lei il tuo fiore. Io ne ho già tanti: la mia tomba è piena di fiori. C'è anche un
papavero rosso: Giovannino, se vieni te lo dò».
«Verrò, nonna Giuseppina».
Infilo il mio fiorellino secco nella scatoletta che sta sulla mensola, davanti all'immagine, e il fiore
riapre la corolla e si colora come se fosse stato reciso un minuto fa.
«Ciao, Giovannino. E non bere acqua fredda, quando arrivi. E rimettiti il berretto».
Nonna Giuseppina si allontana, curva sul suo bastoncello, per la via dei campi.
Vedo la mia casa.
«Giovannino, non correre! Sei debole!», mi ammonisce da lontano nonna Giuseppina.
Fra un secondo griderò qualcosa che non so ancora. E la mia voce sembrerà il Coro della Scala.

***

Giovannino — dunque — è giunto finalmente davanti a casa sua. Ma proprio qui il nostro
eccellente personaggio è colto da viva perplessità.
Il finale ha un'importanza straordinaria, e non varrebbe certamente la pena d'aver sofferto lunghi
mesi per costruire una delicata vicenda sentimentale, per poi rovinare tutto con un finale sciatto.
Bisogna pensarci.
La prima idea, quella di emettere urla scomposte, è da scartare senza discussione. Così facendo si
sveglierebbe di soprassalto questa povera gente che ha invece tanto bisogno d'essere dolcemente
distolta dal sogno cupo che dura da mesi e mesi.
Ci vuole dolcezza: e, perciò, Giovannino si fa sotto la finestra della stanza da letto e chiama la
compagna della sua vita con voce pacata e lontana come le voci dei sogni.
Dopo alcuni minuti, una gelosia si socchiude e un viso assonnato si affaccia.
Lei.
Un attimo di perplessità, poi gli occhi piccoli piccoli si spalancano come due fanali. La testa si
ritrae di scatto.
Un urlo acutissimo: «È qui!...».
Ed ecco qualcosa che assomiglia allo scoppio della Rivoluzione Francese. Al primo grido risponde
un secondo più lontano, e a questo un grido più lontano ancora. A uno strillo vicino, risponde uno
strillo più vicino ancora, quindi è il Terrore.
Cigolìo di catenacci, tintinnare di catene, sbattere di porte, tonfi, crolli, acciottolìi, miagolii, guaiti,
campanelli a martello, crepitìo di parole, urla strazianti.
Albertino, schizzato fuori del letto e slanciatosi verso la scala, inciampa nel camicione e ruzzola a
valanga per due rampe. La dolce signora tenta di afferrarlo, ma — scivolando su una palla di
gomma stazionante nei paraggi — riesce soltanto ad abbracciare la colonnina che regge la vasca dei
pesci rossi, e crolla con essa. E le gelide bestiole le si infilano nella scollatura della vestaglia
agitandosi disperatamente.
Naturalmente il gatto — approfittando del periodo d'emergenza — si scaglia sulla scodinzolante
preda. E Giovannino non ha più una moglie, ma un pauroso intrico di capelli, di pesci e di urla.
Intanto il vecchio padre — non avendo ritrovato i suoi occhiali — cammina a tentoni nella casa
semibuia cercando l'uscita. Finalmente trova una maniglia, spalanca il battente ed entra deciso
nell'armadio delle stoviglie.
La vecchia madre — svegliata di soprassalto dal frastuono — ritiene d'essere in presenza di un caso
di terremoto e grida che non pensino a lei ma salvino i bambini.
La bambina piccolissima, abbandonata da tutti, ruzzola strillando dal letto, ma riesce ad aggrapparsi
al cordone del campanello che continua così a suonare come se fossero in procinto d'arrivare tutti i
direttissimi della rete centro-europea.
«No! No!», singhiozza Giovannino davanti alle rovine fumanti della famiglia. «Così non può
andare!».
Tutto da rifare, povero Giovannino: bisogna ricominciare da capo. Fare macchina indietro come
nelle pellicole proiettate a rovescio.
La bambina riprende quota e ritorna a letto. Il vecchio padre esce a ritroso dall'armadio, i cocci si
ricompongono in stoviglie; le stoviglie risalgono e si riammonticchiano sui ripiani. La colonnina si
raddrizza, i pesciolini volano nella vaschetta, la signora riacquista il suo decoro e la sua positura
verticale, Albertino ruzzola in su per la scala, la finestra si richiude. La malaugurata parola di
Giovannino rientra — lettera per lettera — nella bocca di Giovannino, il quale si abbandona
sull'erba, col capo tra le mani.
«Mio Dio, com'è difficile ritornare!».
(Da «Bertoldo parlato» — Sandbostel — 1944).

IL RITAGLIO
16 aprile

Cammino in su e in giù, da un filo all'altro, e vado svelto, ma la fame mi insegue.


Ogni orma sulla sabbia è il segno d'un passo e di un pensiero, e alle centomila orme e ai centomila
pensieri scritti sulla rena, si sovrappongono le mie orme e i miei pensieri.
Supero il reticolato vicino, supero monti lontani, e il mio desiderio disperato ritrova note, dolci
contrade. La piazza grande della mia città è piena di sole e sembra d'oro: gli ombrelloni dei caffè
sono già aperti. Ravviso gli amici seduti ai tavolini, rivedo le belle donne che passano.
Risento il tepore della mia aria. Guardo la gente e i muri; ritrovo, nelle pietre e sui volti, felici giorni
trascorsi.
Ma la fame si incunea nei miei pensieri e mi strappa dalla piazza, e mi trascina lungo strade e vicoli.
«Pane! Pane!», essa grida. «Tu vuoi pane, pane bianco, pane fragrante di forno, pane che, a
stringerlo tra le palme, si schiaccia croccante».
Rivedo tutte le botteghe di fornaio, anche quelle che non sapevo d'aver mai visto.
Pane! Pane! La coltella imperniata sulla tavoletta di faggio si alza e si abbassa, e trancia pane e
pane. Ceste di pane si rovesciano nelle madie delle botteghe, garzoni escono dai forni recando sulle
spalle enormi gerle di fumante pane.
Cammino in su e in giù, da un filo all'altro, e i miei piedi non calpestano sabbia: sotto il legno dei
miei zoccoli crocchia pane fresco.
La fame mi insegue e annoda le mie viscere, e appanna con grassi vapori di cucina il cristallo di
ogni mia visione, e incombe sulla miseria delle mie spalle stanche. Vado più in fretta, tento di
perdermi nei vicoli più complicati dei miei ricordi. Vorrei gridare che ho fame, ma ho paura
d'ascoltarmi e corro adesso, fuggo. Ma la fame mi raggiunge.
Pane, latte, formaggio: la fame grida il gusto dei cibi essenziali, così come la lontananza ridona il
desiderio delle sole cose pure, eterne. Fame e sofferenza sono purificazione del palato e dello
spirito, sono ritorno alle fonti della vita.
Pane, latte, formaggio: ho la bocca piena d'acqua acidula e i tendini delle mascelle doloranti.
Quante ore ancora prima di poter masticare? Ancora cinque ore, poi avrò due patate e una scodella
di rape, e lo stomaco, compreso rapidamente l'inganno, riprenderà a spasimare più dolorosamente.
Sento anche la fame di dopo.
Vado da un filo all'altro, ho le mascelle serrate, ma questo vento maledetto ulula nel mio stomaco
deserto, come libeccio in una grande conchiglia abbandonata sulla sponda del mare.
Questa maledetta aria del nord mi entra da tutti i pori, e io sono oggi un enorme otre, e il vento vi si
incanala e fa mulinello nel vuoto della mia fame.
Fuggo, ma la fame mi insegue. Spingo disperatamente il mio cuore oltre la barriera spinata, e il sole
è l'ora mattutina mi suggeriscono immagini di mattine familiari.
Ecco, il sole entra nelle stanze della mia casa lontano, Albertino si sveglia e i suoi occhi sorgono —
piccoli soli neri — sul parapetto del lettino azzurro a destra del letto grande.
(Adesso, al dì là del reticolato, in mezzo al verde campo d'orzo, un'allodola si leva a perpendicolo,
sale gorgheggiando altissima nel cielo, poi ferma le ali e veleggia controvento, e veleggiando
continua il suo canto; e pare un filo d'acqua che, zampillando d'improvviso, giunga al termine del
suo corso e si apra come un fiore di cristallo scintillante. E i trilli dell'uccelletto immobile lassù
sembrano le goccioline che si staccano — come petali da quel fiore — e ritornano alla terra, e in
ogni goccia è imprigionato un po' di canto e un po' di sole).
Un trillo zampilla dal lettino rosa, a sinistra del letto grande: anche Carlotta ha aperto gli occhi e
saluta il suo centosessantesimo giorno di vita.
Ma nell'aia delle case coloniche, massaie passano recando dal forno ceste di pane bianco profumato.
Uomini rovesciano nei bidoni zincati secchie di latte schiumoso di panna. Nel caseificio vicino, il
casaro impasta il burro fragrante, ancora a grumi e lattiginoso, tolto appena dalla zangola. Un
ragazzo si avvia verso i campi, mangiando pane fresco con burro e noci...
Fame! Fame! Ho fame! E ai desideri e alla mattina del mio cuore si sovrappongono i desideri e la
mattina del mio stomaco.
Vado in su e in giù, ma la fame mi ansima alle spalle. Inghiotto saliva, inghiotto aria, e le mie mani
cercano invano nelle tasche. Niente tabacco, neppure un filo, da tanti giorni. Un po' di tabacco
potrebbe ingannare la fame, ma per avere un po' di tabacco bisogna dare razioni di pane. È tutto un
giro maledetto, quaggiù.
La sentinella guarda indifferente dalla torretta, l'allodola continua a cantare nel cielo, e il cielo è
pieno di sole e di vento. Ma è inutile che io dica la mia sofferenza all'uomo, all'uccelletto, al sole, al
cielo, al vento. Sono tedeschi. Tutto è straniero, tutto è nemico qui.
Rientro in baracca, mi butto per terra, sul pacco delle coperte nel mio angolo, e confesso sottovoce
la mia vergogna al vicino di cuccia: «Ho fame», dico con disperazione.
Egli, senza parlare, mi porge un brandello di giornale italiano trovato nell'imballaggio di qualche
pacco: «Quand'è che i signori internati italiani si stancheranno di mangiare panini imburrati alle
spalle della Germania?».

ISTINTO
18 aprile

Davanti alla baracca 29 uno sta lavorando inutilmente con uno scalpello per spaccare un pezzo di
legna. Un capitano tedesco sopraggiunge e gli parla animatamente aiutandosi con grandi gesti.
L'altro non capisce una parola, allarga le braccia, si stringe nelle spalle e continua il suo lavoro. Il
tedesco se ne va, ma ritorna poco dopo rimorchiandosi un sottotenente, il quale ha nella sinistra un
ciocco di legna e nella destra il martello col quale — poco lungi da quello dello scalpello — tentava
invano di spaccarlo.
Ora si capisce bene la faccenda: uno ha lo scalpello, l'altro ha il martello: si mettano assieme e si
compenseranno.
Gentilezza? No, il senso preciso dell'organizzazione innato nei tedeschi. Quell'istinto che li induce
fatalmente a tentare — ogni tanto — l'organizzazione razionale del mondo.

NAUFRAGIO
20 aprile
Brani di canzoni, nomi di istituti e di uomini, accenni involontari di saluto a mezz'aria, vagano nel
mare di sabbia e di pece di questa attesa, come relitti di un immane naufragio.

PRIGIONIERI U.R.S.S.
22 aprile

Tutto il giorno si incrociano i "Volga Volga", come li chiamano qui.


Andare e venire. Botti adagiate — lunghe e basse — su altissime ruote, botti piene di sterco che
escono dal campo e si scaricano in grandi buche aperte nei vasti campi verdi d'orzo o neri di torba.
E aggiogate ad esse — come buoi all'aratro — cinque, sei, sette coppie di prigionieri russi o italiani.
I prigionieri russi drammatizzano straordinariamente la miserabile vicenda perché camminano
lentissimi e cupi, e pare che le botticelle, invece di sterco, contengano, fusi nel piombo, le miserie e
i dolori di tutto l'universo.
La divisa russa, più che una divisa da soldato, è una divisa da prigioniero: cappottoni lunghissimi
color terra secca, berrettoni di pelo. I volti di quegli uomini sono strani e impenetrabili, gli occhi
sono senza sguardo, le bocche senza voce. Portano sempre a tracolla, legata a uno spago, la gavetta:
e c'è aria di deportazione, di Siberia, e pare impossibile che uomini così possano combattere
battaglie e vincere guerre.

IL LAGHETTO
23 aprile

In un punto del campo le baracche si diradano e una pozzanghera vi assurge quasi alla dignità del
laghetto, per le sponde alte un paio di metri e per l'erba che verdeggia nel fondo, in riva all'acqua
nera, ferma e untuosa come catrame fuso.
Nell'acqua si specchiano quattro o cinque baracche e due pali della luce: ed è questa l'unica
civetteria del Lager. Il cielo non vi si specchia: qui il cielo non esiste quasi mai: per lo più è un
fondo di color grigio neutro, che par fatto apposta per dare maggior risalto alla romantica tetraggine
d'un paesaggio tipo incisione ottocentesca, il quale giustifica la smania di evasione e di conquista
che anima questa gente.
Sulle sponde della pozzanghera, gente razzola come galline. Cercano tra i rifiuti pezzetti di carbone
per far bollire grosse latte di riso e fagioli, da vomitare poi durante la notte.
E viene in mente la periferia della grande città industriale dove si addensano — come rottami alla
deriva — le baracche fatte con le latte di petrolio, e dove anche l'aria trasuda nafta, catrame,
sudiciume e malinconia, e tutto è sordido e disperatamente miserabile.
Ufficiali d'ogni età razzolano fra le spazzature: e l'acqua melmosa ne riflette e ne incupisce le
immagini, e il soldato tedesco che passa guarda e borbotta senza fermarsi.

POZZO NERO
25 aprile

Tutto è razionale, nel Lager, e la bocchetta del pozzo nero è proprio sulla soglia della latrina.
Hanno lasciato aperta la bocchetta due o tre giorni perché vi dovevano pescare con la pompa a
mano con la quale riempiono le botti dello spurgo.
Molti, una diecina, sono caduti nella belletta, e oggi un alpino piantato nel fango orrendo fino alle
ascelle, faceva pensare giustamente a un angolo di girone infernale.

GINNASTICA
28 aprile
Il capitano, davanti alla sua baracca, esegue flessioni, torsioni, piegamenti, circonduzioni, e
l'estrema serietà della quale impronta ogni movimento, e la dignità del suo corpo alto e ben
costruito, e la fissità dei suoi occhi da mosaico bizantino, danno alla pratica sportiva il sapore di uno
strano rito.
Tutte le mattine il capitano fa ginnastica davanti alla baracca, e ogni mattina gente si ferma a
guardarlo. Gente scuote il capo, allarga le braccia, commenta: «Ma chi è quel pazzo?».
«Chi glielo fa fare?».
«Perché?».
Sono irritatissimi e parlano con acredine. Qualcuno non riesce a controllarsi e si avvia aggressivo:
«Hai forse paura d'ingrassare?».

IL RITRATTO
30 aprile

Coppola mi ha fatto un ritratto diligentissimo a matita. Mi vedo finalmente con gli occhi degli altri,
e non sono più il Giovannino di un tempo.
Nella mia carta di riconoscimento c'è la fotografia d'un faccione senza ombre, con ogni minima
ruga spianata accuratamente dal grasso e dal ritocco. Un faccione deserto, con due stupidi occhi
estatici come quelli dei manichini. E i capelli sono ben pettinati, con l'onda.
Una faccia deserta da "dopo la cura".
Adesso tutto è cambiato. L'imbottitura di grasso è scomparsa, la pelle si è asciugata, e la mandibola
— liberata dall'untuoso cuscinetto del doppio mento — mostra il suo profilo che ha una linea
abbastanza decisa e piacevole. Gli zigomi sono riaffiorati dall'epa che li affogava, e movimentano
notevolmente le guance.
Il mio volto possiede finalmente delle ombre: gli occhi sono diventati più grandi, si sono
disincantati e vivono. I capelli si sono emancipati e si arruffano con discrezione sulla fronte che
pare più ampia. Due buoni baffi, decisamente neri, completano la nuova estetica del mio viso e
moderano l'ampiezza eccessiva delle narici. L'imbottitura della collottola è scomparsa, il collo si è
nobilitato e anche il cranio è ritornato a galla, e non ho più la testa da tedesco o da cretino—del—
villaggio, tutta diritta dalla nuca alle spalle. Anche in tutto il corpo ho ritrovato le ossa snelle della
mia giovinezza, e i calzoni che mi si afflosciano dietro come uno zaino vuoto mi ricordano un
detestabile passato di spregevoli cotenne untuose.
Fui sempre decisamente antipatico a me stesso, e più d'una volta irrisi alla mia goffaggine anche
pubblicamente, sui giornali umoristici.
Adesso comincio a diventarmi decisamente simpatico e, quando mi incontro allo specchio, mi
sorrido cordialmente: «Ciao, vecchio! Chi non muore si rivede!».

IL BARATTOLIÈRE

Il barattolière, più che un uomo, è un congresso di recipienti.


È un'assemblea generale di scatolini, un'olimpiade internazionale di vasetti, una esposizione
universale di tegamini.
Il barattolière non è un uomo: è una organizzazione. Ogni cosa commestibile che egli riceve
rappresenta per lui oggetto di amoroso studio, alla fine del quale può formulare un piano d'azione
dettagliatissimo. E — opportunamente destreggiandosi tra scambi con altri generi e frazionamenti
— è in grado di avere a sua disposizione, ogni giorno, quaranta barattoli con le rappresentanze di
tutti gli ingredienti del creato.
E ogni giorno, incasellati i viveri della razione, sciorina la sua tavolozza, e compone.
Fondendo armonicamente sanguinaccio, cacao, margarina, pangrattato e patate, e aggiungendo un
pizzico di sale, una goccia di olio, una spruzzatina di sciroppo e poca farina di castagna, ecco creato
un importantissimo sformato freddo.
Mescolando le fettuccine di rape con zucchero, latte condensato, lardo, un dado, due cucchiaini di
alimento Mellin, due di marmellata, bucce di patate abbrustolite e farina di frumento, ecco delle
polpettine che — fritte in un po' di margarina e pâté di pesce fusi nel tiglio — risulteranno
eccellenti.
Il barattolière non è più un uomo: è un laboratorio completo di chimica gastronomica. Egli trascorre
le sue giornate pestando, impastando, grattando, frullando, abbruscando, cuocendo, arrostendo,
rosolando, sformando, soffriggendo, crostinando, mattarellando, stacciando, macinando,
travasando, friggendo, polverizzando, spappolando, polpettando, impastando, e aspettando.
Giunte le otto di sera, si siede finalmente a tavola e mangia.
Alle nove — stanco morto com'è — va a letto. Alle dieci si alza e corre fuori a vomitare.
(Da «Bertoldo parlato» — Lager di Sandbostel — 1944).

IL MIRACOLO
1 maggio

Dalla folla che brulica lungo il reticolato attendendo la tromba dell'adunata, emerge la giallognola
giacca a vento di Rebora. Dal colletto slabbrato della giacca a vento di Rebora emerge la testa di
Rebora Che appare ancora più vasta, in bilico così sul collo smagrito. Da una manica della giacca di
Rebora emergono le punte di alcune dita e un fagottino rosa.
Rebora in questi giorni è irritato contro l'indifferenza dell'universo, e la sua voce è sempre un po'
aggressiva.
«Mi pare che sia il tuo compleanno, oggi», dice Rebora porgendo il pacchetto rosa a Giovannino.
«Tieni».
Sigarette. Sigarette della razione.
In questa spiaggia ventosa e maledetta, sballottati dalle onde di pece della noia, si addensano i tristi
relitti del pauroso naufragio che sconvolse la vita di tanti uomini.
E d'improvviso, come un miracolo, in mezzo alla informe, sordida, sudicia paccottiglia, affiora
qualcosa di scintillante, di pulito, di puro: un segno di civiltà.
Qualcuno s'è ricordato dell'amico e delle oneste usanze dell'amicizia. Un po' di rosea poesia nel
grigiore di tanta sciatta,
lorda prosa. Non per niente Rebora è poeta.

LA CAUSA DELLE GUERRE


7 maggio
Girano per le baracche a rimettere le assicelle nelle lettiere tre prigionieri: un russo, un francese e un
italiano. Li dirige un caporale tedesco. Nessuno dei quattro conosce una parola che non sia della sua
lingua, eppure parlano, fanno lunghe discussioni. E si capiscono perfettamente.
Accade sempre così fra i soldati, fra gente semplice e ignorante: si comprendono subito. È la cultura
che ostacola la comprensione fra le genti.

COMPLEANNO
14 maggio

Oggi il mio bambino compie il quarto anno. Io rivivevo in lui la mia fanciullezza, ed ora egli mi
sfugge. Conto i suoi giorni con i miei e — per quanto prigioniero — vorrei che il tempo non
passasse mai.

PRIMAVERA SENZA SOLE


20 maggio

Stamattina una sorpresa. Il grande campo verde che si distende davanti al reticolato di levante, si è
velato di bruno. L'orzo ha messo la spiga.
È possibile che sotto questo cielo, gelido, maligno e senza sole, il seme abbia potuto compiere il
miracolo della moltiplicazione?
Obbedisce anch'esso, come tutto qui, alle leggi degli uomini anziché a quelle della natura? I tristi
convogli dei "Volga Volga" navigano ora in mezzo alle spighe mosse dal vento come in un mare
ondoso, e si vedono soltanto le teste degli uomini aggiogati al timone e il tetto della botticella, e
sembrano elementi d'un naufragio.

DISPERAZIONE
25 maggio

Nella luminosa fissità del mezzogiorno, sotto il cielo senza colore, in mezzo alla inflessibile
geometria delle baracche e allo squallore della sabbia, la disperazione non è più della terra, ma
incombe nell'aria e si espande nel vuoto di questa vita deserta.
E gli uomini chiusi nel recinto la respirano tutti, e la disperazione di uno diventa incubo di tutti.
Disperazione, non dolore, non angoscia. Il capitano X ha ricevuto la notizia che l'unica sua figlia, di
quattordici anni, è morta quaranta giorni fa, a Firenze.
Disperazione: l'avevano afferrato per le braccia e per le spalle per impedirgli di gettarsi contro il
reticolato per farsi sparare e finirla, e lo tengono ancora, ma è inutile, perché si è impietrito ora, con
tutti i nervi nel gesto di ribellione. Non parla. Più che tremare vibra, quasi fosse diventato tutto di
cristallo, come i suoi occhi sbarrati e fissi nel nulla, e pare che a un tratto qualcosa di lui debba
incrinarsi crepitando.
Disperazione: la sensazione precisa, opprimente, insopportabile dell'impotenza.
La gente abituata ormai a giorni uguali e immobili, si è illusa che anche ogni cosa della loro vita
consueta si sia fermata. Che i decreti del destino abbiano loro concesso la moratoria e che tutto
debba riprendere soltanto al loro ritorno. Ed ecco, d'improvviso, l'illusione s'infrange come un bulbo
di cristallo.
Il tempo, la vita, la morte, tutto continua laggiù; ed essi si sentono abbandonati al margine della
strada mentre gli altri continuano il loro andare, e già sono lontani e sembra che non potranno più
raggiungerli.

NOI VIVI
28 maggio

Improvvisa, con la malagrazia che caratterizza ogni azione che si manifesti in questa terra, ecco una
giornata di sole dopo cento di vento e di pioggia.
Sole caldissimo che fonde il catrame sul tetto delle baracche, e arroventa l'aria delle stanzette e dei
cameroni.
Gli uomini si liberano dei loro cenci, tolgono le cortecce misere e sudice, si stendono sulla sabbia
per asciugare i corpi ancora umidi d'inverno.
Ossa al sole.
Ventri scavati, costole che affiorano, scapole che tentano di forare la pelle. E le giunture sembrano
grossi nodi, e vengono alla mente le riproduzioni dei libri di medicina o le incisioni della vecchia
Illustration: «Gli appestati di Kuantung», «Aspetti della carestia in India»...

DELUSIONE
29 maggio

Il sole e il vento hanno asciugato il laghetto. L'acqua nera e il gioco dei riflessi davano l'illusione di
una vita sotterranea, misteriosa: come guardare attraverso il cristallo d'una finestra aperta su un altro
mondo.
Ora è una nuova delusione, e il pensiero non può più evadere tuffandosi in quella presunta
profondità, perché si vede il fondo che è sabbia, e la gente sosta sulla riva come davanti a una porta
che non si aprirà mai più.

TESTE RAPATE
30 maggio

D'inverno si lasciavano crescere baffi, pizzi, barbe e zazzere. Adesso tutti si radono i capelli
scorticandosi la cotenna coi "Gillette". Non manìa igienica, ma la solita manìa autolesionistica che
hanno un po' tutti gli italiani.

LA "GAÌNA"
Oggi ho rivisto un personaggio di mia conoscenza. Parlo di quel tale Albertino che da tre anni e
cinque mesi e tredici giorni ha invaso il territorio della mia giurisdizione familiare approfittando
vilmente del fatto che io — a tutto danno della mia indipendenza di zitello — avevo optato in
favore del regime matrimoniale. Ho rivisto Albertino, ed era tanto tempo che non lo vedevo. Ma,
prima di darvi i particolari dell'importante ritrovamento, debbo spiegarvi la singolare faccenda dei
sogni.
Io, Giovannino, ex-grasso ma tuttora sentimentale, sogno, e sogno come sognate voi: assumo una
corretta positura orizzontale, chiudo gli occhi e dormo. E mentre dormo, vedo con gli altri occhi
cose e persone, edifizi e sistemi; e vivo vicende strane, e trovo, nei casellari del mio cervello, tutto
un mondo d'esperienze fisiche, intellettuali e sentimentali.
Ogni esperienza è un documentario: è un rotoletto di pellicola cinematografica con colonna sonora,
che noi teniamo al suo posto nei casellari della memoria. Nel sogno il nostro subcoscienie è
l'operatore bizzarro che butta all'aria cento bobine, le tagliuzza, mescola i pezzi e li riappiccica in un
unico film che poi proietta sullo schermo del nostro sonno. E prima che ritorni la luce rimette tutto a
posio rapidissimamente. Tutto a posto per l'altro operatore, quello diurno, quello non bizzarro. Per il
Giovannino dei giorni feriali.
Gli uomini sognano cosi perché hanno lutto il loro mondo nel cervello. I bambini no: i bambini
hanno il cervello con le caselline ancora vuote, O con poche e piccole Cose: un ritrattino della
mamma, della nonna, del babbo; il ritrattino d'un gattino, di un fiore giallo, di un bottone dorato, di
un cavallino bianco. E siccome sognare è un bisogno, e poiché il subcoscientino di Albertino non
trova nelle caselle le pellicole da proiettare, e poiché non ha un mondo suo, il subcoscientino esce e
scorrazza nel mondo degli altri.
Il bambino dorme nella sua esigua stia; guardatelo, è immobile. La fiamma della lucernina è
sommessa e soffice come un velluto. Il bambino dorme, immobile; ed ecco che dal corpo del
bambino si sfila qualcosa di bianco e di evanescente. È un altro bambino, identico al primo: un
bambino fatto d'aria e di pochissima luce. È il subcoscientino del bimbetto che si leva e va in libera
uscita; che va in giro per la notte degli altri a vivere la sua vita.
Così sogna il bambino; e l'altro bambino, quello d'aria, rientra all'alba e si annulla in quello di carne.
Ma nella casellina dove stava il ritratto del cavallo, al suo risveglio Albertino ritroverà un fUmetto
che prima non c'era: cento fotogrammi con un cavallo che vola nel cielo. E riaprendo gli occhi alla
luce, Albertino comunicherà al mondo circostante che lui è stato sulla luna, e che ce l'ha portato un
cavallino bianco.
Così sognano i bambini, e per questo stanotte ho rivisto Albertino.
Sonnecchiavo sulla vetta del mio "castello", nel camerone gli internati dormivano profondamente.
Vidi a un tratto apparirmi nel raggio che filtrava da uno strappo nella carta della finestra, un omino
che pareva fatto di luna.
Stava ritto sul mio ex-pancione, aveva la camicia bianca, lunga fin sui piedi, aveva i capelli a
ricciolini. Aveva una faccia da filibustiere.
Era lui. Era lui che veniva in sogno a ritrovare suo padre, a ritrovare l'uomo che lo rese figlio.
Mi guardava perplesso, e io gli domandai dove andava. Spiegò che cercava il babbo, e io gli dissi
che il babbo ero io, appunto, e mi sporsi dalla cuccetta in modo che il raggio mi illuminasse il viso.
Mi considerò allora gravemente, sfiorò col dito le mie guance incavate. Gli chiesi con discrezione
cosa facessero di bello i vari componenti della famiglia, e ne ebbi notizie interessanti: il nonno
rifaceva il verso del leone; la nonna raccontava la favola del sacco, e la mamma si limitava a
minacciare continuamente Albertino dì orrende sanzioni.
«E cosa ti dice?»
«Se me cattivo viene mangiarmi i tedeschi».
«Taci, Albertino! Il nemico ci ascolta!».
Lo feci nascondere vicino a me, sotto la coperta. Un angoletto del panno bigio era illuminato dal
raggio sottile, e si vedeva il marchio dell'aquila con le ali spalancale.
«Gaìna?», si informò Albertino.
«Speriamo, Albertino. Speriamo, con l'aiuto di Dio».
Parlammo sottovoce a lungo. Egli mi parlò di certi fiorellini che ogni giorno si rinnovavano nel
bicchiere davanti al quadretto raffigurante l'antico, dolcissimo viso del Figlio di Dio.
Poi sì frugò nella tasca del camicione, e trasse parecchie cose interessanti: una pallina verde, un
bottone dorato, un tasto della mia ex-macchina da scrivere.
«Me anche fucile!», mi informò alla fine.
«Io no», risposi con malinconia.
Spostai la tendina di carta e vidi tremolare nel cieTo la prima luce dell'alba.
«Torna a casa, Albertino», gli dissi, «la mamma ti aspetta».
«E te?».
«Io verrò dopo. Domani, Albertino, Morgen...».
Si trasse di sotto la coperta scuotendo il capo. mi fece ciao ciao con la manina trasparente.
Sollevai la tendina; il cielo era chiaro, ormai: vidi Albertino volteggiare un po' in aria, poi puntare
deciso verso sud-ovest. Poi vidi che si fermava sul campanile del Santuario, e mi preoccupai.
«Ma cosa combini, piccolo sciagurato?».
Aprii cauto i cristalli e m'affacciai. E allora vidi dieci, cento, mille altri Albertini uscire dalle
finestre della caserma grìgia ed immensa, e dirìgersi tutti verso la torre.
E quando si udì la prima nota della sveglia, tutti si levarono in un unico volo, come bianchissimi
colombi, e puntarono verso le tiepide terre di laggiù.
Un pesante trimotore apparve d'improvviso e s'avventò sul candido stormo. Soffocai un grido
d'angoscia. Ma lo stormo non si scompose neppure, e continuò a veleggiare verso il paese del sole.
Non si possono intercettare i liberi sogni dei prigionieri. Scomparve lo stormo bianco nel cielo, e il
cielo era azzurrino, e io mi rallegrai.
Anche oggi sarà una straordinaria giornata d'autunno.
(Dalla conversazione «Umorismo razionato» Lager di Czestochowa — 1943).

REGIA UNIVERSITÀ DI SANDBOSTEL


3 giugno

Giugno tedesco. Comincia con una giornata autunnale, fredda e piovigginosa. Il cielo sembra
essersi ricordato dell'estrema gravità dell'ora ed è ridiventato arcigno come la gente che esso
opprime dalla nascita alla morte.
L'università che ieri aveva iniziato i suoi corsi, sospende le lezioni fino al ritorno del bel tempo.
Perché si tratta d'una università con orari e programmi precisi e fior di docenti, ma senza tetto.
Un gruppetto di gente seduta per terra dietro la baracca X: aula di Giurisprudenza; un gruppetto
dietro la baracca Y: aula di Belle Lettere; uno dietro la baracca Z: aula d'Ingegneria; poi l'aula di
Agraria, poi l'aula di Ragioneria.
Dalla torretta di rimpetto all'aula di Belle Lettere, la sentinella assiste indifferente alla "lectura
Dantis", e ode parole che non può capire:

...lungo la proda del bollor vermiglio


ove i bolliti facean alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e il gran Centauro disse: Ei son tiranni
che dier nel sangue e nell'aver di piglio.
Quivi si piangon gli spietati danni...
COLLETTO BIANCO
10 giugno

Un altro miracolo: qualcosa di candido, di immacolato, scintilla come se una mano — sbucando da
una di queste nuvole basse — avesse spruzzato di biacca la massa bigia dei seimila uomini vestiti di
stracci.
Oggi, festa della Marina e messa solenne in cappella, con due guardiamarina in guanti bianchi ai lati
dell'altare e l'anziano del campo in prima fila, piantato saldamente sulle gambe come se si trovasse
ancora sul ponte della sua nave.
I pochi portati qui con le loro cassette hanno tirato fuori la foderina bianca del berretto, la camicia
bianca, la divisa buona. Gli altri, arrivati qui in maglione e in sandali, hanno frugato
affannosamente nel fagottello di roba racimolata lungo il viaggio, si sono raccomandati a tutti gli
amici, ma alla fine qualcosa di bianco l'avevano anche loro. Magari soltanto un colletto appuntato
con gli spilli sul maglione blu.
Li guardano curiosamente, ridacchiano un po', tentano battute spiritose su quel candore che qui —
in mezzo al ciarpame sordido — sembra pazzesco e insopportabile. Ma subito tacciono e si fanno
seri, perché capiscono che è una cosa straordinariamente importante.
Navi eternano la loro immobilità tra le alghe fluttuanti, sul fondo dell'oceano; navi fendono ancora
il mare con la prora orgogliosa.
E i naufraghi — gettati dalla tempesta sulla sabbia ostile d'una spiaggia inerte — attendono.
E nell'attesa si ricordano del passato e dell'avvenire, dei morti e dei vivi. Si ricordano di se stessi,
perché son ben sicuri d'esser vivi anch'essi, e il presente non è qui, ma fuori di qui, sotto l'antica
bandiera.

SPETTACOLI
14 giugno

Passa un caccia altissimo e lascia dietro di sé una sottilissima, diritta striscia di bianchi vapori, che
rimane ferma lassù, come gelata, e pare una rigatura tracciata col diamante nel cristallo della sfera
celeste.

FATALITÀ
16 giugno

Russi lavorano fuori del reticolato a raffittire il filo. A guardarli — stando seduti per terra — si
vedono proiettati contro il cielo livido, dietro la rete spinosa, e sembran fantasmi più che uomini.
Perché non parlano, e i loro gesti sono lentissimi, quasi fatali, e ogni tanto si immobilizzano tutti
assieme, così come si trovano — inginocchiati o rannicchiati o in piedi o curvi o con un braccio
levato — per tre, cinque, dieci minuti. Come un film che si fermi su un fotogramma. Si dimenticano
ogni tanto d'esser uomini, e diventano il ricordo d'un loro gesto, d'un loro atteggiamento.
Diventano il ricordo di se stessi.

VARIETÀ
18 giugno
Spettacoli d'oggi: le spighe nel campo di segale che dilaga davanti al lato est del campo cominciano
a biondeggiare. Per la carrareccia fra il campo e il reticolato passa una grossa ragazza in bicicletta e
incrocia con le pecore del solito gobbo. Uno, dal recinto, grida: «Ehi!», e la ragazza si volge a
guardare. Il gobbo e le pecore no, e tirano diritto indifferenti. Un ciuffo di fiori rossi è sbocciato in
mezzo alle due reti di filo spinato. Passa un gabbiano nel cielo tempestoso e pare un fazzoletto
bianco portato via dal vento. È lunedì.
Domani importanti novità: invece della ragazza passerà un vecchio in bicicletta, e invece di lunedì,
forse, sarà martedì.

CIELO DEL NORD


20 giugno

Due mesi ormai, qui al nord. Qualche giornata di sole, come un miracolo, e tutti gli altri giorni
freddo, pioggia, vento. Un vento rabbioso che sfilaccia le nuvole come lana. Un enorme, incessante
conflitto di nuvole nere e di nuvole bianche in un cielo basso e sconfinato.
Non ho mai visto un cielo così incombente, così ampio: qui infatti la terra è piatta e deserta come
una lastra di marmo e nessun ostacolo si frappone all'occhio. È un piano che taglia nettamente la
sfera celeste, e chi vive in queste lande ha l'idea di trovarsi sotto un'immensa calotta di cristallo.
E nonostante quell'immensità, gli pare che l'aria a un certo momento gli verrà a mancare e — anche
libero — si sente prigioniero.

PREZZO DELL'INTERNATO
25 giugno

La "Voce della Patria" del 12 giugno informa che a chi, in Italia, catturi un nemico o lo denunci, il
Comando Tedesco dà facoltà di liberare a propria scelta un soldato italiano che si trovi internato. A
chi non voglia valersi di questa facoltà, spetta un premio di L. 2.000 (duemila).

PIOGGIA DI GIUGNO
28 giugno

Piove a scrosci e il campo deserto è un mare di fango, e le baracche, inzuppate d'acqua, sembrano
sordidi barconi che marciscono in un porto dimenticato.
Le maglie e le camicie appese al fil di ferro, davanti alla baracca, penzolano come gocciolanti
stracci da secchiaio.
Qui anche l'appendere ad asciugare un po' di bucato è un vano atto di fede. Perché il tempo è
instabile come l'umore di questi altri stracci messi qui a rasciugarsi dopo il lavaggio nel fiume del
dolore, che doveva essere un bagno purificatore: un barlume di sereno, poi livida e piagnucolosa
tetraggine gonfia di rimpianti, di riserve, di risentimenti e d'apprensioni.
E sperare in una resurrezione spirituale di questa gente è vano atto di fede.
Spiove, e la gente ritorna fuori. Il campo è chiazzato di pozzanghere e in esse si specchia
l'irrimediabile fallimento della
borghesia italiana, vestita di cenci e di grettezza.
LE STELLETTE CHE NOI PORTIAMO

La mia divisa continua nella sua implacabile decadenza: le fodere cadono a brandelli, i gradi sulle
maniche e il fregio della bustina, perduto l'oro, mostrano l'anima di rame; sui gomiti il panno si
spela; i calzioni per il sovrapporsi delle toppe e dei topponi — più inchiodati che cuciti —
diventano sempre più miserabili, la suola degli stivaloni non esiste più e le tomaie si screpolano
come gomma secca, i bottoni cuciti col fil di ferro sfilacciano le asole.
Ma d'una sola cosa mi preoccupo: che le stellette siano sempre saldamente fissate alla mostrina del
bavero. Per questo ogni mattina provo col pollice la vite del peduncolo: che sia girata fino all'ultimo
millimetro.
Le stellette che noi portiamo...
Nemico acerrimo del militarismo, queste piccole stelle io me le sento avvitate alla carne, e perderle
sarebbe come dover rinunciare a un po' di me stesso.
L'Italia, la bella donna che si assideva maestosa nel fregio dei diplomi di benemerenza e delle
pergamene, impugnasse essa il martello o la spada, o facesse mostra di ingranaggi o di stemmi,
aveva sempre una stella che le brillava sopra la corona turrita, o sulla fronte nuda, se la sua
posizione di proletaria le consigliava di andare senza cappello.
Odiatore di stelle, l'inventore d'un nuovo ordine cancellò quella stella che definì "stupido stellone",
e l'Italia, senza stella, non fu più la mia Italia.
Ora ha tolto la stella anche ai soldati italiani, e per questo io non li sento più fratelli, ma stranieri e
nemici.
Le stellette che noi portiamo...
Vittime della guerra, l'orrendo male che l'umanità si sforza di rendere inguaribile e inevitabile,
uomini italiani insanguinarono tutto questo secolo. E quando un soldato italiano muore, il suo corpo
rimane aggrappato alla terra, ma le stelle della sua giubba si staccano e salgono in cielo ad
aumentare di due piccole gemme il firmamento. Per questo, forse, il nostro cielo è il più stellato del
mondo.
«Le stellette che noi portiamo» non rappresentano soltanto «la disciplina di noi soldà», ma
rappresentano le sofferenze e i dolori miei, di mio padre, dei miei figli e dei miei fratelli.
Per questo le amo come parte di me stesso, e con esse voglio ritornare alla mia terra e al mio cielo.
(Commemorazione dello Statuto — Lager di Sandbostel — 1944).

DOMENICA
6 luglio

Da stamattina alle undici, grande movimento nel cielo tempestoso. Aerei che continuano ad andare
a ondate verso sud-ovest. E da sud-ovest rombi cupi fino alle due del pomeriggio. Seduto sulla
sabbia, con le spalle contro una baracca, guardo le nuvole attraverso la rete del recinto e ascolto
l'eco della guerra degli altri.
Fuori, per la carrareccia che gira rasente al reticolato, passa il solito gobbo di tutti i giorni col suo
gregge di pecore. Un gobbo a cuneo, che quando si ferma sembra uno dei fittoni della siepe.
Un agnellino si infila nelle maglie della doppia rete spinata, ed eccolo dentro il campo. Si impiglia
nel viluppo di filo che è nell'angolo, sotto la torretta, e continua a belare.
Pare la voce d'un bambino, e io penso a mio figlio. E mi prende un'angoscia disperata, perché
quell'invocazione mi dà la sensazione esatta della mia impotenza.
Il rombo dei motori è cessato e l'orizzonte ridiventa muto. Solo il vento si ode, che straccia
crepitando il suo sottile velo di ghiaccio contro i fili della siepe e porta lontano il pianto vicino,
rendendolo più vano e disperato ancora.

PIOVE SEMPRE
10 luglio

Piove sempre, e un po' di sole pare non un dono di Dio agli uomini, ma una concessione che gli
uomini fanno a Dio. Tutto a

rovescio: piove tutto il giorno, poi, verso sera, smette e si vede il sole. Un disco rosso—anguria
appiccicato su un cielo di catrame. Un sole impossibile, tra l'Apocalisse e la cartolina illustrata.
Come tutto, qui.

RIPASSO GENERALE
11 luglio

Dopo il silenzio, tutti incasellati nelle cuccette, uno a fianco dell'altro, uno sopra l'altro, come nella
triste scansia d'una casa d'emigranti.
Seduto sulla sponda del castello — la testa tocca il soffitto — Arturo suona, e il mantice della
fisarmonica si apre a libro, e dalle pagine escono ricordi come fiori secchi schiacciati tra foglio e
foglio. E la musica li rinverdisce.
C'è tutto. I tiepidi silenzi delle sere d'estate: il bar alla periferia, con le sedie di ferro e i tavolini
rotondi, sotto gli alberi, vicino alla fontana.
La stanzetta all'ultimo piano e il piccolo fonografo a valigia, che dipana il filo delle illusioni avvolto
sul disco luccicante.
Malinconia: la sera tardi — malnutriti, malvestiti, col cuore pieno di ricchezza e la testa piena di
gloria — guardare l'acqua del torrente che passa sotto gli archi del ponte, come notte liquefatta.
Guardare di notte il treno che passa sul terrapieno. L'argine del torrente. Lontano, la città
fosforescente, l'insegna luminosa rossa sul tetto dell'albergo vicino alla stazione, e l'eco del ballo
all'aperto. Sulla sponda dirimpetto — in riva all'acqua — la «Casa Rossa», che ripete alla notte
angosciosi racconti d'annegati. Il tepore asciutto di una mano sottile, nell'umidore che ristagna sul
prato come aria bagnata. Le nichelature della bicicletta tuffata nell'erba fradicia, come lucciole
immobili.
Passeggiare lungo viali deserti nell'attesa inutile, dolce e angosciosa. Pensare alla morte con voluttà,
mentre si contano i secondi col terrore di perderne uno, e gli occhi bruciano.
Neve alla periferia. La grande fabbrica ha tutte le finestre spènte, e dalla gelata trasparenza dei vetri
spiano fantasmi. I piedi bagnati, il palo della lampada e il cerchio esiguo e preciso della luce, come
una bolla d'aria sul catrame del buio.
Sul viso le gocce gelate del bavero della pelliccietta di lei (una goccia gelata ogni pelo), come
tuffare la faccia nell'erba rugiadosa. E la bocca calda e il profumo del rossetto che rimane a lungo
sulle labbra.
Arturo sfoglia il libro della vita d'ognuno, ogni canzone è un'immagine del passato, e la stanza è
piena di giovinezza.
POESIA MODERNA
12 luglio

Baracca 67, stanza 12. Il tenente Gianrico Tedeschi tiene una lettura di poeti moderni: Quasimodo,
Montale, Ungaretti, Saba,
Scipione, Cardarelli, Dora Martius, Rebora. Quest'ultimo presente al raduno totalmente: cioè anima
e corpo.
Tutto è diverso qui, e anche i poeti moderni parlano a Giovannino con un'altra voce. Le loro parole
spesso suonavano
straniere al suo orecchio, e li sentiva quasi sempre ostili e vestiti d'ambiguità. Creature letterarie,
più che umane: un po' come «Le muse sconcertanti» di De Chirico.
Qui essi gli parlano con voce cordiale: versi si appiccicano al suo animo come carta bagnata su un
cristallo, e le parole sono trasparenti, umane, e ripetono l'eterno miracolo della poesia perché sono
straordinariamente attuali.
Ungaretti e i nostri giorni disperatamente uguali:

Una volta
non sapevo
ch'è una cosa
qualunque
perfino
la consunzione serale
del cielo
...

Vittorio Sereni e i rimpianti del tempo che non tornerà:

Anche l'ora verrà della frescura


col vento che si leva sulle darsene
dei navigli e il cielo
che per le rive s'allontana.
Torni anche tu, Diana,
tra i tavoli schierati all'aperto
e la gente intenta alle bevande
sotto la luna distante?

Ronza un'orchestra in sordina;


all'aria che qui ne sobbalza
...

Rebora l'ermetico e le nostalgie di casa:

Migra per le vene la nebbiosa


pianura dove in un lento sguardo
lontanamente Milano emerge
ripetendo una fronte corrosa
in monotone estasi
dalle familiari facciate.
L'antica aria, avverti,
recide ferma lungo strade protese
la pena che accompagna corsi d'acqua invernali
...
I tetti delle case milanesi
guidano il battito sereno del cuore
raso ai segni di morte. Ancora illesa
è la fronte del mondo fruttuoso
di pietà lungo mura attutite
mentre per viali e piazze
suffraga il tempo un rimprovero
come il vento radente
dai laghi lombardi
e dai remoti astrali
rifioriti.

La nota cadenza del dialetto,


la perplessa periferia annebbiata
verso una distante perfezione d'alberi
il passo nostro nei viali.

Ma chi inventò la parola «ermetismo»? Chi inventò questa calunnia?

APPUNTI
20 luglio

Fantasmi aspettano, di notte, appostati agli angoli delle baracche.

***

Nella stanza buia suona una fisarmonica. Tutti sono sdraiati nelle cuccette, uno sopra l'altro, uno a
fianco dell'altro. Fantasmi arrivano, richiamati dalle canzoni, e siedono sulle panche attorno alla
tavola.
Tutte le mattine, al mio risveglio, guardo la fotografia della mia bambina. E vedo che talvolta
Carlotta ride e talvolta è corrucciata. E allora io dico subito: «Oggi sono su», oppure: «Oggi sono
giù». I nostri occhi vedono come vogliamo noi.

***

I baracconi, quelli a stanzone unico con duecentottanta persone che dormono nelle lettiere a tre
strati, con tutti quegli stracci e quella mercanzia che pendono dal soffitto, e con quel fumo e con
quella gente vociante che brulica attorno alle stufe e alle tavole, danno l'idea delle famose baracche
dei cercatori d'oro che compendiavano tutto: emporio, taverna, bisca, tabarin. E ci si aspetta che, da
un momento all'altro, una ballerina salti su una tavola e cominci a sculettare, ci si aspettano colpi di
pistola o navajas che sibilano all'orecchio e vanno a piantarsi sulle assi delle pareti. Ma non succede
niente di tutto ciò: soltanto la gente che è attorno ai tavoli pesa le razioni di patate come peserebbe
pepite d'oro.

***

All'adunata. Uno squillo di tromba, ed ecco seimila persone immobili, mute, davanti al deserto
silenzio delle baracche vuote. Nei ranghi, quando suona l'attenti, la mia personalità si annulla e sono
soltanto l'infinitesima parte di un'impotenza collettiva. Mi sento come un mattone fra i centomila
mattoni di un muro. Qualcosa di orrendo sta per accadere in questa morta immobilità. Il mio
bambino sbuca di corsa dietro una baracca, e lo insegue un uomo che lo vuol uccidere. Lo vedo, mi
vede e mi chiama. Ma io sono un mattone di questo muro impassibile, e il mio cuore è un insetto
vivo chiuso dentro un diamante.
Suona il riposo. Mi stupisco di essere ancora in grado di muovermi, di parlare.

***

«Come canteremo il Cantico del Signore in terra straniera?».


(Salmi di David. Di Geremia)

GIOVANI

Hanno il dente avvelenato. Sfogavano la loro bile dalle colonne dei giornaletti dei G.U.F. ed ora —
con gli stessi argomenti — fanno il processo al fascismo in termini ambigui perché sono furbi e non
s'impegnano a fondo, e si preparano a sfruttare questa triste avventura per annidarsi nei nuovi
giornali e di lì sfogare il loro risentimento di uomini mancati.

ASSISTENZA MORALE
24 luglio

Cambia improvvisamente il tono di certe lettere da casa. Scrivono, per esempio, al capitano P.:
«Siamo fieri della tua fermezza di carattere e apprezziamo la nobiltà del tuo sacrificio. Bravo, tieni
duro!».
In tutte le lettere precedenti si diceva invece allo stesso capitano P.:
«...e non fare l'imbecille. Torna in Italia ad ogni costo. Aderisci!».
La lettera ultima è datata 6 giugno. Strana coincidenza: proprio il giorno che seguì la presa di
Roma, e lo stesso dello sbarco alleato in Francia.

AIUTI
26 luglio

Togliendo lo zaino appeso alla parete, il capitano L. scopre qualcosa che non aveva notato prima.
Sul cartone biancastro del pannello c'è un disegno a matita, opera d'un ignoto prigioniero britannico:
una testa di cavallo incorniciata da un ferro di cavallo, e due parole in stampatello: «Good luck».
Buona fortuna.
Aprendo il pacco arrivato dall'Italia, il tenente F. scopre — conficcata in un sacchetto di zucchero
— una pallottola calibro 12,5, omaggio dell'ignoto aviatore britannico che ha mitragliato il
convoglio ferroviario.
Si comincia a vedere qualcosa dell'alleanza con l'Inghilterra!
L'OMBRA

C'era una volta la mia ombra. Ed era un po' di me stesso in soffice velluto nero; un po' di me stesso
che io portavo a spasso e che ora mi seguiva, ora mi precedeva, ora mi affiancava, ora mi stava
sotto i piedi, a seconda dell'ora, del giorno e della stagione.
E talvolta la mia ombra non era sola: ma conduceva per la mano un altro po' di me stesso in velluto
nero. Un po' di me stesso che, in carne rosa, mi scaldava la mano e il cuore.
C'era una volta la mia ombra, ma erano i tempi in cui i bambini erano davvero fatti di carne rosea e
tiepida, e non di ricordi freddi; e il sole che brillava nel cielo era sole vero, e perciò le ombre
potevano vivere, mentre invece sotto la nebbia le ombre avvizziscono e muoiono.

IL PADRE

C'era una volta il padre: un signore titolare di una notevole dignità, di due importanti baffi, e di una
importantissima esperienza.
Il quale asseriva, scandalizzato, che i giovani dei suoi tempi non fumavano, non bevevano liquori,
non ballavano, non uscivano la sera, non giocavano, non chiedevano danaro, non chiedevano vestiti
nuovi, non consumavano le scarpe sul tacco e in punta, non mangiavano le porcherie dei pasticceri,
non scorrazzavano in automobile, non incretinivano nei cinema, non accendevano fiammiferi
sfregandoli sul muro, non leggevano le sciocchezze dei giornali, non lasciavano l'acqua usata nel
bagno, non assassinavano tutti i calzoni nel posteriore, non andavano senza cappello, non si
appiccicavano al termosifone, non tenevano la luce accesa fino alle due di notte, non si perdevano
in frivolezze come lo sciare, il pedalare, il giocare a tennis e l'ascoltare i vari Semprini, non
sperperavano capitali in posta, non portavano fango in casa coi piedi, non chiedevano mai cosa ci
fosse da mangiare, eccetera.
Un signore autorevolissimo il quale si affaccendava a insegnare che l'uomo serio non si deve mai
occupare di politica, deve soltanto seguire la massa, e rispettare i superiori e gli istituti dello Stato, e
ubbidire agli ordini senza mai discuterli, evitando così, accuratamente, ogni responsabilità e ogni
grana.
E i figli fecero tesoro degli insegnamenti paterni e, in tal modo, ritrovarono — in sicuri recinti — la
saggezza dei giovani dei tempi di papà. E non fumano più, non ballano, non escono la sera, non
incretiniscono nei cinema, non mangiano le porcherie dei pasticceri, eccetera eccetera.
Papà: ma se ritorno!...
(Da «Bertoldo parlato» — Lager di Sandbostel — 1944).

NOIA
3 agosto

Questa noia incessante, come avere al collo un cappio che non si allenta. Questa miseria senza
speranza, questo malessere che impregna di tristezza ogni ora del giorno e della notte. In due mesi,
avvenimenti di formidabile importanza si sono succeduti incalzanti, ma qui è come buttare pietre in
una pozzanghera d'acqua limacciosa: un breve turbamento nella melma, poi tutto ritorna
irrimediabilmente fermo come prima, né traccia rimane. Giornate inerti, ore che si consumano una
dopo l'altra (come una catena che s'inabissi nell'acqua, un anello trascinato dall'altro) ed io assisto
alla loro inutile consunzione con l'angoscia di chi — legato ed impotente — vede fluire goccia a
goccia da una vena aperta nel suo polso il suo sangue che la sabbia assorbe silenziosamente.
Le mie ore si annullano in questa sabbia, e ogni ora mi ruba una goccia di vita, un sorriso dei miei
figli, ed io vedo me stesso scendere gradino per gradino la scala che non si risale mai più.
Questa noia che sa di catrame come l'aria di queste giornate afose. Su di essa cadono gli
avvenimenti enormi, e non la scuotono. Verrà il giorno in cui diranno che tutto è finito; ma io non
godrò neppure quella che dovrebbe essere la gioia più grande, perché questa cadrà sopra la
stanchezza del mio animo come un sasso sopra la melma che non dà rimbalzo. Tutto è negato a chi
ha sognato troppo, a chi troppe volte, col desiderio, ha superato le vette della realtà.

VINCENZO ROMEO
8 agosto

Quelle mosche su quel viso bianco. Girano sopra le palpebre abbassate, si affacciano alle narici, si
insinuano tra le labbra dischiuse.
Avverti il senso della morte, non dal fatto che — a causa di esse — nulla si muove in quel viso, ma
dal fatto che esse ti sono estranee.
Mosche sul volto di un vivo (anche profondamente addormentato e incapace d'ogni reazione) tu le
sentiresti sulla tua pelle, mentre così è come se camminassero su un sasso, sul marmo d'un tavolo.
Su una cosa. Siamo tutti legati da impercettibili radiazioni, come fili, noi vivi, e la morte spezza il
filo.
Il morto è disteso su quattro casse, in una stanzetta dell'infermeria, una specie di ripostiglio con
lettiere sfasciate, e sembra una cosa anche lui, con quello straccio di pastrano buttato addosso alla
meglio, e quella legaccia passata sopra la testa e sotto il mento per tener chiusa la mandibola.
Quattro compagni gli fanno la guardia, assenti anch'essi dal mondo dei vivi, e sembra impossibile
che possano riprendere a parlare e a camminare. Vengono gli altri a vedere l'ucciso, e la fila
silenziosa riempie tutto il corridoio della baracca, e se ne vanno senza un gesto, come se fossero
venuti soltanto per assicurarsi che è morto sul serio. Perché pare impossibile: mezz'ora fa stava
lavandosi alla fontana, e adesso è morto.
A cinque metri dalla torretta la pompa e — dietro la pompa — cento persone in fila, in attesa di
riempire brocche e bacili. Uno ha posato il bacile pieno d'acqua sulla sabbia, a due metri dal filo, e
si accinge a lavarsi.
È una calda mattina assolata, col cielo insolitamente azzurro. Un colpo secco ammutolisce la gente.
Guardano perplessi il compagno accasciato sulla sabbia, poi guardano la torretta. La sentinella —
un omuncolo con gli occhiali rotondi e l'elmo di foggia vecchia, coi due risalti d'acciaio ai lati —
emerge dal parapetto come una vipera cornuta da un canestro, e assiste imperturbabile alla rapida
agonia, come se la cosa non lo interessasse.
Quando capiscono, urlano pieni di rabbia impotente. La palla, deviando su un osso, ha colpito uno
spigolo della baracca di destra, ha bucato la doppia parete, ha trapassato una giubba e una gavetta e
ha spento la sua furia maledetta in un rotolo di coperte.
Egli ha "curato" il suo uomo: l'ha visto posare per terra il bacile e, col fucile in pugno, ha seguito
ogni suo movimento. E quando il prigioniero — già curvo sul catino — ha allungato la mano per
appoggiare l'asciugamani al filo, ha sparato.
La mano non ha toccato il filo, ma il colpo è andato a segno.
È morto subito lì, a quattro metri dalla torretta: la sabbia asciutta ha bevuto il suo sangue, e l'uomo
di lassù, quando ha visto che il corpo era stecchito, ha staccato il ricevitore e ha telefonato al corpo
di guardia: «Ho ucciso un italiano».
Avrà il premio. Se la sentinella spara e sbaglia ci sono gli arresti, se colpisce c'è la licenza. Il
regolamento è inesorabile.
Poco dopo l'aria si rabbuia improvvisamente, e si scatena un uragano di cupa violenza, come per
significare il corruccio divino, e tutti sono alle finestre aspettando che un fulmine incenerisca la
torretta.
Ma l'uragano finisce, e non succede niente: una semplice protesta formale del Padre Eterno.
La pioggia ha lavato la macchia di sangue sulla sabbia.

AFFARI
10 agosto

Alle porte della latrina sono appiccicati foglietti e cartellini: «Cambio Divina Commedia e riso con
sigarette. Rivolgersi capitano X, baracca Y» ; «Profumate i vostri condimenti! Gr. 100 pepe greco
squisito cambio con tabacco. Tenente Y, baracca Z»; «Non dilettante ripara orologi, acquista per
viveri orologi guasti e di poco pregio utilizzazione pezzi di ricambio. Capitano C., baracca Y»;
«Cedo modulo pacco e modulo lettera per pane e sigarette»; «Grammatica tedesca e lamette per
barba cambio con grammatica inglese o spazzolino da denti nuovo».
Commercio.
Davanti alla porta della latrina, prigionieri russi pompano sterco nei loro carri—botte e — quando la
sentinella volta l'occhio — barattano in fretta sigarette per "Lagergeld" con ufficiali italiani che si
aggirano nei paraggi con aria indifferente.
Nella latrina un russo, sudicio e misero come la Siberia degli Zar, è accucciato con le brache calate
su uno dei luridi sedili di coccio e soddisfa i suoi bisogni. Davanti al russo ufficiali italiani si
accalcano e discutono con lui aiutandosi con gesti. E un bel momento il russo trae dai meandri fetidi
e untuosi delle sue brache una fetta di pane: e con la destra porge il pane, con la sinistra agguanta il
danaro.
Commercio di pozzo nero.

SULLA SABBIA

Uomini nudi, carne pallida che si scotta al sole, fra baracca e baracca.
Mille, duemila, tremila: un brulicare di uomini come vermi bianchi. Ma non ricorda niente di
balneare, nonostante la sabbia
e l'illusione del mare, oltre il reticolato, che dà la pianura piatta e l'orizzonte diritto. Piuttosto il
Lazzaretto, la peste di Milano; e l'immobilità delle cose sotto quest'aria afosa e stagnante e sotto
questo sole che si liquefa nel cielo, l'attesa della pioggia che laverà il contagio.

SOLE DEL NORD

Supini, su un telo da tenda disteso sulla sabbia che — a sgranarla con le dita — annerisce i
polpastrelli e li unge, perché qui anche la terra sa di macchina e di carbone.
Nudi, con un asciugamani attorno al capo, fin sugli occhi, guardare il sole attraverso la tela,
socchiudendo le palpebre. I raggi filtrano attraverso la fitta rete, si rifrangono sui fili bianchi e si
vedono i colori dell'iride. Ed è questo l'unico conforto, perché questo è un sole che scalda soltanto la
pelle e lascia gelide le ossa e il cuore: un surrogato di sole, un sole di propaganda.
MAURICE

Maurice Chevalier è morto3. Hanno sparato sul generale De Gaulle in Notre-Dame, con una
mitragliatrice nascosta sotto l'altare maggiore, e il generale è rimasto incolume, ma tra gli altri della
folla è rimasto ucciso Chevalier.
Ricordo quando, tanti anni fa, Dempsey batté Charpentier: mi parve allora che non "George
national", ma la Francia intera fosse finita KO sul tappeto. Adesso che Chevalier è morto, mi pare
che sia morta la Francia. Quando mettevo sul grammofono "Prosper" o "Ma pomme", vedevo
Maurice caracollare sul disco, col suo sorriso grande come Parigi, e pensavo a Napoleone e alla
Vedova Allegra, all'Académie e ai tre Moschettieri, a Murat e a Boule-de-suif, a Verdun e alla
Bohème, alla Legione Straniera e al Moulin Rouge.
Perché c'è una Francia che noi italiani abbiamo un po' tutti nel sangue, e quando udiamo le note
della Marsigliese il nostro cuore ha un sussulto, perché essa è un po' l'inno nazionale del
sentimento, come Parigi è la nostra capitale sentimentale. Chevalier era la voce, era il sorriso di
questa Francia, ed ora essa è muta.
Il generale De Gaulle è salvo, e Chevalier è morto. Penso che, forse, sarebbe stato meglio se,
invece...
Dio mi perdoni: non capisco niente di politica, tanto è vero che soffrivo pene d'inferno quando, per
costruire uno stadio monumentale, mi buttavano giù quattro catapecchie ottocentesche piene
soltanto di fantasmi ammuffiti.

SERA D'AGOSTO

Guardo le mie mani rasciugate e i miei polsi scarniti, e provo una dolce pietà di me stesso. Sotto
quei trenta chilogrammi di carne che ho persi, si nascondeva qualcuno che io credevo morto. Anche
l'anima era coperta di grasso, e oggi è tornata limpida, e in essa io mi specchio e ritrovo l'immagine
della mia lontana giovinezza. Quando guardo le mie ossa minute, provo la stessa dolce angoscia che
sento quando penso alla fragilità del mio bambino: comincio a volermi bene.
Fame: la vita in questi giorni mi va lentamente mancando. Il mio malore mi impedisce di mangiare
le cose che mi danno, eccettuate le pallide patate, scipite e scivolose. Adesso sono solo in baracca, e
uno zaino gonfio di viveri è ai miei piedi, messo lì da qualcuno dei nuovi arrivati. Nel buio umido e
graveolente della sera d'agosto, da tempo io sono intento ai miei pensieri, quando mi accorgo che
una mano magra fruga nella sacca. Non intervengo, lascio fare.
Lascio che quelle dita scarne stringano disperatamente un pezzettino di pane bianco.
Vado a confondermi fra i mille che camminano in su e in giù lungo il reticolato, e mangio il pane a
bocconcini. E i fari delle torrette che ogni tanto s'accendono, mi pare che cerchino me, e ogni tanto
mi batte il cuore, ma non sono turbato. Anzi, sono contento.
Mio figlio aveva fame, ed io ho lasciato che rubasse il pane.
"Anch'io in fondo sono figlio mio", penso. E mi sento protetto da me stesso.

CI
30 agosto

3
Maurice Chevalier oggi è ancora vivissimo. Ma al Lager si parlava della sua morte.
Giovannino seduto per terra sulla sabbia deserta. È solo, ma non è solo. La vita gli diede tre figli,
ma il secondo non ebbe niente dalla vita (né una briciola di luce, né un filo d'aria, né un nome),
perché quando nacque già la morte l'aveva agghiacciato.
Ma egli ravvivò la bocca muta con un soffio del suo respiro; accese gli occhi spenti con un po' di
luce dei suoi occhi, e gli fece un nome con un pezzettino del suo cuore: Ci.
E Ci — non nato — visse. E fu sempre con suo padre, e anche ora è qui con lui, e nessuno lo sa.
Il tempo passa per gli altri suoi figli, ed essi invecchiano minuto per minuto: ma per Ci il tempo non
esiste, ed egli eterna la sua giovinezza.
Ha tre figli: due sono il legame fra lui e la vita; Ci è il legame fra lui e la morte. Due gli fanno dolce
la vita; Ci gli fa dolce la morte.
Gli uomini l'hanno diviso dagli altri suoi figli, ma Ci è sempre con lui; e nessuno può staccarlo da
lui, neppure la Morte. Perché il giorno in cui egli getterà il suo fardelletto d'ossa, Ci ancora sarà al
suo fianco, e lo prenderà per la mano, e assieme cammineranno sulle nuvole cupe e sui mari
tempestosi dell'Eternità.
Un uccellino ha fatto il nido nel suo cuore: Ci. Da tre anni egli lo riscalda col suo amore, e la carne
pallida è diventata rosea, e gli occhi brillano come due perline nere, e i capelli — rasciugati —
riempiono la testolina di minuti ricci.
Gli ho fatto una carnicina candida che lo copre fino ai piedi, e Ci — così, alto niente e senza peso
— sembra un angiolino delle cartoline di Natale.
Non sa parlare, Ci, ma comprende suo padre perché è una parte del cuore di lui, e vive dei battiti del
cuore di lui.

***

Giovannino, seduto sulla sabbia deserta, al limite del campo, sembra solo. E invece Ci è qui con lui,
seduto sulla sua spalla destra, col faccino appoggiato alla sua gota scarna. E insieme guardano oltre
la siepe e oltre la vita, e aspettando qualcosa.

IL PACCO ROTTO

Oggi ho ricevuto un pacco.


Giunto a questo punto del racconto, sarà bene fare un passo indietro, in modo da riportarci cioè al
momento in cui la signora 3432 virgola 5 (io sono infatti il numero 6865 ed essa è la mia metà), al
momento, dicevo, in cui la dolce signora che mi conobbe libero e signorino si compiace seco stessa
d'essere riuscita finalmente a spedire un pacco di cibarie al padre del suo numeroso Albertino e
della sua molteplice Carlotta.
"Ecco", pensa la eccellente personaggia. "Adesso il pacco è in procinto di mettersi in viaggio". Il
ministero delle Comunicazioni telefona al direttore delle Poste: "Voi", dice il ministero (voi, perché
l'esimia signora appartiene al bel paese là dove il voi suona ancora) "voi fate attenzione al pacco del
signor Giovannino: che sia trattato come si deve".
"Figuratevi!", risponde il direttore. "Ho già licenziato l'impiegato che l'aveva timbrato senza prima
chiedergli scusa. State tranquillo".
Il direttore impartisce le sue disposizioni, e il pacco lascia gli uffici postali. Ma non nel furgone,
assieme agli altri, bensì solo e recato a braccia da un incaricato di fiducia sopra un cuscino di
velluto amaranto.
"Forse è meglio bleu—marin", rettifica mentalmente l'esimia signora, "gli dona di più".
E subito avviene la sostituzione del cuscino.
"Cè il pacco del signor Giovannino!", avverte l'incaricato di fiducia appena arriva alla stazione.
"Il pacco del signor Giovannino? Provvedo immediatamente!", esclama il capostazione attaccandosi
al telefono.
"Attenzione: pacco del signor Giovannino! Agganciate un vagone speciale al direttissimo 334. Già
partito? Fate immediatamente un bis dalla stazione di Bologna. Come?... Partita anche la stazione di
Bologna?... Beh, insomma, arrangiatevi!".
Il pacco è in viaggio, ormai: solo, in uno scompartimento di prima classe, molleggiato su un cuscino
di seta azzurra. La gente che aspetta sotto la pensilina delle varie stazioni, si scopre rispettosamente
quando transita il convoglio speciale. "Giù il cappello!", esclama indignato un solenne vegliardo,
reduce dal quadrato di Villafranca, a un giovinastro corrotto dai films americani e dalla musica
sincopata. "Giù il cappello, quando passano i pacchi della Patria!".
(La signora si eccita alla scena: una lezione al giovinastro non gli starebbe male. E immediatamente
un robusto facchino si avvicina al giovinastro e lo prende a calci. Bene! Così impara a rispettare i
pacchi).
Il viaggio prosegue nel più felice dei modi. Siamo ormai alla stazione di Bremervörde.
"Das Paket des Herrn Giovanninen!", telefonano al campo. E chiedono se debbono inviarlo per via
ordinaria, con l'autocarro.
"Ma neanche per sogno!".
Un tassì parte da Bremervörde recando a bordo il pacco di riguardo, e arriva al campo dove il pacco
viene consegnato al destinatario con breve ma vibrante cerimonia. Giovannino è servito!

***

Questo dev'essere, senza dubbio, il concetto che là eccellente signora ha sulla faccenda dei pacchi.
Altrimenti non ci si spiegherebbe come — dovendo inviare cibarie da Parma a Sandbostel — la
detta signora si sia servita, come imballaggio, di una cassettina costituita da sei tavolette dello
spessore di millimetri uno, tenute assieme, più che da otto chiodini, da una disperata volontà di
conservare — anche contro i decreti di Dio — la loro unità nazionale.
Occorre riconoscere onestamente che — qualora la sua marcia di trasferimento si fosse svolta
secondo i desideri della signora di cui sopra — la cassetta sarebbe giunta incolume al suo destino.
Sempre che — si capisce — il coperchio avesse resistito al peso del modulo regolamentare
applicatovi sopra. Ma, dato che le cose dovettero svolgersi un po' diversamente dai piani prestabiliti
dalla esimia mittente, io oggi — approfittando della giornata festiva — ho ricevuto, più che un
pacco, un sacchetto in fondo al quale si addensavano i resti di quello che fu uno dei più potenti
pacchi del mondo.
Come ben si vede, se io avessi detto semplicemente che oggi ho ricevuto un pacco rotto, mi sarei
trovato allo stesso identico punto di partenza in cui mi trovo ora, risparmiando però di dire alcune
migliaia di parole inutili. Ma cosa ci posso fare? La letteratura si fa così. Come la politica, del resto.

***

Oggi dunque ho ricevuto un pacco rotto e (scusate se salto a piè pari nel passato remoto, ma la
vicenda è così incresciosa che cerco di allontanarla il più possibile) e mi portai subito allo stanzino
di Talotti, dove giunto rovesciai il contenuto della mia coperta sul tavolo.
Non c'era nessuno, ma poco dopo entrò Talotti, il quale si trasse la pipa di bocca e scosse il capo, e
disse con voce accorata:
«Non ti puoi allontanare un minuto che subito ti fanno i soliti scherzi inurbani. Chi può essere il
tristanzuolo che m'ha rovesciato l'immondizia sulla tavola?».
«Ma che immondizia!», borbottò Schenardi che sopraggiungeva assieme a Coppola. «Non vedi che
è la nostra spettanza di torba?».
«Torba?», esclamò Coppola. «Quelle sono fettuccine di rape. Le danno alla mano, adesso?».
«È il mio pacco », spiegai io con dignità. «Quelle che sembrano fettuccine di rape sono i trucioli
dell'imballaggio trattati con burro e cacao. Il quale cacao sparso sui sacchetti, sulle scatolette di
cartone schiacciate e sui frantumi della cassetta, dà pure l'idea della torba e della spazzatura».
Seguirono dieci minuti di silenzio profondo e di immobilità assoluta, quindi io mi appressai al
tavolo e trassi dalle macerie qualcosa che biancheggiava. Era la distinta dell'ex-contenuto, ed io la
lessi ad alta voce:
«Marmellata, burro, miele, cacao, riso, farina bianca, tabacco, zucchero, polvere "razzia",
formaggio grana, sapone».
«Ottimo pacco! », disse Talotti con la sua voce pacata di vecchio gentiluomo veneto.
«Vediamo invece cosa manca!», disse Schenardi pratico e sbrigativo come sono appunto gli uomini
della terra ligure.
«Io faccio un salto alla baracca 31 dove mi aspettano per l'adunata dei napoletani», disse Coppola
uscendo. «Poi vengo a darvi una mano».
«Se resto qui prendo tutta quella porcheria e la sbatto nella stufa», dissi io. E me ne andai.
Ritornai tre ore dopo: Coppola stava eseguendo dell'ottima sua musica sulla fisarmonica.
Talotti — garbatamente sistemato nella cuccetta — fumava gravemente la pipa, mentre Schenardi,
gocciolante di sudore e inzaccherato fino agli occhi, dava gli ultimi tocchi al suo infernale lavoro di
recupero.
«C'è quasi tutto», spiegò. «Mancano soltanto il miele e la polvere di razzia».
Riso, cacao, farina e zucchero, erano finiti tutti assieme: però con un setaccetto di fortuna si era
potuto isolare e recuperare completamente il riso. Farina, cacao e zucchero, gettati preventivamente
in acqua in modo che, venendo a galla, polvere e frammenti potessero venire eliminati, attendevano
soltanto un po' di latte condensato e una bollitura per trasformarsi in eccellente budino alla
cioccolata.
Lo Schenardi venne assai lodato e complimentato, e io e Talotti decidemmo di chiamarlo "Artiglio",
quale riconoscimento delle sue eccezionali doti di recuperatore di tesori naufragati.
Coppola continuò a chiamarlo "Maria" in omaggio alle sue provate doti di cuoca e massaia, ma
giunse — tanto era l'entusiasmo — persino a lodare la sua famosa camicia. Una camicia di flanella
scozzese da cowboy, che era arrivata all'ottimo Schenardi al campo in Polonia, accompagnata da un
significativo biglietto della fidanzata: «Ti servirà per sciare. Debbo mandarti anche gli sci, o ve li
passa la direzione dell'albergo?».
La sera banchettammo. Mentre l'acqua del riso realizzava una lunga serie di vittorie difensive
contro il fumo della torba che tentava di portarla all'ebollizione, si stabilì di anticipare l'attacco alla
marmellata, e il primo a scattare fu Coppola, l'insigne musicista. Spalmò di marmellata una buona
fetta di pane, l'addentò, masticò rapidamente, inghiottì, quindi si alzò di scatto e partì come una
fuga di Bach. Seguì un determinato periodo di disorientamento, quindi Schenardi — che intanto
aveva studiato attentamente il panino — comunicò: «Trovato anche miele e polvere razzia. Questo,
più che un vasetto di marmellata, è un vasetto di miele insetticida. La razzia s'è mescolata infatti al
miele dandogli il colore caratteristico della conserva d'albicocche».
«E la marmellata propriamente detta?», notò pacatamente Talotti. «Che fine ha fatto?».
L'Artiglio iniziò le sue ricerche nei cascami del pacco ammucchiati in un angolo; ma non trovò
niente, e uscì per andare a lavarsi le mani alla pompa. Quando poco dopo ritornò, aveva le mani più
impiastricciate di prima, ma era particolarmente soddisfatto.
«Trovata anche la marmellata», disse. «Questo cubetto non è il sapone del pacco, come stimammo
in un primo tempo; è marmellata solida che è seccata. Il burro le ha dato quella patina lucida e un
po' untuosa che ci ha indotti appunto a scambiarla per sapone».
«E il sapone, allora?», chiese Coppola che rientrava proprio mentre stavamo buttando
nell'immondizia il sedicente sapone. Rimandammo le ricerche a più tardi. Il riso infatti era cotto, e
noi avevamo bisogno davvero di un po' di conforto, dopo tante amarezze. Come al solito, Coppola
fu il primo a portare il cucchiaio colmo di riso alla bocca. Inghiottì, poi fece una smorfia.
«Puzza maledettamente di tabacco!», protestò.
«Una puntina insignificante», dissi io. «Due buone cucchiaiate di formaggio grattugiato metteranno
a posto tutto».
Formaggiammo abbondantemente il riso. Ma stavolta il musicista fu molto cauto e, prima d'infilare
il cucchiaio in bocca, attese che cominciassero gli altri. E intanto agitava col cucchiaio la minestra
per distribuire meglio il formaggio. A poco a poco — spettacolo invero suggestivo — una candida
schiuma si formava sopra il brodo.
«Trovato anche il sapone», annunciò soddisfatto l'Artiglio dopo aver analizzato il cartoccio del
parmigiano. Il formaggio infatti era stato sbriciolato dalle macerie del pacco: ma mentre parte delle
briciole erano formaggio propriamente detto, parte invece erano frammenti di un pezzo d'ottimo
sapone bianco tipo "Marsiglia".
«Bene!», disse Coppola alzandosi e uscendo disgustato. «Bene! Allora c'era proprio tutto!».
Talotti, con la sua grazia sommessa, disse per dissipare l'atmosfera di imbarazzo che incombeva sui
tre rimasti nella stanzetta:
«Facciamoci sopra una buona fumata, e non se ne parli più».
Riempimmo le pipe e demmo fuoco aspirando gagliardamente. Così un minuto dopo la cameretta
sembrava una friggitoria di pesce, e Talotti gettava fuori della finestra la pipa e cominciava a
sputare pronunciando espressioni di indubbia volgarità. Non stupitevi per questo modo d'agire da
parte di un irreprensibile gentiluomo quale è effettivamente il mio ottimo amico. Avete mai provato
a fumare tabacco al burro? Rimanevano ancora gli ingredienti per la fabbricazione del budino. Ma
l'Artiglio — molto prudentemente — stava già compilando un cartello: "Cedo ottimo budino alla
cioccolata per due sigarette".

***

Oggi dunque ho ricevuto un pacco rotto, e sono molto contento anche se alla fine m'è rimasto di
esso soltanto un cartoncino orribilmente sudicio. Perché io ho lavato con estrema cura quel
cartoncino e ad un tratto — come la luna quando buca il velo delle nuvole — è apparso un faccino
tondo paffuto. La prima fotografia di Carlotta.
Quindi io stasera sono felice, perché secondo me oggi ho ricevuto il pacco più straordinario
dell'universo.
Il che è bello ed istruttivo.
(Da «Bertoldo parlato» — Sandbostel — 1944).

PENSIERI DI UN GIOVANE
3 settembre

Ha ripulito il "castello", ha schiodato le tavole, ha bruciacchiato gli interstizi, ha lavato con acqua e
cloro le assicelle della lettiera, ha tappato ogni fessura con catrame rubato ai conciatetti, ha buttato
via il pagliericcio con tutti i trucioli, adattandosi a dormire sul nudo legno, ma le cimici stanotte
sono più rabbiose di prima. Si sveglia col collo e coi polsi martoriati: accende, uno dopo l'altro,
dieci zolfanelli, senza trovare niente, perché questi schifosi insetti hanno un'abilità infernale nel
nascondersi, e ognuna delle diecimila fessure delle pareti di legno è un sicuro nascondiglio.
Bisognerebbe bruciare l'intera baracca.
Pensa: il signor Churchill ha ricordato ancora in un suo discorso che l'Italia ha perso la guerra e che
dovrà pagare: molti evidentemente l'hanno dimenticato. Pagheremo, Sir, pagheremo.
Pensa alle città assassinate, all'odio che dilania la gente: le brigate nere, i patrioti, gli aderenti alla
repubblica, i badogliani, i monarchici, gli antimonarchici. Le parole di Mussolini alle unità italiane
addestrantisi in Germania: «Tornando in Italia non abbiate la preoccupazione di incontrare sulla
linea del fuoco altri italiani, sia pure incoscienti o rinnegati...».
Bisognerà pagare, pagare tutto. Bisognerà fare un passo indietro, ognuno dovrà limitare le proprie
esigenze. Tutti dovranno lavorare. Ma per chi? Per che cosa? Cos'è l'economia nazionale? Chi fa
funzionare le ferrovie? Chi paga le pensioni ai
vecchi maestri? Si può fare a meno di tante cose: egli ha imparato a vivere di niente, qui. E poi, in
fondo si tratta di tirare avanti come Dio vuole pochi anni, e tutto sarà risolto per via naturale. Se la
pace non può esistere sopra la terra, sottoterra si trova pace, e sottoterra c'è un posto all'ombra per
tutti.
Ma questa gente — quella che più aveva esigenze — saprà privarsi, sacrificarsi, rinunciare?
La borghesia è scaduta, la "classe dirigente" è naufragata nella sua inerzia. Il popolo, allora? Ma chi
è il popolo italiano? Quello che, il 26 luglio del '43, urlava per le strade inalberando bandiere rosse,
bandiere tricolori, ritratti di Badoglio, di Mazzini, di Lenin, di Garibaldi, di Stalin e di Matteotti? E
che pretendeva dai tabaccai la consegna dei francobolli e delle marche di scambio perché vi era
stampato l'emblema littorio?
Egli pensa all'Inghilterra spietata, alla disinvolta ferocia americana.
La Russia, allora? Il comunismo affascina molta gente. Ma cos'è poi il comunismo se non un altro
"ismo" totalitario?
Si aggrappa al Cristianesimo, ma parlare di Cristianesimo è parlare di politica, di politicanti che
vorrebbero trasformare anche Gesù nel capo di un regime.
Socialismo? Liberalismo? Vogliamo rivestirci di nuovo col vecchio, brandelloso guardaroba dei
nostri padri, degli autori del nostro fallimento?
Egli pensa e si rigira sul tavolaccio: fame, scoramento. Nel buio profondo gli par d'esser dentro una
tomba. Morto senza speranza di resurrezione.
Si alza: fuori un cielo da "Doppio pescatore di Chiaravalle", con la luna e tutte le stelle ben divise in
costellazioni.
A un tratto, verso ponente, palpitano punti di fuoco come lucciole alte nell'aria. Fari si accendono:
boati, ronzio di motori.
Bombardano Brema, e sono forse gli stessi apparecchi che distruggono le città italiane. La tragedia
del suo nemico è la sua
tragedia. Rientrare, tornare a letto, grattarsi il collo rabbiosamente, come fosse carne altrui.
Pensa che non ne può più.
"Sono stanco di fare l'italiano".

MONDI NUOVI

Il pensiero — nauseato ormai dallo sterile, vano e doloroso gioco delle nostalgie e dei rimpianti
appartenenti al morto passato — cerca di aggrapparsi disperatamente ai minimi appigli che gli offre
l'avvenire.
Il russo, il filo d'erba, la nuvola, l'allodola, il raggio di sole, il timbro della cartolina, il colore della
garitta: tutto qui suggerisce un pensiero, tutto serve a convincere questi uomini che essi sono ancora
parte d'un mondo vivo. E credono di scoprirlo, questo mondo, e invece lo creano loro stessi con gli
elementi che hanno portato seco dal di fuori. Non un nuovo mondo scoprono, ma un vecchio
mondo: il loro mondo. Scoprono se stessi. E chi non vede qui le minime cose è colui che — dentro
la gabbia delle sue ossa — ha soltanto gli organi preposti alla circolazione, alla digestione,
all'assimilazione, al ricambio ecc. E perciò sente soltanto la fame, la sete, il caldo, il freddo e la
nostalgia acutissima dei pascoli domestici.

7 settembre
Qui si vede tutto: il filo d'erba, il capello, il granello di polvere.
Un mondo immenso è stato improvvisamente precluso a questi uomini, ed essi sentono il bisogno di
crearne un altro nei pochi palmi di sabbia loro concessi, popolando l'esiguo recinto delle mille
piccole cose che essi vanno scoprendo di giorno in giorno. E ogni minutissima cosa acquista un
significato per gli uomini che non hanno più nulla, come acquista valore ogni minima azione per gli
uomini condannati all'inazione.

MONOTONIA
15 settembre

Il tempo continua il suo cammino fatale, ma qui in questa landa ristagnano ventiquattro delle tue
infinite ore, come acqua che — uscita dalla sponda del fiume — si indugia in una bassa. Ed è la
stessa acqua che continua a scorrere: ma questa è morta e quella è viva.
Ore morte s'aggirano in lento cerchio sotto questa calotta di opaco cristallo. S'incrinerà il cristallo e
il tempo riaggancerà nel suo vortice queste ore e questa gente alla deriva?

GIOVANNINO
18 settembre

Sdraiati sul triangolo d'erba al vertice del quale incombe la torretta, appressare la forbicetta
all'occhio, come per un gioco di ragazzi.
Tra le lame inquadrare oggetti lontani controluce, che si delineano precisi sullo sfondo del
tramonto. Tagliare i fili del reticolato, uno per uno.
Spuntare la baionetta della sentinella.
Trentasei anni, moglie, figli, casa a soqquadro, e dentro fino agli occhi in una tragedia mondiale:
egli non lo dimentica, ma si diverte ugualmente con la sua forbicetta.
Come sei giovane, vecchio Giovannino!

L'AMICO
30 settembre

Ho trovato un sasso davanti alla porta della baracca e l'ho portato a spasso per il campo — andata e
ritorno — spingendolo avanti a piccoli calci.
Per domani alle quindici ho appuntamento col sasso che ho lasciato in una buca. Andremo ancora a
spasso insieme.

IL PACCO PER PAPÀ

«Bisogna preparare il pacco per il babbo» dice gravemente la signora Margherita. «È arrivato il
modulo».
Il signor Luigi interrompe la lettura del giornale; la signora Flaminia ripone il suo libro; Albertino
sospende i suoi lavori di migliorìa alla sveglia. Soltanto la signorina Carlotta si disinteressa
completamente dell'avvenimento, intenta com'è a lottare coi minuti secondi per raggiungere il suo
mezzo anno di età.
«Cominciamo col panbiscotto», dice la signora Flaminia prendendo senz'altro a ordinare le fettine
croccanti sul fondo della cassettina. Ma la signora Margherita l'interrompe.
«Un momento! Mi pare che di panbiscotto non ne voglia più, adesso».
Non ricordano bene come sia, e allora si tirano fuori le dodici lettere del papà contenenti accenni ai
pacchi.
«Già che ci siamo, diamo una passatina anche agli altri generi», propone saggiamente il signor
Luigi. E siccome ha il cervello dell'organizzatore, traccia subito un razionale piano d'operazione: a)
controllo d'ogni singola lettera — da parte delle signore; b) impianto d'una rubrica — da parte del
signor Luigi — nella quale registrare il giudizio espresso in ogni singola lettera sopra ogni singola
voce.
La signora Flaminia e la signora Margherita leggono ad alta voce quanto riguarda il panbiscotto, e il
signor Luigi prende nota.
Dopo tre quarti d'ora si sa tutto sul panbiscotto: "Panbiscotto poco consigliabile"; "Panbiscotto
sempre gradito"; "Panbiscotto fate voi"; "Bene panbiscotto"; "Panbiscotto non gradito"; "Eliminate
panbiscotto"; "Panbiscotto non so"; "Niente panbiscotto"; "Aumentate panbiscotto"; "Diminuite
panbiscotto"; "Panbiscotto inutile"; "Panbiscotto ottimo"; "Panbiscotto stupido".
Il signor Luigi compila la prima classifica: Favorevoli 5 (perché il diminuire implica l'esistenza
della cosa da diminuire); Sfavorevoli 6; Nulli 2 ("Non so"; "Fate voi").
«Quindi sei contro cinque: niente più panbiscotto», conclude il signor Luigi.
La signora Margherita ha un dubbio di natura matematica: sei più cinque undici, più due tredici.
Tredici giudizi, e le lettere sono soltanto dodici.

***

Si passa a una prima attenta revisione. Poi a una seconda, poi a una terza. Si rileggono due, tre,
quattro volte le lettere, si spuntano scrupolosamente tutte le voci, e, dopo quarantacinque minuti, si
arriva a questo risultato positivo: la frase "panbiscotto stupido" è una interpolazione.
In nessuna lettera, infatti, si accenna alla levatura mentale o al grado di cultura del panbiscotto.
Allora, chi delle due signore ha detto al signor Luigi la sciaguratissima frase?
Segue animata discussione che si prolunga. Poi la luce squarcia le tenebre.
L'interpolazione è opera del nominato Albertino, il quale ha espresso anche lui, ad alta voce, un
parere sereno e personale sul panbiscotto.

***

Si riprende in esame la classifica corretta. Cinque favorevoli, cinque sfavorevoli e due nulli: siamo
al punto di partenza.
La perplessità è grande, ma la signora Margherita viene improvvisamente illuminata da Dio.
«Non abbiamo tenuto conto delle date: quello che conta è l'ultima lettera!».
Quarta verifica.
Risultato: ultima lettera: "Panbiscotto fate voi". Penultima lettera: "Panbiscotto non so".
Per il momento è meglio lasciare in sospeso il panbiscotto: si vedrà alla fine. Si passa perciò alla
classifica della seconda voce: "Burro".
E — dopo adeguato studio — si vede che è prudente lasciare in sospeso anche il burro. Poi —
classificati tutti i giudizi — si vede che è pure consigliabile lasciare in sospeso qualcosa d'altro.
Cosicché, alla fine, nella cassettina c'è dentro soltanto una tavoletta di cioccolato.
L'unica voce la cui posizione in classifica risulti chiaramente definita.
La piccola Carlotta, a questo punto, viene sorpresa col modulo—pacco tra le piccole e micidiali
mani.
Occorre patteggiare e, per ottenere il documento, bisogna darle in cambio la tavoletta di cioccolata.
***

È sera, oramai. La signora Margherita piange, la vecchia signora Flaminia geme e sospira, il signor
Luigi — dopo aver dichiarato che i giovani d'oggi non sanno più neanche fare i prigionieri e che ai
suoi tempi eccetera — è sceso in giardino a sfogarsi col cane.
Albertino, seduto per terra in un angolino buio, approfitta dello stato d'emergenza e svolge la carta
della caramella che egli custodisce, da una settimana, nella tasca del grembiulino e che deve mettere
nel pacco per il babbo.
Svolge la carta adagio adagio e dà una leccatina alla caramella: una leccatina piccola piccola.
Poi riavvolge la carta con cura.
Anche ieri ha dato qualche leccatina, anche l'altro giorno, anche tre giorni fa; e la caramella è
diventata un po' magra, e la carta è un po' spiegazzata, a forza di svolgere e riavvolgere. Ma il
babbo non ci baderà: il babbo è un uomo pieno di comprensione. È un uomo di mondo, il babbo!...

***

Suona l'Avemaria. La signora Margherita esce dal suo sconsolato torpore. Si ribella.
Si alza di scatto, agguanta sulla tavola tutto quello che le capita sotto le mani, riempie
rabbiosamente la cassettina, senza neanche guardare, premendo sulla roba coi pugni.
Albertino ha appena il tempo di dare in fretta l'ultimissima leccatina alla sua caramella: quattro
martellate furibonde e il coperchio è inchiodato. Totale: quattro minuti.

***

Poi Giovannino — quando, fra alcuni mesi, aprirà il pacco — si commuoverà.


«Guarda con quanto amore l'hanno confezionato! C'è tutto: perfino il ferro da stiro, hanno messo!
perfino gli occhiali della mamma e il portacarte di papà, perché li ricordi! Che pacco ben
combinato! Che pacco intelligente!...».
(Da «Bertoldo parlato» — Sandbostel — 1944).

FRENESIA
6 ottobre

Qui tutto si esaspera. La nostalgia diventa disperazione, l'inattività diventa inerzia, la povertà
diventa miseria, il desiderio diventa spasimo. La fede diventa mania, e piccole turbe, appena
avvistano un cappellano, lo assalgono, lo imbrancano, lo sospingono in un angolo e lo annegano di
peccati.
Ogni angolo è un confessionale: la cappella, da un'ora prima della sveglia al silenzio, è piena di
gente orante e salmodiante, e nel corridoio s'allunga la fila di chi attende di comunicarsi.
Lo scambio di oggetti di corredo e di viveri — naturale in contingenze come questa — diventa
commercio con mercato, quotazioni, agenti e annunci pubblicitari.
Ogni modesta attività artigianesca diventa industria, e le porte delle latrine sono costellate di
cartelli:
"Il vostro orologio è fermo? D. (Baracca 23—B) lavora per voi. Vetri infrangibili pronti per tutte le
misure".
"Elegante confezione di cinturini di pelle per orologio. Rilegatura libri. Baracca 23—A, penultimo
corridoio".
"Pacchisti! Stufette ad aria sussidiaria economicissime. Vendonsi per sigarette e viveri. Baracca 89,
interno 4".
Tutto si esaspera, qui.
E anche la lodevole iniziativa delle conferenze è diventata in poco tempo frenesia oratoria.
Tre, quattro, dieci conferenze in una stessa sera; in qualunque baracca si entri, dopo le otto, si trova
qualcuno in piedi sopra un tavolo che parla di qualcosa. Musica, poesia, tecnica, pittura, economia
politica, storia, filosofia, teatro, cinematografo, varietà, letteratura, chimica, religione, finanza. Oggi
il tenente B. ha parlato dell'umorismo con chiarezza di idee e cognizione di causa. E altri ci sono
che hanno trattato con acutezza e competenza argomenti loro consueti. Ma troppe volte si tratta di
gente che, appena scopre un tavolo libero, ci salta sopra e parla alla folla — non importa su cosa e
come, purché parli — probabilmente per rifarsi di aver supinamente taciuto o pavidamente
bisbigliato per venti anni filati.

NOTIZIE DALL'ESTERO
10 ottobre

"Albertino è stanco di aspettare, e ogni tanto si mette a tavolino e scrive lunghe lettere ai tedeschi
pregandoli di rimandare subito a casa il babbo. Ma Carlotta gli porta sempre via il foglio di mano e
lo straccia coi suoi quattro dentini che appena affiorano sulle gengive come granellini di riso su un
velluto rosso...".
Brava Carlotta!

TRAMONTO DI ROSETTA
15 ottobre

Nella latrina il soldato è appollaiato sull'alto sedile di coccio, nello scompartimento di fronte a
quello sul quale mi trovo io.
Quando scende, si vede un grosso tatuaggio che ha sulla coscia sinistra, poco più su del ginocchio:
un profilo di donna e un nome: "Rosetta".
Sembra che sia scivolato giù dal petto — dove di solito dimorano questi tatuaggi — per il rilassarsi
della pelle stanca. Ed io penso che, quando il soldato rialzerà le brache, anche la pelle, afflosciata
assieme all'indumento, giù, in fondo alle gambe, ritornerà su assieme al tatuaggio.
Ma, quando il soldato si riassesta, la pelle non si muove e Rosetta tramonta nei pantaloni.

UN PUGNO DI TERRA
27 ottobre

Raccolgo una manciata di terra e la guardo mentre mi sfugge tra le dita. Penso ad un'antichissima
città. Mille anni di storia hanno impregnato quei muri: da novecento anni in quel cortile ristagna
l'ombra, da otto secoli la terra su cui sorge quella fortezza non vede l'azzurro del cielo. In quella
vecchia casa un principe fu pugnalato nel 1472; quello è il rione dei ladri spopolato dalla peste nel
1658. Ossa di bambini giacciono in fondo alle fogne, dentro lo spessore di enormi pilastri, scheletri
incatenati di donne murate vive.
Mille anni di miseria e di felicità, grida di dolore e di piacere, parole di amore e di odio hanno
impregnato quelle pietre, e l'aria è piena di delitti, di tormenti, di vite perdute; ogni mattone ha
assorbito un po' della vita degli uomini, unto di uomini ha lucidato gli spigoli e i cantoni, e il fiato si
è rappreso sotto le volte e i soffitti, e ogni cosa è unta della dissoluzione quotidiana dei corpi. Sì che
l'enorme agglomerato di edifizi è diventato qualcosa quasi d'umano (come l'involucro della
mummia) e perciò di disumano. Qualcosa che ha ucciso la natura, uno stadio di passaggio tra la
cosa e l'uomo.
E la terra sembra uccisa, sopraffatta eternamente, e tu dici: qui e impossibile che la terra riaffiori e
che in queste ombre secolari possa ritornare a splendere il sole.
Ma ecco che un cataclisma sgretola quelle case, e gli uomini portano via le pietre. Ti trovi d'un
tratto davanti a un gran campo di biondo grano.
Qui, dove ora c'è questo ciuffo di papaveri rossi, c'era l'atrio buio d'una casa infame, e ragazze senza
sorriso aspettavano sedute; là dove le spighe sono più curve e più dorate erano le segrete orrende
dove i carcerati morivano di paura.
La terra ha cancellato mille anni di storia. Ora sembra impossibile che qui un giorno non potesse
battere il sole. Tutto è nuovo, e tu coglierai il fiore che è sbocciato dove sorgevano le stanze della
donna più impudica, e lo darai al tuo bambino perché lo porti a tua madre.
La terra purifica tutto, come la morte. La terra, fine d'ogni cosa e fonte eterna di vita.
In questo pugno di terra che stringo tra le dita, c'è un po' di passato e un po' d'avvenire. Io sono il
presente, e i miei piedi camminano sul mio passato e sul mio avvenire.

IL PENDOLIERE

Il pendoliere è un'oscillazione travestita da ufficiale in aspettativa di rimpatrio.


Alle otto del mattino il pendoliere, al rompete le righe, schizza fuori dei ranghi e si slancia come un
fulmine verso la sua baracca.
«Dove vai?».
«Vado a preparare il bagaglio: la fine della guerra è ormai questione di ore!».
Scompare, ma un quarto d'ora dopo si vede il pendoliere aggirarsi solo per il campo, col viso
disfatto, le braccia penzoloni con le mani che arrivano alla caviglia, i capelli appiccicati sulla fronte,
le orecchie flaccide e cadenti come quelle di un cane da caccia.
«Cosa ti succede?».
«Non troverò mai la forza di passare un altro inverno in prigionia! Un altro inverno! Che cosa
terribile!».
Si allontana sospirando, ma alle nove entra in camerata come una meteora alla dinamite. È
completamente trasformato: schiatta di gioia.
«Cedo tabacco per una valigia! Cambio gallette e rasoio di sicurezza con una sacca da viaggio! Si
parte! La va a pochi minuti!».
Non sono passati venti minuti e scoprite il pendoliere che, accucciato nella buca della spazzatura,
singhiozza baciando la fotografia dei figli e della moglie, la carta d'identità e l'abbonamento
tranviario.
«Quando potrò rivederli?», geme strappandosi i capelli. «Vi rivedrò io mai? Quando finirà questa
guerra? Nel '45, nel '46, nel '48?».
Alle dieci, con un balzo prodigioso, un uomo piomba in camerata attraverso la finestra: è il
pendoliere, e la gioia gli schizza fuori da tutti i buchi.
«Sono arrivate le disposizioni per la partenza?», urla. «Il bagaglio pesante lo si porta a spalle o c'è il
carro?».
È raggiante. Giura che la fine della guerra è ormai questione di secondi. Aspetta col cronometro in
mano.
Ma passa un minuto, ne passano due, tre, quattro, cinque, e la guerra non finisce. Allora il
pendoliere crolla di schianto e si sfascia nella sua cuccetta.
Poco dopo lo sorprendono che sta scrivendo con mano tremante, mentre lagrime grosse quanto un
uovo di piccione gli scendono sulle gote.
«Cosa fai?».
«Il testamento spirituale. Questa guerra durerà ancora venticinque anni, e io non resisterò. Non
resisterò!».
E così via fino a tarda sera. Finalmente va a letto e s'addormenta, ma a mezzanotte si sveglia di
soprassalto. «Moglie mia!», grida. «Figli miei! Eccomi, eccomi! Qui fra le mie braccia! Finalmente
tutto è finito e sono tornato! Ah, che gioia, che gioia!».
Il mattino seguente suona già l'adunata, ma il pendoliere è ancora immobile nella sua cuccetta.
«Sbrigati», gli dicono. «È già tardi! Svegliati, alzati!».
«Non posso», risponde con voce lontanissima il pendoliere. «Deperito e sconfortato, dopo aver
invano atteso per anni e anni che finisse la guerra, sono morto in prigionia. Pace all'anima mia...».

IL TENTENNIÈRE

Un dilemma travestito da internato: il tentennière. Vive in perenne tensione di nervi, nella positura
dei podisti alla partenza dei cento metri, con la coda alzata, con le orecchie diritte e col naso al
vento, come un cane alla posta. E, appena sente per l'aria odor di commissione, parte a razzo verso i
compagni.
«E tu che fai? E lui che fa? E noi che facciamo? E voi che fate? E loro che fanno?».
Bracca a destra e a sinistra, entra in tutte le baracche, si inerpica su tutti i castelli, invade i lavandini,
l'infermeria, le latrine. Assedia il cappellano e lo scongiura in ginocchio d'informarsi come la pensa
il buon Dio.
Raccoglie tutti i pareri, li vaglia, fa un preciso bilancio dei sì e dei no, dei ni, dei forse e dei ma, poi
— alla fine — si accascia in cuccetta col capo fra le mani e gli occhi fissi nel niente, e si chiede
angosciato: «E io, che faccio?».
Dopo lungo, angoscioso titubare, il tentennière ecco che d'un tratto si drizza e parte di corsa verso la
baracca delle domande: «Sì».
Ma giunto davanti alla porta, folgorato da una tempesta di dubbi, si ferma. «No».
Ritorna in baracca, ma un nuovo cataclisma gli scoppia nel cervello. E ci ripensa e ridecide: «Sì».
Riparte velocemente, entra senza esitazione, firma con mano sicura la scheda e riprende saltellando
la strada della sua baracca. Ma, di repente, diventa una statua di ghiaccio: «E se...».
Non c'è tempo da perdere! Bisogna correre ai ripari. Un istante di indecisione potrebbe risultargli
fatale! E rieccolo sconvolto, ansimante, davanti al tavolo della commissione: spiega che l'ha fatto
senza pensarci, che il suo più caro amico non aderisce, e quindi dovrebbero separarsi. Riesce a
ritirare la domanda.
Ri-rieccolo ri-rasserenato in camerata e ri-rieccolo ri-riavviarsi verso la sua cuccetta.
«Sia ringraziato il Cielo! La faccenda è accomodata: però, che terribili momenti ho passato!».
A mezza strada la folgore lo blocca.
«E se...».
Misericordia! Come non ci ha pensato? Cosa ha fatto? Suda, ha gli occhi sbarrati, non ha più fiato,
ma trova la forza di saettare alla baracca fatale. Si fa largo a spintoni, spiega che ha avuto una crisi
ma che ora la crisi è superata. Mostra vecchie tessere, ritratti di bambini, lettere della moglie. Riesce
a ri-ripresentare la domanda, e ri-ri-ritorna trionfante.
Ma, appena al cospetto della porta della baracca, ri-ri-rieccolo di bel nuovo agghiacciato: «E se...?».
***
Ormai è sera, e, in mezzo al campo deserto, un solitario — rannicchiato per terra, col mento sulle
ginocchia e le mani nei capelli — geme disperatamente. È il tentennière.
«Cosa ti succede?».
Una tragedia. Fra due secondi l'ufficio chiude, ed egli è rimasto bloccato lì — a metà strada fra
l'ufficio e la baracca — perché non ricorda più se stava andando a ri-ri-ri-ri-ripresentare la domanda
o a ri-ri-ri-ri-ritirarla.
(Lettura al giornale parlato «Capaneo» Lager di Sandbostel — 1944).

INCHIESTA LETTERARIA
11 novembre

Dagli "annùnci pubblicitari" affissi alle porte delle latrine: «Si desidera in lettura il romanzo
"Florise" di Pignatelli. In cambio cedesi altro romanzo. Ten. Beccatelli — Baracca 33 B».
«Dò in lettura il volume scientifico di sessuologia: "Sesso e amore", del prof. De Napoli, per un
libro di elettrotecnica o per una grammatica inglese. Cap. C. Luccioli — Baracca 29 A».
«Cambio "Divina Commedia" con romanzo qualsiasi. Cap. T. ...».
«Cedo per sigarette o tabacco: a) testo analisi matematica con elementi di geometria analitica (in
lingua francese); b) tubetti vitamina C. Capitano Birardi — Baracca 29 A».
«Cambio "Divina Commedia" con trattato di fotografia. Ten. Terzolo — Baracca 27 A».
«Cedo il capolavoro di Colerus: "Matematica romanzata", per grammatica tedesca. St. Mazzei
Rocco — Baracca 25 B».
«Cedo letteratura italiana in tre volumi "Vittorio Rossi" in cambio sigarette o tabacco. S. ten. Lo
Coscio Rosario — B. 23 A».

FINALMENTE LIBERO
29 novembre

C'era qualcuno Che era prigioniero di me stesso. Stava chiuso entro di me come in uno scafandro, e
io lo opprimevo con la mia carne e con le mie consuetudini. Egli si affacciava ai miei occhi per
vedere, e i suoi occhi erano acuti, ma il cristallo dei miei era appannato dai grassi vapori del vivere
convenzionale.
Il suo cuore era chiuso nel mio, e doveva adeguare i suoi battiti al pulsare pesante del mio. La sua
voce era chiara e dolce, ma era sopraffatta dalla mia voce dura e sgraziata.
C'era qualcuno che era prigioniero di me stesso, e la mia spessa cotenna lo opprimeva: ma ora egli è
evaso dal suo carcere.
Un giorno camminavo su questa sabbia deserta, ed ero stanco e trascinavo faticosamente le mie ossa
cariche di pesante nostalgia, quando ad un tratto mi sentii miracolosamente leggero, e il cielo mi
apparve insolitamente profondo come se, mentre guardavo il mondo dietro i vetri sudici di una
finestra, la finestra si fosse improvvisamente spalancata. E vedevo i minimi dettagli e le
piccolissime cose mai viste prima, come un mondo nuovo, e ogni cosa si completava di tutti i suoi
particolari. E sentivo anche i minimi fruscii come se mi si fossero stappare le orecchie, e udivo voci,
parole sconosciute, e mi pareva fosse la voce delle cose, ma era soltanto la mia voce. La voce del
mio prigioniero.
Mi volsi e vidi che ero uscito da me stesso, mi ero sfilato dal mio involucro di carne. Ero libero.
Vidi l'altro me stesso allontanarsi, e con lui si allontanavano tutti i miei affetti, e di essi mi rimaneva
solo l'essenza. Come se mi avessero tolto un fiore e di esso mi fosse rimasto soltanto il profumo
nelle nari e il colore negli occhi.
Ritroverò l'altro me stesso? Mi aspetta forse fuori del reticolato per riprendermi ancora? Ritornerò
laggiù oppresso sempre dal mio involucro di carne e di abitudini?
Buon Dio, se dev'essere così, prolunga all'infinito la mia prigionia. Non togliermi la mia libertà.
CARLOTTA

Mi ricorderò la notte del 30 dicembre del '43. Erano le due, credo, e il vento che si dava gran da fare
sul tetto della baracca mi svegliò.
"Domattina", pensai io, "tutti quei neri straccetti di cartone catramato sparsi sulla sabbia chiara e
impigliati nel filo del reticolato sembreranno brandelli di notte".
Soddisfatto di questa pregevole considerazione, mi accingevo a riprendere il sonno quando,
d'improvviso, apparve un uomo in camicia.
Si fermò a fianco della mia cuccetta e, additandomi a qualcuno che stava con lui, disse a bassa voce:
«È quello lì».
Riconobbi il personaggio che, a Czestochowa, la notte del 27 ottobre, era venuto a parlarmi di
galline: ma la faccenda mi si appalesò molto più grave di allora. Lo sciagurato infatti — non
contento di frequentare, a soli tre anni e mezzo, i più malfamati sogni notturni degli adulti — s'era
dato ora alle compagnie frivole.
Ripensai alla Traviata e all'Alfredo di questo core, e riudii i fieri accenti del nobile signore di
Germont. Lo spettacolo era riprovevole: una donnina stava a fianco di mio figlio, e si trattava
palesemente di una scostumata, perché era in camicia e aveva un ciuffo di capelli ciondolante
sull'occhio sinistro, inoltre portava in cima alla testa una specie di cuffia tutta di traverso. Una
scostumata traballante che, per reggersi, doveva aggrapparsi disperatamente al suo compagno di
sregolatezze, e che continuava a masticare gomma come l'ultima taxi—girl dell'ultimo tabarino di
Filadelfia.
«È quello lì», ripetè l'individuo in camicia. «Toccalo, non morde».
La sciagurata non modificò il suo contegno: del resto, cosa poteva interessare a una donna di quel
rango lo spettacolo d'un padre di famiglia, il quale, pure giacendo su trucioli stranieri, riusciva a
conservare la sua serena fierezza?
«Chi è quella donna?», domandai severo, traendo il capo dalle coperte.
«Amica», rispose con naturalezza Albertino.
Quando, dopo due anni dalla mia partenza da casa, mio padre venne a farmi visita nella mia nuova
residenza, mi trovò seduto al desco davanti a una giovane signora a lui completamente sconosciuta.
E mi domandò chi fosse quella donna. E io risposi con semplicità: «Moglie».
E mio padre approvò col capo e non chiese altro: ma io, allora, avevo già trent'anni, ed esisteva tra
noi il tacito accordo di agire d'iniziativa ognuno per conto proprio. E se mio padre, trentadue anni
prima, s'era sposato senza chiedermi niente, era logico che — trentadue anni dopo — io mi sposassi
senza niente chiedergli.
Qui, però, data la giovane età di Albertino, la faccenda era diversa, e io nella mia qualità di padre
dovevo pretendere più ampi ragguagli nei riguardi della donna che a lui s'accompagnava.
Li pretesi.
Appresi così una pietosa storia. La ragazza era arrivata, durante una notte di pioggia, a casa di
Albertino, e si trattava d'una disgraziata che non si poteva buttare sulla strada, particolarmente a
causa d'un grosso gatto dagli occhi verdi che l'avrebbe immediatamente mangiata leccandosi poi i
baffi. Così.
Albertino mi diede la dimostrazione pratica di come si sarebbe leccati i baffi il gatto antropofago.
Aggiunse che la poveretta — oltre a tutto — non aveva mai potuto conoscere suo padre perché
questi, essendo un uomo cattivo, si trovava in prigione. Albertino l'aveva condotta da me per
mostrarle com'era il suo.
Un papà per bene il suo, che — non essendo cattivo — non si trovava come l'altro in prigione.
«Mio babbo è buono», affermò Albertino, «e allora è intennato miitàe».
«Bisogna essere sempre buoni», ammonii io severamente.
Dissi poi che, in attesa della scarcerazione del malvagio, avrei potuto fungere io da papà, per la
ragazza. Tanto, per quello che avevo da fare!
«Questo babbo è mio!», affermò Albertino corrugando le sopracciglia. E col dito mi toccò la fronte
per precisare di quale babbo si trattasse, e impedire così ogni equivoco.
Guardai la ragazza scuotendo il capo: non doveva avere più di quaranta giorni, l'infelice, e il vedere
una donna così giovane in giro per i gelidi sogni delle notti polacche, mi dava un po' di pena. E poi
trovavo sul suo viso dei tratti noti.
A chi assomigliava? Eppure, di occhi come quelli là ne avevo visti parecchie volte; e anche quel
mento con la fossettina al centro mi era familiare.
Dissi ad Albertino che la riconducesse a casa e la mettesse a letto.
«Dove dorme?».
«Nel letto grande, al posto del babbo».
Era una grave usurpazione, ad ogni modo questo poteva servire a far sembrare meno deserto lo
squallido appezzamento di letto assegnatomi dalla legge, e non dissi niente.
«Però fa le brutte cose», insinuò Albertino.
«Le brutte cose? E quali?».
«Quelle lì», spiegò candido, mostrandomi il pavimento ai piedi del mio sgabello.
Si udirono in fondo alla baracca dei passi pesanti. «È l'uomo con lo schioppo davanti al cancello del
giardino», sussurrò allarmato Albertino. «Mandalo via, babbo!».
«Non si può ancora», risposi. «Vai, vai tu».
Si allontanò trascinandosi dietro la piccola, come un fagottello di stracci.
Mi ricorderò la notte del 30 dicembre del '43.
E mi ricorderò anche la mattina del 31.
Mi svegliai, e ripensai alla strana storia della notte. La parete della baracca aveva assorbito i due
piccoli nottambuli, e io avevo visto come ultima cosa un occhio rotondo, e alla fine l'occhio s'era
incupito ed era diventato un nodo nero nel legno d'una tavola della parete.
Ritrovai subito il nodo della tavola. Rotondo, così, Come una O.
E ritrovai ai piedi dello sgabello a capo del "castello" la traccia ancora umida di una piccola
sconvenienza. Una delle piccole sconvenienze che venivano commesse laggiù, nel mio posto, nel
letto grande.
Mi ricorderò anche la sera del 31 dicembre '43: mi arrivò infatti la prima cartolina. E nella prima
riga c'erano cinque straordinarie parole: «Tredici novembre nata signorina Carlotta».
O signorina Carlotta, nata nella prima riga d'una cartolina in franchigia, come un fiorellino rosa in
un praticello nevoso; o fiore tardivo sbocciato laggiù nella tiepida estate di San Martino e quassù
soltanto nell'ultima gelida giornata dell'anno! Quarantotto giorni doveva farmi aspettare il
complicato meccanismo postale, ma tu abbreviasti l'attesa.
Eri tu la visitatrice della notte del 30, e il tuo contegno fu giudicato deplorevole perché masticavi
gomma di succhiotto, traballavi come un optière dubbioso, e avevi l'occhio destro rotondo come
quelli del tuo miserando padre.
O signorina Carlotta: io lo so dove la sciagurata signora che mi rese padre ha pescato quel tuo
peregrino nome che sa di Guido Gozzano e di Rivoluzione Francese. Carlotta si chiama la
strampalata ragazza attorno a cui si svolge la complicata vicenda dell'ultimo romanzo che io scrissi
e che piacque molto a tua madre.
Lo vedi a cosa conducono le cattive letture? E se io avessi chiamato l'eroina della mia storia
Crimilde o Zebedea? Che sarebbe stato di te? Mi ricorderò la notte del 30 dicembre '43. Nella
baracca più alta del campo turchestano, in mezzo alle centomila vecchie parole accatastate sul
tavolo dell'ufficio postale, ce n'era una nuova nuova: Carlotta.
E questa si rivestì della luce che un faro gettava contro la finestra. E anche l'altra parolina quasi
nuova che le faceva compagnia nella riga di sotto si rivestì di luce e disse sottovoce:
«Andiamo: ti farò vedere il mio babbo. Dorme in quella Casina lì davanti».
Il vento che si dava gran da fare sul tetto della baracca 18 mi svegliò, e io rividi Albertino e conobbi
la signorina Carlotta.
E aspetterò che torni, e passeranno i giorni...
(Dalla conversazione «Baracca 18» Beniaminovo — 1944).

NOTIZIE DALL'ESTERO
16 dicembre
Lettera da casa:
«A Carlottina stanno spuntando quattro dentini, e ha imparato a dire: "No!"».
Anch'io ho imparato a dire: "No!". Ma c'è voluta una guerra mondiale.

SOLITUDINE
31 dicembre

I trucioli del mio pagliericcio sono diventati polvere, e in essa navigano le mie ossa, E mi sento
come un naufrago.

LE STAGIONI

C'erano una volta le stagioni: si davano il cambio puntuali, ogni tre mesi, come era nei piani
prestabiliti dalle Celesti Gerarchie.
E ogni stagione recava i suoi frutti. La primavera: erba tenera, latte profumato e burro fragrante;
l'estate: frumento biondo e pane bianco e croccante; l'autunno: uva dorata e vino frizzante;
l'inverno: dolci castagne.
Ma quello era il tempo felice in cui l'anno cominciava il primo gennaio. Poi spostarono l'inizio
dell'anno e l'organizzazione stagionale andò a catafascio. E furono sempre rape.

LA TOVAGLIA

C'era una volta la tovaglia: era un candido rettangolo di civiltà sul quale scintillavano cristalli,
porcellane e argenterie; e ai margini del quale sbocciavano, due volte al giorno, i fiori festosi delle
vesti della mamma, i pomelli rossi e i capelli d'oro dei bambini, e i baffi neri e il sacrosanto appetito
di papà.
In mezzo c'era il grande, smagliante rubino dell'ampolla del Chiaretto, e nell'aria tutt'attorno —
come uccelletti di bambagia — navigavano le note sommesse della radio. E navigavano il profumo
della minestra e del pane; i granellini dorati della sottilissima fetta di sole; le semibiscrome
d'argento zampillanti dall'aereo seggiolone del più piccino; e i sogni trasparenti del gattino di
porcellana, addormentato sul piano della credenza a piè d'un vaso rosso pieno di fiori giallissimi.
C'era una volta la tovaglia ed era la bianca, nitida piazzetta nella quale si radunavano le mani di
tutta la famiglia, e su di essa — esaurite dal breve volo — si posavano, planando dolcemente a
foglia morta, le parole più importanti di tutta la giornata.
Poi, alla fine, si spazzolavano via le briciole del cibo e le parole usate, e il rettangolo ripiegava il
suo candore come un quinterno di libro in sedicesimo, e andava a pettegolare, col cassetto odoroso
della credenza, sullo scandalo del giorno.
«Nella minestra c'era un granino di riso ancora coperto dal guscio!...».
«Cose da pazzi!», inorridiva il cassetto.
C'era una volta la tovaglia e un granino di riso col guscio, nella minestra, era uno scandalo.
Ma erano i tempi in cui (pur se non si poteva più dire pane al pane e vino al vino) la minestra si
chiamava ancora minestra.

IL SIGNOR COLONNELLO

C'era una volta il signor colonnello con due grandi baffi candidi e la sciabola al fianco, il quale
entrava d'improvviso in caserma, ma la tromba gli faceva sempre la spia.
E allora nella caserma succedeva come al cinema quando si ferma la pellicola: in officina i fabbri
ristavano col martello sollevato; in palestra i ginnasti si fermavano in aria, al culmine del salto; in
maneggio i cavalli al trotto diventavano di bronzo, con tre zoccoli sollevati e uno solo che toccava
terra; in cucina ristava il bollore delle marmitte; nella sala taglio la goccia che stava cadendo dal
naso del caposarto rimaneva sospesa a due palmi dal pavimento; nell'atrio l'orologio sospendeva il
suo ticchiettare e il pendolo si immobilizzava al vertice della salita; nell'infermeria anche i microbi
di stanza nell'interno dei ricoverati sospendevano immediatamente ogni attività e si irrigidivano.
Poi, al secondo squillo, la vita riprendeva di scatto.
Quando il signor colonnello diceva «Bravo!» a un soldato, il soldato non si lavava più l'orecchio per
timore di spegnere il fremito che la parola aveva acceso nel timpano. E per tutta la vita egli si
sentiva mormorare all'orecchio la lode del signor colonnello.
Ma erano i tempi in cui anche i fiumi potevano mormorare calmi e placidi. Poi fu severamente
proibito mormorare, e i fiumi non dissero più niente: neppure quando videro passare sui loro ponti
carri e carri-bestiame zeppi di signori colonnelli.
(Conversazioni varie — 1943-44-45).

1945

RESURREZIONE DELLE PAROLE


5 gennaio

Egli si accorge che si ripete, ma non cerca nuove parole. Qui tutto si ripete: i giorni e i sogni sono
sempre uguali, e il suo vocabolario è sempre quello. Ma ogni parola si amplifica, diventa un
capitolo: Patria, libertà, costume, coscienza, amore, onestà.
Le parole diventano concetti.

STORIE DI WIETZENDORF
7 gennaio

Il "capitano del lavoro" convocò nella baracca del Teatro sessanta "tecnici" scelti a caso, e parlò
dell'opportunità di collaborare col popolo tedesco allo scopo di salvare l'Europa dal bolscevismo.
Accennò all'immancabile vittoria finale del Grande Reich, fece comprendere che nuove armi
formidabili erano già state apprestate, indi si disse pronto a prendere nota dei desiderata dei
presenti.
Accingendosi alla compilazione della nota dei volontari, premise (perché i tecnici convocati erano
sessanta, ma i presenti
erano cinquecento): «Noi abbiamo bisogno di gente che abbia realmente desiderio di lavorare per
noi. Chi non ha voglia di lavorare per noi può uscire».
Allora tutti uscirono, e il capitano rimase solo a guardarsi in faccia con l'interprete. «Razza di
fannulloni!», borbottò rimettendosi in tasca la stilografica.

RICERCA
15 gennaio

Giovani disorientati cercano la verità. Sono pieni di buona volontà:


«Ci vorrebbe qualcuno che ci insegnasse, che ci istradasse. Qui c'è tempo, c'è gente in gamba;
dovrebbero fare dei corsi».
Hanno il morbo nel sangue. Vorrebbero dei corsi. Corsi di ricostruzione, corsi di domani, corsi di
politica, corsi di libertà.
La verità non si insegna; bisogna scoprirla, conquistarla. Pensare, farsi una coscienza. Non cercare
uno che pensi per voi, che vi insegni come dovete essere liberi. Qui si vedono gli effetti: dagli
effetti risalire alle cause, individuare il male. Strapparsi dalla massa, dal pensiero collettivo, come
una pietra dall'acciottolato, ritrovare in se stessi l'individuo, la coscienza personale. Impostare il
problema morale.
Domani, appena toccherete col piede la vostra terra, troverete uno che vi insegnerà la verità, poi un
secondo che vorrà insegnarvela, poi un quarto, un quinto che vorranno tutti insegnarvi la verità in
termini diversi, spesso contrastanti.
Bisogna prepararsi qui, "liberarsi" qui in prigionia, per non rimanere prigionieri del primo che
v'aspetta alla stazione, o del secondo o del terzo.
Ma passare ogni parola loro al vaglio della propria coscienza e, dalle individuate falsità d'ognuno,
scoprire la verità.

NOI POVERI
20 gennaio

Tutti attorno al padre cappellano T. dei Cappuccini, il quale parla della zuppa che il suo convento
dava ogni giorno ai mendicanti e – a richiesta dei presenti – precisa gli ingredienti usati nella
confezione dell’intruglio e la loro proporzione:
«Cavoli 300 grammi, grasso di cavallo 30 grammi...».
Così siamo ridotti: ci si accontenta di poco: della descrizione della minestra dei poveri.

APPUNTI
21 gennaio

C'è sempre uno stupido, il quale, mentre tu stai staccando un'assicella da una baracca o stai facendo
qualcosa d'altro vietato dal regolamento del campo, ti urla alle spalle qualche parola in tedesco e ti
fa sussultare il cuore.
***

«Cosa m'hai portato?», mi chiederà mio figlio al mio ritorno.


«Un papà nuovo di zecca», dovrei rispondergli per finire il mio racconto con una buona battuta. Ma
non gli dirò così, perché anche questa faccenda del rinnovamento è una storia vecchia come il
cucco.

***

Bisognerà introdurre nelle convenzioni internazionali un nuovo articolo riguardante il tabacco, che
non dovrà mai mancare ai prigionieri di guerra. Ciò renderà molto meno crudele la guerra.

***

Ogni tanto qualcuno muore in noi. Moriamo un po' tutti i giorni, e finalmente, una buona volta,
muore l'ultimo di noi.

***

Io sono così: io credo poco a quello che dico.

STORIE DI WIETZENDORF
23 gennaio

Il tenente X, spinto dalla fame, catturò un cucciolo che gironzolava incauto per il campo, lo squartò
e lo cucinò. Il fatto si riseppe, e il tenente, X venne messo agli arresti per avere — come diceva la
motivazione — «mangiato piccolo cane del comando tedesco».
In prigione gli venne la malinconia, e di notte si svegliava di soprassalto e cominciava ad agitarsi ed
urlare che il cane lo assaliva. E per tranquillizzarlo bisognava che qualcuno fingesse di imbracciare
uno schioppo e di sparare sulla bestia.
«Pam! Pam! Eccolo accoppato».
Lo portarono al manicomio di Amburgo e lì rimase un paio di mesi, poi un giorno lo
riaccompagnarono in baracca.
«È guarito», dissero i tedeschi.
Realmente ora era tranquillissimo, e non pensava neppure lontanamente al cane. Però, dopo un paio
d'ore, montò sull'alta stufa di mattoni e lassù mangiava, dormiva e faceva i suoi bisogni.
E ci rimase sino a quando non vennero a riportarlo via.

LA SPERANZA
25 gennaio

All'infermeria è morto di fame il capitano P. Diciotto mesi fa, pochi giorni prima d'esser catturato
dai tedeschi in Francia, aveva comperato tre tavolette di cioccolata da portare ai suoi bambini.
Le tre tavolette lo seguirono nella strada della deportazione e della fame, ed egli sempre le custodì
gelosamente fra i poveri stracci del suo sacco, e ogni tanto le cavava fuori e le guardava sorridendo,
e pensava ai suoi bambini.
È morto di fame, all'infermeria, stringendo fra le mani le tre tavolette di cioccolata intatte.
NON SUCCEDE NIENTE
29 gennaio

Non succede niente: eppure qualcosa dovrà succedere. Il calendarietto si copre di caselle nere, di
giorni cancellati. Si vede che il tempo passa.

FAME
31 gennaio

Sono ormai diciotto mesi che soffro la fame, ma ogni giorno sembra una cosa nuova.

IL BRANDELLISTA

Il brandellista non è l'aderente a un nuovo movimento politico che ha il programma di ridurre tutto
il mondo a brandelli. Non sarebbe neanche una novità, del resto. Il brandellista è uno che fa parte
per se solo e, se possiede un programma, questo è soltanto per suo uso personalissimo.
In origine il brandellista era — nell'aspetto — uguale a tutti gli altri. Magari indossava addirittura
una di quelle mirabili giacche lunghe fin sotto il ginocchio, con tasche grandi come le cassette
postali per stampe e plichi voluminosi; e magari portava la bustina con stecca a capriata costruita
secondo i dettami del Colombo; e sugli stivaloni gli tintinnavano speroni a tripla rotella con
apparato sonoro per lo schiocco dell'attenti.
Ma — giunto al Lager — il brandellista mutò radicalmente la sua estetica dalla sera al mattino.
Come se lo avessero tuffato prima nella colla e quindi l'avessero avvoltolato in un mucchio di
spazzatura.
Apparve costellato da capo a piedi di toppe verdi, rosse, nere, gialle, blu; di ritagli di latta, di
bottoni metallici, di fil di ferro, fettucce, spago, nastri, funicelle, rottami di legno, frammenti di
cuoio, galalite, bachelite, cartone.
Così sistemato, il brandellista non è più un uomo: è il piano quinquennale dell'autarchia, l'ammasso
dei rottami, la compagnia internazionale per i recuperi, il congresso universale dei surrogati.
Ma il brandellista non è pago ancora, e un sogno ambizioso gli occupa la mente: poter tornare a
casa con una toppa di panno verde sulla natica sinistra, al posto del decimetro quadrato di pelle
ceduta per sigarette; con una tibia di legno al posto dell'importante osso ceduto per fagioli e con un
barattoletto di sabbia al posto del cervello venduto per tabacco dolce.

L'ACHIQUESTIERE

L'ufficiale divisore (o "razioniere") — aiutandosi con la sua personale esperienza e con bilance, e
tenendo conto degli affettuosi consigli di tutti coloro che si affollano attorno alla tavola — ha
frazionato in ventidue parti le patate che l'ufficiale di giornata ha recato personalmente dalla cucina
nel grande catino d'alluminio.
Al razioniere è subentrata la "commissione di pareggiamento" presieduta dal capo cameretta.
La commissione — presi in esame i singoli mucchietti — dopo animata discussione che vede
l'attiva partecipazione di tutti gli astanti, ha raggiunto l'accordo circa i trasferimenti di patate da
effettuare onde le razioni risultino identiche non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.
Cessati i suoi lavori, la commissione di pareggiamento si è rimessa al giudizio popolare.
Siccome il tenente Tale ha affermato che il primo mucchio era doppio del secondo mentre il
capitano Talaltro ha garantito essere proprio il secondo, invece, almeno triplo del primo, non è stato
possibile raggiungere un accordo di compromesso, e si è dovuto procedere a una revisione di
controllo.
Effettuate con due bilance poche diecine di pesate di controllo (e udito il giudizio autorevole del
capo-baracca, sollecitato a intervenire per il trionfo della Giustizia) l'accordo è stato raggiunto in
pieno e la soddisfazione di tutti espressa in forma plebiscitaria.
«Sta bene : si può incominciare».
Ed ecco entrare in campo l'achiquestiere.

***

L'importante personaggio — si tratta di gentiluomo al di sopra di ogni sospetto — si insedia


gravemente e passa in rassegna, con lo sguardo penetrante, i ventun ufficiali che gli stanno davanti
muti e immobili come una marmorea allegoria della Giustizia Corporativa.
Li fissa negli occhi uno per uno, indi fa la sua scelta: «Capitano Cognacchi».
Il capitano Cognacchi esce dai ranghi e va a disporsi gravemente nell'angolo più lontano, col viso
appiccicato alla parete, e con le spalle rivolte al consesso.
L'achiquestiere indica a caso uno dei mucchietti allineati sul tavolo.
«A chi questo? », chiede severamente.
«Al tenente Bruscoli», risponde pronto il capitano Cognacchi, avendo cura di non spostarsi un
millimetro dalla parete.
E così via per altre ventun volte.
Alla fine della distribuzione, ognuno dei ventidue personaggi torna al suo posto e si mette a
sbucciare le sue patate borbottando: «E, anche oggi, il fregato sono io».

***

Effettivamente quando — nel tragico settembre del 1943 — noi ci trovammo improvvisamente
sbalestrati in un Lager, lontani dalla patria e dalle famiglie, e nella più completa ignoranza della
sorte riserbata all'una e alle altre, un problema si affacciò urgente, assillante, formidabile, alla mente
dei più equilibrati fra noi:
«Quali provvidenze adottare a tutela della Giustizia?».
Pure servendosi di bilance, di calibratori, di misurini campionati, di doppio decimetro, di squadra e
di regolo calcolatore, risulta praticamente impossibile dividere un cubétto di margarina, o un
parallelepipedo di pane, o un catino di patate in parti uguali.
Così facendo si può — al massimo — raggiungere una approssimazione al grammo: ma il
milligrammo sfugge allegramente! E la Giustizia è fatta appunto di milligrammi.
Come evitare, allora, che la persona preposta alle assegnazioni possa favorire l'amico con
l'aggiudicazione della fettina o del cubetto migliori? Si tentò dapprima con le carte da gioco, poi
con roulettes a lancetta, poi col sacchetto delle palline numerate; poi col sacchetto delle palline
numerate e copertura di garanzia.
E quest'ultimo sistema era ingegnosissimo in quanto — operata la ripartizione, ed allineate le
razioni sulla tavola — si copriva il tutto con un telo da tenda. L'ufficiale estrattore traeva una
pallina dal sacchetto, senza guardarla, e la teneva chiusa nel pugno, a braccio alzato, dando
contemporaneamente il segnale di: «Pronto!».
A quel segnale l'ufficiale designatore — preventivamente bendato — allungava la mano sotto la
coperta di garanzia e cavava fuori rapidamente la prima razione che gli capitava sotto le dita.
L'estrattore allora apriva il pugno e mostrava la pallina.
«Diciotto!».
L'ufficiale contraddistinto dal diciotto riceveva così la sua razione e andava a consumarla dopo aver
affermato — naturalmente — con estrema convinzione: «E, anche oggi, il fregato sono io!».
Ma si trattava di sistemi o che offrivano insufficiente garanzia, o troppo complicati: e quando un
ignoto benefattore inventò l'"a chi questo?", tutti respirarono risollevati e la clausura sembrò meno
gravosa.

***

«A chi questo?».
Le nostre giornate sono — da mesi e mesi — sature di questo interrogativo. Per ogni cosa che entri
in baracca c'è un achiquestiere pronto a insediarsi al tavolo della Giustizia Distributiva.
Niente sfugge all'achiquestiere, eccettuata una sola cosa, finora.
Ma non mi meraviglierei se domani vedessi l'achiquestiere impadronirsi del pacchetto di posta in
arrivo e lo sentissi gridare:
«A chi questa lettera? A chi questa cartolina?».
Un giorno l'achiquestiere rivedrà la sua città, la sua casa, la sua famiglia. Rivivrà la vita di tutti gli
uomini e, per lui, sarà tutto un seguito d'interrogativi.
«A chi questo treno? A chi questo tassì? A chi questo ascensore? A chi questa moglie? A chi questo
stipendio? A chi questa gita in automobile? A chi questo colpo apoplettico che m'ha colto
improvvisamente? A chi questo funerale? A chi questo Paradiso? A chi questo Giudizio
Universale?».
A me! A me! A me! Amen.
(Da «Bertoldo parlato» — Sandbostel — 1944).

COMMERCIO
15 febbraio

Le sentinelle sparano, ma il commercio con gli ufficiali francesi continua: gli italiani lanciano la
loro razione di pane e i francesi lanciano sigarette.
Oggi un capitano francese protestava ad alta voce: «Ça n'est pas honnête! Ça n'est pas honnête!».
Effettivamente non è un'azione commercialmente corretta: un italiano, ricevute in anticipo le
sigarette, invece del pane promesso ha lanciato un sacchetto di terra.
Ça n'est pas honnête, monsieur; ma non è neppure onesto che uno ben vestito, gonfio di roba
ricevuta a bracciate dalla Croce Rossa Internazionale e dalla Francia di Pétain, con cinque delle
"Camel" che l'America manda a tutti i prigionieri che le interessano, in ragione di trecento al mese,
privi della razione di pane uno straccione che nessuno ha mai assistito, che da diciotto mesi soffre
una fame rabbiosa e che cerca una sigaretta per dimenticare qualche istante la sua fame, la sua
miseria, i suoi dolori e la sua mortale nostalgia.
Ça n'est pas honnête, monsieur!

CIP
Conobbi un prigioniero tanto piccolo che un gavettino gli serviva da letto, e non solo vi si poteva
distendere quant'era lungo, ma ancora gli avanzava spazio perché era un omino alto dodici
centimetri.
Allora io stavo in un campo di Polonia, e si capiva benissimo che eravamo in Polonia perché il pane
che ci davano era rotondo, mentre in Germania è rettangolare: e di questa diversità nella forma del
pane bisogna essere grati alla Provvidenza, altrimenti non si capirebbe mai dove ci si trova, per il
fatto che tutti i Lager sono identici: uno scatolone di sabbia con un coperchio di malinconia.
I giorni passavano squallidamente uguali l'uno all'altro, e sembrava che niente potesse succedere di
nuovo e che tutti ci avessero dimenticati; ma una mattina di febbraio qualcosa di nuovo accadde e si
seppe che almeno la morte s'era ricordata di noi. Così io mi trovai fra capo e collo una fotografia
orfana di padre.
L'avevo rinvenuta nel campo tre sere prima e nel retro c'era scritto a lapis un nome che non
conoscevo; mi informai chi fosse il titolare del nome, trovai la sua baracca, ma là mi dissero che
l'avevano appena ricoverato all'infermeria, sì che io mi rassegnai ad aspettare che ne uscisse, e non
potevo immaginare che — invece — egli non sarebbe ritornato mai più.
Era una fotografia formato cartolina e raffigurava un bambinello di due anni: un bambinello ricciuto
e sorridente, seduto sulla sua carrozzella. Era una povera fotografia senza papà, ormai, e io la
adottai e l'appesi a capo della mia cuccetta; così, prima d'addormentarmi e appena mi destavo, la
guardavo e mi pareva che il bambinello sorridesse a me.
Ma una mattina, al mio risveglio, nessuno mi sorrise: guardai e riguardai la fotografia, la osservai
controluce, la studiai con la lente, ma il bambinello non c'era più. La carrozzella, sì, c'era ancora,
ma era vuota.
Allungai una mano verso i miei cenci ammucchiati in fondo alla cuccetta e rabbrividii, perché le
mie dita avevano toccato qualcosa di tiepido e di vivo.
Un bambino alto dodici centimetri dormiva in una piega del mio farsetto a maglia. Ed era proprio
lui, il bambinello fuggito dalla fotografia.
Tolsi un po' d'imbottitura dalla mia giubba, la distesi sul fondo del gavettino e vi deposi adagio
adagio il mio bambinello. Egli continuò a dormire, e il suo respiro era leggero come l'ombra di un
fiore, e io lo guardavo con un occhio solo e socchiuso, anche, perché temevo che il peso di tutto il
mio sguardo fosse eccessivo per quel corpicino.
O bambinello di dodici centimetri, così piccolo e già prigioniero come un uomo grande, perché sei
sceso dalla tua carrozzella? Perché hai abbandonato il tuo estatico mondo di carta patinata? Cosa
cerchi in questa gelida malinconia? Al di là del reticolato, oltre il limite estremo del campo, sotto gli
alberi contorti di quel breve monticello che ci vieta ogni distanza, croci nere si allineano su fosse
comuni, sopra i grandi dormitori popolari degli uomini morti. Più sotto e a destra, fra il monticello e
il reticolato, c'è un piccolo campo nettamente delimitato da un rado traliccio di legno chiaro. Quel
campicello è stato preparato appositamente per noi perché — mentre da vivi tutti gli uomini sono
uguali, di fronte alla guerra, sì che per esempio l'intellettuale latino può essere trattato come il
pastore mongolo — quando gli uomini sono morti debbono per forza esistere delle differenze di
trattamento.
Altrimenti la Civiltà, facendo poi il bilancio consuntivo e il computo delle croci nuove sbocciate
sulla terra, avrebbe ragione di seccarsi.
«Che confusione è mai questa? ».
Perché la Civiltà vorrebbe che gli uomini fossero sempre divisi anche da morti: qui i russi, là i
tedeschi, là gli inglesi, là gli italiani, là i francesi eccetera, ben distinti e nemici ancora, come da
vivi. Ma non ci sono frontiere, nel regno della Morte.
Nelle notti immobili, quando non fischia il vento che spazza le deserte immensità della piana
polacca, uomini e uomini — mille, duemila, diecimila — si aggirano sotto gli alberi contorti del
monticello e si compenetrano l'un dentro l'altro, allorché s'incontrano, e passano attraverso i tronchi
neri e le croci di legno, perché sono creature fatte soltanto di ricordi.
Nel campicello recinto dalla siepe bianca c'è una piccola croce — l'unica, la prima — che reca un
nome e un numero. E le ombre scendono lentamente il breve declivio e si affollano lungo la siepe
bianca, e chiamano con voce spenta e lontana come un'eco: «Italianski! Italianski!».
E un'ombra emerge davanti alla croce solitaria e si appressa.
«Italianski Brot! ».
Gli porgono il pane e il sale, e quello allarga le braccia, dice che non ha niente da dare in cambio,
che l'hanno preso così, con la sola roba che aveva addosso, ma essi scuotono il capo sorridendo.
Non vogliono niente, non hanno più bisogno di niente.
Ad un tratto si appressa qualcuno che viene più da lontano e lo riconoscono tutti: fino a poco tempo
fa quell'uomo vegliava sulla torretta, col fucile in pugno e la mitragliatrice pronta, e — di notte —
frugava col suo faro le tenebre, e i fili del reticolato scintillavano coperti di gelo e di brina. Guai ad
avvicinarsi al reticolato: egli avrebbe fucilato, senza preavviso, perfino chi superasse di un
centimetro il filo teso che limitava la zona proibita. Lo riconoscono, eppure nessuno si preoccupa se
ora egli li sorprende addirittura fuori del loro recinto. Una mattina egli era sceso intirizzito dalla sua
torretta e lo avevano portato all'infermeria, e adesso anche lui è un'ombra come tutte le altre ombre,
e risiede nel cimitero del paese, ma ogni sera viene qui a far quattro chiacchiere. Parlano lingue
diverse ma si capiscono perfettamente. Parlano di cose buone, innocenti.
«La mia casetta è al margine della steppa, e sembra di stare in riva a un mare verde...», dice un
mugik barbuto.
«Io andavo ogni domenica al Prater, sulla grande ruota, e di lassù si vedeva tutta Vienna...», dice
l'uomo che stava sulla torretta.
E l'ombra emersa davanti alla croce sussurra: «Il mio bambino ha due anni, e mi piacerebbe
mostrarvi la sua ultima fotografia. Ma l'ho persa; m'è caduta di tasca mentre mi portavano
all'infermeria. Peccato, una fotografia così bella! Si vedeva lui che sorrideva seduto sulla sua
carrozzella».

***

Il bambinello dormiva nel mio gavettino, ed io lo guardavo scuotendo il capo.


«Cosa cerchi, piccolino, in questa gelida malinconia? I tuoi occhi non possono vedere le ombre che
popolano le deserte notti dei Lager. Ritorna al tuo placido mondo di carta patinata».
Ma egli rimase con me, e diventò il fantasma del mio «castello».
Io abitavo allora in un castello senza torri. Due cuccette sovrapposte, tenute assieme da quattro pali:
io dormivo sotto, un altro numero dormiva sopra. Per ripararmi un po' dall'aria, avevo teso tra palo e
palo delle vecchie fodere di pagliericcio, sì che — mentre gli altri non potevano vedermi — io
vedevo tutto come attraverso un velo e mi parevano cose e personaggi di un sogno lontano.
Però c'era il pericolo che il bambinello, mentre io ero assente, scivolasse fuori delle cortine o
cadesse giù, e io non volevo che alcuno lo vedesse.
Come si fa? Improvvisamente si scopre che un uomo, il quale conduce vita da zitello, ha un
bambino. Cosa dice la gente? Sono così maligni, gli uomini! Avrebbero potuto pensar male di me.
Perciò piantai dei bastoncelli sui lati d'una tavoletta di legno, tesi — fra bastoncello e bastoncello —
del filo di refe: un giro, tre giri, dieci giri, ed ecco allestito un campettino di concentramento per il
bambinello. Anche lui aveva diritto di essere prigioniero come i grandi, perché anche lui non aveva
fatto niente di male, povero ometto di dodici centimetri! Sistemai la tavoletta appendendola alla
testiera della cuccetta e feci un piccolo buco nella cortina dalla parte della finestra, perché anche il
mio internatino avesse — come tutti gli altri — la sua razioncina di sole quando sole c'era.
Gli diedi un nome piccolo come lui: un nome fatto con un pezzettino del nome del suo babbo: Cip.
(Cipriano si chiamava il suo papà).
Cip trascorreva la giornata chiuso nel piccolo Lager; giocava con un bottone dorato del mio
«langiubbetto" azzurro, e io gli passavo sempre la sua razioncina; margarina grammi 1; marmellata
grammi 2; pane grammi 3; piselli alla mano n. 5.
Un giorno indicò col dito il mio piastrino: ne voleva uno anche lui. Era nel suo pieno diritto, e io gli
feci un piastrino piccolissimo e vi incisi anche un numerino di matricola: 001.
Volle poi anche un paio di zoccoli — come avevo io — e glieli scavai in due pezzettini di legno
dolce, e così, quando Cip camminava, la tavoletta del suo Lagerino crepitava lievemente come se vi
fosse annidato un tarlo: tik, tik, tik.
Ogni tanto gli facevo arrivare un pacco: un quarto di caramella, un grammo di cioccolata, tre gocce
di latte condensato eccetera, meno — si capisce — infiammabili, medicinali e utensili atti a favorire
un'evasione.
«'una», disse una sera indicando col ditino il soffitto del castello. Voleva anche la sua spettanza di
luna, e io gli feci la luna con uno specchietto rotondo sul quale batteva — attraverso un buchetto del
cortinaggio — un raggio della lampada elettrica. Con un batuffolo di bambagia gli feci anche la sua
spettanza di nuvole.
«Màe», diceva ogni tanto. Voleva il mare, io allora me lo nascondevo nella tasca del cappotto e
uscivo con lui. In un angolo del campo c'era una grande pozzanghera. Mi toglievo uno zoccolo e
Cip vi entrava e navigava felicemente dall'una all'altra sponda, e compieva piccoli sbarchi con forze
preponderanti.
Due volte al giorno gli suonavo la tromba, soffiando sul taglio di un foglietto di carta velina: Cip si
adunava di corsa in mezzo al suo Lager e stava poi immobile come aveva visto fare agli altri, e io lo
passavo in rivista. E non mancava mai nessuno.
Ma un giorno di fine marzo, Cip mancò all'appello. Noi avevamo già preparato i bagagli per partire
alla volta di un altro Lager, e io mi preoccupavo per la perquisizione. Dove avrei nascosto Cip? E se
me l'avessero trovato? Me l'avrebbero confiscato? O me l'avrebbero lasciato, accontentandosi di
mettere su Cip il timbro del Gepruft? Che pasticcio, buon Dio! E fra un'ora si doveva abbandonare
la baracca. Decisi di nasconderlo nella bustina: gli avrei spiegato di aggrapparsi bene ai miei capelli
e di stare fermo fermo. Ma ormai era troppo tardi. Quando mi infilai nella cuccetta, il Lager di Cip
era deserto. Il refe del reticolato era tagliato in un angolo.
Cip era evaso.
Lo cercai dappertutto, frugai nello zaino, svuotai il pagliericcio. Cip non si trovava.
Cip era scomparso. E non trovai più neanche la fotografia che la mattina era ancora appesa alla
testata del lettino, e fu inutile cercarla.
Folate di vento devastavano ogni tanto quella deserta giornata di marzo e, ogni tanto, una finestra si
spalancava con violenza e i brandelli di carta e gli stracci buttati sul pavimento della baracca
volavano un po' dappertutto. La cortina del letto, dalla parte della finestra, s'era staccata quasi
completamente: che la fotografia fosse stata portata via dal vento? Probabilmente era accaduto così,
ma per Cip, no. Cip era evaso.
Girai per il campo deserto, cercando disperatamente dappertutto, chiamando disperatamente Cip, e
così arrivai sino all'estremo limite donde si vedeva — lì a due passi, dall'altra parte del reticolato —
il campicello con la siepe bianca e la tomba solitaria.
E, sopra la tomba solitaria, c'era un cartoncino: la fotografia d'un bambino che sorrideva seduto
sulla sua carrozzella. Cip aveva ritrovato finalmente chi era venuto a cercare nella gelida
malinconia del Lager, ed era rientrato nel suo estatico mondo di carta patinata.
Io partivo, ma Cip rimaneva col suo papà.

APPENDICE

QUEL GIORNO

Accadde dunque che, nel pomeriggio del 22 aprile 1945, io mi trovai improvvisamente al cospetto
di sei quintali di zucchero.
Per valutare l’avvenimento secondo la sua effettiva portata occorre tenere presente che, sommando
alle calorie forniteci dalla amministrazione uscente le calorie attinte alle nostre personali riserve
sotto, risultava che noi, secondo i ragionamenti della scienza, eravamo defunti da 471 giorni, e che
gli italiani — se ci si mettono di picca — non muoiono neanche se li ammazzano.
Concludendo, diremo che io, defunto per consunzione già da molti mesi, mi trovai improvvisamente
proprietario della drogheria Hermann Shoert di Bergen.
Era il 22 aprile del '45 e ricordo che, giunto alla fine del terzo chilogrammo di zucchero, cominciai
a sentire una fame tremenda.
Questa nota esplicativa ho ritenuto opportuno premettere alla mia cronachetta, per dar modo al
lettore di rendersi conto dello stato d’animo col quale uomini che si trovavano nelle mie medesime
condizioni fisiche e spirituali presero possesso di una ridente borgata vuota d’ogni abitante e piena
di ogni ben di Dio.

ECCOLI! ECCOLI!
16 aprile

Alle ore 17,30 tutti cominciarono a gridare «Eccoli! Eccoli!» e si buttarono verso il cancello:
eravamo seimila ufficiali tra francesi e italiani, ma io mi arrampicai in cima a un palo del reticolato
e così fu concesso anche a me di vedere le truppe liberatrici. Giunsero a bordo di una macchina nera
tipo 1100, e risultarono simpatici tutt'e tre, specialmente il maggiore Cooley, il quale aveva una
bella faccia rubiconda che ricordava le liete tricromie delle pagine pubblicitarie di «Esquire»
(numero speciale di Natale, reparto liquori ad alta gradazione). Gli altri due erano un caporale
scozzese e un soldato canadese e portavano un mitra ciascuno.
Il maggiore disarmò la guardia tedesca al cancello e consegnò fucili e uomini ai francesi: e questo
era logico perché, pure trovandosi chiusi in un campo di concentramento fin dai primi giorni
dell'aggiramento della Maginot, i nostri ottimi francesi stavano vincendo la guerra a fianco degli
alleati. Inoltre, avendo sempre fruito (a differenza di noi e dei russi) dell'assistenza della Croce
Rossa Internazionale, e trovandosi soltanto da pochi giorni in un campo malconcio quale il nostro,
essi erano di marziale aspetto e quasi tutti possedevano ancora i loro ottimi berretti rigidi a
pentolino col coperchio rosso e la croce nera, come i fondelli delle granate da 149, tipo
esercitazione.
Poi le truppe liberatrici entrarono tutt'e tre nel campo e allora accadde qualcosa che fece rimanere
notevolmente perplessi i francesi. Le perquisizioni della Gestapo si erano sempre succedute con
frequenza dannata e venivano sempre eseguite con tanta scrupolosa meticolosità da oltrepassare
spesso i limiti della decenza. Tuttavia, dopo diciannove mesi di Lager, ecco saltar fuori macchine
fotografiche a dozzine e bandieroni tricolori di tre metri per quattro. Dalla parte francese non venne
a galla nemmeno una coccarda. Il fatto è che gli italiani sono bravissimi in queste faccende, e io una
volta in Polonia, durante un trasferimento da un campo all'altro, vidi un tenente siciliano uscire
dalla baracca della perquisizione, in camicia perché l'avevano fatto spogliare: e ricordo che teneva
sulle braccia il fagotto dei suoi vestiti, e dentro il fagotto c'era una grossa radio a sei valvole.
Io sono l'uomo meno scaltro dell'universo, e così, quando nel gennaio del '45 cambiammo campo e
ci ritirarono tutte le coperte perché, dissero, i sinistrati di Amburgo e di Brema avevano più freddo
di noi, a me tolsero persino la sciarpetta che m'ero fatta con uno straccio di panno. E Uscii gemendo
dalla baracca della «fruga»: però, dentro il sacco avevo la mia coperta da casermaggio di metri 2,20
per 2,30, e adesso con essa tengo al caldo le tenere ossa di Albertino e quando la rivedo la saluto:
«Ciao, vecchia: non mi dimentico che laggiù m'hai salvato la vita».
Gli italiani sanno «arrangiarsi» meravigliosamente bene, e questa è la qualità negativa che più ci
danneggia: ma allora risultava un fattore positivo perché, per esempio, gli apparecchi radio
nascevano dal niente. Bastava una valvolina: il resto lo si faceva tutto in casa, compresa la cuffia e
le pile, e il complesso stava comodamente dentro una gavetta e funzionava in tal modo che, quando
ad esempio il signor Churchill ancora parlava, per le baracche giravano già i fogliettini con la prima
parte del discorso tradotta in italiano.
Quando si tratta di «far fesso» qualcuno, per noi italiani la questione diventa di prestigio nazionale e
si vedono cose impensabili. Si vede, per esempio, l'ingegner M., un personaggio massiccio,
dignitoso e arcigno come una equazione di settimo grado, avvicinarsi tranquillo alla bicicletta che
un sergente della Gestapo appoggia ogni giorno alla baracca dell'ufficio pacchi.
Sotto gli occhi della sentinella, annidata sulla torretta lì vicino, il grosso uomo svita con
indifferenza la dinamo dal biciclo, se la porta in luogo appartato, la smonta, toglie il filo di rame
dell'avvolgimento, rimonta il meccanismo, ritorna al biciclo, riavvita la dinamo. Ed ecco procurata
la bobina di cui abbisogna la radio.
Dico la verità: io sono un italiano, ma, nonostante tutto, a me gli italiani sono simpatici.
Ognuno ha le sue debolezze!

***

Le truppe liberatrici salutarono il bandierone più grosso, poi in serata o all'indomani mattina,
sarebbe arrivato un presidio regolare.
Un paio d'ore dopo, qualcuno si accorse che sulla torretta più fuori mano una sentinella rimaneva
imperterrita al suo posto col fucilone al fianco. Nessuno gli aveva detto niente e per lui la guerra
continuava, come per il vecchio famoso maresciallo. Gli spiegarono quello che era successo, e il
vecchio «crucco» fece cenno col capo che aveva capito e scese dalla torretta e si avviò lentamente
verso il corpo di guardia e la capitolazione.
«Ma vattene a casa tua!», gli gridò uno. E quegli scosse il capo e continuò il suo fatale andare.
Probabilmente non si fidava troppo dei tedeschi.

PASTICCIO INTERNAZIONALE
11 aprile

Al nostro risveglio trovammo affisso un foglio dattiloscritto col quale il comando italiano del
campo ci comunicava che eravamo liberi, che le nostre sofferenze erano finite, che eravamo degni
di ricostruire, e terminava con tre righe in tutte maiuscole: «Viva l'Italia, Viva gli Alleati» e viva
non so chi altro.
La cosa mi preoccupò vivamente: il comando aveva dunque trovato della carta, una macchina da
scrivere e un timbro. Chi ci avrebbe salvato adesso dagli ordini del giorno? Il buon Dio ci aveva
scampato dai tedeschi, ma non si può pretendere l'impossibile dal buon Dio. Un comando militare
fornito di carta, macchina e timbro rappresenta una entità che sfugge anche al controllo divino.
«Stiamo in guardia», dissi ad Arturo. «Qui ritorna a galla il servizio di picchetto, l'ispezione esterna,
il rapporto e la busta gialla col bigliettino degli arresti».
«Hanno trovato anche buste gialle?».
«Pare di sì».
«Allora ci siamo», concluse cupo Arturo.
Invece il buon Dio ci aiutò perché nel pomeriggio tornò il maggiore inglese ad assicurarci che il
presidio sarebbe arrivato tra breve: e pochi minuti dopo la partenza del maggiore liberatore, arrivò
effettivamente una squadra di soldati armati di fucili mitragliatori e di mitragliatrici pesanti:
soltanto che, invece di essere inglesi, erano tedeschi.
In tal modo andò a finire che noi scampammo all'immediato pericolo degli ordini del giorno.
Ma qualcuno se la passò brutta, coi tedeschi. E fu un tedesco.
Raccontata così, la guerra pare una burletta, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.
Anche qui tutto è relativo e si tratta soltanto di diversi punti di vista. Per esempio, vista dall'alto
della pianta alla quale venne appeso per il collo, la cosa non dovette sembrare molto divertente al
povero «capitano Armistizio».

IL CAPITANO ARMISTIZIO

Era apparso all'orizzonte del Lager di Sandbostel nell'autunno del'44, aveva l'asma, e si capiva a
prima vista che non credeva nelle armi segrete e nella vittoria finale. Fu battezzato perciò "Capitano
Armistizio" e, se non avesse avuto l'imperdonabile difetto di esser tedesco, avrebbe avuto il diritto
di essere definito «un buon uomo».
Con questo non si nega l'esistenza di buona gente in Germania. È vero che i tedeschi nascono tutti
cattivi perché così vuole il regolamento e il regolamento laggiù è sacro; però occorre riconoscere
che, acquistando via via l'uso della ragione, parecchi si redimono e diventano trattabili, cordiali. E
costoro si distinguono benissimo dagli altri perché portano tutti addosso, in modo ben visibile, una
targa con sopra scritto: "Hier ruht in Gott". Qui riposa in Dio.
Il capitano Armistizio, pure essendo vivo ancora, riusciva spesso ad essere simpatico come un
tedesco morto: questo probabilmente perché il valentuomo si sentiva con tanta certezza predestinato
a una prossima redenzione da assumere inconsciamente l'abito morale e le conseguenti qualità
positive del tedesco che riposa fra le braccia del suo Dio.
Quando ci trasferimmo al campo di Wietzendorf, il capitano Armistizio ci aveva seguito assieme
alla sua asma e così, la mattina del 13 aprile, grida di gioia ci risvegliarono: «Non ci sono più i
tedeschi!». E quando uscimmo dalle baracche e vedemmo ancora sulle torrette le sentinelle
tedesche, l'entusiasmo non diminuì e si continuò a gridare che i tedeschi non c'erano più perché (a
parte il fatto che i sei unici soldati rimasti di guarnigione al campo erano così danneggiati dagli anni
e dalla guerra che, fra tutti avrebbero potuto combinare a malapena un morto normale) li
comandava il capitano Armistizio.
Il quale, come si è detto, più che un capitano con l'asma, era un'asma con un capitano. E l'asma non
ha nazionalità precisata.
Le truppe alleate erano arrivate già ad Hannover e proseguivano verso Celle, il che aveva indotto il
comando nemico ad abbandonare nottetempo il campo assieme a tutti gli uomini validi, affidando
l'amministrazione dei tremila prigionieri francesi e dei tremila italiani al capitano Armistizio e ai
gloriosi resti di quelli che erano stati sei soldati del più orgoglioso esercito del mondo.

TUTTO È PERDUTO FUORCHÉ IL REGOLAMENTO

Nello stesso giorno 13 accadde un fatto gravissimo: il comando italiano affisse l'Ordine permanente
numero uno composto di sei paragrafi, l'ultimo dei quali contenente ben sette divieti
importantissimi, per non parlare del quinto che può ritenersi di gravità storica in quanto «ai militari
dipendenti veniva fatto obbligo di osservare l'ordine e la disciplina a sensi di quanto prescritto dai
regolamenti del Regio Esercito Italiano e a scanso di incorrere nelle sanzioni previste dai Codici
penali di pace e di guerra».
In seguito parecchi rischiarono di morire per occlusione intestinale — uno anzi morì, poveretto,
perché si cominciò a dar fondo alle riserve di patate — quindi arrivarono nella zona reparti tedeschi,
i quali presero a sistemare le loro armi pesanti tutt' attorno al Lager. Si poté evitare che un pezzo
anticarro venisse postato al di là dalla strada a quattro metri dal reticolato, e ciò grazie al deciso
intervento del comandante francese colonnello Duluc, maschia figura di soldato, il quale, portatosi
fieramente fin sotto il reticolato, con soli sei pacchetti di sigarette Camel, indusse il sottufficiale
tedesco che dirigeva le operazioni a sistemare le sue macchine infernali a mezzo chilometro più in
là. Ma non fu possibile mettersi in contatto con le due «Katiuscke» e con le batterie di mortai
sistemati nei boschetti ai margini del Lager. Così, arrivati gli inglesi alle porte del paese, la notte tra
il 15 e il 16 fu un continuo sibilar di proiettili tedeschi che passavano sopra le nostre teste. E i colpi
della controbatteria si avvicinavano sempre di più a noi, sì che, a un bel momento, i comandi
italiano e francese furono costretti a intervenire energicamente dando ordine che, in tutte le
baracche, due uomini a turno montassero la guardia. Cosa questa di essenziale importanza perché
così, se qualche proiettile avesse fatto scoppiare una baracca, i dormienti avrebbero potuto essere
portati immediatamente a conoscenza dell'accaduto. Fortunatamente il tiro a un bel momento non
s'allungò più: evidentemente gli inglesi conoscevano l'esistenza e l'ubicazione del campo e avevano
rinunciato alla controbatteria. Durante la mattinata ci fu una interessante battaglia in paese, e a
mezzogiorno le artiglierie tedesche finalmente tacevano. E fu davvero un silenzio d'oro.

MATTACCHIONE D'UN MAGGIORE!

E così eccoci ritornati al pomeriggio del 17, giorno seguente la liberazione, e all'arrivo del famoso
reparto tedesco. Niente a questo mondo accade per caso. Un fatto è sempre conseguenza di un altro
fatto. E anche l'arrivo dei tedeschi fu occasionato da qualcosa. Ora occorre tener presente che un
reparto corazzato inglese aveva sì circondato il paese, ma in definitiva era prigioniero di se stesso,
perché distogliendo uomini per rastrellare la zona avrebbe rotto il cerchio e avrebbe permesso ai
reparti tedeschi ritiratisi in un bosco di fuggire. Si aspettavano fanterie, ma le fanterie sono le solite
di tutti gli eserciti del mondo (eccezion fatta per la Germania, il Giappone e altre due nazioni che
non nomino per sfacciato opportunismo politico), perciò fanno sempre in modo di arrivare il più
tardi possibile.
E questo è giusto perché il fine ultimo di un uomo civile non è certamente quello di sforzarsi di
morire rapidamente. Ecco perché il maggiore Cooley si era avventurato con soli due uomini alla
conquista del nostro campo. Ora era accaduto che il maggiore Cooley, nella mattinata del 17,
ritornando da una seconda visita al nostro campo, aveva incontrato un maresciallo tedesco e in un
momento di debolezza gli aveva sparato addosso. Sì che il nostro uomo, per quanto tedesco e
cocciuto, aveva compresa l'inutilità di continuare a respirare con alcune palle nella cassa cranica e
aveva cessato di vivere. Però non era stato molto felice nella scelta della località per il suo decesso:
si era infatti disteso proprio davanti al forno nel quale alcuni soldati italiani, assistiti moralmente da
cinque ufficiali francesi, stavano fabbricando il pane per i compagni prigionieri. Così, avvertiti non
si sa da chi, i tedeschi erano arrivati al forno, avevano seminato centinaia di pallottole nelle stanze
del pianterreno, quindi, scoperti gli infelici panificatori nell'angolo più buio del solaio, li avevano
accusati dell'uccisione. Convinti solo a metà delle spiegazioni date dagli innocenti panificatori,
avevano rimandato al campo i soldati e si erano portati via gli ufficiali francesi. Nel bosco non si
sapeva ancora con precisione quello che era accaduto nel campo: dall'interrogatorio dei francesi si
seppe così della liberazione e dei fatti che erano seguiti.

FINE DEL CAPITANO ARMISTIZIO

Ecco i tedeschi al campo. Volonterosi abitanti del paese, primo fra tutti un grosso ragazzo biondo,
che (da bravo Hitlerjugend) alle 17,15 del 17 aprile 1945 credeva ancora nella vittoria finale,
informano che nel campo ci sono armi rastrellate da prigionieri nei boschi vicini. A dire il vero i
tedeschi sono cortesissimi e il loro ragionamento è quanto mai assennato: o voi desiderate essere
considerati prigionieri, e allora favorite consegnare immediatamente armi e tedeschi incamerati
arbitrariamente. O voi desiderate tenervi prigionieri e armi, e allora noi vi consideriamo combattenti
e apriamo il fuoco sul campo con le nostre mitragliatrici pesanti.
Le mitragliatrici pesanti hanno sempre ragione. Le poche armi vengono restituite e si spalancano le
porte ai prigionieri che sono parecchi perché molti soldati tedeschi sbandati sono venuti a
presentarsi al campo.
E così i nostri prigionieri se ne andarono per riprendere il loro posto di combattimento, e io ricordo
il loro viso sconsolato: in fondo, anche per un tedesco è meglio essere prigioniero dei francesi e
degli italiani piuttosto che dei tedeschi. E anche il capitano Armistizio si avviò col suo zaino in
spalla verso il bosco, assieme agli altri, e là lo accusarono di non aver resistito agli inglesi e lo
impiccarono.
Adesso il capitano Armistizio è l'unico tedesco di mia conoscenza che io ricordo senza amarezza
perché in fondo era un brav'uomo e prego il buon Dio che gli perdoni d'essere nato tedesco, e glielo
raccomando: un angolino tranquillo nel Purgatorio. Povero capitano Armistizio, e ora,
probabilmente, capitano Giudizio Universale.

GENTE TENACE
18 aprile

Ritornò nella mattinata il maggiore Cooley, il quale, trovando disarmata la guardia francese al
cancello, si stupì. Informato di quanto era accaduto si rifiutò di credere: il paese era circondato
completamente dai carri armati inglesi; era mai possibile che i tedeschi, chiusi in quel cerchio
d'acciaio, non si fossero resi conto che per loro oramai la guerra era persa e quindi risultava ridicolo
darsi ancora arie di chi comanda? Evidentemente il signor maggiore non conosceva i tedeschi,
altrimenti non si sarebbe stupito. Io parlai una volta con una signora tedesca, la quale, essendo
sposata con un italiano ed abitando in Italia già da molti anni, aveva imparato a ragionare come una
persona normale, e questa mi raccontò un giorno un suo episodio di fanciullezza legato alla prima
grande guerra. «Noi», disse la signora, «andavamo alle scuole elementari, allora, e almeno una volta
la settimana, per tutto il tempo che durò la guerra, trovavamo chiusa la porta della scuola. "Oggi
vacanza"; spiegava il bidello. "Abbiamo vinto una grande battaglia".
Ricordo particolarmente le due ultime di queste vacanze straordinarie perché furono vicinissime
l'una all'altra. Il martedì chiusa la scuola perché avevamo vinto una grande battaglia nel settore
francese. Il mercoledì niente scuola perché avevamo perso la guerra».
I tedeschi sono fatti così: gente disciplinata che, avendo ricevuto ordine di vincere la guerra, la
vincono fino alla mezzanotte del martedì: alle 0,1 del mercoledì smettono di vincere perché
ricevono dall'Oberkommando l'ordine di arrendersi.
Il maggiore inglese si stupì dunque, poi si adirò notevolmente e ritornò ai suoi carri armati con
propositi molto bellicosi. Tanto è vero che quando nel pomeriggio ricomparve, era in grado di
assicurarci che i tedeschi erano stati perentoriamente diffidati a recarci danno, pena l'impiccagione
all'atto stesso della loro cattura. «La vendetta è una cosa turpe e barbara» mi disse Arturo «né io, se
fossi ucciso, vorrei mai essere vendicato. Io voglio soltanto non essere ucciso. Perciò io non sono
d'accordo col maggiore inglese. Pur accettando in pieno l'idea base di impiccare i tedeschi, il mio
concetto è, in un certo senso, l'opposto del suo, impiccarli, si, ma prima che essi ci abbiano arrecato
danno, non dopo». Il pensiero di Arturo era in fondo quello di tutta la comunità, e in questo ci
trovammo d'accordo persino coi francesi, e così si fecero da ogni parte pressioni perché il maggiore
inglese entrasse in tale ordine di idee. Pur di trovare una rassicurante soluzione del problema si
cercò di semplificare la cosa rinunciando a impiccare i tedeschi: limitarsi a farli prigionieri.
«Un po' di pazienza», rispose il maggiore. «Se non arrivano le fanterie io non posso rastrellare il
paese e catturare i tedeschi. Se distolgo forze e rompo il cerchio, quelli scappano».
Poteva essere una buona soluzione toglierceli dai piedi facendoli scappare. Ma il maggiore disse
che il suo compito era invece quello di impedir loro che fuggissero, e perciò egli non si sarebbe
mosso di un millimetro, a costo di qualsiasi sacrificio.
«Anche a costo di farci mitragliare dai tedeschi», borbottò il solito anglofobo.

VIVI MA NON TROPPO


21 aprile

Il maggiore inglese non si era fatto più vivo, mentre soldati tedeschi avevano preso a gironzolare
attorno al campo. Inoltre, tra le carte dell'ex-comando tedesco erano stati trovati documenti dai
quali risultava che, allo scopo di evitare ai prigionieri (di cui si riconoscevano con molta umanità le
misere condizioni di salute) la dura marcia di trasferimento resa necessaria per l'incalzare degli
avvenimenti, si disponeva che si trovasse per essi prigionieri una definitiva sistemazione nel campo
stesso. E ciò a mezzo di bombardamento e mitragliamento opportunamente organizzati.
Sapersi vivi per miracolo è indubbiamente una cosa che fa piacere, quando però uno sia ben sicuro
di essere vivo; e noi allora avevamo rispettabili dubbi in proposito perché la terra di Germania ci era
sempre sembrata terra di un altro mondo e spesso addirittura terra dell'altro mondo. Così passammo
tre pessime giornate.

VERSO LA LIBERTÀ

Improvvisamente arrivò l'ordine di preparare gli zaini abbandonando ogni cosa che non fosse
strettamente necessaria. Trattative erano state concluse tra i tedeschi e il maggiore inglese ed era
stata concordata una tregua d'armi di alcune ore allo scopo di permettere ai prigionieri francesi e
italiani di raggiungere le linee inglesi. I tedeschi ci regalavano agli Alleati. Così, senza neppure
sapere come, ci trovammo a camminare su una strada ai lati della quale erano boschi bruciacchiati
dai lanciafiamme, e incontravamo carri armati sventrati e automobili accartocciate e sul tronco degli
alberi v'erano i segni della mitraglia.
Camminavamo senza scorta, con una bandiera della Croce Rossa in testa alla colonna: dopo 5 o 6
chilometri sorpassammo un posto di guardia tedesco con mitragliatrici pesanti, poi, a cinquecento
metri, ecco gli autocarri con la stella bianca.
Dicono molti dei miei compagni che fu una cosa straordinaria, da far impazzire dalla gioia. Io non
lo so, io non so neppure cosa pensare. Probabilmente non pensai a niente. La cosa che mi rimase più
impressa fu che uno degli autisti americani aveva

una sigaretta Camel sopra l'orecchia sinistra. Prima di partire dal campo avevano dato a ciascuno di
noi una pagnotta da un chilo e una scatola di carne da ottocento grammi, che dovevano servirci per
non so quanti giorni, e ricordo che io, caricato il mio fagotto su un autocarro, mi sedetti per terra e
mangiai tutto: carne e pane.
Ognuno ringrazia la Divina Provvidenza come può.
Poi riprendemmo il cammino e, percorsi otto o dieci chilometri, ci trovammo d'improvviso in una
linda borgata e dove ogni cosa sembrava fatta da pochi giorni tanto era pulita e ordinata.
Una borgata completamente deserta perché, tempo due ore, tutti gli abitanti avevano dovuto
sgombrare e andarsene altrove portando seco soltanto una valigia con lo strettamente
indispensabile.
«Ognuno si arrangi come meglio crede», ci fu detto. «Evitate di disputarvi gli alloggi a morsi e a
randellate perché c'è posto per tutti».
Ci regalavano un paese completo di ogni accessorio, e molti entrando nelle case, trovarono la tavola
apparecchiata, e la minestra che fumava ancora nelle scodelle.
Io, invece, so che a un bel momento spalancai una porta e mi trovai davanti a sei quintali di
zucchero.

È FACILE FARE IL GENTLEMEN A PANCIA PIENA

Quando si tratta di ricercare negli altri popoli qualità positive da contrapporre a manchevolezze
proprie, gli italiani si dimostrano gli uomini più volenterosi ed obiettivi del mondo. Questa è stata
una delle caratteristiche inconfondibili della nostra gente da ogni secolo e, per quanto manchino in
Tacito e Livio riferimenti in proposito, si può essere certi che a Roma anche più antiannibaliani
erano d'accordo nel riconoscere che in fatto di elefanti i romani dovevano levarsi tanto di cappello
ai cartaginesi. Così, in occasione della guerra con la Turchia e poi con l'Etiopia, gli italiani
riuscirono a scoprire in determinate cose la loro inferiorità rispetto ai turchi e agli abissini; e così,
trovatasi l'Italia invischiata nell'avventura bellica dell'Asse, anche il più feroce antitedesco e
antinazista degli italiani riconobbe volentieri che almeno per quanto riguardava la disciplina del
razionamento la Germania era di gran lunga superiore a noi. L'accaparratore e il borsaro nero diceva
la gente sono porche figure tipicamente italiane. In Germania è un'altra cosa. In Germania, dal ricco
al povero, dal personaggio importante all'ultimo cittadino, tutti osservano scrupolosamente il
razionamento. Hitler sarà l'uomo più pazzo e criminale dell'universo, però vive coi tagliandi della
tessera. Questo diceva la gente in Italia e tutti erano d'accordo: perciò i tremila affamati italiani che
entrarono nelle deserte case della cittadina di Bergen rimasero male. Sacchi di farina, di riso, di
caffè, casse di scatolame, barili carne salata e di melassa, armadi pieni di tagli d'abito di lana grezza,
doppie pareti imbottite di tela, di filo, di bottoni, di cravatte, di sapone, di spille di sicurezza. In ogni
orto, in ogni giardino una miniera: orci pieni di lardo, di strutto, di miele, di uova, di burro. Sotto le
cianfrusaglie dei solai, sotto là paglia dei fienili, sotto le cataste di legna, prosciutti, vasi di
marmellata, bidoni d'olio. E nelle stalle, nei pollai, nei cortili, galline, oche, maiali, vacche, vitellini.
Animati dal nobile desiderio di sentirsi inferiori a tutti i popoli del mondo, gli italiani erano riusciti
a trovare il modo di sentirsi in qualcosa peggiori persino dei tedeschi, che son gente di un altro
mondo; e ora la dolce illusione cullata nei cuori per quattro anni cadeva miseramente.
Anche per ciò che riguardava la disciplina del razionamento, gli italiani non erano peggiori dei
tedeschi. I tedeschi erano addirittura peggiori degli italiani.
Ma l'italiano, se si lascia abbattere facilmente, sa però riprendersi con pari facilità. E poi,
naturalmente: più che il dolor poté il digiuno.
Una pattuglia inglese scoperse un capitano italiano che, seduto sul marciapiede di una via centrale,
stava spennando una gallina, e il fatto fu rilevato con poca simpatia da quegli irreprensibili
gentiluomini. Ma occorre tener presente che si trattava di una gallina nazista, ed è altresì necessario
considerare che, mentre risulta relativamente facile essere gentleman a pancia piena, è terribilmente
difficile esserlo a pancia vuota da diciannove mesi.
In questa condizione l'eterno conflitto tra lo spirito e la materia si inasprisce, e il ragionamento
perde facilmente il controllo delle operazioni. Due litri di melassa, per un laureato in belle lettere
che si trovi in condizioni normali, rappresentano la cosa più repellente dell'universo: eppure, nei
giorni di Bergen, un professore di liceo si attaccò a un fiasco di melassa e se ne staccò soltanto
quando il recipiente fu vuoto.
Un tenente di artiglieria, scoperto in un cassetto un grosso blocco di margarina, lo mangiò come
fosse pane. E continuò a ritenersi completamente soddisfatto anche quando, alla fine, gli fu
dimostrato che si trattava in realtà di grasso canforato per massaggi.
Dopo 19 mesi di appetito violento il ragionamento logico si riduce a schemi elementari: la farina è
una polvere bianca ergo ogni polvere bianca è farina. In questo modo più d'uno tentò di panificare
col gesso e l'impresa finì male perché il gesso si rapprese subito, ma polpette infarinate con
scagliola furono regolarmente cucinate e si trovò che quella crosta croccante era ottima.

A TITOLO DI RIPARAZIONE

Le galline furono rapidamente eliminate e naturalmente, data la fretta, in parecchi casi si dimenticò
di togliere loro le interiora prima di buttarle nella pentola.
Una volta eliminate le galline, fu necessario rivolgere l'attenzione ai maiali, e qui la faccenda si
complicò perché, mentre riesce facile accoppare una gallina, ammazzare un maiale è impresa più
complessa.
Su tremila laureati, (eccettuati due veterinari e tre medici), nessuno aveva un'idea, sia pure
approssimativa, sulla macellazione degli animali. La cultura generale in materia arrivava fino alla
gallina: dopo la gallina erano le tenebre, l'indistinto.
Quindi niente di strano se qualcuno fu tratto ad errate interpretazioni e giudicò il maiale alla stregua
di una grossa gallina. E, non potendo tirargli il collo, tentò di impiccarlo.
Io vidi, nell'aia di una fattoria fuori mano, cinque ufficiali attorno a un grosso maiale: era loro ferma
intenzione di sopprimerlo e cominciarono col picchiargli legnate in testa. Poi uno arrivò con un
martello, e presero a dargli martellate. L'infelice animale urlava come un dannato ma non
dimostrava la minima intenzione di morire, e allora il più deciso dei cinque scappò in casa e ritornò
con un coltello.
Io non posso ridirvi quello che accadde. Il fatto è che, dopo un certo tempo, qualcuno gridò che
adesso si ricordava e che i maiali dovevano essere colpiti nel cuore. E allora, data l'impossibilità di
trovare sulle pareti esterne del suino il punto corrispondente all'organo che presiede alla
circolazione, i cinque aprirono il maiale e così trovarono quello che cercavano.
Se la società protettrice degli animali vorrà poi iniziare dei processi contro i criminali di guerra,
tenga presente che io ho i nomi dei cinque. E ho anche i nomi dei tre che, non potendo ammazzare
una vacca, si limitarono a tagliare alcune bistecche da una coscia. Però, prima di emettere la loro
sentenza, i giudici dovranno aver cura di rimanere per diciannove mesi chiusi in un Lager
amministrato dalla sussistenza tedesca.

I RUSSI SCOPRONO LA BICICLETTA

A pochi chilometri dalla nostra cittadina, nella colossale ex-caserma tedesca di Bergen,
alloggiavano migliaia di prigionieri russi liberati nei Lager della zona, e così cominciarono presto le
visite.
E qui mi si accusi pure di antitalianità, ma io parlerò anche se so che mi espongo ad essere chiamato
«oscura forza della reazione», o addirittura «nuovo covo neofascista a sfondo monarchico»: e
questo non perché io abbia motivi di particolare antipatia per i russi, ma perché i russi sono degli
stranieri, e per me tutti gli stranieri sono uguali. E perciò se mi è lecito il dire che i cinesi mangiano
i nidi di rondine, mi dev'essere parimenti concesso di dire che i russi bevono l'acqua di colonia. Nel
primo caso perché l'hanno detto e scritto persone degne di fede. Nel secondo caso, perché l'ho visto
io. E per me io sono una persona degna di fede.
Dopo quel che ho visto e sentito, mi pare infatti che non sia possibile pensare a un russo, il quale,
vedendo una bicicletta, non vi si getti sopra con estrema bramosia. Davanti a una bicicletta il russo
dimentica tutto, e il suo unico scopo diventa quello di inforcare il velocipede.
Butta ogni cosa, monta in sella e prende a pigiare sui pedali. Dopo due metri rovina per le terre
come un gatto di piombo. Si rialza, rimonta in sella, torna a inabissarsi. Ritenta ancora e di nuovo
eccolo con la faccia nella polvere.
Avvenimenti di eccezionale importanza possono nel frattempo verificarsi: scoppi di mine,
bombardamenti a tappeto, controffensive nemiche, eclissi totali, terremoti, alluvioni, eruzioni di
vulcani, ma niente riesce a distrarre il nostro bravo mugico dalla sua nobile impresa. E fino a
quando non sarà riuscito a impadronirsi del segreto per mantenere in equilibrio la bicicletta, egli si
disinteresserà affatto del mondo circostante.
Siccome è un essere umano e quindi ragionevole, dopo cinque ore o dopo trentasei, ci riesce, ed
eccolo alla fine che pedala gagliardamente, ben saldo sulla sella.
Adesso possono ripetersi gli avvenimenti già accennati o nuovi e più gravi possono verificarsi, ma
niente potrà disturbare neppure questa seconda fase che possiamo chiamare dello sfruttamento del
successo. Fino a quando la ruota anteriore del biciclo non si troverà a contatto con un muro, un
albero, un traliccio della luce, un radiatore d'autocarro o i cingoli d'un Panzer, niente potrà
interrompere la marcia trionfale del nostro velocipediere. Ha due garretti d'acciaio, il nostro uomo, e
non lo spaventa ostacolo alcuno: carrarecce, campi arati, prati erbosi, dovunque è terra è strada. E
quando lo si scorge inabissarsi improvvisamente in un fosso, ci si stupisce di non vederlo riapparire
ben presto che pedalando risale l'altra riva, sicuro e possente come un carro armato.

BASTA UN PO' DI BICICLETTA

Abituati a una vita senza mollezze borghesi, i russi non si preoccupano se la bicicletta conquistata
possegga o meno coperture. Conta soltanto quello che è di metallo, e quindi se il sellino c'è, lo si
accetta, se non c'è se ne fa a meno con grande facilità, e ci si arrangia con un fagotto di stracci o un
pezzo di legno opportunamente assicurati al telaio con legacci o fil di ferro.
Da un certo punto di vista — che non è certamente, Dio me ne guardi, quello politico o quello
militare — i russi in Germania, più che altro, hanno scoperto la bicicletta.
Quindi non è da stupirsi se i russi arrivano nella nostra cittadina anzitutto sotto la veste di cercatori
di biciclette.
Investigavano attentamente in tutte le stanze, in tutti i solai e in tutti i ripostigli, in tutte le cantine.
Si accontentavano anche di pezzi staccati: un manubrio, una pedivella, un campanello, un freno.
Con questi pezzi venivano poi messe insieme delle biciclette che spesso risultavano
interessantissime. Poche in verità riuscivano a camminare (o per mancanza di una ruota, o della
catena, o della forcella posteriore o altro), ma anche nel ramo ciclistico quello che più conta è
sempre la buona intenzione. E ogni russo che fosse possessore anche di un semplice pedale,
assumeva l'habitus mentale del ciclista, e quando doveva far quattro passi si rimboccava sempre il
calzone destro per evitare il morso della futura catena. Quelli che voi vedevate camminare coi
calzoni senza rimbocco voleva dire che aspiravano a una bicicletta con carter.

IL RUSSO AMA L'ELEGANZA

Dopo tre ore dall'ingresso dei russi in paese, non esisteva più nelle case di Bergen pezzo di
bicicletta che non fosse stato tratto alla luce. I visitatori rivolsero quindi il loro interessamento al
problema del vestiario. Era un problema urgente perché, dopo tanta prigionia e tanta sporcizia, i
poveretti erano veramente malridotti, e fino a quando si limitarono a sostituire i loro cenci con
indumenti trovati nei ben forniti guardaroba tedeschi la cosa venne giudicata con grande simpatia
dagli italiani. La cosa si presentò sotto un aspetto meno piacevole quando i russi, esauriti i
guardaroba tedeschi, rivolsero la loro attenzione ai magri zaini degli italiani. Entravano dalla
finestra, prendevano in considerazione un paio di stivali, una camicia, una maglia, quel che capitava
loro sottomano, e alle proteste degli italiani rispondevano «Deutsch!». Il che voleva significare che
si trattava di tutta roba tedesca. Ed era consigliabile non discutere perché il russo quando è solo è
una pasta d'uomo, ma quando è in compagnia di altri russi è meno trattabile.
E mentre quando è solo sorride e ti chiama «camarad», in branco fa la faccia scura e può arrivare a
chiamarti «fascisti» se non gli vuoi dare i tuoi calzoni o i tuoi stivali.
L'uomo della strada ha una strana concezione su quanto riguarda il senso estetico del russo.
Una ventennale, mendace propaganda tesa a presentare il comunismo come un rullo livellatore che
distrugge ogni personalità, ha indotto l'uomo della strada a considerare il russo alla stregua di un
prodotto standard in tutto e per tutto. Tanto che non riesce ad isolare l'individuo dalla massa, e se gli
vien fatto di figurarsi un russo, se lo immagina imbrancato con cento altri, uguale a tutti gli altri, col
berretto, la casacca e gli stivaloni. Conoscendo della lingua russa soltanto la parola "Kasachow",
non ho potuto fare lunghe conversazioni con i russi, quindi non sono in grado di esprimere un
giudizio sulle loro caratteristiche spirituali.
Ma per quanto riguarda il loro senso estetico, posso affermare che l'uomo della strada ha un
concetto del tutto errato; il russo, infatti, per quanto riguarda il vestire è individualissimo e in linea
generale predilige un genere di eleganza che spesso ha indiscussi pregi di originalità.

MODELLI ESCLUSIVI

Ho visto un russo con un ottimo doppiopetto blu a righe, stivaloni, maglione da ciclista e berretto da
marinaio. Pregevole l'effetto cromatico ottenuto da un atletico figlio del Don, che portava una
giacca sportiva azzurra su un paio di calzoni neri da smoking e in testa un cappello da cotillon in
panno rosso uso Lenci, con un pennacchio bianco.
I tedeschi se nei riguardi dei vivi in genere si comportano spesso rudemente, coi loro morti sono
pieni di riguardi e non c'è contadino il quale non abbia nel suo guardaroba una bella marsina coi
risvolti di seta e una luccicante tuba che egli indossa con molta compunzione in occasione delle
cerimonie funebri. Così quando nella casa occupata da certi miei amabili compagni si presentò un
russo smanioso di eleganze, la cosa si risolse con piena soddisfazione di tutti.
Il bravo giovinotto era vestito di nuovo da capo a piedi: il cappello gli andava un po' largo sulla
testa rapata e spesso egli si trovava avvolto nelle tenebre, ma il complesso non era privo di tono
particolarmente per una certa maglietta a righette trasversali bianche e azzurre che faceva le veci
della camicia.
Ma quando l'eccellente personaggio si vide al cospetto della marsina coi risvolti lucidi, non fu più in
grado di connettere e aiutato fraternamente dagli ospiti italiani ben presto era in montura funeraria
perfetta perché la tuba gli stava in testa come pitturata. Egli si guardò compiaciuto nello specchio,
fiero dell'ottimo risalto in cui i neri risvolti luccicanti mettevano l'azzurro e il bianco della
maglietta. Gli mancava soltanto un colletto e una buona cravatta, e si dovette lavorare parecchio, ma
con l'ausilio di una diecina di spille di sicurezza un colletto inamidato venne innestato alla maglietta
e fu corredato di una eccellente cravatta verde.
Ci fu uno sciagurato che cercò di convincerlo a legarsi al collo una sveglia, ma il mugico disse di no
e uscì con la sveglia in tasca.
Ciò denota che se questi figli della steppa sono portati alla eccentricità posseggono però il senso
della misura.

LA SOLITA STORIA DEGLI OROLOGI


E poiché siamo entrati in argomento d'orologi, mi viene naturale una precisazione. Ho sentito
troppe volte raccontare e troppo spesso ho letto, anche recentemente, su giornali svizzeri o francesi,
o su qualche settimanale italiano, episodi nei quali erano immischiati russi e orologi. Si tende in
definitiva a far credere che per il russo l'orologio rappresenti qualcosa di soprannaturale, di
favoloso.
Non smentisco il fatto ma preciso: anche i russi. Anche. Nei miei due anni di permanenza nei Lager
ho avuto modo di incontrarne a centinaia o a migliaia, russi, polacchi, cecoslovacchi, jugoslavi,
greci, bulgari, francesi, inglesi e americani, e in tutti indistintamente ho notato una furibonda sete di
orologi. Anche gli inglesi e gli americani che vennero a liberarci erano assetati d'orologi. E i
tedeschi? I tedeschi erano incorruttibili, sì, ma fino a quando non si mostrava loro un orologio. A
Beniaminovo un soldato tedesco entrò in una baracca e trovò l'apparecchio del tenente Lombardi
che marciava a pieno regime. Era una cosa da far sudare freddo, ma fortunatamente il tenente
Lombardi possedeva ancora il suo orologio.
Il tedesco tentò di balbettare qualcosa in preda a terribile agitazione, poi, d'un tratto, afferrò
l'orologio e scappò via. E la radio rimase.
Quindi sfatiamo la leggenda degli orologi. Quello che posso dire è che i russi amano molto anche le
sveglie e le pendole a muro.
Ne vidi uno che tornava verso il suo campo con una enorme pendola stretta amorosamente fra le
braccia. Era una pendola a carillon, e a un tratto una musichetta gentile zampillò dal meccanismo e
il mugico si fermò estatico a rimirare a bocca aperta il miracolo. Io non giuro mai su niente, ma qui
sono pronto a giurare: quella pendola egli è riuscito a portarsela nella sua isba.
Io vidi anche qualcosa d'altro. Un russo dalla faccia poco rassicurante entrò in una casa, si mise in
tasca una sveglia e se ne andò. Poco prima di arrivare al cancelletto la sveglia improvvisamente
cominciò a suonare, e allora egli la tolse di tasca, la gettò per terra e la uccise a colpi di pistola. Ma
questo non lo dico perché nessuno lo crederebbe, e se giurassi che l'ho visto io, mi farebbero
ricoverare in una clinica oculistica.
La Russia è grande mezzo mondo e gente vive laggiù come naufraghi su uno scoglio in mezzo
all'oceano. Perciò io non dico: i russi ammazzano le sveglie. Io mi limito a dire: ho visto un russo
ammazzare una sveglia. Magari era l'unico russo tonto di tutta la Russia: disgrazia, è capitato
proprio davanti a me. D'altra parte che male c'è se uno ammazza una sveglia? Pazzi ce
ne sono in tutto il mondo.
A me i russi sono simpatici: ce n'era uno a Bergen che s'era piazzato in una baracchetta presso la
villa dove dormivano certi miei amici.
«Aspetto qui», disse. «Quando ve ne sarete andati brucerò la casa. I tedeschi hanno ammazzato mia
moglie e i miei bambini, hanno bruciato la mia casa e mi hanno fatto lavorare qui per due anni come
un mulo. Ho il diritto di bruciare questa casa dove ho preso tante bastonate».
Lo so, non è bello questo mio pettegolare sui russi; effettivamente era mia intenzione di non parlare
mai dei russi, una volta ritornato. Ma poi, rientrato in sede, ho trovato scritto su una vetrofania del
tram numero 8: «Verrà Stalin che vi farà lavorare tutti!». L'8 era il mio tram, e cosi leggilo una
volta, leggilo due, leggilo dieci, leggilo venti, mi sono seccato.
(Dal settimanale «Candido» — Dicembre 1945).

FINE
INDICE

Dedica
Istruzioni per l'uso

1943
Lettere al postero
La Madonna Nera
La porticina della morte
Lettere al postero
Lily Marlèn
Pazzia
La lettera
Cronaca preventiva

1944
La torretta
Eterno pericolo
Baracche
Baracca 18
Signora Germania
I tedeschi
Voci
La folla
Un po' di luce
Problema e soluzione
Passi sulla sabbia
Sei mesi
Raccontino
Ritorno
Primavera del prigioniero
Il sogno
Il ritaglio
Istinto
Naufragio
Prigionieri U.R.S.S.
Il laghetto
Pozzo nero
Ginnastica
Il ritratto
Il barattoliere
Il miracolo
La causa delle guerre
Compleanno
Primavera senza sole
Disperazione
Noi vivi
Delusione
Teste rapate
La "gaìna"
Regia università di Sandbostel
Colletto bianco
Spettacoli
Fatalità
Varietà
Cielo del nord
Prezzo dell'internato
Pioggia di giugno
Le stellette che noi portiamo
Domenica
Piove sempre
Ripasso generale
Poesia moderna
Appunti
Giovani
Assistenza morale
Aiuti
L'ombra
Il padre
Noia
Vincenzo Romeo
Affari
Sulla sabbia
Sole del nord
Maurice
Sera d'agosto
Ci
Il pacco rotto
Pensieri di un giovane
Mondi nuovi
Monotonia
Giovannino
L'amico
Il pacco per papà
Frenesia
Notizie dall'estero
Tramonto di Rosetta
Un pugno di terra
Il pendoliere
Il tentenniere
Inchiesta letteraria
Finalmente libero
Carlotta
Notizie dall'estero
Solitudine
Le stagioni
La tovaglia
Il signor colonnello

1945
Resurrezione delle parole
Storie di Wietzendorf
Ricerca
Noi poveri
Appunti
Storie di Wietzendorf
La speranza
Non succede niente
Fame
Il brandellista
L'Achiquestiere
Commercio
Cip

APPENDICE
Quel giorno
Eccoli! Eccoli!
Pasticcio internazionale
Il capitano Armistizio
Tutto è perduto fuorché il regolamento
Mattacchione d'un maggiore
Fine del capitano Armistizio
Gente tenace
Vivi ma non troppo
Verso la libertà
È facile fare il gentleman a pancia piena
A titolo riparazioni
I russi scoprono la bicicletta
Ciclismo eroico
Basta un po' di bicicletta
Il russo ama l'eleganza
Modelli esclusivi
La solita storia degli orologi

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