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Hugo von Hofmannsthal

Lettere del ritorno


La prima
aprile 1901
Così, dopo diciotto anni, sono di nuovo in Germania, in viaggio verso l’Austria, e nemmeno io stesso so cosa provo.
Già sulla nave elaboravo concetti, giudizi in anticipo su ciò che sarebbe accaduto. Tutto ciò, proprio tutto, è andato in
fumo in questi quattro mesi, nel confronto con la realtà delle cose, e non so cosa ha preso il loro posto: un sentimento
scisso del presente, uno stordimento confuso, un disordine interiore, prossimo all’insoddisfazione – e quasi per la prima
volta nella mia vita mia mi accade che mi invada una precisa percezione di me stesso. Che sia per aver superato la
soglia dei quaranta anni, e anche in me qualcosa è diventato più grave e sordo, come il mio corpo, che nei distretti ove
mi trovavo non avevo mai avvertito e adesso – se non si tratta di un’improvvisa ipocondria – comincio a sentire? Mi ero
fatto un’idea dei tedeschi e ancora l’avevo ben chiara in me, mentre stavo per varcare il confine in prossimità di Wesel1:
non era per nulla quella che gli inglesi avevano di noi prima del Settanta, né la mia immagine dei tedeschi poteva
comporsi solo con l’aiuto dei pochi libri che portavo con me, il Werther e il Wilhelm Meister2 (ciò che questi romanzi
riflettono è per me un’’immagine in uno specchio, infinitamente profonda, trasfigurata, rasserenata. E avevo anche
respinto l’idea ostile che gli inglesi del nostro tempofanno cirolare su di noi, giacché un popolo non si trasforma fino a
divenire irriconsocibile, ma si muove come nel sonno, rigirandosi, e mettendo in luce altri aspetti della sua natura. E
adesso, da quattro mesi sono in mezzo a loro, a Düsseldorf ho trattato coi loro addetti alle miniere, e a Berlino coi loro
banchieri, sono andato a trovare Gerhart nel suo ufficio, Charlie nella sua proprietà, per via di un’autorizzazione mi
sono fatto indirizzare da un tecnico di Gottinga a uno di Gießen, mi sono trattenuto a Brema e sono andato in giro a
Monaco, ho avuto a che fare con uffici e funzionari, ho avuto un assaggio dei vostri addetti alle ferriere e all’industria
meccanica, dei vostri piccoli e grandi uomini– e non so cosa dire.
Cosa mi ero immaginato? Cosa mi aspettavo di trovare? E perché mi sembra ora di perdere il terreno sotto i
piedi? Tu non puoi pensare che io voglia fare di una singola esperienza personale un fatto generale. Oltre tutto non ho
incontrato che persone leali, ho concluso le mie negoziazioni tedesco-giavanesi meglio di quanto potessi sognare, e oggi
non è che sia diventato ricco, ma indipendente e libero, che è molto di più. No, non c’è nulla che mi sconcerti e mi
tormenti e non mi faccia essere contento della mia terra. Non è spleen, è – beh, come devo chiamarlo? È più che una
constatazione, è un sentimento, una mescolanza di tutti i sentimenti, un sentimento dell’esistenza – lo vedi, torno a
torturarmi usando una lingua artificiale, che in vent’anni mi è diventata più che estranea. Ma veramente devo diventare
complicato fra i complicati? Io desidero sbocciare in me stesso e questa Europa invece potrebbe sottrarmi a me stesso.
Così preferisco dirtelo in modo dettagliato o maldestro e evitare l’uso delle loro parole artificiali. Tu mi conosci
abbastanza per sapere che nella vita non ho avuto molto tempo per accumulare saggezza astratta o teorica. Piuttosto una
certa esperienza pratica nel dedurre qualcosa dai volti delle persone o da quel che non dicono, o nel decifrare quanto
basta una piccola catena di dettagli insignificanti, per prevedere semmai, in qualche modo, come andrà a concludersi un
affare o che forma prenderà una crisi nella condotta di altri nei miei confronti o fra di loro. Di teorico però, come ho
detto, non c’è in me quasi nulla, davvero quasi nulla. Tutt’al più una, due o tre frasi, aforismi, o come li si voglia
chiamare. Ci sono combinazioni di parole che non si dimenticano: chi dimentica il Padrenostro? The whole man must
move at once: eccoti qui una delle mie grandi verità. Non scherzo, questa è una grande verità, un aforisma profondo, la
saggezza di una vita intera, anche se si tratta solo di poche parole che non sembrerebbero dire un granché. Ed è stato un
grande uomo che me le ha trasmesse. Era il mio vicino di letto all’ospedale di Montevideo, un uomo che sarebbe
arrivato lontano. Era fatto della stessa stoffa con cui la razza inglese fa i suoi Warren Hastings3 e Cecil Rhodes4. Ma è
morto a venticinque anni, non alloranel letto vicino al mio, bensì un anno più tardi, per una recidiva. Aveva imparato
quel detto da suo padre, che era parroco di campagna in Scozia e deve essere stato un uomo duro e collerico, ma una
mente profonda. È un detto da scriversi sulle unghie della mano, e uno non lo si scorda più, una volta che lo si è
afferrato. Non mi esce spesso dalla bocca, ma è sempre presente in me. Tali verità –non credo che ce ne siano molte di
tale forza e semplicità– funzionano come l’organo che abbiamo nell’orecchio interno, gli ossicini o minuscole sfere
mobili: ci dicono se siamo in equilibrio oppure no. The whole man must move at once: quando ero tra gli americani e
più tardi tra la gente del Sud nella Banda Orientale5, tra gli spagnoli e i gauchos, e, in ultimo, tra cinesi e malesi, quando

1
Cittadina nella zona nord-ovest della Renania settentrionale-Vestfalia.
2
Si tratta dei due celebri romanzi di Wolfgang Goethe che rappresentano vicende legate alla formazione
della coscienza del singolo, ai suoi fallimenti (I dolori del giovane Werther) e alle sue interazioni con la sfera
sociale (Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister).
3
Warren Hastings (1732-181) fu uno statista inglese e il primo governatore generale dell’India fra il 1773 e
il 1785.
4
Cecil John Rhodes (1853-1902), oltre ad essere un importante uomo d’affari britannico, fu un propulsore
della politica coloniale inglese intervenendo in prima persona nella realtà dell’Africa del Sud.
5
La Banda Oriental comprendeva i territori a oriente del fiume Uruguay, il Rio Grande do Sol e i territori di
Santa Catarina.
mi appariva dinanzi agli occhi una buona qualità, quel che io chiamo una buona qualità, qualcosa nel portamento che
suscita in me rispetto, più che rispetto, non so come spiegarlo, può essere la buona qualità che hanno talvolta nei loro
affari gli statunitensi, intendo quel loro “buttarsi a capofitto” in una cosa, con una vena di selvaggia follia e insieme di
fredda ponderatezza, oppure potrebbe essere una certa grandeurpatriarcale, un vecchio gaucho dalla barba bianca, il
modo in cui sta alla porta della sua estancia6, così totalmente se stesso, e come accoglie chi arriva, e come quei diavoli
di figli saltano giù da cavallo e gli obbediscono, e potrebbe anche essere qualcosa di molto meno appariscente, lo
sguardo che si sofferma con istinto animale su una lenza che guizza, un modo di appostarsi con l’anima intera, come
solo sanno fare solo i, poiché può manifestarsi una grande qualità nel modo in cui si pesca, e una qualità ancora
migliore, migliore di quanto Tu possa immaginare, nel modo in cui un monaco mendicante di colore ti porge la ciotola
di terracotta per la questua – quando mi capitava una cosa del genere pensavo: sono a casa! – Tutto ciò che era giusto,
in cui c’era una giusta verità, una vera umanità, anche nel piccolo e nel piccolissimo, tutto ciò mi sembrava indicare un
oltre. No, di nuovo il mioa linguaggio maldestro non Ti dice la verità del mio sentire: non era un riferimento a a un
oltre, nemmeno un ricordo di un oltre, non era un “qua e un là”, non era affatto una dualità, quel che io percepivo: era
l’uno nell’altro. Nel momento in cui le cose colpivano la mia anima per me era come se stessi leggendo un variopinto
libro della vita, ma il libro trattava sempre della Germania. Io penso di non essere un sognatore, e se – forse da bambino
– lo ero, in ogni caso in questi diciotto anni molto semplicemente non ho avuto il tempo di esserlo. Allo stesso modo
non sono fantasticherie quelle di cui Ti parlo, non sono arzigogoli della mente, ma qualcosa di repentino, che a un tratto
si manifestava mentre vivevo, e spesso in momenti in cui la vita tendeva al massimo tutti i miei nervi e il mio stesso
pensiero. Non riesco a spiegartelo che con un esempio, a dire il vero un po’ sciocco: è come bere alla fontana. Tu sai,
da bambino ero quasi sempre in Alta Austria, in campagna, e poi, dopo il mio decimo anno d’età, ero lì quasi solo in
estate. Ma ogni volta che durante il freddo periodo scolastico a Kassel, o dovunque andassi coi miei genitori, bevevo un
sorso di acqua fresca – non con indifferenza, come si beve durante i pasti, bensì come quando si è accaldati e disidratati
e si ha un gran desiderio d’acqua – ogni volta, e sempre per la durata di un lampo, ero nella mia Alta Austria, a
Gebhartsstetten, alla vecchia fontana. Non che ci pensassi:ero lì, sentivo nell’acqua un sapore della canna di ferro,
sentivo sul il viso l’aria della montagna, e allo stesso tempo l’odore estivo dalla polverosa strada maestra – in breve,
non lo so com’è che succeda, ma l’ho vissuto troppo spesso per non credervi, e ciò mi basta. Tutto ciò mi ha
accompagnato anche New York e durante il breve tempo a St. Louis, ma già a NewOrleans e poi più a Sud era sparito:
aria e acqua erano troppo diverse da quel che a Gebhartsstetten sgorgava dalla canna e spirava da sopra la siepe – e aria
e acqua sono grandi potenze e fanno degli esseri umani ciò che vogliono. Ma questa immagine del bere non voleva
essere che un esempio. Così come un sorso d’acqua mi poteva riportare magicamente alla vecchia fontana a
Gebhartsstetten, allo stesso modo ero in Germania tutte le volte in cui, fossi in Uruguay o a Canton o, in ultimo, nelle
Isole, qualcosa mi colpiva l’anima: poteva trattarsi soltanto dello sguardo di una fanciulla incredibilmente bella, che
crescono nelle solitarie fattorie dei gauchos, o la commovente semplicità di un vecchio cinese, o bambinetti nudi
giallobruni nello stagno davanti al villaggio. Poiché si fanno molte esperienze, ma la maggior parte attraverso i sensi, o i
nervi e la volontà, o l’intelletto, mentre ciò che colpirà l’anima, no, questo non si lascia presagire: può essere il volo
solitario di un uccello tropicale che si libra sopra un’aperta valle di montagna a forma di lira, completamente vuota, o la
resa di una buona nave con un mare in tormenta, o lo sguardo di una scimmia morente, o breve e coraggiosa stretta di
mano. Tutte queste cose, quando arrivavano e colpivano la mia più profonda interiorità, parlavano della Germania con
una chiarezza e forza che va ben al di là di quella con cui queste parole Ti parlano di me. O piuttosto: quando una cosa
del genere mi colpiva, allora ero in Germania. Tutto ciò è come è e non si tratta di una fantasticheria. Pur tuttavia – fra
due settimane partirò per Gebhartstetten e posso essere abbastanza sicuro di ritrovare la fontana con la data del1776, che
con le sue cifre svolazzanti dell’epoca teresiana rappacifica l’animo – sarà lì e mi accoglierà col suo scroscio –e il
vecchio noce, tutto storto, spaccato dal fulmine, sempre l’ultimo a mettere le foglie e il più recalcitrante a perderle
d’inverno, mi darà un qualche segno che mi riconosce e che io adesso sono di nuovo lì, e lui è lì, come sempre, – ma
intanto sono da quattro mesi in Germania e nessuna casa, nessun palmo di terra, nessuna parola, nessun volto umano, se
devo essere sincero, proprio nessuno mi ha dato questo piccolo segno. Questa Germania che attraverso in lungo e in
largo, dove commercio, ho impegni, pranzo e ceno con tante persone, faccio l’uomo d’affari cosmopolita, il signore
straniero di grande esperienza – dove ero io ogni volta, quando credevo di trovarmi in quel paese dove si posa il piede
attraverso lo specchio della memoria, dove ero io in quei momenti in cui era soltanto il mio corpo a muoversi in mezzo
ai gauchos o ai maori? Dove ero? Ora, se questa è la Germania, allora non ero in Germania. Eppure dentro di me la
chiamavo Germania. Era lo specchio della memoria colma di malinconia attraverso il quale io vi penetravo – quando mi
era concesso di penetrarvi. Era – erano uomini e donne, ragazze, vecchi e fanciulli. Era un presagio più che una
presenza, come un soffio di ciò che è più più intrinseco all’anima, all’essenza, all’inafferrabile. Era il riflesso più
spirituale – oh, come la parola non è in grado di dire nulla di un’esperienza, di una crisi interiore che ogni volta era più
forte della voluttà e più pura e più delicata di una preghiera infantile semplice e certa d’essere esaudita– il riflesso di
innumerevoli possibilità della vita intrecciate l’una all’altra. Era il più tenero profumo di un’esistenza intera, l’esistenza
tedesca. Meglio non so dirtelo, per quanto lo desideri. L’occasione, l’impulso, veniva da fuori. Io ero soltanto la tastiera
su cui suona una mano ignota. Ma in me c’era qualcosa, un turbinio, un caos, un che di non ancora nato, e da tutto ciò
potevano emergere figure, ed erano figure tedesche. Era l’anima delle fanciulle e quella degli anziani, era agio e dimora,
e poi di nuovo povertà spaventosa senza neanche un tetto di paglia sopra il capo; era l’esistenza di fanciulli e amicizia
sconfinata, sconfinata speranza; una raggelata solitudine, un volto pallido rivolto verso le stelle tacite; era amore,

6
Con tale termine si indicano nell’America del Sud tenute di campagna simili a fattorie.
timore, attesa, far attendere, torturarsi l’un l’altro, avvinghiarsi l’uno all’altro, verginità e verginità donata; era avere un
podere, avere una casa, avere dei bambini, bambini che fanno il bagno nel ruscello, che fanno il bagno sotto i pioppi,
sotto i salici; era socievolezza e solitudine, amicizia, tenerezza, odio, sofferenza, felicità, l’ultimo giaciglio, l’ultimo
giacere e morire. Erano figure tedesche che si addensavano in queste immagini incantate – no, era un alito, piuttosto che
immagini – e subito di nuovo si disfacevano l’una nell’altra, essenziali gesti tedeschi, qualcosa che non so bene cosa sia
della più intima essenza della mia terra. La sua forza e la sua debolezza, la sua asprezza e la sua ruvidezza venivano a
me contemporaneamente, e io potevo goderne, potevo godere delle sue creature e della vita delle sue creature, sognando
cose perdute o presagendo, anticipando, le gioie della realtà, che auspicavo fossero a me riservate. E ciascuna delle sue
creature che mi appariva – no, poiché io non sono un visionario e i miei affari non mi permettono allucinazioni – il cui
alito mi sfiorava come una possibilità fugace di un prezioso incontro futuro, ogni immagine di donna, di vegliardo, di
uomo e fanciullo, di ricco e di povero Lazzaro, ciascuna era dello stesso stampo e si accordava con la verità interiore
alla quale la misuravo. The whole man must move at once – e così erano loro, che fossero ragazze con lo sguardo di
colomba o uomini volubili, gli occhi ebbri di pensieri sconfinati, o vegliardi disposti al perdono o giudici collerici dalle
sopracciglia leonine. Eranodello stesso stampo. Mi apparivano in un solo gesto, e nessuno mi rimaneva impresso più a
lungo del guizzo di un lampo, poiché io non sono un sognatore e non conduco dialoghi con le creature della mia
immaginazione. Ma in quell’unico gesto che spirando verso di me mi attraversava, lì erano interi. In ogni sguardo dei
loro occhi, in ogni movimento delle dita, erano interi. Non erano di quelli la cui mano destra non sa cosa fa la sinistra.
Erano uno in sé stessi. E questo – a meno che da quattro mesi non mi tormenti ad occhi aperti il più malvagio, il più
composito, il più pertinace di tutti gli incubi – questo i tedeschi d’oggi non lo sono.
La seconda

22 aprile 1901

Non so per che cosa vivano qui, e questo è il punto, e quanto più mi muovo in mezzo a loro, meno lo so. Questi uomini
sono seri, sono capaci, lavorano come nessun’altra nazione al mondo, ottengono l’incredibile – ma non c’è gioia a
vivere in mezzo a loro. Sono stato lontano per diciotto anni e ora che sono tornato devo scrivere una cosa del genere!
Mi sbaglio? Come vorrei sbagliarmi! Ho a che fare con molte persone e tratto con loro e vengo accolto con cortesia, e
pranzo e ceno insieme a loro, e vengo invitato in campagna, vedo vecchi e giovani, uomini che hanno fatto strada e
uomini che provengono da famiglie importanti, uomini che occupano cariche di rilievo e uomini con patrimoni immensi
appena conquistati, persone che dalla vita hanno ancora molto da aspettarsi e persone che con la vita hanno chiuso tutti i
conti, e da nessuno di loro mi viene gioia. E io sono capace di trarre tanto godimento dagli uomini. E a me fa tanto
piacere stimarli! Non pensare che io non apprezzi come siano in grado di raggiungere i loro obiettivi i tedeschi, dovrei
proprio essere sciocco. Ma proprio loro, questi uomini – i tedeschi! E questo mi inquieta: io non riesco ad afferrarli.
Non che siano chiusi o dai modi subdoli, nelle latitudini meridionali ne ho visti di ben altri esempi di tal fatta – e anche
se così fosse: un viso chiuso e uno subdolo parlano pur sempre una loro lingua, e dal fatto che non vogliano esser
compresi, proprio da questo li comprendo. Ma qui – qui non c’è traccia di simulazione, non c’è traccia di intenzione, e
questo è ancora peggio. Dove devo cercare l’essenza di un’uomo, se non nel suo viso, nelle sue parole, nei suoi gesti?
Per l’anima mia, nei loro volti, nei loro gesti, nelle loro parole non trovo i tedeschi d’oggi. Com’è raro imbattermi in un
viso che parli un linguaggio preciso e deciso. La maggior parte dei loro visi sono talmente sbiaditi, talmente privi di
libertà, sopra c’è scritto di tutto, ma tutto senza risolutezza, senza grandezza. Talvolta mi accade di desiderare qui il
volto di un indiano mezzosangue o il volto di un portatore cinese. Recentemente, per via di una questione pendente,
avevo delle raccomandazioni per il primo presidente di una delle corti supreme. L’anziano signore era loquace e
benevolo, ma la fragilità del suo vecchio viso nervoso e qualcosa dell’ironia dell’uomo di mondo nel suo tono, come a
voler ostentare di non essere un pedante, mi infastidirono tanto che a stento gli risposi come si deve. Negli ultimi tempi
non mi esce di mente la frase con la quale gli inglesi onoravano il vecchio Gladstone. Grand old man! E ci fosse un
giudice, un giudice di corte suprema in mezzo ai tedeschi! Il mio sogno! Io desidero incontrarne un uomo che da capo a
piedi fosse in tutto e per tutto un vecchio giudice a – o per lo meno uno che fosse in tutto e per tutto un grande vecchio.
Ma tutto è talmente sbiadito, talmente mescolato: nei giovani si nasconde qualcosa di vecchio, nei sani qualcosa di
malato, nei nobili qualcosa di ignobile. E così i loro gesti. Tutto si mescola e si confonde. Ciò a cui si confà un
atteggiamento di semplice corteseia mischiano, Dio solo sa, che tipo di bonaria confidenza, per poi di nuovo cadere da
questo tono tiepido in una tale aridità e banalità da far male; se si vogliono dare grandi arie arie allora ecco una finta
solennità, un’affettazione impacciata, che rende gli altri freddi e impacciati. Nella mia vita non ho mai prestato molta
attenzione a queste cose – davvero fra allevatori mezzosangue di cavalli e fra nudi abitanti delle isole sono stato così
viziato che nei salotti e nelle sale da banchetto e da riunione per il disagio talvolta mi viene la nausea? Ma non parlerei
di queste cose, mi direi che sono ipersensibile, se non fosse tutto così uniforme, inesorabilmente uniforme. Ogni paese
ha il suo odore specifico e ogni paesaggio e ogni città e ogni quartiere; l’Andalusia come Whitechapel e Amburgo come
Tahiti. Ma qui mi perseguita qualcosa come un odore spirituale, qualcosa che, pur privo di nome, ha la sua specificità, e
tuttavia può dirsi a stento: un senso del presente, un senso del presente europeo-tedesco – perché dico “mi perseguita”?
– perché non “mi pervade”? Ma la prima parola dice la verità. Il modo in cui dicono buon giorno e in cui ti
accompagnano alla porta, in cui tengono un discorso a un banchetto e in cui parlano di affari, in cui scrivono sui loro
giornali e in cui costruiscono i nuovi quartieri – questo viene tutto dallo stesso stampo. Intendo dire, tutte queste cose
ben si adattano l’una all’altra: perché in sé, a dire il vero, nulla di tutto quel che fanno è dello stesso stampo: la loro
mano sinistra non ha idea di cosa faccia la destra, i loro pensieri non si accordano con i loro sentimenti, le loro opinioni
pubbliche con le loro conoscenze scientifiche, le facciate delle loro case con le loro scale di servizio, i loro affari col
loro temperamento, la loro vita pubblica con la loro vita privata. Per questo Ti dico che non riesco a trovarli da nessuna
parte, non nei loro visi, non nei loro gesti, non nelle parole che escono dalla loro bocca: perché la loro interezza non si
trova in nessuna di queste cose, perché essi in verità non sono da nessuna parte, perché sono ovunque e da nessuna
parte. Il viso di un essere umano è un geroglifico, un segno sacro e caratteristico. In esso è data una presenza
dell’anima, e così è anche negli animali – guarda un bufalo in viso mentre mastica o mentre per la collera ruota gli occhi
iniettati di sangue, e guarda in viso un’aquila o un buon cane. Nel viso di un essere umano si trovano un volere e un
dovere, ed è ben più del volere e dovere di un singolo. Tali visi avevano i tedeschi nei miei sogni, ciascuno più breve di
un respiro: non è che vedessi sempre in viso quegli sconosciuti il cui soffio mi sfiorava;, talvolta ne udivo le parole,
oppure la mia stessa anima scivolava dentro le loro parole per la durata di un lampo, e in quel momento era come se
vedessi questi visi dal di dentro. “Non posso altrimenti”, è scritto su tali visi. E adesso da quattro mesi guardo i visi dei
veri tedeschi: non è che mi appaiano privi di anima, non di rado erompe una luce dalla loro anima, ma sguscia subito
via, è un eterno arrivare e volar via come in una colombaia, un rincorrersi di forte e di debole, di occasionale e di
ricercato, di volgare e di nobile, una inquieta ridda di possibilità, e ciò che manca è un grande pensiero segreto che non
ha bisogno d’esser pronunciato, costante, che si trova nei visi genuini, che come un segnavia conduce attraverso la
confusione della vita fino alla morte e fin oltre la morte, e senza il quale per me un viso non è un geroglifico, o semmai
è un geroglifico spezzato, sbiadito, deturpato. E con le loro parole provo lo stesso che coi loro visi. Anche qui è sempre
qualcosa di estremamente precario, di fortemente incerto. Anche in questo caso ho l’impressione che potrebbero dire
tranquillamente qualcosa di diverso, e sarebbe indifferente se avessero detto questo o quell’altro. Ho l’impressione che
pensino sempre a più cose contemporaneamente. Ma il grande pensiero nascosto, mai pronunciato, che a tutto ciò che
proviene da bocca umana dà la sua forza il suo suono, e rende le parole umane, così come il tordo ha il proprio suono e
la pantera il proprio e nel suo suono si trova intera la sostanza della sua esistenza e non è possibile renderla altrimenti –
devo tornarmene in Uruguay, o più giù, verso le isole dei Mari del Sud, per sentire di nuovo da labbra umane questo
suono umano, che in un semplice saluto, in una formula di ospitalità, in una domanda, in una parola dura e scontrosa
talvolta è capace di fissare l’intera natura umana e mi dice che non sono solo sulla vasta terra? E perché me ne sto a
parlare delle parole e dei visi: ci sono gli esseri umani e nient’altro che gli esseri umani. E quando sognavo i miei
tedeschi, erano innanzi tutto uomini. E perché gli esseri umani non mi divengano sinistri, devo poter sentire per che
cosa vivano. Non pretendo che uno porti sulla punta della lingua i segreti della propria esistenza e con me conduca
dialoghi sulla vita e la morte e sulle quattro ultime cose7, ma deve dirmelo senza parole, deve dirmelo il tono della sua
voce, la sua presenza, il suo viso e tutto quel che fa. Quando mangio e bevo con lui, dormo sotto il suo tetto e faccio
affari con lui, allora voglio sapere su cosa ha fondato la sua esistenza, e non con parole pronunciate, ma implicite, non
explicite. Su tale base sono pronto a confrontarmi con banditi e cercatori d’oro, coi reclusi di una colonia penale, con
dei senzatetto di New York, con chi vuoi. Posso ritrovarmi in uno divorato dalla febbre d’avere miliardi di dollari e in
uno che fa il bagno e pesca e dorme su una stuoia ricamata con penne di colomba e lascia alla moglie il lavoro dei
campi; in uno per il quale il massimo è una bottiglia di rum e in uno che dei passeggeri più poveri di una nave vuol fare
dei santi. Ma non posso ritrovarmi in quello che non sa su cosa ha fondato la propria vita, che sopra la vita se ne sta
come un polipo, e con un tentacolo succhia a questo e con un altro a quest’altro, e un membro non sa nulla dell’altro, e
se qualcuno gliene stacca uno,striscia via e non sa nulla di nulla. Così se ne stanno i tedeschi e hanno un “da una parte”
e un “dall’altra parte”, i loro affari e il loro animo, il loro progresso e la loro fedeltà, il loro idealismo e il loro realismo,
i loro punti di vista e il loro punto di vista le loro birrerie e i loro monumenti alla patria,il loro profondo rispetto e la loro
germanità e la loro umanità, e fanno schiamazzi nella cripta imperiale come fossero in un negozio di cianfrusaglie, e
sottraggono Carlo Magno al suo sepolcro e fotografano la stoffa nella quale sono avvolte le sue ossa, e restaurano i loro
venerandi Duomi a mo’ di birrerie e calpestano coi loro tacchi i volti di donne cinesi mezze morte. C’è qualcosa di
empio nel loro operato – non conosco altra definizione. Io stesso sono forse un uomo pio? No, ma c’è anche una
religiosità dnella vita, e questa si nasconde in un contadino duro, parco, avaro, e anche in uno scellerato desperado ladro
di cavalli, e nell’ultimo dei marinai, e finanche può andare d’accordo con l’ultima scelleratezza e la fede nella bottiglia
di gin può essere anch’essa un tipo di fede. Ma qui, fra i tedeschi colti e possidenti, qui non posso sentirmi a mio agio.
Mi è sempre sembrata sciocca quella favoletta che ora comprendo di colpo, la favoletta dell’uomo deli bosco che
rabbrividì e fuggì nel suo bosco non appena sentì il contadino dire tutto e il contrario di tutto, come se nulla fosse.
Anch’io sento spesso in me un simile brivido. Ma dov’è il bosco in cui sentirmi a casa?

7
Con «quattro ultime cose» (o con «Novissimi») si indicano, nei testi sacri, le cose incontro a cui va l’uomo
al termine della sua vita: la morte, il giudizio universale, l’inferno e il paradiso.
La terza
9 maggio 1901
Non pensare che non apprezzi come siano in grado di raggiungere i loro obbiettivi. Ma che i tedeschi lavorino, lo sanno
tutti: quando sono itornato nella mia terra pensavo di vedere come vivono. E ora che sono qui, come vivono non lo
vedo; e vedo come vivono, e non ho motivo per rallegrarmene. Sono ricchi e sono poveri e tu urti contro i poveri e i
ricchi e né gli uni né gli altri danno un suono autentico. Ci sono persone distinte e ci sono subalterni, ci sono arroganti e
umili, ci sono dotti e quelli che vivono del giornale di ieri; e gli uni sgomitano, gli altri si sottomettono, gli uni si
credono importanti, gli altri una nullità: ma nulla emette un suono autentico. Hanno un sopra e un sotto, qualcosa di
meglio e di peggio, di grossolano e di fine, un “a destra” e un “a sinistra”, solidarietà e inimicizie, condizioni borghesi
e nobiliari, circoli dell’università e circoli della finanza: ma quel che manca in tutto ciò è una intensità nei rapporti:
nulla che si incastri in qualcos’altro – manca un qualcosa per cui io non so trovare il termine specifico, ma che è ben
presente nella natura degli inglesi, così grandiosa e molteplice com’è, e in quella dei maori, così infantile e priva
d’artificio come essa è: ciò che crea unacomunità, tutto ciò che ne è originee e ciò che dimora nel cuore. Naturalmente –
forse mi sbaglio – questo me lo dico sempre – forse in queste cose è come con una serratura a combinazione: forse, per
poter valutare nei giusti termini questo mondo scisso in così tante parti, bisogna possedere una preparazione interiore,
una formazione. E una cultura, nel senso europeo, nel senso odierno, non ce l’ho – ma tuttavia, proprio in queste cose,
dal poco che ho studiato, da quel poco che mi è rimasto qua e là, emerge dal mio intimo qualcosa che non posso
eludere: come – nei libri latini e greci, nei frammenti di libri che a noi scolari si davano da leggere – un tempo uomini e
e giovinetti morenti nel loro sangue, la sera della battaglia, invocavano la città dei padri, e nel trionfo e nella risolutezza
della morte si pascevano di quel suono: Argos meminisse juvabat – da dove viene questo frammento? Tutto ciò che cosa
ha a che fare con questo mondo, col qui, con l’oggi, con me? E tuttavia, tuttavia, così dicevo a me stesso: “Germania” –
non la parola forse, ma l’anima della parola! Così dicevo a me stesso: “Germania!” finché ero lontano dalla Germania.
E poi: la buonanima di mio padre aveva a Gebhartsstetten una cartella di incisioni di Albrecht Dürer. Quanto spesso ce
le mostrava, a me e a mia sorella e mio fratello, entrambi morti così presto. Quanto mi erano al contempo familiari ed
estranei quei vecchi fogli, quanto odiosi e cari al contempo! Gli uomini, i buoi, i cavalli, come intagliati nel legno,
come di legno le pieghe dei loro abiti, le pieghe nei loro volti. Le case a punta, le gore tutte arabescate, le rocce e gli
alberi rigidi, così irreali, più che reali. Talvolta tormentavo il padre perché facesse portare la cartella. E qualche volta
non c’era modo di convincermi a guardare un altro foglio, me ne scappavo via nel bel mezzo e venivo redarguito.
Ancora oggi non saprei dire se il ricordo di quegli incantati fogli neri mi sia caro e prezioso oppure odioso. Ma
toccavano la mia anima, da loro penetrava in me una tale forza che io credo sul letto di morte potrò ancora dire che
sfondo ha il Mostro marino o l’Eremita con il teschio. “Questa è la vecchia Germania”, diceva mio padre, e la frase mi
risuonava quasi spaventosa, ed ero costretto a pensare a certi vecchi come ve ne erano in quelle immagini, e per
dimostrare che avevo studiato geografia e sapevo com’era fatto il mondo, chiedevo: “C’è anche un libro dove si possa
vedere la vecchia Austria?”. Allora mio padre diceva: “Ma questa qui sotto è l’Austria” (la biblioteca era nella stanza
della torre, e sotto c’erano il paese e le colline e qua e là boschetti che appartengono alle comunità e ai singoli contadini,
e tra le colline il fiume sinuoso e la strada bianca e in lontananza i vigneti bluastri sopra i grandi boschi lontani avvolti
dalle ombre) “e noi siamo austriaci, ma siamo anche tedeschi, e poiché un paese appartiene sempre a quelli che vivono
lì, allora questa qui è anche Germania”. Questo creava una sorta di collegamento fra le immagini nella cartella e la
campagna piena di luce nella cui terra scavavo buche e mi ci infilavo alla ricerca di talpe o pietre sfavillanti, nelle cui
acque e nei cui stagni facevo il bagno, di cui respiravo a pieni polmoni tutto il profumo, quando in cima al carro del
fieno, abbassato accanto alla stanga, passavo attraverso il portone del fienile. Questa mescolanza fra realtà e
l’impressione che veniva da quelle immagini generava uno sgomento, una sorta di incubo, tanto era strana. Ma strane e
anche profonde sono tutte le cose che ci accadono nell’infanzia. Consapevolmente non pensavo certo a quelle antiche
figure, quando andavo a fare il fieno coi garzoni o a pescare e ad acchiappare granchi coi ragazzi del paese, nemmeno
quando la domenica servivo messa all’altare e dietro di me si levavano dai banchi le voci dei contadini e colpivano
vigorose volta illuminata ed entrava l’organo, e il suono come un torrente, ma non di questa terra, si rovesciava sulla
mia schiena, e ancor meno quando poi iniziai a conoscere i fatterelli d’amore di tutte le fanciulle, e mezzo timido e
mezzo sfacciato, la sera passavo sotto le finestre e al contempo mi facevo amico dei vecchi e assaggiavo il vino nuovo –
ma inconsapevolmente popolavo con i gesti delle ombre di quegli avi più che reali i punti solitari dei boschi, il pendio
coi grandi blocchi di pietra, il chiostro mezzo diroccato dietro la chiesa, che era molto più antico dell’accogliente
chiesetta stessa, e gli angoli sempre in penombra negli ampi tinelli delle vecchie fattorie, dove sedevano la bisnonna o
un anziano paralitico, o sembravano ancora sedere lì, pur se li avevamo sepolti l’autunno precedente, lanciando sulle
bare corone di asteri bianchi, lilla e rossi. Il comportamento di quelli dai gesti più che possenti, che non c’erano più, si
accordava col modo di fare di quelli con cui mangiavo e bevevo e salivo sugli alberi di pero e abbeveravo i cavalli e
andavo in chiesa, così come le vecchie storie di banditi, eremiti e orsi si accordavano con il paesaggio, come la
leggenda della contessa palatina Genoveffa in me si accordava col biondo viso d’angelo di Amalia, la bella figlia del
macellaio.
In quelle vecchie immagini tutto era diverso rispetto alla realtà che avevo davanti agli occhi: ma non c’era in
mezzo alcuno strappo. Quel vecchio mondo era più pio, più sublime, più dolce, più audace, più solitario. Ma nel bosco,
nella notte stellata, nella chiesa c’erano vie che conducevano ad esso. Gli utensili non erano gli stessi, i vestiti
tradizionali erano bizzarri e i gesti erano al di sopra della realtà. Ma non so quale immensa profondità nel modo di fare,
che si trova ancora dietro i gesti: il rapporto con la natura, benché ne dica con parole così secche, il rapporto con la vita.
Fino a che punto si tratta di contrapposizione e fino a che punto di accondiscendenza, dove si confà la ribellione e dove
la resa, dov’è che al posto giusto l’imperturbabilità e un parlare asciutto e dove euforia e gaiezza: l’essenziale, il reale
dietro la quotidianità, ciò che fa scaturire nell’essere umano le semplici azioni del giorno, come dall’albero lo scabro e il
dolce, corteccia e foglie e mele – questo, questo ha il mio mondo, come sanno bene quelle incisioni, questo io so oggi e
sapevo allora: poiché era in me il bisogno di misurare la realtà a qualcosa dentro di me, così quasi inconsapevolmente
misuravo tutto a quel nero sublime e terribile mondo incantato e lo sfregavo su questa pietra di paragone, per scoprire se
fosse oro o cattiva mica giallognola.
E davanti al giudice di queste cose infantili, cose di cui nel mio intimo non riesco a liberarmi, trascino la
grande Germania e i tedeschi di oggi e sento che non superano la prova, e non riesco a far finta di niente. Era mia
intenzione tornare nella mia terra, e per sempre, e adesso non so se rimarrò. Se Tu avessi ancora il tuo impiego
d’oltremare, e non a Londra, dove non vorrei stare – potrei venire da Te, mio caro. Giacché io ho poche persone al
mondo – “poche” è un eufemismo, non ho nessuno. È la prima volta in effetti che questo mi pesa così tanto sul cuore. E
non vorrei morire in questa Germania. Lo so, non sono vecchio e non sono malato – ma dove non si vuole morire, lì non
si deve nemmeno vivere.
In passato pensavo sempre che sarei stato portato via all’improvviso, nel bel mezzo della vita frenetica, e a ciò
ogni posto è buono. Il grande ospedale di Montevideo coi grossi ragni al soffitto e i molti ricoverati deliranti nei letti e
una suora spagnola incredibilmente bella, il cui viso scivolava su tutti quei volti morenti come la dolce luna, – e il bel
lazzaretto lindo di Surabaja con gli alberi innanzi alle finestre stracolmi dei più straordinari uccellini – , come pure un
paio di luoghi dall’aria strana e ricca di presagio: la tranquilla riva insidiosa di una palude gialla, il tranquillo angolino
di un bosco, il tranquillo pendio di una inaccessibile scogliera grigia – ma adesso sono della convinzione che accadrà in
un altro modo, nella quiete, nel mio letto, e forse lentamente. E mi immagino il momento della preparazione, del
raccoglimento. E qui nessuno è raccolto, nessuno preparato all’ultimo istante. Mi immagino sguardi, gli ultimi sguardi
attraverso una placida finestra che dà all’esterno. No, non dovrebbe accadere qui. Qui non è casa mia. Qui mi sembra di
stare in un grande albergo senza quiete e senza gioia. Chi vorrebbe morire in un albergo, quando è possibile evitarlo.
Tuttavia non so ancora dove voglio andare. E poi ho alcune alcune cose da sbrigare e l’Austria comunque voglio prima
rivederla ancora una volta. Dico “prima” perché difficilmente, penso, resterei lì.
La quarta

(I colori)

26 maggio 1901

Non ho affatto un buon periodo alle spalle e forse me ne sono accorto soltanto a partire da un certo piccolo fatto che mi
è capitato tre giorni fa – ma voglio cercare di raccontarTelo per ordine: e ciononostante il racconto non ti dirà poi molto.
In breve, dovevo andare a una riunione, la decisiva, l’ultima di una serie di trattative che miravano a unire la società
olandese, per la quale lavoro da quattro anni, con una anglo-tedesca già esistente, e sapevo che quel giorno era decisivo
– in certo modo anche per la mia vita futura – e non mi sentivo padrone di me stesso, non lo ero affatto! Sentivo che mi
stavo ammalando, e il male veniva dal di dentro, ma non era il mio corpo, conosco il mio corpo troppo bene. Era la crisi
di un malessere interiore i cui primi accenni però erano stati più irrilevanti che mai; ma che essi erano stati qualcosa di
significativo, e che erano collegati con questo attuale sconvolgimento, lo compresi d’un tratto, come è usuale in simili
crisi capire di più che nei normali istanti della vita. Si era trattato di piccoli, irragionevoli moti di disagio, assurdità e
incertezze del pensiero o del sentimento, assolutamente insignificanti e repentine, ma davvero qualcosa di
completamente nuovo in me; e credo, per quanto siano insignificanti tali cose, di non aver mai provato niente di simile
se non in questi pochi mesi dacché calco di nuovo il suolo europeo. Ma elencare questi occasionali moti di un quasi
nulla? Comunque sia, devo farlo – oppure devo strappare questa lettera e il resto lasciarlo per sempre nel non detto.
Talora al mattino accadeva, in queste camere d’albergo tedesche, che la brocca e il catino – o un angolo della stanza con
il tavolo e l’attaccapanni per i vestiti – mi apparissero così irreali, così nient’affatto reali nonostante la loro
indescrivibile normalità, in qualche modo spettrali, e al contempo provvisori, in attesa, come se prendessero
temporaneamente il posto della reale brocca, del reale catino colmo d’acqua. Se non sapessi che sei una persona a cui in
vero nulla appare troppo piccolo o troppo grande e, soprattutto, nulla completamente assurdo, non proseguirei. Del resto
posso sempre non spedire la lettera. Ma era così. Nei paesi dall’altra parte del mare, perfino nei miei momenti più
grami, la brocca o il secchio con l’acqua del mattino, più o meno fresca, erano qualcosa di familiare e insieme di vivo:
avevano un’aria da amico. Qui era, si può dire, un fantasma. A questa vista mi coglieva una leggera, sgradevole
vertigine, ma non era fisica. Se mi avvicinavo alla finestra, la stessa identica cosa poteva accadere alla vista di tre o
quattro vetture di piazza che stavano ad aspettare sull’altro lato della strada. Erano fantasmi di vetture. Guardarle dava
un malessere leggero efuggevole, come essere sospesi per un momento sopra un abisso, su un vuoto eterno. Qualcosa di
simile – puoi benissimo immaginare che non prestavo particolare attenzione a questi moti interiori che mi facevano
trasecolare – poteva causarlo la vista di una casa o di un’intera strada: non pensare però a tristi case in rovina, ma alle
più banali facciate di case vecchie e nuove. O anche due o tre alberi, quegli alberelli striminziti, ma trattati con cura, che
tengono qua e là nelle loro square, in mezzo all’asfalto, protette da inferriate. Io potevo guardarli e sapevo che essi mi
ricordavano degli alberi – ma non erano alberi – e al contempo un brivido attraversava tutto il mio corpo, qualcosa che
mi tagliava in due il petto come un soffio, un così indescrivibile soffio dell’eterno nulla, di un eternonon-luogo, un
respiro non della morte, ma della non-vita, indescrivibile. Poi è accaduto mentre ero sul treno, più e più volte. In questi
quattro mesi mi sono spostato moltissimo in treno, da Berlino al Reno, da Brema alla Slesia e in lungo e in largo. Ed
ecco che poteva manifestarsi con una luce qualsiasi, alle tre del pomeriggio, o in qualsiasi altro momento, una piccola
città a sinistra o a destra del binario, o paese o fabbrica, o l’intero paesaggio, colline, campi, alberi di melo, case sparse,
tutto, insomma assumeva un volto, un’espressione ambigua, colma di intima insicurezza, di malvagia irrealtà: tutto se
ne stava lì così insignificante – così spettrale e insignificante – mio caro, ho trascorso due mesi e mezzo della mia vita
in una gabbia che non aveva altra vista che su uno stabbio vuoto, con ammucchiato ad altezza d’uomo del letame di
bufalo mezzo secco, attraverso cui si trascinava una bufala malata, finché alla fine, non più in grado di muoversi,
giaceva lì fra la vita e la morte: e tuttavia, nello stabbio, nel mucchio con il letame giallogrigio e con l’animale
giallogrigio morente, se vi rivolgevo lo sguardo, e se ci ripenso – lì tuttavia continuava a dimorare la vita, la stessa che
dimora anche nel mio petto – e invece nel mondo sul quale per brevi istanti posso affacciarmi dal finestrino del treno, lì
dimora Qualcosa – io non ho mai avuto terrore della morte, ma di ciò che dimora lì, di questa non-vita, ho terrore. Ma
sicuramente si tratta soltanto del fatto che ogni tanto vengo investito da un influsso maligno, una sorta di leggero
avvelenamento, un’infezione nascosta e strisciante, che si direbbe manifestarsi nell’aria europea a chi torna da lontano
dopo essere stato via molto a lungo, forse troppo a lungo. Che il mio malessere fosse di natura europea, di ciò – in
queste cose tutto è affidato alla più inspiegabile e più improvvisa intuizione – mi ero accorto nello stesso istante in cui
mi ero reso conto che adesso mi aveva colpito fin nell’intimo, che ora io, io stesso, la mia vita interiore si trovava
esposta a questo influsso maligno esattamente come in passato le cose del mondo. La mia coscienza si trascinava
nauseata e in preda alle vertigini attraverso sensazioni e sentimenti confusi e simultanei: io credo che in quegli istanti
ho ripensato tutto ciò a cui avevo pensato dopo aver messo piede in Europa e allo stesso tempo a tutto ciò che avevo
rimosso.
Non sono in grado di tradurre oggi in parole che cosa, come un turbine, attraversò tutto il mio io: ma un
violento disgusto per i miei affari e per il denaro guadagnato, ecco, questo si abbatté sul turbamento enorme e insieme
senza suono della mia interiorità sconvolta, come un pezzo di legno sulla cresta dell’onda dei mari del Sud, alte quanto
un palazzo. Avevo ricacciato in me ventimila esempi: come essi dimenticano la stessa vita a causa di ciò che null’altro
dovrebbe essere se non un mezzo per vivere e a null’altro dovrebbe valere se non come strumento. Intorno a me c’era
da mesi una marea di volti posseduti da null’altro che dal denaro che essi avevano, o dal denaro che avevano gli altri.
Le loro case, i loro monumenti, le loro strade, tutto ciò era per me, in quei momenti un po’ visionari, nient’altro che la
smorfia mille volte rifratta della loro spettrale non-esistenza, e subito, com’è nella mia natura, essa reagiva con un
incontrollato disgusto per quel poco denaro mio e per tutto quello che comportava. Avevo, come chi soffre il mal di
mare, nostalgia della terra ferma, volevo abbandonare l’Europa e ripartire verso i buoni paesi lontani che avevo lasciato.
Come puoi immaginare, non era uno stato d’animo adatto per rappresentare interessi a un tavolo di trattative. Non so
cosa non avrei dato per disdire la riunione. Ma questo era impensabile e dovevo andare e fare il miglior uso possibile
della mia testa. Mi rimaneva ancora quasi un’ora. Andare in giro per quelle grandi strade mi era impossibile; entrare da
qualche parte e leggere i giornali era altrettanto impossibile, perché i giornali parlavano fin troppo la stessa lingua dei
volti e delle case. Imboccai una tranquilla strada laterale. Qui c’è in un palazzo una bottega dall’aria decorosa, senza
vetrine, e vicino alla porta d’ingresso un manifesto: Mostra personale, quadri e disegni – il nome lo leggo, ma mi passa
subito di mente. Non varco la soglia di un museo o di una mostra d’arte da vent’anni, penso che mi distoglierà dai miei
insensati ragionamenti, cosa importante in quel momento, ed entro.
Mio caro, non esistono coincidenze, e io dovevo vedere questi quadri, dovevo vederli in quel momento, in
quello stato d’animo sconvolto, in quel contesto. Erano in tutto circa sessanta quadri, piccoli e medi. Pochi ritratti, per il
resto soprattutto paesaggi: davvero pochi quelli in cui fossero dominanti le figure umane. Per lo più erano alberi, campi,
gole, rupi, poderi, tetti, angoli di giardini. Sullo stile pittorico non so darTi informazioni: Tu conosci probabilmente
quasi tutto quello che si fa, e io, come ho detto, da vent’anni non vedevo un quadro. In ogni caso mi ricordo molto bene
che, negli ultimi tempi della mia relazione con W., quando vivevamo a Parigi – lei si intendeva molto di quadri – ho
visto spesso, in atelier e mostre, cose che presentavano una certa somiglianza con queste: un che di molto luminoso,
quasi come manifesti, in ogni caso molto diversi dai quadri nelle gallerie. Questi, nei primi istanti, mi sono sembrati
sgargianti e inquieti, molto grezzi, molto singolari. Mi ci sono dovuto abituare, per riuscire a vedere nei primi dei
quadri, un’unità – poi però, poi ho visto, tutti così, ognuno singolarmente, e tutti insieme, e la natura in essi, e la forza
dell’animo umano che qui aveva conferito una forma alla natura, e albero e cespuglio e podere e declivio, quel che era
qui dipinto, e altro ancora, quello che era dietro la pittura, la vera essenza, l’indescrivibile presenza deldestino– tutto
questo lo vidi così da perdere la percezione di me stesso in questi quadri, e da ritrovarla di nuovo più potente e perderla
di nuovo! Mio caro, è per ciò che voglio dirTi e che non saprò mai dire, che Ti ho scritto questa lettera! Ma come potrei
racchiudere nelle parole qualcosa di così inafferrabile, così improvviso, così forte, così indivisibile! Potrei procurarmi
fotografie dei quadri e spedirTele, ma cosa potrebbero dirti –cosa potrebbero dirti i quadri stessi di quell’impressione
che hanno avuto su di me e che suppongo sia qualcosa di assolutamente personale, un segreto fra il mio destino, i quadri
e me. Un campo arato, un imponente viale contro il cielo della sera, un sentiero incassato fra pareti scoscese con pini
silvestri ricurvi, un angolo di giardino insieme al muro posteriore di una casa, carri di contadini con cavalli scheletrici
su un pascolo, un catino di rame e una brocca di terracotta, due, tre contadini attorno a un tavolo, mentre mangiano
patate – ma a cosa ti giova tutto questo! Allora ti parlo dei colori? Ecco un blu incredibile, accesissimo, che ritorna in
continuazione, un verde come di smeraldi fusi, un giallo che arriva all’arancio. Ma cosa sono i colori, se da loro non
prorompe la vita più intima delle cose! E questa vita profondissima era lì: albero e pietra e muro e sentiero davano
la parte più profonda di sé, in certo qual modo la spingevano verso di me. Ma non si trattava della voluttà e
dell’armonia della loro bella e muta esistenza, quale, molto tempo prima, talvolta mi veniva incontro dalle antiche
immagini sotto forma di atmosfera incantata: no, solo l’impeto della loro esistenza, solo l’impetuoso miracolo della loro
esistenza avvolto da uno stato di stupore assaliva la mia anima. Come posso fartelo capire che qui ogni essere – e ogni
albero è un essere, ogni striscia di un campo giallo o verdastro, ogni recinto, ogni sentiero scavato nella collina
rocciosa, è un essere la brocca di stagno, la ciotola di terracotta, il tavolo, la sedia tozza – si sollevava e mi veniva
incontro come rinato dallo spaventoso caos della non-vita, dall’abisso dell’inesistenza, cosicché io sentii, no, cosicché
io seppi come ognuna di queste cose, di queste creature era nata al mondo da uno spaventoso dubbio sul mondo e
adesso con la sua esistenza nascondeva per sempre un terribileabisso, il nulla spalancato. Come posso spiegarti, anche
solo in parte, in che modo questa lingua mi parlava fino all’anima, una lingua che scagliava verso di me la gigantesca
giustificazione agli stati più strani e più inespilicabili del mio intimo, che mi faceva capire d’improvviso ciò che io,
preso da insopportabile stordimento, potevo appena sopportare di percepire, e ciò che io tuttavia, per quanto lo
percepissi, non potevo strappare via da me – e qui un’anima sconosciuta di inconcepibile forza mi dava risposta, con un
mondo intero mi dava risposta! Provavo la stessa sensazione che prova colui il quale, dopo un incommensurabile
vertigine, sente la terra ferma sotto i piedi mentre intorno a lui infuria una tempesta nel cui tumulto vorrebbe esultare.
Nel pieno di una tempesta si generavano davanti ai miei occhi, si generavano proprio per me questi alberi, con le radici
nella terra, i rami contro le nuvole, in una tempesta si rivelavano queste crepe, queste valli fra le colline, anche
nell’impeto dei massi vi era una impietrita tempesta. E adesso, di quadro in quadro, potevo sentire un Qualcosa, di
quelle creazioni potevo sentire che cosa le le legava l’una all’altra e tutte tra loro, potevo sentire in che modo la loro vita
più nascosta esplodeva nel colore, e in che modo i colori vivevano l’uno per l’altro, e in che modo uno di essi, di
misteriosa potenza, portava tutti gli altri, e potevo percepire in tutto ciò un cuore, l’anima di colui che l’aveva
realizzato, che con questa visione si dava una risposta alla morsa del dubbio più spaventoso, potevo sentire, potevo
sapere, potevo cogliere, potevo assaporare abissi e vette, l’esterno e l’interno, uno e tutto nella decimillesima parte del
tempo in cui ti scrivo queste parole, ed ero come doppio, e allo stesso tempo padrone delle mia vita, padrone delle mie
forze, del mio intelletto, sentivo il tempo trascorrere, sapevo che adesso mi restavano ancora solo venti minuti, ancora
dieci, ancora cinque, e mi trovai fuori, chiamai una carrozza, andai.
L’esito di questo tipo di riunioni, in cui la grandezza delle cifre fa appello alla fantasia, e la varietà ed
eterogeneità delle forze che entrano in gioco richiede la dote di una visione sintetica, non è l’intelligenza a deciderlo,
ma una forza misteriosa, alla quale non so dare nome. Talvolta è nei più furbi, ma non sempre. In quel momento era in
me, in un modo in cui non lo era mai stata e come non lo sarà forse mai più. Per la mia società ho potuto ottenere più di
quanto ero stato incaricato dal direttivo nel caso più vantaggioso, e l’ho ottenuto come in sogno si raccolgono fiori da
un muro spoglio. I volti degli uomini, con i quali ho svolto la trattativa, li sentivo straordinariamente vicini. Su di loro
potrei dirTi diverse cose che non hanno la benché minima relazione con l’oggetto dei nostri affari. Mi rendo conto
adesso che mi è stato tolto un gran peso.
P.S. L’uomo si chiama Vincent van Gogh. Dalle date nel catalogo, abbastanza recenti, immaginoo che
dovrebbe essere vivente. Qualcosa mi spinge a credere che sia della mia generazione, poco più grande di me. Non so se
mi imbatterò un’altra volta in questi quadri, ma penso che ne comprerò uno, e però non lo terrò con me, lo darò in
custodia al mercante d’arte.
La quinta
maggio 1901
Ciò che ti ho scritto lo potrai capire appena, e meno di tutto come questi quadri mi abbiano potuto commuovere così. Ti
sembrerà una stravaganza, un’idea del momento, una bizzarria, e tuttavia – se solo lo si potesse oggettivare, se solo lo
si potesse strappare via da sé e portarlo alla luce. Ecco cosa accede in me: i colori delle cose, in strani momenti,
esercitano un potere su di me. Ma che cosa sono in vero i colori? Non avrei potuto dire allo stesso modo: la forma delle
cose, o il linguaggio della luce e dell’oscurità, o qualsiasi altra cosa a cui non si è dato un nome? E le ore – quali ore?
Trascorrono anni, e non ce n’è traccia – e non è infantile confidarti che una potenza che non conosco talvolta si
impossessa di me? Se la potessi afferrare, non afferrare – ché essa ad afferrare me – ma trattenere, prima che di nuovo
svanisca. Ma svanisce? Non ha una sua segreta forza creatrice in me, in una qualche parte di me a cui un costante sonno
interiore perfino a me stesso chiude la via? E adesso che ne ho parlato, mi sento spinto a dirne di più. Vengo colto, a tal
riguardo, da qualcosa che a me stesso è inspiegabile, qualcosa come amore – ci può essere amore per qualcosa che è
privo forma, che è privo di sostanza? E affinché tu non pensi che ciò di cui ti ho scritto sia di poco valore, ne scrivo
ancora, e dal momento che io stesso cerco di capire ciò che mi spinge, è come se io dovessi impedire che tu possa
disprezzare qualcosa che per me è così importante.
Hai mai sentito il nome Rama Krishna? Non è importante. Era un brahmano, un penitente, uno dei grandi santi
indiani, uno degli ultimi, poiché è morto solo negli anni Ottanta, e quando arrivai in Asia il suo nome era ancora vivo
ovunque. Io so qualcosa della sua vita, ma nulla che mi tocchi profondamente più del breve racconto di come accadde la
sua illuminazione, o il suo risveglio, in breve, l’evento che lo distaccò dagli esseri umani e ne fece un santo. Non fu
null’altro che questo: camminava per la campagna, tra i campi, fanciullo di sedici anni, e alzò lo sguardo verso il cielo e
vide uno stormo di aironi bianchi attraversare il cielo a grande altezza: e nulla se non questo, nulla se non il bianco di
quelle creature vive che sbattevano le ali nel cielo azzurro, nulla se non questi due colori, l’uno contro l’altro, questo
eterno indicibile penetrò in quel momento nella sua anima e separò ciò che era unito e unì ciò che era separato, così che
egli cadde come morto e quando si rialzò non era più lo stesso uomo che era caduto in terra. Mi raccontò qust’episodio
un religioso inglese, del genere più comune. “Una intensa impressione ottica senza alcun contenuto più alto”, mi disse.
“Come vede si tratta di un sistema nervoso anormale”. Senza alcun contenuto più alto! Se fossi uno dei vostri uomini
colti, e e non fossero le vostre scienze, certo linguaggi meravigliosi in grado di esprimere tutto, un mondo inaccessibile,
se non fossi spiritualmente menomato, se possedessi un linguaggio in cui potessero confluire le certezze mute del
mondo interiore! Ma non è così!
Ma voglio provare a parlarti di una volta in cui accadde, non per la prima volta, ma forse con maggiore forza
che in altri momenti. È un guardare, nulla più, e adesso per la prima volta mi colpisce il nostro uso ambiguo di questa
parola: che essa debba significare per me una cosa normale quanto il respirare e al contempo... la stessa cosa mi accade
con il linguaggio: non riesco ad affidarmia una delle sue onde per farmi portare con sé, tutto fluisce sotto di me e mi
lascia nello stesso punto.
Non ho scritto che i colori delle cose hanno in ore strane un potere su di me? O piuttosto, non sono io che, per
un breve tempo, acquisto potere su di esse, l’intero, pieno potere, di sottrarre ad esse il loro muto segreto, che viene da
un profondo abisso? Non è in me la forza, non la sento dentro come un sussulto interiore, una pienezza, una presenza
ignota, sublime ed incantevole, in me, nel punto in cui il sangue va e viene? Così fu in quella mattina di una giornata
grigia di tempesta e pioggia, nel porto di Buenos Aires– così fu allora e per sempre. Ma se tutto era già in me, perché
non riuscii a chiudere gli occhi e, muto e cieco, godere di un’indicibile sentimento di me stesso, perché fui costretto a
rimanere sul ponte e guardare, guardare innanzi a me? E perché il colore delle onde schiumose, questo abisso che si
apriva e si chiudeva, perché ciò che si avvicinava, nella pioggia fitta, avvolto da schizzi d’acqua, perché questa piccola
barca dal colore sgradevole (la barcaccia della dogana) in rotta verso di noi, questa barca e la caverna d’acqua, l’onda
che si sollevava assieme ad essa, perché mi sembrava (sembrava! sembrava! Io sapevo che era così!) che il colore di
queste cose contenesse non solo il mondo intero, ma anche tutta la mia vita? Questo colore, che era un grigio e un
marrone spento e un’oscurità e una schiuma, in cui c’era un abisso e un precipizio, una morte e una vita, un orrore e un
diletto – perché davanti ai miei occhi che guardavano, davanti al mio animo in estasi, mi veniva incontro la mia vita
intera, passato, futuro, schiumanti in un inesauribile presente, e perché era questo attimo indicibile, questa sacra
piacevole percezione di me stesso e al contempo del mondo intero, che mi si apriva con irruenza, perché questa
duplicità, questo intreccio indissolubile, questo fuori e dentro, questo tu reciproco erano collegati al mio vedere?
Perché, se i colori non sono in linguaggio nel quale si riversa ciò che non ha parola, l’eterno, l’incommensurabile, un
linguaggio più sublime dei suoni, poiché erompe, come una fiamma d’eternità, direttamente dalla mutaesistenzae ci
rinnova l’anima. A paragone di ciò, la musica è per me come la tenera vita della luna accanto alla grandiosa vita del
sole.
Sia come sia. Forse io mi trovo ad essere nel bel mezzo fra l’essere umano ottuso e rozzo, che non percepisce
nulla di tutto questo, e quello con l’anima educata, che decifra e legge lì dove io rimiro solo segni. Mi è rimasta in
mente dal tempo della la definizione del cielo stellato come di un pensiero ancora non dispiegato. Anche questo fa parte
di ciò di cui io parlo. Certo il pensiero del Sud, coi suoi fuochi ardenti, in rare notti, quando tendeva verso di lui tutto il
mio esssere, al pari di uno specchio d’acqua senza increspature, mi apparve talvolta come una prodigiosa promessa,
rispetto allaquale la morte vibrava possente come il suono di un organo. Ma forse anche ciò che mi sembrava una
promessa non era che la rozza intuizione di un grandissimo pensiero di cui la mia anima non riusciva a impossessarsi.
Colore, colore. Adesso la parola mi appare misera. Temo di non averti spiegato come vorrei quel che intendo.
E io non desidero rafforzare in me nulla che mi isoli dagli altri uomini. Ma in vero, non sono più uomo di quando mi
sento vivere con una forza centuplicata, e questo mi accade quando ciò che è sempre muto davanti a me e chiuso e
null’altro è se non impeto estraneo, quando ciò si dischiude e come in un’onda d’amore mi rapisce unificandomi con
esso. E allora nel cuore delle cose non sono così tanto uomo, così tanto me stesso più che mai, senza nome, solitario ma
non prigioniero della solitudine, bensì come se da me fluisse in onde la forza che mi rende un compagno degno delle
grandi potenze mute che, come su troni, siedono tutt’intorno in silenzio? E non è questo ciò a cui tu giungi per vie
oscure, quando operando e patendo vivi fra i viventi? Non è questo il segreto nocciolo delle esperienze, delle oscure
azioni, delle oscure sofferenze, quando hai fatto ciò che non avresti dovuto e tuttavia hai dovuto, quando hai appreso ciò
che hai sempre intuito e a cui mai hai creduto, quando tutto è crollato intorno a te e non c’è modo di far sì che l’evento
spaventoso non fosse accaduto – non proruppe allora, dal fondo dell’esperienza, l’onda che ti trascinò con sé in un
abbraccio, e tu ti trovavi solo e presente a te stesso per sempre, grande e come sciolto da tutti i sensi, senza nome,
sorridente e felice? Perché la natura muta e prodiga,che null’altro è se non vita vissuta e vita che vuole essere vissuta di
nuovo, impaziente ai freddi sguardi che le rivolgi, non dovrebbe in ore singolari attirarti dentro di sé e mostrarti che
anche lei, nelle sue profondità, ha le sacre grotte nelle quali tu puoi essere uno con te stesso, mentre al di fuori sentivi
solo la tua estranietà a tutto? E perché i colori non dovrebbero essere fratelli dei dolori, giacché come quelli ci
attirano verso l’eterno?

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