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OTTOCENTO

FERRARESE
INDICE
pagina
1- Età Giacobina 1796 – 1799 …………………………………. 3
2- Età Napoleonica 1800 – 1814 ………………………………. 8
3- Età della Restaurazione 1815 – 1847 ……………………. 13
4- 1831 ……………………………………………………………… 17
5- 1848 – 1849 ……………………………………………………. 21
6- Età del Risorgimanto 1850 – 1870 ………………………… 26
7- 1859 – 1861 ……………………………………………………. 31
8- Età Postunitaria 1871 – 1914 …………………………….… 35

addenda
9- Cenni statistici della provincia di Ferrara ………….…….. 40
10 - Giovanni Bacci - la democrazia ferraresa 1882-1889 .…. 41
11 - L’autrice ………………………………………………………… 43

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1 - Età giacobina: il "triennio" (1796-1799)

L’ albero della libertà, 1796; disegno a penna e inchiostro nero, rosso e


verde, mm. 162 x 143; tratto da: Luigi, Giovanni e Antonio Sandri,
Cronache di Ferrara dal 1700 al 1866, manoscrittoFerrara, Biblioteca
Comunale Ariostea
Nel marzo del 1796, l’esercito francese, guidato dal generale Napoleone
Bonaparte, mosse per ordine del Direttorio verso la penisola italiana con
l’intento di indebolire da sud l’Impero asburgico allora in guerra contro
la Francia rivoluzionaria. Dopo essere passato vittorioso in territorio
Sabaudo, dove il 28 aprile firmò l’armistizio di Cherasco con Vittorio
Amedeo III di Savoia (ratificato nel maggio successivo con la pace di
Parigi che stabiliva il passaggio della Savoia e di Nizza, territori sabaudi,
alla Francia), il 15 maggio Bonaparte fece il suo ingresso trionfale a
Milano accolto dal grido di «libertà per gli Italiani!». L’esercito francese
continuò la propria marcia verso i territori posti a sud della Lombardia,
occupando quelli del Ducato di Modena e Reggio e le Legazioni
pontificie di Bologna, Ferrara e della Romagna.
A Ferrara la notizia dell’avanzata francese e il timore di una possibile
invasione cominciarono a diffondersi all’inizio di maggio. Il cardinale
legato Francesco Pignatelli dispose una serie di provvedimenti atti, in
caso di emergenza, ad assicurare la difesa del territorio ferrarese nei
punti più esposti: il forte di Stellata e il porto di Pontelagoscuro.
Tuttavia, quando l’arrivo dell’Armée d’Italie presso Ferrara si fece
sempre più probabile, il legato pontificio diede ordine di non opporre
alcuna resistenza. Il 19 giugno una divisione dell’armata francese
invadeva Bologna che fu dichiarata «conquista» della Repubblica
francese. Il giorno successivo Bonaparte giungeva nella città felsinea
affidando al Senato, previo giuramento di fedeltà alla Francia, il potere
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legislativo e il governo dell’ex Legazione pontificia. Tra il 20 e il 21
giugno, un ufficiale dell’Armata francese arrivava a Ferrara con l’invito
perentorio rivolto alle autorità locali, il cardinale legato Pignatelli, il
comandante della Fortezza Giulio Mancinforte, il giudice dei Savi Pietro
Luigi Todeschi, di recarsi immediatamente a Bologna per incontrare il
generale corso. I primi due furono trattenuti come prigionieri di guerra,
mentre Todeschi poté fare ritorno il 21 giugno stesso a Ferrara con
l’ordine di convocare per l’indomani il Consiglio Centumvirale
(assemblea rappresentativa cittadina istituita da Clemente VIII nel 1598)
affinché prestasse il giuramento di fedeltà alla Repubblica francese, e di
provvedere all’acquartieramento in città delle truppe. L’avvicendamento
politico avvenne, come già a Bologna, senza incontrare opposizioni. La
milizia pontificia depose le armi e il 22 giugno si procedette al passaggio
formale di Ferrara sotto il nuovo governo: furono rimossi gli stemmi
papali dai principali edifici pubblici ed ecclesiastici, sostituiti con quelli
della Repubblica francese (simboleggiata da una donna che con una
mano teneva una picca sormontata da un berretto frigio, e con l’altra un
fascio di verghe con infissa un’ascia) e si procedette al giuramento.
In città non si verificò nessun incidente neppure quando il 23 giugno, in
seguito alla firma dell’armistizio siglato tra la Francia e il Papato, fecero
il loro ingresso le sparute truppe francesi (circa un migliaio di uomini)
poste sotto il comando del generale Jean Gilles André Robert. I soldati
d’Oltralpe fraternizzarono facilmente con i simpatizzanti locali: studenti
universitari, esponenti della nobiltà antipapale e del ceto medio in
ascesa, e la comunità ebraica ferrarese per la quale i cancelli del ghetto
rimasero aperti. Con l’arrivo dei francesi cessava dopo 198 anni il
governo pontificio su Ferrara che dal 1598 era passata per diritto di
devoluzione da capitale del Ducato estense a legazione dello Stato della
Chiesa.
Tra i primi provvedimenti attuati dai francesi vi fu la creazione della
Guardia Nazionale volontaria, su modello della milizia cittadina del 1789,
cui aderirono soprattutto i giovani ferraresi in particolare studenti
universitari. La formazione di una guardia civica, il cui scopo era di
garantire l’ordine pubblico e la difesa della città, risultò tanto più
determinante quando, per rispondere all’offensiva austriaca, i soldati
francesi dovettero lasciare Ferrara per raggiungere il Veronese da dove
gli austriaci stavano sferrando una controffensiva.
In un primo tempo, su espressa volontà di Bonaparte, furono conservate
le precedenti strutture politico-istituzionali ferraresi al fine di
assecondare le ambizioni delle élite locali a riappropriarsi di un ruolo
dirigenziale, così spesso soffocato dal governo pontificio, nella gestione
della cosa pubblica. Tuttavia, dopo i vani tentativi da parte del Papato di
rimpossessarsi dell’ex Legazione durante il mese di agosto, tentativi

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accompagnati dalle insorgenze di Lugo e Cento, all’inizio di ottobre
Ferrara assunse un nuovo assetto amministrativo che rappresentò un
punto di rottura e una svolta rispetto al recente passato pontificio.
Abolito il Consiglio Centumvirale, fu istituita al suo posto
l’Amministrazione Centrale del Ferrarese, organismo rappresentativo le
cui competenze si estendevano su tutta la provincia, e i cui membri,
nominati direttamente da Christophe Saliceti, commissario del Direttorio
presso l'Armée d'Italie, segnarono l’affermazione nella gestione del
potere di un nuovo ceto patriota prevalentemente borghese che aveva
cominciato ad emergere con istanze civili innovatrici già durante l’ultimo
periodo pontificio. Tra le prime disposizioni previste
dall’Amministrazione Centrale del Ferrarese figuravano lo
smantellamento dei privilegi e immunità del clero (come l’abolizione del
tribunale dell’Inquisizione e dell’asilo ecclesiastico dei rei) e la
concessione della libertà di stampa.
Dal 16 al 18 ottobre Napoleone convocò a Modena i rappresentanti dei
governi provvisori delle repubbliche di Reggio, Modena, Ferrara e
Bologna, ponendo le basi per la creazione della Repubblica Cispadana
che sarebbe stata proclamata a Reggio alla fine di dicembre. Nei giorni
seguenti (dal 19 al 22) Bonaparte stesso soggiornò a Ferrara: alla sua
presenza fu innalzata in cima alla colonna di piazza Nuova, ora Ariostea,
la Statua della Libertà (identica all’icona della Repubblica francese),
eretta al posto di quella bronzea di papa Alessandro VII, distrutta poco
dopo l’arrivo in città dei francesi. Nei congressi che si tennero in
successione a Reggio Emilia e a Modena tra fine dicembre e inizio
marzo 1797, durante i quali si discussero gli articoli della costituzione
della Cispadana, parteciparono 30 deputati ferraresi eletti a suffragio
universale maschile (secondo un meccanismo di voto articolato in tre
turni di consultazioni), tra i quali emerse, per levatura intellettuale e
isolata fede democratica, il giurista Giuseppe Compagnoni, docente
della prima cattedra di diritto costituzionale d’Europa nonché segretario
dell’Amministrazione Centrale del Ferrarese.
La costituzione cispadana, in base alla quale Ferrara diventava
capoluogo del Dipartimento del Po, fu ratificata nel marzo 1797 per
mezzo di un referendum che ne sancì per maggioranza l’accettazione.
Tuttavia, proprio nel cantone di Ferrara, dove si registrò una fortissima
astensione degli aventi diritto al voto, la carta costituzionale fu respinta.
Come sarebbe successo di lì a poco con le elezioni per le municipalità, i
giudici di pace e gli elettori dei rappresentanti del corpo legislativo
cispadano, i patrioti repubblicani ferraresi dovettero fare i conti molto
presto con una coalizione del clero e dell’aristocrazia reazionaria capace
di pilotare a proprio vantaggio soprattutto il mondo contadino. La
consultazione elettorale, infatti, premiò (sebbene con molti brogli
inutilmente denunciati) la compagine composta da preti, aristocratici e
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conservatori, spingendo così i patrioti ferraresi delusi ad appoggiare il
progetto che Bonaparte stava configurando con i preliminari di Leoben
(17 aprile 1797) di una grande repubblica del nord d’Italia.
Con la creazione, il 29 giugno del 1797, della Repubblica Cisalpina,
Ferrara, e dunque tutta la Cispadana, entrava a fare parte della nuova
“repubblica sorella” che accorpava in un’unica entità statuale anche il
territorio dell’ex repubblica lombarda. Grazie ad un’efficace attività
“diplomatica”, alcuni membri dell’élite ferrarese andarono ad occupare
posizioni di rilievo nella nuova ridefinizione politica dell’Italia
settentrionale: Giambattista Costabili Containi fu nominato da
Bonaparte stesso quinto membro del Direttorio Cisalpino, Giuseppe
Rangoni, segretario dell’ambasciatore a Parigi della nuova repubblica,
Giambattista Boldrini, già deputato ai congressi cispadani e di noti
sentimenti anticlericali che gli valsero l’epiteto di «Robespierre di
Ferrara», divenne commissario del potere esecutivo del Dipartimento
del Basso Po. Con queste nomine Bonaparte intendeva dunque
gratificare l’appoggio fornito dai patrioti ferraresi al progetto di
unificazione dell’Italia settentrionale, che tanto era stato osteggiato da
un radicato spirito municipalistico e soprattutto dai bolognesi per nulla
inclini a perdere l’egemonia raggiunta con la Cispadana. In conformità
all’organizzazione del territorio stabilito dalla costituzione, parte di
Ferrara e del Ferrarese confluì nel Dipartimento del Basso Po,
frammentandosi una parte del territorio storico in altri dipartimenti
stabiliti a partire dalla rete idrografica padana.
A livello locale, il periodo della Cisalpina fu contraddistinto fin dall’inizio
da continui contrasti che opposero al Direttorio di Milano alcune
Municipalità (come Ferrara, Codigoro, Massafiscaglia) principalmente
per questioni di natura fiscale e di coscrizione obbligatoria.
In seguito alle sconfitte napoleoniche inflitte dalla seconda coalizione
(formata da Austria, Russia e Inghilterra), nel marzo del 1799 gli
austriaci giunsero presso il Po. L’avanzata dell’esercito imperiale fu
accompagnata dall’insorgere degli abitanti del territorio veneto annessi
al Dipartimento del Basso Po (Fiesso, Trecenta, Ficarolo, Massa
Superiore). Il 12 aprile, dopo che gran parte del territorio ferrarese
(Zocca, Copparo, Migliarino, Ostellato, Portomaggiore) era passato sotto
il controllo delle bande di insorgenti sorrette dagli austriaci, fu la volta di
Pontelagoscuro da cui venne organizzato l’accerchiamento e il blocco di
Ferrara. La città, posta sotto assedio e ridotta allo stremo, si arrese agli
austriaci il 22 maggio 1799. Alla resa seguirono le ormai consuete
violenze contro i giacobini più in vista, sebbene alcuni funzionari
pubblici avessero prontamente preso la fuga, e contro quegli ebrei che
maggiormente avevano aderito al governo repubblicano.

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Bibliografia
Valentino Sani, La rivoluzione senza rivoluzione. Potere e società dal
tramonto della legazione pontificia alla della Repubblica cisalpina (1787-
1797), Milano, FrancoAngeli, 2001; Valentino Sani, Le rivolte antifrancesi
nel ferrarese, in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari
nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma,
Carocci Editore, 1999, pp. 195-216.

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2 - Età napoleonica (1800-1814)

Ferdinando Albertolli (Bedano 1781 - Milano 1844), Monumento a


Napoleone in piazza Nuova (ora Ariostea), 1810; acquatinta, mm 458 x
293Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea
Il 23 maggio 1799 il generale delle truppe austriache Johann Klenau
prendeva possesso di Ferrara dopo la disfatta dei francesi comandati
dal generale Lapointe e dei patrioti cisalpini ridotti all’assedio nella
Fortezza. Contemporaneamente venivano soppresse le istituzioni
repubblicane e istituita la Cesarea Reggenza al posto della Municipalità.
Il giorno dopo fu creata la Cesarea Regia Provvisoria Reggenza,
magistratura cui spettava il Governo della Provincia (secondo la dicitura
legatizia), composta da dodici membri e a capo della quale fu posto il
marchese Camillo Bevilacqua. In base a queste disposizioni dal 24
maggio al 1° giugno venivano ristabiliti i confini e le magistrature del
territorio ferrarese del periodo pontificio, tutte le leggi repubblicane
erano abrogate, venivano arrestati coloro che avevano ricoperto
incarichi nel governo cisalpino e ripristinate le discriminazioni a danno
degli ebrei, abolite dai francesi nel settembre 1796.
Si trattò tuttavia di una breve restaurazione. Il 18 di Brumaio (9
novembre) 1799 Napoleone Bonaparte, di ritorno improvviso in Francia
dall’Egitto, con un colpo di stato pose fine al Direttorio e di fatto alla
Rivoluzione. Promulgata la Costituzione dell’anno VIII alla fine dello
stesso anno, Napoleone divenne, a fianco degli altri due consoli
Emmanuel-Joseph Sieyès e Roger Ducos, premier consul di questo
nuovo assetto politico repubblicano, il Consolato. Da subito, il primo
console dimostrò di volere riprendere ad occuparsi delle sorti italiane.
Infatti, nel maggio del 1800, Bonaparte intraprese una nuova discesa
nella Penisola sconfiggendo l’esercito austriaco a Marengo, il 14 giugno
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1800. Già con l’armistizio di Alessandria, firmato il 15 giugno
successivo, e soprattutto con la convenzione di Verona (31 luglio 1800),
il territorio ferrarese fu spartito in due zone occupate militarmente,
lasciando tuttavia la fascia delimitata tra il Po di Volano e il Po di
Primaro neutrale sebbene a disposizione dell’esercito francese per
l’approvvigionamento dei viveri (art. II). Ferrara rimase sotto
l’occupazione austriaca sino al 19 gennaio 1801, quando a seguito delle
sconfitte inflitte dai francesi agli imperiali, l’Austria fu costretta alla
pace, ponendo di fatto fine alla seconda coalizione. Erano queste le
premesse per la firma del Trattato di Lunéville (9 febbraio 1801) in base
al quale ritornavano in vigore le clausole del Trattato di Campoformio
siglato nell’ottobre 1797, ripristinando, tra le altre, la Repubblica
Cisalpina (un articolo apposito affermava ogni rinuncia da parte
dell’Austria nei confronti dei territori cisalpini). Ferrara tornava dunque
nuovamente organizzata secondo la struttura politico-amministrativa
della ristabilita Cisalpina.
Neppure un anno dopo, Bonaparte convocò, in una consulta
straordinaria che si tenne a Lione nel corso del gennaio 1802, 454
deputati cisalpini al fine di adottare una nuova costituzione sul modello
di quella francese consolare. 27 furono i ferraresi chiamati dal primo
console, in gran parte già protagonisti del Triennio, e tre di essi – Carlo
Bentivoglio, Leopoldo Cicognara e Giambattista Costabili Containi – si
distinsero per l’opposizione alla nomina di Napoleone a presidente. Con
la proclamazione il 26 gennaio 1802 della Repubblica italiana, Ferrara
rimaneva capoluogo del Dipartimento del Basso Po, come già durante la
Cisalpina e come sarebbe stato con la trasformazione della Repubblica
in Regno d’Italia. Il nuovo corso napoleonico segnò l’inizio di un
accentramento a livello politico-amministrativo fondato sulla nomina
dall’alto del personale dirigente. In questo nuovo assetto, emersero a
livello centrale alcuni notabili ferraresi: Giambattista Costabili Containi
(che sarebbe stato presente all’incoronazione di Napoleone a imperatore
dei francesi come rappresentante di Ferrara, il 2 dicembre 1804) sedette
nella Consulta di Stato; Leopoldo Cicognara e Giuseppe Compagnoni
nel Consiglio legislativo; Carlo Bentivoglio, Giambattista Boldrini e
Giuseppe Rangoni nel Corpo legislativo.
Con il passaggio della Repubblica a Regno d’Italia (31 marzo 1805), il
Dipartimento del Basso Po, a capo del quale era posto il prefetto, fu
suddiviso in tre Distretti: Ferrara, Rovigo e Comacchio, ciascuno sede di
Consiglio distrettuale di nomina regia.
Durante il periodo napoleonico fu attuata una serie di provvedimenti
destinati a segnare, come altrove, in maniera permanente la storia della
città e del territorio: vennero unificati i pesi e le misure, per esigenze
d’ordine militare la città fu dotata di illuminazione pubblica notturna

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(servizio attivo a partire dal 1807) e di un servizio di sicurezza contro gli
incendi assicurato dai pompieri (equivalenti ai sapeurs-pompiers istituiti
da Napoleone in Francia), cominciarono ad essere stilati registri civili di
nascite, matrimoni e morti. Nel campo dell’educazione pubblica si attuò
più compiutamente ciò che già durante il Triennio era rimasto a livello
progettuale, ovvero un sistema scolastico che puntasse, a livello di
istruzione primaria, a garantire a tutti i fanciulli e fanciulle senza
distinzioni sociali, l’apprendimento della scrittura, della lettura e
dell’aritmetica (sei furono le scuole elementari funzionanti). Tuttavia,
diversamente dagli ideali egualitari promulgati dalla Rivoluzione,
l’istruzione secondaria di concezione napoleonica mirò soprattutto a
promuovere l’educazione delle élite per le quali furono fondati istituti di
insegnamento superiore.
Il 26 gennaio 1801 nacque la Camera di Commercio di Ferrara, mentre
nella primavera del 1803 fu fondata la Società del Casino, presso il
ridotto del Teatro Comunale, associazione simbolo della concordia tra i
diversi ceti sociali cittadini, promossa da Carlo Bentivoglio, Girolamo
Cicognara, Luigi Massari e Ruggero Ragazzi. La Società del Casino,
aperta fin dall’inizio anche alle donne, si propose come un luogo di
sociabilità dell’élite ferrarese che offriva ai propri membri occasione di
incontro e di svago.
Durante il periodo considerato furono presi provvedimenti per
migliorare l’igiene pubblica, come si legge nel Regolamento della Sanità
del 14 agosto 1807, soprattutto per lo smaltimento e per la
regolamentazione dei comportamenti nella gestione dei rifiuti privati.
Inoltre, con il decreto vicereale del 3 gennaio 1811 furono estese a tutto
il Regno d’Italia le disposizioni napoleoniche in materia di sepoltura, in
base alle quali si stabiliva che i camposanti dovessero essere collocati
al di fuori dei centri abitati (Editto di Saint-Cloud, 1804). Tuttavia, a
Ferrara, per consentire che la certosa di San Cristoforo, posta all’interno
delle mura cittadine, diventasse camposanto, fu necessaria una
autorizzazione speciale del viceré Eugenio di Beauharnais (3 giugno
1811). Artefice di questa risoluzione fu il podestà Girolamo Cicognara
de’ Romei preoccupato di sensibilizzare a tale questione la cittadinanza
(che fu invitata a presiedere alla cerimonia d’apertura il 3 gennaio 1813),
e di mediare con il clero, restio a rinunciare per questioni sanitarie alla
consuetudine di seppellire i defunti nelle chiese.
Nel campo dell’informazione, dopo un periodo di silenzio
della stampa locale successivo alla caduta della Cisalpina, dal 1808 al
1814 fu stampato a Ferrara «presso i Soci Bianchi e Negri», il «Giornale
Ferrarese». Periodico a cadenza bisettimanale, esso si proponeva di
riportare principalmente notizie riguardanti gli atti delle pubbliche
autorità e l’attualità politica interna ed estera. Nelle quattro pagine di cui

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era composto il «Giornale Ferrarese», non mancava tuttavia una rubrica
di «Notizie Dipartimentali», ovvero la cronaca locale, così come
un’informazione di carattere scientifico (statistica, medicina, agricoltura,
piscicoltura, ecc.).
L’adesione al governo napoleonico a Ferrara non fu tuttavia esente da
episodi di insorgenze antifrancesi in parte simili a quelle che si erano
verificate nel corso del Triennio giacobino. Dal 9 al 16 luglio 1809, la
città fu posta d’assedio da un gruppo di insorgenti provenienti in
massima parte dal contado spinti dall’inasprimento del regime fiscale (in
particolare la «boleta di macina» o tassa del Macinato) imposto dal
ministro delle Finanze Giuseppe Prina, su direttive francesi. La città fu
liberata dagli insorgenti grazie al concorso di cittadini volontari e
dall’arrivo di soldati francesi e patrioti bolognesi. Alla repressione
seguirono gli arresti e le condanne, molte delle quali a morte
(fucilazione o ghigliottina).
In seguito alla disfatta francese nella campagna di Russia (cui
parteciparono anche dei ferraresi, tra i quali si ricorda Filippo Pisani,
ingegnere, autore poi di Memorie sulla sua esperienza come ufficiale
d’artiglieria nella Grande Armata condotta da Napoleone in Russia
l’anno 1812) e alla sconfitta nella battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813)
che oppose la Grande Armée alla sesta coalizione, si aprì un periodo di
instabilità. Le truppe austriache occuparono nuovamente i territori del
Basso Po fino a giungere a Ferrara il 13 novembre dello stesso anno
dove si impossessarono della Fortezza (qualche giorno dopo fece il suo
ingresso in città l’arciduca Massimiliano d’Austria). Nei mesi successivi
si alternarono francesi e austriaci nel territorio ferrarese, sino a quando
il 28 gennaio 1814 fu proclamato il Regno d’Italia Indipendente che
segnava l’inizio del governo provvisorio austriaco su Ferrara, destinato
a durare sino alla metà di luglio del 1815.
La chiusura del Congresso di Vienna nel giugno 1815 segnò l’inizio della
Restaurazione ovvero del ripristino della situazione politico-territoriale
europea precedente al 1789. Ferrara e il Ferrarese, pertanto, subirono il
destino comune a tutti quei territori che la Rivoluzione prima e
Napoleone in seguito avevano investito in un cambiamento epocale. Il
15 luglio 1815, dunque, essa tornò sotto il governo del papa Pio VII,
come Legazione pontificia.

Bibliografia
Ferrara. Riflessi di una rivoluzione. Itinerari nell’occasione della Mostra
per il Bicentenario della Rivoluzione francese, catalogo della mostra
(Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di

11
Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo Editore, 1989; Valentino Sani, Aspetti e
caratteri della società ferrarese dagli anni del riformismo pontificio alla
nascita della Repubblica italiana (1740-1802), «Il Risorgimento», LVII, 2,
2005, pp. 211-261

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3 - Età della Restaurazione (1815-1847)

Dopo tre mesi di occupazione austriaca, dal 13 aprile al 18 luglio 1815,


Ferrara fu reintegrata a tutti gli effetti sotto la dominazione pontificia.
Come si leggeva nell’articolo 103 del Congresso di Vienna concernente
le Disposizioni relative alla Santa Sede: «La Santa Sede rientrerà in
possesso delle legazioni di Ravenna, Bologna e Ferrara, eccettuata la
parte del Ferrarese, situata sulla riva sinistra del Po. S. M. I. e R. A. e
suoi successori avranno diritto di guarnigione nelle piazze di Ferrara e
Comacchio». Ferrara e il suo territorio tornavano dunque ad essere
Legazione dello Stato della Chiesa come prima dell’arrivo dei francesi
nel 1796, con l’aggravante però, per le popolazioni locali, della presenza
permanente dell’esercito austriaco tanto nel capoluogo quanto a
Comacchio. «Gli abitanti dei paesi che rientrano sotto il dominio della
Santa Sede in seguito delle stipulazioni del congresso», continuava il
trattato di Vienna, «godranno degli effetti dell’articolo 16 del trattato di
Parigi del 30 maggio 1814». Sulla base di questo precedente accordo,
dunque, e della volontà degli Stati vincitori di dimenticare le «divisioni
che avevano agitato l’Europa», si stabilì che nessun individuo potesse
essere perseguito in ragione della sua opinione politica o della sua
adesione ai governi che avevano cessato di esistere, di fatto quelli
napoleonici, in seguito alla fine della guerra.
A dispetto di questa intenzione di generale amnistia, alla restaurazione
dell’antico ordine seguì nel territorio ferrarese, come altrove,
un’immediata azione repressiva condotta contro coloro che avevano
abbracciato attivamente gli ideali rivoluzionari e in particolare contro
coloro che avevano aderito, nella settimana precedente all’arrivo degli
austriaci, dal 6 al 13 aprile, all’occupazione murattiana della città. Una
relazione compilata dalla spia ferrarese al servizio degli austriaci,
Flaminio Baratelli, elencava coloro che avevano preso la fuga da Ferrara
al momento dell’arrivo degli occupanti e che erano stati oggetto di

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condanna da parte della polizia pontificia. Nella lunga lista dei patrioti
colpiti dalla condanna, effettiva o in contumacia che fosse, figuravano
elementi di spicco del notabilato cittadino (aristocratici, possidenti,
medici, avvocati, studenti), così come appartenenti a professioni
manuali quali calzolai, caffettieri, fornai, tagliapietre, ebanisti, ecc.
La restaurazione del potere del papa sulla città di Ferrara e sul suo
territorio si scontrò tuttavia con i cambiamenti prodotti durante
il periodo napoleonico. Tali cambiamenti, che coinvolsero e ridefinirono
gli antichi assetti socio-economici della città e del territorio, si
dimostrarono di fatto irreversibili. Furono soprattutto le
cosiddette élite a registrare le variazioni più consistenti di composizione
all’interno delle sue fila. Durante il ventennio precedente, infatti, erano
emerse famiglie di banchieri, mercanti, avvocati la cui posizione si era
ormai consolidata nell’ambito della partecipazione politica cittadina.
Molti di esse riuscirono, nonostante le origini borghesi, ad entrare tra le
fila della nobiltà a fianco delle famiglie di più antico lignaggio. Questi
fattori di relativo cambiamento furono di fatto fondamentali
nell’imprimere un atteggiamento di insofferenza nei confronti
dell’autorità ricostituita rappresentata in quel primo torno d’anni dal
segretario di Stato, il cardinale Ercole Consalvi. Con il motu-proprio di
Pio VII del 6 luglio 1816, lo Stato della Chiesa si dotava di un apparato
amministrativo omogeneo che faceva proprie le direttive uniformatrici
lasciate in eredità dal governo napoleonico sui territori recuperati.
Questo nuovo indirizzo politico dello Stato pontificio sacrificava
pertanto le vecchie autonomie locali (le magistrature cittadine alle quali
in maniera concorrenziale era spettata nel corso dei secoli precedenti
una parte più o meno ampia di poteri giurisdizionali) a vantaggio di un
sistema di governo centralizzato con sede a Roma, in cui prevaleva
l’elemento ecclesiastico e che relegava quello laico a un ruolo
subordinato.
L’opposizione al governo pontificio, composta dunque solo dalle élite,
restando gli strati più umili della popolazione sotto l’egida dei
governanti, si espresse in questi primi anni della Restaurazione
attraverso la costituzione di società segrete. Ferrara fu un terreno fertile
per la nascente Carboneria a cui aderirono in gran parte quegli stessi ex
ufficiali napoleonici che nel corso del decennio precedente erano stati
iniziati alla massoneria. Nel 1816 la Carboneria ferrarese, che contava
tra i suoi membri di spicco Tommaso Tommasi, Antonio Solera,
Giuseppe Delfini, Giovanni Battista Canonici, era di fatto ampiamente
strutturata operando di concerto con la società bolognese e intessendo
contatti con le società della Romagna, delle Marche, di Reggio Emilia e
Modena. Nella vendita di Ferrara centrale era il dibattito sul progetto
politico nazionale che prevedeva sostanzialmente la creazione di
un’Italia monarchica, costituzionale e confederata. Nel 1818 la polizia
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pontificia portò allo scoperto l’organizzazione ferrarese dando avvio a
una serie di arresti e condanne a morte, in seguito commutate in anni di
carcere. Alcuni carbonari ferraresi furono inviati allo Spielberg, come il
conte Antonio Oroboni che vi concluse tristemente i suoi giorni, altri
ebbero maggiore fortuna e furono inviati a Lubiana a scontare dieci anni
di prigionia come il Delfini e il Canonici. Quando nel 1820 scoppiarono a
Napoli i moti rivoluzionari seguiti l’anno dopo da quelli in Piemonte, i
controlli e la pressione esercitata congiuntamente dalle polizie austriaca
e papalina si intensificarono, con arresti e carcerazioni spesso
preventivi. Questa rigida sorveglianza esercitata per volontà delle
autorità ecclesiastiche contribuì, nel corso degli anni Venti, ad esaurire
lo slancio delle attività carbonare a Ferrara, e la breve rivoluzione
dell’inverno del 1831 avrebbe relegato a ruoli di secondo piano gli
appartenenti alle società segrete protagoniste della prima stagione
risorgimentale.
Come è noto, gli accadimenti francesi del luglio 1830 che portarono
all’abdicazione di Carlo X e all’ascesa al trono di Luigi Filippo d’Orléans,
ebbero un’eco rivoluzionaria in molte parti d’Europa. In Italia l’epicentro
dei moti fu il territorio emiliano, e in particolare il ducato di Modena da
cui partì un tentativo patriottico di rivoluzione che si consumò nel breve
spazio di un mese, dal febbraio al marzo del 1831. Scoppiati a Bologna il
5 febbraio, i moti si diffusero immediatamente negli altri Ducati e
Legazioni emiliani, tra cui Ferrara da dove il legato pontificio prese
subito la fuga. L’esperienza di governo provvisorio che si istituì a
Ferrara, caratterizzato da un orientamento politico moderato, fu tuttavia
di breve durata. Il 6 marzo, infatti, l’armata austriaca interveniva in aiuto
dei papalini restituendo la città al governo pontificio. A questo tentativo
di governo autonomo seguì inevitabile la repressione e un inasprimento
dei controlli e delle misure di polizia che si servì anche di società
segrete reazionarie come quella dei sanfedisti al fine di sventare forme
di associazioni politiche clandestine. Nondimeno, malgrado le rigide
misure di controllo, i circoli politici clandestini si diffusero rapidamente
a Ferrara dove comunque riusciva a penetrare dagli Stati confinanti una
pubblicistica capace di alimentare il dibattito politico, preparando il
terreno agli avvenimenti che avrebbero portato ai rivolgimenti, in tutta
Europa, del 1848. Fu in questi decenni che cominciò a maturare la
consapevolezza presso i ceti moderati e democratici, complice la
ricezione delle idee mazziniane e garibaldine, della necessità di superare
i manifesti limiti di un’azione meramente riformatrice (espressa inoltre
attraverso ristretti gruppi settari) a vantaggio di una lotta politica
condotta con mezzi più radicali.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta, le élite locali dimostrarono una
certa vivacità di iniziativa, capace di innescare nella società ferrarese
modificazioni nella situazione economica, culturale e civile della società,
15
malgrado gli ostacoli posti dall’amministrazione ecclesiastica nel
soddisfare tali esigenze di crescita e di investimento in senso
capitalistico. Sebbene con ritardo rispetto a tali istanze di sviluppo, nel
1838 nacque il primo istituto di credito ferrarese, la Cassa di Risparmio
che nel giro di un decennio avrebbe quintuplicato il proprio totale di
cassa, tra patrimonio e credito. Sempre negli stessi anni, nel marzo del
1841, fu istituita dietro gli auspici di Giuseppe Mayr, una scuola teorico-
pratica di agraria a capo della quale fu posto l’agronomo Francesco
Luigi Botter. La scuola, che cominciò la sua attività nel febbraio del 1843
– nel 1846 fu promossa a Istituto – in un appartamento sito a pian
terreno del palazzo dei Diamanti, si proponeva l’obiettivo di insegnare
nel corso di due anni scolastici i principi teorici e le pratiche della
scienza agraria. Era l’Istituto agrario del Botter l’espressione di una
volontà più generale di razionalizzazione della conduzione agricola e
dell’aumento della produzione e dei profitti. Anche l’agricoltura ferrarese
pativa il ristagno causato dall’amministrazione pontificia che assorbiva
con decime e tasse i proventi derivati dal miglioramento dello
sfruttamento dei terreni e ostacolava la circolazione delle merci con un
rigido sistema doganale. Proprio queste esigenze economiche espresse
dall’élite ferrarese, nobile e borghese, unitamente alle aspirazioni
(sebbene sempre moderate) di libertà politica, fornirono la spinta per
l’adesione ad un più ampio processo di cambiamento di scala nazionale.
Bibliografia
Patrizio Antolini, Ferrara nella storia del Risorgimento italiano dal 1814
al 1821, Ferrara, Stabilimento Tip. Bresciani, 1885; Patrizio
Antolini, Memoria autoapologetica di F... B... ferrarese, commissario
generale di polizia, 1813-1833, in «Atti e Memorie» della Deputazione
ferrarese di storia patria, XIII, 1901, pp. 168-286; Guido Magnoni Trotti,
Renato Sitti, La vicenda dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di
Luciano Chiappini, Ferrara, Sate, 1970; Luigi Davide
Mantovani, All’ombra della fortezza. La Carboneria ferrarese fra
Romagna e Veneto, in La nascita della nazione. La Carboneria: intrecci
veneti, nazionali e internazionali, a cura di Giampietro Berti, Franco
Della Peruta, Atti del 26° Convegno di Studi Storici (Rovigo, Crespino,
Fratta Polesine 8-9-10 novembre 2002), Rovigo, Minelliana, 2004, pp. 253-
258.

16
4 - 1831

Ritratto del conte Vincenzo Massari (1759-1832),


La notizia della rivoluzione di luglio in Francia nel 1830, detta anche
delle «trois glorieuseus» giornate del 27, 28 e 29, che ponendo fine al
regno reazionario di Carlo X portò all’ascesa al trono di Luigi Filippo
d’Orléans, ebbe ripercussioni immediate in Europa. In ottobre il Belgio
proclamò e ottenne l’indipendenza dall’Olanda, grazie al principio di non
intervento proclamato dalla Francia, mentre alla fine di novembre fu la
volta della Polonia, il cui tentativo di ottenere l’indipendenza non
raccolse, tuttavia, l’appoggio delle potenze europee. In Italia il
movimento originato dalla Rivoluzione di Luglio fu accolto con
entusiasmo dai patrioti che, malgrado le repressioni degli anni Venti,
non avevano rinunciato all’attività cospirativa. Anche a Ferrara
l’opinione pubblica si mostrò favorevole alla rivoluzione liberale
d’Oltralpe. Nel territorio ferrarese circolavano periodici costituzionali e
rivoluzionari francesi che giungevano in Italia grazie a una rete di
persone piuttosto estesa tale da predisporre e informare, quando non
infiammare, gli animi dei patrioti italiani. I moti scoppiati nel 1831 nei
Ducati emiliani e nello Stato della Chiesa, pur inserendosi all’interno
dell’ondata di rivoluzioni originata dagli eventi francesi, presero tuttavia
avvio da una cospirazione passata poi alla storia con il nome di
“congiura estense”. Ordita su iniziativa dell’avvocato modenese Enrico
Misley, che intratteneva rapporti con i carbonari italiani, con il comitato
cosmopolita di Parigi e con quello italiano di Londra, e agiva in
combutta con il patriota modenese Ciro Menotti, la cospirazione

17
prevedeva lo scoppio di una rivoluzione che portasse alla costituzione
di un regno d’Italia centrale su base costituzionale. Il programma
moderato del Misley faceva assegnamento sulle ambizioni di Francesco
IV, duca di Modena, strettamente legato all’Austria, già distintosi per le
sue spiccate tendenze assolutiste, ma desideroso di allargare il proprio
potere a un territorio più vasto di quello angusto assegnatogli dal
Congresso di Vienna. Nel corso dell’autunno-inverno del 1830, Ciro
Menotti organizzò l’insurrezione nelle varie città dell’Emilia, convinto dal
Misley che la causa italiana avrebbe potuto fare affidamento, come nel
caso del Belgio, sul principio di «non intervento» proclamato dalla
Francia o meglio sull’appoggio francese in caso di un intervento militare
austriaco. Tuttavia, all’inizio di febbraio 1831, Francesco IV tradì la
causa patriottica e svelò la congiura facendo arrestare alcuni congiurati
tra i quali lo stesso Menotti. Il tradimento all’ultimo momento del
principe estense non impedì lo scoppio dell’insurrezione, che dilagò il 4
febbraio a Bologna, dove erano giunti alcuni patrioti modenesi. Di fatto
gli insorti vennero a patti in maniera del tutto pacifica con il prolegato, il
quale acconsentì alla formazione di una commissione che avrebbe
assunto il governo provvisorio della città e della provincia di Bologna
nel momento stesso in cui il rappresentante del potere pontificio avesse
abbandonato la Legazione. Il 5 febbraio 1831 giunse notizia a Ferrara
dell’insurrezione scoppiata a Modena e a Bologna, quasi in
contemporanea con l’annuncio dell’elezione al soglio di Pietro di
Gregorio XVI: due giorni dopo, il 7, fu l’antica città estense a sollevarsi.
Senza incontrare eccessiva resistenza, i liberali ferraresi occuparono i
posti di guardia della città e il Castello, residenza del prolegato, venne
ceduto agli insorti dallo stesso rappresentate pontificio, costretto a
lasciare immediatamente il territorio della Legazione nonostante la
presenza in città di una ingente guarnigione austriaca. Il giorno
successivo venne costituita una commissione che a nome del governo
provvisorio diminuì il prezzo del sale, istituì una Guardia civica
nazionale, e ordinò che fossero sospese le feste indette dall’autorità
pontificia per onorare l’elezione del nuovo papa. Il 9 febbraio furono
eletti i membri del governo provvisorio insurrezionale di Ferrara, subito
comunicati alla cittadinanza: Alfonso Guidetti ne fu il presidente, il conte
Vincenzo Massari, il cavaliere Giovanni Battista Boldrini, il conte Pier
Gentile Varano, gli avvocati Ippolito Leati e Antonio Delfini, gli altri
componenti e Gaetano Recchi il segretario. Il governo provvisorio che si
formò a Ferrara fu composto principalmente
dall’élite locale, borghese e aristocratica, di orientamento liberale
moderato, nella quale l’elemento carbonaro, pur non essendo escluso,
fu “relegato” a una funzione operativa. Fu questo il caso di Giuseppe
Delfini, protagonista della "vendita" ferrarese nel periodo della
Restaurazione, che divenne capo della polizia. Gli strati più umili della
popolazione furono invece confinati a un ruolo marginale: l’azione dei

18
nuovi gruppi dirigenti non coinvolse né la fascia più estesa della
popolazione, i contadini, né i meno numerosi piccoli produttori cittadini.
A Ferrara, come nelle altre province settentrionali dello Stato della
Chiesa, dunque, gran parte della nobiltà e della borghesia locale
avevano aderito apertamente alla “rivoluzione” partita da Modena. I ceti
meno abbienti, soprattutto quelli artigianali si mostrarono tuttavia
favorevoli a questo nuovo stato di cose mentre le masse contadine, pur
non prendendo parte attiva ai moti, non risposero all’invito del governo
papale di insorgere contro i nuovi governanti, dietro pretesto dello
spauracchio dell’introduzione della coscrizione militare.
Tra i primi provvedimenti presi dal nuovo governo vi fu l’abolizione della
tassa di focatico e la cacciata dal territorio legatizio dei Gesuiti: sul loro
convento fu innalzata la bandiera italiana e venne destinato alla Guardia
Nazionale. Si trattava di misure concepite allo scopo di prevenire e
scongiurare i disordini e lo scontento popolare. In effetti, a eccezione di
un tumulto originato il 20 febbraio per il prezzo del pane, peraltro subito
sedato, il mese rivoluzionario trascorse senza rappresaglie.
Contemporaneamente le diverse province insorte inviavano i propri
rappresentanti a Bologna, dove il 26 febbraio si riunivano in
un’assemblea costituente, che il 4 marzo successivo stilava una
Costituzione delle Province Unite. In rappresentanza di Ferrara per il
potere legislativo figurava l’avvocato Antonio Delfini, già membro del
governo provvisorio ferrarese. Il 6 marzo, tuttavia, giunsero a Ferrara le
truppe austriache che occuparono la città. Il maresciallo Frimont, capo
dell’esercito austriaco, rendeva noto ai cittadini che egli prendeva
possesso della città per conto del papa, dichiarando al contempo
decaduto il governo provvisorio. Nello stesso tempo, nominava quali
rappresentati del governo pontificio a Ferrara il barone Flaminio
Baratelli, il conte Camillo Trotti e il conte Girolamo Crispi. Alcuni di
coloro che avevano preso parte al governo provvisorio riuscirono a
fuggire, altri furono messi agli arresti domiciliari in attesa di disposizioni
ulteriori. Altri ancora scelsero l’esilio dal quale non fecero più ritorno. Il
21 marzo infine, gli austriaci ristabilirono anche a Bologna l’autorità
papale, soffocando così l’ondata rivoluzionaria dell’inverno 1831.
All’interno del territorio della Legazione ferrarese un ruolo rilevante
nell’insurrezione contro il potere pontificio fu svolto da Argenta che si
distinse per gli strenui scontri in opposizione a un nemico
numericamente superiore.
Il ritorno del governo pontificio nelle Legazioni, coadiuvato da un
massiccio intervento delle truppe austriache, suscitò un profondo
malcontento nella diplomazia francese, peraltro sorretta dalle altre
maggiori potenze europee. Si consigliò al nuovo pontefice Gregorio XVI
di concedere riforme che andassero nella direzione di una maggiore
apertura all’elemento laico nella conduzione della politica locale, per
19
attenuare il monopolio ecclesiastico delle cariche amministrative e
giudiziarie. L’ingerenza del consesso delle potenze non fu gradita al
pontefice che riportò le Legazioni alla situazione precedente. A Ferrara,
Bologna, Forlì e Ravenna fu insediato un commissario straordinario
nella persona del cardinale Giuseppe Albani, con poteri amplissimi che
prevedano il compito di ristabilire la legalità e avviare un processo di
epurazione e punizione dei responsabili delle rivolte. Tali misure
consentirono fra il 1832 e il 1836, anno in cui fu abolito il commissariato
straordinario e ricostituite le quattro Legazioni sotto la direzione di un
prelato, di ripristinare appieno il governo pontificio senza procedere alle
riforme promesse in precedenza. Lo Stato della Chiesa aveva
ripristinato l’ordine mediante il ricorso ai sanfedisti, milizia inquadrata in
reparti di Centurioni e Volontari, che affiancavano nelle azioni
repressive le truppe mercenarie svizzere e la polizia papalina.
Le ragioni della partecipazione ai moti che nel corso del 1831 tentarono
di rovesciare il governo pontificio, vanno ricercate nelle aspirazioni dei
ceti preminenti locali, aristocratici e borghesi, profondamente
insoddisfatti dalla gestione del governo pontificio e dalla situazione
socio-economica da quest’ultimo determinata. Si trattava di una
situazione di stallo forzoso, nella quale alla miseria della maggior parte
della popolazione urbana e delle campagne faceva eco la frustrazione
della borghesia e dell’aristocrazia, impedite dal monopolio ecclesiastico
della pubblica amministrazione a imprimere alla situazione ferrarese una
direzione propizia allo sviluppo dei propri interessi economici, politici e
culturali.
Bibliografia
Ferruccio Quintavalle, Un mese di rivoluzione in Ferrara: 7 febbraio-6
marzo 1831, Bologna, Zanichelli, 1900; Guido Magnoni Trotti, Renato
Sitti, La vicenda dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di Luciano
Chiappini, Ferrara, Sate, 1970; Umberto Marcelli, Le vicende politiche
dalla Restaurazione alle annessioni, in Storia dell’Emilia Romagna, vol.
3, a cura di Aldo Berselli, Bologna, University Press Bologna, 1980, pp.
67-126; Luigi Davide Mantovani, All’ombra della fortezza. La Carboneria
ferrarese fra Romagna e Veneto, in La nascita della nazione. La
Carboneria: intrecci veneti, nazionali e internazionali, a cura di
Giampietro Berti, Franco Della Peruta, Atti del 26° Convegno di Studi
Storici (Rovigo, Crespino, Fratta Polesine, 8-9-10 novembre 2002),
Rovigo, Minelliana, 2004, pp. 253-258.

20
5 - 1848-1849

I rivolgimenti politici che agitarono la penisola italiana nel corso del


1848-1849 furono preceduti da un cosiddetto "biennio riformista" che
coinvolse in larga parte anche lo Stato della Chiesa e dunque Ferrara.
L’elezione a pontefice di Giovanni Maria Mastai Ferretti con il nome di
Pio IX, il 16 giugno del 1846, fece nascere negli ambienti intellettuali
italiani la speranza di un cambiamento: il nuovo papa concesse nel
territorio dello Stato della Chiesa una moderata libertà di stampa, istituì
la Guardia Civica e la Consulta laica di Stato. Fu convinzione in quei
pochi anni che precedettero lo scoppio delle rivoluzioni del 1848 che Pio
IX fosse l’iniziatore di una nuova era per l’Italia.
Il 17 luglio 1847, in risposta ai disordini che opponevano sanfedisti a
liberali insanguinando la Romagna, la città di Ferrara fu occupata da un
contingente dell’esercito austriaco (composto da 800 croati e 60
ungheresi a cavallo, provvisti anche di 3 cannoni), che si installò nelle
due caserme di San Benedetto e San Domenico. Senza precedenti
accordi, gli austriaci estendevano di fatto all’intera città il presidio
militare dalla fortezza che occupavano in ottemperanza agli articoli del
Congresso di Vienna, suscitando la reazione del pontificio cardinale
Ciacchi e un vivo malcontento anche nelle altre città legatizie. La
reazione dello stesso Pio IX, risoluto a condannare il colpo di mano
austriaco, contribuì ad alimentare il mito del pontefice riformista tanto
che le province si riempirono delle grida esultanti di “Viva Pio IX”.

21
In apertura del 1848 il ferrarese Gaetano Recchi fu nominato tra i
rappresentanti per Ferrara della Consulta laica, un organo consultivo del
governo pontifico aperto ai non ecclesiastici, e pochi giorni dopo, il 14
marzo, Pio IX concesse la costituzione ai suoi sudditi. A suggello di
queste riforme, il 21 marzo furono abbattuti i cancelli del ghetto,
ponendo così fine alla segregazione degli ebrei a Ferrara. Tre giorni
dopo lasciavano la città gli invisi Gesuiti. Contemporaneamente a questi
tangibili segni di cambiamento dall’alto, nel resto della Penisola e
d’Europa stavano scoppiando focolai di rivoluzione ovunque: in Sicilia,
Napoli, Milano, Venezia, Parigi e Vienna. In febbraio a Napoli era stata
concessa una costituzione, così come nel marzo successivo a Torino e
subito dopo a Firenze. I duchi di Modena e Parma nel frattempo avevano
abbandonato i loro territori e il 23 marzo lo Stato sabaudo aveva
dichiarato guerra all’Austria. Il 12 aprile partì da Ferrara un contingente
di giovani volontari armati di carabine e comandati dal conte Tancredi
Trotti Mosti, al quale fu dato il nome di Bersaglieri del Po. La milizia
ferrarese raggiunse poi quattro giorni dopo l’esercito dei volontari dello
Stato Romano comandato dal generale Ferrari. Tra la primavera e l’inizio
dell’estate del 1848 Ferrara funse da punto di raccolta dei vari
battaglioni provenienti da diverse parti d’Italia diretti oltre il Po a
combattere gli austriaci (si susseguirono gli arrivi delle Legioni Romane,
di un piccolo drappello di siciliani e di 6.000 napoletani) e, a partire da
giugno, di quelli di ritorno dal fronte. I Bersaglieri del Po fecero ritorno
in città il 16 giugno accolti da manifestazioni di giubilo. Un mese dopo,
l’esercito austriaco giunse nuovamente alle porte della città
ingiungendo al prolegato di fornire viveri alle truppe pena la messa al
sacco della città da parte dei soldati. Di fronte a una simile minaccia, il
prolegato ubbidì e gli austriaci si ritirarono oltre il Po. L’armistizio di
Salasco, firmato il 9 agosto tra il Piemonte e l’Austria, pose fine alla
guerra.
L’assassinio di Pellegrino Rossi, capo del governo pontificio (carica che
fu ricoperta subito dopo dal ferrarese mons. Muzzarelli), il 15 novembre,
e la fuga del papa a Gaeta dieci giorni dopo, non causarono disordini a
Ferrara, turbata piuttosto dall’arrivo di un battaglione composto
principalmente da bolognesi di passaggio per dirigersi in soccorso degli
insorti veneziani della Repubblica di San Marco. Nel frattempo in ottobre
era stato inaugurato a Ferrara il Circolo Nazionale (presso casa
Pavanelli in corso Giovecca) di cui fu presidente Gaetano Recchi e
vicepresidente Carlo Mayr. Insieme agli altri circoli sorti
contemporaneamente nello Stato Romano e riuniti il 13 dicembre a Forlì,
il Circolo ferrarese espresse la proposta di un governo provvisorio che
indicesse le elezioni della Costituente a suffragio universale. Il 20
dicembre la Giunta suprema di Stato ratificò questa proposta e il 21
gennaio successivo furono convocati i collegi elettorali chiamati ad

22
eleggere, per suffragio universale in proporzione al numero di abitanti, i
deputati che avrebbero formato la Costituente a Roma. Le elezioni si
tennero a Ferrara il 25 gennaio 1849, e videro una partecipazione di circa
30.000 cittadini. I quattordici deputati eletti, resi noti il 2 febbraio,
furono: Carlo Mayr, Giovanni Costabili, Gherardo Prosperi, Silvestro
Gherardi, Federico Pescantini, Luigi Caroli, Antonio Prioni, Giovanni
Cavalieri Donati, Gaetano Bagni, Giacomo Manzoni, Salvatore Anau,
Tomaso Stecchi Cavalieri, Pietro Beltrami, Carlo Grillenzoni. A seguito
della rinuncia di Giacomo Manzoni, fu nominato Giuseppe Mazzini che,
già eletto a Roma, propose come rappresentante del popolo per la
provincia di Ferrara l’argentano Gaetano Lizabe Ruffoni. In questa
nuova situazione politica la città e il territorio ferrarese dovevano
comunque fare i conti con la presenza incombente degli austriaci.
All’inizio di febbraio, una schermaglia tra alcuni soldati austriaci che
attraversavano la città per procurarsi viveri e alcuni ferraresi degenerò
nel sangue: il giovane Giacomo Sani, esponente di una facoltosa
famiglia cittadina, fu ucciso a causa di un colpo sparato dagli austriaci,
provocando così la reazione degli insorti che uccisero a loro volta tre
soldati, e ferirono un ufficiale. Dalla cittadella fu sparato qualche colpo
di cannone e in diversi punti della città furono alzate le barricate.
Seguirono poi giorni di negoziazione alla fine dei quali gli austriaci se ne
andarono a condizione che fosse versata una somma di denaro (in
seguito rimessa al papa a Gaeta), che fossero forniti viveri e consegnati
sei cittadini in ostaggio. Così gli austriaci lasciarono la città il 18
febbraio e con essi coloro che volontariamente si erano offerti come
prigionieri (il cavaliere Antonio Francesco Trotti, il marchese
Massimiliano Strozzi, il marchese Girolamo Canonici, Giuseppe
Cadolini, Ippolito Guidetti e l’avvocato Giuseppe Agnelli).
Contemporaneamente a Roma fu proclamata la Repubblica Romana (9
febbraio) alla quale, con voto di ratifica richiesto a tutte le province dai
triumviri Mazzini, Saffi e Armellini, Ferrara e i vari Comuni della
provincia aderirono tra il 30 aprile e il primo maggio. Attraverso questo
voto i Consigli comunali espressero un’adesione sentitamente
partecipata al governo repubblicano. Alcuni membri del notabilato
cittadino presero parte diretta al governo della Repubblica. Fu il caso
del marchese Giovanni Costabili, nominato dal Triumvirato membro
della Commissione amministratrice delle finanze e dell’avvocato Carlo
Mayr, già preside della provincia di Ferrara, che fu chiamato a Roma a
ricoprire l’incarico di ministro dell’Interno.
L’inizio della guerra ingaggiata dal Piemonte contro l’Austria, nel marzo
1849, ebbe da subito un esito disastroso. Dopo la disfatta di Novara (23
marzo), Carlo Alberto fu costretto a chiedere un armistizio che si rivelò
talmente oneroso da spingerlo all’abdicazione in favore del figlio Vittorio
Emanuele II. Gli austriaci giunsero a Ferrara il 6 maggio: il giorno prima

23
erano stati rilasciati i sei ostaggi fatti prigionieri a febbraio. Il 5 era
partito da Ferrara un battaglione di studenti comandato da Tommaso
Roveroni e contemporaneamente anche un gruppo di volontari agli
ordini di Enrico Francia, entrambi diretti alla volta di Roma. Tuttavia,
dapprima si fermarono a Bologna poi si diressero ad Ancona (entrambe
le città erano cinte d’assedio dagli austriaci), senza così riuscire a
raggiungere la capitale. I volontari ferraresi rientrarono pertanto a
Ferrara alla fine di giugno. Altri ferraresi, riuniti in un battaglione
denominato dell’Unione furono impegnati direttamente a Roma contro
l’esercito francese comandato dal generale Oudinot. A Ferrara l’esercito
austriaco si accampò fuori dalla porta Po. Il generale Thurn Hohenstein
domandò alla città di riconoscere il governo pontificio, ma tanto la
magistratura quanto il Consiglio comunale rifiutarono di
accondiscendere alla richiesta, mantenendosi fedeli alla repubblica.
Questa situazione si protrasse sino alla fine di maggio quando il conte
Filippo Folicaldi, delegato pontificio, assunse il governo della città in
nome del papa. Il 4 luglio fu sciolto il Consiglio comunale ed eletta una
commissione amministrativa di cui fu nominato presidente Eugenio
Righini. Intanto a Roma, il 1° luglio, di fronte ad una impossibile
resistenza contro l’armata francese, la Costituente aveva dovuto
capitolare. L’indomani Giuseppe Garibaldi raccolse un gruppo di strenui
volontari (4.000 uomini) per continuare la lotta dirigendosi verso l’Italia
centrale. Quando giunse in Romagna, venute meno le speranze di una
sollevazione delle province attraversate, la compagnia si sciolse e l’eroe
dei Due Mondi, recuperati alcuni vascelli a Cesenatico, si imbarcò con
pochi resistenti alla volta di Venezia per andare in soccorso della
repubblica. Intercettato dagli austriaci, Garibaldi, accompagnato dalla
moglie Anita, dovette sbarcare forzatamente a Magnavacca il 3 agosto.
Dopo aver vagato due giorni, fu aiutato dal patriota comacchiese
Gioacchino Bonnet che, incurante delle minacce degli austriaci a
chiunque prestasse aiuto ai garibaldini, fornì un riparo ai fuggitivi e
prestò gli ultimi soccorsi ad Anita, incinta e ormai stremata dalla marcia
forzata a cui era stata costretta dopo la fuga da Roma.
Gli avvenimenti che si susseguirono nel corso del 1848 e 1849 videro a
Ferrara una partecipazione popolare più larga rispetto ai moti
insurrezionali precedenti, come dimostrano l’episodio dell’inizio di
febbraio 1849, e la diffusione di idee fautrici di una partecipazione più
ampia della politica, attestata dalle pagine del periodico repubblicano
ferrarese «La Campana democratica del Lunedì».
Bibliografia
Dino Pesci, Statistica del Comune di Ferrara compilata sopra documenti
ufficiali. Con aggiunta di cenni storici intorno a Ferrara, Ferrara, Tipogra
fia Domenico Taddei, 1869; Guido Magnoni Trotti, Renato Sitti, La vicend

24
a dell’Unità d’Italia a Ferrara, prefazione di Luciano Chiappini, Ferrara, S
ate, 1970; Luigi Davide Mantovani, Le elezioni per la Costituente romana
a Ferrara nel gennaio del 1849, in Memoria e attualità dell’epopea garibal
dina: atti e memorie del 150° anniversario della Trafila garibaldina e della
Repubblica Romana, a cura
di Sauro Mattarelli e Claudia Foschini, Ravenna, Longo, 2002, pp. 65-
98; Gioacchino Bonnet, Lo sbarco di Garibaldi a Magnavacca: episodio
storico del 1849, [ristampa dell’edizione del 1887], Ferrara, Centro Serviz
i per il Volontariato, 2009;
Luciano Maragna, Ferrara e la Repubblica Romana. 1849: la ribellione, gl
i ostaggi, i protagonisti nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Ferrara,
ed. a cura dell’autore, 2010.

25
6 - Età del Risorgimento (1850-1870)

Il periodo che seguì la caduta della Repubblica romana fu dominato


dalla figura del conte Filippo Folicaldi che dalla fine del maggio 1849
sino al luglio del 1856 ricoprì la carica di delegato del governo pontificio.
Il governo del Folicaldi fu caratterizzato da una dura politica reazionaria
diretta a soffocare, grazie alla congiunta azione repressiva austriaca,
quanto rimaneva dei movimenti del ’48-’49. Sulla base delle direttive del
governo di Roma, fu istituito a Ferrara un Consiglio di Censura che
vigilasse sulle opinioni e sulla condotta dei funzionari, ufficiali e
magistrati municipali. Folicaldi penò tuttavia non poco a reperire i tre
membri di cui si doveva comporre il Consiglio, a causa del rifiuto
reiterato di coloro ai quali veniva via via proposta la carica. Nell’aprile
del 1851 il delegato pontificio diede ordine ai presidenti della Società del
Casino di espellere i membri di religione ebraica, accolti nel 1848,
secondo un manifesto antisemitismo che riteneva indecorosa
l’associazione congiunta dei cattolici con gli ebrei. Fu inoltre consentito
agli austriaci di innalzare lo stemma imperiale sul portone della casa in
cui risiedeva il console austriaco (in corso Giovecca) in riparazione allo
sfregio inferto dalla popolazione allo stemma la sera del 2 novembre
1848. La presenza austriaca, venuta nel frattempo meno a Comacchio,

26
ma rimasta salda in città, non mancò nuovamente di essere all’origine di
episodi di abusi e crudeltà, il più grave dei quali si verificò tra il 1852-53.
A partire dal luglio del 1852 sino al dicembre dello stesso anno, gli
austriaci, coadiuvati dalla gendarmeria pontificia, procedettero a una
serie di perquisizioni che portarono all’arresto di quarantaquattro
ferraresi. Si trattava di un’operazione volta a smantellare la rete di una
presunta cospirazione contro il governo austro-pontificio, sospettata di
agire anche a Ferrara. Agli arresti seguì il processo che si protrasse
sino al gennaio del 1853 durante il quale dodici imputati furono
sottoposti a torture al fine di estorcere loro confessioni. La rivolta
scoppiata a Milano il 6 febbraio inasprì l’atteggiamento degli austriaci
nei confronti dei reclusi e di fatto il processo in corso a Ferrara volle
suonare come un monito per coloro che intendessero tramare contro il
governo. Il 15 marzo fu letta la sentenza che colpiva i dodici imputati
detenuti nella Fortezza: dieci di essi furono condannati a morte in
quanto rei di alto tradimento, i rimanenti due, Stefano Botari e Gaetano
Degiuli, rispettivamente a quindici anni di lavori forzati e a due di
carcere. Tuttavia sette dei condannati a morte (Andrea Franchi-Bononi,
Giovanni Pareschi, Gaetano Ungarelli, Aristide De Luca, Francesco
Gandini, Vincenzo Barlaam, Camillo Mazza), furono graziati e la pena fu
commutata in lavori forzati (che scontarono ad Ancona). A Giacomo
Succi, Domenico Malagutti e Luigi Parmeggiani, invece, la sentenza di
morte fu confermata mediante fucilazione eseguita senza dilazione la
mattina del giorno dopo (16 marzo). Il governo pontificio non solo non
oppose alcuna obiezione a tale condanna e prima ancora a un processo,
manifestamente iniquo, che portava giudizio sui propri sudditi, ma si
assunse altresì l’onere delle spese legali e avallò il protrarsi di una
azione repressiva di polizia che continuò per tutto il 1853. Solamente il
giorno successivo alla fucilazione dei tre sfortunati patrioti, valga ad
esempio, fu arrestato uno studente universitario con l’accusa di aver
consigliato ad alcuni compagni di non assistere alle lezioni il giorno
dell’esecuzione della sentenza. Alla difficile situazione politica, tra il
1853 e il 1854 si aggiunsero un peggioramento climatico che durò per
circa nove mesi, la crisi annonaria e infine la carestia. A quest’ultimo
flagello seguì lo scoppio in città e in tutta la provincia di un’epidemia di
colera che imperversò durante tutto il 1855.
All’inizio di luglio 1856 il Folicaldi lasciò l’incarico di delegato pontificio,
mettendo fine a sei anni di odiato governo sulla città e provincia di
Ferrara. La partenza di Folicaldi era una conseguenza di quanto era
stato affrontato nel corso del Congresso che si era tenuto a Parigi dal
febbraio all’aprile dello stesso anno per siglare gli accordi di pace dopo
la fine della guerra di Crimea. In quell’occasione Francia e Inghilterra
avevano accolto le rimostranze di Cavour, rappresentante del governo
sabaudo, sulla necessità di un ammorbidimento e rinnovamento del

27
governo pontificio sulle Legazioni e sull’urgenza del ritiro del presidio
austriaco dalle province di confine. Il nuovo delegato, mons. Pietro
Gramiccia, si mostrò decisamente più mite del suo predecessore e
quando il 10 luglio 1857 Pio IX fece visita a Ferrara, dove si trattenne
sino alla mattina del 15, il pontefice fu accolto da manifestazioni di
giubilo. Si trattava, in effetti, di una tappa del “tour” che il pontefice
aveva intrapreso dai primi di maggio allo scopo di rilanciare la propria
immagine nel territorio pontificio. In occasione dell’arrivo del papa, la
città fu parata a festa con ingenti spese per il municipio e grandissima
partecipazione di folla anche dalle vicine regioni venete. Durante il
soggiorno ferrarese impartì la benedizione a circa 3.000 operai
impegnati nell’opera di bonifica inaugurata nell’aprile precedente,
la Bonificazione piana, che avrebbe portato al prosciugamento del
fossato che circondava le mura cittadine. La messa funebre celebrata in
duomo all’inizio di gennaio del 1858 in occasione della morte del feld-
maresciallo Radetzky fu l’ultimo gesto d’ossequio agli austriaci a cui la
città si dovette prestare. Con lo scoppio della seconda guerra di
indipendenza, il 21 giugno 1859 Ferrara si liberò in maniera incruenta
del delegato pontificio e delle milizie austriache che presidiavano la
città. Dal 22 luglio al 23 ottobre Ferrara fu retta dal marchese Giovanni
Antonio Migliorati, in qualità di intendente nominato da Torino, che
avviò un processo di omogeneizzazione dell’amministrazione ferrarese
in vista dell’annessione della provincia a una realtà statuale più grande
su base piemontese. Le leggi e i regolamenti civili e di procedura furono
aboliti, sostituiti con il Codice Napoleone (civile organico e di
procedura), le funzioni amministrative e politiche furono dichiarate
incompatibili con quelle giudiziarie, venne affermata la parità dei
cittadini nei diritti civili e politici senza distinzione di culto. Fu avviato
inoltre il processo di uniformità delle imposte e di conversione della
moneta pontificia con quella di conio sardo, e adottato il sistema di pesi
e misure metrico-decimale al fine di favorire i commerci interni. Il nuovo
governo si garantì il controllo sull’istruzione, pubblica e privata, e la
tutela degli istituti di beneficenza pubblica, e adottò decreti diretti a
favorire i bisogni delle popolazioni meno abbienti, come la riduzione del
prezzo del sale e l’abolizione di imposte su molte voci di largo consumo.
Estromessi i democratici mazziniani dal processo di unificazione, a
Ferrara si imponeva in conformità con le direttive di Cavour un
orientamento politico moderato che mirava ad estromettere il più
possibile le masse dalla costruzione della nuova nazione, come
attestavano le leggi sul suffragio elettorale e la costituzione di una
Guardia Nazionale su basi censitarie. La corrente moderata che prevalse
a Ferrara, costituita dalla nobiltà locale e ricchi possidenti, si mostrò
tuttavia più incline che altrove a mantenere immutati i rapporti di potere.
Nel passaggio dalla dominazione pontificia al Regno d’Italia rimase

28
inalterata la composizione della classe dirigente insensibile alle
condizioni di miseria in cui versavano i ceti subalterni e in particolare gli
abitanti delle zone rurali. Nel corso del 1860 si intensificarono nelle
campagne ripetuti episodi di aggressioni notturne a persone isolate, e a
nulla valsero gli inviti del ministro dell’Interno delle Province dell’Emilia,
Carlo Mayr, a privilegiare una linea che mirasse a eliminare la miseria e
la mendicità, o gli appelli della stampa locale (la «Gazzetta di Ferrara»)
che, denunciando l’indigenza dei contadini e l’assenza di una legge
agraria che regolasse i rapporti tra coloni e padroni, invitava i proprietari
terrieri «a una più equa compensazione dei prodotti in ragione
dell’impiego delle forze». Si preferì, al contrario, considerare tali episodi
di violenza come fatti di ordinaria delinquenza piuttosto che scorgere in
essi i prodromi di un radicato e profondo malessere sociale. Con il
plebiscito del marzo 1860 la provincia di Ferrara fu annessa al Regno
sabaudo. Il 20 dello stesso mese, il Consiglio comunale votò un
indirizzo al re con il quale affermò fra le altre cose che «Ferrara
guardiana del reale fiume della Penisola, lieta di vederlo nascere ed
unirsi al mare sotto uno scettro solo, si contrista scorgendo alle sue
torri che grande tratto della sinistra sponda lambe le terre di fratelli
gementi in straniera schiavitù». Il periodo compreso tra l’annessione al
Regno di Sardegna e la terza guerra di indipendenza del 1866 fu infatti
contraddistinto a Ferrara da una spiccata attenzione per le sorti del
Veneto. L’emigrazione proveniente dall’Oltrepò andò a rimpolpare a
Ferrara le fila di coloro che sostenevano, anche attraverso le pagine del
quotidiano democratico «La Sentinella del Po», l’urgenza di un
intervento volto a liberare il territorio italiano dalla dominazione
austriaca. Nel 1865 fu fondata la Società Democratica Unitaria Ferrarese,
il cui comitato promotore, composto da Francesco Aventi, Giovanni
Gattelli e Gaetano Dondi, conferì la presidenza onoraria a Garibaldi, a
testimonianza di un dissenso nei confronti della politica prudente e
dipendente dalla Francia del presidente del Consiglio La Marmora.
Quando nel giugno del 1866 scoppiò la guerra tra Austria e Prussia, già
da mesi a Ferrara la Società democratica aveva creato un comitato per
l’arruolamento che vide l’adesione di oltre 700 volontari (in prevalenza
artigiani, domestici, esercenti) solo per il circondario di
Ferrara. Nell’organizzazione delle operazioni belliche, il Ferrarese fu
attraversato da almeno duecentomila uomini diretti al fronte veneto,
mentre la città divenne per breve tempo il quartier generale delle forze
militari italiane, tanto che il 14 luglio 1866 i generali La Marmora e
Cialdini e il governo presieduto da Ricasoli vi tennero un Consiglio di
guerra alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La partecipazione
volontaria “popolare” alla guerra che portò all’unione del Veneto al
Regno d’Italia fu l’espressione a Ferrara di una partecipazione politica
che aveva allargato le proprie basi ma che restava ancora
sostanzialmente urbana, rimanendone esclusi i contadini, analfabeti,

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che avevano preso parte agli eventi bellici come soldati di leva. Essa
rappresentò tuttavia il momento di inizio di un lento e osteggiato
cambiamento delle dinamiche politiche e sociali ferraresi che si sarebbe
prodotto compiutamente nel corso dei decenni successivi.
Bibliografia
Fasti legislativi e parlamentari delle rivoluzioni italiane nel secolo XIX, a
cura di Emanuele Bollati, vol. II, 1859-61, parte I, Lombardia-Emilia,
Milano, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1865; Andrea Ostoja, Il 1859 a
Ferrara, in «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di
storia patria, n.s., 21, 1960, pp. 7-52; Id., Ferrara nel 1861, «Atti e
Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s.,
23, 1961; Aldo Berselli, Primi decenni dopo l’Unità, in Storia dell’Emilia
Romagna, vol. 3, a cura di Id., Bologna, University Press Bologna, 1980,
pp. 257-305; Luigi Davide Mantovani, Garibaldini ferraresi e la guerra del
Veneto nel 1866, in Garibaldi e il Polesine tra Alberto Mario, Jessie White
e Giosuè Carducci, a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Atti del 30° convegno di
studi storici (Lendinara e Rovigo, 26-27 ottobre 2007), Rovigo,
Minelliana, 2009, pp. 189-218.

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7 - 1859-1861

Il biennio compreso tra il 1859 e il 1861, tra la seconda guerra di


indipendenza e l’adesione al Regno d’Italia, rappresentò per Ferrara e il
suo territorio un momento di cambiamento epocale. Cessavano la
secolare dominazione pontificia e il presidio militare austriaco sulla città
e cominciava una nuova era all’interno di una realtà statuale all’insegna
dell’unità nazionale. La storia di Ferrara e della sua provincia divenne
parte, come già era successo durante il triennio rivoluzionario e
il periodo napoleonico, di un processo storico che coinvolgeva l’intera
penisola italiana.
Fu caratteristica comune ai diversi Stati, nel periodo che precedette lo
scoppio della guerra, la diminuzione di fatto dei controlli e della
vigilanza da parte dei governi locali. A Ferrara, dopo i terribili anni della
delegazione Folicaldi, l’autorità pontificia di fatto non impedì
l’organizzazione di una rete politica che aveva in Piemonte il suo centro
nevralgico. Sul modello della Società Nazionale Italiana, fondata nel
1856 originariamente da Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in
seguito afferente allo stesso Cavour, il 18 gennaio 1859 anche a Ferrara
nacque un comitato locale di tale società, grazie alla mediazione
dell’ingegnere Eugenio Canevazzi. Essa si compose di tre membri: il
conte Francesco Aventi, i dottori Giovanni Gattelli e Dino Pesci,
coadiuvati principalmente da Gaetano Dondi, Luigi Guarnieri, Guido
Furlani e Giovanni Perelli. Obiettivo di questo comitato fu quello di
raccogliere le forze patriottiche al fine di promuovere un’azione unitaria
e indipendentista sotto l’egida della monarchia sabauda. Il comitato
ferrarese, dipendente da quello di Bologna, si proponeva la creazione di
una forza armata locale, la raccolta di volontari diretti in Piemonte, la
promozione di una propaganda per indurre alla diserzione i soldati che

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militavano tra le file dell’esercito austriaco e pontificio. Era
preoccupazione inoltre del comitato annodare rapporti con i liberali del
Veneto soprattutto per facilitarne la migrazione in Piemonte.
Il 23 aprile 1859 l’Austria pose fine alle esitazioni e intimò al governo
piemontese di cessare le intenzioni bellicose del suo esercito e di
procedere allo scioglimento del corpo di volontari organizzato da
Garibaldi, i Cacciatori delle Alpi. Il governo di Torino rifiutò una simile
intimidazione e ricevette l’aperto aiuto francese, fino a quel momento
incerto. Iniziava così la seconda guerra d’indipendenza nazionale che,
come è noto, volse rapidamente a favore delle forze alleate franco-
piemontesi. Dopo la vittoria di Magenta, il 4 giugno 1859, il 12
successivo Bologna si liberò della dominazione pontificia tanto che il
cardinale legato Milesi si trasferì a Ferrara, dove si trattenne sino al 19
giugno, rinnovando le proteste contro la violazione dei diritti della Santa
Sede. La liberazione di Ferrara giunse il 21 giugno quando la
guarnigione austriaca partì dalla città recandosi oltre il Po. Lo stesso
giorno fu deliberato che fosse inviata una commissione composta da
quattro cittadini (Francesco Aventi, Giovanni Gattelli, Giuseppe Bagni,
Ippolito Guidetti) al delegato mons. Pietro Gramiccia affinché si
dimettesse dal suo incarico e lasciasse la sua residenza. Il delegato
pontificio non oppose di fatto alcuna resistenza, avendo già dichiarato
di cedere alle pressioni della forza e lo stesso 21 giugno il popolo
abbatté gli stemmi pontifici, in precedenza tante volte rimossi. Anche la
partenza dei contingenti militari austriaci avvenne senza rappresaglie
popolari. Era questo il risultato dell’applicazione pedissequa delle
direttive che giungevano dal Piemonte affinché l’ordine interno fosse
mantenuto e fossero frenate spinte repubblicane e movimenti che
coinvolgessero le masse popolari. Ferrara, al pari delle altre Legazioni
pontificie, si trovava in una posizione estremamente delicata, rispetto ad
esempio agli ex Ducati emiliani sprovvisti di appoggi diplomatici. Le
Legazioni, al contrario, risultavano passibili di un intervento da parte
degli Stati cattolici, dell’Austria in primis, ma anche, potenzialmente
della stessa Francia.
Dal 22 giugno al 23 luglio 1859 la città fu di fatto retta da una giunta
provvisoria provinciale i cui membri furono i conti Gherardo Prosperi,
Cosimo Masi, Francesco Aventi, il marchese Giovanni Costabili e il
dottor Ippolito Guidetti. Preoccupazione principale della Giunta fu di
garantire l’ordine pubblico attraverso la creazione di un battaglione di
volontari, il nucleo della Guardia Nazionale, posto a protezione della
città. Tutti i membri di questa “pentarchia” avevano maturato esperienze
politiche nel corso degli anni precedenti, specie durante il 1848-49,
come Gherardo Prosperi, che fu uno dei deputati della Repubblica
romana del 1849, o Ippolito Guidetti, che si era offerto ostaggio
volontario degli austriaci nello stesso anno. Il 7 luglio giunse a Ferrara
32
Giuseppe La Farina, in qualità di commissario per le province venete,
inviato da Cavour affinché desse inizio alle operazioni militari nel
Veneto, dopo le trionfali vittorie franco-piemontesi contro gli austriaci il
24 giugno a Solferino e San Martino. La Farina trovò una città
fondamentalmente inerme, alla mercé di possibili attacchi austriaci,
sprovvista di forze militari capaci almeno di sorvegliare il confine
settentrionale. La stessa odiatissima fortezza risultava inutilizzabile
poiché subito dopo la partenza degli austriaci ne era stata avviata
l’opera di smantellamento, terminata solo un anno dopo. Richiamato La
Farina in Piemonte il 16 luglio, dopo che si era diffusa la notizia della
firma di un armistizio fra Francia e Austria, il 22 dello stesso mese
giunse in qualità di regio commissario straordinario per la provincia di
Ferrara il marchese Giovanni Antonio Migliorati, già ambasciatore per il
Regno di Sardegna nei Paesi Bassi. In quei giorni estivi il destino della
città era tuttavia ancora incerto. L’11 luglio Napoleone III aveva firmato
l’armistizio di Villafranca e il ritorno di Ferrara sotto l’autorità pontificia e
il presidio austriaco potevano essere ancora possibili. Forse fu la
complessità della posizione in cui si trovava l’ex Legazione dello Stato
della Chiesa a spingere il governo sabaudo a inviare per Ferrara un
diplomatico di professione, pronto, all’occorrenza, ad affrontare una
situazione piuttosto delicata. Malgrado i timori, tuttavia, l’opera di
organizzazione dei territori emiliani continuò senza posa. Alla fine di
luglio il commissario Migliorati diede avvio alla prima leva obbligatoria
per Ferrara, completando l’opera di formazione di una Guardia
Nazionale cominciata dalla Giunta provvisoria; rivolse alla cittadinanza
l’appello per la contribuzione al prestito nazionale volontario per la
causa nazionale; promosse molti altri decreti che di fatto smantellavano
l’ordinamento precedente. All’inizio di settembre si riunirono
nell’assemblea delle Romagne a Bologna i rappresentanti di Bologna,
Ferrara, Ravenna e Forlì, che stilarono e approvarono la dichiarazione di
annessione al Regno di Sardegna, accolta poco dopo da Vittorio
Emanuele II. Negli stessi giorni, l’8 settembre, passò per Ferrara, accolto
trionfalmente, il generale Garibaldi, diretto verso l’Italia centrale al fine
di costituire una lega militare in difesa della libertà e indipendenza dei
territori toscani e in preparazione della sollevazione delle Marche.
L’Assemblea delle Romagne proclamò inoltre Luigi Carlo Farini dittatore
dell’Emilia, cui spettò il compito di governare le province emiliano-
romagnole preparandole all’unificazione formale con il Regno sabaudo.
Questa avvenne l’11 e 12 marzo con il plebiscito che chiamò le province
della Romagna a decidere sull’annessione al regno di Savoia. A Ferrara
l’esito, scontato, sancì il passaggio della città e della sua provincia sotto
la corona sabauda, con 48.999 voti favorevoli su 49.220 votanti (ma su di
un totale di 219.687 abitanti). Restava la preoccupazione unita alla
speranza per i confini settentrionali ancora in mano austriaca. La
pressoché contemporanea impresa garibaldina in Sicilia ebbe a Ferrara

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un’eco e una partecipazione sentite. La campagna di raccolta fondi per
l’acquisto di «un milione di fucili» a sostegno dell’impresa di Garibaldi
terminò in aprile con un somma raccolta di 24.210 lire, mentre in giugno
il Consiglio comunale votò all’unanimità l’offerta di 5.000 lire destinata
alla Sicilia per l’indipendenza e l’unificazione. Il 4 agosto e per altri due
giorni partirono da Ferrara in totale quattro compagnie di volontari
diretti verso il Regno delle Due Sicilie. Ma già il 19 agosto, il governo
proibiva l’arruolamento per la Sicilia, nutrendo le speranze di realizzare
una spedizione nelle Marche.
In questo periodo di formazione della nuova compagine statale,
numerose furono le occasioni in cui vennero indette elezioni politiche e
amministrative. La partecipazione degli elettori non fu mai
particolarmente consistente, e le elezioni a suffragio ristretto, sulla base
della legge sabauda del 20 novembre 1859 che riformava la legge
elettorale del 17 marzo 1848, impegnarono una parte esigua della
popolazione. In previsione delle consultazioni che avrebbero designato i
deputati ferraresi da inviare nel Parlamento di Torino fu intensificata
l’opera di propaganda per garantire una maggiore affluenza alle urne.
Nelle elezioni che si tennero alla fine del gennaio 1861 per l’VIII
Legislatura, la prima del Regno d’Italia, risultarono eletti per Ferrara
l’avvocato Francesco Mayr con 300 voti e il professore Carlo Grillenzoni
con 295 voti. Tra i primi impegni che occuparono attivamente i deputati
ferraresi nelle sedute parlamentari vi fu l’annosa questione della
ridefinizione dei confini della provincia di Ferrara stabilita dal decreto
dittatoriale Farini del 27 dicembre 1859. Carlo Grillenzoni si fece
portavoce alla Camera di una petizione della Deputazione provinciale di
Ferrara, che invocava la reintegrazione dei Comuni perduti (in
particolare i sette della cosiddetta Romagnola passati a Ravenna) per
ragioni storiche, economiche e di prestigio. La provincia di Ferrara
entrava dunque a fare parte del Regno d’Italia con un territorio meno
esteso rispetto a quello della Legazione e una popolazione
sensibilmente ridotta (da 244.524 a 199.158 abitanti, secondo i dati
riportati dal Pesci).
Bibliografia
Dino Pesci, Statistica del Comune di Ferrara compilata sopra documenti
ufficiali. Con aggiunta di cenni storici intorno a Ferrara, Ferrara,
Tipografia Domenico Taddei, 1870; Andrea Ostoja, Il 1859 a Ferrara, in
«Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria,
n.s., 21, 1960, pp. 7-52; Andrea Ostoja, Ferrara nel 1861, «Atti e
Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, n.s.,
23, 1961; Umberto Marcelli, Le vicende politiche dalla Restaurazione alle
annessioni, in Storia dell’Emilia Romagna, vol. 3, a cura di Aldo Berselli,
Bologna, University Press Bologna, 1980, pp. 67-126.

34
8 - Età postunitaria (1871-1914)

Il periodo postunitario fu un'epoca di grandi trasformazioni che


investirono il territorio ferrarese e ridefinirono le dinamiche politiche e
sociali della provincia. Si trattò di collegare Ferrara al resto del paese
con la costruzione della rete ferroviaria (avviata nel decennio
precedente), di insediare il nuovo Stato in provincia per mezzo di un
apparato amministrativo fortemente centralizzato, di formare una classe
di rappresentanza politica attraverso le consultazioni elettorali. Il
capoluogo vide nel corso dei decenni consistenti cambiamenti che
ridisegnarono il volto della città grazie ad esempio all'interramento di
canali, alla costruzione dell'acquedotto, alla nascita di trasporti pubblici
urbani, inizialmente a cavallo poi elettrici, all'edificazione a partire
dall'inizio del Novecento di nuovi quartieri popolari. Un lento processo
di scolarizzazione obbligatoria e pubblica fu avviato altresì nella
provincia di Ferrara (a partire dalla legge Coppino del 1877) che pativa
come il resto d'Italia un tasso di analfabetismo altissimo, specialmente
nelle zone rurali.
In apertura degli anni Settanta, l'attenzione del nuovo Stato italiano fu
drammaticamente portata sulla provincia di Ferrara a causa delle
terribili inondazioni del Po del 1872, che nel mese di maggio ruppe a
Guarda ferrarese, e in ottobre sommerse il territorio nei pressi di
35
Bondeno. Le rotte causarono danni ingentissimi a persone e cose e
provocarono un'epidemia di vaiolo presso la popolazione rimasta senza
casa e costretta a vivere per mesi sugli argini o in abitazioni di fortuna.
Le rotte del 1872 innescarono, tuttavia, una mobilitazione di solidarietà
che permise di raccogliere aiuti non solamente a livello nazionale ma
anche internazionale.
Nel decennio 1870-1880, un impulso al cambiamento fu dettato
dall'opera di bonifica di ampia parte del terre del Ferrarese ricoperte
dalle acque vallive. Il basso prezzo dei terreni, più basso rispetto alle
province vicine, consentì a investitori britannici (come la società Land
Reclamation Limited) e a banchieri torinesi di acquistare a cifre irrisorie
dai Comuni e dalla antica nobiltà ferrarese, oltre 20.000 ettari di terre
paludose (Polesine ferrarese). Sulle nuove terre bonificate venne avviata
una trasformazione fondiaria ad opera di grandi imprese fra cui la
Società Bonifica Terreni Ferraresi. Nacquero così aziende capitalistiche
votate alla produzione intensiva di cereali che richiamarono nella
provincia una grande quantità di manovalanza bracciantile. Grazie
all'ampliamento delle terre coltivabili la produzione agricola ferrarese
conobbe, dall'Unità sino al 1914, una crescita più che raddoppiata,
poiché alla coltivazione del frumento si affiancò anche quella della
barbabietola da zucchero e della canapa dando avvio inoltre allo
sviluppo di un'industria della lavorazione dei prodotti agricoli.
L'aumento delle terre coltivabili fu un fattore di crescita demografica
importante nella provincia di Ferrara, aumento che si registrò in maniera
significativa proprio nelle zone bonificate.
L'afflusso e la presenza nel ferrarese di lavoratori stagionali ridisegnò la
composizione della popolazione rendendo ormai impossibile per la
politica locale e nazionale prescindere dalle questioni sociali e dal
conflitto che presto si sarebbe scatenato tra le classi padronali e quelle
lavoratrici. Il nuovo sistema di conduzione capitalistica della terra portò
inoltre alla trasformazione delle preesistenti forme di mezzadria e
boaria, che cancellò la suddivisione dei terreni in poderi, a vantaggio
dell'utilizzazione di un nuovo tipo di mano d'opera tradizionalmente non
legata alla terra, composta da "avventizi" e "obbligati". Nondimeno lo
sviluppo in senso capitalistico dell'agricoltura rimase un "affare" di
pochi, dei proprietari terrieri ferraresi (vecchi e nuovi) in antagonismo
con le grandi società anonime italiane o la svizzera Société Vaudoise
d’Exploitations Agricoles di Losanna, i cui interessi economici finivano
per determinare e condizionare la vita politica locale e gli esiti dei
risultati elettorali.
Le consultazioni di voto che si tennero nel corso degli anni Settanta
(1870, 1874, 1876), con Collegio uninominale, sebbene spesso boicottate
dall'elettorato cattolico, furono caratterizzate nella provincia di Ferrara

36
dalla contrapposizione tra Destra (Francesco Borgatti, Giacomo
Lovatelli, Antonio Mangilli) e Sinistra storica (Giovanni Gattelli, Federico
Seismit Doda, che sarà ministro delle Finanze nel governo Cairoli,
Giuseppe Carcassi). Proprio la prevalenza elettorale di quest'ultima nelle
elezioni del 1876 determinò a Ferrara la crescita del partito democratico-
radicale il cui maggiore esponente fu per molti anni Severino Sani. I
democratici-radicali, eredi dei patrioti ferraresi del periodo
risorgimentale, si distinsero nella difesa delle libertà costituzionali e in
una maggiore sensibilità nei confronti delle condizioni delle classi
subalterne di fronte ai proprietari terrieri, raccogliendo pertanto
consensi all'interno della borghesia professionale urbana e avvalendosi
in maniera efficace della stampa, attraverso giornali come «La Rivista»,
per diffondere le proprie idee. Le battaglie progressiste dei democratici
furono tuttavia offuscate dall'arrivismo politico di Sani che provocò, nel
corso degli anni Ottanta-Novanta, dissidi interni al partito. Interessato
prevalentemente alla propria longevità politica (fu eletto deputato per
ben sette legislature), Sani giunse persino a cercare l'alleanza
dei cattolici per arginare la crescita dei socialisti. A partire dalle elezioni
del 1889, la sinistra radicale del partito si staccò da Sani ma non riuscì
ad evitare una “deriva” in senso moderato-conservatore nel corso del
tempo.
In questa situazione tendente alla staticità, il cammino che portò
all'affermazione in campo politico e in seguito al trionfo elettorale
dei socialisti nelle elezioni del 1913 (quando si votò con suffragio
universale maschile) fu lento e per lungo tempo “schiacciato” dallo
scontro tra moderati e democratici-radicali. Il socialismo, rispetto al
resto del territorio italiano, tardò ad imporsi a Ferrara per la lentezza con
cui penetrò nel proletariato agricolo una vera e propria coscienza di
classe. Mancava inoltre nel capoluogo un consistente proletariato
urbano a causa della vocazione agricola della provincia e di una crescita
industriale limitata, legata in massima parte all'agricoltura come
attestano lo sviluppo della produzione tessile e dello zucchero derivati
dalla coltivazione della canapa e della barbabietola.
I Fasci siciliani e i moti in Lunigiana dei primi anni Novanta
determinarono il ritorno di Crispi a capo del governo, decretando
peraltro lo stato d'assedio per le zone insorte e leggi eccezionali che
obbligavano allo scioglimento del partito socialista. In conseguenza di
questa dura politica repressiva che restrinse peraltro la libertà di
associazione, a Ferrara furono arrestati i dirigenti della Lega socialista
locale che avevano partecipato al congresso nazionale del PSI di Reggio
Emilia nel 1893, dichiarato sovversivo. A questo arresto seguì il
processo, nell'autunno del 1894, in cui i sette imputati ferraresi furono
condannati a cinque e sei mesi di carcere e a una pena pecuniaria. Fu
solamente quando si esaurirono le repressioni governative che il partito
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socialista cominciò ad ottenere dei significativi risultati elettorali; nelle
elezioni che si svolsero nel 1897, infatti, fu presente in tutti i collegi e
raggiunse il 22,1%.
Proprio a partire dal 1897 cominciò un'ondata di scioperi imponente
nelle campagne ferraresi che si protrasse ancora sino al biennio 1901-
1902 nonostante le dure repressioni e portò all'astensione dal lavoro
decine di migliaia di braccianti e boari. Gli scioperi cominciati nel 1897
posero in maniera improrogabile la necessità di affrontare la questione
agraria ovvero la disoccupazione cronica stagionale dei braccianti,
facendo apparire come gli antichi rapporti di boaria tra padroni e coloni
fossero ormai ampiamente superati, soppiantati sempre più da un nuovi
rapporti di salariato puro.
Fu in questa situazione di forte tensione che il movimento cattolico
ferrarese, che faceva riferimento a livello nazionale all'Opera dei
Congressi, maturò la necessità di un intervento concreto nel tessuto
sociale volto ad arginare la penetrazione delle idee socialiste presso il
proletariato locale. Il periodico settimanale ferrarese «La Domenica
dell'Operaio», fondato del 1895, si fece portavoce di una dottrina sociale
cristiana che a una denuncia delle condizioni di miseria e di
sfruttamento a cui erano costrette le classi lavoratrici nelle campagne,
univa una preoccupazione di tipo morale diretta a scongiurare
«l'indifferentismo religioso e la scristianizzazione del popolo». Le Unioni
Professionali del Lavoro semplici (quelle “miste” non attecchirono mai
nel Ferrarese) ideate dall'Opera dei Congressi a partire dal 1901,
rappresentarono il tentativo cattolico di creare un dialogo contrattuale
tra lavoratori e padroni, che partendo dall'assunto della naturale
diseguaglianza delle classi, si proponeva di attenuare il conflitto tra
esse. Le Unioni Professionali ebbero una certa diffusione in buona parte
della provincia ma gli esiti rimasero tuttavia modesti, forse anche per la
mancanza di una cultura economica da parte cattolica.
Nei primo decennio del Novecento che precedette lo scoppio della prima
guerra mondiale, la vita politica della provincia di Ferrara fu
caratterizzata dalla progressiva affermazione dei socialisti che si
imposero nelle elezioni dell'ottobre del 1913, le prime a suffragio
universale maschile, sulla base della nuova legge elettorale, ottenendo il
54,4% delle preferenze e dunque tre deputati su quattro (corrispondenti
ai quattro Collegi di Cento, Comacchio, Ferrara e Portomaggiore in cui
era divisa la provincia). La città di Ferrara, tuttavia, non fu mai un
terreno di grandi vittorie per i socialisti a causa della mancanza di un
proletariato urbano a cui faceva da contrappeso una borghesia agraria
conservatrice, facile alleata dei ceti medi, mentre furono i due Collegi
orientali della provincia Comacchio e Portomaggiore, che registrarono il

38
maggior numero di Comuni “rossi”.

Bibliografia
Luigi Davide Mantovani, Le elezioni a Ferrara dall'Unità allo scrutinio
di lista, in «Ferrara. Storia, beni culturali e ambiente», 1, 1996, pp. 19-25;
Luigi Davide Mantovani, Liberali, radicali, socialisti: la battaglia delle
idee, in 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla
nascita della repubblica democratica. Contributi per una storia, a cura di
Aldo Berselli, Cento, Cooperativa Culturale Centoggi, 1992, pp. 49-60;
Sergio Dardi, Geografia elettorale del socialismo dal 1892 al 1913, ivi,
pp. 69-74; Amerigo Baruffaldi – Romeo Sgarbanti, Giuseppe Turri, Il
movimento cattolico sociale a Ferrara tra '800 e '900, Ferrara, Corbo,
1993.

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9 - Cenni statistici della provincia di Ferrara raccolti dalla Camera di commercio

"Perché il Ferrarese ha le sue prime risorse economiche nell'agricoltura, si


dovranno lasciare le altre industrie, le arti, le manifatture, il commercio, che servono
di veicolo ai frutti delle terre, che favoriscono le maggiori loro produzioni?
Le arti domandano infatti all'agricoltura le materie gregge necessarie ai principali
suoi lavori, la canapa, il lino, la seta, la lana, il cotone, che riescono di minor costo
quando non si hanno a ritirare dall'estero.
L'avanzo delle imprese manifatturiere, e commerciali si spende per lo più nella
compra dei campi, sono quindi congiunte queste industrie fra loro, da non potersi
separare senza grave danno all'agricoltura; conciossiachè ove fioriscono le arti vi
sia agiatezza nei cittadini, non sempre ove fiorisce la sola agricoltura". (p. 10)

Filippo Maria Deliliers (Melara 1797- Ferrara 1864). Studioso dell'economia estense
nel periodo della Restaurazione, diede notevoli contributi all'attività della Camera di
Commercio ferrarese, della quale fu segretario per tredici anni dal 1837. Affrontò i
più diversi aspetti della realtà cittadina con un innovativo approccio statistico; gli
attenti e scrupolosi studi, basati su una metodologia scientifica, culminarono nel
1850 con la pubblicazione dei Cenni statistici della Provnicia di Ferrara, primo
quadro completo dell'economia e della società ferraresi. Divenuto segretario della
Commissione internazionale per la libera navigazione sul Po. Fu Consigliere relatore
per tredici anni presso l'amministrazione comunale, membro della Giunta Statistica
Provinciale fino al 1862 e fondatore della Società Agraria Ferrarese. Si adoperò
inoltre per l'istituzione di luoghi di ricovero per i mendicanti e delle case d'industria,
fra le prime sorte in Italia.

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10 - Giovanni Bacci, La democrazia ferrarese dal 1882 al 1889

"«Per democartici io intendo quei principii che ci conducono al Governo del Popolo
pel Popolo, espressione di Mazzini che riassume tutto un programma, a realizzare il
quale ogni mezzo onesto è ottimo. Naturalmente i mezzi violenti non possono che
seguire l'espletazione dei pacifici.»
La Gazzetta Ferrarese alla lettura di queste parole uscì fuori a dire: «alla buon'ora!
siamo di fronte a gente che parla chiaro.»
Il programma, infatti, non faceva una piega: radicalmente evoluzionista fin dove si
può; dopo, rivoluzionario. Ed è legge storica: l'evoluzione guida i popoli
progressivamente ad un limite: più dopo, abbiamo l'esplosione che rappresenta
l'anello di congiunzione con l'evoluzione successiva. Fuori di questa legge c'è il
limbo o il mondo fantastico.
E la provincia di Ferrara come rispose al programma schiettamente radicale
della Rivista, mai mutato, mai pencolato, mai artefatto, mai inorpellato con mezze
parole o colori falsi, e condiviso e sostenuto gagliardamente dai generali e dai
capitani del partito democratico?" (p.5)

Giovanni Bacci (Belforte all'Isauro 1857 - Milano 1928) fu un politico esponente del
movimento democratico liberale, da cui ben presto si allontanò per aderire alle
posizioni socialiste. Intensa fu la sua attività giornalistica, culminata nella direzione
della Rivista di Ferrara (1882-1886), del quotidiano democratico Mentana (29 gennaio
- 23 febbraio 1887) e del radicale La Provincia di Mantova (1889 - 1907). Entrato
ufficialmente nel Partito socialista nel 1903, fu consigliere provinciale di Mantova e
Ravenna e segretario, in quest'ultima, della Camera del lavoro. Esponente del

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socialismo rivoluzionario, dal 1912 diresse l'Avanti e si affiancò a Mussolini come
direttre amministrativo dal dicembre 1912 all'ottobre 1914. Deputato parlamentare
nella XXV (1919-1921) e XXVII (1924 - 1925) legislatura, fu per qualche tempo
segretario del PSI e ottenne una notevole affermazione nelle elezioni del 1924.
Vittima della intimidatoria violenza fascista, dopo aver partecipato alla secessione
dell'Aventino, nel 1926 dovette abbandonare gli incarichi parlamentari insieme agli
altri membri dell'opposizione.

Guerre e militari

https://ottocentoferrarese.it/component/k2/itemlist/user/63-cliziamagoni.html

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11 - Clizia Magoni

Clizia Magoni si è laureata nel 2000 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia – Alma Mater
Studiorum – Università di Bologna, con una tesi in storia moderna sui Rapporti tra gli Estensi e
la Francia tra ’400 e ’500. Nel 2004 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso la stessa
università in cotutela con l’Université Toulouse1 – Sciences Sociales, con una tesi dal titolo Mito
e storia nella memoria delle leggi. I fueros di Sobrarbe nella cultura politico-giuridica europea
tra ’500 e ’800. Dal 2006 al 2008 è stata titolare di una borsa di post-dottorato presso il
Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna e da tre anni è assegnista presso la
stessa struttura. È stata Stipendiat presso il Max-Planck-Institut für europäische
Rechtsgeschichte di Frankfurt am Main, borsista “Marco Polo” per un soggiorno a Parigi presso
l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e visiting fellow presso Brown University,
Providence RI.

Dal 2008 al 2010 è stata inoltre responsabile della sezione Calendario del portale della
modernistica italiana www.stmoderna.it ed è membro della redazione della rivista
online www.storicamente.org.

Collabora al Garibaldi project di Brown University (http://dl.lib.brown.edu/garibaldi/) per


promuovere lo studio attorno al Garibaldi Panorama e al mito della figura di Giuseppe Garibaldi
nei diversi media della seconda metà del XIX secolo.

Clizia Magoni si è occupata in un primo momento di storia estense, concentrandosi sui rapporti
politici intercorsi tra la famiglia ducale ferrarese e la corte dei re di Francia durante le guerre di
religione della seconda metà del XVI secolo. In seguito ha spostato i propri interessi di studio e di
ricerca sulla circolazione delle idee e dei modelli politici nella letteratura dotta europea di età
moderna. Attualmente si occupa di transfert di saperi ed esperienze politiche dalla rivoluzione
inglese alla Rivoluzione francese, con particolare riferimento alla rielaborazione del pensiero
repubblicano classico della seconda metà del XVII secolo nei dibattiti politici rivoluzionari.

Accanto all’attività di ricerca, Clizia Magoni svolge mansioni di docente presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna nell’ambito degli insegnamenti di storia moderna.

- I gigli d’oro e l’aquila bianca. Gli Estensi e la corte francese tra ’400 e ’500: un secolo di
rapporti, «Deputazione provinciale ferrarese di Storia Patria», s. «Atti e Memorie», XVIII,
Ferrara, 2001. [3° classificato nel Concorso per opere di Argomento Ferrarese nella VIII
Edizione del Premio Niccolini (Ferrara, 15 novembre 2003)].

- Fueros e Libertà. Il mito della costituzione aragonese nell’Europa moderna, Roma, Carocci,
2007. [2° classificato nel Concorso per opere di Saggistica della IX Edizione del Premio Niccolini
(Ferrara, 22 ottobre 2010)].

- A. De Benedictis - Clizia Magoni (edd.), Teatri di guerra: rappresentazioni e discorsi tra età
moderna ed età contemporanea, Bologna, Bononia University Press, 2010.

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